Ti odierò per sempre

di Silice
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Someday I'll wish upon a star ***
Capitolo 2: *** Crash ***
Capitolo 3: *** Under the rain ***
Capitolo 4: *** Unnatural selection ***
Capitolo 5: *** Take a breath ***
Capitolo 6: *** Reality Show ***
Capitolo 7: *** Like an idiot ***
Capitolo 8: *** Concetti aristotelici ***
Capitolo 9: *** I'm a believer ***
Capitolo 10: *** Rain ***



Capitolo 1
*** Someday I'll wish upon a star ***


1-SOMEDAY I’LL WISH UPON A STAR

Si era svegliata presto quella mattina. Per fortuna non era una di quelle persone che la domenica mattina non riescono a svegliarsi prima delle dieci, altrimenti la partenza sarebbe stata davvero dura: alle 6.30 l’aereo sarebbe partito dall’aeroporto di Malpensa, per poi atterrare qualche ora dopo a Catania.
Lily spense la sveglia sul comodino con un sospiro. In fondo, alzarsi alle 5.30 non era facile neanche per lei. Spostò con un movimento poco aggraziato i suoi capelli castani dalla fronte, e con un calcio tentò di levarsi di dosso le coperte, ma mancò il bersaglio: non riusciva a tenere gli occhi aperti. Si alzò con qualche lamento, e si accasciò sul pavimento per cercare le sue pantofole rosa e pellicciose. Le odiava quelle pantofole -un regalo della zia Ida- ma detestava di più la sensazione di freddo gelido del pavimento sulla pianta del piede. Dopo averle indossate, non senza qualche fatica, si trascinò fino al bagno. Si guardò allo specchio: anche quella mattina il suo aspetto non era dei migliori. Aveva lisci capelli castani che scendevano fino sotto alle spalle, ma che ora sembravano più un groviglio di rovi. I suoi occhi verdi erano ancora assonnati, la fronte piegata in una ruga derivata dallo stress per l’ora. Guardò l’orologio con aria spenta. Fece un balzo: erano le 6 meno un quarto; schizzò in cucina, rischiando di travolgere suo padre, che, barcollando, si era appena alzato. La sera prima sua madre aveva costretto David, suo marito, a offrirsi volontario per portare sua figlia e una sua compagna, che abitava vicino, all’aeroporto. Anche se non ne era proprio entusiasta, aveva acconsentito di buon grado. In fondo, era Domenica, e una volta tornato a casa avrebbe potuto concedersi un riposino. O almeno così sperava.
-Ooops! Scusa pa’!- Lily gli aveva sbattuto contro con un gesto poco aggraziato.
Il padre rispose con un sonoro sbadiglio.
La ragazza attraversò il corridoio e raggiunse la cucina, scivolando agilmente sulle pantofole. Afferrò una tazza e iniziò a versarci dentro il latte, facendo attenzione a non rovesciarlo sulla tovaglia.
David arrivò con calma, e salutò la figlia con gli occhi ancora assonnati.
-Buongiorno, tesoro- disse strascicando i piedi fino alla macchinetta del caffè. -ma che ora è?- Guardò distrattamente l’orologio affisso su una delle pareti della cucina e sobbalzò. Le 6 meno 10.
-Siamo già in ritardo. Spero che la tua amica.. come si chiama?- chiese dubbioso.
- Milla - cercò di dire lei, mandando però di traverso un po’ di cereali.
-Comunque sia,- riprese David, che non aveva capito assolutamente niente del grugnito emesso da sua figlia –spero che non sia puntuale. Se no sarà costretta ad aspettarci per un po’- disse gettando ancora una volta un’occhiata all’orologio.
-Stai tranquillo, pa’. Lei non è una che si fa trovare in anticipo. Né tantomeno puntuale.- rispose Lily, dopo aver trangugiato in fretta ciò che restava dei cereali.
-Beh, speriamo. Ora però muoviamoci.- uscì quasi correndo dalla porta, dopo aver mandato giù in un sorso il suo caffè.
Quindici minuti dopo David era lì, sulla porta di casa, che aspettava impaziente sua figlia. Lily non era mai stata veloce a prepararsi, e a suo padre sembrava che i minuti scorressero troppo velocemente. Inoltre quella mattina non poteva neanche urlare, poiché sua moglie, Emily, e il fratello minore di Lily, Daniel, erano ancora a letto che ronfavano beatamente.
Lily finì di sistemarsi i capelli di fronte allo specchio, e si diede ancora un’ ultima aggiustata alla felpa, in modo che cadesse bene sui jeans che aveva deciso di indossare per il viaggio il giorno prima. Infilò velocemente le scarpe, rigorosamente da ginnastica, e diede un’occhiata all’interno della borsa. Non mancava nulla, e ormai l’aveva già controllata un migliaio di volte, ma per Lily non bastavano mai.
Uscì in fretta dalla camera, prese al volo la giacca che le tendeva suo padre, afferrò la valigia e insieme uscirono.
-Hai controllato tutto? Non ti manca nulla?- chiese David
-No, non credo. Penso proprio di aver preso tutto- rispose Lily con un sospiro.
Faceva freddo quella mattina. Anche se ormai era Aprile inoltrato, sembrava pieno inverno. Una sferzata di aria gelida fece rabbrividire Lily, ma lei si riscosse, trascinando con forza la valigia verso la macchina parcheggiata vicino alla casa.
Il cuore le batteva forte. Si chiese perché, ma non riuscì a trovare una spiegazione plausibile. Forse nel suo inconscio sapeva che stava dimenticando qualcosa? Controllò ancora una volta i documenti e il passaporto. Tutto in ordine.
Il suo ritmo cardiaco però non accennava a diminuire. Lily si impose di calmarsi. Non provava mai piacere quando qualcuno riusciva a leggerle i pensieri, le emozioni in volto. E, finora, era riuscita bene nel suo intento: quando voleva, riusciva a dissimulare perfettamente l’ansia, la paura, l’inquietudine, e a chi non la conoscesse davvero bene poteva quasi sembrare che non provasse nulla. Ma i suoi amici più intimi avevano imparato bene a capire ciò che provava solo guardandole gli occhi. Occhi grandi e verdi, decisi, sicuri, molto profondi, nei quali si potevano leggere con facilità le emozioni e i sentimenti che la ragazza stava provando. Sorrise silenziosa, mentre suo padre parcheggiava davanti alla casa di Milla, concentrandosi sui veloci battiti del suo cuore. La ragione di quel ritmo esagerato era fin troppo semplice: era la gita. L’aveva desiderata così tanto… Erano settimane ormai che lei, Ari e Sissi, durante le lezioni di Inglese, facevano progetti e si chiedevano come sarebbe andata… In fondo, non si poteva prevedere ciò che sarebbe successo in sei giorni!
La macchina si fermò; David scese e andò a citofonare, mentre Lily rimase da sola ad ascoltare la musica del suo I-pod, canticchiando a bassa voce.
“someday I’ll wish upon a star, when the clouds are far behind...”
Sentì aprirsi la portiera del sedile posteriore della BMW, e si voltò.
-Ehi, Milla!!- le rivolse un gran sorriso: ormai si era ripresa del tutto dalla terribile sensazione di annebbiamento di pochi minuti prima.  Anche i suoi occhi non mostravano nient’altro che gioia e trepidazione.
-Ciao, Lily- rispose l’amica sbadigliando. Buttò la borsa sull’altro sedile di fianco a lei, e tentò di mettersi comoda sui due restanti, forse per prepararsi per una piccola dormitina. A giudicare dalla cera, ci sarebbe voluta.
-Non sei emozionata??- Lily non stava più nella pelle, e con Milla non tentava neanche di nasconderlo.
Milla la guardò, cercando di capire il perché di tutto questo entusiasmo. Sorrise scuotendo la testa: Lily era davvero imprevedibile.
Arrivarono all’aeroporto, contro tutti i pronostici, quasi in orario. Le due ragazze tirarono le valigie giù dal bagagliaio e Milla si diresse velocemente verso il punto di ritrovo, ovvero il check-in. Lily invece si voltò e abbracciò il padre.
-Elinor…- cominciò David, stringendo fra le braccia la sua bambina.
-Sì, pa’?- Lily spostò il viso, cercando di scrutare le emozioni sul volto del padre. Quando la chiamava con il nome intero era segno che stava per fare un discorso importante.
- Niente- rispose lui con un sorriso.-Fai solo attenzione-
Lei gli sorrise a sua volta, lanciandogli uno sguardo rassicurante, ma anche un po’ scherzoso. Cosa mai poteva succederle?
Fece ancora un saluto con la mano. Si voltò e cominciò a marciare ad ampie falcate verso il check-in, dove si erano già ammassati molti suoi compagni. Sorrise senza quasi accorgersene. “Ma cosa stai facendo Lily?? Ti metti così a sorridere da sola come una cretina??” Quel pensiero la fece scoppiare a ridere, suscitando un paio di occhiate curiose da alcuni turisti che passavano di lì. “Ok, ora datti una calmata.”
Le vennero incontro due ragazze. La prima era mora e alta, di una bellezza splendente. Le rivolse un sorriso perfetto, scuotendo la chioma di capelli lisci. Immediatamente una decina di volti maschili si voltarono.
L’altra ragazza era bassina, con capelli rossi e un viso lentigginoso e allegro, che dava l’impressione di avere sempre una battuta pronta. Lily le abbracciò, e venne sommersa dai capelli fiammeggianti di Sissi.
-Ci sono già tutti?- chiese esitante.
-Si, certo. Neanche Ari è arrivata così in ritardo. Voi siete le ultime. Chissà perché la cosa non mi stupisce- rispose Sissi sarcastica.
Si guardarono tutte e tre, senza dire una parola. C’era un’atmosfera magica, di eccitazione e aspettativa. Quella non sarebbe stata una gita come le altre.
Fu Lily a rompere il silenzio.
-Allora, l’aereo ci sta aspettando, no?-

Artemis camminava in fretta lungo la corsia destinata a coloro che viaggiavano su jet privati, stringendo il suo palmare, lo sguardo fisso davanti a sé. Leale, pochi passi dietro di lui, si guardava attorno, perlustrando con la mente il luogo, mentre seguiva silenziosamente il suo protetto. Leale capiva che qualcosa non andava. Prima di tutto, il suo sesto senso lo aveva messo in allerta. Inoltre Artemis era stranamente silenzioso quel giorno, troppo concentrato sui suoi pensieri, anche più del solito. In effetti, quel viaggio era molto importante. Ma soprattutto, poteva diventare molto rischioso, anche se Artemis gli aveva ripetuto mille volte che non c’era niente di cui preoccuparsi, che aveva la situazione sotto controllo.
Si stavano finalmente avvicinando all’uscita, passando vicino ai gate di ritiro bagagli. Artemis sentì la risata squillante di una ragazza. “Chissà cosa c’è da ridere” pensò. Ma si pentì subito di quel pensiero. Non poteva permettersi di distrarsi, non questa volta. Era troppo importante.
Ma, nonostante questo, non poté fare a meno di pensare che erano mesi ormai che lui non rideva.

Arrivarono a tarda sera. Erano scesi dall’aliscafo dieci minuti prima, e avevano caricato i bagagli su un pulmino diretto all’hotel, mentre loro sarebbero arrivati a piedi.
Le Eolie. Finalmente. Lily inspirò a pieni polmoni l’aria calda e piena di salsedine di Lipari.
-Ari…- Lily spostò lo sguardo sull’amica accanto a lei, intenta a fissare il mare -ma ti rendi conto…? Ci siamo! Finalmente in gita!-
-Eh, già…- rispose lei, con le braccia incrociate, immersa nei suoi pensieri. Ari era sempre stata bella: Lily spesso si trovava ad invidiare la sua figura delicata, i suoi bei capelli corvini, la carnagione chiara, gli occhi scuri e sognanti. Niente a che vedere con Lily. Non era brutta, ma si considerava troppo “normale”: capelli castani, ma chiari, corporatura normale, sorriso che, a detta di tutti, abbagliava; l’unica cosa di cui era sempre andata fiera erano i suoi occhi verdi, talvolta tristi e concentrati, talvolta allegri e spensierati, ma sempre pieni di forza ed energia.
-Ragazze, ma cosa ci fate ancora lì??- una ragazza con i capelli rossi e un enorme sorriso sulle labbra le raggiunse e cinse loro le spalle con le braccia -ma si può sapere cosa state… Uao.-
Anche lei si fermò, evento tutt’altro che ordinario, dal momento che non smetteva mai di parlare, da mattina a sera.
Rimasero tutte e tre incantate a guardare il magnifico paesaggio eoliano che si stagliava davanti ai loro occhi: un’immensa distesa d’acqua disseminata qua e là di scogli, illuminata dalla bianca luce della luna, che risplendeva nel cielo scuro e limpido.
-Uno…-
Le tre ragazze si sentirono improvvisamente afferrate da dietro.
-Due…-
Non riuscirono neanche a voltarsi: vennero improvvisamente sollevate e portate, di peso, verso la riva, nonostante gli schiamazzi e i tentativi di svincolamento.
-Tre!-
Ci fu un sonoro “splash”. La prima a riaversi fu Sissi che, dopo aver scosso la sua chioma rossa, iniziò a correre dietro a Lorenzo. Non fu difficile per lei raggiungerlo, dal momento che era piegato in due dalle risate.
-Oh, maledizione!- Ari guardava sconsolata i suoi vestiti, ormai irrimediabilmente zuppi. Poi si voltò verso Giova e Luca, che si godevano lo spettacolo sghignazzando
- Questa ve la facciamo pagare!!-
- Contaci Ari- Lily uscì dall’acqua scuotendo i capelli bagnati, e andò a sedersi vicino a Liuc, sulla spiaggia. Lui quasi non si accorse del suo arrivo: era troppo concentrato a fissare Ari, che gli dava le spalle. Lily sospirò: erano ormai mesi che il suo vicino di banco non riusciva a staccare gli occhi dalla mora, ma non era questo il problema… Ari non ricambiava, nonostante Luca fosse di gran lunga il più carino e dolce dei tre ragazzi.
Lorenzo finalmente arrivò ansimante, e si sedette alla destra di Lily. Rideva.
-Che è successo?- chiese l’amico, distraendosi per un attimo dalla vista di Ari
-Sissi…- sembrava che stesse piangendo dal ridere -sulla Ronchi…-
-Sissi è caduta sulla Ronchi?- chiese Giova, pronto per scoppiare a ridere.
Lollo annuì a stento, mentre le risate gli facevano scuotere tutto il corpo. In quel momento arrivò Sissi, da dietro, e diede una sberla a Lorenzo sulla nuca, poi andò a coricarsi vicino ad Ari per asciugarsi. Lily rideva con gli altri, scherzando spensierata. Osservò i suoi amici uno ad uno: quella sarebbe stata davvero una gita indimenticabile.

 

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Capitolo 2
*** Crash ***


ehiehiehi!!! non mi sembra vero di aver postato il primo capitolo della mi fanfiction... e mi sembra ancora meno reale il fatto che sto per postare il secondo!!!! ahaha... dunque, vediamo: se qualche sfigato ha letto il primo capitolo, avrà di certo notato che non ho messo commenti o altro. Ciò è stato causato dal fatto che dovevo precipitarmi dal dentista, ma soprattutto dal fatto che fra 2 giorni parto per the other side of the world, perciò non credo che avrò il tempo di postare un bel niente per ben tre lunghissimi mesi... perciò eccovi spiegata tutta questa fretta!!
Ho come l'impressione di star scrivendo un pò a me stessa, perchè sono convinta che nessuno possa essere così masochista da leggere il primo cap, figurarsi il secondo!!! dunque, vi auguro una sincera buona lettura, e se qualcuno ha avuto il coraggio di arrivare fin qui lo ringrazio (e gli suggerisco un buon reparto psichiatrico...) kisses!!

ps il titolo del primo capitolo è una frase tratta dalla famosissima canzone:  "somewhere over the rainbow" di harold arlen...


Diana era stata da poco assunta nell’hotel come receptionist. Di solito era indaffaratissima con il lavoro, sempre lì a scribacchiare sui fogli, digitare sulla tastiera del computer o a rispondere al telefono. Quella, però, era una serata tranquilla: pochi clienti avevano progettato di fermarsi a dormire quel weekend, così come pochi avevano chiamato per prenotare. In quel momento esatto Diana era seduta dietro il bancone, limandosi le unghie e sbadigliando distratta. Gettò un’occhiata all’orologio: le dieci. Decise di farsi un caffè, lasciò la postazione e si ritirò attraverso una porticina che portava alle cucine. Accese svogliatamente la macchinetta del caffè, quando udì un rumore di un campanello all’ingresso. Borbottando raggiunse la reception ancora con una cialda in mano. Al di là del bancone si trovava un ragazzo, che non doveva avere più di 16 anni, ma che dava la sensazione di essere diverso da un adolescente qualsiasi, a partire dall’abbigliamento, decisamente curato: camicia bianca, che si intonava perfettamente ai pantaloni color cachi e alle Camper che indossava. Ma non era solo questo: la carnagione, pallidissima, era in netto contrasto con i capelli neri, abbastanza lunghi che, anche se spettinati, avevano l’aria di essere molto curati. Il suo viso, contratto in una smorfia di impazienza, aveva qualcosa di particolare: negli occhi gli si poteva leggere un misto di preoccupazione, tristezza, ma anche un fuoco e una vivacità incredibili. Ma soprattutto ti davano l’impressione di non essere a conoscenza di qualcosa di importantissimo, un segreto che, per i semplici umani, era inaccessibile.
Con le dita lunghe e affusolate come quelle di un pianista si scostò una ciocca di capelli dalla fronte, corrugata per una preoccupazione  indefinita. Diana si avvicinò,e chiese con voce sommessa: -Posso fare qualcosa per te?-
Capì subito di aver fatto la domanda sbagliata, e si morse la lingua per non aver usato il Lei. Il ragazzo le lanciò un’occhiata di disprezzo, come se neanche valesse la pena di discutere con una come lei.
-Desidero prenotare due stanze, comunicanti, letti singoli. Entrambe devono affacciarsi sul porto- Se era straniero faceva di tutto per limitare l’accento. La sua voce era decisa, autoritaria, sebbene non ancora da uomo.
-Certo. Controllo subito- Diana digitò velocemente sulla tastiera. –Bisogna essere maggiorenni per prenotare- alzò la testa, scostando i capelli tinti dalla fronte, e fissò il ragazzo negli occhi. Tutt’un tratto rabbrividì: avrebbe giurato che fossero di colore diverso, uno azzurro e uno nocciola, ma entrambi freddi e impassibili. Il ragazzo si accorse della sua reazione e spostò lo sguardo.
-Mio zio, il Signor Korchov, sta scaricando le valigie. Le chiedo solo di darmi le chiavi, poi lui si occuperà dei nostri dati.
-Mmm… perfetto.- Diana diede un’occhiata alla porta. Si poteva sentire il rumore delle valigie che venivano scaricate dalla macchina. –Sei sicuro, cioè…- spostò lo sguardo imbarazzata –E’ sicuro di non volere una camera con due letti, uno grande e l’altro più piccolo? Ne ho una proprio qui, disponibile,e costa meno…-
Il ragazzo sorrise. Diana pensò che più che a un sorriso assomigliava ad una smorfia, che aveva un che di sarcastico, o di crudele.
-Le sembro un bambino?- Sembrava divertito, ma il suo sguardo non tradiva emozioni.
Diana balbettò qualcosa che assomigliava a un “no, certo che no” e gli porse le chiavi. Il ragazzo, con una camminata leggera, ma decisa al tempo stesso, si avviò verso l’ascensore. La donna lo seguì con lo sguardo, e si augurò con tutto il cuore di non dover parlare più con quello strano ragazzo.

