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Fin dalla mia nascita, non ero mai uscita dai confini del
mio villaggio.
Attorno alla
palizzata di legno che aveva sempre delimitato il nostro piccolo mondo si
estendevano fitte foreste e montagne innevate, dove, a sentire i racconti degli
anziani, dimoravano mostri spaventosi e animali feroci.
Tuttavia, pochi
mesi prima, qualcosa era riuscito scuotere la monotonia e la triste
quotidianità della nostra comunità, e durante una bufera di neve assistemmo ad
uno spettacolo incredibile. Le nuvole nere sembrarono aprirsi sotto la spinta
di una grande luce dai mille colori che, scendendo lentamente, giunse a lambire
il terreno, come una porta collegata con il paradiso, e così rimase per almeno
due minuti prima di scomparire nuovamente inghiottita dalla tempesta.
Il grande bagliore
aveva toccato terra a circa dieci miglia dall’ingresso del villaggio, lungo la
grande dorsale a ovest; in quella zona si trovava un lago, e sulle sue rive una
casetta abbandonata. Si raccontava che fosse stata la dimora di un pescatore e
della sua famiglia, che però erano stati assaliti e divorati dal mostro del
lago per aver osato violare il suo territorio.
Voci e dicerie
cominciarono a girare sul conto di quel misterioso quanto incredibile avvenimento:
qualcuno diceva che era il presagio dell’imminente fine del mondo, qualcun
altro che fosse segno di un prossimo, sconvolgente cambiamento.
Da bambina di otto
anni quale ero, dentro di me ero convinta che dovesse trattarsi di lui,
dell’Angelo Bianco. Il vecchio Pete mi raccontava quella favola da sempre, e
ogni volta che la sentivo qualcosa sembrava accendersi dentro di me, ma
pensandoci ora credo che fosse solamente il frutto della mia immaginazione.
Purtroppo,
qualcosa di ben peggiore stava per sconvolgere la nostra esistenza.
Una mattina di
metà inverno, una banda di briganti che da tempo imperversava nella regione
giunse al nostro villaggio; eravamo sempre stati gente pacifica, nessuno di noi
aveva neanche mai impugnato una spada o utilizzato un incantesimo, quindi non
fummo minimamente preparati a respingerli.
Loro però non si
accontentarono di saccheggiare le nostre case; il loro capo, un certo Grox,
brutto come un orco, con il volto devastato da una orrenda cicatrice e grasso
come un maiale, aveva preso possesso della casa del sindaco, trasformando di
fatto il nostro villaggio nel suo quartier generale, da cui pilotava tutte le
sue scorrerie.
I suoi uomini si
aggiravano sempre per le strade facendo tutto quello che più gli andava di
fare: rubavano dai pollai, depredavano i granai, e se solo qualcuno osava
sollevare una parola di protesta veniva picchiato selvaggiamente fin quasi a
morire.
In quel clima di
rassegnazione e di sottomissione nessuno aveva voglia di pensare che un giorno
sarebbe arrivato qualcuno a liberarci da quell’incubo, ma io invece volevo
continuare a crederci, nonostante tutto, e quindi mi recavo sempre più spesso a
casa del signor Pete per ascoltare le sue storie di audaci cavalieri e potenti
stregoni che difendevano la gente comune dalla tirannia.
Da giovane aveva
servito nell’esercito reale e aveva girato tutto il continente, una cosa molto
insolita per la gente del nostro villaggio, che invece si accontentava di
esplorare quelle quattro o cinque miglia oltre la palizzata.
Una sera, sedevo
come al solito assieme a lui davanti al fuoco del camino sorseggiando una tazza
di latte caldo, l’ideale per scacciare il freddo dell’inverno.
«Signor Pete.»
chiesi ad un certo punto «Potrebbe raccontarmi di nuovo la storia dell’Angelo
Bianco?»
«Ti piace proprio
quella storia, eh?».
Furono le mie
guance rosse a rispondere per me.
«D’accordo.» mi
rispose lui, sorridendo sotto la sua folta barba grigia «Si racconta che,
migliaia di anni fa, quando era ancora un piccolo principato, il nostro regno
fosse costantemente attaccato da tutti i suoi vicini. Il principe non poteva
fare nulla per opporsi a così tanti nemici, quando un giorno, dal cielo, giunse
un misterioso visitatore proprio nel suo palazzo. Disse di essere giunto fino a
lì per guidare il regno di Fiya ad una nuova e grandiosa rinascita. Il principe
gli concesse il comando di tutti i suoi eserciti, alla testa dei quali riportò
innumerevoli vittorie, così grandi e così schiaccianti che i soldati nemici
scappavano alla sua vista, rifiutandosi di combattere. In meno di un anno Fiya
fu libero, e l’Angelo Bianco, così era stato chiamato, scomparve come era
venuto, promettendo però che sarebbe ritornato ogni qualvolta che i molti
avessero minacciato i pochi con la loro prepotenza.»
«Ma chi era questo
angelo? Era forse un inviato del cielo?»
«Chi può dirlo?
Chi lo ha conosciuto raccontava che era un uomo qualsiasi, come te e me, ma che
vi fosse sempre una parvenza di tristezza sul suo viso. Qualcuno sostiene che
provenisse da un altro mondo, un mondo distante e irraggiungibile, e che
l’unica cosa a cui davvero aspirava era di poter ritornare a casa.»
«Quindi, quella
luce che abbiamo visto… poteva essere lui. L’Angelo Bianco che è venuto per
liberarci.»
«Forse. Chi può dirlo.
È certo però che fino a quando ci saranno delle popolazioni oppresse dal giogo
della prepotenza e della paura, la leggenda dell’Angelo Bianco non morirà mai».
A quel tempo ero
solo una bambina, e volevo credere con tutto me stessa a quella storia, ma più
il tempo passava più i miei compagni perdevano la speranza, diventando
pessimisti e irascibili anche fra di loro.
«Quando ti
deciderai a crescere?» mi disse un giorno Cily, una ragazza di sedici anni «Ma
vuoi metterti in testa sì o no che l’Angelo Bianco è solo una favola? Non c’è
nessun Angelo Bianco che verrà a salvarti! Siamo soli!».
Ormai anche io
cominciavo a perdere la speranza, ma un sogno che feci in una notte di fine
inverno riaccese in me nuove speranze. Sognai una giovane donna di grande
bellezza dai lunghi capelli turchesi; indossava un’armatura bianco sfavillante
sormontata da una corona, una tunica chiara e recava in mano un lungo scettro
d’oro tempestato di pietra preziose.
La riconobbi:
ricordava molto la statua presente in molti villaggi che personificava il
nostro regno.
Mi disse di andare
sulla grande dorsale, alla casetta in riva al lago, perché lì avrei potuto
incontrare l’Angelo Bianco che ci avrebbe finalmente liberati dal giogo dei
briganti.
Mi svegliai alle
prime luci dell’alba e decisi subito di non attendere oltre; avrei raggiunto
quella casa e avrei chiesto aiuto all’Angelo Bianco a qualunque costo.
Scesi dal letto in
punta di piedi, e senza svegliare mio padre presi da uno scaffale della cucina
un ciondolo a forma di cuore, l’unica cosa che mi restava di mia madre.
Il vecchio Pete mi
aveva raccontato che l’Angelo Bianco non concedeva i suoi servigi
gratuitamente; in cambio di ciò che faceva chiedeva al suo committente la cosa
a cui teneva di più al mondo. Perché questa insolita richiesta? Pete sosteneva
che l’Angelo Bianco soffrisse per amore, un amore lontano, e che quindi
cercasse di colmare il dolore che aveva dentro circondandosi delle
manifestazioni di affetto altrui.
Indossai gli abiti
più pesanti che mi riuscì di trovare ed uscii. In un angolo nascosto della
palizzata c’era una trave che poteva essere rimossa, rivelando un passaggio
abbastanza grande da far passare una bambina di corporatura minuta come ero io;
questo mi permise di aggirare l’ostacolo del portone chiuso e perennemente
sorvegliato dai briganti, per evitare che qualcuno di noi potesse evadere.
Corsi a perdifiato
lungo i fianchi della montagna, attraverso gli alberi, incurante del freddo e
della fatica; per ogni istante che passava mio padre e tutti i miei amici
soffrivano terribili umiliazioni, e se c’era una possibilità anche minima di
poterli salvare volevo coglierla ad ogni costo.
Molto presto però
le mie speranze andarono a infrangersi contro una fortissima tempesta di neve
che si abbatté su di me dopo neanche quattro miglia di cammino.
Il vento era
fortissimo, gelido, la neve mi entrava negli occhi, congelandomi il naso,
screpolandomi le labbra; più il tempo passava più faticavo a muovere i piedi, e
mi sentivo sempre più stanca. Già allora conoscevo gli effetti che il freddo
poteva avere sulle persone, quindi sapevo che qualunque cosa fosse accaduta per
nessun motivo al mondo avrei dovuto addormentarmi, perché questo avrebbe
significato senza ombra di dubbio la morte.
Purtroppo però ero
impotente di fronte alla forza della natura, e quando credevo che i miei
problemi fossero già insormontabili ne sopraggiunse un altro, molto più
spaventoso.
Dapprima erano
solo ombre, poi occhi scintillanti, ma alla fine uscirono dai loro nascondigli
fra i cespugli e mi circondarono.
Lupi giganti,
molto più grandi dei normali lupi, generalmente schivi e riservati, che però il
freddo dell’inverno trasforma in mostri affamati di carne di qualsiasi tipo. Si
spostano in branchi, che arrivano a contare anche trenta esemplari, e quello
che mi aveva quasi circondato era composto almeno da una ventina di individui.
Per qualche
istante rimasi immobile a tremare di paura, ma non appena accennai una fuga uno
di loro mi saltò addosso, spingendomi giù da un crinale. Rotolai sulla neve per
diversi metri, e quando finalmente un albero arrestò la mia caduta capii che
dovevo essermi slogata una caviglia.
I lupi tornarono
alla carica, ed io, sempre più incosciente, mi augurai solo di essere già priva
di sensi quando avessero iniziato a divorarmi. Pensai a mio padre, al signor
Pete, a tutte le persone che mi avrebbero cercata, e che io avevo deluso.
Quegli animali
intanto mi avevano nuovamente attorniata, ma quando il capobranco cercò di
aggredirmi un’ombra comparve dalla tempesta dinnanzi a me.
Tutto ciò che mi
riuscì di distinguere fu una spada bellissima, dalla lama specchiata, con un
un’impugnatura d’avorio a forma di testa d’aquila.
La spada saettò
velocissima nell’aria e il lupo si accasciò a terra con il torace squartato. I
suoi compagni indietreggiarono leggermente, ringhiando e digrignando le fauci,
ma poi si lanciarono a loro volta all’attacco verso la loro nuova vittima; e
lui ne fece strage con incredibile agilità, tingendo la neve di sangue, e quando
il decimo lupo cadde senza vita i superstiti si diedero alla fuga.
L’ultima cosa che
vidi prima di svenire fu il volto di un giovane, contornato da capelli scuri,
che, inginocchiandosi davanti a me, mi chiese.
«Stai bene?».
Non so per quanto tempo rimasi priva di conoscenza; ore
forse, o magari un giorno intero, ma quando mi risvegliai la prima cosa che
avvertii fu il caldo tepore di un caminetto acceso.
Ero distesa su di
un letto morbido all’interno di quella che sembrava una capanna, in cui il mobilio
si limitava ad un tavolo, un paio di sedie e un ripiano; qua e là erano
accatastate pile di libri, sulla parete invece erano appesi, tramite dei ganci,
la spada che avevo visto in mezzo al bosco e un magnifico arco scintillante.
Mettendomi a
sedere sul letto fui in grado di guardare oltre la finestra, così scoprii che
mi trovato proprio nella casetta sulle rive del lago.
Ce l’avevo fatta.
Avevo raggiunto la casa, ma… chi mi aveva aiutato ad arrivare fin laggiù?
Avevo dei ricordi
molto vaghi di quello che era successo nel bosco, e l’unica cosa che ricordavo
era quel volto gentile, bellissimo.
Cercai di alzarmi,
ma non mi riuscì di muovere il piede, e guardando sotto le coperte mi accorsi
che la caviglia che mi ero slogata era stata accuratamente fasciata e
immobilizzata con una stecca.
Stavo ancora
cercando di ricordare bene cosa era successo quando la porta si spalancò;
dapprima, spaventata, mi tirai addosso le coperte, ma quando vidi entrare un
giovane dal viso gentile, abbellito da una folta capigliatura nera, subito mi
calmai.
Indossava degli
abiti molto strani, e strani era dire poco; non sembravano fatti di pelle o di
un qualche genere di tessuto che io conoscessi, soprattutto i pantaloni, lisci
alla vista ma ruvidi al tatto, di un colore azzurro scuro.
Anche le sue
scarpe erano curiose. Al collo portava una catenella con un pendente a forma di
stella circondato da un serpente che si mordeva la coda.
Se era strano ciò
che indossava, ancor più strana era la sua espressione; sembrava triste,
proprio come Pete aveva detto parlando dell’Angelo Bianco; tuttavia, si poteva
scorgere una grande gentilezza nei suoi occhi.
Appena entrato si
volse a guardarmi.
«Ti sei
svegliata».
Non riuscii a
rispondere; lui si avvicinò a me e mi tastò la fronte.
«Per fortuna la
tua temperatura è tornata normale. Stavi per morire di freddo, sai? Ma cosa ci
facevi in mezzo alla foresta con un tempaccio simile?».
Di nuovo rimasi in
silenzio, un po’ per paura un po’ per sconcerto. Lui allora si rialzò, si avvicinò
al camino e sollevò il coperchio della pentola che ardeva sul fuoco, riempiendo
la stanza di un piacevole odore di cereali, un bene raro in quella stagione.
Non riuscivo a
capire; per la bambina che ero mi ero immaginata l’Angelo Bianco come un uomo
ai limiti del divino, e invece sembrava proprio un ragazzo come chiunque altro;
però, qualcosa dentro di me mi diceva che era proprio lui la persona che stavo
cercando.
Dopo aver preso
una ciotola di terracotta vi versò un po’ della zuppa che stava cuocendo e me
la porse.
«Tieni, mangia.
Immagino che avrai fame».
I briganti al
villaggio si erano portati via tutto quello che avevamo, e ci eravamo ridotti a
mangiare miglio come gli animali, e non appena mi portai alla bocca il primo
cucchiaio mi sentii in paradiso, ma il poter gustare una simile prelibatezza
riportò subito alla memoria il motivo per cui ero arrivata fin lì.
Senza curarsi
della propria parte di cena si sedette e cominciò a leggere avidamente un
vecchio libro; doveva essere un volume di magia, a giudicare dalle figure che
vi erano riportate.
Alla fine mi feci
coraggio e parlai senza fermarmi, per evitare che la paura potesse bloccare a
metà il mio discorso.
«Vi prego.» dissi
«Salvateci. Liberate il mio villaggio dai briganti. Sono pronta a darvi ciò che
ho di più prezioso, ma vi prego, aiutateci».
Dopo aver
pronunciato queste parole gli porsi il pendente che avevo portato con me. Lo
guardò.
«Era di mia madre.
È morta due anni fa. Questo ciondolo è tutto ciò che mi rimane di Lei. Ma sono
pronta a darglielo se accetterà di aiutarci».
Lo prese e lo
osservò attentamente, rigirandoselo tra le mani.
«È un oggetto
molto prezioso. Perché vuoi darlo a me?»
«Dicono che Lei,
in cambio dei suoi servigi, vuole la cosa che per una persona ha il maggior
valore.»
«Davvero dicono
questo?»
«Beh… sì.»
«Capisco».
Lui posò sia il
libro che il ciondolo, si alzò dalla sedia e prese la spada appesa al muro,
sguainandola.
«La vedi? Questa
spada ha sparso tanto sangue. Ho fatto a me stesso una promessa. Ho giurato su
questa spada e su colui che me l’ha donata, che mai più avrei ucciso qualcuno
se non in caso di estrema necessità. Quindi ora, rispondimi sinceramente. Vuoi
davvero che io combatta quegli uomini, col rischio di ucciderli?».
Ripensandoci
adesso, credo che la mia risposta fu dettata in gran parte dal pensiero di
tutte le sofferenze che sia io che i miei amici avevamo vissuto, e comunque già
allora, per quanto piccola e ingenua, consideravo briganti e simili più bestie
che esseri umani, degni solo di morire.
«Sì!» fu la mia
sola parola.
Nel frattempo, al villaggio, i briganti continuavano
imperterriti nelle loro angherie, e un brutto giorno a subirne le conseguenze
fu la mia amica Cily. Stava portando in casa l’acqua presa dal pozzo quando tre
brutti ceffi la circondarono, iniziando a molestarla, dapprima con parole
pesanti, poi con la forza.
Afferratala, la
gettarono a terra, e mentre due la tenevano ferma il terzo si slacciava lo
spago dei pantaloni.
Cily gridava con
tutta la sua voce, ma la gente che in quel momento era fuori all’aperto non
osava intervenire; qualcuno si limitava a guardare stando a distanza, qualcun
altro invece la ignorava totalmente continuando a svolgere le proprie
occupazioni.
Il brigante si era
quasi abbassato i pantaloni quando una freccia ad energia lo colpì in pieno,
stordendolo, uccidendolo sul colpo. I suoi compagni, attoniti, mollarono Cily e
sguainarono le spade, ma prima che potessero usarle l’Angelo Nero calò su di
loro dal cielo e li sconfisse senza nemmeno servirsi delle sue armi, a mani
nude.
Quando arrivai sul
luogo dell’aggressione, sempre passando per il mio percorso segreto, lui li
aveva già sconfitti tutti, e stava aiutando Cily a rialzarsi.
«Tutto bene?» le
chiese «Sei ferita?»
«Io… ecco…»
«Lia!» disse mio
padre
«Papà!»
«Ma dov’eri
finita? Ero così in pensiero.»
«L’ho trovato
papà. Esiste davvero.»
«Di che stai
parlando?»
«Lui è l’Angelo
Bianco!»
«Cosa!? L’Angelo
Bianco!?».
Molti dei presenti
rimasero senza parole, ed un brusio confuso cominciò a diffondersi; purtroppo
però, la maggior parte dei commenti erano tutt’altro che favorevoli a quanto
era appena successo.
«Perché lo ha
fatto? – Ora si vendicheranno – Ci uccideranno tutti».
Non mi sembrava
possibile che le persone con cui avevo vissuto fin dalla nascita fossero cadute
così in basso; lui aveva salvato una loro compagna, e loro, invece che
ringraziarlo, sembrava quasi che volessero punirlo.
«Questo ci costerà
caro!» disse infine una donna «Adesso quei briganti vorranno vendicarsi!».
A lei si unì
presto un coro di voci.
«Ha ragione! Non
avresti dovuto intrometterti!»
«Vattene da questo
villaggio!»
«Lasciaci in
pace!».
Improvvisamente,
dal folto della folla qualcuno scagliò una grossa pietra in direzione
dell’Angelo Bianco, che rimase immobile e non fece nulla per evitarlo.
All’ultimo istante, veloce come il vento, sguainò la spada che teneva dietro la
schiena e con un solo fendente tagliò il sasso in due metà perfettamente
uguali.
Il silenzio piombò
nell’intero villaggio.
«Vi sta bene
vivere come schiavi?» disse lui con voce severa «Siete felici di continuare ad
abbassare la testa di fronte ai soprusi e agli atti di prepotenza di gente
priva di scrupoli? Questo villaggio vi appartiene, vi è sempre appartenuto. Ha
davvero così poco valore per voi, abbastanza da cederlo al primo avanzo di
galera che passa da queste parti? La libertà, la giustizia, vi spettano di
diritto come esseri umani! Siete sempre stati uomini liberi, ha nessuno ha il
diritto di privarvi della vostra libertà! Ma la libertà è una cosa che va’
conquistata e difesa con tutte le proprie forze, perché ci sarà sempre qualcuno
che tenterà di rubarvela! Ricordatelo sempre!».
Nessuno rispose, e
molti sguardi caddero verso terra per la vergogna; dopo poco, dal folto della
folla, uscì il signor Pete, che avvicinatosi all’Angelo allungò la mano
sfoggiando il suo gentile sorriso. Lui la strinse, e anche altri a quel punto
si avvicinarono, fra i quali mio padre e la stessa Cily.
«Chi di voi è il
sindaco?»
«Io.»
«Dov’è la base dei
briganti?»
«Al municipio. Il
loro capo si chiama Grox.»
«Conduca la sua
gente in un luogo sicuro, perché presto qui si scatenerà l’inferno.»
«Ma… il portone è
sorvegliato…»
«Ci ho già pensato
io. Andate ora».
Senza dire altro,
e dopo aver immobilizzato i briganti che avevano aggredito Cily in modo che non
potessero scappare, l’Angelo Bianco corse verso il municipio, situato in cima
ad una collinetta al centro del villaggio. Chiunque si mettesse sulla sua
strada veniva abbattuto con rapidità ed efficienza, e malgrado il portone del
municipio fosse stato sbarrato alle prime avvisaglie di pericolo, con l’agilità
di una pantera lui, saltando da una parete a quella adiacente con una serie di
grandi balzi, raggiunse una finestra del secondo piano, la sfondò e fece
irruzione.
Non so dire di
preciso cosa accadde lì dentro, perché i racconti dei briganti catturati erano
più fantasiosi delle stramberie di un bambino, ma posso immaginare che l’Angelo
Bianco abbia fatto irruzione nella sala dei ricevimenti che Grox aveva
trasformato nella sua stanza di piacere, e che questi, rimasto solo, abbia
sfoderato la sua enorme ascia a doppio filo.
Quello che accadde
in seguito fu lui a raccontarmelo.
«E tu chi diavolo
sei?» chiese Grox vedendo l’Angelo Bianco fare irruzione nella stanza
«Il tuo punitore.»
aveva risposto lui.
Grox gli era corso
contro cercando di colpirlo con l’ascia, ma l’unica cosa che colpì fu il
pavimento di legno perché lui, correndo letteralmente sulla parete, gli arrivò
alle spalle, ma il brigante, a dispetto della sua enorme stazza, si girò in
tempo e attaccò di nuovo, e allora l’Angelo Bianco fu costretto a sguainare la
sua spada.
Malgrado l’ascia
di Grox fosse cinque volte più grossa, non riuscì a scalfire neanche
minimamente la lama specchiata di quella spada, ed anzi era l’arma del brigante
a scheggiarsi ad ogni colpo.
Approfittando di
un suo istante di distrazione, l’Angelo Bianco oltrepassò le sue difese e lo
colpì al braccio destro con la punta della sua arma, una ferita non tanto grave
da ucciderlo che però recise i tendini, impedendogli così di tenere in mano
l’ascia nel modo corretto; il sangue e il dolore non sembrarono essere
sufficienti per farlo desistere, tanto che cercò di combattere usando solo la
mano sinistra, e allora lui non ebbe altra scelta che recidere anche i tendini
dell’altro braccio, e a quel punto per Grox non ci fu più niente da fare.
Caduto in ginocchio cercò di tenersi le ferite, ma le mani ormai erano del tutto
insensibili e non obbedivano ai suoi comandi.
«Non sono ferite
mortali, ma comunque vada non sarai più in grado di impugnare un’arma in vita
tua.»
«Tu… maledetto…
uccidimi!».
Ma lui non lo
fece, e pulita la sua spada in una bacinella d’acqua la ripose nel suo fodero.
«Io non uccido
indiscriminatamente. Non più. La giustizia farà il suo corso. Sarà lei a
giudicarti».
Quando una pattuglia di soldati reali che erano stati
mandati a chiamare entrò nel villaggio, i briganti erano già stati tutti imprigionati
all’interno di un capanno per gli attrezzi; il loro comandante, una giovane
donna di nome Aria, domandò chi fosse l’artefice della liberazione del
villaggio.
«L’Angelo Bianco.»
avevano risposto tutti «È stato l’Angelo Bianco!».
Ma io sapevo.
Sono passati tre
anni da quel giorno; sono cresciuta, qualcuno dice anche troppo per la mia età,
e se davvero è così è stato l’incontro con lui a cambiarmi a tal punto.
Fin dal primo
momento che l’ho visto ho capito che lui era diverso da tutti noi; forse non
era un dio o un messo celeste, ma qualcosa nel suo essere sapeva di unico, e
forse, come il signor Pete andava dicendo, lui proveniva davvero da un altro
mondo.
Chissà, forse mi
sono addirittura innamorata, e se un giorno dovessi incontrarlo di nuovo credo
che non resisterei alla tentazione di abbracciarlo.
Allora la sua
figura, per quanto attraente, mi incuteva un senso di timore e riverenza, e
ancora oggi se ripenso al suo volto non posso fare a meno di percepire dentro
di me un misto di ammirazione e paura.
Quando, nascosto
dalla nebbia, fece per lasciare il nostro villaggio, io lo raggiunsi, ma tutto
quello che fui in grado di dire fu un semplice: «Grazie».
Lui mi guardò, si
inginocchiò e prese dalla tasca il ciondolo di mia madre; per un attimo pensai
che volesse indossarlo, ma poi lo legò dietro al mio collo con un sorriso.
«Tua madre non
avrebbe voluto che questo oggetto passasse a qualcun altro. Conservalo con
cura».
La catenella che
portava ondeggiò nell’aria, esercitando su di me, con la sua bellezza,
un’attrazione quasi ipnotica.
«Ti piace? Anche
questo è un pegno d’amore.»
«Un pegno
d’amore?... Allora… la storia è vera.»
«Diciamo di sì».
Lui allora mi
raccontò una storia incredibile, a cui nessuno avrebbe creduto ad eccezione di
chi lo aveva incontrato e conosciuto come me.
Raccontò di
provenire davvero da un altro mondo, come diceva la leggenda, un mondo lontano
e sconosciuto chiamato Terra, su cui aveva lasciato la sola donna che avesse
mai amato. Disse di aver compiuto persino un viaggio nel mondo dei morti, una
sorta di prova spirituale per dimostrare il suo valore, al termine della quale
fu messo di fronte ad una scelta.
Da una parte c’era
la possibilità di tornare a vivere una vita felice, dall’altra di continuare in
quel viaggio che aveva iniziato molto tempo prima, e che si sarebbe compiuto
solo con l’adempimento del suo destino. Era stato costretto a scegliere alla
ceca, ma alla fine il suo cuore aveva deciso per la prosecuzione del viaggio e
così era finito nel nostro mondo.
Io allora gli
chiesi cosa custodiva di così importante il nostro mondo, e lui mi rispose che
in esso risiedevano conoscenze di magia e di combattimento quasi inarrivabili
per la Terra,
che in futuro gli sarebbero servite per adempiere al suo destino.
Il suo era dunque
un viaggio, un viaggio verso il momento della verità, e più il tempo passava
più quel giorno si faceva vicino; lui ne era consapevole, ma sapeva anche che
corrergli incontro non serviva a nulla, perché alla fine, in un modo o
nell’altro, esso si sarebbe comunque rivelato a lui. Per questo aveva scelto di
fare solo ciò che riteneva più giusto, e di utilizzare le conoscenze che
avrebbe appreso nel nostro mondo per aiutare tutti coloro che ne avessero avuto
bisogno.
«Questo» disse
«Servirà anche a ripagarmi, in minima parte, di tutti gli errori commessi in
passato».
Mentre lo vedevo
sparire nella nebbia, per un attimo ebbi l’impressione di scorgere due grandi
ali bianche dietro la sua schiena, e allora ebbi la conferma: lui era davvero
l’Angelo Bianco, l’eroe descritto dalle leggende, ma anche se era così che gli
anziani lo chiamano ancora oggi nelle loro storie io conosco il suo vero nome,
perché me lo ha detto, con la promessa di non rivelarlo mai a nessuno.
Era una bella mattina d’estate sulle colline poco distanti
dalla capitale del regno Qerin; come se avesse un fantasma alle calcagna, il
giovane e pimpante Dave, spadaccino in erba, spronava il suo cavallo lungo il
sentiero che saliva lungo la collina in cima alla quale sorgeva la casa del suo
maestro.
Era un piccolo
chalet a due piani in legno e pietra con una grande terrazza sospesa sulla
strada, e tutti ne conoscevano il proprietario.
Il suo nome era
Regis, e a detta di molti era uno dei più formidabili guerrieri che il regno di
Fiya avesse mai avuto; ciò che lo rendeva famoso, però, non erano solo le sue
abilità, ma anche l’incredibile quanto inverosimile marchingegno che osava per
spostarsi, una sorta di carro a due ruote di colore nero in grado di muoversi
senza l’ausilio di alcun animale, ma sfruttando invece la magia dei cristalli
elementali.
Regis lo aveva
assemblato combinando la magia ad un’altra disciplina che lui chiamava scienza
meccanica, qualcosa di inverosimile non solo per Fiya ma per tutto il mondo
conosciuto.
Appena giunto nel
piazzale dinnanzi alla casa Dave scese da cavallo, recuperò un foglio di carta
dalla sua bisaccia e corse dentro.
«Maestro!» gridò
spalancando vigorosamente la porta.
Regis in quel
momento si stava concedendo il piacere di una bella dormita, e per poco non si
ruppe il collo cadendo dal divano per lo spavento.
I suoi capelli
erano neri come la pece e molto lunghi, legati per la maggior parte del tempo a
coda di cavallo; di carattere era freddo e distaccato, ma con chi lo conosceva
bene poteva rivelarsi anche gentile ed amichevole.
«Ma che diavolo…»
mugugnò cercando di rialzarsi «Dave, hai forse deciso di farmi morire di
paura?»
«Maestro, è
incredibile! È spettacolare! Se non l’avessi visto coi miei occhi io…»
«Calma, spegni il
motore. Vorresti essere così gentile da spiegarmi che succede?»
«Guardate,
guardate qui!».
Dave porse a Regis
il foglio che aveva in mano, e questi lo prese. Era un volantino promozionale
in cui veniva annunciato l’ormai prossimo grande torneo di magia e
combattimento che si sarebbe tenuto nel grande parco del palazzo reale una
settimana dopo.
Il torneo veniva
organizzato ogni anno dalla famiglia reale in collaborazione con le scuole di
magia e le accademie militari disseminate in tutto il regno. Strutturato su due
livelli, era aperto a tutti, o meglio, a chiunque potesse permettersi di pagare
l’iscrizione, una somma non certo alla portata di chiunque, ma il miraggio del
premio finale faceva gola: i due vincitori delle due modalità di gara
ricevevano una cospicua somma di denaro, paragonabile a dieci anni di lavoro
per una persona comune e a due per un nobile.
Questo ovviamente
senza tenere conto della fama e del prestigio che si potevano conquistare, e
non era un caso se molti dei precedenti vincitori erano divenuti in seguito
uomini di spicco dell’esercito reale.
Ciò che però
rendeva il torneo di quell’anno diverso da tutti gli altri era il premio
speciale destinato a uno dei due vincitori, e quando vide di che cosa si trattava
neppure Regis riuscì a contenere la meraviglia.
«La Spada Cristallo!?»
«Proprio così,
Maestro. Sarà data in premio al vincitore del torneo specialistico.»
«Mi sembra
impossibile. Cosa può aver spinto il re a mettere in palio uno dei più preziosi
tesori della sua collezione?»
«E chi lo sa? Ma
una cosa è certa, quella spada è il sogno di qualsiasi guerriero. Chiunque
darebbe metà del suo corpo per brandirla in una sola battaglia.»
«Forse, ma senza i
sette cristalli da incastonare sulla lama il suo potere è molto ridotto.»
«Sì, questo sarà
anche vero, ma rimane comunque un’arma portentosa, con un potere magico
intrinseco a dir poco eccezionale. Lei parteciperà, è vero Maestro?».
Regis ci pensò un
po’, poi gettò a terra il volantino.
«Vedremo.»
«Come, vedremo!?
Maestro…»
«Non ho tempo per
queste cose. Tra pochi giorni devo riprendere il mio viaggio.»
«Sì, lo so. Però…»
«Non intendo dire
che la cosa non mi interessa. Forse ci farò un pensierino.»
«Capisco. Beh, ma
con la Spada Cristallo
come premio tutti i migliori guerrieri e stregoni del regno parteciperanno al
torneo. Questa potrebbe essere un’ottima occasione per incontrarli.»
«Uhm, anche questo
è vero. Beh, ci penserò. Ora dobbiamo uscire.»
«Uscire? Per
andare dove?»
«Ho promesso ad
Aria di essere presente per il giuramento dei nuovi diplomati.»
«Quella ragazza è
una bella seccatura, eh Maestro?»
«Puoi dirlo».
Regis si alzò dal
divano e prese tutte quelle cose per le quali era famoso: la giacca bianca
dalla lunga livrea, gli stivali neri, l’arco a scaglie di diamante con tanto di
frecce ad energia, la spada specchiata dall’elsa a forma di testa d’aquila e il
suo pendente a forma di stella contornata da un serpente.
Dave invece corse
davanti allo specchio per controllare la sua buffa quanto scompigliata
capigliatura biondo paglierino; malgrado avesse già sedici anni non ne
dimostrava più di dodici, aveva un viso pulito e perennemente sorridente,
contornato da sinceri occhi azzurri. Insomma, tutto il contrario del suo
maestro, che vestendosi quasi sempre di bianco e di nero assumeva un aspetto un
po’ tetro, malgrado la sua pelle fosse di una tonalità abbastanza scura.
«Forza, andiamo.»
«Prendiamo i
cavalli?»
«I cavalli?
Abbiamo di meglio».
L’accademia militare reale era un
grande castello appartenuto ad un antico feudatario che sorgeva su di un isola
al centro di un grande lago.
I discendenti dell’antico possessore, che era stato, oltre che un
politico, anche un grande guerriero, lo avevano trasformato nella più
prestigiosa scuola di combattimento di tutto il continente, in cui chiunque
avrebbe potuto studiare per apprendere le antiche arti della lotta e della
stregoneria.
Salvo rarissime eccezioni vi si accedeva compiuti i sedici anni, e
almeno per i primi due anni era una scuola come tutte le altre: gli studenti
imparavano la storia, la letteratura, le scienze matematiche e i primi
rudimenti di stregoneria, quelli alla portata di chiunque. Poi, a partire dal
terzo anno, si avevano tre possibili strade da intraprendere: la strada del
guerriero, quella del mago o quella della scuola ufficiali, eventualità questa
riservata o ai rampolli di nobile stirpe o solo ai migliori dei migliori.
L’anno accademico iniziava al quinto mese, con l’inizio della primavera,
e veniva aperto tradizionalmente con una grande cerimonia di benvenuto a cui
partecipavano studenti e insegnanti; la consegna dei diplomi invece avveniva al
termine degli esami di stato alla presenza delle alte gerarchie militari, degli
alti esponenti dell’ordine degli stregoni e degli inviati del ministero
dell’istruzione.
Mentre la cerimonia d’inizio si svolgeva nella grande palestra ai piedi
del bastione di sud-est, quella dei diplomi avveniva nel grande cortile davanti
al tempio di Ammons, il dio del sole, venerato come il più grande degli dèi; a
lui erano consacrate le magie del fuoco e della terra, notoriamente le più
difficili da governare.
A testimonianza della sua originaria funzione di bastione difensivo,
l’accademia era provvista di una sola, monumentale entrata, collegata alle
sponde del lago da un lungo e largo ponte di pietra risalente al periodo
dell’istituzione della scuola. In passato c’erano due ponti di legno uno dietro
l’altro intervallati da una piccola isoletta al centro dello specchio d’acqua,
che in caso di assedio potevano essere demoliti facilmente con un colpo di
catapulta o un incantesimo di fuoco.
Era ormai quasi mezzogiorno, e l’inizio della cerimonia era prossimo;
davanti alla grata d’ingresso, perennemente sorvegliata da due guardie, Aria
continuava a scrutare il ponte nella speranza di veder finalmente arrivare
l’ospite d’onore.
Malgrado avesse solo ventitre anni, già da due insegnava regolarmente
all’accademia militare. Era originaria delle regioni dell’est, zona di nascita
del Shinjitzu, l’arte della spada lunga, un genere di scherma praticato
soprattutto dalle donne, di cui era sicuramente la maggior esponente in tutta
la regione. Era conosciuta e rispettata però anche per le sue grandiose abilità
di lottatrice; l’est infatti era famoso anche per l’utilizzo di una tecnica di
lotta assolutamente non comune, fondata sull’agilità piuttosto che sulla forza
bruta, e questo era ben visibile anche nello shinjitzu, che con le sue spade
lunghe e sottili e i suoi movimenti serpentini si proponeva di sconfiggere il
nemico con un affondo deciso nei punti vitali.
Come tradizione della sua terra di origine, Aria era solita indossare
una divisa da combattimento rosso rubino senza maniche con scarpe leggere e una
fascia di tessuto giallo stretta in vita, ma in tutte le occasioni ufficiali
gli insegnanti come lei erano tenuti a indossare l’uniforme classica
dell’accademia, uguale sia per gli uomini che per le donne, provvista di
pantaloni color panna, camiciotto largo blu oltremare, spalline e pettorale di
acciaio, cintura, stivali e mantella azzurra chiusa alla spalla sinistra da una
spilla rotonda col simbolo del regno, uno scudo crociato sormontato da una
corona e sorretto da due leoni rampanti.
Malgrado ciò Aria non rinunciava assolutamente a tenere i suoi capelli
castani alla maniera delle donne guerriere della sua stirpe, vale a dire con
una grande crocchia sopra la nuca stretta da una catenina di perle, il che
serviva se non altro ad affermare il suo status.
Dietro di lei, Elys, la sua pupilla e allieva prediletta, con la quale
per la verità condivideva ben poco. Elys, come testimoniavano la pelle e i
capelli scuri, era natia delle aride regioni del sud, ed apparteneva al popolo
dei Kalimi, la stirpe più antica del continente che per secoli aveva dominato
in tutto il deserto prima di divenire parte del regno di Fiya. Oltre a questo,
a differenziarla da Aria c’era anche lo stile di combattimento utilizzato:
andando completamente controcorrente Elys si era specializzata nel Bankura, l’arte
dello spadone, uno stile prettamente maschile, visto che solo gli uomini
disponevano della forza fisica necessaria a brandire spadoni che spesso e
volentieri superavano il metro e ottanta di lunghezza e i venti centimetri di
larghezza. Per compensare in parte la mancanza di forza fisica, la ragazza si
serviva di speciali bracciali provvisti ognuno di un cristallo elementale che
la aiutavano a brandire l’enorme spada che portava dietro la schiena.
Come tradizione dei Kalimi, sul suo corpo, lasciato in gran parte
scoperto, spiccavano alcuni tatuaggi giallo spento che descrivevano per la
maggior parte linee ondulate o spezzate; venivano tracciati già al primo anno
di vita, e servivano a identificare sia la famiglia che il clan di provenienza,
e per chi sapeva interpretarli appariva chiaro che Elys discendeva da una lunga
e famosa dinastia di guerrieri. Oltre ai bracciali indossava una corazza
pettorale in cuoio rosso, una cintura a minigonna sempre di cuoio che arrivava
a metà delle cosce, un paio di calzoni attillati e stivali da soldato; sotto
questi ultimi portava anche un paio di cavigliere anch’esse provviste di
cristalli elementali con i quali poteva, all’occorrenza, spiccare grandi salti,
camminare sull’acqua o effettuare delle piccole planate.
Insomma, maestra e allieva erano apparentemente diverse sotto tutti i
punti di vista, ma qualcosa che le rendeva molto simili c’era davvero: la
stessa intemperanza, lo stesso carattere ribelle, la stessa avventatezza e lo
stesso, indomabile orgoglio. Malgrado pubblicamente fossero maestra e allieva
in privato si consideravano quasi sorelle, ma se da una parte Aria era
cosciente che in certi casi, in qualità di insegnante e, soprattutto, di
soldato, era tenuta a comportarsi come tale, Elys al contrario aveva non poche
difficoltà a comprendere i propri limiti, dimenticandosi spesso di essere
solamente una studentessa del secondo anno; dotata di un’abilità assolutamente
non comune, d’accordo, ma con ancora molte cose da imparare.
«Ma dove diavolo sarà finito?» disse Aria «E sì che gli avevo
raccomandato di essere puntuale.»
«La puntualità non è mai stata il suo forte. Si sarà addormentato come
al solito.»
«Quel tipo è veramente fuori dal mondo. In tutti i sensi.»
«Che intende dire, sensei?»
«Oh, niente. Parlavo tra me e me».
In quella, l’inconfondibile rumore del buffo quanto veloce veicolo di
Regis annunciò l’arrivo dell’ospite speciale per la cerimonia, accompagnato
come al solito dal suo inseparabile allievo.
«Alla buon ora!» esordì Aria mentre i due scendevano dalla moto «Temevo
che te ne fossi dimenticato un’altra volta!»
«Ho avuto un po’ da fare».
Dave rivolse un saluto amichevole a Elys, ma la sua risposta fu
tutt’altro che cordiale.
«Guarda chi si vede, il pivellino.»
«Come mi hai chiamato?»
«Perché, ti secca essere chiamato così?» domandò lei in tono
maliziosamente provocatorio
«Senti, solo perché tu studi all’accademia e io no, non significa che
sei più brava.»
«Ma davvero? E allora come mai ti ho sempre surclassato?»
«Beh, perché…»
«Basta voi due.» disse Aria «Sembrate ancora all’asilo.»
«Chiedo perdono, sensei.»
«Perdonatemi
Maestro.»
«Forza, entriamo.
Siamo già in ritardo».
Disposti su sette linee da otto persone l’una, i
cinquantasei studenti dell’ultimo anno restavano sull’attenti mentre il rettore
dell’accademia, tenente-colonnello Alex Caster, pronunciava il solenne
giuramento; ad ogni sua frase, i diplomati alzavano il braccio destro al cielo
gridando «Lo Giuro!».
Il codice d’onore
a cui si manifestava eterna obbedienza era vecchio quanto il regno di Fiya;
tramite esso ci si impegnava a perseguire sempre la via della giustizia, a
combattere in nome della propria nazione, a difendere i giusti e a punire il
malvagi, a non usare mai le proprie conoscenze per fare del male in modo
indiscriminato, ad avere pietà dei vinti e di coloro che si arrendono, a non
coinvolgere i civili in atti di guerra, a non compiere opere di saccheggio che
non siano state legittimate dal comandante, a non violare le donne sconfitte e
molte altre cose.
Oltre a tutti gli
altri studenti, agli inservienti e alla maggior parte della guarnigione, alla
cerimonia presenziavano anche gli insegnanti, che, assieme all’ospite d’onore
Regis, sedevano sul palchetto alle spalle del rettore.
Oltre ad Aria,
altri professori degni di nota erano l’anziano professor Sagis, maestro di
magia, barba lunga da asceta, serio, pignolo, mai soddisfatto a pieno delle
prestazioni dei suoi alunni; il professor Vincent, grande esperto dell’arte
della spada lunga, sui quarant’anni, capelli scuri tagliati corti e un
carattere piuttosto freddo; la giovane professoressa Shane Ganley, abilissima
nello stocco e nelle altre discipline della scherma femminile che costituivano
il suo ramo di insegnamento; e, infine, il professor Yuro, trentuno anni,
alchimista, un paio di buffi occhiali rotondi e lunghi capelli biondi raccolti
in una coda.
Dave sedeva fra
gli studenti, accanto ad Elys, e di tanto in tanto gettava l’occhio sul suo
maestro, trovandolo il più delle volte intento a confabulare con Aria.
«Allora?» diceva
la professoressa «Che te ne pare?»
«Sembrano
promettenti.»
«Immagino che
scopriremo presto se hai ragione. I rapporti con Rastor non sono dei più rosei,
e già si respira una brutta aria al confine occidentale. Non mi sorprenderei se
questi soldati freschi di diploma venissero spediti in una ridotta a fare la
guardia a qualche sentiero da malgari.»
«Meglio un
sentiero da malgari che i presidi di confine. Se non altro la vita gli si
allungherà di qualche mese.»
«Già, proprio
così».
Nello stesso
momento, le guardie che non presenziavano alla consegna dei diplomi erano
impegnate nella ronda sulle torri esterne e lungo le mura.
Due di loro,
intenti a giocare a scacchi sul tetto del torrione accanto all’entrata, furono
i primi ad accorgersi di uno strano fenomeno atmosferico; il sole splendeva con
tutta la sua forza, ciò nonostante a circa un miglio dal castello, sopra il
lago, andavano formandosi delle nuvole di tempesta, nuvole che ad un certo
punto cominciarono a girare in tondo sempre più velocemente, aprendo una sorta
di buco nel cielo.
«Che diavolo sta
succedendo?»
«Proprio non lo
so. Non ho mai visto nulla di simile.»
«Allora siamo in
due».
Ad un tratto,
dapprima con i piedi poi con tutto il corpo, da quella specie di portale uscì
lentamente un essere gigantesco, grande al punto che l’acqua del lago, per
quanto profonda, gli arrivava a malapena alla cintola; il suo corpo sembrava
fatto di metallo, un metallo color bianco sporco, gambe lunghe e sottili,
braccia altrettanto estese e quattro lunghe protuberanze che gli spuntavano da
dietro la schiena.
Non aveva né naso
ne bocca, ma aveva tre occhi disposti a triangolo che scintillavano di rosso
come pietre preziose.
«E quello che
diavolo è?»
«Non ne ho idea».
La cosa, dapprima
rannicchiata su sé stessa, cominciò a drizzare la schiena e si girò verso il
castello, poi uno dei suoi tre occhi sembrò accendersi e da esso partì un
raggio incandescente che centrò in pieno una torre e ne ridusse la cima in
mille pezzi.
Il fragore si
sentì per tutta la scuola, accompagnato dalle sirene d’allarme.
«Allarme! Siamo
sotto attacco!»
«Che accidenti sta
succedendo?» disse Aria girandosi verso il luogo da cui era giunto il rumore.
Gli studenti, gli
insegnanti e le guardie corsero sulle mura ed assistettero a loro volta
all’incredibile spettacolo.
«Ma che cos’è?»
domandò Dave
«Qualsiasi cosa
sia, non è armato sicuramente di buone intenzioni!» disse Elys.
Il rettore si
rivolse al comandante della guarnigione.
«A tutte le unità.
Posto di combattimento!»
«Sissignore».
La sirena
dell’allarme risuonò in tutta la scuola, e fra gli studenti più giovani esplose
il panico; Aria venne incaricata di portarli al sicuro.
«Tutti gli
studenti del primo e del secondo anno raggiungano immediatamente i rifugi
d’emergenza!».
Elys però, invece
che ubbidire, si unì ad un gruppo di neodiplomati che stavano trascinando un
grosso cannone su per una rampa che conduceva alla balaustra.
«Elys, hai sentito
cosa ho detto?»
«Sì, sensei!»
«E allora
raggiungi immediatamente il rifugio!»
«Con il dovuto
rispetto, stavolta non intendo ubbidirle!»
«Elys, ti ho dato
un ordine! Qui è pericolo, e tu sei ancora una studentessa!»
«Se quella cosa
entra non ci sarà rifugio in grado di proteggerci, e Lei lo sa!».
Elys aveva la
testa più dura della pietra, e non vi fu nulla che Aria poté fare per farla
desistere dal suo proposito.
Intanto il nemico
aveva cominciato lentamente a muoversi in direzione del castello; emetteva un
rumore molto strano ad ogni passo, simile al cigolio di una porta.
Sulle mura si
erano radunati tutti gli arcieri a disposizione; ad un cenno del professor
Vincent gli archi vennero tesi, e davanti ad ognuno di essi comparve un cerchio
magico.
«Scoccate!».
Grazie alla magia,
appena lanciata dall’arco una freccia si centuplicava, così sulla cosa si
scagliò una vera tempesta di dardi, ma per quanti colpi gli venissero lanciati
contro nessuno fu in grado di oltrepassare la sua pelle metallica, e intanto
lui continuava ad avanzare.
Visto che con le
armi leggere non si otteneva nulla l’unica cosa da fare fu di affidarsi al
fuoco dei cannoni; armi potenti, in grado di sparare proiettili pesanti fino a
otto chili ad una velocità di 600 m/s. Venivano caricati con un misto di
polvere da sparo e polvere magica, così, in caso di bisogno, una semplice sfera
di ferro poteva trasformarsi in una palla di fuoco, o in un globo
incandescente, o anche in un proiettile ad aria, a seconda delle necessità.
In tutto la scuola
disponeva di venticinque cannoni, e ognuno di essi richiedeva la supervisione
di tre uomini.
Le merlature
vennero abbassate e le bocche delle armi apparvero da dietro il muro pronte a
sparare.
«Cannoni pronti,
signore!»
«Batterie!
Fuoco!».
Il fragore degli
spari fu assordante, e appena lanciati i proiettili si caricarono di fuoco, ma
questo non bastò ad impedire che rimbalzassero come palle di gomma nello
scontro con il mostro, che rispose all’aggressione lanciando nuovamente il suo
raggio distruttore, riducendo in frantumi una intera porzione del muro di
cinta.
Ormai anche fra i
soldati, del tutto impreparati ad affrontare un nemico sconosciuto, cominciò a
diffondersi la paura, e molti di loro già cominciavano a ripiegare, correndo
qua e là come tante formiche, senza che gli ufficiali potessero fare nulla per
mantenerli in formazione.
Regis intanto era
corso alla sua moto e la stava avviando.
«Maestro!»
«Dave, mettiti al
riparo.»
«Che avete
intenzione di fare?»
«Lo vedrai
presto».
Senza aggiungere
altro partì a tutta velocità, e usando i detriti delle fortificazioni come se
fossero una rampa spiccò letteralmente il volo. Raggiunto il mostro staccò le
mani dal manubrio e, armato di arco, eseguì un rapido giro della morte; al
momento giusto scagliò cinque frecce energetiche contemporaneamente, ma le vide
tutte scomparire all’interno di una sorta di barriera invisibile che circondava
il corpo del nemico.
“Una barriera ad
energia!” pensò.
Intanto la moto,
priva di una guida, e spinta dalla forza d’inerzia, stava allontanandosi
pericolosamente; Regis si lasciò cadere ed atterrò sulla testa del mostro senza
che la barriera lo fermasse, quindi saltò con tutte le sue forze e tornò a
bordo del veicolo, quindi spinse un bottone del manubrio.
Ai lati della moto
comparvero quattro piccole eliche che, appena presero a girare, generarono
delle strane fiamme azzurre che attutirono la caduta e permisero al giovane di
scendere senza problemi sul ponte di pietra.
Attraverso uno dei tre occhi del mostro, cinque individui
vestiti con dei lunghi mantelli bianchi e il volto nascosto da dei cappucci
potevano osservare lo svolgersi della battaglia dall’interno di quella che doveva
essere la sala principale di un enorme tempio, una enorme stanza rettangolare
con le pareti ricolme di affreschi e ben quattro file di maestose colonne.
Proprio al centro
della stanza fluttuava una sfera che sembrava fatta d’acqua, e tutto ciò che il
mostro vedeva appariva lì.
«Allora è vero.»
disse uno «Anche quel ragazzo proviene da un altro mondo».
Nel frattempo
Regis era rientrato in tutta fretta nella fortezza.
«Allora?» domandò
Aria «Com’è andata?»
«È protetto da una
specie di scudo invisibile. Gli attacchi magici vengono assorbiti, e tutti i
composti inorganici gli rimbalzano addosso. La sola cosa da fare è colpirlo
direttamente.»
«Quand’è così…»
«Elys, dove vai?
Aspetta!».
Dave intanto era
salito sulle balaustre per portare via i feriti, ma ad un certo punto, alzati
gli occhi, si trovò a tu per tu con il mostro, giunto ormai a ridosso delle
mura. Questi alzò la mano ciclopica e cercò di colpirlo, ma Dave evitò
l’attacco e con la forza della disperazione corse a nascondersi dietro i resti
di una torre crollata, ben consapevole che non sarebbe bastato a salvargli la
vita.
Invece, contro
ogni previsione, il mostro esitò, e malgrado guardasse proprio verso di lui
sembrava non vederlo; contemporaneamente il ragazzo vide Elys passargli
velocemente accanto.
«Ti nascondi,
vigliacco? Guarda come si combatte!»
«Elys, che stai facendo?».
SPRINGEN!
Non appena Elys pronunciò quella parola le gemme sui suoi
gambali si illuminarono e lei spiccò un salto altissimo, tanto che riuscì a
raggiungere il petto del nemico e a piantarci dentro la sua spada, malgrado
quella pelle di metallo fosse incredibilmente solida.
«Elys!» gridò
Aria.
Il mostro sembrò
accusare il colpo, ma prima che la ragazza potesse ritirare la spada venne
afferrata e stritolata fino a perdere conoscenza.
«Direi che così
può anche bastare.» disse un altro degli individui in bianco, una donna
«Sì, sono
d’accordo».
A quel punto,
dalle protuberanze alle spalle del mostro apparvero le stesse fiamme della moto
di Regis e quella cosa cominciò ad alzarsi in cielo a velocità sempre maggiore.
«Elys!» disse
Dave, che senza rifletterci ulteriormente uscì dal suo nascondiglio e si
aggrappò a uno dei piedi del mostro prima che questi sparisse del tutto in un
altro portale simile a quello da cui era uscito.
«No! Elys!»
«Dave!».
Ma ormai era
troppo tardi, e il portale si era richiuso.
Passata la tempesta, venne il momento per studenti e
soldati di fare il conteggio dei danni. In tutto l’accademia aveva dodici
morti, quarantacinque feriti, di cui sette in modo grave, e danni per diverse
migliaia di denari.
C’erano anche due dispersi,
Elys e Dave, scomparsi assieme al mostro di metallo al termine della battaglia.
I loro maestri
erano comprensibilmente in agitazione, ma in quella circostanza la prima cosa
da fare era prestare soccorso a chi ne aveva più bisogno, per evitare che
qualcun altro potesse pagare con la vita quell’attacco improvviso e devastante.
Regis stava
liberando un soldato rimasto intrappolato sotto alcune macerie, quando, per
terra, vide uno strano oggetto simile ad un libretto, ma con sopra una piccola
sfera azzurra.
La riconobbe
subito, era una lanterna magica; molto utile per muoversi di notte, funzionava
infondendo in essa la propria energia magica, che veniva riconvertita dalla
sfera in energia luminosa.
Non appena ebbe un
momento libero corse da Aria per mostrargliela.
«Questa è di
Elys.» disse la maestra «Gliel’ho regalata io.»
«Probabilmente le
sarà caduta quando è saltata.»
«Spero che stia
bene. Purtroppo non abbiamo la minima idea di dove quel mostro possa aver
portato lei e Dave».
Per un attimo Aria
si fece prendere dallo sconforto, e allora Dave le mise una mano sulla spalla
per rassicurarla.
«Non temere. Forse
Elys è un po’ impulsiva, ma Dave è un ragazzo con la testa ben fissa sulle
spalle. Non farà nulla di avventato».
Improvvisamente,
senza alcun motivo apparente, la sfera si illuminò per un secondo, poi si
spense di nuovo.
«Sei stato tu?»
«No di certo».
Dopo pochi istanti
ecco che si illuminò di nuovo, ma stavolta continuò ad accendersi e spegnersi a
brevissimi intervalli.
«Ma che cosa…»
disse Aria stralunata.
Anche Regis non ci
capiva nulla, ma poi, osservando bene, ebbe l’impressione di distinguere
qualcosa; alcuni bagliori erano rapidi e brevi, altri invece lunghi e
prolungati, e si ripetevano sempre nel medesimo ordine.
… --- ……---…
Regis non riuscì a trattenersi dal sorridere compiaciuto.
«E bravo Dave.
Impari in fretta.»
«Che succede?»
domandò Aria «È Dave a fare questa cosa?»
«Si è sintonizzato
con l’energia elementale emessa da questo cristallo e lo sta usando per
comunicare. Questo è codice morse.»
«Codice… morse!? E
che cosa sarebbe? Un’altra delle tue stramberie?»
«Poi ti spiego.
Vediamo cos’ha da dire».
Dopo dieci SOS
Dave disse che stavano entrambi bene, e quando Regis ripeté il messaggio Aria
si lasciò andare ad un’esclamazione di felicità.
«E che altro
dicono?» domandò sempre più impaziente
«Aspetta. Fammi
vedere».
Il ragazzino disse
che sia lui che Elys erano rinchiusi nella torre di un castello in rovina in
una fitta foresta, anche se non sapeva dire con esattezza dove si trovavano
perché non riusciva a distinguere nessun elemento a lui famigliare nel
paesaggio circostante.
«Non è molto, ma
dovremo accontentarci. Ci sono castelli in rovina da queste parti?»
«Non che io
sappia.»
«A ovest.» disse
Vincent entrando in palestra, adibita occasionalmente ad infermeria per poter
ospitare la grande quantità di feriti
«Professor
Vincent.» disse Aria
«Venite, vi faccio
vedere».
Vincent portò i
due maestri sul ballatoio rivolto ad ovest e puntò il dito verso l’orizzonte.
«È laggiù, oltre
le colline, nel mezzo della foresta di pini. Era una delle tante residenze
nobiliari estive sparse per la regione, ma venne abbandonata dopo che un
incendio la distrusse quasi completamente.»
«Un incendio?»
«Precisamente. Ad
ogni modo, credo sia quello il posto che cercate.»
«Professor
Vincent, le devo un favore. Forza Regis, andiamo».
L’ansia e la
frenesia stavano portando via ad Aria la sua naturale prudenza, ma era
comprensibile; per quanto Elys fosse testarda ed irresponsabile era tutto il
suo mondo, e la sola idea di poterla perdere la faceva morire. Al contrario
Regis non sembrava aver ancora perso la calma, e seguitava ad osservare il
punto indicato dal professor Vincent con espressione preoccupata.
«Regis.»
«Con calma. Non
facciamoci prendere dalla foga.»
«Ma come!? Elys e
Dave sono laggiù! Vorresti perdere altro tempo e correre il rischio che
finiscano uccisi da quel mostro di metallo?»
«Cerca di
mantenere la calma. Hai visto anche tu che quella creatura è un osso duro. Ci
farebbe a pezzi se solo provassimo ad avvicinarci.»
«E allora cosa
farai? Te ne starai qui con le mani in mano ad aspettare che il tuo allievo
venga ucciso?»
«Non ho detto
questo. Dico solo che in queste situazioni servono prudenza e sangue freddo.
Sappiamo che la sua barriera respinge qualsiasi attacco dalla distanza, quindi
l’unica cosa da fare è colpirlo direttamente. Spade e lance possono essere un
buon deterrente, ma se avessimo qualcosa di più efficace, come un’arma da
fuoco, sarebbe molto meglio.»
«Un’arma da fuoco?
E come vorresti fare?» domandò Vincent «Non possiamo certo dirgli di stare
fermo mentre gli appoggiamo addosso i cannoni.»
«Non pensavo
questo. Forse possiamo trovare di meglio.»
«Per esempio?»
«Vedrete».
Senza aggiungere
altro Regis saltò giù dal ballatoio e cominciò a correre a destra e a manca
raccogliendo ogni cosa gli capitasse a tiro. Pezzi di spade, parti di cannone,
pezzi di legno, inneschi e ogni altra roba, quindi, col suo pesante fardello di
materiale, entrò nella scuola e si recò nello studio del professor Yuro,
l’alchimista, al secondo piano dell’edificio C.
Yuro in quel
momento stava distillando alcuni filtri per la cura delle ferite, e il fragore
della porta che si spalancava per poco non gli fece rovesciare il preparato,
mandando in fumo mezz’ora di lavoro.
«Regis. Che cos’è
tutta quella roba?» domandò vedendolo entrare trascinandosi a presso due sacchi
pieni di cianfrusaglie.
«La soluzione ai
nostri problemi.» rispose lui.
Aria, che lo aveva
seguito, rimase ad osservarlo attraverso la finestra che dava sul corridoio
mentre parlava di cose che neanche lo stesso professore sembrava in grado di
comprendere, sbracciandosi e mimando degli strani atteggiamenti.
«Ma sei sicuro che
funzionerà?» domandò alla fine il professore.
Yuro era, oltre ad
Aria, il solo a conoscere la verità sulle vere origini di Regis, a sapere cioè
che lui era davvero originario di un altro mondo, come raccontavano le numerose
leggende sorte attorno alla sua persona, o meglio, attorno all’Angelo Bianco,
visto che ben pochi erano a conoscenza del fatto che Regis e l’Angelo Bianco
erano la stessa persona.
«Nel mio mondo ci
vogliono giorni di lavoro per realizzare una cosa simile, ma non abbiamo la
vostra alchimia.»
«Non lo so, mi
sembra inverosimile.»
«Per te forse, ma
ti assicuro che se faremo come ti ho spiegato sarà molto più facile stendere
quel coso e salvare i ragazzi»
Yuro temporeggiò,
si tolse gli occhiali e si strofinò gli occhi, quindi guardò il disegno che
Regis aveva tracciato su una pergamena raffigurante ciò che aveva in mente di
creare.
«D’accordo,
proviamoci. Se servirà a salvare Elys».
Per il lavoro che
Regis aveva in mente occorreva servirsi di una grossa fornace, quindi non vi fu
altra scelta che recuperare nuovamente tutto il ciarpame e raggiungere
l’officina del fabbro situata sotto un portico in una zona remota del cortile,
per evitare che un eventuale incendio potesse minacciare l’intera scuola.
I tre uomini che
dirigevano l’officina si offrirono di dare una mano, quindi incominciò il
lavoro.
Il castello che un tempo era appartenuto alla famiglia
Balthas era ormai solo un ammasso di rovine; a causa di un incendio gran parte
della struttura era crollata fragorosamente a causa della scomparsa dei
sostegni in legno, e tutti coloro che in quel momento si trovavano al suo
interno erano morti, compreso il figlio primogenito del marchese Fouleu,
l’antico feudatario proprietario della dimora.
L’unico edificio
rimasto in piedi a seguito del crollo era la torre perimetrale di nord est, che
con la sua forma squadrata e la struttura interamente in pietra aveva resistito
al rogo.
La torre aveva una
sola finestra rivolta a est, che per l’occasione qualcuno aveva sbarrato con
una barriera magica per evitare che i due prigionieri potessero fuggire.
Quando Elys,
ancora priva di conoscenza, finalmente si riprese, la prima cosa che vide fu
Dave, seduto per terra poco distante a gambe incrociate; continuava
insistentemente a battere a terra un sassolino avvolto in una luce azzurrina,
ed era stato proprio quel rumore a svegliare Elys.
«Elys. Sei
sveglia.»
«Dave!? Ma cosa… è
successo?»
«Sei stata
catturata da quel mostro metallico dopo che lo hai colpito. Io ho cercato di
aiutarti, ma ho finito per venire a farti compagnia.»
«Dove siamo?»
«Non lo so. Da
quella finestra si gode di un’ottima visuale, ma non riesco a scorgere nessun
elemento a me famigliare».
Elys si alzò e si
affacciò a sua volta alla finestra, ma anche lei non riuscì a distinguere
niente che potesse aiutarla a capire dove si trovavano.
«Penseremo dopo a
capire dove quel mostro ci ha portati.» disse la ragazza sguainando la spada
«Per prima cosa usciamo da qui.»
«No… aspetta…».
Troppo tardi; con
tutte le forze di cui disponeva Elys colpì la barriera, ma venne brutalmente
scagliata indietro dall’onda d’urto senza ottenere il minimo risultato.
«Ma cosa…»
«Io ho cercato di
avvisarti. Quella barriera è molto resistente; ci ho provato anche io, e mi è
successa la stessa cosa.»
«Sciocchezze.
Basta colpire più forte!» disse lei tornando alla carica
«Fa un po’ come
vuoi.» rispose Dave, che riprese a giocare con quel sassolino.
Servirono dieci
tentativi e altrettanti voli fuori programma prima che Elys si decidesse che
era tutta fatica sprecata.
«Ah, basta mi
arrendo. Odio ammetterlo, ma siamo in trappola.»
«Così
sembrerebbe.» rispose Dave senza staccare gli occhi dal suo “lavoro”
«Ma perché ci ha imprigionati
qui? Poteva ucciderci, come mai non lo ha fatto?»
«Forse il suo
intento non era quello di uccidere. Forse voleva solamente degli ostaggi.»
«Degli ostaggi?»
«Tu sei un’allieva
della prestigiosa accademia militare di Lake Moran, io sono il discepolo di uno
dei più grandi guerrieri che questo Paese abbia mai avuto. Siamo gente
importante, nel nostro piccolo.»
«Un’altra cosa che
non capisco è che cosa sia quella cosa. Non sembrava un essere vivente.»
«Dubito che lo
sia. I suoi movimenti erano estremamente meccanici, sembrava una gigantesca
bambola di legno.»
«Mi domando che
razza di attacchi utilizzasse. La barriera attorno alla scuola non ha avuto
alcun effetto.»
«Le barriere
magiche bloccano gli attacchi magici. Questo significa che la sua non era
magia, ma qualcosa di diverso.»
«Qualcosa cosa?»
«Proprio non lo
so».
L’insopportabile
ticchettio del sasso aumentò ulteriormente la frustrazione di Elys che alla
fine sbottò.
«Invece di giocare
perché non usi quel tuo cervello di gallina per cercare una soluzione che ci
faccia uscire di qui?»
«È quello che sto
facendo.» rispose calmo Dave «E per tua informazione, non sto giocando.»
«Ah, davvero? E
cosa stai facendo?»
«Sto chiamando il
Maestro.»
«Il Maestro!? Con
quel sassolino?»
«Mi sono
sintonizzato con la lanterna magica che hai perso quando sei stata catturata.»
«E come pensi che
il tuo maestro possa capire che lo stai chiamando semplicemente guardando una
sfera che si illumina?»
«Non la sto
semplicemente facendo brillare. Sto usando un codice particolare per fargli
capire che siamo vivi e stiamo bene. Gli sto persino dicendo che cosa vedo
fuori dalla finestra.»
«E questo cosa
c’entra con questo insopportabile ticchettio?»
«Il sistema di
comunicazione utilizza un alfabeto complesso, fatto di linee e di punti. Ad
ogni lettera corrispondono una serie di punti e di linee, ed intervallando di
un secondo le singole lettere posso formare una parola».
Elys si grattò la
testa, dando evidente segno di non aver capito; Dave allora incise il pavimento
di pietra una A, tracciandovi accanto un punto e una linea.
«Ecco, vedi? Un
punto e una linea corrispondono alla lettera A, una linea e tre punti alla B.»
«Non ho mai
sentito di un alfabeto simile.»
«Me lo ha
insegnato il maestro. Dice che nel suo mondo lo chiamano Codice Morse.»
«Come, nel suo
mondo!?».
Compreso troppo
tardi ciò che aveva appena detto Dave si mise una mano sulla bocca e si morse
la lingua; questo era un aspetto della propria persona che Regis non voleva
fosse sbandierato ai quattro venti. Fino a che era una diceria d’accordo, ma se
lo diceva il suo allievo prediletto, e conoscendo la sua proverbiale stranezza,
il sospetto ci stava tutto.
«Allora è vero.
Lui viene davvero da un altro mondo.»
«Accidenti, questa
volta il Maestro mi uccide.»
«Credevo fossero
solo voci da osteria…»
«E il Maestro
vuole che restino tali, quindi sei pregata di non dirlo a nessuno.»
«Sta tranquilla.
Sarò una tomba.»
«Su questo nutro
seri dubbi».
Alla fine Elys si
sedette accanto a lui e per un po’ se ne restò in silenzio, col mento
appoggiato sulle ginocchia.
«Perché sei
venuto?» chiese ad un certo punto «Potevi anche evitarlo.»
«E lasciarti sola?
Col carattere impulsivo che ti ritrovi avresti combinato qualche altra
sciocchezza che magari ti sarebbe potuta costare cara.»
«Tu gli vuoi molto
bene?» domandò poi la ragazza con un tono di voce che decisamente non le
apparteneva «A Regis, intendo.»
«Lo stimo e lo
rispetto come un maestro e come un fratello maggiore, e spesso ho l’impressione
che tenda a comportarsi come tale.»
«Come lo hai
conosciuto?»
«È stato due anni
fa, durante la guerra del nord. Ha difeso il nostro villaggio dall’attacco di
un distaccamento nemico.»
«Ti ha mai
raccontato qualcosa del mondo da cui proviene?»
«Ogni tanto, ma il
più delle volte preferisce tacere su questo argomento. Stando alle sue storie,
il mondo da cui proviene si chiama Terra, e dal punto di vista tecnologico è
infinitamente più avanzato del nostro.»
«Mi sembra
inverosimile.»
«Non ti nascondo
che anche io per un momento ho pensato la stessa cosa, ma ti garantisco che più
tempo passavo con lui più mi rendevo conto quanto i racconti popolari dicessero
la verità. E poi basta guardare gli strani marchingegni che costruisce per
capire che forse una qualche verità c’è.»
«Sì, forse hai
ragione».
I poteri dell’alchimia permettevano di manipolare i
metalli e altri materiali alla fine di ottenere il composto desiderato, e fu
così che da una miscela di acciaio, piombo, ferro e persino pietra furono
ricavate, grazie alla potenza del fuoco della fornace, una decina di mattonelle
di acciaio, cinque di alluminio e tre di piombo.
Ora Yuro aveva a
disposizione tutto ciò che serviva per realizzare l’ennesimo strano marchingegno
di Regis, ma per poter riconvertire i materiali semplici nell’oggetto finale
occorreva avvalersi di un circolo stregato.
Davanti ad una
marea di studenti e guardie incuriositi, in una zona del cortile libera da
macerie venne tracciata una stella a sei punte ricoperta di simboli e lettere
magiche, indispensabili per mettere in comunicazione l’energia dell’anima col
potere della natura e rendere così possibile l’incantesimo.
Il professor
Sagis, che col suo talento era indubbiamente la persona più indicata per
quell’incarico, non mancò come al solito di sottolineare il proprio
scetticismo.
«È assurdo.» disse
passandosi una mano sulla folta barba «Non funzionerà».
Era talmente
vecchio e malconcio da dover camminare col bastone, e visto che inginocchiarsi
e rimettersi in piedi erano operazioni estremamente faticose per lui due suoi
discepoli erano stati incaricati di tracciare il simbolo al suo posto.
«Si fidi,
professor Sagis.» rispose Regis «Posso garantirle che funzionerà.»
«Mi spiace dirlo,
ma in questo caso sono d’accordo col professore.» disse Aria «Come può un
oggetto delle dimensioni che hai descritto sopportare la pressione dello
sparo?»
«Basta dotarlo di
uno sfiatatoio per espellere i gas in eccesso. Non abbia tutti questi timori,
professor Sagis. In vita mia ne ho viste molte in azione, e ho studiato a fondo
i loro meccanismi. Se focalizzerà la sua attenzione sull’immagine nella mia
mente non dovrebbe avere alcun problema».
Malgrado la sua
proverbiale riluttanza Sagis alla fine si lasciò convincere e, liberatosi del
bastone, giunse le mani sopra al simbolo, al centro del quale erano state
posizionate le lastre di acciaio e alluminio, oltre ad una piccola quantità di
polvere da sparo mescolata alla polvere magica, e in pochi secondi le linee che
lo componevano cominciarono a brillare di una forte luce viola; chiuse gli
occhi, sia per poter convogliare meglio l’energia sia per poter scorgere la
figura nella mente di Regis e poterla quindi riprodurre.
Poco dopo vi fu una
piccola esplosione di luce, che costrinse i presenti a coprirsi gli occhi, e
quando tornò la calma tutti poterono finalmente scorgere la nuova, bizzarra
stramberia di Regis.
Fatta interamente
di metallo, aveva la forma di una L; l’asta più corta, che sembrava fungere da
manico, aveva una forma molto complessa, probabilmente per poter essere
impugnata meglio, quella più lunga, della misura approssimativamente di
venticinque centimetri, era invece costituita da due blocchi, uno fisso
collegato all’impugnatura l’altro mobile. Al termine dell’impugnatura vi era un
piccolo anello rettangolare, ed era dotata, sul retro, dello stesso cane usato
nei cannoni, ma di forma decisamente più ridotta, come ridotta era anche la
bocca di uscita.
Regis la guardò
soddisfatto, la prese in mano e se la osservò attentamente.
«Perfetta. Proprio
una pistola come piace a me. Una Desert Eagle semi-automatica. Neanche gli
Israeliani saprebbero fare di meglio».
Spinse quindi un
bottoncino praticamente invisibile, e immediatamente la parte inferiore
dell’impugnatura, in realtà cava, venne via, rivelando un contenitore con dieci
grossi bossoli.
«Anche i
proiettili sembrano perfetti».
Sagis al
contrario, che si aspettava la comparsa di chissà quale arma ultra-distruttiva,
non fece alcuno sforzo per contenere il proprio disappunto.
«Tutto qui? Era
questo che avevi in mente? Credi sul serio che quel… giocattolo sia in grado di
graffiare quel gigante di metallo?».
Del tutto
incurante delle critiche Regis sollevò il cane, puntò la pistola, come l’aveva
chiamata, verso l’alto e sparò; il rumore dello sparò fu assordante, ed appena
il proiettile uscì dalla canna questa si mosse all’indietro, espellendo il
bossolo vuoto da un foro appositamente realizzato per questo scopo.
Un millisecondo
dopo una grossa porzione di muro, centrata in pieno dalla palla di fuoco nata
dal proiettile, fu sventrata da una terrificante esplosione, e nel cortile
tutti rimasero con la bocca spalancata. Tutti tranne Regis, che sorrise
compiaciuto.
«Mh… funziona. La
canna più spessa permette l’utilizzo di proiettili magici, come avevo
previsto.»
«Questo…» balbettò
Yuro «Questo è incredibile. Sul serio, può rivoluzionare tutta la storia delle
forze armate.»
«E bravo Regis.»
disse fra sé Aria «Ne hai combinata un’altra delle tue».
Il giovane infilò
la sua nuova arma in un contenitore apposito situato nella parte posteriore
della cintura provvisto anche di un laccio di sicurezza, quindi si avviò verso
la moto.
«Aria, ti sei
imbambolata?»
«Eh, cosa!?» disse
lei come uscendo da un sogno
«Non volevi andare
a salvare Elys?».
Alla fine, tenendo fede alla sua naturale cocciutaggine,
Elys era riuscita a trovare un modo per aggirare la barriera a difesa della
finestra della torre rimuovendo una serie di pietre del muro usando la propria
spada come una leva.
Ormai si era fatta
notte, e le ombre generate dall’incrocio delle forme delle rovine del castello
con la luce della luna generavano sul terreno erboso delle forme spettrali.
«E vai, ce l’ho
fatta.» disse Elys «Da qui dovremmo riuscire a passare.»
«Aspetta, non
essere impulsiva.» disse Dave «Quel mostro potrebbe essere ancora da queste
parti.»
«Preferisci stare
qui e aspettare che ti usi come spuntino di mezzanotte?»
«Non dico questo,
dico che…»
«Ah, ne ho
abbastanza di tutte queste lagne. Scegli, o vieni con me o resti qui, non ci
sono vie di mezzo».
Elys si preparò a
saltare usando i cristalli sui suoi parastinchi, e a quel punto Dave non poté
fare altro che seguirla. Anche lui portava con sé un piccolo cristallo
elementale per i casi di emergenza, e poté usarlo a sua volta per atterrare
dolcemente sull’erba ai piedi della torre.
«Visto?» disse
Elys «Nessun problema. È stato facile.»
«Fin troppo».
Ed infatti, prima
che i due potessero muovere un passo, dal folto della foresta cominciò ad
emergere la gigantesca figura del mostro.
Elys, a dispetto
della sua spavalderia, rimase immobile per la paura, ed un istante prima che quella
cosa potesse girarsi verso di loro Dave afferrò la sua compagna e la trascinò
all’ombra della torre, proprio davanti alla creatura.
«Ma che fai? Così
ci vedrà!»
«Resta ferma e non
muoverti.» rispose lui cercando di tenerla ferma.
Il mostro uscì
dalla foresta calpestando gli alberi come fossero fili d’erba; guardava proprio
in direzione dei due ragazzi, ma per qualche motivo non sembrava in grado di
vederli, tanto che dopo poco si girò in tutt’altra direzione.
Elys rimase senza
parole.
«Ma… ma com’è
possibile!? Eravamo proprio di fronte a lui…»
«Me ne sono
accorto durante l’attacco di questa mattina. Sembra che quel mostro non sia in
grado di vedere al buio, quindi se restiamo nascosti qui siamo al sicuro.»
«Per il nostro
bene, prega che sia davvero così».
La creatura sembrò
desistere dal proprio proposito, ma all’improvviso riempì il silenzio della
notte con un urlo che pareva il suono acuto di una sirena, e voltatosi di
scatto disintegrò la torre con un colpo del suo enorme braccio; le macerie
minacciarono di cadere sugli ostaggi, e allora Dave alzò il braccio in aria.
SCHUTZ
Una barriera gialla si formò sopra di loro e li protesse
energicamente dalla pioggia di pietre, ma il problema che si presentò subito
dopo era molto più grave; con la scomparsa della torre era svanita anche la
protezione della sua ombra, ed ora la luce della luna illuminava a fondo tutta
l’area, lasciando Elys e Dave in bella mostra, e il mostro stavolta non tardò
ad accorgersi di loro.
«Maledizione!
Elys, corri!».
Si rialzarono e
scapparono via un attimo prima di venire inceneriti dal raggio incandescente,
ma la situazione era veramente disperata e prima che fossero riusciti a
raggiungere il bosco sicuramente avrebbero fatto una brutta fine.
Per grazia divina,
però, in quell’istante la luna venne nascosta dalle nubi, e così la zona cadde
nuovamente nell’oscurità; il mostro smise di inseguirli e riprese a guardarsi
attorno.
«Fiu.» disse Dave
cercando di tirare fiato «Questa volta è andata bene.»
«Sì va’ bene, ma
sbrighiamoci a raggiungere il bosco prima che la dea bendata decida di voltarci
nuovamente le spalle».
Purtroppo una
nuova, brutta sorpresa attendeva i due ragazzi, che giunti quasi ai margini
degli alberi andarono a sbattere contro un muro invisibile.
«Una barriera!»
esclamò Elys «Siamo in trappola!».
Il nemico fece
udire nuovamente il suo singolare ruggito, poi dal suo petto cominciarono a
sprizzare nuvole di vapore, e poco dopo le due parti della cassa toracica si
aprirono come una porta a due ante, rivelando che all’interno del corpo non
sembrava esserci assolutamente nulla.
«Ma cosa…»
balbettò attonito Dave.
D’un tratto, dal
buio dello scomparto apparve una copia perfetta del mostro, ma dalle dimensioni
molto più ridotte, paragonabili pressappoco a quelle di un essere umano; questi
saltò giù dal corpo del suo ospite ed il suo unico occhio si illuminò.
«E quello che
cos’è?» domandò Elys
«Non chiedermelo,
non saprei cosa risponderti.»
«In ogni caso,
neanche lui può vederci finché resta buio».
Ed invece, contro
ogni previsione, il nuovo arrivato attaccò a colpo sicuro con un affondo del
pugno che Elys evitò solo all’ultimo secondo; era molto più veloce del suo
creatore, e molto più agile nei movimenti.
«Sembra che questo
sia diverso!» disse Dave «A quanto pare ci vede benissimo!»
«Quand’è così…»
disse Elys sguainando la spada «Facciamolo fuori e non se ne parli più!».
La ragazza cercò
di colpire, ma il nemico evitò il primo colpo e parò il secondo col suo polso metallico,
quindi restituì il favore assestando ad Elys un pugno al costato che la spedì
cinque metri lontano.
«Elys! Tutto
bene?»
«Sì… almeno credo.
Il tipo picchia forte.»
“Anche lui sembra
essere resistente alle armi. Ma forse non è dotato dello scudo anti magia. C’è
solo un modo per accertarsene”.
Il ragazzo allungò la mano destra e generò un cerchio
magico all’altezza del polso.
Ubbidisci alla mia
voce,
Forza del ghiaccio,
radunati nella mia mano.
Asseconda i miei
desideri e assistimi in questa battaglia.
KUGEL EIS!
Dal cerchio partì una sfera azzurrina; il mostro se ne
avvide e cercò di spostarsi, ma l’attacco lo centrò comunque al braccio destro,
che finì congelato.
«Sì! Avevo visto
giusto!»
«Ti spiacerebbe
spiegarmi?»
«Questo essere non
è come quell’altro. Non ha la barriera difensiva, quindi possiamo attaccarlo
anche con la magia.»
«E non potevi
dirlo prima?».
Elys chiuse gli
occhi e mise la propria spada dinnanzi a sé, tenendola con entrambe le mani, ed
il cristallo elementale incastonato sull’elsa iniziò a risplendere di rosso
fuoco, circondando gradualmente la lama d’acciaio di una intensa fiamma
scoppiettante.
Ubbidisci alla mia
voce,
Fuoco della vita,
radunati nella mia mano.
Concedimi la forza
per combattere i miei nemici.
TOLLWUT GLÜHLAMPE!
Tutto il fuoco della lama si scaricò, sottoforma di arco
incandescente, contro il nemico, che venne centrato in pieno senza alcuna
possibilità di fuga.
«Brucia,
maledetto!».
E invece, dopo poco,
il mostro uscì dal muro di fuoco apparentemente illeso, si avventò su Elys e le
assestò un nuovo colpo che la scaraventò contro la barriera prima di lasciarla
a terra quasi svenuta.
«Elys!» disse Dave
mettendo mano alla spada.
Il nemico allora
si concentrò su di lui, evitò facilmente alcuni fendenti male eseguiti quindi
atterrò anche il ragazzo con un colpo al fianco eseguito col taglio della mano.
Entrambi gli
ostaggi si ritrovarono così sconfitti ed inermi, ma proprio quando sembrava che
stessero per ricevere il colpo di grazia un rumore assordante riempì il cielo,
e subito dopo una palla di fuoco distrusse la barriera, centrando in pieno la
testa del mostro più piccolo e facendola esplodere.
«Ma… maestro…»
disse Dave udendo il rumore della moto.
Regis e Aria
arrivarono come la cavalleria, e Regis aveva in mano la sua nuova, micidiale
arma, dalla cui canna usciva un nugolo di fumo.
«Elys, Dave!».
La maestra non
attese neppure che il mezzo si fermasse del tutto per saltare giù e correre a
soccorrere la sua allieva prediletta.
«Elys! Elys,
rispondimi!»
«Ma… maestra… la
luna…».
Ed infatti,
proprio in quel momento, la luna riapparve, così il nemico principale fu
nuovamente in grado di vedere.
«Aria. Occupati tu
di loro».
Era accaduto.
Il momento in cui
Regis scompariva, per far posto ad un essere completamente sconosciuto, ad una
creatura che non aveva quasi nulla di umano se non l’aspetto esteriore.
La giacca bianca
che ondeggiava al vento insieme ai capelli corvini, quel volto marmoreo privo
di emozioni. Una statua.
In quel
particolare momento, l’attenzione di Regis si focalizzava tutta sul suo unico
scopo: affrontare e sconfiggere.
Camminò lentamente
fra i sassi e l’erba fino a che non fu a tu per tu con il mostro, che come la
prima volta sembrò esitare nel vederlo in volto, e come era già accaduto in
passato Aria e Dave poterono scorgere per un istante delle ali bianche dietro
la sua schiena; anche Elys le vide, ma per un attimo pensò che fosse
un’allucinazione dovuta al dolore.
I cinque individui
in bianco seguitavano ad osservare quanto stava accadendo sul terreno di
scontro al sicuro della loro grande sala.
«Ora sapremo».
Il mostro attaccò
per primo fendendo la terra con il pugno, ma Regis evitò il colpo saltando, quindi
corse lungo il braccio del nemico e, giunto sulla spalla, saltò nuovamente.
Mise mano alla
pistola, prese la mira ed esplose sei colpi in rapida successione,
disintegrando uno dei tre occhi e scheggiandone un altro, dopo di che tornò
nuovamente coi piedi per terra.
La creatura sembrò
mostrare segni di sofferenza, e mentre si muoveva da una parte all’altra come
impazzita Regis si liberò del caricatore vuoto, ma non avendone altri con sé
rinfoderò l’arma e sguainò la spada.
«Senza uno dei
tuoi occhi la barriera che ti protegge risulta molto più debole.» disse alzando
l’arma.
Stupito e
infuriato il mostro di metallo lanciò il suo raggio incandescente, e allora
Regis generò una barriera per proteggersi.
ΑΣΠΙΔΑ
L’Ασπιδα era una versione
potenziata dello Shutz di Dave e si avvaleva di un circolo magico più
complesso, in grado di respingere sia gli attacchi magici che quelli fisici,
ragion per cui anche il raggio del nemico, che era stato in grado di
oltrepassare le difese della scuola, venne facilmente respinto.
Ad attacco
concluso Regis si lanciò nuovamente all’attacco, saltò altissimo e raggiunse
nuovamente la testa del mostro, piantandogli la spada nel secondo occhi; si
sprigionarono strane scintille, ma purtroppo la lama rimase incastrata all’interno
quindi il guerriero fu costretto a mollarla.
Tuttavia, aveva
ancora una cartuccia da sparare; prese l’arco e vi incoccò una freccia
particolare, che invece di essere azzurra era gialla, circondata da una spirale
rosa.
Aria, guardando
con attenzione, si accorse che la patina trasparente attorno al mostro andava e
veniva.
“La barriera… sta
svanendo…”.
Regis sogghignò.
«Sayonara».
Non appena scoccò
la freccia si trasformò in un vortice dorato sprizzante scintille rosa che
centrò il mostro e lo passò da parte a parte, aprendogli un foro enorme nel
torace da cui sprizzarono innumerevoli altre scintille.
Come un burattino
a cui sono stati recisi i fili si afflosciò apparentemente morto e non si mosse
più, mentre anche il suo ultimo occhio si spegneva.
Aria, Elys e Dave
si volsero a guardare.
«È… finita?»
domandò Dave.
Così come era
diventato il guerriero indomabile, Regis tornò altrettanto rapidamente ad
essere quello di sempre; si avvicinò al gigante metallico e recuperò la propria
spada, trovando uno strano aggeggio quadrato conficcato nella punta che lo
lasciò attonito.
«Ma questo è…».
Lo prese.
«Un microchip.»
«Un microche?»
domandò Aria
«Maestro, voi
sapete che tipo di mostro era?»
«Questo non era un
mostro Dave. Questo era un robot.»
«Un… robot?»
«E che cosa
sarebbe un robot?» chiese Aria
«È una specie di
bambola meccanica. In questo caso si parla di un robot antropomorfa.»
«Un’altra
stramberia del tuo mondo?»
«No.» rispose
Regis con voce preoccupata «Persino nel mondo da cui vengo io queste cose sono
inconcepibili.»
«Ma allora…» disse
Dave «Da dove proveniva questo affare?»
«Proprio non lo
so».
Quello però non
era il momento di pensare a certe cose; Elys era ancora gravemente ferita per i
colpi ricevuti dalla versione micro del mostro, e solo le sapienti abilità
curative di Aria le evitarono conseguenze ben più terribili.
Non appena si
riprese Dave cercò di aiutarla rialzarsi, ma lei cacciò via quella mano e si
rimise in piedi sulle sue gambe, rimanendo immobile davanti allo sguardo severo
della sua maestra. Anche se le ferite erano state medicate quella più grave di
tutte era ancora aperta, ed era nel suo orgoglio; non solo non era stata in
grado di cavarsela da sola ed era quasi morta, ma era stata salvata proprio da
Deve, che fin dal loro primo incontro aveva sempre chiamato novellino.
Aria continuò a
fissarla per lunghi secondi, poi le rifilò un solenne ceffone.
«Razza di
incosciente! Quando ti metterai in testa che non si può sempre agire d’istinto?
Devi ringraziare Dave se abbiamo scoperto dove eravate e se siamo potuti venire
in vostro aiuto. Senza di lui, a quest’ora probabilmente saresti morta.»
«La prego
signorina Aria, non si arrabbi con Lei.» disse Dave
«Invece di preoccuparti
per lei» disse Regis «Preoccupati per te».
Anche Dave a quel
punto cominciò a sudare freddo, ma se Regis alzò la mano fu solo per
mettergliela sulla testa.
«Che allievo che
mi ritrovo.»
«Maestro…»
«Sei stato in
gamba. Quella del codice morse è stata davvero una bella pensata.»
«Io… ecco…»
«Ma non fare mai
più sciocchezze del genere, ci siamo capiti?»
«Sì, Maestro.»
«Lo stesso vale
per te, signorinella.» disse Aria «Un’altra bravata come questa e ti caccio su
due piedi. Spero di essere stata abbastanza chiara.»
«Sì… sensei…»
rispose Elys con sguardo basso.
Anche se spaziosa,
la moto di Regis era troppo piccola per tutti e quattro, ma grazie ad una
particolare pietra elementale che conferiva capacità telepatiche Aria fu in grado
di chiamare rinforzi, ed inaspettatamente alla testa del manipolo di uomini che
giunsero nella spianata alle prime luci dell’alba c’erano il professor Sagis e
Yuro. Quando arrivarono, Regis e Dave se ne erano già andati.
«Incredibile.»
disse il giovane alchimista vedendo i resti del nemico sconfitto «A quanto pare
Regis ancora una volta ha compiuto l’impensabile.»
«Così sembrerebbe»
rispose Aria.
Sagis si avvicinò
al mostro e lo osservò con aria preoccupata; Aria gli si avvicinò.
«Voi siete il maggiore
esperto in questo campo, professor Sagis. Avete idea di cosa possa essere
questa cosa?»
«Purtroppo no, mia
cara. È la prima volta in vita mia che vedo un essere simile.»
«Regis lo ha
chiamato robot, almeno credo».
Nel sentire il
termine robot il professore sembrò morso dalla tarantola, e per quanto cercasse
di nascondere il proprio stato d’animo Aria notò chiaramente qualcosa di
insolito nel suo sguardo.
«C’è qualcosa che
non va’, professore?»
«No, niente. Tu ed
Elys tornate pure all’accademia assieme a Yuro. Resto io ad occuparmi di
tutto.»
«Ma… ne è sicuro?»
«Stai tranquilla.
Sono vecchio, ma ancora in buona salute. E poi ora questi cosi non possono più
fare alcun male».
Aria era molto
turbata, ma decise di non indagare oltre ed ubbidì al proprio collega,
andandosene assieme alla sua allieva in sella ad un cavallo appositamente
condotto fin lì in compagnia del professor Yuro e della stragrande maggioranza
dei soldati.
Rimasero solo il
professor Sagis e un manipolo di suoi fedelissimi, ed appena fu sicuro di non
avere intorno orecchie indiscrete l’anziano diede immediate disposizioni al suo
miglior apprendista, il giovane Harwey.
«Sotterratelo. Che
non ne rimanga nulla. E date alle fiamme l’intera zona per un raggio di mezzo
miglio in ogni direzione.»
«Sì, maestro».
Il professore fu
aiutato a salire a cavallo, ma Harwey lo interpellò nuovamente.
«Se posso
permettermi, posso chiederle che cos’è esattamente quella cosa?».
Sagis sospirò e girò
un paio di volte la testa, ma si fidava troppo del suo pupillo per tenerlo
all’oscuro.
«Un essere
proveniente da un altro mondo.»
«Da… da un altro
mondo!?»
«Ora devo andare.
Bisogna convocare immediatamente il Consiglio degli Anziani.»
Il Consiglio degli Anziani era un’antica istituzione che
riuniva i dodici più potenti stregoni di tutto il regno; si riunivano in un
luogo segreto, perennemente avvolto dall’oscurità e a cui si poteva giungere
solo attraverso uno speciale cerchio magico noto solo agli stessi anziani.
All’interno di
quella specie di limbo non si distingueva nulla a parte il gigantesco pentacolo
attorno al quale sedevano gli anziani da cui giungeva una flebile luce azzurra
e una grande vetrata da cattedrale dai molti colori raffigurante dodici sfere
azzurre attorno ad una più grande di colore giallo sfavillante, con angeli e
demoni belligeranti a fare da contorno. Sul trono sotto di essa sedeva il Mage
Master, il più grande fra gli stregoni, e tutto intorno gli altri nove membri.
Tutti i troni
erano occupati da persone di età piuttosto avanzata, e a parte il professor
Sagis vi erano sei uomini e quattro donne.
Il Mage Master
aveva il volto nascosto da un cappuccio, ma a giudicare dalla barba grigia che
spuntava dal buio e dalle mani ossute doveva essere un uomo con più di
novant’anni.
Come di
consuetudine, fu lui a dare il via alla riunione, la prima dopo quasi cinque
anni.
«Membri del
Consiglio.» disse con la sua voce che sembrava un mugolio «Siete stati mandati
a chiamare per discutere di una questione della massima importanza. Il qui
presente professor Sagis desidera mettervi al corrente di un fatto gravissimo
avvenuto nei pressi dell’accademia militare centrale. Professor Sagis, prego.»
«Grazie,
venerabile Mage Master. Fratelli stregoni. Ciò che sto per dirvi porterà
sicuramente sconcerto e paura in tutti voi, rievocando nelle vostre menti
ricordi a lungo sopiti».
Sagis tacque,
qualche secondo, poi riprese a parlare.
«Sono trascorsi
quasi cinquecento anni dall’ultima guerra sacra. Quella fu probabilmente
l’unica volta in cui l’intero continente si unì per affrontare un nemico
comune, ma essa, come saprete sicuramente, è anche all’origine di tutte le
guerre e i conflitti che ancora ad oggi tingono di sangue la nostra terra.»
«Lo sappiamo
bene.» disse una donna sulla cinquantina «Anche se la maggior parte della
popolazione è spinta a ritenere che si tratti solamente di una leggenda, una
ristretta cerchia di eletti è a conoscenza della verità.»
«Cinquecento anni
fa» intervenne un altro stregone «Creature sconosciute provenienti da un altro
mondo giunsero nel continente e diedero il via ad una sistematica distruzione.
Qualunque arma venisse utilizzata, qualsiasi incantesimo gli fosse scagliato
contro risultava del tutto inefficace. A prescindere da quale mondo
provenissero, la civiltà che li aveva concepiti era senza dubbio alcuno
infinitamente più avanzata della nostra.»
«Le pochissime
cronache giunte fino a noi paiono racconti di fantasia piuttosto che trattati
di esimi storici.» disse un altro ancora «Parlano di esseri dai corpi di
metallo, così grandi e così imponenti da lambire il sole. Impugnavano armi dai
poteri devastanti, e scagliavano raggi incandescenti capaci di incenerire una
città con un solo colpo. Dovunque passavano non restava altro che desolazione e
morte.»
«Mi addolora
moltissimo comunicarvi queste parole.» riprese il professor Sagis «Ma la storia
si sta ripetendo. Ieri uno dei mostri delle leggende ha attaccato l’accademia
centrale».
L’affermazione fu
accolta con uno spaventoso silenzio; qualcuno dei presenti chiuse gli occhi,
qualcun altro si morse le labbra, qualcun altro ancora strinse le mani attorno
ai braccioli delle sedie in pietra.
«Tu sei
assolutamente certo di ciò che dici?» domandò il Mage Master
«L’ho visto con i
miei occhi. Da principio non ci ho voluto credere, ma quando lo straniero ha
pronunciato quella parola non ho avuto più alcun dubbio.»
«Ma come è
possibile?!» chiese una «La porta…»
«Qualcuno deve
averla riaperta.» rispose un altro «Del resto, i segnali di allarme erano
evidenti, ma siamo stati così ciechi e così stolti da non volerli vedere.»
«Mage Master,
questa è la conferma ai nostri timori. Dobbiamo affrettare il piano che abbiamo
concordato, o presto potrebbe scoppiare una nuova guerra sacra.»
«Sì, hai ragione.
A questo punto, lo possiamo dire con certezza. I robot sono tornati».
Era una città enorme, di proporzioni colossali, come non
se ne erano mai viste in tutto il continente.
Malgrado fosse
notte fonda, miliardi di luci la illuminavano più di cento soli, diffondendo un
bagliore che si poteva scorgere anche da decine di chilometri di altezza.
Edificata lungo la
costa, aveva il proprio fulcro in un’isola che sorgeva al centro della grande
baia, collegata alla terraferma da ponti così grandi e così lunghi che a
guardarli si sarebbe rimasti senza parole.
I palazzi erano
così alti da oltrepassare le nuvole, e su tutto svettava una grande statua di
donna incoronata con un libro in una mano e una torcia nell’altra.
Uno dei simboli
per eccellenza di quella città erano due gigantesche torri di uguale forma e
dimensione che sorgevano in prossimità della punta meridionale dell’isola, e
che giungendo dal mare erano fra le prime costruzioni che si poteva scorgere
distintamente.
Tuttavia, ormai da
molti anni, quelle due torri non c’erano più; in un giorno terribile, che
secondo alcuni segnò la fine di un’epoca e l’inizio di un’altra, crollarono
fragorosamente, riempiendo l’intera città di fumo e macerie, e tingendola del
sangue di migliaia di vittime.
Quale segno di
ribellione alla legge della paura era stato deciso di costruire in quello
stesso punto una nuova torre, più alta e maestosa, che sarebbe stata il segno
della rinascita di un nuovo mondo.
I lavori erano già
in pieno fermento, e la parte iniziale dell’enorme massa scheletrica su cui
avrebbero presto poggiato le speranze di innumerevoli popoli già si stagliava
nell’oscurità della notte, raggiungendo i trenta metri di altezza.
Poco distante, una
grande targa commemorativa ricordava coloro che in quella mattina di sciagura
avevano incontrato una morte prematura, che nessuno di loro voleva e che
nessuno di loro avrebbe mai meritato; la morte peggiore che un uomo potesse
chiedere.
Davanti a quella
stessa targa sostava un funereo individuo in nero che indossava una vistosa
tunica antica con un cappuccio sollevato sulla testa. Pareva che stesse
leggendo, uno per uno, i nomi di quei poveri sventurati, soffermandosi su ogni
lettera, ogni accento, in silenzio.
D’un tratto, alle
sue spalle si formò un vortice oscuro, da cui uscì un altro individuo vestito
esattamente come lui, ma con il cappuccio abbassato; era un giovane alto e di
bell’aspetto dalla pelle leggermente scura con capelli castani corti.
Quello
incappucciato, benché di spalle, sembrò accorgersi del suo arrivo.
«Osservi la follia
degli uomini?» domandò il nuovo arrivato
«Che sei venuto a
fare qui, Dusk?» rispose l’altro con la voce di un ragazzo
«Per quale motivo
continui a tornare sulla Terra? Qui i nostri poteri sono molto limitati, a
causa della barriera che gli Eroi Leggendari hanno costruito.»
«Per questo resto
qui. È l’unico posto dove sono sicuro non verrete a seccarmi.»
«Non mentire. La
verità è che tu resti qui perché la
Terra è il luogo più probabile da cui potrai raggiungerlo».
Il ragazzo
incappucciato ebbe un nuovo sussulto e strinse con rabbia il pugno.
«Non ti servirà a
nulla.» proseguì l’altro «Toshio ha passato il portale solo perché ha mangiato
il Frutto della Conoscenza. Fino a quando la porta resta chiusa, tu non avrai
alcun modo di arrivare fino a lui».
Nelle sue mani a
quel punto comparvero due spade dalla forma spada, simili a scimitarre
orientali le cui lame, per forma, ricordavano una folgore; una di esse era
bellissima, sembrava fatta d’oro, con un occhio egizio a formare la parte
superiore dell’elsa. L’altra spada invece non era altro che la copia della
prima, solo di colore nero.
«Tu non puoi
capire. Io devo incontrarlo.»
«Credevo avessi
abbandonato il proposito di ucciderlo. Quindi che cos’è che ti spinge?»
«Un giorno o
l’altro, così come ci siamo separati, io e lui ci riuniremo. Voglio scoprire se
è diventato forte abbastanza da sopportare il potere che ho portato dentro di
me al suo posto per dieci anni.»
«Io credo che la
spiegazione sia un’altra.»
«Cosa!?»
«Tu vuoi scoprire
quanto sia diventato forte, ma non per il motivo che mi hai detto. La verità è
che sei ansioso di sapere se lui è ancora il più forte. In questi sei anni ti
sei sottoposto ad allenamenti massacranti al fine di accrescere ulteriormente
il tuo potere, hai viaggiato negli stessi mondi in cui ha viaggiato lui, hai
conosciuto le stesse genti e studiato le stesse arti. Puoi cercare di
nasconderti dietro ad un ideale, ma il tuo è solo autocompiacimento.»
«Autocompiacimento, dici?».
L’incappucciato si
voltò all’improvviso e cercò di colpire, ma Dusk evitò l’assalto spostandosi
rapidamente all’indietro, e quando si fermò gli erano comparsi fra le mani due
piccoli scudi rotondi del diametro di quaranta o quarantacinque centimetri, uno
nero e l’altro bianco.
«Non l’ho chiesto
io di venire al mondo!»
«A nessuno è
concesso tale privilegio, Erik.» rispose calmo Dusk «La nascita e la morte sono
eventi che non si possono programmare.»
«Ma nascita e
morte sono frutto dell’opera degli dèi. Io sono nato per volere di un uomo!».
Erik attaccò di
nuovo, ma la difesa dell’avversario era fin troppo solida, e grazie
all’incredibile agilità di cui entrambi disponevano presto lo scontro si spostò
sempre più verso l’alto, sulle impalcature e sulle travi del futuro
grattacielo.
Dusk continuava a
restare sulla difensiva, ma per difendersi dagli attacchi furiosi di Erik ogni
tanto azionava un interruttore segreto nascosto nell’impugnatura, e sui lati
dei due scudi spuntavano quattro pericolose lame ricurve trasformandosi in
pericolosi dischi rotanti che all’occorrenza potevano essere lanciati contro il
nemico tramite una lunga catena che collegava l’impugnatura alla base rotonda,
risultando più simili a degli yo-yo che a dei dischi affilati.
Alla fine i due
raggiunsero il braccio di un’altissima gru, che sovrastando i grattacieli tutto
intorno permetteva di scorgere gran parte della città; incuranti del grandioso
spettacolo che si stagliava dinnanzi ai loro occhi i due continuavano a
combattere, ma giunti a quel punto la sfida sembrò concedere un momento di
tregua.
Restarono per un
po’ a fissarsi, poi Erik decise che era il momento di chiudere la questione.
«Fatti da parte!»
gridò scagliandosi in avanti.
Per nulla
spaventato Dusk dispose i suoi scudi in propria difesa a formare un otto, e non
appena le spade di Erik li toccarono si produsse un suono fortissimo e
insopportabile, come quello di una campana, e subito dopo l’aggressore si vide
scagliato all’indietro.
Mentre cercava
ancora di riaversi dalla sorpresa vide un fascio di luce che, correndo sul filo
degli scudi ed intersecandosi al centro, andava a formare il simbolo
dell’infinito.
INFINITE KREIS!
Un raggio di colore argenteo si sprigionò dal cerchio e si
scaricò su Erik, generando attorno a lui un pauroso movimento d’aria che
minacciò di scagliarlo di sotto.
Dopo l’iniziale
sbigottimento per aver ricevuto contro un attacco così potente rispose, e messa
le spade sinistra dinnanzi a sé le usò per fendere l’energia, quindi, con uno
scatto rabbioso, la disperse.
Malgrado sapesse
chi aveva davanti, Dusk rimase senza fiato.
«Cosa!?»
«Mi stai
sottovalutando, Dusk!».
Erik si scagliò
fulmineo verso di lui e gli assestò un calcio che lo spedì nel vuoto, solo per
poi seguirlo intenzionalmente a ruota.
Anche in caduta
libera continuarono a combattere, e quando tornarono a terra, senza farsi
neppure un graffio, erano entrambi visibilmente stanchi.
Le creature come
Dusk non avevano dei veri corpi, quindi su di essi non apparivano segni quali
lividi o ferite; ciò nonostante, ogni colpo subito toglieva loro dell’energia
vitale, e a giudicare dal fatto che a stento sembrava reggersi in piedi si
poteva desumere che era stato proprio Dusk ad avere la peggio.
All’inizio
barcollava a respirava a fatica, poi però cadde sulle ginocchia, e i suoi due
scudi scomparvero. Tuttavia Erik non sembrava intenzionato a sferrare il colpo
di grazia.
«Basta!» gridò
invece «Lasciatemi in pace! Non riuscirete ad uccidermi e non mi riporterete
fra di voi!»
«Stupido. Io non
voglio nessuna delle due cose.»
«Come!?»
«Tutto ciò che
voglio è impedirti di aprire il portale.»
«Aprire il
portale?! E per quale motivo?»
«Perché se lo
farai, metterai in pericolo l’intera esistenza.»
«Spiegati.»
«Come forse
saprai, quello che si estende oltre la
Terra è qualcosa di più di ciò che gli umani chiamano
universo. In realtà si tratta di un multiverso, costituito da innumerevoli
universi indipendenti. Fino ad ora, la civiltà più avanzata a noi nota ha
appurato che ne devono esistere almeno dodici, ma è molto probabile, anzi è
scontato, che ve ne siano molti, molti di più.
Tutti questi
universi, o queste dimensioni, a seconda di come vuoi chiamarli, sono separati
l’uno dall’altro da delle barriere, ma esistono anche dei portali che
permettono di attraversarle.
Nessuno è mai
stato in grado di capire dove e come si possano aprire. Si sa solo che
esistono, e la prova sta nel fatto che già in passato sono stati aperti. Ogni
universo è collegato ad altri due in un ciclo di proporzioni epocali, e aprendo
un portale è possibile attraversare le barriere per giungere in altre
dimensioni.»
«È ciò che intendo
fare.»
«Tu non capisci.
Se aprirai un portale chiunque potrà utilizzarlo, compreso l’Imperatore!»
«L’Imperatore!?».
Dusk si rimise in
piedi e fissò Erik con occhi severi.
«Io sono un fedele
alleato della nostra causa, ma non voglio che questa guerra si allarghi più del
necessario. Aprendo un portale farai esattamente il gioco dell’Imperatore, che
sarà così libero di muovere guerra non solo a questo, ma a molti altri
universi».
Erik esitò, guardò
in terra, poi fece scomparire le sue spade e diede le spalle al suo
interlocutore, che imperterrito continuò ad incalzarlo.
«Cosa vorresti
fare? Viaggiare di varco in varco attraverso migliaia di differenti dimensioni
fino a che non lo ritroverai? Non ti basterebbero cento vite.»
«Il filo che ci
lega non si è ancora sciolto, e mai si scioglierà.» rispose Erik portandosi una
mano al cuore «Unendo l’energia di questo filo a quella del portale, sono
convinto di poter tracciare un percorso fra le dimensioni che mi porterà diritto
da lui. E in ogni caso, è un rischio che sono disposto a correre».
Dusk non poteva
fare più niente per scongiurare l’inevitabile; si passò sospirando una mano
sulla fronte.
«A quanto pare ho
fallito. Ho cercato di importi la mia decisione, ma è chiaro che il livello di
disparità fra noi due è decisamente troppo ampio perché io sia in grado di
farlo. Non ti importunerò oltre».
Alle spalle del
giovane comparve a quel punto un portale oscuro, ma prima di entrarvi Dusk si
voltò nuovamente e puntò l’indice verso Erik.
«Ma ricorda queste
parole. Se tu aprirai quel portale, saranno altri a pagare per i tuoi errori. Molti
innocenti soffriranno, e molti di più moriranno solo per darti la possibilità
di saziare il tuo ego».
Detto questo, Dusk
se ne andò, ed Erik diede libero sfogo alla sua frustrazione con un
terrificante urlo di dolore.
Regis si svegliò di soprassalto, ritrovandosi disteso sul
divano di casa sua.
Ormai era già
giorno fatto, dovevano essere passate da poco le otto.
Doveva essere
crollato stanco morto appena arrivato a casa, perché aveva ancora addosso la
sua giacca bianca, che di solito si toglieva appena entrato per appenderla
sull’attaccapanni accanto alla porta d’ingresso.
Lo scontro con
quel robot era stato estenuante, e ogni qualvolta Regis dava fondo a tutte le
proprie energie poi quasi sempre ne usciva vinto da una stanchezza senza fine.
La spada e l’arco
erano al loro posto sulla parete, ma la sua nuova arma, la pistola di grosso
calibro, ce l’aveva ancora addosso, riposta nel suo fodero.
Regis però non
fece molto caso a tutto questo; a riempire i suoi pensieri c’era il sogno che
aveva appena fatto, l’ultimo dei tanti che da anni lo perseguitavano.
Immaginava sé
stesso nuovamente nel proprio mondo di origine, ma le sensazioni che provava
erano così strane e così inusuali che aveva l’impressione di essere non nei
propri panni ma in quelli di qualcun altro, qualcuno di diverso ma, allo stesso
tempo, molto uguale a lui.
Inoltre sentiva
parlare di cose mai udite prima, di un Imperatore, di un’organizzazione, e di
un fantomatico Progetto Big Bang. Un’altra cosa che sentiva pronunciare spesso
era il termine Portale, ed il sogno dal quale era appena uscito aveva acceso in
lui una nuova speranza di poter finalmente tornare indietro.
«Un portale. Che
sia davvero possibile aprire un portale per tornare indietro?».
Il suo pensare
venne disturbato da una serie di strani rumori che provenivano dall’esterno.
Cacciati
momentaneamente quei pensieri si alzò, si diede una bella stirata per
allontanare i dolori di una scomoda riposata quindi uscì, e trovò il suo
zelante allievo Dave intento ad esercitarsi nel combattimento con una spada di
legno e un palo come bersaglio.
Come in ogni cosa
che faceva Dave ci metteva tutto l’impegno possibile in quei colpi, ma stavolta
sembrava esserci qualcosa in più; fino a quel momento non aveva mai dato molta
importanza alla scherma, preferendo concentrarsi sull’uso degli incantesimi e
sull’apprendimento delle arti della stregoneria, ma questa volta l’allenamento
nell’uso della spada pareva molto più serrato del solito.
Vedendo arrivare
il proprio maestro, Dave si fermò, passandosi una mano sulla fronte imperlata
di sudore.
«Signor Maestro.
Vi siete svegliato.»
«Dave. Ti sei
alzato presto?»
«Non avevo molto
sonno.»
«Dopo la notte che
hai passato mi sarei aspettato di vederti dormire per tutto il giorno».
Dave posò a terra
la sua spada di legno e sembrò perdere in una volta sola tutta la sua
proverbiale spensieratezza; Regis gli disse di sedersi sulla panchina
appoggiata al muro e rientrò in casa, uscendone poco dopo con due tazze di
caffè.
«Non so tu Dave,
ma io ne ho un gran bisogno. Mi fanno ancora male tutte le ossa. Devo smetterla
di addormentarmi sul divano, o tra qualche anno sarò già gobbo.»
«Eravate così
stanco che siete crollato sul divano appena vi ci siete disteso; ho pensato che
fosse meglio lasciarla dormire, così ho raccolto la spada e l’arco che vi erano
caduti e li ho messi a posto.»
«Beh, ti
ringrazio».
Dave assunse
nuovamente quell’espressione truce e poggiò la tazza sulle ginocchia guardando
verso il basso.
«Per la verità
stanotte non ho proprio dormito. Ho continuato a rigirarmi sotto le coperte
pensando a quello che ci è successo».
Regis aveva capito
che qualcosa di terribile affliggeva l’animo del suo imprudente allievo, ma
cercò comunque di mantenere un tono amichevole per evitare di causargli
ulteriore sofferenza.
«È naturale che tu
sia così nervoso, dopo quello che è successo a te e a Elys. Quello che conta è
che ti sei dimostrato molto abile, anche più di quanto io stesso avessi mai
immaginato.»
«No Maestro, è
proprio questo il punto. Io sono solo un buono a niente.»
«Come sarebbe a
dire, un buono a niente? Hai notato il punto debole del robot in un momento
tanto concitato come poteva essere una battaglia, ci hai fatto sapere dove
eravate usando un codice che avrai visto sì e no cinque volte, hai protetto
Elys e hai saputo tenere testa al clone che vi ha aggrediti. Scusa se te lo
dico, ma non mi sembra roba da poco.»
«Non è ciò che ho
visto io. Durante la battaglia alla scuola mi sono nascosto dietro un muro a
tremare di paura, e se non fosse stato per la cecità di quel mostro sarei
finito sicuramente ucciso.»
«Se è solo questo
a preoccuparti, non c’è nulla per cui tu debba sentirti in colpa. Trovarsi
faccia a faccia con un nemico sconosciuto, oltretutto dotato di simili
capacità, spaventerebbe chiunque.»
«Ma Elys non ha
avuto paura. Si è lanciata contro di lui incurante delle possibili conseguenze,
ha avuto la forza per aprire un varco nella nostra prigione e ha combattuto
contro quel robot in miniatura quando io a stento riuscivo a non svenire. La
verità è che lei è molto più coraggiosa di quanto io non sia mai stato.»
«Quello di Elys
non è coraggio, è avventatezza, e come ha detto Aria, a volte simili bravate
possono costare la vita.»
«Allora ditemi
Maestro. Se vi foste trovato al mio posto, voi come avreste agito?».
Quella domanda
lasciò Regis completamente spiazzato.
Se da una parte la
coscienza gli avrebbe imposto di non tentare nulla di cui avrebbe potuto
pentirsi, dall’altra il suo carattere orgoglioso e sprezzante non avrebbe mai
accettato di essere tenuto prigioniero, e anzi lo avrebbe spinto a fare quanto
era in suo potere per liberarsi, incurante delle conseguenze.
Per questo motivo,
alla fine, scelse di non rispondere, ma Dave conosceva bene il proprio maestro,
abbastanza per sapere che si sarebbe comportato esattamente come Elys.
«Forse è vero che
si tratta di avventatezza» proseguì con lo sguardo sempre più cupo «Ma in vita
mia io non ho mai dimostrato un briciolo di coraggio. Mi sono sempre voluto
tenere lontano dagli scontri fisici. Credo sia anche per questo che ho scelto
di diventare uno stregone; a differenza del guerriero, che è costretto a
fissare negli occhi il nemico con cui si batte, lo stregone può attaccare da
una posizione di sicurezza, e questo fa di me solo un gran codardo».
Una lacrima sgorgò
dall’occhio di Dave e cadde nel caffè.
«La verità è che
non sono degno di essere vostro allievo!»
«Dave…».
Regis si sentiva
allo stesso tempo un illuso e uno stupido: erano due anni che faceva da maestro
a Dave, e solo ora si rendeva conto di quanto poco lo avesse conosciuto nel
tempo che i due avevano trascorso insieme viaggiando per tutto il continente.
Fin da subito era
rimasto molto colpito da lui; Dave era figlio di contadini, maggiore di cinque
fratelli.
Per esercitare la
magia vera e propria occorreva possedere una determinata predisposizione
spirituale propria solamente di pochi eletti; era come un gene che veniva
trasmesso di padre in figlio, per questo, nella maggior parte dei casi, l’arte
degli incantesimi la si imparava fin da piccoli dai propri genitori.
Dave invece era un
caso assolutamente unico; non solo nella sua famiglia, ma in tutto il suo
villaggio non c’era una sola persona in possesso delle condizioni necessarie a
ricevere gli insegnamenti di magia.
Un caso più unico
che raro, e lo stesso Dave era consapevole della propria unicità, per questo
chiese al famoso Regis di essere il suo maestro; malgrado questi fosse
comprensibilmente interessato alle potenzialità di quel ragazzo all’inizio non
voleva che questo potesse rallentare il suo viaggio, ma poi alla fine aveva
deciso di prenderlo con sé.
«Perché sei così
ansioso di apprendere la magia?» gli aveva domandato una notte davanti ad un
fuoco acceso in mezzo alla foresta
«Perché mi fa
questa domanda?»
«Il tuo villaggio
è in pace, i tuoi genitori sono brave persone, vuoi bene ai tuoi fratelli, e
tuo zio è morto senza eredi, lasciando in eredità alla tua famiglia una
discreta fattoria che vi permetterà di passare dal ceto contadino a quello
piccolo borghese, coi giusti investimenti. Certo, non è un’accademia magica, ma
è la garanzia di una vita relativamente agiata. Perché lasciare tutto per
intraprendere un viaggio di cui non conosci nemmeno le possibili conseguenze?»
«Perché voglio
mantenere una promessa.» era stata alla fine la sua risposta.
Regis sospirò, si
alzò in piedi e rimase immobile a fissare la distesa verdeggiante dominata
dalla collina su cui sorgeva la sua casa.
«Hai mai sentito
parlare di Koreya?»
«Koreya?»
«È una zona sacra
a poche miglia a sud di qui.»
«A sud? Quindi nel
territorio degli elfi.»
«Esattamente. Al
centro di una foresta senza sentieri sorgono le rovine di un antico palazzo
appartenuto ad un grande re elfico, al centro delle quali è sita una piccola
fontana da cui sgorga un’acqua molto speciale.»
«Un’acqua molto
speciale?»
«Chiunque ne beva
anche solo un sorso acquista una conoscenza tale da apprendere in pochi istanti
l’intero sapere magico di questo mondo».
Dave non riuscì a
credere alle sue orecchie.
«L’intero sapere
magico!? Chiunque potrebbe apprenderlo tutto in una volta?»
«Chiunque
riuscisse ad arrivare alla fontana, ma si tratta di un’impresa tutt’altro che
facile.»
«Per quale
motivo?»
«La foresta tutto
intorno al tempio è protetta da un antico incantesimo degli elfi, per effetto
del quale il potere magico di un individuo non è dato dalla portata delle sue
conoscenze, ma solamente dalla sua forza di volontà.»
«Dalla… forza di
volontà!?»
«Più si è convinti
dì sé stessi, più si è mossi dimostra di essere pronti a combattere a qualunque
costo, inclusa la propria vita, maggiore è il potere che se ne ricava. È una
sfida impegnativa, che va’ affrontata senza secondi fini, e che molti nel corso
del tempo hanno fallito. Coloro che vi si sono cimentati guidati unicamente
dalla propria sete di potere avevano la vista annebbiata dal proprio egoismo,
quelli che invece speravano di usare quel potere per nobili scopi non hanno
avuto la forza necessaria per combattere.»
«Tutto il sapere
magico.» disse Dave con espressione sognante
«Ti ho raccontato
questa storia non perché voglio che tu rischi la tua vita nel tentare di
raggiungere la fontana benedetta, ma per un altro motivo.»
«Quale altro
motivo?».
Regis lo fissò
molto severamente.
«Se davvero te lo
sei dimenticato, allora noi due non abbiamo più niente da dirci».
L’ultima frase si
abbatté su Dave come un fulmine a ciel sereno, lasciandolo immobile sulla
panchina con la bocca semiaperta e il cuore a pezzi. Senza dire altro, il suo
maestro salì sulla moto e partì a tutto gas lasciandolo solo a piangere.
Per tutto il resto della giornata Regis mantenne un
atteggiamento profondamente distaccato da Dave, e la sera, senza neppure
mangiare, se ne andò a dormire, questa volta nel suo letto.
Poco dopo
mezzanotte, però, un’ombra scura scivolò nella sua stanza e restò per un po’
immobile ai piedi del letto.
Ogni tanto
capitava che Regis parlasse nel sonno, pronunciando parole come Millennium War,
Atarus, Tadaki, Anzu.
Lo stava facendo
anche quella notte.
«Maestro.
Perdonami».
Dave si tolse
l’anello d’argento che portava all’anulare sinistro e lo mise sul comodino,
quindi lasciò nuovamente la stanza. Nel buio, e facendo il più totale silenzio,
il ragazzo uscì, girò attorno alla casa, slegò il suo cavallo e partì al
galoppo lungo il sentiero, poi, raggiunta la strada maestra, si diresse a sud,
guidato dalle luci di una notte senza nuvole.
Cavalcò per un
paio d’ore, e alla fine raggiunse la foresta sacra in fondo ad una piccola
valle che delimitava la zona proibita di Koreya, al centro della quale si
potevano distinguere le rovine del tempio.
Ormai non si
poteva più tornare indietro.
Scese da cavallo,
respirò profondamente per cercare di scacciare la paura quindi si addentrò fra
gli alberi.
Immediatamente
avvertì una strana sensazione, la stessa che si provava quando si attraversava
una barriera magica, e comprese che le parole del suo maestro erano veritiere.
Non sarebbe stato
facile, ma ci sarebbe riuscito; avrebbe raggiunto il tempio e avrebbe bevuto
alla fontana benedetta a qualunque costo; il maestro ne sarebbe rimasto
sicuramente molto colpito e Dave avrebbe dato prova una volta per tutte di non
essere un codardo.
Ma non aveva fatto
neanche cento metri che dal buio sbucarono due esseri oscuri simili a spettri
d’ombra, armati ognuno di una sfilza di piccoli coltelli da lancio.
Demoni elementari.
Creature senza volontà e senza spirito generate dall’energia mistica di uno
stregone, istruiti ad una sola cosa: affrontare e sconfiggere chiunque si trovi
nel loro raggio d’azione.
Dave si preparò ad
affrontarli.
«Fatevi sotto».
Quegli esseri
erano incredibilmente agili negli spostamenti, e ciò era dovuto con molta
probabilità al fatto che non avevano gambe, ma si limitavano a scivolare
letteralmente sul terreno, lanciando continuamente i loro micidiali coltelli.
Dave a malapena
riusciva a distinguerli, e ogni volta che cercava di contrattaccare l’arrivo di
un pugnale lo costringeva a passare nuovamente sulla difensiva schivando o
evocando una barriera, ma fin da subito si era accorto che i suoi incantesimi,
per quanto lanciati correttamente, erano molto più deboli del solito.
Poteva significare
una cosa sola, e lui lo sapeva, ma se da una parte si diceva che doveva
scacciare i tristi pensieri che lo tormentavano, dall’altro aveva ancora
davanti agli occhi lo sguardo severo del maestro.
All’improvviso uno
dei coltelli lo ferì di striscio ad una spalla, ed il demone che lo aveva
lanciato si lanciò contro la vittima per darle il colpo finale; Dave però fu
più svelto, saltò ed evitò l’assalto, mettendosi anche nella posizione ideale
per assestare un buon colpo.
«Non mi scappi!»
WÜHLEN
Dal terreno fuoriuscì una grossa radice che si avvinghiò
attorno allo spettro prima che questi potesse allontanarsi troppo, stringendo
sempre di più la presa fino a stritolarlo e a farlo scomparire.
Rimaneva però il
suo compagno, che prese a tempestare il ragazzo di pugnali in modo ancor più
serrato, e allora a Dave, considerata anche la sua ferita, non restò altra
scelta che fuggire.
Corse a perdifiato
in mezzo agli alberi tenendosi la spalla sanguinante, sempre inseguito dallo
spettro, fino a che non trovò sulla propria strada un’altissima parete di roccia,
troppo alta per poter utilizzare lo Springen, quindi l’unica soluzione
attuabile era l’incantesimo Gewandtheit, che come diceva
il nome conferiva una straordinaria agilità fisica, permettendo anche di
correre sulle pareti.
Non appena cominciò a correre lungo la parete pensò di essersi messo in
salvo, ma scoprì con sua grande sorpresa che anche il demone possedeva tale
facoltà, e così i due diedero vita ad un emozionante scontro in corsa, dove uno
scagliava incantesimi l’altro lame affilate.
Alla fine, grazie soprattutto alla sua prontezza di riflessi, Dave ebbe
nuovamente la meglio, ma quando raggiunse finalmente la cima della rupe era
così stanco che a fatica riusciva a rimanere sveglio.
Per lungo tempo rimase sdraiato sull’erba umida pensando che fosse tutta
una perdita di tempo, che non sarebbe riuscito nell’impresa e che avrebbe fatto
meglio a tornare indietro prima di incorrere in conseguenze peggiori.
Ma tornare indietro significava arrendersi, ammettere di essere un
incapace, e per nulla al mondo lui lo avrebbe fatto. Meglio morire lì che
mostrare ancora la faccia in pubblico, specie al suo maestro.
Alla fine si rimise in piedi e riprese a camminare. Dovette superare
altri ostacoli, affrontare altri demoni, ma più passava il tempo più la sua
magia si rafforzava, il che significava che stava acquistando maggiore fiducia
in sé stesso.
Era quasi l’alba quando arrivò finalmente ai ruderi dell’antico tempio
degli elfi, di cui non restava altro che il basamento rialzato raggiungibile da
una scalinata e qualche colonna diroccata.
Ma proprio al centro, bella e scintillante come appena scolpita, c’era
la fontana ad albero da cui zampillava un filo di acqua dai riverberi
azzurrognoli.
Ce l’aveva fatta. Era riuscito dove tutti gli altri avevano fallito, e
la cosa più stupefacente era che ora si sentiva molto più forte non solo come
mago, ma soprattutto come uomo.
Mosse un passo per avvicinarsi e bere finalmente quell’acqua miracolosa,
ma si bloccò immediatamente non appena un’ombra oscurò la luna.
Con un salto laterale evitò appena in tempo l’attacco dall’aria di un
misterioso individuo sbucato dal nulla, che non appena comprese di aver mancato
il colpo tornò coi piedi per terra frapponendosi fra Dave e la fontana.
Somigliava ad uno di quei principi del deserto meridionale, con quei
lunghi abiti bianchi a coprirlo interamente e il volto nascosto dal bavero
sollevato; portava anche un copricapo dalla lunga tendina, un mantello e una
maschera sugli occhi; come arma brandeggiava una minacciosa scimitarra ricurva.
«Chi sei? Perché sei entrato in questo luogo proibito?»
«Mi chiamo Dave.» rispose con sicurezza il giovane «E sono venuto fin
qui per bere a quella fontana.»
«Cosa ti fa pensare di esserne degno?»
«Il fatto che sia riuscito ad arrivare fin qui non conta?»
«Altri ci sono riusciti in passato, ma nessuno di loro ha mai avuto la
meglio sui guardiani venuti prima di me.»
«I guardiani!? Il mio maestro non mi aveva parlato di un guardiano.»
«Troppe persone che si sono abbeverate a questa fontana hanno finito con
l’abusare dei poteri che conferiva, per questo la mia tribù decise di porre un
guardiano in sua difesa, per evitare il ripetersi di nuove sciagure.»
«E questo a cosa dovrebbe servire?»
«Affrontare me non sarà come affrontare un esercito di demoni senza
emozioni. Per vincere questo scontro non ti basterà la fiducia in te stesso.
Avrai bisogno di qualcosa di molto più importante.»
«E di cosa si tratta?».
Il guardiano attaccò all’improvviso e menò un fendente che sbriciolò
alcune lastre di marmo, ma Dave ancora una volta usò la sua agilità per trarsi
d’impaccio.
«Se mi fai questa domanda, allora le tue speranze di vincere sono
estremamente esigue.»
«Non mi fai paura! Ti sconfiggerò e berrò l’acqua miracolosa! In questo modo
dimostrerò finalmente a tutti che io non sono un codardo!»
«È davvero solo questo a spingerti?».
Dave cercò di opporre resistenza, ma quel cavaliere bianco era un
avversario veramente fenomenale; possedeva tutto, agilità, forza fisica, ottimi
riflessi, ed una tecnica sopraffina sia con la spada che con la magia.
L’unica soluzione che poteva salvare Dave e dargli una qualche
possibilità di recupero era uno degli ultimi incantesimi che aveva appreso
durante il viaggio con Regis, Gefüllt Bonde, che permetteva di imprigionare il
nemico in una barriera di luce per poterlo poi attaccare dall’alto.
“A questo punto… non mi rimane altra scelta”.
Lottando con il dolore in tutto il corpo giunse le mani e si concentrò
per evocare l’incantesimo; per un mago di medio livello come lui Gefüllt Bonde
richiedeva almeno dieci secondi per poter essere lanciato, durante i quali
cercò di proteggersi circondandosi con uno scudo spirituale.
Ciò tuttavia si rivelò superfluo, perché il cavaliere bianco non fece
nulla per cercare di fermarlo.
Dopo dieci secondi esatti, dieci metri sopra la sua testa comparve un
simbolo magico a forma di stella a sei punte che brillava di verde, e appena i
due triangoli che la formavano si riunirono si sprigionò una grande colonna
luminosa che circondò completamente il cavaliere, imprigionandolo
inesorabilmente.
O meglio, questo era quello che pensava Dave.
Il cavaliere infatti riuscì a liberarsi semplicemente agitando un
braccio, mandando in frantumi sia la barriera che il triangolo.
Dave rimase sconvolto; mai nessuno si era liberato tanto facilmente dal Gefüllt
Bonde, ma visto che il suo avversario era un elfo forse non c’era da esserne
troppo impressionati. Era risaputo che gli elfi erano immuni a molti degli
incantesimi usati dagli umani, ed esisteva la possibilità che risultassero
immuni anche a quello.
O forse, molto più semplicemente, qualcosa non aveva funzionato, e così
Dave, per l’ennesima volta, fu preso dai dubbi.
«Perché? Perché non riesco a usare la mia magia come vorrei?»
«Di che ti sorprendi? La magia non aiuta gli insicuri che dubitano dei
loro cuori».
Il cavaliere alzò la scimitarra, e non appena questa si circondò di luce
la puntò contro Dave.
SPRÜHEND
STURM
Una miriade di fasci luminosi di incredibile potenza si
scagliarono su Dave, e dopo averlo riempito di ferite e contusioni e averlo
lanciato via come un filo d’erba lo lasciarono a terra sulla pancia senza più
forze in corpo.
«Devo ammettere,
ad ogni modo» disse il cavaliere «Che ti sei dimostrato un avversario valoroso.
Va’ via di qui, prima che cambi idea».
Detto questo si
girò e fece per andarsene.
Dave non riusciva
più a muovere un muscolo, il suo fisico era stato così provato da quell’attacco
che già il fatto che riuscisse a rimanere cosciente era da considerarsi un
miracolo.
“È… è già finita.
Non ho più briciolo di energia… Ogni incantesimo si è rivelato inefficace… e
non posso certo confrontarmi con lui usando la spada…”.
Gli venne da
piangere, e ripensando al suo maestro gli venne in mente l’anello che aveva
lasciato sul comodino prima di andarsene.
Con le sue poche
energie aprì gli occhi e si guardò la mano; alla base del’anulare sinistro si
vedeva il segno lasciato dall’anello, ma dopo tutto il tempo che lo aveva
tenuto addosso era inevitabile.
L’anello!? Il
tempo!?
Dave a quel punto
ricordò tutto; quell’anello non era solo un bell’oggetto, ma il ricordo di una
promessa. Una promessa che aveva giurato di mantenere.
Le immagini e i
ricordi di molti anni addietro tornarono a farsi largo nella sua mente dopo che
lui li aveva abbandonati, preso com’era dal cercare di imparare quanto più
poteva sulla magia, senza rendersi conto che in quei ricordi si trovava anche
il motivo per cui era giunto fino a lì.
Mandy.
Eccola,
finalmente!
Dopo tanto tempo
scorgeva di nuovo il suo volto, i suoi capelli biondi, i suoi grandi occhi
verdi, la sua espressione perennemente allegra. Come aveva fatto a
dimenticarla?
Mandy era l’unica
figlia del sindaco del suo villaggio natio.
La madre della bambina
era morta di parto, e il padre, che oltre ad essere sindaco era anche un
facoltoso proprietario terriero per il quale la famiglia di Dave, era sempre
troppo indaffarato per restare con lei, e così Dave e Mandy praticamente erano
cresciuti insieme, tenendo conto del fatto che per un certo periodo la madre di
Dave era stata anche la bambinaia della famiglia.
Divenuti un po’
più grandi Dave venne mandato pascolare le mucche, mentre Mandy fu affidata
alle cure di numerosi maestri privati. Suo padre era un nuovo ricco, aveva
fatto fortuna partendo quasi da zero, e conscio delle sofferenze che toccavano
ai poveri voleva che la sua adorata bambina vivesse in un letto di rose per
tutta la vita, fra alta società e belle dimore signorili.
Tuttavia, se c’era
una cosa che Mandy aveva preso dalla sua povera madre questa era sicuramente la
vitalità, e appena poteva mollava libri e pergamene per correre nei pascoli a
trovare Dave, con il quale spendeva lunghe giornate fra corse, bagni nei
torrenti e lunghe dormite.
Dave aveva
cominciato a mostrare i primi segni della predisposizione alla magia a sette
anni, ma aveva deciso di mantenere il segreto con tutti, compresi i suoi
genitori, perché aveva paura che essere il solo fra quasi mille persone ad
avere quei poteri avrebbe finito con l’emarginarlo.
Mandy però era
un’eccezione, e spesso Dave faceva sfoggio delle piccole abilità apprese come
autodidatta facendo levitare i sassi, spostando pezzi di legno o generando
delle fiammelle semplicemente schioccando le dita, tutte cose che
impressionavano e stupivano la sua graziosa spettatrice.
Non appena ebbero
raggiunto i dodici anni, però, si resero conto che fra di loro non c’era
semplicemente una buona amicizia, e speravano di poter un giorno coronare
quell’amore che avevano capito provare l’uno per l’altra.
Dave però era
cosciente del fatto che per lui sarebbe stato impossibile anche solo pensare di
poter sposare una ragazza come Mandy, e la conferma a questo pensiero venne il
giorno in cui gli fu chiesto di sostituire il conducente del calesse, steso da
un’influenza, per accompagnare il padrone ed un suo ospite in città.
Il padre di Mandy
sapeva dell’amicizia che c’era fra i due fin dall’infanzia, ma non immaginava
ciò che aveva cominciato a nascere al suo posto, ed era meglio così, altrimenti
non avrebbe mai permesso alla figlia di continuare a vedere l’esuberante
pastore.
Dave, origliando
le conversazioni dei due uomini, aveva scoperto così che l’ospite era in realtà
il direttore di un prestigioso collegio femminile della capitale, in cui Mandy
sarebbe stata inviata appena compiuti i quattordici anni; nel frattempo, suo
padre si sarebbe occupato di trovarle il migliore dei mariti.
Al giovane gli si
spezzò il cuore; aveva sentito parlare di quel collegio, e sapeva che una volta
usciti di lì si finiva dritti dritti ai salotti reali, un luogo dove lui, nelle
sue condizioni, non sarebbe mai riuscito ad arrivare.
Per molti giorni
fu dilaniato dal dolore, non riuscì né a mangiare né a dormire, ma alla fine
gli venne l’idea giusta; lui aveva qualcosa che poteva essere opportunamente
utilizzato, ovvero il potere che si portava dentro. Se fosse diventato un
grande e illustre stregone avrebbe potuto godere della fama e del prestigio
necessari per poter aspirare alla mano di Mandy.
La sera prima che
Mandy partisse per il collegio i due, sfruttando il codice delle candele che
negli anni avevano escogitato per poter comunicare senza destare sospetti, si
incontrarono nel loro luogo segreto, sulle rive del ruscello che scorreva a sud
della tenuta, ai piedi di una grande quercia isolata.
Lui le parlò
dell’idea che aveva avuto, e se da un lato Mandy era contenta del fatto che
questo avrebbe potuto rappresentare una speranza per la loro futura vita
insieme, dall’altro l’idea di abbandonarlo forse in modo definitivo le fece
piangere tutte le sue lacrime.
Ma Dave la
rassicurò, e le fece la solenne promessa che un giorno sarebbe diventato il più
grande dei maghi, sogno che fra l’altro coltivava già da anni, e che quando
fosse venuto quel giorno sarebbe tornato e le avrebbe chiesto di sposarlo.
Lei disse che lo
avrebbe aspettato, e per fare in modo che quella promessa non venisse mai
dimenticata Mandy donò a Dave l’anello regalatole per il suo compleanno.
In realtà c’era un
altro problema che affliggeva Dave, ma di cui non trovò il coraggio di parlare
a Mandy: le accademie di magia erano posti facoltosi, in cui non era facile
entrare; quelle pubbliche non avrebbero mai accettato un contadino fra i loro
allievi, mentre le scuole private, quelle gestite dall’esercito, avevano un
costo di ammissione e di mantenimento mensile che lui certamente non si poteva
permettere, senza contare il fatto che i suoi genitori ancora non sapevano
niente di tutta questa storia e dei poteri posseduti dal loro primogenito.
Cosa fare?
Ecco il vero motivo che lo aveva spinto fin lì, ecco per
quale ragione aveva sopportato tante fatiche.
Nel momento in cui
credeva che il suo sogno si dovesse infrangere prima ancora di averlo
cominciato Dave aveva trovato una mano gentile che si era protesa verso di lui,
offrendogli sostegno e aiuto.
Il suo era un
onore che qualsiasi aspirante stregone avrebbe voluto avere, poter diventare
l’apprendista e il compagno di viaggio del leggendario Regis.
Perché era stato
così cieco?
La vergogna e i
sensi di colpa gli avevano fatto dimenticare che ora non doveva solo difendere
la promessa fatta a Mandy, ma doveva anche dimostrare di essere degno della
benevolenza che la sorte aveva voluto mostrargli.
Se voleva sentirsi
davvero degno di mostrare nuovamente la faccia alla ragazza che amava, se
voleva dare prova di non essere più l’adolescente tutto sogni di un tempo, non
poteva permettere al dubbio e alla paura di dominarlo, limitando così il suo
potere.
Non era diventato
mago per sete di potere o per autocompiacimento, come per un attimo aveva
pensato, ma principalmente perché voleva usare la magia per fare del bene, e in
ultimo, ma non meno importante, per mantenere la sua promessa.
Il cavaliere era
quasi uscito dall’area del tempio, quando udì un rumore alle sue spalle e si
girò a guardare; Dave si era rialzato in piedi.
«Perché ti sei
rialzato? Non era mia intenzione ucciderti. Per quale intenzione ti ostini a
voler combattere?»
«Perché… è quello
che voglio.»
«Mi sembra di
averti dato prova dell’insicurezza che si annida nella tua anima.»
«Sì, hai ragione,
ma non succederà più. Non adesso che ho ricordato il motivo che mi ha condotto
qui!».
Dal suo corpo si
sprigionò all’improvviso una vampata di energia magica così forte da far
agitare le fronde degli alberi, e subito dopo sotto i suoi piedi comparve un
grande circolo magico.
Neppure il
cavaliere bianco riuscì a restare impassibile.
«Il suo potere è
aumentato vertiginosamente, eppure era in fin di vita fino a un secondo fa».
Dave sguainò la
spada e dopo pochi istanti il cavaliere si ritrovò circondato da un Gefüllt Bonde molto più efficace del precedente.
«Incredibile. Ha lanciato il Gefüllt Bonde in poco più di due secondi».
Il ragazzo spiccò quindi un salto altissimo, e non appena giunse sopra
al triangolo che generava la barriera la sua spada iniziò a risplendere.
SPRÜHEND
STURM
Il cavaliere si vide venire contro la sua stessa tecnica,
che per mezzo di un cerchio al centro del simbolo poteva oltrepassare la
barriera senza per questo intaccarla.
Riuscì a resistere
all’assalto difendendosi con la sua arma e mettendosi in ginocchio, ma quando
riaprì gli occhi aveva quella del suo avversario puntata in mezzo alla fronte.
“Ha imparato la tecnica
dopo averla vista solo in una volta. Sono fiero di te, ragazzo”.
Rimase immobile,
forse stupito, forse no. Dave aveva il respiro affannoso, molto probabilmente
quella performance gli era costata tutte le sue ultime forze.
«Hai vinto.» disse
alla fine il cavaliere «Hai dimostrato di possedere grande forza, ma più di
ogni altro hai dato prova della virtù che porti dentro. La fiducia e la
determinazione che hai mostrato hanno accresciuto enormemente il tuo potere, e
ti hanno aiutato a vincere. Bevi quell’acqua, e la Conoscenza sarà tua».
Dave restò
immobile e in silenzio, poi rinfoderò la spada.
«Non la voglio.»
«Non la vuoi?»
«Il maestro aveva
ragione. Il mio era solo autocompiacimento. La verità è che non volevo
accettare l’idea di essere scappato davanti al pericolo, e solo affrontando
questa prova avrei potuto dimostrare a me stesso di non essere più il sognatore
di un tempo. Ma a quanto pare mi sbagliavo. Anche se cercavo di mostrarmi forte
e sicuro, dentro di me ero ancora un debole.»
«E adesso? Ti
senti ancora un debole?»
«No, ma provo
comunque una grande vergogna, e capisco di essere stato uno stupido a
dimenticare il vero motivo che mi ha portato su questa strada. Ho promesso alla
sola ragazza che io abbia mai amato che un giorno sarei tornato da lei dopo
essere diventato il più grande di tutti i maghi, ma più conoscenza e più potere
acquisivo più il fine ultimo scompariva dalla mia memoria.»
«Ora hai i mezzi
per mantenere quella promessa. Per quale motivo li rifiuti?»
«Non ti nascondo
che l’idea di bere a quella fontana mi attirava, ma ora che ho ricordato la
verità mi rendo conto che ottenere il potere in questo modo non avrebbe alcun
senso, per non parlare del fatto che non avrei più il coraggio di guardare
negl’occhi il maestro. È stato lui ad insegnarmi che non esiste gioia più
grande del veder premiati i propri sforzi, e lo studio della magia ».
Il cavaliere
sembrò sorridere sotto il bavero.
«In tal caso, la
nostra sfida finisce qui».
Un bagliore
accecante investì Dave, e quando il ragazzo riaprì gli occhi il cavaliere era
sparito.
Regis si svegliò molto tardi la mattina dopo, e quando
uscì all’esterno non trovò Dave ad esercitarsi con la spada, ma con la magia,
scagliando vari attacchi contro bersagli di legno.
«Dave.»
«Buongiorno
maestro.» rispose lui col suo solito tono allegro «Dormito bene.»
«Abbastanza».
Rimase per un po’
a guardarlo, poi si avvicinò e gli restituì l’anello che aveva trovato sul
comodino.
«Credo che questo
sia tuo».
Dave lo guardò, e
malgrado cercasse di non far trasparire emozioni Regis riuscì a scorgere
qualcosa nei suoi occhi, qualcosa che lo colpì molto. Il ragazzo lo prese e se
lo infilò nuovamente alla mano sinistra ringraziando il maestro per averglielo
riportato.
«Lo sa maestro?
Aveva ragione. Mi sono comportato proprio come un bambino ieri. Avevo paura, ma
allo stesso tempo quella paura mi disgustava. Ora però ho capito che fino a
quando mi ricorderò del motivo per cui sono qui la paura non prenderà mai il
sopravvento».
Regis sembrò molto
colpito, poi gli mise una mano sulla spalla e sorrise.
«Allora, alla fine
l’hai trovato. Il tuo obiettivo.»
«Sì, maestro. E il
merito è unicamente vostro.»
«Non dirlo neanche
per scherzo. Sei stato tu che hai avuto il coraggio di affrontare le tue
paure.»
«Se vuole saperlo,
anche l’idea di valere così poco come spadaccino era una cosa che non mi
riusciva di accettare, ma se c’è qualcosa che l’avventura dell’altra sera mi ha
insegnato è che non si devono sfidare i propri limiti senza riflettere sulle
conseguenze. Per questo ho deciso che da ora in poi mi concentrerò unicamente
sulla magia, e lascerò perdere tutto il resto».
Dave guardò il
cielo.
«In fin dei conti,
ho fatto una promessa.»
«Sono fiero di
te.» disse Regis, dicendosi che forse doveva prendere esempio dal suo allievo e
cominciare a far tesoro dei propri errori prima di commetterli di nuovo.
Quella notte,
quando Dave già dormiva, Regis bruciò qualcosa nella piazzola davanti alla
casa; se il suo allievo, durante quella giornata, avesse guardato nell’armadio
della camera da letto, vi avrebbe trovato un mantello bianco.
Nota dell’Autore: Eccomi di nuovo! Scusate
la lunga assenza, ma fra esami universitari e altri problemi il tempo per
scrivere era veramente poco. Ringrazio Selly che ha
tenuto vivo in me il desiderio di scrivere, e prima di lasciarvi alla lettura
di questo nuovo capitolo credo sia necessaria una doverosa spiegazione.
Chiunque sia andato a
vedere la mia pagina personale qui su EFP avrà visto che questa storia fa parte
di una saga che ha avuto come punto di partenza Yu-Gi-Oh!
È facilmente
immaginabile che questa particolarità abbia tenuto lontani i lettori di fiction
fantasy che non nutrono interesse per questo anime/manga, e proprio per questo sottolineo che Millennium
War Rebirth con Yu-Gi-Oh! non c’entra proprio nulla. Proprio per questo è
stata inserita tra i Fantasy. Vi saranno, nel corso della storia, alcuni
avvenimenti legati alla storia originaria, ma saranno
evidenziati, e si tratterà comunque di spazi minimi.
Ora che ho fatto
questa premessa posso augurarvi buona lettura, e mi raccomando, recensite!
Grazie ^_^
Carlos Olivera
4
La sfavillante carrozza tirata da quattro cavalli bianchi come la neve percorreva lentamente il ponte di
pietra che conduceva all’accademia militare, scortata a vista da dieci
cavalieri armati fino ai denti.
Sulla carrozza, i
cui colori andavano dall’oro al bianco splendente, capeggiava l’insegna del
regno di Fiya, affiancata dalle insegne reali, segno che al suo interno doveva
esserci qualcuno della famiglia del sovrano.
Uno dei
passeggeri, presumibilmente un uomo, ad un certo punto
scostò leggermente la tendina rosa.
«Ci siamo quasi.»
disse «Ecco l’accademia».
L’ingresso del
corteo nel cortile esterno fu salutato dalle note delle trombe suonate
dall’alto delle mura, e immediatamente tutti gli occupanti della scuola, dai
professori ai lavavetri, si misero sull’attenti.
Gli studenti erano
divisi per classe, e ogni classe era accompagnata dal
proprio insegnante responsabile.
La carrozza si
fermò poco distante dall’ingresso principale, alla fine del viale sassoso; il
rettore Caster, accompagnato da Aria e dal professor
Vincent, scese le scale e si irrigidì a sua volta
mentre l’inserviente scendeva dal suo posto ed apriva la portiera.
Il primo a
scendere fu un uomo dell’età approssimativa di cinquant’anni con lunghi capelli
biondi e un curioso paio di baffi che indossava abiti sfarzosi, contornati da
un mantello bianco.
Dietro di lui
scese una donna bellissima, anche lei bionda, dai tratti somatici tipici delle
isole del sud, fra i quali la pelle scura e la bocca
piccola, oltre naturalmente ai curiosi abiti di seta. Aveva un’espressione
allegra che incuteva simpatia.
I tre soldati,
vedendoli, si portarono immediatamente la mano destra alla fronte.
«Vostre
Altezze Reali. L’accademia militare Ouraji vi dà il
benvenuto.»
«La ringrazio,
rettore.» rispose il re «La vostra accoglienza è sempre molto calorosa.»
«Dovere, maestà.»
«Grazie anche a nome di mia moglie la regina.»
«Piacere di
rivederla, rettore.» disse la donna
«Se vuole seguirmi, gli studenti sono pronti per l’ispezione.»
«Sì,
naturalmente. Andiamo, cara».
Prima di seguire
il consorte, la regina si girò nuovamente verso la carrozza.
«Tu non vieni?»
domandò a chi vi era dentro «Capisco. Vedrai che
arriverà presto. Ti manderò a chiamare appena lo incontreremo».
Il rettore
accompagnò dunque la famiglia reale a visionare gli studenti dell’accademia,
che rimanendo immobili come tante statue provavano una certa soggezione nel
trovarsi a tu per tu coi loro sovrani, con coloro che
in seguito avrebbero dovuto proteggere, combattendo in loro nome per la
grandezza di Fiya.
«Davvero
sorprendente.» disse ad un certo punto il re
«L’accademia militare di Ouraji è sempre la
migliore.»
«La ringrazio, maestà. I nostri metodi di addestramento sono
strutturati in modo da valorizzare gli aspetti positivi di ogni recluta.»
«Posso
immaginarlo. Per questo ho deciso di lasciare questa scuola in fondo alla lista
dei luoghi da visitare nella mia ispezione annuale. Come si suoldire, il meglio viene sempre per ultimo.»
«Sono pienamente
d’accordo.» disse la regina «Ma, sembra proprio che
manchi un tocco a tutta questa perfezione. Che fine ha fatto il nostro gradito
ospite?».
A quella domanda,
il rettore prese a sudare freddo.
«Lo abbiamo
avvisato del vostro arrivo, dovrebbe essere qui a momenti.» quindi si girò
verso Aria «Si può sapere dove diavolo è finito?»
«Lo
conosce. È il genere di persona che ama farsi desiderare».
Pochi minuti dopo,
finalmente tutti udirono quel suono inconfondibile che si faceva sempre più
vicino.
Regis non attese
neanche che il cancello si aprisse del tutto, ed
appena giunto nel cortile frenò bruscamente, producendo un gran fumo ed
eseguendo una manovra a U che neanche la più versatile
delle bighe sarebbe stata in grado di fare, e proprio a pochi metri dai sovrani.
«Scusate il
ritardo.» disse con incredibile tranquillità «Ho avuto un po’ da fare».
Né il re né la
regina sembrarono essere particolarmente risentiti per la mancanza di riverenza
di quel giovane; anzi, entrambi sorrisero leggermente.
La regina gli si
avvicinò.
«Quanto
tempo è passato dal nostro ultimo incontro. Felice di rivederti,
Regis.»
«Felice
di rivedere lei, regina Alicya. Radiosa come sempre.»
«No,
io sono vecchia ormai. Il fascino se n’è andato.»
«Non
si sminuisca in questo modo. È ancora molto bella.»
«Attento ragazzo.»
intervenne il re sorridendo «È sempre mia moglie.»
«Non si preoccupi, re Feryr. Il mio era
solo un complimento».
Il rettore restò
letteralmente senza parole nel vedere Regis parlare così amichevolmente con il
re e la regina di Fiya, e lo stesso valeva per Aria, che pur conoscendo Regis
da quasi sei anni non aveva mai saputo di questa sua amicizia con la famiglia
reale.
«Se posso
permettermi, Regis.» disse il sovrano «Qui c’è qualcuno che desidera ardentemente
incontrarti.»
«Davvero?
Di chi si tratta?»
«Lo scoprirai
molto presto».
Diversamente dal
programma concordato in precedenza con la direzione della scuola, il re e la
regina posticiparono l’inizio degli allenamenti dimostrativi e ritornarono verso
la carrozza, ancora ferma davanti all’ingresso.
La regina bussò
alla portiera.
«Tesoro.
È arrivato».
Seguì un lungo
silenzio, poi, lentamente, la porta si aprì, e una ragazzina di forse dodici
anni scese tremando dal veicolo.
Aveva i capelli insolitamente
castani, tagliati piuttosto corti e ingentiliti con due nastri rossi, e gli
occhi azzurri, uguali a quelli della regina. Indossava un abito sfavillante,
quasi eccentrico, di un colore rosa confetto; ai piedi portava un paio di
sandali bianchi, ma mentre quello destro era un sandalo normalissimo, quello
sinistro invece disponeva di un lungo nastro che
saliva lungo la gamba fin quasi al ginocchio.
Era davvero molto
bella, e anche incredibilmente timida. Malgrado sorridesse, teneva lo sguardo basso,
e se solo provava ad alzarlo per incrociare quello di Regis lo riabbassava
subito, arrossendo.
«Regis.» disse re Feryr «Immagino ti ricorderai di mia figlia Sefy.»
«Naturalmente.
Principessa».
Lei dapprima non
rispose, abbassò di nuovo gli occhi e prese a strofinarsi le mani.
«È… bello
rivederti.»
«Anche per me.»
rispose tranquillamente Regis
«Io…
non ho mai dimenticato quello che hai fatto per me. E allora… ecco…»
«Mia figlia vuole
ringraziarti per averla salvata sette anni fa.» intervenne irruentemente la regina
«Ma… madre!» disse
la ragazzina diventando tutta rossa
«Ah, i ragazzi di
oggi.» sospirò il re «Così timidi e schivi. Mi domando
da chi tu abbia preso, Sefy.»
«Padre».
Feryr scoppiò in una fragorosa risata.
«Dai,
non ci pensare! Ora però continuiamo con la nostra ispezione. Questi ragazzi
saranno stanchi di restarsene immobili sotto il sole».
A quel punto
poterono finalmente avere inizio le dimostrazioni pratiche degli studenti nel
cortile di fronte alla palestra numero due, sul quale si trovavano numerosi
ring circolari in pietra di medie dimensioni in cui prendevano
posto due contendenti divisi per disciplina e capacità di combattimento.
I sovrani
assistevano da un balconcino rialzato, seduti su comode poltrone, sempre
affiancati dal rettore e dalla figlia.
Anche Regis era
assieme a loro, ma come sempre sembrava completamente alienato da ciò che
succedeva davanti a lui, e rimaneva immobile a braccia conserte e occhi chiusi.
Sefy di tanto in tanto si girava verso di lui e cercava di
parlargli, ma se da una parte le parole le rimanevano bloccate in gola
dall’altra Regis sembrava non curarsi minimamente
della principessa, come di tutto quello che gli stava attorno.
Gli insegnanti
tenevano gli sguardi fissi sui loro allievi, pronti a segnalare la minima
infrazione.
Fra questi c’era
il professor Erdos, un rosso dalla faccia poco
amichevole noto per i suoi metodi incisivi e sbrigativi, un vero maestro
dell’uso della lancia.
Quando vide uno
dei suoi ragazzi perdere malamente con il rappresentante di un’altra classe,
oltretutto di un anno più giovane, diede vita ad una
delle sue proverbiali sfuriate, che fece girare mezza scuola nella sua
direzione.
«Erdos, ora basta!» disse Vincent mentre il collega
schiaffeggiava il ragazzo «Ha imparato la lezione.»
«Non venirmi a
dire come devo addestrare i miei allievi.»
«Lo sai bene cosa
pensiamo dei tuoi metodi di insegnamento. Le punizioni
fisiche sono efficaci, ma ci vuole moderazione.»
«Puah. È per i professori come te che il livello generale di
rendimento di questa scuola si è abbassato a tal punto.»
«Finitela!» intervenne Aria «Volete dare spettacolo anche
davanti al re?».
I due insegnanti
non recriminarono oltre e tornarono ognuno al proprio
lavoro dopo essersi lanciati un’ultima occhiataccia.
Placati gli animi,
Aria si allontanò con una scusa assieme a Regis.
«Avrei un grosso
favore da chiederti.» gli disse quando si furono appartati
«Che genere di
favore?»
«Come
sai la famiglia reale si tratterrà qui stanotte. In questo momento siamo in
penuria di guardie, e con tutto quello che è successo
negli ultimi tempi non mi sentieri tranquilla sapendo la scuola mal difesa.»
«Insomma, vuoi che
resti qui a fargli da guardia del corpo.»
«Lo so, va’ contro i tuoi principi. Ti chiedo solo di fare uno
strappo alla regola. Solo per questa notte».
Regis temporeggiò,
guardò verso il balconcino.
«D’accordo.
Resterò anch’io.»
«Ti
ringrazio. Mi salvi davvero la vita.»
«Non
cominciare con le moine. Mi fai sentire più ingenuo di quanto non sia.»
«Come
vuoi. Ah, a proposito. Parteciperai al torneo, vero?»
«Il
torneo? Non si è svolto già da qualche settimana?»
«È
stato posticipato. La notizia è circolata, ma chiuso nel tuo eremo probabilmente
non l’hai recepita. Incomincerà lunedì, e le
iscrizioni sono aperte».
Regis per la
seconda volta rimase in silenzio.
«Non
lo so. Deciderò.»
«Lo considero un
no».
La sera si tenne un grande banchetto per onorare come si
conveniva la famiglia reale. Vi presero parte il rettore, i responsabili di istituto, i comandanti di guarnigione e tutti i
professori; c’erano anche i migliori studenti dei rispettivi anni e indirizzi
di studio, in rappresentanza della futura elite di guerrieri.
Alla cena seguì
una cordiale conversazione tra il re e il rettore nella sala da tè del
pianterreno, quando improvvisamente, verso le undici, qualcosa giunse a turbare
la serenità di quell’incontro: la principessa era scomparsa dalla sua camera da letto!
L’allarme richiamò
alla mente degli studenti i terribili fatti di un mese prima, i cui segni erano
ancora ben visibili un po’ dappertutto.
Guardie,
sentinelle e anche gli studenti si mobilitarono per cercare la principessa.
La trovò Elys,
seduta su una delle impalcature che erano state allestite tutto attorno alla
zona di mura esterne distrutta dal mostro, con lo sguardo smarrito e le gambe
che penzolavano oltre il bordo.
«Principessa».
Lei si girò.
«Chi sei?»
«Mi
chiamo Elys. Sono una studentessa.»
«Ah, capisco».
Elys si sedette
accanto a lei.
«Ha
combinato un bel trambusto. La stanno cercando tutti.»
«Mi
dispiace avervi fatto preoccupare. È che avevo voglia di restare un po’ da
sola.»
«Ah…
capisco. Se vuole me ne vado.»
«No,
resta. A dire la verità, sono così abituata ad avere
gente intorno che se solo provo a rimanere sola mi sembra di morire.»
«È
normale. È sempre difficile cercare di distaccarsi da regole alle quali si è
abituati da tutta una vita. Non deve sentirsi a disagio per questo.»
«Ti
prego, non darmi del Lei. In fin dei conti, sei anche più grande
di me».
Elys guardò
incredula la principessa, poi sorrise; con due genitori come i suoi, cosa ci si
poteva aspettare?
«Come
desideri. Adesso però, col tuo permesso, vorrei fartela io una domanda.»
«Prego.»
«Ho
notato uno strano atteggiamento nei riguardi di Regis. Per caso vi siete già
conosciuti?».
Sefy guardò verso il lago con espressione malinconica.
«Ti
chiedo scusa. Questi non sono certo affari miei.»
«No,
tranquilla. Non c’è problema».
La principessa
prese dunque a raccontare una storia risalente ormai a quattro anni prima.
Regis, a quel
tempo giunto da poco agli onori della cronaca per le sue grandi doti, era stato
convocato a palazzo per ricevere l’ennesima proposta di reclutamento
nell’esercito reale, che lui aveva puntualmente respinto.
Mentre cercava di
uscire, però, si era perso negli sterminati giardini del palazzo, e sotto ad un gazebo di pietra immerso in un mare di rose aveva
visto la principessa, che allora aveva da poco compiuto otto anni, intenta a
giocare con le sue bambole preferite.
Qualcosa lo colpì,
lasciandolo senza fiato; forse quella bambina dall’aria così innocente gli
ricordava qualcosa, o qualcuno, qualcuno che aveva lasciato e che sperava di
poter un giorno raggiungere.
E fu un bene che
rimanesse a guardarla, perché Regis si accorse subito di quel giardiniere
dall’aria sospetta che, facendo finta di rastrellare le foglie cadute, si
avvicinava sempre di più alla principessa, senza accorgersi che, nascosto da
una siepe, qualcuno lo stava tenendo d’occhio.
Non appena lo vide
estrarre un coltello, come una saetta fu su di lui e lo stese con un calcio
diretto al collo che lo lasciò a terra svenuto prima ancora che potesse
rendersi conto di cosa fosse successo.
Per la piccola
principessa fu quello che le ragazze più grandi chiamavano
colpo di fulmine. Quegli occhi scuri, quei capelli neri lunghi che ondeggiavano
al vento, e quell’espressione fiera velata da una certa tristezza.
«Dopo quella volta
non l’ho più visto.» disse Sefy terminato il racconto
«In seguito si scoprì che il mio aggressore faceva
parte del nascente movimento terroristico Falgas. Il
loro intento era quello di rapirmi per costringere mio
padre a negoziare un riconoscimento politico, ma grazie a lui il loro piano fu
sventato. Da quel giorno però i controlli attorno a me si fecero molto più
opprimenti. Mi vietarono persino di lasciare la città, così non fui più in
grado di rivederlo.»
«Ora capisco il
motivo per cui lo guardi in quel modo.»
«Sì.
Ma lui non sembra accorgersene. Io lo so che il mio è
destinato ad essere un sogno irrealizzabile, ma vorrei
almeno che conoscesse ciò che ho provato, e che provo tuttora per lui. Anche
se, ragionandoci sopra, mi rendo conto che anche così non cambierebbe molto.»
«Perché dici
questo?»
«Lui
è rimasto esattamente come lo ricordavo. È freddo, distaccato, sembra che non
veda nulla del mondo che lo circonda».
Stavolta fu Elys a
restare in silenzio, poi però cercò di far tornare un filo di speranza
nell’animo della sua principessa.
«Io
non passo con lui il tempo che passa quel novellino di Dave, ma conosco Regis
abbastanza bene da dirti che lui è fatto così. Anche se a prima vista può
apparire un vecchio leone solitario, ti assicuro che tiene molto a chi gli sta
intorno. Non è particolarmente bravo a dimostrarlo, ma immagino che questo faccia parte del suo carattere.»
«Tu… lo pensi sul
serio?»
«Fidati, è come
dico io.»
«Grazie».
Sefy avrebbe voluto dire che era sicura
di riuscire, un giorno, a perforare quel cuore apparentemente di ghiaccio, ma
non ebbe il tempo di farlo, perché subito dopo aver sentito un lieve pizzicore
al collo cadde addormentata in meno di un istante.
«Maestà!».
Rivoltatala, Elys
trovò un piccolo ago metallico conficcato nella pelle appena sotto l’orecchio.
“Aculei
soporiferi”.
Non appena vide
un’ombra nera comparire sopra una delle torri, la giovane guerriera sguainò la
sua grande spada ed utilizzò la lama come uno scudo
per respingere altri due aculei, lanciati con l’ausilio di una cerbottana,
quindi, presa sulle spalle la principessa, corse per un po’ lungo l’impalcatura
prima di buttarsi giù dalle mura nei pressi della cappella.
L’atterraggio non
fu dei più morbidi, e appena giunte a terra le due ragazze si ritrovarono
circondate da una dozzina di uomini vestiti di nero che indossavano copricapi dei deserti orientali e lunghi veli a coprirgli
la parte inferiore del volto.
Alcuni impugnavano
dei pugnali, altri delle scimitarre, un paio invece avevano
la cerbottana.
«State lontani
dalla principessa!» gridò Elys respingendo tutti i loro assalti.
Purtroppo, per
quanto fosse abile, erano pur sempre dodici contro uno, e
alla fine la ragazza fu centrata a sua volta da un proiettile soporifero e si
accasciò dopo aver inutilmente tentato di combattere l’effetto del liquido.
Quando furono
certi che si fosse addormentata, uno degli assaltatori
si caricò la principessa in spalla ed assieme ai suoi compagni entrò nella
cappella.
Pochi minuti dopo,
una guardia in pattuglia ritrovò Elys; Yuro, grazie
al suo sapere, scoprì subito l’identità della sostanza di cui erano imbevuti
gli aghi, e poiché nel suo laboratorio aveva tutto quello che serviva impiegò solo pochi minuti a preparare un antidoto
che facilitasse il risveglio, che altrimenti sarebbe avvenuto solo dopo
ventiquattro ore.
Elys si risvegliò
su una panchina di pietra del parco, e la prima cosa che vide furono i volti di
Aria e Regis; c’erano anche il rettore, il professor Vincent e lo stesso Yuro.
«Elys!» disse Aria
«Cosa è successo?»
«La
principessa. È stata rapita!»
«Rapita!?».
Elys spiegò
dettagliatamente quello che era successo, descrivendo i suoi assalitori in ogni
particolare, da come vestivano al modo di combattere.
Pochi istanti dopo
un soldato si avvicinò al rettore con un pezzo di tessuto nero.
«Rettore.» disse
«Abbiamo trovato questo nella cappella.»
«Viene dai vestiti
che indossavano quei sicari!» esclamò Elys
«Ne sei sicura?»
domandò Aria
«Sicurissima.»
«Era incastrato
sotto l’altare.»
«Che hai detto!?» gridò Vincent come se lo avesse colpito un fulmine
«Sotto l’altare!?»
«Sì, signore.»
«Per gli dèi.»
disse Yuro «Hanno usato l’uscita segreta che passa
sotto il lago.»
«Ma come è possibile?» chiese Aria «Sono in pochissimi a sapere
della sua esistenza».
Il giorno dopo fu indetta una
tavola rotonda nella sala professori a cui presero parte il rettore, il capo
delle guardie e l’intero personale docente. C’erano anche Elys, in qualità di testimone, e ovviamente Regis. Naturalmente
era presente anche il re, molto meno sorridente del giorno prima. La regina
invece era ancora sotto shock e non aveva presenziato
perché troppo provata.
Pochi minuti dopo
la scoperta del rapimento, su una torre del muro esterno a poca distanza dal
luogo dove era cominciata l’aggressione era stata
ritrovata una lettera minatoria in cui si chiedevano cinquanta miliardi di
denari per la liberazione della principessa, da consegnarsi due giorni dopo a
mezzanotte su una piccola spiaggia nella zona sud del lago.
Una simile
richiesta, unita alla descrizione degli assalitori fornita da Elys, fece
comprendere a tutti che i responsabili di quel rapimento potevano essere
solamente.
«I Falgas!» esclamò la professoressa Shane «Questa è
sicuramente opera loro.»
«Comunque è una
bella sparata.» commentò Regis, che al contrario di tutti gli altri presenti
sembrava straordinariamente calmo «Cinquanta miliardi di denari.»
«Mi sembra
incredibile.» disse Aria «Erano almeno tre anni che non si sentiva parlare dei Falgas.»
«Non è ovvio?»
rispose Vincent «Lo hanno fatto di proposito. Dopo il
loro fallito tentativo di rapire la principessa quattro anni fa, l’attenzione
nazionale su di loro si era fatta molto pesante. Per questo si sono nascosti,
rimanendo nell’ombra. Tutto quello che stavano aspettando
era una seconda occasione. E alla fine l’hanno trovata.»
«C’è però un
problema ben più grave a cui pensare.» disse Yuro «Per andarsene da qui in tutta sicurezza sono fuggiti
passando per il corridoio segreto, la cui esistenza è nota ad una ristretta
cerchia di persone, tutte facenti parte del personale di questa scuola.»
«Cosa stai cercando di dire!?» intervenne il professor Erdos «Che fra di noi ci potrebbe essere un traditore!?»
«Non saltiamo alle
conclusioni.» disse Aria «Il professor Vincent
sostiene che siano rimasti in attesa dell’occasione propizia per rapire la
principessa. Potrebbero aver inviato delle spie a fare
dei sopralluoghi nella scuola.»
«Mi riesce
difficile crederlo.» replicò il rettore «Da che guido questa
accademia il corridoio segreto non è mai stato utilizzato, e non mi risulta che
se ne sia parlato in qualche occasione ufficiale.»
«Per non parlare
del meccanismo che rivela l’ingresso del corridoio.» disse Yuro
«Oltre ad essere ben nascosto è anche molto difficile da azionare.
Neanche la più astuta delle spie si accorgerebbe della sua esistenza.»
«Discuteremo in
seguito di questo argomento.» disse Aria «Ora c’è un
problema ben più impellente. Il riscatto richiesto per la liberazione della
principessa è a dir poco stratosferico.»
«Cinquanta
miliardi di denari.» disse il re «Nemmeno io possiedo una cifra simile.»
«Bisognerebbe
saccheggiare un’intera regione per mettere insieme ricchezze sufficienti a
raggiungere questa somma.» commentò Vincent «E di certo non abbiamo il tempo di
attuare un piano del genere.»
«Purtroppo, mio
signore» disse Erdos «C’è un solo posto
dove potremmo trovare cinquanta miliardi di denari.»
«E di che posto si
tratta?».
Non fu necessario
che qualcuno rispondesse; la risposta, dopo pochi secondi, divenne palese, e
gettò una ventata gelida sulla riunione.
«Le casse del
pubblico erario.» disse Yuro «L’oro dello stato.»
«A questo punto,
non vedo altra soluzione.» disse Shane «Non abbiamo la minima idea di dove
l’abbiano portata, e il tempo a nostra disposizione è troppo esiguo per tentare una qualsiasi operazione. Se volete il mio
parere maestà, penso che sarebbe meglio sottostare alle richieste dei rapitori.»
«Sì, credo
anch’io.» disse il rettore «Mi dispiace dirlo, ma è l’unica soluzione per
portare in salvo la principessa.»
«Aspettate.»
intervenne Regis «Così fareste esattamente il loro gioco.»
«Sei un attento
osservatore dell’ovvio.» ribatté nervosamente Sagis
«Non sto parlando
del pagamento del riscatto, ma del modo in cui intendete pagare.»
«Che intendi
dire?» chiese il re
«Sappiamo
tutti che il Falgas preme fin dalla sua nascita per
l’abolizione della monarchia in favore di uno stato repubblicano. Per questo
hanno rapito la principessa. Per metterci con le spalle al
muro».
Aria in quel
momento ebbe uno strano sussulto, come se Regis avesse detto qualcosa fuori dal
normale.
«Ci
tengono in pugno. Ci hanno chiuso ogni possibile uscita.»
«Parla chiaro, che
significa?» domandò Shane
«Se non pagate uccideranno la principessa, e così facendo vi
inimicherete il popolo per non essere stati in grado di proteggerla. Se invece
pagate lo farete con denaro pubblico, e i Falgas
sfrutteranno questo espediente per soffiare sul fuoco della rivolta».
A quel punto, la
terribile situazione fu chiara.
«Comunque vadano
le cose, otterranno ciò che vogliono.»
«Che siano
maledetti!» tuonò Sagis battendo il pugno.
In quella, qualcuno
bussò alla porta della sala; era un soldato, il capitano del manipolo di uomini
inviato in ricognizione attorno al lago in cerca di indizi
per poter organizzare una eventuale azione di soccorso; con sé aveva una scarpa
rossa facilmente identificabile.
«L’abbiamo trovata
allo sbocco del corridoio segreto.»
«Avete individuato
le loro tracce?»
«No
signore, mi spiace. Erano guerrieri ombra, e probabilmente sono scappati usando
corde e i rami degl’alberi.»
«Capisco».
Il re prese la
scarpa e se la rigirò a lungo tra le mani, quindi si alzò in piedi con
espressione incredibilmente seria e rassegnata.
«Non mi interessa cosa penserà il popolo. Pago il riscatto.
Rivoglio mia figlia.»
«Ma… vostra
maestà…» cercò di dire Aria «Se Regis dovesse avere ragione…»
«Non
c’è tempo per le discussioni. A meno che non me la
riportiate voi, io pagherò. Lucio!»
«Sì, mio re?»
disse l’attendente del sovrano, rimasto per tutto il tempo immobile in un angolo
«Invia
un messaggero a Qerin con l’ordine di prelevare cinquanta miliardi di denari
dalle casse del pubblico erario. Voglio quel denaro qui entro domani sera.»
Il resto della giornata trascorse nel dubbio e
nell’incertezza, poi venne la notte.
Il denaro del
riscatto sarebbe arrivato all’accademia a metà del giorno successivo, in tempo
per soddisfare i tempi del pagamento, sotto strettissima scorta.
Era dai tempi
della guerra coi Noriani che una simile quantità di ricchezze non si spostava
da un luogo all’altro. La notizia del rapimento era stata tenuta segreta, e in
tutta onestà il re sperava di poter mascherare almeno in parte il grosso
ammanco dell’erario imponendo per quell’anno un tasso di interesse maggiore
sulle proprietà dei nobili, giustificando tale misura col pretesto della
necessità di un migliore riarmo per le truppe dislocate al confine occidentale,
anche se le loro maestà si erano dichiarate pronte a subire le conseguenze
della loro scelta, nell’eventualità che la verità fosse venuta a galla.
D’un tratto, nel
buio di una nottata senza luna, un’ombra nera attraversò il cortile, diretta
verso la cappella.
L’aveva raggiunta,
stava quasi per entrare, quando dall’oscurità oltre la porta comparve la punta
di una spada.
«Va’ da qualche
parte, professor Erdos?».
Il professore,
spaventato, camminò all’indietro, trovandosi a tu per tu con Regis e con la sua
arma leggendaria, una spada tanto perfetta e affilata da poter tagliare persino
i fulmini.
Un secondo dopo si
accesero decine di torce, e Erdos si vide circondato dall’intera guarnigione.
«Che… che
significa questo?» balbettò il professore «Io stavo solamente facendo un giro
di ispezione.»
«Sono sicuro che
può trovare una scusa migliore, professor Erdos.» rispose Regis avvicinando
ancor di più la punta della spada «O forse dovrei chiamarti con il tuo vero
nome. Yu-Lao».
Al nome You-Lan
Erdos si fece pallido come la morte, ma subito dopo nei suoi occhi si accese
una scintilla oscura, e la sua espressione mutò radicalmente, facendosi più
sadica e minacciosa di quanto non fosse prima.
«Avrai anche
cambiato faccia, ma i tuoi occhi sono inconfondibili.»
«Non posso
crederci.» disse Aria «Il professor Erdos è davvero…»
«Yu-Lao.» rispose
Regis «Soprannominato la Morte Rossa.
Uno dei Falgas più brutali e sanguinari che abbiano mai calpestato il suolo di
questo regno. È stato richiamato persino dai suoi superiori.»
«Mi sorprendi,
caro Regis. Non ti credevo tipo da rimembrare il passato.»
«Posso sapere come
te ne sei andato da quella cella?»
«Quella in cui tu
mi avevi rinchiuso? Beh sai… a differenza di te, io ho molti amici. Amici
importanti.»
«Capisco. Beh, se
speri in un secondo intervento della buona sorte, temo che resterai deluso.»
«Sei davvero
convinto di avermi messo nel sacco?»
«Quando questa
storia sarà finita, mi assicurerò che tu finisca dritto al patibolo. Hai quindici
omicidi sulla coscienza.»
«No, sono sedici.»
disse Yu-Lao con un sorriso malefico «Dimentichi la cameriera».
Regis lo guardò
con gli occhi carichi di odio.
«Lo sai, ho una
gran voglia di ucciderti qui e adesso.»
«Ma non puoi
farlo, e tu lo sai.»
«Non posso, hai
ragione. Prima devo costringerti a dirmi dove hai fatto portare la
principessa.»
«Perché tu pensi
che te lo dirò?»
«Mi conosci. Posso
essere molto persuasivo, se mi si provoca.»
«Oh, che paura. Ma
dimmi… come si può far parlare… chi non c’è?».
Un’improvvisa
colonna di fumo e luce si sprigionò attorno a Yu-Lao, e quando finalmente tornò
la calma lui era in piedi sopra la torre più vicina con addosso una divisa
simile a quella degli assalitori della sera prima.
«Non fatelo
scappare!» gridò il rettore ai soldati «E ricordatevi che dobbiamo prenderlo
vivo!».
I soldati puntarono
i loro archi e si prepararono a scoccare colpi intimidatori, ma fu lo stesso
Yu-Lao a fermarli.
«Fossi in voi, io
non lo farei.»
«E perché?» chiese
Aria
«I miei compagni
si aspettano di vedermi tornare al campo prima dell’alba. Se ciò non dovesse
accadere, hanno l’ordine di uccidere la ragazzina all’istante.»
«Cosa!?»
«Bastardo.»
mugugnò Regis.
Forse stava solo
bluffando, ma se invece diceva la verità, tentare di catturarlo avrebbe
significato morte certa per la principessa. Ragion per cui il re ordinò di
abbassare le armi, e i soldati immediatamente ubbidirono.
A quel punto
Yu-Lao azionò un congegno segreto della sua uniforme, ed un paio di grandi ali
di tessuto leggero comparvero dietro la sua schiena.
«Un consiglio.
Pagate il riscatto se volete che la vostra principessina torni indietro viva. A
presto!».
Trasportato dalla
corrente, e grazie anche all’ausilio di un piccolo cristallo che teneva stretto
nel pugno, si alzò in volo come un uccello.
Prima che potesse
allontanarsi troppo, Regis prese uno strano aggeggio che lampeggiava di rosso
grande meno di un mignolo e lo lanciò contro di lui; questi si appiccicò alla
sua schiena senza che lui neppure se ne accorgesse, ma non servì ad impedire a
Yu-Lao di scomparire inghiottito dal buio.
«Dannazione!»
gridò il rettore «Ora siamo al punto di partenza.»
«Io non credo.»
rispose Regis mettendo mano ad un altro apparecchio di dubbia origine.
Aveva uno schermo
in vetro, sul quale era riflessa, come in uno specchio, la mappa della zona
circostante, tracciata da una serie di linee di colore verde brillante.
«Che cos’è?»
domandò Aria
«Un palmare.»
rispose Regis come se fosse la cosa più naturale del mondo
«Un palmare?»
«Mi sono preso la
libertà di rimuovere il computer centrale del robot che abbiamo sconfitto
l’altra volta, più alcune parti che avrebbero potuto servirmi, e le ho usate per
costruire un computer.»
«Un… computer!?»
chiese Aria sempre più confusa «Questo è troppo anche per te.»
«È lunga da
spiegare. Ti basti sapere che ha in memoria l’intera cartografia di questa
regione, precisa fin nei minimi dettagli.»
«E a che serve?»
domandò Vincent «Non riuscirà comunque a dirci dove sta andando Yu-Lao.»
«Ne sei sicuro?».
Pochi istanti
dopo, a qualche millimetro dal centro dello schermo si materializzò un puntino
lampeggiante che si allontanava sempre di più.
«Eccolo qui.» disse
soddisfatto Regis «Questo è Yu-Lao».
Fra i soldati e i
professori lo stupore fu chiaramente enorme.
«Ma… come fai a
saperlo?» domandò Sagis
«Prima che
fuggisse gli ho messo addosso una microtrasmittente. Quell’apparecchio emette
in continuazione un segnale radio che questo palmare è in grado di captare,
permettendoci di sapere con chiarezza dove si trova il nostro amico».
Dopo qualche
minuto il puntino si fermò sopra una zona coperta di foreste.
«Sì è fermato.
Deve aver raggiunto il campo dei suoi uomini. Si trova trentatre miglia a nord
est dalla nostra posizione.»
«Perfetto!» disse
il capitano della guarnigione «Allora andiamo a stanarlo!»
«Con calma. Quella
zona è coperta da una fitta vegetazione. Se inviassimo una squadra d’attacco saremmo
immediatamente notati, e per la principessa sarebbe finita.»
«E allora cosa
facciamo?» chiese Yuro.
Regis ci pensò
qualche secondo, poi prese la sua decisione.
«Vado io. Da
solo.»
«Cosa!?» esclamò
Aria «Regis, sei impazzito. Quelli saranno venti o più, e il braccio armato dei
Falgas non è certo un avversario da poco.»
«Non c’è altra
soluzione. È il modo migliore per avvicinarsi senza dare nell’occhio. Voi mi
seguirete con una pattuglia delle vostre guardie migliori e attenderete il mio
segnale. Cercherò di liberare la principessa senza farmi scoprire; a quel punto
potrete dare il via all’attacco e schiacciare quei maledetti.»
«Ma… Regis…».
Il re,
avvicinatosi al giovane, lo guardò con occhi gentili, quindi gli mise una mano
sulla spalla.
«Ho fiducia in te.
Riportami la mia bambina.»
«Lo farò».
Dovendosi
avvicinare all’accampamento nemico con il massimo silenzio, Regis ovviamente
non poteva fare affidamento sul suo rumoroso mezzo di trasporto; in compenso,
il rettore mise a sua disposizione il cavallo migliore delle scuderie, grazie
al quale avrebbe potuto raggiungere Yu-Lao e i suoi uomini con eccezionale
rapidità.
«È una follia, è
semplicemente una follia.» continuava a ripetere Aria mentre il suo compagno
sellava il cavallo «Se dovessero scoprirti avrai messo in pericolo sia la tua
vita che quella della principessa.»
«Forse, ma è
l’unica soluzione che ci resta per evitare una crisi nazionale. Ora che sai che
dietro a tutto questo c’è Yu-Lao, credi davvero che lascerà andare la principessa
se pagheremo il riscatto?
Aria abbassò gli
occhi, comprendendo che Regis aveva ragione.
«Tu lo hai già
incontrato, non è vero?»
«Sono stato io a
spedirlo in cella, dopo averlo inseguito per mezzo Paese. Ucciderebbe la
principessa solo per fare dispetto a me. Per questo devo salvarla prima che ne
abbia la possibilità.»
«Ma se sapeva che
eri qui, perché mettere in piedi questa operazione, con il rischio di farsi
scoprire?»
«Probabilmente per
mettere un freno a quel suo sadico egocentrismo. Voleva riuscire a farla franca
sotto i miei occhi. Ma se spera che io sia ingenuo fino a questo punto si
sbaglia, e glielo dimostrerò.»
«Ha parlato di una
cameriera».
Regis rispose a
quella frase abbassando lo sguardo e nascondendo per un istante il volto.
«È successo tre
anni fa. Mi trovavo all’est. Lo incontrai in una locanda, ma invece di
attaccarlo subito mi limitai ad osservare, per scoprire che intenzioni avesse.
Si introdusse in casa del governatore, probabilmente per ucciderlo. Fu allora
che lo affrontai. Riuscii a farlo desistere, a metterlo alle corde».
Il giovane
temporeggiò ancora qualche secondo.
«Prese in ostaggio
una cameriera… e la uccise per coprirsi la fuga».
Aria si morse la
lingua e si pentì di aver fatto una simile domanda.
«Mi… mi dispiace.»
«Fu allora che
giurai di inseguire quel sadico bastardo fino in capo al mondo pur di fargli
pagare quello che aveva fatto. Non ho impedito che sedici persone morissero. Ma
forse posso impedire che ne muoia una diciassettesima».
Detto questo Regis
montò a cavallo, ma Aria non smise di guardarlo.
«Regis. Yu-Lao è
un mostro. Ma non devi permettere che la sua malvagità distrugga il buono che
vive dentro di te.»
«Che vuoi dire?»
«Si vede che la
principessa ti sta molto a cuore. Sei consapevole che questo regno non potrebbe
avere un migliore erede al trono».
Regis non rispose,
e anzi guardò nell’altra direzione.
«Se quello che mi
hai raccontato su di te e sul tuo passato è vero, tu sai meglio di chiunque
altro quanta malvagità può esserci nel cuore degli uomini. La principessa Sefy
è dotata di una purezza tale da poter condurre questo regno ad una prosperità
che nessuno prima d’ora ha mai neppure sognato, e tu questo lo sai. Per questo
la vuoi salvare.»
«Se lo dici tu.
Venitemi dietro ad un miglio di distanza. Mi occuperò io di eventuali
sentinelle. Un colpo in aria sarà il segnale per iniziare l’attacco.»
«D’accordo».
Nel fitto della foresta, una guardia armata di lancia
scrutava il buio rimanendo in piedi davanti ad un fuoco acceso.
A giudicare dai
tatuaggi che riempivano gran parte del suo corpo doveva trattarsi di un
Guerriero Ombra.
Uomini orribili;
il braccio armato del movimento Falgas. Fanatici integralisti resi folli dal
loro senso di onnipotenza, pronti a tutto pur di eseguire la loro missione.
Esperti nello
spionaggio e nelle tecniche di omicidio, erano temuti anche dalla stessa
guardia reale.
Ma per quanto i
loro occhi fossero allenati all’oscurità, è impossibile per chiunque
distinguere distintamente una freccia lanciata nel più assoluto silenzio, ed
ecco che la guardia si ritrovò d’improvviso a terra con la gola trapassata.
Regis uscì
dall’ombra, portò il corpo fuori dal cerchio di luce e si aggrappò ad un ramo
basso non appena udì uno scalpiccio diretto nella sua direzione.
Un’altra guardia
stava sopraggiungendo per dare il cambio a quella che già si trovava sul posto,
e quando non vide nessuno accanto al fuoco chiamò il compagno.
«Nolack! Dove
sei?».
Come un esperto
trapezista, Regis piombò sul nemico sorreggendosi al ramo di un altro albero
con le gambe, e dopo averlo ammutolito gli recise la gola senza fare il minimo
rumore.
Liberatosi anche
di questo secondo ostacolo il giovane proseguì nel suo cammino saltando da un
ramo all’altro, fino a che non giunse in vista di un piccolo accampamento di
tende delimitato da una palizzata di legno non troppo alta.
Appostatosi sulla
cima di un’alta quercia si portò sugli occhi un binocolo, un binocolo molto
particolare, che gli permetteva di vedere anche al buio.
Grazie a questo
poté vedere che l’esterno del campo era quasi deserto, fatta eccezione per un
paio di uomini seduti davanti ai focolari e un altro di guardia all’ingresso
del campo.
Altre due guardie
sorvegliavano una baracca senza finestre e con il tetto in paglia, la cui porta
era chiusa con un grosso lucchetto.
“Deve essere
laggiù. Proverò ad entrare dal tetto”.
All’interno della
baracca c’era la principessa, rannicchiata in un angolo in posizione fetale,
tremante di freddo e di paura.
Il suo bel vestito
da cerimonia era ora sporco e trasandato, a causa delle lunghe ore trascorse
rannicchiata a terra e di tutti i suoi tentativi per cercare di fuggire.
Si era anche
procurata delle piccole ferite sulle mani con le schegge di legno cercando di
separare le assi di cui era fatta la baracca, certamente costruita sul momento
per fungere da prigione.
Lì dentro non
c’era assolutamente nulla. Solo un mucchio di paglia su cui dormire e un piatto
di brodaglia puzzolente rimasto integro.
Chi avrebbe mai
avuto voglia di mangiare in una situazione simile?
La principessa
aveva sempre sognato di vivere un’avventura, ma quello era davvero troppo: in
ostaggio a quelli che persino lei sapeva essere dei pazzi senza scrupoli, che
ne sarebbe stato di lei?
Pensava ai suoi
genitori, e piangeva al pensiero che forse non li avrebbe mai più rivisti.
Quand’ecco,
d’improvviso, un rumore proveniente dal soffitto.
Sefy alzò gli
occhi, e vide cadere dei grumi di paglia, come se sopra ci fosse qualcuno che
scavava con l’intento di entrare.
Poi, come
d’incanto, una figura amica sbucò dal nulla proprio davanti a lei. Fece per
esclamare il suo nome, ma lui le fece segno di fare silenzio.
«Non parlare.» le
disse Regis a bassissima voce «Sono venuto a portarti via da qui.»
«Grazie per essere
venuto, signor Regis.» rispose la principessa con lo stesso tono
«Mi ringrazierai
quando questa storia sarà finita».
Dopo essersela
caricata sulla schiena, raccomandandole di tenersi forte, Regis spiccò un
grande salto, uscendo dallo stesso buco per cui era entrato ed atterrando sul
retro della baracca, senza che le guardie dall’altra parte si accorgessero di
nulla.
Cautamente,
cominciarono a camminare verso l’esterno del campo, ma subito dopo aver
svoltato una tenda si trovarono a tu per tu con un soldato che, lasciata la sua
tenda, stava orinando ai piedi di un albero.
«Alla…».
Regis gli piantò
la spada nella gola, ma ormai il danno era fatto, e i soldati nella tenda,
allertati dall’urlo del compagno, diffusero la voce.
«Allarme!
Prigioniero in fuga!» cominciarono a gridare
«Merda! Corri!».
Le urla degli
uomini fecero uscire all’esterno anche Yu-Lao.
«Come ha fatto a
trovarci?».
Regis e la
principessa erano quasi in salvo, quando qualcuno degli uomini di Yu-Lao azionò
un cristallo elementale che generò una barriera trasparente tutto intorno al
campo che permetteva di entrare ma non di uscire, bloccando così i fuggitivi.
«Sono in trappola!
Prendeteli!».
Regis era
consapevole che ormai la battaglia era inevitabile.
«Nasconditi.»
disse alla principessa
«Ma… io…»
«Presto!».
Sefy ubbidì, e
andò a rannicchiarsi sotto ad un telo che copriva alcune casse. Fu allora che
vide, per un istante, delle ali bianche dietro la sua schiena, rimanendone
meravigliata; Regis ebbe appena il tempo di accertarsi che la principessa fosse
al sicuro prima di vedersi venire contro un esercito di nemici.
In una situazione
simile era impossibile servirsi dell’arco, ma poteva sempre contare sulla sua
spada, oltre che sulla sua micidiale Desert Eagle, come l’aveva chiamata.
La sua rapidità e
agilità erano tali che evitò tutti i colpi di cerbottana, scagliatigli contro
nel tentativo di stordirlo.
I Guerrieri Ombra,
per quanto forti, cadevano come fili d’erba al suo cospetto; il primo fu ucciso
senza neppure che le due armi si scontrassero, il secondo si vide mozzare un
braccio, il terzo ricevette un taglio al fianco sinistro che lo uccise in un
paio di secondi.
Per evitare che la
principessa potesse essere scoperta o rimanere coinvolta in qualche modo nella
battaglia, il giovane guerriero cercò di spostare lo scontro verso il centro
del campo, ma così facendo si portò a tiro del balestriere che stava in piedi
in cima ad una torretta di osservazione.
Fortunatamente la
prima freccia mancò il bersaglio, ma dovendo affrontare cinque nemici in un
colpo solo Regis era impossibilitato a occuparsi anche di lui. Però, cogliendo
due opportunità in una, usò uno dei suoi assalitori come scudo umano per
proteggersi dal secondo dardo, e con un avversario in meno a cui dover pensare
trovò il tempo per recuperare un pugnale da terra e scagliarlo con precisione
da cecchino nella fronte del balestriere.
Yu-Lao,
terrorizzato come mai, vide tutti i suoi uomini cadere uno dietro l’altro, fino
a che non rimasero solo loro due.
«Tu…» disse Yu-Lao
«Tu sei il mio incubo!»
«Mi sembrava di
avertelo già detto. Che ti avrei inseguito fin nella tomba pur di vederti
morto. E ora eccoci di nuovo qui. Faccia a faccia, io e te. Solo che stavolta
non c’è nessuno che tu possa usare come scudo per coprirti le spalle».
Il criminale
digrignò inizialmente i denti, ma poi sorrise beffardo.
«Io non ci
scommetterei».
Non visto spinse
un pulsante posto su di uno strano apparecchio che teneva assicurato alla cintura,
e pochi istanti dopo dalla sua tenda uscì un’altra creatura di metallo delle
dimensioni di un uomo.
Questa volta era
di colore azzurro con alcune parti bianche, una testa di forma ovale con un
solo occhio che correva lungo un nastro orizzontale che andava da orecchio a
orecchio e la bocca di un cannone al posto della mano sinistra.
“Un altro robot!?”
pensò Regis arretrando di un passo.
«Guarda un po’»
disse Yu-Lao «Qualcuno sembra aver perso tutta la sua boria. Ma già che sei
qui, sarebbe scortese non permettere a voi due di fare conoscenza».
Il robot scattò in
avanti servendosi del reattore che aveva dietro la schiena e cercò di colpire
Regis con un pugno; questi si difese, ma la forza dell’urto fu tale da
scagliarlo comunque in aria, e quando il guerriero rialzò lo sguardo Yu-Lao rideva
sguaiatamente.
«Mi spiace tanto,
ma la sembra proprio che tra noi due non sarò io il primo a morire!».
Regis si rimise in
piedi e si preparò a fronteggiare il suo nuovo avversario, che intanto aveva
alzato il cannone sul suo braccio destro, puntandoglielo contro. Da esso partì
uno di quei raggi incandescenti che Regis riuscì ad evitare con un salto, ma
che in compenso generò una tremenda esplosione appena toccato il suolo.
“Sembra molto più
sofisticato di quello dell’ultima volta.”
«Che c’è, Regis?»
disse Yu-Lao vedendo che il guerriero continuava ad evitare lo scontro «Per
caso hai dimenticato come si combatte?».
In effetti quel
robot si stava rivelando un avversario davvero ostico; Regis incassò tutta una
serie di colpi al torace, ai fianchi e al volto portati dalla elevatissima
velocità del nemico, che a differenza di lui non era soggetto a cose quali la
stanchezza e il dolore.
“Ora basta. Devo
reagire”.
Il robot tentò un
nuovo assalto, ma questa volta Regis fu più svelto e dopo aver evitato il colpo
gli assestò un pugno poderoso all’altezza del cuore; la macchina sembrò
accusare il colpo e per qualche secondo restò immobile come una bambola, ma
d’improvviso rialzò la testa e ripartì più rapida di prima, spedendo Regis
contro un albero con un destro micidiale.
Dal suo
nascondiglio, la principessa poteva assistere all’intero scontro, e quando vide
ciò che stava succedendo uscì imprudentemente allo scoperto.
«Nobile Regis!».
Prima che potesse muovere
un passo, però, Yu-Lao le saltò addosso e l’afferrò saldamente.
«Guarda chi c’è
qui.»
«Principessa!».
Prima che Regis
potesse fare qualcosa, Yu-Lao puntò un coltello alla gola della ragazzina.
«Non provare a
fare una mossa, o sgozzo questa bella signorina come una bestia da macello.»
“Bastardo.”
«Curioso. Non ci
siamo già passati per una situazione simile?»
«Già. E come al
solito ti nascondi. Direi che è proprio da te.»
«Non credo ti
convenga fare del sarcasmo. Non con una lama di quindici centimetri puntata
alla gola della tua adorata principessa».
Regis era
distratto, e il robot ne approfittò per colpirlo alla schiena; fu allora che
cominciarono i problemi per il giovane e aspirante eroe. Conosceva Yu-Lao
abbastanza bene da sapere che quello psicopatico non ci avrebbe pensato due
volte ad uccidere Sefy se solo lui avesse provato a rispondere agli attacchi
del robot.
Ironia della
sorte, poco prima che la situazione degenerasse si era convinto di aver trovato
il punto debole del nemico, ma ora non era in grado di sfruttarlo.
“Nobile Regis…”
pensava Sefy.
Prima d’ora,
nessuno aveva mai fatto una cosa simile per lei.
Regis avrebbe
potuto finire quel robot se solo lo avesse voluto, lo si capiva guardandolo in
volto, ma continuava a subire senza reagire perché se avesse accennato una
risposta Yu-Lao l’avrebbe sicuramente uccisa.
Era davvero un
ragazzo dal cuore d’oro, malgrado la patina di ghiaccio che solitamente lo
circondava, e vederlo soffrire in quel modo era per Sefy un tormento
insopportabile.
«Basta.» disse a
Yu-Lao «La prego, lo faccia smettere.»
«E perché dovrei?»
rispose lui sorridendo «Uno spettacolo del genere è un evento raro.»
«La prego…»
«Ho rischiato la
forca per quel tipo. Non intendo farmi portare via il piacere di vederlo morto,
e non c’è preghiera abbastanza commovente che tu possa muovermi per convincermi
a rinunciare ad un simile piacere.»
«È me che volete.
Lasciatelo andare, la supplico».
«Non aver paura,
piccola. Molto presto vi farete compagnia all’altro mondo».
Dopo aver ricevuto
l’ennesimo colpo Regis faticava a rimettersi in piedi; perdeva sangue dal naso
e dalla bocca, e aveva varie escoriazioni in tutto il corpo; il robot, fermo
davanti a lui, lo teneva sotto la minaccia della sua arma.
«Mi spiace, caro il mio Regis, ma credo che
siamo giunti alla fine.»
«Nobile Regis! Non
pensate a me!»
«Commovente,
piccola. Vi lascerò scambiare la vostra ultima conversazione, se c’è qualcosa
di importante che volete dirvi in questa vita».
Sefy guardò il
volto martoriato di Regis, e anche lui la guardò, per la prima volta con occhi
che non apparivano freddi e distaccati come al solito.
«Nobile Regis… io…
io…»
«P… principessa…
mi dispiace…»
«Oh, quant’è romantico.»
disse Yu-Lao con malevola sufficienza «Ma vediamo di tagliare corto. La notte è
ancora giovane».
La principessa
prese un bel respiro, e consapevole di non avere nulla da perdere disse la
verità.
«Nobile Regis, io
vi amo!».
Lui non accennò
una risposta, non mosse un muscolo, ma si vedeva nei suoi occhi che quella
frase lo aveva molto colpito.
Forse, anzi,
sicuramente, non era la prima volta che qualcuno gli diceva una cosa simile, ma
c’era da chiedersi chi fosse stata la prima a dirgli così.
«Beh, questo sì
che è un bel colpo di scena. Di certo un bel modo per entrambi di concludere la
propria vita. A questo punto, direi che potete tranquillamente dirvi addio.
Mucchio di ferraglia! Dagli il colpo di grazia!».
Sefy chiuse gli
occhi pieni di lacrime e si girò dall’altra parte, Regis invece si girò a
guardare verso il suo improbabile carnefice.
Probabilmente
stava pensando a quante cose gli restavano ancora da fare, e che non avrebbe
potuto fare.
Quel destino a cui
diceva di dovere andare incontro era dunque arrivato? Sarebbe morto lì, in un
mondo non suo, lontano dalle persone che si era ripromesso di raggiungere?
Le particelle già
cominciavano ad addensarsi, un bagliore dapprima debole cominciò a comparire
nel buio della canna.
SENNEN BLADE!
Il robot venne improvvisamente colpito da una miriade di
fasci lucenti che lo distrassero, e nello stesso istante Aria fece irruzione
nell’accampamento accompagnata da dieci dei suoi migliori soldati; Regis colse
al volo l’occasione e, messa mano alla pistola, sparò tutti i colpi che aveva
in canna, centrando il robot sempre nello stesso punto, altezza del cuore.
La grande forza di penetrazione dei
proiettili, dovuta anche alla particolare lega di cui erano costituiti, riuscì
ad avere ragione alla fine della corazzatura del robot, che si vide il torace
squarciato e fu sbalzato all’indietro.
Ritrovatosi
disteso a terra, il suo occhio roteò a vuoto per qualche istante quindi si
spense e lui non si mosse più.
«No…» balbettò
Yu-Lao «Non può essere…».
Prima che potesse
proseguire la frase si vide circondato dai soldati, ma poiché aveva ancora la
principessa in ostaggio nessuno pensò di avvicinarsi più del necessario.
«State… state
indietro!» gridò avvicinando ancora di più il coltello alla gola della
ragazzina «O giuro che la dissanguo!»
«Faresti un
pessimo affare.» rispose Vincent sbucando dalle tenebre alle sue spalle ed
appoggiandogli la spada alla spalla «Lasciala andare subito».
Di fronte ad una
simile minaccia Yu-Lao non ebbe altra scelta che ubbidire e liberò la principessa,
che subito corse fra le braccia di Aria.
Regis,
visibilmente esausto, gli si avvicinò.
«È finita,
Yu-Lao.»
«Tu credi?»
«Avrai molte cose
da spiegare, a me soprattutto. Per esempio, dovrai dirmi come ti sei procurato
quel robot.»
«E speri davvero
che te lo dirò? Ma più importante ancora, pensi davvero che sia così facile
catturarmi?».
Regis era troppo
stanco e provato per riuscire a fermare in tempo Yu-Lao prima che questi
facesse esplodere una delle sue bombe al gas.
Nel tempo che
tutti impiegarono a riacquistare la vista la barriera era caduta e Yu-Lao
scomparso.
«Maledizione,
cercatelo!» ordinò Aria, e i suoi uomini immediatamente si dispersero.
Regis avrebbe
voluto andare con loro, ma la fatica e le contusioni riportate nello scontro
gli provocarono un mancamento che per poco non lo fece finire nella polvere.
«Regis, sei
ferito.» disse Aria inginocchiandosi davanti a lui
«Sto… sto bene.
Dobbiamo trovare Yu-Lao.»
«Fermo. Non sei in
condizione di muoverti.»
«Ma… scapperà.»
«Non andrà
lontano. Le nostre truppe hanno circondato l’intera zona. Un cristallo medico,
presto!» disse poi rivolgendosi ad un guaritore.
La foresta fu battuta palmo a palmo da tutte le guardie a
disposizione, ma Yu-Lao era comunque un guerriero ombra e riuscì a nascondersi.
«Dannazione a te,
Regis.» disse correndo fra gli alberi «Questa me la pagherai cara, te lo posso
garantire».
La sua fuga però
fu interrotta nel momento in cui una bellissima donna in bianco con pelle
chiara e lunghi capelli neri gli si parò davanti comparendo in una sfera di
luce.
Era davvero
bellissima, ma in quei suoi occhi oltremare albergava un alone di malvagità che
avvolgeva tutta la sua figura.
Nel vederla,
Yu-Lao rimase bloccato per il terrore.
«Che… che cosa…»
«Ci hai molto
delusi, Yu-Lao. Ti abbiamo messo a disposizione uno dei nostri migliori robot,
ma nonostante ciò sei riuscito comunque a fallire.»
«No, aspettate…
posso spiegare…»
«Avresti dovuto
concludere la questione quando potevi, invece di dar retta come al solito al
tuo sadico ego.»
«Ma… ma io…»
«Noi volevamo che
il popolo odiasse la famiglia reale, ma il tuo risentimento verso Regis ha
mandato in frantumi il nostro progetto prima ancora che potesse vedere la
luce.»
«Vi prego… datemi
un’altra possibilità. Vi giuro che non accadrà più…».
Non aveva finito
la frase che un fascio di luce partito dal dito della donna lo centrò in piena
fronte.
«Avresti dovuto
pensarci prima».
Yu-Lao cadde in
avanti, e fu così che la donna poté notare lo strano marchingegno attaccato
alla sua giubba militare. Lo guardò con stupore, malgrado non lampeggiasse più,
e incuriosita lo raccolse.
«Interessante.
Sarà meglio che ne parli a Signer».
Regis intanto era
stato completamente medicato grazie al cristallo medico che aveva rimarginato
rapidamente le sue ferite, ma per curare la stanchezza la sola cosa da fare era
riposarsi, un’attività che a lui proprio non riusciva, soprattutto considerando
che moriva dalla voglia di andare a cercare Yu-Lao.
Anche la
principessa era stata curata, e quando si avvicinò al suo soccorritore Aria
capì che era meglio farsi da parte.
Per un po’ si
guardarono senza dirsi nulla.
«Nobile Regis…
ecco… riguardo a quello che ho detto prima…».
Lui,
incredibilmente, sorrise.
«Non serve che ti
giustifichi.»
«Però dicevo la
verità. Io la amo, nobile Regis. Mi sono innamorata di lei nel primo momento in
cui l’ho vista».
Regis si tolse una
ciocca di capelli dagli occhi e si girò a guardare l’imminente albeggiare.
«Ammiro la tua
sincerità, principessa, e voglio rispettare i tuoi sentimenti.»
«Dite… dite
davvero!?» disse Sefy al colmo della gioia «Questo vuol dire che…»
«No, non
fraintendermi. Quando dico che rispetto i tuoi sentimenti intendo dire che mi
sento onorato nel sapere quello che provi per me… ma io… mi dispiace… non posso
ricambiare».
La principessa si
sentì cadere il mondo addosso. Regis la guardò, le mise una mano sulla guancia
e le asciugò le prime lacrime; Sefy era confusa, disperata e arrabbiata. Per un
attimo si ritrasse, ma poi accettò il calore di quella mano e vi poggiò sopra
le sue.
«Perdonami. Tu sei
una ragazza forte, una delle più forti che io abbia mai conosciuto. Meriti di
incontrare il vero amore, e posso assicurarti che non sono io.»
«Come!? Non… non
siete voi…»
«Eri molto piccola
quando mi vedesti per la prima volta. A quell’età, e lo dico per esperienza, è
molto facile affezionarsi a qualcuno che non sia della propria famiglia fino a
credere di esserne innamorati. Certo, a volte può anche essere vero amore, ma
non credo sia questo il nostro caso.
Non ti dico queste
cose per farti soffrire, principessa, ma perché non volevo illuderti che questa
nostra storia potesse effettivamente nascere, col rischio di infliggerti una
sofferenza ancora maggiore nel caso te ne fossi resa conto da sola».
Sefy sgranò gli
occhi.
«Ma allora voi…
voi sapevate!?».
Lui la guardò di
nuovo.
«Contavo di
dirtelo alla tua partenza dalla scuola. Non avrei mai pensato che sarebbe
accaduto tutto questo. Ti ho costretta a vedere cose terribili, ti ho mostrato
un mondo che non avresti mai dovuto incontrare, e ti chiedo con tutto il cuore
di dimenticare ciò che hai visto oggi.»
«Come puoi
chiedermi di dimenticare? Oggi tu mi hai salvato la vita per la seconda volta,
e per questo avrai la mia eterna gratitudine. Ma dimmi, ti prego, ci sono altri
motivi per i quali tu mi hai detto no?».
Regis riportò i
suoi occhi sul disco solare che cominciava la sua ascesa.
«C’è una ragazza.
Una ragazza che ha cambiato la mia vita come neppure io ero stato in grado di
fare. Le ho promesso che un giorno o l’altro sarei ritornato da lei, e non mi
darò pace fino a che non sarò riuscito a mantenere quella promessa.»
«Dov’è ora questa
ragazza?»
«È lassù, da
qualche parte. Oltre le stelle. Questo implica che, per raggiungerla, un giorno
o l’altro io dovrò andarmene».
Guardandolo, Sefy
capì che Regis aveva ragione; quello che lei nutriva per lui non era mai stato
il vero amore; il vero amore era quello che Regis diceva di provare per quella
misteriosa ragazza.
La loro
conversazione venne interrotta quando Aria, che era stata chiamata da una
guardia, si avvicinò a Regis.
«Regis! Devi
venire, subito!».
Pochi minuti dopo,
Regis e Aria si approssimavano al corpo senza vita di Yu-Lao, disteso sul
torace in mezzo a terra e foglie con un buco in testa che lo passava da parte a
parte.
«Chi può essere
stato?» chiese la ragazza
«Non ne ho idea.
Qualcuno dei tuoi?»
«Non ci sono
stregoni fra i miei uomini, e questa è sicuramente opera di un mago.»
«Probabilmente il
rapimento della principessa non era stata una sua idea».
Regis fece per
recuperare il suo dispositivo, ma si accorse con grande stupore che era
sparito.
«Non mi sbagliavo.
Qualcuno lo aveva assoldato, e lui ha pagato il fallimento con la vita.»
«Come fai a
dirlo?»
«Tanto per
cominciare aveva con sé quel robot, e chiunque lo abbia ucciso si è portato via
la microspia che gli avevo messo addosso.»
«Beh, era un
oggetto sicuramente insolito. Mi sembra scontato che abbia attirato l’attenzione.»
«Ormai aveva
smesso di inviare segnali, e poteva essere facilmente scambiato per una macchia
o una foglia. C’è una sola spiegazione per cui l’assassino possa averlo presto.
Perché sapeva che cos’era».
Il grande elicottero da trasporto con le insegne
presidenziali americane dipinte sulla fiancata sfrecciava nel cielo nuvoloso,
sorvolando le immense foreste dell’Alaska che scendendo dalle montagne
arrivavano a lambire le sponde del mare.
Poi, appena
superata un’alta montagna, d’un tratto ecco apparire una costruzione
gigantesca, bianca più della neve che riempiva le cime, di forma perfettamente
semisferica.
Sembrava un grande
stadio del basket di quelli che si vedevano a New York o a Los Angeles, ma
immerso in quell’oceano di alberi che quasi lo toccavano somigliava più ad un
pezzo di luna schiantatosi sulla terra.
Ma non era niente
di tutto questo.
Si trattava in
realtà di una sofisticatissima installazione militare dell’esercito americano,
la cui esistenza era nota solamente ad un ristretto numero di persone.
Il personale
civile che vi lavorava era tenuto alla massima riservatezza, e l’intera area,
per un raggio di cento chilometri, era offlimits per chiunque, con barriere
elettrificate e filo spinato ad impedire l’accesso.
L’arrivo
dell’elicottero fu notato nella sala comandi. L’ufficiale di guardia in quel
momento si rivolse all’operatore più vicino.
«Informate il
generale che l’elicottero presidenziale è arrivato. E aprite il portello per
l’atterraggio».
Pochi secondi
dopo, il tetto della struttura si apri lentamente come un uovo pasquale, e
l’elicottero, una volta entrato nella fessura, atterrò tranquillamente su una
grande piattaforma sospesa nascosta all’interno.
Ad attenderne
l’arrivo c’erano un ufficiale dell’aeronautica dai capelli grigi e una civile
in abiti da laboratorio di poco più giovane, ma comunque avanti con gli anni,
bionda e con gli occhi verdi.
Il portello si
aprì, e ne scese il presidente Hammond, un uomo alto e di corporatura robusta.
Il generale si avvicinò e gli strinse la mano.
«Signor
presidente.»
«Generale
O’Neill.»
«Benvenuto in
Alaska. Ha fatto un buon viaggio?»
«Non mi lamento. A
parte il freddo polare.»
«Mi permetta di
presentarle la dottoressa Carter. Da due anni è capo del progetto.»
«Signor
presidente.»
«È un piacere
conoscerla, dottoressa. Allora? Il gran giorno è oggi, giusto?»
«Sì, signore.»
«Posso vederlo?»
«Naturalmente. Mi
segua».
Ciò che appariva
in superficie era solo una minima parte della struttura che prendeva il nome di
New Freedom. Il vero cuore pulsante dell’installazione militare sorgeva
sottoterra, a decine di metri di profondità.
Servendosi di un
ascensore di servizio, ben presto i tre uomini raggiunsero il dodicesimo piano
sotterraneo, l’ultimo.
«Eccoci arrivati.»
disse il generale mentre le porte dell’ascensore si aprivano su di un grande
corridoio a volta «Qui siamo a centododici metri di profondità.»
«Esattamente che
posto è questo?»
«In passato qui
c’era una miniera d’oro.» rispose la dottoressa Carter «Ma è stata dichiarata
esaurita già nel 1925.»
«E lo è per
davvero?»
«Se parliamo di
oro materiale sì. Ma se invece parliamo di oro in senso figurato, beh… ce n’è
che si spreca, signor presidente».
In quella un altro
uomo in abiti civili che indossava un buffo paio di occhiali da vista uscì da
una porta laterale, probabilmente un laboratorio.
Il generale lo
chiamò.
«Ah, dottor
Jackson. Signor presidente, le presento Daniel Jackson. Il nostro astrofisico.»
«È un piacere,
signore.»
«Ho già avuto modo
di conoscere il dottor Jackson.» rispose il presidente stringendogli comunque
la mano «È stato insegnante di mia figlia a Yale.»
«La prego,
signore. Così penseranno che sono un raccomandato».
Il dottor Jackson
si unì al gruppo ed accompagnò il presidente in una stanza con solo un grande
tavolo ovale e una finestra, coperta però da una grossa grata di acciaio che
impediva di vedere cosa ci fosse oltre.
«Questa stanza è
assolutamente offlimits per chiunque non sia espressamente autorizzato.» disse
il generale
«Posso
immaginarlo.»
«Immagino non
abbia mai visto cosa ci sia al di là di questa finestra.»
«Naturalmente. Ma
ho dato un’occhiata ai rapporti, e ne ho sentito parlare.»
«Le assicuro che
trovarselo davanti è tutta un’altra cosa. Dottoressa».
La dottoressa
Carter infilò una tessera magnetica in un lettore a lato della finestra e
digitò il codice di accesso, quindi la grata lentamente cominciò ad alzarsi.
Il presidente
Hammond e gli altri si girarono verso l’esterno, e fu proprio il capo di stato
a restare, comprensibilmente, il più attonito di tutti.
Oltre quella
finestra si estendeva una caverna dalle dimensioni colossali, con una volta che
doveva essere alta, nel punto più elevato, almeno cinquanta metri.
Sulle pareti
rocciose erano disseminate numerose e potentissime lampade che illuminavano a
giorno una sterminata piazza d’armi di forma quadrangolare che occupava quasi
tutto il pavimento.
Macerie di
un’antica costruzione, fra le quali la parte inferiore di una grande entrata
monumentale ad arco romano, pezzi di muro e resti di colonne ormai in gran
parte crollate, circondavano dodici grandi statue raffiguranti degli esseri
simili ad angeli con grandi ali ed il braccio destro alzato al cielo, recante
un lungo bastone con in cima una sfera. Al centro del cerchio formato da queste
statue si trovava quello che a prima vista poteva sembrare un arco
perfettamente conservato, con in cima due draghi di forma serpentina che
volgevano il loro sguardo verso l’entrata del tempio.
Sia le statue che
l’arco erano fatti non di roccia, ma di un materiale strano, di colore scuro
tendente al nero, che brillava illuminato dalle lampade.
Una ventina di
persone fra uomini dell’esercito e scienziati giravano attorno alla struttura,
a cui potevano accedere tramite un grande ingresso posto trenta metri al di
sotto della finestra panoramica, al livello del suolo.
«È… è
incredibile…» disse il presidente
«È stato ritrovato
da un gruppo di minatori nel 1934.» disse il generale «Tre anni dopo, il
presidente Roosvelt ne ordinò uno studio approfondito sulla base della natura
sconosciuta dei materiali con cui parte delle rovine erano costruite.
A seguito di nuove
ed importanti scoperte, nel 2001 il presidente Bush ha dato ufficialmente il
via alla realizzazione di un impianto ad alta tecnologia che oltre a fornire
una valida base operativa per coordinare le operazioni di studio doveva servire
a nascondere queste stesse scoperte agli occhi di un mondo del tutto impreparato
a riceverle.»
«Quando… quando è
stato realizzato?»
«La datazione al
carbonio colloca la realizzazione di quelle statue e del relativo arco nel 30.000 a.C.» rispose la
dottoressa Carter
«Trentamila avanti
Cristo!?» ribatté incredulo il presidente «Ma… in piena Preistoria.»
«Più o meno nel
periodo in cui viene attestata la comparsa dell’Homo Sapiens Sapiens, vale a
dire dell’uomo moderno.»
«Ma come è stato
possibile per gli uomini preistorici realizzare un complesso simile?»
«Francamente,
signor presidente» intervenne Jackson «Nutro seri dubbi sulla possibilità che
tutto questo sia opera dei nostri antenati».
Hammond, che pure
era stato ragguagliato in parte sulla natura di ciò che avrebbe visto, rimase
con la bocca semiaperta.
«Signor presidente»
riprese la dottoressa «Non solo la struttura delle rovine è troppo complessa
per essere stata pensata dall’uomo di Cro-Magnon, ma i materiali realizzati per
il cerchio di statue e per l’arco non assomigliano a niente che io abbia mai
visto prima.»
«Che intende
dire?»
«L’arco al centro
del complesso e le dodici statue tutto intorno» rispose il generale «Sono fatte
di un minerale non presente sulla Terra, o in qualcuno fra asteroidi e corpi
celesti che fino ad oggi abbiamo avuto la possibilità di analizzare.»
«Vo… volete dire
che questo…»
«Sì, signor
presidente. Siamo di fronte ad una costruzione di evidente provenienza aliena».
Il presidente si
girò nuovamente verso le rovine.
«Ma a cosa serviva
di preciso? Cos’era, un tempio?»
«No, signore.»
rispose la dottoressa «È qualcosa di molto più grande e più incredibile».
Usciti dalla
stanza, il presidente e i suoi tre accompagnatori scesero di altri due livelli,
raggiungendo una sala piena di computer e quasi completamente al buio,
provvista anch’essa di una finestra dalla quale era possibile vedere
l’installazione.
«Signor
presidente.» disse il generale «Benvenuto nella vera New Freedom».
Un terzo
scienziato si presentò ad Hammond stringendogli la mano.
«È un piacere,
signor presidente.»
«Questi è il dottor Hanck Landry, esperto di
tecnologie informatiche.»
«Allora, può
spiegarmi di preciso che cos’è quella cosa lì fuori e a che cosa serve?»
«Con piacere,
signore. Venga».
Al centro della
stanza c’era un proiettore olografico sul quale poteva apparire, in tre
dimensioni, qualsiasi cosa vi fosse nella memoria centrale. Il dottor Landry
iniziò col proiettare la raffigurazione di un warmhole.
«Come forse saprà,
signor presidente, esiste una teoria secondo la quale l’universo non sia in
realtà un vero universo, ma piuttosto un insieme di universi indipendenti
separati tra di loro, che hanno come loro punto di giunzione i buchi neri.»
«Sì, ne ho sentito
parlare. Allora?»
«Ebbene, è nostra
ferma convinzione che queste rovine siano in realtà una sorta di porta
d’ingresso verso un altro mondo, situato in un universo esterno al nostro».
Il presidente, se
non avesse saputo di trovarsi davanti ai migliori rappresentanti della comunità
scientifica nei rispettivi campi di provenienza avrebbe pensato di essere in un
manicomio.
«Ma… come fate ad
esserne sicuri?»
«Ora lo capirà».
Sul proiettore
comparve una nuova immagine, questa volta un simbolo dall’aspetto bizzarro;
sembrava un ideogramma.
«Questo è uno dei
molti geroglifici che abbiamo ritrovato sulle pareti delle rovine. Non nota
niente di famigliare?».
Hammond guardò più
attentamente, ma poi fece cenno di no; il dottor Landry allora premette un paio
di pulsanti sulla scacchiera, ed allora i simboli da uno diventarono tre, ma
stavolta molto più facili da riconoscere.
«Ma…» disse
attonito il presidente «Sono lettere greche!»
«Esatto. La Alfa, il Sigma e la Omicron raggruppate in
unico simbolo. Ma non è finita qui».
L’esperimento fu
ripetuto più volte, dimostrando come dai geroglifici provenissero molte altre
lettere oltre a quelle greche: c’erano caratteri egizi, aramaici, arabi.
Praticamente ogni alfabeto noto all’uomo.
«Signor
presidente. Mi permetta di presentarle Babilonia. Tutti gli alfabeti fino ad
oggi conosciuti si trovano qui.»
«Ma… ma è…»
«Impossibile?
Inconcepibile?»
«Sono state le
nostre stesse impressioni.» disse la dottoressa «Ma quando ci riscontrano
simili somiglianze, credo che la cosa veramente impossibile da fare sia parlare
di semplici coincidenze.»
«Nella Bibbia si
racconta che un tempo tutte le genti della Terra parlassero una sola lingua»
disse Hanck Handry «Ma che furono punite da Dio per la loro superbia e si
dispersero per il mondo dopo aver visto la loro lingua andare in pezzi. E se
non fosse solo una metafora? Se fosse andata davvero così?»
«Dottore…»
balbettò il presidente ormai completamente sotto shock «Lei sta dicendo che…»
«Mettiamoci in
questo ordine di idee. Sappiamo con certezza assoluta che queste rovine
risalgono al periodo in cui il Sapiens Sapiens iniziò a muovere i suoi primi
passi sulla Terra. Sappiamo anche che con l’arrivo dell’uomo moderno i
Neanderthal, vale a dire la specie di ominidi fino a quel momento dominante, è
stata letteralmente spazzata via nell’arco di poche centinaia di anni.
Viene da
domandarsi: perché un simile evento? Bisogna ammettere che fra i Neanderthal e
i Sapiens, culturalmente parlando, c’era un abisso nel momento in cui queste
due popolazioni entrarono in contatto tra loro. Un abisso talmente grande che
parlare di evoluzione spontanea sembra quasi una battuta, se soppesato con
quello che abbiamo ora davanti agli occhi.»
«Lei sta dicendo…
che la nostra specie… non proviene da questo mondo!?»
«Voglio
sottolineare che si tratta solamente di un’ipotesi. Ma mi trovo anche costretto
ad ammettere che alla luce degli studi condotti sui geroglifici faccio fatica a
considerarla tale.
Mi segua con
attenzione, signor presidente. Nel momento in cui mi sono accorto della
somiglianza di questi geroglifici con gli alfabeti umani, mi sono chiesto se
fosse possibile anche azzardare una traduzione. Se davvero tutte le lingue del
mondo venivano da qui, analizzando un ideogramma alla volta forse si poteva
riuscire a sbrogliare questo rebus.»
«E lo ha fatto?»
«Naturalmente. Ho
consultato i migliori linguisti dei cinque continenti. Ci sono voluti quasi
sette anni di studio, ma alla fine la nostra teoria si è rivelata esatta, e
siamo riusciti a decifrare il codice.»
«Di… dice
davvero!? E cosa diceva?»
«Non diceva assolutamente
niente.»
«Cosa!?»
«I geroglifici
riportati sulle rovine non erano parole. Erano coordinate.»
«Esattamente. E
guardi un po’ cosa succede se provo a trasferire queste coordinate su una carta
del nostro mondo».
Un terzo
ologramma, questa volta raffigurante il globo terrestre, si illuminò di tante
luci rosse lampeggianti disseminate in vari punti del mondo, tanto sul mare
quanto sulla terraferma.
«Guardate un po’
qui che coincidenza. In prossimità di alcuni di questi presunti portali sono
state trovate, in passato, le prime tracce di insediamenti preistorici
attribuibili all’uomo di Cro-Magnon. Siberia, Africa Centrale, Nord America.»
«In effetti
riconosco persino io che sembra superfluo parlare di coincidenze. Per tutti i
santi, questa scoperta può rivoluzionare qualsiasi teoria evoluzionistica fino
ad oggi formulata.»
«Aspetti, non è
mica finita. Osservi con attenzione la dislocazione di alcuni di questi
portali. Ci sono dei luoghi che dovrebbero risultarle famigliari».
Uno dei punti
lampeggiava al largo del Golfo del Messico, e fu quello ad attirare
maggiormente l’attenzione del presidente.
«Ma questo… è il
Triangolo delle Bermuda.»
«Indovinato.
Curiosa coincidenza, non trova? Uno dei luoghi più misteriosi della Terra è
anche sede di un portale dimensionale.»
«E non è il solo
esempio.» intervenne il generale, che fino a quel momento aveva lasciato la
parola agli esperti «Molti dei luoghi qui riportati sono stati oggetto, nel
corso dei secoli, di eventi misteriosi ed inspiegabili.
La legione perduta
di Crasso dopo la battaglia coi Parti; la scomparsa di tutte le spedizioni
avventuratesi in Amazzonia e mai più ritrovate, la grande esplosione di
Tunguska, i cinque caccia scomparsi nel Triangolo nel dicembre del ’45.
Abbiamo motivo di
credere che tutte queste sparizioni misteriose siano in qualche modo collegate
con i portali. Ultima in ordine di tempo, la scomparsa di un nostro elicottero
da guerra precipitato nel Neghev una decina di anni fa e mai ritrovato.»
«Sfortunatamente»
riprese Hanck Landry «Avevamo tutte queste informazioni, ma ci mancava ancora
qualcosa di fondamentale.»
«Che cosa?»
«Una prova. Una
prova documentata che ci dicesse tutto ciò che ancora non sapevamo: chi creò
questo posto, perché, e da dove veniva. Probabilmente tutte queste cose si
sarebbero potute trovare nei geroglifici del tempio, ma le rovine erano così
malridotte che ben poco di quello che vi era scritto si è salvato, e si tratta
esclusivamente delle coordinate geografiche di cui Le parlavo pocanzi.
Credevamo di
essere arrivati ad un punto morto, quando un bel giorno, scavando più in
profondità nella roccia, abbiamo trovato qualcosa che ha fugato ogni nostro
dubbio».
Il dottore fece comparire
sullo schermo due antiche tavole di pietra piene di geroglifici.
«Prima di tutto,
le Tavolette di New Freedom, come sono state ribattezzate. Risalgono ad un
periodo di poco successivo a quello della costruzione del tempio. Ognuna di
esse racconta qualcosa di particolare.»
«Che cosa di
preciso?»
«Iniziamo con la
tavola numero uno. È fondamentalmente una cronaca di viaggio. Racconta di un
popolo giunto dalle stelle sul nostro pianeta migliaia di anni fa attraverso
uno di questi portali. Non dice il motivo, ma questi esploratori
interdimensionali si sono trovati d’improvviso a fronteggiare le avverse
condizioni di un mondo ancora per gran parte selvaggio e inospitale.»
«Ma per quale
motivo un popolo in grado di viaggiare fra le galassie dovrebbe ridursi a
cacciare cervi con lance di pietra e ad abitare in capanne di argilla?» domandò
il presidente
«L’esperienza ci
insegna che gli esseri umani, in situazioni estreme, possono essere costretti
per necessità di sopravvivenza a ricorrere alle pratiche più selvagge e
primitive.» rispose il generale «I Vietcong, la resistenza francese, l’assedio
di Atene, i sopravvissuti delle Ande. Gli esempi sono innumerevoli.»
«Forse erano
esuli.» ipotizzò Samantha Carter «Forse erano stati costretti a lasciare il
loro mondo in tutta fretta, e una volta giunti da questa parte si sono
ritrovati con nulla in mano, quindi hanno dovuto ingegnarsi per riuscire a
sopravvivere.»
«Io ho un’altra
teoria.» intervenne Jackson «Basata sulla decifrazione della seconda tavoletta.
A differenza della prima, questa risulta essere invece una specie di progetto
di costruzione per la realizzazione di un complesso in grado di controllare e
sfruttare i portali dimensionali.»
«Un… progetto?»
«Un progetto che
indica il minerale delle statue e dell’arco come elemento indispensabile. Io
credo che i primi uomini di cro-magnon fossero in realtà operai inviati qui
come addetti alla costruzione di complessi come questo.»
«Ma perché?»
«Questo è ancora
un mistero. Semplice curiosità, desiderio di conoscenza. Forse progettavano una
emigrazione di massa. Mai visto Stargate?».
La battuta fu
accolta dal silenzio, e allora Jackson riprese a parlare.
«Comunque sia,
qualcosa deve essere andato storto. Forse la Terra era troppo inospitale, forse c’è stato un
incidente, o forse i loro superiori avevano semplicemente cambiato idea, fatto
sta che ad un certo punto il varco si chiude e tanti saluti.»
«Avrebbero
abbandonato i loro uomini su un pianeta alieno!?»
«Non lo facciamo
anche noi? Lasciare indietro chi riteniamo già morto?».
Il generale storse
il naso a quell’affermazione.
«Ed ecco che i
nostri viaggiatori dello spazio si ritrovano improvvisamente catapultati
nell’età della pietra. In un modo nell’altro hanno dovuto arrangiarsi, e non
potendo contare su alcun aiuto dalla loro patria di origine è plausibile
pensare che col tempo il ricordo della loro provenienza sia scomparso del
tutto.»
«Ma perché un
popolo così avanzato avrebbe riempito le caverne di disegni stilizzati,
piuttosto che di sofisticati progetti e calcoli matematici?»
«Dubito che gli
operai che costruiscono shuttle sappiano determinare la posizione di un
determinato asteroide calcolandone la traiettoria di volo. Probabilmente tali
informazioni non erano mai state alla loro portata, ed è anche possibile che
l’essere bloccati qui, in un mondo alieno, abbia portato ad un progressivo
imbarbarimento dei coloni, con immaginabili conseguenze sul loro livello
culturale.»
«Parlavate di
progetti di costruzione.» domandò Hammond «Di preciso, come funzionano questi
portali?»
«Questa parte si è
rivelata sicuramente la più incredibile di tutte.» rispose la dottoressa Carter
«Stando a quanto riportato sulla tavoletta numero due, pare che la Terra, così come tutti gli
altri pianeti, sia attraversata da una grande corrente di energia che percorre
la superficie terrestre come fosse un grande fiume. È proprio questa energia a
permettere l’apertura dei varchi, permettendo loro di sincronizzarsi coi buchi
neri che costituiscono le porte verso altri universi.
Tale energia
solitamente scorre senza interruzioni, ma il minerale di cui sono costituite le
rovine è in grado di fungere come da conduttore, convogliando l’energia al
centro dell’arco, e in questo modo l’arco che è sotto di esso si apre. Appena
entrati le molecole si separano, attraversano il buco nero e si ricompongono
dall’altra parte.»
«Un momento, un
momento. Convogliando l’energia. Sembra facile a parole, ma non credo esista al
mondo un dispositivo in grado di fare una cosa simile.»
«Io non ci
scommetterei.» rispose il dottor Landry con un sorrisetto.
Ad un suo cenno,
uno degli scienziati prese a lavorare sul suo computer, e due secondi dopo sul
tetto della caverna si aprì una botola da cui scese lentamente un grande marchingegno
simile ad un’antenna radar provvisto di dodici uscite, ognuna delle quali era
rivolta verso una delle statue.
Per l’ennesima
volta, Hammond rimase con il naso all’insù.
«Ma… ma cosa
diavolo…»
«Nella caverna che
abbiamo trovato scavando più a fondo» riprese il dottor Jackson «Non c’erano
solamente le tavolette, ma anche una grande quantità di minerale, abbastanza da
poter costruire il condensatore di energia.
Probabilmente i
primi coloni non disponevano della tecnologia necessaria a costruirne uno, ma
grazie ad alcune modifiche e all’utilizzo di energia nucleare come fonte
primaria di alimentazione siamo stati in grado di fare questo.»
«Volete dire che…
che potete aprirlo!?».
Il generale
sorrise compiaciuto.
«In effetti i
portali dimensionali si aprono e si chiudono continuamente, ma per periodi di
tempo molto brevi e sono assolutamente incontrollabili. Grazie a questa
installazione, però, è possibile muovere l’energia in modo da controllare ogni
cosa, dalla durata del contatto alla destinazione.»
«Ed è per questo
che lei è qui oggi, signor presidente.» disse O’Neill «Per assistere alla prima
apertura pilotata di un portale dimensionale nella storia dell’umanità».
Per operazioni che riguardavano la sicurezza nazionale
occorreva avere l’autorizzazione del presiedente, per questo Hammond era stato
convocato a New Frontier.
Ma ciò che aveva
visto e sentito nelle ultime ore era tanto incredibile e sconvolgente che gli
ci volle una giornata intera per convincersi che il rischio valeva la candela.
Aveva iniziato
come soldato ed aveva partecipato a numerose azioni di guerra, per questo,
quando diede la sua autorizzazione, volle essere presente nel momento fatidico.
Il presidente
Hammond, il generale O’Neill e tutti i comandanti dell’aeronautica militare
americana, giunti appositamente per assistere a quello che veniva definito, non
a torto il passaggio di un’epoca, erano affacciati dalla finestra più alta del
complesso.
Per la prima volta
nella sua storia, il genere umano avrebbe visto aprirsi una porta verso altri
mondi.
I dottori Jackson,
Carter e Landry erano invece nella sala comandi, pronti a dirigere
personalmente tutte le manovre necessarie alla realizzazione di quel progetto.
«Avreste dovuto
dire al presidente» disse la
Carter «Che a differenza degli altri, questo portale permette
di tracciare una rotta attraverso una sequenza di buchi neri, permettendo
quindi di raggiungere più universi invece che uno solo.»
«Se avessimo
dovuto dirgli tutti i particolari» rispose Jackson «A quest’ora saremmo ancora
qui. In questo caso tu potevi dirgli che aprendo un portale si finisce col
destabilizzare anche tutti gli altri, che potrebbero essere spinti ad aprirsi.»
«Per questo il
generale O’Neill e gli altri ufficiali hanno piazzato delle squadre attorno a
tutti i portali sensibili. Il Pentagono non vuole assolutamente che questa
storia diventi più spinosa e problematica di quanto già non sia».
La dottoressa
chiamò all’interfono il generale O’Neill per avere l’autorizzazione a
procedere, ed il generale si volse quindi verso il presidente. Questi guardò in
basso, si passò una mano sulla testa quindi accennò un sì.
«Permesso
accordato.» rispose allora il generale «Procedete.»
«Ci siamo.» disse
Jackson «Ora si balla».
Anche i tre dottori
raggiunsero ognuno il proprio posto, per procedere personalmente alle varie
fasi del processo.
«Condensatore di
energia attivato e funzionante.»
«Canale di
trasmissione, pronto. Sincronizzazione con il portale al 71%».
Landry prese
nuovamente l’interfono.
«A tutto il
personale, evacuare immediatamente il sito di scavo».
Scienziati e
militari lasciarono in tutta fretta la caverna, il cui ingresso venne
immediatamente bloccato da una robusta porta al titanio.
«Sincronizzazione
al 97%. Pronti a procedere.»
«Iniziare il
trasferimento di energia».
La grande antenna
cominciò ad illuminarsi di una luce verdastra, luce che assunse poi la forma di
dodici raggi luminescenti che si diressero verso le statue, avvolgendole dello
stesso bagliore.
«Perché l’energia
viene diretta verso quelle statue?» domandò il presidente
«Se venisse
indirizzata direttamente verso l’arco» rispose il generale «L’impatto sarebbe
troppo diretto, e il portale rischierebbe di implodere. In questo modo viene
ridistribuita e infusa in modo graduale, diminuendo i rischi».
Le statue
continuarono a circondarsi di luce, poi altri dodici fasci di luce partirono
dalle sfere sopra i bastoni e conversero al centro dell’arco. L’impatto creò
come una distorsione della luce, producendo un effetto ondulazione.
«Potenza erogata,
12%.»
«Tutto regolare».
Più passava il
tempo, più all’interno dell’arco andava formandosi come uno squarcio fatto di
luce, che diventava sempre più grande man mano che l’energia veniva convogliata
al suo interno.
«Potenza erogata,
55%».
Fu allora che
cominciarono i problemi; un portale dimensionale può generare una potenza
immensa, in grado di scuotere la terra e provocare maremoti.
L’intera struttura
tremò vigorosamente, un tremore così forte che fu avvertito anche in
superficie.
Poi, alla fine,
un’esplosione di luce.
«Potenza erogata,
100%!»
«Portale aperto!».
Era lì,
all’interno dell’arco: una porta aperta verso altri mondi.
«Stra…
straordinario.» disse il presidente, che come tutti gli altri occupanti della
stanza era rimasto con la bocca spalancata.
Ciò che gli scienziati di New Freedom non potevano sapere
era che sulla Terra c’era qualcun altro, oltre a loro, che aspettava di vedere
aprirsi un varco.
Questo qualcuno,
appena percepita la tempesta energetica, aveva immediatamente dispiegato le sue
ali nere e si era diretto verso il mare aperto, che d’improvviso si era fatto
grosso e agitato.
Giunto a poche
molte miglia dalla costa più vicina, nel punto in cui le onde erano più grosse,
si era fermato di colpo.
«Sei qui!».
Sotto i suoi piedi
si formò un circolo magico, e non appena puntò la sua spada d’oro verso l’acqua
questa si aprì come il Mar Rosso, rivelando un portale nascosto sul fondo.
«Lo sento. Il filo
che mi lega a lui!».
Senza esitazioni
volò diritto verso il portale ed entrò al suo interno, generando una luce
abbagliante, e subito dopo il mare si richiuse sopra di lui.
«Toshio, arrivo!».
Un istante dopo,
in Alaska, il portale controllato dagli scienziati cominciò improvvisamente a
dare segni di instabilità.
«Che diavolo sta
succedendo?» domandò Jackson mentre il terremoto ricominciava.
Sulla mappa
virtuale del monto appesa alla parete uno dei puntini rossi cominciò a
lampeggiare più forte degl’altri, accompagnato da un allarme assordante.
«Il portale al
largo delle Filippine sta avendo uno spropositato aumento di energia!» disse la Carter
«Che cosa!?»
«La sua struttura
si sta modificando! Sta diventando simile a questo, in grado di connettersi a
più buchi neri in serie!»
In pochi secondi
anche tutti gli altri punti presero ad impazzire.
«I portali stanno
collassando! Assorbono più energia del previsto e si espandono a dismisura!».
Intanto, in
Alaska, le cose andavano di male in peggio. Il varco aveva iniziato a sparare
fulmini tanto forti da incrinare persino i vetri in diamante, ed il terremoto
diventava sempre più forte.
«Dannazione» gridò
il presidente cercando di stare in piedi «Chiudete quell’affare!».
L’ordine non fu
necessario da inviare, perché il team di scienziati si era già messo in moto.
«Disattivare il
flusso di energia! Arresto di emergenza!»
«Togliere energia
al reattore!».
Finalmente, dopo
un minuto e più di tensione, l’antenna cominciò a perdere potenza ed il varco
prese a chiudersi, ma ci vollero almeno altri cinque minuti perché la
situazione tornasse alla normalità.
Come prevedibile,
il presidente e tutti gli ufficiali convocarono i tre capi del progetto nella
sala d’osservazione per ricevere delle doverose spiegazioni.
«Si può sapere che
cazzo è successo laggiù?» domandò O’Neill senza tanti giri di parole
«Ancora non lo
sappiamo di preciso.» rispose la
Carter guardando in basso «All’improvviso uno dei portali
secondari localizzato al largo delle Filippine è come impazzito, trasformandosi
a sua volta in un portale complesso.»
«Complesso?»
«Vede signor
presidente, esistono due tipi di portali dimensionali, detti elementari e
complessi. Quelli elementari possono sincronizzarsi con un solo buco nero, che
collega il nostro universo con quello a noi più vicino. Quelli complessi invece
sono in grado di sincronizzarsi con più buchi neri in sequenza, permettendo di
attraversare più universi uno dietro l’altro. Eravamo certi che questo fosse
l’unico portale complesso del mondo, ma evidentemente ci sbagliavamo.»
«Non c’è stato
nessuno sbaglio.» rispose Jackson «I portali sono stati attraversati da una
tempesta elettromagnetica, e questo li ha resi tutti o quasi dei portali
complessi.»
«Ma cosa ha
scatenato questa tempesta elettromagnetica?»
«Ancora non lo
sappiamo.» rispose Landry «Quello che è certo è che è stata forte abbastanza da
mandarli in tilt, e per un po’ di tempo stimo che saranno inutilizzabili».
In quella, un
altro ufficiale entrò nella stanza.
Il presidente si
alzò in piedi.
«Notizie
dall’esterno?»
«Il fenomeno è
avvenuto anche in Paesi non sotto il nostro diretto controllo, e ha mandato in
tilt i sistemi di comunicazione di tutto il mondo. Russia, Cina e Unione
Europea sono al buio.»
«Notizie dalle
squadre dislocate a guardia dei portali?» chiese O’Neill
«Hanno risposto
tutte all’appello… tranne una.»
«Come!?»
«La squadra numero
sedici delle forze armate giapponesi, dislocata a Hokkaido e direttamente ai
nostri ordini. Nessuna notizia. Il posto è deserto.»
«Oh, mio Dio».
Regis aveva appena portato la carcassa del robot sconfitto
qualche giorno al suo laboratorio sotterraneo, una stanza non molto grande che
fungeva sia da studio sia da laboratorio per gli esperimenti di alchimia,
quando si sentì chiamare.
«Maestro! Maestro!
Presto, venite a vedere!».
Era Dave, euforico
come non lo era mai stato.
Senza pensarci su
due volte Regis mollò il robot appena dentro la stanza e corse su per le scale,
ed appena uscito all’esterno trovò il suo discepolo con il naso all’insù e gli
occhi carichi di meraviglia. Alzata anche lui la testa, non riuscì ad evitare
di spalancare a sua volta la bocca per lo stupore.
Nel cielo si erano
addensate improvvisamente minacciose nuvole nere cariche di fulmini, che
girando vorticosamente su sé stesse intorno ad un cielo perfettamente limpido
avevano dato vita a quello che sembrava un tunnel oscuro il cui fondo era
impossibile da distinguere.
«Maestro. Che
cos’è quello?»
«Non… non ne ho
idea.» rispose Regis altrettanto esterrefatto.
Dopo qualche
minuto, dal tunnel uscì un fascio di luce, che precipitando come una stella
cadente si diresse oltre la linea dei monti Uraj, a sud.
Contemporaneamente,
Regis fu pervaso da una strana sensazione, sconosciuta e famigliare allo stesso
tempo, che lo portò a toccarsi il cuore.
«Mestro.» disse
Dave vedendolo sudare «Vi sentite bene?»
«Sì Dave, non
preoccuparti.» si affrettò a rispondere lui, nel tentativo di celare il proprio
nervosismo “Questa sensazione… quand’è che l’ho già provata?”.
Subito dopo il
grandioso spettacolo prese ad attenuarsi, scomparendo con la stessa rapidità
con cui era venuto, e lasciando senza parole, oltre a Regis e Dave, l’intera
regione, dal momento che tutti, dalla capitale Qerin all’accademia Ouraji,
l’avevano potuto vedere.
«Non mi piace.»
disse il professor Sagis, affacciato dal suo studio «Questo non promette nulla
di buono».
La luce uscita dal
tunnel toccò terra molto lontano dalla casa di Regis, nel mezzo del deserto
meridionale, a pochi passi dalle sponde del grande oceano di Nebegi, vicino
alla città portuale di Saix.
Quando si diradò,
al suo posto era comparso Erik, ancora nascosto nel suo vistoso soprabito nero.
«Ce l’ho fatta.»
disse togliendosi dalla fronte una ciocca dei suoi capelli d’argento
«Percepisco la sua presenza. Toshio è qui».
Inginocchiatosi,
raccolse da terra un pugnetto di sabbia e la guardò stupito.
«Questo mondo… è
saturo di potere magico. Se Toshio è rimasto qui per otto anni, le sue abilità
saranno aumentate a dismisura. Devo affrettarmi a ritrovarlo».
Il corpo del robot morto era ora disteso sul grande tavolo
in legno al centro del laboratorio, pronto per essere
analizzato.
Era ferma
intenzione di Regis scoprire quanto più possibile su quelle macchine
incredibili e pericolose, ma soprattutto tanto estranee
al mondo in cui si trovava.
Ciò a cui lui e Dave avevano assistito poche ore prima lo aveva
visibilmente sconvolto, e malgrado quella strana sensazione fosse ormai
svanita, Regis avvertiva di tanto in tanto un dolore al cuore, accompagnato da
una sgradevole sensazione di bruciore tutto attorno alla cicatrice che
troneggiava sulla parte sinistra del suo petto.
«Maestro.
Vi sentite bene?»
«Sì,
tranquillo. Ora però occupiamoci di questo robot. Forza, aiutami».
Dave avvicinò al
tavolo un ripiano su rotelle con sopra tutto quello
che sarebbe potuto servire: cacciaviti di varia grandezza, pinze, martelli,
seghetti, e un cristallo elementale del tipo fuoco forte abbastanza da
sciogliere tre barre di acciaio in fila.
«Scusi
Maestro. Di preciso, cosa dovremmo fare noi ora?»
«Un’autopsia.»
«Un’autopsia!? Ma a che scopo?»
«Questi
robot sono del tutto fuori luogo in questo mondo. L’altra volta non sono
riuscito a portare via molte cose, ma stavolta voglio arrivare fino in fondo.»
«Pensate forse che
fosse tutta opera di Yu-Lao?»
«Non
credo proprio. Quel sadico pazzo non era certo in grado di procurarsi un simile
strumento da solo. Mi pare evidente che gli è stato consegnato da qualcuno. Qualcuno in possesso di conoscenze e abilità superiori alla norma.
Qualcuno che, ci scommetto tutto, stava dietro sia al
rapimento della principessa sia all’attacco all’accademia del mese scorso.
Comunque, ne sapremo di più non appena lo avremo analizzato approfonditamente».
La prima cosa su
cui si concentrò l’attenzione di Regis fu ovviamente il rivestimento esterno
del robot. La sua corazza era straordinariamente solida, ma allo stesso tempo
flessibile e duttile.
«È
una lega che non avevo mai visto prima. Morbida e flessibile,
ma resistente come il titanio. E anche straordinariamente leggera. Per
questo era così veloce.»
«Volete dire che
nel vostro mondo non esiste nulla di simile?»
«No
di certo. E non oso pensare alle conseguenze che una simile tecnologia potrebbe
portare, se male utilizzata».
Anche le giunture
fra le varie parti del corpo erano straordinariamente efficaci, ma ciò che a
Regis premeva di più visualizzare era l’apparato interno, quindi prese il
cristallo, ma prima che potesse cominciare a lavorare per sciogliere la
protezione si accorse di dieci piccoli pulsanti con altrettanti numeri che andavano
dall’uno allo zero e un vetrino su cui apparivano otto zeri uno
dietro l’altro nascosti vicino all’articolazione della gamba destra.
«Dannazione.
Purtroppo qui serve un codice di accesso. Ma possiamo
aggirare l’ostacolo».
Prese dunque il
suo palmare, srotolò una spina segreta e la inserì nell’alloggiamento affianco
allo zero, quindi prese a pigiare sul suo marchingegno fino a che, una dopo
l’altra, otto cifre non comparvero miracolosamente sul vetrino del robot.
«Scacco Matto».
Si udì una sorta
di allarme, poi il busto del robot si aprì appena sopra l’inguine, e più si
sollevava più dall’interno giungeva una corrente gelida, degna delle più alte
montagne.
Quando le
interiora della macchina vennero finalmente alla luce, Regis e Dave si videro
apparire davanti una grossa sfera di metallo ricoperta
di cavi e di tubi e protetta da una spessa struttura simile ad una gabbia
toracica; sotto di essa, all’altezza dell’intestino, c’era un cilindro alto uno
o due centimetri che spuntava da una base metallica.
«Stupefacente.»
disse Regis
Regis provò ad
avvicinare la mano allo squarcio presente sulla parte destra della sfera,
all’altezza del punto in cui aveva svuotato il suo caricatore, ma il freddo
minacciò di congelargli il dito, e nel ritirarla si tagliò leggermente il palmo
su un bordo spigoloso del rivestimento esterno.
«Che diamine.»
brontolò
«Che c’è maestro?»
«L’interno
era come una capsula ibernante. Almeno venti gradi sotto zero. E l’incredibile
è che si mantiene a questa temperatura anche ora che è la parte interna stata
scoperchiata.»
«Allora cosa
facciamo?»
«Va’ a prendermi i guanti.»
«Sì, subito».
Dave portò un
vecchio paio di guanti in pelle molto resistenti al
freddo, Regis li infilò e finalmente poté avvicinare le mani senza il pericolo
di vederle ricoprirsi di ghiaccio.
Dopo qualche
secondo, da dentro la sfera cavò fuori una strana cosa delle dimensioni di un
pugno all’apparenza metallica, ricoperta da uno strano liquido azzurro che
gelava qualunque cosa toccasse.
«Mio
Dio. Un cuore artificiale.»
«Un… cuore
artificiale!?» ripeté Dave «Vuole dire… un cuore fatto
dagli uomini!? Ma… è controsenso.»
«Questi e altri
sono i poteri della scienza, Dave».
Regis prese un
campione della sostanza azzurra e lo mise sotto ad un
microscopio. Malgrado la bassa potenza dello
strumento, gli fu possibile vedere migliaia di piccolissimi esseri simili a
ragni che si agitavano all’interno di quella poltiglia.
«Sembrano
nanorobot.»
«Nanorobot?
Vuole dire, robot microscopici?»
«Esatto».
Con la stesso metodo usato per il petto, Regis rimosse anche la
parte superiore della testa del robot, mettendo a nudo un complesso sistema
meccanico impossibile da spiegare a parole che Regis chiamò computer centrale.
«Ora
comincio a capire il funzionamento di questo robot. Il cuore artificiale,
pompando, spinge il liquido organico in circolo tramite quei tubi, e con esso i
nanorobot, che raccolgono le informazioni e le distribuiscono ai vari computer
secondari disseminati in tutto il corpo. In questo modo la mole di lavoro è
distribuita su più sistemi operativi, diminuendo il tempo di reazione e
rendendo così il robot più veloce e imprevedibile.»
«Non credo di
seguirla.» disse Dave, che non capiva quasi nulla di quel discorso
apparentemente sconclusionato
«È
la stessa logica su cui si fonda il corpo umano. Il cervello invia dei segnali
che vengono poi interpretati dai vari organi. E date
le dimensioni ridotte di questo robot, tale operazione poteva avvenire in tempi
estremamente rapidi, pari a quelli di un normale
essere umano. Ecco spiegata quindi la sua incredibile abilità nel
combattimento.»
«Ma
come faceva a funzionare? A muoversi?»
«Questo ancora non
lo so».
Per tentare di
rispondere a questa domanda Regis toccò il cilindro sull’addome, e
immediatamente questo si sollevò, rilasciando un'altra corrente di aria
freddissima.
«Sembra
proprio una batteria. E ce ne sono sei.»
«Una batteria di
che tipo?»
«Credo sia energia
nucleare».
L’esame autoptico durò tutta la notte, e ad un certo punto Dave crollò addormentato sul divano; Regis
lo lasciò dormire, perché tanto non c’era più alcun bisogno di tenerlo sveglio,
lui invece continuò nel suo lavoro.
Voleva scoprire
assolutamente l’origine di quell’essere, e voleva capire tutto del suo
funzionamento.
Erano quasi le tre
del mattino, quando la sua attenzione fu attirata da una specie di pulsante
mascherato da semplice scanalatura.
«E questo cosa…».
Gli fu sufficiente
sfiorarlo, e per incanto sopra il robot si materializzò una sua copia virtuale
tridimensionale simile in tutto e per tutto all’originale; un ologramma, come
Regis lo avrebbe chiamato.
L’unico problema
era che i segni che scorrevano a fiumi tutto accanto alla proiezione erano
assolutamente indecifrabili; sembravano geroglifici, o scritte runiche, ma
neppure lui riusciva a capire cosa volessero dire. Tuttavia, riuscirono
comunque e risvegliare qualcosa nella sua mente.
“Dove ho già visto
questi simboli?”.
Nella stanza era
calato un buio quasi totale, l’unica luce era quella di
alcune candele che ardevano qui e là inserite negli alloggiamenti sul muro.
Regis era preda di
una strana sensazione, tutto era così confuso, così indistinguibile.
Era sicuro di aver
già visto quei geroglifici da qualche parte, ma non gli riusciva proprio di
ricordare dove ciò fosse accaduto.
Si sentiva strano,
avvertiva su di sé un senso di soggezione e impotenza che lo lasciavano
immobile, senza volontà.
Gli sembrò di
ritrovarsi a viaggiare nell’immensità dell’universo; era come se le stelle
passassero davanti a lui mentre le osservava al di là di
una barriera, con una luce accecante che lo circondava.
In quello stato di
apparente animazione sospesa, una frase cominciò a ronzargli nella mente,
riecheggiando come una campana che disperde nell’aria i suoi rintocchi.
Tutto è un sogno
In un altro sogno
Un principio
Una fine
La Guerra dei Mondi
Poi, il buio. E,
poco dopo, una voce amica che lo chiamava.
«Maestro?
Maestro».
Regis si riebbe
come da un sogno, con la mano del suo allievo che gli toccava la spalla e lo
scuoteva leggermente.
«Dave…».
Le candele erano
ormai spente, e dalla finestrella a ridosso del soffitto entravano dei raggi di sole.
«È mattina…».
La sensazione di
confusione era del tutto scomparsa, Regis aveva come la sensazione di essersi
appena svegliato da un lunghissimo sonno; si passò la mano dietro la testa.
«Dannazione,
un’altra notte passata insonne a studiare. Bisogna che ci dia un taglio con
questa storia.»
«In effetti,
sarebbe stato meglio per voi dormire.»
«Hai ragione».
Poi, finalmente,
Regis si ricordò cosa era in programma per quel giorno.
«Accidenti,
me ne ero quasi dimenticato. Oggi è il grande giorno.»
«Infatti. Domani comincia il torneo.
Dobbiamo andare in città per iscriverci.»
«Ora
mi spiego perché sei così mattiniero. Sei in ansia, dico bene?»
«Beh, in effetti…»
disse Dave arrossendo
«Allora sbrigati a
preparare il caffè, poi raduna le tue cose e preparati a partire.»
«Subito!».
Dave corse subito
in cucina fremendo dall’eccitazione; non gli sembrava vero che finalmente
avrebbe potuto vedere Qerin, la capitale del regno.
Regis si attardò
nel seminterrato per fare un po’ di ordine sul tavolo al centro della stanza
che traboccava di libri, alcuni aperti, altri chiusi e accatastati uno sopra
l’altro. Si accorse così di avere una ferita sul palmo della mano; niente di
grave, ma proprio non riusciva a ricordarsi di come se la fosse procurata.
«Non credo sia il
caso di rimuginarci troppo su.» disse alzando le spalle «In fin dei conti,
ormai sono abituato a ferite e simili».
Concluso
il suo lavoro salì velocemente le scale e lasciò la stanza chiudendosi la porta
alle spalle, senza avvedersi però di una strana macchia di liquido azzurro che
gocciolava dal bordo del tavolo.
Camminando sotto un sole cocente,
che avrebbe fatto desistere anche il più resistente dei nomadi, Erik si era
messo in marcia attraverso il deserto.
Non sapeva bene dove stesse andando; a dire la verità, non sapeva
neppure dove si trovava.
Era giunto fin lì
seguendo il filo che lo legava al suo nemico, ed era ansioso di incontrarlo.
Non sapeva ancora come e quando, ma era certo che prima o poi
si sarebbero trovati nuovamente faccia a faccia.
Era il loro
destino.
In fin dei conti,
loro non erano altro che le due metà di una sola persona, era inevitabile che prima o poi finissero per rincontrarsi.
Ad
un certo punto, il suo peregrinare lo condusse in un’oasi, un piccolo sprazzo
di vita nell’immensità del nulla che regnava incontrastato tutto intorno.
A differenza dei
suoi simili, ai quali per la verità era accomunato solamente dalle circostanze
in cui era venuto al mondo, Erik era soggetto ai bisogni naturali tipici degli
uomini, come il cibo, l’acqua e il sonno, questo in virtù dell’avere un corpo
naturale, fatto di carne e di ossa, e non un semplice involucro di energia.
Raggiunse le rive
della fonte, si inginocchiò e raccolse un po’ d’acqua
fra le mani, ma quando fece per bere alle sue orecchie giunse un suono
armonioso, di incredibile bellezza; un flauto.
Alzati nuovamente
gli occhi, si ritrovò a tu per tu con un curioso
spiritello alto non più di dieci centimetri; somigliava incredibilmente a
quelle fate dei racconti popolari, con il corpo minuto di bambina, i capelli
rossicci, ali piccole da farfalla e dei buffi anelli di peluria multicolore al
collo, ai polsi e alle caviglie.
Era circondata da
una luce rosata, e il battito delle sue ali diffondeva tutto intorno
una sostanza simile a polline che brillava come polvere di stelle.
«E tu…» disse Erik
«Tu cosa sei?».
Lei non rispose,
limitandosi a ridere leggermente, poi cominciò a volare fra le palme nella
direzione da cui sembrava provenire il suono del flauto.
«Ehi, aspetta!».
Erik la seguì, e
fatti pochi passi raggiunse quello che sembrava un tendalino,
sotto al quale seduta su dei tappeti, trovava protezione dal sole una vecchia
signora vestita di scuro, con un velo a coprirle la testa e decine di quegli
spiritelli che le volteggiavano intorno.
Era lei a suonare
il flauto, un suono così bello che Erik non riuscì a trattenersi dal rimanere
immobile ad ascoltarlo.
Quando la musica
finì, la vecchia signora girò lo sguardo verso di lui, sorridendogli.
«Benvenuto,
ragazzo. Non capita spesso di veder passare dei forestieri in queste terre sperdute.»
«Chi
sei tu? Che cosa ci fai in un posto simile?»
«È davvero così
importante saperlo?».
La vecchia ripose
il flauto e sollevò il coperchio di una teiera di ceramica che aveva ai suoi
piedi; al naso di Erik giunse un buonissimo odore di erbe aromatiche.
«Immagino avrai
sete, e il tè è l’ideale per recuperare le forze con questo caldo.»
«Non hai risposto
alle mie domande.»
«Hai
ragione, e ti chiedo scusa. Ma sai, per le persone come me è
problematico rivelare la propria identità, perché le conseguenze del farlo
possono essere imprevedibili. Dovresti saperlo anche tu, Erik.»
«Tu sai il mio
nome?»
«Oh,
io so molte cose. E per rispondere alla tua domanda, è proprio per questo che
mi trovo qui. In queste terre sperdute, i miei occhi non sono costretti a
vedere cose che non si vorrebbero mai vedere.»
«Cose di che
tipo?»
«Le
cose che altri non vogliono vedere. Le cose che solo noi possiamo vedere, ragazzo.»
«Che cosa!?».
Gli occhi di Erik
mutarono, diventando rossi e malevoli.
Era il potere
della sua gente; il potere di vedere oltre l’aspetto
esteriore delle persone e poter scorgere la loro essenza, fino ai più remoti
angoli dell’anima. Dentro a quella donna però Erik non
vide un’anima, ma un nucleo oscuro che pulsava come un cuore, e immediatamente
sfoderò la sua spada d’oro.
«Tu… sei una
Rinnegata!».
La donna non si
scompose minimamente alla vista di quell’arma, e con una calma incorruttibile
prese a versare il tè in due piccole ciotole; una la tenne per sé, l’altra fu
sollevata da due spiritelli e portata a Erik, che la guardò con sospetto.
«Tranquillo.
Non voglio avvelenarti. Sarò anche una nostalgica, ma per me l’onestà verso la
propria gente viene ancora prima di tutto».
Erik allora ripose
cautamente la spada, prese la ciotola e sorseggiò la bevanda: era buonissima.
«Come hai fatto ad ottenere un corpo? Sei dalla parte dell’imperatore?»
«L’Imperatore
sarà anche potente, ma ci sono dei limiti che neppure lui è in grado di
superare. Questo universo è decisamente troppo lontano
dal tuo, e non è in grado di farvi giungere il suo potere.»
«Ma allora come…»
«Come
ti sarai sicuramente già accorto, qui il potere della magia è molto più grande
che nel mondo da cui provieni. Abbastanza da permetterci di acquistare fattezze
umane.»
«Permettervi?!Ma allora tu… non sei l’unica.»
«Mi
stupirei del contrario. Fino a che ci saranno gli uomini, ci saranno anche i
Rinnegati. È un cerchio inscindibile».
Erik rimase senza
parole a quell’affermazione. Il potere di sondare lo spirito di quella vecchia
era incredibilmente più sviluppato del suo; forse, raggiungeva persino quello
dell’Imperatore.
Se un Rinnegato
poteva ottenere una simile forza in quel mondo, si diceva, quanto poteva
diventare forte un essere umano?
«I Rinnegati
possono nascere in molti modi.» proseguì la vecchia «Un
trauma insormontabile, un incantesimo purificatore, persino una scelta
volontaria. È stato così per tutti noi.»
«Anche per te?».
Lei mise a terra
la sua tazza e non rispose.
«Noi incarniamo
ciò che gli esseri umani maggiormente odiano e disprezzano.» disse Erik «Siamo quella parte della loro anima che non vogliono
mostrare agli altri. Per questo non saremo mai i benvenuti fra
di loro. Per questo siamo condannati a vivere per sempre nella
solitudine e nel dolore.»
«Lo so
perfettamente, ragazzo.» rispose la vecchia alzando leggermente la voce, pur
mantenendo un’apparente serenità «Lo sto provando
tuttora, sulla mia pelle. Ma se io ora mi trovo qui
non è perché sono stata cacciata; è perché l’ho voluto io.»
«Perché mai?»
«Perché
io posso vedere. Non vorrei, ma i miei occhi vedono anche se
io non voglio. E io non ce la facevo più a vedere
l’ipocrisia e l’impurità che dimora tanto negli uomini quanto nei Rinnegati.
Non hai idea di cosa voglia dire aver vissuto per così tanto
tempo circondata da simili sentimenti.»
«Quanti anni hai?»
«Quasi
ottocento. A differenza delle anime degli esseri umani, che possiedono una loro
energia, le nostre sono soggette all’indebolimento, e lentamente si consumano
fino a scomparire. Per questo dobbiamo assorbire energia da tutto ciò che ci
sta intorno, utilizzandola sia come nutrimento sia come materiale da
costruzione per forgiare i nostri corpi.
Siamo come dei
parassiti, dei germi che infestano quel grande organismo che è il nostro mondo,
attaccandoci a lui e succhiandone lentamente la vita.
È anche per questo
che tutti ci odiano, ci temono e ci distruggono. Perché, lentamente ma
inesorabilmente, conduciamo alla morte tutto ciò che ci circonda.»
«Noi di solito
tendiamo ad assumere sembianze che ricordano da vicino
coloro che ci hanno generati. Per caso la tua creatrice era una donna anziana?»
«Una
donna anziana? No di certo. Era un’aspirante chierica di diciassette anni.
«Un’aspirante
chierica? Vuol dire una persona dal cuore puro. Come puoi essere stata creata
da un simile essere umano?»
«Vedi, ogni
chierico di questo Paese, prima di prendere la veste sacra, deve sottoporsi ad un rito di purificazione.
La mia creatrice
però non era giunta lì per sua libera scelta. Perché suo padre potesse mantenere integro il proprio patrimonio, da passare poi al
suo primogenito, aveva costretto lei a prendere la strada della castità e della
preghiera. L’aveva strappata dalla sua casa, dai suoi amici, e dall’uomo che
amava, condannandola a passare il resto dei suoi giorni chiusa in un monastero.
Al momento del
rito, nel cuore di questa ragazza l’odio e l’amarezza erano grandi a tal punto
che con la sua purificazione io presi vita.»
«E poi cosa
accadde?»
«Come tutti i miei
simili, fin dal momento della mia nascita iniziai a provare un odio profondo
verso colei che mi aveva generata. Ero confusa,
spaventata e infuriata, e obbedendo alle nostre leggi promisi di non darmi pace
fino a che non avessi ottenuto la mia vendetta.
Lei passò i
successivi quarant’anni a fuggire da un luogo sacro all’altro, nel tentativo di
sfuggirmi, ma alla fine io la raggiunsi e la uccisi con queste mie mani,
stringendole attorno alla sua gola fino a sentire il suo ultimo respiro.
Eppure, a dispetto
di quanto mi era stato promesso, la sua morte non mi arrecò alcuna
soddisfazione. Al contrario, il mio tormento aumentò a dismisura.»
«Per quale
motivo?»
«Perché
lei era morta. Le sue sofferenze erano finite, le mie invece le stavo ancora
subendo, e avrei continuato a subirle da qui alla fine dei tempi.»
«Noi Rinnegati
saremo anche longevi, ma non siamo immortali.»
«Lo so benissimo,
e ringrazio il cielo che finalmente, dopo tanto soffrire, stia per giungere la
mia ora.»
«Perché
aspettare tanto? Se volevi morire, c’era un modo molto più rapido. Ti sarebbe
bastato smettere di assorbire energia, e nell’arco di pochi giorni saresti
scomparsa.»
«Sì,
avrei anche potuto farlo. Ma per quelli di noi che non chiedono altro che di
morire c’è un grosso ostacolo che ci spinge alla fine a rinunciare a questa
possibilità.»
«E sarebbe?»
«Il
dolore. Per un assurdo scherzo del fato, è l’unica cosa che un Rinnegato è in
grado di provare. Tu non puoi saperlo, perché non sei completamente uguale a
noi, ma lasciarsi andare alla scomparsa è un procedimento estremamente
lungo e doloroso, sia sul piano fisico che su quello morale. È come voler
morire di sete sulle sponde di una sorgente. Devastati dal dolore, vediamo il
nostro corpo scomparire gradualmente, mentre l’energia che potrebbe
risparmiarci un simile calvario continua a scorrere placidamente davanti ai
nostri occhi, quasi ci stesse invitando a carpirla».
L’espressione
della vecchia signora si era fatta di colpo lugubre e
minacciosa, tanto che anche le fate si mantenevano a distanza.
«Tu hai cercato di
morire, non è vero?»
«Sì, ci ho
provato.» rispose lei riacquistando un’apparente serenità «Ma non sono
resistita ad un simile calvario. E poi, c’è anche un
altro problema che spaventa molti dei miei simili. La morte stessa è per noi
motivo di terrore più di quanto non lo sia per gli esseri umani.»
«Che intendi
dire?»
«Gli
esseri umani hanno delle garanzie dopo la morte, o comunque sperano di averne,
e questo accende in loro la speranza. La speranza di redenzione per le loro
anime, per le anime dei giusti e dei virtuosi che
troveranno nella morte la beatitudine eterna.
Possiamo forse
noi, incarnazione dell’oscurità, aspirare a tanto? Nel momento in cui la morte
calerà su di noi, il nostro spirito si perderà inesorabilmente nelle profondità
dello spazio, come se non fossimo mai esistiti. Scompariremo per sempre, e
questo ci spaventa. Il nulla spaventa sempre».
La signora riprese
a bere il suo tè, invece Erik abbassò lo sguardo e ridusse in polvere la sua
tazza stringendo il pugno.
«No!
Questo non è vero!».
Lei allora rialzò
gli occhi, guardandolo interdetta.
«È
vero che siamo nati dall’oscurità, è vero che in noi albergano i sentimenti più
reconditi e malvagi degli esseri umani! Ma questo non
significa che non possiamo assaporare a pieno la bellezza del mondo in cui
viviamo, non significa che non possiamo sperare in un futuro migliore, libero
da questa nostra condizione di sofferenza e denigrazione!».
La vecchia signora
rimase con la bocca spalancata per lo stupore, e mentre Erik cercava di
riprendere fiato percontenere
la propria collera repressa, lei nuovamente gli sorrise.
«Ho capito subito
che tu eri diverso da tutti noi. Il tuo creatore
doveva essere davvero una persona fuori dal comune. Se al mondo ci fossero
uomini come te, il nostro popolo probabilmente non avrebbe motivo di esistere.
Io mi sono arresa
molto tempo fa. Sono venuta qui, e pensavo di dover
trascorrere nella solitudine il lungo tempo che mi restava da vivere. Questi
spiriti però hanno voluto restarmi vicini, e hanno
alleviato in parte le mie sofferenze».
Uno degli spiriti,
quello che aveva incrociato lo sguardo di Erik al suo arrivo all’oasi, volò in quella verso di lui e prese a volteggiargli intorno,
posandosi infine nel palmo della sua mano.
«Hai conquistato
la sua fiducia.» disse la vecchia «Portala con te. Ti
assisterà nel tuo viaggio.»
«Ma…
ne sei sicura? Non ti dispiace separarti da lei?»
«Naturalmente.
Ma se lei ha deciso così, non vedo ragione di
ostacolarla. Tu hai di fronte a te un lungo cammino, e il suo potere ti sarà
molto utile per superare le prove che ti aspettano».
Dopo aver fatto scorta di acqua e cibo, Erik si preparò a
rimettersi in marcia.
Prima di partire,
però, volle puntualizzare una cosa con la vecchia signora.
«Anche se credo in
un futuro migliore per il nostro popolo, io ho ancora una questione in sospeso
con il mio creatore, e se tale questione potrà essere risolta solo con la sua
morte, allora così sia.»
«Così sia.»
replicò lei con un enigmatico sorriso.
Erik mosse un
passo per andarsene, ma la vecchia lo richiamò di nuovo.
«Fra qualche
giorno, alla capitale, si terrà un grande torneo a cui
prenderanno parte i migliori guerrieri del regno. Se il tuo creatore è chi
penso io, è lì che lo devi cercare».
Gli occhi di Erik
si accesero come quelli di un gatto.
«Grazie.»
«Non
c’è di che. Buona fortuna. Ne avrai bisogno.»
«Anche a te.»
«Il
nostro popolo è nelle tue mani, Erik. E non credo possano esistere mani
migliori delle tue.»
«Cosa te lo fa
credere?»
«Perché
tu sei diverso. Sei come noi, ma sei anche uomo. E porti dentro di te un potere
immenso. Risveglialo, e con esso sorgerà anche una nuova era, che vedrà
finalmente la fine del dolore e la liberazione della nostra gente dal giogo
dell’Oscurità».
Dopo quell’ultimo
scambio di parole, Erik alla fine dispiegò le ali e volò via, accompagnato
dalla sua nuova compagna di viaggio.
La vecchia signora
lo seguì con lo sguardo fino a che non lo vide sparire fra le nuvole, ed un attimo dopo il suo corpo divenne polvere.
Qerin era davvero una città bellissima, la più bella
dell’intero continente.
Alte mura bianche come la neve, che risplendevano al sole, la
proteggevano da qualsiasi tentativo di invasione.
Sorgeva in una
grande pianura, circondata da colline che traboccavano di vigneti e campi di
grano, poco distante dalle sponde del fiume Arenus,
che scendendo dalle montagne innevate raggiungeva il grande oceano dopo un
tragitto lungo quasi mille chilometri.
Si poteva accedere
alla città attraverso dodici grandi portoni perennemente sorvegliati.
Chiunque avesse
intenzioni pacifiche era il benvenuto, Qerin accoglieva a braccia aperte tutti
i visitatori, offrendo loro le sue strade larghe e asfaltate, i suoi
acquedotti, le sue fontane di acqua pura, i suoi parchi immacolati, le sue
taverne e ogni altra cosa un uomo potesse desiderare.
E in quei giorni
il via vai di gente era molto più consistente del solito, visto
che il giorno dopo avrebbe finalmente preso il via l’annuale torneo di
magia e combattimento, uno degli eventi più attesi dell’anno.
Normalmente si
sarebbe dovuto tenere all’inizio della primavera, nella prima domenica del
quarto mese, ma per ragioni ignote le autorità, primo fra tutti il re, ne
avevano deciso l’annullamento all’ultimo secondo e la posticipazione a data da
destinarsi, causando non pochi problemi a tutti i concorrenti che, giunti da
ogni angolo del regno, sarebbero dovuti tornare
indietro a mani vuote.
Regis era solito
paragonare Qerin a una città del mondo da cui proveniva di
nome Firenze; diceva che erano così simili fra di loro da sembrare quasi opera
dello stesso architetto. Anche se Qerin aveva delle dimensioni triple rispetto
a questa Firenze di cui Regis parlava, dalle descrizioni che ne faceva si poteva desumere che vi erano effettivamente molte
somiglianze, sia sul piano della progettazione sia per alcuni luoghi in
particolare.
Solamente nel
trovarsi di fronte a una delle porte, Dave, che per la prima volta metteva
piede nella capitale, rimase senza parole.
Viaggiando con il
suo maestro aveva visto città maestose e lussuosissime dimore signorili, ma
nulla era paragonabile a Qerin ed al suo trionfo di
splendore.
«Toglie il fiato,
vero?» disse Regis
«È… è
straordinario…».
Entrarono, e Dave
cominciò ad essere sempre più nervoso, come se ci
fosse qualcosa che lo preoccupava; Regis se ne avvide, ma sapeva bene quale
fosse l’origine di un simile comportamento.
«Allora,
maestro? Dove andiamo adesso?»
«Io
incomincerò con l’andare a cercare un alloggio. In quanto a te…».
Regis si fermò di
scatto e si voltò a guardare il suo allievo, rivolgendogli un leggero sorriso.
«Il posto che
cerchi si trova sul Colle Ardesiano, vicino alla
procura militare».
Gli occhi di Dave
sprizzarono stupore e gioia per ogni dove.
«Maestro, volete
dire che…»
«Non è forse
questo il primo motivo per cui volevi venire a Qerin?»
«Io… veramente…».
Regis gli mise una
mano sulla spalla.
«Capisco
che tu sia confuso e spaventato, ma occasioni simili vanno colte al volo non
appena si presentano. Te lo dico io che ci sono passato.»
«Maestro…»
«Va’, coraggio. Ci vediamo alle otto all’ingresso ovest del
parco centrale. E portale i miei omaggi.»
«Lo
farò. E… grazie…».
Senza pensarci ulteriormente, Dave girò i tacchi e corse via lungo la
strada maestra.
Era troppo
impaziente per attraversare mezza città a piedi, così,
fatti pochi metri, saltò sul primo calesse che vide per farsi portare a
destinazione.
Finalmente, molto
prima di quanto avesse sperato, il conducente si fermò davanti ad un palazzo
degno della famiglia reale, una costruzione di incredibile
magnificenza circondata da un rigoglioso giardino.
Un’ostentazione di
ricchezza assolutamente senza confini, a cominciare dall’arco d’ingresso,
l’unico lungo la robusta cancellata di bronzo, rivestito interamente di marmo
pregiato con in cima un angelo in armatura con le ali
dispiegate e una spada alzata al cielo.
Appena dentro, il
novello stregone rimase ancor più interdetto.
Il giardino era un
vero e proprio trionfo di splendore, un paradiso in terra con siepi, fiori,
serre aperte, gazebo in pietra, sentieri acciottolati, fontane, panchine e
perfino un labirinto.
E poi ragazze, ragazze a non finire, con un’età compresa
approssimativamente fra i dodici e i diciannove anni, tutte con indosso la
tradizionale uniforme scolastica dell’accademia femminile Akari,
un abito color crema più adatto alle sfilate di alta moda che all’aula di una
scuola.
Dave aveva
aspettato tantissimo quel momento e non aveva voluto farla avvisare prima della
sua visita perché voleva farle una sorpresa. Vederla di nuovo era l’unica cosa a cui pensava da diversi giorni, ma adesso, per un crudele
scherzo del destino, non aveva il coraggio di andarla a cercare. Era dilaniato
dai dubbi… e se suo padre nel frattempo l’avesse fatta fidanzare per forza con
qualche presunto gentiluomo che lei odiava?
E se lei si fosse
dimenticata di lui? No…Era assolutamente certo che Mandy
non si sarebbe mai dimenticata di lui né della sua promessa. Tirarsi indietro
in quel momento sarebbe stato come tradire la promessa per cui aveva tanto
lottato e aveva troppa voglia di rivederla per andare via, così si fece
coraggio e, attraversato il viale, entrò nella scuola. Appena entrato, si
ritrovò in un’enorme sala di gran lusso, sicuramente molto diversa da tutte
quelle che potevano aver visto nel loro paese e faticava a immaginarsi la sua Mandy sempre così allegra e piena di energia rinchiusa in
quelle mura. Per quanto potessero essere lussuose, non potevano
essere paragonate neanche lontanamente ai prati verdi in cui si divertivano a
passare i loro pomeriggi.
«Mi scusi, posso
sapere chi è lei?» chiese quella che sicuramente doveva essere un’insegnante
Dave osservò la
donna. Aveva un’aria assolutamente severa.
È vero che vestiva
in modo abbastanza decoroso, ma non certo all’altezza di un posto simile.
«Mi perdoni, io… stavo cercando MandyKingersan.»
«Adesso
non c’è. Lei chi è? Un parente?»
«No, sono… un
amico.»
«Beh
mi spiace. Questo comunque non è l’orario delle visite».
Dave capì che non
gli avrebbe detto di più così decise di uscire. Sarebbe
sicuramente tornato a trovarla ma quello non era il momento adatto
evidentemente.
Stava per tornare
dal maestro Regis quando una carrozza di grande bellezza tirata da una coppia
di stalloni varcò il cancello fra gli inchini rispettosi dei due guardiani e,
passando accanto al giovane, si fermò ai piedi della scalinata di ingresso. Incuriosito si girò
per vedere a chi appartenesse, e quando un servitore aprì la porta vide
scendere una ragazza con un grazioso vestito rosa e i lunghi capelli biondi
sciolti sulle spalle, accompagnata da un giovane ragazzo in abiti sfarzosi sormontati
da una parrucca nobiliare che la salutò baciandole elegantemente la mano prima
di risalire. L’avrebbe riconosciuta tra milioni di ragazze, era senza dubbio la
sua Mandy. Ma cosa ci faceva
con quel ragazzo?
Sembrava anche
contenta di stare con lui…
Aspettò che la
carrozza fosse ripartita per chiamarla
«Mandy?».
Lei, nel sentire
quella voce, si girò giusto un istante prima di salire la scala, ma non guardò
Dave con quello sguardo che lui tante volte aveva visto nei suoi sogni. Forse,
dapprima, non lo aveva riconosciuto; in fin dei conti, tre anni erano passati
anche per lui.
«Dave!?» disse dopo qualche secondo di esitazione.
Lui accennò un
sorriso, e allora lei gli si avvicinò, ma ancora una volta le dimostrazioni di
affetto che un tempo erano così frequenti, come abbracci e baci sulle guance,
non si presentarono, sostituiti da un banalissimo guardarsi negli occhi.
Mandy gli sorrideva, ma sembrava cordiale più che felice.
«È
bello rivederti. Quanto tempo è passato? Due anni?»
«Quasi tre.»
rispose lui con voce leggermente mesta «Due anni e trecentosedici giorni.»
«Così tanto?».
Sembrava quasi
esserci un muro invisibile fra di loro, e dopo lo
sguardo iniziale nessuno dei due sembrava intenzionato ad incrociare gli occhi
dell’altro.
«Non mi ero
neanche resa conto di quanto tempo mio padre mi avesse lasciata
chiusa qui dentro. Le giornate sono tutte uguali. Lezioni,
passeggiate, ancora lezioni, buone maniere, cene di lusso, incontri di alta
classe.»
«È… interessante.»
«Pensa,
sono stata perfino al palazzo reale. Ho incontrato anche la regina».
Era come se
entrambi stessero disperatamente cercando di girare intorno al problema, poi Mandy sembrò perdere di colpo tutto quel bon ton mal
eseguito per ritornare la ragazzina vivace ed esuberante che era un tempo,
sfoderando uno dei suoi magnifici sorrisi.
«Comunque sono
davvero felice che tu sia venuto.»
«Non sai quanto
sono felice io.» rispose Dave senza che la giovialità di lei
riuscisse apparentemente a smuoverlo «Come stai?».
Era una domanda
stupida e lo sapeva ma al vederla la mente gli si era svuotata del tutto. Non
era più la bambina che suo padre aveva fatto rinchiudere in quella scuola, era
cresciuta ed era cambiata parecchio. Quel vestito la faceva risplendere, il
rosa era sempre stato il suo colore preferito e lui era sempre stato convinto
che le stesse benissimo perché metteva in risalto i suoi occhi chiari
«Bene,
grazie, e tu? Circolano molte voci sul tuo conto, persino a palazzo. Dicono che
tu sia l’apprendista del leggendario Regis. Ma è
vero?».
Ma
che domande gli faceva? Subito dopo essere stato preso come apprendista, Dave
le aveva scritto una lettera, raccontando quello che era successo e spiegandole
che da quel momento in poi sarebbe stato quasi impossibile scriverle ancora, dal momento che sarebbe stato molto spesso in viaggio,
occupato negli allenamenti.
Possibile che non
l’avesse ricevuta? O forse, nella sua mente ormai c’erano altri pensieri, altre
persone che forse erano state molto più presenti nella sua vita in quegli
ultimi tre anni di quanto non vi fosse stato lui.
«Sì, è così.»
rispose con voce da funerale «Mi ha preso come suo apprendista subito dopo che
sei partita.»
«Ah… capisco…».
Adesso era Mandy a tenere nuovamente lo sguardo rivolto ai ciottoli
del viale, e per Dave era stato come se gli avessero tolto l’aria. Non capiva
perché si comportava in quel modo, si era aspettato
un’accoglienza diversa da lei, infondo erano cresciuti insieme.
«Mandy… chi era quel ragazzo?»
«Ecco… lui si
chiama… Alexander Von Andersen.» rispose arrossendo «È il figlio primogenito di
un nobile delle regioni del nord».
Dave sapeva che la
risposta alla sua prossima domanda non gli sarebbe piaciuta ma doveva saperlo.
«E perché era con
te?»
«Beh… ecco… noi…».
Mandy faticava a rispondergli e lui cominciava ad avere
paura.
«Mandy?»
All’improvviso la
ragazza lo guardò arrabbiata e rossissima in viso.
«Ma come ti
permetti di venire qui dopo tre anni e chiedere chi
frequento e perché?!»
A sentire quelle
parole anche Dave perse la calma.
«C’era una
promessa tra noi se non sbaglio!»
«Ah
sì? E la promessa comprendeva il fatto che per tre
anni tu ti saresti dimenticato di me? Mio padre mi ha fatta
entrare in questa scuola perché mi sposassi e Alexander è il meglio che mi
potesse capitare, è carino e gentile e si preoccupa sempre per me, cosa che tu
in tutto questo tempo non hai fatto.»
«Questo non è vero Mandy.»
«E come posso
saperlo visto che non mi hai mai scritto e non mi hai
mai fatto avere tue notizie?!»
Dave stava per
replicare ma in quel momento l’insegnante che prima lo aveva gentilmente
sbattuto fuori, fece la sua comparsa sulla porta.
«Signorina
Kingersan, cosa sta succedendo? Questo ragazzo le
stava forse dando fastidio?» aggiunse rivolta a Dave
«No
signora Morgany, è tutto a posto. Mi scusi per la
confusione, il signorino Dave stava andando via.»
concluse guardandolo seria.
A Dave non rimase
che salutare cortesemente e andare via ma non riusciva a pensare a Mandy senza stare male. Non poteva sopportare l’idea che
uno sconosciuto parruccone aristocratico avesse preso
il suo posto. Doveva esserci un modo per farle ricordare quanto erano felici insieme e per convincerla che non l’aveva mai
dimenticata. Infondo, se era diventato l’apprendista del famoso Regis, come
aveva detto lei, era solo per convincere il padre di Mandy
che era alla sua altezza, come poteva pensare che il desiderio di gloria avesse
soffocato il suo ricordo? Doveva assolutamente trovare il modo di
dimostrarglielo.
La taverna del lupo rosso, nei bassifondi di Qerin, era il
ritrovo preferito per tutti i guerrieri e gli avventurieri che giungevano alla
capitale, ma era anche qualcosa di poco superiore ad
una bettola, con ladri, ubriachi e prostitute che la facevano da padroni.
Non era certo un
salotto reale, ma se non altro si poteva stare tranquilli, perché fra tante
brutte facce nessuno si preoccupava di guardarle.
Tre piani di
balconi che si affacciavano sulla tromba centrale, pieni di tavoli
sovraffollati dove si faceva di tutto, dal mangiare al giocare d’azzardo, più
un ultimo piano più alto destinato alle camere, anche quelle poco più che
mangimi per animali.
Se non altro, il
vino e il cibo erano buoni, il che compensava seppur in parte il baccano osceno
che si faceva lì dentro.
Seduto ad un tavolo che si affacciava dal balcone del terzo piano,
Regis si stava concedendo una cena a base di pollo, accompagnato da un ottimo
vino.
Insieme a lui Dave, che era tornato al luogo convenuto per
l’appuntamento con largo anticipo. Regis aveva notato subito qualcosa di strano
in lui, malgrado cercasse con ogni mezzo di nasconderlo, ma aveva preferito non
chiedere spiegazioni.
Per cercare di
allontanare quel silenzio che c’era fra di loro, il
maestro cercò di attaccare discorso con la prima cosa che gli passò in mente.
«Ho dato un’occhiata alle iscrizioni per il torneo.»
«Ah, davvero?»
rispose il ragazzo con espressione del tutto assente
«A quanto pare
Elys parteciperà alla sessione mattutina, quella riservata agli esordienti.»
«C’era da
aspettarselo.»
«Hai
ragione. E se gli accoppiamenti saranno quelli giusti, molto probabilmente vi
affronterete in finale, e forse allora smetterà di chiamarti novellino».
Quell’ultima
considerazione fece assumere a Dave un’aria ancora più cupa e pensierosa.
«Maestro… io… c’è
una cosa di cui vorrei parlarvi.»
«Va’ bene.»
«Io… voglio iscrivermi
alla sezione professionistica».
Regis lo guardò di
sottecchi, rimanendo con la coppa di vino sospesa davanti alla bocca.
«In questi anni ho
studiato molto, e credo di essere diventato forte abbastanza per
sostenere questa prova. Con la vostra approvazione, maestro, vorrei partecipare
assieme a voi, e se gli dèi lo vorranno vorrei potermi
anche misurare con voi».
Il maestro restò
in silenzio, poi rimise la coppa sul tavolo.
«Beh,
ammetto di essere sorpreso. Non avrei mai immaginato di sentirti fare una
simile richiesta.»
«È così strano che
io voglia mettermi alla prova?»
«È strano che tu
me lo chieda proprio in questo momento».
Regis recuperò il
vino e lo trangugiò tutto d’un fiato.
«La
scelta è tua, e non sarò io a fermarti. Se pensi di
essere pronto, è mia intenzione darti fiducia.»
«Grazie, maestro».
Pochi minuti dopo,
Regis fu sopraffatto da una stanchezza improvvisa, dovuta probabilmente alla
notte in bianco del giorno prima.
«Accidenti, non mi
reggo in piedi.»
«Sarete
stanco per il viaggio. Andate a dormire. Penso io a pagare la cena.»
«D’accordo,
grazie. Credo che seguirò il tuo consiglio».
Lasciata a Dave qualche moneta di bronzo, Regis gli diede una pacca
sulla spalla e se ne andò, raggiungendo la sua camera.
Una volto raggiunto il suo letto,
Regis si stese e si addormentò all’istante sprofondando in un sonno profondo
tanto che non si rese conto neanche che qualcuno lo stava spiando.
In condizioni
normali infatti, avrebbe sicuramente notato la strana
ombra sulla tenda, l’ombra di qualcuno che era salito sull’albero appena fuori
la sua finestra e che aspettava solo che si addormentasse.
Il sonnifero che
aveva versato nel suo bicchiere aveva avuto l’effetto sperato e in pochi minuti
Regis russava già sonoramente così riuscì ad entrare e
raggiungere il suo letto indisturbato.
Era assurdo! Aveva attraversato l’universo per
trovarlo, aveva lasciato il suo mondo per raggiungerlo preparandosi allo
scontro e al più impegnativo dei combattimenti per vendicarsi di quello che gli
aveva fatto e adesso era lì, davanti a lui, assolutamente privo di qualsiasi
difesa.
Lui e la fama che
aveva in quel mondo erano assolutamente insulsi in quel momento.
Poteva ucciderlo e
raggiungere il suo scopo e nessuno avrebbe saputo chi aveva accoltellato il
famoso Regis.
La sua mano, a quel pensiero, raggiunse
immediatamente l’elsa della sua spada stringendola con tutte le sue forze.
La sua rabbia verso quell’uomo che lo aveva
creato era infinita.
Aveva creduto di poter vivere una vita normale
finché non si era reso conto di avere un potere immenso e oscuro che gli
scorreva nelle vene, ma aveva imparato a dominarlo, e proprio quando pensava di
averlo sottocontrollo tanto da poter ottenere una vita tranquilla, aveva
scoperto che la sua non era neanche una vita, e che non sarebbe dovuto
esistere. Tutto il tempo che aveva passato a cercarlo era servito per pensare e
riflettere ma, invece di affievolirsi, il suo odio era aumentato a dismisura.
Colui che l’aveva
creato lasciandolo ignaro di tutto e in balia del suo potere oscuro aveva avuto
una parte importante sulla Terra, dove quelli che erano i suoi amici lo
ritenevano un grande uomo, e adesso che era in un altro mondo veniva stimato da
tutti; non c’era uomo, donna o bambino che non conoscesse il suo nome, e lo
rispettavano come quello di una persona importante. Era conosciuto perfino dai
reali.
Lo chiamavano
l’Angelo Bianco, il salvatore sceso dal cielo per proteggere quel regno da
chiunque lo avesse minacciato.
Lui era riuscito a rifarsi una vita piena di
onore e lo aveva privato della sua. Era arrivato fin lì per fargliela pagare e
lo avrebbe sconfitto, anche con tutte le sue nuove conoscenze, anche se era
sicuro che in quel mondo pieno di energia perfino nella polvere e nella sabbia
del deserto che aveva attraversato la sua forza era
aumentata a dismisura. Lo avrebbe sconfitto. La sua mano stringeva ancora la
spada ma uno schizzo di luce accanto a lui gli fece
distogliere lo sguardo da quel volto che, per ironia della sorte, era identico
al suo.
Era la fatina che
lo aveva seguito, non sapeva perché lo avesse fatto, non aveva mai dato troppa
importanza alla sua presenza, voleva solo raggiungere e sconfiggere la causa di
tutti i suoi problemi.
«Vuoi ucciderlo?».
Sapeva che quella conversazione era solo
telepatica e che poteva sentirla solo lui, ma gli arrivava come una vocina
infantile e acuta.
Non le rispose.
Certo che voleva ucciderlo, lo voleva con tutte le sue
forze.
«Ti conviene farlo
finché è fuori combattimento, la sua forza è davvero
grande sai?».
Sbuffò divertito,
la sua forza non lo spaventava di certo. Aveva ragione, ucciderlo in quel
momento sarebbe stato immensamente facile ma non era questo che cercava; una
vittoria facile non gli avrebbe dato la sensazione di avergli fatto ripagare
tutto.
No… avrebbe dovuto lottare per salvare la sua
vita come lui aveva dovuto lottare per arrivare fin lì. Avrebbe combattuto
contro Regis, come adesso si faceva chiamare, ad armi pari, quando si fosse
ripreso, e lo avrebbe sconfitto come la consapevolezza di non avere una vita
propria aveva sconfitto lui. Sarebbe stato facile morire così, nel sonno, senza
saperne il motivo, e tutti lo avrebbero pianto ritenendolo vittima di un assassino, ma Regis doveva vederlo in faccia, doveva vedere
ciò che aveva fatto così come lui doveva vedere il terrore e l’angoscia nei
suoi occhi nel momento della morte per essere soddisfatto e ritenersi
vendicato.
La fatina doveva
aver letto i suoi pensieri perché si intromise di
nuovo.
«Se non vuoi ucciderlo,
perché hai fatto tutto questo?».
Sorrise di nuovo,
malignamente. Voleva vederlo di persona inerme davanti a lui e in quelle
condizioni la sua rabbia già enorme poteva solo aumentare e rinforzare la sua
voglia di vederlo morto. Il grande Regis placidamente addormentato che si
rigirava nel letto davanti al suo assassino gli dava già un senso di vittoria
ma non bastava neanche minimamente a fargli cambiare idea. Sentì dei passi
sulle scale e lasciò la spada.
«Arriva qualcuno».
Sciocca fatina, lo sapeva benissimo. Sapeva che era il suo
assistente e voleva che lo vedesse lì, così anche lui si sarebbe reso conto che
il suo insegnante non era poi così infallibile, anzi. Sapeva che la porta era
solo socchiusa e che nel giro di pochi secondi il ragazzo l’avrebbe aperta così
tornò vicino alla finestra, non voleva spaventarlo troppo.
Le sue previsioni
erano esatte. La porta si aprì e il ragazzo entrò.
«Maestro Regis co…» poi lo vide «Chi siete voi?!»
urlò estraendo la spada e puntandola contro di lui.
A quel gesto
scoppiò a ridere, riusciva a percepire la sua paura ed era assurdo che pensasse
di riuscire a difendersi dai suoi attacchi con una misera spada da contadino.
Decise che ne aveva abbastanza così uscì dalla stessa finestra dalla quale era
entrato mentre Dave cercava di seguirlo con lo sguardo senza potersi muovere
per la paura e l’indecisione. Anche se non avrebbe saputo dire dove, era sicuro
di aver già sentito quella risata.
Lasciata
la stanza, il lugubre individuo intraprese una fuga acrobatica fra un tetto e
l’altro della città vecchia, sempre seguito dalla sua fata.
«Avresti
dovuto farlo in quel momento. Affrontarlo faccia a faccia
sarà tutta un’altra cosa.»
«Lo so.» rispose
lui parlando normalmente «E ti assicuro che quel momento verrà molto presto.»
«Intendi
iscriverti al torneo?»
«Il torneo!? Neanche per sogno. Se devo combatterlo, voglio farlo
senza regole».
Pochi istanti
dopo, la fata si accorse che qualcuno li stava seguendo.
«Guarda,
guarda. Abbiamo compagnia».
Anche l’individuo
guardò indietro; Dave li stava tallonando, e con la stessa agilità nel salto li
aveva quasi raggiunti.
«Ehi tu, fermati!»
«Se vuoi, posso
metterlo fuori combattimento.»
«Non
se ne parla neanche. Anzi, ti suggerisco di restarne fuori».
La fata fece un’espressione risentita.
«Hai
uno strano modo di chiedere le cose. Suppongo sia prerogativa della tua razza.
Comunque, fa come vuoi».
I due a quel punto
si separarono, prendendo opposte direzioni, ma Dave
non allentò la morsa e continuò a seguire l’uomo in nero da un tetto all’altro.
D’improvviso però,
appena giunto su di un tetto a spiovente, l’individuo scomparve, lasciando Dave
comprensibilmente ammutolito.
«Che cosa…».
Dave raggiunse
quel punto e si guardò intorno tenendo la spada in mano, ma non vide nessuno.
«Come accidenti ha
fatto a sparire così?».
Stava quasi per
rinunciare, quando un’ombra nera oscurò la luce della luna, e Dave, voltatosi,
vide quell’individuo piombargli contro a pugno tratto.
Riuscì a schivare
proprio per un soffio, ma il colpo fu così forte da sbriciolare le tegole tutto
intorno per un raggio di trenta o quaranta centimetri.
«Complimenti.
Ottimi riflessi».
Quel tipo metteva
a Dave una terribile soggezione; anche per un mago esordiente
come lui era possibile percepirne l’immensa forza combattiva, che il ragazzo
poté paragonare, per vastità, solamente a quella del suo maestro.
«Perché volevi
uccidere il mio maestro?».
Quello non rispose
e guardò in basso, rendendo ancor più invisibile il volto che si nascondeva
sotto quel cappuccio.
«Chi
sei tu? Rispondimi!».
«Mi hai inseguito.»
rispose calmo l’uomo in nero «Le regole della cortesia
imporrebbero che sia tu a presentarti per primo. Anche se a dire il vero non è
necessario, Dave.»
«Ma… come fai a sapere il mio nome?»
«Oh,
io so molte cose. Gli uomini per me non hanno segreti. I miei occhi possono
vedere ogni cosa, la vostra anima è come un libro aperto. E sai cosa vedo in
questo momento nella tua? Vedo paura, vedo dubbio e
vedo frustrazione».
Dave rimase
attonito nel sentire quelle parole, e quando l’individuo risollevò di nuovo il volto i suoi occhi scintillavano di rosso.
«Tu
in questo momento sei in preda a forti dubbi. Hai paura che tutto ciò che hai fatto in questi tre anni sia stato inutile, e che la
promessa sia stata infranta.»
«La… promessa?!»
«Non
mi sorprende che ti abbia preso sotto la sua custodia. Tu sei molto simile a
lui, o meglio, a chi era in origine, prima che il suo martirio avesse inizio.»
«Di che stai
parlando?»
«La persona che tu
conosci con il nome di Regis custodisce un’infinità di
segreti. Presumo te ne abbia rivelati una parte, ma a
giudicare dal tuo sguardo direi che ha sorvolato su questo punto. Ma come avrebbe potuto fare altrimenti? Questa parte della sua
vita terrorizza persino lui».
Dave era sempre
più confuso, e si sentiva come se gli occhi di quell’individuo gli stessero
penetrando nella testa, cosa che probabilmente era effettivamente vera.
«E ora vediamo
quanto sei forte».
L’uomo in nero attaccò
nuovamente con il pugno, ma stavolta Dave non fu pronto a riceverlo e venne colpito in pieno torace; e sarebbe anche caduto dal
tetto, se non ci fosse stata una barriera invisibile ad arrestare il suo volo.
Ciò nonostante,
l’urto contro di essa fu terribile.
«Qua… quando hai
innalzato questa barriera?»
«Come?
Davvero non te ne sei reso conto? Nel momento esatto in cui hai messo piede qui
sopra.»
“E io non mi sono accorto di nulla”.
Rimessosi in
piedi, il ragazzo sollevò la sua spada, e sotto i suoi piedi comparve il
circolo magico.
«Non… non mi
tirerò indietro…»
«Sei
coraggioso. Mi affronti pur sapendo di essere nettamente inferiore.»
«Perché
avresti creato questa barriera, se non per combattere con me? Se tu avessi
voluto uccidermi, avresti potuto farlo benissimo alla taverna.»
«Accidenti,
che cambiamento. Prima tremavi di paura, e adesso mi affronti a viso aperto. Il
motivo che lo ha spinto a scegliere te diventa sempre
più chiaro!».
Al terzo assalto
Dave si fece trovare preparato e allungò il braccio sinistro.
POUSSIÈRE DE L’ÉTOILE
Tutto attorno a Dave si formarono decine di piccoli globi
di luce che sfrecciarono contro l’uomo in nero sottoforma di fasci argentei, ma
questi continuò a correre verso di lui usando la sua velocità stratosferica per
schivarli tutti.
Dave allora saltò,
caricò la sua spada di luce e la puntò contro di lui.
ENSOLEILLÉ LUEUR
Intere porzioni di tetto furono divelte dai raggi luminosi
emessi dalla spada, e stavolta lo straniero fu colpito ripetutamente mentre era
ancora in volo.
«E vai!» esclamò
Dave.
Non ebbe il tempo
di festeggiare ulteriormente, perché il nemico, usando la barriera invisibile
come una rampa, vi salì sopra, camminando in orizzontale come un funambolo fino
a sovrastare Dave, quindi spiccò un salto e gli assestò un calcio tremendo alla
spalla che lo spedì verso il basso veloce come un proiettile.
Evocando un
cerchio magico che attutisse la sua caduta modificando la struttura dell’aria
Dave si salvò l’osso del collo e riuscì ad atterrare in piedi, ma poi vide lo
straniero piombargli addosso dall’alto completamente circondato da cerchi
magici.
“Ha copiato la mia
tecnica.” pensò Dave “E l’ha modificata per potersi muovere a grande velocità”.
Riavutosi dallo
stupore Dave creò una barriera luminosa per
proteggersi dal pugno dello straniero, che dopo aver tentato inutilmente di
penetrarla saltò all’indietro, fermandosi a cinque o sei metri da lui.
Il combattimento
sembrò giungere ad un punto morto, ma d’altra parte,
se Dave aveva il fiatone per essere stato costretto ad utilizzare quattro
incantesimi uno dietro l’altro dall’altro l’uomo in nero non mostrava alcun
segno di stanchezza.
“Mai visto nulla
di simile” pensò Dave “Ha respinto tutti i miei
attacchi e ha imparato una delle mie tecniche dopo averla vista solo una
volta.”
«Lo ammetto, sei in gamba. Toshio ti ha addestrato bene».
Nel sentire quel
nome, Dave divenne pallido come un cadavere.
«Come… come fai a
conoscere il vero nome del maestro!?».
A quel punto
l’uomo in nero si abbassò il cappuccio, rivelando un volto gentile incorniciato
da soffici ed eleganti capelli d’argento che lasciò Dave ancor più sgomento.
“Quel volto…”.
Quello sorrise
chiudendo gli occhi, e ad un suo schiocco di dita la
barriera che aveva creato si dissolse in polvere di luce.
«Per
oggi mi ritengo soddisfatto. Se ti senti in vena di farmi un favore, evita di
raccontare al nostro amico Regis di questo incontro. Tanto, molto presto, ci
rivedremo ancora».
Dietro le sue
spalle apparvero per un secondo un paio di ali, nere come quelle di un corvo, e
Dave ebbe l’impressione che anche quelle non giungessero nuove ai suoi occhi.
“Ali nere…”
«Ci vediamo.»
disse facendo per saltare giù
«Aspetta!
Dimmi almeno il tuo nome!»
«Il mio nome?».
I suoi occhi rossi
si accesero nuovamente.
«Erik».
Detto
questo saltò giù dal tetto e scomparve inghiottito dal buio, lasciando il
povero Dave in preda a mille domande.
Poco lontano, la
fatina che accompagnava Erik stava tenendo compagnia ad
un povero cane legato al palo accarezzandogli il muso, quando questi prese
improvvisamente ad abbaiare, e pochi attimi dopo Erik sbucò dalle tenebre.
«Ah, sei
ritornato.» disse la fata «Com’è andata?»
«Se il suo allievo
è forte a tal punto, posso solamente immaginare quanto lo sia diventato lui.»
«Io
ti avevo avvisato. Non avrai mai più un’occasione simile, sai?».
Il giovane guardò
il cielo stellato; i suoi capelli, alla luce della luna, scintillavano come
diamanti.
«Per
dieci anni non ho desiderato altro che poterlo uccidere, ma non volevo farlo in
quel modo. Voglio che mi veda in faccia.»
«Per quale motivo?»
«Sono
convinto che per lui io rappresenti solo un incubo, uno spettro che si annida
nei suoi sogni. Dovrà invece scoprire di persona quanto io sia reale, e dovrà
rendersi personalmente conto di quello che mi ha fatto».
Le mani di Erik
tremavano, un gesto che non sfuggì allo spiritello.
«Hai paura?».
Erik chiuse gli
occhi.
«Paura?
Niente affatto. Sono elettrizzato. Misurarmi con Toshio è stato per questi otto
anni il solo scopo della mia vita. Avevo il timore di incontrare qualcuno
indegno del desiderio di vendetta che nutrivo nei suoi confronti, ma i miei
timori si sono rivelati fortunatamente infondati.»
«Provi
piacere nel sapere il tuo avversario così pericoloso? Dire che sei strano è dire poco.»
«Questa vocina che
ho in testa comincia a risultare un po’ fastidiosa,
sai?»
«Ma sentilo!»
rispose lei fingendosi offesa «Bel modo di ringraziarmi per aver creato quella
barriera.»
«Avrei potuto
alzarla anche da solo.» disse Erik mentendo palesemente e accennando un sorriso
mentre prendeva a camminare «Non ho bisogno dell’aiuto di una fatina petulante.»
«Ti ricordo che io
ho un nome.» disse la fata andandogli dietro «Mi chiamo Lily.»
«Fatina petulante va’ benissimo.»
«Sto cominciando a
pentirmi di averti seguito, sai?».
Il giorno dopo, già di prima mattina, davanti all’ingresso
principale al palazzo reale si era ammassata una fola
colossale, come non se ne erano mai viste a memoria d’uomo.
Il torneo annuale di
per sé era già un evento che attirava l’attenzione, ma la consapevolezza che il
premio finale per il vincitore della classe professionistica sarebbe stato la Spada Cristallo portava con sé
la certezza che nei prossimi due giorni, su quel ring, si sarebbero confrontati
i guerrieri più forti di tutto il mondo conosciuto.
Fin da quando il
re Faragas l’aveva ritrovata cinquecento anni prima, la Spada Cristallo non era mai
uscita dalle stanze reali, ed erano in molti a domandarsi cosa avesse spinto
l’attuale sovrano ad offrirla in premio al vincitore di quel torneo.
Nella parte nord
occidentale del giardino, separato dal resto del palazzo da una cinta muraria
personale e circondato da imponenti statue in marmo raffiguranti dei ed eroi,
sorgeva un maestoso anfiteatro, così grande da poter ospitare al suo interno
quarantamila persone, che arrivavano a sessantamila se si contavano anche i
loggiati superiori privi di posti a sedere.
Costruito dal
precedente sovrano, era destinato appositamente allo svolgimento del torneo,
rimanendo chiuso per tutto il resto dell’anno ma diventando, in quei due
giorni, il centro delle attenzioni di una nazione intera, ansiosa di ammirare
la grandezza dei suoi eroi.
Prima che venisse
realizzato, la competizione si svolgeva nella grande piazza d’armi davanti alla
scuola militare centrale, un luogo certamente non confortevole per gli
spettatori, costretti a rimanere in piedi sotto un sole cocente.
L’anfiteatro aveva
risolto entrambi questi problemi, dotandosi di una serie di scalinate che
fungevano da seggiole e di un complesso sistema di vele che potevano essere
tirate in caso di un sole eccessivo, concedendo un po’ di ombra.
Al centro
dell’arena, grande al punto da poter ospitare due galeoni da guerra, era posto
un campo di battaglia rialzato rispetto al terreno all’incirca di un metro di
forma decagonale, con un raggio che doveva andare approssimativamente sui
quindici metri.
Realizzato con
legno e lastre di marmo, era adornato dal disegno di una stella a dieci punte,
e ad ogni angolo era posto un paletto per sostenere le tre file di catene in
ferro battuto che delimitavano il campo di gare ed evitavano ai contendenti di
cadere in caso di un colpo stordente.
I reali sedevano
su di un grande balcone che sporgeva dalla parte più alta della struttura,
dalla quale si godeva un’ottima vista tanto del terreno di scontro quanto delle
gradinate.
Ma il vero cuore
pulsante dell’anfiteatro era un luogo invisibile agli occhi degli spettatori,
esattamente sotto i loro piedi.
Un’unica, immensa
stanza grande da sola come l’intero giardino nel quale si collocava il colosso
di marmo, provvista di un grande soffitto a volta con decine di lampadari.
Vi si poteva
arrivare per mezzo di apposite rampe tutto intorno all’anfiteatro, ed erano
collegate all’arena da un ingegnoso sistema di montacarichi che portava i
contendenti ammessi alle fasi finali nella camera di attesa in cui ognuno
attendeva il proprio turno per salire sul ring.
La stanza
sotterranea, soprannominata “l’androne” dai combattenti, disponeva di sedici
ring quadrangolari di legno molto più piccoli di quello in superficie sui quali
si svolgevano gli incontri preliminari della sezione professionisti.
A differenza del
torneo dilettantistico, riservato agli studenti delle accademia militari e ai
giovani sotto i vent’anni, che funzionava con una serie di scontri a coppie ad
eliminazione diretta fino alla proclamazione del vincitore, quello dei
professionisti prevedeva una fase eliminatoria da svolgersi nell’androne.
I partecipanti
venivano divisi in sedici gruppi da quattro persone ognuno; i primi due
classificati di ogni girone accedevano alle fasi finali, in cui invece valeva
la regola dell’eliminazione diretta in caso di sconfitta.
Gli incontri delle
eliminatorie duravano due minuti, ed ogni incontro, fino alla finale, era
supervisionato da tre giudici, che oltre a far rispettare il regolamento
assegnavano anche un numero di punti pari alle prestazioni dimostrate nella
sfida.
Il KO, che si
otteneva quando l’avversario rimaneva a terra dopo i classici dieci secondi,
valeva venti punti, mentre il perdente rimaneva a secco. Anche cadere dal ring
comportava la sconfitta, ma a differenza del KO anche lo sconfitto riceveva dei
punti.
Indipendentemente
dall’esito finale della sfida, ciascuno dei due avversari scendeva dal ring con
un numero preciso di punti, che al termine dei tre incontri coi compagni di
girone venivano sommati, e i due che avevano il punteggio più alto passavano
alla fase successiva.
In caso di pareggio
la scelta spettava ai giudici, e generalmente passava il turno chi fra i due
contendenti aveva prevalso nell’incontro che li aveva visti l’uno contro
l’altro.
Proibiti archi,
balestre e altre armi da lancio, via libera a tutto: mani nude, armi, magia,
veleno, alchimia e ogni altra cosa.
Per evitare che
qualcuno potesse rimetterci la vita nel corso della competizione, tutta la zona
attorno all’anfiteatro era avvolta in uno speciale incantesimo curativo in
grado di rimarginare rapidamente qualsiasi ferita potenzialmente mortale.
Malgrado ciò
l’incantesimo non era perfetto, e un affondo di spada, anche se guarito,
lasciava comunque dietro di sé una piccola ferita, per non parlare del dolore
atroce, ed erano molti quelli che dopo un simile attacco finivano per
arrendersi. Per non parlare del fatto che l’incantesimo non permetteva di
recuperare le forze, e che a lungo andare diventava inefficace, mettendo il
guerriero in serio pericolo.
Ringraziando il
cielo, in tutti quegli anni erano stati rari i casi di partecipanti che avevano
testardamente continuato a combattere fino a morire o per essersi svuotati di
ogni energia o per le ferite minori, che in quanto tali non venivano curate
dall’incantesimo.
Incuranti dei
rischi, e pensando solamente alla prospettiva della vittoria, i sessantaquattro
atleti erano pronti a combattere.
Appena messo piede nell’androne, Dave fu colto
improvvisamente dai dubbi e dalla paura, come era naturale per chi vi entrava
per la prima volta.
Quasi tutti i
guerrieri presenti in quel momento erano persone di grande fama: soldati di
ventura, famosi ufficiali, e anche qualche nobile.
Regis si accorse
del timore del suo allievo, ma non volle mettere il dito nella piaga; anzi,
cercò di fargli coraggio.
«Bene Dave. Siamo
arrivati.»
«Non… non ho mai
visto tanti esperti e famosi guerrieri tutti in una sola volta.»
«Era da prevedersi
che questo torneo avrebbe attirato l’attenzione molto più di quelli organizzati
in passato. La Spada Cristallo
è un premio molto ambito».
Doveva
aspettarselo in effetti, quella spada era molto importante ed era stata in
grado di attirare un gran numero di partecipanti, anche se lui non voleva
combattere per vincerla. Non l’aveva neanche presa in considerazione. Si era
iscritto per dimostrare a Mandy di non essere stato con le mani in mano e aveva
scelto la fase professionistica per dimostrarle che in tre anni si era davvero
dato molto da fare per tenere fede alla loro promessa, quella promessa che
adesso Mandy sembrava aver dimenticato. Quando l’aveva incontrata lei gli aveva
dimostrato tutto il suo risentimento per non aver ricevuto lettere, e lo aveva
accusato di essersi dimenticato di lei. Dave non riusciva a non pensare che
forse aveva ragione a sentirsi un po’ trascurata, ma in realtà non aveva mai
smesso di pensarla anche se era sempre impegnato con il maestro Regis. Sperava
davvero che vedendo quanto impegno avesse messo nel cercare di mantenere la
promessa, avrebbe capito che non l’aveva abbandonata e che era stata sempre al
centro dei suoi pensieri.
Nonostante questo
gli avesse dato il coraggio di iscriversi, la vista tutta quei guerrieri lo
aveva riempito di dubbi. E se si fosse scontrato con qualcuno molto più forte e
non fosse riuscito a dimostrarle niente?Se le cose fossero andate davvero così probabilmente Mandy non avrebbe
più voluto saperne di lui e invece di dimostrarle il suo impegno sarebbe
riuscito solo a rafforzare ulteriormente le sue convinzioni.
Guardò il terreno
di combattimento per avere un’idea degli avversari, ogni ring aveva accanto un
cartello con disegnata una lettera, e su alcuni di essi già si combatteva, e
sembravano tutti più grossi e pericolosi di lui.
Uno dei numerosi
addetti alla supervisione del torneo munito di altoparlante interruppe i suoi
pensieri, avvisando tutti coloro che non lo avessero ancora fatto di recarsi al
bancone al centro della stanza per estrarre da una grande urna una tessera di
terracotta su cui era riportata una lettera che poteva andare dalla A alla P in
modo da vedersi assegnato il proprio girone.
Regis e Dave
ubbidirono come molti altri dirigendosi verso il banco e Dave, al vedere tutta
quella gente, ripensò allo scontro della sera precedente, chiedendosi se il suo
misterioso avversario, identico al maestro Regis e informato su di lui al punto
tale da conoscerne il vero nome, fosse presente al torneo. Proprio non capiva
chi potesse essere, aveva ripensato molte volte a quell’individuo girandosi
sotto le coperte per tutta la notte, ma non sapeva darsi una risposta
convincente. Quasi sicuramente veniva dal suo mondo, o non avrebbe saputo così
tante cose, ma chi poteva essere? Così identico a lui, poteva essere un gemello
di Regis, ma trovava strano il fatto che il maestro non avesse mai neanche
accennato a lui. Qualcosa gli diceva che non era quella la spiegazione, ma non
riusciva a trovarne altre.
Si era accorto che
il maestro Regis di tanto in tanto lo osservava, probabilmente sperava che
riuscisse a calmarsi prima del torneo. Si era sempre preoccupato per lui ela cosa che più lo infastidiva in tutta
quella situazione era proprio il fatto di tenerlo nascosto al suo maestro.
Odiava avere segreti con lui e non sapeva se dovesse parlargli o meno dello
scontro con quel tizio.
A breve sarebbe
iniziato il torneo e doveva assolutamente concentrarsi, anche se tutte quelle
domande gli ronzavano per la testa senza dargli pace, doveva riuscire a
concentrarsi ed essere pronto a combattere, per Mandy e la loro promessa. A
tutto il resto avrebbe pensato in un secondo momento.
Venne quindi il
loro turno, e dopo aver infilato una mano nell’urna estrassero una tessera
ciascuno nello stesso momento.
«Io ho la tessera
N2.» disse Regis
«Io invece ho la
tessera F1».
Un giudice, preso
nota del sorteggio, trascrisse i nomi di entrambi sul grande tabellone affianco
al banco, raffigurante due schemi ad albero che partendo dal basso e dall’alto
si intersecavano al centro, sul posto riservato al vincitore.
Dave e Regis lo
guardarono, guardandosi poi negl’occhi.
«Beh, a quanto
pare il tuo desiderio si è avverato.» disse Regis sorridendo al suo pupillo «Se
vorremo sfidarci, potremo farlo solamente in finale.»
«Già».
Avrebbe sfidato il
suo insegnante.
La sera precedente
gli aveva confessato che avrebbe voluto confrontarsi con lui, ma dopo aver
visto il tabellone non ne era più tanto convinto. Sfidare Regis era in effetti
un suo grande sogno, voleva realmente confrontarsi con lui perché aveva
l’impressione che solo sfidando direttamente il suo insegnante poteva rendersi
conto dei suoi progressi, o di quanta strada avesse ancora da percorrere per
arrivare al suo livello, ma il fatto che tutto questo avvenisse durante un
torneo di quella portata lo metteva in imbarazzo.
Il suo scopo era quello
di battere più avversari possibili per dimostrare alla sua Mandy i suoi
progressi, e voleva che anche il maestro Regis fosse fiero di lui, ma battersi
con lui per dimostrarlo era tutta un’altra cosa.
Viaggiavano fianco
a fianco da tre anni ormai, il maestro lo aveva accolto sotto la sua guida
insegnandogli tutto quello che sapeva senza chiedergli niente in cambio,
dandogli la speranza di poter mantenere la sua promessa, e ormai Regis si
fidava del suo allievo al punto da avergli rivelato alcuni dei suoi segreti più
nascosti.
Batterlo alla
finale del torneo, per Dave, sarebbe stato un po’ come tradirlo, e togliergli
così tutta la sua fama. Che figura avrebbe fatto il grande Regis se fosse stato
battuto dal suo allievo?
Pensandoci meglio,
Dave si sentì uno sciocco, e rise dei suoi pensieri. Il suo sogno era sì
mettersi alla prova con Regis, ma solo per sperare di riuscire ad eguagliarlo.
Sapeva quanto il suo insegnate fosse potente, e sarebbe stato veramente
presuntuoso a pensare di riuscire a sconfiggerlo dopo soli tre anni di
apprendistato.
Sicuramente
sarebbe stato sconfitto, ma se era lui a batterlo allora la sua sconfitta
diventava molto più accettabile, e sapeva che anche Mandy non lo avrebbe
giudicato un buono a nulla se fosse stato battuto dal leggendario Regis. Lui,
da parte sua, doveva solo impegnarsi al massimo per battersi degnamente contro
di lui e non fargli fare brutta figura, visto che tutti sapevano che era suo
allievo.
«Guarda un po’ chi
si vede!».
Dave e Regis si
voltarono, trovandosi a tu per tu con la loro amica Aria.
«Voi due siete le
ultime persone che mi sarei aspettata di incontrare qui.»
«Signorina Aria,
che bella sorpresa.» disse Dave «Partecipa al torneo anche Lei?»
«Io? Figuriamoci.
Queste cose non mi interessano minimamente.»
«Ma allora perché
sei qui?» chiese Regis
«Sono venuta per
accompagnare Elys.»
«Come sta andando
la nostra irruente eroina?»
«Alla grande. In
questo momento sta combattendo in semifinale. Dovrebbe quasi aver finito».
In quella, da
sopra le loro teste giunse un baccano assordante di ovazioni ed applausi.
«Ha finito».
Due minuti dopo
Elys scese nell’androne saltando di felicità.
«Maestra, ce l’ho
fatta! Sono in finale!».
Quando si accorse
della presenza dei suoi due amici, però, tornò ad essere la malalingua di
sempre.
«E tu che ci fai
qui?» disse rivolta a Regis «Non avevi mollato?»
«Ho cambiato
idea».
Poi Elys guardò
Dave.
«E tu? Come al
solito a fare da tifo per il tuo maestro?»
«Niente affatto!».
«Davvero?» disse
lei col suo solito tono malizioso, sapendo che Dave non lo poteva sopportare
«Ho sentito che hai cancellato la tua partecipazione all’ultimo secondo. Avevi
paura di scontrarti con me?»
«Per tua
informazione io partecipo al torneo, ma nella sezione professionisti!»
«Che cosa!? Tu tra
i professionisti!?».
Appena vide il
nome di Dave sul tabellone Elys pensò che il suo stomaco stesse per scoppiare
per le troppe risate.
«Questa è davvero
bella! Ditemi che è uno scherzo! Non ha mai preso parte a un torneo in vita
sua, e si iscrive alla sessione professionistica!»
«Ridi, se vuoi!
Tanto riderai ancora per poco!».
Calmatasi, anche
dietro ammonimento, della sua insegnante, Elys prese a guardarsi intorno.
L’androne pullulava
di gente che metteva paura solamente a guardarla, ma anche di aspiranti eroi
molto insoliti per gli ambienti della capitale.
«Elfi, mercenari,
ladri.» commentò mentre si avvicinava assieme a tutti gli altri al ring
contrassegnato con la lettera N, dopo che l’addetto con l’altoparlante aveva
sollecitato Regis a raggiungerlo per prendere parte al suo primo incontro «Ma a
questo torneo possono partecipare proprio tutti?»
«Non c’è nessuna
regola che vieti ad altre razze di prendervi parte.» disse Aria
«Ora scopriremo
che hanno lasciato iscrivere persino i nani.»
«Non dovrai
aspettare molto per scoprirlo.» disse Dave guardando verso il ring, sul quale
era salito in quel momento un uomo basso e grosso con una folta barba arancione
e armato di una enorme ascia «Il primo avversario del maestro è proprio un
nano».
Regis si liberò in
tutta calma della sua giacca bianca e fra lo stupore di tutti afferrò i suoi
lunghi capelli e si sforbiciò via la coda.
Dave fissava il
suo insegnante con aria sbalordita.
«Beh che ti
prende?» gli chiese
«Ma… che fate?»
«Ho tagliato i
capelli, mi sembra evidente».
Non gli chiese più
niente, ma con i capelli corti e spettinati, la somiglianza fra lui e lo
sconosciuto della taverna era ancora più netta.
Si rese conto di
non aver mai capito realmente quanto quei due fossero uguali, perché aveva
sempre visto il maestro Regis con la coda e questo, anche se a pensarci poteva
esser un particolare di scarsa importanza, li rendeva almeno distinguibili. Se
prima sembravano due gemelli, adesso, sembrava assurdo, ma era come se fossero
assolutamente identici, se non fosse stato per il colore dei capelli.
Continuava a ripetersi che era una cosa senza senso, e che probabilmente
avrebbe dovuto parare di quel tizio al maestro.
Chi accidenti
poteva essere?
Tornò a guardare
Regis, rendendosi conto che adesso sembrava molto più giovane, e forse anche
per questo così somigliante a quello che aveva detto di chiamarsi Erik.
Anche se era con
lui da tre anni, molti suoi comportamenti rimanevano spesso un mistero, e
quella che aveva fatto era una di quelle cose che non avrebbero mai avuto una
spiegazione.
Dave non poteva
sapere che quel gesto non era casule né tanto meno compiuto per attirare
l’attenzione con qualcosa di eccentrico, non poteva sapere che l’aveva fatto
perché in quel momento si sentiva vicino al momento in cui tutto aveva avuto
inizio: la Millennium War.
Quella coda era
l’unica cosa che lo legava a quel mondo, l’unica cosa che lo differenziava dal
Toshio che aveva dato inizio a tutto, e tagliarla via era stato come tornare ad
essere quello di un tempo. Ma questo Dave, forse, non l’avrebbe mai saputo.
Concluso questo
rituale, e gettati via i capelli, Regis salì sul ring con indosso unicamente la
giubba e i calzoni neri, una veste decisamente meno appariscente di quella che
lo aveva reso famoso.
Forse anche per
via di questo, il nano suo avversario non si mostrò per nulla spaventato nel
ritrovarselo davanti; anzi, rise di soddisfazione.
«E così tu sei il
famoso Regis. La fortuna è decisamente dalla mia parte.»
«Combattenti!»
disse uno dei tre giudici «In posizione».
Il nano piegò
leggermente le ginocchia e impugnò l’ascia con entrambe le mani, Regis invece
rimase perfettamente immobile, senza neppure curarsi di guardare il nemico
negli occhi o di estrarre la spada.
«Cosa c’è? Non hai
neanche il coraggio di guardarmi in faccia? Fai bene. I tuoi giorni di gloria
stanno per finire».
Uno dei giudici batté
un piccolo gong, e contemporaneamente un altro girò la clessidra che aveva
affianco, dando il via all’incontro.
Il nano attaccò
subito, correndo verso Regis, ma quando menò il fendente al posto del guerriero
c’era solamente l’aria.
«Ma cosa…».
Usando un
elementare incantesimo per la velocizzazione del movimento Regis gli arrivò
alle spalle e lo colpì alla nuca con il taglio della mano con una indifferenza
quasi terrificante.
Il nano sgranò gli
occhi, forse non riuscì neppure a rendersi conto di quello che era successo, e
cadde sulla pancia già svenuto.
I tre giudici
rimasero immobili per lo stupore, uno di loro con gli occhiali in fondo al
naso.
«K… KO…»
«Al solito.»
commentò Elys «Cosa non farebbe pur di mettersi in mostra. Poteva almeno farlo
durare un po’.»
«Ecco perché non
posso soffrire i nani.» disse il vincitore scendendo tranquillamente dal ring
«Parole tante, fatti nessuno.»
«Siete stato
fantastico maestro.»
«Ti ringrazio.
Adesso però è giunto il tuo momento».
Proprio in quell’istante,
l’altoparlante portò un nuovo messaggio.
«Incontro in
programma per il girone F. F1 contro F4».
Il corpo di Dave
si irrigidì istantaneamente come se fosse stato immerso nell’acqua gelida;
sentì il respiro fermarsi, il cuore andargli a mille e i denti che battevano.
La sua prima
battaglia in un torneo.
Aria gli mise una
mano sulla spalla.
«Non temere. Noi
saremo lì per incitarti. Dico bene Elys?»
«Assolutamente.
Non mi perderei la prima performance del novellino per niente al mondo.»
«Grazie… grazie a
tutti»
«Non
ringraziarci.» disse Elys dandogli una pacca sulla schiena «Pensa piuttosto a
vincere».
Dirigendosi al
ring come al patibolo, Dave lo raggiunse e vi salì, provocando risate e battute
più o meno velate fra gli spettatori radunatisi per assistere.
Dave cercò di
farsi coraggio, ma poi il terreno sembrò tremargli sotto i piedi, e davanti a
lui comparve un gigante di uomo alto più di due metri, ridondante di muscoli in
ogni più remoto anfratto del corpo.
Si trattava senza
ombra di dubbio di un Ishik, un abitante delle
steppe, con quei baffi lunghi e sottili che gli scendevano lungo il mento e la
testa rasata, dominata però da una lunghissima treccia che gli arrivava a metà
della schiena.
Indossava
solamente un paio di stivali e un perizoma, il che metteva ancora più in
risalto il suo aspetto minaccioso.
Vedendo il suo
avversario e la tremarella che lo aveva assalito, il gigante non riuscì a
trattenere un ghigno di denigrazione.
«Ehi, moccioso.
Che ci fai tu qui? Questa non è una sala giochi.»
«Mette paura
solamente a guardarlo.» commentò Aria.
Regis, pure in una
simile situazione, era vergognosamente calmo, e teneva come al solito le
braccia incrociate sul petto.
«Quello è Gou-Nai.» osservò senza batter ciglio «Il campione della
steppa.»
«Povero Dave, non
lo invidio proprio.» disse Elys «Peggio di così non poteva andargli».
Il gigante batté
vigorosamente le mani e spalancò le gambe, sollevandole a grande altezza per poi
farle rimbombare con forza sul ring, tutti gesti che misero Dave ancor più in
agitazione.
«Ricordate le
regole.» disse un giudice «Due minuti di tempo. Chi cade dal ring o resta a
terra per dieci secondi perde.»
«Diamoci un taglio
con le parole e passiamo ai fatti.» tagliò corto Gou-Nai
«Vorrei concludere con questa pulce il prima possibile.»
«Dave, non farti
spaventare!» gli gridò Elys «Sarà anche grande e grosso, ma come dice il
proverbio più sono grossi più sono stupidi!».
Regis invece,
incredibilmente, si girò e fece per andarsene, non visto dal suo allievo.
«Regis, dove vai?»
domandò Aria
«Ci sono molti
guerrieri degni di nota qui in giro. Voglio vederli in azione.»
«Ma… il
combattimento di Dave sta per cominciare.»
