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Mentre la sera siamo davanti al
telegiornale, a sentire di nuove, emozionanti conquiste in qualche terra
lontana, perdiamo i veri drammi che si vivono intorno a noi. È un
peccato, perché lì c’è più coraggio che da
ogni altra parte.
Torey L. Hayden, Una bambina
Prologo
Twilight Town, marzo
La ragazza senza
nome guarda la vita scorrere nella nuova città in cui si è
ritrovata a vivere.
Guarda i volti, i sorrisi, i passi, la gente, e tutto le appare
irrimediabilmente estraneo.
Lei ha rifiutato quel mondo, perché ha rifiutato se stessa.
Da molto tempo ha deciso di cedere, di abbandonare la propria forza di
volontà a quella ben più inflessibile del corso delle cose che hanno
già deciso tutto per lei. Ha ceduto, ma non ha accettato. Anche il fatto
di essere seduta qui, in questo momento e in questo posto pieno di sorrisi
sconosciuti, è qualcosa cui ha ceduto,
ma che non ha accettato.
Semplicemente, è la sua esistenza.
Non la sua vita, no. Perché quella è finita molti anni fa,
quando le hanno tolto tutto e tutti.
E allora e ancora si limita a guardare e a chiedersi se qui potrà
dimenticare o smettere di piangere o almeno dormire di sonni senza sogni.
Ma purtroppo conosce già le risposte a quelle domande.
Ancora una volta, la ragazza senza nome non può fare altro che
ciò che le è rimasto: guardare, ricordare e piangere.
Questa storia è un’incognita
indefinita. L’ho scritta forse due anni fa, nel corso di un’estate particolarmente
ispirata; poco più di due mesi, per la precisione. Mi entusiasmava un
bel po’, tanto che a un certo punto, dopo averla riletta e risistemata
per non so quante volte, mi dissi che, se fossi stata abbastanza brava da
presentarla sotto una buona luce, sarebbe potuta diventare un romanzo. Perché,
vedete, era probabilmente la cosa più lunga e più articolata che
avessi mai scritto. Se mi impegnavo, poteva valere qualcosa. Se.
Avete notato quanto i ‘se’
condizionino la vita delle persone?
Il punto è semplicemente questo: a
distanza di due anni, di infinite riletture e di innumerevoli tentennamenti,
devo ammettere che questa storia non
è abbastanza per essere definita un vero e proprio libro. Probabilmente perché
manca di quella parte di esperienza personale che ogni vero scrittore riversa in ogni suo vero libro: io mi sono limitata ad immaginare le cose, senza sapere
se corrispondessero ad una realtà oggettiva. Non ho idea di come
funzioni un commissariato di polizia americana e non so nulla sulla malavita
vera.
Pertanto ho capito che, se io per prima non
ne sono convinta, è giusto fermarsi in partenza.
Però mi dispiaceva richiudere per
sempre nel cassetto un lavoro che all’epoca mi soddisfaceva parecchio. Ci
ho riflettuto a lungo, ho valutato pro e contro. Mi sono detta che riproporla
come fanfiction, così com’era nata, non
mi costava nulla. E, anzi, forse un po’ mi avrebbe consolata della
decisione presa.
Il prologo che avete appena letto è
volutamente breve e oscuro, ma mi auguro che a qualcuno faccia venir voglia di
seguirmi. Chissà che il parere dei lettori non mi faccia nuovamente
cambiare idea sul destino di questa storia.
E poiché è già
completa, e da un bel pezzo direi, gli aggiornamenti saranno piuttosto
regolari. So, seeyasoon.
La fitta alla spalla
andava lentamente scemando, ma quella sensazione, tipica dell’animale
braccato, era ancora forte. Troppo forte. Si aspettava quasi di ritrovarsi
qualcuno alle spalle, magari con un ghigno sadico e una pistola in mano, e ogni
anfratto buio gli ricordava ciò che aveva fatto negli ultimi due mesi,
ciò che era, ciò da cui doveva fuggire.
Imprecò tra sé, sostenendosi la spalla e calpestando una
pozzanghera.
«Merda.»
Scosse la testa, scrollandosi di dosso le gocce di pioggia. Non poteva
permettersi quei pensieri. Doveva andare avanti, mettere quanta più
strada possibile tra sé e il vecchio fabbricato che era stato il loro
luogo di ritrovo e tutto ciò che avesse di più simile ad una casa.
Alzò lo sguardo, nell’oscurità fiocamente
illuminata dalle luci di emergenza di un locale infimo. Alla fine del vicolo
vide una palazzina un po’ malmessa. Un condominio. Esitò.
Un condominio. Sotto gli occhi di tutti. Dio, a cosa si era ridotto.
Ma al momento non aveva alternative. Dopotutto, in quel quartiere
nessuno lo conosceva. Non ancora, almeno.
Si frugò nelle tasche del lungo cappotto di pelle nera: soldi ne
aveva ancora, ma non sarebbero durati a lungo. Pazienza. Aveva bisogno di
fermarsi, di staccare.
Strinse i denti e, cercando di scuotersi dalla mente le ultime parole
di Larxene, continuò a percorrere il vicolo
sotto la pioggia battente.
«Dobbiamo
filare. Quello stronzo di Demyx ha cantato.»
Axel e Zexion sollevano le teste all’unisono. Larxene si chiude alle spalle la porta del vecchio deposito
in disuso e si fionda sul tavolaccio cui i due sono seduti. L’espressione
sconvolta del suo viso, così insolita per la sua perenne freddezza, fa
capire ad Axel tutta la gravità della
situazione.
Con gesti febbrili, la giovane posa bruscamente una borsa
sul piano del tavolo e inizia a riempirla con tutto ciò che le capita
sottomano. Rivolge loro uno sguardo inceneritore.
«Che cazzo avete da guardarmi come due idioti? Demyx ci ha traditi, l’avete afferrato il concetto?
Potrebbero essere qui a momenti! Volete darvi una mossa o no?»
Quelle ultime parole rendono tutto più definito.
Axel e Zexion scattano in piedi.
Accade mentre l’aiutano a recuperare quanto più
possibile: da qualche parte, sotto il rumore scrosciante della pioggia, risuona
una sirena.
Larxene geme, si
butta la borsa su una spalla e corre a sprangare dall’interno la porta
principale. Contemporaneamente Axel molla a Zexion la propria roba e va a sfondare con una spallata
l’uscita secondaria, quella che non usano mai. Perché mai ne hanno
avuto bisogno. Finora.
Il legno gli si infigge nella pelle, scavandosi
dolorosamente una strada nel tessuto leggero della maglietta. Non vi dà
peso; la porta è spalancata davanti a lui. Afferra al volo il cappotto appeso
appena più in là e inizia la corsa, ascoltando come da un mondo
di distanza i passi concitati di Zexion e Larxene alle sue spalle.
In fuga.
Fuori, la pioggia.
C’era finito dentro da due mesi, e ancora
– qualche volta – se ne chiedeva il motivo. Valeva davvero la pena
annullarsi in quel modo, ridursi a quell’essere niente?
No, non doveva pensarci:
ciò che contava ora era solo salvare la pelle, e al diavolo tutto il
resto, al diavolo gli altri due. Non aveva idea di che fine avessero fatto, e
neppure ci teneva. Se c’era una cosa che avesse capito, in quei due mesi,
era questa: in quel mondo, ognuno per sé.
L’uscio del
condominio si ergeva davanti a lui. Non c’era campanello. Nervoso,
cercando di dissimulare il turbamento, Axel
alzò il pugno e picchiò deciso sul legno quasi marcio.
Si aspettava che non venisse
nessuno; invece, dopo una breve attesa, lo spiraglio delle lettere si
aprì, rivelando due occhi di un colore che in quel buio non seppe
identificare.
«Chi diavolo
è a quest’ora?» biascicò una voce rachitica.
Axel si sforzò di
sogghignare. «È così che trattate i vostri potenziali
clienti, in questo postaccio?»
Lo spiraglio si
richiuse, e l’uomo aprì la porta. Era un vecchio dai lunghi
capelli argentati, avvolto in una vestaglia nera, il cui sguardo lo
scrutò da capo a piedi. Axel non batté
ciglio.
«E saresti tu il potenziale cliente, moccioso?»
«Proprio io. Mi
serve un appartamento.»
Il vecchio sorrise
maligno.
«Arrivi nel cuore
della notte, come un pipistrello, senza neppure un bagaglio, e chiedi un
appartamento» commentò. «Molto originale, davvero. Halloween
è arrivato in anticipo quest’anno?»
Axel tolse la mano dalla
spalla. Non voleva dargli anche la soddisfazione di mostrargli che era quasi
ferito. Inarcò un sopracciglio.
«Se non sbaglio,
lei non può rifiutare un appartamento ad una persona disposta a
pagare.»
«Pagare!» Il
vecchio rise, sguaiato e malevolo. Il suo sguardo si fece scaltro. «Ce li
hai i soldi, almeno?»
«Quanto?»
«Trentamila per un
mese.»
Axel ingoiò una
risposta pungente. Era poco meno di tutto ciò che aveva con sé.
Decise di fare buon viso a cattivo gioco: probabilmente di lì a un mese
avrebbe già trovato il modo di lasciare la città.
Annuì. Come
conferma, affondò di nuovo la mano nella tasca del cappotto fradicio e
ne estrasse un insieme di banconote gualcite, augurandosi di non lasciar
trasparire dalla propria espressione la verità sul modo in cui ne era
venuto in possesso.
Gli occhi del vecchio si
ridussero a due fessure.
«Bene.
C’è ancora posto.»
«Sei
stato bravo, pivellino.»
Axel si
trattiene dallo sbuffare. Meglio non prendersi troppe libertà col cocco
del capo, e tenere la testa bassa.
Demyx gli
rivolge un sogghigno sbruffone mentre gli tende una parte dell’incasso.
«La tua ricompensa. Ovvio che sarà più...
consistente, quando sarai definitivamente uno di noi.»
Axel intasca il
denaro senza un fiato. Poi si alza ed esce dal deposito senza voltarsi
indietro, con la necessità impellente di allontanarsi da se stesso, di
fuggire e non pensare.
Chi l’avrebbe mai detto che proprio il cocco del capo li avrebbe pugnalati
tutti alle spalle? Fottutissimo bastardo, voltafaccia del cazzo. O forse era
solo che aveva capito che stava affogando in quella merda di vita, e si era
fatto un qualche esame di coscienza che gli avrebbe poi salvato il culo? Se era
così, non poteva davvero biasimarlo: quella vita era una merda...
«Qui.»
La voce del portinaio lo
scosse dai suoi pensieri. Si ritrovò sulla soglia di un appartamento
semplice, squallido quanto appariva l’esterno del condominio. Carta da
parati scrostata, muri spogli e polvere ovunque. Annuì vagamente; andava
più che bene per i suoi standard.
Il vecchio controllò
ancora una volta l’acconto che si era fatto consegnare e finì con
il cacciarselo in una tasca della vestaglia.
«D’accordo,
il resto a fine mese, e tieni ben chiaro che ti sto facendo un favore.» Si
voltò, rincamminandosi giù per le scale, e continuò a
parlare senza guardarlo. «Ah, sì... Mi chiamo Vexen.
Per qualsiasi cosa chiedi a me. Buonanotte.»
Senza rispondere, Axel si chiuse la porta dell’appartamento 2B alle
spalle e attraversò un soggiorno ed una cucina disastrati
dall’abbandono. Raggiunse la camera da letto, e qui andò
direttamente a gettarsi su un materasso duro e spoglio, dall’odore non
molto promettente. Era comunque un netto miglioramento rispetto al vecchio
capannone.
Si tolse il cappotto,
ignorandone lo sgocciolio sul pavimento, e lo lanciò in un angolo. Si
toccò cautamente la spalla: ormai era solo un po’ indolenzita per
la forza del colpo.
Passò ancora
qualche minuto prima che si sentisse abbastanza tranquillo da stendersi sul
letto.
Solo allora, immobile
nel buio di quella stanza, nel silenzio rotto solo dalla pioggia sul tetto, si
concesse un sospiro di sollievo.
La pioggia caduta durante la notte si era
lasciata dietro la traccia del suo tipico odore sporco, che il vento della
mattina portava ora nella stanza attraverso la finestra aperta sulla scala
antincendio. Gli occhi di Roxas erano persi oltre
quel quadrato nella parete, vagavano tra le nuvole primaverili di quel cielo di
un azzurro purificato, seguivano i giochi d’onde dei movimenti delle
tende nella brezza.
Lontano, lontano.
Ovunque ci fosse ancora posto per sognare, per vivere davvero.
Ma non era quella la
realtà.
La pendola della nonna
batté otto rintocchi. A malincuore, Roxas
spostò lo sguardo su suo fratello.
«Dovresti andare. Kairi e Riku ti staranno
già aspettando.»
Sora ricambiò
l’occhiata. Indugiava ancora, seduto sul letto, tormentando il cravattino
dell’uniforme scolastica, della stessa tonalità di blu dei suoi
occhi. Roxas lo vide esitare, come in cerca di una
risposta adatta.
«Tu non vuoi
proprio saperne di tornare a scuola, eh?»
Lui gli rivolse un
sorriso palesemente falso.
«Dimentichi che ho
il professor Ansem.» Guardò la sveglia
sul comodino. «Anzi, sta per arrivare. Ti consiglio di uscire presto, se
non vuoi che incastri qui anche te» soggiunse in un tono di voce che
voleva suonare scherzoso, ma che non convinse neppure lui.
Sora sospirò e si
passò una mano tra i capelli, spettinandoli ancora di più.
«Dannazione, Roxas. Non puoi passare una vita chiuso qui dentro.»
Roxas smise all’istante
di fingersi allegro. Strinse i braccioli della sedia, resistendo all’impulso
di urlargli addosso.
«Ne abbiamo
già parlato, e fin troppe volte» disse, stavolta con un tono di
voce che non ammetteva repliche. «Pensavo che ormai avessi capito. Almeno
tu, smettila di parlarmi in quel
modo. Non cambia niente, lo sai.»
Sora aprì la
bocca, e di nuovo sembrò cercare le parole; ma alla fine
rinunciò, la chiuse e scosse la testa, rassegnato. Incupito, Roxas tornò a guardare fuori dalla finestra, e poco
dopo lo sentì alzarsi e andare a prendere lo zaino abbandonato sul
tappeto.
«Bene. Allora io
vado.»
Roxas si limitò ad
annuire con un cenno brusco. «Ci vediamo stasera.»
I passi di Sora
attraversarono la camera da letto e l’appartamento 2A; quindi si spensero
fuori, nel corridoio, giù per le scale del palazzo.
Roxas si lasciò andare
ad un sospiro, abbandonandosi contro lo schienale della sedia. Si scostò
i capelli dagli occhi e rimase per un po’ così, immobile, la mano
sulla fronte e lo sguardo fisso al soffitto.
Aveva pensato di poterci
fare l’abitudine. Gli sguardi della gente, il senso di vuoto, l’isolamento
volontario. Aveva pensato che prima o poi il dolore avrebbe finito per
attenuarsi, lasciandogli solo quella maledetta cicatrice nel corpo e
nell’anima; aveva creduto di essere abbastanza forte da sopportarlo.
E invece ogni giorno, in
ogni singolo ricordo, in ogni parola e in ogni sguardo di suo fratello, si
ritrovava sempre a soffrire.
La luce
del sole disegna strane forme sul lenzuolo steso sulle sue gambe. Vi si
sofferma con gli occhi, e non riesce a pensare a niente. La sua mente è vuota,
bianca come le pareti di quella stanza.
Non riesce neppure a piangere. Ha già dato tutte le
sue lacrime.
Un lieve bussare alla porta. Lui lo ignora. Non ha la forza
di alzare la testa e vedere chi è.
Passi sul pavimento immacolato, e qualcuno che entra nel suo
campo visivo. Poi una voce.
«Ciao, Roxas.»
Naminè.
Lui solleva il viso, la guarda. Lei gli sorride e siede sul
letto dove è semidisteso.
Il suo viso di bambina ha tracce di lacrime, ma la ragazza
si mostra tranquilla.
«Sora è di là con Kairi»
spiega. S’interrompe per un istante; poi, la domanda tanto temuta.
«Come ti senti?»
Non le risponde. Non sa come si sente. Non sa se il vuoto
che ha dentro è rabbia, frustrazione, dolore, rancore, o semplicemente
il nulla più totale.
D’altro canto, sa che lei non ha bisogno di parole per
capire. C’è passata anche lei. Ma in un modo un po’ diverso.
No, si dice: in un modo molto diverso.
Sono cresciuti insieme, lui, Naminè,
Sora e Kairi. Due gemelli un po’ troppo
diversi, due sorelle di buona famiglia. Amici. Sempre insieme. Qualche volta ha
persino pensato di essere innamorato di Naminè,
di quella ragazza così riflessiva e dolce, che lo guarda con occhi
azzurro mare e lo fa sempre sentire strano, come se sapesse tutto di lui.
Che buffo. Ora non c’è più posto per un
sentimento del genere. Ora in lui non c’è più nulla.
È di nuovo lei a rompere il silenzio.
«Mia nonna ha un appartamento.»
Roxas non
reagisce.
«Ma non ci va quasi mai. Preferisce stare a casa con
noi, da quando... dall’incidente.»
Ancora nessuna reazione.
«Potreste starci tu e Sora.»
Roxas la
guarda, inespressivo. Naminè si sta fissando i
piedi. Ora ha un’aria infinitamente triste.
«So come ci si sente» mormora ancora. «Lo
so, Roxas. Credimi. Lo so.»
E lui le crede.
Ma ugualmente, quando sente che lei gli stringe con
delicatezza una mano, non riesce a ricambiare la stretta.
Il ricordo, la condanna dei sopravvissuti.
Da allora erano passati
due anni. Naminè si era trasferita alle DestinyIslands per via della
famosa scuola privata cui i suoi l’avevano iscritta poco tempo prima di
morire in quell’incidente ferroviario. Buffo come una persona così
simile a lui fosse adesso tanto lontana.
Kairi, invece, viveva ancora
nella villa in città, in compagnia della nonna, e frequentava la stessa classe
di Sora al liceo del quartiere: non ne aveva voluto sapere di scegliere anche
lei una scuola prestigiosa, che le buone condizioni economiche le avrebbero
permesso senza problemi. Roxas sospettava che lo
avesse fatto per loro, per star loro accanto. Veniva a trovarli spesso, per
aiutarli nell’appartamento che proprio sua nonna aveva messo a loro
disposizione. Era come se vivesse lì anche lei.
A differenza di Sora, Kairi aveva subito dimostrato di capire il desiderio di Roxas di esentarsi dalla scuola dopo quanto era accaduto.
Già, lei diceva di capire il suo stato d’animo. Come Naminè.
Ma nessuno poteva capire
per davvero.
Nessuno di loro sapeva
come ci si sentisse impotenti a...
Il bussare alla porta lo
colse di sorpresa, strappandolo ai ricordi e al dolore. Doveva essere il
professor Ansem, l’insegnante cui si era
rivolta la nonna delle due ragazze affinché lui continuasse a studiare.
«Arrivo»
gridò, cercando di scuotersi dal suo desolante vuoto.
Il suo sguardo
vagò per un’ultima volta oltre la finestra.
Il condominio aveva una
struttura ripiegata su se stessa, in modo da formare un cortile interno in cui
s’immetteva un vicolo che lo metteva in comunicazione con la strada fuori
dai confini dell’edificio. La planimetria del palazzo,
quell’insolito essere chiuso e al contempo aperto a quel passaggio, fin
dal primo istante aveva parlato a Roxas in una lingua
ben comprensibile; c’era in essa un messaggio inequivocabile, un
avvertimento ad aspettarsi da un momento all’altro un’intrusione
– che si trattasse di ladri o altri malintenzionati o delle proprie
personali nemesi. La struttura faceva anche sì che le finestre dei vari
appartamenti si ritrovassero a fronteggiarsi, rendendoli comunicanti grazie ai
pianerottoli della scala antincendio che percorreva tutto il perimetro interno
del palazzo.
L’appartamento di
fronte al suo era disabitato da anni.
Per questo motivo, Roxas si stupì non poco nel vedere un alto
adolescente dai capelli rossi sbirciare con aria cospiratoria dalla finestra
del 2B, giù verso il cortile e l’imbocco del vicolo.
Lo sconosciuto
sembrò quasi percepire il suo sguardo. Si voltò, e per un attimo
rimasero immobili a fissarsi.
Roxas osservò
distrattamente l’atteggiamento ostile che gli vedeva impresso nel volto.
Dal canto suo, il tipo lo scrutò senza alcun vero interesse.
Durò solo un
istante: il rosso sparì subito dalla finestra, mentre nuovi colpi alla
porta riportavano l’attenzione di Roxas alla
sua realtà, quella da cui gli era impossibile fuggire – sia
mentalmente, sia fisicamente.
Sforzandosi di non
guardarsi le gambe, si trascinò per andare ad aprire la porta
all’insegnante.
Aggiornamento mooolto
in anticipo, perché mi sono appena accorta di aver raggiunto un
personale traguardo: sono nei preferiti di cinquanta
persone :D La cosa è tanto bella che dovevo festeggiare in qualche modo!
E non è escluso che prima o poi arrivi una fanfic
tutta per ringraziarvi *-*
Ok, ok, passiamo a questa ora. ^^
Lo so che vi state tutti chiedendo cosa
accidenti abbia Roxas che non va. Eeehh,
curiosi. Per ora vi basti sapere questo: quanto più io amo un
personaggio, tanto più nelle mie storie lo faccio soffrire (basti
pensare a ciò che ho già fatto al povero Rox
nel primo capitolo di Come in un film,
o a cosa ho fatto a Shaoran in Throughyoureyes).
Temo dunque di provare una forma di amore molto sadica. La cosa mi preoccupa e
mi fa anche sentire un po’ in colpa .///. Ma comunque per il momento non
vi spiego nulla, ha! xD
Poi, poi: ringrazio infinitamente _Ella_ e Kisshou per aver commentato il
capitolo precedente. Spero che la storia continui ad incuriosirvi e soprattutto
a piacervi :) Più in là le cose si faranno più chiare,
promesso. ^^
D’ora in poi dovrei aggiornare a
intervalli di – più o meno – tre giorni, sempre tempo permettendo.
Fino ad allora, sayonaraminna!
Seduto sul letto, scrutò accigliato la
luce del sole cercare di farsi strada dagli spiragli delle tapparelle alla
finestra.
Non aveva chiuso occhio.
Era rimasto là steso immobile per ore, ad ascoltare lo scemare della pioggia,
cercando di togliersi dalle orecchie l’eco di quella dannatissima sirena.
Ad un tratto si era alzato e si era ispezionato la spalla, pulendo i graffi
dalle poche gocce di sangue rappreso e scoprendo un ampio livido. Poi era
tornato a stendersi, e alla fine aveva assistito allo spettacolo del grigiore
dell’alba che inglobava le ombre sul soffitto della stanza.
Per tutto il tempo, era
stato tormentato da un’unica domanda.
Avrà fatto anche il mio nome?
Lui era entrato nel
circolo da soli due mesi; non aveva un ruolo tale da costituire un obiettivo
importante. Del resto, lo stesso Demyx glielo aveva
confermato: lui era ‘in prova’, era un pivellino. Chissà, forse quel bastardo aveva voluto sputare
solo sul suo amato capo. Forse era per questo che nessuno l’aveva seguito
fino a quel condominio...
Gli occhi fissi sulla
finestra, Axel si decise a muoversi. Doveva pur fare
qualcosa, o l’oziosità di quei pensieri inutili lo avrebbe fatto
impazzire.
Si alzò e
andò cautamente a sollevare le tapparelle.
Inspirò l’aria
satura di pioggia primaverile e batté le palpebre alla luce del sole. Si
ritrovò a guardare dall’alto un cortiletto interno, invaso dalle
erbacce e circondato dalle quattro mura del palazzo. Si accorse che un lato del
cortile era aperto su un vicolo; immaginò che s’immettesse nello
stesso dedalo di stradine malfamate che lui aveva percorso per arrivare
lì. La vista di quel passaggio al mondo esterno lo indusse ad
appiattirsi istintivamente contro il punto meno visibile della finestra.
Di colpo si sentì
osservato.
Alzò gli occhi. A
distanza di pochi metri, oltre il pianerottolo della scala antincendio a quel
piano, oltre la finestra dell’appartamento di fronte, un ragazzino biondo
ricambiava il suo sguardo.
Axel lo studiò solo
per un attimo. Il ragazzo sembrava sì curioso, ma anche perso dietro ben
altri pensieri. Nulla di cui allarmarsi. Rassicurato, si ritrasse comunque
dalla finestra, sfuggendo al suo campo visivo, e prima di allontanarsi del
tutto ebbe l’impressione che lui facesse altrettanto.
Tornò a stendersi
sul letto.
Quella
sedentarietà forzata sarebbe stata una lunga, noiosa faccenda.
Sbuffò. Se non altro, non gli avevano ancora messo nessuno alle
calcagna. Magari non l’avrebbero fatto neanche in seguito, se era vero
che Demyx aveva tenuto la bocca chiusa su di lui.
Intrecciò le braccia dietro la nuca e posò un piede contro la
parete. In ogni caso, rifletté ancora, doveva cambiare aria, lasciare la
città, al più presto. Non gli andava di restare da quelle parti.
Avrebbe indagato, avrebbe chiesto in giro, e con un po’ di fortuna
sarebbe partito ancor prima di dover pagare quel vecchiaccio di Vexen. Il pensiero lo fece sorridere per un istante.
Finalmente riuscì
ad assopirsi. L’ultima cosa cui si ritrovò a pensare, stranamente,
fu lo sguardo vago e distante del ragazzino biondo; poi sprofondò in un
sonno inquieto.
* * *
La punta della penna scorreva lenta sul
fazzoletto, simile ad un agile, elegante pattinatore sul ghiaccio. Cerchi,
linee, scarabocchi apparentemente senza senso. Le voci di Sora e Kairi erano lontanissime.
«... E poi
c’è la ricerca di scienze...»
«Oh, quella.
L’ho finita ieri sera.»
«Adesso capisco
perché vai tanto bene a scuola, Sora! Le faccende qui le sbrigo tutte
io, è ovvio che poi tu abbia tutto il tempo che vuoi per
studiare!»
«Già, dove
andrei a finire senza di te?»
«Alla malora,
probabilmente.»
Roxas si concentrò sul
dolce tintinnare delle stoviglie che Kairi stava
lavando a mano e sul lievissimo fruscio della penna sul fazzoletto,
estraniandosi ancora di più. Non aveva voglia di inserirsi nei loro
discorsi. Aveva scelto lui stesso di non far più parte di quella vita, e
non vedeva alcun motivo di parlarne con loro.
Per qualche misteriosa
ragione, i suoi pensieri tornarono al tipo dai capelli rossi che aveva visto quella
mattina alla finestra dell’appartamento 2B. Quella sua aria così
guardinga gli aveva dato per un attimo di che pensare. Si stava nascondendo da
qualcosa? O da qualcuno? Non che gli importasse davvero; quella era soltanto
una novità nella piattezza della sua esistenza...
«Tu cos’hai
fatto oggi con il professor Ansem, Rox?»
Il ragazzo
trasalì bruscamente e alzò gli occhi. Kairi
sollevò i suoi dal lavello e gli sorrise, incoraggiante.
«Niente di
che» borbottò infine Roxas, scrollando
le spalle. «I soliti esercizi. Equazioni e altra roba del
genere...»
Al suo fianco, Sora si
sporse verso di lui e gli frizionò i capelli con il pugno.
«Sì, tu
dici così» rise, «ma noi lo sappiamo che sei un piccolo
Einstein!»
Roxas si ritrasse e
abbozzò un sorrisetto di circostanza, quindi abbassò di nuovo lo
sguardo sullo scarabocchio cui si era dedicato negli ultimi cinque minuti. Si
fermò con la penna ancora a mezz’aria.
«Ammettilo, Sora.
È Roxas che ti fa tutti i compiti, non
è vero?»
«Ehi, tu, vedi di
non scherzare col fuoco!»
«Ah, sì? E
tu vedi di non scherzare con l’acqua saponata!»
«Con la... che?»
«Con quella che ho
tra le mani proprio adesso, genio, e che sono pronta a scaraventarti
addosso!»
«... Devo
smetterla di invitarti a pranzo, Kairi. Ne va della
mia incolumità fisica.»
«Però per
lavarti i piatti ti vado più che bene, eh?»
«Ehm...»
«L’hai
voluto tu!»
Roxas era ancora immerso
nella contemplazione del suo disegno quando si rese conto che una spugna piena
di detersivo per piatti si schiantava direttamente in faccia a Sora, tra le risate
di Kairi. Si accorse solo vagamente che Sora
schizzava in piedi e si scagliava ridendo addosso alla ragazza, pronto a
ricambiare il favore.
Si scosse.
Afferrò il fazzoletto su cui – senza rendersi conto di ciò
che faceva – aveva scarabocchiato uno skateboard, lo appallottolò
e lo lanciò con rabbia verso il cestino accanto alla dispensa. Canestro.
Sora e Kairi interruppero la loro lotta a colpi di spugna e sapone
e lo guardarono, confusi.
Cercando di calmare il
respiro improvvisamente affannoso, Roxas strinse
forte i pugni e si avviò verso la sua stanza.
«Rox?» lo chiamò Sora, in tono esitante.
Lui non si voltò.
Arrivato in camera,
prese a caso un libro dalla scrivania e lo aprì, affondandovi il viso
nella speranza di togliersi da davanti agli occhi quella maledetta immagine.
Qualsiasi distrazione, una qualsiasi...
Sbirciò verso la
finestra. L’appartamento 2B era immerso nella penombra; non fosse stato
per le tapparelle alzate, sarebbe parso ancora disabitato.
*
* *
Zexion si abbassò il cappuccio
e alzò lo sguardo sull’insegna screpolata del pub abbandonato. Ai
suoi tempi doveva essere stato un mediocre night club. Un posto decisamente
insolito per gli standard del capo, abituato a rifugi di un certo contegno, non
a simili bettole. Si sollevò il bavero del cappotto e si diresse ad una
porta socchiusa, che sembrava sul punto di crollare dai cardini da un momento
all’altro.
Forse il capo aveva scelto
questo posto proprio perché era l’ultimo in cui sarebbero venuti a
cercarlo. Se Demyx
aveva cantato, allora probabilmente il suo resoconto avrebbe indirizzato le
ricerche nei vecchi nascondigli della zona benestante...
Attraversato un lurido
atrio e una breve rampa di scale, si ritrovò in un corridoio pieno di
porte, aperte presumibilmente su altrettante stanze in cui un tempo i clienti compravano
i servigi personali delle ragazze del night. Si guardò intorno.
Dall’ultima porta a destra proveniva un fioco bagliore. S’incamminò
in quella direzione.