Lily stava trascinando la valigia attraverso il lungo corridoio di moquette. Era contenta: lei, Ari, Sissi e Milla erano in camera assieme, e avevano pure un balcone che si affacciava sul porto. Tutti i loro compagni si trovavano nelle stanze vicine, e si erano già accordati per ritrovarsi quella sera nella camera delle 4 ragazze, la più grande in realtà formata da due stanze comunicanti. Mentre seguiva Ari nel corridoio, trascinando il suo trolley, le ragazze vennero raggiunte dalla receptionist, una finta bionda dall’aria un po’ stralunata. Lily guardò la targhetta appuntata sulla sua camicetta: “Diana, receptionist”. Con la voce rotta dal respiro affannoso le chiamò.
-Ragazze, mi dispiace, ma vi abbiamo cambiato di stanza. La vostra è 2 piani più su- disse sporgendo una chiave con una mano e aprendo l’altra per afferrare le due che stringeva Ari.
-E perché?- chiese Sissi, con un’aria un po’ scocciata.
-Ci sono dei clienti che hanno chiesto espressamente queste stanze. Mi dispiace, ma se per voi non è un problema…-
Le quattro si guardarono, poi Lily alzò le spalle e, con voce rassegnata, disse: -Ok, non importa. Andiamo su- e iniziò a spingere la valigia nella direzione opposta.
-Ma come??! Non è giusto!! Abbiamo preso le stanze prima noi…- ribatté Sissi, mettendo le mani sui fianchi in un’espressione inferocita.
Lily si rivolse a lei con una voce pacata e rassicurante: -Dai, Sissi, non è così tragica la situazione. È solo per qualche giorno. E poi, è solo per dormire, il resto del tempo lo passiamo in camera degli altri- detto questo, guardò le altre due ragazze, che avevano assistito alla scena in silenzio. Avevano un’aria dispiaciuta più che arrabbiata. –Andiamo?- L’esortazione dava l’idea di non poter ammettere una risposta negativa. Lily era così: una volta che prendeva una decisione, era irremovibile.
Salirono dunque per altri due piani, raggiunsero la loro stanza ed entrarono: l’arredamento era alquanto spartano, composto da quattro piccoli letti, un armadio e due sedie. Non c’era neanche la televisione, e il bagno era minuscolo. Sissi, dopo aver gettato un’occhiata piena di disprezzo alla stanza, borbottò: -Perfetto-, e si gettò sul letto accanto all’unica, piccola finestra.
Lily, dopo aver posato la valigia sul pavimento, si stiracchiò e si sdraiò mollemente sul suo letto, il più vicino alla parete bianca e scrostata. Era incredibilmente stanca, ma aveva ancora voglia di fare qualcosa assieme ai suoi compagni. “Che adrenalina…” pensò, sogghignando. Non era abituata a sentirsi così euforica e volenterosa. Si girò verso le altre, che erano a loro volta sdraiate sui letti.
-Che cosa facciamo?-
-Beh, qua abbiamo della roba da mangiare.- Ari si sedette a gambe incrociate e cominciò a tirare fuori dal suo zaino una serie di pacchetti e pacchettini. –Vediamo… Abbiamo Pringles, M&M’s, strani cracker di riso per Milla…- lanciò una busta azzurra in direzione della ragazza, colpendo i suoi capelli ricci e marroni. –Caramelle… Più o meno questo-.
Sissi era a bocca aperta. –Scusa ma… da quando vai in giro a comprare queste cose?? Sei magrissima!- Lily era perfettamente d’accordo con Sissi: Ari era davvero magra, slanciata, aveva un fisico perfetto, mentre lei faticava a mantenere la linea,e la sua statura non molto alta di certo non aiutava.
-Guarda che non è tutto per me!!- rispose Ari con una risata squillante –Ho preso tutta questa roba perché sapevo che l’avrebbero mangiata anche i maschi, soprattutto Giova…-
-A proposito degli altri… Cosa pensate che facciano stasera?- chiese Lily.
-Ah sì, io ho parlato con loro prima- rispose Sissi, con un’aria dubbiosa –Se non sbaglio, avevano detto di metterci in pigiama e scendere da loro più o meno alle…- guardò l’orologio –Beh, più o meno cinque minuti fa- disse infine alzando le spalle.
Lily si alzò di scatto. –E non potevi dircelo prima?- la rimproverò con un sorriso. Sissi, la solita sbadata. –Dobbiamo lavarci, cambiarci…- si guardò intorno come se stesse cercando qualcosa, -Chi si prende per prima il ba…-
-Io, io, io!!- Ari scattò in piedi e, con una velocità degna di un’atleta si fiondò in bagno, afferrando il suo beauty.
-Ihih, lo sappiamo che non puoi resistere dieci minuti senza uno specchio e le tua creme…- commentò Sissi, sarcastica.
Milla non aveva ancora detto una parola. Lily la guardò. Stava fissando insistentemente il soffitto, incurante dello scompiglio attorno a sé.
-Mill, tutto bene?- domandò preoccupata.
La ragazza, attraverso i suoi lunghi capelli castani, spostò lo sguardo verso l’amica. -Certo- rispose con un sorriso, ma poi continuò –Solo che… beh, ci sarà anche Liuc, e io…-
Lily si sedette accanto a lei sul letto, e le avvolse le spalle con un braccio. –Non ti preoccupare, ok? Vedrai che ci divertiremo- affermò con un sorriso. Riuscì a sembrare più rassicurante di quello che avrebbe creduto. –Goditi la gita e non pensarci- concluse in tono un po’ più brusco.
Non era mai stata così gentile e comprensiva con le sua amiche come in quei giorni. Di solito, tutti le perdonavano i toni un po’ acidi e sarcastici, sapendo bene che Lily, in fondo in fondo, era l’amica più dolce e paziente che si potesse avere, e che spesso i suoi silenzi valevano più di mille consigli.
-Grazie Lily- rispose Milla con un sorriso. Le quattro si cambiarono in fretta. Lily si mise una camicia da notte blu con le spalline, si sistemò i capelli con una pinza e infilò le pantofole azzurre. Era pronta.
-Allora, andiamo?-chiese con aria impaziente, mettendosi le mani sui fianchi e iniziando a battere un piede per terra.
-Si, si… però avrei bisogno di una mano- Ari aveva le braccia stracolme di roba da mangiare. Era pazzesco: anche nel suo pigiama rosa e con i capelli sciolti e un po’ disordinati riusciva a sembrare una diva.
-Dammi un po’ qua- Sissi invece indossava una canottiera e shorts gialli, che ben si intonavano alla sua pelle abbronzata. Solo Milla non era ancora pronta; dopo che ebbe indossato il suo pigiama viola, le quattro uscirono dalla stanza. Lily chiuse a chiave la porta, si infilarono nell’ascensore e schiacciarono il pulsante che portava al primo piano. Lily guardò l’orologio: le 10.40. Raggiunsero la stanza dei ragazzi e bussarono alla porta. Venne ad aprire Liuc, estremamente carino con i capelli disordinati. Lily gettò un’occhiata a Milla, che fissava il pavimento, ma non riusciva a nascondere il lieve rossore sulle guance.
-Ari, ragazze, entrate pure- Naturalmente Liuc non aveva occhi che per Arianna, seguendo con lo sguardo ogni movimento della ragazza, che però sembrava non accorgersene. Milla, invece, ci aveva fatto caso, come notò con dispiacere Lily.
La loro stanza era molto più accogliente: Lily individuò subito il letto più grande, e non esitò a buttarvicisi sopra. Peccato che fosse già occupato da Giova.
-Scusa, ma che ci fai qui?- chiese lui, cercando di spostare la ragazza.
-Eddai, fammi un po’ di spazio!- pregò lei con un sorriso.
-Beh, se me lo chiedi così… No.- i due migliori amici iniziarono a lottare e, come sempre, Lily finì dritta sul pavimento. Alla fine però Giova le concesse di coricarsi vicino a lui.
I ragazzi iniziarono a chiacchierare del più e del meno. Lorenzo e Liuc iniziarono subito a discutere su cosa era in programma il giorno dopo: il primo sosteneva che sarebbero andati tutti a Vulcano, il secondo invece era convinto che era prevista una passeggiata lì a Lipari. Anche Sissi e Ari parteciparono alla discussione, finché Milla non ebbe il buon senso di tirar fuori il programma della gita e dichiarare che avevano ragione Lorenzo e Sissi. Il tempo trascorreva piacevolmente, e fuori continuava a piovere, nonostante fosse molto caldo. Lily sorrideva ad occhi chiusi, ascoltando le voci dei suoi amici.

Artemis era disteso sul letto, e fissava il soffitto. Non c’era nulla da fare, non riuciva a mentire a sé stesso: lui, Artemis Fowl Junior, il più grande genio della generazione, se non di più, realizzatore di uno sterminato impero criminale che coinvolgeva più mondi, quello umano e quello elfico, aveva paura. Ripassò a mente tutte le sue mosse, calcolando le probabilità di successo, e si concesse un sospirò di sollievo. “I calcoli non sbagliano” pensò. Ma c’era comunque qualcosa che non lo convinceva. Si mise seduto sul letto e fissò la valigetta ai suoi piedi. Non doveva essere così difficile. Un semplice scambio. Una valigetta per una valigetta. In fondo, si era cimentato in prove molto più difficili, no? Ma allora perché era così agitato?
Si distese di nuovo sul letto, afferrò il telecomando e si mise a fare zapping alla tv. Aveva tutto il tempo del mondo: lo scambio sarebbe avvenuto la mattina seguente, nella piazza centrale di Lipari. Guardò l’orologio: Leale non aveva ancora finito di fare il check-in.
Aveva sete, e cercò con lo sguardo il piccolo frigorifero vicino al comodino. Di solito non beveva acqua comune, soltanto distillata e depurata, ma quella volta era costretto a fare un’eccezione. Si accovacciò di fronte al frigo, cercando dell’acqua tonica. Mentre era lì il suo sguardo si spostò per caso sul balcone oltre la porta vetro, che si affacciava sul porto. Nonostante fosse tardi, non era ancora eccessivamente buio, e fuori pioveva. Lo sguardo di Artemis vagò, poi si fermò paralizzato. Se il suo cuore non si fosse fermato, avrebbe sicuramente urlato o detto una parolaccia. In un punto del cielo la pioggia non c’era, e il cielo era limpido e scuro. Perfetto, ma non naturale. C’era qualcosa in quel punto, che si mimetizzava perfettamente.
-Leale- sibilò a denti stretti, prima di ricordarsi che la sua guardia del corpo era al piano inferiore.
Il suo cervello iniziò subito a pianificare, congetturare, e a calcolare quante probabilità ci fossero che la cosa, qualsiasi cosa fosse, che stava librando lì fuori fosse sua amica. Quasi pari a zero. Mentre cercava di stare concentrato e calmo, ma soprattutto di sembrarlo, le sue gambe dicevano altro. Alla fine, un unico pensiero, il più ragionevole, gli balenò nella mente.
“Fuggi”
Cercando di rimanere impassibile, per non attirare l’attenzione della cosa, afferrò la valigetta, si diresse lentamente verso la porta, uscì e la richiuse dietro di sé. A quel punto cominciò a correre a perdifiato. Doveva trovare Leale. Non aveva molto tempo, e non era molto veloce. Si pentì di aver sostituito il corso di ginnastica a scuola con uno di letteratura francese.
Si fermò in mezzo al corridoio. No, andare da Leale non era la mossa giusta. Se la cosa l’avesse visto lì alla reception, avrebbe facilmente capito i suoi propositi di fuga. Fece le scale, salendo di due piani. Prese il palmare e iniziò a scrivere un messaggio a Leale. “Terzo piano. Vieni subito”. Le sue gambe, intanto, non avevano intenzione di fermarsi. Imboccò il corridoio a sinistra del terzo piano senza neanche alzare lo sguardo. Fu così che sbatté su un qualcosa di veloce che stava venendo nella sua direzione. Si ritrovò improvvisamente per terra.

-Oh, cavolo- Lily si alzò di botto dal letto –avevo detto che avrei mandato un messaggio ai miei quando mi fossi sistemata in hotel- afferrò le chiavi della stanza che aveva posato su un comodino –vado su a prendere il cellulare e torno-.
Uscì dalla stanza e corse lungo il corridoio. Si precipitò nell’ascensore e aspettò che salisse di due piani, uscì e ricominciò a correre verso la sua stanza. Mentre correva lungo il corridoio si voltò. Avrebbe giurato di aver sentito un rumore di passi dietro di sé. Fu in quel momento che andò a sbattere contro qualcosa di molto duro, che stava correndo verso di lei. In un attimo si ritrovò distesa sulla moquette grigia.

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Capitolo 3
*** Under the rain ***


Eccomi qua!!! I’m back!! Dopo una pausa di…mmm.. 6 mesi? torno trionfante dall’altra parte del mondo con un nuovo capitolo… secondo me è un po’ troppo lento, ma pazienza, era necessario..almeno è un po’ lunghetto, il che supplisce alla mia totale mancanza di dedizione e puntualità.. Mi raccomando recensite!! grazie J.
x Juliet95: grazieee!! Nessuno mi aveva mai detto che ero brava… *arrossisce* spero che questo capitolo ti piaccia!!
X free_sky_77: grazie mille anche a te! A proposito, come hai troavto gli ultimi due libri? E l’hai letto l’ultimissimo in inglese?
X neyo: ahahahahah guarda che potevi dirmelo a voce ^^
Ringrazio anche moltissimo niheal65 e aras1796 x il sostegno. Thanks.


UNDER THE RAIN
Artemis non aveva più tempo. E lo sapeva. Era per quello che, anche se era disteso a terra, la schiena contro la moquette grigia , la fronte e il naso doloranti, la sua mente lavorava frenetica. Doveva trovare un modo per uscire, ma era inutile. Questione di secondi, e quelli lì fuori, chiunque fossero, l’avrebbero accerchiato e preso. Il suo cervello formulava altre ipotesi: e se avessero fatto esplodere l’edificio? No, impossibile, troppe vittime e scalpore, senza neanche contare che qualsiasi cosa volessero, la valigetta, lui, o probabilmente entrambe le cose, sarebbe andata distrutta. Ucciderlo? No, senza di lui il contenuto della valigetta non avrebbe avuto alcun valore. “Spero che lo sappiano” si augurò fra sé Artemis. Mentre gran parte della sua formidabile mente era impegnata in questi ragionamenti, un’ altra parte si concentrò sull’oggetto contro cui era andato a sbattere.
Una ragazza con una camicia da notte blu e capelli castani si era già alzata e posò lo sguardo furente su Artemis, che ancora giaceva a terra. All’improvviso qualcosa, nei suoi occhi, cambiò: la rabbia e il rimprovero che il ragazzo riusciva a leggervi cedettero il passo a curiosità e un misto di pietà e premura: “Ehi, ma stai bene?”la ragazza gli porse una mano per aiutarlo ad alzarsi. “Non hai un bell’aspetto…hai bisogno d’aiuto? Cerchi qualcuno?”
La reazione di Artemis non fu quella che egli stesso ci aspettava. Gratitudine, e un vago senso di sollievo. Un aiuto. La sua prima reazione fu un sì spontaneo che gli salì alle labbra senza che neanche se ne accorgesse, ma poi si fermò. Accettare aiuto da una ragazzina? In pigiama per giunta! No, non poteva abbassarsi a tanto, non lui, non Artemis Fowl. Sentì il rossore salire alle guance al solo pensiero di aver accettato.
Poi un’illuminazione si fece strada fra i suoi pensieri: una stanza.
Questa ragazzina, chiunque fosse, aveva una stanza.
“Sì”, e le prese la mano.

Elinor guardò lo strano ragazzo con curiosità. Era strano davvero, pensò. Pallido, sudato, che correva da solo alle 11 di sera, con una valigetta in mano, uno spiccato accento anglosassone e abbigliamento da Lord inglese, ma, soprattutto che accettava la sua richiesta d’aiuto.
“Avresti per caso una stanza?” mentre il ragazzo parlava, aggiustandosi le maniche della camicia, Lily non potè fare a meno di lodare la sua capacità di usare il condizionale in una lingua così difficile come l’italiano. “Cioè, non fraintendermi.” Il ragazzo afferrò la valigetta nera ai suoi piedi “mi serve solo per…”
Si zittì improvvisamente e rimase in ascolto di qualcosa che Lily non riusciva a sentire.
“Non c’è tempo per le spiegazioni. Ho bisogno che mi ci porti. E in fretta.” Il ragazzo la guardò in viso; Lily si accorse che le sudavano le mani, e che non aveva ancora detto una parola e, a giudicare dallo sguardo del ragazzo, sembrava che stesse aspettando una risposta.
Elinor per un attimo esitò, valutando la possibilità che questo singolare sconosciuto fosse un pazza che si portava dietro chissà quale contenuto nella sua preziosa, e misteriosa, valigetta.
Ma non sempre ascoltiamo il cervello.
“Seguimi”, e iniziò a correre lungo il corridoio.

Non  appena la porta della stanza di Lily si chiuse dietro ad Artemis, la ragazza si accorse che aveva fatto uno sbaglio. Non sapeva neanche il nome di quel tizio, e adesso, anche se avrebbe fatto volentieri a meno si stare lì chiusa con lui, non poteva uscire e raggiungere gli altri, perché non poteva lasciarlo lì in camera sua. E lui non sembrava avere l’intenzione di andarsene così facilmente. Artemis, con mossa poco fluida, alzò la valigetta e la posò su una delle sedie, e si sedette sull’altra. Non sembrava rilassato, anzi. Tutt’un tratto si prese la testa fra le mani, sempre in assoluto silenzio. Elinor non sapeva cosa dire, né cosa fare. Chiusa in camera con un potenziale pazzo sull’orlo di un esaurimento nervoso, che si portava dietro una misteriosa valigetta. Prese nota mentalmente di non ricascarci più.
“Ehm…” cominciò dopo qualche minuto. Lo sconosciuto non accennò neanche ad alzare la testa. “Scusa” provò ad attirare l’attenzione del ragazzo, invano.
“Ok, senti. Io adesso devo tornare di sopra. Ho preso il telefono, che era quello che cercavo, e ora vorrei uscire. Ora, dal momento che non posso lasciarti solo nella mia stanza, ti pregherei gentilmente di andartene.” Elinor prese fiato, sollevata dal fatto che lo “strano” avesse finalmente alzato la testa, fissandola come se provasse un qualche fastidio per la sua inopportuna richiesta. Però ancora non diceva nulla.
“Dunque, se non è troppo disturbo…” Un lieve sarcasmo si insinuò nelle parole della ragazza, che, quasi a conferma della sua richiesta, che però sembrava  più un ordine, si diresse verso la porta.
Non era neanche arrivata alla maniglia, che il ragazzo si alzò e le prese il braccio. “Non aprire.” Disse, anzi ordinò, ermetico, e non aggiunse altro.
Con uno sbuffo, Lily andò verso il letto e si sedette, spazientita.
Ma che voleva quello lì? Ancora cinque minuti, poi se ne sarebbe infischiata e non sarebbe rimasta un secondo di più con lui, anche a costo di lasciarlo nella stanza da solo.
“Ora basta. Non ha senso. Questa è la mia stanza e ho tutto il diritto di…”
“Zitta.”  Il ragazzo le fece cenno di sedersi, si alzò e si diresse silenziosamente verso la porta. Accostò l’orecchio alla superficie  e chiuse gli occhi.
Per qualche inspiegabile motivo Lily ubbidì, rimanendo in perfetto silenzio. Da qualche parte aveva letto che non si doveva metter pressione ai pazzi, soprattutto a quelli che si sentono perseguitati. Dunque stette zitta a osservare lo sconosciuto che, all’improvviso, si girò, la guardò e si portò un dito alle labbra, facendole segno di continuare a stare in silenzio. Lily non osò fare altrimenti, paralizzata dallo stupore e dall’inquietudine. Il ragazzo si diresse verso il tavolo, prese un foglio e una biro che aveva in tasca, scrisse qualcosa e lo passò a Lily: “C’è un’altra uscita? No porta”.
Lei scarabocchiò un NO, e lo guardò, esasperata. Il ragazzo cominciò a guardarsi intorno in cerca di una via di fuga. Lily ebbe un’illuminazione e afferrò il foglio e la penna: “Balcone? Sotto c’è la camera dei miei amici…”  

Scendere giù dal balcone si era rivelato più difficile del previsto. Prima di tutto, pioveva e c’era vento. Inoltre, camicia da notte e pantofole non erano l’abbigliamento adatto per un’arrampicata su una parete scivolosa. Elinor si strinse le braccia contro il corpo, quasi a proteggersi dal freddo, poi afferrò il gelido mancorrente con una mano, e si bloccò. Ma per che diamine lo stava facendo? Per ordine di un completo sconosciuto che aveva la fobia delle porte?
Ritrasse la mano, ma poi, ripensandoci, decise che era meglio assecondarlo. Almeno dopo sarebbe stata con i suoi amici, al sicuro da quel tipo strano. Scavalcò il mancorrente, stringendo con entrambe le mani quell’appiglio scivoloso. Nella teoria quel piano le era sembrato semplice, ma la pratica le sembrava tutt’altra cosa. “Ce la puoi fare” si disse; tutto consisteva nell’allungare un po’ le gambe, rimanendo appesa per le braccia al balcone, e appoggiare i piedi sul mancorrente di sotto. “Su, non è poi così difficile.” Prese un bel respiro e guardò giù. O almeno ci provò, dato che la pioggia le offuscava gli occhi. A quel punto cominciò a farsi scivolare pian piano verso il basso, mentre il ragazzo era sempre lì, che fissava ciò che stava facendo, ogni tanto voltandosi per dare un’occhiata alla porta. Elinor era ormai scivolata del tutto, e le sue mani erano all’altezza del pavimento del balcone, ancorate alle sbarre. Tutto come previsto. Se non fosse stato che lei, anche allungandosi, non raggiungeva il mancorrente di sotto. In quel momento maledì la genetica che non l’aveva fatta nascere con qualche centimetro in più. Se ne stette lì un paio di secondi, con la camicia da notte e i capelli completamente fradici, le braccia che stavano cedendo, e sperando in un miracolo che la facesse diventare più alta, o quantomeno, che l’aiutasse a non aver paura di saltare.
Il ragazzo, da sopra, la guardava. Aveva un ghigno sulla faccia, quasi fosse divertito. “Ti serve una mano?”
In quello stesso momento si sentì un rumore proveniente dalla stanza, e in un istante anche il ragazzo si trovò accanto a lei, penzoloni e completamente zuppo. Lei osservò compiaciuta che anche lui sembrava avere le stesse difficoltà, con la differenza che le sembrava ancor più scoordinato e, forse, come notò lei divertita, anche meno in forma. Anche perché teneva il manico della valigetta fra i denti.
Elinor valutò la situazione, ma si rese conto ben presto che non c’erano possibilità né di tornare sopra, né di scendere sull’altro balcone. Ma perché diamine…
Due forti braccia la afferrarono improvvisamente per la vita, e la posarono delicatamente sul balcone.

Artemis non stava bene. Era appeso a un balcone, fradicio, con una valigetta in bocca, e le braccia gli facevano male. “Giuro che inizio gli esercizi che mi ha dato da fare Leale, quando torno a casa” pensò. “Se torno a casa.”
Lanciò un’occhiata alla ragazza vicino a lui, appesa allo stesso modo. Chissà perché si era fidata di lui, e Artemis fu mosso da un improvviso sentimento di gratitudine. Naturalmente durò poco, dal momento che la sua mente era impegnata a trovare soluzioni a problemi ben più urgenti: prima di tutto, le sue braccia stavano cedendo; in secondo luogo, quel “qualcosa” che aveva visto librare a mezz’aria dalla sua camera poteva benissimo essere ancora lì, e due ragazzi appesi a un balcone erano un facile bersaglio per chiunque. Meglio che stare in camera, però, dove Artemis era sicuro che qualcuno stava cercando di sfondare la porta. Nonostante fosse un genio, Artemis non riusciva a trovare una via d’uscita da quella situazione. Il suo cervello sfornava idee senza sosta, ma nessuna di qualche utilità. “Ok,” pensò, “mantieni la calma e…”
In quel momento la ragazza di fianco a lui mollò la presa.

