Ti odierò per sempre di Silice (/viewuser.php?uid=70472)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Someday I'll wish upon a star ***
Capitolo 2: *** Crash ***
Capitolo 3: *** Under the rain ***
Capitolo 4: *** Unnatural selection ***
Capitolo 5: *** Take a breath ***
Capitolo 6: *** Reality Show ***
Capitolo 7: *** Like an idiot ***
Capitolo 8: *** Concetti aristotelici ***
Capitolo 9: *** I'm a believer ***
Capitolo 10: *** Rain ***
Capitolo 1 *** Someday I'll wish upon a star ***
1-SOMEDAY
I’LL WISH UPON A STAR
Si
era svegliata presto quella mattina. Per fortuna non era
una di quelle persone che la domenica mattina non riescono a svegliarsi
prima
delle dieci, altrimenti la partenza sarebbe stata davvero dura: alle
6.30
l’aereo sarebbe partito dall’aeroporto di Malpensa,
per poi atterrare qualche
ora dopo a Catania.
Lily spense la sveglia sul comodino con un sospiro. In fondo, alzarsi
alle 5.30
non era facile neanche per lei. Spostò con un movimento poco
aggraziato i suoi
capelli castani dalla fronte, e con un calcio tentò di
levarsi di dosso le
coperte, ma mancò il bersaglio: non riusciva a tenere gli
occhi aperti. Si alzò
con qualche lamento, e si accasciò sul pavimento per cercare
le sue pantofole
rosa e pellicciose. Le odiava quelle pantofole -un regalo della zia
Ida- ma
detestava di più la sensazione di freddo gelido del
pavimento sulla pianta del
piede. Dopo averle indossate, non senza qualche fatica, si
trascinò fino al
bagno. Si guardò allo specchio: anche quella mattina il suo
aspetto non era dei
migliori. Aveva lisci capelli castani che scendevano fino sotto alle
spalle, ma
che ora sembravano più un groviglio di rovi. I suoi occhi
verdi erano ancora
assonnati, la fronte piegata in una ruga derivata dallo stress per
l’ora.
Guardò l’orologio con aria spenta. Fece un balzo:
erano le 6 meno un quarto;
schizzò in cucina, rischiando di travolgere suo padre, che,
barcollando, si era
appena alzato. La sera prima sua madre aveva costretto David, suo
marito, a
offrirsi volontario per portare sua figlia e una sua compagna, che
abitava
vicino, all’aeroporto. Anche se non ne era proprio
entusiasta, aveva
acconsentito di buon grado. In fondo, era Domenica, e una volta tornato
a casa
avrebbe potuto concedersi un riposino. O almeno così sperava.
-Ooops! Scusa pa’!- Lily gli aveva sbattuto contro con un
gesto poco
aggraziato.
Il padre rispose con un sonoro sbadiglio.
La ragazza attraversò il corridoio e raggiunse la cucina,
scivolando agilmente
sulle pantofole. Afferrò una tazza e iniziò a
versarci dentro il latte, facendo
attenzione a non rovesciarlo sulla tovaglia.
David arrivò con calma, e salutò la figlia con
gli occhi ancora assonnati.
-Buongiorno, tesoro- disse strascicando i piedi fino alla macchinetta
del caffè.
-ma che ora è?- Guardò distrattamente
l’orologio affisso su una delle pareti
della cucina e sobbalzò. Le 6 meno 10.
-Siamo già in ritardo. Spero che la tua amica.. come si
chiama?- chiese
dubbioso.
- Milla - cercò di dire lei, mandando però di
traverso un po’ di cereali.
-Comunque sia,- riprese David, che non aveva capito assolutamente
niente del
grugnito emesso da sua figlia –spero che non sia puntuale. Se
no sarà costretta
ad aspettarci per un po’- disse gettando ancora una volta
un’occhiata all’orologio.
-Stai tranquillo, pa’. Lei non è una che si fa
trovare in anticipo. Né
tantomeno puntuale.- rispose Lily, dopo aver trangugiato in fretta
ciò che
restava dei cereali.
-Beh, speriamo. Ora però muoviamoci.- uscì quasi
correndo dalla porta, dopo
aver mandato giù in un sorso il suo caffè.
Quindici minuti dopo David era lì, sulla porta di casa, che
aspettava
impaziente sua figlia. Lily non era mai stata veloce a prepararsi, e a
suo
padre sembrava che i minuti scorressero troppo velocemente. Inoltre
quella mattina
non poteva neanche urlare, poiché sua moglie, Emily, e il
fratello minore di
Lily, Daniel, erano ancora a letto che ronfavano beatamente.
Lily finì di sistemarsi i capelli di fronte allo specchio, e
si diede ancora
un’ ultima aggiustata alla felpa, in modo che cadesse bene
sui jeans che aveva
deciso di indossare per il viaggio il giorno prima. Infilò
velocemente le
scarpe, rigorosamente da ginnastica, e diede un’occhiata
all’interno della
borsa. Non mancava nulla, e ormai l’aveva già
controllata un migliaio di volte,
ma per Lily non bastavano mai.
Uscì in fretta dalla camera, prese al volo la giacca che le
tendeva suo padre,
afferrò la valigia e insieme uscirono.
-Hai controllato tutto? Non ti manca nulla?- chiese David
-No, non credo. Penso proprio di aver preso tutto- rispose Lily con un
sospiro.
Faceva freddo quella mattina. Anche se ormai era Aprile inoltrato,
sembrava
pieno inverno. Una sferzata di aria gelida fece rabbrividire Lily, ma
lei si
riscosse, trascinando con forza la valigia verso la macchina
parcheggiata
vicino alla casa.
Il cuore le batteva forte. Si chiese perché, ma non
riuscì a trovare una
spiegazione plausibile. Forse nel suo inconscio sapeva che stava
dimenticando
qualcosa? Controllò ancora una volta i documenti e il
passaporto. Tutto in
ordine.
Il suo ritmo cardiaco però non accennava a diminuire. Lily
si impose di
calmarsi. Non provava mai piacere quando qualcuno riusciva a leggerle i
pensieri, le emozioni in volto. E, finora, era riuscita bene nel suo
intento:
quando voleva, riusciva a dissimulare perfettamente l’ansia,
la paura,
l’inquietudine, e a chi non la conoscesse davvero bene poteva
quasi sembrare
che non provasse nulla. Ma i suoi amici più intimi avevano
imparato bene a
capire ciò che provava solo guardandole gli occhi. Occhi
grandi e verdi,
decisi, sicuri, molto profondi, nei quali si potevano leggere con
facilità le
emozioni e i sentimenti che la ragazza stava provando. Sorrise
silenziosa,
mentre suo padre parcheggiava davanti alla casa di Milla,
concentrandosi sui veloci
battiti del suo cuore. La ragione di quel ritmo esagerato era fin
troppo
semplice: era la gita. L’aveva desiderata così
tanto… Erano settimane ormai che
lei, Ari e Sissi, durante le lezioni di Inglese, facevano progetti e si
chiedevano come sarebbe andata… In fondo, non si poteva
prevedere ciò che
sarebbe successo in sei giorni!
La macchina si fermò; David scese e andò a
citofonare, mentre Lily rimase da
sola ad ascoltare la musica del suo I-pod, canticchiando a bassa voce.
““someday
I’ll wish upon a star,
when the clouds are far behind...”
Sentì
aprirsi la portiera del sedile posteriore della BMW, e si
voltò.
-Ehi, Milla!!- le rivolse un gran sorriso: ormai si era ripresa del
tutto dalla
terribile sensazione di annebbiamento di pochi minuti prima.
Anche i suoi
occhi non mostravano nient’altro che gioia e trepidazione.
-Ciao, Lily- rispose l’amica sbadigliando. Buttò
la borsa sull’altro sedile di
fianco a lei, e tentò di mettersi comoda sui due restanti,
forse per prepararsi
per una piccola dormitina. A giudicare dalla cera, ci sarebbe voluta.
-Non sei emozionata??- Lily non stava più nella pelle, e con
Milla non tentava
neanche di nasconderlo.
Milla la guardò, cercando di capire il perché di
tutto questo entusiasmo.
Sorrise scuotendo la testa: Lily era davvero imprevedibile.
Arrivarono all’aeroporto, contro tutti i pronostici, quasi
in orario. Le
due ragazze tirarono le valigie giù dal bagagliaio e Milla
si diresse
velocemente verso il punto di ritrovo, ovvero il check-in. Lily invece
si voltò
e abbracciò il padre.
-Elinor…- cominciò David, stringendo fra le
braccia la sua bambina.
-Sì, pa’?- Lily spostò il viso,
cercando di scrutare le emozioni sul volto del
padre. Quando la chiamava con il nome intero era segno che stava per
fare un
discorso importante.
- Niente- rispose lui con un sorriso.-Fai solo attenzione-
Lei gli sorrise a sua volta, lanciandogli uno sguardo rassicurante, ma
anche un
po’ scherzoso. Cosa mai poteva succederle?
Fece ancora un saluto con la mano. Si voltò e
cominciò a marciare ad ampie
falcate verso il check-in, dove si erano già ammassati molti
suoi compagni.
Sorrise senza quasi accorgersene. “Ma cosa stai facendo
Lily?? Ti metti così a
sorridere da sola come una cretina??” Quel pensiero la fece
scoppiare a ridere,
suscitando un paio di occhiate curiose da alcuni turisti che passavano
di lì.
“Ok, ora datti una calmata.”
Le vennero incontro due ragazze. La prima era mora e alta, di una
bellezza
splendente. Le rivolse un sorriso perfetto, scuotendo la chioma di
capelli
lisci. Immediatamente una decina di volti maschili si voltarono.
L’altra ragazza era bassina, con capelli rossi e un viso
lentigginoso e
allegro, che dava l’impressione di avere sempre una battuta
pronta. Lily le
abbracciò, e venne sommersa dai capelli fiammeggianti di
Sissi.
-Ci sono già tutti?- chiese esitante.
-Si, certo. Neanche Ari è arrivata così in
ritardo. Voi siete le ultime. Chissà
perché la cosa non mi stupisce- rispose Sissi sarcastica.
Si guardarono tutte e tre, senza dire una parola. C’era
un’atmosfera magica, di
eccitazione e aspettativa. Quella non sarebbe stata una gita come le
altre.
Fu Lily a rompere il silenzio.
-Allora, l’aereo ci sta aspettando, no?-
Artemis camminava in fretta lungo la corsia destinata a coloro che
viaggiavano
su jet privati, stringendo il suo palmare, lo sguardo fisso davanti a
sé.
Leale, pochi passi dietro di lui, si guardava attorno, perlustrando con
la
mente il luogo, mentre seguiva silenziosamente il suo protetto. Leale
capiva
che qualcosa non andava. Prima di tutto, il suo sesto senso lo aveva
messo in
allerta. Inoltre Artemis era stranamente silenzioso quel giorno, troppo
concentrato sui suoi pensieri, anche più del solito. In
effetti, quel viaggio
era molto importante. Ma soprattutto, poteva diventare molto rischioso,
anche
se Artemis gli aveva ripetuto mille volte che non c’era
niente di cui
preoccuparsi, che aveva la situazione sotto controllo.
Si stavano finalmente avvicinando all’uscita, passando vicino
ai gate di ritiro
bagagli. Artemis sentì la risata squillante di una ragazza.
“Chissà cosa c’è da
ridere” pensò. Ma si pentì subito di
quel pensiero. Non poteva permettersi di
distrarsi, non questa volta. Era troppo importante.
Ma, nonostante questo, non poté fare a meno di pensare che
erano mesi ormai che
lui non rideva.
Arrivarono a tarda sera. Erano scesi dall’aliscafo dieci
minuti prima, e
avevano caricato i bagagli su un pulmino diretto all’hotel,
mentre loro
sarebbero arrivati a piedi.
Le Eolie. Finalmente. Lily inspirò a pieni polmoni
l’aria calda e piena di salsedine
di Lipari.
-Ari…- Lily spostò lo sguardo
sull’amica accanto a lei, intenta a fissare il
mare -ma ti rendi conto…? Ci siamo! Finalmente in gita!-
-Eh, già…- rispose lei, con le braccia
incrociate, immersa nei suoi pensieri.
Ari era sempre stata bella: Lily spesso si trovava ad invidiare la sua
figura
delicata, i suoi bei capelli corvini, la carnagione chiara, gli occhi
scuri e
sognanti. Niente a che vedere con Lily. Non era brutta, ma si
considerava
troppo “normale”: capelli castani, ma chiari,
corporatura normale, sorriso che,
a detta di tutti, abbagliava; l’unica cosa di cui era sempre
andata fiera erano
i suoi occhi verdi, talvolta tristi e concentrati, talvolta allegri e
spensierati, ma sempre pieni di forza ed energia.
-Ragazze, ma cosa ci fate ancora lì??- una ragazza con i
capelli rossi e un
enorme sorriso sulle labbra le raggiunse e cinse loro le spalle con le
braccia
-ma si può sapere cosa state… Uao.-
Anche lei si fermò, evento tutt’altro che
ordinario, dal momento che non
smetteva mai di parlare, da mattina a sera.
Rimasero tutte e tre incantate a guardare il magnifico paesaggio
eoliano che si
stagliava davanti ai loro occhi: un’immensa distesa
d’acqua disseminata qua e
là di scogli, illuminata dalla bianca luce della luna, che
risplendeva nel cielo
scuro e limpido.
-Uno…-
Le tre ragazze si sentirono improvvisamente afferrate da dietro.
-Due…-
Non riuscirono neanche a voltarsi: vennero improvvisamente sollevate e
portate,
di peso, verso la riva, nonostante gli schiamazzi e i tentativi di
svincolamento.
-Tre!-
Ci fu un sonoro “splash”. La prima a riaversi fu
Sissi che, dopo aver scosso la
sua chioma rossa, iniziò a correre dietro a Lorenzo. Non fu
difficile per lei
raggiungerlo, dal momento che era piegato in due dalle risate.
-Oh, maledizione!- Ari guardava sconsolata i suoi vestiti, ormai
irrimediabilmente zuppi. Poi si voltò verso Giova e Luca,
che si godevano lo
spettacolo sghignazzando
- Questa ve la facciamo pagare!!-
- Contaci Ari- Lily uscì dall’acqua scuotendo i
capelli bagnati, e andò a
sedersi vicino a Liuc, sulla spiaggia. Lui quasi non si accorse del suo
arrivo:
era troppo concentrato a fissare Ari, che gli dava le spalle. Lily
sospirò:
erano ormai mesi che il suo vicino di banco non riusciva a staccare gli
occhi
dalla mora, ma non era questo il problema… Ari non
ricambiava, nonostante Luca
fosse di gran lunga il più carino e dolce dei tre ragazzi.
Lorenzo finalmente arrivò ansimante, e si sedette alla
destra di Lily. Rideva.
-Che è successo?- chiese l’amico, distraendosi per
un attimo dalla vista di Ari
-Sissi…- sembrava che stesse piangendo dal ridere -sulla
Ronchi…-
-Sissi è caduta sulla Ronchi?- chiese Giova, pronto per
scoppiare a ridere.
Lollo annuì a stento, mentre le risate gli facevano scuotere
tutto il corpo. In
quel momento arrivò Sissi, da dietro, e diede una sberla a
Lorenzo sulla nuca,
poi andò a coricarsi vicino ad Ari per asciugarsi. Lily
rideva con gli altri,
scherzando spensierata. Osservò i suoi amici uno ad uno:
quella sarebbe stata
davvero una gita indimenticabile.
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Capitolo 2 *** Crash ***
ehiehiehi!!!
non mi sembra vero di aver postato il primo capitolo della mi
fanfiction... e mi sembra ancora meno reale il fatto che sto per
postare il secondo!!!! ahaha... dunque, vediamo: se qualche sfigato ha
letto il primo capitolo, avrà di certo notato che non ho
messo commenti o altro. Ciò è stato causato dal
fatto che dovevo precipitarmi dal dentista, ma soprattutto dal fatto
che fra 2 giorni parto per the other side of the world,
perciò non credo che avrò il tempo di postare un
bel niente per ben tre lunghissimi mesi... perciò eccovi
spiegata tutta questa fretta!!
Ho
come l'impressione di star scrivendo un pò a me stessa,
perchè sono convinta che nessuno possa essere
così masochista da leggere il primo cap, figurarsi il
secondo!!! dunque, vi auguro una sincera buona lettura, e se qualcuno
ha avuto il coraggio di arrivare fin qui lo ringrazio (e gli suggerisco
un buon reparto psichiatrico...) kisses!!
ps il titolo del
primo capitolo è una frase tratta dalla famosissima canzone:
"somewhere over the rainbow" di harold arlen...
Diana era stata da poco assunta
nell’hotel come receptionist. Di solito era indaffaratissima
con il lavoro, sempre lì a scribacchiare sui fogli, digitare
sulla tastiera del computer o a rispondere al telefono. Quella,
però, era una serata tranquilla: pochi clienti avevano
progettato di fermarsi a dormire quel weekend, così come
pochi avevano chiamato per prenotare. In quel momento esatto Diana era
seduta dietro il bancone, limandosi le unghie e sbadigliando distratta.
Gettò un’occhiata all’orologio: le
dieci. Decise di farsi un caffè, lasciò la
postazione e si ritirò attraverso una porticina che portava
alle cucine. Accese svogliatamente la macchinetta del caffè,
quando udì un rumore di un campanello
all’ingresso. Borbottando raggiunse la reception ancora con
una cialda in mano. Al di là del bancone si trovava un
ragazzo, che non doveva avere più di 16 anni, ma che dava la
sensazione di essere diverso da un adolescente qualsiasi, a partire
dall’abbigliamento, decisamente curato: camicia bianca, che
si intonava perfettamente ai pantaloni color cachi e alle Camper che
indossava. Ma non era solo questo: la carnagione, pallidissima, era in
netto contrasto con i capelli neri, abbastanza lunghi che, anche se
spettinati, avevano l’aria di essere molto curati. Il suo
viso, contratto in una smorfia di impazienza, aveva qualcosa di
particolare: negli occhi gli si poteva leggere un misto di
preoccupazione, tristezza, ma anche un fuoco e una vivacità
incredibili. Ma soprattutto ti davano l’impressione di non
essere a conoscenza di qualcosa di importantissimo, un segreto che, per
i semplici umani, era inaccessibile.
Con le dita lunghe e affusolate come quelle di un pianista si
scostò una ciocca di capelli dalla fronte, corrugata per una
preoccupazione indefinita. Diana si avvicinò,e
chiese con voce sommessa: -Posso fare qualcosa per te?-
Capì subito di aver fatto la domanda sbagliata, e si morse
la lingua per non aver usato il Lei. Il ragazzo le lanciò
un’occhiata di disprezzo, come se neanche valesse la pena di
discutere con una come lei.
-Desidero prenotare due stanze, comunicanti, letti singoli. Entrambe
devono affacciarsi sul porto- Se era straniero faceva di tutto per
limitare l’accento. La sua voce era decisa, autoritaria,
sebbene non ancora da uomo.
-Certo. Controllo subito- Diana digitò velocemente sulla
tastiera. –Bisogna essere maggiorenni per prenotare-
alzò la testa, scostando i capelli tinti dalla fronte, e
fissò il ragazzo negli occhi. Tutt’un tratto
rabbrividì: avrebbe giurato che fossero di colore diverso,
uno azzurro e uno nocciola, ma entrambi freddi e impassibili. Il
ragazzo si accorse della sua reazione e spostò lo sguardo.
-Mio zio, il Signor Korchov, sta scaricando le valigie. Le chiedo solo
di darmi le chiavi, poi lui si occuperà dei nostri dati.
-Mmm… perfetto.- Diana diede un’occhiata alla
porta. Si poteva sentire il rumore delle valigie che venivano scaricate
dalla macchina. –Sei sicuro, cioè…-
spostò lo sguardo imbarazzata –E’ sicuro
di non volere una camera con due letti, uno grande e l’altro
più piccolo? Ne ho una proprio qui, disponibile,e costa
meno…-
Il ragazzo sorrise. Diana pensò che più che a un
sorriso assomigliava ad una smorfia, che aveva un che di sarcastico, o
di crudele.
-Le sembro un bambino?- Sembrava divertito, ma il suo sguardo non
tradiva emozioni.
Diana balbettò qualcosa che assomigliava a un “no,
certo che no” e gli porse le chiavi. Il ragazzo, con una
camminata leggera, ma decisa al tempo stesso, si avviò verso
l’ascensore. La donna lo seguì con lo sguardo, e
si augurò con tutto il cuore di non dover parlare
più con quello strano ragazzo.
Lily stava trascinando la valigia attraverso il lungo corridoio di
moquette. Era contenta: lei, Ari, Sissi e Milla erano in camera
assieme, e avevano pure un balcone che si affacciava sul porto. Tutti i
loro compagni si trovavano nelle stanze vicine, e si erano
già accordati per ritrovarsi quella sera nella camera delle
4 ragazze, la più grande in realtà formata da due
stanze comunicanti. Mentre seguiva Ari nel corridoio, trascinando il
suo trolley, le ragazze vennero raggiunte dalla receptionist, una finta
bionda dall’aria un po’ stralunata. Lily
guardò la targhetta appuntata sulla sua camicetta:
“Diana, receptionist”. Con la voce rotta dal
respiro affannoso le chiamò.
-Ragazze, mi dispiace, ma vi abbiamo cambiato di stanza. La vostra
è 2 piani più su- disse sporgendo una chiave con
una mano e aprendo l’altra per afferrare le due che stringeva
Ari.
-E perché?- chiese Sissi, con un’aria un
po’ scocciata.
-Ci sono dei clienti che hanno chiesto espressamente queste stanze. Mi
dispiace, ma se per voi non è un problema…-
Le quattro si guardarono, poi Lily alzò le spalle e, con
voce rassegnata, disse: -Ok, non importa. Andiamo su- e
iniziò a spingere la valigia nella direzione opposta.
-Ma come??! Non è giusto!! Abbiamo preso le stanze prima
noi…- ribatté Sissi, mettendo le mani sui fianchi
in un’espressione inferocita.
Lily si rivolse a lei con una voce pacata e rassicurante: -Dai, Sissi,
non è così tragica la situazione. È
solo per qualche giorno. E poi, è solo per dormire, il resto
del tempo lo passiamo in camera degli altri- detto questo,
guardò le altre due ragazze, che avevano assistito alla
scena in silenzio. Avevano un’aria dispiaciuta più
che arrabbiata. –Andiamo?- L’esortazione dava
l’idea di non poter ammettere una risposta negativa. Lily era
così: una volta che prendeva una decisione, era irremovibile.
Salirono dunque per altri due piani, raggiunsero la loro stanza ed
entrarono: l’arredamento era alquanto spartano, composto da
quattro piccoli letti, un armadio e due sedie. Non c’era
neanche la televisione, e il bagno era minuscolo. Sissi, dopo aver
gettato un’occhiata piena di disprezzo alla stanza,
borbottò: -Perfetto-, e si gettò sul letto
accanto all’unica, piccola finestra.
