Schützengraben di Yuri_e_Momoka (/viewuser.php?uid=82965)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** First trench: Be alive ***
Capitolo 2: *** Deuxième Tranchée: La niege rouge ***
Capitolo 3: *** Dritte Graben: Geschenk ***
Capitolo 4: *** Fourth Trench: The last salvation ***
Capitolo 5: *** Cinquième Tranchée: Le petite étoil ***
Capitolo 6: *** Sechste Graben: Wahnsinn ***
Capitolo 1 *** First trench: Be alive ***
first trench
Titolo:
Schützengraben, Capitolo 1 – First Trench
Fandom:
Axis Powers Hetalia
Personaggi:
Inghilterra (Arthur Kirkland), Francia (Francis Bonnefoy), Germania (Ludwig)
Genere:
Storico, Drammatico
Rating:
Nc17, Arancione
Avvertimenti:
Yaoi, Angst, Death, AU
Parole:
4,510 con Windows Office
Disclaimer:
I personaggi della fanfiction provengono da Axis Powers Hetalia che appartiene a
Hidekaz Himaruya
Note: 1.
Questo capitolo non è da rating arancione, ma ho preferito segnalare già da
subito che, col preseguire della storia, i capitoli acquisteranno più violenza
e conterranno anche alcune scene di sesso. Inoltre vi è la presenza di
linguaggio scurrile.
2. Il contesto storico è la Prima guerra mondiale; quello geografico è
certe cittadine francesi dove si sono svolte alcune delle battaglie durante
l’invasione tedesca. Gli anni vanno dal 1914 al 1916.
3. La fiction è basata su una puntata del programma City of the Underworld: Hitler’s trench. Tuttavia per ricreare un ‘ambientazione
adatta a far quadrare questi avvenimenti romanzati ho dovuto compiere delle
ricerche e per questo ho anche dovuto prendermi qualche licenza in modo da far
svolgere tutto in maniera che la storia risultasse di gradimento. In poche
parole possono esserci alcune inesattezze storiche.
4. Non so nulla né di francese nè di tedesco (e credo di essere scadente
persino in italiano) perciò sorvolate sugli errori di traduzione.
5. Poiché è la prima volta che scriviamo in questo fandom vorremmo
specificare che, come avrete capito, condividiamo un account e anche le
fanfiction di nostra produzione, tuttavia, poiché questa proviene da una
malsana idea di Yuri, lei ha preferito parlare al singolare in modo da
assumersi la totale responsabilità delle reazioni di disgusto che questa storia
susciterà in voi :P
First Trench:
Be alive
Arras, settembre-ottobre 1914
Era
un’insignificante cittadina francese, ma si trattava comunque del luogo più
inglese che avesse mai visitato dall’inizio della guerra, e ciò gli fece
avvertire un debole calore nel petto, dopo lungo tempo trascorso al gelo.
Lasciò che gli altri soldati lo sorpassassero per godersi un istante di quel
tenue sole che scaldava la terra.
La
piazza principale della città era racchiusa in un anello di case tutte uguali,
dalle facciate rosso mattone e le falde del tetto molto spioventi, gli
architravi bianchi intaccati da mesi di conflitti e incurie.
Il
cielo mostrava timidamente una tinta
azzurra. Allora… quel colore così puro esisteva ancora, da qualche parte.
“Caporal
Maggiore Kirkland.” La voce del Maresciallo lo riportò dolorosamente coi piedi
per terra. “Avrà tempo per trastullarsi quando le truppe saranno state
alloggiate. Ora si rechi di sotto ad ascoltare le istruzioni del Maresciallo
francese.”
Arthur
annuì in silenzio e riprese a seguire gli uomini in divisa che scendevano le
anguste scale in fondo all’ambiente – quella che forse era stata una locanda,
un tempo.
Seguire
le istruzioni di un francese, pensò con stizza. Erano stati gli inglesi a
organizzare quell’operazione, erano stati loro a decidere di utilizzare quelle
cave di gesso sotterranee per attaccare di sorpresa i tedeschi. Quei mangia
baguette non erano nemmeno stati in grado di mettere insieme un piano per
sfruttare a proprio vantaggio il loro territorio. Avevano la fortuna di avere,
nascosta sotto terra, la chiave per vincere la battaglia – e, perché no, magari
anche per rimandare a casa quei maledetti crucchi – e invece che darsi da fare
ci avevano costruito sopra un ristorante.
La
stanza sotterranea in cui giunse poco dopo si rivelò meno affollata del
previsto; probabilmente avevano organizzato la sistemazione dei soldati in
diversi gruppi – sicuramente era stata un’idea inglese.
Qualcuno
stava già parlando, davanti a tutti. Arthur sospirò. Lui era un Caporal
Maggiore: praticamente niente. Ecco perché se ne doveva stare dietro a tutti ad
allungare il collo per cercare di capire chi fosse a parlare. In ogni caso non
dovette sforzarsi troppo per intuire che il discorso provenisse dalla bocca di
un francese: l’accento e il fastidioso modo in cui lasciava scivolare via le
parole in un inglese appena accettabile erano inconfondibili. Dato che erano
venuti in loro soccorso potevano almeno sforzarsi di imparare decentemente la
loro lingua.
Ed
ecco apparire, tra una testa e l’altra dei suoi compagni d’armi, il
Maresciallo. Che diamine, e quello avrebbe dovuto essere un soldato? Sembrava
più un parrucchiere. Come si faceva a tenere dei capelli come quelli in periodo
di guerra? I suoi erano sempre secchi e spettinati, e di certo non era uno che
non tenesse alla sua persona! Ma in un momento del genere chi aveva il tempo o
i mezzi per stare a sistemarsi i capelli o a radersi quel ridicolo pizzetto?
Ci
volle meno di un istante per fargli destinare quel francese a una delle sue
categorie mentali: incompetente.
Gli
era del tutto passata la voglia di ascoltare le chiacchiere del soldato, ma se
poi il suo Maresciallo fosse saltato fuori a richiedere
un resoconto delle istruzioni, ribadendo improvvisamente il suo inutile titolo
di Caporal Maggiore, allora sarebbero stati guai e avrebbe perduto anche quello
sputo di prestigio che si era guadagnato. Così si costrinse ad ascoltare quella
che sperava fosse la fine di quell’interminabile sproloquio.
“Occuperete
la parte oscidentale delle gallerie
che stanno ultimando si essere scavate in questi giorni. La sistemasione dei giacigli è a vostra discresione, a patto che rimaniate nella
zona assegnata. A partire da oggi inisieranno
ad arrivare altri vostri connasionali,
pertonto è obbligatorio mantenere
l’ordine e la disciplina. E’ tutto. Au revoir!”
Arthur
strinse il proprio fucile con entrambe le mani per evitare di imprecare. Che
razza di modo era quello di congedare le truppe! Inaudito. E poi lo sapevano tutti
che erano gli inglesi a coordinare lo scavo delle gallerie. Poco importava se a
lavorare erano i neozelandesi. Facevano comunque parte del territorio
britannico.
Il
rumore prodotto dallo spostamento degli uomini gli impedì di arrivare a pensare
a insulti peggiori. Si decise ad evitare totalmente quella sorta di
“Maresciallo”.
Si
mise in coda per raggiungere gli alloggi. Quelle gallerie non erano per niente
accoglienti e l’idea di doverci trascorrere dentro un tempo indeterminato –
settimane, mesi! – lo metteva parecchio a disagio.
“Caporal
Maggiore!” Arthur sospirò pesantemente. Il suo Maresciallo gli si avvicinò non
appena lui si fu girato e gli ebbe rivolto il saluto militare.
“Agli
ordini” disse, forse con un tono non sufficientemente convinto.
“Voglio
subito un aggiornamento su tutti i plotoni di cui è programmato l’arrivo ad
Arras. Di quanti uomini si tratta e per che giorno è previsto il loro arrivo.
Inoltre, raccolte tutte queste informazioni, dovrà andare a riferirle
direttamente al Maresciallo Bonnefoy.”
Arthur
guardò altrove per un istante, per evitare di rivolgere al suo superiore
un’occhiataccia. Bonnefoy… persino il nome ricordava tutto fuorché quello di
una persona affidabile. Non riusciva proprio a scacciare dalla mente l’immagine
di quel cicisbeo che acconciava i capelli alle signore.
“Signorsì,
signore” fu costretto a rispondere. Ovviamente non era possibile che l’unico
proposito di quella giornata – mantenersi alla massima distanza possibile da
quell’individuo ambiguo – potesse essere portato semplicemente a compimento.
Andando
avanti e indietro per raccogliere le informazioni che gli erano state
richieste, Arthur ebbe modo di conoscere, almeno in parte, la zona d’entrata
dei tunnel. Si estendevano ovunque, i neozelandesi avevano dotato gli incroci
di segnali che riportavano il nome di località del loro Paese per riuscire a
orientarsi. Dopotutto quello era un lavoro enorme: i tunnel si sarebbero
protesi lungo tutta la terra di nessuno,
fino ad arrivare in faccia ai tedeschi. Quei crucchi… avrebbero pagato
duramente la loro arroganza.
Ora
che aveva raccolto tutte le informazioni che gli servivano, lo attendeva il
compito più difficile.
“Devo
fare rapporto al Maresciallo” annunciò a un soldato francese evitando
accuratamente di comunicare quel nome che non ricordava già più. Probabilmente
l’uomo non sapeva pronunciare una sola parola in inglese, perché si limitò a
indicare oltre la sua spalla sinistra.
Trovò
il “parrucchiere” seduto coi piedi su una vecchia scrivania in quella che
sembrava in tutto e per tutto una grotta – c’erano persino delle sottili
stalattiti sul soffitto che la luce di una lanterna illuminava di un giallo
cupo.
“Dis
moi, soldat” fu la prima frase che quell’individuo gli
rivolse. Davvero incoraggiante.
Arthur
non si sforzò di eseguire un saluto militare convinto. “Sono inglese. E sono un
Caporal Maggiore.”
“Oui, oui. Lo so. Voi inglesi siete
riconoscibili a chilometri di distanza.”
Sapere
a cosa si stava riferendo gli avrebbe solo fatto saltare i nervi, per cui
Arthur strinse i denti e andò avanti.
“Ho i
dati sugli arrivi delle altre truppe” disse piazzando i fogli sulla scrivania
senza troppa grazia.
“Vedo”
fu ciò che replicò il francese, fissandoli. Davvero molto acuto. “Merci, Caporale. So che il vostro non è
stato un viaggio breve, quindi se vuole posso farle strada fino al suo
alloggio.”
Arthur
inarcò un sopracciglio. “Mi pareva di aver capito che la sistemazione era a
discrezione di ogni uomo.”
“Scertamente, ma poiché si è attardato a
svolgere il suo dovere ho provveduto io ad assegnarle una sistemazione per la
notte. Prego, mi segua.”
Sinceramente
Arthur non vedeva l’ora di lasciar giù quello zaino che si portava dietro da
giorni, ma l’invito del Maresciallo aveva lasciato in lui un inspiegabile
disagio.
Mentre
lo seguiva, il francese riprese a blaterare. “Vuole sapere perché gli inglesi
sono così riconoscibili?”
No, avrebbe prontamente risposto Arthur se
non si fosse ricordato all’ultimo momento della distanza di grado che c’era tra
i due. Tacque, ma per l’altro questo non rappresentò un problema.
“Perché
avete sempre l’aria di chi si è appena scottato la lingua con del tè bollente,
ma fa di tutto per mantenere il controllo.”
Arthur
strinse i pugni. Decise che per una volta avrebbe fatto un favore ai tedeschi e
avrebbe risparmiato loro la fatica di ammazzarlo.
“Voi
francesi date sempre l’impressione di avere una piuma nelle mutande che vi
solletica il culo.”
Il
Maresciallo si voltò con un’espressione che Arthur non focalizzò – poiché
continuava a fissare deciso di fronte a sé – ma che si divertiva a immaginare.
Il
babbeo non impiegò molto a interrompere il silenzio che era calato con una
fastidiosa risatina.
“Voi
inglesi! Adoro sempliscemonte il
vostro humour!”
Si
fermarono di fronte a una pesante porta che si apriva su una stanza non troppo
spaziosa. Il soffitto era a botte e i letti a castello erano allineati lungo le
due pareti più lunghe.
Arthur
notò subito qualcosa di strano.
“Perché
i letti sono così grandi?”
L’altro
lo guardò come se avesse fatto la più idiota delle domande. “Ma è ovvio, perché
sono doppi. E’ per risparmiare spazio.”
Arthur
sbuffò. Solo i francesi potevano inventarsi una scusa simile per dormire tutti
ammassati in una grotta. Si avvicinò a quello che il Maresciallo aveva indicato
come il suo letto.
“E’
già occupato da qualcuno” notò Arthur, senza troppo entusiasmo.
“Oui, da me!”
Lo
zaino che Arthur si stava accingendo a togliere gli scivolò dalle mani e
precipitò a terra con un tonfo e un rumore di pentolame. Perché diamine aveva
lasciato il suo fucile all’armeria! L’avrebbe ammazzato con un solo colpo e
nessuno ne avrebbe sentito la mancanza!
“WHAT THE..!”
“Si
ritenga fortunato, Caporale. Dormirà negli alloggi dei Sottufficiali, nonostante
il suo infimo grado.” Rise. Ma come aveva fatto a sfuggire ai tedeschi fino a
quel momento?!
La
lingua di Arthur era paralizzata dalla rabbia. L’unico fattore positivo era che
almeno avrebbe avuto l’occasione di strangolarlo nel sonno.
Così
perso nell’immaginarsi il modo migliore per nascondere un cadavere, sobbalzò quando
si trovò la mano del Maresciallo di fronte alla faccia.
“Tra
compagni di letto ci si dovrebbe presentare.”
Arthur
lo guardò storto. “Siamo soldati, non amici che si incontrano al pub.”
“Ma
per diventarlo occorre prima conoscere i propri nomi. E siccome mi sembra il
tipico inglese che si dà un sacco di arie, inizierò io. Francis Bonnefoy, enchanté.”
“Arthur
Kirkland.” Dannazione! L’aveva fatto di riflesso. In fondo, era un gentiluomo,
lui!
“Fantastico.
Il prossimo passo è darsi del tu.”
“Credo
che mi fermerò qui dove sono.”
“Arthùr, non preferiresti insultarmi
senza badare alle formalità?”
Arthur
lo prese come un invito. “Prova ancora ad importunarmi e troverò il modo di
spedirti di fronte alla corte marziale.”
Francis
rise di nuovo. “Magnifique! Non vedo l’ora di
scoprire di cosa mi accuserai.”
Non
aveva mai immaginato di potersi permettere una simile confidenza con un suo
superiore, ma quando si trovava costretto a parlare con quel damerino gli
insulti non mancavano mai. Era più forte di lui, non riusciva a trattenersi. E
sicuramente l’altro non faceva nulla per evitarlo: pareva che provasse un
insano divertimento nel stuzzicarlo. La vita in Francia doveva essere molto
noiosa se per loro quello rappresentava il miglior passatempo. O semplicemente
era quel Bonnefoy ad avere avuto un’infanzia difficile. Sì, aveva sicuramente
ricevuto parecchi colpi in testa per ridursi in quello stato.
Arthur
si maledì per la terza volta. Pensava troppo e questo gli impediva sempre di
dormire bene. Non gli avrebbero certamente permesso di attardarsi sotto le
coperte perché lui non finiva di arrovellarsi il cervello in viaggi mentali
senza fine. Così si impose nuovamente di mettere a tacere i pensieri e dormire.
Ovviamente
anche la situazione in cui si trovava non lo aiutava a prendere sonno. Sebbene
voltasse le spalle a Francis non si sentiva per nulla a suo agio… anzi. Ma non
osava più muoversi da parecchio tempo. Finalmente si era zittito e aveva
interrotto i suoi sproloqui sulle bellezze della Francia e dei francesi e sulla
frigidità degli inglesi, se l’avesse svegliato non avrebbe sopportato un altro
minuto di quelle idiozie.
Chiuse
gli occhi. C’era troppo freddo per dormire. Era incredibile come l’umidità si
raccogliesse sotto terra. Di giorno era quasi soffocante, ma di notte, quando
calava la temperatura, tutta l’acqua che si era depositata sulla pelle e sui
vestiti di raffreddava e Arthur iniziava a tremare. Per lo meno le coperte
erano singole.
Si
alitò nelle mani per riscaldarsi un po’, ma il risultato fu effimero.
Sospirando nascose la testa sotto la coperta. Aveva capito che sarebbe stata
una lunga notte.
“Hai
trovato pace, petit Arthùr?”
Quelle
parole sussurrate all’improvviso nel suo orecchio per poco non gli provocarono
un infarto.
“Tais-toi!”
“Oh!
Ma allora conosci un po’ della mia lingua.”
“Ho
dovuto per forza imparare qualche parola per farvi chiudere quella boccaccia. E
ora lasciami in pace.”
Si
rannicchiò per trattenere un po’ di calore e si spinse sul bordo del letto, ma
una mano gli si posò sul fianco.
“Hai
freddo? Mon dieu, sei tutto bagnato.”
“What the fuck!! Che idiozie vai
dicendo?!”
“E’
colpa dell’umidità, stupido inglesino frigido. Mi deluderesti se ti eccitassi
per così poco.”
Arthur
si girò di scatto, ritrovandosi inaspettatamente a pochi centimetri dal naso di
Francis. “Ora chiudi quella dannata bocca e piantala con questi discorsi da bordello da quattro soldi!”
Si
girò nuovamente, deciso a non rivolgergli più la parola. Non trascorsero che
pochi minuti quando il braccio di Francis spuntò dall’oscurità a stringergli i
fianchi.
“Mi
sembrava di averti detto di finirla! Vuoi che ti tagli una mano?” minacciò
Arthur su tutte le furie.
“E
tu vuoi congelare, stupido ragazzino? Chiudi quella bocca acida e dormi.”
Poiché
era la prima volta che veniva zittito da Francis, Arthur non replicò. Rimase
solo a tormentarsi il cervello con mille pensieri che si sovrapponevano
confusamente.
Francis
non parlò più. Poco male. Dopo un po’ Arthur pensò che si fosse addormentato,
così chiuse gli occhi a sua volta.
Quella
notte fece un sogno strano: aveva dei bellissimi capelli lunghi e Francis
glieli tagliava senza pietà. Maledetto parrucchiere.
La
prima settimana trascorse tra la frenesia dei preparativi al combattimento, ma
Arthur e l’intero plotone non impiegarono molto per comprendere che l’attacco
a sorpresa che avevano a lungo preparato
avrebbe dovuto aspettare ancora. Ogni giorno continuavano ad ammassarsi sempre
più soldati e la convivenza in fondo alle gallerie stava iniziando a diventare
problematica.
Sebbene
fossero state scelte truppe conosciute per la loro affidabilità, i soldati
diventavano sempre più impazienti e le liti scoppiavano di frequente.
L’inattività rendeva gli uomini irritabili e indisciplinati.
Arthur
non poteva partecipare ai consigli di guerra ma Francis ogni tanto era invitato
a prendervi parte e la sera gli riferiva ciò che era venuto a sapere. La loro
era diventata una relazione fatta di paradossi. Ogni istante che Arthur
trascorreva con lui lo portava sempre più vicino alla rabbia cieca e al
desiderio di farlo fuori una volta per tutte, ma l’aspettativa di notizie
dall’esterno lo costringeva ad attendere con leggera impazienza i colloqui
intrattenuti con lui nello stesso letto.
Dalla
seconda settimana iniziarono le esercitazioni. Arthur aveva già preso parte ad
alcune missioni di carattere alquanto insignificante, ma quella che si
accingeva a intraprendere era, di fatto, la sua prima battaglia. Combattere per
la patria, sconfiggere il nemico. Questi erano gli ideali che i Capi di Stato e
l’esercito imprimevano con forza nella mente di ogni soldato, e Arthur ci aveva
fermamente creduto.
Alla
terza settimana aveva l’impressione che quei pensieri, così fortemente radicati
in lui, non gli appartenessero. Iniziava a domandarsi il vero motivo per cui si
trovasse a vivere come una talpa da quasi un mese e con l’unico obiettivo di
una battaglia imminente.
Quando
i suoi incarichi lo portavano in giro per le grotte, si ritrovava
inevitabilmente a fissare quelle interminabili scale che avrebbero condotto
tutti loro verso l’inferno della terra di
nessuno. Un giorno sarebbe sbucato fuori dalle gallerie e si sarebbe
trovato faccia a faccia con un tedesco. E in quello stesso istante avrebbe
dovuto premere il grilletto.
Quella
lunghissima scala che si perdeva nell’oscurità simboleggiava la sua corsa verso
l’ignoto.
Non
poteva accettare che il suo domani rimanesse avvolto dalle tenebre.
Francis
colse il suo stato d’animo quella notte.
“Sei
più arrabbiato del solito” notò, senza degnarsi di indagare prima di fare
affermazioni impudenti.
“L’oggetto
della mia rabbia è sempre lo stesso” rispose Arthur, tentando di essere
laconico e non degnandolo di uno sguardo. Dopo tutte quelle notti trascorse a
voltargli le spalle aveva il fianco e la spalla sinistri tutti indolenziti.
“Il
fatto che la mattina non ci siano mai dei croissant decenti? Sappi che mi sono
già lamentato per questo.”
“Idiot. Parlo di questa guerra, di questo
buco, dei tedeschi e dei francesi.”
“Concordo
sulle prime tre, ma purtroppo nessuna di loro dipende da me, quindi non vedo
perché mai dovresti essere in collera con i francesi” disse Francis in un tono
conciliante che Arthur aveva sentito raramente uscire da quella boccaccia
altezzosa.
“Non
dovrei essere qui.”
“Secondo
il buon senso nessuno di noi dovrebbe.”
Arthur
fu assalito da un’ondata di collera: Francis si ostinava a non capire o
semplicemente si divertiva a stuzzicarlo. Si voltò trovandoselo appiccicato al
naso.
“Finiscila
di fare l’imbecille. Sono incazzato perché non capisco il motivo che mi ha
spinto ad essere qui, ora, a combattere una guerra che non è mia! Perché dovrei
stare qua a rischiare la pelle per voi?! E’ il vostro insulso Paese ad essere
stato attaccato e se non siete in grado di difendervi sono problemi vostri!”
Per
una volta, Francis rimase serio. “Ragioni da moccioso.”
Arthur
digrignò i denti e si voltò di nuovo. Un’altra parola e lo avrebbe coperto di
insulti svegliando tutti i presenti. Francis non batté ciglio.
“Se
i tedeschi prendono la Francia arriveranno sicuramente anche in Inghilterra,
ancor prima che ve ne accorgiate. Siamo tutti nella stessa situazione.”
Era
inutile negarlo: Arthur non era uno sprovveduto, sapeva benissimo che Francis
aveva ragione, tuttavia non lo avrebbe mai ammesso.
“Non
stai combattendo per il mio Paese, ma per il tuo, anche se adesso ci ritroviamo
nello stesso letto.”
Francis
si faceva odiare sempre di più, perché aveva sempre più ragione. In ogni caso,
che stessero combattendo per il proprio Paese o per qualunque altro, loro non
c’entravano niente.