«Non sono io a dover
combattere. Da adesso in poi, dovrà fare da solo.» e senza dire altro si
allontanò
«Regis…».
Due secondi dopo i
giudici diedero il via all’incontro.
Gou-Nai attaccò per primo con un pugno micidiale, ma Dave
schivò e rispose lanciando una piccola sfera di luce sul petto dell’avversario,
che però sembrò non sentirla minimamente.
«Ohoh. Abbiamo qui un piccolo stregone. Ma dovrai impegnarti
molto più di così!».
Il gigante
stavolta partì con un calcio che spedì Dave in aria.
«Dave!» gridò Elys
«Sta attento, o rischierai di cadere fuori!».
Ringraziando il
cielo Dave cadde proprio sul bordo, e quando Gou-Nai
cercò di colpirlo di nuovo riuscì a saltargli alle spalle e a lanciargli contro
una nuova sfera, questa volta diretta alla nuca, per poterlo tramortire, ma lui
si rialzò in tempo e venne colpito solamente alla schiena.
«Cosa sei, un
coniglio o una cavalletta? Io direi tutti e due!».
Quel mostro faceva
davvero paura, e con tutti i pensieri che aveva ancora in testa Dave non
riusciva a combattere come avrebbe dovuto, e per tutto il primo minuto continuò
a subire i colpi terrificanti di Gou-Nai. Alcuni li
schivò, altri riuscì a respingerli, ma la maggior parte andarono a segno.
«Dave, fa
qualcosa, o scenderai da quel ring senza ossa, oltre che senza punti!».
Ma come faceva a
fare qualcosa?
Le parole di
Mandy, il volto dello sconosciuto, i dubbi sulla sua effettiva bravura
continuavano a ronzargli nella mente distraendolo, lasciandolo vulnerabile, e
intanto il nemico continuava a colpire.
Come se non bastasse, il ragazzo si era
accorto che il suo maestro era scomparso, e non stava seguendo il suo incontro.
Questo lo lasciò
comprensibilmente abbattuto, e Gou-Nai ne approfittò
per continuare a tempestarlo di colpi.
Paradossalmente,
fu solo grazie all’inaspettato incitamento di Elys se negli ultimi venti
secondi trovò la forza per reagire, tempestando l’avversario con il Poussière
De L’Étoile, uno dei suoi cavalli di battaglia, che pur lanciando globi
luminosi dal basso potenziale offensivo permetteva di scagliare una raffica
ininterrotta di colpi.
A differenza di
molti altri incantesimi che utilizzava, insegnatigli dal maestro Regis, quello
l’aveva sviluppato da solo, perfezionandolo nel corso del tempo e con molti
allenamenti.
L’unico
inconveniente del Poussière De L’Étoile era che richiedeva una grande quantità
di energia, e se nella fase iniziale Dave riusciva a scagliare anche cinquanta
globi al secondo, con l’andare del tempo la cadenza diminuiva. Oltretutto
doveva preoccuparsi anche di saltare e spostarsi per evitare i contrattacchi di
Gou-Nai, ragion per cui il cerchio magico
indispensabile per l’utilizzo di ogni incantesimo non si trovava sotto i piedi
di Dave, il che avrebbe richiesto di rimanere immobili, ma sul polso destro, e
questo, se permetteva al giovane mago di muoversi, limitava di molto il potere
della magia, viste le dimensioni ridotte del cerchio.
Alla fine il
campione della steppa perse la pazienza e colpì Dave con un pugno tremendo al
petto che ancora una volta minacciò di farlo cadere dal ring, ma per la seconda
volta il ragazzino fu graziato.
Ciò nonostante,
mentre era ancora a terra, mezzo intontito dal colpo ricevuto, Gou-Nai gli sferrò un calcio allo stomaco che stavolta lo
spedì fuori dal terreno, e proprio in quel momento il primo giudice dichiarò
concluso l’incontro, non perché Dave fosse caduto oltre il ring, ma per lo
scadere dei due minuti regolamentari.
La caduta dal ring
non fu conteggiata, in quanto avvenuta dopo la fine dello scontro, quindi Gou-Nai si vide negare, nonostante le proteste, i diciotto
punti, che divennero dodici. In realtà sarebbero dovuti essere tredici, ma
colpendo Dave a terra Gou-Nai aveva infranto il
regolamento e si era visto scalare un punto, che era stato conferito al suo
avversario; Dave quindi concluse la sua prima sfida con un totale di sei punti.
Il giovane mago
uscì piuttosto malandato da quella battaglia, e Aria dovette fare ricorso al
suo cristallo elementale per riportarlo in sesto; il regolamento infatti non vietava
di ricaricarsi al termine di un incontro, fosse esso della fase eliminatoria o
delle finali.
«Ti senti bene?»
«Insomma, un po’
malandato.»
«Sei stato molto
in gamba. Per essere la tua prima partecipazione te la sei cavata alla grande.»
«La ringrazio,
signorina Aria.»
«Ehi, novellino?».
Elys lo guardò di
sottecchi, poi accennò una risata.
«Ben giocata.»
«Grazie, Elys.»
rispose lui soddisfatto di ricevere un complimento da lei.
Ma della persona
da cui sperava di sentire un commento circa la sua prima performance come
aspirante campione del torneo invece non c’era traccia.
«Dov’è andato il
maestro?».
Aria temporeggio,
guardò a terra, poi si sforzò di sembrare il più possibile credibile.
«Ha incontrato un
amico di vecchia data, ed è andato a seguire il suo incontro. Ma ha detto che
torna subito.»
«Ah… capisco…»
disse Dave comprensibilmente dispiaciuto
«Aspetta, lo vado
a cercare».
Regis, dimenticandosi, forse involontariamente, del
proprio allievo, si era attardato ad osservare i
combattimenti in corso sul ring P.
In quel momento si
stavano sfidando una giovane maga e un esperto di arti marziali orientali.
«Non è stato un
bel gesto da parte tua.» disse Aria avvicinandosi a lui
«Non capisco a
cosa tu ti stia riferendo.»
«Mi riferisco
all’aver abbandonato Dave al suo primo incontro».
Regis non mostrò
ripensamenti; anzi, divenne ancor più accigliati e severo.
«Ha voluto
partecipare a questo torneo perché pensava di essere pronto. In tal caso, io
non ho nessun diritto di intromettermi nei suoi affari. Se ritiene di potercela
fare, allora la mia presenza è del tutto inutile».
Aria era abituata
agli atteggiamenti duri e, talvolta, apparentemente senza cuore di Regis, ma lo
conosceva da sette anni e sapeva quanta umanità ci fosse dentro di lui, ma
stavolta aveva come la sensazione che stesse dicendo sul serio.
Non avrebbe
aiutato il suo pupillo e non lo avrebbe neppure sostenuto in qualche modo, per
il semplice motivo che Dave voleva dimostrare di essere forte, e una cosa simile
la si poteva fare solo agendo completamente da soli.
In quella, sul
ring davanti a loro ebbe inizio un nuovo incontro.
Da una parte c’era
un giovane maestro di spada, dall’altro una ragazza di venti anni o poco più
che attirò immediatamente l’attenzione di Regis.
Vestiva da capo a
piedi con un’uniforme piuttosto attillata nera, provvista di stivali pesanti
con suole in gomma adatte ad affrontare qualunque terreno. Portava anche delle
cinture all’avambraccio sinistro e intorno alla caviglia destra, e se si
guardava la divisa con attenzione si potevano scorgere tre complessi disegni
magici, uno sul pantalone sinistro, uno sul busto e un altro sull’avambraccio
destro. Aveva anche una coppia di nastri sempre neri sui capelli, castani e
piuttosto corti, tutti scompigliati.
Gli occhi, grandi
e rossi come rubini preziosi, erano carichi di energia, ma quella sua
espressione accigliata metteva una certa soggezione.
Doveva trattarsi sicuramente
di una maga, perché come arma aveva uno scettro verde smeraldo lungo non più di
quindici centimetri terminante in una tenaglia che rinchiudeva al suo interno
una sfera azzurra.
Regis si accorse
subito che c’era qualcosa di strano in lei, e anche lei sembrò attratta da lui,
perché i loro sguardi si incontrarono e stettero ad osservarsi per lunghi
secondi, come se in quella stanza ci fossero stati solo loro due.
«Combattenti! A
voi!».
Appena il gong fu
battuto lo spadaccino si lanciò subito alla carica, ma quando cercò di colpire
la sua spada cozzò contro una barriera materializzatasi a velocità incredibile
attorno alla ragazza, che oltre a respingere l’attacco spedì il nemico
all’indietro con la potenza di un colpo di cannone.
Prima ancora che
tornasse a terra, lei volò in aria e puntò il suo scettro contro lo spadaccino,
lanciandogli contro un enorme fascio di luce che lo spedì nel mondo dei sogni.
Tutti i presenti
rimasero con la bocca spalancata, tranne Regis, che come al solito non lasciò
trasparire emozioni.
«Non posso credere
ai miei occhi.» disse Aria «E non ha neppure tracciato un cerchio magico».
Regis a quel
commento abbassò lo sguardo e sorrise; in realtà il cerchio lo aveva usato, ma
in un modo in cui nessuno avrebbe potuto vederlo. Lo stesso che usava lui.
Scendendo dal ring
passò accanto a lui, e nel momento in cui furono esattamente l’uno affianco
all’altra lei gli sussurrò qualcosa all’orecchio.
«Il prossimo sarai
tu, Regis».
Lui ridacchiò e
chiuse gli occhi.
«Non vedo l’ora,
Sakura.»
«Regis, ma la
conosci?» chiese Aria mentre quella si allontanava
«Il suo nome è
Sakura. Studia all’accademia magica di Kalador.»
«L’accademia di Kalador!? Vuoi dire che lei è… quella Sakura!?»
«In persona.»
«Ora mi spiego. È
considerata una delle maghe che abbiano mai abitato questo paese, malgrado sia
ancora una studentessa.»
«Incontro in
programma per il Girone N. N2 contro N3.»
«Beh.» disse Regis
«Tocca di nuovo a me. Questo torneo è appena cominciato, e ho la sensazione che
riserverà parecchie sorprese».
Il nano affrontato da Regis al primo incontro era così
malridotto che dovette ritirarsi, e così, per regolamento, i punti che il
guerriero aveva ottenuto in quella sfida furono ripartiti fra i tre superstiti.
Questo però non fu
sicuramente un problema per Regis, che dopo aver ottenuto una nuova vittoria
per KO contro un pugile poco più che dilettante affrontò nell’ultima
eliminatoria Isnark, un giovane elfo estremamente
abile nell’uso della spada; questi, a differenza degli altri, non si lasciò
mettere sotto tanto facilmente, e impegnò Regis per tutti e due i minuti
regolamentari.
La prestazione di
entrambi fu encomiabile, e lo scarto nel punteggio fu minimo: sedici punti per
Regis e quattordici per Isnark.
«Complimenti.»
disse Regis stringendo la mano all’avversario
«Anche a te. È
stata una sfida entusiasmante.»
«Mi hai tolto le
parole di bocca».
Regis concluse le
eliminatorie in testa al suo girone con un totale di quarantuno punti, seguito
a ruota da Isnark con trentasette.
Dave invece, dopo
un inizio incerto, aveva battuto nettamente gli altri due suoi avversari,
mettendosi in tasca trentacinque punti che lo fecero uscire secondo, subito
dietro il suo primo rivale, Gou-Nai, che con un KO e
una caduta dal ring di punti ne aveva ottenuti ben cinquanta.
Guardando il
tabellone, Regis si accorse che erano stati in due a realizzare punteggio
pieno, vale a dire sessanta punti.
Una era Sakura, come era prevedibile; l’altro invece si chiamava Alexander
Von Andersen, primo classificato del girone C.
“Il riscaldamento
è finito. Ora si passa alle cose serie”.
Nota dell’autore. I personaggi di Lsyn, Tijorn e Amarto
appartengono ad Akita
e alla sua fan fiction La Figlia delle Spie
Buona Lettura
10
L’ultimo evento in programma per quel giorno era la finale
del torneo giovanile.
Malgrado qualche difficoltà,
alla fine Elys riuscì a trionfare contro le aspettative
della sua stessa insegnante, e così quella sera fu festa grande al Lupo Rosso.
«Mangiate, mangiate!» diceva Aria «Stasera bisogna festeggiare! Dave e
Toshio hanno superato le eliminatorie, mentre Elys ha vinto il torneo degli
esordienti!»
«Sei stata
fantastica, Elys.» disse Regis «Hai fatto progressi incredibili.»
«E che ti
aspettavi?» rispose lei mettendo bene in mostra la medaglia d’oro che aveva al
collo «Dopo il rapimento della principessa mi sono
allenata cinque volte più di prima. La maestra non voleva neanche che io mi iscrivessi.»
«Ammetto di averti
sottovalutata. Sono molto fiera di te. Hai reso onore
a tutta la scuola.»
«Grazie, maestra».
Ad
un certo punto, mentre Aria e Regis parlavano tra di loro, Dave prese Elys per
un braccio e le si avvicinò.
«Devo
parlarti. Vieni con me.»
«Ma… cosa…»
«Ti
prego. È molto importante».
Elys si accorse
subito, guardandolo nei suoi occhi, che era qualcosa di serio, e doveva esserlo
davvero, se non voleva metterne a parte neppure il suo maestro.
Restò in silenzio,
sembrò quasi che volesse rifiutarsi, poi incredibilmente fu proprio
lei a trovare la scusa buona per permettergli di appartarsi, dicendo che
dovevano discutere insieme delle tattiche da adottare negli incontri del giorno
successivo.
Dave prese Elys
per mano e la condusse fuori, ma anche davanti all’ingresso e per la strada
c’era troppa gente e così i due si appartarono in un vicoletto dietro al
locale.
Era molto buio,
non si vedeva quasi nulla.
Una lampada ad olio appesa alla parete illuminava debolmente la strada
fangosa, e il puzzo era tremendo; dovevano essere proprio sopra una conduttura
della cloaca superiore, la linea fognaria della capitale.
«Ma in che razza
di posto mi hai portata?» disse Elys.
Lui non rispose.
Si guardava intorno e si mordeva le labbra in preda ad un incontrollabile
nervosismo.
«Dave che
succede?».
Aveva pensato a
lungo a quello che voleva chiederle di fare, e la prestazione non proprio
eccellente ottenuta nelle eliminatorie torneo aveva rafforzato le sue
convinzioni, ma non era sicuro di poterle fare una richiesta del genere. Non
sapeva neanche come chiederglielo.
«Dave?»
«Elys io…devo
dirti una cosa.»
«Siamo
qui per questo mi pare. Dilla e andiamocene, l’ambiente non è dei migliori.»
Il ragazzo però
esitava. Aveva paura della sua reazione, e doveva essere assolutamente sicuro
che Regis e Aria non venissero a saperlo. Sapeva che di Elys poteva fidarsi, ma
aveva paura della sua reazione, non era cosa da poco quella che voleva chiederle
«Il fatto è… che
non so neanche come dirtelo.»
Mentre cercava le
parole giuste si era accorto che l’espressione della
sua amica era sempre più diffidente. Non poteva aver capito ma chissà cosa
stava pensando
«Vedi Elys …».
Stava ripetendo il
suo nome troppo spesso e se ne era reso conto, non avrebbe risolto niente in
quel modo, doveva prendere coraggio eparlare con lei, alla fine era per
quello che l’aveva trascinata fuori. Non sapendo dove, trovò un po’ di coraggio
e la afferrò per le spalle
«Noi ci conosciamo
da tre anni ormai e siamo anche buoni amici mi pare, quindi io volevo chiederti
se…».
La ragazza si
svincolò dalla sua stretta rossissima in viso lasciandolo stupito.
«Ma
che diamine stai dicendo? Si può sapere cosa ti passa per la testa razza di
novellino?».
Se si lasciava
prendere dal panico o dalla timidezza adesso, non sarebbe più riuscito a dirglielo
«Ho
bisogno del tuo aiuto. E’ tanto tempo che ci penso, e alla fine ho capito che
sei l’unica che può aiutarmi».
Elys sembrò
stranamente sollevata ma anche notevolmente sorpresa.
«Per cosa?».
E adesso veniva il
difficile
«Prima
che te lo dica, devo chiederti di farmi una promessa. Per favore, promettimi
che non dirai niente a nessuno, soprattutto ad Aria e al maestro Regis, per il
resto sei libera anche di rifiutare se vuoi, posso
capire se non te la senti.»
«Dave, di che si tratta?».
Adesso Elys
sembrava seriamente preoccupata per lui, ma non poteva cedere assolutamente, se
Regis l’avesse scoperto si sarebbe seriamente
arrabbiato.
«Prima prometti di
non parlarne, per favore.»
«Va bene…prometto, ma adesso
dimmi di che si tratta per favore».
Si guardò intorno
per essere sicuro che non sbucassero i loro insegnanti da dietro l’angolo della
strada, e si avvicinò al suo orecchio per evitare che qualcun altro lo
sentisse. Anche se doveva essere abbastanza appartato come posto, la prudenza
non era mai troppa in quel caso.
«Ma sei impazzito?!».
Si aspettava una
reazione del genere ma doveva a tutti i costi convincerla, non conosceva nessun
altro che potesse aiutarlo e non poteva rinunciare.
«Non gridare per
favore potrebbero sentirci.»
«E chi se ne
importa?! Ti rendi conto di quello chemi chiedi?».
Era visibilmente
arrabbiata, dopo tutto quello che le aveva chiesto non
era affatto semplice, anzi era una cosa proibita proprio per la sua
pericolosità.
«Mi rendo
perfettamente conto di quello che ti ho chiesto Elys, non ho preso una decisione
così importante ala leggera sai?»
«Beh,
allora mi sembra che tu non abbia riflettuto bene! Certo che Regis e Aria si
opporrebbero! E’ pericoloso Dave» scosse la testa «Dimmi che stai scherzando!»
«Non sono mai
stato così serio».
Lo sapeva benissimo
anche lui che era pericoloso, e aveva anche paura se pensava alle conseguenze
che avrebbe avuto, ma doveva assolutamente farlo, non poteva farne
a meno.
«Ascoltami.
Non è una decisione che ho preso alla leggera, so bene quanto sia pericoloso ma ormai ho deciso. Ho capito che non posso farne
a meno e l’unica che può aiutarmi sei tu. Ti prego Elys».
La ragazza
sembrava indecisa, ma dal suo viso aveva capito che stava prendendo in
considerazione la cosa. Sapeva che avrebbe capito, e sperava tanto che lo aiutasse
«Ma io… potrei non
essere capace di… Ti rendi conto di quello che mi chiedi?»
«Si. Lo so, ma cos’altro posso fare? Cerca di capire la mia
posizione per favore… non ho alternative.»
«Dave io…» sospirò
«E và bene, se devo farlo… ma è pericoloso,
ricordatelo. Ti prego ripensaci».
Non poteva
ripensarci, più prendeva in considerazione la cosa e più gli sembrava
indispensabile. Era felice che avesse deciso di aiutarlo
«Ti
ringrazio Elys. Sono molto più tranquillo se ci sei tu ad aiutarmi».
Il frastuono della folla accorsa per assistere alle finali
del torneo professionistico era dieci volte più grande
di quello del giorno prima.
In cielo splendeva
un sole stupendo, la mattinata era fresca e ben ventilata, l’ideale insomma per
assistere a quello che si preannunciava essere uno
spettacolo a dir poco grandioso.
Le gradinate erano
piene da scoppiare; c’erano anche gli studenti delle scuole più prestigiose della capitale, e fra di loro le ragazze della Akari, facilmente riconoscibili per le loro uniformi rosa.
Dave le vide
sbirciando da dietro l’arco d’ingresso e pensò che sicuramente fra di loro doveva esserci anche Mandy.
Era dunque
arrivato il suo momento.
Ce
l’aveva fatta, era sopravvissuto a quella terribile esperienza, e finalmente
era pronto a dimostrare a tutti quanto era forte.
Che Mandy se ne
ricordasse o meno, la promessa per lui aveva ancora un
grande valore, e avrebbe fatto di tutto per onorarla.
Giratosi verso
l’interno della stanza, incrociò gli sguardi dei suoi possibili futuri
avversari.
Qualcuno era
seduto sulle panchine lungo le pareti immerso nei propri pensieri, qualcuno
ricontrollava le armi, e qualcuno ultimava il proprio riscaldamento servendosi
dei sacchi che pendevano dal soffitto.
Il maestro Regis
sedeva in disparte dagli altri nella sua posa abituale, a braccia e gambe
conserte e con gli occhi chiusi. Era incredibile: il suo autocontrollo aveva
del prodigioso. Riusciva a rimanere calmo persino in una situazione simile.
Con loro anche
Aria ed Elys, che in via del tutto eccezionale avevano avuto il permesso di
accedere alle stanze dell’arena pur non essendo partecipanti.
«Elys.» disse ad un tratto Regis «Che cosa hai fatto alle mani?».
La ragazza infatti aveva i palmi delle mani fasciati ed esitava a
stringere i pugni, evidentemente perché farlo le provocava dolore.
«Niente.» rispose
lei sorridendo e nascondendole dietro la schiena «Solo
dei calli. Avendo tenuto la spada in mano per tutto quel tempo».
La sua risata
divertita non sembrò convincere né la sua insegnante né lo stesso Regis, ma non
c’era tempo per pensare a cose simili, infatti pochi
secondi dopo un soldato si presentò all’ingresso annunciando che era giunto il
momento di uscire per la presentazione ufficiale.
I sedici
combattenti si misero dunque in fila uno dietro l’altro, e allo squillare delle
trombe uscirono all’esterno, salutati dalle ovazioni e dagli applausi
scroscianti di una folla in delirio.
Dave sentiva il
cuore battere sempre più forte. Avrebbe voluto stringere la mano del suo
maestro, che camminava davanti a lui, ma sapendo di avere addosso gli occhi di
Mandy cercò di darsi un minimo di contegno, alzò il busto ed
assunse una posa militaresca, sforzandosi di sembrare il più naturale
possibile.
Provò anche a
cercare fra la folla il volto della sua amata, ma per quanto le studentesse della Akari fossero distinguibili
erano decisamente troppe, e nel tempo che il ragazzo impiegò a salire sul ring
non gli riuscì di incrociarne lo sguardo.
In compenso vide qualcun
altro, qualcuno che non avrebbe mai immaginato di incontrare in un posto
simile.
Alla testa della
seconda fila di guerrieri, comparsa dall’uscita sull’altro lato dell’arena,
c’era lui, il suo rivale numero uno: Alexander Von Andersen.
Gettatisi alle
spalle il parruccone e la veste ricamata di merletti, indossava ora una corazza
scintillante di acciaio levigato, con il torace e le spalline dipinte di rosso,
come rossa era la tunica che sporgeva dalla cintura, e
un lungo mantello. I suoi capelli biondo oro, non più
nascosti dalla parrucca, apparivano ora in tutta la loro bellezza, a contornare
un volto angelico che fece sospirare tutte le ragazzine lì presenti.
L’unica a non
gridare fra le sue compagne, incredibile a dirsi, era proprio Mandy; perché era
lì, anche se Dave non l’aveva vista, e a differenza delle altre ragazze tutto
intorno a lei aveva un’espressione a metà fra il preoccupato e lo spaventato
mentre guardava ora Dave ora Alexander.
Saliti sul ring, i
partecipanti si disposero su due file e si girarono
verso il balcone del sovrano, che dopo poco entrò con la sua famiglia e tutto
il suo seguito annunciato da un nuovo e più solenne squillare di trombe.
C’era anche la
principessa Sefy, che corsa ad affacciarsi alzò il
braccio per salutare il suo personale eroe.
«Nobile Regis!».
Lui la guardò e le
sorrise, facendogli un cenno con la mano che la fece arrossire.
I genitori le si avvicinarono, sua madre la invitò a fare qualche passo
indietro per lasciare il posto al re, che con un cenno portò all’istante il
silenzio assoluto.
«A nome della famiglia reale, e di tutto il popolo di Fiya,
do il benvenuto ai valorosi guerrieri che partecipano a questo torneo.
Questi valorosi
guerrieri sono giunti qui, in questa sacra arena, da
ogni angolo del continente. Essi sono i più forti, i più valorosi e i più
determinati fra tutti noi, e a loro vanno il nostro rispetto e la nostra
ammirazione.
Possiamo essere
sicuri che ognuno di loro combatterà fino all’ultimo respiro per dimostrare di
essere davvero il migliore, e al tramontare di questo sole, colui
che sarà riuscito in quest’impresa, salendo sul gradino più alto del
podio, otterrà un premio molto speciale. La Spada Cristallo!».
In quella, con una
spettacolare coreografia fatta di suoni, luci e tanto fumo, in cima
all’imponente scalinata alla sinistra del balcone, che partendo dall’arena giungeva in cima all’anfiteatro, comparve, attraverso un
montacarichi segreto, un altare di pietra tutto coperto di stupendi
bassorilievi su cui era appoggiata la Spada Cristallo, l’ambitissimo
premio finale.
Era davvero
un’arma stupenda, senza eguali; la lama era perfettamente diritta, terminante a
triangolo, liscia e splendente come appena uscita dalla fornace, e come diceva
la leggenda era decorata con sette montature sulle
quali, stando ai racconti antichi, andavano poste le sette gemme indispensabili
affinché l’arma potesse esprimere a pieno tutto il suo potere magico.
Anche
l’impugnatura non era da meno, a forma di drago con le ali spiegate; non si capiva
bene di cosa fosse fatta; era un materiale strano, bianco
come il latte, simile all’avorio, ma molto più splendente.
«Il
tesoro più prezioso del nostro del nostro regno. Chiamata anche Gigabrian, dal nome del cavaliere che per primo riuscì ad impugnarla. Non esiste al mondo un oggetto in grado di
sprigionare un potere magico di uguale portata.
Secondo la
leggenda, è stata forgiata da una scaglia di drago, e sempre secondo la
leggenda fu grazie a lei che il nostro popolo riuscì a sopravvivere alla Guerra
Sacra di cinquecento anni fa. Oggi si offre a voi, ai vostri sguardi, ma solo
uno dei valorosi guerrieri qui riuniti potrà rivendicarne il possesso!
Guerrieri! Buona fortuna a tutti voi!».
Per fare in modo che i contendenti di ogni singolo
incontro entrassero nell’arena da entrambi gli ingressi, le due file vennero ridistribuite, così Dave finì da una parte e Regis
da un’altra, in compagnia di Elys e Aria. E fu un bene, altrimenti Regis e Aria
avrebbero trovato alquanto sospetti gli atteggiamenti
di Dave, che si portava continuamente la mano sul torace con delle strane
smorfie di dolore.
Anche le ferite
sulle mani di Elys, però, davano loro da pensare.
Altri combattenti
degni di nota finiti nella stanza dove si trovava Regis erano Gou-Nai, che come al solito
allentava la tensione pre-incontro ingurgitando tutto
il cibo su cui riusciva ad arrivare, messo a disposizione dei partecipanti su
di un grande tavolo per permettere loro di accumulare energie, e Alexander Von
Andersen, che a dispetto di quel suo aspetto da valletto doveva possedere molte
doti nascoste se era riuscito ad ottenere il punteggio massimo nelle fasi
preliminari.
Dalla parte
opposta, Dave, che aveva chiesto espressamente di restare solo, sedeva lontano
da tutti gli altri con lo sguardo basso pieno di preoccupazioni.
Ancora non
riusciva a credere di aver fatto una cosa simile, e si domandava se sarebbe
stato in grado di controllare il suo nuovo potere, un’impresa che persino al
suo maestro era costata lunghi allenamenti al limite della
sopravvivenza.
Lui invece avrebbe
dovuto mettersi immediatamente alla prova in un vero scontro, un vero battesimo del fuoco, e non sapeva se ritenersi
coraggioso, avventato o semplicemente pazzo, come Elys lo aveva definito.
Assieme a lui
c’erano anche Sakura e Isnark, che conosceva
solo per essere stati avversari di Regis nelle eliminatorie.
Quest’ultimo fu il
primo ad entrare nell’arena per sfidare, nel primo
incontro ad eliminazione diretta, il solo nano sopravvissuto ai gironi
preliminari e giunto alle fasi finali del torneo.
Dopo essere saliti
sul ring, secondo il protocollo entrambi si girarono
verso la balconata del re e fecero un leggero inchino, contraccambiato dal
sovrano con il classico cenno della mano.
Gettatisi alle
spalle i regolamenti delle eliminatorie, i combattenti potevano fare tutto
quello che volevano, liberi da qualsiasi vincolo.
C’erano solamente
due regole.
·Chi
cadeva dal ring e non vi risaliva entro quindici secondi o chi rimaneva a terra
per dieci era fuori
·Ogni
combattente portava al collo un pendente magico a forma di sfera, che rivelava
la loro forza fisica e le energie a loro disposizione, assumendo un colore che
andava dal verde smeraldo al rosso. Se quello dell’avversario si rompeva, si aveva vinto
Questa seconda
regola era stata adottata per evitare morti inutili che già in passato, seppur
raramente, avevano caratterizzato il torneo, e ciò
metteva bene in luce la grande pericolosità e l’elevato livello di bravura di
chi vi prendeva parte.
Fra le acclamazioni
generali, i due contendenti furono solennemente annunciati dallo squillare
delle trombe e da un banditore, che grazie alla particolare forma dell’arena
poteva farsi sentire da tutto il pubblico senza alcun bisogno di un
altoparlante. Anzi, il suo vocione echeggiante a lungo allenato nel corso degli
anni rendeva il tutto ancora più suggestivo.
Terminate le presentazioni la principessa Sefy
si alzò dalla sua seggiola in pietra e si avvicinò al parapetto recando in mano
una rosa bianca, che toccando il terreno dopo essere stata lasciata cadere
decretò l’inizio della sfida.
La prestazione di Isnark fu a dir poco encomiabile; gli servirono solamente
tre minuti per mettere al tappeto quel nano grasso ed
impacciato, che con il suo spadone e i suoi goffi movimenti non era certo in
grado di contrastare l’agilità e la grazia di un elfo dei boschi.
A scontro finito,
uno dei due soldati accanto all’enorme tabellone su cui era segnato l’albero
dei combattimenti salì su di una scaletta e, cancellato il nome del nano
apponendovi sopra una targa di metallo, rimosse la guaina gommosa nera che
costituiva il ramo sottostante a quello di Isnark, mettendo a nudo un cristallo particolare che illuminato dal
sole si accese di azzurro.
Grazie a questo
ingegnoso sistema, visibile da qualsiasi punto dello stadio, chiunque poteva
sapere in tempo reale l’andamento del torneo.
Rientrato nella
stanza di attesa fra applausi scroscianti, d’un tratto
Isnark si sentì chiamare da una voce famigliare.
«Bella
prestazione, Isnark».
La riconobbe
subito, ma non volle credere che fosse proprio… lei!
Fin da quando
aveva incrociato il suo sguardo quegli occhi gli erano sembrati famigliari, ma
solo in quel momento, dopo che quella ragazza si fu abbassata il bavero, la
riconobbe.
Era un’elfa, proprio come lui; indossava un abito da lotta, la cui
particolare foggia ed il colore scuro testimoniavano
la professione di colei che lo indossava: era una spia.
Elfi molto
pericolosi, temuti tanto dagli uomini quanto dai loro simili. Totalmente devoti
alla famiglia reale, e soggetti ad un severissimo
codice d’onore, erano assassini micidiali, ancor più temibili dei Falgas.
Non erano molto
ben accetti fra la popolazione comune, e in alcuni dei regni che andavano a
costituire la grande nazione degli elfi il loro ordine
era stato abolito in diversi momenti della storia, non appena i vari re avevano
cominciato a diffidare della loro fedeltà.
Proprio per via
della loro totale devozione alle famiglie reali, qualcuno li chiamava, in tono
dispregiativo, To-kura, che nella lingua degli
antenati significava cani da caccia.
Quell’elfa, coi suoi capelli scuri, la
pelle candida e gli occhi di smeraldo, proveniva sicuramente dal regno di Normar, il più settentrionale, uno dei pochi in cui le spie
ancora proliferavano in grande quantità.
Nonostante fosse bellissima c’era qualcosa di strano, per non dire oscuro,
nella sua figura, qualcosa che accomunava tutte le spie.
Nonostante
l’avesse incontrata solo una volta, e ormai quasi un secolo prima, Isnark si ricordò subito di quel volto, e soprattutto di quegl’occhi, perché erano gli occhi di colei che aveva
tentato di distruggere la sua terra.
«Non avrei mai
pensato di incontrarti in un posto simile, lo sai Isnark!?»
«Lsyn!».
«Però.» disse Elys rivolta a Regis «Quel tuo amico elfo ci
sa fare.»
«Forse.» rispose
Aria «Piuttosto, Elys. C’è una cosa che vorrei tanto
che tu mi spiegassi».
Il tono della
maestra era dichiaratamente provocatorio, quasi a
voler mettere in guardia la sua allieva dal raccontare qualche frottola.
«S… sì, maestra?»
«Ieri
sera tu e Dave siete usciti dal locale e siete spariti per tutta la notte. Si
può sapere dove accidenti vi eravate andati a
nascondere?»
«Cosa!?» esclamò Elys colta alla sprovvista «Beh… ecco… il novellino
voleva dei suggerimenti per affrontare i suoi incontri… così… siamo andati in
un vecchio magazzino, e… ci siamo allenati.»
«Ah!? Per tutta la notte?»
«Io… io gli ho
detto che avrebbe dovuto dormire, ma lui… lui non ha voluto sentire ragioni…».
Aria non commentò,
ma si avvicinò a Elys fin quasi a far incontrare le loro fronti e la guardò con
aria di chi nutre forti dubbi.
«Siamo sicuri che
sia solo per questo?»
«Ma… ma sì, glielo posso garantire!»
«Elys?» disse Aria
imitando la voce maliziosa della sua allieva «Non è che voi due in realtà vi siete appartati per un po’ motivo, come posso dire…
intimo?».
Lo sgomento per
quell’affermazione fu tale che Elys finì a gambe all’aria, diventando più rossa
dell’uniforme che indossava.
«Maestra,
cosa le viene in mente! Le pare che io abbia qualcosa da spartire con quello
stupido novellino senza speranza?»
«Sì, in effetti hai ragione.» rispose lei ridendo «Stavolta ho
davvero esagerato».
Chi sembrava
nutrire ancora delle riserve sulla giustificazione della ragazza era Regis, che
però, come al solito, non fece nulla per tentare di
manifestarle, anche perché si era ripromesso che non avrebbe interferito in
alcun modo nelle decisioni di Dave fino alla fine del torneo.
Isnark e Lsyn
continuavano a fissarsi senza proferire parola, poi fu la ragazza a parlare per
prima.
«Che c’è, ti si è
paralizzata la lingua?»
«Che cosa ci fai
tu qui?»
«E
tu allora? Potrei farti la stessa domanda».
Isnark strinse i pugni, cercando di contenere la rabbia che
provava per lei.
«Fammi indovinare,
è stata la tua regina a ordinarti di iscriverti a questo torneo.»
«E anche se
fosse?».
Una frase che
suonò più chiara di un sì.
«Dovevo
immaginarlo. Quella esaltata vuole mettere le mani sulla Spada Cristallo, e
posso immaginare perché. Con un simile tesoro nelle sue mani, potrà muovere
guerra a tutto il nostro popolo.»
«Sei
completamente fuori strada. Se oggi io sono qui, è solamente per me stessa.»
«Come dici!? Per te stessa?»
«La cosa ti crea
qualche perplessità.»
«Ovviamente.
Trovo difficile pensare che una spia possa prendere una decisione
autonomamente. Sbaglio o venite addestrati fin dalla
nascita a fare solo quello che vi viene ordinato? Pulireste anche il culo alla vostra regina con la lingua, se lei ve lo
chiedesse».
Un secondo dopo Isnark si ritrovò la spada di Lsyn
appoggiata alla gola; gli occhi disinteressati della ragazza si erano fatti di
colpo minacciosi e carichi di risentimento.
«Prima di parlare,
pensa a chi hai di fronte. Ti avverto che
l’incantesimo degli umani non ha effetto al di fuori dell’arena.»
«Speri di
spaventarmi?» domandò Isnark senza apparente timore
«Ho smesso di aver paura di quelli della tua razza
molto tempo fa».
Per molto tempo i due
continuarono a fissarsi in cagnesco, poi Lsyn
allontanò la lama e si rimise a sedere.
«Perché sei venuta
qui?» chiese Isnark in tono
più pacato
«Perché
è successo qualcosa nella mia vita. Qualcosa di importante.»
«Qualcosa di che
tipo?»
«Ultimamente,
ho cominciato a dubitare delle mie capacità. Non sono più nemmeno sicura di
poter continuare a fare ciò che ho sempre fatto con la
stessa determinazione di sempre. Per questo sono qui.»
«Per metterti alla
prova.»
«Questo
torneo raggruppa i migliori guerrieri del continente. Un banco di prova ideale
per scoprire se io sia ancora degna di considerarmi una spia».
In quella, le
trombe reali annunciarono l’inizio di un nuovo incontro.
Secondo il
regolamento, gli incontri delle fasi finali venivano
disputati a salti: prima uno del gruppo A (diramazione superiore), poi uno del
gruppo B (diramazione inferiore), e così via fino alla fine.
In entrambe le
stanze era affissa una copia del tabellone, che proprio come quella all’esterno
veniva aggiornata in tempo reale da un addetto lì
presente, quindi ogni partecipante sapeva bene quando stava per giungere il suo
momento.
Il prossimo
scontro, il primo del gruppo B, metteva di fronte il primo classificato del
girone F contro il secondo del girone H.
Lsyn alzò la testa e si alzò
nuovamente dalla panchina.
«Ora saprò».
Recuperata la sua spada si avviò verso l’uscita, ma non appena passò affianco
a Isnark la voce del giovane elfo la richiamò.
«Se
pensi che io ti abbia perdonato per quello che hai fatto sbagli di grosso.
Aspetto ancora il momento in cui potrò fartela pagare».
Lsyn sospirò, apparendo in parte delusa in parte rassegnata.
«Se ogni soldato
sopravvissuto ad una guerra dedicasse la sua vita a
tentare di uccidere il responsabile della morte del suo migliore amico, la vita
su questo mondo si sarebbe estinta molto tempo fa. Credevo che ormai lo avessi
capito. Se non è così… riprendi in mano la zappa e torna a fare il contadino.
Perché è evidente che quello del guerriero è un ruolo che non ti si addice».
Senza dire altro
la ragazza uscì nell’arena non appena venne annunciata
dall’oratore, che la descrisse come la più grande guerriera del lontano regno
di Normar.
«È il mio
momento.» disse Regis assicurandosi la spada dietro la schiena
«In questo secondo
incontro del grande torneo» proseguì l’oratore «La valorosa e potente Lsyn, delle terre di Normar, si
confronterà con uno dei più grandi guerrieri che il
nostro regno abbia mai conosciuto!
Nobili signori, e
gentili dame, è per me un grande onore potervi presentare il nostro difensore,
l’eroe del Regno di Fiya! Ecco a voi… Regis!».
L’interpellato
uscì alla luce del sole, e immediatamente l’anfiteatro venne giù per gli
applausi.
Malgrado tutta
quella fama non gli facesse né caldo né freddo, Regis era davvero molto
conosciuto e molto amato dalla popolazione di Fiya.
Tutti erano
convinti che fino a che lui avesse camminato sulla
terra, il regno mai avrebbe dovuto temere di essere conquistato, perché solo un
pazzo avrebbe osato affrontare un’armata che aveva il valoroso Regis alla sua
testa.
Sì, perché
nonostante i ripetuti rifiuti alle numerose proposte di arruolamento avanzate
dalla famiglia reale, più di una volta Regis aveva combattuto al fianco degli
eserciti di Fiya contro i barbari invasori che avevano provato a soggiogarlo,
ed erano state proprio quelle gesta a renderlo così famoso e così amato fra il
popolo.
«Regis!
Regis! Regis!» si sentiva gridare a più non posso.
Lsyn non si scompose nel sentire le ovazioni che venivano riservate al suo prossimo avversario; al contrario,
si sentì soddisfatta come mai nella sua vita.
Se voleva davvero
mettersi alla prova, non poteva esserci candidato migliore dell’eroe degli
esseri umani per esaudire il suo desiderio.
Non appena Regis
salì sul ring, lei lo guardò con aria di sfida.
«E così tu saresti
il famoso Regis.»
«E tu saresti?»
«Lsyn di Normar. Molto piacere.»
«Sei una spia.»
«Indovinato.
Lo sai, la tua fama è arrivata anche nel nostro regno.
I vecchi raccontano molte storie sul tuo conto. Ti chiamano l’Angelo Bianco.»
«Per me un nome
vale l’altro.»
«Sei anche modesto. Una qualità rara negli umani.»
«Umani,
elfi, nani. Uno vale l’altro, se sono miei avversari. Mi basta solo che non si
montino eccessivamente la testa.»
«Molto
bene. Su questo punto la pensiamo allo stesso modo».
Giratisi verso la balconata fecero entrambi il saluto al re, quindi tornarono
a fissarsi, aspettando il momento di poter cominciare la sfida.
Sefy raggiunse nuovamente il parapetto, e dopo aver
guardato per un istante il suo beniamino lasciò cadere
la rosa; nell’istante esatto in cui il fiore toccò terra i due avversari
volarono letteralmente l’uno contro l’altro, facendo scontrare i pugni destri
in un urto che a qualsiasi uomo comune sarebbe costato le ossa della mano.
Nessuno dei due
mise mano alla propria spada per i primi due minuti di scontro, ma ciò non
tolse nulla alla spettacolarità e al brivido del combattimento.
Gli elfi,
notoriamente, esprimevano le loro migliori abilità nel combattimento a mani
nude, ma quella era la prima volta che Lsyn
incontrava un essere umano dotato di una scioltezza di movimenti tale da
riuscire a respingere ogni suo tentativo di affondo.
Dall’alto del
loggiato, lontano dagli altri spettatori, sempre rinchiuso nella sua veste
scura col cappuccio sollevato, Erik osservava il combattimento di Toshio. Erano
otto anni che aspettava di scontrarsi con lui, e voleva fare le cose per bene.
Lo aveva trovato inseguendolo in un altro mondo, si era fatto un’idea delle sue
capacità sfidando il suo apprendista, e adesso voleva vedere direttamente lui
in azione.
«Non ti sembra
disonesto quello che stai facendo?» chiese Lily, seduta sulla sua spalla.
Ignorò
completamente la sua domanda. Il duello era cominciato, e non voleva perdersi
neanche un attacco. Sperava di vedere un combattimento in cui Toshio avrebbe
dovuto impegnarsi al meglio per avere l’occasione di valutare attentamente i
suoi progressi, e aveva avuto fortuna: il suo primo avversario era un’elfa. Quelli della sua razza non si lasciavanobattere facilmente
sia per le loro qualità che per il loro orgoglio e Toshio si sarebbedovuto impegnare seriamente.
«Sai, non capisco
se il tuo è un comportamento da disonesto o da vigliacco.»
Certe volte apprezzava la compagnia della fatina, ma in momenti come
quello lo irritava a morte.
«Si può sapere
cosa vuoi?» chiese senza distogliere gli occhi dallo scontro
«Se continui a
spiare le sue mosse e studiare le sue tattiche, il vostro non sarà un
combattimento ad armi pari.»
«Perché?»
«Perché
tu sarai in vantaggio! Da quello che ho capito lui non
sa neanche della tua esistenza.»
Il combattimento
procedeva velocissimo, e Regis continuava a schivare tutti i colpi della sua
avversaria con una velocità impressionante.
«Beh, mi sembra
che anche lui abbia il suo vantaggio».
La fatina si
decise a lasciarlo in pace e guardò anche lei il ring. Erik poteva percepire i
suoi pensieri, e sapeva che era rimasta stupita dal suo avversario e delusa
perché non poteva ribattere
«Beh?
Non parli più?»la
stuzzicò
«Io ripeto che è
disonesto».
Erik sbuffò
divertito e riprese a seguire l’incontro, che procedeva a ritmo frenetico.
Regis, per quanto
veloce, non era in grado di mantenere a lungo la rapidità dei movimenti di Lsyn, che per controparte non disponeva
della forza necessaria per oltrepassare le efficaci difese dell’umano.
Una spia non si
faceva certo scrupoli nell’usare tecniche che un guerriero avrebbe ritenuto
disonorevoli, ma d’altra parte questa era da sempre stata una loro prerogativa.
Dopo aver respinto
un calcio facendosi scudo con il polso, Lsyn spiccò
un grande salto, portandosi il sole alle spalle, cosicché quando Regis alzò gli
occhi rimase abbagliato, esponendosi ad un attacco.
«Eroe
degli umani! Prova a respingere questa!».
Tutto ciò che
Regis vide fu una vera tempesta di lame ombra
dirigersi verso di lui, e mancandogli il tempo necessario ad evocare una
barriera protettiva non ebbe altra scelta che rispondere alla vecchia maniera.
Avendo già la
spada in mano, la mise davanti a sé e prese a girarla velocemente, formando uno
scudo roteante contro il quale i coltelli nemici andarono inesorabilmente a
cozzare.
Alcune, però,
riuscirono a oltrepassare la barriera e ferirono il guerriero in più punti, ma
si trattava per lo più di graffi che al massimo
potevano dare un leggero fastidio.
Vedendo il suo
attacco respinto, Lsyn tornò a terra rimanendo in
piedi su uno dei paletti di sostegno per le catene; anche lei aveva sguainato
la spada, e ora fissava Regis con aria soddisfatta.
«Niente
male. Non è da tutti uscire indenni dalla Tempesta Dell’Agonia.»
«Beh, proprio
indenne no.» replicò Regis passandosi una mano sulla ferita alla guancia «Una
tecnica sopraffina, lo riconosco.»
«Anche
la tua non era male. Si vede che sei un vero guerriero.»
«Grazie,
ricambio con piacere. Ora se permetti, tocca a me.»
«Vieni
avanti. Ti aspetto».
Regis partì alla
carica e cercò di colpire, ma un istante prima di riuscirci vide la sua
avversaria scomparire in una nuvola di fumo.
“Un illusione!?”.
I suoi sensi
allenati gli permisero di evitare un assalto a sorpresa alle spalle, ma subito
dopo aver colpito Lsyn
scomparve nuovamente.
«Un po’ lento,
umano!».
La scena si ripeté
più e più volte, poi, all’improvviso, Regis si ritrovò trafitto alla spalla
sinistra da una lama ombra comparsa dal nulla dietro
di lui, e cadde in ginocchio mentre nello stadio piombava uno sconcertante
silenzio.
«Maestro!» gridò
Dave.
Aria ed Elys,
invece, rimasero con la bocca spalancata per lo stupore: gli elfi erano davvero
degli avversari portentosi.
Lsyn ricomparve, sempre sopra uno dei paletti, con addosso un’espressione piacevolmente soddisfatta.
«Ehi,
ammetto di essere un po’ delusa. Dal leggendario Regis mi sarei aspettata
qualcosa di più di questo.»
«Lo… lo ammetto…»
replicò Regis togliendosi l’arma dalla spalla e rimettendosi in piedi «Ci sai
fare… non ho mai visto nessuno con la tua velocità».
L’elfa sorrise, togliendosi una ciocca di capelli dagli
occhi.
«Mi
sembra ovvio. Lo sai qual è il mio nome in codice? L’Ombra.»
«Un nome
appropriato.»
«Puoi
ben dirlo. Vuoi la verità, di tutti i nemici che ho ucciso
non ce n’è stato uno che abbia fatto in tempo a vedermi negli occhi. Sono
piombata su di loro in silenzio, veloce e silenziosa come un’ombra, e ho reciso
le loro vite con un solo colpo.»
«Interessante.
Ma dimmi. Ti sei mai chiesta quali siano stati i loro
pensieri nel momento in cui li hai uccisi?»
«Non ne ho mai
avuto motivo, per il semplice motivo che non gli ho lasciato il tempo di
pensare.»
«Io
l’ho fatto. E sai cosa ho pensato? Che sei davvero in gamba.»
«Grazie,
ricambio. Ma ora, con il tuo permesso, vorrei chiudere
la sfida».
Erik era indignato; non era certo andato lì per assistere
alla sua sconfitta!
Se quell’elfa lo avesse sconfitto, vendicarsi su di lui dopo non
sarebbe stata la stessa cosa.
«La fermeresti?»
«Cosa?»
«Se le cose
dovessero mettersi male per lui la fermeresti?».
Questa era una
cosa che non stava né in cielo né in terra.
«E perché dovrei
evitargli una sconfitta e l’umiliazione di vedersi battuto davanti a tutti?»
«Perché lo vuoi
battere tu privandolo della sua fama. Se già un’altra
prima di te gli toglie tutta la sua notorietà non ti
darebbe più soddisfazione sconfiggerlo, ammettilo».
La fatina aveva di
nuovo letto i suoi pensieri. Sconfiggere il suo avversario sapendo cheera il più potente
in circolazione era una cosa, ma sconfiggere qualcuno che era già stato battuto
era tutta un’altra faccenda. Se fosse stato sconfitto in quel duello, la sua
sarebbe stata solo una vittoria a metà, ma non per questo si sarebbe messo in
mezzo.
Mentre osservava il suo rivale e la sua ferita, un nuovo
modo di vedere la situazione si fece strada tra i suoi
pensieri: se la sua avversaria era stata in grado di ferirlo così facilmente
allora tutto il tempo trascorso in quel mondo non lo aveva fatto migliorare
tanto. Era più che in grado di sconfiggerlo, ma ne sarebbe valsa la pena?
Possibile che lo avesse inseguito fin lì solo per scoprire
che il grande Regis era nettamente inferiore a lui?
«Dici che riuscirà
a cambiare le sorti del duello?»
«Sciocca. Certo che ci riuscirà, non penserai che si lasci
battere così facilmente».
«L’hai pensato
anche tu un secondo fa.» replicò Lily offesa
«Dovresti
smetterla di sbirciare nella mia testa lo sai? Oppure
dovresti imparare a capire per bene cosa penso e non limitarti alle cose
superficiali.»
«Cosa vorresti dire?»
«Che sono convinto
che vincerà quest’incontro ma non capisco perché ci stia mettendo così tanto a stenderla.» rispose arrogante
«Questo non è
vero.»
«Sai che cominci a
darmi sui nervi?».
La fatina non
rispose ma era arrabbiata con lui, lo sapeva, come sapeva
che nel giro di pochi secondi lo avrebbe perdonato.
Anche Isnark, dal buio dell’arco, assisteva allo scontro.
«Sembra che Lsyn questa volta abbia deciso di fare sul serio».
Accanto a lui era
apparso, come per incanto, un altro elfo, anche lui proveniente dalle regioni
di Normar; molto più alto di Lsyn,
che al contrario era di dimensioni piuttosto minute, aveva gli stessi capelli neri, ma occhi di un colore grigio brillante, molto profondi
ed espressivi.
Anche lui, come l’elfa, era una vecchia conoscenza di Isnark.
«Tijorn!».
Malgrado anche Tijorn fosse una spia, Isnark
aveva per lui tutto il rispetto e l’ammirazione degni di
un fratello, questo perché, a differenza della sua Sorella di Maestro, lui i
nemici li guardava negl’occhi, affrontandoli faccia a faccia.
«Come te la passi,Isnark? Quant’è, cent’anni?»
«Sì,
pressappoco. Dai tempi dell’assedio di Averium.»
«Me
la ricordo. Grande battaglia. A causa tua la mia missione di assassinare il
capitano della guarnigione primaria stava per andare a vuoto.»
«A
tal proposito, penso che dovrei ringraziarti. Quel tipo era un pazzo psicotico,
e avrebbe portato la città alla capitolazione.»
«In
tal caso, meglio che la regina non lo sappia mai. Quella è stata l’unica
macchia sulla sua carriera di conquistatrice».
Dopo un’amichevole
risata, entrambi guardarono Lsyn, ancora in piedi sul
paletto e sicura della propria vittoria.
«Sai, era da
parecchio tempo che non vedevo mia sorella impegnarsi
tanto in uno scontro.»
«Dici sul serio?»
«Negli
ultimi tempi mi è sembrata strana. Avevo come l’impressione che ci fosse
qualcosa che la turbava.»
«Ho
una notizia per te. Hai visto giusto.»
«Lo
so. È stato il maestro Amarto in persona a
consigliarle di iscriversi a questo torneo. In seguito, ha detto a me di
tenerla d’occhio.»
«E allora?»
«Sembra proprio
essere tornata quella di un tempo.»
«Lo
immaginavo. Regis fa questo effetto a tutti quelli che incontra».
Ferito e immobile, Regis sembrava aspettare impotente di
ricevere il colpo di grazia.
Lsyn fece roteare la sua spada, guardandolo con ostentata
soddisfazione; l’eroe del popolo degli umani era di
fronte a lei, sconfitto, inerme, pronto per essere abbattuto.
Alla fine di
tutto, si era sbagliata. Ciò che era successo nella sua vita non aveva
minimamente pregiudicato le sue abilità come spia, ma soprattutto come
guerriera.
Era sempre quella
di un tempo, l’Ombra silenziosa foriera di morte per tutti i suoi nemici.
Mancava solamente
il tocco finale.
«Allora,
valoroso Regis. Hai un ultimo
desiderio?».
Lui la guardò coi suoi occhi di ghiaccio senza proferire parola. L’elfa sogghignò.
«Lo prendo come un
no».
Detto
questo spiccò un altro dei suoi incredibili salti, e si preparò a sferrare il
colpo risolutivo. La lama della sua spada scintillò nel cielo azzurro, la sua
ombra sinuosa oscurò per un istante il sole; poi, l’affondo, veloce e preciso,
diritto al cuore.
Un colpo mortale.
Mortale, certo… se
solo il bersaglio fosse stato reale. Solo quando tornò coi
piedi sul ring si accorse che la punta della sua spada non era conficcata in un
corpo umano, bensì in un ceppo d’albero.
“Ma cosa…”.
Un’ombra, d’un tratto, la sovrastò: era lui!
Solamente i suoi
riflessi e la sua agilità di elfa addestrata le
permisero di evitare la spada del nemico, che andò a conficcarsi per cinque
centimetri buoni nella dura pietra.
Roba da non
credere. Quel tipo aveva utilizzato la tecnica della sostituzione, uno dei
segreti più reconditi e meglio custoditi della stirpe delle spie. Un istante
prima di venire colpito, aveva creato non visto un
simulacro con le sue sembianze, e sempre non visto si era allontanato,
nascondendosi nell’unico posto in cui Lsyn non era in
grado di vederlo: sopra la sua testa.
Se non fosse stato
per la luce del sole, l’attacco di Regis sarebbe andato quasi sicuramente a
segno.
«Come si suol dire…» disse l’umano
estraendo la sua spada dal terreno «Combatti il fuoco con il fuoco».
Lsyn era letteralmente senza parole.
«Come… come
diavolo hai fatto? Come fai a conoscere una tecnica
che solo le spie più esperte possono padroneggiare?»
«Segreto
professionale. Sai, apprendere e controllare le arti più complicate è il mio passatempo preferito.»
«Sei
un essere umano ben strano, non fatico ad ammetterlo. Lo sai, dalle mie parti
si vocifera che tu non sia nemmeno un abitante di questo mondo.»
«Davvero?» replicò
Regis con un sorriso provocatorio «Chissà, forse è davvero così.»
«Vorrei proprio vederlo, questo tuo mondo. Deve essere incredibile.»
«Ah,
niente affatto. Non è un granché. Ma anche così, ne sento ancora la mancanza.»
«E vorresti
ritornarci?»
«È
la mia sola ragione di esistere. E la tua qual è?».
A quella domanda, Lsyn si trovò del tutto impreparata a rispondere.
Qual’era
la sua ragion d’esistere? Cosa stava facendo in quel
momento? Perché era giunta fin lì, in quel regno degli umani così lontano dalla
sua casa? Cosa voleva dimostrare?
Ma
voleva veramente dimostrare qualcosa?
E se, in realtà,
lei stesse solamente tentando di scappare? E se quello non fosse stato un
inconscio, disperato tentativo da parte del suo cuore di allontanarla dalla
fonte del suo tormento?
«Hai mai sentito
parlare del grande torneo che si tiene a Qerin, la capitale del regno umano di
Fiya?» le aveva detto il maestro Amarto«Vi partecipano i guerrieri più forti e valorosi di tutto il
continente. Per il torneo di quest’anno, che si terrà fra un mese, il re di
Fiya ha messo in palio come premio per il vincitore il più grande tesoro che il suo segno abbia mai posseduto. Corre voce che anche
il leggendario Regis, l’eroe degli umani di Fiya, stia considerando l’idea di
prendervi parte. Perché non ti iscrivi anche tu?».
Per quale motivo
il maestro Amarto le aveva fatto una simile proposta?
Forse perché, da
vecchio saggio qual’era, si era accorto
dell’agitazione che dimorava nell’anima della sua allieva prima ancora di lei,
e anche se non ne capiva la ragione aveva voluto fare qualcosa per aiutarla,
dando una prova ulteriore della propria bontà.
Negli ultimi tempi
la condotta di Lsynnelle
missione affidatele non era stata esattamente impeccabile, e non vi è miglior
modo per una spia di ritrovare sé stessa che misurarsi con un avversario
potente.
Durante il viaggio
aveva riflettuto molto, e per un breve periodo era riuscita a tornare ad essere sé stessa. Combattendo nelle eliminatorie aveva
provato nuovamente, dopo molto tempo, l’ebbrezza della battaglia, e per la
prima volta dopo molto tempo si era addormentata senza preoccupazioni.
Forse, si era
detta, poteva continuare ad essere una buona spia
senza che i sentimenti d’amore intralciassero il buon andamento delle sue
missioni.
E invece, di
fronte a Regis, stava nuovamente vacillando; stavolta però
a darle motivo di esitare non erano i suoi sentimenti, ma i suoi ideali, gli
ideali attorno ai quali era vissuta fin dalla sua nascita.
Quell’umano era un
eroe fra la sua gente, come lo era lei fra gli elfi di Normar,
ma le imprese attorno alle quali avevano costruito la loro fama erano
diametralmente opposte.
I cuori degli
abitanti di Fiya battevano nel sentir raccontare del coraggio, dell’onore,
della nobiltà d’animo del valoroso Regis, che senza remore e senza pretese si
ergeva a difesa di chiunque fosse nel giusto, indipendentemente dal fatto che
si trattasse di un nobile o del più povero dei mendicanti.
Gli elfi invece
tremavano di paura al pensiero dell’Ombra, che sbucando dal buio della notte
recideva le vite dei nemici di sua maestà la regina nei momenti in cui questi
erano maggiormente indifesi, scomparendo poi allo stesso modo in cui era
venuta.
E che dire dei
suoi occhi?
Così vigorosi, ma allo
stesso tempo così carichi di malinconia; solamente negli occhi di TijornLsyn era riuscita a
perdersi in quel modo.
Era forse giunto
per lei il momento di rivedere le sue convinzioni?
Ma
ormai non c’era più tempo per riflettere.
Il pubblico, scalpitante,
chiedeva a gran voce battaglia, e bisognava accontentarlo. Volevano
accontentarlo.
«Davvero ti piace
apprendere le tecniche altrui?» domandò Lsyn
completamente cambiata «Molto bene, prova a imitare questa!».
Nello spazio di un
batter di ciglia, l’ombra dell’elfa sembrò prendere
corpo, e accanto a lei comparve una sua sosia perfetta
apparentemente in carne, e non solo semplice illusione. Persino Regis ne rimase
affascinato.
«Davvero
impressionante.»
«Farai meglio a
tenerti pronto, umano».
E proprio come voleva la folla, un istante
dopo lo scontro riprese; malgrado fosse in inferiorità numerica, tartassato di
colpi, Regis pareva in grado di reggere bene la battaglia.
Lsyn non fuggiva più, non colpiva a tradimento per poi
correre a nascondersi: guardava il suo avversario dritto in volto, e la cosa,
incredibile a dirsi, la faceva sentire incredibilmente fiera.
D’un tratto, Regis
sembrò riuscire a mettere alle corde l’Ombra originale costringendola ad uno scontro di forza, riconoscibile per la tonalità
leggermente più chiara della cute; ma lei non si fece trovare impreparata, e
premendo un pulsante segreto sull’elsa della sua spada fece comparire sul fondo
dell’impugnatura una lama segreta, che usò per menare un fendente con cui
liberarsi da quella pericolosa situazione.
«Questo è un colpo
basso.» disse scherzosamente Regis
«Spia.» rispose
beffarda Lsyn.
Dopo poco la sua
ombra, ritornata entità eterea, penetrò in quella di Regis, e il guerriero si
ritrovò di colpo completamente paralizzato.
“Che cosa… non
riesco a muovermi!”
«Sei
sorpreso? Questa non la conoscevi, suppongo. E ora, mettiti comodo. Sto per
mostrarti la mia tecnica più potente».
Lsyn si allontanò, fin quasi a sfiorare le catene che
delimitavano il ring, e rivolse la sua spada verso il basso; tutto il suo corpo
si circondò di un alone oscuro potente e minaccioso, che passò successivamente dall’elfa alla sua
arma. Regis, del tutto incapace di muoversi, poteva solamente stare a guardare.
«Ritieniti
fortunato! Tu sei il primo con cui devo ricorrere a sistemi tanto drastici!».
Altre tre copie di
Lsyn apparvero tutto intorno formando un quadrato, e tutte insieme, quasi fossero l’immagine di uno specchio,
alzarono la spada.
«E ora…» disse
l’Ombra «…Scintilla Mortale!».
Le quattro copie sfrecciarono l’una contro
l’altra formando una croce che aveva Regis come centro; il guerriero avvertì su
di sé un dolore a dir poco atroce, come se lo avessero trafitto
contemporaneamente non una, non quattro, ma ben cento
lame.
Inerme,
apparentemente morto, Regis, ora libero dal giogo della sua stessa ombra, si
accasciò a terra a faccia in giù con un braccio disteso e l’altro lungo il
fianco; contemporaneamente le copie di Lsyn
scomparvero e rimase solamente l’originale, che si girò verso l’avversario.
«La
sfida è finita. Ho vinto».
Nello stadio calò
un silenzio da cimitero.
Tutti, nessuno
escluso, erano immobili per lo stupore e lo sgomento.
Regis, l’eroe di
Fiya, giaceva al suolo, sconfitto nel suo primo incontro delle fasi finali.
I più sconcertati
erano sicuramente il suo allievo Dave, Elys e Aria, ma anche l’intera famiglia
reale non riusciva a credere ai propri occhi.
«Nobile Regis!»
gridò la principessa affacciandosi dal balcone.
Nel sentire la sua
voce, così innocente e così pura, Lsyn ebbe una terza
esitazione, che si trasformò in una sensazione quasi di terrore quando l’intero
stadio prese a chiamare a gran voce il suo eroe, scandendo le parole con il
battito delle mani.
«Regis!
Regis! Regis!»
«Nobile Regis! –
Avanti, rialzati! – Tu sei il nostro eroe! – Noi crediamo in te!».
Lsyn rimase senza parole.
A lei sarebbe
bastata una missione fallita per perdere istantaneamente la stima e il rispetto
dei suoi compagni. Regis, considerato un guerriero imbattibile, era lì immobile
davanti a lei, ma i suoi compagni, invece che deriderlo e osteggiarlo, lo
incitavano, esortandolo a rimettersi in piedi.
Persino il re, la
regina e la loro figlia erano in piedi.
Lsynavrebbe voluto scappare:
quanto tempo era passato dall’ultima volta che la sua regina aveva dimostrato
affetto nei suoi riguardi? Lei aveva combattuto, aveva ucciso, si era sporcata
le mani di sangue per la regina, eppure mai una volta questa le aveva rivolto
una parola dolce, o aveva dimostrato un sincero
apprezzamento.
Ma il regolamento,
purtroppo, andava rispettato, ed il giudice di gara
fece per girare la clessidra sul suo tavolo che scandiva i dieci secondi
concessi per rimettersi in piedi, in caso contrario la sfida sarebbe finita.
L’Ombra, però, lo richiamò.
«Aspetta.
Non sarà necessario.»
«Cosa!? Ma…»
«È
un guerriero valoroso. Voglio risparmiargli l’umiliazione di non potersi
rialzare. Gli darò il colpo di grazia, ora».
Lsyn preparò nuovamente la sua spada, e per l’ultima volta
fissò il volto spento di Erik; i suoi begli occhi neri erano chiusi, la sua
bocca immobile. La sfera che portava al collo era diventata rossa e pulsava
molto forte, segno che il guerriero era ormai al limite.
«Questo è per te,
eroe degli umani».
Nuovamente saltò,
nuovamente rivolse la punta verso il basso; un colpo solo, e tutto sarebbe
finito.
Di nuovo cadde il
silenzio, accompagnato da una terribile angoscia.
Tutti trattennero
il fiato, anche Isnark e Tijorn.
Poi, come luci nel
buio, quegli occhi di colpo si illuminarono
nuovamente, carichi di indomabile ardore.
ΑΣΠΙΔΑ
Tutto attorno a Regis comparve una cupola di luce rosa
contro cui andò a scontrarsi una sbigottita Lsyn.
«Ma cosa…!».
La forza e
l’energia insite nella barriera furono tali da farla volare in aria come una
piuma; con la forza della disperazione riuscì a tornare a terra sulle piante
dei piedi, ma era ormai troppo tardi.
Tutto ciò che vide fu una spada bellissima, con l’elsa in avorio a forma
di testa d’aquila, passarle accanto, e subito dopo tutto il suo corpo divenne
rigiro come la pietra.
Alle sue spalle,
Regis, in piedi.
«Ora è finita,
Ombra».
La sfera di Lsyn, che ancora splendeva di verde, in meno di un secondo
divenne rossa, e subito dopo andò in pezzi: quell’unico colpo era stato
sufficiente per privare l’elfa di ogni energia.
«Non… è… poss… i…bi…le…».
Stavolta il
conteggio non fu necessario, perché Lsyn cadde sul ring già priva di sensi, come testimoniava il monile in
frantumi.
Dall’iniziale silenzio
si passò a grida di esultanza come mai se ne erano sentite.
Per cinque, lunghi
minuti la folla applaudì il suo eroe, ma rivolse calorosi applausi anche a Lsyn, l’Ombra, la sola che fosse stata in grado di mettere
il grande Regis così in difficoltà.
L’incontro era
finito, e Toshio aveva vinto.
Più che un
sorriso, quello sul volto di Erik era un ghigno di soddisfazione.
«Non pensavo che ce l’avrebbe fatta. E’ davvero forte quel tipo.»
«Che ti avevo
detto fatina noiosa?» le chiese prendendola in giro
«Mi
stai stancando con questi insulti. Poteri andarmene, sai?»
«Nessuno ti ha
chiesto di restare».
Ma quando Erik si
allontanò la fatina rimase con lui.
Sapeva benissimo
che Toshio non poteva essere sconfitto in un torneo del genere, quello era un
compito che spettava a lui. Non lo avrebbe battuto in condizioni in cui la
gente poteva ammirarlo ed esaltare la sua morte, dicendo che aveva comunque
combattuto con onore, lo avrebbe spogliato della sua fama e della gloria che
aveva tanto faticato a conquistarsi prima di sconfiggerlo, facendogli pagare
definitivamente le sue colpe.
«Non restiamo a
seguire il resto del torneo?»
«A
che scopo? Quello che volevo sapere l’ho saputo. Ora
possiamo anche andare».
Quando Lsyn riacquistò conoscenza, Regis era ai suoi piedi, e gli
porgeva la mano.
«Bella
sfida, Ombra. Mi sono divertito».
Lei lo guardò,
accennò un sorriso e la strinse, rimettendosi in piedi, ma appena scese dal
ring, mentre Regis, recuperata la rosa bianca, la restituiva alla principessa, Lsyn ebbe un mancamento e minacciò di cadere nuovamente.
Stavolta, però, trovò una spalla su cui appoggiarsi, quella di una persona
amica che non avrebbe mai immaginato di incontrare.
«Tijorn!?»
«Ehilà,
nanetta. Ti sono mancato?»
«Che cosa… che
cosa ci fai tu qui?»
«Mi è stato
chiesto di controllare che tu non facessi sciocchezze.»
«Ti ha mandato il
maestro Amarto?»
«Vero.
Ma lo ammetto, sono felice di essere qui.»
«Per quale
motivo?»
«Beh, perché
vederti mangiare la polvere è un raro evento, ma è ancor più raro
vedertelo fare con un sorriso».
Lei rispose col
suo silenzio, poi guardò Regis.
«Chissà.
Forse è merito suo».
Il vincitore si
avvicinò, e l’elfa, liberatasi dal vincolo dell’abbraccio
fraterno, stette immobile a guardarlo.
«Sei
stata veramente formidabile. Non mi capitava una sfida così da molti anni.»
«E così, era tutto
un bluff.»
«Non
proprio. Ti confesso che per un attimo ho seriamente pensato che avrei perso. A
dirti la verità, se ho vinto è stato solo merito tuo.»
«Merito… mio?»
«Se tu non avessi
cercato di infliggermi il colpo finale io non avrei
potuto coglierti così alla sprovvista, quando tutte le tue difese erano
abbassate. Sotto questo frangente, direi che sei stata
decisamente troppo avventata.»
«Devi ammettere
che ha ragione, nanetta.» disse Tijorn
«L’avventatezza può essere una brutta compagnia, soprattutto per le spie.»
«Ben
detto. Ad ogni modo, sono felice di aver combattuto con te».
Regis allungò la
mano, Lsyn di nuovo sorrise e di nuovo la strinse:
«Anche per me.»
«E da ora in poi, cerca di essere meno avventata.»
«Sicuramente.»
«La
mia vita non sarà mai lunga come la tua. Ma posso assicurarti che ci
incontreremo ancora.»
«Ci
conto. E la prossima volta, non sperare di essere altrettanto fortunato».
Detto questo si separarono; Lsyn si
allontanò dall’anfiteatro sorretta dal fratello, e fra le acclamazioni degli
spalti. Nel lasciare la struttura passò nuovamente accanto a Isnark, che dopo averla guardata storto un momento si portò il pollice e l’indice della mano destra
alla fronte: un segno di amicizia fra il popolo degli elfi, ma soprattutto di
perdono.
L’Ombra quasi
pianse di gioia: guardando il tabellone aveva perso, ma quel torneo le aveva
regalato tante vittorie quante non ne avrebbe mai potute ottenere in tutta una
vita come spia.
Quella mattina, la giovane Komachi era uscita molto presto
su incarico di suo padre; la sera prima si eravano accorti di aver terminato
anzitempo le scorte di spezie, e così lei era stata mandata al mercato che si
teneva in un villaggio al di là delle colline per acquistarne di nuove.
La grande festa
del dio del fiume era ormai alle porte, e la tradizione imponeva a suo padre,
proprietario dell’unica locanda nel raggio di molte miglia, di cucinare il
miglior pesce mai visto, un’impresa impossibile senza le spezie che lui sapeva
magistralmente combinare con una polverina di sua invenzione, della quale
custodiva gelosamente il segreto.
Per evitare il
caldo afoso del mezzogiorno, una volta conclusi i suoi doveri, la ragazza aveva
aspettato che il sole si facesse un po’ meno opprimente prima di intraprendere
la via del ritorno.
Stava
attraversando il bosco ai piedi delle colline, era quasi giunta al confine delle
risaie, quando lungo il sentiero incontrò, suo malgrado, tre brutti ceffi,
molto probabilmente uomini di Maroru.
Cercò di
ignorarli, ma quelli le si pararono dinnanzi, bloccandole la strada.
«Ehi, tesoro. Dove
te ne vai tutta sola nel bel mezzo del bosco?»
«Ti sei persa?».
Komachi,
spaventata da quegli uomini, tentò di lasciarseli alle spalle. Disse che doveva
sbrigarsi, che doveva tornare a casa, che suo padre la stava aspettando, ma
quelli non volevano saperne di lasciarla andare.
«Che fretta c’è?
Vieni a fare un giro con noi. Vedrai che tornerai a casa prima di quanto
immagini».
A parte il fatto
che erano sicuramente al servizio di Maroru, non sembravano affatto i tipi a
cui si poteva dare fiducia, senza contare il fatto che barcollavano e puzzavano
orribilmente di saké.
All’improvviso,
uno di loro la afferrò per un polso e tentò di sollevarla, e allora lei,
spaventata, gli svuotò in faccia il sacchetto di spezie.
«Pepe!» gridò
mettendosi le mani sugli occhi «Dannata mocciosa!»
«Capo!» dissero i
suoi uomini.
Komachi colse al
volo l’occasione e scappò, ma quei tre non volevano saperne di lasciarla
andare.
«Che aspettate,
idioti? Prendetela!».
La fuga della
ragazza fu breve; dopo meno di dieci metri il suo sandalo incespicò su di un sasso
lei cadde sul sentiero. Prima che potesse rimettersi in piedi i samurai le
furono addosso e la immobilizzarono.
Il loro capo, per
vendicarsi del pepe, prese a tempestarla di schiaffi talmente forti da farle
sanguinare naso e bocca.
Komachi gridava
con tutte le sue forze, nella speranza che i contadini la sentissero e
accorressero in suo aiuto, ma erano ancora troppo lontani dalle risaie e
nessuno si accorse di nulla.
Il capo del trio,
e si era seduto sopra di lei mentre gli altri due la bloccavano per i polsi e
per le caviglie, prese a toccarle il seno, e Komachi, un po’ per la paura un
po’ per tutti gli schiaffi ricevuti, restò in silenzio.
«Adesso non gridi
più, eh? Vuol dire che ti piace, puttanella».
Stavano quasi per
strapparle via il kimono, quando una voce imperiosa risuonò nell’aria, facendo
tremare il cielo.
«Ehi, voi!
Lasciatela!».
Gli aggressori si
voltarono, ritrovandosi a tu per tu con un ragazzo sui vent’anni di corporatura
robusta, con occhi e capelli neri, vestito in modo molto strano.
Anche Komachi lo
vide, ma a differenza dei samurai notò qualcosa di strano nel suo sguardo, una
serie di emozioni contrapposte: fierezza e umiltà, speranza e rassegnazione,
vita e morte.
Anche l’arma che
brandiva, una spada, era diversa da quella tradizionale usata dai guerrieri
locali: essendo ancora rinchiusa nel fodero che lo straniero portava dietro la
schiena non era possibile scorgerne la lama, ma l’impugnatura era stupenda, di
avorio bianchissimo, a forma di testa d’aquila.
«E tu che vuoi,
ragazzino?» disse uno dei samurai
«Ho detto…
lasciatela».
Quei tre, invece
che spaventarsi, risero, ed il capo, mollata la sua preda, si avvicinò a lui.
«Altrimenti che
fai? Corri a casa dalla mamma?» e lo afferrò per il bavero.
Non l’avesse mai
fatto!
Lo straniero gli
prese il polso e con un solo colpo gli girò il braccio di 180°; il samurai
gridò più forte di Komachi, rotolandosi a terra per l’indicibile dolore.
«Il braccio!».
I suoi compagni,
lasciata perdere Komachi, sguainarono le spade e gli si avventarono contro;
allo straniero bastarono dieci secondi per disarmarli e provocare loro ferite e
contusioni tali da costringerli alla fuga; questo, oltretutto, senza servirsi
in alcun modo della sua spada.
A quel punto si
avvicinò a Komachi, che ancora spaventata per l’aggressione subita, ma
spaventata anche da ciò che aveva visto negli occhi di quell’individuo,
inizialmente si ritrasse.
«Tranquilla. Non
voglio farti del male».
A differenza di
prima, la sua voce ora sembrava così calma, così rassicurante. Anche il suo
sguardo era completamente cambiato, ora era pieno di amorevole altruismo, e
così Komachi, rassicurata da quegl’occhi, accettò il suo aiuto per rialzarsi.
«Vi… vi
ringrazio.»
«Non devi
ringraziarmi. Ti hanno fatto del male?»
«No. Per fortuna
siete arrivato in tempo.»
«Cosa ci fai da
sola in mezzo al bosco?»
«Sono… sono andata
a fare delle commissioni per mio padre. Stavo tornando al villaggio, quando
quegli uomini mi hanno aggredita.»
«Capisco.»
«E voi chi siete?
Non sembrate di queste parti.»
«No, infatti. Sono
solo di passaggio.»
«Siete un
viandante.»
«Diciamo di sì.»
«In questo caso,
permettetemi di esprimervi la mia gratitudine offrendovi alloggio alla nostra
locanda.»
«La vostra locanda?»
«Si trova al
centro del villaggio alla fine di questo sentiero. È piccola, ma confortevole».
Lo straniero
esitò, disse che il suo viaggio era ancora molto lungo, ma alla fine Komachi
riuscì a convincerlo, adducendo anche al pretesto che raggiungendo il villaggio
insieme ad un guerriero del suo calibro lei sarebbe stata certamente molto più
sicura.
Quando il padre di Komachi, il vecchio Gisaku, un uomo di
età piuttosto avanzata, ma grosso e forte come un toro, venne a sapere di
quello che aveva fatto lo straniero, gli tributò tutti gli onori che il suo
umile status sociale gli permetteva, offrendogli tutto il riso e la carne che
fosse riuscito a mangiare, oltre all’unica stanza privata di cui disponesse la
sua locanda.
I pochi avventori
presenti quella sera guardavano stupefatti, e anche un po’ sospettosi, verso lo
straniero, seduto ad un tavolino appartato.
«Voglio
ringraziarvi ancora per aver salvato mia figlia.» disse il vecchio Gisaku
riempiendogli la ciotola di riso «Mi dispiace solo di non potervi offrire una
ricompensa più sostanziosa.»
«Non si dia pena.
È stato un piacere.»
«Ehi, Komachi!
Porta del sakè al nostro ospite!»
«Sì, subito».
In pochi minuti la
ragazza si avvicinò con un vassoio contenente una ciotola e una bottiglia piena
di ottimo saké, si inginocchiò ai piedi del tavolo e porse la ciotola allo
straniero dopo averla riempita.
«Ti ringrazio».
Inavvertitamente
le loro dita si sfiorarono, e Komachi, arrossendo, girò lo sguardo da un’altra
parte, per evitare di incrociare il suo.
«Ad ogni modo»
proseguì lo straniero «Gli uomini che hanno aggredito sua figlia non sembravano
semplici briganti. Chi erano?»
«Erano sicuramente
uomini di Maroru.» rispose Gisaku con tono fortemente dispregiativo
«Chi è Maroru?»
«È il
sovrintendente imperiale alla produzione del riso in questa regione.»
«Fosse solo
questo.» intervenne uno degli avventori «È anche un bastardo della peggior
specie.»
«Che intendete
dire?»
«Quel tipo è avido
da far schifo.» riprese Gisaku «Da quando è diventato sovrintendente ha
raddoppiato le decime sui raccolti, lasciandoci a malapena di che vivere, e
come se non bastasse ci ha abbassato lo stipendio.»
«E vuoi sapere che
fine fa tutto il riso extra che siamo costretti a consegnargli?» disse un altro
contadino in preda alla collera «Lo vende per suo conto ai feudatari del nord!
Così lui ci guadagna due volte, mentre a noi toccano solo gli avanzi!»
«Posso
immaginare».
Conclusa la cena,
lo straniero ringraziò e disse che sarebbe andato subito a dormire.
«Ho viaggiato per
tutto il giorno, e sono molto stanco. Credo che mi ritirerò.»
«Certamente, la
vostra camera è già pronta. E grazie ancora per l’aiuto che avete offerto a mia
figlia».
Qualche minuto
dopo lo straniero era nella sua camera, seduto davanti alla finestra aperta con
lo sguardo perso nel vuoto del cielo stellato.
Neanche un
bussare, per quanto sommesso, riuscì a distoglierlo dalla sua contemplazione.
«Avanti».
La porta in legno
e carta di riso scorse lungo la parete, e dietro di essa apparve Komachi.
«Vogliate
perdonarmi. Mi sono permessa di portarvi una tazza di tè.»
«Ti ringrazio. In
effetti ne ho proprio bisogno».
Mentre lo
straniero beveva il tè, a Komachi cadde l’occhio su di un pendente circolare
appoggiato sul tavolo: raffigurava un serpente che si mordeva la coda, con una
stella al suo interno.
Vedendolo, la
ragazza restò comprensibilmente sorpresa.
«Qualcosa non
va’?» domandò lo straniero vedendo la sua espressione
«Ma voi… siete per
caso un messo imperiale?»
«Un messo
imperiale!? Cosa te lo fa pensare?»
«Beh, ecco… quel
monile… somiglia moltissimo al sigillo ufficiale dell’Imperatore.»
«Davvero?»
«Lo portano i suoi
ambasciatori, e tutti coloro che visitano le terre dell’Impero in suo nome.»
«Capisco. Comunque
no, non sono un messo imperiale. È solo una coincidenza se il mio medaglione
somiglia a questo sigillo di cui parli.»
«Fate attenzione
che mio padre e gli altri contadini non lo trovino. Da quando è arrivato
Maroru, gli abitanti del villaggio sono molto ostili nei confronti dei
funzionari politici.»
«È comprensibile.
Con quello che fa quell’individuo, mi stupirei del contrario».
Per un po’ non si
dissero altro, poi Komachi, vincendo la timidezza, cercò di parlare ancora.
«Prima… nel bosco…
mi avete detto di essere in viaggio.»
«È così.» rispose
lui sedendosi nuovamente accanto alla finestra.
«Posso… posso
chiedervi dove state andando?»
«A dire il vero,
non ho una meta precisa. Vado dove mi portano le strade che percorro.»
«Andate dove vi
portano le strade!? Ma allora siete… un vagabondo?»
«Diciamo di sì.»
«Eppure, non mi
sembra che i mezzi di sostentamento vi manchino. Vestite in maniera decorosa, e
avete quell’arma magnifica».
Lo straniero
rimase in silenzio; il vento proveniente dalla montagna faceva ondeggiare i
suoi capelli come le spighe di riso, e quell’aura di malinconia che Komachi
aveva notato al loro primo incontro sembrava aver preso completamente il sopravvento.
«Io viaggio da un
posto all’altro con l’unico scopo di imparare, di apprendere cose nuove. Sono
giunto qui perché il mio desiderio di aumentare le mie conoscenze è stato più
forte di quello di tornare a casa.»
«Voi… viaggiate
per apprendere?»
«Un po’ di tempo
fa, ho dovuto fare una scelta. Mi è stato chiesto di scegliere se volevo
mettere fine al mio viaggio, o se invece volevo proseguirlo. La scelta doveva
essere dettata unicamente dal cuore, ed il mio cuore ha scelto di viaggiare
ancora. Così ora vago da una parte all’altra senza alcuna meta, dando al mio
cuore ciò che ha voluto così disperatamente, al punto da rinunciare alla
possibilità di vivere una vita serena.»
«Voi andate dove
vi porta il vostro cuore. È un pensiero romantico.»
«O forse solamente
egoistico».
In quella, un
piccolo drappello di uomini armati, con in testa un uomo basso e grasso sui
cinquant’anni con pochi capelli biondo spento, baffi lunghi e sottili e un
accenno di pizzetto che indossava una vistosa tunica bianca giunse lungo la
strada ed entrò nella locanda; al seguito del funzionario c’era anche un
ragazzo con occhiali da vista e lunghi capelli castani dall’aspetto truce che
sembrò attirare molto l’attenzione dello straniero, forse a causa del suo
abbigliamento da stregone.
L’arrivo di Maroru e dei suoi uomini fu salutato dai
clienti della locanda e dallo stesso Gisaku con un ringhiare sommesso,
accompagnato da sguardi fulminatori e denti bene in vista.
Per nulla
spaventato da quella “calorosa” accoglienza, Maroru prese a guardarsi attorno
con la sua solita, irritante altezzosità.
«Mh, la solita
topaia. Ehi, Gisaku, quando ti deciderai ad offrire ai tuoi ospiti qualcosa di
più decoroso?»
«Che ci vuole
fare?» disse Gisaku sforzandosi di rimanere calmo «Coi tempi che corrono,
questo è il massimo che mi posso permettere.»
«Ad ogni modo, mi
è giunta voce che siete tutti molto in ritardo con il pagamento degli affitti
dei vostri appezzamenti di terreno. Immagino non ci sia bisogno di dirvi che se
i pagamenti non vengono rispettati, scatta automaticamente l’esproprio dei
terreni e la loro riconversione in territorio dello Stato».
Quell’affermazione
bastò a far saltare i nervi a tutti, soprattutto ad un contadino di mezza età
grosso e pelato che si alzò in piedi facendo volare il tavolo a cui era seduto.
«Ma come speri che
possiamo pagare gli affitti, sottospecie di sanguisuga! Ci hai raddoppiato le
tasse in riso e denaro, e per di più ci hai abbassato lo stipendio!»
«Per legge dovete
fornire allo stato una data quantità di riso che vi viene pagata in base al
prezzo di mercato. Non sono io a determinare questi due fattori, mi limito ad
eseguire gli ordini che ci vengono da sua maestà l’Imperatore.»
«Ma taci!» gridò lo
stesso contadino «Lo sappiamo benissimo che fine fa tutto il riso extra che ci
costringi a darti! Lo vendi per conto tuo, e tutti quei soldi finiscono nelle
tue sporche tasche!»
«Se pensate che il
riso coltivato non sia abbastanza, potreste sempre lavorare di più e produrne
dell’altro da tenere per voi. Io non voglio certamente impedirvelo.»
«Lurido bastardo…
io ti ammazzo!».
Il contadino si
lanciò all’attacco, ma era così ubriaco che uno dei soldati della scorta riuscì
a stenderlo senza problemi, spedendolo a terra con un paio di pugni.
«Kobachiro!»
«Bene, bene.»
disse Maroru aprendo il suo ventaglio «Avevo sentito dire che questo posto era
un covo di ribelli. A quanto pare avevo visto giusto. Credo proprio che ne
disporrò la demolizione immediata.»
«Maledetto…» disse
Gisaku «Non te lo permetterò!».
Anche il vecchio
locandiere cercò di ribellarsi, ma stavolta fu il ragazzo al seguito di Maroru
a mettersi in mezzo, ed avvicinate le mani all’altezza del petto generò al loro
interno un piccolo cerchio magico, da cui partirono una raffica di fasci
luminosi che colpirono il vecchio Gisaku più volte, scaraventandolo indietro
con la forza di un colpo di cannone.
«Ben fatto,
Roswell. Dagli una lezioncina, così che impari a stare al suo posto.»
«Subito, nobile
Maroru».
Il ragazzo disegnò
questa volta un cerchio più complesso, scagliando un solo fascio di luce, ma
più grande e potente dei precedenti.
Gisaku rimase
immobile per il dolore e la paura, quando un secondo cerchio magico, alto un
paio di metri, comparve all’improvviso davanti a lui facendogli da scudo.
«Ma cosa…» disse
attonito Maroru.
Alzato lo sguardo,
lui e i suoi uomini videro Komachi e lo straniero, quest’ultimo con il braccio
destro alzato.
«Papà!»
«E tu chi diavolo
sei?»
«Lei deve essere Maroru, il sovrintendente
imperiale. Che coincidenza».
Lo straniero
mostrò il suo pendente, e subito tutti ammutolirono.
«La stavo proprio
cercando.»
«Ma quello… voi
siete un Messo Imperiale!?»
«E sono mandato
qui su richiesta dell’Imperatore.»
«Che cosa!?».
Anche Komachi
restò comprensibilmente sorpresa: ma non aveva detto di non venire dalla
capitale, e di non avere nulla a che fare con il loro impero?
Immediatamente,
Maroru cambiò dal bianco al nero il proprio atteggiamento.
«Vogliate
perdonarmi, nobile messo imperiale. Non immaginavo di ricevere un giorno una
simile visita. Ma la prego, non restiamo qui in questa topaia. Venga, la
accompagno al mio palazzo.»
«Verrò con molto
piacere. In effetti ci sono alcune cose di cui dobbiamo parlare».
E così, fra lo
stupore generale, lo straniero andò dietro a Maroru, ma prima di uscire dalla
locanda si girò un momento verso Komachi, rivolgendole come un gesto di
complicità.
La casa di Maroru, circondata da un muro di cinta e
sorvegliata da un gran numero di guardie, era una vergognosa ostentazione di
ricchezza che dall’alto di una collina dominava incontrastata sulle vaste
risaie e sui piccoli agglomerati urbani tutto intorno in cui abitavano i
contadini, il più grande dei quali era il villaggio dove abitava Komachi.
Lo straniero, che
aveva detto di chiamarsi Toshio, fu accolto con grande onore, e malgrado l’ora
fosse già piuttosto tardi fu invitato dal padrone di casa a partecipare ad una
cena privata degna dell’imperatore in persona.
Carne, pesce,
verdure, dolci la facevano da padroni, e poi riso che praticamente si sprecava.
Toshio e Maroru
sedevano ai due lati di un grande tavolo poggiante su di un morbidissimo
tatami, e ognuno di loro aveva una cameriera personale a propria disposizione
che versava da bere e metteva da parte i piatti vuoti.
«La prego ancora
di voler perdonare l’incidente alla locanda. Purtroppo questi popolani talvolta
possono essere piuttosto ostinati, e così mi ritrovo costretto a ricorrere a
sistemi piuttosto… drastici.»
«Posso
immaginare.»
«Se devo essere
sincero, non mi aspettavo un’ispezione imperiale. Se avessi saputo del suo
arrivo, sarei venuto a riceverla al suo arrivo.»
«L’Imperatore aveva
richiesto la massima discrezione. Avevo l’ordine di raggiungere la regione in
assoluta segretezza. Questo è anche il motivo per cui viaggiavo da solo.»
«Capisco.»
«Ad ogni modo, la
informo che l’Imperatore è piuttosto deluso dallo scarso rendimento di questa
regione».
Maroru perse di
colpo il suo tono amichevole e abbassò lo sguardo.
«Secondo le nostre
stime, il quantitativo di riso e beni in oro giunto nella capitale in
quest’ultimo periodo ha subito un brusco calo, ed io sono stato mandato qui per
capirne il motivo.»
«Nobile messo
imperiale, potete vederlo coi vostri occhi. La situazione al momento non è
delle più rosee. I contadini accendono continuamente focolai di insurrezione, e
cercano sempre nuove scappatoie per sfuggire alla raccolta delle imposte.»
«Ora è tutto
chiaro. Mi rendo conto che simili problemi possono aver pregiudicato il buon
funzionamento della macchina produttiva.»
«Sono felice di
sentirglielo dire.»
«Tuttavia…»
proseguì Toshio diventando incredibilmente cupo «Da un po’ di tempo circola una
strana storia a palazzo».
Maroru divenne più
bianco di un cadavere, e grosse gocce di sudore presero a rigargli la fronte,
nonostante la serata particolarmente fredda.
Toshio bevette un
sorso di sakè.
«Corre voce, fra
alcuni ministri imperiali, che Lei stia sfruttando le risaie di questa regione
in maniera ben più massiccia di quanto non voglia far credere, e che tragga
guadagni personali dalla vendita per suo conto del raccolto in avanzo.»
«Queste sono
solamente illazioni senza alcuna logica, dettate unicamente dall’invidia che
provano alcuni ministri per la buona considerazione di cui godo presso Sua
Maestà.»
«Lei gode sempre
della stessa stima a Palazzo, questo voglio precisarlo. Ma visti i tempi che
corrono non potevamo permetterci di lasciar cadere nel vuoto un’accusa di
questo calibro, quindi l’Imperatore mi ha inviato qui per accertarmi che si
trattasse veramente solo di una voce.»
«Ebbene, come può
vedere con i suoi occhi, è effettivamente così.»
«Naturalmente. Stia
tranquillo, sono sicuro che dopo aver letto il mio resoconto anche i pettegoli
più ostinati smetteranno di raccontare frottole.»
Poco dopo, un
soldato entrò nella stanza e si avvicinò a Maroru, sussurrandogli qualcosa
all’orecchio.
«I delegati che
stavate aspettando sono qui.»
«Dì loro che
arrivo subito. Falli aspettare nella sala del tè.»
«Come desidera.»
«Mi dispiace
enormemente, nobile messo imperiale, ma purtroppo è sorto un problema urgente
che devo risolvere di persona.»
«Non si preoccupi,
la comprendo. Con quello che succede qui…»
«Ha perfettamente
ragione. Voglia perdonarmi se non mi intrattengo oltre con Lei. Domattina
potremo continuare questa conversazione in tutta tranquillità, poi, se lo
vorrà, la accompagnerò personalmente a visionare le risaie.»
«Sarà un onore per
me accettare la vostra offerta.»
«Allora
buonanotte.»
«A voi, nobile
Maroru».
Appena fuori
Maroru fu affiancato da Roswell, ed insieme a lui si incamminò lungo i
corridoio scoperti che davano sul bellissimo giardino interno, dove trionfavano
lampade, cespugli e un grazioso laghetto pieno di pesci rossi.
«Fai preparare
ogni cosa. Voglio la strada lungo le risaie limpida come uno specchio.»
«Sarà fatto.»
«E assicurati che
i contadini non si lascino andare ad atteggiamenti poco cortesi.»
«Come desideri».
Poco dopo, il
nobile Maroru incontrò, davanti ad una tazza di tè, due uomini, il capitano
Kyojiro Sakamure e l’ambasciatore Taigo Kobayami, giunti fin lì su ordine
dell’imperatore Kyogaji, sovrano dell’impero di Kogachi, che in passato aveva
avuto rapporti ora di pace ora di conflittualità con la patria natale di
Maroru.
Le richieste
avanzati dai due ospiti erano sempre le stesse, ma questa volta,
incredibilmente, incontrarono il rifiuto del nobile Maroru.
«Mi dispiace, ma
per questa volta l’affare non si fa.»
«Ma… per quale
motivo?» domandò Kobayami.
Non potevano
sapere che, sopra le loro teste, qualcuno ascoltava e osservava la scena,
grazie ad una tavola malmessa del soffitto che poteva essere facilmente
spostata.
«Ho sempre
assecondato tutte le vostre richieste» proseguì Maroru «Ma questa volta non
posso proprio farlo.»
«Noi ci stiamo
preparando a entrare in guerra con il Regno di Fiya, ma per poter sostenere la
campagna militare ci servono ingenti quantità di rifornimenti. Abbiamo bisogno
del Vostro riso, o i nostri soldati si ritroveranno in breve tempo alla fame.»
«Il fatto è che la
cosa ha cominciato ad attirare l’attenzione dell’Imperatore. Mi sono appena
congedato da un suo rappresentante, e temo che a palazzo qualcuno nutra già dei
sospetti nei miei riguardi. Bisognerà far calmare le acque, poi potremo
riprendere nuovamente i commerci.»
«Ma non possiamo
aspettare.» intervenne Sakamure «Fiya in questo momento è impegnata in una
guerra con gli elfi, e ha ridotto al minimo le truppe dislocate lungo il
confine orientale. È una grandissima occasione, e se ce la lasciamo scappare
dovrà passare molto tempo prima che se ne ripresenti un’altra simile».
Maroru esitò,
sembrò prendere in considerazione la cosa, e allora i due uomini, per cercare
di convincerlo, si prostrarono ai suoi piedi.
«D’accordo. Avrete
quello che volete.»
«Ah, grazie,
nobile Maroru!»
«Però mettiamo
subito in chiaro una cosa. Io corro un grande rischio, e voglio che sia
giustificato. Questa spedizione vi costerà il doppio del normale.»
«Siamo disposti a
pagare qualunque cifra. Voi siete davvero una persona dal cuore d’oro».
Quando se ne
furono andati, Maroru si alzò in piedi e toccò un simbolo sulla parete,
rivelando uno scomparto segreto contenente un rotolo che srotolò sul tavolo;
preso un pennino vi scribacchiò sopra qualcosa, poi richiuse il tutto e lo
rimise al suo posto, un gesto che non sfuggì al suo attento osservatore.
Alcune ore dopo, quando tutti dormivano, ad eccezione di
poche guardie, un’ombra entrò furtivamente nella stanza del tè, ed avvicinatosi
al congegno segreto lo portò allo scoperto senza alcun problema, rubandone il
contenuto.
Stava ritornando
su suoi passi, aveva appena cominciato ad attraversare il giardino, quando udì
una voce imperiosa alle sue spalle.
«Non muoverti!».
Si girò,
trovandosi a tu per tu con Roswell.
«Come avevo
immaginato. Tu non sei un messo imperiale.»
«Hai ragione, non
lo sono.» rispose Toshio
«Puoi aver
ingannato Maroru, ma nessun pomposo aristocratico saprebbe usare la magia ad un
simile livello.»
«Sei perspicace.
Mi piacerebbe star qui a chiacchierare con te, ma sfortunatamente ora ho altro
da fare.»
«Tu non andrai da
nessuna parte. Dammi quel rotolo.»
«E se ti rispondo
di no?»
«In tal caso, sarò
costretto a prenderlo con la forza».
Roswell colpì
d’improvviso scagliando una nuova tempesta di fasci luminosi, ma Toshio non si
fece trovare impreparato e generò una barriera che lo difendesse.
«Sprechi il tuo
tempo. Questa barriera può resistere ad attacchi ben più potenti!».
Il giovane mago si
vide costretto ad ammettere che era vero; non sembrava esserci nulla in grado
di oltrepassare quel cerchio, era un disegno così complicato e così perfetto
che solo un mago di ultima generazione avrebbe potuto averne ragione.
Poi, lo straniero
fece una cosa che Roswell non avrebbe mai pensato di vedere coi suoi occhi;
modificò rapidamente il disegno del cerchio mentre questi era ancora tracciato,
e con esso anche la sua potenzialità, rendendolo capace non solo di respingere
gli attacchi, ma anche di assorbirli, e prima che Roswell riuscisse a fermare
il suo incantesimo il cerchio dello straniero aveva preso a brillare di una
luce fortissima, che gli fu scagliata contro con una forza tale da
scaraventarlo via e lasciarlo a terra senza più forze.
Mentre cercava
ancora di capacitarsi per una sconfitta tanto rapida, vide Toshio che si
avvicinava a lui.
«Che… che aspetti…
uccidimi!».
Lui lo guardò coi
suoi occhi gelidi.
«Perché mai dovrei
farlo?».
Roswell non
rispose, perché non sapeva cosa dire.
Lo straniero a
quel punto prese un cristallo dalla tasca dei suoi strani vestiti, e lo usò per
guarire le ferite del suo avversario, che rimase molto colpito da un simile
gesto.
«Per quale motivo
ti accompagni ad un uomo simile? Avverto una grande nobiltà d’animo in te, e la
tua magia è pura. Perché…»
«Tu non capisci!
Io ero venuto fin qui da Fiya perché volevo apprendere l’arte della magia di
questo regno. Durante il viaggio sono stato aggredito e rapinato, e mi sono
ritrovato senza soldi. Maroru e mio padre erano stati amici in passato, così ho
pensato di chiedergli un prestito. Contavo di restituirglielo in breve tempo,
una volta tornato a casa.
Ma proprio in quel
periodo è scoppiata la guerra civile, l’Imperatore ha chiuso tutti i confini, e
io mi sono ritrovato intrappolato. In poco tempo il prestito si era esaurito, e
Maroru ha usato questo espediente per costringermi a mettermi al suo servizio.»
«E così ti sei
ritrovato a fargli da guardia del corpo.»
«Per i due anni
che sono stato con lui ho visto tutto il male che ha fatto a questa regione;
l’ho visto imbrogliare, l’ho visto rubare, l’ho visto fare soldi sul sudore e
sulle miserie dei contadini, e non ho potuto fare niente! Anzi, mi sono reso io
stesso partecipe delle sue malefatte! Ma che altro potevo fare? Non avevo
scelta!»
«Sbagli. C’è
sempre una scelta».
Roswell rialzò lo
sguardo; i suoi occhi erano inondati di lacrime.
«Una scelta?»
«Sì. Una scelta
c’è sempre. E non bisogna aver paura di compierla, perché se perdiamo tempo
facendoci prendere dai dubbi allora non troveremo mai il coraggio necessario
per riuscirci.»
«È successo anche
a te?».
Stavolta fu Toshio
a guardare in basso.
«Sì.»
«E… hai fatto la
scelta giusta?»
«Questo ancora non
lo so. Ma di certo, non avrei risolto niente rimanendo lì immobile ad aspettare
che gli eventi si compissero. Io ho fatto una scelta. Forse quella sbagliata,
ma l’ho decisa io».
Detto questo, si
girò, e con un salto acrobatico atterrò sul muro di cinta.
«Spero che tu un
giorno possa dire di aver fatto la scelta giusta. È l’unica cosa che posso
augurarti. Addio».
Lo straniero a
quel punto se ne andò, e Roswell, che per un attimo aveva visto delle ali
bianche comparire dietro la sua schiena, non fece più nulla per tentare di fermarlo.
Al sorgere del sole, quando Komachi aprì la porta della
sua stanza per controllare se avesse lasciato qualcosa, lo straniero era
sparito; la finestra era aperta, e sul tavolo era poggiato un rotolo, che la
ragazza aprì, solo per poi sgranare gli occhi.
«Padre!».
Qualche giorno
dopo, una pattuglia di soldati imperiali fece irruzione nel palazzo di Maroru
mentre questi era intento a consultare alcuni documenti nella sua biblioteca, e
fu proprio Roswell a condurli in quella stanza.
«Roswell!? Che
significa questa irruzione?»
«Maroru
Shinokichi!» disse il capitano «Per ordine dell’imperatore, da questo momento
siete in stato di arresto.»
«Che cosa!? E con
quali accuse!?».
L’ufficiale mostrò
allora il famoso rotolo, e Maroru sembrò aver visto un fantasma.
«In questo
documento sono riportati tutti i traffici illeciti da voi condotti con popoli e
nazioni nemiche dell’Impero, per di più utilizzando il nostro riso come merce
di scambio. In virtù di questo, è stato disposto nei suoi confronti il fermo
immediato. Portatelo via!»
«No, che state
facendo!? Lasciatemi! Roswell, fermali!».
E così, come
nessuno avrebbe mai potuto immaginare, anche in quella regione tornò a
splendere la luce della giustizia; l’Imperatore inviò un nuovo amministratore,
un uomo ben diverso dal suo predecessore, che oltre a riportare il tenore di
vita ai livelli di un tempo concesse anche innumerevoli doni e benefici quale
segno di scuse per la condotta deplorevole tenuta da Maroru.
Qualche tempo
dopo, il giovane capitano Aria raggiunse il villaggio su diretto incarico di
Lord Sigmord, padre di Roswell, per ricondurre a casa il ragazzo dopo quasi due
anni di tentativi andati a vuoto, a causa della guerra civile.
Quando Aria
arrivò, già si raccontava di un giovane venuto da occidente che, senza
pretendere nulla in cambio, aveva salvato i contadini dalla prepotenza di un
feudatario corrotto, scomparendo poi inghiottito dalla notte.
Nessuno lo rivide
mai più, ma il suo ricordo avrebbe accompagnato per sempre le vite di coloro
che lo avevano conosciuto, e di tutti quelli che, in un modo o nell’altro,
avevano avuto modo di incrociare i suoi occhi.
L’incontro era terminato, e Regis, malgrado qualche
difficoltà, aveva vinto, qualificandosi per la fase successiva del torneo.
Ora toccava a
Dave, il suo allievo, scendere in campo. Nelle sue mani stringeva il suo onore,
e indirettamente anche quello del maestro; sì, perché se avesse perso, anche
Regis ne avrebbe risentito.
E poi, Dave si
domandava come la folla lo avrebbe giudicato se si fosse scoperto quello che
aveva fatto: si era sottoposto ad un rituale proibito, non espressamente
fuorilegge ma considerato comunque un tabù.
Ma se lo aveva
fatto c’era una buona ragione, e ancora adesso non ne provava rimorso.
Sarebbe uscito lì
fuori, avrebbe fatto del suo meglio e allora tutti, ma soprattutto lei,
avrebbero riconosciuto il suo talento, sia come allievo di Regis che come mago
indipendente.
Ciò nonostante,
qualcosa ancora lo turbava: il dolore non era ancora scomparso del tutto, e
studiando le antiche pergamene Dave aveva scoperto che non bisognava sfruttare
i poteri del sigillo fintanto che il dolore persisteva, perché ciò significava
che il corpo non era ancora pronto a sfruttarne i benefici.
Dave sperava che
passasse in fretta, e pensava di avere a disposizione più tempo, ma purtroppo
il suo turno giunse prima di quanto avesse immaginato.
Subito dopo che
Sakura aveva combattuto toccò a Dave, che si trovò a combattere con uno strano
tipo dai capelli arancioni con una divisa verde smeraldo molto strana, con un
largo cappello piumato, e uno stocco come arma.
Commentando il suo
aspetto, Regis disse ad Aria che gli sembrava un moschettiere, una unità di
soldati del suo mondo ormai scomparsa ma ben viva nei ricordi della gente
grazie a storie e a racconti sulle loro eroiche gesta.
Si chiamava
Caster, era il figlio di un ricco nobiluomo di Qerin, e indubbiamente
riscuoteva gran successo con le donne, alle quali rivolgeva saluti e occhiolini
che le facevano svenire.
Dave invece non
aveva occhi che per una di loro, ma per quante volte si girasse a guardarla
Mandy continuava a sembrare del tutto insensibile: non lo chiamava, non lo
salutava. Semplicemente se ne restava ferma a guardarlo, e di tanto in tanto
girava persino lo sguardo, come se la cosa gli arrecasse fastidio.
Dal canto suo, il
giovane mago era deciso a fare del suo meglio, ma il dolore persisteva, e non
era saggio sfidare ulteriormente la sorte con il rischio di doversene pentire
amaramente.
Per questo, prima
dell’inizio della sfida, mise mano alla sua spada, un gesto che provocò non
poche perplessità fra il pubblico, visto che anche l’oratore lo aveva
presentato come un mago, non come un guerriero.
«Per quale motivo
Dave ha preso la spada?» domandò Aria «Pensavo che gli riuscisse molto meglio
l’uso della magia.»
«Forse» disse Elys
«Forse vuole testare le sue capacità anche come spadaccino.»
«In un
combattimento di questo livello? Direi che corre un gran bel rischio. Quel
Caster ha fama di essere un osso molto duro».
Gli spettatori
erano belli caldi e pronti a seguire lo scontro.
«Beh.» disse
Caster «Speravo di affrontare Regis in persona, ma anche il suo pupillo non è
male. Vorrà dire che ti gusterò come antipasto in attesa del piatto forte.»
«Io non sarei così
sicuro della vittoria, sbruffone!»
«Bene! Se non
altro, hai grinta. Sarà una sfida divertente».
Sefy fece cadere
la rosa, e la sfida prese il via.
Al contrario dei
precedenti incontri, stavolta entrambi gli avversari rimasero a distanza di
sicurezza, girando in tondo e tenendo le armi alzate.
Caster aveva uno
strano modo di impugnare la sua spada; generalmente lo stocco veniva tenuto con
la guardia perennemente alzata, lui invece teneva l’elsa quasi a livello della
spalla, e la lama leggermente pendente verso il basso.
«Allora,
ragazzino. Attacchi o no?».
Dave era
incredibilmente nervoso; sapeva di avere addosso gli sguardi di migliaia di
persone, e la paura di sfigurare davanti a tutta quella gente, in particolare
davanti a lei, lo faceva esitare. Aspettò di proposito di dare le spalle a
Mandy, in modo da non essere costretto a guardarla, prima di decidersi
finalmente a combattere.
Quando Erik aveva
definito quella di Dave una spada da contadino non aveva esagerato; la lama era
corta e piuttosto tozza, di forma oblunga, di certo non all’altezza dell’arma
del suo maestro e forse neanche dello stocco di Caster. Per non parlare del
fatto che Dave, malgrado i suoi miglioramenti considerevoli come spadaccino,
era ancora piuttosto inesperto, tutto il contrario del rivale, che invece aveva
nella scherma il suo punto di forza.
Tutti gli attacchi
di Dave venivano facilmente schivati o respinti, e ben presto la folla cominciò
a spazientirsi per una prestazione tanto deludente. Tutti urlavano al giovane
di fare sul serio, di sfoderare la sua magia; qualcuno arrivava a gridare che
non era degno di considerarsi discepolo di Regis, che disonorava il suo
maestro.
«Qui si mette
male.» disse Elys «Il pubblico gli è contro.»
«Ma perché non usa
la magia? Avrebbe ragione di quel tipo in un istante se solo usasse i suoi
poteri».
L’impassibilità di
Regis veniva questa volta messa a dura prova, e ad un certo punto persino lui
decise di affacciarsi dall’arco per seguire l’incontro.
Alla fine Dave si
rese conto che se voleva avere qualche speranza doveva per forza ricorrere alla
magia, e visto che il dolore ancora lo tormentava decise che l’unica soluzione
attuabile con una certa sicurezza era l’utilizzo di un tramite, come poteva
essere la spada, e servendosi comunque di un circolo magico.
Fino a quel
momento, conosceva una sola tecnica da utilizzarsi con la spada, la stessa che
aveva tentato contro Erik.
Allontanatosi,
allungò la spada e generò un circolo magico alla base della lama, che prese a
brillare.
ENSOLEILLÉ LUEUR
Malgrado la tempesta di fasci che si dirigeva verso di
lui, Caster non si mosse, e anzi ghignò.
«Tutto qui? Mi
deludi!».
Il cristallo
elementale incastonato nel suo guanto sinistro si attivò, e lui prese a tirare
affondi ad una velocità tale da rendere indistinguibile la figura del suo
braccio. Apparentemente erano colpi portati a casaccio, ma per qualche strano
motivo l’attacco di Dave veniva respinto come da una barriera invisibile.
«Io non ci capisco
niente.» disse Elys «Ma che diavolo sta facendo?»
«È una tecnica
difensiva.» rispose Aria «Il vento generato dal movimento del suo braccio
funziona come una barriera in grado di bloccare tutti gli attacchi di Dave.»
«E questo è
solamente l’inizio.» disse cupamente Regis.
Mentre Dave
cercava ancora di riaversi dallo stupore per aver visto uno dei suoi
incantesimi migliori andare completamente a vuoto, d’improvviso vide il braccio
di Caster, ancora in movimento, circondarsi di fulmini.
«E adesso, caro il
mio apprendista, ti mostrerò come si combatte sul serio!».
Se si fosse potuto
rallentare la scena, si avrebbe visto che i fulmini passare gradualmente da
tutto il braccio alla parte terminale della spada di Caster, generando un globo
elettrico che ad un affondo più forte degli altri si diramò in una vera e
propria tempesta di scariche.
Dave fece appena
in tempo a capire cosa stava succedendo prima di venire attraversato da una
miriade di fulmini che oltre a devastargli il corpo lo spedirono direttamente
contro la catena di delimitazione, e fu solo grazie a quella che non cadde di
sotto.
Come se non bastasse, il dolore non fu l’unico
sintomo che gli causò ricevere in pieno un colpo simile: tutto il suo corpo,
dalla punta dei piedi alle dita delle mani, era divenuto di colpo rigido come
il marmo.
Tutti i muscoli
del ragazzo erano tesi allo spasimo, e sembrava che dovessero lacerarsi da un
momento all’altro. Inutile dire che tutto ciò provocava a Dave ulteriore
dolore, un dolore inimmaginabile.
“Che… mi succede…”
pensò tentando di rimettersi in piedi.
Sembrava un
burattino nelle mani di un giocoliere alle prime armi; il dolore atroce, unito
a quella sensazione terribile, gli facevano compiere dei movimenti a scatti, e
ogni movimento non faceva altro che farlo soffrire ulteriormente.
«Ma che cosa è
successo?» chiese Elys
«Ce c’è, il mio
attacco ti ha lasciato senza parole?» disse Caster vedendo che Dave a malapena
riusciva a stare in piedi «Dì la verità, è stata un’esperienza elettrizzante.»
«È colpa
dell’attrito.» disse Regis «L’attrito generato dal movimento del braccio ha
generato una scarica elettrica.»
«Una scarica?»
disse Aria
«A quel punto
Caster non ha dovuto fare altro che usare il suo cristallo per raggruppare più
scariche in un unico punto, quindi le ha riversate tutte contro Dave.»
«Quindi la sua era
una tecnica sia di attacco che di difesa.» commentò Elys «Ma come mai Dave ora fa così tanta
fatica a muoversi?»
«Perché il suo
corpo è completamente saturo di elettricità. Il movimento dei muscoli produce
una carica elettrica, ma se vengono attraversati da una grande quantità di
corrente i muscoli si contraggono e si irrigidiscono, ed è quello che sta
accadendo ora a Dave.»
«Poverino, non
deve essere un’esperienza piacevole».
Dave digrignava i
denti, si sforzava di muoversi, ma ogni movimento gli costava uno sforzo
immane. Doveva fare qualcosa per disperdere l’elettricità che Caster gli aveva
messo in corpo, ma non aveva la minima idea di come fare.
E intanto, il suo
avversario restava immobile a guardarlo.
«Ormai è solo una
questione di tempo. Presto o tardi tutto il tuo corpo collasserà, e tu ti
ritroverai stecchito».
Infatti, già da un
po’, il pendente di Dave aveva cominciato a cambiare colore, passando dal verde
smeraldo ad un giallo sempre più intenso.
“Devo… inventarmi
qualcosa…”.
Mandy intanto era
sempre lì, ed osservava Dave con espressione preoccupata.
La sua sorte gli
stava a cuore, e avrebbe voluto fare qualcosa per aiutarlo, ma d’altra parte
l’atteggiamento che lui aveva tenuto al loro incontro l’aveva molto
rattristata, e dentro di sé sentiva di non poterlo ancora perdonare.
Dave era stato
così freddo e distaccato, per non parlare del fatto che in tre anni non le
aveva mai fatto avere sue notizie. Se davvero la promessa era importante come
lui sosteneva, pensava Mandy, avrebbe dovuto fare qualcosa di più per
dimostrarlo.
Era questo a
bloccarla, a farla esitare, ma dentro di sé aveva la certezza quasi assoluta
che Dave si trovava su quel ring esclusivamente per lei, perché voleva
dimostrarle di essere cambiato, di essere diventato più grande e più forte, a
testimonianza del fatto che, malgrado tutto, non si era dimenticato della
promessa.
Ma Dave non si era
ancora arreso, ed era pronto a giocarsi il tutto per tutto.
Usando un po’ di
magia e tutta la sua foga repressa sprigionò un’onda d’urto che disperse tutta
l’elettricità in avanzo, ma anche dopo esserci riuscito era così stanco e
debilitato che cadde in ginocchio.
«Beh, lo ammetto.»
disse Caster «Un pochino ci sai fare. Forse sarà meglio chiudere la questione
alla vecchia maniera».
Alzò dunque lo
stocco e spiccò un salto per concludere la sfida; Dave sembrava essersi del
tutto arreso, ma all’ultimo istante i suoi occhi tornarono a brillare, e
afferrata la spada ai suoi piedi la risollevò con vigore, parando l’attacco.
«Ma che…»
«Io… Io non mi
sono ancora arreso!».
Lo stocco non era
fatto per sopportare scontri di forza troppo prolungati, per non parlare del
fatto che per sua stessa natura tendeva a curvarsi, quindi Caster, pur con
rammarico, fu costretto a saltare all’indietro.
Grazie a questo
inaspettato recupero Dave smise di collezionare solo insulti da parte del
pubblico, che pur con qualche riserva tornò ad acclamarlo.
«E vai così!»
esclamò Elys «Questo è il Dave che conosco!»
«Ma ancora non
capisco perché si ostina a non usare la magia.» disse Aria «D’accordo volersi
mettere alla prova come guerriero, ma ha rischiato seriamente di perdere».
Anche se l’assalto
finale era andato a vuoto, prolungando ulteriormente la durata dell’incontro,
Caster non sembrava essersi accigliato più di tanto.
«Hai ancora la
forza di contrattaccare. Beh, dopotutto, sei pur sempre l’allievo di Regis.
Ammetto di averti sottovalutato... ma non si ripeterà!».
Il cristallo di
Caster si attivò nuovamente, producendo una luce così forte da costringere non
solo Dave, ma l’intero stadio a coprirsi gli occhi, e quando li riaprì il
giovane mago vide il suo avversario venirgli contro a spada tratta.
Solo per miracolo
evitò il suo affondo, ma a quello ne seguirono molti altri, e Dave si trovava
sempre più in difficoltà; gli attacchi del nemico si erano fatti molto più
rapidi e precisi, tanto da impedire qualunque tentativo di reazione. Tutto ciò
che Dave poteva fare era difendersi, ma non sarebbe resistito ancora a lungo.
Era la classica
situazione in cui ogni errore, per quanto insignificante, poteva costare caro,
e in cui bisognava trarre il maggior guadagno da tutte le possibili occasioni.
Non appena Caster
mostrò una esitazione Dave ne approfittò immediatamente; ormai non poteva più
procrastinare. E poi, se avesse usato comunque un cerchio, le ripercussioni su
di lui sarebbero potute essere minime.
“Ora o mai più!”.
Divincolatosi da
quel reticolo di affondi il ragazzo saltò il più in alto possibile, in modo che
il suo attacco coprisse l’intera superficie del ring, tracciò davanti a sé un
grande circolo e, rinfoderata la spada, allungò entrambe le mani.
POUSSIÈRE DE L’ÉTOILE
Persino Regis si mostrò stupefatto nel vedere
l’incantesimo migliore del suo allievo così cambiato rispetto solamente al
giorno prima; i globi erano molto più grandi, e l’energia al loro interno era
molto più consistente. Il Poussière De L’Étoile era una magia di attributo
Luce, e sicuramente il sole che picchiava in quel momento sull’arena dava un
contributo, ma indubbiamente Dave era molto migliorato.
Così, contro le
sue previsioni, d’improvviso Caster si ritrovò a mal partito, e si vide
costretto ad usare la sua velocità per spostarsi continuamente da un punto
all’altro del ring nel disperato tentativo di evitare tutti i globi.
Grazie anche al
cristallo inserito nel suo gambale sinistro Dave riuscì a planare verso il
basso per qualche secondo, in modo da poter prolungare il suo attacco, ma non
appena cominciò a sentire che il dolore al petto diventava più forte capì che
stava raggiungendo la soglia critica, e che era giunto il momento di fermarsi.
In fin dei conti,
aveva ottenuto l’effetto desiderato, e Caster era stato colpito più volte,
seppur solamente di striscio.
Tornato a terra,
stavolta fu lui a guardare il suo avversario dall’alto in basso, ed il pubblico
fu ben felice di testimoniargli il proprio apprezzamento per quell’incredibile
ribaltamento dei ruoli.
Caster però era
ben lontano dall’essere sconfitto, e proprio mentre Dave stava cercando di
colpirlo ancora ricorse nuovamente al potere del suo cristallo, producendo una
nuova esplosione di luce che accecò il ragazzo; Dave, istintivamente, saltò
all’indietro, e fu solo per questo che riuscì ad evitare un nuovo affondo.
POUSSIÈRE DE L’ÉTOILE
Purtroppo in questa seconda occasione Caster si fece
trovare pronto, e puntualmente sfoderò la sua barriera di aria che lo protesse
senza alcun problema dall’incantesimo di Dave, spedendogli contro in risposta
la tempesta di fulmini e colpendolo mentre era ancora in aria.
«No, Dave!» gridò
Elys.
Il giovane mago
urlò con tutta la sua voce, e non appena tornò mezzo morto sul ring Caster fece
brillare per la terza volta il cristallo, quindi si scagliò contro di lui e
prese a tempestarlo di colpi.
Come se non fosse
sufficiente, Dave non ricevette alcun colpo che si potesse dire veramente
serio; al contrario, Caster continuava a procurargli solamente ferite
superficiali, non molto gravi ma terribilmente dolorose, ed intanto il pendente
di Dave diventava sempre più rosso.
«Faresti meglio ad
arrenderti, lo dico per il tuo bene!».
Dopo un minuto e
più di agonia Dave si ritrovò seduto con la schiena appoggiata ad un paletto;
tutto il suo corpo era ricoperto di ferite, perdeva sangue in più punti e dopo
aver incassato una nuova tempesta di scariche tutti i suoi muscoli erano
completamente paralizzati.
«Fine della sfida,
bello.» disse Caster con un ghigno di soddisfazione «Ma mi sono divertito. E
per dimostrare che apprezzo il tuo coraggio, ti infliggerò subito il colpo di
grazia».
Dave non riuscì a
trattenere le lacrime; era una fortuna che non riuscisse nemmeno a tenere gli
occhi aperti, altrimenti avrebbe rischiato di incrociare quelli di Mandy, e
visto ciò che stava per succedere era l’ultima cosa che voleva. Aveva fallito.
Il torneo per lui
era finito, e non aveva neppure avuto occasione di mettere in pratica il frutto
del rito a cui si era sottoposto, perché anche se avesse voluto ormai era
troppo provato per riuscirci.
Ormai si augurava
solamente di non provare altro dolore. Sarebbe stato trapassato, ma con tutto
il dolore che già provava probabilmente non lo avrebbe neppure sentito, e un
attimo dopo sarebbe svenuto, svegliandosi con molta probabilità nell’infermeria
dell’arena.
Si sentiva un
fallito, sotto tutti gli aspetti, aveva deluso Mandy e disonorato il suo
maestro.
«Ora basta!».
Quell’urlo risuonò
come un tuono, come il richiamo di un dio, e fu così forte da superare le grida
della folla, che si girò tutta in una direzione. Caster, a sua volta spiazzato,
interruppe il suo attacco, dando a Dave il tempo di riconoscerla.
«Ma… maestro…».
Regis era lì, in
piedi, a poca distanza dal ring, e guardava verso di loro con lo sguardo più
cupo e terrificante che si fosse mai visto; tutto lo stadio ammutolì come se
fosse stato il re a parlare.
«Questa sfida è
finita!» disse a gran voce «E il vincitore è Dave!»
«Che cosa!?»
esclamò il re Feryr.
Un brusio confuso
iniziò a diffondersi fra gli spettatori; Mandy, che si era vista costretta a
chiudere gli occhi, li riaprì lentamente, e per la prima volta dopo tanto tempo
sentì qualcosa di strano nel momento in cui guardò Dave, una sensazione
famigliare.
«Regis, ma cosa…»
cercò di dire Aria
«Mi auguro che tu
stia scherzando.» disse Caster «È fin troppo evidente che sono io ad aver
vinto. Il mio avversario non si regge neanche in piedi, e il mio pendente al
contrario è ancora verde smeraldo.»
«Questo non cambia
ciò che ho detto un momento fa. È Dave il vincitore».
Caster era
visibilmente irritato, e iniziava a spazientirsi.
«Senti.» replicò
sfoderando un finto sorriso «Sarà anche il tuo allievo, ma questo non lo esenta
dal regolamento. Il qui presente Dave ha esaurito tutte le sue energie, e
questo equivale ad una sconfitta.»
«Certo, non lo
metto in dubbio. Dave è senza forze, ma è comprensibile. Del resto, questa è la
sua prima volta in un torneo a questi livelli, senza contare che… sta
combattendo contro due avversari!».
Inutile dire che
una simile affermazione gettò tutto lo stadio nello sgomento più assoluto, e in
un batter d’occhio un semplice brusio divenne un vociare confuso.
«Ma cosa!? – Come
è possibile!? – Forse sta mentendo! – Forse vuole solo proteggere il suo
allievo».
Caster, da un
momento all’altro, era diventato pallido come la morte, e non fece nulla di
concreto per tentare di replicare.
«N… no. Questa è
solo una sporca bugia!»
«Una bugia, dici».
Regis raccolse da
terra un sassolino e lo lanciò con forza in un punto a caso dell’arena, ed ecco
che, dal nulla, comparve un altro Caster, che centrato in pieno cadde
all’indietro trovandosi seduto sulla sabbia.
I due, quello
dentro e quello fuori dal ring, erano praticamente identici; l’unica cosa che
li differenziava era che il primo portava il pendente, il secondo invece no.
A quel punto la
verità divenne palese, come lo sdegno del pubblico.
«Ma quello è
Polux! – È suo fratello gemello! – Quei due stavano barando! – Imbroglioni!».
I due fratelli
erano sempre più in agitazione, e tentarono allora una disperata rimonta.
«Aspettate! Anche
se mio fratello Polux era qui, non c’è alcuna prova che abbia preso il mio
posto sul ring!»
«Io non ne sarei
troppo sicuro.» rispose Regis, che avvicinatosi senza riserve sollevò di peso
Polux da terra e mise in mostra tutte le bruciature e le ferite che aveva sul
corpo «E queste come me le spiegate?».
Entrambi i
fratelli ammutolirono.
«Se volete, posso
dirvi io cosa sono. Sono il frutto dell’attacco magico Poussière De L’Étoile.
Prima che tu abbandonassi il ring tuo fratello si è auto-inflitto delle ferite
per rendere credibile la vostra messinscena, ma anche se da lontano potevano
essere credibili, a breve distanza chiunque si sarebbe accorto della
differenza».
I giudici si
avvicinarono per controllare, e in effetti la cosa era evidente; l’attacco di
Dave produceva anche delle piccole bruciature sulla pelle, ma queste erano
presenti solo sul corpo di Polux, mentre quelle di Caster erano semplici ferite
provocate da una spada.
Una violazione del
regolamento bella e buona, che costò ai due gemelli la squalifica.
Dave riuscì a
sentire le grida di acclamazione dirette verso di lui: aver saputo resistere
per tutto quel tempo contro due avversari contemporaneamente, riuscendo persino
a portarsi per un po’ in vantaggio, era un’impresa degna di un vero guerriero.
Ora era considerato non più l’infimo, ma il degno allievo del famoso Regis.
Già, perché, nonostante tutto, lui questo era ancora: un allievo.
Poco dopo avvertì
una piacevole sensazione, facilmente riconoscibile come l’operato di un
cristallo, e in breve si sentì molto meglio.
Alzati gli occhi,
si trovò a tu per tu con il maestro, ma non fu in grado di dire nulla per lungo
tempo, spaventato soprattutto dal suo sguardo.
«Io…».
Lui gli diede le
spalle.
«Il bagliore era
solo uno stratagemma per mascherare la sostituzione. Mentre uno combatteva
l’altro recuperava le energie, protetto da un incantesimo per la rifrazione
della luce.»
«Io… avrei dovuto
accorgermene… vi chiedo scusa…»
«Non devi
scusarti. Ma da ora in avanti, cerca di fare maggiore attenzione. Se fosse
stato uno scontro vero, ora non saremmo qui a parlarne».
Dave non replicò;
sapeva che il maestro aveva ragione, e sapeva che avrebbe dovuto accorgersi di
un trucco tanto banale, ma preso com’era a controllare il dolore che gli veniva
dal rito si era dimenticato di tutto il resto.
Se non altro il
maestro non si era accorto di nulla, e questo gli recava almeno un po’ di
conforto.
E così, alla fine,
Dave aveva vinto, ma la cosa non gli diede alcuna soddisfazione. Avrebbe dovuto
essere felice della vittoria ma non era così. Fin da quando era entrato
nell’arena aveva pensato di prendere parte a scontri che gli permettessero di
dimostrare a tutti che quello che era diventato, ma se gli avversari
imbrogliavano non poteva dimostrare proprio niente.
Era convinto che
nella fase professionistica non ci fossero sotterfugi o imbrogli e scoprire che
anche lì i combattimenti non erano leali lo aveva deluso moltissimo.
Possibile che non
esistesse un modo per dimostrare a Mandy i suoi progressi? Aveva dato per
scontato che i suoi avversari fossero seri e degni di partecipare a quel torneo,
e non aveva neanche pensato ad un possibile inganno.
Durante il
combattimento si era reso conto di essere in netto svantaggio e ormai vicino
alla sconfitta. Aveva pensato di non essere all’altezza e di essere stato
troppo presuntuoso a voler partecipare a quella fase, buttando al vento tutte
le sue speranze di riconquistare Mandy e di dimostrare al maestro che era degno
dell’insegnamento che gli stava dando. Sarebbe sicuramente stato sconfitto se
Regis non si fosse accorto dell’inganno.
Il fatto che
avesse smascherato i suoi avversari, dimostrava una grande stima da parte del
suo insegnante. Se aveva sospettato di un imbroglio a vederlo così in
difficoltà, voleva dire che aveva una grande fiducia in lui e ne era felice ma
non pensava di meritare tanta stima da parte sua.
Continuava a
pensare che se avesse fatto più attenzione al suo avversario, avrebbe notato
qualche differenza o qualche particolare che li distingueva e invece non si era
accorto di niente. Questo metteva in evidenza il fatto che non si stava
concentrando abbastanza nel duello perché se avesse osservato le mosse di
Caster avrebbe visto il loro scambio, ma non era stato così. Non poteva
riconquistare Mandy dimostrandole di avere ancora bisogno di qualcuno che lo
sorvegliasse.
Era troppo
distratto dal cercare di salvare la sua promessa e dal voler nascondere la
verità su cosa era realmente accaduto la scorsa notte per concentrarsi
completamente sul torneo come un bravo combattente avrebbe dovuto fare, ma
proprio non riusciva a farne a meno
Regis tornò sui
suoi passi, e appena rientrato nella camera incrociò gli occhi felici di Aria.
«Come sospettavo.
Neppure tu puoi restare indifferente alle sofferenze di quel bravo ragazzo.»
«Non
fraintendermi. Dave vuole dimostrare a tutti quello che vale, e per questo i
suoi incontri devono essere assolutamente limpidi. Se le circostanze fossero
state diverse, di sicuro non sarei intervenuto».
Aria sorrise,
dimostrando di non credere minimamente alle parole di Regis; si vedeva lontano
un chilometro che la sorte di Dave gli stava a cuore più di ogni altra cosa,
forse persino più del suo desiderio di tornare a casa.
«Molto bravo, Regis.» disse d’un tratto Alexander Von
Andersen, seduto accanto all’entrata.
Regis si girò
verso di lui.
«Ma non puoi certo
continuare a difenderlo per tutta la vita. Prima o poi, il piccolo Dave dovrà
imparare a cavarsela da solo, anche nelle situazioni più disperate.»
«Lo so benissimo,
non serve che tu me lo dica.» rispose secco Regis
«Va’ bene, non
scaldarti. Era solo per fare amicizia».
Quel tipo era
veramente insopportabile, aveva una cert’aria di sufficienza che avrebbe
infastidito chiunque.
Regis non aveva
mai sentito parlare di lui, e la cosa lo insospettiva un po’; conosceva per
nome o per fama quasi tutti i più grandi guerrieri del continente, ma di questo
Alexander Von Andersen non aveva mai sentito parlare. La sua inoltre era una famiglia
di ricchi proprietari terrieri, non di guerrieri, e si domandava come avesse
fatto ad ottenere punteggio pieno alle eliminatorie.
L’occasione per
vederlo all’opera si presentò poco dopo, quando Alexander dovette affrontare il
suo primo incontro ad eliminazione diretta contro un samurai dell’Impero di
Kogachi.
L’uscita di
Alexander fu salutata dalle grida di acclamazione di tutte le donne presenti,
soprattutto delle ragazzine, completamente soggiogate dal suo aspetto a dir
poco meraviglioso. Forse neppure a Regis erano state riservate simili ovazioni.
E lui sapeva bene
come conquistarsi tali simpatie, con quel suo camminare sicuro, ad occhi
chiusi, e quel suo salutare sorridente.
Il samurai sul
nemico, al contrario, era brutto come la fame, con quel suo barbone ispido e la
testa quasi pelata.
Regis piantò
immediatamente gli occhi addosso al giovane cavaliere, e anche Dave fece
altrettanto, domandandosi se anche Mandy, come le sue compagne, stesse
chiamando a gran voce il suo nome.
La principessa
diede il via, e da principio Alexander non sguainò neppure la spada,
dimostrando una noncuranza tale per il suo avversario che questi, infuriato,
partì alla carica urlando come un pazzo.
Nonostante il
samurai menasse fendenti a dir poco micidiali, la velocità del giovane era
ancor più incredibile, e lo stesso Regis ne rimase stupito.
«Ehi, quel tipo è
velocissimo.» commentò Elys.
Ma il bello doveva
ancora venire.
Finalmente, dopo
più di un minuto, Alexander si decise ad estrarre la spada, e con soli due
colpi disarmò l’avversario, quindi saltò in alto senza usare apparentemente
alcun incantesimo e circondò la sua lama di una forte luce rossa.
STARLIGHT MIRAGE!
Ciò che ne derivò era una tecnica molto simile a quella di
Dave, ma incredibilmente più potente, tanto che l’intera porzione di ring su
cui si trovava il samurai andò letteralmente in briciole, e lui si ritrovò a
terra completamente distrutto.
«Accidenti, che
potenza!» disse Aria.
Anche Regis era
colpito, ma nel momento in cui il bagliore rosso generato dall’attacco lo
colpì, avvertì una stranissima sensazione che lo portò a toccarsi la nuca.
Era qualcosa di
strano, mai provato prima. Come un pizzicore, come se avesse avuto un insetto
che si muoveva appena sotto la pelle.
Così, con grande
stupore di tutti, si concluse uno degli incontri più rapidi di tutta la storia
del torneo, e non c’è bisogno di dire che la folla andò in delirio per una
prestazione tanto encomiabile.
«Lo sai Regis?»
disse Aria «Temo che quello potrebbe essere un osso duro persino per te».
Anche Dave pensava
la stessa cosa, ma vedendo ciò che Alexander era stato in grado di fare il suo
desiderio di vincere e controllare il sigillo era diventato ancora più grande
di prima. Gettato uno sguardo al tabellone, portò al secondo posto l’obiettivo
di affrontare il suo maestro in finale.
Il primo dei suoi
pensieri era arrivare in semifinale, dove si sarebbe trovato faccia a faccia
con il suo nemico; avrebbe riscattato il suo onore, dato prova della sua forza
e schiacciato quella primadonna presuntuosa, il tutto davanti agli occhi di
Mandy.
Mai avrebbe
pensato di poter provare una simile emozione, ma per la prima volta in vita sua
il pensiero della vendetta e dell’umiliazione di un avversario lo fece
sorridere di soddisfazione.
Dopo l’incontro di Alexander, le altre sfide del primo
turno non riservarono grandi emozioni; stesso discorso per tutte le altre fasi.
Il tabellone sembrava essere stato costruito ad arte per far sì che solo i migliori
potessero arrivare a sfidarsi nelle battute conclusive.
A metà giornata,
con l’inizio dei quarti di finale, erano praticamente
ancora tutti in gioco.
Solo Isnark era
fuori. Agli ottavi si era trovato a combattere con Sakura, e malgrado
la sconfitta la folla gli aveva dimostrato un grande calore, perché aveva
combattuto con tutto sé stesso senza concedere nulla, come ci si aspettava da
un elfo fiero e coraggioso suo pari.
Gli altri, Regis,
Alexander e Dave avevano ottenuto ottime prestazioni e si erano qualificati
senza troppi problemi. Dave in particolare, dopo lo scontro coi
gemelli Caster e Polux, si era ripreso alla grande, proprio come alle
eliminatorie, ed aveva inanellato una serie di vittorie strabilianti contro
avversari anche più forti di quella coppia di imbroglioni.
La sua magia
migliorava a vista d’occhio, e se da una parte la cosa provocava a Regis una
grandissima soddisfazione, dall’altra generava in lui non poche perplessità.
Non servì molto
tempo perché avesse la possibilità di vederlo nuovamente in azione, infatti fu proprio Dave a dover disputare il primo incontro
dei quarti di finale. E il suo avversario era nientemeno che Gou-Nai, lo stesso
Gou-Nai che lo aveva pestato nelle eliminatorie e che ora pregustava già una
vittoria facile.
Per parte sua Dave
era alquanto preoccupato; fino a quel momento era riuscito a mantenere tutto
segreto, e un po’ alla volta aveva cominciato a sfruttare in parte i poteri del
sigillo, ma c’era ancora quel fastidioso problemino del dolore a dettare banco
e lui non aspettava altro che di vederlo scomparire.
Ogni volta che
usciva nell’arena guardava verso Mandy, ricevendo però
quasi sempre come risposta di venire ignorato, o di essere guardato solo come
uno fra i tanti.
«Mh.
La prima volta ti è andata bene, moccioso.» disse Gou-Nai appena furono
nuovamente viso a viso «Ma non succederà una seconda
volta».
Dave però era del
tutto assente, come succedeva sempre prima del via; fino al momento in cui la
rosa cadeva dal balcone, egli concentrava tutte le sue attenzioni sul dolore,
perché solo così poteva essere assolutamente sicuro che fosse passato del
tutto.
Chiudendo gli
occhi, distendendo la mente, come gli aveva insegnato il maestro, poteva
percepire il proprio essere in un modo diverso, più profondo, come se stesse
guardando sé stesso dall’esterno.
Quello era
Shana-Hai, come lo chiamavano i Kalimi, gli antenati di Elys. Un’ascensione ad una diversa percezione non solo di sé stessi, ma del
mondo intero, che diventava sfumato e indistinguibile, parte effimera di un
disegno ben più grande. Un’arte molto antica e molto complicata, che solo con
un lungo addestramento era possibile padroneggiare.
Anche gli elfi
avevano qualcosa di simile, che chiamavano il Piano, ma vi erano comunque delle
differenze fra le due arti, anche se appariva scontato che avessero una radice
in comune.
Shana-Hai era il
regno della magia, tutto al suo interno correva e si manifestava attraverso di
essa, e forse proprio per questo, per chi lo sperimentava, tutto appariva
sfocato, ondeggiante come le onde di un immenso oceano.
Forse a livello
fisico Dave non sentiva dolore, ma se utilizzando Shana-Hai, separando in tal
modo mente e corpo, poteva ancora avvertirne la presenza, voleva dire che il
momento non era ancora giunto.
La principessa si
alzò, la rosa scivolò leggera nell’aria ed infine
toccò terra.
In quello stesso
istante, il dolore scomparve del tutto. Dave non lo avvertiva più, neppure
nello Shana-Hai.
Ce
l’aveva fatta! Aveva superato la più grande delle sue prove. Era giunto
il momento di una nuova rinascita.
Gou-Nai, appena
iniziato l’incontro, allargò le braccia e corse contro
Dave, ma prima che potesse afferrarlo il ragazzino fu circondato da una colonna
di luce e scomparve come un fantasma, sotto gli sguardi increduli dell’intero
stadio.
«Ma che…».
Il guerriero della
steppa alzò gli occhi e lo vide lì, in alto, a molti metri dal suolo.
Aveva ancora gli
occhi chiusi, sembrava quasi che stesse dormendo, e che qualcun altro stesse guidando il suo corpo; ma poi, d’improvviso, gli
occhi si aprirono, e lui, abbandonato lo Shana-Hai, alzò il braccio destro,
generando un cerchio magico di dimensioni colossali.
Si sentiva
benissimo. Un tempo, disegnare un circolo simile avrebbe prosciugato le sue
energie, ora invece gli sembrava una cosa semplicissima.
Non si era mai
sentito così libero, così in pace. Non avrebbe mai immaginato che il sigillo
fosse in grado di regalare simili emozioni.
“Guardami,
Mandy! Guardami ora!”.
RÉVOLUTION DES
ÉTOILES
Sembrò che il cielo stesso stesse andando in frantumi, e
giganteschi globi di fuoco presero a cadere come grandine.
Per proteggere gli
spettatori, gli spalti erano protetti da una barriera invisibile, e fu solo
grazie a questa se molte di queste palle incandescenti non incenerirono
migliaia di innocenti. Il povero Gou-Nai invece non
aveva niente con cui difendersi, e tutto quello che poté fare fu urlare
vedendone uno venirgli contro.
L’esplosione fu a
dir poco tremenda, e le catene di demarcazione volarono via come fili di paglia
dopo che i paletti erano stati sradicati.
Si sollevò anche
una corrente fortissima, tanto che Elys dovette aggrapparsi ai battenti dell’arco per non essere trascinata via.
«Che diavolo sta
succedendo?» gridò Aria.
Quando finalmente
tutto di acquietò, Gou-Nai era a terra svenuto, e
sembrava addirittura che fosse morto.
Persino Regis
rimase a bocca spalancata quando lo speaker annunciò la vittoria di Dave per KO
avversario, mandando in delirio gli spettatori.
Dave, giratosi
verso gli spalti, guardò Mandy, convinto di vederla sorridere per lui, ma la
realtà fu esattamente opposta; Mandy non stava sorridendo. Al contrario,
sembrava terrorizzata.
Ciò che aveva
visto l’aveva lasciata senza parole.
Dave non era più
il ragazzino ingenuo e gioviale che faceva levitare sassolini e pezzi di legno
per divertirla.
Era un mago
combattente, che usava la magia come un’arma, una magia
tanto potente da lasciarla immobile per il terrore. Che ne era del Dave che
aveva conosciuto, e che per ben tre anni aveva sperato di veder ritornare?
Ancora una volta,
Dave lasciò il ring senza esultanze, con il capo chino e il cuore a pezzi.
Non tutti gli abitanti della capitale avevano potuto
permettersi il lusso di assistere al torneo.
L’anfiteatro era
grande, ma non poteva certo ospitare tutti, e Qerin doveva comunque continuare
a mantenersi viva: macellerie, panetterie, concerie e altre industrie che
producevano beni di prima necessità continuavano a lavorare come ogni giorno,
garantendo alla città e ai suoi abitanti quanto
occorreva per vivere.
La panetteria del
vecchio Ronald Feles era molto conosciuta; sorgeva lungo la
Via Agraria, la strada dei mercanti, e ogni
giorno nobili e gente comune facevano la fila per
accaparrarsi le sue pagnotte, morbide all’interno e croccanti all’esterno, o i
suoi dolci sopraffini.
Anche i cuochi
reali erano suoi clienti, e una volta al mese il suo carretto portava nelle
cucine di palazzo una grande quantità di biscotti e altri dolci secchi
all’apparenza poveri, ma dotati di un sapore veramente sopraffino, di cui la
principessa in particolare non sapeva proprio fare a meno.
Il giorno del
torneo era anche quello della consegna mensile; affidato il negozio ai suoi due
figli maggiori, il signor Feles aveva caricato al massimo il carretto e,
accompagnato dal terzogenito, il dodicenne Peter, si era messo in marcia verso
il palazzo.
«Padre, abbiamo
preso tutto?» domandò Peter, disteso sopra i sacchi con una spiga di grano in
bocca
«Proprio tutto.»
rispose Ronald dando una frustata al mulo per farlo andare un po’ più svelto
«Venti sacchi di farina bianca, dieci di farina gialla, quindici confezioni di
biscotti allo zenzero e dieci di dolci secchi alle mandorle.»
«Tutto questo ci
frutterà un bel guadagno.»
«Hai ragione,
figlio mio. Il re è veramente una persona dal cuore d’oro. Non solo paga i beni
che gli portiamo a prezzo intero, ma ci concede addirittura una ricompensa per
il disturbo di portarglieli. Ce ne fossero di più di sovrani come lui, e questo
continente non andrebbe così in malora».
Tra il fatto che
fosse martedì, giorno naturalmente poco portato per gli acquisti, e che il
torneo fosse ormai alle battute conclusive, persino la
Via Agraria, solitamente paragonabile ad un
girone infernale, era quasi deserta, così, una volta ogni tanto, il signor
Feles si augurava di poter arrivare puntuale, effettuare la consegna e
tornarsene al suo negozio un po’ prima della chiusura, di modo da potersi
portare avanti nella preparazione del pane per il giorno successivo, di modo da
non essere costretto ad alzarsi alle cinque.
Stavano
transitando lungo il bordo strada, quando all’improvviso un tombino delle fogne
davanti a loro saltò via dal suo alloggiamento, scardinando il gancio di
protezione sospinto da una colonna di vapore bianco sporco.
Il mulo,
terrorizzato, impennò e minaccio di far cadere all’indietro il carretto, ma
Ronald riuscì a tenerlo calmo, e sceso a terra si avvicinò per controllare cosa
fosse successo assieme ad altra gente.
Dopo poco la
colonna di vapore si attenuò e lui poté gettare lo sguardo nel tombino ma era
troppo buio per riuscire a scorgere la cloaca che scorreva lì sotto.
«Cosa sarà
successo?» domandò qualcuno
«Non ne ho idea.
Forse è saltato un tubo di vapore».
Seguirono lunghi secondi
di terrificante silenzio, poi, poco lontano, un altro tombino saltò allo stesso
modo, e poi un altro, e un altro ancora; la stessa scena si ripeté anche nelle
strade tutto intorno in un raggio di due – trecento metri.
Subito dopo, la
terra prese a tremare furiosamente, e fra le persone cominciò a diffondersi il
panico. Le colonne di vapore ripresero a salire, poi, al centro della Via
Agraria, si aprì di colpo un grande crepaccio, che come una ferita aperta su di
un corpo cominciò ad allargarsi sempre di più, inghiottendo le pietre del
selciato mentre getti di vapore ancora più alti uscivano dalle viscere della
terra; pezzi delle case e dei negozi piovvero dal cielo, un vecchio edificio in
mattoni si accartocciò su sé stesso.
Il carretto del
signor Feles prese a scivolare verso lo squarcio, senza che il piccolo Peter
riuscisse a fare qualcosa per cercare di impedirlo.
«Padre!» gridò il
ragazzino stringendo le redini del mulo «Sta scivolando!».
Ronald corse
dietro il carretto e ci mise tutte le sue forze per cercare di spingerlo
lontano dal pericolo, ma fra il mulo che non voleva saperne di collaborare e la
strada che si inclinava sempre di più il vecchio panettiere si ritrovò coi
sandali sul bordo della spaccatura, fino a che, proprio per un pelo, non riuscì
a far muovere quell’animale testardo, sacrificando però due preziosissimi
sacchi di farina che finirono di sotto.
Poi, finalmente,
la tempesta passò, con la stessa rapidità con cui era venuta, lasciandosi alle
spalle macerie e distruzione, più uno squarcio lungo venti metri e largo almeno
cinque. Guardandovi dentro si poteva vedere che non solo la strada, ma anche la
cloaca sottostante era stata sventrata, e ora la sua acqua, formando una
cascata, sprofondava nel buio.
«Padre.» disse
Peter «Stai bene?»
«Sì, tranquillo.
Il carico?»
«È a posto. Ma
cosa è successo?»
«Non ne ho idea.
Va’ a chiamare i gendarmi, presto.»
«Sì, subito».
Allo stesso modo di Dave, anche Regis, Sakura e Alexander
se la cavarono egregiamente nei loro incontri, guadagnandosi le semifinali.
«Signore e
signori!» disse l’oratore «Dopo aver assistito alle prodezze dei più grandi
combattenti di questo continente, siamo alfine quasi giunti al momento tanto
atteso! Solo i migliori sono arrivati fin qui, dando prova del loro coraggio e
del loro talento! Sono rimasti in quattro, ma solo uno di loro potrà percorrere
la scala che porta alla Spada di Gigabrian! Che inizino dunque… le
semifinali!».
Le urla della
folla giunsero all’orecchio di Dave, che seduto nel buio attendeva il suo
momento, sempre dilaniato da mille domande.
Perché? Perché?
Perché Mandy aveva reagito in quel modo?
Tutto quello che
aveva fatto in quei tre anni era dunque stato inutile? Perché si era allenato
così tanto?
Ma ora,
finalmente, quello che stava aspettando era al fine arrivato.
Entro pochi
minuti, su quel ring, sarebbero stati l’uno di fronte all’altro, e allora Mandy
non avrebbe potuto far finta di niente, avrebbe dovuto per forza decidere con
chi schierarsi.
Per un momento,
per un solo momento, l’obiettivo di mostrare a colei che amava il frutto dei
tre anni che entrambi erano stati costretti a passare lontani l’uno dall’altra,
fu sostituito da un altro desiderio: vendetta.
Voleva andare là
fuori e infierire su Alexander in tutti i modi possibili, voleva fargliela
pagare per essersi intromesso nella loro vita, per aver fatto sprofondare la
sua Mandy nel dubbio, spingendola a litigare con lui.
Ma poi, il
pensiero tornò ad essere quello di sempre.
Ora che aveva il
controllo del sigillo poteva fare qualsiasi cosa. Aveva visto la bravura del
suo avversario, ma nulla poteva opporsi a lui e al suo nuovo, devastante
potere; sentiva di averne il pieno controllo, sentiva che gli sarebbero bastati
pochi secondi per umiliare quel bellimbusto arrogante e presuntuoso.
Le trombe gli
annunciarono che era giunto il momento, ed allora Dave, scacciati i suoi
fantasmi, uscì a passo rilassato nell’arena, accolto dagli applausi di tutti.
«Ehi, guarda
Mandy!» disse una delle sue amiche «Quello non è il tuo fidanzato?»
«Ma cosa stai
dicendo?» disse un’altra «Il fidanzato di Mandy è lui, Alexander Von Andersen».
Tutte queste
parole non facevano altro che metterla ancor più in agitazione. Come aveva
fatto a finire in quel modo? Fra tutti i concorrenti, perché proprio loro due?
Nell’attesa di
essere chiamato, Von Andersen ricontrollava la sua armatura e infilava la spada
nel fodero.
«Ah, Regis.» disse
«Spero non me ne vorrai male se stenderò il tuo pupillo».
Regis lo guardò in
cagnesco, lo stesso sguardo di Aria ed Elys, ma lui fece finta di niente.
«E mi raccomando,
metticela tutta nel tuo incontro. Se non altro, potrai tenere alto il tuo
onore, ed io potrò vantarmi di aver battuto sia l’allievo che il maestro.»
«Bastardo arrogante.»
disse Elys appena fu uscito «Ora vedrà di che cosa è capace Dave».
E alla fine,
furono faccia a faccia.
Alexander salutava
tutti, Dave invece si girò a guardare Mandy e le lanciò un bacio con la mano,
proprio come faceva quando erano piccoli.
Lei arrossì
leggermente, ma non rispose, e distolse lo sguardo, ma questo non fece altro
che spronare Dave a dare più del suo massimo per vincere.
Per uno strano
scherzo del destino la rosa questa volta esitò a cadere, sospinta a lungo su e
giù da un insolito soffiare di vento, ma non appena toccò terra Dave corse
verso il suo avversario, che invece rimase immobile.
Le sue mani,
battute l’una contro l’altra, si circondarono di fiamme rosate, e il giovane
mago prese a scagliare pugni capaci di fendere il terreno di scontro, che
subito dopo la sua battaglia con Gou-Nai era stato riparato, costringendo il
torneo ad una lunga battuta di arresto.
Alexander però era
incredibilmente agile, e schivava senza apparente difficoltà tutti i colpi che
riceveva, ma più il tempo passava più la velocità di reazione di Dave, invece
che diminuire, aumentava sempre di più, e alla fine il biondino fu colpito.
Scaraventato in
aria, precipitò come una meteora, ma all’ultimo secondo riuscì a compiere un
giro della morte e ad atterrare in piedi.
Dave si sentiva
soddisfatto come mai nella sua vita, e lo guardava con occhi di sfida tenendo
la guardia alzata. Un rivolo di sangue prese a scendere dalla bocca di
Alexander; se la pulì con il guanto, la guardò e sorrise.
«Beh, niente male.
Dopotutto, sei pur sempre il pupillo di Regis.»
«E questo non è
che l’inizio.»
«Ma davvero?»
l’espressione di Alexander perse di colpo tutto il suo charme, diventando scura
e malevola «Beh, ora, con il tuo permesso… tocca a me».
Dave non lo vide
neppure avvicinarsi, e da un secondo all’altro sentì il suo stomaco sventrato
da un pugno micidiale, poi Alexander girò rapidamente su sé stesso e gli sferrò
un calcio dritto al fianco che sicuramente gli ruppe due costole e lo spedì
contro un paletto di sostegno.
Le fiamme attorno
alle mani del mago si spensero, e lui si sentì come se lo avesse investito una
mandria di bufali. Alexander invece sembrava essersi già ripreso dal colpo che
aveva subito, e con irritante nonchalance si stava togliendo la polvere
dall’armatura.
«Allora, ti è
bastata? Posso andare oltre, se vuoi».
Dave non volle
aspettare che l’incantesimo dell’arena entrasse in funzione e si curò da sé, ma
per non sprecare inutilmente le sue energie in vista di quello che sarebbe stato
sicuramente uno scontro molto cruento si limitò a suturare le costole e a
lenire il gonfiore prima di rimettersi in piedi.
«Beh, se vuoi
continuare per me va’ bene.» commentò Alexander togliendosi i capelli dalla
fronte «In tutta onestà, mi piacciono gli avversari che continuano a combattere
pur sapendo di non avere alcuna speranza di vittoria.»
«Su una cosa ti
sbagli. Io non ho solo una speranza di batterti. Io ho la certezza!».
Il giovane mago si
lanciò di nuovo alla carica più determinato di prima, cogliendo Alexander del
tutto impreparato ed assestandogli una coppia di pugni; Dave se la cavava
egregiamente anche come lottatore, e dopo aver fatto lo sgambetto al suo
avversario cercò di assestargli una gomitata mentre era a terra, ma Andersen riuscì
a rotolarsi all’indietro e, ancora in ginocchio, gli menò un gancio sul mento
che, grazie anche ad un po’ di magia, fece volare in aria Dave.
Sembrava inerme,
ma a cinque o sei metri da terra si rimise in assetto, usò il cristallo del
gambale per mantenersi in aria, aprì i palmi delle mani e spedì contro
Alexander una tempesta di fiamme azzurrognole. Il cavaliere alzò un braccio e
generò uno scudo in sua difesa; Dave allora fece comparire nelle sue mani due
lunghe aste fatte di luce e le scagliò con forza contro di lui. Queste, dopo
aver cozzato contro lo scudo, lo fecero implodere, scagliando Alexander
all’indietro. Sarebbe caduto dal ring, se, sguainata la spada, non l’avesse
piantata con forza nel marmo, aggrappandosi ad essa e rimanendo in equilibrio.
Dave intanto era
sceso sopra un paletto ed aveva a sua volta messo mano alla spada, la cui lama
era ora circondata di fiamme.
«Ehi.» disse Aria
«Ma quello è sempre Dave?»
«La sua forza è
aumentata incredibilmente.» disse Regis «E riesce a compiere incantesimi senza
dover tracciare un circolo magico. Come è stato possibile? Non me lo so
spiegare neanche io».
Dave e Alexander
si fissarono, poi entrambi saltarono verso l’alto e presero a far sventolare le
loro spade, usando nel contempo l’attrito prodotto dalle collisioni per
allontanarsi. Per riavvicinarsi dopo un colpo e poter proseguire lo scontro
Dave utilizzava il suo cristallo, mentre Alexander sembrava non averne nessuno
con sé.
Dunque la magia
che utilizzava era tutta farina del suo sacco, e Dave si domandava come avesse
fatto un aristocratico viziato ad ottenere simili conoscenze.
Lo scontro in aria
proseguì per quasi un minuto, fino a quando il potere del cristallo di Dave, che
gli permetteva di scendere più lentamente, non si esaurì, e lui fu costretto a
tornare sul ring, raggiunto poco dopo da Alexander.
Entrambi avevano
il fiato corto ed erano visibilmente stanchi, ma nei loro occhi si poteva
leggere chiaramente la determinazione a continuare la lotta fino alla fine.
I loro medaglioni
avevano raggiunto entrambi la tonalità gialla, quindi, a conti fatti, erano
sostanzialmente alla pari.
Le fiamme attorno
alla spada di Dave scomparvero, e per un istante lui sembrò perdere la
concentrazione; immediatamente Alexander ne approfittò per scattare di nuovo
all’attacco, e con un fendente pauroso lo scaraventò fuori dal ring.
Non appena Dave
rialzò gli occhi dalla sabbia, vide il campo di gara circondato da una spessa
barriera rossa.
«E questa cosa…».
Cercò di saltarci
dentro, ma appena la sfiorò il suo corpo fu investito da una serie di tremende
scariche e lui fu sbalzato all’indietro.
Il regolamento
stabiliva chiaramente che chi restava fuori dal ring per più di quindici
secondi perdeva automaticamente, ed allora il giudice girò la sua seconda
clessidra per iniziare a scandire il tempo.
Dave doveva
inventarsi qualcosa, in fretta se non voleva che per lui il torneo finisse
anzitempo.
Tentò più volte di
avere ragione di quella barriera, ma ogni volta veniva ricacciato indietro dopo
essersi preso una bella dose di scariche.
«Puoi provare
quanto ti pare.» disse Alexander, ben rinchiuso all’interno «Non riuscirai mai
a perforarla. Questa barriera è sicuramente uno dei miei cavalli di battaglia».
E intanto il tempo
continuava a passare; ormai mancavano solo sette secondi.
Il giovane mago si
rese conto che l’unico modo per riuscire a frantumare quella specie di scudo
perfetto era fare maggior ricordo ai poteri del sigillo sciogliendo il secondo
cerchio.
Non avrebbe mai
pensato di dover ricorrere a sistemi tanto drastici in così breve tempo, ma la
sola idea di perdere contro Alexander lo faceva stare male: molto meglio
correre qualche rischio in più ed essere sicuri di alzare il calice della
vittoria che darla vinta a quel pomposo aristocratico.
Un secondo dopo,
Elys ebbe una sgradevolissima sensazione di dolore e si morse le labbra; Aria e
Regis se ne accorsero.
«Elys. Qualcosa
non va’?»
«Cosa!? No, no…
niente. È che dovrei andare in bagno, ma prima voglio vedere come finisce
l’incontro.»
«Ah…».
La realtà era ben
diversa, ed Elys sapeva bene cosa stava per fare Dave; l’unica cosa che si
augurava era che non strafacesse, o sarebbero sicuramente stati scoperti.
Dave si concentrò, si liberò del secondo
vincolo e subito si sentì pervadere da un potere immenso, tanto da pensare di
essere arrivato al livello del suo maestro. Gli bastò guardare verso una delle
colonne sui bordi dell’arena per sradicarla dal terreno e separarla nelle sue
varie parti, che rimasero sospese in aria dopo essergli volati dietro le
spalle.
Tutto lo stadio
restò in silenzio; erano stupiti, invece Mandy era spaventata.
C’era qualcosa
negli occhi di Dave che non gli apparteneva per niente; anche se poteva
sembrare che vi fosse dentro lo stesso ardore e lo stesso spirito ribelle che
l’avevano fatta innamorare di lui, in realtà trasudavano unicamente voglia di
combattere, un sentimento molto diverso.
Come poteva
perdonarlo se lui continuava a comportarsi in quel modo?
La ragazza fu
costretta a girarsi di lato per evitare di guardarlo e non poté più evitare di
piangere, ma ormai Dave non aveva più attenzioni per lei, preoccupato com’era
dall’evitare la sconfitta.
Quasi tutte le
parti della colonna furono lanciate contro la barriera e andarono in polvere,
non prima però di averla leggermente indebolita.
Dave tenne per sé
solamente un capitello, che lanciò in aria e lasciò sospeso sopra il ring,
quindi richiamò a sé tutta la sua concentrazione e spiccò un salto altissimo
dopo aver nuovamente circondato di fiamme la mano destra; raggiunto il
capitello, lo usò come un trampolino per darsi la spinta e precipitare verso il
basso con il pugno alzato.
Lo scontro con la
barriera fu a dir poco tremendo, e produsse una tempesta di scariche talmente
forte da minacciare gli stessi spettatori, che per fortuna poterono contare
sulla protezione offerta dagli scudi.
Alexander, da
principio, pensò che fosse solamente l’ennesimo sforzo inutile, ma poi, con suo
grande terrore vide comparire una crepa nel punto di contatto: Dave ci stava
riuscendo!
Mancavano
solamente quattro secondi allo scadere del tempo, doveva assolutamente riuscire
a resistere per tutto quel tempo, quindi alzò le braccia e concentrò la sua
magia in quell’unico punto. Bastava impedire a Dave di toccare il ring, e tutto
sarebbe finito.
Dave, che credeva
di esserci ormai vicino, sentì la forza della barriera crescere, quindi non ebbe
altra scelta che aumentare l’intensità della fiamma per cercare di sfondarla,
ma contro di lui c’erano sia lo scorrere del tempo che la forza di spinta,
ormai prossima ad esaurirsi.
Ormai non gli
importava più se il maestro lo scopriva, voleva solamente battere Alexander.
Il dolore che Elys provò su entrambe le sue mani si
ripresentò incredibilmente più forte di prima, e lei non riuscì a trattenersi
dal gridare disperata buttandosi in ginocchio.
«Elys!» urlò Aria.
A quel gesto,
Regis assunse un’espressione che Aria non aveva mai visto, un’espressione di
terrore.
Più Dave impiegava
le sue energie per cercare di infrangere la barriera, più Elys gridava, ma alla
fine il ragazzo la ebbe vinta, il cerchio sotto i piedi di Alexander e lo scudo
che aveva eretto si infransero come cristalli.
Il cavaliere saltò
all’indietro per evitare il pugno di Dave, che tornò sul ring proprio mentre
cadeva l’ultimo granello di sabbia; il giudice alzò le braccia dapprima sopra
la sua testa, poi le distese a T.
Dave era risalito
in tempo, e la sfida proseguiva.
“Dannazione!”
pensò Alexander “Ce l’avevo quasi fatta!”.
Elys intanto aveva
smesso di gridare, ma tutto il suo corpo tremava, e lei piangeva dal dolore.
«Elys, che ti
succede? Rispondimi.»
«Non… non è niente
maestra… ora… è passato…».
Regis appariva
sempre più sconvolto.
“No… no, non può
essere… questo no… Dave, dimmi che non l’hai fatto…”.
Giratosi verso
Elys la prese per un polso, la sollevò da terra e prese a srotolar le bende che
le avvolgevano la mano destra.
«No, Regis…» cercò
di dire, ma lui non le diede ascolto.
Quando il palmo
della ragazza venne alla luce, Aria inorridì e si mise una mano sulla bocca per
cercare di trattenere i conati che le provocava quel puzzo tremendo.
«E… Elys… che
significa?».
La ragazza abbassò
lo sguardo mentre Regis, completamente fuori di sé, le scopriva anche l’altra
mano, rivelando uno spettacolo esattamente uguale. entrambi i palmi erano
attraversati da una linea di carne bruciata larga un paio di centimetri; tutto
intorno era un trionfo di pustole e vesciche, e malgrado i bordi coperti di
grinze facessero ritenere che si trattasse di segni vecchi già di molte ore, al
centro le ustioni erano ancora rosse e vivide, come appena provocate.
«No… no…» disse
Regis
«Elys. Come ti sei
procurata queste ustioni?».
Ancora una volta
Elys esitò a rispondere.
«Elys…» le disse
Regis guardandola negl’occhi «Dimmi che non l’avete fatto.»
«Io… io…»
singhiozzò la ragazza «Ho cercato di convincerlo a non farlo… gli ho detto che
era pericoloso… non mi ha voluta ascoltare…»
«Elys, che stai
dicendo?»
«Dave… Dave…» poi
gridò, come a volersi togliere un peso «Dave si è impresso il Sigillo degli
Dèi!»
«Che cosa!?»
esclamò Aria.
Regis sembrò avere
un mancamento e si girò nuovamente a guardare il suo allievo, in piedi sopra il
ring.
Allertata da Peter, una coppia di gendarmi era giunta
davanti al crepaccio nel mezzo della Via Agraria, ma non erano stati in grado di
fare nulla se non rimanere a loro volta con le bocche spalancate davanti
all’incredibile spettacolo.
«Ehi, che diavolo
è successo qui?» domandò d’un tratto un’elfa vestita di scuro
«Non lo sappiamo.»
disse il vecchio Ronald «All’improvviso il terreno ha cominciato a tremare, e
in pochi secondi è comparsa… questa».
L’elfa giunse sul
bordo della spaccatura e gettò uno sguardo di sotto.
«Porca vacca
miseria!»
«È stato
spaventoso.» disse un mercante che aveva il negozio lì vicino «I tombini sono
stati sparati in aria, e dalle fogne ha preso ad uscire un vapore caldo come
l’inferno.»
«Potrebbe essere
stato un terremoto.»
«Non credo.» disse
Ronald «Io vivo qui da quasi sessant’anni, e non ci sono mai stati terremoti in
questa zona.»
«Beh, allora
qualcuno mi sa dare una spiegazione logica per una spaccatura di un venti metri
e profonda chissà quanto nel bel mezzo della città?».
La risposta a
quella domanda fu un silenzio raggelante, accompagnato da sguardi perplessi e
preoccupati che si sollevarono quando l’elfa, gettata una torcia, la vide
scomparire nel buio senza trovare un terreno su cui precipitare.
Gli umani. Sempre
i soliti.
«Ehi tu!» disse
l’elfa rivolta a Peter «Hai una corda su quel carretto?»
«Eh!?... Beh,
sì!».
Il ragazzino prese
la corda che solitamente veniva usata per legare i pacchi fragili e la portò a
chi gliel’aveva richiesta.
«Quanto è lunga?»
«Più o meno otto
metri.»
«Troppo poco. Quel
buco sarà profondo almeno il triplo. Portatemi tutte le corde che riuscite a trovare
e legatele fra loro!»
«Ehi, che cosa
vuoi fare?» domandò un gendarme
«Non è ovvio?»
rispose lei annodandosi attorno alla vita un capo della corda di Peter.
I negozianti tutto
intorno raccolsero tutte le corde che avevano a disposizione e le unirono,
formandone una lunga oltre quaranta metri. Mentre l’elfa legava l’altro capo da
un palo per l’illuminazione arrivò un suo simile.
«Lsyn!» gridò
inviperito correndole incontro «Si può sapere che diavolo ti è saltato in
testa?»
«Di che stai
parlando?» rispose lei stringendo bene il nodo
«Di che sto
parlando? Parlo di quello che mi hai messo nel bicchiere! E non far finta di
niente, perché so benissimo che sei stata tu!»
«Che c’è di male?
Ora ti sei liberato per bene.»
«Tu, nanetta che
non sei altro! Uno di questi giorni io ti…»
«Adesso non c’è
tempo per questo, Tijorn».
Intuendo cosa la
sua sorellina avesse in mente di fare Tijorn cercò di dissuaderla, dicendole
che era pericoloso e che poteva trattarsi di una cosa assolutamente banale, ma
lei era fatta così. Tutto ciò che era nuovo ed insolito la incuriosiva, e non
c’erano dubbi sul fatto che quella spaccatura in mezzo alla strada insolita lo
fosse di sicuro.
Alla fine accettò
di aiutarla, ed insieme alla gente lì attorno aiutò Lsyn nella discesa dopo
averle messo in mano una nuova torcia per aiutarla ad orientarsi nel buio.
«Mi raccomando,
fai attenzione.»
«Da quando sei
così apprensivo?».
Lsyn si lasciò
scivolare, attraversò la conduttura e cominciò la discesa nel crepaccio, circondata
dalle acque maleodoranti della cloaca.
«Accidenti, che
puzza di merda».
Tijorn e gli altri
avevano istruzione di continuare a dare corda fino a che Lsyn non avesse detto
loro di fermarsi.
Ad un certo punto
la fenditura del terreno sembrò lasciare spazio ad un enorme androne, poi,
prima fioca poi sempre più forte, l’elfa vide comparire la luce della torcia
precedentemente gettata, quando ormai doveva aver raggiunto i trenta o
trentacinque metri di profondità.
«Ehi!» gridò
poggiando i piedi «Sono infondo!»
«Che cosa vedi?»
«Molto poco! Credo
sia una caverna!»
«Una caverna?»
«E anche molto
grande, sottolineo!».
Lsyn tentò di
sollevare la fiamma, ma un insolito spiffero d’aria spense entrambe le torce,
lasciando l’elfa immersa in un buio pressoché totale.
«Perfetto. Ci
mancava anche questa».
Stava per chiedere
che gliene venisse lanciata un’altra, quando avvertì un nuovo spiffero d’aria,
ma questa volta comprese subito che esso non era dovuto ad un evento naturale,
quando piuttosto allo spostamento rapido di un corpo solido.
In una simile
situazione un essere umano sarebbe stato un bersaglio anche troppo facile, ma
un elfo era tutta un’altra cosa; la loro razza era dotata di un udito
fenomenale, e le spie in particolare si trovavano perfettamente a loro agio
nell’oscurità.
Con la velocità e
l’agilità di un gatto Lsyn sguainò la spada e colpì un’entità sconosciuta che
aveva cercato di aggredirla alle spalle. Il rumore che fece la sua arma
colpendo il nemico era molto strano, come se questi fosse completamente avvolto
da un’armatura, tanto che anche il suo corpo, nel cadere, emise un tonfo
assordante.
Ma non era il
solo. Altri erano insieme a lui, e Lsyn si trovò costretta a difendersi da
attacchi molteplici sferrati con spade e piccoli raggi incandescenti che,
brillando, illuminavano per pochi istanti gli aggressori, senza però lasciare
all’Ombra il tempo di distinguerli chiaramente.
In poco più di un
minuto l’elfa fu di nuovo all’esterno.
«Che è successo?»
domandò il fratello vedendola esausta e con la spada in mano
«C’è qualcosa lì
sotto. Forse erano uomini, o forse erano qualcos’altro, ma sono armati fino ai
denti e non sono certo armati di buone intenzioni.»
«Hai visto se ci
sono altre uscite?» domandò un gendarme
«Non ho potuto,
era troppo buio.»
«Avvisiamo subito
il comandante. Questa storia non mi piace per niente.»
«Sono d’accordo.»
rispose l’altro soldato.
Prima che Elys potesse trovare le parole per far tentare
di far cambiare idea a Dave i due, nascosti dal buio, erano arrivati ad un
vecchio magazzino ormai dismesso e ridotto in uno stato di pietoso abbandono.
«Qui dovrebbe
andare bene.» disse il ragazzo «Siamo lontani dalla strada, nessuno ci
sentirà.»
«Dave… Ti prego,
ripensaci. È troppo rischioso.»
«È troppo tardi,
Elys. Ho preso la mia decisione, e non intendo tornare indietro.»
«Ma è pericoloso. Sai
in quanti sono morti per aver tentato di imprimersi il Sigillo degli Dèi? È
un’operazione pericolosissima, per non parlare poi del dolore.»
«Lo so benissimo.»
replicò Dave sguainando la spada e prendendo ad incidere qualcosa sulle lastre
di pietra del pavimento con la punta acuminata «Ho studiato con attenzione i
manuali del maestro.»
«Regis ci ha messo
anni per imparare a controllarlo. Come speri tu di riuscirci entro domani
mattina?»
«Non lo so. Quello
che so è che andrò sicuramente incontro alla sconfitta se non vi farò ricorso.»
«Chi se ne importa
della sconfitta? Qui è in gioco la tua vita! È il tuo primo torneo, ce ne
saranno molti altri che potrai affrontare!»
«Tu non capisci!»
urlò piangendo il ragazzo «Io non posso perdere in questo torneo! Per nessuna
ragione al mondo!».
Elys rimase senza
parole; era la prima volta che vedeva Dave così determinata, e solo adesso si
rendeva conto di quanto l’appellativo novellino non fosse più attribuibile ad
uno come lui da molto, molto tempo.
Lei a dire la
verità non lo aveva mai considerato tale.
Fin da quando si
erano conosciuti aveva capito che Dave era speciale, e che aveva un talento per
la magia pari solamente al rispetto e alla stima che nutriva verso colui che
gliela insegnava.
In fin dei conti,
era anche merito suo se lei era riuscita ad entrare nella prestigiosa Ouraji, e
che dire poi del suo intervento provvidenziale che aveva salvato entrambi
dall’aggressione di quel robot?
Gli doveva molti
favori, ed era giunto il momento di restituirglieli tutti in una volta.
Si avvicinò a lui
e lo guardò severamente.
«È davvero così
importante per te?»
«Più della mia
stessa vita.» rispose lui senza esitazioni.
Elys allora
sorrise, estrasse la sua spada e prese anche lei a tracciare linee sul terreno.
«In questo caso,
al lavoro.»
«Grazie, grazie
infinite.» disse Dave al colmo della gioia.
A lavoro finito,
sul pavimento della fabbrica erano stati disegnati due simboli a forma di
spirale di differente grandezza, unite fra di loro da una linea curva che
rendeva il tutto simile ad un punto interrogativo.
Dave a quel punto
gettò via la sua sacca e si denudò, tenendo indosso solamente la fascia
perizoma.
Elys, recuperati
dalla sacca un pennello piuttosto largo e un calamaio, disegnò sul corpo
dell’amico tutta una serie di simboli simili alla scrittura runica usata dagli
elfi per i loro incantesimi.
Quando ne fu
completamente ricoperto, fatta eccezione per la testa, Dave si portò al centro
del cerchio più grande, mentre Elys, recuperata la sua spada, si posizionò
sopra a quello più piccolo.
«Dave… se vuoi
ripensarci, siamo ancora in tempo.»
«Non c’è più
tempo, Elys. Come dice sempre il maestro, se passi la tua vita a decidere di
fare una scelta, non troverai mai il coraggio per farla sul serio».
Le sue parole non
facevano trasparire alcuna incertezza: era davvero determinato a farlo, e se
questo era il suo desiderio Elys non si sarebbe intromessa.
Entrambi chiusero
gli occhi, Elys rivolse nuovamente la punta verso il basso e si concentrò
profondamente.
Il Sigillo degli
Dèi poteva essere impresso solamente con la collaborazione di qualcuno che
sapeva usare con grande abilità magie e tecniche di lotta dell’elemento Fuoco,
ma bastava un errore insignificante per mandare in rovina il rituale e mettere
in pericolo la vita del prescelto.
In materia di
Fuoco Elys non aveva niente da imparare, per questo Dave aveva pensato bene di
chiedere a lei. Ora dipendeva tutto dalla sua abilità.
Ubbidisci alla mia
voce,
Fuoco della vita, radunati
nella mia mano.
Concedimi la forza
per combattere i miei nemici.
TOLLWUT GLÜHLAMPE!
La spada si infiammò, ed Elys la conficcò con forza nel
terreno.
Immediatamente le
linee del simbolo si illuminarono di rosso, poi attorno alla spirale di Dave si
formò una impenetrabile parete di fuoco che avvolse completamente il ragazzo.
Non erano così
vicine da arrecargli danni considerevoli, ma toccati dal calore, i segni sul
suo corpo divennero come pezzi di acciaio ardente che gli provocarono dolori
talmente forti da farlo gridare fino alle lacrime.
“Anche… anche il
maestro ha sofferto un simile tormento?”.
Urlava da far
paura, e, contemporaneamente, anche la spada di Elys prese ad aumentare di
temperatura, e visto che anche l’impugnatura era di metallo le sue mani presero
a scottarsi.
Anche Elys sentiva
dolore, ma prima di cominciare aveva promesso a sé stessa che fino a quando
Dave avesse voluto continuare lei avrebbe fatto lo stesso, così strinse i denti
e cercò in ogni modo di resistere.
Mentre Dave
gridava, i simboli presero gradualmente a scomparire, lasciando al loro posto
degli spaventosi segni sulla pelle.
Il rituale durò in
tutto un minuto e mezzo esatto, poi la barriera di fuoco decadde e sia Dave che
Elys caddero stremati sulla fredda pietra mentre i resti del simbolo ancora
emettevano nuvole di fumo.
Le mani di Elys
erano coperte da ustioni di terzo grado, ma lei, incurante del dolore, si
trascinò verso Dave per accertarsi che fosse vivo.
«Dave…
rispondimi».
Lui aprì
leggermente gli occhi e la guardò.
«Ci… ci siamo
riusciti?»
«Sì.» rispose lei
sorridendo «Ci siamo riusciti».
Dave pianse e si
guardò il braccio giusto un secondo prima che i segni scomparissero.
Dave rivolse uno sguardo al maestro, e dal modo in cui lui
lo guardava si intuiva che aveva capito tutto.
Poco male.
Sarebbe successo
comunque.
Ora bisognava
concentrarsi unicamente sulla sfida. Alexander aveva perso sicuramente molte
energie cercando di mantenere integra la barriera, quindi era il momento
migliore per attaccarlo.
Seguendo questo
schema Dave partì all’assalto, dimenticandosi forse che riuscire a sfondare lo
scudo era costato molto anche a lui, in termini di energia.
Alexander si
difese egregiamente, senza contare che lui se la cavava molto meglio come
spadaccino, ma più il tempo passava più Dave perdeva l’uso della ragione,
gettandosi a capofitto in ogni attacco senza servirsi di quella capacità logica
che fin dall’inizio aveva caratterizzato il suo modo di combattere.
E intanto Regis
osservava, sempre più spaventato da ciò che aveva scoperto.
Perché era stato
così cieco da non accorgersene? Dave aveva sperimentato su di sé uno degli
incantesimi più pericolosi mai concepiti, e lui non si era accorto di nulla.
Solo allora gli
venne in mente di controllare nella sacca da viaggio di Dave, che Elys aveva
tenuto con sé dicendo che gli era stata affidata proprio dal suo proprietario,
e come previsto vi trovò dentro il necessario per eseguire il rituale, più una
pergamena. La aprì, e come previsto era la sua, quella
che lui aveva trovato in una biblioteca degli elfi molti anni prima, in cui era
spiegato dettagliatamente cosa fosse il Sigillo degli Dèi e come fosse
possibile inciderlo sul proprio corpo con tanto di illustrazioni.
Tutto il mondo è attraversato dalla magia, ed ogni essere vivente che ne abbia la capacità è in grado
di controllarla tracciando un circolo magico, che mettendo in correlazione
l’anima dell’individuo con il potere della magia permette di esercitare un
incantesimo. La forza e l’efficienza di un incantesimo è
inversamente proporzionale alla complessità del cerchio che viene tracciato per
utilizzarlo; più il cerchio è complesso, più potente ed efficace risulterà
l’incantesimo.
Tuttavia, gli incantesimi generati con
l’utilizzo dei circoli hanno un potere limitato, in quanto
essi traggono la forza per essere generati unicamente da una piccola parte
dell’anima dello stregone.
Il Sigillo degli Dèi permette di aggirare questo ostacolo, in quanto trasforma tutto il corpo in un
grande cerchio perennemente attivo; in questo modo, il suo possessore può
impiegare tutto il potere della sua anima, generando così incantesimi molto più
potenti.
Per poter tracciare il
Sigillo degli Dèi occorrono le radici tritate dell’albero di Sala, mescolate a
fuliggine e ad acqua benedetta in modo da formare un inchiostro scuro molto
denso.
Lo stregone deve quindi utilizzare questo
inchiostro per tracciare una serie di simboli runici sul proprio corpo; la
disposizione di tali simboli deve essere accurata, o il rituale non potrebbe
avere successo. Tali simboli sono chiamati Cerchi, e ad
ogni cerchio corrisponde una parte del corpo. Il Primo Cerchio per il braccio
sinistro, il Secondo Cerchio per il braccio destro, il Terzo Cerchio per la
gamba sinistra, il Quarto Cerchio per la gamba destra, ed
infine il Quinto Cerchio per il busto.
Una volta che tutti e cinque i cerchi sono
stati tracciati, il prescelto deve posizionarsi sul
cerchio più grande del Simbolo di Sarmak, mentre il
più piccolo deve essere occupato da un assistente che avrà il compito di
portare a termine il rituale trasformando i meri disegni nel sigillo vero e
proprio.
Chi si assume questo compito deve possedere
conoscenze avanzate degli incantesimi o delle tecniche di combattimento di
attributo Fuoco, in quanto è proprio con il fuoco che
i simboli devono essere marchiati sul corpo dello stregone; sottoposto ad una
temperatura di cinquemila kesnar, e stimolato dal
potere del Simbolo di Sarmak, l’Inchiostro di Sala
inizierà a bruciare, lasciando al suo posto i simboli che daranno vita al
Sigillo degli Dèi.
Salvo rarissime eccezioni, i simboli
scompariranno subito dopo la fine del rituale, per poi fare nuovamente la loro
comparsa nel momento in cui si sfrutteranno i loro poteri.
Il Sigillo degli Dèi, dopo essere stato
tracciato, impiegherà alcune ore ad adattarsi al corpo dello stregone; tale
operazione comporterà un forte senso di dolore, ed è da ritenersi cosa saggia
non utilizzare alcuna forma di magia fintanto che il dolore continuerà a
persistere.
Nel momento in cui verrà
sciolto, il Sigillo aprirà solamente il Primo Cerchio, ma sarà possibile aprire
anche tutti gli altri, in modo da poter far scorrere una maggiore quantità di
potere magico all’interno del proprio corpo.
Purtroppo, proprio in virtù del suo grande
potere, il Sigillo degli Dèi porta con sé un enorme inconveniente, che risulta anche essere una maledizione per chiunque decida di
tracciarlo su di sé.
In circostanze normali, un circolo magico
svanisce nel momento in cui l’anima dello stregone risulta
essere troppo debole per poter continuare a sfruttare la magia senza
rischi per la propria sopravvivenza. Con il Sigillo degli Dèi questo espediente
scompare, in quanto il corpo stesso dello stregone
diventa un circolo magico, che una volta aperto continua a bruciare la linfa
vitale dell’anima fino a che non si decide di chiuderlo, indipendentemente
dalle proprie condizioni di salute.
Questo senza contare i rischi che vengono
dall’avere il potere della magia che scorre direttamente all’interno della
propria anima; lo spirito di uno stregone inesperto potrebbe non farcela a
sopportare un simile trauma, finendo col bruciare completamente nello spazio di
pochi secondi.
A lungo ho cercato il modo di rimediare a
questi problemi, ma è prerogativa di ogni incantesimo l’avere un punto debole,
e temo che non esista un modo veramente efficace di arginare la pericolosità
del Sigillo degli Dèi, se non forse l’utilizzarlo con
la massima cautela dei suoi poteri.
Rasnak, Grande Mago di Normar
«Dave… che cos’hai fatto?».
Intanto lo scontro stava andando per le lunghe, ed
entrambi i contendenti sembravano essere molto stanchi.
Dave era ansioso
di chiudere la questione al più presto, voleva aprire un terzo cerchio, ma
aveva aspettato troppo ed ora era così indebolito da
non avere più la forza per farlo.
Quindi, se voleva
vincere, doveva farlo solamente coi primi due, facendo
scorrere al loro interno tutto il potere che erano in grado di contenere.
Il cristallo sul
suo gambale ormai si era ricaricato, perciò utilizzò nuovamente il suo potere e
saltò in alto, generando ancora una volta il gigantesco circolo magico che preannunciava la discesa del suo nuovo e devastante
incantesimo. Alexander lo guardò terrorizzato.
RÉVOLUTION DES ÉTOILES
Di nuovo le meteore piovvero dal cielo, e di nuovo Von
Andersen generò una barriera per difendersi, ma quando il primo globo vi andò a
sbattere contro si accorse di aver decisamente
sopravvalutato la pericolosità di quell’attacco.
«Ma che sta succedendo?» disse Aria «L’incantesimo di Dave è
molto più debole di prima».
Regis capì subito qual’era il motivo di un simile avvenimento.
«Non ha più la
forza di aprire i vari cerchi, quindi sta forzando al massimo quelli già
aperti, ma in questo modo i suoi incantesimi risultano
molto più deboli, perché quella parte di anima a cui attingono i primi due
cerchi sta già bruciando al massimo.»
«Ma così rischia
che venga consumata! Regis, devi fermarlo!».
Regis non sapeva
cosa fare, era combattuto fra l’istinto di aiutare il suo allievo e la promessa
che si era imposto di non interferire mai più nelle
sue scelte.
Ma
non ci fu bisogno che lui intervenisse, perché Dave, poco dopo, si sentì
improvvisamente mancare le forze, il suo attacco si disperse e lui tornò a
terra con il fiatone.
“Che… sta
succedendo…”
«Sarebbe questo il
tuo attacco migliore?» commentò Alexander «Beh, devo
dire che mi aspettavo molto di più. Evidentemente stai chiedendo troppo a te
stesso. Poco male. Vuol dire che la finiremo ora».
Il cavaliere puntò
quindi la sua lama, circondatasi di rosso, verso Dave.
STARLIGHT MIRAGE!
Il giovane mago cercò di difendersi con una barriera, ma
era così stanco che andò in pezzi al primo affondo, e lui si sentì come se
fosse stato davanti ad un plotone di esecuzione.
Un silenzio
spaventoso calò sullo stadio, e molti arrivarono a pensare che quell’attacco lo
avesse addirittura ucciso, perché il suo urlò di dolore
si spense a mezz’aria, e appena tornato a terra, completamente ricoperto di ferite,
Dave non si mosse più.
«Dave!» gridò
Regis.
Mandy, che per la
paura non era riuscita a guardare, lo vide lì, a terra, apparentemente morto,
ma non fu in grado di non fare niente. Il suo corpo era diventato rigido,
tremante, e sembrava non rispondere ad alcuno stimolo.
Alexander era
certo della vittoria, stava quasi per riporre la sua spada, quando il avversario emise un lamento soffocato.
«Ma che…».
Con fatica,
appoggiandosi alle catene, Dave si rimise in piedi; il suo pendente era rosso sangue
e pulsava leggermente.
«Io… non posso…
perdere…»
«Dave!» gridò Elys
«Fermati! Fermati, ti prego!».
Incurante di quel
richiamo, il ragazzo alzò la spada e corse barcollando verso Alexander, che
però non ebbe alcuna difficoltà ad afferrargli la nuca e a colpirlo con una
ginocchiata tremenda al mento che lo gettò nuovamente a terra.
Dave, di nuovo, si
rimise in piedi, tossendo sangue e con le lacrime agli occhi, di nuovo cercò di
attaccare, di nuovo fu colpito violentemente e di
nuovo cadde.
Ormai il pubblico
non gridava, non incitava più; il silenzio la faceva da padrone, e tutti erano
consapevoli di non poter fare nulla per impedire quella specie di massacro; a meno che Dave non si arrendesse, nessuno era legittimato a
sospendere l’incontro.
Ogni grido, ogni gemito giungeva alle orecchie
di Mandy senza che lei potesse fare nulla per impedirlo. Poteva tapparsele, ma
le sentiva, poteva chiudere gli occhi, ma lo vedeva ancor più chiaramente, e
per quanto fossero lontani le sembrava quasi di sentirlo.
«M... Man… Mandy…».
Per lei! Tutto
quello lo stava facendo solo e unicamente per lei! Dave stava soffrendo, stava soffrendo enormemente solo per dimostrarle che in
tutti quegli anni aveva pensato solo e unicamente a mantenere quella promessa,
mentre lei, al contrario, sembrava essersela dimenticata.
Ormai non poteva
più far finta di non rendersene conto: chi si era dimenticato del valore di
quella promessa non era Dave, ma lei! Lei aveva fatto sì che Dave si cimentasse
in quell’impresa, con il solo scopo di dimostrarle di essere diventato più
forte, di non aver passato quei tre anni a non fare niente.
Continuava a
rialzarsi, solo per essere colpito ogni volta più forte, e proprio da Alexander
Von Andersen, dal ragazzo che per un attimo, malgrado fosse convinta del
contrario, le aveva fatto dimenticare la promessa.
Perché era stata
così cieca? Sotto quel bel visino da gentiluomo c’era un freddo arrivista senza
scrupoli, interessato unicamente a mettere in mostra la sua abilità.
Dave, dopo l’ennesimo
pugno al torace, era disteso a faccia in giù, e ormai sentiva di non avere più
la forza di rialzarsi.
Con la forza della
disperazione riuscì a mettersi carponi, ma non era certo di poter fare di più;
sembrava quasi che fosse prostrato dinnanzi ad
Alexander, e la cosa non poté che arrecare soddisfazione al nobile
aristocratico.
«Ti conviene
smetterla adesso, o non sarò io il responsabile di quello che potrebbe
succederti».
Stava seriamente
perdendo le speranze, era sul punto di abbandonarsi all’oblio, quando un urlo
carico di speranza squarciò il silenzio giungendo sino a lui.
«Dave!
Ricordati della nostra promessa!».
Attonito, alzò lo
sguardo, e finalmente la vide come avrebbe sempre voluto vederla; in piedi,
sopra ogni altra cosa, con quei suoi bellissimi occhi azzurri così pieni di
affetto, di dolcezza e di innocenza.
Anche Alexander la
sentì, ma la cosa non gli provocò il minimo turbamento; in fin dei conti, lei
non era altri che una delle tante con le quali i suoi
genitori lo avevano costretto ad uscire.
«È così patetico.»
commentò guardando in basso «Quando mai un vero
guerriero ha bisogno di qualcuno che faccia il tifo per lui? Un vero guerriero
non ha bisogno di niente, la sua forza è più che sufficiente.»
«Sei… sei davvero
convinto di quello che dici?» chiese Dave con voce diversa mettendosi in
ginocchio, nel tentativo di rialzarsi
«Assolutamente.»
rispose Alexander senza alcun dubbio «È la forza a
determinare chi comanda. Il forte sovrasta sempre il debole, è una legge di
natura».
Il mago riuscì a
sorreggersi nuovamente sulle sue gambe.
«Se c’è una cosa…
che ho imparato stando con il maestro…» alzò gli occhi; erano carichi di vigore
come neanche Regis li aveva mai visti prima «È che non
esistono forti e deboli! Esistono solamente gli idioti come te che credono
ancora in questa logica!».
Sotto a Dave si materializzò un nuovo, grande circolo, e tutto il
suo corpo fu attraversato da un’onda di energia magica di incredibili
proporzioni, abbastanza da scatenare un piccolo tifone.
Ad
un gesto del ragazzo, Alexander si ritrovò sospeso a qualche centimetro da
terra coi polsi e le caviglie immobilizzate da anelli di luce.
«Che cosa…»
«Dave…» disse Aria
«Che cosa vuole fare?».
Vedendolo alzare
la spada ed assumere una posizione insolita, Regis
intuì quello che il suo allievo aveva in mente.
«No,
Dave! Non farlo!».
Era l’unica scelta
adottabile. Dave sapeva di correre un grande rischio. Aveva visto quella
tecnica una volta soltanto, e fin da subito si era reso conto che riuscire ad emularla non sarebbe stato per niente facile. Ma nonostante tutto ci voleva provare, sarebbe stata la
conferma definitiva.
“Maestro…
perdonami…”.
La spada di Dave
si circondò di luce, e lui se la alzò sopra la testa.
TAICHI RYUMAJIN!
Un uragano di luce azzurra di forza a dir poco
terrificante si generò dalla spada e volò diritto verso Alexander, che fu
centrato in pieno. Subito dopo, lo stadio intero fu accecato da una
potentissima luce, e tremò leggermente.
«Regis!» gridò
Aria «Ma quella è la tua tecnica!»
“Dave…”.
Una decina di
secondi dopo la luce lentamente si estinse, e tutti si affrettarono a portare
nuovamente gli occhi sul ring per vedere cosa fosse successo.
Alexander e Dave
erano entrambi a terra, immobili, e non accennavano a muoversi.
Entrambi i loro
amuleti erano diventati tutti rossi, e sembrava dovessero rompersi entro pochi
istanti.
Nella storia di un
torneo non si era mai visto un doppio KO, e i giudici non sapevano che pesci
pigliare.
Stavano per
consultarsi fra loro, quando Alexander di colpo riaprì gli occhi, e piantando
la spada a terra fu in grado di mettersi in ginocchio.
Tutti si
aspettavano che di lì a poco Dave avrebbe fatto lo stesso, invece, un istante
dopo, il suo pendente andò in pezzi.
«Ha…» balbettò
Elys «Ha… ha perso…».
Regis uscì
correndo all’esterno e si precipitò sul ring a soccorrere il suo allievo
assieme a Elys e Aria.
«Dave!
Dave! Medico!».
Vederlo ridotto in
quello stato fece fermare il cuore anche a Mandy, che
senza esitazioni si fece largo tra la folla e raggiunse il parapetto; gli anni
trascorsi in giro per i prati e le pareti rocciose le permisero di superare
indenne il volo di cinque metri per scendere nell’arena e poter raggiungere a
sua volta il ring.
«Dave, sono qui!»
«Ma… Mandy…».
Due uomini dello
staff uscirono portando una lettiga su cui Dave venne
caricato, ed un guaritore gli somministrò le prime cure.
«Come sta?»
domandò Regis
«È molto provato,
bisogna portarlo subito in infermeria.»
«Ma starà bene?»
chiese Mandy «Si salverà?»
«È presto per dirlo, signorina».
E così, il torneo
per Dave era finito, e lui lasciò l’arena in un modo che non avrebbe mai
immaginato, attorniato dalle immagini evanescenti dei suoi amici, ma
soprattutto di Mandy, e con il frastuono degli applausi della folla a lui
dedicati.
Alexander si
ritrovò da solo, a riflettere sulla sua ingenuità; era perfettamente
consapevole che se Dave avesse usato quella tecnica con solo un po’ di energie
in più a propria disposizione, quasi sicuramente lui sarebbe stato spedito
diritto all’altro mondo.
Le ore successive trascorsero nell’incertezza e
nell’attesa, poi giunse la notizia tanto attesa: Dave era fuori pericolo.
Fortunatamente
quella parte della sua anima toccata dai primi due cerchi aveva collassato
prima di bruciare del tutto, e in questo modo Dave aveva evitato conseguenze
ben più gravi.
La notizia della
sua salvezza però ebbe anche l’effetto di spostare l’attenzione verso un altro
argomento, ed una Elys già provata si ritrovò a dover
ricevere due tremendi ceffoni dalla sua maestra proprio nella stanza in cui
dormiva Dave, nei sotterranei dell’arena; la ragazza subì senza reagire, perché
sapeva di meritarsele.
«Razza di incosciente! Ti rendi conto di quello che avete fatto?»
«Io…
mi dispiace, maestra. Vi giuro, ho tentato di convincerlo a non farlo, ma non
voleva sentire ragioni… avevo paura che se gli avessi detto di no, avrebbe
cercato di farlo comunque.»
«Saresti
dovuta venire subito da noi! Hai messo in pericolo la tua vita, ma soprattutto
la vita di Dave!».
Regis era seduto
su una seggiola ai piedi del letto e non diceva nulla, limitandosi a guardare
con apprensione il volto addormentato del suo pupillo, e quando lo vide,
finalmente, riaprire gli occhi, una lacrima gli scese dagl’occhi
«Ma… maestro…»
Elys e Aria se ne
andarono, chiudendosi la porta alle spalle, e per lungo tempo maestro e allievo
si osservarono senza dirsi niente.
Seppur ancora
tutto dolorante, Dave si mise in piedi, e altrettanto
fece Regis, che dopo averlo guardato alzò il braccio e lo colpì così forte da
farlo cadere. Dave pianse, si tenne la guancia, e si rialzò in piedi.
«Perché ti ho
colpito?».
Lui lo guardò, ma
non fu in grado di rispondere.
«Sei
stato un ingenuo e un avventato. Hai messo la tua vita in pericolo, ti sei
sottoposto ad un rituale molto pericoloso senza
neppure consultarmi, e cosa più grave di tutte hai coinvolto Elys. Non sapevi
che il Sigillo degli Dèi lascia una traccia indelebile non solo su chi se lo
traccia, ma anche su chi lo assiste?».
Dave allora fissò
il pavimento.
«La pergamena che
tu hai preso dalla libreria non era completa. Nella
seconda parte era scritto che chiunque entri a contatto con il Simbolo di Sarmak e riporti dei danni a seguito di ciò risente a sua volta degli effetti che vengono dallo
sprigionare il potere del Sigillo. Con il passare del tempo questo effetto si
attenuerà, ma ora le mani di Elys sono marchiate per sempre, proprio come il
tuo corpo.»
Dave rimase
impietrito, non lo sapeva. Non sapeva che il marchio sarebbe stato indelebile
anche per lei e si sentì assalire dal rimorso. Se solo si fosse informato meglio non lo avrebbe fatto, non le avrebbe mai chiesto di
imprimersi un sigillo a causa sua e se ripensava a tutte le volte che aveva
cercato di fermarlo si sentiva un verme.
«Dalla tua
espressione deduco che non eri informato».
Non aveva la forza
di rispondere e si limitò a scuotere la testa.
«Che ti serva da
lezione per la prossima volta che vorrai coinvolgere
qualcuno in qualche tua idea avventata. Ma perché non
ne hai parlato con me?»
«Perché… avevo
paura che non me l’avreste permesso».
Regis sbuffò.
«Di
sicuro non ti avrei incoraggiato a farlo».
Il suo insegnante
non parlava più ma non poteva sopportare quel silenzio.
«Non c’è modo di…
insomma Elys…».
Perché non
riusciva a fare una frase completa?
«No
Dave. col tempo gli effetti si attenueranno ma non
svanirà mai completamente».
Seguì un nuovo,
angosciante silenzio.
«Maestro… mi
dispiace».
Regis si girò,
dandogli le spalle, forse per non fargli vedere che stava piangendo.
«Quando
mi hai chiesto di partecipare a questo torneo, ho capito immediatamente quale
fosse il tuo vero scopo. Per questo, promisi a me stesso che non avrei
interferito in alcun modo con le tue battaglie, e con le decisioni che avresti
preso. Volevo lasciarti decidere liberamente, come un vero uomo.»
«E io vi ho deluso. Ho disonorato il vostro nome. Non merito
di essere considerato il vostro allievo.»
«No Dave, questo
non devi dirlo. La stima e la fiducia che nutro nei
tuoi confronti non sono cambiate. Ciò che mi ha ferito
è stato che tu hai voluto fare tutto senza dirmi niente. Di che cosa avevi
paura?».
Dave lo guardò
stupefatto, poi fu aiutato a distendersi nuovamente.
«Voi… non mi
avreste fermato!?»
«Ti avrei parlato,
avrei cercato di farti cambiare idea, ma se tu ti fossi dimostrato veramente
convinto della tua scelta allora io avrei fatto tutto
il possibile per aiutarti.»
«Mi avreste…
aiutato!?»
«Perché
non avrei dovuto? Sei il mio allievo, e mi è stato affidato il compito di
vegliare su di te. Ma d’altra parte non sei più un bambino, e
io ho il dovere di rispettare ogni tua decisione, a patto che questa sia
compiuta a mente lucida».
L’ultima parte del
discorso su quella a cui Dave non riuscì ad
omologarsi.
Ormai era tardi, e
la seconda semifinale non poteva più essere posticipata, quindi Regis fece per
uscire.
«Adesso
riposati, ne avrai molto bisogno. E una volta finito questo torneo, inizieremo l’addestramento.»
«L… l’addestramento?»
«Per
imparare a controllare il Sigillo degli Dèi. E ti suggerisco di prepararti,
perché sarà un allenamento molto più duro degli altri».
Dave accennò un
sorriso, avrebbe voluto ringraziare, ma capì che il silenzio in quell’occasione
era il miglior ringraziamento.
Non appena il
giovane aprì la porta si ritrovò davanti Mandy, che in quel momento stava per
aprirla.
«Mi…
mi scusi. Dave si è ripreso?».
Sentendo la sua
voce Dave per poco non si sentì svenire; non si sentiva
pronto, e poi non voleva che Mandy lo vedesse in quello stato. Avrebbe voluto
dire al maestro di mandarla via, ma lui invece rispose che Dave si era
risvegliato e che potevano stare da soli, cosa che puntualmente accadde.
Mandy si sedette sulla
seggiola, guardò Dave ma lui non guardò lei, almeno
per i primi dieci secondi.
Dave era a torso
nudo, aveva bende su tutto il corpo, graffi e un occhio nero, per non parlare
del segnaccio sulla guancia che gli aveva lasciato il maestro.
«Come… come ti
senti?»
«Come
mi sento? Come se mi avesse investito una carrozza.»
«Non bene,
allora…».
Non si dissero altro per un po’, poi Dave disse sommessamente: «Mi
dispiace.»
«Ti
dispiace? Per cosa?»
«Ti ho delusa. Ho perso, e per di più contro quel bellimbusto
presuntuoso. Immagino che ora non vorrai più vedermi.»
«Dave!» disse
Mandy con l’espressione di chi si sente ferito «Credevi davvero che fosse
necessario ridurti così solo per dimostrarmi qualcosa?»
«Ma…» cercò di dire Dave «Io credevo che tu pensassi che io
mi fossi dimenticato della nostra promessa. Credevo che dimostrarti quanto
fossi diventato forte sarebbe stato il modo migliore
per darti la prova che non fosse così.»
«Come
potevi pensare che la realtà fosse questa, Dave? Io non ho mai pensato nulla
del genere.»
«Cosa!? Ma… allora… perché eri così arrabbiata l’altro giorno?»
«E
me lo domandi? Avevi promesso di tenerti sempre in contatto con me, ma da
quando ho lasciato il villaggio tu non mi hai scritto
nemmeno una volta.»
«Che
storia è questa? Io ti avevo scritto una lettera subito dopo essere stato preso
come allievo dal maestro Regis. Ti avevo scritto che da quel momento in avanti
sarei stato sempre in viaggio, e che quindi avrei fatto fatica a scriverti
ancora.»
«Ma io… non ho mai ricevuto nessuna lettera firmata da te».
Ci pensarono
entrambi per qualche secondo, poi concordarono sul fatto che molto
probabilmente la lettera si era smarrita; capitava a volte, ma nella
concitazione del momento nessuno dei due ci aveva pensato.
«Che stupida che
sono stata.» disse Mandy asciugandosi una lacrima «Si vede che non sono
cresciuta neanche un po’ in questi tre anni.»
«No
Mandy, non devi dire questo. Tu non sei affatto una
stupida, e sei cresciuta molto. Sei diventata una ragazza bellissima,
corteggiata da tutti, ma nonostante tutto hai mantenuto intatto il tuo spirito
ribelle. Chi non è cresciuto sono io. Sono rimasto il sognatore tutto parole e
niente fatti del villaggio, e dovrei tornarmene a pascolare mucche invece che
stare qui a tentare di essere ciò che non potrò mai diventare.»
«Ora
sei tu a sbagliarti, Dave. Sei diventato un grande stregone, più grande di quanto io avessi mai immaginato. Sei forte e
coraggioso.
Però,
ecco… c’era qualcosa di strano in te oggi. Normalmente nei tuoi occhi vedevo
determinazione, vedevo passione per quello che facevi.
Oggi invece eri diverso, in te vedevo solamente voglia
di combattere. Ti confesso che mi hai fatto paura».
Dave alzò gli
occhi verso il soffitto, ripensando allo scontro appena finito.
«Io
non ho mai voluto male a nessuno. Il mio maestro dice sempre che quando si è
costretti ad usare le proprie conoscenze contro
qualcuno si deve tenere a mente che se si uccide lo si fa unicamente per
permettere a qualcun altro di vivere. Ma prima,
combattendo contro Alexander, ho sentito qualcosa di nuovo, che non avevo mai
provato prima. Volevo vincere, a qualsiasi prezzo.»
«Dicevi sempre che
quando saresti diventato uno stregone avresti usato la magia per fare del bene,
per aiutare quelli che soffrivano.»
«Ed
è quello che voglio ancora. Ciò che è successo oggi non si dovrà mai più
ripetere».
Dave si mise a
sedere, prese le mani di Mandy fra le sue e la guardò dritta negl’occhi.
«Ora
ti rinnovo la mia promessa, Mandy. Ti prometto che diventerò il più grande
degli stregoni, e che quando ci sarò riuscito tornerò
da te a chiederti di sposarmi.»
«E io ti prometto che ti aspetterò. Nel frattempo, cercherò
di non farmi più circuire da altre facce di bronzo».
La risata per la
battuta fu sostituita da un amorevole sguardo, ed entrambi provarono la
grandissima emozione del primo, vero bacio d’amore.
Poco dopo, Regis e Sakura erano già faccia
a faccia sul ring per dare il via all’ultima semifinale.
Entrambi avevano
tanto desiderato che si verificasse un simile evento,
da molto tempo aspettavano l’occasione di mettersi alla prova combattendo
faccia a faccia.
«Spero che Dave
ora stia bene.»
«Tranquilla, è
fuori pericolo.»
«Meglio così.»
disse Sakura con un sorriso soddisfatto «Se non altro, non ci saranno
preoccupazioni a sviare la tua attenzione.»
«A quanto sembra.»
«Maestra?» chiese
Elys, che come sempre assisteva da dietro l’arco di ingresso
«Come pensa che andrà questo incontro?»
«Sia Regis che Sakura posseggono il Sigillo degli Dèi. Non c’è alcun
dubbio, sarà uno scontro estremamente acceso».
Mentre la
principessa stava per procedere al solito rito, qualcosa turbò la quiete del
Grande Sacerdote di corte, meglio noto come il Mage Master, seduto dietro al sovrano assieme al maestro Sagis e ad una sacerdotessa di mezza età.
Le sferette di
vetro legate alla punta del bastone del Mage Master
per mezzo di alcune cordicelle presero a muoversi da sole, tintinnando
leggermente fra di loro.
Il vecchio le
guardò preoccupato, ed altrettanto fecero i suoi
compagni.
«Si sta
avvicinando qualcosa».
Appena iniziata la
battaglia i due contendenti si scontrarono immediatamente, facendo cozzare le
rispettive armi; lo scettro di Sakura, per quanto piccolo, era molto
resistente, ed erano poche le armi in grado di scontrarsi con la spada di Regis
senza subire danni.
«Ti sei fatto
imprimere anche tu il Sigillo degli Dèi, a quanto vedo.» disse Sakura
«A quanto sembra».
Si allontanarono,
e presero a tempestarsi di attacchi magici saltando da una parte all’altra con
agilità impressionante.
Neanche da
paragonare a tutti gli altri incontri del torneo; la loro prestazione era a dir
poco fenomenale, degna di una finale.
Regis era molto
bravo nell’usare la magia, ma forse aveva trovato un’avversaria in grado di
surclassarlo, almeno in questo frangente. Non per niente, Sakura era
considerata una leggenda vivente fra i maghi almeno quanto lui, e c’erano tutte
le premesse per una battaglia veramente entusiasmante.
Erano da poco
passate le cinque, e i primi bagliori rossastri del tramonto ormai imminente
gettavano un’atmosfera ancor più surreale.
Sakura era molto
veloce, ed era in grado di sparare un incantesimo dietro l’altro anche di
attributi completamente diversi, ma Regis era
altrettanto bravo nel generare barriere che lo proteggessero.
«Davvero niente
male, caro il mio Regis.» disse Sakura durante un nuovo scontro di forza
«E questo è solo
l’inizio.» rispose sarcasticamente lui allontanandola.
Il guerriero
generò quindi una seconda spada, fatta di luce, la stessa tecnica di Dave,
raddoppiando la sua pericolosità, ma anche Sakura aveva molte carte da giocare,
e a dispetto del passato decise di ricorrere alla sua migliore carta, quella
per cui era famosa.
Stringendo lo
scettro con entrambe le mani chiuse gli occhi, e poco
dopo la sfera brillò, mentre lei recitava strane parole in un linguaggio
arcano.
In pochi attimi,
dalla sfera uscirono due scie, una di aria e una di acqua, che assunsero ognuna
le fattezze di creature simili a giovani donne. Quella dell’acqua aveva le
classiche orecchie a forma di pinne, le dita palmate ed era raffigurata solo
dalla vita in su; l’altra, quella del vento, aveva
lunghissimi capelli chiari ed un vestito che sembrava fatto di vari tipi di
foglie e fiori terminante in una larga gonna.
«Quale onore.»
disse Regis «Il tuo potere più grande usato contro di me.»
«Mi
fa piacere che tu lo consideri un onore. Di solito le mie due amiche suscitano
tutt’altro effetto in chi se le ritrova di fronte.»
«Ma allora…» disse
Elys «Sakura è un’Invocatrice.»
«Una dei pochi.»
commentò Aria «Saper invocare gli spiriti della natura è una cosa estremamente complicata, e lei non solo ci riesce, ma ne
controlla due contemporaneamente. La sua fama è del tutto meritata».
Sakura saltò su di
un paletto, mentre i suoi due spiriti si lanciavano all’attacco.
Lo spirito del
vento poteva generare correnti d’aria che potevano
colpire Regis e perfino immobilizzarlo, serrandolo meglio di un fascio di
catene, quello dell’acqua invece scagliava delle piccole sfere che a contatto
con il suolo esplodevano, trasformandosi in una miriade di pugnali di ghiaccio.
In più, essendo spiriti, erano immuni a qualsiasi attacco fisico, e dovendo
scappare da loro Regis non aveva tempo di usare un incantesimo.
«Ehi,
Sakura. Non è molto onorevole mandare avanti i propri sottoposti e comandare
dalle retrovie!»
«Ognuno
usa il proprio stile, Regis! Lo diceva anche il maestro!»
«Più
che giusto! Quand’è così…».
Con un salto
acrobatico Regis scavalcò la barriera dei due spiriti e puntò diritto su
Sakura.
«Non devo fare
altro che colpire il comandante!».
Stava quasi per
riuscirci, quando dal terreno emerse una colonna di fuoco sulla cui cima vi era
un altro spirito, con le fattezza di una bambina, dai
capelli fiammeggianti e con grandi ali rosse.
«Che cosa…».
La nuova arrivata
sparò una serie di palle incandescenti, una delle quali colpì Regis e lo
scagliò lontano; quando il guerriero tornò in assetto, i tre spiriti avevano
fatto nuovamente muro davanti a Sakura.
«Scusa,
non credo di avervi presentati. Lei è lo spirito del fuoco.»
«Tre spiriti in
una volta sola!?» esclamò Elys «Sono questi dunque i
poteri del Sigillo degli Dèi!?»
«Altro che
sigillo.» rispose Aria «Questa è tutta farina del suo
sacco. Aspetta che si scateni, e allora ne vedrai di ben peggiori».
Il nuovo spirito
mise Regis decisamente a mal partito, ma nel contempo
gli fornì le condizioni necessarie a tentare un recupero.
Del resto, era una
delle regole principali del guerriero: se vuoi liberarti di più nemici, fai in
modo che combattano fra di loro.
Quando gli spiriti
di Acqua e Fuoco lanciarono i loro attacchi, lui infilzò entrambi i globi con una le sue due spade, spedendoli poi invertiti contro di
loro. Colpito dal fuoco, lo spirito dell’acqua evaporò, mentre quello del fuoco
si spense come un fiammifero bagnato.
Rimase solo Vento,
che tentò di imbrigliare il nemico con le sue catene di Aria,
ma Regis ne imbrigliò una avvolgendola attorno alla sua spada e la
lanciò con forza contro Sakura, che si ritrovò immobilizzata dalle sue stesse
tecniche, e visto che per mantenere il controllo sugli spiriti serviva grande
concentrazione, in poco tempo Vento si dissolse.
«A quanto pare ti
ho colta alla sprovvista, Sakura.» disse Regis vedendo
la sua avversaria sollevata in aria con le braccia immobilizzate dalla catena
«Sei
un po’ troppo sicuro di te, caro il mio Regis. In questo non sei cambiato.»
«Forse.
Forse è così. Ma del resto, non sono io quella sospesa a cinque metri d’altezza
coi polsi immobilizzati.»
«Non per molto».
Regis conosceva
molto bene Sakura, avendo studiato insieme a lei
presso lo stesso maestro, ma ciò che la ragazza fece subito dopo lo lasciò
senza parole: la tenaglia del suo scettro si aprì, la sfera si illuminò e dal
nulla comparve una lama larga venti centimetri e alta due o più, una spada
gigantesca di cui lo scettro era diventato l’impugnatura.
Con un movimento
repentino riuscì a tagliare gli anelli che la imprigionavano e piombò su Regis,
che benché inizialmente immobile per lo stupore riuscì a
saltare indietro per schivare.
Sakura maneggiava
quell’arma con incredibile agilità, benché di corporatura fosse piuttosto
minuta. Regis cercò di difendersi da un fendente con la sua seconda spada,
quella fatta di luce, ma andò in pezzi dopo soli due
secondi.
«Ehi, questa non
me l’aspettavo neppure io. Dove hai imparato questo trucchetto?»
«Autodidatta».
Alla fine di
tutto, l’incontro sembrava giunto in una fase di stallo.
All’improvviso, qualcosa giunse a rovinare l’atmosfera
carica di tensione che si era venuta a creare.
Uno strano
terremoto fece tremare l’intero stadio, costringendo i due combattenti a
fermarsi.
«Che diavolo è
stato?» domandò Sakura.
Anche Regis se lo
domandava, non sapendo cosa dire, ma un secondo dopo la sua spada dalla testa
d’aquila prese a tremare sempre più forte.
«Oh, mio dio.»
«Che succede?»
domandò Aria, che intanto era uscita a sua volta nell’arena assieme ad Elys
«Fa sempre così
quando avverte un pericolo imminente».
Il guerriero
lasciò che fosse la spada a guidare la sua mano, e questa, dopo essersi
caricata di luce, puntò diritta verso la Spada di Gigabrius,
generando un fascio di luce che andò ad illuminare
l’altare.
«È lassù.»
«Lassù?» disse
Elys «Io non vedo niente».
Anche il Mage Master non era tranquillo, le sferette del suo bastone
tintinnavano per forte di prima.
«È qui».
La macchina del
fumo e dei fuochi artificiali usati per l’apparizione della spada entrò in
funzione senza che nessuno l’avesse attivata, nascondendo completamente
l’altare alla vista dei presenti.
«Ma che accidenti succede?» chiese Elys.
Gli addetti si
affannarono per cercare di disattivare l’apparecchio, e quando finalmente ci
riuscirono in cima alla scalinata comparve, dal fumo,
la figura minacciosa di un uomo alto e magro, con lunghi capelli neri formanti
una lunga frangia a destra, la pelle insolitamente pallida e le orecchie
leggermente a punta. Indossava un elegante abito nero con la camicia bianca, un
lungo giaccone rosso che gli arrivava alle caviglie, un paio di guanti sempre
neri e occhiali simili a quelli portati un tempo da Regis, che riflettevano la
luce.
La sua espressione
era estremamente malevola, e non appena si palesò alla
presenza di tutti la spada di Regis tremò ancora più forte.
«Ma chi diavolo è?» disse Sakura mentre tutti gli occhi si
concentravano su di lui
«Chiunque sia è estremamente pericoloso.» disse Regis, che poi pensò fra sé
“Le vibrazioni della mia spada non sono mai state così intense. Potrebbe essere più forte persino di Seth”.
Il Mage Master era il più spaventato di tutti.
«Valon.» disse stringendo forte il suo bastone «Quello è Valon».
L’uomo in rosso
ghignò malignamente, mettendo in mostra un paio di affilatissimi canini.
«Buonasera,
signori. Spero di non disturbare. Ho forse interrotto qualcosa di importante?».
FINE PRIMA PARTE
Nota dell’autore.
Eccomi qua!
Accidenti, quanto lavoro di questi tempi. Ho scritto in fretta questo capitolo
perché ero ansioso di concludere la prima parte della
fan fiction, che potremmo praticamente definire l’introduzione a quella che
sarà la trama generale.
Salvo particolari
imprevisti o ripensamenti, Millennium War: Rebirth dovrebbe essere strutturata
in quattro parti, ognuna di diversa lunghezza, ma si tratta ancora di un’ipotesi,
potrebbero anche essere di più.
Voglio ringraziare
tutti quelli che hanno letto fino ad ora, e voglio ringraziare in particolare i
miei affezionati recensori, Selly e Akita.
Grazie infinite per
l’affetto e la disponibilità dimostrati. Spero che continuerete a seguire
questa storia con la stessa passione di sempre.
Quell’oscuro individuo seguitava a rimanere in piedi
davanti all’altare, guardato con stupore da tutti i presenti.
«Qualcuno di voi
lo conosce?» domandò Sakura
«No.» rispose Aria
«Mai visto prima. E tu Regis?»
«È nuovo anche per
me. Ma chiunque sia, è estremamente pericoloso.»
«Per chi non mi
conosce, permettetemi di presentarmi!» disse quello sfoggiando la sua
minacciosa dentatura «Il mio nome è Valon!».
Il Mage Master,
sorreggendosi al suo bastone, si alzò dalla seggiola e si affacciò dal balcone.
«Che cosa sei
venuto a fare tu qui? Tu sei stato esiliato da questo regno!»
«Mage Master.
Piacere di rivederti. Piuttosto attaccato alla vita, devo dire. Quanti sono,
centodieci?».
La mancanza di
rispetto di Valon verso la massima carica religiosa dell’intero regno era
qualcosa di a dir poco abominevole, e tutti risposero con sdegno ad un simile
comportamento. Poi fu il turno del re per venire additato.
«Immagino il consiglio dei maghi non abbia mai
fatto parola di me presso le loro graziosissime maestà. Vogliate perdonare
questa mia visita così improvvisa e, forse, inopportuna, ma vi assicuro che mi
intratterrò solo il minimo indispensabile.»
«Non hai ancora
risposto alla domanda del Mage Master! Per quale motivo sei qui?»
«Ah, tu devi
essere il famoso Regis. È un onore insperato. Ho sentito tanto parlare di te, e
speravo di incontrarti un giorno faccia a faccia. Ero ansioso di vedere in
azione quelle capacità sovrumane per le quali sei famoso. E già che siamo
qui…».
Con espressione
ancor più malevola Valon schioccò le dita, e subito dopo da entrambi gli archi
di ingresso uscirono una decina di esseri simili ad enormi bidoni della
spazzatura, alti dai due metri ai due metri e mezzo; c’era una piccola fessura
fra il corpo e il “coperchio”, lungo la quale correva un piccolo occhio rosso;
avevano braccia cilindriche con mani di tre dita, in una stringevano una grossa
spada ricurva, in un’altra un cannone in miniatura uguale a quello che Regis si
era fatto costruire dal maestro Yuro. Non camminavano, si spostavano levitando
a pochi centimetri da terra, e malgrado i loro corpi metallici si muovevano a
grande velocità, tanto che impiegarono solamente pochi secondi a circondare
completamente i quattro amici.
La sola vista di
quelle strane creature bastò a diffondere una certa paura fra gli spettatori,
ma tutti confidavano ancora nella protezione degli scudi per evitare qualsiasi
coinvolgimento.
«E questi cosa
sarebbero?» chiese Sakura alzando la sua spada «Amici tuoi, Regis?»
«Figurati, non
frequento certe compagnie.»
«Ehi voi due!»
disse Elys «Avete finito di far conversazione? Se non ve ne siete accorti,
questo non è né il luogo né il momento adatto».
Regis e gli altri
partirono all’attacco in quattro differenti direzioni, ed ognuno di loro se la
cavò egregiamente nel respingere quei robot, considerando anche il fatto che,
pur essendo rapidi nei movimenti, in battaglia erano alquanto goffi, e al contrario
degli altri che Regis aveva già incontrato non erano protetti da alcuno scudo
protettivo: bastava un affondo per ridurli al silenzio.
«Beh, è tutto
qui?» disse Sakura dopo aver sistemato l’ultimo «Che razza di avversari
sarebbero questi?».
Malgrado i suoi
uomini fossero stati decimati, Valon rise sguaiatamente.
«Complimenti,
Regis! È stato più divertente del previsto!».
Accanto a lui,
come saltando dal piazzale antistante l’arena, sopraggiunsero altri quattro
esseri meccanici; questi, a differenza dei primi, avevano fattezze più umane,
vesti lunghe e variopinte simili a quelle dei monaci, ma facce di metallo. Due
impugnavano delle lance, due invece quelle strane armi sputa fuoco, che presero
a scaricare su Regis e i suoi amici.
Sakura si mise in
mezzo e generò uno scudo abbastanza potente da proteggerli, ma altrettanto non
si poteva dire per le barriere a difesa degli spalti, infatti furono molti i
proiettili che, rimbalzando sullo scudo di Sakura, andarono a ferire gli
spettatori, fra i quali dilagò il panico.
Tutti correvano
spaventati verso le uscite, calpestandosi e schiacciandosi fra di loro
nell’isteria generale.
«Beh, per oggi mi
ritengo soddisfatto!» proseguì Valon «Non abbiate a che temere, ci rivedremo
presto!».
Sotto di lui e dei
suoi quattro soldati comparve un grande cerchio magico, ma prima che questi
prendesse il volo portando via con sé i propri passeggeri, Valon recuperò
dall’altare la Spada
di Gigabrian.
«Ah, a proposito!
Questa viene via con me! Non vi dispiace, vero?»
«Ha preso la
spada!» disse il re «Fermatelo!».
Un drappello di
soldati corse su per la scala al sicuro di grossi scudi metallici, ma prima che
potessero raggiungerlo Valon si era già alzato in aria, ben protetto dal fuoco
dei due robot.
«Prima che mi
dimentichi! Godetevi le ultime ore di vita di questa città! Gliene restano
davvero poche!».
Regis, Sakura e le
altre non poterono fare altro che stare a guardare mentre Valon se la svignava
portandosi via il tanto ambito premio finale, ma ciò che più terrorizzò i
quattro amici furono il suo misterioso quanto raccapricciante invito.
«Che cos’avrà
voluto dire?» domandò Elys.
A darle la
risposta furono una serie di rumori assordanti che giungevano da lontano,
accompagnati da altre piccole scosse telluriche. Lo sguardo di Regis si fece
cupo e spaventato oltre ogni limite.
«Temo di saperlo».
Con quattro balzi
salì la scalinata dell’altare, e quando fu in cima i suoi occhi si caricarono
di terrore.
«Oh, Cristo».
Molti altri lo
raggiunsero, e fra questi c’erano anche Re Feryr e il professor Sagis,
quest’ultimo sorretto da uno dei suoi discepoli, ma tutti ebbero la medesima
reazione nel vedere lo spettacolo che si stagliava davanti ai loro occhi.
Qerin, la bellissima Qerin, bruciava. Colonne di fumo e
fiamme si ergevano in più punti, case e palazzi un tempo magnifici erano
ridotti a cumuli di macerie; le strade erano percorse da migliaia di uomini
terrorizzati che fuggivano da quei cosi fluttuanti o dalle macchine dalle
tuniche variopinte correndo in tutte le direzioni, e molti cadevano sotto i
colpi delle loro terribili armi.
Qua e là si
vedevano crateri di varia grandezza, per le strade, ma anche fra le rovine
degli edifici.
Mentre ancora
Regis e gli altri cercavano di riaversi dall’angoscia per ciò che stavano
guardando, un terremoto più forte degli altri fendette la terra, e l’intera Via
Agraria sprofondò in una immensa voragine, generando un polverone che avvolse
mezza città.
Da esso uscì un
altro essere metallico, molto più grande degli altri, tanto che anche quando fu
uscito dalla buca, come sospinto dalle fiamme celesti che partivano dalle tre
lunghissime protuberanze dietro la sua schiena, i palazzi più alti a malapena
gli arrivavano alla vita. Era di colore blu intenso, aveva gambe e braccia
lunghissime; erano piuttosto sottili, ma le braccia, dal gomito in giù, erano
di forma ovale, simili a due grandi scudi, e terminavano in tre lunghe dita
simili ad artigli. Il busto era leggermente tondeggiante, mentre grosse placche
alte e sottili proteggevano l’innesto delle braccia. La testa, sporgente
all’indietro, affondava molto nelle spalle, e la parte frontale era occupata
quasi interamente da una enorme semisfera che brillava di rosso.
Passarono pochi
secondi ed accadde la stessa cosa nella grande piazza d’armi di fronte al
quartier generale dell’alto comando, ma questa volta il mostro che ne uscì, di
colore bianco sporco e grande come il primo, era addirittura in grado di
volare. Le sue gambe triangolari finivano alle ginocchia, e la parte posteriore
di queste ultime non erano altro che degli immensi scarichi da cui uscivano
quelle fiamme azzurre; le braccia erano grandi e grosse ed erano provviste
ognuna di una mano prensile del tutto simile a quella di un uomo; in una
stringeva un grande spadone lungo diversi metri, nell’altra invece una di
quelle armi sputafuoco con ben sei canne da cui poter sparare disposte su tre
gruppi di due canne ognuno. Anche la testa ricordava vagamente quella di una
persona, con quegli occhi verde brillante, ma il resto del volto era coperto
come da una visiera e da un enorme corno triangolare che si protendeva in
avanti partendo dal mento e dai due lati della fronte.
Il loro arrivo non
fece altro che aumentare ancor più il terrore dei cittadini, soprattutto quando
entrambi cominciarono a far fuoco su tutto quello che vedevano, il secondo con
la sua arma il primo con terribili proiettili che, sparati sulla sua schiena,
viaggiavano secondo traiettorie imprevedibili, ma che una volta colpito
l’obiettivo generavano esplosioni tali da far sembrare un’inezia l’incantesimo
di Fuoco più efficace, ed interi quartieri diventavano cenere.
«Dobbiamo fare
qualcosa!» disse Aria quando furono tutti all’esterno dello stadio «O entro
un’ora Qerin sarà ridotta ad un mucchio di rovine!»
«Ma cosa possiamo
fare contro dei mostri simili?» domandò il re «Sono enormi.»
«Con la potenza di
fuoco adatta sarebbe possibile abbatterli.» ipotizzò il generale Grandall,
comandante in capo dell’esercito reale «Ma bisognerebbe disporre di una postazione
di tiro ottimale.»
«La terrazza
panoramica!» esclamò un tenente «Da lassù si domina l’intera città!»
«Ma non ci sono
cannoni sulla terrazza.»
«Si sbaglia, mio
re. Qualche giorno fa una ventina di pezzi di artiglieria pesante sono stati
portati sulla terrazza in vista dei festeggiamenti per la festa di fine
estate.»
«È sicuro che
funzionerà?»
«Possiamo solo
tentare. Inoltre la collina su cui sorge la terrazza ha una sola via d’accesso
molto stretta, facile da difendere. Con il suo permesso, convoglierò lì tutte
le armate a mia disposizione.»
«Un momento!»
irruppe Elys «E ai civili non ci pensate? Se cannoneggiate la città metterete a
rischio la vita di molte persone!»
«Ha ragione la
ragazza.» disse Grandall «Dobbiamo far confluire tutti gli abitanti in un unico
punto della città, in modo che siano al sicuro.»
«La terrazza
potrebbe essere un ottimo rifugio.» ipotizzò Aria «Essendo il punto più alto, è
anche quello dove saranno indubbiamente al sicuro.»
«Ottima idea.»
disse il tenente «Ma occorrerà comunque del tempo per raggiungere le batterie e
prepararle a fare fuoco.»
«Per quello non
c’è problema.» rispose il generale «I soldati reali impegneranno il nemico
dandoci quel tempo. La gendarmeria locale invece dovrà mettere in salvo il
maggior numero possibile di civili.»
«Non sia così
precipitoso, generale.» intervenne Regis «Questi non sono nemici comuni, di
quelli con cui siete abituati a combattere.»
«Il valoroso Regis
che ha paura. Se non lo avessi visto coi miei occhi non ci avrei creduto.»
«Non è questione
di paura. Questi robot sono equipaggiati con armi da fuoco, pistole e
mitragliatrici. Se mandate i vostri uomini allo sbaraglio finiranno
massacrati.»
«Non saranno certo
un mucchio di stupide bambole meccaniche a fare le scarpe ai miei ragazzi. Ma
se davvero siete così preoccupato che non possano farcela, potreste sempre
farci dono della vostra collaborazione».
Sakura si avvicinò
a Regis e guardò verso il robot volante.
«Quello non è
adatto alle cannonate.»
«Sì, hai ragione.
È troppo veloce nei movimenti. Vorrà dire che ce ne occuperemo noi due.»
«Per quel che
riguarda l’altro, bisognerà attirarlo vicino alla terrazza per poterlo
colpire.» disse Aria
«Per quello non
c’è problema.» rispose Regis «Ci penserò io.»
«E io intanto mi
occuperò di quell’altro.» disse Sakura
«Verrò a darti
manforte appena mi sarà possibile.»
«E chi ha detto
che ne avrò bisogno?»
«Ora basta
parlare, passiamo alle vie di fatto!» irruppe il generale «Maestà, col Vostro
permesso darei il via all’operazione.»
«Permesso
accordato, Generale. Proceda pure.»
«Agli ordini!
Tenente, voglio la dodicesima e la tredicesima compagnia sulla terrazza
panoramica entro quindici minuti, e tutte le compagnie di arcieri e artiglieri
che abbiamo!»
«Sissignore!»
«Invito la
signoria vostra a mettersi in salvo. I miei uomini vi scorteranno fino alla
terrazza».
Regis e Sakura
presero due cavalli dalle stalle dell’arena; prima di partire, Regis si rivolse
a Elys e Aria.
«Andate anche voi
alla terrazza. Sarà più sicuro, e avranno bisogno di voi.»
«D’accordo.»
rispose Aria «Ma fate attenzione, mi raccomando.»
«Tranquilla.»
disse Sakura «Lo terrò d’occhio io».
Fecero per
andarsene, ma prima che potessero lasciare il cortile Regis si sentì chiamare;
era la principessa, che correndo verso di lui gli porse il suo ciondolo d’oro.
«Tenetelo. Vi
porterà fortuna.»
«Vi ringrazio,
principessa.» rispose Regis mettendoselo al collo insieme al suo pendente a
forma di stella «E vi garantisco che prima di sera verrò a restituirvelo».
Elys si avvicinò a
Sefy e la portò via con sé, assicurando il suo amico che l’avrebbe protetta
anche con la vita, quindi, dopo averla salutata, Regis e Sakura alla fine si
allontanarono, seguiti a breve da tutti i soldati reali lì presenti.
Restarono solo
alcuni reparti di gendarmi, che si adoperarono per far uscire gli spettatori
dallo stadio senza ulteriori problemi. Fra la gente c’erano anche Mandy e Dave;
quest’ultimo si era un po’ ripreso dal suo ultimo incontro ma era ancora
visibilmente provato, tanto che Mandy lo sorreggeva per aiutarlo a stare in
piedi, sebbene il giovane mago facesse di tutto per dimostrare di non averne
bisogno.
Fuori dal portone
delle mura che avvolgevano l’arena regnava la più totale confusione; i
gendarmi, altoparlanti alla mano, invitavano tutti a raggiungere la terrazza
panoramica il più presto possibile.
I due ragazzi
cercarono di ottenere qualche spiegazione in più su quello che era successo,
anche alla luce della vista di quelle due macchine gigantesche che stavano
radendo al suolo la città, ma nessuno aveva voglia e tempo di parlare,
l’importante per tutti era solo riuscire a salvarsi la pelle.
I civili venivano
raccolti in gruppi di trenta o quaranta persone che poi prendevano la via della
collina scortati da un gruppo di dieci gendarmi più uno stregone, che formava
attorno al convoglio una barriera protettiva per garantire un altro po’ di
sicurezza in quell’inferno di fiamme, macerie ed esplosioni.
Origliando un po’
di qua e un po’ di là Mandy riuscì finalmente a scoprire cosa fosse successo,
dal furto della spada alla strategia adottata dalle truppe reali per far fronte
alla minaccia, e quando Dave sentì di tutte le persone ancora disperse per
Qerin che stavano rischiando la vita seppe subito cosa doveva fare.
«Vado anch’io.»
«Come!?» disse
Mandy «Ma Dave, sei ancora convalescente.»
«C’è gente che ha
bisogno di me laggiù. Devo fare la mia parte.»
«Questo non è il
torneo, Dave. Potresti anche morire, lo sai?»
«Lo so benissimo,
Mandy. Non è certo la prima volta che mi trovo ad affrontare situazioni
simili».
Incapace di
trovare un altro modo per tentare di fermarlo, Mandy si aggrappò violentemente
a lui abbracciandolo con tutte le sue forze, un gesto che lasciò Dave immobile
come una statua.
«Dave, non
andare.» gli disse in lacrime «Non sopporterei di saperti morto».
Il ragazzo si
sforzò di mantenere l’autocontrollo; per un istante pensò di contraccambiare
l’abbraccio, ma poi prese Mandy per le spalle e la guardò dritta negl’occhi.
«Lo hai detto
anche tu. Io volevo diventare un mago per aiutare le persone. Non posso
rimanere indifferente nel vedere tanta gente che soffre. Se c’è una possibilità
di salvare anche una sola vita, dentro di me sento di dover fare di tutto per sfruttarla.
Tu mi capisci, non è vero Mandy?».
Lei inizialmente
non rispose, ma poi si asciugò le lacrime e cercò di sorridere.
«Certo che ti
capisco. Ma ho paura lo stesso.»
«Anche io ho
paura, Mandy. Il maestro dice che sul campo di battaglia quelli che non hanno
paura sono i primi a morire, perché non sanno mai quando fermarsi. Una volta
avevo paura di morire, ma ora sento di averne anche un’altra.»
«Quale?»
«Di non poterti
più rivedere, Mandy».
Mandy, malgrado la
situazione, si sentì al settimo cielo. Dave era sincero, glielo si leggeva in
faccia.
«Tu… dici davvero?
Lo pensi veramente?»
«Con tutto me
stesso. E ti prometto che ritornerò».
Lei allora lo
lasciò andare, ma non prima di averlo costretto a concederle un altro bacio.
«Dimmelo di nuovo.
Promettimi che ritornerai.»
«Sul mio onore».
Con questa
promessa Dave se ne andò, mentre Mandy fu invitata dai gendarmi ad aggregarsi
all’ultimo gruppo di civili per raggiungere la collina.
Spulciando in tutte le piccole armerie disseminate in giro
per la città, i soldati delle truppe reali erano riusciti a mettere le mani su
alcuni pezzi di artiglieria leggera, soprattutto piccoli cannoni d’ottone da
due libbre e i cosiddetti “teste di toro”.
Le teste di toro
erano lunghe canne di bambù piene di polvere da sparo e pallettoni; si sparava
per mezzo di una levetta, che una volta abbassata rilasciava un contrappeso a
cui era legata una miccia incandescente; questa, abbassandosi, penetrava in un
minuscolo forellino, la polvere esplodeva e i pallettoni partivano a razzo,
disperdendosi in un raggio di parecchi metri.
L’unico difetto
delle teste di toro era di essere delle armi monocolpo, dal momento che il
bambù andava in pezzi subito dopo lo sparo, e a dire la verità non erano
neanche delle armi tanto precise, ma quando si doveva affrontare un nemico
sconosciuto ogni espediente era lecito.
Quegli esseri
metallici continuavano ad avanzare in ogni strada, accanendosi su chiunque
capitasse loro a tiro, e i soldati avevano l’ordine tassativo di guadagnare più
tempo possibile, impedendo in qualunque modo al nemico di raggiungere la
terrazza panoramica.
In quel momento la
situazione più nera la stavano passando gli uomini del quarto reggimento della
fanteria d’assalto, impegnati in battaglia lungo la strada maestra nei pressi
del colle Marziano. Protetti da sacchi di sabbia e macerie cercavano di
sfruttare al massimo le armi a loro disposizione, due cannoni d’assalto e un po’
di teste di toro, che però diventavano sempre più esigue.
I nemici erano sia
le macchine umane sia quelle a forma di bidone, e malgrado i colpi ne facessero
scempio quelli continuavano ad avanzare, camminando sopra i loro cadaveri.
Appostato dietro
le barricate, il capitano di quell’unità comunicava con i propri superiori per
mezzo di uno speciale cristallo magico in grado di trasmettere i suoni; era
sufficiente pensare ad una o più persone, e se queste ne possedevano uno quelli
subito entravano in contatto fra di loro.
«Quarto reggimento
di fanteria chiede rinforzi immediati! Abbiamo poche munizioni! Il nemico
avanza! Non riusciremo a tenere la postazione ancora a lungo!»
«Quarto
reggimento» rispose dall’altra parte l’alto comando «Tutte le unità a nostra
disposizione sono già impegnate. Mantenete la posizione fin quando vi sarà
possibile. Ripeto, mantenete la posizione ad ogni costo!».
In quella un
soldato fece per prendere una nuova testa di toro, ma quando allungò la mano al
posto del mucchio trovò solo il vuoto.
«Oh, merda.
Signore! Abbiamo esaurito le teste di toro!»
«Ci restano
solamente cinque proiettili per i cannoni!»
«Diamine!» urlò il
capitano gettando via il cristallo «Tieni la posizione, dicono! Ma come cazzo
sperano che faccia?».
Alzando gli occhi,
però, il capitano intravide una speranza; la torretta circolare di un palazzo
signorile pendeva pericolosamente dopo aver subito un colpo di striscio, e con
una buona dose di fortuna poteva ancora permettere di salvare la situazione.
«Soldati!» urlò
sguainando la spada «Preparatevi alla sortita!» poi si rivolse ai cannonieri,
in procinto di sparare il loro ultimo colpo «Voi, puntate su quella torre!».
Girare la pesante
macchina da guerra, sollevarne la canna e ricalibrare il tiro portò via molto
tempo, e intanto le macchine si avvicinavano sempre più.
«Cannone pronto,
capitano!»
«Fuoco!».
Il colpo centrò la
torre in pieno poco sopra la base e la mandò in pezzi proprio mentre i nemici
ci stavano passando sotto, finendo così travolti dalle macerie; molti di loro
morirono, altri si salvarono, altri ancora riportarono gravi danni.
«All’attacco!».
Urlando per darsi
forza i soldati uscirono dai loro nascondigli e si lanciarono sui nemici mentre
questi erano ancora disorientati.
Erano abituati a
combattere contro ogni sorta di avversario, quindi non avevano paura ad
attaccare bersagli sconosciuti, soprattutto se abbatterli si rivelava semplice
quanto avere la meglio su un avversario comune; l’unico inconveniente erano i
loro corpi metallici, difficili da trapassare, ma questo non era un problema se
si poteva contare su delle buone spade.
E così, seppur con
grande fatica e un buon numero di morti e feriti gravi, alla fine le macchine
vennero annientate, ma fu necessario ucciderle tutte perché rifiutarono di
ritirarsi, ma per i soldati quello fu comunque un buon momento per esultare.
«Non è ancora
finita.» disse il capitano riportando la disciplina «Raccogliamo i feriti e
raggiungiamo la terrazza. Avranno bisogno di tutto l’aiuto possibile».
La terrazza panoramica era un posto assolutamente
magnifico; affacciata quasi sulla cima di una collina naturale, offriva una
vista della città assolutamente senza pari, dai fori reali al parco degli
ulivi, come neanche il palazzo reale avrebbe saputo fare.
A dire il vero non
vi erano tre terrazze, non una sola, disposte una sopra l’altra su tre diversi
livelli: la prima era occupata dai tavoli di un caffè, la seconda dallo spazio
per un’orchestra, mentre la terza, quella più alta, era adibita esclusivamente
a luogo di svago, con le sue panchine e la sua bella staccionata bianca. A
tutte e tre si accedeva per mezzo di un sentiero non molto largo che correva
tutto attorno alla collina descrivendo una spirale e che proseguiva anche dopo
la terza terrazza, raggiungendo una piccola torre circolare situata proprio in cima;
sulla cima di quest’ultima era posto un cannone, che ogni giorno sparava un
colpo a salve per annunciare mezzodì, l’ora di mettersi a tavola, e la sesta
ora pomeridiana, quella in cui si abbandonavano la maggior parte dei luoghi di
lavoro per fare ritorno a casa.
Quei luoghi che in
passato, soprattutto la domenica, traboccavano di felicità e di voglia di
divertirsi erano ora affollati di gente terrorizzata che assisteva impotente
alla distruzione della loro bellissima Qerin per opera di quelle macchine
misteriose e terribili.
I soldati però
erano pronti a difendere la città con qualsiasi mezzo, ma c’era un piccolo
problema.
«E questi che
diavolo sarebbero?» tuonò il generale Grandall vedendo solamente dieci cannoni
affacciati dal parapetto «Dove sono gli altri pezzi di artiglieria!»
«G… Generale…»
balbettò il soldato con cui se la stava prendendo «Il fatto è che… i
festeggiamenti prevedevano di sparare da due livelli diversi di altezza. Gli
altri cannoni si trovavano… sulla seconda terrazza.»
«Sulla seconda
terrazza!? Già sparare da qua sarà un’impresa, come sperate di beccare quei
cosi da là sotto?»
«Gli uomini stanno
portando quassù i cannoni della seconda terrazza il più velocemente possibile.»
«E che cosa
aspettano, un invito scritto? Si muovano!»
«S… sissignore!»
«Chiamate Regis!»
disse poi rivolto al soldato col cristallo di comunicazione «Ditegli di farci
guadagnare un po’ di tempo!»
«Subito!»
«Signore!»
intervenne un altro soldato «I battaglioni quindici e diciotto sono stati annientati,
il ventisette e il trenta sono in rotta e stanno ripiegando!»
«Merda! Dove
diavolo è la cavalleria?»
«I reparti di
cavalleria sono rimasti isolati. Combattono il nemico nei pressi del comando
militare».
Quasi a voler
chiedere un intervento del cielo il generale guardò in alto, e fu così che si
accorse di una enorme pila di grossi mattoni posizionati proprio sopra la
strada di accesso, poco prima che questa raggiungesse la terrazza, su di una
piccola spianata.
«E quelli cosa
sono?»
«Materiale per l’innalzamento
della torre superiore.» rispose un sottufficiale «I lavori sarebbero dovuti
partire domattina. Qualcosa non va’, signore?»
«Mi è appena
venuta un’idea folle. Trovatemi uno stregone.»
«Subito».
Con la sconfitta del battaglione destinato a proteggere la
loro fuga, gli abitanti della zona residenziale del colle Luvanario erano
rimasti completamente scoperti all’attacco degli assalitori, che senza alcun
riguardo per donne e bambini sparavano a bruciapelo sulla folla in fuga. I gendarmi
facevano del loro meglio per trattenerli, ma erano unità inesperte, del tutto
impreparate ad una simile situazione.
Una famiglia di
cinque persone, padre, madre, figlio maggiore, figlia un po’ più piccola e un
neonato, stava fuggendo disperatamente inseguita dalle macchine, quando la
bambina inciampò inavvertitamente su di una pietra dismessa ed inciampò.
«Alycia!» gridò la
madre.
La piccola cercò
di rialzarsi, ma quando vide uno dei mostri a bidone sopra di lei con la spada
alzata restò immobile per la paura. All’ultimo secondo però un globo infuocato
centrò in pieno il mostro, uccidendolo, e un secondo dopo Dave si parò in sua
difesa.
«Scappa!».
Lei non se lo fece
ripetere e corse via insieme al resto della sua famiglia mentre le macchine spostavano
la loro attenzione verso il nuovo arrivato, che le guardò con aria di sfida.
«Fatevi avanti.
Pagherete per aver ucciso degli innocenti!».
Dave se la cavò
egregiamente nel tenere loro testa, ma la verità era che faceva la voce grossa
ostentando una forza che non aveva; le conseguenze dello scontro con Alexander
erano ancora lungi dall’essere lasciate alle spalle, ed il suo fisico ne
risentiva.
Riuscì a
distruggerne una decina, ma poi il Sigillo degli Dèi cominciò nuovamente a
perdere energia, facendo stancare il ragazzo molto velocemente.
“No… non posso
arrendermi adesso…”.
Prima che potesse
cercare di riaversi un proiettile lo ferì ad una spalla, ma il colpo fu
sufficientemente potente da spedirlo a terra.
«Maledizione!»
disse tenendosi la ferita «Il maestro ha ragione. Se ti prendono fanno male».
Vedendosi puntare
nuovamente l’arma contro pensò che fosse finita, ma in quella uno stormo di
kunai piovve dal cielo, accompagnato da una voce famigliare.
«Tempesta
dell’agonia!».
Il robot
assalitore e molti suoi compagni esplosero come palloni, e subito dopo davanti
a Dave comparve un’aggraziata figura scura.
«Signorina Lsyn!».
Le altre macchine
cercarono di contrattaccare, ma un elfo dai lunghi capelli neri arrivò loro
alle spalle brandendo uno stocco lungo ed acuminato e li trapassò tutti quasi
al centro dei loro corpi metallici con agilità e grazia senza pari, fermandosi
proprio davanti a Lsyn e Dave, inginocchiato, con gli occhi chiusi e l’arma
ancora sollevata.
«Mh.» disse vedendo
i corpi dei suoi nemici «Si vede che sono fuori allenamento. Questo affondo è
stato poco preciso.»
«Tijorn, sarebbe
tutta qui la tua leggendaria abilità con lo stocco? Ho visto nani più capaci.»
«Fai pure
dell’ironia. Meglio un colpo ben assestato che un gran spreco di coltelli con
la speranza di fare centro».
Tijorn medicò la
ferita di Dave con un unguento ricavato dalle erbe, poi lui e la sorella
pretesero doverose spiegazioni per quei mostri metallici che se ne andavano a
spasso per la città dopo essere sbucati dai crepacci nel terreno.
«Crepacci!?» disse
Dave
«Proprio così.»
rispose Tijorn «Noi ne abbiamo visto uno, ma sembra che ne siano comparsi altri
in varie parti della città quasi nello stesso momento. Lsyn si è calata al suo
interno, ed è stata attaccata da quei mostri, che poi hanno cominciato ad
uscire improvvisamente come se qualcuno li avesse chiamati.»
«Chiamati dici?
Forse è stato quel tipo di cui parla la gente. Quel Valon.»
«Hai detto
Valon!?» esclamò l’elfo sentendo quel nome «Sei sicuro che si chiamasse proprio
così!?»
«Sicurissimo.
Perché? Lo conoscete?»
«Puoi scommetterci
che lo conosciamo. E se davvero c’è Valon dietro a tutta questa storia, prevedo
guai estremamente seri.»
«Il maestro Regis
è andato ad affrontare uno dei due robot più grandi. Credo sia quello con le
gambe.»
«Quello con le
gambe, eh?» commentò Lsyn con una strana luce negl’occhi «Buono a sapersi».
Senza dire altro
spiccò un salto ed atterrò su di un tetto, da cui riusciva a vedere
distintamente il robot in questione che continuava imperterrito a camminare per
Qerin seminando distruzione dovunque passasse, coi suoi proiettili volanti, le
sue braccia enormi e il suo raggio incandescente.
«Lsyn, che vuoi
fare?» le disse suo fratello
«Non posso certo
permettere a quella primadonna di prendersi tutta la gloria. Come dice il
nostro proverbio, la gloria è il pane delle spie!»
«Al solito.» disse
l’elfo appena Lsyn se ne fu andata «Sembra una bambina in un negozio di
bambole.»
«E noi ora cosa
facciamo, signor Tijorn?»
«Le strade
brulicano ancora di quei cosi. Sarà meglio fare un po’ di piazza pulita.»
«D’accordo».
Facendosi strada fra i nemici a colpi di spada, Regis
arrivò poco distante dal suo bersaglio, che in quel momento era impegnato a seminare
distruzione lungo la Via Agraria,
poco distante dal gigantesco cratere dal quale era sbucato.
Sceso da cavallo,
era rimasto un istante a guardarlo, domandandosi cosa fosse e per quale motivo
si trovasse lì, in un mondo che decisamente non gli apparteneva, poi sfoderò la
sua pistola automatica.
Con molta calma,
come se niente stesse succedendo attorno a lui, sfilò il caricatore, pieno di
comuni pallottole, e ne inserì un altro, contenente dei proiettili dorati con
la testa di un colore rosso intenso che sembrava di pietra.
Inserito il colpo
in canna, puntò l’arma verso il robot, prese bene la mira e infine premette il
grilletto. Non appena sparò, il proiettile si trasformò in una palla di fuoco;
il rumore fu assordante, il mostro si accorse della sua presenza e si girò,
così il colpo andò parzialmente a vuoto, colpendo lo spallaccio senza però
procurargli nulla più di un’ammaccatura.
Il robot sembrò
accusare il colpo, si guardò la “ferita” poi si concentrò su colui che
gliel’aveva procurata.
«Cercavi un
avversario? Io sono qui».
Dopo qualche
secondo il mostro lanciò il raggio incandescente dal centro del suo occhio,
Regis schivò saltando ma il colpo procurò un solco enorme sulla strada.
Il guerriero
rispose sparando altri tre colpi, ma tutte e tre le volte, pur centrando il
petto, i colpi andarono a vuoto, scheggiando a malapena quella lega
ultra-resistente.
“Ora capisco
perché non ha scudi. Non ne ha bisogno».
Nello stesso
momento, sulla collina, l’esercito stava approntando le difese. Nel punto in
cui il sentiero si allargava, appena prima di raggiungere la terrazza, erano
state erette delle barricate usando sassi, alberi del parchetto abbattuti
appositamente e perfino le panchine.
Gli arcieri erano
tutti pronti, armi in mano, appostati sia dietro la barricata sia sui bordi del
parapetto, e attendevano solamente di veder apparire il nemico.
Il robot con le
gambe si era leggermente avvicinato, segno che Regis aveva iniziato il
combattimento con lo scopo di portarlo più vicino alla collina, a tiro dei
cannoni.
«Signore!» disse
il comandante delle batterie «Si sta avvicinando!».
Grandall si volse
e se ne avvide.
«Regis ha
cominciato».
In quella il suo
cristallo si illuminò, e da esso giunse proprio la voce di Regis.
«Generale, mi
sentite? Qui Regis, mi riceve?»
«Forte e chiaro.»
rispose Grandall avvicinandoselo alla bocca «A quanto vedo hai cominciato.»
«State attenti. È
protetto da una lega molto resistente. Serviranno proiettili pesanti per
riuscire a sfondarla.»
«Proiettili
pesanti? Ne abbiamo a volontà.»
«Molto bene. Avete
avuto problemi lassù?»
«Per ora non si è
visto nessuno. I miei ragazzi in giro per la città li stanno tenendo occupati,
ma se dovessero farsi vedere siamo pronti ad accoglierli.»
«Perfetto. Io cercherò
di fare il prima possibile, ma voi tenetevi pronti.»
«Siamo sempre
pronti».
Prima ancora che
Regis potesse rimettere la pietra nell’astuccio che aveva alla cintura vide
un’elfa famigliare che, saltando su di un tetto, raggiunse in volo la testa del
robot, prendendo a tempestarlo di kunai.
«Quella è pazza.»
disse fra sé «Lsyn, non fare stupidaggini!».
Quei coltellini
però non ebbero alcun effetto, e mentre era ancora sospesa in aria Lsyn venne
colpita da un tremendo manrovescio che la sparò letteralmente verso terra.
WINDEN
L’incantesimo di Regis generò una
sacca ventosa all’altezza del suolo che funzionò come un tappeto elastico,
attutendo la caduta dell’elfa e trasformandola in una piacevole discesa senza
rischi.
Lsyn aprì gli occhi, e vide Regis che la fissava.
«Cosa ti avevo detto a proposito dell’avventatezza?».
Regis cercò di aiutarla, ma lei cacciò via la mano e si rimise in piedi
da sola.
«Del tuo aiuto non avevo bisogno.»
«Pensavo avessi già lasciato la città.»
«Stavo per farlo. Sono stata trattenuta.»
«Attenta!».
Il guerriero si avventò su Lsyn e si gettò a terra con lei giusto in
tempo per evitare un nuovo raggio incandescente che per poco non colpì
entrambi.
«Se quel raggio ci colpisce diventiamo entrambi un mucchietto di
cenere.»
«Molto interessante. Adesso però… ti dispiacerebbe alzarti? Ti avverto
che sei piuttosto pesante.»
«Ah sì. Scusa.» rispose lui togliendosi e lasciandola rialzare
«E adesso che si fa?»
«È un robot di classe superiore. È forte e resistente. Le nostre armi
sono poco efficaci, e la magia gli fa un baffo. L’unica è attirarlo vicino alla
terrazza panoramica, dove sono appostati i cannoni di Grandall.»
«Ah, voi umani, con le vostre tattiche codarde. Non c’è né gloria né
soddisfazione a combattere un nemico stando a distanza di sicurezza.»
«Ah, davvero? È un’affermazione molto interessante per una che due
secondi fa stava precipitando come una meteora».
L’elfa ringhiò, lo guardò malissimo, ma poi mandò giù il boccone e
domandò a Regis se avesse un qualche piano per fare ciò che aveva in mente.
«Siamo riusciti ad attirare la sua attenzione, e questo basta.» disse il
guerriero vedendo che il robot ora persisteva a guardarlo «Ora non dobbiamo
fare altro che condurlo dove vogliamo. Seguimi».
Poco dopo che il generale aveva
chiuso la comunicazione con Regis un nutrito schieramento di robot raggiunse la
collina e prese a salire velocemente lungo la strada che portava in cima.
«Signore!» gridò il soldato sulla torre «Stanno arrivando!»
«Molto bene.» disse Grandall «A tutte le unità, prepararsi a respingere
il nemico! I civili raggiungano immediatamente la torre!».
In pochi secondi il piazzale fu sgombrato, e tutto fu pronto per
rispondere egregiamente all’attacco; gli arcieri dietro le barricate avevano
già gli archi in tensione, i soldati impugnavano le spade, ed anche i
partecipanti al torneo rimasti in città, armi alla mano, erano pronti a fare la
loro parte.
Un silenzio spettrale calò sulla collina, rotto solamente dal ronzio che
caratterizzava i mostri di metallo, e che si faceva via via sempre più vicino.
I nervi erano tesi, i respiri affannosi; qualcuno rimaneva in silenzio,
qualcun altro pregava, qualcun altro sembrava trattenersi a stento dal
piangere.
L’attesa era sempre il momento peggiore di ogni battaglia, perché ci si
domanda se si riuscirà a vederne le fine, e le convinzioni, per quanto forti,
finiscono sempre per lasciare spazio ai dubbi e alla paura. E tutto ciò
diventava ancor più opprimente se si doveva affrontare un nemico sconosciuto,
assolutamente spaventoso, dotato di armi decisamente superiori.
Ma non era quello il tempo dell’indecisione; loro erano lì, e spettava a
quei soldati difendere Qerin e l’intero regno dal più grande pericolo che mai
le avesse minacciate.
Il generale era pronto, con il braccio già alzato, e appena i primi
robot cominciarono a sbucare da dietro la curva diede l’ordine.
«Ora!».
Lo stregone appostato sopra le loro teste a quel punto lanciò un
incantesimo di fuoco verso il cumulo di pietre sopra la strada, disintegrando
la base di appoggio e facendo precipitare sul nemico una micidiale pioggia di
roccia.
Contemporaneamente, gli arcieri presero a svuotargli addosso le loro
faretre, avvalendosi anche della magia per ottenere risultati ancor più letali.
Questo attacco si rivelò molto debilitante per i robot, che pressati dal
massiccio attacco non riuscivano ad avanzare. Qualche arciere cadde sotto il
fuoco delle loro armi, ma sostanzialmente la linea difensiva resistette, grazie
anche ai soldati armati di lancia, che trafiggevano con spietata precisione
qualunque nemico riuscisse ad avvicinarsi alla barricata.
I soldati già festeggiavano per la facile vittoria, quando uno di loro,
gettato lo sguardo oltre il parapetto, vide i robot a forma di bidone salire
lungo la ripida fiancata che divideva la seconda dalla terza terrazza,
un’impresa impossibile per un uomo.
«Signore!» gridò «Stanno salendo lungo i fianchi della collina!»
«Che cosa!?».
Quei mostri comparvero prima che qualcuno potesse recepire appieno il
messaggio, e subito presero a sputare fuoco dalle loro armi. Alcuni soldati
caddero, la piazza si tinse di sangue e molti uomini vennero presi dal panico,
iniziando a disperdersi.
«Soldati, mantenete la posizione!» gridava il generale «Difendete i
cannoni! Non possiamo permetterci di perderli!».
Malgrado le sue urla, purtroppo, la situazione divenne rapidamente da
seria a critica. I soldati dietro la barricata, dovendosi guardare anche dai
nemici giunti dal basso, vennero in breve travolti da quelli provenienti dalla
strada, e per le truppe reali cominciò un rapido ed inesorabile processo di
accerchiamento.
Sembrava davvero la fine per Grandall e i suoi, quando un rumore forte
ed improvviso fece ritornare a tutti la speranza: cavalli, decina di cavalli.
Un istante dopo la cavalleria reale sopraggiunse dalla strada, caricando
e travolgendo gli assalitori.
«Guardate!» esclamò un soldato «Il capitano Peterson con la cavalleria!
Sono venuti ad aiutarci!»
«Avanti, uomini di Fiya!» urlò il generale «Difendiamo la nostra
capitale!».
Grazie all’apporto dei soldati a cavallo la situazione fu rapidamente
ribaltata, e al termine della battaglia la vittoria arrise alle truppe reali,
che alzarono al cielo grida di esultanza, ma il generale li rimise subito in
riga.
«Non è questo il momento di festeggiare! Tutti alle batterie!».
Il robot volante stava ancora
seminando distruzione nella parte sud ovest della città, mettendo in fuga
soldati e normali cittadini con i suoi colpi di arma da fuoco e i suoi fendenti
di spada, capaci di radere al suolo cinque edifici in un colpo solo.
«Ehi, inutile ammasso di bulloni!» gridò ad un certo momento Sakura, in
piedi sulla cima di un campanile «Perché non te la prendi con qualcuno della
tua taglia?».
Lui si girò a guardarla, e dopo poco accettò la sua offerta, sparandole
contro tre colpi di pistola in rapida successione.
Sakura non si scompose, si circondò di un vortice di vento e si sollevò
velocemente in aria un istante prima che il campanile venisse raso al suolo.
«Tutto qui? Avanti, puoi fare di meglio!»
La ragazza rispose evocando lo spirito di fuoco che prese a scagliare
globi incandescenti sul robot, provocandogli bruciature e ammaccature in più
parti della corazzatura.
Se Regis fosse stato lì avrebbe detto che, dovendo volare, quel robot
non poteva permettersi una lega resistente come il suo compagno, che certamente
lo avrebbe appesantito, limitandone i movimenti.
Questo mise Sakura in una posizione di vantaggio, che però minacciò di
andare a monte quando la macchina iniziò a sparare un colpo dietro l’altro,
minacciando in più occasioni di colpirla.
Sakura rispose brandeggiando il suo spadone luminoso, ma quando, dopo
essersi data la spinta su di un muro crollato, cercò di volare contro il robot
per cercare di colpirlo, questi mise in mezzo la sua spada, e per quanto
resistente fosse quella di Sakura ebbe la peggio, e la ragazza precipitò sulla
strada sottostante.
Impiegò solo pochi secondi a risollevare lo sguardo, ma non appena aprì
gli occhi vide le sei canne della pistola nemica ad un metro dal viso.
Per la prima volta in vita sua rimase bloccata per il terrore; non le
era mai successo, e non aveva ancora conosciuto quella sensazione che, per
molte altre persone abituate alla guerra, si aveva nel momento in cui ci si
trovava a tu per tu con l’ora del giudizio.
Ma la sua era ancora lontana dall’arrivare, infatti improvvisamente
qualcuno piombò sul luogo del combattimento e con un solo, micidiale colpo di
spada tranciò di netto la mano al robot con tanto di pistola.
«Isnark!?» esclamò la maga
«In piedi, Sakura! Non è questo il momento di riposare!».
Sakura obbedì e subito si rimise in piedi, portandosi fianco a fianco
con Isnark. Malgrado il colpo subito la macchina sembrò non sentire alcun
dolore, nonostante il suo braccio mozzato schizzasse scintille; anzi, la cosa
sembrò solamente farlo infuriare di più, tanto che cercò di menare un secondo
fendente.
Isnark alzò la sua spada e parò senza timori quella del nemico,
riuscendo incredibilmente a reggere lo scontro; gli elfi possedevano veramente
una forza fuori dal comune. Quel colpo sarebbe costato le ossa del braccio a
qualunque uomo, mentre a lui provocò solamente un leggero tremito dei muscoli.
«Forza Sakura! È il momento!»
«D’accordo!».
La ragazza, ricostruì lo spadone, scomparso a seguito del tremendo colpo
ricevuto, e spiccato un grande salto volò diritta contro il ventre del robot.
All’ultimo secondo caricò al massimo i cristalli dei suoi polsini e colpì
con tutta la forza di cui era capace, provocando uno squarcio enorme che tagliò
letteralmente a metà il nemico come si farebbe con un bersaglio di allenamento.
Il mostro non gridò, non emise alcun suono, forse perché non ne era in
grado; la forza inferta su Isnark divenne sempre più debole, poi i suoi occhi
luminosi si spensero e le due parti del suo corpo caddero in opposte direzioni.
Quell’attacco era costato a Sakura tutte le sue energie, tanto che
appena tornata a terra cadde in ginocchio sopraffatta dalla fatica, mentre lo
spadone scompariva ancora una volta.
Isnark le si avvicinò.
«Grazie, Isnark.»
«Di niente.»
«Mi hai davvero salvato la vita. Ricambierò il favore, garantito.»
«D’accordo. Me lo segno».
L’elfo la aiutò a rialzarsi, poi entrambi guardarono verso l’altro
robot, che continuava imperterrito a camminare verso la collina, lanciando di
tanto in tanto il suo raggio incandescente.
«È meglio muoversi. Potrebbero aver bisogno di noi laggiù».
La strategia di Regis e Lsyn stava
funzionando a meraviglia; correndo e saltando in continuazione, e stuzzicando
di tanto in tanto il nemico con attacchi rapidi e non eccessivamente potenti,
erano riusciti a farsi seguire. Ora bisognava solamente mettere le batterie
sulla terrazza nelle condizioni di poterlo colpire egregiamente, in modo da
causargli i maggiori danni possibili, permettendo poi ai due guerrieri di
infliggergli il colpo di grazia.
Regis aveva capito che il punto più vulnerabile del robot era la
schiena, quindi era necessario farlo voltare, ma non era certo un problema.
Grazie all’inaspettata collaborazione di Lsyn i due riuscirono, giunti a
circa duecento metri dalla collina, a fare in modo che il robot esponesse il
suo punto debole al tiro dei cannoni.
Sulla terrazza, gli uomini di Grandall erano pronti a fare fuoco, e
aspettavano solamente l’ordine del generale.
«Signore.» disse un capitano «Forse dovremmo sparare.»
«È ancora troppo distante. Se il suo corpo è davvero così resistente, da
qui non gli faremmo niente. Bisogna che si avvicini un altro po’».
Lsyn, vedendo che i cannoni esitavano a sparare, salì sul tetto di un
palazzo e cercò di concludere la questione da sola, saltando verso il nemico
con la spada alzata nel tentativo di colpire l’occhio, che essendo apparentemente
di vetro doveva essere piuttosto vulnerabile, ma trovò sulla sua strada quella
mano ciclopica che la ricacciò indietro; stavolta, però, si fece trovare
preparata, ed atterrò con le sue gambe.
«Ma perché non sparano?» domandò allora
«Siamo ancora troppo lontani! Dobbiamo farlo avvicinare!»
«E come?».
Regis ci pensò un istante, poi optò per l’unica soluzione possibile; se
lo avessero fatto voltare di nuovo molto probabilmente si sarebbe accorto delle
batterie puntate contro di lui e le avrebbe incenerite, quindi la sola cosa da
fare era farlo camminare all’indietro.
«Lsyn! Ho un’idea, ma mi occorre il tuo aiuto!»
«Di che si tratta?»
«Se esercitiamo una potenza d’urto sufficiente, forse saremo in grado di
costringerlo ad indietreggiare!»
«E come pensi di fare?»
«Com’è la tua magia?».
Lsyn capì subito cos’aveva in mente quell’umano e sorrise di
soddisfazione.
«Molto più efficace della tua.»
«Buono a sapersi.» replicò Regis con lo stesso sorriso prima di
rinfoderare la spada e di rinchiudersi in un cerchio magico.
Le sue mani pian piano cominciarono a bruciare, circondandosi di fuoco.
Urumaf Teha
Hokuma
Waras
Kulmah Aremu
Maha kah
korufu
MAGMA BLAST!
Io sono Lsyn l’Ombra
Sono la volontà della distruzione
La mia mano ti conduce alla morte
CURSED
TEARS!
Dalle sue mani di Regis si sprigionò un’enorme colonna di
fuoco diretta verso il torace del robot, e contemporaneamente Lsyn lanciò un
fascio di luce di colore misto fra il fucsia e il nero da un cerchio magico
materializzatosi davanti a lei.
Dapprincipio, il
colpo sembrò non sortire alcun effetto, e per lunghissimi secondi il robot
rimase immobile come una statua; poi, lentamente, prese ad indietreggiare,
sotto la pressione incessante degli attacchi dei due guerrieri.
I suoi piedi
all’inizio strisciarono sul terreno, poi prese a fare dei passi indietro.
Prima uno, poi un
altro, poi un altro.
Regis e Lsyn erano
quasi convinti di poter sfondare la sua corazza, quando questi lanciò contro di
loro il raggio incandescente; li mancò, ma le macerie partirono in ogni
direzione, colpendo entrambi.
«Lsyn, tutto
bene?» disse Regis cercando di scorgere l’elfa in mezzo al fumo
«Abbastanza.»
rispose lei ancora invisibile.
Il guerriero si
girò verso il robot, e vedendo dove si trovava capì che, malgrado tutto,
avevano raggiunto il loro obiettivo primario.
«Ecco, ora è
perfetto!» disse il generale «A tutte le unità, fuoco a volontà!».
Gli artiglieri
incendiarono insieme la polvere, e tutti i trentacinque cannoni spararono nello
stesso istante, riempiendo l’aria di fumo e di un frastuono che fece tremare la
terra.
Colpito in pieno,
il robot sembrò accusare pesantemente il colpo, piegandosi in avanti, ma il
massiccio bombardamento non parve arrecargli danni considerevoli, e giratosi
verso la collina sembrò guardare con aria di sfida le truppe di Fiya.
«Ricaricare!».
Passarono pochi
secondi, e dalla schiena del nemico partirono sei missili diretti verso la
terrazza.
«Attenti!».
Un paio di
stregoni eressero in tutta fretta una barriera, ma l’esplosione degli ordigni
fu abbastanza potente da farla esplodere, scaraventando via un gran numero di
persone e lasciando esposti tutti ad un secondo, imminente attacco.
Il gigante era
quasi pronto a sparare di nuovo, i missili già comparivano dalle bocche di
uscita situate sugli alettoni, ma Lsyn aveva altri progetti. Con un grande
salto si portò su di un tetto, poi saltò di nuovo e lanciò tutti i kunai che le
erano rimasti contro una delle testate prima di tornare di nuovo verso terra.
L’ordigno così
esplose ancor prima di essere lanciato, e con un letale effetto a catena fece
detonare anche tutti gli altri; il robot fu sbalzato violentemente in avanti
dalla deflagrazione della sua stessa schiena, tanto che per poco non cadde, e tutto
il suo corpo cominciò a riempirsi di crepe.
«Abbattiamolo!»
tuonò il generale.
Tutte le armi da
fuoco a disposizione dei militari vennero utilizzate in rapida successione: i
gendarmi, i partecipanti al torneo, perfino i comuni cittadini facevano la loro
parte, o impugnando tutte le teste di toro a disposizione o dando il cambio ai
cannonieri feriti impossibilitati ad eseguire il proprio compito.
Il robot venne
letteralmente crivellato di colpi, che questa volta furono abbastanza potenti
da portargli via intere porzioni di corpo; gli spallacci, i fianchi, parte
delle braccia.
Il colpo di grazia
lo inflisse Regis, che saltando prima su un tetto poi su una torre gli arrivò
all’altezza della testa, quindi gli piantò la spada proprio al centro dell’occhio
con tutte le sue forze fino all’elsa.
La macchina
dapprima si irrigidì, poi prese a tremare tutta come colpita da un fulmine
facendo un rumore stranissimo; infine, un istante dopo che Regis, ritirata
l’arma, era saltato giù, cadde al suolo completamente immobile con una forza
tale da sbriciolare la strada tutto attorno, sollevando un fittissimo polverone
che la ricoprì interamente.
Di nuovo piombò il
silenzio sull’intera città; tutti attendevano con impazienza che la polvere si
diradasse, per scoprire se quell’essere mostruoso fosse realmente morto. Poi
apparve, immobile, riverso sulla schiena in mezzo alla strada maestra, in un
trionfo di macerie.
Regis era poco lontano;
inginocchiato, si sorreggeva alla spada, ed aveva un po’ di fiato corto. Dopo
poco comparve anche Lsyn, che avvicinatasi alla creatura diede un paio di calci
sulla testa, constatando che effettivamente non si muoveva più.
Subito dopo, Qerin
conobbe le più immense grida di gioia mai udite a memoria di uomo.
Quando i timidi
raggi lunari, liberati dalle nuvole, illuminarono la città, i soldati e gli
abitanti si resero conto in modo ancor più drammatico che c’era ben poco da
festeggiare.
Qerin, che un
tempo era stata la più bella e fiorente capitale dell’intero continente, era
solo lo spettro di sé stessa.
I suoi grandiosi
palazzi, i suoi monumenti, i suoi parchi, le sue mura, le sue porte, i suoi
fori; tutto ciò era in gran parte ridotto ad un mucchio di macerie.
Ovunque la
principessa girasse lo sguardo non vi era niente più che distruzione e morte.
Dappertutto, sia per le strade che nel mezzo di edifici ormai rasi al suolo, il
terreno era attraversato da gigantesche crepe, incendi e roghi di varie
dimensioni ardevano in più punti della città, colonne di fumo nero si sollevavano
alte nel cielo nero coprendo le stelle di una notte che sapeva di magico; le
squadre dell’esercito e dei soccorritori, alla luce delle torce, erano al
lavoro per cercare di salvare le persone rimaste intrappolate sotto i crolli,
un lavoro che si preannunciava ancora molto lungo.
Diverse zone di
Qerin erano ancora irraggiungibili a causa dei crolli, e nessuno poteva sapere
se si sarebbe arrivati in tempo per soccorrere i feriti.
Per molte ore Sefy
era rimasta affacciata dal balcone della sua stanza; avrebbe voluto andare con
suo padre in giro per la città per far visita alla popolazione, duramente
provata da una simile tragedia, ma la madre l’aveva convinta a rimanere chiusa
nel palazzo, sorvegliata a vista.
Aspettava di veder
tornare Regis, che sapeva essere sopravvissuto, si era promessa di rimanere
sveglia fino al suo arrivo, ma alla fine la stanchezza per una giornata così
lunga e terribile ebbe il sopravvento, e la ragazzina si addormentò con ancora
indosso il suo abito da cerimonia.
La
Piazza
della Libertà era stata trasformata, per far fronte all’incalcolabile numero di
feriti bisognosi di cure, in un enorme ospedale da campo.
Era stato proprio
da quella immensa piazza circolare che l’intera città di Qerin si era
sviluppata quasi due secoli prima; era stata edificata da Re Margus il
Liberatore, colui che era stato l’artefice della liberazione del regno dalla
tirannia del vicino Impero di Caldesia, l’eterno nemico di Fiya e dei suoi
abitanti.
L’intera città non
era altro che un enorme simbolo dell’indipendenza, conquistata a prezzo di
enormi fatiche dopo il cosiddetto “decennio nero”.
Trecento anni
prima, i Caldesiani erano calati su Fiya da oriente, approfittando di un periodo
di instabilità politica seguito all’arresto di molti funzionari corrotti, il
che aveva lasciato il regno esposto alle mire espansionistiche nemiche.
La loro avanzata
era stata fulminea, ed in meno di un mese i loro eserciti avevano occupato la
vecchia capitale, la città portuale di Sermanika, costringendo il re e la sua
famiglia a fuggire, riparando nel regno amico di Remynius.
Dopo dieci anni di
esilio, grazie al sostegno dei movimenti per la liberazione e degli alleati del
nord, la famiglia reale era riuscita a riprendersi il trono, cacciando i
Caldesiani da Fiya una volta per sempre.
Quale segno di
riscatto per sé stesso e per il suo popolo, re Margus aveva fatto erigere la Piazza della Libertà a
Qerin, che allora era la seconda maggiore città del regno, trasformandola di
seguito nella nuova capitale, che sarebbe dovuta diventare cento volte più
bella e splendente di Sermanika.
E invece, alla
fine, anche Qerin aveva dovuto subire lo stesso destino, quasi come se gli dèi
avessero voluto farsi beffe delle fatiche fatte da tutto il popolo di Fiya per
far crescere e prosperare la loro bellissima città.
Re Feryr aveva
ordinato un immediato conteggio delle vittime e una quantifica dei danni subiti,
ma nulla era paragonabile a ciò che lui e la moglie si erano ritrovati davanti
all’ingresso in piazza, trasformata in una enorme tendopoli.
«Generale, qual è
il bilancio?» domandò non appena Grandall tornò dal suo giro di ispezione
«Finora si contano
trecentotrentacinque vittime. I feriti non siamo ancora riusciti a contarli, ma
stimiamo siano sopra il migliaio».
A sentire quella
cifra il sovrano si portò una mano alla bocca, la moglie invece trattenne a
stento il pianto.
«Sfortunatamente
mio re, il torneo aveva richiamato in città un gran numero di forestieri, e non
sappiamo ancora quanti dei morti accertati siano abitanti di Qerin e quanti
invece siano venuti dall’esterno.»
«Quanti abitanti
della città hanno risposto all’appello?»
«Fino a questo
momento duecentonovantasettemila.»
«Meno di un
quarto.»
«I conteggi sono
ancora in corso, ma potrebbero esserci molte altre persone sepolte sotto le
macerie o nascoste nelle loro case. Le scosse di terremoto che hanno preceduto
l’attacco inoltre devono aver spinto alcuni abitanti a lasciare la città, e
anche questo rende difficile il conteggio.»
«Capisco.» rispose
il re guardando in basso.
Ma lui era
comunque il re, e doveva dare l’esempio. Rialzata la testa, guardò il generale
come lo guardava sempre nelle situazioni in cui si richiedevano freddezza e
capacità di analisi.
«E i danni?»
«Almeno un quinto
degli edifici di Qerin è stato completamente distrutto; i danni ammontano a
svariati milioni di denari.»
«Per quanto
riguarda le crepe nel terreno?»
«Le ho fatte
controllare. Ce ne sono all’incirca una decina disseminate in tutta la città, e
sono tutte collegate a piccole camere scavate nella roccia. Due di queste sono
decisamente grandi, probabilmente erano quelle che contenevano i due mostri
giganti, le altre invece raggiungono a stento le dimensioni di una casa.
Riempiendole di terra e usando un incantesimo per compattare la roccia, confido
che non dovremmo avere problemi per la riedificazione.»
«Molto bene. La
ringrazio, generale.»
«Dovere, altezza».
Poco lontano da
lì, Lsyn, seduta su di una panchina ai piedi della colonna, si guardava, non
senza preoccupazione, una grossa ferita all’avambraccio sinistro, all’altezza
della spalla.
«Una brutta
ferita.» disse Regis, comparso improvvisamente davanti a lei con una furtività
tale da farla saltare per lo spavento «Forse dovresti farti medicare.»
«Non è niente.»
rispose lei indispettita.
Regis si sedette
accanto a lei e tentò di avvicinarsi, ma lei si allontanò quasi ringhiando.
«Ti ho detto che
non è niente!»
«Senti.» disse
allora il guerriero afferrandola con le sue mani d’acciaio «Dacci un taglio con
la commedia della dura irremovibile e fatti aiutare!».
Lsyn, sentendo
quel tono di voce, rimase interdetta, e senza fare ulteriori capricci lasciò
che Regis le sollevasse la manica della veste, mettendo a nudo il taglio di tre
o più centimetri che aveva sul braccio.
Fino a quel
momento c’era stata una sola persona al mondo che le avesse parlato in quel
modo, l’unica che fosse mai riuscita a sopportare quel suo carattere
impossibile, e man mano che trascorreva il tempo Lsyn non riusciva a fare a
meno di pensare che forse Regis stava diventando sempre più simile a lui.
«Avevi ragione.»
disse l’umano «Non è niente di che. Basterà disinfettare e fasciare bene.
Tornerai a mulinare decentemente la spada in un paio di giorni.»
«Ah… capisco».
Regis prese dalla
sacca alla cintura un disinfettante a base di alcol e lo versò abbondantemente
sulla ferita; Lsyn fece una smorfia, cercò di divincolarsi, ma lui la tenne
ferma.
«Lo so che brucia,
ma cerca di resistere».
Le sue parole
erano così cordiali, così confortanti; sì, era proprio uguale a Tijorn. Stesso
temperamento, e stesso carattere altruista. Entrambi avevano un talento
naturale per conquistarsi la fiducia anche delle persone più improbabili.
Dopo aver
disinfettato e pulito accuratamente la ferita, Regis la fasciò con due strati
di bende sterili.
«Ecco fatto. Sei a
posto».
L’elfa dapprima si
limitò ad abbassare la manica, ma poi abbassò lo sguardo.
«Grazie…».
Regis la guardò
come si guarderebbe un fantasma, ma poi sorrise e guardò il cielo stellato
gettandosi sullo schienale della panchina.
«Lo sai Lsyn. Devo
ammettere che all’inizio mi ero fatto un’idea sbagliata sul tuo conto».
Lei di nuovo lo fissò
stralunata.
«In che senso?»
«Quando ti ho
vista per la prima volta, ho pensato che tu fossi proprio come le altre spie. Fredda,
senza sentimenti, interessata unicamente a compiere la missione affidatati. Ma
ora mi rendo conto che non è così.»
«Come fai ad
esserne sicuro?»
«Mi sorprendi,
Lsyn. Davvero non sai che combattere è il modo migliore per conoscere i segreti
di una persona?».
«Combattere… fa
conoscere i segreti?»
«Quando due
avversari si affrontano, quasi sempre mettono in gioco tutto loro stessi, e dal
modo in cui combattono puoi percepire le loro emozioni. Tu hai fatto una cosa
che non mi sarei mai aspettato da una spia di Normar. Hai avuto pietà nei miei
riguardi. Hai provato compassione. E perché una persona sia in grado di provare
compassione, deve per forza aver sperimentato un altro sentimento».
L’elfa esitò a
lungo prima di chiedere di quale sentimento Regis stesse parlando, anche se
dentro di sé intimamente già conosceva la risposta.
«L’affetto, Lsyn.
Non c’è compassione se non si conosce l’amore».
Amore.
Una parola che
Lsyn, nei suoi primi anni come spia, era convinta non appartenere al suo mondo,
ma del resto come poteva essere altrimenti?
L’Ombra, come
tutti i suoi simili, era venuta al mondo per stroncare vite, per obbedire
cecamente e senza emozioni agli ordini del suo signore; come poteva una
creatura simile provare un sentimento così profondo e intimo come l’amore?
Probabilmente
Regis aveva intuito i suoi pensieri, ed alzato nuovamente lo sguardo alle
stelle riprese a parlare.
«So cosa stai
pensando in questo momento. Per quelli come noi, nati esclusivamente per
combattere e morire, l’idea di poter amare sinceramente qualcuno risulta quasi
inconcepibile. A dirti la verità, anche io un tempo la pensavo allo stesso
modo. Ma lo sai cosa mi ha fatto cambiare idea? La vicinanza di una persona
speciale.»
«Una persona…
speciale?».
Il giovane fece
una nuova pausa.
«Come si chiama?».
Lsyn di nuovo
abbassò lo sguardo a terra e si fece molto cupa, per non dire triste.
«Chekaril.»
«Chekaril!?»
esclamò Regis «Il principe Chekaril?».
Lei fece cenno di
sì, e venne guardata in modo molto severo.
«Ed è stato… solo
amore?»
«Che vuoi dire?»
«Il tuo bacino è
insolitamente largo; porti una fascia sul busto per nascondere le reali
dimensioni del seno».
Lsyn di colpo si
sentì come se fosse stata nuda sopra ad un palcoscenico.
«No… non è come
pensi…» balbettò con voce tremante
«Invece credo che
sia proprio così. Lsyn… tu sei madre?».
Se non fosse stato
che non lo considerava un atteggiamento degno di una spia, l’Ombra sarebbe
scoppiata a piangere lì e in quel momento.
Questa volta però,
invece che parlarle, Regis si girò dalla parte opposta.
«Mi dispiace amica
mia, ma in questo caso non posso proprio aiutarti.»
«Per… per quale
motivo?»
«Perché i
sentimenti già di per sé sono complicati, e se di mezzo c’è anche un figlio
allora possono essere compresi solo autonomamente. Non posso insegnarti come
affrontare questa situazione, per due ragioni. La prima è che l’amore è diverso
per ogni persona. Non si può spiegare cosa sia l’amore, né tantomeno insegnare
ad amare. La seconda, beh… perché forse neppure io ho ancora imparato cosa
significhi veramente amare qualcuno, perché in caso contrario molto
probabilmente ora non sarei qui, in questo mondo».
Il silenzio di
quel momento venne rotto dall’arrivo di Tijorn.
«Lsyn, è ora di
andare. Normar attende il nostro ritorno.»
«Sì… arrivo…».
Lsyn si alzò, ma
prima di andarsene rivolse un ultimo sguardo a Regis.
«Dopotutto mi sei
simpatico, Regis.»
«Felice di
sentirtelo dire.»
«Facciamo così.
Semmai un giorno dovessimo rincontrarci, prometto di essere un po’ meno acida
la prossima volta.»
«Sarà dura per te
non essere acida. Sarà un piacere vedere se riuscirai a mantenere la promessa».
Regis stette a
guardarla fino a che non si fu allontanata, poi la voce di Dave lo scosse.
«Maestro. C’è una
cosa che dovreste vedere».
Il maestro seguì
l’allievo alla presenza del re e del generale Grandall, in piedi davanti ad una
barella su cui era riverso il corpo senza vita di un uomo.
«Che succede?»
«Abbiamo trovato
quest’uomo dentro una delle bambole cilindriche.» rispose il generale
«Che cosa!?»
«E non era il
solo.» disse il re «Tutti i suoi simili avevano una persona al loro interno.»
«Dunque erano
pilotati. Erano dei mecha.»
«Mecha!?» ripeté
Grandall
«Sono robot che
necessitano di un pilota umano. Roba da fantascienza, ma non chiedetemi di
spiegarvi che significa.»
«Ma come avranno
fatto ad entrare nei robot che erano sotto la città senza essere visti?»
domandò Dave
«A dire il vero»
intervenne il solito sottufficiale «Abbiamo appena scoperto che le due caverne
più grandi avevano degli ingressi secondari ben nascosti nelle cantine di
alcune fattorie appena fuori le mura.»
«Allora è tutto
chiaro.» disse Regis «Hanno approfittato del fatto che il torneo aveva
allontanato i contadini dalle fattorie e sono entrati senza che nessuno se ne
accorgesse.»
«Ora che ci penso,
la signorina Lsyn mi ha detto di essere stata attaccata dopo essersi calata in
una di quelle caverne.»
«Avete interrogato
i proprietari di quelle fattorie?»
«Sì maestà, ma
dicono di non sapere nulla di quei passaggi segreti».
Regis si
inginocchiò per osservare meglio il cadavere, e rivoltandolo portò alla luce un
piccolo tatuaggio dietro la nuca a forma ti testa di lupo con le fauci
spalancate; tutti lo conoscevano, ed il verdetto sulla vera natura
dell’aggressore fu unanime.
«Caldesia.» disse
il re «Dunque tutto questo è opera loro.»
«A quanto pare
sì.» rispose Regis
«Ma come avranno
fatto i Caldesiani a venire a conoscenza di questi robot?» chiese Dave
«Le domande non si
fermano certo qui, Dave. Per esempio, come sono entrati in possesso delle
conoscenze necessarie a pilotarli? E cosa c’entra Caldesia con Valon?»
«Forse…» irruppe
in quella la voce roca e gracchiante del Mage Master, che sorretto da un
giovane discepolo si avvicinò al gruppo «Io posso aiutarvi a trovare le
risposte che cercate.»
«Nobile Mage
Master.» disse il re «Voi siete a conoscenza del disegno dietro a tutto
questo?»
«Purtroppo sì, mio
re. E alla luce di tutto ciò, mi rincresce dirvi che si tratta di un disegno
alquanto funesto.»
«Che intendete per
funesto?»
«Qui non è
prudente. Venite, parleremo in un posto sicuro».
Il re, il generale, il Mage Master, Regis e Dave si appartarono
in una tenda vuota, e al soldato di guardia all’esterno fu ordinato di non
permettere a nessuno neppure di avvicinarsi.
Radunatisi per
terra attorno ad un tavolino, al lume di alcune candele, tutti attendevano che
il Mage Master, sempre assistito dal suo discepolo, incominciasse il suo
racconto. Invece, al contrario, fu il sovrano a parlare per primo.
«Nobile Mage
Master. Avete detto che potete darci delle risposte. Ve ne prego, condividete
con noi il vostro sapere».
Il vecchio ripose
il proprio bastone e per un po’ restò in silenzio, quasi avesse paura di
rivelare ciò che sapeva, ma poi, sotto gli sguardi apprensivi dei suoi
interlocutori, finalmente si decise a parlare.
«Vostra Maestà,
permettetemi di farvi una domanda. Cosa sapete voi a proposito della Guerra
Sacra?»
«La Guerra Sacra!?» ripeté Feryr
comprensibilmente sorpreso
«Col dovuto
rispetto, Mage Master.» intervenne Grandall «Non mi pare questo il momento di
raccontare favole e leggende.»
«È qui che si
sbaglia, generale. La Guerra Sacra
non è né una favola né una leggenda. È accaduta veramente».
Tutti i presenti,
nessuno escluso, spalancarono gli occhi per lo stupore, e avrebbero pensato
sicuramente ad uno scherzo se a pronunciare quella frase non fosse stato il
venerabile Mage Master, la massima autorità spirituale della nazione.
«Mage Master…»
balbettò il re «Voi… parlate seriamente!?»
«Sì, maestà. La Guerra Sacra fu combattuta
veramente. Accadde cinquecento anni fa esatti, durante il regno del Re Cylon.
Quegli esseri, i robot, discesero all’improvviso dal cielo, e subito diedero il
via ad una sistematica distruzione che caratterizzò non solo il nostro regno,
ma l’intero continente. Elfi, Nani, Ishati, Umani, Ynu, Tengu. Nessuno venne
risparmiato. Attaccavano chiunque, distruggevano ogni cosa, ogni città.
L’intero
continente si coalizzò per contrastarli, ma salvo alcuni successi sporadici i
nostri antenati non riuscirono a fare nulla per contrastare la loro avanzata. I
navigatori e i mercanti degli altri continenti raccontarono che anche i loro
paesi erano sotto attacco da parte di queste terribili creature.
Poi,
all’improvviso, quando erano solamente ad un passo dall’annientarci
completamente, si fermarono, e caddero tutte, apparentemente senza vita.
Tutti pensarono che
la guerra fosse finita, e che, malgrado tutto, noi avessimo vinto.
Ma non era così.
La Guerra Sacra non era finita.
Era solo rimandata.»
«Rimandata!?»
disse Dave «Che intendete?»
«Durante la
guerra, l’illustre Re Cylon perse tragicamente la vita, morendo senza eredi. Il
suo posto, alla guida del regno, fu preso da colui che era riuscito a guidare i
popoli del continente a quelle rare vittorie di cui vi accennavo.»
«Sta parlando di
Gigabrian.» disse Grandall «Il leggendario Angelo Bianco.»
«Esatto. L’ultimo
Angelo Bianco di cui il nostro regno abbia memoria. Il vostro illustre
antenato, altezza. Egli ci mise in guardia. Ci avvertì che la Guerra non era finita;
sarebbe ripresa cinquecento anni dopo, e per allora il nostro popolo avrebbe
dovuto farsi trovare pronto per combatterla. Nel frattempo, diede ordine che
tutte le macchine che ancora riempivano il suolo del continente venissero
seppellite, in modo che il loro ricordo sparisse dalla mente della gente
comune.»
«Ora è chiaro.»
disse Regis «Cinquecento anni fa Qerin non esisteva ancora. Fu edificata solo
in seguito, ed evidentemente nessuno si ricordava più che proprio qui sotto
erano stati seppelliti dei robot.»
«Il nobile
Gigabrian disse anche un’altra cosa.» proseguì il Mage Master «Disse che in
futuro, chiunque si fosse assunto il compito di capeggiare il nostro continente
nella successiva Guerra Sacra avrebbe dovuto brandire la sua spada, la stessa
con cui lui stesso aveva combattuto.»
«Adesso capisco
perché mi ha suggerito di mettere la
Spada di Gigabrian come premio per il vincitore di questo
torneo.» disse il re «Stavate cercando il candidato migliore.»
«Chi impugnerà
quella spada, avrà nelle sue mani il destino di tutto il nostro mondo. Ci
serviva il guerriero più forte che si fosse mai visto».
Grandall a quel
punto batté violentemente i pugni sul tavolo in preda alla collera.
«E per quanto
tempo pensavate di tenerci nascosta una simile verità! Avreste dovuto
avvertirci appena sono comparsi i primi mostri! Avreste dovuto avvertirci prima
che lanciassero un attacco che è costato la vita a centinaia di persone!»
«Mi dispiace
dirlo, ma il generale ha ragione.» disse re Feryr non senza un pizzico di astio
«Molti innocenti sono morti nel corso della battaglia che si è appena conclusa,
e non fatico a pensare che molti altri moriranno se davvero ciò che ci sta
raccontando è vero.»
«La prego di voler
comprendere, vostra altezza, che non avevamo scelta. Avevamo la certezza quasi
assoluta che ci fosse un traditore, qualcuno che cospirava per far sì che la Guerra Sacra si concludesse con
il nostro annientamento. Speravamo che il torneo lo avrebbe portato allo
scoperto, e noi eravamo pronti a riceverlo, ma non ci saremmo mai aspettati di
veder comparire proprio Valon.»
«E ora lui si è
portato via la spada.» disse Regis «Davvero una gran bella pensata.»
«A proposito, chi
è Valon?» chiese il sovrano «Dava l’impressione di conoscervi.»
«È più che
naturale, vostra altezza. Lui un tempo era uno di noi.»
«Valon… era un
membro dell’Alto Consiglio dei maghi!?» esclamò Dave
«Uno dei più
promettenti stregoni che Fiya avesse mai visto, e sicuramente il più giovane
mago a divenire parte dell’Alto Consiglio. Ci accorgemmo della sua mentalità
deviata quando ormai era troppo tardi. Fu espulso dal Consiglio ed esiliato dal
Regno, e mai avrei pensato di rincontrarlo ancora, oltretutto al soldo di
Caldesia, che aveva sempre considerato come il proprio nemico numero uno.»
«A questo punto
una cosa la possiamo dire con certezza.» commentò Regis «Questa guerra di sacro
ha ben poco».
Un’affermazione
questa che non servì certamente a migliorare la situazione, ma che se non altro
fece cadere l’intera vicenda sotto una luce diversa.
«Questi che voi
credevate essere emissari del cielo sono in realtà dei robot, creati con una
scienza assolutamente umana, per quanto progredita. La sola cosa che
bisognerebbe domandarsi è come abbiano fatto i Caldesiani a mettere le mani su
macchine che con questo mondo, almeno all’apparenza, non hanno nulla da
spartire».
In quella, un
soldato entrò tutto trafelato nella tenda, nonostante l’ordine di non far
passare nessuno fino alla conclusione dell’incontro.
«Mi perdoni per
aver disubbidito, generale, ma è molto importante. Abbiamo trovato le tracce di
Valon.»
«Che cosa!?»
esclamò il re «Dove?»
«Sulle colline
Arklyn. A nord est di Qerin.»
«In direzione di
Caldesia.» commentò Grandall «Direi che questo conferma a pieno i nostri
sospetti. Inviate immediatamente una squadra per stanarlo!»
«Aspetti,
generale.» intervenne Regis «Se Valon era davvero un membro dell’Alto Consiglio
non credo che sconfiggerlo sarà cosa da poco.»
«Il valoroso Regis
ha ragione.» disse il Mage Master «Potete scagliargli contro anche l’intero
esercito, non sarà sufficiente per contrastarlo. I suoi già incredibili poteri
di stregone, uniti a quelli della spada di cui ora è entrato in possesso, lo
rendono un avversario estremamente pericoloso. Ma d’altra parte, dobbiamo
assolutamente recuperare la
Spada di Gigabrian, se vogliamo avere qualche speranza di
arrivare preparati alla Guerra Sacra.»
«Ci andremo io e
Sakura. Con un po’ di fortuna, la nostra forza dovrebbe bastare.»
«Siete sicuro di
potercela fare, nobile Regis?» disse re Feryr «Siete ancora stanco per il
torneo, senza contare la battaglia che avete sostenuto per difendere la città.
Potrebbe essere troppo forte anche per voi.»
«Per questo
andiamo in due. Non abbia a che temere, non sarà certo questo ad impressionare
me o Sakura.»
«Vai allora,
nobile guerriero.» disse il Mage Master «E buona fortuna.»
«Grazie, ne avremo
bisogno».
Regis raccolse la
sua spada ed uscì, ma appena fuori dalla tenda lo raggiunse Dave.
«Maestro! Vi
prego, portatemi con voi!»
«Questa non è una
scampagnata, Dave. In questa impresa si rischia la vita.»
«È già accaduto
altre volte in passato. Non sarebbe la prima volta che affrontiamo insieme
situazioni pericolose.»
«Ma stavolta
potrebbe essere diverso. Il nostro nemico è un membro dell’Alto Consiglio.»
«Maestro! Siete
stato voi a dire che è ora e tempo che io scelga autonomamente. E io scelgo di
venire con voi».
Regis guardò il
suo testardo allievo con un misto di stupore e soddisfazione, poi, come faceva
spesso, gli mise una mano sulla testa.
«Dopotutto, dovevo
immaginarmelo. Con la tua testardaggine… avanti, recupera un paio di cavalli.»
«Maestro…» disse
il ragazzo con gli occhi che brillavano «Volete dire che…»
«Mi hai sentito?
Trova due cavalli. O se preferisci, possiamo raggiungere le colline a piedi.»
«Lasciate fare a
me!».
Dieci minuti dopo
maestro e allievo erano in sella, pronti ad imbarcarsi insieme in una nuova
impresa; come previsto, davanti alla porta nord-orientale della città,
incontrarono Sakura, pronta ad andare con loro.
«Siamo alle
solite.» esordì la ragazza con un falso risentimento «Perché devi sempre
prendere le decisioni autonomamente?»
«Non vuoi venire?»
fu la risposta pungente di Regis «Puoi restare qui, se preferisci.»
«Non ho detto
questo. Vorrei solo che tu ti consultassi con le persone prima di decidere per
loro.»
«Capito. Me lo
ricorderò per la prossima volta.»
«È quello che dici
tutte le volte.»
«Ehi voi,
aspettatemi!».
Elys
sopraggiungeva in quel momento su di un cavallo lanciato al galoppo come
durante una carica, tanto che riuscì a fermarsi solo un istante prima di
travolgere il povero Dave.
«Elys!?» disse il
giovane stregone «Che cosa ci fai tu qui?»
«Mi sembra ovvio.
Sto venendo con voi. Qualcuno deve pur guardarvi le spalle.»
«Non stiamo
andando a fare una gita. Potrebbe essere pericoloso.»
«Senti da che
pulpito viene la predica. Se puoi andarci tu, non vedo perché non possa farlo
io.»
«Aria cosa dice?»
chiese Regis
«Non dice niente,
per il semplice motivo che non lo sa.»
«Cosa!?»
«Glielo dirò al
ritorno. Però vi prego, non potete lasciarmi fuori da questa avventura.»
«Che facciamo,
maestro?».
Regis si passò una
mano sui capelli.
«Se ti succede
qualcosa Aria se la prenderà con me, quindi vedi di non crepare.»
«Puoi stare
tranquillo. Ormai dovresti averlo capito che ho la pelle molto dura.»
«Voglio sperarlo».
Da solo, in una piccola radura in mezzo al bosco, Valon
osservava meravigliato la bellissima forma della Spada di Gigabrian, finalmente
nelle sue mani.
Accanto a lui i
quattro robot che lo avevano seguito nella fuga dallo stadio, immobili e
silenziosi.
La lama della
spada, illuminata dal sole del mattino, splendeva più di uno specchio; persino
la luce sembrava in grado di essere tagliata da quel filo.
«Davvero una spada
bellissima. Ed emana un potere magico che mette quasi paura».
In quella, alle
spalle di Valon comparve la donna che già si era mostrata a Yu-Lao, questa
volta però sottoforma di proiezione magica, niente più cioè che una mera
illusione.
«Ben fatto, Valon.
Anche se l’attacco a Qerin è stato sventato, abbiamo comunque ottenuto la Spada di Gigabrian.»
«Io faccio sempre
ciò per cui vengo assoldato.» rispose il mago senza voltarsi «È la mia prassi.»
«Mi fa piacere.
Ora però raggiungi il tempio. Prima metteremo le mani sulla spada, meglio sarà».
A
quell’affermazione gli occhi di Valon si accesero, e sulla faccia gli comparve
quel suo ghigno malevolo.
«Sai una cosa,
Shany? Ho cambiato idea. L’accordo è saltato».
Giratosi
improvvisamente menò un gran fendente che attraversò da parte a parte la figura
della donna, che prese a scomparire senza però scomporsi minimamente.
«Avrai modo di
pentirtene.» disse prima di svanire del tutto
«Io non credo.»
rispose lui con sicurezza.
Passarono pochi
minuti, e nella radura giunse, in groppa ad uno sfavillante orientale nero,
Alexander Von Andersen, nella sua armatura scintillante contornata col mantello
chiaro.
«Tu devi essere
Valon, dico bene?»
«Chi lo vuol
sapere?»
«Il legittimo
proprietario della spada che tieni in mano.»
«Davvero? A meno
che non mi sia perso qualcosa, il torneo non ha mai avuto il vincitore.»
«Lo sarei stato,
se tu non avessi messo su quello spettacolino».
Alexander scese da
cavallo e si avvicinò a Valon, davanti al quale si pararono i suoi robot con le
armi alzate.
«Ora, gentilmente,
consegnami quella spada.»
«Mi dispiace, ma
mi ci sono affezionato. Se vuoi che te la dia beh… devi darmi qualcosa in
cambio.»
«Di che si
tratta?»
«Dunque, vediamo…
umh… sì, ho trovato. Te la darò… per la tua vita!».
I due robot con le
mitragliatrici spararono e allora Alexander saltò, estraendo la spada.
Gli bastarono un
paio di colpi ben piazzati per far esplodere non solo quei due, ma anche i loro
compagni.
«Tutto qui?» disse
il giovane «Le tue bambole non sono poi così spaventose.»
«Sono solo degli
strumenti. Avrei potuto fare benissimo a meno di loro.»
«Ma davvero? E
allora fatti sotto!».
Senza ulteriori
giri di parole Alexander ricorse allo Starlight Mirage, scagliando su Valon
tutta la potenza che quell’incantesimo gli permettesse di radunare;
l’avversario neppure si mosse, né accennò un tentativo di difendersi, e venne
centrato in pieno.
Il colpo produsse
prima una forte esplosione, poi un fittissimo polverone.
«Troppo facile.»
disse Von Andersen
«Sicuro?»
«Ma che…».
Da dietro la cappa
grigia partì un fascio di luce nero brillante che colpì Alexander in pieno
petto e lo spedì a dieci metri di distanza, contro il tronco anche troppo duro
di un pino. L’urto fu tremendo, e Andersen dovette appoggiarsi alla spada per
riuscire a mettersi in piedi, ma la sorpresa più allucinante fu quando,
rialzato lo sguardo, vide Valon uscire dal polverone praticamente illeso.
“Non… non gli ho
fatto niente…” pensò “Eppure… ho usato tutta la mia forza…”
«Si direbbe
proprio che qualcuno abbia fatto il passo più lungo della gamba.» ghignò Valon.
La Spada di Gigabrian in quel
momento prese a brillare leggermente di azzurro, un segno che il mago,
conoscendo i segreti che si celavano dietro a quel manufatto, riconobbe
immediatamente, ed allora il suo stupore fu grande.
«Guarda, guarda.
Questa sì che è una sorpresa. Tu sei uno dei custodi».
Alexander non
rispose, ma l’espressione di odio sul suo volto lo fece per lui.
«Dovevo
immaginarlo. Mi stavo giusto chiedendo come fosse possibile che un pomposo
aristocratico tuo pari potesse sprigionare un potere magico tanto grande. Ora
la risposta è chiara. Quel potere non è tuo. Lo stai solo usando.
Ma ora, come puoi
vedere, questa spada lo sta reclamando. Ed io lo recupererò».
Il giovane
guerriero si rimise in piedi, ringhiò leggermente, quindi si lanciò di nuovo
all’attacco.
«Questo potere è
mio, mio di diritto!».
Valon però evitò
senza problemi tutti i suoi disordinati fendenti, quindi lo afferrò per le
spalle e gli assestò una gomitata allo stomaco che lasciò Alexander in
ginocchio a tremare per il dolore lancinante.
«Ne hai ancora di
strada da fare, moccioso. Usi il tuo potere di custode in modo del tutto
istintivo. Non sei in grado neppure di comprenderne la reale portata. Sei solo
un parassita attaccato ad un corpo del quale succhia la linfa un goccio alla
volta. Non certo il guerriero potente e senza macchia che vorresti far credere
di essere».
Alexander reagì a
quell’imperdonabile insulto con una nuova carica, e questa volta Valon si
decise ad usare la spada; parò facilmente tutti gli attacchi, tenendo persino
la mano sinistra dietro la schiena, tutte cose che mandarono fuori dai gangheri
il suo sfidante.
Dopo aver
scavalcato la sua guardia, Valon trafisse Alexander con un rapido affondo che
oltrepassò senza problemi la sua armatura fra la il torace e la spalla
sinistra. Il ragazzo gridò dal dolore e cadde nuovamente in ginocchio, quindi
ricevette un calcio che di nuovo lo fece rotolare sull’erba.
I suoi bei capelli
biondi erano ora sporchi di terra, il suo viso angelico era coperto di graffi e
il suo sguardo, da spavaldo, si era fatto spaventato.
«È ora che tu
restituisca ciò che non ti appartiene.» disse il mago sollevando la spada.
Poco lontano,
Regis, Dave e le ragazze stavano seguendo il tracciato magico lasciato
dall’incantesimo che Valon aveva usato per abbandonare Qerin, nella speranza di
riuscire a ritrovare il ladro e poter recuperare la spada rubata. Si erano
inoltrati da poco nel bosco, quando videro uno stormo di uccelli sollevarsi di
colpo dalla macchia, e subito dopo una colonna di luce nera, accompagnata da un
grido straziante.
«Era la voce di
Von Andersen.» disse Dave «Ma che cosa ci fa qui?»
«Non è ovvio?»
rispose Elys «Quel bastardo opportunista avrà cercato di recuperare la spada e
di tenersela per sé».
La spada che Regis
aveva con sé tremò, un bruttissimo segno che lasciava presagire il peggio,
tanto che il guerriero partì immediatamente al galoppo in direzione di quella
luce.
«Regis!» gridò
Sakura andandogli dietro assieme agli altri «Aspettaci!».
Alexander, inginocchiato a terra quasi
morto, sorreggendosi alla sua spada cercava con ogni mezzo di rialzarsi.
Davanti a lui, Valon, con quel suo solito ghigno di soddisfazione.
«Guardati.
Sei solo un buono a nulla. Non vali neppure la metà
della persona che sostieni di essere».
Il corpo di
Alexander prese di colpo a circondarsi di una strana
luce rossa, poi la sua armatura e la sua spada cominciarono gradualmente a
scomparire, polverizzandosi in pochi secondi. Il giovane, rimasto con indosso
solamente una tunica, si accasciò privo di sensi.
«Mi
sono stancato di te, ragazzino. Fai buon viaggio».
Valon alzò la spada per dargli il colpo
di grazia, ma prima ancora che potesse abbassarla l’aria fu squarciata da un
sibilo, ed una freccia gli si conficcò dritta nel polso; lui non gridò, non si
scompose minimamente, e fu pochissimo il sangue che schizzò dalla ferita.
L’unica
espressione a comparire sul suo volto fu di piacevole stupore, e giratosi nella
direzione da cui il dardo era venuto incrociò gli
occhi di Regis, che dall’alto del suo cavallo lo fissava con l’arco alzato.
Dietro di lui, i
suoi compagni.
«Alla buon’ora. Mi chiedevo quando sareste arrivati.»
«Incredibile.»
disse Elys «Ha una freccia nel polso e si comporta come se niente fosse.»
«Se lo definiscono
un mago di classe superiore ci sarà un motivo.»
rispose Sakura «Il suo potere è forse superiore anche al mio».
Valon abbassò dunque il braccio, afferrò la freccia e se la
sfilò come si farebbe con una scheggia fastidiosa, senza alcuna smorfia. Questa
volta il sangue schizzò a fiotti, ma nel giro di pochi secondi la ferita fu
completamente rimarginata.
«Mai visto niente
di simile.» commentò Elys
«Vogliate avere la
pazienza di aspettare solo un altro secondo.» disse il nemico concentrandosi
nuovamente su Alexander «Il tempo di concludere con
questo idiota e sarò da voi.»
«Desolato.» disse
Elys «Ma ci serve la tua attenzione adesso!».
Senza pensarci
troppo la ragazza partì all’assalto sguainando la sua enorme spada.
«Elys, non fare
sciocchezze!» le gridò Regis trovandosela improvvisamente sulla traiettoria
della sua freccia, ma non ci fu nulla da fare.
Valon la guardò, e quando lei menò il fendente
lui afferrò saldamente il filo della lama senza farsi neanche un graffietto,
sollevò l’arma e la sua proprietaria con la sola forza di un braccio e le
scagliò entrambe alle sue spalle, facendole volare a diversi metri mentre il
cavallo continuava la sua corsa sparendo nel bosco.
«Elys!» disse Dave
«Stai bene?»
«Tu che dici?»
rispose la ragazza passandosi una mano sulla testa «Ci vuole ben altro per
mettermi alle corde».
Regis colse al
volo la distrazione di Valon e, usando un
incantesimo, gli spedì contro ben otto frecce contemporaneamente, costringendo
l’avversario a saltare all’indietro. Ciò diede a lui e a tutti i suoi compagni,
Elys inclusa, l’opportunità di frapporsi fra lui e Alexander, ancora riverso ai
piedi di un albero isolato.
«Perché
siete così ansiosi di morire? Ma soprattutto, perché
vi parate in difesa di un individuo come quello? Non è altro che un vile, uno
di quegli aristocratici marci e corrotti che portano i
regni e gli imperi alla rovina.»
«Quelli che volevi
distruggere, vero Valon?» disse Regis «Era a questo che miravi quando sei entrato nell’Alto
Consiglio, ed è stata la ragione del tuo esilio.»
«Aristocratici o
maghi non fa differenza, se i nobili sono marci i
maghi sono conservatori. Sono troppo attaccati ai loro privilegi per
privarsene. Cambiare la strada di una nazione non è cosa per i marci o i
conservatori.»
«Ma neanche per
gli psicopatici come te.» disse Elys
«Sai.
Ho deciso che oggi morirete tutti. Ma per movimentare
un po’ la cosa, direi di bandire una bella caccia al tesoro. Voi volete questa
spada, vero? Quand’è così… venite a prenderla!».
Valon lasciò cadere dalla manica del suo vestito quella che
aveva tutta l’aria di essere una granata luminosa, infatti, appena toccò terra,
l’intera area venne avvolta da una luce accecante che
obbligò tutti a coprirsi gli occhi, e in questo lasso di tempo il ladro ne
approfittò per sparire.
«Dannato, se l’è
svignata!» disse Sakura
«Quand’è così,
staremo al gioco.» replicò Elys «Forza, andiamolo a stanare!»
«Non essere
impulsiva.» rispose Regis «Dobbiamo muoverci con cautela, o oltre che starci al
suo gioco finiremmo anche per farlo.»
«Che cosa proponete, maestro?»
«Dividiamoci.
Io, Elys e Sakura batteremo tre piste differenti alla
sua ricerca. Ci terremo in contatto coi cristalli. Mi
raccomando però, niente colpi di testa. Se lo individuate
avvertite gli altri.»
«Maestro, io cosa
faccio?»
«Tu rimani con
Alexander.»
«Ma… voglio
combattere…» accennò Dave in protesta
«Dave.
Non possiamo lasciarlo solo. Inoltre, ha bisogno urgente di assistenza. Non preoccuparti, noi tre basteremo.»
«Ma io…».
Il ragazzino non
criticò ulteriormente e lasciò che i suoi tre compagni corressero in direzione
della foresta.
«Potevi anche
dirglielo che eri semplicemente preoccupato per lui.» disse Sakura
«Non è così…»
replicò Regis, ma la sua risposta risultò subito poco
credibile «Il Sigillo degli Déi non si è ancora completamente stabilizzato.
Sarebbe rischioso farlo combattere.»
«L’ho
già detto prima. Sei sempre il solito.»
«Hai detto
qualcosa?»
«Niente, non farci
caso.»
«E allora,
andiamo».
A quel punto i tre
si separarono, e non appena si inoltrarono fra gli
alberi Dave li perse di vista. Il giovane stregone eresse subito una cupola
tutto intorno per essere protetto da un eventuale attacco a sorpresa, ma appena
girò il suo ex-avversario per poterlo curare dalla veste di quest’ultimo
scivolò fuori un bellissimo rubino romboidale che sembrava brillare di luce
propria.
«Che cos’è?» disse
prendendolo in mano.
Quell’oggetto
traboccava energia da tutti i pori, un potere magico che Dave mai aveva
percepito, il che lo spinse ad azzardare una ipotesi
molto ardita, ma anche l’unica che gli pareva logica.
«Che sia…» esclamò
incredulo.
Camminando lentamente, con lo spadone sollevato e pronto a
colpire, Elys si guardava continuamente intorno, aspettando il momento in cui
avrebbe potuto finalmente riaffrontare Valon e fargli
pagare la figuraccia di pochi minuti prima.
«Aspetta solo che
ti metta le mani addosso, bellimbusto che non sei altro».
Tirava una brezza
leggera che faceva ondeggiare i rami degli alberi, ma questo non era un
problema per i sensi di Elys, allenati a percepire la più
minima differenza fra un rumore naturale e uno prodotto da qualcuno. Era
pronta a qualsiasi cosa, e per quanto Valon fosse
forte e veloce all’udito di una Kalimi non si
sfuggiva.
Udito e vista
erano molto più che sensi per i guerrieri del suo popolo, erano strumenti di
vita; poter ascoltare il diverso rumore della sabbia sollevata dal vento, saper
distinguere la coda di uno scorpione a mezzo miglio di distanza.
All’alba della
loro storia, i Kalimi erano una popolazione pacifica
e mite che praticava la pastorizia e l’allevamento nei territori desertici
dell’ovest, spostandosi continuamente da un’oasi all’altra portandosi dietro le
loro carovane fatte di tende e poche cianfrusaglie di valore.
Fra tribù si era
sempre andati d’accordo, e si era stabilito una sorta di tacito accordo che
permetteva a due o più tribù di usufruire di una unica
oasi in totale armonia.
Poi però,
spingendosi a nord, erano andati a scontrarsi con gli interessi di un’altra,
pericolosa tribù: gli Insathi, esseri antropomorfi
con fattezze feline, che alcuni collocavano come la maggiore delle tre razze non
antropomorfe che abitavano il continente, subito prima dei Tengu
e degli Inu.
Come i Kalimi, anche gli Insathi erano
di natura pacifica, ma ad un certo punto, non si sa
bene per quale motivo, i due popoli entrarono in guerra.
Secondo gli
storici, entrambi avevano interessi per i territori del nemico: i Kalimi volevano avere accesso alle fertili foreste del
nord, gli Insathi invece, più interessati al
commercio, cercavano lo sbocco all’oceano meridionale, dal
momento che la strada verso il Mare Magnus a nord era sbarrata dal
Sultanato di Ahmina, l’unico in tutto il continente a
non accettare i mercanti Insathi nei suoi territori.
Così, entrambi i
popoli si videro costretti ad imparare qualcosa che
mai avevano avuto motivo di sfruttare: la guerra.
Sfruttando le
abilità apprese in secoli di peregrinazioni fra le implacabili dune desertiche,
i Kalimi si trasformarono da pastori in soldati,
abili nell’uso della sciabola, dell’arco e delle spade gemelle, fecero della
guerra e dell’addestramento ad essa la loro ragione di
vita.
Gli Insathi al contrario si rivelarono del tutto impreparati ad una simile eventualità: la loro razza non era
naturalmente portata per il combattimento, ed i loro corpi, malgrado i lunghi
viaggi, non erano duri e resistenti come quelli dei Kalimi,
temprati dal sole e dal caldo opprimente.
Fu solo grazie
agli interessi economici che avevano con gli stati coi
quali commerciavano che poterono salvarsi, dal momento che quasi ogni regno
umano, ma anche molti popoli elfici, mandarono dei piccoli distaccamenti in
loro difesa.
Ma i Kalimi, seppur inferiori di numero, avevano
il deserto dalla loro parte, e la guerra proseguì per ben cinque anni, fino a
che si arrivò ad un accordo.
Gli Insathi
avrebbero rinunciato per sempre ad espandere la loro
influenza verso sud, e si sarebbero tenuti lontani dai territori dei Kalimi; in cambio, avrebbero potuto girare indisturbati per
tutto il resto del Continente, e le loro carovane avrebbero goduto della
protezione del regno sul quale transitavano.
I Kalimi invece ottennero di potersi espandere verso oriente,
lungo le più fertili steppe al confine con il Regno di Fiya, che in passato
aveva sempre sbarrato loro la strada. In seguito, quando Fiya cominciò ad espandere il proprio dominio ad ovest, offrì la
cittadinanza a tutte le tribù che lo avessero voluto, il che offriva buoni
vantaggi ma esigeva anche alcuni sacrifici.
Qualche tribù
accettò di adeguarsi, qualche altra mantenne la propria condizione nomade,
spostandosi continuamente fra dentro e fuori il regno, ma per la maggior parte
si rifiutarono di abbandonare la propria indipendenza e tornarono nel deserto,
non senza modificare le proprie abitudini; ormai la fama dei Kalimi come guerrieri indomabili e invincibili si era
diffusa, e i loro servigi ora erano molto richiesti.
Se Elys fosse venuta
al mondo qualche secolo prima avrebbe passato la sua vita fra la cura dei figli
e le occupazioni domestiche, tutte cose per le quali non si era mai sentita
portata, e ringraziava gli dèi che l’avessero fatta nascere in un’epoca nella
quale le donne avevano la possibilità di fare strada
come soldati allo stesso pari degli uomini.
E lei non solo
aveva la possibilità di essere una guerriera; lei doveva esserlo. Era la
secondogenita di Barac-Shalin, uno dei capitribù più
conosciuti e rispettati fra la sua gente, e portava sul suo corpo i segni della
propria fiera, nobilissima discendenza.
Un motivo in più
per Elys per riscattare il proprio orgoglio affrontando e sconfiggendo colui che l’aveva umiliata.
Stava per muovere
nuovamente il piede in avanti, quando ebbe l’impressione di sentire un rumore
alle sue spalle, ed immediatamente si volse tenendo la
spada pronta a colpire.
Un piccolo
scoiattolo stava zampettando tranquillamente sul ramo di una quercia,
producendo un rumore che solo un Kalimi avrebbe
potuto sentire, eppure Elys non fu per niente soddisfatta del proprio udito:
avrebbe dovuto capire subito che si trattava solo di un animale, senza neanche
perdere tempo a girarsi, distraendosi dal suo vero obiettivo.
Di nuovo si volse,
ma prima di poter accennare una reazione si ritrovò a tu per tu con il volto
pallido di Valon e coi suoi
occhi, che scintillavano di rosso; erano occhi stranissimi, dai quali la
ragazza avrebbe voluto sottrarsi, ma per quanto ci provasse non riusciva a fare
a meno di fissare quella luce.
Ebbe l’impressione
di caderci dentro e si coprì istintivamente il viso subito prima che un vento
rovente la investisse.
Qualche istante dopo, avvertì qualcosa di famigliare sulla sua pelle.
Calore; il
piacevole tepore del deserto, che per un uomo normale avrebbe costituito un
caldo insopportabile, ma che per lei era un piacere immenso.
Lentamente, aprì
gli occhi, che subito vennero toccati da bellissimi
raggi di sole, e che dire poi della soffice sabbia che avvertì d’improvviso sotto
i suoi piedi.
Si guardò attorno,
incredula e stupita; decine di tende di lino colorato, sorrette da bastoni di
palma, si ergevano tutto intorno a lei a formare un cerchio.
Lo riconobbe
subito. E come poteva essere altrimenti?
«Ma questo… è il mio villaggio…».
Quanto aveva
sognato di poterci un giorno rimettere piede. Erano passati quasi quattro anni
da quando lo aveva lasciato, per motivi che nessuno aveva mai saputo, ma da
quel momento era sempre stato nel suo cuore, e sperava di poterlo rivedere.
Non pensò neppure
di chiedersi come aveva fatto ad arrivarci, o perché in giro non ci fosse
nessuno, e ancora con la spada in mano cominciò a correre come una forsennata verso la tenda più grande, quella con tre
guglie.
Appena scostò il
velo che copriva l’ingresso, le sembrò di aver ritrovato una parte della sua
vita.
Tutto era
esattamente come lo ricordava: gli eleganti tappeti, il tavolino circolare al
centro attorno a cui ci ritrovava, la sera, per bere
il tè, parlando della giornata appena conclusa, i cuscini morbidi e soffici sui
quali concedersi lunghe dormite.
Ma
ciò che fece quasi piangere di gioia la ragazza fu vedere loro: sua madre,
seduta al telaio coperta dal velo, e suo padre, intento a dormire fra una pila
di cuscini, come faceva sempre nel primo pomeriggio, completamente nascosto
dalla sua lunghissima tunica e dalla fascia attorno alla testa.
«Mamma!
Papà!» esclamò «Siete davvero voi!».
Loro però non
risposero, e neppure si mossero; sembravano due statue. Elys però si aspettava una
reazione di quel tipo: d’altronde, con quello che aveva fatto, era il minimo.
«Sono io… Elys…
sono tornata…».
Avvicinatasi alla madre cercò di attirare la sua attenzione, ma appena le mise
una mano sulla spalla il suo corpo cadde all’indietro, e fu allora che sul
volto di Elys si stampò un’espressione di terrore.
Del volto che la
guerriera ricordava nei suoi sogni, l’ultimo che da piccola vedeva prima di
addormentarsi, mentre le veniva cantata quella
bellissima ninnananna, non rimaneva altro che un orribile teschio, con la bocca
piegata in un ghigno malefico.
Elys si sentì come
se le avessero strappato il cuore, come se fosse prigioniera di un incubo;
giratasi verso il padre, si accorse che anche lui non era nulla più di uno
scheletro, per quanto i cuscini, i vestiti e il copricapo lo nascondessero
alla vista.
Gli occhi della
ragazza sembrarono spegnersi, la spada le cadde di mano e si portò
le mani alla testa, come a volerle impedire di scoppiare in preda al delirio
che sentiva crescervi dentro.
Pochi istanti dopo un grido terrificante squarciò il
silenzio della foresta; a sentirlo più forte e vicino fu Sakura, che
immediatamente riconobbe la voce.
«Elys.» disse.
Senza indugio
corse nella direzione dalla quale lo aveva sentito provenire, e dopo una
ventina di metri la raggiunse; Elys era distesa a terra sulla pancia e per un
attimo Sakura pensò che fosse morta.
Poi però,
girandola, vide che respirava normalmente, ma i suoi occhi erano vuoti, spenti,
ed il suo viso era senza espressione.
«Ipnotizzata.»
«Sakura, che
succede?» domandò Regis attraverso il cristallo
«Elys
è stata ipnotizzata. Si riprenderà tra poco.»
«Va’ bene. Resta con lei. Io intanto…»
«Regis?» disse la
maga sentendo mozzarsi la voce dell’amico «Qualcosa non va’?»
«È qui. Vicino a me.
Percepisco la sua presenza.»
«Dove ti trovi?»
«All’incirca
duecento metri a ovest della tua posizione.»
«Ti raggiungeremo il prima possibile.»
«D’accordo».
Regis rimise
rapidamente il cristallo al suo posto e sguainò la spada; aveva sentito dei
passi, ed era certo che qualcuno lo stesse spiando.
Era pronto a tutto
tranne a quello che era successo poco dopo. Sapeva
che, chiunque fosse, era di fronte ad una grande pietra poco distante, e la
aggirò per trovarsi faccia a faccia con… lui.
Non poteva credere
ai suoi occhi, e per un attimo rimase completamente paralizzato. Di fronte a
lui, seduta sopra ad una roccia, c'era una persona che
non avrebbe mai pensato di rivedere, un giovane dai capelli argentei e gli
occhi di zaffiro il cui viso aveva i tratti inconfondibili della tribù che lo
aveva adottato. Avrebbe dovuto pensare ad un imbroglio,
ma i ricordi lo sommersero. Quel ragazzo era stato per lui come un fratello
minore, e per molto non aveva potuto pensare a lui senza che il rimorso lo
sommergesse, il rimorso per un peccato, uno dei tanti per i quali in seguito era stato chiamato a fare ammenda, ma quello era forse il
peggiore di tutti, per il quale sentiva che mai avrebbe potuto perdonarsi.
Adesso, vedendoselo davanti, Regis
fu assalito da sentimenti contrastanti. Sapeva che non poteva essere suo
fratello, eppure una parte di lui si ostinava a
credere che fosse così. Non riusciva a non cercare una spiegazione per
giustificare il suo ritorno.
«Chi sei?».
Avrebbe voluto fingere
di essere totalmente sicuro dell’inganno, voleva sembrare sprezzante come era sempre con i suoi avversari, ma si rese conto anche
lui che la sua voce tremava.
Il ragazzo rispose con un sorriso perfido sul
volto.
«Lo sai benissimo
chi sono, Regis. O forse, dovrei chiamarti Toshio? O preferisci qualcosa di
più... antico?».
Rimase in silenzio. Le persone che sapevano
delle sue origini erano pochissime e su quel mondo nessuno le conosceva per
intero. I dubbi non facevano che aumentare.
«Di nomi ne hai avuti tanti, o sbaglio?».
Non seppe rispondere a quelle domande e
decise di farne un’altra lui.
«Come sei arrivato qui?»
«E tu che mi dici? Come ci sei finito qui?».
Regis,
completamente spiazzato, rimase in silenzio. Dentro di sé sapeva come era arrivato su quel mondo, ma perché suo fratello gli
aveva fatto quella domanda? Dove voleva arrivare?
«Che c’è? Te lo sei
dimenticato? Vuol dire che ti rinfrescherò la memoria. Se adesso ti trovi qui,
è solamente perché sei un codardo.»
«Un… codardo!?».
Fu sorpreso e irritato da quell’offesa.
Sapeva di avere tanti difetti ma non aveva mai dubitato del suo coraggio.
Il ragazzo rise sprezzante.
«Certo, sei un
codardo, anche se non vuoi ammetterlo per colpa del tuo smisurato orgoglio. Sai
qual è la verità? Tu avevi paura, Toshio. Avevi paura di affrontare il peso
delle colpe che ti eri lasciato sulla Terra.»
«Le mie… colpe…?».
A quelle parole i sensi di colpa che aveva cercato di mettere a tacere con gli anni e le
innumerevoli imprese compiute a favore del regno, le stesse imprese che lo
avevano reso famoso, tornarono a farsi sentire. Aveva lottato tanto per cercare
di proteggere quel regno che lo aveva accolto, e adesso era stimato e onorato
da tutti, ma questo sarebbe bastato a riscattarlo da quello che aveva fatto?
Come se avesse intuito i suoi pensieri, suo
fratello continuò a prendersi gioco di lui.
«Toshio… Davvero
credevi di averle espiate? Credevi davvero che riportare in vita gli abitanti
di una città e compiere quel bel gesto da martire solitario fosse sufficiente a
ripulirti la coscienza? Oltre che codardo sei anche stupido, allora. Devo forse
elencarti tutte le persone che sono morte da che tutto questo ha avuto inizio?
Chi credi che sia stato all’origine della loro scomparsa?».
Regis
non si oppose. Come poteva opporsi alla verità? Per quanto fingesse o cercasse
di fare del bene per rimediare, le sue colpe passate restavano. Tutto il bene
che aveva fatto e che ancora avrebbe potuto fare, non
poteva cancellare il passato. Si può cambiare il futuro ma il passato rimane lì,
indelebile, come le colpe che aveva cercato di dimenticare.
«Dimmi una cosa,
Grande Regis, sei sicuro di meritare la stima della gente? Pensi davvero di
meritare questo titolo altisonante?»
«Non l’ho certo chiesto io».
