HYPERVERSUM 4: Il Destino del Falco di Dean Lucas (/viewuser.php?uid=112111)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1: Ritorno e Partenza ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitoli 5-13: riassunto ***
Capitolo 6: *** Capitolo 14 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 15 ***
Capitolo 8: *** Capitoli 16-19: riassunto ***
Capitolo 9: *** Capitolo 20 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 21 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 22 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 23 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 24 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 25 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 26 ***
Capitolo 16: *** Capitolo 27 ***
Capitolo 17: *** Capitolo 28 ***
Capitolo 18: *** Capitolo 29 ***
Capitolo 19: *** Capitolo 30 ***
Capitolo 20: *** Capitolo 31 ***
Capitolo 21: *** Capitolo 32 ***
Capitolo 22: *** Capitolo 33 ***
Capitolo 23: *** Capitolo 34 ***
Capitolo 24: *** Cap 35: Ritorno a casa ***
Capitolo 25: *** Capitoli 16-50: riassunto ***
Capitolo 26: *** Capitoli 51-54: riassunto ***
Capitolo 27: *** Capitolo 55: Operazione Fenice ***
Capitolo 28: *** Segreti svelati e un amore senza tempo (riassunto) ***
Capitolo 29: *** update! ***
Capitolo 30: *** Sequel: Monika e Mitch ***
Capitolo 31: *** Spin Off: Hyper-Stele ***
Capitolo 32: *** Ringraziamenti & Nuovi Progetti ***
Capitolo 1 *** Capitolo 1: Ritorno e Partenza ***
HYPERVERSUM
IV
IL DESTINO DEL FALCO
Hyperversum, data non disponibile
Quel grido
terribile sembrava non
dovesse più finire e tormentava senza sosta Jacques. Proprio
adesso si era
fatto ancora più orribile e quasi lui non riconosceva
più il volto di sua
moglie tanto era trasfigurato dal dolore.
Poi tutto si
trasformò in silenzio.
Fruscii, molti respiri ansiosi, un silenzioso affaccendarsi di mani
esperte.
Adesso poteva
riconoscere ancora quel
volto, sorridente e calmo, finalmente sereno: Isabelle teneva tra le
mani una
piccola creatura che prima non c’era.
“E’
una femmina, Jacques! La
chiameremo Jeanne“ e come in risposta al suo nome appena
nominato dalla madre,
la piccola creatura emise un grido del tutto diverso da quelli uditi
finora
nella stanza, era la voce imperiosa e temeraria, indifesa e spaventata
di colei
che ancora non sapeva nulla né del mondo né del
suo destino, ma che avrebbe
scritto alcune delle pagine più importanti della storia di
Francia.
Montmayeur,
Francia. Nell'Anno del Signore 1217
E' la gioia
inattesa, la più grande
felicità di un uomo.
Come da
innamorati, tanto più si
giudica se stessi indegni e inadeguati dinanzi all'altro, quanto
più con
incredula felicità si avverte che quegli stessi sentimenti
sono ricambiati,
così Ian assaporava il perdono del conte dopo non averlo
più creduto possibile.
Le spesse mura
di pietra di Chatel
Argent ingombravano tutta la vista dei due cavalieri ora che si erano
avvicinati sotto al castello. Ai loro lati, l'imponente prima cinta
muraria
proteggeva gli abitanti del borgo insediati all'interno nella piccola
corte,
mentre in altezza gli sguardi giungevano a stento fin dove le mura
terminavano
con le merlature dove sostavano le sentinelle di guardia.
Più
in alto di ogni cosa, svettava la
sommità del torrione centrale, dove dimoravano le due
persone più importanti
della sua vita: la
moglie Isabeau e il
piccolo Marc. Tempo addietro, prima che il conte Guillaume de Ponthieu
lo
ripudiasse, su quelle stesse torri sbandieravano i vessilli coi colori
bianco e
azzurro del Falco d'Argento, ma ora quei colori erano scomparsi, del
suo
blasone non vi era più traccia. Lo stemma araldico, il suo
titolo nobiliare, la
sua storia, il suo stesso nome, tutto era stato cancellato dalla feroce
rabbia
di Ponthieu nello stesso momento in cui aveva compreso l’inganno di Ian.
Adesso,
accompagnato proprio dal
conte, mentre imboccava il ponte levatoio già abbassato, Ian
muoveva gli ultimi
passi verso quella soglia che lo separava ancora dall'essere in quel
mondo
semplicemente nessuno oppure il conte cadetto Jean Marc de Ponthieu.
Vestito di
stracci, smagrito ma
temprato dal duro lavoro e dalla vita di severa penitenza e contrizione
cui si
era sottoposto negli ultimi mesi,
era stato
comunque riconosciuto dalle guardie di Chatel Argent.
Riconobbe con
piacere tra chi gli
veniva incontro il barone Thibault de Chailly, leale compagno di tante
battaglie: lo vide affrettare il passo fino al barbacane e poi fermarsi
esitante, cercando nel conte un cenno rassicurante di approvazione.
Come in risposta
ai dubbi di Monsieur Thibault, il
Conte Ponthieu
pose una mano sulla spalla di Ian ed esortò tutti i presenti
a gran voce: “Cavalieri,
soldati, abitanti di Chatel Argent, salutate il vostro Signore!
Salutate il
Falco d'Argento, il conte cadetto Jean Marc de Ponthieu è
tornato!”
Tutti coloro nel
frattempo accorsi
all'interno della prima cinta muraria, non aspettavano altro e
scoppiarono
quasi all’unisono in un grido di gioia autentica, inneggiando
al Falco
d'Argento una volta, due volte e altre ancora, come
un’interminabile eco che
non perde mai di forza.
Ian avanzava
lentamente mentre al suo
passaggio la gente alzava le spade, sollevava gli archi, le balestre,
le lance
e persino chi non aveva armi, qualunque fosse la sua arte,
levò in alto gli
attrezzi da lavoro che portava in mano quel giorno, per salutare il
Falco
d’Argento.
Col cuore sempre
più in gola, non
osando ancora pensare a quello che inevitabilmente sarebbe successo da
lì a
qualche istante, Ian varcò l’ultimo cancello della
seconda cinta muraria,
avvicinandosi con Ponthieu al torrione.
Sullo sfondo,
stagliandosi contro le
grigie e livide pietre del castello, una figura delicata sembrava
catturare
tutti i colori all’orizzonte.
***
Isabeau,
inconsapevole di quanto stava
accadendo, era appena accorsa ai piedi della scala che congiungeva
l'ingresso
del torrione al cortile, rincorrendo il figlio sfuggito alle balie.
Lunghi riccioli
d’oro le ricadevano
sulle spalle e sul petto, in tante volute che traevano riflessi
luccicanti alla
luce del sole.
Era ora immobile
davanti a Ian.
Emozioni
incontrollabili, singhiozzi
e lacrime, che non aveva in nessun modo preveduto solo fino a pochi
istanti
prima, traboccarono improvvisamente in lei con una forza tale, agitando
e
percuotendo tutto il suo corpo, che per lungo tempo le impedirono di
parlare o
di muoversi.
Ma fu
un’altra voce, acuta e gioiosa,
a scuotere Ian: suo figlio Marc, nel tentativo di sfuggire ai
rimproveri della
madre, gli correva inavvertitamente incontro e stava per inciampare sui
suoi
stessi piedi, quando Ian lo prese al volo, portandoselo al petto.
Isabeau non
riuscì più a mantenere il
nobile contegno di castellana, cercò appena di asciugarsi le
lacrime con la
lunga manica dell’abito e corse anche lei verso il suo sposo,
unendosi
all’abbraccio di Ian e del piccolo, senza più
cercare di tener a freno i propri
singhiozzi.
Non ci fu
bisogno di parole: così
sicuri di pensare insieme e allo stesso tempo le stesse cose, che
parlare
sembrava loro inutile.
E quel mutismo
delizioso, rotto solo
dai singhiozzi di Isabeau e del piccolo, che vista la madre era
scoppiato a
piangere anche lui, durò – così
sembrò a Ian – un tempo infinito e non avrebbe
voluto
spezzarlo mai più, desiderava semplicemente restare sospeso
in quell’abbraccio
per sempre, tanto era meravigliosa la sensazione di sentire ancora il
calore di
quei corpi avvinghiati contro il suo.
Dopo aver
osservato la scena in
disparte per qualche tempo, il conte di Ponthieu si avviò
infine verso
l’ingresso del torrione dove si trovavano Ian e Isabeau.
Allargò le braccia
intorno alla famiglia appena riunita e li accompagnò,
incamminandosi lui per
prima, verso la scalinata che conduceva alle camere nobiliari.
Il Falco
d’Argento era tornato.
***
“Lasciatemi
almeno chiedere perdono
mio Signore, pietà!“ Isabeau aveva ritrovato
finalmente la forza per ricacciare
indietro le lacrime e cercava le parole per esprimere al suo precedente
tutore la
smisurata gratitudine per averle restituito Ian.
“Vi
prego di perdonarmi! Abbiate pietà di me,
vi ho portato un così ingiusto rancore in tutti questi
mesi!”
“E io
infine ho compreso che sono
stato ingiusto con voi due. Non dovevo negarvi la
possibilità di spiegare”
sospirò cupo Ponthieu.
“Ma
la rabbia... quell’ira folle che tempo fa
provai per il tradimento del mio vero fratello, aveva preso di nuovo il
sopravvento su tutto. Ho temuto, creduto un secondo
tradimento…” ammise
amaramente, “e non potevo ammetterlo né
sopportarlo”.
“E io
sono pronto ad assumermi le mie
colpe, Guillaume!”, lo interruppe Ian. “Sono stato
io a tradire il vincolo più
sacro che esiste tra due fratelli d'armi: la fiducia. Non dimentico che
se non
può essere il sangue, la stima e l'affetto che ho per te, a
unirci come veri fratelli,
sei stato tu a conferirmi l'investitura di
cavaliere…”
Ian sapeva che
con quel gesto, il
conte si era legato a lui per mezzo di un vincolo sacro e
indissolubile.
“E
come ti ho
ricambiato io? Con l’inganno. Sebbene ogni mia azione
è stata dettata solo dal
desiderio di proteggere i miei amici e Isabeau, ti ho sempre tenuto
nascosto
tutto! Ho dovuto!”
Ian lo
fissò con occhi
disperati, la stessa disperazione repressa a lungo, per
l’impossibilità di
essere completamente sincero come avrebbe voluto.
“Ma cerca di capirmi Guillaume, come potevo
spiegarti? Come avresti potuto credermi?”
“Hai
comunque sbagliato e so che sei
troppo astuto per commettere due volte lo stesso errore. Eppure, non
meritavi
di vivere per sempre separato da tua moglie e i tuoi figli, senza
nemmeno poter
dimostrare la tua innocenza, non dopo tutto quello che hai fatto per
me. Ma ho
avuto bisogno di tempo… sì, di molto tempo, per
arrivare a perdonare e a
comprendere cosa avrei fatto con te.”
Si rivolse
quindi a
Isabeau: “E non crediate che non abbia capito anche i vostri
sentimenti di
allora, Madame, non vi biasimerò per
questo“, Ponthieu si fece pallido
per lo strazio di dover ricordare l'immagine della sua pupilla col
coltello in
mano rivolto contro di lui.
“Avete
avuto il coraggio di alzare un’arma su
di me. Pure, se affondavate la lama, non sareste riuscita a ferirmi
maggiormente. Suppongo di dovermi chiedere con più cautela,
la prossima volta, quale
parte prenderà una donna innamorata”.
Un silenzio
imbarazzato aleggiò per
alcuni istanti finché lo stesso conte, che evidentemente vi
aveva pensato a
lungo in precedenza, aggiunse con parole studiate:
“Tuttavia,
mon frère, pongo una
condizione per poter riporre in te la stessa
fiducia di prima”, la sua voce in quello stesso istante
abbandonò ogni emozione
per ridiventare fredda e decisa.
“Voglio
sapere in quale strano mondo vivete o
avete vissuto tu e Monsieur Daniel, voglio essere
sicuro che tua moglie,
la vostra discendenza, finanche il nome del mio casato non abbia mai a
dolersi
della decisione di avervi accolto nella mia famiglia!” Attese
un istante e
quindi pronunciò le parole terribili:
“Mi
porterai con te, così è deciso.
Nel tuo Paese.”
Isabeau
sgranò gli occhi e si portò
la mano alla bocca, sconcertata, mentre Ian cercò disperato
le parole che
potevano dissuadere il conte da quel proposito, la cui
enormità non gli
permetteva nemmeno di pensare quale, tra le mille ragioni che gli
affioravano
alla mente, avrebbe più delle altre convinto Ponthieu a
desistere.
“Non
ti opporrai, non oserai! Sai
bene che me lo devi,
prima ancora che te lo ordini! Io devo
sapere…”, Ian ancora non osava parlare.
“Più
di questo, devo sapere che non
vi sono più segreti tra noi per quanto terribili o
inconcepibili“ e questa
volta socchiuse leggermente gli occhi facendo balenare una collera
antica e
appena trattenuta, “o forse non vuoi accogliere il desiderio
legittimo di fare
chiarezza del tuo signore e fratello maggiore?“
Ian
cercò disperatamente di obiettare
che come aveva già sostenuto molti mesi prima, proprio il
giorno in cui era
stato ripudiato, non era possibile per uno straniero
approdare nel suo mondo, che non funzionava così, che non
era così semplice,
che avrebbe acconsentito a qualsiasi altra prova, ma a quella non
poteva. Non
era in suo potere. Ma prima che altre parole gli uscissero di bocca,
Ponthieu
lo incalzò di nuovo in un crescendo inesorabile e tagliente.
“Avevo
dunque ragione di credere che ti ostini
a nascondermi qualcosa! Non arrischiarti oltre ad abusare dalla mia
generosità
e della riconoscenza che serbo per te!” La collera si era
impadronito ancora di
lui e gli faceva stringere così violentemente la presa
sull’elsa della spada da
sbiancare le nocche.
“Trova
tu il modo, non mi interessa
come, né ho mai detto che doveva essere semplice. Tu,
proprio tu se ben
ricordo, non ti sei fatto scrupolo di irrompere in questo Paese,
sconvolgendo
le nostre vite e mettendole in pericolo col tuo segreto! Che si tratti
di
stregonerie o di miracoli come hai l'ardire di sostenere, ne
risponderai un
giorno dinanzi a Dio, ma ti prego di considerare che io”,
aggiunse spietato, “il
Conte Guillaume de Ponthieu, feudatario maggiore di Francia, non
aspetterò quel
giorno per conoscere tutta la verità su di te!”
Ian messo alle
strette, dovette temporeggiare
prima che la situazione gli sfuggisse di mano, acconsentire se non con
le
parole almeno con lo sguardo, ma con suo sgomento scoprì che
non solo il conte
aveva qualcosa di terribile da chiedergli quel giorno.
“Cela
suffit Guillame! Je
vous
prie, je vous en supplie!
Non
commettete ancora lo stesso errore! Voi avete una moglie,
una figlia e dei doveri che non vi permettono di allontanarvi da
corte… Cosa
dirà il nostro re Filippo Augusto? Lui si fida di voi come
di nessun altro! E cosa
diranno gli altri feudatari, non useranno la vostra assenza per
indebolirvi? Vi
prego, farò tutto quanto mi chiederete ma lasciate che sia
io ad andare con
Ian! Non mi importa quali rischi correrò, basta che non mi
allontaniate
un’altra volta da lui!“
Guillaume
restò qualche istante in
silenzio, ponderando attentamente quell’offerta. La ragazza
sapeva
evidentemente su cosa fare leva e non sbagliava a sostenere che non
poteva
lasciare che i suoi affari privati avessero la meglio sui suoi obblighi
verso
il re, specialmente in un periodo di grande incertezza politica.
Il principe
Luigi VIII era stato
infatti da poco sconfitto nella battaglia di Lincoln e aveva
abbandonato l’idea
di riunire Francia e Inghilterra sono la stessa corona.
Sullo stesso suolo francese i focolai della
ribellione non scarseggiavano e Tolosa era in rivolta.
Isabeau fissava
ora il conte inginocchiata
a terra, negli
occhi la folle
determinazione di chi è disposto a tutto pur di scongiurare
di rivivere
l’incubo che aveva appena creduto finito quel giorno.
“Mio
signore, io non voglio… io… io
non posso più separarmi da Jean, vi prego, non strappatemi
ancora da lui. Io
sento davvero di non poterlo più sopportare!”
Ian si
soffermò su quegli occhi
nocciola arrossati dagli abissi di lacrime versate fino a pochi istanti
prima e
chissà in quanti altri momenti in cui lei aveva pensato con
disperazione alla
propria solitudine.
Solo allora si
rese conto di quanto
lei avesse sofferto in quei mesi: il suo viso bellissimo, la pelle
candida come
porcellana, persino gli infiniti boccoli d’oro, erano velati
dalla recente
sofferenza.
Seppe che lei
non avrebbe mai potuto
tollerare un’altra separazione. La guardò ancora,
innamorato di lei come il
primo istante che ebbe incrociato il suo sguardo al monastero di Saint
Michel e
seppe che nemmeno lui avrebbe potuto sopportare di separarsi nuovamente
da lei.
Ponthieu
soppesò per qualche istante
entrambi, poi annunciò:
“Dunque,
se sarete infine voi e non
io ad andare con Jean nel suo Paese, accetterete di essere i miei occhi
e mi
riferirete tutto. Ma farete di più. Oh sì, farete
molto di più. Mi porterete una
prova tangibile della vostra buona fede, qualcosa che non mi faccia
dubitare
mai più di voi due, non so ancora cosa, ma al momento
opportuno sono più che
sicuro lo saprete voi, Madame.”
“Guillaume,
ascoltami ti prego”,
s’intromise Ian, “non è possibile
portare nulla dal mio mondo al tuo. Mi chiedi
l’impossibile! Se vuoi che ti dimostri la mia
lealtà, ti scongiuro di pormi
nella condizione di poterlo fare davvero...” lo
implorò.
“Tu mi
parli di cose che sarebbero
impossibili, quando tu stesso, per spiegare l’accaduto,
prendi a pretesto giustificazioni impossibili!”
constatò aspramente il conte,
socchiudendo minacciosamente gli occhi.
“E
di grazia perché mai, se per Monsieur
Daniel è possibile svanire davanti
ai miei occhi in un istante, sarebbe impossibile ciò che
chiedo? Dove mai si
troverebbe il vostro mondo da non poter ammettere questo? Su in cielo
forse? O
negli inferi?”
“La
domanda che dovresti pormi invece
non è dove, ma quando! In quale tempo...” si
lasciò sfuggire dalla rabbia, Ian.
“Basta!
Tu ti prendi gioco di me!
Bada che la mia pazienza, pur se ho acconsentito a riportati qui a
Chatel
Argent, potrebbe esaurirsi più velocemente di quanto
pensi!”, lo minacciò il
conte.
“Ma
stavolta dipenderà solo da te, non più
dalle mie decisioni. Sta bene, io ti credo...” aggiunse con
un ghigno di sfida
dipinto sul volto, “non è ciò che
desideravi? Non è questo che imploravi? Ebbene,
io ti credo.” Rimase teatralmente in silenzio per pochi
istanti e poi proseguì:
“Ma
affinché la mia fiducia non risulti mai
più malriposta, farete anche voi due qualcosa per me. Tu e Madame porterete dal tuo Paese qualcosa
che provi le tue parole,
qualcosa che affermi la verità su quanto hai il coraggio di
sostenere. Il modo
in cui agirete, se Dio vorrà, testimonierà la
vostra buona fede.”
A Isabeau non
furono necessarie altre
spiegazioni.
“Faremo
questo per voi, mio signore.
Grazie di averci concesso questa possibilità… Io
conosco Jean, conosco Monsieur
Daniel e Madame Jodie, so che loro
non agirebbero mai nel male, il loro
mondo non può essere malvagio come voi credete”.
“Queste
sono le uniche condizioni che
pongo. Non tornerete senza la prova che desidero. Soddisfatemi e
renderete
felice anche me di avervi concesso il mio perdono. Non onorate questi
patti, traditemi
o ingannatemi e faccio voto che non rivedrete mai più i
vostri figli. E in quel
caso vi garantisco che dovrete temere per la vostra stessa vita se mai
azzarderete
a rimettere piede sul suolo di Francia”.
Ian comprendeva
che Guillaume voleva
davvero convincersi che la sua pupilla e colui che aveva amato come un
fratello
erano davvero in grado di dimostrargli la loro lealtà, al di
là di ogni dubbio
che ancora certamente nutriva.
Ciò
nondimeno, si rendeva conto delle
difficoltà di soddisfare le implacabili condizioni di
Ponthieu: come sarebbe
riuscito a portare Isabeau nel presente? Come avrebbe fatto a condurre
al conte
una prova della loro lealtà, una prova tangibile proveniente
dal suo mondo? Per
quanto ne sapeva Hyperversum non permetteva nessuna delle due cose.
Una paura che
già in passato aveva sperimentato
e con la quale aveva convissuto troppo a lungo, cominciò a
impossessarsi
nuovamente di lui.
Come avrebbe
fatto? Avrebbe di nuovo
mentito? Si costrinse a restare calmo e assaporare quel breve sprazzo
di
felicità che già prometteva di sfuggirgli di
mano.
Era
uno sforzo vano. La mente già vagava
lontano, mentre serrava così strette le dita nei pugni da
sentire pulsare vivo il
dolore.
Si
vedeva pregare Daniel di trovare un modo
per trasportare Isabeau nel XXI secolo. E Daniel che gli spiegava che
era
impossibile.
Si osservava
nascondere Isabeau in
qualche convento sperduto e partire con Daniel alla ricerca di qualcosa
che
potesse convincere Ponthieu riguardo al loro mondo e alla sua buona
fede. Si
sorprendeva a rapire come un miserabile ladro i figli e fuggire
spregevolmente
con la moglie, a dispetto del patto appena concluso. E si vedeva
disperato
mentre mentiva ancora e ancora… e si sentiva già
sporco, insozzato, lordato al
solo pensiero.
Qualsiasi
cosa pur di non perdere ancora Isabeau e Marc.
“Dovremmo
aspettare che monsieur
Daniel ritorni qui” sentì dire dalla sua stessa
voce, scandendo le parole con
una calma studiata a beneficio del conte e Isabeau.
“Solo
lui può condurci nel mio mondo e dovrà
passare ancora qualche tempo prima che arrivi. Inoltre Madame
è in attesa di un secondo figlio e io ti chiederei se fosse
possibile di...“.
Ponthieu
annuì prontamente, aspettandosi già
quella osservazione.
“Il
mondo che Isabeau vi racconterà
al suo ritorno” continuò Ian,
“potrà stupirvi e vi sorprenderà al di
là di ogni
vostra immaginazione“, questa volta annuirono sia Isabeau che
il conte, “ma in quel
mondo non c’è più male di quanto ve ne
sia già qui, Guillaume. Vi dimostrerò
che ciò che affermo è la
verità” Si voltò verso Isabeau,
cercando in lei la
forza e la speranza di cui aveva bisogno per non affogare
nell’angoscia.
“Non
ho domandato io di poter venire
in questo posto. Non ho chiesto io di mettere in pericolo la vita delle
persone
che avevo più care nel mio mondo. Non ho preteso io di
diventare cavaliere o
conte. Pure, questo luogo è quanto di più caro mi
rimane, perché qui ho trovato
la ragione stessa della mia vita”.
Isabeau
ricambiò il suo sguardo con
occhi grandi e liquidi.
“Ho
trovato la famiglia e gli amici
che ho sempre desiderato. Ho trovato il fratello che non ho mai avuto.
Ho
trovato la donna per la quale in qualsiasi momento darei in cambio la
mia vita,
senza rimpianti. Ho combattuto per averli e per difenderli. Costi quel
che
costi, non mi arrenderò adesso, Guillaume, ti
porterò ciò che chiedi”.
“Metteremo a repentaglio la tua vita, dei tuoi
amici o
quella di Madame, nel vostro
viaggio?“
Domandò calmo Ponthieu.
“Non
più di quanto abbia messo in
pericolo la mia, quella dei miei amici e la vostra con il mio arrivo
qui“ fu la
lapidaria risposta di Ian.
“Sta
bene, mi basta la vostra parola
che mi darete soddisfazione. Poco dopo la nascita del vostro
secondogenito, non
appena Madame si sarà
ripresa, sarete
pronti per il viaggio. I vostri figli resteranno qui e farò
provvedere io a
loro durante la vostra assenza.”
Isabeau
annuì con tristezza, cercando
di non farsi sopraffare dal dolore di lasciare Marc e il neonato alle
cure
delle balie e delle dame di compagnia.
“Ora
che tutto è deciso, se volete
scusarmi, credo che raggiungerò mia moglie ad Auxi. E' un
viaggio di due giorni
e io mi sono allontanato dai miei doveri già per troppo
tempo e mi accorgo“, aggiunse
finalmente con una parvenza di sorriso, “che
sto trattenendo le effusioni di due innamorati...”
Quando ebbero
salutato con deferenza
Ponthieu e non appena questi si fu allontanato, le loro labbra si
unirono in un
bacio che pretendeva di voler recuperare tutti insieme i baci perduti
negli
ultimi mesi, spezzato appena dalle poche parole che riuscivano a dirsi,
rassicurandosi a vicenda, promettendo, giurando, implorando, pregando
il
Signore che niente, più niente da quel momento, li avrebbe
separati adesso che
ancora una volta, contro ogni speranza, erano nuovamente una cosa sola.
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Capitolo 2 *** Capitolo 2 ***
Phoenix,
Arizona. Ai giorni nostri.
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vocale de Chatel-Argent dot com. S'il vous
plaît choisissez votre
langue.
Daniel Freeland
impostò la
propria lingua madre.
“Per
favore, impostate ora
la data di prenotazione della vostra conferenza d’affari, quindi pronunciate la parola
conference”.
La gradevole
voce
femminile attese un istante, quindi proseguì con la stessa
asettica cordialità:
“Se
preferite trascorrere
un romantico week end cullati da ogni comfort, in
un’atmosfera senza eguali, con
personale di servizio altamente qualificato a vostra sola disposizione,
ripetete
week end. Se invece gradite
prenotare
il castello per una festa privata, scandite la parola party.”
La pausa che
seguì fu
leggermente più lunga e quando riprese, la voce elettronica
completò il suo
annuncio leggendo il resto della comunicazione molto velocemente:
“Per
le prenotazioni di
una settimana oppure oltre o per i viaggi di nozze, vi chiediamo
cortesemente
di consultare prima le nostre offerte speciali e inviare una mail al
contatto
evidenziato sullo schermo. Se preferite, potete contattarci al numero
verde
otto, uno, otto, sei...”
L’idea
era di qualche
settimana prima, ma solo ora Daniel aveva trovato qualche minuto da
dedicare ad
altro che non fosse lavoro o Ian Maayrkas. Né, aveva trovato
il tempo di
accennare qualcosa a Jodie Carson, sua moglie.
Chi avrebbe mai
immaginato che il castello di Chatel-Argent non solo esistesse ancora,
ma come
i castelli medievali sulla Loira era stato completamente ristrutturato
e adesso
era in grado di ospitare eventi internazionali, congressi, feste
private e
anniversari.
Daniel scelse da
un
ricco menù a tendina l’opzione photogallery
e con estrema curiosità si dilungò tra
le numerose fotografie che ritraevano
il castello dalle angolature più suggestive. Rivedere in
quelle immagini
Chatel-Argent fu un’emozione sorprendente e ben presto fu
sopraffatto dal
desiderio di tornarci.
Il
castello attuale era cambiato molto dal
vecchio Chatel-Argent del XIII secolo che lui ben conosceva e tra i
discutibili
cambiamenti portati alla costruzione originale, un particolare
attirò subito la
sua attenzione: un’ala del castello, a vedere la galleria
fotografica del sito,
era stata riservata ad un eccentrico museo. Con ogni
probabilità vi erano
conservati manufatti che avrebbero fatto impazzire Ian.
Daniel
si sorprese a chiedersi, ghignando tra sé,
se qualcuno stesse pagando l’affitto a Ian per il suo castello.
Oggi. Saint
Gilles, Canada.
Alla fine Daniel
aveva dovuto
ammetterlo, dopo aver discusso e ridiscusso a lungo insieme su quanto
Ty
pretendeva di scoperto con le sue ultime ricerche: il Falco d'Argento
altro non
era che un ragazzo come loro nato nel presente, che Hyperversum aveva
prodigiosamente trasportato nel XIII secolo.
E lui non si era
accorto mai di
nulla!
Ma quella era
un'altra tessera che
mancava al suo mosaico e adesso si incastrava perfettamente con la sua
teoria,
o pazzia come invece preferibilmente la chiamava
Daniel.
“Ma
perchè Ian? Perchè io? Perchè
nessun altro?“ Le domande su Hyperversum l'avevano
ossessionato fin da quando
Daniel l'aveva riportato dal XIII secolo a casa sua nel presente,
salvandogli
la vita, dopo che era stato avvelenato dai complici del barone Adolphe
de Gant.
In cambio, per
giustificare quei
sintomi da avvelenamento mortale che solo la medicina moderna aveva
potuto
guarire, si era addossato una tutto sommato accettabile fama di
tossicodipendente da droghe leggere e altre sostanze che i medici
avevano
catalogato come non ordinarie. In fondo, aver salva la pelle dopo
quell'avventura, era stato un miracolo.
Ok, sua madre ne
pensava tutto
l'opposto, ma per Ty anche quello era un effetto collaterale che poteva
sopportare: con sua madre i rapporti non erano idilliaci prima e non
erano
perfetti adesso, sebbene in cuor suo e lui lo sapeva, lei gli voleva lo
stesso
bene di sempre.
Le sue ricerche
da allora, condotte
con una abnegazione
che lui stesso non
si riconosceva, lo avevano portato ad alcune conclusioni incredibili.
Ma più si
faceva le stesse domande “Perchè
Ian?
Perchè io? Perchè nessun altro?“
più si dava le stesse risposte.
Perchè,
si chiedeva, in nessun posto,
in nessun libro, in nessun codice dell'epoca, aveva trovato la data di
morte di
Jean Marc de Ponthieu e di molti dei suoi primogeniti in linea di
successione
diretta?
Alcuni
manoscritti si perdevano in
dettagli sulla vita di molti dei suoi discendenti e poi il nulla
riguardo la
loro fine. Nemmeno una data. Spariti.
Lui stesso,
Thierry Ponthieu - e la
cosa lo terrorizzava e lo affascinava irresistibilmente - era legato da
una
parentela lontanissima nel tempo eppure innegabile col Falco d'Argento.
Quale
sarebbe stato il suo destino?
Sentiva che solo
Daniel poteva
aiutarlo a risolvere del tutto questo enigma. Doveva
tornare nel Medioevo.
“Ma’?
Ehi, mi senti?“ Lei si trovava
in cucina intenta a cucinare qualcosa di vegetale e poco calorico che
il suo
fegato malandato e convalescente fosse in grado sopportare, mentre Ty
lui era
in camera sua, sdraiato sul letto davanti all’immenso poster
dei
Guns&Roses. Eppure preferiva parlarle nuovamente della sua
intenzione di
partire la settimana successiva per gli States senza doverne affrontare
direttamente gli sguardi di fuoco.
“Allora,
tra qualche giorno preparo
le mie cose per partire, te l'avevo già detto, no?”
Carol
trasalì temendo di nuovo il peggio, dopo
la sparizione del figlio di pochi mesi prima.
“Come
ti dicevo, non so quanto starò
via, ma non preoccuparti stavolta, prometto che ti chiamerò
almeno un giorno sì
e uno no e poi dai… vado a stare da Daniel! Di lui ti fidi,
no?”
Carol si
sentì sollevata a sentire il
nome di quel ragazzo americano così serio e coscienzioso che
si era tanto
preoccupato per suo figlio durante quella che lei credeva una fuga con
quei
disgraziati dei suoi amici tossici.
Se solo Ty
potesse assomigliare di
più a Daniel,
sospirò. Lei sapeva che mai Daniel avrebbe dato un simile
dispiacere ai genitori,
entrando in quei giri di amicizie pericolose in cui si era cacciato il
suo Ty.
“Mi
chiamerai tutti i giorni, non uno
di meno“ pretese invece e poi, non potendo più
resistere, “e cerca di imparare
come ci si comporta da Daniel, è così un bravo
ragazzo!”
Ty sorrise
dentro di sé: sua madre
non sospettava nemmeno quanto quel bravo ragazzo
avesse persino più
talento di lui nello sparire e nel cacciarsi nei guai fino al collo.
***
“
Basta Skip! Dannazione, adesso
basta!
Chi lo
può dire, forse anche lui
sentiva aria di festa.
“Bel
modo di svegliarmi, accidenti,
mi hai quasi già lavato la faccia!“
Daniel si
contrasse in una smorfia di
disgusto sentendo la sua faccia completamente umida e cercò
invano l'orologio
sul comodino, doveva essere tardi comunque: Jodie doveva essere
già a lavoro
per il turno di sabato e Skip saltava e scendeva giù dal
letto in
continuazione, scodinzolando a più non posso.
Ancora con la
mente annebbiata dal
sonno, senza decidersi ad alzarsi completamente, Daniel si
soffermò ad
osservare distrattamente il cucciolo che tra un salto e l'altro,
masticava con
aria soddisfatta ora i bordi delle coperte ora le graziose ciabattine
rosa di
peluche di Jodie.
Fu
all'improvviso che gli tornò in
mente la telefonata della sera prima di Ty e gli stessi brividi che
aveva sentito
mentre il ragazzo gli accennava le sue teorie lo scossero ancora una
volta,
svegliandolo più di una doccia gelata.
Lui aveva
cercato le risposte a
quelle stesse domande di certo non con meno impegno di Ty,
scandagliando
minuziosamente ogni riga di codice del gioco, esaminando le connessioni
di
rete, i server su cui si appoggiava la community per giocare online,
qualunque
componente hardware o software che riguardasse Hyperversum, aveva
dedicato a
quella ricerca i suoi studi universitari e persino il suo lavoro
attuale di
ricercatore. Ty invece era partito da tutt'altri presupposti.
“E'
una pazzia!” quasi gridò
involontariamente all'indirizzo di Skip che ricambiò
allarmato il suo sguardo,
immobilizzandosi e abbassando
goffamente
le orecchie. Eppure quel ragazzo forse ha trovato la chiave di tutto,
forse ha
ragione, non può essere solo una coincidenza!
E come se non
bastasse - si ricordò
subito con smisurato rammarico
- i giorni passano e io non ho ancora idea di come fare a portare qui
Ian e
Isabeau!
Skip
abbaiò, manifestando il suo incondizionato
assenso a qualsiasi cosa il padrone gli avesse prima urlato contro, pur
di
avere presto la sua ciotola di latte e i suoi croccantini di pollo.
Daniel
si incamminò proprio verso la cucina
subito seguito dal cucciolo, ma l'urgenza che gli saturava ogni
pensiero era di
dover trovare una soluzione al problema che l’aveva assillato
ininterrottamente
negli ultimi mesi.
Si
fermò quasi subito davanti allo specchio
della sua camera da letto, soltanto per avere conferma, guardandosi in
volto,
che avrebbe avuto ancora bisogno di dormire e che il tempo non gli
bastava mai
dopo il lavoro.
Questa
volta però, testone che non sei altro -
annunciò a se stesso - troverai
come portare tutti e due nel
presente. Glielo devi, dannazione, dopo tutto quello che lui ha fatto
per te.
Devi portarlo
via da lì, lui e la sua
famiglia! Soprattutto adesso che non ha più nessun motivo
per restare, dopo
che..., lo stomaco gli si strinse al solo pensiero di quanto il suo
amico
stesse soffrendo e completò la frase solo mentalmente, ...Ponthieu
lo ha
ripudiato, dopo avermi visto sparire – chissà con
quale stregoneria, crede lui
– insieme
a Ty.
Ma presto si
sarebbero rivisti
ancora, cosa aveva detto Ian?
“Fatti trovare a Chatel-Argent il giorno della
nascita del mio
secondogenito Michel, la data la conosci.”
Sì,
lui non avrebbe mai abbandonato
Ian al suo destino. E quando fosse giunto il momento di tornare da Ian,
lo
avrebbe sorpreso con la notizia che sapeva come fare per portare la sua
famiglia
con sé nel presente. Hyperversum era imprevedibile, ma se
c’era una cosa che
Daniel aveva compreso di quel gioco, era che niente era impossibile.
Skip,
intuendo che il padrone si era di nuovo
distratto, abbaiò di nuovo.
***
Dopo aver
servito distrattamente il
pasto a Skip, non fece in tempo a preparare la sua colazione, che
sentì suonare
alla porta.
Sperò
che fosse il corriere col
materiale che aveva ordinato quasi due settimane prima e che sperava
potesse
aiutarlo a trovare la soluzione al problema di Ian, così
restò quasi deluso
quando si ritrovò davanti Jodie.
“Ma
non dovevi essere al lavoro,
questa mattina?”
Jodie lo
guardò con un’espressione
paziente e rassegnata, prima di entrare in casa, lasciare sul pavimento
davanti
all’ingresso due pesanti borse della spesa e ricordargli che
il turno di sabato
iniziava il pomeriggio ma che “qualcuno doveva pur sempre
andare al supermercato
se volevano mangiare ogni giorno, no?”
“Alex?
Dorme ancora?” volle subito
dopo sapere lei.
Daniel
annuì con un cenno del capo,
l’angioletto di nemmeno quattro mesi riposava serenamente
dentro la culla nella
sua camera, tranquilla – rimuginò il ragazzo
– come Skip non avrebbe mai potuto
essere, nemmeno sotto l’effetto di molti sedativi. Jodie si
affacciò nella
stanza di Alex per recapitarle un bacio e contemplarla per qualche
istante.
Sentiva il bisogno incontrollabile di guardarla a intervalli regolari
anche
quando era occupata con i mestieri di casa o guardava la
tivù e naturalmente non
appena rientrava a casa, anche se si era allontanata solo per gettare
il sacco
con l’immondizia. Ancora non credeva di essere la mamma di
quella serafica e
paffuta creatura. E ogni volta che i suoi occhi si distendevano su di
lei, si
sentiva colmare il petto da una sensazione di tenerezza così
forte da sembrarle
quasi dolorosa.
L’urlo
che arrivò qualche istante
dopo, non giunse inatteso alle orecchie di Daniel e lo sentì
non appena Jodie
entrò nella camera da letto per cambiarsi. Quel giorno,
infatti, non aveva
avuto la prontezza di fermare Skip prima che cercasse come ogni mattina
di fare
colazione con le pantofole Hello Kitty della moglie.
“DANIEL!
Accidenti, lo sai che se non
gli dai subito da mangiare se la prende con le mie cose!” lo
rimproverò con un
tono di voce subito soffocato dal timore di svegliare
l’angioletto nell’altra
stanza.
Il secondo urlo
arrivò invece
inaspettato. Lo raggiunse non appena Jodie arrivò in cucina
e notò che al posto
della ciotola, Daniel aveva servito la scatoletta di Skip dentro il
piatto che
avrebbe dovuto usare lui per la colazione.
“Bene,
non importa.. non importa
tesoro”, gli annunciò con uno sguardo che non
ammetteva repliche, “vorrà dire
che oggi pranzerai tu nella ciotola
di Skip!”
Daniel sapeva
che non scherzava.
“Scusa
Jodie, scusami tanto... non ci
sono proprio più con la testa... Poi ieri la telefonata di
Ty... e io che penso
giorno e notte a quel problema da settimane e non ho trovato ancora
nessuna
soluzione. E se non riuscirò io non ci riuscirà
nessun altro e la vita di Ian
sarà distrutta e…”
“Ehi...”
gli impedì di continuare
Jodie, mentre l’irritazione di poco prima
l’abbandonava e scrutava suo marito
con apprensione e affetto. “Su,
calmati
adesso. So quanto ci tieni ad aiutare Ian e spiace tantissimo anche a
me per la
situazione sua e di Isabeau. Ho promesso di aiutarti, no? Ma se non ti
riposi
un po’ non sarai certo di aiuto a qualcuno in queste
condizioni”.
Daniel non
poté che annuire
sconsolato.
“Se
Ian può andare avanti e indietro,
perché non potrebbe farlo anche Isabeau? Una soluzione ci
dovrà pur essere!”
“Lo
so, io lo so che c’è, con Hyperversum
tutto sembra possibile... il problema è che ragiona e
funziona solo come piace
e pare a lui, maledetto
gioco!”
imprecò Daniel, “alla fine mi sfugge sempre
qualcosa…”
“Però
qualche progresso l’abbiamo
fatto, no? Abbiamo capito cosa ci serve: innanzitutto un modo per
aggiungere
Isabeau alla partita tra i giocatori attivi e poi un modo
per…”
“Un
momento, cosa...” Daniel si voltò
di scatto verso la moglie. “Cosa hai detto?”
Jodie lo
osservò ancora una volta con
quello sguardo rassegnato: “Tesoro? E’ da un mese
ormai che mi ripetiti queste
parole tutti i giorni come un mantra! Ho solo appena detto che una
volta
aggiunta Isabeau alla partita dobbiamo poi trovare il modo per
portarla…”
”Un
modo?”
“Sì
Daniel, accidenti, un MODO! Si
può sapere cosa ti prende, quando fai così mi fai
paura!”
“Jodie…
Sì!“ non aveva ancora finito
di parlare che si lanciò ad abbracciarla e baciarla.
“Sì, sì! Sei un genio!”
urlò ancora mentre la stringeva e lei lo squadrava
esterrefatta, cercando al
tempo stesso di divincolarsi. “Ecco quello che ci serve! Un
Mod!!”
“Un…
cosa?”
“Ma
certo, il Mod dei Mod! Premio
dell’anno come Miglior Mod per Hyperversum, oltre diecimila endorsement nella Community di
Nexus…”
“Si
può sapere di cosa diavolo stai
parlando Daniel? Sei sicuro di stare bene questa mattina? Sei
così strano e…”
“Sto
parlando di Celebrity Skin, il Mod
non ufficiale più premiato
e proibito della rete!”
“Premiato?
Proibito?” Jodie era
sempre più confusa.
“Bè,
sì. Se quelli della community
ufficiale di Hyperversum ti beccano con un Mod istallato, rischi come
minimo
che ti levano tutti i punti finora accumulati, se non addirittura il ban della tua utenza dal gioco.”
Jodie lo
ascoltava ancora allibita,
ma con la speranza crescente che le parole di Daniel avessero il senso
che
sperava.
“Loro
erano un forum nato per sviluppare modifiche sui vecchi giochi RPG di
qualche
anno fa, sai roba da antenati come Oblivion,
Dragon Age, appassionati che
programmavano nuovi add-on che trasformavano il gioco standard in tutto
quello
che loro desideravano o che la community richiedeva.” Jodie
annotò mentalmente
che quei nomi non le dicevano niente, come del resto la sigla RPG.
“Alcune
di queste modifiche, o Mod
come li chiamano loro, erano talmente complesse e riuscite che i
migliori di
loro furono assunti da quelle stesse software house per sviluppare i
giochi della
generazione successiva. Ma la maggior parte rimase comunque fedele alla
community originale e continuò a sviluppare modifiche
proibite ai giochi di
ruolo di maggior successo.” La ragazza lo seguiva con
attenzione adesso.
“Non
potevano mancare quindi i Mod
per Hyperversum. Prendi
ad esempio Better Bodies All In One
che migliora
l’aspetto del tuo alter ego virtuale e di tutti i personaggi
che trovi nel
gioco… ogni ragazza che incontri, ad esempio, sembra appena
uscita da una
sfilata di Victoria’s Secret!”
Jodie lo
guardò sconcertata: “Chi
diavolo può volere una cosa del genere, Daniel?
Cioè, dico.. c’è davvero
gente a cui piace questa roba?”
“Eccome!
Questo Mod è attualmente
secondo nella classifica dei riconoscimenti della community di
quest’anno, quasi
seimila endorsement!”
Notando
l’espressione perplessa sul
volto della ragazza, Daniel chiarì: “Quando i
membri della community provano un
Mod, in seguito possono rilasciare un giudizio. Se la valutazione
è
particolarmente positiva, gli iscritti concedono all’autore
un endorsement, il riconoscimento
più alto
per aver condiviso gratuitamente il software con gli altri membri della
community.
“Ma in
questo modo il gioco non perde
il suo realismo?”
“De
gustibus….”, Daniel si strinse
nelle spalle, “in ogni caso esistono così tanti
Mod da soddisfare ogni utente,
è possibile personalizzare ogni aspetto del gioco, dalla
storia ai paesaggi”,
proseguiva Daniel con visibile entusiasmo, “attraverso Skip the Fade, Improved
Atmosphere… Oppure, prendi Extra
Dog
Slot, ad esempio! Puoi creare a partire da qualche foto, la
copia virtuale
perfetta del tuo cane e portartelo sempre appresso anche in
Hyperversum!”
Jodie
fissò uno Skip emozionato e scodinzolante
mentre faceva la posta al mucchietto di peluche che aveva staccato a
morsi dal
resto della pantofola Hello Kitty e seppe che non avrebbe mai istallato
quel Mod.
“Infine
c’è il migliore: Celebrity
Skin. Con questo Mod puoi
diventare tu stesso un personaggio famoso del passato, ad esempio
Alessandro
Magno, Giulio Cesare…
“E io
potrei essere Cleopatra! Questo
sì che mi piacerebbe provare, Daniel”.
“Ma
non solo! Le opzioni offerte sono
pressoché infinite: ad esempio puoi essere te stesso e
portarti dietro invece
di Skip un vero personaggio del passato che ti aiuta nelle quest del gioco, ti fa compagnia, ti
intrattiene quando hai voglia
di una pausa, oppure..
“Oh
cielo! Che genere di compagnia,
Daniel? Adesso concepisco perché è il mod
più votato!”
“Bè…
ma non è che un’opzione
marginale, chi ha programmato Celebrity
Skin è senza dubbio un genio! Il Mod fa credere a
Hyperversum che il
compagno virtuale che hai scelto è un personaggio realmente
giocante. Adesso
capisci dove voglio arrivare?”
“Credo
di capire: vuoi usare questo Mod
per aggiungere alla nostra partita salvata un personaggio realmente
esistito nel
passato: Isabeau, vero?” Daniel annuì con un
cenno, e attese in silenzio che il
ragionamento ad alta voce di Jodie si concludesse.
“Poi,
quando tu e l’Isabeau virtuale
inizierete la partita, aspetterai che arrivi Ian… Oh cielo,
in quel momento la
partita si trasformerà nel reale Medioevo e
Isabeau…” Jodie si portò una mano
alla bocca, incredula.
“E
Isabeau…” le venne in soccorso il
ragazzo con un sorriso raggiante dipinto sulle labbra,
“sarà una giocatrice
attiva, esattamente come me e Ian”.
“Potresti
sul serio, Daniel?”
“Ci
proverò. E se tutto va secondo i
piani…”, ricordiamoci
che in Hyperversum
niente va secondo i piani, si
appuntò
subito mentalmente.
“E
come sapremo se funzionerà? Se sarà
pericoloso per lsabeau?
“Mi
occuperò anche di questo, stanne
certa”.
“E
Isabeau non vorrà portarsi dietro
anche Marc e il secondo figlio che sta per nascere?”
“Se
funziona con lei funzionerà anche
per i figli, immagino...”
“Ok
Daniel, abbiamo forse risolto la prima
parte del problema, ma mi hai sempre detto che la difficoltà
era duplice! Anche
se abbiamo un modo per aggiungere Isabeau alla partita, come facciamo
poi a
portarla nel presente, alla nostra epoca?”
“Quando
noi ritorneremo a casa sulle
nostre sedie, con un visore in testa e le mani infilate nei guanti 3D
del gioco,
lei dove sarà?” lo incalzò ancora Jodie.
“Hummm….
senza guanti e visore, senza
un computer...” Credeva di avere appena risolto
l’enigma più complesso che
avesse mai affrontato ed era così euforico, che si sentiva
pronto a rivelare
una soluzione per ogni problema del pianeta.
“…
a casa nostra hai detto….”
Si
guardò intorno, osservando la
stanza, con la sensazione esaltante che anche il secondo enigma avesse
i minuti
contati.
“Ok,
e poi tu prima di passare nel
medioevo, apri una partita, selezioni una data precisa
e un luogo di destinazione”, considerò la ragazza,
“come farai a selezionare la
destinazione di Isabeau, dal medioevo? Non si può!”
“Ma
sì, sicuro… Non finirà di certo a
Phoenix, Arizona”. Daniel si aggirava per la stanza, parlando
più a se stesso
che a Jodie.
“...E
se non è possibile selezionare
per lei alcuna destinazione, se non è possibile impostare
alcuna coordinata
geografica, se lei non ha mai lanciato il gioco da un computer, dopo il
salto
temporale dove si troverà?”
Gli sembrava di
avere davanti un
puzzle smisurato e impossibile e l’ultima minuscola tessera
era lì, proprio sul
palmo della sua mano.
“Ma
certo.... Non si muoverà.”
“Non
si muoverà? Cosa vuoi dire,
Daniel?”
“Non
si muoverà da dove è partita!”.
“Vuoi
dire che tutti i nostri sforzi
sono inutili, che non potrà mai venire con noi nel
presente?”
“Al
contrario. Hyperversum ha sempre
trascinato con sé, nella stessa epoca, tutti i giocatori
attivi di una partita
in corso”.
All’improvviso
a Daniel sembrava di poter
vedere le cose con una chiarezza e una sicurezza mai sperimentata, ogni
pezzo
si incastrava da solo, in automatico: Ian, Isabeau, Ponthieu, la
Francia, il
Medioevo, la sorpresa, la paura, le lacrime, il sangue, la guerra, le
spade, i
morti, il dolore...
E poi ancora un
susseguirsi caotico
di immagini e sensazioni: la gioia, la speranza, l’amicizia,
l’amore, la
vittoria, il ritorno, sua madre, suo padre, Jodie, il matrimonio, la
casa, il
ronzio del pc, lo schermo acceso, la stanchezza, le vacanze che aveva
bisogno,
Chatel-Argent... tutto scorreva vorticosamente nella sua mente,
incastrandosi frammento
dopo frammento. Come il puzzle che aveva immaginato di vedere prima.
“Jodie!
Dopo il salto temporale, Isabeau si troverà
esattamente nell’unico
luogo possibile: a
Chatel-Argent! Nello stesso identico luogo da cui è partita.
Naturalmente non
sarà più nel 1217 d.C. ma il gioco la
proietterà con noi, ai giorni nostri!”
Per qualche
istante Jodie soppesò
mentalmente quelle informazioni.
“E
come accidenti faremo allora, se
noi saremo in Arizona?” osservò quasi subito con
la consueta energia e lucidità,
“Intendi abbandonarla lì in un castello che magari
non esiste neanche più, da
sola, senza nemmeno il passaporto, un vestito di ricambio e una carta
di
credito?”
“Avevi
già in mente qualche posto per
le vacanze, tesoro? ”
“Vacanze?
Oh Daniel, per l’amor del
cielo, come fai a scherzare in un momento come
questo…”
“Non
sto scherzando. Se non può
essere Isabeau ad andare da noi, vorrà dire che saremo noi a
recarci da
lei: lanceremo la
partita da lì. Dal
castello di Chatel-Argent dei giorni nostri.”
Interpretava
ormai ogni passo
seguente di quel piano così articolato e complesso, come
fosse invece una prevedibile
successione matematica, già scritta.
“Quando
chiuderò la partita torneremo tutti a Chatel-Argent: io, Ian
e Isabeau. Tu invece ci starai
aspettando
già lì, con Skip, un prendisole e le creme
abbronzanti per il solarium. E
comincio anche ad avere un’idea su come
assicurarci che nessuno corra rischi inutili.”
“Se
tutto funziona avremmo risolto il
problema di Ian, altrimenti, al minimo segnale di pericolo ti giuro non
se ne
farà nulla, ti prometto che sarà solo una bella
vacanza in Europa, cullati da ogni comfort,
in un’atmosfera
senza eguali, con personale altamente qualificato tutto a nostra
disposizione..
e tu hai sempre desiderato visitare la Francia, no?”
“Suppongo
che visto che noi non ce lo possiamo
permettere, pagherà Ian, vero? “
“Bè,
Ian ha sempre detto che tutti
quei soldi che ci ha lasciato erano per noi. Ma sarei più
felice se potessimo
usarli per fare qualcosa per lui, invece...”
Qualche minuto
dopo, dal sito www.chatel-argent.com,
Daniel e Jodie
avevano ottenuto tutte le informazioni necessarie. La sala conferenze
aveva
tutte le attrezzature informatiche indispensabili, collegamento
internet
superveloce con fibra ottica, unità ridondanti di back up e
persino gruppi di
continuità elettrici che avrebbero consentito loro di
giocare in tutta
sicurezza.
Alla nascita del
secondogenito di Ian,
come convenuto, Daniel si sarebbe presentato all’appuntamento
con l’amico. E avrebbe
portato con sé l’Isabeau virtuale creata grazie al
Mod.
Se la prima
parte del piano avesse
funzionato, aveva già studiato un semplice stratagemma per
verificarne la
seconda parte già in quel primo viaggio.
“Oh
Daniel, sono
così felice!”
“Lo
sarò anch’io, tesoro, ma solo
quando vedrò che funzionerà tutto per davvero,
già troppe volte ci siamo
illusi, mi sembra.”
“Ti
confesso che sarà uno sbattimento,
senza contare che dovrò lasciare almeno per una settimana
Alex a casa di mamma,
ma sono contenta di fare tutto questo per Ian. Non mi importa nulla
delle
vacanze, se ci tieni a saperlo. Spero davvero che tutto funzioni, per
lui.”
Il ragazzo
sorrise compiaciuto.
“Daniel?”
“Si?”
“Sei
perdonato. Per questa volta non pranzerai
nella ciotola di Skip.”
“Jodie....
“ prosegui Daniel ridacchiando,
“se solo il conte Ponthieu fosse generoso come te e
perdonasse Ian...”
“Scemo.”
“Bè,
intanto che tu sterilizzi il
piatto dove ha mangiato Skip, io recupero la foto della miniatura di
Isabeau.