Giunse sulla soglia di
una camera da letto dai mobili completamente tarlati, debolmente illuminata da
una lampadina nuda sul soffitto. Persino quella sembrava sul punto di cedere. Zexion si stupì di trovare elettricità in
quel posto. Poi pensò che il suo datore di lavoro non si sarebbe mai
abbassato ad una cosa tanto squallida
come intrattenersi al buio al pari dei topi.
Il capo era lì,
seduto nell’ombra, le gambe accavallate, come fosse completamente a suo
agio.
«Ah. Zexion.» La sua voce era quella di sempre,
inflessibile e calcolatrice; non sembrava appartenere a qualcuno che fosse
stato appena pugnalato alle spalle dal proprio pupillo. «A quanto pare il
fidato Luxord è riuscito a mettersi in
contatto con te. Molto bene. Il tuo aiuto mi è prezioso.» Fece un
cenno verso una sedia vuota accanto a sé. «Vieni pure.
Parliamo.»
Zexion si avvicinò e si
sedette, notando che la sua seggiola era molto più bassa e piccola
rispetto a quella dell’uomo. Le solite manie di lusso e di protagonismo.
Era nel suo gruppo da più di un anno, ma ancora non mancava mai di
sorprendersi della sua vanità. Quando lo guardò in viso, si rese
conto che in effetti il fatto di essere braccato dalla polizia non aveva
minimamente intaccato la cura maniacale che aveva del suo aspetto.
«Avete
rintracciato anche Larxene?» chiese, per
intavolare la conversazione.
Il sorriso sicuro
dell’uomo s’incrinò per un istante. «Temo che
l’abbiano presa. I suoi precedenti di prostituzione devono aver pesato
molto, capisci...»
Zexion annuì. A soli
diciotto anni, Larxene aveva una lista di precedenti
ben più lunga della sua, e persino di quella dello stesso Demyx. Non provava un vero e proprio dispiacere alla notizia
della sua cattura; semmai una forte sensazione di ineluttabilità, e di
pericolo.
«E Axel?»
L’uomo si
passò una mano tra i lunghi capelli crespi ma curati.
«Luxord ha seguito i suoi movimenti, la scorsa notte... Ma
ci arriveremo con calma.» Fece una pausa volutamente teatrale, estraendo
dalla tasca un accendino e concedendosi una sigaretta. «Veniamo piuttosto
alla cosa più importante da discutere in questo momento.»
«Ossia?»
«Ossia Demyx.»
Zexion tacque. Dal modo in cui
il pacchetto di sigarette fu scagliato al suolo, percepì finalmente
tutta l’ira repressa dell’uomo che aveva di fronte, l’ira del
tradimento e del bisogno di vendetta. Tuttavia la sua voce continuava a non
lasciar trapelare nessuna di quelle emozioni.
«Immagino»
esalò insieme al fumo, «che tu conosca il ringraziamento dovuto a
chi si comporta come lui, Zexion.»
Il giovane annuì
di nuovo, freddo.
«Quando e
dove?» chiese soltanto.
Nella penombra, il volto
di Marluxia si modellò in un ghigno
soddisfatto.
Per prima cosa occorre dire che questa fic NON avrà risvolti Zemyx.
Zexion e Demyx non verranno
mai mostrati neppure faccia a faccia. Sì, lo metto in chiaro fin da
subito perché conosco la percentuale di popolarità di questo pairing (che comunque piace molto anche a me ^^) e non
voglio che nessuno resti deluso in seguito. Ecco. xD
Poi, ci tengo a ringraziare Ayesha, fragolottina, ka93 ed _Ella_ per aver inserito la fic tra le
seguite. Le risposte alle singole recensioni le lascerò sempre all’apposito
link – ma volevo, dovevo
ribadirvi la mia gratitudine. Perché il fatto è che il mio
rapporto con questa storia è diventato talmente conflittuale – in certi
periodi mi piace, in altri la leggo e mi chiedo macosadiavolohoscrittoesottoeffettodicosapoiiochenonhomaifumatoniente
– che sapere che invece ci sono dei lettori incuriositi e che oltretutto apprezzano è per me fonte di
immensa gioia. Non esagero per niente. Grazie. <3
Vi abbraccio tutti, e vi attendo al
prossimo capitolo. :)
Erano già passati quattro giorni senza
che nulla cambiasse.
Axel non si sentiva affatto
sicuro nel restare così a lungo in quel posto, soprattutto dopo aver
deciso di lasciare Twilight Town il più presto
possibile; ma non c’era molto che potesse fare al riguardo. Dopo aver
iniziato ad impiegare nell’acquisto di viveri i soldi che in teoria gli
sarebbero serviti per pagare l’affitto dell’appartamento –
doveva pur mangiare, cazzo! – aveva deciso di utilizzarli anche alla
vecchia maniera, indagando negli anfratti più malfamati del quartiere
per vedere se qualcuno fosse sul punto di partire e se fosse disposto a
portarlo con sé, anche dietro compenso. Non poteva certo prendere un
treno, un aereo o comunque saltellare allegramente fuori dalla città;
non aveva l’assoluta certezza
di non essere tenuto d’occhio. Usciva soprattutto di notte, evitando di
incrociare gli altri condomini – cosa peraltro piuttosto facile, dal
momento che gli unici avventori del palazzo sembravano ridursi ad una vecchia
signora che usciva solo per arrancare fino alla bottega all’angolo della
strada, un uomo sui trentacinque anni che passava tutto il giorno fuori,
probabilmente per lavoro, e un paio di studenti universitari, anche loro quasi
sempre assenti. Ma neppure le uscite notturne gli impedivano di provare la
solita sensazione di essere osservato. Si augurava che fossero solo paranoie:
nessuno era ancora giunto a lui, e se fosse riuscito a partire subito non
avrebbe più avuto nulla da temere...
Ad ogni modo, nessuna di
quelle sortite gli aveva fruttato nulla. Un tipo losco con cui aveva avuto
occasione di parlare fuori da un dubbio locale, un certo Xaldin,
in fuga dopo essere stato coinvolto in una rapina, si era offerto di portarlo
con sé all’estero; ma era stato stanato dalla polizia la notte
stessa. I giornali di quella mattina ne parlavano ancora.
Axel si guardò
intorno per l’ennesima volta in quella sua nuova casa, giocherellando con
l’accendino che aveva in mano, nervoso. Certo, rifletté, dal
momento che la sua faccia e il suo nome non erano ancora comparsi nei
telegiornali avrebbe potuto ritenersi tanto tranquillo da poter alzare le tende
alla luce del giorno, senza preoccuparsi di incappare in eventuali controlli
della polizia. Ma c’era sempre la faccenda dell’affitto che non avrebbe pagato. Un altro buon motivo
per squagliarsela senza farsi notare. Non che avesse paura di quel cadavere
mobile di Vexen, ovvio; ma il portinaio avrebbe
potuto rivolgersi alla legge o uscirsene con altre
stronzate del genere, il che lo poneva di nuovo in pericolo.
Sbuffò. Maledisse
Demyx, probabilmente per la milionesima volta negli
ultimi quattro giorni e quattro notti. Si accese una sigaretta e andò ad
appoggiarsi alla finestra, scrutando truce le svolte della scala antincendio davanti
a sé.
L’aria immobile e
tiepida della sera lo rilassò un po’. I suoi occhi vagarono
distratti sulla facciata antistante del condominio, fino alla finestra del
ragazzino biondo che lo aveva notato il primo giorno. Si erano visti altre
volte, da allora, ma si erano sempre ignorati cordialmente. Da quello che Axel aveva capito, il ragazzino passava gran parte del suo
tempo in quella stanza, almeno quanto ne passava lui nel proprio appartamento;
quando si dedicava ad osservare le abitudini dei condomini, Axel
scordava persino di includerlo nella lista. Chissà, magari era anche lui
una specie di reietto della società, si disse con un sogghigno.
In quel momento la
finestra di fronte era vuota, ma le persiane erano aperte, e le tende si
muovevano pigramente nel vento. Axel diede un altro
tiro alla sigaretta; i suoi pensieri tornarono al punto di partenza. Come cazzo poteva lasciare quel posto?
Un rumore sotto di
sé lo scosse di nuovo dai suoi problemi. Una serie di passi, che
echeggiavano lenti sotto una volta, ben distinguibili nel silenzio assoluto.
C’era qualcuno nel
vicolo che portava al cortile del condominio.
Senza emettere un fiato,
Axel spense la cicca sul davanzale e rimase in
ascolto.
I passi sembrarono
indugiare per un istante, poi tornare indietro; infine scemarono in lontananza.
Chiunque fosse, doveva aver percorso il vicolo a ritroso, sbucando di nuovo
fuori dai confini del palazzo.
Teso, strinse le mani
intorno al bordo del davanzale finché le nocche gli sbiancarono. Probabilmente
si era trattato di un barbone, di qualche poveraccio in cerca di un posto dove
dormire; quel quartiere brulicava di gente sfrattata, se n’era reso conto
perlustrandolo nelle sue indagini. Ugualmente, non riusciva a togliersi di
dosso la solita sensazione. Qualcuno sapeva dov’era? Qualcuno sapeva chi era?
Sempre senza alcun
rumore, scavalcò con un salto la finestra, atterrando sul pianerottolo
della scala antincendio. Si accucciò contro il freddo metallo,
all’erta.
* * *
Sora continuava a vagare in giro per la cucina
come un’anima in pena, tormentandosi i capelli e lanciandogli insistenti
occhiate in tralice. Roxas tamburellava con le dita
sul tavolo, paziente. O almeno sforzandosi di esserlo.
Ad un tratto, Sora si
fermò nel centro della stanza e lo fissò, spavaldo.
«Non ci vado, se
non vieni anche tu.»
Roxas chiuse gli occhi per un
attimo, invocando altra pazienza.
«Sora, ho perso il
conto delle volte che abbiamo avuto conversazioni del genere. Per
l’ultima volta, vai a quell’accidenti di cena prima che ti ci
spedisca io con la forza.»
Sora non raccolse la
battuta. Incrociò le braccia con aria ostinata.
«Non è
giusto. Ti stai praticamente murando vivo. Perché non cerchi di uscire,
una volta tanto? Io non voglio...» S’interruppe, poi riprese a voce
più bassa. «Mamma e papà non vorrebbero questo, lo
sai.»
Roxas distolse lo sguardo
all’istante. Sapeva che suo fratello aveva ragione. Sapeva che i suoi non
sarebbero stati fieri di lui. Ma lui
cosa diavolo poteva fare, dannazione? Era quella la sua esistenza, ormai.
Seduto tra quattro mura, a guardare lo scorrere del tempo e a cercare di
imparare a convivere con tutti i ricordi e tutti i rimpianti. Non era
abbastanza forte per farlo a testa alta; lui non era come Sora.
«Vedi, Roxas, tuo
fratello non è mai triste... Vedi, Roxas, tuo
fratello non si arrabbia mai... Roxas,
cos’è quel faccino cupo? Roxas,
perché ti chiudi a riccio con chi ti vuole bene?»
Si portò le mani
alle tempie e inspirò profondamente, serrando di nuovo gli occhi con
forza. Quando li riaprì, vide che Sora lo osservava con
un’espressione un po’ contrita, come se si fosse già pentito
delle proprie parole.
«Roxas, io...»
«Va tutto
bene.» Il ragazzo abbassò le mani, tornò a respirare
normalmente e si sforzò di sorridere. Un ennesimo falso sorriso.
«Dai... È solo per quelli della tua classe. E i tuoi compagni
saranno già tutti lì. Non farli aspettare.»
Sora esitò
ancora, ma alla fine sembrò arrendersi, come qualche giorno prima,
quando gli aveva chiesto di tornare a scuola. Si passò un’ultima
volta la mano tra i capelli.
«E va bene.»
Lo guardò di sotto in su. «Non farò tardi.»
Roxas scosse la testa.
«Non preoccuparti per me.»
Con un sospiro, Sora
prese la giacca dall’appendiabiti e si diresse alla porta
dell’appartamento. Qui sollevò una mano in segno di saluto, poi
uscì.
Roxas si concesse finalmente
di sospirare a sua volta. Odiava
quella situazione. La odiava con tutto se stesso. Ma non poteva farci niente.
Era così e basta.
Prese dal tavolo il
blocco dei disegni e si decise a tornare in camera. Non gli importava di stare
da solo; tanto, il vuoto che avvertiva dentro di sé esisteva comunque,
con o senza la compagnia altrui.
Quando fu accanto al suo
letto già sfatto, qualcosa fuori dalla finestra attirò la sua
attenzione.
Era di nuovo il misterioso
inquilino del 2B. Stavolta era accovacciato sul pianerottolo della scala
antincendio, le mani strette all’inferriata, lo sguardo attento rivolto
al cortile sotto di sé e al vicolo che ne usciva. Roxas
rimase a lungo a fissarlo, ma lui non si muoveva di un millimetro.
* * *
Che si fosse trattato solo di uno scherzo della
sua immaginazione? Non sarebbe stato impossibile. Tutto taceva; in quel
silenzio, anche un respiro un po’ più forte del normale sarebbe
giunto alle sue orecchie. Invece nulla.
Si chinò un altro
po’, fin quasi a sfiorare il pianerottolo con la guancia; da quella
posizione riusciva a vedere una piccola parte del vicolo. Era debolmente
illuminato dalle poche luci esterne al condominio, il cui bagliore aranciato
proiettava lunghe ombre scure fin dentro al cortile. Nella penombra di quei
pochi metri poteva celarsi chiunque... Ma forse...
«Chi è che
stai spiando?»
Axel sussultò. La
voce che era risuonata così vicina e improvvisa gli aveva fatto venire
un mezzo accidente. Alzò la testa di scatto, e si ritrovò a
guardare il ragazzino biondo – che, appoggiato con aria distratta al
davanzale della sua finestra, lo osservava con un atteggiamento a metà
tra il disinteressato e il diffidente.
«Cos’è,
sei un ladro o qualcosa del genere?» continuò il biondino.
Axel sbuffò
sonoramente e si sollevò in piedi.
«Se anche
fosse» sogghignò, per darsi un contegno, «non verrei certo a
dirlo a te, non trovi?»
«No, certo.»
Il ragazzo scrollò le spalle con noncuranza, quindi guardò a sua
volta verso il cortile. «Immagino tu stia semplicemente facendo la
guardia contro eventuali malintenzionati.»
Axel lo fissò. Era
combattuto tra la voglia di ridere e quella di mandarlo al diavolo.
«Vedi di non
impicciarti in faccende che non ti riguardano» lo ammonì infine,
senza più sorridere.
L’altro
ricambiò l’occhiata.
«Ah, ma allora sei
un tipo pericoloso»
commentò con una punta di palese sarcasmo nella voce.
Axel camminò
lentamente sullo stretto pianerottolo della scala di metallo, verso la sua
finestra, dove si chinò e lo guardò per bene in faccia. Non
poteva avere più di quattordici, quindici anni; aveva grandi occhi
azzurri, ma sembravano tristi, quasi spenti.
«Credimi, non vuoi
saperlo davvero, bimbo» gli sibilò.
Il ragazzino
scrollò di nuovo le spalle, quindi si ritrasse dalla finestra, mostrando
ai suoi occhi un ambiente semplice e anonimo, una camera da letto con due brandine
identiche, lampade a forma di acquari, scaffali stipati di libri e altri
oggetti vari e caos un po’ ovunque.
Solo allora Axel notò su cosa
era seduto.
Lui strinse le mani
intorno ai braccioli della sedia a rotelle e gli rivolse un lieve ghigno.
«Oh, hai notato.
Non dirmi che adesso ti sentirai mortificato
per aver minacciato un disabile. Non
dirmi che ti faccio pena.»
Sottolineava le parole
con un’amarezza assoluta. Axel si scosse. Lo
guardò senza emozione.
«Dovresti farmi
pena?» ribatté, ironico. «Non mi avvilisco per così
poco.»
Il ragazzino
abbassò lo sguardo sulle proprie gambe immobilizzate, dove sorreggeva un
album da disegno chiuso. Il ghigno divenne un sorriso triste, e questa volta la
sua voce fu poco più che un sussurro.
«Allora sei uno
dei pochi.»
Axel non seppe replicare.
Rimase immobile a guardarlo far forza sulle ruote della sedia, per poi voltarla
e uscire dalla stanza senza una parola.
Quando fu sparito, Axel voltò le spalle alla finestra, un po’
confuso. Poi scosse il capo e, ormai dimentico dei rumori che poco prima lo
avevano allarmato, ripercorse il pianerottolo fino al suo appartamento,
scavalcando di nuovo il davanzale per rientrare.
* * *
Roxas brandiva la matita al
pari di una spada. Le linee che tracciava sul foglio erano stoccate rabbiose,
affondi e fendenti violenti.
Non capiva bene
perché si sentisse improvvisamente così furioso. Non era la prima
volta che gli occhi di un estraneo si posavano sulla sua condanna.
C’erano già stati i medici, la nonna di Kairi
e Naminè, il professor Ansem.
Certo, stavolta era
stato diverso, questo non poteva negarlo.
Gli occhi di
quell’adolescente sconosciuto ed enigmatico non avevano tradito alcuna
traccia di compassione, di pietà o di un qualsiasi altro sentimento,
mentre osservavano la sua dannata sedia. Quegli occhi verdi, che aveva
incrociato solo per qualche minuto, gli erano apparsi come pozzi profondi,
agitati da turbini maledetti: avevano tutta l’aria di aver visto
l’inferno, e di non poter provare più nulla nei confronti del
mondo terreno.
Forse era stata quella
mancanza di reazioni a sconvolgerlo...
No, si disse mentre con
un colpo di matita più forte usciva dal bordo dell’album, in
realtà era arrabbiato con se stesso. Aveva appena permesso – consapevolmente – ad un estraneo
di avvicinarsi e di scoprire la sua vera natura.
Da due anni si
nascondeva agli sguardi della gente, nel tentativo di evitare il confronto e,
soprattutto, il dolore. Due anni, e mai gli era capitato di far avvicinare
così tanto una persona, ad eccezione di Sora e di quei pochissimi
avventori dell’appartamento. E quella sera, quando si era ritrovato a
guardare dalla finestra quel tizio, aveva cominciato una conversazione con lui
di punto in bianco, e di sua
volontà.
In circostanze normali
non si sarebbe mai sognato di fare nulla del genere. Avrebbe ignorato gli
atteggiamenti ambigui del rosso, proprio come aveva fatto negli ultimi quattro
giorni, in tutte le occasioni in cui l’aveva notato e si era chiesto chi
diavolo fosse.
Invece...
Forse era stato proprio
quel suo essere misterioso a fargli calare le barriere? Il modo in cui guardava
giù in cortile... Forse aveva voluto parlare con lui perché aveva
intuito o intravisto che anche lui aveva dei demoni da cui guardarsi le spalle?
E come se il suo
improvviso ardimento non bastasse a sorprenderlo, scopriva anche di star
parlando per la prima volta con qualcuno che non avesse pietà di lui; e incontrava in lui una freddezza
verso la vita che sentiva di condividere pienamente.
«Non mi avvilisco per così
poco.»
«Allora sei uno dei pochi.»
Roxas si fermò,
ansante, e osservò il disegno tratteggiato a linee irose. Stavolta era
un parco, un lungo corteo di alberi, gruppi confusi di persone, una pista
asfaltata in lontananza. E in un angolo, in primo piano, un uomo e una donna
appena abbozzati, di cui non si distinguevano i lineamenti, distrutti da
qualcosa che poteva essere il tempo o la tristezza o qualcosa di più
doloroso ancora.
Fece per sfuggire a
quella vista, ma i suoi occhi si posarono inevitabilmente sulle sue gambe,
abbandonate e inerti.
La matita cadde
lentamente a terra. Spossato, Roxas chiuse gli occhi
e abbandonò il viso sul foglio, chinandosi sul tavolo.
Per la prima volta da
molto tempo, pianse.
* * *
Si tirò su il cappuccio. Aveva visto
abbastanza del luogo. Ma non era ancora il momento di annunciargli la propria
presenza; Marluxia doveva ancora decidere i
particolari...
Nell’attesa,
almeno avrebbe saputo dove trovarlo.
Zexion si voltò e
percorse in senso inverso il vicolo, tornando al di fuori del vecchio
condominio.
* * *
Luxord aveva fatto un ottimo
lavoro.
Osservò
compiaciuto il posto cui le ricerche discrete del suo ancor più discreto
amico lo avevano condotto. La villa doveva essere inutilizzata da anni, ma le
luci accese alle finestre e la presenza degli agenti a guardia degli ingressi
la dicevano lunga.
Così, era
là che si nascondeva adesso il suo piccolo.
Quando aveva capito che
lo aveva perso per sempre, aveva provato la più grande delusione della
sua vita. Non gli era mai successo di fidarsi così ciecamente di una
persona, di legarsi a quel punto a qualcuno, di provare quel che provava per lui. Mai, con nessuno, neanche con Saïx...
Ora capiva di essere
stato un illuso.
Demyx non era davvero uno di loro. Non era mai stato
davvero suo.
Per questo avrebbe
dovuto pagare.
Marluxia si ritirò.
Quella notte avrebbe di nuovo contattato Zexion.
L’ora era quasi giunta; occorreva solo trovare il momento adatto.
Povero, piccolo Demyx. Credo
proprio che mi mancherai.
Mi scuso se stavolta non ho risposto
singolarmente alle recensioni, ma stasera sono un po’ di fretta ;_;
Ringrazio comunque di vero cuore Kisshou, fragolottina ed _Ella_ per aver recensito il capitolo
precedente, nonché Mikhi per aver aggiunto la storia alle seguite ^^
Beh, diciamo che finalmente la causa del
malessere di Roxas si sta delineando, anche se
restano ancora molti punti oscuri. Prometto che a partire dal prossimo capitolo
le cose si smuoveranno un po’ e usciremo da questo noiosissimo stallo
iniziale! xD
Axel chiuse gli occhi e
sospirò di sollievo. Una vera doccia. Quanto tempo era passato
dall’ultima volta che ne aveva fatta una decente? Quanti anni o quante
vite prima?
Si massaggiò la pelle
con cura, cercando di sciogliere tutta la tensione accumulata nell’ultimo
periodo. Guardò la schiuma scorrere giù lungo il corpo, sul
ventre piatto e sulle gambe nervose, fino a sparire nel tubo di scarico.
Sarebbe stato bello, rifletté, se la vita fosse stata una doccia, se
tutto lo sporco degli esseri umani avesse potuto esser lavato via così
facilmente, al passaggio di una spugna ruvida.
Sorrise del proprio
pensiero. Avanti di questo passo e
diventerai un filosofo, vecchio mio.
Infilò la testa
direttamente sotto il getto d’acqua, chinandola in avanti.
Appoggiò le mani aperte alla parete della doccia e per qualche minuto
rimase così immobile, perso nei propri pensieri.
All’orfanotrofio
non c’era mai stata una vera e propria doccia. Da piccoli, i bambini
facevano il bagno tutti insieme in grandi lavelli; una volta cresciuti
s’infilavano in una vasca e il più delle volte si gettavano
addosso solo qualche secchiata di acqua gelida. Era lo scotto per essere
alloggiati in un’istituzione così “abuon mercato”.
Acqua gratis, ma scarsa.
E da quando aveva
lasciato quel posto le cose non erano certo migliorate. In ogni caso, non aveva
più avuto modo di entrare in una vera
stanza da bagno. La sua vita era stata più o meno un darsi alla macchia,
almeno prima di incontrare Demyx e i suoi allegri
compari sulla sua strada.
Axel rialzò la testa
di scatto, con una mezza risata, schizzando acqua dappertutto. Buffo quanto si
possa rimuginare mentre ci si fa la doccia.
Chiuse il getto,
aprì la porta scorrevole e uscì dal box, sgocciolando sul
pavimento bianco. Afferrò un asciugamano e vi si frizionò i
piedi, per evitare disastrose scivolate; quindi uscì dal bagno e
tornò in camera da letto, dove iniziò a vestirsi senza neppure
asciugarsi. Era piacevole, la sensazione dei vestiti nuovi sulla pelle nuda e
pulita.
Ecco dove finiscono i tuoi soldi, Vexen, si disse con un
sorrisetto, mentre si allacciava in vita i jeans comprati appena il giorno
prima.
Da un tempo infinito non
si permetteva il lusso di entrare in un negozio e procurarsi onestamente
ciò di cui avesse bisogno. E ora lo faceva comunque con un certo
nervosismo; ogni volta che comprava qualcosa temeva che la cassiera di turno
gli puntasse il dito contro urlando: «È lui! È lui!»
Ma doveva pur nutrirsi per vivere, e doveva pur cambiarsi, almeno di tanto in
tanto... Altrimenti la doccia non avrebbe avuto senso, sogghignò tra
sé.
Si voltò
distrattamente verso la finestra chiusa. Il crepuscolo stendeva riflessi di
fuoco viola sulla facciata interna del condominio, illuminando l’appartamento
del ragazzino sulla sedia a rotelle.
Axel ripensò per un
attimo al breve incontro della sera prima. Le ultime parole pronunciate dal
biondino gli risuonarono nelle orecchie.
«Allora sei uno dei pochi.»
Il modo in cui lo aveva
detto lo aveva in un certo senso colpito; era come se quel ragazzo fosse stanco
di tutto, stanco degli altri, stanco di se stesso. Solo il giorno prima, Axel si era chiesto divertito se il suo dirimpettaio fosse
un reietto della società. Adesso si rendeva conto che forse era proprio
così, ma che a quanto pareva era lui stesso a volerlo essere.
Ma in fondo, che me ne importa?
Scosse la testa,
sbuffando. Non aveva ragione di pensare a quel ragazzino. Non provava
pietà per lui o per la sua condizione; da molto tempo non riusciva a
provare pietà neppure per se stesso. Parlare con lui era stato solo un
episodio, e se c’era una cosa che doveva evitare era ripetere quell’episodio. Niente pubblicità. Meno gente
lo conosceva, meglio era.
Ancora a piedi nudi,
andò ad aprire la finestra per lasciar entrare un po’ d’aria
nuova nella stanza.
Fu allora che si accorse
della figura incappucciata in cortile.
Colto di sorpresa, Axel si ritrasse trattenendo un’imprecazione tra i
denti. Gli tornarono alla mente i passi uditi la sera prima: era la stessa
persona?... Ma un attimo dopo tornò a guardare fuori, perplesso.
C’era qualcosa di
familiare in quella sagoma scura e minuta...
In quel momento, il
misterioso individuo iniziò a salire su per la scala antincendio. Anche
il suo passo non gli era nuovo.
Axel rimase col viso in
ombra, incerto, pensando al da farsi; ma quando il tizio fu abbastanza vicino
perché la luce del sole morente illuminasse la parte scoperta del suo
viso, si rilassò.
Arrivato al pianerottolo
e fermatosi davanti alla sua finestra, Zexion si
abbassò il cappuccio.
«Ciao, Axel» salutò senza sorridere.
«Come hai fatto a trovarmi?»
Zexion si guardò
intorno in cerca di una sedia, ne individuò una accanto alla finestra e
vi si diresse per sedersi, mentre Axel lo scrutava
dal letto. Ora la stanza era in penombra; le prime stelle già brillavano
oltre la finestra.
«Luxord» gli rispose. «Quella sera ti ha
seguito. Almeno, così mi ha detto il capo.»
Axel annuì,
infilandosi una felpa nera sopra la maglietta leggera. Luxord
era una sorta di spia; non era parte attiva del gruppo, ma sapeva come portare
al capo informazioni interessanti. Per di più era un incensurato, e non
aveva mai destato sospetti, almeno fino a quel momento. Un damerino ossigenato
che gli era sempre stato sul cazzo.
«Beh,
allora?» sbottò alla fine, incrociando le braccia e scoccando a Zexion uno sguardo interrogativo. «Immagino che tu
non mi abbia contattato solo per chiacchierare.»
Sul viso di Zexion, seminascosto dai capelli troppo lunghi,
passò l’ombra del vago riflesso di un sorriso.
«No, infatti.
Vengo a portarti notizie.» Si rilassò contro lo schienale della
sedia e incrociò le braccia a sua volta, tornando serio. «Il capo
mi dice di non essere molto soddisfatto di te, Axel.
A quanto pare, negli ultimi giorni ti sei mosso per cercare di lasciare la
città, ma non hai mai chiesto informazioni sui tuoi vecchi amici. E non
hai mai cercato di riunirti a lui.»
Axel sbuffò
sonoramente e distolse lo sguardo. Non si chiese neppure come avessero fatto a
venire a sapere tanti particolari.
«Scusatemi tanto
se ho cercato di salvarmi il culo come tutti.»
«Non è
questo il punto.» Vide con la coda dell’occhio che Zexion si protendeva verso di lui, in un atteggiamento di
studiata complicità. «Il capo mi dice anche di ricordarti che, se
affonda lui, affondiamo tutti quanti.»
Axel si voltò di
nuovo a guardarlo, ironico. «Ma davvero? Se non sbaglio, la regola
universale tra noi era l’interesse personale. Non è così
che si è comportato Demyx?»
Zexion sorrise di nuovo,
stavolta in modo palese. «Ci stavo arrivando.»
D’improvviso, Axel ebbe un brutto presentimento.
«Il comportamento
di Demyx è, sempre a detta del capo, una
macchia da lavare.» Zexion si accarezzò
distrattamente una tasca del cappotto. «E i panni sporchi, come certo
saprai anche tu, si lavano in famiglia. Perciò...»
Lasciando in sospeso la
frase, estrasse dalla tasca una pistola.
Axel
s’irrigidì. Zexion lo ignorò e
proseguì imperterrito.
«Ci sarà
una... come definirla?... spedizione
punitiva, tra qualche tempo, quando le acque si saranno un po’
calmate. Marluxia vuole solo sapere se sei dei
nostri. In caso contrario, vuole che tu sappia che Demyx
non sarà l’unico a pagare per i suoi errori.»
Axel fissò glaciale
la pistola che Zexion gli tendeva come un regalo, mostrandone
il calcio.
Era vero, anche lui sul
momento aveva odiato Demyx, aveva maledetto mille
volte la sua decisione di andare alla polizia a confessare e a tradirli tutti.
Ma in quegli ultimi giorni – giorni in cui aveva dormito in un letto
vero, si era tenuto alla larga dai rischi e non aveva mai pensato al suo
cosiddetto ‘lavoro’ – si era sentito probabilmente bene come
mai negli ultimi due mesi. C’era la preoccupazione, sì, la
sensazione del pericolo; ma meglio quella, rispetto a ciò che prima faceva per vivere... Giusto?
E adesso, gli dicevano
di andare a regolare i conti con Demyx.
«Ah,
sì.» Zexion ruppe il silenzio aprendo il
cappotto e tirando fuori da una tasca interna una piccola sacca nera.
