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Lista capitoli: Capitolo 1: *** La pagnotta nel forno *** Capitolo 2: *** Fagiolini ed Ecografie *** Capitolo 3: *** E così si vuotò il sacco *** Capitolo 4: *** Un passo avanti e due indietro *** Capitolo 5: *** Dick e le donne *** Capitolo 6: *** Ramoscello d'ulivo *** Capitolo 7: *** Un momento di quiete... *** Capitolo 8: *** ... prima della tempesta (parte prima) *** Capitolo 9: *** ... prima della tempesta (parte seconda) ***
Okay. Respira, Rachel. Respira. Ecco, brava: inspira, espira. Ti
fischiano le orecchie: meglio se provi a sederti. Credi che sia un brutto
sogno? Prova con un pizzicotto… No, visto? Il test è ancora tra le tue mani ed
è ancora positivo.Benvenuta nel Fantastico Mondo delle
Teenager Incinte.
Rachel deglutì e chiuse gli occhi. Le mani le tremavano.
Non poteva crederci. Una volta. Una sola dannata volta
aveva agito senza pensare, e queste erano le conseguenze?!
C’erano ragazze che facevano sesso ogni giorno e lei rimaneva fregata la prima
volta che lo faceva?! Ma che giustizia era quella?
Okay. Ora calmati. È
inutile piangere sul latte versato. O sulla verginità perduta. Ora devi pensare
a cosa fare, Rachel.
Ma che pensare e pensare! Cosa c’era da pensare? Le
soluzioni al problema erano solo due: disfarsi dell’inatteso fardello o
portarlo per nove mesi.
“Ehi, Rach? Tutto
bene lì dentro?”
La voce arrivò ovattata a causa della porta chiusa, ma la riscosse
ugualmente. Aveva raccontato tutto a Cora e Lula quella mattina. Dopo la scuola avevano preso la
macchina di Cora e avevano guidato fino all’ultima
farmacia prima dell’autostrada. Era entrata Lula a
prendere il test di gravidanza e poi erano andate tutte a casa di Rachel.
Si alzò dal bordo della vasca da bagno con lentezza e
scorse il proprio riflesso nello specchio. Aveva gli occhi sgranati e
spaventati, la pelle tirata e pallida.
Beh, che ti
aspettavi? Non hai mica scoperto di aver vinto alla lotteria.
Prese un bel respiro e aprì la porta.
“Allora?!” Lo sguardo grigio di Lula era intenso e preoccupato. Cora
si tormentava l’unghia del pollice seduta sul letto.
Rachel abbozzò un sorrisino nervoso. “Beh, direi che è una A+. Peccato che questo test
non faccia media…”
Cora spalancò la bocca, gli occhi blu
pieni di sorpresa e orrore. La bocca di Lula divenne
una linea sottile. “Vuoi dire che sei incinta?” chiese con voce grave.
“Così pare.”
“Oh, mio Dio, Rachel!” gridò Lula,
alzando le mani al cielo. “Come hai potuto essere così stupida? Non solo sei
andata a letto con Elijah Dickson, ma ti sei fatta
pure mettere incinta!”
Rachel sentì la rabbia montare. “Non è che ci fosse
scritto da qualche parte ‘tutto compreso’, eh!”
“Oh, per cortesia! Mai sentito parlare
di contraccettivi?”
“Non stavo proprio pensando quando l’ho fatto!”
“Lula! Rach!
Calmatevi!” intervenne Cora,
frapponendosi tra le due. “Quel che è fatto è fatto. È inutile
continuare a litigare per qualcosa che non abbiamo modo di cambiare.
Concentriamoci sul problema più urgente: cosa pensi di fare, Rachel?”
Rachel sbuffò dal naso. “Cosa vuoi che faccia? Per tutto
l’anno alle lezioni di Sociologia ho proclamato di essere contro l’aborto: sarei
un’ ipocrita se adesso ricorressi a un Centro Per
L’Interruzione Della Gravidanza.”
“Ne stai facendo una questione di principio?!” strillò incredula Lula,
guardandola con disapprovazione.
“Non. È. Una. Questione. Di. Principio”
disse tra i denti Rachel, lanciando un’occhiata indignata alla biondina.
Si indicò il basso ventre. “Qui dentro c’è una vita!”
“Lì dentro c’è un fagiolo!”
“Un fagiolo che tra nove mesi sarà un bambino!”
“Smettetela di litigare!” gridò Cora,
guardando entrambe severamente. “La decisione di tenerlo o
meno dipende solo da Rachel, Lula.”
Lula incrociò le braccia al petto,
imbronciata. “Voglio solo che si renda conto che nove mesi di gravidanza non
sono un gioco. Rach, hai solo diciassette anni: è una
responsabilità troppo grande da gestire da sola.”
Rachel sorrise, amara. “E quindi è meglio disfarsi del
problema? Gettarselo dietro le spalle e fare finta che non sia successo niente?”
“Sto solo dicendo che, se lo tieni, andrai incontro a una
marea di ostacoli. Dovrai dirlo ai tuoi genitori. Dovrai sopportare nausee e
voglie improvvise. Ingrasserai. Dovrai affrontare i commenti a scuola. E tutti
i tuoi progetti per il futuro finiranno nel dimenticatoio!”
Cora vide il labbro di Rachel tremare.
Si mise dietro l’orecchio un ciuffo di capelli rosso scuro e si allungò per
prendere una mano dell’amica. “Ehi, Rach, perché non
ti siedi?” L’accompagnò al letto. Le prese il volto tra le mani. “Ascolta, non
devi decidere per forza su due piedi. So cosa pensi riguardo all’aborto, ma
devi convenire che anche Lula ha ragione: una
gravidanza a diciassette anni non è una cosa da niente.”
Dietro di lei, la bionda annuì grave. “Prenditi un po’ di tempo per pensarci,
okay? Valutare i pro e i contro, mm?” disse, accarezzandole i
capelli dolcemente. “Piuttosto, hai intenzione di informare Dickson?”
Rachel sgranò gli occhi. A questo non aveva proprio
pensato.
Non c’è da stupirsi:
hai fatto di tutto per scordarti di quella notte. Dell’anello che Brad ha
regalato ad Amanda. Del rumore che ha fatto il tuo cuore quando si è rotto.
Dello sguardo affranto e furioso di Dickson che ha
incontrato il tuo. Del vostro brindisi silenzioso. Di come hai appoggiato le
tue labbra sulle sue, in un gesto che sapeva di disperazione e di conforto. Di
come lui ti ha sorpresa, rispondendo con fervore. Del viaggio nel suo pick-up.
Del suo respiro caldo e umido. Delle sue mani. Della sua pelle sulla tua… Okay,
Rachel: basta ricordare.
“Io… Non lo so” ammise, guardandosi le mani intrecciate in
grembo.
“Okay” disse Cora.
Lula grugnì. “Non so quanta differenza
faccia dirglielo. I suoi unici pregi sono il bell’aspetto e gli spermatozoi che
fanno centro al primo colpo. Per il resto è solo un fallito, destinato a
rimanere impantanato in questo buco di città.” Di fronte allo sguardo di
rimprovero di Cora, fece una smorfia. “Cosa?! È vero, lo sappiamo tutte e tre. E poi, sveglia! È un
ragazzo: non si prenderà mai le sue responsabilità, anche se metà della
pagnotta in forno è sua. Non appena glielo dirai, fuggirà via come se fosse
inseguito dai lupi.”
“Questo non puoi saperlo…” tentò di ragionare la rossa.
“Oh, ti prego!” sbuffò Lula. “I
suoi amici lo chiamano lo Stallone della Foster High!”
Rachel si rannicchiò sul letto e appoggiò la fronte sulle
ginocchia, mentre le due amiche continuavano a discutere. Sospirò. Doveva dirlo
o no a Dickson?
Lula ha ragione: considerata la sua fama
di sciupafemmine, potrebbe darsi che Dickson si sia già trovato in una situazione del genere e se
ne sia infischiato.
D’altro canto, non era nemmeno giusto che non ne sapesse
nulla. Insomma, non le sembrava democratico che decidesse lei per entrambi,
senza sentire suonare l’altra campana.
Ma avrai il coraggio
di dirglielo, Rachel? E di dirlo ai tuoi? Ce la farai a guardare negli occhi
tuo padre e tua madre e dire che hai fatto sesso con un ragazzo che non ami e
che sei rimasta incinta? Riuscirai a sopportare ciò che leggerai sui loro visi?
Sentì le lacrime salirle agli occhi e si raggomitolò di
più su se stessa. Il peso della situazione la colpì all’improvviso. Sarebbe
stata in grado di gestirla? Le sfuggì un singhiozzo.
“Oh, Rachel…” mormorò Cora,
sedendosi accanto a lei e cominciando a disegnarle confortanti cerchi sulle
scapole. Appoggiò la fronte sulla tempia di Rachel. “Non preoccuparti,
stellina. Qualsiasi cosa tu decida, Lula e io ti
appoggeremo e ti staremo vicine. Non è vero, Lula?”
La bionda sospirò. “Ma certo! Che tu decida o meno di tenere il Fagiolino.” Le carezzò brevemente i
capelli. “Anche se al momento spero solo che la tua decisione comprenda il
permesso di castrare con le mie mani lo Stallone della Foster High.”
A Rachel sfuggì un risolino,
umido di pianto. Cora la strinse in un abbraccio. Lula cominciò a elencare i modi in cui avrebbe asportato
gli attributi di Dickson.
La situazione non è
delle migliori, Rachel, ma almeno non sei sola…
Commenti:
Innanzitutto,
salve a tutti, cari e coraggiosi lettori. E grazie di aver letto queste pagine.
Nonostante
abbia pubblicato qualcosina gli anni passati su
questo meraviglioso sito, non ho mai osato approdare nella ‘Sezione Originali’,
considerando i miei personaggi sempre troppo ‘sciapi’ per poter reggere la
sfida di un intero racconto originale.
E
allora cosa ci fai qui?, direte voi. Per di più
trattando un tema così delicato?
Beh, perché
stavolta credo di essere pronta alla sfida: Rachel, Cora,
Lula, Elijah e tutti gli altri mi sono entrati dentro
e penso di dover dar loro una chance.
E anche
se l’argomento si prospetta difficile e più e più volte affrontato, mi sta
molto a cuore scriverne la mia versione e per questo vi assicuro che cercherò
di trattarlo col massimo tatto.
Perdonatemi,
dunque, per avervi tediato così a lungo e, se questo primo capitolo vi ha incuriosito, spero che leggerete anche il secondo la
prossima settimana!
L’aggeggio che aveva in mano la dottoressa premette con un po’ più forza
sul ventre, facendo espandere ancora di più il gel ghiacciato
2
~ Fagiolini ed ecografie ~
L’aggeggio che aveva in mano la dottoressa premette con un
po’ più forza sul ventre, facendo espandere ancora di più il gel ghiacciato.
Rachel si morse il labbro per non ridacchiare. Un po’ per il solletico, un po’ per
il nervoso.
Cora le strinse la mano e Lula le lanciò un’occhiataccia che pareva voler dire: Non fare la scema. Questa è una cosa seria:
è la prima ecografia del Fagiolino!
Era così che lo chiamavano tra loro.
Era passato un mese dal primo test che aveva fatto (per
sicurezza, Lula gliene aveva fatti fare altri due) e
in quel lasso di tempo Rachel e le sue amiche avevano fatto qualche ricerca su
Google. Inizialmente era stato per cercare informazioni su Centri Di
Interruzione Della Gravidanza e sull’aborto; poi avevano cliccato esitanti sul
link di un sito che raccontava settimana per settimana la gestazione, fornendo
consigli utili e fotografie del feto. Man mano che leggevano, Rachel si era
resa conto che l’aborto non sarebbe stata una soluzione accettabile. Persino Lula di fronte alla fotografia di un embrione alla 5°
settimana, la cui didascalia annunciava in termini entusiastici che il cuore è formato al 75% e comincia a
battere, si era messa a guardarle il ventre con occhi allargati e colmi di
soggezione.
Non aveva abortito, dunque.
Ed erano cominciate le nausee mattutine. E diurne. E
notturne. Come a volerle ricordare che l’impegno era preso. Il Fagiolino era
reale. Però, soltanto quando l’attempata dottoressa le indicò una macchiolina
nello schermo bianco e nero, se ne rese conto del tutto.
“Vedi? Quello è il tuo bambino. Adesso è lungo più o meno
nove millimetri. Sta cominciando a prendere forma: cominciano a formarsi le
narici, la bocca, le labbra, persino le gemme dei dentini. E, poi, vedi qui? Cominciano a distinguersi gomiti e ginocchia” le disse la
dottoressa Guerrero con voce gentile, continuando a
indicare la macchiolina. Rachel socchiuse gli occhi, concentrata, ma non
riuscì a distinguere niente, a parte la macchia a forma di fagiolo. Cora le sorrise, incoraggiante.
Lanciò uno sguardo a Lula, ma l’amica fissava lo
schermo con occhi sgranati. “Si stanno formando anche le dita delle mani e dei
piedi e anche gli organi riproduttivi” proseguì nella spiegazione la donna,
schiacciando qualche pulsante dell’apparecchiatura, che cominciò a stampare.
“Si sa già se sarà maschio o femmina?” chiese Rachel con
voce tremula.
La dottoressa Guerrero sorrise
con fare materno. “È ancora un po’ presto per dirlo, cara.
Dovremo aspettare all’incirca la dodicesima settimana per
saperlo con esattezza” spiegò, togliendosi i guanti e andando verso la
scrivania. “Allora, adesso ti prescrivo qualche esame
da fare, d’accordo? Ci rivedremo quando saranno pronti i risultati. La prossima volta ci sarà anche il papà?” chiese, fissando Rachel
con intensità da dietro gli occhiali di tartaruga.
“Ehm…”
“Farà di tutto per esserci” rispose Cora
a sorpresa.
La dottoressa Guerrero le
osservò in silenzio per qualche istante. Poi sorrise e passò a Rachel i
fazzoletti per ripulirsi dal gel. “Molto bene. È importante avere l’appoggio
del tuo compagno in questa fase. Per ora sta procedendo tutto bene, ma devo
avvisarti che queste prime settimane sono un po’ critiche: comincerai ad avere
forti nausee e mal di testa e potresti avere vertigini e mancamenti. È
indispensabile avere tutto l’aiuto possibile attorno a te.” Nel vedere i volti
impalliditi delle tre ragazze si affrettò ad aggiungere: “Ovviamente, i sintomi
variano da persona a persona”.
Rachel annuì e si abbottonò nuovamente i jeans, sentendosi
già mancare.
Oh, su! Non farti
condizionare, adesso. Ha detto che potresti avere dei mancamenti. Se
pensi che starai male, starai male sicuramente.
Abbozzò un sorriso nel prendere le prescrizioni e
l’ecografia dalle mani della dottoressa.
“Un’ultima cosa: so che in questo
periodo è difficile mangiare, ma cerca di sforzarti di assumere cibi sani. Mangia poco, ma di frequente. Ovviamente, se fumi dovrai smettere e ai party dovrai evitare i
punch corretti, capito?” Gli occhi color miele della donna l’osservarono
severi.
“Non ho mai fumato e non voglio più sentir parlare di
alcolici per un bel pezzo” rispose prontamente Rachel.
La dottoressa tornò a sorriderle. “Molto
bene. E voi statele vicine” continuò, rivolta a Cora e Lula, mentre tutte e tre
uscivano dall’ambulatorio.
“Beh, questa visita è stata…” cominciò Lula,
prendendola sottobraccio, mentre Cora si posizionava
dall’altro lato. Si fermo ed esalò: “Wow”.
“Sì, non avrei saputo dirlo meglio!” ridacchiò Cora. “È stato veramente interessante. Penso
che potrei decidere di prendere Ginecologia al college!” Di fronte agli sguardi
sorpresi delle altre due si strinse nelle spalle: “Cosa?”.
Lula scosse la testa. “Chi l’avrebbe
mai detto che quel Fagiolino avesse già persino i dentini…” mormorò,
impressionata.
“L’avresti saputo se fossi stata attenta alla lezione di
Biologia del Professor Cobb” la rimbeccò la rossa.
Rachel sorrise e si passò una mano sul ventre, che ancora
non dava segni di avere una vita dentro di sé. Cielo! Una vita stava crescendo
in lei…
Oh, mio Dio, Rachel!
Va bene che hai gli ormoni in circolo, ma non cominciare a fare la melensa, eh!
“Ehi, Rach:
come ti senti?
Sei riuscita a fare colazione stamattina?” le domandò Cora, aiutandola a salire sul sedile del passeggero.
“Ho mangiato un paio di biscotti” disse, allacciandosi la
cintura di sicurezza. “Mia madre mi ha chiesto se ho cominciato una nuova
dieta…”
Lula si sporse in avanti dal sedile
posteriore. “E tu che le hai detto?”
“Le ho detto di sì” ammise Rachel, con un po’ di vergogna.
“Rach…”
“Lo so. Lo so. Devo dirglielo. È solo
che…” Sospirò. “Ogni volta che guardo i miei negli occhi, mi sento come
se qualcuno mi avesse dato un pugno nello stomaco.”
“Odio essere schietta,” esordì Lula, guadagnandosi due occhiate storte da parte delle
amiche, che prontamente ignorò “ma prima o poi il Fagiolino diventerà un
Fagiolone e sarà un bel po’ più difficile nascondere la sua esistenza ai
Signori Reyes. Più aspetti e peggio
sarà.”
Si imbronciò e incrociò le braccia sotto il seno, che da
qualche giorno a quella parte le sembrava più pesante e indolenzito. “Me ne
rendo conto perfettamente, ma non ci riesco. È già stato un miracolo che
l’abbia detto a voi: lo sapete che sono una codarda quando si tratta di
affrontare le persone.”
Cora le posò una mano sul ginocchio,
continuando a guidare verso la scuola. “Oh, no, tesoro! Non è vero che sei una
codarda. Secondo me sei una ragazza molto coraggiosa, invece.”
Rachel sorrise, un po’ fiacca. Non si sentiva coraggiosa.
Affatto.
Concordo: se avessi
un minimo di fegato, avresti detto a Dickson che
aspettate un pupo, invece di evitarlo come se avesse la peste.
Si corrucciò. Non è che lo stesse proprio evitando…
Rachel, ieri ti sei
nascosta sotto il tavolo della caffetteria. Se non lo chiami ‘evitare Elijah Dickson’, non so proprio che altro nome potresti dargli…
Okay, forse lo stava evitando ma, insomma!, era giustificata. Non erano quel che si dice amiconi; anzi,
praticamente prima di Quella Notte non si erano mai parlati. E anche durante
Quella Notte, non è che avessero chiacchierato poi più di tanto. Cioè, era
stata più una notte di azione che di parole… Emise un lamento e si nascose le
guance arrossite con una mano. Ecco perché non riusciva a parlare a Dickson: ogni volta che lo vedeva (o lo pensava) si
ricordava di Quella Notte e si imbarazzava al punto di doversi nascondere.