“Lo
so bene” rispose Arthur a bassa voce. “Se il mio Paese è in pericolo io
combatterò per lui, perché non c’è nessuno più inglese di me. Ma proprio per
questo non ho alcuna intenzione di buttare la mia vita in una trincea, perché
solo restando vivo posso fare qualcosa per scacciare i crucchi.”
Francis
gli accarezzò la testa ma Arthur lo scacciò immediatamente.
“Mi
fa piacere che la pensi così” disse il francese, ormai avvezzo all’irritabilità
di Arthur, “perché voglio poter ascoltare ancora la tua vocetta acida che sputa
insulti a qualunque cosa respiri.”
L’inglese
gli lanciò un’occhiata disgustata. “Sarà anche per piantarti una pallottola in
faccia che sopravvivrò, ricordatelo.”
E
Arthur sapeva come fare. Non vi erano molte alternative per restare in vita,
evitando il campo di battaglia: disertare o trovare il modo di mandarci altra
gente, e quest’ultimo metodo lo attirava parecchio. Scalare il potere e
giungere ai vertici, ecco qual era il miglior sistema per poter vedere la fine
di quella guerra.
Stava
osservando le piccole stalattiti sul soffitto quando Francis invase il suo
campo visivo e depositò un bacio sulle sue labbra. Arthur, colto di sorpresa,
impiegò qualche istante per comprendere cosa stesse accadendo, ma quando se ne
rese conto allontanò quel peso morto con un sonoro schiaffo. Si alzò a sedere
di scatto facendo volare via le coperte.
“Ma
che cazzo pensi di fare?!”
I
due che dormivano sul letto di sopra si mossero e Arthur si morse la lingua. Ma
non poteva fare finta di niente!
Francis
ripartì all’attacco senza esitare. “Arthùr,
domani avrà inizio l’operazione, potremmo anche non vederci più e io sono stufo
di accontentare i tuoi capricci da adolescente, quindi ora preparati perché
posso sopportare tutti gli schiaffi da femminuccia che mi infliggerai.”
Allungò
le braccia ma Arthur fu più veloce ed estrasse il coltello che teneva sotto il
cuscino. A quello Francis non poté restare indifferente, dato che la lama ora
premeva sulla sua giugulare. Guardò il coltello con una punta di
preoccupazione. “Sei proprio un bastardo” disse ghignando. Riusciva a
divertirsi anche in situazioni del genere, quel perverso.
Premendo
la lama sulla sua pelle, Arthur lo costrinse a tornare sdraiato.
Lui
non era come Francis. Diavolo, Arthur stravedeva per le tette, più grosse erano
più era contento e l’idea di scoparsi Francis era semplicemente repellente.
Tuttavia, il pensiero di averlo in pugno, in quel momento, si avvicinava alla
sensazione di trovarsi di fronte a un seno taglia quinta.
Lo
guardò a lungo prima di decidersi a fare la prima mossa, ma il pensiero di
fargliela finalmente pagare – nell’unica lingua che il francese conosceva – gli
diede la spinta sufficiente a chinarsi su di lui, non senza una certa irruenza.
Il coltello premeva ancora sulla sua gola, perciò quando Arthur gli aggredì la
bocca, la reazione di Francis fu limitata.
Le
sue labbra cercarono nuovamente quelle dell’inglese quando si furono separate,
ma Arthur non aveva alcuna intenzione di accontentarlo. Lo fece restare al suo
posto mentre comprendeva, finalmente, il piacere perverso che si provava nello
stuzzicare qualcuno.
Decise
di sperimentare nuovi approcci, così la sua lingua accarezzò dapprima la
guancia, poi l’orecchio, rubando al francese gemiti sommessi. Quando questi
tentò di voltarsi per far incontrare le labbra, Arthur lo bloccò affondando i
denti nella carne del suo lobo e Francis gemette di nuovo.
“Maudit perverti” bisbigliò irritato.
“Almeno ammetti che tutto questo ti piace.”
“Mi
piace vederti sottomesso, Maresciallo.”
Con
un movimento improvviso, il francese gli afferrò contemporaneamente la mano che
stringeva il coltello e la testa, così Arthur perse la presa e si ritrovò in
bocca la lingua di Francis. Tentò di ritrarsi, poiché non era questo ciò che
aveva pensato. Non avrebbe concesso niente a quel pazzo, voleva insegnargli a
stare al suo posto, ma ora che rifletteva di nuovo la situazione volgeva
totalmente a suo svantaggio.
Ora
Francis gli teneva stretti entrambi i polsi e Arthur dovette appoggiarsi
completamente su di lui. Quando il Maresciallo tentò di nuovo di insidiarsi
nella sua bocca, lui gli morse la lingua e Francis si ritrasse talmente in
fretta da sbattere contro la testiera in ferro del letto. Approfittò del
momento per rotolare giù dal corpo di Francis, ma questi fu veloce: era già
sopra di lui con un sorriso trionfante.
“Ci
hai provato, piccolo bastardo. Ora è il mio turno.”
Questa
volta fu il collo di Arthur ad essere invaso da baci e morsi, solo che i suoi
non erano gemiti di piacere, bensì di rabbia. Sentiva che Francis si stava
eccitando e ciò gli fece provare un istante di panico. Senza rifletterci oltre
sferrò una ginocchiata in mezzo alle gambe dell’altro che soffocò
un’imprecazione e si lasciò cadere sul materasso.
La
lotta li aveva lasciati entrambi stremati a ansanti.
“Però…
te la sei cercata” disse Francis, ridendo tra le smorfie di dolore.
“Sei
tu… che sei un maiale” ribatté Arthur col fiatone.
“Riesci
a capire fin dove mi sarei spinto?”
Arthur
rabbrividì. “Non farmici pensare.”
Rimasero
in silenzio. L’inglese aveva già chiuso gli occhi quando sentì delle dita
accarezzargli la guancia e sussultò. Le labbra di Francis erano pochi
millimetri da lui.
“Da
domani cambierà tutto. Qualunque cosa accada, restiamo in vita.”
Quando
Arthur ebbe la certezza che non sarebbe più stato aggredito, si lasciò andare
al sonno, ma non ebbe il coraggio di scacciare quel braccio che gli cingeva le
spalle.
Perché
sarebbe cambiato tutto.
Il
giorno seguente Francis fu trasferito a Vauquais.
“Ci
sono delle mine! Le mine…”
Le
orecchie di Arthur fischiarono e l’esplosione gli rimbombò fin nelle viscere.
Terra, legno, arti gli piovvero addosso, ma anche questa volta si ritrovò
illeso. In quei tre giorni di battaglia i tedeschi avevano fatto esplodere
delle mine sotterranee per tentare di fermare l’avanzata nemica, e fino ad
allora Arthur le aveva mancate tutte. I tedeschi si ritiravano lentamente ma la
battaglia infuriava.
“Tenersi
pronti alla carica! Preparate i fucili!”
Arthur
si aggrappò alla sua arma, rannicchiato nella trincea assieme agli altri
uomini. Strinse forte la presa, focalizzò i movimenti che avrebbe compiuto:
correre, puntare il nemico, sparare, sdraiarsi, sparare, sparare, sparare.
“All’attacco!”
Cazzo.
Quel dannato zaino lo tirava per terra e gli impediva di correre bene. Il
soldato al suo fianco scivolò nuovamente nella trincea, colpito a morte da un
proiettile. Arthur si arrampicò e fu fuori. In lontananza si udivano i colpi di
cannone. Il suo obiettivo era la trincea nemica che i tedeschi avevano
abbandonato indietreggiando. In tre giorni avevano conquistato dieci metri di
terra. In quel momento la sua vita si riduceva a un solo scopo: quel fossato.
Iniziò
a correre. Alcuni nemici opponevano l’ultima resistenza da dietro dei sacchi di
sabbia poco più in là della trincea e sapeva che altri si nascondevano tra gli
alberi alla sua destra, ma stavano venendo sterminati dagli alleati.
Una
testa priva dell’elmetto fece capolino dal riparo dei sacchi, Arthur mise un
ginocchio a terra, mirò, sparò. Mancato, ma il crucco si era abbassato. Aveva
guadagnato qualche istante per proseguire la sua corsa.
Per
quanto ne sapeva, sotto di lui poteva celarsi una mina, oppure un ultimo
tedesco sarebbe potuto spuntare dalla trincea e freddarlo con un unico colpo.
Entrò nel fossato con un salto e atterrò su un cadavere carbonizzato dai
lanciafiamme. Si guardò attorno alla ricerca di nemici nascosti, ma non ne
vide. Riprese a respirare appoggiandosi al fucile e riparandosi dai proiettili
vaganti, attendendo che gli altri soldati lo raggiungessero.
Rimase
all’erta: non aveva nessuno che gli coprisse le spalle. Se Francis fosse stato
lì, sicuramente non si sarebbe mai allontanato dalle sue spalle… e dal suo
fondoschiena.
Arthur
chiuse gli occhi, aveva solo pochi istanti prima di dover riprendere la sua
corsa verso la morte.
Dal
bosco provennero delle grida.
“À l’aide!”
Arthur
avvertì un brivido serpeggiargli lungo la colonna vertebrale. Era francese…
Sentì
un proiettile fischiargli a pochi centimetri dalla testa. Cazzo! Si era
dimenticato del crucco là davanti e si era alzato troppo oltre il bordo della
trincea.
Altre
grida dagli alberi e l’inconfondibile rombo del lanciafiamme. Il tedesco sparò
di nuovo.
“Adesso
basta!” urlò Arthur furibondo. Saltò fuori dal fossato e corse verso la
barriera di sacchi di sabbia. Piantò i piedi per terra e si inginocchiò. Un
proiettile lo superò, un altro dovette aver fatto centro perché sentì un vago
bruciore al fianco, ma non si mosse. Prese la mira e fece fuoco. Dalla barriera
non giunsero più altri spari.
Arthur
ansimò, scosso dai brividi. Sentì del sangue bagnargli la giacca all’altezza
della cintura.
“À l’aide!” Il disperato richiamo si fece
più vicino e Arthur non attese oltre e si gettò tra gli alberi. Seguì il suono
della voce, ma più che altro fu attratto dall’odore di bruciato. Lingue di
fuoco si fecero strada tra i rami… no, era un uomo in fiamme. Corse verso
l’inglese invocando aiuto con quell’accento ormai familiare, ma Arthur sapeva
bene di non poter far niente, anzi, se fosse rimasto lì sarebbe finito anche
lui preda del fuoco. Si scansò di lato, ma fu incauto. Da dietro un tronco
carbonizzato un tedesco puntava l’arma contro di lui.
“Fuck!”
Arthur
sollevò il fucile, ma fu più lento del nemico.
Continua
Bene,
il primo capitolo è concluso e siamo entrambe pronte ad essere lapidate
pubblicamente. Non è la prima fiction hetaliana che scriviamo, ma sicuramente è
la prima che pubblichiamo.
Speriamo che il primo impatto sia stato gradevole perchè ci piacerebbe davvero
tanto proseguire questa storia, possibilmente accompagnate dai vostri commenti
e dai vostri consigli! Siate spietati, ma anche comprensivi, siamo due povere
menti perverse....
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Capitolo 2 *** Deuxième Tranchée: La niege rouge ***
deuxieme tranchee
Titolo:
Schützengraben, Capitolo 2 – Deuxième Tranchée
Fandom:
Axis Powers Hetalia
Personaggi:
Inghilterra (Arthur Kirkland), Francia (Francis Bonnefoy), Germania (Ludwig)
Genere:
Storico, Drammatico, Guerra
Rating:
Nc17, Arancione
Avvertimenti:
Yaoi, Angst, Death, AU
Parole: 2,939 con Windows Office
Disclaimer:
I personaggi della fanfiction provengono da Axis Powers Hetalia che appartiene a
Hidekaz Himaruya
Note: 1. Da qui in poi i protagonisti
avanzeranno di grado militare, quindi dovrete sforzarvi un po’ di capire di chi
si sta parlando, di volta in volta.
2. Neanche questo è un capitolo da
rating arancione, sebbene mi sia impegnata nel renderlo crudo, non siamo ancora
arrivati al momento clou. Portate pazienza. Inoltre temo che questo sia un
capitolo abbastanza noioso… avrei voluto inserire delle descrizioni storiche
più accurate, ma mi sono resa conto che era già abbastanza pesante così
com’era, perciò perdonatemi per i numerosi salti temporali, ho solo cercato di
arrivare il prima possibile alla parte più interessante. In fin dei conti si
tratta di una fanfiction storica, e la storia non è sempre ricca di colpi di
scena, ahinoi.
3. Verranno citate un po’ di armi…
non importa se non sapete di cosa si tratta, volevo solo tirarmela un po’,
magari tra voi c’è qualche appassionato (per quanto mi riguarda, io lo sto
seriamente diventando!) In ogni caso tutte le scarse informazioni che ho
acquisito provengono da Wikipedia, a cui vi rimando per eventuali chiarimenti.
4. Ho usato Babylon
per tradurre le frasi straniere di questo capitolo e sono a conoscenza della
sua inaffidabilità quindi non fateci casooooo! Tanto quelle frasi non sono
importanti al fine della storia.
Deuxième Tranchée: La niege rouge
Vauquais,
dicembre 1915
“Sergente…
cosa dobbiamo fare?” chiese il soldato giovane, quello la cui paura negli occhi
era talmente palese da sembrare sul punto di perdere il senno.
“State
in silenzio, e pregate.”
Francis
chiuse gli occhi, sapendo che anche gli altri avrebbero fatto lo stesso.
Bloccati lì sotto, come topi, non avevano altre possibilità se non starsene
rintanati finché il pericolo non fosse passato. Se ne stavano schiacciati
contro le pareti del tunnel con le gambe premute contro il petto, la testa
bassa, in attesa del momento in cui sarebbero potuti morire tutti.
In un
istante tutta la roccia attorno a loro tremò, si udì un boato, alcuni frammenti
di pietra si staccarono dal soffitto e piovvero su di loro sollevando la
polvere. Le schegge fischiavano e le pareti rimbombavano. Francis sentì la
pietra dietro alla sua schiena divenire più calda. Persino dall’interno della
loro galleria poterono udire le grida degli uomini colpiti percorrere la terra
ed echeggiare nel loro minuscolo rifugio.
Poi
tutti i rumori cessarono, la polvere si posò, lasciandoli semi soffocati. Un
paio di soldati piangevano, gli altri restarono increduli di fronte al pericolo
miracolosamente scampato.
Un'altra
mina sotterranea evitata. Forse sarebbe stata l’ultima.
La
galleria esplosa era quella più a ovest; si pensava che ci fossero ancora
alcuni uomini in vita sepolti a quasi 50 metri sotto terra. Si udivano dei
rumori, ma sarebbe trascorso del tempo prima che i soccorsi potessero
raggiungerli, sempre se ci fosse stato il tempo di intervenire: molte volte il
Comando riteneva uno spreco di forze la ricerca dei superstiti all’interno
delle gallerie, era più semplice costruirne delle nuove.
Alla
sua truppa furono concesse alcune ore di riposo, così, una volta arrampicatisi
fuori dai cunicoli, vennero portati alla cantina, una stretta grotta
scarsamente illuminata dove gli uomini potevano acquistare piccoli lussi, quali
vino e cioccolata, ma anche francobolli per spedire le lettere alle proprie
famiglie. In poche parole, era il luogo più vicino alla realtà che avevano
lasciato ormai da tempo.
Lungo
il tragitto incrociarono ufficiali e sottoposti che si affrettavano a
raggiungere le stanze adibite a uffici, infermerie, cucine… Tutto era
claustrofobico, niente a che vedere con i sotterranei di Arras, le cui grotte
più ampie riuscivano ad ospitare comodamente duecento persone.
“Sergente?
Ha posta da spedire?” Uno dei suoi uomini gli stava tendendo la mano in attesa
di ricevere la corrispondenza. Francis, seduto su una panca lungo le pareti
della cantina, riusciva a malapena a vederlo in controluce, davanti alla fioca
lanterna appesa al soffitto.
“No,
questa settimana niente” rispose sorridendo, tentando di celare lo sconforto.
“E
quella busta?” insistette il soldato accennando al foglio che Francis aveva
appoggiato con finto disinteresse sulla panca.
“Le
lettere per le innamorate devono essere scritte con attenzione e io mi reputo
un poeta mediocre” scherzò Francis con la sola intenzione di invitare quel
tizio a farsi i fatti propri.
“Oh,
capisco Sergente. Ma non la faccia attendere troppo o si metterà nei guai!”
avvertì l’altro allontanandosi.
Francis
lo guardò sparire tra le tenebre del corridoio, poi si voltò stizzito. Altro
che poeta mediocre: avrebbe potuto comporre dei sonetti prodigiosi, se solo
colui a cui avrebbe voluto rivolgerli non fosse stato un rustico campagnolo
collerico. Oltretutto, non aveva alcun indirizzo al quale spedire la lettera.
Si
rimise in tasca il foglietto stropicciato, nell’attesa del prossimo momento in
cui avrebbe sentito il bisogno di lasciarsi andare ai ricordi.
Che
motivo aveva di farlo consegnare? Non sapeva nemmeno se Arthur fosse vivo. Durante
le settimane trascorse con lui, Francis sapeva che sarebbe stato trasferito da
Arras, ma se l’avesse detto all’inglese avrebbe ottenuto solo un malinconico
congedo – o almeno, questo era ciò che si era immaginato, con l’aggiunta di un
romantico addio strappalacrime. Quella notte aveva voluto conquistarlo. Ci
aveva provato, non esattamente nel migliore dei modi, considerando anche il
difficile soggetto con cui aveva avuto a che fare, ma era certo di aver
lasciato un segno profondo che avrebbe tormentato quel frigido inglese per
molte notti a venire.
Voleva
tornare ad Arras, e non solo per le grotte più accoglienti, ma per accertarsi
con i suoi occhi e con il suo corpo che quello scriteriato avesse tenuto fede
al suo intento… e che fosse ancora vivo. Se lo fosse stato, chissà com’era
cambiato. La guerra trasformava le
persone, sia mentalmente che fisicamente. Magari aveva perso una gamba, era un incidente
comune, oppure un lanciafiamme gli aveva fatto il favore di bruciargli quelle
sue sopracciglia esagerate. Un anno e tre mesi era un tempo davvero lungo in
una realtà in cui ogni giorno poteva essere l’ultimo, l’unica consolazione che
Francis poteva permettersi era immaginarsi come sarebbe stato passare più tempo
con lui e possederlo fino in fondo.
“Ascoltate
bene: d’ora in avanti silenzio assoluto. Prendete gli stetoscopi e iniziate a
fare il vostro lavoro.”
I
suoi soldati obbedirono e si distribuirono lungo la parte finale del tunnel. Li
attendevano quattro lunghe ore di intercettazioni, nella speranza di cogliere
frammenti di conversazione dei tedeschi che, in quel momento, scavavano
gallerie nella direzione opposta a loro. Potevano essere a fianco a loro,
sopra, sotto o anche a pochi metri di fronte. L’unico modo per conoscere la
loro posizione e quella delle mine che avrebbero piazzato era premersi contro
le pareti e ascoltare.
Nelle
ultime notti i minatori avevo allungato il corridoio sotterraneo secondo le
indicazioni di Francis, ma ogni giorno lui e la sua truppa dovevano tornare lì
sotto ad accertarsi che i tedeschi non avessero fatto lo stesso.
Era
una situazione assurda. Fin quando avrebbero dovuto continuare a scavare? Prima
o poi sarebbero arrivati direttamente sotto la trincea nemica, a meno che i
crucchi non li avessero fatti saltare in aria per primi.
Dopo
un’ora riuscirono a individuare la direzione dalla quale provenivano delle voci
indistinte. Francis aveva dovuto imparare il tedesco con tutti i soldati che si
trovavano assieme a lui e ora prendeva appunti su ciò che riusciva a carpire
attraverso la terra e la roccia.
Annotò
sul suo taccuino un paio di parole in tedesco; nel frattempo gli arrivarono
altri foglietti dagli uomini con brandelli di frasi, alcuni traducevano. Il
silenzio era assoluto.
Alla
fine Francis rilesse per tre volte il risultato dell’appostamento. Si alzò di
scatto e corse lungo la galleria che si allargava sempre più, i soldati che si
aggiravano per i corridoi si premettero contro le pareti per lasciarlo passare.
“Devo
fare rapporto al Maggiore!” annunciò abbozzando un saluto militare all’uomo che
piantonava una porta in ferro.
Quando
fu dentro si presentò al Maggiore e gli lesse il comunicato.
“Siamo
appena venuti a sapere dall’avamposto nella galleria a nord-est che il nemico
sta posizionando due Bergmann nelle vicinanze della nostra trincea.”
Il Maggiore
alzò gli occhi dalla mappa che stava consultando sulla scrivania.
“Quanto
nelle vicinanze?”
“Sbocco
a sud-est, quello più vicino alla nostra posizione. In questo modo ci sarà
quasi impossibile uscire dalle gallerie in quella direzione.”
L’ufficiale
diede un’altra occhiata alla cartina consumata e sospirò. “Sergente Bonnefoy,
prenda quattro uomini della sua squadra e vada a sabotare quelle
mitragliatrici. Se ci bloccassero il passaggio su quel fronte il piano
d’attacco non potrebbe più essere attuato. Parta immediatamente.”
Francis
fece fatica a recepire quell’ordine. Sarebbe uscito da quel buco, avrebbe
sentito il vento sulla pelle, l’aria pulita… ma si sarebbe anche gettato in
bocca ai tedeschi con soli quattro uomini!
Uscì
dalla stanza senza parlare. Appena fuori si appoggiò al muro e fece appello a
tutta la sua lucidità; più ci pensava e più si convinceva che si trattava di
un’impresa impossibile.
Alzò
gli occhi al soffitto, immaginando il cielo. Era da tanto tempo che non usciva,
chissà com’era cambiata la sua Francia.
Fuori
era giorno. Francis si sporse leggermente fuori dalla trincea e lanciò una
triste occhiata al paesaggio intorno: il villaggio di Vauquais era quasi del
tutto distrutto, solo alcune povere case di sassi si stagliavano con i loro
scheletri contro il sole velato dalla nebbia. Gli alberi più vicini erano
bruciati, il terreno era devastato dalle esplosioni delle mine e le voragini si
aprivano fin dove poteva arrivare la vista. Alcune chiazze di neve macchiavano
quella terra infelice, come a tentare di celare qualcosa che non si poteva più
tenere nascosto.
Francis
estrasse l’orologio dal taschino e controllò l’ora, poiché stando per tutto
quel tempo sotto terra aveva perso completamente la concezione del tempo: quasi
le quattro del pomeriggio; non avevano molto tempo prima che il sole
tramontasse.
Lui e
i suoi quattro uomini erano equipaggiati di fucili, revolver e granate,
distribuiti tra loro. Non avevano potuto attrezzarsi più di così: essendo
soltanto in cinque doveva essere una semplice missione di sabotaggio e perciò
dovevano potersi muovere velocemente.
In
realtà a Francis sembrava più un suicidio. I tedeschi non erano degli
sprovveduti, avevano sicuramente predisposto sufficienti protezioni alle
mitragliatrici.