Per la
prima volta trovò la forza di rispondere, non perché volesse difendere il suo
titolo ma perché quella che aveva detto era la pura e semplice verità; non
aveva mai chiesto a nessuno di rendergli merito delle sue azioni.
«Ciò non toglie che
tu non lo meriti, fratello. Dici di volerli proteggere ma li stai prendendo in
giro tutti quanti, ti sei approfittato di loro, Regis. Pensaci.»
«Questo non è vero!».
Non poteva lasciargli insinuare una cosa del
genere, non aveva mai tradito il popolo di Fiya né l’avrebbe mai fatto
«Non è vero dici… Dimmi
una cosa: questa gente che ti ha accolto e onorato conosce la tua storia?».
Era un’altra di quelle domande che non necessitavano di una risposta, e che gli faceva capire di
essersi sbagliato.
«Ti rispondo io: non
la conosce. L’hai tenuta nascosta perché avrebbero avuto paura di te. Se tu
avessi raccontato chi eri veramente e cosa avevi fatto, avrebbero tenuto le
distanze da te, la fama e l’onore che hai adesso sarebbero state
solamente le protagoniste dei tuoi sogni migliori. Non ti senti un ingrato
verso di loro? Ma come fai a vivere in questo modo?!».
Nel parlare il ragazzo si alzò in piedi
muovendo un passo verso di lui, e fu quello il suo errore. Regis sentì qualcosa
cambiare, da quando era arrivato lì aveva avvertito
l’aura malefica di Valon ma solo adesso che il
ragazzo si era avvicinato aveva capito che proveniva da lui.
Questa scoperta gli diede la forza di reagire
e alzò di scatto la spada puntandola alla gola di quello che diceva di essere
suo fratello.
«Tu non sei Sanak!»
«Ah no? Come fai ad esserne sicuro?»
«Sei sola una creazione di Valon.»
«Beh allora
uccidimi. Che aspetti?»
«Bada a come parli!».
Era
certo che non fosse realmente Sanak, e non sopportava
più di essere messo con le spalle al muro da lui.
«Forza Regis! Tira
fuori quel coraggio di cui vai tanto fiero e uccidimi. Se avevi ragione tu avrai eliminato una creazione di Valon,
se invece ti sbagli sarò solo una vittima innocente della tua spada».
La punta della spada era vicinissima alla sua
gola, bastava pochissimo per eliminarlo eppure non se la sentiva di rischiare.
«L’hai già fatto una volta, che ti costa
rifarlo?»
«Sai che ti dico?
Hai ragione!».
E con un colpo di spada fece sparire
l’illusione.
«Puoi anche venire
fuori, Valon! Ho capito il tuo gioco!».
La risata malevola del nemico preannunciò la sua materializzazione attraverso un circolo
magico apparso sul terreno.
«Non è stata una
bellezza? Di sicuro una delle mie illusioni più riuscite.»
«È solo un fenomeno da baraccone.»
«A dire la verità, è
un vecchio trucco Tengu. Sondo la tua mente…»
«… ed estrai pensieri che con la magia puoi
convertire in esperienze reali.»
«Oh, oh. Allora sei
davvero esperto.»
«Credi di essere il solo ad aver viaggiato
per tutto il continente studiando le arti mistiche di altri popoli?»
«In questo caso, sarà una sfida divertente».
Valon sollevò la
spada, e Regis fece altrettanto. Per lunghi secondi rimasero immobili, poi si corsero incontro e fecero cozzare violentemente le loro
armi, il cui urto produsse una forte scintilla di luce.
Secondo la leggenda, la Spada di Gigabrian
era in grado di frantumare qualsiasi altra arma convenzionale grazie
all’immensità del suo potere, eppure quella di Regis rimase perfettamente
intatta.
«Hai un’arma ben strana, amico.»
«È una spada molto
speciale. Ti consiglio di non sottovalutarmi, e di fare del tuo meglio!»
«Non chiedo altro».
Interrotto lo scontro di forza
presero a correre fra gli alberi, saltando con un’agilità sorprendente fra i
rami e le fronde; malgrado ciò, nessuno dei due perdeva una mossa dell’altro, e
di tanto in tanto i due tornavano a combattere, per poi allontanarsi di nuovo.
«Fatti sotto, Grande
Regis! La tua leggenda finirà oggi!».
La loro corsa si interruppe
in uno spiazzo aperto ai piedi di un altissimo dirupo, un luogo ideale per lo
scontro risolutivo.
«Lo riconosco, sei bravino.»
disse Valon sistemandosi gli occhiali «La fama che ti
circonda è del tutto meritata.»
«Anche tu non sei
male, lo riconosco. Potresti fare grandi cose per
questo mondo.»
«Chi ti dice che non
voglia farle? Ma d’altronde è un fatto risaputo. Se sei vuole epurare un prato, la prima cosa da fare è
strappare le erbacce. Bisogna distruggere per cambiare.»
«Uno psicotico tuo pari
non può cambiare proprio nulla.»
«È buffo che proprio
tu mi definisca così. C’è chi va’ dicendo che il tuo
arrivo ha segnato il passaggio di un’epoca. Secondo alcuni sei tu colui che cambierà le cose. Ma la gente comune, come tu ed io sappiamo, è portata a credere ad ogni cosa. Gli
abitanti di Fiya poi, sono così superstiziosi. Basta
estrarre un coniglio dal cilindro ed ecco che tutti si inginocchiano
al nuovo Messia.»
«E tu credi che
questo possa accadere sventolando una spada? Credi che si inginocchieranno
ai piedi di colui che ha quasi distrutto la capitale di questo regno?»
«No di certo. Ma questa spada può aiutarmi sicuramente a creare un nuovo
ordine. E se devo essere sincero, in questo nuovo ordine non c’è posto per te!».
Valon corse contro
Regis ad arma tratta, e il giovane dapprima rimase immobile con lo sguardo
basso, ma poi, all’ultimo secondo, sollevò la sua spada in propria difesa.
«Non mi risulta di
aver mai provato interesse per questo nuovo ordine di cui parli. Quello attuale
mi va’ più che bene!».
Uno scatto rabbioso fece volare Valon, e immediatamente Regis gli corse incontro, iniziando
con lui uno scontro fisico di proporzioni epocali,
tali da far sembrare la guerra sacra una cosa da niente. Erano guerrieri di
classe superiore, dotati di forza, agilità e potere magico senza pari, e come
se non bastasse entrambi stringevano fra le mani delle
armi leggendarie.
Ciò nonostante però Valon,
grazie alla Spada di Gigabrian, godeva
di un deciso vantaggio, e fu proprio grazie a questo se nei successivi
minuti riuscì a far pendere l’ago a suo favore, costringendo Regis a mantenersi
costantemente in difesa.
Valon colse al volo
una seppur minima esitazione del nemico dopo che questi aveva inutilmente
tentato di sorprenderlo con un incantesimo e lo colpì al petto con un pugno che
lo scaraventò contro la base del dirupo con forza tale che per poco a Regis non
gli spezzò la schiena.
Malgrado ciò però si ritrovò disteso a terra
in preda ad un fiatone incontrollabile.
«Guardati. Fai solo
pena».
Dato che Regis non sembrava essere in grado
di rialzarsi Valon si avvicinò a lui con l’intento di
finirlo.
«Per che cosa combatti tu?» gli chiese quando
lo sovrastò
«Per il mio passato immagino.»
«Il passato, eh?
Beh, ormai non ha più importanza. Muori, eroe!».
Valon gli si
avventò sopra per trafiggerlo, ma all’ultimo istante una cupola di vento
protesse Regis e obbligò l’aggressore a desistere; questi, voltatosi, vide comparire Elys e Sakura, quest’ultima affiancata dallo spirito
del vento e con in mano il suo enorme spadone luminoso.
«La partita è tutt’altro che chiusa, Valon.»
«Lasciatelo a me!» gridò Elys «Ho più di
qualche conto in sospeso con questo schifoso verme!».
Regis ne approfittò per rialzarsi, grazie
anche alla magia curativa che l’incantesimo di Sakura gli aveva trasmesso
assieme alla protezione dall’attacco di Valon.
Questi, pur circondato e in inferiorità
numerica, non smise di sogghignare maleficamente, ed
anzi sembrò assumere un’espressione ancor più sicura di sé.
«Adesso ci divertiamo».
Pochi secondi dopo sotto i suoi piedi si
generò un circolo magico color sangue molto luminoso, ed
i segni arcani riportati tutto intorno a quella stella ad otto punte non
lasciavano presagire niente di buono.
Tutti e tre i compagni capirono
immediatamente quello che stava per accadere e si circondarono con delle
barriere, ma ciò non bastò a proteggerli dall’uragano di vento e luce che si
sprigionò dal corpo di Valon; dopo essere stati scaraventati via come foglie secche, Elys e Sakura
finirono contro un albero, Regis invece colpì nuovamente la roccia.
Sakura fu la prima a venire
incalzata subito dopo aver accusato il primo colpo; per qualche secondo riuscì
ad opporsi, ma poi venne ripetutamente colpita, e fu solo grazie
all’incantesimo rigenerativo perennemente attivo su di lei se quei due fendenti
non la uccisero, ma tutta la sua energia fu spesa per salvarle la vita e così
la maga si ritrovò a terra quasi svenuta.
A Elys invece bastò ricevere un colpo da un pugno
caricato di energia magica per crollare senza poter resistere, lasciando
nuovamente Regis da solo.
Il giovane tentò una resistenza disperata, ma
ormai era del tutto alla mercé della superiorità magica di
uomo, assolutamente su un altro livello rispetto alla sua; il pugno che
ricevette allo stomaco fu forte al punto da fargli sputare sangue e lasciarlo
inginocchiato sull’erba.
«Guardatelo. Ecco
quello che resta del grande eroe di questo regno. Neppure lui può opporsi al
potere della Spada di Gigabrian, né tantomeno al mio.
Diciamoci la verità, non sei mai stato un vero eroe.
Un conto è battersi contro un esercito di soldati allo sbando, un conto è
sfidare qualcuno come me».
Toshio non rispose, non ne aveva la forza, ma
alzò comunque gli occhi, e dentro vi era lo stesso ardore di sempre; tale gesto
fu accolto da Valon con un ennesimo ghigno.
«Sprezzante fino
alla fine, eh? Non preoccuparti, i tuoi cari amici verranno a tenerti compagnia
molto presto… all’inferno!».
Prima ancora che lo stregone potesse
muoversi, un raggio di luce rossa spuntato dal nulla lo centrò in pieno
scaraventandolo via come lui aveva fatto con gli altri.
«Ma cosa…».
Tutti volsero lo sguardo nella direzione da
cui era venuto, e un istante dopo dagli alberi uscì Dave, con
in mano il rubino rosso sangue trovato addosso ad Alexander.
«Dave!?» disse Elys
«No!» gridò invece Valon
vedendo cosa stringeva il ragazzo «Quello è…».
Regis colse al volo la sua distrazione e,
correndogli contro, lo colpì con tutta la sua forza. Valon
parò l’attacco, che però si rivelò davvero troppo forte, e alla fine la Spada di Gigabrian
gli cadde di mano.
Prima che potesse recuperarla Regis girò su sé stesso e gli sferrò un calcio che lo spedì
lontano, e nel contempo si impossessò del prezioso tesoro.
Valon, pur non
cadendo, strisciò per parecchi metri sull’erba umida, e quando risollevò lo sguardo si trovò di fronte Regis con in mano sia la sua arma
che Spada di Gigabrian.
«Dannazione!».
Nulla era paragonabile a ciò che Regis provò
nello stringere in mano quell’oggetto straordinario; poteva avvertirne
distintamente il potere magico, ma in modo diverso da cui solitamente percepiva
le energie provenienti da scettri e altre cose simili.
Era come se quel potere, dalla spada, gli scorresse
direttamente nelle vene; era bellissimo.
Poi, di nuovo avvertì quella sensazione,
quella specie di voce interiore che gli faceva fare
cose che persino lui reputava inconcepibili, e che mai si sarebbe sognato
neppure di pensare, ma alla quale non riusciva assolutamente a disubbidire.
Facendo ciò che gli veniva
ordinato portò la sua spada e quella di Gigabrian in
una sola mano, facendo in modo che si toccassero quanto più possibile.
Per interminabili secondi non accadde nulla, poi però entrambe le armi vennero circondate da una luce
accecante, così forte da squarciare le nubi nere che si erano addensate sul
campo di battaglia, generando una colonna luminosa che fu vista a grande
distanza.
Fra quelli che poterono scorgerla c’era anche
Erik, che si era messo sulle tracce di Regis fin da quando quest’ultimoaveva lasciato la capitale.
Lily, come sempre, lo seguiva, e anche lei rimase comprensibilmente senza fiato
alla vista di un simile spettacolo.
«No, no, no, no, no.» disse la fata «Questa
cosa non mi piace per niente».
Completamente alienato da ciò che gli
accadeva intorno Erik neppure la sentì, e facendo
comparire dal nulla le sue ali nere spiccò il volo diritto in quella direzione.
«Ehi, aspettami!».
La luce intanto aveva cominciato gradualmente
a diminuire, e quando scomparve del tutto le due spade
erano scomparse, e al loro posto ne era comparsa una terza, più grande e più
maestosa, dello stesso colore azzurro della Spada di Gigabrian.
La lama doveva essere lunga due metri e mezzo
e larga quasi trenta centimetri; l’impugnatura era di
dimensioni normali, il proteggi mano invece aveva assunto la forma di una
grande sfera schiacciata, sormontata da una magnifica ala angelica.
“Che… che cos’è questa sensazione? È come se
questa spada… fosse parte di me… non ne sento minimamente il peso.”
«No, non può essere!» disse Valon adirato e spaventato
«Maestro!» gridò Dave lanciandogli la pietra
«Prendete questa!».
Regis non ebbe bisogno di afferrarlo, perché
il gioiello, come animato di vita propria, viaggiò per proprio conto verso di
lui; l’ala del proteggi mano si mosse all’indietro,
rivelando una sorta di scomparto segreto nel quale il rubino entrò, venendo
rinchiuso al suo interno.
Un secondo dopo, su entrambe le facce della
sfera si accese una luce rossa molto forte, e tutta la spada venne
attraversata da riverberi color sangue.
«Doveva essere uno
dei cristalli. Grazie Dave!»
«No! Tutto tranne
questo!»
«Valon!
Ora sparirai assieme alla tua mentalità deviata!».
Regis cominciò a far mulinare velocemente la
spada, generando tutto attorno ad essa un alone iridescente che si trasformò in
seguito in un vortice di fiamme azzurre diretto contro Valon.
Questi eresse una barriera per difendersi, ma bastarono pochi secondi perché cominciasse ad andare in pezzi sotto la spinta
incontrollabile di quell’incantesimo.
«Non pensate che sia
finita qui! Io posso anche sparire, ma il mondo che ho intenzione di creare prima o poi vedrà la luce! Questa è una promessa! E voi
tutti non sfuggirete alla vostra inevitabile morte!».
Subito dopo la barriera cedette, e Valon fu circondato dal fuoco che dopo qualche istante
produsse una nuova esplosione di luce.
Quando poi tutto si acquietò e i ragazzi
riaprirono gli occhi, Valon era sparito; al suo posto,
al centro di un cerchio di terra bruciata, c’erano i suoi occhiali, con le
lenti tutte scheggiate.
Sakura, Elys e Dave si avvicinarono.
«Pensate che sia morto?» chiese Elys
«Chi può dirlo?» rispose Sakura «Era un mago
di classe superiore».
Poi, udirono un tonfo alle loro spalle, e
giratisi videro Regis riverso al suolo privo di conoscenza; accanto a lui, la
sua spada e quella di Gigabrian, la quale aveva ora
il rubino di Dave incastonato su uno dei fori della
lama, quello più vicino all’impugnatura.
«Maestro!» disse Dave cercando di svegliarlo «Che
vi succede?»
«Avrà esaurito tutte le sue forze per creare
quell’incantesimo.» disse Sakura «Si riprenderà
presto. Basta lasciarlo riposare».
I tre lo girarono sulla schiena per farlo stare
più comodo, ma appena Dave gli mise la propria bisaccia d’acqua sotto la testa
le nubi nere tornarono ad addensarsi sopra le loro teste, più incombenti e
minacciose di prima.
«Che sta succedendo?» domandò Elys.
Dalle nuvole cominciarono a piovere tuoni e
fulmini di colore rosso sangue, il che lasciò i tre amici paralizzati per il
terrore.
«No…» disse Dave «Non può…».
Non fece in tempo a finire la frase che una
meteora precipitò dal cielo proprio davanti a loro, e dalle fiamme che essa provocò uscì Valon, più minaccioso
e terrificante di prima.
Il ghigno sorridente e malevolo aveva
lasciato il posto ad un ringhio rabbioso,
ulteriormente accentuato da due spaventose file di denti ancor più affilati di
prima. Le mani, prima coperte dai guanti, erano ora scoperte, armate ognuna di
cinque, minacciosi artigli ricurvi.
Da dietro la schiena spuntavano
quattro ali membranose simili a quelle dei demoni, ed anche i suoi occhi rosso
sangue avevano un che di demoniaco.
«Non è possibile. È sopravvissuto
persino all’attacco della Spada di Gigabrian.»
«Se volevate farmi infuriare ci siete riusciti.» disse con voce roca, molto più malefica
di prima.
Elys e Sakura si alzarono in piedi per
contrastarlo, ma a lui bastò alzare un dito nella loro direzione perché dal
cielo giungessero due saette che le colpirono in pieno, provocandogli un dolore
atroce in tutto il corpo.
«Sakura, Elys!».
Dave cercò di fare qualcosa ma ricevette lo
stesso trattamento, e intanto Regis non dava alcun segno di ripresa.
«Mi sono stufato di
giocare con voi. Vi schiaccerò come gli insetti che siete».
I tre ragazzi urlavano con tutta la loro
voce, ma il supplizio non accennava a diminuire, ma l’incantesimo era
strutturato in modo tale da provocare dolore senza uccidere.
Valon stava quasi
per decidersi a portargli il colpo di grazia, quando, dal nulla, giunse una
tempesta di fasci dorati diretta contro di lui.
Per poterli evitare dovette distruggere il
cerchio magico sotto i suoi piedi che usava per controllare i fulmini, così
Sakura e gli altri finalmente furono lasciati liberi, ma erano così provati che
nessuno riuscì a trovare la forza per rimettersi in piedi.
«Non… non mi sembra vero…» mugugnò Elys
lottando con il dolore «Ma in qualche modo… siamo sopravvissuti».
Valon era convinto
che il suo nuovo corpo fosse a prova di ferita, ma quando si guardò la spalla sinistra si accorse che uno dei fasci lo aveva colpito,
dissolvendosi poco dopo e lasciando al suo posto, oltre ai fori sui vestiti,
anche una piccola ustione, una vista che lo fece infuriare.
«Chi ha osato!».
La risposta venne quando un funereo individuo
vestito di nero saltò giù dal dirupo sopra le loro teste, atterrando in
ginocchio fra lui e i ragazzi; era completamente nascosto da un soprabito nero
e stringeva in mano una spada tutta d’oro.
«Chi è quel tipo?» domandò Elys
«Che sia…» disse Dave stupito a bassa voce,
tornando con la memoria a qualche notte prima
«E tu… chi diavolo
sei?» urlò Valon fuori di sé.
Il nuovo arrivato si alzò allora in piedi; il
cappuccio che aveva in testa impediva di scorgerne il viso, fatta eccezione per
il mento e la bocca.
«Solo io posso ucciderlo.» disse con voce di
ragazzo, una voce calma ma autoritaria «La sua vita mi
appartiene».
CONTINUA
Nota dell’Autore.
Eccomi qua! Come
promesso, ho pubblicato questo nuovo capitolo prima di partire per le vacanze. È
stata una faticaccia, ma devo ammettere che ne è valsa la pena, perché nella
concitazione dello scrivere ho potuto inventare nuovi sviluppi.
Akita sosteneva di rischiare il pubblico linciaggio per i finali che ci
riservavano i suoi capitoli, ma dopo questo credo proprio che la sua sorte
toccherà a me, e visto che vado in vacanza dalle sue
parti sarà meglio guardarsi le spalle ^_^.
Ancora una volta
voglio ringraziare sia lei cheSelly per le loro recensioni, e
a chiunque stia leggendo questa fanfic sempre grazie,
anche se un commentino ogni tanto non mi offenderebbe certamente; sono aperto a
tutto, mi basta sentire le opinioni altrui per imparare a migliorarmi. È stato proprio grazie al confronto con le mie due lettrici
più appassionate se questa storia sta prendendo vita sotto una luce che neppure
io avrei mai immaginato, ed i miei ringraziamenti non bastano a ricompensarle
adeguatamente: siete fantastiche, per sempre grazie! ^_^
Poco
dopo essere giunto sul campo di battaglia, l’individuo in nero si abbassò il
cappuccio, rivelando un volto molto somigliante a quello di Regis, che ancora
giaceva privo di sensi dopo aver sfruttato il potere della Spada di Gigabrian.
Valon, fin da subito, intravide qualcosa di
strano in quel ragazzo, un’energia oscura e potente come mai ne aveva
percepite.
«Non hai risposto alla mia domanda.» disse
allora «Chi sei?».
Lo straniero alzò dunque gli occhi per
guardarlo.
«Il mio nome è Erik. La vita di questa
persona spetta a me di diritto. Solo io sono legittimato a togliergliela, io e
nessun altro.»
«La sua vita ti appartiene, dici?».
Dave, Elys e Sakura erano duramente provati
dopo l’ultimo attacco di Valon e a malapena riuscivano a rimanere coscienti; si
domandavano però che sviluppi avrebbe avuto l’arrivo di quel tipo, e cercavano
in tutti i modi di ascoltare i discorsi che faceva con Valon.
«Non c’è problema. A pensarci bene, la vita
di Regis non ha alcun valore per me. Puoi prenderla quando vuoi. Ciò che mi
interessa unicamente è la Spada
di Gigabrian. Lascia che io la recuperi e sparirò immediatamente.»
«Mi dispiace, ma credo che non sia
proponibile neanche questo.»
«Come hai detto?» domandò Valon iniziando ad
accigliarsi
«Io non voglio semplicemente uccidere colui
che qui è conosciuto con il nome di Regis. Togliergli la vita non mi basta, io
voglio strappargliela di dosso mentre lui cerca in tutti i modi di
proteggerla.»
«In altre parole, vuoi ucciderlo in
combattimento. Ma questo cosa c’entra con la spada che voglio?»
«Ho passato dieci anni ad addestrarmi all’uso
della magia e nelle arti della lotta, con il solo scopo di riuscire un giorno a
diventare forte abbastanza da potermi vendicare di colui che sta all’origine
della mia sofferenza. Ero consapevole che anche la sua forza stava aumentando,
e volevo che quando noi due ci fossimo incontrati entrambi fossimo divenuti il
più potenti possibile. Fino a poco fa credevo che il momento giusto fosse
arrivato, ma vederlo combattere contro di te mi ha fatto capire che avevo
sbagliato. Toshio ha ancora molta strada da fare, e quella spada rappresenterà
per lui la più grande delle sfide. Quando avrà imparato ad usarla a pieno il
suo addestramento sarà finito, e finalmente potrò portare a termine la mia
vendetta. Per questo non posso lasciare che tu la prenda.»
«Quand’è così, mi dispiace. Peccato, mi eri
simpatico».
Valon attaccò improvvisamente e cercò di
colpire Erik con la mano destra, circondata da una sfera infuocata, ma il suo
giovane avversario parò l’attacco senza neanche muoversi, creando invece una
barriera che oltre a difenderlo scagliò Valon lontano, gettando stupore e
meraviglia fra i presenti.
«Che diavolo…».
Il corpo di Erik si circondò di una luce
molto più sinistra della sua, le sue grandi ali nere si dispiegarono nuovamente
e due tatuaggi rossi a forma di fiamme gli comparvero sul viso.
«Quel potere oscuro che tu a malapena sei in
grado di comprendere, scorre nelle mie vene fin da quando sono nato. È colui
che governa la mia vita, che mi rende un diverso, un eterno esiliato. È la mia
maledizione!».
Il giovane agitò vigorosamente le sue ali, ed
una pioggia di piume nere, affilate come frecce, si abbatté su Valon, che
incrociò le braccia davanti al volto nel tentativo di difendersi, ma dopo poco
dovette sollevarsi in volo per riuscire a togliersele di mezzo.
Erik immediatamente gli andò dietro, ed
entrambi dimostrarono una incredibile abilità nel combattimento in volo,
sfoderando rispettivamente la spada d’oro e un trio di micidiali artigli
ricurvi lunghi più di venti centimetri che spuntarono al polso destro di Valon.
Erik però sembrava perfettamente in grado di
difendersi dagli assalti del nemico senza doverci mettere grande impegno,
parava e contrattaccava con estrema efficienza, senza esporsi mai.
Valon stava incontrando più difficoltà del
previsto, e consumava una gran quantità di energie per tenere testa a quel
ragazzo che si stava rivelando essere, senza riserve, più pericoloso persino
dello stesso Regis.
Ciò che si stava rivelando in grado di fare
aveva del prodigioso non solo per il suo avversario, ma anche per gli amici di
Regis.
All’improvviso, ad un cenno di Erik nella sua
direzione, la sfera sullo stretto di Sakura prese a scintillare, e da essa
partirono tre fasci luminosi che presero corpo davanti a lui sottoforma di
Fuoco, Vento e Acqua.
«Non ci credo, i miei spiriti combattono al
suo fianco!»
«Forse sono stati condizionati.» disse Elys
«E li sta semplicemente comandando.»
«Non è possibile, lo avvertirei se fosse
così. Sono stati loro a dargli fiducia e a rispondere alla sua chiamata».
Alle spalle di Erik, poco dopo, si formò un
circolo magico enorme, che fra i vari simboli aveva al suo interno tre piccoli
cerchi disposti a triangolo in cui entrarono gli spiriti di Sakura,
trasformandosi in sfere luminose.
«Dannazione!» gridò Valon appena capì cosa
stava per succedere, ed immediatamente mise le sue ali davanti a sé.
Il cerchio divenne di un giallo intenso, e le
sfere degli spiriti, al comando di Erik, partirono in direzione di Valon con una
potenza cento volte superiore a prima. Le ali del nemico attutirono un po’ il
colpo, ma alla fine vennero letteralmente sbriciolate e Valon, dopo essere
stato scagliato lontano, precipitò a terra.
Quando Erik lo raggiunse lo guardò
terrorizzato.
«Tu… chi diavolo sei tu!».
Il ragazzo non rispose, tenendo lo sguardo a
terra e gli occhi chiusi, ma la sua spada cominciò a circondarsi di luce.
«Tu… sei un mostro…» disse Valon
«Mostro…» sussurrò Erik sollevando gli occhi
«In effetti è così che molti mi chiamano».
Si alzò dunque la spada sopra la testa,
mentre quel tenue bagliore si trasformava in un immenso vortice di fuoco, lo
stesso fuoco che d’un tratto gli accese lo sguardo .
Valon avrebbe voluto fuggire, ma nell’urto
con il suolo si era rotto entrambe le gambe, ed il suo strisciare affannoso era
un disperato tentativo di sfuggire ad un destino ormai segnato.
«No… aspetta…»
«Mostro!»
TAICHI RYUMAJIN!
Il
nemico gridò dal terrore vedendosi venire contro quell’impressionante uragano
di luce che lo investì in pieno con una forza tale da sradicare gli alberi e
sollevare le rocce.
«È la tecnica del maestro!» disse Dave
coprendosi il volto
«Ti sbagli.» rispose Sakura «Questa è mille
volte più potente!».
Regis, proprio in quell’istante, riprese
conoscenza, e cercando di adattare gli occhi a quella grande luce alla fine lo
intravide, ma non volle credere che ciò che aveva dinnanzi a sé fosse reale.
Non poteva esserlo.
Quando la tempesta passò le nuvole in cielo
si diradarono, e tutto ciò che rimaneva di Valon era il suo braccio destro,
conficcato nel terreno tramite gli artigli del polso; di tutto il resto non
rimaneva altro che un mucchio di cenere al centro di un enorme spiazzo di terra
fumante.
Fu allora che Regis poté vederlo con chiarezza,
ma per la seconda volta la sua primissima impressione fu di stare ancora
sognando, o di essere vittima di un’allucinazione dovuta al dolore.
Dentro di sé però si rese ben presto conto
che era tutto vero, le sensazioni che provava erano troppo forti e troppo reali
perché potesse essere solo un sogno.
Ciò che gli diede la prova tangibile che il
suo incubo stava ora in piedi davanti a lui fu vedere la spada d’oro che Erik
stringeva in mano, quella spada che un tempo era stata sua, ma che poi aveva
perso.
Per molti anni, addormentandosi, aveva visto
quell’individuo, ed una strana sensazione lo attraversava ogni volta che ciò
accadeva; sapeva trattarsi di un sogno, ma sembrava sempre così reale, così
tangibile.
Ora però lui era lì, a testimonianza del
fatto che in quegli otto anni Regis aveva pensato essere il vero era in realtà
l’esatto opposto.
Erik era reale, quell’immagine evanescente e
impalpabile aveva varcato il confine del sogno e si era mostrata a lui in carne
e ossa, dando prova del suo immenso, imperscrutabile potere.
Regis non sapeva se sentirsi felice per
essersi finalmente liberato degli incubi che agitavano le sue notti o
spaventato per l’aver appreso che ciò che per anni aveva creduto essere
semplici sogni erano una terribile realtà.
Erik, richiuse le ali, si girò lentamente
verso di lui mentre le fiamme rosse sparivano dal suo viso, e Regis, aiutato
anche dai suoi amici, si rialzò in piedi, trovandosi occhi negli occhi con lui.
Si fissarono per un po’, il primo con un
misto di delusione e rimprovero il secondo con rassegnata fierezza, poi Erik
portò lo sguardo altrove, e Regis si avvide che era diretto in direzione della
Spada di Gigabrian.
«Impara ad usarla senza ridurti in questo
stato, e forse mi farò di te un’idea diversa rispetto a quella che mi sono
fatto oggi».
Senza aggiungere altro Erik svanì in un
vortice oscuro; tutti pensarono che fosse andato lontano, ma in realtà
ricomparve sui bordi dello strapiombo sopra alle loro teste. Lily gli volò come
al solito sopra la spalla.
«E così, alla fine, l’hai tirato fuori dai
guai. Ti confesso che non me lo aspettavo».
Erik chiuse gli occhi.
«Dì la verità, tu non volevi che lui morisse.
Se quel tipo lo avesse ucciso, non avresti potuto ottenere la tua vendetta.»
«Oggi è andata così, ma non ci sarà una
seconda volta. Voglio che lui diventi forte, ma ciò non potrà mai accadere fino
a che nella sua anima si agiteranno il dubbio e la paura.»
«Se vuoi sapere la mia, non credo che
trovarsi faccia a faccia con te lo abbia aiutato.»
«Ti sbagli. Lo aiuterà ad accettare sé stesso.
Ed è questo quello che voglio realmente. Non si può diventare più forti se
prima non si accetta tutto di sé stessi, compresi i propri errori, e questo lui
forse non lo ha mai capito. Oggi sono successe troppe cose, e avrà molto su cui
riflettere, ma fra non molto anche le mie ragioni gli verranno messe in conto».
Malgrado
la grande quantità di danni subiti dalla città, il palazzo reale di Qerin era
rimasto miracolosamente intatto, e vedere Regis varcare le sue porte con in
mano la Spada
di Gigabrian fu per tutti motivo di sollievo e di gioia, e proprio per questo
furono in pochi a notare una strana luce negli occhi del loro eroe.
Il re ricevette lui e i suoi amici assieme al
generale Grandall e al vecchio Mage Master nella sala delle udienza.
«Abbiamo passato l’inferno per questa.» disse
Elys gettando la spada sul tavolo «E adesso con vostro permesso gradiremmo una
spiegazione.»
«Elys ha ragione.» disse Sakura «A questo
punto, credo che abbiamo il diritto di sapere l’intera storia. Cosa si cela
realmente dietro a questa spada?».
Il re, il generale e il mago ammutolirono,
evidentemente il sovrano e il suo fedelissimo erano già stati messi a
conoscenza della verità mentre i quattro erano in missione.
«La
Spada di Gigabrian non è che uno strumento.» disse il Mage
Master «Il vero potere, quello che può fare la differenza nella Guerra Sacra
ormai prossima a scoppiare, sono le sette gemme da apporvi sopra.»
«Possiedono un tipo di potere magico che non
ho mai visto.» disse Dave
«Non ne trovereste di uguali in tutto
l’universo. È da quelle gemme che cinquecento anni fa nacque e si sviluppò la
scienza dei Cristalli Elementali che ad oggi è alla base della nostra magia.
Proprio come la Spada di Gigabrian, non si
sa molto sulle loro vere origini. Ma una cosa è certa. Quei sette gioielli
possono dare un grande potere a chi li possiede, come avete potuto vedere voi
stessi. Chiunque riesca a far scorrere la loro magia all’interno del proprio
corpo può acquistare capacità inimmaginabili.»
«Ora si spiega come faceva Alexander ad
essere tanto forte, pur non essendo un mago.» disse Aria, anche lei presente
alla riunione
«Quel ragazzo vi ha dato dimostrazione di
quanto le gemme possano essere potenti. L’armatura che indossava era stata
creata con la magia, la stessa che scorreva a fiumi dentro di lui. È un’energia
inimmaginabile, assolutamente inesauribile.»
«Ma dove sono ora queste gemme?» domandò Regis.
A quella domanda il vecchio nuovamente si
azzittì, si morse le labbra e temporeggiò.
«Questo purtroppo non lo sappiamo.»
«Non lo sapete!?» gridò Elys
«Gli antichi scritti risalenti all’epoca del
nobile Gigabrian riferiscono che al termine dell’ultima Guerra Sacra le gemme
andarono perdute, disperdendosi nel Continente di Kamur, situato al di là del
grande oceano meridionale.»
«E questo probabilmente è vero».
Alexander Von Andersen entrava in quel
momento nella stanza, scortato da due soldati della sua guardia personale.
Senza la sua armatura appariva molto meno minaccioso che durante il torneo, ma
fu soprattutto la sua nuova espressione, così mesta e innocente, a stupire
maggiormente Regis e i suoi amici.
Il giovane si avvicinò a sua volta al tavolo.
«La Gemma
Rubino che ora è incastonata sulla spada venne trovata da un
mio antenato durante una visita diplomatica in un regno di Kamur e portata qui
a Fiya come semplice oggetto di arredo. Per molti secoli nessuno di noi ha mai
saputo nulla delle sue reali potenzialità, ed anche io ne sono venuto a
conoscenza per puro caso. È stato allora che ho deciso di servirmene per
partecipare al torneo.»
«Questo potrebbe confermare la teoria del
nobile Mage Master.» disse il re «Non è molto, ma per ora è l’unica pista.»
«Radunare le restanti gemme è una priorità
per noi e il nostro popolo. È scritto che senza di esse non sarà possibile
vincere la Guerra Sacra.
Bisogna ritrovarle, e prima che ci riescano i nostri nemici.»
«Sì, è giusto.» disse Dave «Ormai mi pare
chiaro che c’è qualcuno in questo regno che pilota quei mostri con l’intento di
distruggere Fiya.»
«La cosa non riguarda solamente noi.» disse
Grandall «Abbiamo appena ricevuto notizie dai nostri ambasciatori. Molti altri
regni, sia alleati che nemici, in questo momento sono sotto attacco, e come se
non bastasse i vari stati si stanno accusando reciprocamente di essere le menti
dietro all’intera faccenda.»
«L’equilibrio del potere si sta
deteriorando.» riprese il re «Se non facciamo al più presto qualcosa per
fermare queste creature, ben presto l’intero continente sprofonderà in una
nuova guerra totale, ed io sono pronto a scommettere che è questo ciò che
vogliono i nostri nemici, chiunque essi siano.»
«Dobbiamo ritrovare le gemme il più presto
possibile, per mettere fine a tutto questo.» proseguì il Mage Master «E in
questo momento, non so pensare ad una persona più adatta di voi, nobile Regis,
per questo incarico».
In un secondo, sette paia di occhi si
concentrarono su Regis, che invece di reagire con la sua solita freddezza diede
l’impressione di sentirsi incredibilmente a disagio; sembrava quasi che quegli
occhi fossero come punte di freccia, conficcate a fondo nella sua anima.
Le sue mani tremarono, la sua fronte si
imperlò per il sudore, e parve quasi di vedere una lacrima rigargli il viso.
«Io…» balbettò con una voce che nessuno
avrebbe pensato essere sua «Io… scusatemi…».
Come un uomo che ha appena visto un fantasma
il nobile Regis corse fuori dalla stanza a passo spedito senza aggiungere
altro, sotto gli sguardi attoniti e increduli del Mage Master, del generale e
dello stesso re.
I suoi amici si guardarono interdetti fra di
loro, poi fu Dave a prendere l’iniziativa e a corrergli dietro.
«Maestro!».
Regis
continuò a correre senza meta per i corridoi dei palazzo fino ad arrivare ad un
balcone del terzo piano che si affacciava sulla parte occidentale di Qerin.
Raggiunto il parapetto vi gettò le braccia
sopra, quasi a voler impedire a sé stesso di proseguire nella sua corsa fino
alle estreme conseguenze, e una volta fermo diede libero sfogo al fiatone che
chiedeva insistentemente di uscire, prodotto non dalla fatica per lo sforzo
quanto piuttosto dall’enorme quantità di peso che gravava sulla sua coscienza.
Perché?
Perché la storia si stava ripetendo di nuovo?
Proprio come dieci anni prima, avrebbe dovuto
affrontare una sfida difficilissima, che avrebbe messo a repentaglio la vita di
molte persone a lui care.
Ciò che però faceva agitare maggiormente la
sua anima non era tanto la prospettiva del nuovo, pesante fardello che qualcuno
avrebbe voluto mettergli sulle spalle, quanto piuttosto la lunga serie di
eventi capitatigli nel corso di quella giornata.
Prima l’incontro con il fantasma di suo
fratello, con il suo carico di ricordi e di ferite mai richiuse, poi
l’incapacità di sfruttare adeguatamente i poteri della Spada di Gigabrian, e
infine l’incontro con quel ragazzo, l’incubo di una vita che aveva preso corpo
davanti ai suoi occhi.
In meno di ventiquattro ore erano state
distrutte tutte le sue convinzioni, tutto ciò che aveva creduto di essere
sembrava non esistere più, e quella specie di castello di sabbia da lui stesso
creato, forse anche dietro la spinta inconsapevole delle lodi che quel regno
gli riservava, si era ormai del tutto dissolto, precipitandolo inesorabilmente
nell’universo dei mortali.
In particolare, erano le parole pronunciate
da suo fratello a provocargli il dolore più grande.
Malgrado fosse stata una semplice illusione,
l’aver visto Sanak comparire davanti a lui deridendolo senza pietà, sapeva fin troppo
bene che i sortilegi illusori dei Tengu a cui Valon si era ispirato per creare
quello spirito vengono creati estrapolando ricordi e sensazioni dalla vittima
dell’incantesimo.
In altre parole, ciò che Sanak aveva fatto
non era stato altro che dire ad alta voce ciò che Regis aveva sempre pensato
nel profondo di sé stesso, e questo, malgrado l’iniziale indifferenza che aveva
voluto ostentare in presenza del nemico, lo aveva in realtà profondamente
turbato.
Tutte quelle domande, tutte quelle considerazioni
sulla sua vita passata, su chi fosse stato e cosa avesse fatto prima di
arrivare laggiù; Valon aveva saputo fare leva sulle emozioni giuste, e se fosse
stato lì sicuramente avrebbe fatto riecheggiare nell’aria la sua perfida risata
di soddisfazione, vedendo di aver colto perfettamente nel segno spingendo
persino il leggendario Regis ad una crisi di coscienza.
«Puoi cambiare il futuro, ma non il passato.»
gli aveva detto una persona, la sola ad essere venuta a conoscenza di tutta la
storia fin nei suoi aspetti più oscuri e reconditi.
Ed era proprio di quella persona che ora
Regis sentiva di avere maggiormente bisogno; solo incontrandola e chiedendole
consiglio sarebbe stato in grado di gettare una luce sul senso di smarrimento
che ora si era impossessato di lui.
Una cosa la sapeva di sicuro: non era
assolutamente convinto che farsi carico di quella nuova e pericolosa missione
sarebbe stata la cosa più giusta da fare, e anche nel caso che avesse accettato
era improponibile imbarcarsi nella ricerca dei cristalli perduti ridotti in
quello stato.
Occorreva mettere ordine, risistemare un po’
di cose, e solo allora se ne sarebbe potuto riparlare con maggiore freddezza.
«Maestro?».
La voce calma e gentile di Dave fece
sobbalzare Regis, perso nei meandri della sua memoria.
«Dave?!».
Regis non disse altro, limitandosi a
guardarlo.
«Volete che vada via?»
«No, tranquillo. Resta pure. Restare soli in
questi casi non aiuta mai».
Il ragazzo andò a sua volta ad affacciarsi al
balcone, ed entrambi gettarono allora gli sguardi al di là della notte.
Un tempo, fino ad un’ora molto tarda, Qerin
era sempre illuminata a giorno dalle luci delle case signorili, nelle quali si
tenevano ogni sera grandi feste e sontuosi ricevimenti, ora invece le uniche
luci erano quelle dei bivacchi accesi nei campi di accoglienza per tutti coloro
che nell’attacco dei robot avevano perso la loro casa.
Poveri e ricchi, uomini e donne, guardie e
ladri; tutti erano diventati uguali, sedevano l’uno accanto all’altro attorno a
quei fuochi scoppiettanti in cerca di un po’ di tepore, dormivano nella stessa
tenda e si mettevano in fila davanti ai banconi di legno, piatti mezzi scassati
per ricevere un mestolo di povera zuppa e un pezzo di pane da intingervi
dentro.
Il re aveva dato disposizioni precise che
tutti, lui incluso, avessero le stesse razioni di cibo, e in molte stanze del
suo palazzo avevano trovato posto diverse centinaia di sfollati, tutti quelli
che era stato possibile accogliere e accudire.
«Questa città ne ha passate davvero tante in
questi ultimi giorni.» disse Regis come se volesse sviare l’argomento prima
ancora che potesse prendere piede
«Si riprenderà.» replicò Dave guardandolo con
gentilezza «Qerin è una città forte. Proprio come voi, maestro».
Il guerriero sobbalzò nuovamente, strinse
leggermente i pugni ma non ricambiò lo sguardo del suo allievo, come faceva
sovente in situazioni simili.
«Non sono più tanto convinto di esserlo,
Dave.»
«E io non ho mai pensato neppure per un
istante che non lo foste.»
«Tu lo sai, vero? Lo sai che cosa mi ha
portato qui. In questi dieci anni ho cercato di aumentare sempre più le mie
abilità, nella speranza di diventare ciò che mi ero ripromesso di essere. Ma la
verità è che per quanto io sia migliorato, dentro di me sono rimasto sempre lo
stesso.»
«Beh, su questo punto non è che io possa dire
molto. Non vi conosco da abbastanza tempo. Ma di una cosa sono sicuro. La fama
che vi siete creato non è stata dettata solamente dalla vostra forza o dalle
vostre abilità. Ciò che vi ha reso quello che siete è stato il vostro coraggio,
la vostra determinazione, il vostro senso di giustizia, e voi ripetete sempre
che simili qualità non si possono imparare, ma le si possiede fin dalla
nascita».
Regis restò in silenzio, aggrottò per un
momento le sopracciglia poi abbassò la testa.
«Non so se avrò la forza per affrontare di
nuovo un’esperienza di questo tipo. Devo esserne sicuro, o non sarei in grado
di concludere niente, il che sarebbe molto più disonorevole che rifiutare».
Pochi
minuti dopo Regis si ripresentò nella sala delle udienze con un’espressione
molto diversa da prima, severa e decisa ma anche leggermente rassegnata.
Dopo un iniziale silenzio spiegò di stare
attraversando un momento difficile, che certamente non lasciava grandi speranze
sulla buona riuscita della missione, ma che se gli avessero concesso un periodo
di riposo per riflettere forse la situazione sarebbe potuta migliorare.
Il generale Grandall sollevò da subito dei
dubbi su questo argomento, sostenendo che il tempo era un lusso che non si
potevano permettere, il re invece cercò di venire incontro al suo prediletto.
«Esattamente, che cosa hai intenzione di fare
adesso?» chiese Sakura
«Vorrei recarmi al dojo del maestro Rasnak. È
stato il mio mentore per molto tempo, e saprà sicuramente aiutarmi in questa
situazione.»
«E dove vive questo Rasnak?» domandò Elys
«Su al nord, nel Regno di Normar.»
«Normar!?» esclamò Grandall «Sei impazzito? Quel
posto è una polveriera in questo momento!»
«Il generale ha ragione.» disse il Mage
Master «Le notizie che provengono da Normar non sono molto rassicuranti.»
«Quella
pazza sadica di Lainay» proseguì il generale «Sta muovendo guerra ad un regno
elfico dietro l’altro, le sue spie sono disseminate in tutto il loro territorio
ed uccidono gli umani a vista.»
«Passerò per le montagne, attraversando la
regione di Uruk. Allungherò inevitabilmente il percorso, ma non dovrei
incontrare minacce.»
«Esattamente» chiese re Feryr «Di quanto
tempo avresti bisogno?».
Un nuovo, breve silenzio precedette la
risposta di Regis.
«Due mesi».
E ancora una volta fu il generale a saltare
sul posto: due mesi! I nemici potevano già essere sulle tracce dei restanti
cristalli, e lui chiedeva due mesi per andarsene a spasso per uno dei territori
più pericolosi del continente.
«Due mesi sia.» fu invece la risposta
perentoria del re
«Ma, maestà…»
«Però devi promettermi una cosa, Regis. Promettimi
che al termine di questi due mesi, qualunque sarà la tua decisione, tornerai
qui a Qerin per comunicarmi la tua decisione personalmente.»
«Sarà fatto».
Il sovrano fece un cenno di assenso, Regis
contraccambiò con un leggero inchino quindi se ne andò, accompagnato da tutti i
suoi amici.
Elys si coricò molto presto nella stanza che condivideva
con Dave, ma la sua fu una notte insonne; non riusciva a togliersi dalla testa
la visione che aveva avuto durante l’ipnosi di Valon, e continuava a girarsi
sotto le coperte con la paura di chiudere gli occhi, per timore di veder
ricomparire quelle immagini terrificanti.
Per quanto cercasse di convincersi che era
stata solo un’illusione, non riusciva a non pensarci. Ciò che aveva visto
continuava ad assillarla, come il senso di colpa per essere così lontana dalla
sua famiglia e per ciò che l’aveva spinta ad abbandonarla.
Meditò a lungo su quale fosse la cosa più
giusta da fare, e alla fine prese la sua decisione.
Guardò l’orologio
che ticchettava sul muro di fronte a lei: le undici. Aveva ancora tempo.
Alzatasi, prese la
porta e si diresse verso la camera di Aria, situata in un’altra ala del
palazzo.
Raggiuntala, bussò
leggermente, ma non rispose nessuno.
Aria era abituata
a lasciare sempre la porta della sua camera aperta, in modo da non dover
perdere tempo a riaprirla in caso ci fosse stato bisogno di lei, quindi,
sentendola chiusa a chiave, Elys capì che la sua maestra non era ancora tornata;
non poteva aspettare ancora, aveva un assoluto bisogno di parlarle subito, così
decise di aspettarla. Si appoggiò alla parete del corridoio abbandonandosi
ancora una volta ai suoi pensieri e ai ricordi del suo villaggio. Aria la trovò
così, poco dopo.
«Ehi Elys, che ti
succede?»
«Non vi ho trovato
e così ho deciso di aspettarvi. Devo parlarvi».
Generalmente Elys
si rivolgeva ad Aria dandole del Lei, e quando erano da sole capitava
frequentemente che si dessero persino del tu. Un tono così insolitamente
formale, unito a quei suoi occhi da bambina spaventata e confusa, fecero capire
immediatamente alla giovane maestra che doveva trattarsi di qualcosa di serio.
«D’accordo. Non c’è
problema. Vieni dentro».
Entrarono, Elys
venne invitata a sedersi sul letto e Aria si accomodò accanto a lei. Non era la
prima volta che un evento simile si verificava, Elys era sempre stata sola fin
da che le due ragazze si erano conosciute, e l’unica persona con la quale
riuscisse a confidarsi era proprio la sua maestra.
Per Aria non fu
difficile immaginare che ciò che era accaduto alla sua allieva aveva a che fare
con lo scontro con Valon.
«Allora? Di che si
tratta?»
«Io… ho preso una
decisione maestra: voglio tornare al mio villaggio».
Aria sgranò gli
occhi: mai si sarebbe aspettata una frase simile.
«Che è successo?».
Elys allora, con
gli occhi tristi e la voce che tremava, raccontò la terribile esperienza di
quel giorno, le allucinazioni che aveva avuto e i timori che avevano suscitato
in lei.
«Quando Valon mi
ha ipnotizzata io… ho visto il mio villaggio. Ero tornata a casa dai miei
genitori e loro non mi rispondevano. Ho cercato di chiamarli e loro…».
Fu costretta a
fermarsi per riprendere fiato. Era convinta che una volta che ne avesse parlato
con la sua maestra si sarebbe sentita meglio, ma non era affatto facile
raccontarlo ed ebbe l’impressione di rivivere ancora quella visione.
Senza rendersene
conto si ritrovò a piangere sul seno della sua maestra, e la stringeva
amorevolmente a sé come una madre farebbe con la propria figlia.
«Valon ti ha
mostrato solo quello che tu stessa pensavi. Quella non era la verità Elys.»
«Questo lo so ma…
Valon mi ha mostrato quello che io cercavo di non vedere. Cercavo di non
pensare al mio villaggio, a quello che ho fatto e ai miei genitori, ma non
posso più ignorarlo. Non posso far finta di niente, per questo voglio ritornare.»
«Elys…»
«Non sarà per
sempre. Voglio accompagnare Regis nel suo viaggio, ma non posso farlo senza prima
aver rivisto i miei genitori e la mia tribù».
Aria si sentì
felice come mai era stata nella sua vita: aveva visto quella ragazza crescere
giorno per giorno, l’aveva vista dedicarsi con passione in ogni attività, e con
il tempo l’impegno che aveva preso con Regis di addestrarla ed avere cura di
lei si era trasformato in una ragione di vita, in un qualcosa a cui votare
tutta la propria esistenza.
In pochi lo
sapevano, ma Aria era condannata a non poter avere figli.
Per molto tempo
questo l’aveva fatta soffrire, spingendola quasi al desiderio di lasciare l’insegnamento,
ma poi era arrivata Elys, e lei era sembrata rinascere.
Per certe cose
Elys era ancora una bambina, era impulsiva e testarda, ma fin dal primo momento
in cui l’aveva vista Aria aveva capito che era anche una persona bisognosa di
molto affetto, perché sotto la maschera della guerriera spacca-mondo albergava
una piccola anima indifesa alla disperata ricerca di qualcuno che le volesse un
bene sincero.
Elys avrebbe
voluto parlare ancora, avrebbe voluto sentire la risposta della sua maestra, ma
quello che era cominciato come un pianto liberatorio si trasformò quasi subito in
un sonno mite, piacevole, cullato da un dolce abbraccio che nulla aveva da
invidiare a quello di una vera madre.
Guardando la
piccola Elys che si era addormentata sulla sua spalla, ammirandone la
delicatezza e l’infinita dolcezza del viso, Aria sentì le lacrime scendergli
dal viso; erano lacrime di gioia, ma anche di dolore, perché nessuna madre
riesce a non piangere nel vedere la propria bambina diventare adulta, ed è
allora che si capisce che ormai è giunto il momento di lasciarla andare.
Il giorno dopo, di buon ora, davanti al cancello del
palazzo, Regis e Elys sellarono ognuno il proprio cavallo, caricandovi quanto
necessario per il lungo viaggio che attendeva entrambi, un viaggio che li avrebbe
condotti alla riscoperta di sé stessi.
Non erano soli:
anche Sakura infatti aveva deciso di mettersi in marcia per raggiungere la sua
accademia, in modo da poter migliorare ulteriormente le sue abilità in vista
del viaggio per Kamur.
A salutare la loro
partenza c’erano tutti i loro amici, compreso il re, che su espressa richiesta
di Regis avrebbe conservato la
Spada di Gigabrian fino al suo ritorno.
Aria, con gli
occhi che scintillavano per le lacrime, si avvicinò alla sua prediletta quando
questa era già in sella.
«Stai attenta, mi
raccomando.»
«Sì, maestra».
L’insegnante si
tolse allora una delle due cordicelle che legavano la sua crocchia e la mise al
polso sinistro di Elys.
«Ma… era la
catenella di vostra madre…»
«Mi disse di darlo
a mia figlia.» rispose Aria piangendo di felicità «E così ho fatto.»
«Maestra…».
Decisamente diverso
era invece l’umore di Regis, che mantenendo quella sua solita aria impassibile
cercava in tutti i modi di evitare lo sguardo di Dave.
«Dave.» disse
appena fu montato a cavallo «Forse sarebbe meglio che tu ritornassi al tuo
villaggio.»
«Perché dovrei?»
rispose il giovane mago con un sorriso provocatorio «Servirà molto tempo per rimettere
in piedi questa città. Farò anch’io la mia parte. E poi… voglio essere qui per
vedervi tornare. Perché so che tornerete, maestro.»
«Non esserne tanto
sicuro.» replicò Regis, una risposta priva di qualunque forza persuasiva che
ebbe l’unico effetto di far sorridere ulteriormente Dave.
Il re salutò
personalmente tutti e tre i viaggiatori, che girati i loro cavalli partirono al
galoppo in tre diverse direzioni, diretti ognuno verso la propria meta: una
meta lontana, ma anche molto vicina. Una meta chiamata cuore.
Nel Prossimo Capitolo…
«Desolato comandante,
ma è così che funziona».
Amy Ross lo guardò
con espressione incredula e infuriata.
Dopo l’incidente di un mese prima, il clima nella stazione
di New Frontier si era fatto decisamente più pesante e meno ottimistico di
prima.
Il presidente
Hammond per poco non aveva ordinato lo smantellamento dell’intera installazione
e la chiusura definitiva del progetto, e solo grazie all’abilità retorica del
generale alla fine si era riuscito ad evitare una simile prospettiva.
Secondo le nuove
disposizioni, il personale scientifico e militare avrebbe continuato ad
occupare la base per svolgere ulteriori esperimenti sulla natura del portale e
sul suo funzionamento, ma tentare nuovamente di aprirlo era più che proibito.
C’era molta
apprensione anche per la squadra giapponese scomparsa durante il primo
esperimento; nessuno poteva dire cosa fosse stato di quei diciassette uomini,
undici giapponesi e sei americani, se fossero sopravvissuti e dove quel varco
li avesse condotti.
Nel corso delle
analisi si era scoperto che il portale aveva una specie di banca dati interna
che aveva in memoria le coordinate dell’ultimo viaggio effettuato; le stesse
coordinate erano state utilizzate anche per l’esperimento, ma nessuno poteva
sapere quale delle migliaia di universi paralleli avrebbe avuto come sbocco. La
sola cosa che si sapeva era che non si trattava sicuramente dell’universo
immediatamente attiguo a quello della Terra, dal momento che le coordinate
riguardavano una sequenza di più buchi neri, volti quindi ad attraversare più
universi.
Per non parlare
poi del black-out che aveva fatto seguito all’implosione di molti altri portali
disseminati per tutta la Terra,
per il quale nessuno era stato ancora in grado di formulare una spiegazione
logica.
Al Pentagono avevano
fatto non poca fatica ad acquietare molti governi infuriati senza dover svelare
cosa vi fosse realmente dietro all’incidente, e comunque erano tutti d’accordo
nel ritenere che un simile segreto poteva rimanere tale per molto tempo.
Una mattina, sul
far delle sei, nel momento in cui gli uomini del turno di notte staccano dal
lavoro, e quelli del turno successivo ancora devono arrivare, lasciando i
livelli inferiori quasi deserti, il dottor Jackson era in sala di comando, con
un occhio sul complesso al di là del vetro e l’altro sul monitor del computer.
Insieme a lui, la
dottoressa Carter, intenta ad effettuare dei calcoli sulla lavagna trasparente
al centro della stanza.
«Ehi, Lisa.» disse
ad un tratto il dottore «C’è una cosa che dovresti vedere».
Lei allora
interruppe il suo lavoro e raggiunse il compagno, portando a sua volta lo
sguardo sul computer.
«Che succede?»
«Ho eseguito
un’analisi del portale al largo delle Filippine, quello da cui è partita la
reazione a catena che ha fatto fallire il test del mese scorso. A quanto sembra
quel portale, aprendosi, è entrato in collisione con il nostro, fissandosi su
nuove coordinate che poi sono state ritrasmesse a tutti gli altri portali nel
momento in cui questi si sono aperti.»
«Quindi hanno puntato
tutti in una stessa direzione.»
«Una direzione che
non era quella che noi avevamo impostato. Questo è poco ma sicuro».
Un dubbio
terribile si fece strada nella mente della dottoressa.
«Pensi che la cosa
sia stata intenzionale? Che qualcuno abbia intenzionalmente modificato le
coordinate di viaggio tramite quel portale.»
«Non chiederlo a
me, non saprei cosa risponderti. Ma se davvero è come dici tu, chiunque sia
stato ha dimenticato di chiudere bene la porta di casa prima di uscire.»
«Che intendi
dire?»
«Sembra proprio
che il varco di collegamento non si sia mai richiuso completamente.»
«Ma… sappiamo con
certezza che quel portale ora è inattivo.»
«Il portale sì. Ma
il tunnel spaziale non si è completamente chiuso. Secondo questi dati, ve ne è
ancora traccia in prossimità del buco nero che collega il nostro universo con
quello a noi più vicino.»
«Quindi il canale
di connessione non è mai scomparso, è ancora lì.»
«Esatto. Solo, è
cambiato il punto di ingresso. Ma ora come ora credo sia inutilizzabile.»
«Per quale
motivo?»
«Al suo interno
non scorre abbastanza energia per permettere di attraversarlo. Se solo ci
dessero il permesso di effettuare un altro tentativo, potremmo riagganciare
quel segnale e scoprire così le nuove coordinate.»
«E tu credi
davvero che ce lo lasceranno fare? È un miracolo se non ci hanno mandato tutti
a casa.»
«Ma potrebbe
essere l’unica speranza di sapere che fine ha fatto quella squadra.»
«Credimi, so
quello che provi. Purtroppo, al Pentagono questo lo chiamano un Sacrificio
Accettabile».
Viaggiare nell’iperspazio era la prassi per ogni persona
imbarcata in una nave della Confederazione, ma restava pur sempre un’esperienza
a dir poco unica, capace di far tremare i polsi a molti, anche ai marinai più
stagionati.
Molti secoli
prima, quando Shinari, il pianeta più avanzato dell’universo, aveva cominciato
a sperimentare il viaggio interstellare, ogni volta che si entrava
nell’iperspazio non si aveva mai la garanzia che tutto filasse per il meglio,
così come non vi era la certezza di uscire nel punto prestabilito, vista la
spaventosa quantità di dati che i computer dovevano elaborare
contemporaneamente.
Con il passare
degli anni però la scienza aveva fatto notevoli passi avanti, e all’alba
dell’anno shinariano 3421 le conoscenze in merito ai viaggi cosmici avevano
raggiunto un livello tale da permettere alla nave Explorer di raggiungere il
primo pianeta popolato da esseri umani, Taurus, nella galassia di Andromeda.
Tale incontro
segnò una svolta storica non solo per i due mondi, ma per tutto l’universo.
Infatti, pur non
disponendo di una scienza eccessivamente avanzata, gli abitanti di Taurus
possedevano qualcosa che gli shinariani invece non avevano: la magia.
Per la prima volta
nella storia dell’esistenza, una civiltà fu in grado di svilupparsi sfruttando
allo stesso tempo magia e scienza, sacro e profano, con risultati incredibili
sotto tutti i punti di vista.
Poco tempo dopo, a
seguito della scoperta di un terzo mondo abitato dagli uomini, ribattezzato Igraz,
questi tre pianeti siglarono un patto di coesistenza e di cooperazione, che
sancì definitivamente la nascita della prima alleanza interplanetaria e di
quella che in seguito sarebbe divenuta nota come la Confederazione di
Shinari.
Fin dalla sua
istituzione, la
Confederazione si pose due obiettivi fondamentali: esplorare
l’universo alla ricerca di altre culture, e scegliere fra queste le più adatte
perché entrassero a far parte della grande nazione confederata.
Quest’ultimo
compito in particolare si presentava molto complicato, perché incontrare mondi
abbastanza progrediti per entrare a far parte della Confederazione non era per
niente facile; contrariamente a quanto ritenevano all’inizio gli stessi
abitanti di Shinari, i mondi dell’universo popolati da esseri umani erano
svariate migliaia, ma non tutti avevano i requisiti necessari per compiere un
simile passo.
La prima cosa di
cui si teneva conto, naturalmente, era il livello di progresso tecnologico, ma
potevano entrare in gioco anche altri fattori, come il livello di
civilizzazione politica e sociale o il rapporto con una qualche forma di fede
religiosa.
Per facilitare
questo compito si era ricorso ad una graduatoria, un sistema a scaletta che
andava da 1 a5 in cui
venivano inseriti i pianeti umani man mano che venivano scoperti.
I mondi di livello
1 e 2 erano culturalmente, scientificamente e socialmente poco progrediti,
quindi non era possibile alcun tipo di contatto.
I mondi di livello
3 mostravano già una situazione migliore, tale da permettere ai governanti di
venire messi al corrente della realtà costituita dalla Confederazione, che si
dichiarava pronta ad offrire, seppur indirettamente, il proprio aiuto in ogni
tipo di situazione difficile, a condizione però che non vi fossero altre
opzioni disponibili.
Con un mondo di
livello 4 si intrattenevano rapporti sia politici che commerciali, in un Do ut Des che offriva tecnologie e
conoscenze in cambio di materie prime o nuove scoperte scientifiche.
I mondi di livello
5 infine entravano a tutti gli effetti a far parte della Confederazione, un
evento sancito dall’ingresso di rappresentanti di quel mondo negli organi sia
politici che militari dell’Unione.
Fino a quel
momento si contavano dodici mondi di livello 5, tre di livello 4 e nove di
livello 3, dieci se si teneva conto della Terra, in bilico fra i livelli 2 e 3,
un pianeta della Via Lattea che già in passato aveva attirato l’attenzione di
Shinari per le sue molteplici peculiarità.
Sotto il profilo
politico, la
Confederazione era guidata dal Senato, composto da 280
membri, venti per ogni mondo facente parte dell’Unione, ed un presidente
generale, eletto a suffragio universale ogni cinque anni, che per la verità
aveva quasi esclusivamente funzioni rappresentative, salvo l’incarico di
scegliere il futuro Master Magister, il capo del Senato alla fine di ogni anno.
Un sistema
interplanetario così complesso non poteva naturalmente fare a meno di una forza
armata, e la
Confederazione di Shinari poteva vantare l’esercito più
numeroso e meglio armato dell’universo.
Millenovecento
navi da battaglia, cinquanta stazioni spaziali perimetrali a difesa dei confini
dello spazio confederato, un milione e cinquecentomila soldati in servizio
attivo e altri venti milioni in riserva, liberi cittadini che potevano essere
richiamati alle armi in caso di bisogno.
Grazie all’apporto
di Taurus, tanto i soldati quanto le navi erano un connubio perfetto di
tecnologia bellica e conoscenza magica; fino a pochi anni prima, i maghi e gli
stregoni nelle forze armate costituivano una unità a sé, e si facevano chiamare
Guardiani dell’Equilibrio, ma a seguito di alcuni imprevisti e alla necessità
che si aveva della loro esperienza l’ordine era stato sciolto, e i suoi membri
destinati ad altre sedi.
Le navi erano
tutte pesantemente armate con i sistemi di combattimento più all’avanguardia,
ma quelle più grandi, Incrociatori, Corazzate e Portaerei, disponevano di
qualcosa in più: lo Starlight Breaker, un cannone ad energia magica così
potente da sbriciolare una stazione spaziale in un secondo oltrepassando
qualsiasi scudo.
Ma perché una
fondazione finalizzata unicamente alla scoperta dovrebbe possedere un simile
apparato bellico?
Non era raro
imbattersi in pianeti abitati da popolazioni ostili, e anche se non era stata
ancora scoperta alcuna forma di vita intelligente al di fuori dell’essere umano
la Confederazione,
spingendosi ai confini dell’universo conosciuto, aveva incontrato un nemico
fino ad allora sconosciuto, e molto pericoloso: i Rinnegati.
Esseri malevoli,
generati dal male e dall’oscurità presente negli esseri umani e per questo
esistiti fin dall’alba dei tempi.
All’inizio niente
più che semplici ammassi energetici senzienti, alcuni di loro erano riusciti ad
ottenere un potere tale da radunare le forme energetiche presenti nell’universo
per costruirsi dei corpi all’apparenza umani, ma che in realtà di umano non
avevano nulla all’infuori dell’aspetto.
Uno di loro in
particolare si stava rivelando molto pericoloso.
Si faceva chiamare
l’Imperatore, e nel corso degli ultimi dodici anni aveva radunato attorno a sé
un gran numero di suoi simili, dando il via ad una sistematica campagna di
conquista che partendo dal pianeta che egli stesso aveva creato si stava
espandendo a macchia d’olio su tutti i mondi limitrofi.
All’inizio si
trattava unicamente di assorbire l’energia di un pianeta fino a ridurlo ad uno
sterile deserto, energia che poi veniva indirizzata tutta sul pianeta natale
dei Rinnegati, chiamato Genesis, in modo da farlo crescere e prosperare, e
quando questa sorte era toccata ad un mondo amico come poteva essere Igraz la Confederazione
aveva capito di trovarsi di fronte ad una seria minaccia.
Con il tempo però
la tecnica era cambiata, l’Imperatore, che nel frattempo aveva raccolto attorno
a sé un gran numero di suoi simili, aveva modificato la propria strategia, e
grazie soprattutto alle conoscenze ottenute conquistando Igraz aveva costruito
una flotta da battaglia di proporzioni colossali, capace di rivaleggiare, e in
molti casi di prevalere, persino sugli eserciti confederati.
A rendere la
situazione ancor più drammatica ci si era messo qualcun altro.
Si facevano
chiamare Dark Lords, erano Rinnegati molto più vecchi dell’Imperatore che da
molti secoli avevano fondato dei propri regni su piccoli sistemi planetari, e
per quanto fossero il più delle volte impegnati in sanguinose lotte intestine,
la loro smisurata sete di potere li aveva spinti in più occasioni a minacciare
i domini confederati e i mondi sotto osservazione.
Era proprio per
via della brutta piega che stavano prendendo gli eventi in quel periodo che
molti degli occupanti dell’incrociatore Independence non riuscivano a
comprendere come mai lo Stato Maggiore li avesse allontanati dalle zone calde
per mandarli in un angolino remoto dello spazio a svolgere una banalissima
spedizione di ricerca.
La Independence era
secondo alcuni la vera nave ammiraglia della Confederazione, malgrado non fosse
sicuramente la più grande o la più armata. L’elenco delle imprese portate a
termine da quel veliero avrebbe fatto invidia a chiunque, i trecentosessantuno
membri del suo equipaggio erano unanimemente riconosciuti come i migliori dei
migliori, primo fra tutti il loro comandante, la ultrasessantenne Generale Amanda
Ross, Amy Ross per gli amici, ribattezzata da molti la Donna d’Acciaio.
Dopo lo
scioglimento dei Guardiani dell’Equilibrio, di cui la Independence aveva
fatto parte, anche il suo equipaggio era stato ridisegnato, molti se ne erano
andati per essere sostituiti, ma molti altri erano rimasti.
In rappresentanza
della vecchia guardia, oltre al comandante, c’erano il sottotenente Lary
Tarker, trentacinque anni, originaria di Keros, il quarto pianeta ad essere
ammesso nella Confederazione, grande esperta di computer e ufficiale di rotta,
Bryan Finney, Toro Seduto per i più, un gigante nero di origine ignota, addetto
agli armamenti, e Gave Taller, a capo del reparto scientifico in servizio
permanente sulla nave, un grande studioso della storia della Terra e suo
convinto sostenitore per la causa di ingresso nelle fila confederate.
Ognuno di loro
occupava uno dei cinque posti in cabina di comando; ai restanti due sedevano
due volti nuovi, assegnati alla Independence dopo la riqualificazione di dieci
anni prima quando erano poco più che ventenni: erano il capitano Steven Deniels
e il tenente Klaus Hassman, entrambi tipi piuttosto esuberanti ed estroversi,
il primo ingegnere aerospaziale il secondo addetto ai sistemi difensivi.
La Independence era in
viaggio ormai da alcuni giorni, quindi la meta non doveva essere troppo
lontana.
A bordo si seguiva
il tempo di Shinari, con una giornata di ventiquattro ore, e stando a quella
misurazione erano da poco passate le due del mattino.
Deniels e Hassman
erano pronti ad entrare in servizio non appena la nave fosse uscita
dall’iperspazio, e ammazzavano il tempo in camera di Gave curiosando fra le
immagini del suo computer.
In quel momento
stavano visionando la foto di un vecchio con lunghi capelli bianchi e un paio di
baffi non troppo lunghi che faceva una linguaccia rivolto verso la macchina
fotografica, ostentando oltretutto uno sguardo leggermente ebete.
«E questo sarebbe
il più grande scienziato della Terra?» disse Klaus «A me sembra solo un vecchio
svitato.»
«Eppure sembra
abbia fatto cose importanti e molto significative.» disse Steven «Si chiamava
Eigein… Eingrain… ma com’era…»
«Einstein.»
rispose Gave avvicinandosi, un po’ spazientito per l’intrusione nella sua
stanza, al computer «Albert Einstein. Nato nel 1879, morto nel 1955. O, se
preferite la datazione shinariana, nato 3798 morto 3874. Ha sviluppato, per
primo sulla Terra, la Teoria
della Relatività Generale che è alla base dei viaggi nell’iperspazio. Volendo
rapportare il tempo storico della Terra al nostro, ha impiegato tre millenni
meno di noi per scoprire questa importante legge, e questo dovrebbe darvi
l’idea del potenziale intrinseco dei terrestri.»
«È per questo che
combatti per farli ammettere nella Confederazione?» domandò Klaus
«Non solamente. La Terra è un pianeta unico nel
suo genere, entrarci in contatto porterebbe di sicuro grande giovamento ad
entrambi.»
«Se lo dici tu».
In quella gli
altoparlanti disseminati su tutta la nave trasmisero una nuova comunicazione.
«Uscita
dall’Iperspazio prevista in due minuti. Tutto il personale di navigazione a
rapporto immediato in sala comandi.»
«Bene.» disse
Steven infilandosi il suo berretto «Ora si comincia».
I tre compagni
raggiunsero velocemente gli ascensori, salirono al primo livello e da lì
arrivarono in plancia, una stanza lunga e larga di forma triangolare fatta
quasi interamente di vetro, con cinque poltrone lungo i lati a ridosso delle
console e una al centro, più larga e con due pulsantiere sui braccioli, alla
quale era seduto il Generale Ross.
Anche Toro Seduto
e Lary Tarker erano già in posizione.
«La puntualità è
un’utopia per voi tre.» disse il gigante nero vedendo entrare i suoi compagni,
che corsero subito ad occupare i propri posti
«Chiediamo scusa,
siamo stati trattenuti.» rispose Steven con tono poco convincente
«O forse non avete
sentito la sveglia.» ribatté ironicamente Lary mettendosi a posto gli occhiali
da vista.
La Independence
viaggiava ancora attraverso l’iperspazio, che si presentava oltre i vetri come
una scia di luci che formavano un grande tunnel tutto intorno alla nave, un
tunnel del quale non si scorgeva la fine.
«Uscita
dall’iperspazio prevista in un minuto.» disse la Tarker consultando il suo
monitor
«È inaudito!»
sbottò Klaus «Se solo ci penso mi sento male! L’Imperatore avanza ogni giorno
di più, i Dark Lords si sono scatenati nel quinto quadrante, e con un simile
casino proprio fuori la porta di casa il comando centrale ci toglie dalla prima
linea per farci fare da babysitter ad un buco nero.»
«Non sottovaluti
questa missione, tenente Hassman.» replicò il comandante col suo tono pacato «In
questa zona passano diverse nostre navi. Quel buco nero negli ultimi tempi ha
avuto un aumento dell’attività energetica decisamente anomalo, bisogna
assicurarsi che non vi sia alcun pericolo nel passarci vicino. E comunque, gli
ordini non si discutono.»
«Sì, comandante.»
rispose mestamente il tenente.
Poco dopo la Independence,
chiamata Freccia di Luna per il colore bianco della sua fusoliera e per la sua
forma particolare, che ricordava per la verità più una T che una freccia,
malgrado il muso leggermente a punta, uscì dall’iperspazio, e gli occupanti
della plancia si trovarono di fronte ad uno spettacolo indescrivibile.
Il buco nero era
lì, davanti a loro, con il suo nucleo pulsante verso il quale tutto veniva
inesorabilmente attratto, compresa la luce, che nel processo di risucchio si
lasciava dietro suggestivi strascichi iridescenti di colore azzurro brillante.
Nessuno aveva mai
visto una cosa simile, neppure il comandante, quindi fu comprensibile se
inizialmente tutti restarono con la bocca spalancata, dimenticandosi totalmente
del proprio lavoro.
La prima a tornare
in sé fu, incredibilmente, il sottotenente Tarker, normalmente considerata una
persona sempre con la testa fra le nuvole.
«Siamo a
cinquecento chilometri dalle sponde del buco nero.»
«Attivare i
compensatori inerziali. In questo modo saremo protetti dal risucchio
gravitazionale.»
«Compensatori
attivati.» disse Haussman
«Motori al minimo,
disinserire l’alimentazione ai generatori dell’hyperdive.»
«Sì, comandante.»
rispose Deniels
«Iniziare il
rilevamento.»
«Agli ordini.»
disse Lary «Sto già immagazzinando i dati…».
Il lavoro era già
in atto da alcuni minuti quando le porte scorrevoli infondo alla stanza si
aprirono ed entrò in plancia un uomo di mezza età alto e longilineo, un
capitano a giudicare dai gradi della sua uniforme.
«Capitano Hoover.»
disse Amy Ross quando le fu accanto
«Comandante.»
«Negli ultimi
tempi vederla girare per la nave è diventato un evento raro.»
«Chiedo scusa per
non essere stato molto presente nel corso del viaggio. Purtroppo il lavoro di
un osservatore dello Stato Maggiore a volte rischia di essere terribilmente
sedentario.»
«La capisco. Del
resto questa è una normalissima spedizione scientifica, non c’è poi molto da
osservare.»
«Meglio così. Alla
peggio me la segneranno come ferie già godute».
Il comandante si
trovava molto a suo agio con quell’uomo, che invece suscitava un’impressione
ben diversa nel resto dell’equipaggio, ma del resto non è che ci si potesse
aspettare qualcosa di diverso nei confronti di un osservatore militare.
Venivano nominati
direttamente dallo Stato Maggiore per supervisionare l’operato dei comandanti e
delle navi della flotta in una serie di controlli periodici che ufficialmente
venivano eseguiti tre volte l’anno, ma che potevano diventare delle vere e
proprie ispezioni a sorpresa capaci di durare diversi giorni, a volte anche dei
mesi.
Non erano
particolarmente ben visti nelle fila dell’esercito, infatti era risaputo che la
loro carica garantiva molti privilegi e che i loro rapporti avevano una
notevole influenza, quindi era molto diffusa l’idea che fossero come cani
addestrati che aggirando la legge permettevano alle alte sfere dello Stato
Maggiore di fare il bello e il cattivo tempo con chi volevano.
Amy Ross sapeva
che anche molti fra i suoi uomini pensavano la stessa cosa, per questo fin da
subito aveva voluto mettere in chiaro le cose, specificando che conosceva il
capitano Hoover da molto tempo e che mai avrebbe dubitato della sua buona fede.
«Non si preoccupi
capitano, non resteremo qui a lungo. Giusto il tempo di fare un paio di
analisi, raccogliere qualche campione e torneremo dritti dritti a Shinari.»
«Meglio così. Ci sono
già abbastanza problemi, l’ultima cosa che ci serve è una nave da battaglia
impegnata in queste assurde ricerche.»
«Comandante.»
disse Deniels «Faccio uscire la sonda per il rilevamento».
Un piccolo
sportello sul fianco destro della nave si aprì poco dopo, e ne uscì un mezzo
della forma e della grandezza di un armadio provvisto di tre braccia meccaniche
più una sulla parte superiore più lunga e robusta.
I controlli della
sonda erano gestiti direttamente da Deniels per mezzo della propria consolle.
«Oh per gli dèi.»
«Che succede?»
domandò Toro Seduto
«Date
un’occhiata».
Steven passò le
immagini del suo computer sul proiettore olografico al centro della plancia,
sul quale comparve il fenomeno astronomico in tutta la sua maestosità, con
accanto numeri e informazioni reperite dalla sonda.
«I valori
energetici sono completamente fuori scala.» disse Gave «Ha un’attività
energetica cinquanta volte superiore a quella di un comune buco nero.»
«Meglio tenersi a
distanza.» disse il comandante «Una simile attrazione sarebbe troppo anche per
i nostri scudi.»
«Sono d’accordo».
Per lo stupore
derivato da ciò che aveva davanti Deniels si dimenticò completamente di
pilotare la sonda, che abbandonata a sé stessa ad un certo punto ebbe una
tremenda accelerazione e in meno di un secondo precipitò in una scia di luce in
direzione del buco nero.
Quando il capitano
se ne accorse, era ormai troppo tardi.
«Che è successo?»
domandò il sottotenente Tarker sentendo il bip proveniente dal computer di
Steven
«La sonda è sparita dal radar!»
«Che cosa!?
Sparita!?»
«Forse
l’attrazione gravitazionale l’ha distrutta.» ipotizzò il maggiore
«No, il computer
non la rileva come distrutta. È semplicemente scomparsa, come volatilizzata.»
«Ma come è
possibile?».
Mentre cercavano
di trovare una possibile spiegazione per un fenomeno tanto insolito, gli
occupanti della plancia vennero attratti da un altro segnale.
«Comandante.»
disse Toro Seduto «Rilevo una nave in uscita dall’iperspazio.»
«Una nave?» ripeté
Amy Ross «Il comando aveva dichiarato questa zona off-limits.»
«Forse qualcuna
delle navi impegnate in missione non ha ricevuto la comunicazione.»
«Sì, potrebbe
essere. Ma è meglio non correre rischi. Dare energia agli scudi.»
«La nave uscirà
dall’iperspazio fra tredici secondi, a venti chilometri da noi.» disse Lary
«Cinquanta gradi nord nord-ovest».
Ed infatti, nel
momento e nel punto esatto indicato dal sottotenente, si spalancò una porta
dell’iperspazio, e da essa uscì una nave simile ad un enorme martello, con due
enormi corpi laterali lunghi quanto il “manico” centrale, collegati a
quest’ultimo per mezzo di due sporgenze ciascuno.
Era più grande
della Independence, e fra quelli dei corpi laterali e quelli della parte
centrale poteva contare su ben otto propulsori.
Ad Amy Ross e ai
suoi uomini fu sufficiente vedere la sua forma ed il simbolo sulla fusoliera,
un braccio muscoloso che stringeva un martello su di uno sfondo rosso, per
capire di chi si trattava.
«È una nave degli
Iniziati».
Gli Iniziati.
La bestia nera
della Confederazione, il suo nemico più antico; civili e militari staccatisi
tempo addietro da Shinari e dai suoi alleati che avevano dato vita ad una
propria repubblica in un sistema planetario ai margini della Galassia del Triangolo.
Il distacco era
avvenuto per motivi principalmente ideologici; gli Iniziati infatti mal
tolleravano l’atteggiamento espansivo e permissivo tenuto dalla Confederazione
verso popoli e razze che loro ritenevano “inferiori”, e quindi indegne di entrare
a far parte di quella che loro stessi consideravano una civiltà superiore, da
non “sporcare”.
Ma, soprattutto,
gli Iniziati auspicavano la distruzione del male in qualsiasi sua forma, e non
di rado si erano resi protagonisti di atti orribili, bombardando interi pianeti
e sterminandone la popolazione solo perché occupati dai Dark Lords o dalle
truppe imperiali.
Secondo loro si
trattava di sacrifici necessari, e consideravano una sciocchezza da parte dei
confederati rischiare navi e uomini per salvare gli abitanti di pianeti
attaccati o per liberarli dal dominio del cattivo di turno quando si poteva
tranquillamente effettuare un bombardamento planetario che avrebbe risolto il
problema senza perdite inutili.
Normalmente
agivano in maniera autonoma, ma gli scontri armati non erano certo una rarità,
anche se il più delle volte si concludevano con il reciproco ritiro.
Esisteva anche un
trattato di non-belligeranza per spedizioni scientifiche, commerciali e di
soccorso, ma di comandanti esaltati ce n’erano parecchi, e gli “incidenti”
erano sempre in agguato.
Subito dopo essere
uscita dall’iperspazio la nave iniziata diminuì l’energia ai motori fin quasi a
fermarsi, tenendosi ad una distanza di 10-15 chilometri dalla
Independence.
Nella plancia calò
un preoccupante silenzio, gli uomini si guardarono fra di loro indecisi sul da
farsi.
«Nessun segnale.»
disse Haussman «Se volete sapere la mia, non prevedo niente di buono.»
«Siamo in missione
scientifica, e le nostre armi sono abbassate.» replicò Gave «Sarebbe una
violazione del trattato.»
«Quelli se ne
fregano del trattato! Dico, la
Icarus chi l’ha disintegrata?».
Indifferente ai
timori dei suoi uomini Amy Ross spinse un bottone della sua poltrona che la
mise in comunicazione con la nave iniziata.
«Sono il generale Amanda Ross, comandante
dell’incrociatore Independence. Siamo qui in missione scientifica. Non abbiamo
intenzioni ostili. Lasciateci concludere il nostro lavoro e ce ne andremo il
prima possibile».
Nessuno rispose
dall’altra parte, ed il tempo sembrò fermarsi per qualche istante; era raro che
gli Iniziati rispondessero alle comunicazioni, e molto spesso era solo dalle
loro azioni che si poteva capire quale era stata la loro decisione.
Seguirono lunghi
ed estenuanti secondi di silenzio, poi a poppa della nave iniziata si intravide
un tenue luccichio azzurro; il primo a riaversi fu Toro Seduto.
«Missile!».
Una parola che
inizialmente paralizzò le membra a tutti, poi però il comandante recuperò a sua
volta il sangue freddo assieme a tutti i suoi uomini.
«Energia agli
scudi, presto!».
Toro Seduto in
verità aveva visto male: gli Iniziati non avevano tirato uno, ma ben tre
missili nucleari, che lasciandosi dietro le fiamme azzurre dei motori puntavano
dritti verso la
Independence.
A tempo di record
gli scudi energetici della nave furono attivati, ed i missili andarono ad
esploderci contro; il danno al veliero fu nullo, per quanto potenti furono le
esplosioni, ma il tremore si avvertì distintamente anche in plancia, tanto che
il maggiore dovette appoggiarsi alla poltrona del comandante per evitare di
cadere.
«Quei bastardi ci
stanno attaccando!» urlò Haussman
«Allarme generale!
Fate uscire immediatamente i caccia!».
Una sirena assordante scosse la Independence, facendo
scattare in piedi quei pochi che il terremoto prodotto dai missili non era
stato in grado di svegliare.
«Posto di
combattimento! Posto di combattimento! Tutti ai posti di combattimento! Ai
posti di combattimento!».
Negli hangar del
tredicesimo livello il suono dell’allarme fu accolto con una certa
soddisfazione, soprattutto dal sergente maggiore Peter Bayle, capo dello
Squadrone Eagle e comandante della forza d’attacco della Independence.
Questi, infilatosi
in tutta fretta la divisa verde militare, uscì dagli spogliatoi con il casco in
mano, ed appena fuori lo fece tintinnare con quello di un suo compagno, Tom
Sorano, che gli lanciò un sorrisetto di complicità.
«Si va’ in scena,
capo.»
«Puoi giurarci».
I due raggiunsero
di corsa il portellone alla fine del corridoio ed entrarono l’hangar, che era
anche la pista di decollo, una sala mastodontica lunga più di cinquanta metri
in cui erano stoccati i caccia da combattimento, ognuno dei quali recava il
nome del proprio pilota ed il gruppo di appartenenza.
Molti piloti erano
già a bordo dei propri caccia, altri stavano ricevendo le ultime indicazioni
dal loro caposquadra, altri ancora, come Tom e Peter, arrivavano in quel
momento.
Normalmente, prima
di una missione, si teneva anche una funzione religiosa per i credenti, ma in
una simile circostanza c’era a malapena il tempo di confessarsi con qualche
prete che saliva sulle scalette per arrivare al livello della cabina di
pilotaggio.
La Confederazione
disponeva di diversi tipi di velivoli da guerra, e quelli in dotazione alle
navi erano in assoluto i migliori, i P-409, o Hawk, Falchi, per via
dell’insolita apertura alare, rivolta verso il basso e leggermente protesa in
avanti, proprio come le ali di un falco lanciato in picchiata.
Tom e Peter si
separarono, raggiungendo ognuno il proprio velivolo, il vetro corazzato della
cabina si chiuse e i due, infilatisi la maschera per l’ossigeno, si scambiarono
un OK.
Savino, come
faceva sempre, si arrotolò un rosario attorno al polso prima di accendere i
reattori e far segno all’operaio davanti a lui che era pronto per il decollo.
Il gigantesco
portello di uscita era già aperto, ma questo non costituiva un problema per le
persone all’interno dell’hangar, protetti dagli effetti del vuoto spaziale da
una barriera magica invisibile che lo ricopriva e che gli aerei potevano
tranquillamente oltrepassare senza pericolo di distruggerla.
Il decollo
avveniva a squadre, in modo da essere già in formazione una volta all’esterno.
Due attendenti ai
margini della pista aiutavano nelle procedure servendosi di una coppia di
bastoni luminosi, così il tutto avveniva in maniera eccezionalmente rapida e
disciplinata.
Serivrono solo due
minuti perché tutte e cinque le squadre, composte da cinque caccia ognuna,
fossero fuori dalla Independence e pronte a combattere.
«Capo tre a Capo
uno, siamo in posizione.» disse qualcuno alla radio di Bayle
«Capo tre,
ricevuto. Squadre tre e quattro, disporsi in formazione difensiva attorno alla
Independence. Due e cinque, seguitemi!».
Peter, affiancato
dai suoi ragazzi e dalle altre due squadre, partirono a razzo in direzione
della nave nemica, e quando furono alla sua portata le loro tre formazioni a V
si trasformarono in un’unica, impenetrabile linea d’attacco.
«Armare i
missili.» disse il sergente sollevando una levetta
«Missili armati.»
risposero in coro i suoi uomini
«A tutte le unità,
fuoco a volontà!».
Con un sincronismo
quasi perfetto le quindici navi fecero fuoco, sparando un missile ciascuna.
Come la Independence, anche
le navi degli Iniziati avevano scudi energetici che le proteggevano, ma neanche
lo scudo più resistente poteva reggere ad una simile pressione; dodici missili
lo mandarono in frantumi, i restanti tre colpirono in pieno la prua della nave
nemica, provocando altrettante esplosioni che sicuramente comportarono dei
danni non indifferenti.
Tre secondi dopo,
dai fianchi del veliero uscirono degli altri caccia da combattimento molto
simili ai 409, solo con le ali maggiormente inclinate verso il basso, che
subito presero a sputare su Peter e i suoi una pioggia di fasci energetici,
arma di cui anche i caccia confederati erano dotati assieme ai sei missili, tre
per ala.
«Manovra evasiva,
manovra evasiva!».
Al comando Bayle i
suoi compagni si separarono, disperdendosi in varie direzioni, e subito dopo
anche dalla nave iniziata cominciarono ad arrivare attacchi minacciosi, sia di
missili che di fasci colpi ad energia.
«Non fatevi
chiudere! Teneteli lontani dalla Independence!».
Peter si mise
subito sulla coda di uno dei nemici e dopo averlo agganciato gli sparò contro
due colpi ben piazzati che lo fecero esplodere, ma subito dopo evitò per
miracolo l’attacco di uno che gli si era incollato alla coda.
«Cosa speri di
fare?».
Il capitano cabrò
velocemente, eseguì un giro della morte e si portò alle sue spalle, ma dovette
inseguirlo per diverso tempo prima di poterlo finalmente abbattere con una
scarica.
L’inseguimento lo
condusse però molto vicino alla nave nemica, anche se da quella posizione gli
fu possibile leggerne il nome, riportato sotto lo stemma.
«Independence.
Riesco a leggere il nome. È la
Grevious».
Per comunicare
l’informazione si distrasse un istante, e un missile sparato dalla stessa nave
che aveva appena identificato minacciò di colpirlo in pieno.
Subito si
allontanò cercando di sfuggirgli, ma quello era un missile a guida laser e una
volta che ti puntava non te lo scollavi più di dosso.
Stava quasi per
azionare l’espulsione di emergenza, in modo da separare la cabina dal resto del
velivolo e potersi mettere così in salvo, ma all’ultimo secondo qualcuno colpì
l’ordigno e lo fece esplodere anzitempo.
Peter si girò per
vedere cosa fosse successo, e dall’esplosione vide uscire un velivolo alleato,
ma non gli servì leggerne l’occupante per immaginare chi fosse a pilotarlo.
«Te ne devo una,
Tom.»
«Vedi di stare
attento, non posso mica pararti il culo ogni volta.»
«Di solito sono io
a parare il tuo.»
«Sì, come no.»
«Molto bene. Basta
fare casino. Pensiamo al lavoro.»
«Ok. Chi ne
abbatte di meno paga da bere.»
«Ci sto».
Con una
eccezionale manovra a tenaglia i due amici sorpresero una navicella nemica su
entrambi i lati, colpendola contemporaneamente e riducendola in polvere.
Alcune navi
iniziate riuscirono a rompere il blocco delle squadre d’attacco, ma nella loro
strada verso la
Independence trovarono ad attenderli i caccia rimasti a
difesa della nave, così in pochi minuti quella piccola porzione di spazio si
trasformò in un inferno.
Gli scudi tennero
bene i colpi dei nemici, ma la loro potenza diminuiva sempre di più.
«Scudi al 40%.»
disse Deniels.
Ad un certo punto
un paio di nemici riuscirono ad aggirare anche l’ultima linea di difesa e ad
avvicinarsi pericolosamente.
«Caccia nemico in
avvicinamento.» disse Haussman
«Ancora per poco.»
rispose Toro Seduto infilandosi uno stecchino in bocca e mettendo mano a due
leve ai lati della tastiera principale, mentre sul monitor appariva l’immagine
di un mirino a rilevamento termico.
Un grosso cannone
a due bocche situato sulla parte superiore della Independence ruotò su sé
stesso, i due caccia si diressero verso di lui cercando di abbatterlo ma i due
missili vennero respinti dallo scudo, mentre le scariche andarono a vuoto.
«Ok belli, eccovi
qua».
Una volta che Toro
Seduto li ebbe inquadrati per quei due non vi fu scampo, ed entrambi vennero
colpiti in pieno. Uno dei due esplose immediatamente, il secondo però precipitò
diritto contro la nave, esplodendo sulla sua fusoliera e provocando un
terremoto tale da mandare molti con le gambe all’aria.
La luce mancò
qualche secondo, fumo e scintille sprizzarono dagli apparecchi elettronici e
una sirena rossa prese a risuonare.
«Il settore cinque
ha subito danni allo scafo!» disse Deniels
«Isolare la zona!»
ordinò il comandante.
Dovendo restituire
energia ad alcuni sistemi primari il sottotenente Tarker lasciò il proprio
posto per raggiungere la sala controlli del decimo livello, da dove avrebbe
potuto ripristinare i computer.
Nell’uscire urtò
accidentalmente il capitano Hoover, che a differenza del resto dei presenti
sembrava invece terribilmente nervoso e spaventato, e la cosa non poteva che
far sorridere Haussman e gli altri, dal momento che avvalorava la teoria
secondo la quale gli osservatori militari erano buoni solo a compilare
scartoffie.
«Col suo permesso,
comandante, credo che mi ritirerò in un posto dove non darò fastidio.»
«Sì, forse è
meglio.»
«Ho vinto io. È
fuggito prima della fine.» sussurrò Haussman a Deniels appena se ne fu andato
«Sgancia.»
«A te, sedere d’oro.»
replicò l’amico lanciandogli una moneta da cinque kyrys.
Dal momento che lo
scontro durava più del previsto, e che dava l’aria di diventare sempre più
impegnativo, il comandante Ross fece ciò che faceva sempre, ovvero
ricontrollare il caricatore della pistola e riporta alla cintura ascellare con
la sicura sbloccata e il colpo in canna. Malgrado la tecnologia delle armi da
fuoco si fosse notevolmente evoluta, pistole e altre armi di piccolo calibro si
avvalevano ancora di comuni pallottole, e di altrettanto comune polvere da
sparo.
L’ultima
precauzione per il generale fu di caricare anche una piccola pistola monocolpo
che nascose dentro la manica sinistra dell’uniforme.
Si raccontavano
strane storie, correva voce che i Rinnegati usassero i prigionieri come cavie
per orribili esperimenti volti a migliorare le loro abilità di replicazione dei
corpi umani, ma in qualunque altro caso, al momento di assumerne il comando,
Amanda Ross aveva giurato che mai avrebbe permesso ad un qualsiasi nemico di
prendersi la Independence,
e che per nessuna ragione si sarebbe mai fatta catturare viva.
Hoover non si diresse alle cabine, come chiunque altro
avrebbe fatto, ma raggiunto il dodicesimo livello entrò nella stanza alla fine
del corridoio numero otto.
Al centro della
camera, grande ma piuttosto bassa, c’era un congegno cilindrico in vetro simile
a un ascensore, collegato da un incalcolabile numero di cavi che pendevano dal
soffitto. Vi si poteva entrare per mezzo di una porta scorrevole, e al suo
interno potevano stare in piedi almeno una decina di uomini.
Quella era la
macchina per il teletrasporto, forse una delle conquiste più significative
della Confederazione.
Ogni nave ne aveva
uno, e anche molti edifici civili e militari, e consentiva di trasferire una o
più persone da un apparecchio all’altro in una frazione di secondo.
Purtroppo, per
quanto avveniristica, quell’apparecchiatura era ancora piuttosto primitiva,
infatti il suo raggio d’azione non superava la cinquantina di chilometri.
Ogni teletrasporto
funzionava per mezzo di una postazione di controllo dal quale si impostavano le
coordinate dei punti di partenza e di arrivo, si regolava l’energia e si
inseriva, in caso di necessità, il blocco di sicurezza, per evitare ad esempio
che una nave potesse venire abbordata.
Il sovrintendente
al controllo del teletrasporto per la Independence era il sergente Tank Marshall, che
sentendo le porte elettriche aprirsi, in virtù anche di quello che stava
succedendo, istintivamente puntò la sua pistola verso l’ingresso, salvo poi
abbassarla immediatamente vedendo arrivare Hoover.
«Ah, capitano. La
prego di scusarmi.»
«Non fa niente, è
comprensibile. Con tutto questo casino, è normale essere diffidenti.»
«Ha ragione.»
«Ho lasciato la
plancia per non essere d’impiccio, e ho pensato di venire a controllare se era
tutto in ordine.»
«Ah, capisco».
Il capitano si
avvicinò all’apparecchio passandoci una mano sopra, mentre Marshall gli dava
nuovamente le spalle lavorando al computer.
«È tutto a posto?
Il canale è chiuso, vero?»
«Serrato come una
banca. Stia pure tranquillo, quei pezzenti non entreranno.»
«Meglio così».
Hoover a quel
punto fece per andarsene, ma poi, con uno scatto fulmineo, sfoderò una pistola
con silenziatore e fulminò Marshall con due colpi alla schiena prima che questi
avesse il tempo di rendersene conto.
Il sergente cadde
a terra apparentemente morto, e il capitano, accertatosi che nessuno si fosse
accorto di nulla, prese ad armeggiare alla consolle. La porta scorrevole del
teletrasporto si chiuse e un ronzio sempre più forte rimbombò nella stanza,
accompagnato da un tenue chiarore.
Nonostante tutti i colpi subiti dai caccia, la Grevious non sembrava
avere alcuna intenzione di arrendersi o ritirarsi, e continuava imperterrita a
cannoneggiare la
Independence con tutti i missili e i cannoni d’assalto di cui
disponeva.
Gli scudi della
nave ormai erano allo stremo, e infatti ad un certo punto un colpo li superò
nuovamente e colpì direttamente la Independence, danneggiandola seriamente.
«Un altro colpo
come questo» disse Haussman cercando di non cadere dalla sedia «E possiamo dare
un bacio di addio alle nostre chiappe!»
«Non avrei saputo
dirlo meglio!» replicò Gave.
Poi, di colpo, gli
attacchi cessarono, la
Grevious smise di sparare, malgrado armi e scudi fossero
ancora operativi, una cosa che provocò non poco stupore.
«Che stanno
facendo?» domandò Deniels
«Forse spiegarvelo
io».
Le porte a
scorrimento, unito ad un poco piacevole rumore di sicure sollevate, fece girare
tutti verso la porta d’ingresso, e la loro espressione, da stupita, si fece
sgomenta.
Il capitano Hoover
era in piedi davanti all’entrata, con la testa ben sollevata e le mani dietro
la schiena; accanto a lui, sette uomini, facilmente riconoscibili come Iniziati
per le loro uniformi nere col simbolo del martello all’altezza del cuore, armati
di mitragliatrice.
«Capitano Hoover!»
tuonò Amy Ross «Che significa tutto questo?»
«Mi dispiace
comandante.» rispose lui con un sorrisetto beffardo «Ma è così che funziona».
La donna, compreso
il doppiogioco, lo guardò attonita e infuriata.
«Che bastardo
impenitente».
CONTINUA
Nel prossimo capitolo:
«Tom, tutto bene?»
«Che diavolo
succede?» sbraitò l’amico alla radio «Quel colpo veniva dall’Independence!»
La battaglia fra i caccia della Confederazione e quelli
degli Iniziati si era spostata pericolosamente vicino al buco nero, ed infatti Peter era costretto ad esercitare una sempre maggior
pressione sulla cloche per poter muovere agilmente il suo velivolo, ma questo
non gli impediva di risultare preciso e letale come sempre.
«Crepa!» gridò
lanciando un missile e disintegrando una navicella nemica
«Ehi amico, questi
non finiscono più!» gli disse, non senza scherzo e divertimento, il suo amico
Savino
«Vorrà dire che
faremo dello straordinario.»
«Magnifico!
Chiederò una riduzione di stipendio!».
Intanto, a bordo
della Independence, la situazione si era fatta molto
seria.
Il capitano Hoover si era rivelato per la persona che era, e servendosi
del teletrasporto aveva permesso ad un manipolo di Iniziati di abbordare la
nave, prendendo possesso della cabina di pilotaggio.
Amy Ross,
spodestata dalla propria poltrona di comando, era ora seduta al posto di LaryTarker, con una
mitragliatrice puntata dritta nel mezzo della fronte e le mani legate dietro la
schiena.
Steven, Klaus e
Toro Seduto erano stati fatti alzare ed erano ora inginocchiati a terra con i
polsi legati davanti al petto.
Inutile dire che
tutti erano stati disarmati della propria pistola di ordinanza, accatastate ora
sul ripiano al centro della plancia su cui si trovava anche il proiettore per
realizzare gli ologrammi e tenute d’occhio da due uomini armati.
Gave era ancora seduto al suo posto, ma era costretto a
sottostare agli ordini dei sequestratori, uno dei quali aveva preso possesso
della poltrona del comandante e stava ora armeggiando con la tastiera e il
monitor olografici apparsigli davanti nel momento in cui aveva premuto un
pulsante sul bracciolo destro.
«Da quanto tempo?»
domandò ad un certo punto Steven «Da quanto tempo ci stavi addosso?».
Hoover, intento a guardare lo schermo olografico, si girò
verso di lui.
«Da cinque anni.
Devo dire che il vostro apparato di sicurezza lascia molto a desiderare. La
prossima volta dite allo Stato Maggiore di fare qualche controllo in più sui
propri ufficiali.»
«E sei rimasto in
attesa per tutto questo tempo solo per prenderti la Independence?
Una nave in più non servirà certo a cambiare la vostra situazione.»
«Su questo nutro
qualche riserva.»
«Lascia perdere Gave.» disse Toro Seduto «È fiato sprecato parlare con
questi qua. Sono solo dei pazzi esaltati».
Il capitano allora
si avvicinò a lui, che lo guardò dritto in volto digrignando i denti e facendo
tremare i suoi muscoli d’acciaio. Malgrado fosse seduto per terra, c’erano solo
trenta centimetri di altezza a dividere i loro occhi.
«Bryan Finney. Meglio noto come Toro Seduto. È un onore fare la
tua conoscenza. Non ho mai avuto modo di incontrarti personalmente, ma la tua
fama ti precede. Guardati cosa sei diventato. E pensare che un tempo eri
considerato uno dei migliori.»
«Vedere che razza
di stronzo, bastardo, figlio di puttana sei ma dà la certezza di aver fatto la
cosa giusta».
Hoover ringhiò per l’offesa ricevuta e colpì Toro Seduto
con un calcio allo stomaco così forte da far piegare in due dal dolore persino
uno come lui, e continuò ad infierire senza alcuna pietà sferrando una pedata
dietro l’altra.
Steven e Klaus
cercarono di aiutarlo, ma furono tenuti indietro dai mitra degli Iniziati.
«Fai solo pena.»
disse Hoover interrompendo quella carneficina «Sei
solo l’ombra di quello che eri un tempo. In realtà dovrei ringraziarti, dopo
questo colpaccio stimo che la mia posizione all’interno del Consiglio aumenterà
considerevolmente, e portandogli la testa di un traditore potrei addirittura
aspirare alla carica di Kaiser.»
«Meglio… così…»
balbettò Toro Seduto con voce roca «Con un idiota come te al comando, sarà
ancora più facile mandarvi con il culo per aria».
Ancor più
infuriato di prima Hoover fece calare con forza il
calcio della sua pistola sulla nuca del gigante nero; un colpo simile avrebbe
rotto il collo a chiunque, ma le ossa di Toro Seduto erano più resistenti
dell’acciaio. Tuttavia, quando riuscì a rialzare gli occhi, si ritrovò l’arma
del nemico appoggiata alla fronte.
Hoover aveva il dito sul grilletto, sogghignava
malignamente, e quando fece scattare la sicura Bryan pensò che quella fosse
veramente la fine.
Nuovamente mostrò
i denti, senza far trapelare alcuna paura, e il silenzio si fece totale.
Poi, però, il
capitano allontanò sghignazzando la pistola e reinserì la sicura.
«A pensarci bene,
sarebbe troppo comodo per te morire adesso. Voglio che prima tu veda ciò a cui
hai così stupidamente rinunciato.»
«Capitano.» disse
uno dei suoi uomini ai comandi «Abbiamo il controllo dei sistemi di armamento.»
«Molto bene.
Mettiamo alla prova questa pupa.»
«Che bersaglio
impostiamo?»
«Scegli tu. Ce ne
sono tanti la fuori.»
«Che diavolo vuoi
fare!» gridò Deniels
«Niente di
speciale.» rispose lui sorridendo «Solo un po’ di fuochi d’artificio.»
«Ma lì fuori ci
sono anche i tuoi uomini!» disse Toro Seduto
«Ma la nave è la
vostra. La mia coscienza è pulita.»
«Tu non sai cosa
sia la coscienza, perché non ce l’hai!»
«Questa è una
guerra, amico mio. E in guerra, o sei determinato o sei morto».
Poco dopo, a
babordo di poppa si aprì una paratia circolare, dalla quale sbucò un gigantesco
cannone a energia, di certo una delle armi più micidiali di cui disponesse la Independence,
che venne puntato dritto verso il centro del nugolo di caccia ancora in lotta
fra loro.
«Il cannone è pronto,
signore.»
«Fuoco!».
Peter Bayle eseguì una
spettacolare piroetta per sfuggire ai colpi di una nave che aveva alle costole,
e non appena si spostò dalla sua traiettoria mise il suo amico Savino, che gli
stava volando contro, proprio di fronte al nemico, che finì inesorabilmente
distrutto.
«Yahoo! Questo sì
che è stile!»
«Non
deconcentrarti, Tom. Non è ancora finita.»
«Quanto sei
fiscale».
Il sergente Bayle, rialzando lo sguardo, vide che il cannone a energia
nucleare della Independence che si stava preparando a
sparare, scoprendo con suo grande terrore che non era puntato verso la Grevious
ma verso di loro.
«Ma cosa…».
Prima che potesse
finire di parlare, un gigantesco raggio di luce giallo brillante si sprigionò
dal cannone puntando diritto verso di loro. Lui era al sicuro, ma altrettanto
non si poteva dire per i suoi compagni più in basso, e specialmente per uno di
loro.
«Tom, attento!».
Il suo si girò,
vedendosi venire contro quella scarica micidiale.
«Cazzo!».
Con una manovra a
dir poco azzardata il giovane pilota si sollevò e girò la navetta lateralmente,
riuscendo ad evitare il laser per puro miracolo; alla sorte che stava per
toccare a lui, fortunatamente, non andò incontro nessuno degli alleati, ma due
velivoli nemici trovatisi disgraziatamente sulla sua traiettoria, segno che in
ogni caso non erano loro il bersaglio.
Savino ne aveva
passate di situazioni rischiose, ma non si era mai trovato così vicino ai
cancelli dell’aldilà, e per qualche secondo rimase immobile sul suo sedile a
respirare approfonditamente.
«Tom, tutto bene?»
«Che diavolo
succede!» tuonò l’amico alla radio «Quel colpo veniva dall’Independence!».
Nel vedere il potenziale distruttivo della nave caduta
nelle sue mani, Hoover scoppiò a ridere.
«Collaudo
positivo, a quanto pare. E voi dite che questa nave non cambierà le sorti della
guerra?».
Il suo sguardo si
fece terribilmente malevolo.
«Ma, a dire la
verità, questo non è che l’inizio.» disse ghignando, e subito dopo prese una
ricetrasmittente che aveva alla cintura «Sono Hoover.
Procedete».
A quell’ordine,
un’intera porzione della Grevious, un cubo di almeno
cinque metri per lato, si separò dal corpo centrale, salendo verso l’alto
grazie a due potenti propulsori; era chiaro che si trattava di un veicolo
spaziale, perché guardando bene si potevano vedere degli uomini attraverso i
vetri sulla fusoliera.
Dopo una salita
verticale di parecchi metri di arrestò lentamente, la sua parte superiore si
spalancò e da essa uscì un lungo traliccio con un semicerchio a scaglie simile
ad un ventaglio sulla sommità. Questo ventaglio successivamente prese
lentamente ad aprirsi, fino ad assumere la forma di un’antenna con un raggio
approssimativo di sette metri o più.
«E quello che
diavolo è?» disse Peter vedendo comparire quella cosa gigantesca.
La stessa domanda
venne fatta anche da Toro Seduto, e come al solito la risposta di Hoover fu un sorriso di soddisfazione.
«Questo è U.D.»
«U.D.? E che cavolo sta a significare?»
«Lo scoprirai
molto presto.»
«Capitano.» disse
il soldato alla poltrona di comando «Ho bypassato i comandi di sicurezza dello StarlightBreaker.»
«Molto bene».
Il traditore si
avvicinò quindi a Amy Ross, che lo fissò con aria di sfida, la guardò e,
nuovamente, ghignò.
«I codici
d’innesco, prego».
Di tutta risposta
lei gli sputò in faccia, lui si tolse lo sputo con il dito e le mollò un
pauroso ceffone che le fece volare via gli occhiali.
«Te lo ripeto.
Dammi i codici di innesco.»
«Vaff… vaffanculo se pensi che ti
aiuterò. Uccidimi se vuoi, tanto non li avrai mai.»
«Ne siamo
sicuri?».
Con spaventosa
noncuranza Hoover sollevò la pistola e sparò a caso
verso il gruppo di prigionieri; la pallottola viaggiò da una parte all’altra
della plancia e colpì Haussman alla spalla sinistra.
Il giovane soldato
cadde all’indietro come una bambola gemendo per il dolore.
«Klaus!» gridò il
suo amico Deniels inginocchiandosi davanti a lui
«Klaus! Riprenditi!».
Fortunatamente non
si trattava di nulla di particolarmente grave, e per Toro Seduto fu facile
tamponare la ferita.
Il comandante Ross
assistette alla scena impotente e inorridita; Hoover
le puntò nuovamente la pistola contro.
«Non lo dirò
un’altra volta. I codici».
Lei non rispose;
non perché non lo volesse, ma perché lo shock era stato così sconvolgente da
bloccare in quel momento qualsiasi sua facoltà cognitiva. Credendo che si
rifiutasse ancora di collaborare il capitano fece per ripetere la scena, ma
Amy, tornata in sé, lo bloccò.
«Aspetta!
D’accordo. Hai vinto».
Hoover sorrise di
soddisfazione, le sciolse le mani e la spinse fin sulla sua poltrona, la fece
sedere e la tenne sotto tiro fino a che non si fu infilata i guanti speciali
per poter lavorare con la tastiera olografica; tuttavia, prima che potesse
iniziare la procedura, volle subito mettere in chiaro una cosa.
«E non cercare di
fregarmi.» disse puntando la pistola verso Haussman
«O il prossimo sarà alla testa».
Comprendendo che
non poteva fare nulla, il comandante cominciò a riempire le singole caselle coi
codici di innesco, ognuno dei quali era composto da dodici simboli fra lettere
e numeri. I suoi compagni assistevano impotenti, cercando contemporaneamente di
aiutare il loro amico ferito.
«Klaus.» disse
Steven per tenerlo sveglio «Va’ tutto bene? Come ti senti?»
«Come… come se mi
avessero sparato.» rispose lui col suo solito tono scherzoso.
Dopo circa un
minuto per digitare tutti e dodici i codici necessari per sbloccare i blocchi
di sicurezza che impedivano l’utilizzo dello StarlightBreaker.
Quando anche l’ultimo venne inserito si accese
una luce verde in alto a destra dello schermo, e sul bracciolo di destra della
poltrona del comandante si aprì un piccolo scomparto contenente una serratura.
«Ora sì che si
ragiona.» disse Hoover «In fin dei conti, dovevo
immaginarlo. Tu sei pronta a morire per difendere la tua nave, ma non avresti
mai la forza di riservare la stessa sorte anche ai tuoi uomini».
Amy lo guardò
mille volte peggio di prima, ma sotto la minaccia delle armi fu costretta a
sfilarsi la catenella che aveva al collo, a cui era assicurata una piccola
chiave di metallo; fece per inserirla, ma Hoover
gliela strappò di mano.
«Ho sempre sognato
di farlo. Se permetti».
Il capitano infilò
dunque la chiave nella serratura, attese qualche secondo quindi la girò di 90°,
e subito dopo l’intera plancia si illuminò di una miriade di luci verdi.
«È fatta. Lo StarlightBreaker è nelle mie
mani!».
Approfittando di
quel suo istante di distrazione, il comandante premette, non vista, un bottone
della sua pulsantiera, e le tre telecamere posizionate in modo da coprire tutta
la plancia si attivarono; ciò che il comandante si augurò prima che i polsi le
venissero nuovamente legati fu che gli Iniziati non si accorgessero di nulla, o
l’ultima speranza per riprendere il controllo della Independence
sarebbe andata in fumo.
Nello stesso momento, il sergente maggiore Tarker si trovava nella sala di controllo per ripristinare
tutti i sistemi andati fuori uso a causa dello scontro.
Al centro della
camera, alta e di forma cilindrica, si stagliava una grande torre cibernetica,
che era praticamente il cuore pulsante della nave.
Se le enormi
batterie al krylium erano la fonte della propulsione,
indispensabile per gli spostamenti della nave, la torre cibernetica, chiamata
semplicemente La Torre,
assicurava il funzionamento dell’intero apparato informatico, dagli scarichi
dei bagni ai sistemi d’arma, e funzionava grazie ad una batteria indipendente
installata proprio al suo interno.
Le pareti e la
base della torre traboccavano di computer, da quella stanza era possibile
controllare praticamente ogni cosa, e proprio per questo si trovava al centro
della nave, nel punto più difficile da raggiungere.
«Ok, ci sono
quasi.» disse Lary battendo ad una delle tante tastiere
«Qui ripristiniamo i sistemi di comunicazione audio, qui i sistemi visivi.
Fatto!».
Non appena ebbe
premuto l’ultimo pulsante, sui tre monitor davanti a lei comparvero le immagini
riprese dalle videocamere in plancia, e per un attimo pensò che la sua vista un
po’ debole le giocasse un brutto scherzo.
Uomini vestiti di
nero, facilmente riconoscibili come Iniziati, erano seduti ai posti di
controllo, i suoi amici erano seduti per terra in un angolino, tenuti sotto
tiro da altri due uomini, il comandante Ross era seduta alla sua poltrona coi
polsi legati e il capitano Hoover era in piedi
accanto a lei.
Ciò che però la
spaventò maggiormente fu vedere le luci verdi dei quadri superiori tutte accese
e il computer olografico davanti alla poltrona di comando.
«Non può essere…»
balbettò, e subito corse ad un altro computer, quello che manteneva in
sicurezza lo StarlightBreaker.
Le servirono pochi
secondi per rendersi conto che i codici di innesco erano stati inseriti, e che
il cannone era pronto a sparare in qualsiasi momento.
Doveva fare
qualcosa, e in fretta.
Corse
immediatamente verso l’uscita, ma quando pigiò il bottone sui battenti le porte
non si aprirono. Provò nuovamente, più e più volte, ma non ci fu nulla da fare,
e anche strisciare la propria scheda di riconoscimento sul lettore magnetico
non sortì alcun effetto.
Procedura di
emergenza.
Se il computer
rilevava la presenza di individui estranei al personale di bordo, scattava
automaticamente la messa in sicurezza dei tre settori più importanti della
nave: la plancia, la sala motori e l’accesso alla Torre.
In altre parole,
riattivando i sistemi di sicurezza, Lary si era messa
in trappola con le sue mani, e anche se avesse dato l’allarme per i suoi
compagni sarebbe stato impossibile raggiungere la plancia per tentare di
riconquistare la Independence.
Affranta, si
lasciò scivolare lungo la parete, ritrovandosi seduta per terra con la testa
nascosta fra le ginocchia.
Per parecchi
minuti non le riuscì neppure di muoversi, e quando la voce del computer
comunicò che erano in corso le procedure per lanciare lo StarlightBreaker inizialmente sembrò non farci neppure caso.
«Capitano. Siamo pronti a sparare.»
«Molto bene. Però
sarà meglio fare prima un test, tanto per essere sicuri. Potenza a livello tre.
Puntare U.D. su 651.»
«Sì, signore».
L’enorme antenna a
quel punto iniziò lentamente a girare, orientandosi in una direzione che andava
a metà fra la Independence e il buco nero.
«Antenna in
posizione.»
«Iniziare le
procedure di fuoco.»
«Sissignore.»
«Ora, comandante
Ross, si metta comoda e si goda lo spettacolo».
Poco dopo, sul
muso della nave si aprirono una decina di piccolissimi sportelli, dai quali
presero ad uscire tantissime sfere di un colore rosa intenso che, lentamente,
andarono a condensarsi in un unico, grande globo luminescente.
Quello era lo StarlightBreaker. Un’arma che
tutti, dall’Imperatore, ai Dark Lord, agli Iniziati temevano.
Si avvaleva di un
misto di magia e scienza, combinando particelle subatomiche con l’energia
prodotta da un circolo magico permanentemente attivo nei meandri della nave.
«Oh,
merda.» disse Tom «Peter!
Peter, guardal’Independence!»
«Lo Starlight Breaker!? Ma sono impazziti!? Ci sono due
squadre attorno alla nave! È pericoloso!».
Bayle cercò di contattare la nave per avvisare del
pericolo, ma non fu possibile alcun tipo di collegamento.
«Cazzo! Squadre
due e quattro, abbandonare immediatamente le postazioni! Abbandonare le
postazioni! Allontanatevi dalla nave il più velocemente possibile!».
I comandanti dei
due stormi girarono immediatamente l’ordine ai loro uomini e le dieci navette
si affrettarono a togliere il disturbo prima che fosse troppo tardi.
Poi, come il primo
raggio di sole, dalla sfera formatasi davanti alla nave partì un grande fascio
luminoso che colpì in pieno la parabola, ma fra lo stupore generale non riuscì
a distruggerla.
Questa infatti si
comportò come uno specchio, e dopo aver assorbito interamente il colpo lo
rigirò verso il buco nero, ma con una potenza tre volte maggiore a prima.
«Ma che cazzo…»
disse Peter vedendo quell’incredibile scena.
Il raggio passò
nel mezzo del campo di battaglia spazzando via un gran numero di caccia di
entrambi gli schieramenti, per poi precipitare direttamente verso il buco nero,
producendo una leggera esplosione di luce sulla superficie della sfera oscura
prima di dissolversi completamente.
Ciò che accadde fu
accolto in due modi diversi in cabina di comando; se Amy Ross e i suoi avevano
negli occhi incredulità e sgomento, in quelli di Hoover
si leggeva una insana, insormontabile soddisfazione.
«Sì! Sì! Sì! Ci
siamo riusciti!»
«Che…» balbettò
Toro Seduto «Che cos’era quello?»
«Quello era U.D. Ultimate Destroyer. Il
frutto di oltre cinquant’anni di esperimenti, di ricerche e di sacrifici. Ora
abbiamo nelle nostre mani il mezzo per rendere del tutto inefficace la vostra
punta di diamante, e per cambiare per sempre il volto della guerra in tutto
l’universo.»
«Quello è solo un
abominio.» disse Steven
«Tu dici? Possiamo
amplificare la potenza e la velocità dello StarlightBreaker di quasi dieci volte, e fargli colpire bersagli che
stanno a centinaia di anni luce con una precisione superiore al 90%. Quale
Rinnegato potrebbe opporsi ad un’arma simile?»
«Deniels ha ragione.» disse il comandante «Quell’affare è
diabolico. Noi usiamo lo StarlightBreaker solo in casi di estrema necessità, voi vorreste
farne uno strumento di devastazione!»
«L’ho già detto
prima. Questa è una guerra. Una guerra le cui sorti sono destinate a cambiare.
E ora ve lo dimostrerò».
Hoover si rivolse nuovamente ad uno dei suoi uomini.
«Qual è
l’obiettivo sensibile più vicino?»
«Modgras, un pianeta appartenente all’impero della Dark Lord
Saphyr. Si trova a meno di trecento anni luce da qui,
e da questa posizione possiamo colpirlo in tutta tranquillità.»
«Molto bene. Dite
all’U.D. di impostare le coordinate, e caricate di
nuovo lo StarlightBreaker.»
«Sissignore.»
«Non potete
farlo!» gridò Gave «Quel pianeta è abitato da esseri
umani! Sono innocenti!»
«Vittime di
guerra.» rispose freddamente il capitano
«E in ogni caso,
non potete sparare di nuovo così presto!» disse Amy Ross «Dovete aspettare che
i reattori nucleari si raffreddino, o andranno in sovraccarico!»
«Non cerchi di
prendermi in giro, comandante. Abbiamo sparato a un terzo di potenza. Ho
passato abbastanza tempo su questa nave da sapere che possiamo permetterci
tranquillamente un altro colpo.»
«In circostanze
normali sì, ma i reattori stanno lavorando anche per proteggerci
dall’attrazione del buco nero! Se provocate un sovraccarico rischiamo di finire
risucchiati!»
«Vorrà dire che
correremo questo rischio.»
«Tu… tu sei pazzo…».
«Dio santo.» disse il sergente Bayle
vedendo il fascio dello StarlightBreaker
sparire nel buco nero «Ma che cazzo sta succedendo qui?»
«Peter, ho bisogno
di aiuto!».
Quella voce, quel
grido di aiuto gli risuonò nelle orecchie, facendolo tornare alla realtà.
«Tom!?»
«Ne ho due in
coda, non riesco a seminarli!».
Peter guardò in
basso tramite l’oblò sotto i suoi piedi; il caccia del suo amico era tallonato
da due navette degli Iniziati e non sembrava in grado di scollarseli di dosso,
malgrado tutta la sua abilità.
«Tieni duro, sto
venendo ad aiutarti!».
Il sergente si
mise subito sulla loro traiettoria e gli corse dietro; riuscì ad abbatterne
agilmente uno, ma l’altro si stava rivelando un osso davvero duro, tanto da
riuscire a schivare i suoi attacchi e tempestare di colpi il caccia di Savino
senza eccessiva difficoltà.
Peter aveva a
disposizione ancora un missile, ma per poterlo lanciare e colpire così il
bersaglio era necessario inquadrare l’obiettivo, e il nemico si muoveva così
tanto che il mirino non riusciva a raggiungerlo; questo senza contare che anche
Tom continuava a cabrare e a virare nel tentativo di liberarsi, quindi c’era il
rischio di inquadrare il bersaglio sbagliato.
«Dannazione! Non
riesco a inquadrarlo! Si muove troppo!»
«Tieniti pronto,
amico! Te lo servirò già infiocchettato!»
«Che vuoi fare?»
chiese Peter tutt’altro che tranquillo.
All’improvviso Tom
virò bruscamente a sinistra, proprio in direzione del buco nero.
«Tom, non fare
cazzate! Se ti avvicini troppo rischi di finire risucchiato!»
«Mi conosci, mi
piace rischiare!».
Il suo
inseguitore, intravedendo la possibilità di chiuderlo in un angolo, virò a sua
volta, trovandosi il caccia di Tom proprio al centro del mirino.
«Tom, ti sta
intrappolando! Riprendi quota!».
Vedendo che la
cosa non sembrava funzionare Savino cercò di ubbidire, ma la velocità e
l’angolazione, unita alla forza attrattiva del buco nero, gli impedivano di
manovrare decentemente.
«Non riesco a
controllarlo!».
Ormai il caccia
iniziato lo aveva praticamente davanti al muso, e questi senza ulteriori indugi
prese a sparargli contro. La parabola descritta dal caccia di Tom gli permise
di evitare la maggior parte dei colpi, ma quando Peter era convinto che ormai
il suo amico fosse fuori dalla portata di tiro vide la sua ala sinistra andare
in pezzi sprizzando scintille.
«Tom!».
Privato della
guida, il caccia di Savino iniziò ad andare fuori controllo; il velivolo
iniziato cercò di cabrare per allontanarsi, ma Peter, accecato dalla rabbia,
non glielo permise.
«Brutto figlio di
puttana!» gridò, e lanciato il suo ultimo missile lo ridusse in polvere.
Tom Savino intanto
stava precipitando sempre più inesorabilmente; normalmente, se privati della
capacità di volo, i caccia rimanevano fermi e inerti a vagare nello spazio, ma
in quell’occasione la forza d’attrazione esercitata dal buco nero lo stava
sospingendo inesorabilmente nella sua direzione.
Subito il giovane
pilota cercò di attivare l’espulsione di emergenza, ma quando provò a tirare la
leva sul monitor davanti a lui comparve una lucetta
rossa con al fianco un messaggio che sapeva da sentenza di morte.
«Tom! Tom!» disse
Peter alla radio «Che aspetti, espelliti!»
«Non posso.»
rispose lui calmo come non mai «Il sistema di espulsione è andato.»
«Che cosa!?».
Sembrava quasi che
fosse Peter quello nei guai, tanto sconvolta e agitata era la sua voce, un tono
che molti non gli avrebbero mai attribuito.
Era conosciuto
come un pilota modello, sempre pronto a mantenere il sangue freddo in qualsiasi
situazione, per questo, sentendo i suoi respiri affannosi, a Tom venne quasi da
ridere.
«Mi spiace, amico.
Sembra proprio che non potremo farci un’altra birra insieme.»
«Che stai
dicendo?» replicò, sconvolto, il sergente «Resisti, ora vengo a salvarti! Ti
aggancio col rampino e ti porto fuori di lì.»
«Lascia perdere,
tanto è inutile. Sappiamo entrambi che non ti rimane carburante a sufficienza
per venire fin qui e tornare indietro. Quindi faresti meglio a lasciare il tuo
culetto da sergente lì dov’è.»
«Tom…».
Peter non se ne
avvide, o forse non volle avvedersene, ma dai suoi occhi presero ad uscire
copiose lacrime.
«Lo sai, amico?»
proseguì Savino, mentre il suo caccia scivolava lentamente ma inesorabilmente
verso il suo destino «Fin da quando ti ho conosciuto, ho sempre sperato di
diventare bravo come te. Abbiamo combattuto insieme molte volte, e tu mi hai
sempre tirato fuori dai guai. Io ho cercato di fare la mia parte, ma per quanto
mi sforzassi di migliorare, dentro di me sentivo che non sarei mai stato in
grado di eguagliarti.»
«Che dici Tom? Tu
sei un grande pilota. Saresti diventato sicuramente il capo della squadra.»
«Non scherziamo,
quel posto può essere solo tuo. Ti sei fatto in quattro per ottenerlo, e ti
assicuro che nessuno avrà le palle e la bravura necessarie a portartelo via.
Anche se ti confesso che per un attimo ci avevo sperato».
In quella,
l’attività elettromagnetica del buco nero cominciò ad interferire coi segnali radio,
rendendo la comunicazione sempre più difficoltosa.
«Tom! Tom, resta
con me!»
«Addio, amico.» e
a quel punto Tom spense la radio.
Che ironia.
Malgrado si fosse
ripromesso di interrompere quella sfortunata serie, alla fine sarebbe morto proprio
come tutti i suoi antenati: in volo.
C’erano ancora
tante cose che avrebbe voluto fare.
Era giovane,
sapeva di avere talento, e poteva vantarsi di essere uno dei pochissimi
terrestri ad abitare i domini della confederazione.
Tutto merito del suo
bisnonno, l’illustre aviatore Bernardo Savino.
Membro di spicco
dell’aeronautica militare italiana, durante la seconda guerra mondiale aveva
combattuto nella campagna d’Africa, e un giorno, durante un giro di
ricognizione, aveva incrociato casualmente un piccolo trasporto confederato
impegnato in una missione scientifica.
Incuriosito
dall’insolito velivolo lo aveva inseguito, riuscendo, nonostante la minore
velocità e la differenza di tecnologia, a tenergli il passo, fino a raggiungere
la loro base operativa sulla Terra, una grande isola volante.
La prassi
prevedeva che tutti gli esseri senzienti non consapevoli venissero sottoposti a
cancellazione della memori e rispediti da dove erano venuti, ma il caso voleva
che a bordo di quello stesso velivolo ci fosse un capitano dello stato maggiore
che rimase molto colpito dal talento del giovane italiano, e che grazie ai suoi
agganci riuscì a portarlo con sé su Shinari dopo che
la guerra gli aveva portato via tutta la famiglia.
La sua abilità gli
permise di fare molta strada, ma venne ucciso in azione durante una scaramuccia
con una nave iniziata; la stessa sorte in seguito toccò a suo figlio, a suo
nipote, e ora sarebbe toccata anche a lui, l’ultimo erede della famiglia
Savino.
In quella, una
minacciosa crepa comparve sul vetro dell’abitacolo: la pressione gravitazionale
si era fatta pesantissima, e gli scricchiolii che giungevano alle orecchie
dell’ultimo dei Savino gli facevano comprendere che la navetta non avrebbe
retto ancora per molto.
Una cosa la sapeva
per certo: l’ultima cosa che voleva era vedere i suoi occhi uscire dalle orbite
e l’intero corpo implodere per la spaventosa pressione, quindi se voleva fare
ciò che aveva in mente doveva farlo subito.
Sfruttando gli
ultimi secondi che gli restavano si sfilò il rosario dal polso, lo strinse
forte nella mano e recitò il suo ultimo atto di dolore, poi sollevò uno
sportellino trasparente con dentro una piccola levetta di metallo, sotto alla
quale era scritto LR, che stava per Last Resource,
l’ultima risorsa per impedire a tecnologie confederate di cadere in mano
nemica.
Respirò
profondamente; pensò per un attimo a sua moglie, e alla sua bellissima figlia,
Marta, che di lì a poco avrebbe compiuto tre anni, quindi, sfilatosi la
maschera, abbassò la levetta.
Un istante dopo,
Peter Bayle, che per tutto il tempo era rimasto
immobile ad osservare impotente lo svolgersi degli eventi, vide la navetta del
suo amico che esplodeva il lontananza, e per un istante sembrò non voler
credere che fosse tutto vero.
«Tom! No!».
Grazie alle telecamere installate sia in plancia che
all’esterno della nave il sergente Tarker era stata
in grado di vedere tanto gli effetti di U.D. quanto
le reazioni che essi avevano provocato.
Rimase inorridita,
e compatì fin da subito la propria ingenuità.
Come aveva fatto a
farsi prendere dal panico e dallo sconforto in un momento simile?
La Independence,
la nave alla quale aveva dedicato i suoi dodici anni di servizio, era nelle
mani di un pazzo che intendeva usarla come mezzo di indiscriminata distruzione.
Il suo stesso nome
rivelava il motivo per cui quel vascello era stato costruito: la Independence
era nata per essere uno strumento di difesa e di liberazione, non certo per
portare la morte su mondi la cui unica colpa era di fare parte del dominio di
fanatici assetati di potere.
Lei doveva fare
qualcosa, qualsiasi cosa per impedire al capitano Hoover
di bersagliare un pianeta popolato da innocenti, e quando il computer la
informò che lo StarlightBreaker
si stava preparando a sparare di nuovo si affrettò a cercare una soluzione.
Provò ad inserirsi
nei sistemi di armamento per ottenerne il controllo, ma la procedura standard
isolava istantaneamente i computer legati allo StarlightBreaker non appena venivano inseriti i codici di
sicurezza proprio per scongiurare questa eventualità.
Anche togliere
energia ai reattori per la scissione nucleare si rivelò un tentativo
infruttuoso, proprio per lo stesso motivo.
Quindi, l’unica
soluzione attuabile era di creare un canale alternativo con il quale
ripristinare la connessione, un’operazione non difficile per lei ma che
l’avrebbe sicuramente fatta scoprire.
Bisognava essere
veloci, o quasi sicuramente gli Iniziati avrebbero bloccato completamente i
sistemi della plancia, isolandosi dal resto della nave e rendendo inutile
qualsiasi tentativo di intromissione dall’esterno.
Sfruttando tutte
le conoscenze a propria disposizione, e correndo continuamente da un computer
all’altro, Lary si sforzò di attuare quello che aveva
in mente; la consapevolezza di essere l’ultima speranza per la nave, per il suo
equipaggio, e per gli abitanti del mondo preso a bersaglio le faceva
dimenticare la fatica, ma aumentava ancora di più la sua tensione, con il
rischio di farle commettere errori, e intanto la colonna luminosa che indicava
il livello di potenza raggiunto dallo StarlightBreaker diventava sempre più alta.
«Energia all’80%!»
disse uno degli uomini di Hoover
«Aumentate ancora.
Ci serve la potenza massima.»
«Sissignore.»
«Non fatelo.» cercò
di dire nuovamente il comandante Ross «Ci ucciderete tutti».
Irritato da questi
continui richiami, il capitano traditore puntò nuovamente la pistola alla
fronte della donna.
«La avverto,
questo suo atteggiamento comincia ad irritarmi. Non mi costringa a spararle,
comandante.»
«Energia al 90%.»
«U.D. è in posizione?»
«Le coordinate
sono state impostate correttamente, e la traiettoria verso Modgras
è completamente sgombra. Tempo previsto per la distruzione del bersaglio,
cinque ore.»
«Molto bene».
La sfera di
energia davanti alla nave aveva ormai raggiunto proporzioni macroscopiche, e
brillava a tal punto che fu necessario abbassare i vetri protettivi per evitare
di venire accecati.
Intanto il lavoro
di Lary procedeva a ritmo serrato; era riuscita a
violare i sistemi di sicurezza (un’impresa da poco visto che era stata lei a
progettarli) e a stabilire una connessione coi computer di controllo; ora si
trattava solamente di riscrivere i codici di innesco, facendo sì che quelli
vecchi risultassero inesatti, trasferendo a lei il controllo totale sull’arma e
permettendole di spegnersi.
L’effetto che si
ebbe in plancia fu di vedere le lucine verdi spegnersi una dopo l’altra.
«Che diavolo
succede?» domandò Hoover
«Ci sono
interferenze! Qualcuno si è inserito nei sistemi di comando usando una
connessione manuale!»
«Dannazione,
tagliatela!»
«Ci stiamo
provando, ma i computer non rispondono!»
“Lary.” pensò il comandante sorridendo leggermente.
La sfera di
energia cominciò lentamente a diminuire di grandezza, e la cosa non fece altro
che mandare Hoover su tutte le furie.
«Fate qualcosa,
per la puttana! Quel cannone deve sparare!»
«I codici sono
stati modificati, stiamo cercando riprendere il controllo!».
L’idea che gli
uomini del capitano attuarono per riottenere il dominio della situazione era di
usare la stessa connessione che li stava mettendo alle corde come una lama a
doppio taglio, inserendosi a loro volta nel computer del sabotatore e
riscrivendo nuovamente i codici.
Il loro vantaggio
stava nell’essere in cinque a fare il lavoro, mentre Lary
era costretta a correre da una parte all’altra come una trottola per poter
tenere d’occhio tutti i computer intenti a svolgere lavori differenti, ma lei
era indubbiamente più abile dei suoi avversari e poteva fare lo stesso lavoro
in metà del tempo.
La cosa assunse
rapidamente le fattezze di un incontro di boxe, dove ognuno dei due concorrenti
cercava di ottenere il controllo e contemporaneamente di mantenere alta la
difesa.
La fronte e il
viso del sergente maggiore Tarker erano fradici di
sudore, sia per tutte le corse che era costretta a fare sia per la tensione
provocata da quella pericolosissima situazione.
Appena riusciva ad
ottenere il controllo ordinava al computer di disperdere l’energia dello StarlightBreaker, ma quando
erano gli Iniziati a comandare quella stessa energia veniva nuovamente
convogliata nella sfera.
Il risultato di
tutto ciò era che i reattori lavoravano al massimo, e a causa di tutta una
serie di fattori combinati ben presto cominciarono a fondere.
I due operai
addetti al controllo del circolo magico, tracciato sul pavimento di una grande
camera circolare, videro gli strumenti della loro stanzetta sprizzare fumo e
scintille, fecero appena in tempo ad uscire prima che il cerchio si mettesse a
sparare fulmini, mandando in pezzi i ballatoi metallici che giravano tutto
attorno alla stanza a pochi metri dal soffitto.
La sfera luminosa
davanti alla nave pulsava ora come un cuore, e in tutta la Independence
riecheggiava un assordante suono di sirene spiegate.
«Ma che cazzo…»
bestemmiò Hoover guardandosi attorno spaventato
«È tutta colpa
vostra!» gli rispose con rabbia Amy Ross «I reattori nucleari e il circolo
magico stanno collassando per lo sforzo, e ora il danno si sta ripercuotendo
anche sui controlli dell’arma!»
«È inutile
signore, non riusciamo a disperdere l’energia, i sistemi di controllo sono
tutti in tilt!»
«Era questo che volevi,
pazzo incosciente?» urlò Steven «Tra meno di trenta secondi lo StarlightBreaker ci esploderà
fra le mani!».
Alla stessa conclusione di Steven era giunta anche Lary, che ormai non intravedeva più alcuna speranza di
evitare l’imminente catastrofe.
Per un attimo
sembrò cadere nuovamente in preda allo sconforto, ma poi la sua mente vulcanica
partorì quella che qualunque soldato avrebbe reputato un’idea suicida, e senza
perdere tempo a domandarsi se fosse davvero la cosa più giusta da fare si mise
nuovamente all’opera.
L’idea era di
infondere nuova energia ai reattori nucleari sfruttando la reazione prodotta
dalle batterie al krylium dei motori dell’hyperdrive, nella speranza che l’energia restante fosse
stata sufficiente a garantire quantomeno la protezione dall’attrazione
gravitazionale del buco nero tramite la spinta di emergenza, entrata in
funzione automaticamente dopo il collasso dei reattori.
Nessuno poteva
sapere di quanta energia i reattori avessero bisogno per tornare operativi; si
andava completamente alla cieca, e non si poteva prevederne gli esiti.
C’era poi un altro
particolare di cui tenere conto: anche riottenendo il controllo dello StarlightBreaker, per impedirgli
di implodere a causa del continuo variare dell’energia al suo interno occorreva
dargli un bersaglio da colpire, e a parte l’U.D. ce
ne era uno solo a portata di tiro di cui il sergente Tarker
poteva desumere le coordinate in tempo utile.
Poco dopo gli
occupanti della plancia videro la sfera illuminarsi più forte di prima; alcuni
pensarono che fosse per via dell’imminente implosione, ma poi invece lo StarlightBreaker partì
regolarmente, puntando dritto verso la Grevious, ancora ferma
a pochi chilometri dalla Independence.
La nave iniziata
fu passata da parte a parte dalla potenza del raggio e decine di esplosioni
presero a sventrarla dall’interno.
«No!» gridò Hoover vedendo la sua nave precipitare in fiamme.
Era quello che
Toro Seduto stava aspettando.
Approfittando del
momento, usò la sua forza erculea per liberarsi dei legacci di plastica che gli
immobilizzavano i polsi e, balzato in piedi, con un solo colpo a pugni uniti
sfracellò il cranio a uno dei due carcerieri.
Il secondo tentò
di sparargli, ma Steven fu più veloce e afferratagli la testa gli spezzò il collo,
usando poi il coltello che aveva alla cintura per liberare sé stesso e i suoi
compagni mentre Toro Seduto, recuperato il mitra del primo nemico, svuotò il
caricatore sugli altri Iniziati, che morirono prima di avere il tempo di
alzarsi dalle sedie.
Anche Amy Ross, che era riuscita a liberarsi
già da tempo, colse al volo l’occasione per fare quello che tanto desiderava, e
alzatasi in piedi colpì Hoover con un destro pauroso
che lo fece finire gambe all’aria giù dalla piccola rampa di scale che immetteva
nella parte bassa della plancia.
Questo si rimise
in piedi e cercò di spararle, ma lei, affondata la mano nella manica, cavò
fuori la sua pistola monocolpo, cogliendo il
traditore del tutto impreparato.
Sfortunatamente,
proprio nel momento dello sparo, la nave tremò vistosamente per l’onda d’urto
provocata dalle esplosioni sulla Grevious, e così Hoover venne colpito solamente al fianco destro,
ritrovandosi però inginocchiato a terra, con Toro Seduto e Deniels
che lo tenevano sotto tiro.
«A quanto pare la
situazione si è capovolta.» disse il gigante nero «Non è così, capitano?»
«Maledetti…».
In quella l’U.D. venne raggiunto dalle esplosioni ed esplose a sua
volta, producendo una nuova onda d’urto che fece sobbalzare tutti. Stavolta fu Hoover a sfruttare l’opportunità, e dalla manica della sua
divisa fece scivolare fuori una granata fumogena che appena toccata terra
ricoprì la plancia di una spessa cortina scura che costrinse Ross e i suoi a
coprirsi gli occhi.
«Avrà vinto
questa battaglia, comandante, ma la guerra non è ancora finita!».
Il fumo fece
scattare le procedure antincendio, la porta d’ingresso si aprì e fiumi d’acqua
presero ad uscire dalle manichette sul soffitto.
Quando finalmente
la situazione si acquietò Hoover era scomparso e al
suo posto c’era una linea di sangue che uscendo dalla porta spariva lungo il
corridoio.
«Cercatelo!»
ordinò il comandante «Non deve lasciare la nave!».
«Dannatissima troia.» borbottò fra sé Hoover
una volta al sicuro nell’ascensore «Aspetta e vedrai, ti farò pagare anche
questa».
Quando finalmente
la cabina si fermò e le porte si riaprirono, il capitano, tenendo la pistola in
una mano e l’altra pressata sulla ferita, raggiunse il più velocemente
possibile gli oblò che immettevano alle capsule di salvataggio.
Aveva appena
strisciato la sua tessera sul lettore accanto ad uno dei portelli, stava quasi
per aprirlo, quando una pallottola gli si conficcò in mezzo alla spalla
sinistra, provocandogli un nuovo, intenso dolore.
Stupito, si girò,
trovandosi a tu per tu con la pistola del sergente Marshall; era gravemente
ferito, la sua divisa era zuppa di sangue, ed era costretto a rimanere
appoggiato alla parete per rimanere in piedi.
«Dannato…» mugugnò
il traditore
«Va’… va’
all’inferno, brutto pezzo di merda!».
Hoover cercò di sollevare la sua pistola, ma Marshall fu
più veloce e lo fulminò in mezzo alla fronte, e subito dopo anche lui si
accasciò a terra senza più un briciolo di forza in corpo.
Pochi minuti dopo aver riottenuto il controllo della nave Lary fu in grado di sbloccare la porta della Torre e a
ritornare in plancia, dove ricevette il plauso di tutto l’equipaggio per la sua
azione magistrale.
«Beh…» rispose lei
arrossendo e passandosi una mano dietro la nuca «Non ho fatto niente di
speciale.»
«Ma che dici.»
replicò Klaus, che grazie alle abilità di guarigione di Dave si era ormai del
tutto ripreso «Ci hai salvati tutti.»
«Ehi, guardate!»
disse Deniels «La Grevious sta
precipitando nel buco nero!».
La nave infatti
stava avvicinandosi sempre più al corpo celeste avvolta dalle fiamme, e ad un
certo punto la gravità fu tale da farla implodere, producendo una luce
fortissima, assolutamente anormale.
Subito dopo, la Independence
fu sospinta violentemente in avanti.
«Che succede?»
chiese Toro Seduto
«Il buco nero ha
aumentato improvvisamente la sua forza di attrazione!» rispose spaventato Haussman, ritornato in tutta fretta alla sua postazione
assieme a tutti gli altri «I motori non riescono a compensarla!»
«È colpa mia!»
disse Lary «Ho usato l’energia delle batterie al krylium per lanciare lo StarlightBreaker!»
«Non è il momento
di piangersi addosso!» replicò il comandante «Motori indietro tutta, energia al
massimo!»
«Energia al
massimo!» rispose di rimando Steven
«Fate rientrare i
caccia, subito!».
L’ordine venne
immediatamente impartito a tutti i caposquadra, che subito ubbidirono e fecero
ritorno alla nave per mettersi in salvo dopo che le navette nemiche avevano
battuto in ritirata. Solo un caccia non rispose all’appello, quello del
sergente Bayle, che già da diversi minuti rimaneva
immobile a fluttuare come se dentro non ci fosse stato nessuno.
Peter infatti era
ancora troppo sconvolto per la scomparsa del suo migliore amico, e ora sembrava
quasi voler seguire il suo stesso destino, lasciandosi attirare dal buco nero
per andare a tenergli compagnia.
«Sergente!» disse
Capo 3 «Si ritiri, prima che sia troppo tardi!».
Alla fine,
finalmente, anche Peter si decise ad abbandonare la postazione e a tornare
indietro, e fino a quando il suo caccia non fu all’interno dell’hangar fece di
tutto per non dover guardare indietro.
Tanto, pensava fra
sé e sé, vista la situazione che stavano prendendo gli eventi, molto
probabilmente sarebbe morto comunque, quindi tanto valeva farlo in compagnia
dei suoi uomini.
In effetti tutto
sembrava dargli ragione.
Pur spinti al
massimo, i motori non apparivano in grado di contrastare la forza di
attrazione, che ogni secondo che passava diventava sempre più forte.
I nervi erano tesi
allo spasimo, tutti in plancia facevano quello che potevano per evitare la
catastrofe, e in tutta quella frenesia nessuno si accorse della comparsa, al
centro del buco nero, di una piccola luce bianca.
Questa, dopo aver
brillato per un po’, sembrò esplodere, trasformandosi in una sorta di
gigantesco imbuto simile ad una finestra dell’iperspazio, ma molto più grande.
Nello stesso
istante, il tempo a bordo della Independence sembrò
fermarsi di colpo.
Tutti rimasero
immobili, cristallizzati nel tempo; chi stava correndo restò sospeso in aria,
chi stava parlando restò con la bocca spalancata, senza che parola venisse
proferita. Persino le lancette dell’orologio dell’infermeria si arrestarono.
Poi, l’intera nave
subì una paurosa accelerazione, scomparendo al centro dell’imbuto, che subito
dopo si richiuse, lasciando nuovamente spazio alla tetra figura del buco nero.
Nota dell’Autore.
Eccomi qua. Dopo
questa parentesi fantascientifica (di cui si sentirà comunque parlare nuovamente
in futuro) dal prossimo capitolo si tornerà alle atmosfere precedenti, con
un’ambientazione tipicamente fantasy a fare da padrone.
Tuttavia, annuncio
fin da subito che la storia da ora subirà un piccolo ritardo; dal momento che
una delle mie lettrici più affezionate tra breve prenderà la via delle vacanze,
in rispetto anche a ciò che fece quando fui io a partire, attenderò il suo
ritorno prima di pubblicare il nuovo capitolo.
Rinnovo i miei
ringraziamenti a Selly
e Akita
per le loro recensioni e a tutti coloro che leggono, invitandoli, nuovamente, a
farmi sapere le loro opinioni.
Erano trascorsi venti giorni dall’inizio del suo viaggio.
Dopo aver attraversato le fertili pianure
dell’ovest e le steppe sterminate al confine del regno, finalmente Elys aveva
rimesso piede, per la prima volta dopo cinque anni, nel suo bellissimo deserto.
Dune alte e
ondulate si perdevano all’orizzonte, illuminate da un sole impietoso che
brillava alto in un cielo sgombro di nuvole.
Era il regno della
sua gente, dei Kalimi, i nomadi un
tempo allevatori ma divenuti famosi in tutto il continente come incredibili
guerrieri, capaci di combattere per un giorno intero senza stancarsi, assetati
di sangue e battaglie più di qualunque altra razza.
Il deserto li
aveva forgiati, e da sempre era la loro casa, che chiunque altro avrebbe
ritenuto inabitabile dopo pochi giorni. Solo chi conosceva i sentieri che
collegavano fra di loro le piccole oasi disperse in
quel mare di sabbia poteva sopravvivere in un luogo talmente ostile, ma l’acqua
e il cibo non erano le sole cose indispensabili.
Occorreva saper
interpretare i segni della natura, essere in grado di prevedere l’arrivo di
tremende tempeste di sabbia, periodi di caldo ancor più insopportabile e anche di quei rari temporali che rinfrescavano un poco l’aria e
permettevano di riempire le otri anche quando si era in viaggio.
Dopo tanto tempo,
nuovamente Elys aveva indossato un velo per proteggersi la testa e la bocca dal
caldo e dalla sabbia; all’ultima stazione di posta prima di uscire dal regno,
poi, aveva cambiato cavallo, sostituendo quello con cui era partita con uno
stallone bianco della razza martaz, resistenti come
cammelli ma veloci come tigri.
Elys conosceva a
memoria le rotte circolari che il suo clan tracciava spostandosi da un’oasi
all’altra, quindi sapeva con precisione dove li avrebbe trovati, e la fortuna
voleva che quello fosse il periodo in cui la carovana passava più vicina ai
confini di Fiya, a soli tre o quattro giorni di cavallo dall’ultimo avamposto.
Era da poco
passato mezzogiorno, il momento più caldo della giornata, e persino lei
cominciava ad avvertire il peso del caldo, per questo, seguendo il suo fiuto e
le sue doti di Kalimi, raggiunse velocemente una
piccola oasi poco distante, dove non vi era nulla più che qualche palma ed un piccolo pozzo.
Sia Elys che la
sua cavalcatura si abbeverarono, e mentre il cavallo pascolava tranquillo poco
distante brucando l’erba verde che sbucava dalla sabbia Elys
si arrampicò rapidamente su di una palma, recuperando due grandi noci di cocco,
che aprì servendosi di un sasso appuntito.
Assaporando il
fresco sapore di quel latte sopraffino, per un istante la ragazza tornò con la
mente al passato, a quando era solo una bambina.
La mattina presto,
quando ancora tutti dormivano, lei usciva dalla tenda e correva all’albero più
alto dei dintorni, si arrampicava fino in cima e ne raccoglieva i frutti, che
poi divideva con il resto della sua famiglia durante
la colazione.
Qualcuno diceva
che sembrava una scimmia, qualcun altro una gatta, tanto naturale le veniva
l’arrampicarsi su qualunque tipo di terreno, anche il più impervio, con una
facilità che lasciava tutti senza fiato.
Per molto tempo
era stato tutto così semplice, così divertente; persino allenarsi con la spada
e nella lotta era per lei come un gioco, e tutti i suoi maestri concordavano
nel ritenere che un giorno avrebbe saputo tenere alto il nome della sua tribù.
Ma
poi era arrivata l’adolescenza, e tutto aveva cessato di essere divertente.
Il piacere di
apprendere divenne un dovere, una necessità, per dimostrare di essere degna del
nome che portava, e quello che era cominciato come un gioco divenne col tempo
un esercizio sfiancante. Era il pensiero che quegli allenamenti l’avrebbero
valorizzata come guerriera a farla andare avanti, sentiva che se un giorno avessero guardato a lei come ad un modello, non come ad una
qualsiasi cavalla da monta, allora ne sarebbe valsa la pena.
Questo fino a che
non era accaduto quello sciagurato incidente; bastò una semplice freccia per
distruggere la sua vita e le sue aspirazioni.
Un giorno, mentre
il venerabile Barac-Shalin, padre di Elys, era
impegnato in una caccia alla volpe coi membri di altre
tribù, una freccia vagante aveva colpito e ucciso Tarash,
fratello minore del capotribù Kar-Shnu, un uomo
incredibilmente brutto e grasso preda dei più ignobili appetiti, che
soddisfaceva circondandosi di cibo raffinato e giovani donne, comprate nei
mercati degli schiavi sulla costa o rapite alle loro tribù di origine.
Barac-Shalin si assunse fin da subito la responsabilità per
l’accaduto, ma si trattava di una questione molto delicata; la tribù di Tarash era potente, e la morte del principe, per quanto
accidentale, poteva essere usata come pretesto per scatenare una guerra.
Dapprincipio
sembrò che le intenzioni di Kar-Shnu fossero proprio
queste, ma poi, all’ultimo secondo, egli propose una soluzione amichevole, offrendosi
di dimenticare l’accaduto in cambio di una sola cosa: la mano della bellissima
Elys.
L’idea di vedere
la propria figlia maritata con un maiale di quella risma fece tremare le vene a
Barac-Shalin, ma quella purtroppo non era una
decisione che spettava solamente a lui.
Secondo la legge
dei Kalimi, la questione fu affrontata in seduta di
consiglio, alla quale presenziavano tutti i maschi al
di sopra dei sessant’anni.
La tribù di Elys
era da poco uscita da un’altra guerra, e nessuno aveva interesse a cominciarne
subito un’altra, quindi la proposta di pace offerta da Kar-Shnu
fu approvata con larga maggioranza.
Barac-Shalin fece tutto quello che era in suo potere per
difendere la figlia, arrivando anche ad offrire la
propria testa come pegno per l’offesa arrecata, ma neppure il sovrano poteva
contestare una decisione del consiglio.
Lo shock per Elys
fu tale da toglierle il sonno, sua madre invece pianse per giorni interi, ed
ebbe persino un mancamento. Qualcuno aveva cercato di rincuorare la principessa,
dicendole che in quanto moglie avrebbe avuto un
trattamento migliore, che avrebbe comunque goduto della protezione del suo nome
prestigioso, ma a Kar-Shnu questo non sembrava
importare, tanto che già nel corso dello Sharin,
l’incontro fra i fidanzati che precede il matrimonio, aveva già cercato di
metterle le mani addosso, malgrado la legge universale dei Kalimi
vietasse ai futuri compagni di consumare rapporti prima del matrimonio.
Quella per Elys fu
l’ultima goccia: mai e poi mai si sarebbe sottomessa ad
una simile umiliazione, mai avrebbe permesso a qualcuno di usarla come un
oggetto, togliendole la dignità di guerriera che si era così duramente
conquistata.
E così, fece ciò
che non avrebbe mai pensato di dover fare.
Era una notte bellissima, illuminata da migliaia di stelle
e da una suggestiva falce di luna; tutti dormivano,
nell’accampamento, e regnava un magico silenzio.
Avvolta in un
mantello nero, con un cappuccio alzato sulla testa, una misteriosa figura
scivolò fuori dalla tenda di Barac-Shalin, signore
della tribù, e si diresse correndo al recinto dei cavalli.
Fra le tante,
possenti bestie che lo popolavano, c’era una magnifica cavalla bianca, un vero
e proprio gioiello, degno dei più grandi sovrani: le zampe forti e sottili, il
busto possente, il crine lungo e setoso.
Non appena la
figura in nero si avvicinò a lei, quello splendido animale dapprima si ritrasse
spaventato, ma non appena intravide il volto sotto a quel
cappuccio immediatamente si calmò.
«Buona
Sary. Sono io, Elys».
Era usanza, presso
i Kalimi, che alla prima figlia femmina di un
capotribù venisse regalato, nel giorno del suo decimo
compleanno, il puledro migliore fra quelli della sua generazione, il più sano e
forte, che un giorno sarebbe stato il suo compagno in battaglia.
La madre di Sary era considerata la cavalla più straordinaria che mai
avesse solcato le sabbie del deserto, ma fin dalla nascita quella puledra aveva
dimostrato un carattere impossibile: selvatica, ribelle, non perdeva occasione
per tentare la fuga, e più di una volta era stato necessario rincorrerla fra le
dune, ma la sua velocità aveva del prodigioso, e chi l’aveva inseguita
diceva che sembrava avere le ali al posto degli zoccoli.
Nessuno era in
grado di tenerla a freno, ed era necessario costruire una gabbia di legno
solamente per lei, per non parlare del fatto che non si lasciava montare da
nessuno.
Poi, un giorno,
accadde una cosa che lasciò tutti senza fiato.
Elys, che allora
aveva nove anni, si stava arrampicando come al solito
su di un albero, quando il ramo cedette di colpo e lei cadde all’interno della
gabbia perdendo i sensi.
Le sue amiche
corsero immediatamente a dare l’allarme, ma quando finalmente Barac-Shalin raggiunse la gabbia per rimuovere il puntello ed aprire la porta vide Sary che
sembrava quasi cercare di svegliare Elys sfiorandola e scotendola leggermente
con il muso. Fu necessario l’uso della forza per allontanarla e portare al
sicuro la bambina, perché lei, appena fu aperta la porta, si parò in sua difesa
come avrebbe fatto con il proprio piccolo.
Alcuni lo ritennero un miracolo; tutti convennero sul fatto che Elys
era l’unica in grado di domare Sary, che alla fine le
fu regalata pochi giorni dopo, quando la bambina compì i suoi dieci anni.
Erano passati cinque
anni da allora, e quelle due non avevano mai smesso di volersi bene; erano come
sorelle, quindi era più che naturale che rimanessero insieme anche in quella
nuova impresa.
Sary si lasciò sellare senza opporre resistenza, e appena
Elys le fu in groppa saltò la staccionata, partendo subito dopo al galoppo
verso est.
Appena giunta in
cima alla grande altura che sovrastava l’oasi, Elys si fermò per un istante a
contemplare per l’ultima volta il suo villaggio, senza sapere se e quando lo
avrebbe rivisto, poi, prima che le sentinelle si accorgessero della sua
presenza, spronò nuovamente la sua cavalcatura, scomparendo inghiottita dalla
notte.
Così era cominciata l’avventura di Elys, un’avventura che l’aveva condotta dove non avrebbe mai pensato
di arrivare.
La sua fuga era
durata poco, perché subito dopo aver varcato il confine di Fiya
fu arrestata e incarcerata per aver sconfinato senza passare per i posti di
controllo.
Trascorse molti
giorni chiusa in una fredda cella prima di venire
finalmente liberata, ma nel frattempo Sary aveva
cominciato a sentirsi molto male; essendo era nata e cresciuta nel deserto non
era abituata ai climi umidi e piovosi di Fiya, quindi, prima di lasciare il
forte nel quale si trovava, l’aveva affidata ad una carovana di mercanti suoi
amici in viaggio per il deserto, ai quali chiese di restituirla a suo padre
quando avessero incontrato la sua tribù.
Separarsi da lei
fu una grande pena, e nonostante Elys ripetesse a sé
stessa che lo aveva fatto unicamente per il bene di Sary
passò molte notti e molti giorni a piangere, mentre il suo cammino la portava
sempre più nell’interno di Fiya.
In breve tempo,
Elys comprese quanto fosse difficile la vita al di fuori del deserto, con le
sue regole, la sua politica, e persino la sua disonestà.
Tutto ciò l’aveva
resa più forte, e ora era giunto per lei il momento di affrontare il peso che
si portava sulla coscienza da tre anni; sarebbe tornata
al suo villaggio, avrebbe rivisto la sua famiglia e i suoi amici, e avrebbe
difeso con forza la decisione che aveva preso quel giorno.
Forse, si diceva,
avrebbe anche rivisto la sua adorata Sary, che magari
anche dopo tanti anni continuava ancora a nitrire al
sorgere per chiamare la sua padrona, invitandola ad uscire insieme per la loro
quotidiana passeggiata.
Bevuto il latte e
mangiata la noce, la ragazza si distese beatamente sulla sabbia, usando il velo
per la testa come un cuscino.
Era così bello,
tutto era silenzio e quiete; uno straniero non sarebbe mai stato in grado di
godere appieno di quel trionfo di magnificenza.
Stava quasi per
addormentarsi, quando una strana sensazione la costrinse invece a rimanere
sveglia, e dando l’illusione di stare dormendo cominciò invece a guardarsi
intorno; avvertiva su di sé uno sguardo minaccioso, uno sguardo ostile, e pur
non riuscendo a vedere nessuno poteva percepirne la presenza attraverso suoni praticamente inudibili per una persona comune.
Molto lentamente,
facendo attenzione a non fare rumore, mise la mano
sull’elsa della sua spada, appoggiata accanto a lei, e nello spazio di un
istante, alzatasi in piedi, la usò per difendersi dall’assalto di un’altra
lama, più piccola della sua ma comunque minacciosa.
A stringerla era
una ragazza dalla pelle scura, una Kalimi come lei;
doveva avere quindici o al massimo sedici anni, aveva lunghi capelli color
terra raccolti in una coda di cavallo e occhi viola, cosa insolita per la sua
gente.
Vestiva in un modo
molto simile a quello di Elys; portava una fascia pettorale costituita da due
strisce di cuoio rosso con in mezzo un velo di tessuto
verde, una gonna dello stesso materiale sorretta da una cintura sempre di
cuoio, lunghi stivali e un paio di polsiere che andavano dal dorso ai gomiti;
in particolare quello di sinistra era rinforzato con una sorta di protezione
metallica che faceva da scudo.
Vedendola,
Elys sgranò gli occhi.
«Talim!?».
Elys la allontanò
grazie alla sua forza superiore, e allora poté vederla in faccia per essere
certa di non essersi sbagliata.
Era proprio sua
cugina Talim, la compagna di giochi di una vita;
vederla così, vestita come una guerriera, destò in Elys non poca perplessità.
Talim era la secondogenita di suo zio Kosh-Mar,
e a differenza di Elys la sua strada non sarebbe stata quella del soldato, dal momento che ci avrebbero pensato i suoi tre fratelli
maschi a tenere alto il nome della famiglia.
Ma quello che
colpì Elys ancor più che vedere la sua più grande amica vestita in quel modo furono i suoi occhi, così carichi di rabbia, e
il benvenuto non proprio caloroso che le aveva riservato.
«Talim… sei davvero tu?»
«Non osare
pronunciare il mio nome, traditrice!».
La ragazza si
scagliò nuovamente all’attacco, e allora Elys non ebbe altra scelta che
difendersi, tenendo la spada rivolta verso il basso e usandola come uno scudo.
«Smettila di
nasconderti, e attaccami!»
«Talim, sei uscita di senno?».
Ne nacque uno
scontro cruento, e Talim si rivelò più in gamba di
quanto Elys avrebbe mai potuto immaginare, al punto che dopo qualche minuto
entrambe si videro costrette a fermarsi per riprendere fiato.
«Ora
basta, Talim. Non voglio combattere con te.»
«Io invece sì!»
gridò lei correndo nuovamente allo scontro, ma era così stanca che Elys riuscì
facilmente ad atterrarla, disarmarla e puntarle la spada alla gola.
«Che
aspetti? Uccidimi!».
Elys però non
pensò neppure per un momento di arrivare a tanto, ma sapeva anche che in quelle
condizioni sua cugina era imprevedibile, e commise l’errore imperdonabile di
abbassare la guardia; la sua avversaria ne approfittò immediatamente, e
raccolto un pugnetto di sabbia gliela gettò sugli
occhi, accecandola, e in un secondo la situazione si
capovolse: Elys si ritrovò appoggiata ad una palma con la spada di Talim che le sfiorava il collo.
«Ultimo
desiderio?»
«Sì.
Che tu mi dica perché stai facendo questo.»
«E
hai il coraggio di chiedermelo, maledetta! Tu hai ucciso mio padre!»
«Che cosa!?» ribatté Elys sconvolta e confusa «Ma che stai dicendo?».
Talim prese allora a raccontare la storia per intero in
tono più pacato di prima, ma ugualmente carico di
risentimento.
«Dopo che sei scappata, e che la nostra tribù non è più stata nelle
condizioni di fare quanto promesso, Kar-Shnu è andato
su tutte le furie. Sarebbe stata sicuramente guerra, se il venerabile Barac-Shalin non si fosse appellato al grande sacerdote del
tempio di Braxis.
Egli, interrogando
gli dèi, decretò che l’unico modo per appianare le divergenze con Kar-Shnu e la sua tribù era infliggere al responsabile
della morte di Tarash una punizione uguale all’offesa
arrecata.
Kar-Shnu aveva perso un fratello, e gli dèi decisero che
l’unico modo per saldare il debito era che il venerabile Barac-Shalin
subisse lo stesso destino rinunciando al proprio».
Elys sentì
d’improvviso un colpo al cuore, non volle credere a ciò che stava sentendo, ma
le lacrime che sgorgando dagli occhi di Talim
bagnavano la sabbia del deserto le facevano capire che
le sue erano parole sincere.
«In altre parole,
hanno deciso che mio padre doveva morire!»
«Tuo… padre…»
«È
stato decapitato come un comune criminale, davanti a tutto il villaggio! E quel
porco bastardo di Kar-Shnu ci rideva pure sopra!»
«Talim… io… mi dispiace…»
«Ti dispiace!? Se tu non fossi scappata nulla
di questo sarebbe mai accaduto! Mio padre è morto, ed è solo colpa tua!»
«A me dispiace per
quello che è successo a tuo padre.» rispose Elys con voce ferma «E mi dispiace per il dolore che la tua famiglia ha dovuto
subire. Ma per essere scappata non ho alcun rimorso.»
«Che cosa!?» ringhiò Talim ancora più
adirata
«Io
sono venuta al mondo come una persona libera. Mi hanno costretta
a diventare più forte, ma io non mi sono ribellata a questa decisione. Sapevo
la mia forza mi sarebbe servita a conquistarmi il rispetto di chi mi stava
intorno. Io volevo solo essere trattata alla pari, per questo non potevo
sopportare l’idea che fossero altri a decidere della mia vita.»
«E
tu che diritto avevi di decidere di quella di mio padre! Se mi sono trasformata
in una guerriera è stato solo per poterti far pagare
quello che io e la mia famiglia abbiamo dovuto sopportare! Mia madre continua a
ripetere che è felice di saperti libera, ma quante volte la notte l’ho sentita
piangere!».
Talim alzò nuovamente la spada per infliggere il colpo
finale.
«Adesso
lo sai! Preparati a morire!»
«Ora basta!» tuonò all’improvviso una voce
forte e autoritaria che fece sobbalzare entrambe le ragazze.
Elys la riconobbe
subito; all’inizio non volle crederci, ma girato lo sguardo vide uscire dai
cespugli una figura a lei molto cara.
Era un uomo anziano,
con una leggera barba grigia, pochi capelli brizzolati e occhi neri che
incutevano soggezione; portava il Kahrn, lo simbolo dei capitribù, un lungo bastone di giada con in
cima la riproduzione della testa di un cobra; indossava la corazza di cuoio grigio
riservata solo ai guerrieri più valorosi e un lungo mantello.
«Talim! Ferma la tua lama!»
«Pa… padre!?» disse Elys.
Talim esitò, ringhiò come una belva selvatica, ma ad un nuovo ammonimento, stavolta molto più perentorio, si
decise ad obbedire, ed allontanatasi assicurò la propria spada dietro la
schiena.
Barac-Shalin a quel punto si avvicinò alla figlia, che per
un po’ restò immobile a contemplare il suo sguardo severo; poi, come da usanza,
la ragazza fece per piegare il capo, ma suo padre non
aspettò che lo facesse e la strinse forte a sé, lasciandola senza parole.
«Figlia
mia. Ero così in pena per te.»
«Padre.
Quanto desideravo rivederti.»
«Anche
tua madre e i tuoi fratelli non hanno mai smesso di sperare. Sapevamo che un
giorno saresti tornata.»
«Mi
dispiace, padre. Mi dispiace per quello che è successo.»
«Non ci pensare più, bambina mia. Sono ben altre le prove che ti aspettano».
Dopo la commozione
venne il tempo dei chiarimenti.
«Padre.» disse
Elys «Cosa ci fai tu qui? Perché…»
«Merito della tua
insegnante.» rispose Barac-Shalin tornando a vestire
i panni del padre e del capotribù «Mi ha inviato un messaggero ad avvisare che
saresti tornata al villaggio.»
«La maestra Aria
vi ha avvertiti?! Ma come
mai…»
«Era
preoccupata. Temeva le conseguenze che un tuo ritorno avrebbe potuto
comportare. In effetti, è una fortuna che io solo sia venuto
a conoscenza del tuo arrivo. Se fossi entrata nei confini del villaggio,
sarei stato costretto a metterti a morte».
A
quell’affermazione, Elys rimase visibilmente sconvolta, e i suoi occhi si
riempirono di sgomento.
«A morte!? Ma…».
Barac-Shalin rimase in silenzio, la sua espressione si fece
triste e rassegnata e prese a guardare in basso.
«Mi
dispiace molto. Credimi, non avrei mai voluto che accadesse. Dopo la tua fuga,
a causa anche di quello che è accaduto a tuo zio, il consiglio degli anziani ti
ha bollata come Sharun».
Quella sola parola
fu sufficiente a gettare Elys in uno sgomento senza fine.
Sharun; Traditore, nell’antica lingua dei progenitori.
Per un Kalimi, venire bollato come Sharun era peggio che morire, era come un marchio
indelebile di umiliazione e disonore da portarsi addosso per tutta la vita. Si
diventava Sharun quando si compiva un atto spregevole
o di estremo disonore, come fuggire dinnanzi alla
battaglia, abbandonare i propri compagni o rinnegare la propria tribù.
Una volta che si
aveva questo termine cucito sull’anima, per il popolo dei Kalimi
si era morti; nessuno avrebbe offerto ospitalità a uno
Sharun, qualsiasi tribù lo avrebbe allontanato,
condannandolo a vagare come un morto vivente nella più completa solitudine per
il resto dei suoi giorni.
Persino il deserto
gli sarebbe stato ostile, pur continuando ad offrirgli
protezione; perché il deserto è sacro, e nessuno Sharun
può essere ucciso entro i suoi confini. Gli unici legittimati a farlo sono i
membri del suo clan, ma solo dopo che il traditore era stato sottoposto al
giudizio del consiglio.
Elys non volle
credere che tutto quello stesse accadendo sul serio, e si mise una mano sugli
occhi per nascondere le lacrime.
Suo padre la
guardò un momento, poi si girò.
«Nella
sua lettera, la tua maestra mi ha detto che stai per imbarcarti in una missione
molto pericolosa. È vero?».
La figlia impiegò
un po’ a trovare la forza per rispondere, poi però cercò di ostentare di nuovo
il proprio orgoglio di principessa guerriera.
«Sì,
è così. Voglio accompagnare alcuni miei amici in un viaggio al
di là del mare.»
«Capisco.
Ha detto anche che questa tua impresa ha come obiettivo finale la distruzione
di quegl’esseri. Quelli che stanno portando la
distruzione in tutto il continente.»
«I
robot. Sì è così. Pare che nella terra al di là delmare si trovino sei gemme in grado di
fermarli. Sarebbero già sette, ma ne abbiamo già trovata una».
Barac-Shalin fece un cenno come di compiacimento, si
avvicinò nuovamente ad Elys e le mise una mano sulla
spalla.
«Quand’è così,
figlia mia, per te c’è ancora una possibilità.»
«Cosa!?» domandò lei sentendo tornare un filo di speranza
«Questi esseri, i
robot, come li chiami tu, hanno ucciso molti nostri fratelli.
Se tu riuscissi a vendicarli castigando i loro assassini, avresti compiuto
un’impresa tanto grande che l’appellativo di Sharun
ti verrebbe sicuramente tolto.»
«Dite… dite davvero!?»
«Ne
sono più che sicuro. Il consiglio degli anziani dovrebbe tenerne conto».
Era quello che
Elys sperava di sentire; in fondo a quel tunnel di dolore e rimorso, alla fine,
si intravedeva una flebile luce. Era lì. Davanti a
lei, si trattava solo di correrle incontro.
«Lo prometto,
padre.» disse abbracciandolo «Vendicherò la morte dei nostri fratelli Kalimi e ristabilirò il mio onore di guerriera.»
«E io lo so che ci riuscirai, bambina mia. Ne ho la certezza».
Elys fece per raggiungere
il suo cavallo, ma nel momento in cui passò accanto a Talim,
che per tutto il tempo era rimasta in disparte, questa le puntò nuovamente la
spada contro.
«Tu non vai da
nessuna parte!»
«Talim!» tuonò Barac-Shalin rosso
di collera «Tu non la toccherai! Questo deserto è
sacro, e fino a che rimane nei suoi confini anche uno Sharun non può essere perseguitato! Vorresti forse
diventare come lei, contravvenendo alle nostre leggi?».
Nuovamente, Talim digrignò i denti e si rassegnò all’inevitabile, ma
prima di allontanare l’arma lanciò a Elys una preoccupante minaccia.
«Tu
devi sperare che il tuo cavallo sia più veloce del mio. Non importa
dove andrai o cosa farai. Dovessi seguirti fin sulle stelle, quando
sarai uscita di qui ti troverò e te la farò pagare».
Lanciato
quest’ultimo, inquietante vaticinio, Talim tornò sui
suoi passi, lasciando Elys da sola a prepararsi per il viaggio di ritorno.
Riempita l’otre
d’acqua e fatta scorta di frutta, rimontò sul suo cavallo, ma prima che
partisse suo padre la richiamò.
«Figlia
mia, sappi questo. Tuo zio è stato felice di dare la
sua vita per te. Il consiglio ha agito solamente nel bene della nostra gente, ma nessun abitante del villaggio ti biasima per
quello che hai fatto. Non permettere ai sensi di colpa di sviarti dal tuo
obiettivo finale.»
«Padre…» disse
Elys piena di gioia «… grazie».
La ragazza,
copertasi nuovamente col velo, volle fare anche un’ultima domanda.
«Come sta Sary?»
«Benissimo.
Corre e salta come sempre. Aspetta il giorno in cui potrà farsi cavalcare
nuovamente da te.»
«Dille
che quel giorno non è lontano. Io tornerò padre. Tornerò come una vera Kalimi dopo aver ristabilito il mio onore. È una promessa.»
«Non
ne avevo alcun dubbio. Ora va’. Tratterrò Talim con una scusa fino a che mi sarà possibile.»
«Grazie.
A presto».
Barac-Shalin seguì la sua adorata figlia con lo sguardo
fino a che non la vide sparire dietro le dune; mai avrebbe immaginato di
provare una simile felicità ancora una volta.
Guardandosi indietro, Regis non immaginava di aver fatto tanta strada.
Dopo aver
attraversato interamente le foreste di Fiya, le sue basse colline e le sue cime
impervie, aveva valicato il confine col regno di Reminyus,
famoso per le sue valli incuneate fra le catene dei monti Neranei,
in cui pascolavano grandi mandrie di mucche e di pecore; da qui si era diretto ad est, passando dal Regno di Reminyus
a quello di Shideya, patria di grandi cavalieri, dove
era rimasto coinvolto, suo malgrado, in una guerra civile che lo aveva
costretto a lunghe deviazioni per evitare i principali teatri di scontro; alla
fine, però, era riuscito a raggiungere le sponde del Danus,
uno dei due grandi fiumi che, scavando l’intero continente da oriente a
occidente, costituivano per buona parte del loro corso l’ultima frontiera della
specie umana verso nord.
Oltre si
estendevano gli immensi territori montuosi della grande nazione elfica.
Da moltissimi
secoli gli elfi abitavano quelle terre, luoghi talvolta confortevoli a volte
pericolosi e inospitali, popolati di creature pericolose,
ma soprattutto di spie, che gli umani li uccidevano a vista.
Solitamente gli
elfi erano gente pacifica, che viveva per conto proprio e chiedeva unicamente
di essere lasciata in pace.
Negli ultimi anni,
però, il Regno di Normar, uno dei più potenti dei
quarantacinque fra stati, regioni e amministrazioni conosciute agli uomini,
aveva iniziato una sistematica campagna di conquista che lo aveva portato a
inglobare all’interno dei suoi confini molte altre genti.
A guidare Normar era un’elfa di nome Lainay, da molti ritenuta una
pericolosa egocentrica afflitta da una spaventosa megalomania; un vero esempio
di dispotismo, che lei amava definire illuminato, ma che agli occhi dei più,
tanto fra gli uomini quanto fra gli elfi, era solo una sanguinaria dittatura
imposta con la forza.
Ma
a Regis questo non importava; a prescindere da chi o cosa avrebbe trovato sulla
sua strada, il suo viaggio sarebbe comunque proseguito.
Grazie all’aiuto
di un pescatore attraversò il fiume, e una volta dall’altra parte posò i piedi
sulla pacifica regione di Uruk, una delle pochissime
terre ad accogliere gli umani con benevolenza piuttosto che con sospetto.
Era
stato molte altre volte in quelle terre nel corso dei suoi viaggi, e proprio
per questo, fin dalla sua prima sosta in una locanda dell’entroterra, dove si
procurò un nuovo cavallo con cui poter proseguire, avvertì subito qualcosa di
diverso rispetto al passato.
Fra i pochi
avventori presenti serpeggiavano malcontento e pessimismo, e nessuno aveva
voglia di parlare.
Regis concluse che
anche adUruk probabilmente
le cose non stavano andando troppo bene, pertanto, senza attendere il nuovo
sole, si rimise immediatamente in marcia verso nord, e all’alba del cinquantatreesimo
giorno di viaggio raggiunse infine i massicci della catena montuosa di Karanuk.
Le montagne del Karanuk tagliavano a metà la regione, al punto che molti
parlavano di Uruk del Nord e del Sud come di due
regioni differenti; si poteva attraversarle in due soli modi, o aggirandole con
una lunga deviazione o tramite una stretta vallata che costituiva l’unica via
diretta, ed era perciò molto frequentata.
Regis non aveva
tempo da perdere così puntò immediatamente verso il valico, anche se fin da
subito la mancanza di carovane e viandanti lungo le strade che conducevano alla
valle, normalmente molto frequentate, gli faceva presagire eventi indesiderati.
A
fine giornata, finalmente, giunse in vista del forte che sorgeva
all’imbocco del passaggio, situato alcuni metri più in alto e caratterizzato
per la maggior parte da una fitta foresta.
Era impossibile
entrare e uscire dalla valle senza essere notati dagli occupanti del forte, che
sorgendo in cima ad una collinetta, con le sue quattro
torri perimetrali e i due grandi portoni, garantiva un’ottima visuale.
Normalmente le
porte erano sempre spalancate, ma anche da lontano si poteva vedere che ora
invece erano chiuse, e difatti, appena Regis si avvicinò, una voce tonante
invisibile gli intimò di fermarsi.
«Non muoverti, straniero! Ti teniamo sotto tiro!»
«È
tutto a posto! Non ho intenzioni ostili! Sono un semplice viaggiatore!».
Da dietro le mura
sbucarono una decina di arcieri con gli archi tesi in direzione dello
straniero; li guidava un bestione di elfo con la pelle scura e capelli neri a
spazzola che portava alla cintura un enorme spadone e
un mantello rosso sporco.
«Chi
sei, straniero? Dicci il tuo nome!»
«Mi chiamo Regis,
vengo da Fiya!»
«Che cosa!? Regis da Fiya!? Ma tu…» disse
l’elfo sorridendo in modo sarcastico «Non mi vorrai dire di essere quel Regis!»
«Hai
indovinato! Sono io!».
Quello allora
scoppiò a ridere.
«Accidenti!
Ne ho sentite di barzellette nel corso della mia vita, ma questa le batte decisamente tutte! Perché mai il famoso Regis dovrebbe
arrivare in questa terra dimenticata dagli dèi!»
«Pensa quello che vuoi! Non importa se mi credi o meno!
Ti chiedo solo il permesso di lasciarmi passare attraverso la valle!»
«Vorresti
attraversare il valico? Senti, anche se tu sei davvero quel Regis, del che io
dubito, imboccare quella strada in questo momento equivale a suicidarsi!»
«Non
ha alcuna importanza! Purché questo non crei pericoli a voi, intendo
percorrerla!».
In quella, un
altro elfo giunse sulla balconata, e guardando lo straniero rimasero entrambi
senza parole.
«Regis!?»
«Isnark!?»
«Amico
mio! Sei davvero tu?»
«Così
sembrerebbe!»
«Avvicinati!
Apriremo subito i cancelli!»
«Ma, comandante…»
cercò di obiettare l’elfo gigante
«Tranquillo
Benagi. È un amico. Possiamo fidarci».
Finalmente i
portoni si aprirono, e a Regis fu finalmente consentito di entrare nel forte.
Appena dentro, si
rese immediatamente conto del perché non avesse incontrato nessuno lungo la
strada: quel posto pullulava di soldati, e c’erano ovunque, specialmente sulle
mura che guardavano all’ingresso della valle, segni evidenti di una o più
battaglie combattute recentemente.
Isnark, accompagnato dall’elfo di nome Benagi,
raggiunse Regis mentre stava scendendo da cavallo nel cortile interno, al
centro del quale troneggiava una colonna con in cima
la statua di una dea alata.
«Regis.» disse Isnark abbracciandolo «Accidenti, che gioia rivederti.»
«Anche per me è un
piacere.»
«Dove sei stato
tutto questo tempo?»
«Sono
partito due giorni dopo il torneo. Speravo di raggiungere Normar
e tornare indietro in due mesi, ma la guerra civile a Shideya
mi ha fatto perdere un sacco di tempo.»
«Capisco.
Benagi, c’è da sistemare la questione per il torrione
di sud-est. Puoi occupartene tu?»
«Agli ordini,
comandante».
Licenziata con
questa scusa la propria spalla, che tuttavia si allontanò con qualche
perplessità, Isnark prese a passeggiare su e giù per
il cortile assieme al suo amico.
«Ti dirò, Regis. La tua presenza qui è una fortuna che non avrei
mai pensato di poter avere. In questo momento siamo veramente in una brutta
situazione.»
«Posso
immaginarlo. Tutti questi soldati non sono certo abituali in un posto simile, e
non credo che siano qui in vacanza. Che sta succedendo?».
Isnark si fermò, guardò un momento a terra poi fissò Regis
dritto in volto.
«Normar ha invaso la regione.»
«Cosa!?»
«La
zona settentrionale e la capitale sono cadute prima ancora di poter organizzare
una qualche difesa. Gran parte dell’esercito è stato
massacrato, e i pochi abitanti che sono riusciti a fuggire si sono rifugiati
qui o più a sud. Ciò che vedi è quanto resta di Uruk del Nord».
Regis si guardò un
momento intorno.
«Donne, bambini, vecchi, ma pochissimi soldati.»
«Tremila, stando
all’ultimo rapporto.»
«Tremila contando o meno i contadini e i coscritti che non hanno mai impugnato
una spada?»
«Regis,
ti prego. Non sono dell’umore adatto per il sarcasmo. In questo momento abbiamo
bisogno di tutti gli uomini possibili. Stiamo raccogliendo volontari in giro
per le campagne per organizzare la resistenza, ma è una vera impresa. Hanno
troppa paura».
L’umano strabuzzò
gli occhi come se Isnark avesse detto una fesseria in
piena regola.
«State
raccogliendo truppe? Vuoi dire che voi… state davvero pensando di opporvi a Lainay?».
Anche Isnark allora guardò Regis come si guarderebbe
un estraneo.
«Che
ti prende? È così strano?»
«Isnark, questa non è resistenza, è un suicidio.»
«Sei l’ultima
persona da cui mi sarei aspettato una simile reazione.»
«Lainay può contare sull’armata più grande di questo continente. Ha ai suoi ordini venticinquemila
soldati, senza tener conto degli Immortali guidati da suo fratello. Mettersi sulla
sua strada significa morire».
L’elfo non
riusciva a credere alle proprie orecchie. Si era accorto fin da subito che
c’era qualcosa di strano negli occhi di Regis, ma mai avrebbe immaginato che
proprio lui, il più grande esempio di giustizia che gli umani avessero mai
avuto, avrebbe mostrato un comportamento di quel tipo.
Che ne era del
Regis che aveva conosciuto, e con il quale aveva incrociato la spada?
In quel momento,
sembrava che al suo posto ci fosse un’altra persona, qualcuno guidato solamente
dal dubbio, dalla paura e dall’incertezza.
«Regis,
non ti riconosco più. Una volta eri pronto a combattere fino all’ultimo per
difendere i deboli dai soprusi di chi li perseguita.»
«Un conto è
combattere, un conto è gettare la propria vita in un’impresa persa in partenza.»
«Perché
sei così convinto che perderemo? Il forte è robusto, e costituisce un passaggio
obbligato per raggiungere la zona meridionale di Uruk.
Ora che sei qui, grazie al tuo aiuto potremmo riuscire a respingere qualsiasi
assalto.»
«Questa
non è una fortezza, è una tomba. Potete respingere uno, due, o anche dieci
assalti, ma prima o poi riusciranno a farvi
capitolare, e tu sai cosa succede alle armate che si arrendono.»
«Che alternative abbiamo?» replicò con una punta di ostilità
«Dovremmo forse continuare a permettere a quella sadica bastarda di fare quello
che vuole? Questa gente mi ha chiesto di guidare il suo esercito per aiutarli,
ed è quello che farò.»
«Isnark.» disse Regis prendendolo per le braccia «Guardati intorno. Questo non è un esercito, è una massa di
uomini disperati a cui non è rimasto altro che la
vita.»
«Proprio per
questo vogliono combattere.» rispose l’elfo a denti stretti liberandosi dalla
presa «Per difenderla.»
«Perché lo fai,Isnark? Cos’è che ti spinge a
combattere in questo modo? Di certo non è per questa terra, visto
che non è la tua.»
«La mia terra non
c’è più!» gridò Isnark guardandolo nuovamente negli
occhi, dopo che gli aveva dato per un momento le spalle «Il
mio villaggio è stato bruciato, mio padre ucciso, mia madre e mia sorella
stuprate a morte! Normar mi ha portato via la mia
famiglia, i miei amici, tutto! Come ha fatto con questa gente! E io non mi darò pace fino a che non saprò quella puttana
sottoterra!»
«Credi
che sarebbero felici? Credi sul serio che tuo padre, tua madre, tua sorella e i
tuoi amici godrebbero nel vederti combattere una battaglia persa?».
L’elfo, che
nuovamente aveva allontanato lo sguardo, improvvisamente si girò, colpendo
Regis in o zigomo con un pugno spaventoso che lo buttò per terra, mentre tutti
nel cortile si giravano verso di loro.
L’umano incassò
senza battere ciglio, e mentre Isnark ancora
riprendeva fiato, cercando di capacitarsi per quello che aveva appena fatto,
lui si rialzò, togliendosi la polvere dai vestiti come se niente fosse successo;
malgrado avesse la guancia nera, e un rivolo di sangue gli scendesse dalla
bocca, lui sembrava non accorgersene, o forse semplicemente non ci dava alcun
peso.
Poi, sfoderò uno
sguardo che a tutti poteva attribuirsi meno che a lui, al valoroso eroe del
Regno di Fiya; uno sguardo di estrema, irremovibile rassegnazione.
«Il mio cavallo è
stanco, e io non dormo da parecchi giorni. Con il tuo
permesso vorrei fermarmi qui per questa notte, e domattina presto, appena sorto
il sole, me ne andrò».
Isnark non rispose, guardandolo con un misto di rabbia e
compassione, e quando lui gli passò affianco
dirigendosi verso le stalle lui non fece una piega.
Attirato dal
baccano e dallo strano comportamento degli uomini, Benagi
sopraggiunse pochi attimi dopo.
«Comandante…»
«Mi sbagliavo.»
disse Isnark a testa bassa «Quello non è Regis».
La legge degli elfi considerava l’ospite come sacro,
pertanto chiunque si presentasse a qualsiasi porta chiedendo asilo o protezione
doveva essere accolto e sfamato, oltre a ricevere un giaciglio per la notte.
Regis però non
volle né l’uno nell’altro.
Andò a dormire
nella rimessa, distendendosi su di un vecchio materasso di piume e coprendosi
con il telo del suo cavallo per proteggersi dal freddo pungente delle montagne
di Uruk.
Si addormentò
quasi subito, ma d’un tratto, nel mezzo della notte,
la spada appoggiata accanto a lui iniziò improvvisamente a brillare di una luce
fortissima, che in un secondo riempì tutta la stanza.
Regis, nel sonno,
digrignò i denti, quasi fosse in preda ad un incubo.
Gli sembrò di
chiudere gli occhi per un istante, e quando li riaprì
si ritrovò di colpo in un enorme, immenso prato verde, insieme a tantissima
gente.
Tutto attorno a
lui, all’interno del grande spiazzo circolare in terra battuta, c’erano un gran numero di bancarelle, alcune delle quali si riparavano
dal sole che batteva altro in un cielo azzurrissimo, solo leggermente velato da
qualche nuvoletta bianca, rimanendo nascoste sotto ampi gazebo di tessuto
bianco; vi era esposto di tutto, dalla bigiotteria, ai giocattoli, al cibo.
Vi erano anche
molti tavoli, grandi e rettangolari, disposti in fila uno dietro l’altro, ai quali erano sedute molte persone intenti a mangiare
bistecche, hamburger o strani bastoncini gialli con sopra una salsa rossa di
incerta provenienza.
Qua e là,
all’interno di appositi recinti in legno, pascolavano
mucche e cavalli, e al centro esatto dello spiazzo di terra svettava un alto
palo con in cima tre altoparlanti dai quali usciva una musica squillante che
faceva ballare un gran numero di coppie di tutte le età, dai bambini agli
anziani.
Regis si guardò attorno incredulo: come era finito in un posto del genere?
Dapprincipio pensò
ad un sogno, perché il sogno era l’unico mezzo
attraverso il quale poter scorgere frammenti del luogo da cui veniva, così
distante e all’apparenza irraggiungibile; tuttavia le sensazioni, gli odori, i
suoni, erano così nitidi da rendere difficile pensare ad una mera invenzione
della fantasia.
Ma
se non era un sogno, cosa poteva essere.
«Ehilà, ragazzo.»
disse qualcuno alle sue spalle.
Quella voce!
Regis divenne di
sale; quella voce squillante, gentile, leggermente ironica, ma anche
insolitamente allegra, era come il ricordo di un antico passato, di giorni
ormai lontani, persi nei meandri del tempo.
Era
l’ombra di un amico, un grande amico, colui il quale per primo era stato in
grado di scuotere il cuore del giovane guerriero inducendolo a porsi delle
domande sulla sua vera natura, e che per ultimo, ma non meno importante, gli
aveva fatto dono di un oggetto estremamente prezioso.
Si volse, e prima
ancora di vederlo la sua bocca si spalancò, i suoi occhi quasi uscirono dalle
orbite.
Dinnanzi
a lui comparve la figura di un uomo piuttosto avanti con gli anni, forse sulla
cinquantina, che gli sorrideva allegramente.
Il viso, pur segnato
da qualche ruga, era superbo e fiero, anche se sorridente, contornato da una
chioma nera leggermente ingrigita ed esaltato da due grandi
occhi scuri.
Portava una
camicia azzurra a quadrettoni, un paio di lunghi
pantaloni di velluto marrone stretti in vita da una cintura e un paio di
eleganti scarpe da passeggio.
Teneva una mano
affondata in una tasca, nell’altra invece stringeva un cilindro metallico con su scritto Beer che alzò verso
Regis come a voler fare un brindisi.
«Ne è passato di
tempo, vero?».
Nota dell’Autore.
Lo so, avevo detto
che avrei aggiornato solo dopo il ritorno della mia appassionata lettrice, ma l’idea
per questo capitolo mi è venuta di getto, e ho voluto
scriverlo prima che mi sfuggisse di mente come accaduto altre volte.
Akita, non uccidermi ^_^
Va beh, comunque,
adesso aspetterò davvero il suo ritorno per aggiornare di nuovo.
Sorgeva in una radura, al limitare della foresta ai
margini della regione elfica di Lowenys.
Un piccolo
villaggio, composto a malapena da una quindicina fra capanne e casette,
disposte a diverse altezze a seconda della collinetta su cui sorgevano; tutto
attorno, disposti in quadrati, si stagliavano campi più o meno grandi di grano
e di orzo.
Si chiamava
Yamaura, e come suggerivano sia il nome che la costituzione delle case,
costruite su due piani con tapparelle in legno che si aprivano verso l’alto e
porte scorrevoli, era abitato dagli Inu.
Una razza strana,
gli Inu, che fra le tre non antropomorfe era ritenuta quella più vicina agli
umani.
Come i Tengu, non
erano nativi del Continente; secondo gli storici, entrambe le razze avevano
avuto origine in una terra a oriente, che in seguito, non si sa bene per quale
motivo, erano stati costretti ad abbandonare.
Il termine Inu
veniva dalla loro lingua, e significava Cane; un nome più che appropriato.
Gli appartenenti a
quella ragazza erano infatti simili in tutto e per tutto agli esseri umani,
fatta eccezione per un paio di orecchie canine e una lunga e folta coda che
spuntava alla base della schiena, il cui colore era solitamente un rosso
acceso, ma che poteva assumere anche tonalità di grigio, soprattutto negli
uomini.
L’avere solamente
questi due particolari a distinguerli dal resto degli uomini comuni si era
rivelato, nel corso del tempo, una lama a doppio taglio.
Infatti, se da una
parte gli Inu incontravano ben poche difficoltà nell’inserirsi in qualsiasi
contesto, risultando molto comuni alla vista anche nelle grandi città,
dall’altra comportava, in taluni casi, una emarginazione sociale che talvolta
sconfinava in un vero e proprio razzismo.
Alcuni regni,
soprattutto elfici, vedevano gli Inu come un abominio, perché non erano né
umani né razza non antropomorfa, e per questo li temevano e li cacciavano.
Da parte loro, gli
Inu erano sempre stati un popolo estremamente pacifico, contrario a qualsiasi forma
di violenza; vivevano in disparte, nei loro piccoli villaggi, cacciando
selvaggina e coltivando la terra, ma proprio per via della loro apatia nei
confronti della guerra erano spesso soggetti alle prepotenze di chiunque, alle
quali nella maggior parte dei casi sottostavano con ubbidienza e rassegnazione.
Questo era
particolarmente vero per il villaggio di Yamaura, che aveva la sfortuna di
sorgere in un territorio costantemente in guerra con il vicino Regno di Normar.
E come spesso
accade, quando finisce una guerra ciò che resta sono rovina e distruzione, ma
soprattutto orde di soldati allo sbando che incapaci di vivere senza combattere
si danno al brigantaggio, razziando le campagne e prendendosela con chiunque,
soprattutto con gli Inu.
In quell’ultimo
periodo, a dettare legge nella regione era un gruppo composto da una sessantina
di elfi di Noramar comandato da tre Immortali, l’armata d’elite della regina
Lainay, i cui membri erano facilmente riconoscibili da vari fattori; l’alta
statura, la pelle chiara, i capelli grigi o tendenti al bianco, ma soprattutto
lo sguardo raggelante, senza emozioni.
L’estate stava
finendo, il tempo della mietitura era ormai vicino, e come capitava sempre
all’approssimarsi di un qualsiasi raccolto i briganti erano venuti per
prendersi la loro parte, vale a dire quasi tutto.
Tutti i
duecentoventitre abitanti del villaggio, esclusi i bambini, precedentemente
nascosti in una cantina segreta nella stalla comune, erano nella piazzetta del
villaggio, prostrati come schiavi davanti a Wulgas, il capo di quella
marmaglia, che li fissava dall’alto del suo cavallo sogghignando malevolmente.
Attorno a lui
alcuni dei suoi uomini, una decina, armati di lance, spade, scudi o archi; gli
altri erano intenti a controllare lo stato del raccolto o a frugare nelle case,
per accertarsi che nulla fosse stato nascosto, neanche la più piccola briciola
di pane.
Ad ispezione
finita, gli altri due immortali, che si chiamavano rispettivamente Torkmak e
Vorgin, tornarono per riferire l’esito delle loro ispezioni.
«Pochi sacchi di
farina e qualche pezzo di carne. Appena sufficiente per tenerli in vita. Se
glielo togliessimo, creperebbero sicuramente.»
«E i campi?»
«Avevano ragione,
le spighe non sono ancora mature.»
«Nobili signori.»
balbettò Kamuro, uno degli uomini più rispettati del villaggio «Quest’anno
l’inverno è stato particolarmente lungo. Le spighe sono germogliate in ritardo,
e…»
«Sta zitto, lo
sappiamo.» disse malamente Wulgas «Non serve che ce lo dici.»
«Credo saranno
necessarie almeno altre due settimane perché la mietitura sia completa.»
«Due settimane,
eh? E va’ bene, aspetteremo. E per il vostro bene» disse rivolgendosi agli Inu
«Sarà meglio che per allora il granaio sia pieno da scoppiare, o per saldare il
debito saremo costretti a prendere qualcuna delle vostre bellissime donne».
Quest’ultima
minaccia fece tremare di paura l’intero villaggio, e non appena i briganti se
ne furono andati tutti gli abitanti si ritrovarono nella capanna della vecchia
Kagura, la capo-villaggio, la cui stanza da pranzo fungeva anche da sala del
consiglio.
Per molti minuti
il silenzio e l’angoscia la fecero da padroni; all’improvviso, il giovane Eiji
si alzò in piedi rosso di collera.
«Ne ho abbastanza!
Non intendo sopportare oltre questa situazione!»
«Calmati, Eiji.»
disse Hotaru, la sua giovane e bellissima moglie «Arrabbiarsi non serve a
niente.»
«No, ha ragione.»
replicò Takuma, un gigante grosso e forte come un toro «È giunto il momento di
farla finita! Io sono stufo di spaccarmi la schiena nei campi per poi vedere il
frutto del mio lavoro nelle pance di quei bastardi!»
«Ma cosa possiamo
fare noi?» domandò una donna che teneva fra le braccia il proprio bambino
«Siamo solo dei poveri contadini, e per di più siamo Inu.»
«E allora vi sta
bene continuare così?» disse Eiji «Vi sta bene continuare a lavorare come
schiavi alle dipendenze di briganti senza scrupoli?»
«Io dico di
ucciderli.» disse Kouji, suo fratello «Uccidiamoli tutti!».
A quella proposta,
gli abitanti si guardarono interdetti fra di loro, e a giudicare dalle voci che
si sovrapponevano l’una sull’altra si poteva capire che erano in molti a non
condividerla.
«Sei diventato
matto?» gridò Sato, che aveva fama di essere un codardo della peggio specie
«Quelli saranno pure dei banditi allo sbando, ma un tempo erano dei soldati.
Nessuno qui ha mai impugnato una spada, come speri che possiamo sconfiggerli?»
«Ha ragione
Kouji.» intervenne di colpo la vecchia Kagura, che fino a quel momento era
rimasta in silenzio «Uccidiamo i briganti. Solo così potremo finalmente vivere
in pace.»
«Ma, vecchia
Kagura…» disse Sato «Come faremo a…»
«Sapete tutti che
il nostro villaggio nasconde una grande quantità di oro nella grotta che sorge
sotto di esso. Oro antico, che i nostri antenati hanno raccolto in molti anni
di duro lavoro. Cercheremo aiuto nella capitale, e useremo quell’oro per pagare
chiunque vorrà combattere per difenderci.»
«La vecchia Kagura
ha ragione.» disse Eiji «È una cosa fattibile. Se può essere di aiuto, andrò io
stesso in città.»
«Io non sarei così
fiducioso.» intervenne nuovamente Sato «A prescindere dalla ricompensa che
possiamo offrire, noi Inu per gli elfi valiamo meno di zero. Dove lo troviamo
qualcuno disposto ad aiutarci?»
«Non è detto.»
rispose Kagura «Ci sono ancora persone, in questo mondo, per le quali parole
come onore e giustizia hanno ancora significato. Sono quelli i guerrieri che
dobbiamo cercare. Non importa se siamo Inu, loro ci aiuteranno comunque».
E così, come promesso, la mattina dopo, appena sorto il
sole, Eiji si mise in viaggio assieme ai suoi amici Koga e Saburo, e dopo un
giorno di cammino raggiunsero finalmente Myras, la capitale di Lowenys, quindi
diedero subito il via alla loro ricerca.
In quei tempi
difficili in città c’erano più guerrieri che gente comune, ma con quelle facce
scure, il portamento altezzoso e l’aria da sbandati nessuno di loro sembrava
corrispondere alla descrizione della vecchia Kagura.
Eiji e gli altri fecero
alcuni di tentativi, con quelli che sembravano maggiormente raccomandabili di
altri, ma ogni volta la risposta era una risata sguaiata, un rifiuto
disgustato, un moto di stizza o, nel peggiore dei casi, un destro micidiale.
«Combattere per
gli Inu?! State scherzando – Levatevi dai piedi, bifolchi! – Sparite se non
volete che mi arrabbi – Sei pazzo!? Diventerei lo zimbello del Continente».
Sembrava proprio
un’impresa disperata.
Per due giorni i
tre Inu continuarono a vagare su e giù per le strade chiedendo aiuto a chiunque
capitasse loro a tiro, ma ricevendo sempre lo stesso rifiuto.
«Forse Sato aveva
ragione.» disse Saburo a metà del terzo giorno di affannosa ricerca «Forse è
davvero impossibile trovare un elfo che voglia aiutarci.»
«Se almeno
potessimo chiedere agli umani.» disse Koga «Ma qui siamo troppo lontani dal
confine, e anche se andassimo più a sud non torneremmo mai in tempo per la
mietitura.»
«A questo punto,
io proporrei di rinunciare. Dovremmo fermarci adesso prima di trovare qualcuno
che invece di riderci in faccia tenti di farci la pelle.»
«Non se ne parla,
noi non torneremo indietro a mani vuote!» disse con veemenza Eiji «Non dopo
tutta la strada fatta per arrivare qui.»
«Eiji» disse
Saburo «Anch’io vorrei salvare il nostro villaggio dalle razzie, ma dobbiamo
guardare in faccia la realtà. Siamo qui da due giorni, abbiamo interpellato
almeno una trentina di guerrieri e ci hanno detto tutti di no. Nessun elfo
accetterà mai di aiutarci, perché noi siamo Inu.»
«Ricordate le parole
della vecchia Kagura? Al mondo ci sono ancora persone onorevoli, dobbiamo solo
trovarle. Ci vorrà un po’ di pazienza, ma sono sicuro che alla fine ci
riusciremo».
Come si suol dire,
le ultime parole famose.
L’elfo successivo
a cui Saburo si rivolse per chiedere aiuto era ubriaco fradicio e non appena
vide l’Inu, senza neppure ascoltare cosa aveva da dire, sfoderò la spada e
prese ad inseguirlo per la strada come fosse una gallina.
Il povero Saburo,
che malgrado la stazza imponente non era certo un esempio di coraggio, corse a
perdifiato urlando disperatamente che qualcuno lo aiutasse, ma la gente, invece
di accorrere, restava indifferente.
Poco più indietro,
i suoi amici tentavano disperatamente di raggiungerlo e salvarlo, ma venivano
ostacolati dalla folla, che dopo essersi aperta per far spazio all’inseguitore
e all’inseguito, immediatamente si richiudeva.
D’un tratto, l’Inu
inciampò su una pietra del selciato, e giratosi vide l’elfo ubriaco saltargli
addosso con la spada puntata verso il basso.
Spaventato, chiuse
gli occhi, pregando il cielo per un miracolo che, incredibilmente, arrivò.
Dalla massa di
gente sbucò all’improvviso un giovane elfo che brandiva due katana, un fatto
decisamente strano, dal momento che la katana era un’arma utilizzata quasi
esclusivamente dai Tengu e, in forma minore, dagli stessi Inu.
Servendosi di una
sola delle sue armi deviò la spada dell’aggressore, colpendolo seguitamente con
un calcio al collo che lo lasciò a terra svenuto.
Eiji e Koga
arrivarono in quel momento, così anche loro poterono vederlo.
Era molto giovane;
rapportando la sua età a quella degli Inu non doveva avere più di venti o
ventitre anni. Indossava pantaloni leggeri di tessuto marrone stretti in vita
da una fascia, una veste leggera a coprirgli il busto e le spalle e un paio di
scarpe da viaggio.
Occhi e capelli
erano di un color terra molto vivo, la pelle invece era molto chiara, lasciando
intravedere le sue origini nordiche.
Aveva con sé due
anelli di argento perfettamente uguali, uno all’anulare sinistro e l’altro
portato a mo di pendente.
Subito dopo averlo
salvato, l’elfo si girò verso Saburo e gli tese la mano.
«Stai bene?»
«Io…» rispose lui
inginocchiandosi «Grazie infinite, nobile guerriero. Davvero, grazie infinite.»
«Non fare così. Non ho fatto nulla di
speciale».
Saburo si rialzò
dunque in piedi.
«Questo posto non
è sicuro per gli Inu. Faresti bene a fare attenzione».
Il giovane a quel
punto fece per andarsene, ma prima che potesse scomparire fra la folla Eiji gli
corse incontro.
«Aspettate, nobile
guerriero.»
«Sì? Cosa c’è?»
«Prima che ve ne
andiate, vorremmo parlarvi di una cosa. È molto importante».
L’elfo si guardò
attorno, accorgendosi di avere addosso decisamente troppi occhi; forse non
voleva farsi vedere mentre parlava così tranquillamente con gli Inu, o forse
semplicemente desiderava solo un po’ di quiete.
Invitò quindi i
tre amici a bere qualcosa in una piccola locanda poco distante, e quando furono
tutti seduti attorno ad un tavolo situato all’esterno del piccolo locale gli
Inu spiegarono, nuovamente, il loro problema; l’elfo non disse nulla,
limitandosi ad ascoltare, e quando il racconto finì si mise una mano sul mento,
come se stesse riflettendo.
Per un po’ Eiji e
gli altri lo lasciarono in pace, poi però Koga non ce la fece più a restare in
silenzio.
«Ebbene… nobile
guerriero… volete offrirci il vostro aiuto?».
Quello sembrò non
aver sentito, poi però alzò lo sguardo e accennò un sorriso.
«Vi aiuterò».
Eiji e i suoi
amici vollero saltare di gioia, ma trattennero la loro felicità e chinarono la
testa.
«Vi ringraziamo,
nobile guerriero.»
«Ah, una cosa.
Basta chiamarmi così. Io sono solo un elfo come tanti.»
«In questo caso…»
disse Saburo «Potremmo sapere il vostro nome?»
«Il mio nome? Mi
chiamo Nakar.»
«Nobile Nakar.»
disse Koga «Grazie infinite».
Dopo che ebbe
accettato, Nakar chiese di farsi spiegare meglio la situazione; chiese quanti
fossero i banditi, se fossero bene armati o meno, e di quanti uomini il
villaggio avrebbe potuto all’occasione usufruire per formare un piccolo
esercito di difesa.
La situazione fin
da subito parve seria, e Nakar non ci pensò due volte a manifestare le proprie
perplessità.
«Un’ottantina,
avete detto» sussurrò guardando una mappa approssimativa del villaggio e della
zona circostante disegnata rapidamente su di una vecchia pergamena
«Sì, nobile
Nakar.» rispose Eiji
«E fra di loro ci
sono anche tre Immortali.»
«È così.»
«Avete un qualche
tipo di difesa? Un fossato, una palizzata?»
«Solo un piccolo canale per l’irrigazione dei
campi che passa a sud del villaggio.»
«Sapete se hanno
delle barche?»
«No, almeno non mi
sembra.»
«Sarà necessario
costruire una qualche fortificazione. Occorreranno un fossato e una palizzata
che circondi l’intero villaggio. Quanto manca alla mietitura?»
«Poco più di una
settimana.»
«Allora abbiamo
tempi molto stretti. Tuttavia, al momento, c’è un problema ben più grande di
cui dobbiamo preoccuparci.»
«Che problema?»
«Per la maggior
parte quei briganti sono soldati allo sbando, ma ci sono quei tre Immortali di
cui bisogna tenere conto. Anche armando tutti gli uomini in grado di combattere
la mia sola forza non sarebbe sufficiente. Servirà almeno un altro guerriero di
professione, se vogliamo avere una qualche speranza di vittoria.»
«Un altro
guerriero!?» disse Saburo «Ma… già trovare voi è stata un’impresa.»
«È questo che mi
preoccupa. Conosco quasi tutti i guerrieri presenti in città in questo momento,
e non ce n’è uno che accetterebbe questo incarico. Bisognerà trovare una
soluzione».
In quello stesso
momento, di fronte alla locanda, un elfo vecchio e decrepito era seduto su di
uno sgabello ai margini della strada fangosa chiedendo l’elemosina ai passanti,
ma come era facile intuire nessuno lo degnava di uno sguardo.
Gli elfi nutrivano
grande disprezzo per ladri e mendicanti, perché sminuivano la propria
superiorità come razza riducendosi al livello degli umani, o anche peggio, e
pertanto i ladri venivano sempre puniti nel modo peggiore, i mendicanti invece
erano ignorati a tal punto che ormai probabilmente nessuno si accorgeva più
neppure della loro presenza.
D’un tratto,
qualcuno posò una moneta su quella mano sporca e ossuta, la prima dopo chissà
quanto tempo.
Incredulo, il
mendicante alzò gli occhi, incontrando la figura di un giovane umano che
indossava strani vestiti; portava dietro la schiena una bellissima spada e un
arco che sembrava fatto di cristallo.
«Tieni.» gli disse
gentilmente «Comprati qualcosa da mangiare.»
«G… grazie…».
I tre Inu e il
loro nuovo amico assistettero alla scena, rimanendo comprensibilmente colpiti
sia dalla generosità di quell’umano, sia per il fatto stesso che fosse un
umano; il confine coi regni degli uomini era molto lontano, e incontrare un
mortale in quelle terre così a nord era un evento più unico che raro.
L’elfo non perse
tempo a domandarsi cosa ci facesse quel tipo in un posto come quello, e appena
vide che se ne stava andando immediatamente si alzò dalla sua sedia,
correndogli incontro.
«Ehi tu.» gli
disse parlando nella lingua degli umani «Aspetta».
Quello si fermò,
rimase immobile per un attimo quindi si girò a guardarlo.
«Parli con me?»
«Sì. Hai sete? Ti
offro una birra. C’è qualcosa di cui vorrei parlarti».
Nakar condusse
l’umano al tavolo ordinando al locandiere un boccale di birra per il suo nuovo
ospite, al quale spiegò per filo e per segno la situazione.
Come aveva fatto
il giovane elfo, anche lui ascoltò senza fiatare, portandosi di tanto in tanto
il boccale alle labbra e girando occasionalmente lo sguardo verso i tre Inu,
che rimanevano in silenzio con gli sguardi inchiodati a terra.
«Combattere contro
una banda di briganti?» domandò al termine del discorso
«Non sarà
un’impresa facile. Come forse saprai gli Immortali sono ossi duri. La sicurezza
del villaggio peserà interamente sulle nostre spalle, e posso garantirti che
sarà una battaglia molto ardua».
Il giovane uomo
bevette per l’ultima volta, e appoggiato il boccale sul tavolo mutò quella sua
espressione cupa e intimidatoria in un sorriso di complicità.
«Sono con voi».
Eiji e gli altri
sorrisero ancor più di lui, proferendosi nuovamente in infiniti ringraziamenti.
«Molto bene.»
disse Nakar «Con te avremo qualche possibilità in più».
Alcuni giorni dopo la partenza di Eiji e dei suoi amici
per la capitale, il villaggio di Yamaura venne nuovamente visitato dai
briganti.
Torkmak aveva
portato con sé una quindicina di uomini, e appena arrivato aveva fatto
convocare immediatamente l’intero villaggio, che come al solito si prostrò ai
suoi piedi.
C’era anche la
vecchia Kagura, alla quale solitamente quell’umiliazione veniva risparmiata, in
virtù dell’essere una donna molto anziana ma, soprattutto, per la grande
considerazione di cui godeva presso la sua gente.
«C’è qualcosa che
possiamo fare per voi, nobile Torkmak?» domandò l’anziana, inginocchiata
davanti a tutti.
L’Immortale
inizialmente non rispose, limitandosi ad andare avanti e indietro in sella al
suo cavallo.
«Sapete.» disse ad
un certo punto «In questi ultimi tempi ci sono giunte voci alquanto bizzarre,
ed eravamo curiosi di sapere se erano vere o meno.»
«Parlate pure. Di
che si tratta?»
«Stando a quanto
si dice in giro, pare che negli ultimi tempi un gruppo di Inu se ne vada in
giro per le strade della capitale con l’intento di assoldare guerrieri e
mercenari».
Nel sentire quelle
parole la gran parte degli abitanti fu colta dal più cupo terrore, ma erano
tutti consapevoli che se avessero detto la verità o se avessero dato un qualche
segnale di insicurezza sarebbero stati sicuramente massacrati, quindi non
potevano fare altro che tacere, ma il sudore sulle loro fronti era un chiaro
segnale di nervosismo.
La sola che
riusciva a mantenere un assoluto autocontrollo era proprio la vecchia Kagura.
«Voi ne sapete niente per caso?»
«Nobile Torkmak,
non starete parlando sul serio? Come potremmo noi sperare di ottenere aiuto
dagli elfi? È un’idea inconcepibile.»
«Mm. Anche questo
è vero.
Ma state attenti,
non vi conviene cercare di imbrogliarci. Potremmo radere al suolo questo
villaggio in un secondo, se solo lo volessimo.»
«Vi assicuro,
nobile Torkmak, che noi non abbiamo nulla a che vedere con queste voci.»
«Staremo a vedere.
Ma quale che sia la verità, dovreste ricordare sempre che se il vostro
villaggio oggi esiste ancora è solo per merito nostro. Conoscendo l’idea che
gli elfi hanno di voi e della vostra razza, sapete bene che se non ci fossimo
noi a difendervi sareste stati tutti sterminati molto tempo fa. Dovreste
esserci grati, invece di tramare contro di noi».
Quello era davvero
troppo, una tale sfacciataggine non poteva in alcun modo essere tollerata.
«Esservi grati?»
urlò Eriol, un taglialegna che tutti, non a caso, chiamavano “l’orso” «Voi vi
portate via tutto quello che abbiamo, vivete sulle nostre spalle, e noi
dovremmo pure ringraziarvi? Andate a farvi fottere, bastardi!».
Brandendo la sua
ascia da lavoro l’Inu tentò di scagliarsi su Torkmak, ma i suoi uomini lo
bloccarono facilmente e dopo averlo buttato a terra presero a tempestarlo di
calci bastonate.
Gli abitanti del
villaggio avrebbero tanto voluto intervenire in sua difesa, ma sapevano che se
solo avessero mosso un dito per loro non ci sarebbe stato scampo, quindi tutto
quello che potevano fare era assistere in silenzio.
Eriol fece di
tutto per non gridare, non voleva assolutamente darla vinta a quei bastardi, ma
dopo un minuto di colpi ininterrotti non era neanche in grado di stare in
piedi; vedendolo a terra quasi svenuto, coperto di ferite, con un occhio nero e
il labbro rotto, Torkmak sorrise di soddisfazione.
«Questo è quello
che succede a chi cerca di fare il passo più lungo della gamba.
Voi Inu siete una
razza inferiore, che non ha nulla da spartire con la nobile e pura essenza del
popolo elfico. Il fatto che siate i nostri schiavi è una pura e semplice legge
di natura. Il forte sottomette sempre il debole.»
«V… vaffanculo tu
e la tua legge.» replicò il taglialegna, un’affermazione che gli costò un
pauroso calcio in faccia
«È ora che voi
cani schifosi impariate a stare al vostro posto. La tua morte sarà di esempio a
tutti».
A quel punto uno
dei briganti rivolse la punta della sua lancia verso il basso, ma appena la
sollevò per poter vibrare il colpo una freccia sbucata dal nulla gli si
conficcò dietro la nuca, lasciandolo a terra agonizzante a nuotare nel suo
sangue.
«Ma cosa…» disse
incredulo l’Immortale.
Giratisi, lui e
gli altri videro giovane uomo con in mano il suo arco rifulgente.
«E voi chi diavolo
siete?»
«Prenditela con
qualcuno che sia alla tua altezza.»
«Ammazzate quel
bastardo! Fatelo a pezzi!».
I briganti
immediatamente caricarono, ma l’umano si rivelò subito un osso duro; usando i
bordi affilati del suo arco, e scoccando di tanto in tanto qualche freccia di
quelle che conservava nella faretra alla cintura, in pochi secondi ne fece
scempio.
«Maledetto!»
sbraitò Torkmak vedendo i suoi guerrieri cadere uno dietro l’altro.
Mise quindi mano
alla sua alabarda, ma prima che potesse partire alla carica Nakar, saltando dal
tetto di una casa attigua, gli piombò addosso a spada tratta; l’Immortale
riuscì a parare l’attacco, ma il colpo che ricevette fu così forte che cadde da
cavallo rotolando nella polvere.
Rialzatosi,
immediatamente contrattaccò, ma Nakar era incredibilmente agile ed evitò senza
problemi i suoi fendenti, altamente imprecisi; infatti, prima di mettersi in
marcia per raggiungere il villaggio, Torkmak si era scolato un intero fiasco di
vino rubato ad una carovana di mercanti, e per quanto il suo fisico da
Immortale fosse abituato ai fumi dell’alcool Nakar la sua capacità di
raziocinio era piuttosto bassa.
Dopo aver
sistemato gli altri elfi l’umano non intervenne in difesa del suo compagno,
rimanendo a distanza ad osservare lo scontro; evidentemente voleva avere
un’idea delle sue capacità, o forse era proprio Nakar a dirgli di non
intromettersi con le sue occhiate fugaci e i suoi gesti del capo.
Lo scontro durò
parecchi minuti, e con tutto il vino che aveva bevuto alla fine Torkmak commise
l’errore imperdonabile di mostrare il fianco, un errore che il suo avversario
non esitò a sfruttare; girando su sé stesso, usò una delle due spade per
segargli di netto il braccio destro all’altezza del gomito, con l’altra invece
gli mozzò la testa prima ancora che avesse il tempo di gridare.
Gli abitanti del
villaggio assistettero senza parole, e quando finalmente la battaglia ebbe fine
i più temerari si alzarono in piedi; alcuni andarono a soccorrere il povero
Eriol, ma la maggior parte tenne i propri occhi piantati sui due forestieri.
«E voi chi siete?»
domandò Takuma
Pochi secondi dopo
sopraggiunsero tutti trafelati anche Eiji, Koga e Saburo.
«Vecchia Kagura!»
«Eiji. Siete
tornati finalmente.»
«Vecchia Kagura,
ci siamo riusciti. Questi due guerrieri hanno accettato di aiutarci a cacciare
i briganti».
I resti della battaglia furono velocemente fatti sparire,
e poveri resti dei briganti seppelliti nel cimitero del villaggio, non tanto
per pietà nei loro riguardi, quanto piuttosto per evitare alle donne e ai
bambini quel macabro spettacolo.
I due giovani
forestieri invece furono condotti in casa della vecchia Kagura e venne offerto
loro del tè per compensare le fatiche del viaggio e dello scontro appena
sostenuto; a seguire l’incontro c’erano anche molti abitanti, fra i quali Eiji
e i suoi amici, che ricevettero appena dentro il plauso del villaggio per aver
trovato due guerrieri di così grande levatura.
«Vi ringraziamo
infinitamente per avere scelto di aiutarci.»
«Non c’è bisogno
di ringraziare.» rispose Nakar «Era nostro dovere.»
«Sono parecchi
anni ormai che subiamo gli atti di prepotenza di questa banda di briganti. Io e
i miei compagni siamo stanchi di continuare ad abbassare la testa. Vogliamo
guadagnarci la nostra libertà, e vogliamo poter coltivare questa terra in pace.»
«Vecchia Kagura…
noi vogliamo aiutarvi a realizzare i vostri propositi. Tuttavia… questa
potrebbe rivelarsi un’impresa molto rischiosa.»
«Qualcuno la
definirebbe un suicidio.» replicò l’umano senza mezzi termini «Quell’Immortale
era ubriaco fradicio, ma i suoi compagni non saranno prede altrettanto facili.
Affrontare ottanta briganti armati di tutto punto non sarà uno scherzo.»
«State dicendo…»
disse Saburo «Che non abbiamo speranze?».
Un comprensibile
senso di paura prese a serpeggiare fra i presenti, ma Nakar cercò subito di
riportare un po’ di ottimismo.
«Non fatevi
prendere dallo sconforto. Se riusciremo a farci trovare pronti, le difficoltà
che dovremo superare saranno sicuramente inferiori. La cosa più importante per
adesso è mettersi subito al lavoro per rinforzare le difese del villaggio in
modo da poterlo difendere.»
«Esattamente, cosa
pensate di fare?» domandò la vecchia Kagura
«Ancora non
abbiamo stabilito nulla di definitivo. Ci consulteremo fra di noi, e appena
possibile vi informeremo delle nostre decisioni.»
«Molto bene».
I due guerrieri si
fecero disegnare una mappa accurata del villaggio e del territorio circostante,
quindi uscirono in perlustrazione.
Appena fuori dalla
casa, Nakar volle subito mettere in chiaro alcune cose con il suo insolito
compagno di avventure.
«Non dovresti
mostrarti così pessimista. In questo modo li spaventi.»
«È bene che
sappiano a cosa stanno andando incontro. Quello che è successo stamattina
potrebbe avere delle gravi ripercussioni, e diminuire di molto il tempo a
nostra disposizione.»
«Sì, lo so. Non
vedendo tornare i loro uomini i briganti ipotizzeranno il peggio, e potrebbero
decidere di attaccare Yamaura prima del previsto».
Poco fuori del
villaggio, verso est, sorgeva una piccola collina che offriva una buona visuale
sull’intera zona; Nakar e il giovane umano ne raggiunsero la sommità, gettando
lo sguardo tutto intorno e cercando di cogliere ogni più piccolo aspetto che
potesse giocare a loro favore in vista dell’imminente scontro.
Fatta eccezione
per qualche casupola isolata il villaggio aveva una struttura leggermente
circolare, che dalla piazzetta centrale si diramava sempre più verso l’esterno
con un raggio di approssimativamente cinquanta metri in ogni direzione.
La maggior parte
dei campi si trovava a sud, ed erano separati dal villaggio da un piccolo fiume
che scorrendo da ovest a est tagliava l’intera radura. Non era molto profondo,
ma c’era comunque un ponticello di legno per facilitare la traversata e
permettere il transito dei carri per l’ormai imminente mietitura.
La foresta si
estendeva in entrambe le direzioni, ma la distanza fra le case e la linea degli
alberi variava a seconda della zona; per il resto il territorio era
sostanzialmente pianeggiante, segnato qua e là da avvallamenti e collinette più
o meno piccole.
«Secondo te da
dove attaccheranno?» domandò Nakar guardando la cartina
«Da qui.» rispose
l’umano indicando il nord «Possono avvicinarsi maggiormente con la protezione
della foresta.»
«Quello che pensavo
anch’io. Ci servono un fossato e una palizzata.»
«Lavorando col
giusto ritmo possiamo allargare il fossato su entrambi i lati fino alle sponde
del fiume, di modo da poterlo inondare e renderlo più efficace.»
«Bisognerà far
sgombrare le case isolate. Gli abitanti non saranno d’accordo, ma capiranno.»
«Avremo bisogno di
una gran quantità di legname.»
«Ci stanno già
pensando i taglialegna. Sarà anche necessario costruire delle armi di fortuna
con cui armare i contini in vista di un possibile corpo a corpo, e insegnargli
ad usarle.»
«Per quello ci
posso pensare io.»
«Quanti uomini ti
servono?»
«Tutti quelli fra
i quindici e i cinquant’anni.»
«Dove piazziamo il
varco d’ingresso nella palizzata?»
«Direi qui. A
ovest, lungo il sentiero. È pianeggiante, e per raggiungerlo saranno costretti
a portarsi al tiro degli arcieri.»
«Torretta di
avvistamento?»
«Naturalmente. Più
ne uccidiamo prima che riescano ad entrare meglio sarà.»
«Molto bene. In
questo caso, al lavoro».
L’umano fece per scendere
dalla collina, ma Nakar lo fermò.
«Ehi aspetta. Non
mi hai ancora detto il tuo nome».
Lui esitò
guardandosi un attimo intorno.
«Toshio.»
«Toshio?»
«Tu chiamami così
se vuoi».
Chiarito ogni dettaglio, tutti si misero immediatamente il
lavoro per farsi trovare pronti nel momento in cui fossero arrivati i briganti,
con una speranza e una fiducia nel futuro decisamente rinnovate.
Uno dei grandi
pregi degli Inu era la loro infaticabilità, potevano lavorare per ore e ore
senza dare segni di stanchezza e necessitavano di pochissimo riposo per
recuperare a pieno le forze.
Per i tre giorni
successivi donne e bambini si occuparono del lavoro nei campi, gli uomini e i
ragazzi invece furono divisi in quattro squadre che lavoravano sedici ore al giorno,
dalle sei del mattino alle undici della sera con un’ora di pausa distribuita su
due periodi.
Le ore lavorative
erano suddivise a loro volta a gruppi di quattro e le varie squadre andavano a
rotazione; nello stesso momento in cui tre di esse sbrigavano i lavori manuali
la quarta si allenava nel combattimento.
I taglialegna
lavoravano a pieno regime, sfornando tronchi d’albero che venivano velocemente
intagliati e portati al villaggio tramite le slitte.
Fin da subito era
emersa la complessità del realizzare una palizzata verticale, per non parlare
del fatto che non c’era il tempo materiale per poterla costruire, quindi Nakar
aveva ripiegato per quella che nel gergo militare veniva chiamato
“puntaspilli”, un vero e proprio dedalo di pali acuminati messi in posizione
obliqua in modo tale da impedire anche ai cavalli più agili di oltrepassarli.
I pali difensivi
venivano piantati su più livelli direttamente sulle sponde del fossato, la cui
profondità e ampiezza aumentava a vista d’occhio anche nello spazio di poche
ore grazie all’operato instancabile dei contadini che provvedevano al suo
scavo; già altre volte era stato necessario scavare dei fossi per irrigare i
campi, e con il tempo si era acquistata una manualità e una scioltezza dei
movimenti tale che neppure soldati esperti sarebbero stati in grado di andare
così spediti.
Ovviamente c’era
da tenere conto anche del problema delle armi, ma anche in questo caso
l’esperienza dei contadini risultò decisiva; i vecchi del villaggio, quelli
ormai troppo anziani per lavorare la terra, si davano appuntamento tutte le
mattine alla grande tavolata nella piazza del villaggio, e riutilizzando gli
scarti del legname usato per il puntaspilli lo intagliavano fino a realizzare
discreti esemplari di archi leggeri i appuntite lance di legno.
Anche le donne di
una certa età davano il loro contributo; oltre a curare i bambini più piccoli,
usavano i medesimi scarti per costruire decine di frecce, oltre a intrecciare
sottilissime strisce di tessuto con coi fare le corde degli archi.
Tutte queste armi
venivano quindi consegnate ai futuri guerrieri, ai quali il giovane Toshio
insegnava ad usarle; molto spesso i bambini andavano ad assistere agli
allenamenti, che si tenevano in uno spiazzetto dietro la casa di Eriol, dove
era stato allestito un piccolo ring circolare e, dei fantocci di paglia per il
tiro con l’arco e dei ceppi di legno legati alla catena con cui esercitarsi nei
colpi di lancia, perché il più delle volte era possibile assistere a scene
comiche molto divertenti.
Gli Inu non erano
proprio portati per il mestiere delle armi, e ogni loro tentativo di imparare a
fare i soldati si risolveva quasi sempre con un pasticcio colossale:
inciampavano sui sassi, tiravano le frecce dall’altra parte del continente o
addirittura finivano per puntare la lancia a terra nella rincorsa verso il
bersaglio, rompendola e facendosi molto male.
Qualsiasi
addestratore si sarebbe messo le mani nei capelli, ma Toshio era estremamente
paziente e prendendoli nel verso giusto, lentamente, si riuscì a raggiungere
dei livelli soddisfacenti. In fin dei conti non era necessario che diventassero
soldati di professione, tutto quello che gli si chiedeva era di tirare le
frecce tutte in una direzione e tenere a distanza i nemici servendosi delle
lance, poi ci avrebbero pensato la superiorità di numero e la presenza di Toshio
e Nakar a fare la differenza.
Il giovane umano
sembrava avere però qualcos’altro in mente, e al calare del buio lasciava il
villaggio insieme ai contadini più forti e infaticabili. Nessuno sapeva con
certezza cosa facessero lì fuori per gran parte della notte, ma chi faceva i
turni di guardia raccontava di sentire rumori di scavo e continui scrosci
d’acqua.
Poi, una mattina,
gli abitanti videro spuntare dalla nebbia una sorta di lunga staccionata fatta
di corte sorrette da alcuni paletti; sorgeva circa a metà fra la foresta e il
villaggio; Pur avendo un inizio e una fine iniziava e finiva nel nulla, senza
recintare alcunché e senza alcuno ostacolo apparente che le impedisse di
proseguire.
In molti
domandarono a Toshio che funzione avesse quell’insolita quanto apparentemente
inutile barriera, troppo bassa per poter costituire un qualsiasi ostacolo, ma
lui non si fece sfuggire nulla in proposito, limitandosi a dire che al momento
opportuno avrebbero capito tutto.
Una cosa però era
sicura.
Con il passare dei
giorni, i contadini stavano ritrovando pian piano fiducia in loro stessi; per
la prima volta dopo tanto tempo gli Inu si sentivano qualcuno, sentivano di
potersi difendere, di poter fare in qualche modo la differenza.
Il pensiero di
poter finalmente ripagare quei briganti di anni di furti e soprusi, da
spaventoso e quasi inconcepibile, si era trasformato in una speranza, la
speranza di potersi liberare dal giogo dei prepotenti diventando padroni del
proprio destino.
In effetti era
proprio questo ciò che sia Nakar che Toshio speravano di ottenere: restituire
agli Inu la loro dignità come popolo, e a giudicare dall’entusiasmo che
manifestarono nel momento il fossato, raggiunto il fiume retrostante, venne
invaso dall’acqua, sembrava proprio che ci fossero riusciti, e con largo
anticipo sui tempi che persino loro due avevano previsto il villaggio di
Yamaura fu pronto per dare un caldo benvenuto ai suoi persecutori.
Il pomeriggio del
decimo giorno, Toshio, come era solito fare quando non era impegnato ad
allenare gli abitanti, ammazzava il proprio tempo camminando su e giù per le
stradine del villaggio in completa solitudine, lontano dai luoghi affollati e
rumorosi che non sembravano proprio fatti per lui.
Proprio come
Nakar, anche lui era riuscito a conquistarsi la fiducia dei contadini, malgrado
il suo carattere introverso e la severità con cui trattava i propri allievi; si
vedeva lontano un miglio che era un grande guerriero, e tutti erano convinti
che non poteva esserci alleato migliore di lui in vista della battaglia.
D’un tratto,
mentre passeggiava lungo i bordi della palizzata, il ragazzo incrociò Nakar,
seduto sull’erba con la schiena appoggiata ad un muretto e le mani dietro la
nuca, che fischiettava, tenendo gli occhi chiusi, una suadente melodia; era
bellissima, armoniosa, emanava un senso di calore e di affetto, e ascoltarla
era un vero piacere.
Per molto tempo Toshio
rimase immobile e in silenzio, e anche quando la musica ebbe fine inizialmente
non fece nulla; fu Nakar ad accorgersi di lui, ed era così assorto nei suoi
pensieri che vedendolo per poco non gli prese un colpo.
«Toshio. Mi hai
fatto paura, non ti avevo visto.»
«Scusami, non
volevo disturbare.»
«No, tranquillo.
Nessun disturbo. Anzi, non mi dispiacerebbe un po’ di compagnia.»
«Quand’è così…».
Il giovane umano
si sedette dunque vicino a lui, e per un po’ i due rimasero in silenzio,
immersi ognuno nei propri pensieri.
«E così» disse ad un
certo punto l’elfo «Alla fine ce l’abbiamo fatta.»
«Così sembra.»
«Confesso che
all’inizio non ci avevo sperato. Malgrado conosca gli Inu da una vita, riescono
sempre a sorprendermi.»
«Hanno molta
fiducia, sono certi della vittoria. E questo è un bene.»
«Indubbiamente».
Tacquero
nuovamente, poi fu Toshio a parlare nuovamente.
«Quella musica che
stavi fischiettando… che cos’era?».
Nakar fece una
pausa, guardò un momento in alto poi raccolse un fiore che cresceva ai suoi
piedi.
«È una ninnananna.
È assolutamente unica. Questa musica e questi due anelli sono la sola cosa che
mi sia rimasta di mia madre.»
«Il tuo nome,
Nakar, è un nome che solitamente si dà alle Spie».
Di nuovo l’elfo
esitò, quindi cominciò a raccontare.
«Mio padre era una
spia al servizio di Normar. Era talmente famoso e talmente conosciuto che
ottenne dalla regina un permesso speciale per sposarsi prima del congedo.
Il suo unico
pensiero era di dare al regno un erede che portasse avanti il nome della sua
illustre famiglia; era il suo chiodo fisso, e mia madre ne era terrorizzata.
Anche lei era una
spia, ed era stata addestrata dal suo maestro non solo all’odio e al fanatismo
ceco, ma anche alla compassione e al rispetto della vita.
Aveva visto coi
suoi occhi l’orrore della guerra, il sangue e i complotti che dominano la vita
di ogni spia, e non voleva in alcun modo che il figlio che stava per partorire
fosse costretto a subire lo stesso destino.
Per questo, poco
dopo la nascita, mia madre mi affidò al suo antico insegnante, il nobile
Rasnak.»
«Ho sentito
parlare di lui. È uno degli elfi più vecchi di tutto il continente, una vera
leggenda per il suo popolo.»
«Ringraziando gli
dèi mio padre era in missione al momento del parto, e quando tornò gli fu
raccontato che ero morto subito dopo la nascita.
Avrò trascorso sì
e no due settimane al fianco della mia vera madre, ma quella canzone che mi
cantava ogni volta per farmi dormire mi è rimasta nell’anima.
Ho continuato a
sognare lei e la sua canzone per tutti gli anni in cui ho vissuto presso il
maestro Rasnak. Lui è stato come un padre per me, mi ha cresciuto e mi ha
iniziato alle arti del combattimento, insegnandomi l’antica arte della katana.»
«Ora capisco. Il
nobile Rasnak è forse l’unico elfo a conoscere questa disciplina.»
«Dopo qualche
anno, quando fui abbastanza grande per accettarla, mi raccontò la verità. Mi
disse che ero figlio di spie, e che ero stato affidato a lui per evitare di
dover seguire la stessa strada.
Fu allora che
decisi di incontrare i miei genitori. Volevo conoscerli. Purtroppo» disse
nascondendo il pianto «Sottovalutai il fanatismo di mio padre».
Seguendo le indicazioni ricevute dal suo maestro, Nakar
era infine arrivato alla sua destinazione, una bella casa persa fra le colline
di Normar poco distante da Galinne, la capitale del regno.
Appena bussò
sommessamente alla porta si comparve davanti una giovane donna di una bellezza
che lasciava senza fiato; aveva i suoi stessi capelli castani, raccolti dietro
la nuca alla maniera delle padrone di casa, e gli occhi di un viola luccicante.
Non sembrava
affatto una spia, la sua espressione trasmetteva dolcezza e gentilezza, e
proprio per questo inizialmente Nakar non riuscì a credere di trovarsi di
fronte a Tia, sua madre.
Lei al contrario
riconobbe subito il giovane elfo che le stava davanti, ma appena lo vide,
invece che buttargli le braccia al collo, si spaventò a morte.
«Devi andare
subito via di qui.» gli disse dopo averlo spinto letteralmente in casa ed
essersi assicurata che nessuno avesse visto nulla
«Cosa… ma perché?»
«Tuo padre. Tuo
padre non deve vederti.»
«Perché? Che cosa
ho fatto?»
«Ora non posso
spiegarti. Presto, lui ritornerà fra poco».
Troppo tardi.
Un istante dopo la
porta di casa si spalancò fragorosamente ed entrò Kurag, il padre di Nakar; era
un gigante di oltre due metri grande e grosso che metteva paura solamente a
guardarlo, la sua faccia trasudava malignità e per un attimo il giovane si
chiese come fosse stato possibile che due persone così diverse fossero
diventati marito e moglie.
«Lurida
puttanella!» tuonò appena fu dentro «Dovevo immaginarlo che mi avevi
imbrogliato!».
Con la sua mano
ciclopica afferrò Nakar per il bavero e lo scaraventò contro la parete, poi
sguainò la spada con l’intento di trafiggerlo e lavare via il disonore che
aveva macchiato la sua carriera altrimenti immacolata.
Nakar era confuso
e spaventato, non riusciva a pensare o a reagire, e rimaneva immobile ad
osservare quel gigante che gli si avvicinava.
All’ultimo
secondo, quando stava quasi per prepararsi a colpire, Tia si mise in mezzo
cercando di far ragionare il marito.
«Aspetta, caro!
Lui non ha colpa!»
«Madre…»
«Il solo fatto di esistere è una colpa. La sua vita disonora la mia
famiglia! Ora levati di mezzo! Con te farò i conti più tardi!»
«Ti prego, è tuo figlio!»
«Ti ho detto di spostarti!».
Kurag diede alla donna uno spintone così forte da farla finire
dall’altro lato della stanza, e nell’urtare la parete batté violentemente la
testa.
«Madre!».
Nakar corse da lei per tentare di soccorrerla, ma non appena cercò di
sollevarle la testa vide la sua mano riempirsi di sangue.
Un odio senza fine si impadronì di lui, un odio che non avrebbe mai
pensato di provare; il suo cuore prese a battere all’impazzata, il respiro si
fece serrato, e non vedendo alcun segno di rimorso o pentimento in quell’uomo
per ciò che aveva appena fatto gli sembrò di morire.
«Vigliacco! L’hai uccisa!».
Senza riflettere sfoderò le sue due spade, e grazie alla sua superiore
agilità con un solo colpo segò via le braccia del padre per poi ruotare su sé
stesso e decapitarlo.
Stava ancora cercando di spegnere la scintilla oscura che gli stava
bruciando dentro, quando si sentì chiamare.
«Na… Nakar…».
Si volse, ormai completamente rinsavito.
«Madre!».
Era ancora viva, ma entrambi sapevano che non lo sarebbe stata ancora
per molto.
«Nakar… c’è una cosa… che devi sapere…»
«Madre, non parlare. Andrà tutto bene. Ti porterò dal maestro Rasnak,
lui sarà in grado di curarti.»
«Figlio mio… tu… hai una sorella…»
«Cosa!? Una sorella?»
«Una sorella minore… è nata tre anni dopo di te… non sono riuscita… a
salvare anche lei…».
Dai suoi occhi presero ad uscire le sue ultime lacrime.
«Io volevo solo… io volevo solo che i miei figli crescessero liberi…
volevo… che fossero felici…»
«Madre…»
«Nakar. I miei anelli. Prendili».
Lui esitò, aveva paura, ma poi sfilò dalle dita di Tia i due anelli
d’argento che indossava.
«Promettimi… che troverai tua sorella… e che gli darai… uno di questi
due anelli…»
«Ma… come faccio a ritrovarla? Non so neppure il suo nome…»
«So solo… che è una persona di fiducia della regina… forse… la sua più
fedele servitrice.»
«Madre… resisti!»
«Non essere in collera con tuo padre. Anche lui… è una vittima… salva
tua sorella, Nakar. Salvala… da questo destino…»
«La salverò madre. Ti prometto che la troverò e la salverò».
Lei accennò a sorridere, e fu con quell’espressione che chiuse gli occhi
sul mondo per sempre.
«Madre! Madre!».
La strinse a sé a lungo, piangendo tutte le sue lacrime, e per molti
giorni non fu in grado di muoversi da quella casa maledetta.
Alla fine, però, il desiderio di adempiere a quella promessa fu più
forte del dolore che mai avrebbe smesso di devastargli l’anima.
Da quel giorno in avanti non avrebbe avuto nessun altro scopo nella
vita, avrebbe vagato errante portando su di sé il peso del proprio peccato, il
peccato di aver ucciso con le sue stesse mani il proprio padre, e di aver
provocato indirettamente la morte della madre.
Per questo, dopo essersi lasciato alle spalle la dimora divorata da un
fuoco purificatore, impose su di sé un secondo nome, che avrebbe dovuto
accompagnarlo fin nella tomba: Regis; il penitente, nella lingua degli elfi.
Finito il racconto, a stento Nakar
trattenne le lacrime.
«Mi dispiace.» gli disse Toshio
«Da quel giorno, non ho fatto altro che viaggiare su e giù per queste
terre alla ricerca di mia sorella.»
«E hai fatto progressi?»
«Purtroppo no. Non sono riuscito a scoprire nulla, ma non mi darò pace
fino a che non l’avrò trovata».
L’umano volse lo sguardo verso il cielo azzurro solo leggermente velato
dalle nuvole.
«Tua madre aveva ragione, Nakar. Le spie non sono altro che le vittime
dell’egoistica ambizione del sovrano al quale sono asservite. A differenza
degli Immortali, che scelgono liberamente la strada della distruzione, loro
nascono con un destino già segnato, venendo addestrati fin dalla più tenera età
a non provare emozioni.»
«Ma io so che mia sorella non è così. È nata da nostra madre, e dentro
di sé porta anche il buono che era in lei. Per questo sono certo che appena la
vedrò la riconoscerò, saranno i suoi occhi a dirmi la verità».
Nuovamente i due tacquero, poi Toshio gli mise una mano sulla spalla.
«La ritroverai, Regis. Ne sono sicuro».
Nello stesso momento, alcuni metri più in alto, due contadini erano
intenti a scrutare l’orizzonte dalla cima di una torretta di fortuna eretta a
tempo di record nella piazza del villaggio.
Stavano cercando di ammazzare il tempo giocando a shogi, una variante
degli scacchi praticata dagli Inu e dai Tengu, quando uno di loro notò strani
movimenti sull’altopiano a nord.
«Ehi, guarda.» disse al suo compagno «Cos’è quello?».
I due si concentrarono allora in quella direzione, e focalizzando bene
la vista un gran numero di cavalieri percorrere il sentiero lungo il crinale
diretti verso Yamaura.
«Oh santo cielo! Sono loro!».
Entrambi afferrarono dei lunghi bastoni e presero a battervi sopra
furiose martellate, producendo una serie di suoni sordi e ritmati che vennero
uditi a decine di metri di distanza, fino nei campi, sovrastando qualsiasi
altro rumore.
«Arrivano i briganti! I briganti stanno arrivando!».
Anche Toshio e Nakar sentirono l’avvertimento, e quando arrivarono nella
piazza già si era diffuso il panico.
«Presto!» disse l’elfo «Fate rientrare tutti, e chiudete le porte!».
Tutti quelli che si trovavano all’esterno del villaggio rientrarono
immediatamente dai due varchi d’ingresso, quello verso la radura e quello che
dava sui campi, quindi entrambi furono sbarrati con dei carri a loro volta
pieni di pali acuminati che furono subito ribaltati per impedirne lo
spostamento.
«Donne e bambini nella casa della vecchia Kagura! Gli arcieri
raggiungano immediatamente i punti prestabiliti!».
Obbedendo agli ordini delle loro guide i contadini si armarono in tutta
fretta di attrezzi e lance di legno, mentre gli arcieri, recuperato ognuno il
proprio arco e la faretra piena di frecce, si portarono ai bordi della
palizzata e in cima alla torretta.
Toshio e Nakar, armatisi a loro volta, raggiunsero il fronte nord, e
poco dopo, dagli alberi, videro uscire un esercito di cavalieri armati fino ai
denti; erano tantissimi, più di quanti gli stessi contadini ne avessero mai
visti, e tutto il villaggio calò di colpo in un raggelante silenzio.
«Quelli saranno cento o più.» disse Nakar
«Devono aver stretto un’alleanza con altre bande della regione.»
«Non ce la faremo mai…» disse qualcuno «Sono troppi.»
«Non perdete la calma, e preparatevi alla battaglia!».
Nel vedere il villaggio di Yamaura
fortificato in quel modo Vorgin e Wulgas non si preoccuparono minimamente; al
contrario, sembravano felici.
«Guarda un po’.» disse Wulgas «Quei pezzenti si sono trincerati.»
«Stanarli sarà un vero divertimento.»
«E allora forza! Falciamoli come le erbacce che sono!».
Al comando del loro capo tutti i briganti sguainarono le armi e si
precipitarono giù per la discesa, facendo tremare la terra sotto il peso delle
loro cavalcature.
I contadini, nel vedere quel nugolo di spade, lance, scudi e alabarde
tremarono; qualcuno accennò una fuga, ma poi rimase al suo posto, consapevole
forse che al punto in cui erano arrivati nessun luogo sarebbe stato sicuro in
caso di sconfitta.
«Ci siamo!» disse Nakar «Tendere gli archi, pronti a scoccare!».
Gli arcieri ubbidirono, e recuperata ognuno una freccia si prepararono a
colpire i nemici, giunti ormai a tiro.
«Pronti!»
«No, fermi!»
«Cosa!? Ma… Toshio…»
«Non ancora!».
Nakar era indeciso, non sapeva che fare, ma alla fine decise di dare
fiducia al suo amico e non abbassò il braccio.
I banditi intanto erano sempre più vicini, e ormai si poteva sentire il
respiro affannoso dei cavalli lanciati al galoppo. Sulla loro strada, a
dividerli dalla palizzata, c’era solamente la staccionata fatta costruire da Toshio,
ma non costituiva certamente una minaccia per loro, ed infatti quelli davanti,
appena la raggiunsero, immediatamente la saltarono.
Ed ecco che, come per incanto, come gli zoccoli dei cavalli toccarono il
terreno questo improvvisamente si aprì sotto i loro piedi, precipitandoli in
una pozza di acqua e fango profonda parecchi metri e larga quanto cinque carri
messi in fila.
Molti briganti che vi caddero dentro vi rimasero invischiati, altri
annegarono sotto il peso dei cavalli e delle armature che indossavano; prima
che riuscissero a fermarsi, ne erano precipitati almeno una quindicina.
Tutti i contadini, ad eccezione di quelli che sapevano, restarono con la
bocca spalancata.
«Adesso!» gridò Toshio
«Scoccate!».
Il cielo di colpo si tinse di nero, e una pioggia di dardi cadde sui
briganti intrappolati, facendone scempio; anche quelli che non erano caduti
nella trappola furono colpiti
«Bastardi!» gridò Vorgin togliendosi una freccia nella spalla «Questa me
la pagheranno con gli interessi!»
«Non fermatevi, continuate a scoccare!».
Vennero lanciate cinque raffiche, e furono molti i briganti a rimetterci
la vita; alcuni di loro, accecati dalla rabbia, puntarono diritti verso la palizzata
e cercarono di saltarla, ma finirono tutti impalati; gli altri invece
cominciarono a correre veloci intorno al villaggio, e quando trovarono uno dei
due varchi Wulgas diede ordine di buttare giù il carro.
I suoi uomini quindi presero dei ganci di ferro collegati a delle corde
e li lanciarono sul carro, assicurando poi la cima opposta alla sella dei
cavalli.
«Vogliono abbattere il portone!»
«Ci penso io.» rispose calmo Toshio.
Il giovane umano tese il proprio arco, mentre sotto i suoi piedi si
materializzava un circolo magico, e nell’istante esatto in cui scoccò la
freccia questa si trasformò in un fascio di luce, che a sua volta si moltiplicò
all’infinito trasformandosi in una tempesta di scintille prima di precipitare
sui briganti.
«Dannazione!» disse Wulgas «Hanno anche uno stregone quei pezzenti!».
Tutti i cavalieri che stavano cercando di aprire l’ingresso vennero
sterminati, tutti tranne Vorgin, che con la forza della disperazione unita a
quella della rabbia riuscì alla fine ad averla vinta, ed il carro venne
letteralmente trascinato via, permettendo ai briganti di entrare nel villaggio.
«Merda!» gridò Nakar «Prepararsi al corpo a corpo!».
Lui e Toshio misero immediatamente mano alle loro spade e si gettarono
nella mischia accompagnati dai contadini, che urlavano come forsennati per
darsi coraggio.
Come predetto, la superiorità numerica si rivelò fin da subito un punto
a favore di Yamaura; i briganti potevano anche essere forti e addestrati, ma
c’era ben poco che potessero fare per opporsi ad un’ora di paesani infuriati,
che dopo averli tirati giù da cavallo li infilzavano più e più volte, una per
ogni sopruso che erano stati costretti a tollerare in tutti quegli anni.
Toshio e Nakar cercarono di mantenersi il più vicino possibile l’uno
all’altro, di modo da poter combinare le forze per poter uccidere quanti più
nemici possibile.
Dopo poco Nakar si trovò a incrociare le spade con Vorgin e la sua
spaventosa ascia a doppio filo.
«Preparati a crepare, amico degli Inu!».
L’elfo evitò il fendente iniziale spostandosi di lato, e
contemporaneamente recise i legacci della sella, facendo cadere Vorgin, che si
infuriò ancor più di quanto già non fosse.
Mulinando la sua ascia come un toro scatenato tentò ripetutamente di
colpire Nakar, ma lui era anche troppo agile e non aveva difficoltà a schivare
quei fendenti sconclusionati, e non appena vide una falla nella sua difesa
immediatamente ne approfittò, piantandogli la spada sinistra nella gola fino a
che non la vide riapparire dietro la nuca.
Non appena il brigante si accasciò morto Nakar si girò verso Toshio,
impegnato a contrastare l’attacco di tre nemici contemporaneamente; era così
sotto pressione da non accorgersi della presenza di un quarto nemico dietro di
lui. Immediatamente l’elfo lanciò una delle sue due spade, che con incredibile
precisione roteò nell’aria colpendo l’aggressore in mezzo alla testa e
lasciandolo morto a terra.
L’umano, liberatosi degli altri tre nemici, e accortosi di quello steso
dal suo amico, si girò per ringraziarlo, ma di colpo il sorriso di complicità
sul volto di Nakar si trasformò dapprima in un’espressione incredula, poi in un
agghiacciante urlo di dolore nel momento in cui una punta di lancia e la lama
di una spada comparvero da dentro il suo corpo.
Toshio assistette alla scena impotente.
«Nakar!».
Non appena i due briganti che lo avevano vigliaccamente assalito alle
spalle ritirarono le loro armi l’elfo cadde agonizzante in avanti mentre l’erba
attorno a lui si tingeva di rosso; non poterono raccontare a nessuno
dell’impresa che avevano compiuto, perché furono tutti e due morti prima di
poter risollevare lo sguardo.
Contemporaneamente Wulgas venne disarcionato e linciato dai contadini, e
allora i pochi uomini sopravvissuti alla strage si diedero alla fuga, fra le
grida di gioia dei contadini, finalmente liberi dai loro persecutori.
Erano tutti così felici e così euforici per la vittoria che nessuno si
accorse di quello che era successo a Nakar, e fu un bene, perché l’ultima cosa
che lui avrebbe voluto era di morire con addosso troppi sguardi
compassionevoli.
«Amico mio.» gli disse Toshio «Resisti».
Vedendo il sangue tutto intorno a sé, l’elfo, invece che spaventarsi,
sembrò ridere.
«Sembra proprio… che questa sia la fine…»
«No, non devi dire così… Nakar…»
«To... Toshio… devi aiutarmi. Ho bisogno… che tu mi faccia un favore…»
«Qualsiasi cosa».
Nakar allora si strappò il pendente e lo consegnò a Toshio.
«Ho promesso a mia madre… che avrei consegnato questo a mia sorella…
semmai un giorno dovessi incontrarla, ti prego di darglielo.»
«Ma… come farò a riconoscerla?»
«Lo… lo hai detto tu. Le spie… non sanno provare sentimenti… mia sorella
invece sì… quando la vedrai la riconoscerai, come l’avrei riconosciuta io.
Promettimi che lo farai.»
«Lo prometto.»
«Ma ti prego… non dirle cosa è successo alla sua famiglia. Non voglio…
che l’unico ricordo che avrà di me… sia quello di colui che ha ucciso i suoi
genitori.»
«Lei ti ricorderà per quello che sei stato.» rispose Toshio piangendo
«Un guerriero valoroso e giusto».
Nakar, nel sentire quelle parole, sorrise, ed il pensiero di morire con
la stessa espressione di quella madre che aveva visto una sola volta fu il più
bello della sua vita, ma purtroppo fu anche l’ultimo.
La sua mano, che fino ad un istante prima stringeva il pendente assieme
a quella dell’amico, scivolò inerte a terra, i suoi muscoli smisero di
contrarsi e lui non si mosse più.
Toshio cercò in tutti i modi di arrestare il proprio pianto, e quando
finalmente vi riuscì chiuse gli occhi di Nakar con un movimento lento, che
sembrava quasi una carezza.
Qualche giorno dopo, al termine di
una lunga e solenne cerimonia funebre, il corpo di Nakar venne tumulato al
centro del cimitero del villaggio, e le sue spade incrociate sopra la tomba.
Tutti piansero il coraggio e la bontà d’animo di un elfo che aveva
combattuto in difesa degli Inu senza volere nulla in cambio, e che per questo
aveva dato la propria vita; negli anni a venire, il suo ricordo sarebbe stato
tramandato di padre in figlio, così che tutti avrebbero ricordato fino alla
fine dei tempi il nome di Nakar, il Giusto.
Da solo, immerso in un dignitoso silenzio, l’altro eroe, l’umano senza
nome, i cui folti capelli neri ondeggiavano al vento come quelle spighe che finalmente
i contadini avrebbero potuto mietere in tranquillità, senza il terrore di
vedersele portare via da prepotenti senza scrupoli, stava in preghiera davanti
alla tomba, con una rosa in mano ed il pendente con l’anello d’argento
nell’altra.
«Trova la tua pace, amico mio.» disse posando il fiore sul cumulo di
terra.
La vecchia Kagura, sorreggendosi al suo bastone, gli si avvicinò, senza
però rivolgergli la parola.
«Mai più.» disse lui senza staccare gli occhi dalle due katana «Mai più
permetterò ad un amico di morire dinnanzi ai miei occhi.»
«Il nobile Nakar era un vero guerriero. E anche voi lo siete. Avrete per
sempre la nostra gratitudine.»
«Vi ringrazio per le vostre parole.»
«E ora dove andrete?».
Il giovane esitò qualche secondo, poi si girò.
«Ancora non lo so. Questo mondo ha ancora tanto da offrirmi, e dopo
quello che è successo qui mi rendo conto di non essere ancora abbastanza forte.
Devo diventarlo ancora di più, e per farlo non potrò mai smettere di viaggiare.
È il castigo. Il castigo per il mio egoismo».
Mosse un passo per andarsene, ma prima che potesse lasciare il cimitero
la vecchia Kagura lo fermò di nuovo.
«Non ci avete ancora detto il vostro nome, nobile guerriero. Posso avere
l’ardire di chiedervelo?».
Lui, di nuovo, inizialmente tacque, poi disse, con un filo di voce.
Regis e quel bizzarro signore si
sedettero su di una panchina, all’ombra di un gazebo.
Davanti a loro, su di un palchetto, un ragazzo con in testa un curioso cappello
strimpellava allegramente la sua chitarra cantando una canzone vivace che aveva
attirato qualche spettatore, ma l’andirivieni di gente era pressoché continuo.
Regis si sentiva strano, provava una sensazione di estraneità, avvertiva
distintamente che quel posto non era reale, e che quelle persone non erano per
nulla uguali a lui.
Il suo accompagnatore gli offrì nuovamente da bere, ma lui rispose con
una domanda gelida.
«Perché sei sparito per tutti questi anni?».
Quello tacque, guardò in basso mettendosi le mani sulle ginocchia.
«Beh, ma ora sono qui.»
«Questo non risponde alla mia domanda. Perché non sei più tornato?».
Il vecchio sospirò, accennando poi una risatina.
«Cosa c’è di così divertente?»
«È ironico, non divertente. E pensare che mi ero sempre detto che non
averi mai più sentito la mancanza del senato, con tutta quella burocrazia e
quelle regole da rispettare. E invece, purtroppo, le regole ora ci sono, e sono
molto severe.»
«Regole!? Che genere di regole!?»
«Vedi, ragazzo mio, fin da quando esiste il primo di noi c’è sempre
stata una regola, una regola che ci era assolutamente proibito di violare. Noi
non possiamo intrometterci in alcun modo con le faccende che riguardano il
mondo dei vivi.»
«È per questo che dopo la battaglia contro Seth non ti ho più rivisto.»
«Oh beh, tu forse no, ma qualcun altro invece sì. La Terra ha attraversato un
brutto periodo dopo la tua partenza, si respirava una cattiva aria, perciò, per
proteggerla, ci siamo visti costretti a violare qualche regoluccia di troppo,
ma alla fine ci è costato caro, e da quel momento la regola è diventata
inviolabile.»
«E allora come mai sei qui?»
«Ho deciso di farti un salutino.»
«Dove ci troviamo al momento? Di certo questo non è un sogno, ma non è
neanche un’illusione.»
«Diciamo che è un po’ uno e un po’ l’altro».
Regis diede uno sguardo alle decine di persone che ancora si muovevano
tutto intorno con assoluta indifferenza.
«E loro?»
«Rimescolano le carte. E si assicurano che io non violi le regole più di
quanto non stia già facendo. Come ti ho già detto, se trasgredissi
eccessivamente mi ritroverei a passare un guaio veramente grosso».
Seguì un nuovo, lunghissimo silenzio, poi Regis sembrò quasi piangere.
«Non so più cosa
pensare. Mi sento come se il tempo fosse tornato indietro, mettendomi
nuovamente di fronte a qualcosa più grande di me. È una sensazione terribile,
che mi riempie di angoscia».
L’anziano bevve un
sorso della sua birra sospirando nuovamente.
«Ragazzo mio. Come
dici sempre tu, chi non ha paura è il primo a morire, perché non sa quando è il
momento di fermarsi.
È più che naturale
che in questo momento tu ti senta confuso, e nessuno vuole fartene una colpa».
Regis cercò di mascherare il proprio tremore,
strinse forte i pugni attorno alle ginocchia tenendo lo sguardo basso.
«Quando ho
affrontato Valon, per la prima volta dopo tanti anni mi sono sentito impotente.
Era dai tempi dell’ultimo torneo che non provavo una simile sensazione.»
«Avevi dimenticato
cosa volesse dire aver paura del proprio avversario.»
«Paura… forse era
proprio questa la parola che avevo dimenticato. Ma nel momento in cui ho visto
la morte in faccia, dopo tutto questo tempo, l’ho provata di nuovo, come mai
nella mia vita.
È stato orribile.»
«Il problema è che
adesso non riesci a liberartene. Hai passato così tanto tempo a non avere
paura, da dimenticare i danni che può causare.»
«Ancora adesso non
riesco a capire cosa mi sia successo mentre parlavo con Isnark. Ho detto e
fatto cose che ho sempre ritenuto riprovevoli, l’ho rimproverato perché voleva
combattere, ho considerato il suo desiderio di liberare Uruk un suicidio»
«Non vedo cosa ci
sia di strano. Chiunque l’avrebbe reputato tale.»
«Ma io no. Almeno,
non fino a un po’ di tempo fa».
Il vecchio
sorseggiò nuovamente la birra.
«Tu non hai mai
dimenticato cosa volesse dire avere paura. Ciò che rende questa una situazione
complicata è la serie di eventi in cui sei rimasto coinvolto. Sono loro a farti
vedere le cose da un’ottica diversa, più pessimistica e arrendevole, ma in
fondo all’anima sei rimasto quello di sempre».
Regis si guardò le
mani.
«Ma come posso
fare? Come posso fare a ridiventare quello di un tempo, se non sono più sicuro
di niente?»
«Chi dice che devi
ridiventarle. Forse è il caso di rivedere ancora le tue posizioni.»
«Rivedere… le mie
posizioni?»
«È la legge
fondamentale dell’universo. Ad un’azione segue una reazione uguale e contraria.
Vista la nuova situazione, forse è venuto il momento di adattarsi.»
«Adattarmi… mi
stai dicendo che non devo avere paura? Non devo essere spaventato dall’idea che
i miei amici potrebbero rischiare la vita?»
«Non ho mai detto
questo. Già in passato quando combattevi erano in gioco molte vite, ma non hai
mai esitato. Sapevi di combattere per qualcosa di più grande, qualcosa per la
quale valeva la pena combattere e morire. E quello che pensavi tu, lo pensava
anche chi combatteva al tuo fianco».
Nonostante ciò,
Regis sembrò rimanere vittima dell’incertezza.
«Senti, ragazzo. Anche
se so che mi costerà molto, una cosa voglio dirtela. Per come si stanno
mettendo le cose, che tu scelga o meno di fare la tua parte la vita di molte
persone sarà comunque in pericolo.
Questo mondo sta
andando incontro a pericoli così grandi che neppure tu riusciresti ad
immaginarli.»
«Ha forse a che
fare con le gemme che dovrei cercare?».
Il vecchio fece
per rispondere, ma alzando lo sguardo si accorse che tutte le persone lì
presenti si erano improvvisamente fermate, e rimanevano ora immobili a guardarlo.
«Mi spiace,
ragazzo.» sospirò «Ma a questa domanda non posso risponderti. Ho già osato
anche troppo».
Si alzò dunque
dalla panchina gettando il contenitore vuoto di birra in un bidone lì accanto.
«Bene ragazzo.
Spero di aver fugato in parte l’oscurità che ti opprimeva. Ora sta a te cercare
la strada. In fin dei conti, questa è la tua vita».
Mosse quindi un
passo, come a volersene andare.
«Devi andare?» gli
domandò Regis
«Così sembra. Te
l’ho detto, regole.»
«Avrai dei guai
per questo?»
«Niente di
irreparabile.»
«Ti rivedrò?»
«Presto o tardi. Però,
prima che vada, voglio farti un piccolo regalo».
La spada di Regis,
apparsa dal nulla accanto a lui, fu circondata da una luce leggera, e quando
questa scomparve era comparsa una nuova arma al suo posto.
La lama,
inizialmente corta e piuttosto larga, era diventata ora lunga e sottile, con il
corpo laminato d’oro e il filo che pareva di lucido specchio; l’impugnatura,
invece che di avorio, ora invece era di metallo leggero laccato di nero con
intarsi aurei che scintillavano al sole; aurea era anche la magnifica aquila
con le ali spiegate che costituiva la guardia, passata dalla forma a coccia a
quella cruciforme, il che conferiva all’arma un aspetto molto medievale.
Regis, attonito,
la prese in mano; era leggerissima, sembrava quasi senza peso, e trasudava
potere magico da ogni suo anfratto.
«Ma cosa…»
«Quella spada ha
riposato anche troppo a lungo. È ora che mostri il suo vero potere».
Quando il
guerriero rialzò gli occhi non c’era più nessuno, e subito dopo tutto divenne
bianco.
Regnava la quiete nel forte di montagna arroccato ai
margini del valico che sorgeva all’imboccatura del valico; la notte era pulita,
senza una nube, non tirava un filo di vento, ma faceva comunque molto freddo.
Per riscaldarsi,
le sentinelle che presidiavano le mura si mantenevano vicine alle torce accese
sui torrioni e lungo i ballatoi, scrutando di tanto in tanto il terreno erboso
dinnanzi a loro che terminava saliva sempre più fino ai margini della foresta
che copriva gran parte dell’insenatura.
Lontano, nel fitto
degli alberi, si potevano scorgere i fuochi di alcuni bivacchi, testimoni
chiari della presenza, nel mezzo del valico, di un piccolo accampamento di
Normar.
L’elfo di guardia
sul torrione di nord-est cercava di combattere il sonno canticchiando una
canzone popolare e scandendo il ritmo col battere dei piedi, ma la stanchezza
sembrava non passare e continuava a sbadigliare vistosamente.
La morte lo colse
fulminea durante uno di questi sbadigli, una mano gli calò sulla bocca e
un’altra gli recise la gola servendosi di un pugnale affilato.
L’assassino,
vestito interamente di nero e con in testa una sorta ti passamontagna, lasciò
scivolare accompagnò il corpo a terra per evitare che facesse rumore, e
trascinatolo fuori dal cerchio di luce si dileguò in tutta fretta.
Percorse
velocemente il ballatoio, poi, con un salto acrobatico, raggiunse il tetto del
casotto di comando, infilandosi al suo interno tramite una finestra socchiusa
che lo fece finire in un corridoio del secondo piano.
Stava per
riprendere a camminare, ma quando udì uno scalpiccio alle sue spalle spiccò un
secondo salto, raggiungendo il soffitto, e allargando braccia e gambe si
aggrappò alle pareti. Qualche istante dopo una guardia sopraggiunse dalle scale
per il proprio turno di ronda, e appena gli fu sotto gli saltò addosso,
sgozzandolo prima che potesse dare l’allarme.
Senza più nessuno
ad ostacolarlo raggiunse l’ultima porta a sinistra, ed apertala con il massimo
silenzio entrò nella piccola stanza dove Isnark si stava riposando dalle
fatiche di quella lunga quando sconvolgente giornata.
Il caminetto era
acceso, le finestre chiuse col catenaccio e sul tavolino al centro facevano
bella mostra di sé gli avanzi di una cena frugale, a base di cereali e carne
secca.
L’assassino,
facendo attenzione che le assi del pavimento non scricchiolassero, rivelando
così la sua presenza, si avvicinò al letto, e sguainato nuovamente il pugnale
che portava alla cintura lo alzò pronto a colpire.
Fu uno spiffero di
vento freddo passato da una fessura della finestra a tradirlo; Isnark,
avvertendolo, aprì gli occhi, e prima ancora di aver ben chiaro cosa stesse
succedendo si buttò giù dal letto proprio mentre il pugnale calava su di lui.
Il colpo però non andò del tutto a vuoto, procurandogli una leggera ferita sul
braccio.
Stava per
rialzarsi, ma all’improvviso si sentì pervaso da una sensazione terribile, un
misto di dolore e spossatezza; la testa gli faceva male, la vista si appannava
e gli fischiavano le orecchie.
Cercando di
combattere l’effetto di quello che sapeva essere l’anestetico di cui era
imbevuta la lama del pugnale si mise in piedi, ma le sue gambe erano come
addormentate e lui rovinò sul tavolino, che ribaltandosi produsse un gran
baccano.
L’aggressore
ripose dunque la sua arma, e messa una mano al braccialetto d’osso che portava
al polso sinistro ne cavò fuori un sottilissimo filo di acciaio che, messo
Isnark in ginocchio, gli serrò attorno al collo.
L’elfo cercò di
ribellarsi, di allontanarlo, ma l’effetto della droga era terribilmente rapido
e gli faceva perdere via via il controllo di ogni parte del corpo.
Isnark era quasi
allo stremo, stava per emettere il suo ultimo soffio di vita, quando
l’assassino emise d’improvviso un gemito di dolore, soffocato dal bavero che
indossava, e subito dopo lasciò andare la sua vittima, che cadde a terra quasi
soffocato, ma vivo.
Facendo appello
alle sue ultime energie, mentre cercava di riprendere fiato, l’elfo si girò, e
nel momento in cui vide il suo vecchio amico che ritirava la propria spada
dalla carne dell’assalitore morto con la determinazione e l’ardore di sempre
stampati nello sguardo pensò ad un delirio dovuto alla droga, soprattutto in
virtù di quello che si erano detti solo poche ore prima.
«Lo sai, ci ho
ripensato.» gli disse Regis aiutandolo a rialzarsi «Forse prendere Lainay a
calci nel culo non è poi un’idea così malvagia».
Non appena Isnark si fu riavuto completamente dal
tentativo di omicidio venne indetta una riunione di emergenza nella piccola
sala da pranzo del casotto a cui presero parte tutti gli uomini più influenti
della guarnigione, dagli ufficiali dei reggimenti giunti durante la notte ai
capi dei villaggi del nord sfuggiti ai massacri.
L’ultimo ad
arrivare fu Benagi, che in quel momento era al comando della sorveglianza
notturna.
«Comandante!»
disse entrando tutto trafelato nella stanza «State bene?»
«Sì, tranquillo. È
tutto a posto.»
«Mi dispiace
terribilmente. Non ci siamo accorti di nulla. Per colpa mia stavano per
uccidervi.»
«Non angustiarti,
amico mio. Sono ben altri i problemi a cui dobbiamo pensare in questo momento.»
«Dici bene.»
replicò Regis appoggiandosi al tavolo «Questo attacco dimostra che Normar ha
intenzione di chiudere la questione il più rapidamente possibile.»
«Pensate che
l’ordine sia venuto direttamente da Lainay?» domandò uno dei capi
«No, non credo.»
rispose Isnark «Era una spia inesperta, forse alla sua prima missione. I cani
di cui si circonda la regina sono ben più pericolosi.»
«Credo venisse
dall’accampamento nella valle.» ipotizzò l’umano «Probabilmente era al seguito
del comandante di quel reggimento.»
«Ma dalle
informazioni in nostro possesso a guidare quel campo è un luogotenente.» disse
Benagi «E una spia può operare solo su ordine degli alti ufficiali.»
«Forse il nostro
amico voleva fare bella figura sistemando la questione per conto suo.»
«E adesso cosa
succederà?».
Fu una domanda che
si posero tutti i presenti, ma a cui nessuno sembrava poter dare una risposta;
ancora una volta, fu Regis a venire in loro aiuto.
«Dipende. Quando
si tratta di commettere un omicidio, alle spie viene sempre dato un tempo
massimo nel quale portare a termine l’incarico.»
«E se entro quel
tempo la spia non dà alcuna notizia di sé» proseguì Isnark «La missione è da
reputarsi fallita.»
«A questo punto,
tutto si gioca sul dubbio. Tenendo conto della distanza che ci separa dal loro
accampamento e dell’ora in cui è avvenuta l’aggressione, il nostro
sottufficiale avrà sicuramente capito che il suo bel tentativo è finito con un
penoso buco nell’acqua. Questo forse può resistere ad un assalto?»
«Non se di vaste
proporzioni».
Regis ci pensò un
momento.
«Il problema è che non possiamo sapere se
questo lo porterà ad essere più prudente o se invece deciderà per un attacco
immediato».
In quello stesso
istante, dall’esterno giunse un suono sordo e prolungato; il suono di un corno,
che si ripeté per tre volte, seguito subito dopo da un sovrapporsi di grida
concitate.
«Come non detto.»
«Presto!» gridò
Benagi «Tutti ai posti di combattimento!».
Regis e Isnark
recuperarono ognuno le proprie armi e uscirono a loro volta nel cortile.
Cominciava ad
albeggiare, ma faceva ancora molto freddo, e una nebbiolina leggera oscurava in
parte la vista.
Da oltre le mura
giungevano forti e chiare le urla dei soldati di Normar che si preparavano a
dare l’assalto al forte, ultimo baluardo di Uruk contro l’invasore straniero.
«Donne e bambini
nello scantinato!» urlò l’elfo «Arcieri sulle mura, pronti alla battaglia!»
«Io vado a
sinistra.»
«Bene, io a
destra».
I due amici
salirono dunque sulle mura sui due lati del portone a nord, gettando gli
sguardi sul terreno antistante al forte.
L’esercito di elfi
che sbucava dalla boscaglia pronto allo scontro doveva essere composto da due
battaglioni scarsi, otto o novecento unità al massimo.
«È ora che la
festa comincia.» disse Benagi sguainando la spada «Venite avanti, bastardi di
Normar. Vi aspettiamo».
Non dovettero
aspettare poi molto, perché appena il comandante del reggimento dette l’ordine
i soldati nemici cominciarono a correre verso le mura portando scale e corde
con cui scalarle; urlavano come pazzi, facendo sbattere le armi mentre si
avvicinavano per incutere terrore, e ci riuscivano.
Isnark però ci
mise un secondo a riportare la disciplina fra i suoi uomini, che per la maggior
parte erano contadini ai quali erano stati insegnati in tutta fretta i
rudimenti della scherma e del tiro con l’arco.
«Non fatevi
spaventare! Tendere gli archi!».
Da bravi strateghi
lui e Regis aspettarono che i nemici fossero ammassati sotto le mura prima di
dare l’ordine di scoccare, ed infatti la pioggia di frecce che si abbatté su di
loro ne fece scempio, molto più che non tirando a casaccio per tutta la radura.
Questo però non
spaventò i soldati di Normar, che protetti dai loro arcieri cominciarono ad
issare le scale e a lanciare i rampini contro le merlature. A quel punto
entrarono in azione i lancieri di Uruk, che con le loro aste, oltre a usarle
per buttare di sotto pietre e covoni infuocati, ribaltavano le scale,
aspettando magari che qualcuno ci fosse sopra, in modo da essere sicuri che
l’effetto leva la ribaltasse del tutto, arrivando magari a spezzarla. I rampini
invece venivano tranciati, ma trattandosi di corde di canapa incatramata
occorreva molta forza per riuscire a spezzarli, e intanto continuavano ad
arrivarne.
«Non abbattete le
scale!» gridò Regis «Recuperatele!».
In effetti, era
una buona idea.
Se invece di
ribaltare le scale d’assalto le si recuperava, mettendole al sicuro all’interno,
non solo i nemici non potevano riutilizzarle, ma proprio non le avevano più.
L’inferno di
frecce e fuoco durò parecchi minuti, e per un attimo sembrò che il forte
potesse resistere, ma alla fine qualcuno riuscì a salire sulle mura dal lato
sotto il controllo di Isnark, creando una testa di ponte che permise al resto
degli assedianti di entrare.
«Dannazione,
breccia nelle mura!» urlò l’elfo accorgendosi di quanto successo.
Regis fece per
andare il suo soccorso, quando, gettato un occhio alla spianata, vide uscire
dalla boscaglia un enorme marchingegno simile ad una capanna mobile con otto
ruote e un grosso tronco d’albero che spuntava da una fessura.
«Ariete!».
L’arrivo di quella
macchina da guerra gettò gli inesperti soldati di Uruk nel panico, e quando il
portone venne divelto e videro gli uomini di Normar fare irruzione nel forte
molti di loro diedero segno di voler scappare.
«Non arretrate!»
continuava a gridare Isnark «Formazione difensiva!».
Anche se
spaventati e confusi, i soldati alla fine obbedirono agli ordini del loro
comandante e ingaggiarono battaglia coi nemici.
Isnark, Regis e
Benagi combattevano davanti a tutti, proteggendosi vicendevolmente le spalle e
dando prova delle loro grandi abilità.
Benagi aveva la
stazza e la forza di un orso, sollevava gli avversari per poi lanciarli contro
il mucchio di avversari, e a molti bastava vederlo per darsela a gambe.
Dietro la spinta
dei tre l’esercito di Uruk cominciò timidamente a reagire, fino a che tutta la
rabbia e la voglia di rivalsa di quegli uomini a cui tutto era stato portato
via produssero l’effetto di una bomba, e dietro la loro spinta inesorabile alla
fine, incredibilmente, e per la prima volta a memoria d’elfo, i soldati di
Normar presero a indietreggiare, per poi fuggire definitivamente in direzione
della valle.
Molti vollero
esultare, ma non era ancora finita.
«Approfittiamone
finché sono in rotta!» disse Isnark balzando a cavallo «Staniamoli e distruggiamoli!».
Galvanizzati e
sovraeccitati dallo scontro gli elfi di Uruk si misero all’inseguimento dei
fuggitivi attraverso la foresta, fino a raggiungere il loro accampamento,
situato tutto attorno alle rovine di quello che un tempo era stato un fortino
di pietra.
Era un campo
piuttosto piccolo, circondato da un fossato e una palizzata a puntaspilli.
Appena vide
arrivare le truppe nemiche il luogotenente di Normar, che già ai primi segnali
di pericolo aveva abbandonato in tutta fretta l’assalto al forte, diede ordine
di sollevare immediatamente il ponte levatoio, incurante del fatto che molti
suoi uomini fossero ancora all’esterno.
L’ordine,
nonostante ciò, venne immediatamente eseguito, ma ciò non fu sufficiente a
fermare Regis, che ordinò di portarsi immediatamente al ponte.
«Ma il ponte è
chiuso!» disse Benagi
«Aspetta e
vedrai!».
Con una
formidabile rincorsa, ed un ancor più formidabile balzo del suo cavallo, il
guerriero riuscì ad oltrepassare il puntaspilli e ad entrare nell’accampamento.
Facendosi largo a
colpi di spada fra i nemici inebetiti e disorientati raggiunse l’argano che
azionava il ponte levatoio, e appena ne recise la corda di sostegno la
passerella andò giù come un macigno, spianando la strada alle forze di Uruk,
che diedero immediatamente l’assalto urlando a squarciagola.
Per gli uomini di
Normar, quella che doveva essere una campagna da poco si trasformò in una
strage; a centinaia caddero, intrappolati nel loro stesso accampamento, e molto
pochi furono quelli che riuscirono a scappare.
Nel mezzo dello
scontro, quando ancora si combatteva, un soldato di Uruk si arrampicò lungo i
resti della torre centrale del vecchio forte, e con la sua ascia da guerra
abbatté in un sol colpo la bandiera che vi sventolava in cima, raffigurante il
giglio bianco di Normar su di uno sfondo verde.
Un gesto che,
tanto per i vinti quanto per i vincitori, significò molto, sia sul piano morale
che sulle aspettative per il futuro, e che venne accolto con le acclamazioni di
gioia dei ribelli, che finalmente potevano considerare la vittoria e la libertà
come qualcosa di più che sogni irrealizzabili.
Poco dopo questo
fatto gli ultimi soldati di Normar scapparono in tutta fretta, senza il loro
comandante, che per voler fingere di fare il morto nella sua tenda alla fine lo
era diventato per davvero, e a mezzogiorno il valico fra le montagne era di
nuovo in mano a Uruk.
Regis, che nella
battaglia aveva dato tutto di sé, era seduto su di un muretto nell’accampamento
conquistato, con la fronte appoggiata all’elsa della spada, puntata a terra,
quando Isnark e Benagi gli si avvicinarono; si girò a guardarli.
«Una grande
vittoria.» disse Isnark «Ed il merito è tuo.»
«No, Isnark. È
tuo. Ci hai creduto fino alla fine, e alla fine questo ha fatto la differenza».
L’elfo sorrise,
allungando il braccio; Regis lo afferrò e venne aiutato ad alzarsi.
«Benagi.»
«Comandante?»
«Che tutta Uruk lo
sappia. Che sappia che Normar ha subito la sua prima sconfitta.»
«Aspetta.» disse
Regis «Non diamo false speranze. Questi erano soldati allo sbando comandati da
un incompetente. Con gli Immortali sarebbe stata tutta un’altra storia.»
«Forse, ma questa
notizia porterà nuovo ardore negli animi di tutti coloro che combattono per
liberare questa regione. Il nord è ancora completamente in mano a Lainay, e
avremo bisogno di tutto l’aiuto possibile per liberarlo».
Regis si guardò un
momento attorno, osservando la desolazione e lo spettacolo di morte che
dominava incontrastato in ogni direzione, poi si volse nuovamente a guardare i
due elfi.
«Come dice il
famoso proverbio, è molto più difficile difendere che attaccare. Quando
apprenderanno di questa sconfitta i comandanti di Normar muoveranno verso la
valle. Se restiamo qui, siamo carne da macello.»
«In tal caso.» rispose
Benagi facendo l’occhiolino «Vorrà dire che gli andremo incontro.»
«Se dobbiamo
muovere bisognerà farlo in fretta, prima che ci siano addosso.» disse Isnark
«Conosco la mia
terra molto meglio di loro. Posso suggerire strade e itinerari poco conosciuti
in cui potremo sfruttare l’elemento sorpresa, e ora che la valle è in mano
nostra possiamo farvi transitare liberamente le nostre truppe. Dobbiamo solo
riuscire a liberare la strada dall’altra parte fino a raggiungere la capitale.
Una volta che l’avremo riconquistata, non ci sarà più spazio per Normar in
questa regione.»
«Tu che ne pensi,
Regis?».
L’umano assunse
un’espressione pensierosa; sembrava indeciso, sul punto di muovere
un’obiezione, ma poi rinfoderò la sua spada.
«Penso che
dovremmo andare a fargli un salutino».
L’affermazione fu
accolta con un sorriso di soddisfazione da entrambi gli elfi.
«E allora, in
marcia».
Immortali.
Chiunque sentisse
pronunciare il loro nome veniva istantaneamente colto da un terrore senza fine.
Servivano la
famiglia reale di Normar da millenni, e mai una volta avevano conosciuto la
sconfitta.
I migliori
rappresentanti della razza elfica, i più forti, i più veloci, i più spietati;
sceglievano spontaneamente di entrare in quello che sembrava più un ordine
religioso che un’armata, un ordine al quale, una volta divenutone parte, si
doveva un’obbedienza estrema, la stessa che era dovuta a sua maestà la regina.
Essere un
Immortale era molto più che essere un soldato; un Immortale portava su di sé il
peso della perfezione, doveva mostrarsi al mondo come un esempio da seguire, un
modello inarrivabile di forza, valore e fedeltà senza pari.
Per un Immortale,
tutto era secondario rispetto alla grandezza di Normar; la famiglia, la casa,
gli amici, erano cose senza valore, l’unica cosa che contava era la Patria, in nome della quale
si doveva essere pronti a dare anche la vita, senza alcuna esitazione.
L’addestramento a
cui venivano sottoposti, dopo essere passati per un accurato controllo medico
che comprovasse la loro assoluta purezza elfica, era più simile ad un lavaggio
del cervello, al termine del quale si poteva uccidere, bruciare, devastare
senza provare apparentemente alcuna emozione.
Il loro vessillo
rosso fuoco con un drago d’oro che dispiegava le ali faceva tremare qualsiasi
esercito, e una volta che caricavano ogni speranza di sopravvivere era perduta.
Il rosso era il
loro colore, perché rosse erano anche le tuniche che indossavano, sormontate da
sandali, bracciali e una corazza in cuoio bollito, che garantiva libertà di
movimento e una certa protezione senza appesantire; portavano anche un grande
rinforzo di metallo sulla spalla destra, per renderli assolutamente unici. Gli
ufficiali invece indossavano una tunica di un rosso più scuro, e le loro corazze
erano solitamente di metallo.
Attaccavano in
formazione chiusa, impugnando lunghe spade dai pomi d’oro e scudi esagonali,
con bordi affilati per segare arti e una borchia d’acciaio al centro per
frantumare ossa; combattevano in ogni circostanza, anche se feriti, mutilati o
morenti, sfondando gli scudi nemici coi pugni e spezzando le lance più solide
con le nude mani, e proprio per questo erano chiamati gli Immortali.
Si diceva che il
loro passaggio avesse lo stesso effetto di una carica di bufali, perché nulla
rimaneva dopo che avevano combattuto, neppure l’erba, che non ricresceva più.
Ciò che più
spaventava di quella massa di creature che non si poteva certamente definire
umane erano i loro occhi, privi di qualsiasi emozione, due sfere di vetro che
avevano un solo scopo: puntare la vittima.
A differenza delle
Spie, che ruotavano attorno alla regina Lainay, gli Immortali erano
tradizionalmente sotto il comando del Principe Reggente, il valoroso Chekaril.
Il suo acume
tattico e la sua abilità di generale erano divenuti leggenda non solo presso
gli elfi, ma anche fra gli umani, che temevano lui e la sua armata forse più
della regina stessa, che altri non era se non la sua sorella gemella; una cosa
di cui era al corrente, e che gli procurava una enorme soddisfazione.
Malgrado ciò, egli
era forse il più convinto sostenitore della superiorità del popolo elfico, e
ripeteva continuamente che era destino della sua razza quello di estendere il
proprio dominio su tutto il continente, un’idea questa condivisa con la regina,
anche se era difficile stabilire chi avesse condizionato chi.
Ciò che più lo
faceva infuriare era la resistenza che molte regioni opponevano alle truppe di
Normar; secondo lui equivaleva a rinnegare la propria razza, perché era a Normar
che, stando alle leggende, si erano insidiati i progenitori del popolo degli
elfi, da cui logicamente la famiglia reale diceva di discendere.
Perciò, contro
chiunque osasse levare la spada contro di lui, rispondeva con una crudeltà a
dir poco inaudita, resa ancor più spaventosa e inconcepibile dalle astuzie che
compiva per concludere vittoriosamente tutte le sue campagne.
Uruk era solo
l’ultima delle tante, e come ogni altra occasione Chekaril aveva voluto giocare
d’astuzia.
Mentre i ribelli
erano occupati a difendere la vallata, lui, al comando dei suoi Immortali, si
era servito degli esploratori locali arresisi a lui per scovare la strada più
breve che aggirasse le montagne, e nello spazio di pochi giorni era giunto in
vista del forte che sorgeva ai margini del passo.
La resistenza dei
ribelli fu valorosa, ma vana, e nel giro di poche ore vennero tutti sterminati
assieme agli innocenti che avevano avuto la sfortuna di trovarsi coinvolti
nella battaglia.
Solo due soldati
furono lasciati in vita, e condotti, feriti e incatenati, all’accampamento al
centro del valico, che nel frattempo Chekaril aveva provveduto a “liberare”,
trasformandolo nel suo quartier generale provvisorio.
Il principe era
nella tenda di comando, si era appena disfatto della sua armatura, che oltre
alla corazza si componeva anche di due larghi spallacci, quando uno dei suoi
soldati chiese di essere ricevuto.
«Mio signore.»
disse «Ti chiedo umilmente udienza».
Lui allora si girò
a guardarlo.
Era un giovane
bellissimo, dai tratti gentili, quasi femminei, ingentiliti da quei suoi occhi
di ametista e dai lunghi capelli paglierini che, protendendosi fino alla base
del collo, nascondevano in parte le orecchie.
La pelle era
candida come quella di un fanciullo, la bocca piccola, il naso solo leggermente
pronunciato.
«Parla.»
«Come hai
ordinato, abbiamo catturato dei ribelli.»
«Molto bene.
Portateli dentro.»
«Subito».
I due poveracci,
incatenati l’uno all’altro e quasi morenti, vennero letteralmente spinti nella
tenda e costretti ad inginocchiarsi davanti al comandante, che si sedette su di
una elegante seggiola dal lato opposto all’ingresso.
Per lunghi secondi
rimase in silenzio a guardarli, sfregandosi una ciocca di capelli con la mano
appoggiata sulla guancia; dal canto loro, i prigionieri erano spaventati dalla
sua vista, ma cercavano comunque di conservare la propria fierezza di elfi.
«Vediamo di venire
subito al punto.» disse ad un certo punto «Voglio sapere chi sono i capi della
rivolta, e se sono vivi o morti. Ditemelo, e vi lascerò andare seduta stante.»
«Non sperare in
alcun tipo di collaborazione da parte nostra.» rispose uno dei due «Uccidici se
vuoi, non ti diremo niente!»
«Ma davvero?»
«Questa terra è
nostra, non avete il diritto di stare qui!» gridò l’altro
«La terra è di chi
ha la forza e l’autorità per prendersela. Sono i fatti a determinare il corso
della storia, non le parole. Dove sono i capi?»
«Ti abbiamo già
detto che non ti diremo niente!».
Rowan, il suo uomo
di fiducia, un immortale alto e magro dai lunghi capelli bianchi, punì quella
mancanza di rispetto con una tremenda bastonata che quasi ruppe la spina
dorsale al prigioniero.
«Quanto siete
testardi. Lo volete capire o no che questa è una causa persa. Abbiamo spazzato
via il vostro ridicolo forte in men che non si dica. Anche presupponendo che i
vostri capi siano sopravvissuti, cosa potrebbero mai fare?»
«Sei troppo
fiducioso. Io ti do la mia parola, che prima della prossima luna piena tu
andrai a far compagnia ai nostri compagni nell’aldilà».
In quella, un
altro Immortale entrò nella tenda, tutto trafelato e in preda all’agitazione;
avvicinatosi a Rowan, gli sussurrò qualcosa nell’orecchio che lo fece
sobbalzare.
«Ne sei sicuro!?»
«Che succede?»
domandò Chekaril non senza preoccupazione
«Mio signore…»
disse Rowan esitante, mordendosi le labbra «Pare che la prima e la seconda
divisione inviate a sud in ricognizione siano entrate in contatto con un
nutrito esercito di miliziani proveniente dalla zona del fiume.»
«Miliziani!?»
«E… non è tutto.»
«Che altro c’è?»
«Abbiamo appena
ricevuto notizia dai nostri esploratori che alcune roccaforti su al nord sono
state attaccate dai ribelli.»
«Che cosa!?» tuonò
il principe alzandosi dalla sua sedia «Come è possibile!? Avevo lasciato le
roccaforti del nord in mano ad ufficiali esperti!»
«Sembra che molti
villaggi del nord si siano ribellati, aumentando le fila dei nostri nemici.
E inoltre… beh…»
«Beh cosa!?
Parla!»
«Sembra che il
capo della rivolta sia Isnark».
Nel sentire quel
nome Chekaril sembrò accendersi come il fuoco, ogni traccia di bellezza
presente in lui sparì tutta in un colpo.
«Ancora lui!
Dannato bastardo!»
«Pare inoltre… che
a guidare i ribelli ci sia anche quell’umano, quello di cui parlano tutti. Regis.»
«Dannazione. Ci
mancava solo questa.»
«Che ti avevo
detto?» disse il solito prigioniero «Il valoroso Isnark e l’eroe degli umani
sono entrambi tuoi nemici, e combattono per liberare Uruk. Paragonato a loro,
tu non vali assolutamente niente».
Chekaril li guardò
come se volesse incenerirli, poi fece un cenno ai suoi uomini.
«Uccideteli.»
«Raccomandati agli
dèi, maledetto!» urlarono mentre venivano trascinati via «Non vincerai questa
volta! Uruk sarà libera, e il male che hai fatto ricadrà sulle tue spalle!».
Le loro grida poco
dopo vennero stroncate, lasciando il principe immerso in un preoccupante
silenzio. Rowan lo seguiva con lo sguardo mentre camminava su e giù per la
tenda.
«Volevano far
transitare di qua le loro truppe per dare l’assalto alla capitale. Non c’è
altra spiegazione.»
«Quali sono i tuoi
ordini, mio signore?».
Chekaril rimase
qualche altro istante in meditazione, come indeciso sul da farsi, poi però
tornò ad ostentare il suo sguardo sicuro.
«La prima e la
seconda armata hanno respinto il nemico?»
«Solo in parte. Si
sono ritirati quasi subito, disperdendosi nei boschi.»
«Manda un
messaggero. Ordina loro di ritirarsi in questo accampamento e di mantenere la
posizione.»
«E riguardo a
noi?»
«Noi» rispose il
principe con uno sguardo di ghiaccio «Gli andiamo dietro.»
«Cosa!?» replicò
Rowan, che per la prima volta osò obiettare una decisione del suo comandante
«Ma… mio signore. Al nord ci sono tutte le nostre truppe. Ora che abbiamo
tagliato la strada ai loro rinforzi sono in trappola, e il sud è a nostra
disposizione. Possiamo chiudere la campagna in breve tempo.»
«Tu non conosci
Isnark come lo conosco io! Anche se fosse solo contro il mondo, quello
costituirebbe sempre un pericolo. Il suo proselitismo mi ha già creato
abbastanza problemi. È giunta l’ora di chiudere la questione una volta per
tutte.»
«E per
quell’umano, quel Regis?»
«Mh, Regis.»
replicò Chekaril quasi ridendo «È solo un umano. Anche se devo ammettere che è
un umano alquanto pericoloso. Occorrerà un certo tatto, ma non credo ci saranno
problemi.
Se vuoi sapere
come la penso, credo che la fama attorno al suo nome sia decisamente
esagerata.»
«E comunque,
nessuno può reggere il confronto con voi, mio signore.»
«Fai preparare gli
uomini. Partiremo il prima possibile.»
«Come ordini».
Rowan se ne andò,
lasciando solo il suo principe, che per qualche secondo restò immobile a
riflettere.
Quando però gli
tornò alla mente il nome di Isnark la furia lo colse nuovamente, e afferrata la
sua lunga picca da combattimento, soprannominata da molti “la mietitrice”, con
un solo colpo aprì a metà la seggiola di legno come fosse una mela.
Regnava una strana atmosfera tra gli undici dei dodici
alti ufficiali già riunitisi per partecipare alla riunione straordinaria dello Stato
Maggiore, un’atmosfera tesa e carica di incertezza.
Il Comandante
Alexander Ashford, comandante in capo dell’esercito
confederato, stava in piedi davanti alla grande vetrata con le mani dietro la
schiena, strofinandosi di tanto in tanto la sua barba grigia folta e ispida.
Gli altri
ufficiali erano già seduti attorno al tavolo ovale al centro della stanza,
ognuno con davanti la propria pulsantiera di comando
per poter avere il controllo dei numerosi apparecchi elettronici di cui veniva
fatto uso durante le riunioni, dai proiettori olografici alla potenza delle
lampade.
Fra tutti spiccava
la figura alta e imponente dell’Ammiraglio HanckDastan, comandante dell’Aeronautica Militare, anch’egli
uomo di grande talento piuttosto avanti con gli anni; la sua barba, a
differenza di quella del generale, era un po’ più corta, e unita a quei suoi occhi azzurro pastello gli conferiva una tipica
immagine da affettuoso nonnino.
Malgrado ciò, era
una persona che sapeva farsi rispettare, furba e guardinga non meno del suo
diretto superiore, ma con una storia personale tutt’altro che rosea, di cui
nessuno però aveva voglia di parlare, lui in primis.
Accanto
a lui, il tenente colonnello Samantha Sheppard,
comandante dell’ICP, la polizia militare, cinquantadue anni e una carriera
immacolata.
Venivano
poi il Generale Matthew Balwish, capo dell’esercito
regolare e delle truppe di terra, il Colonnello Joshua
Stanford, massima autorità del tribunale militare, il Capitano Jack Harwast, giovane e brillante capo del MilitarySorcerersDivision, l’MSD,
e il dottor William Baldwin, capo della divisione scientifica; a loro si
aggiungevano i responsabili di altre istituzioni minori e altri ufficiali che
svolgevano prevalentemente incarichi di ufficio.
Erano da poco
passate le otto e mezza quando le porte scorrevoli
della stanza si aprirono ed entrò qualcuno che, senza usare mezzi termini, lì
dentro non piaceva proprio a nessuno; il Generale Leonard Auber,
comandante dell’unità di crisi istituita subito dopo l’inizio della guerra
contro l’Imperatore che aveva il compito di soprintendere a tutte le questioni
più delicate in materia di sicurezza nazionale.
La divisa nera con
lustrini laminati d’oro rendeva palese la sua provenienza; prima di divenire
membro dello stato maggiore, il generale Auber era
stato il fondatore del BlackSoldiers,
un reparto scelto dell’esercito confederato che raggruppava alcuni fra i
migliori soldati delle forze armate.
Ciò che rendeva Auber inviso al resto dello Stato Maggiore erano
soprattutto le sue ideologie, che non si distaccavano poi molto dal modo di
pensare degli Iniziati.
Malgrado
sostenesse la necessità di proteggere i pianeti sotto attacco, non di rado
aveva accusato le alte sfere dell’esercito e della politica di codardia, di
lungaggini burocratiche prive di senso e assurdi temporeggiamenti che avevano
contribuito solamente a facilitare le conquiste; secondo lui, lo stato maggiore
e i senatori si accontentavano di vivere al sicuro delle barriere protettive
che difendevano i pianeti del dominio, senza rendersi conto che nel frattempo
il resto dell’universo moriva un po’ di più ogni giorno.
Era
stato proprio grazie all’appoggio di altri ufficiali di rango che la pensavano
come lui se era riuscito a scalare rapidamente la piramide del comando e ad
arrivare fino a lì, nella sala dello Stato Maggiore all’ultimo piano della
Marble Tower, la sede del Dipartimento della Difesa.
«Chiedo
scusa per il ritardo. Sono stato trattenuto.»
«Non si preoccupi, generale.» rispose il comandante.
Ashford si sedette al proprio posto.
«Molto
bene. Ora che ci siamo tutti, direi che possiamo cominciare. Ammiraglio Dastan, a Lei la parola».
L’ammiraglio
lavorò un attimo alla sua tastiera, le tende andarono giù e il proiettore si
attivò, creando una suggestiva quanto dettagliata
panoramica del dominio confederato e dei territori circostanti; alcuni pianeti
erano segnati in rosso, altri lampeggiavano, e vi erano un gran numero di
segnali vari per rendere più comprensibile la situazione generale.
«Come potete
vedere da questa proiezione, sembra che al momento la guerra contro
l’Imperatore sia giunta ad una fase di stallo.
Malgrado
le sue navi fossero riuscire a violare in due occasioni i nostri confini, il
contrattacco del nostro esercito alla fine li ha respinti. Subito dopo aver
perso la battaglia nel terzo quadrante, le flotte imperiali si sono ritirate da
tutte e tre le principali direttrici di sfondamento, e da allora non si
segnalano altri tentativi di invasione.
È probabile che
stiano cercando di riorganizzarsi, ma è solo questione di tempo prima che
decidano di attaccare di nuovo.»
«Qual è la stima
delle perdite?» domandò il generale Balwish
«In totale,
riconquistare il controllo dei confini ci è costato
sei navi e una stazione spaziale perimetrale. Altre due stazioni che si
trovavano in un tratto di galassia finito sotto attacco non rispondono alle
nostre comunicazioni, e ormai sono da considerare perdute.»
«Le vittime?»
domandò la Sheppard
«All’incirca ottocento
uomini. Oltre mille, se contiamo le due stazioni sopracitate».
Da anni gli uomini
dello Stato Maggiore erano abituati a simili cifre, ma per quanto i loro nervi
fossero allenati ogni volta era un colpo terribile.
Mille fra uomini e
donne che non sarebbero mai tornati, mille famiglie da avvisare, mogli, madri e
figli destinati a piangere per tutta la vita delle tombe vuote.
«Ammiraglio.»
disse il capitano Harwast «Ci sono notizie della
Independence?».
Dastan abbassò lo sguardo, sembrava si sforzasse di
mantenere il suo solito contegno.
«No, purtroppo.»
«E a questo punto»
intervenne Auber senza riserve «Non vi è ragione di
credere che ve ne saranno mai».
Tutti girarono lo
sguardo nella sua direzione; quell’uomo aveva un talento naturale per attirarsi
le antipatie altrui, e la cosa sembrava addirittura arrecargli soddisfazione.
«Sono passati due
mesi dall’ultima trasmissione dell’Independence. È da quando hanno lasciato
Nova Fronter che non hanno più dato notizie, e in
prossimità del buco nero che erano stati mandati a studiare sono stati
ritrovati segni evidenti di una battaglia.»
«Però» intervenne
Stanford «Non è stato ricevuto alcun segnale di Break Out.»
«La cosa non ha
rilevanza. Ho fatto eseguire un controllo dagli scienziati del mio gruppo di
ricerca personale. Pare che una nave di grandi dimensioni sia stata risucchiata
nel buco nero più o meno nel momento in cui la Independence ha
cessato le comunicazioni, e tutte persone presenti in questa stanza sanno bene
che la distorsione elettromagnetica può aver disturbato l’invio del segnale di Beak Out».
In molti
abbassarono la testa, constatando che effettivamente il discorso aveva un
senso.
«In effetti» disse
la Sheppart
«Questo spiegherebbe anche come mai il segnale della Independence sia
completamente sparito dai nostri radar. Il segnale di Break Out viene trasmesso
in una frazione di secondo subito prima della distruzione della nave, ma se il
campo elettromagnetico del buco ha interferito con la trasmissione allora tutto
avrebbe un senso.»
«Appunto.» riprese
il generale Auber «E quindi non vedo ragione per
continuare a porci questo problema».
A malincuore, il
Comandante Ashford dichiarò che la Independence era da
considerarsi distrutta, ordinando che ogni attività di ricerca venisse
immediatamente interrotta e il caso archiviato.
Vennero trattati
molti altri argomenti, tutti inerenti nel più e nel meno alla guerra in corso,
poi la parola fu ceduta alla divisione scientifica, in assoluto uno degli
interventi più attesi dell’intera seduta.
Scopo del dottor
Baldwin e del suo team di scienziati era lo sviluppo e la sperimentazione di
nuovi strumenti di guerra con cui contrastare efficacemente l’avanzata
dell’Imperatore, ma anche le mire espansionistiche dei Dark Lord dentro e fuori
il dominio confederato e i ripetuti atti terroristici di cui gli Iniziati,
malgrado le ripetute smentite, si rendevano partecipi.
In quel periodo,
ciò che maggiormente catalizzava verso di sé le speranze e le aspettative dello
Stato Maggiore era il Progetto Shiner, finalizzato
alla creazione di un nuovo tipo di dispositivo magico in grado di aumentare a
dismisura l’efficienza degli stregoni militari, in assoluto la punta di
diamante della confederazione e principale mezzo di contrasto a qualsiasi tipo
di minaccia.
Anni addietro,
ancora ai tempi delle prime esplorazioni spaziali, quando la Confederazione
contava a malapena quattro pianeti, una nave in ricognizione in una zona di
galassia ancora inesplorata si era imbattuta in un mondo disabitato, in cui
però erano visibili tracce del passaggio di un’antica quanto incredibile
civiltà.
Fra le cose che
era stato possibile riportare indietro c’erano degli strani monili simili a
pietre preziose, che, sottoposti ad accurati esami scientifici, avevano dato
prova di essere allo stesso tempo dei sofisticatissimi computer e dei
catalizzatori di potere magico che potevano sprigionare in quantità
stratosferiche, superiori a quelle di qualsiasi strumento magico conosciuto.
Nelle mani di uno
stregone esperto potevano trasformarsi in armi micidiali, aumentando a
dismisura le sue capacità e conferendogli poteri che andavano oltre a ogni
immaginazione.
Nel corso dei
secoli molti altri di questi dispositivi, ribattezzati Shiner,
vennero rinvenuti per tutta la galassia e anche oltre, e ogni volta il loro
ritrovamento coincideva con la scoperta di tracce del passaggio della medesima
civiltà, di cui ancora non si conosceva niente di preciso, ma della quale era
facile immaginare lo spaventoso livello tecnologico.
Fino a quel
momento ne erano stati trovati più di mille, decisamente troppo pochi per poter
contrastare lo sterminato esercito imperiale; la speranza dello stato maggiore
era di riuscire ad ottenerne un numero ben più elevato, e in assenza di altri
ritrovamenti l’unica soluzione era stata di provare ad emularli.
Purtroppo, per
quanto avanzato potesse essere, il livello conoscitivo della Confederazione era
decisamente troppo basso per aspirare ad un simile traguardo, ma era stato
comunque possibile, tramite un lungo e tedioso processo di sperimentazione,
realizzare dei dispositivi simili, i Gunster.
Esistevano due
tipi di Gunster, modelli Alfa e Beta, entrambi
destinati quasi esclusivamente ad incrementare la potenza delle armi da fuoco
ad alimentazione magica già ampiamente usati dalle forze armate, e per questo
utilizzabili anche da chi non possedeva alcuna cognizione di magia.
I Gunster di modello Alfa si avvalevano di un sistema di
cartucce; venivano caricate con una gran quantità di potere magico che poteva
venire usato in molteplici modi, sia come arma di difesa che come strumento di
attacco.
Le armi
equipaggiate coi modelli alfa potevano sparare normalmente, ma all’occorrenza
era possibile far confluire il potere delle cartucce all’interno del gunster per ottenere effetti più devastanti oppure, come
già detto, per creare delle barriere; infine, l’elementare intelligenza
artificiale installata nei dispositivi risultava capace di agire autonomamente
entro certi limiti, attuando soluzioni di emergenza in base alla situazione.
I modelli Beta
differivano dagli Alfa sia per la loro composizione che per l’utilizzo al quale
erano destinati.
Creati per
supportare principalmente le armi pesanti, come grossi fucili e cannoni d’assalto,
a differenza dei modelli alfa possedevano una propria energia magica che poteva
essere infusa al loro interno da uno stregone ed utilizzata come un vero e
proprio caricatore in grado di sprigionare attacchi molto efficaci, resi ancor
più devastanti se a maneggiarli era qualcuno con una discreta padronanza della
magia. A renderli diversi dai modelli alfa vi era anche e soprattutto il fatto
di non possedere un’intelligenza artificiale, poiché tale caratteristica era
stata sacrificata in favore della possibilità di incamerare e conservare potere
magico.
Malgrado tutto,
però, questi due deterrenti erano ancora ben lontani dall’essere considerati
dei veri Shiner, e pertanto la ricerca non aveva mai
smesso di proseguire, nella speranza di creare qualcosa che se non altro si
avvicinasse un po’ di più ai modelli originali.
«Professor
Baldwin, cosa ha da dire la divisione scientifica riguardo al Progetto Shiner?».
Il professore si
alzò dunque in piedi, non senza un certo nervosismo, e a sua volta proiettò
un’immagine olografica al centro del tavolo, raffigurante alcuni fra i primi shiner rivenuti dalla Confederazione.
«Come tutti
sapete, il Progetto Shiner aveva lo scopo di
realizzare dei nuovi dispositivi capaci di ricalcare da vicino le prestazioni
degli shiner originali rinvenuti su vari pianeti di
questa e altre galassie.
Fin da subito è
apparso chiaro che il maggiore ostacolo alla realizzazione dei nostri scopi era
lo sviluppo di un’intelligenza artificiale in grado non solo di supportare la
grande quantità di potere magico racchiuso all’interno dei dispositivi, ma
anche di incamerarla per proprio conto, acquisendola dalla fonte di energia
magica per eccellenza che è l’universo stesso.
Noi abbiamo sempre
pensato che fosse necessario lo sviluppo di una nuova generazione di computer
più potenti e sofisticati, ma i risultati degli ultimi studi condotti sugli shiner di Arkaman hanno messo in
luce una possibilità alternativa.»
«Una possibilità
alternativa?» domandò il capitano Harwast «Di che si
tratta?»
«Piuttosto che
sforzarci di realizzare intelligenze artificiali ulteriormente progredite,
potremmo decidere di lasciare questo argomento in secondo piano, sacrificando
la possibilità per i nostri shiner di interagire
direttamente coi propri partner umani in favore della capacità di assorbire
l’energia magica da utilizzare in battaglia, il che, al momento, credo
costituisca la nostra priorità.»
«Ma non si era
detto» intervenne il generale Balwish «Che l’energia
assorbita dagli shiner originali era impossibile da
assorbire per quelli sviluppati in laboratorio?»
«Sì, è vero. E
questo perché la quantità di memoria del computer non era sufficiente per
permettere il processo di lavorazione dell’energia indispensabile per far sì
che essa risulti utilizzabile dall’uomo. Ma è altresì vero che aumentando la
quantità di memoria a nostra disposizione questo diventerebbe tecnicamente
possibile. Stiamo lavorando su questa ipotesi, siamo a buon punto, e confidiamo
di ottenere risultati discreti in tempi rapidi.»
«È esattamente
quello che ha detto l’ultima volta, professore.» disse il generale Auber «E la volta prima ancora. È più di un anno che va’
avanti a ripetere di esserci vicino, e dopo tutto questo tempo non ha ancora
niente da mostrare.»
«Mi spiace doverlo
ammettere, ma il generale non ha tutti i torti.» commentò il comandante
«Il Progetto Shiner costa alla Confederazione quattro miliardi di kyrysall’anno» riprese Auber «E dopo quasi un decennio non ha portato ad alcun
risultato utile. Se volete sapere come la penso, quei soldi potrebbero essere
usati per scopi molto più concreti.
Potenziare gli
scudi delle navi, aumentare gli armamenti e la vastità della flotta, tutte
queste cose potrebbero aiutarci molto più di quanto non stia facendo la divisione
scientifica in questo momento».
Seguì un silenzio
preoccupante, accompagnato da voci sommesse e commenti che bene o male
convenivano, una volta tanto, con il pensiero del generale, e questo non era
certamente un buon segno per il dottor Baldwin che già a cominciava a sudare
freddo aspettandosi di essere messo alla porta da un momento all’altro senza
troppi complimenti.
Seguì uno scambio
di occhiate con l’ammiraglio Dastan, che proprio
quando il comandante sembrava sul punto di approvare la proposta di Auber prese nuovamente la parola.
«Col dovuto
rispetto, io non sono d’accordo.» disse con voce che sapeva da sentenza di
grazia, e subito tutti si girarono a guardarlo «Gli shiner
si sono rivelati in assoluto la nostra migliore arma non solo contro l’Imperatore,
ma anche contro gli Iniziati e i Dark Lord. Possiamo potenziare la nostra
flotta quanto vogliamo, ma fino a che non disporremo di strumenti ad alto
potenziale come gli shiner le sorti della guerra
saranno sempre incerte. La divisione scientifica ha già dato prova della
propria affidabilità potenziando ulteriormente i gunster
sviluppati dai nostri antenati e rendendoli più efficaci di quando non fossero
mai stati prima.
Dobbiamo capire
che questa è una ricerca tutt’altro che facile. La civiltà che ha creato gli shiner era infinitamente più avanzata della nostra, e
sperare di raggiungere il suo livello, o anche solo di avvicinarcisi, in così
poco tempo è pura follia.
Io ritengo che al
punto in cui siamo interrompere la ricerca porterebbe più danni che benefici;
non dimentichiamo che anche gli Iniziati stanno lavorando a questo progetto, e
a giudicare dai rapporti delle nostre spie sembra che siano molto vicini alla
soluzione, molto più di noi.
Non c’è bisogno
che vi dica cosa succederebbe se loro si ritrovassero a possedere una simile
tecnologia. Per usare un termine terrestre, ci lascerebbero in braghe di tela,
e gli equilibri del potere sarebbero compromessi».
Di nuovo ci fu
silenzio, ma a giudicare dall’espressione estremamente contrariata del generale
Auber era chiaro che le cose non stavano andando più
come avrebbe voluto.
«Bisogna
riconoscere che anche l’Ammiraglio non ha tutti i torti. Chi è d’accordo con
lui?».
I soli a non
alzare la mano furono lo stesso Auber e due ufficiali
minori, che tutti sapevano fare parte del suo seguito.
Ed ecco che, a
dispetto delle aspettative iniziali, il tono del comandante mutò drasticamente.
«In tal caso, il
nuovo finanziamento per il Progetto Shiner è
approvato».
Il dottor Baldwin
tirò il più lungo sospiro di sollievo della sua vita, l’Ammiraglio Dastan sorrise sotto i baffi e Auber
per poco non si mise ad urlare il proprio disappunto.
«La ringrazio,
comandante.»
«Aspetti a
ringraziarmi, dottore. Questa è la sua ultima occasione. Se tra sei mesi non
avrà ancora niente da mostrare, mi vedrò costretto a sospendere la ricerca.»
«Le do la mia
parola che entro tre mesi la ricerca raggiungerà un punto di svolta.»
«Molto bene.
Questa riunione è aggiornata».
Il colonnello Sheppard e il generale Balwish,
che non erano mai stati presenti in carne ed ossa, ma solo coi loro ologrammi,
scomparvero, gli altri ufficiali invece recuperarono ognuno le proprie cose e
lasciarono gradualmente la stanza alla spicciolata.
L’Ammiraglio Dastan fu uno degli ultimi, e mentre aspettava davanti agli
ascensori si sentì chiamare.
«Hanck. Hanck, aspetta».
Era il dottor
Baldwin, che riuscì a raggiungerlo giusto un secondo prima che le porte si
chiudessero.
«Ti devo
ringraziare.» gli disse appena l’ascensore cominciò a scendere «Mi hai davvero
salvato.»
«Figurati, non c’è
problema.»
«Se non era per
te, mi avrebbero dato il benservito. Ti devo un favore.»
«In tal caso,
potresti rendermelo anche subito. Avrei giusto bisogno che tu mi facessi un
servizio».
Quei due si
conoscevano da quasi vent’anni, e visto che l’ammiraglio aveva sovente tenuto
dei corsi di astrofisica all’accademia militare fra loro vi era un alto grado
di intesa.
«Ho già capito,
farò un controllo accurato sui dati relativi all’incidente dell’Independence.
Francamente trovo alquanto improbabile che il comandante Ross sia stata così
sprovveduta da farsi risucchiare da un buco nero.»
«Ti ringrazio, sei
un amico.»
«Ma ti pare. Per
qualsiasi cosa, chiedi pure».
In quella le porte
si riaprirono sulla hall dell’edificio, la fermata del dottore.
«Ti chiamerò
appena saprò qualcosa.»
«D’accordo. Buona
giornata.»
«Anche a te».
Hanck proseguì nella propria discesa fin negli sterminati
garage, e dopo soli pochi minuti una lussuosa limousine nera si fermò davanti a
lui; la guidava Paul, il suo giovane e fedele attendente.
«Buongiorno,
ammiraglio.» disse appena fu a bordo «Torniamo a casa?»
«No, passiamo
prima da Ashley.»
«Come desidera».
La MarbleTower
era un edificio talmente importante da disporre di una propria uscita
autostradale, e poco dopo aver lasciato i sotterranei la macchina si ritrovò
immediatamente a viaggiare sull’autostrada.
Boralis era davvero una città bellissima, la più bella
della galassia.
Dal centro cittadino, in cui torreggiavano
altissimi grattacieli, fra i quali la stessa Marble Tower
e la residenza del presidente, si estendeva una sterminata distesa di zona
urbanizzata con una superficie di diverse centinaia di chilometri quadrati, intervallata
qua e là da grandi spazi verdi e terminante, a est, con le sponde dell’Oceano
Orientale, il più grande del mondo per estensione.
Oltre alle strade
cittadine, larghe, pulite e ordinate, Boralis
disponeva di un complesso ed intricato sistema di sopraelevate di cui potevano
usufruire sia le macchine che i treni. Esisteva anche una monorotaia che girava
tutto attorno alla città, collegando le zone periferiche con gli affollati
quartieri centrali, in cui abbondavano luoghi di ritrovo e strutture di servizio
pubblico.
Ciò che rendeva Boralis una città magnifica, però, era il suo cielo,
azzurro e brillante come non se ne sarebbero mai visti.
Niente fumi ad
oscurare il sole, niente gas tossici ad avvelenare l’aria.
La politica della
Confederazione in materia di ambiente parlava chiaro: l’utilizzo di qualsiasi
combustibile inquinante costituiva reato federale, e per a chi violava la legge
veniva riservata la severissima accusa di attentato alla salute dello stato,
per la quale si rischiavano fino a venti anni di carcere duro.
Gli abitanti di Shinari, ma anche di tutti gli altri mondi che facevano
parte della Confederazione, erano consapevoli che il benessere poteva venire
solo dal vivere in armonia con la natura, e pertanto ogni cosa, a partire dallo
sviluppo urbanistico, era progettato per non arrecare alcun tipo di danno
ambientale.
Proprio per questo
a Boralis abbondavano parchi, arboreti e zone
ricreative; era quasi un rapporto simbiotico quello che univa le opere
dell’uomo alla natura, in cui nessuno dei due risultava costrittivo o
problematico per l’altro.
Ogni volta che
guardava la sua bella città, l’Ammiraglio non poteva fare a meno di provare una
sensazione di gioia e di appagamento, e ogni volta prometteva a sé stesso che
avrebbe fatto quanto era possibile per proteggerla da coloro che volevano
strapparle l’anima e il cuore.
Stava leggendo
alcuni documenti riguardanti lo stato di salute delle navi della flotta, quando
sul vetro divisorio che separava lo spazio del guidatore dai sedili posteriori
si aprì una finestrella virtuale su cui apparve il volto allegro di Catherine
Wilson, la sua segretaria personale.
«Mi scusi,
Ammiraglio. Il ministro degli affari interni chiede di parlare con Lei.»
«D’accordo,
passamelo».
Hanck ripose dunque i fogli nel fascicolo e tornò a
concentrarsi sul monitor proprio nel momento in cui vi compariva la figura
anziana del ministro Harlow.
«Buongiorno,
signor ministro.»
«Buongiorno a lei,
ammiraglio.»
«Cosa posso fare
per lei?»
«Volevo solo
avvisarla che domani mattina si terrà una riunione straordinaria del governo
per discutere in merito al nuovo finanziamento da destinare alle forze armate.»
«La ringrazio per
l’avvertimento».
Il ministro
sospirò, togliendosi i suoi buffi occhiali da vista.
«Ammiraglio,
glielo devo dire in tutta sincerità, non so quanto ancora riusciremo a portare
avanti questa storia. Il tasso di spesa dell’esercito è aumentato del 200% solo
negli ultimi tre anni, e per sopperire ai continui aumenti di spesa stiamo
prosciugando a poco a poco tutti i nostri depositi.
Quando questa
guerra finirà, sempre ammesso che finisca, rischieremmo di trovarci con un
bilancio da bollino rosso, e l’ultima cosa di cui abbiamo bisogno al momento è
una crisi economica.»
«Mi creda
ministro, lo so perfettamente. Purtroppo, questi sono i rischi che una guerra
comporta. Nell’ultimo periodo l’Imperatore ha arrestato la propria avanzata, ma
non possiamo prevedere quando le sue navi torneranno a minacciare i nostri
confini. Dobbiamo sfruttare questa occasione per riorganizzarci e rinforzare il
nostro esercito.»
«Questo lo so
bene, e anche il governo lo sa. Se tutto va’ secondo i piani, a breve dovrebbe
passare un disegno di legge che ci permetta di immettere nuova liquidità sul
mercato. Questo se non altro servirà a salvare la nostra economia, e a tenerci
a galla ancora per un po’.»
«Molto bene. La
ringrazio per quello che sta facendo per noi.»
«Si figuri, non
c’è problema. Buongiorno, e scusi se l’ho disturbata.»
«Nessun disturbo.
Buongiorno a Lei».
Dopo poco la
limousine uscì ad un casello dell’autostrada e si inoltrò in un tranquillo
quartiere residenziale alla periferia sud-occidentale della città, fermandosi
davanti ad una bella casa a due piani con giardino e muretto di cinta a metà di
una via stretta.
«Puoi andare,
Paul.» disse Hanck chiudendo la portiera «Prenditi
pure il resto della giornata.»
«E lei come farà,
signore?»
«Tornerò a piedi,
infondo è poca strada.»
«D’accordo. Buona
giornata».
Appena la macchina
scomparve dietro la curva l’ammiraglio varcò il cancelletto, fermandosi davanti
alla porta d’ingresso; esitò un momento, ma alla fine suonò il campanello, e
dopo poco venne ad aprirgli una ragazza bellissima di venticinque o ventisei
anni con lunghi capelli neri che appena lo vide gli buttò le braccia al collo.
«Ciao, papà».
Nord di Fiya
Cattedrale di Wisarmin
Sede dell’Accademia
Magica di Kalador
L’accademia magica di Kalador,
così chiamata in onore del suo fondatore, sorgeva su di una rocca che dominava
dall’alto il maestoso Lago Manderi; vi si poteva
accedere o tramite il sentiero che costeggiava le sponde o dal lungo ponte in
pietra che collegava fra di loro le due sponde del lago.
Essendo anche un
importante luogo di culto per il culto del dio Wisarmin
vi era sempre un continuo via vai di gente, soprattutto nella cattedrale, in
cui si tenevano una media di tre funzioni religiose al giorno.
Per lo stesso
motivo, gli insegnanti della scuola erano quasi tutti sacerdoti, ed il
personale che vi lavorava era composto per la grande maggioranza da chierici.
Oltre alla
cattedrale vi erano altri due edifici: i dormitori, in cui vi erano anche le
cucine e la sala mensa, e la scuola vera e propria, che occupava gran parte
della struttura, il tutto circondato da un muro di cinta a strapiombo sul lago.
Da molti anni, a
dirigere la scuola era Miss Ancynia, una maga
leggendaria che era stata, fra le altre cose, la precettrice di un gran numero
di principi e sovrani, fra i quali l’attuale famiglia reale.
Malgrado l’età
avanzata rimaneva comunque una donna la cui sola vista bastava a metterti in
soggezione, questo indipendentemente dal sorriso gentile che aveva abitualmente
caratterizzava la sua espressione.
Sakura era stata
una delle sue allieve predilette, e tutti sapevano che se avesse dovuto
scegliere un successore alla guida della scuola quella sarebbe stata
sicuramente lei.
Malgrado fosse
ancora solo una studentessa era dotata di un’abilità tale nel padroneggiare il
potere magico da spingere molti a ritenere che avesse sangue elfico nelle vene;
la sua bravura era così grande, così apparentemente inarrivabile, che il
sospetto era quasi legittimo, ma tenendo conto dei rapporti non proprio
amichevoli che regnavano in quel periodo tra uomini ed elfi la cosa poteva
nuocere alla sua immagine.
Aveva lasciato la
scuola per partecipare al torneo annuale che si teneva a Qerin, e al suo
ritorno aveva detto che sarebbe rimasta solo per un mese prima di fare
nuovamente ritorno alla capitale per imbarcarsi in un’impresa che, a suo dire,
l’avrebbe sicuramente tenuta lontana da Kalador per
moltissimo tempo, forse addirittura per un paio d’anni.
Nessuno sapeva bene
in che cosa consistesse quest’impresa, nessuno tranne la sua maestra, che
venuta a sapere la verità aveva consigliato essa stessa alla sua allieva di
partire, fugando gli ultimi dubbi che ancora si agitavano nella sua coscienza.
Una mattina, pochi
giorni prima dell’annunciata nuova partenza, Sakura, come al solito, aveva
cercato un po’ di quiete e di intimità nella cappella privata della scuola
nella quale erano ammessi solo gli studenti; seduta in terra a gambe
incrociate, con gli occhi chiusi e il volto basso, pregava in silenzio dinnanzi
alla statua del dio Wisarmin, raffigurato come un
giovane dai lunghi capelli con grandi ali angeliche e le braccia alzate al
cielo.
D’un tratto, il
tintinnio bel bastone a cui Miss Ancynia era
costretta a sorreggersi la fece trasalire, e aperti gli occhi vide la sua
maestra accanto a sé che la osservava sorridente.
«Sei in cerca di
risposte?».
Lei le rivolse uno
sguardo, poi tornò a concentrarsi sulla statua.
«Stavo meditando
sul futuro. Questo viaggio che sto per intraprendere è carico di mistero, ma
qualcosa in me mi dice che mi riserverà qualcosa di cui non potrei godere
neppure passando tutta la mia vita a studiare e ad esercitarmi.»
«Mia cara
figliola, ci sono cose che non si possono apprese con lo studio. Questo viaggio
di porterà molto lontano, verso frontiere altrimenti irraggiungibili.
Molti hanno
tentato di svelare il mistero che si cela dietro i sette gioielli e le bambole
meccaniche che sono stati all’origine dell’ultima guerra sacra, ma di tanti che
ho visto cimentarsi in quest’impresa tu sei la sola che secondo me può riuscire
veramente.»
«Vi ringrazio,
maestra».
Per qualche attimo
vi fu silenzio, e la vecchia Ancynia non poté fare a
meno di rievocare tanti ricordi che quel luogo e quella ragazza le facevano
tornare alla mente.
«È passato molto
tempo da quando tu e Regis vi esercitavate insieme.»
«Già.» rispose
Sakura accennando una risatina «Molto tempo.»
«Ho saputo che
sono lui e Isnark a guidare la ribellione di Uruk contro Normar. Sembra che
sotto la loro spinta, persino la potente Lainay stia
cominciando a vacillare.»
«Tipico di lui.
Non riescono a restare indifferenti alle brutture del mondo.»
«Non c’è che dire,
quel ragazzo ha un talento naturale per cacciarsi nei guai».
In quella, una
chierica dal lungo abito nero, sormontato da una mantellina bianca, entrò nella
cappella, chiamando a sé Miss Ancynia, alla quale
sussurrò poche parole all’orecchio che la fecero trasalire.
«È successo
qualcosa?» domandò Sakura vedendo la sua espressione improvvisamente incupita
«Notizie da Uruk. E purtroppo non sono buone.»
«Che notizie?»
chiese la ragazza con un’ansia che solitamente non faceva parte del suo modo
d’essere
«La reazione di Normar è stata più veloce del previsto. Il principe Chekaril ha riconquistato il valico che collega fra loro le
due parti della regione, intrappolando al nord i ribelli senza dar loro la
possibilità di ricevere l’appoggio dei loro alleati. Isnark
e Regis sono in trappola, e presto tutte le truppe dislocate a Uruk gli saranno addosso».
A quelle parole un
vento gelido attraversò la cappella, cine a preannunciare un oscuro presagio.
Regis e Isnark avevano davvero
sottovalutato la velocità di reazione di Normar.
Dopo aver condotto
alcune campagne vittoriose contro roccaforti occupate e aver liberato alcuni
villaggi, si erano improvvisamente trovati alle calcagna il principe Chekaril e i suoi Immortali, che oltretutto, riconquistando
il passo montano, avevano tolto loro ogni possibilità di ricevere aiuti dal
sud.
Così ora era il
gatto ad inseguire il cane, e i ribelli, dopo essere
stati sballottati da una piazzaforte all’altra per cercare di sfuggire ai loro
inseguitori, erano stati infine intrappolati ai margini di una pianura bassa ed
erbosa al confine nord-occidentale della regione con gli Immortali davanti a
loro e un’alta catena montuosa alle spalle.
Erano
ufficialmente in trappola, vittime di un’inferiorità numerica che diventava
sempre più accentuata man mano che i vari comandanti
delle truppe di invasione raggiungevano l’accampamento del principe con i loro
eserciti.
Eppure, malgrado
ciò, Chekaril esitava ad attaccare.
Dopo aver chiuso
ai suoi nemici ogni possibile via di fuga, dopo averli inseguiti per mezza Uruk stando solo un passo indietro, ora sembrava evitare lo
scontro, limitandosi piuttosto a costringere Regis e Isnark
all’interno del loro piccolo accampamento, isolati dal mondo.
La strategia del
principe, dopo poco, apparve chiara: voleva una resa
per fame.
Chekaril era un generale fin troppo prudente, non avrebbe
mai rischiato le vite dei suoi uomini senza che ce ne fosse un reale bisogno, ed in quel caso una battaglia campale era del tutto inutile;
armandosi di pazienza, poteva aspettare tranquillamente che i ribelli
esaurissero le loro scorte di cibo e acqua riducendosi alla fame. Alla peggio,
se anche questo non fosse stato sufficiente per farli arrendere, sarebbe
bastato poco per avere la meglio su un’accozzaglia di
elfi disorganizzati e devastati dalle privazioni.