«Qui c’è la tua roba, quella che hai affidato a me quella
notte, ricordi?» Posò sacca e pistola sul comodino lì
accanto, quindi si alzò. «Pensaci, Axel.
C’è ancora tempo prima che io torni a prenderti. Per allora, pensa
bene se tieni di più alla tua vita, o a quella di uno che ci ha messi
tutti in pericolo.»
Axel tacque ancora. Si
limitò a guardarlo, mentre l’altro si risollevava il cappuccio, si
voltava di nuovo verso la finestra, la scavalcava e cominciava a discendere
dalla scala antincendio ormai semibuia.
Rimase a lungo immobile,
guardando fisso la finestra aperta per non soffermarsi con gli occhi sul
comodino dove giacevano la pistola e la sacca gonfia del suo recente passato:
abbandonate nell’ombra, erano una flebile illusione di innocua inerzia
pronta a ricondurlo di nuovo nel turbine.
Ma lui voleva
rientrarci?
La sua prima intenzione
era stata quella di scappare. Andare via, lontano. Ma non si era mai posto il
problema di cosa fare dopo.
Ricominciare
così? O cambiare vita, magari tornare a vagabondare, oppure – in
qualche molto remota possibilità – trovare un mestiere onesto che
gli desse di che vivere senza più fargli correre rischi?
Rabbioso, Axel si alzò e andò alla finestra per
chiuderla violentemente, sfogando così la frustrazione che la visita di Zexion – e dei ricordi – gli aveva provocato.
Il compagno era già sparito dal cortile interno del condominio,
illuminato dalle stelle e dalle luci alle finestre dei vari piani del
condominio. Appena posò la mano sulla maniglia, i suoi occhi corsero
istintivamente alla finestra di fronte, e si bloccò.
Il ragazzino sulla sedia
a rotelle era di nuovo affacciato, e lo fissava con un misto di stupore, paura
e accusa. Sembrava lottare con le parole, come se non ne trovasse abbastanza.
Un altro capitolo piuttosto piatto,
però dai, qualcosa si è smosso. E adesso almeno sappiamo che Axel non può semplicemente starsene al condominio
con la banda di Marluxia che intende vendicarsi di Demyx ;)
Ringrazio fragolottina e Rurish per aver
commentato il precedente capitolo, e oso sperare che la storia continui ad
incuriosirvi, pur essendo così lenta a svelarsi ^^’
«Non ti ho mai
visto così distratto. Si può sapere che hai?»
Roxas addentò la
patatina fritta ormai fredda e la masticò lentamente, prendendo tempo.
Quella sera Kairi non era venuta all’appartamento;
se ci fosse stata, magari ci avrebbe pensato lei a dire a Sora di lasciarlo in
pace... Invece, stavolta doveva vedersela da solo con la cucina e gli sguardi
di suo fratello.
Deglutì e
alzò le spalle.
«Niente. Ho
solo... un po’ di pensieri, tutto qui.»
Sora si rigirò la
forchetta tra le mani, studiandolo con occhio critico ma apprensivo. «Un
po’ più del solito, vuoi dire.»
Roxas cercò di
sorridere a mo’ di scusa, e si concentrò sul suo piatto, ancora quasi
integro.
«Sto bene,
davvero.» Cercò un argomento per sviare il discorso. «Non mi
hai ancora raccontato della cena di ieri» disse alla fine, non del tutto
interessato. «Com’è andata?»
«Solite
cose» ribatté Sora, in tono inespressivo. «Selphie si è presentata in vestaglia perché
credeva di andare ad un pigiama party. Kairi ha
portato con sé un orso polare. Tidus ha messo
una bomba nucleare sotto la sedia di Riku. E nel
mezzo della serata sono arrivati gli alieni.»
Roxas alzò lo sguardo.
«Mh?»
«Lo vedi?»
Sora gli puntò contro la forchetta, accusatorio. «Non mi stai
ascoltando! Potrei dire qualsiasi cretinata e tu staresti sempre là a
fare di sì con la testa...»
Con un sospiro, Roxas lasciò la propria forchetta e allontanò
il piatto da sé.
«Hai ragione. Scusami.»
Evitando di guardarlo negli occhi, voltò lentamente la sedia a rotelle.
«Non ho molta fame. Vado di là a disegnare un po’.»
«E va bene»
sospirò Sora, sconfitto. Roxas sentì la
sua sedia strusciare sul pavimento mentre si alzava. «Lavo i piatti e poi
vengo a farti compagnia, ok?»
Lui scosse la testa.
«Non ce
n’è bisogno.» Prima di uscire dal soggiorno, lo
guardò e cercò di nuovo di sorridergli. «Tranquillo, va
tutto bene.»
Sora sospirò di
nuovo, scuotendo il capo a sua volta, e cominciò a portare i piatti
della cena dal tavolo al lavello. Con la lavastoviglie fuori uso, bisognava
adeguarsi, anche senza l’aiuto di Kairi. Roxas si odiava per non poter rendersi utile in gran parte
di quelle incombenze domestiche; il fatto che Sora non si lamentasse mai non
contribuiva ad alleviare il suo sentirsi insignificante.
Riprese a sospingere la
propria sedia in avanti e, in quella maniera di muoversi che odiava, percorse piano il corridoio.
Il motivo della sua
distrazione era proprio là fuori, a pochi metri di distanza.
Pensava ancora allo
sconosciuto del 2B, l’unica persona con cui avesse deciso di mostrarsi
senza schermi. Era strano, eppure sentiva che c’era un flebile legame tra
loro, un qualcosa che li accomunava; anche lo sconosciuto dai capelli rossi
pareva in fuga da se stesso...
Roxas scosse con vigore la
testa, chiudendosi dietro la porta della stanza che condivideva con Sora e
trascinandosi fino alla sua scrivania, davanti al blocco dei disegni.
L’ultimo, quello che aveva fatto la sera prima, era stato accuratamente
nascosto dietro un’asse mobile dell’armadio al capo opposto della
stanza.
Nascosto a tutti.
Soprattutto a lui.
Il ragazzo prese dal
cassetto aperto una matita e se la picchiettò contro la guancia, in
cerca di ispirazione. Lasciò vagare lo sguardo, che com’era
prevedibile sfiorò la finestra e l’appartamento di fronte,
nell’aria silenziosa della sera...
Qualcosa non andava.
Sembrava che nel 2B ci
fosse un ospite: un tipo più basso ed esile rispetto al rosso. Era
seduto molto vicino alla finestra aperta, così che Roxas
poteva cogliere qualche sua parola.
«C’è
ancora tempo... torni a prenderti...»
Non aveva avuto
l’intenzione di origliare – ma non poté fare a meno di
restare impietrito quando capì il senso di quelle poche frasi.
«... se tieni di
più alla tua vita, o a quella di uno che ci ha messi tutti in
pericolo.»
In quel momento, il
tizio nel 2B si tirò un cappuccio sul capo, si voltò e
uscì dalla finestra. Spaventato, Roxas si
chinò e accostò la sedia alla parete, sperando in tal modo di non
farsi notare. Alcuni lievi rumori metallici gli dissero che lo sconosciuto
stava scendendo dalla scala antincendio; poi, finalmente, di nuovo silenzio.
Aspettò ancora un
po’ prima di risollevare la testa e avvicinarsi alla sua finestra aperta.
Quando guardò giù nel cortile, sentì il respiro
regolarizzarsi a poco a poco. Non c’era più nessuno.
Avvertì un
movimento da qualche parte di fronte a sé; alzò gli occhi e vide
il rosso, pronto a chiudere le ante della finestra del 2B. Anche lui lo vide, e
lo fissò di rimando, con aria sorpresa.
Roxas capì che la
paura si stava mescolando alla rabbia. Quel tizio nascondeva ben più di
quanto lui avesse sospettato. Lo assalì senza riuscire a fermarsi.
«Ma tu chi diavolo sei?»
L’altro parve
spiazzato per un attimo, poi si rabbuiò.
«Mi sembra di
averti già detto che non vuoi
saperlo davvero» ringhiò in risposta, minaccioso.
«Perciò vedi di ricordartene in futuro.»
Roxas ebbe
un’improvvisa folgorazione. «Sei un ricercato, vero? È per
questo che continui a guardarti le spalle... Hai paura di essere
seguito...»
Si accorse di stringere
gli appoggi della sedia a rotelle così convulsamente che le dita
cominciavano a intorpidirsi. La matita che poco prima aveva in mano giaceva di
nuovo sulla scrivania, dimenticata.
Il rosso
sogghignò. «Bene, bene, bene. E così, trovandoti là
immobile e senza niente da fare, hai coltivato l’hobby di spiare la
gente.»
Roxas non reagì.
Sapeva che con quelle parole voleva fargli male, e non intendeva dargli la
soddisfazione di fargli capire che ci stava riuscendo alla grande.
«Beh, bimbo, ti do
una dritta.» Il tipo si sporse verso di lui dalla finestra, puntandogli
un dito contro. Si stavano praticamente insultando da un capo all’altro
del condominio: avrebbe quasi potuto essere buffo, se la situazione non fosse
stata così seria. «Non
– fare – domande» scandì. «Non fare domande
di cui non vuoi sapere la risposta, e io non ti darò risposte che non
vuoi sentirti dire. Memorizzato?»
Poi chiuse violentemente
la finestra, e la luce fredda delle stelle brillò sui vetri.
Roxas tornò con fatica
alla scrivania, fremente di un micidiale miscuglio di emozioni. Il timore di
essere stato a pochissima distanza da quello sconosciuto pericoloso non era che
l’ultimo dei suoi pensieri.
Un rumore di passi fuori
dalla porta e la voce preoccupata di Sora lo scossero.
«Roxas? Tutto bene? Con chi stavi parlando?»
Respirò a fondo.
Cercò di calmarsi e brandì nuovamente la matita, al solito come
un’arma di difesa.
«Tutto a posto»
disse con voce piatta. «Non stavo parlando con nessuno. Devi esserti
sbagliato.»
Voltò le spalle
alla finestra, si piazzò l’album sulle gambe e lo tempestò
di nuovi tratti violenti.
Piccolo chiarimento: Roxas
non ha paura di Axel. Non proprio, o almeno non soltanto.
Il suo è più un... risentimento, che comunque si chiarirà
più in là – perciò tranquilli: le poche parole che
ha colto dalla conversazione di Axel con Zexion non l’hanno spaurito, come avrebbe dovuto
essere, e voi non lo vedrete mai in un angolino a tremare di paura xD
Mi scuso profondamente se di nuovo non rispondo singolarmente alle
recensioni: mi vergogno come una ladra, ma il mio pc
è tornato in una delle sue fasi mestruali, quelle che lo rendono incline
ai blocchi improvvisi ;_; Ringrazio comunque con tanto affetto fragolottina, Rurish ed _Ella_ per i gentilissimi commenti e
complimenti <3 Sono felice che non vi infastidisca questa lentezza, perché
purtroppo le cose andranno davvero
per le lunghe...
E naturalmente, un grazie di cuore va anche
a tutti quelli che si limitano a leggere!
Quella piccola sacca di tela gli pesava sullo
stomaco come un macigno – ma, per quanto potesse essere pesante, non
riusciva ancora a lasciarla cadere.
Era in piedi, in bagno,
e stringeva convulsamente la sacca nera riportatagli da Zexion,
il braccio teso, le dita contratte. Finora non si era mai sognato di riaprirla.
Avrebbe dato qualsiasi cosa per riuscire a buttarla in quel cesso. Avrebbe
fatto qualsiasi cosa, in quel momento, per potersi sbarazzare di quel passato.
Ma qualcuno una volta
gli aveva fatto capire che era molto più facile, e più comodo, e
meno doloroso, restare dove si è, senza cercare altre strade, senza
voltare le spalle a se stessi. Per quanto schifo
si possa avere di se stessi.
La ragazza
bionda si accende una sigaretta e aspira lentamente. È seduta sul tavolo
del magazzino come una vamp, gambe accavallate, e il suo volto è freddo
come marmo. Axel la fissa, altrettanto inespressivo –
solo vagamente sorpreso dalla totale assenza di vita nei suoi occhi, di un
verde che un tempo deve essere stato brillante e luminoso.
Sono occhi molto simili ai suoi.
Larxene esala il
fumo e resta a guardare le lente spirali mescolarsi alla polvere che impregna l’aria.
«Non preoccuparti» mormora. La sua voce è
leggermente arrochita, la voce di una donna, non di una della sua età.
«Non ci vuole molto a farci l’abitudine. Io ti parlo per
esperienza.» Abbassa lo sguardo su di lui, con un breve sorriso privo di
allegria. «Ci sono dentro da una vita. Prima ero una puttana, sai?»
Dà un altro tiro alla sigaretta, senza smettere di fissarlo. «Ma a
un certo punto, non so perché, mi sono semplicemente stufata.
Così ho deciso di ascoltare quel sempliciotto di Demyx,
e di mettermi sotto la protezione di Marluxia.»
Ammiccando, accavalla le gambe dall’altro lato; i jeans neri si tendono
sulle sue cosce magre. «Fidati, novellino, con lui hai un futuro
assicurato.»
Seduto davanti a lei, su una vecchia sedia traballante, Axel la studia a lungo. Magari, in altre circostanze,
potrebbe anche essere attratto da lei, e non solo fisicamente. In fondo sono uguali,
loro due. Ma non riesce a sentire niente. Ormai è questa la sua essenza.
Niente.
«E non hai cercato di cambiare vita?» si ritrova
a chiederle a bruciapelo, senza neanche rifletterci.
Larxene si
incupisce. Poi, inaspettatamente, scoppia a ridere. Ancora una volta senza
allegria.
«Oh, novellino.» Si china su di lui e gli
solleva il mento con un dito, con la stessa mano che stringe la sigaretta
accesa. Lui percepisce il calore e l’odore di nicotina sulla pelle, ma
non si ritrae. «Imparerai presto» gli sussurra lei, a due
centimetri dal viso, «che una volta che ci sei dentro, non ne esci tanto
facilmente.»
Si fissano ancora per un istante. Alla fine, la bionda si
risolleva, afferra il pacchetto di sigarette e glielo offre.
«Perciò vedi di abituarti all’idea»
conclude.
Axel non
replica. Dopo un solo, lungo attimo, prende una sigaretta e le permette di
accendergliela.
La fiammella dell’accendino suggella definitivamente
l’inizio.
Si voltò di scatto e scagliò la
sacca contro il muro alle sue spalle.
Fremeva di rabbia.
«... Una volta che ci sei dentro, non ne esci
tanto facilmente.»
Ma cosa si aspettava?
Che fosse tutto facile e pulito? Si aspettava di redimersi, forse?
Che stronzata. La
verità era che c’era ancora dentro fino al collo. E per quanto
progettasse di fuggire, non si sarebbe mai potuto lasciare davvero tutto alle spalle.
Tornò rabbioso
nella camera da letto spoglia e fredda, dove si sedette sul davanzale della
finestra spalancata, cercando di calmarsi.
Erano giorni che pensava
alle parole di Zexion. Che si interrogava su cosa era
più giusto e cosa era più facile. Che si chiedeva se in quel
cesso, invece del suo passato, ci avesse già buttato senza accorgersene
la sua coscienza. In quei due mesi in cui era stato agli ordini di Marluxia, aveva sempre messo a tacere ogni accenno di
dubbio o rimorso. Ma adesso le cose erano cambiate.
Le braccia conserte, la
schiena al riquadro della finestra, Axel chiuse gli
occhi; e i suoi pensieri corsero di nuovo alle parole del ragazzo sulla sedia a
rotelle, al tono in cui gli aveva parlato.
All’inizio aveva
creduto che avesse semplicemente paura di lui. Poi si era reso conto di quanta
rabbia ci fosse nelle sue parole. Una sorta di delusione... Che
assurdità, si disse, loro due non erano mica amici...
«... È per questo che continui a guardarti le
spalle...»
Doveva riconoscere che
su quel punto aveva ragione. La sua vita era sempre e solo muoversi
nell’ombra; lo era stato prima, con la banda, e lo era adesso che era in
fuga da tutto e da tutti. E lo sarebbe stata anche in seguito, se avesse deciso
di non ascoltare Zexion e avesse dovuto guardarsi
anche da Marluxia.
Batté piano la
nuca contro il muro, e poi di nuovo e ancora, a intervalli regolari.
Cosa doveva fare? Cosa?
Cosa? Cosa?...
Fu in quel momento che
sentì le urla.
* * *
Il sabato pomeriggio era uno dei momenti
più critici, perché, prima di uscire come suo solito con Riku e Kairi, Sora ignorava
puntualmente il suo distacco e lo invitava ad unirsi a loro.
Sfortunatamente per lui,
quel giorno Roxas non era in vena di insistenze,
né tantomeno di rifiutarle con cortesia.
«Andiamo, Rox, cosa ti costa?» Sora si sforzava palesemente di
restare allegro, mentre frugava nell’armadio alla ricerca di un paio di
pantaloni puliti – beh, almeno più puliti di quelli che aveva
addosso. «Andiamo solo al parco a prenderci un gelato e a scambiare
quattro chiacchiere, niente di più...»
Come sempre, Roxas era intento a disegnare alla scrivania; gli dava le
spalle ed era fermamente deciso ad ignorarlo, perché solo così
avrebbe potuto evitare di rispondergli in modo pungente.
Ma Sora non si lasciava
quasi mai scoraggiare dai suoi silenzi.
«Dai, magari ci
sono anche Hayner e gli altri... Quant’è
che non vi vedete?»
Roxas ebbe un primo scatto
rabbioso, un movimento che causò la caduta del temperino sul poggiapiedi
della sedia a rotelle. Si chinò a raccoglierlo, e nel farlo si accorse
che la mano gli tremava. Prevedibile.
«Non voglio
parlarne» sbottò, raddrizzandosi e tornando al suo disegno.
La mancanza di una
risposta da parte di Sora – che rispondeva sempre, anche quando non doveva – lo insospettì.
Voltò la testa, e
al di sopra della propria spalla vide il fratello ancora in piedi davanti
all’armadio aperto, il capo chino ad esaminare qualcosa che sorreggeva
tra le mani.
Nei due secondi che
seguirono, Roxas si rese conto che l’asse
mobile dentro l’armadio si era spostata, rivelando a Sora il contenuto
della nicchia.
Il suo disegno con il
parco, la pista e quel che ricordava della sua vita, prima che andasse alla
deriva.
Sora sollevò lo sguardo
su di lui. Sembrava in lotta tra l’esasperazione e la tristezza.
«Roxas...»
Lui si voltò di
nuovo, con un altro scatto. I suoi occhi non vedevano più il foglio che
aveva davanti; andavano oltre, persi dietro qualcosa che ormai era troppo lontano,
qualcosa di perduto.
«Ho detto che non voglio parlarne.»
La sua voce era
pericolosamente salita di un tono.
Per un attimo ci fu di
nuovo silenzio. Poi – stavolta – fu Sora a urlare.
«Ti viene facile aggredirmi così,
vero?» Senza voltarsi, Roxas capì che si
era avvicinato. «Certo, immagino che sia molto più facile, restare
solo nel tuo mondo e difenderti con le unghie e con i denti! Ma lo vuoi capire
che è ora che tu esca da lì? Sono passati due anni! Due anni, Roxas!
E ancora non capisci che io sto solo cercando di aiutarti!»
«Io non capisco...? Sei tu che non capisci!» Roxas voltò all’improvviso la sedia a rotelle
e gli piantò in faccia uno sguardo pieno di tutte le cose che si era
tenuto dentro fino ad allora. Urlava anche lui, adesso. «Non capisci, non
l’hai mai capito, così come non lo capivano loro! Non capisci che io non sono come te, non lo sono mai stato!
Non posso vivere a modo tuo, Sora! Perché non riesci ad accettare che il
mio modo di reagire non sarà mai
il sorriso che hai tu?»
Sora rimase in silenzio
a fissarlo, il pugno stretto sul disegno, gli occhi lucidi. Alla fine
chinò la testa, e la sua voce divenne un sussurro.
«È solo... È
solo perché ti impedisci di
sorridere.»
Roxas non replicò. Del
resto non avrebbe saputo trovare le parole per rispondergli, perché la
parte più razionale di sé sapeva che Sora aveva ragione, ancora
una volta. Tuttavia non era disposto ad ammetterlo.
Di colpo si sentì
esausto. Con un sospiro, abbassò lo sguardo a sua volta, lasciando che
il silenzio tornasse a sanare le ferite che quella discussione aveva riaperto.
Alla fine, Sora
lasciò cadere il disegno sul letto di Roxas,
si voltò e iniziò a cambiarsi lentamente, in silenzio. Roxas evitò in ogni modo di guardare lui o quel
dannato foglio di carta. Rimase immobile al suo posto fin quando il fratello fu
pronto per uscire e si diresse alla porta.
«Ci vediamo
più tardi» mormorò Sora.
Lui si limitò ad
annuire, gli occhi fissi sulle proprie ginocchia, nel punto dove i jeans erano
più consunti: laceri come tutto ciò che gli era rimasto.
Solo quando sentì
che Sora era ormai uscito, si mosse di nuovo, passandosi le mani ancora
malferme sul viso e voltandosi verso la scrivania.
Fu in quel momento che
rivide il ragazzo del 2B.
Era seduto sul davanzale
della propria finestra, una gamba penzoloni sulla scala antincendio, e lo
guardava.
Ci fu un lungo silenzio.
«A quanto pare non
sono il solo ad avere degli scheletri nell’armadio.»
Il rosso aveva parlato
in tono neutro, ma Roxas non si sentiva in vena di
dargli alcuna spiegazione, né di parlare di qualsiasi cosa con lui. Fu
solo distrattamente che pensò a quanto era successo tre sere prima,
quando aveva capito che quello sconosciuto aveva qualcosa di molto grosso da nascondere. Non gli
importava, ora. Tutto ciò che desiderava in quel momento era di essere
lasciato in pace.
Allontanò la
sedia dalla scrivania, in modo da sottrarsi allo sguardo indecifrabile dello
sconosciuto. Si trascinò fino all’armadio, che Sora aveva lasciato
aperto; guardando all’interno vide che anche l’asse era ancora spostata.
La rimise a posto, quindi chiuse le ante. A testa bassa.
«Non hai bisogno
di parlare con qualcuno?»
La voce del suo nuovo
dirimpettaio questa volta era risuonata molto più vicina. Stranamente, Roxas non ebbe nessun sussulto di sorpresa. Capì che
l’altro doveva aver percorso il pianerottolo fino alla sua finestra, come
la prima sera in cui si erano parlati; ma non si voltò a guardarlo, e
gli rispose dandogli le spalle, la mano ancora sul legno liscio
dell’armadio.
«Perché
pensi che dovrei farlo proprio con te?»
La risposta
arrivò dopo un solo attimo di sospensione.
«Mah. Forse
perché, almeno a quanto mi sembra, sono l’unica persona che non ti
abbia mai giudicato. O che non ti tratti come un handicappato. A te la
scelta.»
Finalmente Roxas voltò il viso.
Il rosso ora sedeva sul
suo davanzale – come pronto per balzare dentro – più o meno
nella stessa posizione di poco prima, le braccia conserte e gli occhi come
sempre imperscrutabili.
Aveva avuto paura di
lui, di ciò che poteva essere in grado di fare. Ricordava bene le parole
del tizio minuto e incappucciato che l’aveva visitato
all’appartamento: qualcosa sull’eliminare
una persona che “li aveva messi tutti in pericolo”… Adesso,
però, non avvertiva alcuna preoccupazione. Solo quella sintoniache l’aveva colpito
all’inizio, la prima volta che aveva guardato da vicino quei segreti
profondi che erano i suoi occhi verdi.
Anche lui ha i suoi fantasmi.
Roxas voltò del tutto
la sedia e, quasi senza accorgersene, cominciò a parlare.
Ebbene sì: finalmente siamo giunti
ad un confronto diretto tra i due personaggi principali ^^ Ma purtroppo dovrete
aspettare il prossimo capitolo per conoscerne il contenuto.
Un ringraziamento con tanto d’inchino
a fragolottina
ed _Ella_ per le recensioni, ma anche a tutti i
lettori e a coloro che di volta in volta aggiungono la storia alle seguite :3
Spero soltanto che la vostra curiosità venga ben ripagata!
Si sporge dal sedile posteriore, con un sorriso che gli va
da un orecchio all’altro. Ha tredici anni, ma si sente felice come un
bambino. Non è una cosa che gli capita spesso.
Sua madre si volta a guardarlo e ricambia il sorriso.
È bella, la mamma, con i suoi stessi capelli biondi che le scendono
morbidi sulle spalle, i suoi stessi occhi azzurro chiaro come il cielo di
primavera, e quel sorriso dolce e buono, proprio come il suo profumo.
«Non ancora, ci siamo quasi.»
Nel posto accanto al suo, Sora lo tira per i vestiti,
ridendo.
«Sei proprio impaziente! Di solito sono io quello che
assilla mamma e papà in macchina!»
Il papà scoppia a ridere mentre imbocca una stradina
secondaria. Anche Roxas sorride, ma si sente
arrossire. Torna a sedersi composto e riprende in mano l’album su cui sta
perfezionando le sagome di alcune persone.
«È solo che...» Si concentra su una linea
che delimita una gamba della figura più alta, poi riprende a parlare.
«È solo che è da tanto che non ci ritroviamo tutti
insieme.»
«Sì» sogghigna Sora, concentrato sul suo
videogioco portatile, «e poi non vedi l’ora di rincontrare Naminè.»
Roxas avvampa e
gli lancia addosso l’album.
«Cretino.»
Sora ride di nuovo, molla l’inseparabile videogame e
comincia a studiare il blocco di disegni che lo ha investito in pieno.
«Ecco, vedi: la disegni pure!»
«Andiamo, Sora, lascia stare tuo fratello»
interviene il papà, guardandoli dallo specchietto retrovisore, con un
gran sorriso conciliante sotto i sottili baffi bruni.
Roxas si
riprende l’album e continua a disegnare, un po’ imbronciato. Ma un
piccolo sorriso torna ad affiorargli alle labbra mentre sotto la punta della
sua matita prendono forma i lineamenti dei suoi migliori amici.
Hayner. Pence. Olette. Naminè.
Disegna anche Sora, Kairi e infine
se stesso: tra Naminè e Hayner,
dal lato opposto rispetto a Sora.
Sora è il suo gemello, ma non si somigliano poi
così tanto. Tanto per cominciare, lui è biondo, e Sora ha i
capelli castani. Ma sono diversi soprattutto nel carattere: anche se quando
è con lui gli è difficile resistere all’entusiasmo
vulcanico di Sora, Roxas è sempre stato un
po’ più introverso, un po’ più insicuro.
Modella ancora un paio di ombre nel suo riflesso di carta.
Di solito non gli piace fare il proprio ritratto; preferisce disegnare gli
altri, soprattutto le persone cui vuole bene. Ma oggi non gli importa,
perché oggi è un giorno importante.
Stanno andando a trovare Kairi e Naminè, appena tornate in città da una visita
ai nonni paterni che vivono all’estero; poi andranno tutti insieme a fare
un picnic al parco. Comunque, oggi non è solo il giorno in cui lui e
Sora potranno rivedere le due amiche: oggi al parco c’è anche un
allenamento con Hayner e gli altri. E così,
per la prima volta, Naminè sarà
presente a un suo allenamento... Questo pensiero gli provoca una strana
sensazione...
... Accade tutto all’improvviso.
Così velocemente che all’inizio lui non capisce
cosa stia succedendo.
L’unica cosa di cui è consapevole è il dolore,
fortissimo, da morire. Un urlo acuto, dal sedile anteriore. Poi il buio.
Quando riprende i sensi, non ha idea di quanto tempo sia
passato, e fatica molto a mettere a fuoco la scena che ha davanti agli occhi.
«Roxas!»
La voce di Sora. È ancora seduto alla sua sinistra. Roxas stringe gli occhi per snebbiarli e si volta verso di
lui. Nel farlo, ha modo di constatare che l’automobile è diventata
un ammasso informe di ferro e vetro. E silenzio.
Sora sta lottando con la sua portiera, accartocciata su se stessa,
ma ha lo sguardo fisso su di lui. Non l’ha mai visto così
preoccupato.
«Roxas! Stai bene?»
Lui ci pensa su. Cerca di schiarirsi le idee e di
interrogare il proprio corpo.
«Non... Non so.» Si accorge di avere anche la
voce impastata. «Non... riesco... a sentire... le gambe.»
Finalmente la portiera di Sora cede, con un secco schianto.
«Stai tranquillo» dice suo fratello.
«Credo che papà e mamma siano svenuti... Ora ti faccio scendere e
li svegliamo.»
Si alza e barcollando fa il giro della macchina, per
dirigersi alla portiera destra. Roxas chiude gli
occhi. Si sente sempre più debole.
Un gemito improvviso.
«Oddio, no...
No, no, no...»
«Cosa c’è?» mormora Roxas, ancora ad occhi chiusi.
Sora non risponde subito. Comincia a colpire il suo
sportello; spinge e tira finché riesce ad aprirlo.
«Prima ti libero da qui, poi chiamiamo
un’ambulanza.»
Gli trema la voce. Roxas apre gli
occhi, proprio mentre il fratello comincia a tirarlo per le braccia. Incontra
il suo sguardo: smarrito, sconvolto, terrorizzato.
È quello sguardo così insolito a spaventarlo
di più, più del silenzio, più del dolore che comincia a
svegliarsi nella metà inferiore del suo corpo.
Quando Sora riesce con fatica a metterlo disteso sul ciglio
della strada, per la prima volta Roxas guarda la parte
anteriore della macchina.
Distingue i profili dei suoi genitori attraverso il
finestrino in frantumi. Sono pallidissimi. Sua madre, la più vicina, ha
gli occhi chiusi, ma sulle sue labbra c’è ancora il sorriso di
poco fa. Come gelato, reso eterno dal flash di una fotografia crudele.
Soprattutto c’è il sangue. Tanto, troppo
sangue.
Nello stesso istante in cui Roxas
sente di perdere di nuovo conoscenza, Sora comincia a gridare.
«Nessuno rintracciò mai la macchina
che ci aveva investito; nessuno di noi l’aveva vista. Io mi svegliai solo
una volta arrivato in ospedale. Sora era l’unico tra noi a non aver
riportato ferite. Al suo posto, mi starei ancora portando dentro il trauma di
aver accompagnato tutta la mia famiglia all’ospedale in condizioni terribili;
ma in fondo lui è sempre stato più forte di me...» Una
pausa di riflessione. «Mi dissero che non avrei più potuto
camminare; ma l’importante, secondo loro, era che fossi vivo. Quel pazzo, chiunque fosse, ci
aveva colpiti da destra, e io mi ero ritrovato proprio sulla sua linea di
tiro... Come mia madre.» Un’altra pausa, stavolta per schiarirsi la
voce improvvisamente rotta. «Lei e mio padre, invece, non si svegliarono
mai. Se ne andarono così, senza neanche darci... senza darmi la possibilità di dire loro
addio.» Un’ultima pausa. Un sospiro. «I medici non avevano
capito nulla. Nessuno ha mai capito. In realtà, quel giorno anch’io
sono morto.»