“Ma sei impazzita?” Giova le rivolse uno sguardo preoccupato e arrabbiato. “Ma che ci facevi lì??”
“E chi è questo?” Lorenzo stava aiutando Artemis a scendere senza cadere, anche se la valigetta sicuramente non aiutava.
“Ma si può sapere…” Giova non sembrava intenzionato a calmarsi. Anche Luca, alle sue spalle, fissava Elinor con un’espressione stranita. “Ma insomma, che ti è preso? Cos’è questa mania di giocare a fare Tarzan mentre piove?” Giovaa le afferrò le spalle, costringendola a guardarlo dritta in faccia. “Potevi cadere!!”
In tutta risposta, Elinor gli gettò le braccia al collo e gli sussurrò un “grazie” all’orecchio. Quando si sciolse dall’abbraccio, si voltò verso il ragazzo che, fradicio, osservava la scena. Tutti li stavano guardando sbigottiti, ma soprattutto lui era l’oggetto di particolare attenzione. E fu lui stesso a rompere il silenzio: “Dobbiamo entrare in camera.” Si voltò verso Ari e Sissi, alle sue spalle “Tu, chiudi le finestre. E tu, assicurati che la porta sia davvero ben chiusa.”
Ari non se lo fece ripetere due volte, colpita dal tono autoritario del ragazzo. Sissi invece, che aveva un carattere indipendente e un atteggiamento schietto e, talvolta, bellicoso, tentò di ribattere. “Ma tu chi ti credi di essere per dare ordini così?”
Artemis, che intanto era entrato a passo deciso nella stanza, si voltò e fissò intensamente la rossa. Un attimo dopo Sissi, la più grintosa e testarda del gruppo, si ritrovò a spingere il tavolino davanti alla porta, rinunciando così a ogni tentativo di ribellione. Milla si avvicinò a Elinor con un asciugamano e la aiutò ad avvolgerselo attorno al corpo. Lily si sentiva infreddolita e stanca, e l’amica, senza dire nulla, la face sedere sul divano. Tutti guardarono il ragazzo, che, pensieroso, si era nuovamente seduto e stringeva la valigetta fra le mani.
Lorenzo fu il primo a farsi avanti. “Allora, si può sapere chi sei?”
“E che ci fai qui?” Giova rincarò la dose scontroso.
Elinor raggelò. Si era appena buttata giù da un balcone seguendo gli ordini di un tizio di cui non conosceva nemmeno il nome. Suo padre l’avrebbe messa in punizione fino ai diciott’anni, e lei l’avrebbe sicuramente capito.
“Mi chiamo Eric. Sono russo.” rispose con voce piatta. Elinor lo osservò. Eric era effettivamente pallido, aveva i capelli neri e l’accento non era sicuramente italiano. Però le ricordava un anglosassone: forse l’abbigliamento, così curato e formale, o comunque l’intonazione all’interno delle frasi.
“Sei sicuro di non essere inglese?” Non appena Lily pronunciò queste parole si rese conto di quanto suonassero stupide: come fa uno a non essere sicuro della sua nazionalità? “Beh, il tuo accento… I miei genitori sono inglesi, ed è molto simile.”
Eric voltò lentamente la testa verso di lei. Sembrava stanco, coi capelli in disordine, la camicia bagnata e sbottonata e solo lo sguardo mostrava qualcosa di vivace ed energico. C’era qualcosa di strano però… Prima che Elinor riuscisse a capire di cosa si trattasse Eric spostò lo sguardo sulle sue scarpe.
“Mia madre è inglese”.
“Ma allora, si può sapere che succede?” Lorenzo non ce la faceva più. E soprattutto non era abituato a non avere il controllo della situazione. Dal momento che non riceveva alcuna risposta dal ragazzo, si voltò verso Elinor.
“Beh…” iniziò la ragazza, esitando “ci siamo scontrati nel corridoio, e poi stava arrivando qualcuno, allora siamo entrati nella nostra stanza, ma poi non potevamo più uscire dalla porta, quindi siamo scesi giù dal balcone e…”
“Cosa? Ma che stai dicendo Lily? Qualcuno vi seguiva? E chi??”
Per tutta risposta, qualcuno bussò energicamente alla porta. Anzi, più che energicamente.

“Derek aprimi!! Sono Dem!”
Artemis ebbe un tuffo al cuore. Aveva riconosciuto immediatamente la voce di Leale, che parlava in russo al di là della porta. Ma preferì lo stesso prendere qualche precauzione.
“Dem… tu mi hai mai detto il tuo vero nome?” rispondendo sempre in russo.
Dopo una breve pausa, la guardia del corpo rispose: “Sì. Il giorno in cui mi hanno sparato, durante l’affare con John Spiro. Il giorno in cui sono invecchiato di una decina d’anni.”
Artemis si concesse una ampio sorriso, conscio del fatto che tutti i ragazzi lo stavano fissando, senza capire una parola di ciò che lui e Leale stavano dicendo.
Il ragazzo spostò a fatica il tavolino dalla porta, che si spalancò all’istante. Un uomo, alto e pelato, entrò. Aveva un semplice e formale abito nero, e appena entrato perlustrò con gli occhi tutta la stanza, in cerca di un eventuale pericolo. I ragazzi, naturalmente, erano terrorizzati, e ancor di più quando l’uomo li squadrò tutti da capo a piedi. Poi si voltò verso Artemis.
“Non so chi siano. So solo che hanno cercato di stordirmi alla reception. Di sicuro possiedono le armi del Popolo”. Disse serio, guardando Artemis. “Come hai fatto a fuggire e arrivare fin qui?”
“A dopo le spiegazioni” rispose il ragazzo frettoloso. “Dobbiamo trovare una maniera di andarcene. E inoltre… abbiamo anche un altro problema” si voltò verso i ragazzi, che naturalmente stavano osservando i due, spaventati “dobbiamo portarli con noi. Hanno visto la valigetta e le nostre facce. E quella laggiù,” indicò Elinor con un dito “ha capito che sono inglese. Potrebbe lasciarsi fuggire qualcosa, se non la uccidono prima”.
Leale si stupì delle ultime parole del suo pupillo, che rivelavano una certa… preoccupazione per qualcuno che non fosse lui stesso. Concordò con lui, anche se gli face presente i rischi che portarsi dietro altre sette persone avrebbe comportato in una situazione come quella. Tuttavia preferì non insistere, e si voltò verso i loro ignari spettatori.
“Dovete venire con noi” affermò in italiano, con un tono che non ammetteva obiezioni. “Io starò dietro. Non dite una parola o ve ne pentirete.” Mentre diceva ciò toccò il petto, dove spuntava la sagoma della Sig Sauer. Non avrebbe potuto essere più chiaro.
Se prima soltanto una leggera inquietudine serpeggiava fra i ragazzi, questa si trasformò nella più totale paura, che li paralizzò. Leale aprì la porta, e fece loro segno di uscire.
“Non fiatate o ve ne pentirete.”  E loro, anche se terrorizzati, obbedirono. La guardia del corpo si sentiva un po’ a disagio nel mettere loro così tanta paura, ma sapeva che era necessario. Lui e Artemis uscirono per ultimi.
Il ragazzo, sussurrando, gli chiese, in inglese: “hai un piano?” Il fatto che l’avesse chiesto in inglese, fece capire a Leale quanto il suo pupillo fosse spaventato, anche se non l’avrebbe mai ammesso.
“Più o meno. È ora di andarcene a casa.”

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Capitolo 4
*** Unnatural selection ***


Eccomi di nuovo qua, con un capitolo non molto lungo, ma mi auto perdono per questo, dal momento che l’ho scritto in un giorno… il titolo (tratto da una celeberrima canzone dei Muse) mi è stato dedicato da G., al quale io invece dedico il capitolo, interamente ispirato da lui e dalle sue perle di saggezza. Grazie.

UNNATURAL SELECTION

Elinor stava congelando. Milla, accanto a lei, camminava più in fretta che poteva, facendo attenzione a non scivolare. Lily non sapeva con precisione dove fossero. Molto probabilmente sul tetto, ma riusciva a intravvedere solo la sfocata sagoma di Giova fra l’oscurità e la pioggia. Voleva urlare, scappare, tornare indietro, ma aveva paura. L’aveva vista. Aveva visto quella pistola, quell’arma, sotto la giacca dell’uomo gigantesco. Se anche avesse voluto, non sarebbe riuscita a fuggire. E in quel momento non riusciva neanche più a pensare: le sue gambe, intorpidite, si muovevano da sole fra gli schizzi delle pozzanghere, e non sentiva più il resto del corpo, sconvolta dal turbinio di emozioni e da quel fragore assordante… “Fragore?” si chiese, formulando il primo pensiero compiuto da quando avevano lasciato la camera. Alzò lo sguardo da terra, e solo allora si rese conto che erano di fronte a qualcosa di grande, luminoso e che emetteva un rumore assordante.
“Elicottero” disse, anche se nessuno poteva sentirla.
Quando si avvicinarono ulteriormente, si rese conto dello sbaglio. Quella “cosa” assomigliava molto di più a un aereo, solo più piccolo. Prima che se ne accorgesse, si ritrovò sul pavimento ghiacciato dell’aereo, senza sapere bene come c’era arrivata. Tutto le sembrava così sfocato e confuso… avvertiva accanto a lei la presenza degli altri, atterriti e muti quanto lei.
Ci stanno portando via” realizzò. Si alzò in piedi di scatto, e avanzò verso il portellone ancora aperto, ma non ci arrivò. Una mano le afferrò la spalla, e la sbattè violentemente indietro, continuando a trattenerla. Lei provò a dimenarsi, ma senza successo: chiunque la stesse bloccando, probabilmente l’uomo, era dotato di una forza molto superiore alla sua.
Il portellone si chiuse, e Elinor capì che stavano decollando. Questo le tolse ogni forza, e si accasciò inerme addosso a una parete. Cosa diamine stava succedendo? Dove li stavano portando? Perché?
Fu soltanto dopo qualche minuto che sia accorse che Ari, raggomitolata di fianco a lei, stava singhiozzando. Elinor posò una mano su quella dell’amica, che però sembrò non accorgersene. Si guardò attorno. L’ambiente, che salendo aveva creduto grigio, freddo e angusto, era invece ampio e dotato di tre file di poltroncine beige e di altrettanti tavolini. Sembrava più un aereo di lusso che un mezzo di rapitori. I sette ragazzi, soli, si trovavano nella parte anteriore, davanti al corridoio, vicino alla cabina del pilota, ed erano illuminati dalle fioche luci del soffitto, che creavano un’atmosfera calda e accogliente, in contrasto con l’intera situazione. Elinor guardò l’amica, che aveva smesso di singhiozzare, e fissava la parete con gli occhi sbarrati. Lily fece un cenno a Giova, che capì, e senza dire una parola l’aiutò a far sedere la ragazza su una delle poltroncine. Pian piano tutti quanti si sedettero, e dall’ammutolimento causato dallo spavento, passarono a una fase di smarrimento e pianto. Solo Giova e Elinor sembravano presi da una muta disperazione: la ragazza, osservando dal finestrino, sperava di scorgere qualche segnale che potesse svelare la loro direzione, ma non riusciva a vedere nient’altro che buio.
“Qualcuno ha il cellulare?” bisbigliò. Tutti fecero di no con il capo, tranne Luca, che si mise a frugare nelle sue tasche. Finalmente lo trovò, e stava per passarlo a Elinor quando la porta della cabina si aprì. Il gelo e il silenzio più assoluto scesero fra i ragazzi. L’uomo alto, vestito di nero, afferrò il cellulare dalle mani di Liuc, e senza dire una parola tornò nella cabina e chiuse la porta dietro di sé. Sissi non si trattenne oltre. Si alzò e, con tutta la forza che una sedicenne alta un metro e sessanta poteva avere, si mise a picchiare la porta della cabina.
“Bastardi! Lasciateci andare!” iniziò a tirare anche calci “Vi prenderanno! La polizia, vi prenderà, e allora ve la faranno pagare! Lasciateci subito!”
Elinor sapeva che ciò non sarebbe servito a nulla, ma Sissi non accennò a calmarsi, anzi, continuò, fra insulti e minacce, a picchiare la porta con sempre più violenza. Proprio quando Elinor avrebbe detto che stava per cedere, la porta si aprì. Ne uscì l’omone, e Sissi, di fronte a tanta imponenza, ammutolì.
“Non vogliamo farvi del male.” Cominciò l’uomo, anche se l’aspetto diceva il contrario. “Non fate domande e non cercate di fuggire. In questo modo uscirete da questa situazione molto presto”. Le sue parole, in italiano, suonavano molto meno fluide di quelle del ragazzo, e l’accento, secondo Elinor, era sicuramente anglosassone.
“Ma che sta succedendo? Cosa volete da noi?”
Il gigante guardò Sissi che si era inconsciamente messa a parlare. “Non chiedete nulla.” disse con voce ferma, e si voltò per andarsene.
“La prego.”
L’uomo si fermò inspiegabilmente, e si voltò lento, posando lo sguardo su Ari, che, pallida come un cencio, si era alzata appoggiandosi a un tavolino.
“La scongiuro. Non fateci del male.” La voce della ragazza, flebile, fu rotta dal pianto. Fu in quel momento che Arianna levò lo sguardo verso l’uomo: Elinor pensò che nessuno sarebbe potuto rimanere indifferente a tanta bellezza e fragilità.
“Nessuno vi farà del male.” Elinor avrebbe giurato di aver scorto un’ombra di pietà negli occhi del gigante, che infatti continuò: “Non abbiate paura. Arriveremo presto.”
Mentre aiutava Ari a sedersi, la mente di Elinor lavorava frenetica: dove stavano andando? E cosa voleva dire presto? Erano in viaggio da un’ora, ne era quasi certa. La destinazione poteva essere una qualsiasi…
Proprio mentre stava ragionando, la porta si aprì di nuovo: ne uscì l’uomo, che portava con sé un vassoio, cosa che sbalordì ulteriormente Elinor. Posò con cura delle tazze fumanti davanti a ognuno di loro, poi posò il vassoio e si diresse verso un armadietto, dal quale tirò fuori alcune coperte, che posò su un sedile vuoto.
“Bevete. È tè.” Elinor non era l’unica a essere rimasta senza parole per il comportamento tanto gentile del gigante, tanto che nessuno osò allungare una la mano per prendere una tazza.
“Forza. Vi farà bene.” Continuò lui, addolcendo ulteriormente i modi. “E’ caldo” aggiunse, prendendo in mano una tazza. “E non c’è veleno.” E, a mo’ di conferma, ne bevve un sorso.
In quello stesso istante si aprì per la quarta volta  la porta, ma questa volta ne uscì il ragazzo. Si era cambiato: non indossava più la camicia, ma un maglione blu e dei jeans, e il suo viso non sembrava né sconvolto né spaventato, ma concentrato e freddo.
“Ma si può sapere cosa…” iniziò in inglese, ma si bloccò subito, quasi stupito dal suo stesso palese errore. Il suo sguardo incrociò quello di Elinor. Era evidente che si stava chiedendo se la ragazza aveva notato il repentino cambiamento di lingua, ma Lily spostò subito lo sguardo sui suoi piedi, facendo finta di nulla. Il ragazzo si concentrò dunque sulle tazze fumanti e sulle coperte, gettando poi all’uomo un’occhiata interrogativa.
“La prego signore.” sussurrò Arianna “La prego, lasciateci andare.” Al che emise un debole gemito e si accasciò sulla poltrona, piangendo. Senza dire una parola, Elinor si avvicinò all’amica, le avvolse una coperta attorno al corpo e le avvicinò alle labbra una tazza fumante, scostandole una ciocca dalla fronte. Vedere Ari così dolorante era un colpo al cuore per Elinor, che non poteva smettere di pensare che era tutta colpa sua. Era lei che aveva messo i suoi amici in pericolo, diretti chi sa dove, facendo preoccupare tutti quelli rimasti a terra. Era tutta colpa sua. Aveva offerto aiuto e dato fiducia a un ragazzo che li aveva rapiti e che ora li stava fissando gelido, senza dire una parola. Ma perché, perché si era fidata? E ora Ari, la sua migliore amica, la bellissima, altera Arianna stava piangendo, e tutto per colpa sua.
Sollevò gli occhi, e incontrò quelli del loro rapitore, che stranamente stava fissando lei, invece di guardare Ari.
Elinor non tentò nemmeno di nascondere nel suo sguardo tutto l’odio che provava per lui.

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Capitolo 5
*** Take a breath ***


Ordunque. Eccomi tornata con un nuovo capitolo di questa Fanfic, che mai mi sarei aspettata di continuare, non tanto per mancanza di voglia, ma per mancanza di ispirazione. Sono sempre stata convinta che scrivere un capitolo per forza, “per portare avanti la storia” fosse inutile e stupido, dunque ho preferito aspettare l’ispirazione per buttare giù le stesse idee che continuano a frullarmi in testa dal giorno in cui questa storia è nata… il fatto che ci abbia messo così tanto è sicuramente imperdonabile, e chiedo umilmente scusa. Spero che questa attesa sia servita a produrre qualcosa di decente… in caso non fosse così, vi prego di farmelo sapere ;) (ma anche si vi piace, eheh)

Many kisses,

J.

P.s. risponderò volentieri alle eventuali recensioni di questo capitolo e dei precedenti nel prossimo aggiornamento, che non dovrebbe tardare…

 

TAKE A BREATH

 

Artemis tornò nella cabina, e si sedette al posto di guida, senza però concentrarsi effettivamente su ciò che stava facendo. In quel momento, infatti, stava cercando di distogliere la sua mente da quel fastidiosissimo senso di colpa di cui tanto si vergognava. Avevano la sua età, quei ragazzi, nel retro dell’aereo. Quella ragazza che l’aveva aiutato ora era in pericolo per lui. Cercò di distogliere i suoi pensieri da ciò, ricordandosi che il giorno dopo, se non quello stesso giorno, non avrebbero ricordato più nulla, grazie all’intervento della Lep. Uno Spazzamente e via, sarebbe finito tutto, e lui sarebbe tornato a essere quel freddo, cinico e vincente genio di sempre.

O almeno così sperava.

 

Odio puro e profondo. Era tutto ciò che Elinor riusciva a provare in quel momento, e questi ben poco cordiali sentimenti le impedivano di provare la paura che invece sembrava attanagliare tutti gli altri.

Ci voleva ben altro, tuttavia, per farla sentire coraggiosa, in quel momento. La paura la colse di colpo, e la trovò impreparata e indifesa: l’aereo stava rallentando. Un milione di domande le affollò la testa, impedendole di formulare un qualsiasi pensiero di senso compiuto; non sentiva nient’altro che terrore, irrequietezza, e la terribile sensazione di non poter fare proprio nulla per cambiare la situazione: dove stavano andando? Dove stavano atterrando? Dopo un’ora e mezza di viaggio avrebbero potuto trovarsi ovunque, o quasi. Si affacciò al finestrino, ma una coltre di nubi le impediva di vedere il terreno.

Presa da un’irrefrenabile voglia di muoversi, di fare qualcosa, e dal presentimento che lo star ferma l’avrebbe fatta impazzire, si alzò, e si diresse con passo fermo verso il sedile occupato da Arianna: la ragazza dormiva, stretta nell’abbraccio di Luca, che invece la fissava in silenzio. Vicino a loro c’era Giova, che fissava il vuoto con un’espressione indecifrabile. Elinor prese una tazza e bevve un altro sorso di tè, senza neanche accorgersi che era ghiacciato, tanto era immersa nei suoi pensieri.

“Stiamo atterrando” disse, con una voce talmente ferma da sorprendere perfino sé stessa.

Alle sue spalle, Lorenzo alzò gli occhi. La sua quasi impercettibile reazione fu l’unica. Il resto del gruppo rimase fermo, in perfetto silenzio, come in una sorta di trance.

Elinor si avvicinò ancora al finestrino, e attese. Dopo un’infinità di tempo, o almeno così le era sembrato, iniziò a vedere verdi colline, ampie distese disseminate qua e là da piccoli boschi.

“Siamo andati verso Nord. Nord-Ovest direi, a giudicare dal paesaggio.”

Per la seconda volta, nessuno sembrò prestare alcuna attenzione alle sue parole.

La porta della cabina si aprì improvvisamente. Ne uscì l’uomo pelato, reggendo alcuni pezzi di stoffa nera.

“Ragazzi, mi dispiace, ma dovrete indossare questi. Li potrete togliere quando arriveremo. Tenetevi pure le coperte, non fa caldo” disse, e si diresse verso Sissi, impugnando il primo cappuccio, pronto a infilarglielo in testa. Tutti alzarono gli occhi verso la rossa, da cui si aspettavano una volenta reazione. Inaspettatamente, tuttavia, lei alzò lo sguardo e non disse una parola, neanche quando lui le infilò il cappuccio e glielo legò al capo. Non una sillaba, soltanto un gemito soffocato.

Toccò poi agli altri. Quando fu il suo turno, Elinor non disse nulla e porse il capo in avanti, rassegnata. Guardò l’uomo negli occhi, e le sembrò di scorgere un lampo di tristezza trapassarne lo sguardo, prima che il cappuccio le coprisse il volto.

Poi, il buio.

 

Aiuto.

Avrebbe voluto urlarlo, chiederlo, riceverlo. Invece, dalla sua bocca non usciva nulla, le sue labbra non emettevano suoni, né gemiti, i suoi occhi non ne volevano sapere di piangere.

Era semplicemente terrorizzata.

Quando le tolsero finalmente il cappuccio, Elinor si guardò intorno, alla ricerca di qualcosa, qualsiasi cosa che le potesse essere di conforto. Quasi sperava che fosse tutto uno scherzo, una diabolica trovata di un qualche pessimo programma TV di terz’ordine. Invece, si ritrovò seduta sulla moquette. “Moquette “, pensò, quasi fosse uno scherzo del destino.