Regis e Isnark erano consapevoli della gravità della loro
situazione, e ogni giorno che passava i loro uomini diventavano
sempre più preda della paura e dei morsi della fame, riducendosi non di rado a
fare cose che un elfo avrebbe reputato indegne e al limite della bestialità,
come bere dalle pozzanghere e mangiare topi.
Era la forza della
disperazione a tenerli uniti, tutti sapevano che al punto in cui erano arrivati
arrendersi non sarebbe stato sufficiente per avere salva la vita.
Poi però, giunse
un filo di speranza, e furono proprio gli invasori a portarla.
La mattina del
settimo giorno di assedio, quando ormai ogni speranza di uscire vivi da quella
situazione sembrava prossima a svanire, un esploratore inviato a sorvegliare il
campo di Normar chiese con insistenza di essere
ricevuto nella tenda di comando mentre era in corso una riunione fra Isnark, Regis e gli altri capi della rivolta.
«Nobile Isnark.» disse inginocchiandosi «Porto notizie importanti.»
«Di che si
tratta?»
«Al campo di Normar è arrivata pochi minuti fa la regina Lainay con il suo seguito.»
«La regina!?» disse un ufficiale «Che cosa è venuta a fare qui?»
«Non è ovvio?»
rispose Regis «A godersi la sua vittoria. Quella
sadica egocentrica vuole assaporare appieno il sapore della nostra disfatta, e
questo potrebbe giocare a nostro favore.»
Regis andò ad
affacciarsi dalla tenda, riuscendo a scorgere in lontananza lo sterminato
accampamento del principe Chekaril, situato sul lato
opposto della pianura.
«Chekaril vuole concludere questa
campagna senza sacrificare inutilmente le vite dei suoi uomini, per questo ci
sta prendendo per fame. Sua sorella Lainay però non
ha la sua pazienza.»
«Tu… dici che
attaccheranno!?»
«Poco
ma sicuro. Scommetto quello che vuoi che in questo preciso momento il nostro
principino si sta prendendo una sonora strigliata per
non aver ancora chiuso la questione».
La previsione di Regis era esatta; subito dopo aver
raggiunto l’accampamento di Normar
la regina Lainay aveva preso possesso della tenda di
comando piazzandovi dentro il suo trono da viaggio e relegando suo fratello nel
posto che aveva sempre occupato nella gerarchia famigliare, un gradino più in
basso.
Quella donna aveva in sé qualcosa di malevolo, la sua era una bellezza, per quanto disarmante, era quasi oscura,
non molto diversa da quella di un cobra che allarga il collo per incantare e
impressionare la sua preda prima di assalirla.
Aveva gli stessi
capelli biondi del principe, che le arrivavano a metà della schiena, gli stessi
occhi ametista che scintillavano come quelli di un
gatto e la stessa pelle candida; il suo modo di vestire era degno di una vera
regina, con una sfarzosa tunica bianca in pura seta ricamata d’oro stretta in
vita da una fascia alla quale era assicurato un ventaglio e un lungo mantello
di un viola molto scuro che copriva buona parte delle spalle e delle braccia
fin quasi ai gomiti.
Era impossibile
guardarla negli occhi senza sentirsi assoggettati o senza percepire un senso di impotenza, lo stesso Chekaril
evitava, per quanto possibile, di far incrociare i loro sguardi.
«Per quale motivo
questa campagna non è ancora giunta al termine?» domandò dall’alto del suo
trono d’oro tempestato di pietre preziose rivolta al fratello, il solo al quale
fosse concesso di non piegare il capo in sua presenza
«Abbi
pazienza, sorella. Lo sarà molto presto. I ribelli sono allo stremo, è solo questione di giorni prima che la fame li costringa ad
arrendersi.»
«E
tu vorresti una resa per fame? A volte mi domando come sia possibile che tu
possa essere mio fratello».
Chekaril si sentiva sempre molto irritato quando la sorella
metteva il naso nelle questioni della quale non sapeva
assolutamente nulla, e ogni volta si domandava cosa fosse a trattenerlo dal
ricacciarle in gola tutta la sua boria, se il fatto stesso di essere suo
fratello o il pensiero che lei, malgrado tutto, era pur sempre la regina.
«Non
è questione di cercare una resa per fame. Questa guerra ci è
già costata anche troppo, e al momento la nostra vittoria è praticamente certa.
Possiamo portare a termine la conquista di Uruk senza
spargere un’altra goccia di sangue, lasciando praticamente
intatto il nostro esercito.»
«Loro
hanno sfidato Normar. Loro hanno sfidato l’autorità
conferitaci dagli dèi. Il Tomo delle Origini parla chiaro, i sovrani di Normar discendono dai progenitori del nostro popolo. Non vi
deve essere alcuna pietà per coloro che rinnegano la
propria razza. Credevo che anche tu la pensassi così.»
«E
continuo a pensarlo. È proprio per questo che voglio ridurre al minimo le
nostre perdite in vista di nuove campagne. Un esercito segnato da delle
perdite, per quanto minime possano essere, non avrà
più la forza che aveva prima.»
«E non hai pensato
alle conseguenze che questa tua scelta potrebbe avere sulla nostra credibilità? Cosa si direbbe in giro se si venisse a sapere
che il valoroso principe Chekaril, il comandante
degli Immortali, il flagello del cielo, ha evitato la battaglia costringendo i
suoi nemici ad una resa per stenti?»
«Tu
mi hai mandato qui con l’ordine di conquistare questa terra, ed è quello che
sto facendo. Non mi sembra di aver mai tradito le tue aspettative.»
«Fino ad ora.»
rispose Lainay con un tono più incisivo e sibilante
di prima; quel continuo botta e risposta la stava chiaramente
spazientendo «La condotta dei tuoi ufficiali qui ad Uruk
non è stata proprio esemplare. Hanno permesso ad un
pugno di straccioni di metterli alle corde. Molti nostri
fratelli sono morti, e il nostro popolo chiede a gran voce il sangue dei
loro assassini. Vorresti forse tradire le aspettative
della nostra gente?».
Chekaril prese a camminare avanti e indietro passandosi una
mano sulla fronte; non sapeva più che cosa fare per far
ragionare sua sorella, era chiaro che quella faccenda le stava annebbiando la
ragione. In fin dei conti, quella era la prima volta che la sua campagna di
conquista incontrava una resistenza tanto agguerrita, e il minimo che potesse
fare per sentirsi appagata era schiacciare i ribelli come volgarissime
formiche.
«Sorella, Regis è
uno dei capi della rivolta.» disse nel disperato tentativo di farle capire
quanto delicata fosse la loro situazione «A prescindere dall’odio che nutrono
l’uno verso l’altro, presso tutti i regni umani lui è
considerato un eroe. Ucciderlo ci metterebbe contro l’intero continente».
A sentire quel
nome, Lainay sbottò in maniera inverosimile,
abbandonando per un istante quel suo contegno da regina che manteneva
costantemente in presenza del proprio seguito.
«Regis!
Regis! Dovunque vada non sento parlare che di lui! Che cosa può mai fare questo
Regis? È solo un uomo.»
«Lo so anche io che è solo un uomo. Chi sia non ha importanza, è
ciò che la sua stessa persona rappresenta per gli umani ciò di cui dobbiamo
tenere conto.»
«Da come ne parli»
disse Lainay con uno strano sorriso «Sembra quasi che
tu abbia paura di lui».
Punto sul vivo,
anche il principe dimenticò del tutto il protocollo lasciandosi andare al
richiamo del proprio orgoglio di soldato, ma soprattutto di elfo, e la cosa
sembrò fare molto piacere alla regina.
«Io
paura di quell’umano? Potrei schiacciare lui e quel bastardo di Isnark in qualsiasi momento!»
«E
allora qual è il problema? Sono lì, davanti a te, aspettano solo che tu vada a
prenderli».
Chekaril ringhiò come una belva; Lainay
sapeva colpire nei punti giusti.
«Rowan!»
«Generale?»
«Avverti
i comandanti e fai preparare gli uomini. Domattina combatteremo.»
«Sissignore».
Subito dopo che Rowan se ne fu andato Lainay
licenziò il suo seguito e i due fratelli rimasero soli; la regina si alzò
quindi dal suo trono, avvicinandosi a Chekaril che
rimase immobile. Si guardarono a lungo negl’occhi, poi
lei gli assestò un poderoso ceffone che persino per un soldato come lui risultò
molto doloroso, sia per il corpo che per lo spirito.
«Non osare mai più
contraddirmi davanti ai miei sudditi, mi sono spiegata?».
Lui fece cenno di
sì con la testa ma la guardò come si guarderebbe una
vipera velenosa.
«Sorella, tu non
sei cresciuta sui campi di battaglia, e non dovresti mai dimenticare chi di noi
due è il soldato.»
«E tu non dovresti
mai dimenticare chi di noi due è il re.» rispose lei
col medesimo tono provocatorio.
Chekaril non poteva sapere che pochi minuti prima un suo
finto servitore, con la scusa di averlo incidentalmente urtato, gli aveva in
realtà messo addosso un cristallo elementale dal quale
Isnark e gli altri capi della rivolta potevano udire
ogni singola parola di quella conversazione.
Per fortuna
l’energia insita nella gemma durò abbastanza da permettere di restare in
ascolto fino al termine della discussione.
«Non c’è dubbio»
commentò scherzosamente Regis «Il nostro principino si lascia provocare
facilmente.»
«E adesso cosa
facciamo?» domandò Benagi non senza preoccupazione
«Se avessero
aspettato fino a ridurci alla fame avrebbero avuto la vittoria in tasca.» disse
l’umano avvicinandosi al tavolo al centro e srotolando una carta della zona
«Combattere è l’unica speranza che ci rimane per uscirne vivi.»
«Ma come faremo a
tenergli testa?» domandò Isnark «La loro superiorità
numerica è schiacciante.»
«Ci
servono alleati. E ci servono subito.»
«Peccato che
abbiano tagliato la strada alle nostre truppe in arrivo dal sud.» commentò Benagi«Qui siamo ai confini delle
terre di Normar. Dove li andiamo a cercare questi
alleati?».
Regis ci pensò
qualche minuto, poi indicò una piccola regione a nord della loro posizione.
«Qui».
Isnark e Benagi guardarono, e per
un attimo pensarono che il loro amico stesse scherzando.
«Ma…» balbettò Isnark «È la regione degli Hashigar.»
«Sono alleati di Normar.» disse Benagi
«Solo per proteggersi
da una loro invasione.» replicò Regis «Ma sono elfi
valorosi, hanno i migliori arcieri e cavalieri che abbia mai visto. Coglieranno
subito la possibilità di liberarsi per sempre di Lainay,
se gliela offriremo.»
«Ma cosa ti fa
pensare che accetteranno di appoggiare questa nostra disperata resistenza?»
chiese Isnark
«Te
l’ho detto, sono elfi valorosi, fieri della loro indipendenza. Accetteranno,
vedrai».
Isnark sembrava indeciso, ma poi lui e Benagi
concordarono sul fatto che quella era l’unica soluzione concepibile per avere
una seppur minima speranza di vittoria, quindi la proposta fu approvata.
«Andrò io a
parlare con loro.» disse Regis «Partendo al calare del sole eviterò le
sentinelle, e con un po’ di fortuna potrei essere qui coi
rinforzi entro la mattinata».
Il resto della giornata trascorse nell’incertezza e
nell’attesa, poi finalmente il sole scomparve oltre le alture e una notte
chiara illuminata dalla luna cadde su quello che
sarebbe diventato presto il teatro dell’ultimo atto della resistenza di Uruk.
Regis indossò un
mantello da viaggio, si calò il cappuccio in testa quindi montò a cavallo; Benagi e Isnark erano insieme a lui.
«Fa attenzione.»
«Anche tu.»
rispose l’umano, e i due amici si strinsero vigorosamente le braccia
«Siamo in buone mani.»
«Tornerò il prima possibile. Voi intanto resistete».
Appena le porte
laterali si aprirono Regis partì subito a tutta velocità inerpicandosi fra le
rocce scoscese delle alture che delimitavano il confine della regione.
Alcune sentinelle
di Normar cercarono di sbarrargli la strada, ma vennero tutte messe fuori combattimento dalle doti di
arciere di Isnark che così facendo spianò la strada
all’amico permettendogli di continuare nella sua corsa senza dover rallentare.
Valicate le
montagne, Regis si ritrovò ad attraversare immense vallate coperte di verde,
luoghi magici che la luce della luna trasformava quasi in paesaggi da sogno, e
mentre l’aria fredda della notte gli tagliava il viso era
proprio in un sogno che il giovane guerriero aveva la sensazione di trovarsi.
Non avvertiva
nulla, non percepiva nulla, solo il vento freddo sulla pelle e l’odore di erba
selvatica.
Erano passati
molti anni dall’ultima volta che aveva viaggiato in solitudine attraverso
quelle terre sterminate, e aveva dimenticato quante strane sensazioni potevano
risvegliare in lui quelle piccole cose all’apparenza così banali.
Spronando il suo
cavallo fino a quando non fu esausto, raggiunse infine il villaggio degli elfi Hashigar, i guerrieri per eccellenza, forti e pericolosi,
tanto da indurre persino Normarad
escludere, almeno per il momento, la possibilità di invadere le loro terre.
Un Hashigar valeva cinque soldati sul campo di battaglia, e il
loro aiuto avrebbe davvero potuto fare la differenza nell’imminente scontro
finale fra il principe Chekaril e le truppe ribelli.
Ma
avrebbero accettato di unirsi alla causa di Uruk?
Regis aveva voluto
ostentare sicurezza per non rendere le aspettative dei
ribelli più fosche di quanto già non fossero, ma d’altra parte era consapevole
del fatto che avrebbe potuto dare loro false speranze.
Dopotutto, gli Hashigar avevano siglato tempo addietro con Lainay una tacita alleanza che li metteva al sicuro da
eventuali tentativi di invasione in cambio della
promessa di non interferire in alcun modo con la campagna di conquista operata
da Normar sulle altre regioni.
Proprio in virtù
della loro fierezza di popolo guerriero, però, molti Hashigar
non avevano mai potuto tollerare quella condizione di servile rassegnazione, e scalpitavano
per riprendersi la propria libertà, anche con la forza se necessario.
Il capo di quella
gente, Quarfus, nonostante le dimensioni imponenti e
quel grosso paio di baffi a dargli un aspetto alquanto minaccioso, era però un
elfo con la testa sulle spalle, e sapeva bene che gli Hashigar,
per quanto valorosi e bene addestrati, non potevano
nulla contro lo sterminato esercito di Normar.
Come imponeva il
protocollo elfico, appena giunto nel villaggio, fra gli sguardi diffidenti e
sospettosi degli abitanti, Regis si fece annunciare da un servitore, e dopo
qualche minuto che attendeva nella piazza gli fu detto
che poteva essere ricevuto.
Seguì dunque lo
stesso attendente fino a che non raggiunsero una casa in
legno più grande delle altre, ma comunque piuttosto povera, se paragonata alla
grandezza e alla sfarzosità che molti capi elfici riservavano alle loro dimore.
L’edificio, che
sorgeva sulla cima di una collinetta, era diviso in due parti; tramite un
ponticello di legno si accedeva alla sala del trono, una stanza lunga e stretta
con un grande foro sul soffitto per far uscire il fumo delle torce e due troni
di legno opposti all’ingresso sui quali sedevano il re
Quarfus e la sua regina, Sify,
un’elfa bella come il sole con lunghi capelli bianchi
color terra e grandi occhi blu oltremare.
Qualsiasi regnante
umano avrebbe trovato quella un’ora decisamente
inadatta ai ricevimenti, e come minimo avrebbe dato ordine di sbattere fuori il
responsabile dell’interruzione del suo sonno, ma gli elfi necessitavano
notoriamente di molte meno ore di riposo, e solitamente non si coricavano mai
prima della seconda o della terza ora dopo la mezzanotte.
Appena varcata la
soglia Regis si vide piantare addosso gli occhi del
re, della regina e di tutti gli elfi di rango presenti in quel momento nella
sala del trono.
«Mio signore.»
disse l’araldo che lo aveva accompagnato «Costui è Regis, del regno di…»
«So chi è.»
rispose il sovrano con la sua voce pacata ma incisiva
«L’eco delle sue imprese risuona da tempo in tutto il continente. Poterlo
incontrare di persona è un onore che non speravo un
giorno di poter avere. Che motivo ha il famoso Regis per spingersi fino ad una terra tanto lontana dalla sua?»
«Saggio re.» disse
lui togliendosi il cappuccio del mantello e piegando la testa «Ti chiedo umilmente di ascoltare le mie parole. Ho una
proposta da offrirti.»
«Parla
allora. Ti ascoltiamo tutti.»
«Come
forse saprai, Normar ha invaso poco tempo fa la
regione di Uruk. Gli abitanti si sono ribellati e
hanno creato un esercito, ma al momento sono in forte inferiorità numerica. Per
questo, chiedo umilmente al popolo degli Hashigar di
appoggiare la causa combattendo al nostro fianco».
Un coro di voci
sgomente si sollevò fra i guerrieri Hashigar che
presero a guardarsi fra di loro; erano voci
discordanti, perché se c’era chi diceva che quella era l’occasione propizia per
liberarsi per sempre di Lainay, d’altra parte c’era
anche chi sosteneva che quella di Uruk era una causa
persa, le cui sorti erano impossibili da ribaltare.
Anche il re
sembrava pensarla allo stesso modo, e non mancò di esternare le proprie
considerazioni.
«Il
mio popolo ha sempre intrattenuto rapporti di reciproca collaborazione con Normar e la ReginaLainay. Per quale motivo dovremmo
aiutarvi?»
«Perché
siete Hashigar. Dall’alba dei tempi siete vissuti
liberi, non c’è popolo che vada fiero della propria indipendenza più di voi.
Avete accettato di siglare un’alleanza con Lainay
perché sapevate di non potervi opporre a lei, ma noi ora vi stiamo offrendo una
possibilità. Sta a voi scegliere se coglierla o meno.»
«Eppure,
stando ai rapporti dei miei esploratori, pare che al momento la situazione dei
ribelli sia molto precaria. La superiorità di Normar
al momento è schiacciante sotto ogni aspetto, gli Immortali stessi prenderanno
parte alla battaglia decisiva. Cosa possiamo mai fare
noi contro una così grande minaccia?»
«È
vero, siamo in minoranza numerica, ma i ribelli di Uruk
hanno qualcosa dalla loro parte. Sono uomini disperati, che hanno perso tutto,
e che sanno che l’unica alternativa alla battaglia
sarebbe la morte. Per questo combatteranno, e voi che siete guerrieri valorosi
saprete sicuramente che non vi è forza che spinga un uomo a combattere con
tutte le sue energie più grande della disperazione.
Questa forza,
unita al vostro coraggio, può darci una speranza. Loro combattono per la sete
di potere di una singola persona, noi combattiamo per qualcosa che è molto più
grande.»
«E che cosa
sarebbe?» domandò la regina
«La
libertà.
Forse liberare Uruk non servirà a placare la malvagità di Lainay, ma costituirà comunque un precedente a cui tutti, in futuro, guarderanno con rispetto e con
rinnovata speranza.
È destino di ogni
tiranno morire dopo aver visto il suo impero sgretolarsi in mille pezzi, e io vi predico che un giorno o l’altro Lainay
crollerà sotto il peso del sangue che ha sparso fra il suo stesso popolo.
Aiutateci,
nobili Hashigar. Aiutateci a dimostrare a quella
pazza esaltata che questo continente non le appartiene».
Un silenzio
spaventoso invase la sala del trono, le voci cessarono e sembrò che in quella
stanza il tempo si fosse improvvisamente fermato.
Quarfus, alzatosi dal suo trono, scese lentamente dal
ballatoio e si portò faccia a faccia con Regis, che lo
guardò dritto negl’occhi, pur essendo almeno una spanna più basso di quell’elfo
gigantesco.
«Perché lo fai, giovane uomo? Non sei un membro della nostra stirpe,
questa vittoria non ti porterebbe alcun guadagno. Per che cosa combatti,
allora?»
«Io
ho scelto di combattere per ciò che ritenevo giusto. Questa è la sola ragione per cui mi trovo qui».
Di nuovo vi fu
silenzio, poi, all’improvviso, il portone si aprì, e come un fantasma della
notte comparve dinnanzi a tutti la figura del
venerabile Iorkin, il druido del villaggio, rinchiuso
nella sua lunga e tutta lacerata sopravveste bianca.
Era forse l’elfo
più vecchio di tutti i tempi; si diceva avesse superato i quattro millenni, e
per quanto i segni del tempo fossero quasi impercettibili negli elfi il suo
corpo era profondamente segnato dalla vecchiaia: aveva una postura leggermente
curva, e doveva sorreggersi al suo lungo bastone di faggio per
poter camminare; la barba, lunga e bianca, gli arrivava fin sotto il
torace, e lunghi erano anche i suoi capelli, appoggiati per gran parte sulle
spalle.
Nessuno conosceva
i misteri della natura e della vita più di lui; in gioventù era stato mastro
bibliotecario della grande biblioteca di Kyradon, la
città sacra degli elfi dell’est, e secondo alcuni era stato
l’unico essere vivente al mondo ad aver tradotto interamente il Tomo delle
Origini, il mitico testo scritto dagli dèi sul quale era raccontata la nascita
della vita, caduto in mano a Lainay quando Normar aveva occupato la città.
Era stato lo
stesso re Quarfus a farlo chiamare, perché nessun re
degli Hashigar aveva mai preso una qualsiasi
decisione, soprattutto in materia di guerra, senza prima
aver ascoltato il vaticinio che gli dèi pronunciavano attraverso la sua bocca.
Appena entrato
nella sala del trono, accompagnato da una bambina già designata come sua
discepola alla quale si sorreggeva con la mano libera, forse per riuscire a
muoversi con un po’ più di facilità, si era avvicinato
al sovrano salmodiando parole incomprensibili per chiunque, provenienti forse
proprio dal Tomo delle Origini.
«Venerabile
Iorkin, ti ho mandato a chiamare per chiederti
consiglio. Quest’uomo è venuto a proporci di combattere Normar
al fianco di Uruk. Cosa dicono
gli dèi in merito a tale questione?».
Lui allora sollevò
la testa, guardando verso Regis, al quale quello
sguardo penetrante mise un’incredibile agitazione, che a stento riusciva a
contenere; dopo poco il druido, senza proferire parola, si fece passare dalla
sua discepola un sacchetto in pelle d’orso: era pieno di ossa di animale, ossa
piccole e intagliate in forma di tessere, ognuna delle quali recava l’incisione
di due rune, una per ogni faccia.
Era il rituale del
Thormak, tramite il quale gli dèi esprimevano il loro
giudizio prevedendo il futuro di chi li invocava.
Funzionava in
questo modo.
Chi desiderava
interpellare gli dèi prendeva una tessera a caso dal contenitore, stando bene
attento a non guardarla, quindi tutte le altre venivano
lasciate cadere a terra; a seconda del disegno che andavano a formare e delle
rune rivolte verso l’alto si poteva interpretare il messaggio del cielo. A quel
punto, chi aveva estratto una tessera a sua volta la lasciava cadere nel
mucchio, e sempre a seconda di come e dove cadevano era
possibile prevedere il loro futuro.
Re Quarfus prese una tessera, ma poi, a sorpresa, il
venerabile Iorkin porse il sacchetto anche a Regis,
che lo guardò interdetto.
«Tu hai molte
domande da fare agli dèi.» disse la voce roca del vecchio druido «Ed essi
vogliono che tu parli con loro, perché hanno molto da dirti».
Il giovane
guerriero tentennò un momento, ma poi obbedì e raccolse a sua volta un osso,
quindi tutte le altre vennero immediatamente gettate a
terra, mentre fra i presenti tornava a dominare il silenzio.
Per i successivi
due minuti Iorkin rimase con lo sguardo piantato al
disegno descritto dalle tessere, perché prima di poter interrogare gli dèi sul
futuro del re e del suo ospite era necessario
conoscere con precisione il messaggio iniziale.
Era come leggere
una favola: impossibile comprenderne il succo se non se ne conosce l’inizio.
Quando venne il suo momento Quarfus
adagiò il braccio e lasciò cadere la propria tessera in mezzo al mucchio;
questa, dopo aver saltellato due volte, si fermò a ridosso di un’altra, e dato
che il responso veniva proprio dall’analizzare la tessera caduta assieme a
quella a lei più vicina non vi furono problemi di interpretazione.
Sull’osso lasciato
cadere dal re era riportata la runa rappresentante il
Dubbio, mentre quello accanto a lei simboleggiava il Dolore.
Il vaticinio degli
dèi era chiaro: scegliere se andare o meno in aiuto di
Uruk spettava unicamente ai mortali; le divinità non
avevano interesse ad intercedere nella questione o a favorire una delle due
alternative, ma a prescindere dalla decisione che si sarebbe presa, essa
sarebbe stata inevitabilmente collegata ad un’imminente e tragica morte.
Secondo una diceria degli elfi, il comandante che la notte
prima della battaglia dorme più a lungo è quello che il giorno dopo conquisterà
la vittoria.
Isnark si coricò un subito dopo la partenza di Regis
addormentandosi immediatamente; lo svegliarono, quasi a metà giornata, i corni
della battaglia provenienti dall’accampamento di Normar.
Rialzatosi, fece convocare Benagi e gli altri
comandanti per l’ultima riunione tattica.
Ogni cosa era
predisposta, ogni dettaglio al suo posto.
Regis non era
ancora tornato coi rinforzi, ma Isnark
non aveva alcun dubbio che la sua missione avrebbe avuto successo; nell’attesa
del suo arrivo si sarebbe proceduto con il piano prestabilito.
Al termine della
riunione rimase solo Benagi, che lo aiutò ad indossare la sua armatura, non mancando però di
manifestare i propri timori e le proprie incertezze per il futuro.
«La
loro superiorità numerica è schiacciante. Tre contro uno a piedi, sei contro uno a cavallo. Come possiamo sconfiggerli?»
«Noi non abbiamo
niente da perdere, amico mio. Ci aspetta solo la
morte. Gli uomini di Lainay hanno altre alternative».
Contemporaneamente, dall’altro capo dell’altopiano, anche Chekaril si stava preparando per la battaglia.
Aiutato da un
servo, indossò la tunica, la corazza, gli spallacci, i bracciali, quindi si
fece passare la sua mietitrice, accuratamente lucidata e pronta a ricevere
sulla sua lama di specchio il sangue di Isnark.
La regina Lainay,
alzatasi di buon’ora, era salita subito in cima alla torre fatta costruire
appositamente dai soldati nello spazio di poche ore al centro del campo;
accomodatasi sul suo trono, precedentemente issato per
mezzo di una corda, era pronta ad assistere alla vittoria finale, e già
pregustava il momento in cui avrebbe potuto camminare fra i cadaveri dei suoi
nemici dichiarando a piena voce la terra di Uruk come
sua ennesima conquista.
Accanto a lei Aevo, la sua dama di compagnia, la quale riservò uno
sguardo al principe Chekaril nel momento in cui lo
vide uscire dalla tenda.
Isnark restò a lungo a pregare dinnanzi
al piccolo altare che aveva costruito con le sue mani, rivolgendo preghiere
agli dèi della guerra e alle anime dei suoi antenati, e chiedendo a quanti
erano morti a causa di Lainay di infondere in lui e
nei suoi uomini tutta la loro rabbia e sete di giustizia, perché così facendo
sarebbero divenuti essi stessi parte della vittoria definitiva.
Uscito
all’esterno, trovò i suoi uomini già schierati e pronti per combattere quella
che molti credevano essere la loro ultima battaglia, e montato a cavallo
pronunciò un discorso destinato a trascendere il tempo, e a diventare leggenda.
«Miei
uomini!
Abitanti di questa
terra!
Avete combattuto
fino ad ora con grande coraggio, e l’eco delle vostre gesta risuonerà per tutti
i secoli dei secoli come un tuono fragoroso, l’ardore
che avete dimostrato sarà un lampo che illuminerà un futuro radioso per questa
terra martoriata, vittima dell’egoismo e della malvagità di una sovrana
assetata di potere.
Chiunque, nei
tempi a venire, ricorderà gli abitanti di Uruk,
penserà a loro come a un pugno di valorosi guerrieri che combatterono una
guerra impossibile per proteggere ciò che avevano di più caro, e per dimostrare
al mondo intero che neanche il più grande e spaventoso degli eserciti si può
opporre a chi combatte per una giusta causa.
Voi mi avete
concesso di guidarvi, di essere il vostro capo, e questo è un onore che neppure
un re potrebbe mai ottenere. Combattere al vostro fianco ha acceso in me una
scintilla di vita, una scintilla che credevo spenta da
anni. Avete dimostrato a me, ma soprattutto a voi stessi, che per quanto cupa
possa essere la notte, ad essa segue sempre il sorgere
di un nuovo giorno, e vi giuro che questo giorno resterà impresso nella memoria
del nostro popolo come il giorno in cui gli elfi hanno fatto sentire forte la
loro voce contro il tiranno usurpatore!
Soldati!
Difendiamo il
nostro futuro!
Difendiamo la
nostra libertà!
Difendiamo Uruk!».
Le urla assordanti
dei ribelli valicarono i confini dell’accampamento e raggiunsero l’orecchio di Lainay, che rise divertita.
«È incredibile
quanto il coraggio a volte rasenti la demenza».
L’esercito di Normar si dispose per primo sul campo di battaglia, e aveva
davvero delle dimensioni colossali.
In prima linea, al
centro, stavano i reparti regolari, disposti su tre file, armati di scudi
rotondi e spade corte.
Dietro di loro
c’erano gli Immortali, con le loro spade dai pomi dorati e i loro vessilli
rossi. Solo due battaglioni erano schierati, gli altri invece stavano più
indietro, sulla sommità della collina, fra le riserve, subito davanti a Chekaril.
L’ala sinistra era
occupata dalla cavalleria, per la maggior parte coscritti delle nazioni
sottomesse, soprattutto Ubii, elfi dalla lunga
tradizione cavalleresca in sella a possenti destrieri neri.
A destra stavano
due compagnie di lancieri, le cui armi lunghe erano ideali per contrastare
nemici pesantemente armati, e difatti Chekaril li
aveva piazzati proprio di fronte ai veterani di Uruk;
oltre alla lancia da battaglia erano armati con una spada, che portavano alla
cintura, e un piccolo scudo da mischia, assicurato invece dietro la schiena.
Dietro a tutti stavano gli arcieri, i terribili Cavari,
la stessa gente di Isnark, un tempo suoi fratelli,
ora schierati con il nemico dopo che la loro terra era stata occupata.
In tutto, nove
battaglioni pronti allo scontro, più cinque tenuti come riserve; tuttavia, malgrado la vastità di quell’esercito, le sue dimensioni
erano un po’ più esigue rispetto a quelle che Benagi
e Isnark si erano immaginati.
Le forze di Uruk si presentarono sul campo di battaglia pochi minuti
dopo; invece della formazione lineare, che costituiva notoriamente la tattica
preferita dal principe Chekaril, i ribelli avevano optato per la disposizione chiusa, a quadrato, atta a
sfruttare la forza della prima carica per aprire un varco nell’esercito nemico,
spezzandolo in due tronconi da affrontare separatamente.
Dei sei
battaglioni a disposizione di Isnark, due di questi
erano composti da soldati regolari, gli altri quattro
da contadini e coscritti; erano tutti armati di scudi, lance e spade, per la
maggior parte trafugati dalle armerie delle roccaforti conquistate o prese ai
cadaveri dei nemici uccisi, come del resto anche le parti di armatura che
alcuni ribelli indossavano.
Gli uomini che
stavano nelle ultime due linee di ogni quadrato avevano con sé anche un arco ed alcune frecce, ma si trattava per la grande maggioranza
di armi artigianali, costruite in tutta fretta, nulla quindi a che vedere con
gli archi dei Cavari, famosi per la loro potenza e
precisione.
Prima ancora che
gli eserciti fossero già completamente schierati, stormi di corvi cominciarono ad
ammassarsi sopra la radura, aspettando con impazienza l’inizio di un lauto
pasto e facendo riecheggiare nel primo sole del mattino i loro lugubri lamenti.
Entrambi gli
schieramenti erano arroccati sopra a delle alture, e in mezzo a loro c’era una
conca profonda circondata da collinette ma sostanzialmente pianeggiante.
In circostanze
normali una simile conformazione geografica avrebbe imposto una condotta
difensiva, ma se da una parte Isnarkera consapevole di non poter resistere ad un assalto diretto
Chekaril, girandosi verso l’accampamento, incontrava
sempre lo sguardo severo della sorella, nel quale leggeva un chiarissimo monito
a chiudere la questione lì e ora, senza inutili temporeggiamenti.
«Rowan.» disse al suo secondo, a cavallo affianco a lui
«Sì, generale?»
«Arcieri in prima
linea.»
«Sissignore».
L’ordine venne passato ai coordinatori, uno dei quali alzò un
vessillo verde con una freccia per ogni angolo, e a quel punto gli arcieri
uscirono dagli schieramenti.
«Ci siamo.» disse Isnark «Si comincia».
Benagi, che lo seguiva ad un paio
di passi, gli si accostò.
«Siamo pronti,
signore.»
«Molto
bene. Procedi come stabilito, e aspetta il mio segnale.»
«Sì, capitano».
A quell’ordine il
gigante buono girò il suo cavallo e tornò sui suoi passi, scomparendo dietro la
collina, come se stesse scappando; la cosa non sfuggì a Chekaril,
che però non sembrò preoccuparsene più di tanto, tanto che pochi istanti dopo diede ordine di iniziare la battaglia.
I ribelli fecero
sentire nuovamente la loro voce, gridando e facendo sbattere le loro armi,
mentre gli arcieri nemici tendevano gli archi.
«Scoccate!» gridò Rowan, e subito dopo il cielo si tinse del nero di
centinaia di frecce.
Isnark, che era abbastanza lontano, non se ne preoccupò, gli
uomini in prima linea invece subito si inginocchiarono,
nascondendosi sotto ai loro scudi.
Alcuni vennero feriti, altri caddero morti colpiti in punti vitali,
ma la maggior parte dei dardi vennero parati, e tornate allo scoperto le forze
di Uruk ripresero a gridare più forte di prima; poi,
al comando di Isnark, gli arcieri ribelli risposero
al fuoco tirando però con un’angolazione piuttosto marcata.
Chekaril dapprima non capì il motivo di tale scelta, ma
tutto gli parve subito chiaro nel momento in cui vide la raffica nemica
valicare la prima linea per abbattersi direttamente sugli Immortali, che privi
di uno scudo o di qualunque altra cosa con cui difendersi caddero a decine. I
suoi si accesero di rabbia.
«Bastardi!
Prima linea, avanti!».
I soldati
regolari, obbedendo all’ordine, si scagliarono all’attacco, e altrettanto
fecero pochi secondi dopo i battaglioni dei ribelli, uno solo dei quali rimase a difesa della collina al fianco di Isnark.
Le due armate
corsero l’una contro l’altra gridando a pieni polmoni; lo scontro avvenne quasi
al centro, e fu a dir poco spaventoso; alcuni caddero subito, altri vennero sbalzati in aria, altri ancora volarono l’uno sopra
l’altro.
Ne seguì una
battaglia spaventosa, in cui i ribelli dimostrarono una forza che nessuno
avrebbe mai immaginato, neppure lo stesso Isnark; combattevano con la forza della disperazione, sapendo di non
avere nulla da perdere, e proprio per questo la loro carica risultò devastante.
Nel frattempo Benagi, aggirando non visto l’intero campo di battaglia,
era giunto sul fianco destro dell’altopiano, ai margini di un boschetto, dove,
fra l’erba alta, trecento elfi mimetizzati attendevano il suo arrivo
schiacciati al suolo nel più assoluto silenzio; licenziato il suo cavallo, si
nascose a sua volta, scrutando continuamente il cielo in attesa del segnale
convenuto.
Le truppe di Uruk continuarono a premere con violenza, aprendosi sempre
più la strada verso il folto dello schieramento nemico, ma nonostante ciò la
cavalleria e i lancieri di Normar continuarono a
rimanere immobili, e la cosa destò non poche perplessità a Isnark,
che però sapeva di dover cogliere immediatamente quell’occasione o non ne
avrebbe più avuta un’altra.
I regolari del
principe caddero come fili d’erba, ma poi i ribelli andarono a scontrarsi
contro lo zoccolo duro costituito dagli immortali, che fin da subito si palesò
a loro come una barriera insormontabile di spade affilate.
Per dare ai suoi uomini un po’ di rinforzo, Isnark
ordinò di mandare avanti la cavalleria, comandata dal capitano Selarz, unico ufficiale di Uruk
assieme a Benagi sopravvissuto alla presa della
capitale. Chekaril rispose coi
la propria, riservandosi però di tenerne indietro una buona metà per un qualche
scopo che Isnark non riuscì a comprendere; forse
pensava che l’altra metà sarebbe stata più che sufficiente per ottenere la
vittoria.
Ancora una volta
lo scontro fra i due schieramenti risultò cruento,
forse ancor più del precedente, e fin da subito la cavalleria di Normar risultò decisamente in vantaggio su quella dei
ribelli, che coi loro destrieri malconci e l’armamento di fortuna risultavano
essere ben poca cosa contro i terribili Ubii.
Ma il bello doveva
ancora venire; Chekaril avrebbe ricevuto molto presto
una sorpresa coi fiocchi.
Ad
un cenno di Isnark, uno dei suoi arcieri scagliò in
aria una freccia infuocata, che come una cometa attraversò da una parte
all’altra il campo di battaglia. Era il segnale, il segnale
che Benagi stava aspettando.
Lui e i suoi
uomini sbucarono improvvisamente dall’erba alta proprio nel momento in cui la
cavalleria del principe gli stava passando accanto, e subito diedero loro
l’assalto impugnando pali di legno lunghi più di due metri.
Gli Ubii si ritrovarono in trappola, con i cavalieri di Uruk davanti, Benagi e i suoi
alla loro sinistra e la battaglia fra Immortali e ribelli a destra; prima di
poter tentare una fuga vennero circondati, prendendo a
morire a decine. I cavalieri Ubii erano talmente
corazzati che i loro movimenti risultavano lenti e
molto affaticati; gli uomini di Benagi non miravano a
loro, ma ai cavalli, che trafitti cadevano a terra assieme ai loro cavalieri, e
questi, con il peso delle loro armature ad ostacolarli, morivano prima di
potersi rialzare.
Contemporaneamente, incredibile a dirsi, gli Immortali cominciarono
gradualmente a cedere terreno, e al centro dello schieramento di Normar prese a formarsi un cuneo assolutamente invitante; un’opportunità
da cogliere al volo, e difatti Isnark ordinò di
spingere in quel punto. Una volta separati gli Immortali in due tronconi e
sistemata la cavalleria, il resto della battaglia sarebbe stato cosa da poco.
Tuttavia, Regis e
i rinforzi Hashigar continuavano a ritardare, e
questo piano difficilmente avrebbe potuto andare in
porto senza il loro aiuto; purtroppo Isnark e i
ribelli non ebbero tempo di pensare a questo, perché all’improvviso giunse
qualcos’altro a guastare i loro piani.
Dalla boscaglia
che Benagi e i suoi si erano lasciati alle spalle sbucarono d’un tratto altri due battaglioni di soldati
regolari che dopo aver lanciato una raffica di frecce contro Benagi e la cavalleria del capitano Selarz,
che oltretutto ci rimise la vita trafitto al collo, si scagliarono su di loro
con una formazione ad arco, chiudendo loro nell’arco di pochi secondi ogni
possibile via di fuga e spingendoli inesorabilmente contro il grosso della
battaglia.
«Bastardo di un
principe!» gridò Benagi togliendosi una freccia dalla
spalla «Aveva previsto tutto!».
Pochi istanti dopo,
i lancieri e il resto della cavalleria, che nel frattempo aveva
aggirato il proprio schieramento, si scagliarono contro l’unico fianco rimasto
scoperto, e un nuovo battaglione di Immortali venne mandato di rinforzo al
centro, trasformando quella che poteva essere una linea di sfondamento in un
pericolosissimo cul-de-sac nel quale i soldati di Uruk si ritrovarono intrappolati prima di poter azzardare
una qualsiasi reazione.
Il terrore si impresse negli occhi di Isnark
nel momento in cui vide il proprio esercito venire completamente circondato dalle
truppe di Normar.
«Gli dèi ci
aiutino».
Ormai era chiaro
che Regis non sarebbe tornato, probabilmente era anche già stato ucciso, e ogni
speranza di vittoria era perduta.
Isnark girò sommessamente lo sguardo in entrambe le
direzioni, aspettandosi di ricevere ogni sorta di maledizione per sé stesso e la propria anima; invece, i capo-villaggio a
cavallo accanto a lui fecero tutti un cenno di assenso, ostentando la loro
indomabile fierezza: sapevano bene di dover morire. Ormai l’unica cosa che gli rimaneva
era la vita, e indipendentemente dal fatto che avessero o
meno scelto di combattere prima del tramonto avrebbero perso anche
quella.
Se era dunque
quello il loro destino, ebbene era giunto il momento di corrergli incontro;
sguainata la spada, Isnark la alzò al cielo.
«Fino alla morte!».
Per primo si
lanciò giù dalla collina, e subito tutti i soldati rimasti indietro e tutti i
capi-villaggio lo seguirono gridando forte Urukkahan!,Uruk
Libera, e gettandosi senza riserve e senza paura alcuna nella mischia per
combattere la loro ultima battaglia e poter morire da elfi coraggiosi, ma
soprattutto da elfi liberi, al fianco dei propri compagni.
Quel gesto fu
accolto dal principe Chekaril con un moto di stizza.
«Qualcuno dovrebbe dire loro che l’ostinazione a combattere non è
coraggio».
Gettato un altro
sguardo alla regina, si rivolse a Rowan.
«Riserve
in campo. Chiudiamo questa storia».
Solo un piccolo
drappello di Immortali comandati dallo stesso Rowan
rimase a guardia del proprio principe, tutto il resto dell’esercito di Normar, alti ufficiali compresi, si scagliarono
all’attacco travolgendo ogni cosa e togliendo anche le ultime, vacue speranze
ai ribelli, che ormai non attendevano altro che essere distrutti.
«Per noi è finita»
disse Isnark vedendo la distruzione indiscriminata
che avveniva tutto intorno a sé e i suoi compagni cadere uno per uno.
Lainay, dall’alto della sua torre, sorrise compiaciuta.
«Oggi Normar domina su tutto».
Poi, come un
tuono, il fragore di un corno sovrastò ogni cosa; un suono lungo, crescente,
seguito da altri tre, più corti e melodici ma carichi di enfasi.
Nessuno riuscì ad ignorarlo, tanto che lo scontro stesso si interruppe, e
tutti, ribelli e soldati di Normar, alzarono insieme
lo sguardo nella stessa direzione.
Da soli, in cima
alla collina ad ovest, la più alta di tutte, che
sovrastava interamente il campo di battaglia, erano comparsi re Quarfus degli Hashigar e sua
moglie, la regina Sify, entrambi in sella ai loro
cavalli, lui armato della spada simbolo del suo popolo e di uno scudo rotondo
di legno dipinto di bianco lei di un lungo e lussureggiante arco di corno con
due faretre piene di frecce incrociate dietro la schiena.
In mezzo a loro
stava Regis, e ad un cenno del sovrano da dietro il
crinale comparvero, come un immenso oceano, i valorosi Hashigar,
i guerrieri dagli elmi di bronzo e i cavalieri dalle vesti in pelle d’orso.
I ribelli di Uruk credettero di trovarsi in un bellissimo sogno, il
principe Chekaril invece pregò gli dèi che quello fosse
un terribile incubo, ma dovette riconoscere che invece era tutto vero nel
momento in cui un Hashigar irruente scoccò una
freccia nella sua direzione mancandolo di pochissimo, ma ferendo leggermente la
sua guancia candida.
Re Quarfus sguainò la sua spada, e al grido del sovrano di WashinKathirish!, Morte
all’Usurpatore, gli Hashigar si lanciarono giù dalla
collina travolgendo i soldati di Normar come tanti
birilli.
«Regis!» gridò Chekaril mentre la sua pelle chiara diventava rossa di
collera «Che sia maledetto! Maledetto quel bastardo
umano!».
Era ciò che Isnark stava aspettando, e che ormai sperava
non sarebbe mai accaduto.
«I
nostri fratelli sono venuti per aiutarci, e l’eroe degli umani combatte al
nostro fianco! Avanti, guerrieri di Uruk! Riprendiamoci
la nostra terra!».
Galvanizzati da
quello che ritenevano essere un prodigio del cielo i
ribelli si gettarono nuovamente all’attacco con ritrovato vigore, quelli che
nonostante tutto erano riusciti a rompere l’accerchiamento e a fuggire fecero
nuovamente dietro-front e tornarono a combattere.
Gli Hashigar erano guerrieri davvero formidabili; i loro
arcieri soprattutto, capaci di scoccare una freccia con terrificante precisione
in sella al loro cavallo lanciato al galoppo. Colpivano senza pietà muovendosi
in continuazione, e neppure gli Immortali parevano in grado di tenere loro
testa.
Benagi, che dall’inizio della battaglia non aveva mai
smesso di mulinare la spada, si trovò ad incrociare le
armi con un bestione Ubio grosso quanto o più di lui
che combatteva a petto nudo e come arma aveva una specie di gigantesco martello
di pietra. Non appena se lo vide davanti cercò di difendersi con lo scudo
rubato da un cadavere, ma l’urto fu così forte da spaccarlo come un uovo e per
poco non gli spezzò il braccio.
Il capitano
approfittò del fatto che l’arma era rimasta incastrata nello scudo per tentare
un affondo mentre il nemico era scoperto, ma quello afferrò la spada per la
lama con la mano libera e gliela strappò di mano, gettandola via, incurante
delle ferite che questa gli aveva provocato; ne seguì uno scontro di forza per
il possesso del martello, e purtroppo fu l’Ubio ad avere la meglio, colpendo Benagi
ai testicoli con il fondo dell’impugnatura di legno. Lo afferrò quindi per la
collottola dell’armatura, lanciandolo in aria come fosse stato una foglia secca
e spedendolo a parecchi metri di distanza.
Mentre cercava
ancora di riprendersi da quel volo tremendo Benagi se
lo vide venire contro ed alzare l’arma per
infliggergli il colpo finale, ma all’ultimo secondo riuscì ad afferrare il
corpo di un nemico morto e se lo gettò sopra; nonostante la protezione di
questo scudo di fortuna il capitano avvertì comunque la tremenda pressione
esercitata dal colpo dell’Ubio capace di mandare in
frantumi tutte le ossa del cadavere e di perforarne la carne fin quasi da parte
a parte.
Per fortuna, un
soldato armato di lancia corse in aiuto di Benagi
piantando la sua arma nella schiena del nemico all’altezza dello sterno; quello
gridò con tutta la sua voce, un verso più simile ad un
ringhio che ad un urlo, ma poi, con la lancia ancora in corpo, si girò e menò
un colpo di martello che staccò di netto la testa del soldato.
Benagi colse al volo l’occasione per rimettersi in piedi, e
afferrato saldamente il manico della lancia la piantò
ancor più a fondo nella carne dell’Ubio fino a che la
punta non uscì dalla parte opposta, ma neppure questo fu sufficiente per
fermarlo, perché quello, gettato via il martello, nuovamente si girò,
sferrandogli un pugno allo zigomo che risultò doloroso persino per un bestione
come Benagi, abbastanza da farlo barcollare.
Il nemico afferrò
quindi la lancia sporca del suo sangue e con uno scatto rabbioso ne spaccò
l’asta in tre parti, lasciando solamente il pezzo piantato nel corpo e gettando
via degli altri due; sembrava davvero che niente potesse ucciderlo, e ormai
aveva puntato Benagi, tanto che per raggiungerlo non esitò a far volare i suoi stessi alleati.
Ne seguì un
confronto fisico che non avrebbe avuto nulla da invidiare alla lotta fra due
grizzly; quei due avevano la forza di cinque elfi ciascuno, e le sberle che si scambiavano avrebbero ucciso chiunque. Ad un certo punto l’Ubio afferrò
saldamente Benagi per il collo con entrambe le mani,
sollevandolo da terra con la chiara intenzione di strozzarlo.
Il capitano si
dimenò, fece di tutto per riuscire a liberarsi; con entrambe le mani lo colpì violentemente alle orecchie con l’intento di
spaccargli i timpani, ma a differenza di altre situazioni simili questo non
sorti alcun effetto, se non quello di far infuriare ancora di più il nemico e
di spingerlo a stringere ancora più forte.
Benagi sentì le forze venirgli meno, la vista gli si stava
appannando, ma con la forza della disperazione tentò una seconda volta, e
finalmente quel bestione si arrese, mollando la presa per il dolore; il
capitano non perse tempo, e radunato a sé il fiato di cui aveva bisogno gli corse alle spalle, gli afferrò saldamente la
testa e gliela girò di 180°, lasciandolo a terra morto una volta per sempre.
Poco distante, Isnark
aveva appena inflitto il colpo finale ad un Immortale,
quando vide Rowan cavalcargli contro brandendo la sua
lancia; rinfoderata rapidamente la spada rimase immobile e in attesa, e non
appena fu abbastanza vicina afferrò saldamente la sommità della lancia,
disarcionando il nemico e spedendolo a mangiare la terra.
Rowan si rimise subito in piedi e sfoderò entrambe le sue
spade, Isnark invece mise nuovamente mano alla
propria correndogli incontro; il capitano di Normar
era un guerriero eccelso, che faceva della scherma doppia il suo cavallo di
battaglia, e fin da subito Isnark si ritrovò in
difficoltà, venendo ferito di striscio al fianco
sinistro e alla coscia destra.
Vedendolo claudicanteRowan menò un doppio
fendente verticale da destra verso sinistra, a cui Isnark
rispose ruotando su sé stesso; fortunatamente il colpo andò a vuoto,
procurandogli solamente una lacerazione sul bordo superiore della tunica, ma
prima che potesse rimettersi in assetto una spazzata di gamba lo fece letteralmente
volare a terra. Non appena riuscì a riaprire gli occhi
vide Rowan puntare entrambe le spade verso terra, e
giusto un secondo prima di venire trafitto Isnark,
recuperato un pugno di terra, gliela gettò in faccia, distraendolo il tempo
necessario per allontanarsi e rimettersi in piedi.
Infuriato come non
mai, l’Immortale prese a menare un fendente dietro l’altro, ai quali Isnark rispondeva arretrando sempre più; d’un tratto, Rowan tentò di colpire con un colpo a forbice mirato a
decapitare il comandante dei Ribelli, maIsnark si inginocchiò all’ultimo istante e con tutte le sue
forze piantò la sua spada nella carne del nemico trafiggendolo da parte a
parte.
Rowan sgranò gli occhi, piegandosi in avanti; dalla sua
bocca uscì un rivolo di sangue, e appena Isnark
ritirò l’arma il suo corpo cadde senza vita in mezzo
all’erba e al fango.
La morte di Rowan, la cui coscienza era sporca del sangue di migliaia di innocenti almeno quanto quella del suo diretto superiore,
fu salutata con grida di esultanza tanto dei ribelli quanto degli Hashigar.
Questi ultimi, mai
domi, dopo il loro arrivo avevano rapidamente guadagnato terreno, liberando le
truppe ribelli dall’accerchiamento; il loro re Quarfus
combatteva davanti a tutti in sella al suo cavallo, e gridando nel contempo gli ordini necessari a comandare i propri
uomini.
«Spingeteli
verso il basso! Non devono risalire la collina!».
Quando, d’un
tratto, ecco avverarsi il responso divino.
Una freccia
vagante, forse scagliata per errore addirittura da un cavaliere alleato, colpì
il sovrano in mezzo alla schiena, perforando la sua leggera protezione in cuoio
e trafiggendogli il cuore.
Allora, pensò con
il suo ultimo barlume di vita, era quella l’imminente morte vaticinata dal
venerabile Iorkin, era quello il suo destino: morire
per dare una speranza ad un intero popolo. Quale elfo,
quale re avrebbe potuto desiderare di meglio?
La sua regina, che
combatteva a piedi poco distante, usando i bordi affilati del suo arco come
arma e scoccando di tanto in tanto qualche freccia, lo vide cadere da cavallo,
ma nel tempo che impiegò a raggiungerlo e ad
inginocchiarsi per tentare di soccorrerlo con le sue abilità di guaritrice il
suo sposo si era già riunito ai grandi del passato nella sala degli eroi.
Dapprima Sify non volle accettare l’idea che il suo adorato marito,
l’elfo a cui aveva dato un figlio, fosse morto; e
pensare che aveva promesso a sé stessa di rivelargli, al termine della
battaglia, che presto gliene avrebbe dato un altro.
«Il re è morto!»
gridò con tutto il fiato che aveva.
Gli Hashigar rimasero tutti immobili per lo sgomento, poi la
regina, rialzatasi, alzò alta la spada del marito.
«Avanti!».
Il desiderio degli
Hashigar di vendicare la morte del
loro sovrano rappresentò per le truppe di Normar la
mazzata definitiva, e anche le ultime speranze di rivalsa svanirono come un
castello di sabbia.
Così, a dispetto
di ogni credenza, di ogni aspettativa, accadde ciò che
nessuno, uomo o elfo che fosse, avrebbe mai immaginato potesse un giorno accadere.
I soldati di Normar, Immortali compresi, abbandonarono la battaglia e si
diedero alla fuga, correndo a perdifiato verso il loro accampamento nel
tentativo di salvarsi.
Lainay osservò, impotente e piena di terrore, il suo
bellissimo esercito fuggire con la coda tra le gambe; un pugno di ribelli erano riusciti dove intere coalizioni di regnanti elfici
avevano fallito, l’ardore e il coraggio si erano dimostrati più forti del suo
desiderio di assoluta egemonia.
Ugualmente a lei,
anche il principe Chekaril non riusciva a credere che
tutto ciò stesse accadendo veramente.
I suoi guerrieri,
i suoi Immortali, stavano fuggendo, scappando come volgarissimi codardi.
Perché? Come era potuto succedere?
Era davvero quella
la forza che poteva venire dal credere nei propri ideali, e dall’essere
pronti a dare la vita nel loro nome?
Tutte quelle
domande che gli opprimevano il cuore mentre i suoi soldati gli passavano
davanti senza degnarlo di uno sguardo, né di un saluto, erano offuscate dalla
rabbia, una rabbia senza fine.
Un umano!
Era stato
sconfitto da un essere umano!
La sua anima
bruciava come l’inferno, e vedere Regis alzare il braccio destro in segno di
vittoria accompagnato dalle grida di esultanza dei ribelli
gli fece perdere completamente l’uso della ragione.
Un ufficiale
minore gli passò vicino nella fuga.
«Signore!
Mettetevi in salvo!».
Chekaril però sembrava del tutto assente. I suoi occhi
scintillavano di collera, i suoi begli allineamenti regali erano contorti in
un’espressione di puro odio.
«Io quello lo
ammazzo.»
«Mio… signore…»
disse l’ufficiale, che non sapeva se essere più spaventato dall’approssimarsi
del nemico o dal suo stesso comandante.
«Lo ammazzo!» urlò
lanciando il suo cavallo giù dalla collina
«Mio signore,
no!».
Regis, che ancora
stava ricevendo i ringraziamenti e gli elogi dei capi-villaggio sopravvissuti,
lo vide, e balzato in sella al primo cavallo capitatogli a tiro
gli corse contro senza esitazioni sguainando nuovamente la spada.
Isnark, giunto davanti a tutti, avvertì quasi la sensazione
di trovarsi da solo in quella sterminata radura; il tempo sembrava andare al
rallentatore, le urla di incitamento dei suoi uomini
rivolti al giovane umano giungevano come gli echi di tempi lontani, persi nella
memoria.
Regis e Chekaril continuarono a correre l’uno
verso l’altro, spingendo i propri destrieri al massimo, e la distanza fra di
loro diminuiva sempre più.
La regina, che già
si accingeva a lasciare la torre, si accorse di quanto stava accadendo, e
altrettanto fece Aevo, che sportasi dalla balaustra
fin quasi a cadere sussurrò sommessamente il nome del principe.
Ormai erano
vicinissimi, e nulla poteva più essere fatto per evitare lo scontro.
Quando mancavano
meno di cinque metri, Chekaril mollò le redini del
cavallo e afferrò saldamente la sua mietitrice con entrambe le mani.
Subito dopo, tutto
parve svolgersi al rallentatore.
Il principe colpì
con un fendente orizzontale che sfiorò il crine del cavallo di Regis e puntò
diritto verso il suo collo; l’umano allora distese le braccia e piegò la
schiena all’indietro, fino a sfiorare con la nuca la coda del suo animale.
La lama della
mietitrice passò a meno di un centimetro dal suo naso; prima ancora che fosse
transitata completamente Regis, con una mossa repentina, rivolse verso l’alto
la punta della sua spada, e un istante dopo Chekaril
sentì una cosa affilata e rovente penetrargli nella spalla destra.
Dapprima non
avvertì nulla, all’infuori di un leggero formicolio, ma
passati pochi attimi un dolore atroce, come mai ne aveva sentiti nella sua
lunga vita di soldato mai segnata da alcuna ferita, gli attraversò il corpo,
facendolo urlare.
Prima di poter
fare qualunque cosa il contraccolpo lo fece cadere, e la velocità a cui aveva lanciato il suo cavallo era tale che rotolò a
lungo sull’erba umida prima di fermarsi; la sua caduta fu salutata da nuove e
più forti urla di gioia.
Il principe Chekaril era inginocchiato a terra, la sua bella pelle
chiara era ora sporca di fango, come anche la sua scintillante armatura; a
stento tratteneva le grida, tramutate dalla forza della disperazione in mugolii
e ringhi sommessi.
La ferita alla
spalla, solo in parte nascosta dalla mano che la stringeva con forza, era larga
almeno cinque centimetri, e abbastanza profonda che si poteva intravedere
l’osso sottostante; il rivolo di sangue che usciva da essa, però, era piuttosto
esiguo, infatti la carne tutto attorno sembrava essere
stata trattata con il fuoco: si erano formate pustole e vescicole, fumava ed
emanava un odore sgradevole.
«Una brutta
ferita.» disse Regis guardandolo dall’alto della sella «Temo proprio che non
sarai più in grado di usare agilmente il braccio destro».
Chekaril lo guardò con tutta la rabbia che era capace di
provare verso una persona.
«Tu… maledetto…
uccidimi!».
Seguì un
angosciante silenzio, Regis stette immobile a guardare il principe dritto negl’occhi, ma dopo aver alzato la spada come a voler
esaudire il suo desiderio, invece di vibrare il colpo finale la ripose nel suo
fodero.
«Se
io ti uccidessi, una persona a me molto cara ne soffrirebbe enormemente. Ed io
non voglio che questo accada».
Nel sentire quel
discorso, Chekaril sgranò gli occhi, e gli ci volle
davvero poco per capire chi fosse questa persona a lui molto cara.
«Allora
è vero. Sei tu… che hai sconfitto Lsyn nel torneo».
Regis rispose col
suo silenzio.
«Un pomposo
arrogante come te non merita l’amore di una guerriera del suo calibro, e per
tutte le atrocità che hai commesso meriteresti di
morire, ma non voglio consegnare a questa guerra un altro orfano».
Di nuovo il
principe impallidì, sgranando leggermente gli occhi. Rimase completamente senza
parole.
Come aveva fatto
un semplice umano, una creatura di così infimo ordine, a scoprire i segreti più
reconditi e meglio custoditi dell’inafferrabile Ombra?
L'odio verso Lsyn prese a scorrergli, immediato, nelle vene. Coma aveva
osato parlare con un essere di quella razza, per quanto forte egli fosse?
Gli umani, secondo
il suo metro di giudizio, erano tutti uguali: come aveva fatto ad avere la sua
fiducia, una creatura così irritante e giovane, un bambino?
Semmai fosse
tornato vivo, disse a sé stesso, avrebbe fatto una
lunga chiacchierata con Lsyn, e si sarebbe accertato
che in futuro non le venissero altre strane idee.
Tuttavia, prima
che questo pensiero potesse essere adeguatamente classificato all’interno della
sua mente, lo sguardo gelido di Regis, quello che nei racconti dei vecchi alle
osterie simboleggiava la parte più oscura e determinata della sua persona, gli attraversarò il
corpo.
«Ma
sappi questo. Semmai un giorno tu dovessi farle del male, io mi assicurerò che
tu abbia modo di pentirtene.
Non importa dove,
non importa quando. Se farai soffrire Lsyn, tornerò per ucciderti».
Pochi attimi dopo,
Isnark e gli altri ribelli raggiunsero i due
contendenti, e nel vedere Chekaril ridotto così,
ferito e inerme, furono in molti ad avere il desiderio di avventarsi contro di
lui per fargli pagare tutto ciò che avevano dovuto subire a causa sua.
Lo stesso Isnark, per un momento, pensò di farlo, ma poi fu egli
stesso a frenare i suoi soldati, ricordando loro che comportandosi in quel modo
si sarebbero abbassati allo stesso livello suo e dei suoi cosiddetti Immortali.
Regis a quel punto
scese da cavallo, e Benagi, senza tanti complimenti,
sollevò Chekaril per il mantello per costringerlo a
guardarlo nuovamente negl’occhi.
«Adesso
scoprirai come ci si sente a fare il prigioniero. E sono sicuro che per te sarà
peggio che morire».
Subito dopo la rovinosa sconfitta del suo esercito Lainay aveva tentato di lasciare in tutta fretta, ma prima
che potesse azzardare un qualsiasi tentativo di fuga
il campo era stato completamente circondato dai ribelli, che esitavano però a
dare l’assalto finale mantenendosi a distanza.
Non esitavano però
a tempestare la regina di frasi ingiuriose, ben consapevoli del fatto che lei
ormai non era più in grado di fare loro assolutamente nulla, e che era comunque
troppo orgogliosa ed egoista per suicidarsi, come altri comandanti, forse anche
lo stesso Chekaril, avrebbero fatto in una simile
situazione.
Per molto tempo
l’incertezza e la paura regnarono sovrani fra i superstiti di Normar, poi un Immortale si presentò nella tenda di comando
portando un messaggio urgente: i capi dei ribelli erano pronti a concedere
salva la vita a tutti gli occupanti dell’accampamento nemico, a condizione di
essere ricevuti e di poter trattare direttamente con la regina.
Lainay, come era nella sua natura,
mai e poi mai avrebbe accettato di abbassarsi a negoziare la propria salvezza;
lei era la regina, la signora indiscussa di Normar,
era lei a dispensare grazia e morte fra i suoi nemici, non il contrario.
Stava quasi per
rispedire al mittente quella proposta nel modo più assoluto, quando il suo
vecchio scrivano, che la conosceva praticamente da
quando era una bambina, e del quale la regina si fidava con tutta sé stessa,
riuscì a farla ragionare, adducendo al fatto che anche se fosse riuscita a
togliersi la vita quella massa di contadini infuriati avrebbero dissacrato il
suo corpo in tutti i modi possibili prima di lasciarlo in pasto ai corvi.
Se avesse giocato bene le sue carte avrebbe potuto ottenere comunque una resa
onorevole, quindi alla fine si decise ad accettare l’incontro, ma tutte le sue
ostentazioni di fierezza furono messe duramente alla prova nel momento in cui Isnark, entrato nella tenda, rimase in disparte, lasciando
avanzare solamente Regis; già dover parlare di resa la faceva vomitare, ma
farlo con un volgare umano era davvero inaccettabile.
Tuttavia Lainay sapeva fin troppo bene di cosa
quell’umano era capace di far sollevare i ribelli con un cenno, così come
sapeva che in quel momento i due esseri viventi più odiati sulla faccia della
terra erano i soli che potevano permettere di assistere ad una nuova alba da
viva.
Appena giunto ai
piedi del ballatoio su cui era poggiato il trono da viaggio Regis fece un
inchino così reverenziale e profondo da risultare
incredibilmente grottesco e a dir poco provocatorio; Lainay
strinse forte i braccioli della sedia fin quasi a farli scricchiolare, e dentro
di sé sapeva che quello poteva essere solo l’inizio.
«Vostra altezza reale, quale onore poterla finalmente incontrare.»
«Voi dovete essere
il famoso Regis.» disse la regina sforzandosi di essere cortese «Il leggendario
eroe degli umani.»
«Noto
con piacere che mi conoscete. Effettivamente sì, sono io.»
«La vostra fama vi
precede.»
«Oh,
nondimeno della vostra. Ho sentito molte storie su di voi, nobile Lainay. Gli umani vi chiamano… aspetta, com’era… ah sì.
Puttana omicida».
Isnark non riuscì a trattenersi dal ridere fra sé e sé, Lainay invece ringhiò sotto i denti mordendosi così forte
le labbra da scrostare il suo bel rossetto viola.
«Bene,
ora che abbiamo fatto le presentazioni veniamo al dunque.
La questione in sé
è molto semplice.
Tu sei qui, noi
siamo qui, e fuori da questa tenda ci sono ventimila elfi a
cui tu hai sottratto tutto quello che potevi a parte la vita, e che ora
muoiono dalla voglia di restituirti il favore.
E
io glielo lascerei fare. Davvero, glielo lascerei fare se solo potessi.
Ma,
sfortunatamente, o fortunatamente, dipende dai punti di vista, ci troviamo
nella condizione in cui un negoziato risulta
sicuramente più efficace, per non parlare del fatto che disapprovo fortemente
certi metodi.»
«Per intavolare un
negoziato» rispose Lainay con falsa sicurezza
«Occorre avere qualcosa da offrire.»
«Oh, ma ce l’abbiamo. Abbiamo ben due cose che a te interessano,
così come tu ne hai due che interessano a noi. Dalle
mie parti si chiama do utdes. Tu dai qualcosa a noi e
noi diamo qualcosa a te.
Io direi di
partire dalla più importante, ovvero la tua schifosa
pellaccia».
Quell’ennesimo
insulto fece tremare le vene alla regina, che per poco non cedette alla
tentazione di avventarsi su quell’umano insolente per strappargli il cuore, ma
l’essere consapevole che Regis, paradossalmente, era l’unica cosa che si
frapponeva fra lei e una massa di potenziali assassini la trattenne.
«Allora,
noi ti offriamo la salvezza tua e dei tuoi uomini.
Otterrete
medicine, cure mediche per i feriti, e un salvacondotto che vi permetterà di
lasciare Uruk senza venire
attaccati.»
«E voi in cambio
cosa volete?»
«Cosa vogliamo? Molto semplice. Che tu e tutti i tuoi
discendenti teniate le vostre sudice mani lontano da Uruk
e dalle terre degli Hashigar da qui fino alla fine
dei tempi».
Era quanto di più
riprovevole Lainay potesse immaginare di sentirsi
chiedere; accettare quell’offerta sarebbe significato rinunciare per sempre al
suo grande sogno, riunire tutti gli elfi sotto il giglio di Normar
per condurli alla totale egemonia prima del continente, poi del mondo intero.
Per questo,
dapprincipio, fece per far sentire forte in tutto l’altopiano
il suo secco e irremovibile no, ma le urla adirate provenienti da oltre
l’accampamento le fecero tornare a mente la sua difficile posizione, che
decisamente non permetteva colpi di testa o inopportuni moti di orgoglio.
La regina respirò
profondamente, forse per cercare di sbollire la collera, o per capacitarsi del
fatto che tutto ciò fosse la cruda realtà, una realtà che la vedeva sconfitta e
umiliata da un misero essere umano; poi, ad un suo
cenno, il vecchio scrivano srotolò una pergamena sul suo ripiano da lavoro,
intinse una bella piuma d’oca nel calamaio da viaggio che portava al collo come
un pendente e prese a trascrivere una dichiarazione che mai nella sua lunga
vita avrebbe immaginato di sentir pronunciare.
«Io, Lainay, signora di Galinne,
regina di Normar, sovrana delle Terre di Markoran, prediletta dagli dèi, dichiaro solennemente le
regioni di Uruk e di Hashigar
terre sacre ed inviolabili.
A nessun esercito
in armi sarà permesso di valicare i loro confini, a nessun regnante straniero
sarà concesso di dettare legge fra i loro popoli.
Sia compito di
tutti i sovrani di Normar da qui alla fine dei tempi
far rispettare questo decreto, e rispettarlo essi
stessi, pena la morte e la perdita del proprio titolo.
Possano gli dèi
del cielo e della terra punire con la loro ira chi violerà questo sacro editto.
Possa in fulmine incendiare la sua casa, il terremoto distruggere i suoi campi,
la malattia uccidere i suoi cari.
Questa è la sacra
parola di Lainay, regina di Normar…
prediletta… dagli dèi».
Terminata la stesura lo scrivano lasciò cadere sul fondo della pagina una
goccia di cera fusa sul quale la regina impresse il simbolo del proprio anello
regale, quindi la pergamena fu consegnata a Regis, che a sua volta la consegnò
a Isnark. Questi la guardò
come se non credesse ai suoi occhi, poi corse fuori dalla tenda, attraversò di
corsa l’accampamento e salì sulla torre dal quale Laiany
aveva assistito alla sua ultima disfatta.
I ribelli, che da
qualche minuto avevano smesso di gridare, alzarono gli occhi, e appena lui
esibì la pergamena si sollevarono le urla di gioia più impetuose che qualsiasi
elfo avesse mai sentito; in molti piansero, altri si abbracciarono, altri
ancora sentirono il cuore battere all’impazzata al pensiero che tutti quei
sacrifici ala fine erano stati ripagati.
Ciò che mai si sarebbe
pensato possibile era dunque accaduto: Normar si era
arresa, Uruk era libera.
Le urla festanti
che giungevano dall’esterno furono come una sentenza di morte per Lainay, che a stento si trattenne dal piangere; ma non era
ancora finita.
«E adesso, passiamo
a noi.» disse Regis gongolando di soddisfazione «C’è
ancora qualcosa che devo restituirti. O meglio, qualcuno. Benagi!».
Richiamato dal
giovane umano il capitano entrò nella tenda trascinandosi dietro il principe Chekaril incatenato.
Vedendolo così,
ridotto in quello stato, la regina non seppe se essere felice per il vedere suo
fratello tanto umiliato e rassegnato o se piangere per lo stato pietoso in cui
era ridotto.
La pelle e i
vestiti erano ancora sporchi di terra, la ferita alla spalla era stata fasciata
con una medicazione di fortuna giusto per lenire un po’ il dolore; al collo gli era stato messo un collare di metallo provvisto di un
anello nel quale era stata fatta passare la catena che gli serrava i polsi.
«Sarai
anche una creatura abbietta e senza coscienza, ma sono convinto che per te il
legame fraterno abbia ancora un qualche valore. Io ti restituisco Chekaril, e tu in cambio mi concederai l’ingresso senza
costrizione alcuna nelle terre di Normar».
Questa poi!
Oltre il danno la beffa. Quell’umano senza onore l’aveva umiliata
come nessun altro, si era fatto beffe di lei e della sua autorità, e ora
pretendeva pure di andarsene a zonzo per il suo regno senza temere vendetta
alcuna.
Ma d’altro canto,
ciò che diceva era vero: Lainay, malgrado
tutto, era affezionata al suo gemello, e saperlo ucciso da volgari
contadini sarebbe stato un dolore troppo grande da sopportare, per non parlare
del fatto che in virtù della considerazione di cui Chekaril
godeva presso il popolo di Normar un’azione simile
non le sarebbe mai stata perdonata.
Pertanto, alla
fine, si vide costretta a sottostare all’ennesimo ricatto, dettando allo
scrivano un editto che conferiva al suo possessore la piena immunità e che
puniva con la tortura e la morte chiunque avesse tentato di arrecargli una
qualunque offesa.
Regis lo prese e
lo lesse attentamente, quasi a volersi accertare di non essere stato ingannato,
poi, constatato che era tutto in ordine, arrotolò la
carta e la ripose nella tasca interna del panciotto.
Prima che potesse essere troppo tardi, però, Lainay
volle sfogare tutta la rabbia che provava per lui.
«Questo
non cambia le cose.
Sarai anche
famoso, sarai anche forte, ma sei solo uno schifoso umano. Quando morirai io sarò ancora qui, un giorno dominerò l’intero
continente, e non appena la mia mano calerà sui regni degli uomini mi
assicurerò che il tuo ricordo scompaia per sempre.
Chiunque evocherà
la tua storia, chiunque oserà anche solo pronunciare il tuo nome, verrà punito con la morte.
Nessuno ricorderà
che sei esistito».
Regis restò in
silenzio, dandole le spalle, poi si girò nuovamente a guardarla puntandole
contro l’indice destro e fissandola con uno sguardo che la fece tremare.
«Ascolta
le mie parole.
Nella mia lunga
vita ho visto tanti tiranni. Li ho visti distruggere i loro nemici, fondare i
loro imperi sul sangue e sulle sofferenze dei loro stessi popoli, e massacrare
migliaia di innocenti in nome del loro assurdo delirio
di onnipotenza.
Ma
è destino di ogni tiranno che un giorno o l’altro i crimini di cui si è reso
responsabile gli ricadano sulle spalle, e sarà anche il tuo.
Fino a che a
questo mondo esisterà una sola persona disposta a dare
la vita per ideali come la libertà e la giustizia, tu avrai motivo di temere.
Vivrai nel terrore, ovunque volgerai lo sguardo vedrai potenziali nemici, anche
fra coloro che maggiormente ti sono fedeli, che
spaventati dal tuo crescente delirio finiranno per tradirti sul serio.
E alla fine,
morirai come muoiono quasi tutti i tiranni: sola, con una lama nel cuore, fra
le grida di gioia di interi popoli, e per la storia
diventerai un mostro».
Con quest’ultimo,
inquietante vaticinio, Regis concluse il proprio
negoziato; Lainay si sforzò di rimanere impassibile,
ma quel discorso l’aveva chiaramente colpita nel profondo, i suoi occhi prima
vigorosi e sprezzanti erano ora carichi di angoscia e paura.
L’umano si portò
quindi dinnanzi a Chekaril,
liberandolo dalle catene con un deciso colpo di spada.
«E
in quanto a te, ricordati di quello che ti ho detto.
Falla soffrire, e
me la pagherai».
Il principe lo
guardò pieno di odio, ma non ce la fece a reggere i suoi occhi di ghiaccio che
per un paio di secondi.
«E
ora fuori dai piedi. Avete tempo fino al tramonto per lasciare questa regione».
Appena Regis se ne
fu andato Chekarilvenne
subito affidato alle mani dei guaritori, ma non ebbe il coraggio di guardare in
volto la sorella, che libera dal protocollo reale sfogò la propria frustrazione
rifilando un tremendo ceffone al primo schiavo capitatole a tiro.
«Chekaril?».
Lui allora si
decise a sollevare lo sguardo.
«Ti
consiglio di rimetterti in fretta. Tu ed io faremo un piccolo viaggio».
Quella notte, nello spiazzo di terra davanti alla tenda di
Isnark, il corpo del re Quarfusvenne cremato con tutti gli onori dovuti ad un eroe,
ma come il sovrano avrebbe voluto alla dolorosa cerimonia seguì una festa senza
precedenti per la ritrovata libertà.
Il giorno dopo, di
primo mattino, Regis si preparò a ripartire.
«Immagino che non
serva a nulla chiederti di restare.» disse Isnark,
venutolo a salutare assieme a Benagi all’ingresso
dell’accampamento
«Ormai qui io non
servo più.»
«A
che pro continuare questo viaggio? Se non sbaglio, la
paura è sparita.»
«Sì,
hai ragione. La paura me la sono gettata alle spalle. Ad essa, però, si è sostituito il dubbio, per questo sento
ancora il bisogno di parlare con il solo che possa realmente capirmi.
E poi, guidare questa gente non spetta a me. È
compito tuo, ora.»
«Forse.
O forse no. Ma questa terra ora necessita di essere
ricostruita.
Normar ha lasciato dietro di sé morte e distruzione,
servirà molto tempo prima che Uruk possa somigliare
anche lontanamente a quella che era un tempo.»
«Ce
la farai, ne sono sicuro. D’altronde, questo è solo l’inizio».
Isnark sorrise.
«Sì
hai ragione. È solo l’inizio.»
«Tu
hai aperto la strada. Altri si uniranno, e verrà il giorno in cui Lainay sarà chiamata a rispondere delle sue colpe.»
«E io ti prometto che dedicherò la mia vita a far sì che quel
giorno arrivi presto.»
«Ne sono sicuro».
Isnark e Benagi rimasero immobili
ad osservare Regis fino a che non videro lui e il suo
cavallo sparire inghiottiti dalla nebbia.
Benagi disse che si sarebbe sentito solo nel lungo viaggio
che aveva ancora da percorrere per raggiungere finalmente l’agognata meta
finale, ma in realtà Regis non era affatto solo; a
tenergli compagnia erano i suoi pensieri, che pur pacati dalla scomparsa del
senso di paura e impotenza che lo aveva perseguitato da quando aveva lasciato
Qerin erano ancora carichi di incognite e di incertezze per il futuro, legate
soprattutto da ciò che gli era stato rivelato solo poche ore prima.
Ora che il verdetto degli dèi in merito alla condotta
tenere nei confronti di Uruk era stato emesso,
toccava a Regis ottenere le risposte di cui tanto sembrava averne bisogno.
Il venerabile Iorkin lo guardò, quindi il giovane umano, distendendo il
braccio, lasciò a sua volta cadere la propria tessera di osso.
Questa rimbalzò a
lungo, mentre il silenzio tornava nuovamente a regnare nella stanza, e non
appena si fermò gli occhi del vecchio druido si
riempirono di stupore.
La tessera di
Regis si era fermata, come quella di re Quarfus,
proprio a ridosso di un’altra, e su entrambe non vi
era inciso nulla.
In tutta la sua
vita Iorkin non riuscì a ricordare di aver mai visto
niente del genere, e lo stesso si poteva dire per il resto dei presenti, che
guardarono attoniti verso Regis vociferando fra di
loro.
Il destino di
quell’umano, secondo il responso, era avvolto dal
mistero, tanto che gli dèi erano in grado di leggerlo e neppure ne avevano il
benché minimo controllo; la sua vita era solo e unicamente nelle sue mani, egli
stesso ne sarebbe stato l’artefice, lui e nessun altro.
Ma come poteva il destino di un semplice mortale essere sconosciuto persino agli dèi?
Nota dell’Autore.
Salve a tutti.
Sono felice di annunciare che con
questo capitolo ho battuto il mio record: ben 17
pagine!
Io stesso sono convinto si tratti
di un caso isolato, che difficilmente potrà ripetersi, quindi chiunque si sia
spaventato per la sua anomala lunghezza può stare tranquillo.
Ringrazio come sempre Selly e Akita per le
loro recensioni.
Era passato molto tempo, ci erano voluti sacrifici e
fatica, ma finalmente Qerin stava ricominciando a somigliare a quella che era
prima di quel disastroso attacco.
Per ordine del re,
ogni cittadino era stato chiamato a fare la sua parte, e il lavoro da fare era
ancora tanto: bisognava turare le crepe nel terreno, sgombrare le macerie e
quindi ricostruire.
I pochi fortunati
che possedevano ancora una casa erano invitati ad ospitare al suo interno
quante più persone possibile, cibo e acqua continuavano ad essere razionati, e
distribuiti dalle autorità nelle piazze e in altri luoghi di ritrovo.
La città era stata
divisa in quadranti, in cui lavoravano squadre di soldati e normali cittadini
che venivano pagati per i loro sforzi con vitto, eventuale alloggio e anche una
piccola quantità di denaro.
Era in
quell’occasione che gli abitanti di Fiya davano prova del grande spirito di
fratellanza e di solidarietà che li aveva sempre caratterizzati.
Il Regno di Fiya
era nato quasi due millenni addietro a seguito della disgregazione dell’Sacro
Impero di Marzun, che riuniva quasi tutti i territori umani a sud del
continente, dai deserti occidentali fino ai confini dell’Impero di Kogachi, che
era stato indirettamente l’artefice della caduta con le sue continue incursioni
che avevano destabilizzato l’autorità dell’imperatore e il suo controllo sulle
regioni più lontane.
Fra le varie
decine di prefetture e staterelli formatisi subito dopo la caduta, i soli ad
essere sopravvissuti erano stati lo stesso Regno di Fiya e il vicino Impero di
Caldesia; entrambi dovevano la propria sopravvivenza al fatto di essersi
ribellati all’autorità imperiale, distaccandosi di fatto dall’Marzun subito
prima del suo definitivo tracollo.
Dopo un decennio
speso a stabilizzarsi come nuova realtà statale, i due superstiti avevano
cominciato a fare asso pigliatutto nei confronti dei loro vicini, ma mentre
Caldesia imponeva il proprio dominio con la forza Fiya preferiva l’uso della
diplomazia, stipulando trattati e alleanze con le altre popolazioni in modo da
creare una sorta di confederazione che avesse nel re il suo massimo
rappresentante.
A rendere diversi
Caldesia e Fiya erano anche le forme di governo, perché se a Caldesia vi era
una monarchia assoluta, con un imperatore dotato del potere di vita e morte su
tutti i suoi sudditi, quella di Fiya era invece una monarchia parlamentare, in
cui le disposizioni del re erano comunque sottoposte a giudizio del Consiglio
di Stato formato dai governatori dei ventiquattro feudi in cui era diviso il
regno, governatori che venivano eletti dai singoli cittadini fra la nobiltà
locale e la cui carica durava cinque anni.
Anche Dave si era
messo d’impegno, e combinando le proprie abilità di stregone alla sua naturale
predisposizione al buon vecchio lavoro manuale in attesa del maestro aveva
offerto il proprio umile contributo.
Una mattina,
assieme ad un gruppo di soldati, stava lavorando alla ricostruzione di una
torre, quando si sentì chiamare.
«Ehi, Dave».
Voltatosi, vide
Mandy ferma poco distante, con al seguito un carretto pieno di vettovaglie;
anche lei, a differenza di molte sue compagne altolocate, che appena passata la
crisi avevano lasciato in tutta fretta la città con le loro famiglie per
raggiungere le più tranquille dimore di campagna, aveva voluto essere di aiuto,
pertanto passava le sue giornate fra le varie cucine da campo e la
distribuzione dei pasti agli operai impegnati nei lavori pesanti.
Abbandonata
l’uniforme scolastica, indossava ora abiti decisamente più umili, quasi da
uomo, con stivali, calzoni e un camiciotto bianco; inoltre, dopo tanto tempo,
aveva nuovamente raccolto i suoi capelli dorati in una lunga coda.
L’ultima volta che
Dave l’aveva vista così erano entrambi dei bambini, ma ora che era quasi una
donna, quel modo di apparire la rendeva ancor più affascinante, mettendo in
risalto la parte più ribelle e fiera del suo carattere.
«Mandy.»
«È mezzogiorno. Ti
ho portato il pranzo.»
«Davvero? Magnifico.»
rispose il ragazzo posando a terra la tavola di legno che stava trasportando
«In effetti, non ci vedevo più dalla fame.»
«Anche voi, venite
a mangiare prima che si raffreddi!».
I soldati
mollarono in tutta fretta il loro lavoro e corsero al carretto per ricevere
ognuno mezza pagnotta, acqua a volontà e uno stufato a base di verdure, cereali
e qualche pezzo di carne.
Sedevano per
terra, alla spicciolata, parlando e scherzando fra di loro; Dave e Mandy
invece, come al solito, stavano in disparte, per conto loro, seduti su di un
cumulo di pietra da costruzione. Da che si erano rincontrati, ogni giorno Mandy
voleva che Dave le raccontasse le avventure vissute da lui e da Regis nei tre
anni che avevano trascorso in giro del continente e lui la accontentava, raccontando
le sue storie in modo avvincente e appassionato per divertirla e farla ridere,
presentando inoltre alcune situazioni in modo molto più comico di quanto in
realtà non fossero state.
Il racconto di
quel giorno parlava proprio di una di queste situazioni, richiamandosi alla
volta in cui maestro e allievo si erano trovati sulle montagne di Reminyus a
fare i conti con un drago dall’atteggiamento non proprio amichevole.
Strana razza i
draghi.
Creature
millenarie, fugaci e misteriose, abitavano il continente da tempo immemorabile;
potevano avere le forme e le dimensioni più disparate, dai piccoli esemplari
che accompagnavano alcuni stregoni, a quelli longilinei e dai lungi baffi
dell’Impero di Kogachi, fino agli esemplari mastodontici che abitavano le terre
degli elfi, capaci di spazzare via un’intera foresta con una sola delle loro
lingue di fuoco.
Si diceva che
alcuni di loro fossero persino intelligenti, capaci di parlare, ma che la loro
conoscenza e la loro elevazione culturale fossero tali che nessuno erano in
grado di comprenderli.
Intelligenti o
meno, il potere magico che si portavano dentro era a dir poco esorbitante, per
questo erano stati per secoli perseguitati dai cacciatori, che dopo averli
uccisi e smembrati rivendevano a caro prezzo le singole parti.
Il compenso che un
bravo scuoiatore riusciva ad ottenere da un solo drago, anche di piccole
dimensioni, poteva equivalere fino a due anni di lavoro per un macellaio o un
panettiere, che pure erano mestieri dai guadagni piuttosto elevati.
Nel corso dei
secoli quindi il loro numero era drasticamente diminuito, e i pochi esemplari
sopravvissuti si erano ritirati in luoghi remoti, lontano il più delle volte
dai centri abitati e dagli sguardi indiscreti in generale.
Quella volta,
Regis e Dave avevano accettato di aiutare un villaggio minacciato da un drago che
dopo aver vissuto a lungo per conto proprio in una caverna sulle montagne era
diventato di colpo aggressivo e pericoloso.
Dave, per rendere
il suo racconto ancora più avvincente, gesticolava e mimava la situazione,
tanto che anche i soldati, come già accaduto altre volte, avevano preso ad
ascoltarlo.
«E appena siamo
entrati nella caverna, subito quel drago ci è comparso davanti.
Era davvero
gigantesco, le ali larghe come un granaio e il collo lungo come tre carri in
fila. Appena ci ha visti ha aperto la bocca e ha sputato su di noi una tempesta
di fuoco.»
«Incredibile.»
esclamò Mandy, che ogni volta rimaneva con la bocca spalancata
«Ma aspetta. Senti
cosa è successo. Nonostante tutto il maestro è rimasto assolutamente immobile;
io invece avevo una paura tremenda, credevo davvero che sarei morto, ma lui mi
ha detto di restare lì dov’ero, rimanendogli vicino.
Ed ecco che, dal
nulla, davanti a noi è comparsa una barriera: l’aveva eretta senza che io
neppure me ne accorgessi, ed era assolutamente invisibile. La fiamma ci ha
sbattuto contro e… Bum, è tornata indietro, colpendo il drago.
Quello si dimenava
divorato dalle sue stesse fiamme, e allora noi l’abbiamo colpito insieme con la
nostra magia e lui è crollato morto a terra.»
«Davvero avete
sconfitto un drago!?» chiese uno dei soldati
«Sicuro. Ed era
anche bello grosso.»
«Incredibile.»
disse un altro «Io ho sentito che di solito ci vuole un esercito di cacciatori
per stendere una di quelle bestie.»
«Non c’è che dire,
il nobile Regis è veramente un guerriero senza eguali.»
«Ma poi avete
scoperto per quale motivo era diventato così aggressivo?» chiese Mandy
«I draghi sono
capaci di rimanere in letargo anche per molti anni, e quando si svegliano hanno
sempre una gran fame. Probabilmente era quella la causa del suo comportamento.»
«Se è così, un po’
mi dispiace per lui.»
«Il maestro Regis
dice sempre che anche la libertà ha le sue regole, e una di esse consiste nel
non arrecare danno ad altri. Quel drago era diventato una minaccia, se non lo
avessimo fermato molti innocenti avrebbero rischiato la vita.»
«Ha ragione lui.
D’altra parte, se i draghi sono così intelligenti come molti vanno dicendo,
quello avrebbe dovuto capire le conseguenze delle sue azioni.»
«Sì, lo so. Però,
nonostante tutto, mi fa comunque pena».
In quella il
rumore di una carrozza lanciata a gran velocità fece girare tutti in una sola
direzione, e poco dopo il calesse personale della principessa giunse nel
piazzale.
«Principessa.»
disse Mandy alzandosi in piedi, un po’ sorpresa nel vederla girare da sola per
la città.
Chissà cosa aveva
fatto per convincere la fittissima sorveglianza perennemente in circolo attorno
a lei a lasciarla un attimo in pace.
Appena il
cocchiere aprì lo sportello la ragazzina, che già sembrava in preda
all’euforia, corse verso il gruppo tenendo bene in vista il foglio che aveva in
mano.
«Amici, notizie
incredibili.»
«Che succede?»
«Una lettera! Una
lettera dal nobile Regis!»
«Una lettera del
maestro!?»
«È arrivata
stamattina con un piccione viaggiatore.»
«Che cosa dice?»
«Non ci crederete
mai. Hanno sconfitto Normar!»
«Che cosa!?»
esclamarono i soldati «Principessa, dite sul serio!?»
«È scritto qui. La
regina è stata costretta a riconoscere l’indipendenza di Uruk e delle terre
degli Hashigar, promettendo che non tenterà mai più di invaderle.»
«Confermo quanto
detto prima, il nobile Regis non è un comune essere umano.»
«Non avrei mai pensato
che un giorno Lainay potesse essere sconfitta.» commentò un altro soldato
«Allora è vero che esistono i miracoli.»
«Che altro
potevate aspettarvi da Regis?» disse una voce incisiva e scherzosa.
Tutti si voltarono
nuovamente da un’unica parte, e Dave scorse una figura a lui famigliare che
scendeva da cavallo.
«Elys! Allora sei
tornata!»
«Ne avevi qualche
dubbio?» rispose lei avvicinandosi «Qualcuno deve pur restare a tenere d’occhio
te e quel tuo scatenato insegnante. Sakura è tornata?»
«Non ancora.»
rispose Mandy «Ma è arrivata una sua lettera in cui dice che parteciperà alla
spedizione, quindi tra poco dovrebbe essere di nuovo qui.»
«Bene. Tornando a
noi, che altro dice Regis?»
«Non molto.»
replicò la principessa scorrendo fra le righe «Solo che si è inoltrato nei
domini di Normar, ed è quasi giunto a destinazione. Dice inoltre che il suo
maestro possiede un pentacolo, e che quindi dovrebbe essere in grado di tornare
a breve.»
«Vorrei vedere.»
commentò Elys «Aveva detto due mesi e ne sono passati quasi tre».
Erano passati già alcuni giorni da quando Regis aveva
lasciato Uruk per inoltrarsi nel Regno di Normar, nel regno che lui stesso
aveva contribuito a sconfiggere.
A causa della sua
sterminata distribuzione nel territorio elfico la conformazione di Normar era
piuttosto variegata, spaziando da alte montagne perennemente innevate a verdi
praterie lungo le sponde dei fiumi. Quella in cui il giovane umano stava
viaggiando era una regione caratterizzata da alte montagne coperte per la quasi
totalità da fitte foreste di abeti e larici, solo raramente intervallate da
alcune radure dove sorgevano soprattutto malghe e baite isolate.
La sua
soddisfazione per aver inflitto una così pesante umiliazione alla regina e al
suo presuntuoso fratello lo faceva sorridere, alleviando però solo in parte il
peso dei dubbi che ancora lo attanagliavano, e che solo raggiungendo il suo
maestro e parlando con lui sarebbe stato in grado di fugare una volta per
sempre.
Si aspettava, una
volta superato il confine, di vedersi costantemente osservato dalle spie al
servizio di Lainay, invece, da che aveva messo piede nel regno, di loro non si
era vista alcuna traccia, ma la cosa, riflettendoci bene, non gli parve poi
così strana.
In quel momento si
trovava a ridosso della catena montuosa che delimitava il territorio degli elfi
verso oriente, oltre la quale si estendevano le terre dei nani, e quella era
una regione di occupazione relativamente recente, in cui l’autorità di Galinne
stentava a farsi sentire.
Oltretutto, dopo
la disastrosa sconfitta contro Uruk, non ci sarebbe stato da meravigliarsi se
molte altre regioni bellicose avessero deciso di seguire il suo esempio,
costringendo Lainay a sottrarre attenzione ai territori più umili e
servizievoli per concentrare le proprie risorse in luoghi che ne avevano
maggior bisogno.
Non avere nessuno
alle costole era conveniente per Regis sotto vari aspetti; uno dei tanti pregi
era quello di non essere costretto a dormire all’addiaccio per non rischiare
ripicche e vendette della regina nei confronti di coloro che si offrivano di
dargli un tetto per la notte. Non che rimanere da solo lo spaventasse, passava
più notti all’aperto che al chiuso, ma in quei territori popolati di animali
selvatici e pericolosi non era da considerarsi una cosa prudente.
Per questo, non
appena il sole cominciò a sparire oltre l’orizzonte, bussò alla porta di una
piccola casa persa in mezzo al bosco, chiedendo ospitalità in cambio di un
piccolo ringraziamento in monete d’oro; vi abitava una famiglia di cinque
persone, marito, moglie, un anziano e due bambini, un maschio e una femmina;
boscaioli, sicuramente, elfi che vivevano di ciò che la foresta aveva da
offrire, con la sua selvaggina, i suoi frutti, la sua legna e l’acqua del
vicino ruscello. Avevano anche un piccolo orticello sul retro circondato da una
staccionata dove coltivavano quelle poche verdure in grado di germogliare a
quelle latitudini.
Anche se per gli
elfi l’ospite era sacro, in quei tempi così difficili, dove diffidenza e
intolleranza la facevano da padroni, era difficile che un elfo offrisse
ospitalità ad un umano, ma fortunatamente quella era una famiglia di persone
gentili, che subito si offrirono di concedere a Regis un pasto caldo e un
giaciglio senza pretendere alcun compenso.
Regis bussò alla
loro porta proprio quando stavano per mettersi a tavola, e il padrone di casa
si offrì di aiutarlo a foraggiare il suo cavallo mentre la moglie aggiungeva un
altro posto.
La cena era
soprattutto a base di carne, ma visto l’approssimarsi dell’inverno era normale:
bollito di cervo, cereali e qualche goccia di vino, comprato probabilmente
dagli Insathi in viaggio verso le terre dei nani.
Durante il pasto
il vecchio elfo ebbe a dire che in passato era raro vedere dei viaggiatori in
quelle terre così isolate, dove non vi era nulla che potesse giustificare tale
avvenimento, ma nell’ultimo mese quella di Regis risultava essere la seconda
visita da parte di un forestiero.
«Chi è stato a
venire prima di me?» chiese Regis, a sua volta incuriosito da un fatto tanto
insolito.
A quella domanda,
l’intera famiglia abbassò lo sguardo facendosi tutti affranti e pensierosi;
evidentemente, si disse il giovane guerriero, questo misterioso visitatore non
doveva essere andato incontro ad una fine molto felice.
Il padre dei due
bambini raccontò che poco più di un mese prima, alla loro porta aveva bussato
una straniera, che aveva chiesto loro alcune indicazioni senza però dare alcuna
informazione su chi fosse e cosa stesse facendo in un posto tanto remoto;
sosteneva che nei dintorni dovesse esserci una grotta, ma né il capofamiglia né
il suo vecchio padre ricordavano l’esistenza di una grotta nella zona attorno
alla casa.
Lei però si era
mostrata estremamente convinta di questo fatto, e non riuscendo ad ottenere
alcuna risposta se ne era andata in modo alquanto sgarbato, mugugnando fra sé
qualcosa che era meglio non ricordare.
Il giorno dopo la
moglie, uscita la mattina presto per raccogliere erbe, seguendo un terribile
olezzo di carne arrosto era giunta in una piccola radura ai piedi di un costone
di roccia, e lì aveva trovato quello che dava tutta l’aria di essere un
cadavere, riverso sull’addome ai margini di un cerchio di terra bruciata.
Terrorizzata, era
corsa ad avvisare il marito, e quando questi l’aveva girata si era trovato di
fronte ad uno spettacolo agghiacciante; il corpo di quella poveretta era
completamente devastato, l’intera parte destra era ricoperta da terribili
ustioni, i capelli bruciati come legni secchi, e solo con molta fantasia marito
e moglie erano riusciti a riconoscere in quel volto martoriato i lineamenti
dell’elfa che avevano incontrato il giorno prima.
Non appena si
erano accorti che era viva e respirava ancora, seppure debolmente, l’avevano
subito portata in casa, e avendole trovato addosso una lettera firmata dal
principe Chekaril avevano mandato uno dei loro figli, il maschio, il più
grande, ad avvisare gli occupanti del vicino accampamento di Normar.
Usando unguenti
alle erbe e rimedi di fortuna i due compagni erano riusciti ad arrestare
l’espandersi delle ustioni, evitando che anche l’altra metà del corpo potesse
venirne intaccata, e prima del tramonto il ragazzino era tornato all’abitazione
con un gruppo di soldati e guaritori che recuperata la loro compagna l’avevano
portata via.
Nel sentire la
descrizione che il vecchio elfo faceva di quella ragazza la mano di Regis prese
a tremare, i suoi occhi si spalancarono riempiendosi di apprensione; non
poteva, non poteva essere… lei.
Non voleva
crederci, si sforzava di pensare che doveva esserci un’altra spiegazione, che
poteva essere solo una forte somiglianza, ma il fatto che avesse in tasca una
lettera firmata proprio da Chekaril non poteva essere una coincidenza; e poi,
se il racconto corrispondeva al vero, perché mai dei soldati avrebbero dovuto
prendersi la briga di accompagnare una squadra medica in una regione
notoriamente pacifica e priva di pericoli?
Forse perché il
ferito era a sua volta un soldato, o perché era coinvolto in questioni
riguardanti la famiglia reale. E se vestiva di scuro, coprendosi il naso e la
bocca con un bavero, poteva essere solo una Spia.
C’era un solo modo
per esserne certi, per essere sicuri che l’elfa di cui stavano parlando fosse
Lsyn; se la supposizione di Regis era giusta, l’incantesimo utilizzato per
tentare di uccidere quella spia era il cosiddetto Soffio d’Inferno, una letale
trappola che scattava automaticamente quando una persona dotata di potere
magico transitava sopra il cerchio. Molte spie erano in grado di usare la
magia, ma la particolare natura del Soffio d’Inferno, che metteva in
comunicazione il potere magico del cerchio con quello della vittima, faceva sì
che quest’ultimo prendesse a bruciare, disperdendosi e rimanendo ad aleggiare
nella zona anche per diversi mesi, e visto che il circolo magico era una sorta
di secondo DNA bastava percepirlo per capire se apparteneva o meno ad una
persona nota.
Dopo una notte
insonne, trascorsa nel dubbio, pregando gli dèi di sbagliarsi, la mattina dopo
si fece accompagnare dal vecchio elfo e dal capofamiglia nella radura in cui
era avvenuto l’agguato, dove tutto era rimasto esattamente come quel giorno.
«Ecco, è successo
qui.» disse il marito.
Regis scese da
cavallo, raggiunse il cerchio di terra bruciata e si inginocchiò.
«Questo tipo di
incantesimo fa un gran rumore attivandosi. Siete certi di non aver sentito
nulla?»
«Beh, ecco… quella
notte c’è stato un temporale veramente forte, tuoni e fulmini sono risuonati
fino all’alba. Le tempeste qui sono frequenti, e ormai non ci facciamo neanche
più caso».
L’umano poggiò una mano sul cerchio; gli
servirono solo pochi secondi per riconoscere l’aura magica che stava
percependo, del resto è più facile ricordare quella di chi è stato un
avversario che quella del primo che passa.
Allora, era
davvero lei. Era davvero Lsyn ad essere caduta in quella trappola.
Ma perché?
Cosa era venuta a
fare così lontana dalla capitale?
Per quale motivo
era arrivata fino a lì, in quella piccola radura, dove solo per un vero
miracolo non era andata incontro ad una morte prematura ed orribile, divorata
dal fuoco?
Doveva
incontrarla, doveva scoprire cosa era successo veramente, voleva essere certo
che stesse bene, che nulla di irreparabile fosse accaduto.
«Sapete dove
l’hanno portata?» chiese ai suoi accompagnatori
«Per le condizioni
in cui era» disse il vecchio «Il solo posto in cui possono essere stati in
grado di curarla è il lazzaretto di Nyzalis, la capitale della regione.»
«La capitale avete
detto? E quanto dista da qui?»
«Due giorni di
cavallo, forse meno andando veloce.»
«Devo andare da
lei. Devo andarci subito».
Tuttavia, prima di
poter muovere un passo, una stranissima sensazione lo colse improvvisa, una
sensazione terribile che aveva già provato poco tempo prima.
I due elfi si
accorsero di quel suo strano comportamento e fecero per avvicinarsi.
«State indietro.
Non avvicinatevi».
E fu un bene che
lo dicesse, perché pochi secondi dopo una figura minacciosa piovve dal cielo
cercando di colpire Regis, che spostandosi lateralmente riuscì ad evitarla
all’ultimo momento.
Così, per la
seconda volta, Regis si ritrovò di fronte al giovane ragazzo nel soprabito nero
e dai capelli d’argento, che lo fissava con quegli occhi gelidi molto simili ai
suoi, carichi di orgoglio ma anche di rabbia e sete di vendetta.
Il capofamiglia
aveva con sé la propria ascia da lavoro, e vedendo quella figura minacciosa
dargli le spalle per un attimo pensò di avventarcisi contro, ma Regis lo fermò.
«Tornate a casa.
Questo non è affar vostro.»
«Ma… ma noi.»
«Andate. Con lui
me la sbrigo io».
Quelli alla fine,
seppur con riluttanza, obbedirono, lasciando soli i due umani che seguitarono a
fissarsi a lungo; poi, il nuovo arrivato prese a camminare in tondo, tenuto
costantemente d’occhio da Regis.
«È passato un po’
di tempo dal nostro ultimo incontro.»
«Erik.» disse
Regis con tono pacato, come se lo avesse sempre conosciuto
«Allora lo sai il
mio nome.»
«Dave mi ha
raccontato tutto dopo che hai sconfitto Valon.»
«Che ragazzino
pestifero. E sì che gli avevo detto di tenere la bocca chiusa.
Ad ogni modo,
ammetto di averti in parte rivalutato. Dopo che hai aiutato quel manipolo di
ribelli a combattere la loro battaglia hai dato prova di essere rimasto,
nonostante tutto, quello di un tempo, e ciò mi arreca se non altro una qualche
soddisfazione.»
«Chi sei realmente
tu?».
Erik chiuse gli
occhi accennando a sorridere.
«Non fare domande
di cui conosci la risposta. Hai cominciato ad intuire chi io fossi dalla prima
volta che sono comparso nei tuoi sogni.
Del resto, da che
sei giunto in questo mondo, ti sei sempre domandato dove fosse finito il potere
che dopo aver lasciato la Terra
avevi scoperto di possedere.»
«Il Μένος ἄδηλος.»
«Esatto. Il Μένος ἄδηλος.
L’oscurità stessa che prende corpo. Nel tuo caso ovviamente il procedimento era
un po’ diverso, ma il risultato è stato comunque lo stesso».
Erik si fermò, puntandogli contro l’indice.
«Avresti dovuto prevederlo. A forza di usarlo per viaggiare nel nostro
universo, e senza la forza della pietra filosofale, quel potere ha cominciato a
sfuggire al tuo controllo.
Così, per poterti salvare, il nostro comune amico non ha avuto altra
scelta che separarlo da te, dandogli un nuovo contenitore in cui vivere.»
«Dunque il Μένος ἄδηλος…».
Erik si toccò il petto.
«È qui dentro».
Regis abbassò lo sguardo serrando con forza i pugni.
«Dì la verità, ciò
che ti ha fatto esitare, e che ti sta facendo esitare ancora adesso, non sono
le tue aspettative per il futuro, ma il fatto di essere stato costretto a
riconoscere che io esisto!»
«Tu sei… il mio
Rinnegato».
Nel sentire quel
termine, gli occhi di Erik si accesero di una luce malevola; il ragazzo si
fermò piantando i piedi a terra.
«Rinnegato.» disse
quasi ringhiando, e stringendo i pugni «Io non sono né l’uno né l’altro. Pur
essendo nato come un Rinnegato, ho il corpo e le fattezze di un essere umano. Entrambe
le razze mi disprezzano, mi odiano e mi temono, allontanandomi non sono
completamente come loro. Io sto nel mezzo, dovunque vada io sarò sempre odiato!
E la colpa è solo tua!».
Erik si scagliò
improvvisamente alla carica, Regis si fece trovare pronto a parare il suo pugno
e prese il via uno scontro estremamente acceso.
Malgrado nessuno
dei due avesse deciso di sguainare la spada, tutto si stava svolgendo proprio
come nel sogno che perseguitava Regis da diversi anni; quell’essere, quel
ragazzo che gli somigliava a tal punto, era stato assieme a lui per tutto quel
tempo, malgrado Regis si fosse sforzato con ogni mezzo di non pensarci, di
considerarlo un frutto dell’immaginazione.
Ora invece lui era
lì, in cerca della propria vendetta, e se davvero in Erik vi era una traccia
anche del modo di essere di colui dal quale era nato Regis sapeva che nulla gli
avrebbe impedito di prendersela.
L’unica cosa che
Regis potesse fare per impedirglelo era fermarlo, liberarsi di lui, anche se la
cosa, malgrado tutto, gli provocava dolore.
In verità aveva
capito fin dal primo momento in cui l’aveva visto faccia a faccia chi fosse
realmente Erik, e lui aveva ragione nel dire che era quello il motivo del suo
attuale stato d’animo; se Erik era vivo, e soffriva per la sua condizione, la
colpa era solo sua: era così preso dal desiderio di riuscire a controllare il
suo potere per evitare che potesse fare del male ad altri da non rendersi conto
che non ci sarebbe mai riuscito, e che anzi con la sua condotta non stava
facendo altro che accelerarne il risveglio, e ora era Erik a pagare per la sua
ingenuità.
Ciò nonostante,
non poteva permettere che questo pregiudicasse ciò che si era ripromesso di
fare: lui sarebbe tornato, sarebbe tornato sulla Terra dai suoi amici e da
tutte le persone che sentiva lo stavano aspettando, ma per riuscirci doveva
rimanere vivo, e per rimanere vivo doveva sconfiggere Erik.
C’era però una
cosa di cui Regis non aveva tenuto completamente conto, che purtroppo si rivelò
a lui nel modo peggiore nel momento in cui, ruotando su sé stesso, cercò di
colpire Erik al volto con un colpo a mano aperta; il suo colpo andò infatti
completamente a vuoto, perché il Rinnegato, prevedendolo, nel momento di
incassare si spostò lateralmente.
«Te ne sei
dimenticato, Toshio?» gridò il Rinnegato colpendolo con forza al torace dopo
averlo lasciato scoperto.
L’affondo fu così poderoso
da far mancare per un istante il respiro a Regis, scaraventandolo con forza
contro un albero dopo avergli fatto sputare sangue.
«Che… che
potenza.» mugugnò cercando di rialzarsi.
«Mi sembra di
avertelo già detto. Io sono te. Con il tempo, sono riuscito ad accedere ai
cassetti dei tuoi ricordi, scoprendo tutti i tuoi segreti. Tutte le tue abilità
di guerriero mi sono già note, posso anticipare ogni tua mossa».
A quel punto,
vedendo che Regis non accennava a rialzarsi, Erik aprì la mano destra;
all’altezza del polso si formò un circolo magico, e nel palmo, in qualche
istante, comparve una sfera violacea che pareva fatta di acqua.
«Sono otto anni
che aspetto questo momento. Finalmente avrò la mia vendetta».
Il Rinnegato si
avvicinò, guardò il suo avversario con un misto di odio e di compassione,
quindi alzò la mano come se dovesse lanciare una palla.
«Addio».
Appena la abbassò,
però, la sfera andò a cozzare contro una barriera invisibile.
«Ma cosa…» disse
incredulo Erik cercando di perforarla.
Regis si rimise in
ginocchio, guardandolo come lui lo aveva guardato un istante prima
«C’è anche qualcosa di nuovo nel mio
repertorio!» urlò, e subito dopo la barriera esplose su sé stessa assieme
all’attacco nemico.
I piedi di Erik
strisciarono a lungo sulla terra umida coperta di foglie, e quando rialzò gli
occhi vide Regis che, spiccato un enorme salto, gli volava contro con la spada
in mano pronto a vibrare un colpo fatale.
Erik rimase
immobile, senza sapere cosa fare, e Regis era convinto di avere la vittoria in
tasca, quando all’improvviso gli occhi del suo avversario mutarono per un istante,
facendosi rosso sangue, e nel tempo di un battito di ciglia assestò al giovane
guerriero un destro così poderoso che l’albero contro il quale fu scaraventato
questa seconda volta, invece che frenare la sua corsa, fu letteralmente
sventrato, precipitando.
Per un vero
miracolo Regis non si ritrovò con la spina dorsale spezzata a metà, ma era come
se una cannonata lo avesse investito in pieno stomaco lasciandolo immobile fra
le foglie a mugugnare per il dolore; a stento si manteneva cosciente, le
braccia e le gambe erano tutte indolenzite e quando cercò di stringere
l’impugnatura della sua spada si accorse che questa gli era volta via di mano,
conficcandosi a pochi metri da lui.
“Che diavolo… è
successo? Da dove… ha preso… tutta questa forza”.
Sollevando lo
sguardo, però, si accorse che anche Erik, tornato quello di sempre, sembrava
sorpreso quanto o più di lui per ciò che aveva appena fatto, e ora si guardava
la mano con il quale aveva colpito pieno di stupore, ma anche di paura.
«Che cosa… che
cosa è successo?».
Poi, prima quasi
impercettibilmente, poi in modo sempre più visibile, la mano e tutto il braccio
presero a contorcersi, ricoprendosi di inquietanti bubboni che si muovevano e
si ingrossavano fra le pieghe della manica come se sotto la pelle si stesse
muovendo un esercito di insetti.
«No!» gridò Erik
tenendosi l’arto con forza inaudita, fin quasi a dar l’idea di volerselo
strappare «Non adesso! Lui è solo mio! Voglio sconfiggerlo solo con le mie
forze!».
Nel disperato
tentativo di dispedere quello che doveva essere un dolore atroce Erik prese ad
agitare violentemente il braccio, e ad ogni colpo che menava generava un
vortice di energia capace di spezzare i rami degli alberi e agitarne i tronchi.
Regis non sapeva
cosa pensare.
Avendolo avuto
dentro di sé conosceva i poteri del Μένος
ἄδηλος, ma
era certo non si trattasse di questo; l’energia che sentiva provenire dal corpo
di Erik era sì oscura, ma aveva qualcosa di diverso, e forse anche di
famigliare, un non so che a cui non riusciva a dare una spiegazione.
Gradualmente Erik sembrò riuscire a riprendere il controllo, il suo
braccio smise di contorcersi riacquistando un aspetto umano, ma quella cosa
doveva averlo terribilmente provato; aveva l’aria esausta e barcollava
vistosamente, come se non avesse più un briciolo di forza in tutto il corpo, ma
nonostante tutto sembrava ancora determinato a continuare lo scontro.
Regis non sapeva cosa fare, nello stato in cui quel colpo lo aveva
ridotto era sicuro di non potersi opporre ad un qualsiasi attacco; rimaneva
immobile al centro del cerchio di terra bruciata, quasi aspettando di essere
finito.
Erik prese a camminare verso di lui, mettendo mano alla sua spada d’oro;
barcollava come un automa, respirava a fatica con la bocca aperta e sudava
copiosamente, ma ciò non sembrava sufficiente per fermarlo; Regis pensò che
fosse la fine e strinse forte il pugno, raccogliendo involontariamente un
mucchietto di cenere, ma quel poco di forza che gli era rimasta fu sufficiente
a fargli sgranare gli occhi: il potere del circolo magico usato per creare la
trappola non si era ancora esaurito del tutto, una parte albergava ancora fra i
suoi resti.
Era come se fosse stato in parte cancellato, ma ricostruendolo c’era la
concreta possibilità che fosse ancora in grado di funzionare, bruciando
l’energia che ancora albergava fra i resti delle sue linee.
Il Rinnegato intanto continuara ad avvicinarsi, e ormai era a pochi
metri; se voleva farlo, doveva farlo subito. Il suo intendo non era ucciderlo,
e sapeva che i Rinnegati sono molto più resistenti degli esseri umani a ferite
e infortuni, ciò che voleva era semplicemente di provarlo quel tanto che
bastava per costringerlo ad abbandonare il campo.
Erik gli arrivò puntò, rivolse a terra la punta della spada e la abbassò
con forza, ma un istante prima di essere colpito Regis rotolò all’indietro,
portandosi all’esterno del cerchio bruciato, e generato un incantesimo batté
violentemente la mano sul terreno.
Sotto i piedi del Rinnegato si formò, in un secondo, un grande circolo
magico che ricopriva l’intero spazio di terra bruciata, e subito dopo,
sfruttando lo scontrarsi di due energie magiche differenti, come una letale
reazione a catena, dal simbolo si sprigionò un vortice di fuoco di immani
proporzioni che lo investì in pieno.
Erik urlò con tutto il fiato che aveva, ma la pressione esercitata dalle
fiamme che emergevano dal cerchio era tale da non riuscire a muovere un
muscolo; il Soffio d’Inferno era un incantesimo di potenza spaventosa, e
vedendo il suo alter ego contorcersi al suo interno Regis si domandava come
avesse fatto Lsyn a salvarsi in una simile situazione.
Poi, di colpo, il Rinnegato scomparve in un bagliore dorato, proprio nel
momento in cui l’incantesimo esauriva completamente la sua efficacia,
spegnendosi, e riempiendo l’intera zona di un acre odore di fumo.
Regis rimase a lungo seduto in terra fissando quel cerchio fumante, ma
scartò fin da subito l’ipotesi che Erik fosse morto; i Rinnegati sapevano
essere ossi molto duri, e lui in particolare non si sarebbe arreso molto
facilmente. Probabilmente aveva usato i suoi poteri per teletrasportarsi.
Il guerriero avrebbe voluto riflettere ancora, domandarsi che ne fosse
stato di Erik, cosa avesse causato quella sua reazione così violenta, e
soprattutto da dove venisse quell’energia che aveva percepito nell’attimo di
accusare il colpo, ma il pensiero di scoprire cosa fosse successo alla sua
amica Lsyn si rivelò più forte di qualsiasi altra cosa, e quindi, rialzatosi
non senza fatica, Regis recuperò la propria spada, tornando verso la casa dei
boscaioli per recuperare il suo cavallo e partire subito per quella sua
ennesima deviazione alla volta del lazzaretto.
Capitolo 28 *** Rimpianti di Un Cuore Solitario ***
25
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Aveva eragerato.
Questa volta aveva davvero passato la misura, ed entro poco tempo
avrebbe pagato con la vita il prezzo della sua incrollabile voglia di vendetta.
Non che la sua fosse mai stata una vera vita.
Per cinque anni aveva viaggiato di mondo in mondo, di pianeta in
pianeta, sempre sfruttando il suo potere oscuro, grazie al quale poteva
compiere viaggi attraverso l’iperspazio e gli squarci dimensionali ben protetto
da una barriera che lo difendeva dagli effetti della velocità e del vuoto
spaziale, e tutto questo solo per diventare più forte.
Dopotutto, non si era rivelato poi tanto diverso dal suo creatore: il
desiderio di cambiare le cose aveva segnato la sua fine.
Ansioso di mettere alla prova il frutto del proprio, severissimo
addestramento, aveva voluto attaccare battaglia con un esercito di mostri
simili a giganteschi millepiedi, creature lunge decine di metri con un carapace
più duro del titanio, centinaia di zampe, occhi piccoli e semisferici e una
bocca armata, oltre che di un paio di minacciose tenaglie, di ben quattro fila
di denti affilatissimi.
All’inizio pensava di affrontarne solo uno, ma poi avevano cominciato ad
arrivarne a decine, spuntando dalla sabbia rovente come tanti funghi, e allora
la situazione si era complicata maledettamente.
Aveva combattuto con tutte le sue forze, perché tante ce ne volevano per
aver ragione di quelle bestie, ma improvvisamente una di esse, sorprendendolo
alle spalle, gli aveva letteralmente mangiato un braccio, il destro; a quel
punto si era visto costretto a fare ricorso a tutto il suo potere per spazzare
via quegli insetti tutti in una sola volta, ma questo, unito alla menomazione
subita e all’affaticamento, aveva finito per prosciugare tutte le sue energie.
E così eccolo lì, da solo, disteso nel mezzo di un deserto su un pianeta
di cui neppure sapeva il nome, con sabbia rovente sotto la schiena e un sole
impietoso a martellargli la pelle, tanto forte e luminoso da costringerlo a
tenere gli occhi socchiusi.
Attorno a lui, i cadaveri dei mostri che aveva sconfitto, i cui corpi
emergevano per parecchi metri dal manto sabbioso, ultime vittime della sua
furia.
Con le sue ultime forze aveva cicatrizzato la spaventosa ferita, e tutto
ciò che rimaneva ora era un moncone all’altezza della spalla quasi
completamente coperto dai bordi strappati della sopravveste che indossava; se
proprio doveva morire, non voleva spendere i pochi attimi che gli restavano
immerso nel suo stesso sangue.
Molti suoi fratelli Rinnegati avrebbero dato qualunque cosa per vedersi
sanguinare, per lui invece il sangue era solo l’ennesima dimostrazione del
fatto che, pur essendo venuto al mondo come un Rinnegato, aveva in tutto e per
tutto la conformazione di un uomo comune, rivelandosi una specie di meschino
incrocio che nessuna delle due razze avrebbe mai voluto riconoscere come un
proprio compagno.
Sarebbe morto come aveva vissuto quella sua breve vita: solo, senza
nessuno a dedicargli una parola di conforto, di speranza.
Si domandava che ne sarebbe stato di lui; del suo corpo, se fosse
destinato a scomprire, come quello degli altri Rinnegati, o se invece fosse
divenuto cibo per qualcuno di quei vermi, ma soprattutto della sua anima.
Lui aveva un anima?
Poteva dire di averla? E se sì, quale sarebbe stato il suo destino?
Avrebbe ottenuto di poter entrare nel ciclo del karma, nascendo a nuova vita
come un vero essere umano?
Questa prospettiva, per quanto dubbia e piena di interrogativi, serviva
se non altro a rinfrancargli un po’ lo spirito, lenendo anche, ma solo in
parte, il dolore indicibile che gli giungeva dall’orribile menomazione.
Ormai aspettava solo di esaurire completamente la propria linfa vitale e
di abbandonarsi fra le braccia della morte, quando una strana voce, echeggiante
e profonda, gli giunse alle orecchie, tenendolo sveglio.
«Erik. Erik».
Continuava a chiamare il suo nome, con tono sempre più forte, e
contemporaneamente il ragazzo iniziò a sentire un qualcosa di freddo che gli
lambiva i piedi; sembrava fumo, fumo nero, denso e schiumoso, che lentamente lo
ricoprì, dandogli l’impressione di trovarsi in una grande semisfera buia, in
cui quella voce risuonava con maggior vigore di prima.
All’interno di quella specie di limbo al confine dei mondi Erik
percepiva una strana energia, un’energia che gli entrava in corpo
restituiendogli un po’ di forza, abbastanza da poter rispondere a quella voce
che continuava a chiamarlo.
«Chi sei?».
Quella tacque per qualche istante, poi riprese a parlare.
«Dimmi, Erik. Vorresti avere salva la vita?»
«Co… cosa!?» disse il ragazzo incredulo
«Io posso salvarti Erik. Posso permetterti di continuare a vivere.
Potrai di nuovo viaggiare per l’universo in cerca della tua vendetta.
Non avrai più alcun limite, il tuo potere sarà assolutamente senza confini.»
«Pe… perché dovresti fare una cosa del genere?»
«Perché tu sei come me. Sei odiato, disprezzato, cacciato da tutti. So
bene cosa si prova a sentirsi un eterno respinto, sempre allontanato perché
ritenuto diverso.
Tu vuoi la vendetta, vero? La volevo anche io, un tempo, ma non sono
riuscito ad ottenerla. Voglio che tu possa assaporare questa gioia, e il
piacere che proverai appagherà almeno in parte il mio dolore».
Erik sorrise beffardamente, chiudendo gli occhi.
«Non hai l’aria di un filantropo. Che cosa vuoi in cambio di questo
aiuto?»
«La mia essenza sta rapidamente sparendo dopo anni di peregrinazioni
attraverso il cosmo. Presto sarò in grado di ricostruirmi un corpo, ma
nell’attesa ho bisogno che qualcuno la conservi per me.»
«Tu… vuoi che io conservi il tuo potere per te!?»
«Rifletti. È l’unica opportunità che ti rimane. L’alternativa è solo la
morte.
Tu pensi che morendo potrai rinascere a nuova vita, ma chi ti garantisce
che sia così? Potrai anche avere in tutto e per tutto le fattezze di un essere
umano, ma chi ti assicura che tu abbia anche un’anima?
Conosci bene il destino che attende i Rinegati. Essi si perdono
nell’immensità dello spazio, scomparendo come vacue ombre. Che farai se dovesse
accadere lo stesso anche con te? Sei pronto a scomparire senza prima aver
ottenuto vendetta?».
Erik era indeciso; se da una parte non riusciva ad accettare l’idea di
vedere il suo corpo trasformato in una sorta di incubatrice, dall’altra doveva
ammettere che chiunque stesse parlando con lui aveva ragione; non aveva alcuna
garanzia di essere ammesso al ciclo del karma, e se così non fosse stato lo
aspettava unicamente la totale distruzione.
Non poteva, non poteva assolutamente morire, e magari sparire nel nulla,
come se non fosse mai esistito, senza prima farla pagare a colui che lo aveva
fatto nascere, condannandolo a quell’orribile esistenza.
Ciò nonostante, la paura continuava a farlo esitare.
«Io… io…».
A quel punto una figura evanescente comparve dinnanzi a lui; era impossibile
distinguerla, ma ricordava, seppur vagamente, un essere umano, nudo e con
lunghi capelli.
«Non ti rimane molto tempo. Prendi la tua decisione.»
«Io…» continuava a ripetere Erik
«Forza!»
«… accetto…».
L’ombra sembrò quasi sorridere.
«Così sia.» disse, poi si trasformò a sua volta in fumo nero, avvolgendo
completamente la ferita alla spalla, e quando, dopo poco, si diradò, al suo
posto era comparso un nuovo braccio, del tutto uguale a quello che Erik aveva
perso.
Il giovane dapprima avvertì una sensazione quasi di piacere,
accompagnata da una nuova forza che cominciava a scorrergli nelle vene.
«Chi sei… tu…?».
Erik si svegliò di soprassalto
gridando di paura; sudava copiosamente, gli mancava il respiro, ma era vivo.
Dopo essersi passato una mano sul viso per scacciare il senso di
oppressione per un risveglio tanto brusco cominciò a guardarsi attorno per
cercare di capire cosa fosse successo.
Si trovava in una stanza piccola e povera, con nulla più che un tatami a
coprire il pavimento e un futon sul quale era disteso; di fronte a lui, come
una porta per il paradiso, una finestra aperta faceva entrare caldi raggi di
sole, accompagnati da un canto di uccelli e dai profumi del bosco in autunno.
Cercò di mettersi a sedere, ma un dolore lancinante al torace e alla
testa lo costrinse a rimanere disteso; guardandosi, si accorse che qualcuno lo
aveva denudato, applicandogli poi una vistosa fasciatura che avvolgeva il
torace sorreggendosi alla spalla.
Non ricordava bene cosa fosse successo, e non aveva la minima idea di
come fosse arrivato fin lì. L’ultima immagine di cui aveva memoria era un
vortice di fuoco che lo circondava, e di Toshio fermo davanti a lui con una
mano appoggiata a terra, poi più niente.
Allora, disse fra sé, qualcuno doveva averlo salvato.
Ma chi, e perché?
Ciò che maggiormente lo inquietava, però, era il ricordo che aveva di un
momento particolare dello scontro appena sostenuto, durante il quale il suo
braccio destro era sfuggito al suo controllo, cominciando ad agire quasi di
propria volontà.
Era stata una sensazione terribile, di rabbia mista a dolore e
frustrazione, e il sogno dal quale si era appena svegliato non era certo
servito a cambiare il suo stato d’animo; come se una forza presente in lui avesse
scalpitato per uscire allo scoperto dopo averlo salvato da una situazione
potenzialmente mortale.
Sollevato il braccio, lo guardò a lungo, cercando di comprendere meglio
cosa fosse realmente avvenuto, quando la porta scorrevole accanto a lui si
aprì, ed entrò una giovane ragazza Inu che portava un vassoio con sopra una
ciotola che profumava di erbe e delle bende.
Vestiva in modo semplice, con un abito beje di tessuto a maniche lunghe
che arrivava fin quasi alle caviglie con i bordi colorati di rosso e una fascia
stretta in vita, e sopra una giacchetta dello stesso colore senza maniche; ai
piedi portava scarpe di tela.
Aveva degli occhi bellissimi, azzurri come il cielo estivo, e lunghi
capelli neri, raccolti in una coda e ricadenti sulla spalla sinistra.
«Sei sveglio.» disse con la sua voce gentile
«Dove… dove mi trovo?»
«A Hokishima, un villaggio di Inu».
La ragazza si inginocchiò davanti a lui e avvicinò le mani per
srotolargli le bende; Erik, dapprima, si ritrasse, spaventato da qualcosa che
nemmeno lui conosceva.
«Tranquillo, non hai nulla di cui aver paura. Ma devo cambiarti la
fasciatura e mettere la pomata, o le ustioni potrebbero infettarsi.»
«Le… ustioni?».
Senza opporsi ulteriormente il ragazzo la lasciò fare, e quando il
bendaggio fu rimosso sotto di esso apparve una grande macchia di pelle
ustionata che andava dalla spalla destra al torace. La Inu intinse uno stecco di
legno nella pastura verde e prese a spalmarla con delicatezza non solo lì, ma
anche su altre ustioni più o meno grandi disseminate in varie parti del corpo.
Bruciava parecchio, ma niente che Erik non sapesse sopportare. E poi, il
volto di quella ragazza era così bello, la sua espressione così gentile e i
suoi occhi così dolci che non gli riusciva di pensare ad altro che a guardarla,
e più la guardava più un altro volto sembrava sovrapporsi al suo, un volto
molto simile ma nel contempo diverso.
«Come ti chiami?» le domandò ad un certo punto
«Sanae.»
«Sei brava.»
«Beh, sono ancora un’apprendista.» rispose lei diventando rossa «Ho
imparato da mia madre. Lei era una guaritrice.»
«Perché dici era? Le è successo qualcosa?».
A quella domanda Sanae, che stava fasciando una ferita alla gamba,
rimase immobile, ma Erik poté sentire le sue mani tremare, e si pentì quasi subito
di aver fatto una domanda tanto inopportuna.
«Lei… è stata uccisa.»
«Mi… mi dispiace. Scusa se ti ho ferita.»
«Non fa niente. Sono passati tanti anni. Purtroppo noi Inu non siamo
benaccetti in queste terre, cose del genere capitano spesso.
Ma tu invece come ti chiami?»
«Io… io sono Erik.»
«Erik? È un nome strano. Ma è anche molto bello».
Dopo poco la medicazione ebbe termine.
«Ecco, ho finito.»
«Cosa mi è successo esattamente? Io…» mentì Erik, forse per non
spaventare la ragazza «Non mi ricordo niente.»
«I taglialegna ti hanno trovato vicino al crinale rientrando la sera dai
boschi. Eri ferito gravemente, così ti hanno portato qui.»
«Per quanto… ho perso i sensi?»
«Hai dormito per quasi tre giorni. Avevi bisogno di molto riposo».
Poco dopo una sfera di luce entrò dalla finestra prendendo a svolazzare
per tutta la stanza.
«Lily.» disse Erik quando si fermò davanti a lui
«Era ora che tornassi fra noi.» disse, stavolta parlando, in modo che
anche Sanae potesse sentire «Stavo cominciando a pensare che non ti saresti più
svegliato.»
«È stata lei ad avvertire i taglialegna e a guidarli da te. Devi esserle
grato.»
«Sì, lo immaginavo».
Sanae raccolse le sue cose, salutò rispettosamente con un inchino quindi
lasciò la camera, chiudendosi la porta alle spalle; Erik e Lily restarono soli.
«Mi hai salvato tu, vero?»
«Giusto all’ultimo secondo.» rispose lei con la solita tecnica
telepatica «Se fossi intervenuta un secondo più tardi col teletrasporto,
saresti finito alla graticola.»
«Ero così esausto che non mi sono accorto di quel cerchio.»
«Con le energie che mi erano rimaste ho provato a curare le tue ferite,
ma poi mi sono vista costretta a chiedere aiuto.»
«Hai fatto la cosa giusta.»
«Ok. Allora io… ti lascio riposare».
La fata fece per andarsene da dove era entrata, ma all’ultimo secondo
Erik la richiamò.
«Lily.»
«Sì?»
«Grazie».
Lei sorrise, ricambiò il ringraziamento ed uscì.
Furono necessari un altro paio di
giorni perché Erik potesse ritrovare le forze necessarie ad alzarsi dal letto,
ma era comunque costretto a sorreggersi ad una stampella che un taglialegna del
villaggio aveva costruito apposta per lui per poter camminare.
Sanae sosteneva che aveva ancora molto bisogno di riposo, ma lui non ce
la faceva più a rimanere confinato in una camera, quindi la ragazza, seppur con
qualche esitazione, lo lasciò fare.
Erik ebbe così modo di osservare con i suoi occhi la tranquillità che
albergava in quel pacifico villaggio ai piedi delle montagne; quella era la prima
volta che incontrava gli Inu, e anche se trovava la loro condotta di vita
decisamente troppo pacifica non poteva fare a meno di provare una certa invidia
nei loro confronti: erano così spensierati, così amanti della vita, così
attaccati l’uno all’altro e così fieri della loro identità come popolo.
Erano come lui.
In quei giorni Sanae gli aveva parlato degli Inu, raccontandogli di
quanto fossero odiati, disprezzati e osteggiati da molti popoli, per questo
Erik si sentiva così simile a loro; come lui, gli Inu erano condannati a stare
nel mezzo, soprattutto in quelle terre, dove nessuno era dalla loro parte e mai
lo sarebbe stato.
Sì, era invidioso.
Loro almeno erano tanti, potevano fare affidamento l’uno sull’altro per
superare le difficoltà e andare avanti, lui invece era completamente solo, era
unico, e mai come nella sua situazione l’unicità era da considerarsi una
maledizione.
Eppure, per la prima volta da che era venuto al mondo, non si sentiva
solo; i bambini si avvicinavano a lui incuriositi e gli chiedevano di giocare,
le donne e gli anziani gli offrivano gentilmente dell’acqua o quel poco di vino
presente nel villaggio quando passava loro vicino, gli uomini si intrattenevano
a far conversazione con lui dandogli vigorose pacche sulle spalle al ritorno da
una dura giornata di lavoro.
Forse non avevano idea di chi lui fosse realmente, forse non si erano
resi conto che fosse un Rinnegato; d’altra parte però, come poteva un popolo
così avverso a qualsiasi forma di violenza, amante solo della pace e della
tranquillità, avere qualcosa da spartire coi Rinnegati?
Stare in mezzo a quella gente così bendisposta nei suoi confronti riuscì
persino a fargli dimenticare la vendetta, che per otto lunghi anni era stato il
suo unico pensiero.
Passarono i giorni, non sapeva neppure quanti, e un pomeriggio si
ritrovò seduto in riva al torrente che scorreva appena fuori del villaggio,
appoggiato ad un grosso abete; alla sua sinistra, la stampella, a destra invece
la sua spada d’oro.
Mai aveva pensato di poter godere di una simile pace, mai in vita sua
era riuscito a rilassarsi; nella sua testa c’era sempre e solo lui, il suo
nemico, e questo gli toglieva il sonno, senza dargli tregua. Ora invece si
sentiva in pace, con sé stesso e, incredibilmente, anche con il mondo.
Dimenticare.
Lo avrebbe tanto voluto.
Faceva freddo quel giorno, l’inverno ormai era veramente vicino, e
alzando gli occhi al cielo nuvoloso già si poteva intendere che mancava poco
all’arrivo dei primi fiocchi di neve, che come una coperta avrebbero avvolto
per mesi l’intera regione.
Malgrado l’innaturale tranquillità che pervadeva il suo animo i sensi di
Erik non erano certo allentati, a appena percepì una lievissima vibrazione
subito afferrò la spada e la puntò alle sue spalle girandosi di scatto, salvo
poi ritirarla appena incrociato lo sguardo di Sanae.
«Scusa, non volevo spaventarti.» disse la ragazza alzando le braccia
«Non arrivare mai alle spalle di qualcuno. È il modo migliore per farsi
uccidere.»
«Lo terrò presente. Ero venuta a vedere come stavi.»
«Tutto a posto, non c’è bisogno che ti preoccupi».
Ritrovata la salute, Erik aveva ritrovato anche il suo proverbiale
atteggiamento distaccato e acido, ma questo non sembrava sufficiente per
irritare o offendere in qualche modo Sanae, che chiese di potersi sedere
accanto a lui.
Erik avrebbe voluto rifiutare, ma poi, senza sapere neppure lui perché,
la lasciò fare.
Sanae allora si sedette, ma per lungo tempo i due non si guardarono
neppure in volto, seguitando piuttosto a tenere gli occhi piantati
sull’impetuoso scorrere dell’acqua del torrente.
«Come ti senti oggi?» domandò ad un certo punto la Inu
«Abbastanza bene. Entro due o tre giorni dovrei essere completamente
ristabilito.»
«E quando questo accadrà… te ne andrai?».
Il giovane non seppe cosa rispondere e rimare in silenzio, inarcando
leggermente le labbra come a cercare parole che non gli riusciva di trovare.
Non avrebbe voluto lasciare quel posto così tranquillo, l’unico in cui,
dopo otto anni passati a lacerarsi l’animo in cerca del suo rivale, era
riuscito di nuovo a trovare quella pace a lungo dimenticata. Era difficile dire
di voler abbandonare l’unico posto in cui la gente non lo allontanava e non lo
riteneva un nemico al solo vederlo. Gli Inu lo avevano accolto tra di loro e lo
rispettavano come nessuno faceva da anni, il loro non era rispetto o
sottomissione a un nemico più forte di cui avevano paura, lo avevano accolto
come avrebbero fatto per uno della loro razza.
Non
voleva andare via, ma non poteva restare. Per quanto quel posto lo rendesse, se
non felice, almeno in pace con sé stesso e gli facesse dimenticare la sua
rabbia verso Toshio, sapeva che non poteva restare. Non capiva come avessero
potuto affezionarsi a lui, ma sapeva che era così, non aveva mai trovato
nessuno tra loro che gli rifiutasse qualcosa o che gli rivolgesse una parla
sgarbata ma non poteva restare, era l’unica certezza che aveva. Non poteva
abbandonare la sua missione proprio adesso che aveva ritrovato il suo nemico,
non voleva buttare tutto al vento. Aveva bisogno di vendetta e non si sarebbe
arreso finchè non l’avesse avuta.
«Erik?»
Sanae lo aveva chiamato posandogli una mano sul braccio. Era una
sensazione strana, da tanto nessuno lo avvicinava così. Non era spiacevole ma
si rese conto che quel contatto lo innervosiva e si allontanò.
«Non posso restare qui.»
«Certo che puoi restare. Perché non dovresti?».
Sembrava preoccupata dalla sua risposta. Forse Sanae aveva già capito
che sarebbe andato via e voleva convincerlo a restare, ma perché avrebbe dovuto
farlo? Dopo tanto tempo passato lontano dalla gente, non riusciva a capire per
quale motivo cercasse di fermarlo proprio lei che non sapeva niente della sua
vita.
Forse era proprio per questo che voleva trattenerlo, se avesse saputo
chi era veramente lo avrebbe ospitato ugualmente? Quegli Inu avrebbero ospitato
un Rinnegato? Era probabile che neanche sapessero dell’esistenza dei Rinnegati,
chissà come avrebbero reagito se avessero scoperto chi erano e che uno di loro
era nelvillaggio? Aveva come il vago
sospetto che non lo avrebbero mandato via, ma non voleva rischiare. Gli piaceva
quel posto e, per quanto gli costasse caro ammetterlo, anche quella gente.
Almeno da lì voleva andare via con un ricordo che non fosse segnato dall’odio,
voleva lasciarsi alle spalle almeno un posto in cui poteva dire di aver trovato
qualcuno che lo aveva accolto volentieri anche se era una cosa che non aveva
molto senso
Lei guardò verso terra e raccolse una pigna.
«Lo sai? Da che sono nata, non sono mai uscita dai confini del
villaggio, ma ho sempre sognato di poter conoscere altri luoghi, di poter
vedere il mondo che si estende oltre questa foresta».
Erik la guardò non senza sorpresa e compatimento, e Sanae intuì subito
quali fossero i suoi pensieri.
«È così strano? O forse è sbagliato?»
«Che cosa ti aspetti esattamente dal mondo esterno? Speri forse che sia
migliore di quello in cui sei vissuta?»
«Ecco… io non lo so. Ma se non lo vedo non lo saprò mai. La mamma diceva
che occorre impegnare la propria vita al meglio, altrimenti si finisce per
sprecarla.»
«Sì, è forse.» rispose Erik guardando a terra «Ma può essere anche il
contrario.»
«In che senso?»
«Nel senso che impegni una vita intera nel perseguire uno scopo, solo per
poi scoprire di averla sprecata».
Ma che stava dicendo?
Come aveva fatto a venirgli fuori una considerazione simile?
Proprio lui, che per otto anni non aveva fatto che pensare alla
vendetta, ora compativa le sue stesse scelte?
Che cosa gli stava succedendo?
Forse quel periodo di riposo forzato lo stava sviando, forse stava
finendo per arrendersi al richiamo della quiete e della tranquillità di quella
terra senza guerra e senza cattiveria senza neppure rendersene conto.
Doveva fare qualcosa, doveva impedire che ciò accadesse; aveva
sacrificato tutto per perseguire il proprio scopo, e mai avrebbe permesso ad
una ragazzina illusa e sognatrice di allontanarlo dai suoi scopi.
I suoi pensieri, come pure quella conversazione tanto inverosimile per uno
come lui, vennero interrotti da un gran baccano proveniente dal villaggio,
accompagnato da rumore di cavalli e imprecazioni.
I primi ad accorgersi del loro
arrivo erano stati i taglialegna che in quel momento stavano lavorando sul
promontorio, ma prima che potessero scendere o gridare l’allarme quegli elfi
erano già entrati nel villaggio.
Erano, ovviamente, soldati di Normar, forse alcuni dei sopravvissuti
alla campagna di Uruk che invece di ritornare a Galinne a fare la fame avevano
preferito la più sicura e remunerativa strada del brigantaggio.
E naturalmente, quando si trattava di saccheggio, gli Inu erano sempre i
primi della lista, perché era noto come si lasciassero portare via ogni cosa
senza battere ciglio; i loro villaggi erano come dei magazzini, in cui uno
poteva arrivare e prendersi quello che voleva senza alcun pudore.
Appena arrivati, quei balordi avevano preso a raccogliere tutto quello
che potevano, caricandolo sul carro che si erano portati appresso mentre il
loro capo, un Immortale, assisteva compiaciuto dall’alto del suo cavallo; gli
abitanti, radunati nella piazzetta, assistevano senza battere ciglio, come
accadeva sempre.
«Nobili elfi» disse il capo villaggio «Vi prego, non portateci via
tutto. L’inverno ormai è alle porte, le mandrie si sono spostate e gli alberi
non danno più frutti. Cosa mangeremo se voi svuotate le nostre dispense?»
«Fa silenzio, vecchio.» rispose l’Immortale gettandogli addosso un po’
del vino che aveva rubato «Prenderemo tutto il necessario a sopravvivere fino
alla primavera. Se rimarrà qualcosa lo lasceremo a voi, giusto perché oggi mi
sento generoso.»
«Ma… ma noi…»
«Ho detto silenzio!» gridò l’elfo, stavolta lanciandogli la piccola otre
e facendolo cadere.
Gli animi si stavano già scaldando, e un bambino, sfuggito alle braccia
della madre, recuperò un sasso da terra, lanciandolo con forza.
«Lascia in pace mio nonno!».
Ad essere colpito non fu l’Immortale, ma il suo cavallo, che impennando
per lo spavento disarcionò il suo cavaliere prima di darsi alla fuga; quello si
rialzò rosso di collera come la sua uniforme.
«Tu, mocciosetto! Questa me la paghi!».
L’elfo mise mano alla spada correndogli contro, e il bambino, per la
paura, nel tentativo di scappare inciampò sull’erba scivolosa, ritrovandosi
seduto per terra.
«Ioshiki!» gridò sua madre.
All’ultimo secondo, proprio mentre partiva il fendente, Erik, apparso
dal nulla, agguantò con forza la spada, stringendola nel pugno destro; ciò
nonostante, non si procurò la benché minima ferita, come se la pelle della sua
mano fosse stata d’acciaio.
Contemporaneamente, arrivò di corsa anche Sanae, che subito corse a
sincerarsi delle condizioni del vecchio capo mentre Ioshiki correva nuovamente
fra le braccia della madre.
«Chi diavolo sei tu?» domandò l’elfo a denti stretti.
Erik non rispose, e anzi strinse ancora di più la presa attorno alla
lama che seguitava a stringere; l’Immortale cercò di imprimere più forza nel
colpo, ma nulla sembrava in grado neanche di graffiare quella mano.
«Vattene, se non vuoi che mi arrabbi.»
«Chi ti credi di essere, lurido ragazzino umano?».
Erik socchiuse leggermente gli occhi, lanciandogli uno sguardo da far
gelare il sangue; un istante dopo il suo braccio destro si circondò di un
bagliore rossastro, e con uno sforzo apparentemente minimo si portò via la
parte alta della spada staccandola di netto.
L’Immortale guardò pieno di terrore la sua bella spada spaccata in due
senza riuscire a credere a ciò che aveva appena visto.
Anche gli Inu erano senza parole, soprattutto Sanae.
«Che aspettate, uccidetelo!» gridò il capo ai suoi uomini.
Questi, seppur spaventati, si avvicinarono, confidando nella superiorità
numerica; Erik allora, gettato via il pezzo di spada di cui si era appropriato,
lanciando un grido liberatorio colpì il terreno con il pugno, con una forza
tale da far tremare la terra, facendo cadere tutti in ginocchio.
Gli elfi rimasero paralizzati per la paura, e quando il ragazzo rialzò
lo sguardo bastò solo quello a terrorizzarli.
«Sparite».
Quelli non se lo fecero ripetere due volte e si diedero alla fuga
abbandonando il frutto del saccheggio, promettendo però che non sarebbe finita
così.
A quel punto l’aura rossa che avvolgeva il braccio di Erik si dissolse,
e subito il giovane fu colto da un terribile senso di stanchezza, tanto che
Sanae dovette sostenerlo per permettergli di rialzarsi.
Erik poi, guardandosi intorno, vide ciò che ormai era abituato a vedere
da molto anni.
Gli Inu, che fino a pochi minuti prima lo salutavano, considerandolo
come uno di loro, ora rimanevano a distanza, fissandolo pieni di spavento: gli
anziani tremavano, le mamme stringevano forte i loro bambini, e gli uomini,
malgrado il passato pericolo, seguitavano a tenere alzati i loro attrezzi da
lavoro.
Dopotutto, non erano poi così diversi come aveva pensato; anche loro
avevano paura di lui, esattamente come gli altri, ma Erik non fu in grado di
comprendere se la cosa gli arrecasse sollievo o dolore.
Dopo la disastrosa sconfitta subita
a Uruk, Lainay e suo fratello erano sempre più ai ferri corti.
Chekaril aveva ricevuto l’ordine più che tassativo di non tornare a
Galinne e di non mostrare la faccia in pubblico per nessuna ragione al mondo;
anche la regina, però, non aveva più fatto ritorno alla capitale, e si manteneva
costantemente vicino al fratello.
La ferita che il principe aveva subito in battaglia era ormai quasi
completamente scomparsa, ma proprio come Regis gli aveva predetto il danno
reale era irreparabile; il muscolo era uscito talmente malconcio da non essere
stato in grado di ricostruirsi completamente, e qualsiasi movimento brusco
aveva come risultato un dolore lancinante e prolungato, e a volte persino la
paralisi, seppur momentanea, dell’intero arto.
Per un elfo come Chekaril una menomazione di quel tipo significava dire
addio per sempre al campo di battaglia: la sua carriera di condottiero, secondo
i pochi a conoscenza delle sue reali condizioni, era ormai finita, e ciò lo
faceva infuriare oltre ogni possibile immaginazione, portandolo a scatti d’ira
che non avevano mai fatto parte del suo modo d’essere.
Come se non bastasse, a tenere banco in quel periodo c’era un’altra
questione terribilmente spinosa: le bambole meccaniche che già da diversi mesi
scorrazzavano per i territori degli umani negli ultimi tempi avevano cominciato
a comparire anche a Normar, provocando non pochi problemi.
Con molta fatica era stato possibile catturararne uno, ma Lainay, invece
di ucciderne l’occupante, lo aveva rimandato indietro, ordinandogli di portare
ai suoi capi una proposta di incontro per negoziare una tregua.
La risposta nemica non si era fatta attendere molto.
Qualche giorno dopo, sul far della sera, un’altra di quelle bambole,
guidata, a giudicare dalla voce, dallo stesso uomo che era stato catturato, si
presentò all’accampamento nel quale la regina e suo fratello si erano
momentaneamente ritirati nell’attesa di tornare a Galinne, e ordinò loro di
seguirlo.
Lainay chiese e ottenne di essere accompagnata dal suo fedele scrivano;
costui, subito dopo la ritirata da Uruk, era stato mandato in tutta fretta alla
capitale, da cui era tornato portando con sé un misterioso oggetto ben nascosto
all’interno di una borsa da viaggio che il vecchio elfo portò con sé nel
momento di partire.
Guidati da quel buffo quanto letale veicolo, che si spostava levitando a
circa mezzo metro da terra, i tre raggiunsero, quando ormai era già notte
fonda, un vecchio pentacolo, beh nascosto nel folto della foresta.
Fra tutti i dispositivi magici presenti nel continente, i pentacoli
erano senza dubbio i più misteriosi.
Aggirando il tempo e lo spazio, questi incredibili ruderi, perché di
ruderi quasi sempre si trattava, permettevano a chiunque di spostarsi da un
pentacolo all’altro con eccezionale rapidità, coprendo centinaia e centinaia di
chilometri nello spazio di un battito di ciglia.
Nessuno sapeva con certezza chi li avesse realizzati, se gli uomini, gli
elfi o qualche altra razza, ma l’intero continente ne era pieno; in tutto se ne
contavano svariate centinaia, sparpagliati qua e là in modo apparentemente
casuale.
Usarli era molto difficile; primo, il loro utilizzo richiedeva un grande
dispendio di potere magico, e secondo, bisognava conoscere con esattezza il
pentacolo verso il quale si voleva viaggiare, o si rischiava di rimanere
intrappolati nelle curvature temporali attraverso le quali si viaggiava, senza
possibilità di tornare indietro. Era anche possibile eseguire il processo
inverso, facendo sì che un mago richiamasse verso il proprio pentacolo chi in
quel momento ne stava occupando un altro, e visto che non c’era traccia di
stregoni nella foresta la scelta attuata per condurre i tre elfi al negoziato
sarebbe stata quest’ultima.
«Entrate qui.» disse l’uomo all’interno della bambola.
Lainay e gli altri obbedirono mettendosi al centro della stella, e poco
dopo il pentacolo si attivò, generando una forte luce rosa che assunse quasi
subito le fattezze di una sorta di cilindro luminoso la cui sommità era
impossibile da scorrere.
Nessuno dei tre viaggiatori aveva mai sperimentato quell’esperienza, ma
chi gliel’aveva raccontata diceva che era come fare un saltello; si aveva
dapprima la sensazione di essere violentemente proiettati verso l’alto, per poi
ritrovarsi istantaneamente nel punto d’arrivo.
La prima immagine che si palesò dinnanzi alla regina e al suo seguito
all’uscita dal pentacolo li lasciò tutti con la bocca spalancata per la
meraviglia; dinnanzi a loro, oltre un vetro all’apparenza molto spesso, si
stagliava la grandezza e l’immensità della volta celeste come non l’avevano mai
vista prima.
Non potevano saperlo, ma in quel momento si trovavano sul cappello di
quello che sembrava un enorme, gigantesco fungo sospeso nel niente, con
centinaia di piccole luci che scintillavano a intervalli regolari in vari punti
della sua superficie metallica.
Sotto di loro, una grande sfera coperta in parte da quelle che
sembravano nuvole si stagliava nell’oscurità del nulla, e Chekaril fu il primo
a riconoscere in una di quelle superfici marroni che emergevano da un mare di
blu la figura del loro continente, così come appariva nelle carte geografiche
disegnate da coloro che, esplorandolo da una parte all’altra, erano riusciti a
delimitarne i confini.
Oltre al loro continente, che occupava una posizione molto a nord, in
quel momento se ne poteva scorgere un altro, probabilmente Kamur, la cui
superficie era almeno doppia rispetto a quella della terra da cui loro
provenivano.
Solo quando riuscirono a capacitarsi di ciò che stavano vedendo a
Lainay, Chekaril e allo scrivano venne in mente di guardarsi intorno; si
trovavano in una grande stanza quadrangolare, al centro della quale si trovava
il pentacolo da cui erano arrivati.
Prima che avessero il tempo di chiedersi a vicenda se mai si fossero
trovati ad un simile spettacolo la porta scorrevole della camera si aprì
emettendo uno strano suono, come un sibilo, e da essa entrò un giovane umano
vestito da prete con la sottoveste nera e un lungo mantello bianco.
«Voi siete la regina Lainay e il principe Chekaril, di Normar?»
«Siamo noi.» rispose Lainay
«Seguitemi. I nobili signori vi stanno aspettando».
Nuovamente gli elfi fecero come gli era stato detto , e più si
inoltravano nei meandri di quella struttura più tutto ciò che fino a quel
momento avevano visto e conosciuto diventava antiquato e senza valore, se
paragonato alle meraviglie che si trovavano davanti ad ogni passo.
I corridoi di quella specie di palazzo sospeso nel niente erano grandi e
circolari, illuminati a giorno da luci che non erano né comuni torce né tantomeno
frutto dalla magia.
Tutto lì era straordinario, dalle porte che si aprivano semplicemente
toccandole, alle luci che sondavano gli occhi e le dita, ai vetri che da una
parte erano trasparenti dall’altra invece erano specchi, fino agli apparecchi
capaci di generare immagini apparentemente reali, ma che al tatto apparivano
evanescenti e intangibili, come delle illusioni.
Lì dentro però non erano soli; quel posto era pieno di persone, tutti
umani e tutti vestiti da religiosi appartenenti ad un qualche credo sconosciuto.
Dopo qualche minuto il chierico si fermò davanti ad una porta più grande
delle altre situata alla fine del corridoio che stavano percorrendo.
«Da qui in poi può proseguire solo la regina».
Lainay si consultò con lo sguardo con entrambi i suoi accompagnatori,
poi si rivolse all’umano con un tono accomodante e pacato che decisamente non
le apparteneva.
«Vorrei che il mio scrivano venisse con me. Egli è gli occhi e le
orecchie del mio regno, ha il dovere di narrare ogni cosa perché diventi parte
della storia di Normar».
Il prete ci pensò un momento, poi si mise una mano sull’orecchio
sinistro e prese a parlare un linguaggio strano, che neppure lo scrivano aveva
mai sentito; infine, dopo essere rimasto in silenzio per alcuni secondi, come
ad ascoltare qualcuno, tornò a rivolgersi alla regina.
«Permesso accordato. Ma lui» disse indicando il principe «Dovrà rimanere
fuori. Questo è inderogabile».
Chekaril all’inizio si sentì offeso per una così palese mancanza di
rispetto, ma poi sorrise fra sé e sé; si aspettava che sua sorella insistesse
per far entrare anche lui, ma lo sguardo ironico che lei gli rivolse faceva
intendere che non aveva alcuna intenzione di farlo.
«Per me va’ più che bene. Chekaril, tu aspettaci qui».
Lui ringhiò sommessamente ma non fece storie.
Il chierico si avvicinò ad un piccolo vetrino accanto all’ingresso, e
appena una di quelle strane luci gli passò davanti all’occhio la porta si aprì
su di una stanza completamente buia.
«Andate. E ricordate che loro sanno ogni cosa. Non provate a ingannarli,
o ne pagherete le conseguenze».
Ricevuto quest’ultimo ammonimento, la regina e il suo servitore
varcarono la soglia, che richiudendosi alle loro spalle li lasciò immersi nella
più fitta oscurità.
Prima che potessero fare o dire qualunque cosa si accesero un’infinità
di luci, così forti che dovettero coprirsi inizialmente gli occhi con una mano
per non rimanere accecati.
La stanza in cui erano entrati era enorme, di forma semisferica, tre
volte più vasta di quella dove si trovava il pentacolo. Malgrado fosse così
grande non vi era alcun arredo, fatta eccezione per un simbolo raffigurante
dodici sfere di vetro azzurre disposte in circolo attorno ad una stella dorata al
centro che occupava quasi tutto il pavimento; tutto intorno al perimetro,
inoltre, c’erano dodici bellissimi troni d’argento, ma solo i cinque posti di
fronte all’ingresso erano occupati.
Fatta eccezione per una giovane donna dai lunghi capelli neri che
guardava i due ospiti con uno strano sorriso era impossibile distinguere i volti
suoi compagni, nascosti dai cappucci delle lunghe e sfarzose sopravvesti
bianche che indossavano.
Di tutti e quattro era visibile solo il mento e la bocca, e a giudicare
da questo la persona seduta al centro doveva essere un uomo piuttosto giovane.
«Ecco Lainay di Normar.» disse con forte ironia quello alla sua destra,
anche lui un uomo «L’incubo degli elfi. La sanguinaria, la conquistatrice».
Non era certo quello il modo migliore di iniziare un negoziato, e Lainay
prima d’ora non si era mai trovata in quella situazione, dover stare in piedi
di fronte a qualcuno seduto su di un trono; di solito era sempre stato il
contrario.
«Basta così.» lo rimproverò il suo capo «Regina Lainay, hai detto di
voler conferire con noi. Di che si tratta?».
L’elfa dapprincipio non riuscì a trovare le parole per rispondere, poi
cercò di recuperare il proprio regale autocontrollo.
«Così» disse fieramente «Siete voi le menti dietro a tutto quello che
sta succedendo sul continente in questi ultimi tempi.»
«E anche se lo fossimo?» domandò la donna
«Le vostre bambole hanno violato i confini del mio regno, attaccando le
mie truppe e distruggendo i miei villaggi.
Per il codice d’onore di Normar, questo è considerato un atto di guerra.»
«E allora?» chiese il primo a sinistra, anch’egli giovane «Pensi forse
di poterci contrastare?»
«Che cosa!?»
«Sappiamo cosa è successo a Uruk. È piuttosto imbarazzante, non trovi?
Il terribile esercito di Normar sconfitto e messo in fuga da uno spaurito
gruppo di ribelli».
Quell’ultima frase fece digrignare i denti alla regina, che a stento
riuscì a contenere la propria rabbia.
«Se un pugno di contadini è stato in grado di massacrare i tuoi migliori
soldati, cosa pensi di poter fare contro i nostri robot? Io dico ben poco.
Possiamo prenderci il tuo regno quando vogliamo.»
«Forse.» replicò Lainay mascherando la rabbia dietro un doveroso
contegno «O forse possiamo trovare un accordo di qualche altro tipo.»
«Che genere di accordo?» chiese il comandante
«Ho ricevuto delle notizie interessanti dai miei informatori sparsi per
i regni umani.» disse la regina sicura di sé «Sembra che nell’ultimo periodo
gli attacchi dei robot siano notevolmente diminuiti, fin quasi a scomparire. I
nostri territori invece, che fino a questo momento erano stati lasciati in
pace, sono stati ripetutamente attaccati.
Anche chi non ha alcuna esperienza in strategia militare può capire che
questo è un comportamento alquanto anomalo.
Sembra quasi che siate alla ricerca di qualcosa.»
«Chi credi di essere per conoscere i nostri obiettivi?» domandò lo
stesso che l’aveva provocata un attimo prima col medesimo tono provocatorio
«Col dovuto
rispetto, forse dimenticate chi vi sta di fronte. Le spie al mio servizio sono
le meglio addestrate del continente. Una di loro che gravitava attorno a
Caldesia già da diversi anni è riuscita ad affondare gli artigli su di un
membro della corte imperiale, che ci ha raccontato ogni cosa.»
«E pensare che
avevamo detto loro di non parlare.» commentò la donna dell’ultimo scragno a sinistra,
l’unica a non aver ancora aperto bocca
«Le mie spie sanno
essere molto persuasive. L’umano che è stato interrogato ha detto che chi aveva
fornito i loro eserciti delle bambole meccaniche lo aveva fatto in cambio
dell’impegno, da parte di Caldesia, si ritrovare un libro. Un libro che aveva
più valore di qualsiasi altro tesoro.
Ebbene, io credo
di sapere di che libro si tratta».
Lainay allora fece
un cenno al suo scrivano, che aperta la sua sacca da viaggio ne tirò fuori un
grosso e vecchio volume di almeno cento fogli rilegato con una copertina di
cuoio su cui erano disegnati vari simboli arcani.
I cinque uomini
rimasero visibilmente senza parole; la donna dai capelli neri spalancò gli
occhi per lo stupore e la cosa fece sorridere non poco la regina, che
finalmente era riuscita a ricambiare il favore a quel gruppo di presuntuosi che
tanto avevano fatto per metterla in soggezione.
«Il Tomo delle
Origini.» disse Lainay passando una mano sulla copertina «La cronaca della
nascita della vita sul nostro mondo. Era questo che cercavate, giusto?».
Loro non
risposero, ma il silenzio fu una risposta più che soddisfacente per Lainay, che
avrebbe voluto gridare forte la propria soddisfazione.
«Le vostre espressioni
rispondono per voi.
Per lungo tempo
questo libro è stato creduto una semplice leggenda. I seguaci del culto di Amon
lo tenevano ben nascosto nella biblioteca di Kyradon. Noi ne siamo entrati in
possesso solo recentemente, dopo aver occupato la città. Per questo non
sapevate dov’era, e non volendo esporvi in prima persona avete abbindolato
Caldesia perché facesse il lavoro per voi.»
«Secondo me tu
parli troppo.» disse quello a sinistra
«Forse, ma sono
certa di aver colto nel segno.»
«Dimmi.»
intervenne il capo «Sei riuscita a leggere le sue pagine?»
«No, naturalmente.
È scritto con un linguaggio vecchio di millenni che nessuno parla più.»
«Meglio così. Quel
libro contiene segreti capaci di scuotere nel profondo non solo questo, ma
molti altri mondi. Tuttavia, tra i suoi codici sono custodite conoscenze senza
tempo.»
«E immagino sia a
quelle che voi aspirate.
Molto bene, se
siete così interessati ad averlo, sono disposta a cedervelo. Ma come in tutti i
negoziati che si rispettano, lo farò solo in cambio di un giusto tornaconto.
Non faccio sconti per nessuno».
All’improvviso, un
rumore che Lainay aveva mai sentito, simile ad una piccola esplosione, saturò
la stanza, e la regina avvertì distintamente un qualcosa di imprecisato che le
passava a pochi centimetri dall’orecchio agitandole i capelli.
L’uomo a sinistra
aveva in mano una di quelle strane armi a L sollevata nella sua direzione, e
dalla canna usciva un rivolo di fumo.
«Ora sei tu a
dimenticare chi hai di fronte. Le tue minacce e le tue pretese qui non hanno
alcun valore.
Lo vedi questo
gioiellino? Potrebbe spedirti dritta al creatore prima che tu avessi il tempo
di rendertene conto. Quindi, alla luce dei fatti, che cosa ci impedisce di
stendere te, il tuo scrivano, e quel tuo inutile fratellino, e di prenderci
quello che vogliamo?».
Lainay, dopo
quello che aveva appena visto, tremava di paura, soprattutto nel vedersi
puntare addosso quella cosa infernale.
Ancora una volta,
però, il loro capo intervenne in sua difesa.
«Basta così. Non è
necessario arrivare a tanto» disse, e il suo subalterno abbassò l’arma, seppur
con un sommesso digrignar di denti.
Guardò quindi la
regina, e dopo poco un sorriso gli apparve sul volto.
«Forse possiamo
trovare un accordo.»
«Ne sono profondamente
convinta.»
«Allora, sentiamo.
Che cosa vuoi in cambio del libro?».
Gli occhi
dell’elfa si illuminarono di ceca ambizione.
«Che cosa voglio?
Ho visto quello
che le vostre bambole sono in grado di fare. Una sola di esse potrebbe fare il lavoro
di un intero manipolo di soldati.
Con un esercito di
bambole meccaniche ai miei ordini, potrei finalmente realizzare il sogno dei
miei antenati. Riunire tutto il continente sotto una sola bandiera, guidandolo
al dominio assoluto!»
«In altre parole,
vuoi che ti concediamo i nostri robot.»
«Francamente, non
mi interessa che cosa contenga quel libro, e non mi interessano i vostri scopi;
ciò che mi preme davvero sono gli obiettivi che la mia famiglia persegue da
generazioni.
Ma sono quasi
certa che uno dei vostri obiettivi consista nel portare il caos in tutto il
continente. Io posso farlo per voi, ma per poter compiere una simile impresa le
forze di cui dispongo al momento non sono sufficienti.
Con i vostri
robot, come li chiamate voi, sa situazione però potrebbe cambiare
drasticamente.»
«Ma noi stiamo già
fornendo armi e robot ad un paese del continente.»
«Caldesia!? Il
loro scopo era solo quello di trovare il Tomo delle Origini. Voi siete
decisamente troppo furbi per dare piena fiducia ad un regno la cui inclinazione
al tradimento è nota a tutti, e immagino aveste già in mente di tagliare i
ponti con loro una volta ritrovato il libro. Ebbene, fatemi prendere il loro
posto. A differenza di loro, io non rivolterò le armi contro il mio benefattore,
né tantomeno mi allontanerò da lui.
Potrete contare
sulla mia fedeltà in qualunque momento».
Seguì un lungo
silenzio, un silenzio carico di tensione e incognite.
Lainay si mostrava
sicura di sé, ma era chiaramente molto inquieta; avrebbero accettato la sua
proposta, o l’avrebbero davvero uccisa per prendersi il libro senza dover dare
nulla in cambio?
Nuovamente, però,
il capo mostrò il proprio, enigmatico sorriso.
«Forse non sarai
un granché come generale o come sovrana, ma come politico sei estremamente
ben-dotata.»
«Grazie, lo
considero un complimento».
L’uomo dunque
pigiò un pulsante sul bracciolo della sua poltrona, e l’intera stanza prese a
muoversi, salendo verso l’alto come un grande montacarichi.
La salita durò
quasi un minuto, poi, d’incanto, il soffitto cominciò a dividersi in due metà
perfettamente uguali che presero a scivolare verso il basso rivelando un
secondo tetto sopra di esso, questa volta in vetro, e quando la copertura venne
completamente apparve uno spettacolo a dir poco sconcertante.
Quella in cui
erano arrivati sembrava un’enorme piazza d’armi, così grande da poter ospitare
al suo interno almeno metà del palazzo reale di Galinne.
Doveva essere
lunga almeno cento metri e alta una sessantina, ma ciò che più fece rizzare i
capelli a Lainay e al suo scrivano fu ciò che essa conteneva.
Oltre ai robot che
avevano già visto, quelli a forma di bidone, che già dovevano essere un
centinaio, ve ne erano anche dodici di dimensioni a dir poco colossali.
Avevano varie forme
e vari colori, che spaziavano dall’argento al rosso sangue, fino al blu
oltremare, ma tutti ricordavano, pur vagamente, le fattezze di un essere umano,
con due braccia, due gambe, un busto ed una testa; malgrado fossero
inginocchiati, con le mani appoggiate a terra come supini, erano alti più di
otto metri, solo iddio sapeva quanto potevano diventare imponenti una volta un
piedi.
La regina restò
con la bocca socchiusa e gli occhi che quasi uscivano dalle orbite; avrebbe
voluto correre verso di loro, toccarli, quasi a volersi accertare che non
fossero solo un sogno.
«Ecco l’accordo.»
disse il capo «Duecento modelli Falcon a levitazione magnetica e dodici modelli
Fighter. Tutto questo in cambio del Tomo delle Origini».
Lainay era così
sorpresa e così frastornata da ciò che stava vedendo che non ci pensò due volte
ad accettare subito l’offerta.
«Molto bene.
Potrai usufruire di questi robot come meglio crederai. In questo momento, le
persone a te più fedeli stanno ricevendo nel loro subconscio le conoscenze
necessarie a pilotarli, e fra di esse naturalmente ci sei anche tu».
Infatti, in quello
stesso istante, l’elfa avvertì una strana sensazione, come un fischio
nell’orecchio, e per ogni secondo che passava la sua testa si riempiva di
termini e nozioni che non aveva mai sentito prima, ma che di colpo le
sembravano semplici e scontati.
«È abbastanza per
te?»
«Naturalmente.»
rispose Lainay, soddisfatta come mai nella sua vita.
Obbedendo ai suoi
nuovi amici la regina affidò il libro nelle mani della donna dai capelli neri,
quindi la stanza, richiusasi, ridiscese da dove era partita, permettendo a
Lainay e al suo scrivano di uscire dopo aver rivolto un reverenziale
ringraziamento.
«Pensi che
possiamo fidarci di lei?» domandò l’altra donna quando i due elfi se ne furono
andati
«È la stupida
ideale per fare ciò di cui abbiamo bisogno.» rispose il capo «Dopo oggi le sue
manie di grandezza cresceranno a dismisura, e presto muoverà guerra all’intero
continente, gettandolo nel disordine più completo.
Tutto ciò, come ha
detto lei, torna a nostro favore.»
«È proprio questo
suo atteggiamento che mi preoccupa.» disse l’uomo a destra «Potrebbe diventare
incontrollabile.»
«Staremo a vedere.
Se si renderà necessario, possiamo sempre tagliarle le ali».
Lainay, lo scrivano e Chekaril tornarono nella sala del
pentacolo, e in pochi secondi si ritrovarono nuovamente nella foresta da cui
erano partiti.
La regina era
visibilmente felice, e Chekaril la conosceva abbastanza bene da saper
interpretare senza alcuna difficoltà la luce che albergava nei suoi occhi.
«Akita!» disse la
regina come se stesse chiamando qualcuno, e in meno di un istante dal nulla
comparve la figura di una giovane elfa inginocchiata ai suoi piedi.
Indossava abiti
tipici di una spia, con un paio di pantaloni scuciti di colore bianco sporco,
una casacca giallo scuro senza maniche e scarpe leggere adatte a camminare su
qualunque superficie senza fare il minimo rumore.
Portava anche una
coppia di bracciali, e ad ognuno di essi era assicurato il fodero di un
pugnale, con l’elsa rivolta verso la mano, di modo da poter essere sguainati
con grande facilità.
La sua pelle era
candida, e i capelli molto lunghi, di un colore paglierino, raccolti verso la
fine con un lungo nastro nero; anche il viso era molto carino, con due labbra
piccole, gli occhi lunghi e sottili, eleganti ciglia; l’unica cosa che stonava
un po’ era il naso, leggermente adunco.
«Mi avete
chiamata, Lainay-Sama?»
«Ho saputo che
Regis e i suoi amici stanno per partire alla volta del Continente di Kamur per
cercare le sette gemme legate alla leggenda della guerra sacra.
Corre voce che
siano dotate di grandi poteri.»
«Quali sono i
vostri ordini?»
«Mettiti alle
costole di quel gruppo di umani e non mollarli per nessuna ragione. Di seguito
ti darò altre istruzioni.»
Lo scrivano venne
congedato subito dopo con l’ordine di tornare all’accampamento, così fratello e
sorella rimasero soli; Chekaril era stranamente pensieroso, e non mancò di
manifestare le proprie perplessità.
«Sorella, sei
sicura di stare facendo la cosa giusta?»
«E me lo domandi? Abbiamo
appena stretto il migliore accordo nella storia di Normar.»
«Intendi usare
subito quelle macchine?»
«No di certo. Non
per schiacciare un’accozzaglia di elfi incompetenti. A dire la verità, forse
non ne avremo neppure bisogno. Caldesia sicuramente reagirà molto male quando
scoprirà di essere stata scaricata, e quando anche gli altri regni verranno a
scoprire che era Caldesia a guidare le incursioni gli umani prenderanno a
massacrarsi fra di loro, lasciando a noi campo liberi.
I robot li
conserveremo per quando si rivelerà necessario il loro utilizzo».
Chekaril però non
sembrava ancora convinto.
«Se posso
permettermi, trovo che tu stia facendo il passo più lungo della gamba.»
«È questo ciò che
ci rende diversi, caro fratello.» disse sogghignando la regina «A differenza di
te, io non ho paura di rischiare.
Quei tipi non
hanno voluto raccontarmi l’intera storia, ma sono pronta a scommettere l’intero
regno che anche loro sono alla ricerca di quelle gemme, altrimenti non si
spiegherebbe come mai abbiano fatto tanto per cercare di impadronirsi della
Spada di Gigabrian.
E se erano pronti
a fare tanto per impadronirsene, posso solo immaginare quale deve essere il
loro reale potere.»
«Questo si chiama
doppiogioco, ed è molto pericoloso. Non oso pensare alle conseguenze a cui il
nostro regno andrebbe incontro nel caso dovessimo essere scoperti.»
«Un vecchio saggio
un giorno disse, la vera forza non è
quella che hai, ma quella che puoi ostentare. Se entreremo in possesso
delle gemme prima di loro tutto quello che mi hanno mostrato oggi con tanta
spavalderia sarà ben poca cosa».
Più passavano i
minuti più il principe faticava a riconoscere la sorella; già altre volte aveva
esternato il suo carattere freddo, ambizioso e calcolatore, ma mai come in quel
momento il desiderio di conquista si stava avvicinando al puro e semplice
desiderio di onnipotenza.
«Sorella, stiamo
attraversando un ponte molto pericolo. Ti prego, fermiamoci prima che sia
troppo tardi.»
«Fermarci? A
questo punto non è più possibile. Da una simile decisione non si torna
indietro. La strada che conduce al dominio assoluto è davanti a noi. Se tu sei
troppo codardo per percorrerla affari tuoi, ma io non intendo rinunciare, non
ora che ci sono così vicina».
A quel punto
Chekaril fece una cosa che mai aveva fatto, e che mai avrebbe dovuto fare:
d’istinto, senza pensarci, afferrò un braccio alla regina quasi a volerla
trattenere dal cadere nel baratro della follia. Lei lo guardò come se volesse
ucciderlo, e liberatasi con uno scatto rabbioso gli assestò un manrovescio così
forte da buttarlo a terra, quindi, senza alcuna remora, gli schiacciò con il
piede la ferita alla spalla non ancora del tutto guarita, facendolo urlare di
dolore.
«Te l’ho già detto
una volta, impara a stare al tuo posto!».
Quando l’agonia
ebbe fine Chekaril era così provato da non riuscire a rialzarsi; inginocchiato,
con una mano a tenersi la spalla, guardava la sorella come se avesse avuto
davanti Regis o Isnark.
«Sei solo un
giocattolo rotto.» gli disse Lainay «Non hai più alcun valore come soldato, e
come elfo non ne hai mai avuto.»
«C… C’è una
differenza fra il valore e la pazzia…»
«Per la tua
inettitudine e i tuoi continui colpi di testa potrei anche farti mettere a
morte. Ma sei pur sempre mio fratello, e anche se la cosa mi disgusta sei il
padre dell’erede al mio trono».
Lainay rise
sommessamente, chiudendo gli occhi.
«A questo punto,
credo sia giunto il momento di rivelarti un segreto.
Subito dopo la tua
partenza da Normar, ho fatto circolare la voce che tu fossi stato vittima di un
rapimento, e tutti quelli che ti hanno incontrato da quel momento in avanti
sono stati caldamente invitati a non farne parola con nessuno. Per il nostro
popolo, tu sei ufficialmente disperso».
Chekaril sgranò
gli occhi per lo sconcerto.
«Dunque tu… avevi
in mente questo fin dall’inizio.»
«Dovresti essermi
grata. In fin dei conti, così facendo ho cancellato l’unica macchia dalla tua
immacolata carriera di generale.
Il tuo compito d’ora
in poi sarà di crescere la mia erede fino al momento in cui non sarà abbastanza
grande per rientrare a Galinne. Andrai lontano, verso sud, a Scmen, una città
sulla costa di Fiya. Una volta lì, ti darò altre istruzioni».
Il principe non
riusciva a credere alle proprie orecchie; sapeva che sua sorella era ambiziosa,
ma mai avrebbe pensato di divenire a sua volta un semplice oggetto da gettare
quando non aveva più alcuna utilità.
«E portati via
quella cagna di Aevo. Tanto so che ve la fate insieme già da diversi mesi. Ci
hai messo davvero poco a dimenticare Lsyn però. Forse dovresti ricordare quello
che ti ha detto Regis.»
«Lo stesso… lo stesso
vale per te, sorellina».
Lainay palesò
nuovamente il proprio sguardo pieno di astio, rievocando alla mente quella che
da ora in poi avrebbe ricordato come la peggiore umiliazione della sua vita.
«Vattene. Sparisci
dalla mia vista, e non mostrare mai più la faccia a Galinne se ti è cara la
vita».
A quel punto
Lainay fece per mettersi a camminare in direzione dell’accampamento, ma fatti
due passi si girò nuovamente verso il fratello, che ancora cercava di rialzarsi
lottando col dolore.
«Ah già, quasi
dimenticavo. Volevo farti una domanda.»
«Una… domanda?!»
«Dimmi, fratellino.
Tu sai che cos’è uno stabilizzatore per gli arti inferiori?».
Chekaril la guardò
come si guarderebbe un matto scappato da un manicomio.
«Posso sapere di
che diavolo stai parlando?»
«Niente.» rispose
lei con uno strano sorriso «Non farci caso».
Era passata più di una settimana dal suo arrivo al
villaggio, e ormai tutte le ferite riportate nello scontro con Toshio erano
completamente guarite.
Dal giorno
dell’incidente coi briganti erano cambiate molte cose; pur non allontanandolo,
gli Inu si erano dimostrati più guardinghi nei suoi confronti, e ogni volta che
camminava per il villaggio si sentiva sempre gli occhi addosso.
Erik aveva voluto
pazientare per non correre il rischio che qualche ferita malcurata potesse
costituire un ostacolo per il suo prossimo scontro, ma ormai non aveva più
alcuna ragione per continuare a restare lì.
Non voleva che la
sua partenza avvenisse davanti a tutti, per questo attese il calare della
notte, e quando fu sicuro che tutti stessero dormendo se ne andò passando dalla
finestra, di modo da non correre il rischio di svegliare Sanae, che dormiva al
piano di sotto.
Stava quasi per
uscire dai confini del villaggio, quando, appoggiata ad un muro, incontrò
proprio Sanae, che appena lo vide venire verso di sé subito gli si parò davanti
come a volergli sbarrare la strada.
Lui si fermò, e
per lunghi secondi si guardarono silenziosamente negl’occhi.
«E così, te ne
stai andando.»
«Sì. Non ho più
alcun motivo per rimanere qui».
Erik fece per
riprendere a camminare, ma appena fu gomito a gomito con Sanae lei nuovamente
lo fermò.
«Ti prego, portami
con te.» lo supplicò stringendogli la mano.
Il giovane non
mosse un muscolo, non fece trasparire alcuna emozione, poi però chiuse gli
occhi e la oltrepassò liberando la propria mano dalle sue.
«Il mondo esterno
non è un luogo di sogni. Lì fuori non c’è niente per te, solo dolore e
sofferenza.»
«Non mi importa,
anche così voglio conoscerlo!» rispose lei con forza girandosi nella sua
direzione.
Erik però
continuava a darle le spalle.
«Non cercare di
scoprire cose che non ti sono date di sapere, perché potresti pentirtene. Resta
qui e fatti una vita, posso garantirti che sarai molto più felice».
Detto questo il
Rinnegato se ne andò scomparendo nella foresta, indifferente all’apparenza al
pianto ininterrotto della ragazza.
Camminò
ininterrottamente, con passo deciso, inoltrandosi sempre più lungo il sentiero
che portava a nord, come se stesse scappando, evitando di guardare indietro.
Non aveva bisogno di bussole o qualche altro
sistema di orientamento, gli bastava seguire il filo invisibile che lo legava
perennemente al suo creatore per essere certo di trovarlo.
La sensazione,
terribilmente fastidiosa, era quella di un ago piantato nel petto, e diventava
sempre più forte man mano che la distanza fra i due diminuiva.
«Non sarai stato troppo duro nei suoi
confronti?» domandò Lily, apparsa dal cielo dopo aver fatto deliziose piroette
fra i rami degli alberi «In fin dei conti voleva solo venire con noi.»
«Lei è troppo
pura, Lily. Non voglio che il suo cuore limpido sia sporcato con le brutture di
questo mondo. Qui ha una vita felice, delle persone che le vogliono bene, e io
so come ci si sente a non avere nessuna di queste cose.»
«È questo il
punto. Lei forse avrebbe potuto aiutarti a trovarle».
Erik sussultò, ma
ciò nonostante non volle guardare indietro o riflettere ancora sulle proprie
decisioni; era certo di aver fatto la cosa giusta, la prima forse dopo tanto
tempo, e nulla gli avrebbe fatto cambiare idea.
I due compagni
ripresero il proprio viaggio in silenzio, senza neanche guardarsi, guidati
dalla luce della luna, e le fronde degli alberi quasi si aprivano al loro
passaggio, agitate leggermente dalla brezza di montagna.
Avevano percorso
più meno tre chilometri, quando Erik si fermò nuovamente, messo in allerta da
qualcosa di insolito.
«Che succede?»
domandò Lily
«Annusa. Lo senti
quest’odore?».
La fatina si
concentrò, e in poco tempo anche lei avvertì uno strano odore, che la colpì e,
nel contempo, la spaventò a morte.
«È fumo».
Quasi in sincronia
si girarono entrambi alle loro spalle, scorgendo in lontananza una colonna nera
che saliva nel cielo notturno, oscurando la bianca luce delle stelle assieme ad
un inquietante bagliore rossastro.
«È Hokishima! Il
villaggio sta bruciando!».
Lily non fece in
tempo a finire la frase che Erik era già tornato sui suoi passi, dispiegando le
ali e spiccando il volo in preda ad un senso di oppressione come mai ricordava
di averlo percepito.
In meno di due
minuti percorse tutta la strada fatta fino a quel momento, e appena
oltrepassate le alture una scena terribile si palesò dinnanzi ai suoi occhi.
Il villaggio di
Hokishima bruciava come un immenso calderone, le sue belle case di legno e
paglia erano divorate da un mare di fuoco, e alcune di esse già erano crollate.
Ma la cosa più
terribile era che in giro non si vedevano altro che cadaveri; uomini, donne,
bambini. I loro corpi erano letteralmente crivellati di frecce, almeno tre o
quattro per ognuno di loro, e a giudicare dalle posizioni in cui erano distesi
erano stati colpiti mentre cercavano di scappare.
Erik scese a tutta
velocità nella piazzetta con al centro il vecchio pozzo e cominciò a correre da
una parte all’altra controllando ogni singolo corpo, mentre un senso cento
volte più terribile di quello che lo legava a Toshio gli scavava il cuore.
Lily arrivò poco
dopo, e per una creatura di luce come lei quella scena fu a dir poco terribile,
ma subito si mise a fare la sua parte, cercando a sua volta di trovare qualche
superstite.
Nessuno, nessuno
era stato risparmiato.
Erano tutti morti.
Con foga e
frustrazione sempre maggiore il giovane umano corse verso la casa alla quale in
quegli ultimi giorni era tornato come se fosse stata la sua, e vedendola
avvolta dalle fiamme, ma ancora in piedi, senza esitazioni ci si infilò dentro,
senza neanche cautelarsi di erigere attorno a sé una barriera che lo
proteggesse.
Sanae era riversa
nel salotto a pancia in giù, circondata dal fuoco, con una freccia nella
spalla, apparentemente morta; Erik si accostò a lei, la prese fra le braccia e
corse come un fulmine all’esterno giusto in tempo per evitare di finire sepolto
dal crollo dell’abitazione.
Appena fu
all’esterno la adagiò su di un cumulo di paglia, facendo attenzione a non
muovere la freccia, e con la manica della sua sopravveste cercò di pulire il
suo bellissimo viso, sporco di fumo e fuliggine.
Lily lo raggiunse,
e con le sue abilità mediche si accertò subito dello stato di salute della
ragazza posandole una mano sulla fronte.
«È viva. Per
fortuna la freccia non ha colpito le vene.»
«La puoi guarire?»
«Sì, credo di sì».
Grazie alla
propria abilità nelle magie di guarigione la fata fu in grado di rimuovere la
freccia con precisione chirurgica, suturando la ferita subito dopo. Dopo
qualche minuto Sanae riaprì gli occhi, e vedendo dinnanzi a sé il volto di Erik
pensò di stare sognando, o di essere già in paradiso.
«Sanae! Sanae,
sono io!»
«Erik…» disse
sorridendo, con gli occhi pieni di lacrime «…sei… sei tornato…»
«Sanae, cosa è
successo? Chi è stato a farvi questo?»
«I… i briganti…
sono… tornati…» disse prima di perdere nuovamente i sensi a causa della forte
emorragia.
Erik avrebbe
voluto tenerla sveglia, ma sentendo pronunciare la parola briganti un dolore
tremendo gli attraversò il corpo come un fiume di lava, lasciandolo sgomento.
Era colpa sua!
Era stata tutta
colpa sua!
Quei briganti
probabilmente erano tornati per vendicarsi di quello che gli aveva fatto, e non
avendolo trovato si erano accaniti sugli abitanti, usandoli come dei bersagli
umani su cui sfogare la loro bestiale cattiveria.
Avrebbe dovuto
immaginarlo.
Avrebbe dovuto
sapere che quei tipi non avrebbero dimenticato uno smacco simile, che
sicuramente avrebbero fatto sentire nuovamente la loro voce.
Lui però se ne era
andato, li aveva lasciati soli.
Se solo fosse
aspettato ad andarsene, se non avesse scelto di scappare di notte, come un
criminale colto sul fatto, avrebbe potuto difenderli ancora.
Se invece, meglio
ancora, non si fosse intromesso nell’ordine naturale delle cose, lasciandoli
liberi di agire come volevano, non avrebbero mai cercato vendetta.
Perché?
Perché doveva
essere così? Perché tutti quelli che si avvicinavano lui finivano per morire a
causa sua?
Era davvero
maledetto, era davvero destinato a portare distruzione ovunque andasse, proprio
come il potere che aveva dentro di sé?
Ma in ogni caso,
perché quei bastardi si erano accaniti su quei poveracci?
Loro non
c’entravano niente, era lui ad averli provocati, perché allora se l’erano presa
con loro?
Perché erano Inu?
Certo, loro erano
Inu!
Che valore poteva
avere la vita di un Inu? Nessuno, gli Inu non erano altro che un abominio,
ucciderli e abusare di loro non era cosa per la quale provare vergogna.
Ecco perché lo
avevano accolto.
Forse si erano
accorti che anche lui era un diverso, e forse era per questo che Erik
all’inizio si sentiva così bene in loro compagnia.
L’odio che provava
per chi aveva distrutto quella pacifica comunità che chiedeva solo di essere
lasciata in pace era immenso: l’odio verso quei briganti, verso chi li aveva
addestrati. L’odio verso un mondo che disprezzava il diverso solo, appunto,
perché diverso.
Che cosa avevano
mai fatto loro per essere trattati così, per essere allontanati e dileggiati da
tutti, e che diritto avevano gli altri di giudicarli?
Come poteva non
odiare, e come si poteva impedire all’odio di crescere sempre più dentro di
lui, pervadendolo con qualcosa di nuovo, di oscuro, buio come il cosmo e caldo
come l’inferno?
Lily vide Erik
rannicchiarsi in posizione fetale, nascondendo il volto fra le mani; tremava, e
sembrava anche che stesse piangendo. D’un tratto, il suo corpo cominciò ad
essere avvolto dalla stessa aura rosso sangue di qualche giorno prima.
«Erik?» domandò
incredula e, anche, spaventata.
Un istante dopo il
ragazzo scattò in piedi lanciando un grido così forte da far tremare gli
alberi, e più passavano i secondi più questo urlo diventava simile ad un
ruggito, il ruggito di una bestia infuriata.
Nuovamente il suo
braccio destro venne dilaniato da violenti scossoni ricoprendosi di bubboni, ma
stavolta Erik non sembrava né provare dolore né avere una qualche intenzione di
impedire ciò che stava accadendo. Poi, d’improvviso, l’arto sembrò esplodere, e
sotto di esso ne comparve un altro, che Lily osservò terrorizzata.
Di umano quel
braccio non aveva niente, se non la forma della mano; la pelle sembrava di
pietra, la mano era leggermente più grande del normale, con cinque grosse dita;
non aveva unghie, ma nella parte terminale le falangi si stringevano sempre
più, fino a somigliare ad una serie di affilatissime punte di spada.
Il punto di giuntura
fra la pelle e quella specie di arto non si vedeva, coperto dalla sopravveste,
ora strappata e sfilacciante; dal gomito e dalla spalla partivano due
protuberanze lunghe un metro ciascuna, di forma leggermente curva, terminanti
ognuna in una punta leggermente arrotondata, e quando il braccio era disteso
sembravano quasi una tenaglia.
Lily, sempre più
spaventata, lo chiamò di nuovo, ma quando lui si girò a guardala per poco non
svenne per la paura; i suoi occhi erano iniettati di sangue, e pareva quasi di
vedere delle figure spaventose agitarsi al loro interno, lanciando urla
terrificanti.
Erik, girato lo
sguardo verso ovest, prese a correre in quella direzione, come un lupo famelico
che abbia fiutato la sua preda. Corse, corse senza fermarsi, spinto sempre più
da una specie di furia cieca che non lo faceva ragionare.
Sentiva solo odio,
l’odio era l’unica cosa che riusciva a percepire, e gli sembrava quasi che
tutto l’odio che aveva dentro minacciasse di farlo esplodere, come un pallone
nel quale viene inserita troppa aria.
A circa dieci
chilometri dal villaggio i briganti avevano allestito un bivacco, dandosi alla
pazza gioia con tutto il vino che erano stati in grado di rubare al villaggio.
Ognuno di loro
raccontava, fra le risate dei suoi compagni, le proprie imprese nel saccheggio
appena concluso, elencando i bersagli colpiti, e tutti facevano a gara per
vedere chi avesse scagliato più frecce, con maggior precisione.
Ad un certo punto
uno di loro si allontanò per esigenze personali, e appena fuori dal cerchio di
luce si abbassò i pantaloni cercando di orinare. Aveva appena finito, stava
riallacciando lo spago, quando gli sembrò di scorgere un bagliore rosso dritto
dinnanzi a lui, che si avvicinava sempre di più.
Erik gli fu
addosso prima che avesse il tempo di vederlo, e con un solo, tremendo colpo
dall’alto verso il basso del suo braccio di pietra gli portò via un’intera
porzione di testa, dalla sommità fino all’orecchio destro, lasciandolo morto in
un lago di sangue.
I suoi compagni se
ne avvidero, ma prima che uno di loro potesse alzarsi in piedi un fendente
orizzontale lo tagliò a metà appena sotto il petto, come se il suo corpo fosse
stato fatto di burro.
Il giovane
respirava come un animale rabbioso, e tutti nel vederlo si spaventarono a
morte, dimenticando che era stato proprio per uccidere lui che avevano
organizzato l’assalto di quella notte.
Un altro elfo,
recuperato l’autocontrollo, cercò di colpirlo con la spada, ma Erik prima gli
strappò il braccio senza alcuna fatica, poi, afferratagli la faccia, la sbatté
a terra con una forza tagli da fargli esplodere la testa.
Il terrore a quel
punto si sparse fra i superstiti, che cercarono di darsi alla fuga, ma nessuno
di loro ebbe neppure il tempo di raggiungere gli alberi.
Per ultimo rimase
il capo, l’Immortale, che a sua volta diede le spalle a Erik per poter fuggire;
dapprima sembrò che l’umano volesse lasciarlo andare, poi però con una velocità
sconcertante gli arrivò addosso, piantandogli il braccio nella schiena, e quando
emerse dall’altra parte in mano stringeva il suo cuore, che fu stritolato e
ridotto in poltiglia.
Quello morì prima
ancora di rendersi conto di quanto gli era accaduto, e non appena Erik ritirò
la mano il sangue prese a scorrere a fiumi dalla sua orrenda ferita.
Allora, e solo
allora, Erik cominciò a rendersi conto di quello che aveva fatto, e guardandosi
attorno all’inizio non gli sembrò possibile che quella spaventosa mattanza
fosse stata opera sua.
Si guardò la sua
nuova mano; il sangue che la riempiva era rosso come un rubino, caldo come un
abbraccio, e il suo gocciolare sulla fredda pietra sembrava il ticchettio di un
orologio.
Cos’era quella
sensazione che gli stava martellando la testa? Non sapeva cosa fosse, ma ciò
nonostante obbedì al suo richiamo, avvicinandosi la mano insanguinata al volto.
Rimase ancora
immobile a fissare quel rosso, poi, aperta la bocca, ne leccò un sorso.
Un senso di
piacere e di infinito appagamento lo pervase sentendolo, caldo e denso, nella
gola.
Ancora non riusciva
a capire cosa stesse facendo, ma… che gli piaceva. Nonostante tutto, gli
piaceva.
Gli piaceva il
sapore del sangue.
Ne voleva ancora,
ne sentiva il bisogno, e per questo ne leccò ancora un sorso, e poi un altro.
Alla quarta volta,
però, quello che un istante prima sembrava un gusto sopraffino divenne invece
un sapore immondo, che sapeva di morte.
Che cosa aveva
fatto?
Che cosa stava
facendo?
Perché, perché si
era comportato così? Come aveva potuto permettere alla rabbia di prendere il
controllo?
Odiava e temeva sé
stesso.
Già altre volte si
era infuriato, altre volte il suo potere aveva preso il sopravvento su di lui,
ma stavolta era diverso. Il suo potere non c’entrava.
La forza che aveva
sentito scorrergli dentro era diversa, inondata di malvagità, e prima di
poterlo comprendere ne era diventato succube.
Il suo braccio, il
suo nuovo braccio, non lo percepiva realmente come suo, e solo in quel momento
ricordò che non lo era mai stato; dentro di esso albergava qualcosa di
terribile, che mai più avrebbe dovuto emergere.
Contemporaneamente
alla sua presa di coscienza giunse anche il solito, terribile dolore, e il
braccio, circondatosi di un alone nero, tornò ad essere quello di sempre.
Quanti altri
errori avrebbe dovuto commettere prima di rendersi conto della propria
ingenuità? Quanti altri demoni avrebbe accettato di ospitare nel suo corpo
prima di comprendere quale mostro stava diventando?
Qualche giorno dopo, i primi, candidi fiocchi di neve
presero a scendere dal cielo, posandosi placidamente sulle rovine di quello che
era stato il villaggio di Hokishima, di cui ormai non rimanevano che pochi
resti anneriti dal fuoco.
Erano occorsi due
giorni per dare sepoltura a tutti i suoi abitanti, e finito il lavoro il dolore
nel vedere così tanti cumuli di sassi l’uno accanto all’altro in un ultimo,
eterno abbraccio, fu per Sanae ancora più grande di quello che aveva provato
nell’apprendere che lei era l’unica superstite.
Erik stava dietro
di lei, ma non riusciva a proferire parola, e dentro di sé avvertiva un misto
di vergogna e compassione.
Tutto si
aspettava, fuorché ciò che sarebbe accaduto; la ragazza, giratasi, si strinse
forte a lui, piangendo tutte le sue lacrime.
«Perché? Perché io
sì e loro no? Che cosa ho fatto io per essere risparmiata? E che cosa avevano
fatto loro per morire? Perché noi Inu dobbiamo soffrire così, perché tutti ci
odiano e ci vogliono male?».
Lui rimase
scioccato: pensava di essere odiato, di essere considerato responsabile, ma
lei, invece di allontanarlo, cercava in lui conforto e protezione.
Avrebbe voluto
stringerla, ma una forza misteriosa lo trattenne.
«Tu sei viva,
Sanae.» le disse guardandola negl’occhi «È questo che conta. Non ho la
presunzione di comprendere perché ciò sia accaduto, ma se vivrai la tua vita al
meglio allora i tuoi compagni non saranno morti invano».
Sanae lo guardò
coi suoi occhi gentili di bambina, poi se li asciugò, cercando di farsi forza.
Erik la lasciò
andare e si girò, allontanandosi, mentre lei lo seguiva con lo sguardo, ma poco
dopo il giovane si fermò, volgendosi nuovamente a guardarla.
«Allora, vieni o
no?»
«C… cosa?!»
«Volevi vedere il
mondo, giusto? E poi, non vorrai restare qui da sola».
Sanae sorrise di
gioia e subito corse verso di lui, dando un ultimo saluto ai suoi amici e
promettendo loro di non rendere vano il loro sacrificio; avrebbe visto il
mondo, e avrebbe fatto del suo meglio per trasformarlo in un luogo migliore.
Erik, dal canto
suo, era tutto sommato felice di portarla con sé, ma non sapeva se lo stesse
facendo per un qualche motivo particolare o solo per mettere a tacere la
propria coscienza, che ancora gridava forte la sua parte di colpa per la
distruzione del villaggio.
Forse però la
vicinanza così solare sarebbe servita a fargli dimenticare, almeno per un po’,
la frase che gli ronzava nella testa, legato al più tremendo dei suoi ricordi.
Il lungo viaggio
attraverso le terre degli elfi stava per giungere al termine.
Ancora un giorno,
due al massimo, e Regis avrebbe finalmente raggiunto la residenza del nobile Rasnak, il suo antico maestro.
Molte cose erano
capitate, molti erano stati gli imprevisti a cui aveva
dovuto far fronte, e l’ultimo evento in ordine di tempo era certamente stato
uno dei peggiori.
L’incontro con
Lsyn al lazzaretto lo aveva distrutto, lasciandogli un grande vuoto nel cuore.
Della guerriera
orgogliosa e determinata che aveva conosciuto, e che era stata prima rivale poi
compagna, non era rimasto più nulla; al suo posto c’era solo una bestia
sfregiata piena di odio e furia impossibili da
arginare.
Fino a che punto
una persona può arrivare a trasformarsi, quando segnata dalla disgrazia?
Già altre volte
nel corso dei suoi viaggi Regis aveva visto uomini e
donne di grande valore mutare il loro modo d’essere fino a divenire
irriconoscibili, ma il fatto che fosse successo proprio a Lsyn gli faceva
particolarmente male.
Per quale motivo
aveva così a cuore quell’elfa? Non lo sapeva, ma forse era stato proprio per
via del suo carattere, così fiero, così indipendente.
Aveva capito
subito che Lsyn aveva qualcosa di diverso.
Pur facendo quello
che faceva, l’essere una spia non sembrava arrecarle soddisfazione, l’omicidio
non pareva far parte del suo carattere, per quanto brava fosse ad eseguire i propri compiti e per quanto magnificamente
raffinata fosse la sua tecnica, e anzi una parte di lei stessa sembrava gridare
il proprio disappunto per una simile condotta di vita.
Il fatto che fosse
divenuta madre poteva essere una spiegazione per
questo suo modo d’essere, ma forse poteva esserci anche qualcos’altro
all’origine di un atteggiamento così innaturale, almeno per una Spia, per la
quale la frenesia della lotta e lo scorrere del sangue sembrano essere piaceri
irrinunciabili.
Qualunque
supposizione però risultava vana, se associata alla
bestia inumana rannicchiata su di un letto che Regis aveva visto entrando nella
sua stanza.
La cosa gli
provocava frustrazione, per non dire rabbia, e la nebbia leggera che avvolgeva
la foresta lambendo come un sudario il terreno brullo
e fangoso certo non gli rasserenava l’animo.
Avrebbe voluto
evitare di attraversare quella zona, ma con tutte le deviazioni che era stato
costretto a fare voleva poter concludere il suo
viaggio nel più breve tempo possibile, senza ulteriori ritardi.
Non si sarebbe
stupito nel vedere qualcuno sbucare dal nulla per tentare di fargli la pelle, e
questo non tanto perché stava viaggiando, per l’ennesima volta, nei domini di
Normar, quanto piuttosto perché la foresta in cui si trovava era una terra
sacra a decine di popoli: la
Foresta delle Origini.
Fra le varie
decine di culti e religioni diffuse fra il popolo elfico, il Culto delle
Origini spiccava su tutti per la sua dottrina e per il grande numero di fedeli
che poteva vantare.
Secondo questa
corrente religiosa, nei tempi antichi gli dèi erano scesi dal cielo proprio in
quella foresta, gettando con i loro poteri le basi per la nascita della vita.
A differenza della
maggior parte delle religioni elfiche, di natura politeista, il Culto delle
Origini riduceva sostanzialmente il numero di divinità a due sole figure: Amon,
il Dio del Sole, e Yggdrasil, il Dio della Terra.
Poco distante
dalla foresta, in una grande e rigogliosa vallata, sorgeva la bellissima città
di Kyradon, il luogo sacro per eccellenza; al centro di essa,
nel Tempio della Rinascita, si trovava una fonte di acqua purissima e carica di
magia, e la leggenda raccontava che fosse stato proprio dal dio Amon a farla
sgorgare, ordinando ai primi elfi di costruirci intorno la loro città.
Che la leggenda
fosse vera o meno, indubbiamente Kyradon era una delle città più antiche del
continente, visto che la sua esistenza era
testimoniata già da antiche tavolette in pietra risalenti a prima dell’Impero
di Marzun che riportavano il suo nome.
Il libro sacro di
questa religione era il Tomo delle Origini, un testo a cui
molti attribuivano, oltre che la provenienza divina, anche un grande potere
miracoloso, dal momento che pur essendo vecchio, almeno secondo le leggende, di
milioni di anni, aveva risentito solo in piccola parte degli effetti del tempo.
All’epoca di Regis
nessuno era in grado di leggerlo, essendo scritto in una lingua morta da
diverse migliaia di anni, nessuna trascrizione antica era sopravvissuta e in
molti sostenevano che l’originale fosse andato perduto a causa delle guerre;
esistevano delle traduzioni, tutte risalenti ad epoche
piuttosto recenti, redatte da chierici, studiosi e filologi che si erano
dedicati al suo studio, ma la loro attendibilità era fortemente in discussione;
non per niente, erano state proprio queste traduzioni a portare allo Scisma.
Ad
un certo punto infatti si erano sviluppate due diverse correnti di pensiero nel
Culto delle Origini; una di queste vedeva nel dio Amon la sola e unica divinità
creatrice, l’altra invece aveva il suo unico dio in Yggdrasil. Secondo questa ultima versione, Yggdrasil, dopo aver creato la vita,
avrebbe personalmente generato una figlia da un’elfa mortale, che divenne in
seguito la prima regina del mitico Regno delle Nevi, da molti identificato come
Normar.
Logicamente,
ognuno dei due culti avversava la divinità dell’altro, considerandolo
incarnazione del male, e questo aveva come inevitabile conseguenza lo Scisma.
Pur appoggiando
dichiaratamente il culto di Amon, Kyradon e la foresta sacra a lei vicina
continuavano a rimanere luoghi sacri per entrambe le religioni, e proprio per
questo alla fine Normar aveva invaso la regione, legittimando con la conquista
della città la superiorità del culto di Yggdrasil.
Logicamente in
quella regione Normar faceva molta fatica ad
esercitare il suo potere, e gli abitanti di Kyradon scalpitavano di rabbia
all’idea di essere sottomessi ad un culto che definivano eretico.
Proprio per questo
Regis era pronto a qualsiasi evenienza, ma tutto si sarebbe aspettato fuorché
quello che stava per accadergli.
Il silenzio
attorno a lui era totale, i soli rumori a giungere fino a lui era il gracchiare
lontano di un corvo e gli sbuffi del suo cavallo, anche lui comprensibilmente
esausto per il lungo viaggio che dalle sponde del fiume di confine aveva
portato entrambi alle frontiere settentrionali del continente, ai piedi delle
Vette degli Dèi, oltre le quali si estendeva l’ignoto
più totale.
Tuttavia, ad un certo punto, uno strano odore attraversò le narici del
forestiero; dapprincipio gli sembrò di averlo immaginato e non vi fece troppo
caso, ma quando lo sentì nuovamente a distanza di pochi secondi capì che invece
era reale e si fermò per capire meglio la sua natura: sembrava fumo, ma un fumo
innaturale, con un aroma particolarmente forte.
Subito Regis pensò
ad un bivacco, o a qualcuno dei tanti bracieri votivi
che venivano accesi dai sacerdoti e dai druidi che abitavano nelle numerose caverne
disseminate in tutta la foresta; nulla di allarmante quindi, se non fosse che
dopo poco, assieme all’odore, giunse anche uno strano rumore, come un lamento
sommesso.
In tutto quel mare
di silenzio Regis non impiegò molto a capire da dove provenisse, e subito girò
il proprio cavallo verso destra, spingendolo in quella direzione; il lamento
non si fece più sentire, ma l’odore di fumo diventava sempre più forte, e
seguendolo alla fine il guerriero incontrò sulla sua strada una figura riversa
a terra a pancia in giù.
Il suo corpo era
quasi completamente ricoperto dalle foglie, di cui sembrava essersi
volontariamente ricoperto, forse per tentare di nascondersi, ma a giudicare
dalla stazza e dalla forma del volto appariva chiaro che non si trattava di un
elfo, bensì di un essere umano.
Regis si fermò
poco distante da lui e scese da cavallo per cercare di aiutarlo, e non appena
gettò via le foglie che coprivano il malcapitato la
prima cosa che pensò fu di stare sognando, e senza rendersene conto si ritrovò
a fissarlo con gli occhi sbarrati.
Indossava uno
strano completo, di un tessuto simile al cotone, ma più ruvido e resistente, caratterizzato
da un susseguirsi di macchie di colore più o meno
grandi che andavano dal grigio al verde opaco. Portava anche un paio di grossi
stivali neri con una suola molto spessa che sicuramente non era cuoio.
Sopra a quella che, a giudicare dal colletto, doveva essere una
camicia a maniche lunghe, portava una specie di corazza che copriva l’intero
busto; a prima vista poteva sembrare una normale sopravveste nera molto spessa,
ma se si provava a batterla risuonava come se al suo interno ci fosse stato del
metallo.
Aveva anche
un’arma con sé; portata a tracolla, di colore nero, ricordava le armi a L usate dai mostri di metallo, ma era più lunga e più grossa
di queste ultime, e invece di una aveva due impugnature.
Il motivo per cui
quell’uomo aveva fatto udire i suoi lamenti doveva essere la brutta ferita che
aveva al braccio destro, forse lasciata da un fendente, ma prima ancora di
vederla ciò che maggiormente impressionò Regis fu il rettangolo di stoffa
cucito sulla spalla della camicia subito sopra di essa; era bianco, con al centro un cerchio rosso.
“La… la bandiera
giapponese!?” pensò.
Qualche secondo
dopo quello si accorse del nuovo arrivato e cercò di
alzare lo sguardo, ma era così debilitato, forse per l’emorragia, che a
malapena gli riuscì di mettere a fuoco ciò che stava guardando.
Regis, riavutosi
dallo stupore, si affrettò a girare quel tipo sulla schiena, dopo essersi
accertato che non avesse altre ferite.
«Tranquillo, andrà
tutto bene.» gli disse
«Tu…» balbettò
quello «Tu parli giapponese!?»
«Parleremo
dopo di questo. Ora devo curarti, o la ferita si infetterà».
Fortunatamente
Regis portava sempre con sé un cristallo medico, e con quello fu estremamente facile chiudere la ferita, perché in fin dei
conti si trattava di una cosa da poco, nulla che la magia di guarigione non
potesse sanare.
Il soldato, perché
di questo doveva trattarsi, fu in grado di rimettersi in piedi dopo appena
qualche minuto.
«Ma come diavolo hai fatto?»
«È
un po’ complicato da spiegare. Per dirla brevemente…»
«Scusa, ma ora non
c’è tempo per parlare.» lo interruppe brevemente quel tipo dagli occhi castani,
lunghi e leggermente a mandorla, e dalla capigliatura di un colore marrone
molto scuro, tendente al nero «Dobbiamo tornare subito indietro prima che quei
mostri tornino alla carica.»
«Mostri?»
«Sì, quei tipi con
le orecchie a punta.»
«Ah,
vuoi dire gli elfi. Non mi sorprende che siano qui. Questa infondo
è la loro terra.»
«Eravamo usciti in
cerca di un modo per lasciare la foresta ma ci sono saltati addosso appena ci
siamo inoltrati un po’ tra gli alberi.»
«Forse
erano Spie. Meglio non avere a che fare con loro. Sono tipi pericolosi.»
«Appena
li abbiamo incrociati il sottotenente Kageyama ha ordinato la ritirata. Forse gli
altri sono riusciti a tornare indietro, all’accampamento.»
«All’accampamento!?» esclamò Regis «Vuoi dire… che ce ne sono altri? Altri terrestri?!».
Il soldato lo
guardò sgranando gli occhi.
«Come fai a sapere
che siamo terrestri?»
«Mi
sembra ovvio. Perché anch’io vengo dalla Terra ».
Immerso nelle comodità e nel lusso sfrenato del suo
lussuoso palazzo, Selmar, sovrano e imperatore del
grande Impero di Caldesia, si godeva spensierato la sua bella vita fra donne
seminude, cibi raffinati e vino di ottima scelta.
Era un uomo di
mezza età brutto da far paura, tarchiato, grasso e con un enorme paio di baffi
grigi e un vistoso pizzo, e lui probabilmente lo
sapeva, perché cercava di compensare il proprio aspetto deplorevole indossando
abiti della più raffinata fattura; un grosso turbante con al centro uno zaffiro
grande come un pugno nascondeva la sua calvizie, del resto ritrovarsi calvi e
con un fisico così malridotto a meno di cinquant’anni non poteva certo dirsi
consono per un uomo che andava dicendo di essere il futuro leader di tutti gli
esseri umani che abitavano il continente.
Nel suo regno,
egli era la massima e l’unica autorità, aveva potere incontrastato su ogni cosa
e sulle vite di tutti i suoi sudditi, che manovrava a proprio piacimento, e
come la gran parte dei suoi predecessori la sua era una
politica mirata all’oppressione e alla conquista.
Il Regno di Fiya,
che occupava tutta la frontiera occidentale, era sempre stato il nemico per
eccellenza del popolo di Caldesia, e negli ultimi cinque secoli non vi era
stato un intero decennio senza una guerra fra queste due nazioni per ottenere
la leadership del continente.
Benché Fiya avesse
un estensione tre volte superiore, la fertilità del
territorio e la densità della popolazione erano punti a favore di Caldesia, e
proprio per questo nessuna delle due fazioni era ancora riuscita a prevalere.
Questo almeno fino
a che Selmar non aveva stretto un accordo coi padroni di quelle straordinarie bambole meccaniche.
Erano andati loro da lui, dando prova delle grandi
potenzialità di cui disponevano le loro armi innovative e offrendosi di
concedergliene alcune a condizione che l’imperatore le impiegasse prima di
tutto nella ricerca del Tomo delle Origini, il testo sacro della razza elfica
che da svariati millenni era andato perduto.
Ora che il testo
era stato trovato, però, non c’era più nulla che impedisse all’imperatore di
sfruttare i robot per muovere guerra al mondo intero, e con un simile arsenale
a propria disposizione non ci sarebbe stato esercito capace di fermarlo.
Stava appunto
meditando su quale sarebbe stata la sua prima conquista, quando un servitore
entrò nella stanza, in cui regnava il lusso più sfrenato, tra fontanelle, tende
di seta, profumi di incenso e una marea di pregiati
cuscini su cui sedevano le numerosissime ancelle incaricate di intrattenere il
sovrano.
Come prevedeva il protocollo il servo si avvicinò al tavolo al quale
l’imperatore stava pranzando, servito e riverito dal suo nutrito harem, senza
guardarlo direttamente, ma vista la sua agitazione il non poter guardare
davanti lo fece quasi inciampare su di un cuscino.
«Mio signore!»
«Che c’è?» rispose
lui sgarbatamente.
L’ultima cosa che Selmar poteva accettare era che qualcuno lo interrompesse
durante i pasti.
«È successa… è
successa una cosa terribile!»
«Spero
per te che lo sia abbastanza da giustificare questa interruzione. Di che si
tratta?»
«I… i robot…»
disse quello con terrore negli occhi e i sudori freddi «I robot… ecco…».
Stanco di quel
balbettare l’imperatore mise mano al pugnale ricurvo che portava alla cintura.
«Deciditi, o parli
o quella lingua la do in pasto ai maiali!»
«I robot sono
scomparsi dai nostri magazzini!».
Selmar, che stava bevendo da una coppa, per l’incredulità
sputò il suo vino sulla tovaglia e per poco non si strozzò.
«Che cos’hai detto?!» tuonò col suo vocione da orco imbestialito
«Non…
non capiamo come sia potuto succedere. I magazzini erano chiusi e ben
sorvegliati. Anche i robot che erano fuori in missione sembra
siano scomparsi; molti nostri piloti sono stati catturati e uccisi, solo pochi
sono riusciti a tornare.»
«Che significa
questa storia!» gridò l’imperatore alzandosi in piedi e rovesciando con rabbia
incontrollabile l’intero tavolo.
Le ancelle,
spaventate si allontanarono da lui, perché sapevano bene che pur essendo
solitamente tutto moine e carezze Selmar,
quando perdeva le staffe, era capace di schiaffeggiarle fin quasi ad ucciderle.
Senza neppure
togliersi il tovagliolo bianco che aveva al collo
l’imperatore uscì dalla stanza, e correndo come un pazzo attraverso i corridoi
alti e sfarzosi del suo palazzo raggiunse la grande sala del trono, ordinando a
tutte le persone lì presenti, per la maggior parte servitori e cortigiani, di
andarsene immediatamente.
Accertatosi
di essere solo si avvicinò al suo trono in oro e pietre preziose, e dopo
essersi dato una ennesima occhiata tutto intorno a sé premette un pulsante
segreto sotto il bracciolo sinistro; a quel punto, nel pavimento marmoreo si
aprì un foro circolare da cui emerse uno strano marchingegno vitreo di forma
semisferica largo e quasi piatto che appena emerso completamente prese a
brillare di azzurro; dopo poco, sopra di esso comparve la figura a grandezza
naturale del giovane uomo al comando nel palazzo nel cielo, sempre avvolto
nella sua sopravveste bianca.
«Vostra
altezza. Che combinazione. Stavamo proprio per chiamarla noi.»
«Nobile Sodan…» balbettò Selmar con tono estremamente servile «I robot… sono scomparsi».
Sodan sorrise leggermente.
«E
allora? Non vedo cosa ci sia di strano.»
«C… come sarebbe!? Ma… avevate detto che…»
«Gli
accordi erano chiari. Se voi aveste trovato il Tomo delle Origini, avreste
potuto tenere i nostri robot.»
«Ma… è quello che abbiamo fatto.»
«Vi
sbagliate. Noi siamo entrati in possesso del libro per conto nostro.»
«Per… conto vostro!? Ma… sono stato io a combinare l’incontro con la regina
Lainay.»
«Sì,
ma noi per averlo abbiamo dovuto dare qualcosa in cambio. Inoltre, abbiamo
sottoscritto un nuovo accordo con Normar.»
«Un… un nuovo
accordo!?»
«Mettiamola
in questi termini. Ora sarà la regina Lainay a fare ciò che originariamente
avevamo pensato per voi. Per questo, possiamo considerare il nostro precedente
accordo come saltato.»
«Come, saltato!? Aspettate…»
«Ci
siamo semplicemente ripresi ciò che era nostro. Arrivederci, altezza. Abbiate
cura di voi».
Senza dire altro
l’immagine di Kanar sparì assieme all’intero
apparecchio, lasciando un gran buco sia sul pavimento che
nello stomaco dell’imperatore.
Questi, in preda
alla rabbia, lanciò un grido che fu udito in tutto il palazzo.
«Dannazione!
Dannazione!» urlò buttando a terra un prezioso vaso di
ceramica.
Sbuffava come un
toro davanti al drappo rosso, e sembrava uscirgli fuoco dalla bocca.
«Quella
troia di un’elfa! Quella puttana schifosa! Giuro che questa me la pagherà cara,
dovesse costarmi la vita!».
In quella, una
risata giovane e malefica risuonò alle sue spalle.
«Non ci hanno
messo molto a scaricarti, eh imperatore?».
Selmar si girò digrignando i denti.
Nella stanza era
arrivata, nel più assoluto silenzio, un’inquietante figura che indossava un
impermeabile nero dalla lunga livrea che scendeva fin quasi a lambire le
caviglie.
Era un uomo, e a
giudicare dalla voce doveva essere molto giovane, forse poco più che ventenne;
aveva capelli di un castano tendente quasi al verde, e il volto nascosto da una
maschera nera che riproduceva le fattezze di un drago, con due occhi azzurri,
tre corna affilate e un rubino rosso sangue al centro della fronte.
«Il tuo sarcasmo è
l’ultima cosa di cui ho bisogno al momento, Fujiwara.»
«Io ti avevo
avvertito che una volta diventato inutile saresti stato messo da parte.»
«Non
la passeranno liscia. Si pentiranno di avermi trattato come immondizia.»
«Vacci
piano con le minacce. Quella è gente che non scherza, dovresti averlo capito.»
«Nemmeno io
scherzo, e presto se ne renderanno conto.»
«Invece
di pensare alla vendetta, dovresti preoccuparti delle conseguenze delle tue
azioni. Quanto tempo credi impiegheranno Fiya e le altre nazioni a scoprire che
non puoi più contare sulle tue super-armi?».
Un simile pensiero
fece tremare Selmar come uno scolaretto cattivo
davanti alla maestra; avere contro l’intero continente non era certo cosa da poco, e dovette sedersi sul suo trono, perché
le gambe tremavano a tal punto da non poter leggere il suo grasso corpo.
«Ora
che sono stato tagliato fuori dai piani di Sodan, il
tuo progetto è l’unica cosa in grado di salvarci dall’annientamento. A tal
proposito, come procedono gli esperimenti?»
«Tutto
secondo i piani. A questo punto mancano solo le gemme della leggenda. Quindi,
col tuo permesso, mi metterò subito alla loro ricerca.»
«Vai
allora. Agisci come meglio ti pare, ma non tornare senza averle trovate.»
«Come desideri, o
mio imperatore.» rispose Fujiwara, che dopo un
leggero inchino scomparve in un alone di fumo nero come avrebbe fatto un Rinnegato.
Nella zona di sharilar, dalla
vegetazione prettamente montana, la nebbia era un fenomeno piuttosto diffuso.
Quella giornata
non faceva eccezione.
Gli alberi
secolari erano infatti avvolti da una compatta
caligine che impediva di vedere ad un palmo dal proprio naso.
Regis guidava il
proprio cavallo in quell’immenso mare di densa caligine, facendo attenzione che
l’animale non incespicasse nei sassi e nelle radici che emergevano dal terreno.
Assieme a lui, seduto dietro, il soldato che aveva tratto in salvo, che pur
ancora dolorante e visibilmente stanco seguitava a guardarsi attorno, tenendo
la sua arma pronta a qualsiasi evenienza.
Ad un certo punto, quando ormai il
silenzio si era fatto opprimente, Regis decise di rompere il ghiaccio.
«Tra quanto
arriveremo?».
Il soldato, che si
era presentato come Kotaro Kobayashi, gli rispose
poco dopo.
«Ci
siamo quasi. In questo punto quei bastardi si avvicinano di meno, chissà perché...».
Una strana smorfia
attraversò il volto del soldato, quasi di disgusto.
Regis quasi non
cambiò espressione, continuando a guardare avanti, le orecchie tese in
quell'ambiente che tutto era tranne che poco ostile.
Di solito gli eroi
si imbattevano in quelle nebbie mentre cercavano
qualcosa di magico, che fosse un oggetto, un nemico o un castello. Lui non era
un eroe delle favole e, se veramente non era tutto un sogno, non ci sarebbe
stato niente di magico in quello che avrebbe trovato, almeno non per le altre
persone.
Avrebbe veramente trovato qualcuno che come
lui veniva dalla Terra? Quanti erano? Perché erano li? Non sapeva più cosa
pensare.
I due uomini
continuarono il cammino in furtivo silenzio, guardandosi di tanto in tanto
dietro, come per accertarsi di non essere seguiti.
Regis era più
calmo, ma non faceva altro che cercare di guardare oltre la nebbia, come in
cerca di qualcosa. Ad un certo punto, dalla nebbia
fitta cominciò ad emergere qualcosa, ancora piuttosto confuso dalla caligine,
ma chiaramente più regolare rispetto
agli alberi contorti di faggi e larici che si ammassavano nella foresta.
Kotaro emise un
breve sospiro di soddisfazione.
«Ah...casa dolce casa!» ridacchiò, divenuto lievemente meno
cupo, con un accenno di sarcasmo nella voce.
Toshio non
rispose, e spinse il cavallo più veloce, e man mano che si ci
avvicinavano la nebbia si diradava tutto intorno, permettendo una migliore
visuale di quella che sembrava essere una costruzione umana.
Più avanti si andava, meglio i contorni di
distinguevano: si trattava chiaramente di una palizzata di fortuna, costruita
con lunghi pali di legno, rozzamente squadrati ed
appuntiti, evidentemente di recente: ad ogni passo, l'odore di legno appena
tagliato si faceva più intenso.
La nebbia era così
fitta, così spessa, che la costruzione pareva uscire da un sogno, fluttuare
assurdamente a mezz'aria insieme ai tronchi degl’alberi
che aveva intorno.
Regis, le labbra
strette in quella che pareva un'espressione lievemente stranita, accelerò
ancora di più, e per poco Kotaro non cadde dalla sella per l’improvvisa
accelerata.
Poi, come un
fantasma,dalla
nebbia uscì qualcos’altro, una sorta di disco rosso, spiegazzato, stranamente
in bilico in quello che pareva un angolo della palizzata, come se non avesse
nulla che lo tenesse su.
Il soldato, dopo
una breve occhiata a quella figura bizzarra che si agitava leggermente in cima
alla sua asta, mossa da un’impercettibile brezza, mormorò uno strano
ringraziamento, mentre ben altre reazioni si ebbero dal suo accompagnatore.
Come folgorato, Regis si fermò, prendendo ad osservare quel vivace colore, che usciva dalla nebbia
come uno spettro, come una macchia rotonda di sangue su un foglio totalmente
bianco.
Erano ormai anni
che non vedeva più quel simbolo, anni in cui quella bandiera, come pure molte
altre cose del posto dal quale veniva, avevano smesso
di far parte della sua vita, della sua stessa essenza.
Non si sarebbe mai
aspettato, tuttavia, di vedere quel simbolo... proprio lì, in mezzo di una
foresta di un altro mondo, dove gli abitantinon sapevano nemmeno cosa fosse la Terra.
Davvero, davvero,
un bizzarro contesto.
«Alt!» gridò
all’improvviso un altro soldato dall’alto di una torretta che spiccava oltre la
palizzata.
Anche lui, come il
suo compagno, era armato, e teneva i due viaggiatori sotto tiro.
«Shinokichi, sono io!» disse Kobayashi
alzando il braccio «Kotaro!»
«Kotaro!?» disse l’altro sgranando gli occhi «Per la miseria, sei
davvero tu?»
«In
carne e ossa. Come vedi sono ancora vivo.»
«E lui?»
«È
un amico, puoi fidarti. Fateci entrare.»
«D’accordo.
Aprite il portone!».
Qualche istante
dopo nell’impenetrabile muro di pali si aprì una breccia, permettendo a Kobayashi e al suo compagno di entrare nel campo.
Proprio come Regis
aveva immaginato, l’accampamento di quei soldati sorgeva tutto intorno alle
rovine del tempio sacro di Kyradon; gli elfi lo chiamavano
tempio, ma in realtà non ne rimanevano che poche macerie, fatta eccezione per
il grande arco che, secondo la tradizione, era posto all’entrata dell’antico
edificio.
Appena varcata
quella soglia, il guerriero ebbe come l’impressione di fare un salto nel tempo
e nello spazio, ritornando al luogo che tanti anni prima aveva abbandonato.
Quei volti così
famigliari, quei vestiti così bizzarri, quelle parole che nessuno nel mondo, a
parte lui, avrebbe potuto capire.
Dovevano esserci
all’incirca una decina di persone, tutte dai tratti somatici tipicamente
orientali.
Uno solo faceva
eccezione, un ragazzo sulla trentina con lunghi capelli biondi e vispi occhi
azzurri, che al momento dell’arrivo di Regis e Kotaro si stava facendo la barba con uno specchietto di fortuna, intingendo
di tanto in tanto il rasoio in una tinozza d’acqua.
Aveva tutta l’aria
di un campo allestito velocemente.
Le tende, tre in
totale, erano sparse qua e là, ma tutte piuttosto lontano dalla palizzata. In
un angolo, ammucchiate sotto ad un telo sorretto da
dei paletti, c’erano varie casse di legno o di metallo, contenenti
probabilmente munizioni e vettovaglie. Infine, quasi al centro, poco distante
dalla base della torretta, c’era un grande tavolo di legno grezzo, ricavato con
ogni probabilità tagliando a metà un tronco molto largo, al quale erano seduti
altri due soldati, intenti a consumare una colazione
frugale a base di pane e caffè.
Regis e Kotaro
erano appena scesi da cavallo quando un ufficiale di mezza età con i capelli
leggermente ingrigiti e un paio di occhiali si avvicinò
a loro.
«Capitano.» disse
il soldato facendo il saluto «Sono tornato.»
«Grazie
al cielo. Temevo ti avessero ucciso.»
«Che ne è stato
degli altri?»
«Sono
riusciti a tornare. Mancavi solo tu.»
«Mi
dispiace enormemente. Sono sbucati dal bosco, ci hanno accerchiati,
e…»
«Non
serve che ti giustifichi. Ho approvato io la vostra sortita. Anzi, mi fa
piacere vedere che sei sano e salvo».
Il capitano portò
quindi la sua attenzione su Regis.
«E lui chi
sarebbe?»
«È
un amico. Mi ha salvato lui.»
«Davvero?».
Regis si avvicinò
e i due si strinsero la mano.
«Ti ringrazio per
il tuo aiuto.»
«Non c’è di che.»
«Aspetti
signore, non ha sentito il pezzo forte. Anche lui viene dalla Terra.»
«Che cosa!?».
Tutti i soldati si
girarono contemporaneamente nella loro direzione, e Regis si sentì leggermente
a disagio nell’avere addosso tutti quegl’occhi.
«Ma… è vero!? Anche tu sei un terrestre!?»
«Sì, è così.»
rispose calmo il giovane
«Oh,
ma che sgarbato che sono. Sarete entrambi affamati. Venite a mangiare qualcosa».
Contando le due
vedette sulla torre, quel piccolo esercito contava dodici persone, undici
giapponesi e un americano.
Oltre al capitano
Kawaguchi, altri uomini degni di nota erano il sottotenente Mako Kageyama,
l’ufficiale medico Masato Makimura e i soldati semplici Tetzuya Utage e Genzo
Shijimi; l’unico americano del gruppo era il sergente maggiore Peter Stiller,
unico superstite della squadra dell’aeronautica militare americana che faceva
da supporto alla divisione giapponese.
«È stato quel coso
a spedirci qui.» disse Utage indicando l’arco «Ce
n’era uno uguale a Hokkaido. Un giorno arriva questo gruppo di yankee che ci
dice di sorvegliarlo assieme a loro. Noi andiamo lì, ci sistemiamo tutto
intorno, e senza rendercene conto ci ritroviamo catapultati in questa foresta
assediati da un esercito di dr. Spock.»
«Tetzuya.»
intervenne Kageyama «Se proprio devi raccontare una storia, vedi almeno di
farlo come si deve».
Fu il capitano
Kawaguchi allora a fare le veci del suo subalterno.
«All’inizio
non sapevamo niente di preciso. Ma l’ordine è venuto
direttamente dall’aeronautica militare americana. Ci hanno fornito loro le
coordinate per trovare l’arco.»
«Dove si trovava
esattamente?»
«All’ingresso
di un vecchio tempio ormai in rovina. L’alto comando ci ha ordinato di
presidiare l’intera zona assieme ad un gruppo di soldati americani provenienti
da Okinawa, ed è quello che abbiamo fatto.»
«E poi che è
successo?»
«Ci siamo posizionati tutto intorno e abbiamo aspettato. L’ordine era
di non fare avvicinare nessuno fino a nuovo ordine. Poi, all’improvviso, il
terreno ha cominciato a tremare, c’è stata una fortissima luce e quando ci
siamo risvegliati eravamo qui».
Regis avvicinò
l’arco prendendo a girarci intorno.
«Secondo
la leggenda, è da qui che gli dèi sono scesi in terra al momento di creare la
vita.
Di preciso, cosa
sapere riguardo a quest’arco?»
«Chiedilo a loro.» disse il sottotenente
puntando il dito, non senza un certo disprezzo nella voce, verso il sergente Stiller
«Non c’è bisogno
di essere tanto sarcastici.» rispose l’americano tracannando in un sol fiato la
sua tazza di caffè.
Si alzò allora dal
suo sgabello di fortuna e si avvicinò ad una strana
cosa nascosta sotto un telo; e una volta rimossa la copertura venne alla luce
quello che sembrava un altare di pietra di forma rettangolare su cui era inciso
un grande cerchio magico del diametro di oltre un metro, con una miriade di
simboli e disegni disegnati al suo interno.
«È l’antico
alfabeto elfico.» disse Regis osservando i simboli
«L’alfabeto
elfico?» domandò Kotaro
«La
lingua degli antenati. La stessa con cui è scritto il loro testo sacro, il Tomo
delle Origini.»
«Il Tomo di che?»
«Lasciamo perdere.» rispose Peter «Ad ogni modo, guarda».
Lo
yankee passò una mano sopra ad uno dei simboli, che si illuminò
leggermente di azzurro, e un secondo dopo l’arco lì vicino emise uno strano
sibilo che perdurò fino a che la runa non smise di brillare.
«Incredibile.»
disse Regis visibilmente sorpreso
«Non
chiedermi di scendere nei dettagli, perché neppure io ne so granché. Quello che
so è che un arco simile a questo fu trovato per la prima volta in Alaska nei
primi anni ’30. Sessant’anni dopo fu avviato uno studio sulle sue origini, fino
a scoprire che si trattava di una sorta di portale che permetteva a chi lo
attraversava di viaggiare da un universo all’altro.»
«Da un universo
all’altro!?»
«Sì,
esatto. Se davvero vivevi sulla Terra fino a otto anni fa, avrai sentito
parlare della teoria del multiverso.»
«Quella di
Everett?»
«Esatto.
Quindi saprai anche che i buchi neri sono come delle
fessure nel muro che costituiscono il punto di contatto fra i vari universi.
Questi portali sono in grado di far passare un flusso di energia attraverso a
questi squarci dimensionali, in modo da poterli oltrepassare e raggiungere
altri universi.»
«Sembra
impossibile.»
«In
effetti, è un’ipotesi più che reale. Lo dimostra il fatto che
ora siamo qui.»
«Ma cosa è successo esattamente?»
«Non
lo sappiamo. Ci avevano avvertito che avrebbero potuto esserci dei
contrattempi, ma un’ipotesi del genere non era neanche stata presa in
considerazione.»
«Avreste dovuto
avvisarci del rischio che stavamo correndo!» gridò Genzo chiaramente infuriato
«Avreste dovuto dirci cosa poteva succedere!»
«Quante volte de
lo devo ripetere, era top secret!»
«Me
ne frego del top secret! Se ora siamo bloccati qui, è solo per colpa vostra!»
«Finitela!» tuonò Kawaguchi «Ve l’ho già ripetuto mille
volte, litigare tra noi non serve a niente».
Erik distolse un
attimo lo sguardo dall’altare e tornò a fissare l’arco.
«Non potete
riavviarlo?»
«È da quando siamo
arrivati che ci proviamo.» rispose Peter «Ma è più
complicato del previsto. Da quanto ho avuto modo di scoprire leggendo i
rapporti che mi erano stati fatti pervenire, pare che il portale funzioni
sfruttando l’energia intrinseca del pianeta su cui si trova. Sappiamo come
aprirlo, ma non sappiamo quanta energia sia necessaria
per consentire di attraversarlo senza rischi. Per non parlare del fatto che con
tutti gli universi paralleli che ci sono, imbroccare la strada per la Terra è molto difficile.
Credo che la risposta
sia in questi simboli, ma se davvero come dici tu si
tratta di una lingua morta decifrarli per cercare di scoprire qualcosa di più è
impossibile. Sarebbe più facile vincere alla lotteria cento volte di fila».
I soldati avevano
sentito ripetere quella litania almeno un centinaio di volte, e ogni volta lo
sconforto gettava tutti in uno stato di profonda inquietudine, ma era
comprensibile.
«Hai detto che
sfrutta l’energia del pianeta.» disse Regis
«Sì,
esatto. Per quello che ne so anche quello sulla Terra faceva la stessa cosa. Però c’è qualcosa che non mi quadra. I portali sulla Terra
erano circondati da una sorta di antenne per aumentare al massimo la quantità
di energia da sfruttare per la creazione del tunnel. In Alaska erano mascherate
da statue, in Giappone da lampade in pietra, ma qui intorno non c’è niente di
simile.»
«Perché
non ce n’è bisogno. L’energia intrinseca del mondo fisico è la stessa che
permette di utilizzare la magia, e in questo mondo è molto più forte che sulla
Terra.»
«Ora
capisco. Ecco perché non ci sono antenne. Con la grande quantità di energia a
disposizione, il portale può benissimo assorbirla da solo, senza alcuno
strumento di supporto.»
«Esatto.»
«Questo però non
ci aiuta.» disse Tetzuya «Energia o no, non hai la minima idea di come farlo
funzionare.»
«E come se non
bastasse» intervenne Kageyama «Quegli esseri dalle orecchie a punta non ci
mollano un solo istante.»
«Cosa hai detto che sono?» chiese Kotaro rivolgendosi a Regis
«Elfi?»
«Sì,
esatto. E hanno due buoni motivi per avercela con voi. La prima è che vi
trovate in una delle loro zone più sacre. La seconda sono
quasi sicuro che siano gli strumenti che usate per difendervi.»
«Le nostre armi?»
domandò il capitano guardando il suo P90
«Mi duole
dovervelo dire, ma non potevate scegliere tempo e luogo peggiori
per il vostro arrivo.
In questo momento
ci troviamo nel cuore della terra degli elfi. Un tempo questa era una regione
pacifica, ma poco tempo fa il regno di Normar, che da tempo
conduce una massiccia campagna di conquista, l’ha annessa ai propri domini.
Normar è guidata
da una regina di nome Lainay. È una pazza esaltata della peggior specie, spinta da una sete di potere che ha dell’incredibile e da
uno spaventoso complesso del messia. Per farla breve, è la versione al
femminile di Adolf Hitler moltiplicata per mille.»
«Mh, meglio di così.» commentò sarcasticamente Makimura
«Posso solo
immaginare la faccia che avrà fatto Lainay nel sentire che tipo di armi usavate per difendervi. Quella è pronta a tutto pur di
mettere le mani su strumenti di conquista sempre più efficaci, e quasi
sicuramente avrà dato ordine di stanarvi con qualunque
mezzo.
Comunque, per
essere stati chiamati ad una semplice spedizione di
ricerca siete decisamente ben equipaggiati. Come mai tutto questo
armamentario?»
«Non
sapevamo che tipo di problemi ci saremmo trovati a dover affrontare. Con noi
avevamo tutto il necessario per rispondere a qualsiasi evenienza, e questo si è
rivelato la nostra salvezza.»
«Ad ogni modo»
intervenne Kawaguchi «La situazione si fa sempre più
grigia. Subiamo una media di due attacchi al giorno, e
più tempo passa più si fanno pericolosi.
Fino ad ora siamo
riusciti a difenderci, ma cibo e acqua cominciano a scarseggiare. Per questo
avevo ordinato una sortita, e per poco i miei uomini non facevano la fine di Petterson e i suoi.»
«Petterson?»
«Era
il capitano della divisione dell’aeronautica. Pochi giorni dopo il nostro
arrivo lui e gli altri yankee hanno cercato di uscire dalla foresta, ma sono
stati crivellati di frecce prima di poter fare cento
metri.»
«È una fortuna che
io sia rimasto qui.» disse Peter senza togliere gli occhi dal cerchio
sull’altare «Vorrei ricordare che se non fosse stato per me, ora saremmo tutti carne da macello.»
«Di che sta
parlando?» chiese Regis
«Non
sappiamo perché, ma pare che il portale sia in qualche modo dannoso per quegli
esseri. Ogni volta che lo attiviamo, tutti quelli che si trovano nel raggio di
cinquanta metri cadono a terra stecchiti.»
«In effetti è plausibile. Gli elfi sono molto sensibili alla
magia, e questo è uno dei loro grandi difetti. Le particelle di energia emesse
dal portale devono avere lo stesso effetto di una potente scarica elettrica. Ma
allora perché non lo tenete perennemente aperto?»
«Ci abbiamo
provato, ma dopo una o due ore di esposizione anche noi cominciamo a sentirci
male.»
«Senti un po’.»
disse Genza«Ma quegli elfi,
sono come quelli delle favole? Nel senso, sono immortali?»
«No, decisamente no. Però sono molto
longevi. La speranza media di vita di un elfo si aggira attorno ai mille anni.
Un anno di un essere umano corrisponde a circa una decina d’anni per un elfo.
Inoltre sono molto più sviluppati di noi a livello psicofisico, e hanno un
corpo che risponde più velocemente del nostro a ferite e malattie.»
«In pratica, sono
come dei superuomini.»
«Sì, diciamo di
sì.»
«Ogni tanto» disse
Kotaro «Vengono di notte, con bandiera bianca,
prendono i loro morti e se li portano via.»
«È
naturale. Hanno grande rispetto per i guerrieri che cadono in battaglia. Non
poter dare loro una degna sepoltura significa infangarne la memoria».
Nello stesso
momento, alcuni metri più in alto, i due uomini sulla torretta scrutavano, non
senza difficoltà, attraverso la fitta caligine che li circondava, cercando di
scorgere ogni possibile pericolo; era dura però
riuscire a concentrarsi con quel freddo raggelante che intirizziva le dita e
faceva battere i denti.
«Accidenti.»
mugugnò Shinokichi soffiandosi sulle mani «Cosa non
darei per starmene a casetta mia, a Odaiba.»
«Stai fresco.» gli
rispose l’altro «Temo proprio che non ci torneremo mai.»
«Ti ringrazio, sei davvero insuperabile nel risollevare il morale delle
persone.»
«E tu sei decisamente troppo ottimista. Hai una qualche idea della
gravità della situazione in cui ci troviamo?»
«Ma perché mi ostino a discutere con te, vorrei sapere».
Non aveva finito
di parlare che una freccia gli passò così vicino da sfiorargli i capelli,
conficcandosi nella paglia del tetto.
«Ma cosa…».
I due, afferrate
le armi, si girarono nella direzione da cui era partito il dardo, e videro
distintamente delle figure minacciose aggirarsi nella nebbia.
«Merda!
Allarme, siamo sotto attacco!»
«Che direzione?»
domandò il capitano
«Sud, ci attaccano
da sud!»
«Dannazione!
Tutti ai posti di combattimento! Forza, forza,
forza!».
I soldati
interruppero all’istante qualsiasi attività stessero
svolgendo, e recuperata in tutta la loro arma corsero ad’affacciarsi alle
feritoie sulla palizzata, pronti a rispondere all’ennesimo attacco.
«Ehi,
amico! Prendi!» disse Kotaro lanciando a Regis un P90,
lui la prese al volo e si portò a sua volta in posizione accanto al capitano.
Passarono pochi
secondi, poi un gran numero di elfi armati di spade, scudi e lance sbucarono
dal nulla correndo come forsennati verso la palizzata
nel chiaro tentativo di assaltarla.
«Fuoco!» gridò
Kawaguchi, e al suo comando una pioggia di proiettili si abbatté sui nemici,
che subito cominciarono a cadere come fili d’erba.
Alcuni cercarono
di proteggersi coi loro scudi, ma quelle fragili
tavole di legno erano come burro per le pallottole dei soldati, che le
oltrepassavano senza alcun problema per poi colpire chi si nascondeva dietro di
esse.
La pioggia di
fuoco era incessante, e se uno dei soldati si fermava per ricaricare la propria
arma gli altri lo coprivano, di modo che per gli
assedianti non vi fosse un attimo di tregua; ciò nonostante gli elfi
continuavano ad avanzare, e alcuni di loro arrivavano anche vicino alla
palizzata, ma poi entravano in azione le due vedette coi loro fucili di
precisione che oltre a eliminare chi si avvicinava troppo colpivano anche le
retrovie, riducendo di molto il numero dei nemici.
«Ma quanti sono?» chiese Kageyama
«Devono aver
mobilitato un intero battaglione.» rispose Regis «Saranno trecento o più!».
Anche lui però
faceva la sua parte, e benché fosse passato molto tempo dall’ultima volta che
aveva maneggiato un’arma di quel tipo se la cavava
piuttosto bene, malgrado qualche colpo non proprio perfetto.
Regis fu anche il
primo ad accorgersi di una sfera rossa che fendendo la nebbia puntava dritta su
di loro aggirando la palizzata.
«A terra!» gridò
avventandosi sul capitano e allontanandolo, all’ultimo secondo, dalla
traiettoria della palla di fuoco che per poco non lo ridusse ad
un cumulo di cenere
«Che cazzo era
quello!»
«Non
l’hai visto tu stesso, una sfera di fuoco! C’è un mago tra di loro!»
«Shinokichi, trova quello stronzo e fallo secco!»
«Ci sto provando, capitano, ma non si vede niente in questa
maledetta nebbia!».
Il cecchino cercò
di individuare la posizione dello stregone sfruttando la potenza del monocolo
del suo fucile, ma mentre lo spostava da una parte all’altra alla ricerca del bersaglio vide un’altra di quelle palle infuocate venirgli
contro.
«Oh,
porca…! Isei, salta!».
Lui e il suo
compare si buttarono in tutta fretta di sotto; fortunatamente nessuno dei due
riportò conseguenze serie nel volo di sei metri, ma la torre, colpita in pieno,
si trasformò in una torcia, e precipitando in fiamme cadde proprio sopra la
palizzata, sfondandone una parte e aprendo così la strada agli elfi, che
cominciarono ad entrare.
«Merda!
Ripiegare, ripiegare! Fare cerchio!».
Due soldati che
non fecero in tempo a lasciare le loro posizioni vennero
raggiunti e uccisi dopo aver inutilmente tentato di difendersi, gli altri
invece si portarono schiena contro schiena.
Anche Regis rimase
isolato, quindi, sguainata la spada, prese a menare fendenti micidiali,
sparando ogni tanto un colpo di mitra per agevolare la propria difesa.
«Muoviti Peter,
attiva quell’affare!»
«Sì, subito».
L’americano corse
all’altare e cominciò a poggiare la mano sui vari simboli, ma la confusione, il
fumo e le grida tutto intorno a lui gli rendevano
difficile concentrarsi e di ricordare la sequenza così faticosamente trovata in
lunghe ore di ricerca, e per due volte dovette ricominciare tutto daccapo.
D’improvviso,
dallo squarcio nel muro entrò lo stregone responsabile di tutto quel macello,
riconoscibile dalla lunga tunica rosso sangue stretta in vita da un drappo
nero.
Regis avrebbe
voluto concentrarsi su di lui, ma aveva attorno tanti di quei nemici che quando
lo vide materializzare una nuova palla di fuoco ebbe
appena il tempo di gridare.
«Peter, attento!».
Non appena la
sfera di fuoco raggiunse l’altare lo fece letteralmente saltare in aria; Peter,
che si era accorto di tutto, riuscì ad evitare le schegge buttandosi a terra,
ma quando risollevò lo sguardo vide qualcosa che non
avrebbe mai immaginato.
I simboli sul
portale, che da qualche secondo avevano iniziato a brillare di azzurro, segno
dell’imminente apertura del varco, invece di spegnersi cominciarono a colorarsi
violentemente di rosso, e l’intera struttura prese a sprizzare scintille
producendo un baccano assordante, simile a quello di una turbina.
«Che diavolo sta
succedendo?».
Qualche secondo
dopo il varco si aprì, ma la luce prodotta fu cento volte più accecante del
solito; gli elfi, come prevedibile, caddero a terra senza vita lanciando grida
terrificanti, il mago addirittura esplose come una palla troppo gonfia, ma
prima di poter esultare per la vittoria in extremis Regis e gli altri vennero raggiunti dalla cupola di luce sprigionatasi dal
portale, che li inglobò dentro di sé prima di trasformarsi in una vera
esplosione luminosa.
La prima cosa che Regis avvertì riprendendo coscienza di
sé fu un tremendo, indicibile mal di testa.
Aveva la
sensazione di aver dormito per mesi, gli bruciavano gli occhi e si sentiva addosso un’indicibile stanchezza.
Gradualmente, le
immagini cominciarono a tornare, così come le percezioni, il che se non altro confermava il fatto che era ancora vivo.
«Accidenti, che
dolore…».
Messosi a sedere,
cominciò a guardarsi intorno.
L’ambiente non era
poi molto diverso da quello in cui si trovava fino a poco tempo prima; sembrava
trovarsi ancora nello stesso posto, nella stessa foresta, con intorno gli stessi alberi. Non vi era però alcuna traccia
del tavolo sul quale aveva mangiato, né delle casse, né del pennone sul quale
sventolava la bandiera del Sol Levante né tantomeno della palizzata, o di ciò
che ne era rimasto dopo che la torre le era caduta sopra.
Anche la nebbia si
era diradata, e anzi il giovane avvertiva sulla pelle i raggi di un tiepido
sole che attraversando le fronte gli sfiorava la
pelle.
«Ma… dove sono finito…».
Gli ci volle poco
per accorgersi di non essere solo; assieme a lui c’erano
anche il capitano Kawaguchi assieme a tutti i suoi uomini. Erano ancora privi
di sensi, riversi a terra tutto intorno ad un altro di
quei portali, che pur assomigliando al precedente aveva qualcosa di diverso;
pareva più vecchio, più malridotto.
«Ehi, capitano.»
disse dandogli una scrollata «Capitano, si svegli».
In pochi minuti
l’uomo si svegliò, seguito a breve distanza anche dagli altri, e tutti,
riacquistato il raziocinio, furono d’accordo nel
ritenere che quel posto non sembrava affatto quello in cui avevano passato
tutti quei mesi.
«Secondo voi dove
siamo finiti questa volta?» domandò Peter
«Sei tu che
dovresti rispondere a questa domanda.» rispose con ironia Masato
«È troppo
ottimistico pensare di essere tornati sulla Terra?» disse Tetzuya.
Regis, che dentro
di sé sperava con tutto il cuore in questa eventualità, nell’eventualità
di poter finalmente ritornare al luogo da cui proveniva, e in cui aveva
lasciato tutto ciò che avesse mai amato, fu il primo ad accorgersi che non era
così nel momento in cui riuscì senza problemi a tracciare un circolo magico
sopra la sua mano.
«Mi spiace
deludervi, ma non ci siamo mossi da questo pianeta.»
«Beh.» commentò
Kageyama sistemandosi il berretto «Se non altro abbiamo la certezza di non
essere finiti in qualche altro universo.»
«Sì, ma ora dove
siamo di preciso?».
Kawaguchi e gli
altri cominciarono a camminare tutto intorno in cerca di qualche punto di
riferimento; d’un tratto Isei vide qualcosa emergere
dal fogliame che copriva il terreno, qualcosa di insolito,
e raccoltolo rimase comprensibilmente sorpreso.
«Ehi, venite a
vedere».
Gli altri allora
si avvicinarono.
«Quello è mio.»
disse Peter «È il mio palmare.»
«Ne sei sicuro?»
domandò Genzo
«Deve
essermi caduto quando mi sono buttato a terra. Ma… che
gli è accaduto?».
L’apparecchio infatti non era in buono stato; era sporchissimo, come se
fosse stato immerso nel fango, e il vetrino era tutto pieno di crepe.
Regis non era
insieme a loro; c’era qualcosa che lo turbava,
qualcosa di strano che non gli riusciva di spiegare. Non sapeva perché, ma
aveva come l’impressione di trovarsi fuori posto; era già da otto anni che
provava qualcosa di simile, ma questa la sensazione era più forte, quasi come
se quel luogo gli fosse ancora più estraneo di prima.
«Beh.» disse
cercando di scacciare quei pensieri «Una cosa è certa, rimanendo qui non concluderemo nulla.»
«Che cosa
proponi?» domandò il capitano
«Anzitutto,
di fare un giro di perlustrazione. Occorre trovare dei punti di riferimento.»
«Andare in
perlustrazione!?» esclamò Kotaro «Potrebbero esserci
altri elfi in giro, se ci inoltriamo nel bosco sicuramente ci massacrano.»
«Ha ragione, non
mi sembra una buona idea.» commentò Shinokichi
«Per
questo andrò da solo. Voi aspettatemi qui. Se non dovessi tornare prima di due
ore aspettate la notte, quindi muovetevi. Gli elfi non sono a loro agio
nell’oscurità, e lasciata la foresta sarete al
sicuro.»
«Ma… ma noi…»
«È l’unica scelta
che vi rimane».
Kawaguchi ci pensò
a lungo, poi, come capitano, fu d’accordo nel ritenere che quella era davvero la soluzione più logica; dopotutto era Regis l’esperto
in quei luoghi, affidarsi ai suoi consigli era l’unico modo in cui avrebbero
potuto avere qualche speranza.
Tuttavia, per
maggiore sicurezza, gli consegnò la propria ricetrasmittente.
«Prendi
questa. Ci terremo in contatto.»
«D’accordo.
Mi farò sentire il prima possibile».
A quel punto Regis
recuperò da terra la propria spada e si inoltrò fra
gli alberi, scomparendo in breve alla vista del capitano e degli altri soldati.
Fatti pochi passi,
però, il suo procedere guardingo si trasformò in una
passeggiata nella propria anima.
Se gli avessero
proposto di affiancargli qualcuno avrebbe risposto che non aveva senso
rischiare inutilmente la vita di qualcun altro, d’altra parte stare da solo era proprio ciò di cui sentiva di aver bisogno in quel
momento.
Incontrare quegli
uomini, aver scoperto così d’improvviso di non essere più solo, di avere
qualcun altro accanto a sé a condividere il suo dolore, lo faceva sentire un
po’ meglio, ma d’altra parte loro avevano dimostrato qualcosa che lui invece non
aveva, o che forse aveva dimenticato di avere: Kawaguchi e i suoi volevano
tornare a casa; lo volevano davvero.
E lui lo voleva?
All’inizio si era
sentito prigioniero, incarcerato in una realtà che non gli apparteneva, ma poi
aveva cominciato ad abituarsi a quel luogo così diverso, e con così tante cose
da offrire a chi aveva voglia di apprenderle.
Con l’andare del
tempo, quei ricordi avevano cominciato a svanire, trasformandosi in semplici
visioni, frammenti di vita sommersi e offuscati da una nuova realtà fatta di
viaggi, sfide, conquiste che sembrava creata
appositamente per lui.
Forse, se non
avesse incontrato quegli uomini, la voglia di rivedere luoghi a lui tanto cari non si sarebbe mai più ripresentata, così forte
ed impetuosa.
Tornare.
Ritornare a casa.
Era davvero
possibile? Era possibile riuscirci?
Aveva sentito dire
che il suo maestro conosceva la lingua dei progenitori; avrebbe potuto
studiarla, apprenderne i segreti, e forse in quel modo la strada che conduceva
al ritorno sulla Terra non sarebbe più stata così lontana.
Ma
era davvero pronto a lasciare tutto? Era pronto ad abbandonare ciò che aveva
ottenuto in quelle terre, alle quali ormai si sentiva incredibilmente
affezionato, forse quasi quanto lo era alla sua patria
di origine.
Fu una fortuna che
una sensazione sgradevole, di minaccia incombente, interrompesse i suoi
pensieri, perché altrimenti avrebbero finito per farlo impazzire.
Gli occhi prima
rivolti al terreno si fecero nuovamente guardinghi, le orecchie prima sorde
tornarono a percepire ogni più tenue sussurro, ogni respiro.
Regis si acquattò,
abbassandosi più che poteva, per potersi nascondere
nella bassa vegetazione, e contemporaneamente mise nuovamente mano alla spada.
C’era qualcuno lì,
lo avvertiva chiaramente; se amico o nemico non lo sapeva, ma c’era qualcuno, e
a giudicare dal suo procedere anche lui doveva essersi accorto della sua
presenza.
Muovendosi in
totale silenzio raggiunse un grosso albero, e subito si appiattì contro il
tronco, così largo da poterci ricavare un intero letto.
Trattenne il
respiro, strisciando sempre più impercettibilmente alla
propria destra, quindi, fulmineo, distese il braccio armato, puntando la
sua spada alla gola del misterioso individuo, solo per poi vedersene un’altra
appoggiata alla spalla.
Vestiva in modo
strano, con una tunica viola scuro a maniche lunghe
che scendeva fin quasi a lambire i piedi, stretta all’altezza del bacino da una
larga corda di seta annodata su di un fianco. Portava anche un largo mantello di
un viola ancora più scuro. La spada che impugnava, e che ora attentava alla
vita di Regis, era bellissima, un esemplare di katana degna dei migliori
maestri, con l’impugnatura avvolta in strisce di tessuto e una lama limpida
come uno specchio.
Regis capì subito
che si trattava di un elfo, perché solo gli elfi
potevano avvicinarsi alla vittima con tanta e tale maestria, ma non riuscì a
credere ai suoi occhi scorgendo il volto che emergeva in parte dal cappuccio
dietro al quale l’aggressore si nascondeva.
Senza rendersene
conto allontanò leggermente la propria spada dalla sua gola, ammirando senza
fiato lo splendore di quegl’occhi.
«Lsyn!?».
Era proprio lei; impossibile sbagliarsi.
Quelle orribili
cicatrici che le deturpavano il volto erano un marchio inconfondibile, ma ciò
che maggiormente così il giovane umano furono proprio i suoi occhi; erano quelli
della guerriera senza timore, non quelli della bestia incontrata al lazzaretto.
Lsyn a sua volta
parve sorpresa, ma a differenza di lui non ci pensò nemmeno ad abbassare la
spada, come se non lo conoscesse.
«Tu…» disse «Come
fai a sapere il mio nome?»
«Lsyn,
non mi riconosci? Sono io, Regis».
Nel sentire quel
nome, l’elfa sgranò gli occhi, socchiudendo leggermente le sue labbra piccole e
gentili.
«Che cosa!? Regis!?».
Attonita, quasi
avesse davanti un fantasma, lo guardò dritto in volto,
e il suo stupore nel vedere che era davvero Regis a starle di fronte parve
quasi svenire; la spada le scivolò silenziosamente via di mano, conficcandosi
al suolo.
«Non…
non può essere. Tu… tu non puoi… non puoi essere Regis…»
«Lsyn,
ma che ti prende? Certo che sono io. Cos’è, d’improvviso ti sei dimenticata di
me?»
«Ma come… come è possibile che tu sia qui? Tu… tu non puoiessere qui. Non dovresti essere qui.»
«Che
stai dicendo? Perché non dovrei essere qui? Tu piuttosto, che cosa ci fai in
giro per la foresta? Pensavo fossi ancora al lazzaretto.»
«Al… al lazzaretto!?» balbettò lei con sguardo ancor più sgomento
«Ti
sei ripresa in fretta. Solo pochi giorni fa sembravi moribonda.»
«Ma di che stai parlando?»
«Come
di che sto parlando? Di quando sono venuto a trovarti. Cos’è stato,
tre giorni fa?»
«Tre giorni fa!?».
Lsyn lo guardò
come si guarderebbe un pazzo fuggito dal manicomio, e
a quel punto persino Regis cominciò a capire che qualcosa non quadrava.
«Lsyn…»
«Regis… da quel
giorno sono passati cinquant’anni».
Nota dell’Autore.
Salve a tutti!
Eccomi di nuovo. La
storia, malgrado qualche difficoltà, sta procedendo nella giusta direzione, ma
devo avvisare i miei lettori che da questo momento subirà una battuta d’arresto,
per evitare che i successivi capitoli costituiscano uno spoiler per la fiction
di AkitaLa
Figlia delle Spie, che consiglio caldamente di leggere.
Prima di aggiornare
ancora attenderò che la sua storia si sviluppi fino a raggiungere gli eventi
narrati in questo capitolo, quindi non so dirvi quando riprenderò.
Forse il destino
si stava divertendo a prendersi gioco di lui, allontanandolo nuovamente dalla
sua terra natale proprio adesso che ne aveva rammentato l’esistenza,
riscoprendo il desiderio di tornare indietro?
Cinquant’anni.
Cinquant’anni nel futuro.
Il fatto di aver
trovato sulla sua strada proprio una delle sue più care amiche non bastava a
risollevarlo da quel senso di terrore che una simile notizia aveva fatto
esplodere dentro di lui.
Forse quello che
era successo durante la battaglia c’entrava qualcosa, forse il dispositivo,
colpito dall’incantesimo di quello stregone, era andato incontro ad una specie
di sovraccarico, e invece che spedirli in un altro luogo li aveva spediti in un
altro tempo.
Ma come avrebbero
fatto a tornare indietro? Sarebbero riusciti a tornare?
Troppe domande,
troppe incertezze si agitavano nella sua testa, più di quante riuscisse a
sopportarne.
Aveva bisogno di
riflettere, di riordinare le idee, e senza rendersene conto si ritrovò seduto
sopra ad un ceppo caduto.
Lsyn si sedette
poco dopo, abbassandosi il cappuccio della sua insolita veste, più adatta ad un
sacerdote che ad una spia.
I suoi lunghi
capelli, un tempo neri e riccioluti, erano ora lisci e lunghi, raccolti verso
la fine in una piccola coda, ed avevano qualche leggero riflesso bianco
splendente.
Le cicatrici sul
viso e sulla mano lasciate dalla trappola infuocata apparivano meno gravi di
come Regis le aveva viste nella sua visita al lazzaretto, ma essendo passato
mezzo secolo, che per un elfo corrispondono a non più di cinque anni umani, la
cosa non risultava poi così insolita. Insolito era che Lsyn non sembrava dare
loro il minimo peso, come se non ci fossero mai state.
E quegli occhi;
non erano gli occhi di una spia; non erano proprio i suoi.
Cosa era successo
in quei cinquant’anni? Quali disavventure e a quali terribili prove erano
capitate all’Ombra di Normar per provocare in lei un così profondo cambiamento?
Anche lei, dopo
poco, prese a guardarlo con crescente interesse.
Se Regis cercava
di comprendere quante cose potessero essere cambiate in tutti quegli anni, Lsyn
al contrario stava probabilmente cercando di rievocare i ricordi legati a
quello sguardo così carico di mistero, e per molto tempo i due non riuscirono a
fare altro che scrutare ognuno gli occhi dell’altro.
«Come è
possibile?» disse ad un certo punto l’elfa «Come puoi essere qui?»
«Me lo sto
domandando anch’io».
Regis raccontò
brevemente la sua disavventura, cercando di essere nel contempo il più chiaro
possibile; e Lsyn ascoltava, annuendo di tanto in tanto.
«È davvero
incredibile.» disse a racconto finito «Mi stai dicendo che hai viaggiato nel
tempo?»
«Così sembrerebbe.
Ma, francamente, non ho la minima idea di come posso aver fatto.»
«E come farai a
tornare indietro?»
«Questo proprio
non lo so. E a dire il vero, non so neanche se sia possibile.»
«Perché dici
questo?»
«Il portale, a
quanto ho capito, si attiva per effetto dei simboli disegnati sull’altare che
gli sta affianco; l’altare però è andato distrutto durante l’attacco, e ciò
significa, di conseguenza, che non esiste più neanche in questa epoca».
Il giovane
recuperò un sasso da terra e lo lanciò sconsolato davanti a sé.
«Non siamo neppure
in grado di riaprirlo, figuriamoci tornare indietro».
Seguì un lungo
silenzio, un silenzio pieno di rammarico, poi fu Regis a cercare di iniziare
una nuova conversazione.
«E tu che ci
facevi qui?».
A quella domanda
Lsyn abbassò leggermente la testa, mordendosi le labbra e aggrottando le
sopracciglia.
«Ecco… io… volevo
stare un po’ da sola.»
«Ah… in tal caso,
scusa se ti ho rovinato i piani.»
«No, tranquillo.
Non c’è problema».
Decisamente, non
era la Lsyn che
Regis ricordava di aver conosciuto.
La sua foga, la
sua grinta, e anche la sua proverbiale acidità; tutto ciò sembrava essere
completamente sparito dal suo carattere, anzi, sembrava non averne mai fatto
neanche parte.
In cinquant’anni
ne succedono di cose, soprattutto ad una spia, ma ciò che doveva essere
capitato a Lsyn non era neppure immaginabile; doveva trattarsi di qualcosa di
davvero sconvolgente per averla cambiata a tal punto. Se non fosse stato per
quella punta di audacia e voglia di vivere che, malgrado tutto, albergava
ancora nel suo sguardo, Regis non avrebbe mai creduto di trovarsi davanti alla
stessa persona.
La curiosità, il
desiderio di sapere cosa fosse realmente successo, cominciò a farsi strada
dentro di lui.
«Come mai volevi
restare da sola?».
Lsyn temporeggiò,
guardando ora il terreno coperto di foglie ora il cielo azzurro solo
leggermente velato da qualche nuvola di passaggio.
«Sono accadute
tante cose in quest’ultimo periodo. Troppe. Avevo bisogno di riordinare un po’
le idee.»
«Beh, se è solo
per quello sei in buona compagnia. Se proprio vuoi saperlo, in questo momento
sono ancora impegnato nel viaggio che a suo tempo lasciai a metà per venirti a
trovare al lazzaretto.»
«Cinquant’anni?»
commentò lei accennando una risatina «Lungo come viaggio.»
«Già, puoi dirlo.»
«A pensarci bene
però, è esattamente lo stesso tempo che è durato il mio».
Di colpo abbassò
Lsyn abbassò la testa, nascondendo il volto con una mano.
«Cinquant’anni. I
peggiori della mia vita».
«Come hai detto?»
disse Regis sgranando gli occhi «Che cosa è successo?»
Di nuovo l’elfa si
mostrò esitante, ma stavolta, invece che girare altrove lo sguardo, a stento
tratteneva il pianto.
«Lsyn…»
«Perché.» disse
singhiozzando «Perché il destino si diverte a torturarmi? Perché non posso
essere lasciata in pace? Cosa ho fatto di male per essere costretta a vivere
ogni singolo giorno della mia vita immersa in ricordi pieni di dolore?».
Che cosa accidenti
era successo?
Regis si sentì
mancare il respiro. Chi o che cosa aveva osato prendersela con la sua più cara
amica? Chiunque fosse stato, molto presto ne avrebbe pagato le conseguenze.
Ora non si
trattava più solo di curiosità. Ora voleva sapere.
«Lsyn. Lsyn, chi
ti ha fatto del male? Che cosa è accaduto? Dimmelo, ti prego».
D’improvviso,
qualcosa sembrò risvegliarsi nella giovane elfa, qualcosa di minaccioso; fu
solo per un vero miracolo se Regis riuscì a saltare in tempo per evitare un
pericoloso colpo di taglio.
Una parte del suo
mantello da viaggio venne recisa di netto dalla lama di quella katana; era
davvero un’arma stupenda, un vero capolavoro. Se Regis non se la fosse trovata
di colpo puntata contro, avrebbe chiesto delucidazioni sul suo creatore.
Da un secondo
all’altro, la pericolosa e battagliera Lsyn era tornata ad essere sé stessa; i
suoi occhi si erano accesi del loro nero rifulgente, le fiamme ardevano
nuovamente al loro interno.
Era pronta per la
battaglia; pronta, forse, come non lo era mai stata prima.
«Ehi, Lsyn! Che
accidenti ti prende?»
«Scusami Regis, ma
ci sono alcuni aspetti della mia vita di cui non sono soddisfatta. E
sfortunatamente, molti di essi sono legati a te!».
Non era certo una
minaccia a vuoto quella che Lsyn pronunciava silenziosamente facendo mulinare
la sua spada attorno al proprio corpo, minuto forse, ma anche longilineo e
aggraziato.
Regis esitò, non
si sentiva pronto ad impegnarsi di già in un nuovo scontro, ma d’altra parte
conosceva la ragazza abbastanza bene da sapere che non sarebbe bastato un
rifiuto a fermarla, quindi, seppur visibilmente incerto, sguainò la sua spada.
Anche Lsyn parve
sorpresa dalla nuova arma del suo eterno avversario; dopotutto era la prima
volta che la vedeva, e forse anche lei riusciva a percepire la grande quantità
di potere magico che essa riusciva a sprigionare.
Questo però non fu
sufficiente per spaventarla, perché non appena Regis si mise in posizione di
guardia immediatamente partì alla carica, menando un fendente micidiale.
L’umano parò senza
troppi problemi, e dopo qualche scambio i due nuovamente si separarono.
«Parlando del
nostro ultimo incontro.» disse Lsyn tenendo la guardia alta e continuando a
girare in tondo «Non ho ancora dimenticato l’umiliazione che mi infliggesti
quel giorno al lazzaretto.»
«Se questa è
l’impressione che ti sei fatta riguardo al mio atteggiamento, allora sei
completamente fuori strada. Non avevo alcuna intenzione di umiliarti.»
«Strano. Perché a
me è sembrato proprio così!».
Vi fu un secondo
scontro, stavolta più lungo e serrato, e a quel punto Lsyn cominciò a notare
quasi da subito lo scarso impegno che Regis metteva nel combattimento.
La sua mente
infatti era ancora perduta fra le innumerevoli domande a cui non riusciva a
dare risposta, ma a sollevare in lui l’inquietudine maggiore non era,
stranamente, il pensiero di essere finito mezzo secolo avanti nel tempo. Il
pensiero tornava in qualche modo sempre lì, al suo mondo, quel mondo che,
inconsciamente, aveva dimenticato e smesso di cercare già da molto tempo.
Tanti, troppi
ricordi erano tornati improvvisamente a farsi strada dentro di lui, ricordi
legati al momento in cui tutto aveva avuto inizio. In particolare, il suo
pensiero si soffermava sul volto di una ragazza, un volto gentile, e su di un
nome, ad esso legato.
«Nadeshiko…».
Purtroppo, come
sapeva fin troppo bene, se stai combattendo l’ultima cosa da fare è distrarsi
pensando ad altro, soprattutto con un’avversaria come Lsyn, che difficilmente
si lasciava sfuggire la benché minima traccia di esitazione.
Deviato senza
problemi un attacco frontale, l’elfa assestò al suo avversario un calcio
micidiale che per poco non lo fece cadere a terra. Regis si piegò in avanti e
per poco non vomitò.
«Che ti succede,
eroe degli umani. Ti ricordavo molto più coriaceo.»
«Perdonami.»
rispose lui mugugnando per il dolore «Ma non sono dell’umore adatto in questo
momento, né per il combattimento né per il tuo sarcasmo.»
«Mh. Chi è
l’avventato adesso? Se sapevi di non potermi affrontare, perché non ti sei
tirato indietro?»
«Me l’avresti
forse permesso?»
«Chi lo sa. L’hai
detto tu, sono cambiata!».
Il terzo assalto
fu anche l’ultimo, e si concluse dopo appena tre scambi; Regis venne nuovamente
steso da un calcio al torace e rovinò a terra, poi, prima che potesse
rialzarsi, Lsyn gli si buttò sopra, puntandogli la spada alla gola.
«Sembra proprio
che sia finita, non ho ragione?»
«A quanto pare. E
adesso?».
Il silenzio tra i
due si fece totale, ma gli occhi di Lsyn erano ancora pieni di vigore e
determinazione; al contrario, quelli di Regis lasciavano intravedere un misto
di rassegnazione e falsa sicurezza. Forse pensava che Lsyn non sarebbe mai
stata capace di ucciderlo.
L’elfa esitò,
digrignando i denti; la mano armata tremava, ed insieme ad essa la punta della
spada, ferma a pochi centimetri dalla gola del ragazzo.
Poi, come colpita
da un fulmine, Lsyn si riscosse, alzando di colpo l’arma e volgendola verso il
basso come a volersi difendere da qualcosa; nello stesso momento, Regis
riconobbe distintamente il rumore di una raffica; il primo proiettile venne
deviato dalla lama, il secondo invece raggiunse il proprio obiettivo, centrando
l’elfa all’avambraccio sinistro.
Lsyn gridò,
tenendosi la ferita, poi, forse inconsapevolmente, si piegò all’indietro, dando
a Regis il tempo necessario per liberare le gambe e allontanarla con un calcio;
l’elfa cadde, ma non accennò a rialzarsi, forse a causa del dolore, e dopo
qualche secondo dalla boscaglia uscì Kawaguchi con in mano il proprio fucile.
«Regis!» disse
raggiungendolo, e aiutandolo a rialzarsi «Tutto bene.»
«Sì, tranquillo.
Sto bene».
Quasi tutti gli
altri uomini della squadra arrivarono dietro di lui, circondando velocemente
Lsyn e tenendola sotto tiro; a giudicare dal rivolo di fumo che usciva dalla
canna del suo P90, appariva abbastanza chiaro che era stato Kotaro a sparare
nel mezzo del combattimento.
«Che ci fate voi
qui?»
«Avevi detto che
saresti stato via un’ora, ma ne sono passate tre. Non vedendoti tornare,
abbiamo pensato di venire a cercarti.»
«Tre ore?» disse
il ragazzo quasi tra sé «È passato tutto questo tempo?»
«Capitano.» disse
Utage «Questa si sta riprendendo. Che facciamo?»
«Lasciatela.»
intervenne Regis rinfoderando la spada «È un’amica.»
«Un’amica!?»
commentò Genzo «Ma se stava per farti la pelle.»
«È tutto a posto,
davvero. Stavamo solo… discutendo».
Lsyn era
visibilmente indebolita, perdeva molto sangue, e stando alle pupille molto
dilatate probabilmente stava perdendo rapidamente i sensi; Masato, riposta la
sua arma, si inginocchiò davanti a lei, sollevandole la manica della veste.
«Sta avendo uno
shock emorragico. Ehi!» disse dandole dei colpetti in faccia «Ehi, resta con
noi!»
«Ehi, Regis.»
disse Kotaro «Perché non fai quella cosa che hai fatto con me?»
«Niente da fare. I
cristalli elementali non funzionano sugl’elfi.»
«Allora dovremo
ricorrere ai vecchi sistemi.» rispose il medico mettendo mano alla sua sacca da
lavoro
«Non possiamo
tornare al campo prima?» domandò Genzo
«Se aspettiamo
ancora perderà troppo sangue.»
«Ma… siamo in
campo aperto. Potrebbero saltarci addosso da un momento all’altro.»
«Allora dacci un
taglio con le parole e dammi una mano».
Dopo aver
anestetizzato leggermente la zona in questione ed aver applicato un laccio
emostatico Masato entrò nella ferita con una piccola pinza, rimosse il
proiettile con estrema precisione quindi ricucì il tutto servendosi dell’ultimo
brandello di filo da sutura che gli fosse rimasto.
Lsyn, grazie
all’effetto del tranquillante, non sentì nulla, se non un leggero formicolio;
in altri tempi un intervento simile avrebbe fatto urlare persino una come lei.
Poco dopo che
Masato ebbe ricucito completamente la ferita, forse anche per via della gran
quantità di sangue perso, l’elfa cadde in un sonno profondo.
Quando riaprì gli
occhi, si ritrovò distesa su di un telo militare al centro del nuovo
accampamento fatto costruire in tutta fretta dagli uomini di Kawaguchi.
Regis sedeva
accanto a lei, e passava il tempo affilando con la sua spada un grosso pezzo di
legno.
«Ah. Ben alzata.»
«Cosa… cosa è
successo?»
«Un piccolo
contrattempo. Mi sa che per un po’ dovrai rinunciare all’idea di uccidermi».
Lei abbassò lo
sguardo.
«Mi… mi dispiace…»
«Non fa niente. Lo
sai, sono un grande impiccione. Mi piace farmi gli affari degli altri».
Proprio come Regis
si aspettava, la prima cosa che Lsyn fece una volta sveglia fu di cercare
ossessivamente la propria spada; la trovò subito, perché era appoggiata proprio
lì accanto, e forse inconsciamente tirò un sospiro di sollievo.
Regis, a quel
gesto, sorrise; dopotutto, era sempre la cara, vecchia Lsyn.
«Una bella spada.
Non ricordo di averti mai visto niente di simile tra le mani.»
«Infatti ce l’ho solo
da qualche anno.»
«Non è roba
elfica, ho ragione? Anche il migliore degli artigiani potrebbe lavorare tutta
una vita senza riuscire neanche a immaginarlo un simile esemplare di katana».
La lacrima che
rigò la guancia di Lsyn fece comprendere al giovane umano di essere andato
troppo oltre.
«Scusa, non sono
affari miei.»
«Si chiamava
Eiron.» disse lei con un filo di voce «Era un… un Tengu.»
«Un Tengu!?»
«Sono successe
tante cose dal nostro ultimo incontro, amico mio. Così tante, che a volte persino
io fatico a tenerne il conto, e ogni volta che mi guardo indietro mi viene da
domandarmi se tutto ciò stia davvero accadendo, o se non sia invece solo frutto
di un brutto incubo».
L’elfa strinse
ancor più forte la spada contro il suo petto, lasciandosi andare ad un pianto
liberatorio; Regis la lasciò sfogare liberamente, passandole di tanto in tanto
la mano sopra la testa, come avrebbe fatto con la propria figlia.
«Io sono scappata,
Regis.»
«Scappata!? Da che
cosa?»
«Da tutto. La mia
casa, il mio regno, la mia stessa vita. Ho gettato via tutto.»
«Sei scappata dal
tuo regno!? Ma allora, cosa ci fai qui? Questa non è terra di Normar?»
«Non più. Tutta
questa zona è recentemente passata sotto il controllo di Uruk.»
«Hai detto Uruk!?
Ma Uruk sta ad almeno cento miglia da qui.»
«Le cose sono
cambiate, e parecchio. Dopo che tu e Isnark avete liberato quella regione,
tutto l’est del regno è diventato in breve tempo un’immensa polveriera. Le
contee si sono ribellate una dopo l’altra, unendosi ai ribelli, e ormai quasi
tutta la zona orientale, dal fiume Renus fino alle montagne Karusnar, è passato
dalla parte di Uruk, e Kyradon, la città sacra del culto di Amon, è divenuta la
nostra nuova capitale.»
«E chi è a capo
della rivolta? Isnark? O magari tu?».
Lsyn a quella
domanda si morse leggermente la labbra.
«Si chiama Nemys.
È la nostra matriarca. Lei è… ecco… è speciale.»
«Speciale? Non
fatico a crederlo. Per tenere unita questa gente contro un avversario come
Lainay, deve esserlo per forza.»
«Già».
Solo allora
entrambi decisero di dedicare un po’ di attenzione a Masato, che da parecchi
minuti se ne rimaneva immobile a guardarli stando a qualche passo di distanza.
«E lui chi
sarebbe?»
«Si chiama Masato,
è un medico. Ti ha curata lui».
Il soldato le
rivolse un cenno di saluto, al quale lei rispose chinando leggermente la testa,
e subito dopo si rivolse a Regis usando un linguaggio che Lsyn non riuscì a
capire; la sola cosa che l’elfa riuscì a capire è che si trattava di una
domanda, alla quale il ragazzo rispose con la medesima lingua.
«Ma che razzia di
lingua state parlando?» domandò a discorso finito
«È un po’
complicato da spiegare. Diciamo che abbiamo qualcosa in comune».
Lsyn guardò la
ferita al braccio, ora fasciata e ricucita, ma anche stringendo forte la mano
le sensazioni che le venivano da quel punto preciso erano minime.
«L’anestesia non è
ancora passata del tutto, a quanto pare.» disse Regis notando il suo sguardo
perplesso
«Ane… anetestia?«
«Anestesia. Ha
addormentato la parte tutto intorno alla ferita per poterti operare senza che
provassi dolore.»
«Non ho mai
sentito di una simile tecnica. È forse roba del tuo mondo?»
«Colpito e
affondato. Anche loro, come me, vengono da un altro universo. Da quello da cui vengo
io, per essere precisi.»
«Ora capisco. Ecco
perché parlate quella strana lingua.»
«Si chiama
giapponese. Un po’ di tempo fa era la mia lingua favorita».
Dopo poco i due
ebbero un nuovo scambio di battute, stavolta in tono più amichevole e scherzoso,
soprattutto da parte di Regis.
«Che vi siete
detti?»
«Mi ha detto di
chiederti se può farti un prelievo.»
«Un… prelievo?»
«Gli ho raccontato
della grande longevità degli elfi. Lui pensa che il segreto di questa longevità
sia nel vostro sangue, quindi, col tuo permesso, vorrebbe prelevartene un po’
per analizzarlo in futuro».
Grattandosi la
testa, Lsyn dimostrò di non aver capito molto bene il senso di quel discorso,
ma poi, forse confidando nell’amicizia con Regis e nell’aria bonacciona del soldato,
accettò di sottoporsi a quell’insolito esperimento.
«Ecco fatto, l’ho
convinta. Il resto sta a te.»
«Ti ringrazio.»
«Ah, e sta
attento. Morde.»
«Ne ho affrontate
di peggiori».
Masato si sedette
al posto di Regis e prese una siringa dalla sua cassetta; Lsyn, naturalmente,
non aveva mai visto uno strumento del genere, e quell’acuminata punta di
metallo inizialmente sembrò farle un po’ di impressione; il soldato però chiarì
subito, con il linguaggio dei segni, che non c’era nulla del quale avere paura,
quindi, con la velocità e la maestria proprie di un bravo medico, sfilò via dal
braccio dell’elfa una buona quantità di sangue, che ripose immediatamente
all’interno di una bottiglietta.
A intervento
finito Lsyn si alzò e raggiunse nuovamente Regis, che nel frattempo si era
avvicinato al grande arco al centro delle rovine e stava discutendo con Peter.
«Sarebbe questo? È
da qui che siete arrivati?»
«Esatto.»
«Ma che cos’è?»
«Ancora non lo
sappiamo bene. Deve trattarsi di una specie di dispositivo che permette a chi
lo attraversa di viaggiare attraverso lo spazio e il tempo.»
«Lo spazio… e il
tempo?» disse l’elfa con una voce strana, quasi speranzosa
«Certo, se non
sappiamo come rimetterlo in funzione, direi che al momento è praticamente
inutile.»
«Aspetta. Forse
c’è una soluzione.»
«Davvero? Sono
tutt’orecchi.»
«Ricordo che
qualche tempo fa ho letto un libro della biblioteca di Kyradon in cui si
parlava di queste rovine. Molte pagine erano scritte in una lingua antica che
io non conoscevo, ma può darsi che il gran maestro sia in grado di tradurle.»
«Così come può
darsi che le pagine in questione contengano dei suggerimenti su come tornare
indietro. Gran bella idea, Lsyn.»
«Ehi, che sta
dicendo?» chiese Peter
«Dice che forse
conosce il modo per far ripartire questo dannato affare.»
«Stai
scherzando!?» intervenne Kageyama «Davvero è possibile!?»
«Nella città sacra
poco distante da qui c’è un libro che potrebbe tornarci utile. Credo valga la
pena di darci un’occhiata».
Nello stesso
momento Sakamoto e Isei erano impegnati a scrutare la foresta in cerca di ogni
possibile minaccia, riparandosi costantemente dietro la scarna protezione a
puntaspilli che i soldati avevano fatto in tempo ad erigere. D’un tratto, i due
avvertirono un rumore proprio davanti a loro.
«Arriva
qualcuno!».
Immediatamente
tutti gli altri puntarono le armi in quella direzione, e dopo poco, dalla
macchia, uscì un manipolo di cinque cavalieri vestiti di azzurro; portavano
tutti un pendente al collo grosso come un pugno di un rosso acceso, quasi
sanguigno.
Fra tutti, il solo
a distinguersi era il capo, un gigante d’elfo più grosso di Benagi con una
faccia simpatica, anche se un po’ assoggettante, e lunghi capelli neri,
raccolti qua e là in curiose treccine.
Vedendoli, Lsyn
balzò in piedi.
«No, fermi! Sono
amici miei!».
Regis comunicò
immediatamente l’ordine nella lingua dei soldati, che, benché un po’ titubanti,
abbassarono i fucili, permettendo a quel manipolo di elfi di avvicinarsi. Anche
loro erano rimasti comprensibilmente sorpresi di trovarsi a tu per tu con degli
esseri umani in un posto tanto insolito e tanto distante dai confini, ma
l’attenzione di tutti, soprattutto del capo, venne catturata quasi subito da
Lsyn.
«Zipherias.»
«Ero certo di
trovarti qui. Ma che ci fanno qui tutti questi umani?»
«Non chiedermelo,
non saprei come risponderti.»
«Va’ bene, ne
parleremo dopo. Sono venuto fin qui per avvisarti di una cosa molto grave.»
«Di che si
tratta?»
«La Matriarca. È in
travaglio».
Lsyn, sentendo la
parola travaglio, sgranò gli occhi, sui quali comparve quasi subito un tremendo
sconcerto.
«Hai detto… che è
in travaglio!?»
«È successo
stamattina presto, e ci sono state complicazioni. Mi ha ordinato di venirti a
cercare. Devo portarti subito da lei.»
«Sì,
naturalmente.»
«Scusate se mi
intrometto.» disse Regis «La vostra Matriarca è in travaglio?»
«Sei un attento
osservatore dell’ovvio.» rispose Zipherias con visibile sarcasmo
«Fai meno lo
spiritoso. Malgrado le vostre sbandierate tecniche curative, un’elfa che sta
per partorire, soprattutto se è un parto difficile, passa le pene dell’inferno.
Noi possiamo aiutarvi. Sarà un segno di riconoscenza per averci permesso di
leggere quel libro.»
«Di che libro sta
parlando?»
«Hanno bisogno di
consultare un manoscritto della biblioteca del tempio.» rispose Lsyn «Poi ti
spiegherò meglio».
L’elfo gigante
aggrottò le sopracciglia; era evidente che non si fidava degli umani,
soprattutto di Regis, il solo probabilmente che fosse in grado di guardarlo in
volto senza mostrare segni evidenti di soggezione, ma alla fine si lasciò
convincere.
«D’accordo, potranno
venire in tre. Lascerò i miei uomini a sorvegliare le rovine assieme agli
altri. Siamo vicini ai confini, e questa terra non è ancora troppo sicura.»
«Ti ringrazio».
Kawaguchi e i
suoi, che non capivano una parola della discussione, si domandavano cosa stesse
succedendo, poi, dopo un po’, Regis corse verso Masato.
«Dimmi che ti
intendi di ginecologia».
Il soldato rimase
comprensibilmente sorpreso per una simile richiesta, e dapprincipio si limitò
ad osservare l’amico con la bocca socchiusa.
«Allora?»
«Beh, sì. Ho fatto
qualche esame.»
«Perfetto, vieni!»
disse afferrandolo per un braccio
«No, aspetta! Ero
solo al primo anno!».
Con il consenso
del suo superiore Makimura recuperò tutto quello che poteva servire, e
altrettanto fece Peter, che si offrì volontariamente come terzo membro del
gruppo, oltre naturalmente a Regis.
«Se si tratta di
decifrare codici e tradurre iscrizioni» disse l’americano con assoluta
sicurezza «Chi meglio di me può arrivarci?»
«Non manchi
certamente di autostima.» commentò Tetzuya mentre Peter saliva a cavallo.
In pochi minuti
Zipherias, lasciati tre elfi del suo seguito al campo con l’ordine di
presidiarlo assieme ai soldati, si mise alla testa del gruppo, che tornando sui
propri passi si diresse a marcia sostenuta verso Kyradon.
Peter e Masato,
che dividevano uno stesso cavallo, stavano in fondo alla carovana, Lsyn e Regis
invece cavalcavano fianco a fianco, subito dietro a Zipherias, che di tanto in
tanto girava lo sguardo, osservandoli di sottecchi.
Non appena Lsyn
gli aveva rivelato l’identità di quello straniero era saltato sul posto per
l’incredulità; in fin dei conti, ammesso e non concesso che il famoso Regis,
l’eroe degli umani, fosse stato ancora vivo, avrebbe dovuto avere più di
settant’anni, invece la persona presentatagli da Lsyn non ne dimostrava
assolutamente più di trenta. Di seguito, il suo atteggiamento verso di lui si
era ulteriormente inasprito; ogni qualvolta Regis e Lsyn cercavano di parlare
non perdeva occasione per mettersi in mezzo con qualche frase tagliente o un
commento di pessimo gusto, salvo poi ricevere puntualmente una occhiataccia di
Lsyn che lo invitava caldamente a farla finita.
«Lsyn, prima
Zipherias ha detto che questa terra non è sicura. Ma non avevi detto che ora
appartiene ad Uruk?»
«Solo da tempi
relativamente recenti. Fino a poco tempo fa era ancora territorio di Normar. È
passato a noi dopo la battaglia.»
«La battaglia? Di
che battaglia parli?».
Lsyn si fece
improvvisamente cupa, lasciando intuire a Regis che eventi terribili si erano
succeduti in quei cinquanta, lunghi anni, eventi dei quali persino parlare
risultava difficile.
«Non chiedermi di
scendere nei dettagli, perché non ne so molto neanche io. Quello che posso
dirti è che, pochi anni dopo il nostro ultimo incontro, nelle terre degli umani
si è creato un grande e profondo vuoto di potere. Con la minaccia di invasione
da parte di Normar che si faceva sempre più vicina, molti regni umani hanno
deciso di sfruttare questo vuoto per unirsi in un unico, grande impero, forte
abbastanza da poter rappresentare per Lainay una minaccia non indifferente.
La guerra è durata
molti anni, ed è stata combattuta soprattutto all’interno del regno, in perenne
espansione, ma all’incirca due anni fa il conflitto con gli umani è esploso
improvvisamente dopo un lungo periodo di relativa tranquillità.
Per molto tempo la
situazione fra i due regni è rimasta sostanzialmente stabile, con vittorie e
sconfitte da ambo le parti, così, in vista della battaglia decisiva, sia Normar
che l’Impero hanno richiesto l’appoggio di Uruk.»
«Tutti e due hanno
chiesto il vostro aiuto? E con chi vi siete schierati alla fine?».
Nuovamente, l’elfa
abbassò la testa, nascondendosi quanto più possibile sotto il lungo collo della
sua tunica.
«È stata una
scelta difficile, e ancora oggi nessuno è in grado di stabilire se abbiamo
fatto la cosa giusta».
Tutto era andato esattamente come le due fazioni avevano
previsto.
Dopo essersi
creata una solida testa di ponte sulla sponda nemica del fiume Renus le truppe
di Normar avevano cominciato ad avanzare indisturbate nella regione, trovando
al loro passaggio niente altro che campi bruciati e villaggi rasi al suolo.
La tattica umana
di fare terra bruciata, costringendo gli elfi all’inseguimento, stentò però a
produrre i suoi effetti, quindi, prima che l’avanzata di Normar si facesse
troppo incisiva, l’esercito imperiale, forte di ottantacinquemila uomini, si
attestò nella Piana di Narazak, dove venne raggiunto a breve dai
settantatremila elfi al comando del generale Galvisar, nuovo comandante in capo
delle truppe riunite di Normar, per il faccia a faccia decisivo.
Il campo di battaglia,
illuminato dal sole primaverile, si presentava come una sterminata pianura,
contornata a est e a ovest da alte colline.
I due eserciti
erano separati da centocinquanta metri di prato pianeggiante, un prato che
sicuramente, prima del tramonto, si sarebbe interamente colorato di rosso.
Regnava un
silenzio spaventoso, tutti erano consapevoli che quella sarebbe stata la
battaglia decisiva: l’Imperatore aveva messo insieme tutte le divisioni che era
riuscito a radunare, e per armare al meglio i soldati erano state prosciugate
quasi completamente le casse dello stato.
Anche per Normar
quella era una situazione molto pericolosa; se fossero stati sconfitti gli
umani avrebbero avuto tutto il tempo di distruggere la testa di ponte così
faticosamente creata, e sarebbe dovuto passare molto tempo prima di poter
rimettere insieme un esercito di quella vastità.
Galvisar, però,
aveva la certezza assoluta di risultare vincitore, e dall’alto della sella
osservava con apparente indifferenza la massa uniforme di umani che si
stagliava dall’altra parte della pianura; i suoi lunghi capelli grigi,
piuttosto insoliti per un giovane elfo suo pari, ondeggiavano al vento, e di
quando in quando i suoi occhi blu cobalto si giravano a guardare verso la
collina ad oriente.
Lassù, arroccati
nella posizione più alta di tutta la zona, i venticinquemila Celestiali guidati
dal principe Isnark e dai suoi due secondi, il valoroso Benagi e il possente
Zipherias, attendevano con impazienza l’inizio delle danze, per scoprire una volta
per tutte quale delle due fazioni il loro comandante avrebbe deciso di
appoggiare.
Se da un lato
Galvisar contava sull’appoggio di Uruk per infliggere il colpo finale,
dall’altro l’esercito degli umani, al comando del vecchio e carismatico
generale Parson, sperava nel loro aiuto di modo da accrescere ancor più il
divario numerico tra le due fazioni.
Essendo arrivate
per prime nel luogo dello scontro, le truppe imperiali avevano avuto il tempo
di allestire delle piccole barricate di legno e di preparare al meglio i loro
micidiali cannoni, un’arma del quale gli elfi certamente non godevano; il
segreto per la costruzione e l’utilizzo di qualsiasi arma da fuoco era un
segreto di stato presso tutti i domini degli umani, la cui rivelazione
comportava una sicura condanna a morte.
Parson confidava
proprio sui suoi cannoni per schiacciare definitivamente la compagine elfica,
ed era pronto a correre qualsiasi rischio pur di liberare una volta per sempre
il suo impero dalla minaccia di Normar.
Passatosi una mano
prima fra la sua fitta barba nera, poi sull’orlo del suo elmetto d’acciaio,
chiamò accanto a sé il colonnello Ramsley, che stava solo alcuni passi dietro
di lui in sella al suo cavallo.
«È tutto
predisposto?»
«Sì, generale.
Quei bastardi avranno una bella sorpresa.»
«Molto bene.
Inviate un messaggero a Isnark. Che attacchi al sollevarsi dello stendardo
viola.»
«Sissignore».
Dal canto suo,
anche Galvisar mandò un messaggero al principe di Uruk, con l’ordine di entrare
in battaglia appena avesse visto alzarsi uno stendardo giallo.
A quel punto, ebbe
inizio la battaglia.
Gli umani decisero
fin da subito di fare sul serio, e posizionati tutti i loro cinquanta pezzi di
artiglieria su due linee una sotto l’altra presero immediatamente a fare fuoco.
Il primo tiro
risultò troppo corto, ma al secondo tentativo quelle gigantesche palle di
cannone si abbatterono come meteoriti sulle fila degli elfi, provocando una
vera e propria strage nelle retrovie; l’obiettivo favorito era il centro, dove
stavano gli Immortali, che presero a morire a decine.
«Visto?» disse il
maggiore Mitchell, l’altro uomo di fiducia del generale Parson «Neppure i
valorosi Immortali possono resistere al potere della scienza».
Malgrado il vuoto
spaventoso lasciato nel suo esercito Galvisar, inizialmente, non diede l’ordine
di attaccare, e a nulla valevano i richiami, talvolta disperati, del suo
secondo, Sigthor.
Solo alla terza
bordata, finalmente, ordinò alla sua cavalleria di portarsi in prima linea,
dando dimostrazione una volta per sempre di quale fosse il suo reale obiettivo;
il generale non aveva mai visto i cannoni in azione, quindi aveva bisogno di
sapere con precisione quanto tempo intercorreva tra uno sparo e l’altro, di
modo da permettere ai suoi cavalieri di caricare e raggiungere le postazioni
nemiche senza il rischio di venire presi di mira.
Subito dopo
l’ultimo sparo la prima linea dell’esercito elfico si aprì come un sipario da
palcoscenico, e tre compagnie di cavalieri armati di tutto punto con una
corazzatura apparentemente insuperabile caricarono le fila degli umani, facendo
tremare la terra sotto il peso dei loro zoccoli.
«Elfi.» disse
sorridendo il generale Parson «Non imparano mai. Pronti al mio segnale».
I cavalieri si
fecero vicini, vicinissimi, e nessuno fece alcun tentativo per fermarli;
addirittura, i genieri addetti ai cannoni mollarono istantaneamente il loro
lavoro, correndo a nascondersi dietro le barricate.
Mancavano solo
poche decine di metri, quando Parson, alzato il braccio, gridò un “Ora!” che
rimbombò come un tuono in tutta la pianura.
A quel suo comando
le barricate andarono giù come ponti levatoi, e dietro di esse apparvero due
lunghissime file di soldati armati di moschetto; la fila in ginocchio fece
immediatamente fuoco, e per i cavalieri fu un vero e proprio massacro. I pochi
che riuscirono a sopravvivere alla prima raffica, soprattutto quelli nelle
retrovie, vennero falcidiati dalla seconda, e in pochi secondi l’intero plotone
di cavalleria di Normar fu decimato.
Stavolta Galvisar
accolse molto male quella situazione, e mentre i moschettieri stavano ancora
ricaricando le loro armi ordinò un attacco totale, lasciando indietro solo le
riserve e lo stato maggiore.
Gli umani
lasciarono avvicinare i nemici in modo da potergli regalare una terza raffica,
quindi, su ordine del Parson, anche i soldati Imperiali, armati per la maggior
parte di lunghe picche e protetti da elmi e corazze diedero l’assalto,
scontrandosi frontalmente con le truppe di Normar.
Ciò che ne seguì
fu una battaglia terribile, la più terribile che la storia avesse mai visto;
gli umani combattevano per la propria libertà, gli elfi per le brame di potere
di una regina, ma anche per loro stessi.
Indipendentemente
dal fatto di essere asserviti o meno all’autorità di Lainay, per gli elfi non
vi era mai stato nulla di più importante dell’orgoglio di razza, ragion per cui
sconfiggere gli umani era un traguardo al quale tutti, nessuno escluso,
ambivano con tutto il cuore.
Il talento omicida
degli Immortali, unito all’operato silenzioso e infallibile di molte spie
infiltrate nello scontro, permise agli elfi di eliminare in parte il vantaggio
numerico del nemico, dando ai primi una nuova speranza e ai secondi un motivo
in più per sperare nell’aiuto dei Celestiali, che dall’inizio dello scontro non
si erano ancora mossi.
Cercando di
sfruttare al meglio l’occasione che si era venuta a creare, Galvisar fu il
primo ad invocare l’intervento di Uruk facendo issare lo stendardo giallo, ma
nonostante ciò Isnark non diede l’ordine di carica.
«Mio signore.»
disse Zipherias «Normar ci ha dato il segnale».
Benagi, che
conosceva il suo compagno da molto più tempo, non faticò a leggere la paura e
l’incertezza nel suo sguardo, ma era comprensibile.
Cosa fare?
L’Impero, in cambio
dell’aiuto, aveva promesso una grande quantità di oro e molti vantaggi
economici, oltre ad aiuto militare in caso di ritorsioni nemiche; Normar,
invece, si era fatta avanti con la promessa di alcuni territori a ridosso della
regione di Kyradon, ma per rendere ancor più sicura l’alleanza aveva sottoposto
la matriarca ad un volgarissimo ricatto, minacciando di rivelare un segreto
che, se fosse venuto alla luce, avrebbe reso Uruk il nemico di tutto il
continente.
Pochi minuti dopo,
anche Parson diede l’ordine di lanciare il segnale convenuto, e allora
l’incertezza del principe divenne vero e proprio terrore.
Quale era dunque
la strada da prendere?
Non c’erano vie di
mezzo; la scelta era fra il tradire i propri ideali e tradire la propria
sovrana, oltre che la propria sposa.
Isnark si sentiva
come un pesce in una tinozza, la sua insicurezza era quanto mai palese, ed
essendo lui il capo essa si trasferiva automaticamente sui suoi uomini.
Poiché Uruk non si
decideva ad intervenire, Galvisar iniziò a perdere la pazienza.
«Ordinate agli
arcieri di tirare su Isnark».
Sigthor non riuscì
a credere alle proprie orecchie.
«Ma… signore. Se
lo facciamo ci attaccherà.»
«Ha bisogno di una
svegliata. Obbedite.»
«Si… sissignore».
Gli arcieri di
Normar uscirono allora dai ranghi, tesero i loro archi e lanciarono un fitto
nugolo di frecce in direzione del promontorio; molte di esse andarono a
conficcarsi a terra, ma alcune raggiunsero i soldati della prima linea, e un
paio di loro ci rimisero la vita.
«Merda!» disse
Benagi «Normar ci attacca!».
Isnark sembrò non
accorgersi nemmeno di quel gesto; i suoi occhi continuavano a rimanere piantati
sulla battaglia, che ogni secondo che passava si faceva sempre più combattuta.
Poi, finalmente,
alzò un braccio, il destro, e non appena lo abbassò le truppe di Uruk corsero
urlando giù dal crinale, dritti verso lo schieramento umano impegnato in
battaglia, che fu travolto come da una carica di bufali.
«Ma che diavolo…»
gridò il generale Parson «Bastardi di Uruk! Giuro che questa gliela farò
pagare!».
Forse perché
infuriati per il voltafaccia dei loro presunti alleati, incredibilmente i
soldati imperiali, invece che cedere terreno, iniziarono a spingere con ancor
più foga di prima, dando fondo a tutte le loro energie.
Gli Immortali, che
già avevano subito perdite considerevoli a causa dei cannoni, vennero
sterminati di lì a poco, e senza l’appoggio del proprio distaccamento migliore
l’esercito di Normar e quello di Uruk iniziarono, incredibilmente, a venire
respinti.
Il generale
Galvisar, che oltre ad un esperto ufficiale era anche un elfo dal carattere
forte e fiero, non poté fare a meno di riconoscere il valore degli umani, ma
ora quella soluzione alternativa di cui si era tanto parlato in precedenza, e
così a lungo sperava di poter evitare, dopo averne visto i terrificanti
effetti, divenne irrinunciabile.
Con voce da
funerale, chiamò nuovamente a sé Sigthor.
«Generale?»
«Dare inizio
all’operazione Valchiria.»
«Sissignore».
Un secondo dopo, i
corni da guerra di Normar presero a suonare insistentemente la ritirata, e a
quel punto entrambi gli schieramenti elfici presero pian piano a ripiegare, una
ritirata che si faceva via via sempre più veloce.
Gli umani, vedendo
i loro nemici in fuga, esultarono, ma Parson non era per nulla tranquillo; ogni
uomo e ogni elfo con un minimo di esperienza militare sa che la ritirata deve
essere eseguita lentamente, e con la copertura degli arcieri, invece quegli
elfi stavano letteralmente dandosela a gambe, e non sembrava che la loro fuga
fosse dall’esercito imperiale.
Il generale pensò
cosa potesse esserci dietro, quando, all’improvviso, si udì un fischio
tremendo, per non dire assordante, e subito dopo la terra prese a tremare come
durante il più forte dei terremoti.
«Ma che sta
succedendo?» domandò Mitchell, che faticava a tenere buono il suo cavallo.
La risposta venne
nel momento in cui, da dietro il crinale opposto a quello di Uruk, comparvero
una decina di spaventosi giganti di metallo di varie forme e colori, armati di
armi che andavano da lance lunghe come due navi in fila e spade capaci di
sbriciolare un’intera cinta muraria.
Erano altissimi,
tanto da poter oscurare il sole, e ad ogni loro passo il terreno sembrava
aprirsi per la forza con cui tremava.
Il più grande e il
più spaventoso di tutti doveva superare i quindici metri di altezza, era di un
bianco sfavillante, con alcune parti nere, e impugnava un’arma simile ad una
lancia, ma con l’impugnatura al centro e due lame una di fronte all’altra.
Gli umani
terrorizzati non potevano saperlo, ma nel torace di quel mostro, all’interno di
una camera strettissima, circondata da monitor sui quali poteva vedere tutto
ciò che accadeva al di fuori, con il torace protetto da una sorta di corazza,
braccia e gambe infilate in una sorta di bracciali mobili e mani strette
attorno ad una coppia di leve orizzontali, la regina Lainay rideva leggermente
di soddisfazione.
«E adesso,
mettiamo fine a questa storia».
Ad un cenno di
quel mostro, lui e tutti i suoi compagni si gettarono con forza impressionante
sugli umani, e grazie alla forza combinata della loro mole e delle armi che
brandivano quella battaglia si trasformò in un massacro.
Fra i dodici
giganti che presero parte a quella carneficina, oltre al loro capo, due furono
quelli che si distinsero per potenza e ferocia.
Uno era grosso, di
colore blu, con braccia e gambe molto larghe, che impugnava una specie di
alabarda; chiunque fosse a pilotarlo, ad ogni suo colpo non si lasciava mancare
frasi ingiuriose e imprecazioni rivolte agli esseri umani, definendoli insetti
senza onore buoni solo a fare del male.
L’altro era alto,
longilineo, di colore rosso, con una lunga cresta argentata che dalla base
della testa arrivava a metà della schiena; le sue armi erano una coppia di
micidiali artigli, tre per ogni mano, che spuntavano da una protuberanza
all’altezza dei polsi. A differenza del suo compagno, aveva dei movimenti molti
rapidi, saltava spesso e continuava a colpire senza pietà, infierendo più e più
volte; anche il suo pilota non si lasciava mancare espressioni altamente
maligne, rese ancor più terrificanti dalla sua voce esaltata e dalle risate
sguaiate, degne di un demone infernale, che riecheggiavano ad ogni colpo.
«Morite! Morite
tutti!».
Lo stato maggiore
dell’Impero assistette impotente alla distruzione del proprio esercito, ma
prima che potesse darsi alla fuga venne a sua volta raggiunto da un oggetto
volante simile ad un enorme sigaro che toccata terra produsse un’esplosione
tale da rendere anche il più efficace degli incantesimi distruttivi una
semplice goccia nel mare.
Quella battaglia,
nella mente dei due generali, sarebbe dovuta durare un giorno o più, e invece
finì nel giro di poche ore.
Al termine di
quella giornata, metà del continente era sotto il dominio di una sola persona.
Capitolo 31 *** Ritorno al Futuro - La Speranza ***
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Regis ascoltò con incredulo sgomento l’intera storia, e a
racconto finito non riusciva a credere alle proprie orecchie.
Isnark, che aveva
fatto voto di eterna opposizione all’egocentrico desiderio di onnipotenza di
Lainay, aveva finito per aiutarla a diventare la padrona incontrastata di metà
del continente.
Conoscendo quella
pazza, sicuramente stava infliggendo agli esseri umani, divenuti ora suoi
sudditi, le umiliazioni più terribili che si potessero immaginare, cosa che,
tra l’altro, aveva sempre detto con grande gusto di voler fare, una volta
ottenuto il controllo sui loro territori.
E Isnark, il suo
amico Isnark, era complice in tutto questo; il giovane umano si sentì pervadere
da un misto di rabbia e frustrazione, e persino Zipherias, dopo essersi girato
per l’ennesima battuta sarcastica, decise prudentemente di tenere la bocca
chiusa una volta incrociato il suo sguardo.
«So cosa stai
pensando, Regis.» disse Lsyn «E ti prego di non essere in collera con Isnark.»
«Che ne è stato di
Fiya?» domandò il ragazzo a sguardo basso e con voce roca, come se non l’avesse
sentita
«No, puoi stare
tranquillo. Il Regno di Fiya, malgrado la ristrettezza dei suoi domini rispetto
a cinquant’anni, non faceva parte dell’Impero, quindi si è salvato, e secondo
molti rappresenterà la prossima linea difensiva degli esseri umani contro
l’avanzata di Lainay».
In quella, la
carovana uscì dalla foresta, raggiungendo la grande, stupenda pianura al centro
della quale, su di una collina naturale, sorgeva la bellissima città di
Kyradon, il luogo sacro per eccellenza, e ora fulcro del sedicente movimento di
rivolta all’espansionismo di Normar.
Ricordava molto da
vicino una città del periodo classico, o dell’africa mediterranea, con le sue
abitazioni bianche che brillavano al sole, i templi in stile dorico e la forma
perfettamente geometrica.
Costruita su tre
livelli concentrici, tutti di forma ottagonale, separati l’uno dall’altro da
un’imponente cinta muraria, contava quasi mezzo milione di abitanti, ma
l’andirivieni di pellegrini che attraversavano il continente da una parte
all’altra per poter pregare nel tempio celestiale e fare il bagno nella fonte
di acqua miracolosa era praticamente senza fine.
Entrati in città,
non senza essersi visti puntare addosso gli sguardi incuriositi degli abitanti,
arrivarono in pochi minuti nel piazzale del tempio, una costruzione imponente
con colonne bianchissime e il tetto laminato d’oro; ad attendere il loro
ritorno c’era Isnark, in preda alla più nera delle ansie.
Dapprima anche il
principe restò comprensibilmente sorpreso nel veder arrivare al seguito del suo
fidato Zipherias, oltre a Lsyn, anche tre esseri umani, ma appena riconobbe fra
quei volti quello del suo vecchio compagno di battaglie divenne pallido come un
morto.
«Tu… non può
essere…».
Regis non lo
salutò, non gli rivolse alcun cenno; sceso da cavallo, camminò a passo spedito
verso di lui, e non appena gli fu vicino lo colpì allo zigomo con un destro
così forte da buttarlo a terra.
Nessuno tranne
Lsyn capì il motivo di quel gesto; le guardie lì presenti fecero per saltare
addosso al giovane, ma Peter e Masato, riavutisi dallo stupore, immediatamente
si portarono schiena a schiena con il loro compagno e spararono alcuni colpi in
aria, dando prova di poter uccidere tutti prima ancora che potessero pensare di
avvicinarsi. Non capivano bene neanche loro quello che stava succedendo, ma se
dovevano decidere con chi stare indubbiamente la scelta ricadeva sul proprio
simile.
«Che cos’hai
fatto, razza di traditore?» urlò Regis con una rabbia mai mostrata prima «Non
avevi forse detto di volerti opporre anima e corpo all’egoismo e alla brama di
potere di Normar, anche se ciò fosse significato la tua vita?»
«Regis… io…»
mugugnò l’elfo cercando di rialzarsi
«Ti sei già
dimenticato di sacrifici fatti per arrivare a questo punto? Tu hai infangato la
memoria di quanti hanno dato la vita per permettere a Uruk di ottenere la
libertà, e di tutti coloro che sono morti per difendere i loro ideali! Ti sei
venduto ai loro assassini!»
«Io non ho avuto
scelta!» gridò Isnark con gli occhi pieni di lacrime.
Regis, vedendolo
piangere, a sua volta rimase sgomento, e abbandonò subito il proposito di
infierire ancora; solo fino a poco tempo prima, almeno secondo il suo metro di
giudizio, i ruoli erano invertiti, lui era il pavido e Isnark il coraggioso, e
forse era stato proprio quel pensiero a scatenare in lui una tale rabbia.
Ma ora che anche
Isnark piangeva di vergogna, tutto sembrava diventato senza senso.
«Credi che io sia
stato felice di aiutare quella pazza esaltata a sottomettere metà di questo
continente? Se fosse dipeso da me non ci avrei pensato due volte a dirigere i
miei soldati contro le truppe di Normar, e neppure davanti a quei robot sarei
indietreggiato.
Ma non potevo. Non
potevo farlo!»
«E perché non
potevi?».
La situazione a
quel punto andò lentamente migliorando; tutti, umani ed elfi, abbassarono le
armi, e Zipherias ordinò a tutti i suoi uomini di abbandonare immediatamente il
campo, cosa che venne fatta immediatamente; allora, e solo allora, Isnark
riuscì a continuare il proprio discorso.
«Perché Lainay
sapeva qualcosa. Qualcosa di così grave che se fosse venuto alle orecchie delle
persone sbagliate ci avrebbe messo contro tutti i regni non solo del
continente, ma di tutto il mondo.»
«E cosa poteva mai
essere?»
«La nostra regina,
Nemys.» intervenne Lsyn «È una Rinnegata.»
«Che cosa!? Una
Rinnegata!?»
«Non è come credi.
È una Rinnegata speciale. Non solo ha un animo puro, ma possiede anche il corpo
e l’anima di un essere vivente.»
«Il corpo di un
essere vivente…» disse l’umano tra sé e sé «Proprio come lui…»
«Tuttavia» riprese
Isnark «È pur sempre una Rinnegata. Cosa credi che sarebbe successo se le altre
nazioni fossero venute a sapere che la grande ispiratrice della lotta contro
Lainay discende da una stirpe oscura, disprezzata da tutti?
Persino il nostro
popolo non ne sa niente. Se Lainay avesse sparso questa voce tutti ci avrebbero
voltato le spalle, e il movimento di resistenza così faticosamente creato si
sarebbe sgretolato in pochi attimi.
La Matriarca stessa ha
pianto questa decisione, ma in nome della causa che abbiamo deciso di
perseguire fino alla morte ha deciso di sottostare a questo ricatto. E lei è la
prima a soffrirne».
Seguì un silenzio
gelido, con vergogna e frustrazione da ambo le parti.
«Ma ora» disse
Isnark accennando un leggero ritorno al vigore di sempre «Dopo tanti sacrifici,
abbiamo una speranza. La speranza che tutto ciò non sia stato vano.»
«Di che stai
parlando?»
«Il figlio che la
nostra matriarca sta aspettando avrà in sé un potere come non se ne sono mai
visti a memoria d’elfo. Sarà il faro che illuminerà la nostra resurrezione, e
radunerà attorno a sé tutti coloro che vorranno seguirlo, conducendoli ad un
futuro libero dal giogo della tirannia.»
«Sono molte
responsabilità per un bambino non ancora nato.»
«E al momento non
sappiamo neanche se nascerà. Quindi decidi, puoi stare qui ad accusarci di
crimini che sappiamo di aver commesso o puoi aiutarci, che penso sia il motivo
primo per il quale sei voluto venire».
Regis temporeggiò,
passandosi una mano sui capelli, poi però allungò la mano, stringendo quella di
Isnark in segno di indomabile amicizia.
«Scusa se ti ho
colpito. Mi fido di te.»
«Ti ringrazio. È
importante sentirtelo dire».
Isnark e Lsyn accompagnarono Regis e i due soldati lungo i
corridoi del tempio che immettevano tra di loro le stanze del grande sacerdote,
fino a che non raggiunsero la camera da letto, una stanza di dimensioni
considerevoli arredata di tutto punto, come si confaceva ad una persona di tale
rango.
Tuttavia, non
erano soli; davanti al letto, grande e a baldacchino, c’era una figura vestita
di nero dai capelli d’argento, e prima ancora che si girasse Regis la riconobbe
immediatamente.
«Erik!» gridò.
Malgrado il cambio
nel modo di vestire, con un lungo impermeabile di tela che scendeva fino alle
caviglie aperto sul davanti, maglia e calzoni sempre neri, questi ultimi
stretti in vita da una cintura, e scarponi dalla suola spessa, si trattava
sicuramente di lui.
Istintivamente
Regis mise nuovamente mano alla spada, ma con sua grande sorpresa Erik non fece
altrettanto; al contrario, si limitò a guardarlo, e il suo era uno sguardo
strano, molto diverso da quello dell’ultima volta.
«Fermi.» disse una
voce candida come acqua di fonte proveniente dalle spalle del rinnegato «In
questo luogo, nessuno è nemico di nessuno».
Erik, dopo qualche
istante, si spostò lateralmente, lasciando Regis immobile come una statua;
sotto le coperte, con la testa appoggiata su tre cuscini, di modo da poterla
tenere alzata, stava una giovane elfa di bellezza senza pari: la pelle candida
di una bambina, lunghi capelli candidi come neve, che parevano quasi brillare di
una luce azzurrina, occhi di un blu intenso che contornavano un viso gentile,
abbellito da qualche lentiggine sulle gote.
Vedendola, Regis
non poté fare a meno di riscontrare l’incredibile somiglianza tra lei e l’elfa
che stava un passo dietro a lui; la somiglianza con Lsyn, la Lsyn bella, fiera e
aggraziata incontrata al torneo, era a dir poco spaventosa, da restare senza
fiato. Impossibile non notarla, malgrado il volto della matriarca apparisse
contorto e piegato dalle sofferenze di un parto difficile, che tuttavia non
riuscivano a distruggere il suo fascino.
«Matriarca.» disse
Isnark facendo un leggero inchino «Costui è…»
«Lo so bene chi
è.» rispose lei «Conosco molto bene Regis. Ci siamo già incontrati, in
passato».
Quell’affermazione
fece girare immediatamente Regis verso Lsyn, la quale, con gli occhi socchiusi,
fece un cenno con il capo, a conferma delle sue supposizioni.
«Nemys.» disse
Lsyn guardando verso Masato «Quest’uomo è un grande medico. È venuto per darti
assistenza».
Chiamato in causa,
il giovane dottore si avvicinò al letto, appoggiando la propria sacca su di un
tavolino e prendendone fuori tutto il necessario per condurre una visita
iniziale.
Peter e Isnark
uscirono dalla stanza quasi subito, dirigendosi verso la biblioteca, situata
all’interno di una grande torre circolare che si ergeva imponente subito
accanto al tempio principale; assieme a loro andò Zipherias, che per un motivo
ancora ignoto sapeva parlare e comprendere alla perfezione le parole dei due
soldati, malgrado questi utilizzassero una lingua che lui, teoricamente, non
avrebbe dovuto sapere.
Il motivo di un
fatto tanto insolito venne nel momento in cui Masato, visitando Nemys, disse a
Lsyn di domandarle se sentisse dolore in un determinato punto.
«Non è necessario
che me lo domandi lei.» rispose la matriarca parlando in giapponese «Posso
rispondere io».
Sia Masato che
Regis restarono con la bocca spalancata.
«Ma…» disse il
soldato «Come fa a conoscere la nostra lingua?»
«Noi Rinnegati
possiamo vedere oltre l’aspetto esteriore delle cose. Grazie al potere che ci
accomuna, possiamo vedere la vostra anima. È alla tua anima che io ora sto
parlando, e il linguaggio dell’anima è universale. Semplicemente, i tuoi sensi
recepiscono le mie parole come se le pronunciassi nella tua lingua.»
«Ah… c… capisco…».
Mentre Masato
proseguiva nel suo lavoro, Erik e Regis si portarono in un angolo, guardandosi
per lungo tempo di sottecchi senza proferire parola.
«Che ci fai tu
qui?» chiese Regis
«Potrei farti la
stessa domanda.»
«È evidente che
per te non sono passati cinquant’anni. Sei passato anche tu attraverso il
portale.»
«Come sia arrivato
qui non lo so. L’unica cosa che mi interessa al momento è tornare indietro,
quindi, se non ti spiace, andò a fare anch’io qualche ricerca».
Il Rinnegato fece
per uscire dalla stanza, ma Regis lo richiamò.
«Mi sembri
diverso. Di colpo ti è passata la voglia di uccidermi?».
Erik dapprincipio
non rispose; chiuse gli occhi e alzò il viso al soffitto.
«Non sperare
neppure per un momento che io abbia abbandonato l’idea di vendicarmi di te. È
solo che di recente mi sono ricordato di una cosa molto importante. Qualcosa
che viene anche prima del risentimento che provo per te come mio creatore.» e
detto questo se ne andò, chiudendosi la porta alle spalle.
Alcuni minuti dopo
la visita, che più di una volta era stata interrotta a causa del dolore
spaventoso che devastava Nemys in tutto il corpo, terminò, e Masato trasse, con
l’amarezza dipinta in faccia, le proprie conclusioni.
«Allora?» domandò
Isnark «Come sta?»
«Ha la pressione
altissima. L’utero è contratto fino allo spasimo. In queste condizioni, c’è il
rischio che feto finisca per soffocare durante il parto.»
«Ma allora che
cosa possiamo fare?» chiese Lsyn
«Non abbiamo scelta,
dobbiamo cercare di posticipare il parto il più possibile, in attesa che il
corpo si rilassi.»
«Ma non resisterà
a lungo a questo dolore.» disse Isnark
«Non… non
preoccupatevi.» rispose Nemys cercando di respirare il più tranquillamente
possibile «Cercherò di resistere il più possibile.»
«Aspetta.» disse
Regis «Potresti sempre operare un parto cesario.»
«No, impossibile.
Come ho già detto, il corpo è in tensione, e il cuore sta pompando al massimo.
Se qualcosa va’ storto il risultato potrebbe essere un’emorragia tanto grave da
ucciderla.»
«Questo…»
intervenne la matriarca «Questo non ha importanza».
Regis e Masato si
girarono allibiti nella sua direzione.
«Che significa!?»
domandò il giovane
«Comunque vada…
questo parto… mi ucciderà.»
«Non deve neanche
pensarla una cosa del genere.» le disse Masato, che sapeva bene come spingere i
propri compagni feriti a lottare per salvarsi la vita «Lei ce la farà.»
«No… non avete
capito. Questo bambino… sarà la mia ultima eredità. La sua nascita… sancirà la
mia morte.»
«Ma di che diavolo
sta parlando?» chiese Regis rivolgendosi a Isnark e Lsyn.
Entrambi gli elfi
avevano lo sguardo basso, e fu necessaria una richiesta perentoria perché lei
si decidesse a rispondere.
«Sta dicendo la
verità. Nel momento in cui il bambino verrà alla luce, Nemys morirà.»
«Ma perché?»
«Questo… questo
bambino… avrà in sé qualcosa di unico. Una creatura nata come un elfo… ma con
l’essanza di un Rinnegato. Alla sua nascita, io cederò a lui tutti i miei
poteri, e questo… segnerà la mia morte.»
«Perché dovresti
fare una cosa del genere? Perché gettare in questo modo la tua vita?»
«Per… per dare una
speranza a questo mondo. Mio figlio… sarà colui che erediterà la guida di
questa nazione. Egli porterà… la pace… in questo mondo… e la dignità… per il
nostro popolo.
Dottore.»
«S… sì?»
«Ti prego di fare
tutto quello che deve essere fatto. Questo bambino deve nascere. È il mio
ultimo desiderio».
Masato però
continuava a rimanere scettico; i problemi, infatti, non erano ancora finiti.
«Mi dispiace
dirglielo, ma un cesario al momento sarebbe rischioso anche per il bambino. Il
feto si trova in una posizione innaturale, se tagliassi rischierei di ferirlo
gravemente.»
«Ma non c’è
proprio niente che può fare?» chiese Isnark
«Beh… ho con me un
po’ di morfina. Potrei dargliela per alleviare il dolore e renderlo più
sopportabile.»
«Ma esattamente,
quanto tempo servirà per poter effettuare il parto?»
«Dipende tutto da
come reagirà il corpo. La morfina sicuramente aiuterebbe, diminuendo la
contrazione dei muscoli. Direi sei ore, sette al massimo.»
«Sette ore!? Ma è
tantissimo!»
«Dottore… questo
farmaco che vorrebbe darmi… che cos’è esattamente?»
«È una
combinazione fra un tranquillante e un antidolorifico.»
«E… potrebbe
essere dannoso per il bambino?»
«Per lui no, però…
potrebbe avere degli effetti collaterali su di Lei.»
«Che tipo di
effetti?»
«Nausea, sensazione
di freddo… forse uno stato di delirio temporaneo…»
«Ha detto…
delirio?»
«Sì, purtroppo.»
«In tal caso… me
ne dia solo la quantità minima… per alleviare un po’ il dolore…»
«Cosa?»
«Non voglio… non
voglio che i miei ultimi momenti di vita siano segnati dalla pazzia. Voglio
poter assaporare la bellezza di questo mondo per l’ultima volta, ma non potrò
farlo se la mia mente non sarà lucida».
Masato, di fronte
ad una simile richiesta, non seppe cosa fare, ma non appena ricevette l’assenso
di Isnark e Lsyn decise di esaudire il desiderio della matriarca, iniettandole
con la siringa una dose minima di morfina; gli effetti non tardarono a farsi
sentire, placando sensibilmente il dolore senza per questo minare l’equilibrio
mentale di Nemys, che salvo un leggero stato di sonnolenza rimase
fondamentalmente lucida.
A quel punto, ebbe
inizio l’attesa.
Le ore successive trascorsero nell’ansia e
nell’incertezza; la camera di Nemys era oggetto di un continuo pellegrinaggio
di soldati, sacerdoti e gente comune, tutti ansiosi di rendere omaggio alla
loro matriarca per l’ultima volta.
Pur non conoscendo
la vera natura di quell’elfa così coraggiosa e generosa tutti sapevano le
conseguenze alle quali andava incontro con quella gravidanza, le avevano sempre
conosciute, ma nonostante ciò i loro cuori erano carichi di speranza.
Nemys era
considerata da tutti l’incarnazione vivente del dio Amon, e secondo il Tomo
delle Origini il figlio mortale messo al mondo dall’incarnazione di Amon
sarebbe stato colui che avrebbe liberato il mondo da ogni male, proprio per
questo gli abitanti non solo di Kyradon, ma di tutto al matriarcato, erano
pronti a tributarle tutti gli onori, allestendo per lei un funerale al quale
neppure Lainay avrebbe mai potuto aspirare.
Anche Regis si
sentiva stranamente in ansia, malgrado quella questione non lo riguardasse se
non in maniera piuttosto marginale, quindi, come faceva quasi sempre in
situazioni simili, cercò la distrazione nello studio; per questo, dopo essersi
congedato dalla matriarca, si recò nella biblioteca del tempio.
La costruzione era
immensa, ma completamente vuota; appena entrati, se si sollevava la testa si
poteva scorgere direttamente il soffitto conico, sorretto da una superba
raggiera di legno. Lungo le pareti, però, vi erano decine, centinaia di
scaffali dove erano riposti milioni e milioni di documenti antichi in varie
forme, dai rotoli di pergamena ai volumi rilegati; gli scaffali correvano lungo
una rampa a chiocciola che, girando in tondo infinite volte, arrivava fino al
soffitto, dove si trovava un salottino con alcuni bancali riservati alla
consultazione dei documenti.
Quel luogo era un
vero e proprio scrigno del sapere, dove erano custodite opere riguardanti gli
argomenti più disparati, dall’alchimia all’erboristeria, dalla medicina alla
magia; molti, nel corso dei secoli, avevano ambito a metterci le mani sopra, ma
Kyradon e i suoi abitanti l’avevano sempre difeso con le unghie e con i denti.
Il controllo e
l’amministrazione della biblioteca erano appannaggio del maestro libraio, quasi
sempre un sacerdote del tempio; era un incarico sacro, benedetto dal cielo, da
assolvere con la stessa cura che si dedicava alla preghiera e a cui si
rinunciava solo al momento della morte, lasciandolo al proprio discepolo.
L’attuale maestro
era lo stesso che Regis ricordava di aver sentito nominare nel suo tempo; si chiamava
Yufrek, era un vecchio elfo dalla lunga barba grigia quasi cieco a causa dei
lunghi secoli trascorsi a leggere parole a volte piccolissime ma con una
cultura apparentemente senza fine.
Prima ancora che
Peter e Zipherias potessero spiegare con precisione quale libro stessero
cercando, lui immediatamente ne aveva elencato nome, autore, argomenti trattati
e collocazione, e andando a colpo sicuro lo recuperò dallo scaffale numero
quindici, riservato alla storia e alla mitologia; era un vecchio volume con la
copertina in pelle riguardante la storia fantastica delle rovine nella Foresta
delle Origini, e proprio come detto da Lsyn le ultime pagine del manoscritto,
oltre ad essere pieni di illustrazioni e strani simboli, molto simili a quelli
che comparivano sull’altare, erano scritte in un linguaggio antico, di
difficile traduzione.
Peter e Regis,
accompagnati da Yufrek, portarono il libro sopra uno degli scriptorium della
sala all’ultimo piano per poterlo tradurre, mentre Zipherias, che decisamente
sembrava non sopportare la vicinanza del giovane amico di Lsyn, se ne andò poco
dopo, anche perché con l’arrivo di Regis il suo ruolo di interprete non era più
necessario.
«Ecco, ci siamo!»
disse Regis dopo diverse ore di lavoro «Credo di aver capito!»
«Davvero?» disse
Peter, che piuttosto che tradurre cercava di sfruttare le sue abilità di
linguista per apprendere almeno in parte l’attuale lingua degli elfi,
intavolando elementari discussioni con il giovanissimo discepolo del maestro
Yufrek «Cos’hai trovato?»
«In questa sezione
parla di un particolare fenomeno magico che permette di effettuare dei viaggi
nel tempo.»
«E dice anche come
tornare indietro?»
«Sembra di sì. Se
ho tradotto bene questa parte, pare che il portale si riapra automaticamente
dopo aver ricaricato la propria energia, permettendo di ritornare indietro al
momento esatto in cui si è partiti.»
«Ma è fantastico!
Quanto ci metterà a ricaricarsi?»
«Più o meno quarantotto
ore. Il che significa che entro dopodomani potremmo essere in grado di
ritornare al nostro tempo.»
«Perfetto! Proprio
quello che cercavamo! Andiamo subito ad avvisare il capitano!»
«Con calma, non
c’è fretta. Te l’ho detto, non si aprirà prima di domani mattina. Inoltre,
Masato ha il suo bel daffare con la matriarca. Non possiamo certo lasciarlo
solo. Per questa notte, direi di fermarci qui. Isnark ha messo delle stanze a
nostra disposizione, quindi non dobbiamo neanche preoccuparci dell’alloggio.»
«Hai detto
alloggio!?» domandò il soldato con occhi scintillanti
«Sì, perché?»
«E me lo chiedi?
Sono mesi che dormo su di un telo, disteso nel fango! Poter dormire finalmente
in un vero letto è un sogno che si avvera!».
Masato e i guaritori, per evitare a Nemys sforzi inutili,
che minassero le sue già precarie condizioni fisiche, affaticandola ancor di
più, avevano richiesto che nessuno venisse a disturbare la matriarca se non in
caso di estrema necessità; l’elfa era ora collegata a dei macchinari da campo
che il dottore aveva avuto l’accortezza di portare con sé, grazie ai quali era
possibile tenere costantemente d’occhio il battito cardiaco e le condizioni del
feto, e col passare delle ore la situazione era andata lentamente migliorando.
Erano da poco
passate le otto di sera, quando una sacerdotessa bussò alla porta, comunicando
alla matriarca che Zipherias chiedeva di essere ricevuto.
Uno dei guaritori
stava per respingere la richiesta, adducendo al fatto che la sovrana
necessitava di riposo, ma Nemys, contravvenendo al parere dei medici,
acconsentì all’incontro, e quando il grosso elfo entrò nella stanza chiese e
ottenne, pur con molta insistenza, di essere lasciata sola con lui.
Non appena la
porta si chiuse alle sue spalle, Zipherias si inginocchiò immediatamente,
ponendo lo sguardo in basso; fra tutti gli abitanti di Kyradon, lui era forse
il più fedele alla sua matriarca, e mai una volta era stato in piedi in sua
presenza, se non ovviamente in casi di forza maggiore.