Calò un silenzio
che sembrava destinato a non finire più.
Per tutto il tempo in
cui aveva parlato, Roxas non si era mosso dalla sua
posizione, davanti all’armadio, e aveva ascoltato la propria voce come se
appartenesse a qualcun altro.
Era pazzesco. Due anni
di rifiuto assoluto di sé e del mondo, e adesso si ritrovava lì a
raccontare quella storia ad un perfetto sconosciuto – per di più,
a uno sconosciuto potenzialmente pericoloso. Semplicemente pazzesco.
«Forse perché, almeno a quanto mi sembra, sono
l’unica persona che non ti abbia mai giudicato...»
Già... Anche questo è vero.
«Capisco.» Ancora
seduto sul davanzale, il rosso aveva lo sguardo rivolto al cielo del pomeriggio
e sembrava totalmente perso nei propri pensieri; ma un attimo dopo riprese a
parlare. «E da allora vivi rinchiuso in questa tua muraglia come un
emarginato mentale, vero?»
Roxas lo fissò senza
ribattere. Non era una domanda che avesse bisogno di una risposta: sembrava
più un’affermazione, una constatazione ragionevole ed obiettiva.
Alla fine, l’altro
ricambiò il suo sguardo.
«Come ti
chiami?» gli chiese di punto in bianco.
La domanda inaspettata
lo colse alla sprovvista.
«Roxas» mormorò.
L’altro si
alzò in piedi, ma non si allontanò dalla finestra. Continuava a
guardarlo nello stesso modo, senza espressione.
«Sai, Roxas...» disse poi, con una specie di sorriso.
«Vivere non è solo camminare o correre o saltare.
Memorizzato?»
Roxas tacque ancora e
abbassò lo sguardo.
Non c’era
più nulla da dire.
Sentì il rumore
metallico di quei suoi passi decisi sul pianerottolo. Alzò il capo e
avvicinò la sedia alla finestra, guardandolo allontanarsi.
«E tu come ti
chiami?» lo richiamò, quasi senza accorgersene.
Dopo una breve
esitazione, quello si voltò appena per un istante, giusto il tempo di
rispondergli.
«Axel.»
Poi si
rincamminò, tornò verso il suo appartamento e scavalcò il
davanzale. Proprio come la prima volta.
Roxas rimase là
immobile ancora per qualche secondo, ma Axel non
ricomparve alla finestra del 2B. Allora tornò verso il suo letto e
riprese in mano il disegno che Sora aveva trovato nell’armadio.
Per la seconda volta in
pochi giorni, lo bagnò dei suoi ricordi e delle sue lacrime. Ma questa
volta il pianto sapeva di liberazione.
Un altro capitolo breve breve
per dare finalmente voce a ciò che è successo a Roxas, due anni prima del suo incontro con Axel.
A dirvi la verità, questo flashback
non mi convince molto. Avrei voluto metterci dentro più angst, più dolore e anche più rabbia –
ma al tempo stesso non volevo intaccare l’ingenuità ancora bambina
di Roxas, il suo non rendersi conto, se non proprio
alla fine, di essere giunto ad un punto della sua vita che lo segnerà
per sempre. Non so, spero di aver comunque reso l’idea .__. E se non
è così, perdonatemi. L’avevo detto che col tempo ho perso
fiducia in questa storia.
Ringrazio di cuore fragolottina, _Ella_ e Rurish per aver commentato il
precedente capitolo, nonché tutti coloro che si limitano a leggere di
volta in volta questa, mh, cosa. <3 E colgo l’occasione
per avvisare che da ora, causa problemi personali non derogabili a terzi, gli aggiornamenti
si faranno meno frequenti; spero di riuscire a postare almeno ogni sette
giorni, ma dipende tutto dalle solite cause di forza maggiore -_-’’
Axel odiava la domenica
mattina. Da che ricordasse, l’aveva sempre odiata.
Quando era ancora
all’orfanotrofio, la domenica era considerata da tutti un giorno importante:
era quasi sempre nei fine settimana che arrivavano delle coppie in cerca di un
bambino o una bambina da adottare. Così, ogni domenica lui e i suoi
compagni venivano buttati giù dai letti all’alba, preparati e
infiocchettati a dovere, costretti ad ascoltare il solito predicozzo della
vecchia direttrice sulla necessità che non combinassero guai e non
sgualcissero le divise e bla e poi bla e ancora bla, e infine messi
ordinatamente in fila nel cortile sotto gli sguardi degli ospiti.
A volte arrivava gente
simpatica, a volte meno. Comunque si presentassero, Axel
li guardava in cagnesco. Non gli piaceva l’istituto, ma non gli piaceva
nemmeno l’idea di andare a vivere in una di quelle famiglie, dove
sicuramente sarebbe stato sottomesso a regole ferree sui vestiti e sulla scuola
e sul cibo e sui passatempi e su tutto quanto.
Non era mai stato scelto
da nessuna di quelle coppie, e gli andava benissimo così.
Ma in tutti gli anni che
erano seguiti aveva continuato a odiare
la domenica, ad associarla a un momento in cui la realtà di fuori
entrava prepotente nella sua intimità, che lui non avrebbe voluto mai
mostrare né tantomeno dividere con nessuno.
Così era anche
quel giorno.
Quando la luce del sole
gli ferì gli occhi, li richiuse con forza e cacciò la testa sotto
il cuscino, già pronto a riaddormentarsi e a poltrire tutto il giorno,
alla faccia di qualsiasi orfanotrofio e qualsiasi ipotetico sbirro che gli si
affacciasse tra i pensieri... Eppure, stavolta c’era qualcosa di diverso
a distrarlo.
Perplesso, Axel riaprì lentamente gli occhi e scrutò la
stoffa ruvida del guanciale, seguendo il filo del pensiero che lo portava di
nuovo al ragazzino che aveva perso l’uso delle gambe. A Roxas.
Ancora adesso, alla luce
del sole, non sapeva per quale motivo, il giorno prima, avesse sentito la
necessità di andare da lui a farlo parlare. D’accordo, lo aveva
sentito urlare, litigare furiosamente con quello che aveva poi scoperto essere
suo fratello; ma di norma quelli non sarebbero stati affari suoi, anzi li
avrebbe ignorati completamente. Cosa cazzo gliene importava se il suo
dirimpettaio e i suoi eventuali congiunti si scannavano a vicenda? Era
già abbastanza occupato a pensare all’eventualità che lui venisse scannato da qualcuno: la
polizia o Marluxia, a seconda di una scelta che non
aveva ancora fatto.
Però...
Però, era come se ci fosse un qualche filo,
invisibile e sottilissimo, ad unirlo a quel ragazzo.
Roxas lo aveva affrontato a
viso aperto, la sera in cui Zexion era venuto da lui,
e probabilmente aveva intravisto i suoi demoni; ora che lui lo sentiva urlare e
parlare in quel modo, e che intuiva il male sotto la sua voce, aveva modo di
intravedere i suoi, di demoni.
E a quel punto gli era
sembrata quasi una cosa dovuta, avvicinarsi a lui e ascoltarlo.
La cosa più strana
era che Roxas avesse deciso di calare le barriere.
No. La cosa più
strana era che lui, Axel, aveva mandato al diavolo
ogni decenza e si era messo amabilmente a chiacchierare con quel ragazzo.
Dov’era finita la sua discrezione, la sua segretezza, il suo muoversi
nell’ombra?
In quello stesso cesso in cui non sono riuscito a buttare
quella stramaledetta sacca...
Si alzò di scatto
a sedere, togliendosi il cuscino dalla faccia. Non aveva più il minimo
sonno. Stava di nuovo cedendo alla frustrazione del momento: era in una
situazione a dir poco critica, in bilico tra la vita e la morte – sia
sua, sia di quello stronzetto di Demyx – e,
come se non bastasse, gli veniva voglia di fare il buon samaritano con un
ragazzino praticamente sconosciuto. Da non credersi. C’erano davvero
tutti i motivi per essere frustrati, senza dubbio.
Scalciò le
lenzuola e posò i piedi nudi al pavimento. Come al solito, un vecchio e
nuovo istinto portò i suoi occhi verso la finestra, oltre il vetro, fino
all’appartamento di fronte. Le tende erano tirate e le persiane chiuse,
quasi come un’ultima, tardiva difesa da parte di quel ragazzo così
diverso e simile a lui.
‘Buon samaritano’. Così si
era – sprezzantemente – definito.
Un pensiero molto buffo
e molto stupido gli attraversò la mente.
Forse non l’ho fatto per lui. Forse l’ho fatto
per me.
Il che era ancor
più sconcertante, ma di certo più plausibile...
D’accordo, si era
ritrovato davanti ad una persona con tanti fantasmi quanti ne aveva lui. Invece
di pensare come al solito per sé, si era concentrato su quella persona,
cercando di capirla, probabilmente come nessun altro prima aveva fatto mai. E
non c’entrava il fatto di poter aiutare
quel ragazzo: la verità era che, stando ad ascoltare lui, per qualche
minuto si era dimenticato di se stesso. Si era illuso e convinto di non essere
il solo a dover lottare per vivere.
Nel silenzio della sua
nuova stanza, Axel emise qualcosa a metà tra
uno sbuffo e una risata. Non si riconosceva più. Un tempo non avrebbe
mai mostrato neppure a se stesso una debolezza simile, non si sarebbe mai
calato i calzoni fino a quel punto. Avrebbe tenuto la testa alta e avrebbe
ribadito: Non mi faccio toccare da queste
stronzate, io sono più forte.
Un tempo...
Che ti piaccia o no, le cose stanno cambiando.
Se ne chiese il motivo.
Qual era stato l’elemento scatenante?
Il voltafaccia di Demyx.
Il ricatto di Zexion e Marluxia.
Il confronto con Roxas.
Forse erano state tutte
quelle cose insieme. Forse no. Non lo sapeva, ma decise che non gliene
importava poi così tanto. La cosa importante era saper fronteggiare quel
momento, e soprattutto stabilire come comportarsi in ognuno di quei tre casi
specifici.
E sapeva bene da cosa
cominciare.
* * *
Al tavolo della cucina, Roxas
inzuppava svogliatamente un biscotto nel caffelatte ancora caldo. Era così
assente che quello si stava già sbriciolando, senza che lui trovasse la
voglia di morderlo.
L’appartamento era
terribilmente silenzioso. Sora era uscito già da un pezzo; si era
defilato subito dopo averlo aiutato ad alzarsi dal letto e avergli chiesto se
avesse bisogno di qualcosa, farfugliando che doveva vedere Riku
per discutere con lui riguardo ad un certo compito da consegnare in classe il
giorno dopo. Roxas aveva l’impressione che,
dopo l’ultimo litigio, il fratello lo stesse volutamente evitando. Non
c’era rancore in quel suo tenere le distanze; un dispiacere, semmai,
tipico di chi sente di aver esagerato, ma non si scusa perché sa di
avere comunque ragione.
Lo rattristava che
fossero arrivati a quel punto, al punto di non guardarsi più negli occhi
per non litigare. Ma era ancora fermo sulle sue posizioni: aveva le sue idee,
aveva il suo modo di guardare il mondo, e certo non sarebbe stato Sora a
cambiarlo.
E poi, i suoi pensieri
vertevano anche su un altro punto della faccenda...
«E da allora vivi rinchiuso in questa tua
muraglia come un emarginato mentale, vero?»
Non erano state le sue
parole a colpirlo. C’era più o meno abituato, a commenti del
genere. No, la cosa più sconvolgente era piuttosto il fatto che le
avesse pronunciate proprio lui: un completo sconosciuto. Più
sconvolgente ancora, il fatto che lui,
Roxas, avesse raccontato tutto di sé a quel
completo sconosciuto.
Era da quel preciso
istante che ci pensava, e ancora non riusciva a venirne a capo. Ma cosa gli era preso?
Una serie di colpi alla
porta lo fece sobbalzare sulla sedia. Il resto del biscotto si frantumò
all’istante, andando a depositarsi in mille bricioli sul fondo della
tazza piena. Roxas fissò per un attimo il
liquido scuro con una fitta di nostalgia, e con l’impressione che tutto,
della sua vita, fosse destinato a finire in pezzi. Poi sospirò e
cominciò a sospingere la sedia a rotelle verso l’ingresso –
chiedendosi chi diavolo potesse essere a quell’ora di domenica mattina.
Il professor Ansem? Ma no, non si era mai presentato nel fine settimana.
Forse era Kairi... Ma probabilmente lei sapeva
già che non avrebbe trovato Sora, quindi perché andare
all’appartamento? Per parlare con lui? Boh. C’era sempre la
nonna...
Quando aprì la
porta, ebbe un altro sussulto di sorpresa.
Sulla soglia c’era
Axel.
Si fissarono, e per un
attimo – da entrambe le parti – l’imbarazzo nella stanza fu
quasi palpabile, così come l’eco delle domande in sospeso e il
ricordo delle parole lasciate sfuggire.
Alla fine, Roxas si riscosse.
«Che ci fai tu
qui?»
La faccia di Axel era quella di uno profondamente sorpreso dal proprio
ardire; ma poi l’adolescente gli rivolse il suo sorriso più
strafottente.
«Buongiorno anche
a te» ironizzò. «Mi fai entrare?»
Roxas continuava a fissarlo, confuso
oltre ogni dire. Mai si sarebbe aspettato di vederselo comparire sulla porta di
casa. Del resto, in altre circostanze – con chiunque altro – lui stesso avrebbe fatto di tutto per
mantenere le distanze...
«Allora?»
Axel sollevò le
sopracciglia. Roxas notò che erano
sottilissime; forse se le era bruciate in qualcuno dei giochetti pericolosi cui
di certo era abituato.
Scrollò le spalle
e si tirò indietro con la sedia, permettendogli di oltrepassare la
soglia; quindi chiuse la porta dietro di lui.
«C’è
un motivo particolare per cui sei qui, o devo pensare che tu abbia voglia di
fare una buona azione giornaliera parlando con me?» lo punzecchiò
sarcastico.
Axel si guardava intorno
nell’anticamera, con aria indifferente.
«Mah, pensala come
vuoi.» Fece un altro paio di passi e si fermò accanto alla porta
della cucina, aperta su una stanza in cui l’unica nota di presenza era la
colazione quasi intatta. «Tuo fratello non c’è?»
«No.» Roxas cominciava a spazientirsi. Incrociò le
braccia. «Cos’è, hai bisogno di qualcosa? Non so se posso
esserti utile, nelle mie condizioni. Hai presente, no?»
Axel si voltò. Sulle
sue labbra tornò ad emergere un risolino.
«Se puoi essermi
utile? Credo di sì. Vorrei che mi accompagnassi in un posto.»
Roxas lo guardò come
se lo avesse appena invitato a scalare insieme l’Everest.
«Per quanto mi
riguarda, puoi benissimo andarci da solo. Penso che tu conosca la strada per quel posto.»
«Ehi,
bimbo.» Axel gli puntò un dito contro.
«Cerca di non sfidare la sorte. Ti ho chiesto di accompagnarmi in un
posto, e tu adesso vieni con me.»
«Tu sei matto,
fidati.»
«Sì, questo
può essere.»
«E sentiamo, dove
cavolo dovrei accompagnarti?»
«Al parco.»
Roxas s’incupì
all’istante. «Scordatelo.»
«Perché?»
Axel ostentò una faccia ingenua che non gli si
addiceva per niente. «Non ti piacciono i fiori?»
«Senti»
scattò Roxas, sorprendendo persino se stesso,
«ma che cosa diavolo vuoi da
me? È già abbastanza strano che tu sia riuscito a... a... farmi
dire... quelle cose. Che
c’è, ti sei messo in testa d’aiutarmi? Guarda che perdi il
tuo tempo. E poi credo che tu abbia preoccupazioni ben più grandi da
affrontare» soggiunse, ripensando al tipo sospetto che aveva visto
infiltrarsi nel 2B dalla scala antincendio, solo qualche sera prima – era davvero passato così poco tempo?
«Non vedo perché dovresti stare qui a cercare di riportarmi a contatto con il mondo, o quello che
è. Se non sbaglio, avevi detto che non ti facevo pena.»
L’espressione di Axel ora era serissima. Gli si avvicinò, fino a
chinarsi sulla sedia a rotelle, le mani sui sostegni; suo malgrado, Roxas si preoccupò non poco quando se lo
ritrovò a un soffio dal viso, quei dannati pozzi verdi colmi di sfide
fissi su di lui.
«Infatti è
così, Roxas.» Era strano sentirsi
chiamare per nome da lui, da uno che non velasse quelle cinque lettere di
carità e comprensione. «Non provo pena per te, e non mi sono
neppure “messo in testa d’aiutarti”, se è questo che
pensi. In realtà non è strano solo che tu abbia parlato con
me...» Abbassò la voce. «È strano che io te
l’abbia chiesto. Perché,
vedi, io sono più un tipo da fatti
che da parole.»
Roxas fece una smorfia.
«Immagino.»
Axel si tirò su sbuffando,
e per il ragazzo fu come tornare a respirare dopo una lunga apnea.
«Già.
Quindi, suppongo che a questo punto non posso continuare ad ignorarti.»
Roxas gli rivolse uno sguardo
perplesso. Il rosso distolse per un attimo il suo; quando lo guardò di
nuovo, aveva l’aria di uno che ha appena preso una decisione
esistenziale.
«E suppongo che a
questo punto anche tu debba conoscere la mia
storia. È un primo passo che dobbiamo fare entrambi. Io raccontandoti
chi sono. Tu uscendo da qui.»
Aw *////* Ma sono
anche felice che nel frattempo si siano aggiunte nuove lettrici!
Grazie infiniterrime
a RokuXion_And_AkuRoku e a ChibiSerenity
per aver aggiunto questa fic alle seguite,
nonché ad _Ella_, RuriJeevas e fragolottina per
aver commentato il precedente capitolo! Vi adoro, ma sul serio!
Sei un
idiota, Roxas. Mille, centomila, un milione di volte
idiota!
Stava succedendo tutto
troppo in fretta.
Non era ancora convinto
della propria scelta, ma ormai non c’era modo di tornare indietro.
Uscire dall’appartamento
dopo circa due anni di reclusione era stato come tornare in una patria da cui
si era mancati per tutta la vita, e trovarla completamente diversa da come ci
si ricordasse o immaginasse. Forse Ulisse si era sentito così, quando
aveva rimesso piede ad Itaca dopo quei vent’anni di guerra e di
vagabondaggi per il mondo. Estraneo. Inerme. Osservato. Solo.
Ma aveva deciso di
farlo, perché – anche se non l’avrebbe ammesso neppure sotto
tortura – aveva capito perfettamente cosa intendesse Axel.
C’era davvero quel qualcosa a
unirli, c’era stato ancora prima che si parlassero, ed era giusto che lo
affrontassero una volta per tutte. Si erano incontrati e riconosciuti per
quello che erano, due persone in fuga da se stesse; ed ora che si erano incontrati
e riconosciuti, era giusto che si conoscessero.
Conoscere una persona
è uno scambio equivalente, in cui si dà e si riceve.
Per questo, alla fine,
aveva spinto la sedia a rotelle fuori dell’appartamento, lungo il
corridoio, dentro l’ascensore, fuori dal palazzo, e infine per la strada
che portava al parco.
Axel non si era offerto di
aiutarlo spingendo la sua sedia, cosa di cui Roxas
gli fu grato. Un altro fattore che non avrebbe mai ammesso ad alta voce.
Adesso che erano
arrivati, però, la sua determinazione tutta nuova cominciava a
vacillare, e i ricordi portavano vecchi dubbi e noti rimpianti.
Era proprio lì
che stavano andando il giorno in cui...
«Ehi, ti va un
gelato?»
«Cosa?»
Roxas ripiombò al
presente e si ritrovò nel parco, circondato da un’atmosfera
primaverile piena di sole e famiglie e risate, davanti a un chiosco di gelati e
con al fianco Axel, che nei suoi vestiti neri
sembrava figlio dello stesso buio che lui si portava dentro.
Il rosso lo guardava
apertamente, senza pudore. Roxas era certo che
sapesse benissimo il motivo del suo
turbamento; ma evidentemente era deciso a non farci caso, a comportarsi proprio
come se loro fossero due ragazzi normali che una domenica mattina avevano
deciso di farsi una passeggiata al parco. Certo, come no.
«Un gelato»
ripeté Axel. Poi, di fronte alla sua
espressione, scoppiò a ridere. Anche la sua risata aveva quel tocco di
amarezza che sembrava contraddistinguerlo da tutti gli altri esseri umani.
«Cazzo, bimbo, non fare quella faccia. Mica parlo di veleno per
topi.»
«Ero solo
distratto» borbottò lui, sentendosi arrossire. «Comunque non
ho soldi con me...»
«Non
c’è problema.»
Axel aveva già tirato
fuori da una tasca dei pantaloni da rapper un fascio di banconote. Roxas guardò il denaro con occhi atterriti; aveva
una gran brutta sensazione. L’altro se ne accorse.
«Guarda che non
sono un ladro» sghignazzò. «Sono tutti così... ammucchiati perché sarebbero
destinati all’affitto.»
«Ah...» Roxas non era del tutto tranquillo. «Suppongo che non
t’importi molto, sperperare l’affitto in gelati.»
«Bah.» Axel alzò le spalle, con aria annoiata. «Ho
sempre vissuto l’attimo, e non comincerò adesso a preoccuparmi del
futuro. Senza contare che potrei già essermela svignata prima della fine
di questo mese...»
«Che cosa vuoi
dire?»
Il giovane lo
soppesò con lo sguardo per un istante. Poi sospirò.
«Questa è
un’altra cosa che dovrò raccontarti.»
* * *
Roxas accettò il
ghiacciolo ringraziando educatamente, e iniziò a scartarlo in silenzio. Era
evidente che ormai, affermata la sua volontà con quell’uscita
fuori programma dal suo piccolo mondo, voleva soltanto andare fino in fondo, e
di certo anche ascoltare ciò che aveva da dirgli.
Axel non poté fare a
meno di ammirare la sua decisione di seguirlo. Nonostante tutto, era riuscito a
fronteggiare la situazione – gli sguardi degli estranei e il flusso di
ricordi – a mente fredda, e non aveva ceduto alla tristezza. Non
l’aveva portato in quel parco senza un motivo; voleva metterlo in
condizione di affrontare se stesso, perché era proprio quello il motivo
per cui aveva deciso di parlargli. Non gli era importato neppure il fatto di
mostrare la faccia in pubblico, quando c’era ancora la possibilità
che la polizia fosse sulle sue tracce, o che Luxord
lo tenesse d’occhio per conto di Marluxia. Quel
giorno doveva essere così e basta, per entrambi: via le maschere. Fuori
dalle muraglie, per una volta nella vita, insieme ad una persona che potesse capire incondizionatamente.
E Roxasaveva capito. E aveva accettato il
compromesso del primo passo.
Axel si sedette
sull’erba a poca distanza da lui, all’ombra di un faggio, e
scartò il suo gelato.
Decise di cominciare da
dove gli capitava.
«Hai visto quel
tipo che è venuto da me qualche sera fa?»
«L’ho sentito
mentre ti salutava» rispose Roxas, concentrato
sul ghiacciolo.
Lasciò correre
l’accenno d’ironia dell’ultima parola. «E hai capito
quello che mi ha detto?»
Il ragazzo scosse la
testa e finalmente si voltò verso di lui. I suoi grandi occhi azzurri lo
colpirono dritto in viso, con la stessa aperta schiettezza con cui anche lui lo
guardava.
«Si chiama Zexion e fa parte di un gruppo di spacciatori.» Axel s’interruppe per un attimo, mordendo il gelato.
«Un gruppo di cui, in un certo senso, faccio parte anch’io.»
Roxas non si mosse. Si era
aspettato di vederlo perlomeno allarmarsi; invece restava freddo, lucido,
impassibile. Ricordò la rabbia che gli aveva sentito nella voce la sera
in cui l’aveva affrontato chiedendogli chi fosse... Come mai ora era
diverso?
«Perché
“in un certo senso”?»
«Diciamo che sono
ancora in prova. Non ho mai seriamente spacciato; non l’ho mai nemmeno provata,
la droga. Un po’ paradossale, eh? Comunque, nei primi due mesi nella
banda ho solo messo in contatto i... clienti con i membri più esperti.
Oppure dovevo rintracciare chi aveva un conto in sospeso con il capo... Per
imparare il mestiere, sai come si dice. Pedinamenti, contrattazioni, roba
così.» I suoi occhi si persero nel cielo terso e limpido. «Poi
c’è stata la soffiata. Uno di noi ha deciso di passare dalla parte
dei buoni. E così, per fartela breve, io mi sono ritrovato a nascondermi
nel tuo condominio. Ma non è detto che ci resti.»
Di nuovo, Roxas attese qualche secondo prima di ribattere.
«Quindi sei un ricercato...»
Axel sogghignò e
alzò le spalle. «Non so. Può anche darsi che
quell’idiota abbia spiato solo sui pezzi grossi. Dopotutto, come ti ho
detto, io ero ancora agli inizi. Ho accettato di farne parte per campare, ma
senza alcun coinvolgimento serio, né affettivo, figuriamoci...»
Roxas annuì vagamente,
mordendo il ghiacciolo con aria pensosa. Axel lo
guardò a lungo, chiedendosi divertito come avrebbe reagito realizzando
di trovarsi fuori con uno che, per quanto ne sapeva, poteva benissimo non essere così innocuo come gli
stava assicurando di essere, o che magari aveva la polizia alle calcagna.
Invece, lui sembrava soltanto molto serio.
«Allora quel
tipo... Zexion...» Voltò il viso, e di
nuovo lo trapassò con i suoi occhi di bambino intelligente.
«Voleva che li aiutassi a... a regolare i conti con quello che vi ha
traditi, vero? Per questo è venuto a cercarti.»
Axel strizzò
l’occhio. «Sei sveglio, bimbo.»
Roxas sospirò e
guardò lontano, oltre il parco tiepido e affollato, oltre qualsiasi cosa
fosse visibile a occhio nudo, concentrato su qualcosa che forse poteva vedere
solo lui. All’improvviso sembrava triste.
«Gente come te non
ha mai capito niente della vita» mormorò.
Axel lo fissò,
chiedendosi perché la sua voce fosse diventata tanto amara. Era certo
che Roxas non stesse semplicemente criticando il suo
stile di vita, come avrebbe fatto chiunque; c’era qualcos’altro
sotto, qualcosa che non voleva o non poteva esprimere a parole.
Aspettò che
continuasse, ma il biondino rimase in silenzio.
E fu un silenzio lungo,
mentre i ghiaccioli quasi dimenticati si scioglievano lentamente nel sole.
* * *
Non si sarebbe mai aspettato di vederlo uscire
dal condominio e restarsene così tranquillamente all’aperto. In compagnia, per di più.
Forse si sentiva
abbastanza sicuro da buttare all’aria ogni cautela? Certo, in effetti era
probabile che Demyx non avesse parlato di lui alla
polizia...
Una ragione in
più per averlo dalla loro parte, quando sarebbe arrivato il momento: non
sarebbe stato seguito.
Lui, comunque, l’avrebbe tenuto d’occhio; gli
sarebbe molto dispiaciuto se anche quel novellino avesse deciso di metterglisi contro. Sperò che Zexion
fosse stato convincente...
Ma c’era qualcosa
che lo rendeva nervoso.
Quel ragazzino sulla
sedia a rotelle. Perché erano lì insieme? Quale importanza
rivestiva per Axel? Come mai aveva
l’impressione che ci fosse tanta sintonia negli sguardi che si
scambiavano?
Già... Meglio tenerlo d’occhio.
L’amicizia era uno
stupido ideale, ma aveva la capacità di far cambiare le persone.
Marluxia era curioso di capire
se potesse seriamente nascere un’amicizia tra uno spacciatore in erba e
un ragazzino handicappato dallo sguardo spento.
Lunga attesa anche stavolta, lo so. Perdonatemi
;_; Oh, beh! Però come vedete inizia a muoversi qualcosa. E tra qualche
tempo si comincerà anche a parlare di Demyx,
che naturalmente non sarà un personaggio marginale in eterno ^^
Ringrazio per le recensioni RuriJeevas, _Ella_ e fragolottina, nonché LittleKairi14 per essersi unita ai
lettori di questa storia formato bradipo sonnolento *__*
Conto di poter aggiornare con più
regolarità durante le prossime vacanze, impegni permettendo. Con tale
speranza, seeyasoon!
Il sole era quasi a picco. Axel
camminava spedito nel parco, ascoltando il lieve stridio delle ruote della
sedia di Roxas, da qualche parte accanto a lui. Ora
che si erano messi a confronto, si sentiva come liberato da un peso,
un’oppressione che teneva entrambi confinati in se stessi, lontano dalla
vita delle persone ‘normali’. Era molto più facile, senza
più alcuna barriera, attraversare quel parco affollato della stessa gente
che fino a poco prima entrambi avrebbero evitato in ogni modo di incrociare.
Sapeva che stava
rischiando, eppure non gliene importava niente.
Ma stava succedendo
tutto troppo in fretta...
Si riscosse dai suoi
pensieri quando non sentì più i movimenti della sedia a rotelle.
Voltandosi, si accorse
che Roxas si era fermato a guardare un piccolo parco
giochi; nello specifico, il suo sguardo era concentrato su una fila di tappeti
elastici dove un gruppo di bambini chiassosi ed esultanti sembrava voler
raggiungere il record mondiale del salto in alto.
Axel riportò gli
occhi su Roxas. Aveva un’espressione strana,
come fosse travolto da mille pensieri ed emozioni contrastanti e non sapesse
bene a quale dare la priorità.
«Ehi, tutto
bene?»
Roxas non si mosse né parlò.
Continuò a guardare assorto i bambini sui tappeti, e a poco a poco un
piccolo sorriso tristissimo si disegnò sulle sue labbra.
* * *
«Ahi!
Brucia!»
Il bambino si sottrae alle mani preoccupate della madre.
Inginocchiata davanti alla panchina su cui è seduto, lei si limita a
guardarlo con il suo sorriso paziente.
«Dai, Roxas, è solo
una sbucciatura.»
Il piccolo Roxas si studia
imbronciato la pelle nuda e arrossata del ginocchio.
«Ma brucia»
ripete, ostinato.
«D’accordo, allora non la tocchiamo. Facciamo
così.»
La mamma si china sulla sua gamba e soffia delicatamente
sulla parte dolorante. Il senso di fresco alla pelle gli porta subito un
po’ di sollievo.