Si ricordava di aver salito delle scale. O perlomeno, che qualcuno le aveva fatto salire le scale, e poi l’aveva rinchiusa, sola, in quella stanza, ma nulla di più. Cosa c’era stato prima o dopo? Vuoto totale.

La stanza era spoglia, ma comunque accogliente. Un letto, una sedia, una scrivania, e basta, ma il tutto aveva un che di elegante e studiato. Oltre, naturalmente, alla moquette, che però sembrava avere l’unica funzione di renderle il tutto ancora più odioso. Si chiese per un momento da che razza di rapitori erano stati catturati, che mettevano i loro prigionieri in stanze singole arredate con gusto, ma si rese conto che la risposta non le interessava. Non in quel momento, perlomeno.

Si alzò, e diede un’occhiata alla stanza: c’era anche il bagno e un piccolo balcone. Non ebbe tempo di stupirsi, perché troppo interessata ai rumori che provenivano da oltre la porta, che naturalmente era chiusa a chiave.

“Lasciami immediatamente brutto imbecille!!!” era inconfondibilmente la voce di Sissi “toglimi subito le mani di dosso brutto figlio di…”

“Sissi!” urlò Elinor. Nonostante la situazione, fu presa da un incredibile sollievo: almeno non era sola.

“Lily!” urlò la rossa in risposta. Elinor sentì una porta che si chiudeva, poi nuovamente la voce dell’amica: “Elinor mi senti?”

“Sì” gridò “dove sono gli altri?”

“Nelle altre stanze. Credo che ci abbiano chiusi ognuno in una camera, ma non so se siamo tutti nella stessa zona. Mi sembra di aver visto un corridoio, ma non ne sono affatto sicura.”

Lily non rispose, mentre il suo cervello formulava ipotesi su ipotesi. Si sentiva reattiva come non mai, anche se non se ne capacitava.

“Lily” disse Sissi, con voce più calma. “Che sta succedendo?”

Silenzio. Elinor non sapeva cosa dire, cosa rispondere, come confortarla. Sissi sembrò capire. Poi il suo sussurro, la voce dimessa e spaventata che non sembrava appartenerle.

“E adesso?”

 

Sembravano secoli. Secoli da quando aveva messo piede in quella camera, secoli da quando Sissi le aveva assicurato che era riuscita a parlare con gli altri, e le aveva detto che stavano tutti bene, ognuno nella propria stanza. Secoli da quando era partita, secoli da quando aveva preso l’aereo, secoli da quando aveva aiutato il suo dannatissimo rapitore.

Secoli da quando aveva smesso di cercare di capire dove si trovava, e si era arresa buttandosi sul letto e stringendosi le ginocchia, presa dall’angoscia e dal desiderio di tornare indietro.

Secoli.

Si mise a sedere sul letto, fermamente convinta di doversi muovere e di dover fare qualcosa. Afferrò una caramella alla menta che si trovava sul tavolino, la inghiottì e prese a tormentare la cartina, senza neanche rendersene conto.

All’improvviso sentì qualcuno armeggiare con delle chiavi appena fuori dalla sua porta. Non se l’aspettava, e non ebbe il tempo di provare alcuna emozione che non fosse la sorpresa.

L’uomo alto e pelato entrò, senza dire una parola. Lei lo fissò, pregando che sul suo viso non si leggessero la paura e l’angoscia che in quel momento le impedivano di ragionare. L’unico rumore che riusciva a sentire era quello del suo cuore, che batteva all’impazzata, e si chiese se anche l’uomo poteva sentirlo.

“Volevo controllare che fosse tutto a posto.” Disse l’uomo, conciso. La voce, ferma, non faceva trasparire alcuna emozione o preoccupazione.

Elinor, immersa in queste considerazioni, ci mise un po’ a capire che l’uomo attendeva una risposta. Pregò che la voce non l’abbandonasse proprio in quel momento, e che risultasse più calma e decisa di quanto in realtà non fosse.

“Tutto a posto?” rispose lei, con un ghigno. Attese qualche secondo, poi riprese: “No, non è tutto a posto. E sono sicura che puoi capire benissimo il perché.”

Non le importava neanche più di usare il Lei, anche se quell’uomo, con quel suo vestito di sartoria, l’arma che ci teneva sotto, e i probabili muscoli con cui avrebbe potuto stendere chiunque, le incuteva un certo timore.

“Dove siamo?” chiese secca, senza però riuscire a nascondere un velo d’ansia nella sua voce.

Lui non rispose. Elinor pensò di ripetere la domanda, ma poi si accorse che lui era distratto e si era portato una mano all’orecchio, come se stesse ascoltando qualcos’altro.

“Diamine” disse semplicemente l’uomo, che si voltò e prese a camminare verso la porta.

E fu in quell’istante che Elinor fece quello che, come realizzò più tardi, non avrebbe mai dovuto fare.

 

Non aveva mai pensato a sé come a una persona amante dell’avventura o del rischio, né tantomeno coraggiosa. Ma in quel momento, in quell’esatto istante si buttò, rischiò, consapevole del fatto di non poter perdere nulla. Perché, in quel momento, non aveva nulla da perdere.

L’aveva visto fare in un film. Era una di quelle azioni che sembrano banali e curiosamente geniali, ma che riescono a fare soltanto ai supereroi. Elinor sapeva di non rientrare nella categoria, ma si fece coraggio e strinse la cartina della caramella che teneva ancora in mano. Scivolò silenziosa verso la porta che si stava chiudendo e a occhi chiusi, senza pensarci, la infilò fra la porta e il muro, all’altezza della serratura, bloccandola.

Quando riaprì gli occhi, lo fece nella speranza che quell’uomo non se ne fosse accorto e che non fosse lì, dietro alla porta, aspettando il momento buono per ucciderla per punirla per la sua insolenza e audacia.

Con suo sommo sollievo, non c’era anima viva. Nessuno si era accorto della cartina e del suo gesto da supereroina a corto di mezzi. Si ritrovò a sorridere da sola, guardando la porta e la sua mano che ancora teneva stretto un lembo di quella che si prospettava come la migliore chance di uscire da lì.

Respirò profondamente e chiuse gli occhi, tentando di formulare un piano. Una volta uscita dalla stanza, cosa avrebbe fatto? Non aveva idea del luogo in cui erano rinchiusi, non aveva idea di come uscirci e di come liberare i suoi amici. E non aveva idea di come non farsi scoprire.

Lentamente, abbassò la maniglia e aprì la porta, trattenendo il respiro.

 

Leale corse giù dalle scale, precipitandosi nel soggiorno, dove il suo protetto, smentendo la sua fama di ragazzo freddo e calcolatore, stava perdendo il controllo.

“Cosa vuol dire questo? Non potete fare così. Non dopo tutto quello che io ho fatto per voi…” Artemis stava parlando rivolto al display di un minuscolo computer appoggiato sul tavolino.

“Fowl, ascoltami bene. Tu sei quello che ci ha fatto passare mille guai, tu quello che mi ha rapito per ottenere un riscatto, tu che hai quasi messo a repentaglio la vita del Popolo ben più di una volta, tu…”

“Ok, Spinella, d’accordo. Non è questo il punto.” Artemis si sedette sul divano e si prese la testa fra le mani, abbassando lo sguardo. “Non ho alternative, capisci? Non posso rimandarli indietro, e non solo perché rischierebbero di fornire informazioni vitali su me e Leale, ma anche perché probabilmente li ucciderebbero, credendo che mi abbiano aiutato…”

“Artemis” la voce femminile che usciva dallo schermo si ammorbidì un poco. “mi dispiace, ma questa volta è un problema tuo. Il Popolo non può fare una decina di Spazzamente come se nulla fosse … se fosse per me, sappi che lo farei subito.”

Il ragazzo alzò lo sguardo verso lo schermo, fissandolo silenzioso e rassegnato.

“In quanto al problema di cui mi hai accennato prima, sarò felice di darti una mano. Farò qualche ricerca con Polledro qua giù, poi io e Bombarda verremo da voi appena possibile. Sei sicuro di non aver notato qualcos’altro, qualche indizio?”

“Nulla. L’unica cosa che so è che il Popolo è in mezzo. Nessuno fra gli umani possiede una tecnologia così avanzata, a parte me, ovviamente.” Artemis rimase un attimo in silenzio, immerso nei suoi pensieri. “D’altro canto, io non credo nelle coincidenze. Il fatto che qualcosa abbia voluto attaccarci proprio il giorno del nostro incontro con Jason Lagerfeld non può essere un caso.” Si alzò, rassettandosi le pieghe della camicia. “In ogni caso, in questo momento ho problemi più urgenti di questo. Qui, per il momento, siamo al sicuro.” Un ghigno apparve sulla sua faccia. “In fondo, questa è casa Fowl”.

Salutò Spinella, e spense il computer. Si voltò poi verso Leale, che l’aveva osservato paziente mentre il ragazzo era impegnato nella conversazione.

“Non hanno intenzione di effettuare gli Spazzamente. Ti ho chiamato perchè volevo che tu convincessi Spinella, ma poi mi sono reso conto che era inutile”.

La guardia del corpo annuì. “E ora? Che ne faremo dei ragazzi?”

Artemis, in tutta risposta, si limitò a fissare intensamente il pavimento. Poi alzò nuovamente lo sguardo.

“Non abbiamo scelta. Dobbiamo trattenerli qui finchè non sarà tutto finito.”

 

Elinor si sentiva governata da una forza estranea. Il suo oroscopo l’aveva detto quella mattina, che forze incontrollabili e al di sopra della sua portata avrebbero influito sul suo destino, ma lei, come al solito, non ci aveva fatto caso. Il suo corpo si muoveva come se non fosse il suo cervello a controllarlo; le sue gambe sembravano autogovernarsi e portarla verso la fine del corridoio da sole, senza che nulla di lei opponesse resistenza. Arrivata al fondo del corridoio, si ritrovò in cima a delle scale ampie e sontuose, in legno. Si sentivano delle voci provenire dal piano inferiore, che sembrava essere l’unico sottostante.

Il suo cervello era in fermento: prima di tutto servivano le chiavi delle stanze. Non aveva molto tempo prima che qualcuno si accorgesse che lei era fuggita, dunque doveva muoversi in fretta. Aveva come il presentimento che le chiavi fossero nelle mani dell’omone pelato, ma preferì essere ottimista e immaginarle posate da qualche parte in un luogo deserto e non controllato. Illudendosi e beandosi di tale prospettiva, cercò di farsi coraggio e, pregando mentalmente il suo cuore di smettere di battere così forte, fece il suo primo passo giù per le scale.

Il fatto di avere le pantofole, che attutivano qualsiasi suo movimento, risultò essere, con sua piacevole sorpresa, un fattore chiave. Scese senza fare alcun rumore, e arrivata al fondo, si appoggiò al muro sulla sinistra, che presentava un’apertura mediante la quale, probabilmente, si accedeva al soggiorno. Il suono delle voci provenienti dalla stanza appena al di là del muro a cui si stava appoggiando era chiaro e distinto, e Elinor riuscì a cogliere sprazzi di conversazione fra l’uomo e il ragazzo.

Finchè fosse rimasta lì, nessuno avrebbe potuto scoprirla. La speranza di trovare le chiavi, però, era un chiodo fisso nella sua testa, anche se una vocina, dai meandri della sua mente, le suggeriva di cercare la prima finestra aperta e di gettarsi fuori, dal momento che il liberare i suoi amici era senz’ombra di dubbio una missione disperata e impossibile.

Naturalmente, la vocina non fu ascoltata.

In quel momento spostò lo sguardo dall’apertura e fissò dritto davanti a sé.

E si rese conto di quanto sarebbe stato meglio ascoltare quella saggia vocina.

 

Spazio Autrice

 

Non potevo assolutamente fare a meno di lasciare un piccolo intervento al fondo… allora, che ne pensate? Ho un po’ di dubbi sulla conversazione fra Spinella e Artemis, e credetemi, Artemis è il personaggio più difficile in assoluto su cui scrivere… insomma, per descrivere i pensieri e i sentimenti di un genio dovrei essere un genio, giusto? Beh, si dà il caso che io non lo sia affatto. Dunque perdonatemi se il mio Artemis non rende bene l’idea… ma spero che possa essere lo stesso di vostro gradimento J

Au revoir!

J.

 

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Capitolo 6
*** Reality Show ***


Hello!!! Dunque dunque… che dire? È arrivata la parte più difficile per me, ovvero il lento abituarsi dei ragazzi alla loro nuova dimora, e agli inquietanti abitanti che essa ospita. In questo capitolo, ahimè, c’è poco poco spazio per Artemis, che però tornerà presto…

Buona lettura!!

 

REALITY SHOW

 

Non era stata una grande idea, dopotutto. Insomma, poteva aspettarselo. Non era Tom Cruise, né una seducente e combattiva Angelina Jolie, quindi la sua missione era destinata al fallimento ancora prima che iniziasse.

“Cavolo” pensò Elinor, e fu l’unica riflessione che potè fare prima che un paio di braccia femminili la gettassero a terra, premendole il viso sul pavimento. La ragazza che l’aveva atterrata aveva due trecce bionde fluenti, e una presa da fare invidia al migliore dei lottatori di Wrestling.

“Dove pensavi di andare, eh?” ringhiò. “Artemis, Leale!”

Con la coda dell’occhio Elinor vide l’uomo pelato sbucare dal soggiorno e rimanere lì, fermo a fissare le due ragazze. Fu subito seguito dal ragazzino pallido, che le osservò con aria sorpresa.

“Leale, mi sembra proprio che tu te ne sia fatta sfuggire una.” Osservò con un ghigno. Elinor credette di averlo visto sorridere. “E’ la prima volta che capita.” Il ragazzo si spostò dalla visuale di Lily per dare una pacca sulla spalla dell’omone. “Stai perdendo qualche colpo, vecchio mio. Farti scappare una ragazzina…” e rimase lì a sghignazzare divertito.

L’omone, pensò Elinor, non era affatto contento. La guardava con aria omicida, e fino a quel momento non aveva detto una parola.

“Juliet, lasciala andare. Non è pericolosa.” La sua voce, benché cercasse di mantenere un tono calmo, lasciava trapelare una certa rabbia.

La ragazza si sollevò dalla sua posizione, lasciando Elinor libera di respirare e di alzarsi. Lily si guardò sopresa attorno, stupita del fatto che l’avessero lasciata andare senza neanche farle del male. Fissò i suoi carcerieri con un’aria di sommo disgusto, lisciandosi la vestaglia che ancora indossava e tentando di mantenere una certa dignità nonostante il suo abbigliamento e il fatto che era stata scoperta e atterrata con facilità da una ragazza che non doveva avere più di un paio d’anni più di lei.

Strinse i pugni e alzò lo sguardo, augurandosi di sembrare coraggiosa e spavalda.

“Chi siete? E dove siamo?” chiese con voce ferma. “Dovete liberarci immediatamente. Sicuramente in questo momento ci saranno migliaia di agenti della polizia in nostra ricerca, e si sarà già diffuso l’allarme. Quando vi prenderanno…”

Tutt’un tratto ammutolì. Perché nessuno stava gridando contro di lei? Perché nessuno la stava trascinando nella sua “cella” con la forza? Ma che razza di rapimento era quello?

Le tre figure davanti a lei la fissavano immobili. La ragazza la guardava con curiosità e diffidenza, come se non capisse bene di cosa stava parlando, e ogni tanto lanciava uno sguardo ai suoi due compari; l’uomo la guardava contrariato, e ogni tanto gettava un’occhiata al ragazzo; l’oggetto di tutta quell’attenzione, dal canto suo, fissava Elinor con un’espressione indecifrabile sul volto, dimostrando ben poco interesse per le sue parole, e aspettava pazientemente che finisse il suo minaccioso discorso.

A Elinor morirono le parole in bocca.

“Dunque?? Ci lasciate andare o no??” chiese furiosa. La mancanza di reazione da una qualsiasi delle persone alle quali si stava rivolgendo la rendeva sempre più in collera.

Stettero tutti e quattro in silenzio per qualche istante.

“Perfetto. Leale, fai scendere i ragazzi e falli accomodare in soggiorno. Non c’è bisogno che rimangano nelle loro camere.”

Elinor guardò l’omone, Leale, rivolgere uno sguardo estremamente sorpreso al ragazzo, che, come dedusse la ragazza, doveva essere per forza il suo padrone o datore di lavoro. Tuttavia egli non disse nulla, e silenziosamente si avviò verso le scale.

Lily continuò a studiare attentamente i due ragazzi di fronte a lei, sperando che il suo sguardo esprimesse il più grande disprezzo possibile. Lo sguardo inquisitore della ragazza bionda su di sé la infastidì leggermente, ma mai quanto quello del ragazzo, che la guardava come se fosse completamente indifferente alla situazione, anzi come se ne fosse divertito. Elinor non riusciva a capire: prima lo aiutava, poi lui rapiva lei e i suoi amici senza fornire uno straccio di spiegazione e poi sogghignava divertito alla vista della sua mal riuscita fuga? Ciò non rientrava in alcuno schema razionale. Inoltre, chi era? Eric, Artemis, russo, inglese, insomma che cosa diamine era? Come si chiamava? E come poteva essere il capo di quell’omone grande e grosso, quando dimostrava a malapena la sua stessa età?

Un improvviso rumore di passi risuonò da sopra le scale, e Lily si girò. Fu in qualche modo sollevata dal vedere la chioma rossa di Sissi, il passo morbido e aggraziato di Arianna, il pigiama viola di Milla apparire in cima ai gradini, ma soltanto quando fu stretta dalle braccia di Giova, il suo migliore amico, si sentì decisamente meglio.

“Elinor! Che ti è successo?” Luca arrivò trafelato e la guardò con preoccupazione.

Elinor, dopo aver abbracciato le altre, si voltò verso il suo amico: “Te lo racconto dopo. Non mi hanno fatto niente, comunque.”
“Ragazzi cosa sta succedendo? Dove siamo?” la voce di Lorenzo riportò tutti al precedente stato di angoscia. “Che cosa volete da noi?” ringhiò poi alla volta del ragazzo pallido e della ragazza bionda di fronte a loro. Elinor percepì la tensione salire, mentre Giova e Luca si univano a Lorenzo nella loro muta battaglia di espressioni rabbiose nei confronti degli sconosciuti. Arianna si affiancò ancora di più a Lily, e le strinse la mano, alla ricerca di conforto. Tutta quella tensione, tutta quella paura indefinita la facevano soffrire e patire ancora più degli altri.

“Ragazzi, calmiamoci adesso” la voce calma di Lily spezzò quell’incredibile tensione che si era creata. “Ascoltiamo cosa vogliono da noi.” Si voltò poi verso Giova, sussurrando appena. “Non possiamo fare nulla in questo momento.”

“La vostra compagna ha ragione.” Più di una dozzina di occhi si posarono sul ragazzo pallido, che osservava la scena tranquillo, senza battere ciglio. “Seguitemi. Vi spiegheremo la situazione.”

E, tranquillamente, si diresse verso il soggiorno.

 

Artemis era sorpreso. Per la prima volta, una persona – una ragazzina – era riuscita a eludere la sorveglianza di Leale. Come, non sapeva dirlo. Sicuramente però avevano sottovalutato le capacità di un’adolescente disperata.

La osservò attentamente, dopo aver chiesto a Leale di andare a prendere gli altri ragazzi. Era la stessa che gli aveva offerto la camera, e che si era “buttata” giù dal balcone con lui. Non era nulla di notevole: non era particolarmente carina, normale, e probabilmente non era neanche così sveglia, come la stupida offerta di aiuto a uno sconosciuto sottolineava. Cercava inutilmente di esprimere odio attraverso lo sguardo, ma lui riusciva senza sforzo a scorgervi la paura, e la confusione che regnava nella sua testa. In fondo, pensò Artemis, non poteva biasimarla: non tutti erano come lui. Anzi, nessuno era come lui.

Si ritrovò a pensare a quella ragazza con un misto di antipatia e pena. “Un attimo” pensò. Lui non doveva pensare a quella ragazza in alcun modo, non doveva interessargli minimamente. L’unica cosa che gli premeva in quel momento era di sbarazzarsi del fastidioso inconveniente della presenza dei ragazzi italiani in casa. Il problema era che, in quel momento, non c’era alcuna soluzione.

 

Il soggiorno era enorme. Non era affatto spoglio come le camere, ma arredato con gusto e, nonostante lo stile fosse piuttosto sobrio e elegante, si capiva che il padrone di casa doveva essere particolarmente ricco.

Elinor si sedette con Arianna e Milla su un divano color panna, mentre i suoi amici si disponevano sulle poltrone lì attorno. La ragazza non li seguì, mentre Leale e il ragazzo si piazzarono davanti a loro, come per iniziare un’importante discorso.

“La vostra presenza qui” iniziò il ragazzo “è stata un errore. Voi non dovreste essere qui, ma ci siete, e non potete fare nulla per cambiare le cose.”

Leale lo interruppe con decisione, mostrando una padronanza dell’italiano molto più stentata. “Ciò vuol dire che la fuga non è contemplata. Non arrivereste vivi fino al giardino.” Fissò Elinor, che rabbrividì. “Siete avvertiti.”

Il ragazzo, dopo aver annuito in assenso, continuò. “La situazione è questa: voi qui siete al sicuro. Il vostro rapimento non era uno dei nostri obbiettivi. Dunque non preoccupatevi: la buona notizia è che cercheremo in tutti i modi di farvi tornare a casa presto. La cattiva notizia sarà che dovrete perdere la memoria, ma non credo che sarà un grande problema per voi, né vi dispiacerete tanto, anche perché non ve ne ricorderete. Questo è quanto.”

Si incamminò verso la porta, ma si fermò a metà strada.