Lily, dopo aver posato la valigia sul pavimento, si
stiracchiò e si sdraiò mollemente sul suo letto,
il più vicino alla parete bianca e scrostata. Era
incredibilmente stanca, ma aveva ancora voglia di fare qualcosa assieme
ai suoi compagni. “Che adrenalina…”
pensò, sogghignando. Non era abituata a sentirsi
così euforica e volenterosa. Si girò verso le
altre, che erano a loro volta sdraiate sui letti.
-Che cosa facciamo?-
-Beh, qua abbiamo della roba da mangiare.- Ari si sedette a gambe
incrociate e cominciò a tirare fuori dal suo zaino una serie
di pacchetti e pacchettini. –Vediamo… Abbiamo
Pringles, M&M’s, strani cracker di riso per
Milla…- lanciò una busta azzurra in direzione
della ragazza, colpendo i suoi capelli ricci e marroni.
–Caramelle… Più o meno questo-.
Sissi era a bocca aperta. –Scusa ma… da quando vai
in giro a comprare queste cose?? Sei magrissima!- Lily era
perfettamente d’accordo con Sissi: Ari era davvero magra,
slanciata, aveva un fisico perfetto, mentre lei faticava a mantenere la
linea,e la sua statura non molto alta di certo non aiutava.
-Guarda che non è tutto per me!!- rispose Ari con una risata
squillante –Ho preso tutta questa roba perché
sapevo che l’avrebbero mangiata anche i maschi, soprattutto
Giova…-
-A proposito degli altri… Cosa pensate che facciano
stasera?- chiese Lily.
-Ah sì, io ho parlato con loro prima- rispose Sissi, con
un’aria dubbiosa –Se non sbaglio, avevano detto di
metterci in pigiama e scendere da loro più o meno
alle…- guardò l’orologio
–Beh, più o meno cinque minuti fa- disse infine
alzando le spalle.
Lily si alzò di scatto. –E non potevi dircelo
prima?- la rimproverò con un sorriso. Sissi, la solita
sbadata. –Dobbiamo lavarci, cambiarci…- si
guardò intorno come se stesse cercando qualcosa, -Chi si
prende per prima il ba…-
-Io, io, io!!- Ari scattò in piedi e, con una
velocità degna di un’atleta si fiondò
in bagno, afferrando il suo beauty.
-Ihih, lo sappiamo che non puoi resistere dieci minuti senza uno
specchio e le tua creme…- commentò Sissi,
sarcastica.
Milla non aveva ancora detto una parola. Lily la guardò.
Stava fissando insistentemente il soffitto, incurante dello scompiglio
attorno a sé.
-Mill, tutto bene?- domandò preoccupata.
La ragazza, attraverso i suoi lunghi capelli castani, spostò
lo sguardo verso l’amica. -Certo- rispose con un sorriso, ma
poi continuò –Solo che… beh, ci
sarà anche Liuc, e io…-
Lily si sedette accanto a lei sul letto, e le avvolse le spalle con un
braccio. –Non ti preoccupare, ok? Vedrai che ci divertiremo-
affermò con un sorriso. Riuscì a sembrare
più rassicurante di quello che avrebbe creduto.
–Goditi la gita e non pensarci- concluse in tono un
po’ più brusco.
Non era mai stata così gentile e comprensiva con le sua
amiche come in quei giorni. Di solito, tutti le perdonavano i toni un
po’ acidi e sarcastici, sapendo bene che Lily, in fondo in
fondo, era l’amica più dolce e paziente che si
potesse avere, e che spesso i suoi silenzi valevano più di
mille consigli.
-Grazie Lily- rispose Milla con un sorriso. Le quattro si cambiarono in
fretta. Lily si mise una camicia da notte blu con le spalline, si
sistemò i capelli con una pinza e infilò le
pantofole azzurre. Era pronta.
-Allora, andiamo?-chiese con aria impaziente, mettendosi le mani sui
fianchi e iniziando a battere un piede per terra.
-Si, si… però avrei bisogno di una mano- Ari
aveva le braccia stracolme di roba da mangiare. Era pazzesco: anche nel
suo pigiama rosa e con i capelli sciolti e un po’ disordinati
riusciva a sembrare una diva.
-Dammi un po’ qua- Sissi invece indossava una canottiera e
shorts gialli, che ben si intonavano alla sua pelle abbronzata. Solo
Milla non era ancora pronta; dopo che ebbe indossato il suo pigiama
viola, le quattro uscirono dalla stanza. Lily chiuse a chiave la porta,
si infilarono nell’ascensore e schiacciarono il pulsante che
portava al primo piano. Lily guardò l’orologio: le
10.40. Raggiunsero la stanza dei ragazzi e bussarono alla porta. Venne
ad aprire Liuc, estremamente carino con i capelli disordinati. Lily
gettò un’occhiata a Milla, che fissava il
pavimento, ma non riusciva a nascondere il lieve rossore sulle guance.
-Ari, ragazze, entrate pure- Naturalmente Liuc non aveva occhi che per
Arianna, seguendo con lo sguardo ogni movimento della ragazza, che
però sembrava non accorgersene. Milla, invece, ci aveva
fatto caso, come notò con dispiacere Lily.
La loro stanza era molto più accogliente: Lily
individuò subito il letto più grande, e non
esitò a buttarvicisi sopra. Peccato che fosse già
occupato da Giova.
-Scusa, ma che ci fai qui?- chiese lui, cercando di spostare la ragazza.
-Eddai, fammi un po’ di spazio!- pregò lei con un
sorriso.
-Beh, se me lo chiedi così… No.- i due migliori
amici iniziarono a lottare e, come sempre, Lily finì dritta
sul pavimento. Alla fine però Giova le concesse di coricarsi
vicino a lui.
I ragazzi iniziarono a chiacchierare del più e del meno.
Lorenzo e Liuc iniziarono subito a discutere su cosa era in programma
il giorno dopo: il primo sosteneva che sarebbero andati tutti a
Vulcano, il secondo invece era convinto che era prevista una
passeggiata lì a Lipari. Anche Sissi e Ari parteciparono
alla discussione, finché Milla non ebbe il buon senso di
tirar fuori il programma della gita e dichiarare che avevano ragione
Lorenzo e Sissi. Il tempo trascorreva piacevolmente, e fuori continuava
a piovere, nonostante fosse molto caldo. Lily sorrideva ad occhi
chiusi, ascoltando le voci dei suoi amici.
Artemis era disteso sul letto, e fissava il soffitto. Non
c’era nulla da fare, non riuciva a mentire a sé
stesso: lui, Artemis Fowl Junior, il più grande genio della
generazione, se non di più, realizzatore di uno sterminato
impero criminale che coinvolgeva più mondi, quello umano e
quello elfico, aveva paura. Ripassò a mente tutte le sue
mosse, calcolando le probabilità di successo, e si concesse
un sospirò di sollievo. “I calcoli non
sbagliano” pensò. Ma c’era comunque
qualcosa che non lo convinceva. Si mise seduto sul letto e
fissò la valigetta ai suoi piedi. Non doveva essere
così difficile. Un semplice scambio. Una valigetta per una
valigetta. In fondo, si era cimentato in prove molto più
difficili, no? Ma allora perché era così agitato?
Si distese di nuovo sul letto, afferrò il telecomando e si
mise a fare zapping alla tv. Aveva tutto il tempo del mondo: lo scambio
sarebbe avvenuto la mattina seguente, nella piazza centrale di Lipari.
Guardò l’orologio: Leale non aveva ancora finito
di fare il check-in.
Aveva sete, e cercò con lo sguardo il piccolo frigorifero
vicino al comodino. Di solito non beveva acqua comune, soltanto
distillata e depurata, ma quella volta era costretto a fare
un’eccezione. Si accovacciò di fronte al frigo,
cercando dell’acqua tonica. Mentre era lì il suo
sguardo si spostò per caso sul balcone oltre la porta vetro,
che si affacciava sul porto. Nonostante fosse tardi, non era ancora
eccessivamente buio, e fuori pioveva. Lo sguardo di Artemis
vagò, poi si fermò paralizzato. Se il suo cuore
non si fosse fermato, avrebbe sicuramente urlato o detto una
parolaccia. In un punto del cielo la pioggia non c’era, e il
cielo era limpido e scuro. Perfetto, ma non naturale. C’era
qualcosa in quel punto, che si mimetizzava perfettamente.
-Leale- sibilò a denti stretti, prima di ricordarsi che la
sua guardia del corpo era al piano inferiore.
Il suo cervello iniziò subito a pianificare, congetturare, e
a calcolare quante probabilità ci fossero che la cosa,
qualsiasi cosa fosse, che stava librando lì fuori fosse sua
amica. Quasi pari a zero. Mentre cercava di stare concentrato e calmo,
ma soprattutto di sembrarlo, le sue gambe dicevano altro. Alla fine, un
unico pensiero, il più ragionevole, gli balenò
nella mente.
“Fuggi”
Cercando di rimanere impassibile, per non attirare
l’attenzione della cosa, afferrò la valigetta, si
diresse lentamente verso la porta, uscì e la richiuse dietro
di sé. A quel punto cominciò a correre a
perdifiato. Doveva trovare Leale. Non aveva molto tempo, e non era
molto veloce. Si pentì di aver sostituito il corso di
ginnastica a scuola con uno di letteratura francese.
Si fermò in mezzo al corridoio. No, andare da Leale non era
la mossa giusta. Se la cosa l’avesse visto lì alla
reception, avrebbe facilmente capito i suoi propositi di fuga. Fece le
scale, salendo di due piani. Prese il palmare e iniziò a
scrivere un messaggio a Leale. “Terzo piano. Vieni
subito”. Le sue gambe, intanto, non avevano intenzione di
fermarsi. Imboccò il corridoio a sinistra del terzo piano
senza neanche alzare lo sguardo. Fu così che
sbatté su un qualcosa di veloce che stava venendo nella sua
direzione. Si ritrovò improvvisamente per terra.
-Oh, cavolo- Lily si alzò di botto dal letto
–avevo detto che avrei mandato un messaggio ai miei quando mi
fossi sistemata in hotel- afferrò le chiavi della stanza che
aveva posato su un comodino –vado su a prendere il cellulare
e torno-.
Uscì dalla stanza e corse lungo il corridoio. Si
precipitò nell’ascensore e aspettò che
salisse di due piani, uscì e ricominciò a correre
verso la sua stanza. Mentre correva lungo il corridoio si
voltò. Avrebbe giurato di aver sentito un rumore di passi
dietro di sé. Fu in quel momento che andò a
sbattere contro qualcosa di molto duro, che stava correndo verso di
lei. In un attimo si ritrovò distesa sulla moquette grigia.
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Capitolo 3 *** Under the rain ***
Eccomi
qua!!! I’m back!! Dopo una pausa di…mmm.. 6 mesi?
torno trionfante dall’altra parte del mondo con un nuovo
capitolo… secondo me è un po’ troppo
lento, ma pazienza, era necessario..almeno è un
po’ lunghetto, il che supplisce alla mia totale mancanza di
dedizione e puntualità.. Mi raccomando recensite!! grazie
J.
x
Juliet95: grazieee!! Nessuno mi aveva mai detto che ero
brava… *arrossisce* spero che questo capitolo ti piaccia!!
X
free_sky_77: grazie mille anche a te! A proposito, come hai troavto gli
ultimi due libri? E l’hai letto l’ultimissimo in
inglese?
X
neyo: ahahahahah guarda che potevi dirmelo a voce ^^
Ringrazio
anche moltissimo niheal65 e aras1796 x il sostegno. Thanks.
UNDER
THE RAIN
Artemis
non aveva più tempo. E lo sapeva. Era per quello che, anche
se era disteso a terra, la schiena contro la moquette grigia , la
fronte e il naso doloranti, la sua mente lavorava frenetica. Doveva
trovare un modo per uscire, ma era inutile. Questione di secondi, e
quelli lì fuori, chiunque fossero, l’avrebbero
accerchiato e preso. Il suo cervello formulava altre ipotesi: e se
avessero fatto esplodere l’edificio? No, impossibile, troppe
vittime e scalpore, senza neanche contare che qualsiasi cosa volessero,
la valigetta, lui, o probabilmente entrambe le cose, sarebbe andata
distrutta. Ucciderlo? No, senza di lui il contenuto della valigetta non
avrebbe avuto alcun valore. “Spero che lo sappiano”
si augurò fra sé Artemis. Mentre gran parte della
sua formidabile mente era impegnata in questi ragionamenti,
un’ altra parte si concentrò
sull’oggetto contro cui era andato a sbattere.
Una ragazza con una camicia da notte blu e capelli castani si era
già alzata e posò lo sguardo furente su Artemis,
che ancora giaceva a terra. All’improvviso qualcosa, nei suoi
occhi, cambiò: la rabbia e il rimprovero che il ragazzo
riusciva a leggervi cedettero il passo a curiosità e un
misto di pietà e premura: “Ehi, ma stai
bene?”la ragazza gli porse una mano per aiutarlo ad alzarsi.
“Non hai un bell’aspetto…hai bisogno
d’aiuto? Cerchi qualcuno?”
La reazione di Artemis non fu quella che egli stesso ci aspettava.
Gratitudine, e un vago senso di sollievo. Un aiuto. La sua prima
reazione fu un sì spontaneo che gli salì alle
labbra senza che neanche se ne accorgesse, ma poi si fermò.
Accettare aiuto da una ragazzina? In pigiama per giunta! No, non poteva
abbassarsi a tanto, non lui, non Artemis Fowl. Sentì il
rossore salire alle guance al solo pensiero di aver accettato.
Poi un’illuminazione si fece strada fra i suoi pensieri: una
stanza.
Questa ragazzina, chiunque fosse, aveva una stanza.
“Sì”, e le prese la mano.
Elinor guardò lo strano ragazzo con curiosità.
Era strano davvero, pensò. Pallido, sudato, che correva da
solo alle 11 di sera, con una valigetta in mano, uno spiccato accento
anglosassone e abbigliamento da Lord inglese, ma, soprattutto che
accettava la sua richiesta d’aiuto.
“Avresti per caso una stanza?” mentre il ragazzo
parlava, aggiustandosi le maniche della camicia, Lily non
potè fare a meno di lodare la sua capacità di
usare il condizionale in una lingua così difficile come
l’italiano. “Cioè, non
fraintendermi.” Il ragazzo afferrò la valigetta
nera ai suoi piedi “mi serve solo per…”
Si zittì improvvisamente e rimase in ascolto di qualcosa che
Lily non riusciva a sentire.
“Non c’è tempo per le spiegazioni. Ho
bisogno che mi ci porti. E in fretta.” Il ragazzo la
guardò in viso; Lily si accorse che le sudavano le mani, e
che non aveva ancora detto una parola e, a giudicare dallo sguardo del
ragazzo, sembrava che stesse aspettando una risposta.
Elinor per un attimo esitò, valutando la
possibilità che questo singolare sconosciuto fosse un pazza
che si portava dietro chissà quale contenuto nella sua
preziosa, e misteriosa, valigetta.
Ma non sempre ascoltiamo il cervello.
“Seguimi”, e iniziò a correre lungo il
corridoio.
Non appena la porta della stanza di Lily si chiuse dietro ad
Artemis, la ragazza si accorse che aveva fatto uno sbaglio. Non sapeva
neanche il nome di quel tizio, e adesso, anche se avrebbe fatto
volentieri a meno si stare lì chiusa con lui, non poteva
uscire e raggiungere gli altri, perché non poteva lasciarlo
lì in camera sua. E lui non sembrava avere
l’intenzione di andarsene così facilmente.
Artemis, con mossa poco fluida, alzò la valigetta e la
posò su una delle sedie, e si sedette sull’altra.
Non sembrava rilassato, anzi. Tutt’un tratto si prese la
testa fra le mani, sempre in assoluto silenzio. Elinor non sapeva cosa
dire, né cosa fare. Chiusa in camera con un potenziale pazzo
sull’orlo di un esaurimento nervoso, che si portava dietro
una misteriosa valigetta. Prese nota mentalmente di non ricascarci
più.
“Ehm…” cominciò dopo qualche
minuto. Lo sconosciuto non accennò neanche ad alzare la
testa. “Scusa” provò ad attirare
l’attenzione del ragazzo, invano.
“Ok, senti. Io adesso devo tornare di sopra. Ho preso il
telefono, che era quello che cercavo, e ora vorrei uscire. Ora, dal
momento che non posso lasciarti solo nella mia stanza, ti pregherei
gentilmente di andartene.” Elinor prese fiato, sollevata dal
fatto che lo “strano” avesse finalmente alzato la
testa, fissandola come se provasse un qualche fastidio per la sua
inopportuna richiesta. Però ancora non diceva nulla.
“Dunque, se non è troppo
disturbo…” Un lieve sarcasmo si insinuò
nelle parole della ragazza, che, quasi a conferma della sua richiesta,
che però sembrava più un ordine, si
diresse verso la porta.
Non era neanche arrivata alla maniglia, che il ragazzo si
alzò e le prese il braccio. “Non
aprire.” Disse, anzi ordinò, ermetico, e non
aggiunse altro.
Con uno sbuffo, Lily andò verso il letto e si sedette,
spazientita.
Ma che voleva quello lì? Ancora cinque minuti, poi se ne
sarebbe infischiata e non sarebbe rimasta un secondo di più
con lui, anche a costo di lasciarlo nella stanza da solo.
“Ora basta. Non ha senso. Questa è la mia stanza e
ho tutto il diritto di…”
“Zitta.” Il ragazzo le fece cenno di
sedersi, si alzò e si diresse silenziosamente verso la
porta. Accostò l’orecchio alla
superficie e chiuse gli occhi.
Per qualche inspiegabile motivo Lily ubbidì, rimanendo in
perfetto silenzio. Da qualche parte aveva letto che non si doveva
metter pressione ai pazzi, soprattutto a quelli che si sentono
perseguitati. Dunque stette zitta a osservare lo sconosciuto che,
all’improvviso, si girò, la guardò e si
portò un dito alle labbra, facendole segno di continuare a
stare in silenzio. Lily non osò fare altrimenti, paralizzata
dallo stupore e dall’inquietudine. Il ragazzo si diresse
verso il tavolo, prese un foglio e una biro che aveva in tasca, scrisse
qualcosa e lo passò a Lily: “C’è
un’altra uscita? No porta”.
Lei scarabocchiò un NO,
e lo guardò, esasperata. Il ragazzo cominciò a
guardarsi intorno in cerca di una via di fuga. Lily ebbe
un’illuminazione e afferrò il foglio e la penna:
“Balcone?
Sotto c’è la camera dei miei amici…”
Scendere giù dal balcone si era rivelato più
difficile del previsto. Prima di tutto, pioveva e c’era
vento. Inoltre, camicia da notte e pantofole non erano
l’abbigliamento adatto per un’arrampicata su una
parete scivolosa. Elinor si strinse le braccia contro il corpo, quasi a
proteggersi dal freddo, poi afferrò il gelido mancorrente
con una mano, e si bloccò. Ma per che diamine lo stava
facendo? Per ordine di un completo sconosciuto che aveva la fobia delle
porte?
Ritrasse la mano, ma poi, ripensandoci, decise che era meglio
assecondarlo. Almeno dopo sarebbe stata con i suoi amici, al sicuro da
quel tipo strano. Scavalcò il mancorrente, stringendo con
entrambe le mani quell’appiglio scivoloso. Nella teoria quel
piano le era sembrato semplice, ma la pratica le sembrava
tutt’altra cosa. “Ce la puoi fare” si
disse; tutto consisteva nell’allungare un po’ le
gambe, rimanendo appesa per le braccia al balcone, e appoggiare i piedi
sul mancorrente di sotto. “Su, non è poi
così difficile.” Prese un bel respiro e
guardò giù. O almeno ci provò, dato
che la pioggia le offuscava gli occhi. A quel punto cominciò
a farsi scivolare pian piano verso il basso, mentre il ragazzo era
sempre lì, che fissava ciò che stava facendo,
ogni tanto voltandosi per dare un’occhiata alla porta. Elinor
era ormai scivolata del tutto, e le sue mani erano
all’altezza del pavimento del balcone, ancorate alle sbarre.
Tutto come previsto. Se non fosse stato che lei, anche allungandosi,
non raggiungeva il mancorrente di sotto. In quel momento
maledì la genetica che non l’aveva fatta nascere
con qualche centimetro in più. Se ne stette lì un
paio di secondi, con la camicia da notte e i capelli completamente
fradici, le braccia che stavano cedendo, e sperando in un miracolo che
la facesse diventare più alta, o quantomeno, che
l’aiutasse a non aver paura di saltare.
Il ragazzo, da sopra, la guardava. Aveva un ghigno sulla faccia, quasi
fosse divertito. “Ti serve una mano?”
In quello stesso momento si sentì un rumore proveniente
dalla stanza, e in un istante anche il ragazzo si trovò
accanto a lei, penzoloni e completamente zuppo. Lei osservò
compiaciuta che anche lui sembrava avere le stesse
difficoltà, con la differenza che le sembrava ancor
più scoordinato e, forse, come notò lei
divertita, anche meno in forma. Anche perché teneva il
manico della valigetta fra i denti.
Elinor valutò la situazione, ma si rese conto ben presto che
non c’erano possibilità né di tornare
sopra, né di scendere sull’altro balcone. Ma
perché diamine…
Due forti braccia la afferrarono improvvisamente per la vita, e la
posarono delicatamente sul balcone.
Artemis non stava bene. Era appeso a un balcone, fradicio, con una
valigetta in bocca, e le braccia gli facevano male. “Giuro
che inizio gli esercizi che mi ha dato da fare Leale, quando torno a
casa” pensò. “Se torno a
casa.”
Lanciò un’occhiata alla ragazza vicino a lui,
appesa allo stesso modo. Chissà perché si era
fidata di lui, e Artemis fu mosso da un improvviso sentimento di
gratitudine. Naturalmente durò poco, dal momento che la sua
mente era impegnata a trovare soluzioni a problemi ben più
urgenti: prima di tutto, le sue braccia stavano cedendo; in secondo
luogo, quel “qualcosa” che aveva visto librare a
mezz’aria dalla sua camera poteva benissimo essere ancora
lì, e due ragazzi appesi a un balcone erano un facile
bersaglio per chiunque. Meglio che stare in camera, però,
dove Artemis era sicuro che qualcuno stava cercando di sfondare la
porta. Nonostante fosse un genio, Artemis non riusciva a trovare una
via d’uscita da quella situazione. Il suo cervello sfornava
idee senza sosta, ma nessuna di qualche utilità.
“Ok,” pensò, “mantieni la
calma e…”
In quel momento la ragazza di fianco a lui mollò la presa.
“Ma sei impazzita?” Giova le rivolse uno sguardo
preoccupato e arrabbiato. “Ma che ci facevi
lì??”
“E chi è questo?” Lorenzo stava aiutando
Artemis a scendere senza cadere, anche se la valigetta sicuramente non
aiutava.