«Roxas, che ti succede? Ti
arrendi?»
Sora è ancora sul suo tappeto e, impegnato in un salto
a gambe incrociate, lo guarda dall’alto con un sorriso di sfida.
Scordando il dolore, Roxas scatta
in piedi e si tira giù la gamba dei pantaloni. «Lo dici tu! Guarda
che posso saltare più in alto di te anche così!»
Sora tocca di nuovo la superficie elastica con i piedi, poi
torna su velocemente, con le braccia e le gambe spalancate e una smorfia da
clown in viso. «E allora forza, che aspetti?»
«Arrivo!» Roxas
comincia a correre verso i trampolini; poi ci ripensa, torna indietro di corsa
da sua madre e l’abbraccia. «Grazie, mamma.»
«Vai, tesoro» sorride ancora lei, «e
attento a non cadere di nuovo.»
Il bambino ricambia il sorriso e annuisce con vigore. Quindi
si volta e raggiunge suo fratello.
Ha otto anni.
La sua vita è perfetta.
È
stato quel giorno che ho conosciuto Hayner...
Roxas tornò a
malincuore al presente, allo stesso parco e agli stessi giochi di sette anni di
distanza. Non si sorprese troppo nel constatare che, in tutto quel tempo,
l’unica cosa che fosse davvero cambiata era lui.
Si scosse e si rese
conto che Axel lo stava ancora fissando, in attesa.
Senza guardarlo, gli indicò la fila di tappeti elastici.
«Ci venivamo
spesso, qui» mormorò in giustificazione al proprio sorriso triste.
«Tanti anni fa. È in questo posto che ho conosciuto il mio
migliore amico.»
Con la coda
dell’occhio vide che Axel seguiva la direzione
del suo sguardo.
«Tutto
sommato» lo sentì commentare, dopo una breve pausa, «tu devi aver vissuto una bella
infanzia.»
Roxas scrollò le
spalle. «Non so se era bella. So che mi andava bene così
com’era.»
Prima che cambiasse tutto.
Stavolta Axel non disse nulla. Anche lui sembrava assorto nei propri
pensieri. Magari pensava alla sua
infanzia.
Era quantomeno bizzarro
– l’eufemismo dell’anno! – star lì a dividere i
suoi ricordi più preziosi con una specie di spacciatore. Roxas se lo ripeté per l’ennesima volta, e per
l’ennesima volta non seppe spiegarsi ciò che stava succedendo.
Forse doveva succedere e basta, ecco tutto.
Cercando un modo per
superare il momento di stallo, si voltò finalmente a guardarlo, sperando
di farsi venire in mente una domanda o una frase qualunque che potesse
cancellare quell’ultimo momento di debolezza.
Ma quella domanda o
quella frase non la trovò mai.
Dietro l’alta
figura di Axel si stagliava, netta come una lama
d’asfalto nel verde acceso del parco, l’area attrezzata per gli
skater: la pista e le rampe e tutto il resto – lo scenario esatto del
disegno nell’armadio. E proprio da quella direzione venivano tre ragazzi,
caschi in testa e tavole sottobraccio, intenti a ridere e a parlare fitto.
Fu come se il cuore di Roxas venisse improvvisamente pressato in una morsa
d’acciaio.
In quel momento
maledisse più che mai la propria impossibilità di alzarsi in
piedi e correre via veloce come il vento.
* * *
«Axel.»
Il tono di voce di Roxas, con una traccia di terrore molto vicina
all’isteria, lo distolse dai suoi pensieri e lo indusse a voltarsi verso
di lui.
Il ragazzo guardava un
punto alle sue spalle. Quando alzò gli occhi sul suo volto, lo fece come
un condannato a morte di fronte al patibolo.
«Andiamo
via.»
«Ma che
ti...»
«Andiamo via!»
Il terrore adesso
lasciava spazio alla rabbia che Axel aveva imparato a
riconoscere in lui come una caratteristica quasi fisica. Perplesso, si
voltò nella direzione in cui Roxas stava
guardando fino a pochi istanti prima.
Due ragazzi e una
ragazza con degli skateboard si stavano avvicinando al punto del parco
dov’erano loro, accanto all’area per i bambini. Sembravano chiacchierare
tranquillamente, ma le espressioni non erano serene: apatiche, semmai, o forse
solo un po’ forzate. Dovevano avere più o meno l’età
di Roxas.
«Cosa
c’è, per caso li conosci...?»
Si voltò di
nuovo, ma il ragazzino aveva già fatto forza sulle ruote della sedia e
si stava allontanando verso l’uscita del parco, con l’atteggiamento
di chi non vuole assolutamente farsi notare dal resto del mondo.
«Ehi!» Axel lo seguì e gli si affiancò. «Ma
stai bene? Mi sembra di aver notato un ospedale qua fuori; vuoi che ti ci
porti?»
Roxas gli lanciò una
breve occhiata furente, prima di incassare ancora di più la testa nelle
spalle e proseguire senza rispondergli.
Axel sospirò e
alzò gli occhi al cielo, infilando le mani in tasca in gesto di resa.
«E va bene»
concesse. «Immagino di aver già preteso troppo da te, oggi.»
Lui non raccolse la sua
provocazione, e lo ignorò.
Alle loro spalle, le
voci dei tre skater si spensero in lontananza.
Sì, sì, è un
minicapitolo. E non succede praticamente niente. Ma in fin dei conti non
è una novità. ^^’
Vorrei tanto dilungarmi a parlare con voi degli
avvenimenti presenti e futuri e a ringraziarvi uno
per uno per la vostra attenzione; ma sinceramente esco da una lite furibonda, e
ora come ora sono ancora un po’ fremente. Non voglio rischiare di
riversare le mie inquietudini sui miei lettori. Dunque spero che non me ne
vogliate se mi eclisso subito: questa capatina è giusto per rispettare l’intervallo
di una settimana tra un aggiornamento e l’altro.
Mi auguro abbiate passato un sereno Natale,
e che anche il nuovo anno vi porti altrettanta serenità <3 Un saluto affettuoso
alle commentatrici fragolottina
ed _Ella_, un grazie sincero a tutti
i lettori, e a tutti buonanotte.
A presto con qualcosa di più ‘sostanzioso’
– e no, non parlo di panettoni ;)
Se fossero stati in un
fumetto o in un cartone animato, in quel momento gli occhi di Tidus e Selphie avrebbero avuto
la forma di cuoricini.
Sora sorrise. «D’accordo,
ma solo una.»
Esultante, Tidus premette per quella che in realtà era
l’ennesima volta il tasto di avvio dello stereo portatile che aveva sulla
spalla. La solita musica si liberò nell’aria, e su quelle poche
note ripetute Sora si produsse di nuovo nei suoi passi migliori.
Faceva breakdance da
quando aveva dieci anni. Gli avevano detto che aveva un talento innato, e forse
qualcosa di vero c’era, perché seguiva soltanto l’istinto e
non aveva mai neppure frequentato un corso: solamente i gruppi di appassionati
che si riunivano agli angoli delle strade, a fare sfoggio delle proprie
capacità di fronte agli immancabili capannelli di curiosi ammirati.
Non era un hobby e non
era un mestiere: era semplicemente ciò che più gli piaceva fare.
Tidus e Selphie
applaudirono, attirando sul compagno l’attenzione dei passanti –
che, diretti ai loro pranzi della domenica, si fermarono un istante a regalare
uno sguardo e un sorriso a quel ragazzo mingherlino che teneva la testa ben
salda sul marciapiede e faceva ruotare le gambe in aria con furiosa armonia.
Dalla sua posizione,
Sora sentì il commento divertito che Riku
mormorò a Kairi.
«Che
esibizionista.»
Si tirò su con un
salto preciso, atterrò sui due piedi e fece un piccolo inchino a
beneficio dei suoi spettatori; quindi si voltò a fronteggiare Riku, senza il minimo accenno di fiatone, fingendosi
oltraggiato.
«Che
c’è? Il pubblico mi ama e io amo lui.»
«Sì, come
no.» L’amico sollevò gli occhi al cielo e gli
indirizzò un sorrisetto ironico. «E poi ti piace metterti in
mostra.»
«Tu osi insinuare...?
Bene, allora, ti sfido: dimostrami quello che sai fare tu e vedremo chi avrà l’ultima parola!»
«Non penso di
poterti accontentare. Devo proprio tornare a casa. Ci si vede, ragazzi.»
Con un cenno della mano
al resto del gruppo, Riku s’incamminò
lungo il ramo destro dell’incrocio.
«Sì,
sì, vai pure» gli urlò dietro Sora, «razza di
codardo!»
Entrambi sapevano
benissimo che quell’‘ultima parola’, eventualmente, sarebbe
spettata proprio a Riku. In fondo era stato in uno di
quei gruppi di appassionati che si erano conosciuti, diventando migliori amici
ed eterni competitori, solo qualche anno prima.
Poco prima che...
Tidus spense la musica e loro
tornarono ad essere solo un gruppo di ragazzi fermi a un incrocio frequentato
da pochi passanti sconosciuti. Anche il ragazzo e Selphie
si congedarono, allontanandosi lungo la svolta sinistra della strada.
Sora e Kairi rimasero soli.
«Vieni
all’appartamento?»
«Sì, ho
voglia di parlare un po’ con Roxas.»
Sora soffocò sul nascere
una sottile fitta di gelosia per via di quella vicinanza tra lei e suo
fratello.
«Mah, dubito che
lo troverai di buonumore.»
S’incamminarono
vicini verso il condominio.
«Va così
male?»
«Peggio.»
Le raccontò del
litigio del giorno precedente, del disegno e dei ricordi che erano riemersi
dall’armadio con esso, e che Roxas aveva voluto
soffocare, di nuovo.
Kairi sospirò
profondamente e si passò una mano tra i capelli ramati. «Devi
lasciargli i suoi tempi, Sora.»
«Lo so,
ma...»
«Stammi a sentire.
Roxas ha ragione. Lui non è te. Ha una sua testa, e ha un suo modo di
sopravvivere. Non serve a niente insistere nel cambiarlo; non serve a lui e
neppure a te.»
A disagio, Sora si
guardò i piedi. Quei piedi di cui Roxasun tempo aveva riso spesso, chiedendosi
come potessero, così grandi e sgraziati, fare tanti miracoli sulla musica.
All’improvviso si sentiva orribile e meschino per la gelosia provata poco
prima.
«Forse hai
ragione» mormorò. «Ho esagerato. Dovrei chiedergli
scusa...»
Kairi si bloccò di
colpo al suo fianco. «Io... Io non ci credo.»
Anche Sora si
fermò; la scrutò con un sopracciglio sollevato. «Ehi, non
c’è bisogno di essere così scettici. So ammettere i miei
errori, sai?»
«Ma no... Guarda!»
Erano arrivati
all’altezza del condominio, e la ragazza, esterrefatta, aveva lo sguardo
fisso sulla parte opposta della carreggiata. Sora le obbedì, perplesso.
Dalla strada di fronte,
un tipo alto con i capelli rossi, vestito di nero come una figura
dell’inferno, si stava avvicinando al palazzo. Accanto a lui, gli occhi
fissi a terra, c’era Roxas.
Sora rimase là
immobile a bocca aperta, letteralmente, in attesa di un fulmine che causasse la
fine del mondo o che lo svegliasse da un sogno e che invece non arrivò
mai.
Com’era possibile?
Cosa aveva convinto suo fratello ad uscire, specie dopo il confronto a dir poco
devastante del giorno prima? E chi
era quel tipo che aveva tutta l’aria di averlo accompagnato fuori?
In quel momento Roxas e lo sconosciuto arrivarono all’ingresso del
condominio, a pochi metri di distanza da Sora e Kairi.
Sora incrociò per un solo velocissimo istante gli occhi di suo fratello,
prima che lui issasse la sedia a rotelle sulla bassa passerella in legno
parallela ai gradini che conducevano alla porta del palazzo.
«Ciao, Sora. Ciao,
Kairi.»
Un saluto dal suono
formale, pronunciato senza guardare nessuno.
L’uscio si
aprì e Roxas scomparve.
Il tipo silenzioso dai
capelli rossi li fissò per un attimo con aria assorta, come se stesse
valutando l’ipotesi di parlare o meno con loro; alla fine fece un cenno
quasi impercettibile, che poteva essere un saluto o anche un movimento
involontario, e seguì Roxas all’interno.
Sora chiuse la bocca.
«Non ci
credo» ripeté Kairi, con lo stesso tono
sbalordito.
«Mai stato
più d’accordo con te.»
«Ma chi era quello?»
«E che ne so? Non
l’ho mai visto prima.» Cominciò a correre verso la porta,
ora socchiusa, oltre la quale i due erano spariti. «Ma ho intenzione di
scoprirlo al più presto.»
* * *
«C’è una cosa che mi
dà profondamente
fastidio.» Axel si appoggiò alla parete
di specchi e si guardò intorno; le loro immagini riflesse li
circondavano, conferendo alla scena un senso di soffocamento che ci sarebbe
stato comunque, indipendentemente. «Visto che c’è un ascensore in questo dannato posto,
perché quella rogna di Vexen mi ha fatto fare
le scale la sera che sono arrivato qui? È già un po’ che ci
penso. Deve essere proprio di una tirchieria assoluta.»
Roxas era immobile di fronte
a lui e sembrava provare un immenso interesse per la punta del proprio piede
destro. Era evidente che non aveva ascoltato una sola parola, e Axel non faticava a immaginarne il motivo. Dopo
l’ultima sfuriata fatta a suo fratello sul suo voler essere lasciato in
pace, certo sarebbe stata dura per lui spiegargli che – con tanti saluti
a quelle parole di rifiuto – quel giorno aveva deciso di uscire. E come
se non bastasse, in compagnia di un semi-spacciatore...
«È solo per
le emergenze.»
Axel alzò lo sguardo.
«Eh?»
«L’ascensore.
Il signor Vexen permette di usarlo solo per le
emergenze, perché il rumore disturba i condomini e soprattutto lui. E
anche perché, sai, “l’elettricità
costa!”... È stata la prima cosa che ci ha detto, quando Sora ed
io siamo venuti a vivere qui.» Roxas lo
guardò con un sorriso sghembo. «Mi fai una domanda e te la
dimentichi nell’arco di dieci secondi. E poi sono io quello che non sta bene.»
Axel non ribatté.
Preferì lasciargli l’illusione di non aver capito che dietro quel
suo tono ironico c’era la disperazione pura.
Un debole sobbalzo
annunciò la fermata dell’ascensore al loro piano. Le porte si
aprirono con un cigolio che sapeva di poco olio, ulteriore traccia della natura
spartana dell’amabile portinaio. Axel vide Roxas uscire in corridoio con lo stesso atteggiamento
restio di quando lo aveva attraversato la prima volta, per lasciare il
condominio. Lo seguì in silenzio fuori dalla cabina.
Roxas diresse la sedia alla
porta contrassegnata dalla targa 2A; appena prima di arrivarci, si voltò
a metà con il busto verso di lui.
«Ci vediamo, Axel.»
Un momento, un silenzio
pieno di cose in sospeso. Poi Axel decise che le
domande e le risposte e i come e i perché erano troppi da poter affrontare ora e subito, e ricorse alla stessa nota
piatta adottata da lui.
«Ci vediamo, Roxas.»
Quando lo vide
eclissarsi di nuovo nel suo mondo di ricordi che era quell’appartamento
chiuso a tutto e a tutti, voltò le spalle e percorse in senso inverso lo
stesso corridoio, verso la porta del 2B.
«Ehi! Ehi, aspetta!»
La voce sconosciuta lo
sorprese accanto alla rampa di scale che circa dieci notti prima aveva percorso
insieme a Vexen, in una notte che oggi gli sembrava
lontana anni luce.
Un ragazzino dai capelli
castani impossibili si stava dirigendo a rotta di collo verso di lui, volando
sui gradini. Axel si fermò, col vago impulso
di piantarlo subito in asso e tornare a barricarsi nella sua stanza come aveva
appena fatto Roxas. Niente pubblicità... Ma poi si rese conto di chi fosse quel ragazzino.
Quando gli fu vicino e
si fermò a riprendere fiato, distinse nei suoi lineamenti la somiglianza
eccezionale con Roxas: gli occhi però erano
assurdamente diversi.
«Senti»
ansimò il ragazzo puntandogli in viso le iridi blu, di una sfumatura più
scura di quelle del fratello. «Non so chi tu sia, ma...»
«Tu invece sei
Sora, eh?» lo interruppe.
L’altro
continuò a guardarlo stupito. «Io... Sì... Come fai a...?
Insomma, voglio ringraziarti.»
Fu il turno di Axel di fissarlo con stupore. «Ringraziarmi?»
«Per quello che
hai fatto.» Sora sorrise e il suo volto s’illuminò di colpo,
e Axel capì all’istante cosa intendesse Roxas parlandogli della ‘forza’ di suo
fratello. «Te l’ho detto, non so chi sei, non so cos’hai
detto o fatto; ma deve essere stato qualcosa di grande, o Roxas
non sarebbe mai uscito da queste quattro mura.» Per la prima volta, nei
suoi occhi passò un’ombra di tristezza. «Sei riuscito dove
non è mai riuscito nessuno, nemmeno io... Perciò grazie, grazie
di cuore.»
Axel non provò nulla
di particolare. Né orgoglio per se se stesso, né fastidio,
né tantomeno imbarazzo. Solo quella punta di ammirazione per il suo modo
di fare e di sorridere –
ammirazione che ovviamente non era
affatto disposto a manifestare.
Scosse la testa.
«Non ho fatto poi
questo gran che.» Era sincero. Ripensò al momento in cui Roxas aveva visto i tre skater, alla sua espressione e alla
sua voce. «E credo che alui non abbia fatto bene. Il contrario,
forse.»
Sora smise di sorridere,
e per un attimo assomigliò a un bambino curioso. «Perché?»
Quasi senza
accorgersene, Axel si ritrovò a spiegargli
l’episodio di quella mattina.
Non poteva fare a meno
di sorprendersi di se stesso. Il suo famoso proposito era ormai andato
elegantemente a farsi fottere. Si metteva a chiacchierare del più e del
meno con qualunque marmocchio, negli ultimi tempi. Si stava davvero rammollendo
tanto? O era Sora che, proprio come suo fratello, aveva il dono di farlo
comportare in modo esattamente contrario
alla sua natura?...
Alla fine di quel resoconto
scarno, Sora sospirò e abbassò lo sguardo.
«Hayner, Pence e Olette» mormorò al pavimento. «Dovevano
essere loro...»
«Chi?» fece Axel, incerto se manifestare una qualche curiosità
oppure l’indifferenza più totale.
Sora sembrò
ricordarsi soltanto allora di non essere solo, e rialzò il viso.
«Sono... beh,
perlomeno erano... i suoi migliori amici» spiegò. «Vedi... Roxas è sempre stato un fenomeno dello skateboard.
Gareggiava a livello regionale, e qualcuno aveva intenzione di proporlo anche
per le gare nazionali. Era una promessa per tutti. Ma da quando... Insomma, dal
giorno dell’incidente, non ha più nemmeno guardato in faccia i
suoi compagni di squadra. Hayner, Pence
e Olette, appunto.» Sorrise tristemente. «Una volta ho sentito che
diceva a nostra madre... che lo skate era l’unica cosa in cui si sentisse
più bravo di me. E alla fine quella forza è stata
l’ennesima cosa che gli è stata tolta. L’ennesima promessa
infranta.»
Perché non bastavano tutti i dolori
già svelati: adesso ci si mettono anche i tre skater. Povero Roxas. ;_;
Oh, già, sono io a farlo soffrire così… Che creaturina
meschina che sono >_<
Come vedete, Sora inizia a intrufolarsi in
modo più attivo nella storia, e tra un paio di capitoli tornerà
finalmente a imporsi la faccenda in cui è invischiato Axel… Oh, purtroppo non posso aggiungere altro. Sono di
nuovo di fretta – ma spero abbiate gradito.
Ringrazio tutti i miei lettori, e per le
recensioni _Ella_, RuriJeevas e fragolottina,
sempre gentilissime. <3
Mi dispiace davvero di dilungarmi
così poco nei miei già rari aggiornamenti; l’unica mia speranza
è che le cose cambino con l’anno nuovo. By the way, un felicissimo 2011 a tutti voi!
Ogni
movimento si stempera fino ad essere pura essenza.
Terra.
Piede destro sul naso.
Salto.
Piede sinistro sulla coda.
Cielo.
La tavola incollata ai piedi.
Che adesso la fanno ruotare in aria.
Ripetutamente. Senza pause.
Triple heelflip.
Di nuovo terra.
Piede destro sul naso, piede sinistro al centro.
Lontano dalla rampa, giù lungo la pista.
Con l’ansia di tornare su.
La ringhiera della gradinata del parco in lontananza.
Più vicina.
Veloce.
Vento sul viso.
Salto.
Piede destro sul naso, piede sinistro sulla coda.
Boardslide.
La tavola che struscia sulla ringhiera.
Salto e poi ancora giù, a terra.
Nosemanual.
La tavola che s’impenna e infine ferma la sua folle
corsa.
E subito, la mano di Hayner sulla
spalla.
«Parola mia, Rox. Tu hai un
dono.»
Roxas si toglie
il casco e si scosta dagli occhi i capelli biondi appiccicati alla fronte.
Sorride, nel modo in cui riesce a sorridere soltanto quando è sul suo
skate.
«Dai, Hayner, non farmi
montare la testa.»
«Tu? Montarti la testa? Impossibile.» Olette li raggiunge e li supera sulla sua tavola dipinta a
tinte vivaci, i lunghi capelli castani al vento. «Non è nel tuo
DNA.»
Roxas scuote la
testa divertito, con lo stesso sorriso sulle labbra, incancellabile
finché dura.
È qui, è adesso, in questo parco e su questo
skateboard. È tutto qui il suo vero io. Quello che gli permette di
distinguersi e, perché no, anche di staccarsi dal suo gemello che
è sempre un esempio per tutti. Bravo a scuola, bravo nello sport, bravo
con la breakdance, bravo a fare battute.
Lui non è geloso di Sora, niente affatto. Ma lui, quando è su una tavola, non è più ‘il
fratello di Sora’. Lui, quando
è su una tavola, è solo Roxas. Solo e
finalmente se stesso.
Il suo sorriso aperto si riflette sul viso di Hayner, con un contagio che non porta dolore ma allegria.
«Amico, questo è il nostro anno. Lo sento, lo so. Aspetta che arrivino le finali e ce li mangiamo, quelli della SK-8. Seifer e i suoi amichetti leccapiedi hanno praticamente le
ore contate. Vedrete, ragazzi» Hayner alza la
voce perché anche Olette e Pence
sentano le sue parole, «quest’anno gli HawkRunners volano alto!»
«Ehi, ragazzi!» Pence
si avvicina veloce sul suo skate, agilissimo nonostante la corporatura robusta
che a scuola gli è costata tanti commenti sufficienti, sventolando
l’inseparabile macchina fotografica. «Avanti, immortaliamo questo
momento! Tutti in posa!»
«Sono con te!»
Per dare maggior peso alle parole, Olette
si lancia letteralmente al collo di Roxas e Hayner per trascinarli davanti all’obiettivo. Roxas è travolto in pieno e perde l’equilibrio,
scivolando dalla tavola e finendo a gambe all’aria. Scoppia a ridere.
«Ooops! Scusami, Roxas!»
«Non fa niente.» Lui si rialza in piedi ridendo
e stavolta prende lo skate sottobraccio, strizzando l’occhio
all’amica. «Tranquilla. Sono io che mi sento più a mio agio
a starci sopra in movimento che da fermo.»
Anche Olette ride e lo abbraccia
di nuovo.
Intanto, Pence sta sistemando la
macchina, già pronta con l’autoscatto, sulla stessa ringhiera che Roxas ha appena percorso con lo skate. Poi si unisce al gruppo
e richiama l’attenzione generale.
«In vista delle finali del mese prossimo, ma non
solo» annuncia solenne, «promettiamo che la nostra squadra
sarà sempre unita. Sempre amici. Io prometto!»
«Prometto» sorride Olette,
gli occhi scintillanti.
«Prometto» sorride Hayner,
con una pacca alla spalla di Roxas.
«Prometto» sorride Roxas,
felice.
Il flash scatta su quel sorriso e su quella promessa, come
un sigillo destinato a durare nel tempo.
Ma il tempo cambia tutto. E niente gli sopravvive.
Quello era stato
l’ultimo allenamento insieme agli HawkRunners, prima dell’incidente che gli aveva tolto
anche la sua passione.
Quella promessa aveva
solo cercato di dimenticarla. E quella foto non l’aveva mai vista.
Roxas era immobile sulla sua
dannata sedia, e a testa bassa osservava quel dannato disegno di quel dannato
parco. Quando era rientrato nell’appartamento, si era reso conto che per
la prima volta la frustrazione era tale da impedirgli persino di prendere in
mano una penna o una matita e sfogare i ricordi sulla carta. Così, era
già un bel pezzo che se ne stava là seduto a guardare quei
ricordi senza far nulla, mentre loro gli saltavano agli occhi in gruppi
confusi, in un intreccio tra passato e presente che aveva come fulcro quello
stesso parco che pochi giorni prima aveva trasferito dal bianco della mente al
bianco del foglio.
Axel. Lo skate. I suoi
genitori. Hayner. La macchina. Axel.
Il sangue. Naminè. Gli occhi spaventati di
Sora. La scala antincendio. I tappeti elastici. Il profumo della mamma. Kairi. Il disegno. La squadra. Axel.
Il condominio. L’ospedale. Sora. Il sangue. Axel.
Sora che urlava. Axel. Axel.
Axel...
Se non fosse stato per Axel, non avrebbe mai più rivisto quel parco.
Se non fosse stato per Axel, nulla sarebbe mai cambiato nelle sue difese dal
mondo.
Se non fosse stato per Axel, nessuno avrebbe mai diviso con lui il peso del suo
dolore.
Quel flusso
inconcludente di pensieri s’infranse di colpo contro lo scatto della
porta dell’appartamento che si chiudeva.
Tornato alla
realtà della sua sedia e dei suoi rimpianti, Roxas
sospirò silenziosamente. Di certo era Sora, che di certo ora lo avrebbe interrogato su come mai alla fine fosse
uscito, e probabilmente gli avrebbe anche chiesto chi cavolo fosse quello
spilungone con i capelli rossi. Difficile rispondere, ad entrambe le domande.
Però la voce che
lo chiamò dall’ingresso non apparteneva a Sora.
«Roxas?»
Era Kairi.
Non si sentì la
forza di manifestare la propria presenza. Rimase semplicemente come gelato in
quella posizione – guancia sulle braccia incrociate sul tavolo, occhi sul
disegno appoggiato alla zuccheriera, rimasta là da quella mattina, da
quando la comparsa di Axel aveva interrotto la sua
svogliata colazione. Ascoltò senza emozione i passi attutiti di Kairi che cercavano di attraversare, insieme a quelle due
stanze, anche le infinite miglia che la dividevano da lui, fino a fermarsi alle
sue spalle.
«Sei
bravissimo.»
Capì che anche la
ragazza stava guardando il disegno. Una piccola parte di lui avrebbe voluto
ringraziarla e superare la depressione, ma il senso di apatia che ormai gli
aveva intorpidito il corpo e la mente glielo impedì.
Kairi aveva un temperamento
molto simile a quello di Sora. Anche lei non si lasciava scoraggiare dai
silenzi, per quanto li comprendesse e li accettasse. Per questo motivo Roxas non si stupì quando lei, invece di lasciar
perdere in partenza ogni tentativo, si sedette sul tavolo e si chinò a
cercare il suo sguardo.
«È stata
una bella passeggiata?» gli chiese sorridendo.
«Direi di
no.» Neutro, alzò la testa dal tavolo e si passò una mano
dietro il collo indolenzito. «Sora non era con te?»
«Mmm, me l’aspettavo. Cerchi di sviare il
discorso.»
Per la prima volta la
guardò negli occhi. «È andato a fare il terzo grado ad Axel, eh?»
Lei sembrò per un
attimo incuriosita. «È così che si chiama?»
«Adesso sei tu a
sviare il discorso.»
Kairi sospirò, ma
recuperò subito il sorriso.
«Roxas, Sora è solo preoccupato per te. Non mi sembra
così deplorevole. Forse a volte esagera, certo; ma lo sai che ti vuole
bene. Sei suo fratello.» Guardò di nuovo il disegno, ma non
concesse al proprio sorriso il tempo di diventare triste. Proseguì in
tono più leggero. «Piuttosto, dimmi... Che tipo è questo Axel?»
* * *
«D’accordo,
allora, tieni gli occhi aperti: quello è il nostro uomo.»
Axel segue con
lo sguardo la direzione indicatagli da Demyx. In
teoria, il fatto di essere ‘addestrato’ da una persona così
in alto nelle grazie del capo dovrebbe essere un onore. In realtà, per
lui non è affatto così, dal momento che Demyx
ha tutte le intenzioni di sbattergli in faccia la sua inesperienza confrontata
alla propria sicurezza, in un mondo che per Axel
è un mondo nuovo. Ma non certo meno duro di quelli che ha già
conosciuto.
Accovacciato contro un muretto annerito dai fumi della
città c’è quello che a prima vista sembra un barbone, ma
che a un esame più attento si rivela poi essere soltanto un uomo,
né povero né ricco, né vecchio né giovane, con una
benda su un occhio e un lungo sfregio sulla faccia, intento a lanciare sguardi
furtivi tutt’intorno e a prepararsi una canna.
«Un tipetto simpatico, mi pare.»
Demyx alza le
sopracciglia, disapprovando per l’ennesima volta la sua innata ironia.
«Guarda che questo non è un gioco, pivellino.
Se non sai fare il tuo dovere seriamente, dovrai imparare.»
«Ho capito, ho capito.» Axel
si trattiene a stento dall’alzare gli occhi al cielo. «Avanti,
dimmi cosa devo fare.»
«L’uomo si chiama Xigbar
ed è una vecchia conoscenza del capo. Per ora devi solo limitarti a
fargli avere questo indirizzo.» Demyx gli porge
un biglietto con sguardo eloquente. «Bada bene, non devono restare tracce
in giro. Ci siamo intesi? Comunque, qui è dove Marluxia
lo aspetta per... sistemare una faccenda in sospeso. Ovviamente non saranno
queste le parole che gli rivolgerai, mi spiego?»
«Ovviamente.»
«Bene. Gli dirai che c’è un bel pacco di
roba fresca fresca per lui, se accetta di presentarsi
a...»
«E tu credi che non sospetterà che è una
trappola?» lo interrompe, scettico.
«Pivellino» sorride Demyx,
saccente, «non sei qui per pensare, ma per agire. In quanto a Xigbar, può sospettare quello che gli pare. Il capo
lo troverà comunque, in un modo più o meno indolore. Questo
dipende solo da lui. E adesso datti da fare.»