Mi servirà per la modellazione del personaggio che
dovrà usare il Mod. Ti
ricordi esattamente quanto era alta la nostra contessina? E che taglia
dovrebbe
portare Isabeau?”
|
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Capitolo 3 *** Capitolo 3 ***
Daniel
sospirò e ripassò ancora una
volta mentalmente tutta la lista delle cose da fare, quelle che doveva
aver già
fatto e quelle che aveva lasciato a Jodie.
Sì,
era davvero tutto a posto. Calmati
dannazione, andrà tutto bene, hai
tenuto conto di tutte le variabili. Questa è solo una prova
per verificare che
almeno il Mod funziona. Rivedrai finalmente Ian e lo farai felice
dicendogli
che hai trovato una possibile soluzione per lui e Isabeau. Coraggio,
andiamo!
Caricò
l’ultima partita salvata,
scegliendo tra le molte copie di backup quella in cui aveva istallato
Celebrity
Skin e controllò come al solito che il personaggio non
giocante di Jean Marc de
Ponthieu fosse incluso nello scenario.
Una seconda
verifica si rese
necessaria dopo che aveva istallato e configurato il Mod: tutto ok,
anche
Isabeau de Montmayeur era presente in qualità di Companion. Indossò i guanti e
il visore in dotazione con
Hyperversum e ordinò al pc di caricare il gioco.
Sullo schermo
piatto e sul visore a
LED apparve la consueta clessidra che scandiva il tempo di
pre-caricamento e
quindi la scritta:
HYPERVERSUM
Configuring game
Please
wait…
Scorrevano
intanto alcune immagini
salvaschermo raffiguranti battaglie epiche del passato, rese in un
realismo
disarmante e paesaggi mozzafiato di epoche lontane, fintanto che la
clessidra
scomparve.
Subito dopo,
apparve la scritta Game ready e scandendo il comando
vocale Start, Daniel diede
finalmente inizio
alle sequenza animata che preannunciava l’inizio di una nuova
avventura.
L’intero
pianeta apparve sul visore,
splendente nelle sue sfumature più vivide, come in una foto
via satellite,
mentre ruotava pigramente su se stesso.
Le cifre del
contatore della data
scorrevano impazzite come in una slot machine, finché si
arrestarono tutte
insieme sulla scritta:
1217 d.C.
All’improvviso,
gli sembrò di
precipitare dallo spazio sempre più velocemente, presto le
macchie blu-verdastre
e i vortici lattescenti delle nubi che avvolgevano la Terra iniziarono
ad
avvicinarsi ad una velocità insostenibile, come se il
giocatore stesse
precipitando in picchiata.
Poi la caduta
sembrò rallentare e
Daniel, attraverso il visore, riuscì a distinguere i
contorni sempre più definiti
dei continenti, poi l’Europa e poi ancora i territori
francesi, sempre più
vicini.
“Start
Game!”
Saltò
l’introduzione vocale, desideroso
di vedere da vicino la nuova compagna virtuale che doveva impersonare
Isabeau e
all’improvviso fu dentro il gioco, riparato in una fitta
boscaglia che lui
sapeva essere poco distante dal castello di Chatel-Argent.
Si
guardò intorno per assicurarsi che
non ci fosse nessuno e sbirciò verso la radura alla sua
destra sobbalzando quando
invece si accorse che non era solo.
Bellissima, con
i biondi e
lunghissimi capelli che catturavano ogni filo di luce che baluginava
dagli
alberi, apparentemente annoiata e un po’ troppo strizzata e
sensuale negli
abiti di una contessa del XIII secolo, a pochi passi da lui si trovava proprio Isabeau.
Non appena lei
si accorse che Daniel
la stava osservando, si avvicinò:
“Buon
giorno Daniel. Lascia che mi
presenti: sono la contessa Isabeau de Montmayeur, posso fare qualcosa
per te?
La
fissò a bocca aperta, il rendering
e la modellazione 3D erano perfetti, più di qualsiasi altro
personaggio
virtuale ricreato dal gioco. Celebrity Skin era incredibile.
“Preferisci
esplorare subito il paesaggio qui
intorno?” proseguiva intanto lei, “Gradisci che ti
parli un po’ di questo posto
e delle quest di maggiore interesse
oppure ti piacerebbe appartarti un po’ con me in questo
bosco?”
Fece una breve
pausa densa di
significato che fece deglutire Daniel e poi riprese con soave
naturalezza: “ti
devo ricordare che non hai ancora raggiunto nella partita in corso il
punteggio
minimo che sblocca la terza opzione. Per disabilitare il tutorial
mode ora attivo, devi solo pronunciare il relativo comando
vocale.”
La voce e le
sembianze erano tanto
simili all’Isabeau originale che Daniel credette che questa
volta Hyperversum
avesse pescato i suoi dati non dalle infinite librerie del gioco ma
direttamente dalla realtà.
Daniel si
concesse di ammirarla ancora
per qualche istante, prima di rispondere che per il momento avrebbe
preferito
esplorare da solo il bosco e di aspettarlo lì ben nascosta
ad occhi indiscreti.
“Tornerò
presto con una sorpresa per
te, vedrai!”
“Le
sorprese mi piacciono! E ti
ricordo che i doni graditi sbloccano immediatamente nuove opzioni di
dialogo e
forniscono bonus di punteggio. Se desideri posso subito elencarti tutti
i doni
che gradisco ricevere.”
“Ok,
ok Isabeau. Vediamo però di non
spaventare troppo questi medievali con i tuoi discorsi, eh. Tutorial mode off.”
L’Isabeau
virtuale imbronciò leggermente
le labbra, incrociò le braccia sul petto, e si
riparò dietro ad un albero come
le era stato detto.
Sistemata
con sollievo la faccenda Isabeau,
altri problemi e altre angosce si presentarono subito a Daniel: Michel,
il
secondogenito di Ian sarebbe nato oggi, ma a che ora? E quando sarebbe
apparso
Ian per rispondere all’appuntamento stabilito tanto tempo fa?
Si sarebbe
ricordato? E se qualche impedimento
gli avesse reso impossibile presentarsi?
L’erba
del sottobosco era ancora la
sterile filigrana di pixel ricreata da Hyperversum, gli alberi e gli
sprazzi di
luce, che filtravano a stento dalle fronde dei rami, erano riproduzioni
foto-realistiche
delle realtà, ma i sensi gli assicuravano ancora che quel
mondo era solo
digitale.
Ad un tratto,
mentre si era già
allontanato di qualche centinaio di passi dalla Isabeau virtuale, un
fruscio
più evidente degli altri e poi un rumore metallico lo fece
sobbalzare.
Qualcuno
si avvicinava verso di lui, ricoperto
dall’usbergo lucente e con l’elmo calato sul viso.
Daniel si vide subito in
trappola e lo spavento di quella apparizione improvvisa non gli fece
notare né
la statura dell’uomo né il simbolo che portava
indosso.
Tutto accadde in
pochi istanti: un
momentaneo capogiro fece turbinare tutt’intorno per un attimo
i riflessi di
luce che filtravano dagli alberi e dall’armatura del
cavaliere, le percezioni
dei sensi furono stravolte all’improvviso e
avvertì acutamente l’inconfondibile
senso di nausea che lo accompagnava tutte le volte che Hyperversum
compiva il
suo prodigio.
E solo allora, proprio quando il cavaliere alzava
minaccioso la spada di
punta verso il suo petto, capì cosa stava succedendo.
Ian era
lì. Si tolse l’elmo ed
entrambi scoppiarono a ridere.
“Ma
cosa diavolo hai fatto ai
capelli?” Fu la prima cosa che riuscì a dirgli
dopo tanti mesi, sorprendendosi
di vedere la lunga chioma corvina del cavaliere ridotta ad un taglio
corto che
ricordava fin troppo i tempi moderni.
“Ricordi?
Il mio atto di
contrizione...“ Ian si sforzava di sorridere nel modo
più naturale possibile e
Daniel squadrandolo e poi fissando il simbolo del falco
d’argento, poté intuire
molte cose, ma non tutte.
“Ti ha
perdonato! Lui ti ha perdonato, non
è così? Oh Dio,
grazie, grazie! E come è successo, cosa hai fatto?
E’ stata Isabeau? Cosa gli
hai detto per convincerlo?”
“Non
è così semplice come sembra,
alla fine ha preteso che...“, non fece in tempo a continuare
che Daniel lo
tempestò di nuove domande: “E Isabeau sta bene? E
tuo figlio, anzi i tuoi due
figli, adesso? Oggi è nato Michel, come sta? Assomiglia a te
o a Isabeau? Sono
così felice per te, se sapessi cosa ho passato
anch’io, quanto mi sono
tormentato sapendoti qui in quelle condizioni... ma accidenti, ti sei
messo
questa dannata armatura solo per non farti abbracciare, eh?”
“Veramente
volevo giocarti uno
scherzetto e spaventarti, ma ormai sei troppo smaliziato, vedo. Quando
ti ho
visto apparire all’improvviso mi sono spaventato
più io, se vuoi saperlo!“
I due amici
scoppiarono di nuovo a
ridere e parlarono per molto tempo solo di cose piacevoli,
raccontandosi di
come stavano i loro cari e i loro amici di qua e di là, nei
due mondi tra cui
viaggiavano.
Ogni
cosa è andata al suo posto, si ripeteva
incredulo Daniel, non potevo sperare di
meglio. Nemmeno mi servirà tentare
quell’esperimento con l’Isabeau virtuale che mi
sono portato dietro... Ah se
Ian potesse vederla! Chissà come la prenderebbe!?
Finalmente
sia io che lui potremo vivere quei giorni felici e spensierati
che ci meritiamo dopo aver passato tutto quello che abbiamo passato! E
come
sono felice per Ian, non appena lo saprà Jodie…
“Ehi, Monsieur le compte“ lo
apostrofò scherzando Daniel mentre gli
allungava una pacca sulla spalla, “adesso che io e te siamo
felicemente
sistemati con le rispettive consorti, non sarebbe ora di una bella
cenetta a
quattro in qualche bel locale tranquillo di Phoenix, che ne dici?
“
Ian lo
guardò serio e uno strano
scintillio attraversò il suo sguardo. “Dai, non
dirmi che incontrare di nuovo
quel piccolo mostro di Skip ti spaventa a tal punto da rifiutare
l’invito!“
Ian
abbozzò un sorriso, quel tanto
per far credere all’amico che stava allo scherzo. Non voleva
rovinare quel momento
di pace e di serenità con le preoccupazioni che gli
offuscavano tutto il tempo
la mente.
“…avresti
dovuto vedere la faccia di
Jodie…”, Daniel intanto continuava a raccontare
episodi divertenti della sua
vita nel presente, “quando ha trovato le sue adorate
pantofole di Hello Kitty
ridotte a brandelli, già.. chissà cosa avrebbe
detto Isabeau sui mostri del nostro
tempo!“
“Proprio
di questo ti dovrò parlare,
Daniel…”
L’amico
non riuscì a decifrare lo
strano sguardo che gli ricambiò Ian pronunciando quelle
parole, ma non vi badò
in quel momento spensierato, dove ogni cosa sembrava andata al suo
posto.
“Hai
per caso una sorpresa per me? Bè
forse ne ho anch’io una per te. Seguimi!”
***
“Ehi,
ma
non mi dici niente, allora? Di quale diabolica sorpresa parlavi prima,
Daniel?”
“Tranquillo,
rilassati cavaliere e goditi l’attesa!”
Arrivarono
al punto in cui Daniel aveva lasciato l’Isabeau virtuale,
girarono per qualche
passo intorno, senza riuscire tuttavia a scorgere nessuno.
“Doveva
trovarsi qui, dove accidenti è finita?”
Ian
iniziò
a preoccuparsi. “Non sarà qualcosa che riguarda
Hyperversum, vero Daniel? Non
avrai fatto qualche sciocchezza per salvarmi o robe
del genere?”
“No,
no
figurati.... lasciami solo controllare una cosa. Help!”
Apparve
immediatamente una mela rossa fosforescente che fluttuava pigramente a
mezz’aria: il menu 3D del gioco.
Entrambi
tirarono un sospiro di sollievo. “Eh, funziona ancora... sai,
meglio accertarsene
spesso visto com’è andata le ultime
volte!”
Ian si
concesse un sorriso tirato.
Velocemente
aprì il menu addizionale associato al Mod e
digitò il comando che ordinava al
compagno virtuale di materializzarsi immediatamente davanti al
giocatore principale,
ovunque si trovasse. Utilizzò la user alfanumerica invece
del nome proprio di
Isabeau per non allarmare l’amico.
Nessun compagno
si presentò davanti a loro.
Daniel
sorrise.
Ci aveva
sperato, ammetteva tra sé, ma non aveva mai avuto la
certezza di farcela. Era tuttavia
esattamente quello che si aspettava, nel momento in cui Ian fosse
comparso e il
gioco virtuale si fosse trasformato nel reale Medioevo.
Aprì
questa volta il menù standard del gioco, richiamando i
player attivi della
partita. Sotto la mela, brillarono per pochi secondi i caratteri che
componevano
i nomi di Daniel, Ian e per la prima volta... Isabeau.
Mentre un sorriso
di soddisfazione gli si allargava sul volto, controllò per
scrupolo anche
l’elenco dei compagni virtuali attivi: nessuno. Chiuse
immediatamente il menù
prima che Ian sbirciasse qualcosa.
Metà
del
piano aveva funzionato, restava solo da verificarne il resto. Ma ormai
era inutile,
non sarebbe più stato necessario, ora che Ponthieu aveva
concesso il suo
perdono all’amico. Era tuttavia più che mai
convinto che la sua idea avrebbe
comunque funzionato il giorno che avessero voluto metterla in pratica.
“Bè,
amico, devo confessarti che la mia sorpresa a quanto pare se
l’è data a gambe.
Forse sarà per un’altra occasione...”
***
I festeggiamenti
proseguivano senza
sosta da due giorni, Etienne de Sancerre, spalleggiato dai due Henry,
aveva
convinto Ian che la nascita del suo secondogenito unitamente al suo ritorno alla vita
sociale di corte,
meritassero almeno una settimana di celebrazioni e ovviamente
un degno torneo,
aveva tenuto ad aggiungere Sancerre.
Erano finalmente
giorni allegri e
spensierati, come nemmeno Ian ne aveva più il ricordo, ma
dopo aver rimandato
quel momento a lungo per non turbare la felicità almeno dei
suoi amici, sentiva
di non poter più rinviare ciò che doveva
confessare a Daniel.
Approfittò
della scusa che doveva recarsi
dalla moglie, che da pochi giorni dato alla luce Michel, per separarsi
da suoi
compagni d'armi e salì insieme a Daniel nelle stanze di
Isabeau.
Salendo le scale, sentiva
già la
voce divertita di sua
moglie e le risa cristalline di Donna, tornata a Chatel-Argent per
assistere
l’amica qualche settimana prima che partorisse.
Dal giorno in
cui era tornato a
Chatel Argent, aveva evitato il più possibile di discutere
con la moglie del
viaggio nel suo mondo come la
ragazza
vi si riferiva. Isabeau era in attesa del loro secondogenito e non
voleva
angosciarla per nessuna ragione al mondo con altre preoccupazioni.
Così le
aveva assicurato che Daniel avrebbe trovato una soluzione, sebbene era
sicuro
che non ve fosse alcuna.
Vedendolo
comparire alla porta con la
sguardo cupo, le due dame interruppero i loro spensierati discorsi sui
difetti
più divertenti dei rispettivi mariti.
“Ti
preoccupa qualcosa Jean?“ chiese
subito sua moglie ancora allegra, chiamandolo col suo nome francese con
cui era
conosciuto nel medioevo, “hai uno sguardo così
serio, forse Etienne ti ha
costretto a promettergli che avresti partecipato anche tu al torneo e
sei venuto
a implorarmi di non negarti questo deplorevole divertimento?”
Donna rise con
la mano sulla bocca
per non darlo troppo a vedere e la stessa Isabeau trattenne a stento un
sorriso: avevano appena deciso che sulle questioni davvero
importanti i loro sposi da quel momento avrebbero sempre dovuto
chiedere il loro permesso.
Era stata Donna
a convincerla,
adducendo come prova che lei già pretendeva niente di meno
dal suo focoso e
imprudente marito, il conte cadetto Etienne de Sancerre.
Ed
era persino pronta a giurare che anche Madame
Jodie si comportava allo stesso
modo con Monsieur Daniel: nel mio mondo comandano le donne in famiglia!,
la istigava l’americana e Isabeau tutte le volte non poteva
trattenersi dal
ridere.
“Fosse
davvero il torneo! Ma no, non
voglio farti preoccupare mai più, te l'ho giurato, no?
Piuttosto dobbiamo dire
a Daniel e Donna una certa cosa... “,
la
fanciulla intuì il resto e annuì seria.
“Ehi,
così mi spaventate voi due!“ cercò
di metterla sul ridere Daniel, “se è un gioco,
almeno fatemi indovinare vi
prego... si tratta di un altro bambino?“
Ian e Isabeau
rimasero in silenzioso
diniego.
“Allora...
oh cielo!“ lo interruppe più
preoccupata Donna, “Dovete confessarmi qualcosa che riguarda
Etienne, cosa ha
combinato stavolta, si tratta di lui, vero?”
Ian non
sopportava più di tenere
dentro quel peso e non trovò che poche fredde parole per
raccontare a tutti
quello che aveva promesso a Ponthieu.
“Porto
Isabeau da noi... è
il patto che ho dovuto stringere con
Guillaume in cambio del suo perdono“. Silenzio.
Donna lo
guardò senza intendere, ciò
che voleva farle capire Ian era ancora al di fuori dalla sua portata.
“Non
capisco, da noi… dove,
esattamente?” sentì chiedere dalla voce di Daniel,
mentre lo vedeva già
sbiancare, intuendo il peggio.
Ian non sapeva
come ripeterlo senza
spaventarli a morte.
“La
devo portare nel nostro mondo, Daniel.
Guillaume l'ha posto come condizione al suo perdono ed io…
“ continuò
pur accorgendosi del muto stupore di
entrambi.
“...Io,
vorrei tanto che non esistessero più
ombre o segreti tra tutti noi, sento che è stato quanto di
più sbagliato al
mondo vivere così e so che a causa di questo ho rischiato di
perdere tutto…
perfino Isabeau”, lei gli strinse con forza la mano nella sua.
“E’
il solo modo affinché Guillaume mi possa
degnare della stessa fiducia e dell’affetto di prima. Io so
di doverglielo,
Daniel, non guardarmi così... “Ian
esitò un attimo prima di continuare, perché
ciò che stava per dire lo ripugnava.
“Ma so
anche che è impossibile. Che
Hyperversum non lo permetterà. So allora che
dovrò mentire, ingannare,
raggirare chi mi ha concesso tutto questo, ordire nuovi espedienti e
sotterfugi…”
Isabeau lo guardò sconvolta, sorpresa lei stessa da quelle
parole, scuotendo il
capo in segno di diniego e incredulità.
“Amore,
io non so come portarti nel
mio mondo!” scoppiò infine Ian.
“Dovremmo
mentire ancora?” domandò
con una voce così sottile che lei stessa poteva udire a
stento, “e Marc e
Michel? Cosa sarà dei nostri figli?”
“Li
rapiremo, mi inventerò qualcosa!
E poi fuggiremo in Inghilterra con una nave prima che Guillaume ci
scopra, andremo
nel feudo di Martewall. Lui ci ospiterà.”
Ian ascoltava le
sue parole come se
non fosse davvero lui a pronunciale, senza smettere di chiedersi
quanto, del
ragazzo che studiava storia all’università, fosse
rimasto in lui dopo gli
orrori che aveva vissuto nel Medioevo.
“Isabeau,
mio tesoro, so che non sarò più
degno del titolo che mi ha concesso Guillaume, so che non
sarò più nemmeno
degno del tuo amore… espierò ogni secondo della
mia vita il torto che sono
costretto a fargli, ma ti prego, ti scongiuro, perdonami! Io non posso
vivere
senza di te! Non posso vivere senza di te e i nostri figli!”
Isabeau
scrutò il marito ancora
qualche istante in silenzio, col petto che sussultava visibilmente in
ampi e
affannosi respiri.
“Moi
non plus, je peux vivre sans toi” riuscì
infine a sillabare flebilmente la
ragazza, mentre si aggrappava più forte che poteva al petto
di Ian. Daniel e
Donna osservavano la scena attoniti, in un mutismo irreale.
Finché
una voce frantumò quel
silenzio.
“Voi
due, sciagurati, non farete
nulla di tutto questo.”
***
Tutti si
voltarono, sorpresi, verso la
voce che aveva parlato.
A Ian
bastò osservare per un istante
quegli occhi colmi di rimprovero, per rendersi conto di quanto le sue
disperate
parole di prima l’avessero deluso.
Daniel
ricambiò il suo sguardo con
decisione e continuò altrettanto aspramente:
“Chi
credi di essere diventato Signor
Conte? Credi davvero di poter recitare la parte del Falco
d’argento ovunque?
Credi davvero di essere l’astuto signore che orchestra
stratagemmi sul campo di
battaglia, a corte o in famiglia con la stessa disinvoltura? Parli di
rapire
quei due bambini e scappare con tua moglie come fosse la cosa
più naturale del mondo…”
“Sono
i miei figli, Daniel! Cosa ne
puoi sapere tu? Cosa puoi saperne di cosa è giusto o non
è giusto fare qui, in
questo mondo? Tu non sai proprio niente!”
“Cosa
ne posso sapere io? Lascia che
ti spieghi una cosa allora!” si arrabbiò Daniel,
“Non sono più il ragazzino che
dovevi solo proteggere e difendere dalla sua ingenuità e
stupidità!” Ian era
stato sempre l’amico e l’esempio a cui ispirarsi e
lo faceva infuriare sentirlo
parlare così.
“E poi
è così che vuoi continuare a
vivere? Tra inganni e astuzie, tra imbrogli e segreti? Scappando e
guardandoti
le spalle per tutta la vita?”
Daniel attese
che le sue dure parole
andassero a segno, quindi riprese: “Io… Io non
saprò mai ringraziarti
abbastanza per quello che hai fatto per me, per Jodie e per Martin!
Credi forse
che nel presente non mi manchi l’amico che consideravo il mio
fratello maggiore?
E tu, stupido conte, se proprio vuoi saperlo… sei il
migliore finto fratello maggiore
che potessi mai avere…”
Ian distolse lo
sguardo dall’amico, disarmato
dalla sincerità delle sue parole e senza sapere cosa
aggiungere.
“Cosa
credi? Ho passato questi mesi a
cercare di scoprire come permetterti di vivere felice con Isabeau e i
tuoi
figli! Pensavo che l’unico posto dove avreste potuto vivere
insieme sarebbe
stato da noi, nel presente… e prima di partire ho scoperto
come fare.”
Ian gli
ricambiò una occhiata
incredula.
“Sì, possiamo portare Isabeau con noi
per permetterle di
vedere il nostro mondo” gli confermò ancora
l’amico.
“Dici
sul serio? E come diavolo hai fatto?
Credevo fosse impossibile!”
“I
dettagli a dopo, per ora abbi
fiducia in me, se ne hai ancora nel tuo vecchio
amico…”
“Daniel…
non ti sei mai arreso
all’idea che restassi qui… ti ho accusato di
questo come fosse una colpa in
passato e adesso non so nemmeno come ringraziarti e chiederti scusa. Ma
forse
faccio ancora in tempo a dirti che anche tu sei l’amico
migliore che un uomo
possa sperare di avere al suo fianco… in qualunque epoca si
trovi.”
Daniel si
avvicinò per
allungargli una pacca sulla spalla. “Ok, ora basta con queste
smancerie”
sorrise “ma sono contento che la pensiamo ancora allo stesso
modo.”
Ian tuttavia
restò serio.
“Daniel c‘è un’altra questione
che dobbiamo discutere adesso, Guillaume mi ha
chiesto un’altra cosa, ancora più
impossibile…”
Il ragazzo
riprese
fiato e raccontò a Daniel e Donna cosa aveva preteso il
conte.
“Humm…
qualcosa che
possa provare che quel che gli hai raccontato non è una
menzogna, qualcosa che
possa testimoniare che il nostro
mondo esiste…” considerò ad alta voce
Daniel, “mi stai dicendo che dovremmo trovare
nel presente un oggetto che significhi qualcosa anche per Guillaume e
portarlo
indietro nel XIII secolo?”
“Purtroppo
è quello che
lui ha preteso.”
“Bene,
credo non ci sia
alcun problema.” Asserì il ragazzo sogghignando
con aria soddisfatta.
Tutti lo
guardarono
sconvolti. “Daniel non ti devo certo ricordare che tutte le
volte che abbiamo
viaggiato con Hyperversum, non ci ha concesso di portare nulla con noi,
né i
vestiti, né le armi, niente.”
“Perché
ognuno di quegli
oggetti non apparteneva all’epoca in cui ci spostavamo!
Hyperversum, per quanto
possa apparire inverosimile, non lascia mai nulla al caso. Considera
scrupolosamente ogni dettaglio, dalla lingua
all’abbigliamento… nella sua
logica ineccepibile non consente a nessun oggetto del nostro mondo di
essere
trasportato nel medioevo e viceversa…” Daniel fece
una breve pausa, quindi
riprese con un ghigno sulle labbra.
“Ma se
ben ricordo ce
n’è proprio uno, a te e a Ponthieu molto caro, che
appartiene ad entrambe le epoche e
forse in questo
caso il gioco acconsentirebbe a trasportarlo con noi… e si
dà il caso che
sappia anche dove si trovi. Non resta che provare.”
|
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Capitolo 4 *** Capitolo 4 ***
Chateau
de Chatel-Argent , France. Ai giorni nostri.
Opzioni
di politica del clima per le città a bassa emissione
di carbonio: promesse, rischi e necessità di politiche a
più livelli. Geeta Kakde
decise che tra gli
eventi secondari all’ordine del giorno, avrebbe scelto
proprio quella
conferenza.
Il meeting era
alle
10:30, aveva quindi un paio d’ore per scattare tutte le foto
che desiderava al
castello e soprattutto per visitare il grande salone adibito a museo
dei
manufatti medievali, un periodo storico che fin dai tempi degli studi
alla
University of Cambridge l’aveva sempre affascinata, come
l’Europa di quei
secoli.
Volse le spalle
all’ingresso del torrione, dove erano disposti i pannelli con
le indicazioni
relative agli eventi del giorno e si incamminò nella
direzione opposta per
alcuni passi. Quando si voltò nuovamente verso
l’imponente torre centrale, il
suo naso e la sua fedele Nikon Coolpix erano puntati
all’insù.
Osservare
Chatel-Argent
da così vicino, con le enormi pietre spesse anche due o tre
metri, di un
argento ormai brunito dai secoli, faceva immaginare a Geeta un mondo
misterioso
fatto di battaglie e di assedi, avvenuti in quel luogo di sanguinose
contese
tra gli alleati di Francia e Inghilterra.
Con
l’immaginazione
poteva fantasticare di arcieri nascosti dietro le merlature sulla
sommità delle
torri, di camminamenti di ronda con feritoie e caditoie attraverso i
quali soldati
dall’armatura scintillante sorvegliavano i territori
circostanti.
Piazzandosi
diligentemente
di spalle al sole, immortalò da ogni posizione le torri,
adoperando lo zoom per
inquadrare da vicino le antiche merlature.
Secoli fa, come
Geeta
si figurava, su ogni torre svettavano i vessilli del signore del
castello.
Adesso ondeggiavano al vento le bandiere con i colori delle Nazione
Unite, le
dodici stelle dorate in campo blu, in onore dell’evento
mondiale sul clima che
Chatel Argent ospitava in quei giorni. Lei era invitata a presiedere
quel
congresso annuale in qualità di sottosegretario al Ministero
dell’Ambiente
indiano.
Ciò
che la incantava
maggiormente era il mastio, o torrione, che svettava più
alto di ogni cosa. Era
il cuore della cittadella, la torre più solida e imponente,
alta oltre sedici
metri. Ospitava un tempo la grande sala del banchetto e dei
ricevimenti,
insieme alle stanze private del signore. La costruzione originaria, che
risaliva intorno alla fine del XII secolo, era l’unica
dell’intero castello ancora
parzialmente intatta.
Spostò
quindi il suo
interesse dalla parte opposta, esaminando la cinta muraria
più interna, ancora
abbozzata, alla ricerca di una inquadratura suggestiva. Secoli addietro
quelle
mura avevano avuto il compito di proteggere il mastio insieme al nucleo
abitato
che comprendeva il palazzo del signore e la sua famiglia, le abitazioni
dei
domestici e dei soldati, la cappella, i magazzini e i servizi comuni.
Quasi tutti
questi fabbricati
erano stati ristrutturati nel corso dei secoli e riconvertiti di
recente,
cercando di salvaguardare la facciata esterna delle costruzioni, in
lussuosi
alloggi riservati agli ospiti del castello, oppure in ristoranti, in un
parcheggio
coperto e nell’immancabile spa.
Più
avanti ancora,
oltre l’ampio cancello rinascimentale dove un tempo era
collocato il barbacane,
come se le inferriate del cancello fossero in realtà le ante
di uno scrigno, si
schiusero davanti a lei i maestosi giardini di Chatel-Argent.
Erano introdotti
da un
sontuoso viale di platani, ombreggiato e fresco, e mentre Geeta li
immortalava
con la Nikon, la sua fantasia li popolava di sfarzose carrozze,
cavalieri in
sella alle loro candide cavalcature, dame dall’abbigliamento
eccentrico, scudieri,
paggi e ancelle.
I giardini,
suddivisi
in due dall’asse del vialetto di platani, erano articolati su
due temi diversi:
alla sua sinistra, Geeta fotografò entusiasta il giardino
labirinto composto da
siepi dalle forme più inverosimili: a forma di fate, orchi,
folletti, draghi e
altri motivi presi a prestito della foresta incantata. Sulla destra,
invece, si
poteva ammirare la precisa geometria del giardino ornamentale di bossi
topiati.
L'amore era il
motivo
dominante di quest’ultimo ambiente: sapientemente modellate
nei bossi intagliati,
ricorrevano le forme delle lame di pugnale che simboleggiano l'amore
tragico,
le corna e i rami d'albero che alludevano all'amore dissoluto e infine
i cuori
arrotondati che ricordavano l'amore eterno. Il funzionario del governo
indiano
si lasciò trasportare per molti minuti nei dedali verde cupo
delle siepi di
bosso, cercando di imprimere nella propria memoria e in quella digitale
della
Nikon, quella vista incantata.
Solo quando fu
sicura
di avere esaurito la prima memory card, la donna decise che era giunto
il momento
di esplorare gli interni. Ripercorse il vialetto alberato,
oltrepassò il
cancello e si diresse, scansando i cartelli con le indicazioni sulle
conferenze, verso l’ampia scalinata che consentiva
l’accesso al cuore del
castello.
Impiegò
qualche istante
ad abituarsi alla tenue luce che illuminava l’ambiente,
mentre una piacevole e
frizzante sensazione di fresco l’intirizziva leggermente.
Al
piano si trovavano le stanze dove un tempo
risiedevano i famigli, tutte dotate di grandi camini con la canna
fumaria in
comune, ora utilizzate invece dai domestici per vari scopi.
All’interno della
stanza centrale, l’unica di qualche interesse, Geeta
fotografò le scale di
accesso alle antiche carceri sottostanti ed un pozzo di acqua sorgiva.
Sotto il
pavimento
della stessa sala, così faceva sapere un apposito cartello,
era situata la
neviera. L’insegna spiegava che si trattava di un ambiente
sotterraneo,
interamente rivestito in legno, in modo da ottenere un discreto
isolamento
termico, dove in origine veniva immagazzinata la neve, raccolta negli
inverni
freddi e utilizzata per conservare le vivande e alcuni cibi al fresco.
Geeta,
delusa, di non vedere un accesso alla neviera, non si
scoraggiò e fotografò il
cartello.
Le varie sale
dell’ala
meridionale un tempo erano utilizzate come semplici magazzini, come
l’immancabile pannello segnalava, ma adesso ciò
che Geeta poteva vedere erano
sale da svago e un caratteristico lounge bar, ricavato nella roccia,
dalle numerose
nicchie dove erano incassate finte lumiere ad olio, alimentate ora
invece da
faretti alogeni.
L’ultimo
ambiente di
quest’ala del castello era una grande cucina e tuttora ne
conservava il forno. Un’ammiccante
freccia illuminata invitava a scattare l’ennesima foto alla
scalinata nascosta che
emergeva dal buio: esisteva in questa stanza una scala segreta, che
conduceva
al piano superiore, quello nobiliare.
Dalla
cucina comunque si usciva nello
splendido cortile interno: evidentemente conservato e vezzeggiato dalle
stesse
mani che provvedevano ai giardini, già intravvedeva un
trionfo di colori.
Non appena fu
all’aperto, i sensi furono storditi da un profumo intenso e
inebriante: una
varietà infinita di rose di ogni forma e colore adornava il
cortile. I
giardinieri avevano dipinto con le rose un angolo di Paradiso.
Dopo che ebbe
scrupolosamente passato in rassegna ogni angolo del cortile, Geeta fu
costretta
a controllare quanti scatti le restavano ancora sulla seconda memory
card.
Scoprì
che la stanza attigua alla cucina, dove si trovava in precedenza, dava
accesso
alle cisterne olearie, grandi ambienti sotterranei che potevano
contenere circa
cinquemila quintali d’olio. Nonostante l’opportuno
pannello che informava della
loro capacità, Geeta ritenne di non dovere catturare un
ricordo di
quell’ambiente.
Ritornò
invece
nell’atrio da dove era possibile accedere, salendo le scale
illuminate da
sottili strisce di led bianchi incassate sotto ogni gradino, alla
loggia, la
cui copertura era impostata su una doppia fila di colonne, posta
esattamente
sulle cantine.
Oltre la rampa
che un
tempo portava agli appartamenti nobiliari, come ben sapeva, si
trovavano ora alcune
delle sale conferenza, attrezzate con la più moderna
tecnologia informatica. Il
tempo per controllare l’orologio e decise che aveva a
disposizione un’altra ora
abbondante.
Continuando a
salire,
sulla destra, dopo aver attraversato un piccolo ambiente anonimo, si
aveva accesso
ad una anticamera, dotata di un grande e favoloso camino. Probabilmente
restaurato nei secoli successivi, finemente istoriato con una
variazione sul
tema della caccia, meritò diverse fotografie come del resto
le splendide
decorazioni sulle porte e su ciò che rimaneva degli enormi
affreschi che
coprivano quasi interamente le pareti.
Attraversò
il corridoio in cui si affacciavano
le sei ampie stanze da letto, ora adibite a sale conferenze per gli
eventi
secondari.
Dopo averlo
percorso
tutto, Geeta s’imbatté ancora nella scala segreta
che metteva in comunicazione
questo piano con quello inferiore esplorato in precedenza. Ripercorse
queste
stanze accedendo finalmente alla Gran Sala, detta sala a capriate
– così
informava un pannello – per
il
particolare tipo di copertura con travi lignee lasciate a vista.
Le pareti della
Gran Sala
erano interamente attraversate e decorate con stucchi raffiguranti
stemmi
araldici probabilmente restaurati, visto lo stato impeccabile con cui
si
presentavano all’obbiettivo della Nikon di Geeta.
Ogni angolo
tradiva la
magnificenza del suo passato e attraverso i ritratti e gli affreschi
era
possibile ricostruire, attraverso i secoli, la storia del castello.
Questo salone,
un tempo
adibito a sontuosi ricevimenti e grandi riunioni che avevano deciso le
sorti di
popoli e regioni, ospitava adesso il main
event della conferenza.
I consigli di
amministrazione di alcune società europee avevano discusso i
bilanci di fine
anno in questa sala, celebrando tra fiumi di champagne, i risultati
proiettati
sull’immenso monitor con pannelli OLED di ultima generazione.
All’occorrenza,
per fortunate coppie dalle ingenti disponibilità economiche,
poteva
trasformarsi nella sala cinematografica privata più
esclusiva. Gli sposini, che
avevano scelto il castello come meta del loro viaggio di nozze,
avrebbero
rivisto le immagini e i video del loro matrimonio su quello stesso
schermo,
godendo della cornice probabilmente più suggestiva al mondo.
Quello che Geeta
non
poteva immaginare, era che in quella stessa stanza, su quello stesso
schermo,
un giorno sarebbe stato rivelato il più sconvolgente, forse
il più importante, segreto
dell’intera storia dell’uomo.
In ogni caso il
funzionario indiano conosceva il salone già a memoria, dopo
aver trascorso
dentro sei ore in video conference il giorno prima, decise infine di
oltrepassarlo
e si trovò davanti un altro splendido e immenso stanzone,
probabilmente ciò che
era anticamente un soggiorno. Adesso era l’elegante
ristorante principale.
Non era ancora
riuscita
a trovare la stanza di maggior interesse per lei e per la sua macchina
digitale:
il museo medievale.
Raccolse
quindi dalla borsa la brochure del United
Nations Framework Convention on
Climate Change. Una vivace piantina del castello evidenziava
come raggiungere
le camere da letto degli ospiti e la spa, le sette sale conferenza che
aveva
appena oltrepassato, i quattro ristoranti a tema, i due lounge
bar…
“Eccolo
finalmente!”
l’ingresso del museo si trovava proprio lì, oltre
quella scalinata alla sua
destra. Il suo
abituale sorriso radioso
si stemperò poco dopo in una smorfia di disappunto, quando
sull’opuscolo lesse
che ”in quest’area è severamente vietato
fotografare i manufatti esposti”. Aveva
acquistato all’aeroporto una memory card aggiuntiva, credendo
di riempirla solo
con le foto del celebre museo!
Bertrand
LeClercq notò
subito la donna in tailleur pantalone beige, dalla carnagione scura e
dai
bellissimi occhi neri, incerta sulla soglia dell’ingresso del
salone. Credette
fosse l’occasione giusta per sfoderare il suo fascino.
“Bonjour Madame”
esordì emergendo dall’ombra e accennando un lieve
inchino di cortesia, nella convinzione che avrebbe impressionato
favorevolmente
le donne che approcciava a quel modo. “Vi prego, lasciate che
mi presenti: sono
il Curatore del Museé National du Moyen Âge di
Cluny”, dichiarò offrendole un
ricercato biglietto da visita, “se tutto ciò che
vi interessa è racchiuso in
questo oscuro salone, ma avete il legittimo timore ad entrarvi da sola,
permettetevi
di accompagnarvi nella visita e di annoiarvi con qualche erudito
commento”, le
sorrise porgendole il braccio.
Geeta, a
metà tra la
sorpresa e lo sconcerto, osservò l’uomo che
sembrava apparso dal nulla: aveva
un viso magro e affilato e i capelli neri lucidi erano raccolti
all’indietro in
una corta coda di cavallo. Era vestito con gusto straordinario: Geeta
avrebbe
scommesso che l’abito, su misura, era di una delle migliori
sartorie italiane e
le impeccabili calzature, invece, inglesi.
Dopo essersi
presentata
accettò l’invito e il braccio dell’uomo
e insieme entrarono nello stanzone.
L’ambiente era quasi in penombra, la moltitudine di faretti
illuminava soltanto
gli oggetti esposti dietro le vetrate. Geeta rabbrividì sia
per il fresco che
per il senso di inquietudine che quel luogo trasmetteva. Si
soffermò sulle
armature, esposte subito ai lati dell’ingresso: proprio sulla
destra dietro una
vetrina erano in bella mostra una cotta di maglia e la sua successiva
evoluzione,
l’usbergo.
L’osservò
con curiosità,
confrontando ciò che si era sempre figurata leggendo romanzi
sull’amor cortese,
con la realtà: sembrava davvero una lunga cappa fatta da
anelli di ferro intrecciati
a maglia. Non doveva essere agevole indossarne una, soprattutto doveva
essere
veramente pesante.
“I
cavalieri lo
indossavano sopra una tunica imbottita e proteggeva efficacemente dai
colpi
fendenti di un’arma da
taglio, non altrettanto dai colpi di
punta” spiegò LeClercq “e
questo qui sopra”, aggiunse indicando un flessibile copricapo
dalla vaga
somiglianza a un cappuccio composto di maglia di ferro,
“è invece il camaglio. Costruito
con la stessa tecnica dell’usbergo, proteggeva il capo e la
gola dei cavalieri
durante le battaglie”.
Poco
più avanti, dietro
il vetro, i faretti illuminavano una scintillante armatura a piastre,
mantenuta
in perfetto stato.
“Che
splendore, non
sembra affatto costruita così tanti secoli fa!”
esclamò Geeta entusiasta.
“Sei
secoli per la
precisione, Madame”
confermò l’uomo.
Geeta esaminava
ammirata
i particolari della corazza. Era montata sopra un manichino, coperto
quasi
interamente da piastre di metallo lucente, tranne le giunture dei
gomiti e dei
ginocchi, dove era visibile la foderatura in raso bordeaux che
rivestiva il
modello di plastica. Incuteva timore anche così.
La corazza
ricurva che
proteggeva il petto era decorata in rilievo con un disegno che
ricordava i
contorni di un falco con le ali spiegate.
Anche
l’elmo calato sul
volto riprendeva la stessa effige. Ai fianchi una spessa cintura
cingeva
l’armatura e reggeva, sulla destra, un pesante spadone con la
guardia, l’elsa e
il pomolo preziosamente istoriate. Sotto al bordo della corazza, una
cotta di
maglia arrivava fin dove iniziavano le piastre che avvolgevano le
gambe,
decorate anch’esse sopra e sotto il ginocchio da alcuni
rilievi che
raffiguravano le ali aperte stilizzate di un falco. Gli stivali
d’acciaio terminavano
con un puntone che a Geeta rammentò sorridendo le scarpe
décolleté a punta, dai
tacchi vertiginosi, che le donne europee sfoggiavano con disinvoltura
la sera. Era
indecisa su quale calzatura tra le due dovesse infine essere la
più scomoda.
Il suo
accompagnatore
intanto stava osservando: “come avrete notato, alle maglie di
metallo del basso
medioevo, furono gradualmente aggiunte piastre o dischi nel tentativo
di
proteggere le parti del corpo più esposte e
vulnerabili… La cosa vedo che vi fa
sorridere, Madame.”
Geeta sorpresa
nelle
sue considerazioni a occhi aperti, non poté non sorridere
ancora, come del
resto ogni volta che quel gentiluomo la chiamava signora
in francese.
LeClercq
scambiò la sua
espressione con l’invito lusingato ad andare avanti nelle sue
dotte spiegazioni.
“Fu già nel XIII secolo che le ginocchia furono
coperte con acciaio e due
dischi circolari furono applicati alle giunture delle braccia per
fornire
protezione in assetto da guerra. Il camaglio a protezione del capo si
evolse in
un grosso elmo: la parte posteriore fu infatti allungata per coprire il
retro
del collo e i lati della testa. Ulteriori piastre di acciaio furono poi
sviluppate per proteggere stinchi, piedi, gola e il torace. Intorno al
1400 molte
parti della maglia furono coperte da queste piastre protettive.
E’ tutto così
affascinante, non trovate?
“Oh
sì, il 1400… i
tornei, l’amor cortese, i cavalieri… E voi siete
un connaisseur straordinario e
appassionato, sbaglio forse?”
“Per
me, la storia è
più di una passione accademica, Madame.
E’ la mia vita, la mia sposa, la mia
amante…”
Un
fanatico di storia medievale, tradusse
mentalmente Geeta.
“Ebbene,
oggi dev’essere il vostro giorno
fortunato!” affermava intanto l’uomo con enfasi.
“Qualche mese fa il museo di
cui sono il curatore ha concesso a Chatel-Argent per il periodo di un
anno,
l’onore di ospitare uno dei manufatti medievali
più preziosi mai rinvenuto: il
manoscritto miniato originale su cui è incisa la storia del
casato di questo
castello, dal basso medioevo fino al XVIII secolo. Solo una persona al
mondo
avrebbe potuto mostrarvelo e perdonatemi l’orgoglio, Madame, quella persona è
proprio qui dinanzi a voi!”
Sempre
sottobraccio, la
trascinò letteralmente verso la vetrina principale.
LeClercq si
schiarì la
voce: “Eccolo” esclamò con ostentata
fierezza mentre disinseriva l’allarme
collegato alle forze di pubblica sicurezza, digitando un codice sul
tastierino
numerico che sembrava apparso dal nulla. Geeta, intuì la
straordinaria importanza
storica di quel manufatto, probabilmente unico nel suo genere, ma
più di questo
era affascinata dalle storie che doveva contenere: le vite, le gesta
eroiche,
le guerre, gli amori di quei nobili che avevano vissuto da protagonisti
quell’epoca così seducente.
Sempre
apparentemente
dal nulla, l’uomo porse alla ragazza un paio di guanti di
lattice, “Se volete
toccarlo usate questi”. Senza sollevarlo dal piedistallo
dov’era collocato, l’uomo
stava decantando le qualità dell’antico codice
miniato: “le pagine sono di una
pergamena particolare, pelle di vitellino da latte, calcinata, depilata
ed
essiccata sotto tensione, una chicca anche per
l’epoca” ammiccò LeClercq.
“Posso
aprirlo? Vi
prego, solo una pagina, a caso… sono così curiosa
di sapere quali vite, quali
battaglie, quali amori potrà rivelare la pagina che
sceglierò!” lo supplicò
Geeta, “voi la tradurrete per me, non è vero? Non
metto in dubbio che un uomo
della vostra cultura sappia leggere il latino non meno agevolmente
della
propria lingua madre…” cinguettò lei.
“E va
bene, Madame, chi sono io per dir
di no alla
curiosità di una donna del vostro fascino?”
Subito
dopo, indossando i sottili guanti di
lattice, Geeta aprì il gigantesco manoscritto, scegliendo
una pagina a caso. Vi
scorse splendide e preziose miniature dipinte a mano da mani
infinitamente abili
e pazienti. Alcune raffiguravano i volti giovanissimi di un uomo e di
una
donna.
Geeta
esibì uno dei
suoi sorrisi più accattivanti, mettendo in risalto i denti
bianchissimi e nello
stesso istante in cui si ravviò i lunghi e setosi capelli
neri, chiese
implorante:
“Che
ne dite di una
foto? Un’unica foto che mi ricordi di voi… magari
a fianco di questo codice antico?”
“Madame, ciò che mi chiedete
è proibito...”
“Proibito,
dite?
Esclamò con finto stupore. “Oh, ma che volete
farci, questo non fa che accrescere
il desiderio di questa foto!” civettò la ragazza.
Quando LeClercq
si atteggiò
in posa per farsi immortalare accanto al manoscritto, Geeta
puntò l’obiettivo
nella sua direzione, preoccupandosi però di zoomare sul
libro finché sul display
la figura dell’uomo non scomparve del tutto, lasciando la
scena alle sole pagine
aperte del codice. Solo allora scattò due foto in rapida
successione.
“Sono
presentabile?” volle subito
sapere lui, mentre Geeta controllava il risultato sul display digitale.
“Certamente,
ma… cosa fate ancora lì
impalato!? Leggetemi cosa c’è scritto! Vi prego,
muoio dalla voglia di saperlo!”
LeClercq si
accigliò un poco e iniziò
a tradurre la prima delle due pagine aperte.
“In
queste righe narreremo per sommi
capi la vita e le indimenticate gesta di Thierry conte di Ponthieu,
figlio di
Francois e Caroline, ai tempi della grande guerra che
durò….”
“Oh
cielo!” sospirò all’improvviso
Geeta guardando l’orologio, “sono quasi le dieci e
trenta, devo scappare! Farò
tardi alla mia conferenza!”
***
Ty era ancora
una volta in ritardo
mentre salutava alla reception la biondina assorta nella lettura di
Vanity Fair
e si infilava direttamente negli spogliatoi, mentre ancora in corsa si
era
levato il giubbino e stava già facendo scivolare la felpa da
sopra le spalle.
Frequentava
quella palestra da quasi
sei mesi, all’inizio per pura curiosità, poi
questa si era trasformata in una
vera passione. Gettò sulla panca il borsone blu dove
campeggiava in bianco la
scritta Ottawa Medieval Fightclub.
Sotto, più in piccolo la spiegazione di quel nome
altisonante: Sword Training &
Medieval Sword
Techniques.
Se un corso di
Orienteering l’aveva
salvato nel bosco vicino a Morges, dalla trappola ordita dal barone di
Gant, non
era sicuro a cosa sarebbe mai servito un corso di scherma e di tecniche
di
spada medievale, ma tanto bastava per ricordagli i brividi
dell’ultima incredibile
avventura nel XIII secolo.
Il Maestro
d’arme, attendeva il suo
miglior allievo da solo nell’ampio salone riservato
all’addestramento, con lo
sguardo cupo: “Thierry, la puntualità non
è davvero il tuo forte!” lo
rimproverò con le consuete parole, “se tu fossi
stato al servizio di un vero
cavaliere, avresti imparato a suon di frustate cosa significa
rispettare gli
orari!”
Se
solo il maestro sapesse la verità!
Sogghignò mentalmente Ty, se solo il maestro sapesse
che lui aveva visto un vero cavaliere, e che cavaliere! Lui conosceva
il Falco
d’Argento. Lui, discendeva
in qualche
modo direttamente da lui.
Aveva
già indossato le protezioni
obbligatorie per ogni allenamento di scherma del suo livello. In sei
mesi,
frequentando assiduamente la palestra e esibendo un naturale talento
per la
scherma aveva appreso oltre quaranta tecniche di fendenti diversi dei
cinquantadue conosciuti e tutte le tecniche di guardia.
Si
avvicinò alla rastrelliera di
legno per scegliere l’arma. Una di fianco all’altra
facevano bella mostra di sé
le riproduzioni perfette delle spade utilizzate dal basso
all’alto medioevo.
Dopo averle provate tutte, Ty aveva scelto di affinare maggiormente la
scherma
con la spada lunga o a una mano e mezza, detta bastarda, la spada
maggiormente
in uso nel medio-alto medioevo.
La
sfilò dalla sua sede e soppesò il
ferro: l’impugnatura allungata permetteva la presa piena di
una mano costantemente
sull'elsa e quella parziale della seconda mano per stabilizzare,
indirizzare e
controllare il ferro.
L’elsa
terminava con un pomolo finemente
istoriato di forma trapezoidale, che in certi frangenti poteva essere
usato
anch’esso, come il maestro gli aveva spiegato, come arma di
offesa.
La guardia della
spada, che aveva il
compito di offrire una qualche protezione alle mani che stringevano
l’elsa dai
colpi che potevano scivolare sulla lama, era una sezione di metallo
orizzontale
e formava una croce con la spada, delimitando l’impugnatura
dalla lama.
La lama, come Ty
aveva imparato nelle
prime lezioni, era a doppio filo ed era divisa in tre sezioni, dalla
punta
all’elsa: il debole, il medio e il forte. Il debole era
l’unico segmento che
poteva provocare danni letali all’avversario e doveva avere
sia il filo diritto
che il filo rovescio sempre
affilatissimi, anche se durante le sue lezioni il doppio filo era stato
accuratamente smussato. Il compito del medio consisteva nelle prese di ferro, ovvero il complesso di
tecniche atte a imprigionare l’arma nemica e ridurre
l’avversario
all’impotenza, oltre ad essere di vitale importanza nelle
tecniche di gioco
stretto. Il forte, il segmento più largo a contatto con la
guardia, era usato
invece per parare i colpi vibrati dal nemico.
Fece per
avvicinarsi al maestro,
valutando la posta iniziale da assumere nel duello, quando –
imprecando tra sé
– si rese conto che aveva scordato ancora una volta di
stabilire la misura.
Come il maestro
gli aveva ripetuto
decine di volte, prima di dare inizio allo scontro, era fondamentale
misurare
la distanza dall’avversario: tecnica e misura erano variabili
strettamente
dipendenti e inscindibili.
Avrebbe
adoperato le tecniche di
misura del gioco largo per gli scontri sulla media distanza, oppure
tecniche di
misura a gioco stretto per il corpo a corpo. Chiese dunque
diligentemente al
maestro quale tipo di allenamento avrebbero approfondito oggi.
Sapeva che
doveva migliorare nelle
tecniche portate a distanza ravvicinata e infatti il maestro
acconsentì
all’addestramento a gioco stretto.
Scelse la
posizione di guardia che
preferiva, la posta iniziale più sfacciata e provocatoria.
Ben piantato sulle
gambe appena divaricate, portò la mano sinistra aperta sul
petto e alzò il
braccio destro che stringeva l’arma fin sopra il capo, col
gomito piegato ad
angolo retto, in modo che la lama si trovasse quasi orizzontale sopra
la sua
testa, con la punta rivolta contro l’avversario esattamente
come l’aculeo
letale di uno scorpione.
Il Maestro, con
un ghigno feroce e
soddisfatto, replicò la stessa postura del giovane allievo,
e poco dopo,
urlando selvaggiamente, entrambi si lanciarono all’attacco,
in un cozzare di
metallo contro metallo.
***
Ian era
incredulo e sconcertato.
Donna guardava ora l’uno ora l’altro mentre
parlavano e bisticciavano,
comprendendo la metà di tutto e quindi senza riuscire a
capire realmente nulla.
Isabeau, non osava ancora intervenire in quella discussione dove tutti
parlavano di lei come se non fosse nemmeno presente, ma il cipiglio
cupo della
sua espressione faceva ben intendere il suo stato d’animo.
“Ti
dico che non c’è nessun pericolo
a fare la prova con Isabeau! Proviamo almeno, cosa ti costa?”
“Dannazione
è di mia moglie che
stiamo parlando, Daniel! E se la tua geniale
intuizione…”, Ian sottolineò le
ultime parole disegnando con due dita di ogni mano un paio virgolette
sospese
nell’aria, “si rivelasse invece completamente
sbagliata?”
“Se mi
sono immaginato un film che
non esiste, non succederà nulla! Ma finché non
facciamo un tentativo, come
accidenti posso saperlo?”
“Di
grazia, chi mi spiega almeno cos’è
un film, Messieurs?”
alzò la voce
Isabeau all’improvviso, “Ho capito che devo fare
qualcosa se vogliamo essere
certi che l’idea di Monsieur
Daniel
funzioni… Bien, sebbene
nessuno di
voi abbia avuto la cortesia di chiedermelo, la mia risposta
è sì, io
accetto”, annunciò risoluta la
ragazza.