«Milady. Chiedo
umilmente di poter parlare.»
«Ti ascolto. Parla
pure».
L’elfo esitò, mordendosi
le labbra; ciò che doveva dire evidentemente non era cosa da poco.
«Milady, si tratta
di Regis. Ecco… non voglio sembrare irrispettoso… ma… forse dovreste
parlargli.»
«Parlargli?»
rispose Nemys con falsa ingenuità «A proposito di cosa?»
«Riguardo alle
gemme della profezia. Forse, parlandogli, riuscireste a dissuaderlo dal
cercarle, una volta che sarà tornato nel suo tempo».
La matriarca
dapprincipio non rispose; chiuse gli occhi, come assopita, e per lungo tempo il
bip incessante dei macchinari fu l’unico rumore a riecheggiare nella stanza.
«Mio buon
Zipherias. Mi dispiace, ma non posso farlo.»
«Come!?» disse lui
alzando la testa «Ma, perché…»
«La verità è che
allora avevo torto. Ero giovane, ingenua e molto spaventata.
Temevo che se quel
giovane avesse recuperato le sette gemme, gli umani avrebbero finito con
l’abusarne.»
«Ma è stato
proprio a causa loro se il nostro continente ha rischiato di sprofondare per
sempre nell’Oscurità.»
«Sì, hai ragione.
Quelle gemme sono capaci solamente di portare dolore e sventure una volta
riunite.
Questo almeno era
quello che credevo.
Mi sbagliavo.
Tutti ci sbagliavamo. Ed è stato proprio lui a farcelo capire.»
«Però… però io…»
«So cosa stai
pensando, amico mio. Anche il mio cuore piange se ripenso alle conseguenze che
quell’impresa ha comportato per il nostro popolo, ma soprattutto per noi due.
Aiolos ha fatto la
sua scelta, ma ciò non ha nulla a che vedere con gli eventi legati a Regis e
alla ricerca delle gemme. Il suo cuore e i suoi ideali vacillavano già prima di
allora, sarebbe comunque andata a finire in questo modo».
Zipherias non
riuscì a trattenersi dal piangere; era un pianto sommesso, a denti stretti.
«Zipherias.» disse
Nemys tendendo il braccio «Vieni».
Lui, di nuovo, temporeggiò,
ma poi obbedì all’ordine della sua sovrana, andando ad inginocchiarsi accanto
al letto. Nemys lo guardò sorridendo, poi, con la stessa mano, gli accarezzò
dolcemente una guancia. L’elfo rimase scosso, e inizialmente pensò anche di
ritrarsi; fino a quel momento non aveva mai osato neanche sfiorare la
matriarca, per paura di sporcarla con la sua essenza.
«Ti prego, amico
mio. Non essere in collera con Regis. Quel giovane allora ci ha salvati tutti.
E puoi star certo che sentiremo ancora parlare di lui.
Se vorrai
convincere gli umani a ribellarsi al giogo di Lainay, è il suo nome che dovrai
levare al cielo per risvegliare in loro il desiderio di libertà. Io so che un
giorno questa terra piegata dal dolore ritroverà la pace. Deve essere così. E
tu sarai tra gli artefici di questa liberazione.»
«Milady…»
«E abbi cura di
Lsyn. È ancora una bambina, e ha bisogno di essere protetta. Hai fatto la
stessa cosa con me dal giorno in cui ti ho incontrato, e di questo ti sono
grata. Accudendo lei, in un certo senso accudirai me.»
A mezzanotte la matriarca non aveva ancora partorito, ma
stando all’ultimo bollettino medico fatto pervenire da Masato alla città vi era
la certezza quasi assoluta che il parto sarebbe avvenuto prima del sorgere del
sole, quindi furono ben pochi gli abitanti di Kyradon che riuscirono a chiudere
occhio.
Lsyn era fra
questi; affacciata dalla terrazza delle sue stanze, osservava sconsolata la Città di Amon con le
luci di molte case insolitamente accese; tutti, conoscendo l’imminenza del
lieto evento, che però avrebbe portato con sé anche un grande dolore, avevano
acceso fuochi davanti agli altari delle case e si erano radunati in preghiera;
le varie cappelle sparse per le strade traboccavano di fedeli, che invocavano
la benedizione degli dèi sia per la buona salute del bambino sia perché
accogliessero con tutti gli onori l’anima della matriarca una volta che questa
fosse assorta alle glorie celesti.
Anche Lsyn avrebbe
voluto pregare, ma la religione non aveva mai fatto parte del suo modo
d’essere, ed era convinta che cominciare a manifestarla solo in quel momento
sarebbe risultato quasi un insulto a tutti coloro che invece facevano della
fede la loro prima ragione di vita.
Il cielo splendeva
del manto di milioni di stelle, una luna piena insolitamente brillante
allietava l’ultima notte di Nemys nel mondo dei mortali, e il frizzante vento
del nord cantava per lei la sua canzone più bella.
Si diceva che il
vento del nord fosse in realtà il respiro dei draghi, e che il suo soffiare
nell’imminenza di una morte significasse per l’anima del defunto l’ascesa alle
glorie celesti, o la sua rinascita a nuova vita per l’appunto come drago, la
creatura più vicina alla perfezione degli dèi.
Lsyn cercava di
immaginare come sarebbe stata l’altra sé stessa se fosse rinata come un drago;
sarebbe stata bellissima, rifulgente, e al suo passaggio intere città si
sarebbero inchinate dinnanzi a lei.
Il suo pensare fu
bruscamente interrotto dal cigolio della porta d’ingresso; giratasi, incontrò
lo sguardo di Regis, che a sua volta la guardò interdetto.
«Scusa, ho
sbagliato camera. Ti lascio sola.»
«No, aspetta.»
disse lei prima che potesse andarsene «Resta. Avevo proprio voglia di un po’ di
compagnia».
L’umano
dapprincipio parve esitare, ma poi accettò la proposta e richiuse la porta,
raggiungendo Lsyn sul balcone e appoggiandosi come lei alla balaustra.
Passarono molti
minuti, durante i quali nessuno dei due seppe fare altro che continuare a
guardare l’orizzonte, le foreste verdeggianti e le alte montagne del nord, che
con le loro cime innevate lambivano il cielo; Regis, però, notò un sospirare
continuo nell’amica, accompagnata dal fischiettare di una melodia che lo fece
sobbalzare.
«Una bella
musica.» disse ad un certo punto
«Grazie. Non ho
mai saputo da dove venisse, ma ricordo di averla avuta in testa fin da
bambina.»
«Capisco.»
«Dimmi, hai
trovato le risposte che stavi cercando?»
«Ancora no. Ormai
sono quasi sicuro dei miei obiettivi, ma ci sono ancora delle domande alle
quali sento di dover dare una risposta prima di imbarcarmi nell’impresa che mi
è stata affidata.»
«Questa impresa ha
qualcosa a che fare con le gemme legate alla profezia della Guerra dei Mondi?»
«Esatto. Come lo
sai?»
«Da quando sono
qui, ho avuto modo di leggere molto. Ho letto più libri negli ultimi dodici
mesi che in tutta la mia vita. Uno di questi parlava della leggenda secondo
cui, cinquecento anni fa, il nostro mondo entrò in guerra con un altro, e per
poco non venne distrutto.»
«Tu se non sbaglio
sei nata in quel periodo. Ricordi qualcosa?»
«No, a dire il
vero. Ho provato a chiedere informazioni al mio maestro, ma lui è stato
estremamente evasivo. Nessun elfo ha voglia di parlare di quella storia, che
anzi è considerata un tabù inviolabile.»
«La cosa non mi
sorprende. Se la Guerra
dei Mondi si è svolta davvero come narrato nelle leggende, essa portava con sé
verità e rivelazioni decisamente troppo grandi perché questo mondo potesse essere
in grado di comprenderle».
Regis ricordava
con piacere i rari momenti in cui lui e Lsyn si erano intrattenuti in
conversazione, che fosse durante una battaglia o in momenti di quiete totale.
Non sapeva
spiegarsi perché, ma avvertiva qualcosa, un non so che di familiare, in
quell’elfa così misteriosa e così sfuggente, dalle mille facce; sentiva come se
tra loro due ci fosse stato una sorta di filo, che tuttavia pur legandoli tra
di loro allo stesso tempo li manteneva divisi, inavvicinabili, come se ci fosse
stata una barriera invisibile a separarli, una barriera che per nulla al mondo
doveva essere valicata.
Erano simili, ma
insieme diversi.
Forse anche Lsyn
avvertiva la stessa sensazione, forse anche lei vedeva sé stessa e Regis come
due fratelli che, malgrado uniti da vincoli di sangue e apparentemente tanto
uguali, erano destinati in realtà a rimanere divisi, costruendosi ognuno la
propria storia senza che essa coinvolgesse l’altro. Questa regola era stata
violata, e Regis sentiva dentro di sé che non si trattava di una cosa da poco,
di una di quelle regole che anche a violarle non cambiava poi nulla, ma di una
sorta di legge universale.
Forse un’altra
cosa che rendeva Lsyn così attraente per lui era il pensiero delle dure prove
che entrambi avevano dovuto sopportare per arrivare fino a lì, e per le quali
avrebbero portato il peso fin nella tomba.
Fu proprio il
ricordo di quelle prove, probabilmente, a spingere dopo poco Lsyn ad un pianto
dapprima sommesso, ma poi carico di dolore.
«Lsyn…»
«Io ho paura,
Regis. Tutto ciò che avevo di più caro mi è stato portato via. Le persone alle
quali volevo più bene ora non ci sono più, e presto anche Nemys mi abbandonerà.
Come farò ad andare avanti? Perché il destino si diverte a torturarmi?».
Osservando quel
volto piangente, Regis si sentì pervadere da una nuova sensazione, una
sensazione strana che non aveva mai provato, salvo una volta, molto tempo
prima.
«Lsyn.» le disse sfiorandole
il volto con le mani «Lsyn, guardami!».
L’elfa sollevò
timidamente lo sguardo, incrociando i suoi occhi vigorosi, bellissimi.
«Tu non sei sola.
Non lo sarai mai. Ci sono tante persone che ti vogliono bene, e che in futuro
avranno bisogno di te ancor più di adesso. Non puoi arrenderti adesso. Non dopo
tutto quello che hai passato».
Lui allora le
tolse con un dito le ultime lacrime dagl’occhi.
«Re… Regis…»
«Il destino non
esiste, Lsyn. Siamo noi a costruirci il nostro futuro.»
«E tu… tu come lo
sai?»
«Perché a suo
tempo io ho fatto una scelta che ha cambiato la mia vita. Nessuno mi ha guidato
o mi ha dato suggerimenti. È stata una scelta solo mia. Non esistono strade
predeterminate.»
«Regis…».
All’improvviso,
senza che nessuno dei due riuscisse a controllare le proprie emozioni, i loro
volti cominciarono ad avvicinarsi; gli occhi si chiusero, le labbra si
sfiorarono.
Lsyn poggiò le
mani sulle spalle di Regis, lui invece, cingendole la vita, la tirò verso di
sé, rendendo vago qualunque ripensamento; ma non vi fu alcun ripensamento.
Al primo,
lunghissimo bacio ne seguì un secondo, ancor più appassionato, e quasi senza
staccarsi Regis e Lsyn si spostarono fino al letto.
Lui le tolse
rapidamente il cappuccio e la tunica, lei quasi gli strappò via il panciotto
nero.
Quando, un po’ di
tempo fa, avevano incrociato le armi al grande torneo, certamente nessuno dei
due avrebbe mai potuto immaginare che un giorno sarebbe finita così.
Dopo averla
spogliata, Regis prese a baciarla amorevolmente su tutto il corpo, senza
curarsi minimamente delle cicatrici, alle quali probabilmente non aveva mai
dato alcuna importanza. Anche lei lo baciò, passando la mano su quel corpo che
sembrava fatto di marmo, modellato dal migliore degli scultori, e temprato da
anni di combattimenti.
Si amarono dolcemente
e con grande passione per diverse ore, per poi cadere, nudi e addormentati,
sotto le coperte; il primo a svegliarsi fu Regis, che restò a lungo immobile in
posizione semi-distesa, illuminato dalla luce della lampada ad olio che ardeva
sopra il comodino; di tanto in tango sfiorava il dito i lunghi capelli o la
morbida pelle di Lsyn, che ancora dormiva distesa su di un fianco, dandogli le
spalle.
«Voglio che tu mi
risponda sinceramente.» disse lei dopo essersi svegliata «Lo hai fatto perché
mi amavi?»
«Sì.» rispose
l’umano senza esitazioni «E questo mi spaventa.»
«Per quale
motivo?» domandò l’elfa girandosi verso di lui
«Perché molto
tempo fa promisi di donare il mio amore ad una sola persona. Tu, invece, sei
stata in grado di farmi dimenticare quella promessa.»
«Sei pentito di
ciò che abbiamo fatto?»
«No. E tu?».
Lei sorrise,
appoggiandosi al suo torace.
«Non ero mai stata
amata veramente da qualcuno in tutta la mia vita. Ma ora capisco cosa vuol dire
poter contare appieno sull’affetto di chi si ama.»
«Il mio affetto lo
avrai sempre, Lsyn. Di questo puoi essere sicura.»
«Lo so, Regis. Ora
ne ho la certezza».
Sarebbero rimasti
abbracciati in quel modo molto, molto a lungo, se un bussare violento e
spasmodico alla porta non avesse di colpo scritto la parola fine a quel momento
di quiete assoluta, troppo breve per poter essere apprezzato davvero.
«Lsyn!» disse una
voce giovane, che Regis non riconobbe «Lsyn, ci sei?»
«Sì, sono qui.»
rispose lei mettendosi a sedere «Che succede?»
«Lsyn! Devi venire, subito!».
Un lampo, a quelle
parole, attraversò la mente di entrambi, e subito dopo una certezza li colse:
il momento era giunto.
Regis notò
qualcosa, qualcosa di brutto, nello sguardo di Lsyn, ma non si trattava della
consapevolezza che di lì a poco avrebbe dovuto dire addio all’altra sé stessa;
era una sorta di riconoscimento, come un dejà vu, e prima che potesse aprire
bocca lei era immediatamente scattata in piedi.
Si vestirono in
tutta fretta, quindi corsero fuori dalla stanza, notando fin da subito la
grande agitazione che regnava tra i domestici e i sacerdoti del tempio.
Prima ancora che
entrassero nella stanza della matriarca, posta alla fine di un lungo corridoio,
udirono distintamente le sue urla lancinanti, e come aprirono la porta, un’anta
ciascuno, trovarono il letto circondato di persone; oltre a Masato, c’erano
anche Isnark, Zipherias e alcune levatrici.
Il volto di Nemys
era sfigurato dal dolore, le candide lenzuola erano sporche di sangue, e tutto
il suo corpo grondava di sudore.
«Che è successo?»
domandò Regis
«Ci sono
complicazioni!» rispose Masato «Dobbiamo procedere, subito!».
Tutto il personale
superfluo venne immediatamente buttato fuori, anche Zipherias, che non se ne
andò prima di aver deposto la sua spada sotto il materasso della matriarca, in
modo da essere presente, almeno con lo spirito, alla sua sovrana; le era stato
vicino per anni, proteggendola da tutto, e in un modo o nell’altro sarebbe
rimasto con lei fino alla fine.
Rimasero solamente
Isnark, Lsyn e Regis; Isnark, che oltre ad essere il principe era anche il
padre del bambino, si mise accanto alla compagna, stringendole forte la mano;
Lsyn si mise sul lato opposto, accanto ai macchinari, cercando a sua volta di
confortarla, parlandole e indicandole quando spingere.
Masato operava in
prima persona, e solo grazie al suo autocontrollo da soldato riuscì a non
svenire, ricordando forse il giorno della nascita di suo figlio, quando invece
era caduto come una pera matura prima ancora che avesse inizio l’operazione;
Regis era accanto a lui, pronto ad intervenire in ogni circostanza, già con in
mano il panno sterile nel quale avvolgere il bambino subito dopo che questo
fosse venuto al mondo.
I primi cinque
minuti passarono tutto sommato tranquilli, poi ebbe inizio la fase critica.
Nemys urlava da
fare paura, stringendo la mano di Isnark con forza tale da fargli vedere le
stelle.
«Fu, avanti!» le
diceva Masato «Non molli! Continui a spingere!»
«Pressione e
battito in aumento!» disse Regis guardando i monitor
«L’utero si sta
contraendo un’altra volta! Rischiamo di perderli entrambi! Nemys, so di
chiederle molto, ma deve spingere più forte!».
La matriarca
obbedì, mettendo tutta la forza possibile, ma ogni spinta comportava un
indicibile dolore.
«Ci siamo! Vedo la
testa! Non si arrenda!».
Passò qualche
istante; Nemys lanciò un gridò cento volte più forte e prolungato, a cui fece
eco, subito dopo, un vagito vigoroso.
«Ce l’ha fatta! È
nato!».
Regis passò subito
a Masato le forbici sterili e quanto necessario per tagliare il cordone
ombelicale, che fu rapidamente reciso.
Pochi secondi dopo
aver dato alla luce il suo bambino la matriarca cominciò subito a perdere le
forze, allentando la presa attorno alla mano di Isnark e lasciando andare il
braccio di Lsyn.
Il nuovo nato
venne lavato sommariamente, quindi avvolto nel panno bianco, che Masato depose
tra le braccia di Nemys.
«È una femmina».
Lei, piangendo di
gioia, la prese, guardandola in viso; era bella da togliere il fiato. Gli occhi
azzurri e i tratti del viso di una mamma, la pelle leggermente scura e le
labbra gentili dell’altra.
«Nilyan…».
Con le sue ultime
forze, la matriarca chiamò a sé Lsyn, mettendole la piccola in braccio.
«Crescila…
crescila meglio che puoi. Tu sei… sua madre…»
«Lo… lo farò…».
L’elfa si girò
quindi verso Isnark, che non riusciva a frenare le lacrime.
«Sono sicura… che
avrà il tuo stesso ardore… e la tua stessa grinta…»
«Nemys…»
«Non piangete… ve
ne prego… non voglio lacrime. Sapevamo che sarebbe accaduto… sono felice di
avervi potuti incontrare… e di avervi avuti al mio fianco…».
Chiamò quindi
Regis, che rimaneva in un angolo.
«Non… non esitare
mai… un grande futuro si sta per aprire davanti a te. E non dimenticare mai…
qual è la strada giusta».
L’umano restò
interdetto, non riuscendo a cogliere il significato di quelle parole, ma fece
comunque un cenno di assenso.
Nemys sorrise,
poi, rivolto il suo ultimo sguardo sorridente a Lsyn, chiuse gli occhi, cadendo
all’indietro sul cuscino; la sua mano, che stringeva quella di Isnark, perse
tutta la sua forza, cadendo inerme sulle lenzuola.
«Nemys!» disse il
principe «No!».
Tutti, anche Regis
e Masato, si lasciarono andare ad un pianto disperato; Lsyn cercava di
mostrarsi forte, e guardando il viso gentile della bambina che teneva fra le
braccia non riuscì a non sorridere, seppur leggermente, a sua volta.
Isnark invece
piangeva come mai nella sua vita, inginocchiato ai piedi del letto, stringendo
forte la mano della sua amata, fino a che, come d’incanto, il corpo della
matriarca venne circondato da una candida luce, per poi tramutarsi velocemente
in polvere dorata, che cominciò lentamente a scomparire, come inghiottita dal
tempo.
«Vi auguro tanta
felicità.» disse la voce echeggiante di Nemys «Il vostro viaggio è appena
cominciato.»
«E ora dove
andrai?» domandò Regis guardando quel pulviscolo iridescente
«Ho sperato a
lungo di poter diventare come voi, e conoscere le gioie e i dolori
dell’intraprendere il ciclo del karma. Forse un giorno, in un’altra vita, ci
incontreremo ancora. Fino ad allora… addio».
A quel punto,
tutto scomparve, e nella stanza rimase solamente il silenzio.
Appena la voce del parto avvenuto si era sparsa per i
vicoli di Kyradon, un foltissimo gruppo di persone si era riversato per le
strade, e nella piazza antistante al tempio si era formata rapidamente una
folla immensa, di migliaia e migliaia di persone.
Tutti attendevano
di sentire la lieta notizia, con trepidazione e in silenzio.
Poi, d’un tratto,
proprio mentre il sole cominciava la sua ascesa nel cielo, le porte del tempio
si aprirono, ed un gruppo di persone uscì all’esterno, scortato da un gruppo di
Celestiali, la guardia d’elite del Matriarcato, bardati a festa, ma con le
sciarpe nere del lutto che pendevano dal collo.
Al centro stava il
principe Isnark, che recava tra le braccia un fagotto bianco; alla sua destra
c’era l’umano giunto quella mattina, che alcuni avevano detto essere il
leggendario Regis, l’eroe degli umani, alla sua sinistra Lsyn, con il cappuccio
della tunica calato sulla testa.
Benagi e Zipherias
stavano due passi indietro, anche loro con indosso le uniformi della parata.
Il brusio sommesso
che aveva preceduto l’apertura delle porte si trasformò in un silenzio da
cimitero.
Isnark guardò un
momento la piazza, poi, sceso uno dei gradini, alzò sopra la propria testa il
fagotto che aveva in braccio, mostrando a tutti il volto, delicato e
scintillante di bellezza, di una bambina, e immediatamente tutti i presenti si
prostrarono, toccando il selciato con la fronte.
Qualcuno ebbe a
dire che nel momento stesso in cui la principessa fu mostrata al mondo un
raggio di luce più splendente degli altri, trafiggendo le nuvole, la illuminò,
e che nell’aria si diffuse un piacevolissimo odore di fiori di pesco.
La profezia si era
avverata; Nemys, matriarca di Uruk, incarnazione di Amon, aveva partorito una
figlia, a sua volta incarnazione del dio, la Prediletta. Un
giorno, forse non lontano, nelle sue mani avrebbe dimorato il destino del mondo
intero.
Come previsto da Regis, a metà del giorno successivo il
portale al centro delle rovine si aprì nuovamente, e stando alle parole
riportate sul libro sarebbe rimasto aperto fino a quando tutti coloro che
avevano viaggiato nel tempo non fossero tornati indietro.
Isnark e Lsyn
avevano seguito il loro amico, in modo da potergli dare l’ultimo saluto prima
della sua partenza.
Erik, proprio come
Regis aveva previsto, li aveva colti d’anticipo, e appena il varco si era
riaperto lo aveva immediatamente attraversato, prima ancora che il suo alter
ego e gli altri ritornassero indietro.
«E così, te ne
devi andare.» disse Lsyn
«Sì, qui il mio
tempo si è esaurito.»
«Finisce sempre
così.» disse Isnark «Piombi dal nulla, stravolgi un po’ di vite e poi sparisci.»
«Che vuoi farci?
Ci ho fatto l’abitudine.»
«Regis!» disse
Kawaguchi «Credo sia ora di andare.»
«Andate avanti,
arrivo subito».
Lsyn era molto
silenziosa, ed evitava di guardare il giovane guerriero, così Isnark, per
cercare di aiutarla, con una scusa si fece da parte, lasciandoli soli.
«Ti auguro di
trovare tutte le tue risposte.»
«Anch’io a te,
Lsyn. Come ha detto Nemys, il nostro viaggio è appena cominciato. E non sarà un
viaggio semplice.»
«Già. Soprattutto
per te, immagino.»
«Non meno del tuo.
Temo sarà difficile convincere il popolo di questo continente piegato dalla
paura, soprattutto gli umani, ad impugnare nuovamente le armi contro Lainay.»
«Forse non così
tanto.»
«In che senso?».
«Credo di sapere
quale tasto delle loro coscienze andare a toccare.»
«Davvero?».
Lsyn mostrò un
enigmatico sorriso.
«Lo sai, c’è un
luogo, a sud, che per gli esseri umani ha un grande valore simbolico; lo
chiamano, la Piana
della Libertà. Un tempo faceva parte dell’Impero, ora invece è sotto il
controllo di Normar. Al centro di quella pianura, conficcata nel terreno, c’è
una spada, e secondo la tradizione sei stato proprio tu a piantarla lì.»
«Io!?»
«Lainay, a quanto
ne so, sta cercando in tutti i modi di nascondere la sua esistenza, ma ad oggi
un gran numero di persone, tutti coloro che ancora si battono per la
liberazione dal suo dominio, vedono quel luogo come il simbolo della loro
indipendenza, e guardano ad esso sperando in un futuro libero da qualsiasi
invasore.»
«Beh. Interessante.»
«Come vedi, ci
sono ancora tanti guerrieri valorosi che non si sono arresi, e sono sicura che
presto o tardi il loro numero aumenterà.»
«Lo spero di
cuore.
Ora però devo
andare».
Di nuovo si
guardarono, a lungo, e intensamente, poi si scambiarono un ultimo bacio, quindi
Regis fece per attraversare il portale. All’ultimo momento, però, si fermò.
«Ah, quasi
dimenticavo.» e messa una mano nella tasca, ne prese fuori un curioso monile a
forma di anello legato ad una catenina d’argento «Ehi Lsyn!» disse lanciandolo
all’elfa «Prendi!».
Lei lo recuperò al
volo, guardandolo; non sapeva perché, ma avvertiva in esso uno strano calore,
un qualcosa che non le riusciva di capire.
«Che cos’è?»
«Il ricordo di una
persona cara.»
«Una… persona
cara?»
«Quando la
tempesta nel tuo cuore si sarà un po’ placata, vai al villaggio di Yamaura. Lì
troverai tutte le risposte. A presto, Lsyn!».
Lsyn e Isnark
seguirono Regis con lo sguardo fino a che non scomparve oltre la luce, che
subito dopo si spense, riportando tutto alla normalità.
«Ecco fatto.»
disse Isnark senza staccare gli occhi dall’arco «Se n’è andato.»
«Così sembra. Ma
la nostra missione è appena cominciata.»
«Ho parlato con i
sacerdoti. Sono tutti d’accordo sul fatto che sarebbe più saggio allontanare
Nilyan da Kyradon almeno per un po’.»
«Sono d’accordo.
Appena Lainay verrà a sapere della sua nascita, manderà sicuramente qualcuno ad
ucciderla.»
«Il problema è…
dove possiamo nasconderla?»
«Ci ho pensato a
lungo. La porterò con me a Sharilar. È vicino, e perciò facile da sorvegliare,
ma nel contempo è un ottimo posto dove nascondersi.»
«Non male come
idea. Io intanto comincerò ad organizzare le difese. Per adesso Normar è
tranquilla, ma non vi è alcun dubbio che riprenderà ad avanzare, una volta
consolidato il controllo dei suoi nuovi domini.»
«Non sarà
un’impresa facile. Per il momento sono ancora molto pochi i valorosidisposti a sfidare Normar.»
«Hai ragione.
Dobbiamo cercare degli altri alleati.»
«Ma dove?».
Isnark si passò una
mano sul mento, come se stesse meditando, poi si girò verso Lsyn con uno strano
sguardo di complicità.
«Hai mai sentito
parlare di Atlantis?».
Subito dopo essere tornati nel loro tempo, Regis e i
soldati alzarono, fra le macerie di ciò che restava dell’accampamento, una
bandiera bianca, invitando gli elfi ad avvicinarsi per discutere di una cosa
importante.
Qualche ora dopo
si presentò alla palizzata una piccola delegazione, guidata dal comandante del
reggimento incaricato di stanare gli aggressori, ai quali Regis mise davanti
agli occhi il lasciapassare ottenuto da Lainay dopo la sconfitta da lei subita
ad Uruk, sostenendo però che i proprietari di quel documento erano Kawaguchi e
i suoi uomini.
L’ufficiale lesse
con attenzione, rivolgendo di tanto in tanto delle occhiatacce a Regis, ma poi
fu costretto ad ammettere che non vi era nulla da fare.
«Ashi, nimah!»
disse ai suoi uomini, che subito abbassarono le armi.
Su consiglio di
Regis le armi e l’equipaggiamento che i soldati avevano portato dal loro mondo
vennero seppelliti, quindi gli uomini, indossati abiti comuni ricevuti nel
futuro dagli abitanti di Kyradon, si prepararono a partire.
«Sicuro di non
voler venire con noi?» domandò Kotaro rivolto a Regis
«No, vi
ringrazio.» rispose lui assicurandosi la spada dietro la schiena «Ormai il mio
viaggio è quasi alla fine.»
«Ma come farai
senza quel lasciapassare?»
«Posso farne
benissimo a meno. Gli elfi di qui mi conoscono abbastanza bene da sapere che
con me non si scherza. Non mi torceranno un capello.»
«Ma allora… perché
hai preteso che ti venisse consegnato?»
«Era da un po’ che
sognavo di sfottere quell’esaltata. Ho colto la palla al balzo.»
«Tipico di te.»
disse Kawaguchi porgendogli la mano «È stato un piacere.»
«Anche per me»
rispose Regis stringendola «Procedete a sud. Entro sei o sette giorni
raggiungerete il fiume che separa il dominio degli elfi da quello degli uomini.
Una volta attraversatolo sarete al sicuro.»
«Grazie
dell’informazione.»
«Figurati. E
adesso che farete?»
«Beh, se quello
che ha detto Peter è vero, ci sono ancora molti portali sparsi qua e là per
questo mondo. Andremo alla loro ricerca, e chissà che non riusciremo a trovare
un modo per tornare indietro.»
«Lo spero. In tal
caso, buona fortuna.»
«Anche a te».
Il capitano si
calò sulla testa il cappuccio del suo mantello, trasformandosi in un semplice
viaggiatore, quindi lui e tutti i suoi uomini cominciarono la lunga marcia
verso sud. Regis li seguì con lo sguardo fino a che non li vide sparire nella
nebbia, quindi, recuperata la sua bisaccia, si mise in cammino nella direzione
opposta.
Capitolo 32 *** Ritorno al Futuro - La Rimembranza (Prima Parte) ***
29
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Erik non lo avrebbe mai ammesso, ma la vicinanza di Sanae
rendeva il suo viaggio, e le emozioni che esso portava con sé, molto meno
opprimenti.
Quella ragazza, con
la sua ingenuità, la sua voglia di apprendere, e la capacità di vedere il bello
in qualsiasi cosa, anche la più insignificante, era come un sole personale che
rischiarava la sua anima, rimasta al buio per troppo tempo.
Questo, però, non
era comunque sufficiente a distoglierlo dal suo obiettivo; malgrado
la lunga sosta al villaggio della giovane Inu la
distanza che lo separava da Toshio non era aumentata di molto, segno che anche
lui doveva essersi visto costretto ad una lunga deviazione.
Dopo aver attraversato
una zona pianeggiante, ai piedi di un’alta catena montuosa, la piccola comitiva
si era avventurata in una foresta piuttosto spettrale, in cui regnava una fitta
nebbia che rendeva difficili i movimenti.
Erik camminava
davanti a tutti, Sanae e Lily lo seguivano di qualche
passo, quest’ultima seduta sulla spalla della ragazze; non era tranquillo:
avvertiva qualcosa di strano e minaccioso nell’aria.
Ormai sapeva
abbastanza cose di quel mondo da comprendere che attraversare un territorio
degli elfi con una fata e una Inu
al seguito non poteva non attirare l’attenzione, e da che erano entrati nella
foresta le vibrazioni si erano fatte particolarmente forti, segno che c’era
qualcuno pronto a saltargli addosso in qualsiasi occasione.
“Non mi piace quest’atmosfera.
È carica di minaccia.”
«Erik.» disse
Sanae, che da un po’ di tempo aveva preso l’abitudine di chiamarlo per nome
«C’è forse qualche problema?».
Non fece in tempo
a finire di parlare che Erik, messosi davanti a lei, intercettò con due dita
della mano destra uno shuriken diretto nella sua
direzione, e un istante dopo da uno degli alberi più alti saltò giù un elfo
completamente nascosto da una veste nera, con un cappuccio in testa e il bavero
alzato.
Erik avrebbe
impiegato non meno di un paio di secondi a farlo secco con un colpo di spada,
ma per un motivo che neppure lui riuscì a spiegarsi evitò di invocare la sua
arma, optando invece per uno scontro a mani nude, perciò, schivato facilmente
il kunai che l’aggressore utilizzava a mo di coltello,
lo stese senza problemi con il colpo di taglio al collo.
«State bene?»
domandò a pericolo cessato
«Sì, tutto bene.»
rispose Sanae.
Passarono alcuni
secondi, poi, da nord, giunsero urla strazianti e l’inconfondibile rumore di
armi da fuoco, assolutamente fuori luogo in un mondo come quello.
«Che sta
succedendo?» domandò Lily.
Erik, avvertendo
la presenza di Toshio nella stessa direzione dalla quale giungevano le
raffiche, si girò verso Lily e Sanae, circondandole in una
piccola cupola rosso brillante.
«Quella
cupola vi rende invisibili. State al suo interno e sarete al sicuro.»
«Erik, tu dove
vai?» domandò la
Inu
«Io ho una
questione da sistemare lassù.» rispose il ragazzo mentre dietro la schiena
comparivano le sue magnifiche ali nere
«Aspetta, è
pericoloso.»
«Me
la caverò. Voi aspettatemi qui».
Alzatosi in volo,
il giovane si portò facilmente al di sopra della
nebbia, che arrivava a lambire le fronde più alte degli alberi, e seguendo
senza tregua sia il rumore della battaglia sia il filo che lo legava a Toshio
giunse in una piccola radura, al centro della quale, tutto intorno a delle
rovine, si trovava un accampamento di fortuna, delimitato da una palizzata
ormai quasi interamente crollata.
Al centro,
separato da tutti, c’era lui, il suo alter-ego, che combatteva con furia ceca
anche contro cinque avversari contemporaneamente.
Anche se
desiderava ardentemente la propria vendetta non poteva
assolutamente aggredirlo in un momento simile, come non poteva tirarlo fuori
dai guai ogni volta che si trovava in difficoltà; stavolta, avrebbe dovuto
cavarsela da solo. E comunque, non erano certo quelli gli avversari in grado di
arrecargli noie.
Insieme a lui c’era un gruppo di uomini in uniforme militare che
imbracciavano delle mitragliatrici e cercavano allo stesso modo di difendersi
dagli assalti degli elfi; sicuramente non facevano parte di quel mondo, e anzi,
probabilmente venivano proprio dal suo.
D’un tratto uno
degli assedianti, probabilmente uno stregone, lanciò un incantesimo di fuoco
contro uno dei soldati, in piedi davanti ad una specie di altare, mancandolo di
pochissimo; fu l’altare ad andare in mille pezzi, e subito dopo un rumore
assordante simile ad un ronzio riempì l’intera zona.
L’arco al centro
cominciò a colorarsi di rosso, poi si produsse una luce fortissima, ed Erik
ebbe la sgradevolissima sensazione di sentirsi attirato inesorabilmente dalla
stessa.
«Ma cosa…» disse tentando di resistere, ma in pochi secondi
la luce lo travolse, accecandolo.
Erik non riuscì a capire bene cosa stesse succedendo;
probabilmente, aveva anche perso i sensi.
Quando gli riuscì di riaprire gli occhi si ritrovò disteso in un luogo
completamente diverso; sembrava una terrazza, la terrazza a semicerchio di un
grande edificio, forse un castello.
La nebbia si era
diradata, e a giudicare dal bagliore che lo colpì in pieno non appena provò a
sollevare lo sguardo doveva brillare un bel sole,
caldo e piacevole.
Alzatosi, rimase
un momento immobile ad osservare la bellissima città
che si stagliava davanti ai suoi occhi, tutta raccolta e arroccata sulla
piccola collina che sorgeva al centro di una grande, grandissima pianura,
circondata fa foreste e montagne.
Le case erano bianche come il latte, e regnava una grande vitalità; le
strade, popolate unicamente di elfi, erano piene di vita, dalla piazza del
mercato ai vicoli più stretti.
C’erano tre cinte
murarie, tutte di forma ottagonale, che dividevano il centro urbano in
altrettante parti; la più esterna sembrava essere abitata dalla gente comune,
quella al centro dalle famiglie abbienti; e infine c’era il centro, il punto
più alto, dove sorgeva il castello, oltre ad un complesso di edifici di chiara
natura religiosa e ad una grande torre cilindrica che
sapeva molto di tana dello studioso.
«Ma dove accidenti
sono finito?».
Erik a quel punto
si girò, entrando nella camera alla quale era collegata la terrazza; sembrava
una specie di studio, c’erano molte librerie piene di antichi volumi e una
possente scrivania in legno lucido con un’elegante
poltrona; al centro un tavolino circolare, con sopra un vaso pieno di fiori
freschi.
Stava ancora
cercando di capire cosa gli fosse accaduto, quando avvertì una sensazione
famigliare; la presenza, vicinissima, di suoi simili, di molti suoi simili.
Neppure al palazzo
dell’Imperatore, dove pure aveva vissuto per un periodo di
tempo abbastanza lungo, ricordava di aver mai percepito così tanti
Rinnegati.
Che fosse capitato
nella patria della sua gente in quel mondo, nel luogo da essi stessi fondato
per vivere in pace, lontani dall’odio e dalla diffidenza del resto del mondo?
Lo stupore per lui
fu tale che, nel compiere un movimento brusco, urtò accidentalmente il vaso,
che cadendo si ruppe in centinaia di pezzi; il rumore che ne derivò allertò
qualcuno dall’altra parte della porta d’ingresso.
«Nobile Isnark?» domandò una gentile voce femminile «Cosa fate ancora qui? La Matriarca vi stava
cercando».
Prima che Erik
potesse dire o fare qualunque cosa l’uscio si aprì, e nella stanza entrò una
giovane elfa vestita come una chierica e coi capelli,
di un rosso accesso, raccolti in una bellissima crocchia dietro la nuca.
Portava un nastro
giallo al collo e un pendente grosso come un pugno color sangue che richiamava
vagamente la forma di un cuore.
I due si
osservarono per interminabili secondi, lui disorientato lei sconcertata, ma
appena Erik cercò di sollevare un braccio, dicendole di non preoccuparsi,
quella si mise ad urlare con tutta la sua voce.
«Aiuto!» gridò
uscendo nel corridoio «C’è qualcuno nello studio del principe!»
«No, aspetta!»
cercò di dire Erik, ma prima che potesse fare qualcosa
due guardie armate di lancia si pararono dinnanzi a lui, aggredendolo.
Il giovane si
liberò di entrambe in pochi secondi, tramortendole, ma a giudicare dalle grida e dal rumore di passi di corsa quella poteva essere
solo l’avanguardia.
Erik pensò
dapprima di usare le proprie ali per andarsene via, ma appena cercò di evocarle
si accorse di non esserne in grado, accorgendosi quasi
subito della presenza di una sorta di campo di energia che limitava, e di
molto, i suoi poteri magici.
«Che diavolo sta
succedendo qui?».
Una cosa però la
sapeva; non voleva fare del male a degli innocenti, anche se quelli cercavano
di fargli la pelle, quindi, gambe in spalla, uscì velocemente dallo studio,
incamminandosi lungo il corridoio dalla parte opposta a quella da cui
giungevano le voci delle guardie.
Quel posto era
davvero immenso, e perdersi era di una facilità sconcertante; volendo fare
tutto il possibile per evitare lo scontro, Erik, ogni qualvolta si trovava a tu
per tu con una pattuglia o ne avvertiva la vicinanza, o tornava sui suoi passi
o prendeva la prima diramazione che gli capitava a portata di mano, e solo se
strettamente necessario si adoperava con un paio di calci per mettere a nanna i
suoi inseguitori.
Attraversò molti
corridoi e un numero imprecisato di stanze, sempre con quel piccolo esercito
alle calcagna, fino a ritrovarsi, valicato un grande arco coperto da un tessuto
leggero, su una sorta di gigantesco ponte sospeso che collegava fra di loro le due guglie più alte del castello; doveva
essere lungo almeno venti metri e largo circa sei, con eleganti parapetti sormontati
da statue di angeli recanti spade, lance o archi, e grandi vasi di pietra a
forma di coppa pieni di fiori.
Da lì sopra si
aveva una panoramica incredibile della città quasi a 360° e soffiava un vento
fortissimo; del tutto disinteressato al panorama Erik si mise in fretta a
cercare una possibile soluzione, quando, quasi per caso, si accorse che la
fonte del campo di distorsione veniva proprio dalla torre di fronte a lui, più
precisamente dall’ultimo piano.
«Allora è lì che
ti nascondi, maledetto!».
Ora era chiaro ciò
che doveva fare: raggiungere la fonte dei suoi problemi e metterla
a tacere, di modo da potersene finalmente andare da quel posto che, per
quanto bello, era decisamente troppo affollato e inospitale. Il bello della
cosa era che non doveva neanche preoccuparsi eccessivamente della guarnigione, visto che prima di uscire sulla terrazza aveva bloccato
agilmente un grosso portone usando un candelabro d’argento come sbarra,
risolvendo il problema almeno per un po’.
Era quasi giunto a
metà del ponte quando dall’arco di fronte a lui uscì un bestione di elfo alto
più di due metri con la pelle scurissima, occhi scintillanti e lunghi capelli
neri, raccolti sui lati in curiose treccine.
Anche lui, tutti i
soldati che il ragazzo si era visto costretto a
seminare, vestiva di azzurro, e portava al collo quel monile rosso sangue.
La spada che
stringeva nella mano, per quanto sottile, doveva pesare diversi chili,
abbastanza da renderne l’utilizzo impossibile per qualunque persona di corporatura media e privo dei suoi muscoli ridondanti.
Una cosa che Erik
notò subito in quello che si accingeva ad essere il
suo nuovo avversario era la sua camminata, claudicante verso sinistra:
quell’elfo era zoppo.
«Mi dispiace, di
qua non si passa.» disse quando furono faccia a faccia
«Amico, non sono
in cerca di guai.»
«Avresti dovuto
pensarci prima di provocare tutto questo trambusto».
L’elfo partì
all’attacco, rivelando una velocità piuttosto inusuale
per le sue condizioni fisiche, ma Erik non ebbe troppi problemi a schivare il
suo colpo di spada, che risultò così potente da mandare in frantumi uno dei
vasi come fosse stato di marzapane.
“Il tipo non
scherza”.
Pur trattandosi di
un avversario di grande potenza fisica, del quale Erik riconosceva
a apprezzava il grande valore, per la propria regola di principio il ragazzo
non poteva misurarsi con chi non era al suo livello, quindi, schivati un altro
paio di colpi, sgambettò l’elfo, sicuro che nelle sue condizioni gli ci sarebbe
voluto un bel po’ per rimettersi in piedi, quindi lo abbandonò, tornando a
puntare la sorgente del campo energetico.
«Aspetta, vigliacco!» ma fu tutto inutile.
Dopo poco, le
guardie che dall’inizio davano la caccia all’intruso riuscirono a sfondare la
porta bloccata e a raggiungere la terrazza, proprio quando il grosso elfo
riusciva a rialzarsi, puntandosi a terra con la spada.
«Lord
Zipherias! State bene?»
«Non
pensate a me, raggiungetelo! Sta andando verso gli alloggi della Matriarca!».
Erik continuò a correre a perdifiato lungo i corridoi, le
stanze e le scale a chiocciola della costruzione, fino a raggiungere un
lunghissimo corridoio molto più sgargiante degli altri, con una volta alta e
maestosa, da cui pendevano grandi lampadari in cristallo, drappi
multicolore e quadri pregiati affissi alle pareti e una soffice moquette
rossa.
Dalla parte
opposta alla rampa di scale c’erano due grandi portoni
che sembravano fatti d’oro massiccio, decorati con stupendi motivi floreali, ed
era proprio da lì che Erik sentiva giungere la concentrazione massima di potere
magico; chiunque fosse a metterlo in scacco e a prendersi gioco di lui, si
trovava lì dentro.
Deciso più che mai
a mettere fine a quello scherzo di pessimo gusto corse gli ultimi metri che lo
separavano dal suo obiettivo e spalancò violentemente le porte, girandosi
subito a chiuderle, e non appena si girò per guardare dove fosse capitato restò comprensibilmente sorpreso.
Sembrava la stanza
da letto di un grande hotel: tappeti pregiati, un tavolino circolare al centro,
circondato da quattro sedie di vimini, divanetti lungo i lati, due armadi,
lampadario in vetro e oro, un bell’orologio a pendolo, tre grandi finestre, una
delle quali immetteva in una terrazza, e un lussuoso
letto a baldacchino.
Di nemici, però,
neanche l’ombra, almeno in apparenza.
Muovendosi
cautamente, Erik oltrepassò la tenda della finestra più grande, uscendo nella
terrazza, posta così in alto che sembrava quasi di toccare le nuvole.
Al centro, di
spalle all’ingresso, proprio come aveva previsto, c’era qualcuno, una figura
alta e snella, completamente nascosta da un grande mantello bianco e un
cappuccio sollevato sulla testa; ai suoi piedi un circolo magico, che brillava
di una luce rosata.
Doveva trattarsi
quasi sicuramente di una donna, e non sembrava essersi accorta dell’arrivo di
qualcuno, ma Erik era sicuro che stesse solamente fingendo, quindi,
materializzata la propria spada, gliela puntò contro.
«Voltati
lentamente.» le disse.
Lei dapprima non
diede segno di aver sentito, poi il suo circolo magico cominciò a
rimpicciolirsi fino a scomparire, e contemporaneamente Erik si sentì tornare al
pieno delle sue forze.
«Ero certa che
avresti capito.» disse con una voce candida come acqua di fonte «Ti stavo
aspettando».
Giratasi, si
abbassò il cappuccio, rivelando il volto meraviglioso di una giovane ragazza
dai lunghi capelli bianchi, lisci e morbidi anche solo alla vista, e grandi
occhi azzurri; nel momento esatto in cui vi posò lo sguardo, Erik avvertì come
un fischio alle orecchie, e per un attimo gli sembrò di vedere un altro volto
sovrapposto al suo, un volto famigliare che però non gli riuscì di identificare.
Il suo ventre, per
quanto ben nascosto dalla veste, era estremamente
pronunciato, chiaro segno di una gravidanza avanzata.
«Sono contenta di
non averti sopravvalutato.»
«Chi sei tu?»
«Qui
mi chiamano la Matriarca. Sono
la guida di questo Paese. Ma tu puoi chiamarmi Nemys.»
«Nemys!?» ripeté incredulo Erik.
Quel nome per
molti poteva sembrare un nome come un altro, ma per lui aveva un significato
ben preciso; anche i Rinnegati avevano una loro lingua, una lingua ancestrale dalle origini sconosciute, e per chi la conosceva
Nemys voleva dire Speranza.
Ma…
non era possibile.
Per niente al
mondo la persona dinnanzi a lui poteva essere una
Rinnegata; il suo stesso aspetto non si confaceva per nulla ad un membro della
sua razza. Erik decise di sincerarsene, richiamando a sé lo Sguardo
Onniveggente, ma quando cercò di guardare nel profondo di quella ragazza una forza minacciosa lo ricacciò indietro,
minacciando oltretutto di accecarlo.
«Ma cosa…».
Mai una volta si
era trovato di fronte ad una simile situazione; non vi
era nulla, nulla al mondo che lo Sguardo Onniveggente dei Rinnegati non potesse
vedere.
Esisteva solo
un’eccezione, ed il semplice pensarci fu più che
sufficiente per far tremare Erik come un bambino cattivo di fronte alla
maestra; c’era una sola razza, di tutte quelle che popolavano l’universo, in
grado di eludere lo Sguardo Onniveggente.
«No… non è
possibile…»
«So a cosa stai
pensando.» disse Nemys «Sì, sono una Rinnegata, e sì, sono come te».
La spada che Erik
teneva ancora in mano scomparve, a testimonianza del suo sgomento; per
mantenere quell’arma in forma fisica il suo possessore necessitava
di una grande concentrazione, e al momento il giovane era decisamente
troppo sconvolto anche solo per pensare di avercela.
In quello stesso
momento la porta della stanza venne spalancato e in
pochi secondi le guardie al seguito di Zipherias
uscirono in terrazza con le armi in pugno.
«Milady!» disse il
gigante «Fate attenzione!»
«Fermi!
È tutto a posto. È un amico».
I soldati si
guardarono tra di loro allibiti.
«Un… amico!?» balbettò Zipherias
«Attendevo
il suo arrivo da un momento all’altro. A quanto pare si era perso nel castello.»
«Ma… ha attaccato i miei uomini.»
«A
dire il vero sono stati loro ad attaccare lui. Lui non ha fatto altro che
difendersi.»
«Ma… ecco…».
Nemys assunse di
colpo un’espressione diversa, come di ammonimento.
«Dubiti delle mie
parole?»
«Ecco…» disse il
gigante, che subito dopo si inginocchiò, assieme a tutti
gli altri soldati «No di certo, milady.»
«Bene.» rispose
lei tornando nuovamente a sorridere «Ora, per favore,
lasciateci soli. Io e il mio ospite abbiamo molto di cui parlare.»
«Come… come
desiderate».
Zipherias fece un cenno ai suoi uomini, che velocemente
lasciarono la stanza.
«Milady, col
vostro permesso io mi congedo.»
«Va’ pure. E chiamami quando sarà ora della cerimonia.»
«Ai vostri
ordini».
L’elfo lanciò a
Erik un’ultima occhiataccia, come ad avvertirlo che lo teneva d’occhio, quindi
se ne andò a sua volta.
«Ti domando scusa
per il brusco trattamento.» disse Nemys accompagnando Erik all’interno «So bene
che hai molte domande da farmi.»
«Decisamente.»
«E non credo di
sbagliare indovinando quale sia in cima alla lista.»
«Che cosa sei tu?».
Lei si sedette su
un divanetto, poggiando le mani sulle ginocchia.
«Te l’ho detto, io sono come te. Sono nata come un Rinnegato, ma ho
il corpo e, forse, l’anima di un essere vivente.»
«Mi
sembra incredibile. Credevo di essere l’unico.»
«Un
po’ egocentrico come pensiero. Ma ti stupirà sapere
che non sei poi molto lontano dalla realtà. Io credo che anche nella più
ottimistica delle previsioni, il nostro numero non superi il centinaio di individui.»
«In questo mondo?»
«In questo universo. Probabilmente io e te
siamo i soli di questo mondo.
Ora che ci penso,
non ti ho neanche chiesto il tuo nome. Dopotutto, non posso leggerlo nel tuo
spirito, dato che come hai visto tu stesso la nostra
essenza è insondabile.»
«Io sono Erik.»
«Erik.
Proprio come immaginavo.»
«Ora, se non ti
spiace, potresti dirmi che posto è questo?».
L’elfa si concesse
una pausa, chiuse un momento gli occhi e respirò profondamente un paio di
volte.
«Questa
è la città di Kyradon, capitale di Uruk, il Matriarcato che io governo. Non è
molto distante dalla foresta in cui ti trovavi prima di arrivare qui. Il problema…»
«Il problema?»
«Il problema è che
questo non è il tuo tempo».
Erik, che già era
comprensibilmente sconvolto, lo divenne ancor di più nel sentire una tale
affermazione; che diavolo voleva significare?
«La luce dalla
quale sei stato investito ti ha condotto cinquant’anni avanti nel tempo.»
«Mi ha portato…
nel futuro!?»
«A quanto pare.»
«E per quale
motivo la cosa non sembra sorprenderti?»
«Perché…» rispose
lei sorridendo «L’ho sognato.»
«L’hai
sognato? Che significa?»
«Ho
sognato il tuo arrivo. Il vostro arrivo. A quanto pare ho questa specie di
dono, grazie al quale posso prevedere determinati eventi futuri attraverso i
sogni. Ero a conoscenza di ciò che sarebbe avvenuto già da alcuni mesi.
Malgrado sia colpita nel trovarmi di fronte alla personificazione stessa di un
viaggio nel tempo, la consapevolezza che tale evento
fosse destinato a compiersi era presente in me da molto tempo.»
«Il nostro arrivo!? Quindi… non sono il solo!»
«No.
Qui nel futuro ci sono anche un manipolo di esseri
umani venuti dal tuo mondo e il tuo creatore, Regis. Sono alle rovine nella
foresta, e si saranno anche già svegliati.»
«Riuscirò a
tornare indietro?»
«Ancora non lo so,
ma credo di sì, visto che nel mio sogno ho visto anche
la vostra partenza.»
«Hai
detto che gli altri sono alle rovine. Perché io invece mi sono ritrovato qui?»
«Ti
ci ho portato io. Quando hai attraversato il portale, il tuo corpo si è
trasformato in pura energia; nel momento in cui questa energia si è manifestata
nel nostro tempo, ho usato i miei poteri per condurla qui, facendoti riprendere
corpo all’interno del palazzo.»
«E per quale
motivo lo avresti fatto?»
«A
dire il vero ce ne sono due. Il primo è che desideravo incontrare finalmente
qualcuno simile a me in tutto e per tutto.»
«Se avevi tutta
questa fretta di conoscermi, perché non mi hai trasportato direttamente
quassù?».
Nuovamente, Nemys
sorrise.
«Diciamo
che volevo metterti alla prova. È stato un piccolo esame, giusto per saggiare
le tue capacità. Ero sicura che saresti arrivato fino a
me.»
«Non
è stato poi così difficile individuare la sorgente di un potere tanto
singolare. Ma il tuo piano includeva anche le guardie che sono stato costretto
a trascinarmi appresso?»
«Sì
e no. Speravo di vederti in azione, ma non volevo che la cosa degenerasse fino
a questo punto.»
«E se io avessi
ucciso alcuni di quegli elfi?»
«Non lo avresti
mai fatto.»
«Come fai ad esserne tanto sicura?»
«Perché l’ho visto
nel mio sogno».
Erik era confuso,
e non sapeva più cosa pensare.
«Tu non sembri affatto una Rinnegata.»
«Lo
so. Tutti quelli che sanno la verità sulla mia vera natura hanno detto la
stessa cosa.»
«E dunque?»
«L’elfa
che mi ha generato era… speciale. A differenza della maggior parte delle
persone, che nascondono il loro lato più buio, lei nascondeva quello più…
umano, se così vogliamo dire».
Solo in quel
momento Erik notò una certa somiglianza tra Nemys e un’altra elfa, vista
solamente di sfuggita ormai più di tre mesi prima, nei giorni del torneo.
«Quella
Spia… ora ricordo. Allora è lei il tuo creatore.»
«Allora hai
conosciuto Lsyn.»
«Non
di persona. Ma ho assistito al suo scontro con Regis.»
«Ah.
Gran bella battaglia. A quel tempo eravamo ancora un’unica entità. Ricordo
ancora ogni singolo istante di quello scontro. Penso che quella sia stata la
prima e unica volta che Lsyn ha mostrato una parte del suo vero essere senza
vergogna e senza timore.»
«Può
darsi. Ma ora che abbiamo chiarito il primo dei motivi
per i quali mi hai voluto qui, gradirei passare al successivo. Sai, ho fretta
di tornare indietro».
Qualche istante
dopo qualcuno bussò alla porta, e da dietro l’uscio riecheggiò, nuovamente, la
voce di Zipherias.
«Milady.» disse
senza entrare «È l’ora.»
«Va’ bene, grazie. Arrivo subito».
Nemys a quel punto
si alzò, si tolse il mantello che ancora indossava e lo sostituì con un altro
più appariscente, decorato con alcune rifiniture in oro e senza cappuccio,
quindi, tornata da Erik, gli porse la mano.
«Vieni con me.»
«E dove?»
«A
scoprire il secondo motivo. E a ritrovare una parte di te stesso».
Una parte di lui stesso?
Cosa
voleva dire quella frase? Erik sapeva di non essere perfetto, ma d’altra
parte credeva di sapere tutto di sé, o almeno quello che aveva
bisogno di sapere.
E poi, alla fine
di tutto, per quale motivo stava dando tanta confidenza ad
una perfetta estranea?
La verità è che
per una ragione a lui ignota la sola figura di Nemys esercitava su di lui
un’attrazione irresistibile, un senso di appartenenza e di fratellanza che li legava inesorabilmente. Per non parlare poi dell’altra
sensazione, quella che lo spingeva a scorgere sempre il medesimo volto sotto a
quello della matriarca, e anche se quella visione non durava mai che qualche istante.
Zipherias restò visibilmente scocciato, per non dire
adirato, nel vedere Erik uscire dalla camera al seguito di Nemys,
ma ogni suo possibile commento venne messo a tacere sul nascere da un
nuovo sguardo ammonitorio della matriarca.
I tre, grazie ad
un rudimentale montacarichi che funzionava sfruttando il sistema dei
contrappesi, regolabili direttamente dalla cabina, scesero fino al pianterreno,
raggiungendo, tramite una serie di corridoi raggiunsero
una stanzetta non troppo grande che Erik intuì fare parte del tempio attiguo al
castello, almeno a giudicare da quell’odore particolare che accomuna tutti i
luoghi sacri.
Qui Zipherias prese nuovamente congedo, non prima di aver
lanciato la solita occhiataccia. Appena furono rimasti soli, Nemys indicò a
Erik una porticina opposta all’entrata.
«Esci
da lì e raggiungi la basilica. Io arriverò tra qualche minuto. Per sicurezza
rimani sotto il porticato laterale, giusto per non attirare troppo l’attenzione».
Il ragazzo obbedì,
e aperta la porta si ritrovò direttamente nell’interno dell’edificio sacro,
dove già si era radunata una grande folla per assistere a quello che aveva
tutta l’aria di essere un rito molto importante.
L’interno in sé
ricordava molto una chiesa cristiana, con statue, mosaici, immagini sacre e
vetri colorati; due lunghe file di panche ricolme di fedeli formavano un
corridoio che andava dal portone d’ingresso fino al coro con l’altare maggiore,
separato dal resto da una bassa cancellata di ferro, davanti alla quale stavano
sei guardie armate di lance e scudi rotondi.
C’erano anche due
grandi balconate laterali, alle quali si accedeva tramite delle piccole rampe a
chiocciola, sorretta da belle colonne corinzie, e fu proprio dietro ad una di
queste colonne che Erik si acquattò, rendendosi invisibile al resto dei
presenti. Da lì aveva una buona vista sull’altare, anch’esso decorato con
eleganti bassorilievi, posto più in alto rispetto al pavimento e circondato da
sei uomini, tre per lato, ricoperti da abiti ecclesiastici e con
in mano degli strani strumenti musicali a cui erano attaccate una decina
di campanelle.
Come promesso,
dopo una decina di minuti, la matriarca uscì, accompagnata da un seguito di sei
sacerdotesse e dal canto, sollevatosi ad un cenno, dei
fedeli e dei sacerdoti, che veniva accompagnato dal suono, ritmico e
incessante, delle campanelle.
Erik non riusciva
a capire bene le parole della canzone, piuttosto ritmica e ripetitiva, ma
avevano a che fare con la resurrezione, la redenzione e la purificazione.
Nemys passò il
cancelletto, portandosi davanti all’altare, le altre donne invece continuarono
a salire fino al punto più alto, mettendosi a loro volta a cantare.
Trascorsero alcuni
secondi, poi, dal fondo della sala, scortato da due soldati, uscì una giovane elfa
vestita interamente con strani abiti grigi, dai lunghi strascichi; Erik non
faticò a riconoscere in lei una Rinnegata, e si domandava cosa mai potesse
essere quel rito di cui sembrava essere protagonista.
La donna camminò,
lentamente e con sguardo basso, fino al cancello, attraverso il quale venne fatta passare, salì alcuni gradini quindi, giunta
davanti a Nemys, si inginocchiò; contemporaneamente la canzone cessò, mentre il
suono dei campanelli si fece più forte e concitato.
Nemys allargò le
braccia, alzando gli occhi verso l’alto, ed Erik poté percepire un grande
potere magico che andava addensandosi attorno al suo corpo, concentrandosi
soprattutto sulle sue mani; le stesse mani furono poste dopo poco sul capo
della Rinnegata in atto di benedizione, e quasi subito una
luce bianco splendente circondò tutto il suo corpo.
Erik avvertì
qualcosa, come una voce nell’orecchio, e obbedendo al suo richiamo ricorse allo
Sguardo Onniveggente, focalizzandosi sulla Rinnegata, e assistendo così
all’evento più incredibile di tutta la sua vita.
Il nucleo oscuro
che compariva all’interno di quell’elfa cominciò lentamente a dissolversi,
venendo come inglobato dalla luce.
Lo stupore che
provò era impossibile da descrivere; quasi non riusciva a respirare mentre
vedeva quella specie di cuore pulsante farsi sempre più piccolo, senza tuttavia
rallentare il proprio battito; contemporaneamente, anche il corpo della
Rinnegata, inizialmente composto, come quello di tutti i suoi simili, di
semplice energia, prese a trasformarsi, venendo
sostituito da tessuto vivente.
In poco più di un
minuto la sfera era completamente scomparsa, e al suo posto aveva preso vita
uno spirito del tutto umano, che pur conservando in minima parte la stessa
energia oscura presente prima all’interno del nucleo, rispettando l’eterno
equilibrio luce/ombra che sta alla base di ogni anima,
dell’essenza dei Rinnegati non aveva decisamente più nulla.
Era… divenuta
umana, in tutto e per tutto.
Quella era la
realizzazione di un sogno che Erik portava dentro di sé fin dalla sua nascita:
incontrare qualcuno in grado di restituire ai Rinnegati una vita normale, da
esseri viventi.
Tanto a lungo
aveva sperato di potere un giorno giungere ad un
simile traguardo, un traguardo precluso persino ad uno come lui, che pure
poteva contare su di un potere quasi illimitato.
Doveva sapere.
Doveva sapere assolutamente come faceva a fare una
cosa del genere.
Appena finita la cerimonia attese con ansia sempre più forte di
ritornare nelle stanze private della matriarca dove rimasero di nuovo soli.
«Come hai fatto?»
«È il mio potere.»
rispose lei rimettendosi gli abiti che aveva nel
momento in cui si erano incontrati «Lo sai vero? Ogni Rinnegato viene al mondo
dotato di un potere tutto suo. C’è chi controlla gli elementi, chi sviluppa una grande forza fisica, chi risulta in grado di
duplicarsi, e così via. Il mio mi permette di dare un corpo ed
uno spirito a tutti i Rinnegati che siano stati generati dagli elfi.»
«E quante… quante
volte lo hai fatto?»
«Diverse
migliaia. Tutti quelli che hai visto indossare il pendente rosso
un tempo erano Rinnegati.»
«Non
posso… non posso crederci. Se ripenso a quanto a lungo
ho aspettato di conoscere una persona capace di compiere un tale miracolo.»
«Perché, tu non ne
sei in grado?» domandò Nemys con un’espressione enigmatica.
Erik sobbalzò,
avvertendo all’improvviso una sensazione molto sgradevole, come se avesse preso
la scossa.
«Che… che vuoi
dire?»
«Tu
possiedi il potere supremo. Il Μένος
Aδηλος.»
«E tu… tu come lo
sai?»
«L’ho
visto. Nel mio sogno. Il Μένος Aδηλος è la forza per eccellenza,
la massima quantità di potere magico alla quale può aspirare un essere vivente.»
«Ma è un potere oscuro.» replicò Erik sdegnando sé
stesso
«Questo non vuol dire che non possa essere usato per una giusta causa».
Lo stesso fischio di pochi minuti prima riecheggiò ancora nelle orecchie
di Erik, stavolta più forte e prolungato, e non appena il ragazzo girò gli
occhi verso Nemysvide,
ancora, quell’altro volto. Di colpo si sentì male, a disagio, come se un non
meglio identificato ricordo cercasse con ogni mezzo di farsi
strada dentro di lui.
«Che cosa…»
«È questo il secondo motivo. Ciò che il mio
sogno mi diceva di fare. Risvegliare in te il tuo vero
obiettivo.»
«Il mio… vero obiettivo!?»
«Il motivo per quale hai fatto tutto questo.
Per il quale oggi ti trovi qui».
Di che diavolo stava parlando quella donna?
Il suo obiettivo lo conosceva fin troppo bene! Tutto quello che aveva
fatto da che era venuto al mondo era stato, come la stragrande maggioranza dei
suoi fratelli, cercare la vendetta. Voleva trovare il responsabile del suo
dolore e fargli pagare la sua colpa.
Se lo aveva liberato da quella prigione otto anni prima, lo aveva fatto
solo per poter avere la possibilità di affrontarlo e
sconfiggerlo una volta per sempre.
Per adempiere a questa sua missione era
disposto a qualsiasi cosa, anche a fare ricorso a quel suo potere maledetto, il
Μένος Aδηλος,
un abominio, un errore del cielo, capace solo di portare morte e distruzione.
Quella creazione infernale non poteva certo essere usata per fare del
bene, era un concetto assurdo per definizione… o no?
C’era dell’altro?
Qualcos’altro… qualcosa che era successo… una promessa.
Il fischio alle orecchie divenne di colpo insopportabile, tanto che Erik
si sentì come se dovessero scoppiargli le orecchie, mentre una marea di ricordi
sembravano fare a pugni dentro la sua testa per uscire
allo scoperto.
«Cos’è questo fischio?» gridò con una mano stretta sulla fronte e
un’altra che ribaltava tutto quello che gli capitava a tiro «Fallo smettere!»
«Ricorda, Erik!» disse Nemys «Lo scopo che ti
eri prefissato! Ricorda lei, e la promessa che le hai fatto!».
Lei…
Lei…
Nel buio, Erik cominciò a scorgere ancora quel volto, ma stavolta non
c’era semplicemente il volto; vedeva anche qualcos’altro: una città in rovina,
una miriade di figure sospese in aria, e ai suoi piedi quella ragazza, morente,
con una ferita profonda all’altezza del cuore.
Aveva i capelli nerissimi e gli occhi azzurri come due stupendi zaffiri.
«Promettimelo…» disse mentre la vedeva scomparire, trasformandosi in
tante lucciole luminescenti «Promettimi che restituirai… la dignità…».
Perché?
Perché non riusciva a ricordare altro? C’era come un muro, o una sorta
di nebbia, che rendeva tutto sfocato, evanescente, privo di consistente.
«Che succede? Non riesco a vedere!»
«Devi spezzare le catene!» disse Nemys «Le
catene che lei ha eretto attorno ai tuoi ricordi! Devi spezzare il contratto!
Erik! Spezza il contratto!».
Un dolore mille volte più forte lo fece gridare
con tutta la sua voce, poi ebbe come l’impressione di essere seduto da solo in
un cinema deserto, osservando immagini sempre più nitide che scorrevano davanti
a lui.
Dopo aver liberato Toshio dalla sua prigione di cristallo
ed essere tornato sulla Terra, Erik si era reso ben presto conto di aver perso
la sua capacità di viaggiare, in forma di spirito, attraverso il cosmo.
Non gli era
servito molto per accorgersi che si trattava di un castigo: l’Imperatore poteva
aver fallito nel tentativo di ucciderlo, ma doveva aspettarselo che non avrebbe
rinunciato all’idea di punire severamente il suo tradimento, quindi, sfruttando
il Μένος Aδηλος
che anch’egli possedeva, e in forma molto più sviluppata della sua,
aveva imposto su di lui una maledizione, che condannava il suo corpo a rimanere
per sempre in carne, senza poter regredire in nessun modo a livello di spirito.
Neppure il suo
potere oscuro era stato in grado di aiutarlo, e il motivo era molto semplice: i
suoi poteri erano ancora troppo deboli, e quelli dell’imperatore troppo forti,
per permettergli di sciogliere il maleficio.
Il sovrano era a
conoscenza dei propositi di Erik, e sapeva altrettanto bene che il ragazzo non
sarebbe mai stato in grado di accumulare l’esperienza necessaria per
padroneggiare al meglio il suo Μένος
Aδηλος se fosse
rimasto sulla Terra, ritenendo quindi quella la migliore e più crudele delle
punizioni.
Erik si sentiva
prigioniero e perduto; non poteva certo chiedere aiuto alla Confederazione di Shinari o alla TriangleAlliance, essendoseli inimicati entrambi con le sue azioni
passate, e comunque, ora che la sua vera natura era venuta
alla luce, nessuno avrebbe mai accettato di aiutarlo.
Per lungo tempo aveva vagato su e giù per i cinque continenti, diviso fra la
necessità di trovare una soluzione che gli permettesse di uscire da quella
gabbia naturale e la rassegnazione per l’essere costretto ad ammettere di
essere, di fatto, prigioniero.
Malgrado
tutto però non si arrese, e dopo innumerevoli fatiche i suoi sforzi
furono premiati; un giorno, interrogando uno stregone vodoo,
questi gli parlò di una potente maga, chiamata Strega delle Dimensioni, in
grado di realizzare qualsiasi desiderio in cambio, ovviamente, del giusto
compenso. Costei, secondo le parole dello stregone, abitava in una Terra
parallela, ma era possibile raggiungerla sfruttando un particolare circolo
magico.
Erik impiegò altri
due mesi a scoprire l’esatta struttura del suddetto circolo, interrogando tutta
una serie di esperti in materia e consultando antichi documenti riposti in
alcune delle più inviolabili biblioteche del mondo, ma alla fine riuscì nel
proprio intento, e come predetto dallo stregone il
circolo lo condusse direttamente alla dimora di questa leggendaria strega.
La prima cosa che
colpì il ragazzo appena giunto nell’universo parallelo fu proprio la dimora in
sé; si aspettava un castello perso in una foresta senza sentieri, o arroccato
sulla cima di una montagna, invece era finito nel giardinetto di una bella
casa, schiacciata in tutte le direzioni dagli alti grattacieli di una città
molto simile alla Tokyo del suo mondo.
E che dire poi
della strega in questione, che già al momento del suo arrivo lo osservava
stando ai piedi della piccola gradinata che immetteva nel porticato d’ingresso
della casa, quasi avesse previsto il suo arrivo?
Non era certo la
vecchia gobba piegata in due dalla lombaggine, chiusa dentro una sdrucita veste
color fumo, con le mani ossute e la faccia rugosa, dominata da un nasone a
becco d’aquila, ma una donna bellissima, dell’età apparente di venticinque
anni, alta e magra, con la pelle candida che sembrava seta, lunghi capelli
corvini acconciati alla maniera delle regine dell’epoca Edo e occhi rosso
brillante; indossava un lungo e antico abito nero con
sprazzi bianchi, vistose spalliere, risvolti delle maniche molto pronunciati e
un ampio spacco sul davanti che lasciava scoperte le gambe, nascoste però da
lunghe calze sempre nere e da un paio di scarpe con un tacco piuttosto
pronunciato. A rendere la sua figura ancora più aggraziata
erano alcuni gioielli di pregiata fattura, fra i quali un pendente a forma di
mezzaluna che ricadeva elegantemente sull’incavo dei seni.
Non era da sola;
assieme a lei c’erano due bambine, anch’esse vestite di nero, quasi identiche
d’aspetto. Solo i capelli, di taglio e colore diverso, un bianco azzurrino con
due lunghe trecce e un caschetto rosato, permettevano di distinguerle. Vi era
però qualcosa e inquietante in loro: i loro occhi, dello stesso colore dei
capelli, erano vuoti, i loro volti senza espressione, ed entrambe stavano
immobili senza quasi respirare, come le statue che, a prima vista, potevano
sembrare.
Erik si sentì da
subito molto in soggezione osservando quella donna; il suo potere magico era a
dir poco immenso, paragonabile solo, per vastità, a quello dell’Imperatore in
persona, e forse anche superiore.
Ed
il suo volto, poi, sembrava così simile a quello di Lady Yumi,
la stessa Lady Yumi che, in punto di morte, gli aveva
fatto promettere di imparare ad usare il suo Μένος
Aδηλος per realizzare
il sogno di tutti i Rinnegati di ottenere finalmente una vera vita. Ciò
nonostante, il ragazzo cercò di ostentare la solita sicurezza di sempre.
«Sei tu quella che
chiamano la Strega
delle Dimensioni?»
«Chi lo vuole
sapere?» domandò lei con tono chiaramente provocatorio
«Io sono Erik.»
«In questo caso,
puoi chiamarmi Yuko.»
«Dicono che tu sia
in grado di esaudire qualsiasi desiderio.»
«Se
stai pensando di chiedermi di porre fine alla tua condizione di Rinnegato ti
avviso fin da ora che è una cosa impossibile. Io posso fare molte cose, ma
questo va’ al di là dei miei poteri.»
«Mh.» disse Erik con lo stesso tono che lei aveva usato un
istante prima «Una maga non molto magica, a quanto pare».
Lei non fece una
piega, almeno all’apparenza.
«Ad ogni modo, non
è per questo che sono venuto fin qui?»
«Di
che si tratta allora? Che cosa può desiderare chi possiede il Μένος Aδηλος?».
Quella
domanda fu più che sufficiente per dare ad Erik la
prova definitiva che si trattava in realtà di una strega di classe superiore,
perché erano davvero pochi quelli che potevano riconoscere il Μένος
Aδηλος semplicemente con uno
sguardo.
«Voglio che tu sciolga la maledizione che mi è stata imposta, e che mi impedisce di viaggiare per l’universo».
Seguì un lunghissimo silenzio, e per interminabili secondo Yuko si limitò ad osservare Erik
col suo sguardo enigmatico e privo di una qualche emozione.
«Mi chiedi molto. Vincere un incantesimo che è
stato imposto servendosi del Μένος Aδηλος
non è impresa da tutti.»
«Per questo mi sono rivolto a te. Altrimenti
perché avrei fatto tutta questa fatica per riuscire ad
incontrarti?»
«Anche questo è vero. Comunque saprai che ogni
desiderio comporta un prezzo da pagare.»
«Certo che lo so. Sono pronto a darti tutto
quello che vorrai in cambio di questo servizio».
Solo allora, a quella risposta pronta e senza
esitazione, Yuko sembrò accennare una reazione,
aggrottando leggermente le sopracciglia.
«Sei davvero sicuro di quello che dici?»
«Fin nel profondo. Dimmi che cosa vuoi e te lo
darò senza esitazioni».
La strega fece una nuova paura, stavolta molto più lunga, e per la prima
volta da che la conversazione aveva avuto inizio distolse lo sguardo da Erik,
chiudendo gli occhi.
«Il prezzo da pagare» disse tornando a fissarlo, stavolta con aria molto
più severa e ammonitoria «Sarà la cosa che per te ha
maggior valore. Ciò che regola tutto il tuo agire».
Erik pensò di stare sognando.
Mai avrebbe pensato che potesse capitargli una simile opportunità; era
arrivato fin lì nella speranza di sciogliere una maledizione, e invece, a
sorpresa, gli veniva offerta l’opportunità di
liberarsi anche dell’altra, lasciandosele entrambe alle spalle una volta per
sempre.
Davvero voleva il Μένος Aδηλος?
Che se lo prendesse pure!
Pensava di doversi privare di qualcosa di caro,
e invece quella donna gli stava facendo un favore.
Che importava se così facendo avrebbe dovuto rinunciare a buona parte della
sua forza? La cosa certamente non gli dispiaceva; al contrario, in questo modo
avrebbe dimostrato a tutti che poteva diventare forte anche senza quel potere
infernale.
«Accetto».
Di nuovo Yuko aggrottò le sopracciglia.
«Ne sei sicuro? Ti avviso, non potrai più
tornare indietro su questa decisione.»
«Ne sono sicuro. Ora procedi».
Lei chiuse gli occhi, come rassegnata.
«Come desideri».
Sotto i suoi piedi a quel punto si formò un circolo magico di forma
strana, con un sole al centro contornato da tre quadrati sovrapposti posizionati in tre modi diversi e una mezzaluna in un
angolo, appoggiata al bordo e circondata da un cerchio più piccolo. La donna
puntò l’indice contro Erik, e dal dito si sprigionò un fascio di luce violacea
che colpì il ragazzo in pieno petto.
Il ragazzo si strappò parte della sopravveste, e con sua grande
meraviglia vide il simbolo rosso a forma di pipistrello lasciatogli
dall’Imperatore svanire lentamente, e con esso la maledizione.
«Sì!» esclamò «È fatta!».
Sarebbe esploso in un grido di trionfo, se d’improvviso la sua gioia non
fosse stata guastata da un fastidiosissimo fischio alle orecchie, accompagnato
dopo poco da una tremenda emicrania.
«Ma che cosa… Che cosa mi sta succedendo?»
«Sto rispettando l’accordo.» rispose Yuko
Di colpo ebbe gli sembrò che i suoi ricordi si stessero sgretolando; per
un motivo che lui stesso ignorava cerò di pensare a Yumi, ma per quanto si sforzasse di lei non riusciva a
scorgere altro che i contorni, senza poterla vedere in viso.
«Che cosa mi stai facendo, maledetta!»
«Avevi detto di essere pronto a liberarti della cosa a te più preziosa
pur di sciogliere la maledizione che ti opprimeva, ma a quanto pare avevi
sbagliato a giudicare di cosa si trattasse realmente.»
«Che… che diavolo stai dicendo!»
«Che non sei stato onesto con te stesso. Il Μένος
Aδηλος non è mai stata la
cosa più importante per te, ma perso com’eri a maledire la sua esistenza non
hai mai capito che ad essere importante non era il
potere in sé, ma il modo in cui avevi deciso di usarlo, e tutti i ricordi
legati a questa scelta.»
«Tu…» disse Erik guardandola pieno di odio «Mi hai imbrogliato!».
La testa gli faceva sempre più male, e ad ogni
secondo che passava sempre più memorie, sempre più emozioni, scomparivano,
trasformandosi in polvere.
Non poteva permetterlo!
Che senso avrebbe avuto liberarsi della maledizione per poi dimenticare
il motivo per il quale voleva così disperatamente raggiungere di nuovo le
stelle?
Doveva fermarla! Doveva fermarla subito!
«Tu… puttana d’una strega!».
Il corpo di Erik cominciò a circondarsi di un’aura rosso sangue, e due
grossi tatuaggi dello stesso colore a forma di fiamma gli comparvero sul viso,
segno che il Μένος Aδηλος
si stava risvegliando in tutto il suo terrificante potere.
«Io ti ammazzo!» gridò correndole contro dopo aver materializzato la
propria spada.
Yuko non si mosse, non fece alcun tentativo
per evitarlo, poi, proprio quando stava per essere colpita, l’arma di Erik
cominciò a scomparire, sgretolandosi in una miriade di granelli che come
risucchiati si innalzavano sempre di più nel cielo
nuvoloso, prossimo alla pioggia; la stessa cosa prese ad accadere anche al
corpo del ragazzo.
«Il tuo desiderio è stato esaudito.» disse Yuko
«Ora sarai riportato nel tuo mondo.»
«Me la pagherai!» disse Erik scomparendo nel vento «Mi
hai sentito? Te la farò pagare!».
Capitolo 33 *** Ritorno al Futuro - La Rimembranza (Seconda Parte) ***
30
30
Ora ricordava.
Ricordava tutto.
Yumi. Lady Yumi.
La principessa dei Rinnegati, la favorita dell’Imperatore, la sola che
non vedesse l’universo in bianco e in nero, e che cercasse di trovare il buono
in ogni cosa, persino nella sua condizione di Rinnegata. Lei aveva sacrificato
tutto, inclusa la sua vita, per insegnare ad Erik
l’importanza di credere in sé stessi, e per fargli capire che anche un potere
oscuro come il suo poteva essere usato per fare del bene, se solo fosse stato
capace di padroneggiarlo.
E lui invece che aveva fatto? Aveva preso tutte queste cose e le aveva
gettate al vento, tutto per inseguire un sogno.
Al suo risveglio sulla Terra i ricordi legati a Yumi
e alla promessa che si erano scambiati prima di dividersi per sempre erano
svaniti, lasciando ad Erik solamente un proposito:
imparare sì a controllare il Μένοςἄδηλος, ma per
vendicarsi del suo creatore, una cosa che fin dal principio aveva sempre
considerato come di secondo piano, se paragonata all’importanza della missione
che si era proposto di portare a termine.
La strega aveva ragione: aveva mentito a tutti, incluso sé stesso.
I ricordi di Yumi erano quanto aveva di più
prezioso, perché i sentimenti che aveva provato per
lei lo facevano sentire… umano. Non solo, gli davano anche un motivo per andare
avanti; era tenuto ad onorare la promessa fatta ad
un’amica morente, e questo rappresentava il solo stimolo che lo avesse spinto
ad andare avanti sempre e comunque, anche contro le difficoltà più
insormontabili.
Nemys sorrise non appena risollevò gli occhi,
che sembravano diventati quelli di un’altra persona; erano pieni di
commiserazione, di incertezza, e anche tanta vergogna.
«Ci sei riuscito. Hai spezzato le catene.»
«Io… sono stato uno stupido. Avrei dovuto
capirlo.»
«Non biasimare te stesso. Eri abbattuto,
sconfortato, e io credo anche spaventato.
I ricordi legati al tuo passato e alla promessa che avevi fatto erano
l’unica cosa che ti permetteva di continuare a combattere, ma il potere che ti
portavi dentro ti spaventava a tal punto da far sembrare tutto il resto
effimero e senza valore».
Erik si guardò la mano, stringendola a pugno con tutta la sua forza.
«Ho passato gli ultimi otto anni a esercitarmi,
ma per il motivo sbagliato. Tutto quello per il quale avevo sofferto, la
missione che avevo accettato di portare avanti. Tutto era sparito. Io lo avevo
fatto sparire!».
Adirato, colpì violentemente la parete a lui più vicina, provocando un
grosso buco.
«Tutti questi anni sprecati!»
«Io non credo che siano andati sprecati.» rispose Nemys gentile,
guadagnandosi uno sguardo pieno di stupore «Anche se
avevi dimenticato il motivo primo che ti aveva spinto a combattere, non hai mai
smesso di allenarti per padroneggiare il Μένοςἄδηλος. Quindi, malgrado tutto, hai tenuto comunque fede alla tua promessa.»
«Ma con che coraggio posso dire di averlo
fatto? Avevo imparato a non temere questo dannatissimo potere, Yumi mi aveva insegnato che potevo usarlo per fare del
bene, e per quasi un decennio ho dimenticato anche questo! Ho ripreso ad averne
paura, a desiderarne la distruzione, e in tutto questo tempo, invece che per
fare del bene e aiutare gli altri, ho pensato di usarlo solamente per
vendicarmi!».
Nemys a quel punto si accigliò, e avvicinatasi a Erik gli rifilò un
solenne ceffone. Era una cosa davvero piccola, ma nonostante ciò il giovane sentì
comunque dolore, mettendosi la mano sulla guancia.
«Ora smettila di auto-commiserarti! Il passato
è passato, e a nessun essere vivente è dato di tornare indietro per cambiarlo!
È vero quando dici che la colpa di quanto è accaduto
è solo tua e della tua ingenuità, ma questo non è un buon motivo per continuare
a piangersi addosso gettando via quanto fatto finora!»
«Nemys…»
«Malgrado quella strega se ne vada in giro a
dire il contrario, il destino non esiste. La nostra vita ce la costruiamo da
soli, con le scelte di ogni giorno. Tu allora facesti una scelta, la quale,
secondo l’ordine naturale delle cose, portò delle conseguenze, ma anche se la
scelta fu quella sbagliata, non significa che anche le conseguenze lo siano
state.
Tu sei forse il primo ad essere stato capace di
avere la meglio su un contratto sancito con la Strega delle Dimensioni. Cosa credi che abbia reso possibile un tale miracolo?».
Erik capì rapidamente a cosa alludesse la Matriarca, e allora non
poté fare a meno di sentirsi un idiota.
«Il contratto non sarebbe mai stato spezzato se
il tuo Μένοςἄδηλος non fosse
diventato così potente, e tu non ne avessi ottenuto un così saldo controllo.
Hai fatto qualcosa che la stessa Yuko non aveva
creduto possibile, e che mai si era verificato.
Quelli come lei hanno sempre pensato per secoli
e millenni che la loro magia fosse assoluta, tu oggi hai dimostrato che non è
così, e lo hai fatto con le tue sole forze. Alla luce di ciò, che motivo hai
per essere in collera o deluso con te stesso?»
«Io…».
Nemys tornò a sorridere, poggiandogli la sua mano calda e vellutata
sulla stessa guancia che un attimo prima aveva colpito.
«Il buono che c’è in te non è mai scomparso, e
mai dovrà scomparire. Ora che hai ricordato i motivi che ti hanno spinto in
quest’impresa, la causa alla quale avevi giurato di dedicare tutta la tua vita,
non permettere che essi si allontanino mai più dal tuo cuore».
Erik le sfiorò la pelle, stringendole delicatamente il polso, poi, per
la prima volta dopo tanti anni, sentì di avere qualcosa per il quale piangere.
Aveva ragione. Aveva ragione su tutto.
La sua missione non era ancora finita. Il Μένοςἄδηλοςcustodiva ancora un’infinità di segreti, e solo scoprendoli
tutti sarebbe divenuto un giorno capace di operare lo stesso miracolo che
quell’elfa gentile aveva compiuto dinnanzi ai suoi occhi; non poteva e non
doveva fermarsi.
Ora aveva una nuova strada da percorrere, e di nuovo, alla luce delle
sue ritrovate memorie, la vendetta tornava ad occupare
una posizione marginale, liberandolo finalmente dal dolore e dall’angoscia che
per otto lunghi anni gli avevano divorato come un tumore incurabile il corpo e
lo spirito.
La sua ritrovata serenità venne guastata da una
fastidiosa sensazione al petto, e strappatasi la sopravveste, si accorse, senza
tuttavia apparente stupore, che il simbolo rosso simile ad una bruciatura, la
cui forma richiamava vagamente quella di un pipistrello, era ricomparso.
«Il contratto è spezzato.» commentò Nemys «Quindi anche la maledizione è
ricomparsa.»
«Non importa. Questo mondo ha così tanto da insegnarmi, che viaggiare per l’universo ormai
è superfluo».
La matriarca lo guardò gentile, poi prese un fermacarte dalla scrivania
e si incise leggermente l’indice, quindi, avvicinatasi
ad Erik, usò il sangue che sgorgava dalla ferita per tracciare un cerchio tutto
attorno al simbolo.
«Questo dovrebbe bastare.»
«Che cosa hai fatto?»
«Come ti ho detto, quando si attraversa uno di quei portali
ci si trasforma in pura energia, ma ora che la maledizione è ricomparsa il tuo
corpo non è in grado di attuare questo processo. La forza spirituale contenuta
nel mio sangue annullerà la maledizione per il tempo necessario a farti
ritornare nella tua epoca. Ma sta attento, perché sarà efficace solo per un
viaggio.»
«Ti… ti ringrazio».
Nemys aprì quindi uno dei due grandi armati a muro, prendendone fuori un
baule di legno che grazie anche all’aiuto di Erik appoggiò sul tavolino al
centro.
«Immagino che ora che hai riscoperto i tuoi reali propositi, quella
veste da Rinnegato ti risulti stretta.
I miei Celestiali hanno trovato questi vestiti alcuni anni fa vicino
alle rovine di cui ti parlavo prima. Credo appartengano ai nostri antenati. Mi
farebbe piacere che li avessi tu».
Erik, spaesato, aprì la cassa, trovandovi dentro dei vestiti che ben
poco sembravano avere a che spartire con il mondo nel quale erano stati
trovati; c’erano una maglia con le maniche corte, un paio di calzoni che parevano
di jeans, una grossa cintura borchiata d’argento, scarponi dalla suola molto
alta e un lungo cappotto leggero, il tutto rigorosamente nero, o comunque di un
grigio molto scuro.
Nemys uscì in terrazza, per dare modo al suo ospite di cambiarsi in tutta
tranquillità, e quando, dopo cinque minuti, rientrò nella stanza, essa stessa
rimase per un attimo con la bocca spalancata nel constatare
un tale cambiamento.
La vecchia e logora sopravveste era ora gettata in un angolino, e senza
di essa Erik appariva finalmente in tutta la sua incredibile prestanza; la
lunga livrea del cappotto gli arrivava fin quasi alle caviglie, le borchie
della cintura scintillavano come diamanti, e la maglietta, per quanto larga,
lasciava intravedere il possente torace che stava sotto di essa. Tutto gli
calzava alla perfezione, quasi quei vestiti fossero stati realizzati
appositamente per lui
«Bentornato, Erik.» disse la matriarca piena di gioia.
Lui, recuperata la propria espressione fiera e il proprio sguardo di
ghiaccio, le si avvicinò, quindi, chiusi gli occhi,
accennò un leggero inchino.
«Ti ringrazio.»
«Non ringraziare me.» rispose lei sorridendo «Sei tu che hai trovato la
forza per reagire».
D’un
tratto, la Matriarca
fece una strana smorfia, come di malcelato dolore.
«Nemys.» disse
Erik notando la sua espressione «Tutto bene?»
«S…
sì tranquillo. Non è niente».
Invece, dopo poco,
la sensazione di dolore divenne palese, e Nemys cadde in ginocchio tenendosi il
ventre.
«Nemys!».
Erik cercò di
aiutarla, ma non impiegò molto a capire che si trattava di qualcosa di serio, e
subito aprì la porta della stanza, rivolgendosi alla guardia che attendeva
fuori.
«Va’ a chiamare qualcuno, presto! La Matriarca sta male!».
Quello corse via
come se avesse avuto il diavolo alle costole, scomparendo giù per la scala
infondo al corridoio; tornato dentro, Erik prese l’elfa tra le braccia,
adagiandola delicatamente sul letto; la sua fronte aveva preso a sudare
copiosamente, faticava a respirare e di tanto in tanto gridava dal dolore.
«Temo…» disse con
un filo di voce «Temo che sia giunto il momento».
In meno di cinque
minuti giunsero nella stanza alcuni guaritori accompagnate da Zipherias, quest’ultimo sconvolto e spaventato come se il
malato fosse stato lui.
«Che è successo?»
domandò appena fu dentro
«Si è sentita male
all’improvviso, credo stia partorendo.»
«Che cosa!? Ma… dovrebbero mancare ancora
due settimane!».
La visita medica
condotta dai guaritori però confermò appieno la teoria di Erik; la Matriarca era in
travaglio, e come se non bastasse c’erano
complicazioni, dovute probabilmente allo sforzo fatto solo un’ora prima durante
la cerimonia di purificazione.
«Do… dov’è
Isnark?» domandò Nemys mentre i guaritori cercavano di alleviare il dolore
facendole ingerire degli infusi a base di erbe prima di andarsene, lasciando la
sovrana nelle mani ben più esperte delle levatrici
«È
sceso in città. Ho mandato due miei uomini a chiamarlo.»
«B…
bene. Ora però… vorrei che tu mi facessi una cortesia.»
«Qualsiasi cosa,
milady.»
«P… prendi con te
alcuni soldati, e raggiungi le rovine nella foresta.»
«Le rovine!?» commentò l’elfo perplesso «Per quale motivo?»
«Credo…
che Lsyn si trovi laggiù al momento. Vorrei… che fosse presente.»
«Come
desiderate. Tornerò entro un’ora, ve lo prometto».
Pochi minuti dopo
Nemys licenziò anche i guaritori, dicendo loro che sarebbe rimasto Erik a
tenerla d’occhio fino all’arrivo delle levatrici, e questi, malgrado
la comprensibile disapprovazione, alla fine obbedirono, lasciandoli soli.
Erik, che per
tutto quel tempo era rimasto in disparte, seduto su di un divanetto per non
essere d’intralcio, a quel punto si avvicinò al letto.
«Sembra…» disse la
matriarca con uno strano sorriso «Sembra che il nostro incontro sia destinato a
finire prima del previsto.»
«Che intendi
dire?»
«Che… la mia vita…
sta giungendo alla fine.»
«Come hai detto!?» esclamò il giovane ad occhi sbarrati «Che significa che
la vita sta giungendo alla fine?»
«Esattamente
ciò che ho detto. Mettere al mondo questo bambino è l’evento che sancirà la mia
morte.»
«Ma…
perché dici una cosa del genere? È solo un parto, non è detto che ti ucciderà.»
«Non… non è questo
il punto.»
«E allora qual è?»
«L…
l’hai visto, giusto? Io ho il potere di guarire i Rinnegati nati dagli elfi.
Con gli anni ho accumulato una grande quantità di potere magico, ma ancora non
è sufficiente. Il mio sogno, ciò che desidero dal momento in cui sono nata, è
poter restituire la vita a tutti i Rinnegati, indipendentemente dalla razza
dalla quale sono stati generati.
Alla fine, dopo
cinquant’anni di esercizio, ho capito che una simile impresa andava al di là delle mie possibilità, e il motivo era molto
semplice: anche se ho il corpo di un essere umano resto pur sempre una
Rinnegata, e i miei poteri risentono di questa mia natura.
Il bambino che
porto in grembo, però, non avrà il mio vincolo a frenare la magia che scorrerà
nelle sue vene; suo padre, il principe Isnark, è un elfo in tutto e per tutto,
e lo sarà anche lui. Nel momento in cui nascerà, io passerò a lui tutti i miei
poteri e la mia magia, che unita alla sua lo renderà l’elfo più potente che
abbia mai camminato su questa Terra».
Erik non riusciva
a credere alle sue orecchie; fino a che punto era disposta a spingersi quell’elfa
così simile a lui pur di perseguire il proprio obiettivo? Per quanto si
sforzasse, lui sentiva che mai sarebbe riuscito a fare altrettanto.
«Sei disposta a
morire… per il nostro popolo?» domandò con gli occhi lucidi.
Lei accennò un
sorriso.
«C’è…
c’è anche dell’altro. Nel momento in cui mi sono separata da Lsyn, il mio cuore
è stato pervaso dal desiderio che lei ha covato dentro di sé fin dal giorno in
cui è stata costretta a rinunciare alla sua stessa vita per assecondare la sete
di onnipotenza di una singola persona: liberare il nostro mondo dalla tirannia
e dall’odio, così che non debbano più esserci madri costrette a vedersi
strappare dalle braccia i propri figli perché siano addestrati come degli
assassini.
Fin da quando ho
assunto la guida di questi elfi valorosi, all’epoca in cui erano solo uno
spaurito gruppo di ribelli, mi sono vista costretta a nascondere a tutti la mia
vera natura.
Tu lo sai meglio
di chiunque altro cosa voglia dire essere un
Rinnegato; per quanto ci sforziamo di sembrare dei giusti, nessuno mai vorrà
fidarsi di noi, perché incarniamo tutto ciò che gli esseri viventi maggiormente
temono e disprezzano.
Solo pochi, coloro che hanno dimostrato di saper guardare oltre le
apparenze, conoscono la verità, e pur di mantenerla nascosta ho dovuto
sacrificare centinaia di vite, sottostando a un volgare ricatto».
Alcune lacrime
rigarono il suo viso mentre pronunciava quelle parole.
«Il
mio bambino sarà un elfo tra gli elfi. Questo regno e le sue speranze, assieme
ai miei poteri, saranno l’eredità che gli lascerò in dono. Sarà lui un giorno a
portare avanti la mia opera.
Non nascondo di
provare una certa vergogna nel vedermi costretta a delegare simili
responsabilità ad un infante che deve ancora nascere,
e so che probabilmente mi odierà quando verrà messo a conoscenza del suo ruolo
in questo mondo, e dei sacrifici che esso comporterà, ma ho fiducia nel fatto
che un giorno capirà i motivi della mia scelta.»
«Dunque ti sei impegnata tanto in tutti questi anni… solo per
lui?».
Lei accennò un sì.
«La
mia sola speranza, è che un giorno possa perdonarmi. Tutto ciò che ho fatto da
che sono venuta al mondo è stato sperare in un futuro migliore, per questo
mondo e per il nostro popolo. Ho cercato di riuscirci con le mie sole forze.
Non volevo che fosse mio figlio a dover soffrire per il mio desiderio, ma poi
ho capito che solo lui potrà realizzare il mio sogno».
Nemys, seppur con
fatica, fece scivolare una mano fuori dalle coperte,
stringendo quella di Erik, che la guardò interdetto.
«Ciò
che mio figlio farà in questo mondo, tu dovrai farlo nel tuo. Hai ancora molta
strada da fare, ma so che come lui riuscirà nella sua impresa, riuscirai anche tu. In questo ho piena fiducia».
All’incirca un’ora dopo, proprio
come promesso, Zipherias tornò a palazzo, e pochi
minuti dopo il suo arrivo Lsyn entrò assieme a lui nella stanza da letto.
Non erano soli;
assieme a loro c’erano Isnark, che aveva sulla faccia il segno piuttosto
evidente di un destro appena ricevuto, e Toshio, proprio come Erik si
aspettava; quest’ultimo aveva con sé due di quei soldati che erano con lui nel
momento in cui il portale nella foresta si era aperto, catapultandoli nel
futuro: uno di essi era bassetto, portava gli occhiali, e aveva gli
inconfondibili tratti somatici dei giapponesi; l’altro invece aveva lunghi
capelli biondi, l’aria sbarazzina e parlava il classico inglese americano.
Toshio rimase
visibilmente sorpreso nel trovarsi a tu per tu con il suo alter ego, che al
contrario rimaneva immobile ad osservarlo ai piedi del
letto, e aspettandosi comprensibilmente di dover combattere mise mano alla
spada, ma prima che la situazione potesse degenerare la matriarca richiamò
entrambi. Erik allora si fece da parte in modo che lei e i nuovi arrivati
potessero essere faccia a faccia, e anche Toshio,
proprio come era accaduto a lui, non fatico a notare la somiglianza tra Nemys e
Lsyn, voltandosi verso quest’ultima e ricevendo un cenno di conferma.
Il giapponese,
probabilmente un medico dell’esercito, si avvicinò alla matriarca per farle una
visita, mentre Zipherias e Isnark se ne andarono
portandosi dietro l’americano e dicendo qualcosa a proposito di un volume
conservato nella biblioteca.
«Che ci fai tu
qui?» chiese Toshio appena lui e Erik si furono
appartati
«Potrei farti la
stessa domanda.»
«È
evidente che per te non sono passati cinquant’anni. Sei passato anche tu
attraverso il portale.»
«Come sia arrivato
qui non lo so. L’unica cosa che mi interessa
al momento è tornare indietro, quindi, se non ti spiace, andò a fare anch’io
qualche ricerca».
Erik fece per
uscire dalla stanza, ma Toshio lo richiamò.
«Mi
sembri diverso. Di colpo ti è passata la voglia di uccidermi?».
Solo allora Erik
si accorse che, differentemente da quanto accaduto fino a quel momento, la
vicinanza di Toshio non sembrava arrecargli alcun tipo di dolore, e neppure
quel senso di rabbia che tanto a lungo aveva cercato di mettere
a tacere.
Persino il filo,
quel filo invisibile che sembrava legarli in modo indissolubile, non sembrava
più così fastidioso e opprimente; lo stesso desiderio di vendetta era meno
presente dentro di lui, mitigato e messo in secondo piano dalla riscoperta
della missione che Erik si era prefissato, e che ora
era più determinato che mai a portare avanti fino alla fine.
Malgrado
tutto, però, l’avversione verso Toshio non era scomparsa; se un
Rinnegato prova risentimento verso il suo creatore è difficile che questa
scompaia del tutto dall’oggi al domani, anche se, a pensarci bene, Erik aveva
come la sensazione che non si trattasse più di semplice voglia di vendetta, ma
di qualcos’altro, qualcosa di più profondo.
«Non sperare
neppure per un momento che io abbia abbandonato l’idea di vendicarmi di te.»
disse prima di andarsene «È solo che di recente mi
sono ricordato di una cosa molto importante. Qualcosa che viene anche prima del
risentimento che provo per te come mio creatore».
Lasciata la
stanza, Erik fece ritorno nello stesso studio nel quale si era ritrovato subito
dopo il suo risveglio; subito prima dell’arrivo di Toshio, Nemys gli aveva
detto che lì era custodito un libro che avrebbe potuto
tornargli utile, dandogli precise indicazioni su come trovarlo.
Chiusosi la porta
alle spalle, il giovane si guardò velocemente attorno, quindi, salito su di una
scala a pioli che, grazie ad un ingegnoso sistema di
ruote, era in grado di spostarsi da un bancone all’altro, trovò il volume che
stava cercando: era un vecchio libro dalla copertina rossa, con un’incisione
argentata al centro e due sigilli che un tempo dovevano essere stati chiusi con
dei lucchetti.
Erik si sedette
alla scrivania, e già dopo averlo aperto rimase
sorpreso, scoprendo che era scritto in quello che aveva tutta l’aria di essere
greco antico. Non gli ci volle molto per scoprire che l’argomento del volume
era proprio il Μένοςἄδηλος, e allora capì
subito perché Nemys aveva insistito tanto per farglielo leggere.
Per la prima volta in otto anni Erik cominciò a dipanare i grandi
segreti che stavano dietro a quel potere oscuro che si portava in corpo dal
giorno della sua nascita. Stando alle parole dell’autore, il Μένοςἄδηλος era come una
seconda anima, una fonte di energia rinnovabile all’infinito alla quale il suo
possessore poteva attingere.
Nessuno, neppure l’autore di quel volume, conosceva l’origine di questo
potere; si sapeva solo che esso aveva origini molto antiche, che almeno una
persona per ogni universo lo possedeva, e che per sopravvivere necessitava
costantemente di un ospite umano; solitamente la scelta ricadeva sempre su di
un feto, dal momento che nei bambini non ancora nati
il legame tra corpo, mente e spirito è estremamente labile e mutevole, e perciò
il Μένοςἄδηλος aveva modo di
adattare la sua essenza così da potersi assicurare l’energia indispensabile
alla propria sopravvivenza, offrendo in cambio all’ospite il proprio immenso
potere oscuro.
Alla morte
dell’ospite, ilΜένοςἄδηλος semplicemente si
spostava in un nuovo corpo, così il ciclo ricominciava; nella stragrande
maggioranza dei casi una persona viveva tutta la sua esistenza senza avere la
benché minima idea del potere che gli scorreva dentro, ma vi erano dei casi
particolari in cui esseri umani dotati di una particolare sensibilità finissero
per scoprirlo.
Tuttavia, come Erik sapeva fin troppo bene, proprio per via delle sue
potenzialità praticamente sconfinate il Μένοςἄδηλος finiva per
consumare lo spirito e la personalità dell’ospite che decideva imprudentemente
di farne uso fin quasi ad assumere una volontà propria, trasformando il suo
possessore in un automa senza volontà guidato unicamente dall’istinto.
Erik più di una volta era andato vicino a fare questa fine, e solo con
molti allenamenti era riuscito a conquistare l’esperienza necessaria ad avere
il controllo almeno su una parte di questo potere, ma non aveva mai osato
sfruttarlo in modo massiccio per paura di rimanerne a sua volta succube.
Per più di dieci anni si era convinto che non vi fosse modo di
esercitare sul Μένοςἄδηλος il controllo
totale, ma la sorte per una volta sembrava avergli voluto sorridere,
mettendogli tra le mani quel libro; nel volume infatti
era spiegato che era possibile esercitare un maggiore controllo del Μένοςἄδηλος tramite
l’utilizzo di speciali circoli magici, creati appositamente per permettere a
chiunque possedesse una magia troppo sviluppata di imparare gradualmente a
padroneggiarla nella sua interezza.
Era ciò che Erik, infondo, aveva sempre sperato; dentro di sé sapeva che
per realizzare il sogno di Yumi, e anche il suo, non
avrebbe potuto fare a meno del Μένοςἄδηλος, ma sapeva anche
che ne avrebbe dovuto avere il controllo assoluto.
Quei cerchi potevano aiutarlo, gli sarebbe bastato impararli, e con il
tempo e la pratica sarebbe finalmente riuscito a dominare una
volta per tutte quel potere infernale, dimostrando una volta per tutte
chi comandava su chi.
Con fervore e impazienza sempre crescenti cominciò a scorrere
incessantemente le pagine, soffermando gli occhi su ogni cerchio, e cercando di
memorizzarli meglio che poteva; dopotutto, per poter
sfruttare un circolo magico era sufficiente conoscerne la struttura, poi,
nell’atto di esercitare un incantesimo, se si aveva la padronanza di tale
circolo il resto veniva da sé.
In poche ore memorizzò alla perfezione due dei tre circoli magici
riportati sul libro, ma appena girò la pagina dell’ultimo sul suo sguardo si
materializzarono lo stupore e l’incredulità più totali.
Era… era lui!
Lo ricordava benissimo!
Era lo stesso circolo utilizzato da Yuko per
togliergli la maledizione!
La didascalia riportata sotto diceva che quel circolo era appannaggio
solamente dei maghi di classe superiore, e ne sconsigliava l’utilizzo a
chiunque non avesse una padronanza più che assoluta della propria magia; veniva
anche specificato di come il suo creatore, il cui nome era però rimasto
sconosciuto, lo avesse creato proprio come forma di contrasto al Μένοςἄδηλος da lui stesso
posseduto.
Com’era possibile?
Per quanto Yuko usasse indubbiamente un
qualche incantesimo per mascherare la sua vera età, non poteva certo essere
così vecchia per aver scritto quel libro, o peggio ancora per essere stata la
creatrice di quel cerchio.
Che anche lei possedesse il Μένοςἄδηλος? No,
impossibile. Lo avrebbe sicuramente percepito quando si erano incontrati otto
anni prima, e inoltre il libro diceva chiaramente che, a differenza degli altri
due, quel cerchio non era stato creato appositamente
per arginare il Μένοςἄδηλος, ma piuttosto
per controllare e poter gestire ogni tipo di potere magico eccessivamente
sviluppato.
Cosa diavolo stava succedendo? Perché quella donna conosceva un circolo
magico che, stando alle parole di quel volume, risultava
scomparso e inutilizzato da generazioni? Chi era quella donna?
Aveva la sensazione che la risposta, in un modo o nell’altro, semmai
l’avesse trovata, non gli sarebbe piaciuta, per niente.
Venne la sera, e per gli abitanti
di Kyradon cominciò una delle attese più lunghe e angosciose di tutta la loro
vita; a sentire il medico umano giunto quella mattina, entro il sorgere del
sole avrebbero sia festeggiato la nascita di un principe sia pianto la morte di
una regina.
Grazie ad una piccola dose di antidolorifico Nemys era riuscita a
superare quasi indenne le lunghe ore necessarie a far sì che il suo corpo fosse
pronto fisicamente al parto, ma era comunque molto debole, e perciò qualcuno
rimaneva sempre e comunque al suo fianco, pronto ad
intervenire o a dare l’allarme in caso di bisogno.
Alle dieci di guardia c’era Zipherias, ma ad un certo punto la matriarca chiese al suo fedele
difensore di essere lasciata sola; l’elfo protestò, sostenendo che non era
prudente, ma lei si mostrò irremovibile.
A suo dire, doveva fare una cosa molto importante, ma per farlo era
necessario che nella stanza non ci fosse nessuno, e per dare a Zipherias un motivo in più per ubbidire gli disse, stavolta
in tono di ordine perentorio, di andare a cercare Lsyn, poiché aveva la
necessità di parlare in privato anche con lei.
Alla fine, per amore o per forza, il grosso elfo fu costretto ad obbedire lasciando la sua sovrana, ma ordinando alla
guardia che sostava perennemente davanti alla porta di ingresso di accorrere al
minimo urlo o gemito di dolore senza preoccuparsi di eventuali responsabilità.
Rimasta finalmente sola, Nemys, seppur con fatica, girò
la testa verso un grande specchio affisso sulla parete alla sua
sinistra, un magnifico esemplare di forma tondeggiante con la cornice in
argento intarsiata e decorata.
Dopo pochi secondi il vetro sembrò ondeggiare come la superficie calma
di uno stagno, poi al suo interno comparve, dal collo in su,
il volto candido ed enigmatico della Strega Delle Dimensioni; se Erik avesse
potuto vederla avrebbe detto che per lei sessant’anni non sembravano essere
passati, ma in questo caso Nemys avrebbe detto di risposta che quella riflessa
nello specchio non era la Yuko del tempo attuale, ma quella di
un’epoca ben più antica, la sua per l’esattezza.
«Sono felice di rivederti.» disse la strega sorridendo leggermente
«Anche… anche io…».
Entrambe tacquero per un po’, poi fu Nemys a sorridere, senza nascondere
la propria soddisfazione.
«Chi l’avrebbe mai detto… la famosa Strega delle Dimensioni… battuta da
un Rinnegato».
Lei, invece che accigliarsi, di nuovo sorrise, chiudendo gli occhi.
«Tu… l’avevi sempre saputo…» disse la matriarca
«Quando ho visto il potenziale intrinseco di
quel ragazzo, ammetto di essere rimasta leggermente spaventata. Ero certa che prima o poi, con la giusta spinta, la sua forza di volontà
avrebbe avuto la meglio persino sulla mia magia.»
«Non mi sembri… delusa… se non sbaglio andavi
fiera della solidità dei tuoi contratti.»
«Chissà.» replicò Yuko risollevando lo sguardo
«Erik infondo voleva solo fare del bene. È stato solo
un po’ ingenuo, e non credo ripeterà due volte lo stesso errore. Inoltre, sono
convinta che d’ora in poi cercherà di essere più onesto verso sé stesso e verso gli altri.»
«Ne… ne sono convinta».
In quella Nemys ebbe una nuova contrazione estremamente
dolorosa; chiuse gli occhi e strinse i denti, facendo il possibile per non
gridare, perché sapeva che se solo la guardia lì fuori l’avesse sentita
certamente sarebbe entrata, mettendo fine a quella conversazione, l’ultima
delle tante che lei e Yuko avevano intrattenuto nel
corso dell’ultimo anno.
«È molto doloroso?» domandò la strega non senza preoccupazione
«Non… non preoccuparti, è tutto a posto. Ero
preparata ad una simile situazione dal giorno in cui
ti ho incontrata».
Yuko abbassò di nuovo lo sguardo; sembrava
trista, per non dire demoralizzata.
«Ricordo ancora quando ti mettesti in contatto
con me. Tu volevi un figlio, lo volevi più di
qualsiasi altra cosa. Per lungo tempo lo avevi cercato, anche se sapevi che la
sua nascita avrebbe potuto segnare la tua morte.»
«Ma poi… ho scoperto di essere sterile. Io… non
potevo avere figli. Il potere che mi portavo dentro… e che desideravo venisse usato per dare una speranza al nostro popolo e a
questo mondo sarebbe scomparso insieme a me.
Ma un giorno, leggendo un vecchio libro della biblioteca, ho trovato menzione della più potente delle streghe, capace
di realizzare qualsiasi desiderio. A lungo ho cercato di mettermi in contatto
con te, ma per quanto sforzi facessi non ci riuscivo.
Di conseguenza, mi sono vista costretta a contattarti
non nel presente, ma nel passato, all’epoca in cui i miei sogni mi avevano
detto ti avrei potuta trovare».
Gli occhi dell’elfa furono bagnate da alcune
lacrime, e lei, distolto lo sguardo dallo specchio, adagiò nuovamente la testa
sul cuscino.
«Ricordi quello che mi hai detto? Tutto ha un prezzo. Non si può ottenere
qualcosa senza sacrificare qualcos’altro. Tu vuoi generare una vita che
altrimenti non sarebbe mai in grado di nascere. La sola cosa che può compensare
il germogliare di una vita è il sacrificio di un’altra.»
«E tu hai scelto la tua.» disse Yuko.
Nemys sembrò sorridere, ma il suo era tutt’altro che un pianto di gioia.
«Anche se tu avessi donato tutti i tuoi poteri
a tuo figlio al momento della tua nascita, la tua essenza di Rinnegata avrebbe
compensato la mancanza di energia attingendone di nuova dalla linfa vitale del
mondo, anche contro la tua volontà, permettendoti di sopravvivere.
Invece, accettando di sottoscrivere il contratto, hai segnato la tua
condanna.»
«Io… io non volevo che fossero altri a pagare
per la mia decisione. E in ogni caso, come posso dire di voler proteggere
questo mondo se poi per sopravvivere mi vedo costretta a succhiarne la vita?
Credimi, è molto meglio così».
La strega non rispose, ma la tristezza sembrò aumentare, fin quasi a
farle versare una lacrima, ma poi la sua immagine scomparve nel nulla
nell’istante in cui qualcuno bussò alla porta.
«Chi è?» domandò Nemys, di nuovo sola
«Sono io.» rispose dall’altra parte la voce di Lsyn
«Entra pure».
L’elfa ubbidì, chiudendo la porta una volta entrata.
«Mi hai mandata a chiamare?»
«In effetti sì.» rispose la matriarca con tono
cupo, severo, che pochissime volte aveva usato con lei.
Lsyn si sentì piccola come una formica, e forse si domandava cosa poteva
aver fatto di male per meritarsi un tono tanto ammonitorio.
«Stai… stai un po’ meglio?» domandò cercando di allentare la tensione
«Abbastanza.» replicò Nemys con la medesima punta di rimprovero «Ho
sentito che hai parlato con Regis questa mattina.»
«Sì…» balbettò Lsyn «È… è così.»
«Zipherias mi ha
detto che gli hai raccontato particolari riguardanti la caduta dell’Impero e la
storia recente del Continente. Corrisponde al vero?»
«È… è vero».
Lo sguardo di Nemys a quella risposta, divenne,
se possibile, ancor più cupo.
«In questo caso, ti sarei grata se da adesso in poi evitassi di uscirtene ancora con argomenti di questo tipo.»
«Che cosa!? Ma…
perché?»
«Vedi, Lsyn…» replicò la matriarca, stavolta in modo più dolce e gentile
«La permanenza in questa epoca di Regis e di tutti
quelli che hanno viaggiato con lui sarà solo temporanea. Presto loro torneranno
indietro, al loro tempo. Tu forse hai sempre pensato al tempo come ad un fiume, che scorre lento in un’unica direzione. Ma la realtà è ben diversa. Il tempo è come un mare in tempesta;
è mutevole, variabile.
Ciò che Regis e i suoi compagni apprenderanno qui potrebbe modificare lo
scorrere degli eventi che segneranno il loro futuro, e questo, di conseguenza,
potrebbe avere degli effetti anche sul nostro tempo.»
«Ma…» disse Lsyn cercando di raggruppare le idee «Credi davvero che le
mie parole potrebbero essere sufficienti per provocare una simile eventualità?»
«Amica mia. Non solo il nostro, ma tutti gli
universi esistenti poggiano su un delicato equilibrio di causa ed effetto. Questo
ciclo fonda le sue radici sull’immediatezza; ad ogni
azione corrisponde una reazione. Esiste tuttavia una cosa chiamata spaziotempo,
una sorta di eccezione alla regola che consente di viaggiare attraverso il
tempo, ed è esattamente ciò che è successo nel nostro caso.
Al loro ritorno nell’epoca di origine, le decisioni e le azioni di Regis
e dei suoi compagni potrebbero andare al di là del
normale corso degli eventi causando quello che in alcuni libri della vecchia
biblioteca viene chiamato un paradosso temporale, che avrebbe come conseguenza
lo stravolgimento del futuro, del nostro futuro».
Lsyn, pur avendo capito molto poco di quella
discussione, rimase comunque sconvolta; era davvero possibile che delle comunissime parole, raggruppate in un’altrettanto
comunissima discussione, potessero produrre effetti di tale portata?
Però, forse non era solo questo a turbarla, e per Nemys, che era praticamente una parte di lei, Lsyn non aveva segreti.
Qualche minuto prima Erik, in cerca di una
risposta per quel che riguardava il misterioso circolo magico trovato nel libro
che gli era stato suggerito di consultare, era tornato dalla matriarca in cerca
di risposte. Sapeva che probabilmente gli ci sarebbe voluto un po’ per
convincere la guardia a farlo entrare, viste anche le precarie condizioni di
Nemys, ma invece, contro le previsioni, aveva trovato
l’ingresso alle stanze di Nemys completamente sgombro e privo di sorveglianza;
doveva esserci appena stato il cambio.
Erik si era avvicinato, ma aperta leggermente la porta si era accorto
che all’interno c’era anche Lsyn; nessuna delle due sembrava essersi accorta
del suo arrivo, e lui, spinto dall’interesse per gli argomenti in discussione,
aveva cominciato a origliare.
«Lsyn, c’è forse qualcosa che ti inquieta?»
«Come!?»
«Avanti, lo sai che con me puoi parlare».
Lei invece restò in silenzio, strofinandosi nervosamente le mani e
mordendosi le labbra.
«Io… ecco…»
«Lsyn, io capisco che tu sia molto turbata per
tutto ciò che sta accadendo. Ma ricordati che se oggi
tutto questo è possibile, è solo grazie a te. Se tu non mi avessi dato la vita, questa terra non sarebbe mai diventata quella
che è.
Come Regis ripete continuamente, questo mondo è fatto di scelte, e se
c’è una cosa che nessuno di noi dovrebbe mai fare è
tentare di cambiare le conseguenze di tali scelte, perché significherebbe
andare contro l’ordine delle cose».
Lsyn spalancò gli occhi, rimanendo a bocc’aperta;
d’altra parte, doveva aspettarselo. Nemys aveva centrato in pieno il problema,
mettendola di fronte alla realtà prima ancora che potesse trovare il coraggio
per esternarla.
«Lsyn, posso immaginare che dal momento in cui
hai incontrato Regis, tu non abbia desiderato altro che poter tornare indietro
per modificare gli eventi della tua vita. Purtroppo amica mia,
sarebbe un’impresa impossibile. Il portale può essere attraversato solo da coloro che hanno già viaggiato nel tempo; se tu provassi ad
entrarci, il tuo spirito si perderebbe sicuramente nelle pieghe del tempo, dove
rimarresti confinata per l’eternità».
L’elfa affondò ancor di più i denti nel labbro inferiore, stringendo con
forza i pugni e trattenendo a stento le lacrime.
«Mi dispiace molto. Ciò che è stato non può
essere cambiato. Però, ti prego, non essere triste. Io
capisco i tuoi sentimenti, ma il passato è passato, e nessun essere vivente è
in grado di cambiarlo. Inoltre, è dal passato che si genera il futuro. Se tu
oggi sei qui, insieme a me, è solo grazie al lungo
cammino che hai percorso».
Lsyn a quel punto non riuscì più a trattenersi, e corse accanto al letto
si lasciò andare ad un pianto liberatorio col viso
affondato nella tunica di Nemys; lei, sorridendo, prese ad accarezzargli i
capelli.
«Sono stata felice di conoscerti, amica mia. Mi
dispiace solo che il nostro periodo insieme sia stato così breve. Infondo,
avevamo ancora tante cose da condividere. Ma puoi stare certa che, in un modo
nell’altro, noi saremo sempre insieme.»
«Da… davvero?» domandò lei guardandola con gli occhi di una bambina
«Senza dubbio. Dopotutto, noi siamo come le due
parti di una stessa persona. Ognuna di noi porta dentro di sé una parte
dell’altra. Quando avrai bisogno di me, guarda nella tua anima. Io sarò sempre
lì, e non ti abbandonerò mai».
Quando, dopo poco, Lsyn lasciò la stanza, Erik era appoggiato alla
parete alla sinistra della porta, a braccia conserte ed
occhi chiusi; aveva ancora in mano il famoso libro, e sembrava aspettare
proprio lei; l’elfa per poco non saltò sul posto quando udì la sua voce cupa e
profonda, che giunse al suo orecchio ben prima che lei si accorgesse della sua
presenza.
«Ha ragione lei. Il passato è passato, e
indietro non si può tornare.»
«Come… come hai detto!?» domandò l’elfa confusa
e spaesata
«Noi facciamo scelte di continuo. Ad ognuna di esse corrisponde una conseguenza, e nella
maggior parte dei casi è impossibile sapere cosa quella scelta comporterà fino
a che non l’avremo fatta.
A volte si fanno scelte sbagliate, a volte il prezzo che paghiamo è
alto, ma se ciò accade l’unica cosa da fare è accettare il fatto compiuto e
andare avanti.
Voler cercare di cambiare il passato è un proposito estremamente
infantile, perché dimostra che non siamo in grado di assumerci la
responsabilità delle nostre azioni.»
«La… responsabilità…»
«Il passato non si può riscrivere, questa è una
realtà incontestabile. Ci sono solo due cose che si possono fare: puoi
gettartelo alle spalle, e far finta che non sia mai esistito, o puoi usarlo
come insegnamento e imparare qualcosa da esso.»
«Imparare qualcosa… dal passato?»
«Come vedi, anche questa è una scelta, e solo
tu puoi compierla. Indubbiamente voler trarre degli insegnamenti significa
confrontarsi giorno dopo giorno con i propri demoni, e per questo ci vuole
grande coraggio, ma se sei davvero determinata a percorrere questa strada
allora c’è un modo per essere certa di non commettere di nuovo gli stessi
errori.»
«E… quale
sarebbe?»
«Scrivi.
C’è un limite alla
quantità di dolore e di sofferenza che la mente può sopportare; i vecchi dolori
fanno posto ai nuovi, ma anche se la mente non li ricorda essi
restano lì, nel cuore, e non smettono di fare male; esternarli in qualche modo,
magari imprimendoli sulla carta, è l’unica cosa che può farli uscire allo
scoperto.
Sarà un’esperienza
difficile, molto dolorosa, perché ti costringerà a confrontarti una volta per tutte col peso del tuo passato, ma una volta
che sarai giunta alla fine avrai tratto da esso tutti gli insegnamenti
necessari ad andare avanti, e allora potrai anche lasciartelo alle spalle.»
«E tu… come lo
sai?».
Erik aprì gli
occhi, ma seguitò a guardare verso terra.
«Perché
un giorno, probabilmente, lo farò anch’io. Proprio come lui, io ho fatto troppe
scelte sbagliate nel corso della mia vita, e solo ora mi rendo conto di quanto
io sia stato cieco».
Detto
questo il giovane se ne andò, lasciando sopra una sedia lì vicino libro che
avrebbe voluto mostrare a Nemys.
Il parto avvenne poco prima dell’alba, e come predetto
Nemys non sopravvisse, morendo subito dopo aver dato alla luce una bambina; il
suo nome era Nilyan, che nella lingua dei Rinnegati
significava Purezza.
Gli abitanti di
Uruk ebbero appena il tempo di festeggiare la nascita della loro futura guida,
e subito dopo iniziarono i preparativi per il funerale della matriarca.
Alle sette in
punto, l’ora in cui il sole veniva tagliato
perfettamente in due dalla linea dell’orizzonte, alla presenza di un’intera
città vestita a lutto, nel piazzale del tempio si tenne una cerimonia funebre
degna del re dei re.
L’ora d’inizio del
funerale non era casuale; nel culto di Amon, infatti, il tramonto era l’unico
momento in cui le anime dei morti potevano lasciare il mondo fisico, salendo
sul carro solare che li avrebbe condotti nel regno dell’aldilà, dal quale, a
meno di non aver raggiunto l’illuminazione, sarebbero presto ripartiti per
iniziare un nuovo ciclo.
Il piazzale era un
unico, immenso mare di vesti scure; le donne, soprattutto quelle anziane,
levavano al cielo preghiere solenni in forma di canto, altre invece piangevano
ininterrottamente, arrivando a strapparsi i capelli.
L’intero plotone
dei Celestiali, bardati a lutto, formava un cordone naturale che separava la
folla dalla base della gradinata del tempio, dove era allestita la pira
funeraria sul quale era stato posto il corpo senza
vita della matriarca, avvolto nel tradizionale sudario bianco.
Il principe Isnark
assisteva da davanti l’ingresso dell’edificio, seduto
su di un trono di legno, e teneva tra le braccia la figlia Nilyan.
Al suo fianco, in piedi, stavano Lsyn e Toshio; Erik invece assisteva alla
scena seduto in una rientranza del frontone, da cui aveva un’ottima vista dei
fedeli che affollavano non solo l’area dei templi, ma anche tutta la zona
attigua alle mura di quest’ultima, e nel vedere così tante persone non riuscì a
trattenere una risatina.
Che ironia.
Quanti onori per
un semplice mucchio di paglia.
Nemys, dopotutto,
era pur sempre una Rinnegata, ed in quanto tale il suo
corpo si era dissolto pochi istanti dopo la sua morte; tuttavia, a differenza
di quanto accadeva solitamente, invece di trasformarsi in cenere le spoglie di
Nemys erano invece diventate un grande ammasso di polvere luminescente, che
sollevandosi in cielo si era diffuso in tutta la stanza prima di scomparire
gradualmente dopo qualche minuto.
La matriarca aveva
difeso il suo segreto fino all’ultimo, e ora se lo sarebbe portato nella tomba.
Ad
un cenno di Isnark, la madre badessa si avvicinò alla pira, tenendosi tuttavia
ad una certa distanza, e non appena batté a terra il suo bastone tutto attorno
a quella specie di altare in legno si materializzò un circolo magico che
brillava di verde, e quando, dopo circa un minuto, il cerchio scomparve, tanto
della pira quanto del finto corpo non era rimasto più nulla.
Quello era
indubbiamente l’onore più grande al quale potesse aspirare un credente del
culto di Amon: la religione del sole precisava che nulla doveva restare delle
spoglie mortali di un vivente dopo che questi era morto, altrimenti l’anima, nel
tentativo di rientrarvi, avrebbe finito per smarrire la strada che conduceva
alla nuova rinascita.
La gente comune
solitamente ricorreva alla cremazione, ma ai nobili di alto rango, o a chi
poteva permettersi di pagare uno stregone professionista, era riservato quel particolare rito magico, in grado di
disperdere il corpo nell’etere riducendolo in materia di proporzioni
microscopiche che, trasportata dal vento, avrebbe un giorno generato la vita in
altri luoghi.
Erik assistette
per un po’ anche alle celebrazioni che seguirono il rituale in sé, poi, quando
il sole scomparve del tutto, lasciando il posto a quella che si proponeva di
essere una notte stupenda, dispiegò le ali e volò verso la foresta, sentendo il
bisogno di restare da solo.
«Addio, Nemys.»
disse mentre scompariva divorato dal buio.
Per tutta la notte
rimase nascosto, in disparte, meditando a lungo su quanto era accaduto in quell’incredibile
viaggio nel futuro, su quanto aveva ricordato e su quanto gli rimanesse ancora
da scoprire, poi, al sorgere del nuovo giorno, raggiunse le famose rovine nella
foresta, attorno alle quali si erano accampati una
ventina di soldati terrestri, sicuramente gli stessi giunti assieme a Toshio.
Appena il portale
si riaprì, senza neanche fermarsi a dare spiegazioni, Erik vi volò rapidamente
dentro, fra gli sguardi attoniti dei soldati, che colti alla sprovvista non
fecero neanche in tempo ad accennare una reazione. A differenza della prima
volta, il giovane ebbe modo di sperimentare appieno quell’esperienza,
trovandosi a volare in una sorta di enorme tubo multicolore, simile all’interno
di una gigantesca galleria.
Per un attimo, nel
momento di varcare la soglia, aveva temuto gli effetti della maledizione, ma i suoi
timori erano svaniti quando si era accorto che l’incantesimo di Nemys lo stava
proteggendo energicamente.
Prima di quanto
potesse aspettarsi, forse anche troppo presto per poter
assaporare veramente la singolarità di un’esperienza tanto particolare, Erik si
ritrovò esattamente nel luogo dal quale era partito, nel bel mezzo di quell’accampamento
semidistrutto che Toshio aveva difeso con tanto valore.
Di assalitori
neppure l’ombra, ma questo non poteva certo essere considerato un male.
In pochi minuti il
giovane raggiunse Sanae e Lily, che ancora lo attendevano rinchiuse all’interno
della cupola magica che le rendeva invisibili agli occhi di chiunque tranne che
ai suoi.
«State bene?»
domandò una volta annullato l’incantesimo
«Sì, tutto a
posto.» rispose Sanae
«Ehi, ma dove li
hai trovati quei vestiti?» domandò la fata notando il nuovo look del suo
compagno di viaggio «Devo dire che ti donano più di quella vecchia palandrana.»
«È
una lunga storia. Ve la racconterò strada facendo. In marcia ora.»
«E dove andiamo?»
chiese la giovane Inu.
Erik restò un
attimo in silenzio, come soprapensiero, poi alzò gli occhi al cielo.
«Questo
ancora non lo so. Ma ci sono un bel po’ di cose che voglio scoprire.»
«E per quanto
riguarda la tua vendetta?» domandò Lily
«La vendetta…»
rispose Erik a sguardo basso «… a quella penserò in un altro momento».
Sanae e Lily
rimasero a bocc’aperta a quell’affermazione, e quando
Erik si girò nuovamente a guardarle entrambe poterono notare qualcosa di nuovo
nel suo sguardo.
«Andiamo ora».
Erik non attese
neppure di percepire nuovamente il vincolo che lo legava a Toshio, e prima
ancora che il suo alter-ego potesse far ritorno nel presente lui si era già
rimesso in marcia.
Non sapeva bene dove stava andando, ma di una cosa era certo: come
aveva detto a Sanae, c’erano molti segreti che attendevano di essere svelati, come
la vera natura delΜένοςἄδηλος e la sua
correlazione con la Strega
delle Dimensioni,
ed Erik sentiva dentro di sé la certezza che sbrogliando quell’intricata
matassa avrebbe compiuto il passo decisivo per ottenere il controllo definitivo
sul suo potere.
Aveva viaggiato
per otto anni, ma il suo viaggio, quello vero, e di questo ne
era sicuro, era solo all’inizio.
Nota dell’Autore
Salve a tutti!
Siamo infine giunti
al capitolo 30 di questa fan fiction che, sicuramente,
si propone di essere la più lunga che abbia mai scritto fino ad ora.
Voglio ringraziare
tutti i lettori che hanno continuato a seguirla, e rivolto un ringraziamento
particolare a Selly,
Akita e
alla nuova arrivata Cleo92 per le
loro recensioni.
A quest’ultima dico
anche benvenuta, e quasi mi dispiace doverle dire che il suo arrivo coincide
anche con un lungo periodo di riposo per questa fan fiction.
Per Millennium War – Rebirth,
infatti, inizia da oggi un lungo periodo di riposo, la cui durata è tutto fuorché una cosa sicura. Di sicuro c’è solo che questa
storia continuerà, questo è garantito.
Il motivo di questo
nuovo stop è dovuto al fatto che da questo momento in poi mi dedicherò ad una nuova fiction, intitolata Millennium
War – The Origin, che costituisce l’antefatto degli
eventi qui riportati, nonché il primo episodio di una saga che si propone di
comporsi di 3 episodi ufficiali (The Origin – Rebirth – ShinariChronicles) e 2 spin-off (OneDay, We’llFind e Revelation, quest’ultima
incentrata su Erik).
Per chiunque sia
interessato, il prologo di The Origin è già online, e
presto inserirò il primo capitolo.
Era stato un viaggio lungo e difficile, irto di imprevisti, ma finalmente Regis aveva raggiunto la sua
meta.
Quando, giunto
davanti al grande toori dipinto di rosso, cominciò a
salire lentamente la lunga e ripida scalinata che saliva lungo la collina,
quasi non gli parve vero di essere quasi arrivato.
Aveva partecipato ad una rivolta civile, combattuto per fermare le velleità
imperiali di una sovrana assetata di potere, incontrato l’incarnazione dei suoi
incubi più oscuri e viaggiato nel futuro grazie ad un apparecchio dalle origini
sconosciute, ma ora il suo obiettivo era lì, davanti a lui.
Al termine della
scala, sulla sommità della collina, circondata da un possente muro di cinta,
sorgeva la dimora secolare del venerabile Maestro Rasnak,
cavaliere d’onore del Sacro Regno di Normar e Gran Maestro dell’ordine delle
Spie.
La vita del
maestro Rasnak sembrava tratta da un racconto
popolare, tanto era stata avventurosa e movimentata.
Non vi era
coerenza sulle sue origini; qualcuno sosteneva che fosse l’ultimo discendente
degli Elfi Neri, una minoranza ormai completamente estinta, caratterizzati dai
capelli bianchi e dai tratti somatici tipici del Continente Orientale, qualcun
altro che provenisse da una famiglia di nobili decaduti imparentati con la
stirpe reale.
Per secoli e
secoli era stato una delle figure più emblematiche del
suo popolo; esperto conoscitore delle arti marziali, da oltre settecento anni
aveva fondato la sua intera esistenza sui dettami e i principi del bushido, il codice d’onore che regolamentava la vita dei
samurai.
Nessuno sapeva per
esattezza chi o che cosa fosse stato prima di dedicarsi anima e corpo alla
tecnica della katana, ma c’era chi sosteneva che il suo passato fosse segnato
dal dolore, un dolore testimoniato dalla mancanza
dell’occhio destro.
L’unica cosa certa
era che prima di essere un samurai era stato il più giovane membro dell’alto
consiglio dei maghi, il solo fra quelli della sua generazione ancora in vita,
ed era stato l’artefice di alcuni degli studi più significativi
nel campo della magia, questo almeno prima di abbandonarla del tutto,
rifiutandosi persino di insegnarla ai suoi allievi.
In virtù della sua
grande esperienza e della fama che avvolgeva la sua figura la
casa reale di Normar gli aveva conferito il titolo di Maestro, un onore che
solitamente veniva conferito solo a chi fosse stato a sua volta una spia.
Rasnak non aveva accolto molto bene questa nomina, ma
d’altro canto non poteva neppure rifiutarsi, e le sue conoscenze erano di un
livello decisamente troppo allettante perché Normar
accettasse di privarsene con tanta facilità.
Per alcuni anni
tutto era andato bene, poi, all’improvviso, un paio di centinaia di anni prima,
il maestro aveva tagliato completamente i ponti con il mondo esterno e si era
chiuso nella sua dimora fra le montagne come un eremita; la fama e il rispetto
che si era conquistato nei cuori degli abitanti del
regno lo proteggevano efficacemente dai piani di vendetta che sicuramente
Lainay stava architettando contro di lui, soprattutto a fronte di un sempre più
preoccupante consenso che la sua figura stava riscuotendo fra i ribelli, e
anche se non aveva mai preso una posizione chiara dalle sue poche parole
traspariva una certa opposizione al regime autoritario di Normar.
La sua casa, un
vero eremo a cui pochi erano ammessi, era un insieme
di edifici bassi e lunghi elegantemente disposti attorno ad un giardino ben
curato e dominato da un laghetto in cui nuotavano decine di pesci rossi.
Il dojo, riservato da sempre all’addestramento, si trovava sul
retro, ed era raggiungibile unicamente percorrendo i corridoi all’aperto che
collegavano tra di loro le varie parti dell’abitazione.
Il maestro Rasnak viveva quasi in solitudine; le sue uniche compagnie
erano Kite, il bellissimo cane bianco e rosso
regalatogli pochi anni prima, si diceva, da un villaggio di tengu,
e Mariko, una giovane Inu
che aveva comprato ancora da bambina al mercato degli schiavi che si teneva nel
capoluogo e che, anche dopo la liberazione, era voluta rimanere assieme a lui
per aiutarlo a tenere in ordine quella grande magione, la quale, a dispetto
della sua aria austera e povera, necessitava di una
cura continua.
Trovandosi di
fronte al portone ligneo dominato da due volti ghignanti di demoni infernali Regis non riuscì a non ricordare il giorno in cui si era
ritrovato lì per la prima volta, quasi sei anni prima, al termine di un viaggio
altrettanto lungo che allora aveva come fine ultimo la prospettiva di diventare
l’allievo di uno dei più famosi e rispettati insegnanti del Continente.
Bussò
due volte, come aveva fatto anche molto tempo fa, e dopo poco Mariko venne ad aprirgli.
«Regis!» disse
abbracciandolo «Che bella sorpresa.»
«Mi sei mancata, Mariko.»
«Ne
è passato di tempo. Il maestro è in casa?»
«Sì,
è nella sala del tè.
Sarà felice di
rivederti. Ti accompagno subito da lui.»
«Ti ringrazio».
Non era cambiato
assolutamente nulla dall’ultima volta; erano passati quasi tre anni da quando
Regis aveva lasciato quella villa al termine di un allenamento lungo e
difficile, che lo aveva segnato nel profondo come pochi altri eventi della sua
vita erano stati in grado di fare.
Percorrendo i
corridoi all’aperto il guerriero aveva come
l’impressione di fare un nuovo salto nel tempo, e quasi gli venne un po’ di
malinconia ricordandosi di quanto gli anni trascorsi ad esercitarsi in quel
luogo al di fuori del mondo fossero stati carichi di quiete.
Mariko condusse Regis dinnanzi
alla sala del tè, annunciando l’ospite inatteso.
«Maestro.
Regis è arrivato.»
«Fallo entrare.»
disse dall’altro lato una voce robusta e profonda.
La Inu
si fece rapidamente da parte, quanto a Regis, inginocchiatosi, fece scorrere
lentamente i battenti in legno e carta di riso, e subito dinnanzi a lui, dalla
parte opposta al tavolino che stava al centro della stanza, comparve la figura
autoritaria e per certi versi enigmatica del maestro Rasnak.
Dall’alto dei suoi
novecento e passa anni quell’elfo sapeva incutere
timore e riverenza quanto e più di sua maestà la regina.
Il viso lungo e un
po’ schiacciato, segnato dalle rughe e dalla menomazione all’occhio destro, era contornato da un accenno di barba, e i capelli, un tempo
naturalmente bianchi, ma ora ingrigiti, erano raccolti in un codino alla
maniera dei samurai.
Anche il suo
abbigliamento richiamava in tutto e per tutto un guerriero d’oriente, con un
paio di larghi hakama quasi neri e una giacca a
maniche lunghe grigio scuro stretta in vita da una fascia alla quale era
assicurata solitamente Masamune, la katana avuta in
dono dallo Shogun di Kogachi, ora invece appoggiata a
terra accanto a lui, come era naturale ogni volta che
il maestro era seduto.
Malgrado avesse un
solo occhio il suo sguardo trasmetteva appieno quella
forza e assoluta profondità che solo un animo temprato dalle dure prove della
vita e dai precetti del bushido poteva vantare.
«Ben arrivato,
Regis.»
«Maestro.» rispose
il ragazzo facendo un inchino
«Mariko, per favore portaci del tè.»
«Subito».
Si sedettero l’uno di fronte all’altro, e appena Mariko servì loro il tè che il maestro aveva richiesto,
lasciandoli poi nuovamente soli, stettero a lungo immobili a guardarsi; poi, Rasnak sorseggiò un po’ della sua bevanda.
«Allora,
Regis. Che cosa ti porta qui?»
«Maestro.
Ho bisogno del vostro consiglio.»
«Ti
ascolto. Parla pure».
Regis temporeggiò,
strusciando le mani sudate sulle ginocchia e mordendosi le labbra, poi però
decise di lasciarsi andare e cominciò a raccontare tutto quello che gli era
accaduto; parlò dell’attacco a Qerin, del combattimento contro Valon e della missione che il sovrano di Fiya intendeva
assegnargli, con tutti i rischi e i dolorosi ricordi ad
essa connessi.
Il maestro Rasnak ascoltò senza battere ciglio, come
era naturale ogni volta che si faceva carico dei timori e delle
incertezze del suo allievo, e quando Regis iniziò a manifestare i propri timori
su ciò che lo attendeva parve rimanere del tutto impassibile.
«Voi lo sapete Maestro, vero? Sapete quali circostanze mi abbiano
condotto qui. Il torneo è stata la mia maledizione, e
ora mi sembra di essere tornato indietro, al punto di partenza».
Il maestro bevette
un altro po’ del suo tè per poi portare gli occhi a terra.
«L’incertezza
è un male orribile, soprattutto per un guerriero. D’altra parte però, è una componente fondamentale del nostro animo, una delle tante
cose che ci rendono umani.
Il futuro porta
sempre con sé delle incognite. Non esistono certezze, come non esistono garanzie. Noi possiamo solo fare la nostra parte.
Tu hai superato
molte prove, più di quante se ne potrebbero sopportare in una vita intera.
Indubbiamente il fato ha voluto metterti un peso molto grande sulle spalle. Se
accettarlo e andare avanti o lasciartelo alle spalle e proseguire per la tua
strada, questa è una scelta che spetta solo a te».
Regis non rispose,
ma Rasnak riuscì a leggere qualcosa nel suo sguardo.
«Il
viaggio che ho compiuto per arrivare fino a qui mi ha fatto capire molte cose.
Ero partito con la
convinzione che non sarei mai stato capace di radunare il coraggio necessario ad imbarcarmi di nuovo in un’impresa tanto difficile e piena
di incognite, ma tutto quello che mi è capitato in questi tre mesi se non altro
è servito a ricordarmi tutto ciò per il quale mi sono sempre battuto.
Sotto questo aspetto, posso dire di essermi lasciato alle spalle
molti dei miei interrogativi. Tuttavia, ce ne sono degli altri che continuano,
nonostante tutto, a tormentarmi.»
«E sono questi
interrogativi che ti hanno condotto qui?»
«Questo viaggio
che sto per iniziare mi inquieta profondamente.
Ho come la
sensazione che la storia legata alla leggenda delle
sette gemma e della guerra sacra ad essa legate sia molto più grande e
complessa di come potrebbe apparire.
Quello che ciò mi
spaventa è la prospettiva di ciò che potrei trovare alla fine di questa
impresa. Se devo essere sincero, questa paura è ancora più grande di quella di
non poter essere in grado, un giorno anche lontano, di tornare nel mio mondo.»
«In altre parole,
hai paura delle conseguenze.»
«Diciamo così.»
«Da cosa è dettata questa tua paura? Ti sei imbarcato molte volte in
imprese pericolose e portatrici di mille segreti, ma non hai mai esitato.»
«Ecco…
io non lo so. È come una sensazione distante. Un presentimento. Sento che se
dovessi riuscire a radunare tutte le gemme, ciò porterebbe più male che bene.»
«Le
certezze non esistono ragazzo mio. Questo mondo è fatto di dubbi, di
possibilità. Forse hai ragione, forse no, ma fino a quando rimarrai immobile a
riflettere non potrai mai darti una risposta, e la tua inquietudine non
svanirà.»
«In
questo non posso darvi torto. Eppure… questo non mi fa sentire più tranquillo».
Il maestro per
l’ennesima volta non fece una piega, almeno all’apparenza, ma quando vide Mariko passare casualmente oltre la porta scorrevole la
chiamò dentro, pregandola di andare ad avvertire l’altro ospite di scendere
immediatamente, e alla richiesta di Regis su chi fosse questo
altro ospite il vecchio elfo rispose con un.
«Non lo
immagini?».
Dopo pochi minuti
l’uscio di spalancò nuovamente, e l’ultima persona che Regis avrebbe mai
immaginato di incontrare gli si palesò dinnanzi.
«Tijorn!?»
«Regis!?»
«Che cosa ci fai tu
qui?»
«Potrei farti la
stessa domanda».
Nessuno al mondo
lo avrebbe mai immaginato, ma Regis e Tijorn si
conoscevano da molto più tempo di quanto chiunque fosse loro vicino avrebbe mai
potuto immaginare.
Quando Regis si
era presentato al portone della villa per chiedere di venire
preso come allievo Tijorn era già il discepolo
segreto del maestro Rasnak da quasi mezzo secolo. Fra
i due esisteva una solida amicizia, temprata da tre anni di esercizi
massacranti e da un sano spirito di rivalità che aveva permesso loro di
raggiungere un livello di apprendimento quasi impensabile per molti di quelli
che li avevano preceduti.
Per certi versi, e
questo il maestro lo ripeteva spesso, Regis e Tijorn
erano molto simili: entrambi possedevano un spirito
tenace e una volontà d’acciaio, ma erano anche combattenti onorevoli e uomini
di valore, che mettevano l’onore e il rispetto sopra ogni altra cosa.
Il loro incontro
fugace durante il grande torneo, il primo dopo quasi tre anni, non aveva
concesso il tempo per una vera rimpatriata, mentre la sfortunata circostanza
che nuovamente aveva fatto incrociare le loro strade in quello squallido lazzaretto non poteva certo dirsi propizia.
«Quando sei
arrivato?» domandò Regis avvicinandosi a lui
«Due
giorni fa. Sono partito il giorno dopo che ci siamo
incontrati.»
«E
Lsyn? Come sta?»
«È
ancora al lazzaretto. Il mio maestro si sta occupando di lei.»
«Entrambi siete
stati condotti qui dal vostro desiderio di dissolvere le tenebre che opprimono
le vostre anime.» disse il maestro Rasnak alzandosi
in piedi «Ed entrambi mi conoscete abbastanza bene da sapere che il modo
migliore per purificare lo spirito è far parlare il proprio talento».
Il maestro aveva
perfettamente ragione; per due guerrieri che in tre anni non hanno fatto altro
che sfidarsi in amichevoli competizioni per testimoniare la propria esperienza
e nel contempo permettere a quella del compagno di
aumentare non c’era niente di meglio di un sano confronto per schiarirsi le
idee e ritrovare sé stessi.
Regis e Tijorn avevano combattuto tra di loro innumerevoli volte
durante l’addestramento, e per loro fu un po’ come ritornare a quei tempi,
tempi in cui entrambi si sentivano tutto sommato sereni e spensierati, pieni di
aspettative per il futuro e di voglia di andare
avanti.
Messisi dietro il
loro maestro lo seguirono, lentamente e in silenzio,
fino nel dojo, un locale di vaste proporzioni adatto
ad ospitare scontri di ogni tipo, e appena furono entrati, mettendosi l’uno di
fronte all’altro, entrambi posarono a terra la propria spada: nel dojo, infatti, a nessuno era concesso fare uso di armi.
Anche Mariko assisteva alla sfida, inginocchiata accanto al
maestro.
«Quante volte lo
avremo fatto?» domandò Tijorn mettendosi in posizione
di guardia
«Almeno un migliaio.»
rispose Regis assumendo la stessa posa e lanciando il medesimo sorrisetto provocatorio.
Per interminabili
secondi regnò il silenzio più assoluto, poi, come se un impercettibile
movimento dell’occhio del maestro fosse stato il segnale di un gong, Regis e Tijorn scattarono l’uno verso
l’altro.
L’elfo colpì per
primo con un potente colpo a mano aperta che Regis deviò con il polso per poi
assestare un calcio, ma anche Tijorn fu rapido a
schivare.
Avevano combattuto
insieme innumerevoli volte, e ormai conoscevano a memoria il repertorio l’uno
dell’altro, di conseguenza coglierli alla sprovvista non era impresa facile.
Servirono cinque
minuti di scontro senza quartiere perché finalmente uno dei due riuscisse a
mandare a segno un attacco, e a riuscire nell’impresa fu Tijorn,
che scavalcata la difesa di Regis lo colpì allo zigomo destro con terrifica
precisione.
L’umano incespicò
leggermente all’indietro, tornando però subito in posizione, e allora il
confronto si concesse un momento di pausa.
«Che ti prende, Regis? Mi sembri un po’ sotto tono.»
«Non
fare tanto lo sbruffone. Anche tu non mi pari esattamente al top.»
«Ma
davvero? Non sono io quello con la guancia rossa.»
«A questo
rimediamo subito!».
Con una mossa a
dir poco fulminea Regis fu addosso all’amico e, cogliendolo del tutto
impreparato, lo fulminò al medesimo zigomo con una forza tale che per poco Tijorn non cadde all’indietro; il diretto fu abbastanza
forte da farlo sanguinare leggermente dalla bocca, e l’elfo, ripulitosi
sorridendo il rivolo rosso con il pugno, tornò a restituire il favore.
Ne seguì una
battaglia memorabile, un vero spettacolo per chiunque fosse capace di
apprezzarla, ma dopo quasi mezz’ora di combattimento quello che era iniziato
come un confronto di agilità e prontezza di riflessi divenne invece una prova
di resistenza.
Al trentaduesimo
minuto sia Regis cheTijorn
avevano la faccia piena di segnacci inferti dai colpi dell’avversario; Tijorn aveva un occhio nero, la guancia rossa e perdeva
ancora sangue dalla bocca, Regis invece tutti e due gli zigomi gonfi e il setto
nasale probabilmente slogato.
Mariko, a cui era sempre toccato
il triste compito di ricucirli insieme al termine di uno scontro, era molto
preoccupata, anche perché con tutto il tempo che aveva passato in loro
compagnia si era molto affezionata a quelle due teste calde, e le dispiaceva
enormemente che si riducessero in quello stato.
«Maestro,
vi prego. Dovete fermarli».
Rasnak, però, non sembrava intenzionato a farlo, e rimaneva
immobile a braccia conserte a guardare i suoi allievi.
«Maestro…»
«Lasciamoli fare.»
«Ma…
potrebbero farsi male seriamente. Cosa succederebbe
se…»
«Guardali».
La
inu, obbedendo al maestro,tornò ad osservare i due ragazzi, e allora
non riuscì a non rimanere sorpresa: stavano sorridendo, e sembravano anche
molto felici, nonostante tutte le menomazioni che si ritrovavano.
«Stanno…
sorridendo…»
«Ti diverti?»
domandò ad un certo punto Regis
«Come non mi
accadeva da anni.» rispose Tijorn
«Vale lo stesso per
me».
Nessuno dei due infatti ricordava di essersi sentito più tranquillo e in
pace dai tempi in cui avevano concluso il loro addestramento.
Entrambi venivano
da esperienze difficili, segnate dal dolore, ed erano arrivati fin lì in cerca
di risposte, e in situazioni simili, proprio come diceva il maestro, non c’era
niente di meglio di un sano ritorno alle origini per schiarirsi le idee.
«Ora, col tuo
permesso» disse l’elfo «Vorrei chiudere la questione.»
«Fatti
avanti. Ti aspetto».
Ne seguì un nuovo,
interminabile istante di quiete assoluta, poi i due si corsero incontro a pugno
tratto e gridando con tutto il fiato che avevano; nessuno si preoccupò di
pensare alla difesa, perché in ogni caso quello sarebbe stato l’assalto
decisivo.
Tijorn spedì il suo destro micidiale diritto sulla guancia
di Regis, il quale riuscì a fare altrettanto colpendo l’elfo proprio in mezzo
al torace.
Fu un colpo
terribile per entrambi, e di primo attrito persino il maestro ebbe qualche
difficoltà a capire chi dei due sarebbe riuscito a rimanere in piedi dopo aver
incassato un colpo simile.
Poi, quasi
all’unisono, sia Regis cheTijorn
stramazzarono sul pavimento di legno; erano stanchi, doloranti e semi-svenuti,
ma sorridevano come e più di prima.
Regis riprese conoscenza solo a notte fonda, e aperti gli
occhi si ritrovò disteso su di un futon in quella che per molto tempo era stata
la sua camera.
Si accorse subito
di avere nuovamente una faccia quasi normale, questo grazie agli unguenti e
alle pomate miracolose di Mariko, che da sempre era
stata molto ferrata nell’arte dell’erboristeria; sentiva ancora un po’ di
dolore, ma niente di insopportabile per uno come lui.
Alzatosi, uscì
all’esterno, e proprio come aveva previsto trovò Tijorn seduto di spalle ai piedi del laghetto nel centro
del giardino.
«Ah, sei sveglio.» disse appena si fu accorto della sua presenza.
Anche lui aveva
riacquistato un aspetto tutto sommato presentabile, ma
a Regis venne quasi da ridere vedendo quell’occhio mezzo aperto.
«Così pare.» rispose
l’umano andandosi a sedere accanto a lui
«Come al solito. Sei sempre stato più lento di me a recuperare dai
postumi di una ripassata.»
«Ma
sentilo. Fino a prova contraria mi sono serviti molti meno colpi di te per
mandarti al tappeto.»
«D’accordo.
Allora diciamo che mentre tu possiedi il migliore attacco io invece possiedo la miglior ripresa».
Il battibecco finì
in una risata amichevole, poi entrambi tornarono ad
osservare il cielo.
L’aria era pulita,
tirava una brezza fredda ma tutto sommato piacevole e una fantastica luna piena
risplendeva in tutta la sua bellezza.
«Sai.» disse ad un certo punto Tijorn «Stavo
pensando al giorno in cui arrivasti qui. Te lo ricordi?»
«E
come potrei dimenticarmelo? Il maestro all’inizio non volle neppure
incontrarmi.»
«Rimanesti per una settimana intera seduto davanti al portone nell’attesa
di poter vedere il maestro, e anche dopo che lui ti aveva minacciato e
scacciato in tutti i modi possibili tu non cedesti.»
«Mariko mi portava da mangiare di nascosto. Fu un bene,
altrimenti credo che sarei schiattato.»
«A
dire il vero, il maestro lo sapeva benissimo. L’ha lasciata fare perché era
curioso di vedere fino a quando avresti resistito. Alla fine la tua
determinazione lo colpì e accettò di prenderti con noi.»
«Ricordo che il
maestro aveva molti pensieri allora, ma non ha mai voluto dirmi quale fosse la
fonte del suo dolore.»
«Se
vuoi, posso dirtelo io.
Ti ricordi di Valon, il tizio che ha attaccato Qerin durante il torneo?»
«Come potrei
dimenticarmelo?»
«Era
lui la causa di tutto. Valon era stato suo allievo,
oltre che mio compagno di allenamenti.»
«Che cosa!?» esclamò Regis a occhi sbarrati
«Ricordo
che lo condusse qui quando non aveva neanche dieci anni. Era un orfano
cresciuto per le strade, ma aveva un potenziale incredibile.
Il maestro gli
insegnò tutto quello che sapeva. Forse sperava di aver trovato finalmente una
persona degna di succedergli in tutto e per tutto, e per un momento sono stato
geloso dell’onore che a quanto pare gli era stato concesso.
Invece, dopo che
se ne fu andato da qui, i germi dell’ambizione e della crudeltà maturarono
dentro di lui, trasformandolo nella persona che hai incontrato.
Al maestro gli si
spezzò il cuore; tutte le sue speranze erano svanite di fronte all’evidenza di
aver creato un mostro.
Ancora mi
sorprende che nonostante tutto accettò di tenermi con sé. Probabilmente lo fece
solo in nome della promessa che aveva fatto al mio primo maestro, ma mai avrei
immaginato che un giorno avrebbe accettato di istruire qualcun altro.
Poi però, sei
arrivato tu, e lui è sembrato rinascere.
Tu conosci la sua
storia, vero?»
«Vagamente.»
«Il
maestro smise di esercitare al servizio di Normar molto tempo fa, quando fu
uccisa la sua ultima allieva. Mi disse che non voleva più avere le vite di
tanti giovani elfi sulla coscienza, che non voleva più sapere le sue conoscenze
asservite al volere di una regina assetata di potere.
Per questo gli
promisi che mai e poi mai avrei usato i suoi insegnamenti durante una qualsiasi
delle mie missioni, e che anzi mi sarei fatto carico di trasmetterle ai miei
allievi, al fine di creare elfi guidati dalla ragione e dal rispetto per la
vita più che da un’insaziabile sete di sangue.»
«Vuoi diventare un
maestro?»
«Ho
presentato la domanda qualche giorno fa. Dovrei ricevere la risposta in breve
tempo.
Ad ogni modo,
quando arrivasti tu, lui parve ritrovare di colpo tutto lo spirito e la voglia
di vivere che sembrava aver perduto per sempre. Disse che con te aveva
riscoperto le gioie e il senso di appagamento che vengono dall’insegnare il
proprio sapere a qualcuno che se ne dimostra degno, e disse che solo con me e
pochi altri fino ad ora era stato in grado di provare sensazioni simili.»
«Ho
sempre cercato di essere degno dell’onore che mi era stato fatto. Le tue parole
mi fanno capire che forse ci sono riuscito, e questo se non altro mi reca un
po’ di conforto».
Dopo qualche
minuto di silenzio, inevitabilmente, la discussione non poté che volgere sui
motivi che avevano spinto i due amici e compagni d’addestramento a fare ritorno
al luogo del loro primo incontro; Regis parlò per primo, spiegando al suo amico
la vicenda delle gemme e dei timori che non smettevano un attimo di
angosciarlo, timori dei quali non comprendeva l’origine ma che proprio non gli
riusciva di ignorare, poi fu il turno di Tijorn, che si fece cupo come un cielo di tempesta, e la
ragione della sua inquietudine non era difficile da immaginare.
«Io…
non la riconosco più. Quell’ammasso di carne non è la Lsyn che ho conosciuto.
Ci sono momenti in
cui mi domando se sia veramente lei».
Tijorn non era mai stato un tipo dal carattere labile, ma
in quell’occasione non riuscì ad evitare di piangere.
«È
stata anche colpa mia! Non mi sono mai minimamente curato dei suoi sentimenti
per il principe. Sapevo benissimo che la considerava solo un passatempo, ma ho
fatto finta di niente. Mi ero sempre ripetuto che ormai era abbastanza matura per capire da sola, e invece ho permesso che si lasciasse
guidare dall’istinto piuttosto che dalla ragione.
È come se ce l’avessi buttata io tra le fiamme!»
«Ti sbagli, amico mio. Tu non hai colpa.»
«Cosa!?»
«Normar
ha sfigurato Lsyn, non tu. Lainay si arroga il diritto di giocare con la vita
delle persone come più le aggrada. Lo ha fatto con suo
fratello, lo ha fatto con Lsyn, e lo farà ancora con molte altre persone.
Questo continente
soffrirà pene terribili a causa sua, ma verrà il giorno in cui sarà chiamata a
rispondere per tutte le sue colpe; quel giorno arriva per tutti i tiranni.
Per quel che
riguarda Lsyn, invece… come ti ho detto l’altra volta, restale vicino.
Come hai detto tu è fragile, emotivamente e caratterialmente, ma passerà
anche questo. Hai la mia parola che un giorno forse non lontano tua sorella
tornerà ad essere quella di un tempo; anzi, sarà anche
migliore».
Tijorn si accorse subito che c’era qualcosa di strano nelle
parole pronunciate dal suo amico; sembrava essere profondamente convinto di ciò
che stava dicendo, come se quelle cose le avesse già
viste coi suoi stessi occhi, e proprio per questo non appena un velo di
malinconia si posò sul volto di Regis l’elfo non riuscì a fare a meno di
provarla a sua volta.
«Tuttavia…»
«Tuttavia?»
«È probabile che
tu non sarai lì per vederlo».
Stranamente, Tijorn non si sentì triste o disperato, come invece avrebbe
dovuto essere per qualunque persona che viene messa
anticipatamente a conoscenza del destino che l’attende, soprattutto se si
tratta di un destino infausto. Se davvero Lsyn sarebbe diventata una persona migliore questo gli bastava, il resto non aveva poi grande
importanza.
E poi, si fidava
cecamente delle parole del suo amico; impossibile che non fosse così vedendo
quella sua espressione così afflitta e, allo stesso tempo, sicura di sé.
«Quando?» domandò
con aria evasiva, tornando a fissare la luna
«Cinquant’anni.
Forse meno.»
«Non è molto, ma
mi accontenterò.»
«Mi
dispiace. Forse non avrei dovuto dirtelo. È stato più forte di me.»
«Non
fa niente. Se tutto quello che mi hai detto è destinato
a succedere, morirò senza rimpianti».
Riflettendoci
sopra Tijorn non riuscì a trattenere una risatina.
«È
buffo. Qualsiasi umano sarebbe felice di sentire che ha ancora mezzo secolo di
vita dinnanzi a sé, invece per un elfo è tutta
un’altra questione.»
«Uno
scienziato del mio mondo aveva una massima. Il tempo è relativo.»
«Mai proverbio fu
più giusto.»
«Mi ha fatto molto
piacere conoscerti.»
«Lo
stesso vale per me. Sei il mio migliore amico».
Tijorn a quel punto si tolse il guanto che copriva la mano
destra, mettendo a nudo un segno orizzontale, quasi
sicuramente lasciato da una grave ustione da conduzione, che attraversava il
palmo da parte a parte.
«Siamo praticamente fratelli.» disse facendolo notare a Regis.
Si guardarono, poi
sorridendo si strinsero vigorosamente la mano.
«Qualsiasi cosa
accada» disse l’elfo «La nostra amicizia durerà per sempre.»
«Per
sempre. Hai ragione.»
«Ti
auguro di tornare al più presto nel tuo mondo. E non temere. Dovessero passare
mille anni, semmai un giorno dovessi aver bisogno di aiuto
mi troverai al tuo fianco. Non importa come, non importa quando, io ci sarò.»
«Ti
ringrazio. Non lo dimenticherò».
Il mattino dopo venne il momento dei saluti.
Il maestro Rasnak, fra le altre cose, conosceva l’ubicazione di un
vecchio pentacolo nascosto nel profondo di una grotta che sorgeva proprio sotto
la collina; non gli era mai capitato di utilizzarlo, per il semplice motivo che
non ne aveva mai avuto bisogno, ma se si trattava di tagliare l’intero continente
da una parte all’altra per fare ritorno a Qerin era molto meglio
quello che sorbirsi altri due o tre mesi a dorso di cavallo.
Anche Mariko e Tijorn erano presenti,
del resto non avrebbero mai rinunciato alla possibilità di dare l’ultimo saluto
al loro fidato compagno.
Regis era già al
centro del pentacolo.
«Allora, ragazzo.»
disse il maestro Rasnak «Hai risolto i tuoi dubbi?»
«Non del tutto.»
rispose lui senza però mostrarsi intimorito o preoccupato «Ma
in compenso ho capito che, come avete detto voi, stare a rimuginarci sopra
serve solo ad aumentare l’angoscia.
Non ho ancora
abbandonato la speranza di tornare a casa, così come non ho dimenticato cosa
significhi combattere in nome di una causa. Questo mondo mi ha accolto e mi è
stato amico, e io ho il dovere di fare la mia parte
per proteggerlo.»
«Ma sentilo, la primadonna.» disse scherzosamente Tijorn
«Forse è vero che
potrebbero esserci delle conseguenze, ma ci penserò quando sarà il momento.»
«Sono
fiero di te, ragazzo. Sono fiero di tutti e due. Voi
due siete come dei figli per me. Vi ho visti crescere
e maturare, sia come guerrieri che come uomini. Ormai non c’è più niente che io
vi possa insegnare. È giunto per voi il momento di andare per la vostra strada.»
«Grazie per tutto
ciò che hai fatto per noi, maestro.» disse l’elfo
«Umilmente
grazie.»
«No,
ragazzi. Grazie a voi. Di avermi ridato la vita».
Non avendo più
nulla da fare Regis agitò un braccio, e subito il simbolo magico si circondò di
luce.
«Prima che tu
vada, Regis.» disse il maestro con la sua espressione seria ed enigmatica «Sappi questo. I tuoi timori non sono del tutto infondati.
Qualcosa di grande ed oscuro si nasconde dietro la
leggenda della guerra sacra. Non so di che si tratti, ma è qualcosa di portata
tanto vasta da minare gravemente le fondamenta su cui poggia la nostra stessa
esistenza.»
«Di che cosa parlate?»
«Ero
nel consiglio dei maghi quando scoppiò la guerra sacra. Allora ero troppo
giovane, e malgrado il mio talento non venivo
considerato granché, quindi non fui direttamente coinvolto in ciò che accadde,
ma ricordo bene che al termine di quegli eventi una verità terribile doveva
essere venuta alla luce, una verità che sia il consiglio che la famiglia reale
hanno fatto di tutto per nascondere.
Fai attenzione, e
sii pronto a tutto.»
«Sì, maestro.»
«Buona fortuna.»
disse Tijorn
«Grazie.
Ne servirà tanta.» e, detto questo, Toshio scomparve.
Ormai, dopo tre mesi di lavoro incessante, Qerin aveva
recuperato gran parte del suo splendore.
Dopo tanto tempo
speso a rimboccarsi le maniche gli abitanti della
città stavano riscoprendo la voglia di divertirsi e di passare un po’ di tempo
in allegria, e con l’approssimarsi delle celebrazioni per il quattordicesimo
compleanno della principessa Sefy si era tornata a respirare una piacevole aria
di festa.
Il palazzo reale
brulicava come un formicaio, e già i doni inviati espressamente dai sovrani di
mezzo continente andavano ammassandosi nella sala dei ricevimenti dove si
sarebbe anche tenuto, il giorno in questione, un grande banchetto, durante il
quale sarebbe anche stata celebrata la conclusione di
quasi tutti i lavori di ricostruzione.
Dopo aver
dimostrato tanto coraggio e tanta dedizione alla causa del regno, ed essendo
coloro che di lì a breve avrebbero intrapreso il viaggio alla volta di Kamur per ritrovare le gemme della leggenda, Elys, Sakura e
Dave erano diventate delle presenze semi-fisse negli ambienti di palazzo, anche
e soprattutto in virtù della grande amicizia che avevano intrecciato nel corso
del tempo proprio con la principessa.
Quella mattina
Elys e Dave erano in cortile, dove la ragazza, come ogni giorno, si stava
esercitando nella tecnica di spada usando dei bersagli eterei creati appositamente dal suo amico mago.
«Sei migliorata.»
disse Dave appena tutti i bersagli furono distrutti
«Che ti aspettavi?»
rispose lei rinfoderando la sua arma «D’altronde non
andiamo certamente a fare una scampagnata. A Kamur ci
sarà da menare le mani, questo è poco ma sicuro.»
«Ho come il
sospetto che la cosa ti entusiasmi.»
«Perché,
non dovrebbe? Sono una Kalimi. Ho i combattimenti nel
sangue».
Da che era tornata
Elys era andata sbandierando molto spesso la propria appartenenza alla gloriosa
stirpe degli uomini del deserto, una cosa che solitamente non faceva, e che
anzi tendeva ad evitare; Dave sapeva che la ragione
doveva essere per forza legata a qualche cosa accaduta nel viaggio da poco
condotto nella sua terra di origine, ma per rispetto ai sentimenti e ai segreti
della sua amica aveva preferito non indagare.
«Allora,
sei proprio decisa. Vuoi venire con noi.»
«Certo
che vengo. Tu piuttosto faresti meglio a restare qui. Già sarà un’impresa
titanica, ci manca solo dover fare da balia ad uno
stregone piagnucoloso come te».
Dave sorrise;
ormai le battute sarcastiche di Elys non lo turbavano più, e visto
che da quel momento in avanti sarebbero stati compagni di avventure tanto
valeva farci il polso.
In quella i due
ragazzi furono raggiunti da Sefy.
«Ah,
ecco dove eravate. Vi ho cercati dappertutto.»
«Altezza.» disse
Dave con un cenno del capo, imitato da Elys
«Avanti,
almeno in privato evitate di fare così. Ormai credo che possiamo
considerarci amici.»
«Hai ragione.» rispose
Elys sorridendo scherzosamente «Al diavolo il protocollo.»
«Insomma Elys.»
disse Dave «Va’ bene l’amicizia, ma… è la principessa.»
«Lascia stare.»
intervenne la ragazza «Per me va’ benissimo così».
Ci fu un momento
di silenzio, poi, come ogni volta, l’argomento cadde su Regis.
«Avete sue
notizie?» domandò la principessa
«No, ancora
niente.» rispose sconsolato Dave «E ormai sono tre mesi che il maestro è
partito.»
«Ho sentito certi
discorsi.» disse Elys «Secondo alcuni non tornerà più.»
«Non
pensarla neppure una cosa del genere! Il maestro tornerà, ne sono sicuro.»
«Lo
spero. Anche se ormai, se proprio vuoi saperlo, anch’io
comincio ad avere qualche dubbio».
Qualche minuto
dopo, uno strano brusio cominciò a circolare fra gli inservienti e i cortigiani
che percorrevano i viali larghi e assolati dei giardini del palazzo, e molte delle guardie, abbandonate le loro posizioni,
cominciarono a correre in modo preoccupante in un’unica direzione.
I tre ragazzi
tornarono col pensiero al momento in cui tutto era cominciato, e per un attimo
ebbero paura, poi però pensarono bene di andare a
chiedere spiegazioni per sapere cosa stesse succedendo di preciso.
«Pare che il
pentacolo nei Giardini di Corona.» disse un soldato interpellato dalla
principessa.
Un evento più
unico che raro, che era inevitabile sollevasse una certa apprensione.
Il pentacolo era
stato scoperto per puro caso molti secoli prima durante i lavori per l’edificazione
del palazzo reale, e visto che all’epoca la vera
natura di quelle installazioni era ancora ignota ai più il re di allora aveva
pensato bene di farne il centro di uno dei tanti nuclei di giardini che, presi
nel loro insieme, formavano il cortile del palazzo. Quando poi era emerso che
si trattava in realtà di un sofisticato quanto
pericoloso mezzo di trasporto utilizzabile da chiunque, anche da chi fosse
dotato di cattive intenzioni, il pentacolo era stato avvolto da una barriera
protettiva che ne impediva il corretto funzionamento e che, all’occorrenza,
poteva essere abbassata.
In pochi sapevano
della reale natura di quel disegno all’apparenza banale, visto e considerato che la barriera era invisibile e intangibile,
simile per certi versi ad una coperta sopra cui si poteva tranquillamente
camminare senza accorgersi di niente, quindi chiunque stesse tentando di usarlo
doveva essere per forza qualcuno molto vicino alla famiglia reale, o, per somma
disgrazia, qualche malintenzionato venutone chissà come a conoscenza.
Incuriositi, Dave
e gli altri si accodarono al resto di persone e in pochi minuti raggiunsero il
pentacolo, completamente circondato da un intero manipolo di guardie che lo
tenevano sotto tiro con i propri archi; i simboli di cui era composto stavano
brillando, ma non abbastanza da permettere il trasferimento.
C’erano anche il
re, la regina e Sakura, oltre ad un buon numero di curiosi, tenuti indietro dal
resto della guarnigione.
«Padre.» disse la
principessa facendosi largo tra la folla
«Indietro,
figlia mia. Potrebbe essere pericoloso.»
«Maestà.» disse
Sakura, la quale più di chiunque altro in quel lasso di tempo
si era guadagnata la fiducia e la stima del sovrano «Con il suo permesso,
procederei all’apertura.»
«Sì,
d’accordo. Solleva pure la barriera.»
«Ai
vostri ordini. Le suggerisco umilmente di mettersi al riparo.»
«Non
c’è problema. Se davvero si tratta di un nemico, avrà un caldo benvenuto.»
«Come desiderate».
La ragazza fece un
cenno, e subito il pentacolo prese a risplendere più forte di prima formando la
classica colonna di luce.
Tutti tennero gli
occhi piantati sul bagliore, i soldati pronti a scoccare le loro frecce al
minimo segnale di pericolo, poi, dopo qualche secondo, al centro del simbolo cominciò ad intravedersi una figura dapprima appena
percettibile, ma che divenne via via sempre più
nitida, e quando la luce si dissolse lo stupore apparve comprensibilmente sugli
occhi dei presenti.
«Sono tornato.»
disse Regis con il suo tipico sorriso provocatorio
«Ma… maestro…».
Il re e tutti i
suoi amici quasi non lo riconobbero; sembrava completamente diverso dalla
persona che aveva lasciato Qerin tre mesi prima. Ora ricalcava alla perfezione
l’immagine che il popolo aveva di lui, quella del guerriero determinato e saldo
nelle proprie convinzioni ma allo stesso tempo campione di umiltà.
«Allora, vogliamo cominciare questo viaggio?».
FINE SECONDA PARTE
Nota dell’Autore
Eccomi qua!^_^
Dopo più di quattro
mesi di stop, eccomi di nuovo ad aggiornare quella che diventerà forse la più
lunga di tutte le mie fan fiction.
Mi ero ripromesso di
non aggiornarla fino a che non avessi terminato di riscrivere il primo
episodio, ma poi mi è venuta voglia di colpo di
riprenderla in mano e così mi sono lasciato andare.
Ad ogni modo, si è
trattato solo di un fatto isolato; adesso intendo seriamente portare fino alla
fine Millennium War: The Origin
(che vorrei tanto poter finire per metà estate, forse anche qualcosa prima) per
poi dedicarmi interamente alla terza parte di questo secondo capitolo (che sarà
anche la più lunga, ma di cui ho uno storyboard già
quasi del tutto definito), nella speranza di cominciare la quarta entro la fine
dell’anno.
Se proprio troverò la
forza allora proverò ad inserire anche un’anteprima
del terzo ed ultimo episodio di questa trilogia, vale a dire Millennium War – ShinariChronicles, ma è un’incognita grande così.
Pur non sorgendo direttamente sul mare Qerin
disponeva di un porto, un grande porto commerciale sito ad una decina di
chilometri verso sud che aveva il preciso compito di rifornire la città,
proteggendola nel contempo da qualsiasi tentativo d’assalto via mare.
Proprio da quelle
banchine, in una mattinata soleggiata ma piuttosto fredda, stava per partire la Surprise,
una caracca commerciale che teneva i contatti con le città costiere di Kamur e
che avrebbe condotto il gruppo di Regis verso la prima tappa del loro
importante viaggio alla ricerca delle gemme della profezia.
La famiglia reale
in persona era giunta appositamente per augurare loro
una buona partenza e tanta fortuna per una missione che aveva come posta in
gioco il destino non solo di Fiya, ma forse del mondo intero.
Per il resto, era
una giornata come tante altre.
I marinai, molti
dei quali ancora rintontiti dalle sbronze della notte prima, cominciavano ad
affollare i moli, ed un vociare confuso in varie
lingue si sollevava sempre più forte e indistinto; l’ufficio della dogana era
ancora chiuso, altre attività come il cambiavalute,
Gli informatori e
gli infiltrati dell’esercito reale in molti dei Paesi stranieri riportavano di
un preoccupante aumento di discussioni circa le gemme e la profezia sulla
Guerra Sacra fra i potenti, il che poteva significare o che qualcuno era a
conoscenza del viaggio in preparazione o che, ancora peggio, stava allestendo
una spedizione per suo conto con l’ambizione di recuperare per primo gli artefatti
leggendari.
Per questo,
all’ultimo momento, si era deciso per una partenza segreta, sottotono, che non
sollevasse altra polvere, mettendo magari a rischio la riuscita di una missione
che già di per sé si presentava complicata e irta di ostacoli.
Il comandante
della Surprise era un vecchio amico del re, essendo
stato per un certo periodo in servizio nella marina reale prima di ottenere il
congedo, e si era offerto di portare i quattro viaggiatori a destinazione
imbarcandoli come semplici passeggeri.
Mentre i marinai
ultimavano il carico delle merci il re, la regina e la
loro figlia Sefy salutavano calorosamente Regis e i suoi amici; ancor prima di
lasciare Qerin re Sigthor aveva riconsegnato a Regis la Spada di Gigabrian,
che ora faceva coppia con quella già in possesso del guerriero dietro la sua
schiena.
Non c’era Aria, partita tempo addietro per un viaggio verso le sue terre
natie dopo aver ottenuto dai suoi superiori un congedo temporaneo in virtù
delle sue grandi opere in difesa del regno e nella ricostruzione della città
dopo l’attacco di Valon.
«In
bocca al lupo. Contiamo tutti su di voi.»
«Faremo tutto il
possibile, maestà.» rispose Sakura
«Pregheremo tutti
per il vostro successo, e possiate tornare sani e salvi.» disse la regina.
La principessa si
avvicinò a Regis, ma come al solito non fu in grado di
reggere il suo sguardo e dopo poco abbassò gli occhi arrossendo
inesorabilmente.
«Io…
spero di rivedervi presto. Attenderò con ansia il vostro ritorno.»
«Non
preoccuparti. Torneremo prima di quanto immagini.»
«Ne…
ne sono sicura. Ma mi raccomando, fate attenzione».
Regis sorrise, poi
mise una mano nella tasca della giacca, prendendone
fuori un bellissimo fermacapelli d’argento con una decorazione di tessuto rosa
a forma di fiore di ciliegio; Sefy se li vide davanti da un momento all’altro,
e restò con la bocca spalancata dallo stupore.
«Nobile Regis…»
«È un po’ presto
ma, buon compleanno.»
«Volete dire che…
è per me!?»
«Non
è proprio il regalo per una principessa, ma è il meglio che sono riuscito a
trovare. Permettete?».
Lei, ancora
interdetta, fece cenno di sì con la testa, e allora Regis le mise delicatamente
il fermaglio tra i capelli, e a quel punto fu lui a rimanere di stucco: con i
capelli raccolti in quel modo come poteva non intravedere nei lineamenti
gentili e innocenti di Sefy il volto di Nadeshiko?
«Vi sta
d’incanto.»
«G… grazie…»
rispose lei senza riuscire a trattenere le lacrime di gioia.
Forse era anche
per quello che sentiva di provare un sentimento così profondo verso la
principessa, qualcosa che non era né amore né amicizia, ma una sorta di
attaccamento paterno che lo spingeva a desiderare solo il meglio per quella
ragazzina che un giorno sarebbe divenuta la regina di
un grande regno.
Ad assistere alla
scena, ospite inatteso, c’era una giovane elfa dall’aria sbarazzina, quasi una
bambina per i suoi modi di fare e la sua voce squillante; malgrado
la pila di barili dietro alla quale era nascosta la proteggesse dagli sguardi
del piccolo gruppo di umani era invece ben visibile da tutti coloro che
passavano per il piazzale davanti ai moli, molti dei quali, pur non stupendosi
di vederla, in quanto di elfi nel porto ne giravano parecchi, si domandavano
cosa stesse combinando mascherandosi da spia solo per poter essere contemplata
da chiunque le transitasse vicino.
«La ricognizione è
la dote fondamentale di una spia.» disse ridacchiando come una bambina che si
nasconde dai genitori «Scopri le debolezze del nemico
e usale a tuo vantaggio.
Quegli umani si credono
furbi, ma la più furba sono io.
Aspetta,
leggendario eroe. Presto dovrai fare i conti con la più leggendaria Akita, la regina di tutte le spie».
Proprio in quel
momento una gru imbrigliò la rete all’interno del quale
vi erano i barili dietro ai quali l’elfa si stava nascondendo, che sollevati la
lasciarono completamente scoperta; lei, incredula e spiazzata, si guardò
attorno, in cerca di un altro rifugio, ma l’unica cosa che fu in grado di fare
fu imbucarsi in un altro barile, fortunatamente vuoto, il quale venne dopo poco
a sua volta issato e caricato a bordo della Surprise.
La voce profonda e
ondeggiante del comandante Atlas riscosse lui e i
suoi compagni dai loro pensieri.
«Ehi,
qui abbiamo finito! Possiamo partire quando volete!»
«Beh.» disse Elys
«È davvero ora di andare.»
«Così
pare. Maestro, col vostro permesso noi saliremmo a
bordo.»
«Andate pure, io
vi raggiungo».
Elys, Dave e
Sakura salirono sulla passerella, Regis invece si attardò ancora un po’ per
salutare nuovamente la famiglia reale, ed in
particolare Sefy, che già come aveva fatto in occasione dello scontro coi robot
che avevano attaccato Qerin donò al guerriero il suo ciondolo d’oro.
«Portatelo
con voi. Me lo restituirete al vostro ritorno.»
«Lo farò.» rispose
Regis prendendolo in mano «Adesso sarà meglio che
vada.
Maestà, mia
regina, principessa. Arrivederci.»
«Che
la sorte ti sia propizia, Regis di Fiya. Il nostro regno conta su di voi.»
«Non vi deluderò».
Pochi minuti dopo
la nave salpò le ancore, e gonfiate dal freddo vento del nord le vele spiegate
la condussero velocemente fuori dalla baia; Dave ed Elys rimasero a lungo a
poppa a salutare il re e la sa famiglia, Regis e Sakura invece preferivano
evitare di guardarsi indietro, e guardavano, una appoggiata
ad un albero e l’altro in piedi sull’estremità dell’albero di prua, aggrappato
ad una fune per tenersi in equilibrio, il mare senza fine che si stagliava
davanti a loro.
Il viaggio era
cominciato, e dove li avrebbe condotti, o quali conseguenze avrebbe portato,
nessuno poteva stabilirlo.
Passarono alcuni giorni, e nulla di nuovo o di insolito giunse a turbare quella che aveva tutta l’aria
di essere una traversata come tante altre.
Poco dopo aver
lasciato il porto di Fiya Elys aveva scoperto, con suo
grande dispiacere, di soffrire di un tremendo mal di mare, non avendo lei
neppure mai visto una distesa d’acqua più grande di qualcuno dei laghi del
continente e non avendoci mai navigato in ogni caso, pertanto faceva
continuamente la spola tra la sua cabina e l’infermeria.
Dave invece era
incredibilmente elettrizzato, e il pensiero di partire alla scoperta di un
continente di cui tutto sommato si sapeva ancora molto poco
bastava a renderlo euforico oltre ogni dire, per non parlare del fatto che quel
viaggio sarebbe stato anche un ottimo allenamento per imparare a controllare il
Sigillo degli Dèi.
I due si incontrarono solo durante il sesto giorno di navigazione,
quando ormai più della metà del tragitto era stata ultimata, sul ponte
principale.
Elys sembrava
appena uscita da un frullatore tanto appariva paonazza, e restava poggiata alla
balaustra con le braccia che penzolavano fuoribordo.
«Ehi Elys, non hai
una bella cera.»
«Pensa agli affari
tuoi.» rispose lei con voce da moribonda «Io non ce la
faccio più. Quanto manca alla fine di questa maledetta crociera?»
«Dai, cerca di resistere. Ancora un paio di giorni e saremo
arrivati.»
«Un paio di giorni!? Per allora dovrete scaricarmi in una cassa da morto!»
«E
dai, non fare tanto la drammatica. Non ti facevo così arrendevole.»
«Saresti così
anche tu se ti ritrovassi con tutti gli organi interni rivoltati sottosopra!»
«Scusa, scusa.»
disse ridendo Dave, poi ad entrambi cadde l’occhio su
Sakura, che del tutto indifferente a ciò che accadeva sulla nave era rimasta
per quasi tutta la durata del viaggio seduta sulla sommità dell’albero di prua
ad osservare l’orizzonte con sguardo pensieroso, come in meditazione.
«A volte quella
ragazza riesce quasi a farmi paura.» disse Elys dimenticando momentaneamente le
proprie condizioni di salute
«La
signorina Sakura è una maga di grandissimo talento. Dovrò impegnarmi davvero
tanto se vorrò diventare come lei.»
«Ho sentito dire
che è orfana, e che è cresciuta alla scuola di Kalador.»
«Sì, l’ho sentito
dire anche io dal maestro. Ma dicono che per possedere
un simile potere deve discendere per forza da una gloriosa dinastia di maghi.»
«Allora
è molto strano. Abbandonare una figlia così promettente non è certo tipico di
quei maghi vanesi e presuntuosi.»
«Hai
ragione. La sua capacità di invocare e governare gli spiriti della natura è più
un dono che un’abilità vera e propria. Molti grandi stregoni hanno sprecato la
loro vita a cercare di raggiungere tale obiettivo, lei invece pare ci riesca
senza alcuna difficoltà fin da quando aveva nove anni.»
«Mi domando come
sia possibile».
Elys e Dave non
potevano sapere che un occhio indiscreto li stesse osservando da un foro in uno
dei tanti barili accatastati uno sopra l’altro in varie pile alla base del
castello di poppa.
«Credevate
di esservi liberati di me? Sapevo perfettamente che questo barile in cui mi ero
nascosta era destinato proprio a questa nave.
La mia
mimetizzazione è praticamente perfetta. Potrò stargli
addosso fino a che non sbarcheremo su Kamur.
Però… se solo non
avessero messo il mio barile proprio sul fondo io
potrei anche uscire!
Sono
sei giorni che non mangio! Ho fame!».
I due ragazzi
erano tenuti d’occhio a loro insaputa anche dallo stesso Regis, il quale non
credeva possibile che quei due potessero riuscire un giorno ad andare così
d’accordo, coi caratteri diametralmente opposti che si
ritrovavano.
Del resto però
anche lui nel suo incessante peregrinare aveva conosciuto persone a prima vista
del tutto incompatibili col suo modo d’essere ma con
le quali alla fine era riuscito ad intrecciare solide amicizie, quindi un po’
riusciva a capacitarsene.
«La vostra
relazione è parecchio migliorata da che sono partito.» disse avvicinandosi a
loro e facendoli saltare entrambi per lo spavento
«Si… signor
maestro!?»
«Ma sei impazzito,
saltar fuori così all’improvviso!? Hai forse deciso di
farci morire!?»
«Chiedo
scusa. Comunque mi sembrate parecchio in ansia, ognuno a modo suo. Immagino sia
a causa di tutta questa storia.»
«Beh, effettivamente…»
rispose Dave passandosi una mano dietro la nuca «Fino
a qualche anno fa non ero mai neppure uscito dai confini del mio villaggio e
oggi mi trovo a viaggiare verso un continente di cui sappiamo così poco.
Voi siete mai stato a Kamur, maestro?»
«Solo
un paio di volte, e mi sono mantenuto sempre sulla costa. Comunque ho sentito
che l’entroterra è costellato di città e regni più o meno
grandi in modo non tanto dissimile dal nostro continente, anche se naturalmente
vi sono delle differenze.»
«Che tipo di
differenze?»
«Lo scoprirai
quando saremo arrivati a destinazione.»
«Per quanto
riguarda me» disse Elys battendo i pugni «Questa
avventura era decisamente troppo entusiasmante per essere lasciata in
disparte.»
«Non cambierai
mai.» commentò Dave «Tu pensi soltanto con la spada.»
«Che cos’hai
detto?»
«Avanti,
voi due. Non cominciamo. Il viaggio sarà lungo, se cominciate a litigare ora
per quando saremo di ritorno non avrete più
argomentazioni».
Ad
un certo punto un repentino mutare della direzione del vento attirò l’attenzione
di Regis, e recatosi dal comandante per chiedere delucidazioni in merito
all’insorgere di eventuali problemi lo trovò intento a consultare, non senza
qualche sbuffo, una vecchia carta nautica appoggiata sul tavolo accanto al
timone.
«Ha visto, capitano?»
«Sì,
purtroppo. E non mi piace per niente».
Elys e Dave, vedendolo salire di corsa sul
ponte di comando con espressione preoccupata, lo raggiunsero.
«Che succede?»
domandò Dave
«A quanto pare.»
rispose il comandante Atlas«Gli
spiriti del mare hanno deciso di non esserci favorevoli. La direzione del vento
è cambiata all’improvviso e ora le nuove correnti ci costringeranno a
transitare nei pressi delle Isole Torgaru.»
«Questa è davvero
una pessima notizia.» disse Regis
«Scusate, ma che
cosa sono queste Isole Torgaru?» chiese Elys
«È un piccolo
arcipelago di quattro isole che si trova a nord delle coste di Kamur.» rispose Dave
«Ma è anche un
vero paradiso per i pirati.» disse Regis «Le Isole Torgaru, con le loro grotte
e le loro insenature, ma anche la fitta boscaglia di alcune di loro, offrono sia un’ottima postazione per gli agguati sia un
nascondiglio in cui ritirarsi ad arrembaggio compiuto.»
«E noi dovremo
passarci davanti proprio durante la notte.» disse il capitano Atlas con evidente disapprovazione «Vorrei tanto che il
cielo mandasse un gran tifone che spazzasse via pirati, contrabbandieri e tutta
la maledetta feccia dei mari.»
«Capitano, il mio
suggerimento è di implementare le vedette e i turni di guardia.»
«È
quello che farò. E dirò anche di tenere pronti i cannoni. Tra poche ore
rischieremmo di avere molta compagnia.»
«Pirati, eh?»
disse Elys con uno sguardo carico di malizia «Bene, la cosa si fa subito
interessante».
Quella notte, a circa venti miglia ad
est delle Isole Torgaru, la goletta pirata Acheron stava rientrando al covo
dopo una giornata davvero deludente.
Ormai nessuno
ricordava neanche più l’ultima volta che una o più imbarcazioni erano finite tra le fauci del capitano Gavos e della sua
ciurma, composta principalmente da una massa multirazziale di spiantati e
avanzi di galera finiti in qualche modo sulle coste di Torgaru e qui arruolati
come marinai con la promessa di facili guadagni.
Sia sulle coste di
Kamur che su quelle del continente a nord la pirateria
era e rimaneva un problema costante, e malgrado il progredire delle tecnologie
militari avesse ormai reso praticamente impossibile per una singola nave andare
all’assalto dei porti o dei grandi bastimenti commerciali ciò non aveva
scoraggiato i capitani più temerari e perseveranti, che avevano quindi
dirottato le loro attenzioni su obiettivi più abbordabili.
Purtroppo però uno
dei problemi più grandi per la carriera di un pirata era rappresentato dalla
possibilità, sempre presente, di affrontare lunghi e tediosi periodi di magra,
e questo era particolarmente vero nel caso dell’Acheron, che ormai da più di
due mesi navigava a vuoto senza riuscire a concludere
niente.
Gavos, un tempo soprannominato lo Squalo di Torgaru, sembrava aver perso di
colpo sia la sua proverbiale buona sorte sia la sua leggendaria scaltrezza
nello scovare possibili prede, e non vi era pericolo peggiore per un capitano
pirata di una ciurma scontenta, che poteva decidere in qualsiasi momento di
metterlo al bando e ed eleggere qualcuno che prendesse il suo posto.
Dopo un simile
periodo di magra la sola cosa che permetteva allo Squalo di Torgaru di
conservare la propria posizione era la fama quasi leggendaria che nel corso
degli anni aveva costruito attorno alla sua persona, ma
era solo una questione di tempo prima che anche quell’ultimo, flebile baluardo
a difesa della sua posizione crollasse sotto il peso dalla malasorte che
sembrava essersi accanita contro di lui.
Malgrado ciò
tuttavia Gavos rimaneva saldamente ancorato ai propri principi, cosa rara per
un pirata, e forse era anche questo all’origine della brutta situazione in cui
si era andato a cacciare: un capitano dei pirati che cerca di ridurre al
massimo le vittime degli abbordaggi, che non ruba mai più del necessario, che
non prende schiavi e che tiene a freno i suoi uomini dal mettere le mani sulle
donne poteva continuare ad agire indisturbato fino a quando il suo prestigio
restava alto, ma se la stima e la sottomissione dei suoi uomini venivano meno
allora far rispettare questi principi diventava difficile.
Erano da poco
passate le otto di sera; Gavos stava cenando nella sua cabina, un pasto non
all’altezza di quelli dei tempi d’oro ma comunque discreto, degno di un fattore
d’alto rango.
Aveva da poco
superato la cinquantina, ma a differenza di molti uomini di mare dimostrava
meno dei suoi anni; i capelli, lunghi e marroni, erano
annodati in una selva inestricabile di lunghe trecce, e la barba, lunga un paio
di centimetri e più folta attorno alla bocca, era anch’essa raccolta sotto il
mento.
D’un tratto uno
strano rumore, come di qualcosa che strisciava, attirò la sua attenzione:
poteva essere benissimo un topo, la nave ne era piena, ma a giudicare dalla sua
espressione il capitano non ne sembrava molto convinto; con l’aria seccata e un
po’ annoiata si alzò dalla sua poltrona, e avvicinatosi ad
un mobile aprì le due ante, scoprendo un ragazzino nascosto all’interno del
vano: doveva avere dieci anni o poco più, l’abbigliamento tipico dei bambini di
porto e i capelli biondi, corti e parecchio arruffati.
«Papi.» disse con
un sorriso imbarazzato a trentadue denti.
Lui, sbuffando, lo
tirò fuori di peso, sollevandolo per poi farlo sedere sul tavolo.
«Sbaglio o ti
avevo detto di restare a Torgaru?»
«Ma io…» tentò di obiettare il ragazzino
«Niente
ma, Paol. Quando ti metterai in testa che non siamo una nave da crociera?»
«Ma voglio vederti
combattere, e voglio combattere anche io!»
«Hai
solo undici anni. Non è ancora giunto per te il momento di combattere.»
«Tu avevi la mia
stessa età quando sei diventato un pirata».
Gavos sospirò,
schiacciato dalla fermezza del suo stesso figlio, ed
immaginando non a torto che tutto quel tempo chiuso nel mobile gli avesse messo
addosso una fame incredibile gli porse una mela prendendola dal portafrutta al
centro della tavola. Paol la prese, addentandola con avidità.
«Ascolta, Paol. Io capisco la tua foga e il tuo desiderio di metterti
alla prova. Del resto, sei pur sempre mio figlio. Ma
non puoi fare sempre di testa tua. Tua madre, gli dèi l’abbiano in gloria, mi
ha supplicato di tenerti lontano da questa vita.»
«Ma
anche la mamma era un pirata. Perché non dovrei esserlo anch’io?»
«Perché questo non
è più il tempo dei pirati.»
«I
pirati sono una leggenda. Attraversano il tempo come attraversano
il mare. Non possono morire.»
«Figliolo.
Tutto ha una fine a questo mondo. La storia, così come la vita, è fatta di
eventi che si susseguono incessantemente, e ad ogni
tempo ne segue un altro, che porta con sé nuovi cambiamenti.
La nostra epoca,
l’epoca dei signori dei mari senza padrone che si ribellavano a qualsiasi
regola agendo solo per sé stessi è ormai giunta al suo
tramonto.
Quando i tempi
cambiano, noi possiamo solo adattarci. È il destino.»
«No,
questo non lo accetto! L’era dei pirati non può finire!»
«Mi
dispiace, Paol. Ma questa è la realtà, e devi
accettarla. Ho già preso la mia decisione, e appena toccheremo terra ne farò
partecipe tutto l’equipaggio.»
«No… non può
essere.» disse Paol con aria sconvolta «Tu vuoi…».
Il pirata poggiò
la coppa di vino che stava sorseggiando, facendosi triste e malinconico.
«Non
credere che per me sia facile da accettare. Adoravo questa vita almeno quanto tu la desideravi. Ma ormai è
finita.
E poi, se proprio
vuoi saperlo, voglio tenertene lontano. Non c’è nulla
di glorioso o di avventuroso nel fare il pirata. Da un momento all’altro puoi
finire con il cappio al collo, e la tua testa impalata come trofeo sul pennone
di qualche nave militare.
Non voglio che tu
rischi di fare questa fine. Sei mio figlio, e voglio proteggerti».
Di colpo
l’espressione di Paol si caricò di rabbia e scattato in piedi lanciò al padre
quanto restava della mela che stava mangiando, centrandolo in pieno volto.
«Non
mentire! La verità è che tu stai solo scappando! Dici di volerlo fare per me,
ma la verità è che non sei più quello di una volta!»
«Paol…»
«Io… io ti
ammiravo.» disse il ragazzino con le lacrime che gli rigavano le guance «Per me eri un eroe. Essere come te era l’unica cosa che mi interessasse davvero.
Tu non sei Squalo
di Torgaru! Sei solo un codardo e un incompetente! Hai rinunciato a combattere,
e ora cerchi di giustificarti dicendo che lo fai per me!
E pensare che ti ho difeso con tutte le mie forze quando qualcuno ti
insultava o ti mancava di rispetto!
Ma ora che ti vedo hanno ragione a dire che lo Squalo di Torgaru è morto!
Tu non sei il pirata a cui sognavo di somigliare!
Ti odio!».
Piangendo a
dirotto Paol uscì di corsa dalla cabina, lasciando
capitan Gavos da solo e preda del proprio rimorso.
«Accidenti.» disse
raccogliendo il torsolo da terra e abbandonandosi sulla sedia «Tutto sua
madre».
Qualche minuto
dopo Karug, il primo ufficiale, un uomo alto e smilzo con folti baffi e capelli
scompigliati entrò in cabina.
Tra i due non era
mai corso buon sangue, soprattutto per via dei metodi diametralmente opposti
che erano soliti utilizzare, per non parlare poi del fatto che Karug era un
arrivista senza coscienza, disposto a tutto per avanzare di grado. Avevano
cominciato insieme, ma quando Gavos aveva cominciato a rendersi conto di che
tipo di persona fosse l’uomo che fino a poco tempo prima chiamava amico Karug aveva già conquistato la stima dell’equipaggio, quindi
estrometterlo era impossibile.
Infine, Karug era colui che negli ultimi tempi soffiava sul fuoco
dell’insoddisfazione, alimentando le voci sul conto della malasorte che aveva
investito il capitano in modo da poter aspirare a prenderne il posto.
«Capitano.
Nave in vista».
A Gavos non parve
vero di avere finalmente una preda a disposizione, e subito corse sul ponte,
accanto al timoniere, mettendo mano al cannocchiale ed
osservando nella direzione che gli veniva indicata.
«È fiyana.»
«Direi
che la fortuna è tornata a sorriderti. Sarà sicuramente piena di mercanzie.»
«E anche molto ben
difesa, ho ragione di credere.»
«Mi
sorprendi. Da quando lo Squalo di Torgaru si fa cogliere dal timore di fronte
ad una sfida?».
Gavos si accorse
che tutto l’equipaggio, da quelli che stavano pulendo il ponte a quelli
arrampicati sui pennoni, lo stavano guardando; dopotutto, forse era anche un
modo per far pace con la coscienza, dopo il discorso terribile che suo figlio
gli aveva appena fatto, e sfoderato il suo famoso sguardo da far gelare il
sangue si avventò sul timone scaraventando via il marinaio che lo stava tenendo
in quel momento.
«Agganciate il
vento, sottospecie di mozzi!» urlò, e subito gli uomini corsero ai propri posti
alzando grida di battaglia.
La bandiera
simbolo dell’Acheron, uno scheletro che infilzava con la lancia una faccia
demoniaca, fu issata sull’albero maestro; era giunto il momento: il momento di scoprire se c’era ancora spazio per lo Squalo di
Torgaru nel mondo che stava nascendo.
Le vedette della Surprise si accorsero
dell’arrivo della nave pirata quando ormai era troppo
tardi per tentare la fuga, e il suono della campana d’allarme tirò tutti quelli
che dormivano giù dai loro letti, compresi Regis e i suoi compagni, che subito
corsero sul ponte.
«Che sta succedendo?»
domandò Dave al primo marinaio che gli capitò a tiro
«Pirati!
Ci stanno attaccando!»
«Maledizione!»
disse Regis «Doveva succedere proprio adesso?».
Tutti e quattro
salirono in plancia per parlare con il comandante, e a giudicare dalla sua espressione
risentita appariva evidente che c’era una sola cosa che si potesse fare.
«Non abbiamo scelta. Sono più veloci di noi. Fuggire sarebbe inutile. Non
ci resta che combattere.»
«Temo che sarebbe uno scontro impari.» disse Sakura «Sono sicuramente
molti di più, e questi marinai non sono abituati a combattere.»
«È
per questo che faccio affidamento su di voi. Siete l’unica speranza che abbiamo
di uscirne vivi.»
«Nessuna pressione
quindi.» disse Elys sarcastica, ma sogghignando soddisfatta subito dopo «Beh,
mi stavo giusto annoiando.»
«Uomini!» gridò il
capitano affacciandosi dal parapetto «Prepararsi alla
battaglia! Venderemo cara la pelle!».
La Surprise
virò bruscamente a babordo per poter mostrare il
fianco all’Acheron, e nello stesso momento capitan Gavos, intuendo tale
manovra, le puntò dritta contro, in modo da evitare di esporre anzitempo la
propria fiancata mettendo così a rischio l’integrità della nave.
«Caricate i
cannoni, oziosi topi di sentina!».
Quando furono gomito a gomito entrambe le imbarcazioni spalancarono i
boccaporti da cui uscirono una selva di minacciose bocche di cannone; in quanto
a potenza di fuoco l’Acheron, coi suoi diciotto cannoni per lato, era
leggermente in vantaggio sulla Surprice, che invece
ne aveva soltanto dodici.
«Ci siamo.» disse
Regis «Si comincia.»
«Fuoco!» gridarono
all’unisono i comandanti, e un istante dopo il silenzio della notte fu
sventrato da un assordante rumore di esplosioni.
Volendo abbordare
la nave invece che distruggerla, i pirati adottarono due sistemi d’attacco
differenti; mentre la fila situata sottocoperta sparava pesanti palle di piombo
a metà della chiglia in modo da far imbarcare acqua e rallentare così tanto la velocità quanto la capacità di movimento dei fiyani, la fila sul ponte utilizzava invece un insieme di
palline tenute insieme da un collante speciale che appena esplose si
separavano, trasformandosi in una raffica a mitraglia capace di falcidiare
l’equipaggio nemico.
Una sola bordata
fu sufficiente a crivellare di colpi sei marinai della Surprice
e a riempire d’acqua una delle due stive, mentre invece
l’Acheron, rinforzata da una doppia corazzatura in legno spessa due piedi e
ulteriormente rinforzata con placche di metallo inserite tra l’ossatura e il
fasciame non riportò quasi nessun danno.
«Ricalibrate il
tiro!» gridò Atlas vedendo la totale inefficacia dei
suoi attacchi «Mirate al ponte!».
I pirati però non
diedero tempo ai nemici di contrattaccare, e caricati i cannoni con speciali
palle incatenate spararono diritti sugli alberi della Surprice, uno dei quali, il principale, venne tranciato di
netto e precipitò rovinosamente, creando un ponte attraverso il quale gli
assalitori, servendosi anche di corde e arpioni, andarono all’abbordaggio,
dando vita ad un sanguinoso conflitto all’arma bianca.
Elys, Sakura e
Dave si mantenevano vicini l’uno all’altro, dandosi vicendevolmente supporto e
proteggendosi le spalle da quella marea incontrastabile di pirati che stava
prendendo sempre più il sopravvento.
«Dov’è finito il
maestro!» urlò Dave non riuscendo a vedere Regis dovunque girasse lo sguardo
«Deve essere
rimasto indietro!» rispose Sakura
«E in ogni caso
puoi stare tranquillo!» disse Elys dopo aver steso un pirata con un tremendo
calcio alle parti basse «Anche se viene la fine del mondo
quello lì non crepa di sicuro!».
Nel frattempo
Paol, che dopo essersi infuriato a quel modo era corso
a chiudersi in una delle stive piangendo in un angolino, si era accorto di
quanto stava accadendo, e di colpo la fiducia che nutriva in suo padre era
aumentata, spingendolo a desiderare più di ogni altra cosa di combattere al suo
fianco.
Senza pensarci su
due volte, e pensando al momento in cui sarebbe tornato indietro carico di
bottino, aveva afferrato uno stocco lungo quanto lui e salito sul ponte si era lanciato urlando con una corda, buttandosi
nella mischia; sfortunatamente per lui, la prima persona a finire alla sua
portata era stato Regis, che al momento del suo arrivo aveva appena finito di
occuparsi di un altro pirata mettendolo a nanna con un colpo alla nuca
servendosi unicamente della sua spada, e lasciando quella di Gigabrian ben riposta nel suo fodero. Del tutto
inconsapevole di chi gli stava di fronte il ragazzino
si buttò all’attacco urlando a perdifiato, e Regis, dopo essere rimasto un
attimo sorpreso nel trovarsi di fronte un così giovane aspirante bucaniere
aveva immediatamente risposto, ma era chiaro che stava solo giocando.
Una simile
condotta disinteressata fece infuriare Paol ancora di più, spingendolo a scordare
anche quelle poche nozioni di scherma che suo padre gli aveva inculcato e a
comportarsi proprio come durante una lite tra mocciosi, mulinando la sua arma
come fosse un bastone, e alla fine Regis, che voleva solo evitargli di farsi
del male, senza alcuno sforzo riuscì a disarmarlo.
Paol si ritrovò di
colpo paralizzato dalla paura, soprattutto nel vedersi puntare contro quegli
occhi così severi, come di un adulto sul punto di bacchettare un bambino
capriccioso, ma all’improvviso, mentre si stavano ancora guardando, una palla
di cannone sparata dall’Acheron esplose a poca distanza da loro.
Regis fu
scaraventato violentemente all’indietro e si ritrovò una ferita non
indifferente alla gamba sinistra, causata forse da una scheggia, poi però,
alzando lo sguardo, vide Paol, svenuto o tramortito dalla potenza del colpo,
cadere fuoribordo e precipitare incosciente in acqua; senza esitazioni il
giovane raggiunse il parapetto e si tuffò in acqua abbandonando la spada con
l’aquila che stava ancora brandeggiando, e appena immerso si ritrovò nella più
completa oscurità.
Per sua fortuna
Paol portava al collo un pendente particolare, dono di sua madre, che aveva la
particolarità di brillare al buio di una scintillante luce rossa, e grazie a
quella riuscì a localizzarlo. Purtroppo, la zona in cui si trovavano era nota
per le sue correnti particolarmente forti, ed entrambi furono sballottati da
una parte all’altra per interminabili secondi prima che Regis riuscisse
finalmente ad afferrare il ragazzino.
Quando entrambi
risalirono finalmente in superficie, erano immersi nel bel mezzo del niente, e
le due navi, riconoscibili dai bagliori dei fuochi accesi e dal fragore degli
spari, erano già incredibilmente lontani; unico
sprazzo di buona sorte, un rottame di legno trascinato dall’acqua abbastanza
grande per ospitare una persona di medie dimensioni. Regis vi caricò il
ragazzino, che fortunatamente respirava ancora e non presentava sintomi da
annegamento.
Intanto, sulla Surprise, i pirati erano riusciti a prevalere, uccidendo
parte dell’equipaggio e mettendo ai ferri corti quello che rimaneva; Elys,
raffreddata di tutti i suoi bollenti spiriti, era stata privata sia della spada
sia dei bracciali che aumentavano la forza delle due
braccia, ma questo non le aveva impedito di rifilare una selva di ceffoni a due
bucanieri che avevano tentato di metterle le mani addosso, richiamati poi
all’ordine da capitan Gavos, che come detto proibiva qualsiasi forma di abuso
sulle donne, per quanto bellicose potessero essere.
Sakura e Dave,
invece, si erano difesi con le unghie e con i denti, ma alla fine erano stati
sopraffatti da uno speciale apparecchio, simile ad un
bastone con due corte protuberanze ad una estremità, che rilasciava una potente
scarica in grado di annullare quasi completamente le capacità magiche della
vittima, rendendola di fatto inoffensiva.
Tutti i
prigionieri, tra i quali il capitano Atlas, legati
con le mani dietro la schiena, furono fatti inginocchiare sul ponte, e mentre
alcuni pirati li tenevano sotto tiro, sotto l’occhio vigile di Gavos, del tutto
ignaro di quanto era appena accaduto al suo adorato figlio, gli altri portavano
via tutto ciò su cui riuscivano ad arrivare, felici come non mai di essere
riusciti finalmente a mettere le mani su una preda, oltretutto così ben
fornita.
«Capitano.
Abbiamo finito. Tutto quello che poteva essere preso è
stato preso.»
«Molto
bene. Allora preparate tutto per la partenza.»
«Aspetta un
momento.»
«Che c’è Karug?»
«Non
mi pare che abbiamo preso tutto. Resta ancora una cosa. La più importante,
direi.»
«Di che stai
parlando?».
Il primo ufficiale
rivolse uno sguardo malevolo ai prigionieri, e allora Gavos capì quali fossero
le sue intenzioni.
«Non ci pensare
neanche.»
«Sono
fiyani. Il loro regno è il più ricco e potente di
quelli che si affacciano sull’oceano. Quanto credi che
pagherebbero per riavere indietro il loro equipaggio?»
«Noi
non prendiamo ostaggi. Conosci le regole.»
«Ma dico, sei forse uscito di senno? Questa è la migliore
occasione che ti sia mai capitata. Vorresti fare finta di niente con una simile
opportunità a portata di mano?».
Il capitano
temporeggiò, combattuto tra il suo orgoglio di uomo e la sua natura di pirata,
tra il fare ciò che sapeva essere sbagliato e ciò che avrebbe potuto fruttargli
un immenso guadagno.
«È tutto nelle tue
mani, Gavos.» gli sussurrò Karug in modo che il resto dell’equipaggio non
potesse sentirli «Sta a te decidere se lasciar vivere o morire la leggenda
dello Squalo di Torgaru».
Alla fine,
inevitabilmente, Gavos cedette.
«Metteteli
in cella. Tutti quanti. Li portiamo a Torgaru.»
«Sissignore.
Che ne facciamo della nave?»
«È
troppo malmessa. Ci sarebbe d’intralcio. Anche se è vero che potrebbe fruttarci
un certo guadagno. Lasciamola ancorata qui.
Manderò qualcuno a
riprenderla appena saremo arrivati. Infondo da qui ci vogliono poche ore per
andare e venire dal nostro covo.»
«Agli ordini».
Mentre i
prigionieri venivano sollevati a forza e portati via
attraverso una passerella di fortuna Karug notò qualcosa di scintillante sotto
un mucchio di stracci, e rimossili si trovò di fronte una fantastica spada con
un’aquila d’oro a fare da protezione per la mano tra la lama e l’impugnatura;
subito ne rimase abbagliato, e gli fu sufficiente prenderla in mano per rendersi
conto di quale fantastica arma doveva trattarsi.
«È davvero
stupenda.» disse tra sé e sé, e senza che nessuno lo vedesse la nascose dentro
un sacco prima di tornare sulla sua nave.
Vedendo l’Acheron
allontanarsi nella notte Regis, ancora aggrappato al frammento di nave, cercò
invano di chiedere aiuto, gridando che con lui c’era un ragazzo che necessitava di cure, ma forse a causa della gran baldoria
che i pirati stavano sicuramente facendo a saccheggio compiuto nessuno lo
sentì.
Il guerriero, stremato
dalla fatica e dalla stanchezza, tentò di raggiungere la Surprise,
rimasta immobile dove si trovava, e quindi molto
probabilmente abbandonata, a nuoto, ma appena mosse le gambe quella ferita lo
fece quasi urlare, e per lui fu il colpo di grazia. Stremato e infreddolito, si
accasciò, e rimanendo aggrappato con la forza della disperazione piombò in un
sonno profondo come la morte.
Nota dell’Autore
Salve a tutti!^_^
Eccomi nuovamente a
narrare Millennium War – Rebirth,
e questa volta giuro sulla mia testa che non mi fermerò fino a che non mi fermerò fino a quando non l’avrò ultimata.
Ci sono stati un po’
di problemi e continue interruzioni, ma ora prometto solennemente di andare
avanti indefessamente fino alla fine.
Per quest’oggi chiudo qui causa problemi di tempo.
A forza di bracciate e continue fitte di dolore Regis
riuscì, sul fare dell’alba, a raggiungere la Surprise, e lavorando
unicamente con le braccia issò sia sé stesso che Paol
su di una scaletta di legno; una volta sul ponte, ripulito dei cadaveri dai pirati
subito dopo la battaglia, dovette trascinarsi lungo le assi, perché il solo
provare a muovere la gamba sinistra aveva come risultato un dolore terribile.
Dopo essersi
liberato del fardello del ragazzino lasciandolo ancora incosciente riuscì
finalmente a guardarsi la ferita: per sua somma fortuna non era niente di irreparabile, e non si erano nemmeno formato un principio
di cancrena, il che, pur tenendo conto delle sue abilità nel campo della magia
della guarigione, sarebbe significato quasi sicuramente un’amputazione.
Alla fine di tutto
gli bastò cauterizzarla con una punta di spada reperita lì vicino e resa
incandescente con un incantesimo di fuoco e applicarvi sopra una protezione
usando un brandello di vela che penzolava proprio davanti a lui.
Faceva ancora
fatica a stare in piedi, ma sarebbe riuscito a muoversi decentemente nel giro
di una giornata, e accertatosi che Paol stesse ancora bene iniziò a guardarsi
attorno per capire se quel relitto mezzo affondato fosse ancora in grado di
navigare.
Paol si svegliò
qualche secondo, e appena vide Regis intento ad armeggiare con una cima
immediatamente scattò sull’attenti, ma forse a causa del tremendo mal di testa
causato dall’esplosione di quella notte il suo rialzarsi sulle proprie gambe fu
seguito da un vistoso barcollio.
«Non sforzarti
troppo.» disse il guerriero senza distogliere lo sguardo dal suo lavoro «Con la
rintronata che hai preso non ti sarà facile rimetterti
in piedi.»
«Che cosa… che
cosa è successo?» domandò Paol dopo essere caduto in ginocchio
«Una
palla di cannone ci è esplosa proprio davanti. Hai perso conoscenza e sei
precipitato fuoribordo.»
«E poi?»
«E poi mi sono
tuffato per venire a salvarti.»
«Tu… volevi
salvarmi!?»
«Lo trovi strano?»
«Ma
io ti ho attaccato. Avrei potuto ucciderti.»
«Ciò
non toglie che in quel momento stavi correndo un serio pericolo. Non potevo
restare immobile a guardare.»
«Magari anche lui
l’avesse pensata così.» disse Paol con una punta di freddo risentimento
«Di chi stai
parlando?»
«Di mio padre. E di
chi sennò? Scommetto che non si è neanche accorto che sono sparito.»
«Non
sarai un po’ troppo freddo nel giudicarlo? Dopotutto, è sempre tuo padre.»
«Per
quel che mi riguarda, ha smesso di esserlo molto tempo fa. Dal momento in cui
ha smesso di essere lo Squalo di Torgaru.»
«Allora
tuo padre è il leggendario signore dei pirati. Avevo riconosciuto la sua
bandiera. Peccato non averlo potuto sfidare di persona.»
«Non
ti sei perso nulla. Lui ormai non è più il pirata sanguinario e impavido che
era un tempo. È solo un vecchio codardo che ha paura anche della sua ombra.»
«Ha
assaltato una nave fiyana. Direi che il coraggio non
gli manca.»
«Lo
avrà sicuramente convinto Karug. Siamo arrivati al punto che non riesco più a
capire chi comanda su chi. Anche se forse sarebbe molto meglio
se fosse lui a diventare capitano dell’Acheron. Le porterebbe sicuramente
maggiore gloria.
Io odio mio padre.
Lo odio con tutto me stesso».
Regis, che nel
frattempo seguitava ad andare da una parte all’altra nel tentativo apparente di
rendere operativa la nave guardò Paol con occhi strani, come di compatimento.
«Non
dovresti parlare di lui con così poco rispetto. Forse non è stato il migliore
dei genitori, ma ce l’hai, e credo si preoccupi
sinceramente per te. Ci sono tanti ragazzi che non hanno questa fortuna.
Credimi, parlo per esperienza personale.»
«Che vuoi dire?»
«Anch’io
alla tua età nutrivo pochissima stima per mio padre. Perso com’era dietro ai
suoi studi sembrava non essere neppure consapevole
della mia esistenza.
Quando ci incontravamo era gentile e premuroso, ma a me sembrava
sempre di scorgere l’ipocrisia e la falsità dietro a quel suo perenne sorriso.
Più di tutto, destavo il fatto che mi nascondesse la verità.»
«La
verità? Che verità?»
«Che
soffriva. Era un uomo pieno di preoccupazioni e con l’anima avvelenata dal
dolore, ma ciò nonostante si mostrava al mondo come l’apoteosi della felicità.
Probabilmente non si è mai reso conto che in realtà io sapevo tutto.
È anche per questo
che l’ho odiato. Poi però, con il tempo, mi sono accorto che se si teneva tutto
dentro non era per ipocrisia, ma solo per altruismo: non voleva che la vita di
altri fosse governata o pregiudicata dal suo dolore o dai suoi problemi.
Quando me ne sono
reso conto ho capito che non avevo il diritto di
giudicarlo: forse nello studio cercava solamente la soluzione a ciò che lo
rendeva infelice, e quindi non aveva senso detestarlo perché si curava così
poco di me.»
«E tu hai
accettato che quella specie di farsa andasse avanti!?
Hai accettato di far finta di niente?»
«Talvolta,
bisogna saper chinare la testa. Anteporre la ragione di altri davanti alla
propria può sembrare stupido, ma pretendere di essere sempre al
centro dell’attenzione non è degno di un uomo. Più di tutto, non
possiamo costringere chi ci sta intorno ad essere chi vorremmo che lui sia».
Paol abbassò lo
sguardo, intravedendo in quelle una sorta di velato rimprovero per il modo in
cui aveva parlato di suo padre.
Forse era vero che
Gavos aveva deciso di abbandonare quella vita solo per lui, e forse era vero
che con l’avanzare dell’età e delle responsabilità di genitore aveva cominciato
a trovare stretti i panni dello Squalo di Torgaru, però, nonostante tutto, non
riusciva a perdonarlo per essersi mostrato tanto pavido.
«E adesso che stai
facendo?» domandò come a voler cambiare discorso
«Non
è ovvio? Sto andando a salvare i miei compagni.»
«I tuoi compagni!?»
«Così come ho
salvato te, voglio salvare anche loro.»
«E come pensi di
fare?»
«Improvviserò.
Il più delle volte è così che affronto le situazioni.»
«Ehi,
un momento! Se vuoi salvarli vuol dire che dovrai
combattere contro mio padre e i nostri uomini!»
«Solo
se sarà necessario. Io tendo ad evitare i conflitti.
Di battaglie ne ho affrontate anche troppe nella mia vita, e molte altre me ne
restano, quindi se posso evitarne anche solo una per me va’
più che bene.»
«Non te lo
permetterò!» gridò Paol afferrando una spada.
Regis non fece
neanche la fatica di girarsi a guardarlo.
«Mettila
giù. Potresti farti male.»
«Non ti lascerò
mettere a repentaglio l’esistenza dei pirati di Torgaru.»
«Non ti è bastata
la prima lezione?»
«Prima mi hai
colto di sorpresa, ma questa volta non succederà!».
Paol si lanciò
all’attacco come un carro armato ma a Regis bastò concentrarsi solo un pochino
per creare attorno a sé una barriera che scaraventò l’improvvisato assalitore
contro la balaustra dall’altra parte del ponte.
«Anche
saper riconoscere i propri limiti fa parte della condotta di un uomo».
In quella Regis
notò distintamente qualcosa profilarsi all’orizzonte, e uniti i pollici e gli
indici a formare un rettangolo usò la magia per creare
una specie di lente d’ingrandimento nello spazio vuoto riuscendo così a
distinguere bene un piccolo sloop con quattro pirati a bordo diretto verso di
loro. Vedendoli, e prevedendo l’approssimarsi di uno scontro, il guerriero si
ricordò di aver lasciato la propria spada sul ponte subito prima di tuffarsi in
mare, ma anche dopo averla cercata per molti minuti
non ne trovò traccia.
«Non
c’è. Devono averla presa».
Volendo avrebbe
potuto servirsi della Spada di Gigabrian, ma era
chiaro che quell’arma disponeva di un potere molto
vasto, un potere che ancora non riusciva a controllare a pieno, quindi era
meglio evitare il più possibile di farvi uso; poi, dopo un po’, gli venne
un’idea, e avvicinatosi a Paol, ancora rannicchiato e tremante di paura nel
punto in cui era stato scagliato, lo guardò in modo strano, come di malevola
ironia.
«Tu sei un pirata,
vero?»
«Certo che lo
sono!» rispose il ragazzino cercando di ostentare sicurezza
«Quindi osservi
tutti i precetti dei pirati.»
«Naturalmente!»
«Quand’è così»
rispose il ragazzo accucciandosi in modo da averlo viso a
viso e sorridendo enigmaticamente «Tu ora hai con me un debito di vita.»
«Che cosa!?» esclamò Paol a bocca spalancata e occhi sbarrato
«Il
vostro codice d’onore parla chiaro. Se un pirata che sta rischiando la vita viene salvato è obbligato a ricambiare il favore al suo
salvatore. O sbaglio?
E mi pare che
questo sia il tuo caso. Non vorrai tradire i precetti dei pirati, giusto?».
Paol si morse le
labbra, comprendendo di essere stato messo nel sacco dalle sue stesse parole;
eppure, malgrado tutto, non riusciva ad odiare o provare
risentimento per quel ragazzo. Per qualche motivo, aveva anzi la sensazione di
potersi fidare di lui, anche se si trattava di un potenziale rivale.
«Che cosa vuoi?»
«Una cosetta facile facile.» disse Regis con un
sorriso ancor più marcato.
Qualche minuto
dopo lo sloop si accostò alla Surprise e i tre pirati salirono a bordo,
trovando Paol da solo sul ponte intento a sgomberare il ponte
dai rottami dell’albero maestro.
«Paol!
Sia lode agli dèi, per fortuna sei salvo!»
«Era
ora che arrivaste. Lo sapete da quant’è che sto qui?»
«Ma
cosa ti è accaduto? Sei fradicio.»
«Sono caduto in
mare durante la battaglia, e quando sono riuscito a risalire
ve ne eravate già andati.»
«Meno
male che non è successo niente. Ci siamo accorti che mancavi solo quando siamo
arrivati a Torgaru. Tuo padre era preoccupatissimo.»
«Mio padre… era
preoccupato per me!?»
«Certo
che lo era. Non ha neanche aspettato di scaricare l’intero carico, ci ha subito
mandati qui a controllare se fossi rimasto indietro.
Sicuramente sarà
felicissimo di sapere che stai bene.»
«E siete venuti
solo per questo?»
«Non
proprio. L’ordine originale era di venire a recuperare la nave per trainarla a
Torgaru. Questa notte volevamo ritirarci il più in fretta possibile, e
malridotta com’era avrebbe ostacolato la nostra fuga.»
«Capisco.
E allora forza, muovetevi! Riportiamo questa bagnarola a terra!»
«Sì, capitano.»
rispose con un misto di amicizia e ironia uno dei tre pirati.
Grazie agli sforzi
congiunti di quattro paia di braccia in bevela Surprise fu nuovamente in
grado di solcare il mare e, innalzata un’improvvisata bandiera dei pirati,
l’imbarcazione fece rotta verso Torgaru; Paol si mantenne distante per tutto il
viaggio, per non dire nervoso, rifiutando anche il cibo che i suoi compagni
avevano portato con sé, ma del resto lui era il solo a sapere che, imbucato
nella stiva, c’era un passeggero molto particolare.
Il quartier generale dei pirati al seguito dello Squalo di Torgaru era una vecchia fortezza di pietra di forma
quadrangolare con faro e un cortile d’armi centrale costruita su di uno dei
tanti isolotti che componevano l’arcipelago, uno dei più piccoli, con una
superficie di non più di sette km²; risalente a molti anni addietro, all’epoca
in cui le isole facevano parte di uno dei regni che sorgevano sulla costa di
Kamur, era stata costruita sia per guidare le navi con il proprio faro sia, per
curiosa ironia, proprio per fungere da struttura difensiva contro possibili
assalti dei pirati, e i cannoni ancora piazzati sul tetto e sul torrione
dell’angolo a sud-est ne erano la dimostrazione.
Quando le ritte commerciali si erano spostate più a ovest
l’arcipelago era stato abbandonato sia dalle guarnigioni militari sia dai pochi
abitanti che vi risiedevano, lasciando posto agli stessi pirati, che lo
elessero a loro paradiso in terra.
Trattandosi di un
edificio militare la fortezza era provvista anche di due celle per la
detenzione collocate nel seminterrato, una di fronte all’altra, e subito dopo
essere sbarcati sull’isola gli uomini dell’equipaggio
ci erano stati sbattuti dentro in attesa di conoscere la loro sorte.
Elys, Sakura e
Dave erano tutti e tre nella stessa gabbia, ma mentre Dave e Sakura cercavano
di mantenere il sangue freddo confidando nell’arrivo presto o tardi di Regis
Elys era una furia scatenata, e per tutto il giorno non aveva fatto altro che
correre da una parte all’altra gridando a squarciagola.
«Adesso
basta! Non resterò qui un minuto di più! Voglio uscire
da questa fogna!»
«Fossi in te mi calmerei. Agitarsi in quel modo non serve a nulla.»
«Ma come fai ad essere tanto calmo, novellino che non sei altro? Ti rendi
conto in che situazione ci troviamo? Siamo prigionieri di un branco di
tagliagole! Potrebbero decidere in qualunque momento di venire qui e farci fuori! E tu te ne stai lì tranquillo?»
«Hanno
detto di voler chiedere un riscatto a Fiya per la nostra liberazione. Se è
davvero così non ci uccideranno, almeno non fino a
quando non avranno ricevuto i soldi.»
«E
dopo? Cosa succederà dopo?»
«Abbiamo
un po’ di tempo prima di allora. Vedrai che qualcosa succederà.»
«Vorrei avere la
fiducia che hai tu».
Ciò che faceva
maggiormente infuriare Elys era l’atteggiamento di Sakura, che da quando erano
stati buttati in quella cella se ne era rimasta seduta in terra a braccia e
gambe incrociate e ad occhi chiusi.
«Insomma,
tu sei una maga potentissima! Cosa ti costa buttare giù queste maledette sbarre!?»
«Questo.» rispose
calma lei indicando verso il basso.
Solo allora Elys
si accorse che il pavimento della cella era attraversato da linee che formavano
un grande circolo magico.
«Ma cosa…»
«Questo
cerchio impedisce e qualunque mago di fare ricorso alla sua magia. Perché credi
che abbiano messo me e Dave nella stessa cella?»
«Maledetti
pirati! Voglio uscire di qui! Ehi voi, fatemi uscire!
Mi avete sentito!».
Nello stesso
momento, un livello più in alto, una coppia di pirati aveva appena finito di
accatastare in un angolo del magazzino tutti i barili recuperati dalla
Surprise.
«Finalmente.
Non ne potevo più di tutto questo su e giù per le scale.»
«A
chi lo dici. Se non bevo subito una tripla dose di rum rischio di dare di matto».
Appena i due
furono usciti però uno dei barili che avevano appena
sistemato cominciò a muoversi, e fatta saltare la copertura Akita
fu finalmente in grado di uscire allo scoperto dopo quasi sette giorni
trascorsi rannicchiata in quello spazio angusto che sapeva di pesce sotto sale.
«Ah,
finalmente libera! Non ne potevo più di stare chiusa là dentro!».
In quella l’elfa
avvertì uno strano bip e messa una mano nella tasca
ne prese fuori uno strano disco metallico di quattro o cinque centimetri che
aveva ricevuto dalla sua regina subito prima di partire alla volta di Fiya, la
quale lo aveva ricevuto a sua volta dai suoi misteriosi nuovi amici; la
semifera rossa al centro brillava ad intermittenza, e
come lei spinse un piccolo interruttore sulla parte bassa dell’apparecchio si
generò un ologramma di una quindicina di centimetri che ritraeva Lainay avvolta
nel suo mantello regale.
«Mia regina.»
disse facendosi subito seria
«Come procede la
tua missione?»
«Purtroppo
è sorto un imprevisto. La nave su cui stavamo viaggiando è stata attaccata dai
pirati.»
«Dai
pirati, eh? Capisco. E ora dove vi trovate?»
«Su
un’isola dell’arcipelago di Torgaru. Hanno preso dei prigionieri e chiederanno
un riscatto a Fiya per la loro liberazione. I tre ragazzi che devo sorvegliare
sono tra di loro.»
«E Regis?»
«Non
se ne sa nulla. Probabilmente è riuscito a sfuggire alla cattura, oppure è
stato ucciso durante l’arrembaggio, anche se lo ritengo molto
poco probabile.»
«E
fai bene. Quel tipo non si fa ammazzare facilmente.»
«Ho il vostro
permesso per agire?»
«No.
Per ora resta in attesa. Non ci vorrà molto perché Regis torni a farsi vivo. Tu
continua a tenerli d’occhio»
«Come desiderate».
Appena la
comunicazione ebbe fine un rimbombo di stomaco costrinse Akita
a tornare alla sua priorità numero uno.
«Assolutamente,
necessariamente, devo andare a mangiare qualcosa!» gridò correndo fuori dal
magazzino.
La Surprise raggiunse il molo dell’isolotto quasi a mezzanotte, e
appena fu attraccato i tre pirati si diressero a tutta
velocità verso la fortezza per potersi accaparrare quanto restava della cena.
Paol invece
temporeggiò, e appena fu certo di essere rimasto solo tornò sui suoi passi,
giusto in tempo per vedere Regis uscire di soppiatto
da un oblò abbastanza grande e raggiungere a sua volta il molo.
«Io
ho fatto la mia parte. Ora il debito è saldato.
Ma ricordati la
promessa che mi hai fatto.»
«Tranquillo.
Ti prometto che non ucciderò nessuno. Ora però vai da tuo padre. Sicuramente
non vedrà l’ora di rivederti».
A quel punto i due
si separarono, e mentre Paol corse al forte Regis, con movenze
silenziose e nascosto dall’oscurità, costeggiò tutta la spiaggia fino ad
arrivare ad un piccolo boschetto di palme alle spalle dell’edificio, e qui
incominciò ad avvicinarsi.
Salito lungo la
parete con l’agilità degna di un campione di parkour raggiunse rapidamente il tetto, dove due
pirati erano di corvetta, uno sul torrione e uno sulla terrazza, e altri due
giocavano a carte seduti ad un tavolino sotto un piccolo portico di legno
nell’angolo a nord alla luce di una candela.
Badando bene da
non farsi vedere da quello che girava su e giù per la
terrazza il guerriero salì sul torrione, e veloce come un fulmine si avventò
sul pirata approfittando della sua sonnolenza e mettendolo al tappeto, poi,
sempre nascosto dal buio, attese che il secondo passasse proprio lì sotto per
saltargli addosso e stendere anche lui.
Il rumore prodotto
dal secondo assalto mise in allerta i due pirati che stavano giocando, i quali,
dopo aver chiamato inutilmente a lungo i loro compagni, armi e torce alla mano
si addentrarono nell’oscurità mantenendosi fianco a fianco.
Silenzioso come
una pantera Regis arrivò alle lo spalle, sgambettò il
primo per poi colpirlo violentemente al collo e affondò due dita nella gola del
secondo appena si voltò, procurandogli uno shock che lo fece svenire
all’istante.
Nello stesso
momento Gavos e Karug stavano conversando nel cortile interno, e proprio quando
Regis si affacciò per assicurarsi che non vi fossero pericoli la discussione
tra i due andò a vertere sulla questione ostaggi.
«Domani» disse
Gavos «Imbarcheremo gli ostaggi più importanti
sull’Acheron e faremo rotta verso Fiya. Vedendoli, sono certo che rinunceranno
a qualsiasi tentativo di risposta armata.»
«E quale riscatto avresti intenzione di chiedere?»
«Venti milioni di
denari, oltre a viveri e medicinali.»
«Venti milioni!? Dovresti pretenderne almeno cento!»
«Non
abbiamo con noi ostaggi importanti. Solo marinai e due maghi, per quanto abili.
Quanto alla Kalimi, non credo che pagherebbero alcunché per lei.
Se spariamo troppo alto non ci prenderebbero sul serio, oppure
daremmo il via ad una luna trattativa che offrirebbe loro solamente il tempo
necessario ad escogitare soluzioni alternative.
No, amico mio.
Questa è la cosa migliore da fare.»
«Ho qualche dubbio
in proposito, comunque… c’è un’altra cosa che mi dà da pensare.»
«Ovvero?»
«Mettiamo
che riusciamo ad ottenere il riscatto voluto. Cosa faremo
dopo?»
«Lasceremo
le coste di Fiya e ci dirigeremo verso il mare aperto. Una volta lì lasceremo
tutti gli ostaggi a bordo su una o due scialuppe con viveri e acqua sufficienti a tenerli in vita fino all’arrivo dei
soccorsi. Gli altri, quelli rimasti qui, li porteremo a Kamur e li lasceremo
lì. Sono marinai, troveranno sicuramente il modo di tornare indietro.»
«C’è bisogno che
te lo dica!? Nessuno sa dove
sia il nostro covo, e nessuno conosce la realtà che si cela dietro a questa
fortezza. Se li lasci andare racconteranno tutto, e
presto le marine reali di mezzo mondo verranno a bussarci alla porta!»
«Stai forse
dicendo che dovremmo ucciderli?»
«Non
c’è altra soluzione! È l’unico modo per mantenere il segreto!»
«Questa
è solo una base, Karug. Possiamo benissimo trovarne un’altra.»
«Non
è questo il punto! Questo non è il modo d’agire di un pirata!
Sei lo Squalo di
Torgaru, dannazione! Da quando in qua ti fai scrupoli per dei prigionieri?».
Gavos a quel punto
si fece ancor più serio di prima, quasi minaccioso.
«Questa
non è più l’epoca dei massacri indiscriminati. Io farò ciò che deve essere
fatto, che ti piaccia o no, perché fino a prova contraria il capitano sono
ancora io. E se il modo in cui agisco non ti sta bene, prendi la tua roba e
vattene».
Karug strinse i
pugni, mostrando palesemente la propria rabbia e disappunto, poi però parve
rilassarsi, ma il suo sorrisetto di soddisfazione non lasciava presagire niente
di buono.
«È
vero. Sei tu il capitano.
Ma questa è una
cosa a cui si può rimediare».
Prima che Gavos
potesse muovere il suo secondo schioccò le dita e
subito un gran numero di pirati uscì dall’oscurità del porticato armi alla mano
circondando il capitano e i tre uomini che gli facevano da scorta, i soli forse
ad essergli ancora fedeli.
«Che significa
tutto questo!?»
«Il
fatto è che la tua ciurma non è più tanto convinta che tu sia la persona più
adatta a fare il capitano, pertanto hanno deciso di affidare le loro sorti a
qualcun altro, qualcuno di più capace. Insomma, a me.»
«Maledetto… hai
comprato i miei uomini dietro alle mie spalle.»
«Niente
affatto. Hanno scelto loro di seguirmi. E se vuoi, puoi farlo anche tu.
Ti offro il posto
di primo ufficiale che fino ad un minuto fa era stato
mio. Ecco qui. Una semplice inversione dei ruoli. Non mi pare un’offerta tanto
malvagia».
Gavos si guardò un
momento intorno, poi, con una notevole velocità, sguainò il proprio stocco.
«Cane!» gridò
tentando di colpire Karug.
L’ex ufficiale
però, aspettandosi una simile reazione, fu lesto a saltare all’indietro, e
affondata una mano nell’involucro di tessuto che aveva con sé ne cavò fuori la
spada trovata la notte prima sul ponte della Surprise. Gavos tentò un nuovo
assalto, ma con uno sforzo apparentemente minimo Karug menò un fendente che
recise di netto la lama dello stocco.
«Che cosa…».
Rimasto
completamente scoperto il capitano venne trafitto al
fianco sinistro, una ferita volontariamente lieve che però lo fece cadere in
ginocchio.
«Dovresti
ringraziarmi. Se non ti uccido è solo in memoria della
nostra vecchia amicizia.»
«Tu… tu non sei
più un mio amico da molto tempo.»
«Facciamo
così. Ti concederò tutta la notte per riflettere sulla mia proposta. Al sorgere
del sole mi darai la tua risposta, e ti consiglio di sceglierla con cura».
Regis, valutata
attentamente la situazione, era quasi sul punto di saltare di sotto e fare piazza pulita di tutte le potenziali minacce, oltre
naturalmente a riprendersi la propria spada, ma proprio in quella Paol, ignaro
di tutto, uscì nel cortile.
«Papà, che cosa…»
«Paol, non
avvicinarti!» tentò di dire Gavos.
Purtroppo Karug colse entrambi in contropiede e afferrato Paol lo sollevò di
peso, riuscendo a trattenerlo malgrado il ragazzino scalciasse e si dimenasse
con tutte le sue forze.
«Lascialo andare, bastardo!»
«Non
temere, mi occuperò io del piccolo Paol. In fin dei conti avevo proprio bisogno
di fare due chiacchiere con lui».
Il capitano,
incurante delle ferite, cercò di saltargli addosso, ma venne
subito agguantato da due pirati mentre altri cinque costringevano i suoi tre
fedelissimi a gettare le armi.
«Ricordati.
Hai tempo fino all’alba per decidere.
E ora,
toglietemelo da davanti agli occhi».
Gavos e i suoi vennero trascinati via di peso e condotti tramite un arco
apposito verso i sotterranei, e visto che Karug seguitava a tenere Paol accanto
a sé, come se fosse consapevole dell’approssimarsi di un pericolo, Regis per il
momento non poteva intervenire, almeno non come avrebbe voluto.
«La faccenda si
complica.» disse prima di saltare, afferrare una pietra sporgente e darsi la spinta all’indietro per atterrare sulla terrazza coperta del
secondo piano che girava tutto attorno al cortile.
Il Santuario del Paradiso sorgeva in una grande vallata
nel Regno di Mystas, quasi al centro di Kamur, e tempo immemorabile era il
cuore spirituale di una delle religioni più antiche del
mondo, il millenario culto di Inti.
Un tempo gli Inti
erano diffusi in tutto il continente, ma con l’avanzare della civiltà alcune
delle loro credenze furono considerate eretiche e con l’andare del tempo il
loro culto diminuì gradualmente, fino a diventare ufficiale nel solo Regno di
Mystas, che di fatto era stato creato proprio per
garantire un futuro alla religione del sole.
Ciò che aveva reso
la dottrina Inti tanto impopolare era la credenza che le divinità non fossero veri dèi, quanto piuttosto esseri un tempo simili agli
uomini ma che con il tempo erano state in grado di trascendere la loro
condizione meramente fisica per farsi pura essenza, raggiungendo quindi uno
status uno status pari a quello di una divinità.
Secondo gli Inti
tutti potevano raggiungere tale stato, ma per riuscirvi era necessaria una vita
di rinunce e meditazione, oltre che una incrollabile
fede nelle divinità e in colui che incarnava la loro volontà nel mondo fisico,
il Grande Sacerdote, una carica che da cinquecento anni, da quando cioè la
religione Inti era stata messa al bando, si tramandava di padre in figlio
all’interno di una stessa famiglia.
Tra le figure
sacre degli Inti vi erano anche i Cochanura,
letteralmente i Signori di Metallo, che a detta dei testi sacri erano i supremi
emissari degli dèi, gli esecutori del loro volere e dei castighi che sovente
infliggevano ai mortali per punirli della loro condotta blasfema.
Al centro del
santuario, costruito interamente con una pietra particolare di un colore bianco
sfavillante che si trovava nel regno in grande quantità, vi era una grande, enorme piramide a gradoni, e tutto intorno, in un
raggio di cento metri, dodici piramidi più piccole, disposte in circolo a
uguale distanza l’una dall’altra.
Ognuna di quelle
strutture era consacrata ad uno dei dodici animali
sacri della fede Inti, e ad ogni animale era assegnata una caratteristica
particolare che, quasi sempre, era riscontrabile anche nel carattere e nella
personalità di uno dei dodici sacerdoti posto alla sua custodia.
I santuari dei
dodici sacerdoti erano disposti secondo lo stesso ordine in cui gli animali ad essi associati si susseguivano nel corso dell’anno, con
il primo, il santuario del Giaguaro, posto lungo la strada che dal vicino
villaggio terminava ai piedi della scala dell’edificio principale e da cui si
dipanava, in entrambe le direzioni, una seconda strada, che invece collegava
tra di loro tutti i palazzi minori.
Seguendo l’ordine
verso sinistra, dopo il Giaguaro, simbolo di fierezza, c’era
il Toro, la Fedeltà
e la Forza, la Tigre, la Bellezza e la Mortalità, il Cigno, la Purezza e la Sincerità, il Drago, la Fierezza e la Libertà, il Serpente, la Macchinazione e
l’Inganno, il Cavallo, l’Agilità e la Sacralità, il Lupo, l’Indipendenza e la Destrezza, il Ragno, la Pianificazione e
l’Attesa, il Gallo, la
Spiritualità e il Misticismo, il Cane, la Fedeltà e l’Audacia, e
l’Orso, la Possenza
e la Persistenza.
Fin dal giorno
dell’investitura il nobile Aaron, sacerdote del Giaguaro, era anche la massima
autorità religiosa degli Inti, e risiedeva costantemente nella grande Sala del
Portale, la stanza posta sulla sommità della piramide centrale, così chiamata
per la presenza, alle spalle del trono, di una enorme
porta a due ante che nessuno aveva mai osato aprire, e dietro la quale nessuno
a parte lo stesso Aaron sapeva cosa vi fosse.
Piuttosto giovane
per il ruolo che ricopriva, aveva passato da poco i trentacinque anni; i
capelli, neri, erano molto lunghi e raccolti in una coda, gli occhi invece,
neri anch’essi, erano parzialmente celati da un paio di lenti rotonde;
rigettando la lunga e ingombrante tunica bianca propria del Grande Sacerdote
indossava una camicia bianca chiusa sul davanti da legacci di seta, calzoni
affusolati neri e scarpe leggere da combattimento, abiti tipici del continente
orientale.
Già da qualche
tempo il nobile Aaron e i suoi sacerdoti avevano fatto ritorno al Santuario del
Paradiso dopo aver risieduto per quasi due anni nel palazzo tra le stelle, e in
tutto quel tempo la custodia del luogo sacro era stata di competenza del nobile
Daigan, sommo chierico della vicina cattedrale nonché
feudatario della regione in cui sorgeva.
Quella notte, al
termine della terza ora, Hyldren, sacerdote del Cavallo si presentò nella Sala
del Portale dopo aver ricevuto una convocazione da parte del nobile Aaron, e
giunto al cospetto del suo signore si inginocchiò
dinnanzi a lui.
Hyldren aveva
ventotto anni, un viso gentile ma dall’audace espressione, ulteriormente
accentuata dal rosso dei suoi occhi, e capelli corti di un insolito colore
bianco; vestiva con una tunica da battaglia e alcune parti di un’armatura
d’argento, schinieri, cintura, bracciali e una protezione alla spalla sinistra,
e aveva come arma uno stocco.
«Mi avete mandato
a chiamare, Grande Sacerdote?»
«Ho una missione
per te.»
«Di che cosa si
tratta?»
«Poco tempo fa, un
altro straniero è giunto qui da un altro mondo. Vorrei
che ti occupassi di lui.»
«Posso osare di
chiedervene la ragione?»
«Sospetto sia il
depositario di un potere antico ed incommensurabile.»
«Ha forse qualche
interesse negli artefatti?»
«Non
credo. Ma è comunque pericoloso.»
«Per quale
motivo?».
Aaron mostrò
allora un monile piatto e scintillante di forma triangolare e dal colore giallo
sfavillante, la sola gemma di cui la religione Inti fosse giunta in possesso.
«Grazie
ai poteri del nostro artefatto divino ho potuto sondare i suoi pensieri.
Sospetto che il suo fine sia quello di indagare i
misteri del potere che custodisce, e ciò potrebbe portarlo ad esplorare un
territorio che solo gli dèi hanno il permesso di attraversare.
Lui non lo sa, ma
il potere di cui è portatore e la storia di questo mondo sono strettamente
correlati, e tali segreti devono essere preservati ad ogni costo, in caso
contrario sarebbe la rovina per la nostra fede.»
«In questo caso,
deve essere fermato.»
«Hai
perfettamente ragione. Ma ti invito a fare la massima
attenzione, e a non sottovalutare il tuo nemico. Anche se molto probabilmente
non è in grado di controllare a pieno il drago che dorme dentro di lui la forza
che è può dominare è più che sufficiente a costituire
una minaccia.»
«Capisco.»
«La
partita che deciderà il destino di questo mondo e di noi tutti è appena
cominciata. Molte fazioni stanno convergendo su Kamur con l’obiettivo di
mettere le mani sulle gemme della profezia, ed è nostro dovere contrastarle con
ogni mezzo.
Noi siamo i
depositari del potere degli dèi, e chiunque tenti di
abusare .»
«Contate
pure su di me, Grande Sacerdote. Farò tutto ciò che è nelle mie possibilità per
riuscire in questa missione.»
«Molto
bene. Ho già incaricato il sacerdote del Toro di occuparsi dell’altro
viaggiatore stellare e del suo gruppo di amici. Se tutto va’
come previsto, questa terribile vicenda si concluderà prima di raggiungere
dimensioni eccessive».
Nota dell’Autore
Eccomi!
Come promesso ho aggiornato alla massima velocità, anche se devo
ammettere che tutta una serie di sfortunate coincidenze hanno significato per
me un’insopportabile perdita di tempo.
Per ora la storia
procede lentamente, ma passato questo breve momento i capitoli diventeranno molto più concitati e significativi.
La dispensa della fortezza era stata semivuota per molto
tempo, ma dopo il saccheggio della Surprise, che tra le altre cose trasportava
prodotti alimentari tipicamentefiyani
molto richiesti nei mercati di Kamur era piena al punto da scoppiare: vino,
rhum, pesce e carne sotto sale, frutta secca, formaggio e salumi.
Akita, che in quanto spia era
costretta a campare con poco, mettendo quindi a riposo la sua proverbiale
golosità, un aspetto questo del suo carattere che ben pochi conoscevano, prima
ancora di aprire la porta fu catturata da quel profumo irresistibile, e una
volta dentro si era lanciata su tutto quello su cui riusciva ad arrivare,
mangiando senza ritegno e senza freno alcuno.
Nel bel mezzo di
quella cena fuori programma l’elfa sentì distintamente qualcuno camminare nel
corridoio, e temendo di essere scoperta con le mani nel sacco, anzi, nel
piatto, corse a nascondersi dentro un barile, un nascondiglio che ormai le era
venuto a nausea, e drizzò le orecchie: dovevano essere sicuramente più persone,
forse tre, e una di queste camminava trascinando i piedi.
Quando fu certa
che erano passati oltre uscì, scorgendo per un istante alcune figure che
scendevano la scala che portava ai piani più bassi.
«Ma
quella non è la strada per le prigioni? Che abbiano preso anche Regis?»
«Ehi tu!» gridò
una voce alle sue spalle «Chi sei?».
Voltatasi, Akita si trovò a tu per tu con due pirati giganteschi, due
veri e propri orsi pieni di muscoli quasi completamente nudi, con le teste
rasate e enormi baffi, che brandeggiavano delle
sciabole impossibili anche solo da tenere in mano per un’elfa tutto sommato
minuta come era lei.
«Accidenti, questo
non era previsto!» disse prima di darsela a gambe, venendo
prontamente inseguita.
Fortunatamente i
corridoi di quel livello erano un vero labirinto, e le fu facile far sì che quei due la perdessero di vista dopo che ebbe svoltato
dietro un angolo.
«Ma dove è finita?» disse grugnendo uno dei due.
Non aveva ancora
finito di parlare che un minuscolo ago impregnato di un potentissimo sonnifero
gli piovve contro conficcandosi alla base del collo e lasciandolo a terra stecchito; il suo complice, incredulo, alzò gli occhi,
scoprendo Akita attaccata ad un lucernario che
pendeva dal soffitto.
«Tu, piccola…»
gridò menando un fendente che disintegrò di netto il lucernario.
Akita però, grazie alla sua agilità, riuscì a spostarsi in
tempo, ingaggiando con quella specie di orco un esilarante gioco a rimpiattino
saltando da una parte all’altra ed evitando sul filo del rasoio tutti gli
attacchi che le venivano portati contro.
«Razza di
anguilla, smettila di scappare e combatti!»
«Volentieri.»
rispose lei dandosi la spinta sul muro e colpendolo
con una ginocchiata al mento che mise fuori combattimento anche lui.
«Come si suol dire.» commentò pulendosi i vestiti «Più sono grossi,
più sono stupidi».
In quella l’elfa
udì dei nuovi rumori, questa volta provenienti da dietro un arco lì vicino, e
appiattitasi contro la balaustra mise mano ad uno dei
suoi due pugnali, pronta ad attaccare, stavolta senza freni, chiunque avesse
cercato di sbarrarle nuovamente la strada; appena fu sicura di essere ad una
distanza accettabile dalla sua vittima saltò fulminea all’interno, trovandosi
però la punta di uno stocco ad un passo dalla fronte.
La stanza in
questione doveva essere un’armeria, e a tenerla sotto la minaccia della spada
era Regis, che in una mano teneva lo stocco in questione e con l’altra
sorreggeva un grosso sacco pieno di armi che portava dietro la schiena, tra le quali spuntava una enorme lama da bankura.
«E tu chi sei?»
domandò il ragazzo «Non hai proprio l’aria di una piratessa.»
«Tu sei Regis!»
esclamò lei attonita «Se questa non è fortuna!».
Senza dire altro Akita si lanciò in un attacco violento
armata anche del suo secondo pugnale, ma Regis evitò l’attacco senza
difficoltà spiccando un salto acrobatico, il che lasciò l’elfa visibilmente
stupefatta.
“Incredibile.
Riesce a muoversi in modo tanto agile anche con un simile bagaglio sulle
spalle.”
«Armi da spia.»
disse Regis «E anche il tuo abbigliamento è abbastanza
eloquente. Lainay ti ha forse ordinato di starmi alle costole?»
«Quello
che devo fare non ti riguarda. Consegnami la spada che porti dietro la schiena
e forse ti risparmierò la vita».
Regis non rispose,
continuando insistentemente a fissarla, e allora Akita
perse la pazienza.
«Fai il duro, eh?»
gridò lanciandosi nuovamente alla carica «Adesso ci penso io!».
Il guerriero però,
prima di venire colpito, lasciò cadere una piccola
sfera magica che toccando terra produsse un’esplosione di luce, e quando Akita, accecata, riuscì a riaprire gli occhi, lui era già
appoggiato ai battenti dell’arco d’ingresso.
«Codardo!
Non scappare!»
«Ti
chiedo scusa, ma al momento sono piuttosto indaffarato. Dovremo rimandare la
discussione a dopo.» disse prima di defilarsi
«Ehi, chi ti credi
di essere!?» tuonò Akita
scandalizzata per essere stata gentilmente messa da parte «Non te la caverai
così! Aspettami!».
Nel frattempo Karug, nominato ufficialmente capitano dal
resto dell’equipaggio, tranne da pochi fedelissimi che
erano stati spediti puntualmente a tenere compagnia al loro capo, aveva preso
stabile dimora nelle stanze del suo ex superiore, un insieme di camere ben
arredate che davano tutte sul cortile interno.
Con lui Paol,
legato ad una sedia, che differentemente dal passato ora
lo fissava con visibile disgusto.
«Oh, avanti, non
guardarmi così.» disse prendendo una bottiglia di liquore dal mobile bar
«Sapevamo tutti e due che prima o poi sarebbe
accaduto.»
«Questo
è ammutinamento. Un pirata degno di questo nome non farebbe mai niente del
genere.»
«Evidentemente
devi ripassare il codice comportamentale dei pirati. Esso specifica chiaramente
che il primo ufficiale ha il dovere morale di prendere in mano la situazione
qualora il capitano dimostri di non essere più capace
di svolgere il proprio compito.»
«Ma
non è questo il modo. Avresti dovuto indire un’assemblea e fare una votazione.»
«Troppo
laborioso. E poi, non credo che sarebbe cambiato molto. Basta guardare i
numeri. Venticinque uomini dalla mia parte, sei da quella di tuo
pare.»
«Non sei degno del
titolo di pirata».
Per nulla irritato
o risentito dal tono del ragazzino Kagus sorseggiò un
po’ della sua bevanda, poi si avvicinò a Paol fino ad averlo viso
a viso.
«Avanti,
Paol. Per quale motivo di colpo mostri tanto attaccamento verso quel fallito?
Hai sempre odiato tuo padre, e a ragion veduta. Lui non è più lo Squalo di
Torgaru, è solo uno sputo di pirata che non è degno neppure dell’aria che
respira.
Ti ha deluso in tutti i modi possibili, e non
somiglia neanche lontanamente a quello che tu volevi che fosse.»
«Non posso
costringerlo ad essere ciò che non è o non vuole più
essere. Ora l’ho capito. Se vuole smettere di essere lo Squalo di Torgaru non mi importa più.»
«Davvero,
fatico a riconoscere. Forse a lungo andare hai finito
per essere contagiato dalla sua incompetenza. Ma non è
troppo tardi.
A differenza di
lui, io non ti deluderò. Sarò il pirata che tu hai sempre desiderato, sarò
spietato e combattivo, e porterò alla banda dei pirati di Torgaru tanta gloria
e ricchezze come mai se ne sono viste.
E voglio che tu
sia partecipe di tutto questo.»
«Mio padre verrà qui a prenderti a calci».
Di nuovo, Karug
non si scompose, e anzi sorrise malevolmente.
«Io non penso».
Quello che il
neo-capitano non poteva sapere era che il piccolo Paol, come ogni pirata degno
di questo nome, portava sempre con sé un piccolo coltello da marinaio, nel suo
caso nascosto dentro una tasca dei calzoni, e appena Karug gli diede le spalle il ragazzino, con uno sforzo immane e quasi
slogandosi i polsi, riuscì ad estrarlo.
Gli ci vollero
molti minuti per riuscire a tagliare le corde, visto e considerato
che il suo carceriere lo fissava ogni dieci secondi, come se sapesse che
stava macchinando qualcosa, ma grazie al cielo ad un certo punto Karug
concentrò le sue attenzioni su un cesto di ottima frutta appoggiato su di un
mobile, e questo gli fornì il tempo necessario per liberarsi.
Un tempo sarebbe
saltato addosso a quel traditore tentando di piantargli il coltello in quel suo
cuore malvagio, ma ora le parole di Regis gli ronzavano ininterrottamente nelle
orecchie, costringendolo ad ammettere che le sue possibilità di avere la meglio erano meno di zero e che la sola cosa da
fare, almeno per il momento, era tagliare l’angolo.
Preso un bel
respiro, il ragazzino corse come un fulmine verso la porta, riuscendo a
lasciare la stanza prima che Karug riuscisse anche solo a rendersi conto di
essere stato giocato da un dodicenne.
«Piccolo
bastardo!» gridò rosso di collera correndo fuori a sua volta «Non sperare di
sfuggirmi!».
Dopo essersi visto puntare contro le armi dai suoi stessi
uomini ed essere stato ferito, seppure in modo lieve, Gavos, assieme agli unici
sei marinai che avevano voluto restare al suo fianco,
era stato sbattuto in prigione a tenere compagnia agli altri ostaggi, ai quali
aveva spiegato senza mezzi termini quali fossero le intenzioni di Gavos una
volta ottenuto il riscatto.
«Dobbiamo
andarcene di qui, e anche subito!» disse Elys «Se aspettiamo ancora
è la volta che ci lasciamo la pelle!»
«E come pensi di
poter fare?» domandò Sakura senza smuoversi dalla sua posizione
«Ah, butterò giù
queste maledette pareti a pugni, se necessario!» gridò l’irruente guerriera
prendendo a tirare pugni contro il muro.
Dave intanto,
procuratosi dei medicamenti di fortuna, aveva chiesto a Gavos di fargli vedere
la ferita, lasciandolo interdetto.
«Ma…
io vi ho portati qui. È colpa mia se vi trovate in questa situazione.
Perché mi aiutate?»
«Questo non toglie il fatto che lei è ferito, e che ha bisogno di cure.
Forza, sollevi il camiciotto».
Ancora incredulo,
Gavos fece come gli era stato detto, e allora Dave si accorse che la ferita era
già cicatrizzata, come se fosse stata trattata con il fuoco.
«Ma questa… questa
ferita… è la spada del maestro.»
«È
stato… è stato Karug. Non gli avevo mai visto quell’arma tra le mani. Credo
l’abbia trovata a bordo della vostra nave.»
«È
una fortuna che sia stata cauterizzata. Questo renderà più facile il lavoro».
Mentre Dave lo
medicava Gavos non riusciva a non pensare a suo
figlio, chiedendosi insistentemente se stesse bene.
«Forse ha ragione
a odiarmi.»
«Non deve essere
troppo severo con sé stesso.» rispose Dave applicando
una fasciatura attorno alla parte lesa «Tra genitori e figli ogni tanto si
litiga, è inevitabile.»
«Forse.
Ma aveva comunque ragione a dire che non sono più
quello di un tempo.
Il mio equipaggio
mi si è ammutinato contro e io non mi sono accorto di
niente fino a quando non era troppo tardi.
Lo Squalo di
Torgaru ormai è morto. Io ho deluso mio figlio, e questo non posso
perdonarmelo.»
«Se posso
permettermi, non credo che suo figlio pensasse davvero le cose che le ha detto.»
«Cosa!?»
«Spesso si tende a
vedere una persona in particolare come un modello, un esempio di perfezione che
desidereremmo imitare, e se questa persona è addirittura il
proprio padre a questo si aggiunge un senso di fierezza.
Tutto questo crea
delle aspettative da parte nostra, e se da una parte
cerchiamo di immedesimarci in colui che per noi è un modello, dall’altra
tendiamo ad idealizzare il medesimo fino a renderlo quasi sovrumano.
Quello che voglio
dire è che anche gli eroi in fin dei conti sono esseri umani, pertanto è
inevitabile che siano soggetti a dei cambiamenti.
Forse Paol era
solo dispiaciuto dal fatto di aver capito che suo padre dopotutto era un uomo,
e non l’eroe delle sue favole, ma anche saper distinguere la realtà
dall’immaginazione significa crescere.»
«Parli proprio
come un adulto, ragazzo.»
«Ho un grande
maestro.» rispose Dave imbarazzato
«Che è molto fiero
del suo allievo!».
Tutti, nel sentire
quella voce, si girarono verso l’arco d’ingresso.
«Signor maestro!»
«Era ora che
arrivassi.» disse Elys con falso risentimento «Un altro po’ e avremmo fatto la
muffa.»
«Chiedo scusa,
sono stato trattenuto.» rispose il ragazzo facendo saltare le
serratura di entrambe le celle per poi gettare a terra il sacco delle armi «Ce
ne sono abbastanza per tutti. Raccogliamole e raggiungiamo la nave dei pirati
prima che si accorgano di cosa è successo.»
«No, aspettate!»
disse Gavos «Io non posso andarmene senza mio figlio.» e, senza aggiungere
altro, corse verso l’uscita dopo aver recuperato una spada
«Capitano!» gridò
uno dei suoi nel vano tentativo di fermarlo
«Vado io con lui.»
disse Regis «Devo anche riprendermi ciò che mi
appartiene. Voi raggiungere la nave e aspettateci lì. Vi raggiungeremo a cose
fatte.»
«Potrebbe essere
pericoloso.» disse il capitano Atlas «Questo posto
brulica di gentaglia.»
«Allora sarà
meglio fare le cose alla svelta.»
«Fa attenzione.»
disse Sakura
«Anche
voi. Sbrighiamoci».
A quel punto i
ragazzi si separarono prendendo due differenti uscite, e mentre Regis corse dietro
a Gavos Dave e gli altri risalirono per la scala da cui il loro compagno era
arrivato raggiungendo il primo livello. Akita, che si
era persa nei meandri di quel labirinto alla ricerca di Regis, li incontrò, e
decise di stargli alle costole nella speranza che lo conducessero dalla sua
preda.
Invece Regis e il
capitano, raggiunto il secondo piano per mezzo di una scalinata segreta,
stavano correndo lungo la terrazza superiore in direzione degli alloggi di
Gavos, quando d’un tratto quest’ultimo, affacciatosi
dal balcone per assicurarsi che la zona fosse pulita, vide suo figlio salire di
corsa la scala dall’altra parte della terrazza che andava sul tetto con Karug
armato e infuriato che lo tallonava.
«Paol!» gridò
correndo verso di lui.
Nello stesso momento
il resto del gruppo raggiungeva il cortile, ma proprio quando erano sul punto
di raggiungere il portone e aprirlo per fuggire un pirata che passava
casualmente di là per andare al bagno li vide; uno degli uomini di Atlas lo zittì lanciandogli contro un coltello, ma quello
riuscì comunque a gridare prima di venire ucciso, e nel giro di pochi secondi
l’allarme risuonò in tutta la fortezza, facendo comparire dal nulla un esercito
di bucanieri armati fino ai denti.
«Maledizione!»
disse Sakura «Stava andando tutto troppo bene perché non ci fosse qualche
intoppo.»
«Tanto meglio.»
commentò Elys sguainando la spada «Adesso pagheranno per avermi tenuto a
digiuno un giorno intero».
Nell’istante in
cui nel cortile scoppiava una battaglia senza quartiere Paol, sempre più
spaventato e stremato, raggiungeva il tetto, ma fatti
pochi passi inciampò su uno dei corpi privi di sensi che Regis si era lasciato
dietro nell’entrare nella fortezza, e quando risollevò gli occhi Karug era già
sopra di lui.
«Mi
spiace, sottospecie di anguilla. Fine della corsa.»
«Tu… sei un
traditore!»
«Non
temere. Presto paparino verrà a tenerti compagnia».
Karug alzò la
spada, e Paol, terrorizzato, chiuse gli occhi, ma all’improvviso quella stessa
arma divenne pesante come una placca di cemento, tanto che il pirata a fatica riusciva a tenerla sollevata da terra pur tenendola con
entrambe le mani.
«Ma cosa… che
diavolo… perché è diventata così pesante!?»
«Hai fatto male i
tuoi conti.» disse Regis comparendo dalla stessa porta da cui erano arrivati
loro «Quella non è una spada come le altre.»
«Che vuoi dire?»
«Non può
impugnarla chiunque» rispose il ragazzo mentre l’arma, sollevatasi magicamente,
tornava nella sua mano «E di certo non una persona con un animo corrotto come
il tuo».
Colto alla
sprovvista Gavos sollevò di peso Paol e, afferrata la
spada del pirata tramortito lì vicino, se lo mise davanti come scudo; eppure,
ciò nonostante, Regis non parve intenzionato ad intervenire.
«Adesso
ti fai scudo di un ragazzino? Sbaglio o questo contraddice il codice dei
pirati?»
«Il
codice? È roba vecchia. Come dice quello stupido di Gavos, il mondo cambia, e
cambiamo anche noi assieme a lui.»
«Interessante
forma di ragionamento. Degna di un perdente che non vuole accettare la fine di
un’epoca.»
«Come mi hai
chiamato!?»
«Rassegnati.
Non è solo il codice ad essere passato di moda, lo
siete anche voi pirati. Chi vive nel passato illudendosi che sia ancora
presente è un debole, perché non ha il coraggio di guardare in faccia alla realtà.»
«Tu, maledetto.»
«Rassegnati.
È finita».
In quella Karug
avvertì una presenza alle sue spalle, e voltatosi fece appena in tempo a parare
con la propria spada quella di Gavos, che aveva tentato, purtroppo senza
successo, di sorprenderlo alle spalle. Nel girarsi tirò, forse senza volerlo,
un violento spintone a Paol, mollandolo e facendolo volare oltre la balaustra, ma Regis, fulmineo, gli corse incontro, saltando
e afferrandolo per poi roteare su sé stesso e atterrare nel cortile.
«Resta qui.» gli
disse dopo averlo infilato in un barile vuoto prima
gettarsi nella mischia.
Intanto, sul
tetto, Gavos e Karug avevano iniziato a battersi furiosamente, e malgrado
avessero entrambi un’età piuttosto avanzata stavano
rivelando un’insospettabile abilità come schermidori.
«Ceco, Gavos.»
disse Karug in un momento di pausa «Ceco e stupido.
Questo sei sempre stato.»
«Farò ciò che
avrei dovuto fare molto tempo fa.»
«Provaci».
Nel corso del
nuovo assalto tra i due scoppiò un violento scontro di forza, e nella foga
della battaglia non si accorsero di essere pericolosamente vicini al bordo;
bastò che uno dei due perdesse l’equilibrio, nella fattispecie lo stesso Karug,
per precipitare di sotto trascinando con sé anche il capitano, ma
fortunatamente la caduta di entrambi, potenzialmente mortale, venne attutita da un cumulo di pacchi di tela che
racchiudevano parte del bottino dell’ultimo abbordaggio.
Dave, vedendoli
rimettersi in piedi per continuare lo scontro, fece per intervenire, ma Regis
lo fermò.
«Ma, maestro…»
«Questo
scontro è del capitano. Noi non possiamo intrometterci.»
«Che vuoi fare,
Karug?» domandò Gavos prima che il duello riprendesse «Pare proprio che il tuo
ammutinamento sia fallito.»
«Non
fa niente. Mi basterà sbarazzarmi di te per sentirmi finalmente realizzato, poi
potrò anche morire per quel che mi riguarda!».
Il combattimento
riprese più efferato di prima, anche sotto gli occhi
increduli e meravigliati di Paol, ma seppure ferito e ancora dolorante alla
fine Gavos riuscì ad avere la meglio, disarmando Karug con un rapido scatto del
polso e ferendolo allo stesso modo in cui lui era stato ferito poche ore prima.
«La sfida è
finita.» disse il capitano.
Karug, ringhiando
sia per la rabbia sia per il dolore, si guardò attorno, e vide che tutti i suoi
uomini erano morti o si erano arresi.
«Hai
perso. La tua vita di gloria è finita ancor prima di cominciare.»
«E
allora forza. Che aspetti ad uccidermi?».
Gavos lo guardò,
poi, dopo qualche secondo, alzò la spada; tutto attorno a loro intanto si era
formato un cerchio di persone, e tutti attendevano con ansia crescente di
vedere quale sarebbe stata la sua decisione, tutti tranne Regis e Sakura, che a
giudicare dai loro sguardi erano più tranquilli e rilassati che mai.
Il capitano
sollevò ancor di più il braccio, e Karug chiuse gli occhi, ma quando sentì lo
stocco del nemico tintinnare per terra li riaprì stupefatto.
«Sei troppo
patetico per essere ucciso.»
«Maledetto.»
ringhiò Karug rosso in volto «Sei solo un codardo! Non
hai il coraggio di togliere una vita! Non l’hai mai avuto!»
«Ed
è proprio questo che ci rende diversi. Io non uccido per il piacere di farlo, e
conosco il significato della parola onore, a
differenza di te.
È giunto per noi
pirati il momento di adeguarsi, e non voglio che l’ultimo ricordo dello Squalo
di Torgaru sia macchiato da una simile onta.
Inoltre, sei decisamente troppo patetico per essere ucciso».
Due pirati ad un cenno di Gavos afferrarono Karug per le braccia
costringendolo ad alzarsi.
«Tu sei sempre stato
un passo indietro a me, ed è questo che ti faceva infuriare. Sei e sarai sempre
il secondo, e vivere con questa consapevolezza sarà per te la punizione
peggiore».
Detto questo il capitano si volse e fece per tornare dai suoi uomini, ma
improvvisamente Karug, con uno scatto rabbioso, riuscì a liberarsi, e afferrato
lo stesso stocco che lo aveva appena graziato si lanciò contro Gavos urlando a
squarciagola.
Il gesto fu così
istantaneo e improvviso che nessuno, neppure Regis, fu in grado di muoversi per
fare qualcosa.
«Attento!» gridò
Dave.
Gavos si voltò,
trovandosi indifeso, ma un istante prima che raggiungesse la sua preda Karug si immobilizzò, e un’espressione di dolore e sgomento gli
comparve sul viso; dal nulla, proprio davanti a lui, era comparso Paol, che
spada alla mano lo aveva trafitto da parte a parte in pieno petto.
Karug tremò,
l’arma gli cadde e tossì sangue.
«Dannato… piccolo…
moccioso…» mugugnò prima di rovinare a terra senza vita.
Attonito,
probabilmente inconsapevole di ciò che aveva appena fatto, Paol cadde seduto
con gli occhi sbarrati e la bocca socchiusa, poi suo padre corse da lui.
«Paol.»
«Papà.» disse
abbracciandolo e dando libero sfogo al proprio pianto «Ho avuto paura!»
«Non
temere. È finita. È finita.»
«Perdonami.
Perdonami per quello che ti ho detto. Mi dispiace.»
«Sono
io che devo chiederti scusa. Ti ho deluso.»
«No, papà.»
rispose Paol tornando a guardarlo «È colpa mia. Non
dovevo costringerti ad essere ciò che non volevi.
Avevi ragione tu.
L’epoca dei pirati è finita, e non mi importa che tu
sia o meno lo Squalo di Torgaru. Sei mio padre, e questo mi basta.»
«Paol…» disse
Gavos piangendo a sua volta.
Vedendoli così,
legati da un vero sentimento padre-figlio, Regis non riuscì a non commuoversi a
sua volta, rammentandosi di quelle poche, pochissime volte,
in cui anche tra lui e suo padre, il suo vero padre, c’erano stati momenti di
affetto sincero.
«Grazie.» gli
disse il capitano
«No.
Grazie a voi».
Gli ammutinati ancora vivi furono sbattuti in cella,
mentre i corpi dei caduti, tutti fedeli a Karug, furono chiusi nei sacchi e
portati a bordo dell’Acheron per poter essere portati
verso il mare aperto a cui, seguendo la tradizione che univa tra loro tutti i
marinai, sarebbero stati affidati al termine della cerimonia funebre.
Quando il lavoro
ebbe termine era quasi l’alba, e il cortile era stato
ormai completamente sgomberato, e sul piccolo molo dell’isola già si lavorava
per ricostruire la Surprise
e permetterle di riprendere il mare.
«Vi ringrazio per
tutto quello che avete fatto.» disse Gavos «E vi chiedo scusa per tutti i guai
che vi ho causato.» poi si rivolse al capitano Atlas,
porgendogli i polsi «Sono pronto a prendermi le mie
responsabilità.»
«Ma, papà…»
«Questa era
l’ultima cosa che dovevo insegnarti, Paol. Bisogna
saper accettare le conseguenze delle proprie azioni. Io ho sbagliato, e perciò
devo pagare.
Vi chiedo solo di
lasciare liberi mio figlio e i miei uomini».
Atlas lo fissò dritto in volto, poi si guardò un momento
intorno.
«Beh,
nessuno dei miei marinai è rimasto ucciso. Il carico è intatto. E poi, nessuno
conosce il nascondiglio dei pirati di Torgaru.
Diciamo che ci
siamo imbattuti in una tempesta, e che questo ha causato un ritardo nella
navigazione».
Gavos restò un
momento interdetto, poi, quando suo figlio lo abbracciò, si rese conto che era
tutto vero, e quasi piangendo di gioia ringraziò Atlas
per la sua magnanimità.
«Mi hanno detto
che dovete arrivare a Kamur.» disse poi rivolto a
Regis e ai suoi amici «Vi ci porteremo noi. Sarà un segno di ringraziamento per
l’aiuto che ci avete offerto.»
«È molto generoso
da parte sua, capitan Gavos.» disse Dave
«Ehi,
ehi! Un momento!» irruppe Elys tutta inviperita «Fate presto a perdonare voi,
ma chi mi ripaga di un giorno intero speso a digiuno? Sono una guerriera,
accidenti! Devo mangiare tutti i giorni, o la mia forma perfetta se ne andrà al
diavolo!»
«Ma se mangi troppo non sarai più una guerriera.» disse Paol «Diventerai
grassa come una balena.»
«A chi hai dato della balena, moccioso insolente!» gridò lei
mettendosi a rincorrerlo
«Ora che ci
penso.» disse Regis guardandosi intorno «Che ne è stato di quell’elfa che ho
incontrato nell’armeria?»
«Di quale elfa parlate, maestro?»
«Lainay ci ha
messo una spia alle costole, per quanto maldestra».
La spia in
questione era rimasta coinvolta nella battaglia del cortile, e appena questa
era finita si era immediatamente defilata, nascondendosi per l’ennesima volta dentro
un barile vuoto.
«Aspettate e vedrete, umani insolenti. Non vi libererete così facilmente
di me. Akita è sempre qui, pronta a ghermirvi.»
«E adesso cosa
farete?» domandò Regis rivolto a capitan Gavos
«Beh, come ho
detto e ripetuto più volte» rispose lui stringendo a sé il figlio «Questo non è più il mondo dei pirati.
Inoltre, questa
vita è diventata troppo movimentata e pericolosa per i miei gusti. Da ora in poi, solo contrabbando. È decisamente
più sicuro.»
«Faccio finta di
non aver sentito.» commentò Atlas girandosi dall’altra
parte.
L’affermazione
produsse una risata collettiva, ma all’improvviso dal nulla si sollevò un vento
fortissimo, un vero e proprio tifone, che sollevava onde altissime, agitava
furiosamente le palme e faceva rollare pericolosamente la nave all’ancora.
«Che sta
succedendo?» domandò Elys coprendosi gli occhi
«Non lo so!»
rispose Dave
«Ma è normale che
sul mare arrivino tempeste simili nel giro di pochi secondi!?».
Regis, invece, era
molto preoccupato, perché come Sakura riusciva a percepire qualcosa in quei
venti così forti, qualcosa di minaccioso.
«Arriva qualcosa.»
disse con un filo di voce.
Qualcuno dei
marinai che stazionavano sul pontile finì in acqua, ma
per fortuna furono tutti recuperati prima di venire sopraffatti dalla potenza
dei flutti.
Un grosso tornado
si generò dal nulla a pochi metri dal gruppo, sradicando gli alberi circostanti
e mandando i frantumi i vetri della vicina fortezza;
poi, così come erano arrivate, le correnti si placarono, e dal tornado che andò
velocemente scomparendo comparve un individuo dall’aria tutt’altro che
rassicurante.
Era grande e
grosso come un orso, i capelli neri e molto lunghi, gli occhi piccoli e
allungati, la mascella squadrata e un corpo ridondante di muscoli; indossava una veste blu scuro di un certo pregio che lasciava scoperte
le gambe, leggermente divaricate, e le braccia, incrociate sul petto, e portava
anche un soprabito a metà tra una toga e un mantello con una spilla d’oro a
forma di volto stilizzato, oltre ad un paio di bracciali di bronzo e sandali di
cuoio.
Immediatamente
tutti i presenti si misero in guardia; il nuovo arrivato li scrutò con
apparente sufficienza, concentrandosi infine sul gruppo di Regis, proprio
davanti a lui.
«E così, siete voi
quelli che si apprestano a sfidare il potere degli dèi.»
«Ma chi è quel
tipo?» domandò Elys sfoderando la spada
«È un sacerdote di
Inti.» rispose Regis notando la spilla che legava il suo soprabito «Allora ci
siete voi dietro a tutto questo caos.»
«E chi sono i
sacerdoti di Inti?»
«Inti è un’antica
religione sviluppatasi a Kamur più di duemila anni fa.» rispose Sakura «Ma
avevo sempre sentito dire che il loro culto era stato distrutto.»
«Non del tutto.»
rispose l’interessato «Una piccola parte di noi è
sopravvissuta, e ha fondato un proprio regno. Io sono Hymir, uno dei dodici
sacerdoti a guardia del nostro sacro santuario, e in nome del grande sacerdote
vi ordino di consegnarmi la spada e la gemma sacra in vostro possesso.
Datemele, e vi
risparmierò la vita.»
«Non se ne parla
neanche!» gridò Elys «Sai quanta fatica ci è costato
riuscire a riprendercele?»
«Ben detto.» disse
Dave «Se le vuoi dovrai prima vedertela con noi».
Hymir, malgrado il netto rifiuto, restò impassibile, e il suo
atteggiamento insospettì pericolosamente Regis, che avendo affrontato molti
avversari degni di tale nome conosceva fin troppo bene il significato di quello
sguardo.
Elys attaccò per
prima, e Dave, più per proteggerla che per decisione propria, la seguì a ruota.
«No, fermi!» urlò
Regis tentando inutilmente di fermarli.
Il sacerdote a
quel punto, con incredibile sicurezza, si mosse dalla sua posizione, e come
alzò le braccia al cielo una nuova tempesta di vento
si sprigionò dal movimento dei suoi arti, generando un nuovo tornado.
«Osate
davvero sfidarmi? Siete degli illusi!».
I due ragazzi
furono sollevati in aria e scagliati prima verso l’alto poi violentemente verso
terra, precipitando dieci secondi dopo con una forza d’impatto tale che solo
per miracolo non ne uscirono con tutte le ossa rotte.
«Patetico».
Istintivamente,
forse per evitare che il nemico potesse infierire su di loro, Regis si mosse
all’attacco a sua volta, seguito da Sakura, che mutò il proprio scettro nello
spadone fatto di luce. Questa volta Hymir dovette muoversi per evitare gli
attacchi dei ragazzi, estremamente più rapidi e letali
di quelli di Elys e Dave, ma ben presto apparve chiaro che non si stava
minimamente impegnando.
Approfittando di
un attimo di esitazione di Sakura la colpì con un
potentissimo pugno allo stomaco che la spedì a cinque metri di distanza in uno
stato di semi-incoscienza, e allora come suo unico avversario rimase solo
Regis.
Questi, pur
facendo ricorso a tutto il suo sapere, era in evidente grande difficoltà;
avendo rifiutato di portare con sé l’arco e la pistola, rimaste nelle capaci
mani del sovrano di Fiya, poteva fare affidamento solo sulle sue spade, e alla
fine, benché titubante, si vide costretto ad estrarre
anche la seconda, la Spada
di Gigabrian, un gesto che venne accolto da Hymir con un sorriso di scherno.
«Credi davvero di
saperla usare?».
Regis temporeggiò,
forse perché era consapevole del fatto che effettivamente quel tipo non stava
parlando a vanvera, e infatti, malgrado l’uso
combinato di entrambe le spade, il divario tra i due continuò a rimanere molto
marcato. Hymir aveva dovuto impegnarsi un po’ di più, ma appariva chiaro che
stava usando solo una parte della sua effettiva potenza, mentre Regis al
contrario si sentiva sempre più prossimo al limite.
Ad
un certo punto, proprio come era accaduto con Sakura, il ragazzo ricevette
prima un pugno allo stomaco che gli fece sputare un fiotto di sangue.
«Ora
basta. Mi sono divertito abbastanza. Assaggia il potere devastante del Toro
scatenato!».
RAGING BULL!
Il sacerdote colpì l’aria con entrambi i pugni, e una vera
e propria bomba di vento si abbatté su Regis con la forza di mille cannonate,
minacciando quasi di sventrarlo in mille pezzi, sorte che sarebbe sicuramente
toccata a qualcuno privo della sua forza e dei suoi poteri magici.
“Che
potenza.” pensò con quanto restava del suo raziocinio “È come… come venire
investiti da un toro possente.
È
dunque questa la forza dei sacerdoti di Inti?”.
Il giovane fu
scaraventato con violenza inaudita contro una vicina collinetta che fu
letteralmente disintegrata dalla potenza dell’impatto, e quando la polvere si posò anche lui era riverso a terra semisvenuto, ma
nonostante ciò seguitava a stringere con forza le sue due spade.
«Onestamente
mi aspettavo qualcosa di più. Tanto meglio. Sarà tutto più facile».
Paol, che assieme
a suo padre e a tutti gli altri non aveva potuto far altro che assistere
impotente, fece per correre in aiuto dei suoi nuovi amici, ma suo padre riuscì a trattenerlo dal compiere azioni avventate. Hymir si
avvicinò a Regis con l’intento di prendere la spada,
ma prima che potesse farlo lui la strinse ancora più forte, e assieme ai suoi
compagni riuscì a rimettersi faticosamente in piedi.
«Non… non credere
che sia così facile metterci fuori combattimento.» disse Elys sorreggendosi a malapena
«Riuscite
a rialzarvi dopo aver subito una simile serie di colpi? Lodevole… ma futile!».
Nuovamente, il
sacerdote alzò violentemente le braccia, e i ragazzi furono sollevati in aria
da una nuova, potentissima tempesta che questa volta, per le condizioni in cui
erano ridotti, avrebbe davvero rischiato di ucciderli.
Inoltre in questa
seconda tempesta fu coinvolta anche una parte del carico, tra cui il barile in
cui era nascosta Akita, che fu sparato via come un
proiettile per poi precipitare in mare a quasi mezzo miglio di distanza.
“Mi dispiace fare
del male a guerrieri tanto valorosi, ma è necessario al compimento della mia
missione. Cercherò di non ucciderli. Di più non posso fare”.
Ma poi, di colpo,
qualcosa giunse a guastare i suoi piani; proprio quando era sul punto di
invertire il corso delle correnti per scaraventare le sue vittime verso terra
la gemma rossa incastonata sulla Spada di Gigabrian si
accese, dei simboli comparvero sulla sua superficie lucida e dal suo interno
giunse una gracchiante voce femminile.
«Blitz Move!».
I quattro ragazzi furono
rinchiusi a gruppi di due, con Regis e Elys da una
parte e Sakura e Dave dall’altra, in altrettante sfere di luce che poi
schizzarono via velocissima in direzioni differenti, ma entrambe più o meno a
sud, verso Kamur.
Hymir assistette
alla scena con comprensibile stupore,quando i suoi venti si placarono i
ragazzi erano spariti, e con loro i manufatti che era stato inviato a
recuperare.
«Dannazione.
Come ho potuto lasciarmeli sfuggire?».
Sulle prime il
guerriero pensò di mettersi al loro inseguimento, poi però decise che prima di
tutto era il caso di fare rapporto al grande sacerdote, quindi, dopo aver
rivolto un’occhiata obliqua a capitan Gavos e al resto dei presenti
scomparve come era venuto, inghiottito da un piccolo tornado.
Nota dell’Autore
Salve a tutti!^_^
Eccomi di nuovo qui
ad aggiornare la mia storia, e dopo questa parentesi piratesca dal prossimo capitolo
si tornerà a parlare di cose più attinenti alla trama generale.
Inoltre, ho da poco
scoperto che l’inizio del mio anno universitario è stato posticipato al 28 di
settembre, il che mi dà l’opportunità di lavorare senza pensieri a qualche
altro capitolo, il che significa maggiore celerità.
Quando Regis riaprì gli occhi era
già giorno fatto, ed era disteso sull’erba nel bel mezzo di un’altura; a
destarlo erano stati sia il forte sole sia la fragranza salina proveniente dal
mare, distante un paio di chilometri verso nord e perfettamente visibile.
«Ma… cosa è successo…».
Accanto a lui,
solo Elys, che sembrava dormire della grossa.
«Basta poltrire,
sveglia!».
Lei invece si girò
dall’altra parte e allora Regis fu costretto a tirarle un sassolino per
riuscire finalmente a farla alzare.
«Ma
che c’è? Stavo dormendo così bene.»
«Buon per te,
perché vista la situazione in cui ci siamo cacciati è
difficile per me riuscire ad essere così tranquillo».
A quel punto Elys
si ricordò di tutto quello che gli era successo, e scattata in piedi prese a
guardarsi freneticamente attorno come alla ricerca del sacerdote che per poco
non li aveva spediti tutti all’altro mondo, ma quasi
subito si accorse che non si trovavano più sull’isola di Torgaru.
«Ma dove ci troviamo?»
«Mi pare
incredibile, ma a giudicare dalla posizione del sole direi che siamo arrivati a
Kamur.»
«Cosa!? Come è possibile!?»
«Credo che c’entri
qualcosa questa strana pietra.» rispose Regis guardando la gemma incastonata
sulla spada «Non so come, ma pare che abbia reagito alla situazione di pericolo
in cui ci trovavamo, portandoci in salvo.»
«A tal proposito,
dove sono Sakura e quel pivellino di Dave?»
«Forse sono stati
trasportati in un altro posto, e se è così dobbiamo
trovarli.»
«E
come pensi di fare? Non sappiamo neppure dove ci troviamo».
Per cercare di
stabilire la loro esatta posizione Regis si guardò un po’ intorno alla ricerca
di alcuni elementi distintivi, magari tra quelli che gli era già capitato di
osservare nel corso dei suoi precedenti viaggi a Kamur, e usando l’incantesimo
della rifrazione gli riuscì di scorgere una strana
formazione di rovine, probabilmente un vecchio tempio, parzialmente sommerso
dall’acqua del mare.
«Il Tempio delle
Sirene.» disse riconoscendolo
«Hai visto
qualcosa?»
«È
un vecchio edificio sacro eretto in onore delle divinità del mare più di mille
anni fa. Mi è capitato di visitarlo. Questo vuol dire che ci troviamo nel Regno
di Gawarn, quasi al centro della costa di Kamur.»
«E questo è bene o
è male?»
«Se la mia
supposizione è esatta dovremmo essere ad un massimo di
quaranta miglia dalla capitale del regno, Laryana.»
«Quindi
è bene solo a metà. In che direzione si trova?»
«Verso
sud-ovest, in una vasta pianura. Il brutto è che questo regno non ha un sistema
stradale efficiente e progredito come quello di Fiya, e purtroppo temo che ci
troviamo piuttosto distanti dalla strada più vicina.»
«In
tal caso è male. E allora cosa facciamo?».
Nuovamente, Regis
guardò da una parte all’altra per trovare una soluzione, poi, riflettendoci
attentamente, si ricordò di una cosa che poteva sicuramente essere loro utile.
«Se non sbaglio,
la guida che ho assunto nel corso del mio ultimo viaggio vive non molto lontano
da qui.»
«Davvero?
Dove?»
«In un piccolo
villaggio di pastori.» rispose indicando verso un fitto bosco che incominciava
un centinaio di metri a sud’est della loro attuale posizione «Nel folto di
quella foresta.»
«Credi che abiti
ancora lì?»
«Non lo so, ma
anche se fosse è l’agglomerato urbano a noi più
vicino, e poco distante c’è una strada che arriva direttamente a Laryana. Alla
luce di tutto ciò, direi che è la scelta più logica.»
«E con Sakura e
Dave come facciamo?»
«Non
temere. Per come conosco Dave, anche lui avrà avuto l’idea di dirigersi verso
la città, e così pure Sakura. Una volta lì sono certo che li ritroveremo.»
«Se
lo dici tu. In tal caso muoviamoci.»
«Come desidera, vostra maestà.»
«Ma sentilo, la primadonna presuntuosa. Ti avverto, mi scoppia
la testa al solo pensiero di dover viaggiare da sola con te.»
«Sapessi a me».
Non senza
battibeccare i due ragazzi si inoltrarono nella
foresta seguendo un piccolo sentiero sterrato poco distante e nel giro di pochi
minuti si ritrovarono completamente immersi nel folto della vegetazione, nel
più assoluto silenzio, l’atmosfera ideale per riflettere un po’ su quanto
accaduto.
Elys, che dopo la
batosta della sera prima ne era uscita con l’orgoglio a pezzi; continuava a
borbottare e a lanciare maledizioni a quel sacerdote, promettendo che quando si
fossero rincontrati gli avrebbe dato una lezione di quelle che si ricordano per
tutta la vita.
Di tanto in tanto
interpellava Regis, domandandogli se non la pensasse allo stesso modo, ma lui
era talmente soprapensiero che o rispondeva con una parola di circostanza o non
lo faceva proprio. Certamente non credeva di incontrare simili difficoltà già
all’inizio del suo viaggio, e se tutti i sacerdoti di Inti erano come Hymir allora c’era ben poco da stare tranquilli.
A rifletterci ora
il fatto che ci fossero proprio gli Inti dietro a quanto stava accadendo a Fiya
e nel resto del continente era più che plausibile, tenendo conto di tutte le
storie sui giganti di metallo e sulla conoscenza suprema di cui era imbastita
la religione del sole, ma la ragione dietro al loro operato
continuava a sfuggirgli: forse, pensava, stavano tentando di ridare lustro e
vigore al culto di Inti dando una dimostrazione della loro forza, o forse
stavano addirittura preparando una conquista, e se fosse stato davvero così il
fatto che i robot fossero improvvisamente scomparsi già da alcuni mesi poteva
essere solo la quiete prima della tempesta.
Tuttavia, anche
riuscendo a dare una risposta a questo importante quesito, ne seguiva subito un
altro, ben più complesso e apparentemente privo di qualsiasi risposta: come
avevano fatto gli Inti a mettere le mani su strumenti tanto avanzati, propri di
una tecnologia e di una conoscenza scientifica con le quali
quel mondo non aveva assolutamente niente a che fare?
Un ulteriore mistero che andava ad aggiungersi alla lista
riguardava quella misteriosa pietra che aveva appena contribuito a salvare loro
la vita. Anche se per poco, Regis aveva percepito un’energia famigliare provenire
dal suo interno, per non parlare di quella voce robotica così simile ad un’altra che aveva sentito ormai molti anni prima.
“Possibile che
questa pietra possieda un potere simile a quello della Luce di Amon?”.
D’un tratto il
guerriero fu colto da un presentimento, e fulmineo mise una mano sulla bocca di
Elys per evitarle di continuare ad urlare la sua
perorazione.
«E adesso che ti
prende?» domandò a voce più bassa dopo che Regis le fece segno di fare silenzio
«Ascolta.
Non senti niente?».
Tendendo bene l’orecchio la ragazza riuscì a percepire schiamazzi e rumori
di natura sicuramente umana non troppo lontani, e insieme a Regis si mosse
cautamente nella loro direzione; fatti pochi passi si appiattirono dietro ad
una roccia da dove avevano una buona visuale di un piccolissimo accampamento,
praticamente un bivacco, attorno a cui sostavano quattro tipacci dall’aria poco
raccomandabile vestiti in malo modo e armati di grossi coltelli da caccia.
«Non sono
esattamente i tipi a cui chiederei informazioni
stradali.» disse Elys.
Se qualcuno poteva
ancora trovare dei dubbi sul fatto che fossero armati di pessime intenzioni
bastava vedere l’espressione terrorizzata e spaventata della ragazzina che era
con loro per averne la certezza: doveva avere dodici o tredici anni, i capelli
castani che arrivavano alla base del collo e occhi celesti. Vestiva in modo
semplice ma rispettabile, e a giudicare dalle macchie di terra dovevano essere
giorni che non si cambiava, anche se questo non sminuiva più di tanto il suo indiscutibile
fascino. Seduta su di un sasso, aveva le mani legate dietro la schiena, e la
corda era assicurata ad un picchetto piantato
saldamente nel terriccio.
«Molto
bene, capo. E adesso cosa facciamo?»
«Tu che cosa
dici?» rispose Regis schioccandosi le dita
«Ho già capito.»
disse Elys sospirando «Tu guardami le spalle.»
«Cerca
di non ucciderli. Quella ragazzina è già abbastanza traumatizzata.»
«Quei banditelli puzzolenti non sono degni neppure di vederla la
mia spada.»
«E fa attenzione.»
«Ehi.
Non sono mica nata ieri.» e a quel punto i due si
separarono.
Recuperato un
grosso bastone Elys si appostò sopra una collinetta
che dominava il bivacco, e appena quello che stava proprio sotto di lei gli
dette le spalle gli piombò sopra stendendolo con una colossale mazzata in
testa.
I suoi compagni
scattarono sull’attenti, ma uno fu raggiunto in piena fronte da un sasso e
stramazzò prima di poter reagire, gli altri due invece, armati dei loro
coltelli, si lanciarono all’attacco. Elys riuscì a stenderne uno dopo aver
schivato facilmente il suo fendente, l’altro invece riuscì a tagliare a metà il
bastone, ma lei, afferrate le due parti, gliele sbatté
violentemente ai lati della testa, tramortendolo.
All’improvviso
però il primo brigante ad essere stato messo fuori
gioco riuscì a riprendersi, e nero di rabbia si avvicinò ad Elys, che non si
era accorta di nulla, brandeggiando il coltello, ma all’ultimo momento una
freccia di luce sbucò dagli alberi e, passando vicinissima al volto della
ragazza, lo stese centrandolo in piena fronte.
Subito dopo Regis
arrivò a sua volta con l’arco in mano, e allora i briganti, che a stento
riuscivano a restare in piedi, si diedero alla fuga, abbandonando la loro
preda.
«Anche troppo
facile.» disse Elys gettando via i bastoni
«Ma se uno stava
quasi per farti la pelle.»
«Me ne sarei
accorto in tempo.»
«Oh, ne sono
sicuro».
Entrambi volsero
allora il loro sguardo sulla prigioniera, che rimaneva immobile ad osservarli non senza un comprensibile timore; del resto,
poteva benissimo essere passata da una banda di rapitori ad un’altra.
«Non temere.»
disse Regis mentre Elys la liberava dalla corda «Siamo qui per aiutarti.»
«Chi siete voi?»
domandò lei un po’ più rilassata
«Semplici
viaggiatori.» rispose Elys sciogliendola «Abbiamo sentito schiamazzare quei
tipi e ci siamo avvicinati per vedere di cosa si trattava».
La ragazzina,
finalmente libera, si rimise in piedi, passandosi le mani sui polsi e agitando
un po’ le braccia per recuperarne la sensibilità dopo tanti giorni di immobilità quasi totale.
«Come ti chiami?»
chiese Regis
«Martina.»
«Vivi nel
villaggio nella foresta?»
«Sì, esatto.»
«Come mai ti hanno
rapita?» domandò Elys
«Io
non lo so. L’unica cosa che so è che una settimana fa stavo dormendo nel mio
letto, e al risveglio mi sono ritrovata insieme a
loro. Gli ho chiesto molte volte cosa volessero da me, ma loro non mi hanno mai
risposto.»
«Capisco.
Ma ora non hai motivo di preoccuparti. Ci siamo noi
con te, e ti porteremo a casa.»
«Oltretutto, anche
noi siamo diretti al tuo villaggio.» disse Elys
«Posso chiedervi
per quale motivo?»
«È
una storia piuttosto lunga. Siamo in viaggio per Laryana, e siamo diretti lì
per seguire la strada che attraversa la foresta e arriva fino in città.
Tra l’altro nel
tuo villaggio vive un mio amico. Si chiama Etìko.»
«Hai detto Etìko!?»
«Sì.
Lo conosci?»
«Etìko
è mio padre. È il capo del villaggio.»
«Tu guarda.» disse
Elys «Se questa non è fortuna.»
«Ma come fai a conoscerlo?»
«Ci siamo incontrati
circa quattro anni fa in una città sulla costa, e l’ho assunto come guida.»
«Sì,
ricordo che mi ha detto qualcosa in proposito. In questo caso, sono sicura che
sarà felice di rivederti».
Con solo qualche altra ora di camminata i tre ragazzi
raggiunsero il villaggio in questione, un piccolo agglomerato di case e stalle
più qualche granaio circondato da una palizzata di legno.
Appena vide la
palizzata stagliarsi oltre gli alberi Martina si mise immediatamente a correre,
felice come non mai di essere finalmente tornata a casa.
In quello stesso
momento suo padre Etìko, un uomo di quarantacinque anni alto e robusto,
temprato dalla vita di taglialegna e da lunghe peregrinazioni per il regno, con
capelli neri raccolti in una coda, occhi piccoli e marroni
e la mascella squadrata, stava riportando le proprie capre nella stalla, ma
dalla sua espressione era chiaro che i suoi pensieri andavano invece
all’adorata figlia, sparita da quasi una settimana senza lasciare tracce.
«Papà!» sentì
gridare all’improvviso, e con il cuore in gola per l’emozione uscì di corsa all’esterno.
Martina gli si
lanciò subito addosso e lui la strinse con forza tale da dare quasi l’idea di
volerla incatenare a sé.
«Martina!
Gli dèi siano ringraziati!»
«Papà!
Sono così felice di rivederti! Sapessi quanta paura ho
avuto!»
«Ne
ho avuta tanta anch’io. Ma ora siamo di nuovo
insieme».
Passate la gioia e
la commozione iniziale venne il momento per Martina di raccontare quello che le
era successo.
«Mi hanno rapita, papà. Ma non ho idea di chi fossero.»
«Sì,
lo sapevo. Come hai fatto a scappare?»
«Mi hanno aiutato
loro.» rispose la ragazzina indicando i suoi due salvatori che, varcato
l’ingresso della palizzata, si avvicinavano a loro.
Riconoscendo uno
dei due, Etìko balzò in piedi come colpito da un fulmine.
«Regis!»
«Salve,
Etìko. Ti trovo bene».
Il fattore corse
subito ad abbracciare calorosamente il suo vecchio amico, ringraziandolo mille
volte per aver aiutato sua figlia a sfuggire a quei briganti.
«È passato molto tempo, Etìko. Sono felice di vederti.»
«Il
piacere è tutto mio, Regis.
Lo sai Martina?
L’uomo che ti sta di fronte e che ti ha salvata è
l’eroe di Fiya, il regno al di là del mare.»
«Davvero?
Tu sei quel Regis?»
«Oh, tuo padre
ingigantisce la cosa.»
«Non
fare il modesto. L’eco delle tue imprese è arrivato fino a qui. Ti dai sempre
molto da fare.
E questa signorina
che è con te come si chiama?»
«Io sono Elys.»
«Sei
una Kalimi, vero? È raro vederne.
Ma
non restiamo qui. Entriamo in casa. Abbiamo molto di cui parlare».
Essendo il capo
villaggio Etìko disponeva di un’abitazione piuttosto
decorosa, e poiché sua moglie, come Regis aveva appreso nel corso del viaggio
che avevano fatto insieme, era morta durante il suo secondo parto assieme al
neonato quando Martina aveva solo tre anni lui aveva dovuto imparare a far
coesistere la sua vita di fattore con quella di padre.
Martina era
comunque una ragazza molto sveglia e perspicace, che fin da molto piccola aveva
imparato a badare alla casa, e grazie a ciò Etìko si era visto decurtare almeno
un po’ la mole di lavoro giornaliero che pesava sulle sue spalle.
«Allora, amico
mio.» disse quando tutti furono seduti al tavolo della cucina «Quali imprese ti
conducono nuovamente a Kamur?»
«È una storia un
po’ complicata.»
«E dove siete
diretti?»
«Per
il momento a Laryana. Siamo rimasti separati dai nostri compagni di viaggio, ma
contavamo di ritrovarli lì.»
«Capisco.»
«Cambiando
discorso. Per quale motivo hanno rapito tua figlia?
Non siete certo gente ricca, e neppure il vostro villaggio. Che cosa
potevano volere da voi?».
A quella domanda
Etìko si incupì, guardando Regis come se volesse
dirgli qualcosa ma fosse tenuto a freno dalle circostanze.
«Venite con me».
Etìko
condusse i suoi ospiti nuovamente all’esterno, guardandosi continuamente
intorno come a volersi accertare che nessun occhio indiscreto li stesse
osservando, fermandosi poi davanti alla porta del granaio; lungo il breve
tragitto i tre trovarono sulla loro strada un ragazzino che tornava dai boschi
con il legname necessario alla famiglia, ma legato alla slitta piena di
fascine, invece che un cavallo, vi era una specie di dinosauro dalla pelle
squamosa di colore verde opaco; alto circa due metri si sorreggeva sulle zampe
posteriori, che contrariamente a quelle anteriori, piccole e gracili, erano
grosse e muscolose, aveva un collo lungo quanto la coda e una specie di bocca
d’anatra ideale per brucare l’erba o strappare le foglie dai rami. La
linea della schiena era piuttosto orizzontale, e a giudicare dalla sella che vi
era montata appariva chiaro che quelle curiose
creature erano utilizzate anche come animali da cavalcata.
«In nome del
cielo!» esclamò Elys, che non aveva mai visto un animale simile e che se lo
vide comparire davanti all’improvviso «Che razza di bestia è?»
«È un woptar.»
rispose Regis
«Un wopche!?»
«Qui a Kamur vengono usati insieme ai cavalli. Sono veloci, resistenti e
facili da addomesticare.»
«Li
trovo esteticamente poco attraenti. Non li cambierei mai con un cavallo».
Quando furono
davanti al granaio Etìko esitò a lungo prima di
aprire, e allora sia Regis che Elys restarono con le bocche spalancate per lo
stupore: all’interno c’erano tanti di quei sacchi di grano da poter produrre il
pane necessario a sfamare una grande città, riposti ordinatamente su scaffali e
protetti da elementari barriere magiche, realizzabili da chiunque avesse una
minima conoscenza della magia, per tenerli al sicuro da topi e mani
indesiderate.
«Guarda quanto ben
di dio.» disse Elys
«Questo è l’intero
tributo in grano versato dalle fattorie di tutta la regione.» disse Etìko «Un
tempo veniva stoccato in un villaggio al limitare
della foresta, ma negli ultimi sei mesi un gruppo di banditi ha cominciato a
fare razzia in questa zona, così, in gran segreto, il punto di stoccaggio è
stato spostato qui.
Gli emissari reali
credevano che nessuno sarebbe venuto a cercarlo in un posto tanto sperduto e
all’apparenza così povero, ma non so come quei briganti hanno scoperto tutto.»
«E hanno rapito
Martina per costringerti a consegnarglielo.»
«Ho
ricevuto una loro lettera minatoria l’altro giorno. Dicevano che se avessi
fatto come volevano non le sarebbe accaduto nulla.»
«Chi sono loro?»
«Si
fanno chiamare le Lucertole Nere. Il loro capo si chiama Burai.»
«Burai!? Che ci fa quel buono a nulla qui a Kamur!?»
«Lo conosci?»
chiese Elys
«Guidava
una banda con lo stesso nome nella parte orientale di Fiya. L’ho messo fuori
combattimento e spedito in prigione tre anni fa. Deve essere riuscito ad evadere, ed è venuto qui per evitare di finire di nuovo
al fresco.»
«Ma forse, visto
che voi avete liberato Martina…»
«Non
credere. Quel tipo sarà pure uno stupido e un egocentrico presuntuoso, ma le
sue non sono mai minacce a vuoto. Non ha alcuna importanza che il suo tentativo
di ricattarti sia fallito. Se vuole questo grano verrà
a prenderselo lo stesso».
All’improvviso un
altro abitante del villaggio entrò tutto trafelato e fuori di sé dalla paura.
«Etìko!
Stanno arrivando!»
«Ne sei sicuro!?»
«Li
hanno visti i taglialegna sull’altura a nord! Si stanno dirigendo qui!»
«Maledizione,
sono già arrivati. Suonate l’allarme, richiamate tutti! E chiudete il portone!»
«Aspettate.
È una pessima idea.»
«Cosa!? Ma, Regis…»
«Chiudendogli
le porte in faccia rendereste solo la loro reazione più violenta e aggressiva.
Lasciateli entrare.»
«Ma… come faremo!?» domandò il messaggero «Se prenderanno il grano… noi non
sappiamo combattere…»
«Ce la sbrighiamo
io e Elys. Da soli.»
«Che cosa, voi due
soli!? È una follia! Quelli sono più di trenta!»
«Fate come dice.»
«Etìko!?»
«Io
mi fido di Regis. Se dice che possono farcela allora vuol dire
che è vero. Nascondete le donne e i bambini».
Pochi minuti dopo
un esercito di woptar lanciato al galoppo fece
irruzione nel villaggio lasciandosi dietro un’altissima nuvola di polvere. Alla
guida di quell’esercito di balordi c’era Burai, il
capo delle nuove Lucertole Nere, un orrendo omuncolo alto e smilzo con baffoni
e capelli unti all’inverosimile.
Nessuno fece alcun
tentativo di fermarli, e quando arrivarono nella piazzatta ad attenderli c’erano tutti gli uomini del
villaggio, con Etìko alla testa.
«Chi di voi è
Etìko?»
«Sono io.» rispose
lui senza apparente timore, mentre i suoi compagni al contrario tremavano come foglie
«Sai, un uccellino mi ha appena portato un messaggio. Non è
stata una gran mossa da parte tua fare a pezzi quattro dei miei uomini.»
«Avevate rapito
mia figlia.»
«E
sarebbe tornata a casa sana e salva se solo tu avessi mostrato un po’ di
comprensione. Anche perché, vedi, io non apprezzo che altri picchino i miei
uomini. Solo io posso picchiarli. Sono le regole».
Detto questo Burai mollò un destro micidiale al
brigante accanto a lui, disarcionandolo e facendolo crollare svenuto a terra.
«Capisci?
Regole.»
«Non siete altro che degli sporchi ladri.»
«Questa
bravata ti costerà cara, amico mio. Lo sai, avevo deciso di essere magnanimo, e
di lasciare a te e alla tua gente qualche sacco per tirare avanti, ma adesso credo
proprio che mi prenderò tutto.
Nulla in
contrario, vero?».
Eventuali
obiezioni o insurrezioni vennero taciute sul nascere
appena i briganti sfoderarono le loro armi, e allora Burai
mandò due dei suoi all’interno del granaio per assicurarsi che il grano fosse
ancora lì dentro.
«E se così non
fosse» disse puntando la spada verso Etìko «Potrete pure raccomandarvi agli
dèi, pezzenti».
Quelli, armi alla
mano, entrarono nel granaio, scomparendo nell’oscurità, ma
quasi subito dall’interno giunsero gli inconfondibili rumori di una
battaglia e pochi secondi dopo i due volarono all’esterno già svenuti e
ricoperti di lividi.
«Questo grano non
si tocca!».
Nel sentire quella
voce Burai sentì un brivido alla schiena; la
conosceva, la conosceva anche troppo bene, e voleva
tanto augurarsi di aver sentito male, ma intanto il suo corpo tremava tutto e
sembrava sul punto di farsela addosso.
«Capo, che ti
succede!?»
«No… lui no… non
può essere lui…».
Quando Regis e Elys finalmente uscirono all’esterno Burai
si spaventò a tal punto che quasi cadde dalla sella, e aveva il terrore dipinto
sul viso.
«Ciao,
Burai. Quanto tempo, eh?»
«T… t…
t… t… Tu che ci fai qui!?»
«Di nuovo a giocare ai ladri? Non ti
sei ancora stancato?».
Ben presto, in Burai alla paura si sostituì la rabbia verso colui che l’aveva spedito dietro le sbarre per la prima
volta nella sua lunga e onorata carriera di fuorilegge.
«Non avrei mai
pensato di rivedere la tua brutta faccia.»
«Se può consolarti
neppure io, visto che ti credevo in gattabuia.
Quant’è, tre anni?»
«E
centododici giorni, per causa tua. Ti assicuro, il
tempo in prigione passa molto lentamente.»
«Speravo
che fosse servito a farti mettere giudizio, ma a quanto pare non è bastato.
Vorrà dire che dovremo rincarare la dose.»
«Non contarci, eroe di mezza tacca. Non finirà come l’ultima
volta.
Fatelo a pezzi!».
I suoi uomini,
forti del proprio numero, attaccarono tutti insieme,
ma ben presto cominciarono a sembrare tanti birilli che andavano giù uno dietro
l’altro senza possibilità di scampo; le abilità di Regis e Elys erano del tutto
inarrivabili per loro, e in un campo aperto come quello, dove potevano muoversi
a piacimento, potevano esprimere al meglio tutta la loro abilità.
Elys mulinava la
sua spada, volutamente provvista di guaine lungo il filo e sulla punta, Regis
invece maneggiava la sua in modo tale da non uccidere nessuno, e in breve tempo
Burai, proprio come l’ultima volta, si ritrovò da
solo.
«E adesso che si
fa?» domandò Regis vedendo la sua espressione al limite
della follia «Vuoi di nuovo farti scudo di una ragazzina?».
Questa volta
invece non ne ebbe il tempo, perché un manipolo di soldati reali, precedentemente avvertiti da Etìko subito dopo che Martina
era stata rapita, si degnarono finalmente di arrivare facendo irruzione nel
villaggio e arrestando tutti, lui compreso; dapprincipio furono sul punto di
prendere anche Elye e Regis, scambiandoli a loro
volta per banditi, ma Etìko chiarì subito che non solo erano amici, ma che
anche erano stati proprio loro a salvare il villaggio.
Legati uno ad uno i briganti vennero tutti buttati dentro un
carro-gabbia, e quando furono tutti dentro Regis si avvicinò a Burai, che lo guardava con rassegnazione.
«La prossima volta
che ti ribecco a fare cose del genere sarà anche
l’ultima.» disse prima che i soldati prendessero la strada del ritorno
«Vi ringrazio dal profondo del cuore.» disse Etìko «Senza di voi avrebbero
sicuramente fatto del male a mia figlia e rubato tutto il raccolto.»
«Non
lo dire neanche. È stato un piacere.»
«E io avevo voglia di sfogarmi.» disse Elys togliendo le
guaine dalla spada «Direi che siamo tutti contenti.»
«Avete detto che
state andando a Laryana, giusto?»
«Sì, esatto.»
rispose Elys
«Io
devo andarci domani per portare il grano. Se volete
posso darvi un passaggio.»
«Ne sei sicuro?»
«Per
ringraziarvi del vostro aiuto. Dovremo andare un po’ lenti, ma in un paio di
giorni ci arriveremo. Inoltre, con voi due scorta mi
sentirei molto più sicuro.»
«In
tal caso, grazie dell’offerta. Siamo felici di accettare.»
«Bene
allora. Per questa sera sarete miei ospiti. Dopo quello che avete fatto meritate se non altro una cena coi
fiocchi, e casualmente la mia ultima caccia all’anatra è stata piuttosto
proficua.»
«Hai detto anatra!?» disse Elys con gli occhi che scintillavano «Puoi
scommetterci che accettiamo!»
«Elys, sei un
pozzo senza fondo.»
«Fatti
gli affari tuoi, primadonna! Tu non sai apprezzare i piaceri del cibo!»
«E tu li apprezzi
fin troppo».
Seguendo le indicazioni di un gruppo di elfi sacerdoti
incontrati lungo la strada in pellegrinaggio verso Kyradon Erik
era infine giunto alla dimora del maestro Rasnak, grande mago di Normar.
Fattosi annunciare
da Mariko era stato introdotto alla presenza del vecchio insegnante mentre
Sanae, rispettosamente, aiutava la Inu domestica
nella preparazione del tè che fu poi servito al padrone di casa e al suo ospite
nella stessa saletta in cui era entrato Regis solo una settimana prima.
«Felice di fare la
tua conoscenza.» esordì il maestro «Tu sei Erik, dico bene?»
«Come fate a
sapere il mio nome?»
«Regis
è stato qui pochi giorni fa, e mi ha parlato di te. Voi due avete lo stesso
sguardo.»
«Quindi saprete
anche chi o che cosa sono, e che cosa mi porto dentro.»
«Non è importante
chi si è, ma piuttosto chi si sceglie di essere.»
«Qualche tempo fa
una persona mi ha detto la stessa cosa».
Rasnak sorseggiò
un po’ del suo tè.
«Non vi può essere
la pace interiore se non vi è anche l’accettazione di sé
stessi, e di tanto in tanto, per quanto doloroso possa essere, la strada della
completezza passa attraverso la vendetta.
Per chi, come te,
è costretto a vivere con il peso del giudizio del mondo sulle spalle, questa
regola deve avere ancora di più. Ma sono le tue azioni a determinare chi sei,
non ciò che gli altri pensano di te.»
«Voi fraintendete, maestro Rasnak. Non sono in cerca di vendetta,
ma di conoscenza.»
«Conoscenza?»
«Ciò
che dite è in parte vero. Sono venuto in questo punto spinto dal desiderio di
vendetta, ma poi ho ricordato i veri motivi che stanno alla base del mio
viaggio, e gli obiettivi che mi ero preposto nel momento in cui esso ha avuto
inizio.
Ora sono alla
ricerca di conoscenza, e credo che voi possiate aiutarmi.»
«Parla,
dunque. Vedrò cosa posso fare.»
«Il
Μένος Aδηλος
custodisce molti segreti, di questo ormai sono sicuro. Allo stesso modo sono
sicuro che svelandoli riuscirò a migliorare il mio
controllo sui suoi poteri, così da raggiungere la piena consapevolezza.
Dapprincipio non
lo credevo, ma ora so che questo mondo ha qualcosa a che fare con questo
potere, e che forse nei suoi meandri giacciono molte risposte alle domande che
non mi hanno dato tregua per dieci lunghi anni.»
«Che cosa te lo fa
pensare?»
«Sono
stato alla biblioteca di Kyradon, e lì ho trovato un libro, un libro molto
particolare. Era stato scritto quasi mille anni fa da un grande stregone
dell’epoca che aveva dedicato la sua vita allo studio del Μένος
Aδηλος.
Fra le altre cose
esso riportava una serie di circoli magici, a suo dire sviluppati molto tempo
prima da un altro possessore del medesimo potere, che permettevano di
controllarne la forza, e uno di questi simboli mi è parso subito famigliare».
Detto questo Erik prese dalla tasca interna della giacca un pezzo di
pergamena su cui aveva disegnato una copia del cerchio e lo porse a Rasnak, che
lo guardò.
«Ho
fatto delle ricerche. Questo simbolo, o almeno una parte di
esso, è citato molte volte nei formulari magici tanto degli elfi quanto
degli uomini da moltissimo tempo. Secondo alcuni testi sacri sarebbe correlato
addirittura alle divinità progenitrici del vostro popolo.»
«Conosco
questo cerchio. Molto bene.»
«L’ho
già visto usare una volta, da una maga potentissima conosciuta come la Strega delle Dimensioni, e
questa è l’idea che mi sono fatto.
Il Μένος
Aδηλος ha qualcosa a che
vedere con il passato di questo mondo, e allo stesso modo esiste una
correlazione anche tra questo mondo e le persone come quella strega che, ci scommetto qualsiasi cosa, non sono comuni esseri umani, e
non lo sono neppure mai stati.»
«Ciò che dici è
vero.» rispose Rasnak restituendogli la pergamena «Voi
lo chiamate Μένος Aδηλος,
tra il mio popolo invece è conosciuto come Bany Chakwa, e il fatto che questi
due nomi significhino la stessa cosa non può essere una coincidenza.
Il Bany Chakwa viene citato in molti testi sacri, e pare che sia uno dei
poteri con i quali gli dèi hanno creato la vita sul nostro mondo. Molti maghi
hanno cercato di svelare il suo mistero, ma si tratta di un segreto pericoloso,
e quei pochi che sono riusciti a dipanarlo almeno in parte hanno pagato caro il
prezzo della loro sete di conoscenza.»
«Voi avete
compiuto qualche studio in merito?»
«Non
direttamente, ma sì, mi ci sono interessato, e sono arrivato alle tue stesse
conclusioni.
Il Bany Chakwa non
si è generato dalla nostra cultura. Non l’abbiamo creato noi. Segni evidenti,
sia scritti che archeologici, testimoniano il fatto
che qualcun altro, una cultura molto più antica della nostra, ne faceva largo
utilizzo.
Ho scoperto che l’enclave
dei sacerdoti di Galinne più di duemila anni fa aveva portato avanti gli studi in
materia per molto tempo, ma che poi, d’accordo anche con la famiglia reale,
aveva fatto cadere sull’argomento il più totale segreto.»
«Per quale motivo?»
«È
stata una decisione presa di comune accordo tra le alte sfere di entrambi gli
schieramenti. La chiesa temeva che eventuali nuove scoperte avrebbero
potuto gettare discredito sulla sovranità dei nostri dèi, il che avrebbe
anche messo in discussione la discendenza divina che la nuova famiglia reale aveva
usato come pretesto per legittimare il suo diritto al trono dopo la guerra
civile. Timori, questi, tutt’altro che infondati.»
«In che senso?»
«Scavi
archeologici condotti prima che il casato del giglio prendesse
il potere dimostrano senza ombra di dubbio che solo umani e Inu
sono autoctoni in questo continente. La nostra razza è venuta da oriente,
lasciandosi dietro oltretutto una lunga scia di prove e documenti che in
seguito hanno subito una sistematica distruzione.»
«Però ho sentito
dire che le rovine a sud di qui sono il luogo da cui giunsero gli dèi.»
«Effettivamente
in questo continente c’erano degli elfi, ma erano una netta minoranza, e
occupavano a malapena lo spazio di questa regione.
La maggior parte
arrivava da oltre le montagne, e ulteriori prove
dimostrano che se si vuole cercare delle risposte sull’origine del nostro
popolo e sull’origine della vita in questo mondo è laggiù che bisogna andare.»
«Vuoi dire che se
andassi ad oriente potrei trovare delle risposte in
merito alla natura del Μένος Aδηλος,
o del Bany Chakwa, come lo chiamate voi?»
«È probabile».
Uno strano lampo
attraversò gli occhi di Rasnak, ed Erik se ne accorse.
«Sbaglierò,
maestro Rasnak, ma ho come l’impressione che ci sia qualcosa che non volete
dirmi.»
Il maestro fece
una nuova pausa e finì di sorseggiare il suo tè.
«Voi
sapete qualcosa. Ve lo leggo nello sguardo.»
«Dovevo
aspettarmelo. Non si possono avere segreti per un rappresentante del tuo
popolo. Potete scorgere tutto ciò che celiamo.»
«Che cosa avete
scoperto?»
«È
successo circa due secoli fa. Mi trovavo a Kyradon, e lì mi capitò di
incontrare un umano. Appena l’ho visto mi sono reso subito conto che era un
grande mago, dotato di poteri straordinari che superavano quelli di chiunque
altro, e ne rimasi quasi spaventato.
Mi disse di essere
uno studioso alla ricerca di risposte in merito alle nostre sacre scritture, di
voler separare il mito dalla storia, e di essere perciò diretto verso oriente. Era
sicuro che percorrendo a ritroso le tappe del viaggio
compiuto dal nostro popolo verso queste terre avrebbe trovato le risposte ai
suoi quesiti. Da allora non l’ho più visto.»
«Per quale motivo
non volevate parlarmene?»
«L’ho
visto usare la magia, in un’occasione, e il circolo che utilizzava era proprio
quello. Il circolo del sole e della luna.»
«Come avete detto!?» esclamò Erik «Usava quel circolo!?»
«Sì.
E posso dirti di più. Non era un circolo postumo, costruito ad arte, era
proprio il suo».
Erik di colpo
sentì uno strano tremore, mentre un senso di smarrimento cominciava ad
attanagliarlo. Non sapeva perché, ma sentiva che la risposta alla domanda che
stava per porre non gli sarebbe piaciuta.
«Per caso sapete
dirmi come si chiamava quell’uomo?».
Qualche minuto
dopo Sanae, Lily e Mariko stavano osservando i pesci rossi che nuotavano nello
stagno del giardino quando improvvisamente videro Erik camminare a passo
spedito lungo il corridoio aperto diretto verso l’uscita.
«Muoviamoci.
Dobbiamo partire subito.»
«Ehi, aspettaci!»
esclamò Lily correndogli dietro
«Nobile Erik, dove
stiamo andando?» domandò Sanae quando furono davanti al portone
«A oriente».
Il maestro Rasnak
uscì dalla saletta e raggiunse Mariko quando ormai i tre se ne erano già
andati; anche lui appariva visibilmente sorpreso, e quando Mariko gli domandò
cosa fosse successo lui non rispose, limitandosi a guardare enigmaticamente il
cielo.
Mentre percorreva
le scale che dall’ingresso della villa conducevano fino alla base della collina
Erik continuava a ripensare a ciò che aveva appena sentito, e continuava a
chiedersi come fosse possibile una cosa del genere.
«Il suo nome…»
aveva risposto Rasnak dopo una lunga esitazione, come se anche lui fosse in
qualche modo consapevole dell’incredibilità di ciò che stava per dire «Era Clow».
A sentire quel
nome Erik era balzato in piedi, e la sua tazza di tè, scivolatagli dalle mani,
era caduta a terra, inzuppando il tatami. Era impossibile, era del tutto
impossibile. Non poteva essere lui.
Quella parvenza di
ordine che sembravano aver acquisito alcune tessere di quell’immenso rompicapo
stava inesorabilmente svanendo, mettendo a nudo un
disegno ben più complesso di quanto ci si potesse aspettare; quali altri
segreti stavano dietro a quella vicenda che per ogni minuto e ogni nuovo
tassello assumeva toni sempre più sconvolgenti, e quanto terribile sarebbe
stata la rivelazione finale?
«Non
è possibile! Questo è inaudito!»
«Per quale motivo?»
aveva domandato perplesso Rasnak
«Clow, il re Clow, è vissuto più
di duemila anni fa. Ed era… lui era… era il padre di Toshio!».
Nota dell’Autore
Eccomi qua!
Purtroppo, questa
volta, devo esordire con una brutta notizia. Ho appena ricevuto il calendario
universitario per il primo trimestre, ed è davvero da mettersi le mani nei
capelli: tra lezioni, corsi preparatori e lettorati avrò intere giornate
completamente intasate, e con ben tre esami di lingue da preparare (al diavolo l’inglese e tutti i suoi derivati) riuscire a trovare il
tempo per scrivere sarà una vera impresa.
Cercherò di portarmi
avanti il più possibile prima dell’inizio delle lezioni, ma per tutto ottobre e
fino al 9 novembre aspettatevi delle lunghe attese.
Era stato un viaggio molto lungo da Tel Aviv al cuore del
niente nel bel mezzo del deserto, ma finalmente la carovana di auto militari
che scortava una limousine nera con le insegne dell’aeronautica militare
americana varcava i super sorvegliati confini della base militare di New
Liberty.
Nell’ultimo
decennio le visite delle alte sfere del colosso giapponese al Paese
mediorientale erano considerevolmente aumentate; la motivazione ufficiale era
l’aumento delle attività della Yoshida sul suolo
israeliano, quella ufficiosa invece riguardava proprio le attività mai
specificatamente chiarite di New Liberty.
Costruita
nell’anno 2014 dagli israeliani durante il periodo di massima tensione tra
Israele e l’alleanza antisemita guidata dalla Siria, e creduta a lungo luogo di
stoccaggio per armi nucleari, era stata abbandonata dopo la firma di un accordo
di non belligeranza, ad un certo punto era stata
acquistata dall’aeronautica militare statunitense, e da quel momento New
Liberty aveva rubato alla famosa Area 51 il titolo di luogo più enigmatico e
spiato del mondo.
Il continuo
andirivieni di personale militare e alti esponenti della comunità scientifica
internazionale, unito all’estrema lontananza da tutto e da tutti, lasciava
intendere che effettivamente vi era qualcosa al suo interno, qualcosa di
grosso, ma il caldo soffocante e il totale isolamento erano sufficienti a
scoraggiare anche i più incalliti sostenitori della teoria del complotto, ed
era piuttosto raro incontrare visitatori o curiosi lungo le recinzioni
metalliche che delimitavano il territorio della base.
La limousine,
liberatasi della scorta, si fermò davanti all’ingresso dell’edificio principale dove ad attenderla vi erano un alto ufficiale
dell’aeronautica, il generale Donald Ramsley, e un
giovane civile di colore, e come l’autista aprì la portiera posteriore dal
veicolo scese una giovane donna dai capelli castani e occhi marroni vestita con
un elegante abito nero; con lei un uomo sulla sessantina di corporatura
piuttosto robusta ma dallo sguardo gentile.
Lei era Kazumi
Yoshida, vicepresidente delle Yoshida Industries, lui
invece il Generale Landry, un tempo semplice sergente di un distretto di
polizia di New York e da poco nominato, grazie sia al
proprio carisma sia all’opera influente di certi misteriosi “amici”, alto
ufficiale dei marines per le operazioni in Medio Oriente dopo il suo rientro
nell’esercito. Insieme, rappresentavano oltre trenta miliardi di dollari di investimenti spesi per la prosecuzione delle misteriose
attività che si svolgevano nel sottosuolo della base.
«Signorina
Yoshida. Benvenuta a New Liberty.»
«Piacere di
rivederla, generale.» rispose la donna stringendogli la mano.
Il generale rivolse
poi la sua attenzione a Hank, e i due, dopo essersi guardati
un momento, sorrisero, abbracciandosi calorosamente.
«Hank.
È davvero un piacere rivederti.»
«Lo è anche per
me, Donald.»
«È
passato molto tempo. Quando è stato, venti anni fa?»
«Iraq,
2011. Il villaggio di Al Hallassa. Hai fatto carriera
da allora, a quanto vedo.»
«Già,
ma mai veloce come la tua. Da sergente di polizia a generale dei marines in
dieci anni.»
«Faccio del mio
meglio.»
«Immagino
conosciate entrambi il dottor Smith.»
«Certamente.»
rispose Kazumi «Piacere di rivederti, Will.»
«Piacere mio.»
«Beh, abbiamo
molte cose di cui parlare.» disse il generale «Entriamo».
I quattro
entrarono dunque nella base e si appartarono in una sala riunioni al secondo
piano interrato in cui l’unica forma di arredamento era il tavolo ovale al
centro con dieci poltrone dispose tutto intorno e un
proiettore di ologrammi al centro e una lavagna elettronica.
«Innanzitutto.»
disse il dottor Smith quando furono tutti seduti «Voglio ringraziare le Yoshida
Industries per tutto l’appoggio che ci hanno dato
nello sviluppo del progetto.»
«Non c’è bisogno
che ci ringrazi, Will.» rispose Kazumi «Ne va’ della
nostra stessa sorte. Direi che tutti quanti dovrebbero dare il loro contributo,
per quanto possibile.»
«Per quanto possa
essere d’accordo» disse Hank «Il Pentagono ritiene che stiano cominciando ad esserci un po’ troppi zeri nei budget stanziati per
questo progetto.»
«Non possiamo
dargli torto.» rispose il generale «Ma purtroppo questo progetto è partito praticamente dal nulla. Gli schemi di costruzione di cui
siamo entrati in possesso appartenevano ad una
tecnologia molto più avanzata della nostra, e abbiamo dovuto adattarli alle
nostre attuali conoscenze.»
«Sì,
questo è comprensibile. Purtroppo, certi capoccia laggiù non hanno molta
pazienza, e anche il presidente comincia ad essere
impaziente. Dopo il fallimento del progetto in Alaska gli animi si sono fatti
roventi.
Non lo hanno ammesso direttamente, ma sono convinto che stessero
guardando a quell’installazione come ad un appetibile strumento di evacuazione
di massa in caso di attacco, e vederlo andare in fumo non deve essere stato
molto piacevole.»
«Allora
credo che per una volta saremo noi a raffreddare gli animi. Infatti, se vi
abbiamo chiamati, è per darvi buone notizie»
«In
tal caso direi che se ne può parlare. Di che si tratta?».