“Ma si può sapere…” Giova non
sembrava intenzionato a calmarsi. Anche Luca, alle sue spalle, fissava
Elinor con un’espressione stranita. “Ma insomma,
che ti è preso? Cos’è questa mania di
giocare a fare Tarzan mentre piove?” Giovaa le
afferrò le spalle, costringendola a guardarlo dritta in
faccia. “Potevi cadere!!”
In tutta risposta, Elinor gli gettò le braccia al collo e
gli sussurrò un “grazie”
all’orecchio. Quando si sciolse dall’abbraccio, si
voltò verso il ragazzo che, fradicio, osservava la scena.
Tutti li stavano guardando sbigottiti, ma soprattutto lui era
l’oggetto di particolare attenzione. E fu lui stesso a
rompere il silenzio: “Dobbiamo entrare in camera.”
Si voltò verso Ari e Sissi, alle sue spalle “Tu,
chiudi le finestre. E tu, assicurati che la porta sia davvero ben
chiusa.”
Ari non se lo fece ripetere due volte, colpita dal tono autoritario del
ragazzo. Sissi invece, che aveva un carattere indipendente e un
atteggiamento schietto e, talvolta, bellicoso, tentò di
ribattere. “Ma tu chi ti credi di essere per dare ordini
così?”
Artemis, che intanto era entrato a passo deciso nella stanza, si
voltò e fissò intensamente la rossa. Un attimo
dopo Sissi, la più grintosa e testarda del gruppo, si
ritrovò a spingere il tavolino davanti alla porta,
rinunciando così a ogni tentativo di ribellione. Milla si
avvicinò a Elinor con un asciugamano e la aiutò
ad avvolgerselo attorno al corpo. Lily si sentiva infreddolita e
stanca, e l’amica, senza dire nulla, la face sedere sul
divano. Tutti guardarono il ragazzo, che, pensieroso, si era nuovamente
seduto e stringeva la valigetta fra le mani.
Lorenzo fu il primo a farsi avanti. “Allora, si
può sapere chi sei?”
“E che ci fai qui?” Giova rincarò la
dose scontroso.
Elinor raggelò. Si era appena buttata giù da un
balcone seguendo gli ordini di un tizio di cui non conosceva nemmeno il
nome. Suo padre l’avrebbe messa in punizione fino ai
diciott’anni, e lei l’avrebbe sicuramente capito.
“Mi chiamo Eric. Sono russo.” rispose con voce
piatta. Elinor lo osservò. Eric era effettivamente pallido,
aveva i capelli neri e l’accento non era sicuramente
italiano. Però le ricordava un anglosassone: forse
l’abbigliamento, così curato e formale, o comunque
l’intonazione all’interno delle frasi.
“Sei sicuro di non essere inglese?” Non appena Lily
pronunciò queste parole si rese conto di quanto suonassero
stupide: come fa uno a non essere sicuro della sua
nazionalità? “Beh, il tuo accento… I
miei genitori sono inglesi, ed è molto simile.”
Eric voltò lentamente la testa verso di lei. Sembrava
stanco, coi capelli in disordine, la camicia bagnata e sbottonata e
solo lo sguardo mostrava qualcosa di vivace ed energico.
C’era qualcosa di strano però… Prima
che Elinor riuscisse a capire di cosa si trattasse Eric
spostò lo sguardo sulle sue scarpe.
“Mia madre è inglese”.
“Ma allora, si può sapere che succede?”
Lorenzo non ce la faceva più. E soprattutto non era abituato
a non avere il controllo della situazione. Dal momento che non riceveva
alcuna risposta dal ragazzo, si voltò verso Elinor.
“Beh…” iniziò la ragazza,
esitando “ci siamo scontrati nel corridoio, e poi stava
arrivando qualcuno, allora siamo entrati nella nostra stanza, ma poi
non potevamo più uscire dalla porta, quindi siamo scesi
giù dal balcone e…”
“Cosa? Ma che stai dicendo Lily? Qualcuno vi seguiva? E
chi??”
Per tutta risposta, qualcuno bussò energicamente alla porta.
Anzi, più che energicamente.
“Derek aprimi!! Sono Dem!”
Artemis ebbe un tuffo al cuore. Aveva riconosciuto immediatamente la
voce di Leale, che parlava in russo al di là della porta. Ma
preferì lo stesso prendere qualche precauzione.
“Dem… tu mi hai mai detto il tuo vero
nome?” rispondendo sempre in russo.
Dopo una breve pausa, la guardia del corpo rispose:
“Sì. Il giorno in cui mi hanno sparato, durante
l’affare con John Spiro. Il giorno in cui sono invecchiato di
una decina d’anni.”
Artemis si concesse una ampio sorriso, conscio del fatto che tutti i
ragazzi lo stavano fissando, senza capire una parola di ciò
che lui e Leale stavano dicendo.
Il ragazzo spostò a fatica il tavolino dalla porta, che si
spalancò all’istante. Un uomo, alto e pelato,
entrò. Aveva un semplice e formale abito nero, e appena
entrato perlustrò con gli occhi tutta la stanza, in cerca di
un eventuale pericolo. I ragazzi, naturalmente, erano terrorizzati, e
ancor di più quando l’uomo li squadrò
tutti da capo a piedi. Poi si voltò verso Artemis.
“Non so chi siano. So solo che hanno cercato di stordirmi
alla reception. Di sicuro possiedono le armi del Popolo”.
Disse serio, guardando Artemis. “Come hai fatto a fuggire e
arrivare fin qui?”
“A dopo le spiegazioni” rispose il ragazzo
frettoloso. “Dobbiamo trovare una maniera di andarcene. E
inoltre… abbiamo anche un altro problema” si
voltò verso i ragazzi, che naturalmente stavano osservando i
due, spaventati “dobbiamo portarli con noi. Hanno visto la
valigetta e le nostre facce. E quella laggiù,”
indicò Elinor con un dito “ha capito che sono
inglese. Potrebbe lasciarsi fuggire qualcosa, se non la uccidono
prima”.
Leale si stupì delle ultime parole del suo pupillo, che
rivelavano una certa…
preoccupazione per qualcuno che non fosse lui stesso.
Concordò con lui, anche se gli face presente i rischi che
portarsi dietro altre sette persone avrebbe comportato in una
situazione come quella. Tuttavia preferì non insistere, e si
voltò verso i loro ignari spettatori.
“Dovete venire con noi” affermò in
italiano, con un tono che non ammetteva obiezioni. “Io
starò dietro. Non dite una parola o ve ne
pentirete.” Mentre diceva ciò toccò il
petto, dove spuntava la sagoma della Sig Sauer. Non avrebbe potuto
essere più chiaro.
Se prima soltanto una leggera inquietudine serpeggiava fra i ragazzi,
questa si trasformò nella più totale paura, che
li paralizzò. Leale aprì la porta, e fece loro
segno di uscire.
“Non fiatate o ve ne pentirete.” E loro,
anche se terrorizzati, obbedirono. La guardia del corpo si sentiva un
po’ a disagio nel mettere loro così tanta paura,
ma sapeva che era necessario. Lui e Artemis uscirono per ultimi.
Il ragazzo, sussurrando, gli chiese, in inglese: “hai un
piano?” Il fatto che l’avesse chiesto in inglese,
fece capire a Leale quanto il suo pupillo fosse spaventato, anche se
non l’avrebbe mai ammesso.
“Più o meno. È ora di andarcene a
casa.”
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Capitolo 4 *** Unnatural selection ***
Eccomi di nuovo qua, con
un capitolo non molto lungo, ma mi auto perdono per questo, dal momento
che l’ho scritto in un giorno… il titolo (tratto
da una celeberrima canzone dei Muse) mi è stato dedicato da
G., al quale io invece dedico il capitolo, interamente ispirato da lui
e dalle sue perle di saggezza. Grazie.
UNNATURAL SELECTION
Elinor
stava congelando. Milla, accanto a lei, camminava più in
fretta che poteva, facendo attenzione a non scivolare. Lily non sapeva
con precisione dove fossero. Molto probabilmente sul tetto, ma riusciva
a intravvedere solo la
sfocata sagoma di Giova fra l’oscurità e la
pioggia. Voleva urlare, scappare, tornare indietro, ma aveva paura.
L’aveva vista. Aveva visto quella pistola,
quell’arma, sotto la giacca dell’uomo gigantesco.
Se anche avesse voluto, non sarebbe riuscita a fuggire. E in quel
momento non riusciva neanche più a pensare: le sue gambe,
intorpidite, si muovevano da sole fra gli schizzi delle pozzanghere, e
non sentiva più il resto del corpo, sconvolta dal turbinio
di emozioni e da quel fragore assordante… “Fragore?”
si chiese, formulando il primo pensiero compiuto da quando avevano
lasciato la camera. Alzò lo sguardo da terra, e solo allora
si rese conto che erano di fronte a qualcosa di grande, luminoso e che
emetteva un rumore assordante.
“Elicottero” disse, anche se nessuno poteva
sentirla.
Quando si avvicinarono ulteriormente, si rese conto dello sbaglio.
Quella “cosa” assomigliava molto di più
a un aereo, solo più piccolo. Prima che se ne accorgesse, si
ritrovò sul pavimento ghiacciato dell’aereo, senza
sapere bene come c’era arrivata. Tutto le sembrava
così sfocato e confuso… avvertiva accanto a lei
la presenza degli altri, atterriti e muti quanto lei.
“Ci stanno
portando via” realizzò. Si
alzò in piedi di scatto, e avanzò verso il
portellone ancora aperto, ma non ci arrivò. Una mano le
afferrò la spalla, e la sbattè violentemente
indietro, continuando a trattenerla. Lei provò a dimenarsi,
ma senza successo: chiunque la stesse bloccando, probabilmente
l’uomo, era dotato di una forza molto superiore alla sua.
Il portellone si chiuse, e Elinor capì che stavano
decollando. Questo le tolse ogni forza, e si accasciò inerme
addosso a una parete. Cosa diamine stava succedendo? Dove li stavano
portando? Perché?
Fu soltanto dopo qualche minuto che sia accorse che Ari, raggomitolata
di fianco a lei, stava singhiozzando. Elinor posò una mano
su quella dell’amica, che però sembrò
non accorgersene. Si guardò attorno. L’ambiente,
che salendo aveva creduto grigio, freddo e angusto, era invece ampio e
dotato di tre file di poltroncine beige e di altrettanti tavolini.
Sembrava più un aereo di lusso che un mezzo di rapitori. I
sette ragazzi, soli, si trovavano nella parte anteriore, davanti al
corridoio, vicino alla cabina del pilota, ed erano illuminati dalle
fioche luci del soffitto, che creavano un’atmosfera calda e
accogliente, in contrasto con l’intera situazione. Elinor
guardò l’amica, che aveva smesso di singhiozzare,
e fissava la parete con gli occhi sbarrati. Lily fece un cenno a Giova,
che capì, e senza dire una parola
l’aiutò a far sedere la ragazza su una delle
poltroncine. Pian piano tutti quanti si sedettero, e
dall’ammutolimento causato dallo spavento, passarono a una
fase di smarrimento e pianto. Solo Giova e Elinor sembravano presi da
una muta disperazione: la ragazza, osservando dal finestrino, sperava
di scorgere qualche segnale che potesse svelare la loro direzione, ma
non riusciva a vedere nient’altro che buio.
“Qualcuno ha il cellulare?” bisbigliò.
Tutti fecero di no con il capo, tranne Luca, che si mise a frugare
nelle sue tasche. Finalmente lo trovò, e stava per passarlo
a Elinor quando la porta della cabina si aprì. Il gelo e il
silenzio più assoluto scesero fra i ragazzi.
L’uomo alto, vestito di nero, afferrò il cellulare
dalle mani di Liuc, e senza dire una parola tornò nella
cabina e chiuse la porta dietro di sé. Sissi non si
trattenne oltre. Si alzò e, con tutta la forza che una
sedicenne alta un metro e sessanta poteva avere, si mise a picchiare la
porta della cabina.
“Bastardi! Lasciateci andare!” iniziò a
tirare anche calci “Vi prenderanno! La polizia, vi
prenderà, e allora ve la faranno pagare! Lasciateci
subito!”
Elinor sapeva che ciò non sarebbe servito a nulla, ma Sissi
non accennò a calmarsi, anzi, continuò, fra
insulti e minacce, a picchiare la porta con sempre più
violenza. Proprio quando Elinor avrebbe detto che stava per cedere, la
porta si aprì. Ne uscì l’omone, e
Sissi, di fronte a tanta imponenza, ammutolì.
“Non vogliamo farvi del male.” Cominciò
l’uomo, anche se l’aspetto diceva il contrario.
“Non fate domande e non cercate di fuggire. In questo modo
uscirete da questa situazione molto presto”. Le sue parole,
in italiano, suonavano molto meno fluide di quelle del ragazzo, e
l’accento, secondo Elinor, era sicuramente anglosassone.
“Ma che sta succedendo? Cosa volete da noi?”
Il gigante guardò Sissi che si era inconsciamente messa a
parlare. “Non chiedete nulla.” disse con voce
ferma, e si voltò per andarsene.
“La prego.”
L’uomo si fermò inspiegabilmente, e si
voltò lento, posando lo sguardo su Ari, che, pallida come un
cencio, si era alzata appoggiandosi a un tavolino.
“La scongiuro. Non fateci del male.” La voce della
ragazza, flebile, fu rotta dal pianto. Fu in quel momento che Arianna
levò lo sguardo verso l’uomo: Elinor
pensò che nessuno sarebbe potuto rimanere indifferente a
tanta bellezza e fragilità.
“Nessuno vi farà del male.” Elinor
avrebbe giurato di aver scorto un’ombra di pietà
negli occhi del gigante, che infatti continuò:
“Non abbiate paura. Arriveremo presto.”
Mentre aiutava Ari a sedersi, la mente di Elinor lavorava frenetica:
dove stavano andando? E cosa voleva dire presto? Erano in viaggio da
un’ora, ne era quasi certa. La destinazione poteva essere una
qualsiasi…
Proprio mentre stava ragionando, la porta si aprì di nuovo:
ne uscì l’uomo, che portava con sé un
vassoio, cosa che sbalordì ulteriormente Elinor.
Posò con cura delle tazze fumanti davanti a ognuno di loro,
poi posò il vassoio e si diresse verso un armadietto, dal
quale tirò fuori alcune coperte, che posò su un
sedile vuoto.
“Bevete. È tè.” Elinor non
era l’unica a essere rimasta senza parole per il
comportamento tanto gentile del gigante, tanto che nessuno
osò allungare una la mano per prendere una tazza.
“Forza. Vi farà bene.”
Continuò lui, addolcendo ulteriormente i modi.
“E’ caldo” aggiunse, prendendo in mano
una tazza. “E non c’è veleno.”
E, a mo’ di conferma, ne bevve un sorso.
In quello stesso istante si aprì per la quarta
volta la porta, ma questa volta ne uscì il
ragazzo. Si era cambiato: non indossava più la camicia, ma
un maglione blu e dei jeans, e il suo viso non sembrava né
sconvolto né spaventato, ma concentrato e freddo.
“Ma si può sapere cosa…”
iniziò in inglese, ma si bloccò subito, quasi
stupito dal suo stesso palese errore. Il suo sguardo
incrociò quello di Elinor. Era evidente che si stava
chiedendo se la ragazza aveva notato il repentino cambiamento di
lingua, ma Lily spostò subito lo sguardo sui suoi piedi,
facendo finta di nulla. Il ragazzo si concentrò dunque sulle
tazze fumanti e sulle coperte, gettando poi all’uomo
un’occhiata interrogativa.
“La prego signore.” sussurrò Arianna
“La prego, lasciateci andare.” Al che emise un
debole gemito e si accasciò sulla poltrona, piangendo. Senza
dire una parola, Elinor si avvicinò all’amica, le
avvolse una coperta attorno al corpo e le avvicinò alle
labbra una tazza fumante, scostandole una ciocca dalla fronte. Vedere
Ari così dolorante era un colpo al cuore per Elinor, che non
poteva smettere di pensare che era tutta colpa sua. Era lei che aveva
messo i suoi amici in pericolo, diretti chi sa dove, facendo
preoccupare tutti quelli rimasti a terra. Era tutta colpa sua. Aveva
offerto aiuto e dato fiducia a un ragazzo che li aveva rapiti e che ora
li stava fissando gelido, senza dire una parola. Ma perché,
perché si era fidata? E ora Ari, la sua migliore amica, la
bellissima, altera Arianna stava piangendo, e tutto per colpa sua.
Sollevò gli occhi, e incontrò quelli del loro
rapitore, che stranamente stava fissando lei, invece di guardare Ari.
Elinor non tentò nemmeno di nascondere nel suo sguardo tutto
l’odio che provava per lui.
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Capitolo 5 *** Take a breath ***
Ordunque.
Eccomi tornata
con un nuovo capitolo di questa Fanfic, che mai mi sarei aspettata di
continuare, non tanto per mancanza di voglia, ma per mancanza di
ispirazione. Sono
sempre stata convinta che scrivere un capitolo per forza,
“per portare avanti
la storia” fosse inutile e stupido, dunque ho preferito
aspettare l’ispirazione
per buttare giù le stesse idee che continuano a frullarmi in
testa dal giorno
in cui questa storia è nata… il fatto che ci
abbia messo così tanto è
sicuramente imperdonabile, e chiedo umilmente scusa. Spero che questa
attesa
sia servita a produrre qualcosa di decente… in caso non
fosse così, vi prego di
farmelo sapere ;) (ma anche si vi piace, eheh)
Many
kisses,
J.
P.s.
risponderò
volentieri alle eventuali recensioni di questo capitolo e dei
precedenti nel
prossimo aggiornamento, che non dovrebbe tardare…
TAKE
A BREATH
Artemis
tornò nella cabina, e si sedette al posto di guida, senza
però concentrarsi
effettivamente su ciò che stava facendo. In quel momento,
infatti, stava
cercando di distogliere la sua mente da quel fastidiosissimo senso di
colpa di
cui tanto si vergognava. Avevano la sua età, quei ragazzi,
nel retro
dell’aereo. Quella ragazza che l’aveva aiutato ora
era in pericolo per lui.
Cercò di distogliere i suoi pensieri da ciò,
ricordandosi che il giorno dopo,
se non quello stesso giorno, non avrebbero ricordato più
nulla, grazie
all’intervento della Lep. Uno Spazzamente e via, sarebbe
finito tutto, e lui
sarebbe tornato a essere quel freddo, cinico e vincente genio di sempre.
O
almeno
così sperava.
Odio
puro
e profondo. Era tutto ciò che Elinor riusciva a provare in
quel momento, e
questi ben poco cordiali sentimenti le impedivano di provare la paura
che
invece sembrava attanagliare tutti gli altri.
Ci
voleva
ben altro, tuttavia, per farla sentire coraggiosa, in quel momento. La
paura la
colse di colpo, e la trovò impreparata e indifesa:
l’aereo stava rallentando.
Un milione di domande le affollò la testa, impedendole di
formulare un
qualsiasi pensiero di senso compiuto; non sentiva nient’altro
che terrore,
irrequietezza, e la terribile sensazione di non poter fare proprio
nulla per
cambiare la situazione: dove stavano andando? Dove stavano atterrando?
Dopo
un’ora e mezza di viaggio avrebbero potuto trovarsi ovunque,
o quasi. Si
affacciò al finestrino, ma una coltre di nubi le impediva di
vedere il terreno.
Presa
da
un’irrefrenabile voglia di muoversi, di fare qualcosa, e dal
presentimento che
lo star ferma l’avrebbe fatta impazzire, si alzò,
e si diresse con passo fermo
verso il sedile occupato da Arianna: la ragazza dormiva, stretta
nell’abbraccio
di Luca, che invece la fissava in silenzio. Vicino a loro
c’era Giova, che
fissava il vuoto con un’espressione indecifrabile. Elinor
prese una tazza e
bevve un altro sorso di tè, senza neanche accorgersi che era
ghiacciato, tanto
era immersa nei suoi pensieri.
“Stiamo
atterrando” disse, con una voce talmente ferma da sorprendere
perfino sé
stessa.
Alle
sue
spalle, Lorenzo alzò gli occhi. La sua quasi impercettibile
reazione fu
l’unica. Il resto del gruppo rimase fermo, in perfetto
silenzio, come in una
sorta di trance.
Elinor
si
avvicinò ancora al finestrino, e attese. Dopo
un’infinità di tempo, o almeno
così le era sembrato, iniziò a vedere verdi
colline, ampie distese disseminate
qua e là da piccoli boschi.
“Siamo
andati verso Nord. Nord-Ovest direi, a giudicare dal
paesaggio.”
Per
la
seconda volta, nessuno sembrò prestare alcuna attenzione
alle sue parole.
La
porta
della cabina si aprì improvvisamente. Ne uscì
l’uomo pelato, reggendo alcuni
pezzi di stoffa nera.
“Ragazzi,
mi dispiace, ma dovrete indossare questi. Li potrete togliere quando
arriveremo. Tenetevi pure le coperte, non fa caldo” disse, e
si diresse verso
Sissi, impugnando il primo cappuccio, pronto a infilarglielo in testa.
Tutti
alzarono gli occhi verso la rossa, da cui si aspettavano una volenta
reazione.
Inaspettatamente, tuttavia, lei alzò lo sguardo e non disse
una parola, neanche
quando lui le infilò il cappuccio e glielo legò
al capo. Non una sillaba,
soltanto un gemito soffocato.
Toccò
poi
agli altri. Quando fu il suo turno, Elinor non disse nulla e porse il
capo in
avanti, rassegnata. Guardò l’uomo negli occhi, e
le sembrò di scorgere un lampo
di tristezza trapassarne lo sguardo, prima che il cappuccio le coprisse
il
volto.
Poi,
il
buio.
Aiuto.
Avrebbe
voluto urlarlo, chiederlo, riceverlo. Invece, dalla sua bocca non
usciva nulla,
le sue labbra non emettevano suoni, né gemiti, i suoi occhi
non ne volevano
sapere di piangere.
Era
semplicemente terrorizzata.
Quando
le
tolsero finalmente il cappuccio, Elinor si guardò intorno,
alla ricerca di qualcosa,
qualsiasi cosa che le potesse essere di conforto. Quasi sperava che
fosse tutto
uno scherzo, una diabolica trovata di un qualche pessimo programma TV
di
terz’ordine. Invece, si ritrovò seduta sulla
moquette. “Moquette
“, pensò, quasi fosse uno scherzo del destino.
Si
ricordava di aver salito delle scale. O perlomeno, che qualcuno le
aveva fatto
salire le scale, e poi l’aveva rinchiusa, sola, in quella
stanza, ma nulla di
più. Cosa c’era stato prima o dopo? Vuoto totale.
La
stanza
era spoglia, ma comunque accogliente. Un letto, una sedia, una
scrivania, e
basta, ma il tutto aveva un che di elegante e studiato. Oltre,
naturalmente,
alla moquette, che però sembrava avere l’unica
funzione di renderle il tutto
ancora più odioso. Si chiese per un momento da che razza di
rapitori erano
stati catturati, che mettevano i loro prigionieri in stanze singole
arredate
con gusto, ma si rese conto che la risposta non le interessava. Non in
quel
momento, perlomeno.