La macchina di Cora entrò nel
parcheggio della Foster. E, ta-dan!,
Elijah Dickson era proprio davanti all’entrata della
scuola, impegnato a prendere in giro quelli del primo anno con i suoi amici e a
flirtare con due ragazze Cheerleader.
Lula lo guardò e arricciò le labbra,
disgustata. “Ecco il paparino… Sembra proprio che oggi stia facendo quello che
gli riesce meglio: lo stronzo.”
Cora trattenne il fiato, indignata. “Lula! Ha pur sempre fornito metà del patrimonio genetico
del bambino di Rachel!”
La bionda sbuffò, uscendo dalla macchina. “Beh, mi
dispiace per il Fagiolino, ma suo padre è uno stronzo
fatto e finito, esattamente come fa intuire il suo cognome.(*)”
“Non è carino dirlo davanti al piccolo” mugugnò l’altra,
chiudendo la macchina.
“Sveglia, Rossa!” roteò gli occhi Lula.
“Il Fagiolino non ci sente ancora.”
“Shh! Abbassa la voce: gli altri
studenti, invece, ci sentono benissimo!”
Mentre le due proseguivano a discutere, Rachel lanciò
un’occhiata a Dickson. Stava sussurrando qualcosa
all’orecchio della Cheerleader alla sua sinistra, che ridacchiava lanciandogli
occhiate maliziose da sotto le ciglia. Anche Dickson
sorrideva. Aveva proprio dei bei denti: bianchi e regolari. Che risaltavano
sulla sua pelle abbronzata. Anche gli occhi erano belli: a metà tra il nocciola
chiaro e il verde marcio. I capelli scuri erano tagliati molto corti e
sottolineavano la bella forma del cranio. Decisamente un ragazzo attraente.
Sì, c’è da chiedersi
per quale motivo abbia accettato di venire a letto con te. Davvero un bel
mistero. No, in realtà mica tanto. Ha diciassette anni: farebbe sesso con
qualsiasi cosa respiri. Beh, almeno speriamo che il pupo prenda il suo aspetto;
non l’aria intimidatoria, di quella possiamo farne a meno. E anche del suo
carattere. Ma gli occhi e il sorriso, su quelli non ci sputiamo sopra.
Quando gli passarono a fianco, Rachel puntò lo sguardo sui
suoi piedi e si rifiutò di alzarlo, ben sapendo che Lula
gli stava lanciando un’occhiata arcigna. Continuando a fissarsi le scarpe,
tuttavia, non si rese conto di stare andando addosso a qualcuno, finché questo
qualcuno non la prese per le braccia per tenerla in equilibrio.
“Brad!” esclamò senza fiato, quando rialzò lo sguardo per
scusarsi.
Il ragazzo sorrise, facendole sentire le farfalle nello
stomaco. “Ehi, Rachel! Come stai?” Quando Lula si
schiarì la voce, Brad si passò una mano tra i riccioli biondi
e sorrise imbarazzato alle due ragazze ignorate. “Ehm… Ciao, Lucinda. Ciao, Cornelia. Tutto bene?”
Lula grugnì. Cora
le lanciò un’occhiataccia. “Tutto bene, grazie, Brad. Rachel, ti aspettiamo
agli armadietti?”
“Okay” sussurrò lei, scostando lo sguardo dagli occhi
color caffè di BradfordHurst,
quarterback della squadra di football, nonché suo compagno di Chimica, nonché
ragazzo per il quale aveva una cotta da tre anni, nonché neo-boyfriend della
Capo Cheerleader Amanda Lindsay, nonché migliore amico del ragazzo che l’aveva
messa incinta. Brad è un sacco di nonché,
eh? “Uhm…” Scostò il peso da un piede all’altro, a disagio.
“Ho sentito che non sei stata bene durante l’ora di
Ginnastica. Me l’ha detto,Mandy.”
“Sì, beh, sai, c’è un virus influenzale che gira…”
“Oh. Capisco… Stai meglio ora?”
Starò meglio tra otto mesi, Mr. Sono-Gentile-E-Premuroso-Con-Te-Anche-Se-Ho-Una-Ragazza,
pensò scontrosa. Ma poi si disse che, in realtà, non era colpa di Brad se lei
era stata così stupida da cercare conforto in una notte di sesso col suo
migliore amico. Sospirò e tentò un sorriso. “Meglio, sì.” Non appena pronunciò
quelle parole, cominciò a sentire i biscotti di quella mattina risalirle in
gola. Si mise una mano davanti alla bocca. “O forse no” mugugnò, occhieggiando
i bagni delle ragazze. “Brad, ti dispiace?” Gli lasciò lo zaino e senza
attendere risposta corse dentro i servizi, subito seguita da Cora e Lula.
“Rachel?” la chiamò Brad un po’ preoccupato, rimanendo in
mezzo al corridoio con la sua cartella rosa in mano.
“Ehi, amico, bello zaino. Hai qualcosa da confessare alla
tua ragazza? Tipo la tua collezione di cerchietti?”
sghignazzò Elijah Dickson, tirandogli un pugno di
saluto sul braccio, imitato da Larry e Jake, altri
due compagni della squadra di football.
Brad fece una smorfia, massaggiandosi la zona offesa. “È di Rachel, idiota. È scappata in bagno. Virus influenzale” spiegò con un’alzata di spalle.
Dick inarcò un sopracciglio, ma, prima che potesse
parlare, Amanda prese il suo ragazzo sottobraccio. “Quella
ragazza ti gira sempre intorno, Brad, e tu le dai un po’ troppo retta.
Non so se mi sta bene” si lamentò, mettendo il broncio e agitando i lunghi
capelli castano chiaro raccolti in una coda. Christie
e Madison annuirono, appoggiando la loro capitana.
“Rachel è un’amica” si giustificò il biondo. “Niente di
più, niente di meno.”
“Come ti pare” brontolò Amanda, incamminandosi verso la
classe di Algebra 2. Si bloccò quando si accorse che Brad non la stava seguendo.
“Beh, che fai? Non vieni?”
“Devo ridarle lo zaino.”
Gli occhi celesti della cheerleader si assottigliarono. “Ci penso io, amore. Tu tienimi un posto
vicino a te” cinguettò a denti stretti, strappandogli di mano lo zaino rosa e
gettandolo a Christie.
Brad esitò un attimo, prima di andarsene con Larry e Jake. Dick rimase indietro e le scoccò un sorrisetto
allusivo, infilando le mani nelle tasche del giubbotto della squadra di
football. “Se fossi il tuo ragazzo, non mi lascerei distrarre dalle mie amiche”
disse, inclinando lievemente la testa e guardandola con intensità.
Amanda rimase impassibile, nonostante Madison dietro di
lei si fosse lasciata sfuggire un sospiro sognante.
Arricciò il labbro superiore ed emise un verso di sdegno. “Non
ti cambierei con Brad nemmeno se non fossi il fallito che sei. Sei buono
solo per una cosa, Dick, ricordatelo. Andiamo, ragazze!”
esclamò, dandogli le spalle e perdendosi lo sguardo infuriato e ferito che le
lanciò il ragazzo.
“Mandy, forse sei stata un po’ troppo
dura con lui…” sussurrò Madison, lanciando un’occhiata di rimpianto a Dick,
ancora fermo in mezzo al corridoio con una smorfia sul volto.
“Dick non ha alcuna possibilità di
sfondare nella vita: non sa nemmeno se riuscirà a diplomarsi, figuriamoci pensare
di essere ammesso al college! Ammetto che è piuttosto portato per
quanto riguarda le ‘attività notturne’, per il resto, però, è un totale
fallito” decretò, ancheggiando fino al bagno. “Ricordatevi questo:
accalappiate un ragazzo che abbia un futuro davanti a sé ed eliminate qualsiasi
ostacolo si frapponga tra voi e lui” aggiunse, ordinando con un cenno brusco
del capo di sbarazzarsi della sacca.
Christie obbedì. Lo zaino cadde come un sacco di patate
dentro il cestino della spazzatura e dalla tasca davanti fuoriuscì una piccola
foto in bianco e nero. Amanda la notò e corrucciò le belle sopracciglia.
“E questa…?” Si chinò per raccoglierla e i suoi begli
occhi si allargarono, sorpresi. Poi, un sorriso calcolatore si fece strada
sulle sue labbra rosate. “Molto interessante, Rachel Reyes.
Molto interessante davvero…”
(*)In inglese la parola dick, oltre a essere uno dei
diminutivi del nome Richard, ha anche un significato un po’ più volgare…
Commenti:
Ringrazio moltissimo Lucille_Arcobaleno per la sua recensione! Sei stata molto carina a
lasciare un commento a una neofita come me!^^ Spero che la storia continui a
piacerti!
Ovviamente, ringrazio anche tutti coloro che
hanno messo ABITO (oh, è la prima volta che la sigla di un mio titolo ha senso!
O_o) tra i loro preferiti e chi ha solamente dato una
sbirciata.
Il terzo capitolo (che sarà dal punto di
vista di Dick) sarà pubblicato settimana prossima.
Era stata una mattinata proficua, considerò Dick. Tre
sfigati lanciati nel cassonetto dell’immondizia, un gavettone di acqua e farina
sulla testa di una secchiona e un primino chiuso a chiave
in un cubicolo dei bagni degli uomini.
(Certo, non avevano cancellato il bruciore del commento di
Amanda, ma gli avevano calmato un po’ i nervi.)
Si sentiva piuttosto soddisfatto e valutò l’idea di
degnare della sua presenza la lezione di Storia. (La materia era una noooooia totale, ma la Professoressa aveva
due gambe che non finivano più. E pure due belle tette.)
Con un sogghigno si mise a camminare verso l’aula, quando
notò che accanto alla bacheca si era radunato un folto gruppo di persone, che
parlottavano tra loro indicando qualcosa.
Senza pensarci due volte, Dick puntò in quella direzione.
(Chissà? Magari qualcuno aveva attaccato un’altra fotografia in costume da
bagno di quella tipa da sbavo del terzo anno.) Sbirciò
oltre le teste degli studenti e notò che, sì, c’era una foto. Solo che non era
certo quella che si aspettava.
Rise. (No, sul serio: chi era il genio che aveva appeso un’ecografia alla bacheca scolastica?! Doveva trovarlo e fargli i suoi più sinceri complimenti.)
“Ehi, Dick” lo salutò Brad, mettendogli una mano sulla
spalla. Assieme a lui c’erano Amanda e il loro solito gruppo di amici. “Che
succede?”
Si strinse nelle spalle, sogghignando. “Qualcuna si è
fatta fregare e hanno appiccicato la foto del suo peccatuccio in bacheca.”
Larry e Jake risero, così come le due Cheerleader.
Brad fece un sorrisino indeciso e Amanda roteò gli occhi con una smorfia. Dick
si imbronciò.
(Dannata smorfiosa con la puzza sotto il naso. Quando lo
aveva usato per arrivare a Brad, però, non aveva fatto tanto la schizzinosa…)
“E chi è la poverina a cui hanno fatto uno scherzo così
crudele?” domandò Amanda con uno strano tono impensierito, alzandosi sulle
punte per guardare oltre due stangoni della squadra di basket.
Uno di loro si voltò, stringendosi nelle spalle. “Una
certa Rachel Reyes.”
“Chi?!” esclamò sconvolto Brad,
ma Dick quasi non lo sentì con il frastuono del suo cuore nelle orecchie.
Guardò di nuovo l’ecografia con la bocca secca e uno strano groppo in gola.
(Non era possibile, non era possibile, non era possibile!
Cioè, non era possibile, giusto? Insomma sì, aveva fatto sesso con la Reyes
e come uno stupido novellino si era dimenticato delle precauzioni, ma non era
possibile che quel… quel… cosino fosse suo. Giusto?)
Brad nel frattempo si era fatto largo tra la folla e aveva
staccato l’ecografia dalla bacheca per controllare il nome. “Non… Non è
possibile” mormorò, echeggiando inconsapevolmente i pensieri di Dick. Guardò in
direzione dei suoi amici con sguardo sperduto. “Non Rachel… Non Rachel! È impossibile!”
“Cosa è impossibile?” domandò incuriosita la diretta
interessata, giunta alle loro spalle assieme alle sue due amiche.
Dick la guardò quasi spaventato, ma lei aveva gli occhi
puntati su Brad.
Amanda si schiarì la voce e le mise una mano sulla spalla,
guadagnandosi un’occhiata stupita da parte della Reyes.
“Tesoro, mi dispiace: qualche idiota privo di tatto ha svelato il tuo piccolo
segreto” le spiegò con voce esageratamente contrita.
“Scusa?” sussurrò l’altra, sbiancando.
“Oh, cara: sappiamo tutti che sei
incinta. Se hai bisogno di qualsiasi cos…” cominciò Amanda, ma si fermò di
colpo quando LucindaHolland
la prese per il bavero della sua divisa da Cheerleader.
“Sei stata tu! Tu, brutta…!”
la accusò con rabbia, mentre Cornelia Parks tentava
di dividerle.
“No, Lula! Che fai? Ferma!”
“Quindi è vero?!” intervenne
Brad, gli occhi scioccati che affondavano in quelli della Reyes.
“Rachel, dimmelo: sei… sei…?”
Lei era pallidissima e sembrava sul punto di svenire. O
vomitare. Dick si accorse che stava tremando. Poi la ragazza prese un gran
respiro e spinse in fuori il mento. “Incinta? Così si
dice. Ora ridammi l’ecografia,
Brad” disse con voce calma, stendendo la mano.
“Rachel…”
“L’ecografia, Brad” ripeté, più
secca. Gli occhi erano lucidi di lacrime che non lasciava cadere. Il labbro
inferiore le tremava. Eppure emanava una dignità stupefacente. Dick strappò di
mano l’ecografia all’amico e gliela porse. La Reyes lo guardò per la
prima volta da giorni. (Da due mesi, in realtà. Non
che avesse tenuto il conto.) Gli sembrava di essere improvvisamente in uno di
quegli stupidi film per femminucce, dove i due protagonisti incrociano gli
sguardi e tutto il mondo va a farsi friggere. Negli occhi grandi e scuri della Reyes gli parve di scorgere un sacco di cose, prima fra
tutti l’identità del padre del cosino. Poi lei distolse lo sguardo. “Grazie”
mormorò, prima di girarsi sui tacchi e proseguire verso l’aula di Filosofia.
La
Parks le corse dietro. La Holland minacciò ancora Amanda col dito.
“Lo so che sei stata tu!”
“Ma che dici?!Se
mi sono anche offerta di aiutarla!” si lamentò la Capo-Cheerleader.
“Diglielo anche tu, Brad!”
Ma Brad era perso tra i suoi pensieri, lo sguardo ancora
rivolto nella direzione in cui era sparita la
Reyes. E anche
Dick non ascoltava più nessuno, se non il suo cuore che gli batteva come un
tamburo nel petto.
Manco a dirlo, saltò la lezione di Storia. Nessuno fece
domande. Andò a rifugiarsi in infermeria, dove rimase disteso sul lettino per
un’ora, per una volta senza doversi inventare qualche balla da raccontare
all’infermiera.
(Un bambino! Cristo, che aveva combinato? Questo era
quello che succedeva a dar retta ai testicoli, invece che al cervello… Era una
divina punizione, questa. Perché si era approfittato della Reyes.
Sì, perché lei poteva anche aver cominciato, ma poi era stato lui a condurre. E
non c’era nemmeno da chiedersi se se lui fosse davvero
il padre o lei volesse abortire. Insomma: era Rachel Se-Fossi-Tanto-Così-Più-Irreprensibile-Mi-Farebbero-SantaReyes! Merda! Era completamente fottuto… Oh, mai come
allora prendere il suo vecchio pick-up e fare rotta verso Los Angeles gli era
sembrata un’idea tanto meravigliosa…!)
Smise di colpo di massaggiarsi gli occhi e si mise a
sedere di scatto.
(Ma che stava dicendo? Voleva scappare? Andarsene lontano
per non dover pensare alle responsabilità che si era lasciato alle spalle? Beh,
allora era proprio figlio di suo padre… No, cazzo! Non poteva comportarsi come
quel perdente. Anzi, non doveva.
Perché lui non era un perdente. No.
Si sarebbe preso le sue responsabilità.)
Saltò giù dal letto proprio quando la campanella si mise a
suonare, segnando la fine della giornata scolastica, e si infilò nei corridoi
inondati di studenti. Guadagnò l’uscita a gomitate, continuando a guardare a
destra e sinistra nella speranza di scorgere la testa scura della Reyes. Era ormai sul piazzale quando la vide. Assieme a
Brad.
Lei teneva gli occhi bassi, mentre lui le parlava. La luce
del sole gli colpì i riccioli biondi, illuminandogli tutta la testa. Se fosse
stato una ragazza, avrebbe pensato che assomigliava a un angelo. Si irritò,
senza un vero motivo.
(Non c’entrava col fatto che Brad parlasse con la Reyes.
Assolutamente.)
Strinse i pugni e fece per andare a interrompere
l’idilliaco quadretto, ma una spilungona bionda e una rossa rotondetta gli
bloccarono la strada.
“Dove pensi di andare?” chiese la Holland, guardandolo in cagnesco.
“Voglio parlare con la Re… con Rachel” si corresse all’ultimo, facendo
per sorpassarle. Ma la bionda gli piantò una mano sul petto.
“Non provarci nemmeno,Dickson. Le hai già procurato abbastanza problemi.”
Si corrucciò. “Posso darle una mano. Quest’estate
ho lavorato e posso…”
“Ah! Non farmi ridere. Pensi di poterle
dare una mano rastrellando giardini e consegnando giornali?” domandò, irrisoria.
“Rachel non ha bisogno di uno come te. L’unica cosa che puoi fare è startene al
posto tuo e fare quello che hai sempre fatto.” Lo spinse via, con disprezzo.
“Dimenticati di questa storia, Dickson. Dimenticati
di Rachel e lei se la caverà benissimo.”
Dick contrasse la mascella. “Perché? Perché sono un
fallito e lei si merita di meglio?”
Lo sguardo della Holland era freddo e sprezzante. “Esattamente. Andiamocene, Cora.”
La
Parks rimase un attimo a guardarlo (era pena quella che
aveva negli occhi?), prima di raggiungere l’amica e dirigersi verso la Reyes.
Dick le osservò salutare Brad e incamminarsi assieme a lui
verso la macchina. Strinse le labbra e calciò un pezzo di asfalto.