“Ascoltate
bene, soldati. Abbiamo delle Bergmann puntate contro e dobbiamo sabotarle il
più velocemente possibile. Se faremo un lavoro pulito potremo tornarcene tutti
indietro vivi, perciò state concentrati
e ubbidite agli ordini.”
Gli
altri annuirono, ma tutti avvertivano la venefica sensazione della morte
imminente.
Uscirono
dalla trincea strisciando sulla neve e in pochi istanti Francis si ritrovò
fradicio e infreddolito. La guerra non era qualcosa da intraprendere in
inverno, la storia aveva accumulato molti esempi del suo esito disastroso e,
grazie all’impresa di Napoleone, i francesi avrebbero dovuto imparare più di
tutti la lezione. Ma quella non era affatto una guerra: ormai era solo una gara
al massacro.
Procedettero
con lentezza estenuante, su e giù per le colline fangose create dalle mine
esplose, lasciandosi a poco a poco alle spalle il villaggio deserto.
Francis
ricordava Vauquais il giorno in cui erano arrivati i francesi a evacuarlo, un
anno prima: era un semplice paesino tra i boschi, ma sarebbe diventato presto
il teatro di una delle tante, inutili battaglie, destinato alla stessa fine di
tutte quelle povere cittadine che si avevano avuto la sfortuna di trovarsi
lungo la linea Hindenburg.
Si
fermarono al riparo di un tumulo, il più vicino alla trincea nemica. Il
problema era che, ovviamente, l’ingresso a quest’ultima era ben nascosto. In
silenzio, Francis si fece passare il binocolo. La poca neve caduta gli
facilitava il compito dato che il fossato era appena visibile come una vaga
striscia scura in mezzo al candore; riusciva anche a distinguere quelli che gli
apparvero come sacchi di sabbia celati dalla neve. La sua esperienza gli diceva
che quello era il punto in cui erano state poste le mitragliatrici.
In
silenzio indicò l’obiettivo ai suoi soldati. Era impossibile avvicinarsi di
più, ma si trovavano comunque a una distanza adatta per lanciare una granata.
Se avessero mancato il bersaglio sarebbe scattato l’allarme e sarebbero morti
tutti.
Francis
pensò che sarebbe stato meglio lanciare due ordigni contemporaneamente, ma se
fossero esplose nello stesso punto anche loro sarebbero stati coinvolti, e per
quanto lui fosse patriottico, non aveva alcuna intenzione di sacrificare se
stesso e altre quattro persone per far saltare quelle Bergmann. Perciò rimaneva
solo da lanciare quella singola granata e sperare. Decise che sarebbe stato lui
a farlo: era il Sergente e si sarebbe assunto questa responsabilità.
Prese
in mano la granata, fece un respiro profondo e l’armò. Aveva solo pochi istanti
per calcolare la distanza e la forza da imprimere al proprio braccio: la bomba
doveva esplodere appena toccata terra. Con la mano libera si fece il segno
della croce, e lanciò.
La
granata disegnò un grande arco attraverso il cielo candido, Francis seguì il
suo percorso e sentì il tonfo soffocato che produsse cadendo sulla neve, a
circa un metro dalla fossa.
Non
era esplosa. Merda, aveva calcolato male i…
Per
qualche secondo rimase assordato dallo scoppio. La neve e il fango si alzarono
come il getto di una fontana e
ripiovvero a terra senza produrre alcun rumore, eccetto un lungo, rintronate
fischio che gli trafiggeva il cervello.
Francis
si era riparato la testa con le braccia e si era lasciato scivolare lungo la
collinetta. Quando riacquistò parte dell’udito iniziò a sentire i primi lamenti
e le imprecazioni dei tedeschi.
La
missione era compiuta, ora dovevano tornare indietro il più presto possibile,
prima che il nemico potesse avere il tempo di riorganizzarsi. Ma qualcosa andò
storto. Udì un rumore sordo e liquido, poi la neve accanto a lui si sporcò di
rosso e uno dei suoi soldati cadde morto. Dalla loro sinistra provennero voci
irate e il latrato di un cane, una decina di tedeschi li aveva individuati e
correva nella loro direzione. Fottuti, nessuno scampo.
“Correte!”
ordinò Francis ai suoi uomini. Sebbene sapesse benissimo che si trattava di una
follia non potevano far altro che scappare e pregare di riuscire a sfuggire tra
la neve. Prima di mettersi a correre, Francis impugnò la pistola e sparò alcuni
colpi. La mano gli tremava, ma i nemici erano in formazione compatta, così
riuscì a ucciderne uno e a ferirne almeno un altro. Ovviamente non sarebbe
bastato.
Si
diedero alla fuga, ma il cane fu subito dietro di loro e azzannò un francese.
Alle loro spalle riecheggiavano gli spari e gli ordini del comandante nemico
che incitava i suoi all’inseguimento.
Francis
correva, non sentiva nemmeno le gambe, ma su quel terreno accidentato non era
semplice mantenere l’equilibrio. Gli pareva che i polmoni gli esplodessero e si
rese conto con orrore di non sentire più nessuno al suo fianco: i suoi compagni
erano morti. Si guardò alle spalle, il comandante puntava la pistola proprio verso
di lui. Una Mauser. Cazzo... Era davvero fottuto.
L’istante
in cui sentì lo sparo fu lo stesso in cui la sua gamba sinistra cedette e
Francis finì con la faccia nel fango gelato. Faticava a respirare, l’aria gli
si era ghiacciata nei polmoni e la ferita gli faceva talmente male che non
aveva nemmeno la forza di gridare. Tentò miseramente di strisciare via; se si
fosse visto in quel momento si sarebbe messo a ridere. I tedeschi ebbero tutto
il tempo di avvicinarsi e riprendere fiato, un paio di loro sghignazzava.
Francis rinunciò, si accasciò definitivamente nella neve e imprecò. Aveva le
lacrime agli occhi per la rabbia e per il dolore. No, non sarebbe crepato in
quel modo ignobile, in mezzo a una valle oltraggiata dalla guerra, nel suo Paese occupato da quei bastardi!
Un
piede premette crudelmente sulla sua schiena, schiacciandolo a terra; il cane
venne a ringhiargli vicino ma venne subito trattenuto e allontanato. I tedeschi
dissero qualcosa in tono sprezzante che Francis capiva benissimo.
Non
sarebbe crepato lì, non umiliato in quel modo, non senza aver saputo se Arthur
fosse ancora vivo. Strinse la pistola nascosta dal suo corpo, si girò di scatto
e sparò in faccia al tedesco. Il terreno attorno a sé si tinse di rosso, sentì
il sangue schizzargli sul volto.
Gli
altri non apprezzarono per nulla quel gesto di ribellione e gli si gettarono
addosso. Lo colpirono su uno zigomo con un calcio, lo afferrarono per i capelli
e lo misero in ginocchio mentre la sua gamba gli trasmetteva fitte lancinanti.
Lo costrinsero a sollevare la testa e sentì il gelo del metallo di una pistola
in mezzo alla fronte.
“Sie sterben, französisch!”
“Alt!”
Si
fece avanti quello che Francis aveva identificato come il comandante. Era alto,
biondo e con gli occhi azzurro ghiaccio, nulla di strano per un crucco. Aveva i
gradi di Capitano appuntati sulla divisa.
“Vous allez loin de ma terre!” gridò Francis, non
gliene fregava niente di parlare con un Capitano o no, e non gli importava
nemmeno che non lo capissero, voleva soltanto insultarli a morte e rispedirli
tutti nella topaia dalla quale provenivano.
“Andatevene
dalla mia terra, dannati barbari bastardi! Avete distrutto le mie città,
ammazzato i miei fratelli e sono sicuro che avete ucciso anche Arthur! Andate a
farvi fottere!” Sputò sangue e saliva sugli stivali del Capitano, il quale gli
assestò un calcio alle costole. Nessuno lo sostenne e Francis cadde a terra. Le
ferite gli stavano facendo perdere la lucidità, sentì solo il tedesco impartire
un ordine. Quando riaprì gli occhi si rese conto che erano rimasti soli.
Francis si guardò attorno con sospetto… già, lo avrebbe ucciso, proprio come
un’esecuzione. Probabilmente il tedesco si sarebbe divertito a torturarlo, o
magari i sottoposti se n’erano andati perché il loro ufficiale aveva la malsana
abitudine di violentare le sue vittime. Erano porci fino in fondo.
Il tedesco si chinò su di lui e lo guardò,
piegando leggermente la testa, perfettamente calmo. Afferrò con due dita la
pistola, ormai scarica, che Francis aveva lasciato cadere e la gettò lontano.
“Vattene.”
Era
sicuro di non avere capito bene. Il crucco parlava francese. Lentamente, si
puntellò sui gomiti e cercò di mettersi seduto.
“Veloce”
disse il tedesco con voce profonda, senza alcuna rabbia. Si trattava
semplicemente di un ordine.
Francis
lo guardò a lungo, era certo che, non appena si fosse voltato per andarsene,
gli avrebbe sparato alle spalle. “Perché?”
“Per
i miei uomini. Perché non crediate che siamo tutti uguali.” Si rialzò. “Muoviti
o verranno a catturarti.”
Francis
si rimise in piedi con molta fatica, ma decise di non farselo ripetere oltre.
Prima di allontanarsi rivolse al tedesco un’altra occhiata. “Dimmi il tuo
nome.”
“Non
ne vedo il motivo.”
“Voglio
conoscerlo per poterti risparmiare la vita, nel caso si presentasse
l’occasione” insistette Francis.
“Non
voglio la pietà dei francesi” rispose lui voltandosi.
“Ti
prego!”
Il
tedesco rimase immobile per qualche istante, Francis vedeva il suo respiro che
si condensava davanti a lui, le sue spalle ampie solide e ferme, i corti
capelli biondi nascosti sotto il cappello.
“Ludwig.
Ora sparisci.”
Francis
obbedì e si diresse zoppicando verso la sua trincea. Non si voltò nemmeno,
aveva la sensazione di potersi fidare.
Continua
Che capitolo palloso, nevvero? E temo che il prossimo sarà ancora peggio, ma prometto che ce la metterò tutta u_u
Prima
di rispondere alla vostre recesioni ho da fare una piccola parentesi:
vi sarete sicuramente accorti che i personaggi, che dovrebbero parlare
in lingue diverse tra loro, si capiscono, ma allo stesso tempo ogni
tanto se ne saltano fuori con frasi nella propria lingue... quindi la
domanda che dovrebbe sorgere spontanea è: ma allora tra loro che
lingue parlano?
...Boh.... Dico solo che ho voluto inserire ogni tanto qualche frasetta
in lingue diversa perchè ci stava bene, ma non fatevi troppe
domande... Volevo solo avvertirvi che sono consapevole di questo
mistero della fede.
@ GinkoKite: Ciao!! Sono
proprio felice che i personaggi siano risultati IC per te, questo
mi rincuora molto... Scrivere di Arthur non è mai stato un
problema per me, ma non avevo mai sperimentato Francis (e ancor meno
Ludwig!!), in più credo sia abbastanza difficile parlare di loro
in una situazione come questa della fanfiction, sicuramente abbastanza
lontana da come siamo abituati a vederli... ma proprio per questo ci
piace! Mwahahaha! Tranquilla, presto torneranno a rotolarsi nei letti :)
@ Harinezumi: Ma ciao collega!
Che bello risentirti dopo averti conosciuta (credo non freghi niente a
nessuno). Sono contenta che ti piaccia il mio Francis serio! Devi
sapere che a me quella rana non piace per niente e l'unico modo per
rendermelo sopportabile è renderlo serio, perciò quando
ci sono io fidati, sarò assai macho XD
Per conoscere la sorte di Arthur dovrete aspettare ancora un po'! *gode sadicamente*
@ Miristar: Capisco
perfettamente la tua perplessità riguardo ai giochini poco
silenziosi che i due hanno fatto a letto. Non sono riuscita a
sistemarli altrove, in un posto come quello era praticamente
impossibile farli trovare da soli quindi ho optato per la camerata,
almeno la gente "dovrebbe" dormire.... Perciò ti
risponderò citando il commento a questa scena di mio fratello:
"Probabilmente gli altri staranno guardando" XD
@ Julia Urahara: Senza il suo
lato pervertito Francis non sarebbe Francis ù_u Purtroppo in
quest'ultimo capitolo non sono proprio riuscita a inserirlo, dopotutto
siamo pur sempre in guerra e questa è una fiction assolutamente
angst... Spero comunque di essere rimasta IC, le motivazioni che mi
hanno spinto a descrivere questi comportamenti di Francis, in queste
situazioni atipiche, sono tanti e molto lunghi ma ho cercato di
interpretare la meglio quelle che potevano essere delle reazioni
credibili.
@ Baekho: Se hai
apprezzato l'ambientazione solo al primo capitolo allora credo (e
spero) che sarai rimasta positivamente colpita da quest'ultimo XD
Quello di "Be alive" era solo un'introduzione, in futuro la situazione
peggiorerà sempre più, sappilo...
E per quanto riguarda l'interesse suscitato dalla guerra mi trovi
pienamente d'accordo... si tratta di periodi terribili e vergognosi ma
ciò non toglie che siano interessanti e proprio per questo
possiamo approfondire quelli che sono stati gli sbagli che hanno
portato a risultati così drastici e incivili. Credo sia sempre
bene parlarne, ovviamente mantenendo un certo rispetto verso
l'argomento.
Nach vorne Kapitel ---> Dritte Graben: Geschenk
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Capitolo 3 *** Dritte Graben: Geschenk ***
dritte graben
Titolo: Schützengraben, Capitolo 3 – Dritte
graben
Fandom: Axis Powers Hetalia
Personaggi: Inghilterra (Arthur Kirkland),
Francia (Francis Bonnefoy), Germania (Ludwig)
Genere: Storico, Drammatico, Guerra
Rating: Nc17, Arancione
Avvertimenti: Yaoi, Angst, Death, AU
Parole: 3,207 con Windows Office
Disclaimer: I personaggi della fanfiction
provengono da Axis Powers Hetalia che appartiene a Hidekaz Himaruya
Note:
1. In questo capitolo sono presenti scene
di sesso.
2.
Per essere
attinente alla Storia, il capitolo si sarebbe dovuto svolgere esattamente un
anno prima, nel 1914; tutto il resto, fatta eccezione per i personaggi di
Hetalia, è accaduto veramente.
Dritte Graben:
Geschenk
Vauquais, dicembre 1915
Indipendentemente
dal fatto che fosse Capitano o meno, Ludwig era un uomo rispettato sul campo di
battaglia, sia dai suoi uomini che dai superiori. Era severo, attento,
controllato, pretendeva la disciplina ma ricambiava sempre l’obbedienza dei
soldati. Quel giovane, con i capelli scuri e i baffi, era quello che lo
venerava di più, ma Ludwig non gradiva un atteggiamento tanto idolatrante: lo
trovava dannoso e, soprattutto, sinonimo di debolezza.
Per
queste motivazioni rimase stupito quando quel giovane soldato, di cui ancora
faticava a ricordare il nome – non gli capitava mai, ma quel personaggio gli
era stato antipatico dal primo momento in cui era venuto in contatto con la sua
personalità – aveva protestato così veemente dopo aver ricevuto quella notizia.
Ovviamente
Ludwig non si sarebbe fatto influenzare da puerili lamentele: i suoi ordini non
andavano messi in discussione perché sapeva che era la cosa giusta da fare.
“Capitano,
la sua decisione offende i soldati che si stanno battendo per la Germania!”
insistette il giovane in modo provocatorio. “È inaccettabile che si fraternizzi
con il nemico.”
Ludwig
era famoso per riuscire a mantenere sempre una fredda calma anche nei momenti
più difficili: fu questo a farlo desistere dal mandare quell’arrogante in
isolamento. D’un tratto gli tornò in mente il suo nome.
“Soldato
Hitler, la finisca con queste proteste, le mie decisioni non verranno messe in
discussione. Se non ha intenzione di partecipare avrà il permesso di restarsene
qui, in modo da non rovinare un sano momento di svago ai suoi compagni.”
Ludwig
si congedò senza indugiare poiché non gli interessava assistere alla reazione
del soldato. La prima volta che l’aveva incontrato, a Ypres, gli era sembrato
un giovane e diligente messaggero:
eseguiva gli ordini subito e senza discutere e amava la Germania quasi più di
Ludwig, ma con lo scorrere del tempo si rese conto che la sua dedizione così
sincera rasentava l’ossessione. Era uno di quelli che aveva fallito in tutto e
che era riuscito a trovare il proprio scopo soltanto col servizio militare.
Per
quanto Ludwig amasse combattere e per quanto avesse trovato in esso la missione
della sua vita, c’era una grande differenza tra la difesa della patria e l’odio
verso tutti coloro che non vi facessero parte. Una delle tante cose che Ludwig
aveva appreso in battaglia era che il nemico non andava disprezzato, ma temuto
e ammirato. Per questo aveva deciso di risparmiare quel francese: aveva
sabotato le loro mitragliatrici con un’azione lodevole. Ormai le armi erano
andate distrutte e non c’era motivo di accanirsi ciecamente contro di lui.
L’uomo
doveva differenziarsi dalle bestie.
Si
era fatto mezzogiorno ed era ora di andare. Ludwig radunò i soldati in
formazione ordinata e insieme iniziarono a marciare verso il villaggio di
Vauquais, deserto e quasi del tutto distrutto ormai da più di un anno. Sebbene
avesse accettato quasi subito l’idea dei francesi e avesse tentato di
trasmettere entusiasmo ai suoi uomini per quell’iniziativa, Ludwig indagava la
zona attorno a sé con attenzione: c’era sempre l’esigua possibilità che si
trattasse di una trappola.
Dalle
abitazioni diroccate provenivano alcune colonne di fumo e Ludwig udì le voci
dei francesi trasportate dal vento freddo. I suoi soldati sembrarono rincuorati
ma alcuni di loro erano ancora sospettosi, come lui del resto. In ogni caso, se
fossero tornati indietro adesso avrebbero soltanto peggiorato i rapporti con il
nemico.
Da
lontano un francese venne loro incontro, ringraziò il Capitano per essersi
presentato e invitò gli altri a riunirsi attorno ai fuochi. Ludwig non
l’avrebbe disdegnato ma i suoi sensi erano sempre all’erta, così iniziò a
girovagare lentamente tra i soldati accampati che ancora faticavano a
concedersi confidenza l’un l’altro. Effettivamente si trattava di una
situazione insolita, Ludwig non aveva ricordi di altri episodi come quello,
forse durante le guerre più antiche… In ogni caso se un evento di festa poteva
migliorare le prestazioni dei suoi soldati allora era favorevole anche a indire
una tregua con i francesi. Fu proprio uno di loro che gli venne addosso
barcollando – probabilmente già ubriaco.
“Oh! Pardon, monsieur!” si scusò
raddrizzandosi e Ludwig notò che non era ubriaco – forse – ma faticava a
camminare appoggiato a delle stampelle improvvisate. Inoltre riconobbe quella
voce non appena l’udì. Fece finta di nulla ma l’altro lo fermò mettendogli una
mano sulla spalla, in un gesto di confidenza prematuro e poco gradito.
“Ehi.
Sei tu, vero? Ti riconosco meglio di spalle che da davanti.” Ludwig si voltò e
si trovò effettivamente di fronte allo stesso francese a cui aveva salvato la
vita pochi giorni prima. Gettò un’occhiata distratta alle stampelle.
“Sei
stato tu a lasciarmi questo regalino” scherzò l’altro, un po’ troppo allegro
per essere uno che si trovava faccia a faccia con un nemico, “quindi ritiro le
scuse per esserti venuto addosso.”
“Come
preferisci” replicò Ludwig poco incline a continuare quella conversazione e
tentando nuovamente di svignarsela.
“Dove
vai così di fretta?” insistette il francese. “Per una volta tanto non abbiamo
nulla da fare e io vorrei offrirti un bicchiere di vino.”
Ludwig
non fece nulla per dissimulare la sua irritazione. Decise di essere chiaro,
poiché il francese sembrava non capire. “Sebbene abbia acconsentito a questo scambio culturale, non nutro una totale
fiducia in voi, perciò è mio dovere assicurarmi che dietro a tutto questo non
si celi un’imboscata.”
“Oh”
commentò l’altro con una punta di ammirazione. “Davvero professionale, ma posso
assicurarti che nessuno dei presenti è qui per sua volontà e tutto ciò in cui
speriamo è tornarcene a casa il prima possibile. Una tregua ogni tanto è
qualcosa a cui non rinunceremmo. Piuttosto, voi potreste approfittarne.”
Ludwig
si ritenne offeso da quell’insinuazione. “Non abbiamo portato armi, come
stabilito.”
“E
allora è tutto a posto! Siediti con me e dimostrami che sei qui solo per
trascorrere un pacifico Natale.”
I
francesi avevano davvero la lingua lunga.
“Come
mai parli tedesco?” domandò per cambiare argomento.
Prima
di rispondere l’altro se la prese comoda e si sedette, con molta calma, su un
ceppo vicino a un fuoco incustodito.
“Probabilmente
per la stessa ragione per cui tu parli francese.”
Era
un’affermazione alquanto stupida. Ludwig parlava francese perché era un
Capitano, mentre l’individuo che aveva di fronte non sembrava affatto una
persona di tale rango.
Non
giungendo alcun commento, il francese si affrettò a specificare. “Sono uno
degli addetti allo spionaggio nelle gallerie. Tu, invece, non sembri uno che si
sporca la camicia andando sotto terra.”
“Già”
rispose Ludwig, “io sono uno di quelli che si sporcano solo le mani.”
Con
quella risposta lo mise a tacere per un po’, ma la quiete durò poco.
“Comunque
mi sembra educato presentarmi, dato che io conosco già il tuo nome.” Invece di
tendergli la mano, gli porse un bicchiere vuoto. “Mi chiamo Francis e vorrei
che bevessi un po’ di vino.”
Ludwig
accettò il bicchiere con reticenza. “Non sono due frasi che vanno esattamente
assieme…”
“Oh
sì, invece. Io amo il vino.” Francis dimostrò la veridicità delle sue parole
stappando la bottiglia senza etichetta che stava appoggiata al ceppo e
versandone una quantità generosa a sé e a Ludwig.
Non
avevano nemmeno finito il primo bicchiere che il francese si era già perso in
discorsi insensati.
“Adoro
il vino, ovunque mi trovi mi fa sempre tornare in mente le estati della
Provenza. Tanti vigneti, tanto sole e tante contadinelle felici che cantano
raccogliendo i grappoli. Ah, la Francia, che terra da sogno. È come trovarsi
nei Campi Elisi. Sono sicuro che anche in paradiso sia pieno di contadinelle
con le gonne svolazzanti che vengono a imboccarti con gli acini succosi e
rispondono alle tue occhiate mostrandoti le loro candide mutandine …”
Ludwig
smise di ascoltare dopo gli elogi alla Provenza, un po’ perché non gli
interessava minimamente, un po’ perché si rese conto di non essere abituato al
vino, poiché, a dispetto del freddo, il viso gli si era riscaldato parecchio e
la testa era diventata pesante. Poteva reggere litri su litri di birra, ma il
vino era riuscito a prenderlo alla sprovvista.