Axel legge in
fretta l’indirizzo sul biglietto e lo intasca senza aggiungere altro.
Subito dopo si alza, esce dalla siepe e si dirige a quello
che è il suo primo lavoro nella banda di Marluxia.
Sorrise amaramente al biglietto –
così simile a quello di quel giorno di due mesi prima – che
stringeva tra le dita. Questo, però, era indirizzato a lui, ad Axel, non a terzi. Perché rappresentava una scelta
che solo lui doveva fare. E che aveva già rimandato troppo a lungo.
Lasciò scorrere
lo sguardo fino alla finestra di Roxas.
Non si erano più
visti, da quando si erano salutati davanti alla porta del 2A. Le parole di Sora
erano però un ronzio ancora incessante nelle sue orecchie: le aveva
sentite e risentite per ore, e ogni volta non era riuscito a ignorarle come
avrebbe voluto.
E così, Roxas era stato uno skater prodigio. Niente di cui stupirsi
se odiava quel parco con tutte le sue forze: il suo vecchio regno, i suoi
vecchi compagni, tutto lo faceva ripensare a quel periodo della sua vita in cui
le sue gambe avevano assunto uno scopo più importante che camminare o
correre o saltare.
E se era riuscito per
qualche ora a trovare la forza necessaria ad affrontare il ricordo dei suoi
genitori e della sua infanzia, ritrovarsi a fronteggiare anche
quell’ultima e più intima parte di sé doveva averlo destabilizzato
del tutto.
Axel non era impietosito da
quella storia, e non credeva neppure di aver sbagliato a porre Roxas di fronte alle sue debolezze: credeva ancora in ciò
che lo aveva indotto a farlo uscire di casa. Ma nonostante tutto, non poteva
non provare una certa partecipazione nei suoi confronti, forse proprio
perché era l’unico estraneo con cui Roxas
si fosse mai aperto.
Suo malgrado, lo capiva
al punto di arrivare a legarsi a lui.
E questo era assolutamente,
definitivamente, categoricamente sbagliato ed insensato.
D’accordo, un
conto era stato instaurare un contatto, capirlo e farsi capire da lui, in nome
di quel... qualcosa che li rendeva
simili in tutte le loro differenze; ma da qui al diventare amici ne passava di acqua sotto i ponti. Acqua sporca e inquinata,
da evitare come la malaria.
Si ripeté che
sarebbe stata solo una grossa stupidaggine, nella situazione in cui si trovava,
rischiare di affezionarsi a quel ragazzino tormentato, perché... Beh,
perché...
Perché cazzo non mi viene in mente neanche un
fottutissimo, stramaledetto motivo?!
Il flash di un ricordo
gli portò alla mente il visetto smunto di Xion,
l’unica bambina con cui avesse stretto un qualche legame, durante gli
anni trascorsi in orfanotrofio. L’aveva colpito perché era sola e
non accettava la compagnia di nessuno, proprio come lui. Aveva iniziato a
difenderla dagli scherzi dei ragazzi più grandi, e alla fine era nata
tra loro quella sorta di fiduciosa complicità che forse era diventata amicizia. Alla fine, dopo aver passato poco
meno che un anno all’istituto, Xion era stata
adottata, si era trasferita a Traverse Town con la sua nuova famiglia, e lui
non l’aveva più vista né sentita. Ricordava ancora oggi le
parole che quel giorno si era scolpito a forza nella mente.
Non serve a niente farti un amico, se poi te lo portano via.
Che strano. Erano anni
che non pensava a Xion...
Si accorse di aver
stretto con forza il biglietto che aveva in mano fino ad appallottolarlo. Per
un attimo abbassò lo sguardo su quella misera, ridicola pallina di carta
con cui – letteralmente – avrebbe potuto giocarsi una partita sulla
differenza tra la vita o la morte di una persona. Ma fu solo per un attimo,
perché l’impressione di aver colto un movimento alla finestra del
2A gli fece alzare di nuovo la testa.
Roxas aveva appena aperto le
tende ed era apparso al davanzale. La sua stanza fu di nuovo invasa dalla luce
di troppe stelle ignare delle sue notti e delle sue domande.
Smettila di pensare queste stronzate, Axel.
Stai diventando patetico. È lui che ci
sta dentro, non tu!
Il ragazzo ricambiava il
suo sguardo, senza espressione.
Rimasero a guardarsi in
silenzio, ai capi opposti di quel condominio addormentato, a due finestre che
erano due mondi distinti, in due stanze che erano simili tra loro ma che erano
piene di segreti differenti – ma ora condivisi.
Alla fine,
inaspettatamente, Roxas sorrise.
«Hai mai fatto
skateboard, Axel?»
Lui non si chiese se
Sora gli avesse raccontato ciò che si erano detti o se Roxas l’avesse intuito da solo. Si limitò a
rispondergli, con un cenno di diniego della testa.
«No.» Si
sorprese a chiedergli più di quanto pensasse di voler sapere.
«Com’è?»
Anche a quella distanza,
vide che il sorriso di Roxas era triste come non mai.
«Non potrei
spiegartelo a parole. È una sensazione che devi provare, per poterla
capire. Non è tanto il poter dire di avere un bell’equilibrio, di
conoscere mille tricks
e di saper saltare più in alto di tutti; è più quello che
tu senti in quel salto, quello che
trovi quando sei arrivato lassù, in bilico sulla tua tavola. È
quello, a renderlo unico.»
Axel capì che non
c’erano parole con cui potesse anche solo cercare di rispondergli.
In quel momento si rese
conto che Roxas gli stava svelando anche il suo
ultimissimo rimpianto, l’ultimissimo segreto che avesse tenuto tale.
Perché a lui?
Perché loro due?
Non serve a niente farti un amico, se poi te lo portano via.
Roxas sembrò di colpo
tornare padrone dei propri pensieri. Nuove parole percorsero la distanza tra le
due finestre.
«A
proposito...» Il ragazzino mosse la sedia a rotelle, già sul punto
di allontanarsi dal davanzale; ma prima gli rivolse un altro breve sorriso.
«Grazie per oggi.»
Axel guardò a lungo
quel sorriso. E si chiese se Roxas non fosse in
realtà molto più forte di quanto lui stesso non credesse, molto
più di Sora, molto più di lui.
Ricambiò il
gesto. «Non c’è di che.»
Roxas sollevò una mano
in un mezzo saluto, poi voltò del tutto la sedia e sparì alla sua
vista.
Come riscuotendosi
dall’effetto di un incantesimo, lo sguardo di Axel
tornò subito a posarsi sul foglietto accartocciato. Lo aveva trovato al
suo rientro all’appartamento, sul davanzale della finestra aperta. Era
sicuro che quella mattina fosse chiusa.
Lo dispiegò e lo
rilesse per l’ennesima volta.
È
per stanotte.
Ricorda:
o con noi, o contro di noi.
Z.
Rivolse a quelle poche
parole un altro sorriso amaro.
Axel non conosceva
ciò che Roxas aveva trovato a suo tempo
nell’equilibrio di uno skateboard. Non aveva mai provato quella
sensazione che lui aveva appena detto di non potergli descrivere. Non sapeva
cosa c’era alla fine del salto, perché non conosceva neppure il
salto stesso.
Lui era solo quello: era
il buio, il nero, il nulla; non aveva dei ricordi ad illuminargli seppur
debolmente la strada, perché non c’era nemmeno una strada.
Non sapeva se era
giusto, non sapeva se era sbagliato. Era solo quello che era. Era così e
basta. Inevitabile; proprio come non aveva saputo impedirsi di parlare con Roxas, di portarlo al parco e di dirgli chi era.
«... Una volta che ci sei dentro, non ne esci
tanto facilmente.»
Con un movimento deciso,
accartocciò di nuovo il foglio. Si alzò di scatto dal davanzale e
attraversò la stanza per andare a spegnere la luce.
Poi, col favore
dell’ombra, andò al comodino in cui aveva cercato di rinchiudere
il suo passato.
Prese la pistola procuratagli
da Zexion e inserì il colpo in canna. Quindi
uscì nella notte, silenzioso e invisibile, sulla scala antincendio.
Considerate che io, di skateboard, non so
un’acca. Per scrivere questo capitolo all’epoca passai qualche ora
sul web ad informarmi in merito, ma naturalmente non posso dire di essere
abbastanza esperta da risultare davvero competente. Se tra i miei lettori si
cela qualche skater, imploro il suo perdono per le scarse fondamenta del
flashback iniziale. ;_;
Axel ha preso la sua
decisione, perciò sappiate che da questo momento in poi le cose si fanno
un po’ più serie. Un po’ dell’introspezione
verrà messa da parte in favore dell’azione. Non subito, ma presto.
Ringraziamenti doverosi a _Ella_ e ChibiSerenity per le loro
recensioni; a Fefechan
per aver aggiunto la storia alle preferite; ad angel15 per avere iniziato a seguirla; e a tutti i miei lettori,
come sempre. Godblessyou all. <3
Disteso in un letto che ormai era suo, in
compagnia di pensieri che avrebbe preferito appartenessero a qualcun altro.
Ascoltava i secondi
scorrere via sommessi nella sveglia e nel buio e si chiedeva quanto ci
avrebbero messo a trovarlo. Perché ormai, ne era certo, era solo
questione di tempo.
Lo avevano rinchiuso in
quella palazzina vuota in attesa dell’udienza. «Arresti
domiciliari» gli avevano detto. Ma nonostante tutte le precauzioni prese
per impedire a lui di uscire e a chiunque altro di entrare, sapeva che niente e
nessuno avrebbe potuto impedire a quel ‘chiunque altro’ di andare a
cercarsi la sua vendetta.
Lui lo conosceva bene.
In un certo senso, gli
era ancora debitore. Lo aveva tolto dalla strada, lo aveva cresciuto, lo aveva
indirizzato alle sfide della vita.
Ma gli aveva anche
chiesto un prezzo, e in quel modo gli aveva strappato l’anima. O quel
poco che gliene era rimasta.
«Ho
un lavoretto per te, piccolo.»
Marluxia fa
scorrere le dita tra i capelli di Demyx, appoggiato
alle sue gambe, e gli sorride dolcemente dall’alto. Il ragazzo solleva lo
sguardo sull’uomo che tanto ha fatto per lui e, come sempre,
rabbrividisce al tocco della sua mano.
«Di che si tratta?»
«Oh, una sciocchezza. Ho notato una ragazzina, qualche
giorno fa. Un viso nuovo. Deve essersi appena trasferita in città, e ha
l’aria dell’adolescente malinconica che non direbbe di no
all’emozione nuova di una dose...»
Demyx sorride
al sorriso allusivo del suo capo. «Capito. Dirò ad Axel di avvicinarla e...»
L’uomo lo interrompe, posandogli lieve un dito sulle
labbra.
«Veramente» sussurra, «pensavo che
potresti occupartene tu.»
Demyx non si
chiede il motivo. Sa che Marluxia ha tutto un suo
modo di pensare, e del resto si fida ciecamente di lui. Annuisce.
«Certo, lo farò volentieri.»
Ora il sorriso si fa sornione.
«Bravo, piccolo.» Infila una mano nel taschino
della camicia firmata e ne estrae alcune fotografie. «Ecco, queste sono
un paio di immagini scattate da Luxord. È
lei.»
Demyx accetta
le foto dalle sue dita e guarda il viso della prossima ‘cliente’.
Il mondo si ferma in quella fotografia che tiene in mano.
Una ragazza sui quindici anni, dalla pelle chiarissima,
avvolta in una felpa di tre misure più grandi che ha l’evidente scopo
di nasconderla per quanto è possibile, siede su una
panchina del parco e guarda con occhi vuoti un punto alla sua destra,
sistemandosi dietro l’orecchio una ciocca di capelli neri come
inchiostro.
Demyx resta
lì per quello che gli sembra un tempo infinito, a osservare il ritorno
del passato e l’inizio della fine.
Non sente più le mani né la voce di Marluxia. Solo l’eco di un rimpianto, e il grido
silenzioso di un’anima che si ritrova perduta.
Ancora adesso, a distanza di due settimane,
aveva quella foto impressa negli occhi e in ogni lacrima che avrebbe voluto ma
che non era più in grado di versare.
Da quel momento in poi
era stato un lento scivolare verso il fondo. Era come se la realtà gli
fosse piombata addosso di colpo; tutto il peso che finora aveva saputo accollare
agli altri – a Marluxia e ai suoi – si
era ritrovato a convergere sulle sue spalle, costringendolo ad aprire gli occhi
che troppo a lungo si era ostinato a tenere chiusi.
Andare alla polizia era
stato un tentativo di rialzarsi, ma non aveva reso le cose più facili,
non aveva attenuato quel macigno.
E la sua vendetta,
invece che intimorirlo, lo allettava.
Sperava che lo trovasse presto, che lo uccidesse
e gli desse almeno il sollievo dell’oblio.
Non aveva detto alla
polizia del ruolo di Luxord nei confronti della
banda. Ora capiva cosa l’avesse trattenuto. Voleva lasciare al suo
vecchio capo la certezza di una spia sicura, che lo avrebbe condotto alla meta.
A lui.
Disteso in quel letto, Demyx ascoltava fuggire il tempo e l’immagine sfocata
della ragazzina che già una volta non aveva saputo salvare.
Ascoltava e aspettava.
* * *
«Ce ne hai messo di tempo.»
Allo sbocco del vicolo,
appena fuori del condominio, Zexion lo accolse con le
spalle al muro e il cappuccio sulla testa. Axel gli
si affiancò e osservò la sua sagoma alla debole luce dei
lampioni.
«Credevo che la
spedizione partisse all’ora delle streghe» sogghignò.
«Non è un po’ presto?»
«Non riesci
proprio a cogliere il lato serio delle situazioni, vero?»
Axel alzò le spalle e
allargò le braccia. «Temo di no. È sempre stato un mio
difetto.»
Zexion
s’incamminò sul marciapiede, allontanandosi dal palazzo, verso
l’intrico buio dei bassifondi della città. Il sarcasmo non
sembrava proprio essere una cosa che rientrasse nelle sue grazie.
«Avanti,
muoviamoci. Abbiamo un bel po’ di strada da fare.»
Mentre lo seguiva
intorno all’edificio, Axel si sforzò di
non pensare a quando, molte ore prima, aveva percorso quello stesso marciapiede
accanto alla sedia a rotelle di Roxas.
Cercò un pretesto
per deviare i propri pensieri.
«È stato Luxord a rintracciare il posto?»
«Già.
Sarà con noi, stanotte. Al posto di Larxene:
lei è stata intercettata. Te l’ho già detto?»
«No.» Le
labbra di Axel si tesero in un sorriso storto.
«Ma non mi sorprende molto.»
Come se condividesse i
suoi pensieri, Zexion riprese il discorso lasciato a
metà.
«Ad ogni modo, un
uomo in più fa sempre comodo... Specie da quando anche Saïx non è più... disponibile.»
Axel non aveva mai
incontrato Saïx, ma sapeva che era stato uno dei
più fidati uomini di Marluxia. Unico adulto in
quel gruppo di adolescenti più o meno complessati, e perciò
– almeno in teoria –
più maturo e più esperto, era tuttavia stato beccato e spedito al
fresco qualche mese prima. Si era sdegnosamente rifiutato di fare nomi, e in
tal modo, oltre agli svariati anni di galera, si era assicurato anche
l’eterna stima di Marluxia.
Svoltarono dietro una
bettola di locale e si addentrarono in una strada totalmente priva
d’illuminazione.
«Saremo comunque
in pochi» considerò Axel a mezza voce,
spaventando un gatto randagio nelle vicinanze che cominciò a soffiare
rabbioso contro di loro. «Tu, io, Luxord e Marluxia...»
Nell’oscurità
quasi completa, un luccichio di denti sotto il cappuccio gli indicò che Zexion stava sorridendo. Cosa alquanto insolita, a onor del
vero.
«Che ti prende, Axel? Hai paura che gli sbirri cattivi ci sopraffacciano?»
Axel sbuffò.
«‘Fanculo, Zex.»
«Ehi, è
solo un’impressione. Di’, piuttosto: hai mai tenuto una pistola in
mano prima d’ora?»
«Non solo
l’ho tenuta in mano. Ci ho pure sparato,
geniaccio. Non ti fidi? Non lo sai che prima di unirmi a questa allegra
compagnia mi sono fatto il culo altrove?»
«Buono, non ti
scaldare.» Zexion fermò le sue frecciate
con un gesto distratto della mano. «Lo so che non è stata una
passeggiata neanche per te. Ti stavo solo stuzzicando un po’.»
Quel neanche, gettato là tra le parole
come per caso, aveva il chiaro scopo di ricordargli che in fondo erano sulla
stessa barca.
Sentendo più che
mai il peso della semiautomatica nella tasca del cappotto in pelle,
cercò nuovamente uno svincolo.
«Allora, vuoi
dirmelo o no dove si è nascosto?»
«In una vecchia villa
disabitata ai confini con la foresta. Luxord e il
capo la raggiungeranno da ovest. Non ci incroceremo neppure; in questo modo
sarà più facile confondere chi di guardia. Il piano è
entrare e uscire con Demyx, al diavolo chi si
metterà in mezzo.»
«E dopo?»
Axel era certo di conoscere
già la risposta. Le sue aspettative trovarono subito conferma.
Lo so, mi odiate xD
Io e la mia mania d’interrompermi sul più bello!
E così abbiamo intravisto anche uno
squarcio del punto di vista di Demyx. Chi è la
ragazzina della foto? Ehh… Immagino che
qualcuno di voi ci sia già arrivato. :P
Scusandomi e vergognandomi per la velocità di queste note (dannato
coprifuoco ;_;) ringrazio di cuore tutti i miei carissimi lettori, e per le
recensioni all’ultimo capitolo Fefechan e fragolottina.
Finito di adempiere ai suoi bisogni fisiologici
in un cespuglio, l’agente Lexaeus si diresse di
nuovo alla sua macchina bestemmiando tra sé.
Maledisse come di
consueto il tenente Lockhart, che l’aveva
spedito là a fare da balia a un moccioso che era stato tanto idiota da
mettersi con un branco di spacciatori. Ufficialmente doveva impedire che il
cosiddetto figliol prodigo cambiasse idea e tentasse la fuga. Ufficiosamente,
doveva verificare che i suoi vecchi amici non si presentassero alla villa per
fargli la festa.
Lexaeus resisteva lì al
suo posto solo in nome del primo risvolto della faccenda, perché del
secondo non gliene importava un emerito cazzo. Fosse stato per lui, avrebbe
volentieri lasciato il ragazzino alle fauci del suo ex protettore. Chiunque
s’immischiasse con quella merda della droga meritava una punizione coi
fiocchi: nessuno lo avrebbe mai convinto del contrario. Ma gli ordini erano
ordini.
Mentre si avvicinava
alla volante parcheggiata appena fuori del cortile, gli sembrò di notare
un movimento nel buio delle siepi circostanti il villino.
S’impose di
tornare al suo ruolo di difensore della legge, e portò subito una mano
alla pistola e l’altra al ricevitore radio che aveva appeso alla cintura.
«Qui Lexaeus» mormorò accostandolo alla bocca.
«Mi ricevete?»
Una lieve scarica, poi
una voce femminile.
«Qui Gainsborough. Ti riceviamo forte e chiaro, parla
pure.»
«C’è
qualcosa di...»
Un dolore improvviso al
petto gli mozzò il fiato e le parole.
Lexaeus abbassò lo
sguardo sulla macchia rossa che si allargava sul suo torace, impregnandogli la
divisa. Sorrise, mentre il ricevitore gli sfuggiva dalle dita.
«Lexaeus?... Lexaeus, che
succede?»
La voce
dell’agente Gainsborough lo chiamò
ripetutamente da un punto nell’erba, ma l’uomo non
l’ascoltava più.
Cadde in ginocchio, la
mano al petto. Sollevando lo sguardo distinse due figure ammantate di buio
camminare furtive verso di lui, lungo il muro che circoscriveva il cortile. Poi
la vista cominciò ad annebbiarsi.
«Ma sì,
andate pure» sibilò, scivolando ancora a terra fino a ritrovarsi prono,
«andate pure a trovare quel pezzo di merda.»
Chiuse gli occhi e si
augurò che anche a quello stronzetto di Demyx
morire facesse male quanto a lui.
* * *
«Presto, fa’ presto!»
AerithGainsborough
premette l’acceleratore fino in fondo. Per fortuna non erano appostati
molto lontano dalla vecchia villa. Eppure aveva la sgradevole sensazione che
per il suo collega fosse troppo tardi.
Nel sedile del
passeggero, l’agente CloudStrife
dava l’allarme via radio a tutte le pattuglie vicine. Era fin troppo
evidente che qualcosa non andava, al nascondiglio del soggetto che avevano in
custodia, e di certo ci sarebbe stato bisogno di rinforzi.
La macchina giunse a
destinazione ed Aerith portò il piede sul
freno così bruscamente che, non fosse stato per la cintura di sicurezza,
sarebbe finita sul parabrezza a fare compagnia ai tergicristalli. Tirò
il freno a mano e si fiondò fuori senza neppure spegnere il motore,
subito imitata da Cloud, con la pistola pronta in
pugno già da un pezzo.
Percorsero in fretta lo slargo
costeggiato di siepi, e raggiunsero il cortile su cui si affacciava il portone
principale dello stabile. Cloud imprecò ad
alta voce.
«Merda...»
La sagoma massiccia
dell’agente Lexaeus giaceva immobile davanti a
loro, e il chiarore della luna inargentava il rosso del suo sangue mescolato
all’erba verdissima del giardino da anni abbandonato a se stesso.
Aerith alzò gli occhi e
vide due sagome incappucciate, intente a forzare la
porta del palazzo. Una di loro si voltò verso di lei e il suo compagno,
il braccio teso davanti a sé. Il cervello dell’agente realizzò
la situazione appena in tempo, e la bocca reagì di conseguenza, con un
grido di avvertimento.
«Giù!»
Lo sparo
attraversò il punto esatto in cui una frazione di secondo prima c’era
la testa di Cloud.
Lui rotolò su se
stesso e, a terra da dove si trovava, ricambiò il fuoco, mancando il
bersaglio. La figura più alta distolse la propria attenzione dalla porta
e si voltò per dare manforte al suo complice. Ci furono altri spari a
vuoto. Aerith gemette. Quei bastardi si muovevano
nell’ombra ed erano armati di silenziatori. Sarebbe stata dura.
In quel momento alcune
deboli luci illuminarono la scena: i fari delle auto della polizia arrivate
sugli altri lati della palazzina, che attraverso i cancelli riuscivano a
filtrare fino al cortile frontale, assieme al suono delle sirene.
Aerith schivò un altro
sparo del più basso dei due uomini e si concesse una speranza.
L’edificio era ormai circondato. Soprattutto, ora potevano vedere la
direzione e la provenienza dei colpi.
All’improvviso,
dal retro della villa giunsero echi di urla e di altri spari.
Questo poteva
significare solo una cosa. Ce n’erano degli altri.
* * *
La giovane donna in uniforme stava dando prova
di voler vendere cara la pelle. Axel schivava a
fatica i suoi tiri. Avrebbe dato qualsiasi cosa per riuscire ad ascoltare
quella piccola parte di sé che gli stava urlando di mollare tutto e
portare in salvo le chiappe prima che fosse troppo tardi. Invece era come
incollato lì, insieme a Zexion, a rischiare di
lasciarci le penne solo perché un idiota aveva parlato troppo e un altro
idiota voleva vendicarsi del primo e...
Si accorse
all’improvviso che Zexion veniva sbalzato
indietro dalla forza dell’ultimo colpo sparato dall’agente biondo.
Il cappuccio gli scivolò via dalla testa, e Axel
vide il sangue schizzare ad avvolgerlo come un abbraccio, come in una scena al
rallentatore. Poi il ragazzo colpì il suolo con la schiena, e il mondo
riprese a scorrere alla velocità normale.
Per qualche istante
tutto rimase sospeso. Il corpo di Zexion a terra, le
dita di Axel sul grilletto, persino i due poliziotti.
Alla fine, Zexion voltò di lato la testa e mosse le labbra, ma
fu dai suoi occhi finalmente scoperti che Axel
capì cosa voleva che facesse.
È finita. Vattene.
Fu sempre dai suoi occhi
che capì che non c’era altro da fare.
Annuì.
Prima che i due agenti
potessero anche solo capire le sue intenzioni, si voltò, corse al muro
di mattoni e lo scalò rapidamente, scomparendo nella notte.
Sentì i passi di corsa
dei due dietro di sé, e anche il sopraggiungere di altri poliziotti che
si mettevano subito sulle sue tracce; ma muovendosi nell’oscurità
che tanto gli era amica non faticò a seminarli tutti.
Solo quando fu ad una
notevole distanza dalla villa si rese conto che stava sanguinando.
* * *
Aerith si chinò sul
corpo immobile, a pochi passi da quello di Lexaeus.
Una lunga ciocca di capelli copriva una buona metà di quel volto
pallidissimo, quasi a voler pietosamente nascondere la fissità dei suoi
occhi aperti su una morte che per lui era giunta troppo presto.
Un ragazzo. Mio Dio, è solo un ragazzo...
Cloud si accosciò al
suo fianco e posò una mano sulla sua. «Sul retro hanno catturato
un uomo. Sospettano che ce ne fosse almeno un altro, ma nella confusione deve
essere fuggito... Non c’è altro che possiamo fare qui.»
Aerith non distolse lo sguardo
da quello spento e freddo del cadavere. Parlò senza riconoscere la
propria voce, né il posto abissale da cui proveniva.
«Perché, Cloud? Perché la vita prima o poi trascina tutti sul fondo? Perché neppure a
questa età si può restare innocenti e al sicuro?»
Gli indicò con un
gesto stanco della mano aperta il corpo riverso dell’adolescente.
Cloud non le rispose,
probabilmente perché non c’era nulla da dire.
Con un sospiro,
l’agente AerithGainsborough
abbassò quelle palpebre gelide su quelle iridi svuotate, e insieme al
collega si alzò per lasciare spazio agli infermieri, già pronti
alla rimozione dei due corpi.
* * *
Uscì dall’ombra solo quando tutto
fu finito, quando le luci e le sirene si furono spente in lontananza. Uscì
dall’ombra in cui si era rifugiato e valutò la situazione con
tutta l’obiettività possibile.
Non c’era stato
abbastanza tempo.
Avevano preso Luxord.
Avevano ucciso Zexion.
Axel, d’altro canto, sembrava
scomparso di nuovo.
Non era saggio azzardare
un nuovo tentativo fin da subito: la villa era stata subito rimessa sotto
stretta sorveglianza, e al posto della guardia eliminata da Zexion
c’erano adesso tre poliziotti. Altri tre sul retro, alla porta che lui e Luxord avevano cercato – inutilmente – di
varcare.
Non che tutte quelle
misure di sicurezza lo spaventassero, ovvio. Ma c’era un tempo per tutto.
Alzò gli occhi
sull’edificio silenzioso, dall’altra parte della strada, e sorrise.
Il suo piccolo Demyx avrebbe dovuto aspettare ancora
un po’.
In quel momento, il
sesto senso di Marluxia gli suggeriva di continuare a
tener d’occhio Axel.
Non era certo di potersi
ancora fidare di lui.
* * *
Demyx aveva ascoltato lo
svolgersi di tutta la scena senza avvertire il bisogno di affacciarsi a
guardarla da una finestra. Si era detto che era soltanto questione di minuti:
solo pochi minuti, e avrebbe pagato con la vita un prezzo troppo doloroso da
sopportare. Aveva sentito l’arrivo della polizia, gli spari, le grida, le
sirene dell’ambulanza, e infine il silenzio. Poi lo squillo del telefono
sul comodino, e la voce del tenente Tifa Lockhart,
colei che si occupava del suo caso, che gli illustrava una situazione che lui
aveva già immaginato da sé e che gli raccomandava più
caldamente del solito di «non
uscire per nessun motivo».
Gli aveva detto anche
che qualcuno era morto: dalla descrizione che gli aveva dato per sommi capi, il
ragazzo aveva intuito che si trattava di Zexion.
Sospirò nel
cuscino e si voltò su un fianco.
Non avrebbe voluto che
si arrivasse a questo.
Non avrebbe voluto che
quella storia cominciasse.
Se solo ci fosse stato
un modo, uno qualsiasi, per tornare a sette anni prima... Avrebbe dato
qualsiasi cosa...
Ma era tardi, ormai.
Rivolse
all’ennesima delle sue notti insonni un sorriso disarmato. Sapeva che Marluxia non si era arreso per sempre, che se si era
allontanato era solo per tornare più combattivo di prima, che quello era
solo l’inizio.
Ora più che mai,
si augurava che tutto finisse, subito.
Per se stesso e per
quella ragazza che non vedeva da così tanti anni.
Mi detesto da morire per aver ucciso Zexion ;_; D’altro canto era l’unico modo per
consentire ad Axel di scappare. La resa di un membro
così determinato della banda dà al nostro piromane motivo di
riflettere, no? Cioè, vale la pena di farsi ammazzare per una storia
simile, in cui lui non c’entra praticamente niente? Ma certo che no. E
poi Roxas resterebbe solo u.ùxD
È stata dura anche cercare di
rappresentare uno scontro a mano armata: per quanti film si possano guardare e
per quanti thriller si possano leggere, certe situazioni non le si può
davvero comprendere se non vengono vissute. Ma spero di essere risultata
perlomeno credibile.
Già che ci sono, specifico una cosa:
in teoria la villa in cui Demyx è nascosto
è quella che vediamo ospitare Naminè in
Kingdom Hearts
II ;)
Ringrazio tutti i miei silenziosi lettori,
in particolar modo Fefechan,
ChibiSerenity
e _Ella_ per le gentilissime recensioni. Non sapete
quanto vi adoro. <3
Con la speranza di continuare a
incuriosirvi, alla prossima settimana!
Quando aprì gli occhi, scoprì di
non ricordare chi fosse.
Sentì il contatto
di una superficie dura e fredda sotto e dietro di sé, e guardandosi
intorno vide che si trovava in una stradina che s’intrufolava nella parte
interna e aperta di un palazzo. Il cortile di un condominio.
Allora riuscì a
snebbiarsi un po’ la mente e i ricordi gli piovvero addosso come tegole.
Quando aveva capito di
essere ferito, quella notte, aveva deciso di rientrare all’appartamento,
che in una prima considerazione aveva pensato di escludere. Là sarebbe
stato probabilmente rintracciato al più presto da Marluxia
– e qualcosa gli diceva che quella non
sarebbe stata una buona cosa – ma almeno avrebbe avuto un tetto sulla
testa. In quelle condizioni, aveva bisogno se non altro di un riparo.