(Gliel’avrebbe fatto vedere lui chi era il fallito…)
Commenti:
E così eccoci al terzo capitolo, dal punto
di vista di Elijah. Chiedo scusa per le parole scurrili presenti nel testo, ma quando
scrivo avendo in testa come ragiona il personaggio non riesco a eliminarle:
dopotutto è un ragazzo adolescente e devo ancora conoscerne uno che non abbia
bisogno di lavarsi la bocca con il sapone… Spero che non vi abbiano dato troppo
fastidio.
Un grazie in particolare a Lucille_Arcobaleno(sono contenta che ti piacciano il mio
stile e i nomi dei personaggi!! Per quanto riguarda il
soprannome Fagiolino: no, non l’ho preso dal film Juno,
che peraltro ho visto e ho trovato molto bello. L’ho letto in una fan fiction di
tanto tempo fa nel fandom di Harry Potter. Mi pare si
chiamasse “Sono tutte favole” o qualcosa del genere. Se hai un attimo di tempo,
leggila: è veramente molto divertente!) e a Gea_Kristh(meno male che ti piace Rachel! Anch’io spesso smetto di leggere
una storia perché mi sta antipatica la protagonista. So che i personaggi sono
stereotipati: in realtà quello che volevo fare era prendere la solita storia e
i soliti personaggi e tentare di dar loro un’impronta un po’ diversa, un po’ di
profondità in più. Solo il tempo e voi lettori mi saprete dire se ci sono
riuscita!!^^).
Spero mi farete sapere cosa ne pensate della
storia o dei personaggi, se vi piace come sta
proseguendo o se devo correggere il tiro. Mi raccomando: le vostre impressioni
sono importanti!!
Un grazie sentito a tutti coloro che mi
lasceranno un commento e a tutti coloro che si limiteranno a leggere.
Brusii. Bisbigli. Sussurri. Occhiate di sottecchi. Dita puntate.
Era da un’intera settimana che li sopportava. Si infilò
nel bagno delle ragazze e richiuse la porta, appoggiandovisi contro. Si lasciò
scivolare a terra e si prese la testa tra le mani. Ormai quel bagno le era
familiare tanto quanto camera sua. Sarebbe rimasta volentieri lì per sempre.
Oh, certo. Infestare
i bagni scolastici è proprio la soluzione per tutti i tuoi problemi…
Il cellulare vibrò nella tasca dei pantaloni. Un
messaggio. Da Brad.
Dove 6? Tutto bene? Vuoi un passaggio a casa?
Il cuore le batté forte. Da
quando aveva saputo che era incinta, Brad era diventato ancora più premuroso
del solito. E, siccome Rachel non aveva voluto dirgli
chi fosse il padre, sembrava che il ragazzo avesse deciso di accollarsi le
responsabilità di quel ruolo vacante. Non poteva fare a meno di chiedersi
perché…
Scordatelo, Rachel. Lui sta con la ragazza più
popolare della scuola e tu hai un corpo estraneo in pancia che tra poco ti farà
gonfiare come un pallone: se mollasse Amanda Lindsay per mettersi con te, dovresti
farlo ricoverare. E subito.
Sospirò. Era davvero così
improbabile che questa storia della gravidanza avesse fatto sì che Brad
finalmente si fosse accorto di essere innamorato di lei da sempre e decidesse
di lasciare Amanda per chiederle di diventare la sua ragazza e passare il resto
della loro vita insieme?
… Davvero vuoi che ti risponda?
Sbuffò. Va bene, va bene: si
era lasciata un po’ trasportare dalla fantasia. Lo sapeva benissimo che Brad si
interessava a lei solo per gentilezza, ma che male c’era a sognare?
Direi che è ora di piantarla con i sogni, Rach:
quelli non pagano i conti della clinica alla fine del mese. Devi rimboccarti le
maniche, cocca. Cercare un altro lavoro oltre a quello in libreria. E trovare
una macchina: non puoi farti scorrazzare sempre da Cora.
Né, tantomeno, da Brad. Devi diventare indipendente, ragazza mia: tra poco ci
sarà qualcun altro che dipenderà da te.
Grazie, ma mi dà uno strappo Cora,
scrisse e inviò, anche se era una bugia: Cora e Lula avevano dei corsi extracurricolari quel pomeriggio.
Avrebbe preso l’autobus, si disse, oppure avrebbe fatto la strada a piedi.
Effettivamente non era il caso di coinvolgere Brad in quel pasticcio.
Si alzò con calma per non farsi
prendere dalle vertigini, come era successo due giorni prima alla fine dell’ora
di Fisica 3, e sciacquò le mani e il viso. Provò qualche acconciatura allo
specchio giusto per perdere tempo e far uscire la gran parte degli studenti.
Poi abbassò la maniglia e uscì di nuovo nel corridoio semi-deserto. Contenta,
si avviò verso il suo armadietto, del tutto impreparata ad affrontare chi vi
stava appoggiato con una spalla.
“Ce ne hai messo di tempo!”
esclamò Dick, squadrandola corrucciato.
Di riflesso, Rachel guardò
dietro di sé per vedere se stava parlando con qualcun altro. Ma no: era l’unica
nel corridoio. Tornò a fissare gli occhi irritati del ragazzo. “Aspettavi me?”
“E chi altri?” sbottò,
spostandosi quando Rachel aprì l’armadietto per prendere i libri da mettere nello
zaino. “Dobbiamo parlare.”
Si irrigidì nel prendere il
libro di Spagnolo e si guardò intorno nervosa, intuendo al volo di cosa il compagno voleva parlare.
“D’accordo, ma possiamo andare da un’altra parte?”
Dick scrollò le spalle e le si
affiancò. “La mia macchina?”
Sempre meglio del piazzale… “Okay.”
Lo seguì in silenzio e
altrettanto silenziosamente salì sul pick-up. L’altra volta non aveva notato
quanto fosse tenuto bene.
L’altra volta avevi di meglio da fare che guardare gli interni.
Arrossì e si morse la guancia,
giocherellando con l’orlo della maglietta mentre aspettava che Dick
incominciasse a parlare. Invece, il ragazzo le mise sotto il naso una mazzetta
di banconote stropicciate. Rachel le occhieggiò, confusa.
“Prendili” la incitò Dick. “Sono
duecento dollari: non sono un granché, ma è sempre meglio di niente.”
“Perché mi stai dando dei
soldi?”
Lui le lanciò un’occhiata
storta. “Sei incinta.”
“Sì, ma…”
“E so che il bambino è mio. E
non me ne frega un cazzo di quello che dicono le tue amiche: ho dei diritti
anch’io! Quindi, prendi questi fottutissimi soldi!”
Glieli sbatté in grembo e si
mise a fissare qualcosa oltre il parabrezza dell’auto, con la bella bocca
imbronciata e le dita che stringevano il volante. Rachel non toccò le banconote,
sentendo un vuoto nello stomaco. Appoggiò le mani sul ventre con fare
protettivo. “Se mi stai dando questi soldi per farmi abortire, guarda che–”
“No, no, no! Non
hai capito!” la interruppe Dick, agitando le mani. Sospirò e si
raggomitolò nel sedile, abbassando lo sguardo. “Lo so che sei contro l’aborto e
non voglio farti pressioni. Anche perché, a dirla tutta, non piace nemmeno a me
l’idea. Quei soldi sono per pagare l’ecografia o per comprare dei vestiti o dei
biberon o che so io.”
Rachel rimase in silenzio,
continuando a fissare i dollari sparsi sulle sue gambe.
“Ovviamente
te ne darò altri: questo è quanto mi era rimasto dai miei lavori estivi, ma
sono già in contatto con un negozio di dischi che ha bisogno di un commesso e
se non bastasse potrei controllare se c’è bisogno in qualche fast food e… Oh, Cristo! Di’
qualcosa, per favore: non continuare a farmi blaterare come un cretino!” sbottò
poi, passandosi una mano sul volto imbarazzato.
Lo osservò, mentre lui si
mordeva l’interno della guancia e fissava la radio del pick-up con espressione
accigliata. Raccolse i soldi. “Ne sei sicuro? Voglio dire, è un grosso impegno” mormorò.
Dick alzò gli occhi.
Fiammeggiavano di rabbia. “Pensi che non ne sia in grado, vero? Pensi che sia
un perdente che scappa di fronte al primo ostacolo!”
“No, non è vero!” Sì, che è vero, Rach:
lo hai pensato. “È solo che non sembri il tipo che vuole avere a che fare
con inconvenienti di questo genere…”
Fece una smorfia, incrociando
le braccia al petto e scostando lo sguardo. “Non mi è mai capitato, in realtà.
Ma questo non vuol dire che intendo tirarmi indietro: quel bambino è affar mio
come tuo. L’ultima volta che ho controllato, siamo stati in due a farlo. Quindi
voglio esserci, nonostante quello che dicono le tue amiche.”
Cos’è che aveva detto Lula? Di buono aveva solo il bell’aspetto e gli spermatozoi
che facevano centro? Avrebbe dovuto avvertirla che con quella bocca sexy sapeva
fare altro oltre a quella cosa con la lingua e…
Okay, controlla gli ormoni che ballano la samba, Rach:
devi rispondergli.
“Tu hai parlato con le mie
amiche?” biascicò. Dick le lanciò un’occhiata storta. “Okay, lascia perdere le
mie amiche: questo riguarda… noi due.” Si schiarì la voce, sentendo il rossore risalirle
dal collo verso le guance e poi estendersi alle orecchie. “Sei il padre ed è
giusto che tu abbia voce in capitolo. Soprattutto per quanto riguarda la scelta
della famiglia adottiva.”
Dick sgranò gli occhi, colto
alla sprovvista. “Famiglia adottiva? Vuoi dare via il
bambino?”
“Ci sto pensando,
Dick. Insomma, sarebbe per il bene del Fagiolino. Cioè, del bambino. Cosa vuoi
che combini di buono una mamma di diciassette anni?”
“Ma tua madre… i tuoi non ti
vogliono dare una mano?”
“Veramente, non gliel’ho ancora
detto…”
Dick aprì e richiuse la bocca
un paio di volte. Poi scosse la testa. “Quella dell’adozione, è una scelta
definitiva?”
Rachel scrollò le spalle. “Non
lo so. Ma non è quello il problema più urgente…”
“E quale sarebbe?”
“Beh, in realtà sarebbero due.”
“Sentiamoli.”
Lo studiò, colpita. Davvero gli
importava? “Devo trovarmi un altro lavoro per mettere da parte abbastanza soldi
per comprarmi un’auto.”
Anche Dick la squadrò con
espressione stupita. “Tu hai un lavoro?”
“Che male c’è?” chiese, sulla
difensiva.
“No, niente. È solo che… beh,
pensavo che la tua famiglia fosse benestante.”
“I miei non hanno problemi di
soldi!”
“E allora perché…?”
“Affari miei, okay?” Ma chi si
credeva di essere?
Mah… Giusto il padre del Fagiolino.
… Beh, comunque, non aveva il
diritto di farle un terzo grado! Erano cavoli suoi se lavorava o meno.
Dick alzò le mani in segno di
resa. “D’accordo, d’accordo: non incazzarti.”
Rachel fece una smorfia. “Non
sono arrabbiata.”
“Sembrava. Comunque, è inutile
spendere soldi per un’auto, quando hai già la mia a disposizione.”
“La tua…? Tu mi accompagneresti?”
“Che c’è di strano?”
Beh, diciamo tutto? Oddio, ma si rendeva conto di quello che
stava dicendo? “Non so, non hai amici da frequentare? Ragazze
con cui uscire?”
“Certo.”
“E allora hai intenzione di
scaricarli tutti per scarrozzarmi qua e là?”
“Assolutamente no! Ma che dici?” esclamò, strabuzzando gli occhi. “Cioè, a
parte questa storia, tu hai la tua vita e io la mia, no?”
Ah, ecco. Le sembrava strano.
La fragile speranza che aveva cominciato a nascerle nel cuore, si spense come
il lumino di una candela. La delusione le si accumulò nella bocca dello
stomaco.
Ma che ti aspettavi, Rachel? Solo perché ha deciso
di essere presente mica vuol dire che mollerà tutti per giocare alla piccola
famiglia felice con te. Hai visto troppi film della Disney, mia cara.
All’improvviso sentì la rabbia
montare. Contro Dick, contro il Fagiolino, contro se stessa.
“Dove ti porto, allora?” Dick
la osservava con curiosità e lei digrignò i denti.
Con calma, Rachel. Respira a fondo e conta prima di parlare.
“Da nessuna parte” ringhiò.
Ehi, ti avevo detto di contare!
“Come ‘da nessuna parte’?”
Rachel prese un gran respiro e
contò velocemente fino a dieci. La mano destra era chiusa in un pugno che si
contraeva a intermittenza. “Apprezzo la tua offerta, Dick: è molto di più di
quanto mi aspettassi. Ma non ho bisogno né di un benefattore, né di un autista.
Ho bisogno di altro. E tu non puoi darmelo.”
“Mi stai tagliando fuori?”
domandò, furioso.
“Non”
gridò, prima di sforzarsi di parlare con più calma “ti sto tagliando fuori. Sto solo dicendo che non ho bisogno di un ragazzo che per
scrollarsi di dosso il senso di colpa mi regala dei soldi e si offre di darmi
qualche passaggio da casa a scuola e viceversa!” Niente, non riusciva a tenere
a freno l’irritazione. Maledetti ormoni! Respirò di nuovo a fondo. “Senti, ti ringrazio dei soldi, ma non posso accettarli, okay?
Comunque, se vuoi, ti terrò informato sui futuri sviluppi.”
Gli rimise le banconote in mano e uscì dal pick-up così in fretta che le
vennero le vertigini. Si aggrappò alla portiera ancora aperta.
Occhio: la dottoressa Guerrero ti aveva detto
di non fare movimenti improvvisi.
“Che ti prende?” Nel tono di
Dick si poteva ancora percepire la collera.
“Niente” masticò tra i denti,
continuando a sostenersi alla portiera.
“Rachel?”
Alzò lo sguardo. “Brad?!”
“Cosa ci fai ancora qui? E assieme a Dick, poi” aggiunse il ragazzo, col volto rabbuiato.
Quando, però, si rese conto di quanto fosse pallida, si avvicinò in men che non si dica per aiutarla. “Rach?
Stai bene? È il bambino, vero? Non dovresti strapazzarti: ho letto che i primi
mesi sono molto stancanti.”
Il suo sguardo color caffè
esprimeva una forte preoccupazione. Rachel sentì le lacrime pungerle agli
angoli degli occhi. Ma perché doveva essere lui a darle quella sensazione di
sicurezza che cercava? Si schiarì la voce e gli rivolse un sorriso fiacco. “Va
tutto bene: ho avuto solo un piccolo capogiro.”
Brad non rimosse le mani che le
stringevano le braccia e guardò all’interno del pick-up con espressione dura.
“Ehi, che combini, amico?”
Dick aggrottò le sopracciglia,
atteggiando il viso a una maschera altrettanto risoluta.
“Se le hai fatto qualcosa…”
Prima che Dick potesse replicare, Rachel si intromise, appoggiando le mani sul
petto del biondo e spingendolo via con delicatezza.
“Non è successo nulla” decretò,
rimettendosi lo zaino in spalla. “Sul serio” aggiunse, notando la smorfia
diffidente dell’amico. “Ci vediamo lunedì.”
“Dove stai andando?”
“A prendere l’autobus.”
“L’autobus? Ma non ti doveva
dare un passaggio Cornelia?”
Rachel si morse l’interno della
guancia. “Non mi ricordavo che aveva un corso oggi pomeriggio.”
Brad la raggiunse e,
prendendola per un gomito, cominciò a condurla verso la sua auto. “Andiamo, ti
accompagno a casa” le disse con voce gentile e capelli che brillavano nella
luce del tardo pomeriggio.
“Ma non c’è bisogno, io…”
“Insisto.”
Rachel smise di protestare e si
lasciò guidare dal ragazzo. Si voltò a guardare Dick, che li osservava cupo dal
suo pick-up, e si sentì all’improvviso in colpa.
E per cosa, Rach? Tu hai la tua vita e lui la sua,
ricordi?
Si voltò, sospirando, e lanciò
un’occhiata di sottecchi a Brad.
Ciononostante, per quanto tu lo voglia, nemmeno
Mr. Cavaliere-Senza-Macchia-E-Senza-Paura è la
soluzione ai tuoi problemi…
Si imbronciò. Lo sapeva, lo
sapeva benissimo. Brad le strinse un po’ di più il gomito e
le sorrise incoraggiante. Il cuore di Rachel frullò nel petto,
emozionato.
Brad non era la soluzione, lo
sapeva. Ma non c’era niente di male a passare il successivo quarto d’ora a
trastullarsi col pensiero che potesse esserlo, no?
Commenti:
Ed ecco il primo
incontro (anche se sarebbe meglio dire scontro) tra i due protagonisti. Che
dire? Dick sta facendo uno sforzo, ma non è quello di cui Rachel sente di avere
bisogno… Riusciranno mai a trovare un punto d’incontro? Chissà…
Questo
meraviglioso sito ha messo in auge una fantastica applicazione che consente di
rispondere a ogni persona che recensisce anche prima di pubblicare un capitolo,
ma io volevo comunque ringraziare moltissimo Nickyley, Lucille_Arcobaleno, Plastic e Gea_Kristh per aver commentato
lo scorso capitolo. Vi ringrazio tanto, ragazze: sapere che la storia piace e
che i personaggi non sono odiosi mi sprona a continuare a scrivere del futuro
del Fagiolino!^^
Ringrazio anche
tutti coloro che perdono cinque minuti del loro tempo per dare un’occhiatina a
questa storia e spero che anche questo capitolo vi sia piaciuto.
Alla prossima
settimana con un altro capitolo dal punto di vista di Dick!
Dick chiuse con violenza la portiera del suo pick-up
appena parcheggiato nel vialetto di casa e infilò, fumante di rabbia, le mani
nelle tasche del giubbotto.
(Maledizione! Qual era il dannato problema della Reyes?! Si era fatto avanti, no?
Si era offerto di darle dei soldi e di accompagnarla, cosa voleva di più?! E se n’era andata con Brad, Cristo Santo! Stava
aspettando il suo bambino! Come
poteva fare gli occhi dolci a un altro?!)
Attraversò il giardino e raggiunse il portico dei suoi
vicini. Suonò il campanello con stizza.
(E lui, Brad?! Con quel discorso
su come non si doveva stancare perché i primi mesi sono pesanti? E tutta quella
scena da Eccomi-Sono-Il-Tuo-Principe-Azzurro-Appena-Sceso-Dal-Bianco-Destriero?
Vomitevole…)
La porta si aprì, rivelando la vecchia Mrs. Kerr. “Oh, ciao, Elijah. Sei venuto a
prendere Kaylee?”
“Sì, Mrs. Kerr.”
“Kaylee, è arrivato tuo
fratello!”