Ian e Daniel la
guardarono stupiti e
incerti per qualche secondo. Poi entrambi ripresero a parlare,
sovrapponendo esattamente
come prima le loro voci, ognuno fermo nelle proprie posizioni.
“CELA
SUFFIT!” scoppiò alla fine
Isabeau. “Ho detto che farò la prova,
adesso!”
Tutti cessarono
di parlare e Ian la
guardò sconcertato, mentre Daniel e soprattutto Donna
cercavano di trattenersi
dal ridacchiare. Non aveva mai visto la sua angelica moglie prendere
posizione
in quel modo in una discussione.
“Oh
sì, non guardarmi così, Jean!”
chiarì subito la giovane “Madame
Donna mi ha spiegato molto bene come devono comportarsi le donne nel
vostro
mondo per farsi rispettare, quindi non fare quella faccia stupita,
adesso!”.
Ian la
esaminò ancora più sconvolto
da quella rivelazione. “Cosa credi, da quando tu e Guillaume
avete deciso che
dovrò andare nel tuo mondo… mi sto allenando in
segreto nelle vostre abitudini!”
Dopo qualche istante di teatrale silenzio, Isabeau si sciolse in una
risata argentina
e contagiosa.
“Ad
ogni modo è inutile stare qui a
parlarne all’infinito”, proseguì infine
facendosi seria, “se una prova
dev’essere fatta, ebbene, facciamola! N’est
pas, Messieurs?”
Ian alla fine si
vide sconfitto e a
malincuore dovette accettare di fare il tentativo di cui parlava
Daniel. Ma
Isabeau non aveva finito di stupirlo quel giorno poiché
aggiunse con genuina
naturalezza:
“E
adesso, Monsieur Daniel, ditemi
finalmente cos’è un film”.
Mentre scandiva l’ultima parola, sollevò le
braccia e
muovendo rapidamente due dita di ogni mano, disegnò
nell’aria un paio di
virgolette. Tutti scoppiarono in una nuova risata che
stemperò definitivamente
la tensione per i pericoli che dovevano ancora affrontare.
***
Daniel
spiegò agli altri ragazzi
l’ultimo fondamentale dettaglio del suo piano: prima di
raggiungere Ian aveva
controllato che nello stesso giorno, al castello di Chatel Argent nel
presente,
era in corso la Conferenza Mondiale delle Nazioni Unite sui Cambiamenti
Climatici.
Dalle
parole che Isabeau avrebbe udito di là, non
appena le avessero fatto sfiorare la mela rossa del menù del
gioco lasciandola
in sospeso tra il presente e il passato, avrebbero avuto la conferma
sulla
destinazione della ragazza quando avrebbero chiuso la partita nel XIII
secolo.
Li
informò anche della parziale
ristrutturazione del castello e che adesso le camere da letto nobiliari
del
torrione erano state convertite in altrettante sale conferenza.
“Stanze per
riunioni”, chiarì frettolosamente a Isabeau che lo
guardava con un’espressione
interrogativa.
Secondo Daniel,
Isabeau sarebbe
apparsa nel presente esattamente nello stesso luogo da cui fosse
partita, pertanto
dovevano trovare un posto dove nessuno avrebbe potuto vederla apparire
dal
nulla.
“La
scalinata segreta del torrione” affermarono
contemporaneamente Ian e la ragazza, “lì Isabeau
potrà ascoltare la vicina sala
conferenza senza essere vista” aggiunse Ian.
La giovane
francese non perse tempo,
uscì dalla stanza da letto e raggiunse in fondo al corridoio
la scala segreta
che metteva in comunicazione il loro piano con quello inferiore.
“Ici
nous sommes, enfin…” sospirò
con un filo di voce. “Adesso mostratemi cosa
devo fare…”
“Help!”
al comando vocale di Daniel
apparve istantaneamente la mela rossa fosforescente, l’icona
di Hyperversum,
che fluttuava pigramente a mezz’aria in attesa di ulteriori
comandi.
Isabeau e
persino Donna, come per un
riflesso condizionato, indietreggiarono di un passo non appena
l’icona luminosa
prese forma dal nulla.
Isabeau
l’aveva vista un paio di
volte, sempre in occasioni tragiche ed era ancora terrorizzata da quel
prodigio
per lei inspiegabile.
Ian si
avvicinò alla ragazza e le
prese la mano, serrandola nella sua, nel tentativo di infonderle
coraggio.
Daniel stava
già pronunciando le
parole per poter attivare l’utenza della ragazza.
All’improvviso, sotto l’icona
della mela, apparve il rettangolo luminoso con le scritte:
CONTROLLO PARTITA
Nome utente:
daniel.freeland
Codice utente: _
La linea
orizzontale del cursore
lampeggiava proprio al termine dell’ultima riga. Daniel
confermò la password e
all’interno dello stesso rettangolo luminescente, il gioco
mostrò le utenze che
era possibile attivare in quel momento: Ian, Donna e Isabeau.
Lo stesso Ian
osservava sconcertato,
chiedendosi come fosse possibile quel prodigio.
Daniel
cercò con una rapida occhiata l’amico
e il ragazzo annuì, era tempo di fare il tentativo. Ian
posò quindi lo sguardo
su Isabeau. Lei lo stava fissando con occhi grandi e acquosi.
Non era mai
stata più bella di
allora.
Come in ogni
altro momento in cui
avesse temuto di perderla.
“Ti
fidi di me?” le chiese
semplicemente.
“Mi
fido di te”.
Lei chiuse gli
occhi. “Fa’ ciò che
devi”.
Ian la condusse
per mano davanti alla
mela fosforescente. Cercò con lo sguardo ancora una volta
Daniel per ottenere
l’ultimo cenno di approvazione. Quindi prese delicatamente il
polso della
ragazza e lo avvicinò all’icona. Ancora pochi
centimetri e il pugno chiuso
della ragazza avrebbe toccato l’icona luminosa del gioco. Col
cuore che batteva
all’impazzata, mentre Isabeau teneva ancora gli occhi
risolutamente chiusi, mosse
il braccio quel tanto che bastava per farle sfiorare
l’immagine della mela
sospesa.
In quello stesso
istante, Isabeau strizzò
le palpebre chiuse che si contrassero come in un sogno agitato.
Attraverso le
dita che la stringevano, Ian sentì il braccio di lei
vibrare: per un secondo
tutto il suo corpo parve scosso da una scarica, poi tutto
tornò normale e
silenzioso.
“Amore?”
“Isabeau?”
chiamò Daniel.
“Isabeau?”
la cercò Donna.
Ian strinse
più forte il polso della
ragazza. “Stai bene? per l’amor di Dio, parlami!
Dì qualcosa!”
Le palpebre
tremolarono ancora sugli
occhi chiusi e poi anche la sua bocca sembrò sussultare,
come se volesse
parlare.
“Si…
sono lì” mormorò finalmente,
incespicando sulle parole.
“Grazie
al cielo non ti è successo
niente, Signore ti ringrazio!” esclamò Ian appena
rassicurato, “vedi qualcosa,
senti qualcosa?”
“Posso
udire le voci…” bisbigliò
appena più sicura di prima, “mi sento strana, come
se i miei sensi fossero
sdoppiati… Jean, tienimi ti prego!” aggiunse poi
con una nota della voce più acuta
e angosciata.
“Cosa…
non ti ho lasciata un attimo,
ti sto ancora tenendo la mano, amore!”
“Non
può sentire il contatto con te,
calmati Ian.. è di là adesso”
spiegò Daniel.
“Parlano
in inglese…. Non conosco
tutte le parole, alcune non hanno… senso… ma, un
momento, che strano… eppure mi
sembra di ricordarle, le capisco….”
“Hyperversum
non si fa mancare
niente, nemmeno l’aggiornamento del vocabolario, ricordi
Ian?”
“Riesci
a capire se sei veramente a
Chatel Argent?”
“La
scalinata sembra la stessa… credo
proprio di non essermi mossa da qui…. Soltanto le voci sono
diverse”
“Isabeau
mi senti? Concentrati solo
sulle parole che senti di là, riesci a ripeterle?”
volle sapere Donna, “non
importa se per te hanno un senso oppure no.”
“Ci
provo… c’è una voce femminile
adesso… sta dicendo che qualcosa che lei rappresenta e che
chiama india, non appoggerà
incondizionatamente le
politiche sul cambiamento climatico a meno che anche… la
cina… non farà lo
stesso…”
“Mio
Dio! Mio Dio! Ce l’abbiamo fatta,
Daniel!”
“Ce
l’abbiamo fatta” confermò il
ragazzo.
***
In quello stesso
istante, ma circa
otto secoli più avanti, Geeta Kakde aveva appena finito di
ripetere al
segretario delle Nazioni Unite che moderava la conferenza, quelle
stesse esatte
parole.
|
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Capitolo 5 *** Capitoli 5-13: riassunto ***
Tra
un capitolo e un altro, riassumerò per maggiore chiarezza
espositiva le parti della trama non ancora sviluppate o completate.
Capitoli 5-13
Nel pieno
svolgimento delle guerre tra Francia e Inghilterra,
Jeanne compie 13 anni ed è una ragazzina molto sveglia,
gentile con tutti e
caritatevole: nonostante la giovane età, visita e conforta i
malati e non era insolito
che offrisse il proprio giaciglio ai senzatetto per dormire lei stessa
per
terra, sotto la copertura del camino. La sua vita si
snodava nelle forme usuali delle ragazze di campagna di quel tempo: i
lavori
casalinghi, filare e cucire, si alternavano a quelli più
impegnativi, come
sorvegliare il gregge e custodire la mandria comunale. Nello stesso
periodo
stringe amicizia con Juliette, figlia di vicini pastori, di due anni
più grande
di lei.
Ian e
l’amico decidono di separarsi per un breve tempo, per
dar modo a Daniel di tornare nel presente e di pianificare insieme a
Jodie
tutto il necessario per il loro piano: avrebbero lanciato il gioco dal
castello
stesso, in modo che dopo il viaggio di ritorno si sarebbero ritrovati,
insieme
a Isabeau, nello stesso luogo: Chatel Argent, ai giorni nostri. Daniel
quando ritorna
a casa trova anche Ty: ora che sa ogni cosa sul Falco
d’Argento, sentendosi in
colpa per quello che era successo dopo che il conte l’aveva
visto sparire sotto
i suoi occhi, si sente obbligato anche lui a fare di tutto per
discolpare Ian.
Convince Daniel a portarlo con loro quando torneranno nel XIII secolo.
Si
terranno aggiornati via email e si daranno appuntamento per quando
tornare nel
medioevo, quindi fa ritorno in Canada. Nel frattempo, Ty fa
equitazione,
frequenta un corso di tecniche di spada medievale, qualsiasi cosa che
gli
ricordi la straordinaria avventura nel XIII secolo. Si spinge persino a
farsi
cancellare il tatuaggio dei Guns sull’avambraccio sinistro.
Occorrono molte
sedute e parecchi soldi per la rimozione al laser: quando
arriverà infine
giorno concordato con Daniel per ritrovarsi a Chatel Argent nel XIII
secolo al
posto del tatuaggio resterà ancora una macchia arrossata.
Daniel invece,
perfezionati tutti i preparativi e affidata la
piccola Alex ai nonni per la breve “vacanza in
Francia”, ritorna nel passato e
questa volta può portare indietro con sé Ian e
Isabeau, nel XXI secolo. Il loro
compito sarà quello di soddisfare le condizioni poste da
Guillaume. Gli amici
sanno adesso cosa occorre fare: dovranno riportare nel medioevo il
manoscritto
miniato originale con tutta la storia del casato di Ian,
l’oggetto che chiarirà
al di là di ogni dubbio a Guillaume che ciò che
Ian sostiene è la verità:
Daniel è convinto che Hyperversum non consente di portare
con sé gli oggetti
appartenenti ad una epoca diversa, come i vestiti e le armi ad esempio.
Ma
quell’oggetto appartiene al XIII secolo. Lo shock per Isabeau
di ritrovarsi in
una epoca diversa è parzialmente attutito dal fatto di
conoscere perfettamente
il luogo dove si trova: Chatel Argent è cambiato molto nei
secoli, ma il cuore
del castello è ancora in qualche modo riconoscibile. Insieme
scoprono quel
luogo stanza dopo stanza, ripercorrendo i ricordi più belli
del passato, tra la
meraviglia di Isabeau quando si imbattono nella tecnologia moderna,
finché
arrivano al salone dedicato al museo dei manufatti medievali. Concesso
dal
Musée National du Moyen Âge di Cluny, il codice
originale è proprio lì,
inespugnabile, protetto da un allarme collegato alla Gendarmerie
Nationale. Ma
Jodie ha in mano la copia del codice pressoché perfetta
appartenuta a Ian e lo
stesso amico è uno dei più autorevoli professori
universitari americani, famoso
per le sue ricerche sui codici medievali. Ottenere il permesso di poter
toccare
con mano e di studiare il vero codice è tutt’uno
con l’idea di sostituirlo
temporaneamente con l’altro manufatto in loro possesso,
almeno fintanto che Ian
e Isabeau non fossero tornati dal XIII secolo.
Era da poco
iniziato l'anno 1429
quando gli inglesi
erano ormai prossimi ad occupare
completamente Orléans,
cinta d'assedio sin dall'ottobre del 1428, la
città, sul lato settentrionale della Loira,
aveva, per la posizione geografica ed il ruolo economico, un valore
strategico
nel decidere le sorti della contesa tra Francia e Inghilterra. In
quegli anni
infatti la Francia si trova nel pieno della Guerra dei Cent'anni ed
è spezzata
in due: il nord con Parigi è occupato dagli Inglesi e dai
Borgognoni ed a sud è
sotto il controllo del re Carlo VI e dai suoi sostenitori, gli
Armagnacchi.
Dopo che erano
morti entrambi i legittimi contendenti alla
corona, Enrico V di Inghilterra e Carlo VI di Francia, gli inglesi
avevano
approfittato della guerra civile fra i Borgognoni ed Armagnacchi per
proclamare
Enrico VI, allora ancora bambino, re di Inghilterra e di Francia. Il
figlio di
Carlo VI, il legittimo erede al trono francese, Carlo VII, si rifiuta
di
abdicare ma non può farsi incoronare re secondo il rito
ufficiale, poiché per
tradizione il rito si deve tenere nella Cattedrale di Reims, allora
sotto il
dominio inglese.
Lord Glasdale,
non ancora comandante inglese dell’assedio,
era noto per la vigliacca abitudine di abusare delle donne
più giovani che
catturava, condannandole poi al rogo per coprire sotto le false accuse
di
eresia, il suo vile comportamento, che nemmeno la Chiesa avrebbe
tollerato.
Un giorno, al
suo ritorno dai giochi nei campi insieme
all’inseparabile Juliette, Jeanne scopre con orrore che gli
inglesi hanno
invaso il suo villaggio. Il sole tramontava su edifici ridotti in
macerie
fumanti e su corpi mutilati che giacevano qui e là lungo le
strade, esattamente
nella posizione in cui erano caduti e che venivano già
spogliati dagli empi
spigolatori che seguivano agli assassini. Le due ragazze si precipitano
a casa
di Jeanne: non appena Juliette si accorge che non sono soli, con fare
protettivo,
nasconde Jeanne in un armadio a muro che protegge con il suo corpo. Due
soldati
inglesi si affacciano subito dopo nella stanza e Juliette li affronta
cercando
di soffocare le lacrime e con in mano un coltello. Jeanne è
la testimone inorridita, impotente
e traumatizzata del massacro dell’amica che adora, uccisa da
un colpo di
spada e violentata contro la porta dell’armadio dove lei si
nasconde, da un
soldato inglese ubriaco e brutale. Un volto in particolare non
potrà mai più
dimenticare: quello di William Glasdale, che comandava le scorribande
degli
inglesi. In seguito a questo tragico evento, Jeanne viene mandata a
vivere
dagli zii in un villaggio vicino a
Vaucouleurs, nella valle
della Mosa. Jeanne inizia a sviluppare più o
meno inconsciamente il desiderio di vedere vendicata la morte
dell’amata
Juliette e di veder cacciati via per sempre tutti gli inglesi.
La guerra tra
francesi e anglo-borgognoni sfiora intanto i
territori appartenenti ai vassalli di Francois de Ponthieu, conte di
Ponthieu
nel 1429. Le truppe messe a disposizione dal feudatario, col Falco
d’Argento orgogliosamente
sul petto in memoria del loro leggendario avo, sono ingaggiate in
battaglia
dagli inglesi nei pressi di Verdun. Il conte, deciso a punire la
rinomata malvagità
del capitano inglese, Lord Glasdale, lo va a cercare personalmente sul
campo. Veterano
di tante battaglie, si difende abilmente nel duello con
l’inglese, ma nel
momento stesso in cui riesce a disarmare Lord Glasdale, sente
la voce del giovane figlio che cerca
aiuto, circondato da due borgognoni e sanguinante da un fianco. Il
conte decide
di risparmiare la vita all’inglese e si precipita in soccorso
del figlio, si
sbarazza del primo nemico e mentre si accinge a dare il colpo di grazia
al
secondo, viene trafitto alle spalle da Glasdale, che schiumante di
rabbia per
essere stato disarmato, lo colpisce a tradimento. Thierry de Ponthieu,
accasciato al suolo e ferito, può solo vedere il valoroso
padre morire e chiedere
pietà al suo nemico. Glasdale non mostra tuttavia alcuna
compassione, trafigge l’unico
erede maschio del casato di Ponthieu e ordina di gettare il suo
cadavere nella
Mosa, dove nessuno potrà piangerlo o dargli sepoltura.
Jeanne, vinta
anche la resistenza del genitori, prende la
decisione che avrebbe consacrato la propria vita ad una missione. Non
avrebbe
più permesso che tragedie come quella di Juliette
accadessero di nuovo, gli
inglesi dovevano essere tutti cacciati via. Ma per prima cosa occorreva
incontrare il comandante della piazzaforte più vicina:
avrebbe parlato ad ogni
costo con il capitano Robert de
Baudricourt proprio lì, a Vaucouleurs.
Finalmente, gli
amici americani con Isabeau da Chatel-Argent
(e Ty da casa sua in Canada) sono pronti a ritornare nel XIII secolo,
con in
mano il codice miniato originale, la prova che Ponthieu cercava. Daniel
ricarica
l’ultima partita salvata, lancia il gioco e….
scoprono con sgomento che
qualcosa è andato storto. Un effetto imprevedibile del mod
istallato?
Ora, nei pressi
di Montmayeur, ma circa due secoli più avanti
come presto si renderanno conto, quei feudi confinanti con la Fiandra
sono
contesi da inglesi e francesi e saranno teatro proprio dello scontro
finale
della guerra dei cent'anni.
E il solito,
beffardo, Hyperversum non risponde più ai
comandi.
Nel presente,
infatti, a premurarsi di far visita a Ian, arriva
personalmente il Curatore del Musée National du Moyen
Âge di Cluny, Bertrand
LeClercq, vecchio conoscente durante gli anni degli studi di Ian in
Francia e suo
rivale per fama accademica, desideroso di rivedere il giovane americano
di cui
non aveva mai compreso le ragioni dell’improvviso successo
che aveva tratto
proprio nella decifrazione dei codici medievali. Jodie comprende subito
che non
può certo ingannare il Curatore con la copia in suo
possesso, e non sapendo
cosa inventare, accampa la scusa che Ian ha portato il codice con
sé per
studiarlo, ma non sa dove si trova. Mosso da un sentimento di invidia
nei confronti
di Ian, il Curatore non perde tempo per mettergli il bastone tra le
ruote:
chiama la Gendarmerie per far luce su quel lui definisce un vero furto
e un
atto di sottrazione di un importante reperto storico da parte degli
americani.
Con disperazione di Jodie, i computer e tutto il loro materiale vengono
posti
sotto sequestro, confiscati e messi a disposizione delle indagini. La
stessa
Jodie viene tratta in arresto per accertamenti.
Il padre di
Daniel, il colonnello John Freeland, è promosso di
grado e avanzato a Brigadier General. Contestualmente, sulla base del Intelligence
Reform and Terrorism Prevention Act, viene
trasferito con compiti di
coordinamento dalla US Army alla USIC, la United States Intelligence
Community,
l'entità collaborativa cui fanno capo tutte le diciassette
agenzie ed
organizzazioni del governo
federale degli Stati Uniti.
Sylvia gli rimprovera di aver
accettato senza consultarla il prestigioso incarico, che lo
costringerà a volte
a viaggiare all’estero e in particolare in Europa, dove lui
dovrebbe
assecondare la collaborazione delle agenzie americane con le
unità locali dei
governi del vecchio continente con finalità di prevenzione
del terrorismo.
Nel Medioevo
intanto è Il 12 febbraio
1429,
poco a nord
della città assediata di Orléans, Ian, Daniel e
Isabeau sono stati scaricati
dal gioco, o dal destino, presso una piccola cittadina di nome Rouvray.
Con terrore, si
scoprono subito circondati da alcune migliaia di soldati
anglo-borgognoni in
marcia verso di loro, nel tentativo di catturare un grande convoglio di
rifornimenti alle loro spalle, vitale per le truppe francesi assediate.
Comprendono, loro malgrado, di non poter evitare la battaglia, passata
alla
storia come la Battaglia
delle aringhe: tali provviste
facevano infatti parte delle vettovaglie previste per l'imminente
periodo
quaresimale. Di Ty, che invece il gioco aveva catapultato a Vaucouleurs, nessuna notizia.
Ian, lottando
per la sua stessa vita e in grave difficoltà,
ormai allo stremo delle forze, non può impedire al
comandante inglese, Glasdale,
di rapire le donne del convoglio e insieme a loro, la stessa Isabeau.
Nonostante la situazione disperata ingaggia ugualmente un duello con
l’inglese
che sprezzante si sbarazza di lui in poche mosse mentre Daniel aiutato
da
alcuni difensori francesi gli salvano la vita. Glasdale, mentre loro si
danno
alla fuga, lo deride urlando che si sarebbe prima divertito con la
bella dama francese
e poi l’avrebbe gettata in pasto alle fiamme come tutti i
francesi avrebbero
meritato infine di morire. Ian è distrutto e disperato.
Nello stesso
giorno, a Vaucouleurs
intanto, Ty è sconcertato: nessuna notizia degli amici, non
sa dove si trova,
indossa una pesante armatura a piastre di metallo che non ha nulla a
che fare
con l’usbergo a maglie di acciaio che aveva selezionato nel
gioco prima di
avviare la partita. D’accordo con Daniel aveva infatti deciso
che per restare
nascosto agli occhi di chi lo credeva morto e sepolto per
avvelenamento,
avrebbe accompagnato gli amici indossando usbergo e camaglio come un
qualsiasi
cavaliere di Chatel Argent. Non sa ancora che un malfunzionamento nel
Mod
istallato da Daniel l’aveva separato dagli amici e
l’aveva scaraventato non nel
XIII secolo ma nel XV. Non sa nemmeno che il gioco, come con qualsiasi
altro
parametro, aveva adeguato la sua armatura all’epoca in cui si
trovava adesso. E
la corazza che indossa, scoprirà molto più
avanti, era identica a quella dello
scomparso figlio del conte di Ponthieu, adattata da Hyperversum o dal
Mod a
quella che secondo la storia doveva indossare l’unico Thierry
de Ponthieu
vivente nel 12 Febbraio 1429: lui.
Ty viene infatti
immediatamente
“riconosciuto” come il conte
Thierry: ha la sua armatura, ha lo stesso volto, gli stessi capelli,
persino la
voce è identica. Dopo la disastrosa ritirata di qualche
tempo prima, nella
battaglia dove aveva trovato la morte il conte Francois, nessuno aveva
saputo
spiegare che fine avesse fatto suo figlio, né il suo corpo
era mai stato
ritrovato. Una donna, la contessa Caroline de Ponthieu moglie del
defunto
Francois, lo abbraccia e benedice il Signore di averle fatto ritrovare
almeno
il figlio scomparso. Ty scopre di essere quasi identico al vero figlio
della donna.
L’unica differenza che Caroline nota è che lui
appare molto più magro,
evidentemente malnutrito dopo essere fuggito per tanto tempo agli
inglesi.
Vedendolo spaesato e reticente, Caroline decide di sincerarsi
dell’identità del
ragazzo con l’unico modo per lei infallibile. Con una scusa
fa togliere a Ty
l’armatura e gli fa sollevare la manica sinistra della tunica
fino a scoprirgli
l’avambraccio. Suo figlio in quel punto aveva una voglia
rossastra sulla pelle.
La stessa che ha Ty dopo essersi fatto cancellare parzialmente il
tatuaggio col
simbolo dei Guns.
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Capitolo 6 *** Capitolo 14 ***
Gli unici beni,
che
Daniel custodiva nella logora sacca di cuoio, erano due forme di pane
scuro di
segale e una manciata di aringhe essiccate, che il vecchio gli aveva
appena
allungato di nascosto dai resti della carovana di viveri. Oltre al
pesante
manoscritto miniato con la storia dei Ponthieu.
A ricordargli la
sua
colpa, nella sua testa riecheggiavano ancora le lancinanti grida di
Isabeau e
di Ian. Per molte notti, forse per sempre, quelle urla non
l’avrebbero più
abbandonato e l’avrebbero inseguito in ogni suo incubo, come
un retaggio
indelebile. L’equa punizione per il dolore che aveva inflitto
all’amico, si diceva.
Non riusciva
nemmeno a
immaginare l’angoscia che stava straziando Ian, dopo che
Isabeau gli era stata
strappata in quel modo.
Aveva tentato di
essergli di conforto, di rassicurarlo, di fargli capire che era
lì per aiutarlo
in qualunque modo fosse possibile ma lui non aveva risposto. Non aveva
detto
nulla, proprio nulla. Ian si era chiuso in se stesso in un guscio sordo
e
impenetrabile, ma Daniel sapeva che il dolore lo seguiva come
un’ombra, senza
abbandonarlo mai, in qualunque momento del giorno e della notte.
E lo stava
lacerando
anche adesso, mentre ringraziava ancora una volta il vecchio che aveva
avuto
pietà della loro condizione.
“Un
ultimo favore vi
chiedo di concedermi, buon uomo”.
Il vecchio
squadrò Ian esitante,
consapevole che non avrebbe potuto permettersi di sottrarre ulteriori
vettovaglie al convoglio di viveri diretto a Orléans,
già miseramente
saccheggiato da quei barbari.
“Se il
Signore vorrà
concederlo, molto volentieri, cavaliere”, replicò
con la consueta formula di
cortesia.
“Vi
chiedo soltanto
alcune informazioni, né io né il mio amico
sappiamo orientarci bene in queste
terre ed è molto tempo che manco da casa”,
spiegò Ian, “sapete indicarmi dove
posso trovare il Re e la Corte di Francia, in questo momento?”
“Santo
cielo! Da che
mondo venite, ragazzo? I francesi oggi non hanno un re e ciò
che resta della Corte
è al castello di Chinon!”.
Ian
esibì una
espressione sbalordita.
“Dal
momento in cui
Parigi è caduta sotto il comando del re anglosassone, Enrico
VI di Windsor”,
chiarì l’anziano uomo, “e’
lì che dimora l’erede al trono di Francia, Carlo
VII”
“Carlo
VII!” esclamò Ian
all’improvviso, voltandosi nella direzione di Daniel, che
invece appariva
ancora più smarrito.
“Già,
vorrei tanto dire
Re Carlo VII, ragazzo, ma la
cattedrale di Reims è ancora in mano ai barbari che hanno
invaso le nostre
terre e il rito dell’incoronazione non può aver
luogo finché non verrà liberata”.
Merda!
Mentre iniziava
faticosamente a rendersi conto, Ian
era incredulo e sgomento.
Siamo nel bel mezzo della guerra dei Cent’anni! Come diavolo siamo finiti qui?
Le poche
informazioni gli
erano state sufficienti per elaborare lo scenario in cui si trovavano. Carlo VII non aveva ancora cacciato gli
inglesi e i loro alleati Borgognoni dal nord della Francia e questo era
l’assedio di Orléans!
“Devo
raggiungere il
resto della Corte a Chinon!” annunciò Ian con un
senso di urgenza nella voce, “qual
è la strada più breve, buon uomo?”
“Siete
sicuro, ragazzo?
Se avete intenzione di chiedere alla nobiltà di pagare un
riscatto per la
vostra povera moglie, sappiate che non vi ascolteranno”,
tentò di scoraggialo
l’uomo, “e quand’anche aveste il denaro,
quel bastardo di Glasdale non lascerà
andare le sue prigioniere, per timore che possano denunciarlo alla
Chiesa”, concluse
amaramente, “mi dispiace.”
“Non
è questo il
motivo, vi prego, ditemi come posso raggiungere il castello di Chinon
il prima
possibile!”
Il vecchio lo
fissò con
rassegnazione, scuotendo debolmente il capo.
“La
via più breve da qui è procedere
a Sud per Chécy, aggirando la città di
Orléans. A cavallo, è un viaggio di mezza
giornata, se non ne possedete uno, temo che sarà molto
più faticoso. Da Chécy, proseguite
costeggiando il fianco sud-occidentale della Loira finché
non incontrerete,
dopo una giornata di marcia forzata, Beaugency. Riposatevi la notte e
avrete i
giorni successivi per raggiungere Saint Laurent Nouan e Blois. Da qui,
sempre
costeggiando il versante occidentale della Loira, avanzate fino a
Tours. A sud,
a meno di una giornata di viaggio a cavallo, troverete finalmente il
castello
di Chinon.”
Dopo che Ian e
Daniel
ringraziarono più volte l’anziano,
s’incamminarono per la via che conduceva a
sud.
Non appena
furono
abbastanza lontani dal convoglio dei viveri distrutto dagli inglesi,
Ian
informò l’amico:
“Siamo
nel 1429”, gli
annunciò, ancora incredulo delle sue stesse parole,
“uno dei momenti più
importanti e sanguinosi della storia di Francia…”
Daniel gli
ricambiò uno
sguardo colmo di terrore: “1429? Come diavolo può
essere possibile? Cristo, ma
non può essere! Non può essere vero!”,
Daniel non riusciva ad ammetterlo. “Nei
sei sicuro?”
Ian annui greve.
“Ne
sono certo ormai. Abbiamo appena assistito alla celebre battaglia delle
aringhe, i rifornimenti che la città assediata di
Orléans attendeva per sfamare
i suoi cittadini nell’imminente periodo
quaresimale”.
“E
quel tipo che ha
rapito Isabeau, allora era…”
“Lord
William Glasdale,
il comandante più spietato e malvagio che gli inglesi
abbiano mai avuto durante
la guerra dei cent’anni.” Il volto di Ian si
adombrò per qualche istante mentre
serrava rabbiosamente i pugni. “Quel bastardo...”
ma poi non finì la frase.
Daniel
piombò anche lui
in un silenzio affranto. E’
soltanto
colpa mia se ci troviamo in questa situazione, dannato Hyperversum e
dannatissimo
Mod! Dio mio, cosa ho fatto?
Era appena
iniziato
l'anno 1429 quando gli inglesi erano ormai
prossimi ad occupare
completamente la città di Orléans, cinta
d'assedio sin dall'ottobre del 1428. La
città, sul lato settentrionale
della Loira, per la
posizione geografica ed il
ruolo economico, aveva un valore strategico nel decidere le sorti della
contesa
tra Francia e Inghilterra. In quegli anni, infatti, la Francia era
spezzata in
due: il nord con Parigi era occupato dagli Inglesi e dai Borgognoni, il
territorio a sud era invece sotto il controllo di re Carlo VI
e dei suoi
sostenitori, gli Armagnacchi.
Dopo che erano
morti
entrambi i legittimi contendenti alla corona, Enrico V di Inghilterra e
Carlo
VI di Francia, gli inglesi avevano approfittato della guerra civile fra
i
Borgognoni ed Armagnacchi per proclamare Enrico VI, allora ancora
bambino, re
di Inghilterra e di Francia.
Il figlio di
Carlo VI,
il legittimo erede al trono francese, Carlo VII, si rifiutò
di abdicare ma non
poteva farsi incoronare re secondo il rito ufficiale, poiché
per tradizione il
rito si doveva tenere nella Cattedrale di Reims, allora sotto il
dominio
inglese.
***
La pioggia
sembrava non
volere offrire ancora una tregua, mentre il freddo e la fame
continuavano a
sferzarli senza pietà.
“Ian…”,
Daniel si avvicinò e, per la prima
volta da quando avevano lasciato Rouvray, lo fissò
faticosamente negli occhi: non
poteva posare lo sguardo su di lui senza sentirsi orribilmente
colpevole per
quanto era successo.
La pioggia
spargeva i capelli
dell’amico come tanti serpenti incollati sulla pelle, e
quando lui scostò con
una mano alcune ciocche corvine che pendevano dagli occhi, Daniel si
accorse
che non era soltanto pioggia che scendeva dagli occhi.
“Cristo!”,
imprecò, “E’
tutta colpa mia! Dimmi qualcosa, colpiscimi, prendimi a pugni, non
è giusto tenerti
tutto dentro!”
“Non
è colpa tua, lasciami
stare da solo adesso, ti prego”, lo allontanò lui
con un gesto spazientito del
braccio.
“E
invece sì che è
colpa mia! Ho insistito io per portare con noi Isabeau nel presente ed
è dannatamente
a causa mia se è stata rapita!”, urlò
ancora Daniel fuori di sé.
Ian lo
guardò con occhi
vacui. “Risparmia le energie, se ne hai ancora. Prima di
arrivare a Chinon ne
avremo bisogno”.
Si
era arreso.
L’espressione indolente dell’amico lo
colpì più della
pioggia e della fame e seppe che non c’era una sola cosa al
mondo che potesse
dire o fare per farlo stare meglio.
Proseguirono il
viaggio
in silenzio, rotto solo dalla voce di Daniel quando, a intervalli
regolari,
cercava di richiamare il menù di gioco di Hyperversum.
Il gioco
continuò
ostinatamente a ignorare ogni comando e ogni imprecazione del ragazzo.
***
Anche se la luce
del
giorno non era mai apparsa, ad un certo punto fu chiaro che il sole
stava
tramontando. Era dalla mattina che camminavano, senza aver mandato
giù
nient’altro che l’acqua piovana, raccolta a coppa
nelle mani per saziare la
sete.
“Presto
sarà buio, dobbiamo
trovare un rifugio all’asciutto per dormire e mangiare
qualcosa”, bofonchiò
infine Ian emergendo dalla sua apatia.
“Dove?
Io non vedo
altro che una strada deserta!”
“Troveremo
qualcosa”,
mormorò svogliatamente, stringendosi nelle spalle.
“Per
oggi, forse, e
domani?”, si disperò all’improvviso
Daniel, “Non ce la possiamo fare! Lui, quel
maledetto gioco, non ce lo permetterà, capisci? Come
possiamo salvare Isabeau
dalle prigioni di una fortezza inespugnabile? Affronteremo da soli
un’intera
guarnigione inglese?”
“Sono
sicuro che quando
arriveremo a Chinon riceveremo aiuto. Chiederemo del conte di Ponthieu,
ammesso
che ne esista ancora uno e ci faremo arruolare nel suo
esercito…”, proseguì
Ian, pensoso. Dopo qualche istante, indicò con
un’occhiata il borsone sulle
spalle di Daniel: “Forse il manoscritto miniato
potrà tornarci utile anche in
questa epoca.”
“Impiegheremo
comunque
un mucchio di tempo! Chi ci assicura che arriveremo prima che quel
maledetto
non abbia già…”
“Basta,
Daniel…”, Ian scandì
le parole con un ringhio di ammonimento.
“Ci ha
tolto tutto,
ancora una volta, lo capisci? E stavolta è solo colpa
mia!”, proseguì invece
Daniel, “Cristo, perdonami! Ma cosa dico, maledizione! Anche
se tu riuscissi a
perdonarmi, sono io che non potrò mai perdonare me stesso!
Non riesco a sopportare
di averti fatto questo…”
“Tu
non mi hai fatto
niente, smettila! E’ colpa mia se non sono riuscito a
proteggere Isabeau…”
Daniel gli si
avventò
contro, colpendolo debolmente col pugno chiuso tra il petto alla
spalla, “Smettila
tu, ti addossarti tutte le colpe di questo mondo! Anche quelle degli
altri...
Smettila, smettila!”, singhiozzò sommessamente il
ragazzo.
Ian covava
dentro di sé
una disperazione infinita. Pure, vedere Daniel avvilirsi
così crudelmente, lo
impietosì e gli fece trovare lentamente il desiderio di
fargli coraggio e di
aiutarlo.
E
in questo modo aiutò anche se stesso,
traendo dalle sue stesse parole la speranza che prima non possedeva.
Sentì
dentro di sé che
l’unica cosa che gli avrebbe permesso di sopravvivere,
sarebbe stato studiare un
modo per salvare Isabeau. Riflettere su come salvarla,
l’avrebbe distratto da
pensare al presente.
Ma prima
dovevano
trovare un posto per dormire e un fuoco per asciugarsi.
Mentre Daniel
cercava
ancora di colpirlo, gli afferrò il pugno diretto contro di
lui e con l’altro braccio
lo strinse a sé, in un abbraccio virile tra uomini che
condividono lo stesso insopportabile
dolore.
Quell’abbraccio
affrancò Daniel da molte angosce e si sentì
finalmente libero di sfogare tutto
ciò che covava dolorosamente dentro, singhiozzando e
maledicendo se stesso, Hyperversum
e il mondo.
Quando
l’amico si fu
sfogato abbastanza, Ian lo liberò dall’abbraccio e
si guardarono negli occhi
arrossati. Gli allungò una energica pacca sulla spalla e
Daniel finalmente abbozzò
un sorriso.
“Basta
disperarsi.
Andiamo avanti”, lentamente sentiva rifluire la voglia di
vivere e di lottare. “Finché
sono vivo intendo combattere e sento che non avrò pace
finché ritroverò Isabeau
o troverò la morte, cercandola”.
Daniel
annuì. “Mi fa
piacere sentirtelo dire, amico. Se è questo che vuoi, allora
temo che non ti
libererai di me finché non hai avrai raggiunto uno dei due
scopi”.
“Guarda
là…” Ian
distese la mano per indicare qualcosa che emergeva oltre la macchia
verde scura
della boscaglia. “Si direbbe un capanno
abbandonato”.
“Non
sarà l’Hilton
Hotel, ma per questa notte me lo farò bastare” gli
sorrise Daniel.
Quando giunsero
al
capanno si accorsero che il tetto era crollato per metà ma
rannicchiandosi in
un angolo, avrebbero trovato un po’ di riparo dalla pioggia
incessante.
Avanzava anche un piccolo spazio dove avrebbero potuto accendere un
fuoco per
riscaldarsi. Inzuppati di pioggia e al freddo, il rischio di morire
assiderati
balenò nella mente di Ian. E solo per un momento
desiderò ancora la dolce pace
dell’oblio.
Misero ad
asciugare
vicino al fuoco le tuniche fradice, riparandosi solo coi mantelli.
Daniel
tirò fuori il
cibo dalla sacca, porgendo a Ian una forma di pane scuro e prendendo
l’altra
per sé.
“No,
il pane dobbiamo
farcelo bastare per due giorni e domani ci aspetta un altro faticoso
viaggio prima
di raggiungere un villaggio. Dividiamoci metà forma di pane
a testa, mi spiace,
Daniel.”
Daniel
acconsentì con
un cenno del capo. Sentire i morsi della fame in quel momento gli dava
uno
strano piacere, in quel modo cominciava ad espiare la sua colpa.
“Possiamo
mangiare anche
qualche aringa essiccata”, concesse infine Ian che
scambiò il silenzio
dell’amico per malumore. “Quante ne
abbiamo?”
“Una
dozzina in tutto”.
“Non
abbiamo denaro con
noi e non sappiamo se riusciremo a mangiare qualcosa nei villaggi,
dobbiamo
preservare le nostre scorte il più possibile”.
Il pane di
segale era
duro e lasciava in bocca un sapore di terra e muffa, mentre il pesce
essiccato
aveva un gusto salmastro e fibroso. Daniel inghiottì
comunque, cercando di non
pensare alle prelibatezze che gli preparava Jodie. In quel momento, si
sarebbe
persino sfamato con gli odorosi croccantini di pollo di Skip.
***
La giornata
seguente fu
la copia del primo giorno di viaggio: la stessa strada sterrata,
disseminata di
pozze d’acqua e di fango, gli stessi alberi che crescevano in
disordinata
libertà qua e là, per poi serrarsi
improvvisamente in macchie di bosco e gli
stessi identici filari dei vigneti, tanto abbondanti in quella regione
quanto
inutili senza i loro frutti.
E
poi c’era la pioggia, onnipresente, ora
battente ora singhiozzante, ma costante compagna del loro tetro
peregrinare.
Avevano
abbondantemente
aggirato, come aveva consigliato loro il vecchio, la grande
città di Orléans
assediata dagli inglesi. S’imbatterono nelle prime case del
borgo di Chécy poco
prima del tramonto. Entrarono quando le strade erano ormai deserte e
senza il
denaro per pagarsi un rifugio per la notte in qualche locanda.
Prima
che la poca luce che filtrava dalle nubi
si spegnesse del tutto, trovarono un caprile e si acquattarono sulla
paglia
sudicia per la notte. Consumarono in silenzio la seconda pagnotta,
l’ultima che
restava e quando si sdraiarono, sprofondarono immediatamente in un
sonno senza
sogni.
Quando Ian si
svegliò,
s’intravedeva un pallido sole oltre la staccionata al
coperto. Era appena
l’alba e il morso della fame adesso era tremendo e
sentì il corpo completamente
irrigidito dal freddo.
Si
alzò a fatica dal
giaciglio di pagliericcio e subito fu investito da un senso di
vertigine, a
causa della debolezza.
Scosse
Daniel che ancora dormiva, rannicchiato
in una posizione fetale. Lamentandosi, l’amico socchiuse
lentamente gli occhi e
gli ricambiò uno sguardo spento e malaticcio. Gli occhi
erano arrossati e
velati di lucido. Probabilmente anche lui appariva ugualmente malandato
alla
vista di Daniel e si rese conto che non avrebbero potuto andare avanti
per
molto, in quelle condizioni.
“Alzati
Daniel,
dobbiamo andare via da qui, prima che il padrone di questo posto ci
trovi qui e
ci creda dei ladri.”
“Dannazione,
sono così
infreddolito che sento che non proverò mai più
caldo in vita mia!”
“Speriamo
che almeno
oggi non piova”, mormorò Ian mentre scrutava
all’orizzonte grandi ammassi cupi
e gravidi di pioggia.
La
pioggia lasciò loro un po’ di tregua e ogni
tanto il sole fresco di febbraio fece capolino tra le nuvole col suo
tiepido
abbraccio. Usciti dal borgo di Chécy fu facile seguire il
versante occidentale
della Loira. Per arrivare al castello di Chinon non dovevano fare altro
che
seguire il corso serpeggiante del fiume e dei canali, lungo la strada
disseminata di castelli. Gli stessi, che molti secoli più
avanti, avrebbero
rappresentato la maggiore attrazione turistica della regione.
***
“Non
ce la faccio più,
riposiamoci un po’”.
Ian si
guardò attorno e
indicò a Daniel un vecchio salice a poca distanza da loro.
“Arriviamo fin là, i
suoi fitti rami ci daranno qualche protezione da questa pioggia
sottile”.
Ian
capì che da quando
avevano lasciato Chécy alle spalle, il loro passo si era
fatto molto più lento
rispetto a quello che avevano mantenuto il primo giorno. La stanchezza
e la
debolezza li zavorrava inesorabilmente e Beaugency, che a questo punto
secondo
i suoi piani doveva già essere in vista, appariva invece
irraggiungibile.
“Tra
poco sarà buio...”
constatò Daniel.
“Non
raggiungeremo
Beaugency prima che chiudano le porte e non vedo nessun rifugio dove
ripararci
questa notte. »
« Restiamo
qui,
allora… ci risparmieremo almeno la
pioggia. »
«
D’accordo, ma ci
restano solo poche aringhe essiccate, se non troviamo qualcosa da
mangiare, non
sopravvivremo ancora per molto.”
Daniel
soppesò il
pacchetto con il poco cibo rimasto, scartò un paio di
aringhe a testa e
richiuse l’involucro.
Cercò
di far durare il
più possibile in bocca il sottile e filamentoso pesce
essiccato, masticando
lentamente, per accorgersi solo che quel cibo non era sufficiente per
saziarlo.
Non ebbe
comunque il
coraggio di lamentarsi e con la coda dell’occhio,
osservò Ian silenzioso e
impassibile, chiuso nella sua sofferenza. Se il suo problema era la
stanchezza
e la fame, non osò immaginare cosa stesse patendo in quel
momento Isabeau,
nelle mani del suo spietato carceriere. In quel momento Ian stava
sicuramente
pensando a lei.
***
Un lungo ponte
di
quattrocento metri, sorretto da una moltitudine di archi di pietra,
congiungeva
la città di Orléans alla riva meridionale della
Loira.
Mentre scendeva
dal
carro, dov’era stata stipata insieme ad un’altra
dozzina di donne, Isabeau era
riuscita a scorgere la splendida città sulla riva opposta:
un’alta e spessa
cinta muraria rettangolare racchiudeva il grande borgo abitato, mentre
maestosi
torrioni che terminavano con altissimi coni dotati di feritoie e
pertugi per
gli arcieri, sovrastavano i quattro angoli
all’estremità delle fortificazioni.
Molteplici pinnacoli si ergevano dai contrafforti lungo tutta la
muratura.
Nell’insieme la città dava l’impressione
di essere meravigliosa e
inespugnabile.
Una guardia dal
colorito rubizzo e con un osceno sorriso sul muso si
avvicinò al retro del
carro, spalancando brutalmente l’apertura posteriore e
urlando selvaggiamente
di scendere.
Isabeau vide le
donne
esitare e ammassarsi dalla parte opposta del carro, urlando e
piangendo, finché
l’inglese non abbaiò ancora più
furiosamente il suo ordine. Nessuna ancora
obbediva. La guardia andò in bestia e fece volteggiare a
vuoto nell’aria l’orribile
mazzafrusto che portava con sé.
“Descendre de là, salopes! Mi
avete capito adesso? » ringhiò
l’energumeno.
Poi
abbatté il
mazzafrusto sull’apertura del carro, facendo schizzare
schegge taglienti di
legno in ogni direzione. Alle lacrime di molte si mischiò il
sangue provocato
dalle lacerazioni, un panico isterico si impadronì
all’improvviso di molte di
loro che finalmente si gettarono fuori dal carro.
Sempre col
mazzafrusto
minacciosamente in mano, l’uomo ordinò le donne in
una fila, sorvegliandole e
abbaiando come un cane da guardia. Quando anche Isabeau
smontò dal carro, con
un salto, si avvide che era sopraggiunto un secondo uomo, magro e
rinsecchito
dentro l’armatura leggera di cuoio, che conduceva a piedi un
mulo col dorso
sormontato da un ingombrante e tintinnante fardello.
L’uomo
fece cadere a
terra il carico e srotolò a terra l’involucro:
Isabeau rabbrividì mentre intravide
le orribili catene arrugginite.
Disposta in fila
insieme
alle altre donne, si diceva si stare calma, di non piangere,
perché Ian e
Daniel avrebbero presto usato il misterioso mezzo che usavano per
viaggiare tra
i loro mondi, per salvarla. Doveva solo resistere fino a quel momento,
no? Pure
con questa consapevolezza, riusciva a stento a padroneggiare il terrore
e l’apprensione
per la sorte che sarebbe comunque toccata alle altre prigioniere.
Daniel
avrebbe potuto salvare anche loro? SI sentiva così
terribilmente rattristata a
pensare che non poteva portarle in salvo con sé.
Persa nei suoi
pensieri, non si accorse nemmeno che l’uomo più
esile adesso era proprio
accovacciato per terra davanti a lei e la fissava con uno sguardo
strano e
lascivo. Quando si accorse che lei si era girata a guardarlo,
l’uomo sghignazzò,
mostrandole un sorriso colmo di denti storpi. Poi armeggiò
con quell’oggetto
metallico, avvicinandolo ai suoi piedi.
Isabeau
sentì le luride
dita dell’uomo che risalivano dalle sue caviglie fino ai
polpacci, dove
indugiarono a lungo finché lei tremò visibilmente
per il ribrezzo e la paura.
L’uomo se ne accorse e ancora una volta alzò lo
sguardo con lo stesso ghigno
dipinto sul grugno.
Poi,
Isabeau sentì il freddo e inflessibile
acciaio che si chiudeva con uno scatto metallico in una morsa sulla
caviglia e vide
la guardia che si spostava verso la donna che le stava di fianco,
proseguendo a
incatenare la fila di donne, l’una all’altra.
***
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Capitolo 7 *** Capitolo 15 ***
Arrivarono a
Beaugency
solo nel pomeriggio del giorno successivo. La pioggia e il freddo
suggeriva
agli abitanti del borgo di stare rintanati nelle loro case o nelle loro
botteghe e i pochi uomini che incontrarono lungo le strade li
osservavano come
se stessero già rubando qualcosa col semplice respiro.
Daniel era
consapevole
che il loro aspetto era terribile, il sudiciume e il fango aveva
insozzato
tutti i loro vestiti e i loro volti erano adombrati dalla stanchezza e
dalla
barba incolta.
Vagarono un
po’ per le
strade semideserte e infine giunsero in vista della piazza. Dominava la
scena la
superba torre quadrata del dongione, alta oltre trenta metri e che
appariva già
antica e consumata dal tempo.
Lo stomaco di
Daniel
brontolò rumorosamente.
“Lo
so, dobbiamo
trovare il modo di sfamarci”.
“Se
tentassimo di
pescare qualcosa sul fiume?”
“E con
cosa, a mani
nude?” replicò Ian nervoso, “No,
piuttosto dobbiamo trovare un lavoro provvisorio,
qualunque cosa che ci permetta di guadagnarci la giornata, per poter
affrontare
il resto del viaggio per Chinon con qualche soldo in tasca”.
“D’accordo,
per me va bene”.
“Allora
rechiamoci in
una locanda, lì troveremo qualcuno a cui poter chiedere
informazioni”.
La locanda era
affollata,
poiché la pioggia aveva attirato gran parte degli uomini
lì dentro. Appena
entrati, furono piacevolmente accolti dall’aria tiepida del
locale pieno di
gente e dall’odore invitante del vino e del cibo.
Ian si
guardò un po’
intorno, raccogliendo gli sguardi torvi riservati ai viaggiatori poveri
e che
portavano una spada sul fianco. Si diresse diritto al bancone
dell’oste e
domandò:
“Cortesemente,
Monsieur, può indicarmi
come due giovani
desiderosi di guadagnarsi la giornata, possono trovare un lavoro onesto
in
questa città?”
L’uomo
inarcò un
sopracciglio e continuò a lavare un boccale, ignorando
completamente Ian.
Solo molto tempo
dopo,
quando ebbe riposto il boccale pulito e asciutto dietro il bancone,
l’oste si
rivolse finalmente a lui.
“Possedete
una imbarcazione adatta alla pesca
fluviale, straniero?”
“Mi
rincresce ma non
possiedo nient’altro che la forza delle mie braccia e la
voglia di lavorare
duro, signore.”
L’oste
si voltò allora verso
Daniel e l’osservò in tralice. Infine
ringhiò: “Il vostro amico somiglia
davvero molto a un dannatissimo inglese, viaggiatore”.
La parola
inglese
suscitò immediati mormorii tra la gente e molte voci
tacquero per ascoltare la conversazione
tra i due stranieri e l’oste.
“Lui
è mio fratello e
siamo francesi, Monsieur”.
“E chi
mi dice che non
siete invece dannate spie di Glasdale, che Dio lo maledica!”
“Quel
maledetto è il
mio nemico giurato!” s’inalberò Ian,
“lo ucciderò con le mie stesse mani quando
l’avrò nuovamente di fronte!”
Altri due uomini
si
erano avvicinati intorno a Daniel e lo squadravano in modo poco
raccomandabile.
“Non
sono inglese!”
sbottò alla fine Daniel, sentendosi tutti quegli occhi
addosso.
L’uomo
più vicino lo
spintonò con una mano, “Dimostralo. Vediamo di che
pasta sei fatto”, lo sfidò.
Con un movimento fulmineo tirò fuori un coltellaccio ricurvo
e si scagliò sul
ragazzo.
Ian si avvide
del
movimento furtivo che aveva compiuto l’uomo, quando si era
portato la mano sul
fianco per estrarre l’arma. Con una spallata
spostò l’amico dalla traiettoria
della lama che gli si avventava contro, mentre con la mano libera
sguainava la
spada che aveva raccolto a Rouvray.
L’uomo
stava già
alzando il braccio, nel tentativo di affondare un altro attacco contro
Daniel, ma
Ian lo precedette, puntandogli la punta della sua spada contro la gola.
L’assalitore sollevò anche l’altro
braccio in segno di resa e indietreggiò di
un passo.
“Non
abbiamo bisogno di
stranieri in questa città”, intervenne nuovamente
l’oste, che adesso era
occupato ad asciugare l’interno di un altro boccale,
“lasciate Beaugency, prima
che qualcun altro possa pensare che siete delle spie”.
Ian
abbassò lentamente
la spada e la rinfoderò nella sua guaina di cuoio.
“Non
vogliamo guai”,
sibilò infine, “ce ne andiamo”.
Un brusio di
voci
irritate lo accompagnarono finché non uscirono dalla locanda.
Fuori stava
piovendo.
“In
questa città non
troveremo che guai”.
Mentre
già si incamminavano, Daniel
borbottò:
“Dannazione,
perché mai tutti mi
devono credere una spia?”
“Bè,
almeno adesso sappiamo che nel
ruolo eri davvero credibile”, ammise Ian mentre un ghigno
divertito gli premeva
sulle labbra e lui, dopo tanti giorni in cui non aveva più
sorriso, finalmente
si sentì libero di ridere, accompagnato subito dopo da
Daniel.
Quella notte
trovarono ospitalità e
un frugale pasto alla chiesa abbaziale di Notre Dame di Beaugency, che
abbandonarono alle prime luci dell’alba. Mangiarono
lentamente, gustando ogni frammento
del pane di avena intinto in un denso brodame: parve ai due ragazzi il
cibo
migliore che avessero mai assaggiato da molto tempo, tanto erano
affamati.