Raggiunto lo stesso
vicolo percorso per uscire, aveva ritenuto più opportuno fermarsi e cercare
di arginare l’emorragia prima che le forze lo abbandonassero. Sedendosi a
terra aveva avuto un capogiro, che gli aveva ricordato quanto sangue avesse
già perso.
Si era sfilato il
cappotto e ispezionato la ferita, un piccolo foro di proiettile poco al di
sotto della spalla destra. Chissà se era stato uno sparo della donna o del
giovane che era con lei. Ma per fortuna era stato colpito di striscio, e non
molto in profondità. Non avendo altro a disposizione, aveva strappato
una manica della maglia che indossava e l’aveva legata attorno al
braccio, sulla ferita, cercando di stringere il nodo il più possibile
con i denti.
Prima che riuscisse a
rialzarsi e a superare il vicolo e il cortile per rientrare com’era
uscito, la stanchezza lo aveva vinto, e si era assopito contro il muro.
Il cambiamento di luce
gli indicò che adesso era mattina.
Axel afferrò con dita
incerte il cappotto che aveva ancora sulle ginocchia e se lo gettò sulla
spalla. Poi fece forza sulle mani e sui piedi e si alzò lentamente. Una
fitta tutta nuova testimoniò che il dolore non si era affatto spento.
Soffocò un gemito e una bestemmia e pian piano cominciò a
muoversi, un passo dopo l’altro. Negli occhi aveva ancora il corpo di Zexion che cadeva nell’erba e nel suo stesso sangue.
Si sentiva debole.
Sperò di essere ancora in grado di arrampicarsi sulla scala antincendio
fino al secondo piano. Non aveva nessuna voglia di entrare dal portone
principale, sotto gli occhi indagatori di Vexen, e di
dargli spiegazioni.
* * *
Quando aprì gli occhi, la prima cosa che
vide fu l’ombra indistinta di suo fratello stagliata contro la parete.
Pensò assonnato
che un’ombra su un muro era un buon modo per rappresentare il suo stato
d’animo più recente: una lama nerastra in campo bianco, un
riflesso cui era stata strappata l’essenza.
Subito dopo pensò
che il poco sonno gli faceva pensare cose che avrebbe preferito non pensare. Cose
patetiche, a dirla tutta.
Sbadigliò e si
stropicciò gli occhi. Aveva faticato molto ad addormentarsi, quella
notte. Troppe cose da affrontare in una volta sola... L’uscita al parco,
il momento in cui aveva cercato di spiegare a Kairi
“che tipo fosse quell’Axel” senza
rivelarle troppo, il rientro di Sora e il suo sorriso silenzioso e vagamente
imbarazzante. E poi il momento in cui, condiviso con lui anche l’ultimo
segreto, aveva sentito la necessità di ringraziarlo, perché
nonostante tutto, per qualche motivo che ancora gli era difficile spiegarsi, Axel aveva saputo scavarsi una breccia tra i suoi demoni, e
in cambio gli aveva mostrato i suoi. Uno scambio equivalente, a dimostrare che
nessuno dei due era davvero solo.
E anche se gli aveva
fatto male, capiva che gli era servito.
Forse era servito a
entrambi.
Rimase immobile in
quella posizione, a osservare il soffitto e a ricordare il racconto di Axel su un mondo di vita dura che lui non riusciva quasi ad
immaginare, fino a quando sentì la presenza di Sora accanto al letto.
«Rox, sei sveglio?»
Spostò lo sguardo
su di lui, senza muoversi. Suo fratello si stava abbottonando il colletto della
camicia dell’uniforme scolastica stropicciata e aveva l’aria
più indaffarata del mondo.
«Non è
presto per la scuola?» mormorò di rimando Roxas
dal letto, la voce ancora impastata di sonno.
«Già, ma
devo andare a quelle stupide prove di quella stupida recita.» Sora
alzò gli occhi al cielo. «Mi dispiace che anche tu ti sia
svegliato a quest’ora...»
Lasciò la frase
in sospeso, ma il senso era chiaro: se non l’avesse fatto svegliare
adesso, più tardi Roxas non sarebbe stato in
grado di alzarsi dal letto, da solo.
«Non preoccuparti.
Tanto non credo che riuscirei a dormire di più.»
Per una volta, Sora non
dimostrò la solita sollecita preoccupazione, ma accettò le sue
parole con un unico sorrisetto comprensivo. Roxas gli
fu grato di quel silenzio.
Puntò le mani sul
materasso e con la forza dell’abitudine – poiché quella
delle gambe gli mancava – iniziò a sollevarsi con il busto. Sora
abbandonò subito l’uniforme e si chinò ad aiutarlo.
Quella di alzarsi al
mattino era diventata un’operazione tristemente familiare, ma alle volte
gli procurava ancora quella sensazione opprimente di totale, impotente sottomissione. Sora lo aiutò come ogni
giorno in tutte le fasi di quella routine da dividere in due, e si
allontanò solo dopo che lui fu sulla sua sedia, con i jeans già
indosso.
«Senti, ti
dispiace se non ti aspetto? Sono già un po’ in ritardo e...»
Roxas afferrò la felpa
pronta ai piedi del letto. «Certo che no, vai pure.»
«Sei grandissimo.
Ti lascio la colazione pronta, ok?»
Gli concesse un sorriso.
«Ok, grazie.»
Sora si fermò
nell’atto di allacciarsi la cravatta e lo soppesò per un secondo
con lo sguardo, quasi vedesse qualcosa di inedito nel suo viso.
«Sai...»
S’interruppe, quindi sorrise a sua volta. «Quel ragazzo, Axel... Secondo me ti fa bene.»
Era la prima volta che
affrontavano apertamente l’argomento ‘Axel’,
e Roxas si sentì subito a disagio. Ma il
fratello non gli lasciò il tempo di ribattere: era già uscito di
corsa dalla camera da letto, destinazione cucina.
Rimasto solo, Roxas sospirò profondamente e scosse la testa, come a
scacciare un pensiero fastidioso. S’intrufolò nella felpa e ne
riemerse scompigliandosi i capelli. Per caso o forse per destino, il suo
sguardo si posò sulla finestra, nella parete dritto di fronte a lui.
Oltre le persiane
socchiuse vide qualcosa che lo spaventò.
Axel era sul pianerottolo della
scala antincendio. Gli dava le spalle, ed era in procinto di scavalcare il
davanzale della sua finestra al 2B; ma una qualche difficoltà rendeva i
suoi movimenti incerti, quasi tremanti. Non fu la sua presenza sulla scala a
colpire Roxas, ma il cencio stretto al suo braccio,
quasi all’altezza della spalla.
Era macchiato di rosso.
Si mosse senza neanche
accorgersene. Spinse velocemente la sedia fino alla finestra e la
spalancò, ante e persiane, in modo che il rumore inducesse Axel a voltarsi.
«Che cavolo è successo?!»
Lo sguardo verde del suo
dirimpettaio si fermò su di lui, ma era come se guardasse oltre. Il
cappotto nero abbandonato sulla sua schiena rendeva la sua figura persino
più sinistra del solito.
«Ah, ciao,
bimbo.» Anche la sua voce era
impastata, ma certo non per via del sonno. Roxas
distinse le sue parole solo in virtù del completo silenzio tipico del
lunedì mattina. «Niente di che, ho solo avuto un... ah...
inconveniente. Alla festa di stanotte abbiamo fatto un po’ di baldoria,
sai com’è...»
Il ragazzo si sentì
assalire da un debole ma terribile sospetto.
Pregando che dalla
stanza accanto Sora non si accorgesse di niente – non gli andava proprio
che restasse di nuovo coinvolto in quella storia di cui lui per primo avrebbe fatto a meno – si sporse in avanti sul
davanzale e diede ad Axel un ordine preciso.
«Vieni qui,
forza.»
Il rosso si
appoggiò con aria esausta al parapetto della scala antincendio. Sorrise,
ma non riuscì a recuperare del tutto il suo solito atteggiamento
ironico.
«Cosa
c’è? Vuoi giocare al dottore?»
«Piantala di dire
cretinate e vieni qui.»
Axel sbuffò, ma
cominciò ad avvicinarsi, portando la mano sinistra a sostenere il
braccio destro. Era evidente che la cosa era più seria di quanto volesse
dare a vedere. Quando fu abbastanza vicino, Roxas si
rese conto che quello che gli era sembrato uno straccio era in realtà
una manica della sua stessa maglia, strappata e annodata attorno al braccio a
mo’ di fasciatura.
Ritrasse la sedia dalla
finestra.
«Entra e fammi
vedere.»
«Ma allora avevo
ragione.» Axel sogghignò di nuovo,
puntando il gomito destro sul davanzale e guardandolo con malizia. «Vuoi davvero giocare al dottore.»
Roxas si sentì
arrossire. «Sei proprio un idiota.»
«Grazie, bimbo,
anche tu non sei male.»
Si tirò su ed
entrò dalla finestra. Una volta posati i piedi a terra, si guardò
intorno ostentando indifferenza – ma Roxas
notò che il suo viso era decisamente pallido. Lasciò scivolare il
cappotto sul pavimento.
Un tonfo metallico.
Roxas guardò
interrogativamente prima il viso impassibile di Axel,
poi il punto in cui l’indumento aveva toccato terra. Da una tasca
sbucavano pochi centimetri di qualcosa di lucido e scuro.
La canna di una pistola.
Una traccia di paura gli
provocò un innaturale freddo, mentre il sospetto di poco prima si
rafforzava.
«Voleva che li aiutassi a... a regolare i
conti con quello che vi ha traditi, vero?...»
«Sei sveglio, bimbo.»
Capì
all’istante cosa fosse successo quella notte, e come avesse fatto Axel a procurarsi quella ferita.
Lo guardò di
nuovo in viso, ma lui non sembrava intenzionato a spiegargli la presenza di una
pistola in quell’appartamento, come d’altronde non sembrava
intenzionato a volerla nascondere. Forse capiva che lui aveva intuito tutto da
solo, o forse non gliene importava un accidente. Già, la seconda ipotesi
era la più probabile.
Per il momento, Roxas decise di soprassedere. Nonostante tutto, non se la
sentiva di lasciarlo in quelle condizioni.
Gli si avvicinò e
cominciò a sciogliergli la manica dal braccio.
«Ehi, guarda che
sto bene.» Axel lo guardava dall’alto in
basso. «Te l’ho detto, niente di preoccupante. È solo un
po’ di sangue.»
Il ragazzo lo
ignorò e scoprì del tutto la ferita. Non era particolarmente
profonda, ma non andava comunque sottovalutata. E continuava a sanguinare.
«Ci vorrebbero dei
punti» mormorò, tamponando di nuovo il poco flusso con il tessuto
già imbevuto di sangue.
Axel ritrasse il braccio
come se si fosse scottato. Il suo sguardo si fece minaccioso.
«Già.
Adesso mi presento in un pronto soccorso con una ferita da arma da fuoco, e
già che ci sono gli racconto anche del giretto che mi sono fatto
stanotte dal mio vecchio amico Demyx.»
Il sospetto divenne
certezza assoluta. Tuttavia Roxas si sforzò di
tenere a bada l’istintiva fitta di paura e di rabbia, e rimandò
ancora una volta quel che avrebbe voluto sputargli
in faccia.
«E va bene.
Aspetta qui.»
Lasciandosi alle spalle
la manica sporca di rosso e l’espressione perplessa
dell’adolescente, manovrò la sedia a rotelle verso la porta e poi
fuori attraverso l’appartamento, fino alla cucina.
Sora era pronto per
uscire, ma stava ancora lottando con i contrattempi dell’ultimo minuto:
la cartella che non ne voleva sapere di chiudersi. Alzò gli occhi su di
lui.
«Ehi, stavo giusto
per chiamarti. Allora io vado.»
Non aveva evidentemente
sentito nulla di quanto era accaduto due porte più in là. Roxas ringraziò il cielo tra sé e gli
sorrise, augurandosi di apparire naturale.
«Va bene. A
stasera.»
Mentre Sora si cacciava
su una spalla lo zaino ancora semiaperto e spalancava la porta, lui si era
già diretto al soggiorno, ignorando completamente la colazione pronta
sul tavolo. Rintracciò quello che gli serviva mentre i passi di corsa di
suo fratello echeggiavano lontani sulle scale.
Tornò
in camera e trovò Axel che, seduto sul letto
di Sora, si premeva di nuovo la manica strappata sulla ferita e osservava la
stanza con l’aria di chi è appena arrivato in un posto che mai
avrebbe pensato di poter vedere. Al suo ingresso, il rosso si voltò e i
suoi occhi scivolarono sull’ago, filo, alcool e cotone che Roxas aveva in grembo.
«Che avresti
intenzione di fare con quella roba?» chiese lentamente, un po’ per
l’evidente dolore, un po’ per l’ancor più evidente
allarme.
Roxas si avvicinò al
letto e gli mostrò l’ago già sterilizzato infilato nel
rocchetto di filo bianco.
«Ricorrere agli
antichi metodi chirurgici.»
Axel lo fulminò con
gli occhi, al punto che il ragazzo si stupì di non essere rimasto
davvero incenerito.
«Stai scherzando,
mi auguro.» Si tirò indietro, appoggiando la schiena alla parete.
«Non ho intenzione di farti da puntaspilli, chiaro?»
«Preferisci il
pronto soccorso, allora?» ribatté Roxas
senza fare una piega.
L’altro
lanciò un paio di sguardi tutt’intorno, come in cerca di una via
di fuga, che però non riuscì a trovare. Forse era perché la
debolezza stava avendo la meglio sul suo istinto di sopravvivenza.
«Non avrai paura?
Proprio tu che vivi col chiaro intento di far paura agli altri?» Con una
smorfia sarcastica, Roxas si avvicinò
ulteriormente e dispose i suoi rudimentali strumenti sul letto, accanto a lui.
«Guarda che so quel che faccio.»
Axel tornò a fissarlo
truce. Evitò la domanda e si concentrò sulla sua ultima
affermazione.
«Ah, davvero?
È una cosa che fai spesso, ricucire la gente?»
Roxas smise di sorridere, ma
riuscì a non distogliere lo sguardo dal suo.
«No. Ma mi hanno
insegnato bene. Mia madre era un chirurgo.»
Calò il silenzio.
Era sempre doloroso
ricordare, ma stavolta quella rabbia che covava in attesa di essere liberata
– fin dal momento in cui gli aveva sentito nominare il
‘giretto’ di quella notte – lo mantenne lucido.
Dopo molti lunghissimi
secondi, Axel sembrò calare le armi, seppur di
malavoglia. Tese il braccio, scoprì di nuovo la ferita e strinse i
denti.
«D’accordo.
Vada per gli antichi metodi.»
«Papà!
Papà, va tutto bene?»
Roxas si
inginocchia accanto a suo padre, sul pavimento della baita. Lui alza la testa e
cerca di sorridergli.
«Sì, Roxas, va tutto
bene. È solo un graffio, vedi?»
Gli mostra il taglio che il coltello, sfuggendogli di mano,
gli ha inciso nell’avambraccio. Il sangue scorre a fiotti. Roxas pensa che non è affatto “solo un
graffio”, ma non osa contraddirlo.
«Però ho bisogno del tuo aiuto.» Il
papà lo guarda seriamente. «Ti ricordi la settimana scorsa, quando
la mamma ti ha parlato dei punti di sutura? E di ciò che si faceva per
rimarginare le ferite prima di quest’invenzione?»
«Sì, ma...»
«Bene, allora: vai a prendere ago e filo.»
Roxas sbarra
gli occhi. Il cuore gli martella furiosamente il petto.
«Papà, ma io non sono capace di...!»
«Ascoltami.» Suo padre gli posa l’altra
mano sulla spalla. Il ragazzino si accorge della sofferenza sul suo viso, ma
l’uomo si sforza visibilmente di restare calmo. «Siamo isolati, lo
sai. C’è una tormenta, l’ospedale più vicino non si
trova in paese, e tua madre e tuo fratello non saranno qui prima di domani.
Puoi aiutarmi solo tu, capisci?»
La paura cresce ancora, e all’improvviso Roxas si accorge di avere il viso invaso dalle lacrime.
Scuote disperatamente la testa.
«Ma io non...»
«Io mi fido di te.»
Nel dolore, il papà ritrova comunque la forza di
sorridere.
E gli dà la forza di tentare.
Quel giorno, a undici anni, Roxas
ricuce per la prima volta una ferita.
È buffo come anche gli eventi tutto
sommato meno importanti del passato tornino alla mente, quando tutto
inspiegabilmente si ripete.
Quella avrebbe dovuto
essere soltanto una bella vacanza in montagna. Invece era partita malissimo,
fin dal primo istante. Un contrattempo aveva fatto sì che la famiglia
fosse divisa, piazzando Sora e la mamma su un autobus che era partito dodici
ore più tardi del primo; poi la bufera di neve, che aveva interrotto
tutti i contatti e le comunicazioni dalla baita che avevano affittato; infine c’era
stato quel piccolo incidente domestico che avrebbe anche potuto avere risvolti
tragici. Roxas ricordava bene il senso di rabbia che
l’aveva colpito dopo che tutto era finito, la consapevolezza che niente era andato come avrebbe dovuto.
Una rabbia simile la
provava adesso, sorda e nascosta, anche se Axel
sembrava non averlo notato.
«Sei...
bravo.»
Roxas ripulì la pelle
nuda del braccio dell’adolescente con un pezzo di cotone asciutto e
rispose in modo automatico, senza alzare gli occhi.
«Grazie.»
Intuì, più
che vederlo, che Axel scuoteva la testa.
«Sono io che devo
ringraziarti, scemo...»
Ci fu un nuovo silenzio,
mentre il ragazzo cominciava ad avvolgergli attorno al braccio la garza ripescata
da un cassetto in bagno.
Alla fine, decise che
era il momento di affrontare l’aspetto della vicenda che finora aveva
evitato.
«E così
l’hai fatto davvero.»
Axel sembrò non
afferrare. «Che cosa?»
Roxas teneva il viso
ostinatamente chino sul suo lavoro. La rabbia pulsò più forte,
nella parte più lontana del suo stomaco.
«Ci sei andato. A regolare i conti.»
Una nuova breve pausa.
Poi, una risposta in un tono ovvio.
«E che altro
potevo fare?»
Roxas terminò la sua
opera di bendaggio e alzò finalmente lo sguardo. Axel
lo stava guardando con un’espressione stanca che non gli aveva mai visto
in faccia. Non si lasciò impressionare da quella novità.
«Che altro potevi fare?» Strinse
più forte la garza che ancora aveva in mano, finché ebbe
l’impressione di ridurla in bricioli. «Potevi lasciar perdere.
Potevi almeno cercare di evitarlo.
Non avevi detto che non hai mai avuto “nessun coinvolgimento serio”
con quella roba?»
Lo spacciatore che non
aveva mai spacciato sorrise. Non il suo solito sogghigno ironico, e nemmeno un
sorriso vero; solo una smorfia che non rifletteva altro che sfinimento.
Parlò come se citasse le parole di qualcun altro.
«Non è
così semplice come sembra, bimbo. Quando ci sei dentro, non è
affatto facile uscirne.»
Si alzò dal
letto, recuperò il cappotto da cui ancora sbucava la pistola e la
sistemò più a fondo nella tasca, per poi incamminarsi verso la
finestra, come se non ci fosse altro da dire.
La rabbia esplose di
colpo.
«Tu non riesci
proprio a capire, vero?»
Axel si fermò,
dandogli ancora le spalle. Roxas gettò sul
letto la garza che aveva stretto allo spasmo e continuò, fremente e
ansante, gli occhi fissi sulla sua nuca.
«No, non capisci.
Potresti avere una vita vera, se solo lo volessi! Solo due giorni fa mi hai
detto che vivere non è solo camminare. Lo so, lo capisco. Ma vivere non
è neanche semplicemente scegliere la via più facile. Tu non sei immobilizzato, tu puoi essere padrone
dei tuoi passi. Allora perché ti ostini a rovinarti la strada in questo
modo?»
«Roxas...»
«Stai zitto!» Ormai stava urlando
contro quella nuca, ma non intendeva fermarsi. Lasciò che tutta la
delusione e la frustrazione gli riempissero la voce. «Stai zitto e fammi
finire! Io mi sono fidato di te, anche se avevo tutti i motivi per non farlo.
Mi sono fidato, al punto che non ho
neppure rivelato a mio fratello chi sei veramente, e non ho aperto bocca poco
fa, quando ho visto quella dannata... cosa
che tieni in tasca. Mi sono semplicemente fidato
– e la sai una cosa buffa? Ho anche
creduto che tu, proprio tu che mi hai fatto uscire alla luce del giorno, non
avessi paura di affrontare la strada più difficile. Ho pensato che non
avresti ceduto a quel ricatto, che avresti capito che ci sono altri modi per
vivere. È stata la prima cosa che mi sono detto, quando ho capito che
non avevi nessun reale interesse per quella storia di droga e di vendette. E
adesso invece mi vieni a dire che non ne
puoi uscire!... Beh, sai che ti dico io? Sei solo un ipocrita! Uno
stramaledetto ipocrita! Io non ho bisogno di te, e tu non hai bisogno di me. E
adesso che hai deciso che la tua vita è quella, che hai rinunciato alle
altre possibilità, perché non te ne torni dai tuoi amici?»
Finalmente Axel si voltò a guardarlo, con uno scatto e un lampo
d’ira negli occhi.
Subito dopo,
però, la sua espressione si fece sorpresa, confusa, incredula.
Solo allora Roxas si rese conto di essere in piedi.
Per un attimo eterno,
tutto rimase sospeso nel vuoto.
Era consapevole delle
proprie gambe piantate a terra, della sedia a rotelle vuota appena dietro di
lui, del proprio respiro che ora era affannoso per un altro motivo. Ma al tempo
stesso, non riusciva ad accettarlo. Perché non poteva essere... Non era possibile.
Poi tutto finì.
Le forze gli mancarono, e lui ricadde sulla sedia, e il mondo tornò
quello che era.
Axel era ancora immobile al
suo posto, a guardarlo come se lo vedesse per la prima volta, incapace di
destreggiarsi in quella situazione che era stata per entrambi un fulmine a ciel
sereno. Roxas chiuse gli occhi, per non vedere le
proprie emozioni riflesse nei suoi, e abbandonò il viso tra le mani.
Axel lo chiamò di
nuovo, e stavolta la sua voce era soltanto insicura.
«Roxas...»
«Vai via»
bisbigliò lui, senza alzare la testa. «Per favore.»
Non era sicuro che l’avesse
sentito, ma non trovava più la voce dentro di sé.
Ancora silenzio, e alla
fine i passi di Axel che scavalcavano la finestra e
si allontanavano sulla scala antincendio.
Roxas riaprì gli occhi
e si ritrovò a guardarsi le ginocchia attraverso un velo di lacrime.
La rabbia nei confronti di
quel tipo che non sapeva apprezzare quello che aveva, che gettava al vento la
sua libertà di scegliere – lui che ne aveva una e si rifiutava
di seguirla – quella rabbia ormai non faceva male neppure lontanamente
quanto ciò che provava adesso.
La confusione più
totale.
Rivolse alle proprie
gambe un sorriso storto e dal sapore di pianto, pensando che quella mattina
Sora aveva espresso un ennesimo giudizio sbagliato.
Della serie massì-siamo-sadici-fino-in-fondo.
Perché farli litigare è sadismo puro, e perché io non
riesco a smettere di far loro del male. Cuccioli
loro. <3 xD
Questa sera sono decisamente di fretta e
vorrei tanto potermi dilungare nel dirvi che la componente pessimistica di
questo capitolo è essenziale ai fini della storia, che Axel avrà un bel rimuginare sull’episodio e
sulle parole di Roxas, che – ma ecco, devo
proprio staccare, accidenti. Questo è un aggiornamento lampo, siate
comprensivi.
Un ringraziamento di vero cuore a Fefechan che ha
recensito lo scorso capitolo e a eleonor97
per aver inserito questa storia tra le ricordate, nonché a tutti coloro
che si limitano anche solo ad aprire i link e a darci un’occhiata. Ogni vostra
lettura è per me un onore. ;///;
Era cominciato tutto
così, al crepuscolo, pochi giorni prima.
Era incredibile che
tutto fosse accaduto in così poco tempo.
Un ragazzino si era
affacciato ad una finestra e gli aveva parlato, e lui gli aveva detto
più o meno chiaramente di non impicciarsi in affari che non lo
riguardavano. Sembrava la storia più vecchia e più facile del
mondo – una persona che diceva ad un’altra di stare alla larga e
che, lei per prima, finiva col fare l’opposto. Invece, era stata una svolta di cui non s’intravedeva ancora
la fine.
Axel era seduto contro il
muro, nell’angolo del pavimento più lontano dalla finestra. Aveva
passato le ultime ore fermo in quella posizione, braccia sulle ginocchia e
mento sulle braccia, e ancora non era riuscito a guardare altrove, né a
pensare ad altro che non fosse l’episodio di quella mattina
all’appartamento 2A.
Tra le parole di Roxas ed il vederlo là in piedi ad urlargli addosso,
non sapeva dire cosa lo avesse colpito di più.
«Io mi sono fidato di te, anche se avevo
tutti i motivi per non farlo...»
Ricordava bene che, il
giorno in cui aveva assistito a parte del suo incontro con Zexion,
Roxas gli era sembrato deluso. E ricordava che aveva
giudicato quell’impressione un’idiozia, perché loro non erano amici, e non dovevano, non
avevano il diritto di aspettarsi
qualcosa l’uno dall’altro. Ma se quella gli era apparsa come
delusione, non era nulla al confronto di ciò che aveva visto oggi.
E adesso sapeva anche
cosa aveva provato quando, in quel parco assolato, lui gli aveva raccontato la
sua storia.
«Gente come te non ha mai capito niente della
vita.»
In quelle parole non
c’era solo disapprovazione – cosa che Axel
aveva già capito allora. C’era – e questo l’aveva
capito soltanto oggi – un ragazzo che non poteva più fare
ciò che voleva, che si trovava davanti a uno che invece metteva le sue
possibilità su una strada chiaramente sbagliata.
Forse era solo rabbia,
forse anche una gelosia inutile. Ma certamente era delusione. Una delusione tale da dare a Roxas
la forza di alzarsi su quelle gambe che da due anni non lo sostenevano
più.
Una cosa era certa:
amici o no, quel ragazzo aveva finito per l’aspettarsi davvero qualcosa
da lui. Qualcosa di cui Axel non si era dimostrato
all’altezza.
Distolse di colpo gli
occhi dalla finestra, e fu come cercare di sfuggire a uno sguardo azzurro e
spento.
«... Adesso che hai deciso che la tua vita
è quella...»
Si sfiorò
distrattamente la medicazione che gli aveva fatto nonostante il risentimento nei
suoi confronti.
La strada più
facile... Così l’aveva chiamata.
E dire che quella strada
non lo aveva portato da nessuna parte.
Forse lo aveva capito Demyx, che a un certo punto aveva deciso di cambiare
direzione.
Forse lo aveva capito Zexion, nel momento in cui aveva versato il sangue e la
vita.
Le uniche mete che
avevano raggiunto erano quelle che erano: adesso l’uno era costretto a
vivere guardandosi le spalle e l’altro, per aver cercato di evitare la
fine del primo, non viveva più.
E la sua meta, qual era?
Sapeva già come
sarebbe andata a finire se non avesse lasciato il condominio. Marluxia si sarebbe rimesso in contatto con lui e gli
avrebbe di nuovo proposto quello che – Roxas
aveva ragione – era essenzialmente un fottuto ricatto. A quel punto, o
annullarsi, o pagare.
Entrambi i casi
equivalevano a morire.
Axel strinse il tessuto dei
pantaloni tra le dita. Non poteva finire così. Dopo un’infanzia insofferente
e dura, un’adolescenza di stenti e infine quegli ultimi pochi giorni di
seminormalità, sentiva di non volersi lasciar scivolare fino alla fine.
Sentiva che forse c’era
qualcos’altro. Sentiva di dovere qualcos’altro a se stesso,
stavolta.
A se stesso e a un
ragazzino che si era fidato di lui.
E che ora doveva essere
il primo a conoscere la sua scelta.
Con un moto improvviso
di determinazione, si alzò, si sforzò d’ignorare il torpore
delle gambe dovuto alla prolungata immobilità, e si diresse alla
finestra.
Non lo aveva più
visto in tutto il giorno. Anche adesso, le tende del 2A erano tirate, a
nascondergli alla vista quella camera in cui tutto era cominciato, o già
finito. Immaginò che Roxas fosse talmente spossato
dall’episodio del mattino da chiudersi in se stesso ancor più del
solito, evitando tutto e tutti. Axel avvertì
una nuova partecipazione nei confronti di quel quindicenne che stava perdendo
se stesso, oltre all’unica persona con cui si fosse mai trovato uno
spiraglio, e che quel giorno, all’improvviso, si era ritrovato in una
situazione tanto imprevista – in
piedi: una cosa così normale per molti altri, e tuttavia così
assurda, addirittura sconvolgente, per lui.
Si chiese se quella
partecipazione potesse essere definita amicizia.
Dopo un ultimo sguardo
colpevole alla fasciatura, uscì di nuovo sulla scala antincendio.
* * *
Era stata dura tenersi tutto dentro. Non era
neanche sicuro di esserci riuscito, in realtà. Ma né Sora
né Kairi avevano ancora fatto domande, e lui
si concesse di prenderlo come un fatto positivo.
I due sedevano al tavolo
del soggiorno, circondati da libri di scuola, impegnatissimi
nell’ultimo ripasso per la verifica di storia del giorno seguente. A poca
distanza dal tavolo, Roxas era stanco di tracciare sull’album
che sorreggeva con le ginocchia quei segni che ormai si rivelavano essere
sempre skateboard o pistole fumanti; ma non riusciva a distrarsi dai suoi
pensieri neppure stando ad ascoltare le imprese di Re Mickey detto il
Magnifico.
Sospirò
profondamente. Se solo ne avesse avuto la possibilità, sarebbe potuto
almeno ricorrere al vecchio espediente di uscire a fare un giro e sgranchirsi
le gambe.
Il ricordo del momento
in cui si era scoperto sui propri piedi, mentre urlava la sua rabbia alla
schiena di Axel, lo colpì per l’ennesima
volta con la stessa immutata forza.
Anche questa era una
cosa che aveva tenuto nascosta in tutti i
modi a Sora e Kairi. Sarebbe stato troppo, assistere alle loro espressioni
sconcertate, speranzose, forse persino entusiaste.
Non era proprio in
vena...
Proprio in quel momento
Sora si trovò a sollevare lo sguardo dal fascio di appunti, e dovette
notare qualcosa di quei pensieri dalla sua espressione.
«Ti senti bene, Rox?»
Cercò di
scuotersi. «Io... Certo. Perché?»