Will lavorò alla
sua tastiera virtuale, e il proiettore al centro del tavolo si accese,
mostrando l’immagine di quello che sembrava una versione migliorata del sistema
di reazione di un 707 mentre girava lentamente su sé
stesso.
«Finalmente,
siamo riusciti a creare il bilanciamento ideale per la piena funzionalità del
sistema di reazione. Fino a poco tempo prima le turbine si surriscaldavano facilmente
al momento di uscire dall’atmosfera, ora invece, secondo questo nuovo modello
di previsione, il problema è stato superato.»
«In che modo?»
domandò Hank
«Abbiamo
brevettato un sistema di raffreddamento di ultima generazione. Azoto liquido a
bassissime temperature scorre all’interno di speciali tubature che girano tutto
intorno alle turbine e ai sistemi di propulsione, garantendone il parziale
raffreddamento fino a condizioni ideali.»
«Eccellente.
E per quanto riguarda l’alimentazione?»
«Abbiamo cercato
un’alternativa più economica all’uso della polvere di
diamante, ma al momento purtroppo la potente carica energetica insita nei
diamanti è l’unica fonte in grado di far muovere un gigante simile. Energia
nucleare e propulsione a ioni sono finiti entrambi in un vicolo ceco.»
«Noi facciamo
quanto possibile per garantire i rifornimenti di materia prima.» disse Kazumi «Ma ormai quasi tutti i giacimenti del mondo sono ai minimi
livelli. Il prezzo del diamante sale di giorno in giorno, e guerre per il suo
possesso stanno scoppiando in tutto il Terzo Mondo.»
«Stiamo facendo
tutto il possibile per ridurre al massimo il quantitativo
necessario, questo ve lo assicuro.» rispose il generale Ramsley
«Inoltre, abbiamo da poco scoperto un metodo per ridurre le spese per la
realizzazione della fusoliera utilizzando una speciale lega di titanio facile
da produrre e dai costi contenuti, ma per poterla realizzare in dose massiccia
ci occorre altro materiale.»
«Vedrò quello che
posso fare, ma il consiglio di amministrazione della società ultimamente non mi
dà tregua, e mio fratello è sempre più sotto pressione.»
«Per quanto
riguarda me.» disse Hank «Cercherò di convincere i
capoccia del Pentagono ad avere ancora un po’ di fiducia. Sicuramente la
notizia sul sistema di raffreddamento li renderà un po’ più ragionevoli, ma non
garantisco niente. Bisognerà vedere cosa deciderà il presidente.»
«Noi lavoreremo al
massimo delle nostre potenzialità.»
«Ed
è bene che sia così. Perché purtroppo, temo che non ci resti più molto tempo.»
«Che intendi dire, Hank?».
Hank e Kazumi si
consultarono con lo sguardo, poi Hank prese un dossier dalla valigetta che
aveva con sé e lo porse al suo amico.
«L’organizzazione
Afterlife ha ricevuto una comunicazione da Shinari
proprio mentre eravamo in volo per Israele. Pare che di recente siano stati
avvistati diversi velivoli da ricognizione nel nostro sistema solare.»
«Perché io non ne
sono stato informato?» domandò Ramsley non senza una
certa disapprovazione «Come comandante di questa base avrei dovuto essere il
primo a saperlo.»
«È
stato applicato il codice uno. Ad eccezione delle persone direttamente legate all’organizzazione nessun altro ne è venuto a conoscenza,
neanche il presidente o il consiglio di sicurezza.
La verità è che Afterlife non si fida molto della capacità di giudizio
delle Nazioni Unite o della Casa Bianca, ed è già da un po’ di tempo che alcune
di queste informazioni vengonosecretate.»
«Spero che
sappiate ciò che fate.»
«Se succederà
qualcosa» commentò Will «Le prime teste a saltare saranno le nostre.»
«Forse.» rispose
Kazumi «Ma è un rischio che dobbiamo correre».
Seguì un lungo
silenzio; Hank prese dalla tasca interna della giacca una lunga e
lussureggiante piuma nera, passandosela a lungo tra le mani ed
assaporandone la morbidezza; anche Will e Kazumi la guardarono.
«Beh.» disse il
generale Ramsley come a voler scacciare la tensione
«Immagino vogliate vederle.»
«Di sicuro non ci
farebbe dispiacere.» rispose Hank.
Will si alzò dalla
sua poltrona e spinse un pulsante segreto sul muro, e immediatamente tutta la
parete di sinistra si sollevò, rivelando una vetrata panoramica da cui si aveva
una chiara quanto spettacolare veduta di un grande, immenso edificio
sotterraneo che aveva tutta l’aria di essere un hangar.
Al
centro di quell’intricato mare di scienziati, operai e militari, due enormi
veicoli simili ad aerei, ma dalle forme più oblunghe e di dimensioni
almeno quadruple a quelle di qualsiasi altro velivolo, entrambi in piena fase
di assemblaggio.
Hank e Kazumi si
avvicinarono al vetro, osservando coi loro occhi;
quella era la prima volta che lo vedevano di persona, e non poterono fare a
meno di restarne atterriti.
Madison Hills
Saint Rein
30 novembre
Per quel giorno la riunione straordinaria dello Stato
Maggiore fu spostata dalla sede della Marble Tower al campo di addestramento del’aeronautica Saint Rein nelle
Madison Hills, una vasta aera verde un centinaio di chilometri a nord di
Boralis.
Le macchine di
grossa cilindrata che portavano i vari membri del consiglio arrivarono più o meno tutte insieme, fermandosi davanti all’immenso
campo di tiro a nord della base dove li attendevano il dottor Baldwin, dodici
tra soldati semplici e stregoni militari e un carro armato modello Ulrich3 con
equipaggio.
«Comandante
Ashford.» disse quando l’alto ufficiale scese dalla sua macchina, seguito a
breve da tutti i suoi collegi «Benvenuto a Saint Rein.»
«Mi auguro che
abbia un valido motivo per averci fatti accorrere in tutta fretta, dottore.»
«Chiedo scusa per
questa improvvisa convocazione, ma finalmente ho raggiunto i risultati che
volevate.»
«Che intende
dire?» domandò Samantha Sheppard
«Ce l’abbiamo fatta. Gli shiner sono pronti.»
«Dice sul serio!?» esclamò il capitano Harwast.
Il dottore fece un
cenno, e subito i soldati si misero in linea rivolti verso il campo di tiro su
cui, tramite apposite botole disposte lungo i lati,
vennero sparate centinaia di piccole sfere che presero a volteggiare da tutte
le parti; gli uomini presero la mira, e come iniziarono a sparare dai loro
fucili partirono raffiche di fasci luminosi che viaggiando assai più veloci di
comuni pallottole incenerirono tutti i bersagli a tempo di record.
«Davvero
notevole.» disse il Generale Balwish.
Uno dei soldati
consegnò il proprio fucile al dottor Baldwin, che a sua volta lo mostrò ai
membri dello Stato Maggiore.
«Fucile
magico ad alta precisione modello Odd 20, creato
modificando il vecchio Odd 9 per la fanteria
d’assalto. Spara mille colpi al minuto. Potenza di tiro
regolabile, che può andare dalle due alle dieci Rune».
Il dottore mostrò
la sfera azzurra incastonata tra il calcio e la base della canna.
«Shiner
da cento Rune. In grado di ricaricarsi, se a fondo scala si ricarica
completamente in ventidue minuti. Facile da sostituire in momenti di
combattimenti concitati. Inoltre, in caso di pericolo per il soldato e se
inserito nell’arma, solleva una barriera difensiva in grado di proteggerlo
anche da attacchi di una certa gravità. Purtroppo questo scudo difensivo
utilizza il nucleo centrale per funzionare, il che significa che dopo averlo
attivato lo shiner va’ irrimediabilmente in pezzi.»
«Elementare.
Il solo comando in memoria è di assorbire l’energia per ricaricarsi e attivare
il suddetto scudo. Questo ci ha permesso di aumentare la capacità di immagazzinamento.»
«Ottimo lavoro,
dottor Baldwin.» disse il comandante
«La ringrazio, ma
il meglio deve ancora venire».
A quel punto venne
il turno dei maghi, che invece dei soldati, al posto di rimanere fermi ai bordi
del campo, spiccarono il volo portandosi al centro di esso;
brandivano armi molto simili a quelle usate dalle truppe imperiali, lunghi
bastoni provvisti di un bidente dorato in cima con i denti di lunghezza
differente e una sfera rosso acceso incastonata fra di essi.
Una nuova selva di
bersagli venne lanciata in aria, e quelli, spostandosi
a grande velocità e tirando con terrificante precisione, in breve ne fecero
scempio; ancora una volta, lo Stato Maggiore assistette incredulo e
meravigliato alla dimostrazione, e naturalmente il più compito fu il capitano
Harwast, il capo dell’MSD.
«Mai
visto niente di simile. Sono sicuramente superiori ai modelli alfa e beta.»
«Infatti si tratta di un nuovo modello, capitano. Shiner
Lambda, specifici per gli stregoni di fanteria, ribattezzati Aelith. Come quelli montati sugli Odd
possono ricaricarsi di energia, e sono programmati per aumentare le abilità di
combattimento dell’individuo istituendo con lui un rapporto altamente
simbiotico.
La loro
intelligenza artificiale è estremamente progredita, in
modo da risultare capace di prendere decisioni anche nei momenti più concitati
e difficili, ma salvo casi di estremo pericolo può agire solo su specifica
richiesta del soldato. Hanno già delle specifiche tecniche di combattimento e
incantesimi elementari registrati in memoria, ma se ne possono aggiungere
innumerevoli altri, e ogni mago può adattare il proprio shiner al proprio stile
nel modo che più gli aggrada.»
«Davvero, sono
senza parole dottore.» disse il comandante Ashford «Mi sembra quasi impossibile
che sia riuscito a fare tanto in appena un mese di lavoro.»
«Le
avevo promesso dei risultati, ed io mantengo sempre le mie promesse.
Ma
aspetti a stupirsi. Il meglio arriva ora. se volete
seguirmi».
Baldwin condusse i
suoi ospiti all’interno di un casotto in cemento armato provvisto di una larga
finestra con vetro antiproiettile, e ad un suo comando
tramite l’interfono un nuovo bersaglio si palesò sul campo di allenamento, ma
stavolta non si trattava di una semplice selva di sferette: a comparire da
sottoterra per mezzo di un gigantesco montacarichi fu un vecchio Mis32 per il
combattimento aereo, da tempo fuori produzione per la sua arretratezza e
talmente malconcio da essere destinato quasi sicuramente alla demolizione.
«Cominciate.»
disse il dottore, e la torretta del carro armato, lentamente, puntò in
direzione dell’aereo
«Non starà
seriamente pensando di distruggere quelMis con un colpo di cannone, voglio sperare.» disse
sarcasticamente il generale Auber, che dopo le prime
due dimostrazioni aveva cominciato a sentire un irritante nodo allo stomaco.
Effettivamente il
Mis32, per quanto poco versatile e di scarsa velocità, aveva il suo punto di
forza proprio nella corazzatura, quasi impenetrabile anche per le armi più
potenti, ma l’espressione sorridente del dottor Baldwin lasciava intendere che
sapeva quello che stava facendo.
«Non si preoccupi,
generale.» disse prendendo nuovamente l’interfono «Fuoco».
Si udì un sibilo,
poi uno scoppio violentissimo, e il cannone sparò, arretrando di parecchi
centimetri a causa del rinculo, e un istante dopo ilMis fu disintegrato da un’esplosione così forte da far
tremare persino le pareti di quel resistentissimo rifugio, lasciando il
comandante Ashford e tutto il suo seguito con le bocche spalancate dallo
stupore.
William, vedendo
le loro facce sbigottite, gongolava di soddisfazione.
«Che ve ne pare?»
«È…
è stupefacente. Se non lo avessi visto coi miei occhi
non ci crederei.» disse Dastan
«Ma come… come
diavolo ha fatto!?» esclamò Amber, che invece si era
definitivamente rovinato la giornata
«Shiner
Omega per veicoli corazzati. Funziona come i modelli per gli Odd, ma può raggiungere una capienza di oltre mille Rune,
con bordate che possono andare dalle venti alle oltre cento Rune.
In realtà è stato
tutto molto semplice; abbiamo semplicemente modificato la struttura del cannone
per aumentare la capacità di sfogo e velocizzare il processo di raffreddamento
della canna.
Il computer di
bordo dell’Ulrich è programmato per consentire
l’utilizzo di una vasta gamma di incantesimi, dalle
comuni scariche energetiche ai proiettili infuocati fino a quelli capaci di
congelare l’obiettivo.
Purtroppo l’attuale
blindatura e bilanciamento dei nostri carri armati non permettono loro di
sparare in movimento, ma i tecnici sono già al lavoro per trovare una
soluzione.»
«Dottore, io le
devo le mie scuse.» disse il comandante «Ammetto di aver dubitato per un attimo
dell’effettiva utilità di questo progetto, ma sono ben felice di rimangiarmi
ogni cosa.»
«Non
ha motivo di scusarsi, generale. Visti gli scarsi risultati ottenuti fino ad
ora, era più che comprensibile.»
«Quando potranno
entrare in produzione?»
«Sapevo
che mi avrebbe fatto questa domanda, capitano Harwast.
Beh, per quel che
mi riguarda, i nuovi Odd per la fanteria anche
subito. Per gli Aelith sarà necessario ancora qualche
controllo, ma confido che entro la fine dell’anno si potrà iniziare la produzione
in serie anche per quello.
Per quel che
riguarda i nuovi Omega per gli Ulrich invece, come
potete ben comprendere, ci vorrà un po’ di tempo. Dovremo cercare di giungere ad una mediazione per giungere ad una potenza di fuoco
accettabile senza per questo dover riscrivere totalmente le specifiche del
carro.»
«Non abbia di che
preoccuparsi, dottore.» rispose Ashford «Dopo quello
che abbiamo visto oggi immagino che nessuno qui abbia qualche obiezione
sull’eventualità di concedere un nuovo finanziamento a questo progetto.»
«Certo –
Ovviamente – Nessuna obiezione».
William sorrise di
soddisfazione, Amber invece se ne andò prima degli altri
seguito dal suo attendente e masticando bestemmie su bestemmie.
Poco dopo la
riunione ebbe fine e i vari membri dello Stato Maggiore fecero ognuno ritorno
alla propria macchina. Proprio quando stava per salire
l’ammiraglio Dastan fu raggiunto dal dottor Baldwin e, intuendo dal suo sguardo
di cosa dovesse parlargli, lo invitò dentro.
«Allora?» domandò
quando furono seduti
«Avevi ragione Hank.» rispose il dottore infilando una scheda
nell’apposito lettore e poggiando il dito sul vetro divisorio, attivando gli
schermi «La Independence
non è andata distrutta.»
«Ne sei sicuro?»
«Ho
analizzato con molta attenzione i dati rilevati dai nostri satelliti e dalle
sonde inviate nella zona.
Nell’istante in
cui la nave ha cessato le comunicazioni il buco nero
che erano stati mandati ad analizzare ha avuto un improvviso sbilanciamento
dell’attività energetica, simile sotto molti aspetti a quella che si verifica
con l’apertura di un warp.»
«Quindi si sarebbe
trattato solo di questo?! Di un warp!?»
«No,
non credo. Per quanto simili i valori che ho riscontrato sono del tutto
anomali. L’energia emessa è stata milioni di volte
superiore a quella di un semplice warp, abbastanza da causare una curvatura
temporale nella zona interessata dalle onde elettromagnetiche.»
«Ma allora di che cosa si è trattato?»
«Abbiamo
fatto un controllo. Di recente quel buco nero aveva avuto un’attività
energetica insolita, e questo in corrispondenza ad un
esperimento che pare sia stato condotto sulla Terra. Ho chiesto a qualcuno dei
nostri agenti dislocati laggiù di fare qualche indagine, e ho scoperto che si
trattava di una ricerca sulla possibilità di aprire passaggi verso altre
dimensioni.»
«Verso altre
dimensioni!? Ma… si era sempre detto che era
impossibile.»
«Sì, almeno con le
conoscenze attualmente a nostra disposizione. Ma
ritengo che abbiano fatto uso di un dispositivo incredibilmente avanzato,
qualcosa che supera di gran lunga qualsiasi forma di
tecnologia mai vista fino ad ora. Difficile dire come ne siano entrati in
possesso, ma comunque fosse pare che quell’esperimento
sia andato male.»
«E dunque?»
«Ritengo
che il buco nero in questione sia in realtà quella famosa fenditura nella
parete che gli scienziati di Shinari andavano cercando da molti anni, e che
permette di entrare in comunicazione con le altre dimensioni. Se davvero
l’esperimento condotto dai terrestri è fallito, probabilmente una parte
dell’energia che avevano usato per tentare di aprire
il portale è rimasta al suo interno, lasciando aperto uno spiraglio, e a quel
punto sarebbe bastata una scarica particolarmente forte per farlo aprire
nuovamente.»
«Una forte scarica
hai detto? Forte come lo Starlight Breaker?»
«Beh, teoricamente
sì.»
«E tu sei sicuro
che l’Independence non è andata distrutta?»
«Sicurissimo.
Se così fosse avremmo dovuto trovare una traccia anche minima, e gli unici
rottami che siamo riusciti a recuperare appartenevano ad
una nave dell’Alleanza.»
«E allora dov’è
adesso la nave?»
«Se è riuscita ad uscirne indenne, in una qualsiasi dimensione fuorché la
nostra».
L’ammiraglio a
quel punto si buttò all’indietro sul sedile senza sapere come doveva
considerare quelle notizie, se buone o terribili.
Subito dopo essersi svegliati Dave e Sakura
si erano ritrovati nel fitto entroterra di Kamur, e dopo aver speso quasi un
giorno alla ricerca dei loro due compagni di viaggio avevano deciso di dirigersi
a Laryana, la capitale del regno distante una trentina di miglia, sicuri che
laggiù li avrebbero incontrati.
Dal
momento che nessuno dei due conosceva con esattezza né la morfologia né
la situazione politica di Gawarn avevano deciso in
comune accordo di muoversi in silenzio, lungo sentieri stetti e poco battuti
che passavano attraverso le foreste, affidandosi per l’orientamento alle
perlustrazioni aeree dello spirito del Vento di Sakura, che allo stesso tempo
cercava anche di rintracciare Regis e Elys.
Nel corso dei
primi due giorni Dave incominciò a capire qualcosa di più sulla sua misteriosa
compagna di viaggio, rimanendone comprensibilmente affascinato: non solo era
una maga di grandissimo talento, paragonabile unicamente al maestro, ma
disponeva anche di un autocontrollo e di una freddezza
davvero incredibili, proprie di chi riesce ad affrontare qualunque
situazione, anche la più disperata, con calma e raziocinio.
Purtroppo, come era facile da intuire, era anche incredibilmente
introversa, e in tre giorni di cammino Dave non era stato in grado di
intavolare con lei alcun tipo di comunicazione, tanto quella ragazza rimaneva
sulle sue. Durante le soste per la notte, seduti attorno al bivacco, mentre lui
ravvivava il fuoco lei rimaneva in disparte, e quando
veniva il momento di dormire scompariva sul ramo di qualche albero,
soffermandosi per tutta la notte a guardare il cielo, e dormendo solo lo
stretto indispensabile.
Di tanto in tanto
Dave l’aveva vista guardare e rigirarsi tra le mani qualcosa, uno strano
oggetto di natura sconosciuta, salvo poi farlo scomparire nella tasca ogni
qualvolta si rendeva conto di essere osservata.
La mattina del
quarto giorno di viaggio, quando Dave si svegliò, Sakura doveva essere già
sveglia da parecchio tempo, infatti dopo poco Vento
comparve dal cielo e scese veloce davanti alla sua padrona.
«Allora?
Li hai visti?».
Lo spirito fece
cenno di no con la testa.
«Non
fa niente. Ora va’ a riposare. Da qui in poi possiamo
procedere da soli.»
«Signorina Sakura.»
domandò Dave dopo che lo spirito ebbe fatto ritorno nello scettro di Sakura «Quanto
crede che manchi ancora per arrivare a Laryana?»
«Cinque
o sei miglia al massimo. Camminando a passo spedito saremo lì entro mezzogiorno».
Proprio mentre si
preparavano a rimettersi in cammino Dave notò qualcosa
per terra accanto ai resti del fuoco, ed incuriosito lo raccolse: la base, un
rubino color sangue, era a forma di cuore, ingabbiata in una rete d’oro
massiccio e dominata da una corona regale; ai lati, due unicorni rampanti.
Doveva trattarsi di un medaglione, a giudicare dall’anello che spuntava dalla
sommità della corona, e doveva sicuramente valere diverse migliaia di denari.
«Signorina
Sakura. È vostro questo?».
Lei si girò, e la
sua espressione distaccata e impassibile mutò improvvisamente, facendosi
spaventata e atterrita, e scattata in avanti con la paura dipinta sul viso recuperò il monile quasi stappandoglielo di mano. Dave,
atterrito da una simile reazione, fece per domandare di cosa si trattava e perché
fosse così importante, ma poi, intuendo dallo sguardo della ragazza e dalla sua
reazione che quell’oggetto aveva per lei un valore ben più alto di quello puramente materiale decise di non indagare.
«Mi
dispiace. L’ho trovato per terra, e…»
«Non
toccarlo mai, per nessun motivo. Mi sono spiegata?» disse con uno sguardo da
far gelare il sangue
«M… mi perdoni…»
rispose atterrito Dave «Non lo farò più».
Poi, nello spazio
di un secondo, Sakura tornò ad essere quella di
sempre, e fatto sparire nuovamente il medaglione nella solita tasca ordinò di
rimettersi in marcia; Dave obbedì, ma per le ore successive la sua testa si
riempì di interrogativi a cui non gli riusciva di dare una risposta: perché
Sakura aveva avuto quella reazione spropositata, in netto contrasto con il suo
naturale carattere? Ma, soprattutto, perché Dave aveva la sensazione che quel
simbolo gli risultasse stranamente famigliare?
Nello stesso
momento, molte miglia più a nord, un vecchio barile mezzo distrutto si arenò
placidamente sulla sabbia di una piccola spiaggia isolata in posizione
orizzontale; quasi subito il coperchio saltò via, e dall’acqua che ne uscì emerse una giovane elfa completamente fradicia e tanto
scossa che i suoi occhi giravano come trottole, rendendole impossibile persino
restare in piedi.
«Ahia, la testa mi
giiiiiiiiira».
Nota dell’Autore
Eccomi qua!
Il giorno della
ripresa delle lezioni si fa sempre più vicino, e la cosa non può che avvilirmi
indicibilmente, non tanto per il dover tornare a fare andirivieni da Venezia,
quanto piuttosto per il terribile calendario che mi attende da qui al nove di
novembre; meglio sorvolare, o rischio di scoppiare a piangere.
Questo era un
capitolo intermedio, giusto per chiarire alcune cosette, ma dal prossimo si
ritorna sulla carreggiata principale.
La mattina del terzo giorno di viaggio, più
o meno verso le nove, Regis e Elys, accompagnati da Etìko e alla guida
insieme a lui del carro di testa che, seguito a ruota agli altri due, trasportava
il grano prima stoccato nel granaio, arrivarono a Laryana, la capitale del
regno.
Costruita in forma
ottagonale, con la cinta muraria a proteggere la città vecchia e una buona
fetta di centro urbano, principalmente popolare, sviluppatasi anche all’esterno,
in prossimità delle quattro porte d’ingresso, Laryana era una delle città più
grandi del nord di Kamur, e l’influenza culturale
esercitata dal continente a nord era più che evidente nella forma
classicheggiante dei suoi edifici.
Gawarn era un regno estremamente
prospero, almeno rispetto ai suoi vicini, pur avvicinandosi solo marginalmente
alla grandezza e alla potenza di Fiya e degli altri regni del nord, governata
da un Principe di nobile casata e dalla mentalità aperta di nome Soberian; come Etìko aveva avuto modo di raccontare nel
corso del viaggio, da un paio di anni Soberian aveva
abolito la schiavitù, fortemente radicata nella cultura popolare per la sua esistenza
più che millenaria, e questo aveva generato forte malcontento tra i mercanti di
schiavi, alcuni dei quali divenuti ricchi oltre ogni immaginazione e
ritrovatisi di colpo senza lavoro e, se colti a proseguire l’attività, con
l’accusa di sfruttamento a pendere sulle loro teste.
Su questo punto la
popolazione era divisa, e se da una parte c’era chi appoggiava la scelta del
principe dall’altra vi era anche una grande maggioranza che considerava la schiavitù un fenomeno comune e per nulla deprecabile e che
perciò continuava a guardare con evidente sufficienza e disprezzo uomini e
donne appartenenti a minoranze un tempo schiave e ora improvvisamente divenuti
cittadini liberi con uguali diritti.
Disordini e
incidenti erano all’ordine del giorno, soprattutto nelle grandi città, e
malgrado qualsiasi atto di discriminazione fosse punibile con un salatissimo
risarcimento o, se reiterato, con la galera comportamenti simili erano
all’ordine del giorno, e le autorità faticavano a porvi un freno.
Elys fu informata
da Etìko del fatto che anche i Kalimi erano spesso
usati come schiavi, soprattutto per i lavori pesanti, e quindi si aspettava di
essere guardata in modo strano, ma in ogni caso era convinta che il solo fatto
di vederla con un simile spadone assicurato dietro la schiena avrebbe dissuaso anche il razzista più convinto dal pestarle
i piedi.
Purtroppo, come
Regis le aveva fatto notare quando aveva esposto tale convinzione, il razzismo
il più delle volte è fine a sé stesso e viene espresso
indipendentemente dalle circostanze, e purtroppo Elys se ne accorse in prima
persona.
Subito dopo essere
arrivato in vista di Laryana Etìko e il suo seguito si accordarono alla lunga
fila di carovane e carri per il trasporto merci i quali,
assieme ai convogli e alle diligenze, dovevano presentare documenti e bolle di
carico, oltre a pagare un’eventuale tassa di passaggio, una procedura a volte
lunga e tediosa, che non di rado provocava incolonnamenti molto lunghi.
Regis era seduto
accanto a lui, Elys invece, che durante la notte aveva fatto il turno di
guardia, stava dormendo distesa tra i sacchi di grano, quando fu svegliata da
una leggera frenata del carro.
«Siamo arrivati?»
domandò sbadigliando
«Quasi.» rispose
Etìko «Il tempo di presentare i documenti di viaggio».
Il loro turno
venne dieci minuti dopo, e ad attenderli trovarono le due guardie assegnate
all’incarico; una di loro, un giovane dall’aria mite e visibilmente nuovo alla
vita militare, si avvicinò al carro.
«Documenti,
prego.» disse con gentilezza, ricevendoli da Etìko «Che cosa trasportate?»
«Il
tributo in derrate alimentare delle fattorie sulla costa. In tutto, quattro
quintali di grano».
Elys, ancora mezza
addormentata, si diede una bella stirata per scacciare il torpore alle ossa, e
casualmente incrociò lo sguardo della giovane guardia, che le fece un sorriso
amichevole a cui lei rispose con un cenno della mano,
ma appena si girò nell’altra direzione la faccia che vide fu completamente
diversa: l’altro soldato addetto al controllo merci, di poco più vecchio ma
probabilmente più alto in grado, a giudicare dall’elmo col pennacchio nero di
cui invece il ragazzo era sprovvisto, la guardava come si guarderebbe un
criminale appena uscito di prigione e senza fare alcun tentativo di evitare il
suo sguardo.
Sulle prime Elys
decise di non farci troppo caso, ricordandosi di quello che Etìko aveva detto
sull’idea che la gente di lì aveva dei Kalimi, ma
poi, quando stava per accoccolarsi nuovamente tra i sacchi, lo sentì
pronunciare un epiteto decisamente poco gradevole, e a
quel punto il sangue cominciò ad andarle alla testa.
«Hai qualche
problema, per caso?» domandò guardandolo in cagnesco
«Sono solo un po’
stupito.» rispose lui ghignando sadicamente «Fa un certo senso vedere una
scrofa in mezzo ad un carico di grano».
Anche Regis sentì
quello scambio di battute, ma non fece in tempo ad
impedire che Elys saltasse giù dal carro, portandosi viso a viso con quel tipo,
che nonostante la sua aria minacciosa continuava a guardarla con assoluta
sufficienza.
«Scusa,
non credo di aver capito. Che cos’hai detto?»
«Che c’è, sei sorda, faccia nera? Ho detto scrofa.»
«Ah, allora avevo
sentito bene.» rispose Elys sorridendo divertita, e un secondo dopo la guardia
crollò a terra con il setto nasale incrinato da un destro micidiale.
Tutte le persone
lì presenti rimasero come paralizzate dall’incredibilità
della scena, ma per fortuna Regis aveva conservato tutto il suo autocontrollo e
riuscì ad intervenire quando vide la sua amica avvicinare pericolosamente la
mano all’impugnatura della spada.
«Elys!» gridò con
tono di comando, e lei, grazie al cielo, si fermò.
Quel povero
soldato era bianco di paura e ridotto piuttosto male, il suo giovane compagno
invece non aveva fatto niente per intervenire, rimanendo immobile e incapace di
agire. Regis scese dal carro e, affondata una mano nella tasca, ne prese fuori una manciata di monete, che gettò ai piedi della vittima non
senza disprezzo.
«Per i danni.»
disse prima di risalire «Avanti Elys, monta».
La ragazza esitò,
poi, al secondo richiamo, si decise ad obbedire,
riservandosi però di lanciare al soldato un bello sputo in un occhio, e a quel
punto, con il consenso del ragazzo più giovane, la carovana si rimise in moto.
Tolta la minore
monumentalità degli edifici e un po’ di sporcizia per le strade Laryana non era molto diversa da qualunque altra città di
Fiya, Qerin esclusa naturalmente.
«Che diavolo ti è
saltato in mente?» domandò Regis quando furono abbastanza lontani dal portone
«Ringrazia
che non l’ho ucciso! Fosse stato per me gli avrei
strappato la lingua!»
«Non
puoi agire sempre d’istinto, Elys. Talvolta bisogna ragionare. Speravo che lo
avessi capito.»
«Che dovevo fare!? Far finta di niente e porgere l’altra guancia mentre
quell’animale mi dava della scrofa?!»
«Non
ho detto che hai sbagliato a reagire, ho detto solo che dovresti riflettere un
po’ di più prima di agire. Qui non siamo a Fiya o a Qerin, qui non c’è Aria a
proteggere i tuoi colpi di testa. Questa bravata potrebbe costarci cara.»
«Il
mio popolo è nato libero, e non accetterò mai di essere trattata alla stregua
di una schiava. Questo faresti bene a ricordartelo.»
«Accidenti,
parlare con te e parlare con il muro è la stessa
cosa».
Giunti nella
piazza centrale della città, dominata dal palazzo reale, un edificio bianchissimo
con quattro alte guglie che svettava su di una collina a nord-est, Elys e Regis
scesero dal carro, proprio ai piedi di un’altissima torre campanaria.
«Vi prego di
scusarmi per quello che è accaduto.»
«Non devi
scusarti, Etìko.» rispose Regis «Tu non c’entri.»
«Questa
gente non ha ancora accettato l’idea che l’epoca degli schiavi è finita. Pare
anche che ce ne siano ancora, nelle case di parecchi ricchi. Forse un giorno
questo regno diventerà un po’ più simile al vostro.»
«Lo spero tanto
anch’io.»
«Beh,
noi ora dobbiamo andare. Voglio prendere la via del ritorno entro sera. Auguri,
e che gli dèi vi proteggano.»
«Proteggano
anche te, amico mio. Salutami Martina.»
«Lo
farò. A presto».
I due ragazzi
salutarono finché i carri non scomparvero dietro una curva, poi venne il
momento di pensare ad altre cose.
«Molto
bene. Ora dividiamoci e cerchiamo gli altri. Se sono già arrivati a Laryana,
sicuramente li troveremo.»
«Faremmo molto
prima se ci dividessimo.»
«Dividerci!? Non credo proprio. Non dopo quello
che hai combinato. Dovrei venire a riprenderti in prigione.»
«E
dai. Ti prometto che non farò niente di avventato.»
«Non
so se fidarmi delle tue promesse. Ormai ti conosco troppo bene, e so cosa devo
aspettarmi da te.»
«Accidenti Regis,
dicevi che dovevo imparare a tenere la testa a posso,
ma tu devi almeno darmi l’occasione di dimostrare che posso farlo».
Regis si grattò la
nuca, indeciso sul da farsi.
«E va’ bene, hai visto.»
«Sì!
Sei grande!» rispose Elys tutta contenta, come una bambina a
cui è stato appena comprato il gelato
«Ma
sia chiaro, niente colpi di testa. Abbiamo già avuto modo di farci conoscere,
cerchiamo di non attirare ulteriormente l’attenzione.»
«Ti prometto che
farò la brava bambina.»
«Lo
spero. Io rimango in questa zona, tu vai verso est. Ci ritroviamo qui a
mezzogiorno.»
«D’accordo
capo. A dopo».
Regis, rimasto solo, si avventurò per le vie del distretto
residenziale della città, nella zona degli alberghi e delle locande, il luogo
in cui era sicuramente più facile imbattersi in Sakura e Dave qualora fossero
già arrivati a Laryana.
Gli faceva uno
strano effetto potersi finalmente muovere per le strade di una città senza che
tutti girassero la testa al suo passaggio, quali come fosse stato un attore
famoso o una rockstar di successo; la fama che si era procurato
a Fiya lo seguiva dovunque andasse, e tutti conoscevano il suo volto, quindi la
curiosità che il popolo nutriva verso di lui era naturale.
Tuttavia, pur
essendo immerso in una realtà nuova e aliena, e intenzionato più che mai a
passare, almeno per una volta, del tutto inosservato, Regis era pur sempre
Regis, e non riusciva a restare indifferente quando a pochi passi da lui si verificava una qualsiasi ingiustizia, anche di minima
portata.
Mentre era intento
a camminare alla ricerca dei suoi compagni pensando unicamente ai fatti suoi venne colpito in pieno da una ragazzina che correva a
perdifiato nella direzione opposta, e che dopo averlo guardato un momento,
rimanendo allo stesso tempo affascinata e terrorizzata dal suo sguardo, riprese
subito a correre quando un uomo grosso e minaccioso, sicuramente un macellaio,
a giudicare dal grembiule bianco sporco di sangue, si palesò tra la folla
urlando a perdifiato.
«Fermatela!
Fermate quella ladra!».
Purtroppo, come
accadeva fin troppo spesso quando qualcuno gridava la parola
ladro, la folla tutto intorno si accese in un sol colpo, facendo fronte
comune contro la ragazzina, che, braccata da ogni dove, fu chiusa in un angolo
dopo aver tentato inutilmente di uscire dalla piazza.
Terrorizzata, si
raggomitolò su sé stessa, ma proprio quando il
macellaio derubato era sul punto di mollarle un ceffone Regis, saltando su
alcune casse, si parò in sua difesa, fermando sul nascere l’aggressione.
«Davvero
un grand’uomo. Alzi le mani su una ragazzina?»
«Quale
ragazzina? Quella è una ladra! Ha rubato una fetta della mia carne più
preziosa!»
«Eppure io non le
vedo carne addosso.»
«L’avrà buttata
via per cercare di sfuggirmi.»
«Non
è vero, io non ho rubato niente! Ero entrata per comprare della carne, e di
colpo mi ha accusata di avergliela rubata! Guardate,
ho ancora le monete che dovevo usare per pagarla!»
«Avrai
rubato anche quelle, piccola furfante. Altrimenti, perché saresti scappata.»
«Mi avete
inseguito con in mano un coltello. Che cosa potevo
fare?»
«Ha ragione.»
disse Regis «E poi, non mi pare che siate il tipo che
accetta spiegazioni. Sembrate anzi uno che accusa la prima persona che gli
capita a tiro per non fare la figura dell’idiota che si fa rubare la merce da
sotto al naso.»
«Come mi hai
chiamato!?» ringhiò quello
«Come altro dovrei chiamarti? E anche voi, brave persone che gli siete
andate dietro. Bel coraggio davvero, prendersela con una
ragazzina. Non siete altro che una massa di
ignoranti bifolchi.»
«È
anche lui un ladro! Sicuramente! Ammazziamoli tutti e due!».
La folla fece per
scagliarsi nuovamente all’attacco, ma a Regis bastò sventolare velocissimo la
spada per recidere in un sol colpo il coltellaccio del macellaio e quei pochi
capelli che gli circondavano la testa, paralizzando tutti dalla paura.
«Se volete venire avanti fate pure, ma non garantisco per la
vostra incolumità.»
«Ehi, che sta
succedendo!?» domandò improvvisamente qualcuno,
catalizzando su di sé tutte le attenzioni.
A parlare era
stato lo stesso giovane soldato che aveva controllato i documenti di Regis e
del gruppo all’ingresso in città, che sfoderata la spada si intromise
a sua volta; non indossava più la sua armatura, segno che probabilmente aveva
staccato dal suo turno, ma portava comunque un corpetto di cuoio con sopra
l’effige del regno in modo da poter testimoniare il proprio ruolo.
«Tu!?» esclamò vedendo Regis
«Guarda
un po’. Questa città è più piccola di quanto sembri.»
«Che accidenti è
successo?»
«Una
piccola discussione. Il signor macellaio qui presente
sosteneva di essere stato derubato da questa ragazzina.»
«È la verità?».
L’uomo però era
ancora visibilmente terrorizzato da ciò che Regis aveva appena fatto, e
continuava a guardare con incredulità il manico del suo coltello, privato ormai
di buona parte della sua lama.
«Ehi!»
«N… no.» rispose
allora quello trovando a stento il fiato per rispondere «Mi sono… mi sono
sbagliato.»
«In
tal caso potrei mettervi dentro per calunnia. Sparite.»
«S… sì, subito!»
«E
voi tornate alle vostre occupazioni! Lo spettacolo è finito!».
Rapidamente la
folla si disperse e la ragazzina protagonista della sfortunata vicenda tornò di
corsa verso casa dopo aver ringraziato i suoi salvatori, che calmati gli animi
si ritrovarono per parlare; cessati i panni del soldato integerrimo, il ragazzo
tornò a sfoggiare quella sua espressione gentile che decisamente
gli stava molto più a pennello.
«Vi
conosco da un’ora e già devo tirarvi fuori dai guai. Tra voi e la vostra amica
non so chi sia il più imprudente.»
«Mi
dispiace per quanto successo. Mi sono lasciato andare.»
«Non
deve scusarsi. Ha ragione, queste persone sono per la
maggior parte dei pigroni buoni a niente. Inoltre, da quando il principe ha
abolito la schiavitù, obbligando tutti a rimboccarsi le maniche, gli animi si
sono fatti roventi.»
«Posso
immaginare. Ma non darmi del voi. Non sono così
vecchio.»
«Come volete,
cioè… come vuoi.»
«Molto meglio. Posso chiederti come ti chiami?»
«Joff. Sono entrato da poco nella guardia cittadina. Tu
invece chi sei?»
«Mi chiamo Regis.»
«Uno
strano nome. Vieni da oltremare?»
«Esatto.
Siamo giunti qui in quattro da Europia,
come la chiamate voi, ma ci siamo persi di vista. Ho pensato che Laryana fosse
il posto dove era più facile trovarli.»
«Del resto non è
facile perdere di vista uno come te!» disse una voce famigliare
«Sakura!? Dave!»
«Signor maestro!» esclamò il ragazzo correndogli incontro
«Per fortuna state bene.»
«Anche
voi mi sembrate in buona salute. Quando siete arrivati in città?»
«Ieri mattina.»
«E come mi avete
trovato?»
«Quello non è
stato certo difficile.» rispose sarcastica Sakura «È bastato seguire gli
improperi della gente che bestemmiava a proposito di un tizio vestito di nero e
con una strana giacca che non ama farsi gli affari suoi.»
«Che
vuoi farci. Sono fatto così.»
«Allora sei fatto
male.»
«Ah, questo è Joff. È una guardia cittadina.»
«Piacere di
conoscervi.»
«Signor maestro, e Elys?»
«È
in giro a cercarvi. Dobbiamo ritrovarci a mezzogiorno sotto l’orologio nella
piazza centrale. Andiamoci subito, e aspettiamola lì».
Nello stesso momento Elys stava percorrendo una stradina
deserta che si incuneava tra i palazzi, ma in verità
la ricerca di Sakura e Dave le era ormai passata completamente di testa.
Quello a cui non le riusciva di non pensare, e che l’aveva condotta
in quella lunga peregrinazione senza meta, era il modo in cui era stata
trattata, e anche se aveva fatto rimangiare a quel soldato arrogante ogni
singola parola il dolore e la rabbia rimanevano, e forti come non mai.
Aveva fatto tanto
per conquistarsi il rispetto e la stima di chi le stava intorno, aveva dedicato la sua vita ad accrescere la propriaforza e la propria esperienza, e aveva
intrapreso quel viaggio anche allo scopo di raggiungere nuovi traguardi, per
non parlare dell’accusa di sharun che gravava ancora
sulle sue spalle.
Inoltre, non si
riteneva certo brutta, anzi, era unanimemente riconosciuta come una ragazza
davvero attraente, che avrebbe sicuramente fatto strage di cuori se non fosse
stato per quel suo caratteraccio impossibile.
E invece, a
dispetto di tutto ciò, era stata trattata alla stregua
di un animale, come se tutte le fatiche fatte fino a quel momento fossero state
del tutto vane, e questo la avviliva e la faceva infuriare al tempo stesso,
mettendole addosso una rabbia sconfinata.
Era così infuriata
e affranta da ciò che le era successo da non dare retta ai propri sensi di
guerriera che sicuramente l’avrebbero messa in guardia da un gruppo di persone
che la osservavano nascoste dietro un muretto che faceva in parte da contorno
alla piazzetta deserta in cui era infine arrivata e le cui uniche forme di
arredo erano una piccola fontana al centro e qualche panchina di legno tutto
intorno.
«È lei?» domandò
uno
«Sì.» rispose una voce femminile «Lasciatela a me, ci penso io. Ve la consegnerò su un piatto
d’argento».
Elys intanto si
era seduta e alzati gli occhi al cielo li aveva chiusi, come a voler cercare un
po’ di pace, ma dopo poco finalmente si decise a dar ascolto alle sue
sensazioni, riuscendo ad evitare all’ultimo secondo la lama di una spada che le
stava piombando addosso, spostandosi abbastanza in tempo da permettere che
fosse la panchina a finire in pezzi al posto della sua testa.
«Talim!?» esclamò riconoscendo sua cugina «Che ci fai qui a
Kamur?»
«Te l’avevo detto
che ti avrei inseguita fino in capo al mondo per farti
pagare quello che avevi fatto, e a differenza di te non sono il tipo da
disilludere un impegno preso.»
«Se
ho deciso di compiere questo viaggio è stato anche per rimediare al mio errore.
Non capisci che sto cercando di redimermi?»
«La tua redenzione
non servirà a restituirmi mio padre!» gridò di rimando la ragazza correndole
contro a spada tratta.
Elys rispose, ma
questa volta, a differenza del loro primo incontro, non aveva intenzione di
lasciarsi scoperta o di concedere spazi vuoti all’avversaria, pur volendo
evitare il più possibile di farle del male.
La differenza di
abilità tra di loro si era notevolmente ridotta dall’epoca in cui combattevano
insieme per divertimento quando avevano rispettivamente dodici e undici anni:
pur essendo destinata ad un’esistenza da brava moglie
dedita all’educazione dei figli e alla cura della casa, come esigevano le
regole del clan in una famiglia con una sola figlia femmina e tre maschi che
avrebbero portato avanti la tradizione guerresca, Talim aveva sempre dimostrato
una naturale affinità al combattimento, e pur non potendo impartirle un vero
addestramento, che si sarebbe concluso con la tracciatura dei tatuaggi rituali,
aveva appreso da suo padre e da suo zio Barac-Shalin le nozioni del
combattimento.
Naturalmente, dopo
la partenza di Elys, anche lei si era più o meno
ribellata al destino che le toccava in sorte, e approfittando dell’avvento del Pashanaru, una secolare ricorrenza Kalimi
in onore del dio della luna che vietava i matrimoni nei tre anni successivi,
aveva sottoposto sé stessa ad un allenamento massacrante che l’aveva portata in
breve tempo a poter rivaleggiare coi suoi fratelli.
Elys era molto
colpita da un tale miglioramento, e non essendo più guidata, come la prima
volta, dalla furia ceca e dal semplice desiderio di vendetta Talim era ancora
più pericolosa, ma la giovane principessa si accorse fin da subito che la
cugina non sembrava avere intenzione di ucciderla; di certo però non si
aspettava quello che sarebbe accaduto di lì a poco.
Ad
un certo punto Talim, messa in difficoltà, parve arretrare, ed Elys decise di
concludere l’incontro correndole incontro con l’intenzione di colpirla con la
parte piatta della spada in modo da farla svenire; Talim rimase immobile,
attendendo il momento giusto, poi, all’ultimo istante, si spostò lateralmente,
e arrivata alle spalle di Elys le piantò un ago d’osso di una decina di
centimetri poco sotto l’ascella.
Elys sentì dolore,
anche se non troppo, ma tutto d’un tratto la colse una
stanchezza terribile, e tutte le sue membra, a cominciare dalle gambe,
cominciarono a paralizzarsi, facendola cadere in ginocchio.
«Che cosa… che
cosa mi hai fatto…» domandò mezza intontita.
Talim non rispose,
e lei, toltosi l’ago dalla pelle, avvertì distintamente un odore forte e
asprigno, che riconobbe subito.
Presso i Kalimi era chiamato Maznaru, ovvero Essenza dell’Oblio, ed era un liquido derivato dal
veleno di una particolare specie di scorpione; una volta estratto poteva
assumere due utilizzi, a seconda dell’utilizzo che si voleva farne: usato in
forma pura manteneva la sua natura venefica, rivelandosi un’arma eccezionale
sia durante le battute di caccia, per stroncare la resistenza di animali
particolarmente veloci o pericolosi, mentre se mescolato al polline e al succo
di una mandragora diventava un potentissimo sonnifero, usato soprattutto per
alleviare le pene dei malati durante la convalescenza o prima di un’operazione
particolarmente dolorosa.
Il suo effetto in
quest’ultimo caso era praticamente immediato; alla
paralisi seguiva nel giro di trenta secondi un inevitabile senso di stanchezza,
e in pochi minuti, indipendentemente dalla volontà e dalla resistenza
dell’individuo, sopraggiungeva un sonno profondo come la morte, la cui durata
poteva andare dai pochi giorni alle intere settimane, a seconda della quantità
di essenza iniettata.
Elys cerco in tutti i modi di combattere l’effetto del veleno, ma
dentro di sé sapeva già quello che sarebbe successo.
«Perché… perché lo
stai facendo…»
«Tu hai distrutto
la mia famiglia, Elys.» rispose Talim mentre la cugina veniva
sopraffatta dal sonno «La mia vita non sarà mai serena fino a che non saprò la tua
rovinata per sempre».
La resistenza di
Elys fu ammirabile, ma purtroppo inutile: nello spazio di un minuto la ragazza
cadde addormentata, e pochi secondi dopo attorno a lei si radunò un gruppetto
di sei o sette individui decisamente poco raccomandabili
vestiti come bucanieri.
«È tutta vostra.»
«Perfetto.
Davvero graziosa, e combatte molto bene. Qualunque nobile lascivo di questa
città o un qualsiasi lanista clandestino pagherà fiumi di soldi per averla.»
«È
una guerriera e una principessa, fa dell’onore e della conquista del rispetto
il suo chiodo fisso. Fate di lei quello che volete, ma assicuratevi che le
tocchi un destino il più umiliante possibile.»
«Non credo che ci
saranno problemi».
Il più grosso di quei tipi si caricò Elys sulle spalle, un altro invece
offrì a Talim un sacchetto pieno di monete d’oro, che però lei rifiutò.
«Non
l’ho fatto per i soldi. L’unica cosa che mi interessa
è la vendetta.»
«Come
vuoi. Ora è meglio sparire, prima che qualche guardia ci scopra».
Ognuno a quel
punto andò per la sua strada, ma nessuno si accorse che Elys, nel venire
sollevata, aveva perso uno dei suoi due bracciali magici, che era andato a
finire sotto una panchina.
Nota dell’Autore
Eccomi di nuovo!^_^
Mi scuso per questo
lungo ritardo, ma ultimamente ho avuto parecchie cose da fare, per non parlare
del fatto che Akita,
la mia fedele recensitrice, è nuovamente sparita nel
nulla, e desideravo aspettare il suo ritorno per aggiornare ancora, ma visto e considerato che rischio di essere scaraventato in quarta
pagina è molto meglio fare così.
Ad ogni modo informo
fin da ora che da adesso e come l’ultima volta intendo aspettare il suo ritorno
per aggiornare ancora.
Dopo essere tornati all’orologio Regis, Sakura e Dave avevano aspettato a lungo l’arrivo di Elys, ma dopo
un’ora di lei non c’era ancora traccia.
Dapprincipio i
ragazzi avevano pensato che forse la loro amica si era semplicemente attardata,
ma quando le ore di ritardo cominciarono a diventare davvero troppe tutti e tre
cominciarono a temere il peggio.
«Dobbiamo
dividerci e cercarla.» disse Dave
«Sì, avete
ragione.» rispose Regis «Voi due andate a est, nella zona in cui era venuta a
cercarvi, io continuerò a cercare da queste parti.»
«Manderò Wind a
cercarla dall’alto.» disse Sakura «Grazie al suo aiuto, sicuramente la
troveremo.»
«Conoscendola, e
conoscendo le opinioni che questa gente ha dei Kalimi, non mi sorprenderei se
avesse attaccato briga con qualcuno e l’avessero sbattuta in prigione.»
«Per quello posso
pensarci io.» disse Joff«Ci
sono molte prigioni qui a Laryana, ma conosco molti dei secondini che ci
lavorano. Se è stata arrestata lo verrò sicuramente a
sapere.»
«Molto
bene. Ci ritroviamo qui alle sei in punto. Muoviamoci».
Mentre il sole era
in procinto di calare all’orizzonte Regis e Joff
furono i primi a fare ritorno al punto di partenza, ma dalle loro espressioni
appariva chiaro che entrambi portavano brutte notizie.
«Niente da fare,
nessuno l’ha vista.» disse Regis «Tu hai avuto maggior fortuna?»
«No, purtroppo. Ho
cercato in tutte le prigioni della città. Nessuna Kalimi è stata arrestata oggi».
Sakura arrivò poco
dopo, portando ugualmente brutte notizie.
«Non ne ho trovato alcuna traccia, e Wind ha detto che non l’ha vista
né dentro né fuori le mura della città.»
«Maledizione, dove
sarà finita?»
«Maestro!» esclamò
di colpo Dave correndo incontro ai suoi compagni «Guardi cos’ho trovato.»
«Ma questo.» disse
Regis prendendo il monile che il suo allievo aveva con sé «Questo è di Elys. È
uno dei suoi bracciali magici.»
«Dove l’hai
trovato?» domandò Sakura
«Ce l’aveva un mendicante. Grazie al cielo non ne aveva scoperto i poteri, così sono riuscito a comprarglielo.»
«Ti ha detto dove l’ha trovato?»
«In
una piazzetta a est, vicino alle mura. E sotto una panchina, e ha detto che
c’erano segni di lotta, come se avesse combattuto con qualcuno.»
«Hai detto una
piazzetta a est!?» disse Joff
«Non starai mica parlando della zona vicino al cimitero!?»
«Che succede Joff?» chiese Regis
«Quel
posto è molto pericoloso. È usato dai trafficanti di schiavi.»
«Trafficanti di
schiavi!?» ripeté Dave «Credevo che la schiavitù fosse
stata abolita in questo regno.»
«Ufficialmente
forse, ma nonostante ciò è dura liberarsi di una così antica usanza, e nel caos
che è seguito alla messa al bando della schiavitù
hanno cominciato a proliferare i trafficanti illegali. Rapiscono la gente
povera della città e la mandano a lavorare nelle case ricche o nelle tenute
agricole dei nobili di campagna, e la zona vicino al cimitero, così isolata e
degradata, è uno dei loro luoghi di caccia preferiti.»
«Quindi potrebbe
essere stata rapita per essere venduta!?» disse Sakura
«È probabile.»
«E dove li tengono
questi schiavi?» domandò Regis «Avranno pure un magazzino o un deposito qui in
città.»
«Naturalmente, ma
nessuno sa dove sia. Però
forse conosco qualcuno che può aiutarvi a scoprire che ne è stato della vostra
amica.
Venite, dobbiamo
andare dall’altra parte della città».
Elys riaprì gli occhi solo molte ore dopo, e la prima cosa
che vide appena la sua vista cominciò a farsi più nitida fu il volto gentile e
amorevole di una donna che per un attimo, vinta dalla grande somiglianza e dal
leggero stato di delirio provocato dal sonnifero, le venne quasi da chiamare
mamma.
Aveva gli stessi
capelli lunghi, con una fascia gialla di lana annodata sulla nuca come un
fermacapelli, occhi grandi e nerissimi e la pelle del giusto colore scuro che
al sole avrebbe sicuramente brillato di una forza inaudita.
Era sicuramente
una Kalimi come lei, ma anche se indossava una tunica vecchia e scucita che
copriva gambe e braccia era evidente che non portava i
tatuaggi rituali, segno che non era una guerriera, ma la fascia la identificava
comunque come una donna di casa.
«Finalmente ti sei
svegliata».
Elys
balzò subito a sedere, ritrovandosi in quella che aveva tutta l’aria di essere
una cella, sporca, umida e sovraffollata: in quei sei metri per quattro
dovevano essere stipate almeno dodici persone, quasi tutte sporche e malandate,
di tutte le età e di entrambi i sessi: c’erano persino delle madri con i figli
al seguito, dei vecchi che a stento si mantenevano in piedi e degli uomini
tanto magri da avere le ossa in risalto e non un solo grammo di grasso in tutto
il corpo.
La cella era a
forma di spicchio, chiusa da sbarre e senza finestre, e la pietra di cui era
fatta era di un colore ocra scuro, e già da questo si poteva capire che
dovevano trovarsi in un edificio sotterraneo, chissà a quanti metri sotto il
livello del terreno.
«Dove… dove
accidenti sono?»
«Gli schiavisti ti
hanno catturata. Sei nel loro magazzino.»
«Gli schiavisti!?»
«Tu
sei una Kalimi, giusto? Vieni da Europia?»
«Sì,
esatto. Sono Elys, della tribù Soga.»
«Io sono Lavy. Mia madre apparteneva alla tribù Yoru.»
«La
tribù Yoru? Ho sentito dire che è stata distrutta
tempo fa.»
«Infatti,
e i pochi superstiti sono stati venduti come schiavi. È per
questo che siamo finiti qui, in questo continente. Allora avevo solo un
anno.»
«Però, hanno detto
che la schiavitù è stata abolita in questo regno.»
«Ufficialmente,
ma in realtà non è mai scomparsa. Rapiscono gente come noi, vecchi schiavi
appena liberati, e ci rinchiudono qui in attesa di venderci.»
«Come
fai a parlare di una cosa simile con tanta semplicità? Ti stanno trattando, ci
stanno trattando come fossimo degli animali.»
«Quello
noi siamo per loro. Niente altro che animali.»
«Ma sei davvero
sicura di essere una Kalimi!?» esclamò Elys a metà tra
la rabbia e la frustrazione
«Cosa?»
«Sono sicura che
tua madre te lo ha raccontato. Il nostro popolo ha
dovuto sopportare pene inimmaginabili per conquistare la propria libertà.
Abbiamo lottato contro tutto e contro tutti, ma
abbiamo sempre prevalso, indipendentemente dalle avversità.
E lo sai perché?
Perché eravamo e siamo tuttora un popolo fiero, che mette
l’onore e la gloria sopra ogni altra cosa. Andiamo fieri della nostra
indipendenza, e ci siamo sempre battuti contro chiunque
cercasse di strapparcela, o di toglierci ciò che era nostro di diritto.
Mai e poi mai un
Kalimi accetterebbe di abbassare la testa, perché vedersi privati dell’onore e
del rispetto per noi è peggio che morire».
Lavy restò un momento allibita,
poi però sorrise dolcemente, senza dare segno di essersela presa o di essere rimasta
ferita dalle parole di Elys.
«Ti
prego, non prendere a male le mie parole, ma non credo che tu possa realmente
comprendere la nostra situazione.
Tu sei nata
libera. Ti sei prefissata degli obiettivi da raggiungere, e ti sei impegnata
anima e corpo per riuscirci, e una volta arrivata dove volevi hai goduto a
pieno della soddisfazione e del senso di appagamento così faticosamente
conquistati.
Per noi è diverso.
Molti di noi la
libertà non l’hanno mai conosciuta, e hanno passato
tutta la loro esistenza venendo trattati con disprezzo o sufficienza. E quando vieni trattato in questo modo così tanto a lungo, finisci
per farci l’abitudine, e anche se dentro di te provi una grande rabbia sai
anche che è l’unico modo che hai per non soffrire.
Ci è stata
libertà, ma dopo così tanto tempo speso in schiavitù
non sapevamo quasi che cosa farcene, e non ti nascondo che per alcuni di noi è
quasi un sollievo essere tornati in queste condizioni.»
«Perché
così potrete lavarvene le mani e lasciare che la vostra vita sia decisa da
qualcun altro. In questo modo, se succede qualcosa, non potete dare la colpa a voi stessi.
Non importa che tu
sia o meno una Kalimi, questo modo di ragionare non è
degno di qualunque essere umano. Bisogna avere il coraggio di vivere,
altrimenti per questo mondo siamo solo un peso morto.
Se non avete
questo coraggio sono affari vostri, ma non inventate
la scusa che essere schiavi serva a farvi sentire meglio. La verità è che avete
paura di vivere».
A quel punto anche
Lavy perse il suo sorriso, e molti dei prigionieri
abbassarono gli sguardi, su cui comparvero insieme la vergogna e la
rassegnazione.
Anche Elys però,
calmata l’iniziale furia combattiva, venne presto
sopraffatta dal peso del dolore. Mai avrebbe pensato che sua cugina si sarebbe
spinta a tanto pur di vendicarsi: venderla come schiava.
A ben pensarci,
quella era davvero la sorte peggiore che potesse capitare ad
una come lei: Elys aveva fatto di tutto per conquistarsi il rispetto altrui, e
da quel momento in poi invece sarebbe stata trattata come un oggetto, o peggio.
Chissà cosa si sarebbero inventati di far fare ad
unaragazza giovane e attraente come
lei: la serva personale, la danzatrice, o qualcosa di ancora più inammissibile.
Ma
non avrebbe dato questa soddisfazione né ai suoi futuri padroni né tantomeno a
Talim; piuttosto la morte.
In quella si udì
in lontananza il rumore di una porta che veniva
aperta, poi un rumore di passi, e pochi secondi dopo davanti alla cella si
fermarono due uomini; uno era il capo degli schiavisti che avevano catturato
Elys, l’altro invece un uomo di mezza età con una grossa cicatrice sulla
guancia destra.
«È lei.» disse il
capo indicando Elys.
L’altro la scrutò
attentamente, passandosi una mano sulla barba ispida.
«Non mi pare molto
atletica.»
«Fidati,
è solo un’apparenza. Ha sfracellato il naso ad una
guardia, e per catturarla abbiamo dovuto sudare sette camice.»
«Ho
bisogno di qualcuno che duri almeno qualche minuto. Preferirei un tipo tutto
muscoli.»
«Lei
durerà anche più di qualche minuto, puoi contarci. Dovresti vedere la spada che
utilizzava. Neanche il migliore dei tuoi gladiatori riuscirebbe a maneggiarla
con tanta abilità».
Elys ebbe un
sussulto: dunque quel vecchio era un lanista, un allenatore di gladiatori.
Anche in certi
regni di Europia, soprattutto a Normar, erano diffuse
le scuole gladiatorie, frequentate soprattutto da spiantati in cerca di soldi o
da mercenari che, incapaci di trovare un impiego, vedevano in quelle
particolari forme di intrattenimento brutale il solo
modo per rimanere in attività.
Forse, pensò la
ragazza, quella era la migliore delle alternative:
avrebbe dovuto combattere per puro divertire il pubblico, d’accordo, ma avrebbe
pur sempre combattuto, il che era sicuramente molto meglio che vedersi
costretta a ondeggiare i fianchi per qualche riccone grasso e lascivo, come
quel maiale che qualcuno sperava di farle sposare.
E poi, anche
quella era una possibilità di fuga: come quel vecchio continuava a non voler
riconoscere, una volta ricevuta una spada Elys diventava una furia
incontenibile, e le sarebbe bastato davvero un istante per cogliere l’occasione
e aprirsi la strada verso la libertà.
Servirono lunghi
discorsi e continui incitamenti, ma alla fine il lanista si convinse.
«D’accordo.
Dopotutto non ho tempo di stare qui a scegliere. Il mio vecchio muso nero si è
fatto ammazzare durante l’ultimo spettacolo, e ho bisogno urgentemente di un
sostituto che scenda in campo nel primo incontro per scaldare gli animi a
dovere.
Quanto vuoi?»
«Per te, duemila
talenti.»
«Che cosa!? Hai forse perso quel poco di cervello che avevi!? Potrei comprare tutti i gladiatori della città!»
«Questa
è roba di classe. Non puoi sperare di pagare il mio articolo migliore con
quello che usi per pagare morti di fame e vagabondi da mandare al massacro. Se
la vuoi davvero, metti mano al denaro.»
«Resta il fatto che duemila sono decisamente troppi. Milleduecento!»
«Milleotto.»
«Milletre.»
«Millesette.»
«Millecinque.»
«Millesei.»
«E va’ bene, hai vinto, ladro e sanguisuga che non sei altro.
Ma sia chiaro, se crepa prima del quinto minuto, sognati di fare ancora affari
con me.»
«Ma se ne dura
dieci, allora comprerai da me a prezzo intero per i prossimi due mesi.»
«Ci
sto. Ricordati però che anche il generale Saigos sarà
presente allo spettacolo di stasera, quindi, se la tua muso
nero dovesse fare cilecca, non sarà solo di me che dovrai preoccuparti.»
«Non
temere. Il generale sarà soddisfattissimo».
Una guardia entrò
nella cella e legò a Elys le mani dietro la schiena, e lei non cercò in alcun
modo di opporsi; poi, mentre stava per essere portata via, rivolse a Lavy uno sguardo di rimprovero.
«Aspetta
qui. Ti dimostrerò che se c’è la volontà tutti possono fare la differenza. E
quando tornerò a riprenderti, tutti voi dovrete accettare la vostra libertà».
La taverna del Cinghiale Guerriero si trovava alla
periferia settentrionale di Laryana, ed era frequentata soprattutto da
forestieri.
Regis e gli altri
vi arrivarono già a metà pomeriggio, ma dovettero rimanere in attesa seduti al
bancone fino al calare del sole perché il bersaglio segnalato da Joff, anch’egli presente, si decidesse ad arrivare. Era un
suo commilitone, un soldato alla soglia dei quaranta che sedutosi ad un tavolo un po’ in disparte ordinò che gli fosse portato
subito un boccale della sua solita birra.
«È lui?» domandò
Dave
«Sì.» rispose Joff«Si chiama Garret. Ufficialmente è una guardia cittadina, ma è anche
un membro della banda di schiavisti che opera nella zona del cimitero.»
«Come fa a bere
quella brodaglia schifosa?» si chiese Regis alludendo alla birra di quinta
categoria che la figlia dell’oste gli aveva portato
«Con il guadagno
da fame che gli passano entrambe le parti non può
certo permettersi di meglio. Ma berrebbe anche acqua di fogna se lo aiutasse ad ubriacarsi.»
«Vorrà
dire che lo prenderemo per la gola. Oste.»
«Sì?»
«Porta un boccale
della tua birra migliore al soldato laggiù.»
«Come
vuoi. E se mi chiede chi gliela manda?»
«Dì che è da parte
sua.» rispose Regis indicando Joff.
Il dono venne rapidamente consegnato, e come previsto il soldato
chiese chi lo mandasse; l’oste indicò allora Joff,
che gli fece un cenno, poi il ragazzo, quando fu sicuro che il dono era stato
gradito, andò a sedersi al suo tavolo.
«Perché una tale
grazia?» esordì Garret «Meglio
che tu non ti faccia strane idee. Io sono di un’altra confessione.»
«Non
pensar male. Diciamo che è solo un piccolo regalo, nella speranza che tu voglia
ricambiare.»
«Ricambiare
come? Di certo non mi abbasserò i pantaloni.»
«Ancora
con questa storia? Sono della tua stessa parrocchia, puoi stare tranquillo.
Tutto ciò che ti chiedo è qualche informazione.»
«Dipende
dall’informazione.»
«Che cosa sai di
una Kalimi scomparsa questa mattina nella zona del cimitero?».
Di colpo
l’espressione del soldato mutò drasticamente.
«Non so di che
stai parlando.» disse con aria molto disinteressata
«Non
fare l’ipocrita. Sai benissimo di cosa parlo. Lo sanno tutti che lavori per
quegli schiavisti, e se non ti hanno già sbattuto in prigione
è solo perché sei un protetto del generale.»
«Faresti
meglio a tenere a freno la lingua, ragazzo. Certe parole potrebbero costarti
caro.»
«Io
sto cercando una Kalimi che è stata rapita da quelli della tua banda. Tu sai
qualcosa, l’ho capito da come hai reagito alla mia domanda.»
«Anche se lo
sapessi, scordati che ti dica qualcosa.»
«Stammi a sentire, sottospecie di alcolizzato.» replicò Joff alzando i toni «Sono mesi che ti sto addosso, e ho
raccolto abbastanza prove su di te da sbatterti dentro per il resto della vita,
e se non ti ho ancora denunciato è perché speravo di mettere le mani
sull’intera banda. O mi dici quello che sai o vado direttamente dal principe, e
ti assicuro che neppure il generale sarà in grado di salvarti».
Garret grugnì come un animale rabbioso, poi rise sotto i
denti.
«Sai che ti dico?»
disse ghignando «Succhiamelo».
A quel punto Regis
perse completamente la testa, e alzatosi in piedi camminò a passo spedito verso
il soldato, sollevandolo di peso e scaraventandolo contro un altro tavolo;
prima che potesse rialzarsi gli spaccò una sedia sulla
schiena e gli tirò un paio di calci, poi, presolo per i capelli, gli mise la
punta della spada davanti alla bocca.
«Che… che stai
facendo!?» urlò terrorizzato
«Adesso
hai due scelte. O parli o ti faccio mangiare la lingua.»
«Ve
lo giuro! Io non so niente!».
Ancor più
infuriato Regis trascinò quel poveraccio dietro il bancone e gli ficcò la testa
nella tinozza di acqua saponata che la figlia dell’oste stava usando per lavare
i piatti, lasciandocelo dentro per parecchi secondi.
«Parla!»
«Và bene! Và bene! D’accordo,
l’abbiamo presa noi. Una Kalimi con una spada enorme.»
«È sicuramente
Elys.» disse Sakura
«E dov’è adesso?»
«Io… io non lo
so…»
«Risposta
sbagliata!».
Alla seconda
immersione, che stavolta quasi gli provocò l’annegamento, Garret
divenne finalmente più collaborativo.
«Basta!
Ti prego! L’hanno venduta! L’hanno venduta poche ore fa!»
«A chi?»
«Un lanista.»
«Un lanista!?» ripeté Dave «Un allenatore di gladiatori!?»
«Chi era?» domandò
Regis
«Vulgan! Era Vulgan!»
«Lo conosci?»
chiese rivolto a Joff
«Sì,
è uno dei più grandi capi della malavita cittadina. Organizza combattimenti
clandestini in tutta la regione.»
«Diceva… diceva di
volerla usare nello spettacolo di stasera… per il primo incontro!»
«Dove si terrà
questo spettacolo!?»
«Non
lo so! Lo giuro su dio! Solo i suoi fedelissimi e i suoi conoscenti più intimi sanno dove si trovi l’arena! Vi giuro, non so altro!».
Garret era così terrorizzato che avrebbe persino insultato
il principe pur di salvarsi la pelle, quindi aveva detto
sicuramente la verità sostenendo di non sapere dove si trovava l’arena; Regis,
finalmente, lo lasciò andare, quindi, consegnato un sacchetto di monete
all’oste per pagargli i danni, uscì dal locale assieme ai suoi compagni sotto
gli sguardi sgomenti degli altri avventori, nessuno dei quali osò muovere un
muscolo finché non furono usciti.
«E adesso che si
fa?» domandò Sakura
«Se l’ha comprata
per farla combattere stasera stessa non può averla portata fuori città» disse Joff«E se ho ragione, c’è un solo
posto in cui potrebbe essere. Dobbiamo arrivare lì il
più velocemente possibile.»
«Per quale
motivo?» chiese Dave
«Diceva che
vogliono farla combattere per prima, e di solito quelli che vengono
buttati nell’arena per primi sono quelli che fanno la fine peggiore».
Alla periferia sud-orientale della città, in una vasta
zona disabitata, vi era una grande cisterna per la raccolta dell’acqua piovana
scavata nella viva pietra; risaliva a molti secoli addietro, ed era stata la
prima fonte di alimentazione dell’acquedotto cittadino, ma già da quasi un secolo l’approvvigionamento idrico era garantito da un più
efficace sistema di condutture che portava l’acqua a Laryana direttamente dalle
sorgenti delle montagne a sud.
Per lungo tempo
quella cisterna era stata lasciata all’incuria e all’abbandono, tenendo anche
conto della zona degradata in cui si trovava, poi però, con la messa al bando
della schiavitù e dei giochi gladiatori, anch’essi largamente diffusi nel regno
prima della venuta dell’ultimo principe, i vari lanisti che gestivano le
palestre e gli allibratori che facevano soldi con le scommesse avevano
riadattato quell’immensa voragine di pietra fino a crearne un’arena con tanto
di spalti che potevano ospitare fino a mille spettatori.
Si entrava
dall’alto, tramite una scalinata, mentre i gladiatori e le belve venivano fatti passare da un sistema di gallerie realizzate
apposta e ammassati in un grande androne sotterraneo anch’esso costruito per
l’occasione prima di essere buttati nell’arena.
Regis e i suoi
amici arrivarono quando il serpentone di persone che attendevano di entrare era
al suo picco; venivano fatte passare una ad una, e per
entrare bisognava esibire una particolare medaglia di cera su cui era impresso
il simbolo della gilda dei lanisti, oltre naturalmente a farsi perquisire e
lasciare armi o scettri magici nel grande baule ai piedi del banchetto a cui
sedeva il responsabile dei controlli.
Joff risolse la faccenda dei lasciapassare procurandosene
cinque a tempo di record, uno per ognuno di loro, per quando riguardava le armi
invece, che si prevedeva sarebbero sicuramente servite per riuscire a tirare
Elys fuori da lì, Sakura le affidò a Winden, il suo
spirito del vento, che le portò segretamente all’interno lasciandole in un
punto preciso degli spalti, sotto una panca, dove i ragazzi puntualmente le
ritrovarono una volta che furono riusciti ad entrare.
All’interno, la
folla era davvero immensa: uomini, donne e persino bambini di tutti i ceti
sociali erano ammassati sulle gradinate, e chi non aveva trovato posto a sedere si accalcava o sui bordi della cisterna o contro il
parapetto, da cui si aveva sicuramente una visuale migliore dell’arena, situata
sette o otto metri più in basso, probabilmente per impedire alle bestie di
minacciare gli spettatori.
Una postazione
allestita poco lontano, alla sinistra di una balconata su cui si trovava un
trono ancora vuoto, era il quartier generale degli allibratori, che segnavano su di una lavagna i nomi dei combattenti con
relativa quotazione e registravano le varie scommesse, nomi che andavano da
Lupo Famelico a Toro Impazzito, da Serpe Velenosa a Drago Infuocato, oltre ad
un fantomatico Mostro del Deserto, e Regis e i suoi compagni sapevano bene a
chi apparteneva questo ultimo epiteto.
La cosa strana era
che mentre tutti gli altri gladiatori erano suddivisi in coppie, il nome di
Elys, il primo della lista, era invece da solo, e affiancato da tutta una serie
di numeri che andavano da uno a dieci. Dave ne chiese la ragione.
«Il primo incontro
ha la funzione di accendere la folla.» spiegò Joff «E
chi lo combatte quasi sempre si deve misurare contro
vari tipi di bestie feroci dagli orsi ai leoni. In questo caso non si scommette
su chi vincerà, ma su quanto riuscirà a resistere il gladiatore.»
«Vuoi dire»
replicò esterrefatto il ragazzino «Che scommettono su quanto
impiegherà a morire!?»
«Tranquillo.
Non sempre il gladiatore che partecipa a questo incontro muore, anzi, succede
molto di rado. Se riesce a vincere infatti il banco
prende tutto, quindi si tende a mandare nell’arena animali feriti o storditi
con delle droghe, per aumentare le sue possibilità di vittoria.»
«Maestro, dobbiamo
fare assolutamente qualcosa».
Regis però non
poteva sentirlo, perché la sua concentrazione era rivolta tutta alla gemma
rossa incastonata nella Spada di Gigabrian, che da qualche secondo aveva
cominciato misteriosamente a brillare. Il vociare della folla divenne di colpo
più intenso, e contemporaneamente, sulla balconata centrale, comparve un uomo
sulla trentina dai toni prestanti, di carnagione scura e con capelli, corti, di
un naturale color grigio perla; vestiva in modo appariscente, anche se
completamente di nero, con un pettorale e dei bracciali d’argento e un lungo
mantello.
«Chi è quello?»
domandò Sakura
«Quello è Saigos, il comandante dell’esercito regolare.»
«E cosa ci fa una
persona del suo rango in un posto simile?» chiese Dave
«Non
lo immaginate? È lui l’artefice del contrabbando di schiavi e gladiatori che è si è diffuso dopo l’abolizione della schiavitù.»
«Che cosa!? Lui!?»
«In
cambio di una percentuale sui guadagni, offre protezione agli schiavisti,
assicurando loro l’immunità, e di quando in quando partecipa anche a degli
spettacoli gladiatori, come questa sera. Tutti a Laryana sanno che è lui la
causa delle continue sparizioni e la mente dietro il contrabbando di schiavi,
ma anche tra quei pochi che lo contestano nessuno ha
il coraggio di denunciarlo al principe.»
«Per quale
motivo?»
«In
primo luogo per il potere di cui dispone. Inoltre, è un potente stregone. Fino
a pochi anni fa era solo un ambizioso capitano, poi di colpo ha cominciato a
fare sfoggio di poteri magici incredibili, e nel giro di pochissimo tempo è
diventato l’uomo di fiducia del principe, raggiungendo il suo attuale status.»
«Un potente
stregone!?» esclamò Sakura «Regis, non sarà che…»
«Temo che sia
proprio così.» rispose prontamente il ragazzo mostrando anche ai suoi compagni
la luce emessa dalla gemma sulla spada.
Uno dei due
cancelli d’ingresso all’arena si aprì, e un bestione di uomo mezzo nudo e
grasso da far paura, probabilmente un aiutante del lanista, uscì all’esterno
portando con sé una spada tanto grossa e pesante che, pur sorreggendola con
entrambe le mani, faceva molta fatica a tenere sollevata; Regis e gli altri la
riconobbero subito.
«È la spada di
Elys!» esclamò Dave
«Vuol dire che
sarà davvero lei la prima a combattere.» disse Joff.
L’arma fu
conficcata con forza circa al centro, poi, appena l’aiutante se ne fu andato,
il generale si alzò dal suo scranno, richiamando tutti al silenzio.
«Cittadini
di Laryana! Vi do il benvenuto a questi grandi giochi gladiatori!
Tempi bui questi,
giacché le nostra più antiche e gloriose tradizioni
vengono distrutte e cancellate dalla prepotenza e dagli stupidi sogni di un
principe idealista! Ma non disperate! Quelle usanze
non andranno perdute!
Per ora siamo
costretti a nasconderci, a vivere in clandestinità, ma verrà il momento in cui
potremo finalmente tornare alla luce del sole, e dimostrare a tutti coloro che sembrano averlo dimenticato quanto le nostre
tradizioni hanno fatto grande, e faranno ancora grande questo nostro regno!»
«Mi sembra di
sentir parlare Robespierre.» disse Regis tra sé e sé mentre la folla esultava
«In quanto a fanatismo e ipocrisia direi che siamo lì».
Dal chiuso
dell’androne Elys, ancora legata con le mani dietro la schiena, poteva sentire
chiaramente quelle ovazioni, ed era pronta a dimostrare a quella banda di
arroganti sadici assetati di sangue che non tutti erano disposti ad arrendersi
passivamente al loro destino, ma che anzi erano c’era
gente pronta a combattere con tutta la sua forza per ribellarsi.
L’unico problema
era però, per un curioso quanto tragico scherzo della sorte, era il mezzo con
cui avrebbe dovuto realizzare questo proposito: quella spada, la sua spada, quella conficcata nel centro dell’arena. In tutti
quegli anni si era sempre servita dei suoi bracciali magici per brandirla,
perché sapeva bene che, nonostante avesse aumentato considerevolmente la sua
forza fisica, non era ancora capace di maneggiare con destrezza un’arma simile,
ma ora quei bracciali non li aveva più.
Ma
non si sarebbe arresa solo per questo, anzi, riuscendo ugualmente nella sua
impresa avrebbe dimostrato una volta di più che la volontà poteva essere più
forte di tutto.
«Muoviti, faccia
nera.» disse bruscamente quello che aveva portato fuori la spada dandole una violenta
spinta e afferrando l’estremità della corda che la
teneva immobilizzata «Sono tutti ansiosi di vederti morire.»
«E vedi di durare
il più possibile, sacco di fango.» disse il lanista che l’aveva comprata
«Questo sacco di
fango tornerà qui per ammazzarti quando avrà finito là fuori.» rispose lei
guardandolo con occhi di fuoco.
Il lanista rise
sotto i denti, poi fece un cenno ai collaboratori che alzarono la grata.
«Signore e signori!» disse uno degli organizzatori «Per questo primo
incontro, abbiamo preparato per voi qualcosa di speciale! Direttamente dalle
lontane terre del nord è giunta qui, in questa nostra
arena, la più feroce rappresentante dei barbari del nord!
Uccideva donne e
bambini con quella enorme spada, sventrava le loro
carni, e divorava il loro cuore ancora pulsante! Ma
ora, essa si presenta a voi in catene, e sarà qui sottoposta al sacro giudizio
del cielo! Il male che ha fatto ricadrà sulle sue spalle, e il suo corpo sarà
straziato come lei ha straziato quello di tutte le sue vittime!
Nobili signori!
Nobili dame! Il nobile generale Saigos si compiace
nell’offrirvi il Mostro del Deserto!».
Elys uscì
all’esterno tra le urla della folla, e vedendola i suoi amici saltarono sui
posti.
«Elys!
Siamo qui!» tentò di gridare Dave sbracciandosi a più
non posso, ma con tutto quel baccano era perfettamente inutile.
Arrivata a circa
sei o sette metri dalla sua spada la ragazza venne
finalmente liberata, e vedendo quel bestione del suo custode correre nuovamente
dentro come se avesse avuto il diavolo alle costole non era per niente un buon
segno.
«Nobili
signori! Nobili donne! Per rendere ancor più memorabile
questo grande combattimento, il nobile generale Saigos
ha deciso di offrire a tutti voi una seconda, grande sorpresa! Questa creatura
abbietta, questo mostro dalle sembianze tanto aggraziate, dovrà misurarsi non
con i comuni animali, di cui ha saggiato innumerevoli volte le carni, ma con un mostro suo pari, un essere che come lei incarna in sé la
malvagità e la bestialità!».
La grata dalla
parte opposta si aprì lentamente, e un ringhio da far gelare il sangue preannunciò l’arrivo di un mostro che lasciò ammutoliti metà
dei presenti e fece gridare ancor più forte l’altra metà. Il muso, la criniera
e le zampe anteriori erano di un leone, il corpo, le zampe posteriori, la coda
e le corna sulla testa erano invece di un drago, ed era alto più di due metri.
«Quella è una
chimera!» esclamò Dave «Una creatura nata dalla fusione di più animali con la
magia!».
Il mostro corse
velocissimo verso Elys tentando di saltarle addosso, ma la ragazza schivò
rotolandosi a terra, e contemporaneamente un grande orologio affisso ai piedi
della balconata del generale inizio a scandire i minuti.
Elys corse a
recuperare la spada, ma appena tentò di estrarla si rese immediatamente conto
di quanto fosse pesante; riuscì a prenderla e a gettarsi nuovamente di lato
giusto in tempo per evitare una seconda falcata, ma per quanto pesava ora quel
mostro di acciaio non era neppure in grado di mettersi
in posizione di guardia.
Con uno sforzo
sovrumano la sollevò fino ad una posizione decente,
facendo scricchiolare minacciosamente le ossa delle braccia, che minacciavano
di spezzarsi da un momento all’altro.
La chimera arretrò
un momento, ringhiando feroce, poi partì di nuovo all’attacco; Elys provò a
rispondere con un fendente, e con tutti i mostri che aveva affrontato in precedenza le sarebbe bastato quello per far finire
l’incontro, ma stavolta tutto quello che le riuscì fu una sorta di sbracciata
che ebbe come unico effetto di accecare un occhio al mostro, facendolo
infuriare ancora di più.
«Dobbiamo fare
qualcosa!» disse Dave alzandosi in piedi «Senza i suoi bracciali magici non
riuscirà mai a maneggiare quella spada così pesante!»
«Aspettiamo.»
rispose invece Regis con calma inaudita
«Ma, signor maestro…»
«Elys è una grande
guerriera, questo non lo mette in dubbio nessuno, ma ci sono ancora molte cose
che deve imparare, e la più importante la sta
apprendendo proprio in questo momento.»
«Regis ha ragione.»
«Signorina Sakura!? Anche lei…»
«Ogni essere
umano, per quanto forte voglia dar prova di essere, ha
i suoi limiti. Questo Elys non ha mai voluto capirlo, ma ora sarà costretta a
guardare in viso la realtà.»
«E voi vorreste
mettere a rischio la sua vita solo per farle capire questo!?»
«Guardala in
volto.» rispose Regis «Guardala bene. Non c’è timore né esitazione nei suoi occhi. Anche lei vuole
dimostrare qualcosa, non a noi, ma a tutte queste persone. Interferire sarebbe
come toglierle la possibilità di riscattare il proprio orgoglio di guerriera, e
per lei questo sarebbe peggio che morire».
Dave restò
allibito, poi, ringhiando tra i denti, tornò a seguire lo scontro.
Le cose purtroppo
andavano di male in peggio per l’irruente kalimi: dopo
soli due minuti la stanchezza stava già iniziando a reclamare il suo tributo, e
ormai le braccia erano sul punto di collassare.
Approfittando di
una sua esitazione il mostro le assestò una zampata che la buttò violentemente
a terra, e anche se la ragazza riuscì a rotolare sulla sabbia in modo da
evitare l’affondo delle fauci ne ricevette una seconda molto più forte che dopo
averla scaraventata contro il muro la lasciò a terra quasi incosciente.
Il pubblico non
mancò di manifestare il proprio disappunto, lanciando fischi e insulti a
raffica: nessuno ricordava che un gladiatore fosse durato meno di cinque minuti
nella storia delle competizioni clandestine, e visto che
i primi minuti erano quelli che nelle scommesse venivano quotati maggiormente
gli allibratori già sudavano freddo al pensiero di dover pagare quei due o tre
che avevano avuto il coraggio di scommettere su quel lasso di tempo.
«Quello schiavista
alcolizzato me la pagherà!» gridò il lanista, che era uno di questi, mettendosi
le mani in testa
«Ora basta!»
esclamò Dave «Voi restate pure qui se volete!» e, a forza di spintoni,
raggiunse il bordo della balaustra, lanciandosi nell’arena e attirando subito
l’attenzione della chimera, che stava per infliggere ad
Elys il colpo di grazia, dopo avergli tirato una pietra.
La folla ammutolì
per un istante, e anche il generale, poi tutti tornarono a gridare, e anche
stavolta Regis e Sakura non parvero minimamente intenzionati ad agire.
Il mostro, lasciata perdere la sua prima vittima, si concentrò su di
lui; Dave arretrò, schivò la prima falcata quindi rispose con un incantesimo
fatto di globi di luce che però la chimera respinse agitando la coda. Il
ragazzino però non si lasciò intimorire, e sguainata la spada
cercò il confronto diretto, riuscendo anche nell’impresa di assestare
all’animale un affondo al fianco sinistro; quello ringhiò infuriato, poi, con
la spada ancora conficcata in corpo, mollò anche a lui una zampata che lo buttò
a terra.
A quel punto venne
anche per Regis il momento di fare la sua parte, e scambiatosi una occhiata d’intesa con Sakura, che recuperato il suo
scettro si diresse velocemente verso le uscite, mise mano a sua volta la alla
spada.
«Che hai
intenzione di fare?» domandò Joff
«Tu rimani qui,
così non sarai coinvolto».
Come già accaduto un attimo
prima la chimera, vedendolo scendere in campo, lasciò Dave per rivolgere
le sue attenzioni al nuovo arrivato, che al contrario dei primi due era
incredibilmente calmo e controllato. Forse quel mostro aveva capito che il suo
prossimo nemico era di un livello superiore, quindi, piuttosto che affidarsi al
solito attacco in corsa, spalancò le fauci, sputando
fuoco come un drago, ma Regis si lanciò di lato evitando l’attacco per poi
correre a sincerarsi delle condizioni di Dave; Elys invece, anche se a fatica,
era riuscita a rimettersi in piedi, e ora la folla, incredibile a dirsi, tifava
per loro invece che per il mostro.
«Tutto a posto?»
«Ma… maestro…»
«Forza, c’è
bisogno della tua magia».
Dave venne guarito sommariamente e, rialzatosi, prese a correre
in circolo lanciando una sfera magica dietro l’altra al solo scopo di attirare
l’attenzione del nemico; Elys, approfittandone, cercò di colpirlo alle spalle,
ma ora che doveva maneggiare quella spada senza alcun aiuto esterno anche la
sua velocità era compromessa, impedendole di effettuare uno dei suoi agili
salti, e quando fu abbastanza vicino da poter colpire la chimera si era già
accorta di lei.
La ragazza restò
immobile per la paura, ma all’ultimo secondo Regis la afferrò e si buttò a
terra con lei, salvandola da una zampata che senza ombra di
dubbio le sarebbe stata fatale.
«Ora come ora non
saresti capace di combinare nulla.» disse il guerriero senza usare mezzi
termini «Restane fuori, ce ne occupiamo io e Dave».
Elys restò di
sasso, aveva la delusione dipinta sul viso e sembrava sul punto di scoppiare a
piangere.
Regis si alzò, e
nello stesso momento il morso gli corse contro; schivatolo con un semplice
movimento del busto, gli conficcò la spada nel mento trapassandogli la testa da
parte a parte, e la chimera, dopo aver lanciato un ultimo grido, rovinò sulla
sabbia, spirando tra le urla degli spettatori.
«Non posso
crederci!» disse l’ufficiale che accompagnava Saigos
«Ha sconfitto una chimera!».
Il generale al contrario
non sembrava essere più di tanto sorpreso; ciò che lo sorprendeva maggiormente
era invece il bagliore che il suo anello, un bell’esemplare d’oro sormontato da
uno zaffiro, aveva iniziato ad emettere nel momento in
cui il guerriero dai capelli neri era sceso nell’arena.
«Prendeteli.»
disse.
Pochi secondi
dopo, mentre i ragazzi ancora si riprendevano dallo scontro, una dozzina di
soldati della guardia reale, riconoscibili dai voluminosi elmi crestati, uscirono all’esterno e circondarono i tre.
«Siamo nei guai,
maestro.» disse Dave «E adesso che facciamo?»
«Non
temere. Abbiamo ancora una carta da giocare».
E infatti, proprio quando i nemici erano sul punto di
avanzare, Lumy, lo spirito del fuoco di Sakura,
piombò dal cielo, disegnando un anello incandescente tra i ragazzi e i soldati,
che furono costretti a restare indietro, poi fu il turno di Winden,
che avvolse ogni cosa in un vortice impetuoso sollevando tutta la sabbia
dell’arena.
Tutti, compreso il
generale, furono costretti a coprirsi gli occhi, e quando li riaprirono Regis e
i suoi amici erano scomparsi.
«Maledizione!
Trovateli!».
Nota dell’Autore
Eccomi qua, dopo un
tempo inenarrabile!
Mi dispiace molto di
una pausa tanto lunga, ma come predetto nell’ultima nota l’università ha
letteralmente succhiato via tutto il tempo a mia disposizione: faccio orari da
operaio, e tutti i giorni esco alle sette per tornare a casa dodici ore dopo.
Sono già a secco di
energie, e il pensiero che mancano ancora tre settimane per concludere
questo schifo di periodo mi fa gelare il sangue nelle vene.
Forse, ma è un forse
grosso così, dalla prossima settimana dovrei avere un po’ più di tempo libero,
e allora potrei riuscire a scrivere un po’ di più, ma non prometto niente.
Vi prego, pazientate
ancora una ventina di giorni, poi finalmente tornerò a fare sul serio.
Lo spettacolo di fuoco e vento generato dagli spiriti di
Sakura era stato visibile in quasi tutta la città, ma anche se all’arrivo dei
soldati il posto era già stato abbandonato l’arena ormai, per l’uso a cui era stata destinata, era da considerarsi perduta, e
finalmente anche al principe era arrivata la notizia che in tutto il regno, ma
soprattutto a Laryana, il rapimento di cittadini da destinare alla schiavitù o
agli spettacoli gladiatori era un fenomeno tutt’altro che di poco rilievo.
A subire una
sonora lavata di capo fu ovviamente il generale Saigos,
che venne convocato il giorno successivo nella sala principale.
Essendo salito al
trono solo grazie alla morte prematura e senza eredi del fratello maggiore, che
oltretutto aveva regnato per un consistente periodo di tempo,
il principe Soberian era già piuttosto avanti con gli
anni, ma questo non gli impediva di esercitare un fascino carismatico su quei
sudditi, ancora molto pochi, che credevano sinceramente in lui e nelle riforme
che cercava faticosamente di far approvare.
Alla soglia dei
cinquanta, aveva una folta barba rossa e una fronte spaziosa, occhi neri
carichi di vigore e un naso pronunciato; malgrado fosse di indole
pacifista e deprecasse l’uso della forza come strumento di offesa, era solito
indossare una corazza d’argento sormontata da una veste rossa su cui spiccavano
i due leoni rampanti simbolo del suo regno, oltre ad un lungo mantello sempre
rosso.
Non aveva un
trono, e mai lo avrebbe voluto, e teneva le sue udienze sotto un immenso gazebo
di marmo al centro dell’enorme e rigoglioso giardino del palazzo, e quando Saigos si presentò al suo cospetto
era già visibilmente irritato.
«Che diavolo è
questa storia!?» esordì agitando il braccio e
camminando nervosamente in tutte le direzioni «Immaginavo che qualcuno
continuasse a fare uso di schiavi, ma l’ultima cosa che mi aspettavo era
scoprire che a distanza di quasi due anni il loro commercio sembra non aver mai
conosciuto un solo momento di arresto!»
«Sono davvero
desolato, Principe.» rispose Saigos, che nonostante
tutto era riuscito ad uscirne pulito «A quanto pare,
quasi contemporaneamente alla sospensione dei commerci legali, ha preso il via
una fitta rete di contrabbando gestita dalla malavita locale con l’appoggio di
mercenari stranieri.»
«E perché io lo so
solo adesso?»
«Non volevo
arrecarvi ulteriori preoccupazioni, mio signore. So
bene quanto siate impegnato in questo periodo.»
«L’abolizione
della schiavitù è stata il mio sogno e la mia aspirazione fin da quando avevo
dodici anni, Saigos. Per me questo viene prima di tutto il resto, e credevo che ormai lo avessi capito.
Tutti gli uomini
sono uguali. Non esistono uomini di prima e di seconda classe, e nessuno deve
essere privato della propria dignità per alcun motivo al mondo. Questa è una
cosa che gli abitanti di innumerevoli regno, sia di
questo continente che di altri, hanno capito da tempo, ed è ora che lo facciamo
anche noi.
Non mi importa cosa pensa la gente, questi abitanti lascivi e
pigri che per secoli hanno lasciato che altri lavorassero al loro posto. Ora
dovranno accettare l’idea di rimboccarsi le maniche se vogliono sopravvivere, o
periranno sotto il peso del loro egoismo.»
«Non abbiate a che
temere, principe. L’incidente dell’altra notte ha
portato ogni cosa alla luce del sole, e finalmente, dopo tanti mesi d’indagine,
abbiamo una pista.»
«Parla,
dunque. Di che pista si tratta?»
«Abbiamo
interrogato alcune delle persone che erano all’arena la scorsa notte. Come le
ho già detto, la corporazione clandestina dei lanisti si serve di mercenari per
procacciarsi cittadini liberi da destinare alla schiavitù, e sospettiamo di
quattro ragazzi arrivati in città da poco tempo abbiano qualcosa a che fare con
questo traffico».
Saigos consegnò quindi al principe quattro manifesti che
ritraevano due ragazzi e due ragazze, tutti visibilmente stranieri; una era
addirittura una Kalimi, a giudicare dai suoi tatuaggi.
«Crediamo
vengano dal continente a nord, e che fossero a Laryana per contrattare la
vendita di un grande numero di schiavi giunti qui da oltremare. I miei uomini
li stanno già cercando, e ogni guardia di ogni cancello conosce i loro volti.
Sono sicuramente nascosti
da qualche parte qui in città, ma potete star sicuro che saranno
in mano nostra prima della fine della settimana.»
«Lo spero, Generale Saigos, per il
vostro bene.
Fino ad oggi vi
siete comportato in modo impeccabile, ed è per questo
che vi ho voluto al mio fianco, ma vi avverto che se questa faccenda non verrà
risolta al più presto sarà la vostra carriera a risentirne.»
«Ne sono
consapevole, Principe.»
«Andate
ora. Trovate questi malviventi ovunque si trovino. Il loro arresto favorirà
senza dubbio la causa che sto così faticosamente cercando di portare avanti».
Saigos se ne andò dopo aver fatto un ultimo inchino, ma
l’espressione che gli comparve sul volto appena diede le spalle al principe era
più che eloquente.
«Aspetta a vedrai. Presto verrà anche il mio momento, arrogante figlio
di puttana».
Rientrato nel
palazzo, incontrò quasi subito, in un corridoio poco frequentato, uno strano e
sinistro individuo, poco più che un ragazzo, appoggiato alla parete a braccia
conserte come se stesse aspettando proprio lui.
La pelle scura e i
tatuaggi lo identificavano sicuramente come un kalimi, e anche l’abito che
indossava, una tunica di lana rossa con un largo cappuccio che proteggeva dalle
tempeste di sabbia, rendeva molto facile riconoscere le sue origini.
I capelli,
bianchi, erano lunghi e arruffati, e il volto,
contornato da minacciosi occhi neri, era segnato da una profonda cicatrice alla
guancia destra, che tuttavia non toglieva nulla al suo maligno fascino.
«Se non sbaglio
avevi preso un impegno, generale.» esordì ghignando sotto i denti «Dovevi
consegnarci questo regno.»
«Non
ho dimenticato gli accordi presi, e sto facendo quanto necessario per onorarli.
La popolazione è
sempre più insoddisfatta, e ora che la verità sul contrabbando è sotto gli
occhi di tutti la richiesta aumenterà ancora di più. Anche quei pochi che
rispettavano l’editto per paura della prigione si rivolgeranno a noi per
riavere degli schiavi sentendosi al sicuro, e molto presto la rivolta scoppierà
ovunque.
Potete stare
tranquilli, il regno del Principe non durerà ancora a lungo.»
«Ti
abbiamo concesso una parte del potere che custodiamo. Vedi di farne buon uso.»
«Non dubitate.»
rispose Saigos mostrando il suo anello «Userò questo
potere come volete voi, e quando questo regno sarà mio
lo consegnerò nelle vostre mani.»
«Quello stupido di
Hymir ha fatto un penoso buco nell’acqua» disse il ragazzo con un sorriso
sarcastico «Si è fatto fregare come un perfetto idiota
da un branco di mocciosi. Il Grande Sacerdote non è più disposto a tollerare ulteriori fallimenti, quindi, se fossi in te, cercherei di
non commettere errori.»
«Non
ve ne saranno. Avete la mia parola.»
«Lo spero».
Dopo essere fuggiti dall’arena Regis e gli altri avevano
trovato un rifugio sicuro in una vecchia struttura sotterranea usata anni
addietro dagli operai che lavoravano alla realizzazione delle fognature come
casa alternativa, ma divenuta ormai luogo di ritrovo
solo per ratti e lucertole.
Qui rimasero per
due giorni, senza cibo e con pochissima acqua, poi finalmente al tramonto del
secondo Joff, che aveva suggerito personalmente quel
luogo come nascondiglio, riuscì ad evadere la stretta
sorveglianza e a portare loro da mangiare.
«Lassù è un
vespaio, vi cercano tutti.» disse svuotando su un tavolo il contenuto della sua
bisaccia fatto di formaggio, acqua e un po’ di pane «Ci
sono le vostre facce su ogni muro della città. Dicono che siete dei mercenari,
e che siete coinvolti nel traffico di schiavi.»
«E che
pretendevi?» rispose Regis «Che Saigos si mettere in
mezzo alla piazza con i pantaloni calati e recitasse il mea
culpa davanti a tutti?»
«Mea culpa?» ripeté Sakura, che non conosceva questo modo di
dire.
Joff in quella fu attratto da un rumore metallico molto
forte, e alzato lo sguardo vide Elys intenta a mulinare ferocemente la sua
spada in un angolo appartato della stanza; sudava come una fontana ed era
coperta di escoriazioni, segno che doveva essere caduta molte volte.
«È da quando siamo
qui che non fa altro.» disse Regis
«Maestro,
forse dovremmo fare qualcosa. Ormai è esausta.»
«Purtroppo, Elys
ha appreso una lezione terribile durante il combattimento della scorsa notte,
ma è solo ora che viene la parte più difficile. Deve
accettarla».
Dave, alzatosi dal
suo sgabello, si avvicinò a lei con un pezzo di formaggio e un bicchiere
d’acqua, ma esitò ad avvicinarsi, a causa di quei fendenti portati a casaccio,
fino a che la sua amica, completamente stremata, non cadde a sedere respirando
a fatica.
Amichevolmente, le
porse da mangiare, e lei dapprima parve indifferente, concentrata solo su
quella maledetta spada, che ora giaceva inerte per terra, poi
però il richiamo fu troppo forte e si avventò sul cibo; dopotutto, erano
quattro giorni che non toccava cibo.
«Senti, Elys…» le
disse dopo un po’, porgendole il bracciale che aveva recuperato dal mendicante
«Ho ritrovato questo, e pensavo che magari…»
«Buttalo via.»
rispose lei stizzita
«Elys, io capisco
quello che provi.»
«No, tu non
capisci!»
«Perché
sei così infantile? Non è da te reagire in questo modo davanti ad una
sconfitta.»
«Non
è solo una sconfitta, stupido novellino! Hai idea di come mi sia sentita non
riuscendo a sollevare quella dannatissima spada, a combattere come una
principiante? Hai idea di quanto mi sia sentita umiliata? Ma
non finisce qui! Che le piaccia o no, si farà usare da me, e la ridurrò
all’obbedienza con le mia sole forze!»
«Elys,
quelle spade sono create apposta per essere usate con questi bracciali. Anche
il più forzuto degli esseri umani farebbe una fatica immensa a brandirla senza
di essi.»
«Io
sono una kalimi. Non esiste arma che non riesca a maneggiare.»
«Non
è una questione dell’essere o meno una kalimi. Sarebbe lo stesso
anche se non lo fossi. E comunque, se riuscissi a usarla con un solo bracciale sarebbe un traguardo più che invidiabile.»
«Non mi importa!» gridò la ragazza piangendo di rabbia e scagliando
via il bracciale con uno schiaffo
«Dave, lasciala
stare.»
«Ma, signor maestro…»
«Te l’ho già
detto, lei deve accettare quello che ha imparato, e deve farlo da sola».
Dave temporeggiò a
lungo, poi obbedì a Regis e, recuperato il bracciale, tornò a sedere al tavolo.
«Ad
ogni modo, questo posto non sarà sicuro ancora a lungo. Ho sentito alcuni
soldati dire che faranno un sopralluogo qui domani mattina.»
«Non c’è di che
preoccuparsi.»
«Che intendi
dire?»
«Che metteremo
fine a questa storia stanotte.»
«Volete scappare?! È impossibile. Ogni porta è sorvegliata, e le mura sono
pattugliate da tutta la guarnigione.»
«Non vogliamo
scappare.» rispose Dave «C’è ancora una cosa che dobbiamo fare.»
«Di che state
parlando!?»
«È probabile che Saigos abbia qualcosa che stiamo cercando.» disse Regis
«Dobbiamo scoprire se è effettivamente così.»
«Ma come farete!? Ve l’ho detto, quell’uomo è uno
stregone, e anche potentissimo.»
«Di questo,
all’occorrenza, mi occuperò io.» rispose Sakura «Sarà
anche potente, ma senza peccare di superbia non credo possa reggere il
confronto con me. I suoi poteri gli derivano da quello strano anello, e come
abbiamo già avuto modo di apprendere durante il grande torneo, se non si è uno stregone è facile essere sopraffatti da chi è abituato a
fare uso della magia.»
«Inoltre,
credo sia giunto il momento di mettere fine a questa storia degli schiavi.
Questo Paese rischia di andare incontro ad una guerra
civile se le cose dovessero andare avanti così.»
«Ma come possiamo fare?»
«Saigos è la mente dietro il contrabbando. Se salta lui salta tutta l’organizzazione.»
«Però,
non credo sia così facile come può sembrare. Io sono anni che tento di
incastrarlo, ma è un uomo fin troppo prudente, per non parlare del fatto che gode della piena fiducia del Principe. A meno di non
coglierlo con le mani nel sacco, è impossibile che ci diano retta.»
«Tu
non preoccuparti. Fatemi arrivare dal Principe e ci penserò io.»
«Ma
ora siete ricercati. Se vi fate vedere in giro, sarete arrestati all’istante.»
«Per
questo ci muoveremo di notte. Sarà sufficiente arrivare al palazzo del
Principe. Se riuscirò a parlare con lui senza che nessuno se ne accorga, non ci
sarà neanche bisogno di combattere. Lui sarà arrestato, e noi prenderemo quello
che ci serve.»
«Entrare nel
palazzo non sarà facile.» disse Dave «Ci sarà sicuramente molta sorveglianza.»
«Joff, tu puoi dirci qualcosa?»
«Beh, creando un
diversivo forse potreste attirare l’attenzione delle
guardie su qualcos’altro.»
«Un diversivo,
eh?» disse Sakura «Possono occupare Winden e le altre. Giusto?».
I tre spiriti
uscirono allo scoperto in dimensioni minuscole, poco più grandi di fatine, e
fecero un cenno di assenso.
«Aspettate.»
intervenne Joff «Io cosa posso fare?»
«Tu
a dire il vero sarebbe meglio che restassi in disparte. Ti sei già esposto
molto per aiutarci, e se qualcosa dovesse andare storto
le conseguenze per te potrebbero essere molto serie.»
«Ho
sempre desiderato di dare un contributo, per quanto piccolo, alla causa della
lotta contro la schiavitù. Se posso contribuire a far sì che tutto questo
finisca non ho paura di rischiare. Quindi vi prego, se
c’è qualcosa, qualsiasi cosa che io possa fare, ditemelo».
Regis ci pensò un
attimo, strofinandosi leggermente le mani.
«Ti
fidi dei tuoi compagni? O almeno, di alcuni di loro? Quanti sarebbero disposti
a contribuire?»
«Se si trattasse
di colpire i trafficanti di schiavi, ho almeno una dozzina di amici pronti ad
agire in qualunque momento, tutti nella guardia cittadina.»
«Liberare quegli
schiavi tenuti prigionieri nelle catacombe favorirebbe senza dubbio la vostra
causa, e creerebbe ulteriore scompiglio in città,
allontanando l’attenzione da noi. Ma rischiereste avere contro un intero
esercito se dovessero scoprirvi anzitempo.»
«Non
è un problema. Molti di questi soldati vengono da fuori, io e i miei amici
invece in queste strade ci siamo cresciuti. Le conosciamo meglio di chiunque
altro.»
«Sapreste trovare
il posto esatto in cui sono tenute prigioniere quelle persone?»
«Ora
che sappiamo che si trovano nelle vecchie catacombe, sì. C’è un solo posto da
cui possono entrare senza essere visti, ovvero un
vecchio ingresso a ridosso delle mura orientali. Non lo abbiamo mai controllato
perché credevamo che fosse sigillato a causa del pericolo crolli, ma
evidentemente non era così.»
«Molto
bene. In questo caso, sarà meglio prepararci. Agiremo stanotte.»
«Aspettate!»
intervenne di colpo Elys «Io non conto niente? Dov’è
il mio ruolo in tutto questo?»
«Tu non hai un
ruolo in tutto questo, credevo fosse scontato.»
«Mi stai mettendo
da parte!?»
«Te l’ho già
detto, finché non accetterai la lezione che hai appreso l’altra notte sarai in pericolo ogni volta che ti misurerai in
combattimento, e visto che si tratta di un operazione di gruppo, in cui ognuno
dipende dal ruolo svolto dall’altro, le tue scarse prestazioni rischierebbero
di compromettere tutto.
Pertanto, per
stavolta starai a riposo, e aspetterai qui il nostro
ritorno».
I ragazzi si
alzarono dal tavolo e si avvicinarono alla vecchia mappa della città disegnata
sulla parete accanto alla porta, ma mentre la stavano consultando per concordare
una strategia Elys cadde in ginocchio piangendo disperata.
«Voi
non capite! Io sono una Sharun!».
Tutti allora si
girarono di nuovo verso di lei, guardandola meravigliati.
«Che significa Sharun?» domandò Joff, che
logicamente non conosceva il significato di quella parola
«Significa
traditore.» rispose Dave «È la peggiore condanna che si possa infliggere ad un kalimi.»
«Mi hanno bandita dal mio villaggio, mi hanno tolto l’onore! Se non
posso combattere per riscattarlo che alternativa mi
resta!».
Vedendola così,
orgogliosa e piangente, Regis ebbe come una visione del passato, e innumerevoli
immagini passarono veloci davanti ai suoi occhi, riportandogli alla mente
eventi a lungo dimenticati.
Ciò nonostante,
cercò di mostrarsi distaccato e razionale come sempre.
«Anche
l’umiltà fa parte delle virtù di un guerriero. Rendi il tuo cuore umile, Elys,
o non batterà abbastanza a lungo da permetterti di lavare via l’onta che grava
su di te. Un kalimi non vale niente se è morto.» e, detto questo, se ne andò
«Maestro,
aspettate.» disse Dave andandogli dietro assieme a tutti gli altri, lasciando
Elys sola a piangere.
Nel cuore della notte, quando tutta la città dormiva,
venne il momento di agire.
Appostati in una
stradina sporca e stretta, al sicuro dalle numerose pattuglie che giravano per
le vie principali, Regis, Dave e Sakura attendevano il
momento giusto per entrare in azione.
Davanti a loro,
una trentina di metri più in là, l’ingresso del palazzo, più simile per la
verità ad una enorme villa a quattro piani, sorvegliato
a vista sia all’esterno che dentro il giardino da decine di guardie armate di
tutto punto; poiché sorgeva nel centro di una città già di per sé pesantemente
fortificata non presentava nessun tipo di protezione esterna, fatta eccezione
per un muro di cinta alto tre o quattro metri che lo circondava interamente.
«La sorveglianza è
strettissima.» disse Sakura sbirciando all’esterno «Speriamo solo che il nostro
diversivo li distragga a sufficienza per permetterci di entrare.»
«Una volta dentro,
dovremo preoccuparci delle guardie che resteranno a difesa del principe.» disse
Regis «Potrebbe esserci anche Saigos
tra di loro. Potete occuparvene voi due?»
«Lascia
fare a noi. Però non ho ancora capito che cos’hai in
mente. Come pensi di poter inchiodare quell’uomo alle sue responsabilità? Non
abbiamo prove che sia implicato nel traffico di schiavi.»
«Non
preoccuparti per questo. Dovresti sapere che ho sempre un asso nella manica, e
oggi è lo stesso. Vedrai, non avrà modo di difendersi. Solo, dovremo fare
attenzione a come reagirà. Conoscendo il tipo, non credo che si lascerà
arrestare senza reagire.»
«Maestro.»
intervenne Dave «Volevo chiedervi… perché siete stato
così duro con Elys?».
A quella domanda
Regis si incupì e guardò in basso.
«Voi
la conoscente come la conosco io. È testarda e orgogliosa, ma di buon cuore.
Non credo che meritasse di sentirsi dire quelle cose.»
«Il fatto è che…
in lei rivedo me.»
«Rivedete… voi!?»
«Ogni
volta che la guardo, mi sembra di fare un salto indietro nel tempo. Vedo me
stesso otto anni fa. Allora ero proprio come lei è
adesso. Impulsivo, determinato, dominato dall’onore. Ero sempre pronto a
combattere, e credevo di poter superare qualsiasi ostacolo se avessi sempre
continuato a rialzarmi, nonostante tutto.
Poi però, ho
capito quanto mi sbagliavo. Ho ricevuto una lezione dietro l’altra, e ne sono
uscito con l’orgoglio a pezzi. Mi sono sentito un incompetente, ancor più
quando il mio comportamento arrogante ha quasi messo in pericolo le persona a me vicine, e una certa persona a cui devo molto
non ha avuto inibizione alcuna nel dirmelo in faccia.
In quel momento mi
è caduto il mondo addosso, ma dalle umiliazioni subite ho tratto una lezione
importante, e così come è accaduto con me, accadrà
anche con lei. Vedrai, ne uscirà più forte e più determinata di prima.
Dopotutto, è pur
sempre Elys.»
«Maestro…».
In quella, poco
lontano, Lumy, dando il meglio di sé, fece esplodere
un grande magazzino pieno di polvere pirica per i cannoni, provocando un
gigantesco incendio che, grazie alla posizione isolata dell’edificio, non
coinvolse le abitazioni dei cittadini, ma che come previsto richiamò
l’attenzione delle guardie. Subito si cominciò a gridare al fuoco, e tutti
furono esortati ad impugnare i secchi per dare una
mano nelle operazioni di spegnimento, ma poiché Aqua
aveva prosciugato quelli più vicini al luogo dell’incendio vi fu la necessità
di formare una lunga catena, il che costrinse molti soldati a lasciare i propri
posti.
«È il momento,
andiamo!».
Nello stesso
momento, in un’altra parte della città, Joff e i suoi
amici, approfittando della stessa situazione, si erano infilati nei bassifondi
senza essere notati, e raggiunta il vecchio e decrepito ingresso alle catacombe
si sbarazzarono senza problemi dell’unica guardia che
lo difendeva per poi entrare armati di torce, ma non potevano sapere che, poco
distante, qualcuno li stesse pedinando.
Regis pensava di
essersi assicurato che Elys non commettesse colpi di testa chiudendola a chiave
in quell’androne sotterraneo e barricando la porta dall’esterno, ma lei era pur
sempre una maga del fuoco, per quanto di basso livello, e con un paio di colpi
aveva incenerito sia la porta che gli ostacoli.
Che lo volessero o
no lei avrebbe fatto la sua parte, ma visto che non
disponeva ancora della forza necessaria per brandeggiare la sua spada, e che
comunque non era l’arma più indicata per un luogo stretto e angusto come
potevano essere i cunicoli di quelle catacombe, tanto valeva accettare
momentaneamente il fatto compiuto e ripiegare su qualcosa di più adatto, come
ad esempio lo stocco lungo e sottile della guardia che Joff
e i suoi avevano lasciato a terra tramortita. Recuperatolo, si
infilò a sua volta all’interno.
Il Principe aveva una grande passione per la lettura, e
capitava che trascorresse giorni e giorni nella
contemplazione di opere provenienti dai più disperati luoghi del mondo
conosciuto, come stava accadendo anche quella notte.
Per questo, come
molti altri, sentì distintamente il fragore dell’esplosione, e subito uscì
dalle sue stanze per pretendere spiegazioni; Saigos,
informato dell’accaduto, lo raggiunse nel grande salone del primo piano.
«Che sta
succedendo?»
«Pare sia andato a
fuoco uno dei nostri depositi di polvere di basara.»
«Ci sono stati
feriti?»
«Fortunatamente
no. È una struttura isolata, e i miei uomini sono intervenuti subito per
arginare l’incendio. In questo momento alcuni dei maghi di corte si stanno
recando sul posto per offrire supporto. Non avete di che temere, risolveremo il
problema nel giro di poche ore.»
«Me
lo auguro. L’ultima cosa di cui questa città ha bisogno è un incendio che la
rada al suolo.»
«Vostra
signoria, sono convinto che non si sia trattato di un incidente. Credo anzi che
sia opera di quei fuorilegge.»
«Generale.
State parlando di un sabotaggio!?»
«È probabile che
siano al servizio di qualche potenza straniera, e che siano giunti qui non solo per contrabbandare schiavi, ma anche per minare
la nostra potenza militare.»
«Volete dire… che
il loro scopo è quello di indebolirci!?»
«I regni al di là dell’oceano sono avidi e assetati di potere, vostra
signoria. Non mi sorprenderei se stessero pianificando di invadere le nostre
terre. Sospetto abbiano mandato quei sabotatori al
preciso scopo di gettare le basi per un attacco in forze.
Se ci pensate, tutto ha un senso. Favorendo il contrabbando di
schiavi minano la vostra autorità, fomentando il rischio di una
insurrezione nei Vostri confronti, e colpendo i nostri armamenti pregiudicano
seriamente la nostra potenza militare. Tutte azioni che possono avere un solo
fine logico.»
«La
guerra. Avete ragione. Così tutto acquista senso.»
«Mio
signore! Mio principe!» gridò all’improvviso un soldato facendo irruzione nella
sala
«Che c’è, che
succede?»
«Il
palazzo è sotto attacco! Due sconosciuti si sono infiltrati al suo interno e
stanno attaccando le guardie nel cortile!»
«Che cosa!?»
«Sono loro, senza alcun dubbio!» disse Saigos
«Sono venuti qui per prendere la vostra vita. Senza la sua guida a governarlo
questo regno sarebbe alla deriva, e conquistarlo diverrebbe una cosa da poco. Ma non temete. I miei uomini vi proteggeranno.»
«Generale,
sono stato uno stupido a dubitare di voi, e vi devo le mie scuse. Fermate quegli
invasori, e assicuratevi che ricevano una punizione esemplare.»
«Non
avete nulla di che dovervi scusare, vostra signoria. Negli ultimi tempi la mia
condotta non era stata impeccabile. Vi consiglio di ritirarvi nel grande
planetario. Lì sarete al sicuro. Io intanto mi occuperò di quei villani.»
«Avete
la mia piena fiducia. Andate dunque. Il regno è nelle
vostre mani.»
«Non vi deluderò».
Il Principe,
accompagnato da venti delle sue migliori guardie personali, salì sul
montacarichi, unico modo per raggiungere il planetario che si trovava proprio
sotto la cupola più grande del palazzo, un luogo a cui
solitamente poteva accedere unicamente il sovrano, le altre invece seguirono Saigos in direzione del cortile.
“Incredibile.”
pensò il generale sorridendo malevolo “Pensavo di
doverli cercare ma sono venuti loro da me, e invece di ostacolarmi mi stanno
rendendo tutto più facile. Sono proprio degli ingenui”.
Nel cortile, dopo
aver inutilmente tentato di entrare passando inosservati, Sakura e Dave erano
impegnati a tenere a bada un gran numero di soldati che, appena suonata
l’allarme, gli erano piovuti addosso da tutte le
direzioni.
«Dannazione, non
finiscono mai!» disse Sakura evocando il suo spadone luminoso.
Poi, ad un certo punto, gli uomini rimasti si allontanarono, e
davanti ai due ragazzi comparve il generale Saigos in
persona.
«Noto con piacere
che non siete scappati.»
«Non siamo tipi da
scappare.» rispose Dave
«E ditemi, dove sono la kalimi e quel vostro amico? Loro invece hanno pensato
bene di sparire?»
«Questo non deve
riguardarti.» disse Sakura «Consegnaci quell’anello se non vuoi rischiare di
farti male.»
«Sono davvero
spiacente, ma siete voi che dovete consegnare a me la gemma che è in vostro
possesso.»
«Allora anche tu
sai delle sette gemme.» disse Dave «Sei forse un membro del Culto di Inti!?»
«Io?! Non sia mai. Con quei fanatici non ho nulla a che
spartire. Abbiamo solo fatto un accordo».
Saigos non aveva problemi a parlare di cose simili davanti
a quei soldati, visti e considerato che la maggior
parte delle guardie che gravitavano attorno al Principe erano sul suo libro
paga, e pronte ad agire ai danni del sovrano appena lui lo avesse ordinato.
«Allora?» disse il
generale sguainando la spada «Mi consegnate o no quella gemma?»
«Vieni a
prenderla, se ne sei capace.»
«Rimpiangerete
il momento in cui avete voluto sfidarmi. Soldati! Voi statene fuori! Mi
occuperò di questi insetti da solo.»
«Dave,
lui è affar mio. Non intrometterti.»
«Signorina Sakura,
siete sicura di potercela fare da sola?»
«Non
sottovalutarmi. Quello che hai visto di me fino ad ora è niente. In tutta
onestà, aspettavo da un bel pezzo l’occasione di poter fare sul serio, visto che contro Regis al torneo siamo stati interrotti».
Saigos sogghignò, e la gemma sul suo anello si illuminò leggermente.
«SonicMove!».
Di colpo, il
generale scomparve nel nulla, per poi riapparire proprio davanti a Sakura, che
restò impietrita per lo stupore.
«Ma cosa…».
L’affondo di spada
fortunatamente venne parato, ma questa era la
dimostrazione intangibile che in quello scontro non si poteva commettere
errori.
«E và bene, te la sei cercata!».
A quel punto anche
Sakura si decise a fare sul serio, e concentratasi al massimo arrivò a
raddoppiare la lama luminosa del suo scettro, che raggiunse una lunghezza di
almeno due metri; la ragazza volò letteralmente verso Saigos,
e tra i due fu subito scontro aperto.
Intanto, nelle
catacombe, Joff e i suoi compagni avevano raggiunto
il quinto livello, quello abbastanza grande e spazioso da poter ospitare le
celle degli schiavi.
«C’è qualcosa che
non va’.» disse il ragazzo tra sé e sé «Mi sembra
tutto troppo facile».
Il corridoio che stavano percorrendo sfociò dopo poco in un grande androne a
forma di cupola pieno di loculi, riposo eterno per centinaia di ossa, e quello
era sicuramente il luogo più sacro dell’intera struttura.
La parete di
sinistra infatti non presentava dei semplici loculi,
ma una serie di sarcofaghi verticali scavati direttamente nella fredda pietra,
uno accanto all’altro, e modellati in modo da rappresentare le fattezze di chi
vi era sepolto.
«È quello che
penso?» domandò uno dei soldati
«È il sacrario
reale.» rispose Joff «Il luogo in cui riposano i
grandi sovrani del passato.»
«Quindi» disse un
altro dei suoi amici indicando il sarcofago centrale, raffigurante un uomo di
età piuttosto avanzata che riposava tenendo tra le mani, giunte sul petto, una
spada cavalleresca «Quella potrebbe essere la tomba di Erathis
V?»
«Credo
di sì. Detto anche Erathis il Grande, colui che cinquecento anni fa liberò il nostro regno dall’occupazione
straniera».
Di colpo, prima
che lui e gli altri potessero abbandonare la zona entrambe le
porte, quella d’entrata e quella di uscita, si chiusero fragorosamente, e dagli
altri due ingressi, quelli del quarto livello che si trovavano sulla balconata
superiore, uscirono decine di uomini armati che subito circondarono le giovani
reclute; tra di loro c’era anche il bestione che aveva trascinato Elys
nell’arena, e a guidarli era nientemeno che Vulgan,
il capo della corporazione dei lanisti.
«Dove sperate di
andare?»
«Vulgan!?»
«Dopo quello che è successo all’arena mi aspettavo che capitasse
qualcosa del genere, ma non avrei mai immaginato che a farci visita sarebbero
venute addirittura le guardie cittadine.
«Maledizione.
Avrei dovuto aspettarmi che fosse una trappola.»
«Avventurarsi qua
sotto è stato un gesto davvero stupido.» disse Vulgan
«E visto che non posso permettermi di lasciarvi in
vita, vi concederò qualche secondo per pregare il cielo.»
«Non
illudetevi. Venderemo cara la pelle.»
«Lo
spero. Altrimenti, non ci sarebbe divertimento. Uccideteli!».
Invece, nonostante
tutto, Joff e gli altri si fecero valere, impegnando
gli assalitori in un duro e sfiancante corpo a corpo.
Vulgan stette ad assistere per un po’, poi, vedendo che i
suoi stavano incontrando più difficoltà del previsto, decise di scendere
personalmente in campo, e messa mano alla spada saltò al piano inferiore,
confrontandosi immediatamente con lo stesso Joff.
«Presto ti
pentirai di esserti immischiato in faccende più grandi di te!».
Il ragazzo stava
quasi per essere sopraffatto; gettatolo a terra con un calcio, Vulgan alzò la spada per infliggergli il colpo di grazia,
ma all’ultimo secondo qualcuno colpì lui alle spalle, trapassandolo da parte a
parte; lo sventurato ebbe a malapena la forza di voltarsi, ma incrociando il
volto del suo assassino ebbe pure la sventura di morire con la consapevolezza
di essere stato ucciso da chi aveva sempre guardato come un mero strumento di
guadagno.
«Maledetto… sacco
di fango…» disse rantolando senza vita
«Elys!?» esclamò Joff.
Urlando come una
dannata, e senza attendere alcun tipo di ringraziamento, la ragazza si avventò
sulla palla di grasso, uccidendo anche lui ed
infierendo più e più volte sul suo corpo senza vita anche dopo che gli altri
schiavisti, atterriti dalla perdita sia del loro capo sia del più forte tra di
loro, se l’erano data a gambe.
Elys era veramente
infuriata, piangeva e gridava mentre con lo stocco rubato alla sentinella continuava a trafiggere le carni morte di quel
povero disgraziato, tempestandolo inoltre ininterrottamente di calci; troppe
cose alimentavano in quel momento la sua rabbia, tanto il modo in cui quei due
mostri l’avevano trattata quanto tutte le cose che le erano capitate, dall’aver
scoperto di non essere affatto forte come credeva alle parole acide e
apparentemente senza cuore con cui Regis glielo aveva fatto notare
«Elys, ora
calmati!» gridò Joff allontanandola a forza dal
ciccione, ormai ridotto ad un colabrodo.
Lei continuò a
dimenarsi e a gridare per molti secondi, poi, respirando profondamente, parve
riuscire ad acquietare il demone dell’orgoglio ferito che si era impadronito in
lei, e cadendo in ginocchio pianse come mai nella sua vita.
Il ricordo di suo
padre, e della condanna che pesava come un macigno sopra la sua testa, la tormentavano incessantemente, e come aveva detto poco prima,
se non poteva riscattare il proprio onore combattendo che alternativa le
restava?
Aveva voluto
praticare il bankura perché sapeva che non vi era
arte più difficile da padroneggiare; all’inizio era una semplice sfida, un modo
per mettersi alla prova, poi però era diventata la dimostrazione della propria
natura di guerriera e il proprio valore in quanto
kalimi e in quanto principessa. Purtroppo, dopo aver speso così
tanto tempo a servirsi della magia per poter padroneggiare un’arte che,
e lei stessa era la prima a saperlo, non sarebbe mai stata alla sua portata,
aveva finito per convincersi che quella fosse davvero tutta farina del suo
sacco, e ora che la prova della falsità di tale convinzione le era stata
sbattuta sulla faccia con tanta crudeltà si sentiva male come mai nella sua
vita.
«Elys…» le disse Joff poggiandole una mano sulla spalla.
La ragazza, dopo poco, si rialzò, facendo l’impossibile per far finta che
fosse tutto a posto.
«Sto
bene. Ora sbrighiamoci. Quella gente ha bisogno di noi».
Invece, proprio come era accaduto poco prima, qualcosa giunse ad ostacolare
il loro cammino, qualcosa di gran lunga più spaventoso. Lentamente, come
animati da una forza demoniaca, gli scheletri che dormivano nei loculi, tutti
appartenenti a uomini di spicco della nobiltà cittadina, cominciarono a
prendere vita, e alzatisi dai propri giacigli si
eressero minacciosi brandendo le armi e le armature cerimoniali con cui erano
stati sepolti.
Anche dai
sarcofaghi, tranne che da quello del Principe Erathis
Quinto, uscirono gli scheletri dei Principi del passato, ognuno con indosso la
propria corazza e ricche vesti un tempo sfarzose, ma
ormai ridotte a brandelli sfilaccianti.
«Che stregoneria è
mai questa!?» esclamò Joff
portandosi schiena a schiena coi suoi compagni.
Lontano, in una
piazzetta deserta, il giovane che pochi giorni prima aveva parlato con Saigos osservava la scena che si rifletteva, come in una
sfera, sulla superficie calma dell’acqua di un pozzo, ridendo sadicamente.
«Avete
voluto mettervi in mezzo. Ora ne pagherete le conseguenze».
Nota dell’Autore
Eccomi qua!
È passato meno tempo
di quanto mi aspettassi, ma grazie al cielo questa settimana ho avuto molto più
tempo libero, così ho potuto scrivere di più.
Questo capitolo
inoltre mi è venuto spontaneo, di getto, e così scriverlo è stato molto facile.
Ancora due settimane
e questo schifo di orario muterà finalmente in
qualcosa di ben più sopportabile, e allora prometto di sparare aggiornamenti a
raffica, nella speranza che “qualcuno” voglia fare altrettanto (ogni
riferimento è puramente casuale^_^)
Vedendosi circondati da quei mucchi di ossa semoventi
Elys, Joff e i suoi compagni si portarono velocemente spalla contro spalla,
proteggendosi l’un l’altro.
«Non
capisco.» disse uno «Come fanno a muoversi se sono morti?»
«Deve
essere opera di una qualche forza demoniaca.» rispose Joff
«Come
facciano a vivere non mi interessa!» disse Elys «Li rispedirò da dove sono
venuti!».
Lanciatasi
all’attacco, evitò abbassandosi un affondo di spada quindi, con un veloce
fendente, disintegrò di netto uno degli aggressori, mandandolo in pezzi, e
allora anche tutti gli altri si buttarono nella mischia.
Purtroppo,
come Joff temeva, mandarli in pezzi non serviva assolutamente a nulla; anche se
completamente sfatti i loro corpi si ricostruivano nel giro di pochi secondi,
tornando a combattere come se nulla fosse accaduto, e allo stesso modo
risultava anche perfettamente inutile privarli del cranio o di qualche altra
parte del corpo.
«È del
tutto inutile!» disse ad un certo punto un’altra guarda «Per quanto li facciamo
a pezzi continuano a ricostruirsi!»
«Non vi fermate, continuate a
combattere!»
«Elys ha ragione, se ci fermiamo
siamo morti! Dobbiamo cercare di resistere!».
Dal bordo del pozzo, il kalimi coi
capelli bianchi continuava ad osservare la scena tramite i riflessi nell’acqua.
La posizione e le movenze delle sue mani ricordavano quelle di un burattinaio
che muove magistralmente i propri burattini, e più passava il tempo più il suo
sorriso malefico si faceva spaventoso.
«Poveri stupidi. Ormai per voi è
solo una questione di tempo».
In quella, dal nulla, comparve già
inginocchiato un uomo vestito da soldato che indossava una strana e curiosa
maschera ossea a mezzo volto a forma di triangolo.
«Avete trovato la gemma?»
«Ancora no, Nobile Zak-Ner, ma
stiamo continuando le nostre ricerche.»
«Vedete di trovarla alla svelta.
Vorrei concludere questa storia il più velocemente possibile.»
«Raddoppieremo i nostri sforzi. Non
si preoccupi, la troveremo.»
«Me lo auguro, per il tuo bene».
Sakura intanto era sempre impegnata
a combattere contro Saigos, che si stava rivelando un osso ben più duro di
quanto lei stessa non avesse mai immaginato.
Quel monile che usava per
amplificare la sua magia era davvero potente e pericoloso, tanto che la ragazza
si era vista costretta a ricorrere al suo spadone fatto di luce, di cui
solitamente si serviva solo in casi di estrema necessità, preferendo di gran
lunga l’uso dei suoi potenti incantesimi.
Saigos era molto agile, e quando
stava per essere colpito ricorreva alla sua maledetta velocità, che gli
permetteva di spostarsi da una parte all’altra dell’arena creata dai suoi
uomini nello spazio di un batter d’occhio, come neanche la stessa Sakura
sarebbe mai stata in grado di fare.
«Signorina Sakura!» gridò Dave
cercando di soccorrerla dopo che aveva incassato una sfera di luce ed era
finita a terra
«Sta lontano!» rispose lei, resa
rabbiosa dal suo orgoglio di maga «Questa è la mia sfida!»
«Forse avresti dovuto accettare il
suo aiuto.» disse sprezzante Saigos quando furono di nuovo faccia a faccia «Se
non altro, ti avrebbe allungato la vita di qualche minuto».
In quella, Sakura poggiò a terra la
punta della spada, stringendo l’impugnatura con entrambe le mani, e il suo
corpo cominciò improvvisamente a circondarsi di una strana e minacciosa aura
giallo oro, e vedendo la terra attorno a lei che tremava e si riempiva di crepe
Saigos mutò drasticamente la propria espressione.
«Ma cosa…»
«Avevo deciso di andarci piano con
te, ma a quanto pare hai voluto provocarmi. Adesso capirai cosa succede a fare
il passo più lungo della gamba. Rimozione del primo sigillo!».
Una parte degli arabeschi della sua
veste, per la precisione quelli del braccio destro, quasi invisibili fino ad un
momento prima, si colorarono improvvisamente di quella fortissima luce gialla,
donandole una forza tale da riuscire a maneggiare quell’enorme spadone con
l’ausilio di una sola mano, e questo senza tenere conto del vertiginoso aumento
del suo potere.
«Questo…» disse Dave «È il Sigillo
degli Dèi.»
«Che stregoneria è mai questa?»
disse Saigos a denti stretti.
Velocissima e sprezzante, Sakura
gli fu addosso, e malgrado il generale fosse riuscito a difendersi con la
propria spada venne ugualmente scagliato via come una foglia secca dalla
tremenda potenza dello spadone e rotolò in terra.
«Generale Saigos!» esclamarono i
suoi uomini, alcuni dei quali fecero per intervenire
«Statene fuori!» gridò
rabbiosamente lui rimettendosi in piedi «Lei è mia!».
Rialzatosi, mise la spada davanti a
sé, sfiorando la lama con la gemma del suo anello.
«Heysel!»
«Burning Blood!».
La spada venne improvvisamente
circondata di fuoco, e agitandola Saigos produsse una falce di fuoco che
Sakura, messo il suo spadone davanti a sé come difesa, fece molta fatica a
parare.
«Non mi sottovalutare, ragazzina!»
gridò, e il combattimento riprese più ferocemente di prima.
Nel mentre, il Principe e la sua
corte, protetti da un buon numero di soldati, si erano barricati nel planetario
per sfuggire agli invasori, presentati da Saigos come possibili sicari inviati
da potenze oltremare.
Di forma semisferica, il planetario
aveva tutte le funzioni di un osservatorio; la cupola, grazie ad un complesso
sistema di funi e carrucole, era in grado di ruotare su sé stessa, e
all’occorrenza era possibile rimuovere uno dei suoi spicchi per mettere a nudo
il cielo e permettere l’apertura del gigantesco telescopio, ora richiuso su sé
stesso.
Come il padre ed il fratello, il
Principe Soberian aveva una grande passione per l’astronomia, ed aveva anche
scritto alcuni trattati sui corpi celesti che aveva pubblicato sotto falso
nome, in modo da non far pesare il proprio, che avevano incontrato il favore e
il plauso delle comunità scientifiche sia del principato che di altre nazioni.
D’un tratto, dal box del
montacarichi, precedentemente disattivato per impedirne l’utilizzo, giunse uno
strano rumore, come una cannonata, le porte si spalancarono alla solita maniera
e da dietro di esse uscì un denso fumo nero.
«Vostra signoria!» dissero le
guardie frapponendosi tra il Principe e la potenziale minaccia con le spade in
pugno «Fate attenzione».
Poi, dal fumo, uscì, camminando
lentamente, la figura di un giovane sui venticinque anni che portava due spade,
entrambe riposte nei loro foderi; non sembrava avere cattive intenzioni, e quel
suo volto, contornato da capelli nerissimi tutti scompigliati e da quegli occhi
scuri, trasmetteva un senso di fierezza e di indomito coraggio.
«Chiedo scusa per il modo barbaro
con cui mi sono presentato, ma il montacarichi non funzionava.»
«Chi sei?» domandò minacciosamente
il capo della guardia
«Mi chiamo Regis. Sono qui per
parlare con il principe.»
«Sei uno di quei mercenari
stranieri inviati qui dalle nazioni al di là del mare?» domandò il Principe
«Sei venuto ad uccidermi per minare le fondamenta del mio regno e facilitarne
l’invasione? E sia, ma non sarò una facile preda.»
«Voi fraintendete. Vengo in pace, e privo di
intenzioni ostili».
A dimostrazione della nobiltà delle
sue parole Regis si liberò di entrambe le armi, gettandole a terra. Ciò
nonostante le guardie non parvero intenzionate a credergli, e anzi, abbassate
le loro alabarde, cominciarono ad avvicinarsi.
«Non avete di che temere. Porto
parole, non acciaio.»
«Aspettate.» disse il Principe
richiamando le sue guardie «Ascoltiamo quello che ha da dire».
I soldati, benché titubanti, alla
fine obbedirono, facendo largo all’ospite ma seguitando a tenere le armi pronte
a punire un eventuale tentativo di assassinio.
Regis si fece avanti, arrivando a
pochi passi dal principe.
«C’è un traditore nella vostra
cerchia, Principe. Anzi, credo siano più di uno.»
«Ed è lui che ti ha reclutato? Ha
pagato la tua mano perché la usassi per togliermi la vita?»
«Voi fraintendete. Non sono qui per
eseguire il suo volere, ma per informarvi di quale esso sia.»
«Di che stai parlando? Chi sarebbe
questo traditore?»
«Il Generale Saigos.»
«Il comandante del mio esercito!?»
esclamò il Principe ad occhi sbarrati, per poi scoppiare in una ironica risata
«Che assurdità è mai questa?»
«Ascoltatemi, vi prego. Dopo che
voi avete abolito la schiavitù, il Generale Saigos ha fatto un patto con la
gilda degli schiavisti e quella dei lanisti, diventando il capo di una vasta e
pericolosa organizzazione clandestina. Essi rapiscono cittadini liberi, sia in
città che nelle campagne, e li rivendono al mercato nero come schiavi da
destinare ai lavori pesanti o ai combattimenti nelle arene, come quello della
scorsa notte, questo grazie anche all’appoggio di molti funzionari corrotti.
In questo modo non solo si
arricchiva, ma acquistava potere e influenza, a discapito della vostra
autorità. Con il tempo lui e tutti coloro che lo appoggiano vi avrebbero reso
ostile al popolo, e probabilmente avrebbero fatto dei vostri sudditi l’esercito
con cui prendere il potere».
Soberian era visibilmente e
profondamente scosso, ma se da una parte sembrava voler credere alle parole
dello straniero dall’altra il suo orgoglio di sovrano gli impediva di ammettere
di essere stato preso in giro per tutto quel tempo.
«Ti aspetti che io creda a questa
storia inventata di sana pianta?»
«Nessuno conosce i vostri
funzionari meglio di voi stesso. Davvero vi sorprende che avessero intenzione
di tradirvi?».
Nuovamente, il principe
temporeggiò, guardando a terra.
«Non dovete credergli, Vostra
Signoria.» disse uno dei cortigiani lì presente «Ricordate che costui è un
mercenario assoldato per uccidervi.»
«Le persone di cui vi circondate»
proseguì imperterrito Regis «Sono nobili egoisti e avidi di denaro
disperatamente attaccati al quel vecchio regime che cercate in ogni modo di
abolire. Hanno costruito la loro fortuna sul sudore e sul sacrificio di migliaia
di schiavi, e fino a poco tempo fa vivevano nel lusso mentre altri lavoravano
per loro.
Come credete che si siano sentiti
quando voi avete deciso di abolire la schiavitù, costringendoli per la prima
volta a rimboccarsi le maniche se volevano mantenere le loro ricchezze?»
«Bada a come parli, straniero!»
esclamò un altro
«Sono avidi e lascivi a tal punto
che non riescono neppure più a concepire il lavoro manuale. Per loro deve
essere stato terribile rendersi conto di non poter più comandare ad altri di
fare il loro lavoro, ed erano troppo orgogliosi per ammetterlo. Grazie al loro
malcontento, e a quello di buona parte del popolo, Saigos ha avuto terreno
fertile per piantare i semi della propria ascesa, e ormai questi semi stanno
diventando sempre più numerosi.
Dovete fare qualcosa, vostra
signoria, o il mondo che avete tanto sognato e per cui vi siete battuto non
durerà ancora a lungo.»
«Menzogne!» esclamò un terzo
cortigiano «Tutte menzogne! Nessuno qui ha mai pensato di voltarvi le spalle,
vostra signoria. Abbiamo fatto un giuramento di fedeltà, e lo abbiamo sempre
onorato.»
«Se quello che dici è vero devi
mostrare delle prove, altrimenti le tue non sono niente più che calunnie e
parole al vento.»
«Volete delle prove? Le ho qui con
me.»
«Che cosa!?»
«Le prove che dimostrano come le
persone che reputavate amici in realtà stessero complottando ai vostri danni,
vostra signoria, e di come prendessero ordini da Saigos.»
«Vostra signoria…» tentò di dire il
primo cortigiano, fattosi improvvisamente minuscolo, ma il principe lo fulminò
con una occhiataccia, poi tornò a guardare Regis
«Mostramele. Che io possa
giudicare. Quali sono queste prove?».
Intanto, la situazione di Elys e dei suoi compagni si
stava facendo disperata; braccati e messi alle strette dagli scheletri, erano
ormai allo stremo delle forze, mentre i loro avversari al contrario non
sembravano accusare il minimo segno di stanchezza, ma questo doveva essere
prevedibile, visto che erano già morti.
«Non ce
la faccio più.» disse uno dei ragazzi cadendo in ginocchio.
Uno dei
nemici immediatamente ne approfittò cercando di colpirlo, ma Joff fu più svelto
e con un calcio ben piazzato lo ridusse in pezzi.
Ben
presto lui e gli altri si ritrovarono stretti in un angolo, ma a quel punto gli
scheletri, invece che infliggere il colpo di grazia, si tennero a distanza,
attaccando solo di tanto in tanto.
«Non
capisco, perché non ci finiscono?» domandò un'altra guardia «Ormai siamo
praticamente loro.»
«Probabilmente»
rispose Joff «Chiunque li stia facendo muovere vuole godersi pienamente il
momento facendoci penare il più a lungo possibile».
Una
simile situazione rappresentava un ulteriore, terribile colpo per l’orgoglio di
Elys, già di per sé devastato: in trappola come topi, alla mercé di un nemico
sconosciuto, che oltretutto si permetteva pure di farsi beffe di loro,
giocandoci come se fossero degli animaletti da cortile.
Era
troppo!
Non
sarebbe morta così! Il suo onore poteva essere a pezzi, ma lo aveva ancora, e
ora gli imponeva di combattere con tutta sé stessa, anche se significava
morire.
«Non mi
avrete!» gridò gettandosi nuovamente e imprudentemente nel bel mezzo della
mischia
«Elys,
aspetta!» disse Joff andandole immediatamente dietro.
Alcuni
degli avversari caddero sotto la furia incontrollabile della ragazza, ma poi
uno di loro le arrivò alle spalle; lei se ne accorse, ma solo all’ultimo
istante, e sul viso le si dipinse un’espressione di stupore e paura.
«Elys!».
Joff si
mise in mezzo, e la spada arrugginita dello scheletro gli trafisse
inesorabilmente il costato, mancando il cuore per un vero miracolo, ma, ciò
nonostante, la ferita risultò fin da subito piuttosto seria, anche se forse non
mortale.
Elys,
terrorizzata, polverizzò il feritore con un attacco micidiale, e appena fu lasciato
libero Joff rovinò a terra; la ragazza, subito, si inginocchiò, e intanto i
compagni del giovane facevano muro attorno a loro.
«Joff!
Joff!».
Lui aprì
occhi, ma era molto debole, e intanto il pavimento freddo attorno a lui si
colorava di rosso.
«Stai…
stai bene, Elys?»
«Joff…
perché… perché lo hai fatto?»
«Io…
volevo proteggerti».
Colpa
sua. Era stata solo colpa sua!
Elys si
sentì di colpo un’arrogante, un’egoista e quanto di peggio si potesse pensare.
«Mi
dispiace.» disse con gli occhi gonfi di pianto «Mi dispiace!»
«Elys…»
disse lui accennando un tenue sorriso «Devo dirti una cosa. Io… credo… credo di
essermi… innamorato di te.»
«Cosa!?»
«È
successo… nell’arco di un istante. Mi sono innamorato… nel momento in cui ti ho
vista… su quel carro. Tu sei forte… sei coraggiosa… sei… tutto quello che avrei
voluto essere io.»
«Non devi
dire così! Tu sei più forte e più coraggioso di me!».
Perché?
Perché era stata così stupida? Perché aveva permesso al suo orgoglio di
decidere per lei?
Aveva voluto
riscattarsi ad ogni costo, dimenticando inesorabilmente tutto quello che la
maestra Aria le aveva insegnato a proposito del lavoro di squadra. Non era da
sola lì sotto, c’erano anche altre persone, e agendo in quel modo sconsiderato
aveva finito per metterle in pericolo, costringendone una a compiere l’estremo
sacrificio pur di salvarle la vita.
Che
valore aveva l’onore se per conquistarlo si era costretti a spargere il sangue
dei compagni? Un guerriero che causa la morte di un proprio commilitone con la
sua condotta non merita nemmeno di impugnare la spada, figuriamoci di potersi
fregiare ti tale titolo.
Stupida!
Stupida e ingenua!
Per
riscattare il suo onore lo aveva perso del tutto, e ora sarebbe stato un altro,
un innocente, un animo puro, a pagare al suo posto.
Di colpo,
Joff chiuse gli occhi, ed Elys era così sconvolta da non rendersi conto che
respirava ancora, e che era semplicemente svenuto.
«Perché!
Perché!» gridò con tutto il fiato che aveva.
All’improvviso,
dall’unico sarcofago rimasto inalterato, quello del Principe Erathis il Grande,
giunse una fortissima luce rosata, che gli scheletri che si trovavano più
vicini al sepolcro vennero immediatamente ridotti in polvere, accartocciandosi
su sé stessi. Ad emetterla era una gemma, apparentemente di semplice pietra,
incastonata nell’armatura, ma poi la patina esterna saltò via, mettendo in luce
una stupenda pietra ovoidale di colore rosa intenso che schizzata in avanti
come un fulmine si fermò davanti ad Elys, rimanendo immobile a levitare.
«Che
cosa!?» esclamò, incredulo e infuriato, Zak-Ner
La
ragazza avvertì qualcosa di strano, come un déjà-vu, poi dal nulla comparve,
evanescente, un bellissimo unicorno; gli zoccoli erano azzurri, il pelo
bianchissimo, e dal centro della fronte si diramava un lungo corno di quel
colore rosa, e attorno a lui si sollevavano, come alimentate da un fuoco
invisibile, tante braci rosso acceso.
Elys,
incredula, si alzò, lasciando Joff, anch’egli visibilmente sorpreso dopo
essersi risvegliato, alle cure di un suo compagno, e dopo aver guardato un
momento quel fantastico animale, riconoscendo in lui uno sguardo famigliare,
gli posò una mano sul muso.
Quello
nitrì lievemente, poi scomparve ed Elys si ritrovò la gemma stretta nella mano
con cui lo aveva accarezzato; poi, nella testa, cominciò a risuonarle una voce
strana, e stretta la gemma nel pugno prese a ripetere, scandendole bene, le
parole che le venivano sussurrate nell’orecchio.
Io, che accetto
questa missione
Attraverso questo
antico contratto, ti ordino di liberare il tuo potere
Attraverso il vento,
e il fuoco che è fonte di vita
E nel cuore più
deciso
Che batte in me!
Il bagliore a quel punto divenne così forte da essere
visibile anche all’interno del pugno, e quando Elys riaprì gli occhi erano
diventati del colore del fuoco più vivo.
«Andiamo,
Sary!»
«Activation!».
Tra lo
stupore generale, Elys fu completamente avvolta in un guscio di luce, e quando
ne uscì era completamente diversa.
I
capelli, da castani, avevano assunto una tonalità bianco rosata, lo stesso
nuovo colore dei tatuaggi, e la pelle si era fatta più scura; le vesti, simili
più o meno alle precedenti, eccezion fatta per due lungi guanti corazzati che
arrivavano fino a metà dell’avambraccio e degli stivali bianchi stringati,
erano diventate di un rosso molto scuro, quasi un viola, ed erano comparsi dei
calzoni aderenti attraversati da pregiati arabeschi.
Lo
spadone, sempre riposto dietro la schiena, aveva più che raddoppiato le sue
dimensioni, ed aveva attorno alla punta una corazzatura d’oro massiccio; la
gemma, divenuta leggermente più grande, era ora incastonata nell’impugnatura.
“Maledizione.”
pensò Zak-Ner “Allora è lì che si trovava la gemma”.
Joff e i
suoi compagni rimasero senza parole, quanto agli scheletri sembravano in preda
al terrore, e indietreggiavano leggermente. Elys li guardò, poi estrasse la
spada, riuscendo a maneggiarla con incredibile destrezza.
«E
adesso, veniamo a voi.»
«Burning Comets!».
Davanti
alla ragazza comparvero una decina di palle infuocate, e le bastò agitare la
spada perché queste partissero tutte insieme in tutte le direzioni, incenerendo
in un sol colpo un grande numero di nemici; i superstiti tentarono di
attaccare, ma uno dopo l’altro vennero sopraffatti, e allora le loro ossa, in
un estremo tentativo di ribaltare nuovamente le sorti dello scontro, assunsero
la forma di un essere enorme, così alto da toccare il soffitto.
Elys, per
nulla spaventata, divaricò le gambe.
«Sary!»
«Gun Form!».
L’impugnatura
della sua spada aumentò di proporzioni e assunse meccanicamente una nuova
forma, come di un calcio di fucile, e da una parte del rivestimento in oro
sulla punta uscirono fuori due aste che andarono a poggiare a terra, formando
una sorta di cavalletto; poi, tutta la lama divenne di un colore lavico, e il
calore, che Elys sembrava non sentire, era tale che Joff e i suoi amici presero
a sudare copiosamente.
Il mostro
tentò di sferrare un pugno all’avversaria con una delle sue quattro braccia, ma
ormai la sua sorte era segnata.
«Burning Buster!».
Si produsse
una vera e propria esplosione di fuoco, e la potenza del colpo fu tale che i
piedi di Elys strisciarono sulla pietra per alcuni centimetri, inoltre alcune
mattonelle schizzarono via dai loro alloggiamenti, e grosse crepe si aprirono
un po’ dappertutto.
Il mostro
fu letteralmente disintegrato, e tramite i fili spirituali che lo comandavano
l’attacco arrivò fino a Zak-Ner, che quasi venne investito dalla fontana di
fuoco che sbucò fuori dal pozzo mandandolo in frantumi.
«Che
potenza spaventosa.» disse a denti stretti «Questo potere… un giorno sarà mio».
Quando
finalmente tutto si acquietò del mostro non era rimasto più nulla, ed Elys
corse a sincerarsi delle condizioni di Joff.
«Come
sta?»
«È un po’
malconcio, ma se la caverà.» rispose quello che lo sorreggeva, permettendogli
di restare in piedi.
Poco dopo
Lavy e gli altri schiavi chiusi in cella sentirono la porta delle prigioni
spalancarsi violentemente, poi un rumore concitato di molti passi, e tra lo
stupore generale videro comparire Elys.
«Elys!?»
«Te
l’avevo detto, vero? Ti avevo promesso che sarei tornata per liberarvi tutti».
Lei e gli altri presero a
fracassare le serrature, e ben presto tutte le porte furono spalancate.
«Ora però viene la parte più
difficile. Noi vi abbiamo restituito la liberà, ma sta a voi accettarla e farne
buon uso».
Lavy
temporeggiò, e alcuni dei suoi compagni dapprincipio parvero riluttanti ad
abbandonare le loro celle, ma poi la ragazza, sorridendo, strinse la mano che
Elys le aveva proteso, e a quel punto tutti cominciarono a recuperare la voglia
di vivere.
Ben presto Saigos comprese di aver voluto provocare una
tigre addormentata, e quando se ne rese conto ormai era troppo tardi.
Dopo un
momento in cui sembrava davvero in grado di reggere lo scontro, anche se
debolmente, venne rapidamente e inesorabilmente sopraffatto dalla spaventosa
potenza di Sakura, che lo mise al tappeto nel giro di pochi minuti.
Il colpo
di grazie si ebbe quando, tentando di portare l’ennesimo attacco, fu investito
da una falce di luce che lo scagliò prima in aria e poi violentemente a terra;
il fuoco attorno alla sua spada si dissolse, e il suo prezioso anello, a causa
del contraccolpo, saltò via dal dito, rotolando sull’erba.
«Impara a
stare al tuo posto.» disse Sakura, che però, sopraffatta a sua volta dall’immane
sforzo necessario a fare uso del Sigillo degli Dèi, cadde a sua volta in
ginocchio mentre lo spadone di luce scompariva nel nulla, riportando lo scettro
alla sua vera forma
«Signorina
Sakura!» disse Dave tentando di soccorrerla
«Arrestateli!»
gridò Saigos rosso di rabbia, e subito i suoi uomini puntarono le lance per
impedire al ragazzo di aiutare la compagna.
Poi,
proprio quando il generale era convinto di poter cancellare quella sconfitta
approfittando della situazione, una voce famigliare giunse al suo orecchio, e
appena si rese conto a chi apparteneva pensò di stare sognando, o di essere
impazzito a causa della tremenda batosta subita.
«Cittadini di Laryana! Vi do il benvenuto a
questi grandi giochi gladiatori!
Tempi bui questi, giacché le nostra più
antiche e gloriose tradizioni vengono distrutte e cancellate dalla prepotenza e
dagli stupidi sogni di un principe idealista! Ma non disperate! Quelle usanze
non andranno perdute!
Per ora siamo costretti a nasconderci, a vivere in clandestinità, ma
verrà il momento in cui potremo finalmente tornare alla luce del sole, e
dimostrare a tutti coloro che sembrano averlo dimenticato quanto le nostre
tradizioni hanno fatto grande, e faranno ancora grande questo nostro regno!».
No! Non era possibile!
Era fuori da ogni logica!
Quella voce… era la sua!
Incredulo e terrorizzato, si volse
alle proprie spalle. Il principe stava pochi metri dietro di lui, e lo guardava
con un misto di sgomento, rabbia e ripugno; al suo fianco Regis: teneva in una
mano l’oggetto elettronico ricavato dai resti del primo robot che aveva
sconfitto, e sul suo vetrino, come per magia, scorrevano le immagini di quella
famosa sera alla vecchia cisterna.
Oltre al generale, in quelle
immagini apparivano anche molti personaggi influenti di tutti gli ambienti
della politica, dell’amministrazione e dell’esercito, tutti visibilmente
compiacenti e intenti a godersi lo spettacolo.
I consiglieri che si accompagnavano
al Principe nel planetario erano già in catene, tenuti sotto tiro da alcune
delle guardie, e cercavano biecamente di discolparsi agli occhi del sovrano
accusandosi l’un l’altro di essere più o meno corrotti.
«E pensare che nutrivo così tanta
fiducia in te.»
«Vostra… vostra signoria…»
«La festa è finita, Saigos.» disse
Regis «Le tue macchinazioni, come te, sono alla fine».
Guardie a non finire, stavolta
fedeli al Principe e avvisate con il meccanismo delle torce, arrivarono da
tutte le direzioni, costringendo i loro compagni corrotti ad arrendersi.
Saigos venne afferrato da due di
queste, sollevato di peso e portato via, e a quel punto Sakura, ripresasi un po’,
corse a recuperare l’anello, il quale però, qualche istante dopo, andò in mille
pezzi, trasformandosi in polvere tra lo stupore e la delusione dei presenti.
«Ma cosa… che significa!?» domandò
Dave
«Probabilmente si trattava di un
falso.» disse Regis
«Vuoi dire che abbiamo fatto tutta
questa fatica solo per una patacca!?» esclamò Sakura visibilmente contrariata
«Forse no!» esclamò una voce
squillante, e i ragazzi, voltatisi, videro sopraggiungere Elys come non l’avevano
mai vista prima
«Elys… ma che…» balbettò Dave
«Quella sarà pure stata una patacca.»
disse la ragazze mostrando la gemma incastonata nella sua spada «In compenso io
ho trovato quella vera».
Per volere stesso di Elys, che
sembrava avere il pieno controllo suoi nuovi poteri, la trasformazione cessò, e
la pietra, tornata alle sue dimensioni originali, andò ad incastonarsi nel
bracciale che la maestra Aria aveva regalato alla sua allieva prediletta. La ragazza
tuttavia se lo sfilò, porgendolo a Regis.
«Immagino che questa debba andare
sulla tua spada».
Il guerriero la guardò un momento
poi la prese e, sorridendo, gliela rimise al polso.
«Ma cosa…»
«È ovvio che questa pietra ha
scelto te. Forse verrà il momento in cui dovrà essere inserita in questa spada,
ma di sicuro quel momento non è oggi».
Elys quasi pianse, poi, cercando di
mostrarsi quella di sempre, si rivolse a Dave.
«Ehi, novellino. Ce l’hai ancora
quel bracciale?»
«Cosa?»
«Che c’è, sei imbambolato. Il mio
bracciale.»
«Ma… prima hai detto che non lo
volevi…»
«Il prima è prima, ora è un’altra
cosa. Allora, ce l’hai o no?».
Dave, incredulo, prese il bracciale
dalla sua sacca da viaggio, Elys lo recuperò e se lo mise al polso destro.
«L’hai detto tu, maneggiare questa
spada con uno solo di questi bracciali è già una conquista. Inoltre, mi
ricorderà sempre di quanto possa essere pericolosa la presunzione».
Regis e Dave sorrisero compiaciuti,
Sakura invece fece un cenno di assenso.
«Incredibile, Elys. Non avrei mai
pensato che proprio tu potessi dire una cosa del genere.»
«Bada a come parli, novellino! Adesso
che possiedo questa gemma, se prima c’era qualche dubbio sulla differenza di
abilità tra noi due ora direi che abbiamo fugato ogni dubbio! Quindi sarà
meglio che abbassi la cresta!»
«Ma sentila, la primadonna. E pensare
che mi avevi quasi convinto».
Quell’affermazione costò a Dave una
sonora botta in testa, ma lui, invece che arrabbiarsi, nuovamente sorrise.
«Ora riconosco la nostra Elys.»
disse Regis, e tutto finì in una risata liberatoria.
Al sorgere del nuovo sole, Regis e gli altri si
prepararono a lasciare Laryana.
Il Principe
Soberian e i pochi dignitari che gli erano sempre stati fedeli li raggiunsero
alle porte della città per salutare la loro partenza. C’era anche Joff; aveva
un braccio al collo e una benda in testa, ma tutto sommato stava abbastanza
bene.
«Siete
sicuri di non volervi intrattenere ancora per un po’?» domandò il Principe «Potrei
offrirvi la migliore delle ospitalità.»
«Vi
ringrazio dell’offerta, signoria.» rispose Regis «Ma restano ancora cinque
gemme da trovare, e visto che non siamo gli unici a cercarle è necessario agire
il più velocemente possibile.»
«Capisco.
Tuttavia, se vorrete tornare, questa volta sarete trattati con tutti gli onori.»
«Grazie,
signoria.» disse Dave
«Io vi
devo le mie scuse, e anche i miei più vivi ringraziamenti. Se non fossi stato
così ottuso e sicuro di me probabilmente mi sarei accorto delle reali
intenzioni del generale Saigos e degli altri. Se penso che le persone che
reputavo amiche e leali stavano complottando ai miei danni, ancora non mi pare
vero.»
«I
cambiamenti generano sempre malcontento, signoria.» rispose Regis «Specialmente
se sono radicali.»
«Quando
ero giovane visitai il vostro regno natale, Fiya, e ne rimasi incantato. Lì, in
quella terra toccata dalla ragione e dalla giustizia, le persone vivono felici,
sullo stesso piano, e sanno di essere guidate da regnanti saggi e moralmente
integri.
Vedendo l’armonia
che regnava laggiù decisi di dedicare tutte le mie forze a far sì che anche il
mio regno potesse un giorno conoscere un tale splendore, e il primo passo per
il raggiungimento di tale scopo mi sembrava l’abolizione della schiavitù.»
«Il
vostro pensiero non era sbagliato, signoria.» disse Sakura «Non c’è giustizia
se c’è disparità. Tuttavia, un cambiamento così profondo, che mira alla
soppressione di una tradizione secolare, se attuato nel modo sbagliato porta
solo confusione e complotti.»
«Allora
non me rendevo conto, preso com’ero ad inseguire il mio sogno, ma ora ne sono
consapevole. Tuttavia, forse non è ancora troppo tardi. Il cambiamento ci sarà,
anche se sarà più lento e diluito nel tempo di come lo avevo pianificato. Mi impegnerò
con tutte le mie forze, cercando di smuovere le coscienze, e ora sono sicuro di
poter contare sull’appoggio di persone fedeli, che mi aiuteranno in questa
impresa».
Joff a
quel punto si avvicinò ad Elys, ma non riuscì a guardarla a lungo negli occhi
ed abbassò i propri, arrossendo.
«Senti…
riguardo a quello che è successo lì sotto…».
Solo allora
Elys si ricordò delle parole pronunciate dalla giovane guardia, e di colpo il
cuore prese a batterle all’impazzata.
«Sì,
insomma… per quello che ti ho detto».
Lei dapprima
rimase immobile, con gli occhi sbarrati e la bocca socchiusa, poi però sorrise
maliziosamente.
«Mi
dispiace, ma quella è una strada chiusa.» disse coi pugni sui fianchi «Sono una
Kalimi, ricordatelo. Per me viene la battaglia prima di ogni altra cosa».
Joff si
dispiacque, ma dalla sua espressione era chiaro che forse si aspettava una
risposta del genere.
«Però…»
disse dopo poco Elys con voce e sguardo completamente diversi «Non si sa mai».
Era poco,
ma era pur sempre qualcosa, e il ragazzo sentì di colpo ricrescere la speranza.
«Prima
che ve ne andiate.» disse il Principe avvicinandosi a Regis «Vorrei farvi un
piccolo regalo».
Il
sovrano fece un cenno ad una guardia, che gli consegnò un vecchio libro
rilegato artigianalmente, pieno di fogli e pagine ricolmi di disegni e di
parole scritte a mano.
«Certo
non siete famoso quanto nel vostro Paese, ma anche qui si raccontano delle
storie sul vostro conto, nobile Regis, e una di queste sostiene che proveniate
da un altro mondo.
Pertanto, questo è per voi.»
«Che cos’è?»
«Ho
ereditato dai miei antenati la passione per l’astronomia. Mio nonno aveva
iniziato delle ricerche su di un fenomeno celeste che lui chiamava le Fenditure nel Cosmo. Sosteneva che
fossero dei passaggi per altri mondi. Ho dedicato gli ultimi trent’anni al loro
studio, e ho finalmente completato le sue ricerche.
Se la
storia della vostra provenienza da un mondo alieno a questo è vera, spero che
questo trattato vi possa tornare utile».
Regis era
senza parole, e per un attimo non credette ad un simile colpo di fortuna: forse
era vero, forse lì dentro c’era davvero la chiave per poter fare finalmente
ritorno a casa. Era così felice di aver avuto una tale opportunità che non
pensò nemmeno di negare l’aiuto del Principe, come era solito fare.
«Vi
ringrazio infinitamente.» disse prendendolo.
Ma ormai
il tempo a loro disposizione era scaduto, ed era giunto davvero il momento di
ripartire; salutati da Joff, dal Principe e dal resto della corte i quattro
ragazzi, seguendo la linea che la
Spada di Giabrian aveva tracciato nel cielo pochi istanti
prima dell’alba, si lasciarono Laryana alle spalle e si diressero a nord, verso
la tappa successiva del loro viaggio.
Nota dell’Autore
Salve a tutti!
Non mi pare vero,
sono riuscito ad aggiornare anche in un momento simile!
La fine di questo
schifoso periodo di corsi si avvicina, ma assieme a lui si avvicinano anche due
esami a dir poco tosti, Inglese e Letteratura Greca, quindi alle ore di lezione
si stanno aggiungendo sempre più quelle di studio, ma per fortuna sono ancora padrone
di un pezzetto delle mie giornate.
Dal prossimo capitolo
lasceremo momentaneamente Regis e gli altri alle loro peregrinazioni e
torneremo a concentrarci sul secondo protagonista, Erik, con grande gioia di
qualcuno dei miei lettori.
Lasciatisi alle spalle la casa del maestro Rasnak Erik,
Sanae e Lily si erano incamminati verso est, e ben
presto alle fitte foreste si sostituì un’interminabile linea di altissime
montagne che diventavano di giorno in giorno sempre più vicine.
Quelle
montagne, secondo le carte più antiche, segnavano il confine ultimo del mondo,
ora invece si sapeva che dividevano Europia dal
continente orientale, o Taqin-Guo, come lo chiamavano
gli elfi, una terra di cui si raccontavano molte storie ma di cui in
definitiva, a causa della difficoltà di arrivarci, si sapeva molto
poco.
Sfortunatamente,
come era prevedibile, più ci si avvicinava alle
montagne più il freddo si faceva pungente, soprattutto nelle ore notturne, e se
Erik riusciva a sopportarlo e Lily, per la sua natura di essere magico, lo
sentiva in misura molto minore, Sanae invece batteva spesso i denti, ma non si
lamentava mai per non voler costituire un peso morto costringendo i suoi
compagni ad una sosta forzata.
Al
tredicesimo giorno di viaggio, quando ormai erano praticamente
già entrati nella zona delle montagne, la temperatura era scesa a tal punto che
dormire all’addiaccio era praticamente impensabile, e ormai anche Lily
cominciava a sentire gli effetti el freddo: stringeva
le braccia, aveva il naso chiuso e sembrava volare per pura forza d’inerzia,
visto che le sue alette iridescenti stavano lentamente ma inesorabilmente
ricoprendosi di brina.
La
comparsa insperata di un piccolo villaggio di elfi sul fondo si
una vallata dominata da un grande e maestoso castello fu salutata dalla fata
con un sommesso sospiro di sollievo, anche da parte di Sanae, che tuttavia non
poteva fare a meno di sentirsi in colpa sapendo che se Erik faceva di tanto in
tanto delle soste era solo per permetterle di riposare.
Entrati
nell’agglomerato, si rivolsero ad un taglialegna di
ritorno dai boschi, a cui Erik chiese se ci fosse una locanda.
«Proseguite fino alla piazza, e la troverete. Si chiama
Uccello Nero».
Il posto
non era molto grande, come era naturale visto la
natura apparentemente isolata del luogo, e gli avventori erano esclusivamente
elfi, tutti boscaioli, cacciatori e taglialegna che si concedevano un pasto
fumante o un buon boccale di sidro per riprendersi dalle fatiche della
giornata.
Ciò che
invece risultò strano fin da subito fu l’innaturale
tranquillità e indifferenza con cui un villaggio popolato da soli elfi accolse
l’arrivo di un umano, una Inu e una fata, ma la
spiegazione ad un fenomeno tanto insolito la fornì lo stesso locandiere quando
potrò ai tre viaggiatori, sedutisi ad un tavolino appartato, un vassoio di
selvaggina arricchita con frutta e verdura di stagione.
«Poco
distante da qui si trova uno dei valichi che collegano il nostro continente con
quello ad oriente. Pertanto, anche se i contatti sono
minimi, di forestieri da queste parti ne capitano di tanto in tanto».
Sanae,
che appena entrata aveva disteso le orecchie e agitato la coda sentendo il bel
tepore emanato dal fuoco del camino, sopra il quale ardeva un paiolo pieno di
polenta, sembrava ora terribilmente a disagio, e non toccava cibo; Erik gliene
chiese la ragione, e allora lei chiuse gli occhi, chinando il capo.
«Perdonatemi!»
disse
«Per cosa
dovrei perdonarti?» rispose tranquillo e calmo Erik
«È solo colpa mia se ci siamo dovuti fermare. Voi sareste
potuti andare avanti molto di più se non ci fossi stata io. La verità è che non
faccio altro che rallentarvi. Sono una palla al piede, ed è stato egoistico da
parte mia pretendere di venire con voi.
Vi prego,
perdonatemi!».
Sanae era
sul punto di piangere, lo si vedeva, ma Erik, dopo
averla guardata un momento, sorseggiò un po’ d’acqua fresca come se nulla
fosse; accanto a lui, seduta direttamente sul tavolo, Lily divorava
allegramente un’oliva, che per lei aveva le dimensioni di un melone.
«Questa cacciagione è davvero molto buona, e anche il resto
non è male. Non sei d’accordo, Lily?»
«D’accordissimo!»
rispose lei strappando un pezzettino di carne ed
ingurgitandolo in pochi bocconi
«Era da
un po’ di tempo che non mangiavo così bene.»
«Io non ricordo nemmeno più l’ultima volta che ho mandato
giù qualcosa di commestibile! Sai Sanae, Erik trangugia di tutto. Almeno, da
quando ci sei tu che cucini, non corriamo il rischio di morire avvelenati».
C’era un
chiaro e velato messaggio di speranza nelle parole di Erik, e udendole Sanae
rimase un momento con la bocca socchiusa, poi però, sorridendo, ricordò a sé stessa che c’erano molti motivi per il quale aveva voluto
intraprendere quel viaggio insieme a lui, e uno di questi era senza dubbio la
sua grande umanità.
Ad un certo punto, quasi per caso, l’attenzione di Erik fu
attirata da un rotolo di pergamena appeso ad una parete, vicino alla scala che
saliva ai piani superiori, e vedendo il simbolo circolare che vi era
raffigurato, circondato da due cavalli rampanti e sormontato da un’aquila che
dispiegava le ali, quasi gli uscì una esclamazione di stupore: era stilizzato,
d’accordo, ma somigliava molto al cerchio del sole e della luna, il simbolo di Clow.
Subito
richiamò l’oste, chiedendogli di cosa si trattasse.
«Quello è
lo stemma del casato degli Ulwarth.»
«Il
casato degli Ulwarth?»
«Gli Ulwarth erano la famiglia che
fino a pochi secoli prima governava su queste terre. Il castello che domina il
villaggio era la loro roccaforte, e controllavano tutti i traffici tra questo e
l’altro continente, ma sono stati distrutti e spazzati via quando Normar ha
invaso la regione.
Ora che
ci penso, mi sembra strano che nessuno mi abbia ancora ordinato di rimuoverlo.»
«Quel
castello però non mi pareva disabitato, almeno da lontano.»
«Infatti non lo è. Ci vive una guarnigione, e anche piuttosto
numerosa, inoltre c’è un continuo andirivieni di gente. Un tempo si chiamava
Del Picco dei Corvi, ora invece credo lo chiamino
l’Altrove.»
«L’Altrove?»
«Secondo la leggenda, gli Ulwarth
custodivano molti segreti all’interno di quel castello, segreti molto
importanti. Forse è per questo che la regina Lainay lo ha
riempito delle sue migliori guardie».
Notando
l’espressione interessata e pensierosa di Erik, il locandiere rise divertito.
«Non fate quella faccia. Sono solo vaneggiamenti di vecchi
ubriachi. Come ho detto qui si trova uno dei pochissimi valichi che
attraversano le montagne, e non c’è da stupirsi che Normar voglia tenerlo sotto
controllo, senza contare poi il pericolo rappresentato dai Tengu.»
«Tengu?»
«Gli uomini-uccello. I loro villaggi si trovano sulle vette
più alte, dove nessun essere senza ali riuscirebbe mai ad arrivare. Gente
tranquilla, finché li si lascia in pace e ci si tiene
alla larga dai loro territori, ma di quando in quando scendono a combinare
guai».
Lily capì
subito quali erano le intenzioni di Erik, e altrettanto fu per Sanae, che non
appena il locandiere se ne fu andato non mancò di
manifestarli.
«Nobile
Erik, non starete pensando di introdurvi in quel castello!?»
«Ci sono delle risposte lì dentro, ne sono certo. Una
ricognizione è d’obbligo.»
«Ma lo avete sentito anche voi, la sorveglianza è
strettissima. Se dovessero scoprirvi…»
«Lascia stare, Sanae…»
«Ma, Lily…»
«Ormai conosco Erik da abbastanza tempo per sapere che
quando si mette in testa qualcosa non c’è verso di smuoverlo.
Ad ogni
modo, cerca di essere prudente.»
«Voi aspettatemi qui alla locanda. Tornerò appena avrò
scoperto qualcosa.»
«Nobile
Erik…» disse Sanae, che nonostante quelle parole non riusciva a fare a meno di
essere preoccupata.
La campana della torre principale batté la mezzanotte,
segnando allo stesso tempo la fine dell’ultimo turno di guardia della giornata e l’inizio del primo del giorno successivo.
Un
soldato della guarnigione, un giovane elfo da poco trasferito al castello
dell’Altrove per il suo primo incarico, raccolta la propria lancia e una lanterna
magica collegata ad un bastoncino tramite una catenina
incominciò la propria ronda incamminandosi nei corridoi larghi e poco
illuminati del secondo piano del settore occidentale. A circa metà del
corridoio principale incontrò la guardia del turno precedente; quel poveretto,
già un po’ avanti con gli anni, era talmente stanco da non riuscire a stare in
piedi, e camminava per grazia divina, tra uno sbadiglio e un socchiudere gli
occhi, ma nonostante ciò fu ben lesto ad intimare il
chi va là appena vide avvicinarsi una luce sconosciuta.
«Rilassati, sono io. È l’ora del cambio.»
«Finalmente. Ancora un po’ e sarei crollato lì dove mi trovavo.»
«Non posso biasimarti. Questo posto è una noia mortale. Ma è
sempre così monotono da queste parti?»
«Che ci vuoi fare, qui siamo ai confini del regno. In questo
castello ci vengono confinati disertori, traditori e
tutti i membri più influenti dell’alta cerchia contro i quali vi sia ogni sorta
di procedimento in corso, e visto che ultimamente di problemi ce ne sono stati
pochini la clientela si è fatta estremamente esigua.»
«Se è così, per quale motivo insistono a mantenere un tale
dispiegamento di forze? Sicuramente saremmo più utili altrove che non qui, dove
il massimo che può capitare è qualche scaramuccia con quei demoni alati.»
«Ah, non lo chiedere a me. Sono i capoccia che decidono, noi
dobbiamo solo fare il saluto e obbedire senza fiatare.»
«Ma non ti annoia stare rinchiuso in questo castello a non
far niente? Voglio dire, il nostro regno cresce di giorno in giorno, guerre e
rivolte sono all’ordine del giorno. Potremmo contribuire anche noi ad
accrescere la sua grandezza, e invece stiamo qui a fare la muffa.»
«Se
proprio vuoi saperlo, non sono per niente insoddisfatto della mia attuale
sistemazione.»
«Che cosa!?» rispose il giovane con evidente stupore
«Dimmi,
per quale motivo sei entrato nell’esercito?»
«Ma è
naturale, perché voglio portare onore, prestigio e
vittoria alla nostra grande nazione, come mio padre e mio nonno hanno fatto
prima di me.»
«È esattamente la stessa cosa che volevo io quando mi sono
messo questa uniforme, ma poi ho visto la guerra con i miei occhi, e posso
assicurarti che non c’è nulla di grande o di magnifico nel vedere due eserciti
che si massacrano tra di loro.»
«Ma tu sei un elfo. Sei un soldato di questo regno. Come
puoi dire una cosa del genere?»
«Dammi retta ragazzo, la guerra è un affare sporco. E per
quelli come noi, il popolino, il massimo che può capitare è di tornare a casa
avvolto in un sudario puzzando di formaggio andato a male.
Questo
posto non sarà un paradiso, ma se può garantirmi anche un solo giorno lontano
da quel mare di sterco per me và più che bene».
Il
giovane era visibilmente e comprensibilmente scosso, ma ciò nonostante il suo
compagno non parve intenzionato a ritornare su ciò che aveva detto, ma anzi
decise di rincarare la dose.
«Io ero ad Uruk, ragazzo. Ho visto con i miei occhi i migliori
soldati di questo regno fuggire terrorizzati davanti a dei contadini armati con
lance piegate e spade arrugginite, ed è stato allora che il castello di finte
certezze su cui avevo basato la mia vita di soldato è crollato. Ho capito che
nessun esercito è invincibile, e che comunque la si
voglia vedere in guerra non ci sono certezze.
Sei libero di reputarmi un codardo e un traditore, ma le
ambizioni e la brama di potere di una regina esaltata non valgono la mia vita.
Ora
scusami, ma ho bisogno di mangiare qualcosa, poi credo proprio che me ne andrò
a letto. Buon lavoro».
Senza
dire altro il soldato se ne andò per la sua strada, lasciando il giovane con il
turbamento a solcargli l’animo: come era possibile che
anche nel grande e magnifico Regno di Normar, la gemma radiosa che illuminava
le terre degli elfi, e che ben presto avrebbe illuminato l’intero continente,
esistessero anche quel tipo di persone?
Deluso,
affranto e arrabbiato il giovane iniziò il proprio turno di guardia più
celermente e diligentemente che mai, e anche se svolgere un compito tanto
banale in modo così preciso e puntiglioso poteva
sembrare banale, per non dire inutile, era determinato a fare sempre e comunque
la sua parte.
D’un
tratto, mentre era immerso nel silenzio dei propri pensieri, uno strano rumore,
come un forte schiocco, proveniente all’apparenza da
dietro una porta chiusa subito a destra, attirò la sua attenzione; messosi sul
chi vive, il giovane domandò dapprima se ci fosse qualcuno, poi, non ottenendo
risposta, appoggiò lentamente una mano sul pomello, e come spalancò
violentemente l’uscio lo investì un fiotto d’aria fredda.
La stanza
in cui era capitato era un salottino ricreativo con alcune librerie, un paio di
poltrone, un tavolino ligneo e qualche quadro alle pareti; l’unica finestra,
posta proprio di fronte all’ingresso, era aperta, e
forse era stato il suo spalancarsi improvviso a causare il rumore che la
guardia aveva sentito.
L’oscurità
lì dentro, fatta eccezione per la luce proveniente da fuori e quella emessa
dalla lanterna, era totale, ma fu con animo piuttosto rassicurato e privo di
timore che il giovane si affacciò dalla finestra, constatando
che effettivamente, proprio come si aspettava, non c’era niente di cui doversi
allarmare: quel lato del castello dava infatti su uno strapiombo di oltre
ottocento metri, e a meno di non avere le ali era impossibile per chiunque
riuscire a salire da quella direzione, per non parlare del fatto che non vi era
traccia né di scale né di corde né di qualsiasi altra cosa che potesse far
pensare all’ingresso di un malintenzionato.
A quelle
altezze si potevano avere improvvise e violente correnti di vento, soprattutto
di notte, e sicuramente era stato questo a far spalancare la finestra.
Stava
quasi per ritornare sui suoi passi quando all’improvviso, dall’oscurità più
fitta della stanza, una mano invisibile gli serrò la bocca, impedendogli di parlare,
per poi tirarlo violentemente verso di sé; il soldato tentò di ribellarsi, ma
quasi subito due occhi rosso rubino che scintillavano
nel buio, illuminato il volto di un giovane umano assolutamente bellissimo, si
piantarono sui suoi; per quanto ci provasse, era impossibile distogliere lo
sguardo, e ben presto la coscienza cominciò a venire meno, riducendolo
all’apatia.
«Ora
parlerai solo quando ti verrà comandato.» disse Erik
con tono di comando «E risponderai senza mentire a tutte le mie domande. Mi hai
capito?»
«S… sì…»
rispose il giovane, ormai completamente perso
«Che cosa
si nasconde in questo castello?»
«Qui… qui
vengono rinchiusi tutti quelli che si sono macchiati
di tradimento. Tutti i nemici di Normar e del Casato del Giglio trovano la morte
tra queste mura.»
«Sono
sicuro che c’è dell’altro. Qualcosa che ha a che fare
con il casato degli Ulwarth.»
«Non… non
ho mai sentito niente del genere.»
«Non mentirmi. Non ne sei capace. Che cos’altro nasconde
Normar in questo castello?»
«Però… nessuno può accedere all’ultimo piano dei
sotterranei. Nessuno che non sia stato autorizzato dal generale. C’è una botola
laggiù, che conduce alle caverne all’interno della montagna.»
«Alle
caverne, hai detto?»
«Ma
quella botola è chiusa, e solo la regina Lainay possiede la chiave per aprirla.»
«Questo non sarà un problema. Ora è tempo per te di riposare».
Erik
stese il soldato con un colpo alla nuca, lasciandolo a terra
svenuto, quindi, lasciata la stanza, si diresse velocemente verso i
sotterranei, riuscendo ad arrivarci senza incontrare nessun altro.
Come
predetto dalla guardia, nell’unico, grande salone che costituiva l’ultimo dei
quattro piani interrati del castello vi era unicamente
una botola blindata rettangolare chiusa con svariati lucchetti, ma questo non
risultò certamente un ostacolo per il ragazzo, che li fece scattare tutti
infilando al loro interno un po’ della sua energia. Appena la botola, che
doveva pesare almeno una quarantina di chili, venne
sollevata, una larga scalinata, ricavata molto probabilmente nella fredda roccia,
che scendeva verso il basso, e lui, armatosi di torcia, senza esitazioni iniziò
a percorrerla, mentre una strana energia a lui famigliare sembrava richiamarlo
a sé. La discesa risultò lunga e difficile, ostacolata
di quando in quando dalla profonda erosione di alcuni scalini e dall’umidità
che li rendeva scivolosi, e dopo più di due minuti di camminata Erik raggiunse
quella che, a giudicare dall’eco prodotto dalle gocce d’acqua che colavano dal
soffitto, doveva essere una enorme caverna.
Sotto i
suoi piedi c’era dell’altra roccia, levigata artificialmente per formare una
sorta di terrapieno, e dopo qualche secondo di esplorazione il ragazzo vide
poco distante da sé uno strano vaso che sporgeva dalla parete contenente una sostanza
nerastra, e vi intinse il dito per poterla annusare.
“Petrolio”.
Come se
una lampadina gli si fosse accesa nella mente lo
accese con la torcia, e nel giro di pochi secondi, grazie a quello che doveva
essere un rudimentale ma estremamente efficace sistema di collegamento che
correva sia sui muri che sul terreno, disegnando una sorta di intricato sistema
rettilineo, un fiume di fuoco inondò l’intera caverna, illuminandola a giorno,
e vedendo quel grandioso spettacolo materializzarsi magicamente dalle tenebre
nemmeno Erik riuscì a trattenere un’esclamazione di stupore.
La luce
irreale che si era venuta a creare illuminava un’immensa distesa di rovine, e
la caverna nella quale sorgevano era così grande che al suo interno avrebbe
potuto ospitare un intero stadio. Doveva trattarsi di un tempio, di cui non
rimanevano che il basamento a pianta rettangolare, alcune colonne vagamente
doriche e delle parti di muro, e tutto intorno all’altura su cui era arroccato
stavano i resti di quello che sembrava un piccolo agglomerato urbano realizzato
nelle profondità della terra.
“Incredibile.”
pensò Erik incamminandosi per le stradine che attraversavano le case ormai
crollate “Queste rovine sembrano molto antiche. Che abbiano
qualcosa a che fare con la leggenda di cui parlava quel vecchio elfo?”.
Raggiunto
quanto restava del tempio, Erik lo percorse in tutta
la sua lunghezza, poi quella sensazione che lo aveva chiamato per tutto il
tempo del tragitto fece volgere la sua attenzione verso un muro alla sua
sinistra, il solo conservatosi intatto; all’apparenza era solo un normalissimo
insieme di mattoni, ma appena il ragazzo fu abbastanza vicino, come per magia,
sulla sua superficie si materializzarono un’infinità di simboli luminosi che
brillavano di una tenue luce blu. E poi sotto, come una sorta
di firma, il circolo del sole e della luna.
«Ma cosa…» disse attonito Erik, trovando insolitamente
famigliare quella scrittura «Questo sembra… è norreno!».
Sì, non
c’erano dubbi: quello era proprio norreno, la lingua parlata dalle antiche
popolazioni dell’Europa del Nord successivamente
evolutasi in lingue come lo svedese, il finlandese e il danese.
Ora che
Erik ci pensava, il dialetto che aveva sentito usare dagli elfi che aveva
incontrato fino a quel momento nel corso del suo viaggio gli era sembrato fin
da subito un miscuglio di varie lingue germaniche, indubbiamente orecchiabile e
aggraziato per loro, ma per un umano talmente sgrammaticato e rauco da risultare quasi inascoltabile, figuriamoci poi impararlo.
Con il
Maestro Rasnak e altri elfi coi quali aveva avuto
occasione di parlare si era espresso in Sicano, la
cosiddetta Lingua Franca, molto antica e somigliante al latino, mentre gli
umani di Fiya e di altri regni che si affacciavano sul mare meridionale
facevano uso di una sorta di lingua d’oil arricchita con idiomi e regole
grammaticali vagamente italianeggianti, derivante con ogni probabilità proprio
dal Sicano. Gli Inu erano
un caso a sé, e parlavano in qualcosa che somigliava quasi in tutto e per tutto
al dialetto del Kanto e che, a detta di Sanae, era la
loro lingua madre.
Tuttavia,
la consapevolezza che quello davanti a lui era effettivamente antico norreno,
simile in tutto e per tutto a quello di cui un tempo si faceva uso sulla Terra,
fece sorgere in Erik un incredibile quando enigmatico
quesito: com’era possibile che due realtà e due popolazioni appartenenti non
solo a diversi mondi, ma addirittura a diverse dimensioni parallele,
condividessero così tanti ceppi linguistici?
La
traduzione risultò parecchio difficile, a causa
dell’impietosa erosione del tempo che aveva cancellato parte del messaggio, ma
nonostante i buchi quella che veniva raccontata su quella parete era una storia
che Normar aveva tutti gli interessi a voler tenere nascosta.
Che tutti conoscano le
sofferenze e le dolorose peripezie a cui è andato
incontro il nostro popolo.
Siamo venuti da lontano, dalle terre al
di là delle montagne, le terre d’oriente.
La nostra era una
civiltà prospera, coltivavamo la terra e allevavamo il bestiame, mangiavamo (…)
e ci (…) con acqua pura, e la terra in cui vivevamo
era benedetta dal sole.
Gli dèi erano scesi
dal cielo, ci avevano (…), e grazie a loro vivevamo nella felicità e
nell’abbondanza.
Poi (…) le guerre, e
(…). I campi appassivano, le messi morivano, i pozzi si seccavano, e i frutti
marcivano.
Non rimase che una
scelta.
Abbandonare la nostra
terra natale e dirigerci a occidente, alla ricerca di
una nuova patria, (…).
Percorremmo sentieri
antichi, tracciati dai nostri antenati, in un cammino difficile e pieno di insidie.
(…)
Molti di noi sono
morti durante il viaggio, ma alla fine, nonostante il freddo e le intemperie,
ci siamo riusciti: abbiamo valicato le montagne.
Ma gli uomini uccello incombono
ancora su di noi, e noi non abbiamo le forze per proseguire. Non subito almeno.
Così, abbiamo costruito questa città, una piccola patria in cui sentirci al
sicuro, e qui, malgrado tutto, siamo riusciti a
piantare dei gigli, simbolo del nostro popolo.
Gli uomini uccello
hanno paura delle grotte, (…). Abbiamo scavato tunnel e gallerie, e usciamo
solo di notte per procacciarci il cibo.
Con il tempo, forse,
saremo in grado di lasciarci alle spalle anche questo posto: troppe fatiche
sono state sopportate, e troppo sangue è stato versato, per permetterci di
trovare una nuova patria. Non può essere stato tutto vano.
(…)
Abbiamo mandato degli
esploratori, ma uno solo è tornato, morente, ferito dai fulmini degli uomini
uccello, e ci ha detto una cosa incredibile: altri elfi. Forse ci sono altri
elfi in questo continente.
È la speranza. La
speranza che tutto ciò non sia stato vano.
Andando oltre il testo si faceva illeggibile, ma per Erik
quanto aveva letto fino a quel momento era più che sufficiente. Forse non lo aiutava molto a capire la correlazione tra Clow, gli elfi e la storia di quel particolare circolo, una
correlazione che sicuramente c’era, ma se non altro gli permetteva di
comprendere come mai Normar
avesse una tale paura di quel posto da volerlo tenere celato agli occhi del
mondo: cosa sarebbe potuto accadere se si fosse scoperto che Normar, il regno
invincibile, che si proponeva di unire un giorno l’intero continente sotto il
suo stendardo, e il cui solo nome bastava a far tremare interi popoli,
discendesse in realtà da una popolazione di elfi contadini giunti da chissà
dove e costretti per secoli a sfuggire agli uomini uccello nascondendosi
sottoterra come le talpe?
Il giglio
era il simbolo dell’attuale famiglia reale, e nel testo veniva
fatto riferimento proprio a questo fiore, quindi non vi era dubbio sul fatto che
i suoi antenati fossero proprio gli elfi costruttori di quella città
sotterranea, e per un regno che faceva l’egemonia e della paura il proprio
strumento di intimidazione una simile rivelazione sarebbe potuta risultare uno
smacco non da poco.
«Nessuna traccia di ciò che cerco. In definitiva, è stata
un’enorme perdita di tempo».
All’improvviso,
Erik si accorse di non essere solo, e saltato velocissimo lateralmente
si spostò appena in tempo per evitare una figura misteriosa che, piombando
dall’alto, colpì violentemente il terreno con una non meglio identificata arma,
tanto potente da produrre un enorme buco nel terreno e un piccolo terremoto.
Rialzatosi,
ebbe la possibilità di vedere in volto il suo aggressore; era un ragazzo, forse
della sua stessa età, con un volto tanto bello e magnifico da poter essere
considerato quello di un dio, contornato da lunghi capelli bianchi ed esaltato
da due splendidi occhi rossi. Vestiva in modo
nobiliare, e se in una mano teneva uno scudo rotondo
tutto seghettato alle estremità nell’altra invece stringeva un’arma che
sembrava un incrocio tra una spada, per il modo d’impugnarla, con un manico
ricavato direttamente al centro di un corpo unico, e la punta di una lancia,
con un cilindro rotondo terminante in un cono appuntito e attraversato in tutta
la sua lunghezza da una sorta di spirale in altorilievo.
Entrambe
le armi erano di un materiale strano, di colore azzurro scuro, e brillavano di
una luce luminescente carica d’energia.
«Chi
sei?»
«Il mio
nome è Hyldren, e sono un sacerdote di Inti, il dio del sole.»
«Perché
hai tentato di colpirmi?»
«Tu stai indagando su qualcosa di pericoloso, su segreti che
devono rimanere tali. Fermati ora, e ti risparmierò la vita.»
«Mi
dispiace, ma la mia ricerca è troppo importante per poter
essere interrotta.»
«Allora, non mi rimane altra scelta che combatterti.
Preparati».
Hyldren
sollevò la sua lancia da terra, dimostrando grande scioltezza nel maneggiarla:
o lui era dotato di una forza davvero inumana o, come era
più prevedibile, quell’arma doveva essere fatta di un materiale molto leggero
ma duro all’apparenza come la pietra, o ancora, ed era l’ipotesi più
accreditata, il potere magico insito sia nella lancia che nel suo padrone
permetteva a quest’ultimo di maneggiarla agilmente quando un uomo comune non
sarebbe stato capace neanche di sollevarla.
Il
sacerdote scattò subito in avanti, Erik evitò nuovamente e colpì dopo aver
evocato la sua spada, ma Hyldren fu abbastanza rapido
da alzare il proprio scudo per difendersi. L’urto tra le due armi fu davvero
tremendo, e produsse sia una forte luce sia un’onda d’urto, ma poi,
incredibilmente, la spada di Erik, che in linea teorica non aveva eguali in
quanto a durezza, non riuscì a scalfire lo scudo, e il ragazzo venne scaraventato all’indietro.
Ruotando
su sé stesso riuscì ad atterrare coi propri piedi
sopra di una colonna, ma ad Hyldren fu sufficiente agitare la lancia per
generare uno spostamento d’aria abbastanza forte da mandarla in pezzi, e allora
Erik fu costretto a spostarsi nuovamente.
Già i
primi minuti di scontro gli furono sufficienti per capire che non sarebbe stato
un avversario facile, poi, mentre si domandava di cosa potessero essere fatte
quelle armi all’apparenza tanto potenti, vide la lancia emettere un tenue
bagliore azzurro brillante, e quello che era cominciato come un semplice
sospetto dettato dalla resistenza e dalla potenzialità magica del manufatto divenne una certezza.
«È
Krylium».
Fra tutti
gli elementi presenti in natura, il krylium era senza dubbio il più incredibile;
duro come il diamante, ma leggero come la pietra
pomice, era il più efficace e potente conduttore di potere magico conosciuto
all’uomo, ed era perciò usato in praticamente tutte le civiltà, piccole o
grandi che fossero, che avevano fatto della magia il proprio mezzo di
sostentamento.
Sia la Confederazione di
Shinari che l’esercito imperiale lo utilizzavano come carburante per le navi
spaziali, ma anche per l’alimentazione elettrica e il potenziamento di molte
armi quali missili e cannoni ad impulsi, inoltre era
un elemento indispensabile per la creazione degli Shiner.
Tuttavia,
il suo difetto era che per un essere umano era geneticamente impossibile
utilizzare direttamente l’energia del krylium creando un canale tra sé stessi e la pietra, ma questo non sembrava essere il caso
di Hyldren, che al contrario vi attingeva a piene mani, per non parlare del
fatto che Erik non ricordava che fossero mai state create armi bianche fate
interamente di krylium.
Probabilmente
gli umani di quella dimensione erano speciali, e non possedevano la limitazione
propria invece di quelli appartenenti alla dimensione di Erik e Regis, ma quale
che fosse la verità le cose rischiavano di
complicarsi, e anche parecchio.
Alla
fine, nel tentativo di prendersi il tempo necessario per pensare ad una possibile soluzione, fu costretto a fare una cosa che
non gli era mai piaciuta: abbandonare il confronto diretto e nascondersi.
«Non
illuderti di sfuggirmi.» disse Hyldren camminando lentamente in mezzo alle
rovine.
Acquattato
dietro ad un muro, Erik cercava per quanto possibile di tenere d’occhio
l’avversario e nel frattempo di inventarsi qualcosa che potesse aiutarlo, ma
improvvisamente il suo nascondiglio venne attraversato
da un enorme fascio di luce e per poco non gli crollò addosso, costringendolo
nuovamente al confronto diretto.
Il
ragazzo tentò dapprima di difendersi con i mezzi convenzionali, facendo cioè
affidamento solo sulle sue forze, ma ben presto si rese conto che l’unico modo
per riportare la parità in quello scontro era fare ricorso al suo asso nella
manica.
Disimpegnatosi
da un corpo a corpo, si allontanò quel tanto che
bastava, erigendo immediatamente attorno a sé una barriera in grado di
proteggerlo per i pochi secondi necessari a risvegliare il ΜένοςAδηλος. Hyldren tentò di
forzarla, ma venne ricacciato indietro, e quando Erik
ricomparve aveva già le fiamme rosse sul viso e le sue grandi ali nere
dispiegate in tutta la loro maestosità.
«Allora è
questo il leggendario Bany Chakwa.» disse il sacerdote cercando di non
mostrarsi troppo sorpreso e mettendosi in posizione «Sarà una sfida
interessante.»
«Su questo non c’è dubbio. Fatti sotto».
La sfida
riprese, ma quasi subito Hyldren si rese conto che il suo avversario era molto,
molto diverso da un attimo prima; potenza, velocità e magia erano notevolmente
aumentate, e sembrava avere il completo controllo del suo potere.
Il
sacerdote riuscì a contrattaccare per un po’, ma poi comprese che anche lui, se
voleva avere un qualche speranza di uscire vincitore,
doveva giocarsi il tutto per tutto. Erik dal canto suo non gli dava tregua, e
continuava a colpire incessantemente, impegnandolo in un continuo scontro.
Vincendo
le leggi della gravità i due avversari si inseguirono
anche sulle pareti e sulla volta della caverna, ma intanto i loro attacchi
avevano cominciato a minare seriamente la solidità della struttura, e un
cedimento anche minimo poteva significare per entrambi conseguenze
catastrofiche, per non parlare della sorte che sarebbe toccata al castello
sopra le loro teste e ai suoi occupanti.
Bisognava
concludere velocemente e in modo definitivo, questo
era il pensiero di entrambi, e ognuno dei due non aspettava altro che
l’occasione buona per lanciare il proprio attacco migliore.
Ad un certo punto, quando la battaglia si era spostata
nuovamente tra le rovine del tempio, Hyldren, incassando un colpo, ma riuscendo
comunque a limitarne i danni grazie allo scudo, venne lanciato in aria, e prima
ancora di roteare su sé stesso tornando a terra il suo corpo cominciò a circondarsi
della stessa aura azzurra che fin dall’inizio aveva attraversato le sue armi.
Erik se
ne avvide, e non osò attaccare, temendo le conseguenze di un colpo diretto e
preferendo mantenersi sulla difensiva.
Hyldren
divaricò bene le gambe, puntellandosi con esse, la spirale sulla sua lancia,
come animata di vita propria, prese a girare velocissima, e la luce azzurra
andò concentrandosi sempre più sulla punta man mano che lui arretrava il
braccio.
HOLY LANCE!
Come il sacerdote colpì in avanti un vortice luminoso di inaudita potenza, così devastante da sventrare il terreno
al suo passaggio e far crollare le colonne tutto intorno si diresse verso Erik,
che non fece nessun tentativo di evitarlo; al contrario, avvolta la spada in
una strana luce rosso rubino, menò a sua volta un affondo, generando una sorta
di punta di freccia luminosa che andò a scontrarsi contro l’attacco di Hyldren.
SHIELD OF BABYLON!
L’urto tra i due poteri fu spaventoso, e quel poco delle
rovine tutto intorno ad essere rimasto in piedi crollò
fragorosamente.
Hyldren stavolta
fu sinceramente e indicibilmente scosso dalla potenza esercitata da Erik, e per
la prima volta da che ne aveva memoria qualcuno risultava
capace di tenere testa al suo attacco più micidiale.
Dal momento che l’incantesimo di Erik aveva una funzione
puramente difensiva alla fine il confronto si risolse con la totale dispersione
dell’Holy Lance di Hyldren: quest’ultimo, in realtà,
aveva ancora a disposizione la forza sufficiente per far durare il suo attacco
ancora per un po’, ma era dotato di abbastanza buon senso da sapere che sarebbe
stato solo uno spreco di energie.
“Non credo ai miei occhi. Il potere del Bany Chakwa è davvero
senza confini.” pensò«Basta
così.» disse poi abbassando la lancia
«Ti
arrendi di già?»
«Saper riconoscere la sconfitta è dovere morale di un Sacerdote di
Inti.» disse senza risentimento o cattiveria “Con il mio equipaggiamento e al
mio attuale livello non posso competere con lui. La sola
cosa da fare per il momento è ritirarsi”.
A quel
punto Hyldren venne nuovamente circondato dalla luce.
«Continueremo
questo scontro in un’altra occasione.»
«Aspetterò quel momento con impazienza. Sembri davvero un
avversario degno di nota.»
«Sta attento. I segreti che stai cercando di svelare sono
più pericolosi di quanto tu possa immaginare. Ne finirai
schiacciato, come tutti coloro che prima di te si sono
voluti inoltrare in questo territorio proibito.»
«È un
rischio che devo correre.»
«L’orgoglio,
sarà la tua rovina.» disse il sacerdote mentre scompariva magicamente nel
nulla, molto probabilmente teletrasportandosi altrove «Ci rivedremo presto».
Erik
stette un attimo a pensare alle ultime parole del suo avversario, ma non c’era
tempo per le riflessioni personali: era ora di rimettersi in cammino.
Nota dell’Autore
Rieccomi!
Finalmente riesco ad
aggiornare!
Mi scuso enormemente
per l’abnorme ritardo, ma finalmente ha preso il via il tanto sospirato nuovo
periodo, e per i primi giorni non ho fatto altro che godermi la ritrovata
libertà.
Comunque, prometto
che da ora in poi aggiornerò più di frequente, usando
meglio il mio ritrovato tempo libero
Grazie come sempre ad
Akitae Selly, mie uniche recensitrici (e temo anche lettrici)
Dopo essere venuta al mondo dalle ceneri della vecchia
Lsyn Nemys aveva intrapreso fin da subito un viaggio
senza meta in tutte le terre degli elfi, e in ogni città, villaggio e sobborgo
nel quale si fermava parlava con l’anima in mano a chiunque volesse ascoltarla.
Al suo fianco, nelle prime settimane di viaggio, tre giovani elfi,
il corpulento Zipherias, la bella ma letale guerriera
Mira e il mite Aiolos.
Le sue
parole, così sincere e pure toccavano il cuore della popolazione, soprattutto
di quella oppressa dal giogo della tirannia normariana,
e ben presto attorno a lei si formò una folta schiera di adepti che la
seguivano nelle sue predicazioni, facendosi a loro volta portavoce del suo
messaggio di speranza e pronti a dare la vita senza
esitazioni per proteggerla da chiunque avesse voluto farle del male.
Per
proteggere la sua incolumità, Zipherias, Mira e
Aiolos avevano istituito il corpo dei Celestiali, una fiera e fedele unità di
guerrieri scelti, di cui i tre erano in seguito divenuti i capi, disposti a
difendere la Matriarca,
come la chiamavano i suoi fedeli, fino all’estremo sacrificio.
Purtroppo,
ben presto, le orazioni di Nemys in merito a pace, fede e speranza avevano
attirato l’attenzione di Lainay, che vedendo in lei la fonte di una possibile e
pericolosa rivolta popolare aveva mandato tutte le sue spie a darle una caccia
senza quartiere, e Nemys, spronata anche dai suoi fedelissimi, si era vista
costretta a rifugiarsi ad Uruk, il solo posto in cui
avrebbe potuto continuare a diffondere la sua parola senza dover rischiare la
vita.
La fuga
era stata lunga e difficile, ed era costata anche
alcuni morti, ma finalmente, dopo due mesi di marcia ininterrotta, la capitare
del nuovo regno libero di Uruk già si profilava all’orizzonte, e già si intravvedevano
in lontananza le sue alte mura, miraggio di una ritrovata libertà per tutti
coloro che nonostante le difficoltà e la sofferenza avevano voluto restare al
fianco della Matriarca, rincuorati nei momenti difficili dal suo candore e
dalla sua infinita bontà.
Tuttavia,
negli ultimi tempi, Nemys si era fatta molto pensierosa, e trascorreva quasi
tutto il poco tempo di riposo tra una marcia e l’altra in disparte, osservando
preoccupata il cielo.
La
mattina dell’ultimo giorno di viaggio, quello che teoricamente si sarebbe
dovuto concludere con il tanto agognato arrivo in
città, Aiolos si svegliò un po’ più tardi del solito, quando ormai quasi tutti
gli altri occupanti del campo erano già svegli.
Di
bell’aspetto, né alto né basso, aveva i capelli neri pettinati a spazzola, un
viso gentile e grandi occhi scuri. Tanto gli abiti che indossava, di quel
tessuto particolare e con una fascia annodata attorno alla fronte, quanto la
forma particolare delle orecchie, insolitamente lunghe anche per gli elfi e
ricadenti sulle spalle, rendevano chiara la sua origine: era un Weilarn, un
abitante delle Fennyrgs, un arcipelago di isole dell’estremo ovest solo recentemente entrate a far
parte del regno di Normar, e caratterizzate da una popolazione di elfi più
unica che rara, i Weilarn appunto, le cui peculiarità, sia etniche, sia
culturali sia somatiche non erano riscontrabili in nessun’altra popolazione
elfica.
La sua
vita era stata segnata dal dolore.
Cresciuto
come un semplice pescatore figlio di pescatori, aveva
appreso dal padre non solo i segreti della navigazione, ma anche l’arte del Muharaji, l’antica arte marziale dei Weilarn, fondata
sull’uso di devastanti colpi a mano aperta nei punti sensibili del corpo e
sull’utilizzo di armi come il bastone e l’arpione, entrambi strumenti tipici
dei marinai.
Quando
Normar aveva invaso le sue isole si era unito alla
resistenza, e anche se lui e i suoi compagni riuscirono ad ostacolare
degnamente l’avanzata di Normar, che all’epoca aveva pochissime conoscenze di
battaglie navali e campagne militari in territori insulari, alla fine
l’inferiorità numerica li aveva sopraffatti, e lui, dopo aver visto morire
tutta la sua famiglia, era stato costretto a fuggire.
Giunto
sul continente, l’odio e la sete di vendetta nei confronti della regina lo
avevano spinto a concedere i propri servigi a chiunque fosse disposto a
sfidarla, appoggiando un numero imprecisato di rivolte e sommosse e
procurandosi una fama decisamente negativa tra le
squadre d’assalto normariane, incaricate di sedare
questo tipo di problemi.
Alla fine
però, dopo quasi mezzo secolo speso a spostarsi da un focolaio all’altro, la
buona stella che gli aveva sempre permesso di uscire vivo anche dalle
situazioni più pericolose decise di colpo di abbandonarlo: un tentativo di imboscata ai danni di un piccolo distaccamento si rivelò
essere invece una trappola preparata ad arte, lasciando lui e il gruppetto di
ribelli di cui faceva parte in balia di un vero esercito. Tutti i suoi compagni
vennero uccisi sul posto, quanto a lui, uscito
miracolosamente vivo, spese i successivi sei giorni a scappare e a nascondersi
dall’imponente caccia all’uomo organizzata per stanarlo.
Solo al
settimo giorno, quando ormai ferite e stanchezza stavano per segnare la sua condanna, la buona sorte volle tornare a posare il
proprio sguardo su di lui, mettendo sulla strada della sua fuga ormai disperata
la stessa Nemys, a quell’epoca già accompagnata da Zipherias
e Mira, a cui aveva conferito una vita reale grazie al suo miracoloso potere.
I due
guerrieri fecero presto strage dei cacciatori, quanto a Nemys curò senza
difficoltà sia il corpo che l’anima di Aiolos, dando
al giovane elfo un nuovo motivo per cui voler vivere; fin dal primo momento in
cui aveva incrociato gli occhi della Matriarca ne era rimasto stregato, e aveva
giurato a sé stesso che avrebbe combattuto con tutte le sue forze affinché
quegli occhi potessero continuare ad illuminare il mondo con la loro luce.
In poco
tempo, prima ancora che le parole di Nemys cominciassero ad attirare nuovi proseliti,
si formò un legame molto saldo tra Aiolos e i suoi due compagni; il giovane
andava particolarmente d’accordo con Zipherias, di
cui stimava la forza e la tenacia, considerandolo allo stesso tempo un fratello
e un maestro, e per un breve periodo pensò di sentirsi attratto da Mira, ma
poi, vedendo il modo in cui lei e Zipherias si
guardavano, si era reso conto che volersi intromettere sarebbe stata una vera
pugnalata nella schiena nei confronti del suo amico, senza contare che con il
passare del tempo aveva capito che quella verso la giovane e impavida guerriera
dai lunghi capelli biondi era semplice ammirazione non diversa da quella che
provava verso il suo Ziphe-sempai.
Avvicinatosi
al grande falò al centro del campo attorno al quale erano riuniti molti dei
suoi compagni si sedette con loro per consumare una
colazione frugale, a base di latte di capra e pane che le donne cuocevano sulla
pietra tutte le mattine usando il grano che si riusciva a compare o, nei casi
estremi, quando i mercanti o i contadini si rifiutavano di vendere per paura di
ritorsioni, a rubare.
La Matriarca in realtà non
approvava il furto, e rimproverava sempre chi si macchiava di tale reato, e
cercare di mentirle era perfettamente inutile, perché per un Rinnegato come lei
era facile vedere nel cuore di chi le stava intorno.
Aiolos
stava per finire di mangiare quando il suo amico e compagno Zipherias
comparve dalla foresta in tutta la sua imponenza, con l’arco a tracolla e un
grosso cervo sulle spalle.
«L’addormentato
felice si è svegliato, finalmente.» disse sfregandogli la testa con una delle
sue mani ciclopiche «Ti stai impigrendo.»
«Ziphe… Ziphe-sempai!» disse lui
cercando di divincolarsi.
Quella
specie di gigante voleva sempre scherzare, ma alle volte dimenticava di avere
una stazza e una forza doppie rispetto a quelle di un elfo comune.
«Da
quant’è che sei sveglio, razza di pigrone?»
«Solo da
pochi minuti.» rispose Mira uscendo dal carro delle salmerie dove aveva appena
riposto il frutto della sua caccia mattutina «Avresti dovuto vederlo, dormiva
come un bambino.»
«Mira,
anche tu!?».
Quei tre
formavano davvero un gruppo affiatatissimo, ed erano
sempre pronti ad aiutarsi a vicenda, quale che fosse il motivo. Zipherias e Mira erano dei Rinnegati fino a poco tempo
prima, Aiolos invece era sempre stato un elfo, ma questo non aveva alcuna
importanza: come diceva Nemys, bisognava saper guardare oltre l’aspetto
esteriore per capire che, in fin dei conti, le differenze esistevano solo se si
voleva che esistessero, altrimenti tutti, indipendentemente dalla razza, erano
uniti da un unico, grande aspetto, ovvero l’essere
tutti vivi.
In
quella, un Celestiale si avvicinò al gruppo.
«Nobile Aiolos. La Matriarca ha chiesto di vedervi.»
«Ci vado
subito».
Seguendo
la guardia, Aiolos raggiunse un la sommità di un
costone roccioso poco distante dall’accampamento da cui si aveva una vista
senza pari dell’intera vallata; laggiù, nel centro, ben visibile ad occhio
nudo, c’era la capitale, meta a lungo desiderata e ora ad un passo.
Quasi sul
bordo, rivolta verso l’orizzonte, Nemys contemplava l’incredibile spettacolo
che si stagliava davanti a lei, immersa nei suoi pensieri; poco lontano, due
Celestiali vegliavano su di lei mantenendosi a rispettosa distanza. Questi,
vedendo avvicinarsi il loro comandante, gli fecero il
saluto, allontanandosi poi di qualche altro passo per non sentire la
conversazione.
«Mi avete
fatto chiamare, Matriarca?» domandò inginocchiandosi.
Lei si
voltò, guardandolo, e come accadeva sempre ogni qualvolta che la vedeva in volto il giovane elfo sentì di colpo il cuore
cominciare a battere furiosamente: era bella da togliere il fiato, neanche da
paragonare a tutti gli elfi che aveva visto fino in tutta la sua vita.
Tuttavia,
malgrado cercasse di sorridere come sempre, Aiolos si accorse subito di una
nube nera che offuscava il naturale candore della sua matriarca, e la cosa fin
da subito lo inquietò.
«Grazie per essere venuto, Aiolos. Devo parlarti di una cosa
importante.»
«Ditemi
pure.»
«Per me è
fonte di grande dolore chiederti un così oneroso sacrificio, ma ho bisogno che
tu faccia una cosa per me.»
«Comandate, ed io eseguirò. Di che si tratta?».
Nemys
tornò a guardare il cielo.
«Poche settimane fa, un gruppo di esseri umani è partito dal
Regno di Fiya e si è diretto a sud, nel continente di Kamur.
Il loro
intento è quello di radunare le sette pietre
leggendarie e ricollocarle sulla Spada di Gigabrian.»
«Le
pietre leggendarie!? Vi riferite a quelle legate al
mito dei giganti di metallo?»
«Esattamente. Quelle pietre sono state causa di morte e
dolore non solo per noi, ma per tutti gli esseri viventi. È per causa loro che
cinquecento anni fa il nostro mondo ha rischiato di scomparire, ed è per causa
loro che i giganti di metallo sono tornati.»
«Matriarca,
dite sul serio?»
«Molte
fazioni sono alla ricerca delle sette pietre in questo preciso momento, e
quella formata dal gruppo di umani partito da Fiya è
una delle più pericolose.»
«Per
quale motivo?»
«Perché a
guidarli è lo straniero venuto da un altro mondo. Regis.»
«Regis!? Intendete l’eroe degli esseri umani? Per quale motivo
pensate che costituisca la minaccia più grande?»
«È scritto nel destino. Così come uno straniero ha posto
fine alla guerra cinquecento anni fa, così uno straniero la farà ricominciare.
La prima volta il nostro mondo è stato risparmiato dalla distruzione, ma temo
che se la storia dovesse ripetersi non potremo sperare in un secondo miracolo.»
«In
questo caso, dobbiamo fermarli subito.»
«Ed è per questo che ti chiedo di raggiungerli a Kamur e
impedire che portino a termine i loro propositi. Tuttavia, ti chiedo anche di
non fare loro del male. Anche se i mezzi per ottenerlo potrebbero portare
sofferenze inenarrabili al nostro popolo, lo scopo che perseguono
è nobile, e non sono consapevoli della minaccia che rischiano di scatenare, o
almeno non del tutto.»
«Come ordinate, Matriarca. Farò tutto ciò che sarà necessario, ma giuro sul mio onore che non vi deluderò».
Lei a
quel punto parve riacquistare il sorriso, e avvicinatasi ad Aiolos si inginocchiò a sua volta per averlo viso a viso,
sorridendogli, e Aiolos sentì nuovamente il cuore andare a mille; negli ultimi
tempi il desiderio di proteggerla e di esserle sempre vicino si era fatto
dirompente, impossibile da controllare, e ben presto il giovane si era reso
conto che il suo cuore ormai apparteneva solo a lei, alla sua matriarca, ma
dentro di sé sapeva che non era il più il semplice legame di fedeltà che univa
un guerriero alla sua signora. Era un sentimento diverso, lo stesso che per un
attimo aveva creduto di provare per Mira, e il solo pensarlo gli provocava un
gran disgusto verso sé stesso: come poteva lui, un
semplice elfo, provare simili sentimenti per un essere tanto superiore, tanto
apparentemente divino?
«Sei una persona buona, dal cuore nobile. Ho la massima
fiducia in te.»
«Contate… contate pure su di me. Esaudirò la vostra
richiesta senza esitazione».
Ritornato
all’accampamento Aiolos incontrò i suoi due amici, a
cui raccontò della missione che aveva ricevuto.
«Quindi
dovrai vedertela con quell’umano, quel Regis?»
«Così pare. La
Matriarca mi ha ordinato di non ucciderli, ma indubbiamente
dovrò combatterlo se vorrò sperare di fermarlo.»
«Fai
attenzione.» disse Mira «Quell’umano ha sconfitto alcuni degli elfi più forti e
pericolosi di questo mondo, tra cui il principe
Chekaril. Non è un avversario da prendere sottogamba.»
«Lo so molto bene. Però, una parte
di me freme all’idea di misurarsi con un guerriero del suo calibro. Immagino
faccia parte della mia natura.»
«Così mi
piaci, ragazzo!» disse Ziphe-sempai dandogli
un’affettuosa quanto devastante pacca sulla schiena «Vai, e mostragli di che cosa sei capace! Noi ti aspetteremo qui!».
Aiolos si
mise in cammino quel giorno stesso, prima ancora che la carovana si mettesse in
marcia per la tappa conclusiva del suo viaggio, allontanandosi nella direzione
opposta.
Avrebbe
voluto salutare un’ultima volta la
Matriarca prima di partire, ma aveva paura che se lo avesse
fatto avrebbe finito per rivelarle quello che provava per lei, e a quel punto
la prospettiva del distacco, magari accompagnata dalla consapevolezza di non
essere ricambiato, avrebbe reso il suo viaggio ancora più difficile. Non si
voltò neppure indietro, mai una volta, perché temeva che questo avrebbe potuto agitare il suo animo più di quanto non lo
fosse già.
Glielo
avrebbe detto, pensò mentre acquistava un cavallo in un villaggio al limitare
del bosco con cui avrebbe raggiunto il fiume Danus;
al suo ritorno le avrebbe detto tutto, e a quel punto, se gli dèi lo avessero
voluto, avrebbe trovato finalmente il proprio posto sicuro, la propria
serenità.
Erano passati cinque giorni da quando Regis e i suoi
compagni avevano lasciato Laryana. Il Regno di Gawarn
ormai era alle spalle, ed erano entrati nel confinante regno di Chu-Yun, situato nella parte orientale del continente e
caratterizzato da vaste pianure, montagne basse, e sterminati campi di riso,
che Regis aveva paragonato, per cultura e tradizione, ad
un regno esistito nel suo mondo centinaia di anni prima, il Regno di Corea.
Kamur era
una terra estremamente variegata, dove coesistevano
civiltà e culture molto diverse tra di loro, e ciò era dettato in larga misura
dalle influenze dirette o indirette che i continenti attigui avevano avuto nel
corso del secoli sui regni locali: se a nord-ovest predominavano l’architettura
e la tradizione di Europia il nord-est invece
guardava verso il continente orientale e i suoi sterminati imperi.
La zona
centro-meridionale, invece, era una terra per gran parte sconosciuta, di cui si
avevano pochissime informazioni, per la maggior parte resoconti di viaggio passati però così tante volte di mano in mano da
venire imbastiti di storie e leggende al punto tale da risultare estremamente
poco credibili.
Elys era
orgogliosa e spavalda come non mai.
Superato
quell’iniziale ed incredibile attimo di completa
maturità era tornata ad essere la
Elys che tutti i suoi compagni ricordavano e, in fin dei
conti, amavano; camminava a testa alta, come un soldato in parata, tenendo bene
in vista il bracciale in cui era incastonata la pietra leggendaria conquistata
nel corso della sua ultima impresa.
«Avanti,
avanti!» continuava a ripetere mentre percorrevano lo stretto sentiero che
procedeva diritto lungo le risaie «Vero la prossima meta!»
«Guardala.»
disse Sakura «Da quando ha ottenuto quella pietra il
suo ego è più che raddoppiato.»
«E dire
che per un attimo avevo sperato avesse messo giudizio.»
«Ti
sento, Regis.» rispose lei, che camminava un passo avanti a loro, come a
volersi mostrare la leader del party «Non sarai per caso invidioso.»
«Chi lo
sa.» rispose lui sorridendo divertito
«Maestro.»
domandò ad un certo punto Dave «Siamo sicuri che
questa sia la strada giusta?»
«Il Mage Master diceva che le
pietre sono unite da un’energia invisibile, e che ognuna di esse è la chiave
per arrivare alle altre. La pietra di Elys ha indicato questa direzione,
quindi, teoricamente, dovremmo trovarla in questo regno.»
«Speriamo
solo che trovarla non risulti difficile come aver
trovato la prima.» disse Sakura «I sacerdoti di Inti sono già una seccatura,
per non parlare di quell’elfa mezza matta».
E infatti l’elfa mezza matta, ovvero Akita,
dopo aver ritrovato i ragazzi subito dopo che questi avevano abbandonato
Laryana si era messa nuovamente sulle loro tracce, facendo appello a tutta la
sua esperienza di spia per riuscire a non farsi notare.
In un
paio di occasioni aveva anche tentato di rubare loro le due gemme che
possedevano, dopo aver ottenuto dalla regina Lainay, con cui era in costante
contatto, l’autorizzazione a procedere, ma i suoi tentativi si erano rivelati quasi sempre un disastroso buco nell’acqua: trappole che non
scattavano, o che venivano facilmente individuate e dribblate, imboscate che
finivano prima ancora di cominciare a causa dell’insorgere di ogni sorta di
imprevisto o preparate in modo tanto maldestro che a correre loro incontro a
spada tratta sarebbe risultato quasi più discreto.
Regis
l’aveva paragonata ad una cosa che chiamava cartone
animato, una sorta di teatrino delle marionette del suo mondo usato per
intrattenere e divertire i bambini in cui buffi personaggi andavano incontro
alle disavventure più disparate in chiave volutamente comica con l’intento di
suscitare il riso, una cosa che effettivamente ad Akita
riusciva benissimo.
«Maestro. Voi cosa credete che siano di preciso queste
pietre leggendarie?»
«Ancora
non lo so di preciso.» rispose Regis guardando quella
incastonata sulla spada «Ma sono convinto siano molto di più di semplici
catalizzatori magici.»
«Pensate abbia qualcosa a che fare con i robot? Ho sentito
dire che sono apparsi anche in questo continente.»
«Probabilmente,
ma è ancora presto per dirlo».
In
quella, un tuono lontano scosse i ragazzi, e alcune nuvole nere cominciarono a
calare sulla vallata discendendo dalle montagne a nord.
«Temo che
sia in arrivo un brutto temporale.» disse Sakura «Oltretutto
si sta facendo buio. Sarà meglio cercare un rifugio per la notte».
Dave si
guardò un momento intorno, poi indicò quello che sembrava un monastero
arroccato sulla sommità di una bassa collina, circondato da un boschetto.
«Proviamo
laggiù».
Quando
arrivarono a destinazione stavano già cadendo le prime
gocce di pioggia. Il tempio in sé era piuttosto grande, circondato da un muro
di cinta e costituito da vari blocchi raggruppati attorno ad un edificio sacro,
nella più pura tradizione shinto, una religione
animista tipica del continente orientale.
Bussarono,
e dopo poco venne ad aprire loro un novizio con la testa completamente rasata,
caratteristica tipica dei religiosi appartenenti a quel culto.
«Posso
esservi d’aiuto?» domandò con molto garbo e gentilezza.
Tuttavia,
qualcosa di lui colpì immediatamente tutti e quattro i ragazzi: c’era un che di
strano nella sua persona, un che di distante, ma non per questo da doversi
reputare malvagio o pericoloso. Del resto, si dissero Regis e Sakura, capitava
sovente che monaci e religiosi abituati a vivere nel più totale isolamento si
mostrassero freddi e distaccati con i forestieri.
«Scusate
il disturbo.» disse Regis «Umilmente vorremmo chiedere ospitalità per questa
notte».
Il
novizio non rispose, limitandosi a guardarli coi suoi
occhi di ghiaccio, ma dopo poco sopraggiunse quello che doveva essere il capo
spirituale del tempio, un uomo piuttosto anziano e con una folta barba bianca
che, al contrario del suo subalterno, sfoggiava un’espressione allegra ed
amichevole.
«Benvenuti,
forestieri.» disse in modo gioviale «Io sono Yu-Bei,
e sono il padre superiore.»
«Ci
dispiace di aver disturbato la vostra meditazione.» disse Sakura
«Non avete di che preoccuparvi. In quanto
monaci è nostro dovere offrire cibo e conforto a chiunque venga a bussare alla
nostra porta, e a giudicare dalle vostre scarpe impolverate è evidente che
avete fatto un lungo viaggio.
Prego, entrate».
Il
novizio, benché recalcitrante, fece strada agli
ospiti, e appena furono entrati chiuse nuovamente la porta, sbarrandola con una
trave di legno aiutato da un suo fratello.
«Vogliate
perdonarli.» disse il padre superiore mentre i monaci, incuranti del diluvio
che si stava scatenando, seguitavano a svolgere le loro mansioni all’aperto
come se niente fosse, sollevando di tanto in tanto lo sguardo per rivolgere ai
forestieri delle occhiate sospettose «Sono sempre
vissuti qui dentro, isolati dal mondo, e l’esterno in un modo o nell’altro li
spaventa sempre. Vi prego, non prendetela per scortesia.»
«Si
figuri, è comprensibile.» rispose Dave
«Il
nostro tempio non è molto ricco, ma possiamo offrirvi un alloggio ciascuno e
del buon cibo.»
«Possiamo
anche dormire nella stessa stanza, per noi non è un problema.» disse Sakura
«Mi
dispiace, ma secondo il nostro credo si può dormire insieme solo se si è
imparentati o membri di una stessa confraternita.»
«Ah,
capisco.»
«Siete arrivati al momento giusto. Stavamo giusto per
suonare la campana che annunciava l’ora del pasto».
La cena,
consumata nella sala principale, fu tranquilla e pacata,
forse anche troppo pacata: i monaci sembravano tanti manichini, che mangiavano
in perfetto silenzio e senza ostentare un qualche genere di emozione, e tutto,
persino le loro movenze, talmente ripetitive da sembrare quasi meccaniche,
sembravano tradire la loro natura umana.
Regis e
gli altri cominciarono ben presto a sentire un’aura sinistra aleggiare su
quegli uomini, e a nulla valsero i tentativi di Sakura di ottenere una
spiegazione dal padre superiore.
«Non
dovete preoccuparvi.» rispondeva lui con il suo sorriso rassicurante «A forza
di vivere tutti insieme, con il passare del tempo si
forma una sorta di coscienza di gruppo che a lungo andare finisce per
uniformare i caratteri. Ma del resto, anche cercare di mantenere la nostra
identità fa parte della nostra prova di fede in quanto
servitori del Buddha».
Tra
tutti, Regis si accorse che uno solo dei monaci pareva agire fuori dal coro,
oltre naturalmente al padre superiore. Era poco più di un ragazzo, forse della
stessa età di Dave, sicuramente un novizio; di quando in quando alzava lo
sguardo verso gli ospiti rivolgendo loro delle occhiate diverse da quelle dei
suoi fratelli, come spaventate, o comunque preoccupate.
Alla fine
del pasto si avvicinò a loro come a volergli parlare, ma prima che potesse farlo un altro monaco lo richiamò, ordinandogli di andare a
pulire il cortile dalle foglie cadute durante il temporale, che nel frattempo
si era placato, lasciando spazio ad una suggestiva notte stellata.
«Se
volete sapere come la penso io.» disse Elys quando lei e gli altri si
ritrovarono nella stanza di Regis «C’è qualcosa di molto strano in questo
posto.»
«Hai
ragione.» disse Sakura «Sembra che qui dentro nessuno
sia davvero vivo. I monaci si comportano come dei morti viventi, tanto sembrano
privi di emozioni.»
«Però il
padre superiore sembra diverso.» commentò Dave «Sembra… umano.»
«Perché
forse c’è proprio lui dietro a tutta questa storia.» disse Elys «Quel suo sorriso a trentadue denti non mi convinceva sin
dall’inizio. È chiaro che nasconde qualcosa.»
«Ma se
così fosse, non avrebbe accettato di darci ospitalità per la notte.»
«Forse ha
pensato che non farlo ci avrebbe insospettiti. Basta
guardarci per capire che non siamo semplici viaggiatori, e probabilmente temeva
che avremmo potuto cominciare a fare domande.
Come ha
detto Sakura, in questo posto sembrano tutti degli zombi. Forse quel
vecchiaccio sta usando un qualche incantesimo per tenere i monaci in suo
potere.»
«Ma a quale scopo? Che cosa ci guadagnerebbe ad avere un
monastero pieno di zombi?»
«Non chiederlo a me. Del resto, non mi è parso un tipo con
tutte le rotelle a posto. Forse vuole solo divertirsi a giocare al capo
supremo.»
«Anche se
fosse, cosa proponi di fare?»
«Io dico
di andarcene il più velocemente possibile.» disse Sakura «Abbiamo già avuto molti
problemi a Laryana, e contando quelli che ancora ci attendono nella ricerca delle altre pietra non ho nessuna voglia di averne altri.»
«Purtroppo,
andarcene di qui è impossibile.»
«Che cosa!? Maestro, per quale motivo?»
«È usanza
comune che qui a Chu-Yun al calare del sole i
monasteri e i villaggi di qualsiasi grandezza vengano
circondati da una barriera che impedisce a chiunque di entrare e di uscire.
Questo regno è continuamente devastato dalle guerre civili, e in questo modo ci
si protegge da eventuali incursioni notturne.»
«Stai
dicendo che siamo prigionieri!?» esclamò Elys
«Basterà solo restare vigili. Se l’ipotesi di Elys sul
coinvolgimento del padre superiore fosse vera, sarebbe nel suo interesse voler
attirare l’attenzione il meno possibile, e a meno di non dargli un motivo per
volercela avere con noi domani mattina ci lascerà andare come se niente fosse.»
«Aspettate maestro. Se il padre superiore sta davvero
controllando le menti dei suoi monaci, allora forse sarebbe giusto fermarlo.»
«No, Dave. Questa cosa non ci riguarda.»
«Che cosa?! Maestro!»
«Non abbiamo tempo da perdere. In questo momento i Sacerdoti
di Inti, e forse non solo loro, sono alla ricerca delle pietre leggendarie
ancora disseminate per il continente. Se perdiamo tempo facendoci coinvolgere
in ogni evento in cui ci veniamo a trovare potrebbero batterci sul tempo, e
allora le cose rischierebbero di complicarsi non poco.»
«Ma, maestro…»
«Domani,
subito dopo essercene andato, avvertiremo le autorità nel più vicino villaggio. Ci penseranno loro. Ora, sarà meglio
andare a dormire. Domani dovremo rimetterci in viaggio».
La notte trascorse sostanzialmente tranquilla.
Il suono
della campana del tempio scandì la fine delle attività e l’inizio delle ore di
sonno anche per i monaci, la barriera fu alzata e calò il più assoluto
silenzio.
Dave era
molto scosso dalle parole del maestro, e non riusciva a prendere sonno;
continuava a rigirarsi nel suo futon, che oltretutto gli risultava
anche scomodo, molto più delle stuoie di tessuto su cui aveva bivaccato così
tante volte, ripensando continuamente a ciò che Regis aveva detto, e non voleva
credere che quelli fossero i suoi reali pensieri.
Il
maestro era una persona nobile, di buon cuore, che ripeteva sempre di come
fosse necessario fare la propria piccola parte per favorire la causa della
giustizia, ora sosteneva che bisognava lavarsene le mani in nome di una causa a cui, evidentemente, aveva cominciato a tenere molto più di
quando erano partiti.
Forse la
causa di tutto era quel trattato che aveva ricevuto dal Principe, quello sui
buchi spaziali; da allora tutte notti lo leggeva e lo
rileggeva senza sosta, senza però voler condividere nulla di ciò che scopriva,
e forse lì dentro aveva trovato una qualche sorta di correlazione tra le pietre
leggendarie e un modo per fare ritorno nel suo mondo, il che poteva avergli
dato un valido motivo per voler procedere il più in fretta possibile.
All’improvviso,
mentre era girato da una parte, una mano minacciosa gli si fiondò sulla bocca,
tappandogliela, e per poco non gli prese un colpo al cuore per lo spavento.
«Sta
buono, novellino.» disse sottovoce Elys prima che potesse iniziare a dimenarsi
«Sono io.»
«Mai
più.» rispose lui tirando aria «Non farmi mai più uno scherzo simile.»
«Certo però anche tu, non ti accorgi neanche quando qualcuno
ti entra in camera? Sei senza speranza.»
«Ero soprapensiero, d’accordo? Ad ogni modo, cosa ci fai
qui? Sono le due del mattino.»
«Non sei
curioso di scoprire che cosa ha da nascondere quel vecchio bonzo?»
«Che cosa!?»
«Qui sta
succedendo qualcosa, e io voglio scoprire cosa.»
«Ma il maestro ha detto…»
«Ah, ma se ti potessi sentire. Il maestro di qui, il maestro di là. Anche tu sei curioso, ammettilo, solo che a
differenza di me non puoi vivere senza Regis che ti tiene al guinzaglio».
Punto sul
vivo Dave scattò in piedi e fece per urlare ad alta voce la sua replica, ma
poi, ricordatosi in che situazione si trovavano, si
trattenne.
«Se tu
vuoi restare qui, fa pure, ma non sperare che io cambi idea».
Elys a
quel punto se ne andò, ma appena fu all’esterno della stanza Dave la raggiunse.
«Allora ce l’hai un po’ di coraggio.»
«Non è per questo. Ma solo il cielo
sa in che guai potresti cacciarti se ti lasciassi andare da sola».
Facendo il
massimo silenzio i due ragazzi arrivarono in cortile,
e qui, nascosti dietro ad una siepe, assistettero ad una scena inconsulta, e
allo stesso tempo inquietante.
In fila
per due, e con in testa il padre superiore, i monaci
del tempio stavano entrando in quel momento nel santuario alla luce delle
torce, e quando furono tutti dentro l’ultimo, voltatosi, chiuse la porta.
«Non c’è
dubbio, qui sta accadendo qualcosa.» disse Elys uscendo dal suo nascondiglio e
avvicinandosi quatta quatta all’ingresso
«Ehi, che stai facendo? È pericoloso.»
«Cosa vuoi che possano farci? Sono solo un gruppo di monaci
musoni. Alla peggio, li sistemeremo.»
«Il maestro ha detto chiaramente di non intrometterci. Le lui
o la signorina Sakura ci scoprono finiamo nei guai tutti e
due.»
«Ma non l’hai ancora capito? Regis ci ha detto di restarne
fuori proprio per metterci alla prova. Voleva che prendessimo l’iniziativa e
risolvessimo la situazione da soli, così da dimostrare di essere maturi.»
«Al
momento tu stai dimostrando l’esatto opposto.»
«Puoi
parlare o seguirmi, decidi tu.»
«Non ne
verrà fuori niente di buono, me lo sento».
Avvicinatisi
al santuario i due ragazzi si appiattirono contro il
muro, e aperta leggermente la porta quel tanto che bastava Elys buttò uno
sguardo all’interno, rimanendo allibita.
«Ma cosa…»
«Che c’è,
cosa vedi?».
Senza alcun
timore la ragazza spalancò l’ingresso, minacciando di far venire un nuovo
infarto al suo sventurato compagno: all’interno, la stanza era completamente
vuota, e dei monaci nessuna traccia.
«Ma… come è possibile!?» disse Dave «Eppure sono entrati proprio
qui».
Entrambi presero
a guardarsi attorno alla ricerca di un qualche passaggio segreto, o di
qualunque indizio che potesse giustificare la sparizione di oltre venti persone
in modo tanto improvviso e apparentemente inspiegabile.
Dave ad un certo punto si ritrovò a fissare la grande statua opposta
all’ingresso; interamente d’oro, raffigurava il Buddha in una delle sue molte
pose di meditazione, vestito con una ricca tunica e seduto su di un cuscino.
«Elys,
vieni a vedere.»
«Che c’è,
novellino?»
«Dà un’occhiata a questa statua.»
«Cosa dovrei vedere?» domandò lei avvicinandosi e non
trovandovi nulla di strano
«Ha qualcosa di strano. Non so dire cosa, però… non è come
altre statue del Buddha che ho già visto.»
«Perché,
ne hai viste tante?» chiese Elys in modo volutamente provocatorio.
Dave fece
per accostarsi alla statua per poterla esaminare meglio, ma nello spazio di un
istante sia lui che Elys avvertirono una terribile
sensazione, una sensazione di minaccia, e un secondo dopo due monaci piombati
giù direttamente dal tetto tramortirono entrambi con precisi colpi alla nuca.
Nello stesso
momento Regis stava dormendo nella sua stanza, ma proprio come Dave faticava a
prendere sonno.
Il motivo
del suo tormento erano, come sospettava il suo
allievo, le informazioni contenute nel trattato di astronomia ricevuto in dono
dal Principe. Secondo gli studi del sovrano e dei suoi antenati i buchi nel
cosmo erano diversi dai semplici buchi neri, e a giudicare dal fatto che non si
limitavano ad assorbire energia, ma anche a rilasciarne un’altra, di natura
oltretutto simile ma allo stesso tempo diversa, poteva trattarsi di una sorta
di fenditure che collegavano tra loro varie dimensioni, questo ovviamente
volendo dare per esatta la teoria del multiverso, una teoria che Regis sapeva
essere esatta per esperienza diretta.
Questa
era un’ulteriore prova che poteva tornare indietro, ma
fino ad ora aveva accumulato tante prove e nessuna soluzione.
Una sola
cosa era certa: prima avesse chiuso la questione delle pietre, prima avrebbe
potuto concentrarsi sulla ricerca di una soluzione per tornare al mondo da cui
proveniva.
Era quasi
sul punto di prendere sonno, quando un vento di minaccia lo spinse a saltare
via dal letto, giusto in tempo per evitare che assieme al futon e al tatami
anche il suo corpo non venisse disintegrato da un
micidiale fendente di spada.
Alzò lo
sguardo, e quasi rabbrividì vedendo il volto piatto e senza emozioni che gli si
presentò davanti.
«Elys! Che diavolo ti prende?».
La ragazza
non rispose, e mulinando l’arma cercò di colpirlo ancora, ma Regis fu molto
svelto a schivare, e dopo poco, recuperate entrambe le sue spade, si vide
costretto a saltare all’esterno, ritrovandosi sul tetto di tegole che stava subito
oltre la sua finestra.
Elys lo
inseguì e continuò a combattere, e Regis, che non voleva farle del male, le si oppose con la sola spada dell’aquila, oltretutto
ancora infoderata, e a lungo andare questo suo atteggiamento difensivo cominciò
ad esigere il suo tributo: un micidiale calcio allo stomaco lo fece volare
direttamente nel cortile, e prima ancora che potesse rialzarsi i monaci
sopraggiunsero da tutte le direzioni armati di bastoni, forconi e altri
attrezzi da contadino.
«Maledizione! Di bene in meglio!».
Lo
scontro proseguì per diversi minuti, e dopo poco vi prese parte anche Sakura.
«Si può
sapere che diavolo sta succedendo?» domandò la ragazza cercando di rispondere
senza ferirlo agli attacchi di Dave, a sua volta preda della strana e
inquietante ipnosi di cui sembravano essere rimasti vittime anche Elys e i monaci
«Non ne ho idea, ma non mi piace per niente! Dobbiamo andarcene!»
«E come? La barriera è ancora in piedi!».
In breve
i due ragazzi si ritrovarono circondati, e pronti ad
essere finiti: sapendo che sia i loro amici sia i monaci non erano padroni
delle loro azioni non volevano fare loro del male, ma ormai la situazione si
stava facendo pericolosa, e non difendersi efficacemente avrebbe voluto dire
morte certa.
Se non che, proprio in quel momento, la lanterna di pietra a
cui erano appoggiati si spostò lentamente di lato assieme al suo largo
basamento, rivelando un buco di media grandezza da cui fece capolino la testa
del giovane novizio intravisto da Regis durante la cena.
«Presto,
da questa parte.»
«Cosa?»
disse Sakura «Ma che…»
«Svelti,
non avete molto tempo».
Entrambi
non erano sicuri di potersi fidare, e nessuno dei due scalpitava all’idea di
abbandonare i propri compagni in balia di chissà quale mente perversa che stava
dominando in quel momento la loro, ma d’altra parte dovevano restare vivi se
volevano sperare di fare qualcosa.
Sakura
produsse un bagliore fortissimo con la sua magia, costringendo gli assalitori a
coprirsi gli occhi; quando li riaprirono lui e Regis erano
spariti, e la lanterna era tornata al suo posto.
Nota dell’Autore
Salve a tutti di
nuovo!^_^
Le cose per me vanno
di bene in meglio, mi sento decisamente di buonumore e
quindi ho tanta voglia di scrivere.
Questo capitolo lo
avevo in mente già da un bel po’ di tempo, quindi non ho avuto problemi a concretizzarlo.
Ora il tempo libero
non mi manca di certo, almeno fino a quando non si comincerà a parlare di esami
(tre prima di natale, uno il 2, uno il 18 e un altro
da decidersi, forse il 15).
Pertanto, spero di
riuscire a scrivere un altro bel po’ di capitoli prima delle festività.
Il cunicolo in cui Sakura e Regis si erano
infilati grazie al provvidenziale intervento del loro ignoto salvatore condusse
i tre ragazzi ai piedi della collina; al buio, in un silenzio spettrale,
attraversarono da un capo all’altro la risaia che celava l’uscita del
passaggio, tra il fango, l’acqua e gli insetti, fermandosi all’interno di un
piccolo boschetto di bambù da cui si aveva ancora una buona vista del tempio.
A quel
punto, venne il momento dei chiarimenti.
«Il mio
nome è Chun-Yun.» disse il ragazzino che li aveva
aiutati a scappare «Sono un apprendista novizio.»
«Si può
sapere che accidenti succede lì dentro?» domandò Regis «I monaci ci hanno assaliti, e come se non bastasse i nostri amici hanno
tentato di ucciderci.»
«Vorrei potervi dire qualcosa di più, ma la verità è che
neppure io ho idea di che cosa sia accaduto. È cominciato tutto alcuni mesi fa.
Di colpo,
tutti i miei fratelli hanno cominciato a comportarsi in modo strano, e da
allora, tutte le notti, vanno a chiudersi nel tempio principale, uscendone solo
al sorgere del sole.»
«E come
mai a te non è successo niente?» domandò Sakura
«Perché
il mio grado di istruzione è troppo basso, e non mi è
permesso accedere al tempio principale. Recito le mie preghiere in camera.»
«Quindi,
qualsiasi cosa sia accaduta ai monaci, oltre che a Dave ed Elys, è legata a
quell’edificio.»
«È sicuramente
opera del demone della caverna.»
«Il
demone della caverna!?» ripeté Regis
«Ne ho sentito parlare dagli altri novizi. Si dice che nella
caverna al di sotto del tempio sia rinchiuso un demone
gigantesco, dotato di poteri incredibili.»
«Un
demone dici?»
«Vi
assicuro che è la verità!» disse con forza Chun-Yun«Io l’ho sentito. Di notte, quando mi sveglio, lo sento
respirare. Non so se si tratti davvero di un demone, ma una cosa è certa. Lì
sotto c’è qualcosa. Qualcosa di grosso».
Seguì un
momento di riflessione; né Sakura né Regis sapevano cosa pensare.
«Tu cosa
ne pensi Regis?»
«Beh, una cosa è sicura. Non possiamo abbandonare Elys e
Dave. E se davvero questo demone, o qualunque cosa sia, è il responsabile di
tutto questo, allora basterà toglierlo di mezzo per riportare le cose alla
normalità.»
«Volete
tornare lì dentro!?»
«Non
abbiamo scelta, se vogliamo salvare i nostri compagni.
Ora che siamo scappati è probabile che tanto loro quanto i saranno
meno vigili di prima, non avendo più una potenziale minaccia a pendere su di
loro, e questo potrebbe permetterci di rientrare senza troppi problemi.
Possiamo usare lo stesso passaggio
segreto da cui siamo usciti. Non credo che i monaci sappiano della sua
esistenza, altrimenti non ci avrebbero spinti proprio lì, quindi non credo che
lo sorveglieranno.»
«A tal
proposito.» intervenne Sakura «Tu come sapevi di quel passaggio?»
«L’ho scoperto per caso qualche tempo fa mentre pulivo il
cortile. Credo venisse usato ai tempi della guerra per
fuggire in caso di pericolo, ma come ha detto lei» disse rivolgendosi a Regis
«Pare che nessuno ne conosca l’ubicazione, e non ve ne è alcuna menzione
neppure nei vecchi progetti.»
«È
chiaro.» disse Regis «Visto che passa sottoterra è
immune agli effetti della barriera che circonda il tempio. Ci tornerà
sicuramente utile.»
«Io vengo
con voi.»
«Niente
da fare, non se ne parla.» rispose Sakura «Hai visto coi
tuoi occhi quanto può essere pericoloso.»
«Ma conosco il tempio come il palmo della mia mano. Se davvero
c’è un passaggio segreto, sarò in grado di trovarlo.»
«Non
sottovalutarci.» disse Regis «Anche noi siamo piuttosto pratici in questo
genere di cose».
Chun-Yun insistette un altro poi, ma poi si rassegnò alla
volontà dei due guerrieri che aveva salvato e rimase a guardarli mentre
tornavano sui loro passi.
«Pensi
davvero che possa essere opera di un demone?» domandò Sakura mentre lei e il
suo compagno si inoltravano di nuovo tra le risaie
«C’è
qualcosa lì sotto.» rispose Regis mostrandole la gemma rossa della Spada di
Gigabrian che risplendeva ad intermittenza, un
bagliore che diventava sempre più forte man mano che si avvicinavano nuovamente
al tempio «E di sicuro non si tratta di un demone».
Shinari, città di Kylenia
Capitale della
Repubblica di Lamirian
12 dicembre
A differenza di Boralis, come di molte altre capitali
confederate, Kylenia, adagiata su una lussureggiante vallata, era una città di
montagna ancora fortemente legata alle sue radici, e
più volte girando per i suoi vicoli si aveva l’impressione di trovarsi in un
antico borgo dei tempi andati.
Adagiata
pigramente sulle pendici di una bassa collina e sulla pianura sottostante,
aveva alla sua sommità l’antico palazzo della signoria, la cui torre era
visibile a chilometri di distanza, e subito accanto la Chiesa delle Sante Anime,
conosciuta e apprezzata in tutta la Confederazione per
i suoi bellissimi affreschi e il suo altare in oro massiccio.
E a
differenza di molti altri regni e imperi Lamirian, la
penisola di cui Kylenia era capitale, era sempre stata una terra divisa; fino a
sei secoli prima il suo territorio, stretto e allungato, circondato dal mare su
tre lati e delimitato a nord da altissime montagne difficilmente valicabili,
era caratterizzato da decine e decine di staterellipiù o meno grandi, ora in pace ora in lotta tra loro, e la
necessità di ogni grande famiglia di legittimare la propria sovranità su un
determinato territorio aveva fatto sì che ovunque sorgessero monasteri,
castelli, ville, palazzi e intere borgate. Tutto ciò aveva contribuito a fare
di Lamirian una terra dallo straordinario retaggio
culturale ed artistico, e malgrado disponesse di una
forza militare e di un esercito piuttosto esigui rispetto a quelli di molte
altre nazioni di Shinari, con solo tre flotte da battaglia da dieci navi ognuna
e sessantamila effettivi tra fanteria e aeronautica, la sua importanza storica
le permetteva di avere dei propri rappresentanti in Senato e in Parlamento, un
privilegio non da tutti visto che, salvo casi eccezionali, ad essere rappresentati
in entrambi gli organi di governo erano i mondi nella loro interezza piuttosto
che i singoli stati.
Nel bel
mezzo della foresta che circondava la città, coprendo come un manto lussureggiante le pendici morbide e non eccessivamente
ripide della valle, una pattuglia formata da dodici soldati percorreva, armi
alla mano e con circospezione, un sentiero stretto e sinuoso che come un
serpente si incuneava tra gli albero e le rocce in direzione ovest.
C’erano
soggetti di tutti i tipi, tra cui spiccavano un maciste sulla quarantina con
una faccia da bruto dominata da una capigliatura militare di colore castano
spento, un pelato di poco più anziano con una sigaretta accesa in bocca e una
ragazza dalla pelle scura con l’aria sbarazzina e lunghi capelli neri raccolti
sulla nuca in una coda di cavallo.
Erano
tutti a piedi, e quasi tutti armati di fucili automatici Odd20 per la fanteria,
tranne un gigante di quasi due metri che brandeggiava una pesante
mitragliatrice antiuomo e una ragazza sui vent’anni dall’aria tenebrosa con i
capelli neri piuttosto lunghi lasciati cadere sull’occhio
sinistro armata di un fucile ad alta precisione.
A guidare
la pattuglia, un giovane sergente poco più che ventenne, pelle abbronzata dal
sole, capelli castano scuro leggermente spettinati,
occhi neri penetranti e una piccola cicatrice sulla parte destra della fronte.
C’era una
forte tensione tra gli uomini, come era naturale in
operazioni di quel tipo, ma nonostante tutto qualcuno cercava di risollevare il
morale, magari raccontando una barzelletta.
«Sentite
questa.» disse ad un certo punto un soldato con lunghi
capelli rossicci e occhi azzurri «Un tizio si rivolge ad un altro e gli dice
“Hanno rapito mia moglie, e mi hanno chiesto un riscatto di cinquecento
milioni!”. Quello dice “Cinquecento milioni!? E tu che
hai fatto?” “Ho pagato.” risponde l’altro “Ma ora me
ne hanno chiesti altri cinquecento.” “Altri cinquecento? E
perché?” “Perché sennò me la restituiscono.”».
La
ragazza scura rise di buon gusto, e anche qualcun altro nella pattuglia accennò
un sorriso divertito, ma ci pensò il caposquadra a riportare la disciplina.
«Silenzio.»
«Dai Jo, era carina.»
«Freesia, non stiamo facendo una scampagnata. Siamo nel bel
mezzo di un’operazione.»
«Il
sergente ha ragione.» disse il gigante «Salinas, le
tue battute tienitele per momenti migliori.»
«Accidenti
Muusad, tra te e il sergente non saprei dire chi è il più menagramo.» disse l’interessato, e un istante dopo il suo corpo rovinava
tra le foglie e il terriccio centrato in pieno alla tempia destra.
«Ma cosa…» disse Jo, e quasi subito un altro dei suoi cadde a
terra colpito in mezzo alla schiena «Imboscata!».
Tutti i
soldati scattarono come fulmini, correndo a nascondersi in una profonda buca
piena di fango, ma lungo la strada altri tre di loro vennero
messi fuori gioco da fucilate che sembravano provenire da ovunque e da nessun
luogo.
«Deve
esserci un cecchino!» disse Muusad.
Jo si
sporse leggermente dalla buca, cercando di scrutare l’orizzonte con il suo
binocolo; a circa cento metri, verso nord, più in alto rispetto a loro, c’era
una vecchia casa di mattoni ormai in rovina, risalente con ogni probabilità
all’inizio del secolo, prima che fattorie e proprietà agricole nei boschi
intorno a Kylenia venissero spazzate via dalla crisi
economica che per poco non aveva segnato il crollo dell’intero sistema
monetario confederato.
Sulla
sinistra l’edificio aveva una piccola torre con una finestrella per ogni lato,
la postazione ideale per un tiratore scelto.
«È lì che
starei io.» disse Oscar, un giovane soldato che, oltre che come fuciliere, se
la cavava discretamente anche come cecchino «Meglio
non mostrare eccessivamente la testa, ragazzi. Quel cecchino ci sa fare».
Dalla
stessa direzione cominciarono ad arrivare decine di soldati che indossavano
uniformi grigie con alcune parti metalliche volte a fornire protezione dai
proiettili, dominate da un voluminoso elmetto provvisto di un bavero solido che
lasciava giusto lo spazio per gli occhi, garantendo protezione a tutto il resto
del volto con la sua forma curvilinea, ideale per deviare i colpi, e quando
furono abbastanza vicini nella zona si scatenò
l’inferno.
«Sono
uomini dell’Alleanza!» disse Jo.
Il
sergente e i suoi cercarono di contrastare l’avanzata nemica,
ma ogni qualvolta si sporgevano eccessivamente dal loro rifugio il
cecchino si rimetteva al lavoro, spalleggiato per di più da un Jackson34, un
fucile antiuomo da 20mm a doppie canne proprio dell’esercito dell’Alleanza
Triangolo posizionato sul tetto della cascina.
«Sergente,
quel 34 ci massacra.» disse Mica, un ragazzo con corti
capelli neri e un paio di occhiali da vista rettangolari
«Dobbiamo trovare il modo di farlo fuori. Marina!».
La
ragazza cecchino, protetta dal fuoco di copertura dei suoi uomini, si defilò, e
messosi il fucile in bocca come una pantera si arrampicò su di un albero,
appostandosi sul ramo più alto; portatosi il mirino all’occhio
puntò in direzione dell’edificio, e in pochi secondi al centro della croce
comparve il famigerato cecchino nemico, appostato come previsto sulla sommità
della torre. Con un solo colpo lo mise fuori gioco, poi fu la volta dei due
uomini che manovravano il 34, che a loro volta vennero
messi a nanna con due proiettili ben piazzati.
Eliminate
le minacce principali Jo e gli altri poterono finalmente rispondere al fuoco,
ma ormai erano rimasti solo in sei, e la superiorità numerica del nemico non ci
avrebbe impiegato molto a reclamare il suo tributo.
Marina
tentò per quanto possibile di assottigliare i ranghi nemici usando la sua mira
leggendaria per centrare uno dopo l’altro tutti quelli che si avvicinavano
troppo alla buca, ma all’improvviso, mentre faceva
girava lo sguardo da una parte all’altra, il suo mirino inquadrò un fucile
puntato dritto verso di lei, e prima di poter anche solo pensare di premere il
grilletto un colpo in pieno petto la fece precipitare già inerte giù
dall’albero.
Con la
sua sconfitta appariva chiaro che ormai la battaglia era persa, e visto che arrendersi non era un’opzione la sola cosa da fare
era combattere fino alla fine.
«Il punto
di randevoue è a soli trecento metri a sud di qui!»
disse Muusad «Se correte potete farcela!»
«E tu che
cosa farai?» domandò Oscar
«Non fare
domande ovvie!» rispose lui recuperando l’arma di un compagno caduto.
Tutti si
guardarono attoniti l’un l’altro, ma la decisione finale spettava solamente a
Jo, che alla fine, combattuto da emozioni contrastanti, non ebbe altra scelta
se non quella di garantire la sopravvivenza di quanti più uomini possibile della sua squadra.
Freesia
protestò, e anche Mica, sostenendo che era una condotta deprecabile, e Jo
rispose sinceramente che anche lui la pensava allo stesso modo, ma che se c’era anche una sola possibilità di uscire vivi da una
situazione sicuramente mortale era giusto coglierla, perché in caso contrario
si sarebbe arrecata un’offesa imperdonabile a chi era pronto a dare la vita per
permettere la fuga ai compagni, per non parlare del fatto che una squadra morta
non è più di alcuna utilità.
«Forza,
andiamo!» gridò Jo lanciando una granata fumogena, e appena i nemici li persero di vista lui e gli altri uscirono dalla buca,
cominciando a correre come pazzi.
Solo
Muusad rimase indietro, e prima ancora che il fumo si diradasse il gigante, con
una mitragliatrice per ogni mano, si erse minaccioso in tutta la sua possenza,
prendendo a scaricare fiumi di proiettili. Molti soldati avversari caddero, e
anche quando furono in grado di reagire furono necessari ben dieci colpi perché
quella specie di enorme golia si decidesse finalmente a cadere.
Jo e i
suoi uomini intanto avevano raggiunto la radura, e in lontananza già potevano
intravedere il grosso elicottero da trasporto che li avrebbe portati al sicuro.
«Ci siamo quasi!» disse mentre guidava Freesia, Oscar e Mica
verso la salvezza «Attenti a dove mettete i piedi! Potrebbero esserci delle
mine!».
Erano
vicini, praticamente arrivati, quando di colpo tutto
intorno a loro apparvero, emergendo dall’erba alta, almeno una quindicina di
soldati nemici, e i quattro si ritrovarono improvvisamente circondati.
Portatisi schiena contro schiena, alzarono istintivamente le armi, ma in quanto soldati sapevano già che ormai era finita.
Seguirono
attimi di pura tensione, in cui sembrava che ogni istante dovesse essere
l’ultimo: i soldati tenevano le dita sui grilletti, ma esitavano a sparare,
probabilmente perché sapevano che ormai la loro vittoria era definitiva, e che
forse non c’era bisogno di arrivare a tanto.
Infatti,
dopo interminabili secondi, una voce imperiosa li richiamò.
«Basta
così!».
I nemici
allora abbassarono immediatamente le armi, e subito dopo dall’elicottero scese Higer Marcus, sergente istruttore dell’esercito
confederato, cinquant’anni da poco compiuti e una lunghissima carriera alle
spalle, testimoniata tra le altre cose anche dalla benda che gli copriva
l’occhio sinistro.
Subito i
nemici abbassarono le armi, e poco dopo dalla boscaglia uscirono anche gli
altri membri della squadra, alcuni dei quali erano costretti a venire sorretti dagli ex avversari per riuscire a stare in
piedi; le speciali munizioni ad energia magica erano pensate apposta per poter
essere usate durante le simulazioni di guerra, ma anche se si limitavano ad
indurre uno stato di shock che perdurava per una trentina di minuti quando
colpivano facevano male.
Il sergente
si avvicinò a Jo, guardandolo con indicibile severità.
«Immagino
non ci sia bisogno di dirvi che sono estremamente
deluso. Non solo vi siete fatti cogliere di sorpresa come tanti imbecilli, ma
tu Jo sei stato abbastanza stupido da pensare di poterne uscire così
facilmente. Forse quando l’ho spiegato tu hai dormito,
ma la strada più breve è la prima ad essere tenuta d’occhio. Anche il nemico ha
una testa, anche lui ragiona, e se non riuscite a coglierlo di sorpresa lui sarà sempre un passo avanti a lui.»
«Sono davvero dispiaciuto, sergente. Non ho giustificazioni.»
«No, infatti. Oggi è andata così, ma il nemico non usa
proiettili a salve. La tua sconsideratezza, la tua sufficienza e la tua
superficialità hanno determinato la morte di tutta la tua squadra. Tu sei la
loro guida, e dalla tua capacità di mantenere il sangue freddo, nonché dalle tue decisioni, dipende non solo l’esito della
missione, ma anche e soprattutto la loro sorte.
Dal modo
in cui hai agito è più che evidente che non hai saputo
mantenere la calma, e ciò ha influito in modo significativo sulla tua lucidità
e sulla tua capacità di giudizio.
Se continui di questo passo non arriverai mai ad essere un caposquadra, è bene che
tu lo sappia. Non metterò la sorte dei miei soldati nelle mani di un buono a cui basta un fucile puntato contro per andare fuori di
testa e iniziare a comportarsi da stupido, mi sono spiegato?»
«Sissignore!»
«E ce n’è anche per voi.» disse poi
rivolgendosi ai membri della squadra «Credete che
questa sia una scampagnata? Che sia tutto un gioco? Una disattenzione, anche
piccola, può costare la vita in missione. Distrarsi nel bel mezzo di un
incarico è come disegnarsi un bersaglio sulla fronte.
Se non riuscite a gestire una
situazione come questa, come pensate di potervi opporre agli eserciti
imperiali?
Solo perché si trattava di un’esercitazione molti di voi hanno preso la cosa
decisamente sottogamba, e io non ce lo voglio nel mio corpo un soldato che
ragiona in questi termini. È chiaro?»
«Sissignore!» risposero tutti
«Per adesso è tutto. Ora andate a
darvi tutti una ripulita. Sembrate usciti da un b-movie sui mostri della
palude. Muoversi!».
Tutti i membri della squadra rientrarono alla caserma,
situata poco distante dalla periferia sud della città, con il morale sotto i piedi,
ma il più afflitto e arrabbiato era ovviamente Jo, che restò a lungo a
riflettere sulle parole del sergente sotto il getto scrosciante della doccia
anche dopo che tutti i suoi compagni furono usciti.
Fin da
quando era piccolo aveva sognato di far parte
dell’esercito, e appena raggiunta l’età adatta, vista anche la richiesta sempre
crescente di soldati che lo scoppio della guerra con l’Impero aveva generato,
si era arruolato nelle forze armate del suo Paese. Eppure, se solo lo avesse
voluto, avrebbe potuto rendersi le cose molto più facili, vista la famiglia da
cui proveniva, ma fin dal giorno in cui aveva indossato la divisa
aveva promesso a sé stesso che sarebbe andato avanti contando sulle sue sole
forze, per non parlare del fatto che secondo lui la guerra la si doveva
combattere al fronte, e non da dietro una scrivania.
I membri
della sua squadra erano tutti suoi grandi amici, gente che conosceva da tempo immemorabile, alcuni addirittura dalle scuole
elementari, e sapeva che se lo rispettavano e si fidavano di lui non era certo
per il nome che portava, ma solo e unicamente perché erano consapevoli di
quanto lui tenesse ad ognuno di loro, sia come compagni che come amici.
Eppure,
come aveva sottolineato il sergente Marcus, le sue
capacità come caposquadra attualmente erano disastrose, e ora più che mai si
rendeva conto di quanto cara poteva costare la sua condotta sul campo di
battaglia, non a sé stesso ma ai suoi amici, Freesia, Salinas e tutti gli
altri.
Uscito dalla
doccia con un umore peggiore di quando era entrato si
rivestì che tutti se ne erano già andati, ma come aprì la porta della baracca
trovò ad attenderlo in cortile qualcuno di completamente inaspettato.
Messa da
parte la sua uniforme da militare, l’ammiraglio Dastan si presentava a lui in
abiti civili, e vedendolo così, vestito come un affettuoso nonnino, nessuno l’avrebbe mai creduto una persona dotata di tanto potere e
tante responsabilità.
Jo mutò
radicalmente espressione quando lo vide, e per lunghissimi secondi i due
restarono a guardarsi senza proferire parola.
«Joseph.»
«Papà».
Insieme
andarono nel bar, uno dei tanti edifici a sé stanti che componevano la base
militare, sedendosi ad un tavolino un po’ appartato.
L’ammiraglio Dastan cercava di essere il più naturale e cordiale possibile, e
anche nel suo sguardo si vedeva la solita, ammirevole gentilezza, ma
altrettanto non si poteva dire per gli occhi del sergente, che malgrado avesse
di fronte a sé quel padre che non vedeva da così tanto
tempo lo fissava con l’espressione più distaccata e distante possibile, propria
più di un subalterno che di un figlio.
«Accidenti.»
disse l’ammiraglio dopo aver sorseggiato un goccio del cosiddetto caffè che gli era stato servito «Ci vuole coraggio per definire caffè questa
brodaglia imbevibile».
Jo non
commentò né rispose in alcun modo, rimanendo immobile come una statua; vi fu un
altro scambio di sguardi, poi finalmente il ragazzo si decise ad aprir bocca.
«Come hai
fatto a trovarmi?».
Il tono
di voce era volutamente freddo e senza alcuna emozione, forse adatto ad una conversazione formale ma del tutto fuori luogo in una
rimpatriata tra padre e figlio. Hank non si aspettava niente di meglio, ed era
preparato quasi a tutto, pertanto cercò di non mostrarsi eccessivamente
risentito o dispiaciuto.
«Dopotutto, sono un ammiraglio. Con una telefonata posso
avere quello che voglio. Inoltre, qui a Kylenia sono in molti a dovermi dei
favori.»
«Già. Dimenticavo quanti privilegi si possono avere come
membro del consiglio di stato maggiore. Ad ogni modo, per quale motivo il
grande ammiraglio Dastan è voluto venire in un posto che sicuramente reputa
come il più squallido dell’intero apparato militare?»
L’ammiraglio,
calmo e all’apparenza indifferente alla provocazione lanciatagli contro,
sorseggiò un altro po’ del suo caffè, ma Jo dopo quel
poco cordiale scambio di battute parve volersi chiudere nuovamente in sé
stesso, e tra i due tornò a dominare il silenzio.
La
comparsa dell’ammiraglio, che nonostante gli abiti civili era
stato riconosciuto quasi subito, aveva acceso la curiosità dei soldati, e visto
e considerato che nessuno lì dentro, all’infuori naturalmente di pochi,
selezionatissimi eletti, era a conoscenza del legame famigliare che univa i due
tutti si chiedevano cosa potesse mai volere un esponente dello stato maggiore
da un umile sergente ancora a metà del proprio corso di aggiornamento per
essere nominato caposquadra.
Quelli ai
tavoli più vicini cercavano, non visti, di tendere l’orecchio
il più possibile, ragguagliando di quel poco che riuscivano a sentire i propri
compagni seduti al bancone.
«Il tuo lavoro è ammirevole, Jo. Dico sul serio».
Finalmente
la barriera che Jo aveva eretto si incrinò, e il
ragazzo piegò la bocca in un’espressione di visibile stupore.
«Il sergente Marcus ha ragione nel sottolineare alcuni dei
tuoi difetti, ma l’impegno che tu e i tuoi compagni state mettendo
nell’addestramento è innegabile.
C’è un legame fortissimo che vi
lega, questo è più che evidente, e perché una squadra funzioni a dovere questo
legame è indispensabile.
Ovviamente c’è da lavorare sulla
competenza e la professionalità, ma visto il vostro
potenziale non credo sarà un problema per voi riuscire ad arrivare in alto».
Detto questo l’ammiraglio prese dalla
cartellina che aveva con sé una busta in carta marrone e una lettera chiusa e
le mise entrambe davanti al figlio, che ne chiese il contenuto.
«Uno
speciale permesso e una lettera di raccomandazione.»
«Un
permesso per cosa?»
«Per il
campo di addestramento confederato di Berinell».
Joseph
sgranò gli occhi per lo stupore.
Il campo
di addestramento di Berinell, situato sul pianeta Celestis, era uno dei più conosciuti e stimati dell’intero
apparato militare. Vi si poteva accedere solo tramite autorizzazione speciale
del comando centrale, e i criteri per venire scelti erano severissimi.
L’addestramento durava un anno, al termine del quale si entrava a far parte dell’ADA, ArmoredDivisionofAiforce,
i reparti armati dell’aeronautica imbarcati a bordo delle navi da guerra,
unanimemente riconosciuti come i migliori tra i migliori.
Non era
cosa rara che si facesse ricorso alla raccomandazione di qualche alto ufficiale
per poter ottenere l’accesso ad una scuola di così
alto livello, e difatti tra i membri illustri dell’ADA figuravano molti figli e
parenti in generale di facoltosi esponenti sia della politica che
dell’esercito, tutti passati prima o dopo per il campo di Berinell
grazie alle conoscenze in alto loco che potevano vantare.
Jo aveva
sempre sognato di poter essere scelto un giorno per essere ammesso a Berinell, e lo stesso valeva per quasi tutti i membri della
sua squadra, ma sapeva molto bene che a meno di non poter contare per l’appunto
su qualche buon aggancio sarebbe stato molto difficile per una
umile squadretta di livello medio-basso poter
aspirare ad un simile traguardo.
Ora,
invece, quella possibilità gli veniva offerta su un
piatto d’argento, e assieme ad essa la prospettiva di una carriera fulminante,
perché era risaputo che un diploma alla Berinell, se
sfruttato adeguatamente, era un vero e proprio lasciapassare per l’olimpo, per
non parlare dell’ottimo livello d’istruzione.
Jo rimase
un momento interdetto, atterrito dall’opportunità che gli veniva
messa davanti, e Dastan in cuor suo sperava che questo potesse venire
considerato dal figlio come un tentativo visibile di appianare tutte le
divergenze del passato.
Invece,
dopo poco, il ragazzo scosse la testa.
«Stai forse cercando di comprarmi? Di comprare il mio
affetto?»
«Sto pensando al tuo futuro, Joseph. Te l’ho detto, tu hai
del potenziale, e non voglio che rischi di andar sprecato.»
«Sono passati più di dieci anni. Direi che è un po’ tardi
per cominciare a fare il padre, e se pensi davvero che basti una cosa del
genere a farmi rivedere l’opinione che ho di te, allora sei un vero illuso.»
«Joseph, io sto cercando sinceramente di rimediare a tutti
gli errori che ho commesso. So di non essermi comportato bene nei tuoi
confronti, e me ne vergogno profondamente. Tutto ciò che ti chiedo
è di darmi la possibilità di dimostrarti che sono cambiato».
Joseph
temporeggiò, guardando ora suo padre ora le buste che aveva
dinnanzi a sé, e intanto batteva nervosamente il tallone destro; alla fine,
spinse via i regali appena ricevuti, restituendoli al padre.
«Puoi aver convinto Ashley, ma io non ti perdonerò mai per
quello che hai fatto. Hai giocato con le nostre vite e con quelle di nostra
madre come più ti è piaciuto, e quando non ti siamo serviti più
hai pensato bene di abbandonarci.
Per
quanto riguarda questo tuo bieco tentativo di comprarmi, voglio
che tu sappia una cosa.
C’è un
motivo se sono voluto partire dal basso, un motivo che va’
al di là del semplice desiderio di dimostrare quello che valgo. Io non prenderò
la strada più comoda e rapida solo perché è la più facile, e non venderò la mia
anima per riuscire ad arrivare lontano.
Non
diventerò come te».
A quel
punto il ragazzo si alzò dalla sua sedia, quindi, fatto un serio e crudele
saluto militare, se ne andò, lasciando l’ammiraglio da solo con il cuore a
pezzi.
Nota dell’Autore
Salve a tutti!
Roba da matti! Un mese
e oltre per aggiornare!
Mi vergogno di me
stesso, e mi vergogno ancor di più al pensiero che alla fine di tutto non sono
riuscito a produrre niente più di questo capitoletto che considero decisamente sottotono.
Mi scuso con tutti i
miei lettori, ma tra una cosa e l’altra il tempo per scrivere è stato veramente
poco, per non parlare di uno spiacevole imprevisto che ha irrimediabilmente
guastato la prima parte delle mie feste, su cui non ci soffermeremo qui.
Prometto solennemente
di rimettermi sotto seduta stante per produrre al più
presto nuovi e migliori capitoli.
Ringraziando la buona sorte Regis e Sakura riuscirono a
tornare all’interno del monastero senza venire individuati, e schivando i pochi
monaci di guardia nel cortile raggiunsero il tempio principale, all’interno del
quale non vi era nessuno.
Subito
presero a guardarsi attorno, alla ricerca di un qualche congegno segreto, e
come era accaduto a Dave ben presto anche l’attenzione di Regis venne attratta
dalla statua del Buddha.
«Qualcosa
non va’?» domandò Sakura notando il suo sguardo sospettoso
«Non noti
niente di strano?».
La
ragazza a sua volta guardò la statua, accorgendosi quasi subito della stranezza
che Regis aveva già notato dal primo momento in cui vi aveva rivolto gli occhi.
Nell’iconografia
comune il Buddha era sempre rappresentato con sette gemme disposte sugli altrettanti
chakra del corpo umano, quello del tempio invece di gemme ne aveva otto, con
una in più posizionata sulla fronte, subito sotto l’inizio della capigliatura.
Regis si
arrampicò sulla statua e, raggiunto il gioiello incriminato, un diamante di
qualità piuttosto scarsa, provò a toccarlo. Subito quello arretrò, si udì un
rumore di scatto e subito dopo la statua si mosse lateralmente, rivelando una
porta segreta alle proprie spalle con una lunga scalinata che scendeva verso il
basso.
«A quanto
pare avevi ragione.» disse Sakura «Qualsiasi cosa nasconda questo posto, si
trova sotto i nostri piedi.»
«Da ora
in avanti cerchiamo di fare attenzione. Oltre a questo misterioso demone, lì
sotto potrebbe esserci qualcuno di quei monaci invasati».
Alla luce
di un’ocarina magica evocata da Sakura i due ragazzi si addentrarono nel
cunicolo mentre l’ingresso si richiudeva alle loro spalle.
La
discesa non risultò eccessivamente impegnativa, e dopo un paio di minuti i due
ragazzi arrivarono davanti ad una grossa parete di roccia posta al termine
della scalinata: apparentemente, un vicolo ceco.
«Di qua
non si va’ da nessuna parte.» disse Sakura guardando in giro alla ricerca di un
improbabile, secondo meccanismo segreto.
Regis non
sembrava dello stesso avviso, e seguitava ad osservare con attenzione la parete
dinnanzi a loro, tanto levigata e diritta da dare l’idea di essere stata
realizzata apposta. Fu così che, aguzzando bene la vista, si accorse della
presenza di una linea perpendicolare che andava dall’alto in basso esattamente
a metà, chiaro segno della natura artificiale di quella che non era affatto
semplice roccia viva.
«È una
porta.»
«Che
cosa?»
«Questo è
un ingresso. Guarda, si vede la linea d’incontro dei due battenti.»
«Se è una
porta, ci sarà sicuramente un modo per aprirla. Dobbiamo trovarlo».
Alla fine
di tutto non fu necessario cercare alcun tipo di congegno, infatti dopo qualche
secondo la porta si aprì praticamente da sola, spalancando davanti ai due
ragazzi uno spettacolo tanto sconvolgente da lasciarli entrambi senza fiato.
Una
passerella non eccessivamente larga conduceva ad una enorme piattaforma
ottagonale sospesa su di un abisso senza fine, e al centro di essa vi era una
gigantesca colonna, che con ogni probabilità fungeva da base portante. Le
pareti, anch’esse ottagonali, erano completamente ricoperte di strane capsule
di vetro, e dentro la maggior parte di esse vi era un esoscheletro metallico
che riproduceva con una buona percentuale di verosimiglianza le fattezze di un
essere umano.
Attoniti
e atterriti, Regis e Sakura raggiunsero la piattaforma, e appena vi misero
piede questa, producendo un rumore metallico simile a quello di una carrucola,
cominciò lentamente a scendere come un gigantesco montacarichi, immergendosi
sempre più nelle profondità della terra.
«Ma che…»
disse meravigliata Sakura vedendo le migliaia di capsule che sporgevano dalle
pareti.
In cerca
di una risposta, Regis si avvicinò ad uno dei monitor che si trovavano tutto
intorno alla colonna centrale, e appena mise le dita sulla tastiera davanti a
lui cominciarono a scorrere decine e decine di simboli che parevano un incrocio
tra le rune elfiche e l’antico alfabeto del continente orientale.
Non li
aveva mai visti, almeno così gli sembrava, eppure si accorse, con suo grande
stupore, di saperli leggere alla perfezioni, come se fossero scritti nella sua
lingua madre.
«Non è
possibile!»
«Che
cosa?»
«Io…
riesco a leggerli.»
«Come hai
detto!?»
«Sembra
impossibile, ma riesco a leggere questi simboli.»
«Come può
essere?»
«Non ne
ho idea. Non credo di averli mai visti prima, ma ciò nonostante so esattamente
cosa vogliano dire».
Poco dopo
la piattaforma raggiunse quello che doveva essere il fondo della camera, e ciò
che attirò subito l’attenzione di Regis e Sakura fu la presenza di una ventina
di capsule che, invece di esoscheletri meccanici, contenevano i religiosi del
monastero e i loro due amici, Elys e Dave, tutti apparentemente sopiti in un
sonno profondo come la morte.
«Guarda!»
disse Sakura «Eccoli là!»
«Sì, li
vedo. Speriamo solo che siano ancora vivi.»
«Ma se
loro sono qui, chi è stato ad attaccarci lassù in superficie?»
«Bella
domanda. Forse questi terminali possono darci una risposta».
Pur se comprensibilmente
meravigliato dal prodigio di saper leggere una lingua che in linea teorica non
aveva neppure mai visto Regis mise temporaneamente da parte le molte domande
che stavano cominciando a sorgere in lui e prese a lavorare al computer, che si
rivelò essere molto più sofisticato e complesso di qualsiasi altro avesse mai
visto prima, inclusi quelli che facevano da cervello per i robot che fino a
quel momento aveva avuto modo di analizzare.
«È un
sistema operativo di classe superiore. Non ho mai visto niente del genere. Ma
posso confermarti che sono solamente criogenizzati.»
«Riesci a
liberarli?»
«Ci sto
provando, ma devo fare attenzione. Se sbaglio qualcosa nelle procedure di
scongelamento corro il rischio di ucciderli».
All’improvviso,
però, il monitor prese a lampeggiare di rosso, e contemporaneamente si udì il suono
assordante di un allarme: evidentemente, cercando di liberare i suoi amici,
Regis aveva involontariamente attivato un qualche meccanismo di protezione.
«Attenzione! Attenzione!» disse una voce
robotica «Violazione del sistema di
sospensione criogenica in corso! Attivare procedura di emergenza in difesa di
Animus!».
Una
strana scarica luminosa attraversò le capsule dove erano rinchiusi Elys, Dave e
i monaci, e subito dopo svariate decine di androidi vennero velocemente
ricoperti da una rivestitura che riproduceva fedelmente i tratti delle loro
controparti umane con una fedeltà pressoché perfetta.
Ecco
spiegato lo strano comportamento tenuto dai loro amici, pensarono Regis e
Sakura assistendo all’evento: non erano stati loro ad attaccarli, bensì degli
umanoidi che ne avevano le sembianze, e lo stesso valeva per i monaci, che
chissà da quanto tempo erano stati sostituiti.
«Non può
succedere anche questa.» disse Sakura mezza atterrita e mettendo nuovamente
mano al suo scettro.
Appena il
processo di creazione fu ultimato le capsule, e uno dopo l’altro, e uno dopo
l’altro i replicanti aprirono gli occhi, armandosi con spade e bastoni creati
appositamente per loro apparentemente dal nulla.
«Oh,
Cristo.» disse Regis, e subito dopo i cloni saltarono giù dai loro
alloggiamenti, lanciandosi subito all’attacco.
I due
riuscirono a respingere la prima ondata decapitando gli aggressori, che presto
scoprirono essere l’unico modo per arrestarli: anche se mutilati e privati di
intere parti del corpo, quegli androidi continuavano a combattere, e solo se
privati della testa cessavano definitivamente di funzionare.
«Posso
fermarli se riesco ad accedere al programma che li controlla!»
«Lumy!
Windy!».
Gli
spiriti del Fuoco e del Vento si materializzarono accanto a Sakura, giusto in
tempo per contrastare l’arrivo di un secondo gruppo di nemici.
«Noi li
teniamo occupati, tu fa più in fretta che puoi!».
Sakura e
i suoi due servitori si diedero da fare per tenere i replicanti lontani dalla
consolle, e intanto Regis, buttatosi nuovamente sul computer, si era messo a
cercare un modo per poterli arrestare, ma la tecnologia che era alla base di
quel sistema operativo si stava rivelando estremamente più complicata di quanto
si fosse aspettato, e in quella marea di file e programmi riuscire a trovare
quello giusto sembrava davvero un’impresa impossibile, almeno per chi non ne
aveva una padronanza più che buona.
Più di
una volta il ragazzo dovette interrompere il suo lavoro per contrastare qualche
replicante che, superato lo sbarramento, aveva cercato di aggredirlo, e per
difendersi non aveva esitato a fare ricorso anche alla pistola, che dall’inizio
del suo viaggio aveva sempre tenuto a riposo a causa della difficoltà nel
reperire armi e munizioni.
Di tutte
le sue armi, solo l’arco era stato lasciato indietro, e più precisamente in
dono alla famiglia reale quale promessa di un prossimo ritorno, ma in una
simile circostanza il suo utilizzo sarebbe stato del tutto impossibile.
«Ce l’ho
fatta! Ho trovato il programma giusto!»
«Allora
sbrigati, la situazione sta precipitando!».
Purtroppo,
come Regis si accorse subito dopo, il sistema di controllo era protetto da
tutta una serie di codici e password che era necessario bypassare, una
procedura che richiedeva inevitabilmente altro tempo, tempo che né lui né la
sua compagna rischiavano di non avere: ogni volta che un replicante veniva
ucciso altri due ne venivano creati al suo posto, e ormai la differenza
numerica stava cominciando a dare i suoi frutti.
«Regis,
muoviti!»
«Ci sono
quasi!».
All’improvviso
Sakura si vide venire contro una copia di Elys, che pur privata di un braccio e
con parte del volto sfigurata dal fuoco di Lumy era ancora perfettamente in
grado di combattere; in circostanze normali avrebbe potuto fare qualcosa, ma in
quella situazione non si accorse della minaccia se non all’ultimo momento,
troppo tardi per reagire.
«Ci
sono!».
Finalmente
anche l’ultima linea difensiva aveva ceduto, e avuto pieno accesso ai sistemi
che comandavano i replicanti Regis, senza porsi troppi problemi, staccò la
spina a tutti i comandi, certo che in questo modo sarebbe stato in grado di
fermarli. E infatti, immediatamente, tutti i robot si fermarono come
cristallizzati, giusto in tempo per salvare la vita a Sakura, e visto che uno
dei sistemi spenti dal ragazzo era quello che controllava l’integrità
strutturale delle cellule artificiali dopo qualche secondo i replicanti si
disintegrarono, lasciando null’altro che polvere.
«Ce ne
hai messo di tempo.»
«Scusa,
ma non è facile padroneggiare un aggeggio simile. Considera già una fortuna che
sia riuscito a capirci qualcosa».
Libero
dalla pressione Regis poté tornare a concentrarsi sui prigionieri, che liberati
dalle rispettive capsule vennero riportati dolcemente a terra da dei bracci
meccanici.
Sakura
fece appena in tempo a vederli scendere tutti a terra ancora addormentati,
quando, apparentemente senza ragione, si accasciò come svenuta.
«Sakura!»
disse Regis correndole incontro per aiutarla.
In pochi
lo sapevano, ma invocare gli spiriti della natura non era impresa facile, e
ogni volta era necessario un dispendio enorme di energie; negli ultimi giorni
Sakura, che per quanto potente aveva anche lei i suoi limiti, aveva fatto
ricorso un po’ troppe volte al loro aiuto, senza contare di quando era stata
costretta a sciogliere uno dei sigilli per poter combattere Saigos, e una
simile fatica avrebbe stremato chiunque.
«Va’
tutto bene?»
«Tranquillo,
non è niente.» rispose lei faticando a tenere gli occhi aperti «Sono solo un
po’ stanca.»
«Mi dispiace.
Se fossi stato più veloce non ti saresti ridotta così.»
«Non
pensarci. La colpa è mia, che non sono abbastanza forte».
Risaliti in
superficie al sorgere del sole con tutti i loro compagni, Regis e Sakura
vennero ringraziati mille volte dai sacerdoti del tempio e dallo stesso padre
superiore, la sola persona ad essere sempre stata in carne ed ossa, ma con la
coscienza dominata dal computer, e indirettamente responsabile di tutto quello
che era successo.
A quel
punto venne anche il momento delle spiegazioni.
Da secoli
e secoli i padri superiori si tramandavano in gran segreto l’effettiva
esistenza di qualcosa al di sotto del tempio, qualcosa che, a dispetto delle
credenze popolari, non era né un demone né qualsivoglia creatura, bensì
qualcosa di artificiale, creato dall’uomo, ma che per nulla al mondo doveva
venire alla luce.
Anni
prima il vecchio superiore, che allora era da poco entrato in carica, vinto
dalla curiosità aveva azionato il meccanismo segreto e si era avventurato nella
caverna per scoprire di cosa si trattasse, ma giunto al livello più basso del
complesso per errore aveva attivato il computer, che fulminatolo aveva
annullato la sua volontà, rimpiazzandola con una sorta di intelligenza
artificiale esterna. Da quel momento il padre superiore, che altro non era
diventato se non una prolungazione fisica della memoria centrale, aveva
cominciato ad attirare gli altri monaci nella caverna, dove, una volta messi in
animazione sospesa, venivano rimpiazzati con degli androidi che somigliavano in
tutto e per tutto alle loro controparti reali.
In
realtà, a differenza di quanto pensava Chun-Yun, la sostituzione era avvenuta
quasi cinquant’anni prima, ma per tutto quel tempo i replicanti erano stati
perfettamente in grado di mascherare la loro vera natura, almeno fino a poco
tempo prima, quando per un non meglio identificato problema la loro capacità di
simulare le emozioni umane aveva cominciato a venire meno.
«Un
virus.» ipotizzò Regis
«Un
virus!?» ripeté Chun-Yun
«Anche il
sistema operativo più perfetto non è immune da questo tipo di problemi.
Qualcosa deve essersi guastato, e questo è stato più che sufficiente. Del resto
le emozioni umane sono difficili da ricreare, soprattutto per un computer, che
per sua stessa natura è portato a pensare razionalmente.»
«Ad ogni
modo, siamo davvero dispiaciuti per i guai che vi abbiamo causato.» disse il
padre superiore «E vi ringraziamo infinitamente per aver posto fine a tutto
questo.»
«Non c’è
problema.» rispose Sakura «Solo, evitate di tornare ancora lì sotto. Non
possiamo sapere se e quando quella cosa infernale deciderà di tornare in
azione.»
«Non c’è
problema. Oggi stesso mureremo l’ingresso del passaggio segreto, così che
nessuno possa più avervi accesso.»
«È
un’ottima idea.» disse Regis «Ora però dobbiamo andare. Il nostro viaggio è
ancora lungo.»
«D’accordo.
Vi auguro buona fortuna, e spero con tutto il cuore che riusciate nella vostra
impresa, qualunque essa sia.»
«E di
nuovo grazie.» disse Chun-Yun «Non dimenticheremo mai quello che avete fatto.»
«Non c’è
di che. A presto».
Il
viaggio dunque riprese nella direzione indicata dalle gemme, non senza qualche
rimpianto per non essere riusciti a svelare almeno in parte il mistero
sull’installazione nascosta nella caverna del tempio, e su chi l’avesse costruita.
Nel
momento in cui aveva tolto energia a tutti i sistemi per fermare i replicanti
Regis, come lui stesso aveva scoperto a cessato pericolo, aveva anche provocato
un processo irreversibile di cancellazione memoria che aveva avuto come
risultato la perdita, forse definitiva, di tutti i dati immagazzinati nel
computer.
Regis era
riuscito a recuperare dalla scheda di memoria solo un piccolo testo scritto in
codice, stavolta illeggibile anche per lui, ma forse, con pazienza e
ragionamento, sarebbe stato capace di capirci qualcosa, anche se non era del
tutto sicuro di poter ricevere molte risposte da così poche righe.
Una
risposta, però, era in grado di darla lui stesso.
«Preservazione
della specie.» disse mentre camminavano
«Cosa!?»
ripeté Elys
«Era
questo lo scopo primario del computer. Garantire la conservazione e la
preservazione della specie umana. Ho trovato le informazioni in merito mentre
frugavo nel database.
Con tutte le guerre che
imperversavano in questa regione cinquant’anni fa, appena attivato avrà
ipotizzato che l’unico modo per proteggere gli abitanti del tempio e tutti
coloro che ci entravano fosse rinchiuderli in quelle capsule nascoste agli
occhi del mondo e sostituirli con dei replicanti, in modo da non alimentare
sospetti.»
«E ha
controllato il padre superiore per essere sicuro che il suo inganno non venisse
scoperto.» disse Sakura «Effettivamente ha senso.»
«Maestro.
Secondo voi chi può aver creato quell’impianto gigantesco?»
«Vorrei
poterti rispondere Dave, ma anche io mi sto facendo la stessa domanda.
Da quando questa storia ha avuto
inizio ci siamo più volte trovati di fronte a straordinari esempi di alta
tecnologia, e non parlo solo dei robot che abbiamo già affrontato. Ci sono
molti aspetti di questo mondo che mi hanno molto colpito fin dal mio arrivo, e
ad oggi non sono stato in grado di trovare una spiegazione a nessuno di essi.»
«Per esempio?» domando Elys
«Per esempio la tecnologia dei
cristalli. Non ve ne è traccia che risalga a prima dell’epoca a cui viene fatta
risalire la nascita dei grandi imperi umani.»
«Ora che mi ci fai pensare è vero.»
disse Sakura «La storia del nostro continente arriva a diecimila anni fa, prima
invece nessuno sa cosa vi fosse, e non sono mai stati ritrovati reperti
archeologici di alcun tipo. Sono in molti a credere che prima di quella data la
magia non fosse neppure conosciuta tra il nostro popolo.»
«E diecimila anni fa è anche
l’epoca in cui viene fatta risalire l’origine del popolo elfico. Prima pensavo
ad una semplice coincidenza, ma ora non ne sono più tanto sicuro.
Comunque, per tornare alla storia
dei cristalli, la scienza che regolamenta il loro utilizzo è sempre stata molto
progredita, troppo per l’epoca a cui, secondo i resoconti, viene fatta
risalire.»
«Intendete dire che potrebbe essere
stata creata da qualcun altro?» domandò Dave
«Non vedo altra spiegazione.»
«Ma da chi?» chiese Elys
«Senza ombra di dubbio si tratta di
una civiltà in possesso di enormi conoscenze scientifiche, ben più elevante di
qualsiasi popolazione che attualmente abita questo mondo.»
«Quindi…
sarebbero esseri provenienti da altri mondi? Proprio come te?»
«Non lo
so. Ma mi piacerebbe tanto scoprirlo».
Superate le montagne in sella ad un cavallo, Erik, Sanae e
Lily erano infine arrivati nel continente orientale, e il primo Paese in cui
entrarono, l’impero di Gan-Shu, rassomigliava molto al grande impero cinese
dell’ottavo secolo.
Quella di
Erik era fondamentalmente una marcia senza direzione: sarebbe andato ovunque le
tracce di Clow o del viaggio della razza elfica verso occidente che con molta
probabilità il mago aveva seguito lo avrebbero condotto, ma dopo cinque giorni
di viaggio attraverso foreste di bambù e immense distese collinari in cui
scorrevano placidi fiumi o si coltivavano immensi terrazzamenti di risaie nella
parte occidentale di Gan-Shu non sembravano esserci segni che potessero far
pensare ad un qualcosa di grande importanza, pertanto Erik, seguendo un’antica
pista indicatagli da un contadino che procedeva verso nord, si era diretto in
quella direzione.
Furono
necessari altri tre giorni, ma alla fine il gruppo arrivò in vista di
Thao-chuan, la capitale dell’impero, una enorme città unica nel suo genere;
costruita su più livelli, con rampe, scale e grandi montacarichi per le merci e
le persone, doveva la sua forma al fatto di essere costruita sulle sponde, le
pendici e il fondo di un gigantesco canyon.
Essendo Gan-Shu
l’unico Paese d’oriente ad intrattenere rapporti commerciali con Europia,
detenendo pertanto il monopolio assoluto di tutti i prodotti che da lì
provenivano, il potere nell’Impero era in mano ai mercanti, che pur essendo
visti con un certo disprezzo per la loro proverbiale avidità erano tutti
terribilmente ricchi, abbastanza da potersi permettere interi eserciti di
mercenari e comprare letteralmente dall’imperatore l’amministrazione di una
provincia o di un feudo.
E fra
tutti, il più ricco tra i mercanti era senza dubbio Mau-Rao, il governatore
della stessa Thao-chau, una persona influente e potente ma dotata di
quell’illuminazione mentale tale da garantire se non altro la trasparenza e
l’incorruttibilità della sua persona; che poi fosse un uomo dedito ai lussi e
ai piaceri sfrenati era un’altra questione.
Pur
essendo per metà un Rinnegato, e quindi più resistente dei comuni esseri umani
a debolezze quali la fame, la stanchezza e la fatica, anche Erik aveva i suoi
limiti, e un’intera settimana spesa a vagabondare per un Paese sconosciuto era
più di quanto lui stesso potesse sopportare, pertanto, anche su consiglio di
Lily, decise di fare tappa in città, per poi riprendere il cammino il giorno
successivo.
Il
problema era che i pochi soldi che Sanae aveva portato con sé dal villaggio
erano sfumati tutti per pagare la locanda in cui avevano soggiornato prima di
valicare le montagne, e senza soldi era impossibile ottenere un giaciglio
decente di qualunque tipo, per non parlare del fatto che i crediti di Europia,
ducati umani o fiorini elfici che fossero, non avevano alcun valore in Oriente,
dove la maggiore moneta di scambio, oltre ovviamente ad oro, argento e pietre
preziose, era lo Yuang.
«Come
faremo a procurarci un letto se non abbiamo il becco di un quattrino?» domandò
Lily mentre camminavano lungo una strada larga e molto trafficata quasi sul
fondo del canyon
«Non
temere, qualcosa ci inventeremo.» rispose Sanae «Giusto, nobile Erik?».
Lui non
rispose, come sempre del resto, ma le due ragazze ormai lo conoscevano
abbastanza bene da sapere che il suo silenzio valeva più di mille parole.
Ad un
certo punto il passaggio di un carro piuttosto sfarzoso trainato da una coppia
di cavalli bianchi e scortato da due soldati a cavallo fece spostare tutti dal
centro della strada per potergli cedere il passo, e da questo Erik capì che
all’interno doveva esserci qualcuno di importante.
Proprio
quando il corteo stava transitando accanto a loro qualcuno dall’interno
discostò leggermente i paraventi.
«Ferma.»
disse la voce di un ragazzo, e immediatamente il carro si fermò.
A dare
l’ordine era stato un giovane poco più che ventenne, capelli neri pettinati con
cura e ricchi abiti nobiliari; il suo nome era Jun-Tao, ed era l’unico figlio
del potente Mau-Rao. Come il padre era un amante del lusso e delle comodità, ma
nulla attirava la sua attenzione più delle belle ragazze, e davanti a lui era
appena comparsa quella che a buon diritto poteva essere considerata come la più
incantevole espressione di innocenza femminile che un uomo potesse desiderare.
Con lui
Takuro, la sua guardia del corpo, un uomo abbastanza alto ma un po’ tarchiato,
privo di un occhio a causa di una vecchia ferita di guerra e amante spasmodico
della sua pregiata pipa di canna, dalla quale non si separava mai.
«È
davvero carina.» disse il ragazzo guardando Sanae, che a sua volta cercava, per
quanto possibile, di scrutare lo sguardo che appariva leggermente da dietro il
paravento
«È solo
una Inu.» commentò seccamente Takuro, che troppo spesso aveva visto il suo
giovane padrone perdere la testa per la prima donna che incontrava per strada
«Per di più una contadina. Era da un po’ che non se ne vedevano in città.»
«Non c’è
dubbio, è la ragazza più bella che abbia mai visto.»
«Padrone,
non abbiamo tempo per questo. Vostro padre vi attende a palazzo.»
«Ma dai.
Non vedi quant’è carina?»
«Manderò
i miei uomini a prenderla più tardi. Ora dobbiamo andare.»
«Va’
bene, d’accordo. Ma bada bene che non le sia fatto del male, o decorerò la mia
stanza con la tua testa».
A quel
punto il carro si rimise in marcia, ma prima ancora che scomparisse del tutto
in fondo alla strada un uomo, sicuramente un poco di buono, passò correndo
accanto ad Erik e Sanae con un grosso involto sulle spalle; poco distante un
altro uomo lo inseguiva indefessamente gridando con quanto fiato aveva di
essere stato rapinato e urlando alla folla di fermare il ladro.
Furti di
ogni genere, soprattutto di cibo, non erano certo una rarità a Gan-Shu, e si
erano fatti ancor più frequenti dopo la fine della guerra civile che aveva
devastato le campagne del sud, e con la penuria di uomini che c’era la guardia
cittadina non poteva fare molto per porre un freno a questo fenomeno, men che
meno nelle zone più vicine al fondo del canyon, unanimemente riconosciute come
le più povere e degradate della città.
«Fermatelo!
Fermate quel ladro! Ha derubato la mia bancarella!».
Forse per
paura, forse per semplice omertà, nessuno interveniva, ma ad un certo punto
sulla strada del ladro si parò un giovane poco più che ventenne dai tratti
gentili e dai capelli di uno strano colore, un nero opaco simile quasi ad un
verde molto scuro, pettinati alla maniera dei guerrieri, con una coda non
troppo lunga realizzata poco sotto la nuca.
Non si
trattava di una persona del posto, ma piuttosto di un giovane samurai, a
giudicare dall’abito che indossava, un hakama giallo e una giacca rossa
sormontata da un gilè nero senza maniche, e dalla katana che portava alla
cintura.
Questi,
che fino ad un attimo andando per i fatti suoi, come vide avvicinarsi il ladro
si volse di scatto, e con una mossa da combattimento tanto abile quanto semplice
riuscì a farlo cadere, colpendolo allo stesso tempo al mento e allo stomaco; l’involto
rubato volò in aria e si aprì, rivelandosi pieno di verdure e ortaggi di
stagione che andarono a disperdersi tutto intorno, attirando una gran folla
smaniosa di accaparrarsene una parte.
Privato del
suo prezioso carico il ladro sembrava finito, e la sua espressione contrariata
diceva molto sulla rabbia che provava per essere stato messo sotto da un
ragazzino; a ben guardarlo forse non si trattava di un comune rapinatore,
quanto piuttosto di un mercenario che, a causa della fine della guerra, si era
ritrovato di colpo senza lavoro, vedendosi quindi costretto a rubare per
potersi guadagnare il pane.
«Dannato
moccioso.»
«Che
razza di guerriero saresti tu? Il tuo onore vale così poco?»
«Questi
discorsi dovresti farli quando hai la pancia vuota da dieci giorni. Non puoi
capire cosa si prova.»
«Resta il
fatto che sei diventato un volgare ladro di strada, e per il tuo crimine dovrai
pagare.»
«Questo è
da vedere».
Con uno
scatto del tutto inatteso il ladro si avventò su di una giovane donna che
assisteva alla scena, e afferratala per i lunghi capelli andò a barricarsi in
un angolo; il ragazzo, colto alla sprovvista, cercò di intervenire ancora, ma
prima che potesse farlo il ladro sfoderò la propria spada, puntandola alla gola
dell’ostaggio.
«Non ti
avvicinare!»
«Maledetto.»
mugugnò il ragazzo tenendo la mano destra vicina all’impugnatura della sua
katana.
Anche Erik
e gli altri nel frattempo erano giunti sul luogo, mescolandosi alla marea di
persone che assistevano impotente allo scorrere degli eventi. Sanae non osava
aprire bocca, ma lo sguardo che rivolgeva ad Erik era tanto eloquente da
rendere superflua qualsiasi parola. Forse fu grazie a quello, forse a qualcos’altro,
fatto sta che alla fine il giovane guerriero si fece largo tra la folla e
raggiunse il teatro dello scontro.
«E tu chi
diavolo sei?» domandò il ladro
«Vendere la
propria dignità di guerriero e farsi scudo di una giovane ragazza. Non sei
degno della spada che impugni.»
«Ti ci
metti anche tu? Ti avverto, dì un’altra parola e la uccido».
Il giovane
samurai sembrava particolarmente colpito dal nuovo arrivato, ed essendo lui
stesso un guerriero capì al primo sguardo che la persona accanto a lui meritava
onore e rispetto più di chiunque altro, tanto erano grandi la sua esperienza e
il suo valore.
Erik fece
comparire la spada d’oro, un’apparizione che lasciò tutti di sasso, quindi, con
incredibile noncuranza, prese ad avvicinarsi; tanto, lo spettacolo che aveva
appena sfoggiato e quel suo modo di agire freddo e determinato avevano del
tutto atterrito il ladro, che tremava come una foglia.
«Non… non
ti avvicinare. Non ti avvicinare o io la…».
Quelle furono
le sue ultime parole.
Furono necessari solo due colpi,
portati ad una incredibile velocità: il primo, obliquo, recise i capelli della
ragazza a circa metà, che essendo inginocchiata e sollevata di forza cadde in
avanti, sottraendosi ad eventuali colpi istintivi da parte del sequestratore,
il secondo invece, orizzontale, inferse al ladro un taglietto apparentemente
insignificante, ma la terminazione nervosa che Erik aveva colpito prese a
sparare una tale quantità di scariche che quel poveraccio cadde a terra svenuto
in meno di dieci secondi.
Tutto attorno calò un silenzio da
cimitero, soprattutto quando la ragazza tenuta in ostaggio, rialzata la testa,
si rese conto di essere ancora viva. Il più stupito era senza dubbio il giovane
samurai, che guardava Erik con la bocca spalancata e gli occhi carichi di meraviglia.
«G… Grazie.» disse la ragazza
«Mi dispiace per i capelli.» disse
Erik, poi, seguito da Sanae e Lily, quest’ultima che sorrideva divertita, come
a dire che si aspettava qualcosa del genere, se ne andò.
Nota dell’Autore
Rieccomi!
Come promesso, ho
aggiornato il più velocemente possibile, e tenendo conto di feste e affini che
ho avuto di mezzo direi che ho tenuto un buon tempo.
Lo so, normalmente
aspetto sempre che le mie due recensitrici favorite lascino i loro commenti
prima di postare ancora, ma a quanto pare Akita
ha avuto di nuovo problemi con il pc, e io non sono riuscito a resistere.
Ora però, come già
accaduto in passato, attenderò nuovamente il suo ritorno prima di aggiornare
ancora, quindi vi prego di essere pazienti.^_^
Dopo aver sistemato quel brigante Erik
si era rimesso in cammino come se niente fosse, seguito come sempre da Sanae e
Lily, alla ricerca di un luogo in cui passare la notte. Un abitante del posto
gli aveva detto che poco distante, lungo le pendici del canyon, si trovavano un gran numero di grotte e piccoli antri scavati
nella roccia che tempo addietro servivano come magazzini, ma che poi, divenuti
troppo piccoli, erano stati abbandonati.
Il più
delle volte costituivano rifugio per mendicanti e sbandati, ma quelli situati
più in alto, e perciò più difficili da raggiungere, erano invece quasi tutti
liberi, e anche in condizioni igieniche un po’ migliori.
Erik e i
suoi compagni ne trovarono uno vuoto proprio all’ultimo livello verso l’altro,
e visto che all’interno vi era anche un paiolo sopra
ad un braciere posto al centro Sanae poté mettere a cuocere il riso che il
padre della ragazza presa in ostaggio che Erik aveva salvato aveva insistito ad
offrire loro come ringraziamento per aver salvato sua figlia.
«Ancora un po’ ed è pronto.» disse
la ragazza rimestando la pietanza.
Nell’attesa Erik restava appoggiato
a ridosso del muro a gambe e braccia incrociate, poi, ad
un certo punto, il giovane samurai che era riuscito per primo a bloccare la
fuga del ladro e aveva tentato, senza successo, di risolvere anche il sequestro
della giovane donna entrò nella stanza, e messosi davanti a lui si prostrò ai suoi
piedi.
«Mi
chiamo Koichi Matsumoto.» disse «Vi prego,
permettetemi di diventare vostro discepolo».
Erik aprì
gli occhi, guardandolo senza proferire parola, e altrettanto fecero Sanae e
Lily; quest’ultima però, come suo solito, sembrava anche molto curiosa.
«Mio
discepolo, hai detto?»
«Ve ne prego. Ho visto la vostra abilità con i mie occhi, e ne sono rimasto atterrito, e sento che potrei
apprendere molto viaggiando al vostro fianco.»
«Mi
sembri un po’ giovane per essere un samurai.» disse Lily girandogli attorno
«Insomma,
Lily.» disse Sanae «Vogliate perdonarla.»
«No… ha
ragione.» rispose Koichi mortificato «Non ho ancora esperienza, a dire il vero…»
«Per
quale motivo vorresti diventare mio discepolo?»
«Io sono
un giovane samurai che crede che la nobiltà d’animo e la
levatura morali debbano essere le virtù prime di un guerriero, di gran
lunga superiori anche all’abilità nel combattere, e vedendo come vi siete
battuto per contrastare quel bandito ho capito che anche voi la pensate allo
stesso modo.»
«Trovati
qualcun altro.» fu la risposta secca e spietata di Erik
«Io non sono la persona che credi. Sono solo un’ombra, una
creatura senza patria e senza futuro, e gli ideali che sicuramente avrai
pensato di vedere in me sono ben lontani dal far parte della mia persona.»
«Ma… ma io…»
«Inoltre,
tutti coloro che hanno riposto fiducia in me
chiedendomi di guidarli sono morti, e per causa mia. Se dovessi davvero
diventare suo maestro, subiresti lo stesso destino.»
«Questo
non mi importa. Se potrò difendere anche solo un’anima
innocente con la forza della mia katana allora questa
mia esistenza avrà avuto un significato, e morirò senza rimpianti.»
«Non dare
così poco valore alla tua vita, ragazzo.» rispose Erik con tono quasi di
rimprovero «Non fare il mio stesso errore».
Di colpo,
l’attenzione di Erik venne attirata da una corrente
minacciosa, e immediatamente il ragazzo mise all’opera tutti i suoi sensi.
«Restate
qui.» disse prendendo l’uscita
«Nobile
Erik.» tentò di dire Sanae, ma prima che potesse aprire bocca
lui se ne era già andato
«Non
preoccuparti, starà bene.» disse Lily.
La
facilità con cui Erik aveva avvertito l’avvicinarsi di un pericolo fu
l’ennesima dimostrazione di abilità che lasciò Koichi senza fiato, e forse, a
ben pensarci, un samurai di piccolo calibro come lui non meritava davvero di
avere come proprio guerriero un guerriero di così
grande e sconfinata levatura.
«Tieni.»
disse Sanae porgendo a Keichi una ciotola di riso
«G…
grazie.» rispose lui arrossendo leggermente
«Non fare caso al nobile Erik. Lui ha un modo tutto suo di relazionarsi con le persone.»
«Voi lo
conoscete da molto tempo, nobile…»
«Sanae. Chiamami pure così. A dire il vero no. Viaggio con lui solo da qualche mese. Il nobile Erik può
sembrare freddo e distaccato, ma in realtà ha un animo sensibile e generoso.»
«E la
cosa è piuttosto sorprendente, visto tutto quello che ha passato.» disse Lily con
tono insolitamente serio, tanto da far preoccupare i due ragazzi
«Lily, di cosa parli? Che cosa è accaduto al nobile Erik?».
La fatina
esitò, comprendendo forse di aver parlato più del dovuto, ma una parte di lei sembrava ansiosa di condividere quel segreto
con altri.
«Non
dovrei dirvi queste cose, e non sono sicura che lui approverebbe,
ma visto che la sua sorte vi sta così tanto a cuore è giusto che sappiate.
Molti
anni fa, prima di arrivare in questo mondo, Erik era al servizio di un
individuo meschino e malvagio che tutti chiamavano
l’Imperatore.»
«Prima di
arrivare in questo mondo!?» ripeté Koichi «Vuoi dire
che il nobile Erik viene da un altro mondo.»
«Da
un’altra dimensione, se ho capito bene.» rispose Sanae, che quella parte della
storia già la conosceva «E non è stato l’unico ad
arrivare nel nostro mondo in questo modo. C’è anche
un’altra persona, un guerriero di nome Regis.»
«Non si chiama Regis. Il suo vero nome è Toshio. Lui ed Erik
sono uniti da un legame indissolubile, tale che nessuno dei due può
sopravvivere senza l’altro.
Ad ogni
modo, quando capì che tipo di persona stava servendo, decise di ribellarsi. A
quelli che si unirono a lui, e furono tanti, promise giustizia, pace, e un
futuro libero dalla schiavitù.
Ma la risposta dell’Imperatore fu più violenta e barbarica
del previsto. Tutti, anche coloro ai quali teneva di più, morirono. Lui solo
sopravvisse.»
«È
terribile.» disse Koichi
«Tra di loro c’era anche la persona che per lui contava più
della sua stessa vita. Prima di morire, quella persona gli fece promettere di
dedicare la sua intera vita alla ricerca di un modo per restituire la libertà
al suo popolo, e a distanza di tanti anni questa promessa è ciò che lo fa
andare avanti».
Un
silenzio commosso calò nella stanza, e sia Sanae che
Koichi abbassarono lo sguardo.
«Ora
capisco.» disse la ragazza «Ogni volta che lo guardavo
percepivo qualcosa nei suoi occhi, come una malinconia soffusa che cercava di
nascondere.» poi si rivolse a Lily «Come fai a sapere queste cose?»
«È stato lui a raccontarmelo. Immagino sentisse il bisogno
di alleviare almeno un po’ il peso di questo macigno che gli schiaccia il
cuore.»
«Non ti
ho mai chiesto come vi siete conosciuti.»
«Nel deserto, in un’oasi. Io… io non so perché, ma appena
l’ho visto ho capito che potevo fidarmi di lui. Forse, mi sono detta, lui
poteva aiutarmi a scoprire la verità.»
«Di quale
verità parli?» domandò Koichi.
La fatina
posò la sua ciotolina, ricavata da Sanae con un
vecchio tappo di sughero, e guardò in basso; sorrideva, ma si leggeva la
tristezza nei suoi occhi.
«Anche io ho il mio segreto. La verità è che io non so nulla
di me.»
«Non sai
nulla?»
«Non so chi sono stata, quando e come sono nata. Non so
nemmeno quanti anni ho, e per quanto vivono le fate
potrei averne uno come cento.»
«E allora
il tuo nome?» chiese Sanae «Lily?»
«Me lo ha dato la vecchia signora con la quale ho vissuto fino
al giorno in cui ho incontrato Erik. È lei che mi ha trovata,
svenuta nel bel mezzo del deserto, a quanto diceva».
Lily
strinse un po’ i pugni, ostentando un’espressione sicura e fiduciosa.
«Ad ogni modo, sono sicura di non essere capitata qui per
caso. Fin dal primo giorno della mia vita di cui ho memoria
ho sentito di essere venuta al mondo per fare qualcosa, qualcosa di specifico,
e forse stando al fianco di Erik, e compiendo assieme a lui questo viaggio in
giro per il mondo, mi ricorderò di che si tratta».
All’improvviso
qualcuno gettò due grosse sfere di terracotta all’interno della stanza che a
contatto con il suolo andarono in pezzi, liberando una spessa cortina di fumo
bianco e denso; quasi subito questo si rivelò essere un potentissimo gas
soporifero, forte abbastanza da risultare efficace
persino su Lily, e in pochi secondi, nonostante i loro tentativi di resistenza,
lei e i due ragazzi caddero addormentati.
Subito
dopo entrarono due uomini che indossavano delle spesse
maschere destinate con ogni probabilità a proteggerli dagli effetti del gas;
uno dei due si accertò che le vittime fossero effettivamente addormentate dando
loro dei colpetti con il piede, quindi fece un cenno al suo compare,
decisamente più grosso, che si caricò Sanae sulle spalle, quindi entrambi si
allontanarono in tutta fretta.
Erik, del tutto inconsapevole di quanto stava accadendo a
Lily e Sanae, era ritornato nella parte più profonda del canyon, la zona povera
della città, in un vasto piazzale che, a giudicare dalle impalcature mezze
marcite costruite tutto intorno a dei muri e dalle barre di metallo coperte di
ruggine e accatastate qui e là era anche il cantiere di costruzione per
un’opera, forse un capannone, iniziata ma mai finita.
Giunto al
centro dello spiazzo si fermò, come pietrificato, e con impercettibili
movimenti della testa prese a sondare con lo sguardo l’ambiente che lo
circondava, alla ricerca di una qualsiasi presenza minacciosa in agguato
attorno a lui.
Invece, a
dispetto del solito, stavolta il suo avversario in modo del tutto onesto e
leale, senza attacchi a sorpresa, e aveva le sembianze di una giovane ragazza
molto carina. A occhi e croce doveva avere venticinque anni o poco più, alta e
slanciata, un viso ovale ben proporzionato e illuminato da due
grandi occhi blu, mani piccole con dita lunghe e sottili e capelli di un
insolito color turchese raccolti in una lunga coda.
La sua arma
era un lungo bastone fatto all’apparenza dello stesso materiale di cui erano
composti la lancia e lo scudo di Hyldren, il che lasciava supporre che i due
stessero probabilmente dalla stessa parte. Erik materializzò la propria spada
appena i due furono viso a viso, e per lunghissimi
secondi non si sentì volare una mosca.
«Posso
sapere chi mi ha mandato a chiamare?» domandò il ragazzo ad
un certo punto
«Allora
hai percepito il mio richiamo.»
«Bisognerebbe
essere ciechi e sordi per non percepire un potere tanto singolare.»
«Il mio nome è Kori. Il tuo
invece?»
«Io mi chiamo Erik.».
I due
ragazzi presero a quel punto a girare in tondo, senza mai staccare gli occhi
l’uno dall’altro.
«Ora che
abbiamo fatto le presentazioni, potresti dirmi che cosa vuoi da me?»
«Abbiamo bisogno della tua collaborazione. Accetta di venire
con me, ed avremo evitato un combattimento inutile.»
«Spiacente,
ma al momento ho altre priorità.»
«In
questo caso, suppongo non ci sia altra scelta».
Quasi
all’unisono schizzarono velocissimi l’uno contro l’altro, incrociando le armi e
dando vita ad uno scontro molto acceso; Kori, come aveva detto di chiamarsi, era una guerriera di
grande talento, forse più abile anche di Hyldren, e da un primo assaggio dei
suoi poteri Erik pensò, non senza provare un senso di stupore e intimidazione,
che essi erano forse superiori persino a quelli di Dusk o Gin.
Il suo
stile era particolare, fatto di tutta una serie di colpi precisi e potenti
nelle parti vulnerabili del corpo; sembrava finalizzato a sfiancare piuttosto
che ad uccidere, e anche la sua arma pareva essere
stata concepita proprio a questo scopo. D’altro canto Erik non percepiva odore
di morte attorno a lei, il che stava a significare che
doveva essere passato molto tempo dall’ultima volta che aveva privato qualcuno
della vita, e che forse non lo aveva neanche mai fatto.
Un urto
più deciso tra le due armi produsse un’onda d’urto che fece volare
letteralmente via i due, i quali, arrivati sulla sommità rispettivamente di una
trave orizzontale e di una grossa tubatura in ferro
che correvano parallele presero a correre velocissimi nella stessa direzione
tenendosi sempre vicendevolmente d’occhio. Di quando in quando saltavano, si affrontavano un attimo in volo per poi scambiarsi i posti, e
quando sia il tubo che la sbarra finirono spiccarono un nuovo salto che li
condusse direttamente su una strada del livello superiore, dove continuarono
imperterriti il loro scontro nel bel mezzo della folla.
Ad un certo punto Erik assestò a Kori
un colpo particolarmente potente, tanto che la ragazza, pur essendo riuscita a
pararlo, venne spinta all’indietro di quasi una decina di metri, ma non appena
Erik tentò di correrle incontro per approfittare dell’occasione lei rialzò la
testa e sollevò il bastone, e contemporaneamente un’aura elettrica di colore
azzurro brillante la circondò interamente, sprizzando scintille da tutte le
direzioni.
«Kaminari!».
Non
appena Erik vide un gigantesco fulmine piombargli addosso dall’alto si immobilizzò subito, mettendosi in posizione difensiva;
l’attacco lo colpì in pieno, producendo un baccano assordante e un fittissimo
polverone, oltre a terrorizzare a morte la gente che assisteva tutto intorno,
ma nonostante ciò Erik ne uscì senza neanche un graffio, con grande stupore di Kori.
“Incredibile. Ho lanciato il mio attacco quasi alla massima
potenza, e nonostante ciò lui è riuscito a respingerlo.
Deras aveva ragione. Non è un comune
essere umano”.
La
ragazza pensò che in quella situazione non era né saggio né
consigliabile proseguire ulteriormente nella sfida, e che se voleva
misurarsi con un avversario di quel livello doveva spingersi ben oltre di
quanto le fosse stato concesso di arrivare per quella missione.
Inoltre,
Erik aveva tutta l’aria di un nemico che poteva rivelare molti assi nella
manica, quindi affrontarlo subito a viso aperto non
era per niente una buona idea.
«Basta
così.» disse abbassando la propria arma «Ci rivedremo».
Erik non
fece alcun tentativo per fermarla, e appena se ne fu andata tra due ali di
folla esterrefatta fece scomparire la propria spada, ma una nuova e
preoccupante sensazione gli fece capire che per quel giorno era ancora presto
per mandare la sua fidata compagna a riposo.
Nel frattempo, al rifugio, Koichi e Lily si erano
risvegliati, e accortisi della scomparsa di Sanae si
erano immediatamente messi sulle sue tracce.
Gli Inu erano rari da vedere in città, quindi pensavano che se
anche qualcuno l’avesse rapita, come era molto
probabile, la cosa non sarebbe passata inosservata, ma nessuno fu in grado di
dare indicazioni precise o dichiarò di averla vista.
Alla fine
un gruppo di uomini seduti fuori da una taverna chiesero
seriamente se la Inu in questione fosse una ragazza
attraente, e Koichi, arrossendo leggermente, ammise che sì, Sanae era effettivamente,
a suo giudizio, una ragazza molto carina. Alla risposta affermativa del ragazzo
uno degli uomini affermò che quasi sicuramente dietro la sua sparizione vi era
la mano del figlio del governatore, Jun-Tao, la cui
passione per il gentil sesso era nota a tutti.
E infatti a rapire Sanae erano stati proprio due fedeli
guardie di Jun-Tao, e quando la ragazza si svegliò si
ritrovò distesa su di un morbido puff di pregiato
tessuto bianco all’interno del carro del principe assieme a Takuro
e allo stesso Jun-Tao; questi, vedendola aprire gli
occhi, le sorrise innocentemente, come se si trattasse di una situazione del
tutto normale.
«Ciao».
Lei,
confusa e spaventata, balzò a sedere.
«Rilassati. Non devi avere paura.»
«Che cosa è successo? Chi siete?»
«Io mi chiamo Jun-Tao. E da oggi,
tu sarai sotto la mia protezione.»
«Sotto la
vostra protezione!? Che significa? Dove sono? Dov’è il
nobile Erik? E Lily? E il nobile Koichi?»
«Se parli dei tuoi amici, non hai motivo di preoccuparti.
Loro stanno bene. Non è mia abitudine fare del male ai popolani.»
«Vi prego, lasciatemi andare. Il nobile Erik mi starà
cercando in questo momento.»
«Non essere così tesa, non ce n’è motivo. Vedrai, da oggi in
avanti ti sembrerà di vivere in una bellissima fiaba. Indosserai abiti
lussuosi, ti coprirai di gioielli e mangerai cibi sopraffini. Più di quanto
chiunque potrebbe sperare».
Poco
distante da lì Keichi, correndo come un pazzo per
tutta la città, si era messo alla ricerca del carro di Jun-Tao,
e quando finalmente lo vide a circa metà della strada che conduceva
direttamente al palazzo del governatore senza pensarci un momento ci si lanciò
contro a spada tratta, e altrettanto impulsiva si
dimostrò Lily, che prese a sparare fasci di luce e a muoversi qua e là come una
scheggia impazzita.
«Lasciate
andare la nobile Sanae!» gridò lanciandosi sulla scorta
«Che sta
succedendo?» domandò spaventato Jun-Tao sentendo
tutto quel baccano.
Le
abilità di Koichi erano decisamente mediocri, ma
grazie anche e soprattutto all’aiuto di Lily riuscì a tenere testa ai suoi
aggressori. Approfittando della disattenzione dei suoi carcerieri Sanae tentò
di scappare saltando giù dal carro, ma venne raggiunta
e agguantata da uno dei due uomini che l’avevano rapita, il cocchiere, un
gigante dall’aria parecchio torda che cogliendo al
volo l’occasione riuscì anche a rendere inoffensiva Lily, afferrandola mentre
era di spalle e rinchiudendola in una lanterna di vetro che faceva da ornamento
per il carro. L’altro rapitore, lo stesso Takuro,
scese a sua volta, e altrettanto fece Jun-Tao, più
infuriato che mai.
«Nobile Keichi!»
«Lasciate
andare subito la nobile Sanae.»
«Tu, maledetto. Chi ti credi di essere per darmi degli ordini?»
«Padrone, voi restate indietro. Potrebbe essere pericoloso.»
«Uccidilo,Takuro. Fallo soffrire!».
Le altre
guardie della scorta si fecero da parte, formando tutte insieme una transenna
umana circolare per tenere indietro i curiosi, delimitando attorno ai due
sfidanti un’arena di circa sei metri di diametro.
Essendo
anch’egli un samurai Takuro probabilmente aveva
capito fin dall’inizio che non si sarebbe trattato di uno scontro difficile;
per un occhio allenato come il suo l’inesperienza di
Koichi era più che palese, e se la sarebbe sbrigata con poco.
Sfoderata
la spada, un bo animato, dimostrò fin da subito la
sua superiore abilità schizzando verso Koichi ad una
velocità impressionante, ancor più incredibile se si teneva conto della sua
mole non indifferente, e già dal primo scambio il ragazzo si ritrovò in
difficoltà. Takuro gli teneva testa senza problemi,
ed era chiaro che il suo scopo era proprio quello di umiliare Koichi facendogli
capire quanto fosse stato stupido da parte sua pensare di poter anche solo
confrontarsi con un avversario così al di fuori della sua portata.
«Sì, Takuro!» gridava Jun-Tao fuori di
sé «Fallo soffrire! Continua così!»
Il
giovane e irruente samurai venne messo più volte alle
strette, e ad un tratto un fendente quasi gli strappò la vita; solo per una
deviazione del tutto fortuita quello che poteva essere un colpo mortale si
tramutò in una ferita al fianco destro, ma fu più che sufficiente per far
serrare i denti al ragazzo, che cadde in ginocchio.
«Nobile Koichi!»
«Direi che può bastare. Finiscilo, e poi andiamocene a casa».
Koichi
rimase a guardare mentre Takuro, impugnata la spada
con entrambe le mani, rivolgeva la lama verso il basso e divaricava le gambe,
in una delle classiche pose statiche che precedevano l’esecuzione di un attacco
che si proponeva di essere mortale.
Si sentiva un incompetente e uno straccio, conscio della
propria stupidità, ma nonostante questo non volle saperne di arrendersi, e
lottando con il dolore si rialzò in piedi, assumendo a sua volta una posizione
d’attacco.
Nella
strada calò un silenzio da cimitero: il primo attacco sarebbe stato anche
l’ultimo, e chi dei due fosse riuscito a colpire per primo
avrebbe vinto.
I due
avversari si scrutarono vicendevolmente, guardandosi dritti negl’occhi,
poi, contemporaneamente, scattarono; un solo assalto, come previsto, e subito
dopo aver colpito entrambi si fermarono, restando di spalle.
A
giudicare dall’angolazione e dall’impugnatura delle
spade, Koichi aveva colpito con un fendente orizzonte, mentre Takuro con un attacco dall’alto verso il basso destinato a
tagliare letteralmente in due l’avversario.
Seguirono
altri lunghissimi secondi di silenzio, poi Koichi cadde in ginocchio, e dalla
manica destra del suo kimono cominciò a gocciolare del sangue.
«Nobile…
Koichi…» mormorò Sanae con gli occhi umidi e la voce rotta dallo sconcerto.
Takuro sorrise, poi però quel suo sorriso si mutò in un
ringhio sommesso.
«Non… non
è… possibile…» riuscì a dire, e subito dopo cadde in avanti, rovinando già
svenuto tra la polvere e la terra rocciosa.
Tutti, Jun-Tao in primis, assistettero alla scena con indicibile
stupore; Takuro non era morto, ma la ferita che aveva
subito lo avrebbe lasciato privo di sensi per un bel po’.
«No! Questo è impossibile! Tu non puoi essere sconfitto, Takuro! Non te lo avevo permesso!».
Sanae era
così felice che pensò di stare per svenire, e appena Jun-Tao vide Koichi alzare gli occhi, che per quanto
affaticati e provati ostentavano uno sguardo di vittoria lui invece fu sul
punto di scoppiare, dalla collera.
«Lasciate
andare subito la nobile Sanae.»
«Tu,
dannatissimo insetto.» disse ringhiando «Te la sei cercata!» e ad un suo schiocco di dita le guardie della scorta, che fino
a quel momento si erano tenute in disparte, gettarono via le picche e
sfoderarono alcuni rudimentali moschetti che portavano all’interno di un fodero
collocato dietro la schiena.
Armi estremamente scomode, d’accordo, e molto poco affidabili
quando si trattava di precisione, ma da quella distanza anche un ceco sarebbe
stato capace di andare a segno.
Koichi non
ci provò neppure a reagire, e del resto con le due grosse ferite che si ritrovava non ne sarebbe stato neanche capace; Lily avrebbe
voluto aiutarlo, ma in uno spazio ristretto come poteva essere quello di una
piccola lanterna il potere di una fata veniva come schiacciato, risultando del
tutto inutilizzabile.
«Ve ne
prego!» disse Sanae in lacrime rivolta a Jun-Tao«Non fatelo! Vi prometto che verrò con voi ma risparmiatelo,
ve ne supplico!»
«Mi
dispiace tesoro, ma chi mi sfida con tanta arroganza merita una punizione
esemplare!» e detto questo Jun-Tao alzò il braccio
per dare ai suoi uomini il segnale di fare fuoco
«No!»
«Bisogna essere coscienti dei propri
limiti. Tutto ciò che facciamo ha un prezzo.»
«Ben detto».
All’improvviso,
senza essersi accorto praticamente di nulla, il
ragazzo si ritrovò con Erik alle spalle e la spada d’oro puntata alla gola; per
la paura minacciò di farsela addosso, e il suo visino ben curato si riempì di
sudori freddi.
«Abbassa
quel braccio.»
«Nobile
Erik!?»
«Ma… maestro…».
Seguirono
attimi di pura tensione, in cui tutti puntavano le armi contro tutti, e più passavano i secondi più la possibilità che la
questione degenerasse in un bagno di sangue si faceva concreta.
«Adesso
basta!» si sentì urlare ad un certo punto.
Tutti si
girarono nella direzione da cui era giunto il richiamo, trovandosi davanti il governatore in persona, Mau-Rao.
Bassotto e rotondo, dimostrava più anni di quelli che aveva in realtà, la pelle
scura e segnata dalle rughe, occhi piccoli e neri e una barba biondo spento terminante sul mento in una punta pronunciata.
Indossava
ricche e sfarzose vesti signorili, come era normale
per un uomo nella sua posizione, e aveva al suo seguito sei guardie bardate di
tutto punto che impugnavano moschetti laminati d’oro.
Nonostante
questo suo aspetto un po’ buffo il suo sguardo era sempre terribilmente severo,
tale da incutere timore e riverenza a tutti, anche a chi non lo conosceva o lo
aveva mai incontrato.
«Pa…
padre!?» disse Jun-Tao, che
poi sorrise malignamente, pregustando il momento della vendetta
«Giù le armi! Tutti quanti!».
I soldati
immediatamente obbedirono, e altrettanto fece Erik, liberando Jun-Tao dalla minaccia della spada.
«Meno male che sei qui, padre. Ti prego.
Liberami da questi bifolchi. Hanno attentato alla mia vita. Devono soffrire, soffrire e morire».
Il governatore
però non si scompose minimamente, e anzi, fatto qualche passo avanti guardò
severamente il bestione che ancora tratteneva Sanae.
«Liberale
subito.» ordinò riferendosi sia alla ragazza che alla Inu
«Padre,
ma cosa…» esclamò attonito Jun-Tao
«Obbedisci».
Quell’uomo
era un servitore del figlio, ma non poteva certo disobbedire ad
un ordine del padre, quindi obbedì subito; liberate, Sanae e Lily corsero a
soccorrere Koichi, che per la fatica e le ferite era ormai in ginocchio, e
anche Erik li raggiunse. Mau-Rao si avvicinò a loro,
e dopo averli guardati un momento, tra lo stupore generale, fece un leggero
inchino.
«Vi
chiedo scusa per tutti i problemi che mio figlio vi ha causato.» quindi fece un
cenno ad un servitore, che si avvicinò con in mano un
cofanetto pieno di piastre d’oro del valore complessivo di svariate migliaia di
Yuan.
A Lily le si illuminarono gli occhi, e anche Sanae non restò
indifferente, dato che mai in vita sua aveva visto una simile quantità di
ricchezze tutte insieme.
«Accettiamo
con gioia!» disse Lily, ma prima che potesse correre a tuffarsi nel cofanetto
Sanae la richiamò prendendola per le ali
«Lily! Sii educata!» disse, e la fatina, evidentemente
imbarazzata, ridacchiò grattandosi la nuca «Vi ringrazio per il pensiero, ma
non c’è bisogno che vi preoccupiate tanto. Dico bene,
nobile Erik?».
L’interessato
non rispose, ma come sempre il suo silenzio valeva mille parole, e anche Mau-Rao, pur non volendo darlo a vedere, rimase molto
colpito da questo gesto, e non volendo tuttavia congedarsi a mani vuote donò ai due ragazzi un sigillo di cuoio ricoperto di
tessuto rosso e decorato con ricami dorati che formavano uno stemma a forma di
tigre rampante.
«Almeno, accettate questo. È il sigillo ufficiale della
gilda dei mercanti. In qualsiasi parte del continente vi troviate, vi basterà
esibirlo per essere considerati amici e trattati con riguardo».
