Come naufraghi

di Feel Good Inc
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Ognuno per sé ***
Capitolo 3: *** La condanna dei sopravvissuti ***
Capitolo 4: *** Nell'ombra ***
Capitolo 5: *** La finestra di fronte ***
Capitolo 6: *** Una macchia da lavare ***
Capitolo 7: *** Folgorazione ***
Capitolo 8: *** Scheletri nell'armadio ***
Capitolo 9: *** Liberazione ***
Capitolo 10: *** Il primo passo ***
Capitolo 11: *** Via le maschere ***
Capitolo 12: *** Tre skater ***
Capitolo 13: *** Promessa infranta ***
Capitolo 14: *** In bilico ***
Capitolo 15: *** All'ora delle streghe ***
Capitolo 16: *** Ferro e fuoco ***
Capitolo 17: *** La libertà di scegliere ***
Capitolo 18: *** Amici o no ***
Capitolo 19: *** Nel covo dei rinnegati ***
Capitolo 20: *** Il campione dei falchi ***
Capitolo 21: *** Passi tra gli alberi ***
Capitolo 22: *** Il prezzo da pagare ***
Capitolo 23: *** Per chi merita salvezza ***
Capitolo 24: *** Attesa ***
Capitolo 25: *** Di miracoli e verità ***
Capitolo 26: *** Di ritorni e risvegli ***
Capitolo 27: *** La cosa giusta ***
Capitolo 28: *** Demoni o angeli ***
Capitolo 29: *** Naufraghi della vita ***
Capitolo 30: *** Il mondo sbagliato ***
Capitolo 31: *** Solo una speranza ***
Capitolo 32: *** Un cerchio perfetto ***
Capitolo 33: *** Qualcosa da proteggere ***
Capitolo 34: *** Il bisbiglio di un sorriso ***
Capitolo 35: *** L'adesso ***
Capitolo 36: *** Fidati di me ***
Capitolo 37: *** Assoluzione ***
Capitolo 38: *** Qualcuno da salvare ***
Capitolo 39: *** Promessa ***
Capitolo 40: *** A ciascuno la sua battaglia ***
Capitolo 41: *** Cose che non cambiano ***
Capitolo 42: *** L'ultimo ponte ***
Capitolo 43: *** Rialzarsi e andare avanti ***
Capitolo 44: *** Dal passato ***
Capitolo 45: *** Pioggia ***
Capitolo 46: *** Dopo il naufragio ***
Capitolo 47: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Mentre la sera siamo davanti al telegiornale, a sentire di nuove, emozionanti conquiste in qualche terra lontana, perdiamo i veri drammi che si vivono intorno a noi. È un peccato, perché lì c’è più coraggio che da ogni altra parte.

Torey L. Hayden, Una bambina

 

 

 

 

Prologo

 

 

 

 

Twilight Town, marzo

 

La ragazza senza nome guarda la vita scorrere nella nuova città in cui si è ritrovata a vivere.

Guarda i volti, i sorrisi, i passi, la gente, e tutto le appare irrimediabilmente estraneo.

Lei ha rifiutato quel mondo, perché ha rifiutato se stessa.

Da molto tempo ha deciso di cedere, di abbandonare la propria forza di volontà a quella ben più inflessibile del corso delle cose che hanno già deciso tutto per lei. Ha ceduto, ma non ha accettato. Anche il fatto di essere seduta qui, in questo momento e in questo posto pieno di sorrisi sconosciuti, è qualcosa cui ha ceduto, ma che non ha accettato.

Semplicemente, è la sua esistenza.

Non la sua vita, no. Perché quella è finita molti anni fa, quando le hanno tolto tutto e tutti.

E allora e ancora si limita a guardare e a chiedersi se qui potrà dimenticare o smettere di piangere o almeno dormire di sonni senza sogni.

Ma purtroppo conosce già le risposte a quelle domande.

Ancora una volta, la ragazza senza nome non può fare altro che ciò che le è rimasto: guardare, ricordare e piangere.

 

 

 

 

 

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Questa storia è un’incognita indefinita. L’ho scritta forse due anni fa, nel corso di un’estate particolarmente ispirata; poco più di due mesi, per la precisione. Mi entusiasmava un bel po’, tanto che a un certo punto, dopo averla riletta e risistemata per non so quante volte, mi dissi che, se fossi stata abbastanza brava da presentarla sotto una buona luce, sarebbe potuta diventare un romanzo. Perché, vedete, era probabilmente la cosa più lunga e più articolata che avessi mai scritto. Se mi impegnavo, poteva valere qualcosa. Se.

Avete notato quanto i ‘se’ condizionino la vita delle persone?

Il punto è semplicemente questo: a distanza di due anni, di infinite riletture e di innumerevoli tentennamenti, devo ammettere che questa storia non è abbastanza per essere definita un vero e proprio libro. Probabilmente perché manca di quella parte di esperienza personale che ogni vero scrittore riversa in ogni suo vero libro: io mi sono limitata ad immaginare le cose, senza sapere se corrispondessero ad una realtà oggettiva. Non ho idea di come funzioni un commissariato di polizia americana e non so nulla sulla malavita vera.

Pertanto ho capito che, se io per prima non ne sono convinta, è giusto fermarsi in partenza.

Però mi dispiaceva richiudere per sempre nel cassetto un lavoro che all’epoca mi soddisfaceva parecchio. Ci ho riflettuto a lungo, ho valutato pro e contro. Mi sono detta che riproporla come fanfiction, così com’era nata, non mi costava nulla. E, anzi, forse un po’ mi avrebbe consolata della decisione presa.

Il prologo che avete appena letto è volutamente breve e oscuro, ma mi auguro che a qualcuno faccia venir voglia di seguirmi. Chissà che il parere dei lettori non mi faccia nuovamente cambiare idea sul destino di questa storia.

E poiché è già completa, e da un bel pezzo direi, gli aggiornamenti saranno piuttosto regolari. So, see ya soon.

Aya ~

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Capitolo 2
*** Ognuno per sé ***


1

Ognuno per sé

 

 

 

La fitta alla spalla andava lentamente scemando, ma quella sensazione, tipica dell’animale braccato, era ancora forte. Troppo forte. Si aspettava quasi di ritrovarsi qualcuno alle spalle, magari con un ghigno sadico e una pistola in mano, e ogni anfratto buio gli ricordava ciò che aveva fatto negli ultimi due mesi, ciò che era, ciò da cui doveva fuggire.

Imprecò tra sé, sostenendosi la spalla e calpestando una pozzanghera.

«Merda.»

Scosse la testa, scrollandosi di dosso le gocce di pioggia. Non poteva permettersi quei pensieri. Doveva andare avanti, mettere quanta più strada possibile tra sé e il vecchio fabbricato che era stato il loro luogo di ritrovo e tutto ciò che avesse di più simile ad una casa.

Alzò lo sguardo, nell’oscurità fiocamente illuminata dalle luci di emergenza di un locale infimo. Alla fine del vicolo vide una palazzina un po’ malmessa. Un condominio. Esitò.

Un condominio. Sotto gli occhi di tutti. Dio, a cosa si era ridotto.

Ma al momento non aveva alternative. Dopotutto, in quel quartiere nessuno lo conosceva. Non ancora, almeno.

Si frugò nelle tasche del lungo cappotto di pelle nera: soldi ne aveva ancora, ma non sarebbero durati a lungo. Pazienza. Aveva bisogno di fermarsi, di staccare.

Strinse i denti e, cercando di scuotersi dalla mente le ultime parole di Larxene, continuò a percorrere il vicolo sotto la pioggia battente.

 

 

«Dobbiamo filare. Quello stronzo di Demyx ha cantato.»

Axel e Zexion sollevano le teste all’unisono. Larxene si chiude alle spalle la porta del vecchio deposito in disuso e si fionda sul tavolaccio cui i due sono seduti. L’espressione sconvolta del suo viso, così insolita per la sua perenne freddezza, fa capire ad Axel tutta la gravità della situazione.

Con gesti febbrili, la giovane posa bruscamente una borsa sul piano del tavolo e inizia a riempirla con tutto ciò che le capita sottomano. Rivolge loro uno sguardo inceneritore.

«Che cazzo avete da guardarmi come due idioti? Demyx ci ha traditi, l’avete afferrato il concetto? Potrebbero essere qui a momenti! Volete darvi una mossa o no?»

Quelle ultime parole rendono tutto più definito.

Axel e Zexion scattano in piedi.

Accade mentre l’aiutano a recuperare quanto più possibile: da qualche parte, sotto il rumore scrosciante della pioggia, risuona una sirena.

Larxene geme, si butta la borsa su una spalla e corre a sprangare dall’interno la porta principale. Contemporaneamente Axel molla a Zexion la propria roba e va a sfondare con una spallata l’uscita secondaria, quella che non usano mai. Perché mai ne hanno avuto bisogno. Finora.

Il legno gli si infigge nella pelle, scavandosi dolorosamente una strada nel tessuto leggero della maglietta. Non vi dà peso; la porta è spalancata davanti a lui. Afferra al volo il cappotto appeso appena più in là e inizia la corsa, ascoltando come da un mondo di distanza i passi concitati di Zexion e Larxene alle sue spalle.

In fuga.

Fuori, la pioggia.

 

 

C’era finito dentro da due mesi, e ancora – qualche volta – se ne chiedeva il motivo. Valeva davvero la pena annullarsi in quel modo, ridursi a quell’essere niente?

No, non doveva pensarci: ciò che contava ora era solo salvare la pelle, e al diavolo tutto il resto, al diavolo gli altri due. Non aveva idea di che fine avessero fatto, e neppure ci teneva. Se c’era una cosa che avesse capito, in quei due mesi, era questa: in quel mondo, ognuno per sé.

L’uscio del condominio si ergeva davanti a lui. Non c’era campanello. Nervoso, cercando di dissimulare il turbamento, Axel alzò il pugno e picchiò deciso sul legno quasi marcio.

Si aspettava che non venisse nessuno; invece, dopo una breve attesa, lo spiraglio delle lettere si aprì, rivelando due occhi di un colore che in quel buio non seppe identificare.

«Chi diavolo è a quest’ora?» biascicò una voce rachitica.

Axel si sforzò di sogghignare. «È così che trattate i vostri potenziali clienti, in questo postaccio?»

Lo spiraglio si richiuse, e l’uomo aprì la porta. Era un vecchio dai lunghi capelli argentati, avvolto in una vestaglia nera, il cui sguardo lo scrutò da capo a piedi. Axel non batté ciglio.

«E saresti tu il potenziale cliente, moccioso?»

«Proprio io. Mi serve un appartamento.»

Il vecchio sorrise maligno.

«Arrivi nel cuore della notte, come un pipistrello, senza neppure un bagaglio, e chiedi un appartamento» commentò. «Molto originale, davvero. Halloween è arrivato in anticipo quest’anno?»

Axel tolse la mano dalla spalla. Non voleva dargli anche la soddisfazione di mostrargli che era quasi ferito. Inarcò un sopracciglio.

«Se non sbaglio, lei non può rifiutare un appartamento ad una persona disposta a pagare.»

«Pagare!» Il vecchio rise, sguaiato e malevolo. Il suo sguardo si fece scaltro. «Ce li hai i soldi, almeno?»

«Quanto?»

«Trentamila per un mese.»

Axel ingoiò una risposta pungente. Era poco meno di tutto ciò che aveva con sé. Decise di fare buon viso a cattivo gioco: probabilmente di lì a un mese avrebbe già trovato il modo di lasciare la città.

Annuì. Come conferma, affondò di nuovo la mano nella tasca del cappotto fradicio e ne estrasse un insieme di banconote gualcite, augurandosi di non lasciar trasparire dalla propria espressione la verità sul modo in cui ne era venuto in possesso.

Gli occhi del vecchio si ridussero a due fessure.

«Bene. C’è ancora posto.»

 

 

«Sei stato bravo, pivellino.»

Axel si trattiene dallo sbuffare. Meglio non prendersi troppe libertà col cocco del capo, e tenere la testa bassa.

Demyx gli rivolge un sogghigno sbruffone mentre gli tende una parte dell’incasso.

«La tua ricompensa. Ovvio che sarà più... consistente, quando sarai definitivamente uno di noi.»

Axel intasca il denaro senza un fiato. Poi si alza ed esce dal deposito senza voltarsi indietro, con la necessità impellente di allontanarsi da se stesso, di fuggire e non pensare.

 

 

Chi l’avrebbe mai detto che proprio il cocco del capo li avrebbe pugnalati tutti alle spalle? Fottutissimo bastardo, voltafaccia del cazzo. O forse era solo che aveva capito che stava affogando in quella merda di vita, e si era fatto un qualche esame di coscienza che gli avrebbe poi salvato il culo? Se era così, non poteva davvero biasimarlo: quella vita era una merda...

«Qui.»

La voce del portinaio lo scosse dai suoi pensieri. Si ritrovò sulla soglia di un appartamento semplice, squallido quanto appariva l’esterno del condominio. Carta da parati scrostata, muri spogli e polvere ovunque. Annuì vagamente; andava più che bene per i suoi standard.

Il vecchio controllò ancora una volta l’acconto che si era fatto consegnare e finì con il cacciarselo in una tasca della vestaglia.

«D’accordo, il resto a fine mese, e tieni ben chiaro che ti sto facendo un favore.» Si voltò, rincamminandosi giù per le scale, e continuò a parlare senza guardarlo. «Ah, sì... Mi chiamo Vexen. Per qualsiasi cosa chiedi a me. Buonanotte.»

Senza rispondere, Axel si chiuse la porta dell’appartamento 2B alle spalle e attraversò un soggiorno ed una cucina disastrati dall’abbandono. Raggiunse la camera da letto, e qui andò direttamente a gettarsi su un materasso duro e spoglio, dall’odore non molto promettente. Era comunque un netto miglioramento rispetto al vecchio capannone.

Si tolse il cappotto, ignorandone lo sgocciolio sul pavimento, e lo lanciò in un angolo. Si toccò cautamente la spalla: ormai era solo un po’ indolenzita per la forza del colpo.

Passò ancora qualche minuto prima che si sentisse abbastanza tranquillo da stendersi sul letto.

Solo allora, immobile nel buio di quella stanza, nel silenzio rotto solo dalla pioggia sul tetto, si concesse un sospiro di sollievo.

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Capitolo 3
*** La condanna dei sopravvissuti ***


2

La condanna dei sopravvissuti

 

 

 

La pioggia caduta durante la notte si era lasciata dietro la traccia del suo tipico odore sporco, che il vento della mattina portava ora nella stanza attraverso la finestra aperta sulla scala antincendio. Gli occhi di Roxas erano persi oltre quel quadrato nella parete, vagavano tra le nuvole primaverili di quel cielo di un azzurro purificato, seguivano i giochi d’onde dei movimenti delle tende nella brezza.

Lontano, lontano. Ovunque ci fosse ancora posto per sognare, per vivere davvero.

Ma non era quella la realtà.

La pendola della nonna batté otto rintocchi. A malincuore, Roxas spostò lo sguardo su suo fratello.

«Dovresti andare. Kairi e Riku ti staranno già aspettando.»

Sora ricambiò l’occhiata. Indugiava ancora, seduto sul letto, tormentando il cravattino dell’uniforme scolastica, della stessa tonalità di blu dei suoi occhi. Roxas lo vide esitare, come in cerca di una risposta adatta.

«Tu non vuoi proprio saperne di tornare a scuola, eh?»

Lui gli rivolse un sorriso palesemente falso.

«Dimentichi che ho il professor Ansem.» Guardò la sveglia sul comodino. «Anzi, sta per arrivare. Ti consiglio di uscire presto, se non vuoi che incastri qui anche te» soggiunse in un tono di voce che voleva suonare scherzoso, ma che non convinse neppure lui.

Sora sospirò e si passò una mano tra i capelli, spettinandoli ancora di più.

«Dannazione, Roxas. Non puoi passare una vita chiuso qui dentro.»

Roxas smise all’istante di fingersi allegro. Strinse i braccioli della sedia, resistendo all’impulso di urlargli addosso.

«Ne abbiamo già parlato, e fin troppe volte» disse, stavolta con un tono di voce che non ammetteva repliche. «Pensavo che ormai avessi capito. Almeno tu, smettila di parlarmi in quel modo. Non cambia niente, lo sai.»

Sora aprì la bocca, e di nuovo sembrò cercare le parole; ma alla fine rinunciò, la chiuse e scosse la testa, rassegnato. Incupito, Roxas tornò a guardare fuori dalla finestra, e poco dopo lo sentì alzarsi e andare a prendere lo zaino abbandonato sul tappeto.

«Bene. Allora io vado.»

Roxas si limitò ad annuire con un cenno brusco. «Ci vediamo stasera.»

I passi di Sora attraversarono la camera da letto e l’appartamento 2A; quindi si spensero fuori, nel corridoio, giù per le scale del palazzo.

Roxas si lasciò andare ad un sospiro, abbandonandosi contro lo schienale della sedia. Si scostò i capelli dagli occhi e rimase per un po’ così, immobile, la mano sulla fronte e lo sguardo fisso al soffitto.

Aveva pensato di poterci fare l’abitudine. Gli sguardi della gente, il senso di vuoto, l’isolamento volontario. Aveva pensato che prima o poi il dolore avrebbe finito per attenuarsi, lasciandogli solo quella maledetta cicatrice nel corpo e nell’anima; aveva creduto di essere abbastanza forte da sopportarlo.

E invece ogni giorno, in ogni singolo ricordo, in ogni parola e in ogni sguardo di suo fratello, si ritrovava sempre a soffrire.

 

 

La luce del sole disegna strane forme sul lenzuolo steso sulle sue gambe. Vi si sofferma con gli occhi, e non riesce a pensare a niente. La sua mente è vuota, bianca come le pareti di quella stanza.

Non riesce neppure a piangere. Ha già dato tutte le sue lacrime.

Un lieve bussare alla porta. Lui lo ignora. Non ha la forza di alzare la testa e vedere chi è.

Passi sul pavimento immacolato, e qualcuno che entra nel suo campo visivo. Poi una voce.

«Ciao, Roxas

Naminè.

Lui solleva il viso, la guarda. Lei gli sorride e siede sul letto dove è semidisteso.

Il suo viso di bambina ha tracce di lacrime, ma la ragazza si mostra tranquilla.

«Sora è di là con Kairi» spiega. S’interrompe per un istante; poi, la domanda tanto temuta. «Come ti senti?»

Non le risponde. Non sa come si sente. Non sa se il vuoto che ha dentro è rabbia, frustrazione, dolore, rancore, o semplicemente il nulla più totale.

D’altro canto, sa che lei non ha bisogno di parole per capire. C’è passata anche lei. Ma in un modo un po’ diverso. No, si dice: in un modo molto diverso.

Sono cresciuti insieme, lui, Naminè, Sora e Kairi. Due gemelli un po’ troppo diversi, due sorelle di buona famiglia. Amici. Sempre insieme. Qualche volta ha persino pensato di essere innamorato di Naminè, di quella ragazza così riflessiva e dolce, che lo guarda con occhi azzurro mare e lo fa sempre sentire strano, come se sapesse tutto di lui.

Che buffo. Ora non c’è più posto per un sentimento del genere. Ora in lui non c’è più nulla.

È di nuovo lei a rompere il silenzio.

«Mia nonna ha un appartamento.»

Roxas non reagisce.

«Ma non ci va quasi mai. Preferisce stare a casa con noi, da quando... dall’incidente.»

Ancora nessuna reazione.

«Potreste starci tu e Sora.»

Roxas la guarda, inespressivo. Naminè si sta fissando i piedi. Ora ha un’aria infinitamente triste.

«So come ci si sente» mormora ancora. «Lo so, Roxas. Credimi. Lo so.»

E lui le crede.

Ma ugualmente, quando sente che lei gli stringe con delicatezza una mano, non riesce a ricambiare la stretta.

 

 

Il ricordo, la condanna dei sopravvissuti.

Da allora erano passati due anni. Naminè si era trasferita alle Destiny Islands per via della famosa scuola privata cui i suoi l’avevano iscritta poco tempo prima di morire in quell’incidente ferroviario. Buffo come una persona così simile a lui fosse adesso tanto lontana.

Kairi, invece, viveva ancora nella villa in città, in compagnia della nonna, e frequentava la stessa classe di Sora al liceo del quartiere: non ne aveva voluto sapere di scegliere anche lei una scuola prestigiosa, che le buone condizioni economiche le avrebbero permesso senza problemi. Roxas sospettava che lo avesse fatto per loro, per star loro accanto. Veniva a trovarli spesso, per aiutarli nell’appartamento che proprio sua nonna aveva messo a loro disposizione. Era come se vivesse lì anche lei.

A differenza di Sora, Kairi aveva subito dimostrato di capire il desiderio di Roxas di esentarsi dalla scuola dopo quanto era accaduto. Già, lei diceva di capire il suo stato d’animo. Come Naminè.

Ma nessuno poteva capire per davvero.

Nessuno di loro sapeva come ci si sentisse impotenti a...

Il bussare alla porta lo colse di sorpresa, strappandolo ai ricordi e al dolore. Doveva essere il professor Ansem, l’insegnante cui si era rivolta la nonna delle due ragazze affinché lui continuasse a studiare.

«Arrivo» gridò, cercando di scuotersi dal suo desolante vuoto.

Il suo sguardo vagò per un’ultima volta oltre la finestra.

Il condominio aveva una struttura ripiegata su se stessa, in modo da formare un cortile interno in cui s’immetteva un vicolo che lo metteva in comunicazione con la strada fuori dai confini dell’edificio. La planimetria del palazzo, quell’insolito essere chiuso e al contempo aperto a quel passaggio, fin dal primo istante aveva parlato a Roxas in una lingua ben comprensibile; c’era in essa un messaggio inequivocabile, un avvertimento ad aspettarsi da un momento all’altro un’intrusione – che si trattasse di ladri o altri malintenzionati o delle proprie personali nemesi. La struttura faceva anche sì che le finestre dei vari appartamenti si ritrovassero a fronteggiarsi, rendendoli comunicanti grazie ai pianerottoli della scala antincendio che percorreva tutto il perimetro interno del palazzo.

L’appartamento di fronte al suo era disabitato da anni.

Per questo motivo, Roxas si stupì non poco nel vedere un alto adolescente dai capelli rossi sbirciare con aria cospiratoria dalla finestra del 2B, giù verso il cortile e l’imbocco del vicolo.

Lo sconosciuto sembrò quasi percepire il suo sguardo. Si voltò, e per un attimo rimasero immobili a fissarsi.

Roxas osservò distrattamente l’atteggiamento ostile che gli vedeva impresso nel volto. Dal canto suo, il tipo lo scrutò senza alcun vero interesse.

Durò solo un istante: il rosso sparì subito dalla finestra, mentre nuovi colpi alla porta riportavano l’attenzione di Roxas alla sua realtà, quella da cui gli era impossibile fuggire – sia mentalmente, sia fisicamente.

Sforzandosi di non guardarsi le gambe, si trascinò per andare ad aprire la porta all’insegnante.

 

 

 

 

 

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Aggiornamento mooolto in anticipo, perché mi sono appena accorta di aver raggiunto un personale traguardo: sono nei preferiti di cinquanta persone :D La cosa è tanto bella che dovevo festeggiare in qualche modo! E non è escluso che prima o poi arrivi una fanfic tutta per ringraziarvi *-*

Ok, ok, passiamo a questa ora. ^^

Lo so che vi state tutti chiedendo cosa accidenti abbia Roxas che non va. Eeehh, curiosi. Per ora vi basti sapere questo: quanto più io amo un personaggio, tanto più nelle mie storie lo faccio soffrire (basti pensare a ciò che ho già fatto al povero Rox nel primo capitolo di Come in un film, o a cosa ho fatto a Shaoran in Through your eyes). Temo dunque di provare una forma di amore molto sadica. La cosa mi preoccupa e mi fa anche sentire un po’ in colpa .///. Ma comunque per il momento non vi spiego nulla, ha! xD

Poi, poi: ringrazio infinitamente _Ella_ e Kisshou per aver commentato il capitolo precedente. Spero che la storia continui ad incuriosirvi e soprattutto a piacervi :) Più in là le cose si faranno più chiare, promesso. ^^

D’ora in poi dovrei aggiornare a intervalli di – più o meno – tre giorni, sempre tempo permettendo. Fino ad allora, sayonara minna!

Aya ~

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Capitolo 4
*** Nell'ombra ***


3

Nell’ombra

 

 

 

Seduto sul letto, scrutò accigliato la luce del sole cercare di farsi strada dagli spiragli delle tapparelle alla finestra.

Non aveva chiuso occhio. Era rimasto là steso immobile per ore, ad ascoltare lo scemare della pioggia, cercando di togliersi dalle orecchie l’eco di quella dannatissima sirena. Ad un tratto si era alzato e si era ispezionato la spalla, pulendo i graffi dalle poche gocce di sangue rappreso e scoprendo un ampio livido. Poi era tornato a stendersi, e alla fine aveva assistito allo spettacolo del grigiore dell’alba che inglobava le ombre sul soffitto della stanza.

Per tutto il tempo, era stato tormentato da un’unica domanda.

Avrà fatto anche il mio nome?

Lui era entrato nel circolo da soli due mesi; non aveva un ruolo tale da costituire un obiettivo importante. Del resto, lo stesso Demyx glielo aveva confermato: lui era ‘in prova’, era un pivellino. Chissà, forse quel bastardo aveva voluto sputare solo sul suo amato capo. Forse era per questo che nessuno l’aveva seguito fino a quel condominio...

Gli occhi fissi sulla finestra, Axel si decise a muoversi. Doveva pur fare qualcosa, o l’oziosità di quei pensieri inutili lo avrebbe fatto impazzire.

Si alzò e andò cautamente a sollevare le tapparelle.

Inspirò l’aria satura di pioggia primaverile e batté le palpebre alla luce del sole. Si ritrovò a guardare dall’alto un cortiletto interno, invaso dalle erbacce e circondato dalle quattro mura del palazzo. Si accorse che un lato del cortile era aperto su un vicolo; immaginò che s’immettesse nello stesso dedalo di stradine malfamate che lui aveva percorso per arrivare lì. La vista di quel passaggio al mondo esterno lo indusse ad appiattirsi istintivamente contro il punto meno visibile della finestra.

Di colpo si sentì osservato.

Alzò gli occhi. A distanza di pochi metri, oltre il pianerottolo della scala antincendio a quel piano, oltre la finestra dell’appartamento di fronte, un ragazzino biondo ricambiava il suo sguardo.

Axel lo studiò solo per un attimo. Il ragazzo sembrava sì curioso, ma anche perso dietro ben altri pensieri. Nulla di cui allarmarsi. Rassicurato, si ritrasse comunque dalla finestra, sfuggendo al suo campo visivo, e prima di allontanarsi del tutto ebbe l’impressione che lui facesse altrettanto.

Tornò a stendersi sul letto.

Quella sedentarietà forzata sarebbe stata una lunga, noiosa faccenda. Sbuffò. Se non altro, non gli avevano ancora messo nessuno alle calcagna. Magari non l’avrebbero fatto neanche in seguito, se era vero che Demyx aveva tenuto la bocca chiusa su di lui. Intrecciò le braccia dietro la nuca e posò un piede contro la parete. In ogni caso, rifletté ancora, doveva cambiare aria, lasciare la città, al più presto. Non gli andava di restare da quelle parti. Avrebbe indagato, avrebbe chiesto in giro, e con un po’ di fortuna sarebbe partito ancor prima di dover pagare quel vecchiaccio di Vexen. Il pensiero lo fece sorridere per un istante.

Finalmente riuscì ad assopirsi. L’ultima cosa cui si ritrovò a pensare, stranamente, fu lo sguardo vago e distante del ragazzino biondo; poi sprofondò in un sonno inquieto.

 

 

* * *

 

 

La punta della penna scorreva lenta sul fazzoletto, simile ad un agile, elegante pattinatore sul ghiaccio. Cerchi, linee, scarabocchi apparentemente senza senso. Le voci di Sora e Kairi erano lontanissime.

«... E poi c’è la ricerca di scienze...»

«Oh, quella. L’ho finita ieri sera.»

«Adesso capisco perché vai tanto bene a scuola, Sora! Le faccende qui le sbrigo tutte io, è ovvio che poi tu abbia tutto il tempo che vuoi per studiare!»

«Già, dove andrei a finire senza di te?»

«Alla malora, probabilmente.»

Roxas si concentrò sul dolce tintinnare delle stoviglie che Kairi stava lavando a mano e sul lievissimo fruscio della penna sul fazzoletto, estraniandosi ancora di più. Non aveva voglia di inserirsi nei loro discorsi. Aveva scelto lui stesso di non far più parte di quella vita, e non vedeva alcun motivo di parlarne con loro.

Per qualche misteriosa ragione, i suoi pensieri tornarono al tipo dai capelli rossi che aveva visto quella mattina alla finestra dell’appartamento 2B. Quella sua aria così guardinga gli aveva dato per un attimo di che pensare. Si stava nascondendo da qualcosa? O da qualcuno? Non che gli importasse davvero; quella era soltanto una novità nella piattezza della sua esistenza...

«Tu cos’hai fatto oggi con il professor Ansem, Rox

Il ragazzo trasalì bruscamente e alzò gli occhi. Kairi sollevò i suoi dal lavello e gli sorrise, incoraggiante.

«Niente di che» borbottò infine Roxas, scrollando le spalle. «I soliti esercizi. Equazioni e altra roba del genere...»

Al suo fianco, Sora si sporse verso di lui e gli frizionò i capelli con il pugno.

«Sì, tu dici così» rise, «ma noi lo sappiamo che sei un piccolo Einstein!»

Roxas si ritrasse e abbozzò un sorrisetto di circostanza, quindi abbassò di nuovo lo sguardo sullo scarabocchio cui si era dedicato negli ultimi cinque minuti. Si fermò con la penna ancora a mezz’aria.

«Ammettilo, Sora. È Roxas che ti fa tutti i compiti, non è vero?»

«Ehi, tu, vedi di non scherzare col fuoco!»

«Ah, sì? E tu vedi di non scherzare con l’acqua saponata!»

«Con la... che

«Con quella che ho tra le mani proprio adesso, genio, e che sono pronta a scaraventarti addosso!»

«... Devo smetterla di invitarti a pranzo, Kairi. Ne va della mia incolumità fisica.»

«Però per lavarti i piatti ti vado più che bene, eh?»

«Ehm...»

«L’hai voluto tu!»

Roxas era ancora immerso nella contemplazione del suo disegno quando si rese conto che una spugna piena di detersivo per piatti si schiantava direttamente in faccia a Sora, tra le risate di Kairi. Si accorse solo vagamente che Sora schizzava in piedi e si scagliava ridendo addosso alla ragazza, pronto a ricambiare il favore.

Si scosse. Afferrò il fazzoletto su cui – senza rendersi conto di ciò che faceva – aveva scarabocchiato uno skateboard, lo appallottolò e lo lanciò con rabbia verso il cestino accanto alla dispensa. Canestro.

Sora e Kairi interruppero la loro lotta a colpi di spugna e sapone e lo guardarono, confusi.

Cercando di calmare il respiro improvvisamente affannoso, Roxas strinse forte i pugni e si avviò verso la sua stanza.

«Rox?» lo chiamò Sora, in tono esitante.

Lui non si voltò.

Arrivato in camera, prese a caso un libro dalla scrivania e lo aprì, affondandovi il viso nella speranza di togliersi da davanti agli occhi quella maledetta immagine. Qualsiasi distrazione, una qualsiasi...

Sbirciò verso la finestra. L’appartamento 2B era immerso nella penombra; non fosse stato per le tapparelle alzate, sarebbe parso ancora disabitato.

 

 

* * *

 

 

Zexion si abbassò il cappuccio e alzò lo sguardo sull’insegna screpolata del pub abbandonato. Ai suoi tempi doveva essere stato un mediocre night club. Un posto decisamente insolito per gli standard del capo, abituato a rifugi di un certo contegno, non a simili bettole. Si sollevò il bavero del cappotto e si diresse ad una porta socchiusa, che sembrava sul punto di crollare dai cardini da un momento all’altro.

Forse il capo aveva scelto questo posto proprio perché era l’ultimo in cui sarebbero venuti a cercarlo. Se Demyx aveva cantato, allora probabilmente il suo resoconto avrebbe indirizzato le ricerche nei vecchi nascondigli della zona benestante...

Attraversato un lurido atrio e una breve rampa di scale, si ritrovò in un corridoio pieno di porte, aperte presumibilmente su altrettante stanze in cui un tempo i clienti compravano i servigi personali delle ragazze del night. Si guardò intorno. Dall’ultima porta a destra proveniva un fioco bagliore. S’incamminò in quella direzione.

Giunse sulla soglia di una camera da letto dai mobili completamente tarlati, debolmente illuminata da una lampadina nuda sul soffitto. Persino quella sembrava sul punto di cedere. Zexion si stupì di trovare elettricità in quel posto. Poi pensò che il suo datore di lavoro non si sarebbe mai abbassato ad una cosa tanto squallida come intrattenersi al buio al pari dei topi.

Il capo era lì, seduto nell’ombra, le gambe accavallate, come fosse completamente a suo agio.

«Ah. Zexion.» La sua voce era quella di sempre, inflessibile e calcolatrice; non sembrava appartenere a qualcuno che fosse stato appena pugnalato alle spalle dal proprio pupillo. «A quanto pare il fidato Luxord è riuscito a mettersi in contatto con te. Molto bene. Il tuo aiuto mi è prezioso.» Fece un cenno verso una sedia vuota accanto a sé. «Vieni pure. Parliamo.»

Zexion si avvicinò e si sedette, notando che la sua seggiola era molto più bassa e piccola rispetto a quella dell’uomo. Le solite manie di lusso e di protagonismo. Era nel suo gruppo da più di un anno, ma ancora non mancava mai di sorprendersi della sua vanità. Quando lo guardò in viso, si rese conto che in effetti il fatto di essere braccato dalla polizia non aveva minimamente intaccato la cura maniacale che aveva del suo aspetto.

«Avete rintracciato anche Larxene?» chiese, per intavolare la conversazione.

Il sorriso sicuro dell’uomo s’incrinò per un istante. «Temo che l’abbiano presa. I suoi precedenti di prostituzione devono aver pesato molto, capisci...»

Zexion annuì. A soli diciotto anni, Larxene aveva una lista di precedenti ben più lunga della sua, e persino di quella dello stesso Demyx. Non provava un vero e proprio dispiacere alla notizia della sua cattura; semmai una forte sensazione di ineluttabilità, e di pericolo.

«E Axel

L’uomo si passò una mano tra i lunghi capelli crespi ma curati.

«Luxord ha seguito i suoi movimenti, la scorsa notte... Ma ci arriveremo con calma.» Fece una pausa volutamente teatrale, estraendo dalla tasca un accendino e concedendosi una sigaretta. «Veniamo piuttosto alla cosa più importante da discutere in questo momento.»

«Ossia?»

«Ossia Demyx

Zexion tacque. Dal modo in cui il pacchetto di sigarette fu scagliato al suolo, percepì finalmente tutta l’ira repressa dell’uomo che aveva di fronte, l’ira del tradimento e del bisogno di vendetta. Tuttavia la sua voce continuava a non lasciar trapelare nessuna di quelle emozioni.

«Immagino» esalò insieme al fumo, «che tu conosca il ringraziamento dovuto a chi si comporta come lui, Zexion

Il giovane annuì di nuovo, freddo.

«Quando e dove?» chiese soltanto.

Nella penombra, il volto di Marluxia si modellò in un ghigno soddisfatto.

 

 

 

 

 

_________________________________________________________________________________________

 

 

 

 

 

 

 

Per prima cosa occorre dire che questa fic NON avrà risvolti Zemyx. Zexion e Demyx non verranno mai mostrati neppure faccia a faccia. Sì, lo metto in chiaro fin da subito perché conosco la percentuale di popolarità di questo pairing (che comunque piace molto anche a me ^^) e non voglio che nessuno resti deluso in seguito. Ecco. xD

Poi, ci tengo a ringraziare Ayesha, fragolottina, ka93 ed _Ella_ per aver inserito la fic tra le seguite. Le risposte alle singole recensioni le lascerò sempre all’apposito link – ma volevo, dovevo ribadirvi la mia gratitudine. Perché il fatto è che il mio rapporto con questa storia è diventato talmente conflittuale – in certi periodi mi piace, in altri la leggo e mi chiedo macosadiavolohoscrittoesottoeffettodicosapoiiochenonhomaifumatoniente – che sapere che invece ci sono dei lettori incuriositi e che oltretutto apprezzano è per me fonte di immensa gioia. Non esagero per niente. Grazie. <3

Vi abbraccio tutti, e vi attendo al prossimo capitolo. :)

Aya ~

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Capitolo 5
*** La finestra di fronte ***


4

La finestra di fronte

 

 

 

Erano già passati quattro giorni senza che nulla cambiasse.

Axel non si sentiva affatto sicuro nel restare così a lungo in quel posto, soprattutto dopo aver deciso di lasciare Twilight Town il più presto possibile; ma non c’era molto che potesse fare al riguardo. Dopo aver iniziato ad impiegare nell’acquisto di viveri i soldi che in teoria gli sarebbero serviti per pagare l’affitto dell’appartamento – doveva pur mangiare, cazzo! – aveva deciso di utilizzarli anche alla vecchia maniera, indagando negli anfratti più malfamati del quartiere per vedere se qualcuno fosse sul punto di partire e se fosse disposto a portarlo con sé, anche dietro compenso. Non poteva certo prendere un treno, un aereo o comunque saltellare allegramente fuori dalla città; non aveva l’assoluta certezza di non essere tenuto d’occhio. Usciva soprattutto di notte, evitando di incrociare gli altri condomini – cosa peraltro piuttosto facile, dal momento che gli unici avventori del palazzo sembravano ridursi ad una vecchia signora che usciva solo per arrancare fino alla bottega all’angolo della strada, un uomo sui trentacinque anni che passava tutto il giorno fuori, probabilmente per lavoro, e un paio di studenti universitari, anche loro quasi sempre assenti. Ma neppure le uscite notturne gli impedivano di provare la solita sensazione di essere osservato. Si augurava che fossero solo paranoie: nessuno era ancora giunto a lui, e se fosse riuscito a partire subito non avrebbe più avuto nulla da temere...

Ad ogni modo, nessuna di quelle sortite gli aveva fruttato nulla. Un tipo losco con cui aveva avuto occasione di parlare fuori da un dubbio locale, un certo Xaldin, in fuga dopo essere stato coinvolto in una rapina, si era offerto di portarlo con sé all’estero; ma era stato stanato dalla polizia la notte stessa. I giornali di quella mattina ne parlavano ancora.

Axel si guardò intorno per l’ennesima volta in quella sua nuova casa, giocherellando con l’accendino che aveva in mano, nervoso. Certo, rifletté, dal momento che la sua faccia e il suo nome non erano ancora comparsi nei telegiornali avrebbe potuto ritenersi tanto tranquillo da poter alzare le tende alla luce del giorno, senza preoccuparsi di incappare in eventuali controlli della polizia. Ma c’era sempre la faccenda dell’affitto che non avrebbe pagato. Un altro buon motivo per squagliarsela senza farsi notare. Non che avesse paura di quel cadavere mobile di Vexen, ovvio; ma il portinaio avrebbe potuto rivolgersi alla legge o uscirsene con altre stronzate del genere, il che lo poneva di nuovo in pericolo.

Sbuffò. Maledisse Demyx, probabilmente per la milionesima volta negli ultimi quattro giorni e quattro notti. Si accese una sigaretta e andò ad appoggiarsi alla finestra, scrutando truce le svolte della scala antincendio davanti a sé.

L’aria immobile e tiepida della sera lo rilassò un po’. I suoi occhi vagarono distratti sulla facciata antistante del condominio, fino alla finestra del ragazzino biondo che lo aveva notato il primo giorno. Si erano visti altre volte, da allora, ma si erano sempre ignorati cordialmente. Da quello che Axel aveva capito, il ragazzino passava gran parte del suo tempo in quella stanza, almeno quanto ne passava lui nel proprio appartamento; quando si dedicava ad osservare le abitudini dei condomini, Axel scordava persino di includerlo nella lista. Chissà, magari era anche lui una specie di reietto della società, si disse con un sogghigno.

In quel momento la finestra di fronte era vuota, ma le persiane erano aperte, e le tende si muovevano pigramente nel vento. Axel diede un altro tiro alla sigaretta; i suoi pensieri tornarono al punto di partenza. Come cazzo poteva lasciare quel posto?

Un rumore sotto di sé lo scosse di nuovo dai suoi problemi. Una serie di passi, che echeggiavano lenti sotto una volta, ben distinguibili nel silenzio assoluto.

C’era qualcuno nel vicolo che portava al cortile del condominio.

Senza emettere un fiato, Axel spense la cicca sul davanzale e rimase in ascolto.

I passi sembrarono indugiare per un istante, poi tornare indietro; infine scemarono in lontananza. Chiunque fosse, doveva aver percorso il vicolo a ritroso, sbucando di nuovo fuori dai confini del palazzo.

Teso, strinse le mani intorno al bordo del davanzale finché le nocche gli sbiancarono. Probabilmente si era trattato di un barbone, di qualche poveraccio in cerca di un posto dove dormire; quel quartiere brulicava di gente sfrattata, se n’era reso conto perlustrandolo nelle sue indagini. Ugualmente, non riusciva a togliersi di dosso la solita sensazione. Qualcuno sapeva dov’era? Qualcuno sapeva chi era?

Sempre senza alcun rumore, scavalcò con un salto la finestra, atterrando sul pianerottolo della scala antincendio. Si accucciò contro il freddo metallo, all’erta.

 

 

* * *

 

 

Sora continuava a vagare in giro per la cucina come un’anima in pena, tormentandosi i capelli e lanciandogli insistenti occhiate in tralice. Roxas tamburellava con le dita sul tavolo, paziente. O almeno sforzandosi di esserlo.

Ad un tratto, Sora si fermò nel centro della stanza e lo fissò, spavaldo.

«Non ci vado, se non vieni anche tu.»

Roxas chiuse gli occhi per un attimo, invocando altra pazienza.

«Sora, ho perso il conto delle volte che abbiamo avuto conversazioni del genere. Per l’ultima volta, vai a quell’accidenti di cena prima che ti ci spedisca io con la forza.»

Sora non raccolse la battuta. Incrociò le braccia con aria ostinata.

«Non è giusto. Ti stai praticamente murando vivo. Perché non cerchi di uscire, una volta tanto? Io non voglio...» S’interruppe, poi riprese a voce più bassa. «Mamma e papà non vorrebbero questo, lo sai.»

Roxas distolse lo sguardo all’istante. Sapeva che suo fratello aveva ragione. Sapeva che i suoi non sarebbero stati fieri di lui. Ma lui cosa diavolo poteva fare, dannazione? Era quella la sua esistenza, ormai. Seduto tra quattro mura, a guardare lo scorrere del tempo e a cercare di imparare a convivere con tutti i ricordi e tutti i rimpianti. Non era abbastanza forte per farlo a testa alta; lui non era come Sora.

«Vedi, Roxas, tuo fratello non è mai triste... Vedi, Roxas, tuo fratello non si arrabbia mai... Roxas, cos’è quel faccino cupo? Roxas, perché ti chiudi a riccio con chi ti vuole bene?»

Si portò le mani alle tempie e inspirò profondamente, serrando di nuovo gli occhi con forza. Quando li riaprì, vide che Sora lo osservava con un’espressione un po’ contrita, come se si fosse già pentito delle proprie parole.

«Roxas, io...»

«Va tutto bene.» Il ragazzo abbassò le mani, tornò a respirare normalmente e si sforzò di sorridere. Un ennesimo falso sorriso. «Dai... È solo per quelli della tua classe. E i tuoi compagni saranno già tutti lì. Non farli aspettare.»

Sora esitò ancora, ma alla fine sembrò arrendersi, come qualche giorno prima, quando gli aveva chiesto di tornare a scuola. Si passò un’ultima volta la mano tra i capelli.

«E va bene.» Lo guardò di sotto in su. «Non farò tardi.»

Roxas scosse la testa. «Non preoccuparti per me.»

Con un sospiro, Sora prese la giacca dall’appendiabiti e si diresse alla porta dell’appartamento. Qui sollevò una mano in segno di saluto, poi uscì.

Roxas si concesse finalmente di sospirare a sua volta. Odiava quella situazione. La odiava con tutto se stesso. Ma non poteva farci niente. Era così e basta.

Prese dal tavolo il blocco dei disegni e si decise a tornare in camera. Non gli importava di stare da solo; tanto, il vuoto che avvertiva dentro di sé esisteva comunque, con o senza la compagnia altrui.

Quando fu accanto al suo letto già sfatto, qualcosa fuori dalla finestra attirò la sua attenzione.

Era di nuovo il misterioso inquilino del 2B. Stavolta era accovacciato sul pianerottolo della scala antincendio, le mani strette all’inferriata, lo sguardo attento rivolto al cortile sotto di sé e al vicolo che ne usciva. Roxas rimase a lungo a fissarlo, ma lui non si muoveva di un millimetro.

 

 

* * *

 

 

Che si fosse trattato solo di uno scherzo della sua immaginazione? Non sarebbe stato impossibile. Tutto taceva; in quel silenzio, anche un respiro un po’ più forte del normale sarebbe giunto alle sue orecchie. Invece nulla.

Si chinò un altro po’, fin quasi a sfiorare il pianerottolo con la guancia; da quella posizione riusciva a vedere una piccola parte del vicolo. Era debolmente illuminato dalle poche luci esterne al condominio, il cui bagliore aranciato proiettava lunghe ombre scure fin dentro al cortile. Nella penombra di quei pochi metri poteva celarsi chiunque... Ma forse...

«Chi è che stai spiando?»

Axel sussultò. La voce che era risuonata così vicina e improvvisa gli aveva fatto venire un mezzo accidente. Alzò la testa di scatto, e si ritrovò a guardare il ragazzino biondo – che, appoggiato con aria distratta al davanzale della sua finestra, lo osservava con un atteggiamento a metà tra il disinteressato e il diffidente.

«Cos’è, sei un ladro o qualcosa del genere?» continuò il biondino.

Axel sbuffò sonoramente e si sollevò in piedi.

«Se anche fosse» sogghignò, per darsi un contegno, «non verrei certo a dirlo a te, non trovi?»

«No, certo.» Il ragazzo scrollò le spalle con noncuranza, quindi guardò a sua volta verso il cortile. «Immagino tu stia semplicemente facendo la guardia contro eventuali malintenzionati.»

Axel lo fissò. Era combattuto tra la voglia di ridere e quella di mandarlo al diavolo.

«Vedi di non impicciarti in faccende che non ti riguardano» lo ammonì infine, senza più sorridere.

L’altro ricambiò l’occhiata.

«Ah, ma allora sei un tipo pericoloso» commentò con una punta di palese sarcasmo nella voce.

Axel camminò lentamente sullo stretto pianerottolo della scala di metallo, verso la sua finestra, dove si chinò e lo guardò per bene in faccia. Non poteva avere più di quattordici, quindici anni; aveva grandi occhi azzurri, ma sembravano tristi, quasi spenti.

«Credimi, non vuoi saperlo davvero, bimbo» gli sibilò.

Il ragazzino scrollò di nuovo le spalle, quindi si ritrasse dalla finestra, mostrando ai suoi occhi un ambiente semplice e anonimo, una camera da letto con due brandine identiche, lampade a forma di acquari, scaffali stipati di libri e altri oggetti vari e caos un po’ ovunque.

Solo allora Axel notò su cosa era seduto.

Lui strinse le mani intorno ai braccioli della sedia a rotelle e gli rivolse un lieve ghigno.

«Oh, hai notato. Non dirmi che adesso ti sentirai mortificato per aver minacciato un disabile. Non dirmi che ti faccio pena

Sottolineava le parole con un’amarezza assoluta. Axel si scosse. Lo guardò senza emozione.

«Dovresti farmi pena?» ribatté, ironico. «Non mi avvilisco per così poco.»

Il ragazzino abbassò lo sguardo sulle proprie gambe immobilizzate, dove sorreggeva un album da disegno chiuso. Il ghigno divenne un sorriso triste, e questa volta la sua voce fu poco più che un sussurro.

«Allora sei uno dei pochi.»

Axel non seppe replicare. Rimase immobile a guardarlo far forza sulle ruote della sedia, per poi voltarla e uscire dalla stanza senza una parola.

Quando fu sparito, Axel voltò le spalle alla finestra, un po’ confuso. Poi scosse il capo e, ormai dimentico dei rumori che poco prima lo avevano allarmato, ripercorse il pianerottolo fino al suo appartamento, scavalcando di nuovo il davanzale per rientrare.

 

 

* * *

 

 

Roxas brandiva la matita al pari di una spada. Le linee che tracciava sul foglio erano stoccate rabbiose, affondi e fendenti violenti.

Non capiva bene perché si sentisse improvvisamente così furioso. Non era la prima volta che gli occhi di un estraneo si posavano sulla sua condanna. C’erano già stati i medici, la nonna di Kairi e Naminè, il professor Ansem.

Certo, stavolta era stato diverso, questo non poteva negarlo.

Gli occhi di quell’adolescente sconosciuto ed enigmatico non avevano tradito alcuna traccia di compassione, di pietà o di un qualsiasi altro sentimento, mentre osservavano la sua dannata sedia. Quegli occhi verdi, che aveva incrociato solo per qualche minuto, gli erano apparsi come pozzi profondi, agitati da turbini maledetti: avevano tutta l’aria di aver visto l’inferno, e di non poter provare più nulla nei confronti del mondo terreno.

Forse era stata quella mancanza di reazioni a sconvolgerlo...

No, si disse mentre con un colpo di matita più forte usciva dal bordo dell’album, in realtà era arrabbiato con se stesso. Aveva appena permesso – consapevolmente – ad un estraneo di avvicinarsi e di scoprire la sua vera natura.

Da due anni si nascondeva agli sguardi della gente, nel tentativo di evitare il confronto e, soprattutto, il dolore. Due anni, e mai gli era capitato di far avvicinare così tanto una persona, ad eccezione di Sora e di quei pochissimi avventori dell’appartamento. E quella sera, quando si era ritrovato a guardare dalla finestra quel tizio, aveva cominciato una conversazione con lui di punto in bianco, e di sua volontà.

In circostanze normali non si sarebbe mai sognato di fare nulla del genere. Avrebbe ignorato gli atteggiamenti ambigui del rosso, proprio come aveva fatto negli ultimi quattro giorni, in tutte le occasioni in cui l’aveva notato e si era chiesto chi diavolo fosse.

Invece...

Forse era stato proprio quel suo essere misterioso a fargli calare le barriere? Il modo in cui guardava giù in cortile... Forse aveva voluto parlare con lui perché aveva intuito o intravisto che anche lui aveva dei demoni da cui guardarsi le spalle?

E come se il suo improvviso ardimento non bastasse a sorprenderlo, scopriva anche di star parlando per la prima volta con qualcuno che non avesse pietà di lui; e incontrava in lui una freddezza verso la vita che sentiva di condividere pienamente.

«Non mi avvilisco per così poco.»

«Allora sei uno dei pochi.»

Roxas si fermò, ansante, e osservò il disegno tratteggiato a linee irose. Stavolta era un parco, un lungo corteo di alberi, gruppi confusi di persone, una pista asfaltata in lontananza. E in un angolo, in primo piano, un uomo e una donna appena abbozzati, di cui non si distinguevano i lineamenti, distrutti da qualcosa che poteva essere il tempo o la tristezza o qualcosa di più doloroso ancora.

Fece per sfuggire a quella vista, ma i suoi occhi si posarono inevitabilmente sulle sue gambe, abbandonate e inerti.

La matita cadde lentamente a terra. Spossato, Roxas chiuse gli occhi e abbandonò il viso sul foglio, chinandosi sul tavolo.

Per la prima volta da molto tempo, pianse.

 

 

* * *

 

 

Si tirò su il cappuccio. Aveva visto abbastanza del luogo. Ma non era ancora il momento di annunciargli la propria presenza; Marluxia doveva ancora decidere i particolari...

Nell’attesa, almeno avrebbe saputo dove trovarlo.

Zexion si voltò e percorse in senso inverso il vicolo, tornando al di fuori del vecchio condominio.

 

 

* * *

 

 

Luxord aveva fatto un ottimo lavoro.

Osservò compiaciuto il posto cui le ricerche discrete del suo ancor più discreto amico lo avevano condotto. La villa doveva essere inutilizzata da anni, ma le luci accese alle finestre e la presenza degli agenti a guardia degli ingressi la dicevano lunga.

Così, era là che si nascondeva adesso il suo piccolo.

Quando aveva capito che lo aveva perso per sempre, aveva provato la più grande delusione della sua vita. Non gli era mai successo di fidarsi così ciecamente di una persona, di legarsi a quel punto a qualcuno, di provare quel che provava per lui. Mai, con nessuno, neanche con Saïx...

Ora capiva di essere stato un illuso.

Demyx non era davvero uno di loro. Non era mai stato davvero suo.

Per questo avrebbe dovuto pagare.

Marluxia si ritirò. Quella notte avrebbe di nuovo contattato Zexion. L’ora era quasi giunta; occorreva solo trovare il momento adatto.

Povero, piccolo Demyx. Credo proprio che mi mancherai.

 

 

 

 

 

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Mi scuso se stavolta non ho risposto singolarmente alle recensioni, ma stasera sono un po’ di fretta ;_;

Ringrazio comunque di vero cuore Kisshou, fragolottina ed _Ella_ per aver recensito il capitolo precedente, nonché Mikhi per aver aggiunto la storia alle seguite ^^

Beh, diciamo che finalmente la causa del malessere di Roxas si sta delineando, anche se restano ancora molti punti oscuri. Prometto che a partire dal prossimo capitolo le cose si smuoveranno un po’ e usciremo da questo noiosissimo stallo iniziale! xD

Fino ad allora, sayonara minna <3

Aya ~

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Capitolo 6
*** Una macchia da lavare ***


5

Una macchia da lavare

 

 

 

Axel chiuse gli occhi e sospirò di sollievo. Una vera doccia. Quanto tempo era passato dall’ultima volta che ne aveva fatta una decente? Quanti anni o quante vite prima?

Si massaggiò la pelle con cura, cercando di sciogliere tutta la tensione accumulata nell’ultimo periodo. Guardò la schiuma scorrere giù lungo il corpo, sul ventre piatto e sulle gambe nervose, fino a sparire nel tubo di scarico. Sarebbe stato bello, rifletté, se la vita fosse stata una doccia, se tutto lo sporco degli esseri umani avesse potuto esser lavato via così facilmente, al passaggio di una spugna ruvida.

Sorrise del proprio pensiero. Avanti di questo passo e diventerai un filosofo, vecchio mio.

Infilò la testa direttamente sotto il getto d’acqua, chinandola in avanti. Appoggiò le mani aperte alla parete della doccia e per qualche minuto rimase così immobile, perso nei propri pensieri.

All’orfanotrofio non c’era mai stata una vera e propria doccia. Da piccoli, i bambini facevano il bagno tutti insieme in grandi lavelli; una volta cresciuti s’infilavano in una vasca e il più delle volte si gettavano addosso solo qualche secchiata di acqua gelida. Era lo scotto per essere alloggiati in un’istituzione così “a buon mercato”. Acqua gratis, ma scarsa.

E da quando aveva lasciato quel posto le cose non erano certo migliorate. In ogni caso, non aveva più avuto modo di entrare in una vera stanza da bagno. La sua vita era stata più o meno un darsi alla macchia, almeno prima di incontrare Demyx e i suoi allegri compari sulla sua strada.

Axel rialzò la testa di scatto, con una mezza risata, schizzando acqua dappertutto. Buffo quanto si possa rimuginare mentre ci si fa la doccia.

Chiuse il getto, aprì la porta scorrevole e uscì dal box, sgocciolando sul pavimento bianco. Afferrò un asciugamano e vi si frizionò i piedi, per evitare disastrose scivolate; quindi uscì dal bagno e tornò in camera da letto, dove iniziò a vestirsi senza neppure asciugarsi. Era piacevole, la sensazione dei vestiti nuovi sulla pelle nuda e pulita.

Ecco dove finiscono i tuoi soldi, Vexen, si disse con un sorrisetto, mentre si allacciava in vita i jeans comprati appena il giorno prima.

Da un tempo infinito non si permetteva il lusso di entrare in un negozio e procurarsi onestamente ciò di cui avesse bisogno. E ora lo faceva comunque con un certo nervosismo; ogni volta che comprava qualcosa temeva che la cassiera di turno gli puntasse il dito contro urlando: «È lui! È lui!» Ma doveva pur nutrirsi per vivere, e doveva pur cambiarsi, almeno di tanto in tanto... Altrimenti la doccia non avrebbe avuto senso, sogghignò tra sé.

Si voltò distrattamente verso la finestra chiusa. Il crepuscolo stendeva riflessi di fuoco viola sulla facciata interna del condominio, illuminando l’appartamento del ragazzino sulla sedia a rotelle.

Axel ripensò per un attimo al breve incontro della sera prima. Le ultime parole pronunciate dal biondino gli risuonarono nelle orecchie.

«Allora sei uno dei pochi.»

Il modo in cui lo aveva detto lo aveva in un certo senso colpito; era come se quel ragazzo fosse stanco di tutto, stanco degli altri, stanco di se stesso. Solo il giorno prima, Axel si era chiesto divertito se il suo dirimpettaio fosse un reietto della società. Adesso si rendeva conto che forse era proprio così, ma che a quanto pareva era lui stesso a volerlo essere.

Ma in fondo, che me ne importa?

Scosse la testa, sbuffando. Non aveva ragione di pensare a quel ragazzino. Non provava pietà per lui o per la sua condizione; da molto tempo non riusciva a provare pietà neppure per se stesso. Parlare con lui era stato solo un episodio, e se c’era una cosa che doveva evitare era ripetere quell’episodio. Niente pubblicità. Meno gente lo conosceva, meglio era.

Ancora a piedi nudi, andò ad aprire la finestra per lasciar entrare un po’ d’aria nuova nella stanza.

Fu allora che si accorse della figura incappucciata in cortile.

Colto di sorpresa, Axel si ritrasse trattenendo un’imprecazione tra i denti. Gli tornarono alla mente i passi uditi la sera prima: era la stessa persona?... Ma un attimo dopo tornò a guardare fuori, perplesso.

C’era qualcosa di familiare in quella sagoma scura e minuta...

In quel momento, il misterioso individuo iniziò a salire su per la scala antincendio. Anche il suo passo non gli era nuovo.

Axel rimase col viso in ombra, incerto, pensando al da farsi; ma quando il tizio fu abbastanza vicino perché la luce del sole morente illuminasse la parte scoperta del suo viso, si rilassò.

Arrivato al pianerottolo e fermatosi davanti alla sua finestra, Zexion si abbassò il cappuccio.

«Ciao, Axel» salutò senza sorridere.

 

 

«Come hai fatto a trovarmi?»

Zexion si guardò intorno in cerca di una sedia, ne individuò una accanto alla finestra e vi si diresse per sedersi, mentre Axel lo scrutava dal letto. Ora la stanza era in penombra; le prime stelle già brillavano oltre la finestra.

«Luxord» gli rispose. «Quella sera ti ha seguito. Almeno, così mi ha detto il capo.»

Axel annuì, infilandosi una felpa nera sopra la maglietta leggera. Luxord era una sorta di spia; non era parte attiva del gruppo, ma sapeva come portare al capo informazioni interessanti. Per di più era un incensurato, e non aveva mai destato sospetti, almeno fino a quel momento. Un damerino ossigenato che gli era sempre stato sul cazzo.

«Beh, allora?» sbottò alla fine, incrociando le braccia e scoccando a Zexion uno sguardo interrogativo. «Immagino che tu non mi abbia contattato solo per chiacchierare.»

Sul viso di Zexion, seminascosto dai capelli troppo lunghi, passò l’ombra del vago riflesso di un sorriso.

«No, infatti. Vengo a portarti notizie.» Si rilassò contro lo schienale della sedia e incrociò le braccia a sua volta, tornando serio. «Il capo mi dice di non essere molto soddisfatto di te, Axel. A quanto pare, negli ultimi giorni ti sei mosso per cercare di lasciare la città, ma non hai mai chiesto informazioni sui tuoi vecchi amici. E non hai mai cercato di riunirti a lui.»

Axel sbuffò sonoramente e distolse lo sguardo. Non si chiese neppure come avessero fatto a venire a sapere tanti particolari.

«Scusatemi tanto se ho cercato di salvarmi il culo come tutti.»

«Non è questo il punto.» Vide con la coda dell’occhio che Zexion si protendeva verso di lui, in un atteggiamento di studiata complicità. «Il capo mi dice anche di ricordarti che, se affonda lui, affondiamo tutti quanti.»

Axel si voltò di nuovo a guardarlo, ironico. «Ma davvero? Se non sbaglio, la regola universale tra noi era l’interesse personale. Non è così che si è comportato Demyx

Zexion sorrise di nuovo, stavolta in modo palese. «Ci stavo arrivando.»

D’improvviso, Axel ebbe un brutto presentimento.

«Il comportamento di Demyx è, sempre a detta del capo, una macchia da lavare.» Zexion si accarezzò distrattamente una tasca del cappotto. «E i panni sporchi, come certo saprai anche tu, si lavano in famiglia. Perciò...»

Lasciando in sospeso la frase, estrasse dalla tasca una pistola.

Axel s’irrigidì. Zexion lo ignorò e proseguì imperterrito.

«Ci sarà una... come definirla?... spedizione punitiva, tra qualche tempo, quando le acque si saranno un po’ calmate. Marluxia vuole solo sapere se sei dei nostri. In caso contrario, vuole che tu sappia che Demyx non sarà l’unico a pagare per i suoi errori.»

Axel fissò glaciale la pistola che Zexion gli tendeva come un regalo, mostrandone il calcio.

Era vero, anche lui sul momento aveva odiato Demyx, aveva maledetto mille volte la sua decisione di andare alla polizia a confessare e a tradirli tutti. Ma in quegli ultimi giorni – giorni in cui aveva dormito in un letto vero, si era tenuto alla larga dai rischi e non aveva mai pensato al suo cosiddetto ‘lavoro’ – si era sentito probabilmente bene come mai negli ultimi due mesi. C’era la preoccupazione, sì, la sensazione del pericolo; ma meglio quella, rispetto a ciò che prima faceva per vivere... Giusto?

E adesso, gli dicevano di andare a regolare i conti con Demyx.

«Ah, sì.» Zexion ruppe il silenzio aprendo il cappotto e tirando fuori da una tasca interna una piccola sacca nera. «Qui c’è la tua roba, quella che hai affidato a me quella notte, ricordi?» Posò sacca e pistola sul comodino lì accanto, quindi si alzò. «Pensaci, Axel. C’è ancora tempo prima che io torni a prenderti. Per allora, pensa bene se tieni di più alla tua vita, o a quella di uno che ci ha messi tutti in pericolo.»

Axel tacque ancora. Si limitò a guardarlo, mentre l’altro si risollevava il cappuccio, si voltava di nuovo verso la finestra, la scavalcava e cominciava a discendere dalla scala antincendio ormai semibuia.

Rimase a lungo immobile, guardando fisso la finestra aperta per non soffermarsi con gli occhi sul comodino dove giacevano la pistola e la sacca gonfia del suo recente passato: abbandonate nell’ombra, erano una flebile illusione di innocua inerzia pronta a ricondurlo di nuovo nel turbine.

Ma lui voleva rientrarci?

La sua prima intenzione era stata quella di scappare. Andare via, lontano. Ma non si era mai posto il problema di cosa fare dopo.

Ricominciare così? O cambiare vita, magari tornare a vagabondare, oppure – in qualche molto remota possibilità – trovare un mestiere onesto che gli desse di che vivere senza più fargli correre rischi?

Rabbioso, Axel si alzò e andò alla finestra per chiuderla violentemente, sfogando così la frustrazione che la visita di Zexion – e dei ricordi – gli aveva provocato. Il compagno era già sparito dal cortile interno del condominio, illuminato dalle stelle e dalle luci alle finestre dei vari piani del condominio. Appena posò la mano sulla maniglia, i suoi occhi corsero istintivamente alla finestra di fronte, e si bloccò.

Il ragazzino sulla sedia a rotelle era di nuovo affacciato, e lo fissava con un misto di stupore, paura e accusa. Sembrava lottare con le parole, come se non ne trovasse abbastanza.

«Ma tu chi diavolo sei?» lo aggredì infine.

 

 

 

 

 

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Un altro capitolo piuttosto piatto, però dai, qualcosa si è smosso. E adesso almeno sappiamo che Axel non può semplicemente starsene al condominio con la banda di Marluxia che intende vendicarsi di Demyx ;)

Ringrazio fragolottina e Rurish per aver commentato il precedente capitolo, e oso sperare che la storia continui ad incuriosirvi, pur essendo così lenta a svelarsi ^^’

A prestissimo con il sesto capitolo!

Aya ~

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Capitolo 7
*** Folgorazione ***


6

Folgorazione

 

 

 

«Roxas

«Cosa?»

«Non ti ho mai visto così distratto. Si può sapere che hai?»

Roxas addentò la patatina fritta ormai fredda e la masticò lentamente, prendendo tempo. Quella sera Kairi non era venuta all’appartamento; se ci fosse stata, magari ci avrebbe pensato lei a dire a Sora di lasciarlo in pace... Invece, stavolta doveva vedersela da solo con la cucina e gli sguardi di suo fratello.

Deglutì e alzò le spalle.

«Niente. Ho solo... un po’ di pensieri, tutto qui.»

Sora si rigirò la forchetta tra le mani, studiandolo con occhio critico ma apprensivo. «Un po’ più del solito, vuoi dire.»

Roxas cercò di sorridere a mo’ di scusa, e si concentrò sul suo piatto, ancora quasi integro.

«Sto bene, davvero.» Cercò un argomento per sviare il discorso. «Non mi hai ancora raccontato della cena di ieri» disse alla fine, non del tutto interessato. «Com’è andata?»

«Solite cose» ribatté Sora, in tono inespressivo. «Selphie si è presentata in vestaglia perché credeva di andare ad un pigiama party. Kairi ha portato con sé un orso polare. Tidus ha messo una bomba nucleare sotto la sedia di Riku. E nel mezzo della serata sono arrivati gli alieni.»

Roxas alzò lo sguardo.

«Mh

«Lo vedi?» Sora gli puntò contro la forchetta, accusatorio. «Non mi stai ascoltando! Potrei dire qualsiasi cretinata e tu staresti sempre là a fare di sì con la testa...»

Con un sospiro, Roxas lasciò la propria forchetta e allontanò il piatto da sé.

«Hai ragione. Scusami.» Evitando di guardarlo negli occhi, voltò lentamente la sedia a rotelle. «Non ho molta fame. Vado di là a disegnare un po’.»

«E va bene» sospirò Sora, sconfitto. Roxas sentì la sua sedia strusciare sul pavimento mentre si alzava. «Lavo i piatti e poi vengo a farti compagnia, ok?»

Lui scosse la testa.

«Non ce n’è bisogno.» Prima di uscire dal soggiorno, lo guardò e cercò di nuovo di sorridergli. «Tranquillo, va tutto bene.»

Sora sospirò di nuovo, scuotendo il capo a sua volta, e cominciò a portare i piatti della cena dal tavolo al lavello. Con la lavastoviglie fuori uso, bisognava adeguarsi, anche senza l’aiuto di Kairi. Roxas si odiava per non poter rendersi utile in gran parte di quelle incombenze domestiche; il fatto che Sora non si lamentasse mai non contribuiva ad alleviare il suo sentirsi insignificante.

Riprese a sospingere la propria sedia in avanti e, in quella maniera di muoversi che odiava, percorse piano il corridoio.

Il motivo della sua distrazione era proprio là fuori, a pochi metri di distanza.

Pensava ancora allo sconosciuto del 2B, l’unica persona con cui avesse deciso di mostrarsi senza schermi. Era strano, eppure sentiva che c’era un flebile legame tra loro, un qualcosa che li accomunava; anche lo sconosciuto dai capelli rossi pareva in fuga da se stesso...

Roxas scosse con vigore la testa, chiudendosi dietro la porta della stanza che condivideva con Sora e trascinandosi fino alla sua scrivania, davanti al blocco dei disegni. L’ultimo, quello che aveva fatto la sera prima, era stato accuratamente nascosto dietro un’asse mobile dell’armadio al capo opposto della stanza.

Nascosto a tutti. Soprattutto a lui.

Il ragazzo prese dal cassetto aperto una matita e se la picchiettò contro la guancia, in cerca di ispirazione. Lasciò vagare lo sguardo, che com’era prevedibile sfiorò la finestra e l’appartamento di fronte, nell’aria silenziosa della sera...

Qualcosa non andava.

Sembrava che nel 2B ci fosse un ospite: un tipo più basso ed esile rispetto al rosso. Era seduto molto vicino alla finestra aperta, così che Roxas poteva cogliere qualche sua parola.

«C’è ancora tempo... torni a prenderti...»

Non aveva avuto l’intenzione di origliare – ma non poté fare a meno di restare impietrito quando capì il senso di quelle poche frasi.

«... se tieni di più alla tua vita, o a quella di uno che ci ha messi tutti in pericolo.»

In quel momento, il tizio nel 2B si tirò un cappuccio sul capo, si voltò e uscì dalla finestra. Spaventato, Roxas si chinò e accostò la sedia alla parete, sperando in tal modo di non farsi notare. Alcuni lievi rumori metallici gli dissero che lo sconosciuto stava scendendo dalla scala antincendio; poi, finalmente, di nuovo silenzio.

Aspettò ancora un po’ prima di risollevare la testa e avvicinarsi alla sua finestra aperta. Quando guardò giù nel cortile, sentì il respiro regolarizzarsi a poco a poco. Non c’era più nessuno.

Avvertì un movimento da qualche parte di fronte a sé; alzò gli occhi e vide il rosso, pronto a chiudere le ante della finestra del 2B. Anche lui lo vide, e lo fissò di rimando, con aria sorpresa.

Roxas capì che la paura si stava mescolando alla rabbia. Quel tizio nascondeva ben più di quanto lui avesse sospettato. Lo assalì senza riuscire a fermarsi.

«Ma tu chi diavolo sei?»

L’altro parve spiazzato per un attimo, poi si rabbuiò.

«Mi sembra di averti già detto che non vuoi saperlo davvero» ringhiò in risposta, minaccioso. «Perciò vedi di ricordartene in futuro.»

Roxas ebbe un’improvvisa folgorazione. «Sei un ricercato, vero? È per questo che continui a guardarti le spalle... Hai paura di essere seguito...»

Si accorse di stringere gli appoggi della sedia a rotelle così convulsamente che le dita cominciavano a intorpidirsi. La matita che poco prima aveva in mano giaceva di nuovo sulla scrivania, dimenticata.

Il rosso sogghignò. «Bene, bene, bene. E così, trovandoti là immobile e senza niente da fare, hai coltivato l’hobby di spiare la gente.»

Roxas non reagì. Sapeva che con quelle parole voleva fargli male, e non intendeva dargli la soddisfazione di fargli capire che ci stava riuscendo alla grande.

«Beh, bimbo, ti do una dritta.» Il tipo si sporse verso di lui dalla finestra, puntandogli un dito contro. Si stavano praticamente insultando da un capo all’altro del condominio: avrebbe quasi potuto essere buffo, se la situazione non fosse stata così seria. «Non – fare – domande» scandì. «Non fare domande di cui non vuoi sapere la risposta, e io non ti darò risposte che non vuoi sentirti dire. Memorizzato?»

Poi chiuse violentemente la finestra, e la luce fredda delle stelle brillò sui vetri.

Roxas tornò con fatica alla scrivania, fremente di un micidiale miscuglio di emozioni. Il timore di essere stato a pochissima distanza da quello sconosciuto pericoloso non era che l’ultimo dei suoi pensieri.

Un rumore di passi fuori dalla porta e la voce preoccupata di Sora lo scossero.

«Roxas? Tutto bene? Con chi stavi parlando?»

Respirò a fondo. Cercò di calmarsi e brandì nuovamente la matita, al solito come un’arma di difesa.

«Tutto a posto» disse con voce piatta. «Non stavo parlando con nessuno. Devi esserti sbagliato.»

Voltò le spalle alla finestra, si piazzò l’album sulle gambe e lo tempestò di nuovi tratti violenti.

 

 

 

 

 

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Piccolo chiarimento: Roxas non ha paura di Axel. Non proprio, o almeno non soltanto. Il suo è più un... risentimento, che comunque si chiarirà più in là – perciò tranquilli: le poche parole che ha colto dalla conversazione di Axel con Zexion non l’hanno spaurito, come avrebbe dovuto essere, e voi non lo vedrete mai in un angolino a tremare di paura xD

Mi scuso profondamente se di nuovo non rispondo singolarmente alle recensioni: mi vergogno come una ladra, ma il mio pc è tornato in una delle sue fasi mestruali, quelle che lo rendono incline ai blocchi improvvisi ;_; Ringrazio comunque con tanto affetto fragolottina, Rurish ed _Ella_ per i gentilissimi commenti e complimenti <3 Sono felice che non vi infastidisca questa lentezza, perché purtroppo le cose andranno davvero per le lunghe...

E naturalmente, un grazie di cuore va anche a tutti quelli che si limitano a leggere!

A presto :)

Aya ~

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Capitolo 8
*** Scheletri nell'armadio ***


7

Scheletri nell’armadio

 

 

 

Quella piccola sacca di tela gli pesava sullo stomaco come un macigno – ma, per quanto potesse essere pesante, non riusciva ancora a lasciarla cadere.

Era in piedi, in bagno, e stringeva convulsamente la sacca nera riportatagli da Zexion, il braccio teso, le dita contratte. Finora non si era mai sognato di riaprirla. Avrebbe dato qualsiasi cosa per riuscire a buttarla in quel cesso. Avrebbe fatto qualsiasi cosa, in quel momento, per potersi sbarazzare di quel passato.

Ma qualcuno una volta gli aveva fatto capire che era molto più facile, e più comodo, e meno doloroso, restare dove si è, senza cercare altre strade, senza voltare le spalle a se stessi. Per quanto schifo si possa avere di se stessi.

 

 

La ragazza bionda si accende una sigaretta e aspira lentamente. È seduta sul tavolo del magazzino come una vamp, gambe accavallate, e il suo volto è freddo come marmo. Axel la fissa, altrettanto inespressivo – solo vagamente sorpreso dalla totale assenza di vita nei suoi occhi, di un verde che un tempo deve essere stato brillante e luminoso.

Sono occhi molto simili ai suoi.

Larxene esala il fumo e resta a guardare le lente spirali mescolarsi alla polvere che impregna l’aria.

«Non preoccuparti» mormora. La sua voce è leggermente arrochita, la voce di una donna, non di una della sua età. «Non ci vuole molto a farci l’abitudine. Io ti parlo per esperienza.» Abbassa lo sguardo su di lui, con un breve sorriso privo di allegria. «Ci sono dentro da una vita. Prima ero una puttana, sai?» Dà un altro tiro alla sigaretta, senza smettere di fissarlo. «Ma a un certo punto, non so perché, mi sono semplicemente stufata. Così ho deciso di ascoltare quel sempliciotto di Demyx, e di mettermi sotto la protezione di Marluxia.» Ammiccando, accavalla le gambe dall’altro lato; i jeans neri si tendono sulle sue cosce magre. «Fidati, novellino, con lui hai un futuro assicurato.»