Un istante dopo, una furia dai capelli ricci gli si
avventò addosso all’altezza della vita, mozzandogli il respiro. “Ehi, gnomo! Vacci piano, eh?” grugnì, prendendola per il collo della maglietta
e staccandosela di dosso. “Grazie e arrivederci, Mrs. Kerr.”
Si avviò a grandi passi verso casa, seguito a ruota dalla
sorellina. “Elijah, aspetta! Vai troppo veloce!”
“Non ci posso fare niente se hai le gambe da pigmea”
replicò piatto, cercando le chiavi nella tasca del giubbotto. Non si sorprese
del pugno che gli arrivò in risposta in mezzo alla schiena.
“Sei uno stupido macaco!” gridò offesa Kaylee,
mettendosi le mani sui fianchi e guardandolo dal basso in alto.
Era così buffa che, nonostante l’umore nero, Dick
ridacchiò, camuffando il tutto con un colpo di tosse. Aprì la porta e le fece
platealmente segno di entrare per prima. “Prima i mostriciattoli” disse con un
sogghigno, che fu subito cancellato dal ben piazzato calcio nello stinco che
gli tirò la sorella. “Ma porc…!” esclamò, tenendosi
la zona colpita.
Kaylee gli fece una linguaccia e
sgattaiolò in casa.
“Dove vai, mocciosa?” ruggì Dick, rincorrendola. “Se ti
prendo sei morta!”
La ragazzina si mise prontamente dietro il divano. “Se ti
avvicini mi metto a urlare!”
“Provaci!”
Kaylee aprì la bocca e si esibì in un
prolungato strillo spacca-timpani.
Dick si portò le mani alle orecchie. (Cazzo!
Quella bambina aveva dei polmoni di acciaio!) “Va bene, va bene: non ti
uccido.” Kaylee richiuse la bocca e lo guardò con un
sorrisino soddisfatto. Al che Dick si aggrottò e la puntò con l’indice,
minaccioso. “Per ora.”
La sorellina lanciò un piccolo grido soffocato e si
nascose dietro il bracciolo del divano.
Compiaciuto, Dick salì le scale che lo conducevano alla
sua camera. “Non avvicinarti alla mia stanza” le ricordò.
“Perché? Deve venire
un’altra di quelle tue amiche antipatiche?” chiese Kaylee,
scrutandolo dalla tromba delle scale con il nasino arricciato dal disgusto.
“No. Oggi non sono
proprio dell’umore…” biascicò, chiudendosi la porta della camera alle spalle,
perdendosi così il faccino perplesso della sorella.
Un paio di ore più tardi, mentre era a metà di una
sessione di flessioni parecchio intensa, il cellulare di Dick cominciò a
suonare con insistenza. Il ragazzo gli lanciò un’occhiata, ma, non riconoscendo
il numero, continuò i suoi esercizi.
La suoneria si interruppe. Dopo un paio d’istanti riprese.
Dick la ignorò; quando però ricominciò a suonare per la terza volta, lo
agguantò e rispose con un seccatissimo: “Pronto!”.
“Dick? Sei tu?”
“Certo che sono io! Tu chi diavolo sei?”
Un attimo di silenzio sconcertato. “Sono Gladys.”
“Gladys chi?”
“Co-ComeGladys
chi? Siamo stati a letto insieme una settimana fa!”
Dick si concentrò un attimo. Una settimana fa? Allora
doveva essere la rossa della tavola calda dov’erano andati a festeggiare la
recente vittoria della squadra. “Ah, sì: Gladys. Come mai mi hai chiamato?”
“Come mai non mi
hai chiamata tu! Non posso credere che tu non abbia trovato un minuto del tuo
tempo per chiamarmi!”
“Che ti posso dire? Sono un ragazzo
molto impegnato.”
Dall’altra parte provenne un suono di aria risucchiata.
“Sei proprio uno stronzo!” la voce della ragazza si ruppe alla fine.
Dick roteò gli occhi, annoiato. “Mai
detto il contrario. Ascolta, non ho il tempo di dar retta ai tuoi
isterismi. È stato bello, sei stata un’ottima compagna di scopata, ma è meglio
se passi a qualcun altro, okay? Tanto con il modo in cui ti vesti non avrai
difficoltà… Ma che? Ha attaccato?!Stupide
femmine…” borbottò, gettando il cellulare sul letto.
Qualcuno si schiarì la voce e Dick sobbalzò per la sorpresa,
voltandosi di scatto verso la soglia della sua camera. Sgranò gli occhi. “Oh,
Cristo! Mamma che ci fai qui?”
La donna era appena tornata a casa, come dimostrava il
cappotto che aveva ancora indosso. Lo guardava a metà tra lo sbalordito e il
tremendamente seccato. E quando sentì la sua poco rispettosa esclamazione,
assottigliò gli occhi. “Elijah! Che modo è di parlare?!E con tua sorella qui a due passi!”
Dick fece una smorfia e si morse l’interno della guancia.
“È stata una brutta giornata, ma’.”
“Non mi interessa quanto brutta sia stata la tua giornata:
non voglio mai più sentire simili volgarità sotto questo tetto! E lascia il
Signore Iddio e tutti i Suoi Santi in Paradiso.”
“… Sì, ma’…”
“Adesso fila a farti una doccia e vai ad aiutare tua sorella
a preparare la tavola.” Gli lanciò un’occhiata dura da sopra la spalla, mentre
si dirigeva verso la propria camera. “Dopo cena faremo un bel discorsetto io e
te.”
Dick sospirò. (Merda. Sua madre era proprio incazzata.)
Raccattò una maglietta abbastanza pulita sotto un paio di jeans lanciati sulla
sedia tre giorni prima e si diresse verso il bagno con passo da condannato al
patibolo. “Stupide femmine…”
“Allora? Si può sapere
chi era quella ragazza e perché le hai parlato in quel modo?” inquisì sua madre,
una volta mandata Kaylee a giocare in camera sua.
“Ne dobbiamo proprio parlare,
ma’?” gemette Dick. Mrs. Dickson gli lanciò
un’occhiata che non ammetteva repliche. Sospirò. “Non è nessuno: è solo una
tipa che ho incontrato qualche sera fa.”
Stavolta fu Mrs. Dickson a
sospirare. “Eli, quando ti deciderai a trovarti una
brava ragazza e smettere di passare da una all’altra?” Scosse la testa e
strinse le labbra. “Anche tuo padre è fatto così: cambia ragazze come se
fossero calzini…”
“Io non sono come lui” ribatté ferito il ragazzo,
corrucciando le sopracciglia.
Sua madre batté un pugno sul tavolo, facendolo sussultare.
“E allora dimostralo! Piantala di fare il donnaiolo!” Si
pinzò la base del naso con espressione tormentata e fece un grosso sospiro.
Poi gli prese le mani e gli parlò con voce triste: “Eli, tesoro, voglio solo che tu capisca. Mi rendo conto che dire di essere stato con molte ragazze alla tua
età ti renda popolare agli occhi dei tuoi amici, ma questo comportamento alla
lunga ti porterà solo guai”.
Dick fece una smorfia. (Lo sapeva. Lo sapeva anche troppo
bene…)
“Non c’è proprio nessuna ragazza che ti piaccia più delle
altre?”
“Sì, c’è. Ma ha preferito Brad.”
“Oh.”
“Già…”
Sua madre gli carezzò il dorso delle mani con i pollici. “E
allora vuol dire che non era quella giusta.”
Dick grugnì, sarcastico. “Sì? Beh, oggi
anche un’altra ragazza ha preferito lui a me…” borbottò amaro. “Sembra
che BradfordHurst sia il
dannato Principe Azzurro di tutte le studentesse della Foster. E io il Lupo Cattivo.”
“Tesoro, forse se cercassi di essere un po’ più gentile…”
“Ma io sono stato gentile con la Reyes!
È stata lei a rifiutare il mio aiuto.”
“Aiuto per cosa?” Il viso di sua madre si era fatto
curioso. (Ahia… Doveva depistarla. Subito.)
“Ma niente, ma’… Non sta molto bene in questi giorni, un
po’ di influenza, sai?, e Brad ha detto che ha letto
dell’argomento e lei è tornata a casa con lui” concluse con una smorfia.
Mrs. Dickson sollevò un
sopracciglio, fissandolo perplessa per qualche istante.
“Comunque, non importa” si affrettò a dire, alzandosi e
facendo uno scatto verso le scale. “Non me ne frega niente della Reyes…”
“Elijah?” lo richiamò subito la donna.
“Sì?”
“Non pensare che mi sia dimenticata della tua punizione
per aver usato un linguaggio scurrile.”
“Una punizione, ma’?!Ma ho quasi diciott’anni!”
“Hai detto bene: quasi”
enfatizzò sua madre con un sorrisetto. “E finché vivrai sotto questo tetto ogni
volta che io o tua sorella ti sentiremo imprecare dovrai versare un dollaro in
questo barattolo” decretò, indicando un vasetto per le conserve messo in bella
vista sul bancone della cucina.
Dick fissò sua madre a bocca aperta. “Stai scherzando?!” esclamò, oltraggiato.
“Ti sembra che stia scherzando?” domandò lei, col volto di
nuovo severo.
Borbottò improperi tra i denti.
“Mamma! Elijah ha
detto la parolaccia che incomincia con la ‘m’!” giunse una voce dalla cima
delle scale.
“Maledetta spiona!” sibilò Dick, lanciando un’occhiataccia
alla sorella, che lanciò un urletto e si chiuse nella
sua stanza.
Mrs. Dickson lo raggiunse,
porgendogli il barattolo. “Forza” lo esortò, agitando il contenitore.
Riluttante, Dick tirò fuori un dollaro. Sua madre si schiarì la gola. Roteò gli
occhi e ne mise dentro un altro. La donna sorrise e andò a rimettere a posto il
barattolo. “Se continui così, mio caro, per la fine dell’anno avremo un bel
fondo per il college” ridacchiò.
Dick fece le scale brontolando contro le ‘stupide femmine’
che gli rendevano la vita un inferno. Una volta in camera, si gettò a peso
morto sul letto, gettando un’occhiata distratta allo schermo del computer
ancora acceso: due box di conversazione troneggiavano al centro.
Uno era di Madison (Ehi
Dick! Festa a casa di Carol Jennings… Ci vediamo là?). Lo
chiuse senza pensarci due volte. (Non era proprio dell’umore di sgattaiolare
fuori di casa per andare alla festa di una sfigata, che sperava di diventare
popolare servendo birra analcolica.)
L’altro messaggio era da parte di Brad. Dobbiamo parlare, diceva. Dick sbuffò dal naso. “E di cosa? Di come cambiare i pannolini?”
brontolò, sarcastico. Si disconnesse con un certo sadico compiacimento
nel non aver replicato all’amico. Si sdraiò nuovamente sul materasso,
appoggiando la testa sulle mani intrecciate e fissando il soffitto con un gran
broncio.
(Quel presuntuoso! Era convinto di essere tanto migliore
di lui! Solo perché sapeva che i primi mesi della gravidanza erano pesanti…
Capirai: bastava digitare ‘gravidanza’ su un motore di ricerca di Internet per
accedere a quelle informazioni!)
Si mise a sedere di scatto, con gli occhi spalancati.
(Ma certo! Come aveva fatto a non pensarci prima?!)
Trafficò qualche istante al computer, prima di trovarsi
davanti a una lunga lista di siti. “Molto bene…” mormorò, cliccando sul primo: ‘Gravidanza settimana per settimana’. Scorse i quaranta
link delle quaranta settimane che rimandavano ad altrettante pagine e
fotografie. Per un attimo fu tentato di alzarsi e andare a quella
cavolo di festa della Jennings. Poi scosse la
testa e raddrizzò le spalle. Espirò più volte come faceva per caricarsi prima
di una partita di campionato e cliccò sul primo collegamento. “Puoi farcela, Dickson” si incitò. E cominciò a leggere.
Commenti:
Ebbene, eccomi qui con un giorno d’anticipo
rispetto al solito!^^ Impegni l’indomani e Dick che voleva assolutamente far
sentire la propria voce mi hanno costretta a pubblicare un giorno prima.
Dunque, cos’abbiamo: un bulletto
arrogante, che viene prevaricato a casa dalla sua mamma. (Ho pensato che il
nostro “caro” Dick avesse proprio bisogno di qualcuno che lo rimettesse in riga
e chi meglio della mamma?^_^)
Beh, questo è il punto di vista del paparino
sullo scontro del precedente capitolo: a voi le vostre conclusioni.
Ringrazio moltissimo tutti coloro che stanno
seguendo questa storia, in particolar modo Valentina78,
Plastic, Korat, Lucille_Arcobaleno e Gea_Kristh che
hanno voluto condividere con me le loro opinioni: grazie mille, ragazze! Spero
che anche questo capitolo vi aggradi.
“Cosa? Sul serio?!”
esternò Rachel, tenendo in bilico il cellulare tra la guancia e la spalla,
mentre posizionava sugli scaffali i nuovi arrivi.
“Già, ci crederesti? Quel bastardo si è presentato sulla soglia
di casa due ore fa. Io l’avrei lasciato a marcire là fuori in eterno, ma come
al solito mia madre si è fatta abbindolare…”
“Ma non credi che sia una buona notizia? Voglio dire, tuo
padre manca da quasi quattro anni, non potrebbe essere tornato per restare?”
“Rachel, tu credi ancora nel mondo delle favole” replicò Lula con tono duro. “Quello è un bastardo approfittatore:
se è tornato è perché ha bisogno di soldi o di un posto dove dormire.”
Si morse il labbro inferiore. “Vuoi venire al Bookworm? Posso
offrirti asilo politico e pranzo a base di nachos e
frappé al mirtillo.”
“Eww!” esclamò disgustata
l’altra. “Nachos e frappé al mirtillo? Sono
cominciate le strane voglie da ragazza incinta?”
Rachel arrossì e si mise una mano sul fianco, benché l’amica
non potesse vederla. “Non è così: sono buoni sul serio insieme!” si difese.
“Seh, seh,
come vuoi. Mi rendi solo più facile rifiutare il tuo invito.” Sospirò e tornò
seria. “Grazie lo stesso, Rach, ma preferisco
rimanere nei dintorni per tenere d’occhio la carogna.”
“Okay… Ci sentiamo stasera?”
“Se non sono stata arrestata per patricidio,
sicuramente.”
“Okay. Ciao.”
“Ciao, Rach.”
Osservò lo schermo del cellulare spegnersi. Povera Lula… Non c’era da stupirsi se non si fidasse affatto degli
uomini: suo padre se n’era andato via dall’oggi all’indomani, senza lasciare
alcun recapito. Non aveva mai telefonato, nemmeno per farle gli auguri di
Natale o per il suo compleanno e si era fatto vivo solo tramite posta per farsi
spedire dei soldi.
Si posò una mano sul ventre, pensosa. Sperava tanto che al
Fagiolino toccassero dei genitori migliori…
“Mr. Schwartz, vado a prendere
un altro scatolone di nuovi arrivi in magazzino!” proruppe, continuando a
rimuginare tra sé.
“Va bene, ma mi raccomando: se è troppo pesante, fa’ due
giri, okay?” ribatté il proprietario da dietro il bancone.
“Sì, non si preoccupi!”
Il magazzino non era nient’altro che una stanzetta senza
finestre, poco più che un ripostiglio, dove Mr. Schwartz
faceva ammonticchiare le pile di scatoloni con i nuovi libri. Durante le due
settimane in cui non era andata a lavorare alla libreria c’erano state tre
consegne e nello stanzino c’era a malapena lo spazio per entrare. Rachel si
chinò e sollevò con qualche sforzo uno scatolone che conteneva una quarantina
di nuovi volumi con la copertina rigida di un romanzo appena uscito. Uscì
camminando all’indietro, lentamente e facendo molta attenzione a dove metteva i
piedi…
“Ehi, scusa, posso chiedere a te?”
Sobbalzò, ma riuscì a non perdere la presa sullo
scatolone. “Un secondo soltanto…” mormorò, appoggiando con delicatezza il
pesante carico sulla scaletta in metallo che usavano per raggiungere gli
scaffali più alti. Si girò per accogliere il cliente. “Prego, mi dica pur–” Sgranò gli occhi. “Dickson?!”
“Reyes?!”
La guardò stupefatto. “Che diavolo stai facendo?!”
“Sto lavorando. Che ci fai tu qui, piuttosto?!”
“Sono in una libreria: cosa pensi che sia venuto a fare?”
rispose con un tono che la fece sentire una sciocca. Cosa che la irritò
moltissimo. “Non dovresti sollevare dei pesi nelle tue condizioni.”
Lei emise un grugnito seccato. “Le mie
condizioni? Non sono mica malata” ribatté, dandogli le
spalle e cominciando a posizionare i libri sugli scaffali.
“No, sei solo incinta” replicò sarcastico
Dick.
Si voltò talmente in fretta che i capelli le frustarono il
volto. “Shh! Sei impazzito?!”
Lui si strinse nelle spalle. In ogni caso abbassò la voce.
“Tanto a scuola lo sanno tutti.”
“Sì, ma per qualche miracoloso motivo gli adulti non ne
sanno ancora niente. E vorrei che non ne sapessero niente
ancora per molto, molto tempo…”
sibilò, facendo per tornare al suo lavoro, venendo tuttavia fermata dalla mano
di Dick che si strinse attorno al suo polso. Gli lanciò un’occhiata
incredula. “Che fai?”
“Sto parlando sul serio” disse, corrucciato. Una ruga di
preoccupazione gli si era formata tra le sopracciglia. “Il tuo capo non
dovrebbe farti fare lavori di fatica.”
Rachel roteò gli occhi e scrollò il braccio per tentare di
liberarlo. Quando vide che era inutile, sbuffò. “Senti, peseranno al massimo sette-otto chili.
Non succede niente.”
“Lo so: non è vero che si distacca la placenta, ma
comunque è un affaticamento inutile della schiena.”
Wow. Ha fatto i
compiti il ragazzo…
Si riscosse. “Okay. Cosa vuoi che faccia? Vuoi che lasci per
terra tutto ciò che pesa più di un paio di etti?” lo sfidò, spingendo in fuori
il mento. Dick assottigliò gli occhi. E cominciò a trascinarla verso
l’ingresso. “No, ehi! Che fai? Lasciami andare! Dick!”
Il ragazzo si fermò solo davanti al bancone di Mr. Schwartz. “Lei è il proprietario?” chiese, con voce
risoluta. L’ometto dai baffetti curati annuì, perplesso da tanta aggressività.
Dick si appoggiò al bancone, facendo così avvicinare anche Rachel. “Che razza
di uomo è lei per far fare lavori di fatica a una studentessa delle superiori?
Perché non lo fa fare agli altri suoi aiutanti, eh?”