“Ah, quasi dimenticavo.” Si voltò con un ghigno stampato sul volto, e Elinor ebbe come la sensazione che non se ne fosse affatto dimenticato. “Non chiedete chi siamo, né dove siamo, sarebbe fatica sprecata. Potete chiamare Leale con questo nome se volete, e se avete domande rivolgetevi a lui. In quanto a me, sarebbe meglio che non mi chiamaste affatto.”

E se ne andò.

I ragazzi rimasero basiti a fissare l’apertura vuota in perfetto silenzio. Poi un brusio si diffuse con gradualità, e Sissi fu la prima a esprimere la sua opinione in merito:

“Lurido bastardo.” Sentenziò. Si concentrò poi su Leale, che era rimasto nella stanza.

“Tu, Leale giusto?” chiese la rossa con forza. “Dicci subito dove siamo. Voglio saperlo. E non voglio assolutamente che qualcuno tocchi la mia preziosa mente. Ma che diamine è sta cosa della memoria?”

E, tanto per dare risalto alle sue parole, si alzò in piedi e mise le mani sui fianchi, pronta al combattimento.

Elinor avrebbe giurato di aver visto Leale celare uno sguardo divertito. “Non possiamo dirvi dove siamo. In quanto alla memoria, non dovete preoccuparvi, vi sarà spiegato tutto a tempo debito, tanto non ve ne ricorderete. Per ora, vi chiedo solo di mantenere la calma, e di pazientare. Ora sedetevi.” Ordinò, guardando Sissi. “Devo spiegarvi alcune regole.”

Guardò tutti negli occhi, cercando di incutere timore, e ci riuscì benissimo. Elinor rabbrividì.

“Regola numero uno: non potete uscire. Non chiedetemi cosa ne sarà di voi se vi azzardate a mettere un piede fuori.” Si prese una pausa, per sottolineare la sua ferrea decisione con lo sguardo.

“Regola numero due: potete circolare in casa, ma non potete avvicinarvi al terzo piano. Neanche lontanamente. Ogni sera, alle dieci, passerò io stesso a chiudere a chiave le vostre camere. Con voi dentro.”

“Regola numero tre: non potete disturbare. Non dovete azzardarvi a urlare, schiamazzare e dare feste o comunque fare tutte quelle cose che fanno gli adolescenti. Anzi, sarebbe meglio che vi comportaste esattamente come dei silenziosissimi prigionieri, il che vuol dire che dovrete ubbidire a ogni mio ordine, o a quelli di Artemis. All’istante.” Li fissò con aria omicida. “Sono stato abbastanza chiaro?”

Nessuno rispose, in un tacito e cupo assenso.

Artemis, si ritrovò a pensare Elinor. Così era questo il suo nome. Tanto, pensò, non se ne sarebbe ricordata, stando a ciò che avevano detto.

“Avremo bisogno di vestiti.” Disse Lorenzo, rompendo il silenzio. Leale sembrò accorgersi solo in quel momento che i ragazzi erano ancora tutti in pigiama. Poi il ragazzo si voltò verso gli amici: “Non so voi, ma io ho anche fame.”

“Inoltre, cosa ne è delle nostre famiglie? Sono a conoscenza della nostra situazione, che stiamo bene…?” la voce di Elinor era davvero preoccupata.

“Non preoccupatevi di questo. Ce ne occuperemo al più presto.” Disse Leale. “In quanto al resto…” Si voltò verso l’apertura: “Juliet!”

La ragazza bionda entrò nell’ingresso, e Elinor ebbe l’occasione di osservarla meglio: era abbastanza alta, magra, con un paio di jeans e una T-shirt. Il suo viso, che prima era contratto in un cipiglio aggressivo, sembrava più rilassato e concentrato.

“Juliet, avresti mica dei vestiti da dare alle ragazze?” Leale mostrò con la mano l’abbigliamento degli italiani.

Juliet le squadrò pensierosa. “Ma certo, per il momento posso prestare loro la mia roba. Per i ragazzi possiamo usare i vestiti che Artemis non mette mai, quelli su in soffitta.” Voltò la testa verso Leale. “Vado a prenderli.” E uscì scattante dal soggiorno.

“Ok, questa è sistemata. Ora seguitemi in cucina. Non toccate nulla.” Disse, anche se nessuno aveva pensato di trasgredire i suoi ordini. Lentamente, i ragazzi si alzarono e seguirono l’uomo fuori dal soggiorno, in una stanza dall’altra parte dell’ingresso. Era luminosa, con una porta finestra che occupava la maggior parte della parete e che dava su una veranda, da cui si poteva ammirare l’immenso giardino. Elinor si ritrovò a pensare alla casa con ammirazione.

Leale aprì una delle dispense, e tirò fuori alcuni pacchi di pane a cassetta. I ragazzi, in silenzio, aspettavano in piedi attorno a un tavolo piuttosto grande, in vetro, proprio davanti alle finestre.

Leale si interruppe un secondo e li fissò. “Sedetevi pure”, disse con un tono un po’ più addolcito. Si sedettero, sempre in silenzio. La situazione era talmente strana e al di fuori dal normale che non se ne capacitavano. Erano stati rapiti, ma da un ragazzino della loro età che possedeva una casa immensa, in cui venivano trattati più come ospiti che come prigionieri. Non avevano idea di cosa stava succedendo a casa, alle loro famiglie, e poi c’erano tutti quei vaghi riferimenti alla perdita della memoria… la confusione e una vaga inquietudine albergavano ancora nei loro animi, e nessuno riusciva a esprimere ciò che provava a parole.

Proprio lì, mentre aspettavano, Milla scoppiò a piangere, singhiozzando sommessamente. Elinor si alzò dal suo posto e andò ad abbracciarla, sussurrandole di stare tranquilla. Leale continuò imperterrito a fare panini all’altro capo della stanza.

In quel momento arrivò Juliet, tenendo in mano una quantità spropositata di vestiti femminili, tutti di tonalità rosa o rossa. “Ho trovato questi, spero che siano della vostra misura…” si zittì improvvisamente quando vide Milla piangere, circondata dai suoi amici, che attraverso i loro volti tirati e stanchi, esprimevano tutta la loro sofferenza e timore.

Lasciò cadere i vestiti, si diresse con decisione verso il gruppetto, e si accovacciò di fianco alla sedia di Milla.

“Non avere paura. Non vi faremo nulla qui. Finchè siete in questa casa, siete più al sicuro che fuori.” Disse, lasciando tutti a bocca aperta. Anche Leale si fermò, guardandola inibetito. La bionda abbozzò un mezzo sorriso: “Su forza, tu sceglierai per prima.” E posò sul tavolo la miriade di vestiti che aveva portato, raccogliendoli da terra.

Elinor contorse il viso in una smorfia, che sperava apparisse come un credibile sorriso. “Forza Milla, non ti preoccupare. Vedrai che andremo via presto da qui” le disse, sperando di risultare convincente. “E ora, scegliamo i vestiti.”

 

Quando si svegliò, Elinor ci mise qualche secondo a ricordare dove si trovava. Il gelo la colse, e per qualche attimo rimase lì, a fissare il buoi, le mani che stringevano il cuscino. Accese la lampada sul suo comodino e gettò un’occhiata all’orologio: le 8.30. Si mise a sedere, cercò con i piedi le pantofole e si alzò. Si tolse la camicia da notte e iniziò a infilarsi distrattamente i vestiti che Juliet le aveva dato il giorno prima e che ora erano appoggiati sulla sedia: i Jeans erano troppo lunghi e la T-shirt troppo larga, ma non ci fece caso. Ancora insonnolita si scagliò sulla porta, stupendosi di trovarla aperta,e lentamente, sbadigliando e passandosi la mani fra i capelli scarmigliati, scese giù per le scale, senza neanche curarsi di non fare rumore. Arrivata al fondo sentì alcuni rumori provenire dalla cucina e, senza stare tanto a pensarci, entrò.

Juliet, ancora in pigiama rosa acceso, stava maneggiando con disinvoltura pentole e padelle, in un caos che male si addiceva alla fredda perfezione del resto della casa.

“Buongiorno.” Disse la bionda con un sorriso.

Elinor si chiese se la stava prendendo in giro. Quella poteva essere di tutto, ma sicuramente non era una buona giornata, anche solo per il fatto di essersi svegliata lì invece che a casa sua.

“Sei la prima a esserti svegliata.” Continuò Juliet, senza neanche aspettare una risposta da Elinor, che la guardava costernata. “Toast?” chiese, porgendole un piatto con un sorriso invitante. Poi continuò: “Le uova non sono pronte, aspettavo che foste tutti svegli. Se ti va, puoi andare di là a guardare un po’ di TV, ma non c’è un granchè a quest’ora.” Alzò lo sguardo dai fornelli per posarlo su Elinor, che reggeva il piatto senza dire una parola.

“Ehi un momento. Tu sei quella che stava cercando di scappare ieri? Certo che hai avuto proprio un bel coraggio, a mio fratello è quasi venuto un colpo quando ha capito che gliel’avevi fatta sotto il naso… beh, i miei complimenti, non credevo che qualcuno ci sarebbe mai riuscito, ma ti avverto, non provarci mai più, non te la farà passare liscia la prossima volta…”

Vi prego, fermatela, pregò Liy nella sua testa. Intervenne, nella speranza che l’altra si zittisse.

“Non volevo scappare. Volevo trovare le chiavi delle camere.”

Juliet le sorrise, comprensiva. “Ma certo, non potevi lasciare i tuoi amici.” Posò la padella che aveva in mano e si voltò verso Elinor. “Lo so che è difficile per voi. Non ci starete capendo niente, e siete lontano da casa, in mano a degli sconosciuti. Mi dispiace di non potervi aiutare, ma voglio che sappiate che non abbiamo cattive intenzioni, e che finchè sarete qui verrete trattati con il massimo riguardo.” Le sorrise di nuovo, e questa volta sembrava estremamente sincera e cordiale. “In quanto a te, sono convinta che siamo partite con il piede sbagliato.” aggiunse divertita. “Come ti chiami?”

Elinor si trovò improvvisamente in difficoltà. Quella ragazza, che il giorno prima l’aveva atterrata sul pavimento, ora le parlava in modo inaspettatamente amichevole e cordiale. Cosa doveva fare? Rimanere distaccata e trattarla come una dei suoi rapitori, o cedere e accettare la sua offerta di amicizia?

Ci pensò un attimo: in fondo, cosa importava? Stando a ciò che aveva compreso e udito il giorno prima, avrebbe perso ogni ricordo del rapimento, e probabilmente anche Juliet lo sapeva bene.

“Elinor.”

“Piacere Elinor. Io sono Juliet, la sorella di Leale.” Sorridendo, la bionda le porse una mano, che Elinor strinse sorridendo a sua volta.

Soltanto più tardi Elinor avrebbe capito di non aver fatto la scelta migliore.

 

La giornata era passata in modo tranquillo. Dopo la colazione a base di uova e bacon preparata da Juliet, la ragazza mostrò loro alcune parti della casa, dove potevano tranquillamente recarsi: oltre al soggiorno e alla cucina, anche una saletta confortevole, che chiamava Sala da Tè, e un’altra stanza provvista di biliardo e caminetto. Sebbene si rivolgesse a tutti con tono amichevole, Juliet riuscì a eludere tutte le domande pertinenti al luogo in cui si trovavano o alla durata della loro permanenza lì; rispose e si interessò di tutti i problemi più pratici che affollavano la mente dei ragazzi, che, sebbene non avessero trovato risposta ai loro quesiti più importanti, si sentirono più sollevati e l’atmosfera si alleggerì un poco.

Non videro nessun altro a parte Juliet quel giorno. Elinor passò il pomeriggio a giocare a carte con gli altri, in soggiorno. Milla e Arianna guardavano la TV svogliate, facendo zapping tra un mucchio di canali Irlandesi. La nazione non stupì troppo Elinor, ma ciò aveva scarsa importanza, dal momento che non conoscevano l’esatta ubicazione della casa. Il pomeriggio passò tranquillo così com’era trascorsa la mattina, e Juliet stupì tutti dichiarando di voler sfidare Giova, Luca e Sissi in una partita di Poker, che vinse platealmente, strappando a tutti un sorriso. La cena, a base di tacchino e patate, era squisita, e i ragazzi andarono a dormire con la sensazione di aver partecipato a uno strano e inquietante reality irlandese.

Cosa che, però, fu subito smentita dal rumore delle serrature che si chiusero alle dieci di sera precise, lasciando ognuno dei ragazzi da solo nella propria stanza.

Elinor si accoccolò sul letto e strinse il cuscino, mentre una singola lacrima le solcava il viso.

 

 

 

Dunque, cosa ne pensate? Vedete che Artemis non nutre buonissime opinioni sulla protagonista per il momento, ma in fondo, come poteva essere altrimenti? Io ero molto indecisa sul personaggio di Juliet, che a mio parere è un po’ troppo OOC, ma era necessario… voglio chiedere un parere ai lettori, dunque, vi prego, siate clementi e datemi una mano: avevo iniziato la fanfiction con l’idea di riportare le vicende dal punto di vista di Artemis e di Elinor, ma adesso che sto scrivendo il nono capitolo mi rendo conto che è tremendamente difficile riportare le vicende degli altri personaggi… dunque, secondo voi, sarebbe un gran problema uscire ogni tanto dagli schemi e vedere cosa frulla nelle teste di Leale, Spinella, Juliet, Arianna, Giova…?

Fatemi sapere presto, mi raccomando.

Mi rivolgo umilmente a coloro che hanno inserito la storia fra le seguite e i preferiti, e vi ringrazio tanto tanto… dato che io SO che ci siete che ne direste di lasciarmi un commentino ogni tanto? Mi farebbe molto, molto piacere J

Many kisses to you all!

E ora, veniamo alle risposte:

 

chariss:  Heilà!!!! Grazie, ricevere recensioni come la tua mi riempie il cuore di giuoia… Graziegraziegrazie!!! Allora, cosa ne pensi di questo capitolo? A presto, J.

 

_FrancySoffi_: dal momento che ti ho pure lasciato una recensione non sprecherò tempo e spazio a dirti quanto la tua shot mi sia piaciuta… ascolta, se avessi per caso voglia di prendere queste mie poche idee e riscrivere tu la fanfiction cancello volentieri la mia, perché sicuramente la tua sarà molto ma molto meglio!!! J love uuuuuu <3

 

Juliet95:  Grazie, sono sinceramente commossa ^^ spero sarai felice di sapere che nel prossimo capitolo Spinella ci sarà sicuramente J sì, l’ho letto, ma in inglese… non dirmi che è uscito in Italia e non me ne sono accorta!!! Tu come l’hai trovato? Baci J.

 

giovy39: sono d’accordo, scrivere su Artemis e rimanere fedeli al libro è praticamente impossibile, ma dal momento che sono l’unica, mi pare, che continua a scrivere su di lui non mi arrendo!! È davvero triste che non ci siano nuovo fic su di lui, anche se io ogni volta vado a controllare… speriamo che prima o poi qualcuno scriva qualcosa di più decente di questa mia storiella!! ;) kisses J.

 

Grazie mille a chi mi ha seguito fin qui, e arrivederci a Martedì 13!!

 

J.

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Capitolo 7
*** Like an idiot ***


Hello!! Eccomi qua con un altro capitolo, anche se obbiettivamente mi chiedo: perché sto postando? Insomma, tanto varrebbe tenermelo per me, ma c’è da dire che tanto ormai l’avevo scritto, dunque tanto vale…

Non voglio dedicarlo alla mia migliore amica, perché fa schifo.

Dunque non lo dedico a nessuno.

Ora ricapitolo un po’ a me stessa, sola soletta: questo capitolo sta qui, un po’ a sé, per introdurre Spinella. Poi ci sarà un altro capitolo, necessario ma un po’ duro da scrivere, e poi FINALMENTE il nucleo della storia, la prima vera parte, il motivo per cui la storia è nata.

Alleluia.

 

 

LIKE AN IDIOT

 

 

Spinella non era nata per stare ferma. Era una persona attiva, e starsene con le mani in mano la faceva sentire inutile e pigra: per questo, mentre i suoi colleghi spesso poltrivano e si giravano i pollici, lei preferiva impegnarsi in una missione o comunque dedicarsi intensamente a qualcosa. Qualcosa che, di solito, portava guai.

In quel momento, Spinella si stava contorcendo su una sedia in un buio e tetro studio, da sola, in perfetto silenzio. Sebbene fosse già stata a casa Fowl, anche se non proprio per sua volontà, Spinella pensò che non l’aveva mai osservata bene, dunque si mise a ispezionare la stanza con occhi attenti: la scrivania, e la poltrona alle sue spalle, le incutevano un certo timore; le tende erano tirate, il tutto aveva un’aria chiusa e malsana, e perfino i libri contenuti negli scaffali sembravano avere un che di oscuro e misterioso. Se non fosse stato per le pile e pile di fogli e appunti e per il computer acceso sulla scrivania, avrebbe detto che nessuno aveva messo piede là dentro da secoli.

“Spinella.” Una voce maschile alle sue spalle interruppe queste sue riflessioni.

Si voltò, e quasi non riconobbe il ragazzo che aveva di fronte. Artemis era cresciuto incredibilmente quell’anno: era più alto, e, se possibile, ancora più magro, benchè Spinella riuscisse a scorgere una parvenza di muscoli sotto la camicia azzurra; aveva fatto crescere i capelli neri , che ora arrivavano all’altezza di quegli occhi di colore diverso.

“Artemis.” Spinella sorrise. Era felice di rivederlo, anche se ogni loro incontro non portava che guai. Questa volta, almeno, il pericolo non era imminente. “Ti vedo… cresciuto.”

Artemis si passò una mano fra i capelli e si abbandonò sulla poltrona dall’altra parte della scrivania.

“Anche te sei… cambiata. Sembri più rilassata.”

Effettivamente, pensò Spinella, alla LEP non c’erano stati grandi problemi, dopo Artemis. Almeno fino a quel momento.

“Sì, più o meno.” Spinella sorrise di nuovo. “Polledro ti manda i suoi saluti. E Bombarda dovrebbe raggiungerci fra qualche giorno.”

“Qualche giorno?” Artemis si sporse sulla scrivania, alzando leggermente un sopracciglio. “Ti fermerai così tanto?”

Spinella sospirò. “Dovevo parlarti proprio di questo.” Accavallò le gambe, tentando di mettersi più comoda sulla sedia, invano. “Abbiamo avuto dei problemi giù a Cantuccio.” Squadrò Artemis. “Hai tempo? È una storia lunga.”

Il ragazzo non fece una piega: “Continua.”

Spinella prese un bel respiro, poi cominciò: “Ultimamente, le nostre risorse di energia stanno diminuendo. Il vento, il Sole sono inaccessibili per noi, come stai bene, e le vampate di magma non sono molte. La quantità di energia che il Consiglio decide di erogare diminuisce di anno in anno.”

Fissò Artemis, che la stava guardando attento, poi riprese: “Il problema è proprio questo. I goblin, sebbene abbiano preso una batosta non da poco, l’anno scorso, si sono ripresi, e ora stanno facendo un sacco di storie per l’energia. Semplicemente, ne vogliono di più, principalmente per rifornire le industrie illegali di armi. E qui sono cominciati i casini: il Consiglio, naturalmente, non ha ceduto, e noi, che credevamo che i Goblin si sarebbero adattati alla cosa, abbiamo dovuto ricrederci. La scorsa settimana qualcuno si è infiltrato nei nostri Computer, eludendo perfino i sistemi di protezione di Polledro.”

Artemis, pur continuando a tacere, spalancò gli occhi. Nessuno, a parte lui, aveva mai fregato Polledro.

“E’ inutile che io ti descriva la sua reazione. Si è chiuso nel suo studio per tre giorni, senza parlare con nessuno, e qualcuno ha giurato di averlo sentito piangere. Sai, ha sempre avuto un debole per il melodramma. Comunque, il vero problema è che i file che hanno preso riguardano un nuovo modo per procurarsi energia, attraverso il nucleare. Era stata archiviato da un po’, per i rischi che comportava, non solo per gli abitanti del sottosuolo, ma per tutta la terra. Sicuramente Polledro te lo spiegherà molto meglio di me, ma sostanzialmente si parla di un modo di portare atomi a temperature altissime, incredibilmente pericolose, specialmente se nelle mani sbagliate. Figurarsi se per caso questi file sono finiti nelle mani dei goblin.” Spinella alzò nuovamente gli occhi verso Artemis.

“La situazione è questa: il Consiglio mi ha mandato qui non soltanto a chiedere il tuo aiuto, ma anche a controllarti. Finora l’unico che sia mai riuscito a metterci nei guai se stato tu, Artemis, e questa volta non escludono che tu sia coinvolto. Ho tentato di difenderti, ma sono solo riuscita a far inviare me, invece che qualche altro stupido elfo della Lep. Ho accennato alla tua richiesta degli Spazzamente, e loro te li accorderanno, a fine missione. In cambio, tu dovrai collaborare, ma per il momento non dovrai fare nulla, e aspettare ordini dal basso.” Finì il discorso in un lampo, sapendo che a Artemis non avrebbe sicuramente fatto piacere.

Artemis stette qualche secondo in silenzio. “Perfetto. Proprio quello che mi aspettavo.”

Spinella pensò che, in fondo, non avrebbe dovuto essere sorpresa. In fondo, era pur sempre Fowl.

Il ragazzo continuò: “Dal momento che avevo previsto queste decisioni del consiglio, mi sono premunito alla meglio. Non so esattamente come, ma sicuramente la persona che dovevo incontrare in Italia e questa crisi a Cantuccio sono collegate. Dal momento che non posso fare nulla, né uscire da qui, aspetterò e continuerò a controllare la situazione da casa Fowl. Intanto, mi piacerebbe parlare con Polledro e con il comandante Tubero, se possibile”.

“Si collegheranno domani mattina, quando l’emergenza sarà passata e avranno informazioni più precise da darti.” Disse Spinella, concisa. “Intanto, perché non mi racconti degli ostaggi?”