Seduto davanti a lei, su una vecchia sedia traballante, Axel la studia a lungo. Magari, in altre circostanze, potrebbe anche essere attratto da lei, e non solo fisicamente. In fondo sono uguali, loro due. Ma non riesce a sentire niente. Ormai è questa la sua essenza. Niente.

«E non hai cercato di cambiare vita?» si ritrova a chiederle a bruciapelo, senza neanche rifletterci.

Larxene si incupisce. Poi, inaspettatamente, scoppia a ridere. Ancora una volta senza allegria.

«Oh, novellino.» Si china su di lui e gli solleva il mento con un dito, con la stessa mano che stringe la sigaretta accesa. Lui percepisce il calore e l’odore di nicotina sulla pelle, ma non si ritrae. «Imparerai presto» gli sussurra lei, a due centimetri dal viso, «che una volta che ci sei dentro, non ne esci tanto facilmente.»

Si fissano ancora per un istante. Alla fine, la bionda si risolleva, afferra il pacchetto di sigarette e glielo offre.

«Perciò vedi di abituarti all’idea» conclude.

Axel non replica. Dopo un solo, lungo attimo, prende una sigaretta e le permette di accendergliela.

La fiammella dell’accendino suggella definitivamente l’inizio.

 

 

Si voltò di scatto e scagliò la sacca contro il muro alle sue spalle.

Fremeva di rabbia.

«... Una volta che ci sei dentro, non ne esci tanto facilmente.»

Ma cosa si aspettava? Che fosse tutto facile e pulito? Si aspettava di redimersi, forse?

Che stronzata. La verità era che c’era ancora dentro fino al collo. E per quanto progettasse di fuggire, non si sarebbe mai potuto lasciare davvero tutto alle spalle.

Tornò rabbioso nella camera da letto spoglia e fredda, dove si sedette sul davanzale della finestra spalancata, cercando di calmarsi.

Erano giorni che pensava alle parole di Zexion. Che si interrogava su cosa era più giusto e cosa era più facile. Che si chiedeva se in quel cesso, invece del suo passato, ci avesse già buttato senza accorgersene la sua coscienza. In quei due mesi in cui era stato agli ordini di Marluxia, aveva sempre messo a tacere ogni accenno di dubbio o rimorso. Ma adesso le cose erano cambiate.

Le braccia conserte, la schiena al riquadro della finestra, Axel chiuse gli occhi; e i suoi pensieri corsero di nuovo alle parole del ragazzo sulla sedia a rotelle, al tono in cui gli aveva parlato.

All’inizio aveva creduto che avesse semplicemente paura di lui. Poi si era reso conto di quanta rabbia ci fosse nelle sue parole. Una sorta di delusione... Che assurdità, si disse, loro due non erano mica amici...

«... È per questo che continui a guardarti le spalle...»

Doveva riconoscere che su quel punto aveva ragione. La sua vita era sempre e solo muoversi nell’ombra; lo era stato prima, con la banda, e lo era adesso che era in fuga da tutto e da tutti. E lo sarebbe stata anche in seguito, se avesse deciso di non ascoltare Zexion e avesse dovuto guardarsi anche da Marluxia.

Batté piano la nuca contro il muro, e poi di nuovo e ancora, a intervalli regolari.

Cosa doveva fare? Cosa? Cosa? Cosa?...

Fu in quel momento che sentì le urla.

 

 

* * *

 

 

Il sabato pomeriggio era uno dei momenti più critici, perché, prima di uscire come suo solito con Riku e Kairi, Sora ignorava puntualmente il suo distacco e lo invitava ad unirsi a loro.

Sfortunatamente per lui, quel giorno Roxas non era in vena di insistenze, né tantomeno di rifiutarle con cortesia.

«Andiamo, Rox, cosa ti costa?» Sora si sforzava palesemente di restare allegro, mentre frugava nell’armadio alla ricerca di un paio di pantaloni puliti – beh, almeno più puliti di quelli che aveva addosso. «Andiamo solo al parco a prenderci un gelato e a scambiare quattro chiacchiere, niente di più...»

Come sempre, Roxas era intento a disegnare alla scrivania; gli dava le spalle ed era fermamente deciso ad ignorarlo, perché solo così avrebbe potuto evitare di rispondergli in modo pungente.

Ma Sora non si lasciava quasi mai scoraggiare dai suoi silenzi.

«Dai, magari ci sono anche Hayner e gli altri... Quant’è che non vi vedete?»

Roxas ebbe un primo scatto rabbioso, un movimento che causò la caduta del temperino sul poggiapiedi della sedia a rotelle. Si chinò a raccoglierlo, e nel farlo si accorse che la mano gli tremava. Prevedibile.

«Non voglio parlarne» sbottò, raddrizzandosi e tornando al suo disegno.

La mancanza di una risposta da parte di Sora – che rispondeva sempre, anche quando non doveva – lo insospettì.

Voltò la testa, e al di sopra della propria spalla vide il fratello ancora in piedi davanti all’armadio aperto, il capo chino ad esaminare qualcosa che sorreggeva tra le mani.

Nei due secondi che seguirono, Roxas si rese conto che l’asse mobile dentro l’armadio si era spostata, rivelando a Sora il contenuto della nicchia.

Il suo disegno con il parco, la pista e quel che ricordava della sua vita, prima che andasse alla deriva.

Sora sollevò lo sguardo su di lui. Sembrava in lotta tra l’esasperazione e la tristezza.

«Roxas...»

Lui si voltò di nuovo, con un altro scatto. I suoi occhi non vedevano più il foglio che aveva davanti; andavano oltre, persi dietro qualcosa che ormai era troppo lontano, qualcosa di perduto.

«Ho detto che non voglio parlarne.»

La sua voce era pericolosamente salita di un tono.

Per un attimo ci fu di nuovo silenzio. Poi – stavolta – fu Sora a urlare.

«Ti viene facile aggredirmi così, vero?» Senza voltarsi, Roxas capì che si era avvicinato. «Certo, immagino che sia molto più facile, restare solo nel tuo mondo e difenderti con le unghie e con i denti! Ma lo vuoi capire che è ora che tu esca da lì? Sono passati due anni! Due anni, Roxas! E ancora non capisci che io sto solo cercando di aiutarti!»

«Io non capisco...? Sei tu che non capisci!» Roxas voltò all’improvviso la sedia a rotelle e gli piantò in faccia uno sguardo pieno di tutte le cose che si era tenuto dentro fino ad allora. Urlava anche lui, adesso. «Non capisci, non l’hai mai capito, così come non lo capivano loro! Non capisci che io non sono come te, non lo sono mai stato! Non posso vivere a modo tuo, Sora! Perché non riesci ad accettare che il mio modo di reagire non sarà mai il sorriso che hai tu?»

Sora rimase in silenzio a fissarlo, il pugno stretto sul disegno, gli occhi lucidi. Alla fine chinò la testa, e la sua voce divenne un sussurro.

«È solo... È solo perché ti impedisci di sorridere.»

Roxas non replicò. Del resto non avrebbe saputo trovare le parole per rispondergli, perché la parte più razionale di sé sapeva che Sora aveva ragione, ancora una volta. Tuttavia non era disposto ad ammetterlo.

Di colpo si sentì esausto. Con un sospiro, abbassò lo sguardo a sua volta, lasciando che il silenzio tornasse a sanare le ferite che quella discussione aveva riaperto.

Alla fine, Sora lasciò cadere il disegno sul letto di Roxas, si voltò e iniziò a cambiarsi lentamente, in silenzio. Roxas evitò in ogni modo di guardare lui o quel dannato foglio di carta. Rimase immobile al suo posto fin quando il fratello fu pronto per uscire e si diresse alla porta.

«Ci vediamo più tardi» mormorò Sora.

Lui si limitò ad annuire, gli occhi fissi sulle proprie ginocchia, nel punto dove i jeans erano più consunti: laceri come tutto ciò che gli era rimasto.

Solo quando sentì che Sora era ormai uscito, si mosse di nuovo, passandosi le mani ancora malferme sul viso e voltandosi verso la scrivania.

Fu in quel momento che rivide il ragazzo del 2B.

Era seduto sul davanzale della propria finestra, una gamba penzoloni sulla scala antincendio, e lo guardava.

Ci fu un lungo silenzio.

«A quanto pare non sono il solo ad avere degli scheletri nell’armadio.»

Il rosso aveva parlato in tono neutro, ma Roxas non si sentiva in vena di dargli alcuna spiegazione, né di parlare di qualsiasi cosa con lui. Fu solo distrattamente che pensò a quanto era successo tre sere prima, quando aveva capito che quello sconosciuto aveva qualcosa di molto grosso da nascondere. Non gli importava, ora. Tutto ciò che desiderava in quel momento era di essere lasciato in pace.

Allontanò la sedia dalla scrivania, in modo da sottrarsi allo sguardo indecifrabile dello sconosciuto. Si trascinò fino all’armadio, che Sora aveva lasciato aperto; guardando all’interno vide che anche l’asse era ancora spostata. La rimise a posto, quindi chiuse le ante. A testa bassa.

«Non hai bisogno di parlare con qualcuno?»

La voce del suo nuovo dirimpettaio questa volta era risuonata molto più vicina. Stranamente, Roxas non ebbe nessun sussulto di sorpresa. Capì che l’altro doveva aver percorso il pianerottolo fino alla sua finestra, come la prima sera in cui si erano parlati; ma non si voltò a guardarlo, e gli rispose dandogli le spalle, la mano ancora sul legno liscio dell’armadio.

«Perché pensi che dovrei farlo proprio con te?»

La risposta arrivò dopo un solo attimo di sospensione.

«Mah. Forse perché, almeno a quanto mi sembra, sono l’unica persona che non ti abbia mai giudicato. O che non ti tratti come un handicappato. A te la scelta.»

Finalmente Roxas voltò il viso.

Il rosso ora sedeva sul suo davanzale – come pronto per balzare dentro – più o meno nella stessa posizione di poco prima, le braccia conserte e gli occhi come sempre imperscrutabili.

Aveva avuto paura di lui, di ciò che poteva essere in grado di fare. Ricordava bene le parole del tizio minuto e incappucciato che l’aveva visitato all’appartamento: qualcosa sull’eliminare una persona che “li aveva messi tutti in pericolo”… Adesso, però, non avvertiva alcuna preoccupazione. Solo quella sintonia che l’aveva colpito all’inizio, la prima volta che aveva guardato da vicino quei segreti profondi che erano i suoi occhi verdi.

Anche lui ha i suoi fantasmi.

Roxas voltò del tutto la sedia e, quasi senza accorgersene, cominciò a parlare.

 

 

 

 

 

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Ebbene sì: finalmente siamo giunti ad un confronto diretto tra i due personaggi principali ^^ Ma purtroppo dovrete aspettare il prossimo capitolo per conoscerne il contenuto.

Un ringraziamento con tanto d’inchino a fragolottina ed _Ella_ per le recensioni, ma anche a tutti i lettori e a coloro che di volta in volta aggiungono la storia alle seguite :3 Spero soltanto che la vostra curiosità venga ben ripagata!

Alla prossima <3

Aya ~

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Capitolo 9
*** Liberazione ***


8

Liberazione

 

 

 

«Siamo arrivati?»

Si sporge dal sedile posteriore, con un sorriso che gli va da un orecchio all’altro. Ha tredici anni, ma si sente felice come un bambino. Non è una cosa che gli capita spesso.

Sua madre si volta a guardarlo e ricambia il sorriso. È bella, la mamma, con i suoi stessi capelli biondi che le scendono morbidi sulle spalle, i suoi stessi occhi azzurro chiaro come il cielo di primavera, e quel sorriso dolce e buono, proprio come il suo profumo.

«Non ancora, ci siamo quasi.»

Nel posto accanto al suo, Sora lo tira per i vestiti, ridendo.

«Sei proprio impaziente! Di solito sono io quello che assilla mamma e papà in macchina!»

Il papà scoppia a ridere mentre imbocca una stradina secondaria. Anche Roxas sorride, ma si sente arrossire. Torna a sedersi composto e riprende in mano l’album su cui sta perfezionando le sagome di alcune persone.

«È solo che...» Si concentra su una linea che delimita una gamba della figura più alta, poi riprende a parlare. «È solo che è da tanto che non ci ritroviamo tutti insieme.»

«Sì» sogghigna Sora, concentrato sul suo videogioco portatile, «e poi non vedi l’ora di rincontrare Naminè

Roxas avvampa e gli lancia addosso l’album.

«Cretino.»

Sora ride di nuovo, molla l’inseparabile videogame e comincia a studiare il blocco di disegni che lo ha investito in pieno.

«Ecco, vedi: la disegni pure!»

«Andiamo, Sora, lascia stare tuo fratello» interviene il papà, guardandoli dallo specchietto retrovisore, con un gran sorriso conciliante sotto i sottili baffi bruni.

Roxas si riprende l’album e continua a disegnare, un po’ imbronciato. Ma un piccolo sorriso torna ad affiorargli alle labbra mentre sotto la punta della sua matita prendono forma i lineamenti dei suoi migliori amici.

Hayner. Pence. Olette. Naminè.

Disegna anche Sora, Kairi e infine se stesso: tra Naminè e Hayner, dal lato opposto rispetto a Sora.

Sora è il suo gemello, ma non si somigliano poi così tanto. Tanto per cominciare, lui è biondo, e Sora ha i capelli castani. Ma sono diversi soprattutto nel carattere: anche se quando è con lui gli è difficile resistere all’entusiasmo vulcanico di Sora, Roxas è sempre stato un po’ più introverso, un po’ più insicuro.

Modella ancora un paio di ombre nel suo riflesso di carta. Di solito non gli piace fare il proprio ritratto; preferisce disegnare gli altri, soprattutto le persone cui vuole bene. Ma oggi non gli importa, perché oggi è un giorno importante.

Stanno andando a trovare Kairi e Naminè, appena tornate in città da una visita ai nonni paterni che vivono all’estero; poi andranno tutti insieme a fare un picnic al parco. Comunque, oggi non è solo il giorno in cui lui e Sora potranno rivedere le due amiche: oggi al parco c’è anche un allenamento con Hayner e gli altri. E così, per la prima volta, Naminè sarà presente a un suo allenamento... Questo pensiero gli provoca una strana sensazione...

... Accade tutto all’improvviso.

Così velocemente che all’inizio lui non capisce cosa stia succedendo.

L’unica cosa di cui è consapevole è il dolore, fortissimo, da morire. Un urlo acuto, dal sedile anteriore. Poi il buio.

Quando riprende i sensi, non ha idea di quanto tempo sia passato, e fatica molto a mettere a fuoco la scena che ha davanti agli occhi.

«Roxas

La voce di Sora. È ancora seduto alla sua sinistra. Roxas stringe gli occhi per snebbiarli e si volta verso di lui. Nel farlo, ha modo di constatare che l’automobile è diventata un ammasso informe di ferro e vetro. E silenzio.

Sora sta lottando con la sua portiera, accartocciata su se stessa, ma ha lo sguardo fisso su di lui. Non l’ha mai visto così preoccupato.

«Roxas! Stai bene?»

Lui ci pensa su. Cerca di schiarirsi le idee e di interrogare il proprio corpo.

«Non... Non so.» Si accorge di avere anche la voce impastata. «Non... riesco... a sentire... le gambe.»

Finalmente la portiera di Sora cede, con un secco schianto.

«Stai tranquillo» dice suo fratello. «Credo che papà e mamma siano svenuti... Ora ti faccio scendere e li svegliamo.»

Si alza e barcollando fa il giro della macchina, per dirigersi alla portiera destra. Roxas chiude gli occhi. Si sente sempre più debole.

Un gemito improvviso.

«Oddio, no... No, no, no...»

«Cosa c’è?» mormora Roxas, ancora ad occhi chiusi.

Sora non risponde subito. Comincia a colpire il suo sportello; spinge e tira finché riesce ad aprirlo.

«Prima ti libero da qui, poi chiamiamo un’ambulanza.»

Gli trema la voce. Roxas apre gli occhi, proprio mentre il fratello comincia a tirarlo per le braccia. Incontra il suo sguardo: smarrito, sconvolto, terrorizzato.

È quello sguardo così insolito a spaventarlo di più, più del silenzio, più del dolore che comincia a svegliarsi nella metà inferiore del suo corpo.

Quando Sora riesce con fatica a metterlo disteso sul ciglio della strada, per la prima volta Roxas guarda la parte anteriore della macchina.

Distingue i profili dei suoi genitori attraverso il finestrino in frantumi. Sono pallidissimi. Sua madre, la più vicina, ha gli occhi chiusi, ma sulle sue labbra c’è ancora il sorriso di poco fa. Come gelato, reso eterno dal flash di una fotografia crudele.

Soprattutto c’è il sangue. Tanto, troppo sangue.

Nello stesso istante in cui Roxas sente di perdere di nuovo conoscenza, Sora comincia a gridare.

 

 

«Nessuno rintracciò mai la macchina che ci aveva investito; nessuno di noi l’aveva vista. Io mi svegliai solo una volta arrivato in ospedale. Sora era l’unico tra noi a non aver riportato ferite. Al suo posto, mi starei ancora portando dentro il trauma di aver accompagnato tutta la mia famiglia all’ospedale in condizioni terribili; ma in fondo lui è sempre stato più forte di me...» Una pausa di riflessione. «Mi dissero che non avrei più potuto camminare; ma l’importante, secondo loro, era che fossi vivo. Quel pazzo, chiunque fosse, ci aveva colpiti da destra, e io mi ero ritrovato proprio sulla sua linea di tiro... Come mia madre.» Un’altra pausa, stavolta per schiarirsi la voce improvvisamente rotta. «Lei e mio padre, invece, non si svegliarono mai. Se ne andarono così, senza neanche darci... senza darmi la possibilità di dire loro addio.» Un’ultima pausa. Un sospiro. «I medici non avevano capito nulla. Nessuno ha mai capito. In realtà, quel giorno anch’io sono morto.»

Calò un silenzio che sembrava destinato a non finire più.

Per tutto il tempo in cui aveva parlato, Roxas non si era mosso dalla sua posizione, davanti all’armadio, e aveva ascoltato la propria voce come se appartenesse a qualcun altro.

Era pazzesco. Due anni di rifiuto assoluto di sé e del mondo, e adesso si ritrovava lì a raccontare quella storia ad un perfetto sconosciuto – per di più, a uno sconosciuto potenzialmente pericoloso. Semplicemente pazzesco.

«Forse perché, almeno a quanto mi sembra, sono l’unica persona che non ti abbia mai giudicato...»

Già... Anche questo è vero.

«Capisco.» Ancora seduto sul davanzale, il rosso aveva lo sguardo rivolto al cielo del pomeriggio e sembrava totalmente perso nei propri pensieri; ma un attimo dopo riprese a parlare. «E da allora vivi rinchiuso in questa tua muraglia come un emarginato mentale, vero?»

Roxas lo fissò senza ribattere. Non era una domanda che avesse bisogno di una risposta: sembrava più un’affermazione, una constatazione ragionevole ed obiettiva.

Alla fine, l’altro ricambiò il suo sguardo.

«Come ti chiami?» gli chiese di punto in bianco.

La domanda inaspettata lo colse alla sprovvista.

«Roxas» mormorò.

L’altro si alzò in piedi, ma non si allontanò dalla finestra. Continuava a guardarlo nello stesso modo, senza espressione.

«Sai, Roxas...» disse poi, con una specie di sorriso. «Vivere non è solo camminare o correre o saltare. Memorizzato?»

Roxas tacque ancora e abbassò lo sguardo.

Non c’era più nulla da dire.

Sentì il rumore metallico di quei suoi passi decisi sul pianerottolo. Alzò il capo e avvicinò la sedia alla finestra, guardandolo allontanarsi.

«E tu come ti chiami?» lo richiamò, quasi senza accorgersene.

Dopo una breve esitazione, quello si voltò appena per un istante, giusto il tempo di rispondergli.

«Axel

Poi si rincamminò, tornò verso il suo appartamento e scavalcò il davanzale. Proprio come la prima volta.

Roxas rimase là immobile ancora per qualche secondo, ma Axel non ricomparve alla finestra del 2B. Allora tornò verso il suo letto e riprese in mano il disegno che Sora aveva trovato nell’armadio.

Per la seconda volta in pochi giorni, lo bagnò dei suoi ricordi e delle sue lacrime. Ma questa volta il pianto sapeva di liberazione.

 

 

 

 

 

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Un altro capitolo breve breve per dare finalmente voce a ciò che è successo a Roxas, due anni prima del suo incontro con Axel.

A dirvi la verità, questo flashback non mi convince molto. Avrei voluto metterci dentro più angst, più dolore e anche più rabbia – ma al tempo stesso non volevo intaccare l’ingenuità ancora bambina di Roxas, il suo non rendersi conto, se non proprio alla fine, di essere giunto ad un punto della sua vita che lo segnerà per sempre. Non so, spero di aver comunque reso l’idea .__. E se non è così, perdonatemi. L’avevo detto che col tempo ho perso fiducia in questa storia.

Ringrazio di cuore fragolottina, _Ella_ e Rurish per aver commentato il precedente capitolo, nonché tutti coloro che si limitano a leggere di volta in volta questa, mh, cosa. <3 E colgo l’occasione per avvisare che da ora, causa problemi personali non derogabili a terzi, gli aggiornamenti si faranno meno frequenti; spero di riuscire a postare almeno ogni sette giorni, ma dipende tutto dalle solite cause di forza maggiore -_-’’

Oh, well. Alla prossima!

Aya ~

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Capitolo 10
*** Il primo passo ***


9

Il primo passo

 

 

 

Axel odiava la domenica mattina. Da che ricordasse, l’aveva sempre odiata.

Quando era ancora all’orfanotrofio, la domenica era considerata da tutti un giorno importante: era quasi sempre nei fine settimana che arrivavano delle coppie in cerca di un bambino o una bambina da adottare. Così, ogni domenica lui e i suoi compagni venivano buttati giù dai letti all’alba, preparati e infiocchettati a dovere, costretti ad ascoltare il solito predicozzo della vecchia direttrice sulla necessità che non combinassero guai e non sgualcissero le divise e bla e poi bla e ancora bla, e infine messi ordinatamente in fila nel cortile sotto gli sguardi degli ospiti.

A volte arrivava gente simpatica, a volte meno. Comunque si presentassero, Axel li guardava in cagnesco. Non gli piaceva l’istituto, ma non gli piaceva nemmeno l’idea di andare a vivere in una di quelle famiglie, dove sicuramente sarebbe stato sottomesso a regole ferree sui vestiti e sulla scuola e sul cibo e sui passatempi e su tutto quanto.

Non era mai stato scelto da nessuna di quelle coppie, e gli andava benissimo così.

Ma in tutti gli anni che erano seguiti aveva continuato a odiare la domenica, ad associarla a un momento in cui la realtà di fuori entrava prepotente nella sua intimità, che lui non avrebbe voluto mai mostrare né tantomeno dividere con nessuno.

Così era anche quel giorno.

Quando la luce del sole gli ferì gli occhi, li richiuse con forza e cacciò la testa sotto il cuscino, già pronto a riaddormentarsi e a poltrire tutto il giorno, alla faccia di qualsiasi orfanotrofio e qualsiasi ipotetico sbirro che gli si affacciasse tra i pensieri... Eppure, stavolta c’era qualcosa di diverso a distrarlo.

Perplesso, Axel riaprì lentamente gli occhi e scrutò la stoffa ruvida del guanciale, seguendo il filo del pensiero che lo portava di nuovo al ragazzino che aveva perso l’uso delle gambe. A Roxas.

Ancora adesso, alla luce del sole, non sapeva per quale motivo, il giorno prima, avesse sentito la necessità di andare da lui a farlo parlare. D’accordo, lo aveva sentito urlare, litigare furiosamente con quello che aveva poi scoperto essere suo fratello; ma di norma quelli non sarebbero stati affari suoi, anzi li avrebbe ignorati completamente. Cosa cazzo gliene importava se il suo dirimpettaio e i suoi eventuali congiunti si scannavano a vicenda? Era già abbastanza occupato a pensare all’eventualità che lui venisse scannato da qualcuno: la polizia o Marluxia, a seconda di una scelta che non aveva ancora fatto.

Però...

Però, era come se ci fosse un qualche filo, invisibile e sottilissimo, ad unirlo a quel ragazzo.

Roxas lo aveva affrontato a viso aperto, la sera in cui Zexion era venuto da lui, e probabilmente aveva intravisto i suoi demoni; ora che lui lo sentiva urlare e parlare in quel modo, e che intuiva il male sotto la sua voce, aveva modo di intravedere i suoi, di demoni.

E a quel punto gli era sembrata quasi una cosa dovuta, avvicinarsi a lui e ascoltarlo.

La cosa più strana era che Roxas avesse deciso di calare le barriere.

No. La cosa più strana era che lui, Axel, aveva mandato al diavolo ogni decenza e si era messo amabilmente a chiacchierare con quel ragazzo. Dov’era finita la sua discrezione, la sua segretezza, il suo muoversi nell’ombra?

In quello stesso cesso in cui non sono riuscito a buttare quella stramaledetta sacca...

Si alzò di scatto a sedere, togliendosi il cuscino dalla faccia. Non aveva più il minimo sonno. Stava di nuovo cedendo alla frustrazione del momento: era in una situazione a dir poco critica, in bilico tra la vita e la morte – sia sua, sia di quello stronzetto di Demyx – e, come se non bastasse, gli veniva voglia di fare il buon samaritano con un ragazzino praticamente sconosciuto. Da non credersi. C’erano davvero tutti i motivi per essere frustrati, senza dubbio.

Scalciò le lenzuola e posò i piedi nudi al pavimento. Come al solito, un vecchio e nuovo istinto portò i suoi occhi verso la finestra, oltre il vetro, fino all’appartamento di fronte. Le tende erano tirate e le persiane chiuse, quasi come un’ultima, tardiva difesa da parte di quel ragazzo così diverso e simile a lui.

Buon samaritano’. Così si era – sprezzantemente – definito.

Un pensiero molto buffo e molto stupido gli attraversò la mente.

Forse non l’ho fatto per lui. Forse l’ho fatto per me.

Il che era ancor più sconcertante, ma di certo più plausibile...

D’accordo, si era ritrovato davanti ad una persona con tanti fantasmi quanti ne aveva lui. Invece di pensare come al solito per sé, si era concentrato su quella persona, cercando di capirla, probabilmente come nessun altro prima aveva fatto mai. E non c’entrava il fatto di poter aiutare quel ragazzo: la verità era che, stando ad ascoltare lui, per qualche minuto si era dimenticato di se stesso. Si era illuso e convinto di non essere il solo a dover lottare per vivere.

Nel silenzio della sua nuova stanza, Axel emise qualcosa a metà tra uno sbuffo e una risata. Non si riconosceva più. Un tempo non avrebbe mai mostrato neppure a se stesso una debolezza simile, non si sarebbe mai calato i calzoni fino a quel punto. Avrebbe tenuto la testa alta e avrebbe ribadito: Non mi faccio toccare da queste stronzate, io sono più forte.

Un tempo...

Che ti piaccia o no, le cose stanno cambiando.

Se ne chiese il motivo. Qual era stato l’elemento scatenante?

Il voltafaccia di Demyx.

Il ricatto di Zexion e Marluxia.

Il confronto con Roxas.

Forse erano state tutte quelle cose insieme. Forse no. Non lo sapeva, ma decise che non gliene importava poi così tanto. La cosa importante era saper fronteggiare quel momento, e soprattutto stabilire come comportarsi in ognuno di quei tre casi specifici.

E sapeva bene da cosa cominciare.

 

 

* * *

 

 

Al tavolo della cucina, Roxas inzuppava svogliatamente un biscotto nel caffelatte ancora caldo. Era così assente che quello si stava già sbriciolando, senza che lui trovasse la voglia di morderlo.

L’appartamento era terribilmente silenzioso. Sora era uscito già da un pezzo; si era defilato subito dopo averlo aiutato ad alzarsi dal letto e avergli chiesto se avesse bisogno di qualcosa, farfugliando che doveva vedere Riku per discutere con lui riguardo ad un certo compito da consegnare in classe il giorno dopo. Roxas aveva l’impressione che, dopo l’ultimo litigio, il fratello lo stesse volutamente evitando. Non c’era rancore in quel suo tenere le distanze; un dispiacere, semmai, tipico di chi sente di aver esagerato, ma non si scusa perché sa di avere comunque ragione.

Lo rattristava che fossero arrivati a quel punto, al punto di non guardarsi più negli occhi per non litigare. Ma era ancora fermo sulle sue posizioni: aveva le sue idee, aveva il suo modo di guardare il mondo, e certo non sarebbe stato Sora a cambiarlo.

E poi, i suoi pensieri vertevano anche su un altro punto della faccenda...

«E da allora vivi rinchiuso in questa tua muraglia come un emarginato mentale, vero?»

Non erano state le sue parole a colpirlo. C’era più o meno abituato, a commenti del genere. No, la cosa più sconvolgente era piuttosto il fatto che le avesse pronunciate proprio lui: un completo sconosciuto. Più sconvolgente ancora, il fatto che lui, Roxas, avesse raccontato tutto di sé a quel completo sconosciuto.

Era da quel preciso istante che ci pensava, e ancora non riusciva a venirne a capo. Ma cosa gli era preso?

Una serie di colpi alla porta lo fece sobbalzare sulla sedia. Il resto del biscotto si frantumò all’istante, andando a depositarsi in mille bricioli sul fondo della tazza piena. Roxas fissò per un attimo il liquido scuro con una fitta di nostalgia, e con l’impressione che tutto, della sua vita, fosse destinato a finire in pezzi. Poi sospirò e cominciò a sospingere la sedia a rotelle verso l’ingresso – chiedendosi chi diavolo potesse essere a quell’ora di domenica mattina.

Il professor Ansem? Ma no, non si era mai presentato nel fine settimana. Forse era Kairi... Ma probabilmente lei sapeva già che non avrebbe trovato Sora, quindi perché andare all’appartamento? Per parlare con lui? Boh. C’era sempre la nonna...

Quando aprì la porta, ebbe un altro sussulto di sorpresa.

Sulla soglia c’era Axel.

Si fissarono, e per un attimo – da entrambe le parti – l’imbarazzo nella stanza fu quasi palpabile, così come l’eco delle domande in sospeso e il ricordo delle parole lasciate sfuggire.

Alla fine, Roxas si riscosse.

«Che ci fai tu qui?»

La faccia di Axel era quella di uno profondamente sorpreso dal proprio ardire; ma poi l’adolescente gli rivolse il suo sorriso più strafottente.

«Buongiorno anche a te» ironizzò. «Mi fai entrare?»

Roxas continuava a fissarlo, confuso oltre ogni dire. Mai si sarebbe aspettato di vederselo comparire sulla porta di casa. Del resto, in altre circostanze – con chiunque altro – lui stesso avrebbe fatto di tutto per mantenere le distanze...

«Allora?»

Axel sollevò le sopracciglia. Roxas notò che erano sottilissime; forse se le era bruciate in qualcuno dei giochetti pericolosi cui di certo era abituato.

Scrollò le spalle e si tirò indietro con la sedia, permettendogli di oltrepassare la soglia; quindi chiuse la porta dietro di lui.

«C’è un motivo particolare per cui sei qui, o devo pensare che tu abbia voglia di fare una buona azione giornaliera parlando con me?» lo punzecchiò sarcastico.

Axel si guardava intorno nell’anticamera, con aria indifferente.

«Mah, pensala come vuoi.» Fece un altro paio di passi e si fermò accanto alla porta della cucina, aperta su una stanza in cui l’unica nota di presenza era la colazione quasi intatta. «Tuo fratello non c’è?»

«No.» Roxas cominciava a spazientirsi. Incrociò le braccia. «Cos’è, hai bisogno di qualcosa? Non so se posso esserti utile, nelle mie condizioni. Hai presente, no?»

Axel si voltò. Sulle sue labbra tornò ad emergere un risolino.

«Se puoi essermi utile? Credo di sì. Vorrei che mi accompagnassi in un posto.»

Roxas lo guardò come se lo avesse appena invitato a scalare insieme l’Everest.

«Per quanto mi riguarda, puoi benissimo andarci da solo. Penso che tu conosca la strada per quel posto.»

«Ehi, bimbo.» Axel gli puntò un dito contro. «Cerca di non sfidare la sorte. Ti ho chiesto di accompagnarmi in un posto, e tu adesso vieni con me.»

«Tu sei matto, fidati.»

«Sì, questo può essere.»

«E sentiamo, dove cavolo dovrei accompagnarti?»

«Al parco.»

Roxas s’incupì all’istante. «Scordatelo.»

«Perché?» Axel ostentò una faccia ingenua che non gli si addiceva per niente. «Non ti piacciono i fiori?»

«Senti» scattò Roxas, sorprendendo persino se stesso, «ma che cosa diavolo vuoi da me? È già abbastanza strano che tu sia riuscito a... a... farmi dire... quelle cose. Che c’è, ti sei messo in testa d’aiutarmi? Guarda che perdi il tuo tempo. E poi credo che tu abbia preoccupazioni ben più grandi da affrontare» soggiunse, ripensando al tipo sospetto che aveva visto infiltrarsi nel 2B dalla scala antincendio, solo qualche sera prima – era davvero passato così poco tempo? «Non vedo perché dovresti stare qui a cercare di riportarmi a contatto con il mondo, o quello che è. Se non sbaglio, avevi detto che non ti facevo pena.»

L’espressione di Axel ora era serissima. Gli si avvicinò, fino a chinarsi sulla sedia a rotelle, le mani sui sostegni; suo malgrado, Roxas si preoccupò non poco quando se lo ritrovò a un soffio dal viso, quei dannati pozzi verdi colmi di sfide fissi su di lui.

«Infatti è così, Roxas.» Era strano sentirsi chiamare per nome da lui, da uno che non velasse quelle cinque lettere di carità e comprensione. «Non provo pena per te, e non mi sono neppure “messo in testa d’aiutarti”, se è questo che pensi. In realtà non è strano solo che tu abbia parlato con me...» Abbassò la voce. «È strano che io te l’abbia chiesto. Perché, vedi, io sono più un tipo da fatti che da parole.»

Roxas fece una smorfia. «Immagino.»

Axel si tirò su sbuffando, e per il ragazzo fu come tornare a respirare dopo una lunga apnea.

«Già. Quindi, suppongo che a questo punto non posso continuare ad ignorarti.»

Roxas gli rivolse uno sguardo perplesso. Il rosso distolse per un attimo il suo; quando lo guardò di nuovo, aveva l’aria di uno che ha appena preso una decisione esistenziale.

«E suppongo che a questo punto anche tu debba conoscere la mia storia. È un primo passo che dobbiamo fare entrambi. Io raccontandoti chi sono. Tu uscendo da qui.»

 

 

 

 

 

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Finalmente aggiorno ;_; Sono davvero mortificata.

Aw *////* Ma sono anche felice che nel frattempo si siano aggiunte nuove lettrici!

Grazie infiniterrime a RokuXion_And_AkuRoku e a ChibiSerenity per aver aggiunto questa fic alle seguite, nonché ad _Ella_, Ruri Jeevas e fragolottina per aver commentato il precedente capitolo! Vi adoro, ma sul serio!

Spero solo di continuare a incuriosirvi ^^’

Un abbraccio a tutte voi. <3

Aya ~

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Capitolo 11
*** Via le maschere ***


10

Via le maschere

 

 

 

Sei un idiota, Roxas. Mille, centomila, un milione di volte idiota!

Stava succedendo tutto troppo in fretta.

Non era ancora convinto della propria scelta, ma ormai non c’era modo di tornare indietro.

Uscire dall’appartamento dopo circa due anni di reclusione era stato come tornare in una patria da cui si era mancati per tutta la vita, e trovarla completamente diversa da come ci si ricordasse o immaginasse. Forse Ulisse si era sentito così, quando aveva rimesso piede ad Itaca dopo quei vent’anni di guerra e di vagabondaggi per il mondo. Estraneo. Inerme. Osservato. Solo.

Ma aveva deciso di farlo, perché – anche se non l’avrebbe ammesso neppure sotto tortura – aveva capito perfettamente cosa intendesse Axel. C’era davvero quel qualcosa a unirli, c’era stato ancora prima che si parlassero, ed era giusto che lo affrontassero una volta per tutte. Si erano incontrati e riconosciuti per quello che erano, due persone in fuga da se stesse; ed ora che si erano incontrati e riconosciuti, era giusto che si conoscessero.

Conoscere una persona è uno scambio equivalente, in cui si dà e si riceve.

Per questo, alla fine, aveva spinto la sedia a rotelle fuori dell’appartamento, lungo il corridoio, dentro l’ascensore, fuori dal palazzo, e infine per la strada che portava al parco.

Axel non si era offerto di aiutarlo spingendo la sua sedia, cosa di cui Roxas gli fu grato. Un altro fattore che non avrebbe mai ammesso ad alta voce.

Adesso che erano arrivati, però, la sua determinazione tutta nuova cominciava a vacillare, e i ricordi portavano vecchi dubbi e noti rimpianti.

Era proprio lì che stavano andando il giorno in cui...

«Ehi, ti va un gelato?»

«Cosa?»

Roxas ripiombò al presente e si ritrovò nel parco, circondato da un’atmosfera primaverile piena di sole e famiglie e risate, davanti a un chiosco di gelati e con al fianco Axel, che nei suoi vestiti neri sembrava figlio dello stesso buio che lui si portava dentro.

Il rosso lo guardava apertamente, senza pudore. Roxas era certo che sapesse benissimo il motivo del suo turbamento; ma evidentemente era deciso a non farci caso, a comportarsi proprio come se loro fossero due ragazzi normali che una domenica mattina avevano deciso di farsi una passeggiata al parco. Certo, come no.

«Un gelato» ripeté Axel. Poi, di fronte alla sua espressione, scoppiò a ridere. Anche la sua risata aveva quel tocco di amarezza che sembrava contraddistinguerlo da tutti gli altri esseri umani. «Cazzo, bimbo, non fare quella faccia. Mica parlo di veleno per topi.»

«Ero solo distratto» borbottò lui, sentendosi arrossire. «Comunque non ho soldi con me...»

«Non c’è problema.»

Axel aveva già tirato fuori da una tasca dei pantaloni da rapper un fascio di banconote. Roxas guardò il denaro con occhi atterriti; aveva una gran brutta sensazione. L’altro se ne accorse.

«Guarda che non sono un ladro» sghignazzò. «Sono tutti così... ammucchiati perché sarebbero destinati all’affitto.»

«Ah...» Roxas non era del tutto tranquillo. «Suppongo che non t’importi molto, sperperare l’affitto in gelati.»

«Bah.» Axel alzò le spalle, con aria annoiata. «Ho sempre vissuto l’attimo, e non comincerò adesso a preoccuparmi del futuro. Senza contare che potrei già essermela svignata prima della fine di questo mese...»

«Che cosa vuoi dire?»

Il giovane lo soppesò con lo sguardo per un istante. Poi sospirò.

«Questa è un’altra cosa che dovrò raccontarti.»

 

 

* * *

 

 

Roxas accettò il ghiacciolo ringraziando educatamente, e iniziò a scartarlo in silenzio. Era evidente che ormai, affermata la sua volontà con quell’uscita fuori programma dal suo piccolo mondo, voleva soltanto andare fino in fondo, e di certo anche ascoltare ciò che aveva da dirgli.

Axel non poté fare a meno di ammirare la sua decisione di seguirlo. Nonostante tutto, era riuscito a fronteggiare la situazione – gli sguardi degli estranei e il flusso di ricordi – a mente fredda, e non aveva ceduto alla tristezza. Non l’aveva portato in quel parco senza un motivo; voleva metterlo in condizione di affrontare se stesso, perché era proprio quello il motivo per cui aveva deciso di parlargli. Non gli era importato neppure il fatto di mostrare la faccia in pubblico, quando c’era ancora la possibilità che la polizia fosse sulle sue tracce, o che Luxord lo tenesse d’occhio per conto di Marluxia. Quel giorno doveva essere così e basta, per entrambi: via le maschere. Fuori dalle muraglie, per una volta nella vita, insieme ad una persona che potesse capire incondizionatamente.

E Roxas aveva capito. E aveva accettato il compromesso del primo passo.

Axel si sedette sull’erba a poca distanza da lui, all’ombra di un faggio, e scartò il suo gelato.

Decise di cominciare da dove gli capitava.

«Hai visto quel tipo che è venuto da me qualche sera fa?»

«L’ho sentito mentre ti salutava» rispose Roxas, concentrato sul ghiacciolo.

Lasciò correre l’accenno d’ironia dell’ultima parola. «E hai capito quello che mi ha detto?»

Il ragazzo scosse la testa e finalmente si voltò verso di lui. I suoi grandi occhi azzurri lo colpirono dritto in viso, con la stessa aperta schiettezza con cui anche lui lo guardava.

«Si chiama Zexion e fa parte di un gruppo di spacciatori.» Axel s’interruppe per un attimo, mordendo il gelato. «Un gruppo di cui, in un certo senso, faccio parte anch’io.»

Roxas non si mosse. Si era aspettato di vederlo perlomeno allarmarsi; invece restava freddo, lucido, impassibile. Ricordò la rabbia che gli aveva sentito nella voce la sera in cui l’aveva affrontato chiedendogli chi fosse... Come mai ora era diverso?

«Perché “in un certo senso”?»

«Diciamo che sono ancora in prova. Non ho mai seriamente spacciato; non l’ho mai nemmeno provata, la droga. Un po’ paradossale, eh? Comunque, nei primi due mesi nella banda ho solo messo in contatto i... clienti con i membri più esperti. Oppure dovevo rintracciare chi aveva un conto in sospeso con il capo... Per imparare il mestiere, sai come si dice. Pedinamenti, contrattazioni, roba così.» I suoi occhi si persero nel cielo terso e limpido. «Poi c’è stata la soffiata. Uno di noi ha deciso di passare dalla parte dei buoni. E così, per fartela breve, io mi sono ritrovato a nascondermi nel tuo condominio. Ma non è detto che ci resti.»

Di nuovo, Roxas attese qualche secondo prima di ribattere.

«Quindi sei un ricercato...»

Axel sogghignò e alzò le spalle. «Non so. Può anche darsi che quell’idiota abbia spiato solo sui pezzi grossi. Dopotutto, come ti ho detto, io ero ancora agli inizi. Ho accettato di farne parte per campare, ma senza alcun coinvolgimento serio, né affettivo, figuriamoci...»

Roxas annuì vagamente, mordendo il ghiacciolo con aria pensosa. Axel lo guardò a lungo, chiedendosi divertito come avrebbe reagito realizzando di trovarsi fuori con uno che, per quanto ne sapeva, poteva benissimo non essere così innocuo come gli stava assicurando di essere, o che magari aveva la polizia alle calcagna. Invece, lui sembrava soltanto molto serio.

«Allora quel tipo... Zexion...» Voltò il viso, e di nuovo lo trapassò con i suoi occhi di bambino intelligente. «Voleva che li aiutassi a... a regolare i conti con quello che vi ha traditi, vero? Per questo è venuto a cercarti.»

Axel strizzò l’occhio. «Sei sveglio, bimbo.»

Roxas sospirò e guardò lontano, oltre il parco tiepido e affollato, oltre qualsiasi cosa fosse visibile a occhio nudo, concentrato su qualcosa che forse poteva vedere solo lui. All’improvviso sembrava triste.

«Gente come te non ha mai capito niente della vita» mormorò.

Axel lo fissò, chiedendosi perché la sua voce fosse diventata tanto amara. Era certo che Roxas non stesse semplicemente criticando il suo stile di vita, come avrebbe fatto chiunque; c’era qualcos’altro sotto, qualcosa che non voleva o non poteva esprimere a parole.

Aspettò che continuasse, ma il biondino rimase in silenzio.

E fu un silenzio lungo, mentre i ghiaccioli quasi dimenticati si scioglievano lentamente nel sole.

 

 

* * *

 

 

Non si sarebbe mai aspettato di vederlo uscire dal condominio e restarsene così tranquillamente all’aperto. In compagnia, per di più.

Forse si sentiva abbastanza sicuro da buttare all’aria ogni cautela? Certo, in effetti era probabile che Demyx non avesse parlato di lui alla polizia...

Una ragione in più per averlo dalla loro parte, quando sarebbe arrivato il momento: non sarebbe stato seguito.

Lui, comunque, l’avrebbe tenuto d’occhio; gli sarebbe molto dispiaciuto se anche quel novellino avesse deciso di metterglisi contro. Sperò che Zexion fosse stato convincente...

Ma c’era qualcosa che lo rendeva nervoso.

Quel ragazzino sulla sedia a rotelle. Perché erano lì insieme? Quale importanza rivestiva per Axel? Come mai aveva l’impressione che ci fosse tanta sintonia negli sguardi che si scambiavano?

Già... Meglio tenerlo d’occhio.

L’amicizia era uno stupido ideale, ma aveva la capacità di far cambiare le persone.

Marluxia era curioso di capire se potesse seriamente nascere un’amicizia tra uno spacciatore in erba e un ragazzino handicappato dallo sguardo spento.

 

 

 

 

 

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Lunga attesa anche stavolta, lo so. Perdonatemi ;_; Oh, beh! Però come vedete inizia a muoversi qualcosa. E tra qualche tempo si comincerà anche a parlare di Demyx, che naturalmente non sarà un personaggio marginale in eterno ^^

Ringrazio per le recensioni Ruri Jeevas, _Ella_ e fragolottina, nonché LittleKairi14 per essersi unita ai lettori di questa storia formato bradipo sonnolento *__*

Conto di poter aggiornare con più regolarità durante le prossime vacanze, impegni permettendo. Con tale speranza, see ya soon!

Aya ~

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Capitolo 12
*** Tre skater ***


11

Tre skater

 

 

 

Il sole era quasi a picco. Axel camminava spedito nel parco, ascoltando il lieve stridio delle ruote della sedia di Roxas, da qualche parte accanto a lui. Ora che si erano messi a confronto, si sentiva come liberato da un peso, un’oppressione che teneva entrambi confinati in se stessi, lontano dalla vita delle persone ‘normali’. Era molto più facile, senza più alcuna barriera, attraversare quel parco affollato della stessa gente che fino a poco prima entrambi avrebbero evitato in ogni modo di incrociare.

Sapeva che stava rischiando, eppure non gliene importava niente.

Ma stava succedendo tutto troppo in fretta...

Si riscosse dai suoi pensieri quando non sentì più i movimenti della sedia a rotelle.

Voltandosi, si accorse che Roxas si era fermato a guardare un piccolo parco giochi; nello specifico, il suo sguardo era concentrato su una fila di tappeti elastici dove un gruppo di bambini chiassosi ed esultanti sembrava voler raggiungere il record mondiale del salto in alto.

Axel riportò gli occhi su Roxas. Aveva un’espressione strana, come fosse travolto da mille pensieri ed emozioni contrastanti e non sapesse bene a quale dare la priorità.

«Ehi, tutto bene?»

Roxas non si mosse né parlò. Continuò a guardare assorto i bambini sui tappeti, e a poco a poco un piccolo sorriso tristissimo si disegnò sulle sue labbra.

 

 

* * *

 

 

«Ahi! Brucia!»

Il bambino si sottrae alle mani preoccupate della madre. Inginocchiata davanti alla panchina su cui è seduto, lei si limita a guardarlo con il suo sorriso paziente.

«Dai, Roxas, è solo una sbucciatura.»

Il piccolo Roxas si studia imbronciato la pelle nuda e arrossata del ginocchio.

«Ma brucia» ripete, ostinato.

«D’accordo, allora non la tocchiamo. Facciamo così.»

La mamma si china sulla sua gamba e soffia delicatamente sulla parte dolorante. Il senso di fresco alla pelle gli porta subito un po’ di sollievo.

«Roxas, che ti succede? Ti arrendi?»

Sora è ancora sul suo tappeto e, impegnato in un salto a gambe incrociate, lo guarda dall’alto con un sorriso di sfida.

Scordando il dolore, Roxas scatta in piedi e si tira giù la gamba dei pantaloni. «Lo dici tu! Guarda che posso saltare più in alto di te anche così!»

Sora tocca di nuovo la superficie elastica con i piedi, poi torna su velocemente, con le braccia e le gambe spalancate e una smorfia da clown in viso. «E allora forza, che aspetti?»

«Arrivo!» Roxas comincia a correre verso i trampolini; poi ci ripensa, torna indietro di corsa da sua madre e l’abbraccia. «Grazie, mamma.»

«Vai, tesoro» sorride ancora lei, «e attento a non cadere di nuovo.»

Il bambino ricambia il sorriso e annuisce con vigore. Quindi si volta e raggiunge suo fratello.

Ha otto anni.

La sua vita è perfetta.

 

 

È stato quel giorno che ho conosciuto Hayner...

Roxas tornò a malincuore al presente, allo stesso parco e agli stessi giochi di sette anni di distanza. Non si sorprese troppo nel constatare che, in tutto quel tempo, l’unica cosa che fosse davvero cambiata era lui.

Si scosse e si rese conto che Axel lo stava ancora fissando, in attesa. Senza guardarlo, gli indicò la fila di tappeti elastici.

«Ci venivamo spesso, qui» mormorò in giustificazione al proprio sorriso triste. «Tanti anni fa. È in questo posto che ho conosciuto il mio migliore amico.»

Con la coda dell’occhio vide che Axel seguiva la direzione del suo sguardo.

«Tutto sommato» lo sentì commentare, dopo una breve pausa, «tu devi aver vissuto una bella infanzia.»

Roxas scrollò le spalle. «Non so se era bella. So che mi andava bene così com’era.»

Prima che cambiasse tutto.

Stavolta Axel non disse nulla. Anche lui sembrava assorto nei propri pensieri. Magari pensava alla sua infanzia.

Era quantomeno bizzarro – l’eufemismo dell’anno! – star lì a dividere i suoi ricordi più preziosi con una specie di spacciatore. Roxas se lo ripeté per l’ennesima volta, e per l’ennesima volta non seppe spiegarsi ciò che stava succedendo. Forse doveva succedere e basta, ecco tutto.

Cercando un modo per superare il momento di stallo, si voltò finalmente a guardarlo, sperando di farsi venire in mente una domanda o una frase qualunque che potesse cancellare quell’ultimo momento di debolezza.

Ma quella domanda o quella frase non la trovò mai.

Dietro l’alta figura di Axel si stagliava, netta come una lama d’asfalto nel verde acceso del parco, l’area attrezzata per gli skater: la pista e le rampe e tutto il resto – lo scenario esatto del disegno nell’armadio. E proprio da quella direzione venivano tre ragazzi, caschi in testa e tavole sottobraccio, intenti a ridere e a parlare fitto.

Fu come se il cuore di Roxas venisse improvvisamente pressato in una morsa d’acciaio.

In quel momento maledisse più che mai la propria impossibilità di alzarsi in piedi e correre via veloce come il vento.

 

 

* * *

 

 

«Axel

Il tono di voce di Roxas, con una traccia di terrore molto vicina all’isteria, lo distolse dai suoi pensieri e lo indusse a voltarsi verso di lui.

Il ragazzo guardava un punto alle sue spalle. Quando alzò gli occhi sul suo volto, lo fece come un condannato a morte di fronte al patibolo.

«Andiamo via.»

«Ma che ti...»

«Andiamo via

Il terrore adesso lasciava spazio alla rabbia che Axel aveva imparato a riconoscere in lui come una caratteristica quasi fisica. Perplesso, si voltò nella direzione in cui Roxas stava guardando fino a pochi istanti prima.

Due ragazzi e una ragazza con degli skateboard si stavano avvicinando al punto del parco dov’erano loro, accanto all’area per i bambini. Sembravano chiacchierare tranquillamente, ma le espressioni non erano serene: apatiche, semmai, o forse solo un po’ forzate. Dovevano avere più o meno l’età di Roxas.

«Cosa c’è, per caso li conosci...?»

Si voltò di nuovo, ma il ragazzino aveva già fatto forza sulle ruote della sedia e si stava allontanando verso l’uscita del parco, con l’atteggiamento di chi non vuole assolutamente farsi notare dal resto del mondo.

«Ehi!» Axel lo seguì e gli si affiancò. «Ma stai bene? Mi sembra di aver notato un ospedale qua fuori; vuoi che ti ci porti?»

Roxas gli lanciò una breve occhiata furente, prima di incassare ancora di più la testa nelle spalle e proseguire senza rispondergli.

Axel sospirò e alzò gli occhi al cielo, infilando le mani in tasca in gesto di resa.

«E va bene» concesse. «Immagino di aver già preteso troppo da te, oggi.»

Lui non raccolse la sua provocazione, e lo ignorò.

Alle loro spalle, le voci dei tre skater si spensero in lontananza.

 

 

 

 

 

_________________________________________________________________________________________

 

 

 

 

 

 

 

Sì, sì, è un minicapitolo. E non succede praticamente niente. Ma in fin dei conti non è una novità. ^^’

Vorrei tanto dilungarmi a parlare con voi degli avvenimenti presenti e futuri e a ringraziarvi uno per uno per la vostra attenzione; ma sinceramente esco da una lite furibonda, e ora come ora sono ancora un po’ fremente. Non voglio rischiare di riversare le mie inquietudini sui miei lettori. Dunque spero che non me ne vogliate se mi eclisso subito: questa capatina è giusto per rispettare l’intervallo di una settimana tra un aggiornamento e l’altro.

Mi auguro abbiate passato un sereno Natale, e che anche il nuovo anno vi porti altrettanta serenità <3 Un saluto affettuoso alle commentatrici fragolottina ed _Ella_, un grazie sincero a tutti i lettori, e a tutti buonanotte.

A presto con qualcosa di più ‘sostanzioso’ – e no, non parlo di panettoni ;)

Aya ~

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Capitolo 13
*** Promessa infranta ***


12

Promessa infranta

 

 

 

«E dai, Sora, solo un’altra volta!»

Se fossero stati in un fumetto o in un cartone animato, in quel momento gli occhi di Tidus e Selphie avrebbero avuto la forma di cuoricini.

Sora sorrise. «D’accordo, ma solo una.»

Esultante, Tidus premette per quella che in realtà era l’ennesima volta il tasto di avvio dello stereo portatile che aveva sulla spalla. La solita musica si liberò nell’aria, e su quelle poche note ripetute Sora si produsse di nuovo nei suoi passi migliori.

Faceva breakdance da quando aveva dieci anni. Gli avevano detto che aveva un talento innato, e forse qualcosa di vero c’era, perché seguiva soltanto l’istinto e non aveva mai neppure frequentato un corso: solamente i gruppi di appassionati che si riunivano agli angoli delle strade, a fare sfoggio delle proprie capacità di fronte agli immancabili capannelli di curiosi ammirati.

Non era un hobby e non era un mestiere: era semplicemente ciò che più gli piaceva fare.

Tidus e Selphie applaudirono, attirando sul compagno l’attenzione dei passanti – che, diretti ai loro pranzi della domenica, si fermarono un istante a regalare uno sguardo e un sorriso a quel ragazzo mingherlino che teneva la testa ben salda sul marciapiede e faceva ruotare le gambe in aria con furiosa armonia.

Dalla sua posizione, Sora sentì il commento divertito che Riku mormorò a Kairi.

«Che esibizionista.»

Si tirò su con un salto preciso, atterrò sui due piedi e fece un piccolo inchino a beneficio dei suoi spettatori; quindi si voltò a fronteggiare Riku, senza il minimo accenno di fiatone, fingendosi oltraggiato.

«Che c’è? Il pubblico mi ama e io amo lui.»

«Sì, come no.» L’amico sollevò gli occhi al cielo e gli indirizzò un sorrisetto ironico. «E poi ti piace metterti in mostra.»

«Tu osi insinuare...? Bene, allora, ti sfido: dimostrami quello che sai fare tu e vedremo chi avrà l’ultima parola!»

«Non penso di poterti accontentare. Devo proprio tornare a casa. Ci si vede, ragazzi.»

Con un cenno della mano al resto del gruppo, Riku s’incamminò lungo il ramo destro dell’incrocio.

«Sì, sì, vai pure» gli urlò dietro Sora, «razza di codardo!»

Entrambi sapevano benissimo che quell’‘ultima parola’, eventualmente, sarebbe spettata proprio a Riku. In fondo era stato in uno di quei gruppi di appassionati che si erano conosciuti, diventando migliori amici ed eterni competitori, solo qualche anno prima.

Poco prima che...

Tidus spense la musica e loro tornarono ad essere solo un gruppo di ragazzi fermi a un incrocio frequentato da pochi passanti sconosciuti. Anche il ragazzo e Selphie si congedarono, allontanandosi lungo la svolta sinistra della strada.

Sora e Kairi rimasero soli.

«Vieni all’appartamento?»

«Sì, ho voglia di parlare un po’ con Roxas

Sora soffocò sul nascere una sottile fitta di gelosia per via di quella vicinanza tra lei e suo fratello.

«Mah, dubito che lo troverai di buonumore.»

S’incamminarono vicini verso il condominio.

«Va così male?»

«Peggio.»

Le raccontò del litigio del giorno precedente, del disegno e dei ricordi che erano riemersi dall’armadio con esso, e che Roxas aveva voluto soffocare, di nuovo.

Kairi sospirò profondamente e si passò una mano tra i capelli ramati. «Devi lasciargli i suoi tempi, Sora.»

«Lo so, ma...»

«Stammi a sentire. Roxas ha ragione. Lui non è te. Ha una sua testa, e ha un suo modo di sopravvivere. Non serve a niente insistere nel cambiarlo; non serve a lui e neppure a te.»

A disagio, Sora si guardò i piedi. Quei piedi di cui Roxas un tempo aveva riso spesso, chiedendosi come potessero, così grandi e sgraziati, fare tanti miracoli sulla musica. All’improvviso si sentiva orribile e meschino per la gelosia provata poco prima.

«Forse hai ragione» mormorò. «Ho esagerato. Dovrei chiedergli scusa...»

Kairi si bloccò di colpo al suo fianco. «Io... Io non ci credo.»

Anche Sora si fermò; la scrutò con un sopracciglio sollevato. «Ehi, non c’è bisogno di essere così scettici. So ammettere i miei errori, sai?»

«Ma no... Guarda

Erano arrivati all’altezza del condominio, e la ragazza, esterrefatta, aveva lo sguardo fisso sulla parte opposta della carreggiata. Sora le obbedì, perplesso.

Dalla strada di fronte, un tipo alto con i capelli rossi, vestito di nero come una figura dell’inferno, si stava avvicinando al palazzo. Accanto a lui, gli occhi fissi a terra, c’era Roxas.

Sora rimase là immobile a bocca aperta, letteralmente, in attesa di un fulmine che causasse la fine del mondo o che lo svegliasse da un sogno e che invece non arrivò mai.

Com’era possibile? Cosa aveva convinto suo fratello ad uscire, specie dopo il confronto a dir poco devastante del giorno prima? E chi era quel tipo che aveva tutta l’aria di averlo accompagnato fuori?

In quel momento Roxas e lo sconosciuto arrivarono all’ingresso del condominio, a pochi metri di distanza da Sora e Kairi. Sora incrociò per un solo velocissimo istante gli occhi di suo fratello, prima che lui issasse la sedia a rotelle sulla bassa passerella in legno parallela ai gradini che conducevano alla porta del palazzo.

«Ciao, Sora. Ciao, Kairi

Un saluto dal suono formale, pronunciato senza guardare nessuno.

L’uscio si aprì e Roxas scomparve.

Il tipo silenzioso dai capelli rossi li fissò per un attimo con aria assorta, come se stesse valutando l’ipotesi di parlare o meno con loro; alla fine fece un cenno quasi impercettibile, che poteva essere un saluto o anche un movimento involontario, e seguì Roxas all’interno.

Sora chiuse la bocca.

«Non ci credo» ripeté Kairi, con lo stesso tono sbalordito.

«Mai stato più d’accordo con te.»

«Ma chi era quello

«E che ne so? Non l’ho mai visto prima.» Cominciò a correre verso la porta, ora socchiusa, oltre la quale i due erano spariti. «Ma ho intenzione di scoprirlo al più presto.»

 

 

* * *

 

 

«C’è una cosa che mi dà profondamente fastidio.» Axel si appoggiò alla parete di specchi e si guardò intorno; le loro immagini riflesse li circondavano, conferendo alla scena un senso di soffocamento che ci sarebbe stato comunque, indipendentemente. «Visto che c’è un ascensore in questo dannato posto, perché quella rogna di Vexen mi ha fatto fare le scale la sera che sono arrivato qui? È già un po’ che ci penso. Deve essere proprio di una tirchieria assoluta.»

Roxas era immobile di fronte a lui e sembrava provare un immenso interesse per la punta del proprio piede destro. Era evidente che non aveva ascoltato una sola parola, e Axel non faticava a immaginarne il motivo. Dopo l’ultima sfuriata fatta a suo fratello sul suo voler essere lasciato in pace, certo sarebbe stata dura per lui spiegargli che – con tanti saluti a quelle parole di rifiuto – quel giorno aveva deciso di uscire. E come se non bastasse, in compagnia di un semi-spacciatore...

«È solo per le emergenze.»

Axel alzò lo sguardo. «Eh?»

«L’ascensore. Il signor Vexen permette di usarlo solo per le emergenze, perché il rumore disturba i condomini e soprattutto lui. E anche perché, sai, “l’elettricità costa!”... È stata la prima cosa che ci ha detto, quando Sora ed io siamo venuti a vivere qui.» Roxas lo guardò con un sorriso sghembo. «Mi fai una domanda e te la dimentichi nell’arco di dieci secondi. E poi sono io quello che non sta bene.»

Axel non ribatté. Preferì lasciargli l’illusione di non aver capito che dietro quel suo tono ironico c’era la disperazione pura.

Un debole sobbalzo annunciò la fermata dell’ascensore al loro piano. Le porte si aprirono con un cigolio che sapeva di poco olio, ulteriore traccia della natura spartana dell’amabile portinaio. Axel vide Roxas uscire in corridoio con lo stesso atteggiamento restio di quando lo aveva attraversato la prima volta, per lasciare il condominio. Lo seguì in silenzio fuori dalla cabina.

Roxas diresse la sedia alla porta contrassegnata dalla targa 2A; appena prima di arrivarci, si voltò a metà con il busto verso di lui.

«Ci vediamo, Axel

Un momento, un silenzio pieno di cose in sospeso. Poi Axel decise che le domande e le risposte e i come e i perché erano troppi da poter affrontare ora e subito, e ricorse alla stessa nota piatta adottata da lui.

«Ci vediamo, Roxas

Quando lo vide eclissarsi di nuovo nel suo mondo di ricordi che era quell’appartamento chiuso a tutto e a tutti, voltò le spalle e percorse in senso inverso lo stesso corridoio, verso la porta del 2B.

«Ehi! Ehi, aspetta!»

La voce sconosciuta lo sorprese accanto alla rampa di scale che circa dieci notti prima aveva percorso insieme a Vexen, in una notte che oggi gli sembrava lontana anni luce.

Un ragazzino dai capelli castani impossibili si stava dirigendo a rotta di collo verso di lui, volando sui gradini. Axel si fermò, col vago impulso di piantarlo subito in asso e tornare a barricarsi nella sua stanza come aveva appena fatto Roxas. Niente pubblicità... Ma poi si rese conto di chi fosse quel ragazzino.

Quando gli fu vicino e si fermò a riprendere fiato, distinse nei suoi lineamenti la somiglianza eccezionale con Roxas: gli occhi però erano assurdamente diversi.

«Senti» ansimò il ragazzo puntandogli in viso le iridi blu, di una sfumatura più scura di quelle del fratello. «Non so chi tu sia, ma...»

«Tu invece sei Sora, eh?» lo interruppe.

L’altro continuò a guardarlo stupito. «Io... Sì... Come fai a...? Insomma, voglio ringraziarti.»

Fu il turno di Axel di fissarlo con stupore. «Ringraziarmi?»

«Per quello che hai fatto.» Sora sorrise e il suo volto s’illuminò di colpo, e Axel capì all’istante cosa intendesse Roxas parlandogli della ‘forza’ di suo fratello. «Te l’ho detto, non so chi sei, non so cos’hai detto o fatto; ma deve essere stato qualcosa di grande, o Roxas non sarebbe mai uscito da queste quattro mura.» Per la prima volta, nei suoi occhi passò un’ombra di tristezza. «Sei riuscito dove non è mai riuscito nessuno, nemmeno io... Perciò grazie, grazie di cuore.»

Axel non provò nulla di particolare. Né orgoglio per se se stesso, né fastidio, né tantomeno imbarazzo. Solo quella punta di ammirazione per il suo modo di fare e di sorridere – ammirazione che ovviamente non era affatto disposto a manifestare.

Scosse la testa.

«Non ho fatto poi questo gran che.» Era sincero. Ripensò al momento in cui Roxas aveva visto i tre skater, alla sua espressione e alla sua voce. «E credo che a lui non abbia fatto bene. Il contrario, forse.»

Sora smise di sorridere, e per un attimo assomigliò a un bambino curioso. «Perché?»

Quasi senza accorgersene, Axel si ritrovò a spiegargli l’episodio di quella mattina.

Non poteva fare a meno di sorprendersi di se stesso. Il suo famoso proposito era ormai andato elegantemente a farsi fottere. Si metteva a chiacchierare del più e del meno con qualunque marmocchio, negli ultimi tempi. Si stava davvero rammollendo tanto? O era Sora che, proprio come suo fratello, aveva il dono di farlo comportare in modo esattamente contrario alla sua natura?...

Alla fine di quel resoconto scarno, Sora sospirò e abbassò lo sguardo.

«Hayner, Pence e Olette» mormorò al pavimento. «Dovevano essere loro...»

«Chi?» fece Axel, incerto se manifestare una qualche curiosità oppure l’indifferenza più totale.

Sora sembrò ricordarsi soltanto allora di non essere solo, e rialzò il viso.

«Sono... beh, perlomeno erano... i suoi migliori amici» spiegò. «Vedi... Roxas è sempre stato un fenomeno dello skateboard. Gareggiava a livello regionale, e qualcuno aveva intenzione di proporlo anche per le gare nazionali. Era una promessa per tutti. Ma da quando... Insomma, dal giorno dell’incidente, non ha più nemmeno guardato in faccia i suoi compagni di squadra. Hayner, Pence e Olette, appunto.» Sorrise tristemente. «Una volta ho sentito che diceva a nostra madre... che lo skate era l’unica cosa in cui si sentisse più bravo di me. E alla fine quella forza è stata l’ennesima cosa che gli è stata tolta. L’ennesima promessa infranta.»

 

 

 

 

 

_________________________________________________________________________________________

 

 

 

 

 

 

 

Perché non bastavano tutti i dolori già svelati: adesso ci si mettono anche i tre skater. Povero Roxas. ;_;

Oh, già, sono io a farlo soffrire così… Che creaturina meschina che sono >_<

Come vedete, Sora inizia a intrufolarsi in modo più attivo nella storia, e tra un paio di capitoli tornerà finalmente a imporsi la faccenda in cui è invischiato Axel… Oh, purtroppo non posso aggiungere altro. Sono di nuovo di fretta – ma spero abbiate gradito.

Ringrazio tutti i miei lettori, e per le recensioni _Ella_, Ruri Jeevas e fragolottina, sempre gentilissime. <3

Mi dispiace davvero di dilungarmi così poco nei miei già rari aggiornamenti; l’unica mia speranza è che le cose cambino con l’anno nuovo. By the way, un felicissimo 2011 a tutti voi!

Alla prossima,

Aya ~

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Capitolo 14
*** In bilico ***


13

In bilico

 

 

 

Ogni movimento si stempera fino ad essere pura essenza.

Terra.

Piede destro sul naso.

Salto.

Piede sinistro sulla coda.

Cielo.

La tavola incollata ai piedi.

Che adesso la fanno ruotare in aria.

Ripetutamente. Senza pause.

Triple heelflip.

Di nuovo terra.

Piede destro sul naso, piede sinistro al centro.

Lontano dalla rampa, giù lungo la pista.

Con l’ansia di tornare su.

La ringhiera della gradinata del parco in lontananza.

Più vicina.

Veloce.

Vento sul viso.

Salto.

Piede destro sul naso, piede sinistro sulla coda.

Boardslide.

La tavola che struscia sulla ringhiera.

Salto e poi ancora giù, a terra.

Nose manual.

La tavola che s’impenna e infine ferma la sua folle corsa.

E subito, la mano di Hayner sulla spalla.

«Parola mia, Rox. Tu hai un dono.»

Roxas si toglie il casco e si scosta dagli occhi i capelli biondi appiccicati alla fronte. Sorride, nel modo in cui riesce a sorridere soltanto quando è sul suo skate.

«Dai, Hayner, non farmi montare la testa.»

«Tu? Montarti la testa? Impossibile.» Olette li raggiunge e li supera sulla sua tavola dipinta a tinte vivaci, i lunghi capelli castani al vento. «Non è nel tuo DNA.»

Roxas scuote la testa divertito, con lo stesso sorriso sulle labbra, incancellabile finché dura.

È qui, è adesso, in questo parco e su questo skateboard. È tutto qui il suo vero io. Quello che gli permette di distinguersi e, perché no, anche di staccarsi dal suo gemello che è sempre un esempio per tutti. Bravo a scuola, bravo nello sport, bravo con la breakdance, bravo a fare battute.

Lui non è geloso di Sora, niente affatto. Ma lui, quando è su una tavola, non è più ‘il fratello di Sora’. Lui, quando è su una tavola, è solo Roxas. Solo e finalmente se stesso.

Il suo sorriso aperto si riflette sul viso di Hayner, con un contagio che non porta dolore ma allegria.

«Amico, questo è il nostro anno. Lo sento, lo so. Aspetta che arrivino le finali e ce li mangiamo, quelli della SK-8. Seifer e i suoi amichetti leccapiedi hanno praticamente le ore contate. Vedrete, ragazzi» Hayner alza la voce perché anche Olette e Pence sentano le sue parole, «quest’anno gli Hawk Runners volano alto!»

«Ehi, ragazzi!» Pence si avvicina veloce sul suo skate, agilissimo nonostante la corporatura robusta che a scuola gli è costata tanti commenti sufficienti, sventolando l’inseparabile macchina fotografica. «Avanti, immortaliamo questo momento! Tutti in posa!»

«Sono con te!»

Per dare maggior peso alle parole, Olette si lancia letteralmente al collo di Roxas e Hayner per trascinarli davanti all’obiettivo. Roxas è travolto in pieno e perde l’equilibrio, scivolando dalla tavola e finendo a gambe all’aria. Scoppia a ridere.

«Ooops! Scusami, Roxas

«Non fa niente.» Lui si rialza in piedi ridendo e stavolta prende lo skate sottobraccio, strizzando l’occhio all’amica. «Tranquilla. Sono io che mi sento più a mio agio a starci sopra in movimento che da fermo.»

Anche Olette ride e lo abbraccia di nuovo.

Intanto, Pence sta sistemando la macchina, già pronta con l’autoscatto, sulla stessa ringhiera che Roxas ha appena percorso con lo skate. Poi si unisce al gruppo e richiama l’attenzione generale.

«In vista delle finali del mese prossimo, ma non solo» annuncia solenne, «promettiamo che la nostra squadra sarà sempre unita. Sempre amici. Io prometto!»

«Prometto» sorride Olette, gli occhi scintillanti.

«Prometto» sorride Hayner, con una pacca alla spalla di Roxas.

«Prometto» sorride Roxas, felice.

Il flash scatta su quel sorriso e su quella promessa, come un sigillo destinato a durare nel tempo.

 

 

Ma il tempo cambia tutto. E niente gli sopravvive.

Quello era stato l’ultimo allenamento insieme agli Hawk Runners, prima dell’incidente che gli aveva tolto anche la sua passione.

Quella promessa aveva solo cercato di dimenticarla. E quella foto non l’aveva mai vista.

Roxas era immobile sulla sua dannata sedia, e a testa bassa osservava quel dannato disegno di quel dannato parco. Quando era rientrato nell’appartamento, si era reso conto che per la prima volta la frustrazione era tale da impedirgli persino di prendere in mano una penna o una matita e sfogare i ricordi sulla carta. Così, era già un bel pezzo che se ne stava là seduto a guardare quei ricordi senza far nulla, mentre loro gli saltavano agli occhi in gruppi confusi, in un intreccio tra passato e presente che aveva come fulcro quello stesso parco che pochi giorni prima aveva trasferito dal bianco della mente al bianco del foglio.

Axel. Lo skate. I suoi genitori. Hayner. La macchina. Axel. Il sangue. Naminè. Gli occhi spaventati di Sora. La scala antincendio. I tappeti elastici. Il profumo della mamma. Kairi. Il disegno. La squadra. Axel. Il condominio. L’ospedale. Sora. Il sangue. Axel. Sora che urlava. Axel. Axel. Axel...

Se non fosse stato per Axel, non avrebbe mai più rivisto quel parco.

Se non fosse stato per Axel, nulla sarebbe mai cambiato nelle sue difese dal mondo.

Se non fosse stato per Axel, nessuno avrebbe mai diviso con lui il peso del suo dolore.

Quel flusso inconcludente di pensieri s’infranse di colpo contro lo scatto della porta dell’appartamento che si chiudeva.

Tornato alla realtà della sua sedia e dei suoi rimpianti, Roxas sospirò silenziosamente. Di certo era Sora, che di certo ora lo avrebbe interrogato su come mai alla fine fosse uscito, e probabilmente gli avrebbe anche chiesto chi cavolo fosse quello spilungone con i capelli rossi. Difficile rispondere, ad entrambe le domande.

Però la voce che lo chiamò dall’ingresso non apparteneva a Sora.

«Roxas

Era Kairi.

Non si sentì la forza di manifestare la propria presenza. Rimase semplicemente come gelato in quella posizione – guancia sulle braccia incrociate sul tavolo, occhi sul disegno appoggiato alla zuccheriera, rimasta là da quella mattina, da quando la comparsa di Axel aveva interrotto la sua svogliata colazione. Ascoltò senza emozione i passi attutiti di Kairi che cercavano di attraversare, insieme a quelle due stanze, anche le infinite miglia che la dividevano da lui, fino a fermarsi alle sue spalle.

«Sei bravissimo.»

Capì che anche la ragazza stava guardando il disegno. Una piccola parte di lui avrebbe voluto ringraziarla e superare la depressione, ma il senso di apatia che ormai gli aveva intorpidito il corpo e la mente glielo impedì.

Kairi aveva un temperamento molto simile a quello di Sora. Anche lei non si lasciava scoraggiare dai silenzi, per quanto li comprendesse e li accettasse. Per questo motivo Roxas non si stupì quando lei, invece di lasciar perdere in partenza ogni tentativo, si sedette sul tavolo e si chinò a cercare il suo sguardo.

«È stata una bella passeggiata?» gli chiese sorridendo.

«Direi di no.» Neutro, alzò la testa dal tavolo e si passò una mano dietro il collo indolenzito. «Sora non era con te?»

«Mmm, me l’aspettavo. Cerchi di sviare il discorso.»

Per la prima volta la guardò negli occhi. «È andato a fare il terzo grado ad Axel, eh?»

Lei sembrò per un attimo incuriosita. «È così che si chiama?»

«Adesso sei tu a sviare il discorso.»

Kairi sospirò, ma recuperò subito il sorriso.