“Oh per la miseria, Dick! Smettila!” si
divincolò Rachel, senza ottenere risultati. “Non c’è nessun altro che
lavora qui! Mr. Schwartz la prego di–”
“E allora perché non lo fa lei” la interruppe il ragazzo,
rivolgendosi al proprietario. “Quelli della sua generazione non erano tutti dei
gentiluomini? Cosa ci fa lei seduto dietro al bancone, mentre la Reyes
qui si spacca la schiena?”
Rachel inspirò aria, sconvolta. “Dick, ritira subito
quello che hai detto! Mr. Schwartz,
sono mortificata: lui–”
Ma l’uomo la fermò alzando una mano. “No,
Rachel: ha ragione: non dovresti trasportare da sola tutto quel peso.”
Guardò negli occhi il ragazzo e si mosse da dietro il bancone. “Dovrei assumere qualche altro giovane, lo so, ma sembra che
nessuno sia interessato a lavorare in una piccola libreria di quartiere.
Quanto a me, purtroppo sono confinato al servizio cassa”
ammise con un sorriso triste, aggirando il bancone su quella che non era una
semplice sedia, ma una sedia a rotelle.
“Mr. Schwartz…”
Dick non disse niente per qualche istante, limitandosi a
guardare il vecchio in carrozzina con la bocca tirata in una linea sottile. Poi
scrollò le spalle. “D’accordo. Allora
lo faccio io” annunciò, lasciandole finalmente andare il polso e tornando verso
il magazzino.
Rachel rimase a guardarlo allontanarsi a bocca aperta,
sconcertata del fatto che Dick non si fosse scusato per la sua maleducazione.
“Mr. Schwartz, mi dispiace moltissimo per quello che
è successo. Adesso vado a dirgli di andarsene e–”
“No, no, Rachel: va bene così, non preoccuparti. Due braccia in più non fanno mai male, no?” le fece l’occhiolino
l’anziano, quasi divertito. “Andiamo, capisco benissimo che il tuo
ragazzo ci tiene a te.”
“Oh, no, no, no!” esclamò, agitando le
mani imbarazzata. “Dick non è il mio ragazzo!”
Mr. Schwartz batté le palpebre.
“Ma, veramente, mi sembrava che–”
“No, è una faccenda complicata. Ma noi due non stiamo
insieme. Siamo quasi estranei, in realtà.” Nel vedere l’espressione confusa del
suo datore di lavoro, si morse il labbro e indietreggiò. “Io… vado a vedere
cosa sta combinando.”
Lo trovò intento a portare fuori due scatoloni alla volta.Gli bloccò la strada, incrociando le
braccia al petto e guardandolo con rimprovero.
Dick alzò gli occhi al cielo e posò a terra il carico.
“Cosa?” sbuffò.
Lo spinse, non facendolo nemmeno smuovere. Si stizzì
ancora di più. “Si può sapere che diamine pensi di fare?”
“Sto solo cercando di aiutarti” replicò il ragazzo,
serissimo.
“Io non te l’ho chiesto” sibilò, furiosa.
Lui strinse le labbra in una smorfia e si piegò per
sollevare di nuovo gli scatoloni, per poi sorpassarla. Li depose vicino a
quello che lei aveva posato sulla scaletta e tornò in magazzino a prenderne
altri. Il tutto senza rivolgerle nemmeno un’occhiata.
Rachel trattenne a stento un grido di frustrazione e
riprese a sistemare i nuovi arrivi in ordine alfabetico, piazzandoli sugli
scaffali con più forza del necessario. Con la coda dell’occhio vide Dick
cominciare a fare lo stesso. Digrignò i denti.
Cielo, Rachel! Non
avevamo deciso che ti eri comportata troppo duramente con lui? È questo il modo
di ringraziarlo? D’accordo, ha gestito il tutto un po’ da uomo delle caverne,
ma in fondo cerca solo di aiutarti… E, sì, è vero: ieri abbiamo appurato che
vuole continuare a cavalcare in altri pascoli e che quindi non è proprio un
tipo su cui fare affidamento al cento per cento, però… beh, prendi quello che
la vita ti offre. Un po’ di aiuto è sempre meglio che nessun aiuto, no?
Si imbronciò. Perché la sua coscienza si ostinava a fare
ragionamenti logici? Al momento lei era incavolata con Dick e voleva continuare
a esserlo. Era incinta, no? Non le erano concessi malumori e capricci?
Non è che aspettare
un bambino ti dà il permesso di comportarti come una di loro.
Fantastico: persino la sua coscienza era contro di lei
adesso!
… Non ti sembra di
esagerare col ruolo della vittima?
Lei era una
vittima! Vittima del luogo, del tempo e delle
circostanze. E di Dickson. Perché doveva essere solo
lei a portare il peso, il segno di
quello che era successo? Perché soltanto lei era diventata lo zimbello della
scuola? Dio, si vergognava così tanto! A volte si
ritrovava a sperare che tutto fosse un incubo, un orribile incubo. E invece no,
era la realtà: era incinta a diciassette anni. E la colpa era tutta di Dickson! E ora si permetteva pure di dirle cosa poteva e
cosa non poteva fare, come se ne avesse il diritto!
Continuò a mettere a posto i libri e a servire i pochi
clienti che fecero capolino quel giorno, imprecando mentalmente contro il fato,
contro il mondo, contro Dickson, contro i ragazzi,
contro le tempeste ormonali adolescenziali, contro i punch corretti, contro
qualsiasi cosa le venisse in testa. Finché non strinse così tanto la costa di
un volume da farsi diventare le nocche bianche. Tirò su col naso, sforzandosi
di non mettersi a piangere.
Ti sei chiesta
perché ogni volta che parli con Dickson vieni
sopraffatta dalla collera? Beh, non è collera: è vergogna. La verità è che non
sei arrabbiata con lui. Sei arrabbiata con te stessa. Perché quella notte con Dickson non era qualcosa che pensavi ‘Rachel Reyes’ avrebbe fatto. Ma è successa, quindi mettici una
pietra sopra. E sì, l’hai fatta tu: non ha fatto tutto lui e lo sai
bene. Piantala di addossargli tutte le colpe e lascia che ti dia una mano.
Lanciò un’occhiata a Dick. Durante la giornata aveva
portato fuori tutti gli scatoloni e aveva sistemato tutti i libri sugli
scaffali, senza nemmeno prendersi una pausa per andare a mangiare. Ora era
accovacciato a terra, intento a sistemare il settore O-N.
Sbuffò. Okay, d’accordo: si era comportata da perfetta
stronza.
No, ma dai?
Roteò gli occhi. Che doveva fare adesso?
Perché non provi a
porgergli un ramoscello d’ulivo?
Deglutì e mosse un passo verso il ragazzo. Mai camminata
le parve più difficile. “Ehm… Dick?”
Il ragazzo le lanciò un’occhiata fredda, tornando subito
dopo a occuparsi dei libri.
“Senti, mi dispiace” esordì. “Mi dispiace di averti urlato
addosso ieri e di averti trattato male oggi: non avrei dovuto.”
Dick la guardò di nuovo, stavolta con espressione stupita.
Rachel si sentì a disagio sotto quello sguardo intenso.
“Il lavoro che hai fatto oggi è stato… tu sei stato… insomma, mi hai fatto
veramente un favore” farfugliò. “Senza di te, ci avrei messo almeno tre giorni
a sistemare tutto.”
Lui si alzò. Erano così vicini che Rachel dovette
reclinare un po’ la testa per continuare a guardarlo negli occhi. Non erano più
stati così vicini da Quella Notte e la prossimità le diede le vertigini. Dick
era proprio attraente e aveva davvero un buon odore…
Cattiva, Rachel. Cattiva.
Tieni al guinzaglio i tuoi ormoni.
“Quindi,” si schiarì la voce,
uscitale roca d’un tratto “ti ringrazio.”
“Questo significa che mi lascerai fare la mia parte?”
chiese Dick, occhieggiandola sospettoso.
Annuì. “E non chiederò più di quanto tu sia disposto a
dare.”
Annuì anche lui, appoggiandosi con disinvoltura al settore
G-H, pensoso. “Perciò, la storia degli sbalzi d’umore è vera…” commentò qualche
istante più tardi con un sorrisetto.
Alzò gli occhi al cielo, ma stava sorridendo. “Già, non
sai cosa ti aspetta…”
“Ehi, bimba: sono sopravvissuto alle ragazze Cheerleader”
replicò l’altro, muovendo su e giù le sopraciglia.
Entrambi ridacchiarono.
“Mi fa piacere che abbiate fatto pace.” Mr. Schwartz li guardava con un sorriso contento sulle labbra.
“Caspita, che bel lavoro che hai fatto qui, figliolo!” esclamò, guardandosi in
giro. “Ti sei messo un po’ in mostra per la tua bella, eh?”
“Oh, no, guardi non è –”
“Su, su: non imbarazzatevi. Sono stato giovane anch’io,
sapete? Piuttosto, ragazzo: vorresti lavorare per me? Pago bene e Rachel non
dovrebbe più sollevare quegli scatoloni da sola.”
Rachel aprì la bocca per dire che non era necessario, ma Dick la batté sul tempo: “Potrei venire il
mercoledì e nei weekend: gli altri giorni lavoro al Disk Jocker”.
Mr. Schwartz sorrise.
“Fantastico! Mercoledì prepareremo tutte le formalità. Per quanto riguarda
oggi, c’è qualche libro che ti interessa? Puoi prendere
quello che vuoi.”
Dick parve un po’ a disagio. “Effettivamente, ci sarebbe
un libro…” borbottò, allungandosi per prenderne uno dal settore Medicina e Salute.
“Gravidanza: Manuale
per Tonti?” lesse stupito Mr. Schwartz quando il
ragazzo gli mostrò il volume. Gli occhi dell’anziano corsero su Rachel,
dubbiosi.
Dick vide Rachel arrossire e boccheggiare, così si
affrettò ad affermare: “È per mia madre”.
“Oh. Certo. Certo! Prendilo pure,
figliolo.”
“Grazie…” mormorò Rachel quando uscirono dal Bookworm.
Dick si strinse nelle spalle. “Ti serve,
uh, un passaggio a casa?”
“Ti va un cheeseburger prima? Mi è venuta una voglia
improvvisa di patatine fritte…” rispose, un po’
imbarazzata.
“Wow. È la prima volta che sento una
ragazza pronunciare queste parole magiche” affermò, allibito. Ma si
riprese in fretta: si avvicinò all’improvviso con un sorriso sornione. “Devo
ammettere di essermi un po’ eccitato…” le soffiò nell’orecchio.
“Che?!” squittì lei, facendo un
salto all’indietro. Quando lo vide sghignazzare gli tirò un pugno sul braccio.
“Sei proprio un idiota…”
“Un idiota con la macchina, però!” ribatté lui, facendo
tintinnare le chiavi prima di aprirle la portiera con un inchino scherzoso e
dire con un terribile accento francese: “Madame”.
Rachel lo osservò per un attimo. Poteva essere così
semplice tra loro?
Rach, per una buona volta, la vuoi
smettere di rimuginare su ogni cosa?! Che male può
fare passare una serata con Dickson? Ormai il danno
lo avete già fatto.
Sorrise, spense il cervello ed entrò in macchina.
Commenti:
Oh, il punto d’equilibrio è raggiunto. La
questione è: riusciranno a mantenerlo? Solo il tempo saprà dircelo.^^
Ringrazio moltissimo tutti coloro che stanno
seguendo questa storia, in particolare Korat,Gea_Kristh,Lucille_Arcobaleno,Nickyley(spero che la conclusione a cui è giunta
Rachel circa quella Fatidica Notta ti abbia
soddisfatta!?^^),
francef80 e Valentina78 per aver
condiviso con me le loro opinioni: siete grandi, ragazze! E certamente troppo
gentili… ^_^
Okay, il prossimo capitolo è di nuovo dal
punto di vista di Dick. Una domanda: quale dei due punti di vista preferite? Io
avevo intenzione di saltare dall’uno all’altro, ma se avete una preferenza
fatemelo sapere!
Allora, al prossimo lunedì!
Un bacione a tutti/e quanti/e e buon ponte di Sant’Ambrogio per chi è di Milano come me
e Buona Immacolata a tutti gli altri!
Dick starnutì per la milionesima volta nel giro di un
quarto d’ora. (Maledizione alla polvere e al vecchio handicappato!) Squadrò
corrucciato la piccola sala, stracolma di volumi polverosi e incartapecoriti.
(Ma che diavolo se ne faceva di tutta quella cartaccia inutile? Non lo sapeva
il vecchio che avevano inventato Internet?) Starnutì un’altra volta. (Ma perché
aveva accettato di lavorare in quel postaccio?)
“Dick? Va tutto
bene?” La Reyes
fece capolino sulla soglia della sezione ‘Preziosità’.
(Eccolo lì il perché: la ragazza che
portava la sua discendenza in pancia.) “Tutto a posto.” Tirò su col naso,
valutando se utilizzare o meno lo straccio che aveva
in mano per soffiarselo. “È colpa di questi libracci: non potrebbe buttarli via
e comperare delle nuove copie?”
“Uno solo di questi volumi vale più di tutti i libri
appena stampati che abbiamo di là in vendita.”
Dick li osservò, scettico. “Bah, a me questa pare solo
robaccia: guarda come sono sottili e fragili le pagine. E le copertine hanno
visto tempi migliori.”
La ragazza alzò gli occhi al cielo, come le aveva visto
fare già molte volte in quell’ultima settimana. “Questo perché hanno avuto
molti proprietari prima di Mr. Shwartz.” Prese in
mano un libro e lo soppesò, assorta. “Pensa a quante persone lo hanno tenuto
tra le mani, in quante case è stato, quante epoche ha visto…”
“A me fa impressione. Preferisco quando la roba che ho in
casa è stata toccata solo da me e da nessun altro.”
Lei lo guardò, divertita. “Sul serio?”
“Beh, che c’è?” chiese lui sulla difensiva. (Non gli
piaceva la roba vecchia, e allora?)
“No, niente” replicò, con un mezzo-sorriso. “A me invece
piacciono i libri antichi: adoro il loro profumo. L’odore dell’inchiostro è
sempre molto gradevole: intenso, ma delicato allo
stesso tempo. E poi quando li hai tra le mani capisci subito che sono stati
fatti con cura; non come certi libri che vengono stampati oggi…”
“Perché? C’è differenza tra un libro e
l’altro?”
La
Reyes lo guardò con tant’occhi.
“Scherzi?! Certe volte non compero un libro perché non
mi piace l’odore della stampa!”
(Okay, aveva appena appurato che la sua baby-mamma era un
po’ tocca. Meglio andarci cauti.) “Uh, se lo dici tu…”
Lei lo prese per una manica della maglietta. “Vieni, ti
faccio vedere.” Lo guidò verso l’ingresso, dove si trovavano esposte le novità
del mese. “Adesso chiudi gli occhi” disse, quando si furono fermati davanti a
un espositore. Dick alzò un sopracciglio e lei lo prese in giro: “Sta’
tranquillo, non attenterò alla tua virtù”.
Si lasciò scappare un sorrisetto. “Come se non fosse
l’unica cosa a cui hai pensato da quando il vecchio se n’è andato un’ora fa…”
La
Reyes sbuffò, ma era tutta scena: riusciva a vedere
chiaramente che stava trattenendo un sorriso. “Dai, chiudi gli occhi.”
Dick fece come ordinato. “E ora?”
“E ora annusa.”
Il naso di Dick venne investito da un intenso odore di
carta e inchiostro, al di sotto del quale aleggiava il profumo fresco di
Rachel. (La prima volta che l’aveva notato, alla festa
di fine estate, aveva pensato che la
Reyes avesse passato la giornata a
passeggiare tra i fiori.) Annusò nella direzione da cui era venuta la voce
della ragazza.
“Senti com’è forte l’odore della
stampa? Come si fa a leggere un libro con questo odoraccio?” la sentì domandare.
Annuì distrattamente. (Se un libro avesse avuto il profumo
della Reyes, avrebbe potuto pensare di aprirlo.
Forse, addirittura leggerlo.)
Lei gli prese una mano e gli fece carezzare la pagina
stampata. “Senti com’è ruvida?”
Fece di nuovo un vago cenno affermativo. (L’unica cosa su
cui riusciva a concentrarsi al momento erano le dita un po’ fredde che la Reyes
stringeva attorno al suo polso…)
“Ora, invece, tocca queste pagine: hai mai sentito niente
di più piacevole al tatto?” gli chiese, accompagnando la sua mano su un altro
libro dalle pagine decisamente più lisce.
(In realtà, gli venivano in mente almeno un centinaio di
cose più piacevoli da toccare. Prima fra tutte, la pelle morbida e calda che la Reyes
nascondeva sotto strati e strati di vestiti.)
Il solo ricordo gli fece venire voglia di sfiorarla di
nuovo. Aprì gli occhi per trovare, con suo enorme disappunto, la ragazza intenta
a contemplare il grosso libro di arte su cui aveva ancora la mano. Sbirciò il
quadro raffigurato, storcendo il naso. (Che aveva di
tanto bello quel damerino rachitico? Lui era molto più sexy e
pure in carne e ossa!) “Ti piace questa roba? Puzza di
stantio come i libri di prima…”
“Roba?!” strillò lei, stringendo
le labbra come se avesse assaggiato un limone e indietreggiando di un passo. Abbracciò
il libro, protettiva. “Tu chiami ‘roba’ secoli di
sperimentazione nella rappresentazione della realtà? Leonardo, Canaletto,
Monet, Van Gogh, Picasso e almeno un altro centinaio di artisti si staranno
rigirando nella tomba in questo preciso momento!”
“Ehi, calma: stavo solo esprimendo un pensiero…”
“Beh, è un pensiero che fa schifo!”
Fissò la piega offesa della sua bocca. (Merda,
ce l’aveva con lui. Non voleva che la
Reyes ce l’avesse con lui.) Alzò le
mani in segno di resa. “Okay, okay, ritiro tutto.” Lei, però, rimaneva
corrucciata. Dick sospirò. “Non dovresti prendertela per quello che dico: lo
sai che sono uno stronzo e pure idiota.”
Finalmente lei lo guardò negli occhi. I suoi erano scuri e
confusi. “Tu non sei idiota.”
“Oh, andiamo! I prof. hanno perso ogni
speranza con me” ribatté, con un sorrisetto un po’ amaro sulle labbra.
Poi scrollò le spalle. “Ma non me ne frega niente: non serve un diploma per
diventare una rockstar” dichiarò con decisione.
“Vuoi diventare una rockstar?”
“Diavolo, sì!” Si frugò nelle tasche dei pantaloni e ne
tirò fuori un cd. “Lo vedi questo? Questo è il mio
biglietto di sola andata per Los Angeles. La mia via d’uscita da questo schifo
di città. Devo solo dargli le ultime rifiniture, spedirlo e
poi potrò andarmene di qui più veloce della luce!” disse, carezzando
teneramente la copertina di plastica.