Si
alzò,
e diede un’occhiata alla stanza: c’era anche il
bagno e un piccolo balcone. Non
ebbe tempo di stupirsi, perché troppo interessata ai rumori
che provenivano da
oltre la porta, che naturalmente era chiusa a chiave.
“Lasciami
immediatamente brutto imbecille!!!” era inconfondibilmente la
voce di Sissi
“toglimi subito le mani di dosso brutto figlio
di…”
“Sissi!”
urlò Elinor. Nonostante la situazione, fu presa da un
incredibile sollievo:
almeno non era sola.
“Lily!”
urlò la rossa in risposta. Elinor sentì una porta
che si chiudeva, poi
nuovamente la voce dell’amica: “Elinor mi
senti?”
“Sì”
gridò “dove sono gli altri?”
“Nelle
altre stanze. Credo che ci abbiano chiusi ognuno in una camera, ma non
so se
siamo tutti nella stessa zona. Mi sembra di aver visto un corridoio, ma
non ne
sono affatto sicura.”
Lily
non
rispose, mentre il suo cervello formulava ipotesi su ipotesi. Si
sentiva
reattiva come non mai, anche se non se ne capacitava.
“Lily”
disse Sissi, con voce più calma. “Che sta
succedendo?”
Silenzio.
Elinor non sapeva cosa dire, cosa rispondere, come confortarla. Sissi
sembrò
capire. Poi il suo sussurro, la voce dimessa e spaventata che non
sembrava
appartenerle.
“E
adesso?”
Sembravano
secoli. Secoli da quando aveva messo piede in quella camera, secoli da
quando
Sissi le aveva assicurato che era riuscita a parlare con gli altri, e
le aveva
detto che stavano tutti bene, ognuno nella propria stanza. Secoli da
quando era
partita, secoli da quando aveva preso l’aereo, secoli da
quando aveva aiutato
il suo dannatissimo rapitore.
Secoli
da
quando aveva smesso di cercare di capire dove si trovava, e si era
arresa
buttandosi sul letto e stringendosi le ginocchia, presa
dall’angoscia e dal
desiderio di tornare indietro.
Secoli.
Si
mise a
sedere sul letto, fermamente convinta di doversi muovere e di dover
fare
qualcosa. Afferrò una caramella alla menta che si trovava
sul tavolino, la
inghiottì e prese a tormentare la cartina, senza neanche
rendersene conto.
All’improvviso
sentì qualcuno armeggiare con delle chiavi appena fuori
dalla sua porta. Non se
l’aspettava, e non ebbe il tempo di provare alcuna emozione
che non fosse la
sorpresa.
L’uomo
alto e pelato entrò, senza dire una parola. Lei lo
fissò, pregando che sul suo
viso non si leggessero la paura e l’angoscia che in quel
momento le impedivano
di ragionare. L’unico rumore che riusciva a sentire era
quello del suo cuore,
che batteva all’impazzata, e si chiese se anche
l’uomo poteva sentirlo.
“Volevo
controllare che fosse tutto a posto.” Disse l’uomo,
conciso. La voce, ferma,
non faceva trasparire alcuna emozione o preoccupazione.
Elinor,
immersa in queste considerazioni, ci mise un po’ a capire che
l’uomo attendeva
una risposta. Pregò che la voce non l’abbandonasse
proprio in quel momento, e
che risultasse più calma e decisa di quanto in
realtà non fosse.
“Tutto
a
posto?” rispose lei, con un ghigno. Attese qualche secondo,
poi riprese: “No,
non è tutto a posto. E sono sicura che puoi capire benissimo
il perché.”
Non
le
importava neanche più di usare il Lei, anche se
quell’uomo, con quel suo
vestito di sartoria, l’arma che ci teneva sotto, e i
probabili muscoli con cui
avrebbe potuto stendere chiunque, le incuteva un certo timore.
“Dove
siamo?” chiese secca, senza però riuscire a
nascondere un velo d’ansia nella
sua voce.
Lui
non
rispose. Elinor pensò di ripetere la domanda, ma poi si
accorse che lui era
distratto e si era portato una mano all’orecchio, come se
stesse ascoltando
qualcos’altro.
“Diamine”
disse semplicemente l’uomo, che si voltò e prese a
camminare verso la porta.
E
fu in
quell’istante che Elinor fece quello che, come
realizzò più tardi, non avrebbe
mai dovuto fare.
Non
aveva
mai pensato a sé come a una persona amante
dell’avventura o del rischio, né
tantomeno coraggiosa. Ma in quel momento, in quell’esatto
istante si buttò,
rischiò, consapevole del fatto di non poter perdere nulla.
Perché, in quel
momento, non aveva nulla da perdere.
L’aveva
visto fare in un film. Era una di quelle azioni che sembrano banali e
curiosamente geniali, ma che riescono a fare soltanto ai supereroi.
Elinor
sapeva di non rientrare nella categoria, ma si fece coraggio e strinse
la
cartina della caramella che teneva ancora in mano. Scivolò
silenziosa verso la
porta che si stava chiudendo e a occhi chiusi, senza pensarci, la
infilò fra la
porta e il muro, all’altezza della serratura, bloccandola.
Quando
riaprì gli occhi, lo fece nella speranza che
quell’uomo non se ne fosse accorto
e che non fosse lì, dietro alla porta, aspettando il momento
buono per
ucciderla per punirla per la sua insolenza e audacia.
Con
suo
sommo sollievo, non c’era anima viva. Nessuno si era accorto
della cartina e
del suo gesto da supereroina a corto di mezzi. Si ritrovò a
sorridere da sola,
guardando la porta e la sua mano che ancora teneva stretto un lembo di
quella
che si prospettava come la migliore chance di uscire da lì.
Respirò
profondamente e chiuse gli occhi, tentando di formulare un piano. Una
volta
uscita dalla stanza, cosa avrebbe fatto? Non aveva idea del luogo in
cui erano
rinchiusi, non aveva idea di come uscirci e di come liberare i suoi
amici. E
non aveva idea di come non farsi scoprire.
Lentamente,
abbassò la maniglia e aprì la porta, trattenendo
il respiro.
Leale
corse giù dalle scale, precipitandosi nel soggiorno, dove il
suo protetto,
smentendo la sua fama di ragazzo freddo e calcolatore, stava perdendo
il
controllo.
“Cosa
vuol dire questo? Non potete fare così. Non dopo tutto
quello che io ho fatto
per voi…” Artemis stava parlando rivolto al
display di un minuscolo computer
appoggiato sul tavolino.
“Fowl,
ascoltami bene. Tu sei quello che
ci
ha fatto passare mille guai, tu
quello che mi ha rapito per ottenere un riscatto, tu
che hai quasi messo a repentaglio la vita del Popolo ben più
di
una volta, tu…”
“Ok,
Spinella, d’accordo. Non è questo il
punto.” Artemis si sedette sul divano e si
prese la testa fra le mani, abbassando lo sguardo. “Non ho
alternative,
capisci? Non posso rimandarli indietro, e non solo perché
rischierebbero di
fornire informazioni vitali su me e Leale, ma anche perché
probabilmente li
ucciderebbero, credendo che mi abbiano aiutato…”
“Artemis”
la voce femminile che usciva dallo schermo si ammorbidì un
poco. “mi dispiace,
ma questa volta è un problema tuo. Il Popolo non
può fare una decina di
Spazzamente come se nulla fosse … se fosse per me, sappi che
lo farei subito.”
Il
ragazzo alzò lo sguardo verso lo schermo, fissandolo
silenzioso e rassegnato.
“In
quanto al problema di cui mi hai accennato prima, sarò
felice di darti una
mano. Farò qualche ricerca con Polledro qua giù,
poi io e Bombarda verremo da
voi appena possibile. Sei sicuro di non aver notato
qualcos’altro, qualche
indizio?”
“Nulla.
L’unica cosa che so è che il Popolo è
in mezzo. Nessuno fra gli umani possiede
una tecnologia così avanzata, a parte me,
ovviamente.” Artemis rimase un attimo
in silenzio, immerso nei suoi pensieri. “D’altro
canto, io non credo nelle
coincidenze. Il fatto che qualcosa abbia voluto attaccarci proprio il
giorno
del nostro incontro con Jason Lagerfeld non può essere un
caso.” Si alzò,
rassettandosi le pieghe della camicia. “In ogni caso, in
questo momento ho
problemi più urgenti di questo. Qui, per il momento, siamo
al sicuro.” Un
ghigno apparve sulla sua faccia. “In fondo, questa
è casa Fowl”.
Salutò
Spinella, e spense il computer. Si voltò poi verso Leale,
che l’aveva osservato
paziente mentre il ragazzo era impegnato nella conversazione.
“Non
hanno intenzione di effettuare gli Spazzamente. Ti ho chiamato
perchè volevo
che tu convincessi Spinella, ma poi mi sono reso conto che era
inutile”.
La
guardia
del corpo annuì. “E ora? Che ne faremo dei
ragazzi?”
Artemis,
in tutta risposta, si limitò a fissare intensamente il
pavimento. Poi alzò
nuovamente lo sguardo.
“Non
abbiamo scelta. Dobbiamo trattenerli qui finchè non
sarà tutto finito.”
Elinor
si
sentiva governata da una forza estranea. Il suo oroscopo
l’aveva detto quella
mattina, che forze incontrollabili e al di sopra della sua portata
avrebbero
influito sul suo destino, ma lei, come al solito, non ci aveva fatto
caso. Il
suo corpo si muoveva come se non fosse il suo cervello a controllarlo;
le sue
gambe sembravano autogovernarsi e portarla verso la fine del corridoio
da sole,
senza che nulla di lei opponesse resistenza. Arrivata al fondo del
corridoio,
si ritrovò in cima a delle scale ampie e sontuose, in legno.
Si sentivano delle
voci provenire dal piano inferiore, che sembrava essere
l’unico sottostante.
Il
suo
cervello era in fermento: prima di tutto servivano le chiavi delle
stanze. Non
aveva molto tempo prima che qualcuno si accorgesse che lei era fuggita,
dunque
doveva muoversi in fretta. Aveva come il presentimento che le chiavi
fossero
nelle mani dell’omone pelato, ma preferì essere
ottimista e immaginarle posate
da qualche parte in un luogo deserto e non controllato. Illudendosi e
beandosi
di tale prospettiva, cercò di farsi coraggio e, pregando
mentalmente il suo
cuore di smettere di battere così forte, fece il suo primo
passo giù per le
scale.
Il
fatto
di avere le pantofole, che attutivano qualsiasi suo movimento,
risultò essere,
con sua piacevole sorpresa, un fattore chiave. Scese senza fare alcun
rumore, e
arrivata al fondo, si appoggiò al muro sulla sinistra, che
presentava
un’apertura mediante la quale, probabilmente, si accedeva al
soggiorno. Il
suono delle voci provenienti dalla stanza appena al di là
del muro a cui si
stava appoggiando era chiaro e distinto, e Elinor riuscì a
cogliere sprazzi di
conversazione fra l’uomo e il ragazzo.
Finchè
fosse rimasta lì, nessuno avrebbe potuto scoprirla. La
speranza di trovare le
chiavi, però, era un chiodo fisso nella sua testa, anche se
una vocina, dai
meandri della sua mente, le suggeriva di cercare la prima finestra
aperta e di
gettarsi fuori, dal momento che il liberare i suoi amici era
senz’ombra di
dubbio una missione disperata e impossibile.
Naturalmente,
la vocina non fu ascoltata.
In
quel
momento spostò lo sguardo dall’apertura e
fissò dritto davanti a sé.
E
si rese
conto di quanto sarebbe stato meglio ascoltare quella saggia vocina.
Spazio
Autrice
Non
potevo assolutamente
fare a meno di lasciare un piccolo intervento al fondo…
allora, che ne pensate?
Ho un po’ di dubbi sulla conversazione fra Spinella e
Artemis, e credetemi,
Artemis è il personaggio più difficile in
assoluto su cui scrivere… insomma,
per descrivere i pensieri e i sentimenti di un genio dovrei essere un
genio,
giusto? Beh, si dà il caso che io non lo sia affatto. Dunque
perdonatemi se il
mio Artemis non rende bene l’idea… ma spero che
possa essere lo stesso di
vostro gradimento J
Au
revoir!
J.
|
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Capitolo 6 *** Reality Show ***
Hello!!! Dunque
dunque… che dire? È arrivata la parte
più
difficile per me, ovvero il lento abituarsi dei ragazzi alla loro nuova
dimora,
e agli inquietanti abitanti che essa ospita. In questo capitolo,
ahimè, c’è
poco poco spazio per Artemis, che però tornerà
presto…
Buona lettura!!
REALITY
SHOW
Non
era
stata una grande idea, dopotutto. Insomma, poteva aspettarselo. Non era
Tom
Cruise, né una seducente e combattiva Angelina Jolie, quindi
la sua missione
era destinata al fallimento ancora prima che iniziasse.
“Cavolo”
pensò Elinor, e fu l’unica riflessione che
potè fare prima che un paio di
braccia femminili la gettassero a terra, premendole il viso sul
pavimento. La
ragazza che l’aveva atterrata aveva due trecce bionde
fluenti, e una presa da
fare invidia al migliore dei lottatori di Wrestling.
“Dove
pensavi di andare, eh?” ringhiò.
“Artemis, Leale!”
Con
la coda
dell’occhio Elinor vide l’uomo pelato sbucare dal
soggiorno e rimanere lì,
fermo a fissare le due ragazze. Fu subito seguito dal ragazzino
pallido, che le
osservò con aria sorpresa.
“Leale,
mi
sembra proprio che tu te ne sia fatta sfuggire una.”
Osservò con un ghigno.
Elinor credette di averlo visto sorridere. “E’ la
prima volta che capita.” Il
ragazzo si spostò dalla visuale di Lily per dare una pacca
sulla spalla
dell’omone. “Stai perdendo qualche colpo, vecchio
mio. Farti scappare una
ragazzina…” e rimase lì a sghignazzare
divertito.
L’omone,
pensò Elinor, non era affatto contento. La guardava con aria
omicida, e fino a
quel momento non aveva detto una parola.
“Juliet,
lasciala andare. Non è pericolosa.” La sua voce,
benché cercasse di mantenere
un tono calmo, lasciava trapelare una certa rabbia.
La
ragazza
si sollevò dalla sua posizione, lasciando Elinor libera di
respirare e di
alzarsi. Lily si guardò sopresa attorno, stupita del fatto
che l’avessero
lasciata andare senza neanche farle del male. Fissò i suoi
carcerieri con
un’aria di sommo disgusto, lisciandosi la vestaglia che
ancora indossava e
tentando di mantenere una certa dignità nonostante il suo
abbigliamento e il
fatto che era stata scoperta e atterrata con facilità da una
ragazza che non
doveva avere più di un paio d’anni più
di lei.
Strinse
i
pugni e alzò lo sguardo, augurandosi di sembrare coraggiosa
e spavalda.
“Chi
siete?
E dove siamo?” chiese con voce ferma. “Dovete
liberarci immediatamente.
Sicuramente in questo momento ci saranno migliaia di agenti della
polizia in
nostra ricerca, e si sarà già diffuso
l’allarme. Quando vi prenderanno…”
Tutt’un
tratto ammutolì. Perché nessuno stava gridando
contro di lei? Perché nessuno la
stava trascinando nella sua “cella” con la forza?
Ma che razza di rapimento era
quello?
Le
tre
figure davanti a lei la fissavano immobili. La ragazza la guardava con
curiosità e diffidenza, come se non capisse bene di cosa
stava parlando, e ogni
tanto lanciava uno sguardo ai suoi due compari; l’uomo la
guardava contrariato,
e ogni tanto gettava un’occhiata al ragazzo;
l’oggetto di tutta
quell’attenzione, dal canto suo, fissava Elinor con
un’espressione
indecifrabile sul volto, dimostrando ben poco interesse per le sue
parole, e
aspettava pazientemente che finisse il suo minaccioso discorso.
A
Elinor
morirono le parole in bocca.
“Dunque??
Ci
lasciate andare o no??” chiese furiosa. La mancanza di
reazione da una
qualsiasi delle persone alle quali si stava rivolgendo la rendeva
sempre più in
collera.
Stettero
tutti e quattro in silenzio per qualche istante.
“Perfetto.
Leale, fai scendere i ragazzi e falli accomodare in soggiorno. Non
c’è bisogno
che rimangano nelle loro camere.”
Elinor
guardò l’omone, Leale,
rivolgere uno
sguardo estremamente sorpreso al ragazzo, che, come dedusse la ragazza,
doveva
essere per forza il suo padrone o datore di lavoro. Tuttavia egli non
disse
nulla, e silenziosamente si avviò verso le scale.
Lily
continuò a studiare attentamente i due ragazzi di fronte a
lei, sperando che il
suo sguardo esprimesse il più grande disprezzo possibile. Lo
sguardo
inquisitore della ragazza bionda su di sé la
infastidì leggermente, ma mai
quanto quello del ragazzo, che la guardava come se fosse completamente
indifferente alla situazione, anzi come se ne fosse divertito. Elinor
non riusciva
a capire: prima lo aiutava, poi lui rapiva lei e i suoi amici senza
fornire uno
straccio di spiegazione e poi sogghignava divertito alla vista della
sua mal
riuscita fuga? Ciò non rientrava in alcuno schema razionale.
Inoltre, chi era?
Eric, Artemis, russo, inglese, insomma che cosa diamine era? Come si
chiamava?
E come poteva essere il capo di quell’omone grande e grosso,
quando dimostrava
a malapena la sua stessa età?
Un
improvviso rumore di passi risuonò da sopra le scale, e Lily
si girò. Fu in
qualche modo sollevata dal vedere la chioma rossa di Sissi, il passo
morbido e
aggraziato di Arianna, il pigiama viola di Milla apparire in cima ai
gradini,
ma soltanto quando fu stretta dalle braccia di Giova, il suo migliore
amico, si
sentì decisamente meglio.
“Elinor!
Che
ti è successo?” Luca arrivò trafelato e
la guardò con preoccupazione.
Elinor,
dopo
aver abbracciato le altre, si voltò verso il suo amico:
“Te lo racconto dopo.
Non mi hanno fatto niente, comunque.”
“Ragazzi cosa sta succedendo? Dove siamo?” la voce
di Lorenzo riportò tutti al
precedente stato di angoscia. “Che cosa volete da
noi?” ringhiò poi alla volta
del ragazzo pallido e della ragazza bionda di fronte a loro. Elinor
percepì la
tensione salire, mentre Giova e Luca si univano a Lorenzo nella loro
muta
battaglia di espressioni rabbiose nei confronti degli sconosciuti.
Arianna si
affiancò ancora di più a Lily, e le strinse la
mano, alla ricerca di conforto.
Tutta quella tensione, tutta quella paura indefinita la facevano
soffrire e
patire ancora più degli altri.
“Ragazzi,
calmiamoci adesso” la voce calma di Lily spezzò
quell’incredibile tensione che
si era creata. “Ascoltiamo cosa vogliono da noi.”
Si voltò poi verso Giova,
sussurrando appena. “Non possiamo fare nulla in questo
momento.”
“La
vostra
compagna ha ragione.” Più di una dozzina di occhi
si posarono sul ragazzo
pallido, che osservava la scena tranquillo, senza battere ciglio.
“Seguitemi.
Vi spiegheremo la situazione.”
E,
tranquillamente, si diresse verso il soggiorno.
Artemis
era
sorpreso. Per la prima volta, una persona – una ragazzina – era riuscita a
eludere la sorveglianza di Leale. Come,
non sapeva dirlo. Sicuramente però avevano sottovalutato le
capacità di
un’adolescente disperata.
La
osservò
attentamente, dopo aver chiesto a Leale di andare a prendere gli altri
ragazzi.
Era la stessa che gli aveva offerto la camera, e che si era
“buttata” giù dal
balcone con lui. Non era nulla di notevole: non era particolarmente
carina,
normale, e probabilmente non era neanche così sveglia, come
la stupida offerta
di aiuto a uno sconosciuto sottolineava. Cercava inutilmente di
esprimere odio
attraverso lo sguardo, ma lui riusciva senza sforzo a scorgervi la
paura, e la
confusione che regnava nella sua testa. In fondo, pensò
Artemis, non poteva biasimarla:
non tutti erano come lui. Anzi, nessuno era come lui.
Si
ritrovò a
pensare a quella ragazza con un misto di antipatia e pena. “Un attimo” pensò.
Lui non doveva pensare
a quella ragazza in alcun modo, non doveva interessargli minimamente.
L’unica
cosa che gli premeva in quel momento era di sbarazzarsi del fastidioso
inconveniente della presenza dei ragazzi italiani in casa. Il problema
era che,
in quel momento, non c’era alcuna soluzione.
Il
soggiorno
era enorme. Non era affatto spoglio come le camere, ma arredato con
gusto e,
nonostante lo stile fosse piuttosto sobrio e elegante, si capiva che il
padrone
di casa doveva essere particolarmente ricco.
Elinor
si
sedette con Arianna e Milla su un divano color panna, mentre i suoi
amici si
disponevano sulle poltrone lì attorno. La ragazza non li
seguì, mentre Leale e
il ragazzo si piazzarono davanti a loro, come per iniziare
un’importante
discorso.
“La
vostra
presenza qui” iniziò il ragazzo
“è stata un errore. Voi non dovreste essere
qui, ma ci siete, e non potete fare nulla per cambiare le
cose.”
Leale
lo
interruppe con decisione, mostrando una padronanza
dell’italiano molto più
stentata. “Ciò vuol dire che la fuga non
è contemplata. Non arrivereste vivi
fino al giardino.” Fissò Elinor, che
rabbrividì. “Siete avvertiti.”
Il
ragazzo,
dopo aver annuito in assenso, continuò. “La
situazione è questa: voi qui siete
al sicuro. Il vostro rapimento non era uno dei nostri obbiettivi.
Dunque non
preoccupatevi: la buona notizia è che cercheremo in tutti i
modi di farvi
tornare a casa presto. La cattiva notizia sarà che dovrete
perdere la memoria,
ma non credo che sarà un grande problema per voi,
né vi dispiacerete tanto,
anche perché non ve ne ricorderete. Questo è
quanto.”
Si
incamminò
verso la porta, ma si fermò a metà strada.
“Ah,
quasi
dimenticavo.” Si voltò con un ghigno stampato sul
volto, e Elinor ebbe come la
sensazione che non se ne fosse affatto dimenticato. “Non
chiedete chi siamo, né
dove siamo, sarebbe fatica sprecata. Potete chiamare Leale con questo
nome se
volete, e se avete domande rivolgetevi a lui. In quanto a me, sarebbe
meglio
che non mi chiamaste affatto.”
E
se ne
andò.