“… e
il miglior panettiere di Parigi è …”
“Perché
non puoi stare zitto per un minuto?” Ludwig si era stufato di sentire quel
brusio in sottofondo. Francis lo guardò, interdetto: forse sperava di poter
parlare a vanvera ancora per una buona mezzora. Rimase colpito da quella
protesta, rifletté a lungo prima di rispondere, osservando le abitazioni di
pietra che si stagliavano scure sul bianco cielo invernale. Poi sorrise con espressione
che si avvicinava molto alla commiserazione.
“La
guerra cambia le persone. Credevo fosse solo una scusa usata dai vecchi reduci
per lamentarsi, invece mi sbagliavo.”
“Prima
non parlavi senza sosta?”
Francis
scosse la testa, agitando il bicchiere. “Altroché, l’arte della dialettica è un
mio grande pregio. È solo che, prima di incappare in tutto quest’orrore non
avevo bisogno di parlare a caso per nascondere quello che sentivo veramente.”
Ludwig
non era lì per offrire consulenza psicologica a un francese ubriaco, per cui
non volle indagare oltre. Ci pensò il francese a proseguire con la sua
confessione.
“Tu
che cosa pensi di tutto questo?” domandò Francis, facendo un ampio gesto
davanti a sé col bicchiere in mano.
Ludwig
non parlò: non era in grado di fornire una risposta del genere in così poco
tempo e, anche se avesse potuto, non credeva di voler condividere il suo punto
di vista a riguardo.
“Lo
sai” continuò Francis, “sei uno di coloro che ha invaso il mio bellissimo
Paese, riducendolo in questo stato vergognoso. Vorrei ammazzarvi tutti qui, in
un istante.”
Il
suo sguardo era piantato in quello di Ludwig. Se pensava di spaventarlo stava
commettendo un grandissimo errore, l’unico motivo per cui il tedesco non aveva
risposto a quella provocazione era che non lo credeva assolutamente capace di
compiere il gesto di cui l’aveva minacciato.
“Sai
perché non lo farò?” volle sapere Francis. Ovviamente Ludwig aveva molte idee
che si sposavano bene con la parola debolezza,
ma preferì conoscere l’opinione del francese.
“Perché
so che non risolverei niente. I tedeschi soffrono come i francesi, nessuno di
noi vorrebbe essere qui, adesso. Siamo solo strumenti di una guerra di cui
nessuno ha capito il significato, ma che tutti combattono credendo di avere
ragione. È per questo che non mi hai ucciso, vero?”
Ludwig
lo scrutò a sua volta per cercare di capire quanto di sé potesse condividere
con il francese.
“Rispettare
il nemico” disse infine, prendendo un altro sorso di vino e poggiando poi il
bicchiere nella neve. “Nel tuo caso non è soltanto un saggio precetto, ma
qualcosa che si può mettere in pratica. Strano a dirsi, ma la pensiamo in modo
molto simile.”
Il
vociare degli altri soldati era lontano, alle loro spalle, di fronte a loro i
resti di Vauquais e la consapevolezza di un futuro difficile e, forse, troppo
breve.
“Ludwig”
disse Francis dopo un po’ di tempo, chiamandolo per la prima volta per nome –
cosa che al tedesco non piacque particolarmente – “vorresti farmi un regalo di
Natale?”
“Sinceramente,
non mi pare che ci sia molto da festeggiare.”
“Infatti,
lo credo anch’io.” Ludwig si chiese perché
mai Francis avesse gli occhi arrossati. “Mi devi soltanto regalare una
mezzora lontano dai ricordi.”
Un’idea
iniziò a formarsi nella testa leggermente annebbiata del Capitano.
“Vorrei
che mi aiutassi a dimenticare per un po’ una persona che ha reso quest’ultimo
anno una tortura. È lontano da me e quasi sicuramente non lo rivedrò più,
perciò regalami mezzora di libertà da lui.”
Non
si trattava certo di una richiesta comune e a Ludwig non piaceva per niente
l’idea di essere usato per assecondare i piaceri perversi di un francese.
Tuttavia doveva fare i conti anche con le sue esigenze: non era di pietra e
dopo anni trascorsi nell’esercito era passato attraverso certe esperienze. Ma
lì… con un francese! Quello andava oltre il rispetto per il nemico.
“Non
mi aspetto niente da te, puoi farmi ciò che vuoi, non m’interessa.”
Quest’ultima affermazione di Francis mise in una luce vagamente diversa
l’insolita situazione. Forse sarebbe stata solo un’altra occasione in cui
avrebbe dimostrato la sua abilità nel comando.
Stanco
di aspettare risposte che non giungevano, Francis si alzò e zoppicando si
diresse verso una delle case abbandonate. Ludwig decise che era il momento di
smetterla di pensare.
La
porta della casupola si chiudeva a malapena e la parte superiore era bruciata;
le tende non c’erano più e gli scuri alle finestre erano caduti. Appena
entrato, Ludwig prese una sedia ammaccata e la incastrò tra il pavimento e il
pomello della porta. Francis era girato di spalle e si stava sbottonando la
giacca della sua divisa blu.
“Devi
sapere che non è mia abitudine adescare gli uomini in questo modo… ah, ma cosa
racconto! Se la gente conoscesse tutte le mie avventure amorose la smetterebbe
di adulare Casanova. Oh!” Si voltò di scatto con metà del petto scoperto. “Non
ti ho chiesto se preferisci farlo con i vestiti o senza.”
“Non
fa differenza.” Ludwig voleva solo finire in fretta e tentare di ricavare
soltanto il meglio da quella strana – e un po’ deprimente – situazione.
Francis si avvicinò
a lui e tese le mani verso i bottoni della sua giacca, ma a Ludwig non
interessava quella parte, non nutriva nessun sentimento per quell’atto e non
voleva sentirne alcuno, poiché lo riteneva un comportamento assolutamente non
consono a una personalità moralmente solida come la sua. Si trattava di
un’eccezione, un piccolo divertimento, un’incoscienza dettata dal vino che
nessuno sarebbe mai venuto a sapere, una piccola macchia sul suo curriculum
impeccabile che sarebbe stata cancellata via con facilità.
Afferrò un polso
del francese, glielo torse sopra la testa e lo spinse con la faccia rivolta
verso il muro.
“Oh, facciamo così?
Avevo sperato in una posizione del tutto diversa, ma sono uno che si sa adattare.”
“Non dimenticare
chi è l’invasore, tra i due.”
Finalmente Francis
si decise a zittirsi e a collaborare slacciandosi i pantaloni. Ludwig
continuava a tenere stretto il suo polso contro il muro gelato, il francese
prese la sua mano libera e si portò le sue dita alla bocca, poi Ludwig poté
iniziare a scendere verso il basso, lungo la curva della schiena, e a toccarlo
senza troppo riguardo. Il corpo di Francis era sensibile e reagì velocemente
agli stimoli. Ludwig fu abile a slacciarsi la cintura con una sola mano e il
francese lo fu altrettanto a stuzzicarlo con la propria, pur essendo voltato.
Nonostante la
tacita intesa avuto fino a quel momento, la prima volta non furono
perfettamente in sincronia: Francis era ancora un po’ rigido e Ludwig fu un po’
troppo precipitoso. Quel maledetto vino l’aveva lasciato intontito, ma col
procedere del tempo i loro movimenti si armonizzarono e i gemiti a fatica
trattenuti di Francis scandivano i secondi e i minuti.
Ludwig si sfilò la
cintura dai pantaloni e la passò attorno al collo del francese che si lasciò
sfuggire una risatina roca.
“Ti diverte?” volle
sapere Ludwig.
“Penso solo… che io
e te siamo davvero in sintonia. È come se mi stessi punendo per questo mio
piccolo peccato di lussuria.”
“Pensala come vuoi.
A me piace solo avere le persone sotto controllo.”
I loro fiati si
condensavano nell’aria gelata e delicati fiocchi di neve si insinuavano tra le
assi smembrate del tetto.
Si inarcarono di
nuovo, la cintura premette sulla pelle di Francis imbiancata dalla pallida luce
che filtrava dall’alto, bloccando il suo freddo respiro. Il sudore di Ludwig si
stava ghiacciando in fretta e sentì di essere vicino al culmine.
Un ultimo movimento
un po’ più violento e scomposto degli altri, il laccio strinse troppo e un nome
fu lasciato aleggiare a metà nell’aria limpida.
Francis venne e
Ludwig lo seguì.
Il francese si
lasciò andare a un profondo sospiro liberatorio e a una risatina che non aveva
niente di elegante, Ludwig invece si affrettò a rivestirsi, prima che il sudore
lo congelasse. Francis si lasciò scivolare a terra contro il muro e Ludwig si
sedette accanto a lui – ma non troppo vicino – per riprendere fiato. Sentì
l’altro armeggiare con la giacca ancora abbandonata sul pavimento, poi Francis
gli mise davanti agli occhi una sigaretta ammaccata. Il tedesco l’afferrò un
po’ sorpreso da quel gradito optional e se la fece accendere.
"Tu mettrais l’univers
entier dans ta ruelle" disse il francese improvvisamente allegro,
liberando una boccata di fumo.
“Posso sapere da
quando ti eri preparato a questo?” domandò Ludwig, ignorando la citazione.
“Da quando si è
deciso di trascorrere insieme il Natale. Sinceramente, avrei rimorchiato
chiunque.” Si prese il tempo di aspirare di nuovo. “Però il fatto che sia stato
tu l’ha reso piacevole.”
Ludwig non rispose.
Non aveva certo bisogno di rassicurazioni, eppure non voleva far vedere a
Francis che quel piccolo apprezzamento non l’aveva lasciato indifferente.
Infine, il Capitano si allacciò il cappotto, si raddrizzò il cappello e si
rivolse a Francis, che se ne stava ancora semi sdraiato per terra, nudo dalla
vita in su.
“A mai più,
francese. Ovviamente nulla di tutto quello che è successo dovrà uscire da qui.”
“Oui, mein hauptmann” rispose, facendo il
saluto militare con la sigaretta tra le dita. “Ma prima permettimi di
ricambiare il tuo regalo.” Frugò nuovamente tra le sue cose ed estrasse una
scatolina di latta verde scuro. Gliela porse e Ludwig l’aprì subito,
sospettoso.
Era un set per la
toeletta maschile, con pettine, forbici, rasoio e pennello per radersi. Il
tedesco gli rivolse un’occhiata interrogativa.
“Lo ammetto, non
l’ho preso pensando a te. Mi perdonerai?”
“Era per il tuo
uomo, giusto?”
Francis abbassò lo
sguardo, mettendosi le mani in tasca. “Tenerlo sempre con me, sapendo di non
poterglielo dare, è molto più triste che donarlo a qualcun altro. Permetti?”
Prese in mano il pettine e lo passò sulla frangia scomposta di Ludwig. “Ti
dona, questa pettinatura. Ora sì che sembri un vero duro.”
Ludwig si diede una
fugace occhiata allo specchietto ancora riposto nella scatola.
“Grazie.”
“Addio, Allemand. Spero davvero di non ucciderti
per sbaglio.”
“Addio, Französisch. Ascolta bene, la prossima
volta.”
Ludwig uscì dalla
casa, e si congedò da Francis sperando che riuscisse a comprendere il
significato di quell’ultima frase.
“Capitano! Cosa ci
fa qui sotto?”
“Taci, soldato!
Ricorda qual è il tuo compito.” Ludwig riprese a scrutare, stizzito, il buio in
cui era immerso. Le gallerie serpeggiavano ormai attraverso tutta la terra di nessuno, e stare lì sotto dava
la sensazione di ritrovarsi sepolti vivi in una fossa. Ora Ludwig capiva cos’era
stata la vita di Francis fino a quel momento e l’utilità che la sua conoscenza
avrebbe potuto avere a quello stato della battaglia, quell’interminabile e
infruttuosa battaglia…
Nel silenzio
generale, Ludwig si accostò alla nuda terra scavata di recente, nel punto in
cui i suoi uomini avevano individuato la posizione del tunnel nemico. Sapeva
che quello che stava per fare poteva essere considerato tradimento, ma sapeva
anche che era la cosa più giusta, per lui e per coloro che si trovavano in quel
luogo sperduto e martoriato a uccidersi inutilmente.
Avvicinò l’orecchio
alla parete, ascoltò attentamente per qualche minuto, poi prese fiato e si
domandò, per l’ultima volta, se fosse sicuro di ciò che stava per fare.
“Piazzeremo una
mina qui, alle 19.”
Trattenne il
respiro e attese una risposta. In realtà si sentiva ridicolo, ma non lo stava
facendo per paura o per debolezza. Voleva solo mettere fine a quella pazzia.
“Compris.”
Continua
Buonasera
a tutti! Chiedo scusa per il ritardo col quale ho pubblicato… speravo di
riuscire ad aggiornare ogni settimana ma ho avuto da fare più del previsto e
alla fine sono stata costretta a posticipare. Comunque spero che siate rimasti
soddisfatti. Finalmente un po’ di sano sesso, scrivere a rating arancione è
stato abbastanza difficile per me, soprattutto si è rivelato molto complicato
riuscire a farvi capire dove si trovavano… certe parti del corpo….. vabbè!
Riprendo
un attimo il discorso accennato nelle note e poi rispondo alle recensioni:
durante l’assedio di Vauquais, iniziato nel 1914 e terminato nel 1916 (credo…forse
’17) i soldati dei diversi fronti hanno deciso di fare una tregua e festeggiare
assieme il Natale. Non so esattamente se si siano ritrovati al villaggio o se abbiano
avuto con loro le armi o no ma comunque è un fatto accaduto veramente, e anche
la presenza di Hitler, e il suo rifiuto a festeggiare con i francesi, sono
veri. Per quanto riguarda le soffiate che i soldati nelle gallerie si sono
fatti sulla posizione delle mine… è vero anche quello, anche se è accaduto
verso la fine dell’assedio.
@ Miristar: Eh…che dire, mi
spiace che sia stato un po’ palloso, purtroppo io nutro un amore malato per i
polpettoni storici quindi dovrete sorbirvene ancora un po’, ma mi impegnerò per
renderli più leggibili! Per quanto riguarda Arthur come avrai visto non si sa
ancora niente ma non perdere le speranze! Invece, i capitoli saranno sei, due a
testa!
@ GinkoKite: I tuoi
apprezzamenti sull’IC dei miei personaggi mi rincuora tantissimo! Oggi vi ho
fatto conoscere il mio Ludwig e spero davvero che sia risultato credibile… ho
fatto davvero fatica con lui, ma credo anche che sia quello che più si avvicina,
caratterialmente, all’anime: un po’ scostante, maniaco dell’ordine, ma anche
paziente, altruista e comprensivo. Logicamente c’è sempre da considerare che,
trovandosi in guerra, non possono passare le giornate a rincorrersi per i campi…
Spero che il mio francese sia corretto anche stavolta! XD
@ Julia Urahara: Che ne dici del
Doistu-polpettone? XD Mi è venuto molto più tenero di come l’avevo pensato ma
non mi dispiace del tutto… Attendo le tue impressioni!
@ Baekho: Io e l’angst siamo
pericolosamente in sintonia… E per quanto riguarda Arthur, sì, lo amiamo
tutti!!! Ma bisogna aspettare :P Prometto che nel prossimo capitolo vi
ripagherò tutta per la vostra paziente attesa.
@ Harinezumi: La risposta al tuo
commento l’ho praticamente esaurita con i messaggi precedenti ^^’ ma ribadisco che
mi dispiace taaaaaanto se risulto noiosa ma purtroppo adoro la storiaaaaah!
Comunque vi prometto che i prossimi due capitoli saranno molto più romanzati, l’ultimo
invece… beh diciamo che se non vi interessa la storia potreste anche saltarlo…
vedete voi! Grazie millissime per i tuoi complimenti e alla prossima!!
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Fourth
Trench: The last
salvation
Annuncio
a tutte le fan in attesa che il prossimo capitolo è di Arthur… eh sì, è ancora
vivo e più o meno intero… potete smettere di stare in pena XD
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Capitolo 4 *** Fourth Trench: The last salvation ***
fourth trench
Titolo: Schützengraben, Capitolo 4 – Fourth
Trench
Fandom: Axis Powers Hetalia
Personaggi: Inghilterra (Arthur Kirkland),
Francia (Francis Bonnefoy), Germania (Ludwig)
Genere: Storico, Drammatico, Guerra
Rating: Nc17, Arancione
Avvertimenti: Yaoi, Angst, Death, AU
Parole: 5,634 con Windows Office
Disclaimer: I personaggi della fanfiction
provengono da Axis Powers Hetalia che appartiene a Hidekaz Himaruya
Note:
1. Anche stavolta
ho dovuto posticipare la data del capitolo rispetto al fatto storico, solo per
riuscire a parlare di tutte le battaglie che avevo in mente, ma anche per fare
in modo che i personaggi si trovassero e
si spostassero in un arco di tempo “umano” da un luogo all’altro. Perciò vi
chiedo nuovamente di fare finta di essere nel 1915, e non nel ’16.
2. Per la vostra gioia ci saranno
ancora scene di sesso.
Fourth Trench: The last
salvation
Dover
/ Ypres, aprile 1916
Londra
bruciava e gli Zeppelin solcavano il cielo cremisi come le ombre di enormi
calabroni. Tutto andava in rovina, le bombe cadevano inesorabilmente su ogni
cosa, imprevedibili e implacabili. La sua infanzia, la sua vita si sbriciolavano
tra le esplosioni, i ricordi volavano lontano sottoforma di cenere.
Sentiva
il calore delle fiamme e la polvere degli edifici crollati che lo soffocavano.
Era inutile guardarsi attorno: lo scenario era sempre uguale e non sembrava
esserci una via di fuga.
Contemplava
impotente quella tragedia e l’unica cosa a cui riuscì a pensare fu un vecchio
ritornello che raccontava di un ponte che crollava…
Le
pareti della sua stanza erano grigie, macchiate qua e là dall’umidità e con
estesi buchi nell’intonaco. Lì, a Dover, gli Zeppelin erano già passati. I
tedeschi, nel tentativo di conquistare la Manica, avevano attaccato i porti e
poi si erano spinti nell’entroterra.
Arthur
rimase immobile a fissare il soffitto scrostato, con la coperta gettata di lato.
Non sapeva se quello scenario infernale di Londra fosse stato un incubo o un
ricordo: era accaduto appena due giorni prima e ancora faticava a rendersene
conto.
Si
mise a sedere lentamente sul letto, la luce grigia penetrava dalla finestra
alla sua destra e mostrava la desolazione di Dover. La sua camera era vuota,
eccetto un semplice comodino e l’unica finestra, dalla quale cercava le
risposte alle sue domande, si trovava accanto al triste letto dalla testata in
ferro.
Aveva
il braccio sinistro fasciato e appeso al collo e una benda stretta in fronte,
regali dall’ultimo campo di battaglia, a Neuve Chapelle. L’operazione era stata un successo, la città
era stata sottratta ai tedeschi in mezzora, non riusciva a capire come, in così
poco tempo, fossero potuti morire a migliaia: cinquemila perdite per ogni
chilometro di terra conquistato.
Quando
gli fu detto che sarebbe stato riportato a Londra aveva davvero sperato che
fosse tutto finito e che, in qualche modo, avrebbe potuto provare a
ricominciare. Poi gli avevano riferito che, appena rimessosi, sarebbe stato
rimandato al fronte: era un Capitano ormai, gli uomini avevano bisogno della
sua guida, poiché si era dimostrato così abile nelle battaglie precedenti. Era
così, aveva faticato così tanto per potersi guadagnare la propria indipendenza,
ma si stava rendendo conto sempre più di aver fatto male i conti.
Qualcuno
bussò alla porta e non si preoccupò di attendere l’invito prima di entrare.
Arthur fece per alzarsi ma fu fermato da un gesto della mano.
“Buongiorno,
Capitano. Come si sente oggi?”
“Buongiorno,
Colonnello. Sto bene, la ringrazio.”
“Questo
ci conforta, dato che abbiamo molti progetti in serbo per lei.” Il Colonnello
si avvicinò al letto con una cartellina sottobraccio. “Sono qui in veste
ufficiale per promuoverla al rango di Maggiore.”
Arthur
si impegnò per simulare sorpresa, in realtà se lo aspettava già da tempo. Un
altro grado verso l’alto e un altro metro verso il basso.
“Siamo
tutti colpiti dalla capacità con la quale ha organizzato quei salvataggi
durante l’attacco di Londra, nonostante fosse ferito, quindi promuoverla ci è
sembrata la cosa più giusta da fare.”
Già,
era proprio l’occasione che stavano aspettando.
“Presumo che si stia annoiando” continuò il Colonnello estraendo la cartellina
e gettandola sul letto. “Le ho portato qualcosa da leggere.”
Arthur
osservò il fascicolo, se avesse potuto scegliere non l’avrebbe mai letto, ma il
suo superiore era lì e controllava le sue mosse, così lo aprì.
“Belgio…”
lesse ad alta voce.
“Ypres.
È quella la sua prossima destinazione. Presumiamo che i tedeschi stiano
conducendo degli esperimenti in quel luogo. I battaglioni alleati sono giù sul
posto, vogliamo che lei li raggiunga e fermi i tedeschi una volta per tutte.”
Arthur
sollevò lo sguardo dai fogli e lo puntò dritto in quello del Colonnello. Ormai
non cercava più di nascondere il suo odio verso quell’individuo: stavano
entrambi giocando, ma la sconfitta di Arthur era un dato di fatto. Aveva
compiuto ogni genere di azione spregiudicata, pericolosa, eroica, subdola pur
di arrivare fin lì, al vertice, per potersi allontanare dal campo di battaglia
e avvicinarsi a coloro che avevano in mano le sorti della guerra, per farla
terminare o almeno per potersi rintanare da qualche parte lontano da quella
distruzione. Ma più si avvicinava al potere, più percepiva la verità e
comprendeva sempre più che il motivo per cui milioni di persone si affannavano
e morivano era una mera questione economica. Non esistevano né un inizio né una
fine, le sorti di tutti erano in mano a pochi e lui era un semplice strumento,
come tutti gli altri. Si era praticamente gettato in pasto a coloro che
cercavano carne da mandare al macello per i propri scopi: a nessuno faceva
comodo un ufficiale che proveniva dal popolino e il fatto che si fosse
guadagnato il potere con le proprie forze era soltanto un elemento di pericolo,
perché lui non vedeva la guerra dallo stesso punto di vista dei borghesi che
stavano al comando e accoglierlo tra le loro fila li avrebbe soltanto
danneggiati.
Questo
era il semplice motivo per cui adesso Arthur veniva mandato nell’inferno di
Ypres, perché questa era una missione dalla quale non sarebbe dovuto tornare.
Una
promozione… bella scusa. Maggiore
Kirkland non suonava nemmeno tanto bene. Ma Arthur non si sarebbe tirato
indietro, si era sobbarcato di troppe responsabilità, sapeva troppe cose per
poter desiderare di abbandonare tutto. Piuttosto, avrebbe compiuto con dignità
il primo passo sul sentiero in discesa verso la rovina.