La
Reyes lo guardava con gli occhi sgranati. “Stai dicendo
che intendi ritirarti da scuola se accetteranno il tuo demo?”
“Certo!”
“Ma non puoi farlo! Se poi non dovesse funzionare, cosa
farai senza un diploma?”
“Funzionerà” ribatté, convinto. (Suonare e giocare a
football erano le uniche cose che riusciva a fare decentemente: doveva funzionare.)
Il viso della Reyes era una
maschera che non riusciva a leggere.
“Beh, che c’è?” chiese, sulla difensiva. (Stava per
sentire uno dei soliti commenti sul suo essere un perdente che non aveva la
benché minima possibilità di fare strada nella vita?)
Lei scosse la testa e increspò le labbra in un sorriso
pensieroso. “Niente. È solo che… beh, è bello che tu voglia lottare per il tuo
sogno.”
Sospettoso, corrucciò le sopracciglia. “Dici sul serio?”
“Sì. È… coraggioso da parte tua.”
C’era qualcosa di strano nella sua intonazione,
ma Dick non si fermò ad analizzare cosa: era troppo sorpreso dal fatto
che qualcuno gli avesse fatto una specie di complimento. “Suppongo di sì” mormorò, ancora frastornato. “E tu che farai? Dopo la scuola, intendo.”
Si morse il labbro inferiore, abbassando lo sguardo e
stringendosi nelle spalle. “Mio padre vorrebbe che studiassi legge. Sai, per
proseguire l’attività di famiglia…”
“Tu, invece, cosa vuoi fare?” domandò, appoggiandosi con
disinvoltura all’espositore per guardarla meglio in viso.
La
Reyes sbatté le palpebre, stupita. “Io? Studiare legge, no?” rispose, quasi mangiandosi le parole per la
velocità con cui le pronunciava. “Mio padre è socio di uno studio
legale: è naturale che vada a lavorare per lui.”
Si aggrottò. (A lui non sembrava
affatto una cosa naturale.) Fece per aprire la bocca, ma venne battuto sul
tempo dallo scampanellio della porta d’ingresso che annunciava il primo cliente
della giornata. Alle quattro del pomeriggio.
“Vado io!” si affrettò a dire la Reyes,
rimettendo a posto il volume d’arte e spiccando una breve corsetta verso la
ragazza appena entrata.
Dopo averle squadrato bene gambe e scollatura (Ehi, era un
maschio e quella era un bell’esemplare di genere femminile!), lanciò
un’occhiataccia alla nuova arrivata. Se non fosse entrata, avrebbero potuto
continuare a chiacchierare.
(Sì, gli piaceva chiacchierare con la Reyes,
qualche problema? Quando la settimana prima erano andati insieme a mangiare un
cheeseburger lo aveva ascoltato sul serio, senza civettare e fargli pesare che
se era lì con lui era solo perché lui era popolare, bravo a letto e soprattutto
amico di BradfordHurst. E
per la prima volta in vita sua non aveva dovuto spiegare due volte tutte le
battute che faceva.)
Spolverò di malavoglia i libri in esposizione, guardando
di sottecchi il profilo lievemente più morbido della Reyes.
Sbirciò il modo in cui si metteva dietro l’orecchio una ciocca troppo corta,
sfuggita al fermaglio che le tirava indietro i capelli. Spiò il sorriso che le
nacque sulle labbra e origliò la risata che ne seguì. Nel momento in cui gli
parve che stesse per girarsi verso di lui, si finse concentrato sul suo compito.
Le due ragazze ricominciarono a parlare.
“Ehi, ti senti bene?” sentì l’altra chiedere a un certo
punto. Alzò lo sguardo di scatto: la
Reyes si era seduta su una delle
due poltrone presenti nella libreria.
Corse subito da lei. “Che succede?” esclamò preoccupato, notando
il colorito cereo e la fronte imperlata di sudore.
“Non è niente: soltanto un po’ di nausea” replicò calma, fissandolo
con uno sguardo eloquente. Sorrise un po’ fiacca all’indirizzo della cliente. “Credo di essermi presa un qualche virus influenzale. Ti dispiace se finisce di servirti il mio collega?” Prima ancora di
sentire la risposta, si era già incamminata verso il bagno.
Gli occhi di Dick la seguirono finché non girò l’angolo e
lì rimasero per qualche secondo, prima di voltarsi verso l’altra ragazza.
“Okay, che ti serve?” chiese, spiccio.
Quella produsse una lunga lista di libri e per un attimo
fu tentato di dirle di ficcarsela dove sapeva lui, ma poi si ricordò cosa gli
aveva detto la Reyes quella mattina (“Il cliente ha
sempre ragione e la gentilezza è d’obbligo”) e con uno sbuffo seccato si mise a
cercare i dieci titoli sul computer della libreria. Che, ovviamente, era un mastodonte
del secolo scorso e ci mise un’eternità a rivelargli le posizioni dei volumi. A
quel punto, al momento di pagare, nessuna delle carte di credito della ragazza
pareva funzionare e dovette farle passare tutte tre volte prima che una
riuscisse a saldare il conto.
Non appena la cliente ebbe infilato la porta, Dick si
fiondò alla porta del bagno di servizio. “Reyes,
sei ancora lì? Reyes?” la chiamò, bussando sul legno.
Si udì il rumore dello sciacquone che veniva tirato e
qualche istante più tardi si aprì la porta.
“Ehi, come stai?” domandò, esaminandole con attenzione il
viso: aveva ripreso colore, ma sembrava proprio sbattuto.
“Abbastanza bene, tutto sommato” sospirò, tornando a
sedersi sulla poltrona. Appoggiò un gomito sul bracciolo e si sorresse la
fronte con la mano.
Dick la seguì. Dopo un attimo di esitazione, le si
accovacciò accanto. “Hai ancora le nausee?”
“Ogni tanto.”
“Ma sei quasi alla fine del terzo mese…”
“A qualche donna capita di avere nausee che durano più a
lungo. Pare che io sia una di queste…” Si strinse nelle
spalle, abbozzando un sorriso. “La cosa strana è che dopo mi vengono
delle voglie assurde di pizza e cibo cinese. Comunque, venerdì prossimo devo
far controllare gli esami e fare la seconda ecografia: se c’è qualcosa che non
va, lo sapremo subito.”
“La seconda ecografia?” ripeté, attonito. (Ma certo! Lo diceva il libro che alla fine del primo
trimestre bisognava fare una visita!) Il cuore gli batté forte in gola. (Voleva andarci. Voleva vedere il cosino. Ma non voleva chiederlo
alla Reyes e fare la figura di quello che non aspetta
altro, come un povero sfigato qualsiasi. Sarebbe stato patetico. Doveva fare in
modo che fosse lei a chiedergli di accompagnarla.) “Hai voglia di fare quattro
passi?” le domandò, alzandosi in piedi, mentre un piano si delineava nei
meandri del suo cervello. “Ho letto che è la cosa migliore per far passare la
nausea.”
“Ma il negozio…?”
“Oh, andiamo! È sabato pomeriggio, c’è un sole stupendo,
la prima e, ci scommetto, ultima cliente della giornata è andata via cinque
minuti fa: che male vuoi che faccia se chiudiamo prima?”
La
Reyes si accigliò un attimo, ma subito dopo sia fronte
che labbra si distesero. “Hai ragione: posso sempre dire a Mr. Schwartz che non stavo bene. Non è una
bugia, no?”
“Assolutamente” confermò Dick, ripensando alla corsa al
bagno. “Ora va’ a prendere il tuo cappotto, ché qui ci penso io.”
Quando, dieci minuti più tardi, si inoltrarono nell’aria già
fredda di inizio novembre, Dick era fermamente deciso a mettere in atto il suo
piano. Si infilò le mani nelle tasche, visto che aveva dimenticato i guanti
come suo solito. “Allora, va un po’ meglio?” chiese, cominciando col prenderla alla larga.
Lei era così intabarrata nel suo cappottino rosso con
sciarpa bianca che riusciva a stento a vederle gli occhi. Annuì più volte. “È stata un’idea fantastica. Ma che freddo! Si sente che è
arrivato novembre!” esclamò, sfregandosi le mani coperte da guantini
di lana bianchi.
“Esagerata: non fa mica così freddo!” disse, angolando il
viso in modo da godere dei deboli raggi solari. Rise nel vederla rabbrividire.
“Come farai tra un paio di mesi…?!”
“Farò come al solito” replicò lei, alzando il nasino per
aria, liberandolo così dalla sciarpa. “Mi metterò due golf, uno sopra l’altro.”
“Beh, tra quello e il pancione, mi sembrerà di stare in
compagnia dell’Omino Michelin!” ridacchiò.
Gli arrivò un pugno sul braccio.
“Mi correggo: un Omino Michelin con tendenze violente!”
Stavolta gliene arrivarono due.
“Okay, tregua!” esclamò, arrendendosi. La Reyes
emise un verso di soddisfazione che lo fece sorridere. (Quello
e anche il modo in cui il suo naso affondò di nuovo nelle morbide maglie della
sciarpa. Ma si stava distraendo: doveva tornare al suo piano.) “Uhm… Senti, a
proposito…” cominciò, ma venne interrotto da un urletto
della ragazza. “Che c’è?” esclamò, allarmato.
Lei indicava freneticamente qualcosa davanti a sé,
saltellando per l’eccitazione. “Dick, guarda! Le caldarroste! Ah, che voglia!” Cominciò a frugare nella borsa. “Ma dove
accidenti è finito il portafogli…?”
Sbatté le palpebre. (Ottimo
tempismo, quelle voglie…) Sospirò. “Lascia: te le offro io.”
“Ma no, dai: è sicuramente qui da qualche parte…!” replicò
lei, con la testa quasi dentro la borsa.
Alzò gli occhi al cielo. “Forza, Reyes,
non è niente di compromettente: sono solo castagne” ribatté, avviandosi a
lunghi passi verso il venditore. Quando tornò indietro, aveva con sé la
confezione più grande. “Ecco a te” annunciò, porgendogliela. “Ho fatto bene a
prendere quella gigante?”
“Benissimo” sorrise lei, sbucciando subito la prima
caldarrosta. “Qui siamo in due a mangiare.”
Appena ebbe finito, Dick gliela rubò dalle mani e se la
fece cadere in bocca, ridendo della faccia sconvolta della Reyes.
“Ahia, scotta!” gridò, facendosi aria per raffreddare la lingua.
“Ben ti sta! Così impari a
rubare il cibo a una ragazza incinta!” scherzò.
“Ecco, a proposito di questo,”
Dick tornò serio “ti accompagnano i tuoi alla visita?”
Lei si irrigidì e cominciò a sbucciare una seconda
castagna per non guardarlo negli occhi. “No. Io non… non gliel’ho ancora detto.
Non so proprio come affrontare la cosa…”
Senza pensarci, Dick le mise una
mano sul braccio, in un gesto di conforto. “Neanch’io
l’ho detto a mia madre: è ancora incazzata per la D nel compito di Storia e non ho voluto
aggiungere benzina al fuoco.” Si passò la mano sul mento. “Pensi che se le do oggi la grande notizia non si accorgerà della C- di
Letteratura che ho in cartella?”
La
Reyes emise un suono curioso, a metà tra una risata e
uno sbuffo, scuotendo la testa. Assaggiò la caldarrosta ancora fumante. “Mm…
Che buona…” mormorò in estasi.
Dick sorrise, contento di averle risollevato un po’ il
morale. “E così, c’è qualcun altro che ti accompagna?” indagò.
“Oh, sì: vengono Cora e Lula.”
Sentì la sua speranza naufragare. (Era
ovvio che si portasse dietro le amiche: che diavolo si aspettava?) “Ah,
capisco…” non poté fare a meno di borbottare.
La
Reyes gli lanciò uno sguardo, mentre lui camminava con
le mani affondate nelle tasche e una smorfia sul viso. Poi gli mise sotto il
naso una caldarrosta appena sbucciata. Dick la guardò, perplesso. Lei sorrise.
“Stavolta soffiaci sopra prima di metterla in bocca.”
Obbedì e prese a mangiucchiarla con scarso interesse.
“Ascolta, Dick…”
“Mm?”
“Perché non vieni anche tu alla visita? Cioè, se non hai
niente di meglio da fare.”
Dick si voltò con gli occhi accesi. “Dici sul serio?” Poi
si schiarì la voce, fece spallucce e disse con fare disinteressato: “Ma sì,
perché no?”.
Lei fece una risatina e lui in tutta risposta le rubò
un’altra castagna, provocando un fiume in piena di proteste indispettite.
(Chi è che diceva che i suoi piani non arrivavano mai a
niente?)
Commenti:
Dunque, come avrete certamente intuito dal
titolo, questo capitolo è un breve momento di transizione. Nei prossimi capitoli
Dick e Rachel dovranno affrontare qualche situazione spinosa e dovranno farlo
insieme, quindi ho pensato di inquadrare meglio questo inizio un po’ esitante
della loro amicizia.
Devo avvertirvi, però: purtroppo dovrò
allungare i tempi di pubblicazione. Devo preparare gli ultimi esami e la tesi e
il tempo che mi rimane da dedicare a questa storia si sta assottigliando sempre
di più mano a mano che ci avviciniamo a gennaio. Vi chiedo di avere un pochino
di pazienza in più, perché preferisco pubblicare ogni due settimane un capitolo
rivisto e corretto bene come piace a me, piuttosto che una volta alla settimana
uno scritto alla meno peggio. Spero mi capirete…
Voglio ringraziare moltissimo tutti coloro
che leggono questa storia e, come al solito, un grazie
particolare va a gufetta_95, francef80, Gea_Kristh, Nickyley, Lucille_Arcobaleno, Miryae Valentina78
per aver condiviso con me le loro opinioni: sono sempre molto contenta di
leggere i vostri commenti!^^
A questo punto, mie care, credo che il
prossimo capitolo andrà a dopo Natale, il 27 dicembre se non sbaglio. Perciò,
ne approfitto per farvi tantissimi auguri di Buon Natale: che possiate passare
delle feste serene con le persone che amate. Un abbraccio a tutte voi!^_^
Capitolo 8 *** ... prima della tempesta (parte prima) ***
8
8
~ … prima della tempesta ~
(parte prima)
“Dunque, mi sembra che qui sia tutto in ordine” commentò
la dottoressa, sfogliando gli esiti degli esami. Alzò gli occhi, guardando
tutti loro da sopra le lenti degli occhiali. “La tua nausea potrebbe non essere
nulla di cui preoccuparsi, ma, prima di emettere qualsiasi verdetto, diamo
un’occhiata al piccolo.”
Vide la Reyes sbottonarsi i pantaloni e alzare
l’orlo del golf fino all’ombelico. Forse l’osservò con troppo interesse, perché
la Holland gli lanciò un’occhiataccia e si
avvicinò di più all’amica, coprendogli parzialmente la visuale.
Dopo aver sbuffato, Dick tornò a prestare attenzione alla
dottoressa, che ora stava controllando uno schermo in bianco e nero. Fu solo
qualche istante più tardi che riconobbe la forma sul monitor. (Il cosino! Quello era proprio il cosino!) Il cuore gli
batté forte in gola nell’osservare il corpicino acchiocciolato e la testolina
leggermente troppo grande.
“Com’è cresciuto!” sentì mormorare la Parks.
La dottoressa Guerrero sorrise.
“Ora il bambino è lungo circa 8 centimetri: un bel salto rispetto alla prima
ecografia, no? Adesso si potrebbe tenere in una mano.”
(Già, come quella che non gli era
stato permesso di stringere. Gli era toccato restarsene in piedi, a fare da tappezzeria…)
Gettò un altro sguardo torvo alla Holland,
prima di tornare a studiare lo schermo. “Ehi, ma si è mosso!” esclamò, nel
vedere il cosino spostarsi, come se l’aggeggio della dottoressa gli desse
fastidio.
LaGuerrero si voltò a guardarlo, gli occhi
color miele che affondavano nei suoi, quasi lo stessero soppesando. “Il feto ha
già iniziato a muoversi, ma è ancora troppo piccolo per dare fastidio alla
mamma. Tutto si è già formato, il suo cervello sta cominciando a produrre
ormoni e il suo apparato digerente è in funzione: quindi, attenzione a ciò che
mangi” disse, rivolta di nuovo alla Reyes. “Niente
bevande alcoliche, niente sostanze nocive; cerca anche di non mangiare cibo
troppo fritto: potresti avere problemi a digerirlo.”
La ragazza annuì, seria.
Dick fece una smorfia: si ricordava perfettamente di come
fosse stata male l’ultima volta che l’aveva portata a mangiare in un fastfood. (Non
sarebbe mai più stato in grado di mangiare le alette di pollo senza pensare
all’Esorcista…)
“A quanto vedo, comunque, la gravidanza sta procedendo
bene” commentò la donna, spostando ancora l’aggeggio sulla pancia “ingellata” della Reyes. “Anche il
battito cardiaco è a posto. Volete sentirlo?”
Tutti e quattro risposero affermativamente e un palpito
velocissimo si diffuse nella stanza.
Dick sentì le ginocchia cedere e con affettata
disinvoltura si appoggiò al muro alle sue spalle. (Cosino…
cuore… wow…) Con la coda dell’occhio vide la Reyes voltarsi e i loro
sguardi si incrociarono sopra la testa bionda della Holland.
Al sorriso meravigliato della ragazza rispose con uno entusiasta.
La dottoressa chiuse lo schermo e passò dei fazzolettini
alla Reyes. “Puoi rivestirti, cara. Sono contenta di poterti dire che è tutto a posto” aggiunse,
dirigendosi alla propria scrivania e tirando fuori un blocchetto per le ricette.
“Solo qualche indicazione… Ti sto prescrivendo altri controlli delle urine e il
Duo e il Tri-test. Questi ultimi sono esami che
servono per individuare eventuali anomalie cromosomiche del feto; non comportano
rischi né per te né per il bambino: si tratta solo di un prelievo di sangue.” Ciò detto, le consegnò la
prescrizione. “Ora, per quanto riguarda la nausea, mi sento piuttosto sicura
nel dirti che non è nulla di grave. Ovviamente, se dovesse persistere,
contattami subito, d’accordo? Ti scrivo anche i nomi di un antiacido per possibili
bruciori di stomaco e di una crema per rendere più elastica la tua pelle: applicala
su seno e addome per attenuare le smagliature.” Passò
alla Reyes un’altra ricetta. “Direi che, a questo
punto, possiamo vederci tra un mese e mezzo.”
“Mi scusi, ma il sesso?” domandò Dick.