“Beh, io non li definirei proprio ostaggi.” Iniziò Artemis con un ghigno. “Diciamo che qui vengono trattati più come ospiti. Juliet è allegra, e passa tutta la giornata a fraternizzare con quei ragazzini e a trattarli come se dovessero abituarsi a rimanere qui. In fondo, non posso darle torto, io non sono mai stato granchè di compagnia.” Aggiunse, con un mezzo sorriso. “Anche Leale, nonostante non voglia ammetterlo, è rimasto colpito dai ragazzi, che, non so come dire, lo addolciscono un poco. Tanto per darti l’idea, quando una di loro, che è pure quella che mi ha aiutato a scappare, ha tentato di fuggire, lui non ha fatto niente, anzi, ora ricorda il suo nome e le parla tranquillamente.”

“E tu? Hai fatto del tuo meglio per metterli a loro agio, suppongo.” Osservò Spinella ironica.

“Esatto.” Disse Artemis, rispondendo per le rime. “Devo ammetterlo, credevo che sarebbero stati un grande problema, ma ho scoperto che stanno abbastanza tranquilli, e che tutto sommato non danno grandi fastidi. Anche se, naturalmente, non traggo alcun giovamento dalla loro presenza, qui.”

“Immagino che sia inutile ricordarti che hanno la tua età, e che interagire con loro ti farebbe bene, vero?” Spinella sapeva che il suo tentativo non avrebbe portato a nulla.

“Divertente.” Rispose Artemis, secco. “Mi sembrano tutti piuttosto noiosi. Parlare con loro mi darebbe soltanto fastidio.” Il ragazzo si alzò, e si diresse verso la porta. “Ora andiamo. Leale e Juliet non vedono l’ora di rivederti.”

 

Elinor bussò piano alla porta della stanza di Milla, ed entrò. La sua amica era sdraiata nel letto, con gli occhi chiusi e la testa appoggiata sul cuscino. Accanto a lei, sedute sul letto c’erano Arianna e Sissi, che parlavano a bassa voce.

“Come sta?” chiese piano Elinor, per non svegliare Milla.

“Non molto bene.” Rispose Sissi sottovoce. “Credo abbia la febbre.”

Elinor si avvicinò e mise una mano sulla fronte dell’amica. Era calda.

“Hai ragione.” Si voltò verso la porta. “Vado da Juliet a chiedere delle medicine. Torno subito.”

Socchiuse la porta, tentando di non far rumore, e si diresse velocemente verso le scale. Il silenzio irreale che regnava sulla casa continuava a inquietarla, nonostante fosse lì già da una settimana. Ormai Elinor aveva perso ogni speranza di tornare a casa a breve: nessuno aveva parlato di una loro possibile partenza, e Juliet aveva deciso di avventurarsi fuori dalla casa per comprare un’incredibile quantità di vestiti per tutti i ragazzi, come se avessero dovuto rimanere lì dentro per mesi; inoltre, Lily aveva visto Leale e sua sorella scaricare nell’ingresso una quantità abnorme di cibo, che sarebbe bastata a sfamare un reggimento per settimane.

Camminò silenziosamente verso la cucina, da cui provenivano alcune voci, una delle quali era sicuramente di Juliet. Quando entrò, non credette ai suoi occhi: nella cucina, oltre a Leale e a Juliet, c’erano anche il ragazzo pallido, Artemis, e un’altra persona, che sembrava una ragazza, ma di statura incredibilmente bassa. Elinor rimase così sorpresa che rimase qualche secondo sulla porta a boccheggiare, senza credere ai propri occhi: l’aver visto soltanto quelle tre persone, anzi due, dal momento che il ragazzo non si faceva mai vivo, per tutta la settimana le aveva fatto dimenticare che ci potessero essere altre forme di vita sulla terra.

Rimase dunque, sulla porta, sbigottita, senza dire una parola, poi, ricordandosi del motivo per cui era venuta, si schiarì la voce. “Juliet… volevo soltanto…”

Non stava andando affatto bene. Tutti, in quella stanza, si erano voltati verso di lei, e Elinor non si era ancora abituata alla nuova situazione abbastanza da sentirsi a suo agio. In fondo, erano sempre i suoi rapitori. Prese un bel respiro, e poi, con una rinnovata sicurezza, riformulò la frase: “Milla è malata. Ci sono per caso delle medicine che potremmo darle?”

“Ma certo.” Rispose Juliet, che si alzò di scatto. “Che cos’ha?”

“Credo che sia febbre, ma non posso esserne certa. Non abbiamo neanche un termometro.”

 “Ok, fammi dare un’occhiata alle medicine che ci sono in casa. Tu aspettami qui.” E, detto questo, uscì dalla cucina, lasciando Elinor da sola a fronteggiare gli sguardi delle tre persone rimanenti.

Doveva fare qualcosa, non poteva rimanere lì sulla porta come un’idiota, pensò. Si tirò giù la maglietta sui Jeans, abitudine che aveva nei momenti di ansia, e si diresse verso le dispense e il frigo, cercando di ignorare gli sguardi dei tre, che erano invece seduti al tavolo.

“Posso?” chiese, mettendo una mano sulla maniglia del frigorifero. Era la prima volta che si serviva di qualcosa da sola, e ancora non aveva capito se le era possibile o meno.

Silenzio. Nessuno disse una parola. Dopo qualche secondo, Leale rispose: “Certo. C’è del succo alla pesca.”

Elinor respirò, rendendosi conto che aveva trattenuto il respiro fino a quel momento. Non avrebbe mai creduto che ottenere del succo alla pesca fosse così difficile.

Prese un bicchiere, e ci versò dentro il succo. In quel momento, Juliet arrivò, tenendo in mano alcune scatole e un termometro.

“Bene, ci sono. Andiamo.” Disse, ma poi si fermò. “Ah, Elinor, dimenticavo. Questa è Meg. Sarà nostra ospite per un po’.”

Elinor si limitò a alzare gli occhi dal bicchiere e a squadrare la nuova arrivata. A parte la statura, che si notava subito, era piuttosto magra, e, anche se era seduta, si notava il suo fisico atletico. Aveva corti capelli marroni, un viso piuttosto spigoloso, e un sorriso appena appena accennato.

“Meg. Questa è Elinor. Ha aiutato Artemis, in Italia. È anche l’unico essere umano vivente che è quasi riuscito a sfuggire a Leale.” Aggiunse con un sorriso.

“Onorata di fare la tua conoscenza.” Disse Meg. Elinor pensò che la sua voce aveva un che di musicale, che la rendeva davvero bella. Inoltre, parlava un italiano perfetto. “Così tu saresti quella che ha aiutato il nostro Artemis?” aggiunse la ragazza, girando il capo verso il padrone di casa, che la stava fissando con aria interrogativa.

“Devi essere una delle pochissime persone che gli hanno mai offerto aiuto. Sai, Artemis non è molto famoso per le sue doti di simpatia e amicizia.”

Elinor non aveva intenzione di sopportare oltre. Perché la gente continuava a ricordarle che era stata lei ad aiutare quell’odiosissimo individuo?

“Non ho mai detto di trovarlo simpatico, né tantomeno amichevole.” Rispose, secca, gettando appena un’occhiata verso l’oggetto di tanto odio. “Aiutarlo è stato soltanto un errore che non si ripeterà più.” E detto questo uscì, seguita da Juliet.

Spinella rimase qualche momento a fissare l’apertura. Poi voltò il viso e si rivolse a Artemis, sogghignando.

“Complimenti.” Disse, giocherellando col bicchiere davanti a sé. “Vedo che sei migliorato molto nei rapporti sociali”.

Si stupì molto nel vederlo dispiaciuto; e si stupì ancora di più nel notare che non era intenzionato a rispondere con una delle sue battute taglienti, ma rimaneva zitto a fissare il bicchiere davanti a sé, sbuffando appena alle sue parole.

“Aspetta un momento. Non dirmi che… le hai chiesto scusa per quello che è successo?”

Nessuna risposta. Artemis si limitò ad alzare gli occhi dal tavolo.

“L’hai almeno ringraziata per l’aiuto?”

Di nuovo, il silenzio. Anche Leale fissava Artemis, ma senza lo stesso stupore che Spinella provava in quel momento. Per la seconda volta nella giornata, l’elfa si disse che avrebbe dovuto aspettarsi un tale comportamento. In fondo, si parlava di Artemis Fowl. Tuttavia, quello a cui aveva appena assistito era davvero troppo anche per uno come lui.

“Artemis, lasciatelo dire…” Spinella si alzò e si diresse verso la porta. “Sei proprio un idiota.”

Uscendo, avrebbe giurato di aver sentito Leale sghignazzare.

 

 

So…

Eccomi di nuovo qua. Eheh. Ho sempre desiderato, dal profondo del cuore, dire a Artemis che è un idiota (la mia megalomania supera il mio sviscerato amore per questo personaggio inventato), e chi meglio di Spinella poteva farlo??

Ora vi lascio, interlocutori immaginari…

Al prossimo capitolo, dunque a Domenica.

Buon 12 Aprile ;)

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Capitolo 8
*** Concetti aristotelici ***


Eccomi di nuovo qui. Mi dispiace per il ritardo, tutta colpa di Dante e company. In più, ho appena finito di vedere Harry Potter 6… e mi sono venuti dei pensieri strani. Ora se prendete le forbici dalla punta arrotondata (mi sento una copia sbiadita di Tonio Cartonio) e tagliate la testa a Draco Malfoy, il suo corpo risulta stranamente e inquietantemente (?) simile a quello che io immagino per Artemis… Non aggiungo altro.

Inoltre, ho finito di leggere “Il paradosso temporale” appena qualche giorno fa. E sapete che vi dico? Che non sono per niente una fan delle Artemis-Spinella. Anzi.

Inoltre (ora la pianto, lo giuro), ho letto una recensione tremenda lasciata a l’unica fic con sfondo erotico di Artemis, e mi è venuto in mente: il mio Artemis è troppo OOC? E la mia Elinor troppo Mary Sue?

Sono dubbi che mi assillano, davvero.

Ma, in mancanza di risposte, vi lascio con questo capitolo, e con mille scuse per il fatto che non ho risposto alle recensioni. Lo farò nel capitolo che posterò domenica. (E questa volta, intendo mantenere la mia parola.)

Kisses, J.

 

 

CONCETTI ARISTOTELICI

 

Arianna fissava fuori dalla finestra. Pioveva, esattamente come quando erano stati catturati. Una delle sue sottili e curate mani torturava una ciocca dei suoi fluenti capelli neri. Il vestito azzurro che Juliet le aveva dato sottolineava la linea flessuosa e snella, e lasciava intravvedere le spalle e la forma aggraziata del collo; la sua postura, sempre maestosa, ma allo stesso tempo leggera, le donava un’incredibile delicatezza.

Arianna era una persona malinconica, e lo sapeva bene. Il rapimento aveva colpito lei più degli altri, e spesso invidiava il coraggio di Elinor, la sua migliore amica, o l’indomabile forza d’animo di Sissi. Come se non bastasse, sentiva ogni momento, ogni secondo lo sguardo di Luca su di sé: lei sapeva bene ciò che il ragazzo provava, ma non riusciva proprio a ricambiare i suoi sentimenti. Perché? Luca era un ragazzo fantastico, dolce, giudizioso, carino, e sarebbe stato disposto a fare qualsiasi cosa per lei. Perché, dunque, non riusciva a ricambiarlo?

Nel tempo si era fatta un’idea: Luca era come tutti gli altri. Lui, non diversamente dalle persone che le stavano attorno, fatta forse eccezione per Elinor, non riusciva a vedere chi era lei, a capirla per come era davvero. Tutti si aspettavano la stessa cosa da lei, Arianna, la bella e fragile Arianna, debole e sensibile: che cadesse, che si frantumasse in mille pezzi alla prima difficoltà.

Ognuno era lì per fare la figura dell’eroe davanti a lei, per sostenerla e aiutarla, senza neanche prendere in considerazione l’idea che potesse farcela da sola, che potesse essere forte quanto gli altri.

Arianna prese una decisione. Da quel momento, sarebbe stata lei a salvare se stessa. Sarebbe stata forte.

 

Leale, al terzo piano, controllava le varie stanze attraverso le telecamere. Artemis, nel suo studio, era assorto nella lettura di un volume dall’aria infinitamente noiosa; Spinella e Juliet chiacchieravano in cucina, come due vecchie amiche; due ragazzi e una ragazza si trovavano al capezzale della malata, che, se non sbagliava, si chiamava Milla; il terzo ragazzo, quello biondo, stava guardando la TV. Si concentrò con più attenzione sulla Sala da Tè: in essa c’era Arianna, al ragazza bella e dai capelli scuri, che fissava fuori dalla finestra, mentre la sua amica, Elinor, leggeva un libro comodamente seduta sul divano. Leale aveva osservato i ragazzi in quei giorni, tentando di memorizzarne i nomi e i comportamenti, e non ci aveva messo molto a capire che quelle due ragazze erano molto legate, nonostante fossero così diverse.

Era strano, pensò, avere tutti quei ragazzi in casa. Era passato poco più di una settimana, ma già si stava abituando all’idea. In fondo, gli piaceva un po’ più di vitalità e energia all’interno di quella grande villa, che, a volte appariva troppo buia e silenziosa. Con Artemis era sempre stato diverso: se lo ricordava, a quattro o cinque anni, quando aveva iniziato a passare le sue giornate sui libri, oppure a sei, quando aveva inaugurato un suo personale piccolo laboratorio. A sette aveva vinto il primo concorso di Scienze. Anche se non poteva definirlo con esattezza, a Leale piaceva pensare a quell’evento come la fine del’infanzia relativamente normale del suo protetto, e il suo ingresso nel mondo degli adulti. Ma Leale sapeva che, anche se Artemis non l’avrebbe mai ammesso, da bambino aveva continuato a tenere e a sfogliare i romanzi di Rohal Dahl, i primi che avesse mai letto, alla veneranda età di due anni e mezzo, sotto al cuscino fino all’età di dieci anni, prima della disastrosa spedizione in Russia del padre.

Da quel momento, dell’Artemis bambino non era rimasta alcuna traccia.

Leale rimase incantato a fissare lo schermo, cosa che succedeva assai di rado. I suoi sensi, sempre vigili e attenti, erano per il momento assopiti, e si godeva tranquillamente quel momento, osservando le due ragazze e immaginando per un istante quanto sarebbe stato bello avere di nuovo lì l’Artemis bambino, un innocente e geniale bimbo che scorrazzava, o meglio, camminava (Artemis non era stato un granchè nelle attività motorie neanche nei suoi primi anni) indossando un camice, e che scopriva il mondo intorno a lui. Artemis, che considerava come un fratello. Artemis, che da tanto tempo ormai non sorrideva più così spesso, che non era davvero felice, o forse non lo era mai stato.

 

Artemis, in quel momento, non sospettava minimamente di essere l’oggetto di così tante riflessioni. Anzi, era concentrato in tutt’altra faccenda: con gli occhi fissi sul computer, continuava a aprire file su file, nella speranza di ottenere qualcosa, un indizio, su tutto ciò che avrebbe potuto aiutarlo a capire ciò che stava succedendo. Aveva perso il conto delle ore passate sullo schermo, a sbuffare e a scartabellare su una quantità enorme di fogli gettati alla rinfusa sulla sua scrivania. Perfino il suo proverbiale ordine era andato a farsi benedire, e il ragazzo stava cominciando ad accettare le idea di aspettare la prossima mossa del nemico, cosa che lo rendeva alquanto inquieto. C’era comunque qualcosa di diverso in lui, una sorta di fastidio che lo rendeva agitato e incapace addirittura di concentrarsi adeguatamente, e alla fine dovette ammetterlo controvoglia: voleva sapere cosa stava succedendo lì dentro, a casa sua. Chiudendosi all’interno del suo studio si era completamente isolato, se si eccettuavano pochi e brevi colloqui con Spinella e Leale. Ora, però, la curiosità stava prendendo il sopravvento: nonostante i ragazzi in generale non lo entusiasmassero un granchè, non poteva fare a meno di provare un qualcosa nei loro confronti, un sentimento intermedio fra compassione, dubbio e fastidio. Devo provare a interagire con loro, si disse. In fondo, che male ci sarebbe stato? Naturalmente, tutto a scopo di studio. Magari avrebbe potuto pubblicare una ricerca su una qualche rivista scientifica sul comportamento degli adolescenti in difficoltà.

In più, c’era la questione di Spinella. O, meglio, di Elinor, la ragazza che l’aveva aiutato. Spinella, dopo avergli dato dell’idiota, e Artemis sapeva bene di esserselo meritato, aveva insistito per ore affinchè lui si scusasse, e infine lui aveva accettato. Chiunque conoscesse bene Artemis Fowl sapeva che, in una discussione, avrebbe potuto stracciare le tesi degli avversari e far prevalere la sua in qualsiasi momento: il fatto che questa volta Spinella l’avesse spuntata contro di lui era, come Artemis avrebbe ammesso a malincuore, una scelta che Artemis stesso aveva fatto. Il ragazzo sapeva di essere diventato una persona migliore, in quegli ultimi anni, e come tale avrebbe dovuto comportarsi: basta nascondersi dietro una facciata di puro gelo; avrebbe chiesto scusa a Elinor, e le avrebbe offerto spiegazioni di ciò che aveva combinato.

Si massaggiò le tempie per qualche momento, in un gesto che per i semplici umani era qualcosa di simile al rimettere in moto il cervello, ma per lui era l’inizio della formulazione di un piano. Dopo tanto pensare, ovvero dopo cinque secondi di riflessione, spense il computer, si alzò e si avviò verso la porta, e con fastidio si accorse che il suo passo era meno fiero e sicuro di quello che aveva immaginato. 

 

Elinor chiuse il libro con un gesto rapido e secco. Distese le gambe sul divano, mise le mani dietro la testa e chiuse gli occhi, nel tentativo di rilassarsi. Ma cosa diamine stava facendo lì? Un sorriso pieno d’amarezza le affiorò sulle labbra: ancora non riusciva ad elaborare il fatto che era tenuta prigioniera in un posto sconosciuto; tuttavia, era incredibilmente più tranquilla, di notte riusciva a dormire, e, tutto sommato non credeva che Leale, Juliet e Meg fossero cattivi, nonostante l’ultima arrivata fosse indubbiamente un po’ strana. Nutriva qualche dubbio in più riguardo ad Artemis, il ragazzo: lo incrociava poco, dal momento che se ne stava sempre rinchiuso al terzo piano, che per loro non era accessibile, ma quando s’incontravano fra di loro non c’erano che gelidi silenzi e duri sguardi d’odio. Lui l’aveva sfruttata, l’aveva usata e presa prigioniera, facendola sentire anche tremendamente in colpa nei confronti dei suoi amici; in cambio, nulla se non un soggiorno relativamente tranquillo in una località ignota.

Basta, pensò Elinor. Basta lamentarsi e pensare al peggio. Erano passati dieci giorni dal loro rapimento, ed era chiaro che non ne sarebbero usciti molto presto. Tanto valeva ricominciare a vivere da persona normale, anche se là dentro, senza continuare a chiudersi in quei tristi silenzi che caratterizzavano ormai ogni sua giornata. Elinor doveva essere forte, per sé e i suoi amici; doveva smetterla di comportarsi come uno zombie e prendere atto della situazione, cercando di coglierne i pochi aspetti positivi. Qualcosa doveva cambiare, a partire da quella sera.

 

Quella sera, a cena, qualcosa cambiò. Erano seduti tutti in salotto, comprese Juliet e Meg, che parlottavano tra loro in un angolo della stanza. I ragazzi qualche giorno prima avevano suscitato la pietà di Juliet, che era ricomparsa in casa reggendo fra le mani una Playstation e qualche gioco, in cui loro si erano immersi, e non ne erano ancora riusciti. Milla, che si stava riprendendo dall’influenza, e Arianna erano comodamente sedute sul divano, e parlavano con Sissi, che invece si era distesa a terra senza un’evidente ragione. Elinor invece era ancora raggomitolata sulla poltrona, immersa nella lettura di una prima edizione del “Signore delle Mosche” che aveva trovato nella libreria della Sala da Tè. Non era il suo libro preferito, ma credeva che si adattasse bene alla loro situazione, anche se, grazie al cielo, le vicende dei due gruppi di ragazzi stavano prendendo pieghe diverse. O almeno così sperava.

Juliet ad un certo punto si alzò e disse che era ora di preparare cena. Fu a quel punto che si ebbe il colpo di scena: anche Elinor si alzò.

“Posso darti una mano?”

Silenzio. Tutti tenevano lo sguardo fisso su Elinor, tranne Meg, che fissava Juliet con un sorriso stampato in faccia, in attesa di una sua reazione. Nessuno, prima di quel momento, aveva offerto aiuto a Juliet o a Leale, non perché fossero tutti maleducati, ma perché offrire aiuto ai loro rapitori era qualcosa di assolutamente innaturale, anche se loro facevano di tutto per essere gentili e simpatici con i ragazzi. Elinor più di tutti aveva motivo di restarsene chiusa nel suo guscio di silenzio e ritrosia, dal momento che oltre alla prigionia, doveva portare sulle spalle anche il peso del senso di colpa.

Ma, nonostante questo, si era alzata, e aveva offerto il suo aiuto a Juliet per preparare la cena.

“Grazie, accetto volentieri.” Rispose Juliet con un sorriso, ponendo fine a quel silenzio carico di pensieri. “Sai, ho proprio bisogno di qualcuno che mi aiuti a tagliare le fragole”.