Quel
posto era una desolazione, proprio come tutti gli altri luoghi in cui era stato
durante gli ultimi due anni. Inghilterra, Francia, Belgio, ormai non vi erano
più molte differenze, l’unica cosa che vedeva erano i campi di battaglia e
quelli erano sempre, tristemente uguali. Forse, l’unica novità degna di nota
era che a Ypres c’era ancora qualche albero vivo. Però pioveva. Pioveva sempre.
Le
trincee si articolavano su una vasta area, mentre le gallerie erano basse e
strette, per lo più si trattava di cunicoli. C’era solo un tratto più praticabile
che conduceva ad alcune stanze per le necessità primarie: infermeria, alcune
camerate e due uffici, uno per il Generale – che in ogni caso non li degnava
mai della sua presenza – e uno per lui. I soldati che non trovavano posto
sottoterra si accontentavano di dormire in trincea o, se erano fortunati, nei
villaggi vicini, quando non erano chiamati per combattere. Al momento comunque
si trovavano tutti lì, perché Arthur non aveva perso tempo a organizzare
l’attacco desiderato dal Comando e più tardi si sarebbe consultato con i
Sergenti.
Intanto
scrutava la zona deserta che si stendeva davanti a lui: da qualche parte, a un
chilometro circa di distanza, c’era la trincea tedesca, immobile.
Arthur
stava in piedi vicino alla trincea, in una zona leggermente rialzata: un
perfetto bersaglio per un cecchino, ma sapeva di non correre alcun rischio, al
momento. Da settimane era tutto tranquillo, nulla si muoveva, era come se i
tedeschi stessero aspettando qualcosa, e per Arthur non era difficile capire
cosa.
Il
braccio gli pendeva ancora dalla fascia al collo e per quanto avesse voluto
liberarsi di quel bendaggio era ancora troppo presto. Durante l’attacco a
Londra gli era rimasto sotto un muro crollato, solo per miracolo non si era
rotto niente ma aveva rischiato di farselo amputare da quanto i muscoli e i
tendini si erano danneggiati. Era stato fortunato, se ne rendeva conto ormai da
due anni. Nonostante tutte le idiozie e gli atti sconsiderati che aveva
compiuto si era sempre salvato e aveva sempre combattuto per restare in vita.
Ma da un po’ gli era sorta una nuova domanda: a cosa serviva restare in vita in
un mondo come quello? Ora che conosceva tutti i loschi ed egoistici intrighi
che stavano all’origine della guerra aveva anche la certezza che quel conflitto
non sarebbe mai finito. Quindi tanto valeva sparire per sempre da quel posto.
Aveva
sollevato il fucile e stava prendendo la mira, ma era inutile, era ridicolmente
in ritardo e il tedesco lo aveva già nel mirino. Per di più stava per morire
per aver seguito le grida di un francese. Maledizione.
Poi
accadde qualcosa di indefinito e nebbioso. Dal fianco ferito – che prima aveva
quasi dimenticato – salì una fitta che gli raggiunse il cervello e per qualche
istante vide tutto confuso. Riuscì a sentire lo sparo e il terreno gli colpì la
nuca. Pensò di essere stato preso in pieno e il mondo si oscurò. Ma poi sentì
degli uomini che gridavano, altri spari, riapparve un po’ di luce e Arthur si
ritrovò a boccheggiare nel fango. Il tedesco che gli aveva sparato cadde morto
e altri soldati con la divisa inglese color kaki vennero a vedere se Arthur era
ancora vivo, chiamarono un barelliere e lo portarono via. Ancora faticava a
capire cos’era successo, aveva ipotizzato che la ferita al fianco gli avesse
fatto perdere i sensi per qualche secondo e gli avesse fatto schivare il
proiettile per un soffio.
Ma
per tornare alla base lui e i barellieri dovevano attraversare il campo di
battaglia, con i proiettili che vagavano impazziti, le mine ovunque e il fuoco
che aveva incendiato quel francese e l’aveva divorato in pochi secondi. Che
senso aveva correre al rifugio? Non sarebbero riusciti a fare un solo passo in
più.
Il
braccio gli faceva malissimo e lo costrinse ad aprire gli occhi. Adattarsi al
buio della camerata fu difficile, ma presto riprese il controllo e ricordò dove
si trovava. Era a Ypres, non ad Arras. Quel capitolo della sua vita era chiuso.
Durante
il sonno la fascia gli si era slegata dal collo e il braccio gli era finito
sotto il corpo. Impiegò molto tempo prima di riuscire a muoverlo. Il suo
respiro era ancora affannoso, rimase a lungo immobile, con le coperte scostate
dal corpo. Con la mano sana tastò il materasso duro al suo fianco, ma ne
incontrò subito il margine. Ritirò la mano sentendo un’inspiegabile tristezza.
Quello
non era un letto francese.
“Le
loro mitragliatrici sono appostate qui, qui e qui. In questo punto ci sono due
cannoni, ma hanno esaurito le munizioni e i rifornimenti non sono ancora
arrivati. Questa zona è la preferita dai cecchini, quindi se attacchiamo da
questa parte…”
Arthur
reggeva una matita tra i due indici e tracciava distrattamente piccole onde
nell’aria, mentre osservava attento la cartina che il Sergente stava
picchiettando, sciorinando orgogliosamente tutte le informazioni che aveva raccolto
sui tedeschi prima dell’arrivo dei rinforzi.
“Se
provassimo ad aggirare qui…”
“Cos’è
quella traccia?” domandò improvvisamente Arthur. Il Sergente si interruppe con
aria confusa.
“Quale
traccia?”
“Quel
segno dietro la nostra trincea.”
L’uomo
abbassò lo sguardo, alla ricerca. “Oh! Quella è la trincea che usavamo
all’inizio dell’attacco, quando i tedeschi utilizzavano i cannoni, ma quando
hanno terminato le munizioni, e poiché abbiamo accertato che non era più
previsto il loro arrivo, ci siamo spostati un chilometro più avanti.”
Arthur
si piegò in avanti e la osservò pensieroso. “Voglio mille uomini, settecento
attaccheranno frontalmente, trecento rimarranno qui in caso di necessità. Tutti
gli altri si trasferiranno nella vecchia trincea.”
Il
Sergente si agitò e si rivolse a lui come se stesse parlando a un idiota. “Ma
Maggiore, in caso di emergenza noi saremmo troppo lontani per venire in vostro
aiuto. Mille uomini sono troppo pochi!”
“Non
se vengono usati bene.”
“Ma
si tratta di una missione rischiosa, non sappiamo nemmeno cosa stiano
pianificando i tedeschi!”
“Per
questo motivo ho intenzione di portarne pochi con me! È meglio che ne muoiano
mille che cinquemila.” Arthur stava perdendo la pazienza, era stanco di venire
trattato come una recluta: sapeva quello che stava facendo. L’altro si
acquietò.
“Maggiore,
è sicuro di non voler dirigere l’attacco da qui? Lei detiene il comando, se
dovesse cadere sul campo…”
“Non
accadrà. E se anche fosse, non sono io a fare la differenza, qui.” Avrebbe
continuato a ripetere ai suoi uomini quella
frase per rassicurarli. Non sapeva se sarebbe caduto o no, il giorno
dopo, ma di sicuro era ciò che il Comando si aspettava, quindi poteva essere
solo questione di tempo.
“Ora
vai, manda qui gli ufficiali francesi cosicché possano concordare col piano.”
Arthur congedò con un gesto della mano il Sergente, il quale salutò e uscì in
fretta. Fuori si udì un breve scambio di battute, poi la porta si aprì di nuovo
ed entrarono i francesi. Il primo, il Tenente, fece il saluto militare e venne
diretto verso la scrivania; il secondo…
Arthur
trattenne il respiro, sentì il cuore mancare un battito e rimase impietrito
perché quella era l’ultima persona che pensava di trovarsi davanti. Era
Francis, e aveva la sua stessa, identica espressione.
Arthur
era stato colto così alla sprovvista che non seppe come reagire, ma Francis
stava immobile e muto, pallido e con gli occhi sgranati come se stesse
guardando un fantasma, perciò l’inglese tentò di riscuotersi e fece finta di
nulla, invitando il Tenente a parlare. Questi non se lo fece ripetere, sembrava
aver imparato a memoria un discorso interminabile sui pregi delle sue truppe e
sul supporto che avrebbero offerto e Arthur rispondeva ogni tanto a
monosillabi, sforzandosi di guardarlo negli occhi. Ma ogni tanto lo sguardo gli
cadeva su Francis che se ne stava ancora lì a fissarlo, immobile, mettendolo
del tutto a disagio. Sembrava fare uno sforzo immane per trattenersi, gli
tremavano tutte le braccia.
Arthur espose il
piano a grandi linee, disse che avrebbe preso solo quattrocento francesi per la
spedizione del giorno dopo. L’altro dimostrò di accettare le condizioni,
probabilmente aveva poca voglia di organizzare un attacco e Arthur aveva fatto
in modo che esso apparisse una specie di ricognizione. Il Tenente si congedò e
fece un cenno un po’ spazientito a Francis, ma Arthur colse l’occasione al
volo, senza pensarci.
“Vada pure,
Tenente, ma vorrei che il Sergente si trattenesse qui per elencarmi le armi a
vostra disposizione.”
“Come desidera”
rispose l’altro senza dimostrare troppo interessamento. Uscì e si chiuse la
porta alle spalle.
Arthur fece il giro
della scrivania lentamente, cercando qualcosa da dire e un’espressione da
assumere.
“Ehi… dove sei…”
Gli fu impossibile terminare la domanda perché Francis gli aveva preso la testa
tra le mani e sigillato le labbra con le proprie. Arthur non apprezzava simili
effusioni ed ebbe l’impulso di respingerlo, ma non lo fece, un po’ perché era
accaduto tutto così inaspettatamente – l’incontro, la sua lingua in bocca – un
po’ perché era stato colpito dalla sofferenza che Francis aveva dimostrato di
patire mentre stava lì, in piedi, a guardarlo… e anche perché era come se
qualcosa, dentro di lui, si stesse sciogliendo e gli stesse prosciugando le
forze.
Per tutte quelle
ragioni – e per tante altre che non riuscì a classificare – non reagì alle mani
di Francis che lo frugavano, toccandogli ogni parte del corpo, come per
assicurarsi che ci fosse ancora tutto. Ma quando gli tastò il braccio ora
libero, Arthur si ritrasse colto da una fitta di dolore.
Francis si
spaventò, ma subito si avvicinò di nuovo e stavolta lo guardò dritto negli
occhi. Arthur si perse per un attimo in quel blu, un colore così vivo che non
vedeva da molto tempo. Il francese lo strinse così forte da spremergli l’aria
fuori dai polmoni.
“Lo giuro, ero
sicuro di non rivederti più. Maledizione, cosa mi hai fatto per torturarmi
così? Ho sperato che mi sparassero un colpo in testa per riuscire a smettere di
pensarti.”
“Basta, Francis.”
Arthur cercò di essere delicato ma non era sicuro spingersi oltre, qualcuno
sarebbe potuto entrare, e comunque c’era un limite a tutto, ciò che si sentiva
dire lo metteva in difficoltà. Non gli faceva piacere ammetterlo, sperava di
aver sviluppato un maggior autocontrollo, ma era contento di rivedere Francis,
era come tornare indietro, quando la fine della guerra sembrava sempre dietro
l’angolo.
Nonostante tutto
avvertiva un certo pericolo in quel sollievo, qualcosa che avrebbe potuto
minare la sua determinazione e allontanarlo dai suoi doveri.
“Che ti è
successo?” chiese Francis ignorando le sue proteste. Scrutava con premura ogni
angolo del suo viso. Arthur si sentì a disagio.
“Nulla di così
diverso da quello che hai passato tu, a meno che non ti abbiano messo a
riordinare scartoffie fino adesso.”
Francis sembrò
addolorato. “I tuoi occhi sono morti, Arthur.”
Non era certo
qualcosa che ci si sentiva dire tutti i giorni e l’inglese rimase non poco
colpito da quell’osservazione. In realtà non c’era nulla di strano in quello che
aveva detto Francis: Arthur era perfettamente consapevole di ciò che era
diventato.
“Già” disse infine,
nascondendo una punta di amarezza, “certe cose non si possono evitare.”
In realtà anche il
francese appariva provato. Portava su di sé i segni della guerra, era dimagrito,
non camminava più sicuro e impettito, non esibiva più quel sorriso
provocatorio, ma i suoi occhi brillavano, come chi non ha ancora abbandonato la
speranza.
All’improvviso il
francese parve ricordarsi della reticenza di Arthur e si allontanò leggermente,
cambiando argomento. “Sono felice che tu abbia mantenuto la tua promessa di
restare in vita. Mi piacerebbe tanto sapere come hai fatto a diventare Maggiore
in così poco tempo.”
Arthur
non andava fiero di ciò che aveva fatto: se due anni prima era disposto a
qualunque cosa pur di arrivare ai vertici, ora rimpiangeva i giorni in cui
sarebbe potuto morire silenziosamente su un fangoso campo di battaglia,
inconsapevole delle trame che si celavano sopra la sua testa, convinto di aver
combattuto per un giusto ideale.
Si
portò una mano alla tempia e sollevò i capelli, rivelando la cicatrice infertagli
dal proiettile di Arras che l’aveva risparmiato per un soffio.
“Grazie
a questo e a mille altri inutili atti di eroismo.”
Francis
sfiorò la ferita a sua volta. “Che idiota.”
Sì,
lo era, ma non disse niente. “Se non avessi fatto tutto questo ora non sarei
qui.”
“Già,
probabilmente saresti in Inghilterra, in congedo.”
Avvertì
una punta di irritazione. Ricordargli i suoi sbagli non lo aiutava a restare
calmo. Decise di prenderlo in contropiede. “E tu perché non sei a casa in
congedo?”
Francis
immerse le dita più in profondità tra i capelli di Arthur. “Ti cercavo.”
“Hai
detto di essere sicuro che fossi morto.”
“È
vero.” Rise senza entusiasmo. “Ti rendi conto di quello che mi hai fatto?”
Arthur
aveva voglia di ribattere senza tanto garbo, non gli piaceva il modo in cui
Francis lo sobbarcava di ulteriori responsabilità. Era certo di non poter
reggere nulla di più, ma era stanco dei battibecchi, delle gare a chi riusciva
a prevalere, delle lotte contro le tentazioni. Gli rimaneva soltanto un
obiettivo da portare a termine e probabilmente non si sarebbe protratto oltre
il giorno successivo.
Francis
lo guardò in un modo che lo inquietò, lo abbracciò di nuovo, più delicatamente
questa volta e iniziò a baciargli il collo. “Adesso che sono qui non ti lascerò
fare altre stupidaggini.”
Arthur
si divincolò. “Basta, adesso.”
“Nonostante
tutto non sei cambiato.”
Sì
che era cambiato! Aveva fatto delle scelte e imboccato un percorso al quale non
poteva più sottrarsi senza provocare gravi conseguenze, e questo non era da
lui. Francis lo faceva arrabbiare, non sapeva nulla di quello che gli era
successo o che aveva deciso. Non si rendeva conto delle responsabilità che aveva!
Era
cambiato, o meglio, era distrutto. Aveva cancellato tutto ciò che era e anche
ciò in cui credeva. Non aveva altre aspettative se non quella di andare a
morire il giorno dopo, rinunciando semplicemente a quello per cui, due anni
prima, voleva vivere e combattere.
Si
sentiva ridicolo di fronte a Francis. Aveva affrontato ogni genere di
difficoltà, pericolo e sofferenza, eppure gli sembrava di essere ridicolmente
inferiore e questo lo faceva infuriare.
Era
come se Arthur non esistesse più, persino il suo orgoglio era sprofondato sotto
terra.
Non
avrebbe rinunciato ai suoi doveri e non avrebbe abbandonato la sua missione, ma
se avesse potuto avrebbe voluto sparire per sempre, in quel modo avrebbe
risolto ogni problema.
“Ti
desidero come prima, ma so che sei un pudico bastardo quindi non insisterò, mi
accontenterò di continuare a coccolarti finché non riuscirai più a resistermi.”
Arthur
lo spinse via. Francis non sapeva niente, non poteva pretendere di credere che
fosse rimasto lo stesso di prima. Era furibondo e la sua mente andò al
tagliacarte che teneva sulla scrivania: glielo avrebbe piantato volentieri in
un occhio. Che arrogante. Ma ciò che lo faceva sentire ancora peggio era la
sensazione di avere sempre torto quando si trovava col francese. Che situazione
degradante, voleva provare finalmente sollievo, voleva scomparire. Ormai non
era che un rottame, sentiva che persino la sua anima era stata corrotta e non
aveva più speranze. Non riusciva a provare altro che dolore, senso di colpa e
rabbia, era per questo che il giorno dopo avrebbe attraversato la terra di nessuno senza paura: perché era
arrivato al punto di disprezzarsi.
Fissò
Francis negli occhi, un po’ come una sfida, ma non c’era nulla di nobile in ciò
che stava per fare, soltanto il desiderio di essere annullato, nel corpo e
nell’anima.
Si
sentiva uno schifo, ma con decisione e rabbia iniziò a sbottonarsi la giacca e
la gettò per terra, poi fece lo stesso con la camicia, i pantaloni e in
pochissimo tempo si ritrovò nudo.
Francis
aveva assistito a quell’esibizione inaspettata a bocca aperta, ma Arthur non
aveva intenzione di conoscere la sua reazione, si trattava soltanto di un atto
egoistico.
Andò
al muro e vi si appoggiò coi gomiti, cercando di non pensare a nulla.
“Che
cosa stai facendo?” domandò Francis incredulo.
“Stai
zitto, so che lo vuoi e allora sbrigati.”
Sentì
i suoi passi che si avvicinavano lentamente, ma non le sue mani sulla pelle,
come aveva pensato.
“Non
ti voglio così.”
Che
palle, non gli andava bene niente. Non si poteva accontentare?
“Francis,
sono cambiato, fattene una ragione, quindi datti una mossa prima che ci
ripensi!”
Era
umiliante, ma era anche tutto ciò che in quel momento poteva fare per cercare
di soddisfare il suo desiderio di autodistruzione, o almeno era l’unica cosa che
non comprendesse l’uso del tagliacarte.
Era
solo un disgustoso concentrato di dolore e fallimenti.
Francis
avrebbe potuto insistere sulla convinzione che quello fosse il modo sbagliato
per farlo, ma probabilmente pensò di non potersi perdere un’occasione del
genere. Le sue mani erano fredde quando gli sfiorarono i fianchi e salirono
lungo la schiena, fino alle spalle.
“Sono
qui per salvarti dall’oscurità in cui sei caduto, Arthur.”
Arthur
chiuse gli occhi. Era impossibile salvarlo, lui stesso non voleva, ma cercò di
crederci per qualche istante.
“Tu
hai già salvato me” continuò Francis, “sei stato la mia piccola stella nei
momenti peggiori che mi ha permesso di tornare vivo da te.”
Quelle
parole non lo aiutavano ad affrontare la vergogna che già provava. “Smettila di
farneticare.”
“Smettila
tu, di farneticare, e cerca di capire quello che ti posso dare.”
Ciò
che voleva era solo sprofondare e smettere finalmente di pensare, ma purtroppo
la capacità di arrovellarsi il cervello in ogni situazione era una sua prerogativa,
per cui, prima di sentire le dita di Francis sfiorargli il ventre, fu investito
da una valanga di ripensamenti che lo fecero irrigidire come un ramo secco.
Il
francese riprese a baciarlo, cosa che Arthur non sopportava poiché in quel
lasso di tempo, che pareva protrarsi per l’eternità, aveva mille occasioni per
pensare a quanto stesse mentendo a se stesso. Gli piaceva sentire il tocco
invadente ed esperto di Francis, il calore che si diffondeva dalla sua pelle, i
suoi capelli che gli solleticavano le spalle, i suoi vestiti che diminuivano
man mano. Ma era tutto troppo complicato e degradante, era molto più semplice
desiderare di essere eliminato per sempre piuttosto che accettare quei brividi
di piacere.
“Lo
vuoi davvero?” gli sussurrò Francis all’orecchio.
Maledizione,
perché doveva complicargli la vita così?! Era triste e confuso, sicuramente non
aveva le facoltà per prendere una decisione razionale e tutto quello che stava
accadendo era dettato solo dal suo temporaneo disorientamento. Sì, lo voleva,
ma se ne sarebbe sicuramente pentito, ne era certo, stava commettendo un atto
sconsiderato e infantile, proprio come tutti quei patetici tentativi di eroismo
che gli erano costati la condanna a morte. Ultimamente non era più in grado di
fare delle scelte assennate, era come se l’istinto avesse preso definitivamente
il sopravvento e lo spingesse a commettere una cazzata dopo l’altra, senza
riuscire più a fermarsi.
Nel
tempo che Arthur impiegò per tentare di decifrare quello che sentiva, Francis
decise di interpretare la risposta a modo suo. Scivolò lungo la sua schiena
fino ad inginocchiarsi – ormai era nudo anche lui, Arthur lo avvertiva
perfettamente – mise le mani sui suoi fianchi e prese ad accarezzarlo, dapprima
con le labbra e poi con la lingua.
Arthur
lottava contro l’impulso di girarsi e stenderlo con una ginocchiata. Che modi
erano?! Non si vergognava? Il modo in cui stava usufruendo di lui, neanche
fosse la più volgare prostituta di un bordello, lo turbava profondamente, ma ad
essere sinceri era proprio ciò che Arthur aveva desiderato all’inizio: essere
preso, annullato, abbattuto completamente. Tra il desiderio e il fatto
compiuto, però, c’era un abisso. L’inglese non aveva una grande cultura in
materia, tutti i rapporti che aveva avuto fino ad allora erano stati con
fanciulle assai meno volgari ed intraprendenti di Francis, però intuiva
esattamente cosa c’era da fare, in quella situazione. Il francese continuava a
lavorare là dietro, e Arthur era felice di essere girato così da poter
nascondergli il rossore che gli stava invadendo le guancie. Quando le mani di
Francis scesero sulle sue cosce per poi risalire, Arthur comprese di essere
caduto troppo in basso per potersi risollevare.
Non
voleva che Francis lo stimolasse in quel modo, voleva essere lui a gestire il
suo piacere, era così che aveva sempre fatto con le donne. Ma in quel momento
era completamente in balia di quei movimenti alienanti ai quali non voleva
assolutamente abbandonarsi.
Non
poteva farlo, non poteva umiliarsi in quel modo. Va bene farsi sopraffare, ma
voleva almeno mantenere un minimo di dignità, non aveva intenzione di restare
in balia di Francis come una donnaccia scostumata e ancor meno…
Fu un
attimo e tutti i pensieri svanirono. Tutte le sue aspettative non l’avevano
preparato a una sensazione del genere, un groviglio inestricabile di dolore,
piacere, desiderio, fastidio, calore, attrito, brivido… il suo cervello smise
di lavorare.