Stavolta il
dono venne accettato, anche perché con tutte le difficoltà
che attendevano il gruppo si sarebbe sicuramente rivelato utile.
Poi fu il
turno di Jun-Tao, a cui il
governatore si rivolse invece con tutt’altro tono.
«Quanto a te, ragazzino insolente, questa è stata la tua
ultima bravata. Non ho più alcuna intenzione di sopportare i tuoi colpi di
testa.»
«Ma, padre…»
«Devi
imparare una volta per tutte che essere ricco e
potente non ti autorizza a fare tutto quello che ti pare. Come hai visto oggi c’è
sempre qualcuno che non ha paura di sfidare gente come te, e quello che
facciamo prima o poi ci ritorna indietro.
Le cose
cambieranno per te. Puoi contarci».
Di nuovo Jun-Tao tentò di obiettare, ma stavolta il suo atto di insubordinazione gli costò un tremendo ceffone, e lui
cadde piangendo in ginocchio come un bambino a cui è stata appena inflitta una
punizione.
D’un tratto qualcuno gli passò un fazzoletto bagnato sulla
guancia rossa, alleviando un po’ il dolore, e lui, riaperti gli occhi, vide con
suo immenso stupore che quel qualcuno era Sanae, la ragazza che aveva appena
cercato di rapire. Lo guardava, sorridendogli con gentilezza, ma a differenza
del sorriso che lui le aveva rivolto quando lei si era svegliata nel carro in esso non c’era né ipocrisia né egoismo, ma solo tanta, tanta
dolcezza.
«Non piangere. Tutto si sistemerà.»
«G…
grazie».
Jun-Tao sentì di colpo una sensazione mai provata, come un
senso di appagamento, e per la prima volta in vita sua si sentì tanto leggero
da non avvertire alcuna preoccupazione, né ansia, né dolore; allora, si disse,
era quello che si provava ad essere felici.
Quanto aveva
aspettato di provare qualcosa del genere.
Dopo poco
il governatore e suo figlio se ne andarono, tornando verso il palazzo, e anche
per i ragazzi venne il momento di partire.
Koichi, a cui Lily aveva sanato le ferite, era visibilmente triste,
ma anche deluso, deluso di sé stesso: aveva chiesto il perdono di Sanae per non
averla saputa proteggere, e poi si era rivolto ad Erik dicendogli che aveva
ragione, che lui non meritava di diventare suo allievo, ma che nonostante tutto
avrebbe continuato a vedere in lui un maestro al quale ispirarsi.
All’apparenza
rimasto insensibile a quel discorso a cuore aperto Erik aveva ripreso la sua
strada, sollecitando oltretutto Sanae e Lily a seguirlo dopo che queste erano
rimaste un momento accanto al loro nuovo amico, ma dopo pochi secondi, proprio
quando era sul punto di rialzarsi dalla posizione prostrata e riprendere la sua
strada, il giovane samurai si sentì chiamare.
«Che stai aspettando? Muoviti».
Koichi ebbe
la sensazione di toccare il cielo con il cielo, e la sua gioia incontenibile venne faticosamente limitata ad un grande sorriso.
«Sì,
maestro!» esclamò correndo loro incontro.
Nota dell’Autore
Eccomi! Finite le
vacanze, gennaio sta volando inesorabilmente via, e anche se manca ancora un
pochino ai prossimi esami cominciò già a sentirne la
pressione. Nonostante ciò, prometto di tenere una cadenza il più possibile
regolare e frequente almeno fino alla ripresa delle lezioni il 25 febbraio.
Una settimana dopo aver lasciato il monastero Regis e i suoi compagni, entrati nel frattanto in un nuovo regno,
una terra senza sbocchi sul mare di nome Curagàn,
erano ormai sicuri di essere molto vicini alla terza gemma, e quindi ad un
ulteriore passo verso la conclusione di quella loro avventura, che già dalle
prime battute si stava rivelando assai più densa ed impegnativa di quanto
potessero e volessero immaginare.
Ogni
mattina, al sorgere del sole, le due gemme già in loro possesso si illuminavano, proiettando il classico fascio di luce che
prima saliva verso l’alto per poi eseguire una curva improvvisa di novanta gradi
e puntare verso l’orizzonte sempre in una stessa direzione; dopo qualche giorno
i ragazzi si erano accorti che la luce diventava di volta in volta un po’ più
forte, il che poteva essere interpretato solo come il segno che la gemma di cui
indicavano la posizione si faceva sempre più vicina.
Quella
mattina la luce era stata davvero fortissima, che invece che dirigersi verso
l’orizzonte si era gettata a capofitto nel bel mezzo della foresta che i
ragazzi stavano attraversando, quindi ormai la meta era praticamente
a portata di mano.
«Quanto
credete che manchi?» domandò Elys dopo un po’ «Ormai sono ore che seguiamo
questo sentiero.»
«Non
credo ci voglia ancora molto.» rispose Dave «Ormai siamo quasi al centro della
foresta, e sono più che sicuro che la luce ha toccato terra
più o meno in questo punto».
Anche
Regis una volta tanto cercava di essere positivo; non era più accaduto alcun
imprevisto da dopo che lui e Sakura se l’erano dovuta
vedere con quel computer impazzito, e forse una volta tanto sarebbero riusciti
a portare a termine la loro missione senza rimanere coinvolti in imprevisti di
qualsiasi natura, il che non era per niente sgradito.
Ma era pura illusione: qualcosa,una presenza evasiva
e minacciosa osservava da diverso tempo i quattro amici lungo il loro
peregrinare per la foresta, e la sua abilità nel mimetizzarsi era tale che
stavolta neppure Regis o Sakura si accorsero della sua presenza.
Fu solo per puro caso che Sakura,
girando lo sguardo, intravide una figura nera che, accortasi di essere nel
raggio visivo, scomparve velocissima tra le fronde.
«Regis?»
«Cosa c’è?»
«Temo che qualcuno ci stia tenendo
d’occhio.»
«Ne sei sicura?»
«Probabilmente ci sta seguendo già
da diverso tempo senza che ce ne rendessimo conto.»
«Continua a camminare, e fai finta
di niente. Non diamogli l’impressione di aver capito, e teniamoci pronti.
Sfrutteremo l’effetto sorpresa».
E non fu necessario aspettare a
lungo.
Neanche cinque minuti dopo,
infatti, improvvisamente quell’essere sconosciuto balzò fuori dal suo nascondiglio
e si avventò sul gruppo; il suo bersaglio era Elys, che non si accorse di nulla
se non all’ultimo momento, ma fortunatamente per lei Regis fu pronto ad
assestare al nemico un calcio che, colpendolo al fianco, lo allontanò dalla
ragazza.
Responsabile dell’attacco era una
creatura incredibile, da cui i ragazzi rimasero decisamente
colpiti: maestosa e spaventosa al tempo stesso, aveva le fattezze di un grosso
lupo ma le dimensioni di toro, pelo ramato color arancio fuoco, una folta
collana di pelliccia rosso vivo attorno al collo, coda lunga dalla punta bianco
vivo, muscolatura possente, occhi verdi e due fila di denti affilatissimi.
«Che razza di bestia è?» domandò
Sakura «Mai visto nulla del genere.»
«Elys, stai bene?» domandò Dave
«Sì, tutto a posto.» rispose lei
ancora con il fiato corto sfoderando la spada «Non l’ho neanche sentita
arrivare.»
«Maestro,
di che animale si tratta? Voi lo conoscete?»
«No Dave, non assomiglia a nulla
che abbia mai visto».
La bestia ringhiò sfregando al suolo
i suoi affilatissimi artigli; le sue intenzioni ostili erano più che evidenti,
e anche se si trattava di un animale difendersene non sarebbe stato per niente
facile. Di colpo quella scattò nuovamente all’attacco, e i ragazzi furono
costretti a dividersi.
Questa volta fu Regis a finire nel
mirino della creatura, che con quattro falcate gli fu addosso; il guerriero si
difese menando un fendente e costringendo l’avversario a retrocedere, e
contemporaneamente Elys gli andò contro a spada
tratta, ma di nuovo l’attacco andò a vuoto grazie alla superiore agilità della
creatura, che saltò all’indietro.
Anche se si trattava di un animale
così strano doveva esserci una ragione precisa per
giustificare quel suo comportamento bellicoso; se avesse aggredito Elys solo
per farne la sua preda di caccia, fallito l’agguato molto probabilmente si
sarebbe ritirato, vista anche l’inferiorità numerica; forse stavano invadendo
il suo territorio, forse c’era qualcosa in loro che lo spaventava, ma restava
il fatto che nessuno lì aveva voglia di uccidere un essere così forte e
maestoso.
Purtroppo, la sua volontà di fare
del male diventava più evidente man mano che passava il tempo, quindi riuscire
a renderlo innocuo senza dover essere risolutivi
diventava un’impresa sempre più difficile.
«Così non va’,
è troppo forte!» disse Elys
«Toglietevi di mezzo!» gridò Sakura
alle loro spalle, e immediatamente i due si allontanarono.
La ragazza strinse lo scettro con
entrambe le mani, e dalla sfera cominciarono a venire sparati fasci di luce
lunghi e stretti di colore giallo intenso.
«Spider Net!».
Sopra alla creatura si formò
rapidamente una sorta di rete luminosa, e la sua materializzazione fu così
rapida che prima di rendersene conto l’animale se la ritrovò addosso; era
resistente come l’acciaio e appiccicosa come la resina, e si ancorava
perfettamente al terreno, rendendo impossibile qualunque tentativo di fuga.
O almeno, così Sakura e gli altri
credevano; al nemico bastarono pochi secondi per mandarla in pezzi, ma
fortunatamente sia Regis che Dave ed Elys si
aspettavano qualcosa del genere, e furono subito pronti a respingere il nuovo
attacco.
D’un tratto Regis, trovatosela di
fronte, ma impegnato a contrastare Elys, tentò di attaccarla, ma la creatura
all’ultimo si accorse di lui, e improvvisamente, ad un
suo ringhio furente, attorno a lei si formarono una decina di palle di fuoco
che immediatamente partirono a tutta velocità in direzione dell’assalitore.
Colto completamente alla sprovvista
Regis ne evitò alcune, alcune altre le respinse, ma
una lo colpì in pieno petto; la potenza fu tale da scagliarlo in aria,
facendogli anche molto ma molto male, ma ruotando su sé stesso riuscì a tornare
a terra con le proprie gambe.
«Ma che significa!?»
esclamò Elys «Da quando in qua gli animali sanno usare la magia!?»
«Infatti
non è un animale.» replicò Regis.
Lui e la creatura si guardarono
dritti negli occhi, e dopo pochi secondi una voce femminile emerse dalla sua
gola senza che tuttavia la bocca si muovesse: comunicazione telepatica a
frequenza, ovvero udibile dall’orecchio umano come una
qualsiasi voce, propria dei famigli di classe superiore.
«Le gemme.» disse
«Cosa?».
Un cerchio magico arancio brillante
si formò sotto di lei, e subito dopo balzò nuovamente all’attacco con gli
artigli e le fauci che lasciavano scie di fuoco.
«Datemele!».
Da quel momento i suoi attacchi si
fecero ancor più furenti e pericolosi, tanto da rendere rischioso un qualsiasi
altro tentativo di cattura, e anche solo avvicinarsi per contrattaccare poteva
essere pericoloso.
Il fatto che fosse alla ricerca
delle gemme lasciava aperte molte possibili soluzioni; forse era anche lei al
servizio dei seguaci di Inti, forse apparteneva ad
un’altra fazione che era sempre alla loro ricerca, o forse ancora poteva anche
trattarsi di quella matta di una spia di Normar, visto che la capacità di
alcuni membri particolarmente talentuosi del suo ordine di trasformarsi in
animali era una realtà nota a molti.
Tuttavia Regis era più convinto a
credere che si trattasse di un famiglio vero e proprio, e se era così un metodo
per ridurla all’obbedienza forse c’era, ma riuscire nell’impresa non sarebbe
stato facile.
Nel mezzo della battaglia, lui e
Sakura si scambiarono un’occhiata d’intesa: anche lei aveva capito, ed era
pronta a supportarlo.
“Elys, Dave.” disse telepaticamente
“Cercate di attirare la sua attenzione.”
“Maestro, avete un piano?”
“Ora è lunga da spiegare. Fate come vi ho detto”.
Elys si mostrò titubante all’idea
di affrontare a viso aperto quella furia scatenata, e cercò di farsi forza
sfruttando il potere della sua gemma.
«Sary!»
«ReleasePower!».
L’esperienza nelle catacombe
sembrava aver messo un po’ di giudizio in corpo alla ragazza, perché anche dopo
essersi trasformata continuò a mantenere un
atteggiamento prudente, senza fare eccessivo affidamento sulle superiori
abilità che la pietra le conferiva.
La strategia dell’esca parve
funzionare, infatti al famiglio bastò vedere Elys
trasformarsi per concentrare su di lei tutta la sua attenzione, perdendo
pericolosamente d’occhio Regis e Sakura. Questi, sfruttando al volo
l’occasione, si portarono immediatamente l’uno di
fronte all’altro, e come incrociarono le mani in posizione shinto
la creatura, affrontata su entrambi i lati, si ritrovò bloccata all’interno di
un circolo magico creato dall’unione dei poteri spirituali dei due ragazzi.
«Sigillo della Costrizione!».
Capitava talvolta che i famigli
andassero fuori controllo, soprattutto se creati malamente o con
superficialità, per questo, fin da quando lo studio in materia aveva avuto
inizio, era stato creato un incantesimo speciale che
aveva come unico fine quello di immobilizzarli e togliere loro ogni energia
fino a renderli del tutto inoffensivi, e quell’incantesimo era appunto il Sigillo della Costrizione.
Questa volta i fasci di luce
apparvero da sotto, direttamente dal cerchio, e serratisi come catene attorno
al corpo della creatura rapidamente la imprigionarono in ogni parte del corpo,
costringendola alla totale immobilità. Lei cercò di divincolarsi e liberarsi,
ma la stretta era decisamente troppo forte, e sembrava
che neanche con tutte le sue energie sarebbe stata capace di averne ragione.
«Credete che basterà?» domandò Dave
«Questo incantesimo di imprigionamento è stato pensato apposta per i famigli.»
rispose Sakura «Possono essere forti quanto vogliono, ma per loro spezzarlo è
impossibile».
E infatti,
per quanto si agitasse, il famiglio non sembrava capace di avere ragione di
quella rete, ma questo non gli impediva di continuare a dimenarsi con tutte le
sue forze.
«Io… io non mi arrendo.» disse
ringhiando.
Poi, l’impensabile: uno dei cardini
che si ancoravano al suolo cominciò a dar segno di cedimento, e
improvvisamente, senza un minimo di preavviso, l’incantesimo venne
disintegrato da uno scatto furioso del famiglio, che ringhiando così forte da
far tremare le fronte lo fece letteralmente a pezzi.
«Non mi arrendo!».
Dal suo corpo si sprigionò un
uragano rovente che investì tutti e quattro i ragazzi, scaraventando tre di
loro contro gli alberi circostanti e lasciandoli in uno stato davvero pietoso;
solo Regis riuscì a resistere, e piantando la spada nel terreno riuscì ad ancorarcisi per non venire
trascinato via, ma quell’attacco aveva provato seriamente anche lui, tanto che
quando finalmente ebbe termine non gli riuscì quasi di rimettersi in piedi.
“Non… non è possibile. È riuscita…
a spezzare l’incantesimo. Questo… questo non è un famiglio
come tutti gli altri”.
A fatica, il ragazzo strinse
nuovamente la sua spada, estraendo contemporaneamente anche la seconda, la Spada di Gigabrian, e lasciati perdere gli altri membri del gruppo il nemico si
concentrò su di lui; di nuovo si guardarono negl’occhi, scrutandosi
vicendevolmente, poi il famiglio scattò all’attacco.
Regis riuscì a difendersi alla meno peggio dalla prima falcata, ma non sarebbe sicuramente
sopravvissuto alla seconda. Tuttavia, qualcosa lo colpì: ad
una persona comune sarebbe sembrato un evidente tentativo di uccidere, ma un
occhio allenato si sarebbe sicuramente accorto del fatto che l’assalto era
stato condotto in direzione non della gola o di qualche altro punto vitale,
bensì della spalla, una strategia mirata ad immobilizzare la preda piuttosto
che ad ucciderla.
Dunque, a conti fatti, forse neanche lei,
perché si trattava di una femmina, aveva intenzione di uccidere; avere detto di
voler prendere le gemme, e sembrava pronta a tutto per farlo, ma questo non
pareva legittimare alcun gesto estremo da parte sua.
Appena tornato a terra
il famiglio fece per girarsi velocissimo e sferrare un nuovo assalto, ma prima
che potesse balzare di nuovo una luce rosso vivo la avvolse, paralizzandola.
«Cosa…» disse Regis confuso
«Viola, ora basta!» si sentì
gridare, e subito dopo dalla boscaglia uscì un vecchio signore.
Quasi calvo e visibilmente
schiacciato dai suoi settanta e più anni, aveva però
occhi neri estremamente profondi e un’espressione composta, da grande studioso.
I suoi abiti, piuttosto poveri e malandati, stonavano non poco con il lungo
bastone che il vecchio usava per aiutarsi a stare in piedi, un bell’esemplare
di quercia riccamente decorato e con l’impugnatura d’argento.
Prima ancora che si avvicinasse
Regis notò sul suo giubbetto di cuoio uno stemma raffigurante una croce a tre
bracci orizzontali, rimanendone atterrito.
“Lo stemma della Reale Accademia
delle Scienze.” pensò.
La Reale Accademia delle Scienze, istituita dal
trisnonno dell’attuale sovrano di Fiya, era una grande organizzazione
scolastica che raggruppando al suo interno luminari e
studiosi di ogni nazionalità e razza si proponeva di indagare a fondo sui
misteri della natura tramite sperimentazioni e analisi scientifiche.
In un mondo come quello di Fiya, e
della comunità umana di Europia in generale, dove la
stessa magia era considerata nulla più di una scienza come qualunque altra, la
cui struttura cioè era spiegabile per via matematica, lo studio delle materie
scientifiche aveva una grande importanza, e non c’era da stupirsi se molte case
regnanti di varie nazioni avessero istituito ognuna la propria accademia, ma la Reale Accademia di Qerin era
senza dubbio la più conosciuta e rinomata, oltre che la più antica.
Riuscire a divenirne membro e
collaboratore era un’impresa titanica; bisognava dimostrare di possedere
abilità, capacità di analisi e competenze scientifiche assolutamente non
comuni, basti pensare che per accedervi era necessario
portare una teoria nuova e ancora sconosciuta di qualsivoglia argomento che
potesse avere una qualche importanza scientifica.
Pertanto, chiunque fosse, quel
vecchio che a prima vista poteva sembrare poco più di un mendicante era tutto
meno che una persona comune.
«Ma… master…» disse il famiglio con
tono affaticato, forse a causa dell’incantesimo di costrizione
«Ti avevo detto di non abbandonare
la villa. Perché mi hai disobbedito?»
«Io… io volevo… volevo…»
«Non cercare giustificazioni. La tua
condotta è stata inqualificabile. Quando capirai che non puoi agire sempre di
testa tua?».
Il vecchio si rivolse poi a Regis e
ai suoi compagni, che nel frattempo, radunate un po’ di forze,
erano riusciti a rialzarsi.
«Vi chiedo scusa per il
comportamento di Viola. A volta è parecchio impulsiva, e non vuole saperne di
darmi ascolto.»
«Ce ne siamo accorti.» disse Elys
massaggiandosi un braccio
«Il mio nome è Leonard. Leonard Vicius».
Nel sentire quel nome i ragazzi
ebbero un sussulto.
«Non sarete per caso quel Leonard Vicius!?» esclamò Dave «Il vecchio
vicedirettore della Reale Accademia delle Scienze!?»
«Sono io.»
«Ho sentito parlare molto di voi.»
disse Regis «Come tutti, immagino. I vostri trattati
sono ancora oggi tra i più diffusi all’interno della comunità scientifica di Europia.»
«Quello è stato molto tempo fa.
Allora ero giovane e ambizioso.»
«Ho sentito dire che siete sparito dalla circolazione una trentina di anni fa.»
disse Sakura «Da un giorno all’altro nessuno vi ha più visto. Pensavano che
foste morto».
Il vecchio scienziato a quella
domanda abbassò il capo, nascondendo a stento un’espressione rammaricata e
contrariata al tempo stesso.
«Venite con me. Ci sono delle cose
di cui vorrei parlarvi».
Elys e Sakura erano un po’
riluttanti all’idea di seguire un uomo il cui famiglio li aveva appena
aggrediti, ma Regis riuscì a convincerle ad avere fiducia. Durante tutto il
tragitto attraverso la foresta lungo un sentiero poco visibile Viola, liberata
dalla costrizione, camminò al fianco del suo padrone, rivolgendo di tanto in
tanto delle occhiate oblique ai quattro amici.
Dopo circa due ore di viaggio il gruppo
arrivò dinnanzi alla dimora di Leonard, una gigantesca
villa signorile che proprio come il suo attuale padrone trasmetteva una
sensazione di incuria e di abbandono ma che, attraverso le sue ampie vetrate e
la sua facciata riccamente decorata, con tanto di stemma mezzo distrutto sulla
sommità del frontone, lasciava intravedere al di sotto delle apparenze il suo
passato glorioso.
Entrarono, e dopo poco i ragazzi si
ritrovarono di fronte ad uno spettacolo incredibile: l’intera ala sinistra
della villa era un unico, immenso laboratorio traboccante di macchinari
incredibilmente innovativi e all’avanguardia, tutti alimentati da cristalli
magici, fra i quali spiccavano, per la prima volta nella storia della civiltà
umana, le prime lampadine e addirittura un primo, rudimentale modello di motore
destinato a far muovere autonomamente carri di piccole dimensioni.
Sembrava di essere in una
gigantesca casa delle meraviglie, e poi libri su libri,
abbastanza per una vita intera di studio e ricerca, oltre ad una quantità
incredibile di cristalli di tutti i tipi, dai più piccoli e semplici a quelli
più elaborati e difficili da realizzare.
La sola cosa che si distaccava da quella enorme confusione dove tutto, per quanto incredibile,
pareva fuori posto era una piccola bacheca rettangolare ricavata direttamente
dal muro, e al suo interno, protetto da una barriera, vi era ciò che Regis e i
suoi compagni andavano cercando da diversi giorni.
«Guardate.» disse Dave indicando il
monile argento brillante, dalla forma e dalle dimensioni di un uovo di quaglia,
racchiuso nella teca «Quella deve essere la quarta gemma.»
«Allora.» disse Sakura guardando
Leonard «L’avevate voi».
Il vecchio di nuovo chinò la testa,
poi, raccolta dal posacenere una vecchia pipa di un certo prestigio, andò a
sedersi ad una poltrona, invitando i suoi ospiti ad
accomodarsi a loro volta; solo Dave ed Elys obbedirono, mentre Regis e Sakura
restarono in piedi. quanto a Viola, andò ad accucciarsi ai piedi del suo
padrone.
«Ho cominciato a condurre
esperimenti scientifici all’età di dieci anni. La scienza dei cristalli mi
aveva sempre affascinato, e volevo indagarne a fondo la meccanica.
In particolare, era la sua origine
a destare la mia curiosità. Immagino voi conosciate il cosiddetto Paradosso dei
Cristalli.»
«È un buco nero nella storia del
progresso tecnologico degli esseri umani.» disse Sakura «I primi cristalli sono
arrivati fino a noi tramite alcuni manufatti di cui nessuno conosce l’origine,
e tramite il loro studio è stato possibile realizzarne di nuovi già a partire dall’epoca dei grandi imperi, ma nessuno sa chi
sia stato il creatore originale.»
«E non vi è alcuna traccia
documentata.» disse Dave
«Né tantomeno manuali o formulari
sull’arte della realizzazione.» concluse Regis «La
tecnologia dei cristalli è nata e si è evoluta unicamente dall’osservazione e
dalla replicazione.»
«Il che è un fatto assolutamente unico nella storia della nostra specie.» disse
Leonard liberando nell’aria una nuvoletta di fumo «Sappiamo per certo, in base
ai ritrovamenti archeologici, che prima dei grandi imperi il continente di Europia fu abitato da una civiltà di grande lustro e
splendore, ma a parte pochi reperti non abbiamo trovato fino ad ora alcuna
traccia che possa aiutarci a comprendere meglio la sua storia.
Ad ogni modo, entrai alla Reale
Accademia delle Scienze a diciotto anni. Il mio obiettivo era ampliare e
perfezionare la tecnologia dei cristalli, ma anche indagare molti dei quesiti
che allora come oggi non avevano ancora una risposta.
Un giorno, quasi per caso, mentre conducevo
delle ricerche nel deserto occidentale, mi imbattei in
una carovana di Insathi di ritorno dal Regno di
Normar, e uno di loro mi mostrò quella strana gemma. Fu così che ne entrai in
possesso.»
«Stento a crederci.» disse Elys
«Come avrà fatto un oggetto simile a finire nelle mani di quei gatti mal
cresciuti?»
«Fortunatamente gli Insathi sono solo mercanti avidi di denaro. Quello che me
l’ha venduta non aveva la benché minima idea del potenziale intrinseco di
questa gemma, e devo dire che in principio fu così
anche per me.
Fu solo in seguito, eseguendo
analisi più approfondite, che mi resi conto dell’immenso potenziale insito in
quell’oggetto.»
«A che genere di potenziale si
riferisce?» domandò Dave
«Tralasciando il suo immenso potere
magico, di cui immagino siate a conoscenza anche voi, ciò che mi colpì
maggiormente fu la sua fantastica struttura, e l’incredibile tecnologia che
doveva essere stata alla base della sua creazione. Tuttavia, anche se si
trattava di un prodotto di gran lunga superiore, non
vi erano dubbi sul fatto che vi fosse una straordinaria somiglianza con la
struttura energetica che è alla base dei nostri cristalli.»
«Quindi pensa che queste gemme
siano legate ai cristalli di cui facciamo abitualmente uso?» chiese Regis
osservando quello incastonato sulla spada
«All’inizio pensavo che fossero i
loro antenati illustri, ma poi ho compreso che sebbene simili differivano tra
loro sotto molteplici aspetti. Di conseguenza, sono arrivato alla conclusione
che l’elemento di coesione tra queste gemme e i cristalli fosse nel possedere
una radice comune.»
«Credo di non comprendere.» disse
Sakura «Sta dicendo che queste gemme e i cristalli potrebbero essere stati
creati dalla stessa civiltà?»
«Difficile rispondere a questa
domanda. Anche se, a dire il vero, sono poco propenso a crederti. Per quanto
avanzata e innovativa, la tecnologia dei cristalli è sostanzialmente gretta,
rudimentale. Niente a che vedere con l’avanzatissima tecnologia di cui sembrano
permeate queste gemme. La mia teoria è che siano il
frutto di due menti che però hanno lavorato su di una stessa teoria, o su un
unico modello preesistente.
Per farvi un esempio, è come
mettere a paragone le statue di due scultori che hanno utilizzato il medesimo
modello: l’opera finita di un giovane apprendista non sarà mai avvicinabile a
quella di un mastro scultore, anche se non possiamo negare il
fatto che abbiano voluto rappresentare la stessa cosa».
Leonard svuotò il tabacco della sua
pipa nel posacenere sul tavolino, ma mentre stava per sedersi a riprendere il
suo racconto si mise violentemente una mano sul petto, e una smorfia di dolore
gli comparve sul viso. Cercò di non darlo a vedere, ma tutti se ne accorsero, e
Viola si mise preoccupata a sedere.
«Master.»
«Non è niente.» cercò di
sdrammatizzare lui, ma anche dopo che la crisi fu passata
il suo stato di affaticamento rimase più che evidente «Per farla breve, ad un
certo punto cominciai ad inimicarmi le persone sbagliate.
A quel tempo metà della Reale
Accademia era composta da conservatori che consideravano
le mie ricerche un affronto ai metodi convenzionali di ricerca scientifica.
Dicevano che campavo storie in aria, fantasticando di cose che non ero in grado
di provare, e che a maneggiare un’energia tanto potente stavo giocando con il
fuoco. L’altra metà invece era gelosa del mio successo, e non fatico a pensare
che se fossi rimasto lì avrei concluso la mia carriera
nel letto di qualche fiume.
Negli anni avevo accumulato una
discreta fortuna, quindi, prima che la faccenda si complicasse ulteriormente,
raccolsi tutto il materiale e tutti i campioni che ero in grado di trasportare
e lasciata Fiya assieme a tutta la mia famiglia venni qui,
nel Paese d’origine di mia moglie. Questa villa apparteneva al suo casato.»
«Ora mi spiego perché siete sparito da un giorno all’altro».
A quel
punto però l’espressione del vecchio mutò nuovamente, facendosi affranta e
carica di dolore; Viola se ne avvide, e quasi a volergli silenziosamente
comunicare il proprio affetto gli leccò amorevolmente la mano che pendeva dal
bracciolo della poltrona.
«Quando venimmo ad abitare qui, per un po’ andò tutto bene.
Tuttavia, più passava il tempo e più le mie ricerche mi ossessionavano. Ormai
non pensavo ad altro che ad un modo per svelare tutti
i segreti di quella pietra, forte nella convinzione che in questo modo avrei
potuto sollevare il velo di mistero che circondava la nascita della nostra
specie.
Tutti
quegli anni passati a farmi ridere in faccia avevano
lasciato in me un solco profondo come l’inferno, e ben presto arrivai al limite
della follia.
La mia
famiglia cercò di starmi vicino, ma fu tutto inutile, e a causa della mia
stupidità loro…».
Dovette
fermarsi a causa del pianto che gli impediva di parlare, e dal suo sguardo
distrutto appariva evidente tutta la sua disperazione; dopo, dopo qualche
secondo, cercò di riacquistare il proprio contegno.
«Mi rimase solo Viola. Il cane di mia figlia.» disse
accarezzandola sulla testa
«A tal
proposito» intervenne Regis «Come è diventata quello
che è? Immagino che non avesse questo aspetto prima di
diventare un famiglio.»
«È stata
quella pietra.» disse Leonard dopo una lunga pausa «Un giorno, mentre ero in
giro per la foresta, venni aggredito da un orso. Lei arrivò
e riuscì a mettermi in fuga, ma rimase ferita gravemente.
Non potevo
perdere anche lei, non dopo tutto quello che era
successo. Sapevo che un animale morente può essere salvato se viene trasformato in un famiglio, ma anche avendo le
conoscenze non disponevo di potere magico sufficiente a eseguire l’incantesimo.»
«E così
ha usato la pietra.» disse Sakura
«È stato un gesto del tutto istintivo. Non avevo la minima
di quello che stavo facendo o di ciò che sarebbe potuto accadere, e onestamente
devo dire che in quel momento non mi importava. L’unica
cosa che volevo era salvarla.
Fu una
cosa ai limiti dell’incredibile. Benché avessi inserito un limitatore del
potere quella pietra produsse un’energia terrificante, che per poco non
distrusse l’intero laboratorio. Mi sono quasi spezzato le braccia per
trattenere la barriera che limitava la diffusione del potere. Ma alla fine,
nonostante tutto, ce l’ho fatta».
Di nuovo,
lo scienziato coccolò un momento il suo famiglio.
«Ora capisco.»
disse Regis «Ecco perché era così potente. La pietra
deve averle trasmesso una parte della sua enorme
energia, causando una mutazione anche a livello genetico.»
«Ma in ogni caso, l’ho salvata. E questo è ciò che conta.
Ora però,
parlatemi di voi. Per quale motivo siete alla ricerca delle gemme?».
I ragazzi
erano rimasti a tal punto coinvolti dalle spiegazioni del professore che a
quella domanda rimasero del tutto spiazzati ed
ammutoliti. Le ricerche che il dottor Leonard stava conducendo in merito alle
pietre leggendarie aveva fornito loro la spiegazione per il comportamento di
Viola, il cui intento probabilmente era quello di procurarne di nuove al suo
padrone per permettergli di proseguire negli studi, ma se quando erano entrati si sentivano abbastanza sicuri da poter esporre
senza timori le proprie ragioni dopo aver ascoltato la storia del professore
alcuni di loro non erano più tanto sicuri di poter sistemare la questione tanto
facilmente.
Quell’uomo
aveva rinunciato a tutto per le sue ricerche, e non si sarebbe mai separato
dall’oggetto che aveva catalizzato le attenzioni e i sacrifici di una vita
intera. E poco importava se dalla riunificazione di tutte le pietre dipendesse
il futuro di Fiya: che interesse poteva mai avere il professor Leonard a voler salvare
un regno in cui vivevano gli stessi scienziati che per anni non avevano fatto
che deriderlo, facendolo passare per matto, o che
peggio ancora avevano tramato contro di lui?
E poi c’era
Viola, che di certo avrebbe fatto l’impossibile per difendere gli interessi del
suo padrone, e i ragazzi avevano appena visto quanto potesse essere rischioso
sfidarla.
Regis e
gli altri si guardarono l’un l’altro, incapaci di trovare una risposta, e
intanto l’espressione del dottore si faceva sempre più accigliata.
All’improvviso,
quando sembrava che dare una spiegazione fosse diventata una questione di vita o di morte, Viola si alzò in piedi, ringhiando e
rizzando le orecchie.
«Che
succede?» domandò Elys
«Master. Stanno arrivando».
Il professore,
alzatosi a fatica, corse a spingere un bottone segreto situato sotto il
caminetto, e immediatamente su tutte le finestre della villa calarono delle pesante tapparelle d’acciaio più adatte ad un bunker
che ad una tranquilla residenza di campagna; contemporaneamente, varie ocarine
magiche disseminate nel bosco tutto intorno si accesero tutte insieme,
proiettando le immagini di ciò che avevano intorno su di una serie di cristalli
disposti con una certa cura su di un bancale.
«Mettetevi
al riparo.» disse ai suoi ospiti «Tra poco qui diventerà un campo di battaglia.»
«Perché,
che succede?» domandò Elys, e assieme agli altri si avvicinò a sua volta ai
cristalli per vedere cosa vi fosse all’esterno.
Le
ocarine magiche mostravano chiaramente un gran numero di robot a forma di
bidone, accompagnati anche da degli esseri vestiti interamente di nero con una
sorta di elmi simili a teste di uccello e armati di spade, si stavano
avvicinando all’abitazione correndo a tutta velocità in mezzo agli alberi.
«Non posso
crederci!» esclamò Sakura
«Allora
sono anche qui.» disse Regis
«Li
conoscete?!» domandò il dottore
«Sono
alla ricerca delle gemme.» rispose Dave «E probabilmente sono al servizio dei
seguaci del culto di Inti.»
«Capisco.»
«Master, lasciate fare a me. Me ne libererò in meno di un
minuto.»
«D’accordo
Viola, ma sta attente».
Viola
venne a quel punto circondata da un vortice di fuoco, e quando ne uscì aveva acquisito la sua forma umana, eccezion fatta per
le orecchie, la coda e un paio di canini che spuntavano leggermente dai labbri
superiori; i capelli, lunghi, erano dello stesso colore arancio vivo del pelo,
e lo stesso valeva per gli occhi, di un bel verde smeraldo. Indossava un
abbigliamento stranamente alla moda, almeno secondo i canoni di Regis, con pantaloncini corti rosso opaco, un corpetto rosa pallido
senza maniche, scarpe leggere di tessuto e guanti da combattimento.
Il dottor
Leonard sollevò la placca che proteggeva la porta d’ingresso per permetterle di
uscire, ma prima che potesse abbassarla Regis e i suoi
compagni, armi alla mano, si unirono a loro volta al combattimento.
«E voi
che ci fate qui?» domandò Viola vedendo uscire anche loro
«Mi
sembra ovvio.» rispose Elys «Quelli non sono avversari con cui si possa
scherzare.»
«Posso
farcela benissimo da sola.» rispose stizzita lei
«Non ne
dubito, ma un po’ di aiuto non ti farà certo male.» fu la risposta di Regis.
Dopo poco
i robot uscirono dalla boscaglia, e davanti alla villa si scatenò l’inferno.
Viola dimostrò
ben presto di possedere non solo forza, velocità e agilità elevate, ma anche un
grande potenziale magico; il fuoco era il suo elemento, e sembrava averne un
controllo pressoché totale, generando globi incandescenti e lingue di fuoco da
sparare in ogni direzione o semplicemente caricando di fiamme i propri pugni
per aumentarne la potenza.
Regis e i
suoi compagni offrirono il loro aiuto, ma Viola
dimostrò chiaramente di potersela cavare egregiamente senza alcun sostegno dall’esterno;
inoltre, se qualcuno dei nemici riusciva inavvertitamente ad avvicinarsi troppo
alla casa, una decina di cristalli fluttuanti concepiti come un efficace
sistema di sicurezza sparavano in direzione dell’assalitore una selva di fasci
di luce che lo intercettavano e lo distruggevano senza pietà.
A differenza
degli esseri a forma di bidone che, come già i ragazzi avevano scoperto, necessitavano di un pilota, i nuovi arrivati, quelli in
forma umana, erano esseri totalmente artificiali, e sembravano oltretutto
dotati di un certo livello di intelligenza, cosa che colpì non poco lo stesso
Regis.
“Questi
robot sono diversi da quelli che abbiamo incontrato.” pensò subito dopo averne
trafitto uno “Sembrano più intelligenti”.
Nonostante
ciò, fortunatamente, alla fine l’attacco venne
respinto, e dopo una decina di minuti di scontro aperto gli assalitori
superstiti si diedero alla fuga, abbandonando i loro compagni caduti.
«Non è
stata una gran faticaccia.» disse fieramente Elys, che non aveva
neanche dovuto ricorrere alla sa pietra
«Che vi
avevo detto?» disse invece Viola «Il vostro aiuto era del tutto superfluo.»
«Non
essere così sicura di te.» disse seccamente Regis «Questi
non sono avversari che si arrendono tanto facilmente. Per ora se ne sono
andati, ma torneranno».
Nota dell’Autore
Risalve.
Eccomi qua con un
nuovo capitolo.
Devo dire che ogni
volta mi ritrovo a corto di argomentazioni per questo
angolo dell’autore, quindi per stavolta, vista anche l’ora, direi di non
girarci attorno con inutili giri di parole e tagliare corto.
Da domani temo che dovrò rimettermi sotto per i prossimi esami, quindi
non prometto nulla riguardo ai prossimi tempi di aggiornamento.
«Dunque quegli esseri danno la caccia anche a voi?»
domandò il professor Leonard appena la situazione si fu acquietata e tutti
ebbero fatto ritorno all’interno della villa
«Si
chiamano robot.» rispose Regis «Sono bambole meccaniche estremamente
pericolose, costruite con una tecnologia molto avanzata. Alcuni necessitano di
un pilota per essere utilizzati, altri invece possiedono una sofisticata
intelligenza artificiale, anche se devo ammettere che quelli apparsi qui
sembravano molto più avanzati di quelli che hanno attaccato Qerin.»
«Capisco.
Dunque quei cosi non sono apparsi solo qui, ma anche a Fiya.»
«E non
solo a Fiya.» disse Sakura «Fino a pochi mesi fa tutta Europia era attraversata
dalle loro scorribande.»
«Crediamo
siano al servizio dei seguaci del culto di Inti.» disse Dave
«Il Dio
del Sole. I dite che anche loro stanno cercando le pietre?»
«È così.»
rispose Regis «Prima hanno tentato di rubare la Spada di Gigabrian che il re
aveva messo come premio per l’ultimo grande torneo, poi uno dei sacerdoti di
Inti ci ha attaccati lungo il viaggio verso Kamur per cercare di rubarci la
pietra.»
«Ora è
chiaro. Non riuscivo a spiegarmi come mai quegli esseri di metallo ce
l’avessero con me, ma se il vostro racconto è vero tutto acquista senso.
Quindi
voi dite che la leggendaria spada del guerriero Gigabrian e queste pietre sono
collegate?»
«Sì,
professore. Per l’esattezza, sono collegate ad un’antica profezia.» disse Dave
«Secondo questa profezia…».
Il
ragazzo fece per dire che rimettere tutte e sette le pietre sulla lama della
Spada avrebbe potuto costituire la soluzione alla minaccia costituita dai robot
e porre fine alla Guerra Sacra che sembrava ormai in procinto di ricominciare,
ma prima che potesse farlo inspiegabilmente il suo maestro gli mise una mano
sulla spalla, facendogli segno con lo sguardo di non aggiungere altro.
«Col
vostro permesso professore, vorrei analizzare qualcuno di quei robot, per
cercare di capire cosa li rende così intelligenti e imprevedibili.»
«Nessun
problema. Ne avevo già recuperati alcuni, ma fino ad ora non ho mai avuto il
tempo di condurre una ricerca approfondita.
Sono in
cantina, nel mio laboratorio secondario. Possiamo andarci subito.»
«D’accordo».
Viola,
tornata alla sua forma animale, si mostrò tutt’altro che tranquilla all’idea di
lasciare il suo master da solo con quello che ancora considerava come un
potenziale nemico, ma il professore la ammoni a restare in disparte e a
rimanere di guardia alla villa, nel caso i nemici fossero tornati alla carica.
Per
fortuna il resto della giornata trascorse senza ulteriori attacchi, e già dal
tardo pomeriggio l’atmosfera in casa si era fatta un po’ più rilassata.
Elys,
Dave e Sakura ammazzavano il tempo curiosando nel laboratorio del dottore,
rimanendo colpiti da quasi tutto ciò che vedevano. Elys, come suo solito,
dimostrava di essere tutto sommato ancora una bambina, toccando e armeggiando
con tutto ciò che gli capitava a tiro; ad un certo punto, mentre stava giocando
con una cosa simile ad un innocuo ombrellino di carta per cocktail, l’ombrello
cominciò a girare ad una certa velocità, producendo una piccola carica di
energia magica che finì per darle la scossa.
«Accidenti!»
disse succhiandosi il dito «Questo posto è peggio della corsa delle trappole
che facevamo all’accademia!»
«Ti avevo
detto di non toccare niente, ma tu non mi dai mai retta.» disse Dave
«Devo
ammetterlo, non credevo che gli uomini potessero costruire cose del genere.»
disse Sakura
«Signorina
Sakura, voi siete quella che conosce più cose sul mondo di provenienza del
maestro, non è vero?»
«Diciamo
di sì. Me ne ha parlato spesso mentre ci addestravamo insieme al monastero.
Inoltre, durante le esercitazioni di telepatia, mi è capitato anche di vederlo
attraverso i suoi ricordi.»
«E come
sarebbe questo fantomatico mondo?» domandò Elys osservando un curioso
giocattolo a molla raffigurante una carrozza con quattro cavalli bianchi
«A
sentire il maestro, è una terra ricca di contrasti.»
«Sì,
abbastanza. Sicuramente è molto più progredito del nostro. Le loro città sono
tanto grandi da essere cinque o anche dieci volte le nostre, e alcuni edifici
sono così alti da toccare le nuvole.
Inoltre
laggiù l’unica specie dominante sono gli umani, che dominano incontrastati
praticamente dovunque.»
«Sembra
una terra ideale.»
«Non
crederci. Hanno anche loro i loro problemi. Le nazioni che lo compongono spesso
e volentieri sono in guerra l’una contro l’altra, e anche se la maggior parte
di loro non sa usare la magia hanno accumulato un tale sapere scientifico da
aver creato armi capaci di spazzare via ogni cosa nel raggio di cento miglia
senza lasciare dietro di sé neanche la polvere.»
«Davvero
un gran bel posto.» disse Elys «Onestamente non ci vivrei mai».
Mentre la
giovane kalimi curiosava per conto suo, Dave e Sakura si ritrovarono insieme ad
osservare quello che Regis, se lo avesse visto, avrebbe descritto come
l’antenato illustre dell’aereo dei Fratelli Wright: con un esoscheletro di
legno e una intelaiatura in carta rinforzata, nell’immaginario del dottore
sarebbe stato spinto grazie alla forza di un’elica fatta girare da un motore ad
energia magica, ma sapere se quel coso fosse effettivamente in grado di volare
era davvero una bella domanda.
«Mi
domando quanto ancora avrà intenzione di far finta di niente.» disse Sakura
come tra sé e sé
«Cosa?»
«Tu lo
sai, vero? Tu lo sai perché ti ha impedito di parlare».
Il
ragazzo girò lo sguardo dall’altro lato, facendosi pensieroso.
«Suppongo
di sì.»
«Questa
ricerca sulla pietra leggendaria in suo possesso è costata tutto al dottor
Leonard, e ormai credo sia diventata la sua unica ragione di vita.
Non gli
si può chiedere di separarsene, e comunque non credo lo farebbe mai.»
«Avete
ragione.»
«D’altra
parte però, se la profezia sulla guerra sacra si rivelasse ben più di una
favola per bambini, il ritrovamento di tutte e sette le pietre avrebbe un
valore ben più grande dei sogni di qualsiasi essere umano.»
«Quindi
dite che per ottenere il nostro scopo dovremmo chiedere al dottor Leonard di
rinunciare a quel poco che gli è rimasto?»
«Può
sembrare cinico e spietato, ma la verità, per quanto dolorosa, è che una sola
vita, per quanto preziosa, non ne vale milioni di altre.»
«Il
maestro dissentirebbe. Lui sostiene che ogni vita è importante.»
«Non dico
che non ha ragione. Dico solo che quando ci si trova in certe situazioni
prendere una decisione non è mai facile».
In quella
i tre ragazzi, attraverso una delle grandi finestre che davano sul retro della
villa, videro Viola addentrarsi nella boscaglia con in bocca due ghirlande di
fiori. Incuriositi, la seguirono, tenendosi a distanza, e lei, apparentemente
inconsapevole di essere pedinata, continuò a camminare senza sosta fino ad
arrivare ad una piccola altura ad un centinaio di metri dalla casa in cima alla
quale stavano due croci di legno ben realizzate, una accanto all’altra e
circondate da una piccola palizzata.
Scavalcata
la recinzione il famiglio depose una ghirlanda attorno ad ogni croce,
riservando quella più bella e ben fatta per la croce più piccola, poi stette a
lungo seduta ad osservarle mentre il vento le accarezzava, facendo ondeggiare
leggermente anche la sua folta pelliccia.
«Potete
anche venire fuori.» disse ad un certo punto «Tanto lo so che siete qui».
Colti in
flagrante, Elys, Sakura e Dave uscirono allo scoperto.
«Così ci
hai scoperti.» disse Elys
«Pensavate
davvero che non ci riuscissi? Sono un cane, anche se non sembra. Avrei potuto
sentirvi anche se foste stati a miglia di distanza».
Giunti a
loro volta al cospetto delle tombe i ragazzi resero omaggio ognuno a modo suo:
Dave, come era solito fare il maestro, batté due volte le mani e fece un lieve
inchino, Sakura posò un attimo la mano sul cuore ed Elys si segnò la fronte,
secondo il rituale in uso presso il suo popolo.
«Sono la
moglie e la figlia del professore?» domandò Dave
«Non mi
ricordo molto di loro.» rispose Viola dopo qualche attimo «Ho solo dei
frammenti, delle sensazioni. Quando diventi un famiglio, i ricordi di ciò che
eri prima di quel momento svaniscono quasi del tutto. Però ricordo Helen.
Ricordo la sua gioia, la sua voglia di vivere.
Era una
bambina allegra e solare.
Non so di
preciso cosa sia successo. Il master non mi ha mai voluto dire niente.
Probabilmente pensa che se sapessi la verità lo odierei, e forse pensa che io
già lo odi.»
«Ed è
vero?» domandò Sakura.
Viola
esitò a lungo prima di rispondere.
«Anche se
volessi odiarlo, ogni volta che provo qualche dubbio ricordo a me stessa che
Helen avrebbe sicuramente voluto vederci uniti. Dopotutto, sono consapevole di
essere tutto ciò che gli rimane, e non può perdere anche me. La mia presenza al
suo fianco e la sua ricerca sono tutto ciò che lo tiene in vita».
Alcune
lacrime gli occhi, e lei, asciugatiseli, si volse a guardare i tre ragazzi.
«Non è
nella mia natura, e credo che me ne pentirò nel giro di qualche minuto, ma
voglio scusarvi per il modo in cui vi ho assaliti. Da qualche giorno il master
dedica tutto il suo tempo allo studio. Non dorme se non per poche ore, non
mangia niente, e si sta indebolendo sempre di più. Pensavo che portandogli
delle altre pietre e aiutandolo nella sua ricerca avrei potuto fare qualcosa
per lui.»
«Non ti
devi preoccupare.» disse Dave
«Tuttavia.»
disse con tono più severo ed autoritario «Sappiate che per nessun motivo al
mondo vi permetterò di portare via la sua pietra.»
«Cosa!?»
ribatté Sakura, spiazzata come i suoi amici
«L’ho
capito quando vi ho visti mentre la guardavate. Forse il master non se ne rende
conto, ma io sì. So che siete venuti qui per prendere la pietra, ma vi giuro
sulla mia vita che farò tutto ciò che è in mio potere per impedirvelo.
Questo
solo per mettere le cose in chiaro».
Nello stesso momento, nei sotterranei della villa, Regis e
il dottore erano impegnati ad eseguire un controllo accurato su uno dei robot
che Leonard aveva recuperato tempo addietro dopo uno dei tanti attacchi subiti
e conservato prudentemente all’interno di una cella frigorifera, sospettando
che tra i suoi componenti vi fossero anche delle parti biologiche.
La
cantina in cui si trovavano, larga e spaziosa, era stata riadattata alla
perfezione per poter diventare un pratico laboratorio di ricerca, che a
differenza di quello in superficie si presentava estremamente ben tenuto e
ordinato in ogni suo anfratto. Due terzi della stanza erano occupati da
strumentazioni e apparecchiature varie per l’analisi scientifica, come bracci
metallici ancorati al soffitto, ognuno terminante in un diverso strumento, ad
esempio trapani, seghetti e quant’altro, una selva di gabbiette per cavie
impilate una sull’altra, una cella frigorifera scavata nella roccia con un
pesante portone a chiusura stagna per preservare la temperatura, scaffali pieni
di sostanze chimiche, un po’ di cristalli e al centro un grande tavolo per gli
esperimenti dove era ora disteso il robot da analizzare.
Il
restante un terzo, separato dal resto della stanza da una spessa barriera di
vetro con una porta non troppo grande per poter essere attraversata, era invece
completamente spoglia, e fin dal momento in cui era entrato Regis se ne era
chiesto il motivo.
Non
avendo motivo per analizzare i robot a forma di bidone, di cui ormai Regis
sapeva praticamente tutto, da come si spostassero al modo di utilizzare i
comandi, l’attenzione si spostò su quelli con la testa ad uccello.
«Te la
cavi piuttosto bene.» disse il dottor Leonard vedendo Regis incidere con
precisione e meticolosità i tessuti grigio fumo apparentemente organici di cui
era composta la parte esterna della macchina dopo averla spogliata della tunica
nera che indossava «Dove hai imparato?»
«Anche se
glielo dicessi, non penso che mi crederebbe».
Non
poteva certo dirgli che, in alcune delle sue molte rinascite come figlio della
Tribù di Nepthys, gli era capitato di incontrare uomini del calibro di Galeno,
Pasteur e Barnard, che lo avevano introdotto all’arte dell’anatomia
insegnandogli molte cose sulla dissezione dei corpi e sull’analisi forense, e
comunque era ovvio che il dottor Leonard non sapesse neppure chi fossero questi
uomini.
Come
sospettato dal dottore la parte esterna del corpo era costituita da un tessuto
in parte organico e in parte meccanico che lo stesso scienziato battezzò come
Rivestimento Biomeccanico; l’elasticità era la stessa della pelle umana, ma era
resistente come una maglia d’acciaio, e al di sotto della crosta superiore si
trovava un substrato viscido e oleoso di colore bianco sporco simile alla
gelatina.
Un’analisi
al microscopio provò che la materia in questione era piena di nanorobot, grandi
non più di un miliardesimo di millimetro, che nonostante la morte dell’ospite e
la separazione da quest’ultimo continuavano incessantemente il loro lavoro,
moltiplicandosi e consolidandosi tra di loro per rimpiazzare le parti mancanti
di crosta superiore.
«Niente
male come sistema difensivo.» commentò Regis «E i tempi di reazione sono
davvero minimi.»
Il dottor
Leonard, al contrario del suo nuovo assistente, sembrava arrivato alle soglie
del paradiso, tanto appariva felice: aveva passato tutta la vita a chiedersi
fin dove potessero giungere il progresso e la scienza del genere umano, e ora
aveva davanti ai suoi occhi la prova tangibile che la strada non solo era
ancora molto lunga, ma che forse non sarebbe mai potuta davvero finire.
Senza
ulteriori indugi raccolse tutti i cristalli che era in grado di mettere insieme
e, sfruttando la loro capacità di immagazzinare suoni e immagini, prese a
documentare dettagliatamente ogni fase dell’autopsia, aggiungendovi
considerazioni sia personali che dello stesso Regis. Una cosa del genere andava
raccontata e preservata in ogni modo possibile, perché da quelle conoscenze
poteva scaturire un progresso scientifico quasi inconcepibile per il mondo
intero.
Tuttavia,
volle mettere subito le mani avanti: era euforico, certo, ma non aveva
dimenticato i propri principi.
«La
società deve adattarsi e migliorare prima di poter essere messa a conoscenza di
tali meraviglie. Una mano armata può diventare molto pericolosa se non c’è una
mente ferma a guidarla.»
«Sono
d’accordo.» commentò Regis sfilando al robot l’elmo a forma di testa di
uccello, fatto di un materiale estremamente solido e all’apparenza quasi
indistruttibile «Non si deve arrestare il progresso, ma neppure mettergli
fretta».
Una volta
rimosso interamente il rivestimento esterno venne alla luce lo scheletro
metallico che costituiva l’ossatura del robot, simile quasi interamente, salvo
poche eccezioni, a quello di un essere umano. Articolazioni provviste di
cuscinetti a sfera facilitavano i movimenti, mentre giunture munite di
alimentazione idraulica garantivano superiore agilità per le gambe e grande
forza per le braccia. Le mani, provviste di tre dita, erano prensili, i piedi
invece possedevano una discreta capacità di adattamento per poter fornire buona
aderenza anche sui terreni più accidentati.
Tuttavia,
ciò che colpì maggiormente furono gli occhi, posti all’interno delle cavità
oculari del teschio e protetti da una coppia di iridi corazzate che potevano
aprirsi e chiudersi all’occorrenza per costituire un’efficace protezione,
aumentando o riducendo inoltre la propria opacità per adattarsi alla densità
della luce e provvista, quasi sicuramente, di un’apparecchiatura ad infrarossi
per la percezione del calore. All’apparenza si trattava di altro materiale
biomeccanico, ma un’analisi più approfondita rivelò la presenza di coni e
bastoncelli, oltre che di una retina che non sembrava aver subito alcun tipo di
manomissione. In definiva, si trattava senza ombra di dubbio di un organo
umano, e la cosa lasciò i due studiosi visibilmente interdetti.
«Hanno
cavato gli occhi ad un essere umano e li hanno inseriti in questa bambola?»
domandò inorridito Leonard
«E forse
non hanno preso solo quelli.» disse Regis.
Il
ragazzo spinse un bottone segreto sotto l’ascella sinistra e la cassa toracica
si aprì, rivelando la presenza di un cuore umano ormai fermo circondato da una
barriera di cavi e sistemi che costituivano sia la fonte di alimentazione per
l’intero corpo sia un’efficace sistema difensivo. Ma la sorpresa più grande
quando, all’apertura della scatola cranica, venne alla luce una grossa massa
semicircolare di colore bianco sporco collegata a sua volta al resto della struttura
con una fitta rete di cavi più o meno grandi.
«È quello
che penso che sia?» domandò Regis
«È un
cervello. Un cervello umano.»
«Un
cyborg.»
«Un
cosa?»
«Un
essere nato dall’unione tra una macchina e un uomo. La superiorità tecnologica
e la forza di una macchina, l’intelletto e la capacità cognitiva di un uomo.»
«Mi
vengono i brividi solo a pensarci.»
«Non è
una mente comune quella che è all’origine di simili creature. Per niente».
Lo
sconcerto e il senso di smarrimento erano tali che fu necessario interrompere
il lavoro per riordinare le idee, pertanto i due, risaliti al pianterreno, si
accomodarono nel salottino accanto al laboratorio, forse l’unica stanza in
tutta la casa ad essere tenuta in un ordine perfetto, forse addirittura
eccessivo.
Viola e i
ragazzi non erano ancora tornati, e mentre Regis attendeva da solo gli cadde
l’occhio su di un quadro che raffigurava il professor Leonard da giovane
assieme a sua moglie, seduta su di una poltrona, e sua figlia, in piedi accanto
a lei.
«Non sai
quante volte ho cercato di disfarmi di quel quadro.» disse il dottore
rientrando con un vassoio contenente il necessario per una buona tazza di tè
«Ma Viola me lo ha sempre impedito.
Latte o
limone?»
«Limone,
grazie. Il latte me lo fa sembrare amaro.»
«Abbiamo
lo stesso punto di vista. Zucchero?»
«Sì,
grazie. Una.»
«Lo feci
dipingere subito dopo il nostro arrivo qui.» disse Leonard porgendo la tazza al
suo ospite «Mi costò ottanta fiorini.»
«Una
bella cifra per un quadro.»
«Mia
moglie lo aveva tanto voluto. A quell’epoca, sai, la mia famiglia contava
ancora qualcosa».
Regis
guardò il professore negl’occhi: vi si leggeva lo sconforto, il dolore, ma
anche la voglia di confidarsi, di levarsi finalmente quel peso che da anni gli
opprimeva il cuore. Quindi, alla fine, si decise a porgergli la domanda
fatidica.
«Che cosa
è successo?».
Leonard
temporeggio, rimestando ininterrottamente il suo tè, poi, fattosi forza,
cominciò a raccontare.
«È
accaduto circa due anni dopo. Stavo facendo un esperimento. Stavo sempre
facendo un esperimento. Cercavo di comprendere il vero potenziale di quella
pietra.
Avevo
realizzato quella stanza blindata, quella che hai visto nel seminterrato, per
poter espandere al massimo la sua forza senza correre eccessivi rischi. Pensavo
che quel vetro e una solida barriera formata dal potere congiunto di diversi
cristalli sarebbero bastati a contenerla anche nel caso di un rilascio violento
di energia, e all’inizio gli eventi sembrarono darmi ragione, anche se in ogni caso
portavo sempre con me un cristallo che potesse proteggermi da eventuali
incidenti.
Mia
moglie e mia figlia tentarono di ricondurmi alla ragione, ma ben presto divenni
ossessionato da quella pietra. Non dormivo più. Non mangiavo più. Passavo tutte
le mie giornate chiuso in cantina, dalla mattina alla sera, fino a quando,
sfinito, crollavo addormentato dove mi trovavo.
Una
mattina ero così stanco che appena mi sedetti su questa poltrona piombai in un
sonno talmente profondo che se mi fossi potuto guardare probabilmente avrei
pensato di essere morto.
Non so
come e non so perché, ma poco dopo mia figlia Helen scese nel mio laboratorio.
Le avevo proibito di andarci, dicendole che era troppo pericoloso, e comunque
quando ne uscivo chiudevo sempre la porta a chiave, ma quel giorno me ne
dimenticai.
Penso
volesse solo curiosare, o forse giocare, fatto sta che entrò nella stanza
blindata dove avevo lasciato la gemma; l’avevo sforzata per tutta la notte, e
volevo che si ricaricasse, ma di certo non mi aspettavo che avrebbe recuperato
tutto quel potere in così poco tempo.
Venni
svegliato dalle urla disperate di mia moglie, e immediatamente riscesi in
cantina. La pietra si era improvvisamente rimessa in funzione, attivando la
chiusura di sicurezza, ed Helen era rimasta imprigionata. Cercai di tirarla
fuori forzando la pietra a placarsi, ma tutti i cristalli di contenimento
andarono irrimediabilmente in frantumi».
Il
dottore dovette fare una pausa, e per lunghi secondi rimase a fissare il vuoto,
come se quella scena si stesse svolgendo nuovamente proprio davanti a lui.
«Vedo
ancora il suo volto. Sento le sue grida.
Mia
moglie, in un gesto di disperazione, afferrò un martello e spaccò la serratura
della porta; l’ultima cosa che ricordo è lei che apre leggermente l’uscio e
un’esplosione luminosa che mi colpisce in pieno.
Quando
ripresi i sensi il mio cristallo protettivo era in pezzi, e tutto sembrava in
perfetto ordine, come se non fosse successo niente. Le provette erano sul
tavolo, i libri sugli scaffali. Poi vidi loro distese a terra e…».
Si coprì
un attimo gli occhi, come a voler fermare il pianto sul nascere.
«Non
c’era sangue, non erano ferite. Sembrava che dormissero. E invece erano…».
A quel
punto Leonard non riuscì più a contenersi, e nascostosi il viso tra le mani si
lasciò andare ad un pianto disperato.
Regis non
disse nulla, visto che data la situazione non era proprio il caso di discutere
su di una cosa simile, ma la causa di quella tragedia era semplice da
individuare: shock magico. Per chi non è abituato all’uso della magia un
violento rilascio di potere magico è come una scarica elettrica ad alto
voltaggio che spegne letteralmente la scintilla di potere insita in tutti gli
esseri viventi, e senza la quale sopravvivere diventa impossibile.
Esteriormente
il corpo non subisce alcun danno, ed è come se la vita venisse aspirata via in
un colpo solo. Nessun dolore, nessun segnale percepibile: semplicemente, si
cade a terra già morti nel giro di un batter di ciglia, prima ancora di
potersene rendere conto.
Dopo
qualche minuto il dottore parve recuperare l’autocontrollo, quindi, con gli
occhi di uomo che ha perso tutto e che biasima solo sé stesso, si rivolse al
suo ospite.
«Sei
venuto per prendere la pietra, vero?».
Il
ragazzo fece cenno di sì, e Leonard parve visibilmente più sereno.
«Dio, ti
ringrazio.»
«Credevo
ti avrebbe fatto dispiacere separartene.»
«Al
contrario. Dopo quello che è successo avrei tanto voluto disfarmi di
quell’oggetto infernale, ma avendo visto coi miei occhi di cosa era capace
avevo paura che potesse finire in mani peggiori delle mie.
Non so se
possa davvero nascere qualcosa di buono da quell’oggetto infernale, ma non
posso non concedere il beneficio del dubbio a colui che impugna la Spada di Gigabrian.»
«Dunque
sapevate che cos’era.» disse Regis non senza una punta d’incredulità
«Certo
che lo sapevo, e conosco bene la storia che la circonda. L’idea che quella in
mio possesso potesse essere una delle pietre dell’antica profezia sulla Guerra
Sacra mi ha sempre sfiorato, ma non ho mai voluto crederci.»
«È
naturale. È sempre difficile dar credito a vecchie leggende. Anche io
all’inizio non ci ho voluto credere, e se devo essere sincero fatico a crederci
ancora adesso.»
«Con
quello che mi hai fatto vedere, mi sorprende che tu non riesca a credere.»
«Ogni
volta che pensi di sapere tutto succede sempre qualcosa che rovescia la
situazione, e tutte le tue certezze vengono infrante. Ci sono passato tante,
troppe volte, ed è per questo che a me risulta difficile credere.»
«Tu credi
solo in ciò che vedi. In ciò che puoi analizzare. Ma non spetta forse a noi
scienziati, a noi che indaghiamo i misteri della natura, spingere l’umanità a
credere in cose che fino a poco tempo prima erano reputate impossibili o
inconcepibili? Ma se non siamo a noi i primi a credere, come possiamo sperare
di persuadere gli altri a farlo?».
Regis
questa volta rimase completamente spiazzato, incapace di rispondere, e stette a
lungo immobile a guardare ora il dottore ora verso terra. Non se ne era mai
reso conto, ma tutti gli eventi attraverso i quali era passato lo avevano reso
terribilmente cinico.
Di colpo
Leonard ricominciò a sentirsi male, molto male, e quasi contemporaneamente
ritornarono alla villa anche Viola e gli altri.
«Master!»
gridò la ragazza, tornata in forma umana, correndo a soccorrere il suo padrone.
Le
condizioni del dottore apparvero fin da subito molto gravi, e probabilmente,
essendo uno scienziato che aveva studiato a fondo i misteri del corpo umano,
lui fu il primo a rendersi conto che ormai era arrivato in vista dell’estremo
traguardo.
Eppure,
nonostante ciò, sembrò quasi felice, e guardò i ragazzi con uno strano sorriso.
«Pare
proprio… che sia giunto il mio momento.»
«No,
master…».
A
peggiorare ulteriormente una situazione già complicata ci si mise un nuovo,
violentissimo attacco dei robot al servizio dei sacerdoti di Inti; dal numero,
decisamente superiore alla prima volta, e dalla violenza con cui presero fin da
subito a cannoneggiare la villa, che seppur corazzata cominciò a mostrare fin
da subito segni di cedimento, appariva chiaro che questa volta erano
determinati a recuperare la pietra a qualsiasi costo.
«Ci
occupiamo noi di loro.» disse Regis «Tu resta con lui.»
«No,
voglio venire anch’io!» rispose Viola, ma prima che potesse alzarsi Regis la
afferrò per il bavero e la ributtò a terra
«Lui ha
bisogno di te! Ora più che mai! Quindi smettila di fare di testa tua e
ascolta!».
Viola lo
guardò malissimo, furiosa per essere stata trattata in un modo concesso solo al
suo master, ma per qualche motivo non riuscì a provare quel senso di rabbia che
fino a poco prima l’avrebbe spinta a commettere uno dei suoi soliti colpi di
testa; cercò di controbattere, ma alla fine l’espressione sofferente del suo
master la convinse ad obbedire.
La
battaglia stavolta si presentò molto più difficile, tanto che Elys si vide
costretta per la terza volta a fare ricorso al potere della sua pietra, con
nemici che arrivavano continuamente da tutte le direzioni.
All’interno,
Viola assisteva impotente agli ultimi istanti di vita del suo master, disteso a
terra sul pavimento del salone e con la testa appoggiata sulle sue ginocchia.
«Master.
Ti prego.» diceva con gli occhi inondati di pianto «Non devi arrenderti.»
«Viola.»
rispose lui apparentemente sereno «Sapevamo che… sarebbe successo.
In… in
vita mia… non ho combinato… niente di utile. Tu… tu ed Helen… siete le… le
uniche cose buone… che sia riuscito… a realizzare.»
«Non devi
dire così, master! Questo non è vero!»
«Mi
resta… mi resta ancora una cosa… da fare. Dammi la mano».
Timidamente,
Viola porse la mano, e Leonard, allungata la propria, la strinse; una luce
iridescente le avvolse entrambe, e dopo pochi secondi la ragazza sentì
qualcosa, come un filo che veniva spezzato, poi tutto finì.
«Ora… ora
sei libera. Il legame… è spezzato.»
«Master…».
Il
dottore chiese di essere aiutato a rialzarsi, e mentre la casa tremava sotto i
colpi incessanti dei robot Viola lo portò a spalla fin nel laboratorio, dove
Leonard recuperò la gemma, affidandogliela.
«Proteggi…
proteggi quel ragazzo. Veglia su tutti loro. Un grande destino li attende… e
per adempierlo… avranno bisogno di te… e di questa.»
«Master».
Un’improvvisa
esplosione che fece crollare il muro alle loro spalle buttò entrambi a terra, e
un pesante macchinario cadde addosso a Viola, che tuttavia ne uscì illesa;
liberatasi, corse di nuovo dal suo ormai vecchio master, che ancora respirava.
«Non
dovete arrendervi. Master… dovete lottare.»
«Ora… ora
è tempo… che io vada.» disse, poi, per qualche motivo, sul suo volto apparve un
sorriso pieno di gioia.
I suoi
occhi si accesero per l’ultima volta e allungò a fatica la mano destra, come a
voler stringere quella di qualcun altro.
«He…
Helen…» disse, poi la mano tremante si accasciò inerme.
Le
palpebre batterono per l’ultima volta, poi la testa scivolò all’indietro e il
battito del cuore, così come il respiro, cessarono; un sorriso di ritrovata
serenità aveva illuminato quel volto segnato dalla vecchiaia nei suoi ultimi
istanti. Il dottor Leonard era morto come non avrebbe mai immaginato. Era morto
felice.
«Master.
Master!».
Il nuovo giorno portò con sé tanto dolore.
Come il
dottor Leonard aveva richiesto nel suo testamento, redatto curiosamente solo
pochi giorni prima, quasi fosse stato consapevole dell’inevitabile
approssimarsi della sua ultima ora, la villa venne incendiata assieme a tutto
ciò che conteneva, distruggendo completamente anni di studi e ricerche
scientifiche che, se divulgate, avrebbero cambiato per sempre il volto del
mondo.
«L’umanità
non è ancora pronta per questo.» aveva scritto, e tutti, alla ciò di stava
accadendo, erano d’accordo.
Il
dottore venne sepolto accanto alla moglie e alla figlia, e sulla tomba venne
posta una croce senza segno incoronata da una bellissima ghirlanda di fiori
bianchi.
Viola
stava dinnanzi alla tomba, immobile e in silenzio, Regis e suoi compagni invece
restavano in disparte, volendo rispettare i sentimenti che si stavano agitando
senza sosta nell’animo della ragazza.
Tutti
loro, chi prima chi dopo, erano passati per quella situazione, e sapevano bene
quanto fosse difficile da accettare, pertanto erano consci del fatto che
l’unico modo per uscirne era con le proprie forze.
Ma il
tempo incalzava, e anche se i robot erano stati respinti la grinta con cui
avevano attaccato lasciava intendere che da quel momento in avanti avrebbero
fatto l’impossibile per mettere le mani sulle pietre restante, quinti, volenti
o no, era giunto per Regis e gli altri il momento di ripartire.
Sulla Spada
di Gigabrian era ora incastonata una seconda pietra, la sesta partendo dalla
base, e la luce che aveva emanato nel momento in cui Regis l’aveva collocata
nel suo alloggiamento era stata abbastanza forte da far capire che la
successiva non doveva trovarsi neanche troppo lontano.
«Beh.»
disse Regis «Per noi temo sia giunto il momento di andare. La nostra strada è
ancora lunga. Per quello che vale, buona fortuna. Ora hai la tua vita.»
«Aspettate!»
disse con forza Viola quando già avevano iniziato ad allontanarsi.
Si girarono
a guardarla, e lei fece altrettanto: i suoi occhi erano gonfi di pianto e
carichi di furente dolore.
«Il
master ha dedicato la sua vita a studiare quella pietra. Voleva che un giorno
il suo potere fosse usato per qualcosa di buono, e anche se ora lui non c’è più
voglio che questo suo sogno diventi realtà».
Detto
questo si avvicinò ai ragazzi, guardando Regis dritto negl’occhi.
«Mi ha
detto di vegliare su di te. È stato il suo ultimo desiderio.
Perciò,
verrò con voi. Resterò al tuo fianco e ti osserverò. E se per caso dimostrerai
di non poter adempiere a questo suo desiderio, o dovessi ignorarlo…»
«In quel
momento» rispose seriamente e tranquillamente il ragazzo «Mi trapasserai con la
mia stessa spada.»
«Signor
maestro…».
Regis a
quel punto porse la mano a Viola, che ringhiando leggermente la strinse. Di nuovo
una luce le avvolse, e Viola sentì rinascere quel filo che poco prima aveva
sentito spezzarsi, ma che ora la legava indissolubilmente ad un’altra persona.
Mentre il
sole completava la sua ascesa sulla sommità del cielo i ragazzi abbandonarono
per sempre quell’angolo di foresta perso da qualche parte nell’immensità di
Kamur diretti ancora una volta verso sud, verso il cuore del continente.
Prima di
andarsene, Regis volse un ultimo sguardo alle tre croci sulla cima del colle.
«Io…
voglio credere».
Nota dell’Autore
Eccomi qua!
Sono tornato!^_^
Informo fin da subito
i miei lettori che per dieci giorni non sentirete più parlare di me, questo
perché da lunedì si apre per me un vero e proprio periodo di fuoco che
culminerà il 10 febbraio con il più terribile esame di tutta la mia carriera
universitaria con il professore più pazzo e lunatico che si possa immaginare. Pertanto,
lo studio diventerà la mia unica priorità, poi però prometto di rimettermi
sotto e di inserire almeno altri due capitoli entro il 24 dello stesso mese,
data d’inizio del prossimo periodo di lezioni.
Grazie come sempre a Selly e Akita.
Bene, con questo vi
do appuntamento alla prossima.
Come
tutte le navi della Confederazione, l’Independence era munita di un efficace
sistema difensivo volto a preservare l’incolumità dell’equipaggio nel caso in
cui, per qualsivoglia motivo, le condizioni di vita a bordo della nave fossero
divenute proibitive.
Ogni
membro dell’equipaggio aveva uno speciale dispositivo applicato poco sotto la
pelle, una sorta di piccolo sistema di sopravvivenza che, nel momento in cui si
avviava la procedura per la preservazione dell’equipaggio, creava tutto intorno
al soggetto una barriera magica in grado di proteggerlo per poco tempo da ogni
possibile pericolo, dalla penuria di ossigeno alla perdita di pressione dovuta
ad una qualche falla. Contemporaneamente entrava in funzione un altro sistema,
e nei cinque minuti di autonomia delle barriera tutti gli occupanti della nave,
già virtualmente privi di conoscenza, venivano trasferiti, tramite un sistema
di levitazione magnetica, in una gigantesca stanza a tenuta stagna, e una volta
qui rinchiusi ognuno nella propria capsula criogenica, appaiate una accanto
all’altra su quattro livelli d’altezza lungo le due pareti laterali.
Una volta
messo al sicuro in questo modo l’equipaggio la nave iniziava da sé le procedure
di messa in sicurezza, e una volta che le condizioni di vita erano tornate a
livelli tali da prevenire qualunque tipo di rischio si procedeva con lo
scongelamento.
Le
capsule erano dotate inoltre di efficaci sistemi di controllo medico in grado
di curare i soldati feriti, così durante l’imprecisabile tempo trascorso lì
dentro Klaus, il sergente Marshall e quanti erano rimasti più o meno
infortunati durante il combattimento contro la nave dell’alleanza erano ormai
completamente guariti, e pronti per tornare in azione.
La prima
a svegliarsi fu Shari, chiusa nella capsula numero uno, e subito dopo di lei
uno dopo l’altro cominciarono a risvegliarsi tutti i suoi compagni.
«Che cosa
è successo?» domandò Steven appena furono tutti liberi
«A quanto
pare è entrato in funzione il protocollo dodici.» disse Bryan riferendosi al
nome in codice con cui veniva chiamato tale procedura
«Ho in
testa una gran confusione. L’ultima cosa che mi ricordo è quella fortissima
luce sprigionatasi dal buco nero, poi… qualcuno per caso sa cosa è successo
dopo?»
«Ricordo
una fortissima pressione.» disse Shari «Una spinta violentissima, poi più
nulla.»
«Quanto
tempo sarà passato secondo voi?» chiese Klaus dopo essersi accorso di essere
completamente guarito dal colpo di pistola
«Torniamo
in sala di controllo e lo scopriremo.» disse il comandante Ross.
Normalmente
a tutto l’equipaggio veniva concessa, subito dopo il risveglio, un’ora o poco
più di tranquillità per riadattarsi ad una esistenza quotidiana che poteva
essersi interrotta per chissà quanto tempo: bisognava recuperare la sensibilità
agli arti, che uscivano sempre leggermente atrofizzati, superare il senso di
stanchezza dovuto al prolungato sonno criogenico e, soprattutto, nutrirsi,
perché la completa funzionalità era recuperabile solo con un gran dispendio di
energie che il corpo rischiava di non avere.
Purtroppo
la situazione generale, annunciata a gran voce dagli allarmi che sonavano un
po’ ovunque e dai messaggi automatici del computer, si presentò fin da subito
piuttosto seria, perciò Amy, che a causa dell’età sentiva in prima persona e
più di altri le conseguenze del lungo sonno criogenico, diede dunque ordine al
personale della nave di raggiungere ognuno il proprio posto per fare un quadro
generale e capire bene quanto serie fossero effettivamente le condizioni
dell’Independence.
Il
comandante e i top five fecero ritorno al ponte di comando, occupando
immediatamente le rispettive poltrone, e prese immediatamente il via una lunga
serie di rivelazioni che avrebbero trasformato una situazione già seria in una
altamente critica.
La nave
in quel momento si trovava in orbita alta sopra un gigantesco pianeta gassoso
le cui dimensioni dovevano approssimarsi su per giù attorno a quelle di Giove,
ma tanto il colore quanto l’assenza di satelliti resero subito chiaro che non
si trattava del principale pianeta della Via Lattea.
Tanto i
motori sub-luce quanto i propulsori di emergenza erano spenti, segno che o non
ricevevano energia o erano usciti dallo scontro pesantemente danneggiati,
eventualità di gran lunga peggiore. L’Independence doveva aver viaggiato per
tutto quel tempo sospinta unicamente dalle onde gravitazionali dei vari
pianeti, satelliti e altri corpi celesti vicino ai quali era transitata, un po’
come una pietra lanciata in successione da una serie di fionde.
Probabilmente
era stata catturata dall’eccezionale forza orbitale del pianeta gassoso sopra
al quale si trovava e aveva sfruttato la sua energia per mantenere operativi i
propri sistemi primari, tra cui ovviamente le celle di contenimento.
«Qualcuno
di voi lo conosce?» domandò Shari
«No, mai
visto prima.» rispose Bryan «E lei Comandante?»
«È nuovo
anche per me.»
«Comandante.»
disse Gave non senza stupore «Secondo il computer di bordo sono trascorsi
esattamente sei mesi da che è stato avviato il protocollo dodici.»
«Voglio
un rapporto sui danni effettivi il prima possibile. Dobbiamo sapere se è ancora
possibile fare un salto nell’iperspazio.»
«Sissignore.»
«Stabilite
la nostra posizione. Cerchiamo di capire dove siamo. E lanciate un segnale
radio. Vediamo se riusciamo a metterci in contatto con qualcuno».
Purtroppo,
fin da subito, cominciarono ad arrivare da tutte le parti notizie poco confortanti,
anzi, davvero pessime, e ben presto la parvenza di calma si trasformò in una
concitazione carica di tensione e apprensione.
«Comandante!»
esclamò ad un certo punto Steven «La squadra di manutenzione segnala una grave
falla nella fusoliera sul ponte B, all’altezza delle cucine!»
«Sistema
di controllo gravitazionale del ponte C seriamente danneggiato nei punti tre,
cinque e sei.» disse Bryan «Il punto quattro è completamente fuori uso.»
«Isolare
il ponte C tra i settori tre e sei. Evitiamo che il problema si diffonda.»
«Sissignore.»
«Situazione
motori?»
«I
propulsori di emergenza sembrano in buone condizioni.» disse Klaus «Anche i
generatori dell’hyperdrive e i motori sub-luce non sembrano aver subito danni
particolarmente seri.»
«Attivate
i motori sub-luce appena abbiamo conferma della loro operatività.»
«Sissignore.»
«Comandante.»
disse Gave «C’è qualcosa che non va’. Il computer di bordo non riesce a
stabilire la nostra posizione.»
«Come hai
detto?»
«Ho
eseguito tre ricerche a tappeto per trovare dei punti di orientamento, ma il
sistema non riconosce nessuna delle costellazioni attorno a noi. Pianeti,
stelle, satelliti e ogni altro corpo celeste nel raggio di due anni luce in
ogni direzione sono del tutto assenti dalle nostre carte di navigazione.»
«Possiamo
essere finiti fuori dalla griglia?» ipotizzò Shari
«Mi
sembra impossibile.» rispose Amy «Anche viaggiando a velocità sostenuta
sfruttando le correnti spaziali ci sarebbero voluti secoli di viaggio dal punto
in cui ci trovavamo per arrivare al di fuori della griglia.»
«E allora
che cosa può essere successo?» chiese Steven.
A quella
domanda il comandante rimase in silenzio. Non aveva la minima idea di quello
che fosse realmente accaduto, ma non poteva certo permettersi il lusso di dirlo
ad alta voce; rispondere qualcosa come “Non lo so” era il peggior errore che un
comandante potesse commettere, perché una frase del genere pronunciata dalla
guida suprema di una nave aveva il potere di uccidere un qualsiasi equipaggio
più di qualsiasi cannonata nemica.
«Situazione
radio?»
«Ancora
niente comandante.» rispose Shari «Sto provando su tutte le frequenze.»
«Speriamo
solo che non la riceva una nave imperiale.» disse Gave «Sia i sistemi d’arma
che gli scudi sono a fondo scala e danneggiati, e ci vorrà parecchio tempo per
rimettersi a posto.»
«Che
cosa!?» esclamò improvvisamente Klaus rivolto agli operatori di bordo che aveva
in linea attraverso le cuffie «Comandante! La squadra di manutenzione dice che
i silos di contenimento tre e quattro hanno una falla!»
«Come!?»
gridò di rimando Amy, non riuscendo a contenersi «Starai scherzando spero!»
«Purtroppo
no. Il krylium al loro interno è diventato impuro. Utilizzarlo è impossibile.»
«Dannazione,
isolare immediatamente i silos danneggiati! Se il danno si diffonde siamo
spacciati!»
«Già
fatto signore.» rispose Bryan «I silos uno e due sono completamente sterili.»
«Al
diavolo. Con soli due silos a disposizione fare il salto nell’iperspazio è
incredibilmente difficile, figuriamoci poi utilizzare un warp, sempre ammesso
che ce ne sia uno da queste parti.»
«Con
rispetto parlando, comandante.» disse Klaus con un misto di ironia e
rassegnazione «Se dovessi fare una classifica dei momenti più schifosi della
mia vita questo sarebbe in cima alla lista.»
«Non ha
tutti i torti.» commentò Bryan a braccia incrociate
«Mi
domando se possa andare peggio di così.» disse Steven buttando la testa
all’indietro.
Non
l’avesse mai detto!
Un
istante dopo l’Independence venne travolta da un forte scossone, così forte che
qualcuno minacciò di volare via dalla propria poltrona.
«Quando
imparerai a cucirti quella bocca maledetta!» gridò Klaus tenendosi forte.
Al
violento scossone iniziale si sostituì dopo dieci secondi uno un po’ più
leggero, che però non dava segno di volersi arrestare; contemporaneamente,
sulla superficie del pianeta, comparve una gigantesca ed inquietante massa
grigio-bianca che andava allargandosi sempre più, assumendo tonalità più vicine
al rosso.
Il
capitano e i Top Five la guardarono atterriti.
«Per
favore, ditemi che non è quello che immagino.» disse Klaus
«È
un’eruzionegassosa.» disse il Gave
«Giusto
per la cronaca, era esattamente quello che immaginavo».
Di colpo
gli scossoni tornarono a farsi fortissimi, e la nave cominciò a muoversi pericolosamente
in direzione della superficie, come animata di volontà propria.
«L’eruzione
è così forte che sta modificando l’attrazione gravitazionale!» disse Gave «Di
questo passo finiremo per essere risucchiati!»
«E una
volta lì in mezzo» disse Steven «Non potrei garantire per la nostra
incolumità.»
«Attivare
immediatamente i retrorazzi! Tiriamoci fuori da qui!».
L’ordine
venne immediatamente eseguito ed i retrorazzi furono tutti messi in moto; come
ulteriore aiuto al processo di allontanamento furono abbassati tutti gli
alettoni e le varie vele che la
Independence aveva usato in tutto quel tempo per poter
procedere nello spazio sfruttando eventuali venti solari in modo da ridurre
l’attrito, ma tutto ciò purtroppo non si rivelò sufficiente per frenare la caduta,
che riuscì al massimo a rallentare un pochino.
«L’attrazione
è troppo forte!» disse Amy «I retrorazzi non bastano! Accendere i motori
sub-luce!»
«Mi
dispiace comandante» rispose Bryan «I motori sub-luce sono ancora guasti! La
squadra di emergenza li sta riparando in questo momento!»
«Tra
quanto saranno operativi?»
«Nove o
dieci minuti, signore.»
«Tra
dieci minuti saremo già grandi quanto un ditale! Si muovano!».
Purtroppo
più passava il tempo più l’attrazione esercitata dal pianeta si faceva intensa,
e ormai la chiglia stava cominciando ad emettere inquietanti cigolii; la forza
gravitazionale di un simile gigante era troppo anche per una nave come
l’Independence, e una volta entrati nella parte più bassa dell’atmosfera nulla
le avrebbe impedito di finire schiacciata dalla tremenda pressione.
D’un
tratto, Shari ebbe un’illuminazione, ma già dal momento in cui aprì bocca
sapeva che probabilmente l’avrebbero presa per pazza.
«Lo
Starlight Breaker.»
«Cosa!?»
ripeté Steven
«Usiamo
lo Starlight Breaker.»
«Sei
uscita di testa per caso!?» esclamò Klaus
«Da
questa distanza, se spariamo sulla superficie il rinculo derivato dal colpo
unito alla potenza dell’esplosione che si verrà a generare dovrebbero essere
sufficienti a lanciarci abbastanza lontano da metterci in salvo.»
«Usare lo
Starlight Breaker per produrre un effetto fionda.» disse Toro Seduto «In
effetti mi sembra fattibile.»
«Ma
bravo, dalle anche retta!»
«Sono
d’accordo con Klaus.» disse Steven «Gli scudi sono completamente spenti. Se l’esplosione
dovesse essere troppo forte, e dovessimo colpire in pieno l’eruzione sulla
superficie, l’onda esplosiva potrebbe arrivare fin quassù e disintegrarci.»
«Inoltre
c’è un piccolo problema. Le squadre di controllo dicono che grazie a quel
bastardo di un supervisore il sistema di alimentazione dello Starlight Breaker
è completamente partito. Ci vorrebbero mesi per ripararlo. Dove ce la
procuriamo l’energia necessaria a sparare?»
«Possiamo
usare il krylium ancora puro. Quello di un solo silos dovrebbe essere più che
sufficiente per uno sparo di media potenza.»
«Usare i
silos!? Tu sei pazza! Lo Starlight Breaker farebbe entrare particelle estranee
nel silos dopo lo sparo e renderebbe il krylium impuro! Abbiamo già perso due
silos, così perderemmo il terzo! E con un solo silos il salto nell’iperspazio è
quasi impossibile!»
«Se prima
non usciamo da questa situazione tra due minuti il salto nell’iperspazio sarà
l’ultimo dei nostri problemi. È questione di vita o di morte.»
«Gave,
anche tu…»
«Comandante.»
disse Shari.
Interpellata
a proposito Amy Ross chinò il capo; persino per lei era una decisione
difficile, e anche se era in momenti come questo che una persona poteva
dimostrare a sé stessa e gli altri di possedere davvero le caratteristiche
indispensabili per essere un comandante i timori di Klaus e Steven non si
potevano certo definire sbagliati.
Alla
fine, però, come diceva Gave, la prima cosa a cui si doveva pensare in quel
momento era a salvarsi la vita, quindi per il momento quello aveva la priorità
su tutto.
«Facciamolo.
Usiamo lo Starlight Breaker.»
«Ma,
comandante…» tentò di obiettare Klaus
«Se hai
un’idea migliore, allora dilla!» ribatté severamente Amy «Oppure taci.»
«Mi… mi
perdoni.»
«Shari.»
«Sì,
subito.» rispose la ragazza mettendosi al lavoro.
Il silos
numero due venne collegato al sistema di alimentazione dello Starlight Breaker
e le turbine si misero immediatamente in moto, producendo un rumore fortissimo.
Ricevuta da Shari la conferma che l’energia si era incanalata correttamente nel
sistema di sparo il comandante si sfilò la chiave dal collo e lo inserì nella
fessura della poltrona, generando il proiettore olografico su cui digitò le
coordinate di lancio.
Come già
accaduto tempo prima le particelle tornarono a condensarsi a prua della nave
fino a formare una grande sfera di discrete dimensioni: era di media potenza,
d’accordo, ma più che sufficiente ad attuare il piano che l’equipaggio aveva in
mente, sempre ammesso che avesse funzionato. Il comandante Ross temporeggiò a
lungo ma alla fine si decise e, evitando di chiudere gli occhi per la troppa
emozione, diede l’ultimo comando.
Il raggio
si diresse a tutta velocità verso la superficie centrando in pieno la grossa
nuvola, che ormai aveva assunto dimensioni incredibili, e dopo neanche tre
secondi dallo sparo si generò una potentissima esplosione che in pochi secondi
investì in pieno l’Independence.
Ne seguì
un contraccolpo di inaudita potenza, tanto forte che persino Bryan volò via
dalla sua poltrona, ma alla fine, proprio come aveva predetto Shari, il rinculo
risultò così forte da spingere la nave oltre la zona rossa campo
gravitazionale, dove l’attrazione era di gran lunga inferiore.
«Ce… ce
l’abbiamo fatta.» disse incredulo Hank mezzo disteso a terra
«Credo di
aver appena perso dieci anni della mia vita.» commentò Bryan sistemandosi gli
occhiali
«Non
chiedetemi di rifarlo.» disse Gave
«I motori
sub-luce sono di nuovo operativi!» esclamò Steven tornando a sedersi
«Energia
al massimo! Avanti tutta!» ordinò il comandante, che segretamente, non vista,
aveva tirato a sua volta un sospiro di sollievo
«Sì
comandante!» disse Shari «Energia al massimo! Avanti tutta!».
Giratasi
di 180° l’Independence tornò sui suoi passi e si lasciò il pianeta sconosciuto
alle spalle, abbandonando per sempre quella trappola mortale.
«Siamo
fuori dal campo gravitazionale.»
«Mantenere
rotta e velocità».
Passato
il pericolo venne il momento di tirare le somme, e purtroppo i membri
dell’equipaggio dovettero riconoscere che, pur essendo riusciti a scampare alla
morte, la loro situazione era tutt’altro che rosea.
La nave
disponeva di un quarto della sua effettiva potenza energetica, con i soli
motori sub-luce e la possibilità di compiere salti nell’iperspazio della durata
di non più di pochi minuti, sufficienti a malapena per coprire due o tre anni
luce, a parecchia distanza l’uno dall’altro; armi e sistemi difensivi
funzionavano a malapena, e i danni erano tanto gravi da rendere impensabile una
eventuale riparazione senza un ormeggio sicuro sulla terraferma.
Oltretutto,
tragedia nella tragedia, le carte di navigazione erano del tutto inservibili, e
la radio, per quanto sollecitata, seguitava a rimanere completamente muta.
«Siamo
alla deriva.» disse Gave, gettando un inevitabile sconforto su tutti i suoi
compagni, incluso il comandante Ross.
Già prima di entrare a Munda, la capitale di Telesia, il nuovo
regno in cui erano arrivati, Regis e i suoi compagni si erano accorti di una
strana euforia che serpeggiava tra gli abitanti.
A quanto
pare si avvicinava la Festa
della Rinascita, ricorrenza annuale che celebrava l’ascesa al trono dell’attuale
sovrano, e una volta varcate le porte i cinque ragazzi avevano trovato una
città in festa, dove abbondavano maschere, nastri colorati, palloni, fuochi d’artificio,
vino e tanto, tantissimo cibo.
Regis
aveva paragonato l’atmosfera che si respirava a quella del carnevale, una festa
del suo mondo durante la quale tutto era concesso e la gente, almeno per
qualche giorno, poteva lasciarsi andare al divertimento più sfrenato.
«Sei davvero
sicuro che la gemma si trovi qui?» domandò Sakura non senza scetticismo
«Senza
dubbio.» rispose Regis mostrando lo scintillare a intermittenza di quelle
incastonate nella spada
«Forse ce
l’ha qualcuno di queste persone.» ipotizzò Dave vedendo i costumi sfarzosi e
decorati con pietre preziose di alcuni dei partecipanti alle feste
«In
questo caso, temo che trovarla non sarà per niente facile».
Nel bel
mezzo di quel caos si assistette anche a scene piuttosto esilaranti, come
quando due ragazzini, forse scambiando la coda di Viola per una mascherata, o
forse intenzionalmente, gliela tirarono, facendole un gran male.
«Brutti
mocciosi!» gridò mentre scappavano ridendo «Tornate subito qui!».
Ormai i
ragazzi si erano spinti nel cuore del continente di Kamur, dove pochissimi
esploratori di Europia erano arrivati, e quella gente sicuramente sapeva molto
poco del lontano continente dal quale Regis e gli altri provenivano. Vedendola
così, apparentemente mascherata, con la pelle scura segnata da tatuaggi e
quella strana armatura, pensarono forse che anche Elys fosse nulla più di un’abitante
in festa, e perciò la poveretta fu portata da un gruppo di ragazze scalmanate
nel bel mezzo della baraonda dal quale uscì molti minuti dopo completamente
coperta di farina.
«Questo
posto è una gabbia di matti!».
Vedendola
così, bianca e inviperita, Dave non riuscì a non trovarla incredibilmente buffa.
«Lo trovi
così divertente!?» gridò lei vedendolo coprirsi la bocca
«Scusami
Elys.» disse il biondino a denti stretti per poi scoppiare a ridere.
Persino Regis
sorrise, ma chiusa quella piccola parentesi di follia venne il momento di
passare alle cose serie.
«D’accordo,
ora basta giocare. Vediamo di trovare quella gemma».
L’esplorazione
della città risultò molto difficile a causa del numero impressionante di
persone che affollavano le strade, al punto tale che persino carri e portantine
risultavano impossibilitati a procedere, ma alla fine, a forza di spintoni, i
ragazzi riuscirono a raggiungere la piazza dell’orologio, il centro nevralgico
della città, che doveva il suo nome alla grande torre d’orologio quadrangolare
che svettava sul tetto del palazzo signorile, dimora del principe.
Fra tutti
i luoghi di Munda era sicuramente il più affollato, quindi probabilmente era lì
che si trovava il proprietario della pietra, anche se indubbiamente trovarlo
non sarebbe stato certamente facile in tutta quella baraonda di maschere, suoni
e rumori assordanti.
«Avanti
signori, avanti!» gridava a squarciagola un uomo, probabilmente un
organizzatore di spettacoli, dalla cima di un palchetto in legno costruito
proprio ai piedi del palazzo signorile «Manca solo un’ora! Un’ora ancora per
iscriversi! Chi saranno i vincitori della competizione di quest’anno? Quale sarà
la squadra fortunata che si porterà a casa l’ambitissimo trofeo?».
Per infiammare
ancora di più gli animi, già di per sé piuttosto accesi, il presentatore
sollevò in aria il premio in questione, posto sopra una colonna accanto a lui;
davvero un gran bell’oggetto, in oro massiccio, con una base quadrangolare in
marmo e modellata in forma di occhio, ma ciò che attirò maggiormente l’attenzione
della gente fu la stupenda gemma ottagonale color blu intenso che costituiva la
pupilla dell’occhio.
«Maestro,
guardi là!» esclamò attonito Dave
«Pensate
che sia quella?» domando Elys.
Sakura si
concentrò sulla pietra, avvertendo senza difficoltà un’energia particolare ed
estremamente potente che non lasciava spazio a dubbi.
«Immagino
non conoscano la vera natura della pietra.» disse Dave
«Di che
ti meravigli?» rispose Regis «A meno di non possedere un grande potere
spirituale è impossibile percepirne il potere. Per loro è solo una gemma come
tante.»
«Dobbiamo
prenderla.» disse Viola «A qualsiasi costo.»
«Calma, non
siamo precipitosi. C’è troppa gente. Se cercassimo di prenderla con la forza si
scatenerebbe il panico, per non parlare poi della pessima reputazione che ci
procureremmo.»
«Vorreste
partecipare alla competizione?» domandò Dave
«Non vedo
altra soluzione.»
«Starai scherzando
spero.» replicò Viola non proprio soddisfatta «Non siamo qui per partecipare ad
uno stupido gioco.»
«Hai
ragione. Ma se stiamo cercando di recuperare quelle pietre è solo per difendere
questo mondo, e agendo così, con la forza, non saremmo migliori di coloro che
stiamo cercando di contrastare.»
«Detesto
ammetterlo, ma ha ragione.» rispose Elys dapprima gonfiando le guance per poi
battersi energicamente i pugni «Infondo credete davvero che ci sia qualcuno qui
in grado di reggerci il confronto? Per di più, mi stavo giusto annoiando.»
«Dopotutto
potrebbe essere una cosa divertente.» disse Dave «Io dico di provarci.»
«Per
quanto non condivida l’entusiasmo» disse Sakura «Quello che ha detto Regis non
è sbagliato. Se vogliamo mostrarci in grado di assolvere al compito che ci è
stato affidato noi dobbiamo essere i primi a comportarci in modo civile».
Viola non
era ancora del tutto convinta, ma alla fine non poté fare altro che sottostare
alla volontà del suo master, quindi il gruppo, facendosi nuovamente strada a
forza di spallate tra il mare di gente che affollava la piazza, raggiunse il
banchetto per le iscrizioni, dove si registrarono, su suggerimento dello stesso
Regis, al quale era stato chiesto di scegliere il nome per la squadra, come
Fiya Team.
Quando l’orologio
della torre scandì mezzogiorno le iscrizioni vennero ufficialmente chiuse e la
piazza si riempì ancor più di prima di persone ansiose di assistere all’inaugurazione
dei giochi annuali e alle prime competizioni.
In tutto
si contavano dieci squadre, quasi tutte composte da gruppi di cittadini, alcune
delle quali, a giudicare dalle ovazioni della folla, dovevano essere state per
anni delle presenze fisse, e chissà quante volte avevano vinto.
Due in
particolare furono i gruppi che attirarono l’attenzione di Regis e dei suoi
compagni.
Il primo
era formato da tre uomini e due donne, quasi sicuramente abitanti di Munda, e
quello che aveva tutta l’aria di essere il capitano era un giovane di
corporatura prestante e aspetto molto attraente, tanto da far sospirare tutte
le ragazze che lo guardavano, con capelli neri a spazzola, occhi marroni e un’espressione
determinata ma gentile. Il secondo invece, decisamente più inquietante, vedeva
la partecipazione di quattro tipi vestiti tutti in modo molto simile al Bauta
veneziano con tanto di mantello nero, tricorno e maschera bianca; il loro capitano,
che poteva essere un Inu o un famiglio, giovane e con capelli bianchi piuttosto
arruffati, indossava invece una casacca da battaglia, e dal suo aspetto
prestante si capiva che era un tipo abituato a combattere.
Quest’ultimo
gruppo, e in particolare il suo capitano, fece a Regis una brutta impressione
fin da subito, e ben presto i suoi timori si sarebbero visti confermati.
«Benvenuti!
Benvenuti!» disse il banditore presentandosi nuovamente sul palco «Come ogni
anno, eccoci tutti qui a celebrare l’anniversario dell’incoronazione del nostro
adorato re con una nuova edizione dei fantastici, strabilianti Giochi della
Rinascita!
Le regole
le conoscete tutti, ma per quei pochi che sono qui tra noi per la prima volta
le spiegherò di nuovo.
I giochi
si compongono di cinque grandi competizioni da svolgersi nell’arco di due giorni,
ed ogni membro di ogni squadra potrà prendere parte ad una e una sola di queste
sfide.
Le prime
quattro competizioni, come sapete, sono aperte a tutti, e per ognuna di esse si
riceverà un diverso numero di punti a seconda della posizione ottenuta. Infine,
le due squadre che saranno riuscite ad ottenere i due migliori punteggi
potranno accedere alla prova finale, che decreterà il vincitore assoluto di
questi favolosi giochi!
Ma adesso
bando alle ciance e presentiamo i valorosi guerrieri che anche quest’anno si
sfideranno all’ultimo sangue per il titolo di campioni!».
A quel
punto, una ad una, le varie squadre vennero invitate a salire sul palco man
mano che venivano chiamate; i primi della lista furono i membri della prima
squadra che aveva attirato l’attenzione di Regis, e fu a loro che vennero
riservate le ovazioni più intense.
«Ecco a
voi la prima squadra! Sono i nostri beniamini, i valorosi difensori dell’onore
della nostra città! Campioni in carica da tre anni, ecco a voi il Munda Team e
il suo capitano, il valoroso e magnifico principe Kunio!».
Ora era
chiaro. Ecco perché erano così amati. Non solo la squadra era composta da
uomini e donne parecchio attraenti, ma il loro capitano era nientemeno che il
figlio minore del sovrano di Telesia.
Seguirono
altre tre squadre di minore importanza, poi venne il turno di Regis e compagni.
«Ed ora,
signori e signori, una incredibile sorpresa! Non ci crederete mai! Vi confesso
che non ci credo nemmeno io! Direttamente dal freddo nord, dal lontano
continente di Europia, ecco a voi il Fiya Team!».
Per questi
ospiti stranieri vi furono allo stesso tempo ovazioni ed esclamazioni,
soprattutto di stupore; chissà quanto tempo era passato dall’ultima volta che
un abitante di Fiya aveva messo piede a Munda, e di certo quella doveva essere
la prima volta che uno di loro si presentava ai giochi. C’era molta curiosità, e
poi non si poteva certo negare l’aspetto gentile ed attraente di tutti loro, e
forse fu per questo, o forse per l’aver capito subito che si trattava di
avversari pericolosi, che il principe Kunio rivolse loro un’occhiata di
amichevole sfida, immediatamente intercettata da Regis.
«Infine,
come ultima squadra, diamo il benvenuto ad un altro gruppo di misteriosi
stranieri che ambiscono a conquistare il nostro regno, ludicamente parlando s’intende!
Dalle lontane
e sconosciute terre del sud, ho il piacere di presentare il Team del Sole!»
«Che
cosa!?» esclamò Regis sentendo pronunciare quel nome «Team del Sole!?».
I suoi
compagni ebbero la stessa identica reazione, e quasi all’unisono si voltarono
in direzione della scaletta da cui stavano salendo i membri dell’ultima squadra
con il misterioso Inu alla testa.
«Maestro,
pensate che siano…»
«Sì,
senza dubbio. Sono servitori di Inti.»
«Maledetti.»
mugugnò Elys «Non vogliono proprio darci tregua».
I due
capitani si fissarono minacciosi, preannunciando quella che sarebbe stata ben
più di una semplice competizione. Per Regis e i suoi compagni vincere diventava
ben più di un dovere; diventava un obbligo.
Nota dell’Autore
Eccomi qua!
Era già da tempo che
volevo raccontare il ritorno dell’Independence e del suo equipaggio, ma fino ad
oggi non ne avevo mai avuto la possibilità.
Anche la loro
situazione come potete vedere non è delle più rosee, e anticipo fin da ora che
per un altro po’ li lasceremo alle loro peregrinazioni per l’universo.
Per la prima prova era necessario spostarsi all’esterno
della cinta muraria, pertanto i concorrenti, accompagnati da un fitto mare di
folla che li incitava e li acclamava lungo il percorso, si mossero per
raggiungere la porta orientale.
Durante
tutto il tragitto Regis non staccò un momento gli occhi dall’Inu o famiglio che
fosse che capitanava il Team del Sole; il fatto che fossero servitori dei
sacerdoti di Inti vi erano davvero pochi dubbi, e forse loro stessi erano
sacerdoti, anche se questa non era un ipotesi a cui voleva dare troppo credito.
Probabilmente
si trattava di soldati, guerrieri o addirittura di semplici mercenari che i
sacerdoti avevano incaricato di fare il lavoro sporco, ed era difficile dire
fino a che punto si sarebbero spinti pur di mettere le mani sulla pietra
leggendaria incastonata nel trofeo destinato ai vincitori.
Il loro
capitano, a prima vista, sembrava un tipo di giudizio, che agiva in modo
onorevole, ma lo stesso non si poteva pensare per i suoi compagni, dei quali
era impossibile scorgere persino la faccia.
«Maestro.»
disse Dave «Secondo voi perché si sono iscritti al torneo?»
«E tu
perché fai domande ovvie?» rispose Elys «Per prendersi la pietra ovviamente.»
«Non
intendevo questo. Dopo quello che è successo fino ad ora è chiaro che sono
disposti a tutto pur di riuscire ad ottenerle, e avrebbero potuto rubarla senza
difficoltà se solo lo avessero voluto. Quello che mi domando è perché
improvvisamente abbiano deciso di agire così, entro le regole.»
«Forse
non vogliono sollevare troppo clamore.» ipotizzò Sakura «Non possiamo dirlo con
certezza, ma è probabile che vogliano sfruttare le pietre per ottenere il
controllo sul continente, se non sul mondo intero. E se vogliono farlo senza
incontrare eccessiva resistenza hanno bisogno di mostrare una certa faccia.»
«Probabilmente
Sakura ha ragione.» disse Regis «Presentandosi come gente d’onore, che agisce
secondo le regole, susciterebbero sicuramente un’impressione diversa che non
prendendosi quello che vogliono solo con la forza. Il primo passo verso una
conquista è conquistarsi il rispetto del nemico.»
«Comunque
sia» ringhio Viola pensando a quanto accaduto solo pochi giorni prima «Il lupo
perde il pelo ma non il vizio. Da loro mi aspetto ogni sorta di scorrettezze.»
«Non è da
escludere. Perciò, occhi aperti».
Regis poi
rivolse la sua attenzione al Munda Team e al suo
capitano, il principe Kunio, che accortosi di essere
guardato gli fece un cenno con la mano.
«E forse
loro non sono i soli dai quali dobbiamo guardarci».
Raggiunta
finalmente l’uscita della città i concorrenti raggiunsero il punto di partenza
della prima competizione. Ad attendere loro e il mare di folla che si portavano
dietro c’era un secondo banditore.
«Benvenuti,
benvenuti!» gridò dall’alto del palco «Siamo dunque giunti alla prima delle
cinque prove che porteranno una di queste valorose squadre alla vittoria
finale! La gara di equitazione!».
Le regole
erano molto semplici.
In sella
ad un animale che poteva essere un woptar o un cavallo, a scelta del concorrente,
i membri scelti di ciascuna squadra dovevano raggiungere a tutta velocità le
rovine di una vecchia chiesa situata sulla sommità di una collina a circa venti
chilometri dalla città, al centro della foresta, recuperare una delle dieci
bandiere che vi si erano state precedentemente portate e quindi tornare
indietro.
Alla
squadra vincitrice andavano sedici punti, alla seconda dodici, alla terza dieci
e punteggi sempre minori man mano che si raggiungeva il fondo della classifica,
fino ad un misero punticino per gli ultimi arrivati.
Non c’era
un percorso particolare da dover seguire, e ognuno poteva prendere la strada
che voleva. La sola condizione per non essere squalificati era di rimanere
entro un certo limite di tempo che variava di anno in anno a seconda delle
condizioni atmosferiche con cui la prova veniva disputata.
Quel
giorno c’era un bel sole e non pioveva da parecchi giorni, quindi il tempo a
disposizione sarebbe stato davvero poco.
«Elys.»
disse Regis «Tra tutti noi sei quella che ha maggiore esperienza
nell’equitazione. Direi che questa prova è tua.
Siete tutti d’accordo, vero?»
«Senza
dubbio.» disse Sakura
«Per me
fa lo stesso.» disse Viola
«Nessuna
obiezione.» disse Dave «Dopotutto, ti chiamavano la Freccia del Deserto.»
«Hai detto
bene, novellino. Farò vedere a questi dilettanti come si cavalca».
Alcuni
dei concorrenti selezionati per partecipare alla corsa potevano contare sulla
propria cavalcatura di tutti i giorni, per coloro che invece non avevano questa
fortuna erano a disposizione gli animali delle scuderie reali, su eccezionale
consenso del re.
«Figuriamoci
se io salgo in groppa a queste bestiacce!» disse Elys vedendo che le scuderie
contenevano quasi esclusivamente dei woptar.
Alla fine
la sua scelta ricadde su un invidiabile frisone femmina nero carbone di nome Shina, che a dispetto della brutta fama della quale
sembrava godere tra gli stallieri si lasciò sellare senza proteste. Lo stesso
principe Kunio, che stava discutendo con la compagna
di squadra selezionata per la corsa, una giovane alta e bionda vestita in modo
nobiliare, sembrò sorpreso nel vedere quell’irruente giumenta uscire a passo
lento dalle scuderie con qualcuno in groppa.
«Devi
essere davvero una cavallerizza eccezionale.» le disse senza malizia o ironia «Da
che è nata quella testa matta non si è mai lasciata neanche avvicinare.»
«Siamo
entrambe ragazze.» rispose fieramente Elys «Diciamo che c’è una certa
complicità. Mi raccomando, dì alla tua amica di andare veloce se non vuole
mangiare la mia polvere.»
«Lo
farò.» rispose il principe con uno strano sorriso.
Allo
scadere dei dieci minuti concessi dal banditore per prepararsi alla gara i
diedi concorrenti si presentarono quasi contemporaneamente alla linea di
partenza, posta ad un centinaio di metri fuori dalla porta d’ingresso della
città lungo la strada sterrata che, deviando da quella principale, saliva verso
la foresta. Elys fu l’unica ad arrivare in sella ad un cavallo, ma questo non
la turbò minimamente.
«Trenta
secondi al via!» disse il banditore
«Mi
raccomando Elys.» disse Dave «Metticela tutta.»
«Stai
tranquillo. Deve ancora nascere la persona in grado di battermi».
I
compagni di squadra vennero invitati ad allontanarsi, e l’arbitro, bandiere
alla mano, si presentò davanti ai concorrenti schierati uno accanto all’altro,
pronto a dare il via.
«Avanti,
bella.» disse Elys massaggiandole il dorso «Facciamo vedere a queste lucertole
mal cresciute come si corre.» e lei nitrì fieramente.
La
tensione crebbe vertiginosamente, e come l’arbitro abbassò le bandierine,
facendosi subito da parte per non essere travolto, i concorrenti partirono a
razzo tra le acclamazioni della folla.
Come
previsto Elys passò subito in testa, raggiungendo per prima il bosco e dando
uno stacco di cinque secondi buoni ad Martha, la rappresentante del Munda Team, in seconda posizione. Del resto i woptar erano
decisamente più lenti rispetto ad un cavallo, ed Elys, pur inebriata
dall’ebbrezza di essere già al comando, si domandava come mai i suoi avversari
avessero fatto quel tipo di scelta, ma la risposta venne presto da sé, e
purtroppo nel modo peggiore.
Erano
passati circa dieci minuti dall’inizio della gara quando la foresta cominciò a
mutare le proprie caratteristiche: alberi tipici della flora montana vennero sostituiti
da altri tipici delle zone acquitrinose, zanzare e altri insetti presero a
farla da padroni e da un secondo all’altro Shina si
ritrovò con le zampe mezze affondate nel fango.
«Ma cosa…
Che sta succedendo!?».
Infine,
come ciliegina sulla torta, dopo un centinaio di metri percorsi in quelle
condizioni le due ragazze si ritrovarono sui bordi di un grande lago melmoso da
cui emergevano qua e là piccoli isolotti di terra.
«E questa
palude da dove salta fuori!?».
Un
istante dopo sopraggiunse il secondo in batteria, il concorrente di Inti,
lanciato al galoppo come se niente fosse; le zampe dei woptar, grazie alle tre
dita e alla forma triangolare, distribuivano meglio il peso sulla superficie, e
questo impediva loro di affondare nel fango, riuscendo nel contempo a muoversi
con agilità anche nei terreni più impervi e sconnessi. Giunto sul bordo della
palude l’animale spiccò un salto a dir poco straordinario, che un cavallo non
sarebbe mai stato capace di fare, riuscendo in questo modo a saltare da un isolotto
all’altro.
Ecco
spiegato perché tutti lo avevano scelto: del resto, essendo abitanti del posto,
conoscevano molto bene la conformazione del territorio, e chissà quante volte
avevano percorso quella strada.
Elys
rimase come interdetta, e dopo poco arrivò anche Martha, che dalla seconda era
passata alla quarta posizione, forse per tenere fresco il proprio woptar in
vista della parte più impegnativa del tragitto.
«Il
cavallo è veloce.» disse fermandosi un momento «Ma poco pratico in un simile
ambiente. Essere l’unica ad averlo scelto avrebbe come minimo dovuto farti
riflettere».
Dapprincipio
la giovane Kalimi restò immobile a guardare la sua avversaria allontanarsi, ma
poi l’ultima frase che aveva pronunciato ebbe su di lei l’effetto di un gong
dritto nelle orecchie: un simile schiaffo morale era ben più di quanto potesse
perdonare.
«Chi ti
credi di essere, razza di gallina bionda! Aspetta e vedrai! Ti pentirai di
esserti presa gioco di me! Tu non sai con chi hai a che fare! Un kalimi e il
suo cavallo sono inarrestabili!».
Detto
questo rimontò in groppa a Shina, che a sua volta
sembrava aver riguadagnato vigore dopo l’iniziale scoraggiamento.
«Forza.
Dobbiamo trovare un’altra strada».
Radunato
a sé uno straordinario autocontrollo la ragazza cominciò a girare lentamente
attorno alle sponde della palude alla ricerca di una strada alternativa, e poco
importava se uno dopo l’altro i suoi avversari la superavano, relegandola in
ultima posizione: era in momenti come quello che si distingueva un guerriero e
un cavaliere da quattro soldi con un vero kalimi, un figlio del deserto.
Elys
osservò le fronde, tastò il terriccio, si soffermò sui diversi colori
dell’acqua, poi, ad un certo punto, giunta ad un centinaio di metri alla
sinistra della strada, si infiammò nuovamente.
«Avanti,
vai!».
Shina impennò, nitrendo con tutta la sua forza, quindi
senza esitazioni si lanciò in avanti, dritta nell’acqua, che si velò non più
profonda di una decina di centimetri. Elys aveva visto giusto: anche se torbida
l’acqua in quel punto aveva un colore diverso, leggermente più chiaro, e
l’odore meno marcato che vi proveniva era un chiaro segno che il fondale, oltre
ad essere basso, era composto da terriccio solo in minima parte, con uno
zoccolo duro subito sotto.
Era
proprio vero: si poteva conoscere la propria terra a menadito, ma in quanto a
capacità di osservazione nessuno batteva un kalimi, men che meno una guerriera
e futura regina del proprio clan.
Veloce
come il vento Elys attraversò la palude quando alcuni stavano ancora finendo di
saltare gli isolotti, e quando mancava poco alla meta incontro Martha, ancora
in seconda posizione ma già sulla via del ritorno con in mano la sua
bandierina. L’avversaria fu a dir poco sorpresa di trovarla lì, ed Elys non
mancò di provocarla.
«Aspettami,
sto venendo a prenderti».
Poco dopo
Elys arrivò finalmente in vista della vecchia chiesa, ormai sconsacrata e in
evidente stato di abbandono; senza neanche smontare guidò Shina
direttamente dentro l’edificio e fin sull’altare, dove ormai rimanevano solo
due bandierine, compresa la sua.
«Ecco
fatto! E ora forza, torniamo indietro!».
Il
ritorno, grazie al passaggio segreto, fu estremamente più facile, e per un
attimo Elys pensò di poter riuscire effettivamente a recuperare tutto lo
svantaggio accumulato durante l’andata, ma anche se aveva fatto la spavalda non
era sicura di poterci riuscire.
Nello
stesso momento Martha era quasi arrivava alla fine della gara e ormai stava per
uscire dalla foresta; davanti a lei, ad una decina di metri, il concorrente di
Inti, che si girava in continuazione dopo che aveva visto la distanza tra di
loro diminuire sempre più.
Martha
aveva navigato a basso profilo per buona parte del tragitto di andata in modo
il suo woptar potesse conservare le energie in attesa dello sprint finale, il
suo avversario invece aveva spinto al massimo la propria cavalcatura quasi da
subito, e ora ne pagava le conseguenze.
All’improvviso
però, senza un motivo apparente, il woptar di Martha si fermò e cominciò ad
agitarsi furiosamente, minacciando di disarcionare la sua padrona e lanciando
allo stesso tempo urla strazianti.
«Luna,
che ti prende?» disse mentre l’avversario si allontanava di nuovo
Con molta
fatica la ragazza riuscì a calmarla, e scesa per capire cosa avesse causato un
simile comportamento vide che la sua compagna aveva una specie di sfera
metallica ricoperta di spuntoni conficcata nella zampa sinistra.
Martha,
vedendola, quasi sorrise, ma del resto non c’era di che essere sorpresi: atti
di sabotaggio durante le gare del torneo ce n’erano che si sprecavano, e non si
poteva neppure usarli come pretesto per squalificare chi veniva sorpreso a
commetterli.
Nel puro
rispetto del dogma secondo cui durante le celebrazioni della Festa della
Rinascita ogni burla era concessa l’unica cosa che i partecipanti alle gare
dovevano fare era rispettare le poche regole sul corretto svolgimento delle
prove, e se poi qualcuno voleva giocare sporco era liberissimo di farlo.
In quella
accanto a Martha passò il quarto in batteria che però, fatti neanche cinque
metri, si ritrovò nella medesima situazione, e chissà quante altre di quelle
piccole canaglie erano state seminate lungo il percorso.
C’era
ancora una possibilità per uscire da quella situazione, ma era parecchio
rischiosa.
«Te la
senti Luna?» disse Martha, certa che lei avesse capito.
Il suo
woptar la guardò un momento e prese a strusciare il muso sulla sua guancia.
«D’accordo,
amica mia. Proviamoci».
La
ragazza rimontò in sella, e come colpì i fianchi di Luna questa, presa una
bella rincorsa, saltò alto come non aveva mai fatto, raggiungendo direttamente
il ramo di un albero; il suo peso lo avrebbe sicuramente spezzato, ma vi rimase
sopra giusto il tempo necessario per accumulare la forza necessaria a
raggiungere quello dell’albero vicino, e così, di albero in albero, Martha
riuscì a superare l’ultima parte del tragitto in mezzo alla foresta.
Il
concorrente di Inti, autore quasi sicuramente dell’imbroglio, se la vide
passare sopra la testa e atterrargli davanti poco prima che cominciasse la
pianura, tanto che fu costretto a frenare per non andarle addosso.
Fatti
pochi metri Martha si ritrovò nuovamente nella pianura antistante le mura della
città, dove venne salutata con un assordante urlo di incitamento da parte della
folla che attendeva l’arrivo dei concorrenti sulla linea del traguardo.
«Eccoli,
stanno arrivando!» disse Dave
«Già.»
rispose Sakura «Ed Elys non c’è».
Libera
finalmente di sfruttare la forza residua del suo woptar Martha lanciò Luna giù
per la collina ed entrambe raggiunsero il traguardo senza alcuna difficoltà,
venendo subito circondate da un corteo esultante.
Nello stesso momento Elys stava
attraversando a sua volta l’ultimo tratto di foresta, e questa volta l’avere un
cavallo come proprio compagno si rivelò essere una vera fortuna: quelle piccole
sfere appuntite, se potevano ferire le zampe carnose e grassocce di un woptar,
ben poco potevano contro gli zoccoli robusti ben ferrati di Shina,
che vi passò in mezzo senza neanche accorgersi della loro presenza.
Elys raggiunse a tutta velocità il
concorrente di Inti mentre questi stava per abbandonare a sua volta la zona
boschiva, e appena furono entrambi all’esterno ebbe inizio un furioso testa a
testa per la conquista della seconda posizione.
«Guardate, maestro! Ecco Elys!»
«Avanti, Elys.» disse Regis a bassa
voce stringendosi un po’ più forte gli avambracci.
La lotta serrata proseguì per buona
parte del tragitto, e sembrava che nessuno dei due riuscisse a prevalere
sull’altro. Vedendo che non era in grado di scollarsela di dosso il concorrente
di Inti decise di passare alle vie di fatto, e frustino alla mano prese a
mollare sonore sferzate ad Elys nel tentativo di farla cadere.
Elys tentò dapprima di difendersi,
poi però, colta la prima occasione, afferrò il frustino e tirò a sé il
malcapitato, disarcionandolo.
«Addio!» gli disse mentre lo vedeva
rotolare sotto gli zoccoli di Shina, rimanendo illeso
per puro miracolo.
Il suo woptar, privato della guida,
si spostò violentemente di lato, e per poco non fece cadere anche la sua
avversaria, poi continuò dritto per la sua strada in modo molto più veloce,
essendosi liberato di un peso da portare, raggiungendo il traguardo un attimo
prima di Elys, ma visto che il fantino ormai era fuori gioco il Fiya Team
conquistava un degno secondo posto, lasciando con l’amaro in bocca e a fondo
classifica i rivali più pericolosi.
«Sei stata grande, Elys!» disse
Dave correndole incontro
«Questo potresti dirmelo se fossi
arrivata prima. Invece quella smorfiosa mi ha battuto.»
«Non credo sia il caso di auto
commiserarsi.» disse Sakura «Pur non avendo mai visto o corso prima in questa
pista sei arrivata seconda, il che non è da tutti.»
«Sakura ha ragione.» disse Regis
«Hai fatto un’ottima prestazione».
Uno ad uno arrivarono anche gli
altri concorrenti, e quando anche l’ultimo ebbe tagliato il traguardo vennero
affissi i risultati sul grande tabellone che sovrastava il palchetto del
banditore. Regis e gli altri lo guardarono fiduciosi, ma lo stupore per tutti
fu grande quando videro la loro squadra, il Fiya Team, segnata in terza
posizione, alle spalle del Munda Team primo e di
nientemeno che del Team del Sole, secondo.
«Ehi, che scherzo è questo!» urlò
Elys fuori di sé, tanto che Dave dovette trattenerla per impedirle di saltare
addosso ai giudici «Come sarebbe terzi? Io sono arrivata seconda!»
«Ti sbagli.» rispose Martha
avvicinandosi a loro «Voi siete terzi.»
«Che cosa!?»
«Lo dice il regolamento. Anche nel
caso in cui il fantino venga disarcionato, se la sua cavalcatura taglia
ugualmente il traguardo la posizione che ottiene è comunque valida.»
«Questa è una regola che fa acqua
da tutte le parti! Io protesto!»
«Elys, basta.» rispose secco Regis
«Non possiamo farci niente.»
«Ad ogni modo, mi hai sorpresa.
Dopo averti vista sul bordo della palude l’ultima cosa che mi aspettavo era di
vederti tagliare il traguardo, men che meno in terza posizione.
Ti sei dimostrata molto in gamba.
Hai tutto il mio rispetto.»
«Lo stesso vale per me.» rispose
Elys dopo essersi finalmente calmata «Ma non contarci. La prossima volta andrà
diversamente.»
«Ne sono sicura».
Alla fine della prima prova il Munda Team conduceva con sedici punti, seguito dal Team del
Sole con dodici e dal Fiya Team col dieci, quindi, al termine di una cerimonia
sommaria di premiazione, le squadre fecero ritorno alla piazza centrale per
prendere parte alla seconda prova: la
Caccia al Tesoro.
Per la nuova prova Regis schierava
Sakura, il principe la seconda ragazza della sua squadra, i sacerdoti di Inti
invece un altro di quegli individui incappucciati.
«Benvenuti, signore e signori!»
disse il nuovo banditore «Dopo la prima prova il nostro affezionato Munda Team guida la classifica con sedici punti, tallonato
strenuamente nientemeno che dalle due squadre esordienti di questo grande
torneo! Il Team del Sole, secondo con dodici punti, e Fiya Team, terzo, con
dieci!
Chi sarà il vincitore? Chi si
porterà a casa il trofeo?
Per scoprirlo, diamo il via al
prossimo gioco! La Caccia
al Tesoro!
Queste sono le regole, signori
concorrenti. Alcune persone in mezzo a questa grande folla che sta dinnanzi a
voi possiedono dei campanellini d’argento appuntati sui vestiti. Il vostro
compito è trovarli. Per completare la prova è necessario trovarne cinque.
Ovviamente, più campanellini
troverete, più aumenterà la difficoltà per gli altri concorrenti nel trovare
quelli che rimangono, perciò l’importante qui è essere il più veloci possibili.
Bene, le regole sono state
illustrate, ora sta tutto a voi. Potrete partire al mio via!».
Tutti a quel punto si misero in
posizione, pronti a scattare appena fosse stato dato il segnale; tutti tranne
Sakura, che restò impassibilmente immobile a braccia conserte ed occhi chiusi.
«Allora concorrenti, siete pronti?
Tre… due… uno… via!»
«Windy».
Un istante dopo che il banditore
aveva iniziato ad abbassare la mano un vento freddo attraversò l’intera piazza,
incuneandosi tra gli spettatori come un serpente sinuoso e aggraziato al tempo
stesso.
Sakura aprì la mano destra, e in
pochi secondi il vento vi depositò i cinque campanellini sottratti ad
altrettanti cittadini, tra lo stupore generale.
Tutti, nessuno escluso, restarono
con la bocca spalancata e gli occhi sbarrati, ad eccezione ovviamente dei
compagni di squadra della ragazza.
«Non mi risulta che il regolamento
vieti di usare la magia.» disse calma lei rivolta al banditore, che sembrava
sul punto di svenire
«N… no. Inf…
infatti. Avente… avete vinto.»
«Al solito.» disse Elys «E poi
sarei io quella che ama mettersi in mostri.»
«La signorina Sakura è davvero
eccezionale. Ha il totale controllo dei suoi spiriti.»
«Ti sbagli, Dave.»
«Come dite maestro?»
«Lei non esercita alcun tipo di
controllo sugli spiriti. Sono loro che la seguono, di loro spontanea
iniziativa. Sakura non li ha mai cercati, loro sono venuti da lei. Sono la sua
grande nobiltà d’animo e il suo grande potere magico che hanno permesso che ciò
accadesse.»
«Davvero straordinario».
Dopo un inizio così strabiliante il
resto della gara risultò a dir poco monotono, ma comunque interessante e
serrato per la conquista dei campanellini restanti; la sfida si concluse con un
nuovo secondo posto per la squadra di Inti e un poco gratificante terzo posto
per il Munda Team.
Sfortunatamente la caccia al tesoro
era la prova che assegnava il maggior numero di punti; dodici per i vincitori,
nove per i secondi e otto per i terzi, e alla luce dei risultati ottenuti nella
prima prova la classifica generale vedeva il superamento da parte della squadra
di Regis di quella guidata dal misterioso famiglio, perché a ben pensarci di un
famiglio doveva quasi sicuramente trattarsi, visto e considerato che gli i Inu
per loro stessa natura non erano portati per il combattimento: conduceva ancora
il Munda Team con ventiquattro punti, seguito dal Fiya
Team con ventidue e dal Team del Sole con ventuno. La sfida era ancora tutta
aperta.
La terza prova, quella che avrebbe
stabilito la classifica finale del primo giorno di gara, era in assoluto una
delle più sentite, perché era senza dubbio quella che offriva le maggiori
emozioni: la Lotta.
Venne liberato dagli inservienti e
dalle guardie uno spiazzo ai piedi della grande fontana e vennero piantati a
terra quattro paletti uniti tra loro da una lunga corda di canapa fino a
formare un quadrato di circa nove metri per lato che avrebbe costituito il
terreno di scontro.
Le regole erano un po’ diverse da
quelle di altre competizioni simili in cui Regis e i suoi compagni si erano già
cimentati: dopo aver tirato a sorte lanciando una moneta uno dei due
contendenti poteva scegliere se cominciare in attacco o in difesa. Chi iniziava
in attacco aveva a disposizione dieci affondi per tentare di superare le difese
dell’avversario, esauriti i quali ci si scambiava i ruoli. Ogni concorrente
aveva a disposizione un turno di attacco e uno di difesa, e alla fine vinceva
chi durante il proprio turno di attacco avesse ottenuto il punteggio maggiore.
Si otteneva un punto colpendo la faccia, il torace, lo stomaco o i fianchi,
mentre se ne perdeva uno colpendo al di sotto della cintola.
Si combatteva esclusivamente a mani
nude e contando unicamente sulle proprie forze: chi veniva sorpreso a
imbrogliare o faceva ricorso a qualche altro strumento che non fosse la forza
fisica veniva squalificato seduta stante e alla sua squadra venivano assegnati
pochissimi punti, tanti quante erano le sfide vinte prima di andare incontro
alla squalifica.
I punteggi assegnati per questa
prova erano straordinariamente alti: venti punti per i primi, sedici per i
secondi e dodici per i terzi. Se una delle tre squadre attualmente in testa
avesse vinto anche la lotta il suo accesso alla finale sarebbe stato a dir poco
scontato.
Quando venne il momento di
scegliere il proprio rappresentante vi fu un attimo di indecisione all’interno
del Fiya Team.
«Se vinciamo questa prova abbiamo
la finale assicurata.» disse Elys «Io dico di mandare Regis. Lui quelli se li
mangia vivi.»
«Aspetta, Elys. Non dobbiamo essere
precipitosi. Secondo me non è il caso di rischiare il maestro già alla terza
prova. Dopotutto, siamo secondi.»
«Secondi con un solo punto di
vantaggio, e quei sacerdoti della malora non se ne staranno a guardare mentre
li distanziamo. Scommetto quello che vuoi che metteranno in campo il loro
atleta migliore, e noi dobbiamo fare lo stesso.»
«Cerca di ragionare, Elys. Se
qualcosa dovesse andare storto avremo perso la nostra carta vincente.»
«Dave non ha tutti i torti.»
«Sakura, ti ci metti anche tu!?»
«Questa è l’ultima prova che
conoscevamo in anticipo. Nessuno sa in cosa consisteranno quelle di domani.»
«L’esperienza del maestro potrebbe
tornarci utile in un’altra occasione, ma se scende in campo adesso resteremmo
solo io e Viola.»
«E allora chi schieriamo? Te,
novellino?»
«Elys ha ragione.» disse Regis «In
questa prova non si può usare la magia. Contano solo esperienza e forza fisica,
e mi dispiace dirlo, tu non eccelli in nessuna delle due.»
«Beh, in effetti…»
«Ah! Vi state tutti facendo un
sacco di pippe mentali!» sbottò di colpo Viola «Io
non conto niente? Vi ricordo che sono abbastanza brava a menare le mani, e mi
sembra di avervelo dimostrato.»
«Sì, ma sei dotata di molto poco
autocontrollo.» replicò Elys mani sui fianchi
«Senti chi parla, miss perfettina.»
«Come hai detto, sottospecie di
cane pulcioso?»
«Finitela!»
disse Sakura «Viola, la faccenda è molto semplice. Se si commette anche una
sola scorrettezza si è fuori, e anche se Elys avrebbe potuto essere un po’ più
gentile, quello che ha detto non è sbagliato.»
«Stai dicendo che sono
inaffidabile!?»
«Proprio così, orecchie a punta!»
disse Elys mentre si guardavano con occhi che sprizzavano scintille
«D’accordo.»
«Cosa!? Ma, Regis…»
«Visto che vuole misurarsi in
questa sfida, non vedo alcun motivo per doverle dire di no. Questa sarà
l’occasione giusta per dimostrare che merita la nostra fiducia.»
«Mi piace questo modo di pensare.»
disse Viola schioccandosi le dita
«Io sono d’accordo col maestro.
Viola merita una possibilità.»
«Penso la stessa cosa.» disse
Sakura
«Ditemi che è solo un brutto
incubo.» disse Elys passandosi la mano sulla faccia «Dobbiamo riporre le nostre
speranze in un botolo scalmanato.»
«Questo botolo scalmanato vi
porterà il trofeo su un piatto d’argento».
Uno dopo l’altro tutti i
concorrenti si allinearono al centro dell’arena, e proprio come Elys aveva
previsto il Team del Sole volle aumentare al massimo le proprie possibilità di
vittoria facendo scendere in campo il proprio capitano. Quando furono tutti
schierati venne fatta pescare ad ognuno una sfera con un numero dall’interno di
un’urna per decidere le ripartizioni: poiché c’erano dieci concorrenti vi erano
due gruppi da due, dove si andava ad eliminazione diretta, e due da tre, dove
invece si andava a maggioranza di vittorie.
Viola pescò il numero quattro,
capitando nel confronto a tre del gruppo A, mentre i rappresentanti del Munda Team e del Team del Sole pescarono rispettivamente il
sei e il dieci; di conseguenza, con grande sollievo dei suoi compagni, Viola
avrebbe dovuto affrontare solo uno di loro, e solo se questi fosse riuscito ad
arrivare in finale.
«Molto bene, signore e signori! Ora
che i gruppi sono stati formati, tagliamo corto con i convenevoli e diamo il
via all’ultima prova di questa giornata! Che si aprano le danze!».
Il primo combattimento, che vedeva
contrapposti i rappresentanti di due squadre tra le ultime in classifica, fu
puramente introduttivo, e servì se non altro ad avere una chiara panoramica del
regolamento della sfida.
Poi, subito dopo, fu il turno di
Viola.
«Resta a guardare, ragazzina.»
disse mentre scavalcava la corda «Potresti imparare qualcosa.»
«Tenetemi, la strozzo!» gridò Elys
tentando di saltarle addosso, prontamente fermata da Dave.
L’avversario non sembrava
particolarmente pericoloso, un tipo sulla trentina prestante ma piuttosto
magrolino. L’arbitro si avvicinò ai contendenti.
«Testa o croce?»
«Testa.» rispose l’avversario, che
avendo il numero più basso godeva del diritto di scelta.
Il lancio gli diede ragione, e
potendo scegliere con che cosa cominciare scelse l’attacco, costringendo Viola
ad iniziare sulla difensiva.
«Sbrigati ad usare i tuoi dieci
colpi.» disse la ragazza assumendo la posizione «Così poi tocca a me».
L’arbitro si allontanò
prudentemente, e come abbassò le sue due bandierine il fracasso della folla
divenne assordante.
Il mingherlino restò un attimo
fermo, probabilmente per studiare la sua avversaria, quindi partì all’attacco.
Ogni volta che un pugno, un calcio, una gomitata o una ginocchiata toccavano il
corpo dell’avversario quello veniva considerato come un colpo, e se si creava
un “abbraccio”, come veniva chiamato lì, il combattimento veniva fermato per
dar modo ai concorrenti di separarsi e riprendere.
Viola non incontrò difficoltà nel
parare i colpi, e ad un certo punto, più per istinto che per altro, subito dopo
aver deviato un diretto rispose con un gancio dritto allo stomaco: un colpo
magistrale, degno di un campione, ma che in quel caso le costò caro.
«Fallo!» gridò l’arbitro alzando la
bandierina rossa «Colpo sulla difensiva! Penalità di punto!»
«Razza di sciagurata!» sbraitò Elys
tentando nuovamente di gettarsi sul ring «E meno male che sai controllarti!»
«Elys, calmati!».
Fortunatamente Viola capì la
lezione al volo e non commise altri colpi di testa, ma sul decimo colpo, a
causa di una disattenzione, il suo avversario riuscì a trovarla impreparata,
infilando un sinistro proprio sullo zigomo.
«Punto!» disse l’arbitro alzando
l’altra bandierina, la bianca «Fiya Team in attacco!».
La squadra del mingherlino chiudeva
la fase d’attacco con un solo punto; a Viola ne sarebbero bastati due per
vincere, ma visto che era stata penalizzata per aver attaccato mentre era in
difesa gliene servivano tre.
Subito dopo aver incassato l’ultimo
colpo la ragazza restò immobile, come pietrificata, e quando si girò mise al
suo avversario tanta di quella paura da fargli tremare le gambe: la guancia era
un po’ arrossata, una linea di sangue le colava dal naso e i suoi occhi erano
iniettati di fuoco.
«Tu! Come hai osato!».
Caricato il pugno destro colpì
dritto al centro. Il mingherlino parò, ma venne sparato via come una palla di cannone
precipitando tra la folla assiepata subito dietro la corda. Vi fu un attimo di
smarrimento generale, poi l’arbitro, riavutosi dallo stupore, sollevò entrambe
le bandiere.
«Fuori dal ring! Vince il Fiya
Team!».
La folla esultò come mai aveva
fatto, applaudendo e lanciando coriandoli.
«Forse è vero che non sa
controllarsi» disse Regis quasi sorridendo mentre Viola si girava verso di loro
e faceva il segno della vittoria sogghignando soddisfatta «Ma in certi casi
questo non è propriamente un male.»
«Beh…» disse Dave «Speriamo solo
che non l’abbia ucciso.»
«Nah.
Sarà un po’ di qua e un po’ di là per qualche giorno, ma niente di
irreparabile».
«Mostro» balbettò Elys «Quella è un
mostro».
Anche nel suo secondo incontro Viola si impose senza
problemi, conquistando con due vittorie l’accesso alla semifinale. Venne poi il
turno del rappresentante del Munda Team, un ragazzo
giovane e slanciato con la pelle leggermente scura e le treccine di nome Lucio
che usava uno stile di lotta molto simile alla capoeira,
fatto di movimenti acrobatici e uso esclusivo delle gambe.
Anche lui
se la cavò molto bene, vincendo entrambi gli incontri senza alcuna difficoltà e
diventando il terzo semifinalista.
A quel
punto arrivò il momento di vedere in azione il capitano del Team del Sole, in
assoluto l’incontro che Regis e i suoi compagni aspettavano maggiormente di
vedere.
La sfida non si presentava facile
per lui, proprio per niente: il suo avversario era un vero colosso, un gigante
pieno di muscoli e grasso soprannominato Bison per la
sua forza straordinaria. Completamente pelato, aveva una folta barba rossa e
una pancia che debordava oscenamente, ma la sua forza era qualcosa di
spaventoso. Usava uno stile riconducibile al wrestling, e a sentire i discorsi
del banditore era stato per tre anni consecutivi il vincitore della gara di
Lotta.
Appena entrato nell’arena prese a
lanciare terrificanti urla di guerra esibendosi nel contempo in una serie di
movimenti scalmanati che avevano come scopo sia spaventare il nemico sia
sovreccitare il pubblico, che urlava forsennatamente.
Per nulla intimorito il
rappresentante del Team del Sole, che il banditore annunciò come Gao, scese a sua volta in campo dopo essersi liberato dei
guanti corazzati che indossava, irregolari nella prova perché considerati delle
armi.
Già guardandolo in viso Regis si
accorse che quello non era un avversario con cui si poteva scherzare: il suo
sangue freddo e la sua grande forza spirituale erano più che evidenti, così
come la sua indiscutibile esperienza.
Il lancio della moneta si presentò
a favore di Gao, che scelse di stare all’attacco,
quindi la sfida prese il via tra le acclamazioni della folla, che si aspettava
una vittoria praticamente scontata e già pregustava l’ennesimo confronto tra Bison e Lucio, i due superfavoriti.
Subito Bison
riprese a lanciare urlacci assordanti, invitando il
suo nemico a farsi avanti con provocanti cenni della mano. Gao
restò un momento immobile, poi, come un fulmine e con assoluta freddezza,
scattò in avanti; l’avversario parò il primo colpo, un sinistro dall’altro in
basso, incrociando le braccia, ma così facendo si espose al secondo, un destro,
che lo fulminò in pieno stomaco.
Bison lanciò un nuovo urlo, questa volta
di dolore, e come Gao ritirò il pugno rovinò a terra
svenuto.
Nella piazza calò un silenzio da
cimitero. Nessuno sembrava capace di credere ai propri occhi, e persino
l’arbitro dovette impiegare alcuni secondi per capacitarsi di quello che era
successo.
«A… Avversario al tappeto! Vince il
Team del Sole!».
Le urla a quel punto
ricominciarono, e anche se aveva appena assistito alla sconfitta di uno dei
suoi campioni la folla acclamò a gran voce il vincitore ammirandone
l’indiscutibile abilità. Chi per lungo tempo non fu capace di aprir bocca
furono Regis e i suoi compagni, che conoscendo la vera identità di quel
famiglio riuscivano a pensare a tutto fuorché a qualcosa di buono.
«Quello sarà un osso duro.» disse
Sakura.
Prima di lasciare il ring Gao si girò verso di loro, incrociando volontariamente gli
occhi di Viola. I due si fissarono con i loro veri occhi, e Viola digrignò
leggermente i denti in un chiaro gesto di sfida, mostrando i canini. Anche se
avevano entrambi forma umana, conoscendo la loro vera natura non era difficile
poter scorgere in loro due cani grandi e grossi pronti a lanciarsi l’uno contro
l’altro.
Nota dell’Autore
Eccomi qua!^_^
Sono stato assente
per un po’, ma finalmente il peso degli esami ha cominciato a farsi meno
opprimente e ho avuto un po’ più di tempo da dedicare a me stesso.
Come avete notato siamo
entrati nel vivo della narrazione, e preannuncio fin da ora interessanti
sviluppi per i capitoli successivi.
Viola disputò serenamente la semifinale, vincendo per
sette punti a zero e guadagnandosi così l’accesso alla finalissima, quindi
venne il momento dello scontro diretto tra Lucio, rappresentante del Munda Team, e Gao, che nel suo incontro aveva sconfitto
l’imbattuto Bison con un solo colpo da KO istantaneo.
Lucio era
arrivato in finale tre volte negli ultimi tre anni, perdendo sempre contro Bison, ma
questa volta, paradossalmente, aveva qualche speranza in più; la sua tecnica
infatti poco poteva contro stazza e forza bruta, e anche se riusciva a colpire
ripetutamente con la sua agilità a Bison bastava un
solo colpo ben piazzato per tramortirlo e fargli perdere la sfida per KO.
Gao era diverso, usava uno stile più tattico e quindi prevedibile. Bison si era illuso di poter fare con lui quello che aveva
sempre fatto con tutti gli altri, e aveva pagato cara questa sua spavalderia, ma Lucio era più determinato che mai a non fare
lo stesso errore.
Prima che
il combattimento avesse inizio la notizia della
sconfitta del campione aveva già fatto il giro della città, e una folla immensa
si era radunata per assistere alle ultime battute della gara.
Erano
dappertutto: sui balconi, sui tetti, persino appesi ai lampioni come le scimmie
o in cima alla colonna che svettava al centro della fontana.
Volendo
avere una panoramica più chiara dell’avversario che stava andando ad affrontare
Lucio, vinto il lancio della moneta, scelse di stare in difesa, lasciando così
a Gao la precedenza in attacco. Ma ciò era dovuto
anche ad una precisa scelta di convenienza: era un fatto risaputo che attaccare
era molto più faticoso che difendere, perciò chi iniziava in attacco al momento
di passare in difesa era già piuttosto debilitato, il che aumentava le
probabilità di perdite di concentrazione.
D’accordo,
chi iniziava difendendo una volta in attacco sapeva bene di essere costretto a
portare un certo numero di colpi per poter vincere la
sfida, cosa che invece toccava solo relativamente chi attaccava per primo, ma
l’autocontrollo e la capacità di rimanere con la mente calma anche in
situazioni difficili erano entrambe virtù che a Lucio non facevano difetto.
Al suono
del gong Gao rimase in attesa, anch’egli preoccupato di studiare il nemico che
aveva di fronte per capire come era meglio
affrontarlo. Contro Bison la vittoria era stata
facile perché si trattava del classico guerriero da due soldi avventato e senza
sostanza, ma Lucio rischiava di essere tutt’altra
cosa.
Passarono
una decina di secondi, poi Gao si decise ad attaccare; il suo primo attacco, un
destro, venne schivato con un’improvvisa giravolta
laterale, e visto che un colpo lanciato e andato a vuoto aveva la stessa
valenza di uno parato Gao aveva perso il suo primo tentativo.
Da quel
momento l’attacco del famiglio fu più misurato e accorto, ma sempre e comunque
leale, differentemente da quanto Elys e gli altri, anche loro presenti, si
aspettavano: lei, Viola e Dave loro erano convinti che
prima poi il servitore di Inti avrebbe fatto ricorso a qualche scorrettezza pur
di assicurarsi la vittoria, ma Regis e Sakura non sembravano pensarla allo
stesso modo, e gli eventi diedero loro ragione. Gao concluse
il suo turno di attacco con soli due punti.
«Munda Team in attacco!».
La
prestazione di Lucio fu a sua volta molto buona, ma nonostante tutte le
falcate, le piroette e gli attacchi improvvisi sembrava che niente riuscisse a
scavalcare l’apparentemente insormontabile difesa di Gao. Per fortuna, e con
grande sollievo dei suoi compagni, il settimo, ma soprattutto il decimo colpo, andarono a segno, riuscendo a centrare Gao prima ad un
fianco e poi alla spalla, entrambi punti considerati validi.
«Parità!»
gridò l’arbitro mettendo le braccia in orizzontale.
Quella
specie di salvataggio sul filo del rasoio non fece altro che far
montare ancora di più un’atmosfera già incandescente, e per la prima volta in
dieci anni di competizione fu necessario andare allo spareggio.
A quel
punto non esistevano più né attacco né difesa: i due avversari si sfidavano in
uno scontro aperto, senza esclusione di colpi, e il primo che dei due riusciva
a portare un colpo aveva vinto.
Lucio non aspettava altro: ora che
anche la regola del non colpire sotto la cintura era infranta poteva dare
sfoggio a tutta la sua abilità, sfoderando quei colpi fatti di spazzate e
rapide e martellanti che in altre occasioni erano proibiti.
Gao non si fece trovare impreparato
e contrastò tutti gli affondi che gli vennero mossi,
ma la cadenza ininterrotta di attacchi era così veloce che non riusciva in
alcun modo ad impostare un contrattacco, neanche di piccola intensità. Avrebbe
potuto mettere fine alla sfida in un secondo se solo lo avesse voluto, ma gli
era stato categoricamente ordinato di mantenere un basso profilo, e l’incantesimo
per la limitazione del potere che si era visto applicare non migliorava certo
la sua situazione.
«Se va’
avanti così rischia davvero di perdere!» disse Dave.
In tutta quella grande euforia per
l’epica battaglia che si stava combattendo nessuno tra le migliaia di persone
che affollavano la piazza si accorse che uno dei tetri
figuri del Team del Sole, svincolatosi dai suoi compagni, si era nascosto tra
la folla; questi, sollevatosi leggermente la maschera, si portò una piccola
cerbottana alla bocca, sparando con terrificante precisione appena fu certo di
poter colpire il suo obiettivo.
Un secondo dopo Lucio, che era
davvero sul punto di vincere, si immobilizzò di colpo,
come fulminato; Gao parve interdetto, e uno strano lampo attraversò i suoi
occhi, poi però, ricordando il motivo per il quale era lì, colse al volo
l’occasione e colpì l’avversario in modo incisivo ma non eccessivamente
violento, scagliandolo al suolo.
«Punto! Vince il Team del Sole!».
Tutti lanciarono urla di esultanza,
e nessuno inizialmente si accorse che Lucio non accennava a rialzarsi:
raggomitolato in posizione fetale, aveva brividi in tutto il corpo, il respiro
affannoso e gli occhi sbarrati, come se fosse stato febbricitante.
I primi a soccorrerlo furono i suoi
stessi compagni.
«Lucio!» gridò il principe facendoglisi incontro, e immediatamente alle urla di
esultanza si passò ad un mormorio sommesso.
A prescindere dal fatto che le sue
condizioni di salute fossero dovute o meno al colpo
ricevuto non era stato fatto uso alcuno di magia o di altri strumenti
irregolari, almeno a prima vista, quindi la vittoria di Gao fu considerata del
tutto regolare.
«Accidenti.» disse Elys «Quelli
hanno davvero una fortuna sfacciata.»
«E pensare che era
quasi sul punto di venire sconfitto.» disse Dave
«Secondo te cosa è successo?»
domandò Sakura non senza preoccupazione
«Non lo so, ma non mi convince.»
rispose Regis.
Fortunatamente Lucio si riprese nel
giro di mezz’ora, e ai suoi amici che gli chiesero cosa gli fosse accaduto il
giovane rispose che tutto ad un tratto si era sentito
confuso, come dopo una sbornia, con la testa pesante e i muscoli pesti, e prima
di rendersene conto si era ritrovato a terra.
Pur contravvenendo ai consigli dei
medici Lucio decise comunque di giocarsi la finalina per la medaglia
d’argento, aggiudicandosela senza problemi e regalando alla sua squadra il
terzo posto che valeva dodici punti e portava il Munda
Team a trentasei punti, un risultato di certo non eclatante e che, alla luce
delle due squadre che stavano per contendersi la finale, avrebbe spedito i
favoriti direttamente in terza posizione nella classifica generale.
Vennero concessi dieci minuti per dar modo ai finalisti di
prepararsi al meglio, dieci minuti che Viola spese esibendosi in una serie di
aggraziate e potenti esibizioni di abilità che suscitarono il plauso degli
spettatori; Gao la guardava, immobile e a braccia conserte, ma Viola sapeva
cosa stava pensando in quel momento: che sarebbe stata una sfida dura, che lei
non sarebbe stata come gli altri e che l’esito era tutt’altro che prevedibile.
«Fa
attenzione, Viola.» disse Regis «Ho paura che ci sia sotto qualche imbroglio.»
«Tranquillo.»
rispose lei con una certa sicurezza «Che giochino sporco o meno, non ho alcuna
intenzione di rendergli le cose facili».
Scambiatisi
le ultime raccomandazioni coi rispettivi compagni di
squadra i due contendenti raggiunsero gli angoli opposti del ring, pronti per
la sfida.
«Molto
bene, signore e signori!» disse il banditore «Ora che
il terzo posto è stato assegnato, eccoci giunti alla finalissima di questa
entusiasmante gara di lotta che ha riservato sorprese a non finire, e che
sicuramente, in quest’ultima sfida, ce ne riserverà ancora molte altre!
A
contendersi il titolo, le due squadre rivelazione di questo grande torneo!
Alla mia
destra, direttamente dalla lontana Europia, la bella
e letale Viola, del Fiya Team!
Alla mia
sinistra, dal remoto ed inesplorato sud, il potente
Gao, del Team del Sole!».
Seguirono
urla ed acclamazioni, oltre ad un battimani da buttar
giù le case.
«Ma il tempo delle parole è concluso! È giunto il momento di
passare ai fatti! Guerrieri, a voi!».
Il lancio
della moneta fu a favore di Viola, che decise di giocarsi il tutto per tutto
partendo subito all’attacco. Sparò tre pugni in rapida successione, che furono
tutti parati, il quarto invece, al fianco sinistro, andò a segno, facendo
barcollare leggermente Gao.
«Punto!»
«Devi
ancora riprenderti dal tuo ultimo scontro?» domandò beffarda la ragazza «Mi
dispiace, ma non concedo pause!».
Dopo quello però Gao non si fece più trovare impreparato e
contrastò agilmente tutti gli attacchi successivi, usando le sue braccia
possenti, e a volte anche le gambe, per parare i colpi che gli venivano portati
contro.
Vedendo
che i suoi attacchi cominciavano ad essere inefficaci
Viola cominciò a perdere le staffe, e la rabbia mescolata all’esperienza le
permisero, nel decimo e ultimo assalto, di assestare un colpo che, pur venendo
parato, sbilanciò il suo avversario, che dimostrò di averlo comunque sentito, e
in casi come questo l’attacco era considerato valido.
«Punto! Fiya Team chiude con due punti! Team del Sole in
attacco!».
La
reazione di Gao stentò ad arrivare, e a differenza della sua avversaria lui
volle prendersi qualche secondo per studiarla bene; d’un tratto, nel mare di
folla, vide il suo compagni di squadra nascosto tra la
gente urlante e pronto a sparare ancora una volta con la sua cerbottana. Lo
sguardo che lanciò a costui fu più eloquente di mille
parole, e ad un suo impercettibile cenno del capo il sicario tornò sui suoi
passi.
A quel
punto la sfida riprese, e Viola si rese quasi subito conto di aver fatto il
passo più lungo della gamba provocando il suo avversario per invogliarlo a dare
il meglio di sé: nei suoi precedenti incontri Gao aveva solo scherzato, e solo
ora cominciava a fare sfoggio della sua vera abilità.
La prova
di ciò fu quando la ragazza, subito dopo aver parato un colpo, se ne vide
lanciare contro, fulmineo, un secondo, che la colpì inesorabilmente. Inoltre,
come se non bastasse, a quel primo affondo ne seguì un secondo, dritto al
volto, che la buttò a terra.
«Due punti!» disse l’arbitro che poi, nel rispetto del
regolamento, fermò lo scontro per permettere a Viola di rialzarsi.
I due
pugni subiti non erano dolorosi più di tanto per un famiglio temprato e
resistente come lei, almeno non fisicamente; nell’animo, ma soprattutto
nell’orgoglio, facevano un male tremendo, e bastava guardare Viola negli occhi
per capire che era davvero arrabbiata. Tuttavia, ciò che la faceva davvero infuriare,
era la freddezza e il distacco con i quali Gao stava affrontando la prova, e quel suo sguardo così immobile e impassibile, come di chi
sa di essere superiore, era più di quanto potesse sopportare.
«Non
farti provocare!» continuava a gridarle Dave.
Fortunatamente
l’autocontrollo che voleva dimostrare di avere e i suoi pronti riflessi
impedirono a Gao di portare a segno uno qualsiasi dei tre attacchi che ancora
gli restavano, chiudendo così la sfida in parità. Così, per due volte in uno
stesso torneo, come non accadeva da almeno un decennio, fu necessario andare
allo spareggio.
Ai
contendenti furono concessi altri due minuti per la preparazione in vista
dell’ultimo faccia a faccia.
«Stai
andando bene.» disse Regis passando una brocca d’acqua a Viola che, invece di
berla, se la gettò in testa
«Il suo
atteggiamento mi dà davvero sui nervi.»
«Sta solo
cercando di provocarti.» disse Sakura «Non cadere
nella sua trappola. Il suo piano è proprio quello di farti arrabbiare per
spingerti a commettere qualche errore.»
«Se è così, non intendo cascarci. Capirà presto con chi ha a
che fare».
Nell’angolo
opposto, Gao era impegnato in una conversazione con il
compagno al quale aveva impedito di fare a Viola quello che già era stato fatto
a Lucio.
«Restane fuori. Questa battaglia è mia.»
«Non sei qui per giocare secondo le regole. Sei qui per
prendere la gemma.»
«E lo farò. Puoi stare tranquillo.»
«Lo
spero».
Al
richiamo dell’arbitro i due famigli tornarono al centro del ring, pronti per
affrontarsi, e il gong suonato dai giudici diede ufficialmente il via alla vera
sfida. Niente più compromessi, niente più indugi: chi colpiva vinceva.
Gao si
chiuse immediatamente come una cassaforte, erigendo una difesa impenetrabile
con le sue braccia possenti e facendosi trovare pronto a respingere ogni
attacco che gli veniva portato. Di quando in quando,
nei momenti più impensabili, il suo destro saettava in avanti, e ogni volta
Viola riusciva ad evitarlo per pura grazia divina.
Servirono
solo pochi minuti perché il senso di impotenza di
fronte ad un nemico che sembrava essere molto più esperto di lei trasformasse
la pressione a cui la ragazza era sottoposta in furia ceca, e questo non era
per niente da considerarsi un bene: colpiva con sempre meno tattica, ringhiava
in continuazione, e i suoi occhi sembravano sul punto di accendersi come torce
ardenti.
«Tu, maledetto! Perché non cedi!».
All’improvviso,
il fattaccio.
Fu un
gesto puramente istintivo, come istintivo era stato il
contrattacco portato nel primo incontro, ma questa volta si sarebbe trattato di
qualcosa di ben peggiore di un semplice fallo da penalità.
D’un tratto, mentre lo stava caricando, il pugno destro di
Viola si circondò di fiamme, e senza rendersene conto la ragazza lo scagliò
urlando su Gao con la potenza di un maglio da guerra, producendo una piccola
esplosione. L’avversario, inizialmente sorpreso, fu velocissimo ad incrociare le braccia davanti al volto, ma la potenza
dell’attacco fu tale da spingerlo violentemente all’indietro, al punto che i suoi
stivaletti, strisciando sul selciato per rimanervi ancorati, produssero un fumo
maleodorante.
Per la
seconda volta, nella piazza piombò il silenzio, un silenzio
carico di stupore e angoscia.
Viola si
accorse immediatamente di quello che aveva fatto, ed era solo questo il motivo
della sua espressione sgomenta; poco importava che Gao fosse riuscito
comunque a parare.
L’arbitro
inizialmente parve non voler credere che una finale così appassionatamente e
valorosamente affrontata dovesse concludersi in un modo
tanto disonorevole, ma il regolamento c’era, e purtroppo andava rispettato.
«Violazione!»
gridò puntando la bandierina rossa verso Viola, per la quale ebbe lo stesso
effetto del calo di una mannaia «Uso di strumento
proibito! Il Fiya Team è squalificato! Vince il Team del Sole!»
«No… no…»
mormorò Elys, che sembrava sul punto di piangere «No!»
«Ditemi
che non sta succedendo.» disse Sakura
«Maestro…»
«Purtroppo,
non ce l’ha fatta. Alla fine è stata al suo gioco».
Quando
finiva l’ultimo incontro della gara di Lotta di solito
la folla lanciava urla tali da far tremare la terra e si accalcava attorno al
vincitore per portarlo in trionfo, invece in quell’occasione la reazione del
pubblico fu esattamente l’opposto.
Dapprima
vi furono dei buu
isolati, poi però in tutta la piazza esplose una mezza
rivolta fatta di esclamazioni violente, invettive verso l’arbitro e verso i
giudici e addirittura lanci di oggetti, soprattutto dolci e altre cose
reperibili dalle bancarelle tutto attorno.
La folla
era rimasta troppo estasiata e troppo rapita dalla battaglia che si stava
combattendo su quel ring per vederla finire così; erano
anni che la gara di Lotta non riservava simili emozioni, e l’impegno che
entrambi i contendenti ci avevano messo non poteva essere svalutato in quel
modo, per nessun motivo.
Si
chiedeva a gran voce di proseguire, di chiudere un occhio, di non rovinare una
sfida che poteva a buon diritto essere considerata
come la più eccitante di tutta la storia dei Giochi della Rinascita.
L’arbitro
e i giudici non sapevano che pesci pigliare, questi ultimi, seduti su di un
banchetto ai margini del ring, erano a rischio linciaggio, tanto che le guardie
erano costrette a difenderli erigendo una barriera tra loro e una folla che
diventava sempre più infervorata.
«Che cosa
facciamo?» domandò l’arbitro
«Cosa possiamo fare? Assegnamole una penalità e facciamoli
proseguire.»
«Aspettate!»
disse Viola, che grazie al suo udito canino poteva
sentire i loro discorsi
«Cosa
c’è?».
La
ragazza esitò, mordendosi le labbra, e ciò che disse lasciò tutti ammutoliti.
«Io non
intendo continuare!»
«Che cosa!?»
«Non vedo cosa ci sia da discutere. Ho violato il
regolamento, e per questo merito la squalifica.» poi si rivolse direttamente al
pubblico, che la ascoltò senza batter ciglio «Vi farebbe sicuramente piacere se
questa battaglia continuasse, ma non ci sarebbe niente di onorevole o valoroso
in una vittoria conquistata con metodi scorretti. Vincere in questo modo non mi
arrecherebbe alcuna soddisfazione, e sarebbe un insulto per chi questo torneo lo ha combattuto nel rispetto delle regole».
L’intera
piazza piombò per la terza volta nel silenzio, poi, dopo qualche secondo,
qualcuno batté le mani, e ad un battito isolato ne
seguì un altro, poi un altro, finché ne nacque un unico, immenso coro di
acclamazioni che fecero leggermente arrossire l’interessata.
«La vincitrice morale è lei.» disse Regis
«Hai
ragione.» rispose Elys, che però un attimo dopo piombò nella più cupa
disperazione «Ah, ma che sto dicendo!? Questo è un disastro!»
«Forse
non avrà dimostrato di avere grande autocontrollo.» disse Dave «Ma di certo ha
dimostrato di sapersi assumere le proprie responsabilità».
La
consegna della foglia di palma dorata fu salutata con un entusiasmo un po’ più pacato di quello che solitamente accompagnava la premiazione
della gara di Lotta, ma se da una parte la folla non era contenta del modo in
cui la finale si era conclusa dall’altra non poteva non ammirare la grande
abilità dimostrata dal vincitore, e neppure rifiutarsi di riconoscere il suo
indubbio talento.
Viola e
Gao si guardarono un’ultima volta, lui con la solita freddezza lei con evidente
aria di sfida.
«È solo
rimandata.» disse lei puntandogli l’indice contro prima di tornare sui suoi
passi.
I festeggiamenti andarono avanti fino a tardi notte, ma
non tutti quella sera avevano la voglia e le forze per bighellonare e darsi
alla pazza gioia.
Chiusi
nella loro stanza d’albergo e radunati attorno al tavolo, Regis e gli altri
osservavano sconsolati una delle carte informative che erano state
distribuite poco dopo la fine della gara di Lotta su cui era riportata la
classifica generale dopo la prima giornata di gare.
La
protesta popolare, lo spirito giocoso in cui si svolgevano i giochi, ma
soprattutto la nobiltà d’animo dimostrata da Viola nell’accettare la
responsabilità delle proprie azioni avevano toccato
l’animo dei giudici che avevano deciso di conferire al Fiya Team non uno ma due
punti per ogni incontro vinto, per un totale di sei, ma questo non migliorava
di molto la situazione, che si presentava davvero difficile. Poiché Viola era
stata squalificata le squadre uscite terza e quarta avevano visto la loro
posizione aumentare di uno, e in questo modo i punti
ottenuti dal Munda Team, da dodici, erano diventati
sedici.
Di
conseguenza, la classifica della prima giornata vedeva il Team del Sole in
testa con quarantuno punti, seguito a ruota dal Munda
Team con quaranta, mentre per trovare il Fiya e i suoi ventotto punti bisognava scendere fino al terzultimo posto; una situazione
che, alla luce dell’unica prova che ancora restava da disputare, e che avrebbe
deciso le due squadre destinate ad affrontarsi nella finalissima, sembrava
quasi impossibile da ribaltare.
«A questo
punto non possiamo fare altro che giocarci tutto nella quarta gara.» disse Dave
«Dovremo
assolutamente vincere per avere una speranza.» disse Viola
«E
sperare che il Munda Team» disse Elys «O meglio
ancora il Team del Sole, ottengano un pessimo piazzamento.»
«Purtroppo,
quella di Lotta era l’ultima prova che conoscevamo in anticipo» disse Sakura
«Quelle di domani verranno decise durante la notte, e
non ne conosceremo l’identità fino all’ultimo momento. Di conseguenza, è
impossibile impostare qualunque tipo di strategia.»
«Accidenti
a te, cagnaccio dei miei stivali!» sbottò Elys
alzandosi in piedi con un’espressione decisamente tragicomica stampata in volto
«Non saremmo in questa situazione se tu conoscessi il significato della parola
autocontrollo!»
«Ha
parlato quella che si riteneva una cavallerizza di talento!» rispose
l’interessata con il medesimo tono «Dopo la tua prestazione nella prima prova
non sei certo nella condizione di potermi fare la predica!»
«Stai
cercando di provocarmi?»
«Freccia del Deserto, ma per favore. Lumaca del Deserto ti
si addice di più.»
«A chi hai dato della lumaca, sottospecie di barboncino?»
«Calma, calma.» disse Dave cercando di portare pace «Non è il caso
di arrabbiarsi così. Siete state tutte e due molto brave.»
«Tu fatti
gli affari tuoi, razza di novellino!» risposero in coro le due ragazze,
lasciando il povero Dave con un’espressione stralunata e gli occhi sbarrati.
In quella
Regis si alzò, che fin dall’inizio era rimasto in silenzio, e si diresse verso
la porta.
«Dove
vai?» domandò Sakura
«Ad
avvisare il principe di quello a cui rischia di andare
incontro.»
«Pensate
che vi ascolterà?» chiese Dave
«Per il
suo bene, sarà meglio che lo faccia».
Nello
stesso momento, molto distante da lì, fuori delle porte della città, uno dei
membri del Team del Sole sedeva all’ombra di una
grande quercia isolata posta sulla sommità di una collinetta.
Ai suoi
piedi, tra l’erba, cresceva un fiore, una margherita. La raccolse,
rigirandoselo tra le dita, e dopo poco lo raggiunse Gao, il suo caposquadra. I
due stettero a lungo immobili senza proferire parola, Gao osservando il
compagno e quest’ultimo seguitando a rimirare il fiore.
«Hai chiesto di parlare con me. Di che si tratta?».
Quello
continuò a restare in silenzio, poi, finalmente, parlò.
«Hai fatto un buon lavoro oggi. Anche se, lo confesso,
speravo in qualcosa di più».
Gao si
morse leggermente le labbra e strinse i pugni, ma non fece alcun tentativo di
controbattere.
«Quegli
incontri erano miei.» disse dopo un po’ «Non avresti dovuto intrometterti.»
«Vorrei ricordarti che stiamo partecipando a questa sorta di
Spettacolo di Buffoni per un motivo ben preciso. Non abbiamo tempo per giocare
pulito.
Devi
considerare una vera fortuna che quella sciocca
ragazzina abbia dato di matto, o a quest’ora la nostra situazione non sarebbe così
rosea.»
«La fortuna non c’entra. Tu e i tuoi tirapiedi potete fare
quello che vi pare per quel che mi riguarda, ma io combatto secondo le regole.
Chi vince imbrogliando è solo un incompetente.»
«Se ti riferisci alla gara di equitazione, non c’è stato
nessun imbroglio. Ostacolare gli avversari era un atto del tutto legittimo. La
vittoria ottenuta giocando pulito sarà pure gratificante, ma quella ottenuta
schiacciando i propri nemici è decisamente migliore.»
«Però non avete vinto. Il tuo imbroglio non è servito, e se
non fosse per lo stesso regolamento che usi per legittimare la tua codardia il modo di combattere tuo e dei tuoi uomini vi si
sarebbe ritorto contro.»
«Ora stai
cominciando a passare il segno.» disse l’individuo misterioso con apparente gentilezza,
ma con una terribile ed agghiacciante malvagità di
fondo «Frena la lingua, se non vuoi che te la tagli».
Nessuno
dei due poteva saperlo, ma qualcuno, nascosto tra le fronde di un albero poco
distante, stava origliando i loro discorsi.
Akita non
aveva mai perso di vista Regis e il suo gruppo, e reputando i Giochi della
Rinascita come un’occasione più che propizia per mettere le mani su una o più
gemme si era mescolata tra la folla vestendosi nel modo a lei più consono, come
una spia vera e propria, e in quel gran parapiglia nessuno si era accorto che
lei era in realtà un elfo, razza del tutto assente a Kamur e quasi sconosciuta.
L’istinto
le aveva suggerito di sfruttare la confusione per rubare il trofeo e farne dono
alla regina, ma una vocina interiore che non le era
stato possibile tacitare l’aveva infine convinta ad aspettare, a stare in
disparte, nell’attesa che gli eventi prendessero un’altra piega.
Poi,
quando aveva visto Gao allontanarsi furtivamente dalla città, lo aveva seguito,
e a giudicare dai discorsi che si stavano cominciando a fare la sua era stata un’ottima decisione.
«Che cosa
vorresti fare adesso?» domandò Gao «Quel gruppo di fiyani
non è ancora sconfitto.»
«Nella posizione in cui sono, dubito che saranno in grado di
arrecarci fastidi. Comunque, per maggior sicurezza, i miei uomini si
assicureranno che il loro rappresentante, chiunque egli sia, non arrivi a concludere la penultima prova, così saranno definitivamente
tagliati fuori.»
«E così
otterremo un’altra vittoria fasulla.»
«Te l’ho già detto, il nostro scopo è solo quello di
recuperare la pietra. Il Grande Sacerdote ha insistito perché prendessimo parte
a questo stupido gioco. Se fosse stato per me avrei
agito in modo ben diverso, senza inutili perdite di tempo.»
«È proprio
questo tuo atteggiamento a renderti così malvisto agli occhi degli altri
sacerdoti.»
«La cosa
non mi tocca.»
«Nessuno
si fida di te, e l’unico motivo per cui il Grande
Sacerdote continua a considerarti un suo protetto è perché porti sempre a
termine le tue missioni, ma il modo in cui lo fai è tutt’altro che da
ammirare.»
«Sono
parole grosse se pronunciate da uno sporco famiglio che non riesce ad avere la meglio su un ballerino fallito o su una ragazzina
scalmanata.
Ad ogni
modo, come hai detto tu, io svolgo sempre al meglio i compiti che mi vengono affidati, quindi non c’è nulla su cui sia necessario
discutere.»
«Però»
disse Gao con un tono di voce molto più provocatorio «A quel che mi risulta il suo ultimo lavoro si è concluso con un buco
nell’acqua».
Quella
frase parve accendere gli occhi dell’individuo in nero, che si alzò di scatto,
e il terreno tutto intorno a lui prese rapidamente a marcire, diventando
sterile e freddo. I due si fissarono l’un l’altro per interminabili
istante, e ad Akita, ancora appostata sull’albero, sembrava che nulla
potesse evitare una battaglia all’ultimo sangue.
Fortunatamente,
in qualche secondo, la situazione parve acquietarsi, anche se di poco.
«Che cosa
vorresti dire con questo?»
«Sto dicendo che l’unica colonna su cui poggia la tua carica
sta cominciando a creparsi. Il nostro rispetto non l’hai mai avuto, e
l’opinione che il Grande Sacerdote aveva di te è stata improvvisamente messa in
discussione.»
«Basta una missione andata male per vanificare quanto ho
fatto per l’Ordine fino ad ora? Sono un sacerdote di Inti da quando eri ancora
nel ventre di quella cagna di tua madre.»
«Se hai recepito il messaggio, non mettere mai più bocca nel mio
modo d’agire. Piuttosto, pensa a preparare il tuo uomo per la prova di domani
mattina».
Il tizio
in nero guardò Gao mentre si allontanava, e appena fu di nuovo da solo si voltò
urlando, colpendo con un pugno l’albero sotto il quale era seduto fino a poco
prima. A livello di struttura la pianta non subì alcun danno, ma tutte le sue
foglie improvvisamente caddero e morì nel giro di una decina di secondi,
trasformandosi in un legno da ardere.
«Questa sarà l’ultima volta che permetterò a quel quartetto
di mocciosi di mettermi in ridicolo. Parola mia».
Akita
aveva sentito tutto, e non era per niente tranquillo.
«Quello lì sta macchinando qualcosa, senza dubbio. Sarà
meglio vedere cosa sta facendo Regis».
Regis
intanto, allontanatosi dall’albergo, non visto era riuscito ad accedere ai
giardini del palazzo reale, dove il principe si stava allenando in solitudine
all’uso del bastone. Vedendolo uscire dal folto delle piante che circondavano
la sua piccola arena personale Kunio
non parve sorpreso e non fece alcun tentativo di contrastarlo né chiamò le
guardie.
«Credevo
che questo posto fosse sicuro.»
«Non c’è
niente di davvero sicuro a questo mondo.»
«Immagino che sia così. A cosa devo l’onore di questa
visita?»
«Devo parlarvi, Principe. È importante».
Si
sedettero sul bordo di una fontana e Regis raccontò tutto, con il cuore in
mano, fin nei minimi dettagli; Kunio ascoltò senza
interrompere fino alla fine, e a giudicare dalla sua espressione quella storia
doveva averlo molto colpito e preoccupato.
«Quindi,
il Team del Sole è composto da discepoli di Inti?»
«Esattamente.»
«Non avrei mai pensato che quel culto esistesse ancora.
Anche questo regno ne era schiavo fino a pochi secoli fa. È stato il mio
trisavolo a scacciarli da qui e a ricostruire l’età della ragione.»
«E invece, non so come, sono sopravvissuti. Hanno agito per
tutto questo tempo in silenzio, restando nell’ombra, e ora, a distanza di
centinaia di anni, sono tornati in azione, forti di un potere mai visto prima.
Hanno quasi completamente devastato Europia, e
faranno lo stesso anche a Kamur.»
«E questa pietra che state cercando? Quella incastonata nel
trofeo?»
«È legata
ad un’antica profezia del Regno di Fiya. Pare che
questo mondo stia per andare incontro ad una guerra
sacra, la Guerra
dei Mondi, come viene chiamata nella profezia, e che il potere congiunto delle
sette pietre sia l’unico mezzo con cui combatterla.
Non so se
i discepoli di Inti sappiano o meno di questa
profezia, così come non so che ruolo abbiano in essa. La sola cosa certa è che
anche loro vogliono le pietre magiche, e per ottenerle sono pronti a tutto.»
«Quindi,
cosa pensi che succederà domani?»
«Il
motivo che li ha spinti a misurarsi a loro volta nei giochi invece che a
recuperare la pietra con la forza credo di averlo compreso, ma resta il fatto che sono pronti a qualsiasi tipo di
scorrettezza pur di impadronirsi della vittoria finale, e non è da escludere
che, se messi alle strette, decidano di passare alle vie di fatto.»
«E che cosa possiamo fare? Squalificarli?»
«No. Questo avrebbe l’unico effetto di provocare una
risposta armata, con la messa in pericolo della città e di tutti i suoi
abitanti.
L’unica
cosa che si può fare è prestare la massima attenzione, ed essere pronti a
contrastare qualsiasi tipo di colpo basso tenteranno di utilizzare.
Il resto
è un’incognita.»
«Stai
pensando che se sarà la mia squadra ad affrontarli nella prova finale non
avremo speranze, non è vero?».
Regis non
rispose; fu il suo sguardo a farlo per lui.
Il
principe sorrise in modo enigmatico, poi si alzò in piedi.
«In vita
mia, non sono mai fuggito dinnanzi a niente. In quanto figlio minore non potrò mai essere re, ma questo
non mi importa. Ciò che voglio è scoprire fin dove un uomo possa arrivare
contando solo sulle sue forze. È per questo che dedico
tutto me stesso in ogni sfida nella quale scelgo di cimentarmi, e lo stesso
vale per i miei compagni.
Tutti
loro, come me, ambiscono ad ottenere la risposta a
questa domanda, e noi siamo convinti che affrontare prove ogni giorno più
difficili ci permetterà di trovarla.
Non
combattiamo per la gloria o il profitto, ma solo per la conoscenza».
Regis
guardò in basso, scostando con il piede alcuni dei
sassolini del selciato.
«La sete di conoscenza può portare conseguenze spiacevoli.
Dammi retta, parlo per esperienza.»
«Forse. Ma passare la vita a domandarsi quali siano i limiti
della nostra natura piuttosto che inseguirli a mio avviso
non è vera vita.»
«Sì, può
darsi che tu abbia ragione».
Detto
questo Regis si alzò in piedi.
«Ad ogni modo, fate attenzione. Potreste trovarvi nella
situazione di dover giocare per la vita, e non più per un semplice trofeo.»
«Lo terrò a mente. A domani.»
«Buona fortuna, Principe. Ne avrete bisogno.» e, detto questo, l’ospite se ne andò.
Dopo aver
assistito anche a questa conversazione, Akita non sapeva che pesci pigliare, ed
era indecisa sul da farsi. Da una parte vi era la coscienza della missione che
era stata mandata a compiere, dall’altra la minaccia costituita dai sacerdoti
di Inti, che diventava di momento in momento sempre più incombente.
Se avesse
recuperato la pietra di nascosto, la sua scomparsa avrebbe potuto avere
conseguenze imprevedibili, e nessuno poteva sapere
come avrebbero reagito quei fanatici vedendosi portar via il loro tesoro da
sotto il naso.
Malgrado
fossero stati proprio i seguaci del Dio del Sole a conferire a Normar il potere
delle bambole meccaniche appariva chiaro che la regina era in disaccordo con
loro e li stava apertamente sfidando, e certamente l’ultima cosa che voleva era
che fossero loro a mettere le mani sulle pietre.
La giovane
spia, dopo aver assistito ad entrambi gli incontri e
aver previsto, non a torto e come Regis, che la penultima sfida avrebbe visto
il ricorso da parte del nemico comune a ogni sorta di strumento per ottenere l’accesso
alla prova finale, corretto e non, si fece un paio di conti, poi decise per l’unica
soluzione che potesse salvare capra e cavoli: impedire al Team del Sole di
ottenere la vittoria favorendo nel contempo quella di Regis e del Principe Kunio, facendo così in modo che fossero questi due a contendersi
il trofeo nell’ultima sfida, per poi sottrarlo alla squadra vincente una volta
che fosse stato consegnato. Se poi i sacerdoti di Inti avessero deciso di agire
comunque per vie dirette e ottenere la pietra con la forza, sarebbe intervenuta
nuovamente e segretamente per assicurarsi di fermarli.
Qualcuno avrebbe
obiettato che non era un comportamento del tutto corretto, e comunque la causa
di Normar valeva il gioco sporco, per non parlare del fatto che sicuramente
anche gli avversari non si sarebbero fatti scrupoli di coscienza pur di
vincere.
«Sì, è un piano perfetto. Assolutamente perfetto. Aspettate
e vedrete. Alla fine, l’unica a trarre profitto da questo gran parapiglia sarò
io».
Nota dell’Autore
Eccomi qua!^_^
Accidenti, la data
della ripresa dei corsi si avvicina sempre di più, e con essa la fine di questo
lungo periodo di vacanza. Inutile dire che questa data segnerà anche un
rallentamento nella mia frequenza di aggiornamento, anche perché, dopo un
periodo da fine ottobre a dicembre di relativa tranquillità, da giovedì sarò
nuovamente subissato di corsi, pertanto il tempo che potrò spendere a casa sarà
davvero esiguo (basti pensare che da lunedì a mercoledì tornerò a casa alle
otto di sera!).
Con questo capitolo
avevo in mente di arrivare molto più in là con la narrazione, ma poi mi sono
lasciato prendere la mano e senza rendermene conto mi sono trovato ad otto pagine, perciò sono stato costretto a fermarmi.
Ad ogni modo,
prometto di sfruttare ogni piccolissimo buco di tempo (pur sapendo che saranno
davvero pochi) per scrivere, anche perché ci stiamo avvicinando ai momenti che
da più tempo aspettavo di raccontare.
Il sorgere del nuovo giorno fu salutato con il lancio di
decine e decine di fuochi d’artificio, e dopo poche ore di relativa quiete le
strade tornarono improvvisamente a riempirsi di colori, vestiti e maschere.
Era il
giorno del solstizio, l’ultimo giorno di festa, e bisognava divertirsi il più
possibile, perché allo scoccare della mezzanotte tutto sarebbe tornato come
prima, i potenti sarebbero ridiventati i potenti e gli umili sarebbero
ridiventati gli umili, restituendo l’equilibrio sociale dopo quasi due
settimane di totale anarchia, per quanto civile.
I membri
delle dieci squadre fecero ritorno nella piazza principale dove, quando già
aveva cominciato ad albeggiare, era stato tracciato sul selciato un cerchio
magico abbastanza grande da poter ospitare al suo interno diverse persone.
Quando l’orologio della torre scandì le dieci, venne il momento di iniziare.
«Ci
siamo.» disse Sakura «Questa volta dobbiamo giocare per vincere».
Regis
rivolse un’occhiata obliqua al Team del Sole, raggruppata dalla parte opposta
del perimetro quadrato posto tutto attorno al cerchio magico tracciato sul terreno,
al centro del quale stava il banditore. Gli cadde l’occhio anche sul Munda
Team, e il principe, accortosi di lui, gli fece un cenno, come ad augurargli
buona fortuna.
«Benvenuti,
benvenuti! In questo ultimo giorno di festa, cinquanta valorosi guerrieri sono
pronti a contendersi la palma della vittoria nelle ultime due prove dei grandi
Giochi della Rinascita! La prima giornata di gare ha regalato sorprese ed
emozioni a non finire, e questa promette di essere altrettanto avvincente! Quale
fra queste dieci squadre riuscirà alfine a portare a casa l’ambito trofeo
simbolo dei vincitori? Scopriamolo insieme con l’ultima prova, che decreterà le
due squadre destinate a contendersi il titolo nella sfida finale!
Ecco a
voi la Gara di
Orientamento!»
«Orientamento!?»
ripeté Elys
«Ora
prestate molta attenzione, perché vi illustrerò le regole!
Un membro
per ciascuna squadra si posizionerà al centro di questo cerchio magico, che una
volta attivato lancerà i cinque partecipanti in altrettante differenti
direzioni nella zona tutto intorno alla città. Il loro compito sarà ritornare
fin qui. Chi arriverà per primo avrà vinto, e regalerà alla sua squadra, udite
udite, ben trentacinque punti!»
«Trentacinque
punti!?» disse Viola «Basterebbero per recuperare tutto lo svantaggio e anche
passare in testa.»
«Dobbiamo
assolutamente vincere.» disse Sakura «A qualunque costo.»
«Molto
bene. Ora che ho spiegato le regole, è il momento che le squadre scelgano
ognuna il proprio rappresentante. Avete cinque minuti per prepararvi, poi si
comincia!».
A
sorpresa, il Munda Team schierò lo stesso principe Kunio, ma questo non mutò
minimamente la decisione che Regis aveva preso durante la notte.
«Dave.»
disse avvicinandosi al suo allievo «Tocca a te.»
«C…
cosa!?» replicò l’interessato più che sorpreso «A me!?»
«Non
dirai sul serio, voglio sperare!» esclamò Elys «Dovremmo riporre le già poche
speranze di vittoria che abbiamo in questo novellino?!»
«Dave è
cresciuto tra le montagne. Era un pastore, prima che un mago, e nessuno meglio di
lui sa interpretare i segnali offerti delle foreste. Più di tutto, ha un forte
senso dell’orientamento.
È
decisamente la persona più adatta per questa prova.»
«Però…
però io…»
«Lascialo
fare Elys.»
«Sakura!
Gli dai corda un’altra volta!?»
«Io sono d’accordo
con lui.» disse Viola «Infondo, anche se vincessimo, resterebbe ancora una
prova da affrontare.»
«Ed è
meglio che sia Regis a cimentarvisi, qualunque essa sia.» disse Sakura
«Inoltre, come ha detto lui, indubbiamente Dave conosce la montagna molto
meglio di tutti noi messi insieme. Con la sua esperienza, orientarsi non gli
sarà difficile».
Elys
allora andò verso Dave, che ancora rimuginava e si interrogava, e guardatolo un
attimo lo colpì alla fronte con un dito.
«Non
azzardarti a perdere, ci siamo capiti.»
«Elys…»
«Sei e
sarai sempre un novellino, ma se davvero la montagna non ha segreti per te,
ebbene dimostralo».
Il modo
in cui l’aveva detto e quella sua espressione falsamente avversa erano un
chiaro segnale di incoraggiamento, e a Dave fu sufficiente questo per
recuperare un po’ di ottimismo.
Appena il
banditore chiamò a sé i partecipanti questi si posizionarono subito al centro
del cerchio, quindi ad un membro di ciascuna squadra che non fosse il prescelto
venne consegnato un cristallo di comunicazione: infatti, era stato stabilito
che i membri della squadra che fossero rimasti in città avrebbero potuto dare
direttive al proprio compagno per aiutarlo ad orientarsi, in modo da evitare,
come era già capitato in altre occasioni in cui si era svolta quella gara, che
qualcuno potesse finire col perdersi.
«Molto
bene, valorosi concorrenti!» disse il banditore mentre due stregoni,
inginocchiatisi, iniziavano ad attivare il cerchio «Preparatevi a partire! E
ricordate. Ostacolare gli avversari non è vietato!
E ora
forza, signori spettatori! Tutti insieme!
Tre! Due!
Uno! Partenza!».
Il
cerchio si illuminò improvvisamente, e i cinque concorrenti, avvolti in globi
di luce, vennero prima sollevati in aria e poi sparati in diverse direzioni a
velocità supersonica, approdando a terra quasi contemporaneamente e
praticamente tutti nel folto delle foreste che circondavano la città.
Dave
atterrò poco distante da un torrente, e la prima cosa che fece fu accertare la
posizione esatta in cui era stato spedito. Dalle formazioni di muschio sui
tronchi e dalla posizione del sole calcolò di trovarsi ad ovest della città, a
circa tre o massimo quattro miglia dalle mura, ma per averne la conferma decise
di provare ad arrampicarsi su un albero.
L’impresa
non risultò certo difficile per lui, e anzi servì a ricordargli una volta di
più le sue origini semplici, di semplice pastore, e di quando era costretto a
salire sugli alberi per individuare le bestie allontanatesi troppo. Le sue
deduzioni si rivelarono esatte: Munda era proprio dove era sicuro che fosse, a
poco più di tre miglia e mezzo verso oriente, quindi, risceso, si mise in
marcia.
A causa
della piccola postilla inserita nel regolamento, a detta del banditore per
rendere la gara più interessante, né lui né nessun altro dei suoi avversari era
autorizzato ad utilizzare i sentieri convenzionali, quelli dei quali tutti
conoscevano l’esistenza, ed era inutile cercare di fare i furbi: lungo tutto il
loro tracciato, ben nascoste e praticamente invisibili, erano state posizionate
delle ocarine magiche, piccole sfere di energia che funzionavano come delle
sofisticate videocamere tramite le quali gli stregoni facenti parte della
giuria potevano accorgersi subito se qualcuno stava barando.
Dave trovò
subito un sentiero naturale tracciato dagli animali che scendeva verso il
basso, e nel giro di pochi minuti raggiunse il torrente vicino al quale era
stato lanciato, un corso d’acqua di discrete dimensioni che tagliava l’intera
regione scorrendo da nord-ovest verso sud-est con un tracciato quasi
perfettamente obliquo.
Le acque erano veramente impetuose,
e la mancanza di rocce sporgenti rendeva impossibile il guado, almeno in quel
punto. La sola cosa da fare era percorrere le sponde rocciose alla ricerca di
una zona più adatta, anche se questo significava allungare il tragitto, ma
d’altra parte era impossibile raggiungere la città senza attraversarlo, e visto
che intorno non vi erano ponti di sorta, e che se ve ne erano altri sicuramente
ne era proibito l’uso, Dave non ebbe altra scelta che mettersi nuovamente in
marcia.
Intanto, in città, aveva cominciato
a diffondersi una strana atmosfera: uno dopo l’altro, infatti, i membri delle
varie squadre stavano perdendo i contatti con i rispettivi rappresentanti alla
gara, che da un momento all’altro cessavano di comunicare tramite i propri
cristalli, cadendo nel più totale silenzio.
Regis e i suoi compagni capirono
subito che si trattava di un imbroglio.
«E con questo siamo a sette!» disse
Sakura tornando da loro dopo che era stata mandata ad accertarsi della
situazione «Ormai restano solo Dave, il principe Kunio e il rappresentante del
Team del Sole.»
«Quei bastardi.» disse Viola
«Stanno facendo qualcosa, ne sono sicuro.»
«Era scontato che avrebbero deciso
di giocare sporco.» disse Regis prendendo il cristallo «Dave, mi ricevi?»
«Signor maestro.» rispose il
ragazzo, che nel frattempo era riuscito finalmente ad oltrepassare il fiume «La
sento forte e chiaro.»
«Come procede?»
«Abbastanza bene. Ho dovuto
allungare un po’ il percorso, ma ora credo di poter proseguire molto più
velocemente.»
«Stai in guardia, Dave. I nostri
nemici stanno macchinando qualcosa.»
«Che cosa ve lo fa pensare?»
«Il fatto che tutti i tuoi
avversari hanno cessato improvvisamente di comunicare coi loro compagni.»
«Ho capito. Farò la massima
attenzione.»
«Stai molto attento. È probabile
che tenteranno di attaccare anche te».
Nello stesso momento, poco distante
da dove si trovava Dave, il principe Kunio era a sua volta impegnato a portare
a termine la prova per poter garantire alla sua squadra l’accesso alla finale.
Essendo nato e cresciuto a Munda
conosceva fin troppo bene i boschi e le foreste che circondavano la città, ma
non potendo usufruire dei sentieri o di altre strade quella sfida si stava
rivelando piuttosto impegnativa anche per lui.
Ad un certo punto, giunto in una
piccola radura senza alberi, si fermò un attimo per fare il punto della
situazione, e proprio come aveva fatto Dave decise di arrampicarsi su di un
grande abete in modo da poter capire meglio dove si trovava.
Munda ormai non era più molto
lontana, e sarebbe bastato davvero poco per arrivare a destinazione.
All’improvviso però, proprio mentre stava per scendere, dal nulla qualcuno gli
lanciò contro una serva di pugnali. Il principe fortunatamente non venne
colpito, ma uno di essi, centrando il ramo su cui si trovava, gli fece perdere
l’equilibrio.
La caduta fu attutita dalle fronde
e dall’erba alta, e come Kunio si rimise in piedi davanti a lui comparvero,
sbucando dall’alto, due rappresentanti del Team del Sole; indossavano ancora i
loro travestimenti, che tuttavia, per quanto voluminosi, non sembravano
risultare un impedimento per la loro agilità.
«Regis mi aveva avvertito che
avreste potuto giocare sporco.» disse preparandosi alla battaglia «Ma mai avrei
immaginato che vi sareste spinti a tanto».
I due avversari si lanciarono quasi
subito all’attacco con l’evidente intento di uccidere, ma Kunio non si fece
trovare impreparato e rispose per le rime, sferrando colpi davvero micidiali;
anche se era un principe fin dall’infanzia si era addestrato per diventare un
guerriero visto che, in quanto figlio minore, il suo destino era quello di
prendere il comando dell’esercito reale, e in particolare i suoi calci sapevano
essere davvero micidiali.
Entrambi i nemici accusarono colpi
pesanti, ma incredibilmente, nonostante ciò, non sembrarono subire alcun tipo
di danno; anzi, più aggressivamente il principe li attaccava, più violenta e
determinata era la loro reazione.
«Scusate, ma non ho proprio tempo
per giocare con voi!».
Kunio cercò di mettere fine alla
battaglia con un attacco risolutivo, e corso incontro ad uno dei nemici
all’ultimo secondo cambiò il proprio bersaglio, riuscendo a disorientarli; il
secondo avversario fu colpo del tutto alla sprovvista e ricevette una micidiale
ginocchiata allo stomaco, ma mentre il principe era in procinto di infierire
ancora questi risollevò improvvisamente la testa, e da un lembo della sua
sopravveste all’altezza del petto partirono, come sparati da un cannone
invisibile, un’altra selva di pugnali, uno dei quali riuscì a centrare Kunio ad
una gamba prima che avesse il tempo di allontanarsi.
«Maledizione.» mugugnò il giovane
dopo essere stato allontanato con un calcio.
Riuscì a togliersi la lama dalla
gamba, ma la ferita, pur non essendo eccessivamente grave, lo era abbastanza da
rendergli molto difficile camminare, e infatti, appena cercò di alzarsi, il
dolore fu tale da farlo cadere subito in ginocchio.
Il primo avversario a quel punto si
avvicinò lentamente mentre il suo guanto destro veniva sventrato da una lama
lunga, larga ed affilata apparsa da sotto di esso, ma prima che potesse
accostarsi al principe, ormai apparentemente rassegnato al proprio destino, un
fascio di luce proveniente dagli alberi lo centrò in pieno, scaraventandolo
violentemente verso sinistra.
«Principe Kunio!» disse qualcuno
frapponendosi tra lui e i suoi nemici
«Ma… io ti conosco. Tu appartieni
al Fiya Team.»
«Il mio nome è Dave. State
indietro, principe. Ci penso io a loro.»
«Fa attenzione. Quei tipi hanno qualcosa
di strano.»
«Sì, lo so. E credo anche di sapere
perché».
Rialzatosi, il primo nemico tentò
di attaccare Dave, ma il ragazzino evitò il fendente grazie alla sua agilità e
caricato il pugno destro di potere magico gli assestò un pugno tale da spedirlo
vicino al suo compagno, poi, prima che entrambi potessero azzardare un
contrattacco, adoperò un nuovo incantesimo.
GREAT FIRE!
Dal cerchio magico che aveva materializzato davanti a sé
partirono decine di piccole sfere infuocate, molte delle quali colpirono i
nemici. Questi cercarono debolmente di spegnerle, ma nel complesso rimasero del
tutto indifferenti mentre bruciavano come torce, e quando i loro vestiti si
consumarono del tutto, esaurendo il materiale infiammabile, Dave vide
confermati i propri sospetti.
«Ma cosa!?» esclamò il principe
pieno di stupore
«Come immaginavo».
Poco lontano da lì, favorito dai suoi compagni che avevano
neutralizzato uno per uno tutti i possibili avversari, il concorrente di Inti
procedeva a passo spedito verso la vittoria, dimostrando come gli altri membri
della sua squadra un’agilità assolutamente non comune.
D’un
tratto però, subito dopo essere saltato giù da un ramo, un’ombra sinistra
comparve dalla macchia e gli si parò dinnanzi, bloccandogli la strada.
«Mi
spiace amico.» disse Akita sfoderando le sue spade «Ma per te la gara finisce
qui».
Quello
fece qualche passo indietro, come a voler retrocedere, poi d’improvviso dalla
manica della sua mantella sbucò fuori una sorta di tentacolo talmente veloce e
sfrecciante da renderne difficile persino la vista; nonostante ciò Akita,
grazie ai suoi ottimi riflessi, riuscì a schivare, e con un fendente ben
piazzato a recidere la sommità del tentacolo, che rovinò a terra mentre il
resto tornava a celarsi all’interno della veste.
Quella
strana cosa, che si agitava e si dimenava nonostante fosse stata tranciata,
sembrava una sorta di grosso verme; l’esterno era rivestito da una struttura
grigiastra all’apparenza molto robusta, forse di metallo, scagliata proprio
come il corpo di un verme, l’interno invece era una poltiglia bianco sporco
della consistenza di un muscolo.
«Ma che roba è?».
Prima che potesse cercare una
risposta il nemico attaccò ancora, e allora Akita decise di mettere in pratica
la sua strategia preferita, la toccata e fuga, come la chiamava lei: movimenti
rapidi e attacchi improvvisi. Di solito funzionava, ma purtroppo ben presto le
fruste lanciate contro di lei diventarono due, una per ogni braccio, ed erano
molto più veloci di quanto lei potesse mai sperare di essere.
Alla fine, mentre si trovava nel
bel mezzo di un salto, venne colpita, ma per fortuna accusò abbastanza bene il
colpo e riuscì ad atterrare in piedi; inoltre, come ulteriore dimostrazione
della sua esperienza, subito prima di tornare verso il basso riuscì a lanciare
uno dei pugnali da lancio in dotazione a tutte le spie, centrando il nemico in
pieno petto.
Incredibilmente quello non morì, ma
Akita se lo aspettava, perché ormai era chiaro che quello con il quale si stava
misurando non era un comune essere umano. Poi, di colpo, la sua veste cominciò
a ondeggiare, come se qualcosa si stesse muovendo al suo interno, e dopo poco
dal basso presero ad uscire dei grossi e ributtanti ragni bianchi grandi come
gatti; all’apparenza erano fatti dello stesso materiale di cui erano composti i
tentacoli del nemico, e sembravano possedere una sorta di unica mente che li
faceva muovere quasi all’unisono, come un esercito agli ordini di un generale.
«E questi chi sono, amici tuoi?»
domandò sprezzante Akita cercando di nascondere il disgusto che provava ogni
volta che si trovava di fronte a dei ragni.
Quei piccoli esseri ributtanti
erano estremamente agili e rapidi negli spostamenti, e oltre a saltare addosso,
tentando di ferire con le loro zampe appuntite, sparavano dalla bocca una
sostanza simile a bava che era in realtà un vero e proprio acido, capace di
bucare un grosso tronco da parte a parte.
Akita si salvò per puro miracolo da
uno schizzo che fortunatamente si limitò a liquefare parte di uno dei due
schinieri che portava su entrambe le gambe, e visto che quei piccoletti erano
troppo rapidi per poter essere colpiti uno ad uno la sua risposta fu
decisamente sopra le righe.
Nel corso degli anni aveva letto
numerosi libri scientifici di origine umana ottenuti con il contrabbando o
tramite amici, e avendo anche l’hobby della chimica nel corso di vari studi,
che nella stragrande maggioranza dei casi si erano conclusi con uno studio
saltato per aria, era riuscita a realizzare un liquido esplosivo estremamente
instabile che portava in speciali contenitori simili a bombe fumogene.
Presane una la lanciò nel folto del
gruppo subito dopo essersi allontanata, e malgrado la bomba fosse grande quanto
una biglia l’esplosione che ne derivò fu tremenda, pari solo a quella di un
cannone di grosso calibro. Tutti i ragni bruciarono come torce, fino a che di
loro non rimasero altro che una selva di esoscheletri fumanti.
«Non mi sono mai piaciuti i ragni.»
disse Akita schiacciandone uno, ma solo in quel momento si accorse che il suo
nemico aveva approfittato della situazione per darsi alla fuga «Non mi
sfuggirai!».
Grazie alla sua grande velocità e
all’agilità di spia riuscì velocemente a raggiungerlo, ma proprio quando
sperava di poterlo cogliere alla sprovvista quello, come se avesse avuto gli occhi
anche dietro, si girò di scatto e lanciò un nuovo colpo con la sua
spira-tentacolo; fortunatamente Akita riuscì a schivare, e pur vedendo
vanificati i suoi tentativi di attaccare con sorpresa riuscì a tirare un
secondo pugnale, centrandolo questa volta proprio in mezzo alla fronte.
«Questo tipo è peggio delle
mosche.» mugugnò la ragazza dopo essere atterrata.
Nuovamente la veste nera del nemico
prese ad ondeggiare, ed Akita si preparò ad una nuova invasione di ragni che
invece non si verifico; invece, l’abito cominciò a gonfiarsi, come se qualcosa
premesse con forza dal suo interno, fino ad andare in pezzi, rivelando qualcosa
che definire mostruoso era poco.
Fisicamente poteva essere
considerato come un unione tra una sottospecie di umano e una moltitudine di
insetti: alto più di due metri e mezzo, aveva due zampe lunghe e sottili, come
quelle delle cavallette, appuntite all’estremità e con l’articolazione al
contrario; il corpo, stretto e allungato, sembrava quello di una formica, con
tanto di addome pulsante non eccessivamente grosso che spuntava alla base della
schiena e dal quale con ogni probabilità generava i suoi grossi ragni; le
braccia, come Akita immaginava, erano due lunghi tentacoli, mentre la testa,
l’unica parte che si potesse definire vagamente umana, era dominata da due
enormi occhi rossi e sfaccettati come quelli di una mosca. Tutto il suo corpo,
fatto interamente di quello strano metallo organico, generava una sorta di bava
bianca e maleodorante, e all’altezza del petto aveva impresso il numero 3.
Akita rimase sconvolta da una tale
visione, ma cercò per quanto possibile di mantenere il sangue freddo, riuscendo
persino a trovare la forza per sfoderare il suo sarcasmo pungente.
«Come sospettavo. Sei anche tu una
di quelle bambole meccaniche.» disse rimettendo mano alle spade «Doveva esserti
davvero stretto quello stupido costume».
Come infuriato dal commento acido
della ragazza Tre ringhiò paurosamente per poi lanciare di nuovo i suoi
tentacoli verso di lei, ma questa volta Akita non si fece cogliere di sorpresa
e schivò, evitando anche tutti gli attacchi successivi.
«Mi dispiace, testa di latta! Lo
stesso trucchetto non funziona due volte con una spia, men che meno con una
brava come me!».
Tre cercò di aumentare le sue
possibilità di vittoria generando altri ragni, che come Akita aveva previsto
sbucavano dal suo addome a gruppi di tre o quattro per volta ad un livello poco
più che larvale, ma lei era svelta a toglierli di mezzo prima che riuscissero a
raggiungere lo stadio maturo.
Purtroppo ben presto la giovane
spia dovette riconoscere che il suo nemico non era affatto il tipo da
sottovalutare; d’un tratto Tre piantò a terra entrambi i suoi tentacoli, e
prima che Akita potesse chiedersene la ragione questi rimbucarono da sottoterra
proprio sotto di lei, cogliendola del tutto impreparata: uno dei due le strinse
il polso sinistro, l’altro invece le si avvinghiò attorno al collo con forza
inaudita, sollevandola in aria.
La poveretta tentò di liberarsi, ma
la stretta esercitata alla gola le stava togliendo velocemente il respiro,
mentre la torsione esercitata sul braccio vanificava qualsiasi tentativo di
ribellione; tentò di liberarsi, ma non sembrava esserci nulla in grado di
contrastare quell’abbraccio mortale, entrambe le spade le caddero di mano e
sembrò davvero che per lei non ci fosse più nulla da fare.
Con le ultime forze che le
restavano, e compiendo un gesto apparentemente insensato, Akita lasciò andare
la mano con cui stava inutilmente cercando di liberarsi, e stretto il pugno
eseguì un violento scatto del polso; il grosso bracciale che indossava, e che
usava anche come fodero per le sue spade, produsse un suono strano, come un
rumore di scatto, e immediatamente, da altrettanti fori posti all’estremità
superiore, sbucarono tre affilatissime lame ricurve lunghe una trentina di
centimetri.
Ringhiando, la ragazza menò un
fendente, tranciando di netto il tentacolo che la stava soffocando, e il robot,
forse per il dolore, forse semplicemente perché colto alla sprovvista, le
lasciò andare anche il braccio, liberandola.
Akita fortunatamente si riprese in
fretta, in tempo per vedere il tentacolo reciso del suo nemico rigenerarsi come
se niente fosse; fu in quel momento che si accorse di un qualcosa che pulsava
al centro del petto del robot, e che aumentava di forza ogni qualvolta che era
impegnato in attività più faticose o impegnativo.
“Ora ho capito.” pensò “Ecco il mio
bersaglio”.
Recuperate le poche forze di cui
aveva bisogno, e sfoggiato un secondo set di artigli nascosto nell’altro
bracciale, l’elfa si lanciò subito alla carica, schivò due colpi e arrivò
dritta addosso a Tre; questi tentò un ultima difesa facendo comparire altri due
tentacoli dai fianchi, ma Akita, dopo averci affrontato un rapido testa a
testa, eliminò anche quella minaccia, quindi, girando su sé stessa, colpì.
Un colpo fulmineo, quasi
invisibile, ma come Akita si inginocchiò il corpo del robot cadde a terra
tranciato in due parti; il suo cuore artificiale, la sua fonte di
alimentazione, era stato reciso in due metà perfettamente identiche.
Akita era chiaramente soddisfatta
di sé stessa, e rialzatasi guardò piena di compiacimento il suo nemico segato
come un tronco d’albero.
«Non avresti dovuto mettertrci con
me. Io sono Akita, il falco. I miei artigli non perdonano. E visto che sei solo
una bambola, non dovrò neanche farmi venire gli scrupoli di coscienza».
Recuperate le sue spade, si volse a
guardare la città, ormai ad un tiro di pietra.
«Ora è meglio rientrare. Devo
essere pronta a recuperare il trofeo alla prima occasione buona».
Dave intanto era ancora impegnato a contrastare i due
rappresentanti del Team del Sole che avevano attaccato il principe Kunio,
rivelatisi essere a loro volta dei robot marchiati rispettivamente coi numeri
Otto e Dodici.
Di forma più umana rispetto a quello
con cui aveva combattuto Akita, erano alti approssimativamente quanto una
persona normale, e mentre Otto aveva come armi una coppia di lame al posto
delle mani Dodici invece aveva, oltre ad una considerevole abilità con le arti
marciali, un foro rettangolare al centro del petto da cui sparava i suoi
pugnali.
La resistenza di Dave, che per
difendersi aveva evocato una lama di luce generata dall’indice e il medio della
mano destra, era ammirevole, ma affrontare due avversari contemporaneamente era
qualcosa che rischiava di essere al di là della sua effettiva portata. Il
principe Kunio era troppo malconcio per combattere, e si limitava a dare
consigli a quello che in linea teorica era un suo avversario avvertendolo
anzitempo di eventuali attacchi a sorpresa mentre restava seduto a terra con la
schiena appoggiata ad un albero.
Beffa nella beffa, visto che
entrambi avevano già fatto ricorso ai loro cristalli comunicativi questi erano
andati irrimediabilmente in pezzi, impedendo loro di chiedere ed ottenere aiuto
dall’esterno.
«Attento alle spalle!» gridò
cercando di avvisarlo dell’arrivo improvviso di Otto dall’alto di un ramo, ma
poiché Dave era impegnato a contrastare Dodici non sembrava neppure essersi
accorto del richiamo.
Lottando col dolore il principe riuscì
a rimettersi in piedi, e datosi la spinta riuscì a caricare il nemico in tempo
per impedirgli di attaccare, dandogli una spallata e buttandolo a terra. Quello
però si rialzò subito, menando un fendente che lo ferì in modo piuttosto serio
ad una spalla, e solo l’intervento di Dave, accortosi finalmente della
minaccia, gli salvò la vita.
“Devo fare qualcosa, o sia io che
il principe verremo sopraffatti.”
«Lascia perdere, ragazzo. Vattene
da qui prima che sia troppo tardi.»
«Non se ne parla neanche. Non
potete chiedermi di abbandonarvi.»
«Ma rischiamo di morire tutti e
due!».
A quel punto Dave non vide altra
soluzione che fare ricorso al proprio asso nella manica. Si era esercitato
molto durante quei giorni di viaggio, sotto la supervisione severa del suo
maestro, e anche se era consapevole che Regis molto probabilmente non avrebbe
approvato la sua decisione, ritenendolo ancora troppo inesperto, in quel
momento gli parve l’unica cosa in grado di salvare entrambi.
«Mi dispiace, signor maestro.»
mormorò, poi, piantati bene i piedi a terra, sollevò violentemente lo sguardo
«Rimozione del primo sigillo!».
Il suo circolo magico comparve
sotto i suoi piedi, caricandosi di luce come mai aveva fatto, e il suo braccio
destro cominciò a ricoprirsi di tatuaggi. Gli effetti non tardarono a farsi
vedere: la spada luminosa, ancora integra nonostante tutti i colpi subiti dal
suo creatore, prese a brillare ancor più forte, circondandosi oltretutto di una
potente scarica di fulmini che ne centuplicò il potere.
Dave sentiva di essere
completamente padrone del suo nuovo potere, ma era anche abbastanza saggio da
sapere che nelle sue condizioni, così stanco e provato, non lo sarebbe stato
ancora per molto, nonostante avesse liberato solo uno dei cinque glifi che
costituivano il Sigillo degli Dèi.
Al torneo era stato sconsiderato,
aveva usato quel potere senza riuscire minimamente a comprenderne la reale
portata, e per questo aveva pagato, ma non avrebbe più commesso lo stesso
errore.
I robot indietreggiarono, forse per
aver percepito una minaccia di portata più grande, ma poi, confidando forse nel
fatto di essere ancora due contro uno, Otto si lanciò all’attacco.
«Fatti avanti. Ti sto aspettando!».
Dave aspettò fino all’ultimo
secondo, poi scattò a sua volta, e come lui e Otto si sfiorarono, passandosi
accanto, il corpo del robot venne attraversato da una selva di fasci rettilinei
che lo ridussero in mille pezzi, mentre il ragazzo se la cavò con una ferita da
poco prodotta dalla punta della spada nemica. Dodici a quel punto colpì a sua
volta sparando una selva di pugnali, ma Dave ne parò alcuni da fermo e poi
riprese a correre, parando anche tutti i successivi, quindi, arrivato appresso
al nemico, gli piantò con forza la spada nel collo, trapassandolo. La testa
esplose, quindi il corpo, dopo aver sprizzato alcune scintille, rovinò a terra
completamente inerme.
Il principe restò senza parole.
«Straordinario.» disse, e come vide
Dave cadere stremato in ginocchio per la fatica dopo aver ripristinato il
sigillo gli andò incontro barcollando per aiutarlo a rialzarsi «Stai bene?»
«A… abbastanza. E voi, principe?»
«Sopravvivrò.»
«E allora forza. Concludiamo questa
gara».
Sorreggendosi l’un l’altro, i due
rivali giunsero faticosamente fino in città, attraversando la via principale
che conduceva alla piazza tra due ali di folla che, dopo aver urlato tanto alla
notizia che stavano arrivando, era rimasta ammutolita nel vederli così, intenti
a collaborare come se fossero stati due amici bisognosi di aiuto piuttosto che
membri di squadre opposte che lottavano per un posto in finale.
«Non credo ai miei occhi.» disse
Elys vedendoli entrare nella piazza.
All’arrivo tanto agognato ai
margini del cerchio magico, entro il quale bisognava rientrare per completare
la prova, il principe Kunio chiese di essere mollato, in modo che Dave potesse
entrarvi per primo.
«Ma, principe…»
«Se non fosse per te, io non sarei
qui. Prenditi ciò che ti spetta».
Dave inizialmente esitò, poi, più
per assecondare i desideri del principe che nel ricordo del motivo per cui
stava gareggiando, accettò di fare come gli venne detto, ed entrato nel cerchio
venne proclamato vincitore della prova tra urla di esultanza e di acclamazione
forti come non se ne erano mai sentite.
Il principe lo seguì a ruota, ed
entrambi, a prova conclusa, dovettero essere soccorsi dai rispettivi compagni a
causa delle ferite e della stanchezza.
«Si può sapere che diavolo è
successo lassù?» domandò Viola
«Il… il Team del Sole. Era composto
da robot. Ci hanno attaccati. Volevano ucciderci.»
«Vi hanno attaccati!?» ripeté
Sakura «Vuoi dire che erano più di uno!?»
«Erano due, e tra di loro non c’era
il loro concorrente.»
«Come fai ad esserne sicuro?»
domandò Regis
«Non ho percepito l’energia del
cristallo di comunicazione.»
«Forse lo avevano già usato.»
ipotizzò Elys
«Erano robot.» rispose Regis «Non
credo avessero bisogno di usarlo.»
«Buono a sapersi.» disse la ragazza
schioccandosi le dita «Questa mi pare una violazione del regolamento in piena
regola.» poi si rivolse ai giudici «Non è così?».
L’infrazione c’era, ed era anche
molto seria, pertanto, alla luce del fatto che anche gli unici due
rappresentanti della squadra rimasti in città, tra i quali Gao, sembravano
spariti nel nulla, il Team del Sole venne squalificato seduta stante.
Fortunatamente gli altri concorrenti
non erano stati uccisi, bensì solo tramortiti, ma quando anche solo il primo di
loro riuscì a ritornare alla piazza il tempo massimo concesso per portare a
termine la prova era già stato abbondantemente superato, pertanto tutte le
squadre vennero lasciate a zero punti, tutte tranne il Munda Team ed il Team
del Sole, che si guadagnarono l’agognata finale e la possibilità di contendersi
il trofeo.
«Regis, perché quel muso lungo?»
domandò Sakura vedendo il suo amico pensieroso, nonostante tutto
«Non lo so, mi sembra tutto un po’
troppo facile. I sacerdoti di Inti non sono tipi da abbandonare la partita così
facilmente.»
«Hai ragione. Così come hanno
barato fino ad ora, potrebbero scegliere di giocare qualche colpo basso all’ultimo
minuto.»
«Una cosa è certa, non ce la
faranno passare liscia, non dopo lo smacco che gli abbiamo inferto.»
«Tu ti preoccupi troppo!» disse
Viola buttandogli il braccio attorno al collo «Se arriveranno li prenderemo a
calci, come al solito!»
«Viola ha ragione.» disse Dave «Voi
signor maestro pensate solo a vincere la vostra prova. A contrastare un
eventuale attacco a sorpresa dei sacerdoti ci penseremo noi. Giusto Elys?»
«C’è bisogno di chiederlo? Non aspetto
che l’occasione buona per fargliele pagare tutte insieme! Che ci provino a
mostrare i loro brutti musi!»
«Vi ringrazio.» disse Regis
leggermente più confortato «Ah, Dave?»
«Sì?» rispose il ragazzino per poi
beccarsi uno scappellotto leggero «Ma, signor maestro!»
«Ti avevo detto di non usare mai il
Sigillo degli Dèi senza la mia autorizzazione.»
«Voi…» esclamò Dave sconcertato «Noi
lo avete…»
«Il potere emesso dal Sigillo si riconosce
a miglia di distanza.» rispose Sakura «E per chi, come me e il tuo maestro, lo
possiede a sua volta, percepirlo è ancora più facile.»
«Mi… mi dispiace, signor maestro.»
«Finita questa seccatura faremo un
bel discorsetto io e te».
Tra la folla assiepata tutto
intorno vi era anche Akita, appostata sulla cima di un tetto, che dopo essere
rientrata in città non aveva perso d’occhio un solo istante il palco di legno
dove si trovava il trofeo e dove, mentre tutti si divertivano e si accalcavano
attorno ai finalisti, era stato allestito nel frattempo un lungo tavolo ovale
con uno scranno prezioso ad ogni estremità.
«Al momento giusto, quando saranno
tutti concentrati sulla prova, entrerò in azione.»
«Signore e signori!» esclamò
improvvisamente il banditore «Siamo infine giunti alla finale di questi
grandiosi Giochi della Rinascita! Grandi emozioni si sono susseguite, e
infiniti colpi di scena, ma ora finalmente abbiamo due squadre finaliste!
E adesso, scopriamo la natura di
questa ultima, fantastica prova!».
In quella due inservienti salirono
sul palco trasportando un grosso contenitore ligneo che, appoggiato sul tavolo,
si aprì come una scatola cinese, rivelandosi essere in realtà una enorme
scacchiera; al suo interno altre tre scatole, due di uguale grandezza e una
terza, grande e bassa, piena di dadi a sei facce con strani simboli disegnati
sopra.
«Ebbene sì, signore e signori!»
disse il banditore vedendo le facce inebetite tanto dei membri delle due
squadre quanto dell’intera folla «L’ultima prova sarà un’entusiasmate,
elettrizzante partita di madara!»
«Siamo a cavallo!» esclamò Elys «Regis,
tu a madara sei un drago!»
«È vero.» disse Dave «Il signor
maestro è uno specialista in questo gioco.»
«Ma che cosa sarebbe questo madara?»
domandò Viola
«È un antico gioco da tavolo molto
diffuso tra la nobiltà.» rispose Sakura «Si gioca in due, su una scacchiera, usando
cinque pedine e dei dadi.»
«Per vincere servono strategia e
tattica, ma anche una buona dose di fortuna.» disse Elys
«Sbaglio o la signorina Aria ha
cercato anche di insegnartelo?» chiese Dave
«Ha tentato, non ha attecchito. Questa
roba non fa per me.»
«Ad ogni modo, il signor maestro è
un vero campione in questo gioco. Ha partecipato anche ai campionati
interetnici di Galinne dove ha sconfitto il re di Normar, considerato fino a
quel momento il campione indiscusso.»
«In questo caso, Elys ha ragione. Abbiamo
la vittoria in tasca.»
«Non esultate prima del tempo. Il
madara è un gioco dove nulla è scontato, e dove basta un niente per capovolgere
la situazione. Sarà una sfida impegnativa.»
«Avete ragione, signor maestro. Ma siamo
certi che farete del vostro meglio.»
«Molto bene!» disse il banditore «Invito
i rappresentanti delle due squadre a farsi avanti! Ha inizio l’ultima gara!»
«Ecco!» disse Akita vedendo che
tutti erano concentrati su Regis e il suo avversario «È il mio momento».
Improvvisamente, come lei saltò giù
dal tetto, e come Regis fece per mettere piede sul palco, una strana corrente
di aria calda attraversò la piazza, e nello spazio di un solo istante l’intera
città venne completamente circondata da una cupola luminosa color rosso sangue.
Tutti, nessuno escluso, rimasero paralizzati, come se il tempo si fosse
fermato, tutti tranne Regis e i suoi compagni e la stessa Akita.
«Ma cosa…» esclamò Viola «Che sta
succedendo!?».
Il più sconvolto sembrava proprio
Regis, che si guardava attorno come a volersi capacitare di ciò che stava
vedendo.
«Questo… questo sembra un fuuzetsu!»
«Signor maestro, voi sapete di che
cosa si tratta?»
«È un incantesimo molto potente,
capace di estrarre una zona più o meno grande dal corso del tempo e di
trasferirla in una dimensione parallela, cristallizzandone l’esistenza.»
«Non ne ho mai sentito parlare.»
disse Sakura «Nei formulari di magia non c’è mai stato niente del genere.»
“Non posso crederci.” pensò il
ragazzo mordendosi le labbra “Credevo che l’incantesimo del Fuuzetsu esistesse
solo nel mio universo. Come è possibile che lo conosca qualcuno di questo?”.
Una risata sinistra e agghiacciante
preannunciò la comparsa, al centro del palco, di un altro rappresentante del
Team del Sole, e benché fosse ancora nascosto nel suo travestimento Regis e gli
altri riuscirono subito a percepirne l’immenso potere.
«Chi sei?» domandò Sakura
«Siete stati una palla al piede per
troppo tempo, dannati guastafeste.»
«Sei un sacerdote di Inti.» disse
Dave
«Mi avete già causato problemi una
volta, e come ho già detto, non vi permetterò di mettermi ancora i bastoni tra
le ruote. Mi libererò di tutti voi una volta per sempre».
Nota dell’Autore
Eccomi!^_^
Lo so, sono in
spaventoso ritardo, ma i corsi sono ricominciati, e anche se l’orario non è
terribile come quello del famigerato primo periodo ho tutti i pomeriggi
impegnati, il che significa che posso scrivere solo la mattina e nei fine
settimana. Cercherò per quanto possibile di tenere un buon ritmo, nella
speranza che questo periodo passi presto per far spazio al più tranquillo
quarto periodo, dove dovrei avere molto più tempo libero.
Grazie come sempre a Selly e Akita, e rinnovo ai miei pochi lettori, perché so che sono pochi, a
farsi sentire.
Il misterioso individuo si risolse finalmente a gettare la
maschera, e liberatosi del mantellone che indossava si
rivelò essere Zak-Ner, il sacerdote che aveva operato per consegnare Laryana al
culto di Inti e impossessarsi della gemma ora detenuta da Elys.
Regis lo riconobbe subito, perché
non era la prima volta che lo incontrava.
«Zak-Ner!»
«Maestro, voi lo conoscete?»
«Solo di fama. È uno stregone. Un
negromante.»
«Aspetta, ora mi ricordo.» disse
Sakura «È stato cacciato dall’ordine dei maghi di Fiya sei anni fa!»
«Conduceva esperimenti al limite
dell’etica morale. Esperimenti sulla manipolazione dell’anima e la rianimazione
dei corpi.»
«Fortunatamente per me, ho trovato subito
un nuovo datore di lavoro.»
«E sei diventato un sacerdote di
Inti. Non c’è che dire, una carriera davvero
stupenda.»
«Fai pure dell’ironia. Ti assicuro
che non è così male come sembra.»
«Mi dispiace solo che non ti abbiano
messo a morte. Dopo quello che avevi fatto meritavi la
forca.»
«Beh, lo status di mago garantisce
anche qualche privilegio. Ad ogni modo, come avrete capito, ora sono altri i
miei obiettivi.»
«Tieni giù le mani da quella
gemma!» disse Elys sfoderando la spada «Abbiamo sudato sette camice
per guadagnarcela!»
«È per questo che voglio concedervi
un’ultima possibilità.»
«Una possibilità!?»
ripeté Viola
«Ci giocheremo la pietra in una
sfida decisiva. Chi vince prende tutto.»
«E vorresti farmi credere che uno come te giocherebbe secondo le regole?» disse Regis
«Certo, purché ci sia divertimento
nel farlo. E credo di conoscere un metodo infallibile per creare divertimento,
un divertimento davvero impagabile.»
«Ora basta! Mi sono stancata di
ascoltare i tuoi vaneggiamenti! Fatti da parte!»
«Elys, no!».
Del tutto inalterato dall’attacco
che Elys gli stava portando a spada tratta Zak-Ner si
limitò a sollevare ghignando l’indice destro, ma quello fu più che sufficiente
a spaventare sia Regis che Sakura; dal dito partì improvvisamente un fascio di
luce nera grande come un ago ed Elys, centrata in mezzo alla fronte, rovinò a
terra lì dove si trovava, come se la vita le fosse stata letteralmente
succhiata via in un colpo solo.
«Elys!» gridò Dave correndo a
soccorrerla.
Aveva gli occhi completamente bianchi,
come se fosse morta, ma respirava ancora, e il cuore batteva, anche se
debolmente.
«Che cosa le hai fatto!»
«Devo ammetterlo, non avrei mai
immaginato che qualcuno a parte te, Regis, riuscisse a sfuggire a questo
incantesimo. Evidentemente vi avevo sottovalutato.»
«Come fai a conoscere il fuuzetsu?»
domandò l’interessato «È evidente che non provieni dalla Terra.»
«Questo… diciamo che è un segreto.
Ti basti sapere che la realtà è ben più grande di come voi tutti la immaginate.
Ma non credo ci sia bisogno di dilungarsi in inutili discorsi, visto che tra poco sarete tutti morti».
In quella Akita,
determinata come non mai ad impossessarsi della gemma, tentò di aggredire
Zak-Ner alle spalle, ma il sacerdote prima si abbassò per schivare il suo
fendente orizzontale, poi, voltatosi, le toccò la fronte, e un secondo dopo
anche lei cadde inerme sul palco come Elys.
«Questa mocciosetta non è certo
dotata di una forza spirituale tale da resistere al mio incantesimo.
Immagino che l’unico motivo per il
quale riuscisse ancora a muoversi fosse per il fatto di essere un elfa».
Viola tentò di approfittare dalla
sua distrazione per accattarlo a sua volta, e così fecero anche tutti gli
altri, ma fu tutto inutile, perché il nemico, sfoderato di nuovo quel suo
ghigno malvagio, alzò al cielo il suo maledetto indice, generando una spirale
luminosa che sembrava risucchiare a sé tutti le forze
dei quattro compagni.
SPIRIT DRAWING!
Regis venne scagliato
violentemente indietro, quanto ai suoi amici fecero tutti la stessa fine di
Elys e Akita, cadendo a terra esanimi dopo aver gridato dal dolore per non più
di un secondo.
«Sakura, Dave!»
«Allora?» disse malevolmente
Zak-Ner «Vogliamo cominciare questa partita di madara?».
Regis aveva una gran voglia di
ucciderlo, ma sapeva che, avendo rubato la loro essenza vitale, lui era l’unico
in grado di riportare indietro i suoi amici, quindi per il momento, anche se
l’idea gli faceva schifo, doveva sottostare alle sue regole.
«D’accordo, giochiamo. Ma se vinco li lascerai andare. Tutti.»
«Non temere. Nel momento in cui
vincerai, se vincerai, i loro spiriti torneranno al loro posto.»
«Puoi scommetterci che vincerò.»
«E allora forza, campione
continentale. Dimostra la tua bravura».
Regis e Zak-Ner si sedettero ai due
scranni posti uno di fronte all’altro, e ognuno di essi aprì la scatola
contenente le proprie pedine.
Il madara era un gioco
antichissimo, che traeva le sue origini da un rituale funebre riservato ai
comandanti militari dinnanzi ai quali, prima della
sepoltura, veniva fatto l’onore di assistere ad un’ultima battaglia.
Si giocava su una scacchiera 15x15,
con due eserciti, composti da cinque pedine ognuno,
posizionati l’uno di fronte all’altro in difesa del proprio Master, la pedina
del comando. Di queste duecentoventicinque caselle, i due contendenti potevano
sceglierne quaranta, venti ciascuno, che venivano
“oscurate”, ovvero sulle quali le pedine, salvo alcuni casi, non potevano
muoversi, questo al fine di ricreare il più possibile le condizioni di un vero
campo di battaglia, con ostacoli e impedimenti che complicavano le manovre.
In tutto vi erano dieci pedine,
corrispondenti ad altrettante classi, ognuna dotata di abilità, efficacia e
capacità di movimento assolutamente uniche e personalizzate;
il Soldato, l’unità per eccellenza, equilibrato in tutti i suoi parametri; il
Picchiere, il soldato con la lancia, dotato di grande potenza di affondo; il
Bruto, il guerriero pesante, grosso e resistente; il Ladro, o Esploratore, come
veniva chiamato da altre parti, veloce e sfuggente; il Cavaliere, agile e
potente; il Difensore, corazzato e quasi indistruttibile; l’Arciere, preciso e
pericoloso; lo Stregone, mago d’attacco; il Chierico, mago di supporto; il
Negromante, il mago di invocazione. Di queste, ogni giocatore ne poteva
sceglierne solo cinque, che avrebbero costituito il suo esercito.
Per quanto concerneva il movimento
sulla scacchiera, ogni pedina tracciava tutto intorno a sé una croce formata da
due linee immaginarie di uguale lunghezza che aveva la sua casella come punto
di convergenza, e il rombo formato dall’unione di tutte le caselle che
rientravano nelle linee tracciate unendo le estremità della croce costituiva lo
spazio di movimento. Questa regola valeva per tutte le pedine, e l’unica cosa
che variava era il numero di caselle che formavano la croce di riferimento.
Vi erano poi i dadi, trenta in tutto,
su cui erano riportati sei simboli corrispondenti ad altrettante azioni: Attacco,
Difesa, Magia, Schivata, Abilità e Ritirata. Ogni dado era diverso dagli altri,
e questo permetteva di impostare una propria strategia in base alle pedine che
si possedevano e al tipo di scelte che si volevano effettuare.
Ogni giocatore ne lanciava tre all’inizio del proprio turno, e i simboli che risultavano venivano aggiunti nel “Forziere” per poter
essere usati in qualsiasi momento.
Dopo il lancio dei dadi si passava
a muovere le pedine; si potevano muovere una o due pedine ad
ogni turno, non due volte la stessa, e ad ognuna di essere era possibile far
compiere un’azione al quale l’avversario, eventualmente, poteva rispondere, poi
il turno passava a quest’ultimo, e così via.
Da segnalare poi il Master, la
pedina del comando, che aveva delle regole tutte sue: equivalente al re degli
scacchi, poteva muoversi di una sola casella in ogni direzione, e distruggendo
quello dell’avversario si vinceva automaticamente la partita, in quanto,
essendo quasi la personificazione del giocatore, si privava
di fatto l’esercito nemico del proprio generale, condannandolo allo
sbaraglio. Si vinceva anche eliminando tutte le pedine nemiche, il che
equivaleva ad annientare l’esercito avversario, senza il
quale il generale non era niente.
Vista la sua natura estremamente complessa, con un regolamento molto elaborato e
gran numero di potenzialità, abilità e caratteristiche che bisognava tenere a
mente, oltre che per la necessità di possedere un grande senso tattico, il
madara era da sempre considerato un gioco “da ricchi”, destinato al ceto
medio-alto, e infatti il suo apprendimento faceva parte della formazione di
tutti i rampolli di buona famiglia, soprattutto di quelli destinati alla
carriera militare.
Nelle competizioni casalinghe, per
così dire, si faceva ricorso ad una semplice
scacchiera, ed esistevano anche tavoli speciali già intagliati e destinati
appositamente ad ospitare una partita; invece, nei grandi tornei o nelle sfide
di più alto livello, come quella che avrebbe dovuto costituire la prova finale
dei Giochi della Rinascita, ogni giocatore aveva dinnanzi a sé una scacchiera
di normali dimensioni su cui disponeva e muoveva le proprie pedine, pedine che,
grazie alla magia, apparivano e acquistavano magicamente vita sulla grande
scacchiera posta al centro, conferendo una sensazione di realismo senza pari e
rendendo la partita ben visibile anche da una certa distanza.
«Molto bene.» disse Zak-Ner «Scegli le tue pedine e incominciamo.
Ma fai presto. Come sai, un corpo non sopravvive a lungo se privato del suo
spirito».
Regis strinse i denti: stava
chiaramente cercando di innervosirlo, e lo avrebbe fatto per tutta la durata
della sfida, una condotta deprecabile per un madarista ma non per questo
vietata, perché anche la capacità di autocontrollo rientrava tra le virtù indispensabile per potersi considerare un buon
giocatore. Il giovane cercò per quanto gli era possibile di mantenere il sangue
freddo, e per la scelta delle pedine decise di puntare sulla sua formazione
favorita, quella che gli era valsa la conquista del titolo continentale ai
Giochi Interetnici di Galinne contro l’allora imbattuto re di Normar: Soldato, Difensore,
Stregone, Ladro e Chierico.
Oscurate le caselle e selezionate
le pedine con cui formare l’esercito venne il momento di disporle sulla
scacchiera; per regolamento si potevano posizionare i
propri pezzi in qualsiasi casella entro e non oltre la quarta linea
orizzontale, in modo da creare un certo distacco tra i due schieramenti, e il
primo ad essere schierato doveva essere il master.
Zak-Ner posizionò
il proprio al sicuro in un angolo, dietro una selva di caselle oscurate
disposte a ferro di cavallo, ben protetto dalla maggior parte degli attacchi,
Regis invece scelse di schierare il suo proprio al centro, con una barriera di
tre caselle oscurate a difenderlo.
La scacchiera principale fu
attraversata da una specie di scossa elettrica prodotta dalle pietre magiche di
cui era in parte composta, e come per magia le caselle oscurate
si materializzarono come ologrammi sottoforma di grossi muri in mattoni, poi,
dopo di essi, comparvero i Master.
Come pedine la loro forma era
semplicemente quella di un diamante, ma sul campo avevano acquistato fattezze
umane: quello di Zak-Ner era un inquietante figura in armatura nera con un
mantello rosso, quella di Regis invece sembrava una principessa giapponese con
lunghi capelli bianchi, un lungo kimono dello stesso
colore dall’ampio strascico decorato con motivi floreali blu e un ventaglio.
«Davvero un gran bel master.» disse
Zak-Ner con discutibile ironia «E ora forza, veniamo alle pedine».
Regis, per quanto in ansia per la
sorte dei suoi compagni, si sforzò di mantenere l’autocontrollo e schierò la
sua formazione classica, con il Soldato e il Difensore in prima linea, il Ladro
leggermente distaccato sulla sinistra per condurre sortite da quel lato e il Chierico
e lo Stregone a fare da spalla.
Zak-Ner, che aveva una formazione
puntata tutta sull’attacco, mise in campo il Soldato, il Cavaliere, il
Lanciere, il Bruto e il Negromante; i primi quattro erano più
o meno distribuiti su tutta la linea d’attacco, con il Cavaliere al
centro per sfruttarne il grande movimento, e il Negromante, che con le sue
capacità di stregare le pedine avversarie era la classe di mago più pericolosa,
nelle retrovie, ben protetto dal Soldato.
«E adesso… che inizi lo
spettacolo!».
Nuovamente la scacchiera fu solcata
dalla scossa, e, quasi all’unisono, anche le dieci pedine presero vita, e fu
allora che l’angoscia di Regis divenne terrore. Le pedine di Zak-Ner erano
inquietanti, decisamente minacciose, ma le sue erano i
suoi amici!
Dave, Sakura, Viola, Elys e la
povera Akita avevano assunto le dimensioni di uno gnomo ed erano diventati le
pedine illusorie della scacchiera principale, nei ruoli rispettivamente del
Chierico, dello Stregone, del Soldato, del Difensore e del Ladro, e sembravano
sorpresi quanto lui di trovarsi in una simile situazione.
«Ma cosa…» disse Viola mezza
intontita, come se si fosse appena svegliata «Ma che è successo?»
«Che cosa accidenti…» esclamò Elys
vedendosi privata della sua spada e armata solo di un enorme scudo da cavaliere
grosso quanto lei al braccio destro «E questo che diavolo è?».
Dave, giratosi, si accorse di
Regis, che aveva raggiunto dimensioni enormi.
«Maestro!?
Siete davvero voi!?»
«Dave! Ragazzi!»
«Si può sapere che cosa sta
succedendo?» domandò Akita
«Non so come sia potuto accadere.»
disse Sakura «Ma a quanto pare siamo diventati pedine del gioco del madara.»
«Maledetto.» disse Regis a denti
stretti a Zak-Ner «Che cosa gli hai fatto?»
«Mi sembrava di avertelo detto.»
rispose quello dopo aver riso sguaiatamente «Ho
accettato di partecipare a questa partita solo a condizione che si rivelasse
divertente. E, a conti fatti, direi ch non c’è niente di meglio di questo per
movimentare la gara.
Rilassati, i loro spiriti sono
ancora dentro le pedine. Quella che vedi qui è solo una loro proiezione. Lo
stesso vale per le mie pedine, in ognuna delle quali ho messo una piccola parte
del mio spirito.
Non moriranno. Sempre che tu vinca,
naturalmente.»
«Tu sei malato.»
«Questo vuol dire…» gridò Akita
tenendosi la testa «Che siamo finiti dentro ad un gioco!?»
«Dobbiamo mantenere la calma.»
disse Dave «Visto che è un gioco, abbiamo anche la
possibilità di vincere.»
«Come fai a parlare in questo modo, razza di novellino!? Ti rendi conto in che situazione
ci troviamo!?»
«Ho aspettato anche troppo. Avanti,
fai la tua mossa».
Era chiaro che quello era
l’ennesimo tentativo del suo avversario di metterlo alle strette: aveva detto
che quelle che vedeva sulla scacchiera erano solo
delle proiezioni generate con la magia, ma se non fosse stato vero? Se quelli
fossero stati davvero gli spiriti dei suoi compagni? Se fossero finiti sconfitti durante il gioco poteva anche essere che i loro
spiriti andassero perduti per sempre.
Che cosa doveva fare? Non poteva
certo giocarsi la loro sorte come se niente fosse.
«Signor
maestro. Noi abbiamo tutti fiducia in voi.»
«Dave…»
«Ora sei tu a doverci guidare,
Viola.» disse Viola «Tu sei la mente, e noi siamo i muscoli.»
«Siamo
certi che riuscirai a vincere.» disse Sakura
«E vedi di non fare errori!»
esclamò Akita «Ti ricordo che in gioco c’è la nostra vita!»
«Nessuno ti aveva chiesto di
metterti in mezzo, spia da quattro soldi.» disse Elys
«Che cosa hai detto!?» ringhiò l’elfa cercando di lanciarsi contro di lei, ma a
sorpresa si accorse di non poter lasciare la propria casella, circondata come
da pareti invisibili «Ma che…»
«Che c’è, hai paura?» replicò Elys
maliziosamente crudele «Del resto però, le pedine non possono certo muoversi da
sole.»
«Tu, piccola…»
«Ma consolati. Voi spie dopotutto
questo siete. Semplici pedine. Almeno Regis avrà cura di tenerti in vita, a differenza
di quella tua regina schizofrenica.»
«Appena usciremo di
qui te la farò vedere io, kalimi da quattro soldi!»
«Basta adesso!» disse Dave «Avanti signor Maestro. È il momento di iniziare.»
«Sì, hai ragione. Cominciamo.»
«Era ora. Il gioco ha inizio!».
Regis, recuperato un po’ di sangue
freddo, recuperò tre dadi dal contenitore e li lanciò: un simbolo difesa, uno attacco e uno magia, che andarono nel forziere. Poiché
nella loro prima mossa i giocatori non poterono fare compiere alle loro pedine
nessuna azione che non fosse il movimento il ragazzo
spostò leggermente in avanti il suo Soldato e subito dopo il Difensore; Viola e
Elys, richiamate all’ordine, obbedirono, spostandosi nelle nuove caselle e
ritrovandosi una dietro l’altra, in modo che Elys potesse offrire protezione a
Viola con il suo scudo.
I primi turni trascorsero senza
alcun tipo di emozione, con entrambi gli avversari impegnati a schierare al
meglio i propri pezzi in vista del fatidico momento dell’attacco. Zak-Ner era
incredibilmente tranquillo e sicuro di sé, tutto il contrario di Regis, che
stava ben attento a dosare le sue mosse e a non correre quei piccoli rischi che
si poteva permettere in una sfida regolare.
Per maggior sicurezza, appena li
ebbe a disposizione sacrificò quattro simboli Magia per permettere al suo
Chierico, Dave, di avvolgere sé stesso e tutti gli
altri in una barriera protettiva che avrebbe dimezzato la forza di ogni attacco
per i successivi tre turni. Zak-Ner avrebbe potuto usare i poteri malefici del
suo Negromante per impedirlo, ma poiché non disponeva del
numero di simboli necessari per farlo non ne fu in grado, anche se la cosa non
parve arrecargli alcun tipo di preoccupazione.
«E va’
bene.» disse ad un certo punto il sacerdote con un ghigno che lasciava ben poche
speranze «Adesso che ci siamo scaldati, direi di passare alle vie di fatto!».
Con una mossa del tutto
imprevedibile Zak-Ner mandò avanti il suo lanciere, e sfruttando due simboli Abilità
fu in grado di fargli eseguire un movimento extra, a condizione di rinunciare a
muovere una seconda pedina. In questo modo, senza il minimo preavviso, riuscì
ad avvicinarsi pericolosamente ad Elys prendendola sul
suo fianco sinistro. Tuttavia, a dividerli c’era una casella, e visto che, per quel che ne sapeva, i personaggi della classe
Guerriero potevano attaccare solo quando non c’erano caselle a dividerli dai
loro bersagli, quando cioè erano uno a ridosso dell’altro, la ragazza si
reputava al sicuro.
«Quel buffone non può farmi niente
da così lontano! Dico bene Regis?».
Purtroppo, l’espressione sul volto
di Toshio lasciava intendere che non era affatto così.
«Regis…»
«Il Lanciere è l’unica classe di
guerriero che può attaccare da due caselle di distanza.» disse Dave con un filo
di voce
«E anzi!» disse ridendo Zak-Ner «Il danno prodotto dal Lanciere è anche più efficace se
attacca da lontano! Vai! Affondo con la Lancia!».
La pedina del sacerdote, un essere
cadaverico con nulla più di alcune parti di armatura su di un corpo
completamente magrissimo e longilineo, una testa pelata, due occhi vuoti e neri
e una bocca da demone infernale, fatta roteare la sua arma sopra la testa sferrò un affondo che colpì Elys ad un fianco, gettandola a
terra.
Purtroppo, il Difensore poteva
respingere un attacco solo se questo proveniva da davanti o dal fianco destro,
gli unici punti in cui, in una vera battaglia, sarebbe
stato in grado di muovere il suo gigantesco scudo, ma se l’attacco proveniva da
dietro o dal fianco sinistro la difesa, altrimenti di livello 9, era pari a 2.
L’attacco del Lanciere valeva 5, ridotto per eccesso a 3 grazie alla barriera che Dave
aveva usato su tutti i suoi compagni, e sottraendo i 2 punti che costituivano
la difesa di Elys la ragazza perse uno dei 7 punti vita in suo possesso.
Poiché quella sul terreno era solo, a detta di Zak-Ner, una proiezione spirituale la
lancia del nemico affondò senza provocare alcun tipo di ferita, ma il dolore
Elys lo sentì eccome. E, purtroppo per lei, non era ancora finita.
«Ora.» disse Zak-Ner «Usando altri
due simboli Attacco e un simbolo Abilità, posso far attaccare il Lanciere altre
due volte!»
«Che cosa!?»
disse Regis «Ma non riusciresti comunque ad ucciderla, e così non ti
resterebbero altri simboli Attacco.»
«Poco importa! Lanciere,
sferra altri due affondi!».
Al termine di quell’attacco Elys,
che aveva visto i propri punti vita passare da 7 a 4,
era così provata che cadde in ginocchio, e solo puntandosi sul suo scudo evitò
di cadere a terra semisvenuta.
«Elys!» gridò Dave cercando di
correre da lei, ma la barriera come prevedibile lo tenne inchiodato alla sua casella
«Sto… sto bene.» mugugnò lei
rimettendosi in piedi, ma si vedeva che si manteneva in equilibrio a stento
“Sadico bastardo!” pensò Viola, che
l’aveva davanti a sé e poteva rendersi conto meglio di
altri delle sue condizioni “Lo ha fatto apposta, per il solo gusto di farle del
male”.
Il più deluso e affranto di tutti
era Regis, che di fronte ad una tale umiliazione si rendeva conto della sua
incompetenza: se non avesse sperperato a sproposito i simboli Magia di cui
disponeva per far erigere a Dave quella barriera rivelatasi
quasi completamente inutile avrebbe potuto sfruttarli per attivare la Difesa Turbinante, l’asso nella
manica del Difensore che gli permetteva, fino alla fine del turno, di far
valere i suoi punti di difesa su tutti e quattro i lati, rendendolo di fatto
inattaccabile.
Affranto, il ragazzo nascose il
volto con le mani, dandosi dell’incapace: in altre situazioni non avrebbe mai
fatto una cosa tanto stupida, ma sapendo i suoi compagni in pericolo aveva voluto
rischiare, e questa era la dimostrazione evidente che Zak-Ner, con i suoi
trucchi e i suoi colpi bassi, stava riuscendo davvero a condizionare il suo
modo di giocare.
«Maestro. Signor
maestro.»
«Mi dispiace. Io… io non…»
«Maestro. Non dovete perdervi d’animo.»
«Dave. Io non so come comportarmi.
Se sbagliassi sareste voi a pagarne le conseguenze.»
«Ve l’ho già detto,
noi tutti abbiamo la massima fiducia in voi.»
«Noi al momento non possiamo fare
niente. Siamo solo dei soldati. Sei tu il generale. Sei tu che devi guidarci»
«Sakura ha ragione.» disse Viola «Dobbiamo vincere per uscire da quest’incubo, e se vogliamo
riuscirci il primo che deve mantenere il sangue freddo e sapere sempre quello
che fa sei tu. Dico bene, Elys?»
«Benissimo.» rispose la ragazza, apparentemente
ripresasi «Una volta sensata hai detto una cosa
sensata.»
«Signor
maestro, voi a madara siete un campione. Ai giochi di Galinne vi ho visto
sconfiggere il re di Normar campione in carica senza perdere neanche una
pedina.
Basterà che vi comportiate allo
stesso modo, e otterrete la vittoria.»
«E vedi di vincere in fretta!»
sbraitò Akita «Prima ce ne andremo di qui meglio sarà!»
«Ragazzi…».
Una lacrima quasi gli scese lungo
le guance; mai avrebbe pensato di meritare tanto.
I suoi amici avevano in lui la
massima fiducia, e come una certa maestra gli aveva detto a suo tempo la fiducia non è una cosa che si può comprare; la
fiducia ce la si conquista, e non è da tutti riuscire a conservarla anche nei
momenti più duri, quando sarebbe legittimo che cominciasse a vacillare.
Dave, Sakura e tutti gli altri non nutrivano fiducia in lui solo perché era l’unica persona che
potesse salvarli, ma perché erano certi che l’avrebbe fatto, e che non si
sarebbe dato pace finché non ci fosse riuscito.
Si era fatto prendere in giro da
quel pazzo di un sacerdote, e questo più di qualunque altra cosa li aveva messi
in pericolo, e la situazione era dovuta arrivare fino a quel punto perché se ne
rendesse conto. Alla fine di tutto, era rimasto lo stesso: per capire i suoi errori
doveva irrimediabilmente sbatterci contro.
Il volerli proteggere evitando loro
di correre rischi era ammirevole, loro lo sapevano più
di chiunque altro, ma se voleva essere certo di poterli salvare doveva
smetterla di agire da stupido e comportarsi come sempre: con determinazione e
sangue freddo.
«Vi chiedo scusa per come mi sono
comportato finora. Ma vi prometto che da questo momento le cose cambieranno.»
«Siamo con voi, maestro.
Comandateci, e obbediremo».
I suoi occhi a quel punto si
accesero, e a Zak-Ner bastò questo per capire che la musica stava per cambiare,
e che Regis non si sarebbe più fatto prendere in giro dai suoi giochetti e dai
suoi colpi bassi.
«Ora giochiamo sul serio!».
Regis lanciò i dadi: tre simboli
abilità. Proprio quello che gli serviva.
«Ora sposto il mio Soldato alle
spalle del tuo Lanciere!».
Viola, eseguendo l’ordine, girò
attorno alla pedina di Zak-Ner, posizionandosi proprio
alle sue spalle.
«Questo non cambia niente.» disse
il sacerdote sicuro di sé «Il Lanciere ha un valore di difesa pari a 3 su tutti e quattro i lati e 6 punti vita. Il Soldato ha
soli 6 punti di attacco, il che significa che puoi
togliergli al massimo 3 punti vita. Inoltre, il Lanciere è invulnerabile agli
attacchi magici, e spero tu non stia pensando di attaccare con il Difensore, visto che di punti d’attacco ne ha solamente 1.»
«Stai sbagliando tutto.»
«Come!?»
«Il tuo Lanciere non arriverà vivo
al prossimo turno, perché usando i tre simboli abilità che ho appena conquistato posso attivare il potere speciale del Soldato.»
«Stai bluffando!
Il Soldato non ha alcun potere che gli permetta di uccidere il mio Lanciere con
un solo colpo!»
«Vogliamo scommettere? Orgoglio
Marziale!».
La sfera viola incastonata al
centro dello scudo di Elys prese a brillare, e la sua luce si trasferì sulla
spada di Viola, rendendola due volte più grande.
Stavolta, lo stupore di Zak-Ner divenne più che evidente.
«Ma cosa…»
«Questo potere si attiva solo a
condizione che Soldato e Difensore si trovino nel reciproco raggio d’azione.
Orgoglio Marziale mi permette di aumentare i punti d’attacco del Soldato per un
ammontare pari ai punti vita attualmente in possesso
del Difensore.
Attualmente il mio difensore ha 3 punti vita,
che sommati ai 6 punti d’attacco del Soldato danno come risultato 9. Più che
sufficienti a spazzare via la difesa del tuo Lanciere!»
«Non puoi farlo!»
«Posso farlo e lo farò! Viola,
annienta il Lanciere!»
«Con grandissimo piacere!».
Tutte le pedine del madara, se
attaccate da due dei loro quattro lati, potevano ridurre i danni al minimo
sacrificando un certo numero di simboli Difesa del loro master per aumentare la
propria, ma nel caso del Lanciere questa possibilità era del tutto
inutilizzabile se l’attacco proveniva da dietro.
Falciato a metà da parte a parte il
nemico scomparve dopo aver lanciato un terrificante
urlo di dolore, la pedina corrispondente saltò via dalla scacchiera e Zak-Ner
avvertì un dolore tale da portarsi una mano al petto stringendo i denti per non
gridare.
Dopotutto, ognuna di quelle pedine
conteneva una parte del suo spirito, ed era un po’ come se un pezzo del suo
corpo gli venisse strappato violentemente via
direttamente dall’interno.
«Questa me la paghi, te lo
garantisco.»
«Ha fatto male, eh?» disse Elys
tutta contenta «Quel che è fatto è reso!».
Da quel momento in poi la partita risultò molto più accesa, ma sostanzialmente in parità;
Regis non rischiava più del necessario, e Zak-Ner era abbastanza abile da
riuscire a tenergli testa anche con una pedina in meno. Inoltre, entrambi gli
avversari decisero quasi insieme di far scendere in campo i rispettivi Master
spostandoli verso il cuore della battaglia, una scelta estremamente
rischiosa ma che offriva anche indiscutibili privilegi: quasi tutte le pedine
infatti possedevano abilità speciali, spesso devastanti, che però potevano
essere attivate solo nel caso in cui il Master si trovasse nel loro raggio
d’azione, ma essendo il Master del tutto privo di punti di attacco e di difesa
i suoi 15 punti vita potevano essergli facilmente tolti se un nemico riusciva a
raggiungerlo.
Purtroppo, come spesso accadeva in
scontri così frenetici, con la mente impegnata tutta
ad elaborare continuamente nuove strategie diventava difficile per un giocatore
ricordarsi con certezza quanti e quali simboli fossero custoditi nel forziere
dell’altro, e questo aumentava il margine di rischio, creando situazioni
davvero pericolose. Ad un certo punto Dave, uscito
dalla seconda linea per supportare l’attacco al Soldato che Regis aveva in
mente di compiere nel turno successivo, si ritrovò pericolosamente vicino alla
linea d’attacco del Cavaliere; Regis era convinto di averlo piazzato al di
fuori della sua portata, ma il nemico distrusse sul nascere le sue certezze.
«Ora intendo fare riscorso al
potere speciale del Cavaliere.» disse Zak-Ner ridendo sotto i denti «In questo modo, per ogni simbolo Schivata che scelgo di
sacrificare, posso aumentare di una casella la portata massima del suo
spostamento.
E in questo momento, io ne possiedo
quattro.»
«Quattro!?»
«Esattamente. E con quattro caselle
extra in cui potersi muovere, il tuo Chierico non è più così al sicuro come
pensavi!».
Di colpo Dave si ritrovò al centro
del mirino, pronto per essere caricato; come se non bastasse, Zak-Ner sacrificò
due simboli Abilità e un simbolo Attacco per attivare
Carica, un altro potere speciale del Cavaliere che raddoppiava i suoi punti di
attacco nel caso il suo bersaglio, assalito frontalmente, si trovasse a più di
quattro caselle di distanza.
«Prima mi hai tolto una pedina. È
giunto il momento di riequilibrare la situazione! Cavaliere, schiaccia quel
moccioso!».
Dave vide quel cavallo demoniaco
che sputava fiamme dalle narici venirgli contro a tutta velocità, me mentre i suoi amici chiamavano il suo nome o pregavano
Regis di fare qualcosa quest’ultimo non sembrava particolarmente scosso
all’idea di perdere il suo allievo, e teneva la testa bassa, nascondendosi
dietro alle sue lunghe frange.
«Regis!».
I secondi passarono, il Cavaliere
era sempre più vicino; Dave, terrorizzato, si raggomitolò, chiudendo gli occhi
e mettendosi le mani sulla testa. Poi, d’improvviso, subito prima di venire
investito, una barriera magico si sollevò davanti a
lui, e funzionando come un muro bloccò il cavaliere, inchiodandolo sulla
casella proprio davanti alla sua.
«Ma cosa…»
«Che è successo!?»
domandò Viola.
Dave fu il primo a meravigliarsi di
essere sopravvissuto, e solo allora Regis sollevò il volto, mostrando
finalmente la propria espressione benignamente malevola, come di chi sapeva
cosa sarebbe accaduto prima ancora che accadesse.
«A quanto pare ti è andata male.»
«Che significa questa storia!?» ringhiò Zak-Ner rosso di collera
«Sembra proprio che tu non sia affatto bravo come ti ritieni di essere. Se fossi
davvero un esperto di madara sapresti che il Chierico
non può essere attaccato da una pedina i cui punti di attacco o di difesa
risultino in qualche modo alterati.»
«Cosa!?»
«Se ti fossi limitato ad aumentare
la capacità di spostamento del Cavaliere Dave sarebbe
realmente stato in pericolo, ma facendo ricorso al potere Carica ti sei messo
nel sacco con le tue stesse mani.»
«Dannato…»
«Ironico, non trovi? Per aver voluto
esagerare ti sei ritrovato con un pugno di mosche.»
«Tu…».
Di colpo lo sguardo di Zak-Ner,
privato del tutto anche quel piccolo bagliore di freddo sarcasmo che seguitava
ad albergare al suo interno, si caricò di furia ceca, e quegli occhi nulla
avrebbero avuto da invidiare a quelli di un demone infernale.
«Adesso me le
paghi tutte insieme!».
Il suo Negromante venne improvvisamente circondato di una luce nera, e un
secondo dopo Sakura prese a comportarsi in modo strano.
«Regis!»
«Sakura!».
Dal nulla sbucarono come dei fili
che, avvinghiandosi alle mani e ai piedi della ragazza, presero a muoverla come
un burattino, senza che lei potesse far nulla per opporsi.
«Cosa… il mio corpo… si muove da
solo!»
«Che cosa le stai facendo,
maledetto?» disse Elys
«Ho semplicemente sacrificato cinque
simboli Magia per attivare uno dei poteri più devastanti del Negromante. Burattinaio
Oscuro. In questo modo, posso prendere il controllo di una delle pedine del mio
avversario e usarla come se fosse mia per tutta la durata del turno.»
«Bastardo senza coscienza.» ringhiò
Viola «Non c’è limite alla tua bassezza».
La situazione era improvvisamente
mutata, e le cose per i ragazzi si misero di colpo non male, peggio. Lo Stregone,
come tutti i personaggi della classe Mago, poteva attaccare da grande distanza,
e Sakura era a due passi dal Master di Regis, che poteva attaccare
direttamente; inoltre, quando veniva usata l’abilità
Burattinaio Oscuro, la pedina sottratta poteva essere usata subito anche
quando, come nel caso in questione, il proprietario del Negromante avesse già
utilizzato le due pedine consentite nel proprio turno.
Il valore di attacco dello stregone
era 4, che diventava automaticamente 5 nel caso in cui
il suo bersaglio si trovasse a più di sei caselle di distanza, come nel caso in
questione, ma anche, in linea teorica, 5 punti non erano sufficienti per
eliminare il master Regis sapeva che Zak-Ner, per essere sicuro di sé, aveva
ancora molte altre cartucce da sparare.
«Adesso, rinuncio ai due simboli
Magia che mi sono rimasti per attivare un altro potere speciale del Negromante:
Iniezione Malevola.»
«Maledizione!» disse Regis sudando
freddo
«Vedo che hai capito. Iniezione Malevola
funziona solo con una pedina sotto l’effetto di Burattinaio Oscuro, e solo a
condizione che questa appartenga alla classe Mago. Grazie a questo, posso
triplicarne la forza d’attacco del tuo stregone.»
«Ha detto triplicare!?» ripeté Akita «Cinque per tre fa quindici.»
«Il che significa…» disse
sconcertata Elys
«Significa che sono esattamente i
punti che gli servono per distruggere il Master!» concluse
Dave
Dai fili che imprigionavano Sakura si generò una sorta di scarica elettrica che,
avvoltala, presero a circondare il suo corpo di un’aura rosso sangue; la
ragazza gridò da spaccare il cuore, e a nulla valsero i tentativi dei suoi
amici per aiutarla.
Il suo corpo venne
ricoperto da alcuni pezzi di un’armatura diabolica, e per quanto lei cercasse
di opporre resistenza il suo braccio destro, quando il supplizio ebbe finalmente
fine, si alzò al cielo, e lei si volse in direzione del suo stesso Master.
«No! Non voglio! Non voglio!»
«Non c’è assolutamente nulla che tu
possa fare per resistere al potere del Negromante!» urlò soddisfatto Zak-Ner ridendo
sadicamente «Forza! Usa i nuovi poteri che ti ho
gentilmente conferito e distruggi il tuo Master! Condanna te e tutti i tuoi
amici all’oscurità eterna con le tue stesse mani!»
«Se il Master verrà
distrutto, perderemo!» disse Elys
«Signorina Sakura, non fatelo!»
gridò Dave
«Io… non riesco ad
oppormi!».
La sfera in cima al suo scettro si illuminò, e nubi nere presero ad addensarsi sopra il
Master di Regis, che rimase immobile. Akita chiuse gli occhi mentre fulmini
rossi prendevano a sprizzare dalle nuvole, preannunciando
l’attacco, Elys e Viola continuarono a tentare, per quanto inutilmente, di
sfondare le barriere che le tenevano imprigionate, Dave invece era così terrorizzato
da non riuscire a respirare.
A Regis si fermò il cuore quando
vide i fulmini condensarsi in un’unica, gigantesca saetta che scendendo dal
cielo puntò dritta sul suo generale.
«No!» gridò Sakura piangendo
disperata
«Ho vinto!».
CONTINUA
Nota dell’Autore
Eccomi qua!
Ringraziando il cielo
questa settimana all’università si è succeduto un imprevisto dietro l’altro, un
sacco di lezioni sono saltate e ho avuto tutto il
tempo per scrivere. Inoltre, questo era uno di quei famosi capitoli che da più
tempo io stesso aspettavo, quindi la voglia di scriverlo era anche maggiore.
Lo so, un finale più
mozzato di questo difficilmente lo si trova, ma che
cos’è una bella storia senza un po’ di suspense? Prometto di continuare il più
presto possibile, garantito!^_^
Il fulmine cadde dal cielo con potenza inaudita, e per un
istante nessuno fu in grado di muoversi o parlare; Zak-Ner assaporava già la
sua vittoria, Elys e gli altri non volevano credere che tutto ciò stesse
accadendo davvero.
Cosa ne sarebbe stato di loro se
avessero perso?
Quel pazzo fuorviato di un
sacerdote era capace di lasciarli intrappolati in quelle pedine finché il loro
corpo fisico, troppo a lungo privato del suo spirito, non fosse morto, e solo
gli dèi sapevano cosa sarebbe accaduto dopo.
Sakura, costretta dal sortilegio
del Negromante ad agire contro la sua volontà, piangeva, e neppure ricordava
più l’ultima volta che lo aveva fatto. Di fronte agli altri aveva sempre
mostrato un carattere forte e sicuro di sé, ma era difficile riuscire a restare
impassibili di fronte ad una situazione tanto tragica e disperata.
Stava per condannare a morte i suoi
amici con le sue stesse mani!
Aveva detto amici!?
Mai avrebbe pensato di poter
attribuire questa parola a qualcuno. Persino Regis, che pure conosceva da tanti
anni, non lo aveva mai considerato un amico, ma semplicemente un compagno, o
almeno questo era quello che credeva.
Poi, all’improvviso, una sensazione
stranissima; dapprima quasi impercettibile, se non addirittura piacevole, ma
poi arrivò il dolore, un dolore terribile, e mentre lei si sforzava di non
urlare il fulmine che aveva generato si spense, dissolvendosi.
«Che cosa!?» esclamò Zak-Ner
«Che è successo?» domandò Viola.
Sakura strinse i denti, contenendo
con tutte le sue forze le grida di dolore, poi, stremata, cadde a terra; un
pugnale da lancio lungo e sottile l’aveva centrata in mezzo alla schiena, e
poco distante da lei Akita, incredula più di tutti gli altri, aveva il braccio
proteso nella sua direzione.
«Ma… ma cosa…».
Regis respirava profondamente,
aveva la fronte tutta sudata e gli occhi quasi fuori dalle orbite. Tutti si
girarono verso di lui.
«Sei…» disse Elys «Sei stato tu!?»
«Signor maestro…»
«Come diavolo hai fatto?!» ringhiò
il sacerdote «Come hai potuto evitare la distruzione del tuo master?!»
«Lama Cinerea della Salvezza. Per
una e una sola volta, se il mio master è a rischio uccisione, qualora la pedina
attaccante sia nel suo raggio d’azione il Ladro può interromperne l’attacco,
infliggendole oltretutto un danno pari a quattro punti vita.»
«Maledetto…».
Sakura, liberata dall’incantesimo
che la teneva prigioniera, cadde a terra svenuta, mentre sia il pugnale di
Akita che l’armatura creata dal Negromante sparivano nel nulla. Era
terribilmente provata, e il dolore del colpo ricevuto, unito a quello che
certamente il controllo esercitato su di lei si era lasciato dietro, rischiava
di essere troppo persino per lei.
«Sakura!» disse Regis
«Signorina Sakura…».
Lei, dopo qualche istante, riaprì
gli occhi, ma era molto debole, tanto da non riuscire neppure a trovare le
forze per rialzarsi, e per la seconda volta in pochi minuti Regis nascose il
volto tra le mani: aveva preso la decisione giusta, aveva salvato il suo master
e tutti i suoi compagni, ma a quale prezzo?
«Poco importa.» disse Zak-Ner
vedendo la sua espressione affranta e guardando il lato positivo della vicenda
«Ti sarai salvato per l’ennesima volta, ma per farlo hai ridotto in fin di vita
la tua pedina più forte. Lo Stregone non può ripristinare i punti vita che
perde, e dei 5 che aveva tu gliene hai lasciato solo 1. Direi proprio che la
salvezza ti è costata cara».
Quanto aveva ragione.
Lo Stregone era stato da sempre il
suo asso nella manica, il jolly con cui aveva conquistato quasi tutte le sue
vittorie e con cui aveva avuto la meglio anche sul re di Normar nei giochi
interetnici, ma in quelle condizioni, con un solo punto vita e una difesa già
di per sé piuttosto esigua, lasciarlo sul terreno era quasi una condanna a
morte.
Non c’era altra scelta; guardò un
attimo il contenuto del suo forziere, una serie di lineette che aveva tracciato
lui stesso con una matita sul foglio di carta che veniva messo a disposizione
dei giocatori per tenere sempre a mente il numero di simboli a disposizione, e
attese con impazienza che il turno passasse a lui.
«Adesso voglio usare un simbolo
Ritirata per allontanare il mio Stregone dal terreno di gioco.»
«Vuole togliere di scena Sakura!?»
disse Elys «Ma può davvero farlo?»
«Sì, anche se è molto rischioso.»
rispose Dave «Si può usare la
Ritirata una sola volta, e se lo si fa si è costretti a
saltare il turno successivo.»
«Vuol dire che nel prossimo turno
Zak-Ner potrà muovere per ben quattro volte!?»
«Ve l’ho detto, è molto rischioso,
ma è anche la cosa migliore da fare. Lasciare la signorina Sakura sul terreno
in quelle condizioni la renderebbe un bersaglio facile da eliminare.»
«Non farlo!» gridò all’improvviso
qualcuno.
Tutti si girarono verso Sakura, che
con la forza della disperazione era riuscita a rimettersi in piedi
sorreggendosi al suo scettro; la fatica e il dolore erano più che evidenti, ma
nonostante ciò i suoi occhi ostentavano lo stesso ardore di sempre.
«Sakura…»
«Non farlo. Posso ancora
combattere.»
«Però… sei messa molto male. Nelle
tue condizioni basterebbe un niente per distruggerti, e non sappiamo cosa
potrebbe succedere se la tua pedina venisse eliminata dal gioco.
Nel peggiore dei casi, il tuo
spirito rischierebbe di andare perduto.»
«In ogni caso, è un rischio che non
puoi permetterti di correre. Se gli lascerai carta bianca per quattro turni in
un modo o nell’altro riuscirà ad attaccare ancora il master. Facendomi uscire
faresti lo stesso il suo gioco, e se proprio siamo destinati ad essere
sconfitti, almeno lottiamo fino infondo».
Regis non seppe cosa fare, ma poi,
conoscendo la sua compagna meglio di chiunque altro e potendo scorgere la
determinazione di sempre nel suo sguardo, decise di darle fiducia.
«D’accordo. Facciamo a modo tuo».
Pur sforzandosi di non mostrarlo,
Sakura sorrise leggermente: poco prima lei e gli altri avevano dato fiducia a
Regis, e ora lui li ricambiava accordandola a loro; infatti, era implicito che
Dave e gli altri avrebbero dovuto lavorare il doppio, per cercare di ottenere
la vittoria e nel contempo offrire protezione a Sakura, il che non sarebbe
stato facile. Zak-Ner, da viscida serpe qual’era, avrebbe certamente cercato di
approfittare della situazione, ma loro erano pronti a tutto, e glielo avrebbero
dimostrato.
Intanto, era in arrivo per
quell’imbroglione una bella batosta, di quelle che si ricordano a lungo.
«Adesso sposto il mio Soldato
proprio alle spalle del tuo Cavaliere, e visto che alle spalle il Cavaliere non
ha punti di difesa è vulnerabile ad un attacco diretto!
Inoltre, usando 3 simboli Attacco
invece di uno solo, posso aggiungere 3 punti extra alla potenza d’Attacco del
Soldato, portando i suoi punti a 9, più che sufficienti a toglierlo di mezzo!»
«Dannato…»
«Viola, distruggilo!»
«Con piacere!» gridò la ragazza
arrivando alle spalle del Cavaliere e spiccando un salto altissimo «Questo è
per Sakura!».
Il Cavaliere venne distrutto senza
alcuna possibilità di fuga, e per Zak-Ner fu un altro brutto colpo, in tutti i
sensi; dopotutto, ogni volta che perdeva una pedina era come se gli venisse
strappato un pezzo del suo spirito, e definire un’esperienza simile dolorosa
era poco.
Purtroppo, più dolore gli veniva
inferno più violente e imprevedibili erano le sue azioni, e ciò che sarebbe
successo di lì a pochi secondi lo avrebbe ampiamente dimostrato.
Come seconda mossa Regis posizionò
il Difensore, ovvero Elys, dirimpetto a Sakura, rendendola praticamente
inattaccabile; Sakura protestò, dicendo che poteva cavarsela da sola, e che non
era necessario che un’altra pedina venisse sacrificata per fare da spalla a
lei, ma fu la stessa Elys a dirle di mettere per una parte l’orgoglio e di
lasciarsi aiutare, perché era più che evidente che ne aveva bisogno.
Sfortunatamente, nel tentativo di
proteggere Sakura, Regis lasciò pericolosamente scoperto il suo Ladro, che fino
a quel momento aveva goduto della relativa vicinanza del Difensore, e di questo
Zak-Ner se ne accorse, decidendo di cogliere al volo l’occasione.
«Hai commesso un grave errore,
damerino da quattro soldi! E adesso ne pagherai le conseguenze!
Il tuo Ladro non vivrà abbastanza
da vedere la fine di questa partita!»
«Sta… sta parlando di me!?» esclamò
Akita ributtata prepotentemente nella mischia.
E fra tutti gli avversari che
potevano essere usati contro di lei, quello che vide camminare nella sua
direzione facendo tremare la terra, alto come una torre, completamente
ricoperto da un’armatura pesantissima e armato di una enorme ascia a doppio
filo era senza dubbio il peggiore.
«Ora, grazie al sacrificio di due
simboli Magia, il Bruto raddoppia la sua capacità di movimento, e questo gli
permette di arrivare faccia a faccia con il tuo Ladro!».
Quella specie di gigante metteva
paura solo a guardarlo, e vedendoselo venire contro così, alto quattro volte
lei e con quella gigantesca ascia, Akita prese a tremare come una foglia.
«Il mio Bruto possiede 9 punti di
attacco, il tuo Ladro ha 2 soli miseri punti di difesa e 4 punti vita. Pertanto,
posso dire con certezza che non c’è sfida!».
Come Akita e il Bruto furono faccia
a faccia questo alzò il piede destro, rendendo più che palesi le sue reali
intenzioni.
«Regis, questo mi vuole schiacciare
come una formica! Fa qualcosa!».
Il giovane strinse i denti, come se
volesse davvero essere d’aiuto ma non ne fosse in grado, e alla fine,
nonostante tutto, il colpo andò a segno; un polverone immenso si sollevò dal
punto d’impatto e si disperse per tutta la scacchiera, inondando anche Sakura e
gli altri.
«Non sarà mica morta!?» esclamò
Viola
«Poco male.» rispose Elys con falsa
cattiveria «Era solo una spia, e neanche tanto brava.»
«Non è il momento di dire certe
cose!» la rimproverò Dave.
Invece, incredibilmente, quando il
polverone si diradò Akita era ancora lì, raggomitolata come un pupo con le mani
sopra la testa nella casella subito a sinistra di quella in cui era fino ad un
secondo prima. Aprendo gli occhi, lei fu la prima a meravigliarsi di essere
ancora tutta d’un pezzo.
«Sono… sono viva!?»
«Che scherzo è questo!» gridò
Zak-Ner vedendosi negare l’ennesimo attacco
«Nessuno scherzo. Se attaccato
frontalmente, il Ladro può spostarsi di una casella a destra o a sinistra a
condizione di sacrificare 3 simboli Fuga, ed è ciò che io ho fatto.
Il mio Ladro è salvo».
Akita esultò come una pazza, quasi
fosse stata lei l’artefice del suo stesso salvataggio, ma d’altronde, vista la
situazione dalla quale era appena uscita, glielo si poteva anche concedere.
«Sono viva! Sì! Sì!»
«Ma guardatela.» disse Elys, alla quale
le Spie non andavano proprio a genio «Come se fosse tutta farina del suo
sacco.»
«La fortuna prima o poi ti
abbandonerà, stramaledetto.» disse il sacerdote
«Forse, ma non ora. E visto che se
interagisci con il Bruto non puoi muovere altre pedine nello stesso turno, ora
la palla passa a me».
Regis tirò i dadi: due simboli
Abilità e un simbolo Attacco.
«Adesso sposto il mio Ladro alle
spalle del tuo Bruto!»
«Non starai pensando di farmi
combattere contro questo bestione!?» esclamò Akita vedendosi costretta a
compiere l’azione comandatale «Non sarei neanche in grado di scalfirlo.»
«Non voglio che tu lo uccida,
voglio solo che tu lo metta fuori combattimento per un po’. Pertanto… Affondo
Paralizzante!».
L’elfa a quel punto, con l’agilità
tipica di spia o di un ladro, si arrampicò sulla schiena del nemico fino ad
arrivargli alle spalle, quindi, sollevato il suo pugnale, glielo piantò nel
collo, e a nulla valsero i tentativi di quel gigante di togliersela di dosso.
Il Bruto mugugnò per il dolore
attraverso il suo grosso elmo, più un verso d’animale che un grido umano, poi,
mentre Akita scendeva, quello cadde fragorosamente in ginocchio, rimanendo
immobile, e i suoi occhi rossi si spensero.
«Che diavolo hai fatto!?»
«Affondo Paralizzante si attiva
sacrificando 3 simboli Abilità e 2 simboli Magia, e solo a condizione di
trovarsi alle spalle della pedina avversaria. Come suggerisce il suo nome,
questo attacco permette al Ladro di paralizzare il suo obiettivo per tre turni,
durante i quali non può né muoversi né attaccare, ma solo difendersi.
Ora sacrifico altri 2 simboli
Abilità, e in questo modo il mio Ladro può muoversi una seconda volta nello
stesso turno a condizione di non attaccare».
Con il successivo movimento Akita
si portò quasi dalla parte opposta della scacchiera, lungo la terza linea
orizzontale, la stessa su cui venne fatta posizionare anche Viola con il terzo
e ultimo movimento.
A quel punto il turno passò di
nuovo a Zak-Ner, che vide la sua situazione farsi terribilmente grigia: aveva
intrapreso quella specie di gioco perverso per provare divertimento, ed era
convinto che pur non essendo al livello di Regis sarebbe stato in grado di
prevalere grazie alla situazione in cui aveva messo il suo avversario.
Invece, dopo un iniziale momento di
esitazione, Regis aveva smesso di stare al suo gioco, e in questo modo il
divario di esperienza tra i due diventava incolmabile.
Zak-Ner era bravo a madara, molto
più degli altri sacerdoti di Inti, ma non certo al livello di Regis, che aveva
avuto i migliori maestri e si era misurato coi più grandi campioni di Europia.
Non avrebbe mai voluto ammetterlo,
la sola idea lo ripugnava, ma era in un angolo; tuttavia, era decisamente
troppo orgoglioso per ammetterlo, ed era sicuro che in un modo o nell’altro
avrebbe ribaltato le sorti della partita.
In quella, Regis si accorse che
tutte le persone attorno a loro, ancora immobilizzate dall’effetto del
fuuzetsu, stavano cominciando a muoversi, anche se in modo impercettibile.
“Il potere della barriera si sta
indebolendo.” pensò “Devo sfruttare l’occasione finché posso”.
Anche Zak-Ner se ne avvide, ma era
naturale con tutta l’energia che aveva perso vedendo morire due delle sue
pedine, e si rese conto che se non avesse concluso il gioco il prima possibile
il fuuzetsu sarebbe caduto, e con esso il suo controllo sugli spiriti dei
compagni di Regis, che avrebbero fatto immediatamente ritorno ai loro corpi.
Con un misto di rabbia, aspettativa
e frustrazione raccolse i suoi tre dadi; li lanciò, e come li vide fermarsi la
sua espressione, dopo un attimo di stupore, si mutò in un ghigno malefico.
«Questa volta non ti salverai,
garantito!»
“Quello sguardo non mi piace
neanche un po’.”
«Ora sacrifico 6 simboli Magia, e
in questo modo posso ricorrere al potere più devastante del mio Negromante! Richiamo
dall’Oltretomba!»
«Maledizione!».
Il Negromante alzò le braccia, e
nelle sue mani si generarono delle sfere di inquietante luce azzurra che
presero a sprizzare scintille sempre più forti, e tutta la scacchiera
incominciò a tremare.
«Che sta succedendo!?» domandò
Viola cercando di non perdere l’equilibrio.
Poi, al terremoto, seguirono delle
strane crepe, come se qualcuno stesse spingendo da sottoterra.
«Nel caso voi non lo sappiate,
Richiamo dall’Oltretomba mi permette di sostituire le pedine che ho perduto
rimpiazzandole con degli zombi, e compariranno proprio nelle caselle dove le
loro controparti sono state eliminate. Lo sai questo che significa, vero?».
Lo sapeva sì, purtroppo.
Tanto il Cavaliere quanto il
Lanciere erano stati sconfitti entrambi in punti molto vicini a dove si trovava
ora il Master di Regis, e senza alcuna ombra di dubbio sarebbero stati capaci
di sferrare un attacco diretto.
Ben presto le crepe divennero
squarci e dal terreno uscirono due esseri mostruosi, più simili a demoni che a
zombi comunemente intesi, con solo pochi strati di pelle e muscoli e quasi
nessuna traccia di carne attaccata a quelle ossa sporgenti.
«E non pensare che sia finita qui!
Ora intendo usare un altro potere
del Negromante, chiamato Sacrificio di Vendetta. Sacrificando gli ultimi 2
simboli Magia che mi sono rimasti, posso aumentare i punti di attacco di tutti
e due gli zombi per un ammontare pari a quello di una qualsiasi delle mie
pedine ancora in gioco, che devo però togliere dalla scacchiera.»
«Che cosa!?» esclamò Elys
«E indovinate chi scelgo? Il mio
Bruto!».
Il Bruto, ancora paralizzato dal
colpi di Akita, nuovamente urlò, e quando quella luce azzurra lo avvolse il suo
corpo marcì in pochi secondi, tramutandosi in un ammasso di ossa e metallo che
divenne rapidamente polvere. Gli zombi al contrario, inondati dalla luce, si
gonfiarono di muscoli; i loro punti d’attacco reali erano 3, una vera inezia,
ma con il sacrificio del Bruto erano diventati di colpo 12, più di qualunque
pedina del madara.
E quello che era peggio, erano
tutti e due nelle condizioni di attaccare il Master di Toshio, rimasto del
tutto indifeso perché ritenuto, nel punto in cui si trovava, in una posizione
sicura.
«Così non va’ per niente bene!»
disse Akita
«Sacrificio di Vendetta uccide le
pedine che ho scelto di potenziare all’inizio del prossimo turno, ma viste le
circostanze credo proprio che non ci sarà un prossimo turno!»
«Se non facciamo qualcosa è la
fine!» disse Dave
«Raccomandatevi al cielo, dannati
mocciosi! Avete finito di intralciare i miei piani! Il tuo Master non potrà
nulla contro l’attacco combinato dei miei due zombi!
Zombi numero uno, attacca!».
Il primo di quei mostri si lanciò
alla carica con insospettabile velocità, e sembrò che nulla potesse arrestare
la sua corsa, così come il suo inevitabile attacco. Il Master, naturalmente,
restò immobile, essendo egli, o ella, visto che si trattava di una donna, del
tutto incapace di difendersi, ma incredibilmente, all’ultimo istante, proprio
quando lo zombi aveva spiccato il salto a cui sarebbe seguito l’attacco, un
fascio di luce sottile e velocissimo lo centrò in mezzo alla testa,
trapassandolo da parte a parte e facendolo esplodere.
«No! E adesso che c’è!?».
Zak-Ner, sempre più vittima della
furia ceca, guardò tutta la scacchiera per capire cosa potesse essere successo,
e fu così che vide Elys con in mano un lungo arco al posto dello scudo che
aveva imbracciato fino ad un attimo prima.
«Freccia Sacra.» disse Regis «Se il
mio Master è in pericolo, l’Arciere, qualora il Master si trovi nel suo raggio
d’azione, può attaccare la pedina nemica sacrificando 3 simboli Difesa.»
«Ehi, non scherziamo! Lei era un
Difensore, non un Arciere! Tu stai imbrogliando!»
«Nessun imbroglio. Ho semplicemente
attivato Cambio di Arma, un’abilità del Chierico. In questo modo ho la facoltà
di cambiare il nome di una pedina appartenente alla classe Soldato con un'altra
dello stesso tipo non schierata sul terreno lasciando inalterati i suoi punti
di Attacco, Difesa e Vita. Il mio difensore ha mantenuto tutti i suoi
parametri, ma si è tramutato in un Arciere, e a quel punto ho attivato Freccia
Sacra per fermare l’assalto del tuo Zombi.»
«All’inferno.» ringhiò Zak-Ner a
denti stretti «Ne sai una più del diavolo.»
«Avrai pure potenziato i tuoi zombi
sotto il profilo dell’Attacco, ma nonostante ciò la loro difesa è rimasta la
stessa, ovvero 0. Pertanto, l’unico punto d’attacco del mio Difensore, ora
divenuto Arciere, è più che sufficiente ad eliminarli.»
«Non fare tanto il gradasso! La
prima volta l’hai scampata, ma non andrà bene una seconda volta! Zombi numero
due, ora a te!».
Il secondo zombi partì più veloce
del primo, e questa volta Regis, rimasto a corto di simboli Difesa, non poté
fare assolutamente nulla per fermarlo. Attacco andò, sottoforma di una poderosa
artigliata lanciata frontalmente, andò a segno, e come il Master urlò anche
Regis fece altrettanto, avvertendo un dolore terribile, come se ad essere
colpito fosse stato lui.
«Ha fatto male, eh?» domandò
ridendo Zak-Ner facendo il verso ad Elys, che poco prima si era burlata di lui
allo stesso modo «Ammetto che speravo di concludere la partita in questo turno,
invece, per l’ennesima volta, sei riuscito a cavarti d’impiccio.
Ma ti avverto, al prossimo ti darò
il colpo di grazia, e intendo farlo in grande stile!»
“Non starà pensando di…”
«Ora sacrifico tutti i simboli nel
mio forziere!» disse il sacerdote allargando le braccia «E così facendo, il mio
Negromante può far sfoggio del suo potere più devastante!
Giudizio Infernale!»
«Questo nome non promette niente di
buono.» disse Viola.
Ancora una volta il Negromante
sollevò le mani, e nubi nerissime si addensarono su tutta la scacchiera;
l’ultima pedina di Zak-Ner, il Soldato, venne distrutta, e le crepe tornarono a
farsi vedere, coinvolgendo stavolta l’interno campo di gioco mentre da sotto di
esse sbucavano fiamme e lava.
«Alla fine del tuo turno, una
tempesta malefica si abbatterà in tutta la sua furia, togliendo la bellezza di
5 punti vita a tutte le pedine sulla scacchiera!»
«Ha detto 5 vita!?» esclamò Viola
«Basterebbero per distruggere il nostro Master!»
«E non solo lui.» disse Elys con le
gambe che tremavano «Anche se Regis tirasse fuori qualcos’altro dal cilindro e
riuscisse a salvarlo, per me e Sakura sarebbe comunque la fine. I nostri punti
vita sono quasi azzerati.»
«Alla fine, dopotutto, sarò
comunque io a vincere.
Ora, con grande piacere, ti lascio
al tuo ultimo turno. Il mio Zombi, come da regolamento, sparisce, ma non
sparisce senza disturbare. Infatti, quando viene distrutto, uno Zombi infligge
un danno di 2 punti vita a qualsiasi pedina nel raggio di due caselle in ogni
direzione.»
«Ci mancava solo questa.» disse
Dave.
Lo Zombi si gonfiò fino ad
esplodere, e dal suo interno si sprigionò un liquido verdastro che colpendo il
Master ebbe sia per lui che per Toshio l’effetto di un potente acido.
«Il nostro Master è rimasto con un
solo punto.» disse Sakura
«Ah, questa è una vera tragedia!»
disse Akita «Non può finire così, non può! Ci sono ancora tante cose che devo
fare! Non posso morire! Non qui! Non così!»
«Ah, e dacci un taglio!» gridò Elys
«È già abbastanza difficile così com’è, ci manca solo te che strilli come una
gallina!».
Di nuovo, Regis si sentì messo alle
strette.
In verità la sua strategia vincente
aveva iniziato a costruirla già da tempo, e nel turno che ora si apprestava ad
incominciare era convinto di poterla mettere in pratica, ma l’attacco degli
Zombi al suo master che gli era quasi costato la vita, lasciandolo con un solo
punto vita, aveva cambiato tutte le carte in tavola, mettendolo in una
bruttissima situazione.
Per fare ciò che aveva in mente gli
servivano ben 10 simboli Abilità, che era riuscito faticosamente ad accumulare
a prezzo di enormi rischi per i suoi compagni, ma avendone dovuti sacrificare 3
per attivare l’abilità del Chierico e trasformare Elys in un Arciere ora ne
aveva solo 7.
L’unica cosa da fare per riuscire a
uscire da quella situazione e mettere fine alla partita era riuscire a
recuperarli, ma si trattava di un compito per niente facile: aveva a
disposizione un solo turno, un unico lancio di dadi, e i simboli Abilità erano
notoriamente tra i più difficili da ottenere, essendo in numero minore rispetto
ad altri come Attacco o Difesa.
Come gli era già accaduto altre
volte, la sfida in cui era coinvolto si sarebbe decisa sul filo del rasoio,
solo che stavolta non aveva alcun potere su ciò che sarebbe accaduto, e in ogni
caso la posta in gioco non sarebbe stata solo la sua vita.
Non senza un leggero tremito della
mano, il giovane recuperò tre dadi dal contenitore, assicurandosi che tutti
avessero almeno un simbolo Abilità, perché, come già detto, gliene servivano
tre, e gli servivano subito. Nel momento in cui avesse lanciato, il corso degli
eventi non sarebbe più stato alterabile, almeno non da lui.
Come dicevano molti professionisti,
il madara era un gioco bastato su un 90% di abilità e un 10% di fortuna, e in
quel momento la fortuna sarebbe stata l’unico arbitro di quell’ultima prova.
Regis non credeva né avrebbe mai creduto al destino; era convinto che il
destino ce lo si costruiva con le proprie mani, ma quello era uno dei rari
momenti in cui gli veniva da domandarsi se davvero esisteva una qualche sorte
predeterminata a cui bisognava sottomettersi.
«È il momento.» disse a voce bassa
«O tutto o niente.» poi sollevò gli occhi e lanciò i dadi.
Il primo si fermò subito, urtando
la scatola delle pedine e mostrando il primo simbolo Abilità, gli altri due
invece rotolarono sulla scacchiera principale; anche il secondo si fermò su un
simbolo Abilità, e a quel punto ne restava solo uno.
Passarono istanti interminabili,
durante i quali i cuori si fermarono, poi, finalmente, ecco apparire il terzo.
Il fato aveva fatto il suo corso, e
una volta tanto aveva favorito la parte giusta. Regis non ebbe tempo né voglia
di tirare un sospiro di sollievo: ora aveva quello che gli serviva per
concludere la gara, e voleva farlo il prima possibile.
«Avevi ragione, Zak-Ner! Questa
partita finirà in questo turno, ma non nel modo che speri tu!»
«Il tuo è solo un bluff!» replicò
il sacerdote, in realtà spaventato e preoccupato dall’espressione sicura del
suo nemico «Non hai nessuna speranza di vincere!»
«Ne sei sicuro?» domandò Regis dopo
aver mosso una delle sue pedine «Dai un’occhiata alla scacchiera».
Zak-Ner obbedì, e fu allora che si
accorse che il suo Master era circondato da quattro delle cinque pedine di
Regis, il Ladro, l’Arciere, il Chierico e il Soldato, disposte a quadrato a
distanze regolari tutto intorno a lui.
«Ma che cosa…»
«Questa disposizione è esattamente
ciò che mi serve per mettere fine alla partita. Grazie ad essa, e ai 10 simboli
Abilità che sono riuscito ad accumulare, posso attivare il potere supremo del
mio Stregone!»
«Il cosa!?».
Regis guardò Sakura, ancora
debilitata per l’attacco che aveva subito.
«Te la senti?»
«Non abbiamo scelta, mi pare. E
comunque, ci vuole ben più di questo per mettermi al tappeto.»
«D’accordo. In tal caso, Crocevia
Magico!».
La ragazza alzò il suo scettro, dal
quale si produsse questa volta un bagliore dorato, e immediatamente tutti i
suoi compagni vennero avvolti dalla medesima luce; ognuno di essi si vide
collegare al compagno che aveva all’angolo opposto da una scia luminosa
attraverso le caselle, formando in questo modo una croce che aveva come punto
di convergenza la casella su cui si trovava il Master di Zak-Ner.
«Che sta succedendo!?» gridò il
sacerdote vedendo il suo Master agitarsi furiosamente
«Crocevia Magico si attiva
solamente se lo Stregone ha il proprio Master all’interno del suo raggio
d’azione. Grazie a questo potere, una croce luminosa viene creata unendo le
caselle dove sono collocate le altre quattro pedine, e la pedina avversaria che
viene a trovarsi nel punto di convergenza, non importa quali siano i suoi
parametri, viene automaticamente distrutta!»
«Che cosa!?»
«Zak-Ner. I tuoi uomini hanno
rubato, barato e perso, quanto a te hai messo in pericolo migliaia di persone
per il tuo puro divertimento! E adesso, ne pagherai le conseguenze!
Sakura! Metti fine a questa sfida!»
«No, aspetta fermati!».
La croce prodotta dalle quattro
pedine prese istantaneamente fuoco, e sia Zak-Ner che il suo Master urlarono
dal dolore mentre quest’ultimo veniva letteralmente polverizzato.
Come scomparve, la cupola che
avvolgeva la città incominciò a creparsi ed infine crollò, liberando Munda
dall’incantesimo del fuuzetsu. Contemporaneamente, Elys, Akita, Dave e Sakura
scomparvero dal terreno di gioco, e i loro spiriti, sottoforma di quattro sfere
luminose, tornarono nei rispettivi corpi, che poterono finalmente riprendere
vita.
Nessuno, come era prevedibile, si accorse
di quello che era successo, ad eccezione naturalmente di Regis e dei suoi
compagni, che poterono finalmente festeggiare la fine di quell’incubo surreale.
«Ce l’abbiamo fatta!» esultò Elys
saggiando di nuovo il proprio corpo «Siamo fuori!»
«Maestro, siete stato fantastico.»
disse Dave.
Kunio e i suoi compagni, liberi
finalmente di muoversi, si avvicinarono al tavolo di gioco.
«Regis. Ma cosa…» domandò il
principe
«Questa sfida è finita.» rispose il
ragazzo.
Lui e gli altri spiegarono cosa era
accaduto, e subito Zak-Ner, ancora riverso semi-svenuto sul scacchiera,
circondato dalle sue pedine ormai inanimate, venne raggiunto da due soldati,
che minacciandolo con le lance lo costrinsero ad alzarsi.
«Non… non avete ancora vinto,
maledetti!» gridò, e nell’istante in cui tutti erano con la guardia abbassata
il sacerdote gettò a terra quella che Regis riconobbe come una granata
stordente
«Attenti!» gridò gettandosi in
difesa del principe.
Vi fu dapprima uno scoppio, poi una
luce fortissima ed un rumore assordante che ebbero effetto in un raggio di
parecchi metri. Tutti rimasero violentemente scossi, e quando i primi, tra cui
Regis, riuscirono a tornare alla realtà, Zak-Ner, tornato apparentemente nel
pieno delle sue forze, era in piedi sul tetto di un edificio con il trofeo ben
stretto in mano.
«Hai vinto una battaglia, ma a
quanto pare non ti è servito a niente! Alla fine di tutto, l’unico a vincere
sono stato io!»
«Fermatelo!» ordinò Kunio «Non deve
scappare!».
Le guardie tirarono con gli altri,
ma di colpo una miriade di fili sottili e quasi invisibili si sprigionarono
dalle dita di Zak-Ner, che agitandoli riuscì a fermare in un colpo solo tutte
le frecce.
«Grazie della pietra! Ci rivedremo
presto!» gridò prima di darsi alla fuga saltando di tetto in tetto
«Fermati, imbroglione!» disse
Viola.
Akita tentò di andargli dietro
scomparendo a sua volta, ma era chiaro che non lo avrebbe raggiunto.
Così, la gioia di Regis e gli altri
per essere usciti illesi da una simile situazione venne irrimediabilmente
guastata dal fatto che, nonostante tutto, i loro avversari l’avevano avuta
vinta, riuscendo a mettere le mani sulla pietra così tanto agognata.
«No, non ci credo.» sbraitò Elys
battendo i pugni a terra «Dopo tutta la fatica fatta con che cosa ci
ritroviamo? Con un pugno di mosche!»
«Dobbiamo ripartire.» disse Regis
«Subito.»
«Il maestro ha ragione. Non
possiamo permettere a gente come lui di mettere le mani su altre pietre.»
«Questa era la quarta.» disse
Sakura «Ce ne sono ancora tre da trovare.»
«E dobbiamo trovarle tutte prima di
loro.» disse Viola
«Beh» disse il principe «È un
peccato che sia finita così. Però, è stato divertente finché è durato, bisogna
ammetterlo. Sono sicuro che questi Giochi della Rinascita rimarranno nelle
memorie della gente per un bel po’ di tempo.»
«Lo penso anch’io.» rispose Regis.
Lui e Kunio sorrisero, poi, tra gli
applausi della folla, si strinsero la mano.
«Io e il mio popolo siamo con voi.
Trovate quei pazzi. Fermateli.»
«Lo faremo».
E così, per la prima volta a
memoria d’uomo, i Giochi della Rinascita si conclusero senza un vincitore.
Almeno, senza un vincitore ufficiale.
Già prima che Regis e gli altri
lasciassero la città il Fiya Team veniva già acclamato come vincitore della
settantesima edizione del Giochi, e poco importava se la sfida finale non era
neppure stata disputata, o se non vi era stata la tradizionale alzata del
trofeo sul palco d’onore con lancio di fuochi d’artificio e complimenti
vivissimi espressi alla squadra trionfatrice da sua maestà il re in persona.
Quello che contava era il
significato morale, e lo spirito in cui si svolgeva la competizione. Come aveva
detto saggiamente il principe, l’edizione di quell’anno aveva regalato emozioni
a sorprese a non finire, e sarebbero dovuti passare molti anni per riuscire a
dimenticarla.
Nota dell’Autore
Eccomi qua!^_^
Come promesso ho
fatto il prima possibile, e grazie anche al tempo non proprio bellissimo di
questa settimana sono anche riuscito a saltare un paio di giorni di lezione,
trovando così nuovo tempo per scrivere.
Questo capitolo
chiude di fatto la prima metà delle avventure di Regis e compagni nel
continente di Kamur, e io spero vivamente di poter concludere in tempi brevi
questa seconda parte della storia per passare poi alla terza e quindi alla
quarta, l’ultima.
Onestamente, non vedo
l’ora di incominciare a scrivere Millennium
War: Shinari Chronicles, perciò potete star certi che ogni momento che avrò
a disposizione lo sfrutterò appieno.
Ringrazio come sempre
Selly e Akita.
Ah, a proposito.
Recentemente ho sfondato il muro delle 100 recensioni, e ormai ne mancano
davvero poche per battere il mio attuale record, detenuto da Millennium War: The Origin con ben 115
commenti.
Da quando Koichi si era unito a loro Erik, Sanae e Lily
avevano visto il loro viaggio diventare un po’ meno noioso; il giovane samurai
si sforzava in tutti i modi di mostrarsi degno del grande onore che secondo lui
gli era stato fatto permettendosi di viaggiare al fianco della persona che
considerava il proprio maestro di vita, e molto spesso il suo bisogno di
sembrare all’altezza si traduceva in situazioni piuttosto divertenti, come
quando insisteva a lasciare ad Erik la sua parte di cena, quando si offriva di
fare doppi turni di guardia la notte per lasciarlo dormire o quando scattava
allarmato al primo rametto che si muoveva senza apparente motivo.
Erik di fronte a tutto questo
sembrava indifferente, ma Sanae, che ormai poteva dire di conoscerlo bene,
capiva che in realtà la cosa stava cominciando a divertirlo; una volta aveva
rimproverato Koichi di non essere sempre così teso, perché con quel suo
atteggiamento creava tensione inutilmente, e l’unico motivo che potesse
spingere Erik a dire una cosa simile ad una persona era, per paradosso, che
questa persona stava cominciando a riscuotere il suo interesse e la sua
fiducia.
Lasciata la città, il gruppo si era
rimesso in viaggio verso est, seguendo l’antica pista che collegava l’oriente
con l’occidente, una sorta di Via della Seta lungo la quale si erano spostati
secoli addietro tutti i maggiori flussi migratori, compreso quello degli elfi
di Europia.
Ormai, però, di quell’antica strada
non rimaneva quasi nulla, dal momento che da secoli le rotte mercantili si
erano spostate più verso sud, nei pressi della costa, rendendo superflui lunghi
e tediosi itinerari che passavano attraverso ogni sorta di territorio, dalle
foreste ai deserti fin anche alle pendici delle più alte montagne.
Per quasi due settimane non accadde
nulla, neanche l’incontro con bande di briganti o altri malintenzionati che a
detta degli abitanti dei villaggi situati lungo la strada erano molto numerosi
nella zona, e ormai il confine del regno era molto vicino.
A circa metà di un tiepido
pomeriggio i quattro compagni stavano percorrendo un sentiero sterrato
abbastanza largo che attraversava una vasta e verdeggiante pianura fatta di
colline basse, stagni e piccoli boschetti di bambù.
«Guardate.» disse Lily indicando
una pietra miliare «Mancano solo otto miglia al confine.»
«Che Paese si trova al di là di
questo?» domandò Sanae rivolta a Koichi
«L’impero di Han-Jun. È una terra
estremamente pacifica, fondata sul commercio, dove i nobili sono mercanti e i
mercanti sono nobili. A nord dell’impero vi è la parte iniziale di un grande
deserto che chiamano il Deserto di Jao-Gan, che si estende per molte miglia
verso oriente».
Erik ascoltò la descrizione di
Koichi senza farsene avvedere, e come il ragazzo ebbe finito di parlare esortò
tutti a rimettersi in marcia.
Sul far del tramonto, proprio
quando stavano cominciando a prendere in considerazione l’idea di fermarsi per
la notte, incontrarono una carovana mercantile proveniente dalla direzione
opposta e ferma al lato della strada, sembrava, per un problema ad uno dei
carri che componevano il convoglio; tutto attorno avevano allestito un campo
abbastanza sviluppato, segno che dovevano trovarsi lì già da qualche tempo.
«Buonasera. Avete bisogno di una
mano?» domandò Koichi, sempre pronto ad aiutare gli altri
«È il cielo che vi manda.» disse un
vecchio dalla folta barba, probabilmente il capo della carovana «Siamo fermi
qui da tre giorni. Il semiasse di uno dei carri si è rotto, e non riusciamo a
ripararlo.»
«Fatemi dare un’occhiata».
Il giovane samurai si inginocchiò e
diede uno sguardo sotto il carro; il semiasse si era spaccato circa a metà,
probabilmente a seguito di un sobbalzo piuttosto violento, dovuto forse ad una
buca o una roccia. Un danno piuttosto serio, e difficile da rimettere a posto.
«Temo proprio che l’unica cosa da
fare sia sostituirlo.»
«Purtroppo» disse una vecchia
signora, forse la moglie del capo «Nessuno di noi qui si intende di riparazione
di carri.»
«Sappiamo cambiare una ruota.»
disse un giovane «Ma queste sono cose troppo complicate per noi. E inoltre, non
abbiamo pezzi di ricambio.»
«Nobile Erik, voi potete fare
qualcosa?».
Erik, con un misto di sufficienza e
stanchezza, chiese se avessero ancora i frammenti staccatisi dal corpo
centrale, e quando fu certo di avergli tutti gli bastò uno schiocco di dita per
produrre un po’ di luce e far tornare il semiasse nuovo come appena intagliato.
«Ecco fatto. Così dovrebbe andare.»
«Ma allora…» disse sbigottito il
capo-carovana «Voi siete uno stregone!».
Un rapido test confermò l’avvenuta
riparazione, e grande fu la gioia dei mercanti per essere finalmente in grado
di rimettersi in marcia.
«Vi ringrazio infinitamente, anche
a nome di tutti i miei compagni. Purtroppo, questo ritardo ci farà perdere il
giorno del mercato a Chan-Dong.»
«Se partiamo subito.» disse lo
stesso giovane, probabilmente il figlio del capo «Possiamo arrivare in tempo
per l’ultimo giorno.»
«A questo punto, non ne vedo la
ragione. Inoltre, non è consigliabile viaggiare di notte in questa regione e
con un carico tanto prezioso. Tanto vale prendersela comoda e andare
direttamente a Lo-Biang.
Per questa notte restiamo qui.»
«D’accordo, papà. Come desideri.»
«Nobili forestieri.» disse quella
che aveva tutta l’aria di essere la moglie del giovane «Vorreste farci l’onore
di godere della nostra ospitalità? Sarebbe un buon modo per ringraziarvi di
quello che avete fatto per noi.»
«Mia nuora ha ragione. Per
stanotte, sarete nostri ospiti.»
«Veramente.» rispose Koichi
«Dovremmo ripartire.»
«Nobili forestieri, non metto certo
in dubbio la vostra forza. Basta guardarvi per capire che sapete badare a voi
stessi. Tuttavia, questo è un posto poco indicato per girare di notte.
Non abbiate fretta e non fatevi
scrupoli. Ormai viaggiamo da così tanto tempo che le serate di bivacco si sono
fatte terribilmente monotone. La vostra presenza ravviverà l’ambiente. E poi il
cibo è buono, e non ci manca di sicuro».
Koichi si fece un po’ pregare,
quanto ad Erik come al solito non disse niente, fatto sta che un’ora dopo i tre
ragazzi erano seduti attorno al bivacco assieme ai membri della carovana.
«Sono davvero felice che abbiate
accettato il nostro invito.
A proposito, non ci siamo neppure
presentati. Noi veniamo da Han-Jun. Io mi chiamo Fae-Yang, e sono il capo di
questa carovana mercantile.» poi presentò l’uomo che gli stava affianco e una
delle donne che stavano preparando la cena «Mio figlio Ba-Ling, mia nuora
Sae-Nang.» e infine una piccola e scatenata bambina che gli correva intorno
«Mentre questa piccola peste è la mia nipotina, Ni-Lang.»
«E voi signori, siete?» domandò
Ba-Ling
«Il mio nome è Sanae, lei invece si
chiama Lily. Lui è il nobile Koichi, mentre questi è il nobile Erik.»
«Non sembrate di questo Paese. Da
dove venite?»
«Veniamo da occidente.»
«Lo sospettavo.» disse Fae-Yang «Si
capiva dal vostro accento. Inoltre, in questo continente gli Inu vivono molto
più ad est, quanto ai samurai abitano solo nella grande isola di Cynon,
nell’estremo oriente.
Voi venite da là, nobile Koichi?»
«Esatto.» rispose il ragazzo, che
tuttavia non si trovava molto a suo agio nel venire tempestato di domande
«E dove siete diretti?»
«Ancora non lo sappiamo.» rispose
Lily bevendo da un cucchiaino un po’ di succo alla fragola «Per ora possiamo
dire solo che siamo alla ricerca di una persona.»
«Interessante. Quindi siete degli
studiosi.»
«Diciamo di sì.»
«Forse voi potete aiutarci.» disse
Sanae «Per caso avete mai sentito parlare di un certo… nobile Erik, come avete
detto che si chiama?»
«Clow.» rispose Lily
«Sì, esatto. Clow. È un mago molto
potente che molti anni fa venne in questo continente da Europia, proprio come
noi. Crediamo che stesse seguendo a ritroso le antiche rotte migratorie da
oriente a occidente alla ricerca di qualcosa.»
«Clow avete detto. Dunque… Clow… Clow…
no, mi dispiace. Questo nome non mi dice nulla.»
«Capisco.» disse la ragazza con un
po’ di comprensibile dispiacere
«Papà, aspetta. Forse c’entra
qualcosa Chang-Du.»
«Chang-Du?» ripeté Sanae
«Ma certo, hai ragione. Non ci
avevo pensato.»
«Scusate, di che cosa si tratta?»
domandò Koichi
«È un vecchio monastero. Si trova
ad Han-Jun, nel cuore del deserto di Jao-Gan. Si dice che i monaci che vivono
lì pratichino una magia molto particolare, portata nel nostro Paese da un mago
giunto da occidente. Anche il simbolo del loro culto è molto strano, una cosa
che non si vede tutti i giorni».
Koichi non perse tempo, e preso un
foglio di carta di riso vi disegnò sopra alla meno peggio il simbolo di cui
Sanae, che a sua volta lo aveva visto quella volta nella locanda di confine,
gli aveva parlato, il circolo del sole e della luna.
«Somiglia a questo?».
Fae-Yang prese il disegno e lo
guardò bene, poi annuì.
«Non gli assomiglia, è questo».
Di fronte ad una simile notizia
persino Erik ebbe un piccolo sussulto, ma niente più di quelle che erano le sue
reazioni abituali.
«Maestro, avete sentito? Abbiamo
una pista.»
«Ho sentito.»
«Tutti a tavola!» disse in quella
Sae-Nang «La cena è pronta!».
Chi non era ancora seduto sul
grande telo disteso a terra già precedentemente apparecchiato dai bambini si
affrettò a raggiungerlo, e le donne che avevano preparato la cena presero a
girare tutto intorno per riempire uno per uno i piatti degli avventori.
C’era davvero di tutto: riso,
carne, verdure, pesce, pane e ogni altro ben di dio, e anche, cosa difficile da
immaginare per una semplice carovana mercantile, prodotti di un certo pregio.
«Prego, prego!» disse Fae-Yang «Non
fate complimenti!»
«Sembra che ve la passiate
abbastanza bene.» disse Lily
«Ve l’ho detto, il cibo non ci
manca. Ringraziando gli dèi, sono molti anni che il nostro impero vive un
grande periodo di prosperità. Gli affari vanno molto bene ultimamente.»
«Così bene» disse Ba-Ling «Che
alcuni mercanti di Han-Jun stanno valutando l’idea di smetterla con i viaggi in
carovana e fondare una grande società, e hanno chiesto anche a noi di farne
parte.»
«Che tipo di società?» domandò
incuriosito Koichi
«Una società commerciale. Al
momento noi compriamo a basso prezzo i prodotti della nostra terra per venderli
ad un prezzo maggiorato in Europia o in altri regni di questo continente.
L’idea sarebbe di diventare noi stessi produttori, usando i profitti in nostro
possesso per comprare i vasti terreni a est che il nostro imperatore ha
recentemente messo all’asta. Su quei terreni, usando le conoscenze di tutti,
costruiremmo delle industrie per la produzione e la lavorazione di innumerevoli
beni, così pregiati e richiesti che sarebbero altri a venire da noi per avere
il privilegio di comprarli. Inoltre, vista la posizione chiave del nostro
impero lungo le rotte carovaniere, potremmo proporci anche come stazione di
interscambio per mercanzie provenienti da territori diversi.
Certo, ci sarebbero dei costi di
produzione, ma non sarebbero neanche da paragonare ai prezzi che paghiamo per
acquistare ciò che poi vendiamo, senza tener conto delle spese per gli
spostamenti, e i profitti sarebbero a dir poco incredibili.»
«Mio figlio è un burocrate.» disse
allegramente Fae-Yang alzando la bottiglietta di sakè «È da quando siamo
partiti dalla capitale due mesi fa che non fa altro che parlarmi di questa
storia.
Lui dice che sarebbe meglio per
tutti, me compreso, ma nonostante io abbia ormai una certa età non mi sento
ancora pronto ad abbandonare la vita del carovaniere, e poi non mi ci vedo
rinchiuso in uno studio a contare soldi e a fare conti».
In quella Sae-Nang si avvicinò alla
piccola Li-Lang, che sedeva tra il nonno ed Erik, con un vassoio pieno di
tartine.
«Hai fatto le tartine col tonno!»
disse la piccola «I miei preferiti! Grazie, mamma!».
Di colpo Erik ebbe come un
sussulto, e aperto un solo occhio lo rivolse verso il vassoio.
«La mia nipotina va’ pazza per le tartine
tonno e maionese.» disse Fae-Yang «Mangerebbe solo quelle. Io invece le trovo
alquanto pesanti».
La piccola se ne prese due, il
nonno invece declinò leggermente, poi venne il turno di Erik; già altre donne
avevano offerto al ragazzo del cibo, ma lui aveva sempre rifiutato gentilmente
sostenendo che non aveva appetito. Sae-Nang gli porse il vassoio per puro
dovere di ospitalità, aspettandosi di assistere all’ennesimo no, invece, incredibilmente,
non solo Erik questa volta accettò, ma anzi ne chiese due.
Voracemente, ma nella più assoluta
compostezza e indifferenza, le sbranò entrambe con tre morsi ognuna tra gli
sguardi meravigliati dei suoi compagni di viaggio.
«Non ci posso credere.» disse Lily
«Allora non sei tutto bacche e frutta selvatica.»
«Nessuno resiste alla cucina di mia
nuora!» disse Fae-Yang
«Molto buono.» sentenziò con un
filo di voce, poi, aggiungendo sorpresa alla sorpresa, allungò la mano verso
Sae-Nang «Ce n’è ancora?»
«Ce… certo.» rispose lei con un
misto di felicità e stupore.
Da quel momento una tirò l’altra, e
ben presto gli stuzzicadenti ammucchiati sul piatto di Erik che venivano usati come
decorazione cominciarono ad essere davvero tanti. Gli sguardi dei presenti
passarono presto dalla meraviglia allo sconcerto, non tanto per quello che il
ragazzo stava facendo ma piuttosto per il fatto stesso che lo stesse facendo.
I più attoniti di tutti erano
ovviamente Sanae, Lily e Koichi, che non riuscivano a credere ai loro occhi;
Erik, che nelle taverne dove sostavano per la notte o durante le cene attorno
al fuoco era già tanto se toccava cibo, stava trangugiando tartine a iosa, oltretutto
con quella sua solita espressione, quasi stesse facendo una cosa per lui del
tutto normale.
«No… nobile Erik…»
«Maestro…».
Alla fine, inevitabilmente, le tartine
finirono, e solo allora Erik sembrò rendersi pienamente conto di quello che
aveva fatto. Arrossì leggermente, guardando la pila di stuzzicadenti
ammucchiata davanti a lui, e si coprì la bocca con una mano.
«Chiedo scusa.» disse dopo un
momento
«E che cosa c’è da scusarsi!»
esclamò allegramente Fae-Yang dopo un attimo di smarrimento «Quando una cosa
piace, piace! Prendi me e il sakè!»
«Ti piacciono proprio tanto le
tartine, vero?» domandò ingenuamente Li-Lang
«Beh, diciamo di sì.» rispose il
ragazzo, per la prima volta dopo tanto tempo in evidente imbarazzo.
Com’era vero.
Questa sorta di irresistibile
tentazione per tartine, tramezzini e affini affondava le sue radici nel breve periodo
di vita che aveva trascorso a New York con i suoi genitori adottivi, Hank e
Betty; questi, essendo rispettivamente un agente di polizia e un medico,
capitava spesso che si trovassero costretti a sostituire i pranzi con un panino
al volo, soprattutto Betty, e nel corso degli anni quest’ultima aveva
sviluppato una irrinunciabile passione per questo tipo di alimenti, passione
che poi aveva trasmesso ad Erik.
Era più forte di lui.
Anche quando entrava al bar
semplicemente per bere un caffè o concedersi una bibita fredda, se
disgraziatamente gli capitava di gettare l’occhio sul bancone degli stuzzichini
allora non poteva assolutamente evitare di assaggiarne qualcuno.
Pur avendo gusti piuttosto rigidi
non disdegnava quasi niente, ma le sue preferenze in fatto di farciture cadevano
soprattutto sul pesce, e sul tonno in particolare; di fronte ad un panino, un
tramezzino o una tartina ripiena di tonno gli era impossibile resistere.
Sapeva che questo strideva non poco
con il suo carattere, ma per quanto si sforzasse di controllare quello che
considerava quasi un istinto animalesco alla fine la sua volontà aveva sempre
la peggio.
Forse, si diceva, era un inconscio
tentativo del suo ego più nascosto di rimanere ancorato all’epoca della sua
vita come un normale adolescente, una vita della quale, nonostante cercasse di
non darlo a vedere, sentiva la mancanza, forse qualcos’altro che non gli era
possibile spiegare.
«Certo che non ti avrei mai creduto
capace di una cosa del genere.» disse Lily «Ne ingoiavi uno dopo l’altro senza
fermarti un momento. Facevi perfino paura.»
«Insomma, Lily.» disse Sanae «Un
po’ di rispetto.»
«Maestro, confesso di essere molto
sorpreso.» disse Koichi
«Ti ho deluso?»
«No di certo.» rispose sinceramente
il ragazzo «Come ha detto il signor Fae-Yang, non è sbagliato ricercare quello
che piace.»
«Inseguire i piccoli piaceri che ci
fanno sentire felici è una delle tante facce della vita.» disse Sanae «O
almeno, questo è quello che penso.»
«Sì…» rispose Erik a viso basso «Immagino
tu abbia ragione».
Forse il giovane guerriero era
troppo distratto, troppo preso dai ricordi che una semplice cena a base di
tartine avevano riacceso in lui, fatto sta che non si accorse minimamente delle
due figure che dall’alto di due canne di bambù, ben nascoste nell’oscurità,
osservavano l’accampamento stando a debita distanza.
Una delle due era Kori, l’altra
invece era impossibile da vedere, ma dal taglio del viso e dalla fisionomia del
corpo appariva abbastanza chiaro che si trattava di un uomo.
«È lui?»
«Sì, è lui.»
«Sono decisamente deluso. Dalla
descrizione che ne avevi fatto mi immaginavo tutt’altro genere di avversario.»
«Non sottovalutarlo, Zant. È molto
pericoloso. Il suo Bany Chakwa è estremamente potente, e ne ha un discreto
controllo.»
«Tanto meglio così.» disse il
ragazzo mentre le unghie della sua mano destra si mutavano in cinque
lunghissimi artigli ricurvi «Sarà molto più divertente».
Durante la notte, come spesso accadeva, Erik non fu capace
di chiudere occhio, e anche quando tutti furono andati a dormire nelle tende o
nei carri lui restò in piedi, seduto in terra con la schiena appoggiata ad una
cassa.
Oltre a lui, l’unica persona
sveglia era la vedetta, incaricata di sorvegliare la zona circostante per
assicurarsi che non vi fossero pericoli in vista.
Regnava un silenzio profondo, rotto
solo dal crepitare del fuoco ancora acceso al centro del campo; era una notte
serena, priva di nuvole, e la luce delle stelle, unita a quella delle tre lune
che riempivano il cielo notturno, rispettivamente dei colori blu, dorato e
bianco, si diffondeva in tutta la pianura, generando ulteriore luce.
Era tutto così tranquillo che anche
la vedetta, appostata su una torretta smontabile e riedificabile in tempo di
record, sembrava sul punto di addormentarsi.
Erik, invece, di dormire non ne
aveva la benché minima voglia. Troppe ricordi, troppe emozioni si erano
risvegliate in lui da quando si era fatto quella colossale mangiata di tartine;
ricordi di una vita passata, distante ormai quasi un decennio.
Non avrebbe mai voluto ammetterlo,
ma quella vita gli mancava, e molto; aveva vissuto come una persona normale per
poco più di tre mesi, ma avrebbe cambiato tutta la sua vita con uno solo di
quei giorni.
Pensò ai suoi genitori, se di
genitori si poteva parlare, domandandosi dove fossero, cosa stessero facendo,
ma, più di tutto, pensava a lei, a Kazumi.
Negli anni che aveva trascorso come
prigioniero sulla Terra dopo la battaglia con Waltz su Noesis non aveva mai
trovato il coraggio per andare a trovare nessuno di loro; aveva paura di
metterli in pericolo, di fare di loro dei bersagli per l’Imperatore e i suoi
tirapiedi, ma, più di ogni altra cosa, temeva loro giudizio, e cosa avrebbero
potuto pensare di lui.
Li osservava da lontano, senza mai
farsi vedere, e a lungo era rimasto nascosto, a volte per ore intere, a
guardarli mentre vivevano tranquillamente e serenamente la loro vita, e gli
veniva da pensare che forse era meglio così: se lui fosse ritornato, se avesse
nuovamente mostrato il suo volto da traditore e da reietto, quelle esistenze
serene avrebbero potuto essere consumate.
Un giorno, sfidando i suoi timori,
aveva trovato il coraggio di andare alla sede della Yoshida Industries dove
Kazumi lavorava, ma giunto al momento fatidico, proprio mentre la ragazza,
ormai divenuta giovane donna, stava entrando in ufficio, la paura aveva avuto
nuovamente il sopravvento, e tutto quello che era riuscito a fare era stato
scriverle un biglietto, una frase per farle capire che non aveva dimenticato, e
che pensava sempre a lei.
Chissà cosa avranno pensato lei e
Will, gli veniva spesso da domandarsi. Probabilmente che era un codardo, che
non aveva il coraggio di guardare in faccia la realtà, e a ben pensarci ne
avrebbero avuto tutte le ragioni.
Sospirando, mise una mano nella
tasca, dalla quale prese fuori una pallina da baseball ormai in parte
consumata: suo padre gliel’aveva affidata nel momento del distacco, facendogli
promettere che avrebbe dovuto restituirla allo stesso modo in cui lui e sua
moglie un giorno gli avrebbero reso la piuma che Erik, allora poco più di un
ragazzo, aveva lasciato loro come promessa per il suo ritorno.
Tuttavia, ora che a dividerli vi
erano chissà quante dimensioni, gli veniva da domandarsi se sarebbe mai stato
capace di mantenere quella promessa.
Era tutto preso a cercare di
scoprire le origini del Menos Adelos, si diceva, ma poi? Anche nel caso in cui
fosse riuscito a sollevare il velo, cosa avrebbe fatto dopo? Sarebbe mai
riuscito a tornare indietro, dopo aver compiuto quel salto sconsiderato che lo
aveva condotto fin laggiù?
Quando avesse avuto un maggior
controllo del suo potere sarebbe stato capace di annullare la maledizione
impostagli dall’Imperatore, maledizione che gli era stata tolta da Yuko ma che
era ritornata nel momento in cui aveva reciso il suo contratto con la strega
per riavere le sue memorie e non perdere mai più di vista il suo obiettivo
finale, ma anche se questo gli avrebbe permesso di viaggiare nuovamente attraverso
lo spazio e le dimensioni non poteva certo passare da un universo all’altro con
le sue sole forze. Era una cosa che nessuno, neppure l’imperatore, sarebbe
stato in grado di fare.
Di certo non avrebbe chiesto di
nuovo l’aiuto di Yuko. Non si sarebbe fatto portare via i ricordi una seconda
volta. Ma allora in che modo sarebbe potuto tornare indietro?
Stava riflettendo su innumerevoli
cosa quando, d’un tratto, qualcosa attirò la sua attenzione. Gli parve di
sentire qualcosa, come una voce che lo chiamava, e contemporaneamente per pochi
istanti avvertì un potere molto strano provenire da molto vicino a lui.
Alzatosi, si allontanò dal campo
nella direzione da cui aveva sentito arrivare quell’energia sconosciuta, e nel
giro di pochi passi si ritrovò completamente immerso nella pianura. Affidandosi
alla luce delle stelle, continuò a camminare per alcuni minuti, poi si fermò,
cercando di riordinare le idee; non avvertiva più nulla, ma era certo di non
aver avuto solo un’impressione, di essersi sbagliato.
Mentre cercava di orientarsi di
colpo quell’energia ricomparve, più forte e vivida di prima. Il ragazzo
fulmineo si girò alla propria destra, riuscendo a scorgere per un istante una
figura di luce bianca che lo fissava e contemporaneamente si allontanava,
scomparendo all’interno di una fitta foresta di bambù; non aveva potuto
distinguerla chiaramente, ma gli era sembrato di scorgere un paio a ali bianche
richiuse in sé stesso.
Subito gli venne da pensare a
Toshio, ma abbandonò quell’ipotesi in meno di un attimo: il potere spirituale
del suo alter ego lo conosceva come il palmo della mano, mentre quell’energia
non assomigliava a niente che avesse mai percepito prima.
Di nuovo si mosse nella sua
direzione stavolta correndo, e addentrandosi sempre più nel fitto della
foresta; ogni volta che quel potere spariva, e lui si fermava, ogni volta
ricompariva, accompagnato talvolta da quella figura.
«Stai cercando di guidarmi?»
domandò ad un certo punto Erik vedendola per l’ennesima volta svanire nel nulla
«O forse di farmi perdere?».
Alla fine, dopo un imprecisato
periodo di tempo e un altrettanto imprecisato numero di metri percorsi, Erik
raggiunse un grande masso a forma di cupola accanto al quale aveva visto
scomparire per l’ultima volta quella sorta di spirito.
Sembrava una roccia come tante, ma
avvicinatosi per controllarla meglio Erik, con suo grande stupore vi vide
inciso il circolo magico di Clow, simbolo inequivocabile del suo passaggio per
quei luoghi.
Allora, si disse, quella figura
misteriosa aveva davvero voluto guidarlo. Ma chi era? E perché lo aveva
aiutato?
D’improvviso avvertì un rumore alle
proprie spalle, e voltatosi di scatto con la spada già in mano si fermò un
istante prima di sfiorare la gola di Koichi, che per lo spavento quasi cadde
all’indietro.
«Maestro, aspettate! Siamo noi.»
«Certo che hai un modo tutto tuo di
dare il benvenuto.» disse Lily
«Che cosa ci fate voi qui?»
«Vi ho visto allontanarvi mentre
bevevo dell’acqua.» disse Sanae «Abbiamo pensato che potevate aver bisogno di
aiuto.»
«Maestro, ma quello è…» disse
Koichi notando a sua volta il simbolo impresso sulla roccia
«Sì, è il simbolo di Clow.»
«Come hai trovato questo posto?»
chiese la fata
«Sarebbe difficile da spiegare.»
rispose il ragazzo avvicinandosi alla pietra
«Voi avete detto che Clow è quasi
sicuramente passato di qui.» ipotizzò Koichi «E forse può aver inciso questo
simbolo per lasciare un segno del proprio passaggio.»
«Una specie di indicazione
stradale?» disse Lily
Alla luce del bagliore prodotto
dalla sfera fluttuante che Sanae aveva evocato per rischiarare il cammino Erik
notò subito che la luna inscritta nel circolo aveva dei contorni più netti
rispetto al resto del disegno.
«Credo sia molto più di questo.»
disse rispondendo alla domanda di Lily.
Intuendo ciò che poteva celare la
sfiorò, e come previsto la luna prima rientrò e poi girò su sé stessa,
producendo un rumore meccanico e facendo un giro completo per poi tornare al
suo posto.
Subito dopo si sentì un girare di
ingranaggi, poi il masso, lentamente, si spostò all’indietro, rivelando sotto
di esso una lunga scalinata.
Tutti restarono con le bocche
socchiuse per lo stupore, quanto ad Erik era sicuro che là sotto avrebbe
trovato alcune delle risposte che stava cercando.
«A quanto pare non si trattava solo
di un semplice strumento per testimoniare il suo passaggio.» disse «O almeno,
non solo».
Spinti da una reciproca curiosità i
tre ragazzi e la fatina si addentrarono nel cunicolo, e fatti più o meno una
quarantina di scalini si ritrovarono in una grande stanza quadrangolare di una
novantina di metri quadrati arredata di tutto punto come un laboratorio di
ricerca.
Doveva essere stata realizzato
intagliando la roccia con la magia, e chiunque l’avesse creato voleva essere
sicuro che risultasse il più difficile possibile da trovare. Al centro del
pavimento era disegnato un circolo magico piuttosto semplice, ben lontano dalla
complessità di quello usato da Clow, e poco più in là un piccolo pentacolo,
usato probabilmente dal proprietario per arrivare fin laggiù nel più breve
tempo possibile e senza passare dalla superficie, rischiando così di dare nell’occhio.
Quello che abbondava più di ogni
altra cosa erano i libri, sia riposti sui molti scaffali che si trovavano lungo
le pareti o in mezzo alla stanza, sia impilati l’uno sull’altro sui tre grandi
tavoli sui quali vi erano, oltre ai libri, anche alambicchi, provette e fogli
sparsi.
«Che posto è questo?» domandò
Sanae, interdetta come i suoi compagni
«Si direbbe una sorta di studio.»
rispose Koichi «Di certo qui veniva praticata la magia».
Erik si mise subito alla ricerca di
qualche indizio tra le montagne di libri e i suoi compagni ben presto fecero
altrettanto; nessuno sapeva bene cosa stessero cercando, ma già il fatto di
aver trovato quel posto poteva considerarsi una conquista non indifferente. Era
la conferma che stavano andando nella direzione giusta, che Clow era davvero
passato da quei luoghi e che forse, proprio come diceva Koichi, aveva
intenzionalmente lasciato delle briciole dietro di sé per permettere ad altri
di seguire le sue orme.
«Maestro.» domandò Koichi
sfogliando un libro del quale, viste le sue scarse conoscenze di magia,
riusciva a capire molto poco «Voi che cosa sapete di questo Clow?»
«Solo quello che si dice di lui.»
rispose il ragazzo consultandone un altro «Pare fosse un mago di classe
superiore, con capacità inarrivabili per chiunque. Praticava una magia strana,
per non dire bizzarra, che aveva creato fondendo tra di loro varie arti di
negromanzia dalle origini più disparate.»
«Una cosa non da tutti, suppongo.»
«Infatti. Le sue conoscenze
dovevano essere davvero enormi, e ugualmente il suo potere, o non sarebbe mai
stato capace di fare niente del genere.»
«Nobile
Erik.» disse Sanae dopo aver srotolato una pergamena piuttosto grande riposta
su di uno sgabello «Venite a vedere. Qui c’è qualcosa di strano.»
Il ragazzo si avvicinò, e lei gli
porse la pergamena: era piena di lettere runiche e simboli arcani accompagnati
da una serie di illustrazioni, tra le quali la raffigurazione di quello che
sembrava uno scettro, o una sorta di bacchetta magica.
«Questa lingua… è simile a quella usata
dai progenitori degli elfi. Assomiglia al norreno, ma sembra più antico. Non mi
riesce di decifrare tutto.»
«Riuscite a capire di cosa si
tratta?»
«Ha tutta l’aria di essere il
progetto di un qualche incantesimo. Fa riferimento ai quattro elementi, alla
luce e alle tenebre. Poi parla di un simulacro, o una sorta di contenitore
utilizzabile da un mago per implementare i suoi poteri.»
«Questa sembra una carta.» disse
Lily indicando una figura
«Una carta?» ripeté Sanae «Come una
carta da gioco.»
«Qualsiasi cosa stesse studiando
Clow, di certo non si trattava di un gioco.» rispose Erik.
Poco dopo, nell’istante in cui il
ragazzo ci passò vicino, una sorta di semisfera di vetro scuro circondata da un
anello metallico largo e basso che spuntava dal pavimento si illuminò, e sopra
di essa, come per magia, comparve l’immagine evanescente di un uomo sulla
trentina con lunghi capelli neri raccolti in una coda e due piccoli occhi scuri
nascosti da un paio di lenti da vista; indossava una lunga tonaca nera da stregone
e un pesante mantello anch’esso nero chiuso sul davanti con una corda di seta
gialla.
Erik non l’aveva mai visto, ma lo
riconobbe subito.
«È lui.» disse.
Istintivamente, Koichi mise la mano
sull’impugnatura della katana, ma Erik lo richiamò.
«Fermo. È solo un ologramma.»
«Nobile Erik.» disse Sanae «Questo
è…»
«Sì. È Clow.»
«Ho programmato questo messaggio perché
sia visualizzabile solo da un mio discendente.» disse l’immagine, chiaramente
una registrazione realizzata chissà quanto tempo prima.
Un suo discendente, pensò Erik. Lui
non lo era, ma Toshio sì; probabilmente il computer aveva reagito alla sequenza
genetica di Erik, simile per buona parte a quella del suo creatore.
«Non so che cosa ti abbia condotto
fin qui, o come tu ci sia arrivato, ma sono felice di poter condividere con
qualcuno ciò che ho scoperto.
Perdonami se non potrò rivelarti subito
ogni cosa, ma ti anticipo fin da ora che lascerò un messaggio simile a questo
in ogni luogo di questo continente che sceglierò come terra di nuovi studi,
cosicché le mie conoscenze non vadano perdute, e che la vera storia della
nostra gente possa essere preservata.
Ma ora, veniamo a noi.
Da quando, molti secoli fa,
accettai di riacquistare la forma umana, sapevo fin dall’inizio che ciò che
stavo facendo sarebbe stato considerato un atto di tradimento. I miei fratelli
non perdonano chi viola le loro sacre leggi, e anche se io sono uno dei saggi
più stimati e rispettati del nostro popolo questo non muterà il giudizio che
decreteranno per me nel momento in cui scopriranno che cosa ho fatto.