I
ragazzi
rimasero basiti a fissare l’apertura vuota in perfetto
silenzio. Poi un brusio
si diffuse con gradualità, e Sissi fu la prima a esprimere
la sua opinione in
merito:
“Lurido
bastardo.” Sentenziò. Si concentrò poi
su Leale, che era rimasto nella stanza.
“Tu,
Leale
giusto?” chiese la rossa con forza. “Dicci subito
dove siamo. Voglio saperlo. E
non voglio assolutamente che qualcuno tocchi la mia preziosa mente. Ma
che
diamine è sta cosa della memoria?”
E,
tanto per
dare risalto alle sue parole, si alzò in piedi e mise le
mani sui fianchi,
pronta al combattimento.
Elinor
avrebbe giurato di aver visto Leale celare uno sguardo divertito.
“Non possiamo
dirvi dove siamo. In quanto alla memoria, non dovete preoccuparvi, vi
sarà
spiegato tutto a tempo debito, tanto non ve ne ricorderete. Per ora, vi
chiedo
solo di mantenere la calma, e di pazientare. Ora sedetevi.”
Ordinò, guardando Sissi.
“Devo spiegarvi alcune regole.”
Guardò
tutti
negli occhi, cercando di incutere timore, e ci riuscì
benissimo. Elinor
rabbrividì.
“Regola
numero uno: non potete uscire. Non chiedetemi cosa ne sarà
di voi se vi
azzardate a mettere un piede fuori.” Si prese una pausa, per
sottolineare la
sua ferrea decisione con lo sguardo.
“Regola
numero due: potete circolare in casa, ma non potete avvicinarvi al
terzo piano.
Neanche lontanamente. Ogni sera, alle dieci, passerò io
stesso a chiudere a
chiave le vostre camere. Con voi dentro.”
“Regola
numero tre: non potete disturbare. Non dovete azzardarvi a urlare,
schiamazzare
e dare feste o comunque fare tutte quelle cose che fanno gli
adolescenti. Anzi,
sarebbe meglio che vi comportaste esattamente come dei silenziosissimi
prigionieri, il che vuol dire che dovrete ubbidire a ogni mio ordine, o
a
quelli di Artemis. All’istante.” Li
fissò con aria omicida. “Sono stato
abbastanza chiaro?”
Nessuno
rispose, in un tacito e cupo assenso.
Artemis, si ritrovò a pensare
Elinor. Così
era questo il suo nome. Tanto, pensò, non se ne sarebbe
ricordata, stando a ciò
che avevano detto.
“Avremo
bisogno di vestiti.” Disse Lorenzo, rompendo il silenzio.
Leale sembrò
accorgersi solo in quel momento che i ragazzi erano ancora tutti in
pigiama.
Poi il ragazzo si voltò verso gli amici: “Non so
voi, ma io ho anche fame.”
“Inoltre,
cosa ne è delle nostre famiglie? Sono a conoscenza della
nostra situazione, che
stiamo bene…?” la voce di Elinor era davvero
preoccupata.
“Non
preoccupatevi di questo. Ce ne occuperemo al più
presto.” Disse Leale. “In
quanto al resto…” Si voltò verso
l’apertura: “Juliet!”
La
ragazza
bionda entrò nell’ingresso, e Elinor ebbe
l’occasione di osservarla meglio: era
abbastanza alta, magra, con un paio di jeans e una T-shirt. Il suo
viso, che
prima era contratto in un cipiglio aggressivo, sembrava più
rilassato e
concentrato.
“Juliet,
avresti mica dei vestiti da dare alle ragazze?” Leale
mostrò con la mano
l’abbigliamento degli italiani.
Juliet
le
squadrò pensierosa. “Ma certo, per il momento
posso prestare loro la mia roba.
Per i ragazzi possiamo usare i vestiti che Artemis non mette mai,
quelli su in
soffitta.” Voltò la testa verso Leale.
“Vado a prenderli.” E uscì scattante dal
soggiorno.
“Ok,
questa
è sistemata. Ora seguitemi in cucina. Non toccate
nulla.” Disse, anche se
nessuno aveva pensato di trasgredire i suoi ordini. Lentamente, i
ragazzi si
alzarono e seguirono l’uomo fuori dal soggiorno, in una
stanza dall’altra parte
dell’ingresso. Era luminosa, con una porta finestra che
occupava la maggior
parte della parete e che dava su una veranda, da cui si poteva ammirare
l’immenso giardino. Elinor si ritrovò a pensare
alla casa con ammirazione.
Leale
aprì
una delle dispense, e tirò fuori alcuni pacchi di pane a
cassetta. I ragazzi,
in silenzio, aspettavano in piedi attorno a un tavolo piuttosto grande,
in
vetro, proprio davanti alle finestre.
Leale
si
interruppe un secondo e li fissò. “Sedetevi
pure”, disse con un tono un po’ più
addolcito. Si sedettero, sempre in silenzio. La situazione era talmente
strana
e al di fuori dal normale che non se ne capacitavano. Erano stati
rapiti, ma da
un ragazzino della loro età che possedeva una casa immensa,
in cui venivano
trattati più come ospiti che come prigionieri. Non avevano
idea di cosa stava
succedendo a casa, alle loro famiglie, e poi c’erano tutti
quei vaghi
riferimenti alla perdita della memoria… la confusione e una
vaga inquietudine
albergavano ancora nei loro animi, e nessuno riusciva a esprimere
ciò che
provava a parole.
Proprio
lì,
mentre aspettavano, Milla scoppiò a piangere, singhiozzando
sommessamente.
Elinor si alzò dal suo posto e andò ad
abbracciarla, sussurrandole di stare
tranquilla. Leale continuò imperterrito a fare panini
all’altro capo della
stanza.
In
quel
momento arrivò Juliet, tenendo in mano una
quantità spropositata di vestiti
femminili, tutti di tonalità rosa o rossa. “Ho
trovato questi, spero che siano
della vostra misura…” si zittì
improvvisamente quando vide Milla piangere,
circondata dai suoi amici, che attraverso i loro volti tirati e
stanchi,
esprimevano tutta la loro sofferenza e timore.
Lasciò
cadere i vestiti, si diresse con decisione verso il gruppetto, e si
accovacciò
di fianco alla sedia di Milla.
“Non
avere
paura. Non vi faremo nulla qui. Finchè siete in questa casa,
siete più al
sicuro che fuori.” Disse, lasciando tutti a bocca aperta.
Anche Leale si fermò,
guardandola inibetito. La bionda abbozzò un mezzo sorriso:
“Su forza, tu
sceglierai per prima.” E posò sul tavolo la
miriade di vestiti che aveva
portato, raccogliendoli da terra.
Elinor
contorse il viso in una smorfia, che sperava apparisse come un
credibile
sorriso. “Forza Milla, non ti preoccupare. Vedrai che andremo
via presto da
qui” le disse, sperando di risultare convincente.
“E ora, scegliamo i vestiti.”
Quando
si
svegliò, Elinor ci mise qualche secondo a ricordare dove si
trovava. Il gelo la
colse, e per qualche attimo rimase lì, a fissare il buoi, le
mani che
stringevano il cuscino. Accese la lampada sul suo comodino e
gettò un’occhiata
all’orologio: le 8.30. Si mise a sedere, cercò con
i piedi le pantofole e si
alzò. Si tolse la camicia da notte e iniziò a
infilarsi distrattamente i
vestiti che Juliet le aveva dato il giorno prima e che ora erano
appoggiati
sulla sedia: i Jeans erano troppo lunghi e la T-shirt troppo larga, ma
non ci
fece caso. Ancora insonnolita si scagliò sulla porta,
stupendosi di trovarla
aperta,e lentamente, sbadigliando e passandosi la mani fra i capelli
scarmigliati, scese giù per le scale, senza neanche curarsi
di non fare rumore.
Arrivata al fondo sentì alcuni rumori provenire dalla cucina
e, senza stare
tanto a pensarci, entrò.
Juliet,
ancora in pigiama rosa acceso, stava maneggiando con disinvoltura
pentole e
padelle, in un caos che male si addiceva alla fredda perfezione del
resto della
casa.
“Buongiorno.”
Disse la bionda con un sorriso.
Elinor
si
chiese se la stava prendendo in giro. Quella poteva essere di tutto, ma
sicuramente non era una buona giornata, anche solo per il fatto di
essersi
svegliata lì invece che a casa sua.
“Sei
la
prima a esserti svegliata.” Continuò Juliet, senza
neanche aspettare una
risposta da Elinor, che la guardava costernata.
“Toast?” chiese, porgendole un
piatto con un sorriso invitante. Poi continuò: “Le
uova non sono pronte,
aspettavo che foste tutti svegli. Se ti va, puoi andare di
là a guardare un po’
di TV, ma non c’è un granchè a
quest’ora.” Alzò lo sguardo dai fornelli
per
posarlo su Elinor, che reggeva il piatto senza dire una parola.
“Ehi
un
momento. Tu sei quella che stava cercando di scappare ieri? Certo che
hai avuto
proprio un bel coraggio, a mio fratello è quasi venuto un
colpo quando ha
capito che gliel’avevi fatta sotto il naso… beh, i
miei complimenti, non
credevo che qualcuno ci sarebbe mai riuscito, ma ti avverto, non
provarci mai
più, non te la farà passare liscia la prossima
volta…”
Vi prego, fermatela, pregò Liy
nella sua
testa. Intervenne, nella speranza che l’altra si zittisse.
“Non
volevo scappare.
Volevo trovare le chiavi delle camere.”
Juliet
le
sorrise, comprensiva. “Ma certo, non potevi lasciare i tuoi
amici.” Posò la
padella che aveva in mano e si voltò verso Elinor.
“Lo so che è difficile per
voi. Non ci starete capendo niente, e siete lontano da casa, in mano a
degli
sconosciuti. Mi dispiace di non potervi aiutare, ma voglio che sappiate
che non
abbiamo cattive intenzioni, e che finchè sarete qui verrete
trattati con il
massimo riguardo.” Le sorrise di nuovo, e questa volta
sembrava estremamente
sincera e cordiale. “In quanto a te, sono convinta che siamo
partite con il
piede sbagliato.” aggiunse divertita. “Come ti
chiami?”
Elinor
si
trovò improvvisamente in difficoltà. Quella
ragazza, che il giorno prima
l’aveva atterrata sul pavimento, ora le parlava in modo
inaspettatamente
amichevole e cordiale. Cosa doveva fare? Rimanere distaccata e
trattarla come
una dei suoi rapitori, o cedere e accettare la sua offerta di amicizia?
Ci
pensò un
attimo: in fondo, cosa importava? Stando a ciò che aveva
compreso e udito il
giorno prima, avrebbe perso ogni ricordo del rapimento, e probabilmente
anche
Juliet lo sapeva bene.
“Elinor.”
“Piacere
Elinor. Io sono Juliet, la sorella di Leale.” Sorridendo, la
bionda le porse
una mano, che Elinor strinse sorridendo a sua volta.
Soltanto
più
tardi Elinor avrebbe capito di non aver fatto la scelta migliore.
La
giornata
era passata in modo tranquillo. Dopo la colazione a base di uova e
bacon
preparata da Juliet, la ragazza mostrò loro alcune parti
della casa, dove
potevano tranquillamente recarsi: oltre al soggiorno e alla cucina,
anche una
saletta confortevole, che chiamava Sala da Tè, e
un’altra stanza provvista di
biliardo e caminetto. Sebbene si rivolgesse a tutti con tono
amichevole, Juliet
riuscì a eludere tutte le domande pertinenti al luogo in cui
si trovavano o
alla durata della loro permanenza lì; rispose e si
interessò di tutti i
problemi più pratici che affollavano la mente dei ragazzi,
che, sebbene non
avessero trovato risposta ai loro quesiti più importanti, si
sentirono più
sollevati e l’atmosfera si alleggerì un poco.
Non
videro
nessun altro a parte Juliet quel giorno. Elinor passò il
pomeriggio a giocare a
carte con gli altri, in soggiorno. Milla e Arianna guardavano la TV
svogliate,
facendo zapping tra un mucchio di canali Irlandesi. La nazione non
stupì troppo
Elinor, ma ciò aveva scarsa importanza, dal momento che non
conoscevano
l’esatta ubicazione della casa. Il pomeriggio
passò tranquillo così com’era
trascorsa la mattina, e Juliet stupì tutti dichiarando di
voler sfidare Giova,
Luca e Sissi in una partita di Poker, che vinse platealmente,
strappando a
tutti un sorriso. La cena, a base di tacchino e patate, era squisita, e
i
ragazzi andarono a dormire con la sensazione di aver partecipato a uno
strano e
inquietante reality irlandese.
Cosa
che,
però, fu subito smentita dal rumore delle serrature che si
chiusero alle dieci
di sera precise, lasciando ognuno dei ragazzi da solo nella propria
stanza.
Elinor
si
accoccolò sul letto e strinse il cuscino, mentre una singola
lacrima le solcava
il viso.
Dunque, cosa ne pensate?
Vedete che Artemis non nutre
buonissime opinioni sulla protagonista per
il momento, ma in fondo, come poteva essere altrimenti? Io
ero molto
indecisa sul personaggio di Juliet, che a mio parere è un
po’ troppo OOC, ma
era necessario… voglio chiedere un parere ai lettori,
dunque, vi prego, siate
clementi e datemi una mano: avevo iniziato la fanfiction con
l’idea di
riportare le vicende dal punto di vista di Artemis e di Elinor, ma
adesso che
sto scrivendo il nono capitolo mi rendo conto che è
tremendamente difficile
riportare le vicende degli altri personaggi… dunque, secondo
voi, sarebbe un
gran problema uscire ogni tanto dagli schemi e vedere cosa frulla nelle
teste
di Leale, Spinella, Juliet, Arianna, Giova…?
Fatemi sapere presto, mi
raccomando.
Mi rivolgo umilmente a
coloro che hanno inserito la
storia fra le seguite e i preferiti, e vi ringrazio tanto
tanto… dato che io SO
che ci siete che ne direste di lasciarmi un commentino ogni tanto? Mi
farebbe
molto, molto piacere J
Many kisses to you all!
E ora, veniamo alle
risposte:
chariss:
Heilà!!!! Grazie, ricevere recensioni come la
tua mi riempie il cuore di giuoia…
Graziegraziegrazie!!! Allora, cosa ne pensi di questo capitolo? A
presto, J.
_FrancySoffi_:
dal momento che ti ho pure lasciato una recensione non
sprecherò tempo e spazio
a dirti quanto la tua shot mi sia piaciuta… ascolta, se
avessi per caso voglia
di prendere queste mie poche idee e riscrivere tu la fanfiction
cancello
volentieri la mia, perché sicuramente la tua sarà
molto ma molto meglio!!! J love uuuuuu <3
Juliet95:
Grazie, sono sinceramente commossa ^^ spero
sarai felice di sapere che nel prossimo capitolo Spinella ci
sarà sicuramente J sì,
l’ho letto, ma in inglese… non dirmi che
è uscito in
Italia e non me ne sono accorta!!! Tu come l’hai trovato?
Baci J.
giovy39:
sono d’accordo, scrivere su Artemis e rimanere fedeli al
libro è praticamente
impossibile, ma dal momento che sono l’unica, mi pare, che
continua a scrivere
su di lui non mi arrendo!! È davvero triste che non ci siano
nuovo fic su di
lui, anche se io ogni volta vado a controllare… speriamo che
prima o poi
qualcuno scriva qualcosa di più decente di questa mia
storiella!! ;) kisses J.
Grazie mille a chi mi ha
seguito fin qui, e arrivederci a
Martedì 13!!
J.
|
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Capitolo 7 *** Like an idiot ***
Hello!!
Eccomi qua con un altro capitolo, anche
se obbiettivamente mi chiedo: perché sto postando? Insomma,
tanto varrebbe
tenermelo per me, ma c’è da dire che tanto ormai
l’avevo scritto, dunque tanto
vale…
Non
voglio dedicarlo alla mia migliore amica, perché
fa schifo.
Dunque
non lo dedico a nessuno.
Ora
ricapitolo un po’ a me stessa, sola soletta:
questo capitolo sta qui, un po’ a sé, per
introdurre Spinella. Poi ci sarà un
altro capitolo, necessario ma un po’ duro da scrivere, e poi
FINALMENTE il
nucleo della storia, la prima vera parte, il motivo per cui la storia
è nata.
Alleluia.
LIKE
AN IDIOT
Spinella
non era nata per stare ferma. Era una persona attiva,
e starsene con le mani in mano la faceva sentire inutile e pigra: per
questo,
mentre i suoi colleghi spesso poltrivano e si giravano i pollici, lei
preferiva
impegnarsi in una missione o comunque dedicarsi intensamente a
qualcosa.
Qualcosa che, di solito, portava guai.
In
quel momento, Spinella si stava contorcendo su una sedia in
un buio e tetro studio, da sola, in perfetto silenzio. Sebbene fosse
già stata
a casa Fowl, anche se non proprio per sua volontà, Spinella
pensò che non
l’aveva mai osservata bene, dunque si mise a ispezionare la
stanza con occhi
attenti: la scrivania, e la poltrona alle sue spalle, le incutevano un
certo
timore; le tende erano tirate, il tutto aveva un’aria chiusa
e malsana, e
perfino i libri contenuti negli scaffali sembravano avere un che di
oscuro e
misterioso. Se non fosse stato per le pile e pile di fogli e appunti e
per il
computer acceso sulla scrivania, avrebbe detto che nessuno aveva messo
piede là
dentro da secoli.
“Spinella.”
Una voce maschile alle sue spalle interruppe
queste sue riflessioni.
Si
voltò, e quasi non riconobbe il ragazzo che aveva di
fronte. Artemis era cresciuto incredibilmente quell’anno: era
più alto, e, se
possibile, ancora più magro, benchè Spinella
riuscisse a scorgere una parvenza
di muscoli sotto la camicia azzurra; aveva fatto crescere i capelli
neri , che
ora arrivavano all’altezza di quegli occhi di colore diverso.
“Artemis.”
Spinella sorrise. Era felice di rivederlo, anche se
ogni loro incontro non portava che guai. Questa volta, almeno, il
pericolo non
era imminente. “Ti vedo… cresciuto.”
Artemis
si passò una mano fra i capelli e si abbandonò
sulla
poltrona dall’altra parte della scrivania.
“Anche
te sei… cambiata. Sembri più rilassata.”
Effettivamente,
pensò Spinella, alla LEP non c’erano stati
grandi problemi, dopo Artemis. Almeno fino a quel momento.
“Sì,
più o meno.” Spinella sorrise di nuovo.
“Polledro ti
manda i suoi saluti. E Bombarda dovrebbe raggiungerci fra qualche
giorno.”
“Qualche
giorno?” Artemis si sporse sulla scrivania, alzando
leggermente un sopracciglio. “Ti fermerai così
tanto?”
Spinella
sospirò. “Dovevo parlarti proprio di
questo.”
Accavallò le gambe, tentando di mettersi più
comoda sulla sedia, invano.
“Abbiamo avuto dei problemi giù a
Cantuccio.” Squadrò Artemis. “Hai tempo?
È
una storia lunga.”
Il
ragazzo non fece una piega: “Continua.”
Spinella
prese un bel respiro, poi cominciò: “Ultimamente,
le
nostre risorse di energia stanno diminuendo. Il vento, il Sole sono
inaccessibili per noi, come stai bene, e le vampate di magma non sono
molte. La
quantità di energia che il Consiglio decide di erogare
diminuisce di anno in
anno.”
Fissò
Artemis, che la stava guardando attento, poi riprese:
“Il problema è proprio questo. I goblin, sebbene
abbiano preso una batosta non
da poco, l’anno scorso, si sono ripresi, e ora stanno facendo
un sacco di
storie per l’energia. Semplicemente, ne vogliono di
più, principalmente per
rifornire le industrie illegali di armi. E qui sono cominciati i
casini: il
Consiglio, naturalmente, non ha ceduto, e noi, che credevamo che i
Goblin si
sarebbero adattati alla cosa, abbiamo dovuto ricrederci. La scorsa
settimana
qualcuno si è infiltrato nei nostri Computer, eludendo
perfino i sistemi di
protezione di Polledro.”
Artemis,
pur continuando a tacere, spalancò gli occhi.
Nessuno, a parte lui, aveva mai fregato Polledro.
“E’
inutile che io ti descriva la sua reazione. Si è chiuso
nel suo studio per tre giorni, senza parlare con nessuno, e qualcuno ha
giurato
di averlo sentito piangere. Sai, ha sempre avuto un debole per il
melodramma.
Comunque, il vero problema è che i file che hanno preso
riguardano un nuovo
modo per procurarsi energia, attraverso il nucleare. Era stata
archiviato da un
po’, per i rischi che comportava, non solo per gli abitanti
del sottosuolo, ma
per tutta la terra. Sicuramente Polledro te lo spiegherà
molto meglio di me, ma
sostanzialmente si parla di un modo di portare atomi a temperature
altissime,
incredibilmente pericolose, specialmente se nelle mani sbagliate.
Figurarsi se
per caso questi file sono finiti nelle mani dei goblin.”
Spinella alzò
nuovamente gli occhi verso Artemis.
“La
situazione è questa: il Consiglio mi ha mandato qui non
soltanto a chiedere il tuo aiuto, ma anche a controllarti. Finora
l’unico che
sia mai riuscito a metterci nei guai se stato tu, Artemis, e questa
volta non
escludono che tu sia coinvolto. Ho tentato di difenderti, ma sono solo
riuscita
a far inviare me, invece che qualche altro stupido elfo della Lep. Ho
accennato
alla tua richiesta degli Spazzamente, e loro te li accorderanno, a fine
missione. In cambio, tu dovrai collaborare, ma per il momento non
dovrai fare
nulla, e aspettare ordini dal basso.” Finì il
discorso in un lampo, sapendo che
a Artemis non avrebbe sicuramente fatto piacere.
Artemis
stette qualche secondo in silenzio. “Perfetto. Proprio
quello che mi aspettavo.”
Spinella
pensò che, in fondo, non avrebbe dovuto essere
sorpresa. In fondo, era pur sempre Fowl.
Il
ragazzo continuò: “Dal momento che avevo previsto
queste
decisioni del consiglio, mi sono premunito alla meglio. Non so
esattamente
come, ma sicuramente la persona che dovevo incontrare in Italia e
questa crisi
a Cantuccio sono collegate. Dal momento che non posso fare nulla,
né uscire da
qui, aspetterò e continuerò a controllare la
situazione da casa Fowl. Intanto,
mi piacerebbe parlare con Polledro e con il comandante Tubero, se
possibile”.
“Si
collegheranno domani mattina, quando l’emergenza
sarà
passata e avranno informazioni più precise da
darti.” Disse Spinella, concisa.
“Intanto, perché non mi racconti degli
ostaggi?”