“Oh, certo, dimenticavo…” mormorò tra sé laGuerrero, riposizionando gli occhiali
sulla radice del naso con fare professionale. “Visto che il rischio di aborto si
è ridotto e il feto è protetto dal liquido amniotico, potete riprendere la
vostra normale attività sessuale.”
Dick vide la
Reyes boccheggiare. “Beh, buono a
sapersi” commentò, lasciandosi scappare un sorrisetto nel vederla prendere
fuoco. Poi, però, intercettò il cipiglio tempestoso della Holland e quello scandalizzato della Parks
e tornò sobrio. “Ma veramente intendevo il sesso del bambino. Sa già se è maschio o femmina?”
“Oh. No, non siamo stati fortunati: il feto non era in una
posizione tale da poterlo determinare con esattezza. Tra la 21esima e la
23esima settimana vi prescriverò un’Ecografia Morfologica e sicuramente per
quell’epoca scopriremo se si tratta di un bimbo o di una bimba.”
“Buono a sapersi?!” ringhiò la
Holland, mollandogli un pugno sul
braccio non appena usciti dallo studio della dottoressa Guerrero.
“Cercavo solo di alleggerire l’atmosfera” mugugnò,
massaggiandosi la zona offesa.
“Te lo do io ‘alleggerire l’atmosfera’!”
lo minacciò, gettandogli un’occhiata furente. “Ma si può sapere che diavolo ci
fai qui?!”
“Sono stato invitato, esattamente come te!” replicò Dick,
cominciando a scaldarsi.
“Ehi, ragazzi: datevi una calmata. Siamo
ancora nella clinica” ricordò loro la
Parks, accennando a tutti gli sguardi
curiosi che avevano attirato. “Rachel sta finendo di parlare con la
dottoressa: non fatevi vedere mentre litigate.”
Entrambi grugnirono qualcosa e si diedero le spalle. La Parks
alzò gli occhi al cielo e si voltò per accogliere la Reyes.
“Allora? Tutto bene?”
“Sì, mi ha lasciato il suo numero di cellulare per ogni
evenienza. E il recapito di un Centro-Adozioni” aggiunse,
rivolta a Dick. “Dice che dovremmo cominciare a parlarne con i nostri genitori
e contattare il centro per…”
Smise di ascoltarla, sentendo la rabbia risalirgli in gola.
(Davvero voleva dare via il cosino? E non gli chiedeva
nemmeno cosa ne pensava?) “Magari dovresti cominciare a parlarne con me” sbottò.
Lei lo guardò sorpresa. “Ma… Ne avevamo parlato…”
“No, tu mi hai
detto che pensavi di darlo in adozione,
ma noi non ne abbiamo mai parlato.”
“Ehi, Dickson: è Rachel che deve
decidere” si intromise a muso duro la Holland.
Non ci vide più. “No, cazzo! Il bambino è mio come suo!” sbraitò, catturando nuovamente
l’attenzione dei presenti nella sala d’attesa.
“Shh!” lo zittì la Parks,
portandosi l’indice alle labbra e cominciando a spingere tutti verso l’uscita.
“Non mi sembra proprio il luogo giusto per parlare di queste cose…”
“E invece va benissimo!” Si divincolò e affrontò la Reyes,
puntandole contro un dito. “Non hai il diritto di scegliere anche per me, hai
capito?” Non si fece intenerire dagli occhi atterriti della ragazza, tuttavia
proseguì con un tono più basso: “Piuttosto mollo la scuola e mi metto a
lavorare per mantenerlo, ma non voglio darlo a estranei”.
“Oh, sì, certo: chissà che bella vita sarai in grado di
offrirgli!” sbuffò con sdegno la Holland.
Si voltò verso di lei con furia omicida. “A te non te ne deve importare niente: non sono fatti tuoi!” esclamò, controllandosi
a stento. (Poteva anche essere un bullo, ma lui non
picchiava le ragazze. Nemmeno quelle rompicoglioni come la Holland.) Strinse forte i pugni e girò
sui tacchi per proseguire verso l’uscita.
Nessuna delle tre provò a fermarlo.
Saltò la scuola, girando senza una meta per tutta la
mattina. (Se sua madre l’avesse scoperto gli avrebbe
fatto il pelo e il contropelo, ma per fortuna era piuttosto bravo a falsificare
la sua firma.) Strinse forte il volante del pick-up appena parcheggiato nel piazzale
della scuola. Era ancora nervoso e arrabbiato; così tanto che gli tremavano le
mani. Se le passò tra i capelli, tentando di calmarsi.
(Si era sentito così contento quando aveva visto il cosino
nell’ecografia e ora… Ora aveva solo voglia di spaccare la faccia a qualcuno.
Fortuna che c’era l’allenamento di football: si sentiva proprio in vena di
buttare a terra quei bestioni dei suoi compagni di squadra…)
Proprio in quell’istante un primino
ritardatario uscì in tutta fretta dall’ingresso principale. Un lento sorriso
nacque sulle labbra di Dick. Scese dall’auto, infilò le mani in tasca e
cominciò a seguire lo sfigato con gli occhiali.
La sua preda non ci mise molto a rendersi conto della sua
presenza: Dick se ne accorse perché la sua camminata divenne più tesa e
nervosa. Sogghignò, continuando a incedere senza fretta. (Che figata! Mancava il tan-tan-tan di sottofondo
e sarebbe stata uguale a una scena dello Squalo…)
Proprio quando era sul punto di raggiungerlo (sentiva già il familiare prurito
alle mani farsi più insistente), qualcuno lo agguantò per la manica del
giubbotto trascinandolo in un anfratto avvolto nella penombra.
Si girò col cuore che gli batteva forte in gola e si trovò
davanti… il sorriso sensuale di Amanda Lindsay.
“Oh, ehi” la salutò senza troppo entusiasmo, mentre il
cuore decelerava e gli occhi correvano al piazzale giusto in tempo per vedere
il primino salire in tutta fretta sull’autobus.
(Perché quella delusione? Quella era Amanda, cazzo! Chi altri voleva che
fosse?)
“Ciao, Dick” rispose lei con un tono languido che non
usava più con lui da quando si era messa con Brad. “Oggi non c’eri a scuola…”
proseguì, imbronciando le labbra.
“Sì, avevo altro da fare” replicò, sbirciando con un po’
di desiderio la bocca pronunciata.
Alzò per un attimo il sopracciglio, ma la sua espressione
ritornò subito seducente. “È un po’ che non ti fai vedere in giro… Ci sei
mancato.” Si avvicinò tanto che il suo respiro gli sfiorò una guancia. “Mi sei mancato…”
“Perché?” domandò aspro, nonostante un brivido caldo gli
fosse appena sceso lungo la schiena. (La sua vicinanza
gli faceva ancora quell’effetto.) “Non avevi nessun altro a cui ricordare che nessuno
è degno di leccarti la suola delle scarpe?”
Amanda si irrigidì. “Pensi questo di me?”
“Se penso che tu sia una stronza che non si fa problemi a
calpestare la gente? Assolutamente sì.”
“È per questo, allora, che anche tu scodinzoli attorno a
quella puttanella della Reyes? Perché lei sì che è
una brava ragazza, vero?”
A Dick non piacque il disprezzo nella sua voce. “Cosa
c’entra la Reyes
adesso? Stavamo parlando di te.”
“Ecco, appunto: allora guardami!”
Lo chiese con una tale disperazione, che le parole seguenti
gli uscirono in un mormorio: “Ma io ti sto guardando”.
Gli occhi azzurri di Amanda gli scrutarono il volto seri e
angosciati; poi, senza preavviso, la cheerleader lo prese per il bavero della
camicia e fece cozzare le loro bocche in un bacio intenso e furioso. Dick
rispose con uguale fervore (era arrabbiato, eccitato e stanco di pensare),
toccando e mordendo in una spietata lotta per la supremazia.
Per un attimo pensò di chiederle cosa l’avesse spinta di
nuovo tra le sue braccia (Gelosia? Frustrazione? Desiderio puro e semplice?),
ma la mano di Amanda si avventurò a sud della sua cintura e a quel punto non
gliene fregava più nulla della ragione: il suo cervello non era più intasato
dai pensieri, si limitava a provare sensazioni. Qualunque fosse il motivo
dietro quell’incontro appassionato, Dick non avrebbe guardato nella bocca del
caval donato. Si limitò a baciarla con ancor più foga.
Fu l’ultimo ad arrivare nello spogliatoio, già sudato e
accaldato ancor prima di cominciare l’allenamento.
Aprì l’armadietto dove teneva la divisa della squadra e vi
lanciò dentro la giacca, seguita un secondo più tardi dalla maglietta
appallottolata. Stava slacciandosi la cintura, quando il suo armadietto venne
richiuso di scatto, facendolo sobbalzare.
Brad avanzò di un passo, la mano ancora appoggiata
all’anta metallica. Aveva un brillio minaccioso negli occhi scuri. “Dov’eri?”
La sua mente corse a pochi minuti prima, al respiro
affannato di Amanda che si mischiava al suo, alla fronte di lei appoggiata
sulla sua spalla. “Non sono affari tuoi.”
Brad contrasse la mandibola e tirò un pugno
all’armadietto. “Certo che lo sono! Ti stai immischiando con la ragazza
sbagliata, Dick.”
Ebbe un tuffo al cuore. (Brad
sapeva di lui e Amanda?) La mano gelida del senso di colpa gli occluse lo
stomaco: nonostante nell’ultimo periodo i loro rapporti si fossero molto raffreddati,
Brad era il suo migliore amico e lui era appena stato con la sua donna. “Senti,
ha cominciato lei: io l’ho solo assecondata.”
“Stronzate!” ringhiò l’altro. “Non è proprio il tipo che
verrebbe a cercare uno come te.”
Il senso di colpa sparì veloce com’era arrivato. “Uno come me?! Perché chi sono io, Brad,
eh?”
“Sei uno che non prende mai niente sul serio e lei non ha
bisogno di questo. Soprattutto adesso!”
“Oh, sta’ tranquillo! Ne ha bisogno, ne ha bisogno eccome.
Forse perché tu non riesci a essere all’altezza!”
Brad strinse le labbra, le narici che fremevano di rabbia.
“Può darsi, ma tu devi starle alla larga, sono stato chiaro?”
“Ops, mi
dispiace, amico.
È troppo tardi” disse con un sogghigno che la diceva lunga su
quanto fosse dispiaciuto.
“Lo so. Ho visto”
replicò Brad con una smorfia di biasimo.
Dick impallidì, suo malgrado. “Hai visto?!”
Brad aprì il proprio armadietto e gli sbatté sul petto un
foglio. “Non mi interessa cosa ti sei messo in testa: lei non la devi nemmeno
pensare.”
Dick squadrò l’immagine in bianco e nero. Era l’ecografia
del cosino. Con appiccicato un post-it, dove era stato
scribacchiato “Mi dispiace. Ne possiamo parlare?”. Tornò a guardare
Brad, confuso. “Ma di chi diavolo stiamo parlando?”
“Di Rachel, ovviamente!”
“Della Reyes? Io pensavo
parlassimo di Amanda!”
“Cosa c’entra Amanda?” chiese perplesso Brad, nello stesso
momento in cui Dick sbottava furioso: “Starle alla larga? Ma chi ti credi di
essere?!”
“Chi ti credi di essere tu?!”
ribatté Brad, tornando alla sua arringa.
“IO SONO IL PADRE!” ruggì, sentendo il sangue ribollire
per la rabbia. (Prima l’adozione e ora questo?! Era
davvero troppo!)
Stavolta fu Brad a impallidire. “Tu sei cosa?”
“Ricordi la festa dove ti sei
messo con la ragazza che piaceva a me? Beh, io e la
Reyes abbiamo fatto sesso. Proprio così, Hurst: ho fatto sesso con
la tua preziosa Reyes” aggiunse con sadica
soddisfazione, non aspettandosi certo il pugno che gli arrivò in risposta.
La violenza del colpo lo costrinse a fare qualche passo all’indietro.
Ma non ebbe il tempo di reagire perché Brad, con un urlo animalesco, gli si
avventò contro, facendolo cadere per terra.
Rotolarono tra le panche, colpendo ogni parte scoperta
dell’avversario. Dick era in svantaggio, visto che Brad aveva indosso la divisa
mentre lui era a torso nudo, ma non per questo tentò di ritrarsi dallo scontro:
aveva talmente tanta collera in corpo che darle di santa ragione al suo
migliore amico era quanto di meglio potesse chiedere quel giorno.
“Come. Hai. Potuto?!” inveì Brad
sopra di lui, percuotendogli il costato.
Con un colpo di reni, invertì le loro posizioni. “Non c’era
il tuo nome scritto sopra” replicò, imprimendo con forza le nocche sullo zigomo
dell’altro. Ma prima di poterci riuscire una seconda volta, cinque loro
compagni di football, incitati dal coach, intervennero per dividerli.
Dopo una gran bella strigliata su civiltà, rispetto e
spirito di squadra (che né lui né Brad avevano ascoltato, impegnati com’erano a
guardarsi in cagnesco e a esaminare con compiacimento i danni assestati
all’avversario), il coach ordinò che facessero di corsa duecento giri del campo
e, se avessero avuto ancora fiato, i raccattapalle fino alla fine
dell’allenamento.
“Sissignore…” borbottò, facendo per infilare il casco. Nel
sorpassarlo per uscire, Brad gli diede una forte spallata che glielo fece
sfuggire di mano. Dick si trattenne a stento dal rincorrerlo per dargli
un’altra lezione. Prese un gran respiro e si chinò per raccogliere il casco. (Grazie a Dio quella giornata di merda era praticamente
finita. Ci mancava solo che succedesse qualcos’altro…)
E così Dick cominciò a fare il primo dei suoi duecento
giri di corsa, del tutto ignaro che quello sventurato venerdì era ben lungi
dall’aver raggiunto la sua conclusione…
Commenti:
Ebbene sì, sono ancora viva!^^’ So di essere
non in ritardo, ma in super-iper-ritardo, però spero
che mi perdonerete visto che in questo mese e mezzo circa ho finito tutti gli
esami che mi mancavano e finalmente mi laureerò a fine marzo!!
^O^
Per questo, purtroppo, non ho avuto molto
tempo da dedicare a questo capitolo, che è rimasto a prendere polvere per più
di un mese prima che riuscissi a riprenderlo in mano e a concluderlo. Mi
perdonate?
Ringrazio davvero di cuore chi mi ha
lasciato una recensione per lo scorso capitolo, ovvero Gea_Kristh, marty15, Nickyley,
Iris_colurs,
Emily Doyle,
Valentina78, Lucille_Arcobaleno, Korat e Mirya, a cui tra
l’altro devo ancora rispondere, ma giuro che dopo aver postato il capitolo filo
a ringraziarvi come si deve!^^
Spero che sarete così gentili da dirmi cosa
ne pensate anche di questo capitolo, la cui seconda parte sarà pubblicata lunedì 28 febbraio. Cascasse il mondo!
Ringrazio moltissimo anche chi ha aggiunto
questa storia ai preferiti, chi la sta seguendo e chi si è semplicemente fermato
a dare un’occhiata.
Allora, buona serata a tutte, e oltre agli
auguri di San Valentino, vi faccio (in ritardo) anche quelli di Buon Anno!
Spero che il vostro 2011 vi porti molta più gioia di quanta
ne abbia dispensata a me il 2010!^^
Capitolo 9 *** ... prima della tempesta (parte seconda) ***
9
Sì, sono tornata! Non
è un pesce d’aprile!^^
9
~ … prima della tempesta ~
(parte seconda)
Le sembrava di stare seduta sui carboni ardenti.
La cena era quasi giunta alla sua conclusione e Rachel era
così tesa da avere la nausea. Continuava a punzecchiare il cibo nel piatto,
prestando un orecchio distratto alla conversazione tra i suoi genitori.
La sua testa era un groviglio di pensieri, che ruotavano
vorticosamente attorno a due fulcri: Dick e il Centro-Adozioni.
Si sentiva malissimo per quello che era successo in
clinica, nonostante Lula le avesse proibito di
sentirsi in colpa. “Sei tu che devi portarlo in pancia per nove mesi” le aveva
detto. “È sacrosanto che sia tu a decidere.” Ma Rachel si sentiva orribile lo
stesso, soprattutto perché si era ripromessa di rendere Dick partecipe e, invece,
aveva dato per scontato che lui approvasse la scelta di dare il Fagiolino in
adozione.
Le si strinse la bocca dello stomaco.
Fino a quella mattina era convinta di quello che stava
facendo: darlo in adozione significava garantirgli una vita migliore di quella
che avrebbero potuto offrirgli due genitori ancora nel pieno dell’adolescenza.
A essere
completamente sincere, però, prediligevi questa scelta perché è una gran bella
scappatoia: avevi intenzione di spararlo fuori, metterlo in mano a qualcuno e
scappare nel college più lontano possibile, pronta a dimenticarti tutto e
ricominciare da zero.
Si lasciò sfuggire un gemito: era
davvero una persona orribile. Orribile, orribile, orribile…
“Tesoro? Va tutto
bene?” le chiese sua madre, guardandola un po’ preoccupata. Anche suo
padre si voltò a osservarla, le spesse sopracciglia
lievemente aggrottate.
L’ansia le serrò la gola.
Con calma, Rachel.
Non hanno ancora finito il dolce e tu non sei nello stato d’animo giusto per
affrontare questo discorso: lascia perdere per stasera e…
“Sono incinta” proruppe, prima di potersi fermare.
… Come non detto.
Gli occhi di sua madre si spalancarono talmente tanto che
per la prima volta comprese il vero significato di “occhi fuori dalle orbite”. Suo
padre rimase impassibile e silenzioso per quasi un minuto d’orologio, durante
il quale Rachel si torse le mani fino a farsi male.
“È uno scherzo, Rachel? Perché non lo
trovo divertente” disse, infine, Jonathan Reyes.
Rachel non ce la fece a reggere lo sguardo accusatore di
quegli occhi scuri. Scosse lentamente la testa, sussurrando con un filo di
voce: “No”.
Sentì sua madre trattenere il fiato.
Un altro minuto di tensione, tanto densa che si poteva
tagliare col coltello. Rachel azzardò un’occhiata ai suoi genitori. Suo padre
aveva le labbra così tese che sparivano del tutto
sotto la fitta barba sale e pepe. Sua madre era pallida e boccheggiante.
A sorpresa, fu quest’ultima a prendere la parola. “Non
sapevamo che avessi un ragazzo…”
Rachel avvampò per la vergogna. “Io non… non ho un
ragazzo.” Le sembrò che le andassero a fuoco le orecchie mentre lo diceva.
“Ah!” sbottò suo padre, inspirando dal naso con tanta
veemenza che le narici sbiancarono.
“M-Ma non è come credi…” tentò
di spiegarsi lei, venendo interrotta da un gesto perentorio del padre.