«Roxas, Sora è solo preoccupato per te. Non mi sembra così deplorevole. Forse a volte esagera, certo; ma lo sai che ti vuole bene. Sei suo fratello.» Guardò di nuovo il disegno, ma non concesse al proprio sorriso il tempo di diventare triste. Proseguì in tono più leggero. «Piuttosto, dimmi... Che tipo è questo Axel

 

 

* * *

 

 

«D’accordo, allora, tieni gli occhi aperti: quello è il nostro uomo.»

Axel segue con lo sguardo la direzione indicatagli da Demyx. In teoria, il fatto di essere ‘addestrato’ da una persona così in alto nelle grazie del capo dovrebbe essere un onore. In realtà, per lui non è affatto così, dal momento che Demyx ha tutte le intenzioni di sbattergli in faccia la sua inesperienza confrontata alla propria sicurezza, in un mondo che per Axel è un mondo nuovo. Ma non certo meno duro di quelli che ha già conosciuto.

Accovacciato contro un muretto annerito dai fumi della città c’è quello che a prima vista sembra un barbone, ma che a un esame più attento si rivela poi essere soltanto un uomo, né povero né ricco, né vecchio né giovane, con una benda su un occhio e un lungo sfregio sulla faccia, intento a lanciare sguardi furtivi tutt’intorno e a prepararsi una canna.

«Un tipetto simpatico, mi pare.»

Demyx alza le sopracciglia, disapprovando per l’ennesima volta la sua innata ironia.

«Guarda che questo non è un gioco, pivellino. Se non sai fare il tuo dovere seriamente, dovrai imparare.»

«Ho capito, ho capito.» Axel si trattiene a stento dall’alzare gli occhi al cielo. «Avanti, dimmi cosa devo fare.»

«L’uomo si chiama Xigbar ed è una vecchia conoscenza del capo. Per ora devi solo limitarti a fargli avere questo indirizzo.» Demyx gli porge un biglietto con sguardo eloquente. «Bada bene, non devono restare tracce in giro. Ci siamo intesi? Comunque, qui è dove Marluxia lo aspetta per... sistemare una faccenda in sospeso. Ovviamente non saranno queste le parole che gli rivolgerai, mi spiego?»

«Ovviamente.»

«Bene. Gli dirai che c’è un bel pacco di roba fresca fresca per lui, se accetta di presentarsi a...»

«E tu credi che non sospetterà che è una trappola?» lo interrompe, scettico.

«Pivellino» sorride Demyx, saccente, «non sei qui per pensare, ma per agire. In quanto a Xigbar, può sospettare quello che gli pare. Il capo lo troverà comunque, in un modo più o meno indolore. Questo dipende solo da lui. E adesso datti da fare.»

Axel legge in fretta l’indirizzo sul biglietto e lo intasca senza aggiungere altro.

Subito dopo si alza, esce dalla siepe e si dirige a quello che è il suo primo lavoro nella banda di Marluxia.

 

 

Sorrise amaramente al biglietto – così simile a quello di quel giorno di due mesi prima – che stringeva tra le dita. Questo, però, era indirizzato a lui, ad Axel, non a terzi. Perché rappresentava una scelta che solo lui doveva fare. E che aveva già rimandato troppo a lungo.

Lasciò scorrere lo sguardo fino alla finestra di Roxas.

Non si erano più visti, da quando si erano salutati davanti alla porta del 2A. Le parole di Sora erano però un ronzio ancora incessante nelle sue orecchie: le aveva sentite e risentite per ore, e ogni volta non era riuscito a ignorarle come avrebbe voluto.

E così, Roxas era stato uno skater prodigio. Niente di cui stupirsi se odiava quel parco con tutte le sue forze: il suo vecchio regno, i suoi vecchi compagni, tutto lo faceva ripensare a quel periodo della sua vita in cui le sue gambe avevano assunto uno scopo più importante che camminare o correre o saltare.

E se era riuscito per qualche ora a trovare la forza necessaria ad affrontare il ricordo dei suoi genitori e della sua infanzia, ritrovarsi a fronteggiare anche quell’ultima e più intima parte di sé doveva averlo destabilizzato del tutto.

Axel non era impietosito da quella storia, e non credeva neppure di aver sbagliato a porre Roxas di fronte alle sue debolezze: credeva ancora in ciò che lo aveva indotto a farlo uscire di casa. Ma nonostante tutto, non poteva non provare una certa partecipazione nei suoi confronti, forse proprio perché era l’unico estraneo con cui Roxas si fosse mai aperto.

Suo malgrado, lo capiva al punto di arrivare a legarsi a lui.

E questo era assolutamente, definitivamente, categoricamente sbagliato ed insensato.

D’accordo, un conto era stato instaurare un contatto, capirlo e farsi capire da lui, in nome di quel... qualcosa che li rendeva simili in tutte le loro differenze; ma da qui al diventare amici ne passava di acqua sotto i ponti. Acqua sporca e inquinata, da evitare come la malaria.

Si ripeté che sarebbe stata solo una grossa stupidaggine, nella situazione in cui si trovava, rischiare di affezionarsi a quel ragazzino tormentato, perché... Beh, perché...

Perché cazzo non mi viene in mente neanche un fottutissimo, stramaledetto motivo?!

Il flash di un ricordo gli portò alla mente il visetto smunto di Xion, l’unica bambina con cui avesse stretto un qualche legame, durante gli anni trascorsi in orfanotrofio. L’aveva colpito perché era sola e non accettava la compagnia di nessuno, proprio come lui. Aveva iniziato a difenderla dagli scherzi dei ragazzi più grandi, e alla fine era nata tra loro quella sorta di fiduciosa complicità che forse era diventata amicizia. Alla fine, dopo aver passato poco meno che un anno all’istituto, Xion era stata adottata, si era trasferita a Traverse Town con la sua nuova famiglia, e lui non l’aveva più vista né sentita. Ricordava ancora oggi le parole che quel giorno si era scolpito a forza nella mente.

Non serve a niente farti un amico, se poi te lo portano via.

Che strano. Erano anni che non pensava a Xion...

Si accorse di aver stretto con forza il biglietto che aveva in mano fino ad appallottolarlo. Per un attimo abbassò lo sguardo su quella misera, ridicola pallina di carta con cui – letteralmente – avrebbe potuto giocarsi una partita sulla differenza tra la vita o la morte di una persona. Ma fu solo per un attimo, perché l’impressione di aver colto un movimento alla finestra del 2A gli fece alzare di nuovo la testa.

Roxas aveva appena aperto le tende ed era apparso al davanzale. La sua stanza fu di nuovo invasa dalla luce di troppe stelle ignare delle sue notti e delle sue domande.

Smettila di pensare queste stronzate, Axel. Stai diventando patetico. È lui che ci sta dentro, non tu!

Il ragazzo ricambiava il suo sguardo, senza espressione.

Rimasero a guardarsi in silenzio, ai capi opposti di quel condominio addormentato, a due finestre che erano due mondi distinti, in due stanze che erano simili tra loro ma che erano piene di segreti differenti – ma ora condivisi.

Alla fine, inaspettatamente, Roxas sorrise.

«Hai mai fatto skateboard, Axel

Lui non si chiese se Sora gli avesse raccontato ciò che si erano detti o se Roxas l’avesse intuito da solo. Si limitò a rispondergli, con un cenno di diniego della testa.

«No.» Si sorprese a chiedergli più di quanto pensasse di voler sapere. «Com’è?»

Anche a quella distanza, vide che il sorriso di Roxas era triste come non mai.

«Non potrei spiegartelo a parole. È una sensazione che devi provare, per poterla capire. Non è tanto il poter dire di avere un bell’equilibrio, di conoscere mille tricks e di saper saltare più in alto di tutti; è più quello che tu senti in quel salto, quello che trovi quando sei arrivato lassù, in bilico sulla tua tavola. È quello, a renderlo unico.»

Axel capì che non c’erano parole con cui potesse anche solo cercare di rispondergli.

In quel momento si rese conto che Roxas gli stava svelando anche il suo ultimissimo rimpianto, l’ultimissimo segreto che avesse tenuto tale.

Perché a lui?

Perché loro due?

Non serve a niente farti un amico, se poi te lo portano via.

Roxas sembrò di colpo tornare padrone dei propri pensieri. Nuove parole percorsero la distanza tra le due finestre.

«A proposito...» Il ragazzino mosse la sedia a rotelle, già sul punto di allontanarsi dal davanzale; ma prima gli rivolse un altro breve sorriso. «Grazie per oggi.»

Axel guardò a lungo quel sorriso. E si chiese se Roxas non fosse in realtà molto più forte di quanto lui stesso non credesse, molto più di Sora, molto più di lui.

Ricambiò il gesto. «Non c’è di che.»

Roxas sollevò una mano in un mezzo saluto, poi voltò del tutto la sedia e sparì alla sua vista.

Come riscuotendosi dall’effetto di un incantesimo, lo sguardo di Axel tornò subito a posarsi sul foglietto accartocciato. Lo aveva trovato al suo rientro all’appartamento, sul davanzale della finestra aperta. Era sicuro che quella mattina fosse chiusa.

Lo dispiegò e lo rilesse per l’ennesima volta.

 

 

È per stanotte.

Ricorda: o con noi, o contro di noi.

Z.

 

 

Rivolse a quelle poche parole un altro sorriso amaro.

Axel non conosceva ciò che Roxas aveva trovato a suo tempo nell’equilibrio di uno skateboard. Non aveva mai provato quella sensazione che lui aveva appena detto di non potergli descrivere. Non sapeva cosa c’era alla fine del salto, perché non conosceva neppure il salto stesso.

Lui era solo quello: era il buio, il nero, il nulla; non aveva dei ricordi ad illuminargli seppur debolmente la strada, perché non c’era nemmeno una strada.

Non sapeva se era giusto, non sapeva se era sbagliato. Era solo quello che era. Era così e basta. Inevitabile; proprio come non aveva saputo impedirsi di parlare con Roxas, di portarlo al parco e di dirgli chi era.

«... Una volta che ci sei dentro, non ne esci tanto facilmente.»

Con un movimento deciso, accartocciò di nuovo il foglio. Si alzò di scatto dal davanzale e attraversò la stanza per andare a spegnere la luce.

Poi, col favore dell’ombra, andò al comodino in cui aveva cercato di rinchiudere il suo passato.

Prese la pistola procuratagli da Zexion e inserì il colpo in canna. Quindi uscì nella notte, silenzioso e invisibile, sulla scala antincendio.

 

 

 

 

 

_________________________________________________________________________________________

 

 

 

 

 

 

 

Considerate che io, di skateboard, non so un’acca. Per scrivere questo capitolo all’epoca passai qualche ora sul web ad informarmi in merito, ma naturalmente non posso dire di essere abbastanza esperta da risultare davvero competente. Se tra i miei lettori si cela qualche skater, imploro il suo perdono per le scarse fondamenta del flashback iniziale. ;_;

Axel ha preso la sua decisione, perciò sappiate che da questo momento in poi le cose si fanno un po’ più serie. Un po’ dell’introspezione verrà messa da parte in favore dell’azione. Non subito, ma presto.

Ringraziamenti doverosi a _Ella_ e ChibiSerenity per le loro recensioni; a Fefechan per aver aggiunto la storia alle preferite; ad angel15 per avere iniziato a seguirla; e a tutti i miei lettori, come sempre. God bless you all. <3

Spero continuiate ad apprezzare ^^

Aya ~

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Capitolo 15
*** All'ora delle streghe ***


14

All’ora delle streghe

 

 

 

Disteso in un letto che ormai era suo, in compagnia di pensieri che avrebbe preferito appartenessero a qualcun altro.

Ascoltava i secondi scorrere via sommessi nella sveglia e nel buio e si chiedeva quanto ci avrebbero messo a trovarlo. Perché ormai, ne era certo, era solo questione di tempo.

Lo avevano rinchiuso in quella palazzina vuota in attesa dell’udienza. «Arresti domiciliari» gli avevano detto. Ma nonostante tutte le precauzioni prese per impedire a lui di uscire e a chiunque altro di entrare, sapeva che niente e nessuno avrebbe potuto impedire a quel ‘chiunque altro’ di andare a cercarsi la sua vendetta.

Lui lo conosceva bene.

In un certo senso, gli era ancora debitore. Lo aveva tolto dalla strada, lo aveva cresciuto, lo aveva indirizzato alle sfide della vita.

Ma gli aveva anche chiesto un prezzo, e in quel modo gli aveva strappato l’anima. O quel poco che gliene era rimasta.

 

 

«Ho un lavoretto per te, piccolo.»

Marluxia fa scorrere le dita tra i capelli di Demyx, appoggiato alle sue gambe, e gli sorride dolcemente dall’alto. Il ragazzo solleva lo sguardo sull’uomo che tanto ha fatto per lui e, come sempre, rabbrividisce al tocco della sua mano.

«Di che si tratta?»

«Oh, una sciocchezza. Ho notato una ragazzina, qualche giorno fa. Un viso nuovo. Deve essersi appena trasferita in città, e ha l’aria dell’adolescente malinconica che non direbbe di no all’emozione nuova di una dose...»

Demyx sorride al sorriso allusivo del suo capo. «Capito. Dirò ad Axel di avvicinarla e...»

L’uomo lo interrompe, posandogli lieve un dito sulle labbra.

«Veramente» sussurra, «pensavo che potresti occupartene tu.»

Demyx non si chiede il motivo. Sa che Marluxia ha tutto un suo modo di pensare, e del resto si fida ciecamente di lui. Annuisce.

«Certo, lo farò volentieri.»

Ora il sorriso si fa sornione.

«Bravo, piccolo.» Infila una mano nel taschino della camicia firmata e ne estrae alcune fotografie. «Ecco, queste sono un paio di immagini scattate da Luxord. È lei.»

Demyx accetta le foto dalle sue dita e guarda il viso della prossima ‘cliente’.

Il mondo si ferma in quella fotografia che tiene in mano.

Una ragazza sui quindici anni, dalla pelle chiarissima, avvolta in una felpa di tre misure più grandi che ha l’evidente scopo di nasconderla per quanto è possibile, siede su una panchina del parco e guarda con occhi vuoti un punto alla sua destra, sistemandosi dietro l’orecchio una ciocca di capelli neri come inchiostro.

Demyx resta lì per quello che gli sembra un tempo infinito, a osservare il ritorno del passato e l’inizio della fine.

Non sente più le mani né la voce di Marluxia. Solo l’eco di un rimpianto, e il grido silenzioso di un’anima che si ritrova perduta.

 

 

Ancora adesso, a distanza di due settimane, aveva quella foto impressa negli occhi e in ogni lacrima che avrebbe voluto ma che non era più in grado di versare.

Da quel momento in poi era stato un lento scivolare verso il fondo. Era come se la realtà gli fosse piombata addosso di colpo; tutto il peso che finora aveva saputo accollare agli altri – a Marluxia e ai suoi – si era ritrovato a convergere sulle sue spalle, costringendolo ad aprire gli occhi che troppo a lungo si era ostinato a tenere chiusi.

Andare alla polizia era stato un tentativo di rialzarsi, ma non aveva reso le cose più facili, non aveva attenuato quel macigno.

E la sua vendetta, invece che intimorirlo, lo allettava. Sperava che lo trovasse presto, che lo uccidesse e gli desse almeno il sollievo dell’oblio.

Non aveva detto alla polizia del ruolo di Luxord nei confronti della banda. Ora capiva cosa l’avesse trattenuto. Voleva lasciare al suo vecchio capo la certezza di una spia sicura, che lo avrebbe condotto alla meta. A lui.

Disteso in quel letto, Demyx ascoltava fuggire il tempo e l’immagine sfocata della ragazzina che già una volta non aveva saputo salvare.

Ascoltava e aspettava.

 

 

* * *

 

 

«Ce ne hai messo di tempo.»

Allo sbocco del vicolo, appena fuori del condominio, Zexion lo accolse con le spalle al muro e il cappuccio sulla testa. Axel gli si affiancò e osservò la sua sagoma alla debole luce dei lampioni.

«Credevo che la spedizione partisse all’ora delle streghe» sogghignò. «Non è un po’ presto?»

«Non riesci proprio a cogliere il lato serio delle situazioni, vero?»

Axel alzò le spalle e allargò le braccia. «Temo di no. È sempre stato un mio difetto.»

Zexion s’incamminò sul marciapiede, allontanandosi dal palazzo, verso l’intrico buio dei bassifondi della città. Il sarcasmo non sembrava proprio essere una cosa che rientrasse nelle sue grazie.

«Avanti, muoviamoci. Abbiamo un bel po’ di strada da fare.»

Mentre lo seguiva intorno all’edificio, Axel si sforzò di non pensare a quando, molte ore prima, aveva percorso quello stesso marciapiede accanto alla sedia a rotelle di Roxas.

Cercò un pretesto per deviare i propri pensieri.

«È stato Luxord a rintracciare il posto?»

«Già. Sarà con noi, stanotte. Al posto di Larxene: lei è stata intercettata. Te l’ho già detto?»

«No.» Le labbra di Axel si tesero in un sorriso storto. «Ma non mi sorprende molto.»

Come se condividesse i suoi pensieri, Zexion riprese il discorso lasciato a metà.

«Ad ogni modo, un uomo in più fa sempre comodo... Specie da quando anche Saïx non è più... disponibile.»

Axel non aveva mai incontrato Saïx, ma sapeva che era stato uno dei più fidati uomini di Marluxia. Unico adulto in quel gruppo di adolescenti più o meno complessati, e perciò – almeno in teoria – più maturo e più esperto, era tuttavia stato beccato e spedito al fresco qualche mese prima. Si era sdegnosamente rifiutato di fare nomi, e in tal modo, oltre agli svariati anni di galera, si era assicurato anche l’eterna stima di Marluxia.

Svoltarono dietro una bettola di locale e si addentrarono in una strada totalmente priva d’illuminazione.

«Saremo comunque in pochi» considerò Axel a mezza voce, spaventando un gatto randagio nelle vicinanze che cominciò a soffiare rabbioso contro di loro. «Tu, io, Luxord e Marluxia...»

Nell’oscurità quasi completa, un luccichio di denti sotto il cappuccio gli indicò che Zexion stava sorridendo. Cosa alquanto insolita, a onor del vero.

«Che ti prende, Axel? Hai paura che gli sbirri cattivi ci sopraffacciano?»

Axel sbuffò. «‘Fanculo, Zex

«Ehi, è solo un’impressione. Di’, piuttosto: hai mai tenuto una pistola in mano prima d’ora?»

«Non solo l’ho tenuta in mano. Ci ho pure sparato, geniaccio. Non ti fidi? Non lo sai che prima di unirmi a questa allegra compagnia mi sono fatto il culo altrove?»

«Buono, non ti scaldare.» Zexion fermò le sue frecciate con un gesto distratto della mano. «Lo so che non è stata una passeggiata neanche per te. Ti stavo solo stuzzicando un po’.»

Quel neanche, gettato là tra le parole come per caso, aveva il chiaro scopo di ricordargli che in fondo erano sulla stessa barca.

Sentendo più che mai il peso della semiautomatica nella tasca del cappotto in pelle, cercò nuovamente uno svincolo.

«Allora, vuoi dirmelo o no dove si è nascosto?»

«In una vecchia villa disabitata ai confini con la foresta. Luxord e il capo la raggiungeranno da ovest. Non ci incroceremo neppure; in questo modo sarà più facile confondere chi di guardia. Il piano è entrare e uscire con Demyx, al diavolo chi si metterà in mezzo.»

«E dopo?»

Axel era certo di conoscere già la risposta. Le sue aspettative trovarono subito conferma.

«Dopo, ci penserà il capo.»

 

 

 

 

 

_________________________________________________________________________________________

 

 

 

 

 

 

 

Lo so, mi odiate xD Io e la mia mania d’interrompermi sul più bello!

E così abbiamo intravisto anche uno squarcio del punto di vista di Demyx. Chi è la ragazzina della foto? Ehh… Immagino che qualcuno di voi ci sia già arrivato. :P

Scusandomi e vergognandomi per la velocità di queste note (dannato coprifuoco ;_;) ringrazio di cuore tutti i miei carissimi lettori, e per le recensioni all’ultimo capitolo Fefechan e fragolottina.

Alla prossima; spero continuiate a seguire! <3

Aya ~

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Capitolo 16
*** Ferro e fuoco ***


15

Ferro e fuoco

 

 

 

Finito di adempiere ai suoi bisogni fisiologici in un cespuglio, l’agente Lexaeus si diresse di nuovo alla sua macchina bestemmiando tra sé.

Maledisse come di consueto il tenente Lockhart, che l’aveva spedito là a fare da balia a un moccioso che era stato tanto idiota da mettersi con un branco di spacciatori. Ufficialmente doveva impedire che il cosiddetto figliol prodigo cambiasse idea e tentasse la fuga. Ufficiosamente, doveva verificare che i suoi vecchi amici non si presentassero alla villa per fargli la festa.

Lexaeus resisteva lì al suo posto solo in nome del primo risvolto della faccenda, perché del secondo non gliene importava un emerito cazzo. Fosse stato per lui, avrebbe volentieri lasciato il ragazzino alle fauci del suo ex protettore. Chiunque s’immischiasse con quella merda della droga meritava una punizione coi fiocchi: nessuno lo avrebbe mai convinto del contrario. Ma gli ordini erano ordini.

Mentre si avvicinava alla volante parcheggiata appena fuori del cortile, gli sembrò di notare un movimento nel buio delle siepi circostanti il villino.

S’impose di tornare al suo ruolo di difensore della legge, e portò subito una mano alla pistola e l’altra al ricevitore radio che aveva appeso alla cintura.

«Qui Lexaeus» mormorò accostandolo alla bocca. «Mi ricevete?»

Una lieve scarica, poi una voce femminile.

«Qui Gainsborough. Ti riceviamo forte e chiaro, parla pure.»

«C’è qualcosa di...»

Un dolore improvviso al petto gli mozzò il fiato e le parole.

Lexaeus abbassò lo sguardo sulla macchia rossa che si allargava sul suo torace, impregnandogli la divisa. Sorrise, mentre il ricevitore gli sfuggiva dalle dita.

«Lexaeus?... Lexaeus, che succede?»

La voce dell’agente Gainsborough lo chiamò ripetutamente da un punto nell’erba, ma l’uomo non l’ascoltava più.

Cadde in ginocchio, la mano al petto. Sollevando lo sguardo distinse due figure ammantate di buio camminare furtive verso di lui, lungo il muro che circoscriveva il cortile. Poi la vista cominciò ad annebbiarsi.

«Ma sì, andate pure» sibilò, scivolando ancora a terra fino a ritrovarsi prono, «andate pure a trovare quel pezzo di merda.»

Chiuse gli occhi e si augurò che anche a quello stronzetto di Demyx morire facesse male quanto a lui.

 

 

* * *

 

 

«Presto, fa’ presto!»

Aerith Gainsborough premette l’acceleratore fino in fondo. Per fortuna non erano appostati molto lontano dalla vecchia villa. Eppure aveva la sgradevole sensazione che per il suo collega fosse troppo tardi.

Nel sedile del passeggero, l’agente Cloud Strife dava l’allarme via radio a tutte le pattuglie vicine. Era fin troppo evidente che qualcosa non andava, al nascondiglio del soggetto che avevano in custodia, e di certo ci sarebbe stato bisogno di rinforzi.

La macchina giunse a destinazione ed Aerith portò il piede sul freno così bruscamente che, non fosse stato per la cintura di sicurezza, sarebbe finita sul parabrezza a fare compagnia ai tergicristalli. Tirò il freno a mano e si fiondò fuori senza neppure spegnere il motore, subito imitata da Cloud, con la pistola pronta in pugno già da un pezzo.

Percorsero in fretta lo slargo costeggiato di siepi, e raggiunsero il cortile su cui si affacciava il portone principale dello stabile. Cloud imprecò ad alta voce.

«Merda...»

La sagoma massiccia dell’agente Lexaeus giaceva immobile davanti a loro, e il chiarore della luna inargentava il rosso del suo sangue mescolato all’erba verdissima del giardino da anni abbandonato a se stesso.

Aerith alzò gli occhi e vide due sagome incappucciate, intente a forzare la porta del palazzo. Una di loro si voltò verso di lei e il suo compagno, il braccio teso davanti a sé. Il cervello dell’agente realizzò la situazione appena in tempo, e la bocca reagì di conseguenza, con un grido di avvertimento.

«Giù

Lo sparo attraversò il punto esatto in cui una frazione di secondo prima c’era la testa di Cloud.

Lui rotolò su se stesso e, a terra da dove si trovava, ricambiò il fuoco, mancando il bersaglio. La figura più alta distolse la propria attenzione dalla porta e si voltò per dare manforte al suo complice. Ci furono altri spari a vuoto. Aerith gemette. Quei bastardi si muovevano nell’ombra ed erano armati di silenziatori. Sarebbe stata dura.

In quel momento alcune deboli luci illuminarono la scena: i fari delle auto della polizia arrivate sugli altri lati della palazzina, che attraverso i cancelli riuscivano a filtrare fino al cortile frontale, assieme al suono delle sirene.

Aerith schivò un altro sparo del più basso dei due uomini e si concesse una speranza. L’edificio era ormai circondato. Soprattutto, ora potevano vedere la direzione e la provenienza dei colpi.

All’improvviso, dal retro della villa giunsero echi di urla e di altri spari.

Questo poteva significare solo una cosa. Ce n’erano degli altri.

 

 

* * *

 

 

La giovane donna in uniforme stava dando prova di voler vendere cara la pelle. Axel schivava a fatica i suoi tiri. Avrebbe dato qualsiasi cosa per riuscire ad ascoltare quella piccola parte di sé che gli stava urlando di mollare tutto e portare in salvo le chiappe prima che fosse troppo tardi. Invece era come incollato lì, insieme a Zexion, a rischiare di lasciarci le penne solo perché un idiota aveva parlato troppo e un altro idiota voleva vendicarsi del primo e...

Si accorse all’improvviso che Zexion veniva sbalzato indietro dalla forza dell’ultimo colpo sparato dall’agente biondo. Il cappuccio gli scivolò via dalla testa, e Axel vide il sangue schizzare ad avvolgerlo come un abbraccio, come in una scena al rallentatore. Poi il ragazzo colpì il suolo con la schiena, e il mondo riprese a scorrere alla velocità normale.

Per qualche istante tutto rimase sospeso. Il corpo di Zexion a terra, le dita di Axel sul grilletto, persino i due poliziotti.

Alla fine, Zexion voltò di lato la testa e mosse le labbra, ma fu dai suoi occhi finalmente scoperti che Axel capì cosa voleva che facesse.

È finita. Vattene.

Fu sempre dai suoi occhi che capì che non c’era altro da fare.

Annuì.

Prima che i due agenti potessero anche solo capire le sue intenzioni, si voltò, corse al muro di mattoni e lo scalò rapidamente, scomparendo nella notte.

Sentì i passi di corsa dei due dietro di sé, e anche il sopraggiungere di altri poliziotti che si mettevano subito sulle sue tracce; ma muovendosi nell’oscurità che tanto gli era amica non faticò a seminarli tutti.

Solo quando fu ad una notevole distanza dalla villa si rese conto che stava sanguinando.

 

 

* * *

 

 

Aerith si chinò sul corpo immobile, a pochi passi da quello di Lexaeus. Una lunga ciocca di capelli copriva una buona metà di quel volto pallidissimo, quasi a voler pietosamente nascondere la fissità dei suoi occhi aperti su una morte che per lui era giunta troppo presto.

Un ragazzo. Mio Dio, è solo un ragazzo...

Cloud si accosciò al suo fianco e posò una mano sulla sua. «Sul retro hanno catturato un uomo. Sospettano che ce ne fosse almeno un altro, ma nella confusione deve essere fuggito... Non c’è altro che possiamo fare qui.»

Aerith non distolse lo sguardo da quello spento e freddo del cadavere. Parlò senza riconoscere la propria voce, né il posto abissale da cui proveniva.

«Perché, Cloud? Perché la vita prima o poi trascina tutti sul fondo? Perché neppure a questa età si può restare innocenti e al sicuro?»

Gli indicò con un gesto stanco della mano aperta il corpo riverso dell’adolescente.

Cloud non le rispose, probabilmente perché non c’era nulla da dire.

Con un sospiro, l’agente Aerith Gainsborough abbassò quelle palpebre gelide su quelle iridi svuotate, e insieme al collega si alzò per lasciare spazio agli infermieri, già pronti alla rimozione dei due corpi.

 

 

* * *

 

 

Uscì dall’ombra solo quando tutto fu finito, quando le luci e le sirene si furono spente in lontananza. Uscì dall’ombra in cui si era rifugiato e valutò la situazione con tutta l’obiettività possibile.

Non c’era stato abbastanza tempo.

Avevano preso Luxord.

Avevano ucciso Zexion.

Axel, d’altro canto, sembrava scomparso di nuovo.

Non era saggio azzardare un nuovo tentativo fin da subito: la villa era stata subito rimessa sotto stretta sorveglianza, e al posto della guardia eliminata da Zexion c’erano adesso tre poliziotti. Altri tre sul retro, alla porta che lui e Luxord avevano cercato – inutilmente – di varcare.

Non che tutte quelle misure di sicurezza lo spaventassero, ovvio. Ma c’era un tempo per tutto.

Alzò gli occhi sull’edificio silenzioso, dall’altra parte della strada, e sorrise. Il suo piccolo Demyx avrebbe dovuto aspettare ancora un po’.

In quel momento, il sesto senso di Marluxia gli suggeriva di continuare a tener d’occhio Axel.

Non era certo di potersi ancora fidare di lui.

 

 

* * *

 

 

Demyx aveva ascoltato lo svolgersi di tutta la scena senza avvertire il bisogno di affacciarsi a guardarla da una finestra. Si era detto che era soltanto questione di minuti: solo pochi minuti, e avrebbe pagato con la vita un prezzo troppo doloroso da sopportare. Aveva sentito l’arrivo della polizia, gli spari, le grida, le sirene dell’ambulanza, e infine il silenzio. Poi lo squillo del telefono sul comodino, e la voce del tenente Tifa Lockhart, colei che si occupava del suo caso, che gli illustrava una situazione che lui aveva già immaginato da sé e che gli raccomandava più caldamente del solito di «non uscire per nessun motivo».

Gli aveva detto anche che qualcuno era morto: dalla descrizione che gli aveva dato per sommi capi, il ragazzo aveva intuito che si trattava di Zexion.

Sospirò nel cuscino e si voltò su un fianco.

Non avrebbe voluto che si arrivasse a questo.

Non avrebbe voluto che quella storia cominciasse.

Se solo ci fosse stato un modo, uno qualsiasi, per tornare a sette anni prima... Avrebbe dato qualsiasi cosa...

Ma era tardi, ormai.

Rivolse all’ennesima delle sue notti insonni un sorriso disarmato. Sapeva che Marluxia non si era arreso per sempre, che se si era allontanato era solo per tornare più combattivo di prima, che quello era solo l’inizio.

Ora più che mai, si augurava che tutto finisse, subito.

Per se stesso e per quella ragazza che non vedeva da così tanti anni.

 

 

 

 

 

_________________________________________________________________________________________

 

 

 

 

 

 

 

Mi detesto da morire per aver ucciso Zexion ;_; D’altro canto era l’unico modo per consentire ad Axel di scappare. La resa di un membro così determinato della banda dà al nostro piromane motivo di riflettere, no? Cioè, vale la pena di farsi ammazzare per una storia simile, in cui lui non c’entra praticamente niente? Ma certo che no. E poi Roxas resterebbe solo u.ù xD

È stata dura anche cercare di rappresentare uno scontro a mano armata: per quanti film si possano guardare e per quanti thriller si possano leggere, certe situazioni non le si può davvero comprendere se non vengono vissute. Ma spero di essere risultata perlomeno credibile.

Già che ci sono, specifico una cosa: in teoria la villa in cui Demyx è nascosto è quella che vediamo ospitare Naminè in Kingdom Hearts II ;)

Ringrazio tutti i miei silenziosi lettori, in particolar modo Fefechan, ChibiSerenity e _Ella_ per le gentilissime recensioni. Non sapete quanto vi adoro. <3

Con la speranza di continuare a incuriosirvi, alla prossima settimana!

Aya ~

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Capitolo 17
*** La libertà di scegliere ***


16

La libertà di scegliere

 

 

 

Quando aprì gli occhi, scoprì di non ricordare chi fosse.

Sentì il contatto di una superficie dura e fredda sotto e dietro di sé, e guardandosi intorno vide che si trovava in una stradina che s’intrufolava nella parte interna e aperta di un palazzo. Il cortile di un condominio.

Allora riuscì a snebbiarsi un po’ la mente e i ricordi gli piovvero addosso come tegole.

Quando aveva capito di essere ferito, quella notte, aveva deciso di rientrare all’appartamento, che in una prima considerazione aveva pensato di escludere. Là sarebbe stato probabilmente rintracciato al più presto da Marluxia – e qualcosa gli diceva che quella non sarebbe stata una buona cosa – ma almeno avrebbe avuto un tetto sulla testa. In quelle condizioni, aveva bisogno se non altro di un riparo.

Raggiunto lo stesso vicolo percorso per uscire, aveva ritenuto più opportuno fermarsi e cercare di arginare l’emorragia prima che le forze lo abbandonassero. Sedendosi a terra aveva avuto un capogiro, che gli aveva ricordato quanto sangue avesse già perso.

Si era sfilato il cappotto e ispezionato la ferita, un piccolo foro di proiettile poco al di sotto della spalla destra. Chissà se era stato uno sparo della donna o del giovane che era con lei. Ma per fortuna era stato colpito di striscio, e non molto in profondità. Non avendo altro a disposizione, aveva strappato una manica della maglia che indossava e l’aveva legata attorno al braccio, sulla ferita, cercando di stringere il nodo il più possibile con i denti.

Prima che riuscisse a rialzarsi e a superare il vicolo e il cortile per rientrare com’era uscito, la stanchezza lo aveva vinto, e si era assopito contro il muro.

Il cambiamento di luce gli indicò che adesso era mattina.

Axel afferrò con dita incerte il cappotto che aveva ancora sulle ginocchia e se lo gettò sulla spalla. Poi fece forza sulle mani e sui piedi e si alzò lentamente. Una fitta tutta nuova testimoniò che il dolore non si era affatto spento. Soffocò un gemito e una bestemmia e pian piano cominciò a muoversi, un passo dopo l’altro. Negli occhi aveva ancora il corpo di Zexion che cadeva nell’erba e nel suo stesso sangue.

Si sentiva debole. Sperò di essere ancora in grado di arrampicarsi sulla scala antincendio fino al secondo piano. Non aveva nessuna voglia di entrare dal portone principale, sotto gli occhi indagatori di Vexen, e di dargli spiegazioni.

 

 

* * *

 

 

Quando aprì gli occhi, la prima cosa che vide fu l’ombra indistinta di suo fratello stagliata contro la parete.

Pensò assonnato che un’ombra su un muro era un buon modo per rappresentare il suo stato d’animo più recente: una lama nerastra in campo bianco, un riflesso cui era stata strappata l’essenza.

Subito dopo pensò che il poco sonno gli faceva pensare cose che avrebbe preferito non pensare. Cose patetiche, a dirla tutta.

Sbadigliò e si stropicciò gli occhi. Aveva faticato molto ad addormentarsi, quella notte. Troppe cose da affrontare in una volta sola... L’uscita al parco, il momento in cui aveva cercato di spiegare a Kairi “che tipo fosse quell’Axel” senza rivelarle troppo, il rientro di Sora e il suo sorriso silenzioso e vagamente imbarazzante. E poi il momento in cui, condiviso con lui anche l’ultimo segreto, aveva sentito la necessità di ringraziarlo, perché nonostante tutto, per qualche motivo che ancora gli era difficile spiegarsi, Axel aveva saputo scavarsi una breccia tra i suoi demoni, e in cambio gli aveva mostrato i suoi. Uno scambio equivalente, a dimostrare che nessuno dei due era davvero solo.

E anche se gli aveva fatto male, capiva che gli era servito.

Forse era servito a entrambi.

Rimase immobile in quella posizione, a osservare il soffitto e a ricordare il racconto di Axel su un mondo di vita dura che lui non riusciva quasi ad immaginare, fino a quando sentì la presenza di Sora accanto al letto.

«Rox, sei sveglio?»

Spostò lo sguardo su di lui, senza muoversi. Suo fratello si stava abbottonando il colletto della camicia dell’uniforme scolastica stropicciata e aveva l’aria più indaffarata del mondo.

«Non è presto per la scuola?» mormorò di rimando Roxas dal letto, la voce ancora impastata di sonno.

«Già, ma devo andare a quelle stupide prove di quella stupida recita.» Sora alzò gli occhi al cielo. «Mi dispiace che anche tu ti sia svegliato a quest’ora...»

Lasciò la frase in sospeso, ma il senso era chiaro: se non l’avesse fatto svegliare adesso, più tardi Roxas non sarebbe stato in grado di alzarsi dal letto, da solo.

«Non preoccuparti. Tanto non credo che riuscirei a dormire di più.»

Per una volta, Sora non dimostrò la solita sollecita preoccupazione, ma accettò le sue parole con un unico sorrisetto comprensivo. Roxas gli fu grato di quel silenzio.

Puntò le mani sul materasso e con la forza dell’abitudine – poiché quella delle gambe gli mancava – iniziò a sollevarsi con il busto. Sora abbandonò subito l’uniforme e si chinò ad aiutarlo.

Quella di alzarsi al mattino era diventata un’operazione tristemente familiare, ma alle volte gli procurava ancora quella sensazione opprimente di totale, impotente sottomissione. Sora lo aiutò come ogni giorno in tutte le fasi di quella routine da dividere in due, e si allontanò solo dopo che lui fu sulla sua sedia, con i jeans già indosso.

«Senti, ti dispiace se non ti aspetto? Sono già un po’ in ritardo e...»

Roxas afferrò la felpa pronta ai piedi del letto. «Certo che no, vai pure.»

«Sei grandissimo. Ti lascio la colazione pronta, ok?»

Gli concesse un sorriso. «Ok, grazie.»

Sora si fermò nell’atto di allacciarsi la cravatta e lo soppesò per un secondo con lo sguardo, quasi vedesse qualcosa di inedito nel suo viso.

«Sai...» S’interruppe, quindi sorrise a sua volta. «Quel ragazzo, Axel... Secondo me ti fa bene.»

Era la prima volta che affrontavano apertamente l’argomento ‘Axel’, e Roxas si sentì subito a disagio. Ma il fratello non gli lasciò il tempo di ribattere: era già uscito di corsa dalla camera da letto, destinazione cucina.

Rimasto solo, Roxas sospirò profondamente e scosse la testa, come a scacciare un pensiero fastidioso. S’intrufolò nella felpa e ne riemerse scompigliandosi i capelli. Per caso o forse per destino, il suo sguardo si posò sulla finestra, nella parete dritto di fronte a lui.

Oltre le persiane socchiuse vide qualcosa che lo spaventò.

Axel era sul pianerottolo della scala antincendio. Gli dava le spalle, ed era in procinto di scavalcare il davanzale della sua finestra al 2B; ma una qualche difficoltà rendeva i suoi movimenti incerti, quasi tremanti. Non fu la sua presenza sulla scala a colpire Roxas, ma il cencio stretto al suo braccio, quasi all’altezza della spalla.

Era macchiato di rosso.

Si mosse senza neanche accorgersene. Spinse velocemente la sedia fino alla finestra e la spalancò, ante e persiane, in modo che il rumore inducesse Axel a voltarsi.

«Che cavolo è successo?!»

Lo sguardo verde del suo dirimpettaio si fermò su di lui, ma era come se guardasse oltre. Il cappotto nero abbandonato sulla sua schiena rendeva la sua figura persino più sinistra del solito.

«Ah, ciao, bimbo.» Anche la sua voce era impastata, ma certo non per via del sonno. Roxas distinse le sue parole solo in virtù del completo silenzio tipico del lunedì mattina. «Niente di che, ho solo avuto un... ah... inconveniente. Alla festa di stanotte abbiamo fatto un po’ di baldoria, sai com’è...»

Il ragazzo si sentì assalire da un debole ma terribile sospetto.

Pregando che dalla stanza accanto Sora non si accorgesse di niente – non gli andava proprio che restasse di nuovo coinvolto in quella storia di cui lui per primo avrebbe fatto a meno – si sporse in avanti sul davanzale e diede ad Axel un ordine preciso.

«Vieni qui, forza.»

Il rosso si appoggiò con aria esausta al parapetto della scala antincendio. Sorrise, ma non riuscì a recuperare del tutto il suo solito atteggiamento ironico.

«Cosa c’è? Vuoi giocare al dottore?»

«Piantala di dire cretinate e vieni qui

Axel sbuffò, ma cominciò ad avvicinarsi, portando la mano sinistra a sostenere il braccio destro. Era evidente che la cosa era più seria di quanto volesse dare a vedere. Quando fu abbastanza vicino, Roxas si rese conto che quello che gli era sembrato uno straccio era in realtà una manica della sua stessa maglia, strappata e annodata attorno al braccio a mo’ di fasciatura.

Ritrasse la sedia dalla finestra.

«Entra e fammi vedere.»

«Ma allora avevo ragione.» Axel sogghignò di nuovo, puntando il gomito destro sul davanzale e guardandolo con malizia. «Vuoi davvero giocare al dottore.»

Roxas si sentì arrossire. «Sei proprio un idiota.»

«Grazie, bimbo, anche tu non sei male.»

Si tirò su ed entrò dalla finestra. Una volta posati i piedi a terra, si guardò intorno ostentando indifferenza – ma Roxas notò che il suo viso era decisamente pallido. Lasciò scivolare il cappotto sul pavimento.

Un tonfo metallico.

Roxas guardò interrogativamente prima il viso impassibile di Axel, poi il punto in cui l’indumento aveva toccato terra. Da una tasca sbucavano pochi centimetri di qualcosa di lucido e scuro.

La canna di una pistola.

Una traccia di paura gli provocò un innaturale freddo, mentre il sospetto di poco prima si rafforzava.

«Voleva che li aiutassi a... a regolare i conti con quello che vi ha traditi, vero?...»

«Sei sveglio, bimbo.»

Capì all’istante cosa fosse successo quella notte, e come avesse fatto Axel a procurarsi quella ferita.

Lo guardò di nuovo in viso, ma lui non sembrava intenzionato a spiegargli la presenza di una pistola in quell’appartamento, come d’altronde non sembrava intenzionato a volerla nascondere. Forse capiva che lui aveva intuito tutto da solo, o forse non gliene importava un accidente. Già, la seconda ipotesi era la più probabile.

Per il momento, Roxas decise di soprassedere. Nonostante tutto, non se la sentiva di lasciarlo in quelle condizioni.

Gli si avvicinò e cominciò a sciogliergli la manica dal braccio.

«Ehi, guarda che sto bene.» Axel lo guardava dall’alto in basso. «Te l’ho detto, niente di preoccupante. È solo un po’ di sangue.»

Il ragazzo lo ignorò e scoprì del tutto la ferita. Non era particolarmente profonda, ma non andava comunque sottovalutata. E continuava a sanguinare.

«Ci vorrebbero dei punti» mormorò, tamponando di nuovo il poco flusso con il tessuto già imbevuto di sangue.

Axel ritrasse il braccio come se si fosse scottato. Il suo sguardo si fece minaccioso.

«Già. Adesso mi presento in un pronto soccorso con una ferita da arma da fuoco, e già che ci sono gli racconto anche del giretto che mi sono fatto stanotte dal mio vecchio amico Demyx

Il sospetto divenne certezza assoluta. Tuttavia Roxas si sforzò di tenere a bada l’istintiva fitta di paura e di rabbia, e rimandò ancora una volta quel che avrebbe voluto sputargli in faccia.

«E va bene. Aspetta qui.»

Lasciandosi alle spalle la manica sporca di rosso e l’espressione perplessa dell’adolescente, manovrò la sedia a rotelle verso la porta e poi fuori attraverso l’appartamento, fino alla cucina.

Sora era pronto per uscire, ma stava ancora lottando con i contrattempi dell’ultimo minuto: la cartella che non ne voleva sapere di chiudersi. Alzò gli occhi su di lui.

«Ehi, stavo giusto per chiamarti. Allora io vado.»

Non aveva evidentemente sentito nulla di quanto era accaduto due porte più in là. Roxas ringraziò il cielo tra sé e gli sorrise, augurandosi di apparire naturale.

«Va bene. A stasera.»

Mentre Sora si cacciava su una spalla lo zaino ancora semiaperto e spalancava la porta, lui si era già diretto al soggiorno, ignorando completamente la colazione pronta sul tavolo. Rintracciò quello che gli serviva mentre i passi di corsa di suo fratello echeggiavano lontani sulle scale.

Tornò in camera e trovò Axel che, seduto sul letto di Sora, si premeva di nuovo la manica strappata sulla ferita e osservava la stanza con l’aria di chi è appena arrivato in un posto che mai avrebbe pensato di poter vedere. Al suo ingresso, il rosso si voltò e i suoi occhi scivolarono sull’ago, filo, alcool e cotone che Roxas aveva in grembo.

«Che avresti intenzione di fare con quella roba?» chiese lentamente, un po’ per l’evidente dolore, un po’ per l’ancor più evidente allarme.

Roxas si avvicinò al letto e gli mostrò l’ago già sterilizzato infilato nel rocchetto di filo bianco.

«Ricorrere agli antichi metodi chirurgici.»

Axel lo fulminò con gli occhi, al punto che il ragazzo si stupì di non essere rimasto davvero incenerito.

«Stai scherzando, mi auguro.» Si tirò indietro, appoggiando la schiena alla parete. «Non ho intenzione di farti da puntaspilli, chiaro?»

«Preferisci il pronto soccorso, allora?» ribatté Roxas senza fare una piega.

L’altro lanciò un paio di sguardi tutt’intorno, come in cerca di una via di fuga, che però non riuscì a trovare. Forse era perché la debolezza stava avendo la meglio sul suo istinto di sopravvivenza.

«Non avrai paura? Proprio tu che vivi col chiaro intento di far paura agli altri?» Con una smorfia sarcastica, Roxas si avvicinò ulteriormente e dispose i suoi rudimentali strumenti sul letto, accanto a lui. «Guarda che so quel che faccio.»

Axel tornò a fissarlo truce. Evitò la domanda e si concentrò sulla sua ultima affermazione.

«Ah, davvero? È una cosa che fai spesso, ricucire la gente?»

Roxas smise di sorridere, ma riuscì a non distogliere lo sguardo dal suo.

«No. Ma mi hanno insegnato bene. Mia madre era un chirurgo.»

Calò il silenzio.

Era sempre doloroso ricordare, ma stavolta quella rabbia che covava in attesa di essere liberata – fin dal momento in cui gli aveva sentito nominare il ‘giretto’ di quella notte – lo mantenne lucido.

Dopo molti lunghissimi secondi, Axel sembrò calare le armi, seppur di malavoglia. Tese il braccio, scoprì di nuovo la ferita e strinse i denti.

«D’accordo. Vada per gli antichi metodi.»

 

 

«Papà! Papà, va tutto bene?»

Roxas si inginocchia accanto a suo padre, sul pavimento della baita. Lui alza la testa e cerca di sorridergli.

«Sì, Roxas, va tutto bene. È solo un graffio, vedi?»

Gli mostra il taglio che il coltello, sfuggendogli di mano, gli ha inciso nell’avambraccio. Il sangue scorre a fiotti. Roxas pensa che non è affatto “solo un graffio”, ma non osa contraddirlo.

«Però ho bisogno del tuo aiuto.» Il papà lo guarda seriamente. «Ti ricordi la settimana scorsa, quando la mamma ti ha parlato dei punti di sutura? E di ciò che si faceva per rimarginare le ferite prima di quest’invenzione?»

«Sì, ma...»

«Bene, allora: vai a prendere ago e filo.»

Roxas sbarra gli occhi. Il cuore gli martella furiosamente il petto.

«Papà, ma io non sono capace di...!»

«Ascoltami.» Suo padre gli posa l’altra mano sulla spalla. Il ragazzino si accorge della sofferenza sul suo viso, ma l’uomo si sforza visibilmente di restare calmo. «Siamo isolati, lo sai. C’è una tormenta, l’ospedale più vicino non si trova in paese, e tua madre e tuo fratello non saranno qui prima di domani. Puoi aiutarmi solo tu, capisci?»

La paura cresce ancora, e all’improvviso Roxas si accorge di avere il viso invaso dalle lacrime. Scuote disperatamente la testa.

«Ma io non...»

«Io mi fido di te.»

Nel dolore, il papà ritrova comunque la forza di sorridere.

E gli dà la forza di tentare.

Quel giorno, a undici anni, Roxas ricuce per la prima volta una ferita.

 

 

È buffo come anche gli eventi tutto sommato meno importanti del passato tornino alla mente, quando tutto inspiegabilmente si ripete.

Quella avrebbe dovuto essere soltanto una bella vacanza in montagna. Invece era partita malissimo, fin dal primo istante. Un contrattempo aveva fatto sì che la famiglia fosse divisa, piazzando Sora e la mamma su un autobus che era partito dodici ore più tardi del primo; poi la bufera di neve, che aveva interrotto tutti i contatti e le comunicazioni dalla baita che avevano affittato; infine c’era stato quel piccolo incidente domestico che avrebbe anche potuto avere risvolti tragici. Roxas ricordava bene il senso di rabbia che l’aveva colpito dopo che tutto era finito, la consapevolezza che niente era andato come avrebbe dovuto.

Una rabbia simile la provava adesso, sorda e nascosta, anche se Axel sembrava non averlo notato.

«Sei... bravo.»

Roxas ripulì la pelle nuda del braccio dell’adolescente con un pezzo di cotone asciutto e rispose in modo automatico, senza alzare gli occhi.

«Grazie.»

Intuì, più che vederlo, che Axel scuoteva la testa.

«Sono io che devo ringraziarti, scemo...»

Ci fu un nuovo silenzio, mentre il ragazzo cominciava ad avvolgergli attorno al braccio la garza ripescata da un cassetto in bagno.

Alla fine, decise che era il momento di affrontare l’aspetto della vicenda che finora aveva evitato.

«E così l’hai fatto davvero.»

Axel sembrò non afferrare. «Che cosa?»

Roxas teneva il viso ostinatamente chino sul suo lavoro. La rabbia pulsò più forte, nella parte più lontana del suo stomaco.

«Ci sei andato. A regolare i conti

Una nuova breve pausa. Poi, una risposta in un tono ovvio.

«E che altro potevo fare?»

Roxas terminò la sua opera di bendaggio e alzò finalmente lo sguardo. Axel lo stava guardando con un’espressione stanca che non gli aveva mai visto in faccia. Non si lasciò impressionare da quella novità.

«Che altro potevi fare?» Strinse più forte la garza che ancora aveva in mano, finché ebbe l’impressione di ridurla in bricioli. «Potevi lasciar perdere. Potevi almeno cercare di evitarlo. Non avevi detto che non hai mai avuto “nessun coinvolgimento serio” con quella roba?»

Lo spacciatore che non aveva mai spacciato sorrise. Non il suo solito sogghigno ironico, e nemmeno un sorriso vero; solo una smorfia che non rifletteva altro che sfinimento. Parlò come se citasse le parole di qualcun altro.

«Non è così semplice come sembra, bimbo. Quando ci sei dentro, non è affatto facile uscirne.»

Si alzò dal letto, recuperò il cappotto da cui ancora sbucava la pistola e la sistemò più a fondo nella tasca, per poi incamminarsi verso la finestra, come se non ci fosse altro da dire.

La rabbia esplose di colpo.

«Tu non riesci proprio a capire, vero?»

Axel si fermò, dandogli ancora le spalle. Roxas gettò sul letto la garza che aveva stretto allo spasmo e continuò, fremente e ansante, gli occhi fissi sulla sua nuca.

«No, non capisci. Potresti avere una vita vera, se solo lo volessi! Solo due giorni fa mi hai detto che vivere non è solo camminare. Lo so, lo capisco. Ma vivere non è neanche semplicemente scegliere la via più facile. Tu non sei immobilizzato, tu puoi essere padrone dei tuoi passi. Allora perché ti ostini a rovinarti la strada in questo modo?»

«Roxas...»

«Stai zitto!» Ormai stava urlando contro quella nuca, ma non intendeva fermarsi. Lasciò che tutta la delusione e la frustrazione gli riempissero la voce. «Stai zitto e fammi finire! Io mi sono fidato di te, anche se avevo tutti i motivi per non farlo. Mi sono fidato, al punto che non ho neppure rivelato a mio fratello chi sei veramente, e non ho aperto bocca poco fa, quando ho visto quella dannata... cosa che tieni in tasca. Mi sono semplicemente fidato – e la sai una cosa buffa? Ho anche creduto che tu, proprio tu che mi hai fatto uscire alla luce del giorno, non avessi paura di affrontare la strada più difficile. Ho pensato che non avresti ceduto a quel ricatto, che avresti capito che ci sono altri modi per vivere. È stata la prima cosa che mi sono detto, quando ho capito che non avevi nessun reale interesse per quella storia di droga e di vendette. E adesso invece mi vieni a dire che non ne puoi uscire!... Beh, sai che ti dico io? Sei solo un ipocrita! Uno stramaledetto ipocrita! Io non ho bisogno di te, e tu non hai bisogno di me. E adesso che hai deciso che la tua vita è quella, che hai rinunciato alle altre possibilità, perché non te ne torni dai tuoi amici

Finalmente Axel si voltò a guardarlo, con uno scatto e un lampo d’ira negli occhi.

Subito dopo, però, la sua espressione si fece sorpresa, confusa, incredula.

Solo allora Roxas si rese conto di essere in piedi.

Per un attimo eterno, tutto rimase sospeso nel vuoto.

Era consapevole delle proprie gambe piantate a terra, della sedia a rotelle vuota appena dietro di lui, del proprio respiro che ora era affannoso per un altro motivo. Ma al tempo stesso, non riusciva ad accettarlo. Perché non poteva essere... Non era possibile.

Poi tutto finì. Le forze gli mancarono, e lui ricadde sulla sedia, e il mondo tornò quello che era.

Axel era ancora immobile al suo posto, a guardarlo come se lo vedesse per la prima volta, incapace di destreggiarsi in quella situazione che era stata per entrambi un fulmine a ciel sereno. Roxas chiuse gli occhi, per non vedere le proprie emozioni riflesse nei suoi, e abbandonò il viso tra le mani.

Axel lo chiamò di nuovo, e stavolta la sua voce era soltanto insicura.

«Roxas...»

«Vai via» bisbigliò lui, senza alzare la testa. «Per favore.»

Non era sicuro che l’avesse sentito, ma non trovava più la voce dentro di sé.

Ancora silenzio, e alla fine i passi di Axel che scavalcavano la finestra e si allontanavano sulla scala antincendio.

Roxas riaprì gli occhi e si ritrovò a guardarsi le ginocchia attraverso un velo di lacrime.

La rabbia nei confronti di quel tipo che non sapeva apprezzare quello che aveva, che gettava al vento la sua libertà di scegliere – lui che ne aveva una e si rifiutava di seguirla – quella rabbia ormai non faceva male neppure lontanamente quanto ciò che provava adesso.

La confusione più totale.

Rivolse alle proprie gambe un sorriso storto e dal sapore di pianto, pensando che quella mattina Sora aveva espresso un ennesimo giudizio sbagliato.

 

 

 

 

 

_________________________________________________________________________________________

 

 

 

 

 

 

 

Della serie massì-siamo-sadici-fino-in-fondo. Perché farli litigare è sadismo puro, e perché io non riesco a smettere di far loro del male. Cuccioli loro. <3 xD

Questa sera sono decisamente di fretta e vorrei tanto potermi dilungare nel dirvi che la componente pessimistica di questo capitolo è essenziale ai fini della storia, che Axel avrà un bel rimuginare sull’episodio e sulle parole di Roxas, che – ma ecco, devo proprio staccare, accidenti. Questo è un aggiornamento lampo, siate comprensivi.

Un ringraziamento di vero cuore a Fefechan che ha recensito lo scorso capitolo e a eleonor97 per aver inserito questa storia tra le ricordate, nonché a tutti coloro che si limitano anche solo ad aprire i link e a darci un’occhiata. Ogni vostra lettura è per me un onore. ;///;

Alla prossima, come sempre!

Aya ~

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Capitolo 18
*** Amici o no ***


17

Amici o no

 

 

 

Crepuscolo.

Era cominciato tutto così, al crepuscolo, pochi giorni prima.

Era incredibile che tutto fosse accaduto in così poco tempo.

Un ragazzino si era affacciato ad una finestra e gli aveva parlato, e lui gli aveva detto più o meno chiaramente di non impicciarsi in affari che non lo riguardavano. Sembrava la storia più vecchia e più facile del mondo – una persona che diceva ad un’altra di stare alla larga e che, lei per prima, finiva col fare l’opposto. Invece, era stata una svolta di cui non s’intravedeva ancora la fine.

Axel era seduto contro il muro, nell’angolo del pavimento più lontano dalla finestra. Aveva passato le ultime ore fermo in quella posizione, braccia sulle ginocchia e mento sulle braccia, e ancora non era riuscito a guardare altrove, né a pensare ad altro che non fosse l’episodio di quella mattina all’appartamento 2A.

Tra le parole di Roxas ed il vederlo là in piedi ad urlargli addosso, non sapeva dire cosa lo avesse colpito di più.

«Io mi sono fidato di te, anche se avevo tutti i motivi per non farlo...»

Ricordava bene che, il giorno in cui aveva assistito a parte del suo incontro con Zexion, Roxas gli era sembrato deluso. E ricordava che aveva giudicato quell’impressione un’idiozia, perché loro non erano amici, e non dovevano, non avevano il diritto di aspettarsi qualcosa l’uno dall’altro. Ma se quella gli era apparsa come delusione, non era nulla al confronto di ciò che aveva visto oggi.

E adesso sapeva anche cosa aveva provato quando, in quel parco assolato, lui gli aveva raccontato la sua storia.

«Gente come te non ha mai capito niente della vita.»

In quelle parole non c’era solo disapprovazione – cosa che Axel aveva già capito allora. C’era – e questo l’aveva capito soltanto oggi – un ragazzo che non poteva più fare ciò che voleva, che si trovava davanti a uno che invece metteva le sue possibilità su una strada chiaramente sbagliata.

Forse era solo rabbia, forse anche una gelosia inutile. Ma certamente era delusione. Una delusione tale da dare a Roxas la forza di alzarsi su quelle gambe che da due anni non lo sostenevano più.

Una cosa era certa: amici o no, quel ragazzo aveva finito per l’aspettarsi davvero qualcosa da lui. Qualcosa di cui Axel non si era dimostrato all’altezza.

Distolse di colpo gli occhi dalla finestra, e fu come cercare di sfuggire a uno sguardo azzurro e spento.

«... Adesso che hai deciso che la tua vita è quella...»

Si sfiorò distrattamente la medicazione che gli aveva fatto nonostante il risentimento nei suoi confronti.

La strada più facile... Così l’aveva chiamata.

E dire che quella strada non lo aveva portato da nessuna parte.

Forse lo aveva capito Demyx, che a un certo punto aveva deciso di cambiare direzione.

Forse lo aveva capito Zexion, nel momento in cui aveva versato il sangue e la vita.

Le uniche mete che avevano raggiunto erano quelle che erano: adesso l’uno era costretto a vivere guardandosi le spalle e l’altro, per aver cercato di evitare la fine del primo, non viveva più.

E la sua meta, qual era?

Sapeva già come sarebbe andata a finire se non avesse lasciato il condominio. Marluxia si sarebbe rimesso in contatto con lui e gli avrebbe di nuovo proposto quello che – Roxas aveva ragione – era essenzialmente un fottuto ricatto. A quel punto, o annullarsi, o pagare.

Entrambi i casi equivalevano a morire.

Axel strinse il tessuto dei pantaloni tra le dita. Non poteva finire così. Dopo un’infanzia insofferente e dura, un’adolescenza di stenti e infine quegli ultimi pochi giorni di seminormalità, sentiva di non volersi lasciar scivolare fino alla fine. Sentiva che forse c’era qualcos’altro. Sentiva di dovere qualcos’altro a se stesso, stavolta.

A se stesso e a un ragazzino che si era fidato di lui.

E che ora doveva essere il primo a conoscere la sua scelta.

Con un moto improvviso di determinazione, si alzò, si sforzò d’ignorare il torpore delle gambe dovuto alla prolungata immobilità, e si diresse alla finestra.

Non lo aveva più visto in tutto il giorno. Anche adesso, le tende del 2A erano tirate, a nascondergli alla vista quella camera in cui tutto era cominciato, o già finito. Immaginò che Roxas fosse talmente spossato dall’episodio del mattino da chiudersi in se stesso ancor più del solito, evitando tutto e tutti. Axel avvertì una nuova partecipazione nei confronti di quel quindicenne che stava perdendo se stesso, oltre all’unica persona con cui si fosse mai trovato uno spiraglio, e che quel giorno, all’improvviso, si era ritrovato in una situazione tanto imprevista – in piedi: una cosa così normale per molti altri, e tuttavia così assurda, addirittura sconvolgente, per lui.

Si chiese se quella partecipazione potesse essere definita amicizia.

Dopo un ultimo sguardo colpevole alla fasciatura, uscì di nuovo sulla scala antincendio.

 

 

* * *

 

 

Era stata dura tenersi tutto dentro. Non era neanche sicuro di esserci riuscito, in realtà. Ma né Sora né Kairi avevano ancora fatto domande, e lui si concesse di prenderlo come un fatto positivo.

I due sedevano al tavolo del soggiorno, circondati da libri di scuola, impegnatissimi nell’ultimo ripasso per la verifica di storia del giorno seguente. A poca distanza dal tavolo, Roxas era stanco di tracciare sull’album che sorreggeva con le ginocchia quei segni che ormai si rivelavano essere sempre skateboard o pistole fumanti; ma non riusciva a distrarsi dai suoi pensieri neppure stando ad ascoltare le imprese di Re Mickey detto il Magnifico.

Sospirò profondamente. Se solo ne avesse avuto la possibilità, sarebbe potuto almeno ricorrere al vecchio espediente di uscire a fare un giro e sgranchirsi le gambe.

Il ricordo del momento in cui si era scoperto sui propri piedi, mentre urlava la sua rabbia alla schiena di Axel, lo colpì per l’ennesima volta con la stessa immutata forza.

Anche questa era una cosa che aveva tenuto nascosta in tutti i modi a Sora e Kairi. Sarebbe stato troppo, assistere alle loro espressioni sconcertate, speranzose, forse persino entusiaste.

Non era proprio in vena...

Proprio in quel momento Sora si trovò a sollevare lo sguardo dal fascio di appunti, e dovette notare qualcosa di quei pensieri dalla sua espressione.

«Ti senti bene, Rox

Cercò di scuotersi. «Io... Certo. Perché?»

«Sei di nuovo assente...»

Roxas alzò le spalle e abbozzò un’espressione annoiata. «Oh, scusami se la storia non è proprio il massimo dei miei interessi.»

Kairi rise, e il momento di tensione passò. Incredulo di tanta fortuna, Roxas ne approfittò per cercare di defilarsi.

«Sarà meglio che vada a prendermi un libro» si sforzò di sorridere, allontanando la sedia verso la porta del soggiorno. «Vediamo se così riesco a distrarmi dai vostri apprendimenti.»

Non ritenne opportuno specificare che c’era qualcos’altro da cui aveva bisogno di distrarsi.

Sora e Kairi risero ancora e tornarono allo studio, mentre lui raggiungeva il breve corridoio che portava alla camera da letto.

Sospirò di nuovo. Tanto valeva mettersi a leggere qualcosa per davvero, anche se dubitava che potesse servirgli.

Fermò la sedia davanti alla porta, l’aprì ed entrò accendendo la luce. Si mosse subito verso la libreria, evitando con tutte le sue forze di volgere gli occhi alla finestra, aperta ma celata dalle tende.

Fu un rumore di dita picchiettate sul davanzale ad indurlo a farlo.

Fuori era quasi buio, ma non aveva bisogno di vederla per intuire la presenza di Axel.

«Ehi, Roxas. So che ci sei. Ti ho sentito entrare.»

Il ragazzo si bloccò al suo posto e scagliò mille anatemi mentali ai cigolii delle ruote della sua sedia e al lampadario acceso sul soffitto, prove che rendevano inconfutabili le parole dell’altro. Rimase immobile e in silenzio, sperando che demordesse alla svelta, ma anche con una punta di scettica curiosità: che diavolo aveva ancora da dirgli?

Come in risposta alla sua tacita domanda, Axel continuò a parlare con decisione.

«Senti, non mi importa che tu ti affacci a questa finestra, o che mi risponda. Mi basta che mi ascolti. Perché voglio dirti una cosa.» Una pausa. Dal tono con cui pronunciò le parole seguenti, Roxas se lo immaginò sospirare e scuotere la testa. «Non so bene perché lo faccio, ma voglio farlo. Devo farlo. Domani mattina, come prima cosa, andrò alla polizia.»

Al di qua delle tende, Roxas sgranò gli occhi e continuò a tacere.

Dopo un altro breve silenzio, che stavolta sembrava di riflessione, Axel aggiunse qualcosa che il ragazzo sentì a fatica, tanto la sua voce era bassa oltre le tende.

«So che ce l’hai con me, ma non ti sto dicendo questo per farti cambiare idea sul mio conto. Volevo solo che sapessi che ho capito. E... E che mi dispiace.»

Roxas si accorse di star praticamente stritolando l’album che aveva ancora con sé. Non ebbe il tempo di chiedersi a cosa si riferisse – se alla sua vita o all’averlo coinvolto in quella storia o a tutto quanto. Sentì i suoi passi allontanarsi sulla superficie metallica della scala antincendio, e il suo sguardo si posò quasi automaticamente su qualcosa che era rimasto sul letto fin dalla mattina. Un disegno che Sora non avrebbe mai dovuto pescare dall’armadio...

Nello stesso istante, fece la sua scelta.

 

 

* * *

 

 

Axel era già alla metà del pianerottolo, a chiedersi se Roxas fosse consapevole di non aver nulla da invidiare a suo fratello, dal momento che lui stesso aveva avuto tanta forza da riuscire a penetrare nel mondo fallito di qualcuno che non sapeva che farsene della propria vita – quando sentì alle sue spalle il fruscio delle tende che si aprivano.

Si fermò e si voltò.

Dalla sua stanza, Roxas lo guardava in silenzio, con l’aria di chi combatte duramente contro se stesso. Fino a vincersi.

Poi sollevò una mano, mostrandogli quello che sembrava un pezzo di cotone.

«Torna qui» mormorò. «Ti controllo il braccio.»

Axel sorrise appena.

S’incamminò di nuovo verso di lui. Quando fu abbastanza vicino, vide che negli occhi di Roxas c’era, se non un sorriso in cambio, almeno un chiarore di serenità. Almeno in quel momento, le ombre che sempre lo avevano oppresso sembravano lontane, e l’azzurro appariva meno spento.

 

 

* * *

 

 

Le parole smisero di viaggiare nella sera fino al cortile, lasciando il posto a un silenzio condiviso e pieno di cose a lui precluse. L’uomo si ritrasse nell’ombra fino a confondersi con essa.

Il suo sesto senso non sbagliava mai. Aveva fatto bene a seguirlo.

Affondò i pugni nelle tasche, scoprendo che questa volta le sue mani erano fermissime. Non provava neppure lontanamente ciò che gli aveva procurato il tradimento di Demyx. A lui aveva dato tutto, in nome di quell’irresistibile quanto inutile istinto umano che non aveva spiegazioni; lui era stato la sola vera ferita, perché era l’unico di cui gli fosse importato davvero qualcosa.

Axel era diverso. Era solo un misero insetto il cui veleno intrinseco gli aveva finora fatto comodo, ma che poteva essere schiacciato senza rimpianti, quando fosse diventato troppo fastidioso. O autonomo. O entrambe le cose.

Un sorriso storto affiorò alle labbra di Marluxia. L’amicizia era davvero solo per gli stupidi. Anche il ragazzino sulla sedia a rotelle l’avrebbe imparato presto, e a proprie spese.

Già... Il ragazzino sulla sedia a rotelle...

E pensare che forse...

 

 

 

 

 

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Puff, puff! Smetto dieci minuti di studiare giusto per aggiornare la storia, ricordandomene all’improvviso ._. Perdonate la celerità, ma sono davvero nei casini, ho quattro esami tra due settimane e non so più dove sbattere la testa quando me la sento scoppiare come ora. -_-

Cooomunque, ecco che Axel inizia ad avere dei ripensamenti! Come andrà a finire? Intanto vi suggerisco di preparare i missili anti-Marluxia, così siete perlomeno preparate. ;)

Ringrazio tanto tanto di cuore i miei lettori, ale94 per aver inserito questa storia tra le seguite, e infine – non per importanza – per le recensioni BlackRuri, _Ella_ e ChibiSerenity – grazie anche per aver aggiunto la storia alle preferite, Chibi, davvero è un onore ;////;

E adesso scappo di nuovo… Sperando di avere un po’ più tempo per dilungarmi [in eventuali spoiler] la prossima volta xD

Aya ~

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Capitolo 19
*** Nel covo dei rinnegati ***


18

Nel covo dei rinnegati

 

 

 

Roxas si svegliò all’alba e una minuscola parte del suo cervello si rivelò tanto razionale da ricordargli che era martedì.

La restante percentuale della sua testa ignorò completamente l’informazione e tornò a sguazzare nell’irrazionalità, o in quel cavolo che era.

Si ritrovò a percorrere ancora una volta gli avvenimenti delle ultime ore e degli ultimi giorni. E purtroppo per lui, quel nastro scorreva veloce, rendendo le immagini un intrico confuso in cui era difficile ritrovarsi.

Nel letto accanto al suo, il respiro di Sora era calmo e regolare; era il sonno giusto di chi dorme di sogni ignari. Roxas represse un sorrisetto ironico al pensare a quanto fosse costata a lui l’ignoranza di suo fratello.

Da che ricordasse, non gli aveva mai mentito o nascosto nulla. Gli ultimi due anni erano stati silenzi e scontri più o meno dichiarati, ma mai bugie né segreti. Forse era cominciato tutto da quel maledetto disegno che Sora aveva ripescato dall’armadio.

Forse era cominciato tutto con Axel.

Gli occhi verdi e dannati di quella specie di confidente gli attraversarono la mente, subito seguiti dal suono lontano di poche parole mormorate al riparo di una tenda leggera.

«Non so bene perché lo faccio, ma voglio farlo.»

A Roxas non importava sapere se Axel stesse facendo un bilancio della propria esistenza in virtù dei loro confronti o in vista della sua sicurezza personale; quello era un aspetto assolutamente secondario. Ogni cosa, in quella situazione così assurda, diventava secondaria, lasciando il passo soltanto al significato assunto da quella decisione.

L’aveva detto lui stesso: Axel aveva capito. E gliel’aveva detto per dimostrargli che alla fine aveva trovato il coraggio di fare una scelta.

E, forse, per dirgli che quel coraggio poteva trovarlo anche lui.

Perché vivere non era solo camminare o correre o saltare...

Un’improvvisa consapevolezza gli fece accelerare i battiti del cuore.

Lui poteva farcela. Come ce l’aveva fatta ad uscire da quel suo piccolo mondo chiuso. Come ce l’aveva fatta a fidarsi di Axel.

«Non so bene perché lo faccio, ma voglio farlo.»

In fondo, cos’era la vita se non una questione di volontà?

Roxas voltò la testa sul cuscino e guardò l’orologio appeso al muro. Quasi le sette. Aveva tempo. Poteva farlo.

Abbassò di nuovo gli occhi sul letto di Sora, e capì anche che voleva farlo da solo. Solo con Axel.

Perché così era cominciata.

Scostò le coperte e si sollevò sui gomiti, quindi ricorse a quell’abitudine che ormai gli aveva reso facile l’operazione di alzarsi a sedere sul letto.

Ruotò lentamente con tutto il corpo fino a spostare le gambe inerti e a posare i piedi al suolo, con un fruscio morbido che si perse nel tappeto. Si sporse ad afferrare i vestiti già pronti su una sedia accostata al comodino. Il difficile arrivò con i pantaloni, ma non aveva intenzione di lasciarsi scoraggiare fin dal primo ostacolo. Non adesso. Forse non più.

Si chinò e, aiutandosi con le mani, alzò un piede alla volta. In qualche modo riuscì ad infilarsi i jeans fino alle ginocchia. Allora si distese di nuovo con la schiena sul letto, strinse i denti, puntò i piedi immobili e con tutta la forza possibile sollevò il bacino, sostenendosi con una mano e concludendo quell’inusuale vestizione con l’altra.

Alla fine si lasciò ricadere e rimase per qualche istante così, a recuperare il fiato.

Dal viluppo di lenzuola nel letto accanto giungeva adesso un respiro ancor più profondo, segno che suo fratello non solo non si era accorto di nulla, ma era ad un passo dal mettersi a russare. Il pensiero lo fece sorridere. Il primo sorriso sincero da tanto, tanto tempo.

Si allacciò i jeans in vita e si alzò di nuovo a sedere. La vera sfida cominciava adesso.

Guardò la sedia a rotelle ai piedi del letto. Ringraziò il cielo che Sora, la sera prima, l’avesse sistemata lì, non troppo distante dalla sua portata. Rivolse alla sua vecchia amica-nemica un altro sorriso.

Sta a noi due, adesso.

Ancora una volta grazie al solo aiuto delle mani, il suo unico vero supporto, cominciò a scivolare verso l’estremità del letto. Questo fu più facile e certo meno stancante, o magari era solo che si stava abituando; si fermò dove gli era possibile toccare la sedia e a quel punto si protese a farla avanzare sulle ruote, pregando che non cigolassero troppo, fino ad avvicinarsela alle ginocchia.

Allora si fermò e prese un respiro profondo. L’aveva già fatto una volta, inconsapevolmente. Questa volta era consapevole di volerlo fare.

Di poterlo fare.

Scacciando la frustrazione e le circostanze che lo avevano fatto ritrovare in piedi poco più che ventiquattro ore prima, afferrò uno dei braccioli, lo strinse e si impuntò di nuovo.

Si sollevò dal letto.

Due secondi dopo ricadde a sedere.

Sora levò un gemito di fastidio, ma non si svegliò.

Roxas si sforzò di calmare il respiro ansante. Guardò di nuovo la sedia con ostilità.

Ah, è così che la metti.

Stavolta non si concesse riposo e provò di nuovo.

E ancora. E ancora. E ancora...

Tre minuti dopo era di nuovo abbandonato sul dorso, a braccia aperte, esausto.

Non poteva arrendersi. Non era giusto.

Guardò ancora l’orologio. Le sette e un quarto. C’era ancora tempo.

«Non so bene perché lo faccio, ma voglio farlo.»

Anch’io voglio farlo.

Perché vivere era ben più che camminare e correre e saltare...

Chiuse gli occhi, strinse i pugni e ricominciò daccapo.

 

 

* * *

 

 

Axel sbadigliò e aprì un occhio. Da uno spiraglio tra il cuscino e il materasso vide una luce fioca illuminare la stanza. In un primo momento non capì cosa lo avesse svegliato; poi il suono si ripeté.

Qualcuno bussava alla porta dell’appartamento.

Di colpo fu completamente sveglio e tirò fuori la testa da sotto il cuscino, fissando la porta aperta sul corridoio in penombra che conduceva alla cucina e da lì all’ingresso.