***
Saint Laurent
Nouan era lontana
ancora una decina di chilometri e la tappa successiva, il castello dei
conti di
Blois, si trovava ad una distanza più che doppia.
Dopo
l’incidente alla locanda,
avevano deciso di evitare il più possibile i centri abitati
dove non vi erano
abbazie che potessero ospitarli. L’isterismo collettivo che
colpiva quelle
regioni aspramente contese tra inglesi e francesi, poteva facilmente
sfociare
in episodi di rabbia come quello accaduto alla locanda. Avevano
imparato che la
gente locale, nel migliore dei casi non si fidava dei viaggiatori
stranieri.
Nel peggiore o più semplicemente nel dubbio, li uccideva.
Bivaccarono tra
i margini della
strada e il corso del fiume per un periodo che presto non furono
più in grado
di determinare: il cielo era sempre buio anche quando non pioveva e le
notti erano
sempre fredde.
Ian e Daniel
impararono a riconoscere
i canali di acqua dolce che confluivano nel fiume da quelli
d’acqua salata.
La composizione
della vegetazione era
infatti completamente differente nei due casi, a causa della resistenza
al sale
e, ovviamente, erano diverse le specie animali che li popolavano: rane,
rospi e
piccoli pesciolini d'acqua dolce in un caso, conchiglie che i locali
chiamavano
coque de marais, gamberetti piccoli
e
trasparenti, échilettes e pesciolini di mare nell'altro.
L’acqua
del fiume era gravida delle
piogge e defluiva con troppo impeto per far sperare ai due ragazzi di
catturare
con i loro mezzi primitivi i piccoli e sfuggenti pesci. E presto
riconobbero
che senza un battello, non avrebbero mai potuto pescare nulla nei
canali
d’acqua salata. Dopo che ebbero esaurito le scorte di pesce
essiccato, si
nutrirono soprattutto di piccole rane, ogni giorno più
disposti a cibarsi di
ciò che il giorno precedente avevano disdegnato con ribrezzo.
Quando
finalmente giunsero, sfiniti,
in vista delle imponenti guglie del castello di Chaumont, Ian si rese
conto che
non rammentava più quanti giorni erano trascorsi da quando
avevano abbandonato
Beaugency. Forse un paio, probabilmente molti di più.
Sebbene, ormai,
era soltanto la forza
di volontà a trascinarlo avanti, dopo che le forze lo
avevano lasciato, Ian
osservò con estremo interesse quella fortezza leggendaria,
che in capo a pochi
decenni sarebbe stata incendiata da Luigi IX, come monito a Pietro
d'Amboise, per la sua
partecipazione alla Lega
del bene pubblico.
In quel luogo
avrebbero dimorato Caterina
de Medici e Nostradamus e per uno storico qual era lui, osservare il
castello,
nella sua realizzazione originale, fu un’emozione che lo
distrasse per qualche
tempo dalle angosce e dalla fame.
Le torri di
Chaumont erano già
scomparse all’orizzonte da molto tempo, quando la via che
costeggiava quel
versante della Loira, lambì i confini di un’altra
celebre fortezza: il
castello di Amboise.
Era uno dei
più imponenti che Ian
avesse mai visto. Qualche decennio più tardi qui avrebbe
trovato i natali e la
morte, re Carlo VIII, l'ultimo esponente del ramo più antico
della dinastia
dei Valois. Ian conosceva
l’aneddoto che voleva
che il re fosse morto battendo la testa contro un architrave in pietra
di una
porta, mentre giocava al jeu de paume,
il gioco antesignano dell’attuale tennis.
Ma
più di questo, il castello doveva
la sua leggenda a un altro personaggio che avrebbe ospitato: Leonardo
da Vinci
visse ad Amboise fino alla morte, avvenuta come Ian si ricordava nel 1519 e venne
successivamente sepolto
nella cappella Saint-Hubert, all’interno del corpo principale
della costruzione.
Ian si concesse
un sorriso al pensiero
di poter incontrare Leonardo in persona e poi fantasticò di
raccontargli la sua
vera storia, nella certezza che se esisteva un uomo in
quell’epoca che avrebbe
trovato interessante la sua vita e l’avrebbe creduto, sarebbe
stato proprio
Leonardo Da Vinci.
***
Les Tourelles
assomigliava alla copia
ridotta del corpo centrale di un castello: quattro torri
all’estremità di ogni
lato sorvegliavano a nord, il ponte che congiungeva la fortezza alla
città di
Orléans, mentre a sud, vigilavano sugli ampi territori
dinanzi alla Loira.
Incatenate per
le caviglie una
all’altra, le donne proseguirono in fila, inciampando e
urtandosi a vicenda
fino alle segrete della bastia. La paura, più del freddo, le
raggelò quando si
addentrarono nelle viscere della fortezza, scendendo fin dove solo le
torce dei
loro carcerieri potevano illuminare le umide mura di rozza pietra delle
prigioni, mentre tutt’intorno regnava una tenebra spessa e
ostile.
All’improvviso
le torce rischiararono
altri volti, quelli già scavati e spenti di altre donne, che
le avevano
precedute nella sventura. Le guardie trascinarono il gruppetto con
Isabeau in
una grande cella proprio di fronte a quella delle altre recluse.
Il
pavimento era ricoperto da uno strato di sordido
pagliericcio dall’odore ripugnante. Isabeau
immaginò che fosse l’odore pungente
dell’urina di coloro che avevano occupato la cella prima di
loro.
Dopo che furono
entrate tutte, la
guardia provvide e sganciare i morsi di ferro alle caviglie. Le donne,
finalmente libere, si accovacciarono all’estremità
più buia della prigione,
occupando un posto che per molte sarebbe stato loro fino al resto dei
propri giorni.
Isabeau stava per scegliersi un cantuccio, quando una guardia la
trattenne
rudemente per il polso e sibilò:
“Tu,
bellezza, vieni con noi.” La bassa
voce maschile spaventò Isabeau,
“Perché, dove volete portarmi?”
“Tu
sei fortunata, non morirai tra i
tuoi stessi escrementi come queste cagne. Lord Glasdale vuole
conoscerti”, le
sorrise oscenamente l’uomo, scostandole una lunga ciocca di
capelli e
stropicciandosela tra le dita, “se sarai brava, lui
saprà ricompensarti,
vedrai…”
Non
servì a nulla tentare di
divincolarsi: una morsa più fredda e più stretta
dell’acciaio, che prima le
aveva addentato le caviglie, l’afferrò e la
trascinò brutalmente in
superficie.
***
Chinon doveva
distare solo qualche giornata
di marcia. Da giorni andavano avanti e basta, per inerzia, senza
scambiarsi una
parola, sapendo soltanto che dovevano camminare fino
all’estremo delle loro
forze, senza fermarsi. Non consumavano un vero pasto da quando il gioco
li
aveva scaraventati a Rouvray e nell’ultimo tratto, non
avevano più trovato
canali d’acqua dolce per cacciare un po’ di cibo.
Avevano teso i loro corpi
all’estremo ed erano entrambi consapevoli che erano ormai
prossimi al punto di
rottura.
Il freddo, che
durante la notte
diveniva insopportabile, era penetrato a fondo fino alle ossa e
sembrava che
non dovesse più abbandonarli, nemmeno quando riuscivano ad
accendere un fuoco e
si riscaldavano davanti alle fiamme.
Quando uno di
loro crollava a terra
per la stanchezza, allora cercavano un giaciglio di fortuna dove
potersi
distendere e giacevano lì fino all’alba del giorno
successivo, quando avrebbero
ripreso il loro viaggio.
Erano in cammino
già da molte ore,
senza aver messo ancora niente sotto i denti, quando Ian
inciampò in qualche
ostacolo e cadde bocconi a terra, sul terreno fangoso. Non si
rialzò.
Nello stesso
istante in
cui Daniel comandò alle gambe di piegarsi per aiutare Ian,
le ginocchia tradirono
anche lui, gettandolo a carponi nel fango. Sfinito, si
trascinò fino a Ian, con
la mente così annebbiata, che non era sicuro se si trattava
di un sogno o della
realtà.
Daniel stava
pensando a
Jodie e Alex, il loro pensiero era così dolce e aveva voglia
di addormentarsi e
sognarle ancora, per sempre. Fece per alzarsi dal fango, ma le sue
ginocchia
erano inchiodate al suolo. Tentò un secondo sforzo,
aiutandosi con le braccia,
ma non si mosse. Era stanco come non lo era mai stato, doveva dormire,
riposarsi, si disse, così avrebbe trovato le forze per
rialzarsi. Finalmente si
accostò a Ian e si accasciò sulla spalla
dell’amico.
“Daniel!
Daniel!” lo
scosse il ragazzo, “non è questo il momento per
arrendersi, andiamo, l’ultimo
sforzo… Chinon ormai non può essere
lontana!” Daniel sembrava svenuto e nemmeno
lui aveva più la forza per rialzarsi.
Sapeva che erano
vicini
alla loro meta, forse solo un giorno o due di marcia, ma ogni passo
adesso
costava una fatica insopportabile. Non avevano più nemmeno
la forza per disperarsi.
Il tempo
passò ancora senza
poterlo misurare, trascorsero forse solo pochi secondi oppure ore, Ian
non
poteva dirlo. Udiva adesso un altro rumore oltre alla pioggia
incessante, un
picchiettio di cui non capiva la provenienza. Finché si
accorse che Daniel
tremava e il freddo gli faceva battere freneticamente i denti. Un gelo
dolce e
vacuo si stava impadronendo anche di lui, gravido di promesse che lo
avrebbero
finalmente liberato dal dolore insopportabile, dalla fame, dal freddo,
dalla
pesantezza di vivere.
Passò
altro tempo,
incalcolabile ed eterno, finché ogni rumore perse
importanza. Non sentiva più
la gelida pioggia bagnarlo, tuttavia non era sicuro che avesse smesso
di
piovere. Non sentì più il freddo, ma non era
sicuro che il sole lo stesse scaldando.
Percepiva solo abbandono e oblio. Persino Isabeau era un ricordo
distante,
confuso insieme a tanti altri ricordi sfumati.
Isabeau. Forse si
sarebbero finalmente incontrati in un mondo tiepido e asciutto,
dove non esistevano nemici o sofferenza. Il pensiero lo fece sorridere
debolmente. Ma, ancora, gli era impossibile dire se stesse ridendo
davvero o se
stesso solo sognando di farlo.
E poi, in quel
sogno,
comparvero all’improvviso dei cavalli, purosangue bianchi e
maestosi. Cavalcati
da cavalieri altrettanto splendidi e lucenti. Un uomo o forse un angelo
luminoso, gli parlò e così pure un altro.
Ian non li
poteva udire
e quando aprì la bocca per parlare, si accorse che era uno
di quei sogni dove
non è concesso parlare, poiché dalla sua voce non
uscì nulla.
Intravide la
prima
figura toccare Daniel con un’asta luccicante.
L’amico era ancora accovacciato
contro la sua spalla, ma quando l’uomo lo toccò,
Daniel come un oggetto
inanimato, si staccò orribilmente da lui e rotolò
a terra.
Ian fece per
urlare, ma
ancora una volta il sogno non glielo permise.
Fu quando Daniel
si
accasciò a terra su un fianco, che una delle due figure
scorse il borsone di
pelle che portava sulla spalla: dall’apertura sporgeva
qualcosa che Ian
ricordava di aver già visto, ma non ricordò dove.
Una voce nella
mente
bisbigliava che quell’oggetto era importante per lui, che lo
doveva proteggere,
ma non si rammentò perché.
Invece,
osservò
impotente quell’essere mentre apriva completamente la borsa e
con vivo stupore ne
trascinava fuori un pesante manoscritto. Vide il suo volto stravolgersi
non
appena lo girò tra le mani e ne scorse la copertina,
indicandola al suo
compagno, che replicò la stessa espressione incredula.
Alla vista del
codice
miniato, il sogno sembrò farsi più vivido, i suoi
occhi misero pigramente a
fuoco i colori e i mantelli bianco e azzurro delle due figure.
All’improvviso braccia
robuste lo issarono su un cavallo.
“Un
uomo dall’altezza
insolita e dal fisico possente, coi capelli neri insieme ad un altro
coi
capelli chiari e corti…”
“Il
figlio della
Contessa aveva assicurato che ci sarebbe stata anche una
donna.”
“Ma
d’altronde, questo
manoscritto…”
“Cosa
succede lì fuori?
Perché ci siamo fermati?” intervenne una voce
autorevole dietro di loro. La
donna era scesa dalla carrozza e tirandosi le sottovesti fin quasi al
ginocchio,
per non farle sporcare nel fango, veniva adesso incontro alle due
guardie.
“Allora?
Cosa succede?”
volle sapere spazientita.
“Abbiamo
trovato questi
viaggiatori in mezzo alla via, Signora Contessa. Erano come morti e ci
siamo
fermati per controllare che non vi fosse pericolo per la vostra
sicurezza, Madame.”
“Per
quale motivo li
avete tirati sopra i cavalli? Non intendo rallentare la nostra marcia a
causa
di due sconosciuti moribondi! Abbandonateli dove li avete trovati, per
l’amor
del cielo!”
Si era
già voltata
indietro per risalire sulla carrozza, quando la raggiunse la voce di
una delle
guardie: “Scusate, Madame,
credo che
prima dobbiate vedere questo”.
Quando
l’uomo porse
alla contessa il pesante manoscritto, Caroline de Ponthieu
sbiancò. Quello era
l’oggetto che il suo benamato marito custodiva come un tesoro
e che amava
moltissimo.
“Come
possono averlo loro?”
strillò la donna.
“Non
possiamo esserne
sicuri, Madame, ma credo che il
signor conte vostro figlio conosca queste due persone. Prima di
mettersi in
viaggio per scortare quella donna a corte”, spiegò
il soldato, “aveva fornito
una descrizione nel caso uno di noi si imbattesse negli amici che gli
avevano
salvato la vita e costoro”, l’armato
indicò i due corpi adagiati sui cavalli
che trainavano la carrozza, “corrispondono alla descrizione.
Se vogliamo
conoscere la verità, dobbiamo portarli con noi a
Chinon.”
***
“Milord?”
la guardia che trascinava
con sé Isabeau bussò nuovamente alla porta.
“Entrate!”,
sibilò una voce burbera da dietro
l’uscio.
L’uomo
dischiuse la porta e spintonò
in avanti la ragazza che, incespicando, entrò nella stanza.
“Andate
via, ora”, ordinò. Lord Glasdale
era seduto di spalle con la testa china sopra un manoscritto e non si
era
nemmeno voltato. La guardia, facendo un lieve inchino,
indietreggiò di qualche
passo e poi chiudendo l’uscio, sparì.
L’ufficio
del comandante della
fortezza era arredato sontuosamente e a parte le dimensioni, non aveva
nulla da
invidiare alle stanze nobiliari di un castello.
Finalmente
l’uomo si alzò e si
avvicinò a Isabeau per osservarla da vicino.
Restò in silenzio, girandole
intorno e studiandola attentamente per molto tempo, con aria
soddisfatta.
“Una
puledra di razza purissima”,
commentò infine l’uomo. “Nemmeno
conoscevo l’esistenza del purosangue
francese!”, esclamò compiaciuto, più a
se stesso che rivolto alla ragazza.
Per tutta
risposta, Isabeau si voltò
fino ad incrociarne gli sguardi e fissandolo diritto negli occhi con
evidente
disprezzo, gli sputò addosso, colpendolo di striscio sul
volto.
Lord Glasdale,
non si scompose, anzi
sembrò divertito. Isabeau era pronta ad affrontare la sua
collera, ma l’inglese
invece scoppiò in una gran risata.
“Rispetto
il temperamento sanguigno
di una purosangue”, aggiunse beffardo, “non provo
gusto nella doma di una
puledra remissiva”.
“Io
invece non vi rispetto affatto!”,
lo aggredì Isabeau, “Quali intenzioni avete,
perché mi avete fatto condurre
qui?”
L’uomo
le mostrò un sorriso storto
che raggelò la ragazza. “Voi siete di mia
proprietà adesso, ciò che intendo
fare con voi non vi riguarda. Lo farete e basta”,
sibilò subito dopo.
“Voi
non siete un uomo! Che Dio possa
avere pietà della vostra misera anima, Monsieur”.
L’uomo
lasciò balenare negli occhi un
moto di irritazione poi indugiò ancora pensoso su di lei,
“Siete ancora selvaggia,
ma vi domerò, siatene certa”
“Preferirei
morire piuttosto”.
“E
sarete accontentata, se lo
desiderate. Ma non prima di avermi soddisfatto”,
così dicendo le afferrò il
braccio e la trasse a sé con forza. Isabeau, agì
d’istinto, piegò il capo e
affondò i denti sull’avambraccio
dell’uomo, che strillò di dolore.
Glasdale si
scostò bruscamente e si
guardò incredulo la tunica lacerata che stillava sangue.
Inferocito, schiaffeggiò
Isabeau con un manrovescio e poi col palmo aperto della mano,
lasciandola
stordita.
“Non
ho dubbi che mi obbedirete,
sgualdrina!”
L’insulto
fece tornare in sé la
ragazza che urlò. “Sono una contessa, come osate,
vigliacco!” e fece per
schiaffeggiare a sua volta l’uomo. Ma Glasdale
afferrò con facilità l’esile
polso con la sinistra, mentre con la destra estraeva dalla cintura un
pugnale e
ne appoggiò la punta sulla gola della ragazza, che al
contatto del freddo
acciaio sulla pelle, s’immobilizzò.
“Dunque
conoscete le buone maniere,
quando volete”, le alitò sul collo,
“oppure preferite che vi sgozzi adesso,
signora contessa? Privandomi così di tutta la soddisfazione
che potrei ottenere
da voi?” la irrise, scrollando teatralmente il capo.
Poi
fece scendere lentamente il rovescio della
lama lungo la gola e poi lungo la scollatura della tunica della
ragazza, mentre
curvò ancora di più il capo verso di lei nel
tentativo baciarle i capelli e il
collo.
Isabeau era
così terrorizzata da
essere paralizzata dalla paura.
“Questi
capelli”, mormorava inebriato
l’uomo, “il loro profumo...”
Improvvisamente,
Glasdale l’afferrò brutalmente
con la mano libera, in modo da tenerla ferma, mentre Isabeau sentiva la
disgustosa lingua dell’uomo posarsi su ogni lembo di pelle
lasciato scoperto
dalla tunica.
Il terrore
raggiunse infine il suo
parossismo e mentre esplodeva nella sua testa, frantumò la
gabbia invisibile
che l’aveva paralizzata.
Isabeau
riuscì finalmente a urlare e graffiando
e scalciando si divincolò dalla stretta dal suo aguzzino. Si
voltò verso la
porta, con uno scatto afferrò la maniglia e
l’aprì.
Finì
tra le braccia dalla guardia che
aspettava dietro l’uscio.
“Per
oggi la lezione è conclusa, sarete
così cortese da tornare domani?”, la
congedò Glasdale. La guardia sghignazzava
mentre le stringeva i polsi con della corda ruvida e la trascinava
nuovamente
nelle prigioni.
Isabeau
trattenne le lacrime finché
il soldato non l’abbandonò nella cella.
Ian,
amore mio, perché ci metti tanto? Perché non mi
hai ancora tirato fuori
di qui? Ti prego, ti scongiuro, fa presto…
Infine,
ritirandosi in un angolo
della cella, lontana da tutte le altre donne, fu libera di piangere,
silenziosamente, soffocando i singhiozzi, senza che
nessun’altra la confortasse
o le domandasse cosa fosse successo. Tutte sapevano e la odiavano.
***
Il cibo
consisteva in un pentolone di
brodaglia e pezzi di pane duro di avena che galleggiavano dentro. Le
guardie lo
posarono all’entrata della cella insieme ad un secchio pieno
d’acqua.
Le donne,
affamate, si ammassarono
intorno al tegame, afferrando ognuna un pezzo di pane nero che poi
intingevano
nel denso liquame.
Isabeau pur
disgustata, non mangiava
dal giorno precedente e quando fu il suo turno fece per afferrare un
avanzo di
pane.
“Tu
no!” abbaiò contro di lei la
donna che le era di fianco, serrando la mano intorno al suo polso.
Isabeau la
guardò sorpresa, senza
capire.
“Tu
no!” ripeté con astio la donna, “Credi
che non sappiamo perché sei salita su? Tu sei la sgualdrina
del loro
comandante!”, l’accusò davanti a tutte.
Isabeau
era così sconvolta da non riuscire nemmeno a difendersi.
“Non è vero, io… ”
articolò debolmente.
“Hai
venduto il tuo bel corpo in
cambio di qualche favore, non mentire!”
Altre donne
annuirono e alcune di
loro l’additarono con disprezzo.
“E’
una sgualdrina!”, urlò una
seconda voce, “Il minimo che possiamo fare è
prenderci la sua porzione di cibo!”
“E’
una spia degli inglesi!” suggerì
un’altra.
“E’
già tanto se non ti uccidiamo con
le nostre stesse mani, sgualdrina!”
Quasi tutte le
donne dissero la loro
e nessuna difese Isabeau.
Si
rintanò ancora una volta nell’angolo
più remoto e buio della prigione e dopo essersi seduta con
la testa nascosta
tra le ginocchia, pianse sommessamente finché, distrutta,
cedette al sonno.
***
Le immagini
sfuocate della stanza
dov’era ricoverato, insieme ai volti sconosciuti di uomini e
donne, affioravano
a intervalli irregolari dal suo sogno, senza che Ian potesse in alcun
modo
comprenderle. In quei momenti udiva anche delle voci basse e
preoccupate e
sognava persino di mangiare e di bere un nettare meraviglioso, prima di
crollare ancora in un torpore confuso.
Finché
arrivò il giorno in cui,
quando cercò di aprire gli occhi, le immagini si rivelarono
più vivide, le
nebbie nella sua testa si diradarono e la realtà,
sorprendendolo, prese il
posto del sogno.
Ian si
guardò attorno non ricordando
com’era finito in quella stanza, dagli arredi ricercati e
lussuosi. C’era una
giovane accanto a lui, appisolata su una sedia. Cercò
Daniel, solo per accorgersi
che non era lì.
Si aspettava di
sentirsi debole,
invece si rese conto che si sentiva stranamente in forma e non aveva
fame.
Provava solo una gran voglia di balzare in piedi e distendere i muscoli
intorpiditi e così fece.
In quel momento,
ridestata dal
rumore, la giovane damigella seduta davanti al suo letto,
spalancò gli occhi e lo
spettacolo che vide davanti a sé le strappò un
imbarazzato sorriso. L’uomo che
aveva accudito così premurosamente in quei giorni, si era
alzato dal suo
giaciglio e si era appena accorto di essere nudo.
“Non
vi disturbate per la mia
presenza, Monsieur”,
cercò di
rassicurarlo, mentre Ian cercava goffamente di coprirsi con le
lenzuola,
strappandole dal letto, “chi credete si sia preso cura di voi
in questi giorni?”
Ian la
fissò per nulla meno
imbarazzato da quella rivelazione.
“Avevate
addosso lo stesso odore e lo
stesso sudiciume di un cinghiale selvatico!”, lo
accusò benevolmente, “Ma non
potrei arrossire a vedervi nudo da sveglio, più di quando
eravate nudo nel
sonno” aggiunse, mentre le sue guance, a quel ricordo, la
tradivano e si
infiammavano. “Oh, ma credo che adesso vi porterò
subito i vostri vestiti!”.
Ian
riuscì solo a mormorare un grazie
e non trovò di meglio che nascondersi nuovamente sotto le
lenzuola, in impaziente
attesa che la ragazza tornasse. Non sapeva nemmeno dove si trovava e a
chi
doveva quell’ospitalità.
La giovane
tornò pochi istanti dopo,
con in mano i vestiti di Ian accuratamente piegati e lavati.
“Aspetto
fuori, chiamatemi quando
avete finito di vestirvi!” e prima che Ian potesse
rispondere, gli porse il
fagotto e sparì dietro l’uscio, senza chiuderlo
del tutto.
“Sono
così contenta che vi siate
ripreso!” esclamò poco dopo da dietro la porta,
mentre Ian si stava
frettolosamente rivestendo. “Proprio stasera è
atteso il Signor Conte e lui
sicuramente vi vorrà vedere in forze per rispondere alle sue
domande”.
“Quali
domande?” si stupì Ian, “per
favore, Madamigelle, dove mi
trovo?”
“Siete
ovviamente alla Corte di
Francia, signore!”
“Siamo
al castello Chinon?” mormorò Ian,
meravigliato, “per favore, chi mi ha portato qui? Non ricordo
niente di quanto
è successo”.
“Povero
ragazzo! Siete arrivato qui
due giorni fa. I cavalieri che scortavano la carrozza della contessa vi
hanno
trovato per strada, voi e il vostro amico, entrambi svenuti”.
“Daniel?
Sta bene?”
“Il
vostro amico non possiede la
vostra corporatura, Monsieur”,
si
lasciò sfuggire la giovane, mentre ritornava con la mente a
quando aveva
strofinato con acqua tiepida e sapone i muscoli rilevati del ragazzo,
“ma se la
caverà senz’altro anche lui, è solo un
po’ più debole di voi e adesso sta
ancora riposando.”
“Vi
sarò sempre immensamente grato e debitore,
Madamigelle”.
Senza attendere
che Ian le
confermasse che si era rivestito, la giovane irruppe nuovamente nella
stanza e
si accostò a Ian, impegnatissimo a tirarsi su i calzoni.
“Oh,
la signora contessa ha dei buoni
motivi per avervi salvato la vita”, esclamò a
bassa voce, mentre aiutava Ian
con i lacci delle brache. Poi, fare da cospiratrice, gli
bisbigliò all’orecchio:
”Madame
sostiene che siete amico di suo figlio ma è anche convinta
che voi abbiate
tradito la sua fiducia e l’abbiate persino derubato! Cosa che
io non credo
affatto, naturalmente”, si affrettò ad aggiungere.
“Derubato?”
esclamò sorpreso Ian, “La
tua signora mi ha salvato la vita solo per farmi impiccare? Non
capisco!”
“Ho
ascoltato di nascosto, mentre Madame
ripeteva alle guardie che sarà
suo figlio, il Signor conte, a decidere la vostra sorte. Per questo lo
ha
mandato a chiamare! Ma il signor conte non ha potuto ancora recarsi
qui, perché
si dice che sia impegnato in qualcosa di importante! Dicono che
è in riunione con
l’erede al trono, Carlo VII!”
“Ma io
nemmeno conosco il signor
conte!” ribatté Ian, sempre più confuso
dalle parole della giovane.
“Lui
vi ha descritto così bene alle
guardie che vi hanno trovato, che credo vi conosca per forza, Monsieur! Magari l’avete
conosciuto in
battaglia, il giovane conte di Ponthieu…”
“Ponthieu!”
Ian sbiancò nel sentire
pronunciare quel nome. “Avete detto Ponthieu?”
“Visto?”
sorrise lei con aria
compiaciuta, “vi avevo detto che lo conoscevate, no? Dovreste
fidarvi di più della
vostra amica”, cinguettò la ragazza, atteggiando
le labbra ad una finta
espressione imbronciata.
***
Dal rumore e
dalle voci concitate che
udì provenire da dietro la porta, Ian intuì che
il conte stava arrivando di
gran corsa.
La porta si
spalancò di colpo, trascinando
con sé le parole ossequiose dei subalterni e le urla severe
del conte. Una voce
giovane ma autorevole, resa più profonda dall’elmo
calato sul volto, comandò
alle guardie di aspettarlo di fuori.
“Alla
mia sicurezza so badare da
solo!” ringhiò di nuovo il nobile,
“fuori di qui, ho detto!”
L’uomo,
interamente rivestito da una
splendida armatura decorata col motivo di un falco stilizzato,
entrò, subito
seguito da un ufficiale più esile ma ancora più
elegante dentro la propria
lucente corazza.
Ian
e la giovane damigella scattarono
immediatamente in piedi, porgendo con deferenza i loro saluti al conte
e poi
all’uomo al suo seguito.
In silenzio, il
conte fissò il
ragazzo per molto tempo e Ian ne percepì dietro la fenditura
dell’elmo, gli
occhi celesti e indagatori che lo studiavano con severità.
Il modo in cui
quegli occhi lo scrutavano, gli ricordarono fin troppo quelli di
Guillaume.
Cosa stava
pensando? Aveva già
compreso che non era lui l’uomo stava cercando? Come avrebbe
giustificato al
conte che lui era stato trovato in possesso del manoscritto con la
storia del suo
casato?
Per un attimo,
ringraziò il cielo che
Daniel fosse ancora troppo debole per sostenere un contraddittorio: se
fosse
stato costretto a inventare qualcosa per spiegare l’accaduto,
la presenza
dell’amico avrebbe potuto complicare la situazione.
L’uomo
infine si rivolse alla
damigella a fianco di Ian:
“I
miei due ospiti adesso godono di
buona salute, Sophie?”
La ragazza aveva
così fretta di
annuire, che rispose di si prima ancora che il conte avesse terminato
di
parlare.
“Bene,
ora lasciaci da soli, per
favore.”
“Come
volete, mio signore.” La
ragazza lanciò a Ian uno sguardo preoccupato e
sembrò volesse aggiungere
qualcosa, ma alla fine cambiò idea e sparì dietro
alla porta.
Non appena la
ragazza si fu
allontanata, Ian prese finalmente la parola:
“Innanzitutto,
mi preme informarvi che prima
che vostra madre mi salvasse la vita, stavo per recarmi proprio in
questo
luogo, per chiedervi di potermi unire ai cavalieri del vostro
esercito”.
“Servirete
senz’altro sotto il mio
comando”, acconsentì sbrigativamente
l’uomo.
Ian poteva
scorgere dalla fessura
sull’elmo, soltanto gli occhi attenti del feudatario, senza
tuttavia
indovinarne l’espressione. Facendosi coraggio,
continuò: “Vi ringrazio
infinitamente di avermi accordato questo privilegio e di esservi preso
cura di
me e del mio amico. Vi sarò eternamente debitore, mio
signore. Riguardo invece
il manoscritto…”
L’uomo
non gli consentì nemmeno di
concludere il suo discorso: “Sono io, invece, ad essere in
debito con voi ed è
motivo di gioia, poter finalmente cominciare a disobbligarmi,
cavaliere”.
“Non
sono sicuro di capire, signor
conte…”
Il suo
interlocutore alzò il palmo
della mano aperta, per intimare a Ian di tacere.
“Voi
mi avete già salvato più volte
la vita, Monsieur. Ma non sarebbe
servito a niente, poiché più di questo, col
vostro esempio, voi avete contribuito
a fare di me un uomo migliore.”
Ian non era
sicuro di aver compreso
appieno il senso della frase, era sconcertato e smarrito e temeva che
il conte
lo stesse ancora confondendo con qualcun altro che evidentemente gli
somigliava.
Stava per
ripeterlo al nobiluomo,
quando questi si rivolse all’ufficiale a suo fianco e gli
annunciò:
“Dinanzi
a me vedete l’unico uomo, inglese
o francese, al cui cospetto sono fiero di inginocchiarmi”.
Così
dicendo, posò a terra un
ginocchio e chinandosi davanti a uno Ian esterrefatto, si tolse
lentamente il
pesante elmo con l’effige del falco. Scrollò la
scompigliata zazzera bionda,
che si agitò per qualche istante nell’aria prima
di ricadere arruffata sulla
fronte.
“Ben
tornato a casa, Falco d’Argento”,
esclamò infine rivolto a Ian, con un sorriso colmo di
emozione e di gioia.
Ian
indugiò, ancora paralizzato da
quella scoperta, sbalordito oltre ogni immaginazione.
“T-Ty?”
balbettò ancora incredulo.
“Thierry
de Ponthieu”, lo corresse
lui, alludendo con un guizzo degli occhi al fatto che non erano soli.
Poi Ty si
alzò e lo avvolse in un abbraccio fraterno.
“So
che hai un mucchio di cose da
chiedermi, ma prima vorrei presentarti una persona”.
Ian
osservò l’ufficiale che aveva di
fronte, che intanto si stava liberando del proprio elmo.
E fu consapevole
che si era
sbagliato. Davanti a lui c’era una donna.
Anche se portava
i capelli castani
abbastanza corti per l’epoca, il taglio degli occhi, degli
zigomi, le labbra,
il collo sottile, rivelavano indubbiamente che era una ragazza, ancora
giovanissima.
Ed era la prima
donna che vedeva
dentro un’armatura.
Ma la cosa che
lo turbò di più,
mentre la sua mente cominciava ad elaborare spontaneamente quelle
informazioni,
era l’aurea di autorità e di ingenua dolcezza che
emanava, in splendido
contrasto tra loro.
La ragazza
avanzò di un passo e per
compiacere il conte, di fronte ad un suo caro amico, si
presentò porgendo il
dorso della mano a Ian: “Il mio nome è Jeanne e
provengo dalla regione della
Lorena. Se voi siete amico del conte Thierry, vi prego di farmi
l’onore di
considerarmi anche vostra amica, Monsieur”.
Ian
ghermì le dita affusolate della
giovane e piegò il capo per sfiorarle il dorso della mano,
senza che le parole che
intendeva pronunciare, gli uscirono mai di bocca.
Di
fronte, era impossibile sbagliarsi, aveva Giovanna D’Arco.
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Capitolo 8 *** Capitoli 16-19: riassunto ***
Senza
aspettarselo, a poco a poco,
scortandola e aiutandola nelle incombenze quotidiane, Ty si innamora di
quella giovane,
così devota al suo scopo, così determinata, con
una volontà incrollabile, così
sicura di sé, così genuina, così pura,
così diversa da tutte le ragazze di cui
si era vagamente infatuato nel XXI secolo. Un sentimento che fin
dall’inizio
gli sembra blasfemo sapendo chi e cosa lei rappresenta, eppure
inestinguibile e
innegabile. Lei non fa nulla per incoraggiarlo: porta i bei capelli
castano
chiari piuttosto corti per l’epoca, veste quasi sempre in
abiti maschili anche quando
si leva l’armatura, per non attrarre l’attenzione
degli uomini e proteggere la
sua purezza. Ciò nondimeno, Jeanne, accorgendosi dei
sentimenti di Ty, pur apprezzando
i modi gentili di quel giovane conte, deliziata da certi suoi imbarazzi
quando
la guardava e vedendolo così diverso dai nobili arroganti e
brutali ch’ella
conosceva, gli parla chiaramente: l’unico suo sposo
è il Signore per il momento,
aveva fatto voto di castità fino a quando a Dio fosse
piaciuto e gli spiega che
sarebbe stato Dio stesso a indicarle quando non sarebbe più
servita ai suoi
scopi e sarebbe quindi stata libera di dedicarsi ad un uomo. Prima del
successivo scontro di Les Tourelles, pur disperandosi perché
sapeva dai libri
di storia che non sarebbe mai accaduto, Ty riesce ad ottenere da lei
che quando
quel giorno arriverà, sarà lui
quell’uomo: un bacio quanto mai casto ma
infinitamente prezioso per entrambi, suggellerà il loro
patto segreto. Da quel
momento crescerà in Jeanne un lacerante tormento interiore
che la dividerà tra
il giuramento fatto a Dio e a Juliette di guidare l’esercito
francese alla
vittoria scacciando tutti gli inglesi e il desiderio crescente e
irresistibile
di abbandonare tutto e vivere il suo amore con Ty. Lei era solo una
ragazzina
di 17 anni, perché non poteva vivere come tutte le sue
coetanee?
Jeanne comunque
non perde tempo e riforma l'armata trascinando
con il suo esempio le truppe francesi e imponendo uno stile di vita
rigoroso:
fece allontanare le prostitute che seguivano l'esercito,
bandì ogni violenza o
saccheggio, vietò che i soldati bestemmiassero. Impose loro
di confessarsi e
fece riunire due volte al giorno, intorno al suo stendardo, l'esercito
in
preghiera. Il primo effetto fu quello di instaurare un rapporto di
reciproca
fiducia tra la popolazione civile ed i suoi difensori i quali, invece,
avevano
l'inveterata abitudine di tramutarsi da soldati in briganti quando non
erano
impegnati in azioni di guerra. Soldati e capitani,
contagiati dal carisma della giovane, dal sostegno del conte Thierry de
Ponthieu e dai suoi fedelissimi falchi d’argento come erano
conosciute le sue
milizie, sostenuti dalla popolazione di Orléans, si
preparano alla riscossa.
Ian nel
frattempo si allena ogni giorno, con feroce
determinazione. Temprato nel fisico e nella volontà dalla
vita severa cui si
era sottoposto nei molti mesi di soggiorno nel monastero di Saint
Michel, si
adatta velocemente alla nuova armatura a piastre personalizzata per la
sua
stazza e secondo le sue richieste e ad uno stile di combattimento
differente,
diventando in poco tempo uno dei più terribili guerrieri di
cui l’armata
francese dispone e guadagnandosi la stima assoluta dei falchi
d’argento, suoi
compagni d’arme.
Gli inglesi
intanto avevano accerchiato Orléans e avevano
occupato otto fortezze intorno alla città, dalle quali la
tenevano in scacco:
le Tourelles, le bastie degli Augustins, di Saint-Jean-le-Blanc (sulla
riva
meridionale della Loira), di Saint-Laurent, di Saint-Loup, le tre dette
"Londre",
"Rouen" e "Paris" (sulla riva settentrionale), ed infine di
Charlemagne (sull'isola omonima). Gli assediati erano tuttavia riusciti
a
tenere libera la porta di Bourgogne e quando Jeanne giunse sulla riva
meridionale, in sella ad un destriero bianco, di fronte al piccolo
borgo di Chécy,
il 29 aprile,
trovò ad attenderla il cosiddetto Bastardo
d'Orléans, comandante delle forze a
difesa dell’assedio.
Il comandante
francese la pregò di entrare in città per
quella via mentre i suoi uomini compivano manovre diversive, l'esercito
ed i
rifornimenti invece - necessari per sfamare la popolazione allo stremo
-
avrebbero atteso di poter essere traghettati attraverso il fiume non
appena il
vento fosse divenuto favorevole.
L'incontro tra
il comandante e la ragazza fu subito burrascoso;
dinanzi alla decisione di attendere che il vento girasse in modo da
consentire
l'ingresso dei rifornimenti e dei rinforzi, Jeanne, appena 17enne,
rimproverò
aspramente l'esperto uomo di guerra, sostenendo che suo compito sarebbe
stato solo
quello di condurre lei e l'esercito direttamente in battaglia, avrebbe
preso
lei le decisioni necessarie. Il Bastardo d'Orléans non ebbe
neppure tempo di
replicare poiché pressoché subito il vento
mutò direzione e divenne favorevole
al transito sulla Loira,
consentendo l'ingresso per via
d'acqua dei rifornimenti e dei rinforzi - circa 4000
uomini - che la ragazza aveva recato con sé.
Gli inglesi
erano ora guidati da Lord Glasdale dopo che il
precedente comandante, Thomas Montaigu conte di Salisbury, ferito
gravemente al
volto da alcuni detriti sollevati dal fuoco dell'artiglieria e ormai
morente,
era stato soffocato nel sonno dallo stesso Glasdale bramoso di prendere
subito per
sé il potere e avere via libera nel comandare
l’assedio col pugno di ferro e
disporre a suo piacimento dei prigionieri.
Nonostante la
veloce conquista di una delle
fortezze minori in mano agli inglesi, lo scontro decisivo sembrava
tuttavia dover
attendere ancora, quando un giorno gli informatori dei difensori
riportarono a
Ty la notizia che la notte del 7 maggio gli inglesi avrebbero ucciso,
nel
tentativo di fiaccare la morale degli assediati, proprio davanti agli
occhi dei
loro cari, tutti i prigionieri catturati. Le donne
“eretiche” sarebbero invece
bruciate vive sui roghi. Per Ty, Ian e Daniel è facile
convincere Jeanne della
necessità di sferrare l’attacco decisivo prima di
quel massacro. E così facendo
pianificano lo storico attacco a Les Tourelles.
Mattina del 7
maggio 1429, Orleans: iniziò l'attacco decisivo
agli inglesi, barricati dietro al portone fortificato de Les Tourelles,
secondo
il copione dell'assalto frontale in voga ai tempi. La stessa sera,
già ultimati
tutti i preparativi per i roghi, secondo i piani di Glasdale sarebbe
stato
consacrato al sacrificio di tutte le dame francesi che aveva catturato.
Inclusa
Isabeau.
In testa alla
formazione francese c’erano Ty e Ian. E
ovviamente lei. Sebbene non le fosse stata affidata formalmente nessuna
carica
militare, Jeanne era la figura centrale nelle armate francesi: vestita
da
soldato, impugnando spada e bandiera
bianca
con raffigurato Dio benedicente il fiordaliso
francese ed ai lati gli
Arcangeli Michele e Gabriele, si rivolse
così alle truppe
schierate: “Agite e Dio agirà! Gli uomini d'arme
si batteranno e Dio darà loro
la vittoria!” e pronunciando alla fine le famose parole
“Chi mi ama, mi
segua!”. Il piano elaborato da Ian prevedeva come prima cosa
di insidiare,
mediante alcune chiatte incendiate, gli archi del ponte, che servivano
in parte
come struttura muraria di base della fortezza. Quando Glasdale si
accorge di
Ty, l’uomo che lui sapeva di aver ucciso e gettato a marcire
nel fiume, di
fianco a Jeanne, in prima fila, senza elmo e con ben in evidenza i
colori del
Falco d’Argento, un superstizioso terrore si impadronisce di
lui, prima di
riprendere poco dopo il controllo di se stesso e gettarsi con folle
ferocia nel
combattimento.
Nel mezzo dello
scontro, Jeanne fu colpita come lei stessa
aveva predetto il giorno prima. Pur ferita da una freccia tra il collo
e la
scapola, non smette di combattere né cerca di farsi curare
sino al termine
delle ostilità, difesa con coraggio da Ty e tra le grida di
incitamento dei
suoi uomini che nel fatto straordinario videro la conferma del disegno
divino
che stava per compiersi: avrebbero vinto poiché era Dio a
volerlo.
Verso sera,
quando ormai il comandante francese si stava
preparando ad ordinare il disimpegno dallo scontro per il buio ormai
incombente,
Jeanne lo convinse a ritardare il proponimento, convinta a sua volta da
Ty e Ian
a trovare le forze necessarie per affrontare quella prova: Ian sapeva
dai libri
di storia che quella sera ci sarebbe stata la battaglia decisiva e non
voleva
dare tregua agli inglesi, che potevano impiegare quel tempo per mettere
in atto
il massacro dei prigionieri che avevano progettato.
Nel frattempo,
Glasdale, furibondo per le perdite subite e
per la paura irrazionale che attanagliava le sue truppe dinanzi agli
straordinari
comandanti dell’esercito nemico, decise che era il momento di
sferrare un duro
colpo al morale dei nemici e ordinò di portare
immediatamente tutti i
prigionieri e le donne ai roghi già allestiti.
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Capitolo 9 *** Capitolo 20 ***
L’aria
della boscaglia,
che fiancheggiava a poca distanza la sponda meridionale della Loira,
era pregna
dell'aroma penetrante della resina che colava dalle cortecce degli
alberi,
dell'odore di umido che saliva dalle foglie marcescenti sul terreno e
del sapore
piacevolmente fresco del muschio. Rovi e felci erano dappertutto,
intralciando
il passo di Ty appesantito dall’armatura. Non dovette
tuttavia attendere molto
prima di trovarla: a tradirla fu un riflesso che filtrava dalla corazza
di cui
si era liberata e che ora giaceva abbandonata a terra.
Jeanne,
appoggiata con
la schiena ad un grosso tronco, sembrava assorta in preghiera. La
fasciatura
leggera dov’era stata colpita dalla freccia trasudava ancora
sangue.
Ty si
avvicinò in
silenzio e attese che lei notasse la sua presenza.
“Cosa
ci fate qui, Monsieur Thierry? Vi
avevo già detto che
intendevo pregare da sola…”
“Siete
ferita, io non
vi lascio da sola nemmeno un minuto finché non vi rassegnate
a farvi curare
come si deve!” la rimproverò il ragazzo. Ian gli
aveva spiegato che la ferita
non sarebbe stata fatale, ma non poteva sopportare di vederla soffrire
e non
poter fare nulla per lei.
“Se
morirete adesso per
aver trascurato di curarvi, chi ci guiderà? Come
farò io senza la vostra
guida?”
“Tutti
dobbiamo morire
prima o poi, signor conte, è solo questione di sapere quando
e dove… Io non
pretendo di conoscere la volontà del Signore, ma di una cosa
sono sicura: so
che Egli mi proteggerà finché non avrò
assolto il compito che mi ha affidato.”
Ty non poteva
dimenticare
nemmeno per un secondo la sorte crudele che il Signore aveva
predestinato a
quella sua giovane figlia ma cercò, una volta di
più, di non farsi sopraffare
da quel pensiero. Jeanne, tuttavia, dovette cogliere qualcosa dal suo
sguardo poiché
aggiunse serena:
“Voi
vi preoccupate per
me e io vi ringrazio, ma non ne avete ragione. Guarirò
presto, abbiate fiducia
in Dio, Monsieur Thierry.”
“Voi
sanguinate ancora
e mi chiedete di non preoccuparmi. Voi sfidate l’esercito
invincibile di
Glasdale e mi chiedete di non preoccuparmi… Eppure, sapete
bene che non posso,
perché già conoscete ciò che provo per
voi…” Jeanne gli afferrò il braccio con
forza, impedendogli di continuare.
“Vi
prego Monsieur, non
ditelo!” Si ribellò Jeanne.
“Pure se sapessi di cosa state parlando, anche voi conoscete
qual è il mio
compito, vi prego, andate via!”
“Sono
sicuro che non è
davvero ciò che volete... Madame…”
“No!”
lo interruppe
ancora Jeanne. “Non adesso, vi prego, andate via!”
lo scongiurò.
Ty aveva il
terrore di
doverle tacere per sempre i suoi sentimenti e allo stesso tempo temeva
il
momento in cui le avrebbe parlato con sincerità,
confessandole tutto.
Non poteva
sapere che una
paura persino maggiore tormentava anche lei.
“Per
l’amor di Dio, andate
via! Vi prego!” lo supplicò ancora Jeanne mentre
cercava di ricacciare indietro
le lacrime.
“Sapete
che non posso, dunque
non chiedetemelo più.”
Jeanne ristette.
Ty si
avvicinò ancora
di più. Sfiorò con le dita il braccio e poi la spalla nuda di lei,
percorrendola
delicatamente fino alla base del collo, indugiando dove la fasciatura
era
intrisa del sangue ancora fresco che filtrava dalla ferita.
Inaspettatamente,
chiudendo
gli occhi, lei piegò il capo proprio da quella parte, fino a
strofinare con infinita
dolcezza la guancia contro la mano del ragazzo. Dopo qualche momento,
quando infine
lei risollevò il capo e socchiuse gli occhi, una sola
lacrima che Jeanne non
era riuscita a trattenere, le imperlava il viso.
Incredulo, Ty
lasciò
che le sue dita toccassero quella lacrima: gli parve cristallo
liquefatto e
credette che fosse la cosa più preziosa che avesse mai
visto. Era la prova dell’amore
di Jeanne per lui.
Quella goccia
che
adesso si scioglieva tra le dita, gli donò finalmente il
coraggio di vincere
ogni remora e di pronunciare dinanzi a lei, le parole che fino ad
allora aveva
ripetuto mentalmente solo a se stesso.
“Dal
primo momento che
vi ho vista ho saputo che eravate parte del mio destino, Madame…
ed è da quello stesso istante che io so di
amarvi.” Jeanne,
con un’espressione di muto sgomento dipinta sul viso,
scuoteva il capo come per
negare quelle parole e più cercava di negarle,
più le lacrime scorrevano ora
numerose a rigarle il volto.
“Vi
amo adesso e non
importa se voi mi amerete oppure no, se vivrò o
morirò, se voi vivrete o
morirete, io amerò per sempre solo e soltanto voi.”
Jeanne non disse
nulla.
Ma una forza irresistibile la attirò ancora di
più verso il ragazzo.
Terrorizzati
com’erano,
di stare così vicini, nessuno dei due osò
più parlare.
Ormai
erano così vicini che sarebbe stato
assurdo persino guardarsi ancora. Lei chiuse gli occhi per prima e Ty
non ebbe il
tempo di pensare ad altro, che già si accorse che la stava
baciando.
***
Il tempo si
arrestò e
riprese a scorrere solo quando le loro labbra si disgiunsero.
Fu allora che
ebbero il
coraggio di guardarsi ancora negli occhi, a lungo, increduli di quanto
era accaduto.
Finché Jeanne, stringendo tra le dita la mano di lui che la
sfiorava, pronunciò
la sua promessa.
“Nulla
accade senza che
Dio non voglia, Monsieur Thierry,
il
Signore ha sempre una buona ragione per ogni cosa. Sarà Egli
stesso a indicarmi
quando non sarò più utile ai suoi scopi e
sarò libera di dedicarmi ad amare un
uomo”. Adesso i suoi occhi verdi e arrossati, brillavano
lucidi ma non piangevano
più. “Quando quel giorno arriverà, se
mi amerete ancora, sarò vostra e voi
sarete quell’uomo.”
Dunque era
questo
l’amore, pensò Ty mentre udiva le parole che aveva
sempre desiderato ascoltare
da lei e prometteva:
“Quando
quel giorno arriverà, se mi amerete
ancora, sarò vostro e voi sarete la mia donna.”
Quando gli fu
finalmente chiaro il significato di ciò che si erano detti,
l’emozione si agitò
così violentemente in lui, che gli sembrò di
percepire con chiarezza un brivido
diffondersi dall’addome a tutto il suo corpo. No, ammise,
questo era più
dell’amore che si era sempre figurato: era amare scoprendo di
essere amati.
La
baciò sui soffici capelli
castani, l’aiutò a indossare l’armatura
e si avviarono mano nella mano verso l’accampamento,
dove l’esercito di armati e la cavalleria pesante di
Chatel-Argent capeggiata
da Ian li aspettavano.
Le aveva appena
detto
di amarla, rimuginava mentre si incamminavano, eppure adesso quelle
parole gli
apparivano già insufficienti, deplorando che non ne
esistessero di migliori per
esprimere appieno alla ragazza i suoi sentimenti. In fondo tutti gli
innamorati,
di qualunque epoca, si ripetevano da sempre quelle stesse parole e a
lui
sembrava che il suo amore per Jeanne dovesse essere unico, diverso
dagli altri
milioni di amori che esistevano in quel momento. “Giuratemi
solo di
sopravvivere finché non arriverà quel
giorno”, udì invece aggiungere dalla sua
stessa voce. Jeanne non seppe mai perché Ty le strinse
così forte le dita,
pronunciando quelle parole.
Jeanne non aveva
paura
della morte, né di morire in nome del suo Signore, ma per la
prima volta
conobbe la paura di morire senza aver amato un uomo.
Ancora non
sapeva che
la Morte aveva già posato gli occhi su di lei.
***
“Dov’è?
Dov’è quella
cagna francese! Portatela qui”, tuonò Glasdale
fuori di sé, “ADESSO!”
“Perdonatemi,
Milord, dobbiamo liberarla?
L’abbiamo
incatenata allo steccato di uno dei roghi, come vostra signoria aveva
ordinato”.
“La
voglio sgozzare io
stesso! Voglio gettare la sua graziosa testa ai piedi di
quell’infame francese
che ha bruciato questa fortezza, obbedite!”
“Perdonatemi
se
insisto, mio signore, il fumo che sale dalle chiatte incendiate e dal
bastione
non consentono un agevole passaggio verso il ponte”,
proferì il cavaliere
inglese, non osando alzare lo sguardo oltre gli stivali del suo
comandante, “non
sarebbe più semplice bruciarla insieme a
tutte le altre sgualdrine francesi?”
Lord Glasdale,
inferocito, avanzò di un passo verso il suo luogotenente.
“Quale
parte del mio ordine non vi è ancora
chiaro, sir Falstolf?”, sibilò con un sorriso
sardonico dipinto sul volto e
poi, senza alcun preavviso, scagliò verso
l’ufficiale un brutale calcio in
pieno ventre che lo piegò in due senza fiato e lo fece
inginocchiare a terra,
mentre boccheggiava nel tentativo di respirare.
“Non
permettetevi di
discutere una seconda volta un mio ordine. Ora andate e portatemi
quella donna!
Avete compreso le mie parole, adesso?”
L’ufficiale,
mentre
ancora tossiva e non riusciva a raddrizzarsi dal dolore,
annuì e con passi
incerti sparì dalla vista del comandante inglese.
Oltre il portone
posteriore della fortezza di Les Tourelles, le fiamme salivano alte,
ammorbando
l’aria intorno e rendendola irrespirabile. La cancellata
posteriore si
affacciava direttamente sul ponte di pietra lungo circa quattrocento
metri,
eretto per congiungere la sponda meridionale della Loira alla
città di Orléans.
Poco prima del
punto in
cui gli assediati avevano interrotto il ponte durante la ritirata, si
ergevano una
dozzina di rozze impalcature sovrastate da palizzate, alle quali erano
state
incatenate le donne francesi catturate. Gli abitanti della
città, con orrore,
avevano subito compreso che si trattava di roghi collettivi, che
avrebbero presto
offerto il loro macabro spettacolo ben visibile dalle mura di
Orléans.
Ma
più di questo, ogni
cittadino avrebbe ascoltato le urla disperate di quelle disgraziate:
sarebbero
state le grida delle loro mogli e delle loro figlie.
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Capitolo 10 *** Capitolo 21 ***
Ty
l’aveva fatta
semplice, “Il mio posto è stare vicino a Jeanne e
proteggerla, tu invece, molto
più di me, sai cosa devi dire, cosa devi fare…
qualunque cosa tu faccia mi
renderai orgoglioso di te, ora va… i tuoi
uomini ti aspettano…”
Così
dicendo, era
salito a cavallo e affiancatosi a Jeanne aveva atteso che la ragazza
ordinasse nuovamente
l’attacco a Les Tourelles.
Nonostante la
ferita, impugnando
la spada e la bandiera
bianca con raffigurato Dio benedicente il fiordaliso
francese, Jeanne comandava
ancora i suoi uomini dalla prima linea.