“Non dire più nulla. È esattamente come credo,
invece. E non voglio sentirti dire altro stasera” disse, col
tono di voce di chi si sta trattenendo a malapena dall’esplodere.
Basta così. Non
peggiorare la situazione.
Però Rachel voleva spiegarsi, non voleva che i suoi la
credessero una poco di buono. “È stato uno sbaglio, papà. È vero:
sono stata una stupida, però…”
“Non voglio sentire un’altra parola, dannazione! Non sei
stata solo stupida: ti sei rovinata la vita, Rachel,
lo capisci?!” tuonò Jonathan Reyes, alzandosi in
piedi di scatto. Il suo viso era paonazzo e gli occhi lucidi. “Mi hai deluso in
un modo che non credevo possibile…”
Il tono più quieto e amaro con cui disse quelle parole le
fece arrivare una per una come stilettate nel cuore.
Sua madre si morse il labbro inferiore. Posò una mano sul
braccio del marito. “John…” pronunciò il suo nome, mentre con gli occhi lo
pregava di calmarsi.
“Niente ‘John’, Nora!” proruppe l’uomo, ormai un fiume in
piena. “Ho messo al mondo due figli: se avessi saputo che mi avrebbero dato
soltanto dispiaceri, avrei evitato! Avevo tanti progetti per loro… Tra lei e Julian non so chi sia il fallimento più grande!”
“Questo non è giusto!” sbottò a sua volta Rachel,
alzandosi dalla tavola con rabbia. “Julian ha solo
seguito il suo sogno!”
“Non farmi neanche cominciare con tuo fratello! Non ha
nemmeno avuto il coraggio di dirmi quello che doveva in faccia: si è limitato a
non tornare!”
“Forse se tu non fossi così rigido e provassi ad ascoltare
opinioni diverse dalle tue…!”
“Come ti permetti di venire a dirmi come mi devo
comportare dopo che ti sei fatta mettere incinta da uno che non è neanche il
tuo ragazzo! Pensavo di avere toccato il fondo con Julian,
ma con te è anche peggio! Siete una vergogna: non voglio più avere niente a che
fare con voi!”
Le si bloccò il fiato in gola, mentre le si riempivano gli
occhi di lacrime.
Un pugno venne sbattuto sulla tavola. Anche sua madre ora
era in piedi. “Adesso basta!” esclamò, guardandoli adirata. “Non ho intenzione
di permettervi di dire ancora qualcosa di cui vi pentirete domani mattina. Ora,
Rachel, va’ in camera tua: io e tuo padre dobbiamo parlare.”
Tentennò, aprendo un’altra volta la bocca per ribattere.
Da’ retta a tua
madre, avanti.
Si morse forte le labbra e uscì dalla sala da pranzo. Fece
di corsa le scale che conducevano al piano superiore della bella villetta di
proprietà dei suoi, entrò in camera sua, si chiuse la porta alle spalle e vi si
appoggiò, lasciandosi scivolare a terra. Premendosi i palmi sulle palpebre, si
lasciò andare a un pianto disperato.
Le lacrime rotolavano bollenti sulle guance, mentre si
prendeva la testa tra le mani e si raggomitolava su se stessa. Le si tappò
quasi subito il naso, così il respiro le uscì dalla bocca, rotto dai
singhiozzi. Dopo un paio di minuti, sentì il mal di testa farsi strada dalle
tempie agli zigomi, risalendo poi il contorno delle sopracciglia. Facendo dei
profondi respiri, diminuì l’intensità del pianto e nell’oscurità gattonò alla
ricerca di un fazzoletto con cui soffiarsi il naso. Non ne trovò sul comodino e
fu costretta ad alzarsi per prendere quelli che teneva in bagno.
Ancora scossa da sporadici singhiozzi e con la testa
pulsante, lanciò un’occhiata al proprio riflesso: l’impietosa luce artificiale
sottolineava con beffarda crudeltà naso e occhi, entrambi gonfi e rossi. Come sempre
vedersi ridotta in quello stato ebbe un effetto calmante su di lei: l’ultima
lacrima appesa alle ciglia cadde sulla guancia, lasciandole gli occhi
finalmente asciutti.
Dal piano di sotto giunsero le voci concitate dei suoi
genitori. Non riusciva a capire le parole, ma i toni erano accesi.
È colpa tua, lo sai?
Avresti anche potuto usare la testa e dirlo in un modo meno traumatico.
Sbuffò dal naso, tamponandoselo con un fazzoletto. Esisteva
davvero un modo meno traumatico di dire ai suoi che aspettava un bambino?
E, comunque, suo padre aveva reagito ancora una volta in
modo esagerato.
Lo sai che è fatto
così. Si arrabbia così tanto perché vi vuole bene e vorrebbe il meglio per voi.
Sì, questo era quello che diceva sua madre. Lei non aveva
mai sentito la bocca di suo padre pronunciare quelle parole. A questo punto
cominciava a dubitarne.
Beh, non è che gli
hai dato la notizia del secolo. Come ti aspettavi che reagisse? Che ti
abbracciasse e ti dicesse: “Brava, ben fatto!”?
Sospirò e si sdraiò sul materasso, carezzandosi
distrattamente il basso ventre. Il Fagiolino era lì, immerso nel liquido
amniotico, beatamente ignaro dello scompiglio che aveva provocato. Rachel si rannicchiò
in posizione fetale, coprendosi la testa con un cuscino, e provò a immaginare
cosa volesse dire passare tutta la giornata dentro una sacca d’acqua, con
l’unica preoccupazione di mangiare ed espletare i propri bisogni. Niente
scuola, niente genitori arrabbiati, niente litigi con Dick…
“Sei fortunato a stare lì dentro, tu” mormorò, continuando
a disegnare piccoli cerchi sotto l’ombelico.
Sentì passi sulle scale e le voci dei suoi farsi sempre
più vicine.
“… John! Dormici su e riparliamone domani mattina.”
“Dormirci su? Dormici
su?! Ma ti sei bevuta il cervello, Nora? Come puoi
anche solo pensare che io riesca a chiudere occhio stanotte?!
Dopo quello che ha combinato quella… quella… Ah! Non so nemmeno come chiamarla!”
“Tua figlia.”
“No, Nora. Io non ho più figli: sono stanco di essere
deluso.”
Rachel si irrigidì, bloccando la mano a metà di un
cerchio. Un prurito al naso le preannunciò l’arrivo di nuove lacrime, ma batté
più volte le palpebre per non farle cadere. Anche quando le voci dei suoi si
allontanarono per poi spegnersi dietro la pesante porta in legno della loro
camera, rimase sdraiata su un fianco a guardare il nulla.
Aveva passato tutta la vita a cercare di compiacere suo
padre in ogni modo e questo era il risultato? Uno solo
errore, per quanto grosso, cancellava tutti quegli anni dedicati a farlo
contento?
Sai che non è così:
è solo arrabbiato. Dice cose che non pensa veramente.
Il cuore batteva rapido, propagando un dolore sordo in
tutto il petto. Si mise a sedere, socchiudendo per un attimo gli occhi. Quando
li riaprì qualche istante più tardi, aveva preso una decisione. Si chinò per
prendere la borsa da viaggio, lanciata sotto il letto una domenica in cui le
era venuta la stramba idea di mettere in ordine la sua stanza, e poi si diresse
verso l’armadio.
Oh, ti prego, Rachel! Cosa pensi di risolvere in questo modo?
Probabilmente niente, si disse, iniziando a mettere sul
fondo della borsa alcuni cambi di biancheria. Ma non poteva stare in quella
casa un secondo di più. Suo padre non la considerava più come figlia?
Benissimo: non l’avrebbe più avuta in mezzo ai piedi.
Sei pazzesca: da
quando sei incinta ragioni come una mocciosa di dodici anni.
Una volta messi dentro i pantaloni, proseguì con
magliette e felpe. Dodici anni? Beh, visto che non si era mai comportata in
modo irrazionale e impulsivo quando era più piccola, forse era giunto il
momento di recuperare il tempo perduto.
Infilò nella borsa un altro paio di scarpe e il
beauty-case recuperato dal bagno e richiuse la zip con
fare deciso. Prese lo zaino, vi cacciò dentro qualche libro di scuola e
qualcuno di lettura, assieme al portafogli, i-pod,
cellulare con caricabatteria e documenti d’identità. Andò alla scrivania e aprì
un paio di cassetti. Frugò tra le varie cianfrusaglie e tirò fuori un
portatessere: all’interno, la carta di credito che le avevano regalato i suoi
genitori e dove aveva diligentemente versato tutti i soldi guadagnati nei due
anni in cui aveva lavorato al Bookworm. Se la rigirò per un attimo tra le mani.
Sei sicura che sia
la scelta giusta?
Non lo sapeva. Sapeva solo che doveva andarsene da lì. E
poi non vedeva Julian da moltissimo tempo.
Indossò il giaccone e si voltò verso la finestra, fissando
determinata i rami dell’albero che arrivavano quasi al suo davanzale. Ripensò a
tutte le volte che li aveva guardati e aveva immaginato di scivolare giù, fino
al prato che suo padre curava in modo quasi maniacale. Ora avrebbe finalmente
scoperto cosa si provava a farlo sul serio.
Si mosse sicura per la stanza alla ricerca di tutto il
necessario, come se avesse pianificato tutto da tempo. Alzò il coperchio del
cesto di vimini pieno dei suoi giochi di bambina, vi infilò la mano e la tirò
fuori un secondo più tardi, stringendo tra le dita la vecchia corda per saltare.
Ne controllò la lunghezza e poi la legò senza esitazione alle maniglie del
borsone.
Aprì la finestra, venendo investita dal vento gelido della
sera. Appoggiò l’improvvisato bagaglio sul davanzale e, tenendo saldamente la
corda con una mano, cominciò a calarlo con cautela. Nonostante la corda fosse
molto lunga, non arrivava fino a terra; così, dopo aver contato fino a tre,
Rachel lasciò andare l’estremità che aveva tenuto tra le dita, facendo
atterrare con un lieve tonfo la borsa sul prato.
Rimase immobile, tendendo le orecchie. Nessun passo, né
voce: i suoi non si erano accorti di nulla, visto che la loro finestra dava sul
lato opposto del giardino. Si voltò del tutto verso la porta della sua stanza,
per un attimo sperando che qualcuno entrasse per fermarla. Ma la maniglia
rimase ferma.
Tirò su col naso e con un gesto risoluto si mise lo zaino
in spalla. Con cautela scavalcò la finestra, appoggiando bene i piedi sulle
tegole. Il cuore le batteva fortissimo in gola mentre sedeva sul davanzale,
lacerata tra il desiderio di andare e il terrore di stare per affrontare un
cambiamento troppo grande per lei.
Forse niente sarà
più come prima, Rachel. Te la senti per davvero?
Lasciò andare la cornice della finestra che aveva
artigliato e si aggrappò al ramo più robusto. Non si diede il tempo di pensare
ulteriormente, perché di certo si sarebbe convinta a riappoggiare i piedi sul
fermo pavimento della sua stanza, invece che lasciarli penzolare a mezz’aria.
Si concentrò sulla ruvida corteccia che sentiva sotto le mani e sulle gocce di
sudore che le colavano lente lungo la schiena, mentre avanzava con fatica verso
il tronco. Una volta raggiunto, si dondolò per darsi una spinta e arrivare a
cingerlo con le gambe. Da lì cominciò la sua cauta discesa a terra.
Ce l’aveva fatta, pensò, quando appoggiò un piede sul
prato. Sentiva il battito cardiaco nelle orecchie, aveva i palmi delle mani
rossi e graffiati ed era accaldata come se avesse corso una maratona, ma ce
l’aveva fatta. Per un attimo si sentì in cima al mondo, leggera ed euforica.
Poi, però, lanciò uno sguardo verso l’alto, verso la sua finestra buia, e sentì
le ginocchia cederle di fronte all’enormità del suo gesto. Ma ormai la
decisione era presa. Deglutì il groppo in gola e si impose di camminare verso
il borsone. Lo sollevò e, passo dopo passo, si allontanò dalla casa che era
stata il centro di tutta la sua esistenza.
Ogni metro che percorreva era più difficile da macinare
del precedente: si sentiva strana e morsa dai sensi di colpa per non aver
lasciato nemmeno una nota che spiegasse la sua fuga.
Puoi sempre tornare
indietro: non è ancora troppo tardi.
Per un attimo vacillò e rallentò l’andatura fino a
fermarsi; ma poi scosse la testa e riprese la sua metodica marcia verso la
stazione dei bus. Mettendo un piede dopo l’altro poteva arrivare fino in Cina,
ma lei voleva fermarsi prima: a Londra, da suo fratello. Sarebbe andata in
aeroporto e avrebbe preso il primo volo disponibile per l’Europa.
Ecco, magari però
non è il caso di comparirgli sullo zerbino di casa e gridare: “Sorpresa!”. Non credi,Rach?
Frugò nella tasca dello zaino, alla ricerca del cellulare.
Compose il numero continuando a camminare. Julian
rispose solo al sesto squillo. “Pronto?” biascicò con voce impastata di sonno e
irritazione. “Pronto? Ma chi è che chiama a quest’ora?!”
Ops. Dovevano essere le primissime
ore del mattino a Londra. “Ciao, Jule!” lo salutò con
voce il più allegra possibile. “Ti ho, ehm,
svegliato?”
“Rachel?” esclamò lui, sorpreso e decisamente più sveglio.
Si esibì in un perfetto grugnito. “Spero tu abbia un’ottima ragione per avermi fatto
alzare a quest’ora assurda…”
“‘Sono appena scappata di casa’ è una ragione
accettabile?”
“Che cosa?!Ma
che è successo?”
“Ho avuto una discussione con mamma e papà e me ne sono andata.”
“Mi prendi in giro?”
“No, sono dannatamente seria: ho aperto la finestra e ho
usato il vecchio platano per scendere.” Nessun rumore dall’altro capo del
telefono. “Ci sei ancora, Jule?”
“Io… Io non ci posso credere… La mia sorellina che scappa
di casa…” Fece una pausa, come per assaggiare il gusto delle parole in bocca.
Poi scoppiò in una breve risata incredula. “E dire che quando ti ho lasciata
eri tu quella responsabile!”
Rachel fece una smorfia, decidendo di togliersi subito il
dente. “Beh, se fossi veramente responsabile ora non sarei incinta.”
“Tu sei cosa?!” bisbigliò Julian, colto alla sprovvista.
“Incinta. E in procinto di prendere un aereo per venire a
trovarti.” Un suono simile a un respiro strozzato attraversò l’etere. “Oh, Jule, ti prego! Lo so che sono tante notizie da assimilare nel
giro di due minuti, ma ho davvero bisogno di poter stare da te un po’: mi serve
un posto lontano da tutto per poter riflettere con calma! Per
favore…”
“Rachel…” Emise un sospiro secco e Rachel se lo immaginò
benissimo mentre passeggiava in tondo, massaggiandosi la fronte, come faceva
ogni volta che aveva a che fare con un grattacapo. “Ma che razza di casino hai
combinato? Hai solo diciassette anni…”
“Lo so! È per questo
che ti sto chiedendo aiuto!” La voce le uscì incrinata.
“Ma io non posso aiutarti! Come puoi
anche solo pensare che scappare sia la soluzione del problema?”
“Per te ha funzionato bene, mi pare” ribatté,
irrigidendosi.
“Non dire scemenze: sai che non è la stessa cosa.” Anche
la voce di Julian suonava più irritata. “Tu adesso te
ne torni a casa, parli con mamma e papà e…”
“Io non posso tornare a casa!” sbottò.
“Non fare la melodrammatica, adesso! Sono sicuro che se
affronterete la questione con calma…”
“Già, come hai fatto tu quando hai detto a papà che te ne andavi
a Londra a fare l’attore, vero?” esclamò sarcastica Rachel, zittendolo. “Grazie
di nulla, Julian. Sta’ pur certo che non ti chiederò
mai più un favore in vita mia!”
“No, Rachel, aspet…!”
Chiuse la comunicazione, sentendosi fremere per la rabbia.
Il telefono cominciò a vibrare un istante più tardi, facendo lampeggiare il
numero di Julian.
Non rispose né a quella né alle cinque chiamate che
seguirono. Rimase ferma, col borsone appoggiato a terra e neanche la benché
minima idea di che fare. Razionalmente capiva che quello che suo fratello le
suggeriva era giusto, ma il solo pensiero di tornare a casa le faceva
attorcigliare le viscere. Aveva bisogno di un rifugio dove poter metabolizzare
quello che era successo e sapeva – se lo sentiva nello stomaco – che in quel
momento casa sua non era il posto giusto.
I minuti scorrevano veloci. Di certo Julian
aveva avvertito i suoi genitori e il primo posto dove l’avrebbero cercata era
proprio la stazione degli autobus. Doveva trovare una soluzione alternativa.
Tuttavia, le alternative non erano molte: stare da Cora
era fuori discussione – i suoi erano un po’ bigotti e non avrebbero accettato
di ospitare una ragazza incinta – e Lula aveva già a
che fare con un ospite indesiderato. Che fare? Aveva bisogno d’aiuto, ma a chi
chiedere?
Un nome si fece strada nella sua mente. Rachel si strinse
al petto il cellulare, indecisa sul da farsi. Chiamare
o non chiamare? Un’occhiata all’orologio le ricordò che i tempi erano stretti.
Prendendo un gran respiro, scorse la rubrica e premette il tasto di chiamata…
Commenti:
Lo so… Lo so… -_-‘
Avevo promesso di aggiornare più di un mese
fa, cascasse il mondo, e non l’ho fatto. Il problema è che non è cascato il
mondo, ma è cascato il mio computer ed è stato un vero e proprio disastro:
tutti i file e parte della mia tesi sono andati a farsi benedire…
Riscrivere questo capitolo è stato in
pratica un parto e non so nemmeno dire se è venuto bene o male. Ci ho lavorato
a fasi alterne, scrivendolo su foglietti nei momenti in cui non lavoravo alla
tesi, per cui può darsi che non sia del tutto omogeneo. Ho voluto pubblicarlo
lo stesso, perché se continuo a tentare di limarlo non riuscirò mai ad andare
avanti con la storia. Quindi, chiedo scusa per il ritardo, e spero che il
capitolo non vi faccia troppo schifo.
Ringrazio infinitamente marty15, Nickyley,
Gea_Kristh,
ibiscus, Korat, Chiara84, Lucille_Arcobaleno, iris uniquerouge e Valentina78
per aver commentato lo scorso capitolo. Spero che anche questo vi piaccia.
Per quanto riguarda l’aggiornamento,
stavolta non vi do una data precisa. Posso promettervi, però, che l’attesa sarà
meno lunga di questa: mi sono laureata due giorni fa (evviva!) e così dovrei
riuscire a dedicare più tempo alla scrittura.