Da quando viveva in quel condominio, mai nessuno aveva bussato alla sua porta.

Del resto, i possibili visi tatori

 del suo nuovo alloggio non erano molti. In effetti si riducevano a tre: quella vecchia sanguisuga di Vexen, il suo ex capo in cerca di giustizia personale e – forse – la polizia.

Tutt’e tre i casi non promettevano niente di buono.

Il bussare echeggiò di nuovo nel silenzio, e d’istinto Axel guardò la sv eglia  sul comodino. Le sette e venticinque.

Chiunque tu sia, ti assicuro che perderai quest’abitudine del cazzo di svegliare la gente all’alba.

Si alzò e, con i soli pantaloni addosso, si risolse ad andare ad aprire.

Lasciò che il cervello ancora assonnato si snebbiasse vagliando ciascuna delle tre possibilità.

Se era Vexen, avrebbe dovuto inventarsi qualcosa: quel vecchiaccio gli aveva detto che avrebbe riscosso l’affitto a fine mese, ma non c’era da fidarsi di quel suo sogghigno cattivo.

Se era Marluxia, in tutta sincerità, non avrebbe saputo come comportarsi. Gli sarebbe toccato improvvisare.

E se era la polizia... Beh, la decisione che aveva preso la sera prima sarebbe solo stata anticipata.

Quel pensiero gli riportò subito alla mente gli occhi chiari di Roxas, le sue piccole mani a curargli la ferita sul braccio.

Per questo motivo, quando aprì la porta e se lo ritrovò di fronte, per un attimo si sentì smascherato.

Roxas lo guardava di sotto in su dalla sua sedia. Aveva un’aria stanca, ma sembrava tranquillo, anche più del solito. Gli sorrise timidamente.

«Ciao.»

Axel si scosse dalla sua confusione, ma non dalla sorpresa. «Che ci fai qui?»

Il sorriso di Roxas si fece più ampio. «Buongiorno anche a te. Mi fai entrare?»

Le sue parole gli ricordarono il momento in cui lui era andato a bussare alla porta del 2A. Quello strano scambio di ruoli lo divertì, e ricambiò il sorriso.

«Scusa, vieni dentro.» Si ritrasse dalla porta accennando un inchino. «Temo che questa casa non sia linda e tinta come la tua, ma che ci vuoi fare, non sono mai stato un maniaco dell’ordine.»

«Non faccio fatica a crederci.» Roxas spinse in avanti la sedia a rotelle e si guardò intorno; all’improvviso sembrò imbarazzato. «Mi spiace di averti svegliato, ma...»

Axel lo tranquillizzò con un gesto noncurante della mano. «Non c’è problema.»

Mentre lo guidava in soggiorno, rifletté su quanto fosse facile cambiare idea, quando c’era quel ragazzino di mezzo. Uhm.

Roxas si fermò accanto ad una bassa poltrona, residuo bellico del vecchio arredamento, e studiò l’ambiente senza apparente emozione.

«Allora è questo il tuo regno.»

Axel si lasciò cadere sulla poltrona e gli strizzò l’occhio. «Naaa, il mio regno sono i vicoli bui e gli appostamenti nei cespugli. Questo è solo il covo dei rinnegati.»

Il ragazzo non sorrise alla sua ironia, e lo guardò come se in cuor suo si domandasse se fosse anche lui un rinnegato. Poi distolse gli occhi e si passò una mano dietro il collo, trasmettendogli un senso di nervosismo crescente. Axel attese, certo che prima o poi il nodo sarebbe arrivato al pettine.

«Senti» esordì difatti Roxas dopo la pausa. «Sei ancora dell’idea... di andare a parlare con la polizia?»

Lui tornò subito serio. Parlò senza nemmeno rifletterci su.

«Credo sia l’unica cosa di cui sono davvero sicuro.»

E non so neanche il perché.

O forse lo sapeva, ma ancora non riusciva a concepirlo.

Roxas lo guardò in viso, quello sguardo azzurro che già altre volte gli aveva dato l’impressione di poterlo passare da parte a parte.

«Sono venuto a chiederti un favore.»

Alzò le sopracciglia. «Un favore? Da me?»

Il biondino annuì e prese fiato, come a racimolare il coraggio. Quando parlò, lo fece senza più nascondersi ai suoi occhi, dimostrandogli che in quel che stava dicendo ci credeva davvero.

«Prima di andare là... ti va di venire con me al parco?»

Axel lo fissò interdetto per un attimo. Poi sogghignò di nuovo.

«Cos’è, un appuntamento?»

Roxas arrossì di botto e alzò gli occhi al cielo, con aria esasperata.

«Uffa, ma perché non fai il serio una volta tanto?!» sbuffò.

«Ehi, ehi, scusami.» Axel si chinò, le braccia sulle ginocchia, sorridendo e allargando le mani in segno di discolpa. «E dai, bimbo, non prendertela. È che mi hai sorpreso, tutto qui.»

Il ragazzo tornò a guardarlo, ma il suo viso rimase di un bel colorito rosso tramonto.

«Credimi, sorprende anche me. Solo...» Scrollò le spalle, un gesto remissivo che gli aveva visto fare già in occasione del loro primo incontro, e che provocò in Axel un nuovo sorriso. «Solo che... ho qualcosa da fare lì. E ho pensato che forse tu...»

Non gli lasciò il tempo di trovare altre parole difficili e inutili. Si alzò in piedi e s’incamminò verso la camera da letto.

«Due minuti e sono da te.»

Il breve silenzio dei suoi passi a piedi nudi. Poi...

«Axel

Si voltò, in attesa.

Roxas sorrise. «Grazie.»

Lui rimase immobile a guardarlo per qualche istante.

«Sono io che devo ringraziarti, scemo...»

Ma prima che potesse dire qualsiasi cosa, il ragazzo sbuffò ancora una volta al soffitto.

«E adesso mettiti qualcosa addosso, per favore!»

Axel ridacchiò e riprese la strada.

 

 

* * *

 

 

Scusami se non ti ho svegliato. Ma stamattina ho capito alcune cose, e tra queste anche il fatto che, se volevo, potevo essere in grado di alzarmi da solo.

Non devi preoccuparti per me. Devo solo fare una cosa. Tornerò presto e ti spiegherò tutto, promesso.

Lo sai, forse ci hai preso su Axel.

 

Sora lesse e rilesse il biglietto mentre il cuore e il respiro si calmavano.

Quando aveva aperto gli occhi e aveva scoperto vuoto il letto di Roxas, per poco non gli era preso un colpo. Come aveva fatto suo fratello a sparire in quel modo? Qualcuno lo aveva forse rapito dalla sua stessa stanza – mentre lui dormiva?!

Poi, prima che il panico avesse la meglio sul buonsenso, aveva notato sul suo comodino quel semplice foglio di quaderno piegato a metà.

Sotto, c’era lo stesso disegno che lui aveva già visto due giorni prima, dietro un’asse mobile dell’armadio, e che aveva causato un’ennesima lite e un’ennesima incomprensione da parte di entrambi.

Adesso che aveva davanti agli occhi la grafia nitida e ordinata di Roxas, così diversa dalla sua, si sentiva stupido per l’aver pensato che avesse per forza avuto bisogno di aiuto per alzarsi.

La verità era che suo fratello aveva in sé una forza enorme, anche se si ostinava a credere il contrario.

Del resto, era soprattutto per quel motivo che Sora cercava sempre – inutilmente – di spronarlo a tornare se stesso.

Accanto alla firma c’era un disegnino stilizzato: un piccolo skateboard con due rotelle per occhi e un grande sorriso al centro. Lo guardò a lungo, come ipnotizzato. Era un vecchio gioco di quando avevano più o meno dieci anni: lui aveva preso a firmarsi con una stellina al centro della o, e Roxas con quello skate col faccino subito dopo il nome.

Erano due anni che non vedeva quello skate.

Così come erano due anni che Roxas non voleva più neanche parlare di skate.

Alzò lo sguardo e vide, oltre la finestra, la luce del sole colpire le tapparelle dell’appartamento 2B, che un paio di giorni prima aveva scoperto abitato dall’unica persona sulla faccia della Terra a cui Roxas avesse sentito di poter confidare la sua storia e la sua sofferenza.

... Forse ci hai preso su Axel...

Sora sorrise, e per una volta non era il suo sorriso da clown, da simpaticone del gruppo o da fanatico di breakdance. Era un sorriso rivolto al vuoto, da parte di un ragazzo felice che suo fratello si stesse finalmente rialzando.

 

 

 

 

 

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Yayyy, Roxas si è alzato di nuovo! Ed è uscito di nuovo! Brindate con me! xD

Oh my gosh, stavolta vorrei davvero tanto tanto rispondervi per bene uno per uno, ma sono davvero impelagata di studio fino al collo. Mi detesto. Specie dopo aver letto recensioni così piene di aspettative. Imploro inutilmente il vostro perdono ;_;

Ad ogni modo ci tengo a ringraziare all’infinito ed oltre BlackRuri, Syranjil Sarephen (Beaaa, sono così felice di risentirti! :D Non vedo l’ora di poter chiacchierare mooolto a luuungo con te! <3) e _Nick_, che hanno commentato il capitolo precedente, nonché tutti gli affezionati lettori che – forse – stanno cominciando a farsi un’idea di dove voglio andare a parare. Ma considerate che la storia è ancora lunga, non siamo neppure alla metà... Dovrete sopportarmi ancora a lungo e vi ringrazio già da ora per la pazienza. ^^’

Beh, alla prossima settimana. Hope you liked it!

Aya ~

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Capitolo 20
*** Il campione dei falchi ***


19

Il campione dei falchi

 

 

 

«Sei proprio sicuro di trovarli?»

Roxas teneva lo sguardo fisso davanti a sé. Ora che stava per mettere in pratica la decisione presa poco più di mezz’ora prima – Dio, e dire che solo ieri si sarebbe rifiutato persino di prendere in considerazione un’idea simile – e che cominciava a provare un sottile dubbio preoccupato, non aveva intenzione di farsi indietro. Perciò rispose senza voltarsi a guardare Axel, per non trovare nel suo viso lo stesso scetticismo che gli sentiva nella voce.

«Sicurissimo. È una vecchia abitudine. Ogni mattina prima della scuola...» Sorrise tristemente al moto di nostalgia appena provato. «È sempre stato così. Pioggia o vento, non importava a nessuno. Era molto più importante stare là.»

«Anche per te?»

Si accorse che Axel non aveva abbassato la voce. Non era una domanda retorica, carica di comprensione; era una pura ed essenziale richiesta di conferma.

Si voltò a guardarlo per un istante.

«Sì» rispose, «anche per me.»

Riprese a sospingere la sua sedia verso il parco, ascoltando il suono delle scarpe di Axel che, a differenza delle sue, toccavano l’asfalto.

 

 

* * *

 

 

Hayner si appoggiò a un muretto per sistemarsi la ginocchiera allentata. Si asciugò una goccia di sudore dalla fronte e guardò l’orologio. Le sette e quarantadue. Di lì a poco avrebbero dovuto salutarsi e recarsi a scuola.

Osservò Pence e Olette che piroettavano senza troppa convinzione sulla pista per i principianti. In altri tempi avrebbe guardato quelle loro patetiche esibizioni con sfida e avrebbe sparato una battutaccia.

Si batte la fiacca, Hawk Runners?

Ma erano altri tempi, per l’appunto. Tempi in cui erano in quattro a ridere per una battuta, a condividere la gioia di una vittoria e la delusione di una sconfitta.

Con un sospiro, Hayner balzò di nuovo sul suo skate e si rassegnò a tornare a quell’inutile allenamento quotidiano – inutile perché, insieme al suo campione, la squadra aveva perso anche tutta la voglia di divertirsi.

Seguì Olette e Pence verso la rampa.

Gli mancava, quel campione.

Soprattutto, gli mancava il suo amico.

Olette lo superò urtandogli leggermente un braccio, e quando si voltò per scusarsi, il ragazzo vide nei suoi occhi verdi un’ombra di tristezza che conosceva bene. Olette la maestrina, ma sempre pronta a scherzare. Non l’aveva quasi mai sentita ridere, non per davvero, e soprattutto mai durante un allenamento, da quando era successa quella cosa.

Hayner si odiava per il suo continuo definire ‘quella cosa ciò che era accaduto a Roxas, anche oggi, a distanza di due anni. E quell’incapacità di chiamare le cose col loro nome non era per tristezza, ma per senso di colpa.

Lui era il suo migliore amico, per la miseria. Lo conosceva meglio di chiunque altro, anche di suo fratello. Sapeva bene che Roxas non era il tipo da accettare compassione e parole di conforto. Allora perché non era mai corso a casa sua, senza l’una né le altre, a dimostrargli che non gli facevano pena le sue condizioni, e non l’aveva trascinato di nuovo fuori in strada?

La risposta la conosceva bene, ed era ciò di cui più si vergognava.

Aveva semplicemente avuto paura. Paura che, quando si fosse ritrovato di fronte al suo amico costretto a vivere su una sedia a rotelle, la tristezza avrebbe sopraffatto tutto il resto.

E così non c’era mai andato. Si era rifugiato dietro gli SMS e le telefonate, ma Roxas si era ormai chiuso in quel suo mondo di solitudine e non aveva mai risposto a chi cercava di tirarlo fuori.

Non riusciva ad accettare che quei due anni di silenzio ne avessero cancellati cinque di amicizia.

Era ancora totalmente assorto in quelle considerazioni quando, come da molto lontano, sentì l’esclamazione di sorpresa di Pence.

Si voltò appena in tempo per vederlo cadere a metà di un kickflip e atterrare di schiena oltre l’estremità della rampa.

«PenceOlette lo raggiunse e gli tese una mano. «Che ti è successo?»

Ma Pence la ignorò volutamente e continuò a fissare con occhi allibiti un punto in lontananza. Olette lo imitò e di colpo assunse un’espressione molto simile a quella del compagno.

«Ma che avete, tutti e due?»

Hayner si fermò a poca distanza e seguì i loro sguardi.

L’immagine entrò nel suo campo visivo come in uno zoom al rallentatore. Prima fu solo una sagoma vestita di azzurro e di nero, poi una figura seduta, infine i capelli biondi e gli occhi chiari di Roxas.

Il tempo – passato e presente – si fermò.

Il silenzio era assoluto; persino i soliti uccelli tra gli alberi del parco tacevano. A poco a poco, mentre la distanza diminuiva, si poteva però sentire il cigolio smorzato dall’erba delle ruote di quella dannata sedia.

Hayner rimase impietrito al suo posto, un piede a terra e l’altro sullo skate, per chissà quanto tempo. Quasi non si accorse dell’alta figura sconosciuta che avanzava al fianco di Roxas, intento com’era a scrutare l’espressione nervosa ma decisa sui suoi lineamenti di ragazzino assennato, identici a come li ricordava.

Alla fine, la sedia fu a meno di tre metri da lui, e Roxas si fermò a guardare la sua vecchia squadra, sulle labbra un’ombra imbarazzata di sorriso.

«Ciao, ragazzi.»

Insieme al silenzio si spezzò qualcos’altro, e Hayner avvertì il flusso degli eventi ricominciare a scorrere attorno a sé. Ma non riuscì a muoversi, e assistette come dal di là di un vetro alla scena di Pence e Olette che abbandonavano gli skateboard e correvano incontro a Roxas – cercando di decifrare il proprio confuso stato d’animo.

«Roxas! Roxas! Sei proprio tu!»

Lui ricambiò i loro sguardi con lo stesso sorriso impacciato. Accettò la calorosa pacca di Pence ma, quando si voltò verso la ragazza, la sua espressione si fece seria.

«Olette, giuro che se piangi me ne vado.»

Olette rise. Anche Hayner notò che aveva gli occhi lucidi.

«Ma che hai capito, stupido?» Si gettò su di lui e lo abbracciò forte. «Piango perché sono felice di vederti!»

Sopra la sua spalla, Roxas arrossì e sorrise di nuovo, sollevando le braccia a ricambiare la stretta.

Olette e Pence erano felici di vederlo. Non contava che lui fosse seduto su quella cosa. Anche se fosse arrivato da loro con le gambe amputate di netto, non sarebbe contato; loro sarebbero stati comunque felici di vederlo. Stavano dimostrando di avere tutta la forza che Hayner aveva temuto di non possedere, di essere in grado di comportarsi come lui avrebbe voluto ma non aveva saputo fare.

E questo, cazzo, faceva malissimo.

Poi Roxas si sciolse dall’abbraccio di Olette e lo guardò.

«Ciao, Hayner

Il tono era tranquillo, solo un po’ più basso del normale, ma limpido.

Hayner tolse il piede dalla tavola e gli si avvicinò lentamente, imponendosi di guardargli il viso e non le gambe.

«Due anni lontano dal mondo. Irreperibile al telefono e introvabile di testa. Confinato in tutti i sensi chissà dove. E adesso arrivi qui e ci fai una sorpresa.» Si fermò davanti a lui e incrociò le braccia. «Ora che cosa dovrei dirti, secondo te?»

Roxas aveva chinato la testa, accettando ad una ad una le sue parole al pari di una pioggia che si era aspettato fino all’ultima goccia. Dopo un breve silenzio, sollevò lo sguardo e gli rivolse la più indefinibile delle occhiate.

«Non lo so. Dimmelo tu.»

Pence e Olette seguivano in silenzio quella schermaglia. Era come se lui e Roxas fossero soli a fronteggiarsi, come se lo fossero sempre stati.

Hayner lo fissò a lungo. Avrebbe avuto tutte le ragioni del mondo – lo sapevano benissimo entrambi – ma non ne esprimeva neanche una. Stava lì a guardarlo, e il messaggio era inequivocabile. Sono tornato.

Alla fine capì che non gli importava niente né del tempo passato, né di quella sedia.

«Ecco cosa ho da dirti.» Gli tese la mano. «Scusami. E bentornato.»

Il campione dei falchi, il suo migliore amico, lo guardò con aria sorpresa, ma poi capì. Come aveva sempre capito. Gli sorrise e gli strinse la mano, a poco a poco più forte.

«Scusami tu. E... grazie.»

 

 

 

 

 

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Aggiornamento lampo, appena prima degli esami, sperando che porti bene. ^^’

Dunque ecco cosa voleva fare Roxas al parco: tornare a trovare i suoi vecchi amici. Aw. In realtà, inizialmente questo capitolo era ben più lungo, ma ho deciso di tagliarlo in due parti perché preferivo incentrarmi per una volta su Hayner, sul motivo per cui lui che è il migliore amico di Roxas si è rassegnato a perderne i contatti: la paura di dimostrarsi troppo debole, di non riuscire ad aiutarlo. Sottolineo che non intendevo assolutamente creare sottintesi Hayner/Roxas. Li vedo troppo come amici per mirare a qualcos’altro. E poi ricordate che questa storia è AkuRoku u_ù

Purtroppo devo essere rapidissima anche nei ringraziamenti, ma sappiate che ogni lettura mi rende sempre più felice. Non cesserò mai di ringraziarvi tutti <3

E ora corro al mio consueto ripasso dell’ultimo minuto! xD

Aya ~

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Capitolo 21
*** Passi tra gli alberi ***


20

Passi tra gli alberi

 

 

 

«Ma che bel quadretto. Avrei dovuto aspettarmela, questa scena.»

Roxas si voltò a guardarlo con un sorriso ironico. «Però sei venuto lo stesso. Nessuno ti ha puntato contro una pistola.»

Axel gli scoccò uno sguardo stupito. Poi ridacchiò, divertito dal riferimento – anche se non c’erano tanti motivi di trovarlo divertente.

Fino ad allora si era tenuto indietro; fosse stato per lui, non sarebbe neanche entrato nel parco – non c’entrava niente, lui – ma quando aveva espresso ad alta voce quel pensiero, il ragazzo gli aveva tirato una manica, piano, facendogli capire senza sguardi né parole che lo voleva con sé.

Gli aveva dato una strana sensazione.

Uno come lui, con un passato inesistente e un futuro incerto, privo di radici e certezze e strade da seguire, poteva davvero essere un sostegno per qualcuno?

Poteva esserlo per Roxas, che nel suo dolore era mille volte più forte di lui?

Quel commento sarcastico che gli era appena venuto alle labbra per stemperare la tensione non aveva infastidito il ragazzo, che anzi aveva replicato nello stesso tono. Questo non dimostrava che Roxas era in grado di farcela da solo?

Eppure, lo voleva con sé...

In quel momento si accorse degli sguardi incuriositi degli amici di Roxas, e lui sembrò ricordarsi di fare le presentazioni.

«Oh. Scusate.» Manovrò la sedia finché non poté guardare in faccia tanto Axel quanto i tre skater. «Axel, loro sono Hayner, Pence e Olette. Ragazzi, lui è Axel, un...»

Ma bene. Perfetto. Ancora pubblicit...

Smise di formulare tra sé quel vecchio concetto ormai inutile quando si rese conto della nota di esitazione nella voce di Roxas. Distolse lo sguardo dai tre per posarlo su di lui, e vide che non sapeva come continuare la frase.

«Lui... Beh, lui è...»

Non poté trattenersi dal rivolgergli un sogghigno, sfidandolo a dire la verità. Vedeva distintamente le parole attraversare alla velocità della luce quella sua testolina bionda. Si chiese quale avrebbe preferito usare. Ricercato? Spacciatore mancato? Redento?

Alla fine Roxas sorrise e, senza distogliere gli occhi da lui, scelse la definizione che evidentemente reputava più giusta.

«È un amico.»

Axel sentì il divertimento e la provocazione scorrergli via dal viso come acqua.

Il silenzio fu interrotto dallo skater con la testa invasa da folti capelli neri, Pence, che sollevò una mano in segno di saluto.

«Beh, ciao, Axel

Anche Hayner e Olette lo salutarono, un po’ confusi ma sorridenti. Axel si limitò a un paio di cenni con la testa, evitando di andare a ripescare la voce nel luogo remoto dov’era andata a finire.

Quando la ritrovò, giudicò opportuno eclissarsi per un po’ da là.

«Va be’, bimbo, io me ne vado a fare colazione.» Scompigliò confidenzialmente i capelli di Roxas. Poi volse intorno uno sguardo svagato. «Mmm, vediamo... Caffè per tutti?»

Gli skater risero e declinarono l’offerta. Roxas si sottrasse alla sua mano e alzò lo sguardo.

«Vengo con te.»

Lui lo fissò di rimando. «Pensavo che aveste molte cose da raccontarvi, voi quattro.»

Come a sottolineare quelle parole, Hayner guardò l’orologio.

«Sono le otto. Tra un po’ c’è scuola...»

Accanto a lui, Olette si sfilò il casco e si ravviò i lunghi capelli castani. «Bah. Voi fate come vi pare. Io oggi la scuola la salto.»

I tre amici la fissarono con tanto d’occhi.

«Olette!» esclamò Roxas, un po’ divertito, un po’ esterrefatto.

«Cosa?» fece lei, disinvolta. «Tu sei molto più importante!»

Roxas tacque e arrossì, mentre Hayner e Pence scoppiavano a ridere.

«Ma sì, ha ragione come al solito!» Hayner batté una mano sulla spalla di Roxas. «E non avrei mai creduto di dire una cosa simile... Voi andate pure, vi aspettiamo qui. Il tuo amico ha ragione. Abbiamo tante cose di cui parlare.»

 

 

Axel e Roxas percorrevano a ritroso, l’uno accanto all’altro, il sentiero del parco che avevano già seguito, diretti al bar all’angolo della strada. Era un’area in cui gli alberi erano più fitti, quasi a formare una barriera tra il sentiero e il resto del mondo.

Un silenzio tutto nuovo gravava su di loro.

«Ehi.»

«Cosa c’è?»

«Come mai non sei voluto restare con loro? E non dirmi che hai una fame da lupi, perché non ci credo.»

Roxas si fissava con intensità le mani, impegnate nel girare lentamente le ruote della sedia. Axel intravide comunque la sua espressione, così genuinamente incerta da farlo sembrare per un attimo il bambino che non era più.

«Non so.» Per un po’ rimase in silenzio a riflettere. «Sai... Avevo voglia di chiedere loro... beh, tante cose. Ad esempio che anno è stato per gli Hawk Runners senza... Sai, senza di me. Ma poi... Ecco... Ho avuto paura di chiederlo, credo.» Si strinse nelle spalle. «Forse non sono ancora pronto...»

Axel provò l’assurdo impulso di rassicurarlo, di dirgli che ormai era pronto per qualsiasi cosa; ma non trovò le parole, né il coraggio. Così ricorse alla sua carta vincente: tornò a sdrammatizzare.

«Ora che ci penso... Non mi avevi detto di essere anche un seduttore.»

Roxas alzò gli occhi, spiazzato. «Eh?»

«Oh, andiamo. Tu sei molto più importante!» citò, in una molto malriuscita imitazione della voce di Olette, guardandolo con aria allusiva. «Credi che non si veda che le piaci?»

Di nuovo, Roxas arrossì furiosamente. Axel provò una strana tenerezza per quel piccolo naufrago che, nella sua disperata ricerca di appigli alla vita, era ancora in grado di cedere a una cosa banale come l’arrossire.

«Sei completamente fuori strada. E se proprio ti interessa, sappi che a Olette piace Hayner, me l’ha detto lei stessa. Un sacco di volte.»

«Roxas, guarda che l’universo femminile è complicato...»

Il ragazzo non rispose. Ma all’improvviso, nel silenzio che si era creato, scoppiò a ridere.

Axel si fermò all’istante e si voltò verso di lui. Anche Roxas smise di spingersi in avanti, e continuò a ridere e ridere e ridere, come se volesse recuperare tutto il tempo in cui aveva avuto soltanto la voglia di piangere.

Era un suono così inaspettato, così puro, che Axel non riuscì più a pensare a nulla. Rimase semplicemente a guardarlo e a chiedersi se avesse mai sentito qualcosa che gli avesse fatto più piacere sentire.

Dopo quelli che sembrarono interi lunghissimi minuti, Roxas si calmò e lo guardò con gli ultimi strascichi di ilarità.

«Scusami» ridacchiò. «Scusami, è solo che... Dopo tutto quello che ho passato prima di arrivare qui, a questo punto... Insomma, stare qui a parlare con te di ragazze... è davvero pazzesco.»

Axel capì cosa intendesse. E, in effetti, non poté che dargli ragione. Rise anche lui, mentre Roxas si calmava del tutto e gli rivolgeva quel sorriso spensierato che mai prima d’ora si sarebbe sognato di vedergli sulle labbra.

«Grazie, Axel. Grazie per tutto.»

Lui scosse la testa, ricambiandolo finalmente con la stessa sincerità.

«No, grazie a te. È solo merito tuo se siamo qui adesso... a parlare di ragazze

«Cretino.» Roxas rise di nuovo, poi ricominciò a muoversi sulla sua sedia. «Dai, andiamo... O non arriveremo al bar neanche per l’ora di chiusura.»

Axel gli tenne dietro, sorridendo allo schienale di metallo.

«Lo sai, mi piace questo tuo lato simpatico.» Di colpo si ricordò che aveva anche qualcos’altro da fare, quella mattina, oltre alla colazione. «Comunque hai ragione. Meglio non fare tardi, vorrei iniziare la mia vita di persona buona con una puntualità degna di un bravo ragazzo... Che ne dici?»

Improvvisamente vide Roxas irrigidirsi sulla sedia, e s’interruppe.

C’era qualcosa che non andava. Lo percepiva; ne era sicuro.

Con due passi fu davanti a lui, e vide che il visetto del ragazzino era stranamente confuso. Gli occhi azzurri scesero a guardare stupiti qualcosa che si allargava all’altezza del suo fianco sinistro.

Axel abbassò lo sguardo, e lo vide anche lui.

Sangue.

Senza dargli il tempo di capire cosa fosse successo, Roxas chiuse gli occhi e si accasciò sul fianco, senza un lamento; il contrappeso rese pericolosamente instabile la sedia a rotelle, e Axel si precipitò a sorreggerlo prima che toccasse terra.

Lo tirò a sé, lontano dalla sedia, oltre il margine del sentiero, fino a distenderlo cautamente sull’erba; si chinò su di lui e lo scrollò per le spalle.

«Roxas! Mi senti? Roxas

Ma il ragazzino continuò a tenere gli occhi chiusi.

Nel silenzio che seguì, Axel credette di sentire dei passi felpati allontanarsi nel folto degli alberi.

 

 

 

 

 

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Reduce da un 30 e lode in inglese che ancora mi fa gongolare come Undertaker, faccio la bastardata e aggiorno in ritardo e con un capitolo catastrofico. Sì, odiatemi. Me lo merito. ;_;

Non vi anticipo né spiego nulla più che altro per mancanza di tempo – ma va’? direte voi, ancora una volta a ragione. Ma ci tengo a esprimervi la mia riconoscenza per ogni lettura, ogni commento, ogni aggiunta ai preferiti/ricordati/seguiti. Grazie dunque a BlackRuri ed _Ella_, a _Nick_, a Lorenz_123, e a tutti gli altri di cui non conosco il nick ma che hanno avuto il pensiero di aprire un link e perdere un po’ di tempo a leggere. Grazie. <3

Alla prossima!

Aya ~

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Capitolo 22
*** Il prezzo da pagare ***


21

Il prezzo da pagare

 

 

 

Hayner volava sulla tavola, troppo felice per riuscire a fermarsi.

Quando aveva guardato Roxas allontanarsi con quell’Axel e si era reso finalmente, totalmente conto che quello era l’amico che credeva di aver perso per sempre – che non lo odiava per il suo non essere riuscito a salvarlo – e si era poi voltato verso i due compagni, si era accorto che nessuno di loro aveva parole per esprimere il proprio stato d’animo. Ognuno aveva reagito a modo suo.

Olette aveva pianto di gioia.

Pence si era lasciato cadere a braccia aperte nell’erba con il suo enorme sorriso sognante.

Lui era balzato di nuovo sullo skate, e come al solito lo aveva fatto parlare per sé.

Si diede una spinta maggiore con il piede, ridendo al vento. Aveva voglia di fare tutto il giro del parco senza mai fermarsi: e mentre lo pensava già si allontanava dall’area attrezzata per lo skateboard, imboccando lo stesso sentiero su cui aveva visto allontanarsi Roxas ed Axel.

Solo quando svoltò a una curva notò qualcosa di strano.

Una sedia a rotelle rovesciata su se stessa.

Si fermò di colpo, una frenata così brusca che gli fece perdere l’equilibrio. Lo ritrovò subito e, con lo stomaco raggelato dalla paura, percorse a passo di corsa gli ultimi metri che lo separavano da ciò che quella sedia nascondeva alla vista.

Fu di nuovo come uno zoom lento, solo che stavolta Hayner avrebbe dato qualsiasi cosa pur di non vedere la scena che aveva davanti agli occhi.

Roxas era poco oltre la sedia, semidisteso nell’erba, e su una delle sue gambe immobili scorreva una scia terribile di sangue che nasceva nel suo fianco e andava a morire chissà dove. Aveva gli occhi chiusi e respirava a fatica. Axel, pallido come un fantasma, lo sosteneva e lo scuoteva piano.

Hayner si bloccò. Gli mancò il fiato. Mani e gambe presero a tremare. Avrebbe voluto fare qualcosa, qualsiasi cosa, ma non riusciva nemmeno a pensare. Questo non era possibile. Non poteva essere vero...

Poi Axel alzò lo sguardo su di lui, e al vederlo sembrò riprendere il controllo degli eventi.

«Va’ a chiamare qualcuno» gli ordinò, in tono brusco, neanche fosse abituato a trovarsi in situazioni del genere. «Un’ambulanza. La polizia. Entrambe. Ma fa’ presto

Hayner cercò di essere altrettanto razionale, ma non ci riuscì.

«Che... Che cosa è successo?» balbettò confusamente.

Axel abbassò di nuovo gli occhi sul viso di Roxas. Si morse un labbro. «Gli hanno sparato.»

Il poco fiato rimasto nei polmoni di Hayner evaporò.

Era assurdo. Assurdo. Chi poteva voler fare del male a Roxas? E perché, dannazione, doveva succedergli anche questo? Dopo tutto quello che aveva già passato? Adesso che era tornato?

L’adolescente dai capelli rossi tornò a puntargli in faccia quei suoi inquietanti occhi verdi.

«Vai, per favore» lo incalzò. «Non c’è altro che possiamo fare per ora.»

Finalmente Hayner si risolse. Annuì e, con un ultimo sguardo a Roxas, si voltò, tornò al suo skateboard e sfrecciò via di nuovo.

Già una volta non aveva saputo aiutare il suo migliore amico. Oggi doveva dimostrare, a lui quanto a se stesso, di poterlo fare.

 

 

* * *

 

 

L’agente Aerith Gainsborough non era un’appassionata di piantonamenti, ma fin dalla retata di due notti prima alla vecchia villa – che le aveva lasciato addosso quell’odiosa tristezza per aver assistito alla morte di quello che avrebbe potuto essere un adolescente come qualunque altro – le piaceva soffermarsi ad assaporare ogni attimo di tranquilla passività, prima di tornare a combattere con la crudeltà della vita.

Del resto, sorvegliare il parco di Twilight Town era la totale antitesi della faccenda di quel ragazzo, Demyx. In quella piccola oasi non c’era praticamente nulla per cui preoccuparsi, al di là di qualche drogato occasionale e di quella famosa banda di spacciatori che non erano ancora riusciti a stanare da nessuna parte, pur sapendo che agiva là intorno.

Già, poteva proprio stare tranquilla...

Superò la pista per lo skateboard e si avvicinò al parco giochi per i bambini. Su una panchina là accanto c’era una ragazzina, con i capelli corti e il viso chino, letteralmente ricoperta da vestiti enormi; proprio in quel momento le sue spalle minute furono scosse da un singhiozzo e lei sollevò le mani nascoste dalle maniche per asciugarsi gli occhi.

Aerith si fermò a guardarla, esitante; sembrava abbastanza grande da badare a se stessa, ma aveva un’aria così fragile e indifesa – sembrava gridarle senza voce una disperata richiesta di attenzione.

«Scusami... Ehi, scusa.»

La ragazzina saltò su come se avesse preso la scossa. La fissò e fece un passo indietro, allontanandosi dalla panchina.

L’agente rimase al suo posto: sapeva per esperienza che con certi ragazzi – e con certe persone – era meglio evitare il contatto diretto, se non si voleva rischiare di vederli fuggire. Le rivolse un sorriso rassicurante.

«Perdonami, non volevo spaventarti. Mi chiedevo solo se non avessi bisogno d’aiuto...»

Lei si rilassò impercettibilmente, ma non rispose.

Aerith si decise ad avvicinarsi con cautela. «Davvero, se posso fare qualcosa per te...»

Si fermò abbastanza vicina da distinguere un paio di grandi occhi azzurri, appena arrossati dal pianto, in un viso chiaro e delicato come ceramica. Dopo una pausa in cui sembrò riflettere sulle sue parole, la ragazza scosse piano la testa.

«No, io... Sto bene.»

Aerith sorrise di nuovo. «Sei sicura? Se hai perso qualcosa... Se hai visto qualcosa che ti ha spaventata...»

Scosse ancora il capo, tirò su col naso e fece un altro passo indietro.

«No, no. Va tutto bene. Mi scusi, devo andare.» Sorrise timidamente. «Grazie mille della sua gentilezza.»

«Oh. Non c’è di che» mormorò Aerith, piano, come a se stessa.

Osservò quella ragazza pallida e triste allontanarsi dal parco giochi deserto, avvertendo una sensazione crescente di disagio.

Una mano sulla spalla e una voce all’orecchio la fecero trasalire.

«Non puoi salvare chiunque ti capiti a tiro, lo sai.»

Sospirò e si voltò a guardare il suo collega con un sorriso stanco. «Tu e il tuo pessimismo. Non capirò mai cosa ci trovino in te le donne, Cloud

«Questione di punti di vista» ribatté lui neutro.

«Aiuto! Aiuto! Presto!»

Aerith si voltò precipitosamente, la mano già pronta sulla pistola sotto la giacca. Vide un altro ragazzo, in t-shirt e tuta mimetica, sfrecciare verso di loro su uno skateboard verde. Era sconvolto.

«Che cos’è successo?» gridò scattandogli incontro.

Il ragazzo balzò dallo skate e continuò a correre verso lei e Cloud.

«Presto, c’è bisogno di un’ambulanza! Qualcuno ha appena sparato a un mio amico!»

 

 

* * *

 

 

Quanto tempo era passato da quando Hayner era andato a cercare aiuto? Non avrebbe saputo dirlo. Il tempo ormai si quantificava solo nel sangue di Roxas, che continuava a scorrere implacabile.

Aveva ancora gli occhi chiusi ma, stranamente, il suo colorito non era affatto pallido. Non fosse stato per il fiore rosso sul blu della sua felpa, si sarebbe potuto credere che dormisse.

Axel non riusciva a smettere di fissarlo e di pensare che era tutta colpa sua.

Lui era piombato nella storia di Roxas, l’aveva portato fuori, gli aveva raccontato chi era. E adesso lo vedeva là, con un proiettile piantato nel fianco, a rischiare di perdere una vita che già era vuota di troppe cose.

Non se lo meritava.

Era tutta colpa sua.

Quel proiettile avrebbe dovuto colpire lui. Forse era proprio lui l’obiettivo, forse Roxas si era solo trovato in mezzo. O forse, quel pezzo di merda di Marluxia – perché era lui, ne era certo – aveva mirato al ragazzino di proposito...

Forse... Se l’aveva seguito... Se l’aveva spiato... Se sapeva...

«... In caso contrario, vuole che tu sappia che Demyx non sarà l’unico a pagare per i suoi errori.»

Ed era tutta colpa sua.

Roxas gemette lievemente. Axel si ritrovò a scostargli i capelli biondi dalla fronte, in un gesto protettivo che sorprese persino lui.

Ecco a cosa aveva portato tutta quella stramaledetta storia. Demyx era in trappola. Zexion era morto. E adesso Roxas...

No, non poteva sopportare nemmeno di pensarlo. Non lui. Lui non lo meritava. Lui era la persona migliore che conoscesse.

Lui era suo amico.

«Tieni duro» gli mormorò all’orecchio, con voce un po’ incerta. «Mi senti, Roxas? Tieni duro. Andrà tutto bene. Non ti lascio andare via. Non te lo permetto. Memorizzato?»

Axel non aveva mai avuto paura nella sua vita, mai sul serio. Si era ritrovato a fronteggiare percosse, minacce, espedienti, rischi. Adesso – soltanto adesso, davanti all’eventualità che Roxas non si svegliasse, che restasse per sempre là immobile tra le sue braccia, spento come era stato il suo sguardo fino a quella mattina – capiva cosa volesse dire davvero avere paura di qualcosa.

In quel momento, Roxas aprì lentamente gli occhi e lo guardò.

Axel si sentì, forse per l’ennesima volta, messo a nudo da quell’azzurro chiaro e finalmente limpido. Cercò di sorridergli, ma lui non era forte come Roxas.

E ne ebbe la conferma.

Il ragazzo sorrise debolmente, quasi a comunicargli che aveva capito il suo tentativo. Poi abbassò di nuovo le palpebre e tornò a sprofondare nell’incoscienza.

Disperato, Axel si chinò su di lui, tenendolo vicino, respirandogli sul viso, sperando di potergli in qualche modo infondere quel calore che stava a poco a poco abbandonando il suo corpo. Chiuse gli occhi, per non vedere quella paura, e gli sfiorò lievemente la fronte con le labbra.

Scese fino alle sue, e là si fermò per un istante di più.

 

 

* * *

 

 

«Fermo dove sei!»

L’uomo si voltò.

Si ritrovò a fissare la canna di una pistola, molto simile a quella che lui stesso aveva in tasca. Ironia della sorte, a puntargliela contro era lo stesso giovane poliziotto che due notti prima aveva visto sparare a Zexion. Non aveva bisogno di voltarsi per intuire la presenza di una seconda persona alle proprie spalle.

Sorrise.

«Mani bene in vista!»

Prima ancora di poter obbedire sentì avvicinarsi la donna, un’altra vecchia conoscenza. Gli piantò la semiautomatica nella schiena e gli frugò le tasche.

L’uomo di fronte a lui gli si avvicinò e parve riconoscerlo solo in quel momento.

«Guarda un po’ chi c’è.» Continuava a tenere la pistola puntata sul suo cuore. «Ti abbiamo trovato, bastardo.»

Marluxia sorrise di nuovo.

«Sei in arresto per tentato omicidio, sfruttamento di minori e spaccio di sostanze stupefacenti.» La voce dell’agente alle sue spalle era chiara e dura, come lo scatto secco delle manette sui suoi polsi. Nulla a che vedere con la tristezza che aveva intravisto in lei nel momento in cui si era chinata sul corpo di Zexion. «Hai il diritto di rimanere in silenzio; hai diritto a un avvocato e ad un regolare processo...»

Marluxia non ascoltò il resto. Si concentrò solo su se stesso, escludendo il mondo.

Ecco a cosa si arriva, quando si è soli…

Un prezzo che però avrebbero pagato almeno in due.

Si augurò che anche quell’inutile moccioso di Axel fosse rimasto solo, adesso. Solo coi suoi rimpianti.

Proprio come lui.

 

 

* * *

 

 

Axel si ritrasse di colpo dal viso di Roxas, confuso.

Non ebbe il tempo di interrogarsi su ciò che era appena successo. Una sirena risuonò da qualche parte oltre i cancelli del parco, seguita da un’altra e un’altra ancora. Hayner doveva essere riuscito a chiamare la polizia o un’ambulanza o tutte e due.

Non riuscì a trovare la forza di sollevare lo sguardo dal ragazzino ancora immobile tra le sue braccia, gli occhi chiusi e il respiro irregolare. Nemmeno quando sentì i passi di una corsa preoccupata, la voce di Hayner, le grida di Olette e Pence.

«Axel, siamo qui! Come sta Roxas

«Roxas

«Roxas

Nemmeno quando sentì i passi di una corsa professionale, le parole lontane e confuse degli infermieri.

Poi qualcuno entrò ai margini del suo campo visivo, e un paio di braccia forti lo separarono da lui.

«Tranquillo, ci occuperemo noi di lui.»

Una voce senza volto per una persona senza importanza.

Axel seguì con gli occhi tutti i movimenti che depositarono il suo amico su una barella, che lo sollevarono gentilmente da terra e che lo allontanarono verso l’ambulanza dalle portiere spalancate. Solo allora si alzò e si decise a seguirlo.

Nessuno glielo impedì, e nessuno avrebbe potuto impedirglielo. Un nuovo sparo non gli avrebbe potuto fare più male di così.

 

 

 

 

 

_________________________________________________________________________________________

 

 

 

 

 

 

 

Le cose più belle devono succedere sempre in contemporanea con le più brutte, ne? ;_; Poveri Axel e Roxas. E povero Hayner. E poveri Olette e Pence. Marluxia no, lui non lo compatisco, è un bastardo e basta. è_é E poi, perché questa non meglio definita ragazzina continua a comparire quando meno la si aspetta?!

Come se non lo sapessi… ^^

Grazissime a ChibiSerenity, Little Duck e _Nick_ per aver commentato il precedente capitolo, a Lycoris per avere aggiunto questa storia alle preferite, e a tutti i lettori che ancora hanno la forza di aprire man mano i miei sconclusionati (in tutti i sensi!) capitoli. Siete unici. <3

Alla prossima!

Aya ~

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Capitolo 23
*** Per chi merita salvezza ***


22

Per chi merita salvezza

 

 

 

Sora strappò un secondo foglio di quaderno, perché il primo era già finito, badando che il professor Xenahort non si accorgesse del rumore; quindi ripose furtivamente il quaderno nello zaino ai suoi piedi e scrisse la risposta a quella conversazione frammentaria che durava da più di un’ora.

 

No, non sono preoccupato. Mi sarei preoccupato se non mi avesse lasciato il messaggio. Se l’ha fatto, significa che non ha avuto problemi ad alzarsi da solo, o almeno non più del previsto. E di questo non avevo dubbi. E non mi preoccupa nemmeno il pensiero che possa essere da qualche parte con Axel, perché se Roxas si è fidato di lui, allora posso fidarmi anch’io.

 

Sempre tenendo d’occhio il prof intento a sorvegliare la prima fila di banchi, piegò il foglio, lo nascose sotto l’astuccio e finse di concentrarsi sulla verifica di storia. Aspettò che il professore gli desse le spalle prima di recuperarlo e spedirlo con un lancio preciso oltre le teste di Tidus e Selphie, sul banco di Kairi.

La ragazza gli rispedì il foglio appallottolato dopo meno di un minuto. Sora lo cacciò in fretta nell’astuccio e ostentando tutta l’innocenza del mondo completò la risposta alla quinta domanda su Re Mickey il Magnifico, sotto gli occhi indagatori dell’insegnante che proprio in quel momento gli passava davanti. Quando si ritenne di nuovo al sicuro da quello sguardo di falco, tirò fuori la pallina di carta e la dispiegò sotto il banco.

 

È bello che la pensi così. Sono fiera di Roxas, ma anche di te.

 

Sora guardò alla sua destra, perplesso. Kairi teneva il mento su una mano e con l’altra picchiettava la penna sul compito, con aria concentrata; i capelli scivolati in avanti su una spalla lasciavano scoperta la curva morbida del collo. Rimase a guardarla per un lungo istante prima di disincantarsi e controllare la posizione del professor Xenahort.

Bene, ancora via libera.

Portò anche la penna sotto il banco e scribacchiò quattro parole.

 

Perché anche di me?

 

Accartocciò il foglio, si sollevò sui piedi e lo rilanciò a Kairi, che si voltò subito e lo afferrò al volo.

Alcuni compagni avevano cominciato da un pezzo a seguire la scena con dei sorrisetti allusivi, ma il prof sembrava ancora ignaro, e questo era ciò che contava. Sora cercò di tornare con la mente al compito, ma non riuscì ad impedirsi di guardare di sottecchi la ragazza che, sorridendo, si stava chinando a scrivergli una nuova risposta.

Poco dopo anche Kairi si sollevò dalla sua sedia e, senza farsi notare da Xenahort, gli rilanciò il biglietto. Sora lo prese e si rifugiò di nuovo al riparo del banco.

 

Alla fine hai lasciato che percorresse la sua strada. E adesso è bello vederti felice per lui.

 

Il ragazzo alzò lo sguardo sull’amica. Stava ancora guardando verso di lui, e gli sorrideva.

Di colpo si sentì arrossire.

Era ancora là incerto se dedicarsi finalmente alla verifica o rispondere a Kairi con qualche frase carina e simpatica quando qualcuno bussò alla porta.

«Avanti» disse il professor Xenahort con voce annoiata.

La porta si aprì rivelando la figura di Yuffie Kisaragi, una ragazza del quarto anno che Sora aveva conosciuto in occasione della sua efficace campagna come candidata al ruolo di rappresentante d’istituto.

«Mi scusi, professore, mi manda la segreteria. Qualcuno ha telefonato per avvertire che Sora Key e Kairi Umiko si rechino al più presto al Good Samaritan Hospital...»

Gli sguardi di tutti, insegnante compreso, si posarono sui due ragazzi chiamati in causa.

Sora si sentì gelare. Ebbe un gran brutto presentimento.

«Come mai?» chiese in fretta a Yuffie, approfittando del silenzio del professore.

Lei lo guardò e si rivolse direttamente a lui, un’ombra di tristezza e preoccupazione negli occhi color cioccolata.

«È per tuo fratello.»

 

 

* * *

 

 

Il dottor Squall Leonhart si infilò un paio di guanti in lattice ed una mascherina, senza smettere di parlare all’infermiera.

«Condizioni?»

«Non buone. Il proiettile è penetrato in profondità e non sappiamo ancora se siano stati danneggiati organi interni. C’è un altro particolare...»

«Vale a dire?»

«Il ragazzo è disabile. Accanto a lui c’era una sedia a rotelle.»

Il giovane medico imprecò a mezza voce. «Maledizione. Aveva già abbastanza problemi, e ora questo.»

L’infermiera non disse nulla.

Leonhart spinse i battenti ed entrò senza aggiungere altro in sala operatoria. Steso sul lettino, circondato da uomini in camice verde pronti a fare di tutto per salvarlo, c’era un ragazzino biondo che dimostrava ancora meno dei quindici anni che gli avevano detto che avesse.

Il medico sentì una stretta al cuore. Aveva intrapreso quel mestiere per salvare vite umane, e giorno dopo giorno si convinceva che al dolore e al male non c’è mai fine.

Aveva già abbastanza problemi, e ora questo. Ed è solo un ragazzo...

Augurandosi ardentemente che quel bastardo figlio di puttana che aveva sparato quel proiettile finisse in galera quel giorno stesso, Leonhart si avvicinò al lettino, pronto a combattere ancora una volta per la vita di una persona che non meritava di morire.

 

 

* * *

 

 

Il tenente Tifa Lockhart si lasciò cadere a sedere alla scrivania e sospirò di sollievo. Quella storia stava finalmente per finire.

«Avete fatto davvero un ottimo lavoro, ragazzi.»

Aerith Gainsborough e Cloud Strife, responsabili della cattura di uno spacciatore e potenziale omicida che pochi minuti prima aveva deposto la sua confessione, le rivolsero sguardi che non esprimevano orgoglio per se stessi, ma soltanto un’identica liberazione.

Tifa si ricompose e li invitò a sedersi con un gesto della mano. «Raccontatemi di nuovo cos’è successo, per favore. Temo che dovremo occuparci anche degli ultimi aspetti della faccenda.»

Strife prese posto su una delle due sedie libere davanti a lei. «Intende il ragazzo che è stato ferito, tenente?»

«Già.» Tifa sospirò di nuovo. «Il nostro Marluxia si è rivelato una specie di esaltato, ma è evidente che non fa mai niente per caso. Se ha sparato ad un ragazzino disabile, deve esserci un motivo. E intendo scoprire qual è.»

Aerith imitò il collega e prese la parola. «Non c’è molto da dire, tenente. Un amico del ragazzo ci ha avvertiti dell’accaduto, e ci siamo subito mossi. Abbiamo chiamato un’ambulanza e siamo riusciti a rintracciare il soggetto prima che lasciasse il parco. Gli abbiamo trovato in tasca pochi effetti, della marijuana e una pistola; aspettiamo di verificare, ma siamo ragionevolmente sicuri che sia la stessa arma che ha colpito il ragazzo. L’unica stranezza è la totale mancanza di una qualsiasi resistenza...»

Tifa annuì. In cuor suo, credeva che quel grandissimo stronzo si fosse reso conto di essere rimasto con le spalle al muro, in tutti i sensi; solo e senza alleati, aveva – forse – compiuto un’ultima vendetta prima di calare le armi. Non interruppe comunque il resoconto dell’agente per dare voce ad impressioni personali.

«In seguito l’abbiamo affidato ad una pattuglia che lo ha condotto qui in centrale» continuò Aerith, «siamo tornati indietro a tranquillizzare gli amici del ragazzino e abbiamo assistito all’arrivo dei soccorsi.»

«Tenente» intervenne nuovamente Cloud Strife, «posso esprimere un giudizio forse azzardato?»

Tifa non poté impedirsi di sorridere. «Amico mio, la lotta al crimine spesso è fondata sui giudizi azzardati. Non leggi i thriller? Parla pure.»

«Al momento dello sparo, insieme al ragazzo c’era un adolescente sui diciotto, diciannove anni.» Strife si mosse sulla sedia, come se il groviglio di pensieri e di cose da capire fosse tale da impedirgli l’immobilità. «La notte dell’attacco alla vecchia villa c’erano quattro persone, ormai ne siamo praticamente certi. Ammettendo che una di loro fosse Marluxia, sappiamo che un’altra è stata catturata e che un’altra ancora è rimasta... coinvolta... nella sparatoria...»

Il tenente annuì di nuovo. Conosceva già tutti i particolari. Il ragazzo ucciso, Zexion, era stato identificato come l’erede diciassettenne di una delle famiglie più in vista di quella zona di Twilight Town, dirigenti di una catena di ristoranti rinomati. Era estremamente triste constatare quanto sembrasse in certi casi inevitabile lasciarsi irretire dalla droga, persino quando si aveva già tutto ciò che si potesse desiderare.

Ma ancora più triste era l’improvvisa durezza negli occhi del giovane agente.

«Cloud» lo interruppe, «quanti anni hai?»

Un po’ stupito dalla domanda, esitò per un istante prima di rispondere. «Venticinque.»

«È stata la prima volta?»

Lasciò in sospeso la domanda, ma lui capì lo stesso. Annuì, senza abbassare lo sguardo.

«Sì.»

Tifa sospirò. A quella prima volta sarebbero probabilmente seguite molte altre in cui quel giovane uomo di legge, come tanti altri prima e dopo di lui, avrebbe dovuto uccidere per non essere ucciso.

Accennò un gesto stanco con la mano. «Ti prego, continua.»

Cloud Strife ricompose le idee e riprese da dove si era interrotto.

«Come dicevo, sappiamo con certezza che l’attacco alla palazzina comprendeva quattro persone. L’ultimo uomo, però, è fuggito. E di lui non si è saputo più niente.» Fece una pausa ad effetto, sottolineando al contempo l’importanza e l’azzardo delle sue ultime parole. «Potrebbe, ed insisto sull’uso del condizionale, trattarsi della stessa persona di cui le ho parlato poco fa. Marluxia potrebbe aver sparato al ragazzino per avvertimento nei suoi confronti, o forse soltanto perché si è trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato...»

Aerith Gainsborough si voltò a guardare il compagno con l’aria di chi era giunto da tempo alla stessa conclusione ed era felice di trovare un altro pazzo che ci credesse.

Dopo una breve riflessione, Tifa si alzò di scatto. Sapeva come muoversi. Era nata per questo.

«Potrebbe, Cloud. In effetti non è solo possibile, ma addirittura plausibile. Ad ogni modo scopriremo presto cosa c’è sotto... Ho intenzione di fare una visita in ospedale. A quel povero ragazzo e a chi era con lui.»

 

 

 

 

 

_________________________________________________________________________________________

 

 

 

 

 

 

 

Tenente Tifa! xD Mi piace immaginarla così. E Leon medico, aww. Considerate che io dei personaggi di Final Fantasy so poco e niente, giusto quello che si intuisce da Kingdom Hearts – è anzi possibilissimo che siano OOC – ma vedete, la polizia è fondamentale in questa storia. Anche perché, nonostante la cattura di Marluxia, siamo ancora lontanissimi dal finale. Perciò avevo bisogno di personaggi che funzionassero in quelle vesti… Non potevo certo ricorrere ad altri membri dell’Organizzazione (come se ne avessi ancora qualcuno a disposizione! ^^)

Brevissime note: i cognomi di Sora e Kairi sono naturalmente inventati di sana pianta; Key è un evidente richiamo al Keyblade, mentre Umiko contiene la parola giapponese umi che si riferisce al mare e il suffisso -ko che vorrebbe significare qualcosa come ‘figlia’, ‘bambina’. Il Good Samaritan Hospital è un ospedale di Seattle, che ho preso in considerazione quando ero ancora dell’idea di trasformare questa fic in un romanzo; ho mantenuto questo nome perché rimanda un po’ all’autoironia con cui Axel si definisce ‘buon samaritano’ quando inizia ad entrare in contatto con Roxas.

A proposito di Axel e Roxas: si è capito che, quando Roxas ha perso conoscenza tra le sue braccia, Axel l’ha baciato? ;P

Ringrazio di cuore ChibiSerenity e _Nick_ per aver commentato il capitolo precedente, nonché tutti i miei lettori dai nervi saldi e dalla pazienza unica. Lo so che mi odiate. Ma io vi adoro; e dico sul serio. <3

Alla prossima!

Aya ~

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Capitolo 24
*** Attesa ***


23

Attesa

 

 

 

‘Coma’. L’unica parola che fosse riuscito a distinguere in quell’intrico di informazioni confuse, strappate agli infermieri che avevano portato via Roxas dal parco.

Qualcuno aveva detto che era in coma.

Axel non sapeva che aspettarsi da quella parola, ma sperava che, qualsiasi cosa Roxas stesse affrontando in quella sala operatoria, finisse presto.

Che finisse bene.

La sala d’aspetto era affollatissima, eppure il silenzio gravava su di loro come un macigno.

Hayner, Pence e Olette, ancora con le loro attrezzature da skateboard. Sora e Kairi, con le divise scolastiche in disordine. E poi lui, che in quel dolore comune a tutti si sentiva un estraneo.

Aveva affondato la testa tra le mani, chinandosi su se stesso, stanco di vedere le lacrime angosciate delle due ragazze, il pallore stravolto di Sora e Pence, i passi nervosi di Hayner che percorrevano su e giù la stanza in cerca di quiete e di risposte che sembravano destinate a non arrivare mai.

Aveva chiuso gli occhi, cercando dentro di sé la forza per affrontare quella situazione, ma non riusciva a pensare in modo razionale. Non ricordava neppure come avevano fatto ad arrivare in ospedale.

Tutto ciò cui era facile fare riferimento era il senso di colpa, il sangue di Roxas, le sue labbra morbide e fredde che ancora scottavano sulle sue...

Avrebbe voluto essere ancora in grado di credere, per poter pregare per la salvezza del suo amico.

Perché, se per lui era tardi, Roxas meritava di salvarsi.

 

 

Fu il tocco esitante e gentile di una mano a riportarlo alla realtà.

«Axel...»

La voce di Sora.

Alzò lentamente la testa. Ancora una volta incontrò quella rassomiglianza con i lineamenti di Roxas. Sora cercò di sorridergli, sotto la paura e la preoccupazione.

«Grazie. Immagino che sia stato tu a chiamarci da scuola...» Prese fiato, e Axel vide distintamente un brivido percorrere il suo corpicino minuto. «E grazie anche per essere stato accanto a Roxas quando... Beh... Lo sai. E grazie per esserci ancora adesso.»

Quelle parole, pronunciate con le migliori intenzioni del mondo, gli penetrarono nel corpo e nell’anima come coltelli. Nessun Marluxia al mondo avrebbe mai potuto fargli altrettanto male, dentro e fuori.

Chiuse gli occhi e chinò di nuovo la testa, tornando ad affondare le mani tra i capelli.

«Non ringraziarmi» mormorò. «Non merito né ringraziamenti né parole di altro genere.»

Intuì la perplessità di Sora senza doverlo guardare.

«Perché dici così?»

Così innocente, così ignaro. Proprio come suo fratello. Che lui aveva messo in pericolo, e che per questo adesso era in quella sala operatoria. Per colpa sua, soltanto sua.

E Sora lo ringraziava.

Strinse gli occhi e scosse il capo. Avrebbe tanto voluto che il ragazzo togliesse quella mano dalla sua spalla.

«Tu non capisci... È colpa mia...»

«Hai mai voluto fare del male a Roxas

Axel alzò di scatto il viso e lo fissò con occhi annebbiati. «Certo che no!»

Inaspettatamente, Sora gli sorrise di nuovo. «Allora, qualsiasi cosa tu voglia dire, non può essere colpa tua.»

Il giovane ammutolì e continuò a guardare quel ragazzino sorridente. Era lo stesso sorriso che aveva visto sul volto di suo fratello, solo poco prima – quanto tempo con esattezza? – e che temeva di non vedere più.

«... In fondo lui è sempre stato più forte di me...»

Forse fu solo in quel momento che capì cosa fosse davvero la forza di Sora, come si manifestasse attraverso il suo sguardo pulito.

Axel tornò a guardare il pavimento, sentendosi sempre più inerme. La lieve pressione sulla sua spalla sparì e il fratello di Roxas si allontanò, lasciandolo ai suoi dubbi e alla voglia inutile di essere qualcun altro.

 

 

Forse erano passate delle ore o forse erano passati degli anni.

Alla fine, le porte si aprirono e un giovane medico dai capelli scuri s’incamminò senza fretta verso di loro.

I cinque ragazzi scattarono in piedi, mentre Axel fissava intensamente quell’uomo come se potesse cogliere dal suo sguardo ciò che stava per dire loro.

Il medico si fermò nella sala d’aspetto e li guardò uno ad uno. «Siete suoi parenti?»

«Io sono suo fratello» saltò su Sora, sempre pallido, ma in tono fermo. «Come sta?»

Axel si accorse di trattenere il fiato.

L’uomo studiò ancora per un attimo il resto dei presenti, evidentemente chiedendosi se per una volta poteva fare un’eccezione e parlare anche davanti a gente che non aveva legami di sangue con il paziente di turno. Alla fine sembrò decidere che non gliene importava nulla. Tornò a guardare Sora e gli rivolse il sorriso caloroso di chi fa il medico perché ama farlo.

«Ce la farà.»

Sollievo...

Caldo sollievo...

Axel tornò a respirare, e quasi non si accorse del flusso di emozioni manifestate dagli altri.

Hayner e Pence esultarono. Olette ricominciò a piangere di gioia. Sora e Kairi si abbracciarono in un curioso insieme di lacrime e risate.

Axel si limitò ad abbandonare la nuca contro il muro e a sollevare lo sguardo al soffitto. Questa volta avrebbe voluto saper ancora credere soltanto per poter ringraziare chi era riuscito a recepire la sua inconsistente preghiera.

Il flusso si calmò a poco a poco, e Sora sciolse l’abbraccio con Kairi per rivolgersi di nuovo al medico.

«Grazie. Grazie davvero.» Gli strinse la mano. «Quando pensa che potremo vederlo?»

L’altro ricambiò il sorriso e la stretta, ma poi scosse la testa. «Temo che dobbiamo ancora aspettare per questo. È uscito dal coma, ma ci vorrà qualche ora, forse qualche giorno, prima che si riprenda del tutto. Nel frattempo, vi consiglio e vi prego di lasciarlo tranquillo il più possibile.»

Axel si fissò le scarpe e rivolse loro un sorriso storto.

Lasciarlo tranquillo.

Se lui l’avesse fatto fin dall’inizio, a quest’ora Roxas non sarebbe stato nella stanza accanto.

Una seconda porta si aprì, ma stavolta non ne uscirono dottori né infermieri. Axel voltò lo sguardo quel tanto che bastava per assistere all’ingresso in sala d’attesa di una giovane donna dai lunghi capelli neri, atletica ed efficiente, che in cuor suo identificò ed etichettò subito.

Agente in borghese.

A conferma del suo pensiero, la donna estrasse un distintivo da una tasca interna della giacca in pelle.

«Salve. Sono il tenente Tifa Lockhart

Il medico si allontanò da Sora per avvicinarsi a lei. «Buongiorno, tenente. Come possiamo aiutarla?»

Prima di rispondere, Tifa Lockhart si guardò intorno, esaminando le facce dei ragazzi. Quando il suo sguardo si posò su di lui, Axel vide qualcosa di simile al trionfo illuminare i suoi occhi.

Subito dopo, la donna si diresse decisa verso la sedia dov’era ancora seduto e gli si fermò di fronte.

«Vorrei scambiare quattro chiacchiere con te» disse, quasi in risposta alla domanda del chirurgo. «Pensi di potermi concedere un po’ di tempo?»

Axel ricambiò l’occhiata, inespressivo.

«Sei ancora dell’idea... di andare a parlare con la polizia?»

«Credo sia l’unica cosa di cui sono davvero sicuro.»

Annuì.

«Va bene.»

 

 

 

 

 

_________________________________________________________________________________________

 

 

 

 

 

 

 

Sono in ritardo ;_; Perdonatemi! Tra casa e accademia è davvero un periodaccio, e certi miei accessi di pessimismo cosmico dinanzi ai più recenti avvenimenti nel mondo non fanno che peggiorare la situazione. Ma in fin dei conti di pessimismo ce n’è già troppo in giro.

Scusate anche la brevità del capitolo, ma meglio così piuttosto che accumulare il sollievo di Axel con tutto ciò che succederà dopo… Ok, lo faccio apposta. xD

Ringraziamenti vivissimi a _Nick_ e infiammabile per le loro recensioni, e di nuovo a infiammabile e a BlackRuri per aver inserito la storia tra le preferite *o* Sono onoratissima, dico davvero. Mi fate felice <3

Alla prossima con – lo giuro! – un capitolo più lungo ed esauriente.

Aya ~

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Capitolo 25
*** Di miracoli e verità ***


24

Di miracoli e verità

 

 

 

Il pozzo buio nella sua mente si diradò, a poco a poco, e in qualche modo Roxas capì che stava tornando alla vita.

Dapprima fu solo un vago odore di disinfettante. Poi un brusio sommesso, un bip appena accennato. Infine un chiarore che si faceva strada sotto le palpebre chiuse.

Cosa gli era successo? L’ultima cosa che ricordava era quella sensazione di freddo, e il dolore al fianco, e il sangue e...

«... Andrà tutto bene. Non ti lascio andare via...»

Aprì gli occhi.

Una stanza bianca, un letto d’ospedale.

Di colpo gli sembrò di essere tornato indietro di due anni, al momento in cui si era svegliato dopo l’incidente che gli era costato due gambe e una famiglia. Che strano, però. Non aveva più pensato neanche per un attimo al suo passato da quando si era alzato dal letto e aveva deciso di affrontare il presente...

Il ricordo improvviso, unito ad un pungente senso di colpa per l’averlo accantonato per qualche ora, lo colpì forte al punto da fargli accelerare il cuore. E se quel battito era una conferma ulteriore al fatto che era vivo, sul momento non avrebbe saputo dire se fosse una buona o una brutta cosa.

Il bip di poco prima si intensificò. Voltando la testa capì che il macchinario che vedeva confusamente accanto al letto era in realtà il monitor che teneva sotto controllo la sua vita.

«Ah, bene. Ti sei svegliato, Roxas

Una voce sconosciuta introdusse una presenza nel suo campo visivo.

Roxas batté le palpebre per schiarirsi la vista e individuò un medico molto giovane, con in volto un sorriso che pareva sincero e non di circostanza.

«Mi chiamo Squall Leonhart e sono il chirurgo che ti ha operato. Desolato per l’intrusione; ma volevo essere presente, quando avessi aperto gli occhi.» Accostò una seggiola di plastica al letto e vi sedette. «Come ti senti?»

Il ragazzo ci pensò su per un attimo. Non sentiva un particolare dolore; ma era come se tutta la parte sinistra del corpo gli mancasse. Si portò la mano destra alla testa ancora così confusa, e nel farlo si accorse dell’ago di una flebo nel braccio.

«Non...» esordì, ma la sua voce si perse da qualche parte sotto il lenzuolo.

Il medico sollevò subito una mano per interromperlo.

«Perdonami. Non parlare, sei ancora debole. Lascia che ti rassicuri: non hai perso sensibilità nella parte sinistra, sono solo gli effetti dell’anestesia prolungata. È stata una lunga battaglia, ma ce l’abbiamo fatta.» Gli sorrise di nuovo. «La prontezza dei tuoi amici ti ha probabilmente salvato la vita. Sei fortunato.»

Roxas guardò il soffitto.

Amici.

Amici che credeva di aver perso da tempo.

Se non fosse stato per Axel...

«Ascoltami» riprese il dottor Leonhart, «so che non dovrei dirtelo ora, che è ancora presto per le forti emozioni... Ma credo sia meglio approfittare di questo momento in cui ancora riesco a tenere a bada tuo fratello e gli altri. Devo parlarti di una cosa che devi essere il primo a sapere, da solo. Per questo ho aspettato che ti svegliassi... D’altro canto, ho la sensazione che tu sia un ragazzo forte. Ne hai decisamente passate tante – troppe, forse, per lasciarti impressionare da quanto sto per dirti.»

Roxas spostò di nuovo gli occhi su di lui. Ora come ora, non si sentiva in grado di emozionarsi per nulla. E per quanto riguardava l’essere forte, beh...

Aspettò che l’uomo continuasse, e gradualmente vide rinascere il sorriso di poco prima.

«Come ti dicevo, è stata una lunga lotta, ma ci ha lasciato intravedere anche delle speranze future. Il proiettile che ti ha colpito ha quasi sfiorato la tua colonna vertebrale, così che abbiamo potuto constatare alcune cose.» S’interruppe, dandogli il tempo di assimilare le idee. «Non voglio annoiarti con inutili nozioni tecniche, perciò verrò subito al punto. Roxas, ci sono serie probabilità che tu possa tornare a camminare.»

Il ragazzo lo fissò, senza sapere bene come prendere la rivelazione.

Una parte di lui avrebbe voluto credergli, tanto.

Un’altra aveva voglia di ridergli in faccia, e forse se non si fosse sentito così esausto l’avrebbe fatto.

Squall Leonhart si alzò all’improvviso.

«Ci credi ai miracoli, Roxas

Quella domanda lo sorprese. Studiò per un attimo il suo volto gentile, i lineamenti vagamente duri di un giovane francamente buono, e cominciò a riflettere.

Sua madre aveva cercato di trasmettergli alcune delle sue credenze cattoliche, ma lui non aveva mai avuto un’idea precisa della religione. Sentiva che c’era qualcosa, qualcosa che l’uomo non avrebbe potuto spiegarsi neppure tra un milione di anni; ma così come non sapeva definirlo, non sapeva nemmeno identificarlo. Perciò adesso non aveva idea di come rispondere al medico.

Si strinse nelle spalle, sperando che lui capisse. E lui capì.

«Quello che ti è successo oggi è qualcosa che gli si avvicina molto, te l’assicuro. Sotto molti aspetti.»

L’uomo voltò le spalle e fece per allontanarsi. Roxas si sentiva troppo provato per mettersi a riflettere sulle sue parole; subito dopo lo vide girarsi di nuovo verso di lui.

«In altre circostanze non te lo chiederei, ma... Desideri vedere subito qualcuno? Tuo fratello, forse?»

Il ragazzo chiuse gli occhi per un attimo.

Un riflesso di verde.

«... Non ti lascio andare via...»

Riaprì gli occhi e prese fiato. «C’è Axel

Leonhart gli tornò accanto, evitandogli di alzare troppo la voce. «Il ragazzo che ha aspettato l’ambulanza con te?»

Roxas annuì.

«In questo momento un tenente della polizia lo sta interrogando. Ma gli farò sapere al più presto che sei sveglio, d’accordo? E anche a tutti gli altri, se per te va bene.»

Lui annuì di nuovo.

«Grazie» mormorò. «Per tutto.»

«Non ringraziarmi. È il mio lavoro.» Il giovane chirurgo gli posò una mano su una spalla. «Nessuno merita di vivere quello che hai vissuto tu. Prendi questo momento come una rivalsa personale sul destino. E adesso riposati.»

Lo seguì con lo sguardo mentre attraversava la stanza, apriva una porta e spariva in un corridoio, in un’altra camera, in un’altra vita e forse in un’altra bella notizia.

Poi chiuse di nuovo gli occhi e sciolse le briglie dei pensieri, cercando di scuotersi dalla spossatezza.

Non si soffermò sulla notizia datagli dal medico, sull’eventualità di tornare a reggersi in piedi. In quel momento gli appariva un’ipotesi troppo remota, troppo inconcepibile. Addirittura superflua.

Si concentrò invece su ciò che gli aveva appena detto di Axel.

Un tenente della polizia...

Evidentemente, uno sparo ad un ragazzo disabile era un fatto su cui indagare. Per la prima volta dal momento in cui aveva perso i sensi, Roxas pensò allo sparo in sé: era stato uno dei vecchi ‘amici’ di Axel a ridurlo in quello stato? Probabilmente sì... Strano, la cosa non gli faceva un grande effetto.

Tutto ciò cui in effetti riusciva a pensare era che, a meno che non avesse cambiato idea, Axel stava per confessare alla polizia il modo in cui aveva vissuto negli ultimi due mesi, e che a quel punto sarebbe andato incontro al suo destino, alla sua personale pena da scontare.

Quando gli aveva comunicato la sua decisione non ci aveva pensato. Ma ora quella domanda lo torturava.

Cosa gli avrebbero fatto?

La stanchezza cominciò ad avere la meglio; il suo respiro si fece più regolare. Prima di addormentarsi risentì all’orecchio le parole di Squall Leonhart.

«Ci credi ai miracoli, Roxas?»

Forse era stato un miracolo a farlo alzare quella mattina e a riportarlo da Hayner e gli altri.

Forse era stato un miracolo a salvargli la vita salvandolo per prima cosa da se stesso.

No. Era stato Axel...

Avvertì all’improvviso una strana sensazione di calore sulle labbra, che non seppe spiegarsi; infine scivolò di nuovo nel sonno ristoratore.

 

 

* * *

 

 

Tifa Lockhart sedeva su una poltroncina in una saletta vuota, attigua a quella in cui aveva trovato la persona che stava cercando – che adesso era seduta di fronte a lei e, senza schermi e senza freni, le stava dando tutto quello che lei voleva. La verità.

Si sporse in avanti verso l’adolescente. «Credi che Marluxia abbia sparato al tuo amico per sbaglio?»

Axel sollevò da terra gli occhi verdissimi e, senza cambiare posizione, le sorrise amaramente di sotto in su.

«Lei crede che si sarebbe fatto scrupoli a sparare a me, dopo aver sbagliato mira?»

Tifa sospirò. Capiva perfettamente. Come lei stessa aveva detto poche ore prima ad Aerith e Cloud, quel bastardo era uno che faceva le cose per bene.

Axel non aspettò una risposta e tornò a scrutarsi i piedi. «Adesso immagino di dover venire con lei al commissariato o dove accidenti è.»

Il tenente Lockhart incrociò le braccia. «Immagini bene.»

Il ragazzo annuì. Poi la guardò negli occhi.

«Posso chiederle un favore?»

«Quale favore?»

«Il tempo di vedere Roxas e di assicurarmi che torni a casa presto.»

Tifa ricambiò lo sguardo. Quelli erano occhi maledetti, occhi che avevano visto il brutto della vita, quello vero, quello che andava ben oltre una turpe e meschina faccenda di droga, senza la paura o il rimorso di sguazzarci in mezzo. Occhi che però avevano fatto una scelta, occhi che non avevano più niente da perdere. E in quegli occhi vide la sincerità e il bisogno di quell’ultima e unica richiesta appena formulata.

Distolse i suoi.

«Forse passerò dei guai per questo.» Si alzò. «Vedremo. Comunque sappi che ti tengo d’occhio.»

Prima di uscire dalla stanza, vide di sfuggita che Axel chinava di nuovo il capo, le spalle mosse da un sospiro silenzioso. Si chiese se avesse ancora da qualche parte la capacità di piangere.

Tifa si chiuse la porta alle spalle, si avviò lungo il corridoio asettico dell’ospedale ed estrasse il cellulare da una tasca. Non le restava che da fare una telefonata.

 

 

* * *

 

 

In tanti anni di lavoro nelle prigioni di Stato, Cid Highwind non aveva mai visto un prigioniero più strano.

Tanto per cominciare, aveva un’aria distinta e colta, una faccia che sarebbe stata più adatta ad un rappresentante o a un altro riccastro del genere piuttosto che al criminale che era in realtà. Così impettito, così elegante. I capelli tinti, la pelle liscia. Per non parlare della camminata.

Capì subito che quell’individuo gli sarebbe sempre stato sul cazzo.

«Allora, posso vedere la mia cella?»

L’uomo gli sorrideva come se niente fosse, neanche parlasse di una suite di un albergo a cinque stelle appena pagata sull’unghia. Cid si chiese se c’era o ci faceva.

«Sei davvero così impaziente di finire in gattabuia?»

Il tizio scosse la testa, disinvolto. «Tutt’altro. Ma sa, non voglio farle perdere tempo.»