Da
dov’era adesso, al
riparo con tutta la cavalleria pesante dagli sguardi degli inglesi, Ian
non
poteva ascoltare le parole che la ragazza rivolgeva alle truppe,
udì soltanto
il grido che pronunciò alla fine:
“Agite
e Dio agirà!”
Poi
l’immenso
reggimento di soldati reclutati tra il popolo si
era lanciato una seconda volta verso il
castelletto. Li aveva osservati mentre avanzavano camminando per poi
trasformare progressivamente il passo in una corsa leggera, urlando per
darsi
coraggio.
Ian
scrutò la posizione
dell’esercito inglese ai piedi della piazzaforte in fiamme.
Tra poco il sole
sarebbe tramontato, nascondendo finalmente alla vista la mattanza dei
corpi
straziati nella precedente battaglia e di quelli che ancora non
sapevano che
non avrebbero più rivisto un’alba. Con
l’animo freddo e risoluto di chi sapeva
di non aver nulla da perdere, volse quindi lo sguardo verso le sue
truppe.
Li vide
stremati,
feriti, decimati dal precedente scontro, sporchi del loro stesso sangue
e di
quello degli uomini a cui avevano tolto la vita, ma i soldati di
Chatel-Argent che
potevano ancora reggersi su un cavallo erano tutti dinanzi a lui: la
cavalleria
pesante in prima linea e gli arcieri a cavallo nella retrovia.
Cercò Daniel in
mezzo agli altri cavalieri e gli rivolse un silenzioso saluto.
Sapendolo nella
retroguardia con gli arcieri, attenuava un poco
l’apprensione, ma non gli
alleggeriva la coscienza: stavano contravvenendo per
l’ennesima volta al patto
che i due amici avevano inutilmente stretto in passato. La sorte
sembrava prendersi
gioco di loro e più giuravano di tenersi lontano dal
pericolo, più il pericolo infine
li reclamava a sé, come se non fossero mai davvero padroni
del loro destino.
Con la mano
libera
dalle briglie, accarezzò il collo già leggermente
sudato del poderoso cavallo
da guerra. L’animale nitrì e si lasciò
condurre docilmente davanti allo
schieramento dei cavalieri. Ancora poco e sarebbe stato scontro in
campo aperto
con gli inglesi e allora, in un modo o nell’altro si
augurava, avrebbe potuto chiudere
i conti col destino.
Non aveva
più paura di morire
oramai, non temeva più nulla per sé dopo quanto
era accaduto, ma di una cosa
aveva ancora il terrore: cadere in battaglia senza aver rivisto
un’ultima volta
Isabeau, morire senza sapere di averla salvata, senza conoscere se lei
era
ancora viva, se aveva sofferto. Se le avevano fatto del male. Ognuno di
questi
interrogativi era doloroso in modo intollerabile, ogni dubbio era
insopportabile
e l’avrebbero divorato finché fosse impazzito
oppure avesse finalmente trovato
le risposte che cercava.
Era
più che mai
consapevole che solo la battaglia imminente avrebbe placato la sua
rabbia e
solo il sangue di William Glasdale avrebbe estinto la sua sete di
vendetta.
Daniel
l’aveva
affermato apertamente e Ian sapeva che non si sbagliava: il rapimento
di
Isabeau l’aveva cambiato per sempre: come una crisalide,
quell’episodio l’aveva
aiutato a rimuovere definitivamente il vecchio involucro, ma dalla muta
non ne
era emersa una farfalla, ma il cavaliere temibile e implacabile che era
diventato. Lui apparteneva al Medioevo ormai, fino all’ultima
fibra del suo
essere e gli scrupoli di civiltà dell’uomo moderno
erano ricordi lontani ormai parecchi
secoli.
Con ancora
questi
pensieri che gli affollavano la mente, fece caracollare il cavallo per
qualche
passo, attendendo che le voci degli uomini in formazione di fronte a
lui si
quietassero prima di prendere la parola.
“Cavalieri,
ascoltatemi…”
esordì non senza una traccia di emozione nella voce e
sull’adunata scese progressivamente
il silenzio. “Come me, molti di voi hanno già
affrontato innumerevoli volte i
momenti che precedono la battaglia, chiedendosi ogni volta se
sarà l’ultima…”
Ian attese un istante, abbracciando con lo sguardo le centinaia di
armati
schierati in rassegna intorno allo stendardo del Falco
d’Argento.
“Voi
sapete perché
siete qui, intorno a questo stendardo”, continuò,
avvicinandosi e serrando con
rabbia l’asta che reggeva il blasone.
“Conoscete,
cavalieri,
il tributo di sangue e di gloria che la Francia esige da questo
esercito, più
alto di quanto oserebbe mai chiedere a qualunque altro,
poiché grande è la
nostra fama e più grande ancora…”,
urlò poi con tutto il fiato che aveva in
gola, “E’ IL NOSTRO VALORE!”
Un boato fu la
risposta, mentre un fremito di orgoglio percorse ogni uomo e
sembrò quasi
prendere vita, scintillando sulle spade sguainate in segno di saluto
alle
parole di Ian.
“Un
giorno, forse, arriverà
il momento che esausti, rotti, senza più sangue nelle vene,
non avremo più la
forza di combattere… Ma io vi dico, che non è
oggi quel giorno!”
Allentò
la presa sulle
redini e con una leggera pressione delle gambe ordinò al
cavallo di muoversi al
passo lungo tutto il fronte dello schieramento.
“Un
giorno forse indietreggeremo dinanzi al
nemico, ci lasceremo spaventare dalla morte e anzi la invocheremo. Ma
ancora vi
dico, che oggi… non è quel giorno!”
“Falchi
d’Argento!
Arriverà forse il momento in cui lasceremo indietro gli
amici, abbandoneremo
i compagni e
persino la speranza. Ma vi
giuro…”, Ian attese un istante prima di liberare
il suo grido, “che oggi non è
quel giorno!”
A far da eco
all’impeto
di queste parole, fu stavolta il clangore dell’acciaio
colpito ritmicamente
dalle armi dei cavalieri: per qualche momento il cuore di ogni uomo
pulsò allo
stesso ritmo delle centinaia di spade e di lance contro gli scudi, un
battito
così assordante che Ian rimase invano in attesa che si
placasse.
“E se
mai arriverà il
tempo”, urlò sopra quel frastuono, “in
cui tutti noi saremo costretti a
piegarci, in ginocchio, davanti alla corona d’Inghilterra,
sappiate ancora…”,
li spronò a gran voce, “che oggi non è
quel giorno!!”
“OGGI
NON E’ QUEL GIORNO!!” ruggirono le
milizie di Chatel-Argent, con un’unica terribile voce che
fece tremare gli
animi e la terra, sopra il rumoreggiare delle grida e del metallo
percosso
adesso senza sosta.
“No,
non è oggi quel
giorno”, confermò qualche tempo dopo il ragazzo e
tra gli armati calò
lentamente il silenzio, disturbato soltanto dallo scalpitare delle
cavalcature,
ancora innervosite dalle grida degli uomini.
“Perché
oggi, cavalieri, è invece il giorno
che liberemo le nostre donne e i nostri fratelli! Oggi è il
giorno che
spezzeremo le loro catene!” Ian si concesse un solo istante
per riprendere
fiato. “OGGI!” tuonò infine scandendo a
squarciagola ogni singola parola, “È IL
GIORNO! CHE SCRIVEREMO! LA STORIA! DI FRANCIA! SIETE CON ME FALCHI
D’ARGENTO?”.
Un
boato assordante di approvazione vibrò a
lungo nell’aria, finché lo stesso Ian chiese
ancora, con voce ormai roca:
“Siete
tutti con me
fino alla morte?”
“Fino
alla morte!”
replicarono i cavalieri in un solo boato, mentre Ian sguainava e
sollevava in
alto la spada, pronto a gettarsi nella furia della battaglia. In quel
momento,
mentre ogni uomo replicava il gesto del loro comandante, migliaia di
riflessi
catturati dalle lame balenarono sull’intera adunata, tingendo
il metallo già
intriso nel sangue con il rosso acceso del sole morente.
Ian volse
rapidamente lo
sguardo verso l’esercito guidato da Jeanne e Ty, per cogliere
la loro
posizione: era tempo di agire.
“E
allora, cavalieri…
per Jeanne d’Arc! Per amore della nostra terra! E nel nome di
Dio… Andiamo a
forgiare il nostro destino!”
Isabeau,
amore mio, sto arrivando, aspettami, ti prego
aspettami… fu
il suo
ultimo pensiero, prima di scagliarsi in avanti, verso la fortezza
rischiarata
dai bagliori delle fiamme che la consumavano.
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Capitolo 11 *** Capitolo 22 ***
Lord Glasdale
osservò
quell’esercito gettarsi sconsideratamente tra le fauci
spalancate delle sue
truppe.
“Arcieri,
pronti al mio
via!”
“Al
suo segnale, Milord.”
“Falceremo
quegli
stolti mangiarane come fili
d’erba
secca!” Glasdale era fiducioso che il long
bow inglese, l’arco
lungo con una gittata di novanta metri con il quale tutti i sudditi del
Re
d'Inghilterra avevano il dovere di esercitarsi, avrebbe decimato la
fanteria
leggera nemica con un’unica raffica. “Tenete
pronta la retrovia per il colpo di grazia, voglio che si lanci in
avanti non
appena la prima scarica di frecce si sarà abbattuta su di
loro”.
***
“Disporsi
in colonna!”
Urlò Ian alle truppe a cavallo, “tutti in fila per
due!”
Pochi alberi
intralciavano il passo sullo sterrato e man mano che si fossero
avvicinati alla
riva meridionale della Loira, i tronchi si sarebbero trasformati in
radi
cespugli e gli ostacoli si sarebbero quasi del tutto diradati.
A uno a uno le
centinaia di cavalieri confluirono secondo i piani in tre lunghe fila,
una
centrale e due molto larghe ai lati.
Ian si sporse in
avanti
per cercare di scorgere la posizione degli uomini di Jeanne e Ty
davanti a loro.
Ancora poche centinaia di passi e avrebbero raggiunto la via maestra
che
portava al vecchio monastero vicino alla fortezza, risultando da quella
distanza un facile bersaglio per il tiro degli arcieri nemici.
Doveva fare in
fretta,
l’effetto sorpresa avrebbe funzionato solo coordinando con
precisione i
movimenti dei due schieramenti.
“Avanti
cavalieri!” spronò i suoi uomini e
diede lui stesso l’esempio, allentando la presa sui finimenti
di cuoio delle
redini e spingendosi avanti per primo. Dietro di lui, le colonne di
armati si
mossero insieme.
Stringendo i
polpacci sul fianco dei
cavalli e scaricando il peso sulle reni, i cavalieri tramutarono il
passo
iniziale con cui la cavalleria s’era inizialmente mossa, in
un’andatura al
trotto.
Qualche istante
dopo, i capofila
ordinarono di procedere al galoppo e in poco tempo la cavalleria di
Chatel
Argent fu quasi a ridosso dell’esercito di Jeanne,
approfittando del leggero pendio
per restare ancora nascosta agli occhi degli inglesi.
Sul fronte
opposto,
Glasdale stava valutando la distanza dei francesi e decise che erano
quasi a
tiro. Il suo sorriso si tramutò in un ghigno feroce, nel
momento in cui i suoi
pensieri si posarono sulla vittoria imminente. Sì,
finalmente avrebbe
catturato, meglio ancora se viva, la giovane strega e avrebbe tagliato
la gola,
con la sua stessa lama, all’insolente che aveva dato alle
fiamme la roccaforte
di Les Tourelles.
Dopo
l’incendio della
bastia, per qualche tempo ammise di aver temuto il peggio, che sciocco
era
stato a pensare che un francese potesse sconfiggerlo in strategia
militare!
La ricca e
potente
Francia, popolata da circa venti milioni di abitanti, stava per essere
piegata
dall’Inghilterra cinque volte più piccola e la
causa immanente della vittoria
inglese risiedeva nella loro indiscutibile supremazia militare.
I francesi,
considerò
ancora osservando la loro linea esposta senza copertura ai suoi
arcieri, erano
tanto ottusi che si infliggevano la sconfitta da soli. Ma il suo
disprezzo era
soprattutto per le loro donne: erano streghe come quella folle con
l’armatura o
sgualdrine, come ogni buon inglese timorato di Dio sapeva.
Con ancora quel
ghigno
spietato sul volto, si preparò ad alzare il braccio, per
segnalare agli arcieri
di tendere gli archi e mirare.
Rimpianse un
poco di
non avere più le possenti colubrine che non aveva ancora
potuto far calare
dalla fortezza: amava morbosamente
osservare l’effetto di un colpo di colubrina su un essere
umano e si compiaceva
delle devastazioni che procurava alla carne.
Ebbe un ultimo
pensiero
per la prigioniera francese, che odiava più di qualsiasi
altro nemico. Tirò fuori
dalla piccola sacca che teneva appesa alla cinta dello spadone, una
lunga
ciocca dei suoi capelli d’oro e se la passò tra le
dita. Assaporò
con eccitazione, il gusto di più di
una crudele tortura che avrebbe potuto infliggerle, prima di ucciderla.
Falstolf la stava conducendo da lui, si compiacque, e questa volta
Thomas
Montaigu, compianto conte di Salisbury, non sarebbe più
stato in grado di
salvarle la vita. No, non avrebbe avuto fretta con lei, sarebbe stato
il piacere
sublime e cruento con cui brindare alla vittoria.
Spinse ancora lo
sguardo nella direzione del fronte francese: sapeva che non appena
avesse
abbassato il braccio, tenendolo teso davanti a sé, una nube
nera e acuminata
avrebbe investito i suoi odiati nemici, spalancando loro le porte
dell’inferno.
***
Non
appena Ty udì arrivare le prime file di
cavalieri capeggiati da Ian alle loro spalle, comprese che era giunto
il
momento di giocare a carte scoperte. Bastò un silenzioso
cenno d’intesa con
Jeanne e come convenuto, il profondo e cupo suono di un corno fu il
segnale che
diede il nuovo ordine agli uomini che avanzavano a piedi:
all’improvviso
l’esercito compatto spalancò un varco nel mezzo,
aprendosi in due tronconi.
Lo
spazio era sufficiente per lasciare passare
al centro dello schieramento, la fila centrale di armati a cavallo
lanciati a
folle velocità, mentre le due restanti ali aggiravano le
estremità della formazione
in marcia e la superavano con agilità.
Quando Glasdale
si accorse
dello strano movimento nelle linee francesi, era troppo tardi: in
quello stesso
momento echeggiò il sibilo inconfondibile dello stormo di
frecce che davanti a
sé iniziava a disegnare la sua mortale parabola in cielo.
“Arrestarsi!”
gridò Ty,
“Tutti al riparo sotto gli scudi!” fece appena in
tempo ad urlare proprio
mentre Glasdale dava ordine agli arcieri di liberare i loro dardi
micidiali.
Tutti gli uomini
si
rannicchiarono più che poterono sotto gli scudi, mentre per
alcuni secondi che
sembrarono non dovessero mai finire, le frecce rimasero sospese
nell’aria, come
una nuvola oscura e sinistra. Poi all’improvviso, in un solo
istante, l’intera
nube li inghiottì, rivelando i suoi aculei mortali.
Sibilando
tutt’intorno
nell’aria, le frecce s’infransero sul metallo, si
conficcarono sul legno, si
disseminarono sul terreno, spandendo ovunque morte e lamenti. Alcune
trovarono
ugualmente un pertugio, dilaniando braccia, gambe e piedi. Altre
infransero gli
scudi e trafissero gli sventurati. Dopo che quella nube infernale si fu
abbattuta, non furono pochi i gemiti e le grida di sofferenza che si
levarono
sul campo di battaglia.
La cavalleria
pesante
disposta nelle tre fila oltrepassò velocemente il nugolo di
frecce, concedendo
al nemico un bersaglio troppo esiguo per poter mietere vittime
direttamente tra
i cavalieri, protetti dalle armature. Più di un cavallo fu
invece ferito dai
dardi che piovevano dal cielo, sbalzando violentemente i loro cavalieri
a
terra, nella polvere. Ma il cavaliere precedente prese il posto di
quello
caduto, nessuno si fermò o rallentò il passo, la
macchina terribile ordita da Ian
era lanciata inarrestabile sul suo obiettivo e niente avrebbe potuto
intralciarla.
“Ora!
Puntare le
lance!” Le scintillanti punte di metallo scattarono
immediatamente verso il
basso, parallele al terreno. “Spargersi a
ventaglio!”, tuonò subito dopo Ian,
oltrepassando velocemente la via maestra.
Le retrovie di
ogni
fila, approfittando del terreno ormai spianato, aumentarono
l’andatura per
raggiungere e affiancare ai lati i cavalieri che li precedevano in
prima linea.
“Lancieri,
serrate! Serrate
le fila!”, ruggì ancora Ian.
Le
ali si unirono progressivamente al centro,
mentre la formazione disegnava la caratteristica linea del cuneo,
distribuendosi
lungo tutta la larghezza del fronte. Gli inglesi che si aspettavano di
fronteggiare la fanteria leggera, si trovarono all’improvviso
bersaglio di uno
spiegamento di cavalleria pesante, lanciata a tutta velocità
contro di loro.
***
“Quel
dannato francese,
che bruci all’inferno!” Lord Glasdale era incredulo
e la sua collera
incontenibile, mentre osservava la linea dei cavalieri che stava per
abbattersi
ineluttabilmente contro le sue truppe. Senza picchieri a contrastare le
cavalcature e le lance del nemico, la battaglia si sarebbe presto
risolta in
una carneficina.
Realizzò
troppo tardi
che Ian aveva nascosto i cavalli, inutilizzabili per
l’iniziale assalto alla
fortezza, nella retroguardia ai margini del bosco. Dopo aver dato alle
fiamme gli
archi del ponte, che servivano come struttura muraria di base della
roccaforte,
all’estremità della riva meridionale, aveva
costretto i suoi uomini ad
abbandonare la fortezza e a combattere in campo aperto, se non volevano
essere
divorati dalle fiamme o uccisi dalle esalazioni di fumo.
“Armate
le balestre e
gli archi! Restate ai vostri posti!”, il comandante inglese
urlava ordini che
nessuno eseguiva o dava segno di udire. “Ucciderò
con le mie stesse mani chi
non obbedirà, codardi! Vigliacchi! Traditori!”,
ripeteva con un’espressione
spaventosa che gli mascherava il volto. Ma molti uomini, terrorizzati
dagli
schiumanti cavalli da guerra che sopraggiungevano al galoppo e dalle
lance
puntate su di loro, stavano già abbandonando la posizione
per darsi alla fuga.
Menò selvaggiamente nell’aria più di un
fendente con il suo spadone, senza
poter raggiungere nessuno di quei disertori. Finché la sua
furia impazzita
trovò finalmente un bersaglio a portata della sua lama.
L’impatto
dell’acciaio
che strappava maglie metalliche e carne, un suono a lui piacevolmente
familiare
e che amava, gli restituì la lucidità per
pensare. Poteva anche succedere che Les
Tourelles cadesse, giurò a se stesso, ma prima che fosse
accaduto, si sarebbe
preso la vita di quel francese e della sua donna.
Fu in quello
stesso
momento che Isabeau, a poco più di un centinaio di metri di
distanza dal fronte,
udì le grida degli inglesi e il frastuono della cavalleria,
senza poterla
vedere.
Sir Falstolf,
seguito
da quattro soldati, percorreva a grandi passi il ponte, affrettandosi
proprio
verso la palizzata cui era incatenata, con un orribile coltellaccio in
mano. Quando
la ragazza vide ogni soldato stringere una torcia infuocata, seppe che
era
giunto infine il momento di pregare.
Non si sarebbe
mostrata
debole di fronte a quegli animali e soprattutto davanti a lui, che avrebbe goduto ancora
maggiormente di quello spettacolo. Ma
quando ebbe la certezza che non avrebbe più rivisto Ian, che
non avrebbe più
potuto stringere tra le braccia Marc e Michel, fu come se le fiamme la
stessero
già divorando, straziandole l’anima. Si fece
coraggio, ordinò al suo corpo di
non piangere, serrò i denti, affondò le unghie
nella carne, ma la sofferenza di
non rivedere mai più i suoi cari era così
crudele, così atroce. Così ingiusta...
La vista era sempre più velata e confusa dalle lacrime che
si affollavano sulle
palpebre. Falstolf era lì.
Isabeau non si
arrese,
chiuse gli occhi per qualche istante e quando li riaprì per
guardare con
disprezzo gli inglesi davanti a lei, aveva già ricacciato
indietro la
disperazione e il pianto.
Fu proprio
allora che vide
in lontananza un uomo, in sella ad un possente cavallo da guerra,
mentre
superava al galoppo lo sbarramento di fumo all’inizio del
ponte.
Era
Daniel.
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Capitolo 12 *** Capitolo 23 ***
Dalla fessura
dell’elmo
calato sul viso, mentre era lanciato al galoppo, Ian poteva ormai
scorgere
chiaramente i suoi avversari.
Sentiva
i suoi respiri risuonare sempre più
forti e affannosi all’interno dell’elmo,
finché lentamente le grida, il
calpestio degli zoccoli e ogni altro rumore, si ridussero soltanto
all’eco assordante
del suo ansimare: la concentrazione adesso era assoluta. Percepiva
l’adrenalina
scorrergli nel sangue e la paura, com’era normale che fosse,
istillarsi
brutalmente in lui. Ma Ian aveva imparato che tra poco, non appena i
due
schieramenti si fossero scontrati, non ci sarebbe più stato
tempo per pensare o
per tremare.
In battaglia non
c’era
tempo per nulla, se non per vivere o morire.
In una frazione
di
secondo, sapeva di dover agire per strappare la propria vita alla
morte, offrendole
in cambio la vita di un altro e un istante dopo, tutto ricominciava
daccapo, in
un balletto che si sarebbe concluso soltanto quando la terra fosse
stata
abbastanza pregna del sangue degli uomini. E prima
che si fossero contati vincitori e
vinti, morti e vivi, spesso in quel macabro spettacolo si perdeva
persino la
memoria del motivo per cui si era combattuto.
Ian strinse gli
speroni
sui fianchi della sua cavalcatura, trasformando l’andatura al
galoppo nella
carica finale, subito imitato dai suoi uomini.
Le
figure poco prima indistinte degli inglesi,
acquistarono volti ed espressioni. Nella moltitudine scelse un
bersaglio,
sforzandosi di liberare la mente da qualsiasi altro pensiero che non
fosse il
suo obiettivo. D’ora in avanti solo l’istinto e
l’esperienza l’avrebbero
guidato e l’unica voce che avrebbe sentito, fino al momento
in cui tutto fosse
finito e si fosse sbarazzato dell’elmo, sarebbe stato
soltanto l’eco pesante del
suo respiro.
Gli inglesi
davanti a
lui erano visibilmente sconcertati dall’arrivo della
cavalleria pesante e
fuggivano da ogni parte, come selvaggina braccata dai battitori.
Quando scorse la
prima
linea di cavalieri abbattersi sul groviglio di soldati inglesi in
rotta, si
aspettò già di godere del sapore dolciastro della
vendetta, ma nel massacro che
seguì non trovò nulla che potesse placare la sua
furia.
Cercò
di convincersi
che non gli interessava la sorte dei suoi nemici, che lui voleva un
solo uomo,
William Glasdale, ma quella carneficina non fece altro che accrescere
la sua
irritazione.
Davanti a lui,
un
inglese attraversò il suo campo visivo correndo
disperatamente, zigzagando nel
tentativo di sfuggire al nemico, che comparve subito dopo
all’inseguimento,
spronando il suo destriero. Il fuggitivo inciampò in un
compagno già cadavere e
mentre il francese sopraggiungeva, alzò le braccia per
difendersi,
incrociandole davanti al volto. Il cavaliere aveva già
spezzato la sua lancia
contro un altro avversario e Ian lo vide ergersi in equilibrio sulle
staffe e
prendere la mira con la spada. Quando fu colpito, l’inglese
crollò a terra e
non si rialzò mai più.
La
cavalleria francese, sebbene notevolmente
inferiore nel numero, rase al suolo la fragile resistenza opposta dai
fanti, dagli
arcieri e dai balestrieri delle guarnigioni inglesi di Les Tourelles e
di Augustins,
lasciando a terra, disseminate tra i corpi martoriati dei loro
avversari, le lance
spezzate e insanguinate dei cavalieri.
Il suo cuore
pulsava ancora
ad un ritmo impossibile, ma Ian non lo ascoltava, né vedeva
davvero la strage
sotto i suoi occhi. In testa aveva soltanto l’eco del pesante
respiro che
risuonava dentro l’elmo e la sete di vendetta contro chi
aveva rapito e forse
violentato, torturato e ucciso la donna che amava.
Dopo aver
attraversato
completamente le file nemiche, fin quasi ad arrivare al cancello
frontale della
bastia in fiamme, cercò Daniel, individuandolo nel mezzo
degli arcieri a
cavallo che sopraggiungevano con la retroguardia della cavalleria.
Quando lo
raggiunse, scostò rapidamente l’ingombrante elmo
per rivolgersi all’amico:
“Presto,
attraversa il
ponte e cerca di salvare le donne!” Non menzionò
Isabeau, non voleva sperare
invano, ma non poteva nemmeno ammettere che fosse troppo tardi.
Daniel
annuì e subito
dopo si girò sulla sella per individuare gli uomini che
secondo il piano di attacco
dovevano accompagnarlo sul ponte, “Ci vediamo dopo la
battaglia, cerca di non
fare l’eroe…”.
“Nemmeno
tu”, replicò
asciutto Ian.
Il
senso di urgenza non permise a Daniel di
dilungarsi oltre. Avrebbe voluto rassicurare l’amico, dirgli
che sarebbe
tornato con Isabeau, ma capiva che le sue parole sarebbero state
inutili, Ian sapeva
che lui avrebbe fatto tutto il possibile e nella
loro amicizia non servivano parole superflue.
“Arcieri, a me!” li chiamò
a raccolta Daniel,
urlando sopra le grida della battaglia. Gli uomini scelti si riunirono
immediatamente
davanti alle rovine in fiamme della fortezza. Ognuno di loro
tirò fuori da un
borsone un grande panno che poco prima era stato imbevuto
nell’acqua. Stesero
gli ampi drappi bagnati sulle loro cavalcature, avendo cura di coprire
il muso
e le spalle dei cavalli. Loro stessi, si coprirono con altri tessuti
inzuppati
e quando furono pronti, Daniel ordinò: “Vado io
per primo, voi seguitemi subito
dopo con gli archi pronti!” così dicendo,
lasciò andare le redini e con un colpo
secco ai reni del cavallo, si lanciò attraverso il portone
frontale della
fortezza, avvolto dalle colonne di fumo nero.
Ian
osservò Daniel
mentre scompariva oltre i miasmi del fuoco, di fronte
all’entrata di Les
Tourelles. Il destino delle donne prigioniere e forse della stessa
Isabeau,
adesso era in mano dell’amico. Lui, invece, doveva finire
ciò che aveva
iniziato.
“Falchi
d’Argento!”
attirò a gran voce l’attenzione delle sue truppe,
“Indietro, ritirata!
Ricongiungersi alla fanteria!”
Mentre dava
l’ordine, tirò
sulla destra i finimenti delle redini, facendo girare il cavallo su se
stesso.
Prima che la retroguardia inglese potesse organizzarsi e sfruttare la
superiorità numerica, il loro piano di battaglia prevedeva
di ricongiungersi
velocemente con la fanteria guidata da Jeanne e prendere nuovamente
d’assalto le
truppe inglesi, con una nuova carica frontale.
Al comando di
Ian, i
cavalieri di Chatel Argent si raccolsero progressivamente intorno al
loro
comandante, girarono i cavalli, porgendo le spalle alla fortezza e in
breve
raggiunsero le truppe di Jeanne e Ty, che li aspettavano nei pressi
della
strada maestra.
Fu in quel
momento che
un frastuono assordate di voci giunse dal loro fianco destro. Le truppe
di
Saint-Jean-le-Blanc, la terza guarnigione inglese sulla sponda
meridionale
della Loira, erano state chiamate in soccorso non appena era divampato
il fuoco
all’interno della fortezza e andavano finalmente a
ricongiungersi col resto dei
distaccamenti inglesi di Les Tourelles e di Augustins, che nel
frattempo gridavano
ed esultavano per i rinforzi insperati.
Senza fretta, i
cavalieri di Chatel-Argent si disposero al passo, puntando nuovamente
il muso
minaccioso dei loro possenti destrieri davanti al nemico, disegnando
una linea
sottile che abbracciava tutta la larghezza del fronte.
Quando ogni
inglese che
aveva gioito al sopraggiungere dei rinforzi di Saint-Jean-le-Blanc,
levò lo
sguardo sul vasto spiegamento di cavalli da guerra dinanzi a loro,
strozzò in
gola il proprio grido di giubilo.
In mezzo allo
schieramento francese, una figura più minuta delle altre,
accompagnata da un
altro uomo a cavallo, avanzò facendosi largo fino alla linea
dei cavalieri.
Reggeva con una mano la bandiera
bianca,
con raffigurato Dio benedicente il fiordaliso
francese.
La sua armatura
non
aveva più la protezione ad una spalla, che si intravedeva
nuda e fasciata, ma
nessun uomo sospettò che fosse rimasta indifesa: ognuno di
loro avrebbe dato la
propria vita per difenderla, ma più di questo, nessuno
dubitava che una forza
superiore stesse proteggendo quella ragazza.
Jeanne
abbracciò tutti
con lo sguardo o almeno così sembrò ad ognuno di
loro e bastò quel gesto per
infondere loro il coraggio per battersi fino alla morte. Quando la
videro chiudere
gli occhi, seppero che stava pregando per la loro vittoria e con lei al
loro
fianco, ogni soldato si sentì benedetto e invincibile.
Quando aprì nuovamente
gli occhi, scorsero nei suoi sguardi lacrime di pietà per i
morti e di rabbia
per i vivi.
“All’alba
il sole
sorgerà su una terra libera, Monsieur
Thierry”, mormorò fieramente la ragazza dentro
l’armatura.
Ty
annuì con un cenno
del capo.
“Monsieur Thierry?” Jeanne
esitò un istante, “promettetemi che
sarete prudente in battaglia, non mettete inutilmente in pericolo la
vostra
vita per proteggere la mia”.
“A voi
protegge le
spalle un signore molto
più potente
di me”, scherzò Ty, “questa volta
prometto di stare più attento a me stesso”.
Jeanne sorrise
d’istinto al ragazzo, tornando per un istante una ragazzina
di soli diciassette
anni, divertita da quella battuta impertinente, tipica del conte
Thierry.
Poi
quell’attimo passò
e quando distolse lo sguardo da Ty, il suo spensierato sorriso si
adombrò della
greve consapevolezza del compito che era chiamata a portare a termine.
La vide
respirare
profondamente e Ty seppe che stava provando le stesse emozioni che
stava
sperimentando lui: eccitazione, paura, angoscia, rimorso.
Il cuore gli
batteva
già all’impazzata e sapeva che sarebbe scoppiato,
non appena avesse colpito con
gli speroni i fianchi del cavallo.
Jeanne si
alzò sulle
staffe della sua giumenta bianca, levò al cielo la bandiera
e urlò con il fiato
che aveva in gola:
“Questo
è il momento
tanto atteso, uomini d’arme. Io vi condurrò alla
guerra! Vi guiderò alla vittoria
o alla morte! Chi mi ama, mi segua!”
Mentre il boato
tremendo che seguì echeggiava ancora nell’aria, la
cavalleria di Chatel Argent,
precedendo la fanteria leggera, si preparò ancora una volta
a lanciare l’assalto
frontale al castelletto di Les Tourelles.
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Capitolo 13 *** Capitolo 24 ***
Glasdale scorse
la
guarnigione di Saint-Jean-le-Blanc quando già si preparava
al peggio. La vista
degli uomini che gli venivano in soccorso riaccese in lui la speranza
di poter
respingere l’assalto francese. Rinvigorito da quel pensiero,
si affrettò a
dare nuovi ordini, prima che la cavalleria pesante nemica fosse pronta
per un
nuovo assalto.
Non
tutto è perduto, si ripeteva
continuamente. Nonostante le gravi perdite
subite durante la prima carica, le forze di Saint-Jean-le-Blanc
riequilibravano
in parte il peso dei due schieramenti. Guardò la fortezza in
fiamme dove non
avrebbe più potuto ripararsi. Tra lo stridio dei rinforzi di
legno, che
cedevano e crepitavano in mezzo alle fiamme, ci fu
un’esplosione di fiamme,
subito seguita da una lunga chioma di scintille strappate dal vento.
Improvvisamente
un pensiero
maligno, una intuizione chiara e limpida, attraversò i suoi
sensi già eccitati
dalla battaglia: i suoi soldati avrebbero presto avuto
un’arma formidabile
contro la cavalleria francese. Forse non
tutto è ancora perduto.
***
Al
passo.
Come una danza
di
morte, che partiva lenta e proseguiva in un irrefrenabile crescendo,
fino a raggiungere
un ritmo folle al suo parossismo, così l’andatura
placida e indolente dei
cavalli faceva già presagire la furia incontenibile che
avrebbero presto scatenato.
La linea
orizzontale
composta dai destrieri avanzò adagio, mentre i cavalli con
brevi movimenti
aggraziati toccavano pigramente il terreno con ogni zoccolo,
allineandosi uno
di fianco all’altro. Gradualmente, la loro andatura
aumentò, inarrestabile.
Al
trotto.
Al
piccolo galoppo.
Al
galoppo.
Il frastuono
degli zoccoli
che scuotevano il suolo pianeggiante echeggiò sempre
più assordante, come una
terrificante valanga, man mano che le cavalcature acquistavano
velocità.
“Carica!”
fu il grido
ininterrotto dei cavalieri di Chatel-Argent, proprio nel momento in
cui, nella
luce crepuscolare, centinaia di minuscole stelle infuocate si accesero
di
fronte a loro.
***
“Armatevi
di torce,
qualsiasi cosa cui potete appiccare il fuoco, maledizione!”
urlava senza sosta Glasdale
correndo come un pazzo tra le fila dei suoi uomini, spronandoli,
minacciandoli,
lottando contro il tempo.
“Incendiate
le frecce e
i quadrelli! Arcieri, balestrieri, prepararsi immediatamente a tirare!
Presto,
al mio segnale! Prepariamo una calda
accoglienza a questi dannati mangiarane…”
Gli
arcieri inglesi, sollevando ognuno il
pesante long bow, non avevano
né il
tempo né l’ordine di mirare alla sottile striscia
di cavalieri che avanzava velocemente
al galoppo, mirarono semplicemente al terreno davanti a loro. “Adesso,
puntare!” ruggì Lord Glasdale e dopo
aver atteso solo pochi istanti, gridò:
“Scoccare!”
Le frecce
incendiate tracciarono un breve arco nel crepuscolo, come tante comete
dalla
coda infuocata, per ricadere subito dopo ad una distanza molto
più corta della
loro abituale gittata.
Ian
sollevò lo sguardo
su quello spettacolo, allo stesso tempo terribile e meraviglioso.
L’istinto gli
fece portare le mani sulle redini per trattenere la falcata del suo
destriero,
ma osservando la traiettoria che tracciavano le frecce, seppe che non
li
avrebbero colpiti, miravano troppo in basso.
Hanno
intenzione di incendiare il terreno di fronte a noi e
di spaventare i cavalli!
Qualche
istante dopo i dardi sfavillanti
piovvero dal cielo, non colpirono nessun cavaliere ma gettarono
comunque nel
panico i cavalli. Molte cavalcature, imbizzarrite dai piccoli focolai
che
bruciavano sulle rade sterpaglie davanti a loro, disarcionarono i loro
cavalieri, aprendo degli squarci all’interno del fronte
compatto che avanzava,
senza rallentare, verso gli inglesi.
***
L’impatto
tra la
cavalleria pesante e il muro di soldati inglesi fu tremendo, questa
volta le
truppe di Lord Glasdale non si fecero trovare impreparate e incapaci di
organizzare
una qualsiasi strategia di difesa.
I soldati
nemici,
aizzati dalle urla del loro comandante, piombarono laddove i cavalieri
disarcionati avevano lasciato un crepa dentro il fronte compatto della
cavalleria.
Accerchiarono e ingaggiarono in mischie furibonde, i cavalieri di
Chatel-Argent
che adesso non erano più in grado tenere a distanza i
nemici, sfruttando le
lunghe lance che avevano spezzato al primo assalto.
Molti compagni
di Ian alla
fine vennero sbalzati di sella dagli inglesi o dai loro stessi cavalli,
feriti
o resi folli dalle torce infuocate brandite dagli avversari.
Ian comprese che
questa volta non
avrebbero vinto da soli, senza l’aiuto della fanteria di
Jeanne. Dopo aver
rallentato la corsa del suo destriero, si apprestò a tirare
le redini da un lato
per girare il suo cavallo e dirigersi nella retroguardia a impartire
nuovi
ordini, quando nell’attimo stesso in cui frenò la
cavalcatura, si vide accerchiato
da quattro inglesi che brandivano spade e torce infuocate.
Davanti
alle lingue di fuoco agitate dagli
uomini davanti a lui, il destriero si impennò sulle zampe
posteriori, gli
zoccoli del possente animale colpirono il soldato più vicino
che cadde a terra privo
di sensi. Ian, ormai sbilanciato, fece appena in tempo a lanciarsi sul
secondo
inglese, abbattendolo col peso della sua armatura, mentre il suo
cavallo si
allontanava rapidamente dal pericolo che l’aveva terrorizzato.
Il corpo
dell’uomo su cui era
crollato gli aveva fatto da scudo durante l’impatto. Si
rialzò velocemente,
appena impedito nei movimenti dall’armatura di maglia
rinforzata da piastre
leggere, realizzata su misura per lui dal fabbro di Chatel-Argent e che
consentiva molta più libertà di movimento
rispetto a una corazza a piastre convenzionale.
Ian maledisse la
sorte
che in pochi istanti l’aveva scalzato da una posizione di
vantaggio,
obbligandolo adesso ad uno scontro impari. Si guardò attorno
rapidamente, con i
sensi acuiti dal pericolo mortale in cui era precipitato: altri
cavalieri
ingaggiavano duelli tutt’intorno a lui con i resti delle
armate inglesi, l’esercito
di Jeanne era ormai su di loro ma il loro aiuto sarebbe arrivato
maledettamente
tardi per lui.
Devo
cavarmela da solo.
I due soldati
avversari rimasti in
piedi si gettarono su di lui proprio in quel momento. Ian
parò facilmente il
primo colpo, prevedibile e troppo lento, impegnando la lama del nemico.
Allo
stesso tempo si preparò a sferrare un calcio al ginocchio
dell’uomo, che stramazzò
rovinosamente a terra.
Continuando a
muoversi, senza
apparente soluzione di continuità, girò su se
stesso, impugnando l’elsa con entrambe
la mani come una falce che scindeva l’aria in due.
L’uomo che gli veniva
incontro di spalle alla sua sinistra fu sorpreso dal movimento
imprevedibile di
Ian e non riuscì a parare il colpo di taglio, a mezza
altezza, che penetrò nel
fianco della sua armatura leggera di cuoio indurito.
Intanto il
soldato che aveva
abbattuto per primo, gettandosi dal cavallo, si era rialzato e
spalleggiato
dall’inglese che aveva scaraventato a terra, lo circondavano.
Con la furia cieca
che nasceva dalla disperazione si avventarono insieme ai due lati
opposti della
guardia di Ian. Parare il primo colpo con il forte del ferro e
inginocchiarsi a
terra per sottrarsi al fendente del secondo, fu una cosa sola.
Si avvide che
uno dei due
avversari aveva un braccio molle accostato al petto, spezzato dove Ian
l’aveva
colpito quando gli si era lanciato contro con tutto il peso della sua
armatura,
ma era ancora in grado di offendere con l’altro braccio.
Anche l’inglese che
aveva ferito di taglio intanto si era alzato faticosamente, con la mano
insanguinata premuta ostinatamente sul fianco squarciato.
Ancora una
volta, tre
uomini lo accerchiarono, girandogli intorno, ridendo a sprazzi,
terrorizzati e
folli. Voltandosi ora da un lato ora dall’altro, Ian
tentò di seguire i loro movimenti,
finché non decise di concentrarsi sull’unico uomo
ancora incolume.
Azzardò
che sarebbe
stato lui a portare il primo affondo e per attirarlo a sé
aprì leggermente la guardia
su quel fianco, modificando la presa sull’elsa e sollevando
con entrambi le
mani la spada per simulare la preparazione di un colpo
dall’alto.
Il fendente
dell’inglese arrivò senza preavviso, echeggiato
dalle urla degli altri due
uomini che qualche istante dopo lo seguirono all’attacco. Ian
parò il primo
assalto con un colpo dall’alto, portato grazie alla maggiore
statura da una
posizione di vantaggio e con tale potenza, che deviò verso
il basso la lama del
rivale senza impegnarla.
Poi, con un
movimento
fulmineo, girò su se stesso sul fianco opposto, roteando la
spada con tutta la
propria forza, tracciando un fendente decrescente che
impattò in alto la gamba
destra dell’inglese dal braccio spezzato. La lama
penetrò a fondo nella fibra
muscolare dell’uomo e il sangue fuoriuscì a fiotti
dall’arteria femorale
recisa: sarebbe morto dissanguato nel giro di pochi minuti. Di fronte,
spostato
a sinistra, si trascinava l’uomo con fianco ferito, che
assunse una posizione
difensiva e indietreggiò di un passo.
Ian non si
curò di lui,
sapeva che l’inglese alle sue spalle stava già
sollevando la spada per colpirlo.
Immise nei polmoni tutta l’aria che fu in grado di
immagazzinare, cambiò presa
sull’elsa e con un unico movimento fluido, sollevò
la lama sopra la testa. Facendo
perno su un piede per acquistare maggior slancio possibile,
roteò nuovamente su
se stesso.
L’uomo
ne intuì il
proposito, ma la mossa di Ian non gli dava la possibilità di
prevedere da quale
direzione sarebbe arrivata la lama del rivale. Istintivamente,
incrociò il
ferro per intercettare un assalto diretto alla gola, ma Ian, avvedutosi
con la
coda dell’occhio del suo tentativo di difesa, lo
colpì dall’alto proprio dove
si era scoperto, all’attaccatura della spalla destra.
L’inglese
urlò di
dolore mentre la mano si apriva in uno spasmo, lasciando cadere a terra
l’arma.
Con uno strattone Ian liberò la sua spada dalle carni
dell’uomo, dov’era
penetrata recidendogli il braccio quasi per intero.
L’uomo
si guardò
incredulo l’arto mozzato e sopraffatto, afferrò
con l’altra mano il filo
insanguinato della lama di Ian e con un gesto estremo si diede la
morte,
accasciando il mento sulla sua spada. Poco dopo, Ian si voltava
nuovamente
verso l’unico avversario rimasto in piedi, che sanguinava
copiosamente dal
fianco. L’inglese, dopo averlo fissato con occhi sbarrati
come se guardasse un
demonio, lasciò anche lui cadere la spada e fuggì.
Ian
piantò la sua spada
sul terreno, ansimante, appoggiandosi sul pomolo nel tentativo di
riprendere
fiato e calmarsi. Si guardò attorno: quasi ovunque vedeva
nemici che fuggivano impazziti,
che venivano inseguiti da un francese a cavallo o dalle truppe di
Jeanne nel
frattempo sopraggiunte. Scorse alcuni inglesi arrendersi in ginocchio,
invocando pietà, altri invece scappavano senza una meta e
inevitabilmente una
lama metteva fine alla loro fuga.
Avevano
vinto, Les Tourelles era caduta.
Si tolse
l’elmo, l’eco
del suo respiro ansimante gli era divenuto insopportabile, ma i lamenti
di orrore
e di sofferenza che adesso poteva ascoltare, gli erano ancora
più intollerabili.
Ian si strinse
la testa
tra le mani, nel vano tentativo di far tacere quelle voci,
cercò di respirare
profondamente, mentre lo avvolgeva un senso sempre più
opprimente di vuoto e di
incompiutezza, quando le urla ruvide e rauche di Glasdale sovrastarono
ogni
altro suono e lo scossero all’improvviso.
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Capitolo 14 *** Capitolo 25 ***
Daniel si
liberò con
sollievo dei pesanti stracci inzuppati che l’avevano protetto
dalla lingue di
fuoco e dai miasmi del fumo, che impregnavano l’aria
all’interno della fortezza.
Respirò
a pieni polmoni
l’aria fresca della sera, levando i bendaggi bagnati con cui
aveva coperto anche
il cavallo, rassicurandolo con lievi carezze sul collo sudato.
“Su,
calmati bello, sta
buono...”, gli sussurrò dolcemente, nel tentativo
di tranquillizzarlo, “così,
bravo…”.
L’animale
dilatò le
grandi narici, ancora spaventato dall’odore acre del fumo che
proveniva dal
cancello posteriore e con qualche esitazione si convinse a procedere
lungo il
ponte.
Lo spettacolo
che Daniel
scorse un centinaio di metri più avanti, lo
agghiacciò. Disposte in una
disordinata colonna, sporgevano rozze palizzate alle quali erano
incatenate
gruppi di donne. Mucchi di legna erano affastellati ai piedi dei grezzi
fabbricati. Roghi.
Cercò
con lo sguardo
immediatamente Isabeau, ma da quella distanza le prigioniere
avvinghiate ai
tralicci sembravano tutte uguali.
Subito
dopo trasalì per la paura, nel momento in cui si accorse dei
soldati inglesi
con le torce infuocate in mano.
Senza indugio,
mentre
spronava con gli speroni la sua cavalcatura, sfilò
l’arco già incordato da
dietro la spalla e un istante dopo stava già incoccando la
prima freccia.
“Fermo!”
gli abbaiò
contro uomo che stava puntando un grosso coltello sotto il mento di una
donna,
mentre con l’altra mano impugnava una torcia incendiata,
“Fermo dove sei!”
Quando
l’inglese gridò,
Daniel aveva già quasi dimezzato la distanza che lo separava
dai suoi nemici. Istintivamente
tirò indietro le redini, per arrestare la cavalcatura, ben
sapendo in ogni caso
che da quella distanza il suo arco sarebbe stato letale.
Dietro di lui,
udì
sopraggiungere subito dopo i compagni e s’affrettò
ad alzare una mano col palmo
aperto, per intimare loro di arrestarsi dietro di lui.
La donna aveva
il volto
e i vestiti insudiciati, i capelli erano biondi e scompigliati e le
cadevano
appena sulle spalle, troppo corti per essere...
“Ora,
se vi
raccapriccia l’odore della carne umana bruciata, abbassate le
armi, maledetti
mangiarane”, minacciò l’uomo col
coltello.
Daniel, senza
distogliere minimamente la freccia già incoccata dal
bersaglio, osservò meglio
la donna.
“Adesso,
ho detto!
Abbassate quei dannati archi!”
La
consapevolezza lo
colpì come un pugno nello stomaco. Isabeau.
Era viva!
“Devo
dedurre che i
signori desiderano un incentivo per arrendersi?”
domandò beffardo l’inglese con
un sorriso storto sul volto. La mano, che reggeva la torcia, si distese
per
lanciare l’oggetto che impugnava. La torcia infuocata
disegnò un breve arco
nell’aria e atterrò ai piedi di un traliccio poco
più dietro.
“Non
datevi pena per loro, sarebbero comunque
bruciate all’inferno!”. Il combustibile
avvampò subito e le tre donne,
intrappolate contro la palizzata, scalciarono e si dimenarono
inutilmente,
mentre osservavano, inorridite, la legna ai loro piedi cominciare ad
annerire e
a fumare.
“Gettate gli archi o avete la mia parola che
darò fuoco a
tutte le vostre dannate sgualdrine!”, sbraitò
l’uomo.
Daniel fu percorso da un brivido gelido di paura, ma
sapeva
cosa doveva fare. E si preparò a farlo.
***
“Codardo
di un
francese!” strepitava come una furia Lord Glasdale,
“vieni qui a combattere da
uomo, tu e io! Codardo, dove ti nascondi?”
L’inglese
estrasse, con
un secco strappo, la sua spada dalla gola di un cavaliere di
Chatel-Argent,
schizzando di rosso la superficie metallica della sua corazza. Nessun
francese
era ancora riuscito ad avere ragione di lui in battaglia e molti altri
avevano
pagato con la vita l’audacia di averlo sfidato. Combatteva
come una belva
spietata e feroce, consapevole della sua forza e del terrore che
incuteva.
Glasdale
avanzò di
qualche passo, senza che nessun altro osasse affrontarlo. Mise mano
alla sacca,
che portava annodata al cinturone della spada, e tirò fuori
qualcosa che
strappò alla luce deboli riflessi d’oro, mentre
l’agitava in alto con rabbia.
“Codardo!
Io, Lord
William Glasdale, ti sfido! Degnati di comparire davanti a me, se hai
il
coraggio!” ringhiò ancora all’indirizzo
di Ian.
A pochi passi
dal
cancello della bastia in fiamme, la sagoma torreggiante e possente di
quell’uomo si stagliava contro le mura di Les Tourelles. Le
piastre di metallo
lucidato della sua armatura traevano riflessi infuocati
dall’incendio che lo
sovrastava alle spalle. A Ian sembrò una figura mitologica
appena uscita dalle
fiamme dell’inferno.
Non aveva
scordato lo
scontro di tre mesi prima, quando l’inglese aveva solo
scherzato con lui, prima
di strappargli l’arma al primo vero affondo. Ian riconosceva
che era un
avversario formidabile, la cui forza non risiedeva tanto nella ferocia
con cui
combatteva, quanto nel perfetto connubio di una tecnica di spada
eccezionale,
che finora aveva ravvisato solo in Geoffrey Martewall, e di uno
strapotere fisico
pari al suo.
L’uomo
si avvicinava a
grandi passi, scrollando nell’aria qualcosa di setoso e
dorato, che Ian infine
riconobbe.
Le
inconfondibili lunghe ciocche di capelli di Isabeau.
E mentre un urlo
di
dolore disumano prorompeva dalla sua gola, udì quel demonio
che gridava:
“Quando
avrò finito con te”, lo sfidò,
“mi
supplicherai anche tu in ginocchio? Oppure sai fare di meglio, che
morire
piagnucolando come la tua cagna?”
Per Ian fu
troppo.
In quel momento,
seppe
che nella vita di ogni uomo non poteva esistere gioia senza sofferenza,
non vi era
amore senza odio, non c’era luce senza tenebra.
Si
abbandonò
interamente al dolore, alla rabbia, alla vendetta, accecato e travolto,
mentre
ogni fibra del suo essere cominciò ad ardere e ardere
ancora. E arse, finché
non gli sembrò di essere fatto della stessa incandescente
materia di cui era
fatto il fuoco.
L’inglese
gli si parò
davanti e con disprezzo, gli gettò ai piedi le ciocche di
capelli dorati.
“Tu…”,
Ian non
riconobbe la sua stessa voce, tanto quel ringhio era profondo e
terribile, “morirai
oggi.”
“E chi
lo dice, la
strega che vi comanda?”, lo interrogò sogghignando
il comandante inglese.
“No,
l’ho letto sui
libri di storia, bastardo.”
|
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Capitolo 15 *** Capitolo 26 ***
Daniel sapeva
che se
l’inglese non fosse morto all’istante, anche se
ferito, avrebbe ritorto la sua
vendetta su Isabeau.
Aveva
a disposizione un tiro soltanto. Se
fosse riuscito ad eliminare l’ufficiale che minacciava la
ragazza, avrebbe
concesso ai suoi compagni qualche secondo per scoccare le loro frecce,
prima
che gli inglesi rimasti organizzassero una controffensiva. Poteva
funzionare,
doveva funzionare, non vi erano alternative. Dopo essere stato la causa
del
rapimento di Isabeau, toccava a lui adesso riportarla sana e salva tra
le
braccia dell’amico, non poteva concedersi di sbagliare una
seconda volta.
Sbatté
le palpebre per
cacciare indietro ogni preoccupazione e quando riaprì gli
occhi, percepiva già
la concentrazione necessaria per agire.
Cercò
con le dita la
piccola scanalatura nell’asta della freccia con cui
l’aveva agganciata alla
corda. Allungò accuratamente l’indice, che fungeva
da mirino, sopra l’elemento
scanalato, appoggiando invece sotto di esso il dito medio, che
conferiva la direzione
e l’anulare, che contribuiva alla forza.
Tese gli
avambracci,
lasciando che fossero i gomiti a guidare il movimento e condusse i
flettenti
dell’arco al massimo della trazione.
L’indice
inquadrò il
bersaglio distante circa cinquanta passi, la testa
dell’inglese accanto a
Isabeau. Tutto accadde in pochi istanti. Daniel liberò la
freccia, Isabeau
urlò, altre frecce furono scoccate alle sue spalle.
***
Lord Glasdale,
con la
spada abbassata che stillava ancora sangue sul terreno, indugiava
girandogli
lentamente attorno, senza decidersi a sferrare il primo assalto.
Intorno ai
duellanti la
battaglia sembrava finita e i vincitori si strinsero attorno ai due
cavalieri. Decine
di braccia si fletterono mentre tendevano gli archi, pronti a scagliare
i loro
dardi mortali sul comandante inglese.
“No,
questo bastardo è
mio!” urlò Ian all’indirizzo degli
arcieri, “nessuno osi interferire prima che
io sia morto”, la voce di Ian era così
irriconoscibile e spaventosa che nessuno
considerò di contravvenire al suo ordine.
Glasdale infine
arrestò
il movimento laterale intorno a Ian e accompagnò lentamente
la lama, parallela
al proprio corpo, a poca distanza dal suo viso, come se intendesse
baciarla.
Quindi guidò anche l’altra mano
sull’elsa dell’arma, proprio davanti al suo
addome.
Ian si costrinse
a
calmare il proprio respiro, eclissò dalla mente ogni
pensiero e ogni immagine
che non fosse il suo avversario. Impugnando la spada con entrambe la
mani, sollevò
il gomito destro in alto, fino a sfiorare l’elmo con
l’elsa della spada, mentre
rivolgeva la punta verso il suo nemico.