Elinor seguì Juliet in cucina, piacevolmente soddisfatta da se stessa. Tagliò le fragole, chiacchierando con Juliet riguardo al menù della serata, e, una volta finito, incominciò a preparare la tavola. Proprio mentre stava finendo di disporre i piatti sul tavolo, Artemis entrò. Indossava una camicia con le maniche arrotolate fino ai gomiti, e i capelli erano in disordine, come se ci avesse passato le mani mille volte. Inaspettatamente non disse nulla, ma rimase davanti alla porta a fissare la scena, all’apparenza abituale e casalinga, che si svolgeva sotto i suoi occhi. Elinor non l’aveva neanche guardato in volto, e disponeva le posate facendo finta che lui non fosse mai entrato; lo stesso non si poteva dire di Juliet:

“Artemis, finalmente sei riemerso! Senti, siamo un po’ in ritardo, dunque perché non dai una mano a Elinor?”

La ragazza maledì mentalmente la bionda.

“Uhm. Sì, certo.” Disse Artemis, vergognandosi al tempo stesso della sua completa mancanza di parole intelligenti, che superassero in lunghezza quei pochi monosillabi.

Si diresse verso una dispensa, che, ne era quasi sicuro, conteneva dei bicchieri. Li trovò, ne prese un paio e li appoggiò lentamente sul tavolo. La sua mente era concentrata in pensieri molto più urgenti e assillanti di quelli sulla disposizione delle posate, in quel momento. I suoi occhi seguivano Elinor, che ancora si affaccendava intorno al tavolo, e che non lo degnava della minima attenzione.

Artemis decise di rimandare il problema delle scuse a un altro momento. Sinceramente, non gli andava di ricevere altri sguardi d’accusa pienamente motivati, senza contare che non vedeva alcuna occasione di poterle parlare a quattr’occhi. Decisamente, non era il momento adatto.

“Direi che è quasi pronto.” Disse Juliet, rompendo il silenzio. “Elinor, ti dispiacerebbe chiamare gli altri?”

La ragazza uscì senza dire una parola. “Artemis, ti chiamo dopo quando gli altri hanno finito, ok?”

Artemis riemerse lentamente dai suoi pensieri, che l’avevano lasciato come inibetito a fissare la porta da dove era uscita Elinor.

“Uhm?” Il suo vocabolario era decisamente migliorato.

“Per la cena. Quando i ragazzi se ne vanno puoi mangiare tu.” Ripetè Juliet, con aria perplessa. Artemis, sembrava… addormentato. La qual cosa non gli si addiceva per nulla.

Il ragazzo riflettè un momento. La cena era considerata in tutto il mondo come un importante momento di condivisione, un modo per riunirsi, parlare, stare assieme. Dunque, perché non tentare?

“E’ un problema se mangio con voi?” Quel tono così gentile sorprese perfino se stesso. In realtà, era proprio dubbioso della sua scelta.

Juliet lo guardò con occhi spalancati. Fino a quel momento, soltanto lei, e talvolta Leale, avevano mangiato con i ragazzi. Artemis non si era mai fatto vivo.

“Ok…” disse con tono un po’ incerto. Mentre prendeva piatti e posate per Artemis, la ragazza non potè fare  a meno di lanciargli qualche occhiata inquisitoria. Che aveva intenzione di fare?

In quel momento i ragazzi entrarono in cucina, chiacchierando fra loro. Sembrano sereni, pensò Artemis. Cambiò subito idea quando si accorse delle loro reazioni nel vederlo; quando poi prese posto vicino a Juliet, sul fondo della tavola, una di loro, quella riccia e rossa, non tentò neanche di nascondere il suo stupore:

“E lui che ci fa qui?” sussurrò all’amica che le stava a fianco, quella che era stata malata, che non rispose. Pian piano i maschi trovarono il coraggio per alzare lo sguardo e osservarlo come un animale sconosciuto; soltanto Elinor e la sua amica bruna, che erano sedute l’una affianco all’altra, si scambiarono un rapido sguardo d’intesa.

Un silenzio irreale avvolgeva la tavola. Improvvisamente, mentre tutti erano impegnati con i loro spaghetti, Sissi scoppiò in una sonora risata. Artemis annotò mentalmente che quella ragazza aveva tutti gli attributi tipici di una malata mentale, ma nondimeno alzò lo sguardo e la fissò stranito, cercando di capire come stesse succedendo, come d’altronde tutti gli altri commensali.

“Che succede?” le chiese Luca, nascondendo a malapena un sorriso.

“Beh…” bascicò Sissi fra una risata e l’altra. “Oggi è il 31.”

“Dunque?” Giova continuava a guardarla come se fosse stata effettivamente pazza.

“Oggi c’era filosofia.”

Silenzio. Sissi continuò sogghignando: “L’avevo studiata così tanto…”

I volti degli altri si distesero. Pian piano si levò una risata collettiva, soprattutto dalla parte maschile.

“In che senso l’avevi studiata tanto?” replicò Giova, con un sorriso. “Io non avevo aperto libro.”

“Beh, l’avevo studiata. Ma non ci avevo capito niente.”

“Aristotele era un cretino.” Se ne uscì Lorenzo.

“Sono completamente d’accordo.” Milla si unì alla conversazione. “Dai, tutte quelle cose sulle categorie, la sostanza e compagnia bella… ma perché uno dovrebbe perdere il suo tempo in cose così… così…”

“Stupide?” Luca ci mise del suo. “Ad esempio… com’era quella definizione, quella di concetto?”

“Ah, si, questa la so!” Disse Elinor con un sorriso. Si erse poi in tutta l’altezza che la sedia le concedeva, e imitò la voce tonante e austera della professoressa: “Il concetto è la traduzione mentale dell’essenza.”

Tutti scoppiarono a ridere, al ricordo delle spiegazioni in classe.

“E quella… non mi ricordo molto bene, ma quella che aveva detto lui della natura, che non aveva senso… com’era già?” chiese Arianna pensierosa.

Il principio e la causa del movimento e della quiete della cosa alla quale inierisce primieramente e per sé, non accidentalmente.”

La voce di Artemis di levò limpida sopra le altre. Tutti ammutolirono di colpo, e lo fissarono con aria sorpresa.

Il ragazzo non fece in tempo a darsi dell’imbecille da solo. Il suo cervello da genio gli disse che forse il declamare una definizione complessissima in un’altra lingua all’interno di una conversazione in cui lui non c’entrava nulla, per poi chiudersi in un imbarazzante silenzio, non era il modo migliore per interagire con gli altri.

Cercò di rimediare: “Sì, insomma, non ne sono proprio sicuro, ma…”

Inaspettatamente, Arianna gli sorrise: “Probabilmente è giusta.” E di nuovo guardò Elinor, alla sua sinistra, che non aveva neanche rivolto uno sguardo al ragazzo, a differenza degli altri.

Pian piano la conversazione riprese, e per quella sera Artemis non proferì più parola, convinto di aver già detto abbastanza. Più di una volta alcuni dei ragazzi si rivolsero direttamente a lui, anche solo per chiedergli di passare loro dell’acqua. L’unica che non gli rivolse mai la parola né uno sguardo fu Elinor.

 

“Strano, non trovi?”

“Dici? A me sembra soltanto cretino presuntuoso detestabile rapitore di ragazzi e anche indiscutibilmente incapace di preparare una tavola decentemente.”

Elinor e Arianna stavano salendo le scale verso le rispettive camere, in fondo al gruppo. Per l’ennesima volta stavano per essere rinchiusi nelle loro piccole prigioni private.

Arianna soffocò un risolino.

“Intendevo… il fatto che ti abbia guardata per tutta la sera. Sembrava, come dire, dispiaciuto. Credo che voglia chiederti scusa.” Sussurrò Arianna.

Elinor si voltò verso l’amica, sinceramente sorpresa. “Ma che stai dicendo? Sicuramente mi guardava per accertarsi che non volessi lanciargli un bicchiere in testa.” Riflettè un momento. “Il che, per altro, è un’idea niente male.”

Arianna sorrise. “Lily, io credo che dovresti veramente tentare di comportarti civilmente con lui. Provaci, almeno.”

Elinor si fermò, trattenendo l’amica per il braccio: “Neanche per sogno. Arianna,” la guardò negli occhi, sicura delle proprie parola: “io detesto quell’essere abominevole. E non c’è nulla al mondo che mi farà mai cambiare idea su di lui.”

 

 

Tatan!

Eccomi di nuovo qui… come vedete, l’opinione che Elinor ha di lui non è cambiata granchè… ma la storia non è finita qui ^^

A presto, baci a tutti… J.

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Capitolo 9
*** I'm a believer ***


Che stanchezza.

Questa dovrebbe essere una scusa sufficiente, ma mi rendo conto che non lo è. Perciò, evito di scusarmi, e vi lascio alla lettura, che mi auguro troverete interessante. Devo dire che questo capitolo mi lascia perplessa, perché l’ho scritto troppo in fretta e inoltre sembra lasciare la storia a metà, sospesa nell’aria, ma c’è da dire che sarebbe stato troppo lungo se avessi lasciato anche la seconda parte che, vi assicuro, non tarderà così tanto ad arrivare J

 

9 – I’M A BELIEVER

 

La sveglia suonò precisa alle 6.20 del mattino. Con un movimento brusco, Elinor cercò di zittirla, tastando il comodino ad occhi chiusi e finendo per scaraventare il malcapitato orologio a terra.

Per un breve istante si chiese perché diamine l’orologio aveva suonato così presto. Quando però riuscì a connettere il cervello e a ricordare che giorno era un sorriso le si stampò in faccia.

Il 2 maggio. Il compleanno di Giova.

Con una fitta al cuore pensò che erano passate ormai due settimane dalla gita, ma scacciò questa triste riflessione: non voleva collegare quel malcapitato evento a quel giorno, che avrebbe dovuto essere felice.

A Elinor piacevano i compleanni. Le erano sempre piaciuti, perlomeno quelli degli altri. Le piaceva l’idea che ognuno potesse avere un giorno tutto per sé, un giorno straordinariamente ordinario, in cui non c’era bisogno di pensare a nulla o di preoccuparsi di nulla, e in cui ogni cosa acquistava sfumature leggermente diverse e quasi simboliche, come se quel giorno rendesse tutto speciale.

E quel giorno era il giorno di Giova.

Come ogni mattina infilò le ciabatte pelose ai piedi, per poco non andò a sbattere sul muro e arrivò, inaspettatamente tutta intera, fino alla porta, che era già aperta.

Si fiondò giù dalle scale, presa da una sorprendente ondata di energia. Questo giorno deve essere diverso, pensò. Magari sarebbe stata l’occasione giusta per portare un po’ più di allegria in quella casa.

Entrò nella cucina. Se voleva che fosse una sorpresa doveva fare presto.

Giova nella vita aveva due grandi amori: le macchine e i dolci. Tre, se si contava anche la sua bicicletta. Elinor, a casa, gli aveva organizzato una festa a sorpresa, aveva già comprato il modellino di da regalargli e aveva scaricato da Internet e studiato una ricetta per fare una torta con sopra una farcitura in cioccolato a forma di automobile.

Elinor non era brava a cucinare. Non sapeva fare assolutamente nulla, se si eccettuavano le torte. I dolci, che a lei non piacevano, le riuscivano benissimo, e lei si divertiva a prepararne, specialmente quando si sentiva triste. E, in quella casa, non si sentiva felice.

Doveva iniziare quella mattina a fare la torta, se voleva che lievitasse durante la giornata, ma doveva farlo di nascosto. Chiuse la porta dietro di sé, e si guardò attorno con aria circospetta.

Via libera.

La sera prima aveva controllato che ci fossero tutti gli ingredienti, e aveva ottenuto da Juliet il permesso di usare la cucina. Evidentemente, si fidava di lei, e, a mo’ di ringraziamento, Elinor aveva deciso che avrebbe offerto una fetta di torta anche alla sua carceriera.

Elinor aprì il frigo e tirò fuori il latte e le uova, mentre la sua mente vagava. Ogni volta, quando cucinava, nella luminosa cucina di casa sua, suo fratello arrivava, accendeva lo stereo in soggiorno e gironzolava vicino ai fornelli mangiucchiando pezzi di ingredienti, suscitando le ire fasulle di sua sorella maggiore.

In quel momento, nel silenzio di quella buia e fredda cucina, Elinor si sentì fuori posto.

Non devo lasciarmi abbattere, si ripetè mentalmente. Era il giorno di Giova, e lei doveva renderlo speciale, non poteva permettersi di sprofondare nella malinconia. Tuttavia, mancava qualcosa, se lo sentiva. Non sarebbe mai riuscita a fare una torta decente, senza la musica. Per lei, la torta sarebbe rimasta sempre amara e insipida, se non fosse stata accompagnata da una buona dose delle sue canzoni preferite.

Quando tutto intorno a noi va male, e tuttavia sappiamo che potrebbe andare molto peggio, siamo convinti che nulla è più in grado di stupirci. Ma, spesso, dobbiamo ricrederci.

Il carattere talvolta cinico e profondamente scettico di Elinor l’aveva sempre scoraggiata dal credere nei miracoli. Quando però notò l’I-pod azzurro di Juliet appoggiato innocentemente sullo spoglio tavolo di vetro nella sala da pranzo, pensò, per un breve momento, che avrebbe dovuto riflettere più a lungo e con più attenzione sull’intera faccenda.

Si avvicinò cauta all’oggetto inanimato e si guardò attorno con aria guardinga, dandosi poi della stupida al pensiero che non c’era nessuno lì, alle sei e mezzo di mattina. Evidentemente, Juliet l’aveva dimenticato lì la sera prima. Dunque… che male c’era a usarlo un po’? Era parzialmente sicura che Juliet e Leale non l’avrebbero gettata in cella di isolamento, se ce n’era una, per questo.

L’afferrò con rinnovata energia e lo impostò su “riproduzione casuale”. Perfetto, si disse, sorridendo. Prese in mano una ciotola, ci versò dentro alcuni ingredienti, e si mise al lavoro.

 

“Ma che diamine…” Leale si affacciò dalla porta, gettando uno sguardo alla cucina e portandosi contemporaneamente una mano all’interno della giacca, dove teneva la fidata Sig Sauer. Quello che vide fu talmente fuori dall’ordinario, soprattutto in quella casa, che ci mise qualche momento a capire cosa stava succedendo; quando però il suo cervello gli suggerì una spiegazione plausibile per ciò che stava avvenendo sotto i suoi occhi, rimase così piacevolmente sorpreso da non dire una parola e da rimanere appoggiato allo stipite della porta per godersi la scena.

Elinor stava cucinando, ma non in modo convenzionale. Canticchiava, e muoveva i piedi nelle ciabatte a tempo, così come sbatteva l’impasto all’interno di una ciotola a ritmo. Aveva parecchie macchie sul grembiule, i capelli castani raccolti malamente in una coda ed era vestita con una semplice maglietta sopra i pantaloni della tuta. Ma sorrideva, e a Leale sembrò così felice che pensò che per nulla al mondo si sarebbe permesso di disturbarla. Rimase a osservarla, incantato dal modesto e rasserenante spettacolo di una ragazzina disordinata che, con movimenti fluidi, si destreggiava fra zucchero e cioccolato, senza altri pensieri se non le parole delle canzoni che stava ascoltando nella sua testa.

Leale rimase lì per un po’, sicuro che la ragazza non si fosse accorta di lui.

“Thought that love was only true in fairy tales…” Elinor alzò pian piano la voce senza neanche rendersene conto. Sembrava totalmente presa da una guarnizione che stava assorbendo tutte le sue energie, tranne quelle necessarie a cantare.

Leale pensò che aveva già sentito quella canzone da qualche parte, ma queste sue riflessioni furono interrotte da altri rumori, provenienti dall’altro ingresso alla cucina. Elinor, che dava le spalle sia alla porta dove si trovava la guardia del corpo sia all’altra, e che per giunta non poteva sentire nulla a causa della musica nelle sue orecchie, non si accorse di nulla.

“For someone else but not for me…” La ragazza passò dalla guarnizione allo sbattere la crema con un enorme cucchiaio, incapace di stare ferma. Leale era incerto se avvertirla che qualcuno stava arrivando o meno, ma non aveva alcuna intenzione di uscire dal suo nascondiglio e di interrompere quel piccolo momento di serenità. Semplicemente, sperò che non arrivasse nessuno e di essersi solo sbagliato.

“Love was out to get me.” Elinor alzò ancora un po’ la voce e, anche se gli dava le spalle, Leale era sicuro che stesse sorridendo.

“That’s the way it seeemed” La ragazza mollò la ciotola, mantenendo la presa sul cucchiaio pieno di cioccolato che portò vicino alla bocca a mo’ di microfono.

“Disappointed haunted all my dreams…” Allungò volutamente l’ultima vocale, preparandosi al ritornello. Alzò un braccio, mentre i suoi fianchi si muovevano a tempo, o almeno così Leale supponeva, dal momento che non poteva sentire nulla se non la sua voce.

Fu in quel momento che Artemis entrò nella cucina, passando dall’altra porta.

“Then I saw her face” Elinor continuava a cantare e ballare sul posto, ignara dei due spettatori che, in silenzio, osservavano la scena. “Now I’m a believer!” Elinor mosse la testa a suon di musica, mentre Leale fissò Artemis: il ragazzo la guardava totalmente basito, e sembrava completamente incapace di fare alcunché.

“Not a trace, tu-tun-tu-tun, of doubt in my mind” Elinor sembrava essersi specializzata anche nelle seconde voci.

Si girò, ad occhi chiusi, sempre tenendo il “microfono” vicino alla bocca, e alzandolo come se fosse stata una rock star.

“I’m in love, uuuu” Fu durante la “u” lunga che aprì gli occhi e si trovò Artemis di fronte, vestito di tutto punto, che la osservava con un’espressione indecifrabile.

Si fermò, senza abbassare lo sguardo. Normalmente si sarebbe sotterrata per l’imbarazzo, ma questa volta non doveva importarle nulla dell’opinione di quello stupido, inutile, schifoso…

Si accorse che, mentre cercava di trovare epiteti sufficienti a designare il ragazzo di fronte a sé, aveva continuato a fissarlo in un imbarazzante silenzio.

Raccolse a sé tutta la dignità che le rimaneva e, ben decisa a non spiegare né a giustificarsi, si voltò verso la torta, e continuò a canticchiare a bassa voce.

Artemis, da parte sua, rimase qualche secondo a fissarle la schiena, mentre un ghigno si formava sul suo volto.

Silenziosamente, riprese la porta da cui era sbucato e si dileguò senza pronunciare una sillaba. Non appena se ne fu andato, Leale vide Elinor fermarsi e appoggiare le dita sulle tempie, prima di scoppiare in una tranquilla e dimessa risata che suonava tanto di imbarazzo e di sollievo.

 

Elinor stava ridacchiando.

Fantastico, pensò, ora mi crede anche pazza.

E, in fondo, come dargli torto? Erano neanche le sette di mattina, e lei stava sogghignando da sola nella fredda cucina dei rapitori, mentre le ultime note di “I’m a believer” risuonavano nelle sue orecchie.

La ragazza si riscosse. Che stava facendo? Si stava davvero preoccupando di ciò che quell’inqualificabile individuo pensava di lei? Quasi sperò che qualcuno la stesse guardando, mentre con aria stizzita e profondamente orgogliosa si toglieva il grembiule, metteva tutto a posto e, incedendo con passo indispettito e elegante –almeno così sperava-, usciva dalla stanza.

E, in effetti, qualcuno la stava guardando.

 

Erano circa le tre del pomeriggio. I ragazzi erano tutti nel salotto, dove i maschi giocavano alla play-station e le ragazze chiacchieravano tranquillamente. Era incredibile come si fossero pian piano quasi abituati alla situazione, senza perdere la testa. Erano ormai giorni che nessuno faceva più domande su casa e su un loro possibile ritorno, anche se le questioni albergavano ancora nell’aria. Erano ormai parecchie notti che ognuno di loro dormiva, e che nessuno piangeva nel solitario silenzio della propria camera.

“Ma… voi l’avete capito chi è sto qui?” Sissi si rivolse con esuberanza a Elinor e Arianna, che erano sedute sul divano, placidamente assorte nella lettura di qualche rivista. Milla alzò gli occhi, staccando la testa dal bracciolo della poltrona su cui era raggomitolata.

“Di chi parli?” chiese Elinor, non riuscendo a capire dove voleva andare a parare.

“Sì, insomma…” Sissi si guardò attorno con aria circospetta. “Il ragazzo. Il capo.”

Era la prima volta che veniva chiamato senza un evidente dispregiativo, che di solito proveniva da parte di Elinor. Di solito, la ragazza non si lasciava andare a epiteti particolarmente coloriti, ma aveva dimostrato di saper fare eccezioni.

Appena sentì che quell’essere abominevole veniva chiamato in causa, Elinor sentì il sangue affluire al viso velocemente. Avvampò, al ricordo della figura della mattina, e sperò che nessuna se ne fosse accorta, o che perlomeno scambiassero la sua reazione come un improvviso attacco d’ira.

“Si chiama Artemis Fowl. È ricco, ed è un despota. Ha più o meno la nostra età ed è l’ideatore del nostro rapimento. Questo è quello che c’è da sapere.”

Nella stanza calò il silenzio. Arianna non si era mai espressa con una tale decisione. Pure i ragazzi staccarono gli occhi da Final Fantasy IV per posarlo sulla mora.

“Però.” Fu l’unico commento, proveniente da Gianluca.

“Sono d’accordo.” Elinor intervenne a sostegno dell’amica. “Inoltre, ha evidenti problemi nei rapporti sociali. Scommetto che non ha molti amici.” Sentenziò, gelida.

“Si, però…” Elinor non riusciva a credere alla proprie orecchie. Davvero Sissi stava prendendo le difese di quella specie di verme viscido e… “è indubbiamente carino.”

Silenzio. Milla spostò lo sguardo da Sissi alle altre due ragazze, senza fiatare, in attesa di una loro violenta reazione. Arianna assunse un’aria sconvolta. Elinor non riuscì a trattenersi.

“Stiamo parlando dello stesso essere perfido e subdolo che ci ha rinchiusi qui?”

Sissi esitò. “Non lo sto mica difendendo. È uno stronzo e lo detesto, ma carino è e carino rimane. Un po’ come… Draco Malfoy.”