Sorrise di nuovo, e Cid ebbe la certezza che lo stesse spudoratamente prendendo per il culo.

Con un sogghigno crudele, gli aprì la porta del corridoio. «Ma prego, vossignoria Testa-di-cazzo. Da questa parte.»

Per nulla impressionato, quello lo precedette lungo la fila di celle da cui si affacciavano molte facce divertite e altre poco raccomandabili e alcune che erano tutte e due le cose insieme.

«Guardate, questo qui ha la puzza sotto il naso.»

«Che bel faccino.»

«Meglio che stia alla larga se vuole tenerselo com’è.»

Risate sguaiate da tutte le parti. Cid vi si unì, ma il suo bislacco compagno non fece una piega.

Si fermarono davanti a una cella vuota. La guardia prese una chiave dal mazzo e l’aprì, quindi si produsse in un inchino esagerato.

«Vi prego, vossignoria, entrate nella vostra nuova dimora. Spero che non soffrirete di solitudine. I ratti dovrebbero risolvere il problema, vi pare?»

Il prigioniero che, gli avevano detto, portava il nome di Marluxia entrò nella cella e si guardò intorno con aria indifferente.

Cid era ben deciso a vendicarsi dell’irritante ironia di poco prima, e continuò a punzecchiarlo.

«Non mi rispondete, mio caro? Ma questo significa che non avete più nemmeno l’arma della parola. Vi hanno sequestrato anche quella, insieme alla robaccia di merda che vi piace dare ai ragazzini?»

L’altro si voltò di nuovo a guardarlo e sorrise.

«Lei non può capire. Chi è solo, sa quando è il caso di calare le sue armi. Tutte quante.»

Cid rimase per un attimo perplesso. Quindi sbuffò, chiuse violentemente la grata della cella e fece segno alle due guardie che erano con lui di seguirlo.

«Venite, lasciamo il signor Testa-di-cazzo alla sua filosofia da quattro soldi.»

Si allontanarono lungo il corridoio, lasciandosi alle spalle un uomo solo e ormai impotente, ma che aveva trovato comunque il modo di mettere a tacere la lingua notoriamente biforcuta di Cid Highwind.

 

 

* * *

 

 

Demyx riagganciò e rimase a fissare il telefono come se fosse un’innovazione tecnologica mai vista prima.

E così, era finita.

Possibile che Marluxia si fosse arreso così presto?

Si allontanò lentamente dall’apparecchio e si lasciò cadere a sedere sul letto.

L’avevano preso. Aveva confessato. E lui, una volta scontata la sua parte di pena, sarebbe stato libero di uscire di nuovo.

Soprattutto, lei era salva.

Un piccolo sorriso gli si affacciò alle labbra a quel pensiero. Si disse che alla fine era solo quello a contare. E che era davvero una bella sensazione, sentire di aver fatto finalmente una cosa giusta.

Non aveva più voglia di espiare con la morte. Ora sapeva che gli era rimasta una cosa da fare, quella più importante.

L’avrebbe ritrovata. E, a distanza di sette anni, avrebbe mantenuto una promessa.

 

 

 

 

 

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Due settimane di puro inferno, tra problemi di salute e di studio e di familiari impazziti… So che suona banale, ma vi chiedo umilmente scusa per la sparizione. Spero non accadrà più ç///ç

Ringrazio davvero tutti i miei lettori; chi inserisce la storia tra le preferite/ricordate/seguite; chi puntualmente commenta con una gentilezza quasi disumana – vi voglio bene, non so cosa farei senza il vostro entusiasmo! <3

E spero soprattutto di non farvi più aspettare tanto, a partire dal prossimo aggiornamento ^^’

Aya ~

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Capitolo 26
*** Di ritorni e risvegli ***


25

Di ritorni e risvegli

 

 

 

Fuori dell’aeroporto, Naminè recuperò il cellulare da una tasca della borsa da viaggio e lo accese.

Pochi giorni prima, quando aveva lasciato la sua scuola alle Destiny Islands – il mondo a parte dove i suoi capelli troppo biondi e la sua pelle troppo bianca erano fonte di stupore per tutti e di alienazione per lei – e aveva organizzato quella che vedeva come una tranquilla vacanza di metà trimestre insieme a Kairi, Sora e Roxas, non avrebbe mai immaginato di ritrovarsi invece nella situazione che sua sorella le aveva descritto al telefono tra le lacrime quella mattina.

Trovò il telefono invaso da messaggi, ma li ignorò tutti e premette subito il tasto per inviare la chiamata.

Kairi rispose al secondo squillo.

«Nami, sei già arrivata?»

«Sì, sono appena uscita dall’aeroporto.» Naminè s’impose la calma e fece la domanda che più le premeva sulle labbra. «Come sta Roxas

Un sospiro di sollievo e liberazione le arrivò direttamente nell’orecchio da una qualche parte della città.

«Sta meglio. Non so se si è già svegliato, ma i medici dicono che l’intervento è andato bene e che non dobbiamo più preoccuparci.»

Naminè rispose con un identico sospiro.

«Grazie al cielo.» Si sistemò la cinghia della borsa sulla spalla e s’incamminò lentamente verso la fermata del taxi. Era ancora inquieta. «Non riesco a credere che... che una... cosa del genere sia successa a lui.»

«Non sei l’unica.» Kairi abbassò la voce. «La polizia ha chiesto di interrogare la persona che era con lui... Naminè, questa storia mi fa una paura tremenda.»

Delle due, Kairi era la sorella maggiore, eppure era proprio Naminè il suo punto di riferimento, quella cui si rivolgeva quando era spaventata o arrabbiata o quando aveva voglia di ricordare i loro genitori o quando non riusciva a smettere di fantasticare su Sora. Naminè la ragazza saggia, Naminè con la testa sulle spalle. Naminè che frequentava una scuola lontana anni luce soltanto perché i suoi avevano voluto così, prima di lasciarle. Naminè che era figlia di un’altra mamma, ma che la madre di Kairi aveva accolto e amato fin dal primo istante. E che, dal basso dei suoi sei mesi in meno, aveva sempre una parola di conforto per la sua sorellastra e migliore amica.

Una parola che in quel momento le mancava.

«Fa paura anche a me, Kairi. Non sai quanto.» La ragazza si fermò sul marciapiede e guardò in strada, aspettando la comparsa di un taxi. «Pensi che possa venire subito in ospedale?»

«Ma sarai stanchissima. Il fuso orario...»

«In questo momento non riuscirei a riposarmi da nessuna parte.»

«Almeno devi prima mangiare qualcosa» tornò all’attacco Kairi.

Naminè avrebbe voluto rispondere che le importava molto di più di Roxas piuttosto che della propria alimentazione. Invece si concesse un piccolo sorriso, il primo da ore, davanti alla sollecitudine di sua sorella.

«D’accordo, ora vedo che posso fare.» Notò un taxi che si avvicinava alla fermata e sollevò un braccio per richiamare l’attenzione dell’autista. «Ci sentiamo più tardi. Se hai modo di vedere Roxas, abbraccialo forte da parte mia. O assicurati che lo faccia qualcun altro, va bene?»

Un sorriso vibrò anche nella voce dell’altra. «Va bene.»

«E... Kairi...»

«Sì?»

«Stai vicina a Sora. In questo momento ha bisogno di te.»

Una breve pausa.

«Tranquilla. Lo farò.»

Naminè la salutò, chiuse la comunicazione e salì in macchina, nella mente le chiare iridi incupite del ragazzo che più di tutti le era mancato. E che aveva rischiato di perdere per la seconda volta.

 

 

* * *

 

 

Kairi ripose il cellulare nella tasca dell’uniforme scolastica. Sora la guardò tornare a sedersi al suo fianco e abbandonarsi contro lo schienale con un sospiro. Sembrava stanca, come tutti.

«Non mi avevi detto che Naminè sarebbe tornata in città.»

Lei gli sorrise tristemente.

«Volevamo farvi una sorpresa.» Distolse lo sguardo e abbassò la voce. «Invece, a quanto pare, Roxas ne ha fatta una a noi...»

«Non è stata colpa sua» mormorò Sora.

Kairi scosse la testa.

«No, lo so. È proprio questa la cosa più brutta.» Si morse il labbro. «Lui non ha fatto niente

Sora capì cosa volesse dire. Roxas non aveva fatto niente, niente di male, eppure qualcuno aveva pensato bene di tentare di ucciderlo. Scosse la testa; non voleva pensarci, non ora.

Nel silenzio che seguì, i due ragazzi lasciarono vagare gli sguardi nella sala d’aspetto, sui volti tirati e pallidi dei tre skater. Hayner, Pence e Olette avevano appena finito di tranquillizzare per telefono le rispettive famiglie; anche Kairi aveva chiamato la nonna per spiegarle la situazione. Sora aveva assistito a quella scena con un sorriso amaro. Lui non aveva nessuno da rassicurare, perché tutto ciò che restava della sua famiglia era lì, in un letto di quello stesso ospedale, reduce da una battaglia tutta nuova tra la vita e la morte.

E se per due anni era riuscito a sopportare quel loro essere soli, oggi si sentiva annientato come e più di suo fratello.

Axel non era più ricomparso da quando aveva seguito il tenente Lockhart in un’altra sala. Sora dubitava che un semplice interrogatorio di circostanza potesse normalmente durare ore. E se la polizia sospettasse di Axel?... No, era assurdo. Lui l’aveva guardato negli occhi, aveva visto la sua disperazione e il suo tormento e anche quello strano, immotivato senso di colpa. Era certo che chiunque avesse incrociato lo sguardo di Axel, quel giorno, non avrebbe potuto sospettare di lui neanche per un istante.

Si scosse da quei pensieri solo quando il giovane medico ricomparve nella sala d’aspetto e li guardò tutti con simpatia.

«Roxas si è svegliato.»

Ogni tentativo di reazione e di richieste fu prevenuto da un gesto del chirurgo.

«È esausto, credo sia meglio lasciarlo riposare ancora un po’. Ragazzi, vi suggerisco di tornare a casa, mangiare un boccone e rilassarvi per quanto vi è possibile. Potrete tornare a trovarlo quando volete. Sento che sto infrangendo decine di regole alla volta, ma l’ospedale per voi è sempre aperto, garantisco io.»

Sora si passò una mano tra i capelli, con un profondo respiro. In realtà avrebbe voluto correre subito nella stanza di Roxas e restare al suo fianco per il resto dei suoi giorni; ma capiva che il medico aveva ragione. Non dovevano stancarlo troppo.

Nel silenzio meditativo di tutti i presenti, si alzò e andò ancora una volta a stringere la mano all’uomo che senza saperlo aveva salvato anche lui.

«Io non so davvero come ringraziarla, dottore.»

Il medico sorrise e scosse lentamente il capo, come a dire che non c’era bisogno che continuasse.

«Puoi chiamarmi Leon. E mi basta essere riuscito a fare qualcosa per tuo fratello.»

 

 

Hayner, Olette e Pence erano già usciti dalla porta a vetri, un po’ sollevati, e Kairi lo aspettava con il battente aperto, quando Sora si sentì richiamare indietro dal dottor Leonhart.

Si voltò e si riavvicinò subito a lui, allarmato. «Cos’è successo? C’è qualche problema?»

L’altro scosse ancora la testa, con un sorriso rassicurante.

«No, è tutto a posto. Penso solo che tu debba sapere una cosa.» Abbassò la voce, ma il suo tono non si fece grave. Solo confidenziale. «Poco fa, quando si è svegliato, ho chiesto a Roxas se se la sentisse di vedere qualcuno. Lui ha fatto il nome di quel ragazzo, Axel. Ho ritenuto opportuno fartelo sapere; è normale che tu voglia essere il primo a...»

Sora aveva capito da un pezzo dove quel discorso sarebbe andato a parare. Stavolta fu lui a sorridere e a scuotere il capo.

«No, è giusto così. È ovvio che Roxas voglia vedere Axel. Non soltanto perché erano insieme quando... quando è successo.» Deglutì e si sforzò di proseguire senza cambiare tono. «Per me non c’è problema, davvero. Quando vede Axel, può dirgli che...»

Proprio in quel momento, la porta oltre la quale l’adolescente era sparito alcune ore prima con Tifa Lockhart si riaprì, e lui ricomparve.

Aveva gli occhi bassi e rossi e Sora pensò che avrebbe pianto, se solo avesse avuto l’aria di una persona ancora in grado di piangere.

Si allontanò da Leonhart, e andò lui stesso a parlare ad Axel.

 

 

* * *

 

 

Quando la donna l’aveva lasciato solo in quella sala, gli ci erano voluti svariati minuti per riprendersi.

Alla fine l’aveva fatto davvero: aveva parlato con la polizia. In circostanze diverse da quelle che aveva immaginato, certo, ma l’aveva fatto. E ora non sentiva né caldo né freddo, né bene né male.

Soltanto una strana spaccatura, uno squarcio interiore che ancora non riusciva a giustificare.

In sala d’aspetto, Axel fu costretto ad alzare lo sguardo quando si accorse di una presenza di fronte a sé.

«Axel... Roxas ha ripreso conoscenza.»

Fissò gli occhioni blu di Sora senza capire. Il ragazzino sorrise e proseguì, non notando o forse ignorando la sua confusione.

«Io sto andando via, adesso. Ti va di salutarmelo e... e di dirgli che siamo tutti con lui?»

Axel rimase attonito a guardarlo.

«Io?»

«Sì, tu.»

No, lui non aveva il diritto di essere così vicino a persone così migliori di lui.

Poi al fianco di Sora comparve da chissà dove la sua amica, Kairi, anche lei sorridente.

«Se ti va» aggiunse, «dagli anche un abbraccio e digli che è da parte di Naminè. E che verrà presto a trovarlo.»

Axel guardò da Kairi a Sora e viceversa. Occhi uguali, stessi sorrisi. Così maledettamente simili a...

Non trovando le parole, annuì, e a loro sembrò bastare.

Si congedarono dal medico, che aveva assistito in un discreto silenzio, e attraversarono la sala fino a sparire oltre i vetri della porta principale della hall.

Dopo un minuto lungo una vita, Axel guardò il chirurgo, che gli sorrise e gli indicò l’imbocco di un corridoio alle sue spalle.

«Prego, da questa parte.»

 

 

 

 

 

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Mai una volta che mi riesca di essere puntuale ;_; Oh, be’. Vi ringrazio tutti per non avermi ancora assassinata nel sonno xD

Ma vi spettano ringraziamenti lunghi ed esaustivi, e vi giuro che tenterò in ogni modo di rispondere ai vostri commenti in modo decente, da questo aggiornamento in poi.

Grazie ancora, davvero ^^

Aya ~

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Capitolo 27
*** La cosa giusta ***


26

La cosa giusta

 

 

 

Ripercorso il corridoio, Squall Leonhart sbucò in un’altra sala dell’ospedale, dove avrebbe potuto provare finalmente il lusso del primo caffè della giornata. Si diresse al distributore automatico a testa bassa, cercando nelle tasche del camice una qualche moneta da inserire in quell’odiosa macchina; quando la trovò e si risolse ad alzare lo sguardo, vide che già qualcun altro stava combattendo la stessa battaglia.

La donna che gli si era presentata come il tenente Tifa Lockhart aveva appena ottenuto un caffè ristretto. Vide Leonhart e gli rivolse un cenno di saluto con il capo; quindi si dedicò a berlo così com’era, amaro e bollente, un’espressione esausta dipinta sui lineamenti giovani e avvenenti.

Il medico si avvicinò al distributore e inserì la moneta nella fessura, rispondendo al saluto di lei.

«Giornata dura, mi pare.»

Tifa Lockhart ingollò un sorso di caffè e alzò gli occhi al cielo. «Non può neanche immaginare quanto.»

Leon sorrise al bicchiere che si andava riempiendo. «Crede? Nemmeno la mia è stata rose e fiori, gliel’assicuro.»

Lei sospirò, scuotendo insieme la testa e i lunghi capelli neri.

«No, certo. Mi perdoni, dimenticavo che anche lei ha le sue grane. Quel povero ragazzo...» S’interruppe, come se temesse di aver parlato troppo, e si concentrò in un altro sorso. «Spero solo che la sorte lo lasci un po’ in pace, d’ora in poi.»

«Lo spero anch’io» convenne il chirurgo, zuccherando il suo caffè macchiato. «Ma questo dipende, in una certa misura, anche da noi.» Guardò la donna oltre il bordo del bicchiere. «Lei è ancora qui perché sta sorvegliando l’amico del mio paziente, non è così?»

Il tenente Lockhart distolse subito lo sguardo, evidentemente imbarazzata.

«Dottore, saprà meglio di me che in questi casi la riservatezza è...»

«Oh, mi creda, so benissimo cosa sta per dirmi» la interruppe gentilmente Leonhart. «E in quanto medico, so benissimo che anche lei ha le sue... grane, per prendere in prestito le sue parole. Ma c’è una cosa che ci terrei a sapere, alla luce della speranza che lei stessa ha appena espresso.» Si concesse a sua volta un sorso di caffè prima di continuare. «Vorrei sapere se ho appena compiuto una stupidaggine, facendo entrare quel giovane nella camera dove quel ragazzino sta riposando. Glielo chiedo come medico e come uomo.» Allargò le braccia, con un nuovo sorriso conciliante. «Scelga pure la parte di me che preferisce, tenente.»

Tifa Lockhart sospirò e distolse nuovamente gli occhi. Finì di bere il suo caffè, accartocciò il bicchiere di plastica con la mano e lo lanciò nel cestino. Solo allora si decise a rispondere.

«No. In fin dei conti, non credo che lei abbia compiuto una stupidaggine.» Voltò le spalle e sollevò una mano. «Buona giornata, dottore.»

«Buona giornata a lei.»

Leon la seguì con lo sguardo mentre usciva dalla stanza, bevendo in silenzio il suo caffè.

 

 

* * *

 

 

Era una stanza spoglia e anonima, bianca e vuota. Dalle tapparelle abbassate per metà filtrava la luce dorata di un tramonto di aprile, che andava a sfiorare come una carezza la guancia di Roxas, profondamente addormentato con il viso rivolto alla finestra e un braccio abbandonato sullo stomaco. Ai due lati del letto, un’asta con una flebo e un monitor che esibiva il battito regolare e tranquillo del suo cuore.

C’era anche una seggiola di plastica, e Axel vi si diresse lentamente, mentre il malessere dentro di lui s’intensificava.

Roxas non si svegliò ai suoi movimenti silenziosi; continuò a dormire con l’aria serena di un bambino. Axel si protese verso di lui e, come aveva fatto molte ore prima, gli scostò senza un motivo i capelli dagli occhi.

Capì in quel momento la ragione del proprio abisso interiore.

Non era, come aveva ipotizzato tra sé, la paura di una condanna, delle conseguenze della sua confessione.

Era il timore di essere separato da quel ragazzino, dal suo amico, dall’unica cosa buona che avesse mai avuto, all’improvviso e in così poco tempo.

Proprio adesso che...

Roxas strinse gli occhi e poi li aprì.

Quando lo mise a fuoco e lo riconobbe, le sue labbra si distesero in un pallido sorriso.

«Che fai con quella mano alzata?»

Una voce un po’ roca e impastata dal sonno. Ma era la voce di sempre, senza toni di accusa o note che tradissero dolore.

Axel sogghignò, abbassò prontamente la mano su di lui e gli frizionò piano la tempia con le nocche.

«Controllavo la presenza di eventuali bernoccoli, ma è difficile carpire la differenza, con la testa dura che hai.»

Roxas si portò la mano destra alle palpebre e se le strofinò. Axel ritrasse la sua.

«Come ti senti?»

Il ragazzo tornò a guardarlo, senza smettere di sorridere.

«Ho il fianco ancora un po’ addormentato» mormorò. «Mi toccherà chiederti il secondo favore in...» Sembrò ricordarsi di qualcosa. «Quanto tempo è passato?»

Axel guardò l’ora sull’orologio appeso a una parete. «Più o meno dieci ore. Sei stato bravo, hai fatto in fretta.»

Roxas non rilevò il complimento. «Il secondo favore in meno di un giorno, allora.»

«Vuoi un altro appuntamento?»

Lo vide affondare il viso nel cuscino. Con sua sorpresa, invece di uno sbuffo imbarazzato gli arrivò una risatina sarcastica.

«Dammi almeno il tempo di riprendermi dal primo.» Poi alzò lo sguardo e, con l’aria più serena del mondo, gli fece una richiesta che – Axel ne era certo – il giorno prima si sarebbe ingoiato la lingua pur di non fare. «Mi aiuti a sollevarmi?»

Axel perse subito l’atteggiamento ironico, ma ci mise un secondo a riacquistare un sorriso in cambio del suo.

«Certo.»

Si alzò, si chinò su di lui e senza alcuno sforzo riuscì a sollevarlo a sedere contro la testiera, evitando in tutti i modi di fargli male. Quindi si sedette sul bordo del letto, di fronte a lui, e a quel punto si ricordò delle parole di Kairi.

«Ah, già... Devo fare una cosa. Non spaventarti, eh.»

Si sporse di nuovo verso di lui e lo circondò con le braccia.

Roxas rimase per un attimo interdetto, poi sbottò contro la sua spalla.

«Ma che cavolo fai?!» disse, con voce appena un po’ più alta di poco prima.

Axel si ritrasse e sogghignò di nuovo. «Da parte di una certa Naminè, che ti abbraccia e che ti verrà a trovare presto.»

Roxas arrossì e lo allontanò, usando sempre la mano destra.

«Non è che devi prendere tutto alla lettera, sai?» sbuffò.

«Te l’ho già detto che sei un seduttore?» fece Axel di rimando, picchiettandogli la fronte con l’indice. «Prima Olette, adesso Naminè. Chi sarebbe questa Naminè, me lo spieghi?»

Sotto il rossore, il biondino ricambiò il ghigno. «Che c’è, sei geloso?»

La sua partecipazione al gioco ebbe l’effetto di far capire ad Axel che era arrivato il momento di smettere di giocare.

Si tirò indietro sul letto e incrociò le braccia.

«Ma perché fai così?»

Roxas sembrò capire subito. Tornò serio.

«Guarda che hai cominciato tu.»

Axel scosse la testa. «Non mi riferivo a questo.»

«E allora che vuoi dire?»

«Perché non mi dici che è tutta colpa mia e che se non fosse per me tutto questo non ti sarebbe mai successo? Forse staremmo meglio tutti e due, se me lo dicessi. Perché è la verità, è così.» Non poté impedirsi di distogliere lo sguardo, di abbassare la voce a un sussurro. «Dovresti odiarmi.»

Calò un silenzio di riflessione, forse da entrambe le parti.

Alla fine, Roxas sospirò.

«Forse dovrei.» Cominciò a spostare le coperte, finché riuscì a scoprirsi buona parte delle gambe. «Axel, le vedi queste?»

Riluttante, l’adolescente abbassò gli occhi all’altezza delle sue ginocchia. Era la prima volta che gli guardava apertamente le gambe da quando si erano conosciuti. Sembravano normali, come sempre. Nessuno che fosse entrato in quel momento nella stanza avrebbe mai detto che non poteva muoverle. Annuì a malincuore.

«Beh, queste mi ricordano quello che ho perso. È una cosa che mi fa malissimo, e lo farà sempre. Ma in qualche modo, so che non è colpa mia. Tu, invece» e qui Roxas gli sfiorò la spalla rabberciata, provocandogli un immediato disagio, «hai questa a farti ricordare. Tutto quello che devi fare è impedire che questa cicatrice diventi una tua colpa. E devi impedire soprattutto che prenda lo stesso significato di questa qui» continuò portandosi la mano al fianco sinistro. Axel incrociò il suo sguardo e vide che sorrideva di nuovo. «Se anche il fatto che io ora sia qui in questo letto diverrà una tua colpa, sappi che allora ti odierò. E non sto scherzando.»

Axel chinò di nuovo lo sguardo, con un sorriso storto.

Decise di cambiare argomento.

«Ho parlato con la polizia» disse.

«Lo so. Il chirurgo me l’ha detto.»

«L’hanno preso. Marluxia. Quello che ti ha sparato.»

Silenzio.

«E, beh, ho detto loro del mio coinvolgimento. Ho detto che l’obiettivo di quel proiettile ero io.» Aveva appena mentito, sì; non riusciva a dirgli come la pensava davvero al riguardo. Andò avanti e basta. «Mi hanno lasciato un po’ di tempo, ma quando starai bene dovrò consegnarmi.»

Ancora silenzio.

Axel tornò a sedersi sulla seggiola, e guardò Roxas solo quando lo sentì parlare.

«Non possono farti nulla.»

Gli sorrise. «Sentiamo. Cosa te lo fa dire?»

«Ci ho pensato. Non possono farti nulla. Tu hai fatto parte della banda, va bene, ma non in modo così... attivo. E lo dimostra il fatto che quel ragazzo... Demyx, giusto?, non abbia parlato di te. Se così fosse, la polizia avrebbe saputo chi eri da molto prima di oggi.»

Axel lo fissò interdetto. Di sicuro ci aveva rimuginato parecchio. Cercò di recuperare un filo di ironia.

«E chi ti dice che io non ti abbia mentito, quel giorno al parco?»

Roxas ricambiò lo sguardo, sorpreso. «E perché avresti dovuto farlo?»

Cadde un nuovo silenzio, stavolta perché l’adolescente non aveva più parole.

Infine, il ragazzino gli sorrise ancora. «Hai fatto la cosa giusta, Axel. Con me l’hai fatta di sicuro.»

E Axel capì che per quel sorriso, per tutto ciò che aveva guadagnato in quei pochi giorni di primavera, valeva la pena di affrontare tutti gli interrogatori e tutte le confessioni del mondo.

 

 

* * *

 

 

«Hai fatto una cosa molto bella, Sora.»

Camminavano vicini sul marciapiede che ogni giorno percorrevano al ritorno da scuola. Il crepuscolo allungava le loro ombre al suolo, come ad allontanarle, a risparmiare a quei miseri riflessi la sofferenza e la confusione che i due corpi cui stavano incollate si portavano addosso.

Sora si voltò a guardare Kairi. La luce del sole morente sembrava giocare nei suoi capelli ramati.

«Perché? Cos’ho fatto?»

La ragazza ricambiò l’occhiata con un lieve sorriso.

«Dai, non fare il tonto. Lo sai benissimo.» Quasi volesse concedergli riservatezza mentre gli faceva quel complimento, distolse di nuovo gli occhi da lui e li puntò sulla strada. «Ti sei fatto da parte per una persona che è quasi un totale sconosciuto. In cuor tuo vorresti essere con Roxas, in questo momento, eppure non hai fiatato quando è stato evidente che lui voleva qualcun altro accanto a sé... È una cosa molto bella da parte tua.»

Sora si guardò i piedi, a disagio.

«Non è vero. Ho fatto solo quello che credevo giusto.» Sorrise, ma fu lieto che Kairi non stesse guadando la tristezza di quel sorriso. «Forse è solo che non voglio più che Roxas viva a modo mio. Forse sto solo rispettando quello che vuole lui, adesso. Sempre che non sia tardi per questo...»

«Sono certa che non lo è.»

I passi di Kairi si fermarono. Sora alzò il viso e si accorse che erano arrivati all’incrocio. Si fermò anche lui.

«Vai a casa?»

Si guardarono e si sorrisero con aria colpevole. Avevano parlato contemporaneamente.

«Avevo intenzione di stare un po’ con la nonna e con Naminè. Potresti...» Kairi si morse il labbro inferiore, incerta. «Potresti venire da me, stasera.»

Sora si sentì avvampare. Ringraziò mentalmente la luce rosseggiante del crepuscolo che avrebbe nascosto il suo rossore.

«Stavo per chiederti la stessa cosa» confessò. «Lo sai, è che... Quell’appartamento è così grande... E senza Roxas...»

Kairi posò la mano sulla sua, rendendolo ancor più nervoso.

«Non sei solo, Sora» gli disse dolcemente. «Non lo sei mai stato. Ci sono io con te.»

Non c’era bisogno di altre parole.

Ripresero a camminare, e a poco a poco la sua stretta sulla mano di lei si fece più sicura.

 

 

 

 

 

_________________________________________________________________________________________

 

 

 

 

 

 

 

Dite la verità, l’accenno Leon x Tifa proprio non ve lo aspettavate. Lo so, sono un genio del male. u__ù x’D

(Colgo l’occasione per specificare che, anche se lo chiamo con il suo nome originale in Final Fantasy, Squall Leonhart, a lui comunque piace farsi chiamare Leon anche da me, perciò non è che le mie siano sviste. Rispetto solo il suo volere. ^^)

Un altro piccolo appunto sui pairing: all’epoca in cui scrissi questa storia sostenevo molto il Sora x Kairi; a distanza di molto, molto tempo posso dire di essermi definitivamente convertita al Riku x Sora, però non ho avuto cuore di modificare questa cosa. In qualche modo mi sembrava importante. Perciò passatemi quella svampita di Kairi, ok? Non è che sia poi tanto presente, alla fine. :P

Per il resto… Beh, pian piano le cose tra Axel e Roxas si stanno smuovendo, e vi giuro solennemente che Axel non resterà lì a rimuginarci su in eterno xD

Grazissime a chiunque stia leggendo codeste parole, per la mia infinita felicità. <3

Questa volta sono stata regolare con l’aggiornamento, ne? Spero di esserlo anche per il prossimo! ^^’

Aya ~

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Capitolo 28
*** Demoni o angeli ***


27

Demoni o angeli

 

 

 

Roxas si svegliò sereno. Doveva essere il primo risveglio tranquillo da molto tempo.

Piuttosto paradossale che gli capitasse proprio ora, ma tant’era.

Intuì che era molto presto; la debole luce che filtrava sotto le sue palpebre era meno che smorta. Senza aprire gli occhi, soffocò uno sbadiglio e mosse appena un braccio, per poi accorgersi che era quello sinistro. Finalmente aveva di nuovo sensibilità. In quel momento avvertì anche uno strano peso sul fianco.

Aprì gli occhi.

La prima cosa che distinse, nella penombra della camera d’ospedale, fu una macchia di rosso all’altezza del suo stomaco. Batté le palpebre finché poté riconoscere la figura di Axel, appoggiato a lui, la testa abbandonata sulle braccia conserte.

Ricordò che la sera prima non era voluto tornare al condominio, che era rimasto accanto al suo letto per tutto il tempo – «Dove diavolo andresti a finire senza di me, bimbo?» – e che a lui aveva fatto molto più piacere di quanto fosse disposto ad ammettere.

«Di’ la verità» aveva sorriso, «lo fai solo per rimandare la tua ora.»

«Mai detto il contrario» aveva sogghignato Axel.

Ma era evidente che, qualunque cosa fosse a muoverlo, era qualcosa che faceva bene a entrambi. Era sempre stato così, fin dall’inizio. Nonostante tutto.

Axel si mosse appena sulla sua seggiola, scivolando ancora di più su di lui fino a posare la guancia sulle coperte. Persino quando dormiva aveva quell’aria da cattivo ragazzo, da anima dannata.

Roxas sorrise. Chi l’avrebbe mai detto che proprio un’anima dannata, oltre a metterlo in pericolo e ad aprirgli gli occhi su un mondo sconosciuto, sarebbe stata l’unica in grado di salvarlo dai suoi fantasmi?

Lasciò vagare lo sguardo sulla sua figura addormentata. Forse avrebbe dovuto aspettarselo, si disse. Era piuttosto normale, in fondo, che soltanto un demone uscito dall’inferno avesse il dono di scacciare demoni provenienti da un posto altrettanto remoto.

Da quando aveva deciso di tornare dagli Hawk Runners, una mattina o un’esistenza prima, non aveva quasi più pensato alla sua condizione, a tutto ciò che per due anni lo aveva distolto da tutto il resto. Quando aveva rivisto Hayner, Pence e Olette si era imposto di non crollare, di sopravvivere alla vista delle loro tavole e al ricordo dei suoi genitori che lo guardavano volteggiare su una rampa con occhi lucidi e fieri.

Era questo che si provava a lasciarsi l’è stato alle spalle, a concentrarsi sul può essere, a vivere come Sora?

«Mamma e papà non vorrebbero questo, lo sai.»

Roxas sospirò. Non sapeva se era in grado di portare fino in fondo quella scelta. Lui non era mai stato come Sora...

Però, se non altro, vedendo cadere Axel gli era venuta voglia di rialzarsi con lui.

Chiuse di nuovo gli occhi.

«Ci credi ai miracoli, Roxas?»

Perché doveva essere così difficile crederci?

Gli venne in mente che non aveva ancora detto ad Axel dell’eventualità di cui gli aveva parlato il chirurgo. Avrebbe dovuto essere la cosa più facile da affrontare, in confronto a tutto il resto; invece era l’unica che ancora non riusciva a concepire.

Proprio come era stato in quel momento in cui si era ritrovato in piedi a urlare contro di lui.

Da qualche parte intorno al suo stomaco giunse un respiro un po’ più forte.

Aprì gli occhi e guardò di nuovo Axel.

«Ci credi ai miracoli, Roxas?»

Una volta, quando aveva sette anni, sua madre gli aveva parlato degli angeli custodi, presenze invisibili che vegliavano sulle persone e nei momenti più bui tenevano loro compagnia e le ascoltavano e le curavano e le aiutavano a rimettersi in piedi dopo una brutta caduta.

Gli sfuggì un risolino. Axel, un angelo custode?

E dire che poco prima aveva pensato a lui come a un demone.

Scosse la testa e alzò lo sguardo verso quegli assurdi macchinari di cui non ci teneva a sapere il nome. Il suo cuore non era più sorvegliato; già la sera prima, dopo avergli personalmente e scrupolosamente applicato delle bende pulite sulla ferita al fianco, il dottor Leonhart aveva ritenuto di poter staccare quel monitor, affermando anche che se le cose fossero continuate a migliorare lo avrebbero al più presto spostato in una stanza normale. L’unico filo che gli avessero lasciato addosso era quello della flebo. Così privo di impedimenti, si disse che poteva provare ancora una volta a sollevarsi da solo.

Spostò il cuscino contro la testiera del letto, e si mosse con molta lentezza e cautela fino ad appoggiarvisi con le spalle. Durante quelle manovre, Axel scivolò lontano da lui e, senza svegliarsi, gli si riaccostò subito al fianco, come un gatto che perduta la fonte di calore su cui si fosse accoccolato si allungasse a cercarla di nuovo.

In posizione semiseduta, Roxas non si sottrasse alla vicinanza dell’amico. Si voltò verso la finestra e intravide dalle tapparelle il colore grigio che precedeva l’alba.

La nascita di un nuovo giorno indica sempre nuovi inizi.

Si chiese cosa stesse per iniziare adesso, e si augurò che fosse meglio di ciò che era stato finora. Per sé, ma anche per Axel.

 

 

* * *

 

 

Squall Leonhart guardò esitante la ragazza bionda che gli stava di fronte.

Aveva aspettato la fine del turno per tutta la notte; dopo le ore di lavoro prolungate per via dell’assenza di un collega, sognava la tranquillità della sua casa vuota quasi quanto il primario Sephiroth sognava la pensione. E ora che stava finalmente per levare le tende, gli si presentava una ragazzina avvolta in un vestitino bianco, molto somigliante a una bambola di porcellana, che gli chiedeva di poter vedere – all’alba – il ragazzo che lui aveva recentemente salvato dalla morte.

«Ascolta, non credo che sia il caso. Ho già fatto un’eccezione, permettendo a un suo amico di restare a dormire.» Ne ho fatte fin troppe, di eccezioni, nelle ultime ventiquattr’ore. «Ed è troppo presto per le visite...»

La ragazza sorrise dolcemente.

«Lo so, mi dispiace. Sarei voluta venire ieri, subito dopo essere atterrata...» Gli si avvicinò, e Leonhart vide i segni della stanchezza sul suo bel visetto. «La prego, dottore. È così tanto tempo che non lo vedo. Sarà già dura in sé, dopo quello che è successo... Per favore

Leon la soppesò per un attimo con lo sguardo, una ragazza arrivata da chissà dove, che ancor prima che il sole sorgesse aveva rivolto il suo primo pensiero ad un amico, e che aveva gli occhi più espressivi che avesse mai visto.

Lasciò sulla scrivania la giacca che aveva già afferrato per uscire e la precedette fuori del suo studio, in corridoio.

«Vieni, ti accompagno.»

 

 

* * *

 

 

La scena era davvero molto simile ad una che avevano già vissuto.

Seduto in un letto non suo, Roxas guardava con aria assorta la finestra che rendeva il buio penombra. L’unica nota dissonante era una presenza inedita, un adolescente dai capelli rossi, seduto accanto al letto e addormentato con le braccia incrociate al fianco del ragazzo.

Naminè si fermò sulla soglia e aspettò in silenzio che il suo vecchio amico si accorgesse di lei, cercando di non sentirsi di troppo.

Quando Roxas si voltò e la vide, non diede alcun segno di sorpresa o d’altro che testimoniasse il tempo passato. Soltanto, sorrise.

Un sorriso che, Naminè ne era certa, non aveva, l’ultima volta che si erano visti.

«È un brutto momento?»

Roxas scosse la testa. «No, vieni. Sono contento di vederti.»

La ragazza si avvicinò al letto, mascherando quel che c’era dietro il proprio, di sorriso, perché sapeva che a lui avrebbe fatto male vederla triste.

«Anch’io sono contenta di vederti. Ma avrei preferito un altro contesto.»

Roxas non cambiò espressione e alzò leggermente le spalle, in un chiaro gesto di che-ci-vuoi-fare. Naminè non riusciva a smettere di guardarlo negli occhi: sapeva che li avrebbe trovati cambiati, l’aveva intuito da quel poco che Kairi le aveva detto; ma certo non si era aspettata che fossero così... sereni ed esposti, privi di qualsiasi barriera.

In quel momento, il ragazzo sembrò ricordarsi della presenza di una terza persona nella stanza; dopo una breve occhiata al compagno, che non dava segno di aver sentito le loro parole e continuava a dormire praticamente appoggiato a lui, tornò a guardarla con un sorriso un po’ imbarazzato.

«Ho ricevuto il tuo abbraccio. Grazie.»

Naminè si sedette quasi ai piedi del letto, senza mai guardargli le gambe, per portare gli occhi all’altezza dei suoi. Fissò a sua volta il giovane tra loro.

«Immagino sia stato lui a consegnartelo.»

Roxas sospirò e abbassò di nuovo lo sguardo. «Già. È stato quest’idiota.»

Naminè si stupì della nota di divertita complicità nella sua voce, ma non lo diede a vedere.

«Ed è stato sempre lui a farti uscire da quell’appartamento.»

A questo Roxas non rispose. In fondo, non era una domanda.

La ragazza continuò a mezza voce, rispettando tanto il sonno dello sconosciuto quanto il silenzio dell’amico.

«Non ho idea di chi sia questo... idiota, come l’hai appena chiamato. Ma se ha saputo esserti così vicino, forse non è tanto un idiota.» Sorrise ancora. «Deve essere una persona importante per te.»

Roxas alzò lentamente gli occhi e la guardò per un attimo, come studiando lei o la domanda o entrambe. Alla fine arrossì e sorrise in modo quasi colpevole.

«Credo di sì» mormorò.

Naminè guardò di nuovo il rosso addormentato, chiedendosi cosa nascondesse dietro quei lineamenti sottili e quell’aria cupa, quali e quante abilità fossero state in grado di vincere le resistenze di Roxas. Quando alzò lo sguardo, vide che il ragazzo aveva chinato il suo e si passava stancamente una mano sugli occhi.

«Mi sento in colpa, Naminè

Restò in silenziosa attesa. Continuando a fissare il lenzuolo steso sulle sue gambe, gemello di un lenzuolo di un letto di due anni prima, Roxas prese fiato e coraggio e proseguì.

«Ieri mattina ho deciso di uscire perché volevo rivedere Hayner e gli altri. Perché... qualcosa mi aveva convinto che non ci vuole un paio di gambe per affrontare la realtà. E soprattutto, non volevo perdere la loro amicizia solo perché non potevo più usare uno skate.» S’interruppe, e Naminè immaginò che, se solo avesse potuto piegare le ginocchia, lo avrebbe fatto pur di seppellirvi il viso. «Credo sia stato l’unico giorno in due anni in cui non abbia pensato a quel maledetto incidente. E sai la cosa più buffa?» Chiuse gli occhi e fece una smorfia, come se non ci fosse proprio niente di buffo in ciò che stava per dire. «Il chirurgo che mi ha tolto dal fianco quel proiettile sostiene che c’è la possibilità che io torni a camminare.»

Naminè non reagì in alcun modo a quella rivelazione inaspettata.

Capì subito quale fosse la ‘colpa’ di Roxas. Ma voleva che fosse lui a parlarne apertamente, che si liberasse di quel peso che gli aveva impedito di vivere per due anni.

E Roxas lo fece. La guardò negli occhi e sciorinò la sua ammissione.

«È che mi sembra di tradirli. Di tradire loro e i miei ricordi. Non posso affrontare tutto questo: l’aver ritrovato Hayner, Olette, Pence, e forse anche una speranza. Mi fa sentire troppo... in colpa.»

Calò il silenzio che segue ogni confessione difficile. Tra di loro, il respiro regolare del giovane dai capelli rossi.

Naminè sovrappose a quel suono la propria voce tranquilla.

«Tu non stai tradendo niente e nessuno, Roxas. Hai solo cominciato a guardare avanti. È quello che vorrebbero i tuoi.»

Roxas tirò un sospiro profondo. Era evidente che aveva sentito parole del genere così tante volte da non avere più nemmeno voglia di starle a sentire. La ragazza si sollevò, per andare a sedersi più vicino a lui.

«Lo so» sorrise, «qualsiasi cosa io ti dica in questo momento suonerebbe come una frase fatta. Vorrei dirti di continuare quello che hai iniziato... Di continuare a seguire questo» mormorò posandogli una mano all’altezza del cuore. «Ma devi essere tu a scegliere. Riguarda solo te.» Si voltò a guardare lo sconosciuto, che in quel momento si mosse appena, quasi percepisse la sua attenzione. «Forse potresti parlarne a lui. Qualcosa mi dice che non è un tipo da frasi fatte.»

Avvertì che Roxas si rilassava e si voltò in tempo per vederlo sorridere al lenzuolo. Alla fine lui sollevò lo sguardo ed una mano per stringere la sua.

«Grazie, Naminè

«Per cosa?»

«Non mi hai chiesto come mi sentissi. L’hai capito da sola. Come sempre.» Il sorriso si fece più sicuro. «Non sei cambiata.»

Naminè ricambiò la stretta.

«Grazie a te per averlo fatto, invece.» Si alzò e gli posò un bacio lieve sulla fronte. «Ti lascio tranquillo. Tieniti stretto il tuo amico, Roxas Key; nessuno merita di perdere una persona come te.»

Roxas arrossì e sorrise di nuovo. «Ci proverò.»

Lei si voltò e uscì dalla stanza, lasciandola piena di occasioni e decisioni e, forse, di cambiamenti.

 

 

 

 

 

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L’immagine di un Axel addormentato su una sedia, ma appoggiato con testa e braccia sul letto di Roxas, mi ossessionò non appena iniziai a scrivere i capitoli dell’ospedale *_* La trovavo infinitamente dolce.

Ecco dunque spiegato il ruolo di Naminè: spero non giudichiate troppo negativamente i leggerissimi accenni RokuNami, poiché, anche se sostengo fortemente l’AkuRoku, io personalmente adoro anche lei. <3

Grazie a chiunque stia leggendo, come sempre. Fate sempre la mia gioia.

Aya ~

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Capitolo 29
*** Naufraghi della vita ***


28

Naufraghi della vita

 

 

 

La posizione prolungata si fece sentire e il dolore ai muscoli della schiena lo svegliò.

Ritrovandosi seduto nella stessa posa in cui quella notte si era assopito, molte ore dopo aver visto Roxas addormentarsi tranquillo, Axel si sorprese di non essere caduto da quella sedia precaria. Poi capì che nel sonno si era tanto avvicinato al letto da diventarne quasi parte integrante.

Aprì gli occhi e mise a fuoco la figurina di Roxas. Era seduto contro la testata, lo sguardo rivolto alla porta in fondo alla stanza, il viso e i capelli accarezzati dalla debole luce rosata che proveniva dalla finestra. Gli sembrò lontanissimo.

«Che ti ha detto?»

Roxas sussultò e abbassò lo sguardo su di lui, accorgendosi solo allora che era sveglio.

«Hai deciso di farmi venire un accidente?» sbottò.

Axel si tirò su e si sgranchì i muscoli di schiena e braccia, nascondendo uno sbadiglio dietro la mano.

«No, quella sarà solo l’ultima fase.»

«Ah, ah. Ma che ridere.» Il biondino riprese a respirare normalmente. Sollevò le sopracciglia. «Che mi ha detto chi

«La persona che è stata qui.»

Roxas continuò a guardarlo, confuso, con una lieve traccia di misterioso imbarazzo. «La persona... Cosa?»

«Stavi fissando la porta con aria imbambolata. Sarò pure uno stronzo, ma non sono mica scemo.» Axel si appoggiò allo schienale della sedia, incrociando le braccia. «Dai, dillo. Era una persona che non ti aspettavi di vedere o che ti ha detto qualcosa che ti ha dato di che riflettere. O tutte e due le cose.»

Visibilmente impressionato, il ragazzino sorrise.

«Tutte e due le cose, in effetti.» Scosse il capo. «Grande. Non credevo che fossi così intuitivo.»

«Era un insulto?» Axel gli puntò un dito contro. «Sappi che ho ucciso per molto meno, bimbo.»

Roxas non si lasciò intimidire e gli scostò la mano con la sua. «Non sei credibile. Lo so che non hai mai ucciso nessuno.»

Colpito.

«Aaah, sono troppo tenero con te.» Il giovane alzò gli occhi al cielo, intrecciando le mani dietro la nuca. Poi si decise a tornare serio. «La famosa Naminè, immagino.»

Roxas distolse lo sguardo. «Sì... Era lei.»

La sua voce era diventata bassa e affettuosa. Axel avvertì qualcosa alla bocca dello stomaco, qualcosa come... fastidio. Si diede mentalmente dell’idiota, e tornò ad ascoltare le parole di Roxas con una forzata neutralità.

«È sempre stato facile parlare con lei. Eppure stavolta mi è sembrato... Non so. Quando Naminè Umiko ti smaschera fa sempre effetto; ma oggi... beh, più del solito.» Lo guardò, inespressivo. «Forse perché c’entravi tu.»

Sorpreso, Axel abbassò le braccia. «Io?»

«Ehi, non crederti tanto importante.» Di colpo Roxas sogghignò. «Sono soltanto circostanze, non montarti la testa.»

«Sarà» fece lui con lo stesso ghigno, «ma intanto parli di me quando non ti ascolto. Cos’è che vi siete detti?»

Si aspettava che il ragazzo continuasse con lo scherzo, con una qualche battuta ironica. Invece lo vide sorridere pensoso al vuoto.

«Magari prima o poi ti racconto.»

L’ingresso delle infermiere pronte al primo giro di pulizie della giornata interruppe quello strano scambio di battute. Ma anche se non ebbe modo di rispondere alle sue parole, Axel continuò a rimuginare a lungo sul tono di Roxas.

Era il tono di una persona che si era liberata di un peso.

 

 

* * *

 

 

Tifa Lockhart sedeva sul divano di un appartamento in cui lei stessa aveva provveduto a sistemare quello che molti dei suoi colleghi avevano sarcasticamente definito «il figliol prodigo» dell’egregio signor Marluxia. Nella poltrona di fronte, Demyx aveva appena finito di raccontarle una storia di parole date e mai mantenute e di ricordi scacciati dalla finestra e tornati a bussare alla porta.

«È... vero?» gli chiese soltanto, profondamente colpita.

Il ragazzo fece un sorriso triste e si strinse nelle spalle. Infilò una mano nella tasca laterale dei jeans.

«Posso dimostrarglielo.» Le mostrò una fotografia. «È da questa che è cominciato tutto. Quando Marluxia se l’è procurata e io l’ho vista, ho capito che mi stavo perdendo. E che così avrei perso anche l’unica cosa che mi fosse rimasta.» Le tese la foto, senza cambiare espressione. «La prenda.»

Esitante, Tifa gliela sfilò dalle dita e osservò la ragazzina, inconsapevole responsabile della cattura di un individuo senza alcuno scrupolo né morale.

«Vorrei rivederla, tenente.» Il tono di Demyx si fece affranto. «Vorrei avere la possibilità di spiegarle tutto. Non può aiutarmi?»

La donna sollevò lo sguardo su di lui. Vide un diciannovenne allampanato, un ragazzo cresciuto e un giovane uomo, un ennesimo naufrago della vita. Vide ciò che si agitava nei suoi occhi verdi, e per un attimo ripensò a quelli – così simili – di Axel, a ciò che lei vi aveva letto quando le aveva chiesto di poter restare al fianco del suo amico...

Sospirò, e ancora una volta distolse i suoi.

Pensò che, se anche si fosse fatta licenziare e radiare dalla polizia, almeno avrebbe avuto un posto assicurato in Paradiso.

 

 

* * *

 

 

L’unica cosa che mancava davvero a Saïx era il fumo.

Non si trattava, come credevano gli stupidi e i superficiali, dell’effimero effetto adrenalinico che poteva avere sulla mente umana. Per lui il fumo era molto di più. Gli piaceva assaporarlo, ma più ancora gli piaceva starsene disteso per ore a guardarlo, serpente evanescente nell’aria, a studiarne i movimenti e l’impalpabilità, ad allungare una mano per maneggiarlo a suo piacimento. Ed era così esaltante disperdere con un gesto qualcosa che neppure si poteva toccare...

Saïx era consapevole di essere pazzo. Solo che sapeva nasconderlo molto bene.

Era una cosa che aveva sempre saputo. Ne aveva avuto la conferma a otto anni, quando aveva infilato un gatto in un secchio pieno di acido, solo per il gusto di sapere cosa si provava a fare del male a un essere vivente.

Il gatto era morto e lui si era sentito potente.

Come quando aveva appiccato il fuoco ai pantaloni di quel ragazzino, di due anni più grande, che a scuola l’aveva chiamato ‘checca’. O quando aveva iniziato ad appostarsi nel bagno delle femmine per picchiarle e vederle piangere.

In breve tutti avevano cominciato a girare alla larga da quello strano bambino con i capelli lunghi sulle spalle e gli occhi gialli da falco. E lui aveva cominciato a credere di poter davvero fare qualsiasi cosa, di poter creare le forme della vita dall’illusione del fumo.

Quelli che erano definiti da tutti «i suoi attacchi» non erano mai stati sistematici; così, gli assistenti sociali e gli insegnanti avevano creduto che fossero momenti di aggressività temporanea, distruttiva ma non ingiustificabile, dovuti alla sua difficile situazione familiare: tra un padre drogato e una madre puttana, era abbastanza ovvio che il figlio avesse degli accessi di violenza verso il mondo. Nessuno aveva visto il germe della follia che il piccolo Saïx, per contro, aveva già imparato a riconoscere.

E a gestire.

E più cresceva il suo essere folle, più lui sviluppava la capacità di non farlo notare.

Era scappato di casa e si era dato alla malavita, e ancora nessuno era arrivato all’ovvia verità.

Dubitava che, oggi stesso, qualcuno potesse capire cosa ci fosse davvero nella sua testa. Nessuno aveva capito, mai. La sua famiglia prima, i suoi amici poi. Nemmeno gli sbirri, nemmeno il giudice che l’aveva sbattuto in galera, nemmeno Marluxia.

Un lieve sospiro gli affiorò alle labbra.

Marluxia…

Aveva fatto qualsiasi cosa per lui, qualsiasi. Sapeva di occupare il posto d’onore nel suo libro paga, ma avrebbe voluto far parte anche di qualcosa d’altro... Invece era arrivato quel dannato moccioso, e Marluxia aveva letteralmente perso la testa per lui. Per la prima volta in vita sua, Saïx si era ritrovato a fare i conti con una cocente impotenza.

Per questo motivo aveva commesso troppi errori, troppe imprudenze. E alla fine si era fatto beccare.

Sarebbe stato facile e giusto spifferare alla polizia che quel giorno con lui c’era anche quello stronzetto di Demyx, che era riuscito a svignarsela sotto il loro naso... Ma non aveva potuto farlo.

Lui era pazzo, non cattivo.

«Ehi, Saïx! Dormi?»

Aprì gli occhi e tornò al presente, alla branda scomoda di una cella umida. Seguendo il richiamo, si alzò e si diresse con movimenti felini alle sbarre della porta, oltre le quali si snodava un corridoio semibuio su cui si affacciavano altre celle uguali alla sua.

Da una di esse, di fronte a lui, giungeva il ghigno crudele di un detenuto dalla corporatura robusta e il volto irsuto di basette lunghe. Xaldin, detenuto numero 10277, accusa per rapina a mano armata.

«Hai sentito la novità? Hanno preso un boss di spacciatori, ieri mattina.»

Saïx lo fissò senza espressione. «E allora?»

«E allora, potrebbe essere il tuo, no?» Il ghigno si accentuò. «Dicono che è stato tradito da uno dei suoi, un pisciasotto senza palle. Un Demyx qualcosa, ho sentito una guardia che ne parlava mentre tu dormivi.» Xaldin si portò una mano a coppa al lato della bocca, in atteggiamento confidenziale e volutamente provocatorio. «Pare che il boss si chiami Marluxia. Ti dice niente?»

Saïx non lasciò salire al viso ciò che gli aveva appena colpito lo stomaco. Si voltò lentamente e tornò a stendersi senza degnare quel pezzo d’idiota di una qualunque risposta.

Nel silenzio, le parole dello scimmione continuarono a martellargli il cervello a lungo.

«Hanno preso un boss di spacciatori... Dicono che è stato tradito da uno dei suoi... Un Demyx qualcosa...»

Una volta – lo stesso giorno in cui aveva accolto quella puttanella di Larxene tra le sue fila – Marluxia aveva detto una cosa che l’aveva colpito: che soltanto quando si è completamente soli si può considerare l’idea di arrendersi.

Sorrise al soffitto. Lui non l’avrebbe lasciato solo. Mai più.

In un modo o nell’altro...

Saïx chiuse di nuovo gli occhi e si preparò all’ennesimo pomeriggio vuoto e bianco.

Pensò che l’unica cosa che gli mancava davvero era il fumo.

 

 

 

 

 

_________________________________________________________________________________________

 

 

 

 

 

 

 

MI SCUSO INIFINITAMENTE PER LA PROLUNGATA ASSENZA E PER LA SINTETICITà DI QUESTE NOTE. STO PASSANDO UN PERIODO DI GRAVI PROBLEMI FAMILIARI CHE MI HANNO SERIAMENTE INDOTTA A PENSARE DI MOLLARE VARIE COSE; MA LA SCRITTURA MAI. GRAZIE A CHIUNQUE STIA CONTINUANDO A LEGGERE, SEGUIRE E COMMENTARE: SPERO DI TORNARE PRESTO A FARE LA SCEMA COME AL SOLITO NELLE MIE PUBBLICAZIONI SU QUESTA OASI DI SALVEZZA CHE è EFP.

Aya ~

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Capitolo 30
*** Il mondo sbagliato ***


29

Il mondo sbagliato

 

 

 

Era stata una cerimonia breve.

Il sole splendeva implacabile sulle lapidi grigie, in uno strano accostamento tra freddo e caldo, vita e oblio. Per quanto avrebbe desiderato concentrarsi sull’aspetto positivo di quel contrasto, atto a ricordare che il sole sarebbe sempre sorto il giorno dopo, in quel momento sentiva di non esserne in grado.

L’agente Aerith Gainsborough aveva appena assistito all’ultimo saluto ad un ragazzo sconosciuto e, per la prima volta da che era entrata in polizia, aveva pianto.

Benché si trattasse del funerale di un adolescente, oltretutto di una famiglia piuttosto nota in città, il cimitero era quasi vuoto. Aerith osservò ancora una volta i coniugi Ienzo, pallidi e distrutti nei loro vestiti neri, immersi in un dolore che – a giudicare dalla fissità dei loro sguardi – sembrava andare al di là delle lacrime. Erano soli, accanto alla fossa, e non si toccavano e non si guardavano. Come se volessero estraniarsi dal mondo, avevano rifiutato la vicinanza dei pochi invitati, forse per orgoglio, forse per apatia. Aerith si chiese se il loro unico figlio avesse avuto lo stesso sguardo fiero e la stessa espressione inflessibile, sotto quel cappuccio nero in cui si era nascosto per vendere l’anima e il corpo alla droga.

Si chiese il perché.

Si rispose che nessuno l’avrebbe mai saputo.

Continuò a guardare quell’esiguo e misero addio da lontano, al riparo dei cipressi che delimitavano un lato del camposanto, finché non avvertì una presenza da qualche parte alla sua destra.

Sorrise.

«Così sei venuto anche tu.»

Si voltò nello stesso istante in cui Cloud si fermava accanto a lei.

«Non sono riuscito a fare altrimenti.» Doveva esserci qualcosa di caldo nei suoi occhi di ghiaccio, perché il freddo abituale sembrava essersi sciolto. «È stato più forte di me. Dio santo» proruppe all’improvviso, a mezza voce, «se penso che era solo un ragazzino...»

Aerith si limitò ad annuire. Era la stessa, identica cosa che anche lei aveva pensato e detto sul momento. Lei che era sempre stata la più debole della loro squadra, la più sensibile, la più sentimentale – così diceva Cloud. Mentre il compagno reagiva con distacco alla vista di un diciassettenne morto sotto i loro occhi, lei si era sentita per un lungo minuto perduta.

Faceva uno strano effetto, ora, sentire quelle stesse parole dalle labbra di lui: il poliziotto che aveva solo fatto il suo lavoro, l’uomo che aveva solo premuto un grilletto. Capì d’improvviso che quando, quella notte, Cloud le aveva stretto una mano, con quel contatto non cercava di infonderle sicurezza, ma ne chiedeva lui stesso.

Rimasero a lungo in silenzio a condividere quel tutto che li annullava e un vuoto che li riempiva.

Quando parlò di nuovo, Cloud lo fece guardandola negli occhi, e sollevando una mano verso il suo viso.

«Hai pianto.»

Aerith rimase immobile a sentire il contatto del suo palmo. «No.»

Lui non ribatté a quella sua insensata negazione. Sospirò e tornò a guardare la tomba spoglia in lontananza.

«A volte mi chiedo se tu ed io non abbiamo scelto il mestiere sbagliato.»

Colpita, Aerith studiò il suo profilo deciso nell’ombra degli alberi. Alla fine sorrise di nuovo.

«Sei già un passo avanti. Io mi chiedo se non abbiamo scelto il mondo sbagliato.»

Cloud non cambiò espressione.

 

 

I presenti cominciarono a lasciare il cimitero, e in breve quella non fu altro che un’altra tomba a ricordare un’altra vita che era finita troppo presto e troppo male. Si alzò un vento leggero, e l’erba alta si piegò docilmente a sfiorare la lapide, un lieve abbraccio che non avrebbe mai potuto essere tale.

Aerith uscì dal cono d’ombra dei cipressi e fece per avvicinarsi.

Fu costretta a fermarsi dalla vibrazione del cellulare nella tasca dei pantaloni.

Quando vide il numero sul display, si impose di smettere i panni della giovane donna in cerca di risposte sulla vita e di tornare a indossare quelli di un’agente di polizia pronta a cancellare quelle sbagliate.

Premette un pulsante e si portò il telefonino all’orecchio.

«Mi dica, tenente.»

«Aerith» giunse la voce asciutta di Tifa Lockhart, «ho bisogno del tuo aiuto per una faccenda delicata. Ho pensato a te perché so di potermi fidare del tuo tatto. Lo farei io stessa, ma...» Sospirò. «Ho paura di essermi già esposta troppo.»

«Di che si tratta?»

«Devi rintracciare una persona.» Una breve esitazione. «Per conto di Demyx

Sorpresa, la giovane sgranò gli occhi. «Per conto di... Come?»

«Non c’è niente di cui allarmarsi.» Nel tono del tenente Lockhart comparve una nota di urgenza. «Non te lo chiederei, se così non fosse. Il ragazzo me lo ha chiesto come un favore del tutto personale, e io mi fido di ciò che lo muove. Tu devi solo fidarti di me.»

«Ma certo che mi fido di lei, tenente.» Aerith era sempre più confusa. «Solo che non capisco cosa...»

«È una storia complicata. Ascoltami...»

Mentre il suo capo le spiegava la storia complicata, lei ebbe una serie di diverse reazioni, dall’incredulità alla partecipazione. L’ultima cosa che pensò, appena prima della fine di quel discorso, fu che in fondo lei e Tifa Lockhart erano davvero molto simili.

«Va bene, tenente. Me ne occuperò io.»

«Ti ringrazio.» La donna sembrava sollevata. Forse si aspettava che il suo interesse per le vicende personali del soggetto che stavano ancora sorvegliando venisse deriso. «Demyx mi ha dato una foto della ragazza. Te la farò avere al più presto.»

«D’accordo.»

Una pausa.

«Aerith... Posso permettermi una confidenza con te?»

«Certamente.»

«Nel nostro lavoro, dicono sia indispensabile non mescolare i sentimenti con la professionalità, lasciarsi coinvolgere il meno possibile.» Nella voce di Tifa si poteva distinguere il sorriso. «Io, come avrai notato, non ci sono mai riuscita.»

Aerith non poté fare a meno di sorridere a sua volta. «Temo che siamo in due, tenente Lockhart

L’altra rise. «Allora noi due siamo davvero molto simili.»

 

 

Dopo aver chiuso la comunicazione, Aerith si voltò a guardare Cloud, che aveva seguito la telefonata in silenzio.

«Una nuova indagine?» le chiese.

Lei annuì e ripose il cellulare in tasca. «Più inimmaginabile di quanto tu possa immaginare.»

Si voltò di nuovo e riprese a camminare verso la tomba, ripetendosi mentalmente tutta quella «storia complicata» e riflettendo su quante e quali svolte la vita potesse presentare agli occhi degli esseri umani. Come nel caso di quel ragazzo, Demyx, che aveva tirato le somme del suo futuro quando si era ritrovato a fronteggiare un lontano passato.

Si fermò accanto alla lapide e rimase per un po’ immobile a guardarla.

Lasciarsi coinvolgere il meno possibile...

Sentì Cloud avvicinarsi alle sue spalle, ma questa volta non si preoccupò di negare o nascondere nulla.

Aerith Gainsborough si inginocchiò accanto alla tomba di Zexion Ienzo e pregò per lui, augurandosi che, qualunque fosse il posto in cui si trovava adesso, potesse ripagarlo di ciò che – non importava di chi fosse la colpa – aveva perduto.

 

 

 

 

 

_________________________________________________________________________________________

 

 

 

 

 

 

 

Eccomi qui! Capitolo piuttosto breve, lo so, ma un pensiero appositamente per Zexion era cosa doverosa. Ed era anche importante specificare che Tifa ha tutte le intenzioni di rintracciare la ragazzina che Demyx cerca, e che Aerith in questo avrà un ruolo determinante.

Come avrete notato sto uscendo dalla crisi maniaco-depressiva e sto rapidamente tornando serena e cordiale ^^ E questo anche grazie al sostegno dei miei lettori e recensori, che non cesserò mai di ringraziare. Siete meravigliosi. <3

Ah, sì: perdonate la banalità del cognome di Zexion. Davvero non mi è venuto in mente altro ;_;

Alla prossima,

Aya ~

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Capitolo 31
*** Solo una speranza ***


30

Solo una speranza

 

 

 

«Cavolo, Sora, è una settimana che sono qui. Non è che muoio, se per un giorno dimostri di non preoccuparti per me e rimani a casa, sai?»

«Cosa? È così che accogli la visita disinteressata di tuo fratello e di una scatola di cioccolatini?»

«Cioccolatini?» Roxas si raddrizzò sul letto e tese le braccia verso di lui. «Da’ qua!»

Sora scoppiò a ridere e gli consegnò la scatola, voltandosi subito dopo per sistemare distrattamente un pacchetto di fazzoletti sul comodino, in modo da nascondere a suo fratello quella stupida commozione che si sentiva pungere negli occhi ormai ogni volta che lo guardava.

In soli sette giorni lo aveva visto ricominciare a ridere, a scherzare, a guardare dritto in viso chiunque avesse davanti; era come se quell’ospedale, invece che deprimerlo, gli avesse dato la forza di non lasciarsi più abbattere.

Forse era vero: quando si è sul fondo, non si può che risalire.

Sora non sapeva ancora se Roxas avesse scoperto quella forza nel ritorno di Naminè, che veniva a trovarlo quasi ogni giorno, o nella vicinanza ormai totale di Axel, che – a quanto lui stesso aveva notato – non tornava al condominio neppure per la notte. Non lo sapeva e neppure gli interessava saperlo: gli bastava poter finalmente leggere negli occhi di suo fratello, oltre i ricordi e le paure.

Si voltò appena in tempo per vedere Roxas scartare un cioccolatino con occhio critico e divertito.

«Mmm. Cioccolato puro al cento per cento, direttamente da Traverse Town. Una cosa al di là dei tuoi discutibili gusti. Questo l’ha scelto Kairi, poco ma sicuro.»

Sora rise di nuovo. «Mi hai scoperto... Comunque sì, indovinato. Oggi non è potuta venire, ma lei e Naminè ti mandano come sempre tutto il loro affetto.»

Roxas sorrise di rimando. «Ringraziale... Anzi no, non farlo, ci penso io appena le vedo.»

Sora tornò a far scorrere gli occhi sul comodino, testimone dei regali di tutte le visite che suo fratello aveva ricevuto da quando era stato spostato in una camera priva di quelle terribili apparecchiature: album da disegno, matite, pastelli e riviste varie da parte di Kairi, Naminè, Hayner, Olette, Pence, e persino da Riku, Tidus e Selphie; i dolci della nonna, che aveva lasciato la villa da sola e di buon trotto e si era presentata in ospedale con un’intera torta alla frutta per il dottor Leonhart, che aveva ringraziato con uno dei suoi abbracci tritacostole; anche alcuni libri da parte del professor Ansem, titoli difficili di Defoe e Wilde e Dickens e un’edizione rilegata in pelle dell’Odissea che Sora aveva praticamente terrore di guardare, ma che per qualche motivo aveva entusiasmato Roxas più di tutti gli altri volumi messi insieme.

Pensò a due anni prima, a quando in un’altra piccola stanza bianca non era potuto entrare nessuno all’infuori di lui, Kairi e Naminè.

Pensò che, da quando la sua sedia a rotelle aveva incrociato le gambe di Axel, Roxas ne aveva fatta di strada. Molta più di quanta ne avesse mai percorsa coi piedi su uno skateboard.

Curioso che proprio la presenza di Axel fosse l’unica a non avere un segno tangibile su quel comodino...

Sora andò finalmente a sedersi accanto al letto.

«Come mai oggi non c’è il nostro dirimpettaio?»

«Sarà qui fuori da qualche parte» rispose Roxas con un’alzata di spalle. «Non è che passa tutto il tempo con me... Non ho più cinque anni, non so se hai notato» aggiunse in un sorrisetto.

Fu solo in virtù di quel sorriso, per non vederlo diventare una piccola o di stupore, che Sora non disse che in realtà – anche se lui sembrava non essersene accorto – da sette giorni Axel non si era mai allontanato dall’ospedale. E che forse non era soltanto il suo senso di colpa o il semplice desiderio di stargli vicino a trattenerlo lì... Forse gli nascondeva qualcosa.

Lasciò correre. «Beh, in ogni caso mi fa piacere che ci sia lui qui con te. In fondo io non posso venire a trovarti in qualsiasi momento... Voglio dire, la scuola, i compiti e...»

«Perché sei rosso?»

Sora si bloccò e lo fissò, interdetto. «Sono che cosa?»

Roxas gli puntò un polpastrello su una guancia.

«Sei arrossito. E poi evitavi di guardarmi in faccia.» Di colpo i suoi occhi s’illuminarono, e sorrise con aria trionfante. «Ah-ha, ho capito. Sta succedendo qualcosa. Kairi, giusto?»

Sora sentì distintamente il sangue salirgli di corsa su per le guance fino alla fronte. Si ritrasse e proruppe in uno sbuffo scocciato.

«Non sta succedendo un bel niente! Solo...»

Ripensò al profumo dei capelli di Kairi contro la sua guancia, al suono e al calore del suo respiro, alla mano di lei sulla sua, e gli mancarono tanto le parole quanto il sostegno della sedia. Deglutì e si sforzò di tornare a guardare Roxas, che ancora sorrideva, un sopracciglio sollevato e lo sguardo furbetto.

«Solo...?»

Sora sbuffò di nuovo e alzò gli occhi al soffitto. «Oh, uffa. Mi ha chiesto di dormire da lei, stasera.»

E ieri sera. E quella prima. E le precedenti. Da una settimana.

Ma questo non lo disse.

Provò uno strano sollievo, però, dopo aver snocciolato quelle parole. La verità era che Roxas era l’unico a conoscenza di quella sua stradannatissima cotta di vecchia data e, per quanto lo infastidisse parlarne, Sora sapeva che non avrebbe mai potuto né voluto farlo con altri che con lui.

Sbirciò la sua espressione, ma non trovò traccia di malizia nel suo sorriso o nel suo silenzio. Così si rilassò, e decise di contraccambiare il colpo.

«E di te e Naminè che mi dici?» sogghignò. «So che lei viene sempre a trovarti da sola, non si fa mai accompagnare né da Kairi né dalla nonna. Chissà come mai...»

Se avessero avuto ancora tredici anni, se fossero stati seduti in una macchina diretta a un bel parco in una giornata di sole, insieme ai loro genitori, Roxas sarebbe arrossito furiosamente, gli avrebbe lanciato addosso qualcosa e gli avrebbe dato del cretino. Ma era un giorno diverso, un luogo diverso, e di sicuro anche loro due erano troppo diversi.

Roxas si limitò a scuotere la testa con espressione compassionevole.

«Sei proprio incorreggibile, Sora.»

«Ehi, uno di noi deve pur esserlo, no?»

Le loro risatine furono coperte dal suono leggero della porta che si apriva e da una voce d’uomo venata di compiacimento.

«Siamo di buon umore, vedo.»

Sora e Roxas si voltarono all’unisono a guardare il dottor Leonhart, che avanzò fino al letto con passo sicuro e sguardo rassicurante.

«Sono lieto di trovarvi così sereni, ragazzi, ma ora c’è qualcosa di cui vorrei discutere con Roxas. Nulla di cui preoccuparsi, non temete.»

Roxas annuì. Il suo viso si fece serio, ma Sora capì che ormai non temeva più nulla, che era anzi pronto a fronteggiare qualunque novità, bella o brutta che fosse. Anche da solo.

Per questo motivo si alzò.

«Ok, credo che me ne andrò a cercare Axel e lo costringerò a farsi quattro chiacchiere con me. Ci vediamo più tardi, Rox

Suo fratello lo guardò sorridendo, evidentemente grato di quella dimostrazione di fiducia nei suoi confronti.

Alla fine hai lasciato che percorresse la sua strada...

Sora salutò anche il chirurgo ed uscì dalla stanza con un sorriso.

Si disse che Kairi sarebbe stata di nuovo fiera di lui.

 

 

* * *

 

 

Il bicchiere di plastica atterrò nel mucchio dei suoi predecessori nel cestino. Axel fece un rapido calcolo: il tredicesimo caffè in meno di sette ore. Un record personale. Probabilmente dovuto all’assenza di sigarette. Dio, quanto gli sarebbe piaciuta una sigaretta.

«Hai l’aria di uno che aspetta la manna dal cielo.»

Riconobbe la voce del tenente Tifa Lockhart senza il bisogno di voltarsi. Quando lo fece, la vide avvicinarsi senza fretta, lungo il corridoio che conduceva alla nuova stanza di Roxas.

«Toh, di nuovo lei. Quant’è piccolo il mondo.»

La donna si fermò accanto a una finestra e vi si appoggiò con i gomiti, guardandolo con – beh, con qualcosa di molto simile alla simpatia.

«Come se non sapessi che sono qui per te

Axel infilò le mani nelle tasche dei jeans che Sora gli aveva portato dall’appartamento – «Va bene, ho capito che hai intenzione di dormire qui, ma almeno un cambio di vestiti ogni tanto ti serve, cavolo!» – e si puntellò con una spalla contro il distributore automatico, a poca distanza dalla finestra.

«Sono lusingato, tenente. Non credevo di aver fatto colpo.»

Tifa Lockhart rise di gusto.

«Immagino sia per questa tua vena ironica che ti ho preso a cuore» disse.

«Mi ha preso a cuore? Davvero?» Axel sgranò gli occhi, enfatizzando il tono sorpreso. «Suppongo di doverla considerare una cortesia.»

«Nel tuo caso, diciamo pure una grazia.» Tifa infilò una mano nella tasca anteriore della giacca, estraendone un accendino e un pacchetto di sigarette. «Comunque sì, ti ho preso a cuore. Anche se questo potrebbe significare che sto abbassando la guardia. Fumi?»

Axel esitò per un solo istante prima di accettare una sigaretta e lasciare che l’agente gliel’accendesse.

«E in cosa consisterebbe» chiese poi, un po’ diffidente, «questo ‘abbassare la guardia’?»

La donna si prese il tempo di accendere un’altra sigaretta per sé e di espirare una boccata fuori dalla finestra aperta; quindi rispose con lo stesso tono leggero di poco prima.

«Quando sarai uscito di qui, almeno fino al giorno dell’udienza, posso farti avere gli arresti domiciliari. Forse anche un buon avvocato.» Lo guardò seriamente, per la prima volta dall’inizio di quella conversazione. «Sono quasi certa che ai piani alti avranno da ridire; ma in tutta sincerità, permettimi l’espressione, me ne sbatto altamente. Io so solo che la tua storia non è molto diversa da quella di Demyx. Se lui avrà delle attenuanti, credo che tu potresti averne anche di più... A meno che tu non mi abbia mentito, la qual cosa non mi sembra molto plausibile.»

Una cosa analoga a ciò che anche Roxas gli aveva detto. Axel si ricordò solo in quel momento di portarsi la sigaretta alle labbra.

«Le ispiro così tanta fiducia?» commentò, avvicinandosi a sua volta alla finestra perché il fumo potesse uscire dal locale.

Tifa sorrise. «Se ti piace come suona, mettiamola in questi termini.»

L’adolescente spostò lo sguardo sul balconcino affacciato su un cortiletto interno, molto simile a quello del condominio, e per qualche tempo non ci fu altro che fumo e cose in sospeso. Notò la bizzarria della scena: uno pseudo-fuorilegge e un membro della polizia dei sobborghi di Twilight Town, affacciati a un davanzale a fumare insieme. D’altronde, da più o meno tre settimane nulla, in quella che era la sua vita, poteva considerarsi normale.

«Avanti, tenente» sbottò alla fine. «Deve riconoscere che tanto interessamento da parte sua è piuttosto sospetto. Dov’è la fregatura?»

Tifa Lockhart spense la cicca sul davanzale e si voltò per gettarla nel cestino là accanto. Poi si volse di nuovo a guardarlo con un altro sorriso.

«Vuoi davvero saperlo?» Sollevò un braccio e gli indicò gli occhi. «È qui. Qui dentro, ogni volta che parli del tuo amico. Questi occhi sono la fregatura, quella che mi ispira fiducia.»