Avvertiva le
fiamme
della sua ira smisurata che l’avvolgevano e lo consumavano,
una percezione così
terrificante da farlo sentire invincibile.
Isabeau…
“Infame
bastardo, questo
è per mia moglie!”, una voce disumana
articolò quelle parole nell’istante
stesso in cui Ian torceva la presa sull’elsa e ruotando di
taglio la spada, la
calava su Glasdale, trasformando la posta iniziale in un fendente di
immane
potenza.
Il grido del
francese
era quasi riuscito a distrarlo e per poco non si accorse
dell’improvviso
movimento del polso e del colpo di taglio che un istante dopo si
abbatteva su
di lui. Scaricando l’enorme peso sulle gambe ben piantate a
terra e sui gomiti
stretti sui fianchi dell’armatura, Glasdale si
preparò ad assorbire il colpo,
senza spostare il ferro dalla posta iniziale.
L’arma
del francese
cozzò contro la sua con un clangore assordante, entrambe le
lame si
scheggiarono, ma come si aspettava, fu in grado di reggere
l’urto senza
problemi.
La tecnica del
ragazzo
era così prevedibile che pensò di divertirsi un
po’ prima di fargli male sul
serio.
Ian vide le
scintille schizzare
dove aveva colpito il ferro nemico e con una smorfia incassò
il tremendo
contraccolpo sui polsi.
Il colosso
inglese non
si era spostato di un centimetro. Ian ignorò il dolore ai
polsi, colmò i
polmoni d’aria e si preparò ad espellerla mente
caricava il colpo successivo. Non
attese un secondo, per far seguire al fendente, un falso dritto che
mirava
sotto la cintura dell’inglese, nello spazio non difeso dalla
sua lama.
Glasdale
sorrise, lesse
la mossa negli occhi di Ian nello stesso istante in cui il rivale
l’aveva
pensata. Rovesciò repentinamente l’impugnatura del
suo ferro, rivolgendo la
punta verso il basso per intercettare il colpo.
Ian non fu
sorpreso che
l’inglese avesse indovinato così prontamente le
sue intenzioni, ma era
consapevole che una parata rovesciata non poteva essere supportata
dalla stessa
forza di una diritta e urlando tutta la propria rabbia, mise ancora
più forza nel
colpo.
Il poderoso
fendente
esplose letteralmente contro la lama di Glasdale, la spada di Ian
cedette e si
spezzò.
***
Le dita, che un
momento
prima serravano il coltello che minacciava Isabeau, si distesero,
all’improvviso
incapaci di obbedire ai comandi del suo cervello. La bocca
restò aperta,
immobilizzata sull’ultima parola che l’uomo stava
pronunciando. Gli occhi
rotearono per un istante all’insù, nel vano
tentativo di intravedere la freccia
che gli aveva trafitto la fronte. Isabeau non aveva ancora finito di
urlare,
che l’uomo si accasciò a terra, senza
più vita.
Mentre Daniel
colpiva
sui fianchi la sua cavalcatura, si avvide che gli altri quattro inglesi
erano
stati tutti colpiti dalle frecce dei suoi compagni. Sapendo di non
poter
sbagliare il colpo, avevano tutti scelto di mirare al petto dei loro
obiettivi.
Mentre avanzava
al
galoppo, Daniel si accorse che i dardi avevano trapassato i bersagli
fino
all’impennaggio di piume d’oca, l’unica
porzione ancora visibile delle frecce
scoccate. Quegli uomini non erano più in grado di nuocere,
ma un quarto inglese
era stato colpito solo su un fianco e con la torcia ancora in mano, si
stava
rapidamente riprendendo dallo shock.
Ancora in corsa,
Daniel
lasciò cadere le redini per estrarre dalla faretra a
tracolla una seconda
freccia. La incoccò rapidamente, mirò alla figura
dell’uomo e lo trafisse al
ventre, inchiodandolo ad un traliccio di legno.
Non appena
raggiunsero le
prime impalcature dove erano stati montati i roghi, si preoccuparono
subito di
smorzare le fiamme dell’incendio che stava avvampando nella
seconda palizzata. Usarono
i panni bagnati, di cui si erano serviti per attraversare la fortezza,
per
soffocare le fiamme: l’incendio aveva attecchito solo in
parte sul legname alla
base dell’impalcatura e fecero in tempo a strozzare le lingue
di fuoco prima
che si propagassero. Le donne cessarono di urlare solo quando furono
liberate
dal traliccio cui erano incatenate.
Poi Daniel fu
libero di
correre verso Isabeau.
|
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Capitolo 16 *** Capitolo 27 ***
Ian
osservò incredulo
il moncherino della spada frantumata, ancora nelle sue mani. La risata
sguaiata
di Glasdale echeggiò nelle sue orecchie, mentre si vide
perduto.
Dai libri sapeva
che
l’inglese sarebbe morto quel giorno, annegato nella Loira. Ma
più di questo, la
sua conoscenza della storia non chiariva se prima di morire Glasdale
avesse
ucciso anche lui.
Isabeau…
Gli
bastò scandire
mentalmente quel nome per percepire il fuoco divampare nuovamente nelle
vene e
pervaderlo del tutto. L’Inglese ghignava ancora e
giudicandolo ormai alla sua
mercé, aveva abbassato l’arma, appoggiando il filo
della lama a terra.
L’ira
incontrollabile
gli donò il coraggio per una mossa disperata. Con un colpo
di reni, si scagliò inaspettatamente
contro il suo nemico, chinando il capo come un ariete e facendo cozzare
il
proprio elmo contro il petto di Glasdale.
Il colpo fu
terrificante
e per qualche secondo lasciò entrambi frastornati.
L’inglese indietreggiò di un
passo e per mantenersi in equilibrio istintivamente staccò
una mano dalla
spada. Ian se ne avvide nel momento stesso in cui, con un calcio,
colpì la mano
che reggeva lo spadone, facendolo volare lontano.
L’inglese
sembrò
esitare per qualche secondo, sbalordito. Ian non gli lasciò
il tempo di
riaversi, caricò ancora a testa bassa, colpendo ancora una
volta l’avversario
sul petto. L’urto avrebbe scaraventato a terra qualsiasi
altro uomo ma non
Glasdale, che indietreggiò ancora ma riuscì a
reggersi in piedi. La linea perfettamente
ricurva della sua armatura adesso esibiva una voluminosa rientranza,
dove
l’elmo di Ian l’aveva centrato.
Glasdale non
riusciva
ancora a credere di essersi fatto disarmare così
stupidamente. Con la mente
tornò alla battaglia di Verdun, quando il vecchio conte di
Ponthieu gli aveva
strappato di mano la spada, umiliandolo davanti al suoi uomini. Come
allora,
una furia incontenibile e folle si appropriò di lui.
Se
non potrò sminuzzare con la spada la tua carne, allora la
staccherò a brandelli con i miei stessi denti! E si
scagliò contro la linea di
cintura di Ian, abbrancandolo in presa.
L’americano
si avvide
troppo tardi che la carica di Glasdale mirava a imprigionarlo nella
morsa delle
sue braccia, cercò invano di divincolarsi dalla sua stretta
mostruosa e fu
sorpreso di sentirsi sollevare da terra dalla forza di quel demonio.
Prima che
Ian riuscisse a scalciare, l’inglese piegò a terra
un ginocchio, e fece piombare Ian
sullo spuntone
della piastra metallica che proteggeva l’articolazione. Ian
fu investito da un
dolore lancinante, ma Glasdale non gli diede nemmeno il tempo di
urlare: adesso
che aveva il volto del nemico alla portata del suo elmo, prese a
tempestarlo di
testate.
Ian
cercò di voltare il
capo, quel tanto perché i colpi dell’inglese non
lo centrassero frontalmente:
diversamente, gli avrebbe schiacciato il setto nasale, come se fosse
burro.
Dalle feritoie
del suo
elmo, Glasdale intravedeva il sangue del rivale imbrattare il metallo
della
corazza ad ogni colpo che sferrava. Ma non sarebbe riuscito a finirlo
in quel
modo, con un guizzo degli occhi cercò la spada e la
trovò a una decina di passi
alla sua destra. Assestò un ultimo colpo al suo avversario e
lo abbandonò a
terra, mente scattava verso l’arma.
Ben presto, Ian
comprese che sul lato dove l’inglese l’aveva
colpito ripetutamente, il metallo
deformato dell’elmo sfregava contro la carne viva. Appena
mosse il capo, un
dolore atroce lo paralizzò, come se un coltello stesse
affondando dentro la
guancia. Ignorando con uno sforzo tremendo la fitta, si
sfilò l’elmo e lo
scagliò a terra. Davanti a lui, più lontano,
Glasdale stava raccogliendo la
spada.
Ty, che fino ad
allora
non aveva potuto fare altro che assistere impotente allo scontro,
irruppe tra i
soldati che assistevano al duello.
“E’
finita, Ian! E’
finita!” gli urlava, “Les Tourelles è in
mano nostra! Lascia che questo infame
sia catturato, non morire per orgoglio, non morire per
niente!”
“La
mia vita non vale
niente senza Isabeau!” gli gridò di rimando
l’americano.
“Maledizione,
non permetterò
che tu ti faccia ammazzare davanti ai miei occhi! Me ne frego del tuo
orgoglio,
so di fare la cosa giusta…”, con un cenno
ordinò ad alcuni soldati di farsi
avanti, avanzando lui stesso verso Ian.
“Non
immischiarti!” gli
ringhiò rabbiosamente contro, “Se mi sei amico
stanne fuori”.
“Oh,
va al diavolo!”
gli replicò Ty mentre sguainava la sua spada e la lanciava
in alto verso
l’amico, “Prendila, è tua! Appartiene al
Falco d’Argento, non si spezzerà, né
ti tradirà mai!”
Ian
afferrò al volo
l’elsa, nel momento in cui Glasdale raccoglieva la sua arma e
la sollevava
verso di lui.
Era la spada
più
straordinaria che avesse mai visto: la guardia era forgiata in modo da
riprodurre
due ali stilizzate che si aprivano in volo. Gli intarsi
sull’impugnatura descrivevano
il piumaggio di un falco i cui artigli si aggrappavano in rilievo alla
base
della lama, mentre la testa e il grosso becco ricurvo davano forma al
pomolo.
La lama era
percorsa
dalle parole intagliate nel mezzo: In Manu
Falconis Invictum Ero.
L’inglese
si dispose in
una posta d’attacco.
“Riconosco
che sei
migliorato, da quando abbiamo combattuto l’ultima volta, ma
temo di essermi
stancato di giocare”, annunciò Lord Glasdale.
“Adesso tocca a me attaccare…”
Ora che non
indossava
più l’elmo, Ian era certo che l’inglese
avrebbe mirato al volto e si preparò a
difendersi. Glasdale trasformò gli ultimi passi in corsa e
con straordinaria
agilità portò l’assalto con un fendente
alto.
Ian
sollevò i gomiti in alto e bloccò il ferro
avversario con una parata rovesciata. La lama di Glasdale
cozzò contro la sua a
pochi centimetri dal suo viso.
L’inglese
non arrestò
tuttavia la sua azione e con un gesto fluido portò un nuovo
attacco dal lato
opposto. Ian fu costretto a indietreggiare mentre parava
l’assalto frapponendo
orizzontalmente la lama davanti al proprio volto.
Glasdale non lo
lasciò
nemmeno respirare mentre continuava ad affondare i colpi come se
fossero un unico
movimento, naturale e continuo. Con un sapiente gioco dei polsi, lo
tempestò di
fendenti rovesci e diritti, uno dopo l’altro, senza sosta,
senza tregua.
Ian attinse alla
propria
rabbia infinita, che ancora avvampava dentro, per ignorare il dolore
sempre più
acuto ai polsi, dopo ogni parata e le forze che gli venivano
inesorabilmente meno.
Aveva sempre un occhio sulle mani del nemico, in modo da avere
conoscenza dell'origine
dell'attacco e prefigurare la direzione dell’assalto.
All’improvviso,
l’inglese eseguì un movimento più ampio
delle spalle e trasformò il fendente
alto al volto in un falso dritto sotto la cintura. Ian roteò
disperatamente i
polsi, guidando la lama di traverso e sollevando
l’impugnatura della spada fino
al petto, per difendere il maggiore spazio possibile. Vide un lampo
attraversare gli occhi dell’inglese e subito dopo si accorse
dello stivale
dell’avversario che lo centrava al ginocchio sinistro.
Il dolore fu
tremendo e
Ian dovette inginocchiarsi per non perdere l’equilibrio.
Glasdale, con un urlo
gutturale, roteò ancora una volta i polsi e portò
un colpo di taglio rovescio
diretto alla gola dell’avversario.
Ian
alzò rapidamente,
ancora più in alto, la presa sull’arma, mentre con
la spada rovesciata, parava
con difficoltà il colpo dell’inglese.
Il clangore fu
così
potente che sembrò che la spada dovesse spezzarsi ancora, ma
le lame rimasero
invece legate l’una all’altra.
“Iaaaaan!”
Fu in quel
momento che
udì il grido di una donna.
Davanti a lui,
dietro
alle spalle di Glasdale, vide Daniel emergere dai miasmi delle rovine
in fiamme
della fortezza. Una ragazza era aggrappata alle sue spalle, e pure se
ai suoi
occhi appariva irriconoscibile, pure se il suo urlo era alterato dalla
paura,
qualcosa dentro di lui la riconobbe.
Isabeau.
E in quel
momento finalmente
seppe. Seppe che anche nell’abisso più cupo e
tetro poteva albergare la
speranza. Che non c’era sofferenza senza gioia. Che non
esisteva tenebra senza
luce.
E fu consapevole
che persino
l’odio più viscerale, cui aveva attribuito il
potere di infondere una forza invincibile,
era in realtà ben misera cosa rispetto alle energie che
poteva trasmettergli l’amore.
Glasdale, del
tutto
ignaro della donna che era comparsa alle sue spalle,
disimpegnò la lama e si
preparò a calare come una mannaia il colpo che avrebbe
sbriciolato il cranio indifeso
del suo avversario.
Nel tempo in cui
l’inglese portava indietro i gomiti, per sferrare
l’attacco decisivo, Ian sollevò
il ginocchio posato a terra. Per darsi slancio usò come
perno l’altro piede,
roteò come un fulmine il busto e il braccio, e
falciò l’aria con un fendente
orizzontale.
Glasdale,
stupito e
innervosito dalla rapidità del movimento, non
poté che rinunciare all’assalto e
disporsi per una parata rovescia in grado di intercettare il ferro
avversario.
Ian aveva bene a
mente
la raccomandazione del maestro d’armi di Chatel Argent,
durante il suo
addestramento a Chécy: “il colpo migliore
è sempre quello che percorre la
minore distanza, il colpo della strada retta”.
Ebbene,
vuol dire che d’ora in poi farò l’esatto
contrario,
se voglio avere qualche possibilità di sorprendere quel
maledetto.
Un istante prima
che la
sua lama toccasse quella dell’inglese, arrestò
l’attacco, ruotò i gomiti e in quello
che sembrò un solo movimento, senza soluzione di
continuità, eseguì un giro
completo su se stesso nella direzione opposta.
Glasdale si
avvide troppo
tardi di quel gesto folle. Per preparare la difesa aveva caricato tutto
il suo
peso sulle spalle e sulle braccia, che ora erano lente a reagire. Senza
poterne
approfittare, osservò il rivale che per un istante apriva
del tutto la guardia,
mentre piroettava su se stesso.
L’avvitamento
del busto
fornì al colpo di Ian una forza e una
imprevedibilità altrimenti
inimmaginabili.
Per la prima
nella sua
vita, Glasdale conobbe l’atroce consapevolezza di non aver
saputo prevedere,
con una frazione di anticipo, la mossa del suo avversario.
Un istante dopo
percepiva un lampo incandescente abbattersi contro il suo fianco
sinistro,
proprio sotto la corazza, dove lo proteggeva solo una cotta di maglia.
Nessuno era mai
riuscito a ferirlo in un duello, era incredulo e indignato. Non
riusciva a
spiegarsi in che modo quell’uomo avesse trovato le forze,
l’ingegno e la
velocità per sferrare un attacco del genere.
L’umiliazione lo ferì più del
dolore che gli bruciava il fianco. Sollevò l’arma,
bramando di vendicare senza
indugio quell’offesa intollerabile.
Ian
disimpegnò la lama
dalle maglie di ferro che aveva sbriciolato, staccò la mano
sinistra dall’elsa,
e col solo movimento del polso dell’altra mano,
mulinò il ferro come se fosse
un’elica impazzita. La spada ruotò più
volte su se stessa, e quando Ian l’arrestò,
la stava impugnando al contrario, pronto a lanciarsi contro
l’avversario con un
gesto ancora più folle e inatteso.
Sollevò
in alto il braccio, adoperando come
un’arma il pomolo forgiato con la testa del falco e si
scagliò su Glasdale, con
tutta la forza di cui era capace. Lo centrò sulla parte
bassa dell’elmo, cogliendo
l’inglese del tutto impreparato a fronteggiare quella mossa
inconcepibile.
Il metallo che
proteggeva Glasdale si incrinò, screziandosi di rigagnoli
sangue.
E Ian
colpì ancora,
ancora e ancora, riducendo in una poltiglia raccapricciante il muso
dell’inglese, finché il pomolo stesso della sua
spada si sbriciolò sotto la sua
furia.
Solo allora fece
un
passo indietro e ruotando nuovamente tra le dita l’elsa della
spada, tornò a
impugnarla nel verso corretto, preparandosi a sferrare il colpo di
grazia.
Glasdale sI
levò l’elmo
sputando a terra l’impiastro di sangue e denti che gli
riempiva la bocca. La
lingua si muoveva liberamente nel palato, senza trovare più
altro attrito che
il sangue.
L’incredulità
lasciò
per la prima volta il posto al terrore. Qualcosa aveva trasformato
quell’uomo e
non riusciva a capire cosa. Ian sembrava attendere che
l’avversario fosse di
nuovo pronto a brandire la sua arma.
Glasdale decise
di
accontentarlo immediatamente, si scagliò su di lui come un
cane rabbioso,
facendo cozzare la sua lama contro quella di Ian e impegnandola in una
prova di
forza e di abilità che sapeva che non avrebbe mai potuto
perdere.
Con un solo
movimento
del polso che aveva imparato da Geoffrey Martewall, Ian
strappò via la spada
all’inglese, facendola volare in alto e lasciando una volta
di più Glasdale
sgomento. Con la mano sinistra, Ian afferrò l’elsa
dell’arma del rivale mentre
ricadeva in basso. Ci fu lo stridore acuto del metallo contro metallo,
mentre
incrociava a forbice le due spade ai lati della gola del suo avversario.
Sul campo
calò un
silenzio innaturale.
Poi Ian
udì le grida
dei francesi che esultavano e lo acclamavano e di colpo la sete di
vendetta che
per tanto tempo l’aveva consumato,
l’abbandonò, mentre la stanchezza aveva
finalmente ragione di lui. Separò le due lame tese davanti
alla testa di
Glasdale e abbandonò le braccia lungo i fianchi, facendo
strisciare le punte
delle due spade a terra.
Glasdale
indietreggiò
cautamente verso il cancello della fortezza alle sue spalle.
Era sconfitto,
finito,
umiliato. Ma più di questo, non riusciva a capacitarsi di
come era potuto
accadere.
Gustò
il sapore
metallico del suo sangue. Tutt’intorno scorgeva solo i volti
ostili dei suoi nemici,
che gli gridavano contro ogni genere di oscenità.
Incrociò lo sguardo con la
strega francese dentro l’armatura. Nei suoi occhi vi lesse
una pietà che non fu
capace di sostenere.
Distolse
immediatamente
lo sguardo e fu sbalordito di posarlo su un’altra donna,
quella cagna maledetta
che non era riuscito né ad uccidere né a
possedere. Vi scorse un odio infinito,
identico a quello che covava lui stesso verso tutta la gente. Ma poi
l’odio negli
occhi della ragazza si smorzò, tramutandosi in una desolata
commiserazione.
Voltò
disperatamente gli occhi in un’altra
direzione, e Incrociò lo sguardo del giovane conte di
Ponthieu che lui stesso
aveva assassinato insieme al padre, a Verdun. Ma anche quel fantasma lo
osservò
severamente, esprimendo silenziosamente soltanto pena e compatimento.
All’ora
estrema, gli incubi del suo passato erano tornati ad esigere il loro
prezzo.
Per Glasdale fu
troppo,
gli sguardi della folla presero a turbinare nella sua testa, insieme
alle
occhiate impotenti di tutte le vittime a cui in passato aveva strappato
la vita.
Perché tutti lo stavano fissando con
quell’espressione di insopportabile pietà?
Perché nessuno lo temeva più?
Quelle domande
senza
risposta lo gettarono nella follia e urlò più
volte a quegli occhi di
smetterla, ma essi non smisero di vorticare, né di fissarlo.
Girò
goffamente su sé stesso,
nel disperato tentativo di scorgere un posto dove quegli sguardi
indagatori non
avrebbero potuto seguirlo: davanti a lui si apriva la cancellata della
fortezza
in fiamme e senza esitazioni, si lanciò dentro.
Nessuno lo
fermò.
Eccola Les
Tourelles,
l’inespugnabile. La roccaforte che finché lui era
vivo non sarebbe mai caduta.
Si addentrò ancora per qualche passo all’interno
del passaggio, mentre il fumo
nero lo accoglieva nel suo fosco abbraccio. Cominciò a
tossire e a sputare
sangue, mentre avanzava barcollando, picchiando di qua e di
là contro le mura e
i sostegni della fortezza.
Lontano dalle
porte, il
calore era intollerabile e le fiamme incombevano dall’alto e
da ogni lato,
aggrappate alle travi che bruciavano. Inevitabilmente, una lingua di
fuoco ghermì
la sua lunga chioma rossiccia, imprigionando i capelli
nell’odore
raccapricciante della morte.
Glasdale se ne
avvide
solo quando il calore incandescente lambì la carne.
Agitò le mani nel vano
tentativo di difendersi dal fuoco, ma riuscì soltanto a
bruciarsi le dita. Non
aveva fiato per urlare, non poteva fare nulla per alleviare il dolore
lancinante, allora cominciò a correre. Una luce tenue
illuminava il cancello
sul retro che immetteva sul ponte e concentrò tutte le sue
forze per
raggiungere l’uscita.
Attraversò
il ponte impazzito dal
dolore e mentre esalava un ultimo grido disumano, si gettò
nella Loira, compiendo
il suo destino.
|
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Capitolo 17 *** Capitolo 28 ***
Nel momento in
cui
tutti udirono l’ultimo grido di Lord William Glasdale in
questo mondo, Ian si trascinò
stancamente verso la donna che aveva creduto di non poter
più rivedere.
Quando infine la
raggiunse, lei gli porse la mano e lui gliela sfiorò, ancora
increduli di quel
contatto. Dopo qualche istante, in cui furono immobilizzati dalle loro
stesse
emozioni, Isabeau gli gettò le braccia al collo e finalmente
cedettero ad un pianto
disperato e liberatorio.
Quando un amore
è tutta
la tua vita, senza di esso un uomo continuerà pure ad
esistere, ma non più a vivere.
Nel momento in
cui erano
stati strappati l’uno all’altra erano appassiti,
inariditi, lentamente spogliati
dalla voglia di essere. E mentre i loro corpi adesso aderivano e
combaciavano
di nuovo, tornando ad essere una cosa sola, in quel pianto
irrefrenabile
sperimentarono dolorosamente l’unione ritrovata e la vita che
riprendeva a fluire
nelle vene.
Jeanne
cercò la mano di
Ty e la serrò nella sua, mentre voltava il viso dalla parte
opposta per non
lasciare scorgere al ragazzo le lacrime che le crescevano dagli occhi.
Il sole era
ormai una goccia di sangue nell’oscurità.
Quando anche
l’ultimo
riflesso scarlatto fu prossimo ad essere inghiottito dal buio, Ian
guardò
dinanzi a lui e non vide la notte, non vide gli uomini che
festeggiavano e le
donne liberate che tornavano a sorridere, non vide i cadaveri, non vide
l’incendio che ancora infuriava, non vide
nient’altro che lei, che eclissava la
luce del giorno.
***
|
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Capitolo 18 *** Capitolo 29 ***
Mónika
Szigeti era
arrivata all’Aeroport de Lille, nelle Fiandre francesi, con
quasi un’ora di
anticipo sull’orario previsto di atterraggio del Learjet 45
XR proveniente
dalla base militare di Davis-Monthan, Tucson, Arizona.
Non lasciava mai
nulla
al caso e quando la informarono che il piccolo ma superbo bimotore otto
posti
sarebbe giunto con abbondante anticipo sul piano di volo, non si
meravigliò ma
ordinò allo steward di preparare un caffè
macchiato per lei e uno lungo per il
suo nuovo boss, che stava atterrando.
Dopo aver
osservato rullare
e manovrare sulla pista la sagoma slanciata del Learjet, attese che
entrasse
dentro l’enorme hangar privato, dove un lussuoso e nuovissimo
Bombardier 85 era
già parcheggiato. Esaminandone il profilo alare, si
stupì che ricordasse la guardia
che incrociava una spada tra la lama e l’elsa: le ali
rastremate erano
leggermente ad angolo acuto, con le estremità che
terminavano con due brevi
appendici aerodinamiche rivolte verso l’alto.
Lo steward
dell’aviorimessa la seguì come un’ombra
quando lei si avviò verso l’unico uomo
che scendeva dagli scalini.
Scattò
sull’attenti,
non appena il suo nuovo capo stava per passarle di fianco.
“Benvenuto in
Francia, Signor Generale!”
“Lei
deve essere
Mónika, suppongo.”
“Affermativo,
Signore.”
“Si
metta pure comoda,
Maggiore” le disse cordialmente, porgendole la mano,
“riposo”.
Mónika
gli ricambiò la
stretta con una presa che non fu né troppo timida
né troppo forte.
“Caffè,
Signore?”
“Grazie”,
rispose lui,
raccogliendo dal vassoio la tazza grande che gli porgeva lo steward,
“ne avevo
proprio bisogno dopo tutte queste ore di volo. Non ero più
abituato, per la
miseria!”
“La
condurrò io stessa
al suo hotel, ho prenotato una stanza all’Hermitage Gantois:
è l’hotel più in
vista di Lille ed abbiamo uno dei nostri operativo lì dentro
da quasi dieci
anni. La sua stanza è già stata debitamente
controllata ed è pulita, Signore.”
“Il
Colonnello Appleton
mi aveva riferito che è molto efficiente, Maggiore. Mi
affido completamente a
lei se non le dispiace.”
“E’
mio dovere, Signor
Generale”.
“Il
Colonnello mi ha
raccontato anche che i suoi uomini la chiamano Szigi.
Sono curioso, non conosco il significato di questa parola”.
Mónika
sperò che le
guance non rivelassero troppo il suo imbarazzo mentre rispondeva:
“Sono di
origini ungheresi, Signore. Mio padre è ungherese e mia
madre è di Boston,
anche se sono di stanza in Francia da alcuni anni”
spiegò.
“Szigi
è il diminutivo del mio cognome, nella mia lingua significa isola. E’ il soprannome con cui
mi
chiamano i ragazzi del nucleo operativo”. Fece una pausa e
poi sapendo con
certezza di stare per arrossire, esclamò tutto ad un fiato:
“Gli uomini sono
tutti dei porci, con rispetto parlando, Signore, se non gli dai quello
che vogliono…
bè, poi trovano sempre qualcosa con cui fartela pagare,
Signore.”
John Freeland si
soffermò ad esaminare il Maggiore Mónika Szigeti.
I lineamenti erano regolari
ma non anonimi, come le labbra, né sottili né
carnose. Il viso era contornato
da due frange biondo cenere, lisce e lucenti: su
un lato i capelli erano scalati all’altezza
della bocca, sul lato opposto invece, scendevano più lunghi,
tra il mento e la spalla,
mentre una ciocca le percorreva di traverso la fronte e spariva
appiattita
dietro l’orecchio.
I grandi occhi,
appena
ombreggiati da un leggero trucco antracite, erano di un grigio-verde
limpidissimo
e sconvolgente e lo stavano fissando con intensità
sconcertante.
Szigi era una donna dalla bellezza
non
comune. Il Generale intuì come il suo aspetto fisico,
più che aiutarla, fosse
stato un problema nell’esercito e nei corpi speciali. Come
per altri uomini che
conosceva e che possedevano qualità straordinarie, il
rischio era proprio quello:
diventare un’isola, messi
da parte
dal gruppo a causa del loro stesso dono. Come ripeteva ai suoi soldati
in
questi casi, stava all’intelligenza del singolo venire fuori
da simili
situazioni.
“Mi
creda, non avevo
nessuna intenzione di metterla in imbarazzo, dimentichi la
domanda...” si
scusò, mentre strangolava mentalmente il colonnello Appleton.
“Non
importa, Signore.
Il soprannome ha finito col piacermi e l’ho adottato io
stessa. Ai miei uomini
piace giocare coi nomi, ma le assicuro che in missione non
troverà un reparto
più efficiente in tutto il continente.”
John
comprese dalla sua risposta che aveva avuto
abbastanza buon senso da farsi una ragione di ciò che
pensava la sua squadra di
lei ed era andata avanti per la sua strada.
Non
lasciò tuttavia
trasparire il suo compiacimento quando aggiunse: “Non dubito
dell’efficienza dei
suoi uomini, Maggiore. Ma la nostra è una missione
diplomatica, non lo scordi.”
“Sir, yes Sir!”
scattò lei di nuovo sull’attenti, rivolgendo al
comandante il tipico saluto in uso nel corpo dei marines.
“Noi ex marine siamo
sempre pronti ad ogni evenienza, Signore”.
A John quella
donna non
dispiaceva. E anche lui era un ex marine. Avrebbero tirato fuori dai
guai Jodie
e trovato suo figlio e Ian, ovunque si fossero cacciati. Osservando Szigi si sentiva ora più
sicuro di
farcela.
***
Mónika
prelevò la
Renault alla Hertz dell’Aeroport de Lille e
accompagnò John all’Hermitage
Gantois.
Lui si concesse
appena il
tempo di rinfrescarsi e posare le valige, poi chiamò Szigi
sul cellulare: “Sono
pronto, aspettami giù nella hall, sto arrivando.”
Mónika stava già digitando
sul navigatore le parole: Chemin de la Plaine, 179.
Era
l’indirizzo del
carcere di Lille-Sequedin.
Presero la A25
verso
nord, in direzione Lille Dunkerque, percorrendola in silenzio per
alcuni
chilometri. Solo quando l’auto svoltò sulla destra
per Sequedin, John parlò e si
informò se l’ambasciata avesse fatto storie alla
richiesta inoltrata con
urgenza dal Comando della U.S.I.C.
“As smoothly as honey, Sir. Ho
già collaborato in altre missioni
con Cynthia Doell, della VPP Lille. Ha prodotto tutta la documentazione
necessaria a tempo di record.”
“VPP,
ha detto?”
“A
Lille stiamo
sperimentando un nuovo tipo di ambasciata innovativa. VPP sta per Virtual american Presence Post, abbiamo
un consolato solo virtuale, Signore.”
“Virtuale?
Santo Dio,
di questo passo ci manca solo che recluteremo agenti virtuali,
affronteremo
missioni virtuali e magari scopriremo che il mondo intero è
un dannato gioco
virtuale!”
L’umore
di John non
migliorò quando arrivarono in vista del carcere: la Maison
d'arrêt de Lille-Sequedin non era altro che uno
squallido e immenso
capannone di cemento, circondato da mura anch’esse di cemento
e stonacate.
Il sole stava
già tramontando
dietro le fluorescenze elettroniche dei prominenti lampioni che chiaroscuravano
un’inarginabile fatiscenza architettonica
e sociale.
Fiancheggiarono
l’ampio
parco dove l’erba, a tratti giallognola e avvizzita, era
stata comunque accuratamente
tosata e giunsero infine ad un cancello. Al gabbiotto,
Mónika mostrò un
tesserino e chiese del Direttore.
Passarono alcuni
minuti
prima che le sbarre permisero loro di superare il posto di controllo.
Alla fine
di un lungo vialetto asfaltato, un uomo in uniforme e il direttore
della casa
circondariale erano in attesa della delegazione americana.
I convenevoli
durarono solo
lo stretto necessario: John non aveva intenzione di far trascorrere in
quel
posto un solo minuto in più, alla madre della sua unica
nipotina.
“Mi
rincresce la
spiacevole occasione che l’ha condotta fin qui, Generale. Sua
nuora l’attende
nella stanza riservata agli ospiti
del carcere per le visite. La sua splendida accompagnatrice
è il suo avvocato?”,
volle sapere il direttore rivolgendosi a Mónika con un
sorriso ammiccante.
“No e
noi non stiamo
chiedendo di vedere nessun ospite
di
questo penitenziario” chiarì lei.
“P-Prego?”
Incespicò
sulle parole l’uomo, di fronte al tono impassibile della
donna dallo sguardo conturbante.
“Non
sono l’avvocato
della ragazza e Jodie Carson è una cittadina americana
libera di lasciare
questo edificio a partire da questo istante. Legga questa ingiunzione,
per
favore.”
Il direttore del
carcere, raccolse il primo dei due fogli che gli porgeva il Maggiore e
si accigliò
fin quando lesse sulla carta intestata:
Ambassador
Charles Rivkin
American
Embassy
2,
avenue Gabriel
75008 Paris
Comprese di cosa
si
trattava prima ancora di finire di scorrere la pagina.
“Immunità
diplomatica?” esclamò sorpreso “Non
sapevo che Madame Carson si fosse
appellata all’immunità
diplomatica…”
“Bene.
Lo sa adesso,
signor direttore.”
“Ma
tutto ciò è
ridicolo, andiamo… Sono pronto a respingere qualsiasi
pretesa di immunità!”
“Prima
dovrebbe dirmi
se è ridicola anche l’istanza di scarcerazione
firmata dal juge d’instruction competente.
Tenga, anche questa è sua, direttore”,
lo informò porgendogli il secondo documento.
“Ma io
credo…”
“Lei
crede…” Mónika si
sporse in avanti per leggere il nome del direttore sulla targhetta
fissata alla
giacca “…Monsieur
Renard? Qualsiasi cosa
lei creda in questo preciso
momento, che
non riguardi la scarcerazione della ragazza, è superfluo e
irrilevante” ringhiò
Szigi, scandendo lentamente le
parole.
“Per
cortesia” lo
liquidò il Generale “ordini di preparare il prima
possibile gli effetti
personali della ragazza. Al momento dell’arresto aveva con
sé due Notebook Dell
di cospicuo valore. Entrambi i portatili contenevano informazioni
riservate di
proprietà esclusiva del Governo degli Stati Uniti,
gradiremmo averli indietro
senza indugio.”
“Ma
questo è fuori
discussione, Generale! Si tratta delle evidenze di un reato!”
John stava per
perdere
la pazienza. “Maggiore, per favore, rimanga col direttore e
sbrighi le ultime formalità
burocratiche”, dispose infine irritato, “sono
ansioso di vedere Jodie.” Quando
già si era voltato, aggiunse a beneficio dei due francesi:
“Se sorgono
ulteriori difficoltà non si disturbi a chiamarmi. Telefoni
direttamente al
segretario alla Difesa.” Senza nemmeno aspettare la reazione
del direttore, John
oltrepassò l’atrio e si avviò verso il
corridoio.
“Un
momento, dove crede
di andare?” lo ammonì l’ufficiale
del
penitenziario in uniforme che fino a quel momento non aveva ancora
parlato.
“A far
visita a mia
nuora.”
“Mi
segua per favore,
non può andare in giro da solo.”
Jodie lo
aspettava lì.
Il Generale ebbe un tuffo al cuore quando la vide seduta a ridosso
delle
strette inferriate, con la testa appoggiata sui gomiti e i capelli in
disordine.
Ma quando la ragazza americana si accorse della sua presenza,
l’uomo badò a non
lasciare trasparire alcuna emozione.
“Oh
John. Grazie a
Dio...”
“Buongiorno
Jodie. Non dire nient’altro. Non
qui.”
La ragazza lo
studiò
con apprensione e quando il Generale scandì a bassa voce le
parole “avrai molto
da raccontarmi non appena saremo fuori da questo posto” i
suoi timori trovarono
conferma.
Quando nello
stanzone
fece il suo ingresso Mónika, sventolando alla guardia
carceraria un paio di
fogli che attestavano il diritto formale a prelevare il cosiddetto ospite, John capì che il primo
capitolo
della missione era giunto al termine.
|
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Capitolo 19 *** Capitolo 30 ***
Szigi aveva prenotato
all’Hermitage Gantois un’ampia camera singola per
il
Generale e una doppia per lei e Jodie. Aveva intenzione di controllare
l’americana da vicino.
Gli effetti
personali
della ragazza sarebbero stati recapitati entro due giorni in Hotel.
Niente da
fare per i computer, su questo avrebbero lavorato in seguito.
In breve la 222
che
ospitava le due donne divenne il quartier generale. A Jodie, in un
primo momento,
sembrò di essere stata trasferita in un carcere soltanto
più lussuoso. E
l’interrogatorio era appena iniziato.
“Alex…
Alex sta bene?
Mi manca così tanto, John”.
“Non
preoccuparti per
la piccola, sta benone. Sylvia non la lascia un attimo”, le
confermò l’uomo
sorridendo per la prima volta da quando l’aveva rivisto,
“è davvero un angelo”.
Per un
po’ restarono in
silenzio, con le tante domande solo sospese nell’aria,
nell’attesa che qualcuno
finalmente le pronunciasse.
“John,
per prima cosa,
vorrei parlare solo con te”, attaccò Jodie,
rompendo il silenzio e mostrando un
cipiglio serio.
“E la
tua nuova amica?
Non dirmi che non ti è simpatica?”
In effetti a
Jodie
quella bionda, che in auto si era presentata come “Maggiore Mónika Qualcosa ma puoi
chiamarmi anche Szigi”, era parsa socievole
come lo può essere un cubetto di ghiaccio. Né si
fidava di quegli occhi
grigio-verdi inquietanti, che la scrutavano come se mentisse, anche
quando le
aveva detto di chiamarsi Jodie Carson.
“Non
si tratta di
questo, preferisco soltanto non parlare del problema
di Daniel e Ian davanti a degli estranei.”
Mónika
non batté ciglio
e continuò ad osservare la ragazza con
un’espressione neutra.
“Il
Maggiore fa parte
della squadra, Jodie. Noi tre”, disse indicando se stesso, la
ragazza e
l’ufficiale, “siamo un team. Tu hai la palla
adesso. Se vogliamo superare la
difesa avversaria e andare a canestro, devi passare la palla,
figliola.”
Jodie
esibì
un’espressione interrogativa. Per un istante le parole di
John le ricordarono
le partite di basket della Regular Season dell’anno prima,
poco prima del
matrimonio: lei abbracciata a Daniel, entrambi felici dentro le maglie
arancio-viola dei Phoenix Suns.
“Devi
passare la palla
se vogliamo salvare Daniel…” rincarò
ancora la dose l’uomo.
Avrebbe fatto
tutto ciò
che era in suo potere per salvare Daniel, lo sapeva. Persino rivelare
il
segreto più inverosimile e importante del secolo al padre
del marito? Al
Governo?
Si
passò nervosamente
le mani tra i capelli castani. Una cosa era certa: se voleva salvare
Daniel e
recuperare i portatili confiscati dalla forze di sicurezza francese
doveva
chiedere aiuto a John. Senza quei computer e il loro prezioso
contenuto, suo
marito non sarebbe mai tornato indietro.
Ma se rivelava
la
verità al generale, significata divulgarla al governo
americano.
Cosa doveva
fare? Cosa
avrebbero fatto al posto suo Daniel e Ian?
Il Falco
d’Argento! Ma
certo… Pensa come lui.
Come si
sarebbe comportato l’amico in questo frangente? Ian aveva
affrontato situazioni
forse persino più complicate, cavandosela ogni volta grazie
alla sua abilità di
piegare, con le sole parole, la realtà al suo volere.
Mentire.
Calma
Jodie, calma! Non è necessario raccontare ad ogni costo
tutta la verità su Hyperversum. Pensa… rifletti!
Troppo
pericoloso far
sapere al Governo di Hyperversum, poteva addirittura essere la fine
della loro
vita com’era oggi. Le implicazioni erano incalcolabili.
Ciò che doveva ottenere
erano solo quei maledetti portatili e far cadere tutte le accuse per
lei,
Daniel e Ian. E per pensare aveva bisogno di tempo.
“John,
ho bisogno di
una pausa… devo andare in bagno.”
L’uomo
non disse nulla,
si limitò a voltare lo sguardo verso Mónika, che
fece per alzarsi.
“Santo
cielo, John! Posso
andare in bagno da sola o è necessario che il tuo segugio mi
segua anche lì?”
“Se
vuoi farti una
doccia e cambiarti… e credo che tu ne abbia davvero
voglia…”, furono le prime
parole di Szigi da quando erano
entrati in camera, “in quella valigia lassù
troverai dei vestiti e della
biancheria” aggiunse in tono asciutto indicando il bagaglio
sopra l’armadio più
grande, “stavo andando a tirartela giù.”
“Li ha
presi Sylvia da
casa tua, prima che io partissi per la Francia”
confermò John.
“In
questo caso ritiro
la frase di prima” mormorò Jodie pentita.
“Ok, sono preoccupata per mio marito
e sono irritabile dopo aver passato due notti piene di angoscia in
quello
schifosissimo posto. Credo proprio che una doccia mi farà
stare meglio,
scusatemi.”
E
mi serve tempo per ideare una storia plausibile,
ripeté mentalmente mentre si alzava.
La verità a volte è
così preziosa da aver
bisogno di una guardia del corpo di menzogne. Che la difenda da voi,
caro Segugio
dagli Occhi Grigi e caro Signor Generale.
***
Quando
mezz’ora più
tardi Jodie uscì dal bagno sapeva cosa avrebbe rivelato e
cosa avrebbe taciuto.
“Ok,
cominciamo
l’interrogatorio”, annunciò la ragazza,
mentre si metteva comoda sul divano e
accavallava le gambe, ostentando una sicurezza che sapeva di non
possedere.
“Jodie,
per la miseria,
non ho intenzione di farti il terzo grado! Sto solo cercando di
aiutarti!”
“Se
fossimo solo io e
te, John, ti crederei senz’altro… ma con lei
presente, come posso fidarmi?”
“Te
l’ho già detto,
Jodie, tutti e due siamo qui solo per aiutarti, siamo nella stessa
squadra. E
questa dannata storia che coinvolgerebbe mio figlio e Ian, che mi hai
solo
accennato al telefono, non ho nemmeno idea di cosa sia!”
“Ok.
Ok coach,
capisco” mentì Jodie, “ad ogni modo il
riscaldamento è finito. Iniziamo la
partita, io sono pronta.”
“Ascoltami
Jodie, Mónika
fa parte dell’agenzia”, cominciò
l’uomo sorvolando su altri dettagli, “è
l’ufficiale responsabile delle operazioni in questa regione.
E’ una donna in
gamba e devi fidarti di lei. Raccontaci tutto quello che sai senza
tralasciare
niente e vedrai che troveremo il modo per aiutare Daniel e Ian, per
questo l’ho
portata con me”.
“Ok”,
annuì Jodie
simulando una convinzione che le mancava.
“Bene,
adesso prima di cominciare con le
domande, sincronizziamo gli orologi della squadra: a quando risale la
scoperta di
questo maledetto segreto?”
“All’incirca
da quando
vi abbiamo raccontato che Ian era in giro per il mondo e non poteva
tornare a
casa”.
John
tornò indietro con
la memoria e chiese: “Quelle brutte cicatrici che si era
procurato sulla schiena,
centrano qualcosa con questa faccenda?”
Jodie
rifletté
velocemente: non era i dettagli che doveva nascondere, quelli anzi
sarebbero
serviti per rendere più realistico e credibile
l’intero scenario. “Si”.
Il Generale
s’incupì.
“Vi
siete fatti dei
nemici? Dei nemici pericolosi?”
“Si,
ma era tanto tempo
fa. Questa volta non saprei dirtelo.”
“Sono
in pericolo,
potrebbero esserlo?”
“Si”.
E lo sospirò in tono
così angosciato che Szigi lo annotò mentalmente.
“Dove
sono?” incalzò
ancora il Generale.
“Non
lo so. Davvero non
lo so.”
“I
satelliti possono
aiutarci, abbiamo a disposizione come sai..”
“No,
John” lo
interruppe Jodie. “I tuoi satelliti non possono trovare mio
marito e Ian.”
“Possono
scovare i loro
nemici.”
“Nemmeno.
Non ci
riusciranno mai.”
John assenti
greve,
rimandando mentalmente quella questione ad un momento successivo.
“Al
telefono mi hai
solo accennato che mio figlio e Ian si trovano in grave pericolo e che
solo
uscendo il prima possibile di prigione e riavviando quei dannati
computer
saresti stata in grado di salvarli.”
“E’
così, John.”
L’angoscia, notò Szigi, era più che mai
viva e sincera quando Jodie aggiunse
“Potranno raggiungerci, sempre che nel frattempo non sia
successo loro qualcosa
di irrimediabile.”
“Spiegami
perché uno
stupido laptop dovrebbe salvare la vita di mio figlio.”
Erano finalmente
arrivati
al punto. Al momento in cui il match si sarebbe deciso.
Mónika
annotò che
l’espressione di Jodie era leggermente cambiata, era
preoccupata. Ma non lo era
per suo marito, adesso. Intuì che era nervosa per quello che
stava per dire.
Stava per mentire.
“Ian…”
esordì cercando
di apparire più sicura possibile, “durante i suoi
viaggi e le sue ricerche è
venuto in possesso di una tecnologia,
non conosco i dettagli perché non sono
un’esperta…”
“E
questa tecnologia a chi appartiene?” la
incalzò John, “Russi, cinesi, nordcoreani?
Terroristi arabi? Per la miseria,
Jodie, in che guaio vi siete cacciati? Ian ha derubato i suoi
nemici?”
“No,
assolutamente”
scandì con sicurezza Jodie, scuotendo il capo.
Sincera,
registrò
Szigi.
“L’ha
trovata, non so come diavolo ha fatto,
ma l’ha trovata!”
Ok, per
Mónika adesso
Jodie diceva la verità.
“Lui e
Daniel sanno
usarla?”
“Si,
hanno impiegato
qualche tempo per governarla, ma adesso credevano di sapere come
gestirla...”
Vero.
“Ma…?”
la
sollecitò ancora John.
“Non
so, Daniel lo
conosci.. a volte è così imprudente e quando si
tratta di Ian… Gli ho detto
mille volte che doveva piantarla!” esclamò Jodie
con irritazione genuina, “che
doveva mettere la parola fine a quella cosa, ma è
così testardo… e senza i
computer, adesso…”
“Chi
altri sa usarla?”
“Io ho
visto qualcosa,
ma non ho mai provato...”
“Bene”,
l’interruppe
l’uomo, “Jodie, adesso dimmi a cosa serve questa
dannata tecnologia.”
Jodie era sicura
che
per quanto ogni agenzia di intelligence americana avesse scandagliato
ogni bit
di dati contenuto nel disco fisso dei due notebook e nei dvd, non
avrebbe mai
trovato nulla di sospetto su Hyperversum. Solo un normalissimo
videogioco che i
ragazzi si erano portati dietro per trascorrere il tempo durante le
loro vacanze
in Francia. Era perfettamente a conoscenza che il gioco non avrebbe mai
funzionato
davvero senza Ian.
Si era chiesta
fino a
quanto poteva spingersi a raccontare degli effetti di Hyperversum e si
era persuasa
che doveva essere il più credibile possibile, ma senza mai
menzionare il gioco.
Poche, piccole e circostanziate menzogne per sviarli sulla fonte del
suo
segreto, ma il resto della storia doveva condirla con molte
verità se voleva
apparire convincente.
Ai due militari
avrebbe
fornito indicazioni sufficienti per assimilare quali prodigi era in
grado di
compiere quella misteriosa tecnologia.
Ma mai abbastanza per utilizzarla.
Hyperversum
compiva il
suo miracolo solo con Ian presente. Ian, per qualche oscuro motivo che
lei
stessa ignorava, era la chiave di volta, l’accesso segreto a
quel Mondo nel Passato.
L’americana
doveva
spostare l’attenzione dal gioco e da Ian. E se al posto del
gioco era stato
facile pensare ad una imprecisata tecnologia
scoperta dall’amico chissà dove, durante i
misteriosi viaggi di cui era
accreditato, più difficile era stato immaginare una nuova
chiave di accesso a
quel mondo. Finché a Jodie non venne in mente
l’oggetto stesso per cui era
stata tratta in arresto, il codice miniato di inestimabile valore che i
francesi non avrebbero mai concesso per nessun motivo agli americani.
Lo stesso
manoscritto
che Ian era accusato di aver sottratto a quel dannato LeClercq.
E senza poter
mai
venire in possesso dell’antico manoscritto, rifletteva Jodie,
gli americani non
avrebbero mai potuto smentire o ricostruire la storia che stava per
raccontare.
Tutto combacia, si
congratulò, posso farcela.
Jodie si
concesse un
lungo respiro e si voltò verso Mónika,
sostenendone lo sguardo inquietante.
Gli occhi della
donna
erano di un grigio-verde purissimo e sconcertante, ma intenzionalmente
privi di
ogni espressione. Mónika era di ghiaccio.
Sapeva che la
stava
osservando con la massima attenzione da quando la partita era iniziata,
dentro
quella stanza.
Quello
che sto per rivelarti ti cambierà la vita. Ma dovrai
farti bastare la mezza verità che ti racconterò.
Altrimenti io e te non saremo
mai amiche come vorrebbe il capo…
Mentre
pronunciava
mentalmente le ultime parole, le sue labbra si schiusero in un sorriso
spontaneo.
Mónika, socchiuse ancora di più le palpebre e
abbozzò anche lei una sorta di
ghigno che sapeva di sfida.
|
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Capitolo 20 *** Capitolo 31 ***
“Non
prendermi in giro,
figliola. Se la vita di mio figlio è in pericolo non
perdiamo tempo a
raccontarci favole”.
Ciò
che il Generale e il
Maggiore udirono dalla voce di Jodie li lasciò basiti oltre
ogni immaginazione e
più la ragazza si sforzava di descrivere di
cos’era capace quella tecnologia,
più lo scenario descritto si
presentava improbabile e impossibile. Ma allo stesso tempo, la dovizia
di
particolari che Jodie aggiungeva subito dopo, senza mai contraddirsi o
esitare,
rendeva quel quadro meno paradossale di quanto Mónika avesse
voluto credere in
un primo momento.
Lentamente,
senza nemmeno
accorgersene, Mónika fu trasportata dalle parole di Jodie in
un’epoca lontana,
rappresentata con una quantità tale di particolari che la
restituivano alla
vita. Reale, percepibile, quasi palpabile. Ogni sua domanda trovava con
prontezza una risposta. Ogni dubbio, una spiegazione. Quelle
erano le dannate parole di una ragazzina che ha vissuto davvero
nel medioevo, fu il pensiero che si faceva assurdamente
strada nella mente
del Maggiore.
“Andiamo,
gli unici
viaggi possibili nel Medioevo sono quelli di Mark Twain, in Un americano alla corte di re Artù!”
sorrise
bonariamente John.
“Lei
l’ha letto,
Mónika?” aggiunse ancora.
“Per
la verità sì”
replicò, “e l’ho trovato
discreto.”
La donna
continuò a
fissare il Generale, intenta.
“Ebbene,
Maggiore?”
“Quando
fui ammessa
all’agenzia, mi assegnarono al team di analisti che vigilava
sui gruppi di
discussione universitari più brillanti di Boston: Harvard
University e MIT. Tra
le teorie più interessanti trovai una pubblicazione del
professore Seth Lloyd, del
dipartimento di fisica
quantistica del Massachusetts Institute of Technology. Un gruppo
internazionale
di studiosi asseriva, con una sofisticata ma rigorosa spiegazione
scientifica,
che i viaggi a ritroso nel tempo non sono tecnicamente impossibili”.
John le rivolse
un’occhiata carica di scetticismo. “Il delirio di
qualche folle visionario,
suppongo.”
“All’epoca
l’agenzia si
interessò a quei test, Signore. Ricordo che si teorizzava
che l’effetto combinato
del meccanismo di postselezione
del Quantum computing, di cui Lloyd era l‘ideatore, e del teletrasporto, avrebbe permesso di
invertire la freccia temporale
di una particella elementare e riportarla alla sua condizione
originaria nel
passato”.
“Teoria
davvero
interessante…”, bofonchiò con evidente
sarcasmo il generale. “Ha appena detto teletrasporto,
Maggiore? Immagino che
persino gli autori di Star Trek, annoverino nei loro curricula
interessanti pubblicazioni
al MIT di Boston”, concluse divertito.
Mónika
gli mostrò a sua
volta un sorrisetto compiaciuto:
“Signore,
l’equipe
scientifica di Seth
Lloyd è già
riuscita a teletrasportare qualche
fotone in laboratorio. Gli scienziati conclusero che era solo questione
di
tempo e di progresso tecnologico prima che l’uomo riuscisse a
trasportare più
di una semplice particella elementare e magari, un giorno, ne
invertisse la
freccia temporale”.
“Maggiore,
lei vorrebbe
suggerirmi che mio figlio, ricorrendo a queste farneticanti teorie,
è riuscito
a costruire...”, John abbatté un pesante pugno sul
tavolo, “la macchina del
tempo?”
“Forse
no, Signore. Ma non
possiamo escludere che qualche scienziato dell’equipe di
Lloyd possa aver
proseguito le ricerche al di fuori
dell’università. E con l’aiuto di
qualche
governo compiacente o di qualche fondazione con fondi
illimitati… potrebbe aver
raggiunto qualche risultato. Sono del parere che questo deve
interessare la
U.S.I.C., Signor Generale”, aggiunse infine con freddezza.
John si concesse
una
smorfia che manifestò tutta la sua incredulità.
“Ciò
che ho raccontato è comunque la
verità!” s’intromise
Jodie, anche lei affascinata dalle teorie enunciate da Szigi,
“che abbia senso o no, che vi piaccia o no, è
quello che è
successo. Prima lo accettate, prima salviamo Daniel”,
affermò alla fine, a muso
duro.