La
testa di Francis ora era accanto alla sua e sentiva distintamente il suo
respiro affannoso sulla pelle sudata. Arthur affondò le unghie nella roccia, si
morse le labbra per bloccare quei gemiti che gli risalivano lungo la gola e
pretendevano di uscire, incontrollati e volgari.
Si
dovette inarcare sotto la forza di Francis, il quale si appoggiava ugualmente
al muro, stringendo le mani di Arthur tra le sue, come per impedirgli di
sottrarsi a quell’unione, ma anche per sostenerlo. Poiché insisteva nel suo
sofferto silenzio, Francis, o per esigenza o solo per dispetto, gli morse la
spalla, e così anche Arthur fu costretto a lasciarsi andare, con sua somma
vergogna, ma anche con liberazione.
“Ho
aspettato… ho sognato all’infinito questo momento” disse Francis col fiato
corto. “Sei tutto ciò che voglio, sei la mia salvezza da questo inferno.”
Arthur
non rispose, fu colto da un tremito.
“Perché
ti trattieni? Sarà tutto più semplice e più bello se ti lasci andare. Non
domandarti se sia giusto o sbagliato, pensa soltanto ad accogliere in te il mio
amore.”
Che
razza di romanticherie sdolcinate, solo un parrucchiere francesino poteva
parafrasare una dichiarazione tanto infiocchettata. Era terribile trovarsi in
balia di un altro in quel modo, eppure Arthur sapeva che, se avesse dato retta
a Francis, sarebbe stato tutto più semplice.
I
movimenti di Francis erano sempre più intensi e precisi. Lui sì che sapeva dove
toccare per fargli perdere la ragione e Arthur era ormai prossimo al punto di
non ritorno.
“Guardami,
Arthur. Stai facendo l’amore con me, non col muro… coraggio.”
Era
troppo vulnerabile, non voleva mostrare a Francis il suo volto paonazzo e
un’espressione ormai troppo vicina all’estasi, ma la forza di volontà lo stava
abbandonando velocemente. Francis gli sfiorò la mandibola, spingendolo a piegare il collo all’indietro e a
scoprirsi.
“F-Francis…”
Voleva dirgli di piantarla, ma le parole non riuscivano a salire, sembravano
fermate da un nodo all’altezza del cuore.
“Arthur,
sei bellissimo così. Di’ ancora il mio
nome.”
Ma
cosa pretendeva, il servizio completo? Non avrebbe fatto la dolce mogliettina
accondiscendente per soddisfare i suoi capricci.
“Fran…cis”
Che
cazzo stava facendo?! Perché quella era l’unica parola in grado di pronunciare?
“Mon Dieu, sei perfetto.”
“Francis…”
Fantastico,
il suo cervello era fottuto. Era come se la sua parte razionale fosse relegata
in un angolo, completamente slegata dal resto del corpo e stesse osservando,
critica e un po’ disgustata, l’assurda situazione in cui si era sprofondato da
solo.
Francis
lo toccò con ancora più trasporto ma meno coordinazione, più veloce, più intensamente
e Arthur raggiunse infine l’apice del piacere. Dalla strana sensazione che
provò pochi istanti dopo capì che anche Francis l’aveva raggiunto ed entrambi
si fermarono ansimando.
Ora
che la mente di Arthur stava riacquistando lucidità, non poteva ancora credere
di aver fatto ciò che era appena accaduto, in verità era a metà tra lo stupito
e lo shockato. Le sue forze si erano prosciugate e d’un tratto non sentì più le
gambe. Francis lo accolse tra le sue braccia e si sedettero per terra,
appoggiati al muro.
Arthur
si sentiva andare a fuoco e il francese gli passò lentamente una mano sulla
fronte e sui capelli a tergergli il sudore, mentre con l’altro braccio lo
cingeva stretto.
Accarezzò
con attenzione le cicatrici che individuò sul corpo di Arthur, il quale si
ritrovò ad apprezzare più quel momento di affettuosa quiete rispetto al sesso.
“Sei
stato davvero scortese” disse Francis, passando dalla ferita al fianco alla
lunga cicatrice sul braccio sinistro, “hai trattato male questo corpo pur sapendo
che presto avresti dovuto darlo a me.”
“Non
l’ho mai saputo, razza di egocentrico.”
Se l’avesse
saputo sarebbe stato tutto diverso? Se ad Arras avesse fatto una scelta
differente e avesse accolto in maniera diversa le attenzioni di Francis, ora si
sarebbe trovato a morire a Ypres, col corpo martoriato e l’anima spezzata?
“In
un modo o nell’altro io ottengo sempre ciò che voglio. Ma la prossima volta mi
piacerebbe sedurti, piuttosto che vederti costretto da un tuo malsano desiderio
autolesionista.”
Arthur
sospirò irritato: non sapeva accontentarsi. “La prossima volta impegnati di
più, allora, e non cercare di rimorchiarmi con i tuoi metodi da voyeur.”
Francis
gli baciò il braccio e la mano, come un cane che si lecca una ferita. Un gesto…
affettuoso.
“Voglio
che tu rimanga indietro nella vecchia trincea, domani.”
Francis
si fermò e lo guardò negli occhi come per accertarsi che non stesse scherzando.
“Mi prendi in giro, vero?”
“Perché
dovrei farlo? Sono gli ordini di un tuo superiore.”
Gli
lasciò andare il braccio. “E quindi hai intenzione di lanciarti ancora in quell’assurda
missione suicida?!”
“Non
alzare la voce, cretino!”
“Sei
tu il cretino! Dopo tutto quello che è successo credevo di averti fatto passare
la voglia di morire!”
Arthur
si staccò da lui. “Non si tratta di voglia di morire, ma di doveri! Ho ricevuto
l’ordine di condurre questa missione e non mi tirerò indietro.”
“Sei
un maledetto idiota! Non solo pretendi che ti lasci andare, ma vuoi anche che
me ne rimanga ben lontano in caso ti servisse aiuto! Sei un bastardo egoista!”
Nella
caverna spoglia l’eco dello schiaffo aleggiò per alcuni interminabili secondi.
Francis, che era stato colto completamente di sorpresa, si portò la mano alla
guancia arrossata.
Ora
Arthur era furibondo.
“L’egoista
sei tu! Possibile che non capisci? Non ci siamo solo io e te, qui! È una guerra
e ormai ci siamo dentro entrambi, io molto più di te, purtroppo!”
“Ancora
ti importa di questa stupida guerra?! Ormai avrai capito che né tu né io
possiamo fare nulla per fermarla! E allora ti basterebbe lasciare il comando e
venire via con me! Cos’è che ti ferma, ancora?”
Arthur
si morse la lingua prima di urlare un insulto che avrebbe attirato nell’ufficio
tutti i soldati presenti nei dintorni. Si prese qualche istante per
riacquistare il controllo, o almeno per riuscire ad abbassare il volume della
voce.
“Fammi
capire: intendi disertare?”
Francis
spalancò le braccia esasperato. “Cos’è che ti trattiene, ancora? Adesso siamo
insieme e possiamo andarcene dove vogliamo! Possiamo tornare in Inghilterra, scappare
in Italia oppure in America!”
Arthur
aveva voglia di urlare e prenderlo a botte per la sua ottusità, ma capì che non
sarebbe servito e ormai era stanco di discutere. Se avesse potuto se ne sarebbe
andato sbattendo la porta, ma purtroppo era ancora nudo e rivestirsi avrebbe
richiesto troppo tempo, tanto che sicuramente gli sarebbe passata l’arrabbiatura.
Si
inginocchiò di fronte a Francis. Per qualche motivo si sentiva esausto, ma
voleva riuscire a farlo ragionare.
“Devi
metterti in testa che sono un Maggiore, adesso. Ho un compito da eseguire, dei
soldati da comandare. Se disertassi… i miei uomini verrebbero accusati di
tradimento e molto probabilmente sarebbero tutti fucilati! Se… se io…”
Dannazione,
non ce la faceva più. Francis non poteva sapere quanto lui stesso volesse
andarsene di lì e abbandonare tutto, ma non poteva farlo! Il suo orgoglio
glielo impediva, i suoi doveri… Non sopportava di dover tornare sulle sue
scelte, lui andava avanti, non provava rimorso per nulla. Non poteva
permetterselo.
E ora
cercava di reprimere quel feroce istinto di fuga che Francis gli stava
instillando, era talmente dilaniato che se fosse stato solo probabilmente gli
sarebbero spuntate le lacrime, ma non davanti a lui.
“Cerca…
cerca di capire quello che devo fare.” Gli posò i pugni sul petto, non sapeva
più cosa dire ma non voleva nemmeno che l’altro replicasse. Non poteva non
capire!
Dopo
un po’ Francis sospirò e gli prese la testa tra le mani costringendolo a
guardarlo negli occhi.
“Mio
povero Arthur. Ti sei condannato con le tue mani.”
Continua
Ogni
volta spero di metterci meno del solito a pubblicare, ma la
verità è che ci metto tanto cmq, soprattutto stavolta che
avevo molto da fare, quindi chiedo perdono di nuovo.
Dunque, Francis felice, Arthur depresso... ho dovuto scrivere sette
pagine prima di riuscire a far spogliare Arthur di sua spontanea
volontà, credetemi non è stato facile, ma dovete sapere
che ho scritto esattamente tutto ciò che volevo trasmettere.
L'inglesino non può certo calarsi i pantaloni al primo sguardo
dolce di Francis, e lui, d'altro canto, non può neanche
stuprarselo... Arthur non lo permetterebbe e Francis non oserebbe,
perché in fondo gli vuole troppo bene.
Ora passiamo alle recensione della volta scorsa:
@GinkoKite: Le sopracciglia
sono tornate, e insieme a loro anche il nostro amato inglese! Volevo
rassicurarti sulla tua affermazione su Francis... intendo quel "molto
profondo"..... Ludwig non si è lamentato quindi immagino che tu
abbia pienamente ragione.
@Harinezumi: Come sono contenta
che tu conosca questi fatti! E' sempre utile essere ben informati su
queste cose. Francis è un inguaribile romanticone, ed è
pure stracotto quindi è naturale che continui a pensare al suo
frigido inglesino!! Scusa, alla fine ti ho fatto attendere ancora di
più!!!!! *piange*
@Julia_Urahara: Devo rivelarvi
che questa fic è stata scritta in prevalenza per fare un piacere
alla mia compagna di account nonché beta. La FrUk e la Francia x
Germania (che qui si è tramutata nella Germania x Francia a
causa di un mio rifiuto psicologico XD) sono due delle sue coppie
preferite di Hetalia in assoluto. A me basta che ci sia Arthur e tanto
angst e sono felice :P
@Miristar: Dunque... da dove
cominciare... Ci tengo davvero tanto a farti capire che non era
assolutamente mia intenzione far apparire Hitler come un omosessuale
represso. Ho inserito il suo personaggio solo per qualche riga, non mi
permetterei mai (né mi prenderei lo sbattimento di farlo) di
inventarmi la sua personalità per poi infilarlo lì tra
una riga e l'altra. Mi sono semplicemente basata sul fatto storico e
confermato: Hitler era davvero un incapace e un disadattato, non
riusciva bene in niente, tranne che nei compiti affidatigli durante la
guerra, è per questo che appare così infervorato e che ha
sviluppato il suo grande odio verso il nemico che lo porterà ai
tragici eventi della seconda guerra mondiale. Ti prego, non pensare che
mi metta a inventarmi personalità di tale complessità
come quella di Hitler!
Per il resto, sono felice che tu abbia gradito i momenti di sesso dello
scorso capitolo e spero che questi ultimi ti siano piaciuti ancora di
più!
Suivant chapitre--> Cinquième Tranchée:
Le petit
étoil
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Capitolo 5 *** Cinquième Tranchée: Le petite étoil ***
5-Cinquieme tranchee
Titolo: Schützengraben, Capitolo 5 – Cinquième
Tranchee
Fandom: Axis Powers Hetalia
Personaggi: Inghilterra (Arthur Kirkland),
Francia (Francis Bonnefoy), Germania (Ludwig)
Genere: Storico, Drammatico, Guerra
Rating: Nc17, Arancione
Avvertimenti: Yaoi, Angst, Death, AU
Parole: 5,247 con
Windows Office
Disclaimer: I personaggi della fanfiction
provengono da Axis Power Hetalia che appartiene a Hidekaz Himaruya
Note:
1. Ripeto
nuovamente: siamo nel 1915, non nel 1916, ma ho dovuto di nuovo posticipare per
problemi logistici. Copritevi gli occhi.
2.
Ho scritto questo
capitolo ascoltando You raise me up. Se
ce l’avete mettetela su perché ci sta bene *sniff*
3.
Giunti al penultimo
capitolo, mi sono finalmente resa conto che si tratta di un AU, perciò l’ho
inserito tra gi avvertimenti. Faccio sempre fatica a decidere se si tratta o no
di un AU quando scrivo di Hetalia, ma stavolta in effetti non era molto
difficile… scusate.
4. Vi avverto che siamo arrivati alla
parte angst della storia. Sì, avete capito, i capitoli precedenti erano delle
leggere barzellette. Buona lettura!
5.
Ho appena realizzato una fanart inerente al capitolo... se volete darci un'occhiatina, QUI
Cinquième Tranchée: Le
petit étoil
Ypres, aprile 1916
Il
cielo minacciava pioggia, ma al suolo indugiava una pesante nebbia che rendeva
il paesaggio spettrale. L’aria era impregnata dell’odore dell’umidità ma anche
di quello del marcio e della decomposizione. Faceva freddo, per essere il 22
aprile.
La
trincea era in fermento a causa delle operazioni di trasferimento dei reparti,
le gallerie brulicavano, ma in superficie i movimenti erano limitati al minimo,
a causa della costante paura di essere spiati dai tedeschi. Il silenzio che
proveniva dalla trincea nemica era inquietante. Ogni tanto Francis udiva il
lamento di un corvo.
Arthur
impartiva ordini a destra e a sinistra, facendo spostare gli approvvigionamenti
e le munizioni da una parte, le armi e i soldati in partenza dall’altra.
Sembrava determinato e perfettamente padrone della situazione, ma Francis non
poteva dimenticare il turbamento del giorno prima. Si era accorto della sua
lotta interiore e delle lacrime trattenute, era consapevole di avergli chiesto
troppo e si rendeva conto anche di essere stato precipitoso. Non sapeva se, nei
suoi panni, avrebbe disertato o meno, ma era sicuro che Arthur non avrebbe mai
potuto farlo: lui era un gentiluomo inglese, non sarebbe mai fuggito da un
campo di battaglia, almeno non senza aver lasciato dietro di sé qualche
freddura.
E
stava proprio lì la sua vendetta personale verso coloro che avevano deciso
quell’assurda missione: portarla a compimento e dimostrare di essere un bravo ufficiale.
Francis
non approvava del tutto, secondo lui si trattava comunque di una pazzia,
di stupido orgoglio, ma lo capiva.
Perciò ora si trovava sull’attenti assieme a quelli che sarebbero partiti per
la vecchia trincea.
Arthur
non avrebbe rinunciato a quella battaglia e Francis non lo avrebbe lasciato per
nulla al mondo, non adesso che l’aveva appena ritrovato. Fino a qualche giorno
prima aveva abbandonato le speranze di
rivederlo vivo, quando lo avevano spedito a Ypres non aveva avvertito alcun
presentimento, eppure, dopo due anni di sofferenza, gli era bastato entrare in
una stanza spoglia a mezzo chilometro sotto la superficie per trovarvi la più
grande felicità che avesse mai sognato.
Adesso
ciò che gli rimaneva da fare era aiutare Arthur come poteva e, sebbene a
malincuore, esaudire il suo desiderio, restare indietro. Tuttavia, al primo
segnale di pericolo, avrebbe percorso i due chilometri che li separavano in due
minuti e sarebbe corso in suo aiuto.
Spostare
tutte le migliaia di uomini era un’operazione che richiedeva tempo ed erano
state organizzate varie ondate che trasportavano vari tipi di beni utili.
Avevano deciso di spostare tutto, anche se non sapevano per quanto tempo
sarebbero rimasti nella trincea vecchia. Si trattava di una scelta azzardata,
ma ancora una volta Francis non aveva ribattuto, perché si fidava. Lui aveva
temporeggiato fino all’ultimo e ora restava solo la sua compagnia a dover
partire, assieme alle munizioni delle mitragliatrici.
Come
comandante della truppa fu Francis a dover aggiornare il Maggiore sullo stato
dei preparativi, così, con molta fatica, sentendo le gambe pesanti come piombo,
si avvicinò ad Arthur.
“Siamo
pronti.”
Mentre
si specchiava nei suoi occhi verdi cercava di rivivere più volte possibile gli
ardenti momenti che avevano trascorso insieme, ancora e ancora, perché era
stato tutto troppo breve e temeva che si fosse trattato solo di un sogno.
Sperava che Arthur capisse, voleva che sapesse quanto tutto quello fosse stato
importante per lui e quanto fosse doloroso adesso privarsene.
“Bene,
allora partite.” Anche nella voce di Arthur Francis lesse una sfumatura di
tristezza.
Si
rivolsero il saluto militare e quando l’inglese abbassò la mano, Francis gliela
sfiorò con la propria, indugiando qualche istante su quel contatto.
“Se
succede qualcosa, chiamami in qualunque modo. Io arriverò.”
“Non
ce ne sarò bisogno. Rimanete nella trincea e tenete liberi i bunker.”
Francis
si sforzò di capire, ma Arthur si voltò senza fornire alcuna spiegazione sulla
necessità di ricorrere ai rifugi.
Infine
anche Francis si incamminò, ma si voltò indietro più volte a osservare la
schiena di Arthur che si dissolveva nella nebbia.
Mentre
marciava verso ovest, assieme ad altre centinaia di persone, cercava di
calcolare il tempo che stava impiegando a percorrere quel tratto. Doveva
affidarsi al suo istinto perché non aveva più l’orologio: l’aveva perso nelle
gallerie di Vauquais. Stavano impiegando più di tre quarti d’ora a causa dei
vari carichi che dovevano trasportare, ma Francis era sicuro di poter
percorrere la stessa tratta in meno di mezzora, quindi, se avesse fatto più in
fretta che poteva, in circa quaranta minuti sarebbe arrivato da Arthur. Era un
lasso di tempo assurdamente lungo per soccorrere qualcuno, ma era tutto ciò che
era in suo potere. Quanto avrebbe voluto voltarsi e tornare indietro, ogni
passo che compiva era uno sforzo immane.
Forse
Arthur aveva già dato inizio all’attacco. Forse si trovava già vicino al fronte
nemico. Forse qualcuno gli aveva già sparato. Qualunque cosa fosse accaduta
Francis era totalmente impotente, e anche se in quel momento si fosse trovato
con lui non era sicuro di poter fare qualcosa di concreto per aiutarlo, perché
l’esperienza gli aveva insegnato che l’esito di una battaglia era determinato
dall’abilità, ma ancora di più dalla fortuna.
Era
primo pomeriggio quando giunsero alla trincea, ma il sole non si mostrava
ancora, se ne stava celato dietro una spessa coltre di nubi grigie. Una volta
arrivato con la sua squadra, Francis dovette consultarsi con gli altri Sergenti
per fare il punto della situazione e organizzare gli uomini. Quando scese
nell’avvallamento si rese conto con irritazione che alcune provviste erano
state portate all’interno dei bunker.
“Ehi!”
gridò a un sottufficiale facendolo avvicinare. “Il Maggiore non aveva dato
l’ordine di tenere sgomberi i bunker? Cosa ci fanno lì tutti quei sacchi?”
“Non…
non ho in mano io la gestione degli approvvigionamenti, ma suppongo che abbiano
ritenuto necessario tenere il cibo al riparo dalla pioggia.”
“Non
mi interessa quello che ritenete necessario, gli ordini sono di tenerli fuori e
voi farete così!” Non tollerava un inadempimento del genere. Non si rendevano
conto del momento cruciale in cui si trovavano? Francis era consapevole di
essere parecchio intrattabile a causa del nervosismo, ma gli altri avrebbero
fatto bene ad essere più responsabili e a dare retta ad Arthur.
Le
mitragliatrici furono piazzate, i soldati si sistemarono ai loro posti e i
comandanti smisero di impartire ordini. Adesso potevano solo attendere che
accadesse qualcosa. Ogni tanto Francis si recava dal messaggero a chiedere se
ci fossero delle novità, ma la risposta era sempre negativa. Tentava di
spingere il proprio sguardo il più lontano possibile, ma all’orizzonte si
intravedevano solo le forme indefinite dei crateri lasciati dai cannoni, armi e
oggetti abbandonati, basse collinette di avvistamento e altre deformazioni del
terreno spoglio. E poi la nebbia, che ancora non accennava a diradarsi. Sebbene
fossero a metà giornata, sembrava di dover rimanere per sempre sospesi nel
breve istante che segue l’alba.
Per
sottrarsi alla noia i soldati confabulavano tra di loro a bassa voce.
“Questa
nebbia è strana” notò uno.
“Forse
la nebbia belga è diversa da quella inglese.”
“Ma a
rigor di logica dovrebbe essere uguale a quella francese, e questa mi sembra
diversa.”
“Già…
è troppo bassa.”
Incuriosito
da questo scambio di opinioni, anche Francis iniziò a prestare attenzione alla
nebbia ed, effettivamente, riscontrò in essa alcune anomalie. Prima di tutto
sembrava più pesante del solito, aveva un tenue colore giallo e poi… era come
se si avvicinasse sempre di più.
“Cos’è
quest’odore?”
“Sembra
come… mostarda!”
“È
impossibile.”
“Forse
i tedeschi stanno facendo un barbecue.”
“Smettetela
di dire stronzate! Qui sta succedendo qualcosa di strano…”
La
nebbia avanzò come un’onda e ora che era più vicina Francis si rese conto che
era molto più veloce di come gli era apparsa all’inizio. Adesso sentiva anche
lui quell’odore di mostarda.
“Tutti
nei bunker!” gridò qualcuno in preda al panico. “Questo è gas!”
I
soldati iniziarono a spingersi e a dirigersi verso le aperture che conducevano
ai rifugi, accalcandosi e schiacciandosi. Francis rimase paralizzato a
osservare il gas che avanzava e che proveniva esattamente dalla trincea
tedesca. Se era giunto fin da loro significava che…
“Sergente,
non stia fuori!”
Venne
trascinato per una spalla e spinto oltre la porta di ferro. Lo stretto
corridoio era già stipato di persone, riuscirono ad aggiungersene ancora una
decina, poi le porte si chiusero in faccia a coloro che ancora pregavano di
entrare.
“No,
no! Vi prego fatemi entrare, c’è posto ancora per uno!”
I più
gentili si scusarono disperati, ma i più semplicemente cacciarono via a calci
quelli che ostacolavano la chiusura delle porta.
Francis
osservò con amarezza la velocità con cui persone che lottavano con intenti
altruistici si tramutavano in bestie al primo segno di pericolo. Se fosse
dipeso da lui, avrebbe volentieri ceduto il suo posto a qualcun altro e sarebbe
corso fuori a cercare Arthur, ma era completamente bloccato. Ammassati
com’erano in quelle basse stanzette avrebbero fatto prima a morire per mancanza
di ossigeno che per le esalazioni, ma era inutile tentare di far ragionare
degli uomini in preda al panico, perciò non rimaneva altro da fare che
attendere e ascoltare quello che succedeva fuori.