Axel rimase immobile a guardare la sua mano, finché lei non l’abbassò e gli diede le spalle.

«Ci si vede, Axel. Saluta Roxas da parte mia.»

Il tenente Lockhart si allontanò da quella piccola sala d’ospedale senza aggiungere altro, lasciandolo più confuso che mai.

Il flusso disordinato dei pensieri del ragazzo fu interrotto da una nuova comparsa nel corridoio.

«Ehi, Axel

Il ragazzino dai capelli impossibili arrivò alla sua altezza e gli passò accanto salutandolo allegramente con la mano, diretto al distributore.

«Ehi, Sora» ribatté lui laconico, spegnendo la sigaretta e lanciandola a far compagnia alla sorella.

Sora continuò a parlargli con aria svagata, mentre sceglieva uno snack dalla macchina.

«Non era il tenente Lockhart quella che ho appena visto allontanarsi?»

«Ah-ha

L’altro sembrò decidersi e qualche secondo dopo gli si riavvicinò con un pacchetto di patatine in mano, regalandogli uno dei suoi soliti sorrisi luminosi stile albero di Natale.

«Lo sapevi che qualche giorno fa è venuta a trovare Roxas? Lui era molto sorpreso, forse si è anche un po’ allarmato; ma è stata più che altro una visita di cortesia. E ha portato con sé anche i due agenti che... che erano al parco quel giorno. È stato gentile da parte loro.» Aprì il pacchetto e glielo offrì; al suo cenno di diniego, si cacciò una manciata di patatine in bocca e guardò di nuovo verso il corridoio. «Strano che lei sia ancora qui, però.»

Axel lo fissò di sottecchi. Se conosceva Roxas, almeno una minima parte di quanto pensava di conoscerlo, era certo che non avesse parlato a nessuno della sua vera identità, nemmeno a suo fratello, e che ora Sora non gli stesse lanciando alcuna allusione.

Ma sentiva che non era giusto.

«Sora, ascoltami...»

Il ragazzo ingoiò il boccone e bloccò sul nascere le sue parole.

«Bla, bla, bla. Non voglio sapere niente. Lo so che qui sta succedendo qualcosa; non sono uno stupido, sai. Ma non c’è bisogno che tu mi spieghi nulla, Axel, capito?» Gli sorrise di nuovo. «Tu e Roxas siete amici. Mi basta sapere questo di te.»

Per la seconda volta in pochi minuti, Axel si ritrovò senza parole.

A disagio, tornò a guardare fuori dalla finestra, chiedendosi se prima di incontrare Roxas gli fosse mai capitato che così tante persone dimostrassero di avere fiducia in lui.

Una domanda retorica.

 

 

* * *

 

 

Nel momento esatto in cui Sora era sparito oltre la porta, il dottor Leonhart si era seduto al suo posto, sulla seggiola accanto al letto.

«Allora, Roxas. Ti trovo davvero molto bene.»

Il ragazzo gli sorrise con sincera riconoscenza. «Credo sia merito suo, in fondo.»

Leon – diceva sempre che poteva chiamarlo così – rise e scosse la testa.

«Temo che non sia del tutto vero, ma ti ringrazio per le tue parole.» Poi si fece serio, e Roxas capì subito cosa stesse per dirgli. «Hai parlato a qualcuno di ciò che ti ho detto la settimana scorsa?»

Per l’appunto.

Naminè era l’unica cui fosse riuscito a dirlo, perché sapeva che lei l’avrebbe tenuto per sé, che avrebbe lasciato a lui la scelta: se, quando e come dirlo. Ma nonostante il suggerimento dell’amica, quello di parlarne almeno con Axel, non si sentiva ancora pronto a condividere quella possibilità con altri. C’era sempre stata una domanda a bloccarlo.

E se poi è solo una speranza e niente più?

Non avrebbe sopportato la delusione sul viso di Sora, di Hayner, di Naminè. Di Axel.

Abbassò lo sguardo sul lenzuolo e ne attorcigliò un lembo con le dita. Era una cosa che faceva spesso, da bambino, quando era nervoso; suo padre diceva sempre che, quando in casa si trovava un qualsiasi tipo di tessuto ridotto alla forma di un serpente a sonagli, allora Roxas aveva qualche problema.

Represse un sorriso triste. Non aveva mai capito quel curioso meccanismo di collegamento secondo il quale alla mente umana può bastare anche un solo piccolo particolare per ricordare tutta una catena di eventi e di situazioni ormai dimenticate...

Alla fine scosse lentamente la testa. «No. Non ne ho parlato con nessuno.»

A sorpresa, il medico si sporse verso di lui per posargli una mano salda sulla spalla.

«Non devi vergognartene. È normale. Stai ancora affrontando in prima persona la cosa, e hai bisogno di tempo per riuscire a sostenere anche le reazioni di chi ti vuole bene. Credo che al tuo posto mi sentirei proprio come te.»

Roxas sollevò lo sguardo e sorrise colpevolmente al sorriso del chirurgo.

«Ha mai pensato di fare lo psicologo?»

Leon rise di nuovo e si lasciò ricadere sulla sedia.

«Mai.» Gli sorrise con aria complice, come se gli stesse svelando un segreto. «Sai, Roxas, per quanto mi riguarda credo che estrarre un proiettile dal corpo di una persona le sia molto più utile che cercare di entrare nella sua testa, con l’alta possibilità di non farla mai ragionare come le altre teste del mondo. Se ci pensi, è stupido, oltre che inutile. Ognuno di noi è diverso dagli altri. Non ha senso cercare di cambiare il tuo prossimo. Spesso già capirlo è difficile di per sé...»

Un lampo lontano, un eco improvviso...

«Non capisci che io non sono come te, non lo sono mai stato! Non posso vivere a modo tuo, Sora!»

«... anche se, certo, ci sono casi in cui la psicologia fa miracoli. Ma diciamocelo, tu non hai bisogno di uno psicologo. Soltanto di un po’ di tranquillità, volesse il cielo – e di fiducia in te stesso.»

Roxas fu costretto a distogliere di nuovo lo sguardo da quel giovane con gli occhi maturi di chi ha trovato un senso alla sua vita.

Era proprio come la mamma. Stesso lavoro, stessa passione, stessa comprensione.

Che strano. Perché oggi ricordare i suoi genitori non gli faceva male come poco più di una settimana prima?

Eppure non era passato così tanto tempo dall’ultima volta che aveva pianto per loro.

Leon si alzò all’improvviso, e la sua voce lo strappò via dalle meditazioni.

«Bene, Roxas, ho un’altra cosa da dirti. Ormai ti sei perfettamente ristabilito, e non c’è più motivo per me di trattenerti qui. Sei pronto per tornare a casa. Che ne dici?»

Il ragazzo alzò la testa, sorpreso. «Posso davvero?»

«Stasera stessa, se vuoi.» Il medico sorrise per l’ennesima volta. «Non vedi l’ora di andartene da questo posto, vero?»

«Non è questo» Roxas scosse la testa. «È solo che...» S’interruppe, cercando le parole più adatte, e alla fine scrollò le spalle. «Non so. Mi sembra così strano tornare... a com’era prima.»

«Già. Posso immaginare.» Leon si diresse alla porta, l’aprì e trascinò qualcosa nella stanza. «E immagino anche che ti farà male rivedere questa. Ma quello di cui parli potrebbe anche non essere un ritorno definitivo. Non credi?»

Quando posò gli occhi sulla sedia a rotelle – la sua vecchia sedia a rotelle, quella su cui aveva seguito Axel attraverso il parco, quella che aveva trascinato fino agli Hawk Runners, un po’ trasandata e ancora macchiata di un piccolo schizzo di rosso – Roxas non manifestò alcuna reazione e nessuna emozione.

Ma fu probabilmente in quell’istante che capì che non poteva continuare a ignorare ciò che il dottor Squall Leonhart gli aveva detto quando l’anestesia aveva esaurito i suoi effetti.

Potrebbe non essere un ritorno definitivo... Potrebbe...

Per lui le cose erano già cambiate. Fin dalla comparsa, nel suo condominio e nella sua vita, di quel misterioso dirimpettaio con il diavolo negli occhi e una pistola nella tasca.

E allora, in fondo, non sarebbero potute cambiare di nuovo?

 

 

* * *

 

 

Quando rientrò nella stanzetta di Roxas – dopo aver lasciato Sora al telefono con KairiAxel si fermò per un istante sulla soglia, sorpreso.

Accanto alla branda c’era quella maledettissima sedia a rotelle che aveva imparato da un pezzo a conoscere. Roxas era seduto contro la testiera del letto, e non la guardava; sembrava tranquillo come non mai, mentre disegnava con un lapis rosso su uno degli album di cui gli amici lo avevano rifornito, tenendolo sulle gambe sempre stese sotto il lenzuolo, in una posizione che non doveva essere poi così comoda.

Axel realizzò che, in tutto il tempo in cui era rimasto con lui in quella camera, non l’aveva mai visto disegnare. Aveva intuito – anche a detta di Sora – che quello era un suo vecchio sfogo, forse l’unico. Evidentemente, però, non ne aveva più avuto bisogno... finora.

Curioso, gli si avvicinò per sbirciare; il ragazzino non alzò la testa e mantenne la sua aria concentrata.

Axel arrivò fino all’altezza del cuscino cui Roxas poggiava le spalle, si appoggiò al muro e abbassò gli occhi sul suo foglio.

«Ma guarda.» Sogghignò, nascondendo l’ammirazione per il suo tratto pulito e preciso. «Hai bisogno di disegnarla per imprimertela bene in testa?»

Vide che Roxas sorrideva, ma ancora non incontrò il suo sguardo.

«Perché non mi chiedi quel che vorresti chiedermi davvero?»

«Cioè?»

Finalmente gli occhi azzurri si sollevarono fino a quelli verdi.

«Cioè che cosa ci fa quella sedia qui dentro.»

Axel colmò la propria espressione di un esagerato stupore. «Sei telepatico, bimbo?»

«No, solo sveglio. Me l’hai detto anche tu una volta, ti ricordi?» Roxas abbassò di nuovo lo sguardo, poi la voce. «Il dottor Leonhart dice che posso tornare a casa.»

Axel non disse nulla. Sapeva che c’era dell’altro.

«E... dice anche un’altra cosa.»

Aspettò ancora.

Roxas finì di tratteggiare uno dei sostegni della sedia che stava disegnando con tanta minuzia. Di colpo lo guardò e gli tese il foglio.

«Mi faresti un altro favore?»

Colto alla sprovvista, prese automaticamente il disegno dalla sua mano. «Quale favore?»

Roxas non sorrideva più. «Puoi buttarlo giù dalla finestra?»

Axel lo fissò.

Era ovvio che non scherzava.

Dopo un lungo istante di esitazione, si voltò, si avvicinò alla finestra aperta a pochi passi dal letto e tese il braccio.

Aprì le dita, e il vento primaverile fece il resto.

Guardò il disegno volteggiare lentamente giù per i piani del Good Samaritan Hospital, virare a una nuova folata e dirigersi verso i rami di un albero del giardino, dove rimase impigliato e continuò a dibattersi debolmente in una lotta senza speranza. Lo guardò dando sempre le spalle a Roxas, dandogli il tempo di recuperare il coraggio, le parole o qualunque cosa gli servisse per finire il discorso lasciato a metà.

E alla fine, quello che fosse, Roxas lo trovò.

«Dice anche che potrei tornare a camminare.»

Axel provò l’impulso irrefrenabile di voltarsi a guardarlo, senza sapere cosa ci sarebbe stato nei propri occhi e nei suoi; ma qualcosa lo tenne fermo al suo posto.

Continuò a rispettare il suo silenzio e la difficoltà che quella nuova possibilità doveva costargli, riflettendo.

Ecco dunque il significato di quel simbolo abbandonato a se stesso, al vento e ai rami di un albero.

L’immagine di Roxas in piedi davanti alla sua sedia, con il respiro ansante e la delusione negli occhi, gli balenò nella mente. Un pensiero di ritorno da molto lontano. Era davvero possibile che...?

«Axel

Si voltò.

Roxas lo guardava con quegli occhi ormai liberi, azzurri da far impallidire il cielo.

«Pensi...» Sorrise e arrossì. «Pensi di potermi concedere un ultimo favore?»

Axel ricambiò il sorriso.

Per quanti possa fartene, ho paura che non sarà mai abbastanza.

Niente avrebbe potuto ripagare ciò che si provava a poter incrociare, dopo tante palizzate da entrambe le parti, quegli occhi così puliti. Mai.

Tornò accanto al letto, si sedette ai suoi piedi e gli strizzò l’occhio. «E va bene, vada per un altro appuntamento.»

Roxas scoppiò a ridere.

 

 

 

 

 

_________________________________________________________________________________________

 

 

 

 

 

 

 

Oh-ho, un capitolo lungo, per una volta!

Ringrazio infinitamente i pazientissimi lettori che hanno letto e sopportato anche il precedente, pur breve com’era.

Vi confesso che, man mano che rileggo questa storia a distanza di anni, ho l’impulso sempre più forte di smettere di pubblicarla tanto il mio stile è cambiato -_-’ Come dire, non mi ci rispecchio più. Ma voglio andare fino in fondo, per voi che siete tanto unici da continuare sempre a seguirmi. <3

Alla prossima,

Aya ~

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Capitolo 32
*** Un cerchio perfetto ***


31

Un cerchio perfetto

 

 

 

Aerith Gainsborough camminava senza fretta nello stesso parco in cui, una settimana prima, lei e Cloud Strife avevano arrestato il capo di un gruppo di spacciatori poco più che maggiorenni, un individuo elegante e mellifluo che ad occhi ignari sarebbe potuto parere insospettabile. Era ancora fermamente convinta che quell’arresto non fosse tutto merito suo o di Cloud; Marluxia Ross non era un delinquente mediocre. Che si fosse fatto sorprendere in modo così palese – e che non si fosse neanche liberato della pistola e della droga prima di rischiare d’incappare nella polizia – le faceva pensare che forse lui stesso aveva già deciso per loro come sarebbero andate a finire le cose. Lo sguardo del tenente Lockhart, quando quel giorno aveva convocato lei e Cloud, le aveva fatto capire che non era la sola a vederla in quel modo. Ma a volte si preferisce avere l’illusione di possedere un merito che non si ha, piuttosto che riconoscere che nella vita ci sono episodi e coincidenze e risultati che non capiremo mai. Una piccola presunzione della nostra piccola umana realtà.

Ma quel giorno non aveva tempo per pensare alla logica personale della psiche di Marluxia. C’era un altro compito che doveva svolgere in quel parco. Come se tutto fosse destinato a cominciare e finire lì. Ancora una coincidenza?

Aerith infilò le mani nelle tasche della giacca e sentì sotto le dita la consistenza liscia e fredda della foto procuratale da Tifa Lockhart, che a sua volta l’aveva ricevuta da Demyx. Aveva letto le parole che quel ragazzo aveva scritto, in una grafia incerta e nervosa, sul retro del piccolo rettangolo di carta plastificata – e benché indagare fosse parte del suo lavoro, si era sentita un’intrusa, un’estranea che violava il passato di qualcun altro. Ormai conosceva quelle poche righe a memoria, e ripetendosele non poté non capire che cosa avesse indotto il tenente Lockhart a concedere a Demyx quell’unico favore, a dispetto di ogni buonsenso e di ogni ordine dai ‘piani alti’.

Poi aveva voltato la foto e aveva guardato un viso che già conosceva.

E aveva subito capito dove cercarla.

Mentre si allontanava dall’area per lo skateboard, dirigendosi al parco giochi, Aerith Gainsborough sorrise e pensò che a volte la vita è un cerchio perfetto di coincidenze.

 

 

* * *

 

 

La ragazza senza nome si asciugò gli occhi con le maniche della felpa, chiedendosi se le sue lacrime non sarebbero finite mai.

Era stanca di piangere. Era passato così tanto tempo che avrebbe voluto smettere, se non altro per non vedere più la preoccupazione e la compassione negli occhi di quella gente che diceva di essere la sua famiglia.

«Cosa c’è, tesoro? Perché non ne parli con noi? Perché non riesci ad essere felice?»

Lei non poteva essere felice.

Perché poteva cedere, ma non accettare.

Così, piangeva.

E cercava quella felicità che le mancava in un foglio di ricordi che si faceva sempre più sbiadito, sempre più umido delle sue lacrime.

Sapeva che i ricordi non sarebbero tornati. Non sarebbero tornati loro e non sarebbe tornato lui. Anche se gliel’aveva promesso...

Non gliene faceva una colpa. Non era colpa di nessuno se tutto era finito, se tutto era cambiato, se loro non avevano più potuto vedersi.

Solo che le mancava. Da morire.

E in tutti quegli anni in cui aveva cambiato tante città e tante scuole e tante case, costretta dal lavoro importante di due persone che non sarebbe mai riuscita a chiamare ‘papà’ e ‘mamma’, aveva perso la speranza che il suo ultimo ricordo mantenesse la promessa e la ritrovasse.

La ragazza senza nome chiuse gli occhi e rimpianse di non riuscire più a ricordare un suo abbraccio.

Rimase in quella posizione, il viso chino e gli occhi serrati, per qualche minuto. Da bambina le piaceva pensare che chiudendo gli occhi e sprofondando nel buio la scena intorno cambiasse; un po’ come in un film, quando l’immagine si oscurava e al suo posto ne compariva una completamente diversa. Abbassava le palpebre, prendeva un bel respiro e contando fino a dieci desiderava di trovarsi in un altro posto e con un’altra compagnia.

Non voglio più essere qui, non voglio più essere me.

Poi apriva gli occhi e si ritrovava nella cameretta rosa che quelle persone avevano preparato apposta per lei, esattamente dov’era prima di chiuderli.

Con il tempo aveva capito che era inutile, ma non aveva mai smesso, neanche per un giorno, di formulare tra sé quel desiderio. E di restare delusa.

Un rumore improvviso la fece trasalire e tornare al presente. Aprì gli occhi e si voltò.

Una giovane donna, con lunghi capelli castani raccolti in una treccia, stava prendendo posto sulla panchina accanto a lei. La ragazza senza nome la riconobbe: anche se aveva dei vestiti diversi, era la stessa poliziotta sorridente che qualche giorno prima le aveva offerto il suo aiuto. Sembrava un po’ stanca, e non la guardava.

La ragazza senza nome provò l’istinto di alzarsi e allontanarsi, al più presto, ma la donna non sembrava interessata a lei. Aveva appena estratto qualcosa dalla tasca e lo stava osservando attentamente.

All’improvviso, però, alzò la testa e la guardò.

«Credo che questa appartenga a te.»

La ragazza rimase tanto stupita da dimenticare di evitare quel contatto con un mondo che stava cercando di tenere lontano da anni.

«A... me?»

La donna si limitò ad annuire e le tese ciò che aveva in mano.

Esitante, lei prese la foto e vide che ritraeva una scena analoga a quella che stava sperimentando: lei seduta su quella stessa panchina, che si scostava i capelli dal viso e guardava verso un punto alla sua destra.

Si chiese cosa significasse.

«Prova a voltarla» suggerì la poliziotta.

Sempre più confusa, lei obbedì, quasi senza accorgersene.

Quel che lesse le fece chiedere se di colpo il suo gioco di bambina non avesse finalmente iniziato a funzionare.

 

 

* * *

 

 

«Dem

La bambina piange disperata, correndo su per i gradini verso di lui. Demyx la raggiunge prima che l’assistente sociale possa riacciuffarla e la stringe a sé.

«Non voglio!» La bambina grida, nasconde il viso tra le sue braccia. «Non voglio andarci! Voglio restare con te!»

Demyx si sente la gola in fiamme e gli occhi umidi. Ma lui non può piangere, lui è grande. Lui deve essere forte. Per tutti e due.

Le accarezza i capelli, guardando con la coda dell’occhio la donna anziana che sale in fretta le scale d’ingresso dell’edificio, pronta a separarli di nuovo, stavolta in modo definitivo.

«Ascoltami.» Si china perché le parole arrivino direttamente all’orecchio della piccola, tra i suoi capelli lucidi e neri. «Nemmeno io voglio lasciarti. Ma è necessario. Non possiamo fare altro.»

«Ma io non voglio! Non mi lasciare!»

Lui la stringe più forte. «Non ti lascio. Non ti lascerò mai.»

Ma ecco che l’assistente sociale afferra la bambina per una spalla e l’allontana bruscamente. Lei cerca di divincolarsi, il faccino lucido di lacrime e rosso per lo sforzo, ma arrivano due uomini che aiutano la donna a trascinarla di nuovo giù per i gradini. Disperato, Demyx li segue.

«Non mi lasciare!» La bambina continua a gridare, sempre più forte. «Non mi lasciare, Dem! Non mi lasciare!»

«Non ti lascerò mai! Non importa se saremo lontani, sarò sempre con te!»

«Demyx, torna indietro!»

È la voce del direttore. Demyx fa finta di non sentirlo. Vede che la donna e i due uomini spingono la piccola in una macchina; poi gli inservienti fanno largo e l’assistente sociale si siede accanto all’autista, e l’automobile si prepara a partire.

Nel sedile posteriore, la bimba batte i pugni sul vetro del finestrino. Nemmeno il rombo del motore riesce a coprire del tutto le sue grida disperate.

«No, no! Non voglio! Dem

La macchina si muove e Demyx comincia a correre per tenerle dietro. Ormai anche lui è in lacrime, ma non fa nulla per asciugarle.

«Non ti lascerò mai! Ci ritroveremo e saremo di nuovo insieme! Te lo prometto! Te lo prometto

Una mano salda su una spalla lo costringe a fermarsi.

L’auto lascia il vialetto di ghiaia ed esce dal cancello, e l’ultima cosa che il ragazzo riesce a distinguere sono gli occhi azzurri e bagnati della bambina che chiama il suo nome oltre un vetro.

Quando il puntino nero sparisce all’orizzonte, Demyx sfugge alla mano del direttore, cade in ginocchio e scoppia in singhiozzi.

Oggi ha dodici anni.

Oggi ha imparato a piangere.

 

 

Gliel’avevo promesso.

E invece, non era riuscito a mantenere la parola.

Nella villa vuota in cui aveva trascorso le ultime settimane, Demyx non aveva ancora trovato il coraggio di affacciarsi alla finestra per vedere se lei fosse già arrivata. Era seduto sul letto, gambe incrociate e spalle inerti, e si guardava intorno in cerca di qualcosa che riuscisse a tranquillizzarlo.

Ma incontrare il proprio passato non può mai essere una passeggiata. Soprattutto quando in quel passato c’è qualcosa che si è mancato di fare.

Gliel’avevo promesso.

Dio solo sapeva quante volte aveva cercato di raggiungerla là dove era andata a stare. Purtroppo, ogni volta si era trovato di fronte a un nulla di fatto. Alla fine era stanco, sfinito, deluso. Forse lei lo aveva dimenticato, forse era felice altrove, o forse lui non era in grado di trovarla e basta. Aveva cominciato a cedere alla disperazione, e si era fermato in quella fottutissima città.

Poco dopo aveva incontrato Marluxia.

Ora non gli importava del tempo trascorso. Voleva rivederla, farle sapere che solo il pensiero di lei l’aveva ricondotto a se stesso. Voleva mantenere infine la sua promessa.

Si passò le dita tra i capelli, sospirando. Forse lei ormai lo odiava. Ne avrebbe avuto tutti i motivi.

Eppure era solo grazie a lei che lui aveva avuto una possibilità di salvarsi...

Un rumore lontano, un suono un po’ smorzato che riuscì a riempire il vuoto della palazzina. Demyx si scosse e rimase all’erta. Pochi istanti dopo ne ebbe la certezza.

Stava arrivando.

 

 

* * *

 

 

La ragazza senza nome seguiva la donna come un cucciolo segue la mamma: istintivamente.

Non era sicura di ciò che stesse succedendo; le sembrava troppo impossibile, troppo assurdo... troppo da poter sognare. Ma non poteva fare a meno di affidarsi a quella sconosciuta, che l’aveva guidata fuori dal parco, poi su un’automobile, lungo troppe strade assolate e infine nel cortile di una casa enorme che sembrava abbandonata.

Così, contro ogni buonsenso, contro ogni sua convinzione. La seguiva ancora adesso, su per quelle scale, verso qualcosa che avrebbe tanto voluto che fosse reale.

È un sogno. Non può essere vero. Tra due minuti mi sveglio.

La giovane donna che le aveva detto di chiamarsi Aerith le fece strada in un corridoio buio, verso una porta di legno bianco un po’ screpolata. Quando vi arrivarono, bussò e l’aprì senza aspettare risposta.

La ragazza senza nome sentì che il cuore le batteva più forte.

Sono passati due minuti?

Aerith si voltò e le sorrise. «Entra pure.»

Non seppe mai dove aveva trovato la forza di muovere quei pochi passi che la separavano dalla porta aperta, ma in qualche modo riuscì ad arrivarci e a oltrepassarla.

Perché non mi sveglio? È vero, allora?

Sentì la porta chiudersi alle sue spalle. La donna non l’aveva seguita. Rimase sola in una stanza elegante, dove sembrava che nessuno avesse abitato per molto tempo, ma non del tutto sciupata dall’abbandono. Pensò che le sarebbe piaciuto mantenersi integra nello stesso modo, invece che sentirsi ridotta a pezzettini ogni giorno. Capì che con quegli stupidi paragoni stava solo evitando di pensare al motivo per cui la poliziotta l’aveva portata lì, alle parole scritte sul retro di quella fotografia...

E alla fine lo vide.

Era in piedi, davanti a un’altra porta che conduceva a un’altra stanza; era più alto, più pallido e meno sorridente di come lo ricordava, ma non poteva che essere lui.

Il battito furioso del suo cuore, ormai, era al limite dell’umano.

È vero... È tutto vero...

Rimasero a guardarsi per un tempo infinito, condividendo la stessa espressione, quella di chi non sa o non capisce e ha paura ma spera.

Alla fine, lui pronunciò piano il suo nome, quello che lei aveva rifiutato sette anni prima.

È vero!

Avrebbe voluto urlare, ma le uscì solo un soffio.

«Dem...»

Finalmente lui sorrise e allargò le braccia.

Lei pianse e gli corse incontro.

Proprio come da bambini.

Mentre si stringeva a lui e ritrovava intatto nella memoria il calore del suo abbraccio, la ragazza senza nome capì di aver ritrovato anche se stessa.

 

 

 

 

 

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Rullo di tamburi! Squillino le trombe! E congratulazioni a chiunque avesse capito che la ragazza del prologo e quella sulla fotografia che ha fatto ‘rinsavire’ Demyx erano la stessa persona! Beh, ci sono voluti trenta capitoli, ma almeno questo l’abbiamo chiarito xP

Non temete, comunque: la storia è ancora piuttosto lunga – e abbiamo lasciato in sospeso le vicende dei nostri due protagonisti, no?

Alla prossima,

Aya ~

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Capitolo 33
*** Qualcosa da proteggere ***


32

Qualcosa da proteggere

 

 

 

Le ruote ticchettavano leggermente sul marciapiede, ma nel silenzio e nell’oscurità quasi totale il suono sembrava moltiplicarsi all’infinito, sovrastando il rumore appena percettibile dei suoi passi. Quando passarono sotto un lampione, Axel osservò l’espressione distesa e naturale di Roxas.

«Come mai non hai voluto aspettare Sora?»

«Stanotte dormirà fuori.»

«Ma almeno avvertirlo...»

«Perché metterlo in pensiero?» Roxas lo guardò con un sorrisetto. «Tanto ci sei tu, no?»

Che ironia. Il lupo con l’agnello.

Axel distolse gli occhi.

Solo un’ora prima, Sora aveva lasciato l’ospedale: appena dopo averlo visto svoltare l’angolo dalla finestra, Roxas aveva detto a Squall Leonhart che era pronto a tornare a casa. Il medico avrebbe voluto farlo accompagnare, ma il ragazzino aveva scosso la testa con un sorriso, dichiarando che un altro viaggio sulla sua sedia a rotelle non gli avrebbe certo fatto male. L’uomo si era arreso, poi gli aveva stretto calorosamente una mano e con la sincerità nella voce gli aveva augurato buona fortuna.

Axel era l’unico a sapere che quella notte Roxas sarebbe tornato al condominio. In un certo senso, era come se avesse voluto con sé soltanto lui. Di nuovo.

Provava uno strano senso di inadeguatezza, di disagio; ma al tempo stesso sapeva che niente avrebbe potuto impedirgli di stargli vicino in quel momento.

Nemmeno i due fari che li seguivano a distanza costante sin dall’ospedale.

Il marciapiede svoltò; Axel si sistemò in spalla la borsa con le cose di Roxas e seguì la sedia a rotelle verso il condominio alla fine della strada. Rivisse per un attimo il momento in cui aveva visto per la prima volta il palazzo sotto la pioggia, in un’altra epoca e in un’altra vita. E dire che quella notte, all’inizio della sua latitanza, non avrebbe mai pensato di poter davvero ‘mettere la testa a posto’...

«Perché sorridi?»

La domanda di Roxas lo colse impreparato.

«Non sorrido.»

«Sì, invece. Ti ho visto sorridere.»

Si voltò. Il biondino era ancora concentrato sul movimento regolare delle ruote, ma lo stava fissando di sottecchi, evidentemente divertito. Axel sbuffò.

«Fai troppe domande, bimbo.»

«E tu dai poche risposte.»

«Mi sembra di avertelo già detto. Io sono per i fatti, non per le parole.»

«Va bene, va bene.» Roxas alzò le spalle. «Resta il fatto che sorridevi.»

Axel ridacchiò e scosse la testa. Non aveva la minima intenzione di rispondere alla sua domanda e di fargli capire che sorrideva perché ora, soltanto ora, si sentiva giusto.

Arrivarono all’ingresso del condominio e, come aveva già fatto quando erano tornati dal parco, la prima e unica volta che si era deciso a uscire di lì, Roxas fece salire la sedia sulla passerella rialzata accanto alle scale. Nel corso della manovra, Axel lo vide portarsi una mano al fianco e reprimere una smorfia di dolore. La ferita doveva ancora dargli qualche fitta. Si sforzò di fingere di non averlo notato, ma quella vista gli fece male all’anima.

Non avevano più parlato di Marluxia o di qualsiasi altro aspetto di quella sporca faccenda. Cercava di convincersi che quel silenzio era solo per non farlo soffrire, ma la parte più nascosta del suo subconscio urlava con chiarezza qualcos’altro.

Parlarne gli avrebbe strappato la verità. E cioè, che Marluxia aveva cercato di togliergli la cosa più importante.

Non era stato, come aveva detto a Roxas, uno sbaglio di mira. Ne era sicuro. Ma ammetterlo ad alta voce avrebbe spaventato il suo amico, e ancor di più avrebbe spaventato lui.

Perché mai avrebbe pensato di poter davvero trovare qualcosa da proteggere.

Roxas si fermò davanti all’uscio e bussò; le sue chiavi le aveva date a Sora. Axel lo raggiunse.

«Non sarebbe ora di metterci un citofono o almeno un campanello, in questo condominio di quarta categoria?»

«Vallo a dire a Vexen

«Si può sapere chi diavolo è a quest’ora?!»

La voce del vecchio era risuonata appena oltre la porta. Doveva essere ancora in piedi, o non avrebbe fatto così presto a raggiungerla. Axel sospirò silenziosamente; quell’uomo era un classico, odioso pignolo senza la minima possibilità di recupero.

«Parli del diavolo...» sorrise Roxas, con l’aria di divertirsi da matti.

La porta si spalancò e comparve il portinaio, avvolto nella stessa vestaglia nera da vampiro rachitico con cui aveva accolto l’arrivo di Axel tra le misere fila dei suoi condomini. Vexen puntò loro addosso uno sguardo acido.

«Vi avverto, ragazzini. Non posso tollerare quelli che buttano giù dal letto gli onesti cittadini nel cuore della notte.»

Axel e Roxas ricambiarono l’occhiata, entrambi impassibili. Quando sembrò metterli a fuoco, il vecchio sbuffò sonoramente.

«Ah, voi.» Si soffermò in particolare su Roxas. «Di ritorno dal mondo dei morti, mi sembra di capire.»

In quel momento, Axel sentì di odiarlo sul serio.

Roxas gli scoccò il più innocente dei sorrisi. «Ci scusi, signor Vexen. Non avevamo intenzione di disturbarla.»

«Tutti uguali, voi giovani. Non avete il minimo rispetto per chi ha più anni di voi, più esperienza, più...»

Axel smise di ascoltare a metà discorso; aveva appena notato il bagliore dei fari illuminare la parete del palazzo alla sua destra. Sorrise tra sé. All’improvviso gli faceva piacere la compagnia di quella macchina discreta e silenziosa.

Si concentrò di nuovo sul monologo di Vexen, che Roxas stava ascoltando e accettando come un bravo bambino.

«... E in quanto a te» sputò di colpo il vecchio, guardandolo con evidente disprezzo, «sappi che non manca molto alla scadenza dell’affitto. Spero che non te ne dimentichi. Sono ancora sicuro di non potermi fidare.»

Axel sorrise ancora, cercando di assomigliare il più possibile ad uno sponsor di dentifrici, ma sapeva bene che il suo sorriso era molto meno bendisposto di quello di Roxas.

«Di quello che pensa lei, signor Vexen, non me ne può fregare un cazzo di meno. Ora, se vuole scusarci, il mio amico ed io siamo molto stanchi e ce ne andiamo a letto. Buonanotte.»

Superò lo scandalizzato portinaio, urtandolo con la borsa e augurandosi che il trauma gli facesse venire un colpo apoplettico. Mentre attraversava l’ingresso e si dirigeva all’ascensore, sentì la sedia di Roxas affrettarsi alle sue spalle.

«Axel! Non avresti dovuto rivolgerti a lui così!»

Si voltò a guardarlo senza fermarsi. «Vogliamo parlare di come si è rivolto lui a te?»

Roxas rimase per un attimo incerto. Poi sospirò, scosse la testa e si lasciò sfuggire una risatina.

Axel si fermò davanti alle porte dell’ascensore e, incurante della raccomandazione di usarlo «solo per le emergenze», pigiò il pulsante di chiamata.

«Che c’è da ridere?» chiese.

Roxas si fermò al suo fianco. Non lo guardò; scosse di nuovo il capo.

«Niente. È che... Qualche settimana fa mi avrebbe dato fastidio, credo, questa tua presa di posizione. Invece adesso...»

«Bimbo» sbuffò Axel, «guarda che non ti stavo difendendo. L’ho fatto solo perché morivo dalla voglia di farlo da tre settimane; memorizzato?»

Il ragazzino si voltò verso di lui, sollevando le sopracciglia. «Stavo cercando di ringraziarti

«E per cosa? Per aver insultato Vexen? Se è per questo, guarda che posso farlo un altro mezzo miliardo di volte. Non c’è problema, non mi dà nessun fastidio.»

Roxas rise di nuovo. «Sei proprio tutto matto.»

«Lo so. Sono diventato amico tuo.»

Mentre l’ascensore arrivava e si apriva davanti a loro, il rumore sferragliante e arrugginito che si mescolava all’eco della risata di Roxas, Axel non poté trattenersi dal sorridere con lui.

 

 

* * *

 

 

Il portinaio era tanto scioccato che ancora indugiava sull’uscio aperto, quando le due figure sparirono nel buio del condominio. Mentre si avvicinava a quell’uomo, Tifa Lockhart ridacchiò tra sé per la lingua tagliente e l’encomiabile faccia tosta di quel teppistello di Axel.

Arrivata sui gradini, vide che il vecchio si era finalmente accorto di lei.

«Il signor Vexen?» indagò.

L’altro annuì, cercando di riprendersi dal colpo di essere stato praticamente mandato al diavolo da un personaggio che aveva meno della quarta parte dei suoi venerabili anni.

«Che cosa vuole?» abbaiò poi.

Però, che ripresa rapida.

Tifa si fermò sull’ultimo gradino del portico e mostrò il distintivo. «Tenente Lockhart, polizia cittadina.»

Alla luce incerta delle stelle e delle poche luci in strada, le sembrò di vederlo cambiare espressione. Di certo il suo tono si ammorbidì in modo notevole.

«Che posso fare per lei?»

Sembrava anche un po’ intimidito. Tifa ripensò alle parole che gli aveva sentito pronunciare poco prima. Quelli che buttano giù dal letto gli onesti cittadini... Per un attimo osservò quel volto intriso di malignità, chiedendosi se appartenesse davvero a un ‘onesto cittadino’, ma alla fine decise di pensare soltanto al motivo della sua presenza al cospetto di quel vecchio dall’aria ostile. Non c’era altro di cui le importasse ora, davvero.

«Per me, nulla. Ma io posso fare qualcosa per lei. Devo raccontarle una cosa.»

Ora Vexen era soltanto sorpreso. «Come?»

«Già. Il motivo per cui ci vorrà un po’ di tempo prima che la nostra comune conoscenza possa pagarle l’affitto che lei gli ha gentilmente ricordato poco fa...»

 

 

 

 

 

_________________________________________________________________________________________

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo corto e un po’ stupido. Ma il ritorno a casa di Roxas va trattato piano piano, così come il fatto che Axel – non dimenticate – ora è sotto stretta sorveglianza. E qualcuno doveva pur dirlo a Vexen, vi pare? xD

Vi ringrazio tutti, come sempre. Amo alla follia ogni lettore.

Aya ~

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Capitolo 34
*** Il bisbiglio di un sorriso ***


33

Il bisbiglio di un sorriso

 

 

 

Roxas accese la luce, illuminando a giorno l’appartamento 2A. Gli fece uno stranissimo effetto ritrovarsi di nuovo sulla soglia di quelle cinque stanze. L’ultima volta che era stato lì risaliva esattamente a una settimana prima, alla mattina in cui aveva capito di potersi alzare da solo dal suo letto, aveva raggiunto Axel al 2B, era andato insieme a lui a cercare gli Hawk Runners e... e aveva trovato un pazzo assetato di vendetta.

Il vecchio capo di Axel.

Quel pensiero gli provocò un brivido. Non ci aveva mai pensato prima; non in quei termini.

«Tutto bene?»

La voce dell’amico s’insinuò nel suo orecchio, per una volta priva di qualsiasi nota ironica. Roxas si voltò e vide che lo stava guardando attentamente. Sorrise.

«Certo. Fa solo...»

«Un certo effetto» completò per lui Axel, in tono affermativo e non interrogativo.

Roxas annuì.

«Sì.» Allontanò la sedia a rotelle dalla porta d’ingresso. «Beh, non so tu, ma io sono stanco per davvero. E penso che una bella dormita farebbe bene anche a te.»

Da qualche parte alle sue spalle, Axel ripescò un tono leggero.

«Mah, potrei anche decidere di andare a farmi un giro. Una bella scorrazzata sulla scala antincendio sarebbe l’ideale. Sono secoli che non ci salgo, comincio a sentire la sua mancanza» sghignazzò. «Oppure potrei andare a cercare tuo fratello e dirgli che sei qui. Ti immagini se decidesse di andarti a trovare in ospedale prima di tornare al condominio? Come minimo gli verrebbe un colpo.»

Roxas si fermò al centro del corridoio che conduceva alla camera da letto. Si voltò con il busto e lo guardò, senza accuse.

«Non c’è bisogno che tu faccia finta di niente. Me ne sono accorto, che la polizia ci ha seguiti passo passo per tutta la strada.»

Il sorriso scomparve dalle labbra di Axel gradualmente, come sabbia smossa da un’onda sul bagnasciuga.

«Non ti si può nascondere niente, vero?» Si riassestò nervosamente la borsa sulla spalla. «Beh, in fondo prima o poi avrei dovuto parlartene... Mi tengono d’occhio perché da questa sera, ufficialmente, sono agli arresti domiciliari.»

Roxas non disse nulla.

Arresti domiciliari.

Abbassò lo sguardo.

«Ci ho pensato. Non possono farti nulla...»

Negli ultimi sette giorni, in ospedale, non si era più soffermato su ciò cui Axel sarebbe dovuto presto andare incontro. Ripensarci adesso, doveva ammetterlo, faceva un po’ male.

Arresti domiciliari.

Come sarebbe andata a finire?

Loro due erano amici, no? Doveva proprio rischiare di perdere anche questo?

Scosse la testa con energia. No, sarebbe andato tutto bene. Questa volta sarebbe stato in grado di affrontarlo. Era pronto, ormai.

Riprese a muovere la sedia, fino a raggiungere la sua stanza. Sentì i passi di Axel che lo seguivano, insicuri, quasi meccanici.

Aperta la porta, premette l’interruttore alla sua destra e la luce colpì anche quelle quattro mura che racchiudevano due letti, qualche mobile e due anni di vita rinchiusa in se stessa. Roxas lasciò scorrere lo sguardo su quella scena tanto familiare: il caos sulla scrivania, il letto di Sora sfatto come al solito, l’album sulla poltrona, il disegno sul comodino – lo stesso disegno che quella lontana mattina aveva lasciato a suo fratello.

Si mosse in quella direzione, senza fretta. Allungò una mano e prese il foglio per portarselo davanti agli occhi.

Era come lo ricordava. Il parco, la pista per lo skate, la gente. Eppure mancava qualcosa.

Voltò ancora una volta la sedia, raggiunse la scrivania e frugò nel disordine, in cerca di una matita. Quando la trovò, sorrise e apportò senza esitazioni la modifica che in altri tempi non si sarebbe mai sognato di fare.

Infine studiò di nuovo il disegno.

Ce l’ho fatta, mamma. Ce l’ho fatta, papà.

Grazie a un demone o a un angelo custode.

«Non avevi detto che eri stanco?»

Ancora una voce neutra, né grave né divertita. Roxas lasciò la matita e il disegno sulla scrivania e guardò di nuovo Axel, che aveva appena posato la borsa a terra.

«Infatti» gli rispose.

Mentre si accostava con la sedia al letto, ebbe l’impressione di vedere una muta domanda nascere nei suoi occhi verdi. Gli offrì un sorriso come risposta, e si dispose a fare ciò che aveva già fatto e che – forse – avrebbe potuto fare di nuovo.

 

 

* * *

 

 

Quando vide Roxas sollevarsi sui propri piedi, Axel si chiese se per caso non stesse sognando. Solo lo sforzo nei suoi grandi occhi azzurri e nel suo viso determinato lo convinse che stava succedendo davvero.

Il tentativo andò a vuoto; Roxas ricadde a sedere, sfinito. Axel fece subito per avvicinarsi e aiutarlo nell’impresa, ma si vide rivolgere un’occhiata testarda, quasi truce.

«Resta – dove – sei.»

Obbedì.

Il ragazzino provò altre due volte. Alla terza riuscì a restare sollevato quel tanto che gli bastò a lasciarsi cadere sul letto, abbandonando la sedia vuota poco più in là.

Mentre riprendeva fiato, Roxas lo guardò e inaspettatamente rise.

«Non fare quella faccia. Non è la prima volta che mi alzo.»

Axel si chiese se fingesse o se la stesse davvero prendendo così bene.

Scosse il capo.

«D’accordo, bimbo. Visto che non hai più bisogno di me, sarà meglio che vada a dormire anch’io.» Lo guardò in tralice, con un po’ d’indecisione, ma deciso a non lasciargliela intuire. «Di’ un po’, sei sicuro che non ti sentirai solo?»

Aiutandosi con le mani, Roxas si tirò le gambe sul letto. Alzò il viso e fece segno di no con la testa.

«Non preoccuparti. Sto bene.» Il suo sorriso si fece più ampio e luminoso, e in quel momento assomigliò molto più del solito a Sora. «Benissimo.»

Convinto soprattutto dalla sua espressione, Axel si allontanò dalla porta, dove era rimasto fino ad allora, e si diresse alla finestra.

«Però ricordati» disse aprendola, «sono solo a un pianerottolo da qui.»

Lo vide annuire, poi distendersi sulle coperte, vestito com’era, e allungare una mano verso un altro interruttore posto appena sopra la testata del suo letto.

«Buonanotte, Axel

La luce si spense. Axel si ritrovò guidato soltanto dal bagliore delle stelle fuori dalla finestra.

«Buonanotte, Roxas» mormorò.

Da qualche parte, nel buio, giunse il bisbiglio di un sorriso.

«E... grazie

 

 

Scavalcò il davanzale e atterrò sulla scala antincendio.

Inspirò profondamente l’aria della notte, riflettendo: quell’impalcatura lo aveva visto coinvolto in complotti, confidenze, spedizioni e sfoghi... E se non ci fosse stata lei, ridacchiò tra sé, con ogni probabilità lui e Roxas non si sarebbero nemmeno mai conosciuti.

Si allontanò dal 2A quasi a malincuore.

Percorrendo il pianerottolo, gli cadde lo sguardo sul cortile e da lì sul vicolo. Non si stupì di vederlo sbarrato.

Sorrise nel buio. Anche se era praticamente intrappolato nel regno di Vexen il vampiro, si sentiva bene. Meravigliosamente bene. Liberato.

Arrivò alla finestra del 2B. Ricordava di averla lasciata socchiusa, la mattina che Roxas era andato a trovarlo e gli aveva chiesto di accompagnarlo al parco; e socchiusa la ritrovò.

Entrò in quella che, fino all’udienza di cui gli aveva parlato il tenente Lockhart, sarebbe stata la sua prigione – ma ancora una volta non avvertì nessuna oppressione a quel pensiero. Si mosse verso il letto, senza accendere la luce, ma prima di arrivarci si ricordò di colpo di qualcosa.

Qualcosa che avrebbe dovuto fare tempo prima...

Beh, meglio tardi che mai.

Senza esitare, andò al comodino e lo aprì. Non aveva bisogno di luce per vedere cosa c’era dentro. Afferrò in fretta il contenuto, richiuse l’anta e si allontanò di nuovo.

Per prima cosa, trovandolo di strada, sollevò il coperchio del secchio per la spazzatura e vi lasciò cadere quella dannata pistola.

Poi, in bagno, accese la luce e aprì la sacca nera riportatagli da Zexion due settimane prima, insieme all’arma.

Sostenne la vista della cocaina senza provare la minima emozione. Era la ‘scorta d’emergenza’, quella che gli aveva consegnato Demyx poco prima del suo esame di coscienza, quando gli aveva detto che anche un pivellino come lui aveva il diritto di concludere un affare, se gli capitava.

Axel estrasse la bustina di plastica, dall’aria così innocente in modo così spudoratamente falso, dalla sacca. Tese il braccio e finalmente, come aveva desiderato di fare fin dall’inizio, la gettò in quel sacrosanto cesso.

Solo che ora aveva motivi migliori che non il timore di farsi beccare con le mani sporche.

Il frastuono dello sciacquone fu anche più piacevole del previsto. Axel sorrise: non più il suo solito ghigno insolente, ma un sorriso vero.

Spense la luce e tornò in camera da letto, sfilandosi la maglietta. Emergendone con la testa, si guardò senza volerlo la spalla. Poco più in basso, riluceva una cicatrice bianca.

Mentre si stendeva sul letto e incrociava le braccia dietro il capo, tornò a concentrarsi sul piccolo miracolo avvenuto un pianerottolo più in là e sorrise di nuovo.

 

 

* * *

 

 

«Siamo sicuri che il tenente non stia concedendo un po’ troppa fiducia a questi ragazzini?»

Nel sedile del passeggero, Cloud scrutava accigliato la sagoma di Tifa Lockhart al di là del finestrino. La donna aveva appena chiuso il suo colloquio con un allarmato portinaio – chissà com’era, scoprire di aver affittato un appartamento a un condannato agli arresti domiciliari? – e si stava dirigendo alla macchina.

Seduta al volante, Aerith gli rispose senza nemmeno riflettere.

«A volte la fiducia non tiene conto di nulla, tantomeno del comune buonsenso.»

Cloud si voltò a guardarla, forse meditando su una risposta scettica; ma non disse nulla.

Il tenente Lockhart raggiunse la vettura e batté le nocche sul vetro. L’agente si affrettò ad abbassare il finestrino.

«Bene, ragazzi. Avete già bloccato il vicolo?»

«Sissignora.»

«Avete anche bevuto qualche litro di caffè?»

«Sissignora.»

Tifa sospirò. «Allora vi lascio di guardia. Perdonatemi se sono così poco di compagnia, ma mi sento distrutta. Per fortuna questa storia sta per finire...»

«Non si preoccupi, tenente.» Aerith sorrise. «Passi una buona notte.»

La donna ricambiò il sorriso e agitò una mano in segno di saluto, mentre si allontanava dalla volante che quella sera aveva scortato in incognito Axel Kasai e Roxas Key, e che si apprestava a sorvegliare il condominio da quel momento in poi. Mormorò una risposta che si perse nella penombra.

«Lo sai, Aerith? Credo proprio che lo sarà davvero.»

Aerith Gainsborough e Cloud Strife rimasero immobili ad osservare Tifa Lockhart, i capelli sciolti sulle spalle, le mani affondate nelle tasche, allontanarsi a piedi sotto la luce delle stelle.

Fu di nuovo Cloud a rompere il silenzio.

«Sai una cosa?»

«Che cosa?»

Il poliziotto guardava oltre il parabrezza con una tale intensità che Aerith si stupì che il vetro non si fondesse. Infine lo sentì sospirare nell’ombra dell’abitacolo.

«Darei qualsiasi cosa per essere come lei.»

 

 

* * *

 

 

Era mattina, e Sora sbadigliava.

Aveva lasciato la casa di Kairi ancora insonnolito. Nonostante fosse tuttora imbarazzato all’idea di dormire ogni notte da lei, al mattino il sonno aveva sempre la meglio su qualsiasi altra emozione; così aveva salutato lei, Naminè e la nonna senza impacciarsi troppo, aveva fatto colazione al solito bar e, più morto che vivo, aveva attraversato le molte strade che dividevano la villa dal condominio, per recuperare alcuni libri prima della scuola.

Sbadigliò ancora, lasciandosi alle spalle l’ultimo gradino della rampa di scale e incamminandosi lentamente verso la porta del 2A. Chiunque avesse stabilito che le lezioni cominciassero così presto andava strangolato nel sonno, di questo era fermamente convinto.

Pescò le chiavi da una tasca dei pantaloni, aprì la porta e marciò pian pianino verso la camera da letto, col vago desiderio di lasciarsi ricadere a dormire per altri cinque minuti, meglio dieci, facciamo quindici.

Ma quando ci arrivò, vide qualcosa che riuscì dove anche la vicinanza così pericolosamente stretta di Kairi aveva fallito: svegliarlo del tutto.

Addormentato nel suo letto c’era Roxas.

Sora non seppe come reagire a quella vista. Si stropicciò gli occhi più e più volte e si pizzicò forte le guance, ma vedendo che l’immagine non accennava a svanire dovette riconoscere che era davvero sveglio. Allora alla sorpresa si sostituì un leggero risentimento: perché Roxas non gli aveva detto che sarebbe tornato al condominio, la sera prima?! E poi subentrò la contentezza, perché nonostante tutto era lieto di rivedere suo fratello in quella stanza; gli era mancato così tanto. E anche un po’ di orgoglio: Roxas stava diventando non solo più forte, ma anche indipendente. Negli ultimi tempi aveva affrontato da solo le esperienze più traumatizzanti che si potessero immaginare, e l’aveva fatto da solo, senza chiedere aiuto... E infine un accenno di tristezza, quando i suoi occhi si posarono sulla sedia a rotelle ai piedi del letto e lui si disse che, alla fin fine, tutto era tornato come prima.

O forse no?

Ancora molto scosso, Sora si mosse verso la scrivania, ripetendosi che avrebbe dovuto sbrigarsi per andare a scuola e che non aveva tempo per giocare al Festival-delle-Emozioni-e-delle-Reazioni.

Si bloccò.

Sul piano di legno, in bella vista sopra il casino generale, c’era un disegno che conosceva bene. Ma quella mattina sembrava diverso.

Lo prese in mano: era la stessa scena, quella del parco in cui lui e Roxas avevano vissuto tanti momenti felici da bambini, e dove suo fratello aveva trovato i suoi più grandi amici e la sua più grande passione, prima di perdere tutto... E poi notò la differenza.

Una settimana prima, l’uomo e la donna in primo piano nel disegno non avevano lineamenti.

Adesso invece sì, e anche molto familiari.

E – cosa più importante e più bella di tutte – sorridevano.

 

 

 

 

 

_________________________________________________________________________________________

 

 

 

 

 

 

 

Ci siamo. Roxas è tornato a casa. Axel è agli arresti domiciliari. E Demyx e la ragazza senza nome si sono ritrovati.

Resta qualcosa in sospeso, però, vero? Sbaglio o tempo fa abbiamo trovato un Saïx folle e inasprito dalla cattura di Marluxia? E Roxas non aveva la possibilità di tornare a camminare? E Axel non l’aveva forse baciato? x3

Ehh, come vedete ce ne vuole ancora di tempo per risolvere tutto.

Grazie a chiunque passi di qui, come sempre; e a presto! <3

Aya ~

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Capitolo 35
*** L'adesso ***


34

L’adesso

 

 

 

«Sono in ritardo, sono in ritardo!»

Sora schizzava da una parte all’altra della stanza, in divisa e calzini, una fetta di pane imburrato in bocca e le braccia che lottavano per disincastrarsi dalla giacca. S’infilò le scarpe senza fermarsi, saltellando su un piede solo, ora il destro ora il sinistro; ingoiò il boccone e per poco non si strozzò; sbottonò l’uniforme e infilò i bottoni nelle asole giuste. Il tutto alla velocità della luce.

Roxas lo osservava dalla sua sedia accanto alla scrivania, trattenendo a stento le risate. Negli ultimi tempi gli succedeva spesso. Era bello dormire sonni senza incubi, svegliarsi di buon umore e assistere al quotidiano déjà-vu di Sora che rischiava di rompersi l’osso del collo nelle sue corse prescolastiche.

Era bello soprattutto – quando suo fratello aveva lasciato il condominio – aprire la finestra e lasciar entrare nell’appartamento le speranze che per tanto tempo si era negato.

Vedendolo finalmente vestito del tutto e nel modo giusto, gli si avvicinò e gli tese la cartella. «Ecco a te. Sbrigati, se non vuoi far infuriare Kairi

Sora lo guardò, grato come se gli avesse appena offerto un biglietto per un concerto della band di Yuna. Afferrò la cartella al volo.

«Grazie! A stasera!»

In un lampo era già sparito dall’appartamento.

Roxas ascoltò l’eco sempre più lontano delle sue scarpe da tennis sulle scale. Si sentiva un po’ in colpa per non avergli mai parlato di ciò che faceva ogni mattina, invece di seguire le lezioni del professor Ansem – che aveva chiesto di spostare al primo pomeriggio.

Erano gli inizi di maggio; e ormai andava avanti con quel piccolo grande segreto da più di dieci giorni. E non sapeva nemmeno spiegare a se stesso il motivo per cui l’unica persona che volesse coinvolgere fosse Axel.

Aspettò ancora qualche minuto prima di aprire le persiane.

Come sempre, la finestra del 2B era già aperta. Axel era seduto sul davanzale. Lo guardò con un sorriso sornione.

«Il gatto è uscito?»

Roxas ricambiò. Era lieto che Axel avesse rispettato la sua scelta, evitando di svelare quella cosa a Sora e a chiunque altro. Più di tutto, però, era felice di vederlo così tranquillo e a suo agio, pur sapendo di essere tenuto al guinzaglio dalla polizia.

«Sì, e i topi ballano.»

Axel saltò sul pianerottolo e lo raggiunse alla finestra.

«Dio, con tutto questo mistero mi sembra di vivere in un dramma teatrale. Guarda, non ci manca nemmeno il balcone.» Appoggiò le mani al davanzale e iniziò a declamare con voce sottile e disperata. «Oh, Romeo, Romeo, perché sei tu Romeo?»

Roxas scoppiò a ridere.

«Vieni dentro, Giulietta» disse, ritraendosi e chinandosi per slacciarsi le stringhe. «Romeo ha bisogno di te per fare una cosa.»

Axel scavalcò il davanzale scoccandogli un’occhiata scaltra. «Sei un pervertito, Romeo.»

Roxas si sentì avvampare. Gli lanciò addosso la scarpa che si era appena sfilato.

«Fottiti, Axel

Lui si scansò ridacchiando.

 

 

* * *

 

 

La ricreazione stava per finire. Sora si lasciò cadere nell’erba del cortile a riprendere fiato, mentre Riku e Tidus continuavano la corsa dietro la lattina vuota che faceva da palla in quella partita improvvisata. Per quella mattina, lui aveva già corso abbastanza.

Con la coda dell’occhio vide una macchia di rosso e d’azzurro muoversi nella sua direzione. Si voltò e riconobbe la figura di Kairi che, allontanandosi da Selphie e dal gruppetto di ragazze, andava a raggiungerlo al bordo del campo.

L’amica gli sorrise mentre s’inginocchiava al suo fianco. «Come stai?»

Sora allargò appena le braccia. «Seduto!»

Kairi rise, scuotendo la testa. Il ragazzo si costrinse a non incantarsi nel movimento ipnotico dei suoi capelli rossi.

«Intendevo come vanno le cose.»

Sora tornò a seguire il gioco, riportando le dita tra l’erba.

«Bene. Mi suona ancora assurdo pensarlo, eppure sono convinto che tutta questa storia abbia fatto bene a Roxas. È sereno, sorride sempre. È tornato come prima. Sai... Prima di due anni fa.» Scosse le spalle, con un sorrisetto. «Dovrò fare un monumento ad Axel, quando i suoi problemi con la legge saranno finiti.»

Circa una settimana prima, il suo dirimpettaio lo aveva incrociato sulle scale del condominio, forse non per caso. Lo aveva bloccato e gli aveva raccontato una storia che Sora ancora faticava a credere. Eppure, lui non aveva avuto nessuna paura. Gli aveva sorriso come al solito: Axel avrebbe anche potuto essere il più pericoloso criminale del pianeta, ma per lui sarebbe sempre stato soltanto colui che aveva – consapevolmente o no – convinto Roxas a ricominciare a lottare.

«Insomma, è come rinato. Magari l’anno prossimo potrebbe persino tornare a scuola. Le strutture ci sono, e lui, beh, mi sembra pronto.»

«Ma...?»

Sora sorrise, colpevole. Eccolo là, l’intuito femminile, la sensibilità, o come altro si chiamava.

«Ma...» Sospirò. «Ma lo ammetto, a volte vorrei tanto che non fosse capitato a noi. Credo sia normale... Sarebbe tutto così facile, se quel dannato incidente non ci fosse mai stato. Se Roxas fosse ancora il campione degli Hawk Runners. Se avessimo ancora una famiglia vera, se vivessimo a casa nostra, e se il mio unico pensiero fosse quello di trovare il coraggio di invitarti a uscire...»

Al suo fianco, Kairi si voltò in fretta a guardarlo.

Ancora concentrato sulla partita, Sora non vide la sua espressione, ma si bloccò all’istante, imbarazzatissimo.

Come cavolo aveva fatto a lasciarsi sfuggire una cosa del genere?!

Rimase lì attonito, senza scuotersi né al suono della campanella, né alla vista dei compagni che tornavano in classe. L’unica cosa di cui era ben conscio era il respiro irregolare di Kairi, unito al caldo insopportabile che si sentiva in volto.

Alla fine, lei si schiarì la voce e si alzò. «Dobbiamo andare... Xenahort interroga.»

Sora prese un respiro profondo. Si alzò, guardando fisso le proprie scarpe.

«Va bene venerdì sera?»

Sollevò lo sguardo in preda alla confusione. Kairi era arrossita, ma sorrideva euforica.

Quando capì il senso della sua domanda, Sora la fissò sorpreso, incapace di risponderle. Ma lei non gli diede neppure il tempo di cercare le parole; senza aggiungere nulla corse via nel cortile.

Passò qualche istante prima che lui si riscuotesse e si muovesse per seguirla, sorridendo ai suoi capelli al vento.

 

 

* * *

 

 

Axel era inginocchiato accanto al letto e ai piedi di Roxas. Si sarebbe quasi detta una prosecuzione della piccola schermaglia shakespeariana di poco prima; ma in realtà l’attività che stavano svolgendo non offriva proprio nulla di cui scherzare.

Oltre al suo calore, il dottor Leonhart aveva lasciato a Roxas anche una serie di consigli, che andavano ora tradotti nell’aiuto concreto di Axel.

In fondo non ci voleva una laurea in medicina. Era solo il ripetersi di un movimento regolare: alto, basso, alto, basso... E gli faceva piacere che Roxas lo avesse chiesto a lui, certo.

Però, passare tutto quel tempo solo con lui in quella cameretta stava cominciando a fargli venire in mente degli strani e confusi ricordi.

Il ragazzino che sorrideva e chiudeva gli occhi e lui che si chinava sulla sua fronte e poi sulla sua b...

«Che ti prende?»

Axel scosse la testa con vigore. Era certo che il turbamento gli si leggesse negli occhi, e si affrettò ad abbassarli ancora di più.

«Niente.»

Roxas sembrò decidere di non insistere.

Riprese a sollevargli alternativamente le gambe inerti, senza sforzo. Su e giù, su e giù. Quei movimenti avrebbero dovuto abituare i muscoli delle sue gambe a rimettersi in moto, o qualcosa del genere. Axel non aveva bisogno di spiegazioni dettagliate; qualsiasi cosa potesse essere utile a Roxas, l’avrebbe fatta anche a occhi chiusi.

In fondo, era stato lui a salvarlo da se stesso.

Dopo qualche minuto il ragazzino parlò di nuovo.

«Posso farti una domanda?»

«Spara.»

A testa bassa, Axel si accorse che Roxas stava stritolando un lembo del copriletto tra le dita.

«Dov’è la tua famiglia?»

Alzò lo sguardo su di lui.

Il ragazzo arrossì, ma non distolse il suo.

Rifletté per un istante prima di rispondergli.

«Non lo so. Non l’ho mai conosciuta.»

Roxas parve sinceramente sorpreso. Axel proseguì imperterrito, impersonale. Era un argomento che non l’aveva mai toccato troppo.

«Mia madre è morta subito dopo il parto, e mio padre era già sparito da un pezzo. Io sono finito in una sottospecie di orfanotrofio.» Chinò il viso e riprese a muovergli le gambe, più lentamente. «Un covo di mocciosi problematici con l’unico genere di assistenza che si riserva ai cani... Anzi, meno. A quattordici anni ho tagliato la corda – tanto non m’interessava di essere adottato. Ho lasciato la scuola del quartiere in cui vivevo e mi sono dato alla macchia.» S’interruppe, raccogliendo le idee. «Da allora, per quattro anni, ho vissuto per strada. Di avanzi. Di piccoli furti, all’occorrenza. Sono stato anche alle dipendenze di gente che non ti consiglierei mai di frequentare» ghignò, fermandosi e guardando di nuovo l’amico in faccia. «E alla fine ho incontrato Demyx

Roxas annuì. «E adesso?»

Axel lo soppesò ancora con gli occhi. Ci pensò su. «E adesso, non lo so.»

Rimasero per un attimo immobili a guardarsi e – almeno, questo valeva per lui – a chiedersi quando e come sarebbe cominciato quell’adesso.

Poi Roxas tornò a concentrarsi sulla coperta, e Axel riprese gli esercizi.

Passò ancora qualche lungo minuto di stallo.

«Mi dispiace.»

Alzò di nuovo la testa.

Roxas non lo guardava. Continuava a stringere il tessuto in una mano. Aveva un’aria tristissima.

«Non deve essere stato facile.»

Il mondo si fermò.

Un quindicenne su una sedia a rotelle, che aveva perso i genitori, una passione, e per tanto tempo anche gli amici e la voglia di vivere; che gli aveva gridato in faccia la differenza tra loro due, che gli aveva fatto vedere una strada; che per colpa sua aveva rischiato di morire per mano di uno psicopatico malato d’orgoglio ferito e che, nonostante tutto, aveva ritrovato il coraggio di andare avanti – quel quindicenne, adesso, seduto su quel letto, lo guardava coi suoi occhi puliti e gli diceva che era dispiaciuto per lui.

Per lui.

Si sentì così inerme.

Axel non si chiese se l’avesse sempre saputo o se lo stesse capendo soltanto ora; però ora sapeva. Sapeva che quel giorno, con quel gesto, non aveva semplicemente seguito un impulso. Che c’era un significato in ciò che aveva fatto.

E allora lo fece di nuovo.

Si sollevò sulle ginocchia e portò il viso all’altezza di quello di Roxas.

Le sue labbra appena dischiuse sapevano di un mare di cose che non aveva mai avuto e che non avrebbe mai voluto perdere.

Quando riuscì a ritrarsi, si fermò a poca distanza da lui e lo vide sorpreso, spiazzato, smarrito. I suoi occhi azzurri divennero due specchi d’acqua chiara sopra l’oceano rosso fuoco delle sue guance. L’imbarazzo contagiò anche Axel, che si maledisse mille volte.

Ma non si pentì del proprio gesto.

Il ragazzino distolse lo sguardo, arrossendo ancor più intensamente. Capendo che qualcosa si era appena spezzato, e che in quel modo rischiava di rovinare tutto, Axel si alzò.

Voltò le spalle e s’incamminò verso la finestra.

Aveva bisogno di riflettere. Aveva bisogno di lasciarlo riflettere...

Aveva già una gamba oltre il davanzale quando la voce lo fermò al suo posto.

«A... Axel...»

Incerto su cosa aspettarsi, si voltò.

Roxas era in piedi davanti al letto, la testa bassa, concentrato sui propri calzini. Lo fissò.

E alla fine fece una cosa che – di nuovo – fermò il mondo circostante.

Mosse un passo verso di lui.

Axel distinse lo sforzo nella sua espressione, e temendo di vederlo cadere si staccò subito dalla finestra.

«Roxas, fermati, sei ancora...»

Ma gli morirono le parole in gola.

Il ragazzo allungò una mano e si chinò per sostenersi al piano del comodino; riprese fiato e fece un altro passo.

Axel avrebbe voluto fermarlo, ma si sentiva il piombo nelle scarpe.

Roxas si staccò dal comodino, fece un passo più lungo e posò la mano sulla libreria.

«Accidenti a te» gemette Axel. «Accidenti a te, accidenti a te

Lui non diede segno di averlo sentito. Continuò a camminare, piano, un piede alla volta, senza mai lasciarsi scoraggiare dalla fatica. Superò lentamente la scrivania. Alla fine abbandonò ogni sostegno e si ritrovò proprio di fronte ad Axel.

Qui si fermò, tirò il fiato e abbassò le palpebre, esausto. Cominciò a vacillare. L’adolescente tese le braccia e lo sostenne.

«Tu sei pazzo!» ringhiò.

«Lo so...» Gli occhi chiusi, il respiro ansante, Roxas sorrise stancamente e gli si aggrappò. Riaprì gli occhi. «Sono diventato amico tuo.»

Senza parole, Axel sentì l’ira e la frustrazione sbollire in fretta. Si rese conto in quel momento di quanto gli fosse vicino.

Contemporaneamente, capì anche perché Roxas avesse camminato verso di lui.

E sorrise incredulo alle sue guance ancora rosse.

Avrebbe voluto scostargli i capelli dagli occhi, percorrere con le dita il contorno del suo sorriso; ma non poteva lasciarlo andare, non poteva e non ci riusciva. E allora si limitò a baciarlo di nuovo.

Forse quell’adesso era appena cominciato.

 

 

 

 

 

_________________________________________________________________________________________

 

 

 

 

 

 

 

SORPRESA! Dai che non ve l’aspettavate. Vi ho colti alla sprovvista, eh? xD

Beh, non mi dilungo su questo capitolo. Anche perché sono certa di non averlo strutturato nel migliore dei modi; mi sarebbe piaciuto metterci tanto in più – di Axel, soprattutto di Axel, e della sua comprensione finalmente completa su ciò che lo lega a Roxas. Ma è stato più complicato del previsto. Spero solo non vi deluda ;_;

Alla prossima,

Aya ~

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Capitolo 36
*** Fidati di me ***


35

Fidati di me

 

 

 

Naminè guardò quelle scarpe da tennis calpestare esitanti il tappeto e dirigersi lentamente verso di lei. Poi le due gambe che muovevano quei piedi si abbandonarono sul letto al suo fianco, e nella stanza risuonò un sospiro.

La ragazza alzò il viso. «Ce l’hai fatta davvero, Roxas

L’amico le rispose soltanto con un sorriso imbarazzato.

Anche se la notizia della riabilitazione fisica di Roxas era ormai pubblica, c’era stato un lungo periodo in cui nessuno ne aveva saputo nulla. Solo cinque minuti prima, lo stesso Roxas le aveva raccontato tra le risate della faccia che Sora aveva fatto il giorno che era rientrato da scuola e lo aveva trovato in piedi davanti al frigo aperto, mentre lui masticava un panino farcito e gli sorrideva beato.

Naminè si era commossa nel sapere che ormai il ragazzo riusciva ad attraversare la sua stanza praticamente senza appigli. Le lacrime, però, avevano rischiato di cadere soltanto quando lo aveva guardato negli occhi e lo aveva sentito ridere in quel modo.

«Non so ancora se ce l’ho fatta.» Roxas si strinse nelle spalle. «Quel che è certo è che non è per niente merito mio.»

Naminè lo fissò, sorpresa. «Stai scherzando, vero? Sei stato tu a decidere di riprendere in mano la tua vita.»

Roxas distolse lo sguardo. Per quel poco che poteva vedere del suo viso, le sembrò che fosse arrossito.

«Non avrei mai fatto proprio niente, senza Axel

Il tono in cui pronunciò quel nome fece capire a Naminè molto più di quel che c’era in superficie. Gli sorrise, senza malizia.

«Non devi vergognarti di questo, Roxas. Tutti abbiamo bisogno di qualcuno...»

 

 

* * *

 

 

«... Ma non tutti sono in grado di andare oltre il loro orgoglio e tendere la mano per risalire.»

Tifa guardava con il solito interesse l’adolescente scontroso e ostile che in nome di un’improbabile quanto inevitabile amicizia si trovava lì con lei, invece che in una cella umida o – peggio ancora – in un qualche covo di criminali magari peggiori del suo ex boss.

Axel sospirò e si appoggiò alla poltrona, un braccio disteso sullo schienale. «Arriviamo al punto, tenente. Non credo che il motivo della sua visita sia il desiderio sfrenato di tessere le mie lodi.»

La donna sorrise divertita.

«In parte. Solo in parte.» Si accomodò a sua volta nella sedia traballante di fronte alla poltrona; era piuttosto evidente che Axel non era molto interessato ad offrire il massimo dei comfort ai suoi – ipotetici – ospiti. Ma c’era anche da dire che neppure il resto del condominio, da quanto aveva visto, era in condizioni idilliache. «In realtà sono venuta a parlarti dell’udienza definitiva. È il sedici maggio.»

Axel non disse nulla. Né reagì in altro modo. Si voltò soltanto a guardare il corridoio oltre la porta aperta. Tifa seguì il suo sguardo, indovinando che laggiù da qualche parte c’era una finestra affacciata su una benedetta scala antincendio che univa l’appartamento 2B al 2A.

Guardò di nuovo il suo ospite e si sporse verso di lui.

«Axel» affermò, sicura e diretta. «Lo so che non sono nella posizione di poterti assicurare nulla. So che mi sono esposta molto, troppo, sia con te che con Demyx. E so che questa cosa in polizia non è piaciuta a tutti e che sto rischiando – sarò franca – di finire con il culo per terra. Ma non sono mai stata più convinta di qualcosa in vita mia.» Alzò la voce di un tono. «Quando uscirai da quel tribunale, tu tornerai dal tuo amico a testa alta. Questa è una promessa.»

Lui non si voltò; fece solo un sorriso storto.

 

 

* * *

 

 

«Così oggi torni alle isole.»

Naminè era in piedi davanti alla finestra, i capelli biondi mossi dal vento, lo sguardo rivolto alla scala antincendio di fronte a lei. Roxas la osservava dal letto, senza però provare quel vecchio imbarazzo che un tempo era una costante in sua presenza. E temeva di conoscere bene il motivo di un tale cambiamento.

La ragazza annuì. «Ero venuta proprio per salutarti. Parto questa sera.»

Roxas abbassò lo sguardo, sospirando. «Mi dispiace che tu abbia dovuto passare questo mese di vacanza a preoccuparti per me.»

Naminè si allontanò dalla finestra e tornò lentamente verso il letto. Gli sedette di nuovo accanto e gli sfiorò una guancia con le dita.

«Guardami.»

Lui obbedì. Quando incontrò i suoi occhi profondi e intensi, si ritrovò a pensare ad altri occhi, molto diversi ma in un certo senso anche molto simili, che in poco tempo e più volte – l’ultima delle quali se la sentiva ancora sulle labbra – gli avevano sconvolto l’esistenza. Stordito, s’impose di concentrarsi sulle parole di Naminè.

«Sono due anni che vivi in virtù di altri. Hai fatto quel che hai fatto pensando sempre e soltanto ai tuoi ricordi, ai tuoi genitori, ai tuoi amici che dovevano restare così come li ricordavi, perché non volevi tradire quel che è stato. So che è così, me l’hai detto tu.» Gli sorrise. «Adesso non preoccuparti anche di me, e cerca di pensare a te stesso. Credo che sia ora di cominciare ad essere un po’ egoisti.»

Roxas accolse e ricambiò il suo abbraccio senza arrossire e senza parlare. Le parole avevano perso da molto tempo il loro valore, con lei che sapeva andare oltre.

Fu un rumore da fuori a distoglierlo dalla stretta. Un rumore ormai familiare quanto la luce del sole.

Mentre un fiotto d’imbarazzo lo irrigidiva al suo posto, quasi percependo il suo nervosismo, Naminè si scostò da lui e si protese a guardare la finestra.

Un attimo di silenzio, poi una voce non troppo lontana.

«Ma bene. Oggi il mio piccolo seduttore ha visite...»

Nel tono di Axel c’era un’ironia molto vicina al sadismo. Roxas non riuscì a voltarsi a guardare dalla finestra, ancora immobilizzato da una sensazione stranissima e fastidiosissima che da una settimana a quella parte lo impacciava fin troppo spesso.

Dal canto suo, Naminè sorrise con aria angelica all’inquilino del 2B. «Non preoccuparti, la visita stava per finire. È tutto tuo.»

La ‘sensazione’ crebbe ulteriormente, e in modo esponenziale.

Roxas si decise a seguire lo sguardo dell’amica. Vide Axel, un gomito puntato sul davanzale, l’altro braccio morbidamente abbandonato penzoloni, che guardava fisso proprio lui. Sotto l’ironia, nella sua espressione c’era anche una punta di accusa... Gelosia?

Scosse vigorosamente la testa, ma sentì di non essere riuscito a scrollare via il rossore.

Axel notò di certo il suo turbamento, perché sul suo volto passò il lampo di un sogghigno, prima che tornasse a rivolgersi a Naminè.

«Ma no, posso cederti tranquillamente il privilegio di aiutarlo nei suoi esercizi quotidiani. Dopotutto, a giudicare da come lo vedo zampettare per camera sua, presumo che quella sia ormai solo una scusa per restare solo per qualche ora al giorno con il sottoscritto.»

A giudicare da come mi vede... Cos’è, mi spia?!

Roxas si alzò sulle sue gambe – aveva imparato suo malgrado che la facilità di quel movimento era direttamente proporzionale alle sue emozioni – e andò ad afferrare il davanzale, dal quale lanciò un’occhiata irritata ad Axel e gli consigliò di andare in un posto in cui raramente mandava la gente.