La mia gente ha sacrificato molte
cose per arrivare dove si trova adesso, e anche se la maggior parte di loro non
si sono pentiti delle scelte che hanno fatto, e hanno accettato di vivere
sottoposti a regole tanto severe, altri invece hanno compreso ben presto che la
nostra non poteva dirsi vera vita.
È per questo che alcuni di noi, fin
dai tempi più antichi, scelsero di cercare un modo per riottenere ciò che
avevamo perduto.
Io ero uno scienziato, oltre che un
grande mago, e scelsi di stare dalla parte di coloro che volevano tornare indietro,
ma più di ogni altro capii che non sarebbe stata un’impresa facile.
Il fatto è che il nostro sapere era
così grande che anche nella nuova forma che avevamo ottenuto ci sarebbe stato
impossibile padroneggiarlo nella sua interezza. Così, lo abbiamo frammentato, e
ognuno di noi ne possiede una piccola parte, come una sorta di gigantesco
mosaico che visto nel suo insieme forma una gigantesca figura.
La mia parte si era rivelata insufficiente
per ciò che intendevo realizzare, e non potevo certo chiedere aiuto a coloro
che consideravano le nostre ricerche un’eresia.
Perciò, tutti insieme abbiamo
capito che la sola cosa da fare era tornare momentaneamente indietro, e
ricercare con i nostri stessi occhi tra i resti di ciò che il nostro popolo
aveva lasciato dietro di sé in milioni di anni di storia su innumerevoli mondi
e dimensioni ciò che poteva realizzare i nostri sogni.
Ho fatto svariati tentativi, ogni
volta su di un mondo diverso, ma ogni volta le mie ricerche si rivelavano
infruttuose.
Poi, sono giunto qui.
Questo mondo era molto importante
per noi. È qui che noi, semplici mortali, abbiamo cercato di tramutarci in
esseri divini.
È qui che abbiamo creato la vita.
Molte delle creature che popolano
questo mondo sono il frutto dei nostri studi, delle nostre ricerche.
È stato qui che la mia ricerca ha
avuto successo. È stato qui che ho ritrovato i resti dell’antico Progetto Arca.
Quando ancora tutti noi avevamo una
forma fisica, prima di scegliere la soluzione estrema, ci affannammo a cercare
un modo per creare un corpo più capace e resistente del nostro. Gli abitanti di
questo mondo, con le loro diversità fisiche, psichiche e cognitive sono i vari
tentativi che facemmo di preservare la nostra essenza senza dover rinunciare
alla nostra natura di esseri viventi.
Nessuno di essi a suo tempo
costituì la soluzione ai nostri problemi, ma nessuna delle creature che abbiamo
creato si avvicina di più alla nostra fisionomia e rispecchia da vicino la
nostra natura come quelli che in questo mondo chiamano gli elfi.
Gli Elfi di categoria A, in
particolare, sono quelli che hanno maggiormente attirato la mia attenzione:
erano longevi, anche se non quanto i loro simili di categoria B, dotati di un grande
potere, e capaci di ospitare nelle loro menti superiore un vastissimo
quantitativo di sapere.
Fu solo per i loro spiriti
particolarmente sensibili, che li rendeva vulnerabili alla magia, che furono
considerati un fallimento, ma io sono convinto che riprendendo in mano il
progetto e applicandovi le nuove conoscenze che abbiamo acquisito, esso potrà
costituire la soluzione che andiamo cercando.
Purtroppo, con l’andare dei secoli,
il genoma originale si è perduto, oscurato dal mescolamento tra i membri delle
due categorie, ma forse non tutto è perduto.
Da qualche parte, in questo
continente orientale, devono esservi per forza i resti dei laboratori dove
venivano condotte le ricerche, e sono quasi sicuro che lì potrò recuperare una
sequenza del codice genetico primario.
Per questo sto seguendo a ritroso le
loro antiche rotte di migrazione; è probabile che la loro prima civiltà si sia
sviluppata attorno al luogo dove essi vennero creati, pertanto, continuando a
procedere lungo questa strada, sono certo di poter finalmente trovare ciò che
sto cercando.
Purtroppo, non mi resta molto
tempo.
Anche questo corpo, così come tutti
gli altri che ho avuto finora, sta inesorabilmente morendo, schiacciato dalla
conoscenza che porta dentro di sé.
Devo fare in fretta.
Troppe cose sono state sacrificate
per arrivare fin qui. Troppe esistenze distrutte. Non può e non deve essere
stato tutto vano».
Clow abbassò lo sguardo; e a quel
punto l’ologramma cominciò a dissolversi fino a scomparire, lasciando tutti,
Erik compreso, con le bocche socchiuse e la mente attanagliata da mille
domande.
Nota dell’Autore
Salve a tutti!^_^
Sono tornato, anche
se alla luce del periodo di continue fatiche che mi sto trovando ad affrontare
non immaginavo che sarebbe accaduto così presto.
Lo so, questo
capitolo può sembrare incasinato come pochi altri, ma vi assicuro che al suo
interno troverete più risposte di quante potreste immaginare.
A questo punto, non
credo ci sia bisogno di dire questa storia è un Crossover con i tre più famosi
manga delle CLAMP, ovvero Card Captor
Sakura, Tsubasa Reservoir Chronicles
e XXXHolic.
«Che cosa…» disse sconcertato Koichi «Che cosa era
quello?»
«Nobile Erik, voi avete capito
qualcosa?» domandò Sanae.
Lui non rispose; effettivamente sì,
qualcosa aveva capito, ma proprio per questo era ancor più sconvolto dei suoi
compagni di viaggio.
Aveva iniziato quel viaggio nella
speranza di sollevare il velo sul Menos Adelos e poter capire una volta per
tutte la natura del suo potere, ma di fronte a ciò che aveva appena visto le
risposte di cui era alla ricerca sembravano essere solo una goccia nell’oceano
a paragone di ciò che avrebbe potuto scoprire andando avanti.
Ora capiva il significato
dell’avvertimento di Hyldren; Clow custodiva molti più segreti di quanti un
semplice mortale fosse autorizzato a scoprirne, e lo stesso si poteva dire di
quel mondo, che a quanto pare aveva attirato la sua attenzione più di tutti gli
altri nei quali era sicuramente già stato.
Chi o che cosa era in realtà
quell’uomo?
Non si trattava di un semplice
essere umano, questo era poco ma sicuro.
Diceva di aver vissuto innumerevoli
vite, e di aver memoria di ognuna di esse, una cosa impossibile per le anime
dei viventi, che passano di vita in vita dimenticavano del tutto o quali i
ricordi delle precedenti.
A sentire le sue parole, doveva
trattarsi del rappresentante di una qualche razza le cui origini erano ben più
antiche di quelle dell’Uomo, una razza in possesso con ogni probabilità di un
potere magico e di una tecnologia al cui confronto Shinari poteva dirsi all’età
della pietra.
«Non so che cosa ci sia sotto»
disse Lily «Ma questa storia non mi piace neanche un po’.»
«Maestro, secondo voi da dove
veniva quest’uomo?»
«Non ne ho idea. Ma ora sappiamo
perché stava viaggiando.»
«Ha detto che tutti gli abitanti di
questo mondo sono stati creati dalla sua gente.» disse Sanae abbassando gli
occhi «Quindi… anche noi?»
«Questo messaggio ci ha portato più
domande che risposte. Ha detto che stava cercando un modo per riottenere un
vero corpo, quindi è evidente che quelli come lui un vero corpo non lo
possiedono più.»
«Ma come è possibile?» disse Koichi
«Un’anima non può vivere senza un corpo.»
«Un’anima normale sicuramente no.
Ma questi esseri erano tutto fuorché normali.»
«E adesso cosa facciamo?» chiese
Lily
«Andiamo avanti, mi sembra ovvio.»
«Sembra assurdo.» disse Sanae
stringendosi forte, come se avesse freddo «Ma ho paura di quello che potremmo
scoprire.»
“Quest’uomo sapeva molto più di
quello che voleva far credere.” pensò Erik “E chiunque fosse, o qualsiasi cosa
stesse facendo, sono certo che è legato in qualche modo a quello che sto
cercando. E io non mi darò pace fino a che non avrò scoperto ogni cosa”.
Un’altra cosa che aveva lasciato
Erik interdetto era stata la frase di apertura dell’ologramma: Ho programmato questo messaggio perché sia
visualizzabile solo da un mio discendente.
Quindi, si disse, Toshio non era
l’unico discendente di Clow. Non avendo più il suo corpo originale Toshio
probabilmente non aveva più alcun legame di sangue con il suo vero padre, ma
chissà quanti altri eredi di Clow popolavano le innumerevoli dimensioni
parallele.
Chissà, forse aveva generato un
figlio per ogni vita che aveva vissuto, ma per qualche motivo Erik non riusciva
a dare un senso a questo suo comportamento: guardandolo così, leggendo i suoi
occhi, Clow gli era sembrato un uomo che ragionava in maniera fredda,
calcolata, e che basava le sue azioni unicamente in previsione del fine che gli
premeva raggiungere.
Forse ciò era dovuto alla sua
condizione non più umana, e forse le sue molte vite, per quanto brevi, gli
avevano fatto riscoprire la sua umanità, e la gioia che veniva dal mettere al
mondo un figlio. Tuttavia, anche così, la questione non aveva apparentemente
senso: perché generare un figlio se sapeva che sarebbe morto prima di poter
assaporare le gioie dell’essere padre?
A ben pensarci, forse si trattava
di uno dei tanti tentativi di creare quel nuovo corpo di cui lui e altri come
lui sembravano avere un disperato bisogno: un figlio nato da lui avrebbe avuto
molte più somiglianze con i suoi simili di un comune essere umano, risultando
in questo modo un importante banco di prova, e forse, a forza di mettere al
mondo eredi con il suo stesso patrimonio genetico, avrebbe trovato la giusta
combinazione in grado di dar vita ad una nuova generazione di esseri viventi.
Se questo era davvero il fine che
lo aveva spinto ad avere figli, allora, pensava Erik, quell’uomo era
assolutamente privo di ogni senso della morale.
Però, a guardarlo negli occhi, a
vedere quella sua espressione determinata ma gentile, non gli era parso il tipo
di persona che, per quanto determinata a raggiungere il suo scopo, si sarebbe
abbassata a tanto. Aveva lasciato quel messaggio per i suoi discendenti, nella
previsione che sarebbero sopravvissuti, quindi probabilmente vedeva in loro
qualcosa di più che semplici cavie da laboratorio. Perciò, alla luce di questo,
gli veniva da chiedersi per quale motivo avesse voluto mettere al mondo così
tanti eredi.
Ma, un momento!
C’era qualcosa che non tornava!
Il messaggio si era attivato per
Erik perché la sua struttura genetica era quasi una fotocopia di quella di
Toshio, che era indubbiamente il figlio di Clow. Ma, come aveva detto tra sé e
sé solo pochi istanti prima, il vero corpo di Toshio, quello generato dal
ventre di una donna che aveva giaciuto con Clow, era andato perduto ormai più
di due millenni prima, per essere sostituito da un altro creato artificialmente
e rimaneggiato più e più volte nel corso dei secoli.
Quindi, in linea teorica, non
dovevano esserci più i geni di Clow nel corpo di Toshio, e di conseguenza
nemmeno nel suo, eppure il messaggio si era attivato.
Forse c’entrava qualcosa la
misteriosa figura di luce che lo aveva condotto a scoprire quel luogo, o forse
non era lui la persona del gruppo che poteva vantare il patrimonio genetico di
un erede di Clow.
Si girò a guardare i suoi compagni,
ancora attanagliati dalle domande e in evidente sovrappensiero: uno di loro
doveva essere egli stesso un discendente di Clow, il problema era capire chi.
Lily, essendo una fata, era al di
sopra di ogni sospetto, ma altrettanto non si poteva dire per Koichi e Sanae.
Koichi, venendo da quell’oriente
verso il quale il mago si era diretto, era un buon candidato, ma a prima vista
non gli sembrava di scorgere nessuna somiglianza a livello somatico tra lui ed
il suo probabile antenato.
Sanae era una Inu, quindi le
probabilità erano ancora minori, ma c’era da dire che accoppiamenti tra umani
ed Inu non erano certo una cosa rara, soprattutto a oriente; inoltre gli Inu,
proprio come gli elfi, avevano conosciuto la loro prima civilizzazione
nell’estremo est, e solo successivamente, attraverso varie migrazioni, erano
giunti a Europia.
Improvvisamente un rumore concitato
di passi lungo le scale distrusse la sua riflessione, e i tre ragazzi,
voltatisi di scatto, videro comparire dal buio la piccola Li-Lang sporca,
tremante e terrorizzata.
«Aiuto!»
«Li-Lang!» disse Sanae correndo da
lei.
Sembrava che avesse visto non uno,
ma un esercito di fantasmi, tanto appariva sconvolta; i suoi occhi erano
carichi di terrore, il suo bel vestito sporco di fango e aveva ferite da caduta
su braccia e gambe: doveva aver corso senza sosta per l’intera foresta, e
probabilmente era stato solo per caso che aveva trovato il passaggio.
«Che cosa è successo?» domandò
Koichi
«L’accampamento! I miei genitori! Il
nonno!» continuava a gridare.
Erik e il suo discepolo si
guardarono sconcertati e preoccupati, poi, quasi insieme, corsero su per le
scale. Sanae si attardò un momento per cercare di calmare Li-Lang, e quando la
bambina, confortata dalle parole dolci e rassicuranti di quella che fin dal
primo momento aveva preso a considerare come una sorta di sorella maggiore,
smise almeno un po’ di piangere e singhiozzare, la prese in braccio,
promettendole che sarebbe andato tutto bene.
Accompagnate da Lily, Sanae e Li-Lang
abbandonarono a loro volta il rifugio, e come raggiunsero nuovamente l’esterno
trovarono Erik già con la spada in mano; davanti a lui, Kori, pronta ad
affrontarlo per la seconda volta.
Di Koichi neanche l’ombra:
probabilmente era tornato all’accampamento per proteggere Fae-Yang e gli altri.
«Nobile Erik.»
«Sanae, torna all’accampamento.
Porta Li-Lang al sicuro.»
«Ma… ma io…»
«Lei non ti farà niente.» disse
riferendosi a Kori «Vai, ora. Ci sarà bisogno della tua abilità. Sai di cosa
parlo».
Sanae esitò: non le piaceva l’idea
di abbandonare Erik alla mercé di quella che, per quanto apparentemente
onorevole e degna di rispetto, era pur sempre una nemica, ma d’altra parte era
preoccupata anche per Koichi, e visto che, a giudicare dall’esperienza, era quest’ultimo
quello dei due che correva i rischi più grossi, alla fine scelse di obbedire.
Lei e Lily Corsero via, e come
predetto Kori non fece nessun tentativo di fermarle, lasciando che se ne
andassero: il suo obiettivo era solo Erik, e niente altro.
«E così sei tornata.»
«Ti avevo promesso che ci saremmo
rivisti.»
«Capiti a fagiolo. Ci sono giusto
un paio di cose su di te che mi piacerebbe approfondire.»
«Ti rinnovo la mia richiesta. Vieni
con noi. Abbiamo bisogno del tuo potere.»
«La mia risposta l’hai già avuta. E
quello che ho appena scoperto qui non ha fatto altro che invogliarmi a
proseguire nel mio scopo.»
«Allora, come ho detto la prima
volta, non ho altra scelta che costringerti».
Kori fece roteare il suo bastone.
«E non illuderti. Stavolta non sarà
così facile costringermi alla ritirata.»
«Non ne avevo dubbio.» replicò
calmo il ragazzo, e i due si corsero incontro, dando inizio al loro secondo
scontro.
Intanto, all’accampamento, Fae-Yang e i suoi compagni
erano vittime della brutalità di Zant, che a differenza di Kori provava un
sadico piacere nel suscitare terrore nelle sue vittime.
Alto e magro, aveva un aspetto
leggermente trasandato, capelli bianchi terribilmente spettinati, occhi azzurri
dall’aria malevola e una pelle insolitamente pallida. Indossava un’armatura
leggera di colore blu notte, dove abbondavano anelli, borchie e altre parti
metalliche, con spalline piuttosto pronunciate, lunghi gambali che arrivavano
alla coscia e un paio di guanti corazzati. Le dita delle sue mani, lunghe e
sottilissime, terminavano in un affilati artiglio ricurvi che poteva estendere
e ritirare a suo piacimento e che potevano andare dai due agli oltre venti
centimetri di lunghezza.
Il compito di cercare Erik
nell’accampamento era stato affidato a lui, o meglio, se lo era preso,
lasciando a Kori, che nella gerarchia dell’organizzazione lo superava per così
dire, l’onere di cercarlo nei dintorni.
Piombato dal nulla come un demonio
infernale, aveva iniziato a distruggere qualsiasi cosa gli capitasse a tiro,
giocando con la gente terrorizzata che cercava di scappare come un gatto in una
colonia di topi, e chiunque venisse disgraziatamente a trovarsi alla sua mercé
finiva irrimediabilmente trafitto o sfregiato.
Zant, per abitudine, non uccideva
sul colpo; le ferite che provocava erano gravi, e quasi sempre mortali, ma
studiate in modo da provocare una lenta e dolorosa agonia.
D’un tratto a finire nella sua di
tiro fu Sae-Nang, che lasciata inavvertitamente la mano del marito inciampò su
di una cassa; risollevato lo sguardo vide quel mostro sovrastarla: sorrideva
malvagiamente, le sue mani e le sue dita erano sporche di sangue, che leccava e
gustava come un vampiro affamato.
«Che bel visino che hai.» disse,
poi ghignò da far tremare di paura «Lo posso sfregiare?»
«Lasciala stare!» gridò una voce, e
subito dopo Koichi, sbucato dall’oscurità, intercettò gli artigli del nemico
con la sua spada, costringendo l’aggressore ad allontanarsi
«E tu chi diavolo sei, moccioso?»
«Tieni le tue sporche mani lontano
da queste persone.» disse il ragazzo.
Nello stesso momento arrivarono
anche Sanae, Lily e Li-Lang, che si tennero tuttavia a debita distanza.
«Nobile Sanae, voi e Lily pensate
ai feriti.»
«Vi prego, nobile Koichi, fate
attenzione.»
«Non ti conviene metterti contro di
me, ragazzino. Lo dico per il tuo bene.»
«Chi siete? Che cosa volete?»
«Questo non ti deve riguardare».
Koichi piantò bene i piedi a terra
e alzò la spada, mostrando chiaramente la propria intenzione a combattere.
«E va’ bene.» disse Zant allargando
le braccia «Se vuoi suicidarti, affar tuo. C’è ancora tempo, e io mi stavo
annoiando.» quindi si mise a sua volta in posizione «Prego. A te la prima
mossa».
Una delle prime cose che Koichi
aveva imparato nel suo viaggio con Erik era di non essere avventato:
l’avventatezza poteva costare cara, e contro un avversario come quello, dotato
di un potere tanto grande da essere avvertibile anche dal più inetto dei
guerrieri, era del tutto bandita.
La prima cosa che il ragazzo decise
di fare fu osservare con attenzione il nemico per poter comprenderne le abilità
e impostare così una strategia efficace.
Tanto l’aspetto quanto le armi che
usava, per quanto isolite, testimoniavano che Zant faceva dell’agilità il
proprio punto di forza, e anche la sua forza fisica con molta probabilità non
era da meno; probabilmente sfoggiava uno stile di lotta basato su attacchi
rapidi e continui, destinati a ferire ripetutamente l’avversario in modo da
indebolirlo per poi infliggere, casomai, il colpo di grazia.
L’unica cosa da fare era restare
sulla difensiva in attesa dell’occasione propizia, e quindi colpire con
precisione; tuttavia, nonostante ciò, Koichi decise comunque di fare la prima
mossa, se non altro per provocare la reazione del nemico e avere subito un’idea
di come avrebbe combattuto.
Il ragazzo si lanciò all’attacco e
menò un fendente, che Zant evitò senza difficoltà saltando all’indietro per poi
decidersi finalmente a rispondere. Le sue unghie, o meglio, i suoi artigli,
erano incredibilmente più duri di quelli di un comune essere umano o di qualsiasi
bestia: resistenti come l’acciaio, potevano allungarsi e ritirarsi ad una
velocità impressionante, e potevano funzionare sia come arma d’attacco sia come
efficace strumento di difesa.
La katana di Koichi, per quanto
affilata e ben tenuta, non sembrava capace di scalfirli, e ben presto il
giovane guerriero, nonostante la sua strategia attentamente pianificata,
cominciò a sentire sempre più il peso della minore esperienza.
«Mi sto annoiando, ragazzino.»
disse ad un certo punto Zant «È tutto qui quello che sai fare?».
Il suo fiato corto parlava per lui.
«Che c’è? Non dirmi che sei già
stanco. Abbiamo appena iniziato.»
«Niente affatto.» replicò
falsamente il ragazzo
«Del resto come biasimarti. Quel
bel visino pulito e quel corpicino gracile non sono certo quelli che mi
aspetterei da un guerriero.»
«Che cosa hai detto!?»
«Non parliamo poi del tuo talento.
Del tutto trascurabile».
Punto sul vivo Koichi commise
l’imprudenza di attaccare d’istinto con un affondo feroce, ma Zant prima evitò
e poi rispose con un colpo verticale che colpì il ragazzo in pieno volto.
Vedendo gli artigli del nemico
chiazzarsi di rosso e uno schizzo di sangue cadere a terra Sanae temette il
peggio, e il suo cuore minacciò di fermarsi.
«Nobile Koichi!».
Il giovane gridò dal dolore, il che
se non altro testimoniava il fatto che non era morto, e menando un fendente a
casaccio riuscì ad allontanare il nemico per poi barcollare vistosamente
all’indietro tenendosi con la mano sinistra il volto insanguinato.
Per un vero miracolo l’attacco di
Zant turante l’esecuzione aveva cozzato contro la spada, il che aveva diminuito
sia la profondità che la forza del colpo; l’occhio sinistro era salvo, ma
sarebbe sicuramente rimasta una cicatrice.
«Nobile Koichi!»
«Sto bene.» rispose lui togliendosi
un po’ di sangue dal volto.
Zant approfittò dell’occasione per
muovere un secondo attacco, ma vuoi per la sicurezza con cui era convinto di
poter avere il sopravvento vuoi per un’inaspettata, violenta e magistrale
reazione del suo avversario, Koichi prima si spostò velocissimo e poi, mentre
la sua spada, per qualche istante, prendeva a circondarsi di un bagliore
infuocato, mozzò di netto la mano destra dell’assalitore.
Lily non perse tempo e scagliò Zant
lontano con una bomba di vento, quindi lei e Sanae poterono avvicinarsi a
Koichi, che per la stanchezza e la fatica cadde in ginocchio sorreggendosi alla
spada.
«Nobile Koichi, come vi sentite?»
«Tranquilla, è tutto a posto.»
rispose lui per rassicurarla, ma il suo digrignare di denti non lasciava spazio
a dubbi
«Aspettate».
Sanae, inaspettatamente, passata la
mano sul volto del ragazzo evocò un incantesimo che richiuse la ferita al volto
fermando l’emorragia e salvando così il fisico già debilitato di Koichi da
conseguenze più serie.
«Nobile Sanae, voi possedere
abilità di guarigione!?» disse lui colpito
«Beh, più o meno. Le ho sempre
avute, almeno per quello che riesco a ricordare, ma sono ancora ben lontana dal
padroneggiarle.»
«Parlando di te, Koichi.» disse
Lily «Da quando sai usare la magia?»
«Come!?» domandò confuso il ragazzo
«Non ve ne siete accorto?» disse
Sanae «D’improvviso la vostra spada è stata come avvolta da un forte bagliore
rosso fuoco.»
«Io… io non ne ho idea. Ho solo
cercato di fare del mio meglio, pensando che se avessi fallito sarei sicuramente
morto».
Un mugolio sommesso fece girare
nuovamente i due ragazzi e Lily verso Zant, che rimaneva inginocchiato a terra
tenendosi il moncone con tutte le sue forze. Una ferita così grave avrebbe
dovuto lasciarlo stremato, e invece non solo la perdita di sangue appariva
esigua, ma addirittura, più che un esternazione di dolore, quella del nemico
sembrava una malvagia risata.
E difatti, quando rialzò lo
sguardo, il suo volto era segnato da un ghigno malvagio.
«Mi hai fatto male, lo sai?»
«Arrenditi.» disse Koichi «Ormai
per te è impossibile continuare a combattere.»
«Ne sei sicuro?»
«Cosa!?».
Zant mostrò la sua orrenda ferita,
e di colpo dall’interno di questa giunse una forte luce azzurra; poi, come per
magia, le ossa presero a riformarsi, e così pure i muscoli, la pelle e le
unghie, finché l’intera mano non venne letteralmente ricostruita, sana e
perfetta come se nulla fosse accaduto.
«Ma che cosa…» esclamò Koichi
sconcertato
«Non è possibile.» disse Sanae «La
sua mano… si è riformata.»
«Mi dispiace, ma dovrai fare molto più
di questo per impensierirmi.»
«Questo… questo è incredibile.»
disse Lily.
Intanto, nei pressi del laboratorio sotterraneo, lo
scontro tra Erik e Kori procedeva a ritmo sostenuto; tuttavia, malgrado la
ragazza avesse indubbiamente migliorato le proprie abilità dall’ultima volta
che i due si erano affrontati la bilancia pendeva ancora in favore di Erik.
Kori se ne avvide, e forse avrebbe
anche potuto fare qualcosa per riequilibrare la situazione, ma dopo poco una
voce maschile all’interno della sua testa le ordinò di fermarsi e rientrare, e
lei, senza pensarci un istante, obbedì.
«Basta così.» disse dopo che, nel
corso dell’ultimo attacco, lei ed Erik si erano vicendevolmente colpiti con un
incantesimo, venendo lanciati a parecchi metri di distanza l’uno dall’altra
«Anche per questa volta mi ritiro.»
«Mi pare evidente che non ti sei
impegnata al massimo delle tue potenzialità. Per quale motivo?»
«Non era ciò che mi era stato
ordinato di fare. Anche se, devo ammetterlo, credevo che mantenendomi a questo
livello sarei stata più che capace di tenerti testa.
Ti avevo sottovalutato.»
«In questo caso, aspetterò che tu
sia disposta a fare sul serio, e quando accadrà io farò altrettanto.»
«Ti avverto, la nostra offerta non
sarà valida in eterno. Se continuerai a rifiutarla, saremo costretti a prendere
misure definitive.»
«Te l’ho già detto, io al momento
ho altri obiettivi da raggiungere.»
«In questo caso, temo che il nostro
prossimo incontro sarà destinato a concludersi con la morte di uno di noi due.
A presto».
Kori a quel punto scomparve
inghiottita da una colonna di luce, e come Zant, ancora impegnato in battaglia
con Koichi, vide la medesima colonna sollevarsi da un punto imprecisato della
pianura circostante, capì che anche per lui era venuto il momento di ritirarsi.
«D’accordo, per oggi basta così.»
disse allargando le braccia «Peccato sia finito così presto. Cominciavo quasi a
divertirmi.
Lo ammetto, ragazzino, un po’ mi
hai sorpreso.
Aspetterò il nostro prossimo
incontro, e non credere che ti andrà ancora così bene».
Koichi era abbastanza saggio e
stanco da non fare alcun tentativo di ostacolare il suo avversario mentre
questi, con l’agilità di una tigre, spiccando un altissimo salto scompariva
inghiottito dalle tenebre.
Rimasto solo Erik tornò
all’accampamento, dove assieme a Lily e a Sanae si adoperò per prestare
soccorso ai feriti.
« Vi siamo doppiamente
riconoscenti.» disse Fae-Yang « Se non fosse stato per voi, quegli uomini ci
avrebbero sicuramente uccisi. Non sappiamo davvero come ringraziarvi.»
«Non scherziamo!» disse Lily con la
sua solita irruenza «Quegli esseri erano tutto meno che uomini! Ad un uomo
normale la mano non ricresce come la coda di una lucertola!»
«Lily ha ragione, maestro. Il
guerriero contro cui ho combattuto io non era un semplice essere umano. Gli ho
amputato una mano in combattimento, ma in pochi secondi ne ha avuta un’altra a
sostituirla.»
«Non avevo mai visto niente del
genere.» disse Sanae «Era… spaventoso.»
«Voi avete idea di chi fossero?»
domandò Koichi.
Fae-Yang e i suoi compagni
inizialmente non risposero, ma si vedeva dai loro sguardi che avevano paura,
una paura dettata non solo da ciò che avevano appena vissuto, ma anche,
all’apparenza, da qualcos’altro.
Erik se ne avvide.
«Voi li conoscete, non è vero?»
«Quelli» disse il vecchio guardando
in basso «Sono Suura.»
«Suura?» ripeté Koichi allibito «Allora
è vero che esistono ancora.»
«Mostri.» rispose Ba-Ling con astio
evidente «Mostri con sembianze umane.»
«Ho sentito parlare di loro.» disse
Sanae «La nonna diceva che sono dotati di poteri magici di molto superiori a
quelli di un comune essere umano.»
«Hanno portato dolore e distruzione
in questo continente per centinaia di anni.» disse Sae-Nang «Molti imperi sono
stati spazzati via dalla loro furia devastatrice, e molti altri hanno
combattuto guerre terribili per riuscire a sconfiggerli.»
«Molti secoli fa» disse Koichi, che
conosceva il mito, ma che mai avrebbe immaginato di saperlo reale «I Suura e
gli Umani vivevano in pace nel reciproco rispetto. Un brutto giorno però i
Suura, forti del loro potere, cercarono di sottomettere l’intero continente. La
forza congiunta di tutte le nazioni umane si rivelò troppo grande persino per
loro, e furono spazzati via dopo la distruzione della loro capitale, Ethura.
Si credeva che fossero stati del
tutto sterminati, ma una decina di anni fa si è scoperto che invece
sopravvivevano ancora, raggruppati in piccoli gruppi o mascherati tra gli umani.»
«E di quando in quando, tornano a
minacciarci.» disse Fae-Yang con una rabbia che stonava non poco con la sua proverbiale
gentilezza «Per noi non ci sarà pace fin quando non scompariranno una volta per
sempre.
State in guardia, nobile Erik. Se quegli
esseri immondi vi hanno preso di mira, per voi si prospettano tempi duri».
Erik non sembrò prestare eccessiva
importanza alla cosa, anche se era costretto ad ammettere che quel loro potere
così singolare se non altro lo incuriosiva. Cose di quel tipo attiravano da
sempre la sua attenzione, e forse, visto l’interesse che questi Suura
sembravano provare per lui, prima o poi sarebbe riuscito a sollevare il velo
anche su quel mistero.
In ogni caso, ancor prima dell’ormai
imminente sorgere del sole, lui e i suoi compagni si rimisero in marcia alla
volta del monastero di Chang-Du, dove, ed Erik ne era sicuro, sarebbero emerse
nuove risposte».
Akita, dopo aver tentato di inseguire Zak-Ner dopo che
questi si era impossessato della gemma destinata ai vincitori dei grandi giochi
di Munda, ma dopo essere riuscita a stargli dietro fin oltre le mura della
città era stata costretta a confrontarsi con un manipolo di robot che il
sacerdote le aveva lanciato contro, e nel tempo che aveva impiegato a sbrigare
la questione questi era riuscito a svignarsela.
Aveva seguito le sue tracce per
alcuni chilometri verso sud, ma alla fine, irrimediabilmente, lo aveva perso, e
dopo quella lunga deviazione le ci era voluto parecchio tempo per ritrovare
Regis e il suo gruppo, che continuava a seguire tenendosi a debita distanza.
Facendo un rapido calcolo, non si
poteva che la sua missione fino a quel momento fosse stata condotta nel
migliore dei modi: non era riuscita a passare inosservata, aveva subito gli
eventi invece di realizzarli, e tutti i suoi tentativi di recuperare una o più
gemme si erano concluse con un penoso buco nell’acqua.
Da un momento all’altro si
aspettava di essere sollevata dall’incarico e rispedita a Galinne, ed era
proprio questo quello che temeva di sentirsi dire quando Lainay la contattò per
l’ennesima volta una mattina di primavera mentre lei, uscita da una notte quasi
insonne, tentava di risvegliasi gettandosi in faccia un po’ di acqua del
ruscello accanto al quale si era accampata.
Invece, a sorpresa, la regina si
rivelò più comprensiva del solito, pur riservandosi di commentare che raramente
Akita aveva tenuto una prestazione così poco convincente nei precedenti
incarichi che le erano stati affidati.
Dapprincipio la giovane elfa pensò
di potersela cavare, ma la stangata alla fine arrivò, e proprio nel momento in
cui Akita si era davvero convinta di averla scampata.
«Ho mandato uno dei miei uomini
migliori a darti supporto. Dovrebbe averti quasi raggiunto.»
«Uno dei vostri uomini migliori!? Di
chi si tratta?»
«Lo scoprirai quando arriverà. Attendo
vostre notizie molto presto.
Ah, e Akita.»
«Sì, mia signora?»
«Da questo momento, basta con la
discrezione. Passate alle vie di fatto.»
«Sì, vostra maestà».
Conclusa la comunicazione Akita
spense il proiettore olografico e se lo rimise in tasca, iniziando subito ad
interrogarsi sull’identità di questa misteriosa spia che sarebbe venuta ad
aiutarla a compiere la missione.
Pregò ogni dio che conosceva che
non si trattasse di Lsyn; con quella micronana grande quanto un fagiolino che
per vederla dovevi usare una lente d’ingrandimento non era mai andata d’accordo,
e ogni volta che si erano viste avevano sempre finito per litigare.
Tuttavia, scartò subito quell’ipotesi:
aveva saputo anche lei quello che era successo all’Ombra, e di certo le ci
sarebbe voluto ben più di qualche mese per riprendersi e poter tornare a
svolgere un qualunque tipo di incarico.
Il suo cuore palpitò al pensiero
che potesse trattarsi di… lui. Sarebbe stata l’elfa più felice del mondo. Ma anche
quello, dovette ammetterlo, era impossibile. Da tempo aveva abbandonato le
missioni sul campo, e ormai si dedicava unicamente all’attività di insegnante
per le future generazioni di spie.
D’un tratto, mentre era tutta presa
a valutare ogni possibile candidato, avvertì una presenza alle proprie spalle,
e le bastò percepire la grazia di quei passi per capire che si trattava della
persona che stava aspettando.
«Da non credere. Voi marmocchi di
mezza tacca, in un modo o nell’altro, riuscite sempre a trovare nuovi modi per
deludermi».
Un brivido le corse lungo la
schiena nell’istante in cui udì quella voce.
No. Questo no.
Tutto ma non questo.
Neppure nei suoi incubi peggiori
avrebbe mai immaginato di dover lavorare proprio con… con lui.
Persino Lsyn sarebbe stata meglio a
quel punto.
Dovete fare appello a tutto il suo
coraggio per girarsi, vedendo concretizzarsi inesorabilmente tutte le sue
paure.
«Tu!?».
Nota dell’Autore
Eccomi qua!^_^
Ah, finalmente anche
questo periodo è finito.
Da mercoledì iniziano
le vacanze pasquali, e da lunedì 19 ho finito di andare a lezione tutti i
pomeriggi per poi tornare alle otto passate.
Che liberazione!
Sfortunatamente, in
questo lasso di tempo dovrò confrontarmi non con uno, non con due, ma con ben
quattro esami, due dei quali belli tosti per di più.
Per questo, anticipo
fin da ora che nel caso non dovessi riuscire ad aggiornare ancora entro pasqua
dovrà passare un altro po’ di tempo prima che riesca a mettere in rete un nuovo
capitolo.
Capitolo 59 *** E Alla Fine Dave Lo Incontrò (Prima Parte) ***
56
56
Abbandonata Munda e la sua nazione Regis e gli altri,
proseguendo verso sud, erano entrati nel pacifico regno di Alabi.
Anche se avevano fallito nel
recuperare la gemma messa in palio per i Giochi della Rinascita quelle in loro
possesso non avevano certo perso il loro potere, e poco dopo che Zak-Ner se ne
era andato queste avevano ricominciato a brillare indicando un’altra direzione,
quella che i ragazzi stavano seguendo.
La meta non doveva essere ancora
molto lontana, al massimo due o tre giorni di cammino, e se non fossero
sopraggiunti dei nuovi imprevisti molto presto avrebbero messo le mani sulla
quarta pietra, la quinta tenendo conto di quella che era stata loro rubata, il
che significava che ne sarebbero rimaste da trovare soltanto due.
Ormai si erano spinti in profondità
all’interno di Kamur, lì dove nessun abitante di Europia era mai giunto, o
quantomeno del quale non si avevano resoconti scritti.
Piuttosto che perdere tempo nella
ricerca della gemma rubata da Zak-Ner i ragazzi avevano deciso di comune
accordo di concentrarsi unicamente sul ritrovamento e l’appropriamento delle
pietre mancanti, in modo da costringere i loro nemici, che ormai era chiaro
essere i grandi sacerdoti del culto di Inti, a misurarsi in un confronto
diretto.
Impossibile dire se e quante gemme
fossero già in mano alla fazione avversaria, e proprio per questo accaparrarsi
tutte quelle su cui si riusciva ad arrivare era diventato più che mai
fondamentale.
Una settimana dopo aver lasciato Munda
iniziò per i cinque compagni una lunga e difficile arrampicata attraverso
un’alta cordigliera montuosa che, a sentire gli abitanti del posto,
attraversava il continente da una parte all’altra risultando impossibile da
aggirare.
Occorreva muoversi lungo sentieri
scoscesi e profonde vallate, il che obbligava il più delle volte a lunghe
deviazioni; tuttavia, non essendo ancora giunta la primavera, molti di questi
valichi erano ancora ostruiti dalla neve e quindi impraticabili.
La sola cosa da fare, se non si
voleva attendere l’inizio dell’estate, unico momento dell’anno in cui era
possibile transitare da una frontiera all’altra in relativa sicurezza, era
armarsi di buona volontà e sangue freddo e dare la scalata alle pareti per
raggiungere i sentieri più alti, situati sui ghiacciai, lì dove la neve non
riusciva a depositarsi.
Per riuscire in una simile impresa
occorrevano coraggio e grande esperienza, ma soprattutto un buon
equipaggiamento; tutti i soldi che i ragazzi avevano ancora da parte se ne
andarono per l’acquisto di scarponi, corde, zaini, racchette, sci e indumenti
pesanti, quindi ebbe inizio la traversata.
Fu molto difficile, ma soprattutto
pericoloso; la neve in certi punti era alta dai due metri e mezzo ai tre metri,
giganteschi crepacci si aprivano da un momento all’altro rischiando di
inghiottire qualche membro del gruppo, e il rischio di scivolare lungo qualche
canalone era sempre presente.
Inoltre, le montagne erano
infestate da bestie feroci, dalle tigri bianche alle scimmie giganti, o yeti, e
più di una volta i ragazzi si erano dovuti difendere dall’assalto feroce di
qualche animale affamato o infuriato per la violazione del proprio territorio.
Di quando in quando, nei momenti in
cui il percorso si faceva più difficile, Lumy interveniva per sciogliere con le
sue fiamme parte della neve che ostruiva il cammino, anche se Regis tendeva ad
evitare se possibile questa soluzione per creare squilibri che avrebbero potuto
causare conseguenza imprevedibili.
Grazie al cielo il temuto
peggioramento delle condizioni meteorologiche preannunciato dalle stazioni
situate su alcune delle vette più alte tramite bollettini che venivano spediti
tramite falchi e piccioni viaggiatori ai villaggi sui due versanti non si
verifico, ma superata una certa altitudine, anche con il sole era raro che si
arrivasse sopra i due o tre gradi, e di notte si poteva scendere anche di molto
sotto lo zero. Regis e gli altri avevano indumenti imbottiti e tende isolanti
in cui rinchiudersi al calare del sole, e per questo si ritenevano
relativamente al sicuro dal pericolo costituito dall’ipotermia.
Purtroppo, proprio quando la parte
più alta del tragitto era alle spalle, e alla neve si erano sostituite rocce e
piccoli gruppi di alberi, cominciarono ad arrivare i veri problemi.
Elys era indubbiamente una ragazza
forte e resistente, capace di resistere a condizioni che per molti sarebbero
risultate proibitive, ma era pur sempre una Kalimi, e in quanto tale il suo
corpo non era abituato ad affrontare le conseguenze di una prolungata esposizione
a temperature tanto basse.
Dapprima furono starnuti e brividi
che la ragazza, non volendo costituire un peso o un motivo per dover rallentare
il cammino, cercò ingenuamente di nascondere, ma questo suo comportamento,
dovuto anche al suo desiderio di lasciarsi il prima possibile alle spalle
quelle dannate montagne, non fece altro che peggiorare la situazione.
Alla fine, inevitabilmente, crollò,
stramazzando come una pera matura nel bel mezzo dell’attraversamento di un
pendio leggero, proprio quando cominciavano ad intravedersi oltre le nuvole
basse le pendici del versante meridionale. Essendo l’ultima della colonna
rischiava di essere dimenticata, ma per fortuna Regis, che già altre volte nel
corso dei suoi viaggi aveva dovuto valicare cime insidiose, aveva fatto legare
tutti insieme con una corda proprio per evitare una simile prospettiva.
Dave, che procedeva davanti a lei,
si accorse per primo dell’aumento di peso e si girò, trovando la sua compagna
riversa sulle rocce.
«Elys!» gridò correndole incontro.
Respirava a fatica, aveva le gote
tutte rosse e il naso chiuso, e sudava abbondantemente.
«Maestro, Elys sta male!» disse
Dave.
Regis si avvicinò e le tastò la
fronte.
«Ha la febbre altissima. Scotta da
far paura. Dobbiamo fermarci».
Il campo venne allestito in tutta
fretta in un piccolo boschetto di pini, al riparo da un eventuale tempesta di
neve, e messa Elys al sicuro sotto un doppio strato di coperte Regis uscì
subito per andare alla ricerca di qualcosa con cui curarla, tornando sul far
del tramonto con le tasche del cappotto piene di erbe e piante medicinali.
Fortunatamente si rivelò essere
solo una forma di influenza, per quanto aggressiva; tuttavia, non era il genere
di problema che poteva essere risolto con un incantesimo di guarigione, quindi
la sola cosa da fare era attendere che la situazione si risolvesse da sé.
I primi due giorni furono per Elys
particolarmente difficili: in un continuo stato di dormiveglia, era spesso
preda di incubi e allucinazioni dovute alla forte febbre, e per quanto si sforzasse
non le riusciva di mangiare né di alzarsi. Gli infusi preparati da Sakura con
le erbe che Regis le aveva procurato facilitarono il decorso della malattia,
che tuttavia si rivelò comprensibilmente lento.
Al terzo giorno di sosta,come se la situazione non fosse già
abbastanza intricata, crollava anche Viola, probabilmente contagiata dallo
stesso virus che stava facendo passare l’inferno ad Elys; per fortuna fin da
subito la sua situazione non si presentò grave come quella della sua compagna,
ma da quel momento Regis, Dave e Sakura furono costretti a ridurre al minimo i
contatti con le due ragazze per evitare di accrescere ulteriormente il numero
degli ammalati.
Passò una settimana.
La sera del settimo giorno Regis
andò a far visita alle due ragazze.
«Come stanno oggi le nostre
ammalate?» domandò scherzosamente Regis per poi schivare il cuscino lanciatogli
contro da Viola
«Fai meno lo spiritoso!» replicò la
ragazza ostentando vigore «Non è mica piacevole trovarsi in una simile
situazione! E comunque, per tua informazione, io ora sto be… e… e…».
Cercò di trattenersi, ma lo
starnuto arrivò comunque, e forte come un’esplosione.
«Visto come sprizzi energia, direi
che basterà ancora una notte perché tu possa tornare in perfetta forma».
Anche Elys poteva dirsi tutto
sommato guarita; la febbre se ne era andata, come pure il mal di stomaco e
tutti gli altri sintomi. Tuttavia, i postumi di una malattia perdurata così a
lungo si traducevano in una stanchezza incredibile, da non riuscire neanche a
sollevare la testa.
«Come stai?» domandò Regis
andandole vicino
«Abbastanza bene.» rispose lei con
la sola testa a sbucare dalle coperte.
Dave in quella arrivò portando la
cena; Viola, che poteva perdere tutto meno che l’appetito, addentò senza remore
un pezzo della lepre che Regis aveva catturato quella mattina, Elys invece
accettò di mangiare un paio di cucchiai di minestra, ma dovette essere
imboccata da Regis perché era così stanca da non riuscire neppure a muoversi.
«Accidenti.» disse Dave «In queste
condizioni perfino Elys riesce a suscitare tenerezza.»
«Aspetta che mi sia rimessa in
piedi, novellino.» rispose lei senza alcuna cattiveria «E poi te la do io la
tenerezza».
Poi, si volse a guardare Regis,
sorridendo leggermente; era un sorriso gentile, ma velato da un misto di
tristezza e malinconia.
«Mi dispiace.
Se non fosse stato per me, a
quest’ora saremmo già arrivati.»
«Non dirlo neanche per scherzo.
Sono cose che capitano. Non sei abituata a queste temperature. E comunque,
domattina ripartiremo.»
«Solo, la prossima volta evita di
ridurti in questo stato per farci capire che stai male!» gridò Viola prima di
starnutire di nuovo.
Regis e Dave dopo poco uscirono, e
trovarono Sakura ad attenderli, di ritorno da un giro di esplorazione nei
dintorni.
«Allora?» domandò Regis
«Windy dice che non siamo molto
lontani dai centri abitati. Procedendo a passo svelto, dovremmo poter arrivare
al primo villaggio in un paio di giorni.»
«Non credo potremo andare molto
veloci.» disse Dave «Elys e Viola sono ancora deboli.»
«Tranquillo, il peggio è passato.
Tutto quello che gli resta da fare è una bella dormita per scacciare gli ultimi
torpori. Entro domattina sprizzeranno vigore da tutti i pori.»
«Ne sei sicuro?» domandò Sakura
«Ormai dovresti conoscerle. Anche
se dovesse la fine del mondo quelle due non morirebbero di sicuro».
In quella Sakura sbadigliò
vistosamente; evocare Windy per tutto quel tempo le era costato molte energie,
e anche Regis era visibilmente stanco.
«Signor maestro, perché voi e
Sakura non andate a riposarvi? Posso fare io la guardia per questa notte.»
«Ne sei sicuro, Dave? Guarda che
domattina presto ci rimettiamo in marcia, e non avrai tempo per dormire.»
«Non preoccupatevi, starò bene. Non
dimenticate che sono pur sempre un pastore. Svegliarsi presto e fare le notti in
bianco non sono cose di cui debba preoccuparmi.»
«D’accordo, come vuoi tu».
Dopo una cena frugale Regis e
Sakura si ritirarono nella propria tenda, e Dave rimase solo.
Dover restar sveglio tutta la notte
a montare la guardia non costituiva, come lui stesso aveva detto, un così
grande problema, e poi, anche se lo avesse voluto, non sarebbe riuscito
comunque a prendere sonno. Il fatto era che quel giorno, durante la sua prova
nei Giochi della Rinascita, aveva ricordato, per la prima volta dopo tanto
tempo, da dove proveniva, e come era arrivato fin lì.
Se ancora ci pensava gli sembrava
incredibile: tre anni. Tanto era passato da quando aveva incominciato il suo
viaggio al fianco del suo maestro.
Prima di allora era solo un
contadino, un umile bovaro come tanti altri che sognava per un desiderio che
poteva dirsi impossibile.
“Poteva” dirsi impossibile. Ora non
lo era più. Ora aveva la possibilità di concretizzarlo, e quella possibilità
era andata costruendola in quegli ultimi tre anni un pezzetto per volta.
Indubbiamente i suoi compagni di
viaggio si erano fatti anche loro il loro bagaglio di conoscenza, ma, senza
voler peccare di modestia, lui era fra tutti quello che sicuramente aveva
trascorso più tempo in sua compagnia, e anche se Regis non faceva che ripetergli
quanto fosse lontano dall’essere considerato un vero stregone sapeva di avere
incrementato almeno un po’ le proprie conoscenze.
Così, inevitabilmente, davanti al
crepitare del fuoco, ed immerso in un totale silenzio, non riuscì a non tornare
con la mente a quel giorno: il giorno in cui tutto era iniziato.
Il villaggio natale di Dave, Mablith, dove aveva vissuto
fin dalla nascita, sorgeva in una ridente vallata tra le montagne dell’ovest;
un posto tranquillo, pacifico, dove gli abitanti, due o trecento al massimo,
trascorrevano un’esistenza serena, lontani dal caos e dalla frenesia che
regnavano sovrane in alcune delle grandi città situate oltre la valle.
Adagiata ai piedi del versante
nord, lontana dal resto del villaggio e ad esso collegata per mezzo di una
stradina che scendeva attraverso i prati, vi era la grande e bellissima villa
di Greede Kingersan, il Signor Greede per i suoi concittadini, che oltre ad
essere il sindaco di Mablith era anche uno degli uomini più ricchi della
regione.
Pur essendo ricco e potente il
signor Greede era un uomo del popolo, che non aveva dimenticato le sue origini:
era partito dal nulla, come una persona qualunque, ma con la giusta dose di
determinazione, sangue freddo e buon senso, unita ad un non trascurabile intervento
della buona sorte, era arrivato in alto, molto in alto.
Avendo conosciuto le difficoltà e
le privazioni dell’esistenza umile desiderava il meglio per i contadini che
vivevano nella sua provincia e lavoravano le sue terre, offrendo loro tutto ciò
di cui avevano bisogno e garantendogli uno stile di vita dignitoso. Pretendeva
molto, su questo non vi era dubbio, ma concedeva anche molto, e non aveva paura
di intaccare le sue finanze per scopi che qualcuno avrebbe definito frivoli,
come aiutare un’anonima famiglia oppressa dai debiti o ricostruire di tasca
propria una casa distrutta da un incendio.
Più di tutto, il signor Greede
amava più della sua stessa vita la sua unica, adoratissima figlia, Mandy, e non
avrebbe esitato a buttarsi nel fuoco pur di risparmiarle le sofferenze e le
privazioni di un’esistenza umile.
La figlia di un contadino, per
quanto arricchitosi, rischiava di non avere molto spazio negli ambienti
altolocati ed esclusivi della capitale, ma il signor Greede aveva accumulato
abbastanza esperienza nel campo della diplomazia da sapere come volgere le
situazioni a proprio vantaggio, e quando aveva saputo che il direttore del
prestigioso collegio St.Augustine era arrivato nella vicina città di Narimia
per una vacanza rilassante lo aveva immediatamente invitato nella propria
residenza; oliati bene gli ingranaggi, al termine di una cena che avrebbe
potuto rivaleggiare con quella del re in persona gli aveva offerto tutta una
serie di “pensierini” che, accettati generosamente, avevano permesso a Mandy di
ottenere l’iscrizione ad un collegio che, senza ombra di dubbio, le avrebbe
dato sicuro ingresso ai salotti più esclusivi di Qerin.
Ed era questo ciò che Dave
maggiormente temeva.
Lui e Mandy si conoscevano fin
dall’infanzia, e desideravano stare insieme più di qualsiasi altra cosa. Se lei
fosse partita per la capitale, se avesse frequentato quel collegio, sarebbe
arrivata lì dove lui, un umile contadino figlio di contadini, non sarebbe mai
stato in grado di arrivare.
Aveva scoperto di possedere dei
poteri magici, è vero, una cosa di cui nessuno a parte Mandy, neppure la sua
famiglia, erano a conoscenza, ma non poteva certo competere con i giovani
stregoni di alto rango che avevano studiato nelle più prestigiose scuole di
magia, né tantomeno con delle leggende viventi del calibro del famoso Regis,
del quale tanto si parlava.
Lui non aveva né il potere né i
mezzi per raggiungere i vertici, e anche nel caso in cui avesse cercato di
sfruttare le risorse del signor Greede, che lo teneva in grande considerazione
e non sembrava essere a conoscenza dei sentimenti che lo legavano a Mandy,
quella degli stregoni era una casta molto più chiusa e bigotta di una nobiltà
che, pur guardando con una punta di sospetto i nuovi ricchi, apprezzava chi era
riuscito a crearsi la fortuna partendo dal niente con il sudore della fronte.
Entrare in una qualsiasi accademia, per lo meno una degna di tale nome, era un
sogno irrealizzabile, e le scuole pubbliche, oltretutto sempre al collasso per
il numero di iscritti, non erano certo in grado di garantire l’esperienza e il
prestigio necessari per arrivare in alto.
La sola cosa da fare era mettersi
al seguito di qualche stregone, qualcuno di importante, diventandone il
discepolo, nella speranza di poter sfruttare la notorietà di quest’ultimo per
costruirsi la propria: ma quale stregone avrebbe accettato come allievo un
contadinello con così poca esperienza?
Dave non sapeva cosa fare, come
comportarsi, e intanto le cose peggioravano. Mandy alla fine era partita, e il
ragazzo si sentiva sempre più lontano da lei; la corrispondenza era ridotta al
minimo, per non alimentare sospetti, e ogni giorno che passava aumentava il
pericolo che quel buon partito che il signor Greede stava cercando per sua
figlia venisse trovato.
Ma anche se soffriva per amore,
Dave non poteva dimenticare i suoi doveri.
Suo padre, Glasnet, era un rinomato
caseario, e ad ogni cambio di stagione padre e figlio, caricato il carro di
tante forme quante ne poteva contenere, andavano a venderlo ai mercanti di
Narimia e di altre città della regione, disposti a pagare cifre considerevoli
per potersene accaparrare una parte.
Se avanzava qualcosa Glasnet la
vendeva per conto proprio agli abitanti della città, e coi soldi che ricavava
dalle varie vendite comprava tutto il necessario per permettere alla sua
numerosa famiglia di tirare avanti fino alla stagione successiva: cibo,
vestiti, utensili, e così via.
E fra tutti, il periodo che
coincideva con l’inizio dell’autunno era senz’altro il più atteso, perché era
quello in cui maturavano i formaggi a più lunga stagionatura, quindi la merce a
disposizione era doppia rispetto alla quantità abituale.
Normalmente il viaggio durava dalle
due alle tre settimane, che potevano diventare un mese o più se, come capitava
di tanto in tanto, i compratori abituali si rivelavano tirati con i pagamenti,
costringendo quindi a cercare acquirenti disposti a comprare a prezzo intero.
Quella volta fortunatamente la
vendita si era rivelata rapida e fruttuosa, e dieci giorni dopo aver lasciato
il villaggio Dave e suo padre erano già sulla via del ritorno.
Era quasi il tramonto, e padre e
figlio stavano percorrendo la Strada
Settantasette, l’unica che conduceva a Mablith; un tempo era
poco più di un sentiero in terra battuta neppure segnato sulle mappe e privo di
numerazione, ma quando il signor Greede era riuscito ad accumulare una
considerevole ricchezza una delle prime cose che aveva fatto era stato farlo
lastricare e segnare, in modo da collegare il suo villaggio con il mondo
esterno e con tutte le possibilità che esso aveva da offrire.
«Allegro, Dave!» disse Glasnet
vedendo l’espressione mogia del figlio «Ancora un’ora, e saremo finalmente a
casa.
Non vedo l’ora di mangiare di nuovo
qualcuna delle pietanze di tua madre. Le schifezze che ti propinano nelle
locande di città sono immangiabili».
Dave però aveva ben altro a cui
pensare che a riempirsi la pancia come quel buongustaio di suo padre: pensava
ancora a Mandy, a quanto fosse lontana, e ad un qualche astruso modo per
raggiungerla. Nell’ultima lettera, ricevuta subito prima di partire, diceva che
nel collegio si trovava bene, ma che le mancavano da morire le sue montagne e
che avrebbe pagato qualsiasi cifra per farvi ritorno.
Ma la cosa più preoccupante che
scriveva, e che aveva spaventato non poco il ragazzino, era che, negli ultimi
due mesi, non passava quasi giorno senza che le venisse presentato qualche
ricco aristocratico o qualche erede facoltoso con il quale, volente o nolente,
era obbligata a trascorrere qualche ora.
Tale prassi era regolarmente
praticata dal collegio St.Augustine, che in questo modo intendeva favorire gli
incontri tra rappresentanti delle maggiori famiglia del regno in modo da
permettere ai ragazzi di trovare eventualmente l’anima gemella e alle
rispettive famiglie di concordare possibili alleanze.
Non tutti in verità apprezzavano
questa tradizione, in verità osteggiata e contestata da molte direzioni,
poiché, secondo alcuni, rappresentava un modo per favorire il matrimonio
combinato, pratica dichiarata illegale già da diversi anni che però eventi come
quello permettevano di far rivivere in sordina aggirando i decreti e le leggi
ufficiali.
Dave doveva sbrigarsi: il tempo a
sua disposizione stava riducendosi sempre più, e anche se la prospettiva di
maritarsi con la figlia di un contadino arricchito che non poteva portare nulla
all’infuori di una discreta dote teneva lontane le famiglie più conservatrici
prima o poi sarebbe sicuramente arrivato qualcuno in grado di portargliela via,
facendo di lei una sorta di moglie-trofeo perennemente chiusa in casa e vittima
di un protocollo altolocato che decisamente non le si addiceva.
Un soffio di vento un po’ più
freddo lo fece ridestare dai suoi pensieri, e il ragazzo, alzato lo sguardo,
scorse per primo una figura in lontananza; camminava a lato della strada,
probabilmente nella loro stessa direzione, e sembrava indossare un mantello.
«Papà, guarda. Laggiù c’è
qualcuno.»
«Sì, l’ho visto.» rispose Glasnet
portandosi un po’ più vicino il bastone con cui di tanto in tanto era costretto
sia a sferzare i suoi cavalli sia a ripassare la testa di qualche
malintenzionato.
Qualcuno l’avrebbe reputata una
misura eccessiva, armarsi prima ancora di arrivare abbastanza vicino da vedere
di chi si trattava, ma gli auspici non erano dei migliori. Quella strada non
conduceva da nessun’altra parte se non a Mablith, e tenendo conto della
distanza che la separava dalla città più vicina era piuttosto raro incontrare
qualcuno che non la percorresse a cavallo o a dorso di mulo; più di tutto,
ormai era quasi sera, un’ora piuttosto strana per incontrare un viaggiatore.
Quando furono un po’ più vicini,
però, i loro timori sparirono; quell’uomo, perché di un uomo si doveva
trattare, a giudicare dalla corporatura, indossava uno spesso mantello da
viaggio di raso nero, troppo pregiato e pulito per essere quello di un
mendicante o di un brigante che abitava nei boschi. Portava inoltre un largo
cappello che ne nascondeva il volto.
«Buonasera, forestiero.» disse
Glasnet accostandosi a lui e procedendo più lentamente per stargli al passo
«Buonasera a voi.» rispose quello
sollevandosi leggermente il cappello in segno di saluto
«Avete bisogno di qualcosa?»
«Forse potete aiutarmi. Per Narimia
vado bene di qua?»
«Mi dispiace forestiero, ma questa
non è la direzione giusta.» disse Dave «Per andare a Narimia, all’ultimo
incrocio dovevate svoltare a nord.»
«Accidenti. Mi era venuto il dubbio
di aver sbagliato strada. È la prima volta che metto piede in questa regione, e
ho difficoltà ad orientarmi».
Il forestiero a quel punto si fermò
e diede uno sguardo al sole, di cui ormai non restava che un pallido spicchio
tagliato in due dalle montagne; nuvole nere stavano cominciando a
sopraggiungere da occidente, lasciando presagire l’arrivo di un violento
temporale.
«Immagino non sia fattibile
arrivarci in tempo per la notte, e visto quello che sta per venire giù non mi
pare il caso di dormire all’addiaccio.
Per caso c’è una locanda da queste
parti?»
«Ce n’è una nel nostro villaggio, a
Mablith.» rispose Glasnet «È piccola, e vi dovrete un po’ adattare. Se volete,
possiamo darvi un passaggio, così eviterete di prendere pioggia.»
«Veramente, non vorrei essere un
disturbo.»
«Figuratevi, nessun disturbo. Anzi,
sarà un piacere».
Alla fine lo straniero accettò, e
salito sul retro del carro seguì padre e figlio nell’ultima tappa del loro
viaggio verso Mablith.
Il ritorno a casa di Dave e suo padre venne salutato con
gioia da tutta la famiglia che, nonostante avesse cominciato a piovere, uscì di
corsa dalla casa, una costruzione semplice ma ben fatta in mattoni e pietra in
cima ad una collinetta, per andare ad accoglierli.
Era stato un lungo viaggio, e anche
se non erano stati lontani per tanto tempo grande era la felicità per vederli
finalmente fare ritorno. Tenendo conto anche di Nago, il grosso san bernardo che
svolgeva soprattutto le funzioni di cane da pastore, la famiglia si componeva
di tutto di otto elementi, di cui quattro figli: Dave, il primogenito, poco più
che tredicenne, c’erano Dylan, di dieci anni, Yullie, di sette, e infine il
piccolo Kite, che ne aveva da poco compiuti cinque. Vi erano poi Glasnet, sua
moglie Celdy e l’anziana madre di quest’ultima, Treiba.
I tre figli più piccoli, Dylan,
Yullie e Kite, ancora troppo piccoli per lavorare nei cambi o badare al
bestiame, frequentavano però la scuola gestita dal signor Greede e tenuta dalla
signora Carmody, un’istitutrice di mezza età un po’ scorbutica e bigotta che il
signor Greede soprannominava di nascosto, a suo rischio e pericolo, Miss
Diavolaccio.
La signora Carmody era stata
l’istitutrice di Mandy, e quando la ragazza era andata infine a studiare a
St.Augustine il signor Greede l’aveva convinta a diventare la maestra della
scuola che aveva fatto costruire nel villaggio per evitare ai bambini di dover
percorrere tutti i giorni, con ogni tempo e in ogni stagione, la lunga strada
verso la scuola del villaggio vicino.
Anche Dave aveva studiato, e
proprio assieme a Mandy, un privilegio dato dal fatto che sua madre era stata
per un certo tempo la tata della ragazzina; inizialmente la signora Carmody non
aveva mostrato grande simpatia per lui, provando un certo ribrezzo all’idea di
istruire quello che reputava un figlio di paesani, e anche se con il tempo e la
vita in campagna aveva in parte mutato le sue vedute, cosa testimoniata dal
fatto che avesse accettato di dirigere la scuola, quel suo modo di fare
autoritario e severo le era valso il titolo di Vecchia Megera.
Inoltre, superata la diffidenza per
Dave, impartiva regolarmente a quest’ultimo lezioni private che superando il
normale livello di insegnamento scolastico avevano permesso al ragazzo di
accumulare una discreta cultura, di certo sopra la norma per il membro di una
famiglia del ceto medio basso; dopotutto, indubbiamente Dave era un ragazzo di
talento, che amava studiare ed apprendere, ed lo stesso signor Greede a pagare
di tasca propria le lezioni extra, forse nella speranza di offrire a quel
giovane bovaro che tanto gli stava simpatico la possibilità di ritagliarsi una
fettina di benessere nella complicata società dell’epoca, magari al proprio
servizio.
Effettivamente era vero, Dave aveva
una grande sete di conoscenza, ma adorava anche la vita all’aria aperta, e
quando non studiava era ben felice di condurre le mucche e le capre al pascolo
al posto di suo padre, che ormai cominciava ad avere una certa età.
Anche lo straniero venne accolto
con gentilezza e calore, aspetto tipico della gente di Mablith, così aperta e
ben disposta; Glasnet si offrì di accompagnarlo fino alla locanda, situata
dall’altra parte del villaggio, ma lo straniero disse che non c’era problema, e
che l’avrebbe trovata da solo.
Neanche mezz’ora dopo la famiglia
era seduta attorno ad una tavola discretamente imbandita, riunita per la prima
dopo due settimane, che per i bambini, lontani dal loro fratellone e dal loro
adorato papà, era una vera eternità.
Poco dopo, come previsto,
incominciò a piovere, e nel giro di dieci minuti sembrò che le cateratte del
cielo si fossero aperte; la pioggia veniva giù con forza inaudita e in gran
quantità trasformando il terreno in fango, e soffiava inoltre un forte vento.
Fortunatamente per Dave e la sua
famiglia, la loro casa, come quasi tutte quelle del villaggio, aveva un solido
tetto in legno incatramato a prova di infiltrazione, una vera manna per una
regione come quella, dove le piogge erano frequenti.
«Ha piovuto molto da quando ve ne
siete andati.» disse Celdy
«Praticamente ogni giorno.» mugugnò
Yullie «Non siamo neanche potuti uscire a giocare.»
«Speriamo solo che tutta questa
pioggia non causi problemi.» disse Glasnet.
Non l’avesse mai detto.
In quell’istante entrò in casa un
amico della famiglia con l’impermeabile completamente inzuppato d’acqua e gli
stivali sporchi di fango.
«Glasnet, abbiamo bisogno di
aiuto.»
«Che è successo?»
«L’argine del fiume sta cedendo.»
«Che cosa!?» esclamò il padrone di
casa balzando in piedi.
Senza perdere tempo sia lui che
Dave, recuperati i loro impermeabili, lasciarono casa e, sotto un vero e
proprio diluvio, seguirono il loro amico lì dove il fiume Zansar, che entrava
nella valle da ovest per poi uscire a sud, compiva una curva molto larga; era
in quel punto, sottoposto continuamente ad una forte pressione, che gli argini
più facilmente cedevano, tanto che nel corso degli anni erano stati più volte
rialzati e rinforzati.
Purtroppo l’ultima estate si era
rivelata più altalenante del solito, e gli acquazzoni autunnali, già di per sé
molto violenti, non avevano fatto altro che indebolire ulteriormente un
rialzamento già provato, e alla fine, inevitabilmente, erano comparse le crepe.
Quando Dave e suo padre arrivarono
sul posto si erano già radunati tutti gli uomini del villaggio, ma anche molte
donne e tutti i ragazzi di età tale da poter dare una mano; c’era anche il
sindaco Greede, che oltre a dirigere i lavori dava personalmente il proprio
contribuito aiutando a posizionare i sacchi di sabbia lungo l’argine.
La corrente, rinvigorita dallo
scioglimento estivo dei nevai in alta quota, era particolarmente forte, tanto
da portarsi dietro ogni sorta di detriti che non facevano altro che minare
ulteriormente la solidità della barriera di sacchi che ogni volta doveva essere
ricostruita.
«Qui le cose si mettono sempre
peggio.» disse il sindaco vedendo sgorgare una nuova fontanella «Ehi, quaggiù
servono altri sacchi!».
Dave faceva tutto quello che poteva
per dare una mano, ma più falle venivano tappate più se ne riformavano, e la
pioggia che continuava incessantemente a cadere non aiutava certo le operazioni
di puntellamento, né tantomeno il deflusso delle acque tumultuose.
«Dave, presto! Va’ a prendere degli
altri sacchi!»
«Sì papà!».
Come il ragazzo fece per
allontanarsi un grosso tronco d’albero staccatosi chissà dove centrò in pieno
la parete di sacchi, che finì divelta, dando via libera all’acqua di inondare
la zona circostante.
«Maledizione!» disse Glasnet
«Presto, rifugiatevi in alto! L’argine ha ceduto!».
La situazione era davvero grave;
benché poco distante da lì vi fosse un rialzamento, dove tra l’altro si era
accalcata nel frattempo una piccola folla di curiosi, che offriva una relativa
protezione permettendo di stare all’asciutto, Mablith si trovava più in basso
rispetto al punto in cui il fiume aveva rotto, il che stava a significare che
sicuramente il villaggio sarebbe stato inondato. Non era la prima volta e non sarebbe
stata l’ultima, ma simili catastrofi lasciavano irrimediabilmente il segno.
Più di tutto Glasnet, oltre che per
la sua famiglia, temeva per la sua cantina, scavata nel terreno della
collinetta su cui si trovava la sua casa e stracarica di formaggi in piena
stagionatura che rischiavano di andare irrimediabilmente perduti, una perdita
non da poco per l’economia di un villaggio che faceva delle rendite del proprio
caseificio una delle sue principali fonti di sostentamento.
D’un tratto, mentre tutti cercavano
di mettersi in salvo, dal fitto della pioggia cominciò ad emergere una figura
scura che Dave, primo fra tutti, riconobbe come lo straniero che lui e suo
padre avevano condotto a Mablith. Avanzava lentamente, sempre nascosto nel suo
voluminoso vestiario, incurante dell’acqua che gli veniva contro e del fango
che insozzava i suoi pregiati stivali o i lembi del suo mantello.
«Che stai facendo?» gridò Greede
«Vattene da lì, incosciente!».
Quello non diede segno di aver
capito, e anche quando l’onda lo colpì, sommergendolo d’acqua fin quasi al
torace, continuò a camminare. Arrivato a ridosso della falla dell’argine, che,
con la distruzione del muro di sacchi, aveva mostrato tutte le sue imponenti
dimensioni, lo straniero infilò una mano nell’acqua, e macchiatosi un dito di
fango lo usò per tracciare un simbolo sull’altra mano, un simbolo facilmente
identificabile come un circolo magico.
A quel punto lo straniero chiuse
gli occhi, fermandosi come in meditazione, poi infilò la mano segnata
nell’acqua, e il simbolo di fango, prima di venire cancellato, prese a brillare
di una forte luce azzurra; seguì un piccolo terremoto, poi, come per magia, dal
nulla e in pochi si eresse non un argine, ma un vero e proprio sbarramento alto
diversi metri che fermò inesorabilmente il deflusso dell’acqua, ripristinando
il suo normale corso.
La forte corrente di vento generata
sia dall’incantesimo sia dal movimento tellurico fece volare via il cappello
dello straniero, rivelando finalmente il volto che celava sotto di esso; un
volto giovane, di venticinque anni al massimo, occhi piccoli e scuri e capelli
neri, pettinati a spazzola sulla testa e molto lunghi dietro la nuca, annodati
questi ultimi a formare una coda che arrivava quasi a metà della schiena.
Tutti rimasero senza parole;
avevano sentito parlare della potenza degli stregoni, ma nessuno di loro aveva
mai visto con i suoi occhi di cosa uno di loro poteva essere effettivamente
capace.
«Così dovrebbe andare. Ma passata
la piena sarà meglio rinforzare l’argine, o tra qualche mese sarete di nuovo
nella stessa situazione».
Detto questo, come se niente fosse,
lo straniero recuperò il proprio cappello da terra e, rimessoselo in testa, se
ne andò come era venuto, tornando verso il villaggio.
Dave non credeva ai suoi occhi; più
di tutti i suoi compaesani messi insieme era rimasto sconvolto e atterrito, non
tanto per ciò che aveva visto, ma piuttosto perché, a differenza di loro, aveva
capito chi era l’artefice della salvezza di Mablith.
Non l’aveva mai visto di persona,
come era naturale che fosse, ma aveva sentito le storie, tante storie, e
ragionandoci adesso si domandava come non avesse fatto a rendersene conto
prima.
Quegli occhi neri, quello sguardo
penetrante, e quell’insolito modo di vestire, come di qualcuno che desidera in
ogni modo celare la propria identità pur riservandosi di camminare
incessantemente tra la folla, pronto ad offrire il proprio aiuto qualora ve ne
fosse stato bisogno.
Eccola finalmente. L’opportunità
che tanto a lungo aveva cercato era finalmente arrivata. Cosa si poteva
chiedere di meglio?
Diventare allievo di quella persona
gli avrebbe aperto non una, non due, ma tutte le porte del regno. Sarebbe
arrivato in alto, più in alto di quanto avesse mai immaginato in tutti i suoi
più sfrenati sogni.
In quel momento la speranza di
poter stare di nuovo al fianco di Mandy, liberi finalmente da qualsiasi
pensiero, gli parve vicina come non mai.
L’opportunità era lì. Ora bisognava
coglierla.
Nota dell’Autore
Salve a tutti!^_^
Prima di tutto,
tantissimi auguri di buona pasqua!
Le vacanze sono state
per me un vero toccasana, perché il ritorno alla quotidianità universitaria si
è rivelato più traumatizzante del previsto. Ringraziando il cielo ormai manca
davvero poco, e ad ottobre, se non ci saranno spiacevoli sorprese, dovrei riuscire
a conseguire la tanto desiderata laurea.
Per quel che riguarda
il capitolo, beh, avevo in mente di raccontare l’intera vicenda in una volta
sola, ma poi come al solito mi sono fatto prendere la mano e ho dovuto fermarmi
per forza.
Capitolo 60 *** E Alla Fine Dave Lo Incontrò (Seconda Parte) ***
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Dopo essere stato con molta noncuranza l’artefice della
salvezza di Mablith lo straniero tornò a rinchiudersi
nella sua stanza alla locanda del vecchio Brescon,
piccola ma discretamente arredata, e liberatosi sia del mantello che del
cappello ancora fradici di pioggia andò a sedersi all’unico sgabello che c’era.
Sul tavolo accanto a lui avanzavano
ancora i resti di una cena frugale a base di formaggio e verdure, interrotta
con ogni probabilità nel momento in cui, dalla finestra aperta, aveva sentito gli abitanti parlare dei problemi all’argine.
Era sul punto di rimettersi a
mangiare quando, da dentro la giacchetta che indossava, giunse una tenue luce
intermittente. Affondata una mano all’interno ne prese
fuori un cristallo elementale che, attivatosi, proiettò l’immagine a mezzo
busto di una giovane donna dai tratti orientali.
«Sono qui.»
«Bentrovato. Dove ti trovi?»
«In un villaggio
di nome Mablith, a una trentina di chilometri da Narimia. Dovrei essere a Basel per domani
sera.»
«È proprio di questo che volevo
parlarti. Il comando centrale ha appena ricevuto una comunicazione dalla
polizia di Basel. L’uomo che eri stato incaricato di catturare è stato
arrestato nel pomeriggio.»
«Arrestato?»
«A quanto pare la polizia aveva un
infiltrato nella banda del nemico, e alla prima occasione buona si sono buttati
a pesce sull’obiettivo senza badare a tutto il resto.»
«Immagino non volessero che
qualcuno andasse lì a dirgli come fare il loro lavoro.»
«Qualcosa del genere.»
«In questo caso, se non avete più
bisogno di me tornerò sui miei passi.»
«Che fretta c’è? Ormai sono tre anni
che corri da una parte all’altra del continente come una scheggia impazzita.
Prenditi una pausa. Mablith non sarà il posto più movimentato di questo regno, e di certo non il più salubre, almeno in
questo periodo, ma almeno è tranquillo.»
«Non ho bisogno di pause. Sono nel
bel mezzo di un viaggio.»
«Ti ricordo che quando hai accettato
questo incarico ti sei impegnato a seguire le mie istruzioni per una settimana.
Il lavoro sarà anche stato portato a termine, ma restano ancora tre giorni alla
scadenza. Quindi, per altri tre giorni farai quello
che ti dico io.
Buone vacanze.»
«Aria, aspetta.» tentò di dire lo
straniero, ma la ragazza, ridendo sotto i denti, scomparve, e il cristallo si
spense «La odio quando fa così».
Ormai la fame gli era passata, e
sembrava intenzionato ad andarsene a letto, quando una strana sensazione gli
fece volgere lo sguardo verso la porta; fulmineo, afferrò un coltello, con un
misto di forza ed eleganza, lo lanciò con precisione chirurgica nella
strettissima fessura tra il battente e lo stipite.
Dave lo vide schizzare ad un centimetro dal viso per andare a conficcarsi nella
parete del corridoio, e per la paura cadde all’indietro, ritrovandosi seduto
per terra; era arrivato lì già da qualche minuto, ma dopo aver afferrato la
maniglia e aver tirato leggermente la porta verso di sé aveva visto lo
straniero impegnato in quella conversazione.
Si era detto che non sarebbe stato
educato interrompere, che poteva essere male interpretato, ma la verità era che
aveva una paura matta all’idea di doversi confrontare con quella persona e che
dentro di sé stava solo cercando una scusa per non doverlo fare.
Prima ancora di poter rialzare la
testa vide la porta spalancarsi di netto e lo straniero che lo sovrastava.
«Mi… mi dispiace!» cercò di
discolparsi «Non volevo origliare, ve lo garantisco. È
solo che vi ho sentito parlare e…»
«Tu eri all’argine, giusto?»
domandò lo straniero come se non fosse accaduto nulla
«S… sì, giusto. Mi chiamo Dave.
Molto… molto piacere».
A quel punto lo straniero rientrò
nella sua camera lasciando la porta aperta e Dave, interpretando quello come
l’autorizzazione ad entrare, fattosi forza varcò la
soglia, chiudendosela alle spalle; a quel punto, non si poteva tornare
indietro.
«Ecco… io ero… sì, ero venuto per
ringraziarvi. Per quello che avete fatto, intendo. Sì insomma, per averci aiutati».
Era chiaramente e palesemente
nervoso, e probabilmente non aveva la benché minima idea di quello che stava
dicendo; una sola cosa la sapeva, e cioè che stava deliberatamente cercando di
evitare l’argomento principale, il motivo per il quale era andato fin lì.
Indifferente a quello che diceva il
suo inatteso ospite lo straniero si versò una tazza
del tè che si era fatto portare insieme alla cena: il vecchio Brescon aveva dovuto sudare sette camice per trovare
qualcosa degno di essere bevuto, ma del resto non erano molti gli abitanti del
posto che amassero bere il tè.
Alla fine Dave, per cercare di
smuovere il suo interlocutore, decise di porre quella domanda della quale era
certo di conoscere la risposta.
«Voi… siete Regis, non è vero?».
Di colpo lo straniero si immobilizzò, rimanendo con la tazza ferma a pochi
centimetri dalla bocca; le sue dita strinsero un po’ più forte il manico di
ceramica, la mano libera invece tremò leggermente.
«All’inizio non vi ho riconosciuto,
poi, vedendo il modo in cui vestite, mi sono ricordato di certe storie che ho
avuto modo di ascoltare nel corso dei numerosi viaggi con mio padre. Ho sentito
molto parlare di voi.»
«E se anche lo fossi?» domandò lui,
pensando probabilmente che fosse inutile tentare di negare.
Dave ebbe un altro momento di
esitazione, ma decise quasi subito di non esitare, nel timore di perdere quel
coraggio che gli era stato necessario per iniziare la
conversazione. Prima che la sua mente potesse dirsi pronta
si ritrovò in ginocchio, prostrato come un servo.
«Vi prego. Ve lo chiedo per favore.
Mi prenda come suo allievo».
Regis lo guardò senza proferire
parola, e più passavano i secondi più Dave si sentiva le tempie rigate dal
sudore e il cuore andare a mille; la risposta, se c’era, doveva arrivare in
fretta, o l’emozione avrebbe avuto la meglio e lui
sarebbe scappato da quella stanza come se avesse avuto il diavolo alle costole.
«Vorresti diventare mio allievo?»
«Ve ne prego. Conosco un po’ di
magia, e so già recitare alcuni incantesimi, ma ho ancora molta strada da fare
per potermi considerare un vero stregone. Sotto la vostra guida sento che
potrei raggiungere nuovi livelli di conoscenza e ampliare così il mio sapere.
Quindi, ve lo chiedo un’altra volta.
Vorreste prendermi come vostro allievo?».
Di nuovo, lo straniero non aprì
bocca, guardando ora Dave ora fuori dalla finestra; la pioggia era
fortunatamente passata, un toccasana per gli abitanti di Mablith, e già le
prime stelle cominciavano ad apparire oltre la coltre di nuvole.
«Niente da fare.» fu infine la sua
risposta, la più dolorosa che potesse scegliere.
Dave sentì un colpo al cuore, e se
per un istante aveva visto Mandy avvicinarsi ora invece la vedeva
sparire sempre più, inghiottita dalle tenebre.
«Perché?»
«Non sei pronto. E non hai le
qualità per essere uno stregone.»
«Non ho le qualità?»
«Inoltre, sono nel bel mezzo del
viaggio. Non ho tempo per istruire un allievo.»
«Ve ne supplico!» esclamò Dave
prostrandosi ancora di più «Ve lo sto chiedendo dal profondo
del cuore. Diventare un vero stregone è estremamente
importante per me.
Se non riesco a raggiungere questo
traguardo, non ho motivo di esistere».
Regis lo guardò in modo strano,
come se volesse scrutarlo all’interno, poi bevve il suo tè.
«A cosa serve la magia?»
«Come!?»
replicò Dave interdetto
«Trova la risposta a questa
domanda, la sua vera risposta, e prenderò in considerazione la tua richiesta».
Ma che razza di domanda era?
Era una di quelle domande alle
quali si potevano dare mille e una risposte possibili,
tutte potenzialmente corrette e dettate quasi esclusivamente dal pensiero
dell’interrogato.
Forse, pensò Dave, Regis aveva solo
creato un espediente che gli permettesse di declinare la richiesta senza un no
vero e proprio, ma il ragazzo pensò che il guerriero che gli stava di fronte non era il genere di persona che apprezzava i giri di
parole: se voleva dire una cosa la diceva chiara e tonda, dritta in faccia,
senza tanti fronzoli.
Aveva detto di trovare la Vera Risposta, il che stava a significare che c’era qualcosa al di sopra delle varie
opinioni che si potevano avere, una sorta di valore superiore che accumunava il
modo di intendere la magia proprio di ogni stregone, ed era questa verità
suprema ciò che Dave doveva ricercare.
«Hai a disposizione tre giorni per
trovare la risposta, perché tanto sarà il tempo che trascorrerò qui.»
«Ho capito.»
«Ora, col tuo permesso, vorrei
dormire un po’.»
«Vi ringrazio di tutto. E vi auguro
un felice riposo».
Inutile dire che quella notte Dave non riuscì a chiudere
occhio. Continuava a girarsi e rigirarsi sotto le coperte pensando alle parole
di quello che già considerava il proprio maestro e ad
una possibile risposta da offrire al quesito che gli aveva rivolto.
Verso mezzanotte la pioggia riprese
a cadere, meno intensa ma comunque fragorosa, ma l’argine creato dallo
straniero incredibilmente resse all’impetuosità del fiume, rendendo addirittura
quasi superflua la presenza di un piccolo presidio di uomini che sorvegliasse
costantemente la situazione per avvisare prontamente la popolazione in caso di
nuovo pericolo.
Le gocce d’acqua che si infrangevano sul tetto e sul vetro della finestra accanto
al suo letto lo distraevano, impedendogli di pensare, e questo non faceva altro
che accrescere il suo nervosismo.
Alla fine la stanchezza per il
lungo viaggio e per il massacrante lavoro al fiume si rivelarono
più forti della sua determinazione nel trovare la risposta corretta, e il
ragazzo cadde inesorabilmente in un sonno profondo; purtroppo a forza di
pensare aveva fatto le tre, e già al sorgere del primo sole fu costretto ad
alzarsi per svolgere un compito non certo semplice.
Anche se l’emergenza inondazione
era rientrata la prima onda aveva provocato dei danni,
seppur lievi, alla parte bassa del villaggio, soprattutto alla scuola,
l’edificio più a valle, e molti tra uomini e ragazzi furono costretti per la
giornata successiva a tralasciare i loro doveri per dedicarsi alla rimozione di
fango e detriti; ma certi obblighi, come foraggiare le bestie e badare ai
campi, andavano comunque espletati, e di conseguenza coloro ai quali fu detto
di svolgere i compiti abituali si ritrovarono una mole di lavoro ben più alta
rispetto a quella abituale.
Dave ad esempio fu costretto a
condurre al pascolo non solo le capre della sua famiglia, ma anche quelle di
tutti gli altri allevatori del villaggio, per un totale di almeno duecento
bestie. Non potendo andare a scuola i suoi due fratelli più grandi, Dylan e
Yullie, andarono con lui; malgrado fossero ancora
piuttosto piccoli sapevano entrambi condurre gli animali, e si offrirono di
aiutarlo. Con loro c’era anche Andy, un amico di Dave, incaricato invece di
portare al pascolo le mucche.
Il freddo e la pioggia dell’ultima
notte avevano lasciato spazio ad un cielo terso e ad
un clima tutto sommato gradevole, ma i ragazzi per ogni evenienza avevano con
sé i loro impermeabili.
Raggiunto il solito pascolo, una
vasta malga sulle pendici della montagna ad est, Dave
si sedette ad una pietra e ricominciò a meditare sulla domanda fattagli da
Regis, e nel contempo teneva d’occhio le capre per essere sicuro che non si
allontanassero troppo.
Poco lontano, Dylan e Andy
ammazzavano il tempo giocando a carte, Yullie invece si dedicava come al solito al suo passatempo preferito, la creazione di
corone di fiori.
Dave si sentiva confuso: l’oscurità
continuava ad ammantare le parole del maestro, ma durante il tragitto aveva
pensato più volte che perdendosi nella natura,
l’essenza stessa dal quale scaturiva la magia, forse gli sarebbe stato più
facile trovare la risposta che stava cercando.
Come aveva appreso a scuola, la magia altro non era che un immenso fiume di energia che,
sgorgando direttamente dal cuore del mondo, lo attraversava in lungo e in
largo, un fiume al quale alcuni esseri venti, tra i quali gli uomini, potevano
attingere, a condizione di possedere le conoscenze necessarie per farlo.
Purtroppo, alla fine della
giornata, nulla di nuovo era riuscito a produrre, e come il sole cominciò a
discendere venne il momento di prendere la via del ritorno con la consapevolezza,
da parte di Dave, di aver già sprecato il primo dei tre giorni a propria
disposizione.
Quanto lui, i suoi fratelli e Andy
tornarono a Mablith il villaggio era in fermento; qualcun altro aveva
riconosciuto lo straniero, e la notizia, viaggiando come un fulmine, aveva
fatto rapidamente il giro delle abitazioni.
Dalla modesta locanda il nobile
Regis era stato invitato a trasferirsi nella villa del signor Greede, che dopo
avergli offerto ogni sorta di prelibatezza e avergli messo a disposizione la
più confortevole delle camere lo aveva ringraziato mille volte per i servigi
resi al suo villaggio e lo aveva pregato di restare un altro po’, trattenendosi
per tutto il tempo che avesse voluto.
Ma Regis, declinando educatamente
l’offerta, ribadì che avrebbe lasciato Mablith entro
tre giorni, evitando però di puntualizzare, col rischio di venire frainteso,
che se fosse stato per lui se ne sarebbe andato anche subito.
Tuttavia, qualcosa in Dave si era
mosso. Forse non aveva trovato la risposta alla domanda, ma c’era una cosa che
voleva fare, e anche se poteva benissimo essere considerata un’azione avventata
e tutto sommato inutile, visto che ora come ora le sue
possibilità di venire preso come allievo erano prossime allo zero, questo non
cambiava la sua decisione.
Aveva nascosto la verità a tutti,
compresa la sua famiglia, ma almeno per una volta, una volta
nella vita, voleva essere sincero, e dire le cose direttamente.
Quando lui e i suoi fratelli
entrarono in casa il resto della famiglia era già
pronto per cenare; suo padre aveva lavorato come un forsennato per tutto il
giorno spalando fango, riparando muri e trainando carriole, e neanche due bagni
di fila nell’acqua saponata erano bastati a togliergli completamente il fetore
di dosso.
Dave era deciso e risoluto, ma
scelse di lasciar passare la cena prima di esternare i suoi pensieri; tuttavia,
ben prima che i piatti venissero svuotati, il suo
atteggiamento silenzioso e sovrappensiero era già stato notato, e sua madre
alla fine gliene chiese la ragione.
Il ragazzo tirò un gran sospiro:
ancora una volta, se si fosse iniziato non si sarebbe
potuti tornare indietro.
«Papà. Mamma. C’è una cosa di cui
devo parlarvi».
Un gesto, si sa, vale come mille
parole, e far sollevare dal tavolo la pentola della zuppa e farla levitare
placidamente fin sul ripiano fu più che sufficiente a
lasciare l’intera famiglia come pietrificata. Il punto di non ritorno era ormai
stato superato.
Dave parlò serenamente, gentile ma
risoluto. Rivelò tutto: la sua amicizia con Mandy, la promessa che si erano scambiati, e la decisione di usare la sua natura di
stregone per mantenere quella promessa.
E i suoi genitori ascoltarono, in
silenzio e con rispetto; nessuno dei due aprì bocca per tutta la durata del
discorso, ma si capiva dai loro sguardi che la loro incredulità aumentava ogni
secondo un po’ di più.
«E questo è tutto. Ora sapete ogni
cosa. Il nobile Regis ha detto che se supererò la sua prova prenderà in
considerazione l’idea di fare di me il suo allievo.
Volevo che sapeste, e mi dispiace
di avervi nascosto la verità per tutto questo tempo».
Sua madre sembrava sull’orlo delle
lacrime, suo padre invece lo guardava con un misto di severità e
interrogazione, come a volersi accertare che ciò che aveva appena detto suo
figlio fosse vero. Di tutt’altro tipo fu la reazione dei suoi fratelli: se fino
a quel momento avevano visto nel loro fratellone una
sorta di idolo, un braccio forte a cui aggrapparsi e sempre pronto ad aiutare,
ora invece appariva ai loro occhi come una sorta di supereroe.
«Ma allora.» disse Yullie con gli
occhi che luccicavano «Il nostro onii-chan è uno
stregone!»
«Per il momento sono ancora ad un livello molto basso. Ho imparato qualcosa
addestrandomi da me stesso e leggendo qualche libro di magia dalla biblioteca
del signor Greede.
Ma se diventerò
l’apprendista del nobile Regis potrò diventare finalmente un vero stregone, e
onorare la promessa che io e Mandy ci siamo scambiati. Vorrei sapere che voi
condividete la mia scelta».
Suo padre continuò a fissarlo in
silenzio, poi si alzò e andò alla finestra, dandogli le spalle.
«La vita è la tua, Dave. E noi non
abbiamo diritto di giudicare le tue decisioni.»
«Ma,
caro…» tentò di obiettare la moglie
«Se questa è la strada che hai
scelto, allora così sia».
Dave si sentiva felice, perché ora
sapeva di avere l’approvazione di suo padre; tuttavia, per qualche motivo, non
riusciva ad esserlo del tutto, ma decise di non
pensarci.
«Vi ringrazio infinitamente».
Andò a letto con l’animo decisamente più sollevato, e a differenza dell’ultima notte
riuscì ad addormentarsi quasi subito mentre, libero da pensieri, rifletteva
sulla domanda di quello che sentiva sempre più come il suo futuro maestro.
Dormì così bene da non riuscire, la
mattina dopo, a svegliarsi alla sua solita ora; lo svegliarono, ormai a giorno
fatto, dei rumori provenienti dall’esterno, e accortosi di che era ora corse ad affacciarsi alla finestra per vedere di cosa si
trattava.
Il recinto era aperto, segno che le
capre dovevano già essere state portate al pascolo, forse da Dylan; suo padre
invece stava spingere su per la collinetta un grosso covone di fieno destinato
agli animali. Era lui a produrre il rumore che lo aveva svegliato, e vedendolo
ebbe un sussulto: di solito quel lavoro lo faceva lui, tutte le mattine, subito
dopo essersi svegliato.
Suo padre era un uomo forte, che
sapeva lavorare, ma a causa di una brutta caduta di alcuni anni prima ormai
faceva fatica a svolgere quel tipo di lavori, che richiedevano un grande
dispendio di energie.
Subito si vestì e scese al piano di
sotto, ma proprio mentre stava per uscire senza neanche consumare
un po’ della colazione che sua madre, uscita per il giorno di mercato, gli
aveva lasciato sul tavolo, dalla finestra della cucina vide sua sorella Yullie,
che stava giocando sotto il portico, correre in aiuto del padre, che ormai era
sul punto di perdere la presa.
Insieme, i due riuscirono a
guadagnare finalmente la meta, ma lo sforzo compiuto da Glasnet era evidente;
si teneva la schiena e stava chiaramente soffrendo, come ogni volta che
svolgeva mansioni di quel tipo.
«Papà, stai bene?» domandò Yullie
«Tranquilla, non è niente.»
«Non era meglio se chiedevi aiuto
al fratellone?»
«Yullie, non possiamo fare sempre
affidamento su Dave. Finora abbiamo contato anche troppo sul suo aiuto. Ora
però è giunto per lui il momento di scegliere la sua strada, e semmai dovesse
riuscire a fare ciò che si è proposto dovremo imparare ad andare avanti senza
di lui».
Dinnanzi ad una simile prospettiva, la
prospettiva di perdere il suo fratellone, Yullie, superata la meraviglia
iniziale per saperlo uno stregone, iniziò a piangere.
«Io non voglio che il fratellone
vada via!»
«Lo so che è difficile da
accettare, piccola.» le disse il padre abbracciandola «Lo
è per tutti noi. Ma dentro di te devi essere felice.
Lui ha la possibilità di realizzare il suo sogno».
Dave si sentì male come non mai, e
pensò di stare per morire.
Stupido.
Stupido. Ceco. Stolto. Egoista.
Non c’erano parole diverse per
potersi descrivere.
Aveva pensato solo a sé stesso, al suo sogno, senza curarsi minimamente di tutto
il resto. La sua famiglia dipendeva da lui, necessitava del
suo aiuto per andare avanti, ma lui non ci aveva pensato due volte a gettare
via tutto solo per inseguire quella specie di miraggio.
Che poi, valeva davvero la pena di
dannarsi tanto per cercare di raggiungere qualcosa che probabilmente non
sarebbe mai accaduto?
Chi gli diceva che anche diventato uno stregone non sarebbe mai riuscito ad aspirare
alla mano di Mandy, in un sistema ancora sostanzialmente bigotto e retrogrado
come quello di Fiya?
Aveva trascurato la sua famiglia; i
suoi genitori, che tanto avevano fatto per lui. Che diritto aveva di farsi
chiamare uomo se in nome del suo egoismo sacrificava e scartava tutto il resto?
Di colpo, un lampo gli abbagliò la
mente.
Ma allora… eccola!
Eccola la risposta! E l’aveva
sempre avuta sotto il naso! Ogni giorno, in ogni momento della sua vita! La
risposta alla domanda del nobile Regis era elementare, ma allo stesso tempo
impossibile da trovare per chi non l’avesse arbitrariamente cercata.
Venti minuti dopo, veloce come un
fulmine, stava correndo lungo un sentiero che si inerpicava
attraverso la foresta del versante nord della valle.
Poco prima era stato alla residenza
del signor Greede e aveva chiesto di poter parlare con il nobile Regis, ma il
vecchio maggiordomo, Gustav, gli aveva risposto che Regis in quel momento non
c’era.
«Mi dispiace. È uscito
questa mattina presto.»
«Ha detto dove
sarebbe andato?»
«Ha chiesto al padrone di
indicargli un posto tranquillo, dove potersi allenare in tranquillità.»
«E il sindaco dove gli ha detto di
andare?»
«Ai Campi Lurian, se non ho capito male».
Come se avesse avuto il diavolo
alle costole Dave raggiunse infine i Campi Lurian, una tranquilla prateria situata non troppo in alto
dove, di quando in quando, portava anche a pascolare le capre.
E come previsto, Regis era lì.
Chiuso in meditazione, aveva tutto
intorno a sé una decina di grossi tronchi di legno appositamente conficcati nel
terreno, e come spalancò gli occhi gli bastarono un
paio di colpi di spada, estratta e manovrata ad una velocità incredibile, per segarli
tutti a metà.
Dave rimase senza parole di fronte
a tanta abilità, e anche quando Regis si accorse di lui tutto quello che riuscì
a fare per interminabili secondi fu restare immobile
con la bocca spalancata e l’espressione inebetita.
Riacquistato finalmente
l’autocontrollo, si avvicinò al maestro e i due, come la notte precedente,
restarono a lungo a fissarsi senza dire nulla. Poi, il ragazzo si decise a
parlare, ma stavolta non cadde in ginocchio; se voleva diventare un uomo, la
prima cosa da fare era comportarsi come tale.
«Nobile Regis. Con il vostro
permesso vorrei ritirare la richiesta che vi ho fatto di prendermi come vostro
allievo».
Il guerriero non replicò, e neppure
diede segno di essere rimasto colpito o quantomeno interessato; si limitò a
guardarlo dritto negli occhi. Quello sguardo fece tremare non poco Dave, che
tuttavia si sentì finalmente libero da un peso opprimente.
«Ho sbagliato. Ho messo me stesso e i
miei desideri davanti a tutti. Sono stato un presuntuoso e un egoista, e non ho
pensato neppure per un secondo a quanto questa mia
decisione avrebbe potuto gravare su coloro che facevano tanto affidamento su di
me».
Una lacrima gli rigò il viso;
provava una gran vergogna verso sé stesso, e sentiva
il bisogno di confidarsi.
«Io… io volevo usare la magia per
aiutare le persone. Per fare del bene. È questo che avevo promesso a Mandy. Di fare del mondo un posto migliore. Ma quando lei se n’è
andata, quando l’ho vista allontanarsi da me, ho cominciato a considerare la
magia solo uno strumento per poterla raggiungere, per poter
stare di nuovo assieme a Lei.
È con questo pensiero in testa che
Vi ho chiesto di essere vostro allievo, e me ne vergogno profondamente. Questo
non è il modo d’agire di uno stregone».
Infine, asciugatosi gli occhi, e
saldo come non mai, concluse.
«Dopotutto, è a questo che serve la
magia. Per fare del bene agli altri, non a sé stessi».
Regis rimase impassibilmente immobile,
ma, d’un tratto, sfoderò un’espressione strana, come
di malcelata soddisfazione, e le sue labbra parvero piegarsi in un accenno di
sorriso.
«Prova superata.» poi aggiunse «In
tutti i sensi».
A quella risposta Dave si sentì
soddisfatto di sé stesso: forse aveva rinunciato
all’idea di diventare l’allievo di Regis, anche se la cosa indubbiamente gli
bruciava un pochino, ma se non altro aveva dimostrato di possedere il cuore e
lo spirito necessari a superare la sua prova.
Con l’animo molto più sollevato
fece ritorno al villaggio, e una volta lì aiutò il padre a spalare il fieno e
la madre il pranzo. Si sentiva tranquillo e in pace,
libero da un peso che per troppo tempo gli aveva schiacciato il petto.
Si aera confidato, aveva raccontato
tutto, e ora che non aveva più segreti, neppure per sé
stesso, poteva guardare al futuro con nuovi occhi: forse un giorno sarebbe
diventato uno stregone, forse sarebbe riuscito ad aspirare alla mano di Mandy,
ma non avrebbe pesato sulle spalle di altri per riuscire nel suo intento. Ma, soprattutto, non avrebbe più considerato la magia come
un semplice strumento per raggiungere i suoi obiettivi.
Intanto la notizia della sua natura
di stregone, portata soprattutto dai suoi fratelli, cominciò a fare il giro di
Mablith, e molti abitanti cominciarono ad andarlo a cercare per avere un saggio
delle sue abilità.
Erano da poco passate le tre del
pomeriggio, e Dave stava aiutando Dylan a rimettere le capre nel recinto,
quando all’improvviso, per la prima volta dopo tanto tempo, la campana in cima
alla torre che si stagliavano lungo il versante più ripido della valle prese a
suonare all’impazzata.
Mablith si trovava non molto
lontano dalla zona più occidentale del regno di Fiya, ed
anche se i Kalimi erano un popolo per la maggior parte pacifico e dedito al
nomadismo vi erano delle tribù che facevano del brigantaggio e della razzia
delle fertili terre di Fiya la loro principale di reddito.
Attaccavano a ondate, ogni volta
che le rotte di migrazione li portavano vicini ai villaggi, ora da una parte
ora dall’altra, ma sempre con crudeltà ed efficacia spaventose; arrivavano dal nulla, velocissimi, in sella a cavalli o
cammelli, piombavano su un villaggio, rubavano tutto quello che potevano,
uccidevano chiunque gli capitasse a tiro e si ritiravano dopo aver appiccato il
fuoco.
La banda che stava per attaccare
Mablith era una delle peggiori, che aveva lasciato dietro di sé
un’interminabile linea di sangue e ora si apprestava a fare una nuova vittima.
Giunsero dal valico, dalla via
diretta, cavalcando i loro enormi cammelli e brandeggiando ogni sorta di arma,
ma soprattutto quelle tipiche dei Kalimi, archi e scimitarre.
Se si escludevano i pochi mercenari
a contratto che facevano da guarnigione per la
residenza del signor Greede non c’erano soldati a Mablith, e di certo non
abbastanza da poter contrastare quaranta guerrieri pesantemente armati, quindi l’unica
cosa da fare per gli abitanti era rifugiarsi nel palazzo-fortezza del loro
sindaco, facilmente difendibile, e aspettare che passasse la tempesta.
Fortunatamente i predoni vennero avvistati quando erano ancora abbastanza lontani, e
questo diede a tutte le famiglie di Mablith il tempo di raggiungere la casa del
signor Greede, il cui portone venne immediatamente sprangato e bloccato con
tutto quello che si poteva, dalle travi di legno ai comodini.
«Papà, riesci a vederli?» domandò
Dave raggiungendo suo padre sul ballatoio delle mura
«Sono vicini.» rispose Glasnet
indicando una nuvola di polvere che si avvicinava a tutta velocità «Saranno qui
in pochi minuti».
Purtroppo, improvvisamente la
signora Madison iniziò a gridare in tutte le direzioni di non essere riuscita a
ritrovare sua figlia.
«Mia figlia Lory
è ancora lì fuori!» urlò rivolta al sindaco «Era andata a raccogliere fragole!»
«Che cosa facciamo,
signor sindaco?» domandò una delle guardie.
La situazione era complicata:
nessuno, nonostante il clima di fratellanza che univa la gente di Mablith,
sembrava aver voglia di mettere un piede all’esterno con quell’orda di barbari
in procinto di gettarsi sulla valle per andare a cercare una bambina che poteva
essere chissà dove, se non addirittura già morta.
La stessa signora Madison, in preda
alla disperazione, cercò di uscire, ma suo marito, ugualmente disperato ma
comunque ancora sano di mente, la trattenne.
«Vi prego! Dovete salvarla! È la mia
bambina!».
Le urla e i pianti di quella povera
donna spaccarono il cuore di molti, ma continuava ad albergare il timore di
uscire; poi, d’un tratto, Dave intravide una figurina
piccola e gracile sbucare da dietro una casa del villaggio ormai deserto.
«Eccola! La vedo!».
Era proprio
lei, la piccola Lory, con il suo cestino pieno di
frutti di bosco; era tornata già da alcuni minuti, e non trovando nessuno nella
sua casa, situata in un punto isolato al limitare della foresta, era andata a
cercare i suoi genitori a Mablith, e ora si trovava proprio nell’occhio del
ciclone, lì dove la tempesta in procinto di scatenarsi.
La voglia di uscire all’esterno
passò da poca a nulla, e a questo punto neanche le preghiere disperate della
signora Madison sembravano capaci di smuovere gli animi. Ma
Dave aveva già preso la sua decisione; aveva appena capito cosa doveva fare uno
stregone, ma soprattutto un uomo, per definirsi tale, e ora avrebbe messo in
pratica quei precetti.
«Vado io!» disse, e senza pensarci
saltò giù dalle mura
«Dave, aspetta!».
In una disperata corsa contro il
tempo Dave raggiunse la piccola Lory, che ancora
vagava senza meta tra per le strade di Mablith
chiamando la mamma, ma prima che potesse portarla al sicuro i predoni si
avventarono sul villaggio, rendendo impensabile il ritorno al palazzo.
«Dannazione!»
Il ragazzo raggiunse la propria
casa e, aperta una botola nascosta sotto il tappeto della sala da pranzo,
rivelò un piccolo scomparto intagliato nella pietra dove lui e la sua famiglia
erano solito conservare il pane, e vi fece entrare Lory.
«Resta qui e fai silenzio. Vedrai
che andrà tutto bene».
La bambina, com’era comprensibile,
si fece pregare, e pianse all’idea di restare sola, ma poi volle dare fiducia
agli occhi sinceri e amorevoli di Dave e si rannicchiò quatta quatta sul fondo dello scomparto, che venne
immediatamente sprangato.
All’improvviso, mentre il ragazzo
era in procinto di trovarsi anche lui un nascondiglio, un predone entrò in casa
sfondando la porta e subito gli si avventò contro; Dave riuscì ad evitare il
primo colpo, che spaccò in due il tavolo, e raccolto un grosso coltellaccio da
carne lo usò per tentare di difendersi.
Ma era un’impresa disperata: lui non
aveva nessuna esperienza di combattimento, mentre i Kalimi, e soprattutto i
predoni, erano delle eccezionali macchine da guerra che uccidevano con estrema
abilità.
Per evitare che il nemico potesse
accorgersi della presenza di Lory Dave tentò di
spostare il combattimento all’esterno, ma trovatosi la strada verso la porta sbarrata decise di salire al primo piano.
L’aggressore gli andò dietro, e si vide venire contro ogni sorta di oggetto e
suppellettile in grado di rallentarlo, ma niente sembrava capace di farlo
desistere.
Dave tentò di barricarsi nella sua
camera, ma anche quella porta venne sfondata, e dopo
un brevissimo scambio di colpi, in cui la morte arrivò a sfiorarlo più di una
volta, il ragazzo venne letteralmente lanciato oltre la finestra.
Fortunatamente atterrò sull’erba, attutendo la caduta, ma quel mostro continuò ad inseguirlo saltando giù a sua volta, e quando Dave, mezzo
intontito dal colpo, riuscì a rialzare gli occhi, i nemici, da uno, erano
diventati sei.
Pensò che fosse davvero la fine, che
sarebbe morto prima di poter realizzare il suo sogno, ma il destino aveva in
serbo altri progetti per lui; proprio quando stava per alzare la spada,
l’aggressore originale venne assalito lateralmente da
una figura velocissima e letale che lo trafisse inesorabilmente sotto l’ascella
senza lasciargli scampo.
Il predone rovinò a terra già morto, e Dave poté scorgere la figura del suo
salvatore.
«Nobile Regis!».
Gli altri banditi, lasciato perdere Dave, si concentrarono sul nuovo arrivato,
che capirono subito essere su un altro livello; si lanciarono all’attacco tutti
insieme, ma questo non servì a salvare nessuno di loro, perché morirono uno
dietro l’altro nel giro di dieci secondi.
A quel punto, tutti i predoni che
avevano assistito allo scontro si accanirono su Regis, lasciando
perdere completamente la razzia del villaggio. Alcuni di essi tirarono
frecce infuocate, ma il guerriero riuscì a respingerle tutte facendo ruotare
vorticosamente la sua spada.
Purtroppo una di queste, lanciata
con meno precisione, invece di dirigersi verso di lui lo scavalcò, entrò da una
finestra nella casa di Dave e si conficcò in un mucchio di lenzuola smesse, che
subito presero fuoco. Furono sufficienti solo pochi secondi perché
l’abitazione. essendo fatta per buona parte di legno,
diventasse un immenso braciere, e Dave sentì un brivido lungo la schiena al
pensiero che Lory era ancora all’interno.
Regis era troppo impegnato a
contrastare gli attacchi dei predoni, quindi l’unica persona in grado di
aiutare la bambina era lui. Fattosi forza si lanciò
all’interno della casa, già avvolta dalle fiamme, ma appena fu dentro si rese
conto di aver voluto fare, a suo rischio e pericolo, il passo più lungo della
gamba: tutto bruciava, il calore era immenso e il fumo, oltre a coprire la
vista, arrivava fin nel profondo dei polmoni, rendendo impossibile respirare.
Solo andando a tentoni
riuscì a raggiungere la cucina, e come sentì la piccola piangere e tossire si
avventò sulla botola, aprendola; Lory era ancora
cosciente, ma aveva respirato tanto di quel fumo che non riusciva a smettere di
tossire.
«Tranquilla, ci sono io! Ti porterò
fuori di qui!».
Ma il ritorno si rivelò molto più
difficile, sia perché Dave era costretto a portare Lory
sulle spalle sia perché il fumo diventava sempre più denso, e le fiamme sempre
più alte.
«Ho paura.»
«Cerca di resistere. Ormai ci siamo».
All’improvviso, una porzione del
soffitto cedette, e le travi infuocate minacciarono di cadere addosso ai due
ragazzi. Fu sufficiente un attimo, un briciolo di convinzione, e quasi senza
rendersene conto Dave, alzato il braccio destro, fermò le travi, che restarono
sospese a mezz’aria qualche istante per poi cadere più lontano.
Dave non credeva ai suoi occhi:
fino a pochi giorni prima non se lo sarebbe neanche sognato di fare una cosa
simile. Allora era vero che, se usata pensando agli altri invece che a sé stessi, la magia diventava molto più potente.
Senza riflettere oltre il ragazzo
riuscì finalmente a riguadagnare l’uscita.
All’esterno, nel frattempo, i
predoni stavano cadendo uno dietro l’altro sotto i colpi di Regis, che risultava ai loro occhi come una fortezza inespugnabile.
Inoltre gli abitanti, imbaldanziti e rinvigoriti dalla sua presenza, impugnata
ogni sorta di arma si erano a loro volta lanciati all’attacco per difendere il
proprio villaggio.
Alla fine cinque avversari, tra i
pochi ancora in vita o in grado di combattere, circondarono Regis, con
l’intento di attaccarlo da tutte le direzione;
incredibilmente, dopo essersi guardato un momento intorno, il guerriero
rinfoderò la spada, rimanendo immobile al centro del cerchio con il volto
disteso e gli occhi chiusi.
I predoni rimasero comunque cauti,
poi, all’unisono, attaccarono.
Fulmineo, Regis riaprì gli occhi, e
come aveva fatto poche ore prima con i pali di legno
estrasse fulmineo la spada, movendola con tale maestria e precisioni che gli servirono
due soli colpi per eliminarli tutti.
A quel punto i superstiti tentarono
la fuga, ma vennero bloccati e assaliti da una folla
inferocita che solo l’arrivo del signor Greede riuscì a placare.
Tutti acclamarono Regis come il
loro salvatore, ma anche Dave ebbe la sua ben meritata quantità di elogi. Se
non fosse stato per lui Lory non sarebbe
sopravvissuta, e nessuno più della madre della bambina lo ricoprì di ringraziamenti. Lo stesso sindaco di congratulò con lui,
e tutti questi complimenti fecero nascere nel ragazzo un misto di soddisfazione
e umiltà; soddisfazione per essere stato capace di
fare la sua parte, umiltà per l’essere consapevole che uno stregone doveva fare
del bene per definizione, senza aspettarsi o pretendere alcun tipo di
ringraziamento.
Il bilancio finale fu di dieci
morti e trenta prigionieri, che vennero coperti di
catene e rinchiusi in una vecchia capanna dove, tra le altre cose, veniva
stoccato il concime per i campi. Alcune case erano state danneggiate, altre
distrutte, ma niente che non si potesse riparare.
«Ho già avvisato la polizia
militare.» disse Regis il giorno dopo ai confini del villaggio, già pronto a
ripartire «Verranno a prenderli tra qualche giorno.»
«A nome di
tutto il villaggio» disse il signor Greede «Voglio ringraziarvi mille volte per
ciò che avete fatto. Mablith avrà un debito nei vostri confronti che
difficilmente potrà risanare. Vi offrirei una ricompensa, ma so che per voi
sarebbe quasi un insulto.
Quindi, grazie».
Regis non replicò, e messosi il
cappello riprese la propria strada, salutato dagli
abitanti. Dave non salutava, né sembrava felice.
Con Regis se ne andavano tutte le
sue speranze, dopotutto. Forse sarebbe riuscito, un giorno, a trovare un altro
maestro, ma sapeva che neanche a cercare cent’anni ne avrebbe trovato un altro
uguale.
Ai suoi genitori aveva spiegato già
la sera prima le ragioni per cui aveva deciso di rinunciare ad andare con Regis
pur avendo risolto brillantemente il suo enigma, e ancora una volta loro non
avevano detto niente, se non che la vita era sua e che
poteva usufruirne come meglio voleva. D’un tratto,
alzato casualmente lo sguardo, si accorse che tutti, e soprattutto la sua
famiglia, lo stavano guardando, e sorridevano.
Sua madre, dolce e amorevole come
non mai, gli si avvicinò con in mano un fagottino
contenente, a giudicare dal profumo, le sue migliori prelibatezze.
«Mamma…»
«Ho pensato di prepararti il pranzo.
Ci sono tutte le cose che ti piacciono di più».
Sembrava un giorno come un altro,
quando gli preparava il cesto con cui mangiare una volta giunto dal pascolo, ma
nonostante sorridesse i suoi occhi lucidi erano ad un passo dal pianto. Dave
inizialmente non riuscì a comprendere, ma poi gli bastò guardare i volti dei
suoi compaesani per capire.
«Sai qual è una delle mie massime,
Dave?» disse il signor Greede «Se non vivi per gli
altri sei un egoista. Ma se non vivi anche per te stesso, beh, sei un idiota.»
«Signor Greede…»
«Vai, fratellone.» disse Yullie
«Noi siamo con te.»
«Falli tutti neri, quegli aristrocratici.» disse Dylan, che proprio non sopportava i nobili
«Si dice
aristocratici.» lo corresse la sorella
«E allora? È la stessa cosa!
Mostragli di cosa siamo capace noi della campagna.»
«Dylan… Yullie…».
Suo padre andò da lui e,
sorridendo, gli mise una mano sulla spalla.
«Ci hai aiutato molto in tutti
questi anni Dave. Ma ora è tempo che tu ti faccia la tua vita.»
«E mi raccomando, scrivici.» disse
la vecchia Treiba «Facci sapere come stai.»
«E soprattutto.» disse il signor
Greede «Evita i guai. Per quanto possibile».
Dave era sul punto di piangere, ma
non volle farlo; non volevano ammetterlo, ma i suoi
genitori stavano facendo un grande sacrificio, soprattutto in quel momento,
dove tutto era da ricostruire, quindi non voleva disonorare questo sacrificio
con le lacrime.
Nuovamente, sua madre gli porse il
cesto del pranzo, e lui, con un sorriso, lo prese.
«Vi ringrazio. Grazie di tutto
cuore. Siete i migliori genitori del mondo.»
«Abbi cura di te.» disse Glasnet.
Dave abbracciò
entrambi, salutò i suoi fratelli, poi si mise a correre.
«Maestro, aspettatemi!».
Regis si fermò, parve quasi
sorridere, e aspettò che il ragazzo lo raggiungesse per poi rimettersi in
marcia. Il sogno era incominciato. Quanto sarebbe durato, e come si fosse si sarebbe concluso, lo avrebbe deciso lui.
Il giorno dopo, Elys e Viola sprizzavano energia da tutti
i pori, o almeno cercavano di darlo a vedere, quindi il cammino, dopo una così
lunga sosta, poté finalmente riprendere.
La discesa fu molto più facile, e a
metà giornata i ragazzi erano già in vista del prossimo villaggio.
«Novellino, che hai da sorridere?»
domandò Elys vedendo Dave stranamente allegro
«Oh, niente.» rispose lui «Vecchi
ricordi.»
«Siamo quasi arrivati.» disse
Sakura «Prima del tramonto dovremmo riuscire a raggiungere quel villaggio.»
«Che bello!» disse Viola «Finalmente stanotte si dorme in un vero letto! Dopo una
settimana in un sacco a pelo non mi ricordo più di avere le ossa!».
Anche Regis era contento di
lasciarsi finalmente alle spalle quelle dannate montagne per fare ritorno a più
verdi pianure, ma proprio quando i ragazzi avevano iniziato a percorrere il
sentiero che li avrebbe definitivamente condotti a valle, improvvisamente una
figura scura saltò da sopra il costone lungo cui stavano percorrendo e piombò
su di loro.
Riuscirono a spostarsi in tempo, e
quando la polvere si diradò comparve ai loro occhi un
individuo alto e longilineo, un elfo sicuramente, che indossava una tunica nera
da battaglia e brandiva come armi una coppia di guanti provvisti ognuno di tre
lunghi ed affilatissimi artigli ricurvi.
I capelli erano bianchissimi, la
pelle stranamente pallida, e gli occhi, azzurri all’inverosimile, erano lo
specchio di un animo manifestatamente malvagio.
«Finalmente ci incontriamo. Siete
pronti per l’inferno?».
Nota dell’Autore
Eccomi qua!^_^
Roba da matti! Quasi
un mese per aggiornare!
Lo so, è un tempo
abnorme, e io stesso ne sono schifato, ma ho delle
valide giustificazioni per questo immane ritardo: innanzitutto, vengo da una
settimana a dir poco infernale, con cinque esami in sette giorni, di cui due lo
stesso giorno, e anche il ritorno alle lezioni è stato decisamente traumatico.
Inoltre, in questi
ultimi tempi ho cominciato a dedicare sempre più attenzioni al mio agognato
romanzo, quindi cerco di trovare il tempo per fare entrambe le cose.
Da ora in poi cercherò di farmi attendere
un po’ meno, promesso.
«Chi sei?» domandò Regis incrociando lo sguardo raggelante
di quell’individuo
«Mi chiamano con molti nomi.»
rispose quello dopo aver leccato uno dei suoi artigli «La Morte Bianca. Lo Spettro della
Bruma. Il Boia di Galinne. Ma voi potete chiamarmi semplicemente Jalim.»
«Ho già sentito questo nome.» disse
Sakura «È uno dei cani più pericolosi della regina di Normar, e senza dubbio il
suo sicario preferito.»
«Tu invece devi essere Sakura. La
leggendaria invocatrice. La signora della natura. Mi avevano detto che avrei
potuto incontrare anche te in questa missione.
Era da un pezzo che desideravo fare
la tua conoscenza.»
«Desideravi… conoscere me?»
«Avremo modo di conversare in tutta
calma una volta che avrò finito con questo tipo.
Allora, Regis. Mi consegne le gemme
e poi ti lasci uccidere, o devo venire a strappartele una per volta?»
«Tu che cosa dici?» rispose il
ragazzo sfoderando la spada e mettendosi in posa di guardia, imitato da tutti i
suoi compagni
«Per un secondo ho temuto che vi
arrendeste. E allora mi sarei arrabbiato, perché sarebbe stato decisamente poco
divertente.»
«Forse sarà meno divertente e più
doloroso di quanto credi».
Regis attaccò per primo, un assalto
al quale Jalim rispose con prontezza e abilità, ma prima che i suoi compagni,
ad eccezione di Sakura, potessero andare a fornirgli aiuto si ritrovarono la
strada sbarrata da una seconda figura, stavolta una molto famigliare.
«Akita!?» disse Dave.
Era completamente diversa dall’elfa
goffa che avevano visto fino a quel momento: il suo sguardo era freddo,
determinato, degno di una vera spia, e nell’istante in cui saltò a sua volta
giù dalla rupe fu solo per miracolo se Elys, estratta fulminea la spada, riuscì
ad evitate di essere mortalmente trafitta.
«Il vostro avversario sono io.»
«Tu, piccola elfa ingrata!» sbraitò
Viola «È questo il ringraziamento per averti aiutata ad uscire da quel
maledetto gioco?»
«Noi non siamo mai stati alleati.»
rispose lei apparentemente con la più assoluta indifferenza «Anzi, avreste
dovuto cogliere quell’occasione per liberarvi definitivamente di me.»
«Tutti uguali questi cani di
Normar.» disse Elys «Ma forse hai ragione a dire che avremmo dovuto lasciarti
morire. Sarebbe stato molto meglio, soprattutto per te. Perché il male che ti
farò non puoi neanche immaginartelo!».
Invece, a dispetto di qualsiasi
previsione, Akita si rivelò non brava, ma eccezionale, abbastanza da saper
tenere testa a tre avversari contemporaneamente; muoveva i suoi due pugnali con
incredibile agilità, degna di una spia professionista, come del resto era.
Come se non bastasse, pochi minuti
dopo l’inizio della battaglia Viola ed Elys, ma soprattutto Elys, cominciarono
ad avvertire i postumi della lunga malattia: ossa peste, muscoli atrofizzati,
vista annebbiata e scarsa capacità di riflessi, tutte cose che potevano
pregiudicare seriamente l’esito di uno scontro.
«Dannazione.» disse Elys
accorgendosi di fare più fatica del solito a maneggiare la spada «Sono tutta un
dolore».
Anche Jalim si stava dimostrando un
avversario pericoloso, assolutamente all’altezza della sua fama; da solo,
riusciva a tenere testa a Regis e Sakura, e tanta era la sua abilità che i
ragazzi, anche mettendoci buona parte della loro esperienza e pur essendo in
vantaggio numerico, non riuscivano in alcun modo a metterlo in difficoltà.
«Terribilmente mediocre, prode
Regis.» disse durante una pausa «Mi aspettavo qualcosa di più da te,
considerata la tua fama».
Non aveva neanche finito di parlare
che Lumy, arrivandogli alle spalle, lo investì con una nube di fuoco.
I due ragazzi erano certi che
questo sarebbe stato più che sufficiente per annientarlo, e invece, dopo pochi
secondi, il muro di fiamme si dissolse, e Jalim ne riemerse senza neanche un
graffio.
«Ma com’è possibile!?» disse Sakura
«Lumy non gli ha fatto niente.»
«Questo è già un po’ meglio. Ma ci
vuole ben altro per impensierirmi. Ora scoprirete perché mi chiamano la Morte Bianca!».
Detto questo, come un disegno sulla
lavagna, Jalim sparì.
«È scomparso!» disse Regis
guardandosi intorno.
Un istante dopo il ragazzo sentì
distintamente una presenza passargli accanto, e subito dopo un dolore terribile
al fianco sinistro; il colpo gli aveva procurato una ferita davvero seria, e
non ricordava nemmeno più l’ultima volta che ne aveva subita una del genere.
«Regis!» disse Sakura cercando di
soccorrerlo.
Jalim ricomparve nello stesso punto
dove era svanito, sorridendo soddisfatto. Regis cadde in ginocchio e si portò
una mano sulla ferita, che sanguinava copiosamente; il suo sguardo faceva
capire senza ombra di dubbio che stava soffrendo, e molto.
«Non… non l’ho neppure visto
arrivare.» disse a denti stretti, mentre il sangue usciva copiosamente
«Neppure io. È stato velocissimo. E
quel che è peggio, non ho avvertito alcuna variazione nel flusso magico.»
«La cosa non dovrebbe
sorprendervi.» disse Jalim «Io non sono un mago, e in me non c’è alcuna traccia
di magia.»
«Chi… chi diavolo sei tu?»
«Se proprio ci tieni, te lo dirò.
Il mio vero nome era Kyros, e sono un membro del casato degli Hermos.»
«Il casato degli Hermos!?» ripeté
Sakura «Ma è una famiglia di stregoni.»
«Esatto. Eppure io, pur avendo il
loro sangue, non possedevo nessuno dei requisiti necessari per poter usare la
magia. Mio padre mi considerava un disonore per la sua famiglia, e dopo avermi
fatto passare dieci anni di umiliazioni mi ha venduto per pochi sacchi d’oro ad
un addestratore di spie di nome Galvados.»
«Galvados!?» esclamò Regis «Non…
non sarai per caso… un membro del Programma Dodici?!».
Jalim sogghignò, facendo un cenno
con la testa.
«Regis, di che stai parlando?»
«Di elfi che hanno visto l’inferno.»
«L’inferno!? Ma che cos’è il
Programma Diciassette?»
«Poco dopo essere salita al trono
la regina Egeria approvò uno speciale programma di addestramento mirato a
creare un nuovo tipo di spia, qualcosa di neanche lontanamente paragonabile a
quanto visto fino a quel momento.
Galvados era il maestro incaricato
di addestrare i candidati. Un pazzo psicopatico dalla mente malata, un
condannato a morte salvato dal patibolo solo in ragione della sua abilità.
Non avrei immaginato che qualcuno
potesse sopravvivere ad un simile inferno.»
«Eppure eccomi qua.» rispose Jalim
leccando uno dei suoi artigli.
A quel gesto, Sakura ebbe come un
sussulto, e un’immagine passò per un istante davanti ai suoi occhi, l’immagine
di un individuo impossibile da distinguere, che vedeva solo dal naso in giù,
che ridendo malvagiamente faceva la stessa cosa.
«Ora capisco.» disse la ragazza
tornata in sé «Dopotutto, è la regola. Un pazzo genera un pazzo.»
«Non definirei me stesso come un
pazzo. Un pazzo è un individuo privo di qualsiasi capacità di raziocinio, preda
dei più bassi istinti.
Io sono sopravvissuto fino ad oggi
solo perché avevo promesso a me stesso che avrei fatto di tutto pur di
dimostrare che potevo essere una spia invincibile e letale anche senza l’uso
della magia.
E alla luce di ciò che vi ho appena
mostrato, voi che ne dice, ci sarò riuscito?».
Regis era troppo malconcio per
poter continuare a combattere, e Sakura si mise davanti a lui per offrirgli
riparo; questo non impensierì minimamente il nemico, che anzi sembrò soddisfatto
di come si erano messe le cose.
«È proprio questo che volevo. Quale
modo migliore per dimostrare la mia forza che sconfiggere la maga riconosciuta
unanimemente come la migliore sulla piazza?»
È per questo che volevo misurarmi
con te! Chiama i tuoi spiriti! Scagliami contro tutto quello che hai! Dai il
peggio di te!»
«Se proprio ci tieni, ti
accontenterò. Ma non sarà una cosa piacevole!».
La gemma sullo scettro di Sakura si
illuminò in modo accecante, e tutti i suoi spiriti, usciti, andarono a costituire
con la loro energia una lama di luce due volte più grande del normale, lunga
almeno tre metri e larga come minimo cinquanta centimetri.
Nonostante quelle dimensioni
ciclopiche Sakura la maneggiava con estrema facilità, e il suo primo fendente,
evitato da Jalim, fu così forte da sventrare il terreno.
L’elfo però non si limitò a
fuggire, e dopo qualche minuto di arretramento, giusto per farsi un’idea
dell’abilità e delle tattiche del nemico, rispose, dimostrandosi
incredibilmente coriaceo, abbastanza da saper tenere testa a quella gigantesca
lama.
Nessuno l’avrebbe detto, con quel
fisico apparentemente mingherlino, ma Jalim era dotato di una forza
straordinaria, che gli permetteva di contrastare una spada grande il triplo di
lui con le sole mani; i suoi piedi, sotto la pressione del colpo, talvolta
sprofondavano nel terreno, ma nonostante ciò lui non retrocedeva.
«Devo riconoscerlo.» disse Jalim
durante un confronto di forza «Non siete davvero niente male, principessa».
Di nuovo, Sakura sgranò gli occhi,
ma stavolta la sua espressione sembrò cento volte più sorpresa e sconcertata di
prima. L’immagine dell’individuo che sogghignava apparve ancora nella sua
mente, molti più nitida e chiara, e non vi erano dubbi che quel essere vacuo
era lo stesso che ora le stava davanti.
«Che c’è, siete sorpresa? Io non
dimentico mai lo sguardo dei miei bersagli, e il vostro è particolarmente
facile da ricordare».
Urlando, Sakura lo allontanò
violentemente, e Jalim si compiacque di aver ottenuto il suo scopo: un
avversario arrabbiato è un avversario che non ragiona, e un avversario che non
ragiona è un avversario morto.
I successivi attacchi di Sakura,
mossi da un rancore e da una mancanza di controllo che nessuno, neppure Regis,
le avrebbe mai attribuito, risultarono scoordinati e assolutamente prevedibili,
cosa che Jalim non mancò malignamente di sottolineare.
Dopo poco la lama di luce cominciò
a scheggiarsi e a scomparire per brevi istanti, segno che la ragazza stava
perdendo il controllo sui suoi spiriti; Regis avrebbe voluto aiutarla, ma con
la brutta ferita che si ritrovava era già tanto se riusciva a non rovinare
svenuto a terra, quanto ai suoi compagni non erano messi certamente meglio,
visto che non solo Akita si stava rivelando un avversario molto più pericoloso
del previsto, ma anche che dei tre solo Dave riusciva a combattere al meglio
delle sue possibilità.
La lama di colpo scomparve,
lasciandola completamente scoperta, e Jalim approfittò subito dell’occasione;
avrebbe potuto benissimo ucciderla, ed era effettivamente questo che la ragazza
si aspettava, ma invece, nel rispetto del suo carattere sadico, si limitò a
ferirla come aveva fatto con Regis, lasciandola inginocchiata a terra con una
mano sull’avambraccio destro.
«Pare proprio che la sfida sia
finita. E questa volta, principessa, non sperate di potermi sfuggire».
Sakura lo guardò ringhiando mentre
lui si avvicinava; i suoi artigli, illuminati dal sole, scintillavano
malevolmente, e presto avrebbero reclamato un’altra vita.
Vedendo ciò che stava per succedere
Elys e gli altri cercarono di disimpegnarsi per correre in aiuto dei loro
compagni, ma Akita non dava loro un attimo di tregua e continuava
insistentemente ad incalzarli; tuttavia, Dave notò che sembrava esservi un
qualcosa di strano nel suo sguardo, come una sorta di indecisione, uno spirito
di rivalsa tenuto a freno dallo spettro della paura e della sottomissione.
«Prima vi ho permesso di
scegliere.» disse Jalim sovrastando Regis «Consegnarmi le gemme o farvele
strappare. Ora vi concedo un’altra scelta. Me le consegnate e vi fate uccidere,
o vi uccido e me le cerco da solo?»
«Va… vattene all’inferno, dannato
pazzoide.»
«Mi aspettavo una risposta del
genere. In tal caso addio, prode Regis».
L’artiglio calò come la mannaia del
boia, ma all’ultimo secondo, con insospettato vigore, il guerriero parò
sfoderando Gigabrian, e Jalim, colto alla sprovvista, dopo poco fu costretto a
indietreggiare.
«Questa sfida non è ancora finita!»
“Forse l’ho sottovalutato. È più in
gamba di quanto mi aspettassi”.
Il combattimento stava quasi per
riprendere, quando all’improvviso una nuova figura apparve dal nulla saltando
giù dalla rupe e frapponendosi tra i due contendenti per poi rivolgere le
proprie attenzioni a Jalim. Era anch’egli un elfo, curato nell’aspetto e bello
a vedersi, e come arma brandeggiava un pregiato dao cinese molto ben tenuto e
di ottima fattura.
Jalim arretrò, mettendosi in
guardia, quanto a Regis, nonostante non potesse vederlo in volto, era sicuro di
non averlo mai visto; il suo abbigliamento e la forma delle sue orecchie erano
chiaramente identificativi del popolo Weilarn, e Regis non era mai stato prima
d’ora nelle Fennyrgs, la loro terra natale, dove ancora risiedevano i pochi
sopravvissuti alla strage compiuta da Normar durante la campagna di conquista.
«E tu chi diavolo sei?» domandò la
spia
«Morte Bianca Jalim.» disse quasi
ringhiando il nuovo arrivato, per poi scattare, veloce come il fulmine, contro
il suo avversario.
Jalim schivò saltando ma quello gli
andò dietro; combatterono in aria per alcuni istanti, poi tornarono a terra e
si scontrarono ancora. La battaglia durò una trentina di secondi, poi i due si
separarono.
«Il tuo stile di combattimento non
mi è nuovo.» disse Jalim «Riformulo la mia domanda. Chi sei tu?»
«Prova a ricordare. Il mio nome è
Aiolos, e noi due ci siamo già incontrati».
La Morte Bianca tornò allora a cinquant’anni
prima, durante la Seconda Guerra
dell’Ovest. Tutte le nazioni e le tribù d’occidente erano state domate e
asservite a Normar, tutte tranne i Weilarn, che abitavano nelle remote e
inospitali isole Fennyrgs.
Questi all’apparenza innocui e
indifesi pescatori erano in realtà dei maestri nella guerra navale e nel
combattimento insulare, e questo perché, prima di diventare un unico popolo,
erano stati un insieme indistinto di clan in costante lotta fra loro. La
gigantesca flotta messa insieme per muovere alla conquista delle Fennyrgs finì
impantanata nei fondali insidiosi che attraversavano e circondavano le isole,
fondali che solo chi aveva sempre vissuto laggiù poteva conoscere, per poi
finire travolta e schiacciata dalla rapida ed inesorabile riscossa Weilarn.
Una seconda flotta circondò l’arcipelago
e tentò un attacco simultaneo da tutte le direzioni, ma i Weilarn, intuita la
minaccia, abbandonarono, seppur con la morte nel cuore i loro territori di
confine, concentrandosi tutti sull’isola principale, Tórshavn, e la
trasformarono in breve tempo in una fortezza inespugnabile, con altissime
scogliere ad impedire l’attracco delle navi ed un numero in quantificabile di
trappole piazzare lungo la stretta insenatura che costituiva l’unico accesso al
piccolo porto interno.
La situazione finì per arenarsi e
trascorse quasi un anno, durante il quale gli assediati non diedero alcun segno
di volersi arrendere. In loro aiuto si stavano preparando a muovere le ultime
tribù libere della costa occidentale, e la determinazione con cui si opponevano
all’occupazione aveva acceso focolai di rivolta un po’ ovunque.
L’autorità e la credibilità di
Normar erano in pericolo: se un regno così grande e potente non riusciva ad
aver ragione di un pugno di barbari, come avrebbe fatto a piegare al suo volere
le ben più pericolose e bellicose genti dell’est?
Alla fine Lainay, con l’appoggio di
suo fratello e di buona parte dei vertici militari, approvò l’Ordine 153, in cui si autorizzava
l’utilizzo delle spie come truppe scelte d’invasione destinate a mettere fine
alla guerra.
E non si tratto di cinque o dieci
soggetti, come accadeva quasi sempre nelle fasi più delicate di un’invasione,
ma di svariate centinaia; si trattò senza dubbio del più grande impiego di spie
in un unico teatro di guerra che si fosse mai visto. I migliori dei migliori
vennero convocati, e l’ordine che ricevettero per bocca di Jalim, nominato
ex-novo comandante provvisorio dell’ordine, era chiaro: totale annichilimento
della minaccia nemica.
Forti della loro superiore
esperienza le spie penetrarono a Tórshavn, e mentre alcune aprivano la strada
all’esercito reale liberando l’insenatura le altre si avventavano sugli ignari
assediati, sorprendendoli nel cuore della notte.
L’attacco si trasformò in un
massacro: i Normariani dilagarono per tutta l’isola uccidendo, bruciando,
devastando e razziando; fiumi di sangue scorsero per tutta l’isola, che da
fortezza inespugnabile si trasformò in una trappola mortale.
Sarebbero dovuti passare anni
perché dalla mente di molti, anche dei più temprati e abituati alla battaglia,
si diradassero, senza mai scomparire del tutto, le immagini di quello che
sarebbe stato ricordato come uno dei più violenti, terribili e oscuri
spargimenti di sangue di tutta la storia di Normar.
Solo pochi furono risparmiati,
unicamente in virtù della loro esperienza nella battaglia navale di cui il
Regno aveva un così grande bisogno, e da quel momento in avanti ciò che veniva
ora ricordato come il Massacro di Tórshavn divenne in tutta Normar un argomento
tabù, di cui nessuno, e specialmente chi vi aveva preso parte, aveva voglia di
parlare.
E chi più di tutti si era distinto
in quella spaventosa carneficina era stato proprio Jalim; da quel momento in
avanti nessuno mise più in discussione il suo ruolo di leadership all’interno
dell’ordine, né tantomeno la sua posizione al fianco di Lainay, apprezzata da
pochi e sgradita alla maggior parte.
Aiolos si scoprì il petto,
mostrando una spaventosa cicatrice formata da tre tagli obliqui che dalla
spalla destra arrivavano fino al fianco sinistro.
«Io ho ancora ben presente il
giorno del nostro ultimo incontro. Non ti aspettavi di rivedermi vivo, giusto?»
«Scusa amico, ma proprio non mi
ricordo di chi tu sia.» disse Jalim con incredibile noncuranza mettendosi un
dito in un orecchio «Del resto, non posso ricordarmi di tutti i Weilarn che ho
ammazzato. Sono così tanti che persino io ho perso il conto.»
«Maledetto.» ringhiò Aiolos a denti
stretti «Pagherai per ciò che hai fatto al mio popolo!».
Questa volta Jalim si fece trovare
pronto, e dopo un rapido scambio di colpi indietreggiò.
“Questo non faceva parte del
piano.” pensò “Ho messo Regis alle corde, ma questo tipo rischia di darmi
parecchi grattacapi. Per quanto mi dispiaccia, per il momento credo sia meglio
farsi da parte”.
Portatosi le dita alla bocca lanciò
un fisco particolare che venne interpretato da Akita, ancora impegnata in
combattimento una ventina di metri più lontano, come il segnale per la
ritirata; l’elfa gettò quindi a terra una bomba fumogena con la quale coprì la
propria fuga e Jalim fece altrettanto, dileguandosi nel nulla sotto gli occhi
dei suoi avversari.
«Ci rivedremo, statene certi!»
disse arrampicandosi fin sulla cima del precipizio con l’agilità di un gatto
per poi scomparire
«Codardo! Torna qui!» gridò Aiolos,
ma fu tutto inutile.
Tornata la calma Regis, sopraffatto
dal dolore, cadde in ginocchio, e incrociato lo sguardo di Aiolos capì subito
che, malgrado li avesse aiutati, non era certamente dalla loro parte. Elys e
gli altri arrivarono di corsa, trovando lui e Sakura stremati dalla fatica.
«Maestro!» disse Dave correndo in
suo aiuto
«Io sto bene. Pensa a Sakura».
Entrambi vennero guariti con un
incantesimo, e durante tutto quel tempo Aiolos restò in disparte, limitandosi a
guardarli senza proferire parola.
«Grazie del vostro aiuto.» disse
Dave quando i suoi compagni furono di nuovo in piedi «Se non fosse stato per
voi…»
«Non fraintendete.» rispose secco
l’elfo «Non l’ho fatto per salvarvi la vita. Al contrario, sono qui perché mi è
stato ordinato di fermarvi.
Interrompete la ricerca delle
pietre leggendarie e non vi farò del male.»
«Mi dispiace, ma non possiamo.»
disse Regis senza esitazioni «Quelle pietre potrebbero essere l’unica cosa in
grado di salvare questo mondo dalla minaccia che lo sovrasta. Se non le
prendiamo noi lo faranno i sacerdoti di Inti, e l’uso che ne faranno sarà di
gran lunga peggiore».
Aiolos strinse più forte
l’impugnatura della spada, e subito Elys e Viola si pararono in difesa dei loro
compagni, pronti a combattere se necessario. Invece, dopo poco, l’elfo
rinfoderò l’arma.
«Non è mia abitudine combattere con
un avversario ferito. Per stavolta mi faccio da parte. Ma vi avverto; se
continuerete per questa strada, la prossima volta che ci incontreremo sarò
costretto a fermarvi con qualunque mezzo».
Detto questo Aiolos se ne andò;
Elys fece per inseguirlo, ma Regis, che per la fatica e il dolore era costretto
a sorreggersi a Dave, la trattenne, poi, quando furono di nuovo soli, volse il
suo sguardo verso Sakura, che a sua volta veniva sorretta da Viola.
«Ora capisco.»
«Avete detto qualcosa, maestro?»
«No, Dave. Non è niente.
Rimettiamoci in marcia».
«Caldo.» disse Lily trascinandosi stancamente a mezz’aria.
Le fertili pianure occidentali
erano ormai alle spalle, e il panorama che si stagliava tutto intorno ai tre ragazzi
era di tutt’altro tipo. Jao-Gan era un deserto bellissimo, d’accordo, con le
sue dune sinuose e le sue formazioni rocciose, ma la sua vastità era tale da
essere soprannominato dai mercanti che lo attraversavano l’Oceano di Sabbia.
Solo rimanendo lungo i sentieri indicati sulle mappe che collegavano tra loro
le varie oasi non si correva il rischio di perdersi, ma il caldo era davvero
opprimente, da far venire le allucinazioni anche agli uomini dalla tempra più
forte.
Per proteggersi dal sole cocente e
dalla sabbia che entrava nella bocca, nel naso e negli occhi, Erik e i suoi
compagni avevano acquistato da un mercante incontrato lungo la strada delle
mantelle e dei copricapo specifici per il deserto, ma neppure questo sembrava
bastare per sopperire ad un clima tanto proibitivo.
«Di questo caldo non si era
parlato.» disse Lily passandosi una manina sulla fronte fradicia di sudore.
Pur essendo, in quanto fata,
composta di energia, in modo non molto dissimile dai Rinnegati, Lily aveva pur
sempre un vero corpo, e anche lei, come i suoi compagni, sentiva gli effetti
dell’alta temperatura. Era così stanca e provata da riuscire a volare solo per
brevi tratti; per il resto scroccava un passaggio posandosi sulla spalla o
sulla testa di qualcuno dei ragazzi, come era solita fare ogni volta che voleva
riposarsi.
Tuttavia, chi sembrava sentire
maggiormente gli effetti del caldo era Sanae; essendo nata e cresciuta in una
zona montagnosa, dove la temperatura raramente saliva sopra i venti gradi,
quella era sicuramente la prima volta che si trovava ad affrontare un clima
così proibitivo.
La sua natura di Inu le permetteva
di sopravvivere per più tempo senz’acqua, ma ormai la stanchezza cominciava a
farsi sentire. Non volendo essere un peso cercava di non dare a vedere la
propria sofferenza, ma venne il momento in cui, per puro istinto, dovette
sorreggersi al braccio di Koichi per non perdere l’equilibrio.
«Nobile Sanae. State bene?»
«Mi… mi dispiace.» disse lei
mollando subito la presa «Non volevo…»
«Cercate di resistere. Se le
informazioni di Fae-Yang sono giuste, non dovrebbe mancare molto al monastero
di Chang-Du».
Erik camminava due passi avanti a
loro, all’apparenza indifferente al caldo e alla fatica, ma di quando in
quando, badando bene a non farsi vedere, si portava la mano sinistra al braccio
destro, stringendolo con forza. Negli ultimi tempi il demone che vi abitava
aveva ripreso forza, e probabilmente era solo una questione di tempo prima che
avesse tentato nuovamente di emergere.
«Ora basta!» sbottò Lily «Non farò
più un altro metro! Voglio un grande bicchiere di menta con limone e doppio
ghiaccio, e lo voglio adesso!»
«Lily, non fare la bambina capricciosa.»
disse Sanae mettendosela sulla spalla per farla riposare «Dai, ti porto un po’
io».
All’improvviso, come fulminato,
Erik si fermò, e inginocchiatosi poggiò l’orecchio a terra.
«Maestro, che succede?»
«C’è qualcosa qui sotto.» disse «Lo
sento muoversi.»
«Di cosa può trattarsi?» domandò
Lily
«Non lo so. Ma è grosso. Molto
grosso».
Passarono solo pochi secondi, poi
una sorta di esplosione violenta preannunciò l’arrivo di un gigantesco verme
alto almeno una decina di metri il cui corpo spuntava solo parzialmente dalla
sabbia; la bocca, rotonda, era armata di tre file di denti affilatissimi una
dentro l’altra, e la pelle, apparentemente corazzata, era di un colore rosso
scuro simile alla porpora.
«È un verme medusa!» disse Koichi
sguainando la spada
«Un che cosa?» domandò Lily
«Non fatevi colpire dalla sua
saliva, vi trasformerebbe in pietra.»
«Io odio gli insetti. Soprattutto
se sono grossi.»
«Nobile Sanae, voi restate
indietro. Ci penseremo io e il maestro».
Il verme chiuse la bocca e sputò
violentemente un getto di saliva grigia che i ragazzi evitarono separandosi e
che, come detto da Koichi, una volta entrata in contatto col terreno si
trasformò istantaneamente in solida pietra.
«Lily, difendi Sanae!»
«Non preoccuparti! La tengo io al
sicuro!».
Erik e Koichi attaccarono da due
diverse direzioni, ma quel verme, nonostante la sua mole, era incredibilmente
veloce, e riusciva a tenere testa ad uno senza mai perdere di vista l’altro. I
Vermi Medusa, come ebbe a dire Koichi nel corso del combattimento, erano cechi,
e si orientavano seguendo unicamente le vibrazioni nel terreno. Impossibile
dunque sfuggirgli, a meno di non volare, ed essendo provato dalla lunga
camminata attraverso il deserto Erik era troppo stanco per materializzare le
sue ali e sollevarsi in volo.
Come se non bastasse la corazza di
quel mostro era incredibilmente solida, incapace da scalfire anche con il colpo
di spada più potente; l’unica parte molla del suo corpo, e quindi trapassabile,
era l’interno della bocca, ma per arrivarci bisognava attraversare una selva di
denti più duri del diamante e affilati come rasoi.
Erik, temendo che il verme potesse
puntare Koichi in quanto inesperto e quindi preda facile, fece di tutto per
attirarne l’attenzione, ma tutto poteva prevedere meno che la reazione del suo
allievo. Come riuscì a far sì che il nemico desse le spalle a Koichi questo,
colto l’attimo, gli si lanciò contro, e con un salto fu sul suo corpo.
«Nobile Koichi!» disse Sanae
vedendolo aggrapparsi ad uno di quei grossi peli di cui era tappezzato il
guscio della creatura mentre questa si agitava come un cavallo imbizzarrito.
Dapprima il ragazzo tentò di
infilare la spada nelle piccole fessure tra le scaglie che costituivano la
corazza del mostro, e alla fine riuscì a fare fu sollevarne leggermente una
usando l’arma come una leva. Stava per colpire la parte morbida finalmente
scoperta quando il verme, con uno scatto inverosimile, lo sparò in aria,
lanciandosi immediatamente contro di lui a fauci spalancate emergendo quasi
completamente dalla sabbia.
«Nobile Koichi, no!».
Koichi sembrò subire senza reagire,
forse perché svenuto, ma di colpo, subito dopo iniziata la discesa, riaprì gli
occhi, voltandosi verso il basso, e messa la spada davanti a sé precipitò
dritto sul nemico, piantandogli tutta la lama tra la prima e la seconda fila di
denti. Il verme, colto alla sprovvista, si contorse per il dolore, allontanando
la bocca con la spada ancora conficcata, e Koichi, scivolando sul suo corpo
come su un giocattolo, tornò a terra.
«Nobile Koichi.» disse Sanae
correndo ad aiutarlo; incredibilmente, non aveva riportato neanche un graffio
«Sto bene, non preoccupatevi».
Erik non perse tempo, e
approfittando dello stato di disorientamento del nemico, spiccò un salto
altissimo, arrivando a sovrastare la scaglia che Koichi, nella sua irruenza,
era riuscito a sollevare; per il dolore il verme aveva serrato la bocca, quindi
quello era l’unico punto vulnerabile.
Fu sufficiente un colpo ben
piazzato, e una volta che la spada fu entrata la sua lama si circondò di luce,
permettendo ad Erik di segare letteralmente il mostro a metà con un solo,
potentissimo taglio.
La parte superiore del verme
precipitò sulla sabbia, morendo in pochi secondi, quella più piccola invece
scivolò all’interno del buco che la creatura aveva scavato al di sotto del
terreno.
«Ce l’avete fatta!» disse Lily, che
poi cominciò a prendere a piccoli calci quanto restava del mostro «Ora non fai
più il gradasso, eh bestione?»
«Comunque c’è qualcosa di strano.»
disse Koichi recuperando la spada «I Vermi Medusa di solito non attaccano
l’uomo. Perché era così aggressivo?»
«Forse qualcosa lo ha innervosito.»
disse Sanae.
Erik, colto da un presentimento, si
inginocchio, prendendo in mano un pugnetto di sabbia e lasciandola cadere un
po’ alla volta; poi, alzò lo sguardo, e prima che potesse dire qualcosa
all’orizzonte comparve una enorme nuvola marrone che si avvicinava sempre di
più.
«Una tempesta di sabbia!».
La tempesta arrivò prima che i
ragazzi potessero mettersi al riparo, forte come non mai, scatenandosi con
tutta la sua paurosa potenza; il vento era così forte e la sabbia sollevata
così tanta che in meno di un secondo Erik e i suoi compagni si persero di vista
l’un l’altro; trovandosi costretti a lottare ognuno per la propria
sopravvivenza.
Lily, leggera com’era, rischiava di
essere spazzata via, e si aggrappava con tutte le sue forze ad una pietra che
sporgeva dal terreno. Erik la trovò proprio quando era sul punto di perdere la
presa, mettendola al sicuro all’interno della tasca della giacca.
Koichi, invece, piuttosto che
cercarsi un riparo cercava in tutti i modi di trovare i suoi compagni
chiamandoli a gran voce, ma il vento copriva interamente la sua voce e intanto
la sabbia gli entrava in bocca, minacciando di soffocarlo.
Per fortuna la tempesta durò poco,
e a breve ritornò la calma. Koichi, che aveva camminato per un tempo
imprecisato, d’improvviso si ritrovò solo, separato dai suoi compagni. Non vi
era traccia né di sangue né del cadavere del verme che avevano sconfitto,
quindi doveva essere finito molto lontano.
«Nobile Sanae! Maestro! Lily!»
gridò a piena voce, ma nessuno rispose.
Molto lontano da lì, anche Sanae
era rimasta isolata dal resto del gruppo, ma la sua situazione era di gran
lunga peggiore. La tempesta di sabbia aveva debilitato ulteriormente il suo
fisico già di per sé non abituato al caldo, e ormai la mancanza di acqua stava
cominciando a farsi seriamente sentire.
In quanto guaritrice conosceva bene
gli effetti causati dai colpi di calore e dalla disidratazione, e se le labbra
secche, la difficoltà nel produrre saliva e il mal di testa erano un chiaro segnale
d’allarme la progressiva perdita di sudorazione e i brividi erano chiari
segnali di emergenza.
Sanae fece tutto quello che poteva
per evitare il peggio, camminando lentamente e cercando di limitare al minimo i
dispendi di energia, ma alla fine, stremata, cadde inerme sulla sabbia in uno
stato di semi-incoscienza. Nonostante la febbre, i dolori e la stanchezza era
consapevole di ciò che stava accadendo, e se ci pensava i brividi diventavano
ancora più forti: sarebbe dunque morta così? Era sopravvissuta alla distruzione
del suo villaggio per andare incontro alla morte in quel deserto senza vita?
Sollevato lo sguardo, le parve di
vedere i suoi amici e la sua adorata nonna in piedi dinnanzi a lei pochi passi
lontano, ma quel poco di raziocinio che le era rimasto le suggeriva che doveva
trattarsi solo di un miraggio, un’allucinazione che altro non faceva se non
rendere ancor più chiaro che la fine era ormai prossima.
Sempre più stanca, avvertì ad un
certo punto una strana sensazione, come se qualcuno le si stesse avvicinando, e
poco dopo il sole impietoso che batteva sopra di lei venne oscurato da un ombra
che portò con sé un po’ di sollievo.
Sanae, ancora cosciente, sollevò
leggermente la testa, ma tutto ciò che le riuscì di vedere con la sua vista
ormai appannata e distorta fu una figura alta e scura con lunghi capelli e una veste
sontuosa. Dietro alla sua schiena vi era qualcosa, forse ali, il che la spinse
a sussurrare, con le poche forze che le restavano, il nome di Erik.
La figura si inginocchiò,
rigirandola e appoggiandole la testa sulle proprie ginocchia, e come le
avvicinò il palmo della mano alla bocca come per miracolo vi comparve dentro un
sorso d’acqua limpida e freschissima. Delicatamente, la fece bere alla ragazza,
poi, riadagiatala a terra, alzò il dito indice, erigendo attorno a lei una
cupola scura che rifletteva per buona parte i raggi del sole.
Sanae fece appena in tempo a vedere
la figura sparire nel nulla prima di perdere i sensi, e di nuovo invocò il nome
di Erik; se fosse rimasta sveglia solo qualche minuto di più avrebbe visto un
gran numero di ombre cominciare ad accalcarsi attorno alla sua piccola
barriera.
Nota dell’Autore
Eccomi qua!
Lo so, avevo promesso
che avrei aggiornato in tempi rapidi, ma come io stesso mi ero quasi
dimenticato questo potrebbe essere il mio ultimo periodo di esami prima della
laurea, e l’ultima cosa che voglio è dover prolungare la mia carriera
universitaria causa qualche esame non passato.
Traduzione, devo
studiare parecchio.
Ad ogni modo, e
questa volta lo prometto per davvero, cercherò di aggiornare il più velocemente
possibile.
Onde evitare rogne e magagne,
meglio mettere subito le mani avanti. Per gli eventi raccontati in questo
capitolo ho preso ispirazione dall’episodio “Progetto Pegasus” della serie
televisiva Stargate SG1
59
Erik e Koichi si ritrovarono poco dopo, quando Erik trovò
il suo allievo inginocchiato sulla sabbia quasi svenuto per il caldo e la
fatica, ma di Sanae neanche l’ombra.
Raccolte le poche forze che gli
restavano Erik materializzò le proprie ali e provò a cercarla dall’alto, ma
dopo aver volato avanti e indietro per più di un’ora per un raggio di almeno
due miglia in ogni direzione non trovò di lei alcuna traccia.
Forse era svenuta a causa della
tempesta, e la sabbia ne aveva coperto il corpo, ma il solo pensare a questa
eventualità gli fece gelare il sangue, e non volle assolutamente crederci:
aveva visto morire troppe persone che aveva promesso di proteggere, e non
avrebbe permesso che succedesse ancora.
Nel tentativo di trovarla si spinse
ben più in là di quanto le sue forze gli permettessero di arrivare, e alla fine
inevitabilmente lo sforzo pretese il suo tributo.
«Maestro!» disse Koichi vedendolo
quasi precipitare al suolo con il volto pallido e l’espressione stremata.
Lily corse da lui e usò il proprio
potere per guarire se non altro la sua stanchezza, ma ormai era chiaro che
riuscire a trovare Sanae diventava, per quanto ammetterlo faceva ribrezzo,
l’ultimo dei loro problemi.
Senza acqua né cibo, lontani dal
sentiero e privi di punti con cui orientarsi, erano le loro vite ora ad essere
in pericolo, e non solo quella della loro amica.
«Se non troviamo al più presto
dell’acqua siamo tutti finiti.» disse Erik respirando a fatica.
Koichi si guardò intorno, come alla
disperata ricerca di un’ancora di salvezza, e fu così che per primo si accorse
di strani movimenti al di sotto del manto di sabbia, movimenti strani e
innaturali.
«Altri vermi?» domandò Lily
«Non credo.» rispose Koichi «Non
sembrano molto grossi».
Come il ragazzo mise mano alla
spada tutto intorno a loro la sabbia si sollevò improvvisamente, e decine di
strani figuri completamente coperti di inquietanti abiti scuri emersero dal
terreno impugnando lunghi bastoni da battaglia; indossavano vistosi copricapo
di tessuto e avevano il volto coperto quasi interamente coperto da un bavero.
Subito si misero in posa di
guardia, e Koichi, colto alla sprovvista solo in parte, fece altrettanto, ma
per qualche ragione esitarono ad attaccare. Erik, troppo stanco per combattere,
restava in ginocchio, ma teneva gli occhi fissi su quei nemici che stavano alle
spalle del suo allievo, pronto a contrastarli, per quanto gli fosse possibile,
qualora avessero tentato qualche colpo basso.
Passarono alcuni secondi, poi uno
di loro, l’unico armato di scimitarra, fece qualche passo avanti tenendo l’arma
rivolta verso il basso; avvicinatosi un po’ si scoprì il volto, rivelando le
fattezze di un uomo piuttosto giovane, forse della stessa età di Erik, con
occhi neri e un piccolo paio di baffi.
«Chi siete?» domandò
«Viaggiatori.» rispose Koichi
«Veniamo da occidente, e siamo diretti a Chang-Du. Abbiamo subito l’attacco di
un Verme Medusa, poi ci ha colti una tempesta di sabbia. Una nostra compagna è
dispersa, e il mio maestro è allo stremo delle forze».
Il capo ascoltò senza commentare o
proferire parola, poi, scrutati attentamente tutti e tre gli stranieri, fece un
cenno ai suoi uomini, che abbassarono le armi; uno di essi si avvicinò a loro,
offrendogli da bere un po’ dell’acqua contenuta nel grande orcio di pelle che
portava dietro la schiena.
«Io sono Fo-Lan, sacerdote
guerriero di Chang-Du.» disse il giovane con la spada «E questi sono i miei
adepti. Vi porteremo al monastero. Seguiteci».
Pochi minuti dopo Erik, Koichi e
Lily, scortati dai loro inattesi salvatori, procedevano lentamente attraverso
una grotta sotterranea la cui entrata era una stretta fenditura in una delle
tante grandi rocce che costellavano il paesaggio, impossibile da trovare per
chi non l’avesse volontariamente cercata.
Erik faceva ancora fatica a
camminare, e veniva aiutato da uno dei monaci, Lily invece, dopo aver svuotato
l’otre d’acqua quasi da sola, scroccava l’ennesimo passaggio appollaiata sulla
spalla di Koichi.
«Questo posto è un labirinto.»
disse la fata vedendo l’incredibile trama di passaggi naturali disposti su vari
livelli
«Non avrei mai immaginato che ci
fossero grotte così grandi al di sotto del deserto.» disse il giovane samurai
«La loro esistenza è nota da
diversi secoli.» disse Fo-Lan «Ma sono in pochi a conoscere l’ubicazione delle
varie entrate. Se un tale segreto finisse nelle mani delle persone sbagliate,
l’impenetrabile barriera naturale che Jao-Gan rappresenta crollerebbe
fragorosamente, e con essa l’equilibrio su cui poggiano i regni di questo
continente».
Tracce del passaggio di esseri
viventi erano più che evidenti, e alcuni di essi lasciavano intendere che quei
cunicoli fossero stati a loro tempo anche una casa per gli antichi abitanti del
deserto; qua e là le pareti erano coperte di iscrizioni e pitture rupestri, e i
geroglifici utilizzati erano inequivocabilmente norreni.
«Maestro, avete visto?»
«Sì, Koichi.» disse Erik “Siamo
sulla strada giusta.” pensò poi.
Durante il viaggio i ragazzi
vennero informati, con loro grande sollievo, che anche Sanae era stata trovata,
e che sicuramente era già stata portata al monastero dove le erano state
prestate tutte le cure di cui aveva bisogno.
Dopo un’ora o poco più di cammino
attraverso quella fitta selva di gallerie Erik e gli altri tornarono finalmente
in superficie, e come la luce del sole tornò ad inondarli comparve davanti a
loro, in tutta la sua bellezza, una grande oasi, al centro della quale sorgeva
Chang-Du. La sua forma, fatta eccezione per qualche differenza, i vasti
complessi religiosi della Thailandia, con numerosi edifici terminanti in alti e
ripidi tetti conici circondati da un recinto di mura.
La torre centrale, quella più alta
di tutte, sembrava anche la più antica, e la sua forma differiva in piccola
parte da quella di tutte le altre, risultando un po’ più tozza e meno
slanciata.
«Non avevo mai visto Chang-Du prima
d’ora.» disse Koichi «È davvero incredibile».
Varcato il portone e raggiunti i
lussureggianti giardini del monastero Erik chiese di poter parlare con il padre
superiore per una faccenda, a suo dire, della massima importanza.
«Il venerabile Wangzi sta istruendo
i giovani adepti in questo momento.» rispose Fo-Lan «Ma sono sicuro che
acconsentirà ad incontrarvi».
Erik venne dunque condotto verso
l’edificio principale per incontrare il padre superiore, mentre Koichi e Lily
seguirono il monaco incaricato di portarli da Sanae, che come previsto da Fo-Lan
si trovava già da qualche ora al monastero dove era stata portata da un secondo
gruppo di esploratori.
Si respirava una forte aria di
misticismo; i giardini erano pieni di monaci, alcuni seduti in meditazione,
altri intenti a svolgere le mansioni quotidiane, altri ancora che salmodiavano
camminando senza meta tra i viali ghiaiosi.
Il religioso condusse Koichi e Lily
nell’ala del tempio destinata alle donne, e qui, come era stato loro promesso,
incontrarono Sanae, che per ripagare la generosità delle sacerdotesse che
l’avevano soccorsa stava aiutando alcune di loro a pulire la sala della
preghiera. I suoi vestiti, forse perché sporchi, erano stati sostituiti con una
veste bianca da chierica che metteva ancor più in risalto la sua femminilità e
la sua indiscutibile bellezza.
Koichi rimase un attimo come
inebetito nel vederla così, fulgida e ammirabile come una pietra rara e
preziosa, e si risvegliò solo quando lei, accortasi del suo arrivo, gli corse
incontro chiamandolo per nome.
«Nobile Koichi! Lily!»
«Sanae!» disse la fata posandosi
tra le sue mani
«Per fortuna state bene anche voi.
Ero molto preoccupata».
Poi, Sanae si accorse del modo in
cui Koichi la guardava, e comprendendo che c’entrava sicuramente qualcosa il
modo in cui era vestita arrossì leggermente.
«I miei vestiti erano sporchi e
incrostati di sale. Si sono offerti di lavarmeli, e nel frattempo mi hanno
offerto di indossare questi.
Che… che ve ne pare?»
«State… state davvero bene.»
balbettò Koichi ancora assente per buona metà
«Dite sul serio? Non sono un po’…
strana?»
«No… a… affatto».
Lily, vedendolo così imbarazzato e
disorientato, sorrise malignamente, ridendo sotto i denti.
«E dai, non nasconderlo. Ormai
sappiamo che Sanae ti piace.»
«C… cosa!?» esclamò il ragazzo con
le guance che minacciavano di andargli a fuoco «Questo… questo non è
assolutamente vero!»
«È inutile che ti sforzi di negare.
Si vede lontano un miglio.»
«Tu, piccola fata pestifera!» disse
lui cercando di afferrarla
«Sanae!» replicò lei correndo a
nascondersi dentro la sua veste, come era solita fare ogni volta che voleva
salvarsi dagli scatti di Koichi, provocati puntualmente da qualche sua battuta
malevola «Koichi vuole farmi male!»
«Ecco… ecco io…»
«Vi prego… vi prego di scusarla.»
disse Sanae ugualmente rossa «A volte non sa quello che dice».
Nel frattempo Erik aveva ottenuto udienza dal maestro
Wangzi che lo ricevette nel proprio studio, una stanza molto grande ricolma di
rotoli e pergamene e con due grandi statue l’una di fronte all’altra, una del
Buddha e l’altra raffigurante chiaramente il mago Clow, anch’egli in atto di
meditazione.
Un monaco servì loro una tazza di
tè, quindi li lasciò da soli.
«Benvenuto, straniero.» disse il
maestro, un uomo molto avanti con gli anni ma dalla inequivocabile forza
interiore «È un onore fare la vostra conoscenza.»
«L’onore è mio, maestro Wangzi.»
«Ditemi, da dove venite?»
«Spiegare con precisione chi sono e
da dove vengo potrebbe risultare molto difficile, e non sono sicuro che
credereste del tutto alle mie parole.
Posso dirvi però che mi chiamo
Erik, e che provengo da occidente.»
«E dite, che cosa vi ha portato ad
avventurarvi, col rischio di morire, in un luogo tanto inospitale e pericoloso
come il deserto di Jao-Gan per arrivare fino al nostro monastero?»
«Sono in viaggio sulle tracce del
mago Clow».
Come Erik pronunciò la parola Clow
il maestro cambiò espressione, squadrandolo da capo a piedi per poi fissarsi a
scrutare i suoi profondi occhi azzurri. Erik non arretrò, ma anzi sostenne lo
sguardo, e anzi considerò la situazione che si stava venendo a creare come un
fatto positivo, perché ora era sicuro di essere sulla strada giusta.
«Non sono in molti a conoscere
questo nome.» disse Wangzi senza fare nessun tentativo per dissimulare o negare
l’evidenza «Dove lo avete sentito?»
«Mi è stato riferito da un maestro
di spada d’occidente che lo ha conosciuto molto tempo fa. Tuttavia, ammetto
dinnanzi a voi che conosco il nome di Clow da molto tempo. Inoltre, ho
rinvenuto in una foresta di bambù ai margini del deserto quello che ritengo
essere stato un suo laboratorio di ricerca, e all’interno un messaggio
olografico registrato da lui stesso all’epoca in cui era in vita.»
«E ditemi, cosa vi fa pensare che
qui troverete qualcosa?»
«Ho parlato con un po’ di persone
durante il viaggio per arrivare fin qui. La vostra magia è unica nel suo
genere, e secondo la leggenda vi è stata tramandata da uno stregone
potentissimo proveniente da un altro mondo. Perciò mi sono detto, chi meglio
degli uomini che ricevettero i suoi insegnamenti ed edificarono il suo tempo
può aiutarmi a trovare ciò che cerco?».
Detto questo Erik alzò la mano
destra, materializzandovi una sfera di luce nera che, nonostante cercasse di
non darlo a vedere, impressionò molto il maestro Wangzi.
«Io sono il depositario del potere
che voi chiamate Bany Chakwa. Presso la mia gente è conosciuto come Menos
Adelos. So per certo che Clow, prima di morire, stava conducendo delle ricerche
su questo potere. Non so perché, come non so in che modo vi fosse legato, ma
sono sicuro sul fatto che ha scoperto qualcosa, e che questo qualcosa potrebbe
essere la chiave per svelarne il segreto».
Il maestro sorseggiò un goccio del
suo tè, poi, con delicatezza ed eleganza, ripose la tazza sul tuo piattino
senza produrre il minimo rumore.
«Non avrei mai pensato di poter
incontrare un giorno il possessore del Bany Chakwa. Molti dei maestri venuti
prima di me avrebbero dato qualunque cosa per avere questo privilegio.»
«Il Menos Adelos possiede
un’infinità di possibili utilizzi, tanti quanti la padronanza che si ha su di
esso.» disse Erik scoprendosi poi il petto quel tanto che bastava per rendere
visibile il sigillo della maledizione dell’Imperatore «Questo anatema mi è
stato scagliato da un altro possessore del Menos Adelos, uno che attualmente ne
ha un controllo molto superiore al mio. Fino a quando non saprò dominare il mio
potere meglio di quanto non sappia fare lui non potrò liberarmene. E finché non
me le libero, non posso tornare al luogo da cui provengo.»
«È solo questa la ragione del
vostro agire?» domandò il vecchio con uno strano tono e uno sguardo enigmatico.
Erik rimase un attimo stranito, e
sussultò leggermente: quel vecchio era più scaltro di quanto volesse dare a
vedere, ma la cosa non lo sorprendeva più di tanto; dopotutto, si trattava pur
sempre di un Lama.
«Venite con me».
Wangzi condusse Erik al primo piano
del tempo e da qui dinnanzi ad un gigantesco portone decorato che, aperto,
rivelò una enorme sala a forma di cupola completamente ricoperta di pitture e
arazzi raffiguranti il Buddha e altre immagini sacre. Dalla parte opposta
all’ingresso un altare, alla sua sinistra un grande gong, e al centro della
stanza una semisfera di vetro, del raggio di circa un metro, che emergeva
parzialmente del terreno; davanti ad essa, una sorta di pedana rialzata.
Alcuni monaci stavano rassettando,
ma appena il Lama entrò seguito dal suo ospite subito se ne andarono,
chiudendosi la porta alle spalle.
«Che posto è questo?» domandò Erik
notando subito la fattura più antica, se così si poteva dire, della stanza in
cui era stato condotto, completamente diversa dal resto del tempio
«In questa sala il venerabile
maestro Clow istruì i primi di noi. Attorno ad essa, i nostri antenati
costruirono questo tempio, a ricordo della sua grande saggezza. Sono pochi
coloro ai quali è permesso l’accesso, e a nessuno all’infuori del gran maestro
è permesso di saggiare le conoscenze che vi sono racchiuse.»
«Di che saggezze parla?»
«Salite lassù e lo scoprirete».
Erik esitò; non perché dubitasse
delle nobili intenzioni del maestro Wangzi, ma solo perché non riusciva a
comprendere questa sua generosità e la sua apparentemente incondizionata
disponibilità ad aiutarlo.
«Perché fate tutto questo?» domandò
allora «Cosa vi fa pensare che possiate fidarvi di me?».
Le labbra del vecchio si piegarono
in uno strano sorriso.
«Chiamatela intuizione.» disse,
quindi indicò nuovamente la pedana.
Ancora, Erik ebbe un momento di
esitazione, ma poi salì. Come mise entrambi i piedi sulla pedana sia la sfera
di vetro sia la sorta di tastiera che stava dinnanzi a lui parvero attivarsi, e
dal nulla si materializzò l’ologramma, estremamente vivido, di una creatura
simile ad un angelo.
Indossava una tunica bianca con le
maniche lunghe stretta in vita da una fascia azzurra, e sopra di essa una
mantella raccolta sulla spalla sinistra con una spilla d’oro; i capelli, molto
lunghi, erano candidi come la neve, e arrivavano quasi a metà della schiena. Il
volto, leggermente a punta, era dominato da un’espressione austera e seria,
messa ugualmente in risalto da due occhi blu piccoli e larghi, da erudito.
Infine, dietro la schiena, due grandi ali bianche richiuse su sé stesse.
Erik, vedendo quell’immagine,
avvertì un brivido, accompagnato da una sensazione famigliare; quello dinnanzi
a lui era solo un ologramma, l’immagine virtuale di una persona che poteva
benissimo non essere mai esistita, eppure una parte di lui era convinta di aver
già incontrato l’individuo che gli si presentava ora come una semplice
illusione generata da un computer.
La comparsa dell’ologramma lasciò Erik
comprensibilmente interdetto, ma d’altra parte si aspettava che sarebbe
accaduta una cosa del genere; ormai aveva capito che quel mondo in cui era
capitato era molto più di quello che appariva in superficie, e una cosa del
genere, se la prima volta gli aveva messo in testa mille domande, ora gli
faceva un effetto molto minore.
«Salve.» disse l’ologramma con la
voce piatta e senza emozioni propria di un’intelligenza artificiale
«E questo?» domandò Erik
«Esiste fin dalla fondazione del
tempio. Solo io ho il permesso di consultare questo archivio, e comunque cerco
di farlo il meno possibile.»
«Immagino abbiate conseguito molte
conoscenze.»
«Abbastanza da comprendere che è un
oggetto da usare con le dovute cautele. Il nostro non è ancora pronto per i
segreti contenuti qui dentro.»
«Perché mai Clow avrà voluto lasciare
una cosa del genere?» disse il ragazzo parlando tra sé e sé, poi si rivolse
all’ologramma «Che cosa sei tu?»
«Io sono Yue. Sono una sofisticata
intelligenza artificiale creata dal Maestro Clow per assisterlo nel suo lavoro,
registrare le sue ricerche e custodire le sue conoscenze.»
«E l’immagine che ho davanti?»
«Un’interfaccia olografico
tridimensionale. Il Maestro Clow ha ritenuto che rivolgersi ad una immagine
tangibile in forma umana avrebbe favorito l’interazione e la comprensione del
suo messaggio per le generazioni a venire.»
“Quindi Clow aveva deciso fin
dall’inizio di permettere ad altri di usufruire delle sue conoscenze.” pensò
Erik «E su che basi è realizzata questa interfaccia?»
«Origine sconosciuta. Nell’archivio
non è registrata alcuna informazione.»
«Capisco».
Il ragazzo si girò un attimo verso
il maestro Wangzi, che restava immobile alle sue spalle limitandosi a guardare.
«Posso davvero chiedergli tutto
quello che voglio?»
«È qui per questo.» rispose il
maestro col suo strano sorriso
«Molto bene.» disse tornando a
concentrarsi sull’ologramma «Vorrei che tu mi mostrassi tutti i file relativi
alle ricerche condotte dal Maestro Clow in merito al Bany Chakwa, o Menos
Adelos, se preferisci».
L’ologramma scomparve per qualche
secondo, e fin dal momento in cui ricomparve Erik ebbe come il presentimento
che non fossero in arrivo buone notizie.
«Mi dispiace. Questi file sono
secretati. Non mi è permesso di aprirli senza il permesso esplicito del Maestro
Clow.»
«Accidenti.» disse il ragazzo
passandosi una mano dietro la testa «In effetti mi sembrava che fosse un po’
troppo facile. Peccato, per un attimo ci avevo sperato.
D’accordo, proviamo così. Mostrami
tutti i dati relativi alle ricerche di Clow relativi alla magia e alla storia
in generale di questo mondo.»
«Cosa spera di trovare?» domandò il
maestro Wangzi
«Clow è rinato in questo mondo per
molti motivi, e uno di questi era lo studio del Menos Adelos. Forse tra le
altre sue ricerche in merito a questo mondo ci sarà qualche indizio in grado di
aiutarmi.»
«La mole di materiale da radunare è
considerevole.» disse l’ologramma «Mi ci vorranno alcuni minuti per metterla
insieme. Nel frattempo, volete chiedermi qualcos’altro?»
«In effetti sì. Per caso Clow
teneva un registro dei suoi discendenti sparsi per le varie dimensioni
parallele?»
«Sì, lo teneva. E viene aggiornato
di continuo.»
«Mostrameli. Tutti quanti. Uno per
uno».
Di nuovo l’ologramma scomparve, e
al suo posto, uno dopo l’altro, cominciarono a scorrere le immagini a figura
intera di una miriade di persone. C’era davvero ogni tipologia di essere umano
che si potesse immaginare: uomini, donne, bianchi, neri, alti, bassi, magri,
corpulenti, giovani, anziani, ognuno, a modo suo, unico nel proprio genere.
A giudicare dai vestiti che
indossavano provenivano non solo da dimensioni, ma anche da epoche diverse,
dalla preistoria ad un lontano futuro fino a quello che Erik, col proprio metro
di giudizio, poteva definire presente.
Era un fatto risaputo che il
progresso non prendeva strade omogenee nelle varie dimensioni parallele, le
quali si assomigliavano tra di loro solo in minima parte; ogni realtà era di
per sé unica, e quella miriade di persone tutte diverse ne era la prova.
«Cosa cerca di preciso in tutti
questi ritratti?» chiese il maestro
«Non so ancora di preciso per quale
motivo, ma Clow, nel corso delle sue numerose vite, ha condotto esperimenti e
ricerche in merito alla struttura dei corpi umani. Non posso scendere nei
dettagli, visto che anch’io al momento non ne so molto, ma credo stesse
cercando un modo per realizzare un nuovo tipo di corpo in grado di ospitare al
suo interno una conoscenza e un potere magico di molto superiori a quelli di un
semplice essere umano.
Credo sia questo uno dei motivi che
lo hanno spinto a mettere al mondo tutti questi discendenti. Anche senza
prestarci eccessiva attenzione, si nota subito che questi individui sono di per
sé tutti unici. Guardi: non ce n’è uno uguale all’altro.»
«Ma a cosa poteva mai servire un esperimento
di questo tipo?»
«Questo ancora non lo so. Nella
registrazione che ho trovato nella foresta parlava di altri come lui. Credo
appartenesse ad una qualche razza estinta, più antica anche dell’uomo. Forse
era un tentativo di farla rivivere».
Tra le centinaia e centinaia di
uomini e donne che scorsero davanti ai suoi occhi Erik riconobbe alcuni volti a
lui noti, ma, come aveva previsto, non trovò il suo; forse perché era nato come
un Rinnegato, o forse, molto più semplicemente, perché in lui non c’era traccia
dei geni di Clow. Vide anche il principe Touya, il Toshio originario, e anche
suo fratello Sanak, a riprova del fatto che la famiglia reale di Nepthys
discendeva direttamente da Clow. All’improvviso una delle figure fece quasi
saltare Erik per lo stupore; tutto si aspettava, ma questo no di sicuro.
«Ferma!» si affrettò a dire, e
davanti a lui comparve un’immagine molto famigliare.
Non l’aveva mai vista prima di quel
momento, almeno non di persona, ma ci aveva parlato, e sapeva esattamente chi
fosse; lo sapeva grazie alle memorie del suo alter ego che serbava dentro di
sé.
«Nadeshiko!?».
Che Nadeshiko, la persona che per
Toshio valeva più della sua stessa vita, fosse in qualche modo una ragazza
speciale era cosa certa, ma che fosse una discendente di Clow questo Erik
proprio non se lo aspettava, ed era sicuro che anche Toshio sarebbe stato
d’accordo.
Aveva ospitato dentro di sé lo
spirito di Isis, e questo già di per sé la rendeva speciale, ma oltretutto
aveva dato prova di portare dentro di sé un potere immenso, grande abbastanza
da permetterle di tenere testa persino ad un avversario come Seth.
«La conoscete?» domandò il maestro
Wangzi.
Erik usò la tastiera per far
ricomparire l’ologramma, al quale chiese informazioni.
«Nadeshiko Amamiya. Discendente del
Maestro Clow di settima generazione. Reincarnazione della regina Nadeshiko di
Nepthys. Vive nella dimensione XTM-413».
Quindi Clow sapeva che Nadeshiko
era la reincarnazione della sua omonima vissuta duemila anni prima, così come
sapeva che Toshio era in realtà il nuovo nome e il nuovo corpo di suo figlio il
principe Touya. Non solo; aveva anche visitato la stessa dimensione più volte
nel corso di più incarnazioni, e questo poteva significare una sola cosa:
l’universo di origine di Erik, Toshio e Nadeshiko doveva essere particolarmente
importante per lui, abbastanza a spingerlo a ritornarvi ancora.
Erik continuò a scorrere le
immagini dei discendenti del mago, e bastarono solo pochi minuti perché un
altro volto catturasse la sua attenzione.
«Aspetta, ferma.» disse, facendo
fermare lo scorrimento «Torna indietro di due».
Stavolta a richiamarlo era stato
l’ologramma di una ragazzina che doveva avere, approssimativamente, tra i dieci
e i tredici anni; una ragazzina come tante altre, con una divisa scolastica
nera e uno zainetto, se non fosse stato per un piccolo particolare; l’età era
diversa, ovviamente, ma se avesse potuto comparare il volto di quella ragazza
con una foto di Nadeshiko ai tempi delle prime scuole medie avrebbe constatato
una somiglianza quasi perfetta.
«Ma cosa…» disse esterrefatto
«Mi sembra famigliare.» commentò il
maestro Wangzi «Assomiglia incredibilmente a quell’altra ragazza.»
«Anche troppo.» rispose Erik, che
pigiato un bottone sulla tastiera richiamò nuovamente l’ologramma per ottenere
informazioni dettagliate
«La signorina Sakura Kinomoto,
della dimensione XTM-398, è l’attuale custode delle Clow Card, le carte magiche
create dal maestro Clow. Discendente del maestro di decima generazione.»
«Capisco.» disse Erik con una voce
e uno sguardo strani, che il maestro Wangzi non mancò di notare.
La somiglianza fisica diede ad Erik
da pensare.
Forse si trattava della Nadeshiko
di un’altra dimensione, o forse di una parente alla lontana di quest’ultima, ma
di certo non si trattava di una coincidenza: una cosa che ormai sapeva per
certo, era che tutto ciò che riguardava Clow era frutto di un piano
terribilmente macchinoso e ben organizzato, dove non c’era spazio per le
coincidenze.
Ancora una volta, il suo pensare
venne interrotto dalla voce dell’ologramma.
«Chiedo scusa. Ho terminato di
raccogliere i dati che mi avete richiesto. Volete visionarli adesso?»
«Sì, grazie.»
«In che ordine volete che ve li
mostri?»
«Ordinali per data, partendo dal
più antico».
Fiumi e fiumi di appunti, disegni,
progetti e annotazioni presero a scorrere davanti agli occhi di Erik e del
maestro, e per entrambi risultava davvero difficile riuscire a capirci
qualcosa; si trattava per la maggior parte di dati attinenti ad innumerevoli
ricerche compiute attorno agli argomenti più disparati: cristallomanzia, storia
del pianeta, storia dei popoli, botanica, medicina e via dicendo.
In quella marea di argomenti così
distanti tra loro, e all’apparenza privi di un qualsiasi legame che li unisse l’uno
con l’altro, Erik riuscì invece a scorgere la presenza di un filo sottilissimo
che li attraversava tutti. Che fossero piante, animali, uomini e creature
magiche, ciò che quelle ricerche cercavano di sondare era sempre la stessa
cosa: la struttura dell’essere, dell’esistere. La struttura stessa della vita.
«La Particella di Dio.»
mormorò il ragazzo con lo sguardo quasi assente «Dunque era questo che stava
cercando».
L’ultimo documento della lista,
risalente all’incirca ad un secolo prima, si rivelò essere un file audio di qualità
piuttosto scadente registrato dallo stesso maestro Clow.
«Ho trovato le prove. Le prove che
la mia teoria è applicabile. Mi servono solo più dati. Ho bisogno di altro
materiale su cui lavorare. Per fortuna, sono riuscito a recuperare una parte
del materiale e delle ricerche relative al Progetto Arca a Dogma prima che i laboratori
andassero perduti.
Devo fare presto. Non mi rimane
molto tempo. Il mio corpo si sta indebolendo. Mi dirigerò verso Sinca, lì sono
sicuro di poter ritrovare le ultime informazioni di cui ho bisogno. Non esiste
luogo migliore in cui cercare informazioni sul Bany Chakwa.
Allora, a Dio piacendo, giungerò
finalmente alla conclusione di questo lungo cammino».
A quel punto la registrazione finì,
e l’ologramma dell’angelo ricomparve al proprio posto, in attesa di nuove
disposizioni.
Erik rimase a lungo in silenzio,
poi si rivolse al maestro Wangzi, ancor più interdetto e sconcertato di lui per
ciò che aveva appreso.
«Che cos’è Dogma?»
«È il luogo in cui, secondo la
leggenda, è nato il popolo degli elfi. Si trovava a nord-est, lungo la costa
settentrionale del continente, ma ormai laggiù non c’è altro che desolazione e
morte.»
«Per quale motivo?»
«All’incirca un secolo fa una serie
di terribili cataclismi ha devastato la regione, che è infine sprofondata nell’oceano
dopo essersi letteralmente staccata dalla terraferma».
Quindi, pensò Erik, le tracce delle
origini del popolo elfico, così come di ciò che Clow stava cercando, ora
giacevano sotto mille metri d’acqua, e con esse forse anche la possibilità di
dissipare il velo attorno al Menos Adelos.
Ma forse non tutto era perduto.
«E Sinca?» chiese nuovamente
«Una regione nell’estremo est. Stando
alle cronache del monastero il maestro Clow vi intraprese il suo ultimo
viaggio, da cui non fece più ritorno.»
«Cos’ha di tanto speciale quel
posto?»
«È la terra natale dei Suura».
Quella parola fu per Erik come un
fulmine a ciel sereno che illuminò a giorno la sua mente.
I Suura.
In tutto quel parapiglia se ne era
quasi dimenticato.
Quelle creature, le stesse che gli
stavano addosso fin da quando aveva iniziato il suo viaggio, tutto potevano
essere meno che esseri umani; anche Clow lo aveva capito, e il fatto che
avessero attirato la sua attenzione non era un dettaglio trascurabile.
Nella registrazione Clow diceva di
aver trovato il modo di costruire un nuovo corpo grazie ai suoi studi sugli
origini degli elfi.
Di conseguenza, poteva darsi che
gli studi sui Suura riguardassero un altro degli elementi fondamentali alla
creazione di un essere vivente completo: lo spirito. Quindi, se i Suura erano
legati allo spirito, forse erano legati anche al Menos Adelos.
Erik sentì rinascere la speranza.
«Che cosa sai dirmi sugli studi che
il tuo maestro compiva a proposito dei Suura?» domandò all’ologramma, che
scomparve e ricomparve poco dopo
«Mi dispiace, i dati sono secretati.
Non mi è possibile accedervi».
In quella, un monaco entrò nella
stanza con un’espressione decisamente stranita e confusa, e avvicinatosi al
maestro Wangzi gli sussurrò qualcosa all’orecchio. Poche parole, ma sufficienti
per dare l’impressione che il vecchio monaco si fosse trovato improvvisamente
davanti il diavolo in persona.
Sul suo volto erano visibili l’incredulità
e la meraviglia, come se ciò che gli era stato appena detto risultasse per lui,
che pure era un uomo di larghe vedute, impossibile da accettare.
«Che succede?» domandò Erik notando
il suo sguardo.
Il maestro temporeggiò, rigirandosi
il proprio rosario tra le mani e guardando in basso.
«Quella che vede.» disse alla fine «È
solo una parte del complesso meccanismo ideato dal maestro Clow. Il cuore di
questo marchingegno, ciò che gli permette di funzionare, si trova sotto i suoi
piedi, in una stanza situata nel basamento della torre.
Da questa stanza i monaci addetti
alla sua supervisione hanno un controllo totale e continuo delle condizioni in
cui si trova l’apparecchio.»
«E dunque.»
«Beh… ecco… pare che al momento non
scorra energia al suo interno. Per quello che ne sanno loro, in questo momento
il marchingegno è spento».
Erik sgranò leggermente gli occhi,
ma non parve così sorpreso come avrebbe dovuto essere. Al contrario, la sua
bocca si piegò in uno strano sorriso.
«Lo immaginavo.» disse volgendosi
nuovamente verso l’ologramma, che seguitava a fissare il vuoto «Dopotutto, mi
era parso strano. A Lei no, maestro Wangzi?»
«Che cosa?»
«Si ricorda quando abbiamo visto l’immagine
di quella ragazzina? Come si chiamava? Sakura Kinomoto. Quando gli ho chiesto
di darmi informazioni a riguardo, le sue parole sono state La signorina Sakura Kinomoto, della dimensione XTM-398, è l’attuale
custode delle Clow Card, le carte magiche create dal maestro Clow. Discendente
del maestro di decima generazione.»
«E dunque?»
«Ha usato il termine signorina. Un
po’ strano che un computer attribuisca un simile appellativo. E quello che è
ancora più strano, è che l’ha usato solo per lei.»
«Forse era programmato per farlo. Forse
è stato il maestro Clow a dirgli di usare quel termine.»
«È quello che ho pensato anch’io. Ma
poi mi sono detto, se Clow aveva davvero un occhio di riguardo per questa
Sakura Kinomoto, al punto da ordinare al suo programma di chiamarla signorina, perché
farla sembrare solo una fra le tante.
Era nel mezzo dell’elenco, senza
niente a distinguerla. Ha attirato la mia attenzione solo per la sua
somiglianza con Nadeshiko, altrimenti l’avrei considerata solo una fra le
tante.
La spiegazione, a questo punto, può
essere una sola. Attribuire a questa Sakura Kinomoto l’appellativo di Signorina
è stata una scelta arbitraria, non dettata da alcun programma di sorta.»
«Non credo di riuscire a
comprendervi.»
«Non è ovvio? Per quanto possa
essere avanzato, un computer resta un computer. E come tale, è portato a
ragionare in modo razionale e logico. Il titolo Signorina denota rispetto e
ammirazione, entrambi sentimenti che, in quanto tali, mai e poi mai sarebbero
esternabili da un semplice computer».
A quel punto, Erik guardò l’ologramma
dritto negl’occhi.
«Chi sei tu?».
Ed ecco che, di colpo, quegli occhi
si accesero, illuminandosi come solo gli occhi di un essere vivente avrebbero
saputo fare; la sua espressione, da ferma e impassibile, divenne di tenue
severità, come qualcuno che vuole lanciare un monito silenzioso.
Abbassata leggermente la testa, si
portò viso a viso con il suo interlocutore.
«Vai per la tua strada, Erik. Il tuo
viaggio è ancora molto lungo».
Prima che qualcuno potesse
azzardare una mossa una luce accecante si irradiò per tutta la stanza, e quando
Erik fu in grado di riaprire gli occhi di colui che fino a quel momento aveva
finto di essere un semplice ologramma non vi era più alcuna traccia.
Sia lui che il maestro Wangzi si
guardarono perplessi prima attorno, poi l’un l’altro.
Erik aveva ottenuto le informazioni
per le quali era giunto fin lì, e ora sapeva dove doveva andare, ma nonostante
ciò, dopo quello che aveva visto, non riusciva a gioire.
Al contrario, era nervoso e
disorientato come non accadeva da tempo.
Nota dell’Autore
Eccomi qua!^_^
Lo so, lo so, è passato tanto tempo, e me ne dispiaccio.
Ma dovete capire, in
questo periodo sono letteralmente subissato dagli impegni: tra lo studio e gli
esami non so dove sbattere la testa, inoltre guardandomi intorno mi sono reso
conto di essere vergognosamente indietro (praticamente all’inizio) con quel
famoso romanzo che spererei un giorno di pubblicare.
Di conseguenza, il
tempo non mi basta mai.
Questa volta non
faccio promesse di sorta, col rischio magari di disilluderle per l’ennesima
volta. Posso solo dire che cercherò di fare il più velocemente possibile.
L’incontro con Jalim e con
Aiolos aveva minato il morale di Regis e del resto del gruppo, che ora
procedevano nella loro missione con la consapevolezza che da quel momento in
avanti, e fino al ritrovamento di tutte le pietre mancanti, chiunque in
qualsiasi momento sarebbe potuto sbucare dal nulla per fare loro la pelle,
rendendo la marcia e la ricerca molto più difficile e pericolosa di quanto non fosse.
Superate
quelle maledette montagne e fatto un poco di rifornimento barattando
l’equipaggiamento comprato sull’altro versante in cambio di viveri e un po’ di
soldi si erano avventurati in una zona di vaste pianure ondulanti intervallate,
di quando in quando, da piccole foreste di alberi sempreverdi che si
arrampicavano placidamente sui fianchi di alte colline.
Un vero
paradiso, con tanti piccoli villaggi collegati tra di loro da stradine sterrate
popolati di gente amichevole ed ospitale che parlavano una lingua che nessuno,
neppure Regis o Sakura, aveva mai sentito.
Del
resto, quello era davvero un posto in cui nessun abitante di Europia era mai
arrivato; la catena montuosa del Karankar che i ragazzi avevano attraversato
era il confine ultimo, oltre il quale nessuno del continente a nord sapeva dire
con esattezza cosa vi fosse.
Sakura
riuscì ad imparare quella nuova lingua per prima, un’impresa non difficile per
lei che ne sapeva già parlare una decina e aveva sempre trovato estremamente
facile assimilarne di nuove, seguita subito dopo da Regis e, in misura minore,
da Dave, che cercava di apprenderla un po’ da sé un po’ attraverso il suo
maestro.
Per due
giorni la marcia proseguì piuttosto spedita, ma all’improvviso, senza un motivo
apparente, all’alba del terzo giorno, le gemme che fino a quel momento avevano
guidato il cammino smisero di indicare la giusta direzione, lasciando i ragazzi
disorientati e confusi. In un primo momento avevano pensato che potesse
trattarsi di un segno del fatto che la quinta pietra non era lontana, ma
ricerche affannose durate una intera settimana in tutta la zona circostante non
avevano portato ad alcun risultato.
Senza
niente a cui aggrapparsi, Regis e i suoi compagni erano arrivati alla fine
sulle rive di un grande lago chiamato dalla gente del luogo Specchio Dorato.
Secondo
la leggenda, secoli addietro la figlia di un aristocratico del luogo era
innamorata di un giovane soldato di basso ceto sociale, ma di grande valore e
nobiltà d’animo; il padre di lei, dopo molto penare, aveva finalmente dato il
proprio assenso al matrimonio, ma proprio quando le nozze stavano per essere
celebrate il giovane era stato improvvisamente richiamato alle armi; questi
allora, dopo aver regalato all’amata uno specchio d’oro massiccio comprato vendendo
tutto ciò che possedeva, era partito per la guerra, promettendo che al suo
ritorno si sarebbero finalmente sposati. Per mesi la ragazza lo aveva
aspettato, ma quando era giunta la notizia che il giovane era stato ucciso lei,
distrutta dal dolore, aveva gettato lo specchio nel lago prima di togliersi la
vita pugnalandosi il cuore. Da allora, si diceva, le acque del lago erano
solite brillare di luce dorata nelle notti di plenilunio.
I
ragazzi pensarono subito che la leggenda potesse essere legata alla presenza
della pietra, ma un’attenta esplorazione del fondale da parte di Regis e Aqua,
il famiglio acquatico di Sakura, si rivelò infruttuosa.
Tuttavia,
anche se la gemma non c’era, quello rimaneva comunque un luogo a dir poco
stupendo, uno specchio d’acqua purissima adagiato sul fondo di una vallata e
circondato da una foresta; in qualche punto gli alberi si protendevano fin
sulle sponde, ora sabbiose ora rocciose, in qualche altro invece si potevano
trovare piccole spiagge che, nelle estati più calde, pullulavano sicuramente di
abitanti del posto alla ricerca di un po’ di piacevole ristoro.
Il
viaggio ininterrotto attraverso Kamur, condito oltretutto da una buona dose di
imprevisti, aveva sfiancato gli animi e la resistenza di tutti, nessuno
escluso, e con grande sorpresa degli altri membri del gruppo fu lo stesso Regis
a proporre di prendersi una breve pausa sostando per qualche giorno sulle rive
del lago. L’unica voce fuori dal coro fu Sakura, che dal giorno dell’incontro
con Jalim era stata anche più schiva e taciturna del solito, ma alla fine,
causa anche l’evidente inferiorità numerica, bene o male si lasciò convincere,
e in poco più di mezz’ora venne allestito un campo sulla sponda settentrionale
del lago, lontano dai sentieri battuti per poter restare in tranquillità e allo
stesso tempo non dare troppo nell’occhio.
Viola fu
la prima a lasciarsi contagiare da quel breve ed inaspettato momento di
tranquillità, tuffandosi subito in acqua senza neanche prendersi la briga di
togliersi qualche vestito; Regis scomparve quasi subito nel bosco per cacciare
un paio di conigli con cui preparare la cena, Sakura andò a sedersi all’ombra
di una grande quercia ed Elys si allontanò dicendo che sarebbe andata a fare
quattro passi.
Anche
Dave, ritrovatosi di colpo solo e senza niente da fare, decise di andare a
farsi una camminata, inoltrandosi nel bosco e prendendo a vagare senza meta tra
gli alberi e i cespugli con lo sguardo perso e la mente piena di dubbi.
Rievocare
il giorno in cui il suo viaggio era incominciato lo spingeva, se così si poteva
dire, a tirare le somme; da allora ne aveva fatta di strada, il suo stesso
maestro lo riconosceva, eppure non si sentiva ancora completamente all’altezza
dei suoi compagni di viaggio: Sakura possedeva una magia di molto superiore
alla sua, Viola era una formidabile combattente ed Elys stava aumentando di
giorno in giorno la sua abilità con la spada, per non parlare del fatto che
aveva fatto proprio anche il potere di una delle pietre.
Doveva
migliorarsi, e velocemente, o avrebbe finito presto per essere lasciato
indietro.
Era
talmente preso dai suoi pensieri che per poco non andò a sbattere contro un
albero, e quando si decise finalmente a rialzare gli occhi si accorse di essere
arrivato sulle rive del lago. Stava quasi per tornare indietro, verso il campo,
quando gli parve di sentire un rumore, come di acqua smossa, accompagnato da un
dolcissimo e soave canto femminile.
Incuriosito,
il ragazzino camminò in quella direzione, e avventuratosi tra i cespugli si
acquattò nel momento in cui vide, accantonato ai piedi di un albero, dei
vestiti smessi. Gli servirono solo pochi secondi per riconoscerli, ma non volle
credere che potessero appartenere alla stessa persona che aveva appena sentito
cantare; tuttavia, dovette ricredersi nel momento in cui vide Elys emergere
poco per volta, come se stesse camminando sul fondale, dal pelo dell’acqua,
come una ninfa o una divinità del lago. Andatasi a sedere in una zona bassa,
prese a passarsi l’acqua su tutto il corpo, assaporandone la freschezza e
seguitando a cantare quella dolce ed incomprensibile nenia, forse una ninna
nanna del suo popolo.
Dave
rimase senza fiato, e restò ad osservarla per interminabili secondi con la
bocca socchiusa e gli occhi sbarrati; era davvero bellissima, così bella che
neppure il più bravo dei pittori o degli scultori sarebbe stato capace di
riprodurre un simile splendore.
A ben
pensarci era fin troppo chiaro: Elys era decisamente orgogliosa per ammettere
di apprezzare cose che, in presenza d’altri, avrebbe etichettato come “da
bambine”, come ad esempio un buon bagno nel lago, e sentendola cantare in modo
tanto soave, per la prima volta lasciava venire alla luce un lato del suo
carattere che nessuno, forse neanche Regis, le avrebbe mai attribuito. Chissà
quante altre volte lo aveva fatto, non vista dai suoi compagni, per non
rischiare di perdere la propria aria da dura.
Uscita
dall’acqua tornò dove aveva lasciato i vestiti, dopo essersi data un’energica
agitata ai capelli si annodò attorno alla vita una coperta riadattata per
l’occasione come un asciugamano. Dave era ancora lì, nascosto tra i cespugli,
ed era ancora così incredulo per ciò che aveva visto che neppure gli veniva in
mente di pensare che ciò che stava facendo poteva essere considerato
estremamente sconveniente o equivocabile. Disgraziatamente, proprio quando,
recuperato un po’ di senno, stava meditando di andarsene, una coniglio in fuga
da una volpe gli passò proprio sotto, cogliendolo alla sprovvista e facendolo
schizzare in piedi; il fracasso che fece emergendo dal cespuglio fece voltare
Elys, e per un imprecisato periodo di tempo i due rimasero immobili ad
osservarsi. Per disgrazia, proprio in quel momento Elys si stava togliendo
l’accappatoio per potersi vestire, e non avendo niente a coprirla dall’ombelico
in su in quella posizione, girata di tre quarti, la sua nudità era in bella
vista.
Passarono
secondi interminabili, e vedendo il volto della sua amica abbassarsi verso
terra caricandosi di una strana aura Dave cominciò a temere per la sua vita.
«Ti… ti
chiedo scusa…» balbettò tremando e facendo qualche passo indietro.
Parole
vane le sue, perché il pugno alzato di Elys non lasciava intendere nulla di
buono.
«Co… me…
ha… io…sa…to…» balbettò a denti stretti e stringendo ancor di più il pugno.
«Te… te
lo giuro… io… io non volevo…».
Elys
risollevò gli occhi; un esercito di draghi inferociti e pronti alla battaglia
faceva meno paura di lei in quel momento.
«Questa
te la faccio pagare!»
«Perdonami!»
gridò una voce disperata mentre l’intera foresta sembrava tremare sotto una
selva di colpi «È stato un incidente!».
Quando,
poco dopo, Regis tornò al campo con due bei conigli e alcune verdure
selvatiche, anche gli altri erano già tutti tornati. Viola aveva terminato di
fare il bagno, e in forma animale dormiva beatamente su di un morbido materasso
d’erba. Dave sembrava uscito da una rissa da taverna, tanto era messo male, e
sedeva in posizione fetale sguardo basso davanti al focolare disegnando figure
incomprensibili sulla terra fangosa con la punta del dito. Poco distante Elys,
seduta di spalle a gambe e braccia incrociate; il suo viso era più rosso di un
peperoncino, e aveva ancora i denti serrati per la rabbia.
Sakura
invece era ancora seduta all’ombra del solito albero, come fuori dal mondo;
Regis la raggiunse, accomodandosi accanto a lei. Per un po’ rimasero entrambi
in silenzio, guardando ognuno in una direzione diversa, poi, quando l’atmosfera
nel resto del gruppo tornò a farsi confusa, con Dave impegnato a tentare di
scusarsi con Elys e Viola a fare da spettatrice, i due ne approfittarono per
parlare.
«C’è
qualcosa che ti preoccupa?» domandò Regis.
Sakura
sussultò, e nonostante il suo silenzio i suoi occhi risposero per lei. Da
quando avevano incontrato Jalim Sakura non era più stata la stessa, diventando
ancor più schiva e taciturna di prima; spendeva tutto il poco tempo che lei e
gli altri trascorrevano a riposo in disparte, lontana da tutto e tutti, in
preda, sembrava, a fiumi di emozioni contrastanti.
«Sai, mi
sono appena raccontato di una storia. È una cosa che il re di Qerin mi ha
raccontato in via strettamente riservata, e che mi ha fatto promettere di non
rivelare mai ad anima viva.
Come
tutti sanno la famiglia reale ha una sola ed unica figlia, la principessa Sefy,
futura regina di Fiya. Tuttavia, quello che ben pochi sanno è che molti anni
fa, prima ancora che Sefy nascesse, il re e la regina ebbero un altro figlio, e
che questo figlio era il legittimo erede al trono».
Sakura
aggrottò le sopracciglia, ma non disse niente.
«Quelli
erano tempi molto difficili e pericolosi. Le province dell’ovest erano in
rivolta, e ad est Caldesia minacciava di riprendere la sua avanzata dopo anni
di fragile tregua. In molti ritennero che il bambino sarebbe stato in serio
pericolo, se la sua esistenza fosse in qualche modo venuta alla luce. Poteva
essere rapito, preso in ostaggio, o addirittura ucciso, così da privare il
regno di un erede, visto che la difficoltà della regina a procreare era un
fatto noto a tutti.
Ma un
giorno, disgraziatamente, l’erede al trono scomparve nel nulla. Si disse che
era stato rapito, preso da emissari stranieri per essere usato come ostaggio,
ma nessuno, neppure Normar, rivendicò mai il rapimento.
E così,
allo stesso modo in cui era nato, nell’anonimato, nell’anonimato svanì,
dimenticato da tutti, e di quel bambino nessuno, neanche i pochi che erano al
corrente della sua esistenza, seppe più nulla.
O forse
dovrei dire… di quella bambina».
Nuovamente,
Sakura distolse lo sguardo; le sue mani tremavano, e stringeva i denti. Quasi
senza volerlo fece scivolare la mano destra nell’astuccio alla cintura,
prendendone fuori il medaglione che a suo tempo Dave aveva intravisto prima che
gli venisse letteralmente strappato via di mano.
«Da
quanto lo sapevi?»
«Il
sospetto l’ho avuto fin dal primo momento che ti ho vista, e la madre badessa
di Kalador me lo ha confermato quando le ho rivelato che sapevo la storia».
La
ragazza strinse forte il pendente, chinando il capo verso terra.
«Era
molto meglio quando non ricordavo nulla».
Ogni anno, più o meno in
corrispondenza della seconda settimana del settimo mese, in piena estate, la
famiglia reale era solita abbandonare Qerin, che nonostante la sua posizione
collinare poteva diventare alle volte un vero calderone, per trascorrere un
breve periodo vacanza nella residenza estiva della famiglia Dabshere, il casato
della regina, situato a circa un centinaio di chilometri a nord della capitale,
tra le montagne.
Era
stato così anche quell’anno, ma il continuo susseguirsi di notizie contrastanti
provenienti dai due lati del regno, con il malcontento ad est e le manovre di
Caldesia ad ovest, il re Sigthor si era visto costretto a ridurre a due sole
settimane, contro le quattro previste, la durata della vacanza, e a fare
ritorno a Qerin, dove c’era costante bisogno di lui.
Aveva
proposto alla moglie e alla figlia di rimanere al castello da sole, ma la
regina aveva risposto che non sarebbe stato giusto lasciar sgobbare solo lui, e
che comunque ci sarebbero state altre occasioni per godersi un po’ di meritato
riposo.
Quindi,
con largo anticipo rispetto ai tempi previsti, la carrozza reale aveva ripreso
anzitempo la strada di casa, perennemente scortata dai migliori elementi della
guardia reale, riconoscibili dal mantello rosso sangue col sigillo reale
ricamato d’oro e dall’armatura d’argento; il loro capo si chiamava Cyrus, un
giovane di buon cuore e di riprovato coraggio che il re trattava quasi come un
figlio.
Accanto
alla regina Alicya sedeva la principessa Mayu, che all’epoca aveva solo sette
anni.
Fin da
molto piccola non era mai stata una bambina molto espansiva; costretta a vivere
nascosta, come una fuorilegge in fuga, aveva sviluppato un carattere introverso
e perennemente imbronciato, ma soprattutto una vera e propria avversione per il
ruolo che era costretta a ricoprire. Sognava una vita semplice, come quella dei
bambini che, dalle finestre della sua stanza, vedeva giocare per le strade, a
palla o a nascondino, e avrebbe dato qualsiasi cosa per essere come loro, anche
solo per un giorno.
Suo
padre le diceva continuamente di avere pazienza, che presto sarebbe finito
tutto, ma lui forse era il primo a non crederci e a ragion veduta: forse la
notizia era in qualche modo arrivata oltre le mura del palazzo, o forse più
semplicemente lo strano comportamento della famiglia reale, molto più riservata
e lontana dal popolo che in passato, aveva attirato l’attenzione, fatto sta che
il numero di spie di vari Paesi arrestate o segnalate in tutto il regno era
salito vertiginosamente, come se tutti di colpo avessero deciso di scoprire
cosa il re e la regina di Qerin avessero da nascondere di così importante.
Per
cercare di consolarla le aveva fatto un regalo, uno stupendo medaglione a forma
di cuore, ma per Mayu quell’oggetto serviva solo a dimostrarle una volta di più
che non avrebbe mai potuto aspirare a diventare una bambina come le altre; lei
era una principessa, lo sarebbe sempre stata. Avrebbe vissuto tutta la sua
esistenza chiusa in un palazzo, tra rigidi protocolli e noiose formalità, senza
poter mai sapere quello che si provava ad essere liberi.
Era un
uccellino in gabbia.
Lei
sapeva per quale motivo la tenevano nascosta, impedendole di avere qualunque
contatto con persone al di fuori di una ristrettissima cerchia di fedelissimi,
e un giorno, durante una sfuriata, aveva detto al padre che sarebbe stata
contenta se la prospettiva di un rapimento si fosse un giorno concretizzata;
almeno così sarebbe potuta scappare da quella prigione dorata, da quei genitori
di cui, parole crudeli e cariche di dolore, non avrebbe di certo sentito la
mancanza. Il re di tutta risposta l’aveva schiaffeggiata, pentendosi subito
dopo, ma ormai il danno era fatto, e da quel giorno il divario tra i due era
stato incolmabile, al punto che lei non gli rivolgeva più una parola da mesi.
Mayu non
poteva certo immaginare che proprio quel giorno sarebbe stata accontentata.
Dopo
circa sei ore di viaggio la carrozza stava percorrendo la strada numero 14, o
Via Nova, che collegava Qerin con il nord del regno; ovunque niente altro che
prati e piccoli boschi, la maggior parte dei quali arroccati lungo i versanti
di basse colline.
Un
viaggio in carrozza, per quanto il panorama potesse essere bello, non era
esattamente un’esperienza di grandissimo piacere, specialmente se durava più
giorni consecutivi; per chi non ci era abituato poteva risultare oltremodo
noioso, e chi, come i reali di Fiya, era costretto a frequenti spostamenti, si
arrangiava come poteva.
Il re
Sigthor, rispettando la propria nomea di uomo saggio e amante della cultura, leggeva
un libro, uno dei tanti della sua personale biblioteca, la regina invece
armeggiava con un set da ricamo tentando, non senza qualche difficoltà, vista
la sua poca esperienza, di realizzare un disegno floreale su di una piccola
tovaglia di cotone.
Mayu
invece si rigirava quel pendente tra le mani con aria insofferente; benché
fosse un regalo del padre ci era affezionata, perché per comprarglielo le aveva
permesso di uscire, per la prima e l’unica volta nella sua vita, nei vicoli di
Qerin. Il re si era opportunamente mascherato, così che nessuno potesse
riconoscerlo, e scoprire quindi la verità sulla principessa, e anche se per
poco Mayu si era sentita una bambina normale, cosa che le aveva dato una grande
gioia.
Quell’oggetto
quindi aveva per lei significati contrastanti, perché le ricordava uno dei
pochi momenti felici della sua vita ma allo stesso tempo le rammentava la
propria diversità.
«Fatti
forza Mayu.» disse la madre passandole una mano sulla testa «Tra poche ore
saremo a casa, sei contenta?».
Lei non
rispose, ma la regina non si aspettava nulla di diverso; anche con lei i
dialoghi si erano fatti sporadici, questo benché Mayu continuasse a dimostrare
un evidente attaccamento nei confronti della sua adorata mamma.
All’esterno,
Cyrus cavalcava alla testa della carovana, composta da quindici tra i migliori
cavalieri della guardia reale, soldati di grande esperienza e riprovata fedeltà
pronti a dare la vita quando necessario per i propri sovrani.
Purtroppo,
neppure soldati temprati e ben addestrati come loro potevano scorgere chi, per
controparte, faceva dell’elusività e del movimento furtivo i propri strumenti
d’azione. Appostate sulla sommità di un promontorio che dominava la strada, ben
protette dalla vegetazione, un gruppo di spie osservavano avvicinarsi il corteo
rimanendo accuratamente nascoste. Li guidava Jalim, il più fedele e pericoloso
cane addestrato dei reali di Normar.
Di
solito Jalim agiva sempre da solo, ma quella missione era troppo importante, e
comunque le guardie reali di Fiya non erano un avversario da prendere
sottogamba.
Qualche
tempo prima Lainay, che mirava a varcare una volta di tutte il fiume Danus e
muovere guerra aperta ai numerosi regni umani che si trovavano lungo i suoi
confini, aveva proposto a Fiya, la seconda più potente nazione del continente,
un trattato di alleanza, così da creare una gigantesca manovra a tenaglia con
un attacco combinato da due parti opposte che non avrebbe lasciato alcuno
scampo ai piccoli e tutto sommato deboli stati cuscinetto. In cambio la regina
aveva promesso oro, un solido trattato di alleanza e un terzo di tutte le terre
conquistate, ma la proposta era stata immediatamente rispedita al mittente, con
anche la garanzia che qualunque atto di aggressione da parte di Normar verso i
regni umani avrebbe comportato un intervento militare di Fiya al fianco degli
assaliti.
Lainay
però non accettava un no come risposta, in nessuna occasione, così,
intravedendo la possibilità di costringere Fiya ad attaccare i suoi vicini e
allo stesso tempo proteggersi da un qualsiasi tentativo di rappresaglia, la regina
aveva deciso, dopo aver scoperto il segreto custodito gelosamente dai suoi
nemici grazie alla sua efficientissima rete di spie, di adottare con la
famiglia reale di Qerin la stessa tecnica usata con numerose tribù elfiche del
suo regno, l’adozione forzata. Un ostaggio famoso, meglio ancora un membro
della famiglia reale, era la migliore delle garanzie, oltre ad un efficace
strumento di persuasione.
«D’accordo.»
disse Jalim rivolto ai suoi uomini «Ascoltatemi tutti, perché parlerò una volta
sola. Questa è una missione della massima importanza.
Dovrete
essere il più discreti possibile. Sua maestà vuole che il coinvolgimento del
nostro regno venga scoperto solo a cose fatte, in modo tale da evitare
eventuali rappresaglie. Per questo motivo, cercate di evitare tutte quelle
tecniche per le quali siamo conosciuti, e più importante ancora non fatevi
vedere in faccia.
Un’altra
cosa su cui la regina si è raccomandata è lo spargimento di sangue.»
«Ammazziamoli
tutti!» esclamò uno degli elfi
«Niente
affatto. Sua maestà è stata chiara. Dobbiamo limitare al massimo il numero dei
cadaveri. Non toccate la famiglia reale, e uccidete solo se necessario. La
nostra azione deve essere il più cavalleresca possibile.
Chiunque
farà di testa sua finirà sul palo nella piazza di Galinne, mi sono spiegato?»
«Sissignore.»
risposero tutti in coro
«Stanno
arrivando.» disse uno facendo notare la carrozza che si faceva sempre più
vicina
«Molto
bene.» disse Jalim «Si comincia».
Una
delle spie usò degli sterpi e una torcia per fare dei segnali di fumo che
furono captati da un loro compagno appostato tra i cespugli che crescevano
sulle sponde di un fiume largo e profondo, poco distante dalla strada. Pochi
minuti dopo la carrozza cominciava a percorrere il lungo ponte a tre archi, un
capolavoro di ingegneria che per molte miglia in entrambe le direzioni
costituiva l’unico punto di attraversamento.
Con
l’occhio vigile sulla propria preda la spia strinse forte una cordicina di
canapa che, strisciando sull’erba e sull’acqua come un serpente minaccioso,
arrivava fino ad uno strano ammasso rotondo appiccicato sulla sommità del terzo
arco.
Quello
era il jakmuk, una delle armi più pericolose dell’esercito di Normar; un’enorme
quantità di polvere da sparo schiacciata all’interno di un contenitore di ceramica
e provvisto di un compressore collegato ad un fermo. Facendo saltare il fermo
il compressore incrinava con la sua punta metallica il contenitore della
polvere, che esplodeva fragorosamente provocando distruzione in modo direttamente
proporzionale alla quantità di esplosivo utilizzato. Un ordigno rudimentale ma
di tremenda efficacia, che all’occorrenza poteva essere ricoperto di grasso per
calafatare ed essere quindi appiccicato a qualsiasi superficie nonostante il
suo considerevole peso.
La spie
diede un ultimo sguardo alla sua preda, quindi, acquattatasi più che poteva,
tirò violentemente la corda, e un istante dopo la porzione finale del ponte
crollava sventrata dall’esplosione, intrappolando il convoglio. Un cavaliere
che procedeva davanti a tutti non fece in tempo a frenare e precipitò nel
baratro assieme al suo cavallo; gli altri, prima ancora di potersi rendere
conto di quello che accadeva, vennero circondati da un esercito di inquietanti
figure nere saltate letteralmente fuori dall’acqua del fiume; indossavano i
passamontagna neri tipici dei ribelli dell’ovest e impugnavano armi di vario
tipo, dalle spade alle accette.
«Difendete
la famiglia reale!» gridò Cyrus, e immediatamente le guardie fecero muro
attorno alla carrozza, mentre il conducente tentava invano di tenere buoni i
cavalli.
Se
Sigthor, vedendo l’evidente inferiorità numerica, decise di dare personalmente
il proprio contributo, e sguainata la spada si preparò a gettarsi a sua volta
nella mischia.
«Caro!»
disse sua moglie tentando di dissuaderlo
«Devo
fare qualcosa, tesoro. Sono i miei uomini. Non posso lasciarli combattere da
soli».
Mayu,
che fino a poco prima avrebbe sorriso al pensiero di veder allontanarsi suo
padre, di colpo sentì una fitta al cuore; allora, si disse, quell’uomo non era
un insensibile. Stava per andare a combattere per difendere tutti, compresa
lei, incurante del fatto che avrebbe potuto morire.
Le venne
da piangere, per la prima volta dopo tanto tempo, e provava tanta vergogna e
tristezza nel comprendere con quanta, ingiustificata cattiveria aveva giudicato
quell’uomo. Istintivamente gli prese una mano, come a cercare di trattenerlo, e
quando il re la guardò spalancò gli occhi per lo stupore: stava piangendo.
«Papà.
Non andare».
Sigthor
ci impiegò qualche istante a rendersi conto di quello che aveva davanti, ma
come riacquistò la padronanza di sé capì che ora aveva un motivo in più per
voler combattere e vincere.
«Non
preoccuparti, figlia mia. Ti prometto che andrà tutto bene.»
«Papà…»
«Tu mi
hai fatto molto felice oggi.» disse accarezzandole una guancia.
A quel
punto, risoluto, aprì la porta della carrozza.
«Restate
qui.» disse richiudendola e sprangandola.
Intanto,
la battaglia tra la scorta e gli aggressori si era fata cruenta. Le guardie
erano scese da cavallo, che in uno spazio così ristretto si rivelava solo un
ostacolo, e usata la testa di toro che ognuno aveva con sé si erano quindi
buttati nel corpo a corpo.
Cyrus,
che ancora non aveva sparato, usò la propria arma da fuoco per intercettare un
aggressore a mezz’aria e scaraventarlo in acqua con un enorme buco nel petto,
quindi, usando la stessa arma come una mazza, ne uccise un secondo
fracassandogli la testa.
Per
qualche motivo gli aggressori si trattenevano dall’uccidere, limitandosi ad
arrecare alle guardie reali ferite abbastanza gravi da costringerle a terra;
inoltre, tutti rifuggivano lo scontro con il re, allontanandosi appena lo
vedevano arrivare.
Poi, ad
un certo punto, sul ponte comparve un altro nemico, armato stavolta con un paio
di guanti artigliati, che liberatosi facilmente di due soldati arrivò davanti
alla porta della carrozza, fracassando la serratura e riuscendo ad aprirla.
Mayu lo
vide mentre, sorridendo malevolo, si leccava gli artigli, un’immagine destinata
a restare nella sua memoria per sempre.
«Scusate
il disturbo. Sono qui per prendere in prestito la principessa.»
«Mamma!»
disse Mayu tremante di paura
«Ti
prego.» disse la regina stringendola a sé «È solo una bambina.»
«Desolato.
Sono gli ordini».
Stordite
entrambe con delle freccette soporifere Jalim prese Mayu sottobraccio e fece
per ordinare la ritirata, ma il suo agire attirò l’attenzione del re, che
vedendolo con la figlia presa in ostaggio gli si lanciò contro urlando di
rabbia.
«Metti
giù mia figlia, bastardo!».
Sigthor
si rivelò un avversario in gamba anche per uno come Jalim, che dovendo pensare
anche al proprio ostaggio si trovava in una condizione di grave inferiorità; i
suoi compagni cercarono di soccorrerlo, ma gli uomini della guardia fecero di
tutto per impedirglielo.
Alla
fine l’elfo si vide costretto a ricorrere ai suoi soliti metodi, e raggiunto
con un salto il corrimano del ponte afferrò Mayu per la collottola del vestito,
lasciandola a penzolare nel vuoto; sotto di lei, dieci e oltre metri di niente,
poi l’acqua del fiume, molto profonda in quel punto.
«Non vi
muovete!» gridò «O la vostra bella principessina si farà un bel bagno!»
«Bastardo.»
ringhiò il re a denti stretti.
I
soldati non ebbero altra scelta che smettere di combattere, e a quel punto
Jalim ordinò a tutti di prepararsi ad una veloce ritirata.
«Non
preoccuparti per tua figlia, re Sigthor. Starà bene dove la porteremo».
Quello
che Jalim non poteva sapere era che una delle guardie, un giovincello timido
alla sua prima esperienza sul campo, all’inizio della battaglia si era andato a
nascondere dietro la carrozza, e ancora lì si trovava, con la balestra carica e
la determinazione a riscattarsi per la codardia dimostrata.
Preso un
gran respiro, saltò fuori dal suo nascondiglio ad arma tratta.
«Lascia
andare la principessa!» gridò cogliendo Jalim del tutto impreparato.
Il suo
tentativo era semplicemente quello di minacciarlo per costringerlo a mollare
l’ostaggio, ma uno degli uomini di Jalim fu più veloce di tutti e lanciò il
coltello che ancora aveva in mano nella sua direzione, colpendolo alla spalla.
Per il dolore, le dita del ragazzo si contrassero sul grilletto e la freccia
partì; Jalim venne ferito di striscio ad un fianco, minacciando di perdere
l’equilibrio, e per poterlo recuperare perse involontariamente la presa sul
vestito di Mayu, che ancora addormentata cadde nel fiume.
Lo
sguardo del re si riempì del terrore, e senza pensare per un secondo alla
propria incolumità si lanciò sul parapetto.
«Mayu!».
Contemporaneamente,
una pattuglia di soldati di ritorno al loro villaggio per un periodo di congedo
si trovò a passare per quella strada, e gli uomini, accortisi di quello che
stava accadendo, presero a correre verso il ponte armi alla mano.
Jalim e
i suoi erano in trappola. Restare per cercare di recuperare la principessa era
un suicidio, per non parlare del fatto che sarebbe stato molto difficile
trovarla ancora in vita. L’elfo digrignò con forza i denti, comprendendo di
essere appena andato incontro al primo fallimento della sua immacolata carriera
di spia.
«Maledizione!
Ritirata!» urlò, e immediatamente tutti i suoi uomini si dispersero,
scomparendo in tutte le direzioni.
Rimasero
solo le guardie e la famiglia reale, tutti accomunati dallo stesso dolore e
dalla stessa disperazione per la sorte della principessa.
Alcuni
soldati, liberatisi delle armature, si gettarono nel fiume per tentare un
disperato salvataggio, ma in quel punto l’acqua, oltre che profonda, era anche
molto torbida, e la corrente impetuosa. Furono sufficienti pochi minuti perché
i soccorritori fossero costretti ad arrendersi e a ritornare a riva per non
essere trascinati via a loro volta.
Il re
pianse e si disperò come mai nella sua vita, e dovette essere trattenuto a
forza dal gettarsi nel fiume per andare personalmente alla ricerca della
figlia. Quanto alla regina, dopo che si fu svegliata, si sentì male a tal punto
che le prese un mancamento, e il suo pianto disperato avrebbe spezzato il cuore
anche dell’uomo più insensibile.
Per
giorni e giorni vennero condotte incessanti ricerche nella speranza di riuscire
a recuperare almeno il corpo della principessa, ma dopo più di una settimana di
totale insuccesso si decise, con la morte nel cuore, di interrompere le
ricerche.
Il re e
la regina faticarono a lungo per riuscire ad emergere da quel dolore sconfinato,
un dolore che la nascita di Sefy solo in parte riuscì a risanare; la
principessa Mayu, nonostante il suo ruolo, era vissuta ed era morta
nell’anonimato, e nessuno l’avrebbe mai ricordata.
Qualche
giorno dopo l’agguato, però, un carrettiere diretto alla scuola di Kalador per
consegnare le provviste di cui il monastero abbisognava mensilmente, mentre
percorreva una strada sterrata che attraversava la foresta a pochi passi dal
fiume decise di fermarsi a riposare, e proprio quando era sul punto di concedersi
una breve dormita all’ombra di un ciliegio selvatico ebbe l’impressione di
scorgere una figura evanescente che, dopo averlo fissato un momento, scompariva
veloce tra gli alberi.
Secondo
la leggenda, quella parte del bosco era abitato dagli antichi spiriti della
natura, e il carrettiere, incuriosito, si mosse in quella direzione; fatti
pochi metri arrivò sulla riva e con sua grande sorpresa trovò, riversa nel
fango, una bambina; i suoi vestiti, di un certo prestigio, erano tutti sporchi,
fradici e strappati. Aveva anche qualche ferita, ma niente di veramente serio,
e nella mano destra stringeva uno stupendo monile.
«Ma
cosa…» disse avvicinandosi.
Sulle
prime pensò che la piccola fosse morta, poiché non gli sembrava di sentirla
respirare, ma poi, proprio quando stava per andare a prendere una vanga con cui
darle sepoltura, udì un rantolo, come una sommessa richiesta di aiuto, e subito
tornò indietro, coprendola con la sua mantella.
Dopo
poco la piccola si sveglio; aveva gli occhi carichi di paura e smarrimento.
«Non
temere. Ora sei salva.»
«Che…
che cosa è successo?»
«Ora non
parlare. Cerca di stare calma. Ti porterò da chi può curarti.»
«Ma io…»
disse con quel suo sguardo da cucciolo smarrito «Io chi sono? Non… non me lo
ricordo».
«Allora è così che è andata.»
disse Regis a racconto concluso
«Sono
stati i miei spiriti a salvarvi. Aqua mi ha portato a riva, Lumy mi ha scaldato
tenendomi in vita e Windy ha cercato qualcuno che mi aiutasse. Dopo quel fatto
sono stata portata a Kalador. Mi hanno cresciuto le monache del tempio. La
badessa è stata come una madre per me. Mi ha insegnato a comunicare con gli
spiriti, ad ottenere la loro attenzione e il loro rispetto.
Anche se
non sapevo chi ero, vivendo lì mi sentivo davvero felice».
Sakura
guardò in alto: il cielo era di un bell’azzurro intenso, ingentilito da alcune
innocue nuvole bianche e spumose.
«Per
molto tempo non ho saputo rispondere a questa domanda, ma devo ammettere che
non mi importava granché. Dicevo a me stessa che con tutto quello che avevo a
mia disposizione era inutile cercare di ricordare il passato.»
«E
invece quel passato ti ha raggiunta.»
«È
successo poco prima che ci incontrassimo.» disse Sakura dopo una breve pausa
«Non li ho cercati i ricordi. Sono tornati da soli, tutti in una volta. A quel
punto ho capito per quale motivo mi sforzavo inconsciamente di non ricordare.
Perché
affannarsi tanto a recuperare le memorie di una vita che non mi piaceva?
Ne ho
parlato alla madre badessa, e lei mi ha offerto di scegliere. Tornare quella
che ero o rimanere quella che ero diventata.
Ho
scelto di restare. Infondo che motivo avevo di tornare alla mia vita
precedente? I miei genitori avevano una nuova figlia, la gente di Fiya la sua
principessa, e io la mia libertà. Tutti contenti».
Regis
sorrise, facendo finta di niente, ma sapeva che Sakura stava mentendo.
Se
avesse davvero voluto gettarsi tutto alle spalle non avrebbe conservato il
medaglione di suo padre anche dopo aver recuperato i ricordi.
«Beh.»
disse lei alzandosi in piedi «Quel che è stato è stato, e sinceramente non ho
voglia di parlarne.»
«E ai
tuoi genitori non ci pensi?» domandò Regis non senza un tono di leggero
rimprovero «Hai idea di quanto abbiano sofferto? A te può sembrare il
contrario, ma non hanno mai smesso di sperare che tu fossi viva».
Sakura
non rispose, e neppure si girò, ma Regis intuì quale dovesse essere
l’espressione sul suo volto.
«Non
commettere il mio sbaglio, Sakura. Non gettare al vento i tuoi legami
famigliari. Io darei qualsiasi cosa per rivedere mio padre e mio fratello».
Di
nuovo, lei non disse una parola, e dopo qualche secondo tornò verso il campo.
Quella sera i ragazzi si
coricarono presto dopo una cena non eccessivamente allegra.
Il
tragicomico tentativo di Dave di scusarsi con Elys per quello che era accaduto
allo stagno mitigava solo in parte l’aura di malessere che gravava sul gruppo a
causa del cattivo umore di Sakura.
La
ragazza non aveva per nulla apprezzato, pare, l’ammonimento di Regis nei suoi
riguardi, e per tutta la serata non lo aveva degnato di non sguardo né di una
parola.
Tutti
quanti, stanchi per la lunga camminata e la ricerca inutile della pietra, si
addormentarono quasi subito, anche Sakura, che tuttavia venne svegliata nel
cuore della notte da una sensazione al contempo strana e famigliare.
Nell’istante
in cui apriva gli occhi la luna piena raggiungeva lo zenit, e una candida luce
dorata prese a brillare da sotto la superficie del lago. In quel momento la sua
volontà, come risucchiata da quel bagliore, cominciò a venire meno, il suo
sguardo a spegnersi, e lei, coi movimenti di un automa, come fosse stata
sonnambula, camminò fin sulle sponde dello specchio d’acqua, dove fu avvolta da
una sorta di grande bolla d’aria.
La luce
svegliò anche gli altri ragazzi, che videro la loro compagna sollevarsi in aria
per poi scomparire inghiottita dalle acque; subito cercarono di correre in suo
aiuto, ma vennero inaspettatamente fermati da Lumy e Windy, che gli si pararono
davanti sbarrando loro la strada.
«Che
state facendo?» domandò Regis, ma i due spiriti si limitarono a rimanere
immobili senza accennare una risposta.
Intanto
Sakura, sempre avvolta nella bolla e sempre in apparente stato di trance, stava
scendendo sempre più nelle profondità del lago, dritta in direzione del punto
da cui quella luce dorata sembrava provenire. Alla fine raggiunse il fondale;
poco distante una pila di pietre, ed era da sotto di esse che la luce si
sprigionava.
«Cosa…
sta succedendo?» domandò cercando di riacquistare la padronanza di sé.
Il
bagliore di colpo divenne più forte, generando l’immagine evanescente di una
grande e maestosa tigre alata; il mantello era di color giallo oro, le ali
sembravano quello di un angelo, e alle zampe anteriori aveva una sorta di
bracciali argentati tempestate di pietre preziose.
Sakura
sentì uno strano calore al petto, e per un attimo ricordò dove aveva già visto
quella figura; era la protagonista di un libro illustrato che la sua governante
le leggeva quando era piccola, una creatura che le era sempre piaciuta e che
lei, nelle sue fantasie di bambina, sperava un giorno di poter incontrare.
Di colpo
parve riacquistare la padronanza di sé, almeno in parte, e, timidamente,
allungò una mano verso il grande felino, che si avvicinò fino a lasciarsi
sfiorare la punta del naso.
Il
contato produsse una luce mille volte più forte, tanto forte che fu vista per
molte miglia in tutte le direzioni da tutti i villaggi vicini.
«Che
diavolo succede!?» domandò Elys cercando, come i suoi compagni, di proteggersi
dal forte vento che, tra le altre cose, sollevava una grande quantità d’acqua.
Poi, la
superficie del lago parve esplodere, e Sakura riapparve, completamente
cambiata.
La veste
da combattimento nera era stata sostituita da un abito giallo splendente con
spalline piuttosto larghe e che, aprendosi a gonnellino, arrivava fino alle
ginocchia, stivali lunghi e bianchi con un tacco leggero, guanti bianchi dello
stesso colore e una sorta di largo cerchietto argentato che copriva anche le
orecchie come una sorta di cuffia per stereo.
Lo
scettro, da impugnatura di spada, aveva assunto la forma di un lungo bastone
con un’impugnatura dorata al centro e due lunghe aste bianche un po’ più
strette alle estremità, terminanti una in una punta sempre dorata e l’altra in
una specie di diadema simile a quello che Sakura aveva ricevuto in regalo da
suo padre.
I
ragazzi restarono con la bocca spalancata, poi Sakura scese lentamente a terra
davanti a loro; anche lei sembrava non riuscire a realizzare del tutto quello
che era appena successo, ma dal suo sguardo traspariva una grande sicurezza.
Come Elys, sembrava avere il pieno controllo del nuovo potere.
«Credetemi.»
disse la ragazza cogliendoli in controtempo «Neppure io ho idea di come sia
potuto succedere. Pensavo di essere l’ultima persona in grado di legarsi ad una
di queste pietre.»
«Però
non capisco.» disse Dave «Come mai, se la pietra era qui, non siamo stati in
grado di trovarla?»
«Forse
perché non voleva farsi trovare.» disse Regis «Almeno fin quando non avesse
incontrato la persona più meritevole di averla».
Il
ragazzo volse quindi il suo sguardo agli spiriti di Sakura, che esaurito il
proprio compito scomparvero alla loro solita maniera. Ecco perché li avevano
fermati; per impedire che la loro vicinanza potesse spingere la pietra a
scomparire nuovamente, ma soprattutto per permettere alla loro padrona di
legarsi ad essa.
«Queste
pietre sono molto speciali, come abbiamo visto. Decidono da sé se legarsi o
meno a qualcuno. Lei ha scelto te.»
«E mi
sembra incredibile.»
«Perfetto.»
disse Elys «E con questa, ora ne mancano solo due.»
«Se ci
pensiamo, abbiamo fatto più in fretta del previsto.»
«Sì, ma
non è il caso di esserne eccessivamente felici.» disse Regis estraendo la Spada di Gigabrian e
lasciando che le pietre indicassero loro la nuova direzione da seguire «Perché
quando le avremo trovate tutte, avrà inizio la vera sfida».
Nota dell’Autore
Eccomi qua!^_^
Un mese! Ma ci rendiamo conto? Un mese!
Lo so, è un vero scandalo, ma avete presente l’espressione “essere
spompati”? Beh, non basta a definire lo stato in cui mi trovo in questi giorni.
E il tirocinio, e la tesi da preparare, e il trasloco. Sapevo già che quest’estate
non l’avrei neppure vista passare, ma non immaginavo che sarebbe stato un
simile inferno. Per fortuna da domani il lavoro al tirocinio dovrebbe
attenuarsi, ma in ogni caso credo che sia ora di cominciare a pensare
seriamente a questa maledetta tesi di laurea.
Comunque, non temete. Ho giurato di portare avanti questa saga e lo
farò!
Nota. Gli eventi narrati nel flashback
di questo capitolo si svolgono nei luoghi in cui sono ambientate le vicende dell’anime KyōryūbōkenJuraTripper, noto in Italia come “I Segreti dell’Isola Misteriosa”. Da piccolo adoravo questo
cartone, così ho deciso di omaggiarlo. Buona
lettura!^_^
61
Il monastero nel deserto ormai era alle spalle, ma non la
montagna di domande che il finto ologramma aveva portato con sé.
Erik non sapeva cosa pensare: era
andato lì per trovare delle risposte, ma fino a quel momento quel viaggio gli
aveva portato più domande che altro.
A Koichi e Sanae non aveva detto
nulla: meglio non angustiarli, dando loro nuovi motivi di preoccupazione. Anche
perché i ragazzi ultimamente sembravano avere dei problemi tutti loro; da che
avevano lasciato il monastero non si erano parlati e, a momenti, neppure
guardati in viso.
Si evitavano l’un l’altro, e se uno
dei due ad un certo punto provava a trovare la forza
per aprire un dialogo o rompere la barriera che sembrava separarli l’altro
prontamente trovava una scusa poco più che pietosa e se la dava immediatamente
a gambe.
In mezzo, Lily, che sembrava
trovare la cosa di estremo divertimento.
Erik sapeva di cosa si trattava e
capiva la situazione, e proprio per questo non interveniva in alcun modo; aveva
imparato in prima persona che in casi simili bisogna fare da soli, perché solo
chi era coinvolto poteva sapere se e come la situazione si sarebbe evoluta.
Lasciato il deserto, il gruppo
aveva attraversato un’area di vaste praterie prime di immergersi nuovamente in
una zona di fitte foreste di bambù intervallate piuttosto spesso da grandi
risaie che riempivano intere pianure.
La regione di Sinca,
a sentire le parole del padre superiore del tempio, era situata nell’oriente più estremo, e per poterla raggiungere erano necessari come
minimo due anni di cavallo, anche di più volendo andare a piedi.
Forse, più avanti, Erik e gli altri
avrebbero trovato il modo per rendere il viaggio più veloce e scorrevole, ma
almeno per il momento non si poteva fare altro che armarsi di buona volontà e
confidare nelle proprie gambe; e poi, viaggiando a piedi c’era la possibilità
di imbattersi in qualche altro laboratorio segreto di Clow in cui poter
sperare, magari, di trovare qualche altra risposta.
Qui e là si incontravano
anche molti villaggi, ma i ragazzi preferivano tenersene lontani, onde evitare
problemi di qualche sorta. La marcia procedeva a ritmo piuttosto lento, e non
solo perché Erik e i suoi compagni evitavano le strade principali così da
rendere più difficile ai Suura seguire i loro
movimenti. Koichi, ultimamente, aveva cominciato ad allenarsi sul serio, e le
soste, anche di qualche giorno, si erano fatte piuttosto frequenti.
Erik si stava rivelando un maestro
severo e molto esigente, che pur parlando solo in rarissime occasioni si faceva
capire semplicemente con un cenno o uno sguardo particolare, ma il suo
allenamento si stava rivelando ben diverso da quello che Koichi pensava di
dover seguire. Per il giovane samurai era come essere tornato bambino, all’epoca
dei primi addestramenti: tecniche elementari, esercizi da principiante e altre
cose di questo tipo costituivano i suoi esercizi quotidiani, e guai se solo
osava sollevare una parola di obiezione.
L’ultima volta che lo aveva fatto
Erik lo aveva invitato a farsi avanti a spada tratta e
a tentare di ucciderlo, e quando Koichi, pur titubante, ci aveva provato, al
suo maestro erano bastati pochi decimi di secondo e un bastoncino raccolto sul
momento per disarmarlo e metterlo al tappeto.
«Sei come un bambino.» gli aveva
detto dopo quella lezione «E come un bambino intendo
trattarti».
All’inizio Koichi aveva trovato
questa situazione alquanto irritante. Sperava di ricevere insegnamenti
superiori, che gli permettessero di avvicinarsi anche di poco all’apparentemente
inarrivabile abilità del suo maestro, ma per ora sentiva di non ricevere niente
di più né di meno di quello che avrebbe appreso in qualsiasi dojo del suo Paese.
Dopo quel giorno però, aveva capito
tutto: quanto era stato immaturo, e superbo, e quanto a lungo si fosse
dichiarato un guerriero pur non essendone neanche lontanamente paragonabile.
Per questo, aveva obbedito, e aveva ricominciato tutto daccapo, cercando di
padroneggiare quelle basi del combattimento che forse non aveva mai davvero
posseduto. Si allenava duramente, per ore ed ore,
arrivando a passare intere notti in bianco, e faticando a tal punto da crollare
svenuto.
Sanae aveva cercato di aiutarlo, di
offrirgli un po’ di aiuto, ma Erik l’aveva fermata,
dicendole che per il momento Koichi avrebbe dovuto fare da solo, almeno fino a
quando non fosse veramente cresciuto.
Tuttavia, qualche risultato si
stava cominciando a vedere; avendo capito di possedere veramente una piccola
scintilla di potere magico dentro di sé, una quantità irrisoria ma comunque
sufficiente a rendere speciale un guerriero, Koichi stava cercando di ottenerne
il controllo. Aveva anche dato un nome alla sua
tecnica di fuoco, la sola che possedeva, almeno per ora: Kazehi,
Onda di Fuoco.
«Sono stanca morta.» disse Lily a
metà dell’ennesimo giorno di marcia «Ho fame e sete, e
anche tanto sonno. Quand’è che ci fermiamo a riposare?»
«Cerca di resistere un altro po’,
Lily.» disse Sanae «Abbiamo fatto poca strada in
questi ultimi giorni. Bisogna recuperare tutto il tempo perduto.»
«Sì, però…»
«Koichi.»
«Sì, maestro?»
«Dove ci troviamo in questo
momento?»
«Se ho tenuto bene il conto della
strada fatta, dovremmo essere entrati già da tempo
nell’Impero di Kyo, chiamato anche l’Impero di Mezzo.
Si trova quasi al centro di questo continente, è per questo che lo chiamano
così.»
«Ed è un Paese tranquillo?»
«Non troppo. La famiglia imperiale
cambia di nome piuttosto spesso, e i nobili sono perennemente in conflitto tra
loro per ottenere il potere. Le guerre civili sono frequenti.»
«Allora, sarà meglio lasciarlo al
più presto.»
«C’è un servizio di trasporti che
collega tra di loro le varie città dell’Impero. Potremmo prendere un carretto.»
«Per ora limitiamoci ha raggiungere
un centro abitato. Lily ha ragione, sono giorni che non facciamo una pausa.»
«Evviva, finalmente ci si riposa!».
D’un tratto, i tre ragazzi
cominciarono a sentire un rumore di cavalli al galoppo, accompagnati da
imprecazioni e urla scomposte.
«Che sta succedendo?» domandò
Koichi.
Poco distante da lì, un piccolo
manipolo di soldati a cavallo aveva circondato una casetta di legno e pietra
che sorgeva in una radura nel fitto del bosco di bambù; la loro vittima era il
padrone di casa, un vecchio dall’aria apparentemente gracile e malmessa, con
una postura leggermente gobba e una pronunciata calvizie, ma che tuttavia
sembrava determinato a fronteggiare i suoi aggressori brandeggiando un grosso
martello da fabbro.
«Sono stanco della tua
testardaggine, vecchio!» disse il capo del plotone «Vieni con noi senza fare
altre storie!»
«La mia risposta l’avete già avuta!
Andate a dire a quell’ubriacone guerrafondaio del vostro signore che può andare
all’inferno se spera di avere qualcosa da me.»
«Allora non mi lasci altra scelta.
Dovremo essere drastici. Forse mozzarti tutte e due le
gambe basterà a renderti più collaborativo. Dopotutto,
per forgiare spade, le gambe non ti servono.
Uomini, prendetelo».
Due soldati scesero da cavallo e si
avvicinarono al vecchio con fare minaccioso; il primo scavalcò facilmente la
sua debole difesa e lo colpì violentemente allo stomaco con il manico della sua
lancia, ma prima che potessero infierire ulteriormente
una selva di frecce di luce li investì in pieno, lasciandoli agonizzanti a
terra.
«Ma cosa…» disse il capo, e subito
dopo Erik e Koichi sbucarono dalla foresta parandosi in difesa del vecchio, che
venne soccorso da Sanae e aiutato da lei a rimettersi
in piedi
«Va’ tutto
bene, signore?» domandò la ragazza
«Sì, più o meno».
Koichi aveva già la spada
sguainata, e osservava gli aggressori con fare minaccioso.
«Levatevi di mezzo,
stranieri. Questi non sono affari che vi riguardano.»
«Che cosa ha fatto quest’uomo per
meritare un simile trattamento?» domandò Koichi
«Come ho già detto, non vi riguarda.
Levatevi se non volete finire nei guai.»
«Non lo faremo.» rispose calmo Erik
«Se volete fare del male a lui,
dovrete prima vedervela con noi.»
«In questo caso ve la siete cercata!
Uomini, fateli a pezzi!»
«Nobile Sanae, voi state
indietro!».
Il resto della truppa si lanciò
alla carica urlando a squarciagola, ma né Erik né Koichi arretrarono di un
centimetro. Un tempo il giovane samurai si sarebbe gettato a sua volta nella
mischia senza pensarci due volte, ma la prima cosa che aveva imparato dal suo
durissimo addestramento era che lanciarsi allo sbaraglio contro avversari di
cui si ignorava ogni cosa era un aperto invito a farsi
ammazzare.
Solo all’ultimo secondo si mosse a
sua volta, una scelta puramente istintiva della quale si pentì quasi subito,
non tanto per la pericolosità del nemico, decisamente
risibile, persino per lui, quanto piuttosto perché contravveniva a quanto gli
era stato insegnato.
Tuttavia, fin da subito, emerse la
grande differenza nel suo modo di combattere rispetto al passato; gettate via
l’intraprendenza esagerata, l’avventatezza e la prevedibilità, si batteva ora a mente lucida e in modo molto più
“professionale”, dimostrando, con sua stessa sorpresa, di aver finalmente fatto
proprie, se non del tutto almeno in buona parte, le basi dell’arte della spada.
Erik si era visto arrivare contro
la più alta concentrazione di nemici, ma teneva loro testa senza difficoltà,
limitandosi ad assestare loro colpi abbastanza gravi da costringerli alla resa;
di colpo, uno dei soldati che credeva di avere steso si rimise in piedi e cercò
di colpirlo alle spalle, ma il giovane se ne avvide e, voltatosi, materializzò
la spada d’oro con cui respinse l’attacco.
La comparsa della spada fu accolta
dal vecchio fabbro con un’espressione di puro stupore, e dopo poco,
ulteriormente spaventati da un Kazehi di Koichi, il
primo usato nel corso di una battaglia, i soldati abbandonarono la battaglia e scapparono a tutta velocità, richiamati
inutilmente all’ordine dal loro comandante.
«Non finisce qui, la pagherete!»
gridò il capo prima di andarsene a sua volta.
«Siete ferito?» domandò Koichi al
vecchio a pericolo scampato
«No, per fortuna.» rispose quello
mentre Sanae lo aiutava a rialzarsi «Vi sono debitore.»
«Chi erano quegli uomini?» chiese
Erik
«Servi di un signore della guerra.
Uno dei tanti che insozzano questo Paese.»
«E cosa volevano da voi?» domandò
Sanae
«Quello che vogliono tutti. Che mi
metta a forgiare spade per ogni maledetto soldato dei loro eserciti.»
«Forgiare spade!?»
ripeté Koichi
«Comunque, vi devo la vita. Il
vostro nome, se posso chiedere?»
«Io mi chiamo Sanae. Questi sono i
nobili Koichi ed Erik, lei invece è Lily.»
«Ciao.» disse la fata salutando con
la mano.
Il vecchio la guardò con curiosità ed attenzione, passandosi una mano sul mento; Lily si
spaventò un pochino, tanto che andò a nascondersi leggermente tra la veste di
Sanae.
«Una fata. Era da un pezzo che non
ne vedevo.»
«E voi signore, siete?» chiese Erik
«Ah, scusate. Non mi sono neanche
presentato. Il mio nome è Ippei. IppeiNihira.»
«IppeiNihira!?» esclamò Koichi pieno di
stupore «Non sarete per caso quell’IppeiNihira!? Il leggendario maestro forgiatore!?»
«In carne ed
ossa, ragazzo. O forse dovrei dire semplicemente in ossa, visto
che di carne su questo vecchio corpo ne è rimasta ben poca.»
«Non avrei mai pensato di potervi
incontrare. Dicono che le spade che create siano indistruttibili, e rendano
invincibile chiunque le usi.»
«Alla gente comune piace raccontare.
Mi limito a fare del mio meglio.»
«Beh, noi ora ce ne andiamo.» disse
Erik voltandosi verso il sentiero «Abbiamo già perso abbastanza tempo.»
«Quanta fretta, nobile Erik. Come
mai avete tutta questa premura?
Mi avete salvato la vita, lasciate
almeno che mi sdebiti.»
«Non ce n’è bisogno. Abbiate cura di
voi.»
«Quella che usate.» disse il
vecchio con una strana luce negl’occhi «È un’arma
spirituale, non ho ragione?».
Erik si fermò di scatto, rimanendo
immobile come una statua di sale; non voleva mostrarlo, ma da quel suo sguardo
parzialmente celato dalle frange dei suoi lunghi capelli d’argento traspariva
un misto di meraviglia ed incredulità.
Anche Sanae, Lily e Koichi
restarono molto sorpresi. D’accordo, Ippei l’aveva
vista apparire dal nulla, ma come faceva a conoscere il vero nome di quel tipo
di armi? Per Koichi, un’ulteriore dimostrazione
dell’indubbia abilità che contraddistingueva il leggendario Fabbro Celeste.
«Posso vederla?».
Erik temporeggiò un momento, poi,
senza apparente esitazione, fece ricomparire la spada d’oro e la lanciò al
vecchio. Questi la prese al volo, poi, cavata da una tasca della sua veste
scucita una sorta di piccolo monocolo prese ad
osservarla attraverso di esso.
«Come immaginavo.» disse dopo un
po’
«Che succede?» chiese Koichi
«Guardate voi stessi».
Erik recuperò la spada e assieme ai
suoi compagni la osservò a sua volta attraverso il monocolo; fu così che, dinnanzi ai loro occhi, comparve un fitto reticolo di crepe,
piccole o grandi, che attraversavano come una maglia l’intera superficie della
lama, che al contrario ad occhio nudo sembrava lucida e liscia come appena
forgiata.
«Ma che
significa?» chiese Lily
«Le armi spirituali sono create in
modo da mascherare l’usura del tempo dietro un aspetto perennemente florido e
scintillante, ma non sono immuni all’usura del tempo e agli effetti delle
battaglie.
Anche loro si danneggiano, e se
trascurate per troppo tempo potrebbero finire per
perdere il loro grande opere, o addirittura per distruggersi.»
«E non si può fare proprio niente?»
domandò Koichi «Non la si può riparare?»
«Un’arma spirituale non è qualcosa
che si possa semplicemente riparare, come una qualsiasi altra spada. Ci sono
solo due modi per riportarla al suo fulgore originario.
Il primo è aspettare, dando tempo
al metallo speciale di cui sono fatte queste armi di riparare da sé i danni che
lo affliggono, il secondo è di affidarsi ad un
procedimento molto particolare e delicato che passa attraverso molteplici
stadi.
Come potete immaginare la seconda
strada è la più veloce, ma anche la più insidiosa. Può bastare una piccola
disattenzione perché il filo sottile su cui poggia l’integrità di uno di questi
oggetti venga reciso, e a quel punto l’arma sarà
perduta per sempre.»
«Sapete molte cose su questo tipo
di armi.» disse Sanae.
Erik ascoltò con molto interesse, e
comprese che quel vecchio dall’aria bizzarra e un po’ svampita, ma con
un’indubbia e sconfinata saggezza di fondo, aveva
ragione.
La spada d’oro, l’arma di
rappresentanza della tribù diNepthys
al grande torneo, esisteva da almeno duemila anni, ma nessuno in realtà sapeva
con certezza quando e come fosse stata creata.
Tra una competizione e l’altra la
spada riposava piantata nell’altare del tempo attiguo al palazzo reale, e in
questo modo aveva tutto il tempo di ripararsi in vista del momento in cui un
nuovo guerriero l’avrebbe reclamata.
Solitamente veniva
usata al massimo tre o quattro mesi ogni duecento anni o più, ma ormai erano
già più di otto anni, da quando cioè Toshio l’aveva estratta in vista
dell’ultimo torneo, che non faceva ritorno al suo luogo di riposo, e da allora
non era mai stata tenuta lontana dalle battaglie abbastanza a lungo da potersi
rigenerare.
«Facciamo così.» disse Ippei dandosi dei colpetti alla schiena per cercare di
restare un po’ più dritto «Visto che mi avete aiutato,
in cambio io vedrò cosa posso fare per rimettere in sesto questa spada.»
«Davvero lo potete fare!?» esclamò Lily
«Sono o non sono il Fabbro
Celeste?» rispose lui sorridendo
«Maestro, avete sentito?».
Erik restò in silenzio, poi diede
le spalle al vecchio.
«Faccia come crede.»
«Molto bene. Nell’attesa, fate come
se foste a casa vostra. Non è un castello provvisto di ogni comodità, ma è
calda e pulita.»
«Mi dispiace mettervi fretta,
nobile Ippei.» disse Koichi «Ma
purtroppo noi andremmo piuttosto di fretta. Pensate di potercela fare in tre
giorni?»
«Tre giorni?» rispose lui con un
tono di strano risentimento «Ma per chi mi avete preso?».
Koichi abbassò il capo, ma poi si
avvide che il vecchio stava sorridendo.
«Sarà pronta domani mattina».
Ippei si mise al lavoro immediatamente,
rinchiudendosi come un’eremita nella sua forgia e dando in via ad un incessante lavoro che continuò anche dopo il
tramontare del sole, fino a notte fonda.
Koichi, che aveva sentito tante
storie sul conto del leggendario fabbro, faceva da spettatore restando in
disparte, dove era sicuro di non disturbare.
«Davvero potete ripararla?»
«Le armi spirituali sono speciali,
ma di base sono uguali a tutte le altre. Occorre solo seguire qualche
accorgimento in più».
In definitiva era una manutenzione
come qualunque altra; la lama veniva riscaldata,
battuta e raffreddata più e più volte, così da renderla più flessibile e aver
quindi mondo di richiudere le crepe. L’unica differenza era che il vecchio Ippei versava su di essa, ad
intervalli regolari, una strana polvere minerale di colore blu iridescente che
aveva la particolarità, una volta inserita nella forgia, di rendere le fiamme
che la investivano di colore azzurro brillante.
«È quello il vostro segreto?»
«È una polvere speciale, la cui
composizione è nota solo ai capostipiti della mia famiglia. Un retaggio di mio
padre, che a sua volta la ricevette da suo padre, e così via lungo gli ultimi
cinquecento anni. Grazie a questa, le armi spirituali e altri oggetti simili
diventano lavorabili.»
«Mi è dato almeno di conoscere il componente principale di questa polvere miracolosa?»
«È orichalcum.»
«La pietra magica dell’est?»
«La compro dai mercanti. È molto
cara, perciò cerco di usarla il meno possibile. Con le comuni spade le rende
più resistenti ed efficaci, mentre con le armi spirituali è l’unica cosa che
renda il metallo soffice e facile da lavorare.»
«Capisco».
Come la lama venne
immersa nell’acqua fredda questa, oltre che sprigionare vapore, si caricò anche
di una forte luce blu, una luce carica all’inverosimile di potere magico.
«Davvero incredibile».
All’esterno intanto, Sanae e Lily
erano già andate a dormire, approfittando dell’ospitalità offerta loro dal
vecchio Ippei, Erik invece sedeva sotto la lampada ad olio accesa davanti alla porta d’ingresso e osservava
l’immensa vastità del cielo stellato.
Quanto tempo era passato, si
diceva, dall’ultima volta che aveva viaggiato tra le stelle.
Quando ancora era un Rinnegato al
servizio di quello che credeva un sovrano giusto e saggio, per suo conto era
stato su decine e decine di mondi, quasi sempre per
scopi esplorativi.
Era una prassi che i nuovi arrivati
nella Sala del Giudizio, tra coloro che venivano
scelti per essere i comandanti supremi dell’esercito dell’Imperatore, avessero
tra i loro primissimi incarichi quello di visitare pianeti esterni e
sconosciuti, così da sapere se e come era possibile, e soprattutto conveniente,
organizzare un’operazione di conquista.
Erik era stato mandato in missione
una sola volta, ma ricordava bene quei momenti.
Sette anni prima
Il pianeta classificato come X1M-309 non aveva mai
catturato particolarmente l’attenzione dell’Imperatore e del suo esercito.
Situato ai margini dei territori
confederati, aveva pressappoco le dimensioni di Shinari e un Ilya abbastanza
sviluppato, ma non certo di livelli eclatanti, tanto
che senza ombra di dubbio i suoi abitanti non erano in grado di usare la magia.
Già da qualche tempo l’Imperatore
aveva abbandonato l’assimilazione e la distruzione di pianeti desertici il cui
Ilya andava a rinvigorire quello, ora completamente
rinvigorito, di Genesis, in favore di una strategia votata
prevalentemente sull’occupazione militare al fine di garantirsi un ampio
dominio, ma quel pianeta, per molteplici aspetti, non aveva mai fatto parte
della sua lista.
Questo, fino al giorno in cui
alcune pattuglie di velivoli da ricognizione inviati a perlustrare i confini
della confederazione non avevano segnalato un sempre maggiore interessamento a
309 da parte di Shinari, il che era quanto mai insolito; la Confederazione era
solita rivolgere le proprie attenzioni solo a pianeti particolarmente
sviluppati, e 309 sviluppato non lo era di sicuro.
I generali giunsero
alla conclusione che doveva esserci qualcosa su quel pianeta, qualcosa
che andava oltre il livello evolutivo dei suoi abitanti e di importanza tale da
giustificare un comportamento tanto insolito, e così venne deciso di inviare
qualcuno a dare un’occhiata per vedere se, dopotutto, valeva la pena di
annoverare 309 tra le possibili future prede. L’incarico fu affidato all’ultimo
arrivato, Ali del Deserto, Erik.
Giunto sul pianeta grazie alla
propria abilità nel teletrasporto, il ragazzo si guardò un momento attorno. Era
arrivato in quella che sembrava una vasta ed
incontaminata foresta pluviale, con alte palme, erba molto alta e ogni sorta di
pianta tropicale, alcune delle quali non ricordava di averle mai viste.
In lontananza si vedeva un vulcano,
probabilmente spento o comunque non in attività, e il terreno era informe,
molto frastagliato, con alture e rupi a volte molto alte che spuntavano qua e
là.
«Sembra un paesaggio da
giurassico.» disse tra sé e sé.
Lo aveva detto così, tanto per fare
quasi una battuta, ma dovette ricredersi quando, attirato da uno strano rumore,
intravide un branco di giganteschi diplodochi intenti a pascolare in una vicina
pianura come tante grosse mucche.
Tuttavia, girando lo sguardo nella
direzione opposta, gli era possibile scorgere un piccolo villaggio, forse di
pastori, adagiato su una vallata e recintato da una robusta palizzata di legno,
sufficiente a tenere indietro i predatori più bellicosi.
«Quindi questo pianeta è abitato da
uomini e dinosauri insieme. Davvero strano».
A prima vista non sembrava esservi
niente di insolito o strano in quel pianeta, a parte
naturalmente la sua particolarità dell’ospitare due specie che in altri pianeti
come la Terra
erano separate da milioni e milioni di anni di storia evolutiva. Forse era solo
questo ad interessare Shinari, ma una semplice
occhiata non poteva certo dirsi sufficiente per esprimere un giudizio completo.
Erik era quasi sul punto di
ripartire verso un altro punto del pianeta, alla
ricerca magari di qualche informazione in più, quando udì distintamente un
grido femminile di aiuto, accompagnato da urlacci,
schiamazzi e risate divertite.
«Qualcuno tenga ferma
quest’anguilla che salta come una ranocchia e morde come un dinosauro!».
Seguendo quelle voci Erik raggiunse
rapidamente un gruppetto di uomini, soldati a giudicare dal vestiario, che,
messisi a cerchio, stavano insediando senza sosta e senza pietà una ragazza di
venti anni o poco più che correva da tutte le parti nel vano tentativo di
sfuggirgli.
Erik restò nascosto tra la macchia,
indeciso sul da farsi. Gli ordini erano chiari, mai interagire con gli abitanti
di un pianeta esterno, ma situazioni del genere gli facevano salire sempre il
sangue alla testa. Non voleva certo passare per il cavaliere dalla luccicante
armatura, o per un paladino della giustizia, anzi; semplicemente, detestava chi
abusava della propria forza o della propria posizione per porsi al di sopra degli altri.
Per un po’ cercò di trattenersi, ma
quando vide uno di loro tentare di aggredirla dopo che lei, cercando di
scappare, aveva perso l’equilibrio ed era caduta, non ci vide più, e nello
spazio di neanche un secondo si intromise nello
scontro, assestando al soldato un calcio al petto che lo lasciò a terra
svenuto.
«Chi
diavolo sei?» gridò un altro mentre lui e tutti i suoi compagni mettevano mano
alle armi «Sei un soldato di questo regno?».
Anche la ragazza era molto stupita,
e guardava il suo salvatore con gli occhi carichi di meraviglia.
Altri due soldati cercarono di
attaccare alle spalle, ma Erik fu molto più veloce di
loro e con un doppio calcio li stese entrambi senza neanche fare la fatica di
voltarsi. A quel punto i superstiti si mossero all’attacco
tutti insieme, ma Erik, disteso il braccio, materializzò la propria
spada, e gli servì un solo, potentissimo fendente orizzontale per tranciare in
un sol colpo le armi di tutti i suoi nemici, che a quel punto, terrorizzati da
tanta potenza, si diedero alla fuga in sella a piccoli dinosauri usati al posto
dei cavalli.
Rimasto solo, Erik tornò dalla
ragazza, che ancora restava ad osservarlo seduta per
terra.
«G… grazie.» gli disse prima di
stringere i denti, come per una improvvisa fitta di
dolore.
Erik si inginocchiò,
accorgendosi che la ragazza si era slogata la caviglia, forse a causa della
caduta. Delicatamente, passò la mano sul gonfiore, sprigionando una tenue luce
rossa, e come per incanto tutto svanì nell’arco di un batter di ciglia.
«Vattene a casa.» disse dopo
esserci accertato che la ragazza fosse in grado di rialzarsi «E dimentica di
avermi incontrato.»
«Aspettate.» disse prima che se ne
andasse «Io… io mi chiamo Serena. Posso sapere il
vostro nome?»
«Ali del Deserto.» rispose lui
prima di andarsene «Se vuoi chiamami così».
Quello che accadde di seguito alla
ragazza Erik non poteva saperlo, né mai lo avrebbe saputo.
Rimasta sola, Serena, che prima di
essere raggiunta dai soldati stava raccogliendo funghi in una zona notoriamente
sicura dalla minaccia dei dinosauri carnivori, corse a casa veloce come il
vento. Ritornata al suo villaggio, quello che Erik aveva visto dopo il suo
arrivo, poco dopo aver valicato i cancelli incontrò
due suoi compaesani, forse marito e moglie, lui gigante biondo con barbetta lei
decisamente più minuta e molto bella con capelli sempre biondi raccolti dietro
la nuca e occhi azzurri.
«Serena, che cosa è successo?»
domandò la donna vedendo la sua espressione stravolta e spaventata «Non ti
abbiamo più vista tornare, ed eravamo in pensiero.»
«Sono stata aggredita da un gruppo
di soldati di Asante, ma un ragazzo mi ha salvata.»
«Dannati invasori.» disse lui
serrando il pugno «Si credono già i padroni. Ma se pensano di avere vita facile si sbagliano di grosso.
Questa è la nostra terra, e non ce la faremo portare via.»
«Ormai sono settimane che
avanguardie dell’esercito di Asante imperversano
nella regione.» disse la donna «Perché il re non interviene?»
«Il sovrano si è da poco imposto nel
conflitto contro suo fratello Huagon per la
successione, e ha bisogno di tempo per raccogliere altre truppe. Fino a quel
momento, dobbiamo cercare di resistere.»
«Speriamo solo che non decidano di
attaccare in forze. Il nostro villaggio non avrebbe possibilità contro una
grande armata.»
«Scusate.» intervenne Serena «Ora
sarà meglio che io vada a casa».
La ragazza fece quindi ritorno alla
propria casa, una delle più piccole di tutto il villaggio, e come entrò trovò Minu, la sua sorellina
di dieci anni, intenta a leggere per l’ennesima volta il suo libro di favole
seduta in cucina.
Da quando i loro genitori erano
morti durante l’ultima grande epidemia, Serena era rimasta sola a prendersi
cura della sorella, e da allora cercava di tirare avanti come poteva: lavorava
nei campi, teneva i bambini, e quanto altro potesse servirle ad avere di che
mangiare o a racimolare qualche soldo. Gli abitanti del villaggio le davano una
mano, ma lo spettro della guerra contro Asante e le
continue scorrerie dei soldati avevano reso la vita difficile un po’ a tutti.
Quel libro era stato l’ultimo
regalo che la loro madre aveva fatto a Minu subito
prima di ammalarsi. Più che di favole di trattava di storie e leggende del loro
regno, narrate e illustrate per poter essere lette
anche dai bambini più piccoli. Minu non aveva più
parlato da quando i loro genitori erano morti, e il suo libro sembrava
costituire ormai l’unica ancora che la teneva legata al mondo reale.
La sua storia preferita, la stessa
che a suo tempo aveva avuto Serena, era quella legata alla leggenda del Cavaliere Nero, un coraggioso soldato con due grandi ali
nere apparentemente minaccioso ma dall’animo nobile che attraversava il regno
offrendo il proprio aiuto a chiunque ne avesse bisogno.
Serena, rievocando quella fiaba,
non poté fare a meno di pensare al giovane che l’aveva appena salvata dai
soldati di Asante, ma quasi
subito le venne da scacciare quel pensiero. Ormai era abbastanza grande da
sapere che cavalieri senza macchia e senza paura che aiutavano la povera gente
erano solo favole e superstizioni buone per sovreccitare la fantasia di bambini
come Minu, che in quei personaggi forse vedevano
l’unica cosa in grado di offrir loro un senso di sicurezza in un momento come
quello, con lo spettro della guerra a gravare su ogni cosa.
Nel frattempo Erik, spostatosi
verso ovest, era giunto sulla sommità di un’alta montagna che dominava l’intera
vallata su cui si trovava il villaggio di Serena. A guidarlo, una strana
corrente di energia magica, in un pianeta dove, teoricamente, non vi era Ilya
sufficiente a permettere a chicchessia l’uso della magia.
L’emanazione lo condusse infine
all’interno di una grotta grande e profonda che si immergeva
nel ventre della montagna, ma fatte poche centinaia di metri la sua camminata
venne fermata da un muro di realizzazione chiaramente umana; era coperto di
iscrizioni e disegni, e furono proprio i disegni ad attirare maggiormente
l’attenzione del ragazzo. Raffiguravano strani oggetti circolari sospesi
apparentemente in cielo e circondati di luce, con al
di sotto, sulla terra, schiere di uomini inginocchiati e in apparente atto di
venerazione.
Un sospetto gli attraversò la
mente.
Si trattava indubbiamente di navi
spaziali, ma non rassomigliavano neanche lontanamente a quelle usate dalla
confederazione. Inoltre, Shinari aveva iniziato a dedicarsi intensamente
all’esplorazione spaziale solo negli ultimi cinquecento anni, e quella parete
era senza ombra di dubbio molto più antica.
Per la verità, ricordavano molto di
più le navi usate dai Dark Lord, i Rinnegati signori della guerra, ma nessuno
di loro aveva mai mostrato interesse per quel pianeta, per non parlare del
fatto che si trovava in una zona molto al di fuori dei loro abituali territori di conquista.
Con un semplice colpo del taglio
della mano Erik sbriciolò il muro, scoprendo, come aveva sospettato, che dietro
di esso la caverna proseguiva, perciò, sempre illuminato dalla luce emessa da
un’ocarina magica che aveva evocato prima di entrare, si addentrò ancor più in
profondità.
Dovette fare solo pochi passi
perché alla roccia cominciasse a sostituirsi il metallo, e prima di rendersene
conto si ritrovò a camminare in un grande corridoio quadrangolare le cui luci
si accendevano al suo passaggio una per volta, illuminando il suo cammino.
Andò avanti così per alcuni minuti,
poi il corridoio finì, questa volta per davvero, fermandosi contro quella che sembrava una parete di vetro aperta sul nulla.
Erik si guardò un momento intorno, e come scorse una sorta di pannello sul muro
alla propria destra vi passò la mano sopra.
Una serie di luci si illuminarono sull’apparecchiatura, e un istante dopo un
numero incalcolabile di luci illuminarono ciò che si trovava al di là del
vetro, riuscendo a lasciare senza fiato anche uno come Erik. La camera, di
forma cilindrica, ricordava un gigantesco silos di lancio, al centro del quale
svettava, in tutta la sua imponenza, quella che aveva tutta l’aria di essere un’enorme
torre di forma piramidale, non molto diversa da come gli esseri umani
immaginavano la leggendaria Torre di Babele.
Erik rimase un attimo con la bocca
spalancata, e lo stupore gli comparve sul viso.
Ora si spiegava tutto.
Ecco cosa cercava la confederazione
su di un pianeta che, a prima vista, non aveva nulla di significativo
da offrire. Si trattava senza dubbio alcuno una costruzione realizzata
interamente di krylium, ma nessuno, neppure Shinari o l’Imperatore, disponevano delle conoscenze e delle tecnologie necessarie a
plasmare un simile prodigio. La sua funzione a prima vista non era ben chiara,
ma era risaputo che il krylium, per sua stessa natura, era il materiale
indispensabile per la costruzione di tutto ciò che in qualche modo interagiva
con la magia.
Ma se nessuno in tutta la galassia
poteva essere in grado di cerare qualcosa del genere, chi poteva essere stato?
Gli abitanti del pianeta no di certo, visto che
vivevano ancora nel medioevo.
Erik fece due più due, e concluse che qualcun altro doveva essere stato lì, forse gli
antenati degli attuali abitanti, forse qualcuno venuto prima di loro; quale che
fosse la loro origine, si trattava senza ombra di dubbio dei rappresentanti di
una civiltà a dir poco avanzatissima, in possesso di conoscenze distanti anni
luce da quelle di Shinari e dell’Imperatore.
Erik sentì un brivido lungo la
schiena: se si fosse trattato di un’arma, il potenziale che era in grado di
esprimere doveva essere certamente qualcosa di immenso.
Di sicuro Shinari non sapeva
dell’esistenza di quella torre, o avrebbe certamente dispiegato un intero
esercito in sua difesa ed eseguito su di essa ogni possibile analisi
scientifica; forse, anzi, sicuramente, avevano trovato
qualcos’altro, qualche altro indizio che li aveva portati alle stesse
conclusioni di Erik, e quindi seguitavano a tenere d’occhio quel pianeta
proprio per tentare di conoscere e comprendere la civiltà che era stata capace
di raggiungere un simile livello di evoluzione.
Erik non sapeva cosa fare, né come
comportarsi.
Se avesse informato l’Imperatore di
ciò che aveva scoperto questi sicuramente avrebbe
mandato al più presto una forza d’invasione a conquistare il pianeta, e nessuno
sapeva cosa ne sarebbe stato dei suoi abitanti. Fino a quel momento le occupazioni
erano state piuttosto pacifiche, e i pianeti attaccati, schiacciati dalla incolmabile differenza tecnologica, avevano in breve
accettato la proposta degli invasori di unità, pace e immunità in cambio della
sottomissione, ma era già successo che sacche di resistenza più o meno grandi o
pianeti che non si erano voluti arrendere fossero stati spazzati via senza
alcuna pietà.
Inoltre, attaccare un pianeta posto
sotto il controllo della confederazione avrebbe significato senza dubbio la
guerra, quella guerra che già da tempo si andava
preparando e che, comunque, era dietro l’angolo.
Erik metteva la fedeltà sopra ogni
altra cosa, ma in quel momento non aveva proprio idea di cosa pensare e si
riservò di prendere una decisione sulla strada del ritorno.
Abbandonata l’installazione e fatto
ritorno alla caverna ricostruì il muro che aveva
distrutto e che, si augurava, nessuno avrebbe mai più dovuto tentare di
abbattere, e come tornò all’esterno evocò un portale che lo riconducesse
direttamente a casa. Stava quasi per entrarci, quando si accorse di uno strano ed inquietante nuvolone di polvere che, fendendo il terreno
come una ferita su di un corpo umano, avanzava a grande velocità verso il
villaggio nella vallata, distante ma ancora visibile.
Pensò a quella ragazza, a cosa
sarebbe potuto accaderle, ma poi, tra sé e sé, si disse che non valeva la pena
di farci troppo caso. Aveva salvato quella ragazza perché la stavano
importunando, ma la guerra era la guerra, e quando di mezzo c’era la guerra
cose del genere erano più che naturali. Gli ordini erano chiari, evitare il più possibile contatti con gli autoctoni, e lui aveva già
contravvenuto abbastanza.
Inoltre, pensò dando un’ultima
occhiata alla nube, sempre più lontana da lui ma sempre più vicina al
villaggio, quelli non erano affari suoi.
Gli uomini che Erik aveva visto
erano la prima ondata del gigantesco esercito che Asante
aveva radunato per attaccare il regno vicino, e tutto ciò che si trovava lungo
la sua strada sarebbe stato inesorabilmente spazzato
via, che si fosse trattato di animali, villaggi o persone.
Il loro arrivo venne
notato dalle vedette del villaggio di Serena, che immediatamente fecero
scattare l’allarme. Il villaggio disponeva di una
piccola guarnigione, troppo piccola per affrontare una simile armata, e
comunque non era in grado di sostenere un assedio, quindi, a malincuore, la
sola cosa da fare era andarsene il più velocemente possibile, prima che l’onda
li investisse.
«Dobbiamo andarcene di qui subito!»
gridava il sindaco dall’alto della collinetta che dominava la piazza, mentre
tutto attorno a lui la gente fuggiva terrorizzata «Lasciate tutto quello che
non vi serve e scappate verso est!».
Nel panico, ognuno pensava per sé stesso. Ogni famiglia, raccolte quelle poche cose di
valore, e a volte neanche quelle, fuggiva via senza curarsi minimamente degli
altri.
Serena, però, non poteva fuggire.
Subito dopo essere rientrata, l’essersi dovuta svegliare presto per andare nel bosco, unito
allo spavento che aveva preso, l’avevano fatta assopire, e quando l’allarme
l’aveva svegliata si era accorta, terrorizzata, che Minu
non era in casa.
Disperata, vagava per il villaggio
chiamandola a gran voce e chiedendo a chiunque le capitasse a tiro se l’avesse
vista, ma nessuno la degnava della minima attenzione, pensando solo a salvare
la propria vita. Alla fine, nel suo peregrinare affannoso, ostacolato dalla
marea di gente che la urtava da tutte le parti, incontrò la giovane coppia che
l’aveva accolta al suo rientro, anche loro già pronti ad andarsene.
«Serena, che ci fai ancora qui?»
domandò lei «Le truppe di Asante saranno qui tra
poco!»
«Non riesco a trovare Minu, è sparita!»
«Che cosa!?»
«Non posso andarmene a lasciarla
qui! Mamma e papà l’hanno affidata a me.»
«Dannazione.» disse lui «Allora era
davvero lei.»
«Selim,
che stai dicendo?»
«Circa un’ora fa ho avuto
l’impressione di vederla mentre si allontanava dal villaggio».
Serena sentì un colpo al cuore.
Fin da piccola, Minu
aveva sempre avuto l’abitudine di andare a raccogliere frutta nello stesso
piccolo frutteto selvatico dove era solita accompagnarla sua madre, e quel
frutteto si trovava proprio tra il villaggio e l’armata nemica in rapida
avanzata.
«Devo andarla a salvare!»
«No, Serena! Ci vado io!»
«Caro, aspetta! Non vorrai farlo
davvero?»
«Non abbiamo scelta.
Non la possiamo abbandonare.»
«Non andrai senza di me.»
«Serena, potrebbe essere molto
pericoloso.»
«Non importa. Minu
è mia sorella».
Selim tentò di protestare ulteriormente,
ma alla fine dovette arrendersi alla testardaggine e alla fierezza della
ragazza. Marito e moglie si guardarono, scambiandosi
un bacio; sapevano che poteva essere l’ultimo.
«Voi andate con gli altri. Ci
rivedremo presto.»
«Ti aspetto,
amore mio. Siate prudenti».
Selim e Serena a quel punto lasciarono
il villaggio nella direzione opposta, dritto in bocca al nemico. Corsero
entrambi a perdifiato, mentre il frastuono dei dinosauri da guerra che
trasportavano le truppe di Asante si faceva sempre
più vicino e minaccioso, e quando finalmente arrivarono al frutteto
videro Minu arrampicata su un albero intenta ad
osservare, senza rendersi contro del pericolo, quella marea umana giunta ormai
ad un tiro di lancia. La chiamarono, ma la bambina era troppo
in alto per poterli sentire, e all’improvviso una freccia scoccata da una
balestra nemica le arrivò molto vicina, facendole perdere l’equilibrio.
«Minu!»
gridò terrorizzata la sorella.
Selim, colto alla sprovvista, fu
incapace di muoversi, Serena invece corse il più velocemente possibile e
all’ultimo momento spiccò una falcata, riuscendo a prendere al volo la sorella
prima che potesse precipitare a terra.
Solo a quel punto, quando tutto si
era risolto bene, l’uomo riuscì a recuperare un po’ di raziocinio, e
rapidamente raggiunse le due ragazze. Minu era priva
di sensi, forse a causa dello spavento, ma stava bene.
«Minu. Grazie al cielo sei salva.»
«Ora andiamocene, prima che sia
tardi».
Purtroppo, quando Serena fece per
alzarsi, la stessa caviglia che solo poche ore prima le era stata medicata
prese nuovamente a farle male; probabilmente, la corsa e il brutto volo avevano
riacutizzato la ferita, ridandole forza.
«Tu porta in salvo Minu.» disse mettendo la sorella in braccio a Selim «Non pensare a me.»
«Non se ne parla, non ti lascio
qui».
Selim si caricò dunque Minu sulle spalle e sollevata Serena da terra
la aiutò a camminare sorreggendola con l’unico braccio libero. Ma anche lui,
nonostante il suo fisico possente, era un essere umano, e un simile fardello
era più di quanto potesse sopportare, e alla fine, fatti pochi metri,
inevitabilmente rovinò a terra senza più un barlume di
forze.
Le truppe di Asante
intanto avevano abbandonato la prateria ed erano entrate nel bosco; erano
talmente tanti che era impossibile contarli, e la
carica dei loro dinosauri faceva tremare la terra.
Un gruppetto di
loro, tra quelli che stavano in prima linea, caricò le balestre per tirare
ai tre fuggitivi, ormai a distanza più che sufficiente per poter essere colpiti
senza possibilità di errore. Selim e Serena
osservarono impotenti i soldati puntargli contro le armi, e come videro i dardi
partire dalle balestre si coprirono il volto con le
mani, pensando che fosse la fine.
Ma nessuna delle tre frecce
lanciate contro di loro colpì il bersaglio; vennero
tutte intercettate dalla spada di Erik, comparso dal nulla come un angelo dal
cielo, che con pochi e precisi fendenti ne respinse una metà e ne tagliò
l’altra metà.
«Ali del Deserto… voi qui?»
«Mettetevi al riparo!» disse lui.
Selim non stette certo a farselo
ripetere, e afferrate nuovamente le due ragazze andò a nascondersi assieme a
loro dietro una grossa formazione rocciosa. Contemporaneamente Erik si inginocchiò, e come fece urtare violentemente a terra la
punta della spada una accecante luce rossa simile ad una fiamma lo avvolse
interamente accecando i soldati, che furono costretti a fermarsi.
Quando il bagliore si dissolse, i
tatuaggi a forma di fiamma erano comparsi sul volto di Erik, e le grandi ali
nere si erano materializzate dietro la sua schiena. Minu
riprese i sensi per un istante, e vedendolo le tornò subito alla mente la
figura del Cavaliere Nero che c’era sul suo libro
illustrato.
I soldati di Asante,
spaventati, arretrarono un momento, poi, pur con evidente timore, ripresero la
loro carica; ed Erik andò loro incontro, veloce e silenzioso, usando le sue
maestose ali per compiere vere e proprie planate a livello del terreno.
Erano vicini, vicinissimi, e
intanto Selim e Serena guardavano. Poi, il contatto.
Erik passò tra di loro nel più assoluto silenzio, come un angelo della morte.
Nessuna armatura venne scalfita, né fu versata alcuna
goccia di sangue.
Semplicemente, i nemici caddero
morti dalle loro cavalcature, senza un lamento o un gemito, come se la vita
fosse stata letteralmente sfilata via dai loro corpi terreni.
Nessuno si salvò, nessuno si rese
conto di cosa stava accadendo. Passarono cinque, forse dieci secondi, poi la
carica, così come era iniziata, si fermò, lasciando
sul terreno un’immensa distesa di corpi senza vita.
Selim e Serena si alzarono attoniti e
sconcertati, ritrovandosi a camminare in quella che era a tutti gli effetti una immensa distesa di corpi senza vita. I dinosauri
da guerra, privati dei loro fantini, brucavano tranquillamente l’erba che
spuntava tra corpo e corpo: a nessuno di loro era stato
fatto alcun male, ed ora che non caricavano sembravano così indifesi, così
innocui.
Ci volle molto tempo perché potessero trovare la forza di cercare con lo sguardo
l’artefice della loro salvezza. Avrebbero voluto parlargli, ringraziarlo, ma
nel tempo che impiegarono a riacquistare la padronanza di sé il forestiero se
ne era già andato.
Pochi minuti dopo Erik era al
cospetto dell’Imperatore, perennemente celato dietro la tenda che nascondeva
l’altare con il trono, nella grande sala del palazzo di Genesis.
C’era
anche Lady Yumi, la fedele dama del sovrano.
«Mio signore.» disse il ragazzo
inginocchiandosi «Ho portato a termine la missione che mi avete affidato.»
«Hai fatto presto,
amico mio. Del resto non avevo dubbi sulla tua efficienza. Allora, che notizie
mi porti?».
Erik esitò; i dubbi che lo avevano
colto su Noah, come avrebbe
scoperto in seguito chiamarsi il pianeta da cui era appena tornato, non si
erano dissipati. Guardò Yumi, che gli rivolse uno sguardo strano, poi, anche se
ancora non del tutto convinto, prese la sua decisione.
«Sul
pianete che mi avete mandato a controllare infuria da anni una sanguinosa
guerra che vede coinvolte numerose nazioni. Shinari vorrebbe che si evitasse un
ulteriore spargimento di sangue, ed è alla ricerca di
un modo per fermare il conflitto.»
«È solo per questo?» domandò
l’Imperatore, non sembrando eccessivamente sorpreso
«Sì, mio signore».
Il sovrano restò un momento in
silenzio, ed intanto Erik sentiva i battiti del suo
cuore farsi sempre più concitati. Poi, sollevando leggermente lo sguardo, ebbe
l’impressione di vederlo sorridere.
«Capisco. Del resto, non che la cosa
debba sorprendermi. Shinari non ama che si combatta, soprattutto per futili
motivi.
Ma sono felice di sapere che laggiù
non c’è niente per cui valga la pena accelerare i tempi. In tutta onestà, non
mi sentivo ancora pronto ad iniziare la nostra guerra.
Hai agito bene, Ali del Deserto. La
mia stima nei tuoi confronti è notevolmente aumentata.»
«Vi ringrazio,
mio signore».
Erik non lo avrebbe mai saputo, ma
la distruzione di una intera armata nella prima fase
dell’invasione ad opera oltretutto, secondo le dicerie del nemico, di un solo
uomo, avrebbe portato scompiglio e terrore tra le truppe di Asante,
e di lì a breve la riscossa degli attaccati avrebbe fatto il resto.
Il mattino dopo, di buon’ora, il vecchio Ippei aveva terminato il suo lavoro, e i ragazzi, ancora
seduti attorno al tavolo dove era stata apparecchiata la colazione, erano
pronti a ripartire.
«Ecco.» disse porgendo ad Erik la spada d’oro «Ho finito».
Il ragazzo, pur con qualche
esitazione, la prese in mano. All’esterno non sembrava essere cambiato niente,
ma per chi, come lui, poteva sentirne le vibrazioni, il cambiamento c’era, ed
era più che evidente. Se prima il suo potere sembrava in qualche modo offuscato,
reso tenue dalle lunghe privazioni a cui il suo
ricettacolo era stato sottoposto, ora invece era più vivo e luminescente che
mai, tanto che la lama sembrava quasi sfrigolare sotto la sua spinta
incontenibile.
Erik eseguì un paio di fendenti,
giusto per capire se qualcosa fosse mutato a livello di consistenza e di peso,
poi la fece sparire.
«A proposito, ho qualcosa anche per
voi.» disse Ippei rivolgendosi a Koichi e Sanae.
Al ragazzo porse la sua spada, che
fin da subito Koichi trovò diversa; più viva, per così dire. La estrasse: era
stata sicuramente affilata e lucidata, ma c’era anche dell’altro.
«Sei un samurai che usa la magia,
vero? Ho pensato di rivestirla con uno scudo di oricalcum.
Non solo è diventata più resistente, ma gli incantesimi che lancerà
saranno molto più potenti. Certo, a condizione che tu sia capace di
utilizzarli.»
«Voi…» disse il ragazzo atterrito
«Voi non dovevate disturbarvi.»
«Cerca solo di non esagerare. È
vero, la spada è più resistente, ma non indistruttibile. Se farai confluire al
suo interno più potere di quanto ne possa gestire
rischierà di andare in pezzo».
Koichi a quel punto si alzò,
profondendosi in un reverenziale inchino.
«Vi sarò eternamente debitore,
nobile Ippei. Grazie infinite.»
«Non preoccuparti di questo. E per te,
bambina mia.» disse rivolgendosi a Sanae e porgendole un pregiato ventaglio di
tessuto con le asticelle in argento massiccio «Questo è per te».
La ragazza tentennò un momento
prima di prenderlo, poi lo aprì, ammirandone il disegno, un grande drago dorato
su di uno sfondo blu circondato da numerosi ideogrammi, tra i
quali capeggiavano i simboli dei cinque elementi.
«Questo ventaglio mi è stato
regalato molti anni fa da un vecchio monaco viandante come ricompensa per il
riso che gli avevo offerto. Disse che aveva centinaia di anni, e che possedeva
poteri magici. Non so se sia vero, ma se è così penso
potrà tornare molto più utile a voi che a me.»
«Io… non credo di meritare tanto.»
«Sciocchezze. A cosa serviamo noi
poveri vecchi se non ad aiutare voi giovani?»
«Grazie.» disse commossa la ragazza
«Grazie infinite.»
«Ehi, e a me niente?» disse Lily
«Mi spiace piccola, ma non saprei
cosa darti.»
«Uffa non è giusto!» sbraitò la
fatina volando per tutta la stanza come una scheggia impazzita «Non sono stata
così cattiva da non meritare niente!».
Alla fine, dopo quella
breve sosta, i ragazzi se ne andarono, ognuno con un nuovo tesoro, anche Lily; Ippei non era certo così cattivo da lasciare da parte solo
lei, e le aveva fabbricato un minuscolo pendente di oricalco che amplificava la
sua magia, e che ora lei mostrava tutta contenta come una modella in
passerella.
Erik guardò un attimo spada.
Sicuramente, la cura aveva risvegliato in lei non solo un nuovo potere, ma
anche, sicuramente nuove potenzialità, e dentro di sé non vedeva
l’ora di scoprirle.
Nota dell’Autore
Eccomi qua!^_^
È passato un mese
esatto dal mio ultimo aggiornamento, e io sono più
felice che mai! Venerdì, questo venerdì, infatti il
mio tirocinio avrà fine, e, anche se le cose da fare resteranno ancora tante
(tesi di laurea su tutte) sarà certo un pesante fardello in meno da portare
sulle spalle. Prometto solennemente che da dopo la tesi (attorno alla fine di
ottobre) e fino ad oltre natale, dedicherò alla
scrittura la quasi totalità della mia giornata, anche perché per allora
spererei di aver finito il mio tanto agognato primo romanzo.
Da qualche giorno, Regis e il suo
gruppo erano entrati nell’Impero di Kroatan, oltre il quale, a detta delle
guide che avevano consultato, si trovava il Regno di Mystas, terra d’origine
del culto di Inti, in cui sorgeva il suo grande tempio.
Poiché erano giunti così vicini al
luogo in cui si annidavano i loro principali avversari, Regis giunse alla
conclusione che molto probabilmente non solo la gemma trafugata al torneo di
Munda da Zak-Ner, ma almeno anche un’altra delle restanti due doveva essere già
in mano ai seguaci del dio del sole.
Questo stava a significare che, una
volta ritrovata la quinta gemma, che ormai non doveva essere molto lontana, i
ragazzi non avrebbero avuto altra scelta che prendere di petto i loro nemici e confrontarsi
con loro in un faccia a faccia decisivo.
Il pensiero di dover dare l’assalto
al castello dell’avversario impensieriva tutti, persino Regis, anche perché
questo significava senza ombra di dubbio il doversi battere contro nemici del
calibro di Hymir, il sacerdote del Toro incontrato a Torgaru, che aveva dato
prova di essere un guerriero di molto superiore a quelli incontrati fino ad
ora.
Durante quel viaggio erano tutti
migliorati, su questo non c’era dubbio, ma forse non abbastanza per potersi confrontare
con avversari tanto potenti e determinati.
In ogni caso sapevano fin dal
giorno della partenza che prima o poi si sarebbe giunti a quel punto, solo non
si aspettavano che sarebbe accaduto così presto.
«Signor maestro, quanto pensate che
manchi al posto dove si trova la pietra?»
«Non molto credo. L’ultima
emanazione era piuttosto forte. Una decina di chilometri al massimo.»
«Perfetto!» disse Elys «E poi sarà
la volta di quei maledetti sacerdoti! Impareranno a loro spese cosa vuol dire
mettersi contro le persone sbagliate!»
«Non fare troppo la spaccona.»
disse Sakura «Non sarà una battaglia facile. Hai visto tu stessa di cosa
possono essere capaci.»
«Che si facciano pure sotto! Li
schiaccerò!»
«Elys sembra molto sicura di sé,
maestro.»
«A buon diritto.» rispose
inaspettatamente Regis «Non si può negare che è migliorata da quando tutta
questa storia ha avuto inizio.»
«Credete davvero?»
«E non solo lei. Tutti bene o male,
me compreso, stiamo ampliando le nostre conoscenze man mano che procediamo in
questo viaggio. Di sicuro, quando sarà finito, avremo dalla nostra un
patrimonio di conoscenza e di esperienza che non avremmo mai potuto ottenere
semplicemente restando a Fiya.
Prendi Elys. È partita che era poco
più di una spaccona attaccabrighe, per quanto di talento, e adesso si può quasi
cominciare a considerarla una guerriera. E non parlo solo dell’abilità.»
«Volete dire che è cresciuta anche
come persona? In effetti credo abbiate ragione.»
«Corpo e mente devono crescere di
pari passo. Se una delle due parti prende il sopravvento sull’altra si crea uno
squilibrio che genera inevitabilmente un guerriero mediocre destinato a
fallire.
Credimi, lo so per esperienza».
Sul far del tramonto i ragazzi
giunsero in vista di un piccolo villaggio che sorgeva nel mezzo di una vasta
pianura, circondato da una bassa palizzata, e decisero di fermarsi per la notte
trovando alloggio alla locanda. La gente del posto si mostrò accogliente,
seppur nei limiti della cordialità, ma non gliene si poteva fare un torto;
probabilmente vedevano di rado gente di altri Paesi, figuriamoci di altri
continenti, di cui magari avevano sentito solo parlare vagamente da qualche
carovana di mercanti.
Durante il viaggio avevano capito,
tramite le varie esperienze capitate loro, che la presenza di una delle pietre
poteva essere in qualche modo ipotizzata dal verificarsi, nella zona attigua al
posto dove era custodita, di fatti insoliti o situazioni particolari, vedasi il
caso dell’ultima ad essere stata aggiunta alla collezione. Di conseguenza, una
delle prime cose che i ragazzi si premurarono di domandare subito dopo aver
ottenuto un po’ di fiducia da parte degli abitanti fu se in quella regione
fossero successe ultimamente delle cose strane o se esistessero leggende
riguardanti strani e misteriosi poteri.
Alla domanda di un avventore sul
perché fossero tanto interessati a cose simili Dave, con una bella intuizione,
rispose che il suo maestro era un esimio studioso di leggende e folklore
intento a scrivere un libro sui miti e le leggende del continente di Kamur, lui
il suo assistente e le ragazze delle guardie assunte per fare da scorta. Gli
abitanti parvero un po’ scettici, soprattutto notando il fatto che Regis, pur
essendo un professore, non ne aveva granché l’aspetto, e oltretutto era armato,
ma alla fine sembrarono crederci e cominciarono ad aprirsi.
«Nella Valle di Alman a sud di qui
crescono piante medicinali dai poteri miracolosi.» disse il locandiere «Sono
piante uniche che si trovano solo laggiù.»
«La Valle di Alman avete detto.»
disse Regis «Molto bene, cominceremo da lì».
La cena, a base di carne e legumi,
proseguì senza problemi, e in poco tempo gli abitanti del villaggio che
all’osteria si concedevano una generosa pinta di vino o di birra per rimettersi
dalle fatiche della giornata cominciarono ad essere sempre più cordiali ed
espansivi con gli stranieri, fino al punto che, nel giro di un’ora, sembravano
diventati ormai parte della comunità, tanto benignamente e allegramente venivano
trattati.
Poco prima di mezzanotte Regis e
gli altri andarono a dormire ma li svegliarono, neanche due ore dopo, gli
schiamazzi e le urla infervorate di un battaglione di soldati che entrarono nel
villaggio dopo aver costretto i guardiani a farsi aprire il portone. Donne e
bambini restarono nascosti nelle case, gli uomini invece uscirono all’esterno;
tra loro anche il proprietario della locanda, nonché capo della comunità.
«Prendete tutte le cose di valore
che trovate e caricatele sul carro!» disse il capo del battaglione ai suoi
uomini senza neanche prendersi la briga di dare qualche spiegazione
«Che state facendo?» domandò il
capo villaggio vedendo quella marmaglia fare irruzione nelle case portando via
tutto ciò che trovavano
«Eravate stati avvertiti. Visto che
non avete pagato le tasse in denaro rimedierete pagando con tutto quello che
avete.»
«Sono tasse inique. Non possiamo
permetterci di pagarle.»
«Non sono qui per ascoltare
piagnistei e giustificazioni. Risparmiateveli per il tribunale».
Ad un certo punto uno dei soldati,
entrato in una delle case più misere e malandate del villaggio, non trovando
niente di valore da rubare pensò bene di prendersi la figlia del proprietario,
poco più che una bambina.
La cosa scatenò la reazione
violenta degli abitanti, alcuni dei quali, armi alla mano, cercarono di
riscattare la propria libertà e di portare in salvo la bambina; i soldati,
però, erano più numerosi, meglio equipaggiati e più preparati di loro, e quello
che era iniziato come un tafferuglio minacciò di trasformarsi in un bagno di
sangue, anche perché il capo delle guardie sembrava determinato a punire in
maniera esemplare quello che definiva un palese atto di insubordinazione.
Il capo villaggio, che aveva
ispirato e guidato la rivolta, venne circondato e malmenato, ma prima che un
soldato potesse infliggergli il colpo di grazie un dardo di luce lo centrò alla
testa, e subito dopo Regis e gli altri si gettarono nella mischia offrendo il
proprio aiuto.
«E questi chi diavolo sono?»
domandò il comandante «Bifolchi bastardi, avete assoldato dei mercenari? E sia,
uccideteli tutti!».
I ragazzi però erano decisamente su
un altro livello rispetto ai contadini, e i soldati, uno dopo l’altro,
cominciarono a cadere come foglie secche.
Regis, a causa della sua più che
evidente abilità nel combattimento, fu costretto come al solito a fronteggiare
il numero più consistente di avversari, e considerando il fatto che era stato
appena buttato giù dal letto la sua concentrazione non poteva dirsi al massimo.
Era così preso a dover tener testa a quattro o cinque soldati nello stesso momento
da non accorgersi che uno di loro, nascosto dietro una pila di casse, lo aveva
preso di mira con il proprio arco.
«Maestro, attenzione!» gridò Dave
avvedendosi per primo della minaccia.
Il dardo partì, e prima che Regis
potesse anche solo percepire distintamente il pericolo Dave gli saltò addosso
buttandolo a terra e prendendo la freccia al suo posto, che lo trafisse ad una
gamba.
«Dave!» gridò Regis vedendo il suo
allievo accasciarsi al suolo.
Il ferimento di Dave non servì
tuttavia a riaffrancare l’animo dei soldati, che ricevuto il benservito dai
ragazzi e soverchiati dai contadini si diedero alla fuga zoppicando o
gattonando per tutte le botte ricevute.
«Aspettate e vedrete, non finisce
qui!» gridò il comandante prima di andarsene a sua volta.
Passata la tempesta Sakura e gli
altri corsero incontro a Regis, ancora chino su Dave; il ragazzino non
accennava a rialzarsi, sudava e respirava a fatica, inoltre la sua pelle
scottava da impazzire.
«Dave! Dave, riprenditi!»
«Che cos’ha?» domandò Elys
«Non ne ho idea. Dave! Dave!»
«Ma… maestro.» balbettò lui aprendo
faticosamente gli occhi «Ho… caldo…»
«La cosa è molto grave.» disse il
capo villaggio giungendo con alcuni dei suoi uomini «I soldati imperiali il più
delle volte bagnano le loro frecce nel veleno.»
«Nel veleno!?» ripeté Aria
sconcertata.
Dave venne riportato in tutta fretta nella locanda e si
tentò di somministrargli una qualche sorta di cura, ma, come previsto, nessun
rimedio convenzionale risultò efficace.
L’unica speranza di salvezza era
riposta in Sakura, la sola tra tutti a possedere le conoscenze necessarie a
saper riconoscere e annullare gli effetti dei veleni sul corpo umano; la
ragazza, sedutasi accanto al letto, passò a lungo una mano, avvolta in una
calda luce verde, sopra il corpo di Dave, ma dopo parecchi muniti di
concentrazione lo sguardo che le apparve in volto quando si rialzò e volse
verso i suoi compagni, in trepidante ed angosciosa attesa dietro di lei,
lasciava ben poche speranze.
«Allora?» domandò Elys «Puoi fare
qualcosa?»
«Mi spiace, non riconosco il
veleno.»
«Maledizione!» ringhiò Viola dando
un calcio allo sgabello
«Voi ne conoscete la composizione?»
chiese Sakura rivolta al capo villaggio e ai suoi uomini
«Purtroppo, questo è un segreto che
i soldati dell’imperatore custodiscono con molta cura.»
«Non puoi cercare di scoprirla tu
stessa?» domandò Elys
«Potrei, ma mi ci vorrebbe almeno
un giorno. E in queste condizioni, se non facciamo qualcosa temo che Dave non
arriverà a domani sera».
Nella stanza piombò un silenzio
angosciante, rotto solo dall’ansimare affaticato di Dave che gravitava
costantemente tra il sonno e la veglia con la febbre che saliva sempre di più.
«Aspettate!» disse uno degli uomini
del capo «Forse il vecchio Kantari può aiutarlo.»
«Chi è il vecchio Kantari?» chiese
Sakura
«È un erborista che vive nella
Valle di Alman. Prepara i suoi unguenti con le piante che crescono laggiù. Un
tempo viveva qui, poi si è andato a vivere nella valle e da allora vive come un
eremita.»
«In questo caso, non c’è tempo da
perdere.» disse Elys «Andiamo subito a parlare con questo Kantari.»
«Aspettate, non fatelo!» disse il
capo «Se entrerete nella valle, il Guardiano vi ucciderà.»
«Chi è il Guardiano?» domandò Viola
«È l’orribile mostro che sorveglia
perennemente la valle. Chiunque si avvicini, lui lo distrugge senza pietà.
Dicono sia alto decine di metri, e che con le sue mani possa stritolare le
montagne.»
«Potrebbe trattarsi di un robot.»
disse Elys sottovoce
«Lo penso anch’io.» rispose Sakura
«Ma in ogni caso, è un rischio che bisogna correre».
D’un tratto tutti si accorsero che
Regis, che fino a quel momento era rimasto immobile in un angolo della stanza a
braccia incrociate e sguardo basso, era sparito, e un istante dopo i suoi
compagni, affacciatisi alla finestra, lo videro mentre, in sella ad un cavallo,
sfrecciava sotto la locanda diretto verso il cancello sud.
«Regis, aspetta!» gridò Elys
«Che stai facendo, stupido!» disse
Viola «Pensi di potercela fare da solo?»
«Lasciatelo andare.»
«Ma, Sakura…»
«Dave è il suo allievo. Si sente
responsabile per quello che gli è successo, e vuole rimediare.»
«Ed è solo per questo?» chiese Elys
«Non solo.» rispose Sakura a
sguardo basso «Dopotutto, sono anni che viaggiano insieme. Credo che Regis
abbia cominciato a considerare Dave come un fratello, se non addirittura come
un figlio. È naturale che voglia proteggerlo, del resto ha preso questo impegno
anche con la sua famiglia.»
«Capisco. Spero solo che non gli
accada nulla».
Cavalcando incessantemente per tutta la notte, all’alba
Regis raggiunse le sponde della Valle di Alman.
La vista che si presentava dinnanzi
ai suoi occhi era davvero impagabile: circondata da basse montagne, la vallata
ridondava di vita in ogni suo anfratto, e come la tela di un pittore invisibile
era abbellita dalle tinte di centinaia e centinaia di piante ed alberi dai
colori più disparati.
Al centro un lago, e usando
l’incantesimo per la rifrazione della luce da usare come un binocolo Regis
intravide, lungo la sponda orientale, una piccola casa di legno e pietra.
«Quella deve essere la casa
dell’erborista».
Sceso da cavallo accarezzò un
momento il volto dell’animale, che nitrì come in segno di preoccupazione.
«Da qui in poi, sarà meglio che io
prosegua da solo. Aspettami, d’accordo?» disse, e legato il cavallo ad un
albero lì vicino si incamminò lungo il sentiero.
Quello che non sapeva era che una
parte dei soldati da lui malmenati quella notte, i pochi che il comandante era
riuscito a recuperare dopo che erano fuggiti, erano ancora sulle sue tracce,
pronti a cogliere la prima occasione buona per saltargli addosso e fargli
pagare quello che aveva loro fatto.
«Ci siamo.» disse il comandante
appostato dietro a dei cespugli assieme ai suoi subalterni, una decina in tutto
«Quel maledetto avrà ciò che si merita. Nessuno può sperare di prendersi gioco
dei soldati dell’imperatore e farla franca».
I soldati, però, sembravano molto
più spaventati e meno balzandosi di lui, e uno di loro non mancò di esternare i
suoi sentimenti quando il comandante chiese loro una spiegazione per quell’incessante
batter di denti.
«Signore, è pericoloso restare qui.
Il Guardiano potrebbe…»
«Finitela!» urlò il comandante
rosso in volto «Volete capirlo o no, quella è solo una favola!»
«Però…» disse un altro «Però si
dice che chiunque entra nella valle sparisca nel nulla.»
«Dicerie. Storie di vecchi
ubriaconi. Pensate alla ricompensa che potreste ottenere se portassimo
all’imperatore quell’erborista portentoso. Ci darebbe tanto di quell’oro da
poterci ritirare tutti dagli affari e vivere di rendita per il resto della
vita.»
«Però… se il Guardiano esistesse
davvero?»
«Poco importa. Se così fosse, del
che io dubito, sarà quel tipo ad eliminarlo per noi. E quando ci avrà portato
dall’erborista, lo sistemeremo come si deve.
Ora smettetela di tremare come
scolarette e seguitemi. E attenti a dove mettete in piedi. Questo posto pullula
di piante velenose».
Regis intanto aveva incominciato la
sua discesa lungo i fianchi della valle senza incontrare alcun tipo di
problema. La sola cosa a cui doveva fare attenzione era di non calpestare
qualche pianta; la natura dominava davvero incontrastata in quell’angolo di
mondo in cui il tempo sembrava essersi fermato, ed era incredibile osservare
quante e quali meraviglie era in grado di produrre se lasciata libera di
proliferare.
Del Guardiano invece, neanche
l’ombra.
A ben pensarci forse si trattava
solo di una leggenda, una diceria messa in giro per impedire agli uomini di
entrare in quella specie di piccolo paradiso terrestre e farne man bassa.
Meglio così; ma ora non c’era tempo
per pensarci. Dave andava aiutato, e il tempo era un lusso che Regis non si
poteva permettere.
Più passavano le ore più il lago si
faceva vicino, e con esso la meta del viaggio; Regis teneva costantemente un
occhio puntato verso il sole, seguendone attentamente l’incessante procedere
attraverso il cielo. L’ultima volta che guardò, dopo aver percorso quasi tre
quarti della strada, dovevano essere da poco passate le dieci del mattino.
Quasi un terzo del tempo a sua disposizione se n’era andato e Dave aveva ancora
bisogno di essere curato.
Ripensando al suo giovane allievo
in quelle condizioni, disteso in un letto tra febbre e dolori, non riuscì a non
darsi dell’irresponsabile e dello stupido. Quando aveva deciso di prendere quel
ragazzo con sé aveva promesso ai suoi genitori di prendersi cura di lui, e di
tenerlo per quanto possibile lontano da eccessivi pericoli.
E invece aveva fallito: non solo
era riuscito a proteggerlo, ma era stato addirittura protetto da lui, e per
questo gesto ora Dave stava rischiando di pagare con la vita.
Aveva deciso di portarlo con sé nel
suo viaggio a Kamur perché lo riteneva ormai abbastanza maturo da potersi
prendere questo genere di responsabilità, ma forse chi non era davvero maturato
nel corso degli anni era proprio lui.
Oggi come allora non era stato
capace di proteggere le persone a cui teneva come aveva giurato di fare
nell’istante in cui aveva visto la cosa a lui più cara di ogni altra venirgli
strappata via nello stesso, identico modo. In quell’occasione aveva giurato a
sé stesso che mai più avrebbe permesso ad una persona cara di morire a causa
sua, ma ora, a distanza di migliaia di anni, ora quella promessa rischiava di
essere disattesa, con suo grande disonore e vergogna.
No. Non lo avrebbe permesso. Anche
se avesse dovuto costargli la vita, avrebbe rimediato al suo errore.
“Ti salverò Dave. È una promessa”.
Ormai mancava davvero poco
all’arrivo, quando d’un tratto, mentre era ancora immerso nei propri pensieri,
Regis ebbe la sensazione di non essere più solo. Fermatosi tese l’orecchio, e
fu così che fu in grado di sentire distintamente un rumore strano, come di
passi pesanti che si avvicinava sempre di più.
Dovettero passare solo pochi
secondi, poi da un boschetto vicino uscì una gigantesca creatura di metallo.
Grossa e tarchiata, di un colore argenteo rifulgente con alcuni riverberi in
oro, poteva dirsi tranquillamente una enorme armatura medievale con elmo,
corazza, schinieri, stivali, bacciali e mantello, e armata di spada e scudo da
cavaliere.
Era talmente grosso che la terra
tremava sotto i suoi piedi; fece alcuni passi verso Regis, e quando gli fu
abbastanza vicino nella celata del suo elmo si accesero due occhi di fuoco.
«Allora esiste.» disse Regis tra sé
e sé «Questo deve essere il Guardiano».
Il gigante urlò, come uno
sfrigolare di motori, mulinando violentemente la spada.
«Via dalla mia strada!» gridò
Regis.
Senza pensarci gli si lanciò
contro, convinto di avere a che fare con un avversario alla sua portata, e in
parte anche reso ceco dalla fretta che aveva di fare ritorno al più presto dal
suo allievo con l’antidoto per salvargli la vita; una leggerezza che gli costò
cara.
Quel bestione poteva pure essere
mastodontico ma aveva un’agilità e una rapidità negli spostamenti non
indifferenze, e di certo la forza non gli faceva difetto.
Schivato il primo attacco rispose
immediatamente con un affondo di spada, e ben presto Regis si trovò nella
condizione di doversi incessantemente difendere. Gli assalti del nemico erano
così potenti che il terreno si squarciava e interi gruppi di alberi venivano
recisi di netto, per non parlare dei suoi pestoni, capaci di scavare buche di
un metro e più di profondità.
Regis ad un certo punto cercò di
cogliere un apparente momento favorevole quando la spada del nemico rimase
incastrata in una roccia e spiccò un salto per cercare di colpirlo tra i fori
della celata, all’apparenza il suo unico punto debole, ma quello, con un gesto
del tutto inaspettato, colpì violentemente il ragazzo con il suo scudo.
L’urto sarebbe stato sufficiente ad
ucciderlo, ma grazie al cielo Regis riuscì a parare il colpo quel tanto che
bastava per salvarsi le ossa; questo però non servì ad impedirgli di essere
letteralmente sparato in mezzo ad uno strano cespuglio di foglie uncinate
simili al vischio. Dapprima non avvertì nulla, se non il fastidio per qualche
graffio subito, ma poi, prima ancora che potesse uscire dal cespuglio, la sua
vista cominciò ad appannarsi, i suoni a diventare opachi, e un dolore sempre
più forte prese a scorrergli in tutto il corpo, soprattutto nelle gambe.
“Ve… veleno…” pensò faticando a
reggersi in piedi.
Era naturale. Anche lì come sulla
Terra, certe piante dalle proprietà medicinali potevano risultare al contrario
estremamente pericolose se le sostanze che producevano venivano assorbite dal
corpo prima di essere state opportunamente trattate, e con la quantità
esorbitante che doveva essergli entrata in corpo Regis rischiava di morire, o
nella migliore delle ipotesi di perdere conoscenza.
In ogni caso la sua situazione
stava davvero precipitando, perché anche se il veleno gli avesse lasciato uno
scampo ci avrebbe pensato quel mostro di metallo a dargli il colpo di grazia.
Più per istinto che per altro il
ragazzo continuò a combattere, ma la sua era più una difesa disperata piuttosto
che un vero e proprio combattimento, e più passava il tempo più ai colpi
ricevuti si aggiungeva l’effetto letale del veleno, che lo allontanava sempre
di più dalla sua percezione della realtà.
Alla fine, stremato, cadde in
ginocchio sorreggendosi alla sua spada, ed ebbe a malapena la forza di pensare
di aver fallito ancora, per l’ennesima volta, prima che la sua mente andasse
come in corto circuito, spegnendosi.
Ciò nonostante il suo corpo non
cadde, né mostrò i segni della morte imminente. Rimase invece immobile nella sua
posizione, poi, come per incanto, il suo corpo cominciò a circondarsi di uno
strano alone bianco, e per un istante due grandi ali bianche si
materializzarono dietro la sua schiena.
Il gigante di metallo dapprima fece
qualche passo indietro, poi, apparentemente senza timore, si lanciò alla carica
per infliggere il colpo di grazia con un devastante fendente, ma all’ultimo
istante, come animato da un’altra mente, Regis si alzò di scatto, e con un solo
colpo orizzontale recise di netto la spada del nemico, che colto alla
sprovvista barcollò all’indietro.
Regis colse l’occasione e attaccò
immediatamente, e con straordinaria forza, trovando sulla propria strada lo
scudo che il gigante aveva sollevato a propria difesa. Vi fu solo un brevissimo
contatto, più rapido di un batter di ciglia, poi i due contendenti si
separarono. Regis tornò a terra alle spalle del nemico, il cui corpo, dopo
qualche secondo, un enorme taglio si aprì nel suo fianco mentre lo scudo,
risultato del tutto inutile, si divideva a metà.
«Troppo lento.» disse il ragazzo
con una voce strana, profonda ed echeggiante
Dallo squarcio, netto e preciso
come il taglio di un bisturi, sprizzarono fumo e scintille, poi gli occhi del
gigante si spensero e l’armatura rovinò inerme al suolo afflosciandosi su sé
stessa.
Come la minaccia cessò Regis,
apparentemente svuotato di colpo di tutta quell’inaspettata energia, crollò
svenuto sul terriccio, e l’ultima cosa che vide prima di perdere i sensi fu
un’ombra nera che lo sovrastava oscurando il sole.
Nel delirio del veleno Regis vide molte cose.
Si vide di nuovo a casa, nel suo
mondo, davanti ai suoi amici che come ogni altro giorno uscivano da scuola al
termine delle lezioni. Vedeva anche lei, la sua Nadeshiko, che rideva e
scherzava come era nel suo carattere. La chiamava, chiamava tutti loro, ma
nessuno si voltava, e più cercava di raggiungerli più loro sembravano
allontanarsi, perdendosi nell’oscurità.
Poi, un altro salto nel tempo, ed
eccolo ritornare a quel giorno maledetto, il giorno in cui aveva visto la sua
amata morire per proteggerlo. Il giorno in cui tutto era iniziato, in cui la
sua maledizione aveva avuto inizio.
Spezzato nell’animo da quella
visione lanciò un agghiacciante urlo di dolore, e come riaprì gli occhi si
ritrovò disteso su di un semplice materasso di piume all’interno di una casa
dall’aspetto povero e trascurato ma che profumava di erbe ed estratte come solo
la dimora di un potente avrebbe potuto fare.
«Che…» borbottò ancora mezzo
intontito «Che mi è successo?».
Le varie ferite sul suo corpo erano
state tutte medicate, e lui stesso profumava di erbe; di conseguenza, non
serviva certo un genio per capire che era finalmente giunto in casa dell’erborista.
Ma come aveva fatto ad arrivare fin
lì?
Aveva ricordi molto vaghi e
offuscati di quanto accaduto durante il combattimento con quel gigante di
metallo, quasi certamente un robot messo da qualcuno a guardia della valle, o
magari più semplicemente programmato per attaccare chiunque entrasse nel suo
raggio d’azione, e per quel che sapeva era svenuto nel bel mezzo della
battaglia a causa del veleno inalato.
Tuttavia, aveva l’impressione che
ci fosse qualcos’altro, che fosse accaduto qualcosa di particolare, ma per
quanto si sforzasse non gli riusciva di ricordare.
Di colpo, un dubbio lo assalì.
Quanto tempo era passato? Quanto era stato privo di sensi?
Ore? Giorni? O forse addirittura
settimane? Se era così, per Dave non ci sarebbe stata speranza. Forse era già
morto.
Con la paura nel cuore si girò
verso la finestra; il sole non si vedeva, ma scrutando le ombre tracciate sul
terreno dagli alberi che stavano a ridosso del lago capì che doveva essere
all’incirca l’una del pomeriggio.
«Ah, sei sveglio.» disse in quella
una voce di vecchio, e poco dopo da una porta laterale uscì un bizzarro
vecchietto dall’aria simpatica e ascetica al tempo stesso.
Pelato, aveva una folta barba
grigia, due piccoli occhi marroni nascosti dalle rughe e vestiva in modo molto
semplice, da povero contadino.
«Hai davvero una tempra d’acciaio
ragazzo. Raramente ho visto qualcuno sopravvivere dopo aver inalato una simile
quantità di veleno della maronaia.»
«Voi siete Kantari l’erborista?»
«In persona, ragazzo.»
«Per quanto tempo ho perso i
sensi?»
«Non molto un paio d’ore. Giusto il
tempo di portarti qui e medicare le tue ferite».
Regis si mise una mano sul torace;
si sentiva ancora debole, ma a parte questo l’effetto del veleno era stato
quasi del tutto eliminato. Ancora una volta, non sapeva perché, il fato aveva
deciso di lasciarlo in vita.
Poi, si ricordò del motivo che lo
aveva condotto lì.
«Signor Kantari, ho estremo bisogno
del vostro aiuto. Io…»
«Non dire niente, ragazzo.» rispose
lui fermandolo con la mano.
Kantari si avvicinò al grande
tavolo in legno al centro della stanza e da un contenitore recuperò un
sacchettino di pelle che lanciò a Regis.
«Questo è l’antidoto per il veleno
usato dai soldati dell’Imperatore. Sarà sufficiente tritarlo e mescolarlo con
acqua e zucchero fino a farne una pomata da spalmare sulla ferita. Tutti gli
effetti dovrebbero sparire nel giro di poche ore.»
«Ma…» ribatté Regis attonito «Ma
come…»
«Come facevo a sapere di cosa avevi
bisogno?» disse Kantari con uno strano sorriso.
In quella uno splendido falco entrò
da una finestra aperta e andò a posarsi sulla spalla del vecchio, che gli
sfiorò la testa e gli offrì un pezzetto di carne. Regis lo riconobbe dal colore
particolare del piumaggio, un marrone acceso: lo aveva intravisto al suo arrivo
al villaggio, appollaiato su di un tetto.
«Lui è il mio tramite con il mondo
esterno. Mi racconta tutto quello che succede al villaggio. Sai, quella un
tempo era la mia casa.»
«E come mai alla fine siete voluto
venire qui.»
«Diciamo che la vita lì fuori era
diventata troppo complicata per i miei gusti. Qui almeno le cose non cambiano.
E poi, sono un amante della quiete».
Regis stette un attimo a riflettere
sulle parole del vecchio, quando d’un tratto, proprio come era accaduto subito
prima della comparsa del robot, avvertì distintamente l’approssimarsi di un
pericolo. Anche Kantari parve avere la stessa sensazione, tanto che si alzò in
piedi e prese in mano un lungo bastone dall’estremità a bulbo volgendosi verso
la porta d’ingresso.
In tutta fretta, e per quanto le
forze glielo permettessero, Regis si alzò dal letto, recuperò le sue spade ed
infilò velocemente la sua maglietta quindi, assieme al padrone di casa, uscì
all’esterno pronto a combattere. I soldati che lui e i suoi compagni avevano
massacrato al villaggio erano infine arrivati, e sembravano più determinati che
mai a riscattare l’umiliazione subita.
«E così, alla fine ci
rincontriamo.» disse il comandante «Te l’avevo detto che ti avrei fatto pagare
il tuo affronto.»
«La lezione di questa notte non ti
è bastata?»
«Fai meno lo sbruffone. Si vede ad
occhio nudo che a stento ti reggi in piedi».
Regis digrignò i denti. Quel
pallone gonfiato aveva ragione. Tra il veleno che si era ritrovato in corpo, il
periodo trascorso privo di sensi e l’effetto tranquillante che dovevano avere
alcune delle erbe con le quali era stato curato Regis in quel momento aveva più
voglia di un letto che di una battaglia, tanto era provato.
Il comandante sguainò la spada,
puntandogliela contro.
«Ti lascerò qualche minuto, se c’è
qualche Dio che vuoi pregare. Il tempo di convincere questo vecchio a venire
con noi.»
«Sono onorato del vostro invito»
disse l’interessante «Ma allo stesso tempo, sono anche costretto a declinarlo.»
«Forse non ci siamo capiti,
vecchio. Questo non è un invito, ma un ordine.»
«Sono venuto a vivere qui proprio
per non dovermi trovare in questo genere di situazione. A me non piace obbedire
agli ordini, men che meno se provengono da uomini dell’imperatore.»
«E sia, vecchio pazzo. Vuol dire
che useremo le maniere forti!»
«Provateci soldanto!» gridò Regis
mettendo mano alla spada
«Aspetta, ragazzo.»
«Ma…»
«Ha ragione lui. Non sei ancora
nelle condizioni di combattere. Lascia che ci pensi io.»
«Voi?»
«Non mi sottovalutare. Ho anch’io i
miei assi nella manica.» disse Kantari, che poi sfiorò delicatamente il becco
del suo bel falco «Giusto amico mio?».
Di colpo, gli occhi del volatile
emanarono uno strano bagliore, poi tutto il suo corpo sprigionò un’esplosione
di luce verde tanto forte da accecare tutti. Regis si coprì gli occhi, e quando
li riaprì vide il vecchio erborista stringere tra le dita della mano uno
smeraldo ottagonale dal taglio sopraffino e dall’incredibile potere.
«La pietra sacra!?» esclamò
esterrefatto
«Come questa, ad esempio.»
“Incredibile. Una pietra in grado
di mutare il proprio aspetto!?”
«Che diavolo sta succedendo?»
domandò il capitano
«Activation».
Kantari venne avvolto dalla stessa
luce, e quando ne riemerse era completamente diverso; alla veste vecchia e
sporca si era sostituita una tunica ocra con i bordi rossi e le maniche corte,
ai piedi scarpine con alcune parti d’argento e dietro le spalle una mantellina
leggera. Il bastone si era allungato leggermente, ma la forma era rimasta più o
meno la stessa.
«Scusate per l’attesa. Vogliamo
cominciare?»
«Non illuderti, vecchio. Se speri
che basti questo spettacolo da quattro soldi per spaventarci sei fuori strada.
Prendetelo!».
Quattro soldati corsero verso
Kantari armi alla mano, ma nonostante ciò il vecchio rimase calmo ed immobile.
«Masha?»
«Sonic Move!».
Kantari come per magia parve
scomparire subito prima di essere raggiunto; il realtà, movendosi a velocità a
dir poco eccezionale, comparve alle spalle dei suoi aggressori.
«Dove attaccate? Io sono qui».
Quelli, dopo un attimo di stupore,
lo attaccarono ancora, ma la scena si ripeté nuovamente, e poi ancora e ancora
per diverse volte fin quando quei poveri soldati non si ritrovarono la testa
che era sul punto di saltare via dal collo tanto erano confusi.
A quel punto a Kantari bastarono un
paio di calci ben piazzati, eseguiti tra l’altro con straordinaria agilità e
abilità, per metterli tutti a riposo.
«Dannatissimo vecchiaccio!
Uccidetelo!».
I superstiti a quel punto
attaccarono tutti insieme, ma uno dopo l’altro vennero messi fuori
combattimento e come già accaduto solo poche ore prima chi prima e chi dopo
abbandonarono il campo dandosi alla fuga. Restò solo il comandante, che però
non voleva saperne di scappare una seconda volta.
«Dovessi restarci secco, questa
volta non scapperò!» gridò correndo verso Kantari
«Attenzione!» gridò Regis vedendo
la follia negli occhi del soldato.
In quelle condizioni un uomo era
capace di tutto, ma nonostante ciò Kantari restò immobile.
«È la tua fine, vecchiaccio!».
L’anziano erborista piantò a terra
il proprio bastone, e sotto di lui si formò un grande circolo magico dal quale
si sollevarono una decina di sfere luminose.
«Cannon Shot!».
Le sfere partirono veloci come
proiettili una dietro l’altra; il comandante, in parte per abilità in parte per
il delirio della rabbia, evitò le prime, ma le successive lo colpirono in
rapida successione. L’ultima poi lo centrò in pieno volto, sparandolo a tutta
velocità dritto nel lago; un brutto colpo, ma certamente non mortale, anche se
indubbiamente ne sarebbe uscito con qualche dente di meno.
«Bene, credo che così possa
bastare.» disse Kantari, che poi si volse verso Regis, ancora stupito per
quanto aveva visto «Ora, immagino tu voglia questa pietra.»
«Cosa…»
«L’ho capito dal tuo sguardo.
Inoltre, le pietre incastonate sulla lama della tua spada non forse simili a
questa? Ci sono altri tre fori che aspettano di essere riempiti, e uno di essi
sembra fatto apposta per ospitare la mia.»
«Ecco… veramente io».
Kantari sorrise leggermente, quindi
tornò al suo aspetto reale.
«Mentre ti medicavo ti ho sentito
parlare nel sonno. Non ho la presunzione di comprendere quante e quali prove
hai dovuto affrontare nel corso della tua vita, ma so per certo che sono state
tante e difficili.
Chi lo sa, forse questa pietra,
qualunque cosa sia, ti aiuterà ad arrivare un po’ più vicino alla conclusione
del tuo viaggio».
Detto questo il vecchio porse a
Regis la propria pietra, ma prima che il ragazzo potesse prenderla richiuse il
pugno.
«Però, in cambio, vorrei che tu e i
tuoi amici faceste una cosa per me.»
«Di che si tratta?»
«Lo hai visto tu stesso. Questo
Paese non è governato da una persona che si potrebbe definire un buon regnante.
L’Imperatore Maduras è un uomo avaro e pericoloso che pensa solo a sé stesso, e
anche se sono in molti a non sopportare più la sua presenza l’esercito a sua
difesa lo protegge da qualsiasi pericolo.
Io personalmente non ho mai fatto niente
per tentare di contrastarlo. Ho sempre pensato che la cosa non mi riguardasse e
sono venuto qui, dove speravo di essere finalmente lontano da tutto quel
marcio. Poi però ho visto te e i tuoi compagni, e ho capito che far finta di
non vedere è quanto di più sbagliato si possa fare.
Questa pietra merita di stare in
mani più degne delle mie, ma l’ultimo sogno di questo povero vecchio sarebbe
che venisse usata per guidare questo Paese verso una strada un po’ migliore di
quella che sta attualmente percorrendo».
Regis temporeggiò un momento, poi
allungò nuovamente la mano e raccolse la pietra.
«Vi prometto che esaudirò il vostro
desiderio. Userò questa e le altre pietre per dare nuova speranza a questo
impero.»
«Ti ringrazio. Se non altro, morirò
con qualche rimpianto in meno.
Ora và. Il tuo discepolo aspetta».
Senza tergiversare oltre Regis,
salutato e ringraziato il vecchio Kantari, tornò rapidamente sui suoi passi con
una nuova gemma incastonata nella spada e, soprattutto, il sacchettino con
l’antidopo legato alla cintura.
Al suo ritorno al villaggio le
condizioni di Dave erano molto peggiorate, al punto che tutti cominciavano a
temere seriamente per la sua sopravvivenza, ma grazie all’estratto di erbe e
all’esperienza di Sakura alla fine il ragazzino venne salvato.
«Vi ringrazio, signor maestro.»
disse prima di addormentarsi
«No, Dave. Grazie a te».
Fu sufficiente una buona nottata di
riposo e un pasto abbondante, e Dave era di nuovo in piedi e pronto a partire.
Lui e gli altri si rimisero dunque
in marcia con una nuova, inaspettata missione da portare a termine. Elys e
Viola non mancarono di sottolineare il proprio disappunto per doversi
sobbarcare quell’ennesima seccatura.
«Non è giusto!» sbottò Elys subito
dopo che ebbero lasciato il villaggio «Perché dobbiamo fare anche questa?»
«Sono d’accordo.» disse Viola «Come
se non avessimo già abbastanza problemi. Ci mancava solo il dover detronizzare
un imperatore fanatico.»
«Non possiamo tirarci indietro.»
disse Dave «Dopotutto, quell’anziano erborista ci ha fatto un grande favore
consegnandoci la sua pietra, e noi abbiamo il dovere di ricambiare.»
«Tu parla per te!» ribatté Elys «Se
non ti fossi ridotto in quello stato probabilmente non ci troveremmo in questa
situazione ora?»
«Suona strano detto da te. Non è stato
forse a causa tua che abbiamo dovuto fermarci per due settimane in mezzo alle
montagne?»
«Che c’è, hai voglia di litigare
per caso?».
Regis sorrideva divertito, ma la
sua mente era per buona parte altrove. Anche dopo una notte di sonno e senza la
preoccupazione di dover salvare la vita al suo allievo non riusciva ancora a
ricordare cosa fosse accaduto tra il suo svenimento e il risveglio nella
capanna del vecchio Kantari.
Aveva però la sensazione che fosse
molto importante, e proprio per questo, in un modo nell’altro, avrebbe dovuto
cercare di capire di che cosa si trattava.
Nota dell’Autore
Salve a tutti!^_^
Quello di oggi è un
cap molto speciale, non tanto per i suoi contenuti quanto piuttosto perché è il
primo che pubblico dalla mia nuova casa.
Esatto, mi sono
trasferito! Il trasloco per la verità è ancora in atto (diciamo pure in alto
mare) ma sono riuscito comunque a trovare il tempo per scrivere.
Altra cosa
importante, ormai sono in tesi, il che significa che, tolto il tempo da
dedicare al suddetto trasloco, dovrei avere un po’ più di tempo libero.