“Scappiamo
da qui!”
“Soldato,
non lasciare la tua posizione! Non serve a niente fuggire, i gas ti
raggiungeranno comunque!”
“State
giù!”
“No!
Il gas tende a stare in basso. Rimanete in piedi e cercate di non respirare.”
Qualcuno
continuava a battere i pugni sulla porta di ferro.
“Rimanete
calmi! Non sappiamo nemmeno cosa sia, potrebbe trattarsi di un semplice lacrimogeno.”
“Già…
mi bruciano gli occhi.”
Iniziarono
a tossire.
“Stiamo
sbagliando tattica” disse qualcuno sottovoce, proprio di fianco a Francis. Si
voltò: si trattava di un ragazzo biondo con gli occhiali dal particolare
accento inglese. Fu così che Francis si rese conto di essere stato salvato
dalla compagnia canadese che li appoggiava nella battaglia di Ypres, assieme ad
altre colonie britanniche.
“Se
davvero sono stati i tedeschi a rilasciare questi gas” proseguì il ragazzo,
“allora il posto più sicuro è la trincea nemica, dato che il vento soffia a
loro favore. Scappare non serve.”
Francis
non poté che concordare, ma spiegarlo ora ai soldati sarebbe stato inutile e
nessuno di loro avrebbe osato gettarsi di proposito in mezzo a dei gas
sconosciuti.
Nel
frattempo, da fuori iniziarono a provenire i primi lamenti di dolore.
“Oddio!
Sto andando a fuoco! Brucia tutto!”
“I
miei occhi!”
I
colpi sulla porta si intensificarono.
“Fateci
entrare, stiamo soffocando!”
Era
davvero straziante, ma nessuno aprì la porta, non avrebbe avuto senso, a quel
punto.
“Ehi…
sento un odore strano” disse qualcuno che si trovava vicino all’entrata.
“Sta
entrando! Il gas sta entrando dalle fessure!”
Si
scatenò di nuovo il panico, da davanti iniziarono a spingere ma non c’era modo
di muoversi. Piccole scie di vapore giallino serpeggiarono dentro al bunker.
Francis aveva la sensazione di trovarsi dentro a un forno. Non aveva nessuna
intenzione di morire schiacciato in un buco in quel modo vergognoso! D’istinto
si coprì la bocca e il naso con la mano anche se era ovvio che non sarebbe
servito a niente.
Gli
uomini si strapparono pezzi di divisa e qualunque stoffa avessero a portata di
mano e cercarono di rendere stagna la porta infilandoli in ogni fessura e
attorno allo stipite.
“Così
non resisteremo nemmeno dieci minuti. Non c’è aria!”
“Non
voglio uscire! Non sentite come urlano quelli là fuori?! Siamo fottuti!”
“Ascoltate
tutti!” Era stato un altro canadese a parlare. “Non possiamo stare qui dentro,
dobbiamo uscire per forza e forse ho una soluzione! Questo gas è fatto di cloro.
L’ammoniaca neutralizza il cloro.”
“E
come fai ad esserne certo?”
“Dove
la troviamo l’ammoniaca?”
Francis
iniziava a intuire quale fosse la via di fuga. Era disposto a tutto pur di
uscire di lì e andare alla ricerca di Arthur. Era una situazione disperata, ma
l’unica speranza che aveva era che, trovandosi – in teoria – vicino alla
trincea tedesca il suo inglese fosse scampato al gas.
“Ne
hai quanta ne vuoi.”
“E
dove la terrei?!”
“Il
tuo piscio è ammoniaca! Fatela su un fazzoletto e mettetevelo davanti al naso.”
“Ma
stai scherzando?! Non mi metto il piscio in faccia!”
“E
allora muori soffocato dal gas, idiota!”
Quella
minaccia fu sufficiente a spingere tutti a strapparsi un lembo della manica e a
sbottonarsi i pantaloni. Per quanto fosse spiacevole mettersi quel coso
puzzolente sotto al naso, Francis non esitò nemmeno un secondo. Era stata
un’idea geniale e le alternative erano due: uscire annusando piscio o morire
soffocati rinchiusi lì dentro.
“Siete
tutti pronti?”
La
porta si spalancò e l’ambiente si riempì di fumo. Uscirono velocemente e gli
occhi di Francis iniziarono subito a bruciare. Il suo primo respiro gli si bloccò
a metà ed iniziò a tossire, sentiva ancora quell’inquietante odore di mostarda.
Tuttavia andò meglio del previsto: la nube stava diminuendo e si stava
lentamente depositando sul fondo della trincea.
Gli
uomini che erano rimasti fuori erano di meno, molti dovevano essere scappati.
Di quelli che erano rimasti alcuni erano privi di sensi – o morti – mentre gli
altri mostravano ancora qualche segno di vita, ma respiravano a fatica,
tossivano, si tenevano le mani sugli occhi per il dolore oppure si strappavano
i vestiti. Francis non aveva tempo di stare a soccorrerli, così come i canadesi,
che stavano già organizzando il contrattacco e stavano andando a liberare gli
altri soldati ancora barricati nei bunker.
Uscì
con un salto dalla trincea immersa nel gas. Se avesse piovuto sarebbe stato tutto
più semplice, invece l’umidità premeva i fumi al suolo impedendo di vedere bene
il terreno. Francis iniziò a correre verso il nemico, senza armi, senza niente,
e i canadesi dovettero prenderlo ad esempio perché li sentì incitare gli altri
a seguirlo.
“La
trincea tedesca è sicuramente al sicuro quindi attacchiamo ora e
respingiamoli!”
“Compagnia,
caricate!”
Francis
fu superato da una moltitudine di canadesi armati e con i fazzoletti legati
attorno alla testa; lui però rimase più indietro: sebbene bramasse raggiungere
il prima possibile Arthur, se avesse esaurito le sue forze in quella corsa non
sarebbe stato in grado di aiutarlo, ma anche perché le esalazioni lo
costringevano a rallentare continuamente per riprendere fiato. In quel modo non
sarebbe arrivato molto lontano. Lungo il tragitto superò alcuni canadesi che
non erano sopravvissuti al gas, temeva che ogni passo potesse essere l’ultimo e
che sarebbe morto ancor prima di raggiungere l’avamposto alleato.
Si
lasciò cadere sulle ginocchia: doveva vomitare. Quando risollevò la testa notò
che la nebbia gialla si era abbassata, l’alimentazione del gas doveva essersi
interrotta. Riprese a camminare più motivato di prima, se le sue condizioni non
fossero peggiorate ce l’avrebbe fatta, e se era stato fortunato forse era
rimasto solo un po’ intossicato. Non doveva arrendersi, se si fosse abbandonato
per terra sarebbe soffocato di sicuro, doveva restare in piedi finché la nube
non si fosse del tutto diradata. E doveva sbrigarsi a trovare Arthur.
Più
procedeva e più aumentavano i corpi sparpagliati scompostamente e Francis notò
che erano orientati tutti verso un’unica direzione, come se avessero cercato di
fuggire dal nemico. I cadaveri non
finivano mai, sembrava che sul campo fosse calata l’apocalisse. Molti di loro
erano ammassati lungo una specie di corridoio: era la trincea. Ma come avrebbe
trovato Arthur? Erano troppi! Se si fosse messo a controllarli tutti sarebbe
stato troppo tardi.
Osservò
con disperazione la strage che si estendeva davanti a lui senza sapere cosa
fare, quando dalla foschia all’orizzonte vide apparire una figura. Chiunque
fosse gli avrebbe chiesto aiuto, quindi gli corse incontro cercando di attirare
la sua attenzione, ma questi non stava guardando avanti perché avanzava
barcollando tenendosi le mani sulla faccia.
“Ehi!”
Francis lo raggiunse e lo bloccò tenendolo per le spalle. “Hai visto il
Maggiore? Dov’è?”
L’altro
rispose con dei lamenti e si inginocchiò. Francis lo costrinse a scoprirsi il
volto nella speranza di farlo ragionare. “Devo sapere dove si trova!” Si pentì
subito di averlo voluto vedere in viso. Era coperto di sangue, ciò che restava
degli occhi era un grumo scarlatto. Se li era strappati?!
Francis
capì che non avrebbe ottenuto alcuna risposta, lo lasciò andare e il suo panico
ritornò a crescere. Non poteva fare altro che procedere e cercarlo dappertutto,
finché non l’avesse trovato. Iniziò a chiamarlo perché era sicuro – voleva
esserlo – che Arthur fosse ancora in grado di rispondergli.
Gettò
via il fazzoletto ormai inutile, superò la trincea e procedette verso i
tedeschi, in lontananza sentiva già i rumori della battaglia con i canadesi.
Controllava ogni corpo che sembrava assomigliare ad Arthur, ma non era mai lui.
Francis non sapeva se esserne sollevato o afflitto, ma ciò che lo turbava
sempre più era il non udire mai una risposta ai suoi richiami.
“Arthur!”
C’erano tanti biondi tra gli inglesi e Francis aveva paura di guardare i loro
volti straziati. “Arthur!”
Poi
vide qualcuno che attirò la sua attenzione, gli assomigliava… sì, ne era certo!
Era sdraiato a faccia in giù ma era sicuro che fosse lui. Lo raggiunse di corsa
e lo liberò dal peso di un altro corpo. Ormai si trovava nelle vicinanze della
trincea nemica, poteva udire distintamente gli spari, non era un luogo sicuro.
“Alzati
subito, Arthur! Ce ne dobbiamo andare!” Una raffica di mitragliatrice piovve a
pochi metri di distanza da loro. Si mise un suo braccio attorno al collo e se
lo trascinò dietro.
“Non
ce la farò a portarti fino alla base, devi camminare!” Era assurdo parlargli
così, non sapeva nemmeno se fosse vivo… ma non aveva tempo per chiederselo. Si
allontanò il più veloce possibile dalla traiettoria dei proiettili, ma poi
inciampò su qualcosa – sicuramente era un cadavere. Caddero entrambi e il colpo
dovette risvegliare Arthur perché tossì.
“Arthur!
Avanti, svegliati. Ora ti porto… dal medico.” Lo guardò in viso e si sentì
mancare il fiato: metà faccia era ustionata, ma non era stata opera di un
lanciafiamme, poiché i capelli e i vestiti erano intatti. Era stato il gas, e
l’aveva preso in pieno. Non poteva aspettare oltre, lo afferrò di nuovo e
riprese a camminare.
“Ci
penso io, però… però devi promettermi che resterai vivo finché non ti avrò
portato dal medico. Hai capito? Arthur!”
“…sì.”
Quell’unica
parola rappresentò un sollievo insperato.
“Promettilo!”
“Sì.”
Con
fatica superarono la prima trincea. Francis continuava a ripetersi che mancava
solo un chilometro, non era molto, ce l’avrebbero fatta. Alla base c’era il
medico che si sarebbe occupato di Arthur, bastava solo sbrigarsi.
“Sei
un idiota… Un idiota! Cosa volevi dimostrare?! Te l’avevo detto che era una
pazzia. E adesso mi tocca trascinarti e guai a te se muori adesso, vanificando
tutta la fatica che sto facendo!”
“…perché
lo fai?”
Sentirlo
parlare gli infondeva nuove energie. “Come sarebbe? Dopo quello che abbiamo
fatto insieme pensi che ti lascerei morire così?”
“No,
ma… perché?”
Francis
aveva capito ciò che Arthur voleva sentirsi dire. Era ridicolo, gli sembrava di
stare con una ragazzina insicura, ma comprendeva le sue incertezze e il suo
bisogno di rassicurazioni.
“Perché…
perché tu sei l’unico inglese che riesco a sopportare. Mi piacciono i tuoi
occhi, perché trasmettono tutto il contrario di ciò che dici. E mi piace il
colore dei tuoi capelli, anche se sono sempre in uno stato pietoso, mi fanno
venire voglia di sistemarteli. Hai una bella pelle e dei lineamenti morbidi, e
le tue labbra che dicono tante cattiverie sembrano fatte apposta per essere
zittite con le mie.” Parlare lo distraeva dalla fatica e colmava il silenzio
che lo terrorizzava. “Poi… adoro il tuo corpo forte ma acerbo allo stesso
tempo, sembra qualcosa di proibito.”
Gli
occhi gli bruciavano e gli lacrimavano, non sapeva se fosse a causa del gas o
per la tristezza, ma il pensiero di poter perdere tutto ciò che stava adulando
lo struggeva.
“Hai
delle dita lunghe… le trovo sensuali. Sei testardo e orgoglioso, ma questo ti
permette di non pentirti delle tue scelte e di essere responsabile. E poi…
mantieni sempre le promesse. Vero, Arthur?”
Non
giunse risposta. Francis continuò a camminare.
La
vista della trincea alleata fu come un lieto miraggio, trovò la forza di
sorridere pensando che poteva esserci ancora speranza per entrambi e che il
peggio era passato, ora doveva solo far visitare Arthur.
“Devi
giurarmi… che questa sarà l’ultima volta” disse col fiato corto. “L’ultima
battaglia, Arthur. Che tu lo voglia o no… ti trascinerò lontano da qui e
vivremo in pace.”
Si
lasciò cadere nel fossato e riprese fiato mentre faceva sedere l’inglese con la
schiena addossata alla parete rivestita di rami verdi, come un grande cesto di
vimini.
“Un
medico qui! Presto!” chiamò Francis a gran voce, poi scostò delicatamente i
capelli dal volto di Arthur per osservare meglio le ferite. Fu contento di
vedere che almeno gli occhi erano ancora al loro posto, ma il respiro era
debole e affaticato.
“Guardami,
avanti! Ora siamo al sicuro, ti farò curare. Coraggio, guardami.”
Arthur
rispose alle sue suppliche e aprì gli occhi. Francis ringraziò Dio mille volte.
“Non
posso…”
“Come
no? Sono qui, non ti preoccupare.”
Arthur
sollevò incerto lo sguardo. “Non ti vedo.”
Francis
avvertì il gelo affondargli nel petto e colpirlo direttamente al cuore. Passò
lentamente una mano davanti agli occhi di Arthur senza ottenere alcuna reazione.
“Sei
cieco” appurò con la voce incrinata.
L’inglese
fu piegato da un attacco di tosse, Francis lo sostenne, lo abbracciò stretto
mentre l’altro si aggrappava alla sua spalla alla ricerca di ossigeno. Si
accorse subito che era grave perché le sue labbra erano macchiate di sangue.
“Il
medico!” gridò ancora con rabbia.
“Sono…
dei vigliacchi…” Arthur usava tutto il fiato che aveva per parlare. “Sapevano
che avevano… il gas… ma ci hanno mandati lo stesso. E io li ho… mandati a
morire.”
“Non
dire così, non è stata colpa tua se quegli uomini sono morti.” Francis
intravide alcune lacrime scendere da quegli occhi ciechi.
“Quelli
che ho ucciso oggi… potevano… essere gli stessi che avrebbero fucilato… se
fossi scappato con te…”
Francis
chiamò ancora aiuto, vederlo in quello stato lo struggeva.
“Sono
tutti uguali… vogliono solo… ucciderci tutti.”
“Smettila
di parlare, adesso. Concentrati e basta e vedrai che ce la farai.”
Arthur
si lamentava e Francis credette che stesse ancora piangendo, ma si accorse con
orrore che non era così. Gridava come se lo stessero torturando.
“I
vestiti… mi bruciano! Aaaah! Toglili!”
Privo
della vista e senza fiato non riusciva a gestire bene i movimenti, ma ci pensò
Francis a strappargli prima la giacca della divisa e poi la camicia sotto,
mettendo a nudo la pelle bruciata. La osservò incredulo e sconvolto, senza
sapere cosa fare: il gas lo stava corrodendo dall’interno e qualunque cosa
provasse non serviva a nulla.
“Stai…
stai calmo, adesso. Lo so che fa male ma resisti. Ecco, senti? Il cuore ti
batte a mille, è un buon segno! Stai tranquillo, tra poco passerà.” Ma
continuava a peggiorare e tossiva sempre più sangue. Francis lo prese in
braccio. “Dal medico ti ci porto io. Tu concentrati e non ti agitare. Penso a
tutto io…”
Poteva
anche continuare a parlare a raffica, ma sentiva che non sarebbe servito a
nulla. Corse lungo la trincea con Arthur tra le braccia.
“Ah…
F-Francis…”
“Non
parlare, pensa a respirare!”
“Vattene…
da qui. Scappa e nasconditi… lascia che si uccidano tutti… ma tu vattene… è
tutto inutile.”
“Dottore!”
chiamò Francis dopo aver individuato il giovane con i baffi arricciati e gli
occhiali che visitava altri soldati intossicati. “È il Maggiore! Devi curarlo
subito!”
Il
medico, che appariva già piuttosto sconvolto dagli avvenimenti, si avvicinò
subito senza fare domande e appoggiò le dita sul collo di Arthur.
“No. È
in shock ipovolemico, è troppo tardi.”
Francis
non riuscì a credere a ciò che aveva sentito. “Co-cosa?! Avanti… dagli
un’occhiata! Ce la può fare, il cuore batte…”
“È
shock ipovolemico, non c’è niente da fare!” insistette il medico spazientito e
ansioso di tornare ad altri pazienti.
“Ma
fai qualcosa! Tenta di salvarlo!” Francis era fuori di sé, ma l’altro gli si
parò davanti altrettanto furioso.
“Non
posso! È morto! Portalo via e lasciami lavorare!” Si voltò lasciandolo lì e
subito altri soldati lo spintonarono per prendere il suo posto.
Francis
si addossò alla parete senza parole e senza forze, le braccia gli tremavano, ma
non a causa del peso di Arthur. Aveva bisogno di riflettere, ma il suo cervello
sembrava incapace di produrre alcun tipo di pensiero, non riusciva a credere a
nulla di quello che stava succedendo.
Scivolò
a terra senza lasciare la presa sul suo delicato carico. Infine si decise ad
abbassare lo sguardo e a cercare di capire ciò che era accaduto. Posò la mano
sul petto nudo di Arthur, proprio dove l’aveva posta qualche minuto prima, là
dove aveva appena sentito il suo cuore battere così forte, ora c’erano solo il
silenzio e l’immobilità. E il suo corpo che bruciava ora era freddo e pallido,
così perfetto in quell’agognato sollievo da apparire come una statua.
Pensò
a tutto ciò che gli aveva detto con tanta leggerezza e a ciò che di più
importante non gli aveva mai rivelato. Gli aveva detto che sarebbe stata
l’ultima battaglia, che l’avrebbe portato lontano, gli aveva detto che era un
idiota e un egoista. Non gli aveva detto quanto lo amasse e quanto fosse
importante, perché gli era sempre sembrato scontato.
Guardando
il suo viso e i suoi occhi che, nonostante la morte e la cecità, sembravano
vedere oltre la realtà, pensò che tra i due, in quel momento, Arthur fosse il
più fortunato.
“Sergente.”
Non si voltò nemmeno quando lo chiamarono. “Deve portare il corpo là in fondo.
I cadaveri verranno bruciati mentre ci troviamo sottovento, perché non c’è
tempo di sotterrarli e non possiamo rischiare che ci contaminino.”
“Un
minuto” sussurrò e chiunque gli avesse parlato si allontanò. Voleva rimediare a
tutto ciò che non aveva fatto o detto in quel poco tempo che restava ancora da
condividere e cercò di concentrare tutto in un solo bacio. Non fu nemmeno in
grado di capire se avesse provato qualcosa o no. Quelle labbra gli parevano
estranee.
Senza
più pensare si diresse verso il luogo in cui i corpi di chi era riuscito a
tornare o che non aveva trovato rifugio erano raccolti l’uno sull’altro.
Sicuramente se ne sarebbero aggiunti molti altri.
Francis
depositò Arthur con delicatezza e fu lui stesso a prendere dalle mani dell’uomo
incaricato la torcia già accesa. Dopo qualche istante di esitazione appiccò il
fuoco, ripetendo a se stesso che non c’era altro da fare, che stava per
bruciare solo un semplice corpo. Il corpo che aveva tanto amato e accarezzato.
Il
fuoco gli scaldò le lacrime sul viso e quando
iniziò ad ardere intensamente, Francis si allontanò perché non voleva
che l’ultima immagine di Arthur fosse quella di un oggetto disfatto.
Dal
fondo della trincea vide il fumo salire in cielo, lontano dalla terra corrotta,
portando con sé le ceneri di Arthur.
Dei canadesi
che quel pomeriggio si erano lanciati eroicamente all’attacco ne erano tornati
solo alcune decine. Tra loro non c’era il ragazzo che gli aveva fatto compagnia
durante i terribili momenti nel bunker, il ragazzo che sarebbe rimasto per
sempre senza nome.
Quella
notte era stata pianificata un’altra incursione, e così il giorno dopo e quello
dopo ancora. Si erano tutti stupiti del fatto che i tedeschi non avessero
approfittato della strage per avanzare, ma probabilmente nemmeno loro avevano
previsto l’effetto devastante che i gas avrebbero avuto. In fondo, si era
trattato solo di uno spreco di vite.
Francis
non aveva preso parte a nessuna delle operazioni, non aveva fatto altro che
starsene seduto nello stesso punto in cui aveva tenuto stretto Arthur. Quando
calava la notte alzava lo sguardo al cielo e vedeva sempre la stessa stella che
splendeva col suo chiarore discreto proprio sopra di lui. Non era una stella
particolarmente grande o importante, per quello che ne sapeva non apparteneva
nemmeno a nessuna costellazione. Ma era una delle prime a splendere quando il
cielo si tingeva di rosso e rimaneva a vegliarlo per tutta la notte.
Ora
che era solo – terribilmente solo – aveva ricominciato a pensare, ma l’unica
cosa a cui la sua mente riusciva a rivolgersi erano le ultime parole che Arthur
gli aveva lasciato. Le aveva custodite durante quegli ultimi, indefiniti tre
giorni, e meditate e rielaborate. E mentre pensava osservava gli effetti della
battaglia, gli uomini che andavano e non tornavano, la distruzione di Ypres, il
dolore di tutti, il proprio corpo provato dal veleno… Più rifletteva e meno
riusciva a trovarvi un senso.
Avrebbe
preferito ricordare il giorno in cui lui e Arthur erano stati sorpresi dalla
pioggia e si erano riparati sotto lo stesso ombrello; il suo compleanno, quando
l’inglese aveva cucinato per lui, o il giorno in cui avevano litigato per
scegliere la carta da parati da mettere in soggiorno; la volta in cui avevano
fatto un picnic in campagna e avevano dimenticato la tovaglia; la domenica mattina
in cui Francis era rimasto a guardarlo dormire. Ma non poteva, non era accaduto
niente di tutto ciò. Non c’era stato il tempo.
Lascia che si uccidano tutti… ma tu vattene.
Quella
era la sofferenza che la gente procurava a se stessa. Quella era la guerra che
aveva ucciso Arthur, e Francis non voleva averci più nulla a che fare.