Il rosso sghignazzò e guardò ancora Naminè, sbirciando oltre le sue spalle. «Senti come diventa aggressivo, il tigrotto, quando si sente attaccato?»

Naminè raggiunse Roxas alla finestra e lo fissò, un po’ sconcertata e un po’ divertita. «Davvero. Credo sia la prima volta che ti sento parlare così da che ti conosco.»

Roxas la guardò in tralice, poi tornò a puntare lo sguardo su Axel.

«Non è colpa mia. È lui che mi fa dire cose che... che non dico di solito.»

La serietà intrinseca di quella frase fece calare sensibilmente l’atmosfera scherzosa e il sarcasmo del ghigno provocatorio di Axel.

Fu proprio lui a interrompere il silenzio che si era creato; sembrava voler riprendere il controllo della situazione.

«E va bene, basta con le cretinate. Tra l’altro devo scusarmi del ritardo, bimbo, ma sono stato trattenuto dal grande capo in persona.»

Mentre lo guardava scavalcare la sua finestra e incamminarsi sulla scala antincendio, Roxas lasciò che la curiosità sostituisse l’irritazione.

«Di chi stai parlando?»

Axel arrivò di fronte ai due ragazzi, che si scostarono per lasciargli spazio; Roxas si teneva ancora al davanzale con una mano per non rischiare di perdere l’equilibrio – sarebbe stato troppo imbarazzante se Axel si fosse affrettato a sorreggerlo davanti a Naminè; sapeva benissimo come l’avrebbe fatto. Lui infilò le gambe nel 2A, si appoggiò all’architrave e si stiracchiò, ostentando indifferenza. Alla fine guardò da Naminè a Roxas.

«Il tenente Lockhart. È venuta a farsi quattro chiacchiere... Sapete, sull’udienza.»

Roxas ricambiò il suo sguardo, e di colpo si ricordò che c’erano cose molto più forti, improrogabili e definitive di quel vuoto allo stomaco che avvertiva ogni volta che Axel entrava nel suo appartamento.

 

 

* * *

 

 

Naminè si sciolse dall’abbraccio collettivo in cui Sora e Kairi l’avevano avvolta e si voltò a guardare Roxas. Soltanto in quel momento Axel smise di estraniarsi e di vagare con gli occhi in cerca del punto in cui il taxi era sparito dopo averli lasciati davanti all’aeroporto.

Roxas si alzò dalla poltroncina della sala d’aspetto in cui si era lasciato cadere qualche minuto prima. Aveva voluto accompagnarla così, sui suoi piedi, lasciando al condominio la sedia che ancora usava per quelle poche occasioni in cui si spostava dall’appartamento. Rimase immobile e senza sostegni per un attimo, poi sorrise e allargò le braccia. Naminè si strinse a lui, riempiendo lo spazio vuoto tra loro e rendendolo un incastro.

Axel non si sorprese troppo della fitta di disappunto che gli ghermì le costole.

La ragazzina sollevò la testa, sussurrò qualcosa all’orecchio di Roxas e infine lo baciò lievemente su una guancia.

Axel distolse lo sguardo.

Da quando aveva aperto gli occhi su ciò che quel piccolo naufrago aveva scatenato in lui, da quando aveva rischiato il tutto per tutto in una scommessa che gli era nata dentro e che gli era andata a finire sulla bocca, il pensiero di vederselo sfuggire via gli era ancora più intollerabile. Non gli restava altro da fare che augurarsi che le promesse di Tifa Lockhart fossero affidabili.

Grande. Riporre piena fiducia nel capo degli stessi sbirri che avevano fatto fuori Zexion...

Ma che mi hai fatto, bimbo?

«Ehi.»

Il bisbiglio che gli era appena stato soffiato accanto lo fece sussultare.

All’altezza del suo petto, due occhi blu lo scrutavano fermi. Axel ricambiò l’occhiata, in attesa.

Naminè si sollevò sulle punte dei piedi, avvicinando il viso all’incavo della sua spalla, perché all’orecchio non arrivava. La sua voce quasi si perse nel rombo lontano di un aereo in partenza.

«Tu prova a farlo soffrire ancora e, te lo giuro, ti verrò a cercare anche in capo al mondo per ucciderti con le mie mani.»

Axel non si mosse. Oltre i suoi capelli biondi, oltre le figure silenziose di Sora e Kairi, guardò Roxas; si era seduto di nuovo e aveva gli occhi fissi su di lui, ma quando si scoprì osservato voltò subito la testa, con un sorrisetto timido. Sorrise a sua volta e si ritrasse perché Naminè potesse vedere la sicurezza e la sincerità con cui le rispose.

«Non c’è pericolo.»

La ragazza annuì, convinta. S’incamminò per recuperare la borsa da viaggio che aveva lasciato sul pavimento, accanto alla fila di sedili. Volse intorno un ultimo sorriso e un ultimo saluto.

Dagli altoparlanti dell’aeroporto si diffuse una voce femminile dall’inflessione meccanica.

«Attenzione: ultima chiamata per il volo delle quindici e trenta diretto alle Destiny Islands...»

Roxas alzò lo sguardo su Naminè. «Tornerai quest’estate?»

Lei sorrise. Le sfuggì una lacrima. «Certo che tornerò.»

Doveva essere la prima volta che Roxas chiedeva apertamente la vicinanza di qualcuno, da quando...

No... Axel se ne rese conto all’improvviso. No, non è la prima volta.

«E dai, bimbo, non prendertela. È che mi hai sorpreso, tutto qui.»

«Credimi, sorprende anche me. Solo che... ho qualcosa da fare lì. E ho pensato che forse tu...»

 

 

L’aereo divenne scia e la scia divenne cielo.

Roxas si alzò di nuovo in piedi, oltrepassò Sora e Kairi – che lo guardavano in silenzio, con l’aria di chi ha appena cominciato a credere ai miracoli – e andò ad aggrapparsi alla spalla di Axel.

«Andiamo a casa.»

Gli altri annuirono e li precedettero fuori dall’aeroporto, nella luce smorta di un ennesimo tramonto.

Axel sostenne Roxas con un braccio. Come altre volte, si stupì di quanto sembrasse piccolo anche quando non era seduto su quella dannata sedia a rotelle. Il ragazzino arrossì quando lui lo strinse, e cominciò a muovere i piedi a testa bassa.

S’incamminarono così come erano arrivati. Pochi passi davanti a loro, Sora stringeva la mano di Kairi. Axel non riuscì a trattenere un sorrisetto.

«Che c’è di tanto buffo, stavolta?»

Si voltò per scoprire che il biondino lo sbirciava di sotto in su, ancora un po’ paonazzo.

«Niente, niente... Una cosa che mi ha detto la tua amica.»

Roxas sollevò la testa, incuriosito. «Perché? Che ti ha detto?»

Axel sorrise più apertamente. Si chinò e posò un bacio sulla sua tempia.

«Magari prima o poi ti racconto.»

L’altro distolse lo sguardo e arrossì ancora di più, ma il luccichio nel suo sguardo aveva tutta l’aria di essere di divertimento. La mano con cui si teneva alla sua spalla gli strinse più forte la felpa.

«Axel...»

«Cosa c’è?»

Roxas tacque per un attimo, apparentemente concentrato sui passi di Sora e Kairi, forse augurandosi che non si voltassero all’improvviso ad interromperlo. Lui se l’augurava di certo. Alla fine lo vide sorridere.

«Il giorno dell’udienza» mormorò, «andrà tutto bene. Lo so. Fidati di me.»

Axel non rispose. Continuò a camminargli accanto, guardando la strada.

In cuor suo, sentiva di potersi fidare di Roxas mille volte più che di Tifa Lockhart, di se stesso o di chiunque altro.

 

 

 

 

 

_________________________________________________________________________________________

 

 

 

 

 

 

 

Già, già. Un capitolo un po’ giù di tono. Non so, dovevo congedare Naminè e non ho saputo farlo meglio di così. Personalmente penso che quella ragazza si meriti più attenzione; non siate crudeli con lei ç_ç

Ci avviciniamo al processo. Axel e Demyx saranno giudicati colpevoli o innocenti? Ai posteri l’ardua sentenza... No, aspettate: quella è un’altra storia. xP

Grazie come sempre di essere qui. A tutti voi. <3

Aya ~

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Capitolo 37
*** Assoluzione ***


36

Assoluzione

 

 

 

 

A guardia del portone di legno, l’uomo in uniforme era chiaramente intenzionato a dimostrare di meritarsi lo stipendio.

«Senti, piccolo, te lo dirò per l’ultima volta. Questo non è un posto per ragazzini. È il mio ultimo avvertimento. Fuori di qui

Roxas avrebbe desiderato con tutto il cuore di potergli sferrare un calcio nella mascella; ma sapeva che così facendo, oltre a minare la stabilità delle proprie gambe, avrebbe certamente peggiorato il suo status.

Gli altri cercavano ancora di tenere testa alla guardia.

«Lei non capisce...»

«È importante...»

«Dobbiamo entrare!»

L’uomo mise mano a una ricetrasmittente e la brandì con fare minaccioso.

«E io invece dico che dovete andarvene!» sputacchiò. «Non fatemi perdere definitivamente la pazienza, o sarò costretto a...»

«A perdere il posto di lavoro?»

Roxas si voltò di scatto. Gli si allargò il cuore alla vista del tenente Lockhart che marciava verso la guardia con la sua migliore espressione da poliziotta in carriera, mostrando il distintivo. Dietro di lei venivano due giovani agenti che ben conosceva.

«I ragazzi sono con noi» spiegò il tenente, amabile, appoggiandosi al banco. «Ora ti conviene aprire quella porta e farci entrare, se ci tieni che le tue chiappe continuino a poggiare su quella tua bella poltrona di pelle. Non mettermi alla prova, ho molte conoscenze.»

L’uomo esitò per un istante; ma alla fine, contrariato, ripose nella cintura la ricetrasmittente e si voltò con uno sbuffo stizzito ad aprire il portone alle sue spalle.

Roxas alzò di nuovo lo sguardo sulla donna. Lei gli rivolse una strizzatina d’occhi e un sorrisetto impercettibile. Ci volle solo un istante perché il ragazzo si rendesse conto di aver ricambiato il sorriso.

 

 

* * *

 

 

Non somigliava affatto a ciò che aveva immaginato.

Seduto su una semplice sedia di legno, accanto a un tizio che chiamavano ‘avvocato’ e che era un semplice sconosciuto, in una semplice sala quasi vuota, Axel si guardava intorno. Considerando quella che era stata tutta la sua vita, si disse che avrebbe dovuto figurarsi spesso una scena del genere; adesso, invece, si rendeva conto che non ci aveva mai riflettuto davvero. E di certo i pochi pensieri confusi degli ultimi sei giorni non corrispondevano a realtà.

Anche ora che ci si ritrovava dentro, non sapeva bene come dovesse sentirsi. Era piuttosto apatico, in fondo, e senza un vero interesse faceva scorrere lo sguardo sui volti severi e quelli curiosi e quelli indifferenti come il suo, ascoltando senza sentirlo il brusio delle chiacchiere che – forse – precedevano sempre l’inizio di un processo a un delinquente redento ma senza scopi nella vita.

Rendendosi conto del proprio pensiero, Axel abbassò la testa a guardare il parquet per nascondere un sorriso. Uno scopo forse no, ma qualcos’altro certo l’aveva trovato.

Quando alzò di nuovo gli occhi, si ritrovò a guardare una platea di sguardi puntati sul fondo della sala. Li seguì automaticamente e si chiese se quel qualcos’altro, tra le sue varie facoltà, detenesse anche quella di materializzarsi dai suoi pensieri.

La porta si era appena spalancata sull’ingresso di Roxas. Il ragazzino si guardava intorno come lui, un po’ intimidito, ma con lo sguardo di chi sa quel che fa, che vuole andare fino in fondo, che cammina per la sua strada.

Da solo e, finalmente, sulle sue stesse gambe.

Dietro di lui intravide Sora e Hayner, e un passo più in là Kairi, Olette e Pence. Chiudevano il corteo nientemeno che Aerith Gainsborough, Cloud Strife e Tifa Lockhart.

Axel tornò a fissare Roxas, interdetto. Non si era aspettato di vederlo in aula quel giorno. Un paio d’ore prima, quando si era affacciato alla sua finestra per salutarlo, si era visto accogliere da un sorriso sicuro, ma vederlo lì era comunque una sorpresa.

«... Andrà tutto bene...»

Roxas incrociò il suo sguardo. Si fermò in piedi accanto a una fila di posti vuoti e gli sorrise, ancora. La distanza non bastò ad impedire ad Axel di vedere con chiarezza l’azzurro chiaro dei suoi occhi.

Mentre quello strano assembramento di ragazzini e poliziotti, sognatori e disillusi – chi era cosa, in realtà? – prendeva posto in quella sala di tribunale, Axel guardò fisso davanti a sé, nel punto in cui da un momento all’altro un nuovo estraneo in toga avrebbe deciso se fargli scontare i suoi ultimi due mesi di esistenza al buio e da solo, o se permettergli di uscire e cominciare a vivere.

Andrà tutto bene.

Questa volta non si curò di nascondere il sorriso.

 

 

Dov’era finito?

Nella confusione di teste e gambe e persone sconosciute che si alzavano e sparivano dalla sua strada, aveva finito col perderlo di vista.

Scrutò nervoso le facce intorno a lui, con un nuovo interesse. Doveva vederlo, doveva parlargli, adesso...

«Axel

La sua voce. Un vuoto allo stomaco.

Si voltò e vide Roxas, appena sbucato dalla folla, e di colpo si rese conto di non avere le parole.

Si guardarono. Si sorrisero. Lasciarono che l’eco di quella parola parlasse per loro.

Assolto.

«Te l’avevo detto.» Roxas si avvicinò di un passo. Sembrava emozionato. «Ti ricordi, no?»

Axel rifugiò lo sguardo sulle sue scarpe da tennis, le stesse che gli aveva visto il giorno in cui si era trovato a sorreggerlo per la prima volta.

«Però non mi avevi detto che saresti venuto.»

Roxas si avvicinò ancora e si chinò per poterlo guardare in faccia. Axel osservò il suo sorriso euforico e si chiese se in quel preciso istante, su quel pianeta, ci fosse un’altra persona altrettanto felice.

«Volevo portarti in un posto, quando fossi uscito di qui. Perché ero sicuro che saresti uscito di qui.»

«Mmm.» Quasi senza volerlo, Axel si ritrovò a sogghignare. «Se non sbaglio, questo dovrebbe essere il tuo primo appuntamento in piedi e con un uomo libero.»

Il biondino avvampò all’istante. Si raddrizzò, incrociò le braccia e alzò gli occhi al cielo.

«Sempre il solito» sbuffò. «Mai serio, neanche oggi!»

Axel abbassò la voce. «Guarda che io sono serio.»

Roxas lo guardò, imbarazzato. L’arrivo tempestivo di Sora gli evitò di ribattere a quelle parole.

«Axeeel!» Piombò tra di loro come un acquazzone, portandosi appresso i suoi amici sorridenti. Aveva tutta l’aria di aver preso quella storia di processi e compagnia bella come un gioco divertente. «Evvai, è fatta! Torniamo insieme al condominio, allora?»

L’adolescente sorrise all’espressione spumeggiante di Sora.

«Non subito. Prima avrei da fare con tuo fratello.» Guardò oltre le sue spalle, nel semicerchio che i compagni di Sora e Roxas stavano formando davanti a loro. «Vero, bimbo?»

Curioso, Sora si voltò a guardare il fratello, subito imitato dagli altri. Lui li ignorò tutti e ricambiò l’occhiata di Axel. Il suo colorito stava tornando normale.

«Vero.» Annuì e sorrise. «Abbiamo un appuntamento.»

 

 

* * *

 

 

Era un lunedì ventoso. Roxas camminava sicuro sul sentiero di ghiaia, pugni in tasca e sguardo fisso, al fianco di Axel. La loro meta si stagliava davanti a loro, bianca nel sole di maggio, con una traccia sottile di nero a recare alcune scritte impresse nel marmo e nella memoria.

Ci aveva pensato molto, prima di tornare in quel posto. Si era svegliato nel cuore della notte nel suo letto, in lacrime, e aveva avuto paura e aveva avuto rimorsi. Ma aveva capito che paura e rimorsi andavano affrontati. Li aveva affrontati. Forse superati.

Con Axel.

Ed era così che doveva finire. Con Axel, ancora una volta.

A pochi passi di distanza da quelle scritte, Roxas chiuse gli occhi e rivisse il sogno che glieli aveva aperti.

 

 

«Roxas

La camera era buia, rischiarata solo dal riflesso azzurrino del cellulare che Sora, addormentato con la bocca aperta e una gamba fuori dal materasso, aveva ancora in mano. Roxas sorrise ricordando il fratello che durante la notte messaggiava freneticamente con Kairi, affermando di poter andare avanti fino all’alba e sbadigliando intanto come un sanbernardo.

«Roxas...»

Si sollevò a sedere, più perplesso che preoccupato. Non riusciva ancora a individuare la fonte della voce. Guardò la finestra ai piedi del letto, aspettandosi di vedere la figura alta e scura di Axel; ma la scala antincendio al di là delle persiane sembrava deserta. Guardò di nuovo Sora, ma lui continuava a dormire beato.

«Roxas, svegliati.»

«Sono sveglio» mormorò confusamente nel buio.

Poi avvertì un peso accanto alle gambe e si voltò ancora, per scoprirsi osservato dagli occhi di suo padre.

Roxas si sentì mancare il fiato. Il papà era identico a come lo ricordava, il sorriso buono, l’odore del dopobarba che una volta Sora aveva provato di nascosto – gli erano rimaste le guance rosse per giorni – la pelle chiara, priva di ferite, priva di sangue, senza alcun ricordo di quella macchina distrutta.

Seduto sul suo letto c’era proprio lui, suo padre, in carne ed ossa.

«No che non lo sei.» Il papà scosse la testa, sorridendo tristemente. «Da molto tempo vivi ancorato ai tuoi sogni, Roxas. Ma è tempo di svegliarsi.»

Roxas avrebbe voluto toccarlo, abbracciarlo, ma qualcosa lo bloccava.

«Che cosa vuoi dire?» chiese, anche se conosceva già la risposta.

Il papà scosse ancora il capo. «Non chiedere cose che già sai.»

Il ragazzo chinò lo sguardo. Vide il lenzuolo distorto da un velo improvviso di pianto represso. Strinse le mani, e non gli sembrarono più le sue.

«Ma io non posso lasciarvi andare» mormorò.

Una mano calda gli scostò i capelli dalla fronte. Un profumo nuovo si sparse nella stanza – nuovo, ma conosciuto – e gli fece battere il cuore più forte. Quando sollevò lo sguardo sul viso di sua madre, Roxas si sentì tornato ai suoi tredici anni.

«Ascoltami, Roxas. Noi sappiamo cosa provi.» Anche il sorriso della mamma era triste. «Per tutta la vita ti sei sentito paragonato a tuo fratello, non è vero? Hai sempre pensato di essere meno forte, perché ti sentivi meno sicuro, perché avevi più paura. Lo vedevi amato e benvoluto da tutti, non solo da noi.» Si sedette accanto a lui e lo abbracciò con dolcezza, annullando il tempo e tutto il resto. Ed era così reale. «Quando siete rimasti soli, tu sentivi di essere quello che aveva più bisogno di noi. E questo finora ti ha impedito di rialzarti. Di svegliarti.»

Roxas si strinse a lei e chiuse gli occhi. Intuiva ciò che sarebbe arrivato dopo, ma non era sicuro di volerlo ascoltare.

«Ma adesso hai trovato qualcosa che ti rende unico.» La mamma lo baciò sulla fronte, senza sciogliere l’abbraccio. «Hai trovato qualcuno da salvare. E l’hai salvato. Questo significa che sei pronto.»

Il ragazzino singhiozzava, si sentiva più bambino ad ogni millesimo di secondo, disperso e disperato.

«Non posso. Non è vero. Io non ho fatto niente, non posso fare niente! Non sono capace di lasciarvi andare! Non posso fare più niente

Sua madre lo allontanò e lo costrinse gentilmente a guardarla negli occhi, azzurri come i suoi.

«Ti sbagli, e lo sai. Guarda il braccio di tuo padre.»

Roxas obbedì. Vide una manica di camicia arrotolata al gomito del papà. Nella penombra spiccava una cicatrice, quella che lui stesso gli aveva ricucito in una baita di montagna, non troppo diversa dalla piccola mezzaluna sotto la spalla di Axel.

Forse fu per quella vista, forse per quel pensiero, ma di colpo capì di avere di nuovo quindici anni.

«Tu sei pronto, Roxas. Sei pronto a svegliarti.»

Gli occhi e i sorrisi e i profumi svanirono come erano apparsi, come se non ci fossero mai stati, e di fronte al suo letto ci fu di nuovo soltanto una finestra.

La stessa da cui, un giorno al crepuscolo, aveva visto Axel.

Allora capì che poteva svegliarsi davvero.

 

 

Inginocchiato di fronte a due lapidi bianche, Roxas chiese scusa al cielo e a se stesso per non essere riuscito prima a venire a camminare in quel cimitero.

Una parte di lui era ancora convinta di non potercela fare – eppure, riuscì a non abbassare gli occhi.

Guardò le due foto di volti sorridenti che aveva visto per la prima e ultima volta alla fine dell’unico funerale cui avesse assistito in vita sua. Riconobbe intatti come nel suo sogno i lineamenti che aveva sperato di dimenticare e che mai avrebbe voluto dimenticare. Sorrise e si concesse di crederci.

«Grazie» sussurrò soltanto.

Il vento gli restituì solo il silenzio di Axel, in piedi dietro di lui.

Roxas si alzò e si voltò, lasciandosi alle spalle i ricordi dei sogni degli ultimi due anni – e trovandosi davanti agli occhi gli occhi verdi di una nuova realtà.

 

 

 

 

 

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Pare proprio velocissima, la riabilitazione fisica di Roxas. Vi imploro di perdonarne la superficialità. Questa storia mi ha messa in difficoltà come nessun’altra ç////ç

E ora, siete pronti alla notiziona? La fanfic si concluderà tra dieci capitoli esatti. Eh già, finalmente ci avviamo alla conclusione. Spero di non deludervi troppo, strada facendo. ^^

Aya ~

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Capitolo 38
*** Qualcuno da salvare ***


37

Qualcuno da salvare

 

 

 

Non gli era mai capitato di sentirsi così inadeguato.

Il suo amico ora camminava libero, in tutti i sensi, senza un accenno di affaticamento o di bisogno di sostenersi a lui. Axel non riusciva a smettere di lanciargli occhiate furtive. Si conoscevano da poco più di un mese; non avrebbe saputo dire chi dei due fosse più cambiato, né se quel tempo fosse stato troppo lungo o troppo breve. Camminando sulla strada di casa, con la coscienza fresca di bucato e senza più nulla da nascondere a se stesso o agli altri, lo spacciatore fallito non pensava più alla propria condizione, ma a quella della persona che gli stava accanto, l’unica che volesse con sé e l’unica che lo facesse sentire sempre nettamente inferiore.

«Hai perso la lingua?»

Roxas lo guardava impassibile. Axel si strinse nelle spalle.

«Pensavo.»

«Pensavi?» Il ragazzino ridacchiò. «Tu

«Ridi, ridi pure.» Axel gli indirizzò un mezzo sorriso senza ironia. «Pensavo che somigli moltissimo a tua madre.»

Roxas tacque, sorpreso. Poi distolse lo sguardo e continuò a camminare.

«Lo prendo come un complimento.»

Non replicò; per una volta non ci teneva a rimarcare il suo imbarazzo. Probabilmente lui non era neppure in grado di immaginare il percorso e la lotta interiore che Roxas aveva dovuto affrontare prima di mettere piede in quel cimitero e tornare a guardare negli occhi la sua famiglia. Se solo avesse potuto dimostrargli quanto significasse per lui essergli stato vicino in un momento del genere...

Scosse la testa.

Erano arrivati. Davanti all’ingresso del condominio, Vexen zoppicava in giro, raccattando dalla strada dissestata quelli che sembravano giornali vecchi ancora in buono stato. Chissà, magari voleva farsi una cultura. Axel ricordò che una volta, in un numero di Topolino trovato in un altro parco troppi anni prima, aveva visto Paperon de’ Paperoni comportarsi esattamente nello stesso modo.

Un sogghigno gli venne spontaneo, nel preciso istante in cui il vecchio portinaio alzava lo sguardo e lo intercettava. L’espressione acida si venò di una fievole traccia di allarme, ma durò soltanto un nanosecondo; Vexen finse ostentatamente di non averli visti e zoppicò in fretta su per i gradini d’ingresso fino al portone, chiudendoselo alle spalle con uno schianto secco.

Roxas rise allegramente. «Tu lo terrorizzi, Axel

«No, è solo offeso perché non è ancora riuscito a estorcermi l’affitto.» Scrollò le spalle e ripercorse i passi di Vexen verso l’uscio. «Per quel che mi riguarda, può anche stare tranquillo. Ora che sono ufficialmente un bravo ragazzo provvederò anche a questa rottura di scatole, prima o poi...»

«Axel... Fermati.»

«Dai, lo so che non dovrei scherzarci su, però...»

«Non hai capito.» Roxas lo raggiunse e lo afferrò per una manica. «Fermati un attimo!»

Senza capire, Axel si fermò ai piedi dei gradini e lo fissò, inarcando un sopracciglio.

«Beh?»

Roxas arrossì e lo lasciò andare.

«Devo... dirti una cosa.» Fece un profondo sospiro. «Ti ho detto che ero sicuro che oggi saresti potuto tornare a casa... Beh, non ero l’unico ad esserlo. Sora e Kairi hanno organizzato un... una festa per te. Che comincerà appena tu ed io arriveremo al secondo piano.»

Axel continuò a fissarlo, a dir poco sbalordito. Alla fine gli affiorò alla bocca un dubbio.

«Mi stai dicendo» disse lentamente, «che mi hai portato laggiù al cimitero... per distrarmi

Roxas alzò di scatto la testa. Sembrava arrabbiato, o deluso, dalle sue parole.

«Ti sembro capace di una cosa del genere?»

Axel realizzò la sciocchezza detta in meno di un baleno. Distolse lo sguardo e abbassò la voce.

«No. Scusa.»

Seguì un silenzio impacciato. Quelle ultime due sillabe echeggiarono per un pezzo nell’aria circostante; Roxas pareva sorpreso, come se non si aspettasse quella risposta, e Axel dovette riconoscere di non essere meno impressionato da se stesso.

Finalmente si decise a tornare alla questione in sospeso. «Allora?»

Roxas alzò gli occhi, ancora confuso. «Allora cosa?»

«Allora, che c’è? Hai deciso di rovinarmi la sorpresa della festicciola solo perché ti andava, o c’è un motivo preciso per cui mi stai preparando alla cosa?»

Il biondino sembrò ritrovare il filo del discorso. Sollevò le spalle.

«Più o meno. È che... In questo momento, io non ho molta voglia di festeggiare.» Arrossì ancora. «Cioè, sono felice per te, lo sai, però non credo di volermi ritrovare in mezzo a tanta gente, ora come ora. Perciò, ecco, te l’ho detto, così ora tu vai da Sora e gli altri e io...redo di volermi ritrovare in mezzo a tanta gente, ora come ora. se.»

«Non se ne parla neanche.»

Roxas s’interruppe.

Axel lo afferrò per un braccio, fece dietrofront e se lo trascinò dietro. «Tu vieni con me. Non ti lascio solo. Memorizzato?»

Non si voltò a guardare la sua espressione, ma a giudicare dal suo silenzio capì che sì, aveva memorizzato. E che non gli dispiaceva.

 

 

* * *

 

 

«E voi due che ci fate qui?»

Si fermarono. Avevano circumnavigato una buona metà dell’edificio, fino al punto in cui il vicolo rivelava il cortile interno, ma a quel punto si erano imbattuti in due agenti di polizia: per la seconda volta da quella mattina, Roxas riconobbe Cloud Strife ed Aerith Gainsborough.

«Dunque, vediamo.» Axel soppesò quest’ultima con lo sguardo prima di rispondere alla sua domanda. «Fino a qualche ora fa ci abitavamo, e dovrebbe essere ancora così, a meno che le circostanze non ci abbiano sfrattati nel frattempo. Ma, ora che ci penso, potremmo fare a voi la stessa domanda.»

Roxas approfittò del suo enfatico sarcasmo per sfilare il braccio dalla sua stretta, augurandosi che l’imbarazzo non gli si leggesse in faccia.

La giovane donna sorrise gentilmente e mostrò ad Axel ciò che il suo collega teneva in mano.

«Beh, a quanto pare siamo venuti a sgomberarvi la strada.» Si voltò per rimuovere anche le ultime transenne tra quelle che nelle ultime settimane avevano bloccato il vicolo e assicurato gli arresti domiciliari di Axel. «Comunque, se questo è il vostro metodo per rientrare in casa, devo ammettere che è un po’ inusuale. Grane col signor Vexen

Ne aveva azzeccate due in un colpo: Roxas non poté impedirsi di sorridere tra sé e sé.

Dal canto suo, Axel allargò le braccia e scosse la testa.

«Eh, lasci stare, è una storia lunga.» Prese di nuovo Roxas per un braccio e ricominciò a trascinarlo verso il vicolo. «Allora ci si vede, signori. Buona giornata.»

«Altrettanto» sorrise Aerith, accompagnata da un semplice cenno del capo da parte di Strife.

Roxas fece per ricambiare il saluto, ma subito dopo si ritrovò nel vicolo con Axel e si distrasse: era la prima volta che passava di lì, da quando viveva al condominio.

«Meno male» sbuffava intanto Axel in sottofondo, producendo con la sua bassa voce baritonale un eco rombante sotto la volta di cemento. «Se non altro, ho finito di sentirmi come un topo in trappola.»

Stava già per dirgli che d’ora in poi avrebbe potuto guadagnare ben più di questo, quando si rese conto che in quella trappola in realtà Axel c’era stato benissimo, o comunque non se n’era mai lamentato prima. Rinunciò in partenza e si rassegnò a tenergli dietro.

Visto dal basso, il cortile del condominio sembrava molto più grande che dalla sua finestra al secondo piano, ma non meno sporco e mal tenuto. Tuttavia non gli dispiaceva quel cambiamento di prospettiva.

Lo sguardo di Axel si posò sulla scala antincendio e d’improvviso scintillò pericolosamente.

«Bene, piccolo Roxas.» Non era sicuro che quel vezzeggiativo significasse qualcosa di buono. «Direi proprio che è arrivato il momento di mostrarti la mia camera da letto.»

C’era da aspettarselo.

Roxas si sentì avvampare, poi tirare di nuovo in avanti. Cercò di divincolarsi.

«Insomma, Axel! Mollami! Guarda che so cammina...»

La voce gli si spense, mentre si rendeva pienamente conto del senso delle parole che aveva scelto per protestare.

Axel smise di trascinarlo e si voltò, guardandolo con occhi indecifrabili. Confuso, Roxas ricambiò lo sguardo.

So camminare.

Era così strano per lui pronunciare quelle due sole parole. Eppure gli erano salite alle labbra così, spontaneamente, senza riflettere. La risposta più ovvia del mondo.

Non avrebbe saputo spiegare il senso di estraniazione appena provato; ma Axel capì lo stesso.

Gli sorrise, lo lasciò andare e si diresse senza fretta alla base della scala.

Grato del suo silenzio, Roxas si scosse e lo seguì.

L’adolescente era già alla metà della rampa che conduceva al primo pianerottolo quando si fermò improvvisamente, si voltò e seguì un pensiero chissà dove. Una decina di gradini sotto di lui, Roxas vide la sua espressione indurirsi. Per un attimo gli apparve di nuovo il pericoloso sconosciuto che una notte aveva percorso quella scala antincendio con una pistola in mano e una persona da uccidere. Abbassò gli occhi sul gradino di metallo davanti ai propri piedi, così stranamente piantati al suolo.

«Sai che fine ha fatto Zexion? Quello che hai visto venire a cercarmi qui, il mese scorso?»

«No. Che fine ha fatto?»

«Gli hanno sparato. Quei due simpaticoni qui fuori.»

Pausa.

«Sul serio?»

Axel chiuse gli occhi e si stiracchiò. «Sul serio. Strana la vita, eh?»

Roxas annuì e alzò la testa.

«Mi dispiace.»

Al suo fianco, l’altro sobbalzò e lo fissò con aria stordita.

«Quando sei arrivato quassù?»

«Proprio adesso.» Roxas tagliò corto e continuò a salire i gradini, guardandosi i piedi e ripetendosi mentalmente che erano proprio i suoi. «Perché non me ne hai parlato prima?»

Axel non rispose.

Raggiunto il pianerottolo del primo piano, che nasceva davanti alla finestra dell’appartamento 1B, lui proseguì sulla piattaforma fino a quella dell’1A, sbirciando l’amico ancora fermo sulla rampa inferiore. Quando incontrò il suo sguardo assorto, si fermò.

«Che c’è?»

«È...» Axel non batté ciglio. «Niente. È un po’... strano vederti salire le scale, ecco tutto.»

L’intensità con cui lo fissava lo mise di nuovo a disagio. Distolse il viso e riprese a camminare.

I passi di Axel riecheggiarono dopo qualche istante, un rumore smorzato nel silenzio assoluto.

Le persiane alla finestra del 2A, quella della sua stanza, erano chiuse come le aveva lasciate prima di uscire con Sora quella mattina per recarsi all’udienza in tribunale. Meglio così; sarebbe stato alquanto imbarazzante se Sora o Hayner o chiunque altro in quel momento stessero guardando proprio da quella finestra, accorgendosi che lui, invece di presentarsi alla porta del suo appartamento, stava per entrare così furtivamente nel 2B...

Si fermò di nuovo sul pianerottolo del secondo piano, aspettando che Axel facesse gli onori di casa. Lui lo raggiunse, lo superò e scavalcò agilmente il davanzale.

«Non la chiudi mai, questa finestra?» cercò di scherzare Roxas.

Recuperata all’istante l’indole sarcastica, Axel sogghignò.

«Non potrei mai. È la mia via di fuga preferita.» Fece un passo indietro. «Non ti serve aiuto, non è vero?»

Il ragazzo sorrise. Se per qualche secondo Axel aveva guardato alle sue gambe rinnovate con gli occhi di tutti gli altri, ecco che ora tornava al suo vecchio pragmatico distacco.

«Non mi avvilisco per così poco...»

Proprio come piaceva a lui.

«No. Non mi serve aiuto.»

Si avvicinò al davanzale, vi si sostenne con una mano e sollevò la gamba sinistra fino a oltrepassarlo. Sedette a cavalcioni e tirò dentro anche la destra, ritrovandosi infine in piedi di fronte ad Axel.

«Fatto.»

L’altro aveva ancora gli occhi fissi sui suoi jeans. Roxas ebbe la preoccupante impressione che avesse seguito tutti i suoi movimenti con estrema cura. Ma perché lo rendeva così nervoso?

Cercò di ignorare quel pensiero così stupido guardandosi intorno nella stanza di Axel.

A prima vista, sembrava che l’inquilino del 2B si fosse trasferito là il giorno stesso. L’immagine gli ricordò quella del soggiorno, che aveva già avuto modo di vedere un’unica volta. C’erano pochissimi mobili, che parlavano di scarna essenzialità, e praticamente nessun effetto personale. Un letto sfatto, un armadio, un comodino. Ogni particolare dava l’idea di un proprietario che non aveva la minima voglia di far sua quella stanza o, più semplicemente, intendeva passarci meno tempo possibile.

Roxas si avvicinò lentamente al letto.

«Mmm

«‘Mmm’, cosa?» Axel gli si affiancò, incrociando le braccia. «Che ti aspettavi, un albergo a cinque stelle?»

«No di certo. Ma forse qualcosa con un minimo di personalità...»

«Traduzione, prego.»

Si voltò a guardarlo divertito, con fare paziente. «Voglio dire che questa stanza non dice niente di te. La mia, per esempio, è un caos: qualcosa vorrà dire.»

Axel ridacchiò. «Magari è solo che non c’è niente da dire su di me.»

«No, questo è impossibile.»

«Andiamo, bimbo! Tu sai di me tutto quello che vale la pena sapere e anche qualcosa che non vale la pena sapere.» Si tolse la felpa e rimase in t-shirt. «Eccetto il mio più grande talento, forse.»

Roxas mosse un passo indietro, con un bruttissimo presentimento. «Sarebbe a dire...?»

Axel gli si avvicinò ghignando. «Prima devi dirmi tu una cosa. Soffri il solletico?»

«Il...» Sgranò gli occhi e indietreggiò ancora, fino a toccare il materasso. «Che cosa

«Perché questa» lo interruppe l’altro, tendendo le mani, «è una cosa di me che non varrebbe la pena sapere. Ma pazienza, io te la dico lo stesso!»

Prima di avere il tempo di reagire, Roxas si ritrovò quasi scaraventato sul letto, con Axel al suo fianco intento in un ossessivo attacco di solletico. Scoppiò a ridere e piegò automaticamente le gambe per difendersi, ma l’adolescente aveva braccia più lunghe e forti delle sue e riuscì a vincere presto ogni sua resistenza. In preda alla ridarella e ormai alle lacrime, Roxas si sfilò il cuscino da sotto la testa e colpì ripetutamente, alla cieca, dove e come capitava.

«Dovevi marcire in prigione!» boccheggiò. «Ti odio! Ti odio! Ti odio!»

Axel si fermò all’improvviso. Rideva anche lui. Roxas lasciò ricadere il cuscino e rimase ansante, a braccia aperte, a cercare di calmare le risate.

«Forse non so tutto di te» esalò poi, «ma una cosa è certa. Sei lunatico.»

«Lunatico? Io?»

«Sì, tu! Un attimo prima hai uno sguardo da assassino, un attimo dopo ti trasformi nel Signore del Solletico. Durante gli arresti domiciliari fai sempre lo scemo, poi ti sento dire che ti sentivi in trappola.» Scosse la testa, esasperato. «Come mai sei così contraddittorio?»

Axel sorrise e gli asciugò la guancia, dove una lacrima si era scavata una via per andare a disperdersi nel cuscino.

«Che pretendi da me? È colpa tua... Mi fai fare cose che di solito non faccio.»

Roxas perse ogni voglia di ridere. Aveva riconosciuto la parafrasi delle sue stesse parole, e sapeva che non c’era nulla di ironico in quella frase.

Soltanto allora si rese conto di quanto Axel fosse vicino.

Imbarazzato, sfuggì al verde magnetico e indagatore dei suoi occhi e si concentrò sulla sua spalla. Sotto la manica della t-shirt nera si poteva distinguere una piccola macchia bianca a forma di mezzaluna. Senza neppure accorgersene, portò una mano a sfiorargli la cicatrice. Liscio sul ruvido, freddo sul caldo.

«Prima non mi hai risposto.» Ancora non lo guardava. «Perché non mi avevi detto che il tuo amico... Che era successo quel che è successo?»

Axel non si muoveva; ancora in quella posizione, sollevato sui gomiti puntati, poco sopra di lui, sembrò riflettere sulla domanda.

«Era una cosa che non riuscivo a fronteggiare, credo. Mi sembrava... irreale. Ma l’amicizia non c’entra. Zexion non era esattamente mio amico... Una volta credo di aver avuto un’amica, una bambina dell’orfanotrofio. Da allora non ho più avuto bisogno di simili stupidaggini.»

Roxas alzò gli occhi, imbronciato. «Ma scusa, allora io cosa dovrei essere? Tuo zio?»

Axel gli sorrise, sicuro di sé. «Proprio non ci arrivi?»

Il ragazzo lo fissò, incerto, ma l’altro non aggiunse nulla. Il silenzio e la vicinanza si facevano sempre più imbarazzanti. Avvertendo l’accelerare frenetico dei battiti del cuore, Roxas si rifugiò di nuovo nella contemplazione della cicatrice sul suo braccio destro. Una cicatrice: ciò che l’aveva convinto a chiedergli di accompagnarlo al cimitero, dai suoi genitori...

«Hai trovato qualcuno da salvare. E l’hai salvato. Questo significa che sei pronto.»

Axel scese lentamente con il capo e gli posò le labbra tra i capelli.

«Mi odi davvero?» bisbigliò.

Roxas chiuse gli occhi. Lentamente, scosse la testa.

«Sicuro?»

Le labbra si spostarono sulla punta del suo naso.

«Sicuro» mormorò lui, le palpebre ancora chiuse.

Un improvviso sospiro sommesso lo indusse a sollevarle. Axel si stava ritraendo.

«Bene. Fantastico. Questa... non è una cosa normale.» Aumentò la distanza tra loro, ma rimase chino su di lui. «Senti, Roxas, non mi è capitato molto spesso. Mai, a dirla tutta. E... Insomma...» Sospirò di nuovo, guardò la parete al lato del letto e imprecò a mezza voce. «Merda. Io non voglio farti male, capisci? Non voglio che tu debba affrontare anche... questo... adesso. Non voglio vederti fare di nuovo i conti con le chiacchiere della gente... Non potrei sopportarlo

Roxas osservò a lungo il suo profilo sottile, affilato, con un crescente stupore per quell’inaspettato tratto di sé che gli stava svelando e una morsa allo stomaco che non tardò troppo a giustificare.

Alla fine, tolse la mano dal suo braccio e gliela portò al viso, costringendolo a guardarlo in faccia.

«E tu credi che me ne importi qualcosa?»

Per qualche secondo, Axel non reagì. Poi sorrise, posò la mano sulla sua e se l’allontanò dal volto, chinandosi ancora sul suo.

«Menefreghista.»

Roxas ricambiò il sorriso. «Lunatico.»

«Impertinente.»

«Mai quanto te.»

«Tregua?»

«Tregua.»

Mentre chiudeva gli occhi, sentì sulle labbra il sapore di quelle di Axel e convenne con lui: almeno in quel momento, non gli importava di niente e di nessuno.

E non si sentiva neppure in colpa.

 

 

* * *

 

 

«Alla buonora! Ma dove cavolo siete stati?»

«Uh. In giro.» Axel allungò una mano e arraffò la pasta al cioccolato che Sora stringeva in mano, addentandola con gusto. «Ehi, c’è una festa?»

«Sì che c’è una festa! Roxas non ti ha detto niente?»

Il rosso alzò le spalle e continuò a masticare. Confuso al punto da non protestare neppure per la pasta perduta, Sora spostò lo sguardo da lui a suo fratello, che era appena entrato nell’appartamento con aria svagata; sembrava letteralmente perso tra le nuvole.

«Roxas

Hayner e Olette si avvicinarono in fretta alla porta, ma di fronte alla sua strana espressione gli fecero subito ala, forse temendo che non si sentisse bene.

«Ehi, tutto a posto?»

«Che ti è successo?»

Roxas li guardò come se non li riconoscesse; poi, proprio come Axel, scrollò le spalle e rubò il pasticcino alla crema di Hayner.

Sora non ci capiva nulla. Fissò ancora Axel, interrogativo. Il rosso ingoiò l’ultimo boccone di cioccolato e gli strizzò l’occhio.

«Tranquillo. Non l’ho drogato, te l’assicuro. Abbiamo solo fatto una lunga chiacchierata sull’amicizia, tutto qui... È stato a dir poco illuminante.» Rivolse la sua attenzione al tavolo che i ragazzi avevano sistemato nell’ingresso già un paio d’ore prima. «Però, gente, vedo che ci sapete fare con il catering!»

Sora lo seguì con occhi attoniti mentre si avvicinava al rinfresco, accolto dalla risata di Pence, e intercettò così lo sguardo di Kairi. Lei inclinò il capo da un lato, evidentemente perplessa quanto lui dal ritardo del festeggiato e del suo accompagnatore. Interdetto, Sora tornò a guardare Roxas.

La cosa più strana, rifletté, erano gli sguardi che lui ed Axel continuavano a lanciarsi di sottecchi.

 

 

 

 

 

_________________________________________________________________________________________

 

 

 

 

 

 

 

Dio, finalmente è finita! Oh, no, non la fanfic. Parlo della festa patronale del mio paese, che mi ha tenuta occupata per pochi giorni eterni – impedendomi di scrivere e pubblicare quanto avrei voluto ;__; Ma, ringraziando tutti i numi celesti, finalmente è finita, e io spero di tornare a farmi viva con regolarità su EFP. ^^

Beh, ho poco da dire su questo capitolo: anche in questo caso avrei voluto lavorare molto meglio sul, ehm, ‘rafforzamento’ del legame tra i due protagonisti indiscussi... Ma in fondo mi pare sia piuttosto comprensibile che Axel è ormai perso di Roxas, ne? x3

Alla prossima,

Aya ~

 

 

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Capitolo 39
*** Promessa ***


38

Promessa

 

 

 

Tifa Lockhart fermò la volante accanto al viale d’accesso di una casa a due piani che fino a un paio di mesi prima recava un cartello con la scritta Vendesi. Era una villetta sobria ma elegante, in un quartiere in vista, solo due strade più in là rispetto a un ristorante Ienzo. Mise il cambio in folle e la indicò al suo passeggero.

«La casa è quella. L’abbiamo trovata senza problemi.»

Il viso del giovane si rifletteva sul finestrino. Tifa vide l’emozione e il sentimento nei suoi occhi verdi prima ancora che si voltasse verso di lei.

«Non so come ringraziarla. Invitarla a cena fuori sarebbe troppo poco.»

Tifa scoppiò a ridere.

«Soprattutto considerando le tue attuali finanze.» Scosse la testa. «Per ora mi basta saperti là dentro, chiaro?»

«Chiaro.» Il ragazzo annuì, sganciò la cintura di sicurezza e aprì la portiera. «Grazie ancora, tenente, per tutto quanto.»

La donna sorrise, guardandolo scendere dalla macchina. «Grazie a te.»

Sorpreso, lui tenne lo sportello aperto e si chinò a guardarla. «Per quale motivo?»

«Per avermi ricordato cosa significa l’uniforme che porto.»

Demyx ricambiò il sorriso. Fece un cenno di saluto con la mano, chiuse la portiera e si allontanò lungo il viale.

Tifa lo osservò ancora per un solo istante. Alla fine innestò la prima, fece scattare la freccia a sinistra e s’immise di nuovo in strada. Non riusciva a smettere di sorridere.

Erano le storie come quella, ciò per cui valeva davvero la pena di fare quel mestiere.

 

 

* * *

 

 

Ascoltando l’allontanarsi della macchina della polizia fuori servizio, Demyx sollevò lo sguardo sulla villetta bianca e si ripeté la parola che gli aveva cambiato tutto, che gli aveva permesso di essere lì quel giorno.

Assolto.

Per un attimo rivide nella mente il momento in cui si era ritrovato a dirle la verità: chi era diventato, che cosa era stato negli ultimi anni, quel che aveva fatto – e per chi – dalla fuga fino al risveglio, e ciò cui sarebbe andato incontro. Rivide due occhi chiari farsi lucidi, prima che lei si stringesse a lui senza parlare.

Aveva avuto così tanta paura che lo odiasse che, in quel momento, quell’abbraccio gli era sembrato il più bel regalo del mondo.

Ma adesso c’era un’altra svolta...

Alle immagini dei suoi pensieri si sovrappose la vista presente del cancello in ferro battuto che delimitava il confine della casa e di un mondo a parte. Si fermò, cercò con gli occhi il citofono e premette un pulsante.

Qualche secondo dopo, una voce femminile e sconosciuta gli chiese chi fosse.

«Buongiorno, signora. Mi chiamo Demyx. Mi rincresce disturbare così presto, ma ho urgente bisogno di parlare con sua figlia.»

Nonostante la lieve esitazione con cui aveva pronunciato l’ultima parola, dovette ammettere – con un po’ di amarezza – che il vecchio Marluxia sarebbe stato ancora una volta fiero delle sue doti oratorie.

La donna all’altra parte dell’apparecchio parve rifletterci su.

«Mia figlia?» Un breve silenzio. «Posso chiederti il motivo di tanta... urgenza, caro?»

Demyx sorrise. «Le ho fatto una promessa.»

Un’altra pausa dubbiosa. Poi una concessione che valeva un riscatto.

«Va bene. Un secondo.»

La voce si spense. Demyx sospirò, intrecciando le dita alle sbarre del cancello. Un secondo poteva fare una differenza infinita.

Chiuse gli occhi, appoggiò la fronte al ferro gelido e tornò indietro, ancora.

«Non voglio che mi lasci di nuovo» gli aveva detto a bassa voce, su quel divano, mentre lui le accarezzava i capelli – come da bambini.

«Lo so» le aveva risposto, «non lo voglio neanch’io...»

Uno scatto improvviso, metallico, lo richiamò al presente; il cancello si dischiuse e lui perse l’equilibrio. Si raddrizzò e, superando la confusione, fece qualche passo nel vialetto che attraversava un giardino verdeggiante e curato.

Non arrivò neppure a metà.

La porta d’ingresso si spalancò di colpo; una figurina scura si materializzò sul portico, volò giù per i gradini e gli corse incontro.

Demyx ebbe solo il tempo di sollevare le braccia: lei lo stava già abbracciando. Sorridendo, il ragazzo ricambiò forte la stretta e le sussurrò all’orecchio quella parola che aveva segnato la fine e l’inizio.

Assolto.

La ragazzina dai capelli neri pianse e rise insieme, stringendolo ancora di più. Sembrava che non avesse mai provato tanta gioia in vita sua – nemmeno il giorno in cui si erano ritrovati.

«Non sparire più» gli mormorò.

Demyx si ritrasse, le baciò la fronte, il naso, le guance, l’abbracciò di nuovo.

«Promesso.»

Sul portico c’era una donna bionda, con gli occhi gentili, che assisteva stupita alla scena. Piangeva anche lei.

 

 

 

 

 

_________________________________________________________________________________________

 

 

 

 

 

 

 

Non potevo lasciare in sospeso il ricongiungimento tra Demyx e la ragazzina misteriosa del suo passato. Tenete bene a mente questi due: si sarà ancora da parlare di loro.

Perdonatemi se non mi dilungo, ma la mia connessione è kaputt e sto aggiornando clandestinamente da un altro pc xD Vi ringrazio tutti comunque di seguirmi ancora!

Aya ~

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Capitolo 40
*** A ciascuno la sua battaglia ***


39

A ciascuno la sua battaglia

 

 

 

Ancora sorpreso, Cid Highwind afferrò il mazzo di chiavi e fece segno al ragazzo dai capelli rossi di seguirlo.

«Che io sappia sei il primo che gli fa visita, da quando è qui.»

L’altro gli si affiancò con passo deciso. Era giovane, molto, però non sembrava intimidito da quell’ambiente, come se lo conoscesse già – o non potesse aspettarsi dalla vita niente di peggio di quanto aveva già vissuto. Una cosa non escludeva l’altra, in fondo.

«Me lo immagino» disse, con una traccia di ironia nel tono e nell’espressione. «E le assicuro che non è un piacere neppure per me essere qui. D’altro canto, voglio togliermi questo dannato sasso dalla scarpa.»

Cid non poté evitare una sonora sghignazzata. «Non la si spunta facilmente con quello stronzo dai modi altolocati. Dovresti saperlo, se lo conosci bene come sembra.»

Il ragazzo che gli aveva detto di chiamarsi Axel gli lanciò un’occhiata in tralice e un sorriso sghembo.

«Certo che lo so. Ma vede... Anche se lui ci ha provato... non sono io quello che è rimasto solo.»

Cid non capì cosa intendesse, ma dovette riconoscere che in effetti il rosso si trovava in netto vantaggio rispetto al suo ospite: si augurò che il pezzo di merda di cui stavano parlando lo sapesse a sua volta.

Si avvicinò alla porta piantonata da due guardie, l’aprì e disse ad Axel di aspettare dentro. Quindi si voltò e attraversò un altro corridoio, diretto alla cella di Marluxia.

 

 

* * *

 

 

Entrò con la sua andatura sicura e composta, persino un po’ sprezzante. Fissandolo – e chiedendosi se era davvero pazzo come gli dava da pensare – Axel sentì di odiare tutto di lui, dal suo aspetto curatissimo allo schifo che vi si celava sotto. Lo guardò in faccia e capì che il sentimento era reciproco.

Marluxia abbandonò la custodia delle guardie e venne a sedersi di fronte a lui, con l’aria più serena del mondo. «Buonasera, Axel

Non gli rispose; era troppo concentrato sul desiderio sfrenato di incenerirlo con gli occhi per parlare.

«Avete dieci minuti» disse la guardia che lo aveva accompagnato, uscendo insieme ai due compagni. «Fateveli bastare.»

La porta si chiuse dietro di loro, e Axel e Marluxia rimasero soli, a quel tavolo di quella saletta, a studiarsi a vicenda.

Lasciando che il silenzio si protraesse, Axel osservò il suo ex capo, l’uomo che in qualche modo aveva deciso della sua esistenza per qualche tempo, l’unico vero responsabile della morte di Zexion, il bastardo che aveva sparato a Roxas. Si sentì ribollire di rabbia, e si rammaricò nel profondo che la prigione non lo avesse ancora reso un derelitto senza alcuna ombra di vitalità nello sguardo.

Marluxia sembrava sorpreso dalla sua presenza, quasi divertito.

«Ti confesso che non mi aspettavo una tua visita. Vedo che tu non hai pene da scontare. Non che la cosa mi riempia di gioia. Avrei certo preferito vedere Demyx, ma...» Fece un gesto vago con una mano, sospirando. « Dimmi, che ne è stato di lui?»

Axel si decise a parlare, caricando d’odio ogni sillaba ed esibendo il più cinico dei suoi sogghigni.

«Assolto anche lui. Ma dubito che il tuo tesoruccio venga a trovarti. A quanto ne so, ha trovato un’altra strada.»

«Mmm.» L’altro annuì con aria grave. «Strano il modo in cui vanno le cose, non trovi? Fai di tutto per una persona, giungi ad amarla più di te stesso, e all’improvviso scopri che l’hai persa.»

«Il che è ciò che tu volevi far provare anche a me» sibilò Axel, senza più sorridere. «Dimmi, ho colto nel segno? O è un altro il motivo che ti ha portato a sparare quel colpo?»

«Non fare l’ingenuo con me, ragazzino.» Anche il tono di Marluxia cambiò, mentre smetteva di recitare la parte del povero saggio benefattore pugnalato alle spalle dai suoi cari. «Sapevo benissimo cosa avevi intenzione di fare, quel giorno. Luxord non era l’unica spia del nostro gruppo.»

Fu solo per un istante che il ragazzo cedette alla sorpresa; subito dopo tornò la rabbia.

«E così hai deciso di rimuovere l’ostacolo alla radice, eh? Eliminando Roxas, non mi avresti solo mostrato cosa significa perdere qualcuno, ma ti saresti anche vendicato della persona che mi aveva inconsapevolmente messo contro di te, giusto? Davvero degno di te, capo. Due piccioni con una fava... Anzi, con una pallottola.»

«Roxas...» Marluxia sembrò assaporare il suono di quel nome, come se non avesse ascoltato nulla di ciò che era seguito. «Già. Il povero piccolo Roxas. Non ricordavo che si chiamasse così.»

Axel lo guardò e si sentì gelare.

«Spiegati.»

In quegli occhi chiari e maligni passò un lampo di qualcosa che somigliava a orgoglio.

«I giornali ne parlarono molto, all’epoca dei fatti. Tutto il Paese ne rimase sconvolto. Una famiglia disastrata, per via di un incidente d’auto nei pressi del parco di Twilight Town, ad opera di un misterioso pirata della strada. Due genitori morti e un ragazzino di tredici anni rimasto paralizzato. Ne parlarono tanto, sì, eppure non riuscirono mai a venirne a capo.» Sollevò lo sguardo fino ad incontrare di nuovo il suo. «Vi ho visti insieme, più di un mese fa, una mattina in quello stesso parco... Solo pochi giorni dopo aver mandato Zexion da te. Ero lì per incontrare Luxord, e vi ho visti. Non l’ho riconosciuto allora, ma, pensa un po’, soltanto quando ho capito chi era per te.» Sorrise, un sorriso freddo e spietato come lui. «E allora mi sono detto: ma guarda un po’, quant’è piccolo il mondo. Guarda chi è il giovane pupillo di Axel, del lupo solitario. Proprio il ragazzino che due anni fa ho reso orfano e handicappato in un colpo solo...»

Axel non ebbe il tempo di rendersi conto delle proprie azioni.

Quando il velo nero intessuto d’odio che gli aveva offuscato la vista si diradò, si ritrovò in piedi, sporto in avanti sopra il tavolo, con la faccia a un soffio da quella di Marluxia e le mani strette come artigli intorno al suo collo.

«Tu... schifoso... assassino...»

Il sorriso dell’altro non si era neppure incrinato.

«Fallo» sussurrò, la gola immobile sotto le sue dita. «Che aspetti? Non ho altro da perdere. Avanti, uccidimi.»

Axel strinse più forte, ansante. Sarebbe stato così liberatorio... così giusto... spegnere per sempre il sorriso empio di uno che non provava il minimo rimorso per aver distrutto più volte un ragazzo che aveva avuto l’unica colpa di trovarsi sulla sua strada... Ma le sue parole gli echeggiarono nelle orecchie, trattenendolo.

Io, invece, ho molto da perdere. Adesso .

Mollò la presa di scatto, ricadendo a sedere. Si guardò le mani tremanti e aspettò che il respiro tornasse normale.

«Era questo...» mormorò quando fu in grado di parlare. «Era questo che ero venuto a dirti.»

Alzò gli occhi. Marluxia ricambiava il suo sguardo, impassibile, come se nulla di ciò che era appena successo lo toccasse.

Axel allontanò la sedia dal tavolo e si alzò in piedi.

«Io non sarò mai come te» concluse, «e forse è per questo che le cose sono andate così. Perché non importa se sarò solo, non importa se perderò tutto: io ho capito che c’è qualcosa per cui vale la pena cambiare strada. Addio, Marluxia

Nel silenzio che seguì, voltò le spalle, si diresse alla porta e uscì dalla stanza senza guardarsi indietro.

 

 

* * *

 

 

«Pence! Pence, togliti di mezzo, per la miseria!»

L’amico si spostò appena in tempo per non essere investito da Hayner, che, cercando di evitarlo all’ultimo secondo, interruppe la manovra e atterrò con malagrazia sull’asfalto. Quando si ritrovò a terra, scoppiò a ridere.

«Scusami, è colpa mia» disse subito Pence, avvicinandosi e tirandolo su di peso.

«Non preoccuparti, ho la pelle dura...»

«Proprio come la testa!» sbuffò Olette, divertita, saettando loro accanto.

«Ma che simpatica.» Hayner rimontò sullo skate e la inseguì, lasciandosi Pence alle spalle. «Quanto scommetti che ti prendo?»

La ragazza si voltò a guardarlo, senza smettere di far volare la tavola rasoterra. Si accorse che stava sorridendo.

«Un invito al cinema?»

Hayner si sentì agguantare da un imbarazzo assurdo. In altre circostanze le avrebbe di sicuro urlato addosso di tutto – salvo poi chiederle di uscire lo stesso, probabilmente. Ma decise che quel giorno non gliene importava nulla.

«Chi vince sceglie il film!»

Lei rise, e cominciò l’inseguimento.

Hayner respirava a fondo l’atmosfera di quei momenti. Erano secoli che non si sentiva così sereno, che un allenamento non era così stimolante e pieno di risate e di partecipazione, da parte di tutti e tre. Beh, ok, non proprio secoli... Due anni, in effetti.

Ma da quando era ricomparso Roxas, andare sullo skate era di nuovo bello come allora.

 

 

* * *

 

 

Era martedì. Di solito il parco era affollato soltanto nei fine settimana, quando la mancanza di scuola e lavoro permetteva alle famiglie di riunirsi e andare fuori insieme. Ma quel pomeriggio – come molti altri – c’era sicuramente almeno una famiglia, e Roxas sapeva bene dove trovarla.

Non si era sbagliato.

Hayner, Pence e Olette erano dove dovevano essere, nell’area per lo skateboard, tutti e tre raggianti sulle loro tavole e intenti a rincorrersi e volteggiare tra boardslides e kickflips. Erano bravi come se li ricordava. Per un attimo – e si odiò per questo – Roxas si sentì escluso.

Scosse la testa e mosse qualche altro passo, fermandosi in piedi al limitare della pista preferita degli Hawk Runners.

Come fosse riuscito a camminare sulle sue gambe fino a lì, o dove avesse trovato il coraggio per tornarci, ancora non lo sapeva. Però aveva dovuto. Affrontare il passato vivendo finalmente nel presente. Ora poteva farlo, ne era sicuro.

Avrebbe voluto di nuovo Axel accanto a sé, ma l’amico gli aveva già detto che quel giorno aveva qualcosa da sbrigare – un “peso da togliersi di dosso”. Roxas non aveva fatto domande. A ciascuno la sua battaglia, si era detto.

D’un tratto, Olette si voltò verso di lui. Lo vide, lo riconobbe, puntò un piede per frenare, s’immobilizzò.

Hayner le piombò addosso meno di un secondo dopo, afferrandola alle spalle.

«Presa! Ho vinto io! Che ne dici de L’Organizzazione XIII

Olette non sembrava minimamente intenzionata ad ascoltarlo. Divertito, Roxas vide la confusione sul viso di Hayner e il suo sguardo che scorreva da lei fino a lui.

Poi sentì soltanto un intrico confuso di grida esultanti.

«Roxas

La sua squadra gli fu subito incontro. Sembravano, se possibile, ancora più felici di quando lo avevano rivisto la prima volta, un mese prima. Roxas rise con loro, catturato dai loro abbracci.

In quel momento gli sembrò di poterla vincere sul serio, la sua battaglia.

«Roxas, è meraviglioso rivederti qua!» squittì Olette, senza smettere di stringerlo.

«Straordinario!» rincarò Pence, dandogli una pacca poderosa sulle spalle e sorridendo da orecchio a orecchio.

«Sapevo che ce l’avresti fatta» disse Hayner. «Bentornato, amico.»

Roxas lo guardò. Non trovò la voce per ringraziarlo, così si limitò a sorridere.

Sì, era tornato.

 

 

* * *

 

 

La voce gli arrivò alle orecchie assieme al tintinnio.

«Ehi, Saïx. Alzati.»

Obbedì per metà, malvolentieri, sollevandosi su un gomito sul materasso muffito. Oltre le sbarre c’era una guardia, ma il suo viso era in ombra; non capiva chi fosse. Peccato. Gli piaceva guardare in faccia chi gli parlava.

«Sei sordo?» La guardia imprecò. «Alzati ed esci di qui. Sei libero.»

Ora distingueva la fonte del suono: l’uomo stava girando una chiave nella toppa.

«Libero?»

«Sì, libero!» La porta si spalancò con un rumore secco che tradì tutta l’irritazione repressa del tizio in divisa. «Hanno deciso che hai fatto il bravo e che puoi risparmiarti il resto della pena. Una grandissima cazzata, per come la vedo io; ma a quanto pare, il tuo sguardo spiritato non dà da pensare a nessun altro, e non sono i poveri stronzi come me a comandare. Perciò, fuori.»

Saïx si alzò lentamente.

L’unico pensiero che gli toccò la mente fu il viso di Marluxia.

Sentì un sorriso affiorargli alle labbra secche.

La guardia imprecò di nuovo, aggiungendo qualche bestemmia.

«Parola mia, tu sei strano.» Si protese ad afferrarlo per un braccio, spingendolo poi fuori dalla cella con la forza. «Andiamo. Non vedo l’ora di saperti fuori di qui, anche se questa prospettiva non mi lascia del tutto tranquillo.»

Saïx accettò la spinta senza reagire. Solo il suo sorriso si fece più ampio.

«Dicono che è stato tradito da uno dei suoi... Un Demyx qualcosa...»

La guardia si sbatté la porta alle spalle. Non avrebbe mai nemmeno immaginato cosa ci fosse dietro il suo «sguardo spiritato»... cosa ci sarebbe stato di lì a poco... cosa sarebbe venuto fuori.

Lui non avrebbe abbandonato Marluxia. In nessun modo.

 

 

 

 

 

_________________________________________________________________________________________

 

 

 

 

 

 

 

Sì, direi che ci avviamo decisamente all’epilogo. Ma manca ancora qualcosina da raccontare, e sarò felice se vorrete seguirmi fino in fondo. Intanto vi lascio liberi di linciare Marluxia, e mi preparo ad unirmi a voi >w<

Piccola nota sulla proposta di Hayner a Olette riguardo il film: volevo inventare un titolo horror, ma ho pensato che L’Organizzazione XIII avrebbe fatto molto ‘Kingdom Hearts style’; voi che ne dite? xD

Tenete anche a mente il ritorno di Roxas in piedi al parco, perché sarà importante.

Di nuovo, spero che il capitolo vi sia piaciuto!

Aya ~

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Capitolo 41
*** Cose che non cambiano ***


40

Cose che non cambiano

 

 

 

Gli Hawk Runners al completo erano seduti nell’erba, a qualche metro dal chiosco dei gelati, ciascuno con un ghiacciolo in mano.

«Perché sorridi in quel modo, Roxas

Sfuggendo allo sguardo indagatore di Olette, il ragazzo scosse la testa e si cacciò a forza dalla mente il pensiero del ghiacciolo che gli aveva comprato Axel con i soldi del suo primo mese d’affitto.

«Niente, niente.» Diede un altro morso e si voltò a guardare Hayner. «Ehi, che fine ha fatto la SK-8? Gareggiano ancora?»

Hayner sbuffò, scrutando truce lo stecco del gelato.

«Figurati. Quelli sono esibizionisti, per loro gareggiare equivale al miglior palcoscenico. Dovresti vedere i loro allenamenti. Uno spettacolo di varietà, ecco cos’è. Con quella fila di ragazzine urlanti che delirano come oche... Seifer, Seifer! Guarda da questa parte! Sposami, Seifer!» Scosse la testa con commiserazione. «Una scena penosa. Cosa ci troveranno in quel tizio con la faccia da ebete, poi, devo ancora capirlo.»

«E tu che ne sai dei loro allenamenti? Non verranno qui al parco, adesso...»

Roxas si accorse che Olette lanciava a Hayner un’occhiata di fuoco. Lui alzò le spalle.

«Sono passato per caso accanto al ‘loro’ famoso campetto, e li ho visti.»

Roxas lo fissò, incerto se ridere o compatirlo. «Per caso, eh?»

«Sì.» Hayner lo guardò. Sbuffò di nuovo. «Uffa! E va bene. Non tanto per caso.»

Roxas optò per la prima scelta e sorrise, scuotendo la testa a sua volta. «Sono ancora bravi, almeno?»

«Beh, sì» intervenne Pence, con aria contrita. «Da quello che ci ha raccontato Hayner sono persino migliorati. C’è un ragazzo nuovo, un certo Vivi, che viene da non so dove e pare sia nato con la tavola incollata ai piedi.»

«E Seifer, con tutte le sue arie da pallone gonfiato, resta pur sempre un osso duro» aggiunse tristemente Olette.

«Razza di egocentrici boriosi e pieni di sé!» Hayner cominciò ad agitare in aria lo stecco, furioso. «È esibizionismo, vi dico! Non lo fanno perché gli piace, lo fanno per farsi guardare! Non hanno la minima passione per lo skate, non come noi quattro!»

«Non come voi tre» precisò Roxas.

Si pentì subito di averlo detto.

Era già stata dura. Aveva superato il terrore di riascoltare i discorsi sullo skateboard, e aveva chiamato a raccolta tutta la sua forza di volontà – ma per quanto potesse combattere, in fondo sentiva di non poter più essere quello di una volta. Riusciva a camminare, certo; poteva parlare dei suoi genitori senza ripiombare nell’abisso, d’accordo. Ma le cose erano cambiate, questo era innegabile. E il peggio era che non aveva la minima idea di come spiegarlo a Hayner e agli altri, perché non sapeva spiegarlo neppure a se stesso.

I tre amici lo guardarono, e per un attimo ci fu un pesante silenzio. Poi Olette gli sfiorò una mano con la sua.

«Rox...»

«Ma bene. Ecco i poveri piccioni spennati. Avete con voi quelle tavole per una cerimonia commemorativa?»

Era una voce che conosceva, anche se non l’aveva sentita per molto tempo, tra l’altro senza sentirne la mancanza. Roxas alzò lo sguardo e si ritrovò a guardare i suoi avversari storici, i componenti della SK-8, che in più di un’occasione avevano battuto gli Hawk Runners a un soffio dalle finali.

Hayner s’irrigidì al suo fianco. Pence e Olette mantennero un dignitoso silenzio. Roxas vide Seifer Almasy, leader indiscusso della SK-8, immutato nella sua tenuta hip hop, concentrare l’attenzione su di lui.

«Ehi, guardate. Non è il nostro vecchio amico? Il nanerottolo tanto decantato dai sostenitori dei piccioni, l’angioletto biondo?»

Detto da uno che probabilmente si platinava i capelli con l’acqua ossigenata – e che nascondeva l’atroce risultato sotto un immancabile berretto di lana, anche in piena estate – era un appellativo piuttosto stupido. Roxas non batté ciglio, ma ritenne saggio mettere una mano sulla spalla di Hayner, che aveva cominciato ad emettere un sordo ringhio.

«Bada a come parli» sbottò Olette.

«Che ci fai qui, Seif?» domandò Pence, piatto. «Non mi pare che la SK-8 si sia mai fatta vedere da queste parti.»

«Acuta osservazione, Ciccio.» Seifer sogghignò. «Ma dal momento che il tuo amichetto, qui» aggiunse indicando Hayner, «ha potuto spiarci indisturbato – e non provate a negarlo, perché ho i miei informatori – non ci è sembrato disdicevole riservare a voi lo stesso trattamento... Sebbene non ci sia poi molto da spiare, s’intende.»

Gli altri componenti della SK-8 – Fujin, Rajin e un ragazzino di colore che Roxas immaginò essere Vivi – ridacchiarono forte. Hayner digrignò i denti.

Roxas abbandonò nell’erba lo stecco del ghiacciolo e si alzò in piedi.

«Nessuno vuole negare niente. Ma la strada è di tutti, così come il parco è di tutti. Se pensi che Hayner vi abbia spiati intenzionalmente, magari vuoi solo nascondere che hai paura di lui.»

Dietro di lui, Hayner rimase in uno stupefatto silenzio.

Seifer lo guardava dall’alto in basso. Era decisamente più alto di come se lo ricordava; Roxas calcolò che ormai doveva avere quasi diciassette anni. Fantastico: adesso andava anche a cercarsi grane con quella sottospecie di figurino.

Quello gli rivolse un sorriso strafottente. «A quanto pare il periodo di isolamento forzato ti ha affilato la lingua, angioletto.»

Hayner scattò in piedi con una rapidità sorprendente, ma Olette fu ancora più veloce.

«Ti ho detto» strillò, parandosi di fronte al capo supremo della SK-8, «bada a come parli

Rajin fece schioccare minacciosamente le nocche. Roxas trattenne Hayner per i vestiti, aiutato da Pence, e si voltò di nuovo verso Seifer.

«Evidentemente sì. Non puoi nemmeno immaginare quante cose sono cambiate.»

Altre, però, non cambiavano mai. Seifer esibì un nuovo sorriso sprezzante, e infine fece cenno alla sua degna squadra di seguirlo. I quattro voltarono le spalle e sparirono alla vista.

Roxas e Pence lasciarono andare Hayner, mentre Olette si voltava verso di loro, ansante e paonazza.

«Io lo disintegroHayner stava facendo a pezzi il suo stecco; Roxas ebbe la seria paura di vedergli uscire fumo e fiamme dalla bocca. «Lo ammazzo, lo distruggo, lo cancello dal creato...»

«Come osa...» gemeva Olette. «Come osa... Come ha osato...»

Sconsolato, Roxas incontrò lo sguardo di Pence. Lui scosse la testa.

«Non fare quella faccia, Roxas. Hanno ragione loro. È stato veramente un bastardo.»

«Ma non ne vale la pena» fece Roxas, tornando a guardare i due amici. «Dai, ragazzi. Va tutto bene.»

Olette si calmò, ma Hayner non sembrava disposto a cedere tanto presto.

«Fa così perché ha paura di te, Roxas, ecco tutto. Lui sa che adesso puoi tornare a gareggiare e a farlo nero. Se la fa sotto, fidati.»

«Tornare a gareggiare?» Il ragazzo lo fissò, attonito. «Hayner, tu sogni.»

Finalmente la furia di Hayner lasciò il posto a qualcos’altro: confusione.

«Ma perché, scusa? Non hai intenzione di riprendere ad allenarti?»

Silenzio.

«Roxas, adesso non farmi incavolare anche tu. È impensabile che lasci perdere tutto, chiaro? Non puoi mollare. Non adesso che hai dimostrato a tutti di potercela fare!»

Ancora silenzio.

«Roxas...»

«Non lo so, accidenti!» Roxas si prese la testa tra le mani. «Sta succedendo tutto così in fretta. Un’altra volta. Io non so se... Cercate di capirmi. Ancora non riesco a credere nemmeno di essere qui

Hayner tacque. Olette, con aria mortificata, si avvicinò e gli posò una mano sulla spalla.

«Noi vorremmo solo che tu ritrovassi te stesso, Rox» mormorò.

Lui sospirò e abbassò le mani e lo sguardo.

È proprio questo il difficile, si disse.

 

 

* * *

 

 

Axel si fissava le scarpe disastrate, per non alzare gli occhi sul posto infame che stava attraversando. Avrebbe volentieri fatto a meno di quell’infelice passeggiata, ma sfortunatamente il parco cittadino non era solo sulla strada per il condominio, ma costituiva la strada più breve per arrivarci – partendo dal posto ancora più infame in cui si trovava ora il più meschino degli esseri umani che avesse incontrato negli ultimi diciotto anni e mezzo.

Sentì l’esigenza di fermarsi, ma ancora non sollevò gli occhi.

Quante cose erano successe là, proprio là, in quel posto in cui la gente veniva a rilassarsi e a divertirsi? Quante e quanto orribili? Pensò a Roxas, un ragazzino che aveva perso troppo, troppo in fretta. Pensò a tutto quel che aveva vissuto in quella distesa d’erba delimitata da cancelli. Una rinuncia. Uno sparo. Un incidente...

E dietro c’era sempre stato lo stesso viscido essere, uno che in quello stesso parco probabilmente aveva incrociato e spezzato altre cento storie.

Per un lungo, improvviso istante si sentì sopraffare dal bisogno di tornare sui suoi passi e andare a spezzare invece quel collo bianco come la neve. Forse non era così diverso da lui, dopotutto; forse anche Axel avrebbe potuto essere capace di uccidere.

Un’esplosione di voci, da qualche parte davanti a lui, lo scosse dal suo istinto omicida e lo indusse ad alzare la testa.

A qualche metro di distanza, sul ciglio del sentiero, si fronteggiavano due gruppi di persone. Una ragazza dai lunghi capelli castani stava urlando in faccia a un bellimbusto alto due spanne più di lei. Axel riconobbe con stupore Olette, e a quel punto spostò lo sguardo sui tre ragazzi appena dietro di lei: un Hayner visibilmente infuriato trattenuto a stento da Pence e Roxas.

Solo allora si ricordò delle parole che si erano scambiati il giorno precedente.

 

 

«Domani? In realtà dovrei andare... a trovare una persona. Non so ancora quanto ci vorrà.»