John,
nient’affatto
persuaso nemmeno dalla storia di Jodie, con un gesto spazientito,
rivolse una
nuova occhiata al suo ufficiale.
Restò
a bocca aperta
quando Mónika annunciò:
“Non
so se Seth Lloyd,
o chi per lui, abbia proseguito segretamente le ricerche e se queste
abbiano
avuto successo, ma il profilo emotivo della ragazza conferma che lei
è convinta
di dire la verità, Signore. E per quanto possa apparire
paradossale, comincio a
credere anch’io che il suo racconto corrisponde in qualche
modo a quanto è
successo ai ragazzi.”
John adesso era
muto e
incredulo.
“E se
non recuperiamo
il prima possibile il materiale in mano ai francesi”,
incalzò Jodie, “Daniel
resterà per sempre bloccato lì!” Questa
volta anche John comprese che
l’apprensione della ragazza era reale.
Gli occhi
castani della
moglie del figlio, luccicavano più che mai lucidi. John vi
vide riflessa una
angoscia autentica. Jodie temeva che in ogni minuto che perdevano in
inutili
parole poteva succedere qualcosa di irreparabile dov’era
adesso Daniel.
“John,
ti prego, so che
ti è quasi impossibile credermi, ma perché mai
dovrei inventarmi proprio adesso
una storia tanto assurda? Mi conosci, mio Dio! Credi che sarei capace
di perdere
tempo, sapendo che mio marito è in pericolo?
L’uomo
non sapeva cosa
pensare.
“Continua
con la tua
storia”, intervenne impassibile Mónika,
“sono sicura di avere ancora altre
domande”.
“No,
dannazione! Abbiamo
già perso abbastanza tempo in chiacchiere! Mi potete aiutare
oppure no? Dobbiamo
recuperare i portatili e i dvd… ogni secondo che
trascorriamo qui a parlare,
potrebbe essere lungo un giorno per Daniel… vi prego,
facciamo in fretta!”
“Signor
Generale, se
contatto Cynthia, sono sicura che entro due giorni avremo anche i
computer, non
possono più trattenerli ora che la ragazza gode
dell’immunità diplomatica.
Faranno storie, i loro capi si lamenteranno coi nostri, ma alla fine se
lei
insiste col segretario alla Difesa, dovranno cedere.”
“I
nostri amici
francesi”, sibilò pensieroso John,
“saranno molto curiosi di sapere cosa
combinasse di tanto segreto, insieme a due persone che ora risultano
svanite
nel nulla, una ragazza che abbiamo fatto passare per uno dei nostri,
dentro un
castello medievale. Con un manoscritto miniato del XIII secolo,
d’incalcolabile
valore storico, scomparso insieme a loro…”
“Con
l’intelligence
francese posso vedermela io, Generale, loro non sono un
problema”, assicurò.
Fece una pausa in modo che il suo superiore assimilasse le sue parole e
poi
aggiunse: “se
la ragazza dice la verità,
Signore, non ci resta che fare ciò che ha
chiesto.”
Mónika
era certa che
Jodie nascondesse qualcosa, sapeva dunque di pronunciare una piccola
bugia ma
non se ne curò: “mettiamola alla prova, al momento
non abbiamo altre piste da
seguire per trovare suo figlio.”
Siamo
già diventate amiche, Segugio dagli Occhi Grigi? A Jodie
quell’alleanza così imprevista
non convinceva, ma approfittò del momento di esitazione del
Generale:
“Lo
so… lo so che ti sembra
tutto così impossibile”, convenne Jodie,
rivolgendosi al padre di suo marito, “ma
ti giuro che quando recupereremo i computer, vedrai coi tuoi stessi
occhi se
sto mentendo o no. Quando vedrai, capirai... adesso non perdiamo tempo,
ti scongiuro,
John…”
“Quando
avremo i
portatili e dopo che avremo recuperato mio figlio, lo sai che ogni
millimetro
di silicio di quei laptop sarà sezionato dagli esperti del
governo? Se avete rubato
o centrate qualcosa con questa storia di Seth Lloyd, sarete ancora
più nei guai
che per un semplice furto di un manoscritto medievale, lo sai questo,
vero?”
“A me
interessa solo
salvare mio marito e Ian, non abbiamo nulla da nascondere”,
mentì Jodie, sicura
che il segreto di Hyperversum sarebbe rimasto comunque al sicuro.
Mónika
socchiuse ancora
le palpebre, leggendo negli occhi di Jodie la bugia che aveva appena
pronunciato.
Quella sciocca
s’illudeva di poter giocare con lei.
Ma
cosa diavolo stava succedendo? si
domandò. Cristo! Qualcuno era
davvero riuscito a trasformare in realtà le
teorie di Lloyd? Com’era possibile? Ma se anche
solo metà di ciò che la
ragazza raccontava era vero, si trattava della scoperta più
sconvolgente della
storia. La rivelazione più sensazionale di sempre.
Il passo
più importante
mai compiuto dall’uomo. E lei era lì e poteva
avere una parte in tutto questo.
Desiderava
quella tecnologia come non aveva
mai voluto nient’altro in vita sua. Ok
starò al tuo gioco, baby. Ma attenta, tu non sai con chi
stai giocando…
“Ok,
ok, maledizione! Due contro uno… Faremo
come dici tu”, si arrese infine John, “spero solo
che tu non abbia perso la
testa, figliola.” Poi si rivolse alla donna:
“Maggiore, chiami Cynthia Doell, voglio
quei dannati portatili già domani. E allerti anche i nostri
ragazzi al MIT, che
scavino a fondo su questa faccenda. Se la vita di mio figlio
è in pericolo non
voglio lasciare nulla di intentato.”
***
“La
ringrazio
moltissimo per l’informazione, Direttore Renard…
assolutamente, è come dice
lei, una perdita incolmabile… grazie ancora, buona
serata.”
L’uomo
chiuse la
comunicazione e scagliò il cellulare contro i cuscini del
divano.
L’irritazione
era
insostenibile e gli faceva digrignare i denti dalla rabbia.
“Maledizione! Ian
Maayrkas, non puoi vincere sempre tu!”, urlò da
solo nella stanza d’albergo
vuota, “Non puoi! Ti giuro che stavolta te la farò
pagare!”
Corse alla
cassettiera
del mobile e trascinò fuori tutti i vestiti, ammucchiandoli
sul letto.
Odiava Ian
Maayrkas,
che l’aveva derubato della fama e dei riconoscimenti
accademici che spettavano
soltanto a lui. E detestava tutti i dannati americani, una stirpe senza
passato, senza storia, addestrata a prendersi tutto ciò che
volevano, con arroganza
e in spregio alle leggi.
Afferrò
brutalmente la
valigia e nel momento in cui l’appoggiò sulla
moquette, intravide la sua
immagine riflessa sullo specchio a figura intera, che occupava la
parete di
fronte.
Non fu capace di
distogliere lo sguardo dalla sua figura, compiacendosi
dell’ineccepibile
eleganza del suo abbigliamento. Il gessato cobalto, cucito su misura,
metteva
in risalto il suo fisico asciutto e atletico. Le semi-brogue inglesi,
in
vitello bianco spazzolato, erano perfettamente in tinta con la camicia
di
sartoria e con la cintura dello stesso pellame e colore.
All’occhiello, un
fazzoletto di candida seta era stato disposto con pignoleria.
Bertrand LeClerq
si
compiaceva dell’armonia di ogni dettaglio nella sua immagine
e in ogni altro
particolare che circondava il suo mondo. Per questo detestava
furiosamente ogni
elemento fuori posto.
Il
manoscritto miniato rubato.
Con la mano si
aggiustò
la ciocca di capelli, che nel moto di rabbia, era quasi fuoriuscita
dall’elastico
della coda di cavallo. Bastarono quei gesti per riprendere il pieno
controllo
di sé e pianificare con calma la prossima mossa.
L’americana
sarebbe tornata al castello e il castello è il mio
regno.
Si
tastò le tasche e ne
trasse l’oggetto di metallo che cercava: il portachiavi
d’argento con l’effigie
del falco, che gli dava accesso a ogni porta di Chatel-Argent.
Dopotutto, Cluny
avrebbe potuto aspettare il suo Curatore ancora qualche giorno. Adesso
aveva
una missione da compiere. Cosa aveva detto Renard?
L’americana era accompagnata
da due ufficiali, un pezzo grosso in là con gli anni e una
bionda, un vero
bocconcino.
Recuperò
il cellulare e
individuò velocemente nella rubrica un nome che credeva che
non avrebbe mai più
cercato.
Erano anni che
non contattava
il fratellastro, da quando la posizione che aveva conquistato in seno
alla
società, l’aveva indotto a rimuovere ogni ricordo
del suo umile e controverso
passato.
Si era servito
del fratellastro
per convincere qualche avido
collezionista, che non sentiva ragioni, a privarsi di certi oggetti che
lui
desiderava possedere ad ogni costo.
Ma questa volta,
non
avrebbe chiesto direttamente i suoi servigi, troppo rischioso
coinvolgere una
seconda persona per il piano che aveva in mente. Sarebbe stato
sufficiente che
gli procurasse un’arma.
Non poteva
presentarsi
all’appuntamento con gli americani, disarmato. Certo che no,
questa volta
avrebbe fatto a modo suo. Il cancro della corruzione americana aveva
infiltrato
le sue metastasi fin dentro le istituzioni francesi. Non poteva
più fare affidamento
su chi aveva liberato quella criminale.
La
ucciderò, se non mi rivelerà dove hanno nascosto
il codice. Dopotutto, il
vecchio e la biondina non potevano essere una grossa complicazione.
E poi, avrebbe
pazientemente atteso che il professor Maayrkas facesse ritorno.
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Capitolo 21 *** Capitolo 32 ***
“Ehmm,
si?”, Jodie era
ancora assonnata mentre si svegliava e rispondeva al ricevitore sul
comodino di
fianco al letto.
“Buongiorno,
Maggiore.
Mi scusi se la disturbo a quest’ora, abbiamo quel regalo per lei”,
annunciò la voce maschile, “sono qui con Kincaid
alla
reception, possiamo salire?”
Jodie
cercò Szigi sul
letto di fianco al suo. Non c’era, ma sentì il
rumore dell’acqua che scrosciava
nella doccia.
“E
voi, sareste?”
domandò alla voce.
L’uomo
dall’altra
parte, restò in silenzio per un istante.
“Maggiore, non mi riconosce? Sono
Mitch… saliamo?”
Jodie sorrise
dentro di
sé, “Certo, salite pure, siamo al secondo piano,
alla 222”. Dopotutto non era
granché, ma poter vedere quella donna, che aveva sempre
tutto sotto controllo, almeno
una volta alle prese con una situazione imprevista, la divertiva.
Quando Jodie
attaccò il
telefono, il rumore della doccia era cessato. Non passò
molto che Mónika, coi
capelli che ancora grondavano acqua e coperta appena da un asciugamano
che si
era avvolta intorno ai fianchi, fece irruzione nella stanza.
“Allora,
con chi
diavolo stavi parlando?”
Non ci fu
bisogno di
risposte: Jodie era di spalle e stava aprendo la porta. Proprio in quel
momento,
due uomini entravano nella loro camera e osservavano intenti la scena
del loro
capo che li accoglieva seminuda.
Jodie
soffocò a stento
la risata, mentre Mónika lasciava trapelare per la prima
volta un’emozione e le
sue guance avvampavano.
“’Giorno,
boss…”, la
salutarono i due uomini con un sorriso un po’ ebete.
“Si
può sapere cosa accidenti
ci fate, qui?”
“Li ho
fatti salire io,
scusami. Dovevano consegnare qualcosa e sembrava
urgente…”, fece finta si
scusarsi Jodie.
“I
computer che
aspettavi da Cinthya”, si affrettò a dire Mitch,
senza distogliere lo sguardo dalle
gambe affusolate del suo superiore.
“Molto
bene”, replicò
freddamente la donna, ignorando le occhiate dei due militari.
“Torno subito,
devo andare ad asciugarmi i capelli” e mentre passava davanti
al letto, afferrò
distrattamente i vestiti distesi lì sopra.
Quando
sparì dietro la
porta del bagno, i due compagni si scambiarono uno sguardo
d’intesa e
un’espressione eloquente delle labbra.
“Uomini…”,
commentò Jodie,
ma anche lei non poté fare a meno di ammirare la perfetta
forma fisica del
Maggiore. Poi aggiunse mentalmente: quando
tutto sarà finito, mi iscriverò in palestra! Se
voglio tornare com’ero prima di
Alex…
Quando il
Maggiore
tornò, i volti dei tre ragazzi conservavano ancora
un’aria complice e
soddisfatta, che Mónika si preoccupò
immediatamente di raggelare con
un’occhiata. I suoi capelli adesso erano perfettamente
asciutti e pettinati,
indossava un paio di jeans aderenti e un sottile dolcevita nero senza
maniche.
Era a piedi nudi.
“I
computer, tenente,
avete già verificato che funzionano?” volle sapere
senza indugi, mentre afferrava
gli stivali scamosciati col tacco.
Mitch
farfugliò
qualcosa, poi giurò che avrebbero provveduto immediatamente.
“E
cosa diavolo
aspettavate?” lo interrogò la donna, mentre
s’infilava con difficoltà il primo
stivale, tirandolo con entrambe le mani.
“E
poi, per l’amor del
cielo”, sibilò roteando gli occhi verso
l’alto, “la smetta di fissarmi in quel
modo!”
“S-sì,
boss”, scattò Mitch, “sorry,
boss”.
Mitch e Kincaid
si
misero subito ad armeggiare con i computer, mentre Mónika
regolava sopra il
dolcevita la cinghia di cuoio della fondina ascellare e controllava
l’otturatore della sua Beretta 9 millimetri, prima di
introdurla nella sua
custodia.
Né
il primo portatile, né il secondo tuttavia
si riavviarono.
“La
batteria deve
essersi scaricata”, suppose Jodie.
“E non
c’è modo di
trovare rapidamente un alimentatore di corrente, compatibile con uno
dei due
modelli?
“Bé,
forse facciamo prima
a tornare al castello. Gli adattatori dei portatili dovrebbero essere
ancora
lì.”
“Ok,
mi sembra giusto proseguire
lì dove è iniziato tutto. Avverto il Generale che
torniamo a Chatel-Argent”.
Mónika
aprì l’armadio e
prelevò la giacca a vento.
Poi
guardò Jodie, che
era ancora nel suo pigiama Hello Kitty: “E tu? Hai intenzione
di venire vestita
così?”
Questa volta
oltre ai
due ragazzi, fu Mónika a sogghignare.
***
LeClercq
pagò il taxi e
camminò sul ghiaietto prima di raggiungere il moderno
cancello che delimitava
le proprietà di Chatel-Argent.
Al
videocitofono, annunciò il suo nome e tanto
bastò per accedere senza ulteriori spiegazioni. Mentre
percorreva la stradina
all’ingresso, si tastò la tasca destra del
cappotto di cachemire e trasse
conforto dal percepire il freddo acciaio della Smith&Wesson a
canna corta.
Oltrepassò
velocemente il
viale di platani e scorse l’amministratore del castello che
gli veniva incontro
a grandi passi, salutandolo con ampi cenni delle braccia.
Il Curatore
approntò sul
volto un sorriso amichevole e rispose prontamente al saluto, agitando a
sua
volta la mano.
Non
l’aveva ancora
raggiunto che l’altro uomo gli domandò:
“Novità dal comando di polizia?”
LeClercq
replicò con
uno sdegnato scrollare del capo. “Mi rincresce, Monsieur, non hanno fatto alcun
progresso.”
“Dite
sul serio? Ancora
nessuna notizia su dove possa trovarsi il codice?”, chiese
sconsolato l’altro.
“Nossignore”,
gli
confermò, tacendo volutamente che Jodie era stata liberata.
L’amministratore
lo
guardò smarrito. “Cosa possiamo fare,
adesso?”
“Non
si preoccupi, ci
penserà il mio istituto. Ci affidiamo ai migliori
specialisti sul mercato, in
casi come questo, senza badare a spese. Mi sono precipitato qui,
proprio per
condurre personalmente le ricerche”.
“Sono
a vostra completa
disposizione, Monsieur”,
si affrettò
ad aggiungere l’uomo, “il nostro personale
può esservi in qualche modo di aiuto?”
LeClercq assunse
un’espressione pensierosa, a beneficio del suo interlocutore,
ma restò in
silenzio, in modo che fosse l’altro a continuare.
“Ovviamente”,
proseguì
cautamente l’amministratore, prevedendo un lauto risparmio
nei suoi costi di
gestione, “dato che la signorina è in carcere e
gli altri ospiti risultano scomparsi,
forse lei crede, per non essere d’intralcio, che sia
opportuno…”
“Certamente
Monsieur, non si preoccupi, liberi
tutto
il personale interno.”
LeClercq attese,
rilassandosi nella spa, che tutto il personale ordinario del castello
abbandonasse l’immobile.
Quando fu certo
che
nessun altro lo avrebbe disturbato, entrò nel torrione,
compiacendosi che ogni
variabile, fino allora, si fosse comportata esattamente come aveva
previsto.
Tutto
in ordine, nessuna cosa fuori posto.
Il Curatore
sorrise
apertamente, traendo conforto dalla logica ineccepibile dei suoi
ragionamenti e
si addentrò dentro il castello medievale: ogni pietra
simboleggiava una pagina di
storia che lui conosceva alla perfezione, in ogni sua sfaccettatura.
Rassicurato di
essere
nel suo elemento, si sentì invincibile.
***
Guidava
Mónika. Mitch e
Kincaid erano rimasti a Lille e il viaggio si trasformò
presto in una nuova
occasione per porre a Jodie sempre nuove domande sulla prodigiosa
tecnologia
rinvenuta da Ian.
Quando le
domande
parvero esaurirsi e Jodie si sentiva pronta a chiedere al Maggiore di
mettere
su un po’ di musica, Mónika cominciò
invece una noiosissima descrizione delle teorie
di Seth Lloyd e del suo allegro gruppo di fisici quantistici al MIT.
Jodie
trovò divertente solo il fatto che lei, un ricercatore
esperto di tecnologie,
l’aveva persino sposato.
Da Lille,
presero la A1
in direzione Sud per Arras, e da qui proseguirono a sinistra,
imboccando lo
svincolo per la A26. Poi il navigatore li guidò per le
stradine provinciali
fino a Chatel-Argent.
Al videocitofono
non
rispose nessuno, così furono costretti ad abbandonare
davanti al cancello l’auto
di servizio del Maggiore. Poi Szigi aiutò il Generale e
Jodie a scavalcare la
ringhiera, che percorreva i confini degli ampi giardini che
circondavano il
castello.
“Dove
accidenti è tutto
il personale?”, volle sapere John, non appena oltrepassarono
la cancellata e si
avviarono verso il vialetto di platani, “Per la miseria, non
c’è nessuno!”
“Allora
niente sandwich
con paté de foie gras
marinato nel
cognac e tartufi, stasera!”, ti
sarebbe
piaciuto John, Daniel ne andava
matto,
si ricordò amaramente Jodie.
“Quasi
tutto il
personale è in servizio solo quando il castello è
prenotato da qualche ospite”,
cercò di spiegare la ragazza, “probabilmente
confidavano che mi avrebbero dato
l’ergastolo e li hanno mandati tutti a
casa…”
“Meglio
così, abbiamo
maggiore libertà per provare la tua
storiella…” bofonchiò Mónika.
“E
allora proviamola
subito!”, sperando che siamo ancora
in
tempo, si preoccupò subito dopo Jodie.
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Capitolo 22 *** Capitolo 33 ***
Era stato un
giorno
memorabile, il più bello della sua vita, il compimento
finale del suo sogno.
I Pari del Regno
avevano
finalmente posato la corona sul regio capo del suo dolce Delfino,
mentre lei,
imperterrita ed orgogliosa, rimaneva al suo fianco, sventolando il suo
bianco vessillo.
Erano
già trascorse
alcune notti da quell’evento indimenticabile, senza che i
suoi sogni non le
mostrassero altro che gioia e sollievo.
E pace, mentre
ogni
altra voce taceva.
E lei aveva
segretamente cominciato a sperare che il Signore considerasse
finalmente conclusa
la sua missione e che la Sua volontà si fosse compiuta
liberando Orléans.
Thierry.
Pur
nascondendolo a
tutti, persino a se stessa, era lui che aveva sognato ogni notte, dopo
la
cerimonia dell’incoronazione a Reims.
Poeti illustri
consacravano le sue gesta in poemi, Christine de Pizan le aveva persino
dedicato versi, nei quali la immaginava già alla conquista
della Terrasanta,
dopo aver ristabilito la pace in Europa. A lei tutto questo non
importava.
Thierry.
E
c’erano voci preoccupanti,
che gli inglesi stessero preparando con cura una nuova offensiva.
Tremilacinquecento
tra cavalieri ed arcieri, nonostante fossero stati mobilitati per la
crociata
in Boemia, contro gli eretici hussiti, erano stati invece richiamati. E
per la
prima volta, un’armata crociata sarebbe stata impiegata
contro altri cristiani.
E
poi c’era Thierry.
E i suoi sogni,
per
molte notti, erano stati popolati soltanto dalle sue carezze e da quel
bacio
strappato nel bosco. E con lui, c’era la promessa di un amore
diverso da quello
finora nutrito per il Padre dei cieli.
C’era,
soprattutto, la
promessa che si erano scambiati a Orléans e che lei
ricordava sussurrandola tra
sé ogni notte, prima di addormentarsi.
E che ripeteva
ogni
giorno, non appena si svegliava, ricordando perfettamente le parole
pronunciate
dall’uno e dall’altro:
Quando
quel giorno arriverà, se mi amerete ancora, sarò
vostra e voi sarete quell’uomo.
Quando
quel giorno arriverà, se mi amerete ancora, sarò
vostro e voi sarete la mia donna. E sorrideva da
sola, mentre bisbigliava quelle parole, ringraziando
subito dopo il Signore per quella gioia.
E sentiva le
guance in
fiamme, mentre vagava con la fantasia, fantasticando come sarebbe stata
la sua
vita, se un giorno il conte avesse chiesto la sua mano.
Percepiva che i
sentimenti di Thierry erano sinceri quanto i suoi e confidava che il
suo dolce
Delfino, dopo tutti i servigi che gli aveva reso, avrebbe favorito la
loro
unione, nonostante le differenze sociali.
Dopo
l’incoronazione,
re Carlo aveva promesso che avrebbe nobilitato la sua famiglia e
affrancato dalle
tasse il paese dov’era nata. Che brav’uomo era il
re e lei lo sapeva, l’aveva
sempre saputo!
Unirsi
in matrimonio col dolce Thierry…
Quella era la
volontà
del Signore, non vi era alcun dubbio! Per quale altro scopo,
altrimenti, li
aveva fatti incontrare?
"Figlia di
Dio”,
le avevano intimato le voci all’inizio del suo viaggio,
“recati da Robert di
Baudricourt, nella città di Vaucouleurs, perché
ti dia delle persone che ti
accompagnino lungo il tuo cammino". E aveva trovato lui.
Thierry
non solo gli appariva bello come un
angelo, ma possedeva un animo così puro e così
nobile, rimuginava, com’era possibile
che amasse proprio lei, una povera pastorella lorenese?
E cullava
l’idea che
quell’amore era la ricompensa che il Signore aveva concepito
apposta per lei, per
la sua fedeltà e devozione.
E poi era giunta
quella
notte.
E nei suoi sogni
erano
ricomparse le voci che la spronavano ad andare avanti,
perché la guerra non era
ancora conclusa e Dio aveva ancora bisogno della sua leale soldatessa.
“Per
quanto è in tuo
potere, Jeanne, cerca di fare la volontà del Signore che ti
è trasmessa da
queste Voci. Noi non diciamo niente che non discenda dal volere di Dio!”
Jeanne
la riconobbe: era la voce e il parlare
degli angeli. Lei credeva fermamente che erano angeli e mentre la luce
sprigionata da quegli esseri celestiali l’abbagliava, lei
pianse.
“Parti,
figlia di Dio!
Và, è necessario. Salva la Francia! Non basta
aver liberato Orléans, bisogna
cacciare gli inglesi da tutte altre città occupate!"Soldatessa di
Dio, và, và, và! Il
Signore sarà il tuo aiuto. Ora và, salva la
Francia, libera Parigi!”
Quelle parole
l’ossessionarono fino a restarle nella testa e quando si
svegliò di
soprassalto, piangeva e udiva ancora le voci che le ripetevano lo
stesso
ritornello. Parigi doveva essere liberata.
Il Signore aveva
ascoltato
i suoi dubbi e le aveva indicato la strada. Doveva parlarne
immediatamente al
conte Thierry.
***
“Ecco
i due
alimentatori, esattamente dove li avevo lasciati”,
esclamò Jodie.
Mónika
annuì e mentre
percepiva il battito del cuore che già accelerava, volle
sapere:
“Quanto
ci metterà a...“,
poi non sapendo cos’altro dire, aggiunse solo, “a
funzionare?”
“Di
là, il tempo non
scorre allo stesso modo del nostro, potrebbero volerci molte ore o
soltanto
qualche minuto, non si può prevedere con
precisione”.
Giunto il
momento,
anche John cominciava a dare segni di nervosismo, nell’ansia
di sapere se la
storia di Jodie era vera e se fosse davvero possibile rintracciare suo
figlio.
“Accendiamo
questi
maledetti computer”.
***
Probabilmente,
era solo
un’inutile ruotine che ripeteva da cinque mesi e dodici
giorni – Daniel li
contava con precisione – eppure non aveva mai saltato un solo
tentativo.
Ogni volta, si
svegliava nel cuore della notte, quando era sicuro che tutti intorno
dormissero, e allora, pregando che potesse essere la volta buona,
scendeva dal
letto e al riparo nell’ombra, pronunciava le parole che
avrebbero richiamato la
mela rossa luminosa del menu del gioco.
Quella notte,
Daniel non
nutriva nessuna speranza particolare, si apprestava ad eseguire quel
gesto, sapendo
che doveva farlo e basta. Da tempo, non ne parlava più
nemmeno con Ian.
Si
accucciò sul
pavimento dietro il suo giaciglio e in maniera appena percettibile,
scandì la parola
help. Come al solito, gli
sembrò che
non accadesse nulla.
Era ancora
troppo
insonnolito, per accorgersi subito della luce che illuminò
debolmente la scena,
gettando dall’angolo in cui era rannicchiato, lunghe ombre
dai piedi del letto
e dei mobili.
Strabuzzò
gli occhi, sbattendo
le palpebre per acquistare maggiore sensibilità.
Quando
riuscì nuovamente
a mettere a fuoco, fu sorpreso di vedere Ian, anche lui sveglio, seduto
sul
letto di fronte a lui.
Aveva gli occhi
sbarrati e guardava sgomento qualcosa che si trovava davanti ai suoi
occhi,
sopra la testa di Daniel.
Alzò
subito lo sguardo,
seguendo quello di Ian, con la testa che gli scoppiava, tanto era
l’urgenza di
guardare e tanti erano i pensieri che si accalcavano, nello stesso
istante,
dentro la sua mente.
E alla fine era
successo. La mela rossa fosforescente fluttuava pigramente proprio
sopra il suo
letto, Hyperversum aveva ripreso a funzionare.
Fu in quel
momento che sentirono
bussare.
E un istante
dopo
assistevano, terrorizzati e impotenti, al ripetersi di un incubo,
mentre la maniglia
scattava verso il basso e l’uscio si apriva lentamente.
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Capitolo 23 *** Capitolo 34 ***
***
LeClercq aveva
ascoltato i passi sulle scale e poi le voci. Comprese che si erano
diretti in
una delle sale tecnologiche, al secondo piano. Controllò la
presenza della
rivoltella, nella tasca destra del cappotto e scese furtivamente la
rampa di
scale che conduceva al secondo piano.
Nascosta
nell’ombra,
sull’angolo opposto, si trovava la scala segreta che
conduceva al piano
inferiore.
Attese
silenziosamente,
accertando con scrupolo che le uniche voci che poteva udire,
provenissero da
un’unica stanza.
Quando
fu sicuro, sperando che nessuno
attraversasse il corridoio proprio in quel momento, si
lanciò verso il muro
opposto e scomparve, inghiottito dal buio all’interno della
rampa segreta.
Attese che il
suo respiro
tornasse normale e cercò nuovamente con la mano
l’impugnatura di legno della
Smith&Wesson. Quando la estrasse dalla tasca e
sollevò il copricanna
brunito del revolver, oscuro come le tenebre in cui si trovava, questo
non
lasciò balenare alcuna luce.
***
La porta si
aprì
completamente, facendo sobbalzare Daniel e Ian.
Tutti credettero
di
essere stati sconfitti definitivamente dal fato, quando da dietro la
porta fece
capolino la zazzera bionda di Thierry, ugualmente sbalordito dalla
visione del
menu di emergenza del gioco.
Ian e Daniel si
guardarono stupefatti, improvvisamente felici e disorientati da quel
turbine di
emozioni, che in pochi istanti li aveva precipitati dalla gioia alla
disperazione e poi ancora nella gioia più sfrenata.
Ian
svegliò Isabeau,
che strabuzzò anche lei gli occhi di fronte a quel prodigio
che ormai conosceva
bene.
“Questo
significa che…”,
Isabeau non riuscì a completare la frase, tanto era
disperato il bisogno che
quella visione fosse in grado di porre fine al suo incubo.
“…possiamo
tornare a
casa…” aggiunse Daniel, anche lui incredulo.
“Possiamo
finalmente
tornare da Guillaume col codice!” esclamò Ian
senza staccare un attimo lo
sguardo dall’icona fosforescente sospesa nell’aria.
E mentre Ty
osservava
tutti e tre gli amici, abbracciarsi ed esultare, si ricordò
il motivo per cui
era venuto a bussare alla loro stanza.
“Dai,
vieni anche tu a
festeggiare!”, lo invitò Daniel, mentre cingeva
con le braccia sia Ian che
Isabeau, “si torna a casa! Si torna a casa, accidenti! Riesci
a crederci?”
“Ormai
non ci pensavo
quasi più…”, ammise Ty, abbozzando un
sorriso che in realtà non mostrava alcuna
gioia. Ian e Isabeau intuirono immediatamente il motivo.
Jeanne.
“In
verità”, proseguì
il canadese, “ero venuto qui perché ho bisogno di
voi”, aggiunse spegnendo del
tutto ogni cenno di felicità nella voce.
“Jeanne
mi ha fatto
chiamare questa notte e mi ha raccontato che ha avuto ancora quegli
orribili
sogni di guerra…”
“Ty…
è il suo destino,
ne abbiamo già parlato”, cercò di
rassicurarlo cautamente Ian, “non puoi farci nulla,
non puoi farle cambiare idea e non puoi cambiare il corso della
storia”.
“Tu
non puoi capire!”
si ribellò immediatamente il ragazzo, “Mi ha detto
che Lui le ha chiesto un altro
sforzo, un’ultima battaglia, conquistare
Parigi e poi…” Ty lottò per non
piangere, “poi è sicura che il suo compito
sarà
finito e allora potrà essere libera, finalmente libera
di…”, sbatté più volte
le palpebre per ricacciare indietro le lacrime, “libera di
amarmi, mi ha
detto.”
Isabeau non ce
la fece
più e corse ad abbraccialo, non riuscendo a trattenere lei
stessa le lacrime. E
mentre lo stringeva e lo accarezzava, Ty continuò:
“Crede
che il suo amato
re la ricompenserà, che le concederà delle terre
o un titolo, non perché lei lo
desideri, ma solo per permetterle... se mai un nobile dovesse chiedere
la sua
mano…”, Ty non riuscì a terminare la
frase, mentre la voce gli si spezzava in
gola, “E mi guardava e arrossiva, mentre lo diceva, capisci?
Capisci adesso?”
“Oh,
Ty….”
“Cristo,
lei merita di
essere felice, più di qualunque altro! Ha pensato per tutta
la sua vita agli
altri e mai a se stessa!”
Isabeau lo
strinse
ancora di più, poggiando il volto sulla spalla del ragazzo.
“Non
credo di essere
minimamente degno di ciò che lei prova per me, forse sono
solo un fottuto
egoista a dire che vorrei sposarla, che vorrei amarla per tutta la
vita…”,
cercò di calmarsi ma non era possibile, “Diamine!
E’ la cosa più bella che
poteva capitare ad una nullità come me! Io non sono niente,
ma so di amarla, di
amarla, di amarla! Io non voglio…
perderla…”
Rimasero in
silenzio,
mentre Isabeau non si sforzava nemmeno più di trattenere le
lacrime.
“E
invece quel
vigliacco di re Carlo la tradirà! La venderà agli
inglesi, quel maledetto bastardo!”
“Non
possiamo farci
niente noi… Ty, ragiona ti prego”,
mormorò Ian, disarmato anche lui dal dolore
dell’amico.
“E
pure il suo Dio non è da meno!”, urlò
il
ragazzo ormai fuori di sé, “non la
tradirà anche lui? Proprio lui?” Isabeau lo
implorò di tacere, di non parlare così.
“Isabeau,
Lui la farà bruciare
viva, dannazione!
Io non posso permetterlo! Non lo permetterò mai, a costo di
morire insieme a
lei!”.
“Ty,
torna in te!
Capisco la tua rabbia, ma hai sempre saputo che sarebbe finita
così! Noi cosa
possiamo fare? Cosa vuoi che facciamo? E’ tutto
maledettamente ingiusto, ma non
si può cambiare la storia!”, lo
supplicò Ian.
Ty rivolse lo
sguardo
alla mela fosforescente, che continuava a fluttuare
nell’aria, sopra il letto
di Daniel e si calmò.
“Voi
dovete andare, non
sappiamo nemmeno per quanto continuerà a funzionare, ma io
non posso. Io resto
con lei”.
“Non
dire così, vuoi
davvero farti ammazzare anche tu?”
“Se
è quello il mio
destino, perché no? L’hai detto tu, prima, che non
si può cambiare la storia!”
Daniel si
voltò verso
Ian. “Io credo che dobbiamo rispettare la sua scelta, come
tempo fa io
rispettai la tua. In ogni caso dobbiamo decidere in fretta, non vorrei
aspettare altri cinque mesi per prendere il prossimo treno per
casa.”
Ian rimase in
silenzio,
pensieroso, e dopo qualche istante annunciò:
“Va
bene, ma dovrai
stare a questi patti: ti lasceremo qui per adesso, insieme a Jeanne. Mi
rendo
conto che non puoi abbandonarla in questo modo e che hai bisogno di
tempo. Ma
il giorno in cui sarà rapita dai Borgognoni, verremo a
prenderti e tu verrai
con noi.”
Ty ristette,
continuando a fissare Ian.
“Non
sarai tanto
sciocco da voler stare qui fino al processo e all’esecuzione
della condanna! Lo
strazio ti ucciderà dentro, anche se tu restassi
vivo.” Ian gli concesse del
tempo per assimilare le sue parole. “Abbiamo un accordo,
allora?” gli domandò
infine, porgendogli la mano.
Ty ancora una
volta non
disse nulla, ma sollevò la mano e gliela strinse.
“Devi
essere forte, Ty.
E’ nel destino del Falco d’Argento affrontare prove
come queste”, poi fissò
l’amico negli occhi, con uno sguardo intento. “Sei
tu il Falco, adesso”.
“Ian...”,
Ty abbassò il
capo, “dalla prima volta che ho sentito parlare del Falco
d’Argento, non ho mai
smesso di sognare di essere te, un giorno.” Una smorfia di
infinita amarezza
trapelò sul volto. “Eppure adesso non riesco a
gioirne del tutto, perdonami.”
Ian gli
allungò una
pacca e trattenne la sua mano sulla sua spalla, cercando di infondergli
coraggio.
“Hai
già pensato a come
farai a spiegare la nostra partenza?”
“Voi
sareste partiti comunque
tra un giorno o due e poi, dopo l’incoronazione,
c’è un tale via vai di gente
qui dentro, che nessuno noterà la vostra partenza. Se
qualcuno domanderà di
voi, spiegherò che avete anticipato il viaggio
all’alba.”
“Molto
bene. Ty… Jeanne
mancherà terribilmente anche a me.”
“E
anche a me”, si
affrettò ad aggiungere Isabeau, subito imitata da Daniel.
“Mi
dispiace non
poterla salutare, ma non possiamo rimandare la partenza. Dille soltanto
che
conoscerla e combattere per lei…”, Ian
cercò le parole giuste, “è stato
l’onore
della mia vita”.
Quando ogni cosa
fu
pronta, gli uomini si abbracciarono rudemente tra di loro e Isabeau
versò
ancora qualche lacrima, ma alla fine si costrinsero a separarsi ed
affrontare
ognuno le proprie decisioni.
Ad un comando di
Daniel, sotto
l’icona della mela fosforescente, apparvero sospese
nell’aria le scritte:
CONTROLLO PARTITA
Nome utente:
daniel.freeland
Codice utente: _
L’ultimo
carattere
lampeggiava ancora e si trasformò in una fila di asterischi,
non appena Daniel
scandì la password.
I nomi di
Daniel, Ian e
Isabeau s’illuminarono di un verde intenso non appena le loro
dita li
sfiorarono.
***
|
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Capitolo 24 *** Cap 35: Ritorno a casa ***
Erano trascorse
quasi
due ore, da quando avevano riavviato i portatili e la ragazza aveva
controllato
che il software, che appariva ingegnosamente mascherato come un normale
videogame, girasse correttamente e fosse connesso alla rete LAN del
castello.
Aveva persino verificato che alle postazioni fossero collegati i guanti
e i
visori 3D, sebbene Mónika non ne comprendesse il motivo.
“La
terza postazione
per chi diavolo sarebbe?” aveva domandato nervosa,
“E’ la tua?”
“Non
si sa mai che Ian
e Daniel abbiano fatto qualche amicizia nel passato e desiderino
farcela
conoscere!”, aveva scherzato Jodie, con un sorriso tirato.
“Le
tue battute
iniziano a darmi sui nervi”, aveva sibilato
Mónika, fissandola da dietro gli
occhi grigio-verdi socchiusi minacciosamente, “basta giocare,
ora rispondi alla
mia domanda”.
“Quando
Ian e Daniel
sono partiti, le postazioni accese erano tre, voglio solo riprodurre
con
precisione le stesse condizioni di allora”, cercò
di schermirsi.
Mónika
lesse negli
occhi di Jodie la menzogna, chiedendosi chi o cosa stesse ancora
cercando di
proteggere.
Ora che si
avvicinavano
al momento della verità, si faceva strada dentro di lei
l’angoscia crescente di
essere stata giocata da quella ragazzina. L’ansia le faceva
dubitare di tutto,
a cominciare da come l’hardware insignificante di quei
portatili, potesse
celare al proprio interno le risposte alle teorie di Lloyd.
Infine,
senza alcun preavviso, accadde ciò che
cambiò per sempre la sua vita.
I suoi occhi la
sorpresero, mostrandole ciò che era inimmaginabile e
impossibile.
All’impazienza
e
all’irritazione subentrò una paura ghiacciata. Un
istante prima non c’erano e
poi erano lì. Apparvero, irragionevolmente, proprio dove
prima c’era soltanto
il vuoto, il nulla.
Ian,
Daniel e Isabeau.
Jodie si
precipitò
verso Daniel, facendolo quasi ribaltare dalla sedia, mentre gridava il
suo nome
e gli gettava le braccia al collo.
John
incrociò lo
sguardo di Ian e dopo qualche secondo di sconcerto, i loro occhi
crepitarono di
minacciosi lampi elettrici.
Mónika
posò la sua
attenzione sulla figura femminile che non doveva esserci, una ragazza
dalla
perfezione quasi aliena, che maneggiava atterrita guanti e visore.
E
tu, chi diavolo sei? Non appartieni a questo mondo, vero?
LeClercq
udì le grida e
gli strani rumori che giunsero inaspettatamente dalla stanza alla sua
sinistra.
Emerse con cautela dall’angolo di buio dov’era
nascosto e tese ogni suo nervo
all’ascolto.
Sta
succedendo qualcosa. Qualcosa che avevo previsto. Un sorriso
storto gli contorse le
labbra, mentre assaporava il trionfo e la vendetta. Ian Maayrkas si
trovava lì,
a pochi passi da lui.
***
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Capitolo 25 *** Capitoli 16-50: riassunto ***
Nel
presente, dal carcere di Lille-Sequedin, Jodie
può finalmente avvertire i genitori di Daniel che lei, loro
figlio e Ian sono
accusati di aver trafugato un manufatto di ragguardevole interesse
storico, che
rischia di creare un incidente diplomatico tra Stati Uniti e Francia.
John, non
appena ricevuta la notizia si precipita in Francia. Lo aspetta a Lille
il
Maggiore Monika Szigeti, soprannominata szigi, ovvero
“isola” per il carattere
glaciale e solitario.
Isabeau era
stata rinchiusa nelle prigioni della fortezza di
Les Tourelles, all'estremità del ponte sulla Loira. Il
capitano inglese non
tarda a farla condurre nei suoi alloggi e colpito dalla straordinaria
avvenenza
della ragazza e dei suoi bellissimi boccoli biondi, pregustando un
piacevole
passatempo, le spiega che se fosse stata carina con lui le avrebbe
risparmiato molte
inutili sofferenze. Isabeau rifiuta sdegnosamente e mentre lui cerca di
farla
sua, nella breve colluttazione riesce ad impossessarsi del coltello da
cavaliere di Glasdale che usa per tagliarsi i lunghissimi riccioli che
incantavano l’inglese. Glasdale la fa condurre da lui ogni
notte, e ogni volta
Isabeau gli resiste, in una lotta più psicologica che
fisica, finché, ormai
smagrita dal quasi digiuno cui si era costretta, senza più i
boccoli che lo
affascinavano, l’inglese decide che non prova più
per lei l’irrefrenabile
attrazione di prima e ordina ai suoi sgherri di divertirsi con lei
prima di ucciderla
crudelmente. La notizia giunge però alle orecchie di Lord
Thomas Montaigu conte
di Salisbury, comandante dell’assedio, che revoca
l’ordine di Glasdale e lo
redarguisce pubblicamente per la sua condotta senza onore. Umiliato dal
suo
comandate, Glasdale smanioso di vendetta minaccia Isabeau della morte
più
orribile. La sorte della francese nei suoi disegni è
comunque segnata, sarebbe
morta arsa viva sopra le pire, quando lui si fosse stancato anche delle
altre
donne che aveva catturato.
Gli inglesi
intanto avevano accerchiato Orléans e avevano
occupato otto fortezze intorno alla città, dalle quali la
tenevano in scacco:
le Tourelles, le bastie degli Augustins, di Saint-Jean-le-Blanc (sulla
riva
meridionale della Loira), di Saint-Laurent, di Saint-Loup, le tre dette
"Londre",
"Rouen" e "Paris" (sulla riva settentrionale), ed infine di
Charlemagne (sull'isola omonima). Gli assediati erano tuttavia riusciti
a
tenere libera la porta di Bourgogne e quando Jeanne giunse sulla riva
meridionale, in sella ad un destriero bianco, di fronte al piccolo
borgo di Chécy,
il 29 aprile,
trovò ad attenderla il cosiddetto Bastardo
d'Orléans, comandante delle forze a difesa
dell’assedio.
Il comandante
francese la pregò di entrare in città per
quella via mentre i suoi uomini compivano manovre diversive, l'esercito
ed i
rifornimenti invece - necessari per sfamare la popolazione allo stremo
-
avrebbero atteso di poter essere traghettati attraverso il fiume non
appena il
vento fosse divenuto favorevole.
L'incontro tra
il comandante e la ragazza fu subito burrascoso;
dinanzi alla decisione di attendere che il vento girasse in modo da
consentire
l'ingresso dei rifornimenti e dei rinforzi, Jeanne, appena 17enne,
rimproverò
aspramente l'esperto uomo di guerra, sostenendo che suo compito sarebbe
stato solo
quello di condurre lei e l'esercito direttamente in battaglia, avrebbe
preso
lei le decisioni necessarie. Il Bastardo d'Orléans non ebbe
neppure tempo di
replicare poiché pressoché subito il vento
mutò direzione e divenne favorevole
al transito sulla Loira,
consentendo l'ingresso per via
d'acqua dei rifornimenti e dei rinforzi - circa 4000
uomini - che la ragazza aveva recato con sé.
Gli inglesi
erano ora guidati da Lord Glasdale dopo che il
precedente comandante, Thomas Montaigu conte di Salisbury, ferito
gravemente al
volto da alcuni detriti sollevati dal fuoco dell'artiglieria e ormai
morente,
era stato soffocato nel sonno dallo stesso Glasdale bramoso di prendere
subito per
sé il potere e avere via libera nel comandare
l’assedio col pugno di ferro e
disporre a suo piacimento dei prigionieri.
John e Monika
nel frattempo riescono a ottenere l’immunità
diplomatica per Jodie che viene scarcerata e condotta in un albergo a
Lille: i
due militari intendono scoprire cosa è successo e
soprattutto perché Daniel e
Ian sono irreperibili.
Nel Medioevo,
nonostante la veloce conquista di una delle
fortezze minori in mano agli inglesi, lo scontro decisivo sembrava
tuttavia dover
attendere ancora, quando un giorno gli informatori dei difensori
riportarono a
Ty la notizia che la notte del 7 maggio gli inglesi avrebbero ucciso,
nel
tentativo di fiaccare la morale degli assediati, proprio davanti agli
occhi dei
loro cari, tutti i prigionieri catturati. Le donne
“eretiche” sarebbero invece
bruciate vive sui roghi. Per Ty, Ian e Daniel è facile
convincere Jeanne della
necessità di sferrare l’attacco decisivo prima di
quel massacro. E così facendo
pianificano lo storico attacco a Les Tourelles.
Mattina del 7
maggio 1429, Orleans: iniziò l'attacco decisivo
agli inglesi, barricati dietro al portone fortificato de Les Tourelles,
secondo
il copione dell'assalto frontale in voga ai tempi. La stessa sera,
già ultimati
tutti i preparativi per i roghi, secondo i piani di Glasdale sarebbe
stato
consacrato al sacrificio di tutte le dame francesi che aveva catturato.
Inclusa
Isabeau.
In testa alla
formazione francese c’erano Ty e Ian. E
ovviamente lei. Sebbene non le fosse stata affidata formalmente nessuna
carica
militare, Jeanne era la figura centrale nelle armate francesi: vestita
da
soldato, impugnando spada e bandiera
bianca
con raffigurato Dio benedicente il fiordaliso
francese ed ai lati gli
Arcangeli Michele e Gabriele, si rivolse
così alle truppe
schierate: “Agite e Dio agirà! Gli uomini d'arme
si batteranno e Dio darà loro
la vittoria!” e pronunciando alla fine le famose parole
“Chi mi ama, mi
segua!”. Il piano elaborato da Ian prevedeva come prima cosa
di insidiare,
mediante alcune chiatte incendiate, gli archi del ponte, che servivano
in parte
come struttura muraria di base della fortezza. Quando Glasdale si
accorge di
Ty, l’uomo che lui sapeva di aver ucciso e gettato a marcire
nel fiume, di
fianco a Jeanne, in prima fila, senza elmo e con ben in evidenza i
colori del
Falco d’Argento, un superstizioso terrore si impadronisce di
lui, prima di
riprendere poco dopo il controllo di se stesso e gettarsi con folle
ferocia nel
combattimento.
Nel mezzo dello
scontro, Jeanne fu colpita come lei stessa
aveva predetto il giorno prima. Pur ferita da una freccia tra il collo
e la
scapola, non smette di combattere né cerca di farsi curare
sino al termine
delle ostilità, difesa con coraggio da Ty e tra le grida di
incitamento dei
suoi uomini che nel fatto straordinario videro la conferma del disegno
divino
che stava per compiersi: avrebbero vinto poiché era Dio a
volerlo.
Verso sera,
quando ormai il comandante francese si stava
preparando ad ordinare il disimpegno dallo scontro per il buio ormai
incombente,
Jeanne lo convinse a ritardare il proponimento, convinta a sua volta da
Ty e Ian
a trovare le forze necessarie per affrontare quella prova: Ian sapeva
dai libri
di storia che quella sera ci sarebbe stata la battaglia decisiva e non
voleva
dare tregua agli inglesi, che potevano impiegare quel tempo per mettere
in atto
il massacro dei prigionieri che avevano progettato.
Nel frattempo,
Glasdale, furibondo per le perdite subite e
per la paura irrazionale che attanagliava le sue truppe dinanzi agli
straordinari
comandanti dell’esercito nemico, decise che era il momento di
sferrare un duro
colpo al morale dei nemici e ordinò di portare
immediatamente tutti i
prigionieri e le donne ai roghi già allestiti.
Dopo essersi
ritirata per riflettere in un bosco vicino
insieme a Ty che non la lasciava un attimo, Jeanne rinnovò
l'assalto a Les
Tourelles. Diede lei stessa l’esempio, lottando in prima
fila, insensibile al
dolore della sua ferita e facendo così credere ai soldati
che combattevano al
suo fianco che fossero invincibili. Gli uomini col falco
d’argento sul petto,
erano invece trascinati da uno Ian implacabile che vedeva Isabeau
sempre più vicina
e incitava i compagni con sentite parole e una determinazione assoluta:
“oggi è
il giorno che forgeremo la leggenda con le nostre imprese! Oggi
è il giorno che
scriveremo la storia di Francia!”
Insieme
scatenarono una furia mai vista dagli inglesi in
battaglia.
Il castelletto
fu conquistato, in un unico incontenibile
assalto e la sua guarnigione uccisa o catturata. Nessun inglese
riuscì a
fuggire. Lo stesso Glasdale, che aveva provocato Ian gettandogli
davanti una manciata
dei lunghi riccioli della moglie, che teneva con sè, venne
decapitato in un
duello straordinario, da uno Ian determinato come non mai, con la mossa
delle
due spade a forbice che aveva visto più volte eseguire a
Martewall. Nel
frattempo, Daniel, disimpegnatosi dallo scontro secondo i piani, con un
piccolo
drappello di arcieri scelti, colpiva a morte il primo inglese che stava
dando
fuoco alle pire. Pochi attimi dopo tutti gli inglesi incaricati di
appiccare il
fuoco caddero trafitti dalle loro frecce. L’incontro di
Isabeau con Ian è, per
l’ultima volta, straziante e commovente. Sebbene ridotta
all’ombra di ciò che
era prima per le sofferenze patite, il suo sorriso splendeva ancora
come Ian lo
conosceva. Ci sarebbe voluto del tempo per riprendersi e dimenticare,
ma con
Ian a suo fianco sapeva di potercela fare.
Il mattino del
giorno successivo, tutte le forze inglesi
degli altri forti si riunirono in un’unica immensa formazione
di battaglia. Lo
stesso fecero i francesi. Dopo essersi fronteggiati immobili per
un'ora, senza
che nessuno prendesse l'iniziativa (era domenica e Jeanne non
desiderava
iniziare l'attacco), gli inglesi si ritirarono, spaventati dalla forza
sovrannaturale che sembrava emanare dai nemici e che pareva rendere
invincibile
l’esercito condotto da quella adolescente. L'assedio di
Orlèans si era
concluso. Era l’8 maggio: Orléans era salva e la
storia di Francia era stata
cambiata per sempre e in modo radicale.
La vittoria
sorprendente consente l'incoronazione di Carlo
nella cattedrale di Reims, finalmente libera dal dominio inglese. Una
volta
incoronato, Carlo VII sembra pienamente soddisfatto. Non altrettanto
Jeanne,
che decide di continuare a combattere. Ty e Ian la avvertono che non
soltanto
re Carlo ha abbandonato l'intenzione di proseguire la guerra contro gli
inglesi
rimasti in territorio francese, ma sta ordendo dei piani per tradirla.
Ma
ovviamente nulla potrà farle cambiare idea. La giovane si
sente obbligata a
continuare a combattere con determinazione fino alla fine, nonostante
sia
macerata interiormente tra la scelta di compiere la sua missione fino
in fondo
e quella di abbandonare tutto per vivere l’amore della sua
vita con Ty. Ma si
dice che manca poco al successo finale, che non sarebbe stato giusto
nei
confronti del suo Paese abbandonare i suoi uomini per seguire
l’istinto egoista
di voler essere felice con l’uomo che amava. Cosa voleva il
Signore da lei?
Cosa voleva che facesse, cosa le chiedeva ancora? Disperata, non riesce
a darsi
una risposta né la ottiene questa volta da Lui, nonostante
le sue suppliche. Tra
le lacrime rinnova ancora una volta a Ty la promessa che quando tutti
gli
inglesi saranno stati cacciati via lei potrà infine
dedicarsi a lui, come il
Signore una volta le aveva promesso. Ty sa che lei non potrà
mai mantenere
quella promessa e Ian gli spiega che non possono cambiare il corso
della storia
né sarebbero mai riusciti a convincere Jeanne a fermarsi
adesso.
Jodie, nella
disperazione e temendo che ogni attimo trascorso
con i pc spenti può essere fatale ai suoi cari, trova il
coraggio di dire al
genitore di Daniel se non la verità, qualcosa che in qualche
modo le somiglia: “la
verità è così preziosa da aver bisogno
di una guardia del corpo di menzogne”.
Racconta quindi che Ian durante le sue ricerche ha scoperto una
tecnologia, un qualcosa
più grande di lui e adesso tutti loro, Daniel, Ian stesso,
sono in pericolo di
vita a causa di questa scoperta. Il suo racconto, è
infarcito da dettagli così
particolareggiati da rendere plausibile lo scenario improbabile che
descrive a
John e Monika. Si preoccupa di non citare mai il gioco né la
chiave di volta
che permette a Hyperversum di compiere il suo prodigioso salto nel
Passato:
Ian.
John accoglie il
racconto di Jodie con evidente scetticismo e
incredulità. Non però Monika, che prima di essere
assegnata in Francia, aveva
lavorato per l’agenzia nella città natale di
Boston, col compito di vigilare
sulle teorie emergenti di interesse del governo, nelle
università più celebri
che si trovavano a Boston: Harvard e il MIT. Proprio uno stimato
professore al
MIT, il fisico quantistico Seth Lloyd, aveva teorizzato la
fattibilità tecnica
di un salto temporale, combinando l’effetto di sub-selezione
del Quantum
computing di cui era il padre con gli stessi mezzi che avevano permesso
agli
studiosi di teletrasportare con successo il primo fotone in laboratorio
(cfr MIT Digest, Boston 23 jul 2010
ndr).