Si
guardò indietro, verso ovest, dove il rosso del cielo cedeva velocemente il
posto al buio, verso l’orizzonte. Da qualche parte doveva ancora esistere un
luogo che si era salvato dalla follia collettiva, il posto che Francis
decantava all’inglese quando tentava di convincerlo a vivere.
Si
alzò e uscì allo scoperto. Si diresse verso il sole morente iniziando a
correre. Avrebbe ascoltato Arthur e avrebbe lasciato che la morte cogliesse chi
la desiderava, ma lui non voleva più prendere parte a quello sterminio. Corse
veloce verso la bassa collina che si stagliava verso il tramonto perché sentiva
che al di là di quella poteva esserci un mondo diverso.
Sentì
a malapena le grida dietro di sé, non ci badò e proseguì la sua corsa.
“Che
sta facendo?!”
“Disertore!
Tradimento!”
Voleva
sapere se non era troppo tardi per tentare di vivere una vita lontana dalla
sofferenza, voleva vivere in quel luogo anche per Arthur, che non ci aveva
creduto.
“Puntate!”
Bastava
superare quella collina per accertarsene.
“Fuoco!”
Provò
una sensazione strana di formicolio in tutto il corpo, soprattutto sulla
schiena. Ad un tratto gli mancò l’aria e le gambe si rifiutarono di procedere.
Cadde per terra. Che coincidenza, si trovava proprio di fronte alla collinetta.
Gli
sembrava di avere il corpo bagnato e iniziò a sentire più freddo. Era la notte
che calava. Strisciò sull’altura e si issò con la forza delle braccia, si
arrampicò verso la cima, ma più avanzava e più le energie gli venivano meno.
Non mancava molto, però, voleva solo dare un’occhiata oltre.
Raggiunse
l’apice, si ritrovò il sole proprio davanti e mentre lo osservava svanire si
rendeva conto che oltre alla collina il paesaggio non cambiava. C’erano ancora
distruzione e desolazione, dolore e morte. Non serviva proseguire, il luogo in
cui lui e Arthur avrebbero voluto fuggire non esisteva più.
Si
sdraiò privo di energie, sopra la montagna di corpi bruciati, a guardare il
cielo, consapevole che sotto di lui, da qualche parte, ci fosse anche Arthur.
La
luna apriva un ironico sorriso nel cielo oscuro e contemplava il mondo con crudele
divertimento. Di fianco ad essa, però, Francis individuò la solita, piccola
stella, che lo vegliava dall’alto e lo rassicurava.
Sollevò
la mano verso di essa ed intrappolò la sua debole luce, sentendola vicina. Per
la prima volta, dopo tanto, era felice e sollevato.
“Arthùr… tu es ma petite étoil.”
Quando
infine calò il buio, Francis non si sentì più solo.
Continua
Se vi
dicessi che ho pubblicato questo capitolo per farvi un regalo di Natale
probabilmente mi pioverebbero addosso accette e pomodori *schiva* Buon Natale!
Che
ci crediate o no, sono stata buona. Ho diminuito di molto il numero delle
effettive perdite di questa battaglia, perché gestire compagnie da 10.000
persone mi risultava difficile. Ho anche allungato di parecchio la
sopravvivenza dei personaggi. Il 22 aprile del 1915 a Ypres morirono 5.000
inglesi in dieci minuti a causa del gas, da allora ribattezzato “iprite” o “gas
mostarda”.
Avrete
anche riconosciuto un certo canadese di cui ora mi sfugge il nome. Sapevo fin
dall’inizio che alla battaglia avevano preso parte anche parecchie colonie
inglesi, ma avevo deciso di non inserire altri personaggi per non distogliere
l’attenzione dai tre protagonisti, che avevano già abbastanza problemi. Quando
però ho scoperto che i poveri, obliati canadesi avevano condotto un eroico
attacco durante l’uso dell’iprite non ho potuto fare a meno di inserire anche Matthew.
Tanto ve ne dimenticherete tra poco.
Invece,
per quanto riguarda il rogo dei corpi, è una mia licenza personale, non credo
proprio che li abbiano bruciati davvero.
Per
chi non lo sapesse, lo shock ipovolemico è provocato dal cuore che batte
all’impazzata per compensare la pressione che precipita ma alla fine cede
(detta molto in sintesi). Gli effetti che l’iprite aveva sui soldati sono
quelli che manifesta Arthur e i suoi vestiti lo bruciano perché assorbono il
gas che viene poi liberato lentamente.
E
ora, prima di passare alle recensioni – che sono sempre meno! Ho paura di
avervi convinti del tutto ad abbandonare questa fiction! – una piccola
anticipazione del prossimo capitolo: sarà totalmente dedicato a Ludwig, ma
essendo rimasto solo vi avverto che sarà soltanto un paranoico soliloquio col
quale vorrei imprimere la morale a tutta questa deprimente storia. Se non vi
piace la Storia o se odiate le elucubrazioni mentali lasciatelo perdere!! Non
vorrei trovarmi dopo piena di commenti del tipo: “Che palle di capitolo! Dov’è
il romanticismo??”
In
ogni caso ho già deciso di accorciarlo di molto per evitare di annoiarvi
troppo, sarà giusto un breve epilogo.
Passiamo
a cose più allegre!
@GinkoKite: Grazie
davvero per i tuoi incoraggiamenti, sei davvero gentilisisma :D Hai
colto bene la malinconia generale che aleggiava su questa storia e
adesso, come hai visto, si è manifestata. Mi dispiace di avervi
fatte soffrire tutte, ma se adorate l'angst come me penso di avervi
fatte felici. In ogni caso c'è anche tanta romanticheria che
gira :)
@Miristar: Beh sai, Francis
è capitato un po' così, ma mi sono accorta che tentare si
spiegare tutti i passaggi che occorrerebbero per scrivere una bella
fiction di guerra sono davvero troppi quindi qui ci concentriamo
specialmente sul lato del romanzo.. qui ho spiegato in breve che
Francis era stato trasferito ad Ypres, era una cosa abbastanza
frequente quindi non crucciarti :) Il mega orgione nnnnnnnnnnno.......
mi dispiace.... ma sono convinta che d'ora in poi copuleranno felici in
paradiso u_u
@Julia Urahara: Credo che qui
l'IC dei personaggi sia stato messo a dura prova e spero di essermi
destreggiata bene! Date libero sfogo ai vostri insulti, attendo
le vostre recensioni!!! :D
Nach vorne Kapitel --->Sechste Graben: Wahnsinn
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Capitolo 6 *** Sechste Graben: Wahnsinn ***
6-sechste
Titolo: Schützengraben, Capitolo 6 – Sechste
Graben
Fandom: Axis Powers Hetalia
Personaggi: Inghilterra (Arthur Kirkland),
Francia (Francis Bonnefoy), Germania (Ludwig)
Genere: Storico, Drammatico, Guerra
Rating: Nc17, Arancione
Avvertimenti: Yaoi, Angst, Death, AU
Parole: 1,558 con Windows Office
Disclaimer: I personaggi della fanfiction
provengono da Axis Powers Hetalia che appartiene a Hidekaz Himaruya
Note:
1. Non ci
crederete, ma questa volta abbiamo la data storicamente corretta!
2. Questo capitolo è stato impostato
come un diario, poiché vi avevo avvertito che sarebbe stato una specie di
monologo interiore di Ludwig, non potendo più farlo interagire con gli altri
protagonisti, mi è sembrato più creativo e “leggero” scriverlo in questo modo
che mi permette di effettuare salti temporali e digressioni più profonde
riguardo ai pensieri di Ludwig. Spero che riusciate a leggere il font.
Sechste Graben:
Wahnsinn
Verdun, 20 ottobre
1916
Da quando ha avuto
inizio la mia carriera nell’esercito, sono sempre stato dell’idea che
trascrivere le proprie memorie fosse una futile perdita di tempo, capace solo
di distogliere l’attenzione dai propri doveri e dalle riflessioni più
importanti. Sono stato di quest’idea fino a oggi, ma adesso sento l’assoluto
bisogno di occupare il mio tempo, di
tenere la mia mente sveglia, di assicurarmi di essere ancora lucido.
Questa, che credo
sarà la mia ultima battaglia, ha avuto inizio nel mese di febbraio. Io e la mia
Armata siamo stati mandati qui a maggio per offrire supporto coloro che avevano
conquistato il forte Douaumont, sottraendolo ai francesi: si tratta di una
costruzione pentagonale, interrata e protetta da almeno quattro strati di copertura, una fortezza praticamente inespugnabile.
L’obiettivo dell’attacco erano il vantaggio strategico del forte e la
mitragliatrice pesante custodita al suo interno, un’arma alta 8 metri, forse di
più. Non lo so con esattezza. Mi rendo conto che si tratti di una grave
inadempienza ai miei doveri, ma saperlo non importa più: i francesi l’hanno
sabotata abbandonando il forte. Ora siamo intrappolati qui, con un’arma
formidabile inutilizzabile.
La conquista del
forte è sicuramente parsa agli uomini come una volontà divina o l’ennesima
dimostrazione dell’infallibilità dell’esercito tedesco. Il mio reggimento è
stato scambiato per un gruppo di francesi mandati a rinforzare le scarse difese
del forte, il Sergente Kunze è entrato, da solo, e ha fatto prigionieri gli
artiglieri di guardia. Tutto qui, un’operazione semplice e fortunata, che ha
portato alla conquista di questo favoloso punto strategico e alla totale
svalutazione dell’esercito francese. I soldati hanno iniziato a chiamarli
“poilu”, perché sono pelosi, perché trascorrono lunghi periodi in trincea senza
potersi radere o tagliare i capelli.
Ho sempre pensato
che sottovalutare il proprio nemico fosse l’errore più grande per un soldato.
Ora se ne sono resi conto tutti, dato che la nostra stessa tattica viene usata
contro di noi da sei mesi.
Inoltre io so perfettamente che alcuni francesi
utilizzano eccellenti set per la cura personale
.
Verdun, 21 ottobre 1916
Mi sono reso conto
di non essere stato preciso nella scorsa testimonianza: io non sto affatto
raccogliendo le mie memorie, poiché sono sempre più convinto di voler
dimenticare il prima possibile tutto questo. Sto soltanto facendo ordine nei
miei pensieri.
Inizio a temere di
non essere più in grado di eseguire le mie funzioni qui. Se ciò dovesse
accadere ovviamente mi ritirerei subito dalla mia carica e lascerei il posto a
qualcuno di più capace. Il vero problema sono i miei pensieri: sono sempre più
confusi, vagano sempre più lontano.
Ormai siamo rimasti
in pochi e inizio a chiedermi cosa stiamo difendendo. Se i rinforzi non
arrivano, rimanere qui a farsi bersagliare dalla granate dei francesi non ha
alcun senso. Rimanere qui è pericoloso. Alcuni mesi fa qualche soldato
incosciente ha acceso un fornello da campo troppo vicino all’armeria.
L’esplosione è stata enorme, ho visto la testa di un uomo volare, con tutto
l’elmetto, fino al condotto d’aria. Sono morti in centinaia. Ma la tragedia non
si è conclusa qui – questo forte sembra maledetto. I soldati che hanno
tentato di fuggire, anneriti dal fumo, sono stati scambiati per le truppe
marocchine francesi e sono stati spazzati dalle nostre mitragliatrici.
Non mi era mai
successo prima. Sento il mio orgoglio di ufficiale sprofondare. Le bombe
disgregano lentamente il mio autocontrollo. Gli scoppi rimbombano nelle viscere
e proseguono nella testa.
Ripeto ai miei
uomini che presto tutto questo finirà. Invidiano i morti.
Verdun,
22 ottobre 1916
Abbiamo conquistato
questo forte stremando il nemico a forza di bombardamenti. In questo momento mi
sembra assurdo non aver pensato che loro avrebbero potuto utilizzare questa
semplice tattica per riprenderselo.
Sento le granate
cadere sulla terra sopra di noi. Incessantemente. Una ogni dieci secondi. Il
rumore è assordante.
Sei mesi. Ancora
non riesco a crederci.
Vedo gli uomini
attorno a me impazzire lentamente. All’inizio io e gli altri pochi ufficiali
rimasti abbiamo tenuto alto il loro morale ricordando loro la schiacciante
vittoria. Sono quasi del tutto convinto che tutti ormai rimpiangano la
conquista di questo posto.
Lo spirito di molti
viene spezzato da questo incessante bombardamento, vengono colti da
convulsioni, movimenti incontrollati degli arti, tic nervosi.
Alcuni sono
talmente stremati che, non riuscendo più a impugnare un’arma, sono costretti a
chiedere aiuto agli amici per togliersi la vita.
La notte scorsa ho
ripensato a un episodio che in principio mi era sembrato del tutto irrilevante
– ma quando si è costretti in un bunker per sei mesi anche le cose più inutili
acquistano un diverso significato. Dopo la battaglia di Vauquais, e prima di Verdun,
mi sono spostato lungo il nostro fronte per stendere un rapporto sulla
situazione generale delle battaglie e l’avanzamento delle nostre truppe. Ad
aprile mi sono recato a Ypres a verificare lo stato in cui versavano gli
esperimenti con i gas al cloro: non spettava a me stabilire il metodo di
conduzione della battaglia, sebbene trovassi l’espediente del gas estremamente
pericoloso e assolutamente non onorevole.
I movimenti del
nemico erano pressoché nulli da settimane, così come i nostri, così uscii dalla
trincea e mi misi a osservare le linee degli eserciti dell’Intesa. Scrutai
l’orizzonte col binocolo, abbastanza sicuro di trovare il fronte tranquillo, e
difatti non vidi nessuno, eccetto una persona. Indossava l’uniforme degli
ufficiali inglesi e se ne stava in piedi, oltre la propria trincea,
completamente esposto, ma apparentemente calmo, come se stesse contemplando un
tranquillo paesaggio di campagna. Lui non aveva alcuno strumento per vedermi da
quella distanza, per cui mi presi tutto il tempo per cercare di capire le sue
intenzioni. Notai che era giovane, che era biondo e anche che aveva delle
sopracciglia sproporzionate – ma questo è un altro particolare irrilevante. Ciò
che mi colpì di lui fu l’espressione che celava nello sguardo. D’un tratto fui
colto da un’inspiegabile malinconia, poiché capii subito ciò che stava
pensando: stava guardando il campo di battaglia senza riuscire a scorgervi un
domani, senza riuscire a capire il motivo di quello scempio, sentendosi trite
di fronte ad un tale spreco di forze e di vite, ma rassegnato al suo dovere e
deciso a portare a compimento ciò che gli era stato comandato, perché amava il
suo Paese, perché voleva rimandare a casa più vite possibile.
Rimasi
profondamente toccato dalla mia abilità a cogliere tutto ciò, ma il motivo che
mi aveva spinto a tanto era che sentivo il suo turbamento estremamente vicino
al mio.
Non potei fare a meno di ripensare anche al francese e a
rattristarmi per il fatto che esistessero, in questa guerra, altre persone che
la ritenevano inutile, ma che fossero tutte così lontane l’una dall’altra, e
così piccole rispetto alla sua vastità, da essere totalmente impotenti.
Verdun, 23 ottobre 1916
Oggi ho fatto
qualcosa che non avrei mai creduto possibile. Sono stato colto da un’improvvisa
e sconosciuta ispirazione e mi sono puntato la pistola sotto il mento. In
quell’istante di follia mi è sembrata l’unica soluzione. Non so ancora bene
cosa mi abbia fatto cambiare idea, forse la vista di un uomo suicidatosi
qualche giorno prima. Per qualche motivo la sua espressione non mi sembrava per
niente sollevata.
Avverto un leggero
tremore alla mano, temo che non ci vorrà molto prima che mi riduca anch’io come
gli altri giovani che la maggior parte definisce “deboli”. Anch’io credevo di
avere un animo più forte. Ogni giorno scopro sempre più che questa guerra sta
distruggendo ogni mia certezza. Spero di essere ancora in grado di scrivere,
tra qualche giorno. Ma sono quasi certo che quest’assedio sia prossimo alla
fine.
Sentendo
continuamente i nemici che, dall’alto, tentano di sfondare le nostre difese, il
mio pensiero è andato nuovamente al francese di Vauquais. Mi chiedo cosa stia
facendo, mi chiedo se abbia trovato il suo uomo. Forse è uno di coloro che mi
sta bombardando. Se così fosse, sarei felice per lui.
Ora mi rendo conto
di non avere nulla. Avevo il mio Paese: forse tra qualche mese non esisterà
nemmeno più; avevo la mia carriera: appena i francesi riusciranno a penetrare
qui, sarà distrutta in pochi istanti; avevo i miei uomini: quelli che mi sono
rimasti sono impazziti o si sono tolti la vita.
Se il francese
avesse perso tutte queste cose, avrebbe avuto almeno il suo uomo. Quando sarò
io a perdere tutto ciò, credo che la mia vita perderà completamente
significato. È davvero triste sapere di non avere nulla di veramente
importante.
Nonostante tutti i miei sforzi e la mia intelligenza, mi
rendo conto di essere stato drogato dagli esaltati ideali del Kaiser. In fondo,
desideravo solo che il mio Paese diventasse adulto, ma non è questo il modo.
Verdun,
24 ottobre 1916
Tutto s—ta per
f˛–nire. Mi sen—to sollev-to, nonostaᴗnte
tutto..—
I tremori sono
aumen—taᴗti, non resco piu~ aᴗscrivere bene.
I fraᴗncesi stanno per entrar—.
L’unnuunica
cosa a cui reisco aa pens—are e~ la fine di quest’aᴗgoiia.
Non abbandonero~ la
Ggermania, affronteroo~ ogni conseuenzaᴗ come un
degno uıciale— tedesco. Non riesco a immaginare nuuuulla di peggio,
dopo i mesi trascorsi qui.
Non so— decidere se
coloro cheᴗentrerannn μ o qui per portarci
via – o ucciderci – saranno la nostra cond~anna o la nostra salvezzaᴗ
Non mı pento di nulla, hoo fatto semplicemente cıò che
ritenevo giusto. Ora de—sidero soltanto che ıl μ io Paese rinasca e che trovi
una ⌡uida capace¬
Fine
Finisce
un anno e finisce anche un'avventura. Carissimi voi tutti che avete
letto, recensito, seguito e odiato questa fanfiction, vi ringrazio
davvero tanto e spero di risentirci presto!
Siccome è stato un capitolo breve ne approfitterò per
dedicarmi un po' più spazio del solito pubblicizzando un libro
che mi ha aiutato molto in quest'ultimo periodo... anche se, in
realtà, se l'avessi letto prima di scrivere la fiction sarebbe
sicuramente uscito qualcosa di molto migliore!! Perciò, se vi
è piaciuta la mia storia, leggete il nuovo libro dello zio
Ken!!!! :D *ama la sua nuova scoperta letteraria "La caduta dei
giganti! di Ken Follett* Al momento sono ancora a metà del
romanzo ma più vado avanti e più rimango sconvolta per le
somiglianze con la mia fiction e ciò mi fa davveor fare i salti
di gioia e alza ulteriormente - e pericolosamente - il livello della
mia autostima! Ma apparte questo, sul serio, leggetelo! Offre uno
spaccato bellissimo sul periodo che ho trattato e parla anche di molte
battaglie e situazioni da me più o meno descritte... e se vi
può consolare è anche un tantino più positivo di
me, ma su questo non posso rassicurarvi perchè mi manca ancora
un bel po' per finire :)
Detto questo, interrompo le mie disquisizioni, vi ringrazio ancora immensamente e rispondo alle recensioni!
Risponderò a quelle che vorrete lasciarmi a questo capitolo in
via privata oppure aggiornando la pagina... probabilmente la seconda
opzione, quindi se vi interessano le risposte date un'occhiata qui in
fondo tra qualche giorno! (quando ci saremo tutti ripresi da
Capodanno...)
@Miristar: Ma
noooooo!!!! Io scrivo le risposte alle recensioni dando per scontato
che abbiate già letto la storia!! Vabbè dai, dopotutto il
mio era un finale abbastanza prevedibile.. Prometto che smetterò
di scrivere angst per un po', ma ho scoperto che i racconti di guerra
mi ispirano tantissimo e ho una gran voglia di scriverne un altro!!
Aspetterò in modo da farvi riprendere, nel frattempo Momoka
scriverà sicuramente qualcosa di più allegro e leggero :)
@Ginko Kite: Sai, credo proprio
di essere come te! Io adoro l'agst, soprattutto scriverlo con le mie
sadiche manine, ma quando leggo una storia divento irrimediabilmente
romantica e spero sempre nel lieto fine più sdolcinato.......
sniff... se non avessi scritto io questa storia, a quest'ora
progetterei di uccidere l'autrice
@Sunlight Girl: Ciao! Mi fa
piacere conoscerti! Ovviamente mi fa anche piacere ricevere tante
recensioni *l'ego malvagio cresceeeee*, ma ovviamente, oltre alla
questione del vanto personale, c'è soprattutto il fatto che
grazie a voi posso migliorare a mano a mano, quindi grazie per aver
commentato!
@Harinezumi: eheh..... continuo
a pensare di essere stata fin troppo buona con loro.. se fossero state
persone reali probabilmente sarebbero morti in un modo ancora
più brutto e lontani l'uno dall'altro... Comunque su con la
vita, è solo una fiction, tutti sappiamo che in realtà la
Francia e l'Inghilterra sono tanto felici e si amano immensamente :)
Grazie per i complimenti all'ambientazione e sia lode alla grammatica
italiana!!!!! (che svanisce nel momento in cui scrivo le risposte.....)
@Julia Urahara: Aaaaaaaah! Mi dispiace di averti fatto piangere!! Ma ogni tanto fa bene, no? :) Su su
@Kati07: Wow.... il tuo
è un vero complimento coi fiocchi, altroché. La mia
storia un capolavoro?? Non ne sono sicura ma non immagini quanto tu mi
faccia felice... tengo davvero tanto a questo mio pargoletto nato un
po' prematuramente.
Credo fermamente che tu abbia 10 in storia! Io non lo avevo... la
maggior parte delle cose che ho descritto mi erano totalmente
sconosciute fino a un paio di mesi fa... è nato tutto da un
semplice documentario che mi ha messo la pulce nell'orecchio e mi ha
spinto a cercare qualche informazione qua e là e a inverntarmi
il resto :)
Per quanto riguarda i gas, mi sono andata a informare un po' per te! Io
e Momoka siamo state al campo di sterminio di Auschwitz, ci hanno fatto
vedere le camere a gas e ci hanno anche spiegato che come veleno
venivano usate delle specie di pastiglie che evaporavano al contatto
con l'aria e si depositavano all'interno delle camere. Questo mi sembra
un metodo abbastanza diverso dall'iprite, ma cercando per il web ho
scoperto che all'epoca erano molto fantasiosi (per queste cose le idee
non mancano mai T_T) e usavano molti tipi di gas a seconda del periodo,
del luogo o di come girava loro: semplice vapore acqueo, monossido di
carbonio, ma anche gas al cloro, come l'iprite, e molto altri. Quindi
la mia risposta alle tue domande è un mezzo sì,
probabilmente hanno usato anche l'iprite, assieme a molte altre
sostanze.
Ti ringrazio tanto per l'interessamento e la recensione! Questo capitolo non è stato poi tanto sconvolgente, no? :)
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