“Beh,
io non li definirei proprio ostaggi.” Iniziò
Artemis con
un ghigno. “Diciamo che qui vengono trattati più
come ospiti. Juliet è allegra,
e passa tutta la giornata a fraternizzare con quei ragazzini e a
trattarli come
se dovessero abituarsi a rimanere qui. In fondo, non posso darle torto,
io non
sono mai stato granchè di compagnia.” Aggiunse,
con un mezzo sorriso. “Anche
Leale, nonostante non voglia ammetterlo, è rimasto colpito
dai ragazzi, che,
non so come dire, lo addolciscono un poco. Tanto per darti
l’idea, quando una
di loro, che è pure quella che mi ha aiutato a scappare, ha
tentato di fuggire,
lui non ha fatto niente, anzi, ora ricorda il suo nome e le parla
tranquillamente.”
“E
tu? Hai fatto del tuo meglio per metterli a loro agio,
suppongo.” Osservò Spinella ironica.
“Esatto.”
Disse Artemis, rispondendo per le rime. “Devo
ammetterlo, credevo che sarebbero stati un grande problema, ma ho
scoperto che
stanno abbastanza tranquilli, e che tutto sommato non danno grandi
fastidi.
Anche se, naturalmente, non traggo alcun giovamento dalla loro
presenza, qui.”
“Immagino
che sia inutile ricordarti che hanno la tua età, e
che interagire con loro ti farebbe bene, vero?” Spinella
sapeva che il suo
tentativo non avrebbe portato a nulla.
“Divertente.”
Rispose Artemis, secco. “Mi sembrano tutti
piuttosto noiosi. Parlare con loro mi darebbe soltanto
fastidio.” Il ragazzo si
alzò, e si diresse verso la porta. “Ora andiamo.
Leale e Juliet non vedono
l’ora di rivederti.”
Elinor
bussò piano alla porta della stanza di Milla, ed
entrò.
La sua amica era sdraiata nel letto, con gli occhi chiusi e la testa
appoggiata
sul cuscino. Accanto a lei, sedute sul letto c’erano Arianna
e Sissi, che
parlavano a bassa voce.
“Come
sta?” chiese piano Elinor, per non svegliare Milla.
“Non
molto bene.” Rispose Sissi sottovoce. “Credo abbia
la
febbre.”
Elinor
si avvicinò e mise una mano sulla fronte
dell’amica.
Era calda.
“Hai
ragione.” Si voltò verso la porta. “Vado
da Juliet a
chiedere delle medicine. Torno subito.”
Socchiuse
la porta, tentando di non far rumore, e si diresse
velocemente verso le scale. Il silenzio irreale che regnava sulla casa
continuava a inquietarla, nonostante fosse lì già
da una settimana. Ormai
Elinor aveva perso ogni speranza di tornare a casa a breve: nessuno
aveva
parlato di una loro possibile partenza, e Juliet aveva deciso di
avventurarsi
fuori dalla casa per comprare un’incredibile
quantità di vestiti per tutti i
ragazzi, come se avessero dovuto rimanere lì dentro per
mesi; inoltre, Lily
aveva visto Leale e sua sorella scaricare nell’ingresso una
quantità abnorme di
cibo, che sarebbe bastata a sfamare un reggimento per settimane.
Camminò
silenziosamente verso la cucina, da cui provenivano
alcune voci, una delle quali era sicuramente di Juliet. Quando
entrò, non
credette ai suoi occhi: nella cucina, oltre a Leale e a Juliet,
c’erano anche
il ragazzo pallido, Artemis, e un’altra persona, che sembrava
una ragazza, ma
di statura incredibilmente bassa. Elinor rimase così
sorpresa che rimase
qualche secondo sulla porta a boccheggiare, senza credere ai propri
occhi:
l’aver visto soltanto quelle tre persone, anzi due, dal
momento che il ragazzo
non si faceva mai vivo, per tutta la settimana le aveva fatto
dimenticare che
ci potessero essere altre forme di vita sulla terra.
Rimase
dunque, sulla porta, sbigottita, senza dire una parola,
poi, ricordandosi del motivo per cui era venuta, si schiarì
la voce. “Juliet…
volevo soltanto…”
Non
stava andando affatto bene. Tutti, in quella stanza, si
erano voltati verso di lei, e Elinor non si era ancora abituata alla
nuova
situazione abbastanza da sentirsi a suo agio. In fondo, erano sempre i
suoi
rapitori. Prese un bel respiro, e poi, con una rinnovata sicurezza,
riformulò
la frase: “Milla è malata. Ci sono per caso delle
medicine che potremmo darle?”
“Ma
certo.” Rispose Juliet, che si alzò di scatto.
“Che
cos’ha?”
“Credo
che sia febbre, ma non posso esserne certa. Non abbiamo
neanche un termometro.”
“Ok, fammi dare
un’occhiata alle medicine che ci sono in casa. Tu aspettami
qui.” E, detto
questo, uscì dalla cucina, lasciando Elinor da sola a
fronteggiare gli sguardi
delle tre persone rimanenti.
Doveva
fare qualcosa, non poteva rimanere lì sulla porta come
un’idiota, pensò. Si tirò
giù la maglietta sui Jeans, abitudine che aveva nei
momenti di ansia, e si diresse verso le dispense e il frigo, cercando
di
ignorare gli sguardi dei tre, che erano invece seduti al tavolo.
“Posso?”
chiese, mettendo una mano sulla maniglia del
frigorifero. Era la prima volta che si serviva di qualcosa da sola, e
ancora
non aveva capito se le era possibile o meno.
Silenzio.
Nessuno disse una parola. Dopo qualche secondo,
Leale rispose: “Certo. C’è del succo
alla pesca.”
Elinor
respirò, rendendosi conto che aveva trattenuto il
respiro fino a quel momento. Non avrebbe mai creduto che ottenere del
succo
alla pesca fosse così difficile.
Prese
un bicchiere, e ci versò dentro il succo. In quel momento,
Juliet arrivò, tenendo in mano alcune scatole e un
termometro.
“Bene,
ci sono. Andiamo.” Disse, ma poi si fermò.
“Ah, Elinor,
dimenticavo. Questa è Meg. Sarà nostra ospite per
un po’.”
Elinor
si limitò a alzare gli occhi dal bicchiere e a
squadrare la nuova arrivata. A parte la statura, che si notava subito,
era
piuttosto magra, e, anche se era seduta, si notava il suo fisico
atletico.
Aveva corti capelli marroni, un viso piuttosto spigoloso, e un sorriso
appena
appena accennato.
“Meg.
Questa è Elinor. Ha aiutato Artemis, in Italia. È
anche
l’unico essere umano vivente che è quasi riuscito
a sfuggire a Leale.” Aggiunse
con un sorriso.
“Onorata
di fare la tua conoscenza.” Disse Meg. Elinor
pensò
che la sua voce aveva un che di musicale, che la rendeva davvero bella.
Inoltre, parlava un italiano perfetto. “Così tu
saresti quella che ha aiutato
il nostro Artemis?” aggiunse la ragazza, girando il capo
verso il padrone di
casa, che la stava fissando con aria interrogativa.
“Devi
essere una delle pochissime persone che gli hanno mai
offerto aiuto. Sai, Artemis non è molto famoso per le sue
doti di simpatia e
amicizia.”
Elinor
non aveva intenzione di sopportare oltre. Perché la
gente continuava a ricordarle che era stata lei ad aiutare
quell’odiosissimo
individuo?
“Non
ho mai detto di trovarlo simpatico, né tantomeno
amichevole.” Rispose, secca, gettando appena
un’occhiata verso l’oggetto di
tanto odio. “Aiutarlo è stato soltanto un errore
che non si ripeterà più.” E
detto questo uscì, seguita da Juliet.
Spinella
rimase qualche momento a fissare l’apertura. Poi
voltò il viso e si rivolse a Artemis, sogghignando.
“Complimenti.”
Disse, giocherellando col bicchiere davanti a
sé. “Vedo che sei migliorato molto nei rapporti
sociali”.
Si
stupì molto nel vederlo dispiaciuto; e si stupì
ancora di
più nel notare che non era intenzionato a rispondere con una
delle sue battute
taglienti, ma rimaneva zitto a fissare il bicchiere davanti a
sé, sbuffando
appena alle sue parole.
“Aspetta
un momento. Non dirmi che… le hai chiesto scusa per
quello che è successo?”
Nessuna
risposta. Artemis si limitò ad alzare gli occhi dal
tavolo.
“L’hai
almeno ringraziata per l’aiuto?”
Di
nuovo, il silenzio. Anche Leale fissava Artemis, ma senza
lo stesso stupore che Spinella provava in quel momento. Per la seconda
volta
nella giornata, l’elfa si disse che avrebbe dovuto aspettarsi
un tale
comportamento. In fondo, si parlava di Artemis Fowl. Tuttavia, quello a
cui
aveva appena assistito era davvero troppo anche per uno come lui.
“Artemis,
lasciatelo dire…” Spinella si alzò e si
diresse
verso la porta. “Sei proprio un idiota.”
Uscendo,
avrebbe giurato di aver sentito Leale sghignazzare.
So…
Eccomi
di nuovo qua. Eheh. Ho sempre desiderato,
dal profondo del cuore, dire a Artemis che è un idiota (la
mia megalomania
supera il mio sviscerato amore per questo personaggio inventato), e chi
meglio
di Spinella poteva farlo??
Ora
vi lascio, interlocutori immaginari…
Al
prossimo capitolo, dunque a Domenica.
Buon
12 Aprile ;)
|
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Capitolo 8 *** Concetti aristotelici ***
Eccomi
di nuovo qui. Mi dispiace per il ritardo, tutta colpa di Dante e
company. In
più, ho appena finito di vedere Harry Potter 6… e
mi sono venuti dei pensieri
strani. Ora se prendete le forbici dalla punta arrotondata (mi sento
una copia
sbiadita di Tonio Cartonio) e tagliate la testa a Draco Malfoy, il suo
corpo
risulta stranamente e inquietantemente (?) simile a quello che io
immagino per
Artemis… Non aggiungo altro.
Inoltre,
ho finito di leggere “Il paradosso temporale”
appena qualche giorno fa. E sapete
che vi dico? Che non sono per niente una fan delle Artemis-Spinella.
Anzi.
Inoltre
(ora la pianto, lo giuro), ho letto una recensione tremenda lasciata a
l’unica
fic con sfondo erotico di Artemis, e mi è venuto in mente:
il mio Artemis è
troppo OOC? E la mia Elinor troppo Mary Sue?
Sono
dubbi che mi assillano, davvero.
Ma,
in
mancanza di risposte, vi lascio con questo capitolo, e con mille scuse
per il
fatto che non ho risposto alle recensioni. Lo farò nel
capitolo che posterò
domenica. (E questa volta, intendo mantenere la mia parola.)
Kisses,
J.
CONCETTI
ARISTOTELICI
Arianna
fissava fuori dalla finestra. Pioveva, esattamente
come quando erano stati catturati. Una delle sue sottili e curate mani
torturava una ciocca dei suoi fluenti capelli neri. Il vestito azzurro
che
Juliet le aveva dato sottolineava la linea flessuosa e snella, e
lasciava
intravvedere le spalle e la forma aggraziata del collo; la sua postura,
sempre
maestosa, ma allo stesso tempo leggera, le donava
un’incredibile delicatezza.
Arianna
era una persona malinconica, e lo sapeva bene. Il
rapimento aveva colpito lei più degli altri, e spesso
invidiava il coraggio di
Elinor, la sua migliore amica, o l’indomabile forza
d’animo di Sissi. Come se
non bastasse, sentiva ogni momento, ogni secondo lo sguardo di Luca su
di sé:
lei sapeva bene ciò che il ragazzo provava, ma non riusciva
proprio a
ricambiare i suoi sentimenti. Perché? Luca era un ragazzo
fantastico, dolce,
giudizioso, carino, e sarebbe stato disposto a fare qualsiasi cosa per
lei.
Perché, dunque, non riusciva a ricambiarlo?
Nel
tempo si era fatta un’idea: Luca era come tutti gli altri.
Lui, non diversamente dalle persone che le stavano attorno, fatta forse
eccezione per Elinor, non riusciva a vedere chi era lei, a capirla per
come era
davvero. Tutti si aspettavano la stessa cosa da lei, Arianna, la bella
e
fragile Arianna, debole e sensibile: che cadesse, che si frantumasse in
mille
pezzi alla prima difficoltà.
Ognuno
era lì per fare la figura dell’eroe davanti a lei,
per
sostenerla e aiutarla, senza neanche prendere in considerazione
l’idea che
potesse farcela da sola, che potesse essere forte quanto gli altri.
Arianna
prese una decisione. Da quel momento, sarebbe stata
lei a salvare se stessa. Sarebbe stata forte.
Leale,
al terzo piano, controllava le varie stanze attraverso
le telecamere. Artemis, nel suo studio, era assorto nella lettura di un
volume
dall’aria infinitamente noiosa; Spinella e Juliet
chiacchieravano in cucina,
come due vecchie amiche; due ragazzi e una ragazza si trovavano al
capezzale
della malata, che, se non sbagliava, si chiamava Milla; il terzo
ragazzo,
quello biondo, stava guardando la TV. Si concentrò con
più attenzione sulla
Sala da Tè: in essa c’era Arianna, al ragazza
bella e dai capelli scuri, che
fissava fuori dalla finestra, mentre la sua amica, Elinor, leggeva un
libro comodamente
seduta sul divano. Leale aveva osservato i ragazzi in quei giorni,
tentando di
memorizzarne i nomi e i comportamenti, e non ci aveva messo molto a
capire che
quelle due ragazze erano molto legate, nonostante fossero
così diverse.
Era
strano, pensò, avere tutti quei ragazzi in casa. Era
passato poco più di una settimana, ma già si
stava abituando all’idea. In
fondo, gli piaceva un po’ più di
vitalità e energia all’interno di quella
grande villa, che, a volte appariva troppo buia e silenziosa. Con
Artemis era
sempre stato diverso: se lo ricordava, a quattro o cinque anni, quando
aveva
iniziato a passare le sue giornate sui libri, oppure a sei, quando
aveva
inaugurato un suo personale piccolo laboratorio. A sette aveva vinto il
primo
concorso di Scienze. Anche se non poteva definirlo con esattezza, a
Leale
piaceva pensare a quell’evento come la fine
del’infanzia relativamente normale
del suo protetto, e il suo ingresso nel mondo degli adulti. Ma Leale
sapeva
che, anche se Artemis non l’avrebbe mai ammesso, da bambino
aveva continuato a
tenere e a sfogliare i romanzi di Rohal Dahl, i primi che avesse mai
letto,
alla veneranda età di due anni e mezzo, sotto al cuscino
fino all’età di dieci
anni, prima della disastrosa spedizione in Russia del padre.
Da
quel momento, dell’Artemis bambino non era rimasta alcuna
traccia.
Leale
rimase incantato a fissare lo schermo, cosa che
succedeva assai di rado. I suoi sensi, sempre vigili e attenti, erano
per il
momento assopiti, e si godeva tranquillamente quel momento, osservando
le due
ragazze e immaginando per un istante quanto sarebbe stato bello avere
di nuovo
lì l’Artemis bambino, un innocente e geniale bimbo
che scorrazzava, o meglio,
camminava (Artemis non era stato un granchè nelle
attività motorie neanche nei
suoi primi anni) indossando un camice, e che scopriva il mondo intorno
a lui.
Artemis, che considerava come un fratello. Artemis, che da tanto tempo
ormai
non sorrideva più così spesso, che non era
davvero felice, o forse non lo era
mai stato.
Artemis,
in quel momento, non sospettava minimamente di essere
l’oggetto di così tante riflessioni. Anzi, era
concentrato in tutt’altra
faccenda: con gli occhi fissi sul computer, continuava a aprire file su
file,
nella speranza di ottenere qualcosa, un indizio, su tutto
ciò che avrebbe
potuto aiutarlo a capire ciò che stava succedendo. Aveva
perso il conto delle
ore passate sullo schermo, a sbuffare e a scartabellare su una
quantità enorme
di fogli gettati alla rinfusa sulla sua scrivania. Perfino il suo
proverbiale ordine
era andato a farsi benedire, e il ragazzo stava cominciando ad
accettare le
idea di aspettare la prossima mossa del nemico, cosa che lo rendeva
alquanto
inquieto. C’era comunque qualcosa di diverso in lui, una
sorta di fastidio che
lo rendeva agitato e incapace addirittura di concentrarsi
adeguatamente, e alla
fine dovette ammetterlo controvoglia: voleva sapere cosa stava
succedendo lì
dentro, a casa sua. Chiudendosi all’interno del suo studio si
era completamente
isolato, se si eccettuavano pochi e brevi colloqui con Spinella e
Leale. Ora,
però, la curiosità stava prendendo il
sopravvento: nonostante i ragazzi in
generale non lo entusiasmassero un granchè, non poteva fare
a meno di provare
un qualcosa nei loro confronti, un sentimento intermedio fra
compassione,
dubbio e fastidio. Devo provare a interagire con loro, si disse. In
fondo, che
male ci sarebbe stato? Naturalmente, tutto a scopo di studio. Magari
avrebbe
potuto pubblicare una ricerca su una qualche rivista scientifica sul
comportamento degli adolescenti in difficoltà.
In
più, c’era la questione di Spinella. O, meglio, di
Elinor,
la ragazza che l’aveva aiutato. Spinella, dopo avergli dato
dell’idiota, e
Artemis sapeva bene di esserselo meritato, aveva insistito per ore
affinchè lui
si scusasse, e infine lui aveva accettato. Chiunque conoscesse bene
Artemis
Fowl sapeva che, in una discussione, avrebbe potuto stracciare le tesi
degli
avversari e far prevalere la sua in qualsiasi momento: il fatto che
questa
volta Spinella l’avesse spuntata contro di lui era, come
Artemis avrebbe
ammesso a malincuore, una scelta che Artemis stesso aveva fatto. Il
ragazzo
sapeva di essere diventato una persona migliore, in quegli ultimi anni,
e come
tale avrebbe dovuto comportarsi: basta nascondersi dietro una facciata
di puro
gelo; avrebbe chiesto scusa a Elinor, e le avrebbe offerto spiegazioni
di ciò
che aveva combinato.
Si
massaggiò le tempie per qualche momento, in un gesto che
per i semplici umani era qualcosa di simile al rimettere in moto il
cervello,
ma per lui era l’inizio della formulazione di un piano. Dopo
tanto pensare,
ovvero dopo cinque secondi di riflessione, spense il computer, si
alzò e si
avviò verso la porta, e con fastidio si accorse che il suo
passo era meno fiero
e sicuro di quello che aveva immaginato.
Elinor
chiuse il libro con un gesto rapido e secco. Distese le
gambe sul divano, mise le mani dietro la testa e chiuse gli occhi, nel
tentativo di rilassarsi. Ma cosa diamine stava facendo lì?
Un sorriso pieno
d’amarezza le affiorò sulle labbra: ancora non
riusciva ad elaborare il fatto
che era tenuta prigioniera in un posto sconosciuto; tuttavia, era
incredibilmente più tranquilla, di notte riusciva a dormire,
e, tutto sommato
non credeva che Leale, Juliet e Meg fossero cattivi, nonostante
l’ultima
arrivata fosse indubbiamente un po’ strana. Nutriva qualche
dubbio in più
riguardo ad Artemis, il ragazzo: lo incrociava poco, dal momento che se
ne
stava sempre rinchiuso al terzo piano, che per loro non era
accessibile, ma quando
s’incontravano fra di loro non c’erano che gelidi
silenzi e duri sguardi
d’odio. Lui l’aveva sfruttata, l’aveva
usata e presa prigioniera, facendola
sentire anche tremendamente in colpa nei confronti dei suoi amici; in
cambio,
nulla se non un soggiorno relativamente tranquillo in una
località ignota.
Basta,
pensò Elinor. Basta lamentarsi e pensare al peggio.
Erano passati dieci giorni dal loro rapimento, ed era chiaro che non ne
sarebbero usciti molto presto. Tanto valeva ricominciare a vivere da
persona
normale, anche se là dentro, senza continuare a chiudersi in
quei tristi
silenzi che caratterizzavano ormai ogni sua giornata. Elinor doveva
essere
forte, per sé e i suoi amici; doveva smetterla di
comportarsi come uno zombie e
prendere atto della situazione, cercando di coglierne i pochi aspetti
positivi.
Qualcosa doveva cambiare, a partire da quella sera.
Quella
sera, a cena, qualcosa cambiò. Erano seduti tutti in
salotto, comprese Juliet e Meg, che parlottavano tra loro in un angolo
della
stanza. I ragazzi qualche giorno prima avevano suscitato la
pietà di Juliet,
che era ricomparsa in casa reggendo fra le mani una Playstation e
qualche
gioco, in cui loro si erano immersi, e non ne erano ancora riusciti.
Milla, che
si stava riprendendo dall’influenza, e Arianna erano
comodamente sedute sul
divano, e parlavano con Sissi, che invece si era distesa a terra senza
un’evidente
ragione. Elinor invece era ancora raggomitolata sulla poltrona, immersa
nella
lettura di una prima edizione del “Signore delle
Mosche” che aveva trovato
nella libreria della Sala da Tè. Non era il suo libro
preferito, ma credeva che
si adattasse bene alla loro situazione, anche se, grazie al cielo, le
vicende
dei due gruppi di ragazzi stavano prendendo pieghe diverse. O almeno
così
sperava.
Juliet
ad un certo punto si alzò e disse che era ora di
preparare cena. Fu a quel punto che si ebbe il colpo di scena: anche
Elinor si
alzò.
“Posso
darti una mano?”
Silenzio.
Tutti tenevano lo sguardo fisso su Elinor, tranne
Meg, che fissava Juliet con un sorriso stampato in faccia, in attesa di
una sua
reazione. Nessuno, prima di quel momento, aveva offerto aiuto a Juliet
o a
Leale, non perché fossero tutti maleducati, ma
perché offrire aiuto ai loro
rapitori era qualcosa di assolutamente innaturale, anche se loro
facevano di
tutto per essere gentili e simpatici con i ragazzi. Elinor
più di tutti aveva
motivo di restarsene chiusa nel suo guscio di silenzio e ritrosia, dal
momento
che oltre alla prigionia, doveva portare sulle spalle anche il peso del
senso
di colpa.
Ma,
nonostante questo, si era alzata, e aveva offerto il suo
aiuto a Juliet per preparare la cena.
“Grazie,
accetto volentieri.” Rispose Juliet con un sorriso,
ponendo fine a quel silenzio carico di pensieri. “Sai, ho
proprio bisogno di
qualcuno che mi aiuti a tagliare le fragole”.
Elinor
seguì Juliet in cucina, piacevolmente soddisfatta da se
stessa. Tagliò le fragole, chiacchierando con Juliet
riguardo al menù della
serata, e, una volta finito, incominciò a preparare la
tavola. Proprio mentre
stava finendo di disporre i piatti sul tavolo, Artemis
entrò. Indossava una
camicia con le maniche arrotolate fino ai gomiti, e i capelli erano in
disordine, come se ci avesse passato le mani mille volte.