Monika
– convinta di poter mettere le mani sulla scoperta
più
sconvolgente della storia – convince il Generale a fare
quello che chiede la
ragazza, nonostante l’incredulità di John. Grazie
ad un nuovo intervento
dell’ambasciata ottengono i portatili e il loro prezioso
corredo di dvd dove
Daniel aveva salvato tutti i dati di gioco. Ma le loro richieste
vengono
accolte ad un prezzo: tutte le accuse contro i ragazzi cadranno solo se
restituiranno il codice miniato che avevano sottratto al museo di
Chatel-Argent. Jodie li conduce quindi al castello e riavvia i computer.
Il Curatore
LeClercq non digerisce che gli odiati americani,
popolo senza un vero passato e senza storia e che lui disprezza
profondamente,
avevano infine con i loro vili trucchi ottenuto tutto ciò
che volevano, con la
solita arroganza e in spregio alle leggi. Non avrebbero imbrogliato
lui, però.
Chatel Argent era anche il suo regno dopotutto, conosceva il castello e
i suoi
segreti come le sue tasche. Sapeva che prima o poi quegli insolenti
ragazzini
avrebbero commesso un errore e lui sarebbe stato lì, a
coglierli con le mani
nel sacco.
Daniel
finalmente si accorge che Hyperversum ha ripreso a
funzionare: durante un tentativo di richiamare l’uscita di
emergenza del gioco
che, ormai con rassegnazione, ripeteva ogni giorno, appare finalmente
la mela
rossa del menu del gioco. Ty li supplica di lasciarlo con Jeanne,
mentre gli
altri, sapendo che non era in loro potere cambiare il destino della
ragazza,
decidono che la cosa migliore da farsi al momento è tornare
a casa e portare il
manoscritto a Guillaume, l’obiettivo iniziale del loro
viaggio. Sarebbero
tornati a prendere Ty il giorno stesso della cattura di Jeanne da parte
degli
inglesi, la data la conoscevano.
A Chatel Argent,
nel XXI secolo, Daniel, Ian e soprattutto
Isabeau si materializzano dal nulla davanti a Jodie, John e Monika,
quest’ultimi
sconcertati all’inverosimile. Monika sapeva di aver visto
giusto. La tecnologia
che aveva compiuto quel prodigio era la scoperta più
sensazionale della storia
dell’umanità. Nascosto nell’ombra, dalla
sala del museo del castello di cui
possiede le chiavi, LeClercq osserva più di quanto dovrebbe
vedere. Non può
capire da dove sono arrivati i ragazzi, ma una cosa vede con certezza:
il suo prezioso manoscritto miniato
nella
mani di Daniel.
Dopo i primi
imbarazzanti momenti in cui i ragazzi appena
sbarcati dal Medioevo si trovano inaspettatamente di fronte John e
Monika,
Jodie comunica loro che devono restituire il codice ai francesi. Ma Ian
e
compagni sanno che devono assolutamente portarlo a Guillaume,
altrimenti tutte
le loro fatiche sarebbero risultate vane. Dopo aver finalmente vinto lo
sconcerto e la preoccupazione iniziale, giurano a John che non appena
completato
l’incarico, sarebbero ritornati nel Presente, dove intanto
sarebbero trascorsi
solo pochi minuti. L’assicurazione che Daniel fornisce al
padre e Monika è che
potranno verificare loro stessi sui monitor se ciò che
affermano è vero. Per
Monika è la prima occasione di vedere all’opera la
misteriosa tecnologia di cui
ha parlato Jodie e nonostante John si dichiara palesemente contrario a
far
ripartire i ragazzi mettendoli ancora in pericolo, convince il suo
superiore a
non ostacolare Daniel e Ian.
Tuttavia Daniel,
prima di affrontare un nuovo viaggio con
Hyperversum, cerca in rete notizie sui malfunzionamenti conosciuti del
gioco in
seguito all’istallazione di alcuni Mod: si accorge che altri
giocatori avevano
riscontrato problemi analoghi nelle loro avventure virtuali e la
community di
Nexus ha rilasciato una patch per Celebrity Skin, che sembra davvero
fare al
caso suo. Tornano quindi tutti, senza problemi stavolta, nel XIII
secolo. Nella
grande sala dei ricevimenti del castello, proiettato
sull’immenso monitor a
led, i due militari e Jodie osservano attoniti i ragazzi tornare nel
Passato.
LeClercq, sgusciante e sfuggente come un viscido animale notturno, si
insinua
dietro la porta del grande salone, vede proiettare nei larghi schermi
un
semplice videogioco, e poi…
Ponthieu
è stupefatto oltre ogni dire del contenuto di quel
codice e non può che ammettere che Ian aveva ragione. Il
conte acconsente alla
restituzione del manoscritto, né avrebbe mai voluto
possedere qualcosa che gli
avrebbe svelato parte del futuro del suo casato.
Tornano quindi
tutti
nel presente, tranne Isabeau che Ian lascia prudentemente con Ponthieu
e i
figli: sono passati solo pochi secondi dalla loro partenza. Irrompe
finalmente nella
sala LeClercq, articolando grida confuse e incoerenti a proposito di
stregonerie e sortilegi, ma deciso a riprendersi l’antico
manoscritto con le
buone o le cattive, forte anche del piccolo revolver che adesso
stringeva tra
le mani. Volano parole grosse e accuse pesanti, Monika senza pensarci
un
secondo punta la sua arma d’ordinanza sul francese.
E’ John infine che prende
la decisione: lasceranno il codice nelle mani di LeClercq, ma a questo
punto
per Ian e Daniel non ha più importanza. Di
tutt’altra opinione è invece Monika
che crede, come le aveva raccontato Jodie, che è
l’antico manoscritto la chiave
di accesso per utilizzare Hyperversum come ponte per il Passato: del
resto ogni
volta che aveva visto apparire o scomparire nel nulla i ragazzi, questi
avevano
con sé il codice miniato.
Quando LeClercq
si
allontana, nessuno tuttavia può impedire a Monika di
sequestrare i portatili e i
dvd. Anche John si dichiara d’accordo a porre fine a quella
follia, finché non
ci avrebbe visto chiaro.
Sarebbero tutti
tornati negli States dove sarebbero rimasti a
disposizione per chiarire i molti lati ancora oscuri della vicenda. Le
loro
strade quindi momentaneamente si dividono, con Monika che porta con
sé i
computer e i supporti elettronici e inquietanti interrogativi che
tormentano i
ragazzi: cosa farà il governo adesso, come si
comporterà? John riuscirà in
qualche modo a proteggerli come aveva infine promesso? Fino a quanto ci
sarebbe
riuscito? Cosa sarebbe successo invece se Monika fosse riuscita ad
avere
accesso al segreto più intimo di Hyperversum e di Ian?
Daniel e soprattutto Ian
non si danno pace. E anche se l’avevano prudentemente
nascosto ai militari,
dovevano ancora recuperare Ty, rimasto con Jeanne nel XV secolo.
Nel XV secolo,
intanto, la figura di Jeanne, ormai
leggendaria, diveniva intanto sempre più ingombrante per l'aristocrazia
francese che cominciò a temere di vedere offuscato il
proprio prestigio da una
pastorella lorenese. Anche Isabella di Baviera madre di Carlo VII,
turbata
dalla diceria popolare "una Vergine ci salverà dalla regina
madre
svergognata" contribuiva a fomentare dubbi e sospetti a corte. Inoltre,
le
casse del nuovo re non permettevano di continuare la guerra come
avrebbe voluto
la ragazza, e senza fondi Carlo VII temeva di perdere troppo presto la
corona
appena ottenuta. Ma Jeanne era una ragazzina determinata e, grazie alla
sua
fama ed al suo carisma, aveva radunato intorno a sé un vero
e proprio esercito,
con il quale attaccò Parigi,
sempre con Ty e le armate del
falco d’argento a suo fianco, l'8 settembre 1429. Spaventata
da questa sua
forza sul campo, la corte di Carlo VII decise allora di togliere di
mezzo la
scomoda ragazzina: non inviò infatti i rinforzi promessi a
Jeanne, che vide
così capitolare il suo esercito e fallire l'assedio di
Parigi.
Contro ogni
parere, Jeanne fa quindi rotta verso Compiègne, a
nord di Parigi, dove ha luogo una imboscata durante la quale viene
fatta
prigioniera dai Borgognoni, mentre Ty non può che assistere
impotente e in
lacrime al rapimento della ragazza. Daniel, come promesso, ritorna nel
XV
secolo con l’intenzione di riportare a casa Ty, ma il ragazzo
si oppone disperatamente,
non volendo abbandonare la ragazza. Alla fine convince Daniel a
rimandare il
ritorno al mattino successivo: la mattina avrebbe portato le risposte
che la
notte sembrava semplicemente nascondere.
Jeanne viene
venduta dai borgognoni agli inglesi per 10'000
scudi come prigioniera di guerra. Abbandonata dal re francese che lei
stessa
aveva innalzato al trono e per il quale aveva combattuto mille
battaglie, fu
consegnata all’Inquisizione che
l’accuserà con suo atroce stupore di eresia.
Nonostante
le prove raccolte contro di lei saranno oggettivamente assai deboli,
verrà
infine emesso un verdetto di colpevolezza per una lunga lista di
imputazioni,
le più gravi delle quali erano la blasfemia,
l'idolatria
e la superstizione.
La pena per questi reati, dopo che lei stessa
negherà l’abiura estortale dagli ecclesiastici,
è il rogo.
In quella stessa
notte in cui Jeanne è stata rapita e Daniel
è arrivato per riportarlo a casa, Ty ha un incubo terribile,
che gli mostra nei
dettagli più crudeli quale orribile morte
toccherà alla sua amata.
Disperato,
sveglia Daniel, implorando in lacrime il suo aiuto.
Lui è il conte di Ponthieu, no? La copia del codice ancora
in mano a Daniel e
Jodie non avrebbe potuto aiutarli in qualche modo? E se avesse tenuto
traccia
di quei pochi mesi dove lui aveva impersonato il ruolo del conte
Thierry? Era
davvero questo il suo destino: innamorarsi perdutamente di una persona
tanto straordinaria
solo per vederla atrocemente morire senza poter far nulla per lei?
Daniel lo deve
riportare in fretta a casa, dopo quello che è
successo non può trasgredire gli ordini del padre
né destare il benché minimo
sospetto. Ma una volta tornati a casa i ragazzi hanno una idea.
Dopo aver
consultato le pagine della copia del manoscritto
miniato, adesso sanno tutti cosa fare. Sanno che la
possibilità di riuscita
dell’unica opzione possibile è quasi irrisoria,
troppe le variabili in gioco e
molte al di fuori del loro controllo, ma tra molte, una possibile
interpretazione del codice infonde loro il coraggio necessario per
tentare.
La Direction
Centrale du Renseignement Interieur,
l’intelligence francese, non gli aveva prestato fede e aveva
osato persino
sbeffeggiarlo, ma Bertrand LeClercq non solo sapeva di non essere
pazzo, non
solo era a conoscenza del segreto di Daniel e Ian, ma adesso poteva
prevedere
anche cosa sarebbe successo. Il codice medievale gli aveva infine
rivelato
tutto e lui non poteva permettere che accadesse. Non sarebbe stato un
manipolo
di ragazzini americani ad arrogarsi il diritto di cambiare la storia a
loro
piacimento. Il corso degli eventi di quei secoli era già
stato scritto
dall’uomo e lui adesso sapeva che il suo destino era essere
qualcosa di più di
un semplice curatore delle Vestigia del Passato: ne doveva diventare il
Custode.
La storia era tutto ciò in cui lui credeva e
l’avrebbe difesa a qualsiasi
costo. Se i francesi erano così ottusi da non dargli
ascolto, l’intelligence
americana forse gli avrebbe creduto, quella Monika poteva aiutarlo.
Doveva
restare sulle tracce di quei ragazzi, doveva conoscere ogni loro
spostamento.
Doveva fermarli.
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Capitolo 26 *** Capitoli 51-54: riassunto ***
30
Maggio 1431, Place du Vieux
Marché, Rouen. Sfruttando
la conoscenza della storia e la loro lingua madre Ty, Ian e Daniel da
giorni si
sono fatti passare per inglesi e si sono sostituiti ai boia
incappucciati.
Sanno che non sarà possibile una fuga perché non
c’è scritto sui libri di
storia, dovranno fare in modo che nessuno si accorga di nulla in modo
che la
storia continui a pensare che Jeanne è morta lì,
sul rogo. Poiché avrebbero rischiato
la loro stessa vita, per il compito più delicato si propone
volontario Ty che
si dichiara pronto a morire per lei, se le cose fossero andate storte.
Ian
invece ha l’ingrato compito di far sembrare che il rogo si
sia consumato
ugualmente: in una sacca ha le ceneri e i pochi resti carbonizzati di
un
cadavere. E’ Ty il boia avvolto in un cappuccio e
irriconoscibile che dovrà
appiccare il fuoco, ma subito dopo, non appena potrà farlo,
dovrà aprire di
nascosto i comandi di uscita di emergenza di Hyperversum, la mela rossa
luminosa
e in qualche modo farla sfiorare a Jeanne.
Grazie al mod di
Celebrity Skin, Jeanne fa già parte dei
giocatori non attivi della partita, Ty non deve fare altro che trovare
il modo
di farle toccare la mela prima di appiccare il fuoco alle pire e poi
nascondersi
per chiudere la partita con i codici di Daniel, mentre già
le fiamme avrebbero
iniziato ad allungarsi verso il corpo di Jeanne… Sa che
è sufficiente il minimo
errore e non solo Jeanne sarebbe bruciata sul rogo, ma anche lui, se
fosse
stato scoperto, avrebbe perso la vita. Ma se lei fosse morta, che
differenza
poteva esserci tra vivere e morire, quando l’amore per Jeanne
era tutta la sua
vita? Ty non aveva paura.
La ragazza
mentre vedeva confusamente le lingue delle fiamme
salire verso i piedi e le gambe, sente ancora la voce di Lui che le
sussurra di
non temere nulla, perché lei non era sola, egli non avrebbe
mai abbandonato la
sua figlia diletta, non avrebbe lasciato morire una
sua prescelta.
Ty, Ian e
Daniel, riescono a stento a trattenersi da
precipitarsi verso di lei quando vedono le fiamme lambirle le gambe tra
le sue
urla disperate, l’uscita di emergenza è
già attiva e Jeanne non dovrebbe
sentire dolore: allora perché quelle grida disumane? Come
già Daniel quando fu
trafitto dalle frecce a Dunchester, agli occhi dei presenti Jeanne
sembra
morire davvero, ma quando incamminandosi dietro al rogo in fiamme,
nascondendosi agli occhi di tutti Ty riesce a dare finalmente
l’ok al game over
si ritrovano tutti catapultati nella città di Rouen. Piazza
del Mercato
Vecchio, XXI secolo.
Otto militari
delle forze speciali americane sono appostati
da tempo sui tetti dei colorati e pittoreschi edifici e degli Hotel che
circondano
la grande piazza di Rouen: conoscono ormai quasi tutto di Hyperversum e
si sono
fatti trovare puntuali all’appuntamento con la storia. Con le
loro carabine dotate di ottiche di massima precisione scandagliano ogni
centimetro in
movimento sopra le loro tacche di mira.
Monika
è il comandante che coordina la squadra di cecchini
sui tetti e la squadra mimetizzata tra la folla della piazza:
mascherata da
turista e nascosta tra loro è disposta a tutto pur di
garantire il successo
dell’operazione. Sapeva che in quel momento, forse, la storia
stava per cambiare
per sempre. Oppure grazie alla sua missione, la storia
dell’umanità non sarebbe
cambiata affatto. Tutto dipendeva da lei, adesso. La storia dipendeva
da lei.
Ma si ripeteva che era abbastanza fredda da prendere la decisione
giusta al momento
giusto: era consapevole che ogni istante della sua vita fino ad allora
aveva
avuto come unico scopo quello di prepararla a vivere quel momento.
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Capitolo 27 *** Capitolo 55: Operazione Fenice ***
Disseminate sui
tetti verniciati
di nero, le canne fumarie e le antenne si protendevano verso il cielo
simili a
dita adunche e irrigidite dalla morte, in contrasto con
l’armonia e i colori caldi
dei pittoreschi palazzi attorno alla piazza.
Proprio dietro
ad uno
di quei comignoli, nel posto dove aveva appuntamento con la storia, era
accovacciato il cecchino. Inquadrava la sagoma di una donna, a poco
meno di
cento metri dalla tacca di mira.
Avvolto
dall’equipaggiamento
mimetico, era pressoché indistinguibile dal cemento
antracite su cui era
disteso. Persino la canna da ventotto pollici e il grosso silenziatore
del McMillan
TAC-50 erano stati accuratamente mascherati e non riflettevano alcuna
luce.
Da quella
posizione, il
suo fucile poteva colpire l’obiettivo con rosate inferiori ai
10mm e una
energia d’impatto maggiore a quella di un proiettile esploso
da un Ak-47 a
bruciapelo.
La distanza dal
bersaglio non lo preoccupava: l’uomo sapeva che in Afganistan,
nella valle del Shah-i-Kot, il
caporale Furlong aveva ucciso con quella stessa arma un talebano a
oltre due
chilometri.
Si
drizzò appena sui
gomiti e studiò la figura incorniciata dentro la lente del
mirino: i reticoli del
Nightforce 16x erano perfettamente centrati sulla chioma biondo cenere
della
donna. Non c’era vento e valutò che ad una
distanza così ravvicinata gli
effetti del silenziatore sulla pallottola calibro 0.50 BMG sarebbero
stati
trascurabili. Aggiustò il mirino telescopico e fece scorrere
tra le dita il
selettore circolare che comandava l’ingrandimento 16x,
indugiando sul corpo
flessuoso della donna.
Una scarica
crepitò in
quell’istante dentro il suo orecchio, dov’era
alloggiato l’auricolare della
trasmittente.
“Capo
Isola a Squadra Aquile”
gracchiò una voce femminile, “confermate posizione
e vista.” Qualche istante
dopo, un’altra voce replicò:
“Aquila
Sei a ore dieci,
sopra Le Floria. Visuale libera lato sud della basilica”.
“Aquila
Cinque a ore
otto, su Raichers. Ho campo libero a nord-est”. Si
sentì un raschiante rumore
di sottofondo e poco dopo, ad uno ad uno, gli altri cecchini fecero
rapporto, finché
arrivò il suo turno di parlare.
“Aquila
Uno a Capo
Isola, mi trovo esattamente a ore dodici dall’entrata della
cattedrale”.
“La
tua vista, Aquila
Uno” incalzò la voce femminile.
L’uomo
sorrise tra sé e finalmente pronunciò
la battuta che aveva a lungo studiato nei momenti di inedia.
“Reticolo
perfettamente centrato sul suo egregio fondoschiena, boss.”
Un sommesso
rumore di scariche
elettriche e risa soffocate si aggiunsero in sottofondo.
Monika
diventò tutta
rossa dalla rabbia e si preparò a una sfuriata, ma
l’uomo la precedette: “Se il
mio compito è salvarle il culo, ho pensato di non dovere mai
perderlo di vista,
boss.”
“Capo
Isola a Aquila
Uno: tenente Mitch McCarthy, quando questa storia sarà
finita, le prometto che
passerà il resto dei suoi giorni alla frontiera col Messico,
a puntare quel
dannato fucile sul culo di qualche dannato clandestino messicano, mi ha
capito?”
“Aquila
Uno a Capo
Isola, non la prenda sul personale boss, stavo solo cercando di tirar
su il
morale ai ragazzi. E’ da un secolo che stiamo qui immobili,
niente pausa caffè
oggi? Avrei anche un problemino con la vescica,
boss…”
“Ottimo
tentativo
Aquila Uno, ma sono sicura che questo si rivelerà un buon
allenamento per il
suo prossimo lavoretto alla frontiera messicana”.
Monika,
avanzò di
qualche passo tra i turisti, spingendo una ingombrante carrozzina che
nascondeva il suo equipaggiamento e chiamò i restanti uomini
delle special forces sotto il suo
comando.
“Capo
Isola a Squadra assalto
di terra, rispondete”.
Ad uno ad uno,
Kincaid e
il resto della squadra d’assalto mimetizzata a terra tra i
turisti intorno alla
piazza snocciolò i propri pseudonimi, descrivendo lo spazio
che stavano
sorvegliando.
“Capo
Isola a Squadra
Hotel…”
“Ancora
nessun
movimento Maggiore.”
***
Mitch
smorzò il sorriso
che ancora si affacciava sul volto e assunse in pochi istanti quello
stato di
vigile concentrazione che poteva conservare per ore, nuovamente immerso
nella
missione.
Poggiandosi
sulla
culatta, spostò delicatamente sui perni del cavalletto il
suo McMillan TAC-50,
scandagliando minuziosamente la visuale da un lato all’altro.
Non
poté evitare di
pensare all’incredibile riunione tenutasi quella mattina in
un Hotel dietro la
piazza. Oltre al Generale John Freeland e Szigi
che comandava le operazioni, erano in soli dodici uomini a conoscere
finalmente
il vero obiettivo dell’operazione Fenice.
Per una volta,
pensò,
il nome di un incarico segreto era quanto mai azzeccato. La Fenice era
l’uccello mitologico che risorgeva dal fuoco delle proprie
ceneri, qualcosa che
somigliava maledettamente allo scopo della missione.
Catturare
la Fenice.
Era ancora
incredulo e
sbalordito da quanto aveva appreso dal Maggiore, ma conosceva
abbastanza quella
donna da non dubitare di una sola parola che aveva pronunciato.
Nessuno avrebbe
probabilmente mai conosciuto il suo nome, il compito della squadra era
di
operare nell’ombra, ma sapere di essere parte di
quell’evento straordinario e
inconcepibile gli riempiva il petto d’orgoglio.
Gli sembrava di
essere
seduto sul tetto del mondo, improvvisamente a parte di una
verità che i
minuscoli esseri umani, che si muovevano attraverso il suo mirino
telescopico,
avrebbero ignorato per sempre.
***
Monika si
aggiustò
nervosamente sul volto gli occhiali da sole, schiacciando dietro
l’orecchio una
lunga ciocca di capelli biondo cenere.
Una famiglia e
il loro
figlio grassoccio sceglievano rumorosamente alcune cartoline dal
pannello alla
sua destra. Una coppia di giovani asiatici, entrambi coi capelli
ossigenati,
passava proprio in quel momento davanti a lei, affrettandosi verso un
altro
obiettivo per la loro macchina digitale. Decine e decine di visitatori
di ogni età,
nazionalità e colore gremivano la piazza, spostandosi in
ogni direzione, ignari
di quanto stava per accadere.
Come una turista
qualsiasi, era seduta sul muretto di pietra irregolare sberciato dai
secoli,
ciò che restava dell’originale Place
du
Vieux Marché, a Rouen. Fingeva di scrivere
qualcosa sul palmare e di
vegliare sulla carrozzina, ricolma del materiale che avrebbe utilizzato
per
portare a termine la missione. Dietro
gli occhiali da sole, sorvegliava con estrema attenzione ogni movimento
intorno
all’église de
Sainte-Jeanne D’Arc.
Sapeva che in
quel
giorno il corso della storia stava forse per cambiare per sempre.
Oppure,
grazie alla sua missione, non sarebbe cambiato affatto.
L'ago della
bilancia in
grado di influenzare nientemeno che il passato e il futuro dell'intera
umanità
era proprio lei. Tutto dipendeva dalla decisione avrebbe preso e a chi
avrebbe
dato ascolto.
Stava
per fare la cosa giusta?
Chi
l’avrebbe giudicata?
A
chi avrebbe dovuto rendere conto delle sue decisioni? Al
Governo che aveva giurato di servire, al suo capo, a se stessa, agli
uomini, o
forse, se mai ne esisteva uno, a Dio stesso?
La pressione era
diventata insopportabile, centinaia di pensieri e di preoccupazioni si
rincorrevano a folle velocità nella mente, ma tutto
ciò che poteva fare per il
momento era ripetersi che era abbastanza fredda da saper prendere la
decisione
giusta al momento giusto.
Dal palmare,
richiamò
la vista satellitare della piazza: l’avveniristica chiesa
costruita in memoria
di Jeanne D’Arc emergeva dal cuore della città
proprio come un’isola, dai
contorni frastagliati ma nell’insieme ellittici.
Ancora
una dannatissima isola…
Ad un tratto,
mentre il
cuore accelerava i battiti per la consapevolezza, seppe che ogni
istante della
sua vita fino ad allora aveva avuto come unico scopo quello di
prepararla a
vivere quel momento.
Poi una voce
esplose
nell’auricolare.
***
Bertrand
LeClercq si
trovava nell’unico posto dove Szigi
non avrebbe mai pensato di cercare.
Le navate della
chiesa
di Sainte-Jeanne D’Arc erano plasmate attraverso un
sorprendente intreccio di
linee tese e curve, che avvolgevano e meravigliavano il visitatore da
qualunque
punto le osservasse.
Attraversò
la navata
centrale incamminandosi verso un transetto laterale, restando
affascinato dai
giochi di luce delle immense vetrate dipinte con colori vivaci. Si
inginocchiò
con un fruscio di abiti sopra il legno davanti all’austero
confessionale e
annunciò:
“Mi
perdoni Padre
perché ho peccato”.
Sebbene
sembrasse che
non vi fosse nessun altro, poco dopo un’ombra dietro i fori
della grata gli rispose:
“Il
Signore ascolterà i tuoi peccati”.
LeClercq per un
momento
esitò, come sei i suoi propositi si fossero annebbiati e
divenuti indistinti,
ma ritrovò presto la fredda determinazione a proseguire nel
suo intento.
“Padre
so che ho molto
peccato durante la mia vita…”
“La
confessione ci
offre l’occasione di rinnovarci fino in fondo con Dio,
confidami i peccati che
ti affliggono e ne riceverai sollievo” gli replicò
una voce anziana e gentile.
“Suppongo
che la mia colpa
più grande è di non essermi mai pentito dei miei
peccati”.
“Il
Signore dice che il
pentimento è per chiunque sbaglia”.
“Padre,
non mi
fraintenda. Riconosco di aver peccato secondo la dottrina della Santa
Chiesa,
ma so di non aver sbagliato!” ribatté LeClercq,
con una nota della voce più
acuta di quanto volesse.
“Le
mie mani sono
guidate dal Signore e stanno per perpetrare l’ultimo peccato,
ma so che è Dio a
volerlo, è lui che l’ha chiesto!”
“Figliolo,
il peccato è
qualcosa che non ci appartiene… è qualcosa di
maligno che s’insinua dentro ed è
assai pericoloso nella misura in cui s’immedesima alla nostra
natura fino a
fare un tutt’uno. Dio non può averti chiesto di
peccare in Suo nome”, rispose
pacatamente l’anziano sacerdote.
“Invece
Egli ha grandi
progetti per me! Assolva la mia anima o non sarò mai degno
di compiere ciò che
Dio mi ha chiesto di fare. Non sta a lei giudicare, ma a Lui
soltanto!”
“Figliolo,
In questo
tribunale di misericordia non ci saranno mai parole di giudizio e di
condanna,
perché c’è chi ha già pagato
tutto il debito col suo sangue, versato per i
nostri peccati. Ma affinché ti assolva è
necessario che mi confessi la tua colpa”.
“Ucciderò
una donna,
Padre. Una strega, un’eretica, una pazza. Il Signore
l’ha già condannata a
morte.”
Un terrore
gelido
s’impadronì del vecchio dietro la grata.
All’improvviso comprese che stava
confessando un folle. E che quel folle era armato.
LeClercq,
irritato per
non aver ancora ricevuto la necessaria assoluzione, aveva infatti
rivolto la
Smith&Wesson verso la grata, minacciando il sacerdote.
“Non
posso assolvere un
uomo che non dimostra pentimento!”
“Lei
mi assolverà,
invece, altrimenti raggiungerà Dio prima di quanto Lui non
avesse previsto!”
Terrorizzato,
l’anzianò
pronunciò tutto ad un fiato la formula di assoluzione:
“Dominus noster te absolvat. Ego te absolvo a peccatis tuis, in nomine Patris
et Filii et Spiritus
Sancti”.
“Amen…”,
terminò di
avvitare il silenziatore sulla volata della Smith&Wesson.
“La sua missione
in questo mondo temo sia finita, ora inizia la
mia…” e così dicendo armò il
cane del revolver e premette il grilletto.
***
“SONO
QUI! Trovate
Jeanne!”
La voce del
Generale
dalla postazione all’Hotel, sparata dagli auricolari,
scaricò in un istante fiumi
di adrenalina in ogni membro della squadra.
Attraverso la
lente del
suo mirino telescopico, Mitch ispezionò lo spazio davanti
all’ingresso della
chiesa.
Monika si
alzò di
colpo, gettando il palmare dentro la carrozzina e trascinandola con
sé con una
mano, mentre con l’altra cercava la fondina ascellare
all’interno della giacca
a vento e levava la sicura alla Beretta.
Kincaid,
lasciò sul
tavolino una banconota da venti euro e si alzò
immediatamente, voltandosi in
ogni direzione, nel tentativo di scorgere la ragazza.
***
LeClercq si
mosse
lentamente, verso l’altare, inginocchiandosi per pregare.
Assorbito dal silenziatore,
lo sparo non era stato udito da nessuno. Un uomo gli si
avvicinò e si
inginocchiò accanto a lui.
“L’hai
ucciso?”
“Ho
dovuto”.
“Stronzate
fratello, io
non ho bisogno di chiedere perdono a nessuno, nemmeno a Dio.
“Non
ti ho chiesto di
capire, Francois.” LeClercq osservò il
fratellastro con un sorriso storto. “ti
ho chiesto di eliminare chiunque intralci la mia strada, in nome dei
vecchi
tempi”.
L’uomo
ricambiò il suo
ghigno. “In nome dei vecchi tempi,
allora…”
***
Mitch
sbatté nuovamente
le palpebre, ma la vista non cambiò: dove un secondo prima
c’erano soltanto i
gradini della chiesa, ora si trovava un’adolescente che si
stava accasciando a
terra. I suoi vestiti… Cristo, che diavolo avevano i suoi
vestiti? Fumavano.
La
Fenice.
Monika intravide
la
ragazzina inginocchiarsi a terra e crollare su un fianco sopra i
gradini. Chinò
appena il mento verso il ricevitore per urlare: “E’
all’entrata della chiesa! Tutti
in assetto NFDD, cinque secondi all’esplosione!”
Nello stesso istante, gettava
da un lato il rivestimento che copriva la carrozzina e afferrava la
prima
granata stordente M84. Staccò la linguetta con i denti e la
gettò sui gradini.
Prima che la granata toccasse terra stava già lanciando la
seconda.
Kincaid vide la
giovane
avvolta dal fumo e seppe che era lei. Qualche
secondo dopo aveva già raggiunto il SUV parcheggiato di
fianco a Le Reims e con la portiera
ancora aperta,
portava su di giri il motore e si muoveva lasciando a terra
l’impronta nera dei
grossi pneumatici.
***
Le due granate
stordenti
toccarono il cemento e deflagrano devastanti come una dozzina di tuoni
esplosi
tutti nello stesso istante. L’intera piazza fu investita in
rapida successione dai
180 dB prodotti dall’onda sonora di ogni granata, mentre
chiunque si trovasse
nelle vicinanze, fu accecato dalla luce di oltre otto milioni di
candele
generate dall’arma incapacitante. Per qualche minuto nessun
uomo fu in grado di
vedere né di comprendere nulla.
Assorto in
preghiera, LeClercq
continuava a chiedere imperterrito a Dio una conferma della sua
missione,
quando udì il segno.
Si riprese
immediatamente dai due spaventosi boati, attutiti dalla struttura della
chiesa
e scattò verso l’apertura, seguito dal
fratellastro.
“E’
lì! Lei è
lì! E’ lì!” gridò
al culmine
dell’estasi, mentre scorgeva il corpo della ragazza sui
gradini. “Dio è con me!
Adesso coprimi, Francois!”
Il fratellastro
estrasse dall’impermeabile due mitragliette israeliane Uzi
con nastri da
cinquanta colpi, impugnandone una per ogni mano e si preparò
a polverizzare
qualsiasi cosa si avvicinasse alla ragazza.
***
|
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Capitolo 28 *** Segreti svelati e un amore senza tempo (riassunto) ***
Nel
frattempo LeClercq, che aspettava quel momento da ore nascosto
dentro la chiesa stessa, può ascoltare finalmente il segnale
che aveva chiesto
nelle sue preghiere. Si precipita fuori dalla moderna cattedrale e la
prima
cosa che vede, nonostante il fumo denso, è la ragazza
immobile a terra, esattamente
lì, a due passi, esattamente dove sei secoli prima era stata
condannata a
bruciare su un rogo. Consegnata evidentemente a lui dal Signore
perché portasse
a termine la sua missione. In tasca ha sempre il suo piccolo revolver
Smith&Wesson, ma l’avrebbe usato solo se necessario,
la storia era chiara e
lei doveva bruciare. “Tu non puoi essere qui! Tu sei
morta!” ripete
continuamente a se stesso. Ma doveva essere purificata dalle fiamme
prima di
morire, così era scritto nei libri. Estrae quindi dalla
borsa a tracolla la
bottiglia di plastica colma di benzina, gettandone il liquido sulla
ragazza e
cercando nelle tasche i fiammiferi necessari per il nuovo rogo.
“Avevano ragione
loro, sei una strega e morirai tra le fiamme! Il Signore”, si
diceva con
orgoglio, “mi sarà eternamente grato per aver
portato a compimento il suo
progetto e purificato attraverso il fuoco questa strega!”.
Subito dopo, nel
mezzo della piazza affollata si scatena il panico, poi
l’inferno. In mezzo alle
grida, il fragore inconfondibile dei colpi d’arma da fuoco.
Quando il fumo
si dirada, con la gente ancora terrorizzata e
i bambini che piangono, della ragazza non c’è
più traccia adesso. Nessuno giace
a terra ferito. Non sembra successo nulla.
A pochi passi
dalla piazza, al 15 di Rue de la Pie, nella
suite del Best Western Hotel Du Vieux Marché, John
riabbraccia commosso Daniel
e Ian, apparsi dal nulla in quella stanza pochi istanti prima. Persino
l’algida
Monika, entusiasta e commossa, rinfodera la sua Beretta 92 FS ancora
fumante
nella fondina ascellare e si lancia tra le braccia del tenente Mitch
McCarthy.
Jodie si sta prendendo cura di Jeanne cercando di farle spazio tra i
militari in
abbigliamento tattico e gli altri in abiti borghesi che, confusi tra i
turisti,
avevano appena condotto lì la ragazza. Jodie, in soggezione
davanti
all’adolescente che aveva davanti ai suoi occhi, asserisce
che non ha nulla, è
solo svenuta per le esalazioni da fumo respirate prima di venire tratta
in
salvo da Ty e Daniel nel medioevo. Per LeClercq, anche lui trasportato
lì,
invece non c’è nulla da fare: giace senza vita su
un tappeto con un foro di 9mm
in mezzo agli occhi. Prima ancora che Jeanne si possa risvegliare,
Daniel come
da accordi col padre, chiede ai militari della USIC di lasciare
l’hotel: l’operazione
Fenice - la ragazza “risorta” dalle sue stesse
ceneri - ovvero la loro missione
di copertura era conclusa. Jeanne era salva. Monika farà
rapporto sulla
missione e il file sarà secretato per ordine del generale
John Freeland,
sepolto insieme ad altre migliaia di fascicoli segreti protetti dal
segreto
militare. Il corpo di LeClercq sarà invece fatto scomparire
e quando sarà
ritrovato nessuno potrà ricondurlo all’operazione
appena conclusa. Daniel riavvia
quindi il gioco dagli stessi portatili da cui avevano lanciato
l’ultima partita
da quella stessa stanza e permette a Ty di ricondurre Jeanne nella sua
epoca,
nello stesso giorno e anno in cui doveva morire: il 30 Maggio 1431. Ma
stavolta
la destinazione digitata su Hyperversum è Chatel Argent,
dove lui è per tutti
Thierry conte di Montmayeur, conte di Ponthieu, feudatario maggiore di
Francia.
Ty, come
già Ian e Isabeau, sa che non tornerà
più a casa, sa
che prenderà il posto del suo omonimo scomparso, sa che
sarà lui nel XV secolo
a impersonare il ruolo del valoroso Falco d’Argento, come
nemmeno nei suoi
sogni più fantasiosi aveva sperato. Sa che
sposerà presto Jeanne, precisamente
tre mesi dopo, il 30 Agosto 1431, come il codice riportava di fianco ad
una
miniatura dei volti di Thierry de Ponthieu e di una giovanissima donna
appena uniti
in matrimonio.
Il nome di lei
trascritto sul codice era J. Anne Romée: pronunciandolo,
sente la sua voce scandire proprio il nome di lei, Je-anne seguito dal
suo vero
cognome materno.
Ty sa che Julie
Anne, come adesso lei si fa chiamare in
ricordo della sua adorata Juliette, liberata da tutti i vincoli,
assolto il suo
compito impossibile, adesso può finalmente vivere la vita
normale di una ragazza
non ancora vent’enne, adempiere alla sua promessa ed essere
felice con l’uomo
che ama.
Ogni sua
minuziosa ricerca aveva dimostrato al di là di ogni
dubbio che dietro il software di Hyperversum non c’era
nessuna tecnologia particolare.
Come Seth Lloyd aveva chiarito, il meccanismo che proiettava i
giocatori nel
passato era assai simile al Quantum Leap
che aveva teorizzato al MIT: le particelle elementari dei corpi dei
giocatori si
dissolvevano, residuando lo stesso quantum
noise, il rumore quantico, prodotto dai fotoni che era
riuscito a
teletrasportare in laboratorio. Ma l’inversione della freccia
temporale
funzionava solo se al momento del salto era presente lo stesso
marcatore
genetico, ovvero la stessa sequenza di DNA di cui la discendenza di Ian
era
portatrice. Ma come e in che modo questo operava in combinazione con
Hyperversum, compiendo il suo prodigio, era ancora un profondo mistero.
La
risposta che Seth aveva infine dato a Monika era stata che una
incredibile
quanto fortuita combinazione di condizioni produceva scientificamente
l’effetto
oppure si doveva asserire che il gioco aveva un suo scopo che
trascendeva la
scienza. Una condizione era tuttavia certa: gli attori, predestinati ad
avere
un ruolo da protagonisti in quella storia, erano soltanto i discendenti
del
misterioso casato da cui provenivano Ian e Ty, una stirpe di cui adesso
sapeva
che faceva parte nientemeno che Jeanne D’Arc. Solo attraverso
di loro
Hyperversum compiva il suo prodigio. Persone in qualche modo speciali
–
rifletteva Monika – chiamate a compiti, piccoli o grandi,
altrettanto speciali.
E chissà quali altri nomi ancora, vissuti nel passato, nel
presente o nel
futuro, avevano lo stesso marcatore genetico di cui Ian era portatore.
Era possibile
risalire al capostipite? In quanti avevano ereditato quel genoma? Aveva
già
preso i contatti col Dipartimento di Biologia Molecolare di Princeton e
fremeva
dalla voglia di cominciare le ricerche, fantasticando quali altri nomi
celebrati
dalla storia sarebbe riuscita a ricondurre a quel patrimonio genetico.
Per non
lasciare nulla di intentato avrebbe iniziato proprio da lì,
l’anno zero d.C.,
in fondo era da quella data che il primo mistero aveva avuto inizio,
no? Tuttavia,
sapeva che qualunque fosse il destino di questi individui, qualunque
fosse la
loro parte nella storia, non spettava certo a lei e a John rivelare al
mondo
questa sensazionale scoperta o peggio ancora depositare quel segreto
nelle mani
sbagliate. Monika di questo era certa e non aveva avuto dubbi nello
scegliere
da che parte stare: quel folle di LeClercq non aveva compreso che lei
non stava
cambiando la storia, ma aveva solo permesso che accadesse quello che
era già
scritto: Jeanne sarebbe vissuta e avrebbe generato lei stessa i figli
che
avrebbero perpetuato la dinastia dei Ponthieu.
Adesso che Ian
vive felice con Isabeau e i suoi figli nel
XIII secolo, Ty con Jeanne nel XV, Daniel e Jodie nel XXI secolo, anche
loro si
domandano se Jeanne fosse uno strumento proprio come loro. Le voci che
sentiva
Jeanne in sogno, i prodigiosi salti temporali di Hyperversum: Ian, Ty e
Daniel
si interrogano se ogni momento storico in realtà non avesse
custodito eventi
inspiegabili secondo la semplice ragione. Si chiedono se a seconda
delle epoche
fossero scelti i mezzi e mosse le pedine. Ma chi può dire
quale sia
l’imperscrutabile quadro finale dipinto dalla storia? Gli
uomini possono
vederne solo una parte e non sono loro a conoscere il dipinto completo.
Loro e
la loro discendenza erano stati scelti. Ma non erano loro a sapere da
chi e per
quale scopo. Non erano loro a poter sapere se il Destino del Falco, il
destino di
Ian o di Ty, si era compiuto in queste gesta o quali altre eroiche
imprese li attendevano
ancora.
Su France2,
nell’edizione de “Le Journal de 20h” in
coda
all’approfondimento sul presunto attentato di Rouen, una
coppia di giovani in
jeans strappati e piercing ovunque, racconta dell’improbabile
apparizione
nientemeno che di Giovanna D’Arco ai piedi della chiesa a lei
dedicata al
centro della piazza di Rouen e di agenti della CIA capaci di viaggiare
nel
tempo, scomparsi in una nuvola di fumo insieme all’eroina di
Francia. Monika
spense la tv, si concesse un soddisfatto sorriso e uscì sul
terrazzo di casa
che si affacciava su Palais Rihour, un tempo residenza dei Duchi di
Borgogna lì
a Lille. Alzò lo sguardo verso le stelle tremolanti: forse
lei si sbagliava,
forse era tutto un caso, ma era così intensamente
emozionante credere che
infine non erano soli e abbandonati al loro destino. Poco dopo si
sentì avvolgere
teneramente dalle forti braccia del suo nuovo compagno, il tenente
Mitch
McCarthy. Anche questa era una sensazione straordinariamente
emozionante e
nuova per lei. E fu proprio allora che, pensando a quei ragazzi, a
quanto
ognuno di loro avesse lottato contro ogni speranza per il proprio
amore, si
disse che no, nessuno poteva restare un’isola in quel mondo.
In qualunque mondo,
in qualsiasi epoca.
***THE*END***
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Capitolo 29 *** update! ***
Vista l'incredibile richiesta, tra un mese o poco più
prometto di inserire il capitolo di Isabeau ai giorni nostri. Era uno
dei capitoli cui anch'io tenevo di più, io stesso sono
curioso di scriverlo.
Bè, tra poco sarete accontentate/accontentati! Un
pò di pazienza ancora!!!
Nel frattempo ho quasi finito di scrivere il mio primo vero libro! E se
l'esperimento di HYP IV mi piaceva, questo mi entusiasma davvero al di
là di ogni più rosea aspettativa. Ancora qualche
piccola fatica e per fine estate conto di iniziare l'assalto agli
editori. Emozioni, battaglie epiche e qualche lacrimuccia non
mancheranno di certo... Ma questo non è HYP IV, è
davvero un'altra storia ;-)))
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Capitolo 30 *** Sequel: Monika e Mitch ***
Best
Western Hotel Du Vieux Marché, Rouen
Mónika
aveva sbrigato
le ultime formalità con Cynthia Doell insieme a Mitch.
Il D-Day era
infine
arrivato e stentava ancora a crederci a quanto aveva assistito. Lei e
la
squadra avrebbero custodito uno dei segreti più sconvolgenti
della storia
dell’umanità.
Il suo rapporto
era
stato consegnato attraverso i canali sicuri del consolato. Il file era
stato
immediatamente secretato e avrebbe riposato, in uno dei tanti fascicoli
secretati a Langley per chissà quanti decenni, prima che un
altro occhio umano
avesse potuto notarlo e riportarlo alla luce.
Come aveva detto
John
non era un insabbiamento: l’umanità non era ancora
pronta a sapere di
Hyperversum.
Con
l’adrenalina che
scorreva ancora nel sangue, Mónika era euforica e allo
stesso tempo annichilita
da ciò che aveva scoperto. Forse fu anche per quel motivo,
che non si accorse
del tenente Mitch McDowell che la stava fissando da cinque minuti
abbondanti,
torcendo da ogni posizione il portachiavi dell’auto tra le
mani.
Quando
finalmente diede
segno di aver notato la sua presenza, gli domandò cosa
aspettava ad andare a
casa. La missione era finita.
Mitch, sempre
tormentando il portachiavi, esclamò con una voce che avrebbe
voluto che fosse
molto più sicura: “Maggiore io mi chiedo se
lei…”
“Cosa
c’è, tenente?”
“Bè,
io...”
“Si
decide a parlare o
no, tenente?”
“Io mi
chiedevo… la
conosco da tanto tempo, Maggiore… e non
c’è mai stata l’occasione per parlare
d’altro che non fosse lavoro…”
“Mi
sembra ovvio,
McDowell.”
“Insomma,
mi chiedevo se un giorno… dopo il
lavoro…. Noi due non potessimo bere insieme qualcosa,
signore!”
“Tenente
McDowell, mi
dica se ho capito male: lei ci sta provando col suo
superiore?”
“Io,
veramente…”
“Lo
sa che anche solo per questo potrei farla
distaccare in Alaska per il resto della sua vita?”
“Si
signore, ma ho
pensato…”
“Cosa
ha pensato
tenente?”
“Che
sarebbe valsa la
pena tentare, signor Maggiore”
“…”
“Mi
perdoni, ma…”
“Lei
ha del fegato,
McDowell. Non sa cosa dice la gente di me?”
“Lo so
benissimo signore”
“E
allora?”
“Allora
penso che ho
sempre combattuto per un ideale, ho sempre combattuto per il bene della
mia
nazione. Ho combattuto per un senso del dovere… Non ho mai
combattuto, signore,
per la cosa che avevo più a cuore…”
Monika
aggrottò la
fronte. “Che sarebbe?”
“Lei,
signor Maggiore.”
“Io.”
“Signor
si, signore.”
Mónika
inarcò un
sopracciglio. “E già che ci siamo,
cos’altro ha pensato?”
“Che
potevamo andare
stasera da Lizzy’s… fanno pizza americana e
hamburgers, signore!”
“Da
Lizzy’s… pizza
americana e hamburgers” ripeté inorridita la donna.
“Signor
sì, signore!
L’ho pensato soltanto, signor Maggiore” si
scusò Mitch.
“E mi
dica, tenente,
cosa le fa credere che lei possa permettersi di invitarmi a
cena?”
“Mi
scusi signore, sono
solo fantasie, lo so bene, ma non potevo più andare avanti
senza sapere la sua
risposta, signore”
“La
mia risposta l’ha
sempre saputa.”
“Signor
sì, signore!”
“Dunque,
perché fare la
domanda? Anche a rischio di essere trasferito tra i ghiacci?”
“Dovevo farlo signore”
“La
pensavo più furbo,
McDowell… o lei è totalmente un idiota o ha
fegato da vendere.”
“Grazie
signore!”
“Non
era un
complimento, tenente.”
Mitch
restò impassibile
sull’attenti.
“Quindi
lei faceva
fantasie su di me” Szigi socchiuse gli occhi irritata, ma per
Mitch quello
sguardo era di una bellezza così sconvolgente che
abbassò subito il suo verso i
piedi del Maggiore.
“…
e magari aveva pure
programmi per il post serata, non è vero tenente?”
“Ho
pensato che sarebbe
stato bello fare una passeggiata insieme, raccontandoci un
po’ di noi, signore.”
“McDowell
non dica
idiozie, lei ha fantasticato di fare sesso con me, alla fine della
serata”
“Io…
no, davvero… signore”
incespicò sulle parole il ragazzo
“Non
mi prenda in giro,
tenente.”
“Ok,
ho anche
desiderato di fare sesso con lei, signore. Ora può sbattermi
in Alaska se crede.”
Szigi, prese un
foglio
e scrisse qualcosa.
“Ci
può contare,
tenente. Prenda questo foglio, ho scritto sul retro a chi deve
consegnare
questo ordine. Ora sparisca dalla mia vista!”
“Signor
sì, signore!”
Mónika
lo vide
allontanarsi e annotò mentalmente che le spalle larghe e il
fondoschiena del
ragazzo non la lasciavano indifferente.
Quando
uscì dalla
stanza, Mitch sconsolato, prese il foglio e lo lesse avvilito.
Esultò
come al Superball
dell’anno prima.
Lizzy’s
scordatelo. Prenota un tavolo alle 9 a La Toque d’Or.
E’ un ordine.
E se stasera mi
chiamerai ancora una volta signore, considerati già di
stanza in Alaska.
Un’ultima
cosa, Mitch: per stasera puoi solo sognartelo di
fare sesso con me.
Szigi
questo capitolo è dedicato alla vera Szigi, alla
vera Monika.... che non essendo italiana non lo leggerà mai.
Però il personaggio è ispirato da lei. :)
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Capitolo 31 *** Spin Off: Hyper-Stele ***
NOTA: HYPERSTELE E' STATA INSERITA COME STORIA A PARTE :)
Carissime
amiche e amici di Hyperversum IV,
Tornati
dalle vacanze, non mancano le novità. La più
succosa al momento è questo
spin-off: Hyper-Stele, nato dall’intreccio delle storie e dei
personaggi di
Hyperversum IV e del mio romanzo inedito (spero di prossima
pubblicazione) La
Stele dei Sogni, che alcuni di voi hanno già avuto modo di
apprezzare in anteprima.
Mi sono
così
affezionato a entrambi i gruppi di personaggi dei due romanzi che mi
è venuta l’idea
bizzarra di farli incontrare e… dopo qualche bozza,
così per gioco, ho scoperto
che la cosa non solo funzionava, ma addirittura il finale
svelerà nientedimeno
che il segreto di Hyperversum che nel mio IV volume era solo accennato.
Ecco a voi,
per iniziare, l’incipit della trama che cercherò
di aggiornare ogni settimana.
Fatemi sapere se vi piace ovviamente, ci tengo moltissimo ai vostri
commenti.
A presto,
Dino
HYPER-STELE
Monika
guardò con preoccupazione la clessidra che scandiva
il tempo di caricamento sul visore a LED.
Configuring game
Please wait_
L’ultimo
carattere lampeggiava a intermittenza.
Nonostante
l’addestramento militare e la sua proverbiale
freddezza quell’attesa la rendeva nervosa.
L’intero
pianeta apparve sul visore, come in una foto via
satellite, mentre ruotava lentamente su se stesso. Le cifre del
contatore della
data ruotarono impazzite e si arrestarono all’improvviso.
Monika lesse il
numero e sbarrò gli occhi.
L’ultima
cosa che pensò prima di perdere la percezione del
proprio corpo fu che doveva smetterla di giocare ai videogame.
***
Monika si
guardò attonita le braccia e le
gambe. Jeans aderenti e maglietta erano spariti e al loro posto
indossava un
lungo mantello grigio di lino grezzo.
Una folata di
vento caldo le scompigliò i
capelli biondo platino davanti agli occhi.
«Tirati
su il cappuccio!» la sgridò Ian.
«E’
troppo pericoloso! Ti ho già detto che nessuno deve vederci
in volto!»
«Nessuno
tranne loro» aggiunse la
donna.
«Certo,
certo... se mai troveremo il modo
di farci ricevere» replicò preoccupato Ian.
Monika si
tastò i fianchi e roteò gli occhi.
«Ovviamente la mia Beretta calibro 9 è sparita e
siamo tutti senza un’arma.
Grandioso!»
«E qui
si muore di caldo» aggiunse Ty.
Ho una notizia
ancora peggiore» sibilò lei.
«Guardate a ore nove.»
Ian si
voltò di scatto e vide i temibili ankh
che scintillavano tra le mani di
due Delicate.
Deglutì.
Il solito
Hyperversum.
Davanti ai suoi
occhi, le case di fango e
argilla dei nemeh di Giza
tremolavano
come un miraggio nell’aria rovente.
Ian scosse il
capo, sconsolato. Erano
appena arrivati nell’antico Egitto e i guai li avevano
seguiti come un’ombra.
***
NOTA: HYPERSTELE E' STATA INSERITA COME STORIA A PARTE :) |
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Capitolo 32 *** Ringraziamenti & Nuovi Progetti ***
il
vostro incredibile entusiasmo mi ha dato il coraggio di
tentare l'impresa di scrivere un libro tutto mio.. e meraviglia delle
meraviglie, è stato accettato da un editore non a pagamento
e sarà presto disponibile in libreria.
Tutto
questo è fantastico ed è anche merito di tutte le
persone che mi hanno spronato, elogiato, aiutato a dare il meglio di me.
GRAZIE!
A
coloro che seguono le mie storie:
Agapanto
Blu
Aledileo
a_lena
backtoIka
Bishoujo Tensai Madoushi
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Ezzy O
Hinata_sama
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lady_hope
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sbornyXVII
shandrillina
Sissi_SeaweedBrain
Smollo05
Targul
Zarolina__M__
_spring_
Chi l'ha messa tra i preferiti:
Agapanto Blu
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Castiga Akirashi
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Go_always_ahead
Il fante di spada
Iryael
jcangy
lady dreamer
pulcino_bagnato99
Riflessi_di_Viola
rondinella
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sere96_XD
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Smollo05
Vale9
Zolie
_spring_
Chi l'ha messa tra le storie da ricordare:
lysdance1
MinervaPiton
Neya
rondinella
Smollo05
xunspeakable
Chi mi ha messo tra gli autori preferiti:
Agapanto Blu
biamar
Iryael
Zolie
Dieci,
cento, mille volte grazie.
Per
chi vuole seguire i miei progetti editoriali dopo HYP IV:
DeanLucas.com
Un
abbraccio sincero
Dean
Lucas alias Dino :-)
Vi piacciono le mie storie? Non perdetevi la più bella su EFP!!!
clikka qui: LA STELE DEI SOGNI
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