Detto questo, l’atmosfera si rilassò un poco. Pian piano le ragazze tornarono a ridere e scherzare, e la discussione sul fascino segreto del personaggio e delle sue somiglianze con il rapitore in questione si fece più accesa, ma non per questo più seria.

Elinor celava dietro i sorrisi e le battute un certo, inspiegabile turbamento, probabilmente dovuto al fatto che non aveva ancora parlato alle ragazze, e soprattutto ad Arianna, di ciò che le era successo quella mattina. Non riuscendo a sopportare oltre, si alzò a prendere una boccata d’aria. Non sapeva esattamente dove sarebbe andata, ma non aveva fretta. Uscì dal salotto e si avviò su per le scale, alla ricerca di qualcosa che le tenesse occupata la mente. Arrivata al secondo piano, si fermò. Non aveva voglia di tornare in camera, che sentiva sempre più come la sua prigione, ma non aveva neanche intenzione di incorrere nella furia di Leale salendo al terzo piano. Decise dunque di svoltare a sinistra anziché a destra, e di scoprire ciò che si trovava nella direzione opposta al corridoio delle stanze.

Senza sapere bene il perché, allentò il passo, e si sistemò la maglietta sui jeans, come sua abitudine quand’era più tesa. Gettò uno sguardo distratto a una porta alla sua destra, che era stranamente socchiusa.

Forse, la musica, rigorosamente classica, che risuonava dall’interno avrebbe dovuto avvertirla. O forse, avrebbe dovuto pensare che gettarsi a testa bassa in una stanza sconosciuta, in una casa ancor più sconosciuta che apparteneva a strani nonché misteriosi rapitori non era una buona idea.

Spinse dolcemente la porta ed entrò.

 

Autrice:

Ordunque? Che ne pensate? Lo so, lo so, non avrei dovuto interrompere la storia lì, ma vi assicuro che scoprirete presto ciò che c’è dietro alla porta…

 

Ed ora, le risposte alle recensioni:

Lucille: Grazie grazie grazie!!! Sono felice che ti piaccia!!! Le tue parole mi hanno davvero tirata su di morale, non sai quanto sia importante per me… in quanto a Artemis, devo dire che è difficile farlo interagire con gli altri, e che, in fondo me la sono cercata: oltre a scegliere un personaggio indubbiamente difficile su cui scrivere, ha anche il ruolo di rapitore!! Elinor… Elinor è il personaggio. La protagonista di tutte le mie storie mentali che mi faccio, e non hai idea della difficoltà di rendere il suo carattere, che mi sembra di conoscere benissimo, ma che vorrei che apprezzasse anche qualcun altro. Sono felice che a te piaccia ^^ Riguardo a Artemis/Spinella, beh, de gustibus ;) Baci, a presto, J.

 

_FrancySoffy_: non ho parole. Sono io ad essere fortunata. Ti voglio bene <3

 

Chariss: Grazie!!! J spero che ti sia piaciuto anche questo capitolo, anche se sprovvisto del caro Aristotele… ma tranquilla, prima o poi anche la maieutica passerà di qua ;) A presto, J.

 

Juliet95: Many thanks anche a te!! Sì, anche io credevo che sarebbe riapparsa Minerva (che tra l’altro, non sopporto) e invece… sparita nel nulla. Bah. Per le scuse, aspettiamo il prossimo capitolo ^^ Ho riflettuto sul tuo commento, e ho dovuto riconoscere che hai perfettamente ragione: Artemis sarebbe troppo OOC se fosse così insicuro. Dunque, ho tentato di ristabilire un poco il suo carattere, ma devo dire che nel prossimo capitolo sarà molto molto dura, perciò ti chiedo scusa in anticipo se non incontrerà la tua approvazione… Baci, J.

 

Raven_95: il mio stile simile a quello del grande, grandissimo, egregissimo Eoin??? O.O grazie!! È il miglior apprezzamento che io abbia mai ricevuto… Sono felice che la storia si piaccia, e spero che continuerai a seguirla!! J

Bacioni, J.

 

 

Mentre ci sono, ne approfitto per chiedere a tutti coloro che hanno aggiunto la storia fra i preferiti, o fra le seguite, o che semplicemente leggono (sì, lo so che ci siete *scoppia in una risata maligna*) di lasciarmi una piccola recensioncina… Mi farebbe molto felice (e renderebbe più veloce il mio scrivere ;D)

Continuo a scusarmi e ad additare come colpevoli quei dannatissimi contest di HP che mi tolgono tanto, ma tanto tempo… *sospira pensando alla sua stupidità*.

Baci, J.

P.s. Vi sarete accorti che non ho mai cucinato torte in vita mia. A dire il vero, non ho mai cucinato e basta. Chiedo ammenda ^^ Inoltre, credo che l’idea di Elinor che cucina dolci per tirarsi su sia da mia nonna, sia da Izzie di Grey’s Anatomy. Ah, la canzone, famosissima, è I’m a believer degli Smash Mouth, che vi invito ad ascoltare mentre Elinor balla. E’ impagabile, almeno nella mia testa ;)

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Capitolo 10
*** Rain ***


Dunque.

Sono tornata.

Credo di dover ringraziare alcune persone che mi hanno spronata (e minacciata) ad andare avanti. Prima di tutto un grazie enorme a chi ha messo la storia, e me, fra i preferiti e le seguite. Siete più di quanto mi sarei mai immaginata. Grazie infinite.

E ora, passiamo a voi:

-         Sleeper: grazie sul serio. Sì, prima o poi bisognerà sanarle ‘ste lacune, a partire dal prossimo capitolo. Sono contenta davvero che il punto di vista di Artemis ti piaccia. A presto ^^

-         Juliet95: sei indubbiamente una delle mie più affezionate lettrici. Grazie. E, in quanto ad Artemis… non posso che concordare con Arianna. ;)

-         Giovy39: Draco moro? Sì, ci sta indubbiamente ;) non preoccuparti se non recensisci, io sono l’ultima che dovrebbe lamentarsi!

-         Chariss: ecco svelato il mistero della porta! ^^ Grazie, sono contenta che ti faccia ridere. È bello sapere che non fa piangere ^^

-         Lucille: Artemis è carino. Punto. E, in questo capitolo, ha un ruolo fondamentale. Beh, non proprio positivissimo, ma fondamentale sì. Spero che ti piaccia. Grazie di tutto ^^

-         Raven_95: Un grazie ENORME per aver espresso i tuoi bellissimo commento sulla protagonista. Anche io l’adoro. Spero solo di non averla fatta troppo MarySue! A presto ^^

-         Elfa Sognatrice: Beh, direi che adesso le chiederà più o meno scusa. Più o meno ;) e complimenti, ci hai azzeccato in pieno!! Grazie mille, a presto.

-         Vikie: Grazie mille! Spero proprio che anche questo capitolo ti piaccia ;) A presto.

-         Vampire_Twilight: brava anche a te, hai indovinato! Grazie mille, i complimenti (e le critiche) sono la linfa vitale per una scrittrice alle prime armi ^^ E grazie, grazie, e mille volte grazie per avermi spronata. Che dire, sono pigra e ho poca immaginazione, e voi siete quello che ci vuole per me. ^^

-         Spuffy93: Eccomi qua!! Grazie anche a te per avermi chiesto di tornare. Non sai quanto faccia piacere ^^

-         Kira97: here I am! Grazie mille, sono contenta che ti piaccia! Spero che apprezzerai anche questo capitolo. A presto ^^

-         Nihal Darko: ma certo, lo sapevamo tutte che Artemis è sempre stato un CBCRPV (Cresci Bene Che Ripasso Più Volte). L’ho sempre detto io… ;) Spero che ti piaccia anche questo capitolo ^^ Grazie e baci.

Last but not least, grazie alla mia Arianna. Per tutto. Ti voglio bene.

 

Ancora due paroline prima del capitolo. Qua, i protagonisti sono due: Elinor e Artemis. Dal prossimo, tornano anche tutti gli altri. Promesso ^^

 Ordunque, vi ricordate dove vi avevo lasciate?

Elinor apre la porta, e…

 

11 - PIOGGIA

 

 

Elinor adorava i libri. Nel vero senso della parola. Aveva letto il suo primo vero libro, “Le leggende di Redwall”, a sette anni, e da allora gli armadi in camera sua si erano riempiti sempre più di volumi e romanzi, occupando il posto che normalmente sarebbe stato riservato alle bambole.

La sua reazione alla vista di quella sterminata distesa di libri, dunque, fu di pura gioia, prima che si tramutasse in un vago senso di irrequietezza. Per un attimo, si dimenticò di dove si trovava, e inspirò l’odore delle pagine, vagò con gli occhi fra gli enormi scaffali marroni che si innalzavano nell’enorme sala, immaginando quanti libri potessero contenere.

Si incamminò, cercando di non pensare a ciò che stava facendo, e di godersi quel breve momento di pace. Alzando un braccio toccò appena, con la punta delle dita, la superficie dei libri sullo scaffale alla sua destra. Romanzi russi, una quantità che avrebbe sicuramente superato quella di tutte le biblioteche torinesi messe assieme.

Alla sua sinistra, invece, si trovavano varie sezioni: gialli, classici, storici… qualche metro più in là, si accorse di trovarsi nel reparto dedicato alla letteratura inglese. Con lentezza studiò attentamente i titoli e le copertine, e sollevò delicatamente la mano per sfiorare uno dei romanzi.

Non appena lo fece, l’incanto finì.

“Orgoglio e pregiudizio”.

Al suono di quella sgradevole voce proveniente da un punto imprecisato alle sue spalle, Elinor abbassò la mano e chiuse gli occhi in una smorfia, maledicendosi per non aver controllato se ci fosse qualcuno prima di entrare.

Prese un bel respiro e si girò. Davanti a lei, l’oggetto dei suoi insulti mentali la fissava con un ghigno appena accennato sulle labbra.

Elinor lo guardò. Aveva le maniche della camicia azzurra arrotolate all’altezza dei gomiti, i capelli un po’ più disordinati di quella mattina, ma nel complesso sembrava mostrare un’eleganza studiata, un finto disordine che celava una sconfinata sicurezza di sé, ed effettivamente, come aveva detto Sissi appena qualche minuto prima sembrava…

Odioso. Sembra odioso. Elinor se lo ripetè nella mente, sperando di non essere arrossita. Inevitabilmente, si ritrovò a pensare a quella mattina, alla canzone, e a quanto probabilmente quel ragazzo la credeva fuori di testa, al che arrossì ancora di più. E, sicuramente, ci stava pensando anche lui, a giudicare dal sorriso sghembo sulla sua faccia.

Algida, altezzosa regina delle nevi. Elinor tentò di ricomporsi, alzò il mento e con tutto il coraggio che aveva disse “Sì” con forza.

“Ti piace?”

Aveva sentito bene? Perché quello lì stava intavolando una conversazione con lei?

Che diamine voleva?

“E’ il mio libro preferito.” Disse, non trovando nulla di meglio.

Lui sbuffò, sghignazzando.

“Beh? Che c’è di male?” Senza neanche accorgersene, Elinor dimenticò il disgusto e l’imbarazzo che provava di fronte a quell’individuo, per trasformarlo in un’ira giustificata dal fatto che aveva quasi insultato un libro che, per lei, era una Bibbia.

“Fammi indovinare… vorresti che l’uomo della tua vita fosse come Darcy, giusto?”

Il ragazzo le si avvicinò, sempre sorridendo. Il suo sorriso, però, aveva qualcosa di malefico, o comunque di diverso dai sorrisi normali. Non c’era felicità, bensì la consapevolezza di sapere qualcosa che gli altri non potevano neanche immaginare.

Elinor non rispose, non riusciva davvero a capire dove volesse andare a parare.

“Darcy è un idiota.” Sentenziò il ragazzo, tranquillo.

Elinor non si arrabbiò eccessivamente. “Effettivamente a volte si comporta da stupido e orgoglioso, ma alla fine impara dai suoi errori.”

“Non mi sto riferendo a quello. È un idiota perché si è dichiarato a una donna che non era al suo livello e che, per giunta, non lo voleva nemmeno.”

La ragazza cercò in tutti i modi di escogitare una risposta degna di quell’accusa infamante, ma, priva di qualcosa di sarcastico e geniale, preferì chiudersi in un silenzio d’offesa. Si girò veloce, e colmò in breve tempo la distanza che separava lei dalla porta, e che separava lui dal ricevere un bel pugno sul naso.

Esci, esci, esci, esci.

“E lei è così stupida.”

Pugno sul naso.

Elinor si fermò con un piede già fuori dalla porta, e si girò lentamente, come un cowboy che, nel Far West, si appresta a tirar fuori la pistola e ammazzare l’avversario. E, per il momento, i sentimenti di Elinor nei confronti del ragazzo non erano troppo dissimili da quelli del Cowboy.

“Lizzie non è stupida. Ha fatto le sue scelte, è coraggiosa, ed è proprio la sua determinatezza ciò che poi farà innamorare Darcy. Lei non è stupida.”

Artemis la guardò per qualche istante, con un leggero sorriso di sfida appena pronunciato sulle labbra.

“Lizzie?” Chiese lui, ironico. “Sembra quasi che tu la conosca. Non sarai per caso una di quelle ragazze che si stordisce di romanzetti d’amore da quattro soldi e che ancora crede nei lieto fine?”

Oddio, sì.

Ma invece di questa poco elaborata e più sincera risposta, Elinor alzò il mento, si mise la mani sui fianchi e assunse il suo cipiglio più fiero.

Algida, fredda Regina delle Nevi.

“A te non frega un accidente di chi sono o come sono, altrimenti non ci terresti rinchiusi qui.” Affermò, cercando di non far notare l’improvviso tremolio della sua voce. Aveva visto il suo libro preferito, stava discutendo della sua eroina, ma in fondo era ancora rinchiusa lì dentro. Un’improvvisa fitta le raggiunse lo stomaco, e dovette rispecchiarsi anche nel suo volto, perché Artemis si astenne dal rispondere.

Silenziosamente, Elinor gli diede le spalle e uscì.

 

Andava tutto bene.

Effettivamente, andava tutto bene. Tutti quanti avevano gradito la torta, Giova aveva spento le candeline e avevano pure intonato qualche nota di una stonatissima canzone di auguri. Andava tutto bene.

Elinor, tuttavia, non riusciva a dormire. C’era una strana irrequietezza, un vago sentore che quella non fosse altro che una messinscena, una parvenza di serenità. Stare lì, nella sua stanza buia e silenziosa a fissare l’oscurità, era impossibile.

Si alzò e si mise le ciabatte ai piedi. Indossò una delicata vestaglia azzurra ben stretta attorno ai fianchi, per proteggersi dal gelo che, forse, sentiva solo lei.

Uscì dalla porta, ormai aperta da qualche notte, e scese le scale. Entrò in cucina senza far rumore. L’ambiente era illuminato dal fioco bagliore della luna, che proveniva dall’esterno, dunque preferì non accendere la luce.

Si sedette al tavolo. Aveva sempre pensato che le cucine avessero qualcosa di caldo, in sé, che le rendesse sempre luminose e accoglienti, perfino quando tutto era buoi e freddo. Ma quella cucina era diversa, nulla la rendeva speciale. Si alzò e si riempì un bicchiere d’acqua. Si appoggiò al bancone, fissando la porta-finestra e il giardino al di fuori. Pioveva.

Provò a contare i giorni che aveva passato lì dentro. Ventidue. Tre settimane e un giorno.

Lentamente, si fece scivolare in basso, fino a sedersi sul pavimento, con la schiena appoggiata al bancone. Appoggiò il bicchiere a terra, si strinse le ginocchia con le braccia, fissando il mondo fuori dalla finestra.

Senza neppure accorgersene, iniziò a piangere.

 

Passarono minuti, forse ore, prima che sentisse un rumore che non fosse il regolare ticchettio della pioggia. Prima che potesse fare alcun gesto, voltò la testa e si ritrovò a fissare la persona che meno avrebbe voluto vedere in quel momento.

“Vattene.” sibilò, apatica. La sua voce aveva perso ogni sfumatura, persino l’usuale aggressività. L’unica cosa che vi si poteva leggere era pacata rassegnazione.

“Fino a prova contraria, questa è la mia cucina.” Rispose Artemis secco. Elinor, che teneva lo sguardo fisso sul pavimento, sentì il rumore dei passi che si avvicinavano. Non rispose, né alzò gli occhi, e sentì che il ragazzo si sporgeva per afferrare un bicchiere sopra di lei, per poi posarlo sul bancone.

Fu in quel momento che Artemis si fermò e la fissò, accorgendosi improvvisamente dei luccichii delle lacrime sul viso della ragazza.

“Stai piangendo.” disse. La sua voce non tradiva alcuna emozione.

Elinor non rispose. Fu allora che Artemis fece ciò che la ragazza non si sarebbe mai aspettata: si sedette accanto a lei, in perfetto silenzio.

“Mi manca la pioggia.” sussurrò Elinor. Non poteva crederci. L’aveva detto ad alta voce. Aveva confidato una sua spontanea riflessione alla persona che più detestava in quel momento. Lui non rispose, in un chiaro invito a continuare. Elinor, troppo stanca per ingaggiare una dura lotta con i suoi nervi, si lasciò andare.

“Mi manca l’erba. E il profumo degli alberi. Mi manca l’aria. Mi manca il freddo che sento di prima mattina, mentre vado a scuola. Mi manca prendere il pullman e mi manca arrivare in ritardo ovunque io vada. Mi manca la mia macchinetta del caffè. Quanto mi manca. Sai, è una Nespresso, grande più o meno così.” Staccò le braccia dalle ginocchia e ne mostrò ad Artemis a larghezza.

Improvvisamente si sentì molto stupida, e si rinchiuse in un malinconico silenzio.

Artemis, al suo fianco, non emetteva alcun suono. Rimasero così per un po’, ad ascoltare la pioggia.

“Vieni.” sussurrò lui, alzandosi.

 

Non sapeva perché lo stava facendo. Tutte le cellule del suo corpo, tutti i neuroni del suo formidabile cervello gli gridavano di fermarsi, ma lui non riusciva a dar loro ascolto.

Si alzò, sussurrandole di seguirlo. In un attimo, fu vicino alla finestra, cosciente dello sguardo indagatore e sospettoso di Elinor su di sé, la quale non riusciva sicuramente a capire cosa stesse facendo, e soprattutto il perché.

Siamo in due, allora.

Allungò una mano e afferrò la maniglia. Per un attimo, il suo carattere egoista e scostante gli suggerì di voltarsi e tornare a dormire, lasciando lì quella bambinetta a piangere quanto voleva. Poi pensò alle sue parole. Le mancava la pioggia. Lei lo aveva salvato. Glielo doveva.

Senza ascoltare la sua testa, aprì la porta-finestra.

Immediatamente entrò una folata di vento gelido, seguita da qualche goccia di pioggia.

 

Elinor evitò accuratamente di chiedersi perché quel ragazzo, che nella sua testa rispondeva solo all’appellativo di “essere abominevole”, le stava facendo cenno di uscire in giardino. Decise che ci avrebbe pensato più tardi. per il momento, sentiva il vento sulla sua pelle, gocce di pioggia sulla sua mano tesa. Sentiva il profumo dell’erba bagnata.

Sfilò le ciabatte e uscì. Sorrise istintivamente, dimenticando il ragazzo che, dentro la cucina, la osservava.

Iniziò a correre. In un attimo, era completamente fradicia. I capelli erano attaccati alla fronte, la camicia da notte si era incollata alla pelle. Chiuse gli occhi, e inspirò a pieni polmoni. Ascoltò il rumore della pioggia, sorridendo.

 

Artemis la fissava, assorto. Calcolò le probabilità che la ragazza si prendesse una polmonite, e concluse che erano decisamente alte.

Una in meno, pensò sogghignando. Eppure, quel pensiero non gli procurò alcun piacere.

Elinor, improvvisamente, si voltò. I capelli erano bagnati, e sembravano scuri sotto la pioggia. Le braccia erano leggermente allargate, e i palmi erano rivolti all’insù, come se non volesse perdersi neppure una goccia. La sottile vestaglia, impregnata d’acqua, svolazzava leggermente per il vento.

Dev’essere bello.

Questa piccola, innocua riflessione turbò Artemis profondamente. Era troppo intelligente per pensare che stare al freddo e sotto la pioggia potesse procurargli il benché minimo piacere. Eppure…

Elinor aprì gli occhi e lo fissò. Improvvisamente il suo volto si aprì in un rilassato sorriso.

“Grazie.” sussurrò.

Senza pensarci troppo, Artemis si sfilò le ciabatte e uscì, a piedi nudi sotto la pioggia.

 

Artemis continuava a fissare il soffitto, come aveva fatto da quando era tornato in camera, contando il lento scorrere dei minuti, e aspettando che diventasse mattina.

Lisciò con ampi movimenti delle braccia la coperta, chiedendosi intanto se lui, Artemis Fowl Junior, fosse effettivamente un genio. Il suo Q.I. non lasciava spazio a dubbi, però… Insomma, quella notte si era comportato come un adolescente qualsiasi in crisi ormonale. E quello, decisamente, non era un comportamento da genio.

Le sue riflessioni furono interrotte da un rumoroso bip proveniente dal suo comodino. Artemis afferrò il dispositivo e rispose.

“Spero di averti svegliato.” disse una speranzosa voce equina.

“Purtroppo per te, Polledro, ero già sveglio.” mormorò Artemis in risposta.

“Fowl, dobbiamo parlare.” la voce burbera di Tubero eliminò ogni traccia di torpore dalla mente di Artemis.

“Che è successo?” chiese, in tono pacato, ammirando il suo stesso autocontrollo.

“Chiama Spinella e gli altri e metteteci in vivavoce. Abbiamo delle novità. E non sono buone.”

Rinunciando al suo gelido autocontrollo, Artemis si lasciò sfuggire un sospiro.

Bel modo di iniziare la giornata.

 

 

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