Inaspettatamente non
disse nulla, ma rimase davanti alla porta a fissare la scena,
all’apparenza
abituale e casalinga, che si svolgeva sotto i suoi occhi. Elinor non
l’aveva
neanche guardato in volto, e disponeva le posate facendo finta che lui
non
fosse mai entrato; lo stesso non si poteva dire di Juliet:
“Artemis,
finalmente sei riemerso! Senti, siamo un po’ in
ritardo, dunque perché non dai una mano a Elinor?”
La
ragazza maledì mentalmente la bionda.
“Uhm.
Sì, certo.” Disse Artemis, vergognandosi al tempo
stesso
della sua completa mancanza di parole intelligenti, che superassero in
lunghezza quei pochi monosillabi.
Si
diresse verso una dispensa, che, ne era quasi sicuro,
conteneva dei bicchieri. Li trovò, ne prese un paio e li
appoggiò lentamente
sul tavolo. La sua mente era concentrata in pensieri molto
più urgenti e
assillanti di quelli sulla disposizione delle posate, in quel momento.
I suoi
occhi seguivano Elinor, che ancora si affaccendava intorno al tavolo, e
che non
lo degnava della minima attenzione.
Artemis
decise di rimandare il problema delle scuse a un altro
momento. Sinceramente, non gli andava di ricevere altri sguardi
d’accusa
pienamente motivati, senza contare che non vedeva alcuna occasione di
poterle
parlare a quattr’occhi. Decisamente, non era il momento
adatto.
“Direi
che è quasi pronto.” Disse Juliet, rompendo il
silenzio. “Elinor, ti dispiacerebbe chiamare gli
altri?”
La
ragazza uscì senza dire una parola. “Artemis, ti
chiamo
dopo quando gli altri hanno finito, ok?”
Artemis
riemerse lentamente dai suoi pensieri, che l’avevano
lasciato come inibetito a fissare la porta da dove era uscita Elinor.
“Uhm?”
Il suo vocabolario era decisamente migliorato.
“Per
la cena. Quando i ragazzi se ne vanno puoi mangiare tu.”
Ripetè Juliet, con aria perplessa. Artemis,
sembrava… addormentato. La qual
cosa non gli si addiceva per nulla.
Il
ragazzo riflettè un momento. La cena era considerata in
tutto il mondo come un importante momento di condivisione, un modo per
riunirsi, parlare, stare assieme. Dunque, perché non tentare?
“E’
un problema se mangio con voi?” Quel tono così
gentile
sorprese perfino se stesso. In realtà, era proprio dubbioso
della sua scelta.
Juliet
lo guardò con occhi spalancati. Fino a quel momento,
soltanto lei, e talvolta Leale, avevano mangiato con i ragazzi. Artemis
non si
era mai fatto vivo.
“Ok…”
disse con tono un po’ incerto. Mentre prendeva piatti e
posate per Artemis, la ragazza non potè fare
a meno di lanciargli qualche occhiata inquisitoria. Che
aveva intenzione
di fare?
In
quel momento i ragazzi entrarono in cucina, chiacchierando
fra loro. Sembrano sereni, pensò Artemis. Cambiò
subito idea quando si accorse
delle loro reazioni nel vederlo; quando poi prese posto vicino a
Juliet, sul
fondo della tavola, una di loro, quella riccia e rossa, non
tentò neanche di
nascondere il suo stupore:
“E
lui che ci fa qui?” sussurrò all’amica
che le stava a
fianco, quella che era stata malata, che non rispose. Pian piano i
maschi
trovarono il coraggio per alzare lo sguardo e osservarlo come un
animale
sconosciuto; soltanto Elinor e la sua amica bruna, che erano sedute
l’una
affianco all’altra, si scambiarono un rapido sguardo
d’intesa.
Un
silenzio irreale avvolgeva la tavola. Improvvisamente,
mentre tutti erano impegnati con i loro spaghetti, Sissi
scoppiò in una sonora
risata. Artemis annotò mentalmente che quella ragazza aveva
tutti gli attributi
tipici di una malata mentale, ma nondimeno alzò lo sguardo e
la fissò stranito,
cercando di capire come stesse succedendo, come d’altronde
tutti gli altri
commensali.
“Che
succede?” le chiese Luca, nascondendo a malapena un
sorriso.
“Beh…”
bascicò Sissi fra una risata e l’altra.
“Oggi è il 31.”
“Dunque?”
Giova continuava a guardarla come se fosse stata
effettivamente pazza.
“Oggi
c’era filosofia.”
Silenzio.
Sissi continuò sogghignando: “L’avevo
studiata così
tanto…”
I
volti degli altri si distesero. Pian piano si levò una
risata collettiva, soprattutto dalla parte maschile.
“In
che senso l’avevi studiata tanto?”
replicò Giova, con un
sorriso. “Io non avevo aperto libro.”
“Beh,
l’avevo studiata. Ma non ci avevo capito niente.”
“Aristotele
era un cretino.” Se ne uscì Lorenzo.
“Sono
completamente d’accordo.” Milla si unì
alla
conversazione. “Dai, tutte quelle cose sulle categorie, la
sostanza e compagnia
bella… ma perché uno dovrebbe perdere il suo
tempo in cose così…
così…”
“Stupide?”
Luca ci mise del suo. “Ad esempio…
com’era quella
definizione, quella di concetto?”
“Ah,
si, questa la so!” Disse Elinor con un sorriso. Si erse
poi in tutta l’altezza che la sedia le concedeva, e
imitò la voce tonante e
austera della professoressa: “Il
concetto
è la traduzione mentale dell’essenza.”
Tutti
scoppiarono a ridere, al ricordo delle spiegazioni in
classe.
“E
quella… non mi ricordo molto bene, ma quella che aveva
detto lui della natura, che non aveva senso…
com’era già?” chiese Arianna
pensierosa.
“Il principio e la causa
del movimento e della quiete della cosa alla quale inierisce
primieramente e
per sé, non accidentalmente.”
La
voce di Artemis di levò limpida sopra le altre. Tutti
ammutolirono di colpo, e lo fissarono con aria sorpresa.
Il
ragazzo non fece in tempo a darsi dell’imbecille da solo.
Il suo cervello da genio gli disse che forse il declamare una
definizione
complessissima in un’altra lingua all’interno di
una conversazione in cui lui
non c’entrava nulla, per poi chiudersi in un imbarazzante
silenzio, non era il
modo migliore per interagire con gli altri.
Cercò
di rimediare: “Sì, insomma, non ne sono proprio
sicuro,
ma…”
Inaspettatamente,
Arianna gli sorrise: “Probabilmente è
giusta.” E di nuovo guardò Elinor, alla sua
sinistra, che non aveva neanche
rivolto uno sguardo al ragazzo, a differenza degli altri.
Pian
piano la conversazione riprese, e per quella sera Artemis
non proferì più parola, convinto di aver
già detto abbastanza. Più di una volta
alcuni dei ragazzi si rivolsero direttamente a lui, anche solo per
chiedergli
di passare loro dell’acqua. L’unica che non gli
rivolse mai la parola né uno
sguardo fu Elinor.
“Strano,
non trovi?”
“Dici?
A me sembra soltanto cretino presuntuoso detestabile
rapitore di ragazzi e anche indiscutibilmente incapace di preparare una
tavola
decentemente.”
Elinor
e Arianna stavano salendo le scale verso le rispettive
camere, in fondo al gruppo. Per l’ennesima volta stavano per
essere rinchiusi
nelle loro piccole prigioni private.
Arianna
soffocò un risolino.
“Intendevo…
il fatto che ti abbia guardata per tutta la sera.
Sembrava, come dire, dispiaciuto. Credo che voglia chiederti
scusa.” Sussurrò
Arianna.
Elinor
si voltò verso l’amica, sinceramente sorpresa.
“Ma che
stai dicendo? Sicuramente mi guardava per accertarsi che non volessi
lanciargli
un bicchiere in testa.” Riflettè un momento.
“Il che, per altro, è un’idea
niente male.”
Arianna
sorrise. “Lily, io credo che dovresti veramente tentare
di comportarti civilmente con lui. Provaci, almeno.”
Elinor
si fermò, trattenendo l’amica per il braccio:
“Neanche
per sogno. Arianna,” la guardò negli occhi, sicura
delle proprie parola: “io
detesto quell’essere abominevole. E non
c’è nulla al mondo che mi farà mai
cambiare idea su di lui.”
Tatan!
Eccomi
di nuovo qui… come vedete, l’opinione che Elinor
ha di lui non è cambiata
granchè… ma la storia non è finita qui
^^
A
presto, baci a tutti… J.
|
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Capitolo 9 *** I'm a believer ***
Che
stanchezza.
Questa
dovrebbe essere una scusa sufficiente, ma mi rendo conto
che non lo è. Perciò, evito di scusarmi, e vi
lascio alla lettura, che mi
auguro troverete interessante. Devo dire che questo capitolo mi lascia
perplessa, perché l’ho scritto troppo in fretta e
inoltre sembra lasciare la
storia a metà, sospesa nell’aria, ma
c’è da dire che sarebbe stato troppo lungo
se avessi lasciato anche la seconda parte che, vi assicuro, non
tarderà così
tanto ad arrivare J
9
– I’M A BELIEVER
La
sveglia suonò precisa alle 6.20 del mattino. Con un
movimento brusco, Elinor
cercò di zittirla, tastando il comodino ad occhi chiusi e
finendo per
scaraventare il malcapitato orologio a terra.
Per
un
breve istante si chiese perché diamine l’orologio
aveva suonato così presto.
Quando però riuscì a connettere il cervello e a
ricordare che giorno era un
sorriso le si stampò in faccia.
Il
2
maggio. Il compleanno di Giova.
Con
una
fitta al cuore pensò che erano passate ormai due settimane
dalla gita, ma scacciò
questa triste riflessione: non voleva collegare quel malcapitato evento
a quel
giorno, che avrebbe dovuto essere felice.
A
Elinor
piacevano i compleanni. Le erano sempre piaciuti, perlomeno quelli
degli altri.
Le piaceva l’idea che ognuno potesse avere un giorno tutto
per sé, un giorno
straordinariamente ordinario, in cui non c’era bisogno di
pensare a nulla o di
preoccuparsi di nulla, e in cui ogni cosa acquistava sfumature
leggermente
diverse e quasi simboliche, come se quel giorno rendesse tutto speciale.
E
quel
giorno era il giorno di Giova.
Come
ogni
mattina infilò le ciabatte pelose ai piedi, per poco non
andò a sbattere sul
muro e arrivò, inaspettatamente tutta intera, fino alla
porta, che era già
aperta.
Si
fiondò
giù dalle scale, presa da una sorprendente ondata di
energia. Questo giorno deve essere diverso,
pensò. Magari sarebbe stata l’occasione giusta per
portare un po’ più di
allegria in quella casa.
Entrò
nella cucina. Se voleva che fosse una sorpresa doveva fare presto.
Giova
nella vita aveva due grandi amori: le macchine e i dolci. Tre, se si
contava
anche la sua bicicletta. Elinor, a casa, gli aveva organizzato una
festa a
sorpresa, aveva già comprato il modellino di da regalargli e
aveva scaricato da
Internet e studiato una ricetta per fare una torta con sopra una
farcitura in
cioccolato a forma di automobile.
Elinor
non era brava a cucinare. Non sapeva fare assolutamente nulla, se si
eccettuavano le torte. I dolci, che a lei non piacevano, le riuscivano
benissimo, e lei si divertiva a prepararne, specialmente quando si
sentiva
triste. E, in quella casa, non si sentiva felice.
Doveva
iniziare quella mattina a fare la torta, se voleva che lievitasse
durante la
giornata, ma doveva farlo di nascosto. Chiuse la porta dietro di
sé, e si
guardò attorno con aria circospetta.
Via
libera.
La
sera
prima aveva controllato che ci fossero tutti gli ingredienti, e aveva
ottenuto
da Juliet il permesso di usare la cucina. Evidentemente, si fidava di
lei, e, a
mo’ di ringraziamento, Elinor aveva deciso che avrebbe
offerto una fetta di
torta anche alla sua carceriera.
Elinor
aprì il frigo e tirò fuori il latte e le uova,
mentre la sua mente vagava. Ogni
volta, quando cucinava, nella luminosa cucina di casa sua, suo fratello
arrivava, accendeva lo stereo in soggiorno e gironzolava vicino ai
fornelli
mangiucchiando pezzi di ingredienti, suscitando le ire fasulle di sua
sorella
maggiore.
In
quel
momento, nel silenzio di quella buia e fredda cucina, Elinor si
sentì fuori
posto.
Non
devo lasciarmi abbattere,
si
ripetè mentalmente. Era il giorno di Giova, e lei doveva
renderlo speciale, non
poteva permettersi di sprofondare nella malinconia. Tuttavia, mancava
qualcosa,
se lo sentiva. Non sarebbe mai riuscita a fare una torta decente, senza
la
musica. Per lei, la torta sarebbe rimasta sempre amara e insipida, se
non fosse
stata accompagnata da una buona dose delle sue canzoni preferite.
Quando
tutto intorno a noi va male, e tuttavia sappiamo che potrebbe andare
molto
peggio, siamo convinti che nulla è più in grado
di stupirci. Ma, spesso,
dobbiamo ricrederci.
Il
carattere talvolta cinico e profondamente scettico di Elinor
l’aveva sempre
scoraggiata dal credere nei miracoli. Quando però
notò l’I-pod azzurro di
Juliet appoggiato innocentemente sullo spoglio tavolo di vetro nella
sala da
pranzo, pensò, per un breve momento, che avrebbe dovuto
riflettere più a lungo
e con più attenzione sull’intera faccenda.
Si
avvicinò cauta all’oggetto inanimato e si
guardò attorno con aria guardinga,
dandosi poi della stupida al pensiero che non c’era nessuno
lì, alle sei e
mezzo di mattina. Evidentemente, Juliet l’aveva dimenticato
lì la sera prima.
Dunque… che male c’era a usarlo un po’?
Era parzialmente
sicura che Juliet e Leale non l’avrebbero gettata
in cella di isolamento,
se ce n’era una, per questo.
L’afferrò
con rinnovata energia e lo impostò su
“riproduzione casuale”. Perfetto, si
disse, sorridendo. Prese in mano una ciotola, ci versò
dentro alcuni
ingredienti, e si mise al lavoro.
“Ma
che
diamine…” Leale si affacciò dalla
porta, gettando uno sguardo alla cucina e
portandosi contemporaneamente una mano all’interno della
giacca, dove teneva la
fidata Sig Sauer. Quello che vide fu talmente fuori
dall’ordinario, soprattutto
in quella casa, che ci mise qualche momento a capire cosa stava
succedendo;
quando però il suo cervello gli suggerì una
spiegazione plausibile per ciò che
stava avvenendo sotto i suoi occhi, rimase così
piacevolmente sorpreso da non
dire una parola e da rimanere appoggiato allo stipite della porta per
godersi
la scena.
Elinor
stava cucinando, ma non in modo convenzionale. Canticchiava, e muoveva
i piedi
nelle ciabatte a tempo, così come sbatteva
l’impasto all’interno di una ciotola
a ritmo. Aveva parecchie macchie sul grembiule, i capelli castani
raccolti
malamente in una coda ed era vestita con una semplice maglietta sopra i
pantaloni della tuta. Ma sorrideva, e a Leale sembrò
così felice che pensò che
per nulla al mondo si sarebbe permesso di disturbarla. Rimase a
osservarla,
incantato dal modesto e rasserenante spettacolo di una ragazzina
disordinata
che, con movimenti fluidi, si destreggiava fra zucchero e cioccolato,
senza
altri pensieri se non le parole delle canzoni che stava ascoltando
nella sua
testa.
Leale
rimase lì per un po’, sicuro che la ragazza non si
fosse accorta di lui.
“Thought that love was only true in
fairy tales…” Elinor
alzò pian piano la voce senza neanche rendersene conto.
Sembrava totalmente
presa da una guarnizione che stava assorbendo tutte le sue energie,
tranne
quelle necessarie a cantare.
Leale
pensò che aveva già sentito quella canzone da
qualche parte, ma queste sue
riflessioni furono interrotte da altri rumori, provenienti
dall’altro ingresso
alla cucina. Elinor, che dava le spalle sia alla porta dove si trovava
la guardia
del corpo sia all’altra, e che per giunta non poteva sentire
nulla a causa
della musica nelle sue orecchie, non si accorse di nulla.
“For someone else but not for
me…” La
ragazza passò dalla guarnizione allo sbattere la crema con
un enorme cucchiaio,
incapace di stare ferma. Leale era incerto se avvertirla che qualcuno
stava
arrivando o meno, ma non aveva alcuna intenzione di uscire dal suo
nascondiglio
e di interrompere quel piccolo momento di serenità.
Semplicemente, sperò che
non arrivasse nessuno e di essersi solo sbagliato.
“Love was out to get me.” Elinor
alzò ancora un po’ la voce e, anche se gli dava le
spalle, Leale era sicuro che
stesse sorridendo.
“That’s
the way it seeemed” La ragazza mollò la ciotola,
mantenendo la presa sul
cucchiaio pieno di cioccolato che portò vicino alla bocca a
mo’ di microfono.
“Disappointed haunted all my
dreams…” Allungò
volutamente l’ultima vocale, preparandosi al ritornello.
Alzò un braccio, mentre
i suoi fianchi si muovevano a tempo, o almeno così Leale
supponeva, dal momento
che non poteva sentire nulla se non la sua voce.
Fu
in
quel momento che Artemis entrò nella cucina, passando
dall’altra porta.
“Then
I
saw her face” Elinor continuava a cantare e ballare sul
posto, ignara dei due
spettatori che, in silenzio, osservavano la scena. “Now
I’m a believer!” Elinor
mosse la testa a suon di musica, mentre Leale fissò Artemis:
il ragazzo la
guardava totalmente basito, e sembrava completamente incapace di fare
alcunché.
“Not
a
trace, tu-tun-tu-tun, of doubt in my mind” Elinor sembrava
essersi
specializzata anche nelle seconde voci.
Si
girò,
ad occhi chiusi, sempre tenendo il “microfono”
vicino alla bocca, e alzandolo
come se fosse stata una rock star.
“I’m
in
love, uuuu” Fu durante la “u” lunga che
aprì gli occhi e si trovò Artemis di
fronte, vestito di tutto punto, che la osservava con
un’espressione
indecifrabile.
Si
fermò,
senza abbassare lo sguardo. Normalmente si sarebbe sotterrata per
l’imbarazzo,
ma questa volta non doveva importarle nulla dell’opinione di
quello stupido,
inutile, schifoso…
Si
accorse che, mentre cercava di trovare epiteti sufficienti a designare
il
ragazzo di fronte a sé, aveva continuato a fissarlo in un
imbarazzante silenzio.
Raccolse
a sé tutta la dignità che le rimaneva e, ben
decisa a non spiegare né a
giustificarsi, si voltò verso la torta, e
continuò a canticchiare a bassa voce.
Artemis,
da parte sua, rimase qualche secondo a fissarle la schiena, mentre un
ghigno si
formava sul suo volto.
Silenziosamente,
riprese la porta da cui era sbucato e si dileguò senza
pronunciare una sillaba.
Non appena se ne fu andato, Leale vide Elinor fermarsi e appoggiare le
dita
sulle tempie, prima di scoppiare in una tranquilla e dimessa risata che
suonava
tanto di imbarazzo e di sollievo.
Elinor
stava ridacchiando.
Fantastico,
pensò, ora mi crede anche pazza.
E,
in
fondo, come dargli torto? Erano neanche le sette di mattina, e lei
stava
sogghignando da sola nella fredda cucina dei rapitori, mentre le ultime
note di
“I’m a believer” risuonavano nelle sue
orecchie.
La
ragazza si riscosse. Che stava facendo? Si stava davvero
preoccupando di ciò che quell’inqualificabile
individuo
pensava di lei? Quasi sperò che qualcuno la stesse
guardando, mentre con aria
stizzita e profondamente orgogliosa si toglieva il grembiule, metteva
tutto a
posto e, incedendo con passo indispettito e elegante –almeno
così sperava-,
usciva dalla stanza.
E,
in
effetti, qualcuno la stava guardando.
Erano
circa le tre del pomeriggio. I ragazzi erano tutti nel salotto, dove i
maschi
giocavano alla play-station e le ragazze chiacchieravano
tranquillamente. Era
incredibile come si fossero pian piano quasi abituati alla situazione,
senza
perdere la testa. Erano ormai giorni che nessuno faceva più
domande su casa e
su un loro possibile ritorno, anche se le questioni albergavano ancora
nell’aria. Erano ormai parecchie notti che ognuno di loro
dormiva, e che
nessuno piangeva nel solitario silenzio della propria camera.
“Ma…
voi l’avete
capito chi è sto qui?” Sissi si rivolse con
esuberanza a Elinor e Arianna, che
erano sedute sul divano, placidamente assorte nella lettura di qualche
rivista.
Milla alzò gli occhi, staccando la testa dal bracciolo della
poltrona su cui
era raggomitolata.
“Di
chi
parli?” chiese Elinor, non riuscendo a capire dove voleva
andare a parare.
“Sì,
insomma…” Sissi si guardò attorno con
aria circospetta. “Il ragazzo. Il capo.”
Era
la
prima volta che veniva chiamato senza un evidente dispregiativo, che di
solito
proveniva da parte di Elinor. Di solito, la ragazza non si lasciava
andare a
epiteti particolarmente coloriti, ma aveva dimostrato di saper fare
eccezioni.
Appena
sentì che quell’essere abominevole veniva chiamato
in causa, Elinor sentì il
sangue affluire al viso velocemente. Avvampò, al ricordo
della figura della
mattina, e sperò che nessuna se ne fosse accorta, o che
perlomeno scambiassero
la sua reazione come un improvviso attacco d’ira.
“Si
chiama Artemis Fowl. È ricco, ed è un despota. Ha
più o meno la nostra età ed è
l’ideatore del nostro rapimento. Questo è quello
che c’è da sapere.”
Nella
stanza calò il silenzio. Arianna non si era mai espressa con
una tale
decisione. Pure i ragazzi staccarono gli occhi da Final Fantasy IV per
posarlo
sulla mora.
“Però.”
Fu l’unico commento, proveniente da Gianluca.
“Sono
d’accordo.” Elinor intervenne a sostegno
dell’amica. “Inoltre, ha evidenti
problemi nei rapporti sociali. Scommetto che non ha molti
amici.” Sentenziò,
gelida.
“Si,
però…” Elinor non riusciva a credere
alla proprie orecchie. Davvero Sissi stava
prendendo le difese di quella specie di verme viscido e…
“è indubbiamente
carino.”
Silenzio.
Milla spostò lo sguardo da Sissi alle altre due ragazze,
senza fiatare, in
attesa di una loro violenta reazione. Arianna assunse un’aria
sconvolta. Elinor
non riuscì a trattenersi.
“Stiamo
parlando dello stesso essere perfido e subdolo che ci ha rinchiusi
qui?”
Sissi
esitò. “Non lo sto mica difendendo. È
uno stronzo e lo detesto, ma carino è e
carino rimane. Un po’ come… Draco
Malfoy.”