«Capisco.» Roxas si era chinato per allacciarsi le scarpe. Era ancora presto quando Axel si era affacciato alla sua finestra, come ogni mattina; sembrava che non avesse dormito molto. Aveva il viso un po’ segnato. «Volevo chiederti una cosa, ma non c’è problema. Penso di poterlo fare da solo. Anzi... forse è meglio così.»

Axel aveva scavalcato il davanzale, atterrando nel 2A col solito sogghigno.

«Possiamo sempre rimandare l’appuntamento a domani, bimbo.»

Il ragazzo lo aveva fulminato con gli occhi, arrossendo. Poi si era alzato in piedi e aveva cominciato a rifare il letto, girandoci intorno con naturalezza e passando davanti alla sedia a rotelle inutilizzata come se non la vedesse. Gli faceva sempre uno strano effetto, vederlo camminare. Vederlo così sicuro. Era... sì, in un certo senso, appagante.

«Smettila di chiamarmi ‘bimbo’.»

Sorridendo, lui lo aveva raggiunto e gli aveva posato una mano sulla guancia, costringendolo a voltarsi.

«Scusa, bimbo» aveva bisbigliato sulla sua bocca.

 

 

Non fu la consapevolezza della ‘cosa’ che Roxas avrebbe voluto chiedergli a riscuoterlo, ma il modo in cui lo vide rivolgersi al tizio palestrato. La distanza gli impedì di capire le sue parole, e la posizione di leggergli le labbra – l’esperienza gli aveva insegnato col tempo l’utilità di quell’espediente – ma il messaggio nello sguardo era inequivocabile. Il signorino si voltò verso i suoi compari, uno dei quali aveva un atteggiamento e una corporatura più che minacciosi, e con un cenno si allontanò insieme a loro.

Axel li seguì con lo sguardo, esaminandoli: un griffato dalla testa ai piedi, un gorilla dalle fattezze umane, una ragazza con la puzza sotto il naso e un tipo più basso e minuto dalla pelle nera. Vide il capo della combriccola gesticolare stizzito, mentre tutti e quattro sparivano tra gli alberi del parco.

Chi l’avrebbe mai detto? Si ritrovò a sorridere. Alla faccia del povero piccolo Roxas.

Ma quando si voltò di nuovo, vide che Roxas non era affatto soddisfatto di sé, dopo essersi liberato dei quattro soggetti impettiti. Al contrario, sbottò contro Hayner e si affondò le mani nei capelli. Rimase con lo sguardo basso anche quando Olette, ancora rossa in viso, gli sfiorò una spalla.

Era chiaro che l’apparizione dei quattro aveva scatenato qualcosa di imprevisto.

Una parte di lui avrebbe preferito proseguire per la sua strada e tornare al condominio: Roxas non aveva tutti i torti, c’erano cose che avrebbe fatto meglio ad affrontare da solo. Ma vederlo all’improvviso così smarrito e rattristato, con l’aria di essere distante anni luce dagli amici che lo circondavano – che aveva ritrovato da così poco tempo, spinse Axel a prendere una decisione.

Si mosse verso la squadra degli Hawk Runners, finalmente dimentico di Marluxia.

Nella durata di quei venti passi, si rese conto che c’era ancora una cosa che poteva fare per lui.

 

 

 

 

 

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Aggiornamento lampo perché sono di fretta ^^’

C’è ancora bisogno di ringraziarvi? <3

Aya ~

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Capitolo 42
*** L'ultimo ponte ***


41

L’ultimo ponte

 

 

 

Aveva pensato di essere preparato a tutto, ormai. Aveva creduto di poter affrontare ben più che un ritrovo al parco con i suoi amici. Allora perché le parole di Hayner gli davano quell’odiosa sensazione di... paura?

Il silenzio si protraeva e la mano di Olette esitava ancora, bollente sulla sua spalla improvvisamente fredda. Con un sospiro, Roxas si risolse ad alzare il capo, senza tuttavia sentirsi pronto per la conclusione del discorso.

Prima che potesse anche solo pensare a cosa rispondere, un’ombra calò su di loro.

«Salute, figli dello skate. Posso rapirvi la pecorella smarrita da sotto il naso?»

Roxas fu l’ultimo a voltarsi, trattenendo un gemito. Il tono di Axel non gli piaceva per niente.

Hayner, Olette e Pence, le cui espressioni rilassate tradivano il sollievo di aver potuto superare un’imbarazzante impasse, lo accolsero con allegria.

«Ehi, guardate chi si è rifatto vivo!»

«Axel! Di ritorno tra i comuni mortali?»

«Già» rise lui, «alla fine ho, come dire, chiuso tutti i ponti rimasti aperti.»

Roxas lo fissò attonito, chiedendosi se con quelle parole intendesse rivolgersi proprio a lui. No, meglio non esagerare; non poteva attribuirgli doti come la telepatia, sarebbe stato troppo.

L’altro ricambiò lo sguardo, apparentemente divertito dalla sua confusione. Roxas cercò di darsi un tono.

«Non dovevi andare a trovare qualcuno, oggi?»

Axel si rabbuiò, ma dopo un attimo il suo sguardo tornò scintillante.

«Già fatto. Ci ho messo meno tempo del previsto.» Dimostrando di non voler approfondire l’argomento, superò Olette e andò a posargli pesantemente una mano sulla spalla, tornando a rivolgersi agli altri. «Allora, posso rapirlo o no?»

Roxas si sentì arrossire. Mentre i tre amici gli lanciavano risolini allegri, sperò di non avere uno sguardo troppo preoccupato.

«Ma certo» fece Hayner. «Non c’è problema. A patto che ce lo riporti presto, chiaro.»

«Chiaro» sorrise Axel, trionfante.

No, non gli piaceva proprio per niente.

«Ah, Roxas, un attimo.» Pence s’illuminò di colpo. Cominciò a frugarsi nelle tasche enormi della tuta. «Devo darti una cosa... Solo un secondo, deve essere qui da qualche parte... Sì, eccola!»

Aveva estratto un involto sottile... no, una busta da lettere, e gliela porgeva con un grande sorriso. Confuso, Roxas andò con gli occhi dalla busta nelle sue mani alla sua espressione pacifica.

«Ehm... Che cos’è?»

«Un regalino.» Pence sorrise più apertamente. «Prendila e aprila più tardi, con comodo, va bene?»

Roxas fissò di nuovo la busta. Si sentiva addosso gli sguardi di tutti, mentre l’afferrava con dita incerte. Qualunque fosse il contenuto, era più spesso della normale carta da lettere.

«Va bene» mormorò. «Grazie, Pence

Hayner e Olette si scambiarono un sorriso complice. Roxas sentiva il disagio crescere, come la pressione della mano di Axel.

«Andiamo?» gli ricordò infatti lui.

Annuì sospirando.

 

 

* * *

 

 

«Tenente, devo raccontarle una cosa... strana.»

Tifa Lockhart si allontanò dalla macchina per il caffè. Odiava quell’aggeggio: rimpianse amaramente il caffè che aveva assaggiato al Good Samaritan Hospital, di gran lunga il migliore che avesse avuto modo di bere negli ultimi anni. Si voltò a guardare l’agente che la fissava torcendo le dita in modo convulso.

«Che succede?»

Cloud Strife distolse per un attimo lo sguardo, come per trovare un coraggio al quale avrebbe rinunciato volentieri. Infine la guardò con occhi neutrali e rispose senza inflessioni.

«Questa mattina mi hanno incaricato di scortare in tribunale un uomo, uno che è stato appena scarcerato. Un certo Saïx

«Sì, ne sono al corrente.»

«Quando l’ho lasciato alle altre guardie» proseguì il giovane, sempre monocorde, «Saïx si è voltato a guardarmi e mi ha chiesto di provvedere perché qualcuno presenti “i suoi omaggi” a... a Marluxia

Tifa sentì soltanto il rumore soffocato del bicchiere di plastica che colpiva il pavimento. Sbigottita, si avvicinò a Strife e gli strinse un gomito con improvvisa energia.

«Il nostro Marluxia? Ne sei sicuro?»

Lui annuì. «Più che sicuro, tenente. Non so perché, ma lo so

La donna lo lasciò andare e si premette le mani sulle tempie. Possibile? Un nuovo elemento in quell’assurda catena di legami tra cose, luoghi e persone? Doveva vederci chiaro.

«Grazie per avermi informato, Cloud.» Recuperata la sua efficienza, Tifa Lockhart raccolse il bicchiere e tornò alla macchina del caffè. «Come mi pare di avere già detto, mai sottovalutare un giudizio azzardato.»

 

 

* * *

 

 

«Axel, questa è veramente una stupidaggine!»

«Non si discute.»

«Ma insomma...»

«Sai che sei carino col broncio?»

«Cosa?!»

«Non sbirciare!»

Roxas sibilò qualcosa di incomprensibile, ma obbedì. Aveva le guance rosse rosse e l’aria molto molto scocciata. Axel sorrise. Non aveva detto una bugia.

Aveva cercato dentro di sé il coraggio di raccontargli del viaggetto in autobus fino al carcere, di Marluxia e di ciò che si erano detti; avrebbe davvero voluto dirglielo, ma alla fine aveva deciso che era meglio di no. Roxas aveva già sofferto troppo per la sua famiglia: non sarebbe stato lui a riaprire vecchie ferite. Mai.

Continuò a pilotarlo in silenzio. Il ragazzo camminava a occhi chiusi, la mano saldamente aggrappata al suo braccio. A tratti incespicava nell’erba.

«Mi vuoi dire dove stiamo andando?»

«Ma se ti ho detto che è una sorpresa...»

«Io odio le sorprese.» Roxas sbuffò. «E non so se fidarmi delle tue.»

«Antipatico.»

«Come ti pare.»

«Ecco, siamo arrivati.» Axel si fermò. «Aspettami qui. Non sbirciare, mi raccomando.»

«Dove vai?» Nella vocina di Roxas si affacciò una nota isterica, quando lui si sottrasse alla sua presa. «Dove mi hai portato? Axel

«Stai tranquillo, bimbo. E non sbirciare

Il biondino rimase fermo al suo posto, contrariato. Avrebbe obbedito comunque; si fidava, e lo sapevano entrambi.

Axel lo osservò per un istante. Vederlo là sulle sue gambe, con gli occhi ancora chiusi e i capelli scomposti sulla fronte, gli dava un colpo al cuore e uno allo stomaco. Oggi più del solito.

Si voltò e raggiunse l’unico spettatore di quella scena bizzarra, che lo fissava con aria totalmente stupefatta. Mentre gli si avvicinava, il ragazzo infilò le mani nelle tasche e sentì la filigrana frusciargli tra le dita. L’affitto di Vexen avrebbe dovuto aspettare ancora un po’.

Il parco giochi era evidentemente chiuso, ma lui sapeva che ogni pomeriggio il responsabile arrivava sempre con un po’ di anticipo, sperando che qualche bravo bambino che avesse finito presto i compiti riuscisse a trascinare fin lì la mamma o il papà. Era lo stesso uomo che ora lo osservava imbambolato, e che fece sparire le sopracciglia sotto la visiera del berretto quando si vide sventolare davanti al naso il mucchietto di banconote da cinquanta e da cento.

«Bastano per garantirci un po’ di privacy?» sogghignò Axel.

L’uomo lo squadrò, guardò il denaro, lanciò una rapida occhiata tutt’intorno. Forse temeva di essere vittima di una qualche candid camera. Alla fine però annuì, secco, arraffò le banconote e si allontanò intascandole con disinvoltura.

Soddisfatto, Axel tornò da Roxas.

«Eccoci. Dammi la mano e seguimi... Tieni gli occhi chiusi.»

Il ragazzo sbuffò sonoramente. «Razza di despota.»

Strinse di nuovo la sua manica, rincamminandosi a piccoli passi esitanti dietro di lui.

«Mi sento veramente stupido» bofonchiò.

«Non sarà mica la prima volta.»

«Vai a farti...!»

«Ehi, bimbo, dove diavolo hai imparato queste espressioni così scurrili?»

«Prova un po’ a indovinare!»

Axel rise e lo costrinse gentilmente a fermarsi. «Ci siamo. Ora puoi guardare.»

«Era o...»

Quando poté rivedere il celeste scuro delle sue iridi, non poté fare a meno di chiedersi cosa sarebbe venuto dopo il lampo di stupore.

 

 

* * *

 

 

Il ginocchio gli fa ancora male. Si siede sul bordo del tappeto elastico, dal lato opposto a quello dove sta la mamma: vuole far finta di essere stanco, ma non ha intenzione di far capire a quel cretino di suo fratello che gli prude la sbucciatura – così l’ha chiamata la mamma. Che strana parola, ‘sbucciatura’. Come se la pelle fosse un frutto e il sangue la polpa... Bleah, che schifo!

Però brucia sul serio. È fastidioso. Cercando di non farsi notare da Sora, Roxas solleva la gamba dei pantaloni e studia attentamente la ferita.

«Ti fa male?»

Sobbalza, spaventato: qualcuno è appena arrivato alle sue spalle.

Si volta in fretta e cerca di nascondere il ginocchio. Dietro di lui c’è un bambino con i capelli color sabbia e gli occhi scuri e curiosi. Non sembra che lo stia prendendo in giro, comunque.

Roxas non riesce ad evitare di dirgli la verità.

«Un po’. Ma ora passa» aggiunge subito.

Il bambino gli sorride amichevole. «Speriamo. Facciamo a chi salta più in alto?»

Che strano. Non si sono mai visti, eppure lo tratta come un amico. Roxas ricambia timidamente il sorriso e annuisce.

«Va bene.» Si rialza e, mentre lo segue sul tappeto accanto a quello di Sora, si ricorda di una cosa. «Come ti chiami?»

«Hayner

«Ciao, Hayner

«E tu?»

«Roxas

«Ciao, Roxas

Ridono insieme mentre spiccano il primo salto.

 

 

Roxas fissò a lungo la fila di tappeti elastici, vuoti e silenziosi. Per qualche minuto ricordò le risate, i colori, il modo in cui quel posto gli era sembrato grande e bello e divertentissimo, da piccolo. Ora vedeva chiaramente che era soltanto una piattaforma rettangolare, sopraelevata rispetto al terreno, divisa in tante corsie per assicurare un tappeto personale a ciascun bambino: soltanto un posto, un posto qualsiasi, un posto vuoto, il cui significato si era perso da qualche parte di sette anni prima.

«È impensabile che lasci perdere tutto, chiaro? Non puoi mollare. Non adesso che hai dimostrato a tutti di potercela fare...»

All’improvviso capì cosa fosse quella stretta al petto.

Non voleva che anche lo skateboard diventasse un ricordo.

Non osava alzare lo sguardo su Axel, immobile al suo fianco. In cuor suo avrebbe voluto ringraziarlo; sapeva perché lo aveva portato lì: era l’ultima cosa rimasta in sospeso, l’ultimo ponte rimasto aperto. L’ultimo, certo, a parte...

Ebbe un lieve sussulto al ricordo della busta che Pence gli aveva dato pochi minuti prima, e che adesso teneva nella tasca anteriore della felpa. La sfiorò con una mano e sentì il cuore accelerare i battiti. Sapeva cosa c’era dentro.

Fece un passo verso la piattaforma. Forse per la prima volta da quando si era ritrovato in piedi a camminare verso Axel, si rese pienamente conto di cosa rappresentasse la sua capacità di mettere di nuovo un piede davanti all’altro. Allo stesso tempo, tirò fuori la busta e se ne fece scivolare il contenuto nella mano aperta, il cuore assordante nelle orecchie.

Il riflesso di se stesso a tredici anni lo osservava dalla fotografia, sorridente e felice tra Pence e Olette, con la mano di Hayner sulla spalla e una vecchia tavola rossa, bianca e blu tra le braccia.

«... Promettiamo che la nostra squadra sarà sempre unita. Sempre amici. Io prometto!»

«Roxas...?»

Era quasi innaturale sentire tanta esitazione nella voce di Axel.

Sospirò profondamente, poi si voltò a guardarlo con un sorriso.

«Grazie» mormorò. «Ho capito, adesso.»

Axel non disse nulla, ma il suo sguardo si rasserenò.

Roxas si voltò di nuovo. Si avvicinò ancora alla piattaforma, un passo dopo l’altro, assaporandoli tutti fino in fondo. Per quel giorno, si disse, via libera alle stupidaggini.

Saltò.

 

 

* * *

 

 

Notte. Il suo regno. Da sempre.

Si strinse addosso il vecchio impermeabile, rabbrividendo. Era una notte fredda. Ma era stato facile trovare l’edificio; le vecchie conoscenze nei bassifondi più infimi tornavano sempre utili, specie quando si vociferava su uno sporco traditore.

C’era una luce accesa, alla finestra dell’ultimo piano.

Così è troppo facile.

Meglio aspettare, meglio concedergli un falso senso di sicurezza... Sarebbe stato più eccitante, poi, guardargli il passato negli occhi.

Si accese una sigaretta – oh, quanto, quanto gli era mancato – e sorrise beato. Dissipò con una mano il primo filo di fumo che gli uscì dalle labbra, pregustando il momento in cui, allo stesso modo, avrebbe sparpagliato al vento una colpa.

Sarebbe arrivato presto.

 

 

 

 

 

_________________________________________________________________________________________

 

 

 

 

 

 

 

Io non sono io se non metto insieme il fluff più assurdo e l’angst più pesante, dico bene? E così non poteva mancare l’epilogo minaccioso in un capitolo che invece voleva essere una sorta di risoluzione per l’ultima cosa che Roxas aveva deciso di lasciarsi alle spalle. Sì, sono un caso clinico. Strana forte.

Meno sei capitoli, gente!

Aya ~

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Capitolo 43
*** Rialzarsi e andare avanti ***


42

Rialzarsi e andare avanti

 

 

 

 

«Non ce la faccio. Non sono pronto.»

Negli occhi verde scuro di Olette la pazienza regnava sovrana. «Non è vero, e lo sai.»

Sospirò di sconforto. Perché quella ragazza era sempre così... logica?

«Ti dico che cado.»

«No che non cadi.»

«Invece sì.»

«Roxas, mi stai dicendo che vuoi cadere?»

Si sentì un po’ meno convinto. «No.»

«E allora, che cosa aspetti?»

Olette gli tese la mano aperta. Roxas tirò un altro sospiro, ma questo era di resa. Accettò il sostegno dell’amica, drizzò le spalle e fece leva sul piede sinistro, ancora saldo sull’asfalto. La tavola di Olette scivolò lentamente in avanti. Avvertendo il movimento – così familiare, così dimenticato – sotto la scarpa destra, Roxas si ritrovò col fiato corto.

Strinse forte la mano della ragazza, che camminava accanto allo skateboard, unica presenza sicura all’inizio di un viaggio di cui non si sapeva ancora il come, il dove o il perché. Ma era un’altra, la presenza che sentiva più forte...

 

 

Dentro l’armadio, la nicchia nascosta dall’asse mobile ormai era vuota. Eppure nascondeva ancora qualcosa.

Lo aveva scoperto per caso, una sera di due anni prima, quando era appena arrivato all’appartamento e trascorreva tutto il suo tempo tra le quattro mura di quella cameretta. Non lo aveva mai mostrato a Sora. Né allora, né in seguito, né adesso.

Però, adesso c’era Axel.

E Axel si era chinato alle sue spalle e aveva parlato in tono incuriosito. «Che stai guardando?»

Roxas aveva allungato la mano verso la parte interna dell’armadio aperto, fin dentro la nicchia scoperta, e aveva sollevato il pannello nascosto nel muro.

«Il mio segreto.»

Axel era rimasto in silenzio.

Lo strato di polvere non sfumava la bellezza dolorosa di quel ricordo. Dolorosa... Faceva davvero male; ma all’improvviso il dolore sembrava sopportabile. Forse era per questo che – per quanto avesse desiderato farlo – non era riuscito a liberarsene. Forse aveva sperato di poterlo guardare di nuovo, un giorno, senza provare quelle vecchie fitte di rimpianto che gli mozzavano il respiro.

Evidentemente, quel giorno era arrivato.

Roxas era tornato a se stesso e aveva sfiorato con la punta delle dita il suo vecchio skateboard rosso, bianco e blu. Si era ritratto in fretta, quasi per non sciupare con un tocco prolungato quel qualcosa di estremamente fragile che finora aveva tenuto relegato nell’angolo più lontano e buio della sua stanza e dei suoi pensieri.

Aveva guardato Axel, neutro. «Magari non è ancora il momento.»

Lui aveva ricambiato lo sguardo. Poi gli aveva scostato i capelli dalla fronte, senza cambiare espressione.

«Magari sì.»

 

 

«Roxas! Apri gli occhi!»

Non si era accorto di averli chiusi. Obbedì.

Olette sorrideva raggiante; lo seguiva ancora di pari passo, di corsa, ma non gli teneva più la mano.

Era come se il tempo non fosse mai passato.

Di nuovo su una tavola, le braccia aperte in cerca di equilibrio, un piede a sospingersi e l’altro a sentire il fremito di scivolare a un palmo da terra. Era facile, era istintivo, era come se lo ricordava.

Di colpo si sentì sopraffatto, e piantò il piede al suolo per fermarsi. Ansimava, scosso.

«Hai visto? Te l’avevo detto che non saresti caduto.» Il sorriso di Olette divenne un’espressione preoccupata quando l’amica lo guardò in viso. «Ehi, va tutto bene?»

Roxas scese dalla sua tavola. Cercò di tornare a respirare normalmente.

«Scusami. Io... Io vorrei farcela, davvero. Ho solo un po’... di...»

Abbassò lo sguardo, ma la voce della ragazza lo raggiunse dall’altra parte del suo schermo, piena di dolcezza.

«... Ricordi?»

Lui si strinse nelle spalle, con un sorrisetto colpevole.

Sentì i passi di Hayner e Pence avvicinarsi senza fretta. Pensò che quel rumore era strano; era assurda la mancanza del grattare delle ruote delle loro tavole sulla pista.

Si scosse al piccolo pugno di Hayner sul gomito.

«Va tutto bene, amico. Non sei solo.»

Alla voce tranquilla di Pence.

«Giusto, Roxas. Sempre insieme. Ti ricordi, no?»

Il ragazzo alzò gli occhi sui tre amici. Li rivide come in quella foto, scattata due anni prima, che per tutto quel tempo aveva atteso solo di essere guardata da lui. Rivide la propria espressione nel rettangolo lucido di quel momento fissato per sempre. Alla fine annuì.

«Prometto.»

Hayner, Olette e Pence sorridevano.

Mentre rimetteva il piede destro sullo skate di Olette, Roxas si sentì finalmente abbastanza sereno da sbirciare tra gli alberi al di là della pista e chiedersi dove si fosse appostata la presenza che lo aveva guidato fin là.

 

 

* * *

 

 

Adesso credeva di capire il perché di quella strana richiesta.

«Scusami, bimbo, ma non ci arrivo. Vuoi che venga con te, però non vuoi che venga con te?»

«Non voglio che tu non venga con me.» Un silenzio confuso. Il ragazzino si era preso la testa tra le mani. «Aaah, mi stai facendo impazzire!»

«Evviva! Obiettivo raggiunto!»

«AXEL!» Gli occhi azzurri scintillavano più del solito, lucidi di mille emozioni contrastanti. «Sto cercando di farti capire quanto sia difficile

E in effetti, ora che – non visto – lo guardava affrontarsi e affrontare quella dannata, semplicissima tavola con le ruote, capiva. Capiva che Roxas non sapeva ancora se attraversare quel ponte da solo o meno, capiva perché lo avesse voluto così... ‘vicino ma non troppo’.

Ma aveva pensato che la sua presenza lo avrebbe incoraggiato, e lui sentiva di dovergli essere grato anche solo per questo.

E dopotutto, la sistemazione che si era trovato non era neppure così male.

«Che ci fa un ex pivellino appollaiato lassù?»

Axel sobbalzò e rischiò di cadere dal ramo dell’acero su cui era seduto. Si aggrappò al tronco appena in tempo e, con una certa apprensione mista all’irritazione e alla sorpresa, guardò giù.

Ai piedi dell’albero c’era l’ultima persona che si sarebbe mai aspettato di vedere.

Demyx lo fissava di rimando, con un sorriso storto e le sopracciglia aggrottate.

«È un pedinamento? Hai iniziato a lavorare in proprio? Eppure una certa poliziotta di mia – di nostra conoscenza mi ha detto che anche tu eri stato riaccolto dalla retta via.»

Punto nel vivo, Axel dimenticò presto la sorpresa iniziale e rispose a tono, lieto di essere in una posizione così sopraelevata.

«Vedo che ultimamente hai trovato anche il senso dell’umorismo, oltre che alla luce della ragione. Buon per te.»

Le labbra di Demyx parvero congelarsi nel ghigno.

Cadde un silenzio lungo e imbarazzato, inframmezzato solo dai lievi rumori del parco circostante, dal vento tra i rami dell’acero e dalle voci smorzate dei pochi avventori, Hawk Runners inclusi.

Axel non riuscì a sostenere a lungo lo sguardo del vecchio compagno. L’ultima volta che si erano parlati erano dallo stesso lato della barricata – quello opposto. Adesso, anche se erano ancora dalla stessa parte, era una situazione completamente diversa.

Fu Demyx il primo a parlare.

«Posso venire su da te?»

Tornò a soppesarlo con gli occhi per un tempo indefinito. Poi gli fece un cenno.

«Sali.»

 

 

Demyx si era sistemato su un ramo più basso, ma dalla sua posizione riusciva anche lui a seguire la scena nella pista da skateboard; Axel lo capì quando lo sentì canticchiare tra sé.

«He was a skater boy, she said: see you later, boy...» Appoggiandosi alla corteccia e incrociate le braccia, il ragazzo abbandonò l’aria svagata e tornò a guardarlo. «Beh, che ci facciamo quassù?»

Axel sorrise, gli occhi già di nuovo fissi su Roxas. «Tu, non lo so. Io sono qui per vedere dove va la mia retta via.»

Demyx non replicò. Magari non aveva capito, o, se aveva capito, non intendeva chiedere niente.

Axel puntò un piede sul ramo e distese il braccio sul ginocchio. L’acero costituiva un luogo d’osservazione molto ospitale; per un attimo gli ricordò il faggio piantato dietro l’orfanotrofio, quella pianta altissima – almeno così gli pareva allora – dove lui e Xion un tempo si erano fabbricati un covo e sulle cui asperità avevano lasciato parecchia epidermide, unghie e sangue.

Si stava già preparando a un altro lungo silenzio, ma la voce di Demyx lo sorprese ancora una volta.

«Lo sai perché l’ho fatto?»

Non si era aspettato di affrontare l’argomento in modo così diretto. Abbassò lo sguardo, ma non incontrò il suo; allora si concentrò di nuovo sulle ripetizioni di skateboard di Roxas e scosse piano la testa, certo che Demyx stesse in realtà osservando tutti i suoi movimenti.

L’altro parlò nel tono di chi ancora riflette su ciò che sta per dire.

«È una storia... beh, lunga. Anche un po’ assurda.»

Axel si trattenne dal sorridere. Ne sapeva qualcosa, di storie assurde.

Alla fine Demyx cambiò posizione, piegò le braccia dietro la testa e iniziò un’ennesima confessione.

«Quando avevo dieci anni» esordì, la voce a un livello che avrebbe potuto confondersi col fruscio delle foglie nel vento, «mio nonno morì nel sonno. Era già molto vecchio quando mia sorella ed io c’eravamo trasferiti da lui. Era il nostro unico parente. A quel punto, noi due finimmo in un istituto.»

Che strano. Le tappe della vita di Demyx sembravano coincidere con le sue. Cercò di immaginarsi sua sorella, senza riuscirci, e si chiese dove sarebbe andato a finire quel racconto che partiva da così lontano.

«Non passò molto tempo che il posto fallì.» Nella voce del vecchio compagno tremò un sorriso dal suono sconfitto. «Lo sai anche tu, credo; i soldi sono un problema di tutti, e dato che la presenza di noi poveri orfanelli gliene assicurava pochi e gliene toglieva troppi, il buon vecchio direttore prese la drastica decisione di spedirci tutti in altre strutture altrettanto economiche, di passare ad altri quella patata bollente. In questo modo, più o meno, finimmo tutti separati. Quello fu l’ultimo giorno in cui vidi mia sorella.»

Anche senza guardarlo, Axel sapeva che i suoi occhi erano chiusi, lontani quanto i ricordi che stava rievocando per lui, per spiegargli qualcosa che – sospettava – alla fine avrebbe compreso fin troppo bene.

«Insieme ad altri due ragazzini, io ero destinato a finire da qualche parte a Traverse Town. Ma ero disperato. Avevo promesso a mia sorella che saremmo stati sempre insieme... Dovevo provare a mantenere la parola, dovevo farmi perdonare. Una volta in stazione, aspettai che nessuno badasse a me e saltai sul primo treno in partenza. Alla prima fermata ne scelsi un altro, poi un altro ancora, e così per altre tre o quattro volte. Credo di aver attraversato quasi tutto il Paese, in questo modo. Però stavo ingannando me stesso. Non sapevo dove trovarla, non mi avevano detto dove l’avrebbero portata. Non avevo più nemmeno la speranza di rivederla.» Demyx tacque per qualche istante; poi la sua voce si riempì di affetto. «Mia sorella si chiama Xion, e oggi ha quasi quindici anni.»

Per la prima volta dall’inizio della sua storia, Axel si voltò a guardarlo. La meraviglia scatenata dalle sue ultime parole fu seconda soltanto a quella che gli suscitò la vista della lacrima che gli rigava la guancia.

Demyx non se ne curò: continuava a fissare la coltre verde di foglie che gli sfioravano la testa.

«Arrivai a Twilight Town» riprese, «e smisi di scegliere treni a caso. Non potevo farcela. Avevo solo dodici anni. Avevo fame, e faceva freddo. In una parola, mollai. E credo che sarei finito a vivere tra i barboni proprio in questo parco, se su quel marciapiede sporco non mi avesse trovato Marluxia

La pausa che seguì fu di certo la più pesante. Durò solo l’arco di un sospiro, ma il modo in cui aveva pronunciato quel nome indusse Axel a chiedersi se in quel sospiro ci fosse anche un filo di rimpianto.

«Da allora non ho quasi più pensato a Xion» continuò Demyx in un sussurro. «Probabilmente cercavo solo di annegare i sensi di colpa per non essere riuscito a ritrovarla. Ma poi, solo il mese scorso, Marluxia mi ha affidato quel... quel compito...» La faccia gli si contorse in una smorfia di dolore. «C’era una ragazzina, un viso nuovo, che lo interessava molto. Pensava di potersi assicurare una nuova cliente. E invece che coinvolgere te, per una volta voleva contare sulla... mia... disponibilità.» Voltò il capo, quel tanto che gli bastava per poterlo guardare negli occhi. Ormai c’era solo un’innaturale durezza nei suoi lineamenti, fredda e disgustata, come il suo tono di voce. «Mi ha ordinato di vendere della droga a mia sorella, Axel. A mia sorella, che credevo di aver perso, e che forse a quel punto avrei perso per davvero.»

Fu Axel il primo a guardare altrove. Non riusciva più a vedere Roxas e i suoi amici, né la pista. I suoi occhi erano persi nella storia di Demyx.

«Io non sono uno psicologo, non so definire cosa mi sia successo. Diciamo che, quando ho rivisto la mia vita e mi sono trovato davanti all’eventualità di rinnegarla una volta per tutte, ho aperto gli occhi. Forse è come hai detto tu: la luce della ragione.» Di nuovo l’eco di quel sorriso sconfitto. «Chissà.»

Cadde il silenzio. La pausa si protrasse. Axel cercò una domanda per romperla, ma appena iniziò a parlare, le parole gli sembrarono inutili e senza senso.

«Lui sapeva...?»

Demyx gli venne miracolosamente in aiuto.

«Se sapeva chi era lei?» Sospirò ancora. «Non ne ho idea. Ci sono cose che non saprò mai. Come non riuscirò mai a capire perché si sia lasciato prendere così facilmente.»

Axel scosse la testa. Aveva una sua teoria precisa al riguardo; avrebbe potuto esporgliela... Ma Demyx aveva ragione, rifletté concentrandosi su Roxas – che in quel momento scivolava più deciso sullo skateboard di Olette, tanto spontaneo da far credere che quella tavola fosse sempre stata la sua. C’erano davvero cose che nessuno avrebbe mai potuto dire con assoluta certezza di poter capire.

«Perché non mi hai messo in mezzo?»

La domanda si era posta da sola, senza che lui se ne rendesse conto.

Tanto valeva aspettare una risposta.

Demyx rimase in silenzio per un po’. Poi, ai margini del suo campo visivo, scrollò le spalle.

«Tu non c’entravi niente, con noi. Magari tu non te ne accorgevi, ma io sì. Ero come te... all’inizio.»

Axel lo guardò di nuovo. Stava ancora assimilando le sue parole quando lo vide allontanare la schiena dal tronco dell’acero.

«Devo andare.» La sua voce era tornata leggera, pratica. «Stavo giusto andando a trovare Xion. Ora che la sua famiglia adottiva si è trasferita da queste parti, ci tengo a recuperare tutto il tempo perduto.» Cominciò a scendere dal ramo. «Magari ci si rivede, pivellino.»

In silenzio, Axel lo osservò saltare a terra. Quando l’altro sollevò lo sguardo, gli indirizzò un sorrisetto.

«Fammi un favore. Porta a tua sorella i saluti di Axel Hibana

Demyx ricambiò il sorriso. «D’accordo.»

Si allontanò attraverso il parco, verso il sentiero asfaltato che ne usciva, una delle tante linee conosciute o meno che correvano in quel fulcro di vite normali e su cui qualcosa era iniziato e finito.

Axel si voltò di nuovo e lasciò scivolare la gamba, fino a tornare cavalcioni sul ramo. Fissò gli Hawk Runners. Invece di ripercorrere la ‘lunga e assurda’ storia di Demyx, lasciò che la canzone che poco prima gli aveva sentito cantare gli affiorasse alle labbra.

«... There is more than meets the eye, I see the soul that is inside...»

«Mia sorella si chiama Xion...»

Assurdo. Davvero assurdo.

Sulla pista davanti alla fila di alberi, Roxas impennò la tavola.

«I’m with the skater boy; I said: see you later, boy, I’ll be back stage after the show.» Assieme alle parole, gli sfuggì un sorriso. «I’ll be at a studio singing the song we wrote about a girl you used to know...»

 

 

 

 

 

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Visto che aveva un senso, la storia della ragazzina? ^^

La canzoncina canticchiata prima da Demyx e poi da Axel è, naturalmente, Skater boy di Avril Lavigne.

... Io sono sicura che nel prossimo capitolo mi odierete. *scappa*

Aya ~

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Capitolo 44
*** Dal passato ***


43

Dal passato

 

 

 

 

Non era la prima volta che riviveva tutto, ma nessuna delle precedenti occasioni lo aveva fatto sentire così... sollevato. Forse perché Axel poteva capirlo meglio di chiunque altro. C’era stato dentro, e ne era uscito ben prima di sporcarsi troppo: non aveva mai avuto niente a che fare con loro. Glielo aveva letto negli occhi tante volte, lo schifo che provava per Marluxia, che si sforzava di reprimere soltanto perché in qualche modo doveva vivere. L’aveva visto, compreso e inconsciamente invidiato, e l’aveva deriso per questo.

«... Sono qui per vedere dove va la mia retta via...»

Scendendo dall’autobus e avviandosi senza fretta sul marciapiede, Demyx ripensò al ragazzino biondo che aveva visto allenarsi allo skateboard sotto lo sguardo attento del suo vecchio complice e sorrise tra sé, chiedendosi quale fosse stato il suo ruolo nella storia personale di Axel.

Un’altra cosa che forse non avrebbe mai saputo.

La sorpresa più grande di quel giorno, però, era stata un’altra: lo sguardo sbalordito di Xion quando le aveva parlato di lui, e ciò che gli aveva confessato sull’orfanotrofio e su quel ragazzo grande e dispettoso dai capelli rossi che era diventato il suo unico amico.

Un’altra cosa che di certo non si sarebbe mai spiegato.

Era già il tramonto quando Demyx arrivò in vista della palazzina. Non gli dispiaceva più pensare a quel luogo come alla propria casa, non la sentiva più estranea. Sorrise di nuovo, apertamente, al pensare alla nuova immagine di se stesso che ogni mattina guardava allo specchio: un adulto finalmente autonomo, con un posto in cui stare e uno in cui lavorare, e la coscienza un po’ meno sporca di un mese prima.

Era piacevole, una volta tanto, gestire la propria vita.

Il tenente Lockhart aveva davvero fatto molto per lui. Anche quel lavoro, pur momentaneo, al negozio di articoli musicali era un obiettivo cui non si sarebbe mai aspettato di poter arrivare senza il suo intervento. Già, doveva proprio invitarla a cena fuori: il primo stipendio sarebbe stato l’occasione ideale.

Ora che ci pensava, chissà se Axel aveva problemi di quel genere? Magari poteva chiedere a Tifa di intercedere anche per lui... Sempre che non lo stesse già facendo, certo. Più che per uno sbirro, quella donna sarebbe potuta passare per una missionaria.

Demyx arrivò all’altezza del giardino della palazzina e si scosse dai suoi pensieri. Il portone principale era socchiuso.

Imprecò contro la propria sbadataggine; doveva averlo lasciato aperto quel pomeriggio, prima di uscire.

Però...

Attraversò il giardino, in fretta. No, non poteva essere: si ricordava bene di averlo chiuso, perché nel farlo gli erano cadute le chiavi per ben due volte. Perciò, se non lo aveva lasciato aperto lui...

Valutò le possibilità.

Primo: Tifa. Lei era l’unica ad avere una copia delle chiavi. Che avesse deciso di fargli una sorpresa? Poco probabile.

Secondo: un ladro o un malintenzionato. Anche questa era un’ipotesi inconsistente; cosa poteva attirare chicchessia in quel posto dimesso e visibilmente disabitato?

Terzo...

Demyx s’irrigidì sulla soglia. Sentì qualcosa di gelido scorrergli giù per il collo e la schiena. No, si rifiutava anche solo di prendere in considerazione la terza possibilità. Sarebbe stato assurdo. Impossibile. Marluxia era fuori dalla sua vita, ormai. Era dietro le sbarre.

Ma non riusciva a scrollarsi di dosso quel pensiero.

Va tutto bene, cercò di convincersi, la mano stretta convulsamente sulla maniglia del portone. È colpa mia, sono stato distratto. Adesso vado di sopra e trovo la porta dell’appartamento chiusa come l’ho lasciata.

Sforzandosi di ignorare il senso di allerta in cui quel particolare l’aveva fatto precipitare, entrò nell’ingresso e si sbatté forte l’uscio alle spalle. Si prese tutto il tempo di cui aveva bisogno per convincersi di credere davvero a quella bugia, arrancando lentamente verso la lunga rampa di scale e di pianerottoli, scarsamente illuminata da una serie di finestre dalle ante ammuffite.

Distratto, distratto, si ripeteva. È sempre stato un mio problema. Come quando... Come quando... Beh, in questo momento il paragone non mi viene, ma c’è di sicuro. C’è.

Un gradino dopo l’altro, un piano alla volta, sempre più su.

Naturalmente resta sempre valida la prima possibilità. Può essere che il tenente Lockhart avesse un momento libero e...

Si ritrovò all’improvviso davanti alla porta che era ancor più sicuro di aver chiuso a chiave. Era dischiusa anche quella, e sul pavimento davanti ai suoi piedi era disegnata una lama della luce elettrica proveniente dall’interno, il lampadario del soggiorno.

Demyx ne fu sicuro all’istante: oltre quella porta c’era qualcuno – qualcuno che voleva fargli sapere che lo stava aspettando.

Lo dicevo. Un ladro non avrebbe lasciato segni così evidenti della propria presenza. È Tifa, è senz’altro lei.

Da quando in qua il pensiero del tenente gli provocava quel tremore assurdo? Certo, la giovane donna gli piaceva molto, ma quella non era ansia di rivederla... Era... paura?

Sciocchezze. Scosse la testa e deglutì. Demyx, apri questa cazzo di porta.

Mosse un altro passo, l’ultimo, e spinse il battente.

Davanti a lui, il soggiorno era vuoto.

Nonostante la luce accesa, si sentiva come se si fosse immerso in un salto nel buio più profondo; ma lo scenario familiare di casa sua lo confortò un poco. Azzardò qualche altro passo, allontanandosi dalla porta.

In quel preciso istante squillò il telefono.

Demyx sobbalzò violentemente. Quando riconobbe il suono, familiare e innocuo, il sollievo fu tale da farlo ridere come un idiota. Si avvicinò, con le ultime tracce di circospezione, al mobile nell’angolo e sollevò la cornetta dell’apparecchio.

«Pronto?» balbettò.

«Ehi, Demyx.» La voce calda di Tifa Lockhart fu quasi un toccasana per la sua testa su di giri. «Dov’eri finito? Ti cerco da un pezzo.»

Il ragazzo si schiarì la gola; non voleva sembrarle turbato.

«Mi scusi, tenente, sono stato fuori. Mi chiamava per un invito a cena? Perché le ricordo che l’iniziativa spetta a me...»

La sua risata argentina lo calmò un altro po’.

«Sei senza speranza, ma ti perdono.» Di colpo, la donna assunse un tono serio. «In realtà, ci tenevo ad informarti di una cosa... Vedi, qualche giorno fa, una persona che tu dovresti conoscere ha ottenuto... un favore. Per la sua buona condotta, sai. Dico e ripeto dovresti perché si tratta di una mia supposizione...»

Demyx non aveva seguito tutte le sue parole; un formicolio alla base del collo, accompagnato da un orribile presentimento, lo aveva distratto circa a metà del discorso.

«Demyx, mi stai ascoltando?»

Il disagio si intensificava. Il rumore della porta che si chiudeva alle sue spalle lo fece trasalire di nuovo.

«Demyx...?»

Con la cornetta ancora in mano, si voltò.

Un uomo vestito di uno strano impermeabile scuro, con capelli lunghi fino ai fianchi, lo osservava coi suoi occhi gialli da falco. Sorrideva, come trasognato.

Quando parlò, il suono della sua voce dolce e crudele riaffiorò dal passato, insieme a mille altre cose che nel passato non potevano essere trattenute.

«Ci rivediamo, piccolo

Non riusciva a muoversi. Tutto gli fu chiaro: qualcuno lo aveva effettivamente aspettato, e lui sapeva anche il perché.

«Saïx» sussurrò.

La cornetta scivolò a terra, mentre il pensiero di Demyx correva a sua sorella, all’unica e ultima persona che avesse mai potuto salvare.

 

 

 

 

 

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Vi concedo di linciarmi. Fatelo, ci sentiremo tutti meglio. u////ù
Vorrei stare qui ore a ringraziare tutti i lettori/recensori che si aggiungono di volta in volta, ma spero che un sincero grazie possa riuscire dove un’intera pagina web non potrebbe. <3

Aya ~

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Capitolo 45
*** Pioggia ***


44

Pioggia

 

 

 

 

Era stata una giornata calda. Il terreno appariva sfocato alla vista, ma poteva anche essere per la stanchezza degli occhi.

Le prime gocce di una pioggia leggera caddero dalle nuvole addensate su Twilight Town come una cappa grigia di malaugurio. Dall’erba secca si levò all’istante uno sfrigolio spento. Era come se la terra stessa sospirasse – difficile stabilire se di sollievo o di sconfitta.

In un modo o nell’altro, quella era una fine.

 

 

* * *

 

 

Cloud Strife aveva venticinque anni, ed era stanco.

Non era una stanchezza fisica; nasceva molto più in fondo.

C’entravano qualcosa gli occhi di Aerith, pieni di lacrime. C’entravano gli occhi di Tifa Lockhart, sconvolti. C’entravano gli occhi sbarrati di Zexion Ienzo, un ricordo tanto tangibile da essere quasi palpabile, e adesso anche quelli di Demyx Mizu.

Quanti altri sguardi simili avrebbe dovuto sostenere?

Notoriamente, Cloud non era un uomo che si lasciasse coinvolgere facilmente da ciò che gli stava intorno. Anche con le persone era sempre stato ermetico; solo Aerith riusciva talvolta, con la sua aura buona, a penetrare le sue barriere. Eppure quella dannata storia era diversa dalle altre.

Che si trattasse dell’interessamento particolare del tenente verso quel ragazzo, o del fatto che lui stesso avesse ucciso per la prima volta, o delle persone innocenti che loro malgrado erano rimaste coinvolte, sentiva che non avrebbe mai superato davvero e del tutto quella serie di disgraziati eventi.

Sotto la pioggia, si concesse di ammettere di sentirsi stanco.

 

 

* * *

 

 

Aerith Gainsborough teneva lo sguardo basso, perché non aveva il coraggio di guardare la ragazzina dai capelli neri.

Per l’ennesima volta si chiese cosa ci fosse adesso dietro quegli occhi liquidi, cosa si provasse a vedersi crollare il mondo addosso, e se un’anima potesse finire squarciata e il dolore arrivare a un punto in cui le lacrime e le grida e i pugni sui muri non erano più niente.

Ripensò al momento in cui Tifa Lockhart aveva spalancato la porta del suo ufficio ed era schizzata fuori ordinando a lei e Cloud di seguirla alla villetta; ricordò la sua espressione quando erano arrivati e avevano visto le porte aperte, le stanze silenziose, il corpo riverso a terra. Cercò di immaginare come si fosse presentata a casa della ragazza e le parole che aveva scelto per dirle che il fratello maggiore che era tornato da lei se n’era andato di nuovo, stavolta per sempre.

«Voglio farlo io» aveva mormorato soltanto.

Le vennero in mente gli Ienzo, superstiti senza lacrime di un’altra condanna.

Aveva trovato la risposta: sì, era possibile ritrovarsi con l’anima squarciata.

Sollevò il capo; cercò di mettere a fuoco il lungo rettangolo di terra smossa davanti a lei, ma la pioggia negli occhi non le facilitava il compito.

Poi si accorse che le gocce si erano fermate: erano lacrime, ancora e soltanto lacrime, quelle che le offuscavano la vista. Alzò lo sguardo, confusa, e le sembrò di vedere la mano di Cloud a sorreggere l’ombrello che la riparava dalla pioggia.

Sospirò e scivolò con la testa sulla spalla del compagno. Sentì il suo braccio libero circondarla, prima di rifugiarsi nel buio inutile delle palpebre abbassate.

Sotto la pioggia, si concesse di accogliere dentro di sé tutto il dolore di qualcun altro.

 

 

* * *

 

 

Tifa Lockhart non si curava del fango sui vestiti.

Quando era bambina, i suoi genitori non la finivano mai di sgridarla per quelle brutte macchie sui pantaloni, per le corse pazze nella melma, per le battaglie a schizzi di pozzanghere con i figli dei vicini.

«Ti prenderanno per un maschiaccio» le dicevano sempre. «Non vuoi diventare una bella signorina e trovarti un bel ragazzo? Come pensi che qualcuno voglia uscire con te, se sei sempre conciata così?»

«Io non voglio un ragazzo!» strillava lei, arricciando il naso o pestando i piedi. «Io i ragazzi li pesto. E lo farò anche da grande. Anzi, meglio: li manderò tutti in prigione!»

Suo padre e sua madre, a quel punto, scoppiavano a ridere.

Oggi le cose non erano cambiate: sedeva sulla nuda terra sotto la pioggia, lontana dagli uomini, e il fango non contava niente.

Trovò semplicemente ridicolo stare lì a pensare alla sua infanzia mentre assisteva alla fine di un’altra vita.

Un’altra persona. Quello era stato Demyx. Uno dei tanti.

Uno dei tanti da cui lei avrebbe dovuto diffidare. Uno dei tanti che lei avrebbe voluto salvare. Uno dei tanti suoi fallimenti.

Pensare che aveva comunque fatto tutto il possibile per lui non le era di alcun conforto. Avrebbe dovuto parlargli delle sue paure. Quando quel criminale era uscito di galera e per prima cosa aveva chiesto di Marluxia, lei aveva avuto un presentimento, una sensazione orribile, ma l’aveva tenuta per sé. Avrebbe dovuto chiamarlo, e subito, invece che rimuginare sulla plausibilità di quella sensazione. Invece no, aveva taciuto, aveva aspettato troppo, e ora davanti ai suoi occhi c’era solo una nuova lapide piantata prima che fosse giunto il momento giusto.

Non aveva ancora compiuto diciannove anni...

Tifa avvertiva una presenza accanto a sé; la ragazzina dai capelli neri che aveva accompagnato, avvolgendola nella sua giacca nella vana speranza di fermarne il tremito, che si era aggrappata alla sua mano come se non avesse avuto altro al mondo, che adesso era là in piedi al suo fianco, vuota anche delle lacrime.

Sentiva la sua presenza, ma le sembrava lontanissima.

Non trovava neanche la forza di desiderare di superare la barriera.

Se c’era un limite a separare la passione dalla follia, lei lo aveva attraversato. Ormai stava cedendo. Magari quel lavoro era al di là delle sue capacità. Si soffriva più del previsto, si soffriva troppo...

Sotto un velo d’acqua – pioggia? Lacrime? – cercò di visualizzare la lapide, la scritta nera funesta nella pietra chiara, e si disperò perché dentro di sé non sapeva scegliere le parole per mandarlo via.

Avevamo una cena in sospeso, Demyx. Sarebbe stato così facile salutarti solo per tornare a casa...

Sotto la pioggia, nessuno vide l’ombra fredda del suo sorriso disperato.

 

 

* * *

 

 

Roxas piangeva. Ed era la prima volta che lo faceva per un estraneo.

Qualcosa lo faceva sentire ancora fuori posto, sbagliato, in quel cimitero. Lui non aveva mai conosciuto Demyx; era l’unico dei pochi presenti a non averlo mai neanche visto. Ma aveva visto lo sguardo tormentato di Axel, quella mattina, quando aveva ricevuto la telefonata del tenente Lockhart. Aveva sentito il tono spento della sua voce mentre ne parlava con lui e gli raccontava tutto. Soprattutto, aveva avvertito fin dentro la pelle ciò che era successo.

C’era qualcosa a legarlo a Demyx. E non si trattava soltanto della presenza di Axel. Era una scelta, quella di entrambi: la scelta di rialzarsi.

La differenza era che oggi lui poteva andare avanti, Demyx no.

Così, aveva voluto essere lì anche lui.

Non aveva mai partecipato a un funerale dopo quello dei suoi genitori. Di quel giorno aveva un ricordo confuso, pieno di lampi di dolore fitto alle gambe e di un senso ovattato alla testa, per via dei medicinali e dei tranquillanti che gli avevano inferto. C’erano tante persone, tantissime. C’era il sole, e in qualche modo lui aveva trovato la lucidità per odiarlo. C’erano silenzi e sguardi tristi e mani strette e subito dimenticate.

Questo funerale non avrebbe potuto essere più diverso; il cimitero era vuoto, il silenzio rotto solo dal ticchettio della pioggia, e ogni contatto umano e visivo praticamente inesistente. Soltanto le dita di Axel serrate a pugno sulla sua spalla ricordavano l’esistenza di un mondo che andava oltre la pioggia.

Roxas piangeva. Non poteva evitarlo.

Era questo che ci si doveva aspettare, dopo la curva? Era questo che meritava una persona che aveva ripensato la sua vita pur di proteggere una sorella? Era questa la fine della storia? Non era giusto.

La mano di Axel si serrò un po’ di più. Roxas chiuse gli occhi e inspirò: l’odore della pioggia, quello che aveva sempre amato, si filtrò in quello plastificato e neutro della giacca a vento di lui. Si passò le mani sulle palpebre e le riaprì.

La ragazza di cui Axel gli aveva parlato era laggiù, accanto alla tomba. Roxas osservò i suoi lineamenti regolari e colmi di vuoto, la pelle del viso bianchissima sotto i capelli neri bagnati. Sentì di capirla come non aveva mai capito nessuno in tutta la vita, forse neanche Axel.

Conosceva fin troppo bene quello sguardo: erano gli occhi di un naufrago, in bilico su un precario pezzo di legno, che si volta a guardare la sua nave affondare nella bufera. Gli occhi di chi ha perso anche se stesso.

 

 

* * *

 

 

Axel sapeva che era un incubo, però non riusciva a svegliarsi.

Ma chi voleva prendere in giro? Quella era la schifosissima realtà. Una realtà che prima ti dava l’illusione di poter cambiare e poi, di colpo, ti fotteva in tutta la sua spietatezza.

E lasciava libero un pazzo scatenato che già sembrava essersi dissolto nell’aria.

Il tenente Lockhart gli aveva raccontato tutti i particolari quel pomeriggio, quando si erano visti prima del funerale. Aveva detto che a quel punto non le importava più un cazzo della segretezza, dell’etichetta professionale, né di un eventuale licenziamento – che, anzi, forse sarebbe stato una liberazione. Gli aveva parlato di Saïx, della scarcerazione, dei suoi sospetti quando sulla bocca dell’uomo era affiorato il nome di Marluxia, della sua telefonata a Demyx, del nome che lui aveva sussurrato nella cornetta prima di lasciar cadere il telefono, e anche dei segni di strangolamento rinvenuti sul suo corpo.

«Axel» aveva concluso, con uno sguardo febbricitante. «Se anche tu conosci quest’uomo, devi dirmelo. Per il tuo stesso bene. Mi capisci?»

Lui capiva, ma aveva scosso la testa.

«Non ho avuto modo di conoscerlo; era già in carcere quando ho conosciuto... quando sono entrato nel gruppo. Non posso aiutarvi.»

E fu così che l’uomo nero sparì nella notte buia e tempestosa...

Neanche a dirlo, si udì l’eco di un tuono.

La spalla di Roxas sussultò sotto le sue dita, più volte, piano, come se il ragazzo cercasse di reprimere i singhiozzi. Dischiuse le dita e lo strinse. Nonostante tutto, era felice di averlo accanto a sé.

«Per il tuo stesso bene...»

E se Saïx, invece, avesse saputo chi era lui? Quante volte aveva già rischiato di perdere Roxas? Non credeva di poter sopportare l’idea che...

Lo sguardo gli cadde sulla figurina nera accanto alla tomba, e si sentì improvvisamente egoista.

Senza distogliere gli occhi da lei, si chinò perché la sua voce raggiungesse l’orecchio di Roxas.

«Vado a parlarle.»

Lui tirò su col naso. Si scostò la frangia zuppa dalla fronte, tirò su le spalle e annuì. «Ti aspetto qua.»

Axel lo guardò, premette ancora una volta la mano sulla sua spalla – era lui ad aver bisogno di quel contatto, lui: perché lui non sarebbe mai stato forte come Roxas – poi la ritrasse, si strinse nel bavero della giacca a vento e s’incamminò lentamente tra le pozzanghere.

Senza il contatto di Roxas, sentiva freddo.

Arrivò all’altezza della ragazza e ancora non aveva deciso cosa dirle. Le si fermò accanto, imbarazzato; si conoscevano già, ma in quel momento temeva di non essere altro che un estraneo per lei, per il suo dolore.

Un altro tuono. Il crepuscolo si faceva sempre più scuro, impossibile vedere le prime stelle.

Perché durante i funerali doveva sempre piovere? Gli era capitato di vedere scene esattamente identiche a quella, nei pochi film e nei pochissimi libri che aveva avuto modo di esaminare in orfanotrofio. Forse era una qualche metafora di purificazione. Forse era solo per rendere il tutto più deprimente – come se non lo fosse già abbastanza il fatto di dover “dire addio a una persona cara”.

Il piccolo Axel non aveva mai capito la faccenda della persona cara. Lui non aveva persone care, non aveva parenti, non aveva neanche degli amici. Non c’era nessuno di cui gli importasse davvero qualcosa. Non prima né dopo di Xion.

Però, adesso c’era Roxas.

Abbassò infine lo sguardo sulla ragazzina che gli stava accanto in silenzio, lontana un passo o chissà quanto. Quella era stata la prima persona che avesse mai osato definire ‘cara’; buffo, davvero buffo che la sua crescita fosse iniziata con lei e che anche alla fine comprendesse lei.

Una buffa ennesima coincidenza.

Una cosa che nessuno avrebbe mai potuto dire con assoluta certezza di poter capire.

In quel momento, per la prima volta, la ragazza distolse lo sguardo dalla tomba di suo fratello e lo puntò su di lui.

«Mi sarebbe piaciuto rivederti in circostanze diverse.»

Era la voce che ricordava. Disillusa.

Annuì. «Anche a me.»

Lei fece un sorriso triste. Axel si chiese dove trovasse la forza per cambiare espressione. Poi la vide chiudere gli occhi e portare le mani al viso, la sentì soffocare un gemito.

Da quando era entrata nel cimitero, non aveva versato una sola lacrima.

Istintivamente, Axel l’attirò e la strinse a sé. I suoi piccoli pugni gli si aggrapparono al petto mentre la diga si rompeva, e i suoi singhiozzi gli penetravano nella pelle e scuotevano anche il suo cuore.

Era così piccola. Sola. Alla deriva.

Proprio come Roxas.

Proprio come lui.

 

 

* * *

 

 

Quando glielo dissero, si sentì curiosamente spaccato in due.

Sapere di Saïx, della sua fedeltà che ancora resisteva al tempo, del suo commovente desiderio di dimostrargli che non era cambiato nulla, lo aveva toccato nel profondo. Ma se da un lato ritrovava intatto tutto ciò che lo aveva legato a lui, dall’altro vedeva frantumarsi definitivamente tutto ciò che era stato con Demyx.

Marluxia rimase a lungo immobile nella sua cella, rannicchiato sul pavimento, a chiedersi se era davvero giusto che la storia finisse così.

Lo sapevo che mi saresti mancato, piccolo mio...

Alla fine, sotto il rumore dolce della pioggia oltre le sbarre alla finestra, si addormentò.

 

 

 

 

 

_________________________________________________________________________________________

 

 

 

 

 

 

 

Disperazione pura. La provai quando scrissi questo capitolo anni fa e la provo oggi che lo rileggo, per motivi più o meno analoghi.

Nella realtà il lieto fine non esiste quasi mai. Era ciò che volevo esprimere. È passato del tempo, ho accumulato altre esperienze, e ne sono più che mai convinta.

Ma queste note non sono per deprimervi quanto sono depressa io; al contrario, vogliono solo ringraziarvi di essere giunti fin qui, e dirvi che, se vorrete seguirla ancora, questa storia si chiuderà definitivamente tra due capitoli.

Aya ~

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Capitolo 46
*** Dopo il naufragio ***


45

Dopo il naufragio

 

 

 

 

Vivi era bravo. Quasi più bravo di Seifer. Era silenzioso e sicuro di sé, come un sicario, e mentre faceva ruotare la tavola in una serie di kickflips ne dimostrava anche la stessa fluidità di movimento. Hayner staccava gli occhi da lui solo per puntarli sul tabellone.

La SK-8 era forte. Piuttosto che ammetterlo ad alta voce si sarebbe mangiato lo skate – ma il bello dei più intimi pensieri era che nessuno poteva sentirli.

La SK-8 era forte, sì. Ma gli Hawk Runners avevano dalla loro parte una consapevolezza e una convinzione in più: nella vita c’erano cose più importanti che vincere una gara.

Ritrovare se stessi. Ritrovare una speranza. Ritrovare un amico.

Però, se doveva essere completamente sincero con se stesso, era vero che vincere non era tutto, ma non sarebbe neppure dispiaciuto a nessuno!

L’esibizione della squadra avversaria stava per finire. Hayner non fischiò ai tricks di Seifer, Vivi e gli altri, come avrebbe voluto fare, ma si voltò verso i suoi compagni e stese in fuori il pugno chiuso.

«Io prometto» disse soltanto.

Olette mise subito la mano sulla sua.

«Prometto.»

Pence si mise il casco in testa e si unì a loro.

«Prometto.»

Si voltarono tutti e tre a guardare il campione dei falchi.

Il loro amico, la cosa più importante, sorrise e posò la mano su quella di Pence.

«Fino alla fine.»

 

 

* * *

 

 

Sora era orgoglioso. Orgoglioso di poter dire che quel ragazzino biondo con il casco blu che stava per scendere in pista era il suo gemello. Era il suo fratellino, quello che da piccolo se ne stava ore e ore a guardare la pioggia e a disegnare le persone che amava, quello che piangeva quando si sentiva perso, quello che non voleva essere il fratello di Sora e che soltanto su una tavola con le rotelle riusciva ad essere se stesso senza schermi.

Quel ragazzino che salvava gli altri e che era la persona più forte che potesse mai sperare di conoscere.

«Terra chiama Sora!»

Si scosse quando la mano di Kairi s’immerse nel suo pacchetto di patatine e ne uscì fulminea. Alzò gli occhi in tempo per vederla masticare il suo bottino con espressione soddisfatta.

«Ehi!» Allontanò il pacchetto da lei. «Che ti sei messa in testa? Solo perché adesso sei la mia ragazza, non puoi prenderti certe libertà!»

«Ah, no?» Kairi allungò di nuovo la mano, sporgendosi su di lui. «Se no che mi fai?»

Sora rise, le afferrò il polso e la tirò a sé. «Indovina un po’...»

«Oh, avete finito di fare gli sdolcinati, voi due? State diventando davvero imbarazzanti.»

Sora si ritrasse subito dal viso di Kairi, sentendosi avvampare. Lei si voltò come una furia verso Selphie.

«Perché non chiudi semplicemente gli occhi, tesoro?»

Riku e Tidus scoppiarono a ridere.

«Non posso!» Selphie arrossì a sua volta. «Altrimenti come potrei guardare il fratello del tuo ragazzo, eh?!»

Questa volta fu Kairi a scoppiare a ridere; Tidus quasi si strozzò, mentre lanciava a Selphie un’occhiata sconcertata.

Sora sorrise e scosse la testa. Sbirciò l’adolescente taciturno seduto alla sua destra; non aveva ancora aperto bocca.

In cuor suo, pensava che a suo fratello avrebbe fatto più piacere ricevere gli sguardi di qualcun altro; ma non lo disse, perché Selphie era un’amica.

 

 

* * *

 

 

Axel era teso. Non aveva mai assistito ad una gara di skateboard – beh, di nessuno sport, a dirla tutta. Avvertiva una carica adrenalinica di ansia alla bocca dello stomaco, ma probabilmente non era la gara in sé a provocarla.

Erano passati più di due mesi dal momento in cui Roxas era salito sullo skate di Olette. Dopo quel primo giorno in cui lo aveva accompagnato e osservato a distanza, Axel gli aveva lasciato affrontare gli allenamenti da solo. Quella era una cosa che apparteneva a lui e basta; era una faccenda tra Roxas e la tavola. E lui voleva farcela e poteva farcela.

Oggi, però, lo aveva di nuovo voluto con sé a quella gara. E Axel cominciava a chiedersi quali e quanti progressi avesse compiuto in quei due mesi, se gli erano bastate due sole settimane per riprendere a camminare.

Le chiacchiere spensierate di Sora e dei suoi amici non si distinguevano dal brusio degli altri spettatori: un rumore sommesso, un sottofondo privo di senso logico. Ma per qualche motivo non riuscì ad escludere allo stesso modo la voce femminile che all’improvviso gli risuonò accanto.

«C’è un posto libero qui?»

In piedi sui gradini che attraversavano le tribune, la ragazzina dai capelli neri sembrava piccolissima e fuori posto, ma la sua espressione era – se non sorridente – almeno tranquilla.

Axel la fissò per un attimo, sorpreso; poi si voltò a guardare i ragazzi che gli sedevano al fianco.

Sembravano tutti interessati alla nuova arrivata. Sora scoccò uno sguardo incuriosito ad Axel, ma qualcosa nella sua espressione dovette convincerlo a concentrarsi subito sulla pista ed a riavviare una conversazione con Kairi e gli altri.

Axel si rivolse di nuovo alla ragazzina e azzardò un filo di ironia. «Se non ti dispiace sederti sulle mie ginocchia.»

Lei scosse impercettibilmente la testa, e sul suo volto passò un altrettanto impercettibile lampo di sorriso.

Ricambiò, le porse la mano e l’aiutò a prendere posto. Mentre lei sedeva sul suo ginocchio – come se volesse occupare meno spazio possibile – lui lanciò un’altra occhiata a Sora, della serie niente-domande-prego.

«Allora, dov’è il tuo amico?»

Axel le indicò il punto da cui gli Hawk Runners sarebbero sbucati da un momento all’altro. «Là dietro a fare i conti con se stesso.»

«Deve essere stata dura, per lui.»

«Sì.» Abbassò il braccio e la voce. «Tu come stai?»

Non si erano visti molto, dopo quel giorno al cimitero. Ma qualche volta lei lo aveva cercato al parco, qualche volta aveva pianto ancora al riparo delle sue felpe più sgualcite.

La ragazza si strinse nelle spalle. Axel non poteva vedere il suo viso, soltanto la guancia pallida sfiorata dai capelli.

«Sto. Come prima.»

Calò il silenzio brumoso del pubblico attento, rotto solo dalle occasionali urla al microfono dello speaker della gara. Chissà se Sora lo stava ancora sbirciando; non poteva esserne certo, dal momento che teneva lo sguardo fisso davanti a sé, sui volteggi dei quattro pagliacci che aveva visto quella volta al parco.

Fu di nuovo lei a parlare per prima.

«Tu cosa fai, di solito, per non fermarti a pensare?»

«Beh...» Axel sentì le labbra tendersi in un sorriso storto. «Non moltissimo, in realtà. Il buon vecchio tenente Lockhart mi ha aiutato ad assicurarmi un lavoro.» Evitò di specificare di chi era stato il posto in quel negozio di articoli musicali. «In realtà, il più del tempo lo passo con Roxas

Annuì, come se capisse benissimo tutto ciò che c’era dietro quelle parole, il bisogno e il conforto e tutto il resto.

«So che lei si è trasferita.»

«Sì, ha chiesto di allontanarsi per un po’. Le ricerche di... di Saïx sono passate in mano a qualcun altro.»

«Io non credo che lo troveranno mai.»

«In realtà neanch’io.»

«Mi piace, Tifa Lockhart. È una donna buona. E anche Aerith

«Già.»

Altro silenzio brumoso.

«E tu?» Axel era felice che lei stesse guardando la pista: non sarebbe stato facile porle quella domanda in viso. «Che farai adesso?»

La ragazzina parve riflettere; le sue gambe magre sulla sua ebbero un fremito. Era leggerissima, dava l’impressione di potersi dissolvere nell’aria da un momento all’altro.

«Ci trasferiamo di nuovo» sussurrò. «Forse stavolta non sarà tanto male, dopotutto.»

Axel non disse nulla. Sospettava che la sua piccola vecchia amica stesse per aggiungere qualcosa d’importante.

E infatti, all’improvviso, lei si voltò a guardarlo.

«In fondo sono contenta che l’ultima cosa di cui Demyx mi ha parlato sia stato tu.»

I suoi occhi erano limpidi, senza più tracce di lacrime. Per la prima volta da che lui ricordasse, sorrideva.

Un sorriso identico a quello di suo fratello.

Un sorriso davanti al quale Axel non poté che abbassare lo sguardo.

Sulla pista, la SK-8 era sparita. Il tabellone segnava già i nuovi punteggi. Era il turno degli Hawk Runners.

«E ora» annunciava lo speaker, «vogliate accogliere con un applauso...»

La sentì alzarsi in piedi; allora sollevò lo sguardo su di lei.

«Abbi cura di te, Axel

«Anche tu, Xion

«Sì. Anch’io.» Lo ripeté come se non ci credesse fino in fondo, ma la sua voce non tremò. Si chinò a baciargli leggera una guancia. «E saluta Roxas da parte mia.»

«Lo farò.»

Un attimo dopo, era sparita come era apparsa.

 

 

* * *

 

 

«... Hayner

Roxas inspirò profondamente, cercando di calmarsi.

Non era solo adrenalina quella che gli scombussolava lo stomaco. C’erano tante, tante cose, troppe.

Una volta aveva sentito dire che davanti al destino si è portati a riconsiderare tutta la propria vita. Certo, lui non stava fronteggiando il destino, ma non poteva fare a meno di rivivere tutto ciò che lo aveva portato a quel punto.

«... Olette

Vide uno skateboard bianco, rosso e blu chiuso in un armadio. E il giorno in cui aveva riaperto le ante.

Vide gli occhi dei suoi genitori, sentì le loro parole. E l’attimo in cui si era svegliato e aveva capito.

Vide il disegno di una sedia a rotelle, perso nel vento fuori dalla finestra di una stanza bianca d’ospedale.

Vide una macchia di sangue sul proprio fianco.

Vide la scala antincendio del suo condominio, illuminata dalla luna, portatrice di persone nuove e di speranze insperate.

«... Pence

Poi gli occhi tornarono al presente, alla stessa tavola bianca, rossa e blu. Sarebbe stata la prima volta, dopo due anni.

«E... Roxas

Il naufragio si era concluso. Era il momento di risalire la riva e proseguire il viaggio.

Fece mente locale per l’ultima volta; visualizzò con chiarezza nella mente il fattore comune, l’elemento alla base di ognuno di quei pezzi della sua vita.

Questo è per te, Axel.

Mise il piede sulla tavola, prese fiato e slancio, e seguendo Hayner, Olette e Pence uscì alla luce del sole.

 

 

* * *

 

 

Sembrava quasi che volasse.

Axel ammirò tutti i suoi movimenti, ogni singolo guizzo delle sue gambe, ogni minimo dettaglio del suo talento – e anche se le urla di Sora e dei suoi amici erano assordanti, gli sembrava che il mondo non esistesse più. Tutto cominciava e finiva con lui, perché tutto era cominciato e sarebbe finito con lui.

Fu soltanto quando gli applausi scroscianti del pubblico decretarono la fine dell’esibizione che si scosse.

Lui non era un esperto in materia, ma i punteggi sul tabellone parlavano chiaro. Gli Hawk Runners si erano appena classificati per la gara successiva.

Gli avevano detto che era la prima volta che si scontravano direttamente con la SK-8 prima delle semifinali; chissà, magari il cambiamento avrebbe portato fortuna anche per l’ultima fase del campionato. E per qualche motivo sentiva che ora il peggio era passato, che tutto sarebbe andato solamente in meglio.

Un po’ di ottimismo poteva anche concederselo, no?

La folla cominciò a disperdersi e Axel si alzò. Lo vedeva ancora, sul circuito, circondato dai suoi compagni. Non partecipava al giubilo di Hayner, Pence e Olette: sembrava guardarsi intorno, quasi spaesato, in cerca di qualcosa o qualcuno.

Axel si allontanò da Sora.

Cercò di raggiungerlo, ma la ressa glielo impedì; allora si fermò al margine della pista, gli occhi fissi sulle schiere di ragazzi che si erano appena tuffati sui falchi per sollevarli in trionfo.

Anche a quella distanza lo vide sottrarsi alle mani aperte e agli abbracci pronti, continuare a cercare con lo sguardo – finché con lo sguardo si fermò su di lui.

Soltanto allora, Roxas sorrise. Felice come mai l’aveva visto.

E questa era la cosa più bella che avesse davvero ammirato su quella pista.

Il ragazzo si fece strada tra amici e sconosciuti, diretto verso di lui. Quando la distanza tra di loro fu dimezzata cominciò a correre.

Axel non si sarebbe meravigliato troppo se lo avesse visto volare per davvero.

 

 

 

 

 

_________________________________________________________________________________________

 

 

 

 

 

 

 

Dopo la nota triste dello scorso capitolo, un po’ di sole ci voleva.

Vi aspetto all’epilogo, dove vi ringrazierò uno per uno, con tutta l’immensa riconoscenza che vi è dovuta per essere giunti fino alla fine. <3

Aya ~

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Capitolo 47
*** Epilogo ***


Epilogo

 

 

 

 

Twilight Town, agosto

 

La ragazza che aveva rifiutato il proprio nome si guardò indietro per un’ultima volta, prima di salire sull’aereo che l’avrebbe allontanata da un altro posto ancora.

Sapeva che stavolta si stava lasciando alle spalle ben più di quanto avesse abbandonato le altre volte.

Le mancavano già, quei pochi giorni in cui si era ritrovata, in cui si era sentita di nuovo viva. Le mancavano ma, stranamente, non era triste al pensiero di lasciarseli alle spalle.

Forse le bastava averli vissuti. Sarebbe stato peggio, se non ci fossero mai stati. Ma così, almeno, le rimaneva dentro qualcosa.

Si erano ritrovati.

Si voltò e li seguì – suo padre e sua madre – sulla rampa di scale. Non sapeva se sarebbe mai tornata, ma sperava di poterlo fare, un giorno, per rivedere la tomba di suo fratello e magari sapere che il suo essere giustiziato aveva trovato giustizia...

No, in realtà non era per questo.

Avrebbe voluto tornare anche solo per ringraziarlo.

Quando il portello si chiuse e tutti trovarono i loro posti, lei chiuse gli occhi e si concentrò sul rombo dell’apparecchio che iniziava a muoversi, pensando ancora con gratitudine a Dem.

Aveva mantenuto la promessa.

Dopo tanti anni, finalmente, la ragazza senza nome era di nuovo felice di chiamarsi Xion Mizu.

 

 

 

 

 

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Ed eccoci alla fine.

Ci tengo a ringraziarvi tutti, uno per uno, perché è stato per voi che ho deciso di pubblicare questa storia che già non mi convinceva più e perché è stato per voi che – soprattutto – non ho rinunciato all’idea. Grazie dunque infinitamente:

a _Ella_, Kisshou, fragolottina, BlackRuri, ChibiSerenity, Little Duck, Syranjil Sarephen, _Nick_, habanera, Jericho XVIII, Lightvampire, Francesca Akira89, Axellina, Dead Master e Kiku J, per le meravigliose recensioni che di volta in volta mi hanno allietato pomeriggi e serate interi, sperando di non averli delusi;

a Axellina, BaMbI 12, BlackRuri, ChibiSerenity, Dark Angel, Dead Master, DelenaWincest, Francesca Akira89, Frozen Ronnie, habanera, Kisshou, Lightvampire, Little Duck, RedFlame, RokuXion_And_AkuRoku, Yami no Koshaku fujin, _Ella_, _Nick_ e ___Faxas, per aver riposto in questa storia tanta fiducia da aggiungerla alle preferite, sperando non abbiano dovuto pentirsene;

a DelenaWincest, eleonor97, Kairi Skywalker, Lorenz_123, Niah, verry e _Nick_, per averla aggiunta alle storie ricordate;

a ale94, Axellina, Ayesha, Bibi_, ChibiSerenity, Crazy_Bunny, DelenaWincest, fragolottina, Ichigo06, Jericho XVIII, Juliett_94, ka93, Kaoru Dupre, Kiku J, Lightvampire, Lil Romantic Girl, LittleKairi14, Lycoris, Mikhi, pralinedetective, RikaaKawaii, RokuXion_And_AkuRoku, Shapira, utopico e distopica, WiccaGirl, Yami no Koshaku fujin, _Ella_ e ___Faxas per averla seguita fin dove non avrei mai pensato di arrivare;

e a tutti i lettori che in questo momento stanno leggendo queste ultime righe.

Spero di essermi meritata almeno una minima parte del vostro interesse. Giuro che sono sincera. <3

Se ho dimenticato qualcuno è per via della mia distrazione cronica, non certo perché il suo passaggio sia passato inosservato.

Alla prossima, se vorrete,

Aya Lawliet ~

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