Detto
questo, l’atmosfera si rilassò un poco. Pian piano
le ragazze tornarono a
ridere e scherzare, e la discussione sul fascino segreto del
personaggio e
delle sue somiglianze con il rapitore in questione si fece
più accesa, ma non
per questo più seria.
Elinor
celava dietro i sorrisi e le battute un certo, inspiegabile turbamento,
probabilmente dovuto al fatto che non aveva ancora parlato alle
ragazze, e
soprattutto ad Arianna, di ciò che le era successo quella
mattina. Non
riuscendo a sopportare oltre, si alzò a prendere una boccata
d’aria. Non sapeva
esattamente dove sarebbe andata, ma non aveva fretta. Uscì
dal salotto e si
avviò su per le scale, alla ricerca di qualcosa che le
tenesse occupata la
mente. Arrivata al secondo piano, si fermò. Non aveva voglia
di tornare in
camera, che sentiva sempre più come la sua prigione, ma non
aveva neanche
intenzione di incorrere nella furia di Leale salendo al terzo piano.
Decise dunque
di svoltare a sinistra anziché a destra, e di scoprire
ciò che si trovava nella
direzione opposta al corridoio delle stanze.
Senza
sapere
bene il perché, allentò il passo, e si
sistemò la maglietta sui jeans, come sua
abitudine quand’era più tesa. Gettò uno
sguardo distratto a una porta alla sua
destra, che era stranamente socchiusa.
Forse,
la
musica, rigorosamente classica, che risuonava dall’interno
avrebbe dovuto
avvertirla. O forse, avrebbe dovuto pensare che gettarsi a testa bassa
in una
stanza sconosciuta, in una casa ancor più sconosciuta che
apparteneva a strani nonché
misteriosi rapitori non era una buona idea.
Spinse
dolcemente
la porta ed entrò.
Autrice:
Ordunque?
Che ne pensate? Lo so, lo so, non avrei dovuto
interrompere la storia lì, ma vi assicuro che scoprirete
presto ciò che c’è
dietro alla porta…
Ed
ora, le risposte alle recensioni:
Lucille:
Grazie grazie grazie!!! Sono felice che ti piaccia!!! Le tue
parole mi hanno davvero tirata su di morale, non sai quanto sia
importante per
me… in quanto a Artemis, devo dire che è
difficile farlo interagire con gli
altri, e che, in fondo me la sono cercata: oltre a scegliere un
personaggio
indubbiamente difficile su cui scrivere, ha anche il ruolo di
rapitore!! Elinor…
Elinor è il personaggio. La protagonista di tutte le mie
storie mentali che mi
faccio, e non hai idea della difficoltà di rendere il suo
carattere, che mi
sembra di conoscere benissimo, ma che vorrei che apprezzasse anche
qualcun
altro. Sono felice che a te piaccia ^^ Riguardo a Artemis/Spinella,
beh, de gustibus
;) Baci, a presto, J.
_FrancySoffy_:
non ho parole. Sono io ad essere fortunata. Ti voglio bene
<3
Chariss:
Grazie!!! J
spero che ti sia piaciuto anche questo capitolo, anche se
sprovvisto del caro Aristotele… ma tranquilla, prima o poi
anche la maieutica
passerà di qua ;) A presto, J.
Juliet95: Many thanks anche a te!! Sì,
anche io
credevo che sarebbe riapparsa Minerva (che tra l’altro, non
sopporto) e invece…
sparita nel nulla. Bah. Per le scuse, aspettiamo il prossimo capitolo
^^ Ho
riflettuto sul tuo commento, e ho dovuto riconoscere che hai
perfettamente
ragione: Artemis sarebbe troppo OOC se fosse così insicuro.
Dunque, ho tentato
di ristabilire un poco il suo carattere, ma devo dire che nel prossimo
capitolo
sarà molto molto dura, perciò ti chiedo scusa in
anticipo se non incontrerà la
tua approvazione… Baci, J.
Raven_95:
il mio stile simile a quello del grande, grandissimo,
egregissimo Eoin??? O.O grazie!! È il miglior apprezzamento
che io abbia mai
ricevuto… Sono felice che la storia si piaccia, e spero che
continuerai a
seguirla!! J
Bacioni,
J.
Mentre
ci sono, ne approfitto per chiedere a tutti coloro che
hanno aggiunto la storia fra i preferiti, o fra le seguite, o che
semplicemente
leggono (sì, lo so che ci siete *scoppia in una risata
maligna*) di lasciarmi
una piccola recensioncina… Mi farebbe molto felice (e
renderebbe più veloce il
mio scrivere ;D)
Continuo
a scusarmi e ad additare come colpevoli quei
dannatissimi contest di HP che mi tolgono tanto, ma tanto
tempo… *sospira pensando
alla sua stupidità*.
Baci,
J.
P.s.
Vi sarete accorti che non ho mai cucinato torte in vita
mia. A dire il vero, non ho mai cucinato e basta. Chiedo ammenda ^^
Inoltre,
credo che l’idea di Elinor che cucina dolci per tirarsi su
sia da mia nonna,
sia da Izzie di Grey’s Anatomy. Ah, la canzone, famosissima,
è I’m a believer
degli Smash Mouth, che vi invito ad ascoltare mentre Elinor balla.
E’
impagabile, almeno nella mia testa ;)
|
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Capitolo 10 *** Rain ***
Dunque.
Sono
tornata.
Credo
di dover
ringraziare alcune persone che mi hanno spronata (e minacciata) ad
andare
avanti. Prima di tutto un grazie enorme a chi ha messo la storia, e me,
fra i
preferiti e le seguite. Siete più di quanto mi sarei mai
immaginata. Grazie
infinite.
E
ora, passiamo a voi:
-
Sleeper:
grazie sul serio. Sì, prima o poi bisognerà
sanarle ‘ste
lacune, a partire dal prossimo capitolo. Sono contenta davvero che il
punto di
vista di Artemis ti piaccia. A presto ^^
-
Juliet95:
sei indubbiamente una delle mie più affezionate lettrici.
Grazie. E, in quanto ad Artemis… non posso che concordare
con Arianna. ;)
-
Giovy39:
Draco moro? Sì, ci sta indubbiamente ;) non preoccuparti
se non recensisci, io sono l’ultima che dovrebbe lamentarsi!
-
Chariss:
ecco svelato il mistero della porta! ^^ Grazie, sono
contenta che ti faccia ridere. È bello sapere che non fa
piangere ^^
-
Lucille:
Artemis è carino. Punto. E, in questo capitolo, ha un
ruolo fondamentale. Beh, non proprio positivissimo, ma fondamentale
sì. Spero
che ti piaccia. Grazie di tutto ^^
-
Raven_95:
Un grazie ENORME per aver espresso i tuoi
bellissimo commento sulla protagonista. Anche io l’adoro.
Spero solo di non averla
fatta troppo MarySue! A presto ^^
-
Elfa
Sognatrice: Beh, direi che adesso le
chiederà più o
meno scusa. Più o meno ;) e complimenti, ci hai azzeccato in
pieno!! Grazie
mille, a presto.
-
Vikie:
Grazie mille! Spero proprio che anche questo capitolo ti
piaccia ;) A presto.
-
Vampire_Twilight:
brava anche a te, hai indovinato!
Grazie mille, i complimenti (e le critiche) sono la linfa vitale per
una
scrittrice alle prime armi ^^ E grazie, grazie, e mille volte grazie
per avermi
spronata. Che dire, sono pigra e ho poca immaginazione, e voi siete
quello che
ci vuole per me. ^^
-
Spuffy93:
Eccomi qua!! Grazie anche a te per avermi chiesto di
tornare. Non sai quanto faccia piacere ^^
-
Kira97:
here I am! Grazie mille, sono contenta che ti piaccia!
Spero che apprezzerai anche questo capitolo. A presto ^^
-
Nihal
Darko:
ma certo, lo sapevamo tutte che Artemis
è sempre stato un CBCRPV (Cresci Bene Che Ripasso
Più Volte). L’ho sempre detto
io… ;) Spero che ti piaccia anche questo capitolo ^^ Grazie
e baci.
Last but not
least, grazie alla mia Arianna. Per
tutto. Ti voglio bene.
Ancora
due paroline prima del capitolo.
Qua, i protagonisti sono due: Elinor e Artemis. Dal prossimo, tornano
anche
tutti gli altri. Promesso ^^
Ordunque, vi ricordate dove
vi avevo lasciate?
Elinor
apre la porta, e…
11
- PIOGGIA
Elinor
adorava i libri. Nel vero senso della parola. Aveva letto il suo primo
vero
libro, “Le leggende di Redwall”, a sette anni, e da
allora gli armadi in camera
sua si erano riempiti sempre più di volumi e romanzi,
occupando il posto che
normalmente sarebbe stato riservato alle bambole.
La
sua reazione alla vista di quella sterminata distesa di libri, dunque,
fu di
pura gioia, prima che si tramutasse in un vago senso di irrequietezza.
Per un
attimo, si dimenticò di dove si trovava, e
inspirò l’odore delle pagine, vagò
con gli occhi fra gli enormi scaffali marroni che si innalzavano
nell’enorme
sala, immaginando quanti libri potessero contenere.
Si
incamminò, cercando di non pensare a ciò che
stava facendo, e di godersi quel
breve momento di pace. Alzando un braccio toccò appena, con
la punta delle
dita, la superficie dei libri sullo scaffale alla sua destra. Romanzi
russi,
una quantità che avrebbe sicuramente superato quella di
tutte le biblioteche
torinesi messe assieme.
Alla
sua sinistra, invece, si trovavano varie sezioni: gialli, classici,
storici…
qualche metro più in là, si accorse di trovarsi
nel reparto dedicato alla
letteratura inglese. Con lentezza studiò attentamente i
titoli e le copertine,
e sollevò delicatamente la mano per sfiorare uno dei romanzi.
Non
appena lo fece, l’incanto finì.
“Orgoglio
e pregiudizio”.
Al
suono di quella sgradevole voce proveniente da un punto imprecisato
alle sue
spalle, Elinor abbassò la mano e chiuse gli occhi in una
smorfia, maledicendosi
per non aver controllato se ci fosse qualcuno prima di entrare.
Prese
un bel respiro e si girò. Davanti a lei, l’oggetto
dei suoi insulti mentali la
fissava con un ghigno appena accennato sulle labbra.
Elinor
lo guardò. Aveva le maniche della camicia azzurra arrotolate
all’altezza dei
gomiti, i capelli un po’ più disordinati di quella
mattina, ma nel complesso
sembrava mostrare un’eleganza studiata, un finto disordine
che celava una
sconfinata sicurezza di sé, ed effettivamente, come aveva
detto Sissi appena
qualche minuto prima sembrava…
Odioso.
Sembra odioso.
Elinor se lo ripetè nella mente, sperando di non essere
arrossita. Inevitabilmente,
si ritrovò a pensare a quella mattina, alla canzone, e a
quanto probabilmente
quel ragazzo la credeva fuori di testa, al che arrossì
ancora di più. E,
sicuramente, ci stava pensando anche lui, a giudicare dal sorriso
sghembo sulla
sua faccia.
Algida,
altezzosa regina delle
nevi.
Elinor tentò di ricomporsi, alzò il mento e con
tutto il coraggio che aveva disse “Sì”
con forza.
“Ti
piace?”
Aveva
sentito bene? Perché quello
lì stava
intavolando una conversazione con lei?
Che
diamine voleva?
“E’
il mio libro preferito.” Disse, non trovando nulla di meglio.
Lui
sbuffò, sghignazzando.
“Beh?
Che c’è di male?” Senza neanche
accorgersene, Elinor dimenticò il disgusto e
l’imbarazzo che provava di fronte a
quell’individuo, per trasformarlo in un’ira
giustificata dal fatto che aveva quasi insultato un libro che, per lei,
era una
Bibbia.
“Fammi
indovinare… vorresti che l’uomo della tua vita
fosse come Darcy, giusto?”
Il
ragazzo le si avvicinò, sempre sorridendo. Il suo sorriso,
però, aveva qualcosa
di malefico, o comunque di diverso dai sorrisi normali. Non
c’era felicità,
bensì la consapevolezza di sapere qualcosa che gli altri non
potevano neanche
immaginare.
Elinor
non rispose, non riusciva davvero a capire dove volesse andare a parare.
“Darcy
è un idiota.” Sentenziò il ragazzo,
tranquillo.
Elinor
non si arrabbiò eccessivamente. “Effettivamente a
volte si comporta da stupido
e orgoglioso, ma alla fine impara dai suoi errori.”
“Non
mi sto riferendo a quello. È un idiota perché si
è dichiarato a una donna che
non era al suo livello e che, per giunta, non lo voleva
nemmeno.”
La
ragazza cercò in tutti i modi di escogitare una risposta
degna di quell’accusa
infamante, ma, priva di qualcosa di sarcastico e geniale,
preferì chiudersi in
un silenzio d’offesa. Si girò veloce, e
colmò in breve tempo la distanza che
separava lei dalla porta, e che separava lui dal ricevere un bel pugno
sul
naso.
Esci,
esci, esci, esci.
“E
lei è così stupida.”
Pugno
sul naso.
Elinor
si fermò con un piede già fuori dalla porta, e si
girò lentamente, come un
cowboy che, nel Far West, si appresta a tirar fuori la pistola e
ammazzare
l’avversario. E, per il momento, i sentimenti di Elinor nei
confronti del
ragazzo non erano troppo dissimili da quelli del Cowboy.
“Lizzie
non è stupida. Ha fatto le sue scelte, è
coraggiosa, ed è proprio la sua
determinatezza ciò che poi farà innamorare Darcy.
Lei non è stupida.”
Artemis
la guardò per qualche istante, con un leggero sorriso di
sfida appena
pronunciato sulle labbra.
“Lizzie?”
Chiese lui, ironico. “Sembra quasi che tu la conosca. Non
sarai per caso una di
quelle ragazze che si stordisce di romanzetti d’amore da
quattro soldi e che
ancora crede nei lieto fine?”
Oddio,
sì.
Ma
invece di questa poco elaborata e più sincera risposta,
Elinor alzò il mento,
si mise la mani sui fianchi e assunse il suo cipiglio più
fiero.
Algida,
fredda Regina delle Nevi.
“A
te non frega un accidente di chi sono o come sono, altrimenti non ci
terresti
rinchiusi qui.” Affermò, cercando di non far
notare l’improvviso tremolio della
sua voce. Aveva visto il suo libro preferito, stava discutendo della
sua
eroina, ma in fondo era ancora rinchiusa lì dentro.
Un’improvvisa fitta le
raggiunse lo stomaco, e dovette rispecchiarsi anche nel suo volto,
perché
Artemis si astenne dal rispondere.
Silenziosamente,
Elinor gli diede le spalle e uscì.
Andava
tutto bene.
Effettivamente,
andava tutto bene. Tutti quanti avevano gradito la torta, Giova aveva
spento le
candeline e avevano pure intonato qualche nota di una stonatissima
canzone di
auguri. Andava tutto bene.
Elinor,
tuttavia, non riusciva a dormire. C’era una strana
irrequietezza, un vago
sentore che quella non fosse altro che una messinscena, una parvenza di
serenità. Stare lì, nella sua stanza buia e
silenziosa a fissare l’oscurità,
era impossibile.
Si
alzò e si mise le ciabatte ai piedi. Indossò una
delicata vestaglia azzurra ben
stretta attorno ai fianchi, per proteggersi dal gelo che, forse,
sentiva solo
lei.
Uscì
dalla porta, ormai aperta da qualche notte, e scese le scale.
Entrò in cucina
senza far rumore. L’ambiente era illuminato dal fioco
bagliore della luna, che
proveniva dall’esterno, dunque preferì non
accendere la luce.
Si
sedette al tavolo. Aveva sempre pensato che le cucine avessero qualcosa
di
caldo, in sé, che le rendesse sempre luminose e accoglienti,
perfino quando
tutto era buoi e freddo. Ma quella cucina era diversa, nulla la rendeva
speciale. Si alzò e si riempì un bicchiere
d’acqua. Si appoggiò al bancone,
fissando la porta-finestra e il giardino al di fuori. Pioveva.
Provò
a contare i giorni che aveva passato lì dentro. Ventidue.
Tre settimane e un
giorno.
Lentamente,
si fece scivolare in basso, fino a sedersi sul pavimento, con la
schiena
appoggiata al bancone. Appoggiò il bicchiere a terra, si
strinse le ginocchia
con le braccia, fissando il mondo fuori dalla finestra.
Senza
neppure accorgersene, iniziò a piangere.
Passarono
minuti, forse ore, prima che sentisse un rumore che non fosse il
regolare
ticchettio della pioggia. Prima che potesse fare alcun gesto,
voltò la testa e
si ritrovò a fissare la persona che meno avrebbe voluto
vedere in quel momento.
“Vattene.”
sibilò, apatica. La sua voce aveva perso ogni sfumatura,
persino l’usuale
aggressività. L’unica cosa che vi si poteva
leggere era pacata rassegnazione.
“Fino
a prova contraria, questa è la mia cucina.”
Rispose Artemis secco. Elinor, che
teneva lo sguardo fisso sul pavimento, sentì il rumore dei
passi che si
avvicinavano. Non rispose, né alzò gli occhi, e
sentì che il ragazzo si
sporgeva per afferrare un bicchiere sopra di lei, per poi posarlo sul
bancone.
Fu
in quel momento che Artemis si fermò e la fissò,
accorgendosi improvvisamente
dei luccichii delle lacrime sul viso della ragazza.
“Stai
piangendo.” disse. La sua voce non tradiva alcuna emozione.
Elinor
non rispose. Fu allora che Artemis fece ciò che la ragazza
non si sarebbe mai
aspettata: si sedette accanto a lei, in perfetto silenzio.
“Mi
manca la pioggia.” sussurrò Elinor. Non poteva
crederci. L’aveva detto ad alta
voce. Aveva confidato una sua spontanea riflessione alla persona che
più
detestava in quel momento. Lui non rispose, in un chiaro invito a
continuare.
Elinor, troppo stanca per ingaggiare una dura lotta con i suoi nervi,
si lasciò
andare.
“Mi
manca l’erba. E il profumo degli alberi. Mi manca
l’aria. Mi manca il freddo
che sento di prima mattina, mentre vado a scuola. Mi manca prendere il
pullman
e mi manca arrivare in ritardo ovunque io vada. Mi manca la mia
macchinetta del
caffè. Quanto mi manca. Sai, è una Nespresso,
grande più o meno così.”
Staccò
le braccia dalle ginocchia e ne mostrò ad Artemis a
larghezza.
Improvvisamente
si sentì molto stupida, e si rinchiuse in un malinconico
silenzio.
Artemis,
al suo fianco, non emetteva alcun suono. Rimasero così per
un po’, ad ascoltare
la pioggia.
“Vieni.”
sussurrò lui, alzandosi.
Non
sapeva perché lo stava facendo. Tutte le cellule del suo
corpo, tutti i neuroni
del suo formidabile cervello gli gridavano di fermarsi, ma lui non
riusciva a
dar loro ascolto.
Si
alzò, sussurrandole di seguirlo. In un attimo, fu vicino
alla finestra,
cosciente dello sguardo indagatore e sospettoso di Elinor su di
sé, la quale
non riusciva sicuramente a capire cosa stesse facendo, e soprattutto il
perché.
Siamo
in due, allora.
Allungò
una mano e afferrò la maniglia. Per un attimo, il suo
carattere egoista e
scostante gli suggerì di voltarsi e tornare a dormire,
lasciando lì quella
bambinetta a piangere quanto voleva. Poi pensò alle sue
parole. Le mancava la
pioggia. Lei lo aveva salvato. Glielo doveva.
Senza
ascoltare la sua testa, aprì la porta-finestra.
Immediatamente
entrò una folata di vento gelido, seguita da qualche goccia
di pioggia.
Elinor
evitò accuratamente di chiedersi perché quel
ragazzo, che nella sua testa
rispondeva solo all’appellativo di “essere
abominevole”, le stava facendo cenno
di uscire in giardino. Decise che ci avrebbe pensato più
tardi. per il momento,
sentiva il vento sulla sua pelle, gocce di pioggia sulla sua mano tesa.
Sentiva
il profumo dell’erba bagnata.
Sfilò
le ciabatte e uscì. Sorrise istintivamente, dimenticando il
ragazzo che, dentro
la cucina, la osservava.
Iniziò
a correre. In un attimo, era completamente fradicia. I capelli erano
attaccati
alla fronte, la camicia da notte si era incollata alla pelle. Chiuse
gli occhi,
e inspirò a pieni polmoni. Ascoltò il rumore
della pioggia, sorridendo.
Artemis
la fissava, assorto. Calcolò le probabilità che
la ragazza si prendesse una
polmonite, e concluse che erano decisamente alte.
Una
in meno,
pensò sogghignando. Eppure, quel pensiero non gli
procurò alcun piacere.
Elinor,
improvvisamente, si voltò. I capelli erano bagnati, e
sembravano scuri sotto la
pioggia. Le braccia erano leggermente allargate, e i palmi erano
rivolti all’insù,
come se non volesse perdersi neppure una goccia. La sottile vestaglia,
impregnata d’acqua, svolazzava leggermente per il vento.
Dev’essere
bello.
Questa
piccola, innocua riflessione turbò Artemis profondamente.
Era troppo
intelligente per pensare che stare al freddo e sotto la pioggia potesse
procurargli il benché minimo piacere. Eppure…
Elinor
aprì gli occhi e lo fissò. Improvvisamente il suo
volto si aprì in un rilassato
sorriso.
“Grazie.”
sussurrò.
Senza
pensarci troppo, Artemis si sfilò le ciabatte e
uscì, a piedi nudi sotto la
pioggia.
Artemis
continuava a fissare il soffitto, come aveva fatto da quando era
tornato in
camera, contando il lento scorrere dei minuti, e aspettando che
diventasse
mattina.
Lisciò
con ampi movimenti delle braccia la coperta, chiedendosi intanto se
lui, Artemis
Fowl Junior, fosse effettivamente un genio. Il suo Q.I. non lasciava
spazio a
dubbi, però… Insomma, quella notte si era
comportato come un adolescente
qualsiasi in crisi ormonale. E quello, decisamente, non era un
comportamento da
genio.
Le
sue riflessioni furono interrotte da un rumoroso
bip proveniente dal suo comodino. Artemis afferrò
il dispositivo e
rispose.
“Spero
di averti svegliato.” disse una speranzosa voce equina.
“Purtroppo
per te, Polledro, ero già sveglio.”
mormorò Artemis in risposta.
“Fowl,
dobbiamo parlare.” la voce burbera di Tubero
eliminò ogni traccia di torpore
dalla mente di Artemis.
“Che
è successo?” chiese, in tono pacato, ammirando il
suo stesso autocontrollo.
“Chiama
Spinella e gli altri e metteteci in vivavoce. Abbiamo delle
novità. E non sono
buone.”
Rinunciando
al suo gelido autocontrollo, Artemis si lasciò sfuggire un
sospiro.
Bel
modo di iniziare la giornata.
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