«Sei di nuovo
assente...»
Roxas alzò le spalle e
abbozzò un’espressione annoiata. «Oh, scusami se la storia
non è proprio il massimo dei miei interessi.»
Kairi rise, e il momento di
tensione passò. Incredulo di tanta fortuna, Roxas
ne approfittò per cercare di defilarsi.
«Sarà
meglio che vada a prendermi un libro» si sforzò di sorridere,
allontanando la sedia verso la porta del soggiorno. «Vediamo se
così riesco a distrarmi dai vostri apprendimenti.»
Non ritenne opportuno
specificare che c’era qualcos’altro
da cui aveva bisogno di distrarsi.
Sora e Kairi risero ancora e tornarono allo studio, mentre lui
raggiungeva il breve corridoio che portava alla camera da letto.
Sospirò di nuovo.
Tanto valeva mettersi a leggere qualcosa per davvero, anche se dubitava che
potesse servirgli.
Fermò la sedia
davanti alla porta, l’aprì ed entrò accendendo la luce. Si
mosse subito verso la libreria, evitando con tutte le sue forze di volgere gli
occhi alla finestra, aperta ma celata dalle tende.
Fu un rumore di dita
picchiettate sul davanzale ad indurlo a farlo.
Fuori era quasi buio, ma
non aveva bisogno di vederla per intuire la presenza di Axel.
«Ehi, Roxas. So che ci sei. Ti ho sentito entrare.»
Il ragazzo si
bloccò al suo posto e scagliò mille anatemi mentali ai cigolii
delle ruote della sua sedia e al lampadario acceso sul soffitto, prove che
rendevano inconfutabili le parole dell’altro. Rimase immobile e in
silenzio, sperando che demordesse alla svelta, ma anche con una punta di
scettica curiosità: che diavolo aveva ancora da dirgli?
Come in risposta alla
sua tacita domanda, Axel continuò a parlare
con decisione.
«Senti, non mi
importa che tu ti affacci a questa finestra, o che mi risponda. Mi basta che mi
ascolti. Perché voglio dirti una cosa.» Una pausa. Dal tono con cui
pronunciò le parole seguenti, Roxas se lo
immaginò sospirare e scuotere la testa. «Non so bene perché
lo faccio, ma voglio farlo. Devo
farlo. Domani mattina, come prima cosa, andrò alla polizia.»
Al di qua delle tende, Roxas sgranò gli occhi e continuò a tacere.
Dopo un altro breve
silenzio, che stavolta sembrava di riflessione, Axel
aggiunse qualcosa che il ragazzo sentì a fatica, tanto la sua voce era
bassa oltre le tende.
«So che ce
l’hai con me, ma non ti sto dicendo questo per farti cambiare idea sul
mio conto. Volevo solo che sapessi che ho capito. E... E che mi
dispiace.»
Roxas si accorse di star
praticamente stritolando l’album che aveva ancora con sé. Non ebbe
il tempo di chiedersi a cosa si riferisse – se alla sua vita o
all’averlo coinvolto in quella storia o a tutto quanto. Sentì i suoi passi allontanarsi sulla
superficie metallica della scala antincendio, e il suo sguardo si posò
quasi automaticamente su qualcosa che era rimasto sul letto fin dalla mattina. Un
disegno che Sora non avrebbe mai dovuto pescare dall’armadio...
Nello stesso istante,
fece la sua scelta.
* * *
Axel era già alla
metà del pianerottolo, a chiedersi se Roxas
fosse consapevole di non aver nulla da invidiare a suo fratello, dal momento
che lui stesso aveva avuto tanta
forza da riuscire a penetrare nel mondo fallito di qualcuno che non sapeva che
farsene della propria vita – quando sentì alle sue spalle il
fruscio delle tende che si aprivano.
Si fermò e si
voltò.
Dalla sua stanza, Roxas lo guardava in silenzio, con l’aria di chi
combatte duramente contro se stesso. Fino a vincersi.
Poi sollevò una
mano, mostrandogli quello che sembrava un pezzo di cotone.
«Torna qui»
mormorò. «Ti controllo il braccio.»
Axel sorrise appena.
S’incamminò
di nuovo verso di lui. Quando fu abbastanza vicino, vide che negli occhi di Roxas c’era, se non un sorriso in cambio, almeno un
chiarore di serenità. Almeno in quel momento, le ombre che sempre lo
avevano oppresso sembravano lontane, e l’azzurro appariva meno spento.
* * *
Le parole smisero di viaggiare nella sera fino al
cortile, lasciando il posto a un silenzio condiviso e pieno di cose a lui
precluse. L’uomo si ritrasse nell’ombra fino a confondersi con
essa.
Il suo sesto senso non
sbagliava mai. Aveva fatto bene a seguirlo.
Affondò i pugni
nelle tasche, scoprendo che questa volta le sue mani erano fermissime. Non
provava neppure lontanamente ciò che gli aveva procurato il tradimento
di Demyx. A lui
aveva dato tutto, in nome di quell’irresistibile quanto inutile istinto
umano che non aveva spiegazioni; lui
era stato la sola vera ferita, perché era l’unico di cui gli fosse
importato davvero qualcosa.
Axel era diverso. Era solo
un misero insetto il cui veleno intrinseco gli aveva finora fatto comodo, ma
che poteva essere schiacciato senza rimpianti, quando fosse diventato troppo
fastidioso. O autonomo. O entrambe le cose.
Un sorriso storto
affiorò alle labbra di Marluxia.
L’amicizia era davvero solo per gli stupidi. Anche il ragazzino sulla
sedia a rotelle l’avrebbe imparato presto, e a proprie spese.
Puff, puff! Smetto dieci minuti di studiare giusto per aggiornare
la storia, ricordandomene all’improvviso ._. Perdonate la
celerità, ma sono davvero nei casini, ho quattro esami tra due settimane
e non so più dove sbattere la testa quando me la sento scoppiare come
ora. -_-
Cooomunque, ecco che Axel inizia ad avere dei ripensamenti! Come andrà a
finire? Intanto vi suggerisco di preparare i missili anti-Marluxia,
così siete perlomeno preparate. ;)
Ringrazio tanto tanto di cuore i miei lettori, ale94 per aver inserito questa storia
tra le seguite, e infine – non per importanza – per le recensioni BlackRuri, _Ella_ e ChibiSerenity – grazie anche
per aver aggiunto la storia alle preferite, Chibi, davvero
è un onore ;////;
E adesso scappo di nuovo…
Sperando di avere un po’ più tempo per dilungarmi [in eventuali
spoiler] la prossima volta xD
Roxas si svegliò
all’alba e una minuscola parte del suo cervello si rivelò tanto
razionale da ricordargli che era martedì.
La restante percentuale
della sua testa ignorò completamente l’informazione e tornò
a sguazzare nell’irrazionalità, o in quel cavolo che era.
Si ritrovò a
percorrere ancora una volta gli avvenimenti delle ultime ore e degli ultimi
giorni. E purtroppo per lui, quel nastro scorreva veloce, rendendo le immagini
un intrico confuso in cui era difficile ritrovarsi.
Nel letto accanto al
suo, il respiro di Sora era calmo e regolare; era il sonno giusto di chi dorme
di sogni ignari. Roxas represse un sorrisetto ironico
al pensare a quanto fosse costata a lui l’ignoranza di suo
fratello.
Da che ricordasse, non
gli aveva mai mentito o nascosto nulla. Gli ultimi due anni erano stati silenzi
e scontri più o meno dichiarati, ma mai bugie né segreti. Forse
era cominciato tutto da quel maledetto disegno che Sora aveva ripescato
dall’armadio.
Forse era cominciato
tutto con Axel.
Gli occhi verdi e
dannati di quella specie di confidente gli attraversarono la mente, subito
seguiti dal suono lontano di poche parole mormorate al riparo di una tenda
leggera.
«Non so bene
perché lo faccio, ma voglio farlo.»
A Roxas
non importava sapere se Axel stesse facendo un
bilancio della propria esistenza in virtù dei loro confronti o in vista
della sua sicurezza personale; quello era un aspetto assolutamente secondario. Ogni cosa, in quella situazione
così assurda, diventava secondaria, lasciando il passo soltanto al
significato assunto da quella decisione.
L’aveva detto lui
stesso: Axel aveva capito. E gliel’aveva
detto per dimostrargli che alla fine aveva trovato il coraggio di fare una
scelta.
E, forse, per dirgli che
quel coraggio poteva trovarlo anche lui.
Perché vivere non
era solo camminare o correre o saltare...
Un’improvvisa
consapevolezza gli fece accelerare i battiti del cuore.
Lui poteva
farcela. Come ce l’aveva fatta ad uscire da quel suo piccolo mondo
chiuso. Come ce l’aveva fatta a fidarsi di Axel.
«Non so bene
perché lo faccio, ma voglio farlo.»
In fondo, cos’era
la vita se non una questione di volontà?
Roxas voltò la testa
sul cuscino e guardò l’orologio appeso al muro. Quasi le sette.
Aveva tempo. Poteva farlo.
Abbassò di nuovo
gli occhi sul letto di Sora, e capì anche che voleva farlo da solo. Solo
con Axel.
Perché
così era cominciata.
Scostò le coperte
e si sollevò sui gomiti, quindi ricorse a quell’abitudine che
ormai gli aveva reso facile l’operazione di alzarsi a sedere sul letto.
Ruotò lentamente
con tutto il corpo fino a spostare le gambe inerti e a posare i piedi al suolo,
con un fruscio morbido che si perse nel tappeto. Si sporse ad afferrare i
vestiti già pronti su una sedia accostata al comodino. Il difficile
arrivò con i pantaloni, ma non aveva intenzione di lasciarsi scoraggiare
fin dal primo ostacolo. Non adesso. Forse non più.
Si chinò e,
aiutandosi con le mani, alzò un piede alla volta. In qualche modo
riuscì ad infilarsi i jeans fino alle ginocchia. Allora si distese di
nuovo con la schiena sul letto, strinse i denti, puntò i piedi immobili
e con tutta la forza possibile sollevò il bacino, sostenendosi con una
mano e concludendo quell’inusuale vestizione con l’altra.
Alla fine si
lasciò ricadere e rimase per qualche istante così, a recuperare
il fiato.
Dal viluppo di lenzuola
nel letto accanto giungeva adesso un respiro ancor più profondo, segno
che suo fratello non solo non si era accorto di nulla, ma era ad un passo dal
mettersi a russare. Il pensiero lo fece sorridere. Il primo sorriso sincero da
tanto, tanto tempo.
Si allacciò i
jeans in vita e si alzò di nuovo a sedere. La vera sfida cominciava
adesso.
Guardò la sedia a
rotelle ai piedi del letto. Ringraziò il cielo che Sora, la sera prima,
l’avesse sistemata lì, non troppo distante dalla sua portata.
Rivolse alla sua vecchia amica-nemica un altro sorriso.
Sta a noi due, adesso.
Ancora una volta grazie
al solo aiuto delle mani, il suo unico vero supporto, cominciò a
scivolare verso l’estremità del letto. Questo fu più facile
e certo meno stancante, o magari era solo che si stava abituando; si
fermò dove gli era possibile toccare la sedia e a quel punto si protese
a farla avanzare sulle ruote, pregando che non cigolassero troppo, fino ad
avvicinarsela alle ginocchia.
Allora si fermò e
prese un respiro profondo. L’aveva già fatto una volta,
inconsapevolmente. Questa volta era consapevole di volerlo fare.
Di poterlo fare.
Scacciando la
frustrazione e le circostanze che lo avevano fatto ritrovare in piedi poco
più che ventiquattro ore prima, afferrò uno dei braccioli, lo
strinse e si impuntò di nuovo.
Si sollevò dal
letto.
Due secondi dopo ricadde
a sedere.
Sora levò un
gemito di fastidio, ma non si svegliò.
Roxas si sforzò di
calmare il respiro ansante. Guardò di nuovo la sedia con
ostilità.
Ah, è così
che la metti.
Stavolta non si concesse
riposo e provò di nuovo.
E ancora. E ancora. E
ancora...
Tre minuti dopo era di
nuovo abbandonato sul dorso, a braccia aperte, esausto.
Non poteva arrendersi.
Non era giusto.
Guardò ancora
l’orologio. Le sette e un quarto. C’era ancora tempo.
«Non so bene
perché lo faccio, ma voglio farlo.»
Anch’io voglio
farlo.
Perché vivere era
ben più che camminare e correre e saltare...
Chiuse gli occhi,
strinse i pugni e ricominciò daccapo.
* * *
Axel sbadigliò e
aprì un occhio. Da uno spiraglio tra il cuscino e il materasso vide una
luce fioca illuminare la stanza. In un primo momento non capì cosa lo
avesse svegliato; poi il suono si ripeté.
Qualcuno bussava alla
porta dell’appartamento.
Di colpo fu
completamente sveglio e tirò fuori la testa da sotto il cuscino,
fissando la porta aperta sul corridoio in penombra che conduceva alla cucina e
da lì all’ingresso.
Da quando viveva in quel
condominio, mai nessuno aveva bussato alla sua porta.
Del resto, i possibili
visitatori
del suo nuovo alloggio non erano molti.
In effetti si riducevano a tre: quella vecchia sanguisuga di Vexen, il suo ex capo in cerca di giustizia personale e
– forse – la polizia.
Tutt’e tre i casi
non promettevano niente di buono.
Il bussare
echeggiò di nuovo nel silenzio, e d’istinto Axel
guardò la svegliasul comodino. Le sette e venticinque.
Chiunque tu sia, ti
assicuro che perderai quest’abitudine del cazzo di svegliare la gente
all’alba.
Si alzò e, con i
soli pantaloni addosso, si risolse ad andare ad aprire.
Lasciò che il
cervello ancora assonnato si snebbiasse vagliando ciascuna delle tre
possibilità.
Se era Vexen, avrebbe dovuto inventarsi qualcosa: quel vecchiaccio
gli aveva detto che avrebbe riscosso l’affitto a fine mese, ma non
c’era da fidarsi di quel suo sogghigno cattivo.
Se era Marluxia, in tutta sincerità, non avrebbe saputo
come comportarsi. Gli sarebbe toccato improvvisare.
E se era la polizia...
Beh, la decisione che aveva preso la sera prima sarebbe solo stata anticipata.
Quel pensiero gli
riportò subito alla mente gli occhi chiari di Roxas,
le sue piccole mani a curargli la ferita sul braccio.
Per questo motivo,
quando aprì la porta e se lo ritrovò di fronte, per un attimo si
sentì smascherato.
Roxas lo guardava di sotto in
su dalla sua sedia. Aveva un’aria stanca, ma sembrava tranquillo, anche
più del solito. Gli sorrise timidamente.
«Ciao.»
Axel si scosse dalla sua
confusione, ma non dalla sorpresa. «Che ci fai qui?»
Il sorriso di Roxas si fece più ampio. «Buongiorno anche a
te. Mi fai entrare?»
Le sue parole gli
ricordarono il momento in cui lui era andato a bussare alla porta del
2A. Quello strano scambio di ruoli lo divertì, e ricambiò il
sorriso.
«Scusa, vieni
dentro.» Si ritrasse dalla porta accennando un inchino. «Temo che
questa casa non sia linda e tinta come la tua, ma che ci vuoi fare, non sono
mai stato un maniaco dell’ordine.»
«Non faccio fatica
a crederci.» Roxas spinse in avanti la sedia a
rotelle e si guardò intorno; all’improvviso sembrò
imbarazzato. «Mi spiace di averti svegliato, ma...»
Axel lo tranquillizzò
con un gesto noncurante della mano. «Non c’è
problema.»
Mentre lo guidava in
soggiorno, rifletté su quanto fosse facile cambiare idea, quando c’era quel ragazzino di mezzo. Uhm.
Roxas si fermò accanto
ad una bassa poltrona, residuo bellico del vecchio arredamento, e studiò
l’ambiente senza apparente emozione.
«Allora è
questo il tuo regno.»
Axel si lasciò cadere
sulla poltrona e gli strizzò l’occhio. «Naaa,
il mio regno sono i vicoli bui e gli appostamenti nei cespugli. Questo è
solo il covo dei rinnegati.»
Il ragazzo non sorrise
alla sua ironia, e lo guardò come se in cuor suo si domandasse se fosse anche lui un rinnegato. Poi distolse gli
occhi e si passò una mano dietro il collo, trasmettendogli un senso di
nervosismo crescente. Axel attese, certo che prima o
poi il nodo sarebbe arrivato al pettine.
«Senti»
esordì difatti Roxas dopo la pausa. «Sei
ancora dell’idea... di andare a parlare con la polizia?»
Lui tornò subito
serio. Parlò senza nemmeno rifletterci su.
«Credo sia
l’unica cosa di cui sono davvero sicuro.»
E non so neanche il
perché.
O forse lo sapeva, ma
ancora non riusciva a concepirlo.
Roxas lo guardò in
viso, quello sguardo azzurro che già altre volte gli aveva dato
l’impressione di poterlo passare da parte a parte.
«Sono venuto a
chiederti un favore.»
Alzò le
sopracciglia. «Un favore? Da me?»
Il biondino annuì
e prese fiato, come a racimolare il coraggio. Quando parlò, lo fece
senza più nascondersi ai suoi occhi, dimostrandogli che in quel che
stava dicendo ci credeva davvero.
«Prima di andare
là... ti va di venire con me al parco?»
Axel lo fissò
interdetto per un attimo. Poi sogghignò di nuovo.
«Cos’è,
un appuntamento?»
Roxas arrossì di botto
e alzò gli occhi al cielo, con aria esasperata.
«Uffa, ma perché non fai il serio
una volta tanto?!» sbuffò.
«Ehi, ehi,
scusami.» Axel si chinò, le braccia
sulle ginocchia, sorridendo e allargando le mani in segno di discolpa. «E
dai, bimbo, non prendertela. È che mi hai sorpreso, tutto qui.»
Il ragazzo tornò
a guardarlo, ma il suo viso rimase di un bel colorito rosso tramonto.
«Credimi,
sorprende anche me. Solo...» Scrollò le spalle, un gesto remissivo
che gli aveva visto fare già in occasione del loro primo incontro, e che
provocò in Axel un nuovo sorriso. «Solo
che... ho qualcosa da fare lì. E ho pensato che forse tu...»
Non gli lasciò il
tempo di trovare altre parole difficili e inutili. Si alzò in piedi e
s’incamminò verso la camera da letto.
«Due minuti e sono
da te.»
Il breve silenzio dei
suoi passi a piedi nudi. Poi...
«Axel.»
Si voltò, in
attesa.
Roxas sorrise.
«Grazie.»
Lui rimase immobile a
guardarlo per qualche istante.
«Sono io che devo ringraziarti, scemo...»
Ma prima che potesse
dire qualsiasi cosa, il ragazzo sbuffò ancora una volta al soffitto.
«E adesso mettiti
qualcosa addosso, per favore!»
Axel ridacchiò e riprese
la strada.
* * *
Scusami se non ti ho
svegliato. Ma stamattina ho capito alcune cose, e tra queste anche il fatto
che, se volevo, potevo essere in grado di alzarmi da solo.
Non devi preoccuparti per me. Devo solo
fare una cosa. Tornerò presto e ti spiegherò tutto, promesso.
Lo sai, forse ci hai
preso su Axel.
Sora lesse e rilesse il biglietto mentre il cuore
e il respiro si calmavano.
Quando aveva aperto gli
occhi e aveva scoperto vuoto il letto di Roxas, per
poco non gli era preso un colpo. Come aveva fatto suo fratello a sparire in
quel modo? Qualcuno lo aveva forse rapito dalla sua stessa stanza –
mentre lui dormiva?!
Poi, prima che il panico
avesse la meglio sul buonsenso, aveva notato sul suo comodino quel semplice
foglio di quaderno piegato a metà.
Sotto, c’era lo
stesso disegno che lui aveva già visto due giorni prima, dietro
un’asse mobile dell’armadio, e che aveva causato un’ennesima
lite e un’ennesima incomprensione da parte di entrambi.
Adesso che aveva davanti
agli occhi la grafia nitida e ordinata di Roxas,
così diversa dalla sua, si sentiva stupido per l’aver pensato che
avesse per forza avuto bisogno di aiuto per alzarsi.
La verità era che
suo fratello aveva in sé una forza enorme, anche se si ostinava a
credere il contrario.
Del resto, era
soprattutto per quel motivo che Sora cercava sempre – inutilmente –
di spronarlo a tornare se stesso.
Accanto alla firma
c’era un disegnino stilizzato: un piccolo skateboard con due rotelle per
occhi e un grande sorriso al centro. Lo guardò a lungo, come
ipnotizzato. Era un vecchio gioco di quando avevano più o meno dieci
anni: lui aveva preso a firmarsi con una stellina al centro della o, e Roxas con quello skate col faccino subito dopo il nome.
Erano due anni che non
vedeva quello skate.
Così come erano
due anni che Roxas non voleva più neanche parlare
di skate.
Alzò lo sguardo e
vide, oltre la finestra, la luce del sole colpire le tapparelle
dell’appartamento 2B, che un paio di giorni prima aveva scoperto abitato
dall’unica persona sulla faccia della Terra a cui Roxas
avesse sentito di poter confidare la sua storia e la sua sofferenza.
... Forse ci hai preso su Axel...
Sora sorrise, e per una
volta non era il suo sorriso da clown, da simpaticone del gruppo o da fanatico
di breakdance. Era un sorriso rivolto al vuoto, da parte di un ragazzo felice
che suo fratello si stesse finalmente rialzando.
Yayyy, Roxas si è alzato di nuovo! Ed è uscito di
nuovo! Brindate con me! xD
Oh mygosh, stavolta vorrei davvero tanto tanto
rispondervi per bene uno per uno, ma sono davvero impelagata di studio fino al
collo. Mi detesto. Specie dopo aver
letto recensioni così piene di aspettative. Imploro inutilmente il
vostro perdono ;_;
Ad ogni modo ci tengo a ringraziare all’infinito
ed oltre BlackRuri,
SyranjilSarephen (Beaaa, sono così felice di risentirti! :D Non vedo l’ora
di poter chiacchierare mooolto a luuungocon
te! <3) e _Nick_, che hanno
commentato il capitolo precedente, nonché tutti gli affezionati lettori
che – forse – stanno cominciando a farsi un’idea di dove
voglio andare a parare. Ma considerate che la storia è ancora lunga, non
siamo neppure alla metà... Dovrete sopportarmi ancora a lungo e vi
ringrazio già da ora per la pazienza. ^^’
Roxas teneva lo sguardo fisso
davanti a sé. Ora che stava per mettere in pratica la decisione presa
poco più di mezz’ora prima – Dio, e dire che solo ieri si sarebbe rifiutato persino
di prendere in considerazione un’idea simile – e che cominciava a
provare un sottile dubbio preoccupato, non aveva intenzione di farsi indietro.
Perciò rispose senza voltarsi a guardare Axel,
per non trovare nel suo viso lo stesso scetticismo che gli sentiva nella voce.
«Sicurissimo.
È una vecchia abitudine. Ogni mattina prima della scuola...»
Sorrise tristemente al moto di nostalgia appena provato. «È sempre
stato così. Pioggia o vento, non importava a nessuno. Era molto più
importante stare là.»
«Anche per
te?»
Si accorse che Axel non aveva abbassato la voce. Non era una domanda
retorica, carica di comprensione; era una pura ed essenziale richiesta di
conferma.
Si voltò a
guardarlo per un istante.
«Sì»
rispose, «anche per me.»
Riprese a sospingere la
sua sedia verso il parco, ascoltando il suono delle scarpe di Axel che, a differenza delle sue, toccavano
l’asfalto.
* * *
Hayner si appoggiò a un
muretto per sistemarsi la ginocchiera allentata. Si asciugò una goccia
di sudore dalla fronte e guardò l’orologio. Le sette e
quarantadue. Di lì a poco avrebbero dovuto salutarsi e recarsi a scuola.
Osservò Pence e Olette che piroettavano
senza troppa convinzione sulla pista per i principianti. In altri tempi avrebbe
guardato quelle loro patetiche esibizioni con sfida e avrebbe sparato una
battutaccia.
Si batte la fiacca, HawkRunners?
Ma erano altri tempi,
per l’appunto. Tempi in cui erano in quattro a ridere per una battuta, a
condividere la gioia di una vittoria e la delusione di una sconfitta.
Con un sospiro, Hayner balzò di nuovo sul suo skate e si
rassegnò a tornare a quell’inutile allenamento quotidiano –
inutile perché, insieme al suo campione, la squadra aveva perso anche
tutta la voglia di divertirsi.
Seguì Olette e Pence verso la rampa.
Gli mancava, quel
campione.
Soprattutto, gli mancava
il suo amico.
Olette lo superò
urtandogli leggermente un braccio, e quando si voltò per scusarsi, il
ragazzo vide nei suoi occhi verdi un’ombra di tristezza che conosceva
bene. Olette la maestrina, ma sempre pronta a
scherzare. Non l’aveva quasi mai sentita ridere, non per davvero, e soprattutto mai durante un allenamento, da quando
era successa quella cosa.
Hayner si odiava per il suo
continuo definire ‘quella cosa’
ciò che era accaduto a Roxas, anche oggi, a
distanza di due anni. E quell’incapacità di chiamare le cose col
loro nome non era per tristezza, ma per senso di colpa.
Lui era il suo migliore amico, per la miseria. Lo
conosceva meglio di chiunque altro, anche di suo fratello. Sapeva bene che Roxas non era il tipo da accettare compassione e parole di
conforto. Allora perché non
era mai corso a casa sua, senza l’una né le altre, a dimostrargli
che non gli facevano pena le sue condizioni, e non l’aveva trascinato di
nuovo fuori in strada?
La risposta la conosceva
bene, ed era ciò di cui più si vergognava.
Aveva semplicemente
avuto paura. Paura che, quando si fosse ritrovato di fronte al suo amico
costretto a vivere su una sedia a rotelle, la tristezza avrebbe sopraffatto
tutto il resto.
E così non
c’era mai andato. Si era rifugiato dietro gli SMS e le telefonate, ma Roxas si
era ormai chiuso in quel suo mondo di solitudine e non aveva mai risposto a chi
cercava di tirarlo fuori.
Non riusciva ad
accettare che quei due anni di silenzio ne avessero cancellati cinque di
amicizia.
Era ancora totalmente
assorto in quelle considerazioni quando, come da molto lontano, sentì
l’esclamazione di sorpresa di Pence.
Si voltò appena
in tempo per vederlo cadere a metà di un kickflipe atterrare di schiena oltre l’estremità della rampa.
«Pence!» Olette lo raggiunse
e gli tese una mano. «Che ti è successo?»
Ma Pence
la ignorò volutamente e continuò a fissare con occhi allibiti un
punto in lontananza. Olette lo imitò e di
colpo assunse un’espressione molto simile a quella del compagno.
«Ma che avete,
tutti e due?»
Hayner si fermò a poca
distanza e seguì i loro sguardi.
L’immagine
entrò nel suo campo visivo come in uno zoom al rallentatore. Prima fu
solo una sagoma vestita di azzurro e di nero, poi una figura seduta, infine i
capelli biondi e gli occhi chiari di Roxas.
Il tempo – passato
e presente – si fermò.
Il silenzio era
assoluto; persino i soliti uccelli tra gli alberi del parco tacevano. A poco a
poco, mentre la distanza diminuiva, si poteva però sentire il cigolio
smorzato dall’erba delle ruote di quella dannata sedia.
Hayner rimase impietrito al
suo posto, un piede a terra e l’altro sullo skate, per chissà
quanto tempo. Quasi non si accorse dell’alta figura sconosciuta che avanzava
al fianco di Roxas, intento com’era a scrutare
l’espressione nervosa ma decisa sui suoi lineamenti di ragazzino
assennato, identici a come li ricordava.
Alla fine, la sedia fu a
meno di tre metri da lui, e Roxas si fermò a
guardare la sua vecchia squadra, sulle labbra un’ombra imbarazzata di
sorriso.
«Ciao,
ragazzi.»
Insieme al silenzio si
spezzò qualcos’altro, e Hayner
avvertì il flusso degli eventi ricominciare a scorrere attorno a
sé. Ma non riuscì a muoversi, e assistette come dal di là
di un vetro alla scena di Pence e Olette
che abbandonavano gli skateboard e correvano incontro a Roxas
– cercando di decifrare il proprio confuso stato d’animo.
«Roxas! Roxas! Sei proprio tu!»
Lui ricambiò i
loro sguardi con lo stesso sorriso impacciato. Accettò la calorosa pacca
di Pence ma, quando si voltò verso la ragazza,
la sua espressione si fece seria.
«Olette, giuro che se piangi me ne vado.»
Olette rise. Anche Hayner notò che aveva gli occhi lucidi.
«Ma che hai
capito, stupido?» Si gettò su di lui e lo abbracciò forte.
«Piango perché sono felice di vederti!»
Sopra la sua spalla, Roxas arrossì e sorrise di nuovo, sollevando le
braccia a ricambiare la stretta.
Olette e Pence
erano felici di vederlo. Non contava
che lui fosse seduto su quella cosa. Anche se fosse arrivato da loro con le
gambe amputate di netto, non sarebbe contato; loro sarebbero stati comunque felici di vederlo. Stavano dimostrando
di avere tutta la forza che Hayner aveva temuto di
non possedere, di essere in grado di comportarsi come lui avrebbe voluto ma non
aveva saputo fare.
E questo, cazzo, faceva
malissimo.
Poi Roxas
si sciolse dall’abbraccio di Olette e lo
guardò.
«Ciao, Hayner.»
Il tono era tranquillo,
solo un po’ più basso del normale, ma limpido.
Hayner tolse il piede dalla
tavola e gli si avvicinò lentamente, imponendosi di guardargli il viso e
non le gambe.
«Due anni lontano
dal mondo. Irreperibile al telefono e introvabile di testa. Confinato in tutti
i sensi chissà dove. E adesso arrivi qui e ci fai una sorpresa.» Si fermò davanti
a lui e incrociò le braccia. «Ora che cosa dovrei dirti, secondo te?»
Roxas aveva chinato la testa,
accettando ad una ad una le sue parole al pari di una pioggia che si era
aspettato fino all’ultima goccia. Dopo un breve silenzio, sollevò
lo sguardo e gli rivolse la più indefinibile delle occhiate.
«Non lo so.
Dimmelo tu.»
Pence e Olette
seguivano in silenzio quella schermaglia. Era come se lui e Roxas
fossero soli a fronteggiarsi, come se lo fossero sempre stati.
Hayner lo fissò a
lungo. Avrebbe avuto tutte le ragioni del mondo – lo sapevano benissimo
entrambi – ma non ne esprimeva neanche una. Stava lì a guardarlo,
e il messaggio era inequivocabile. Sono
tornato.
Alla fine capì
che non gli importava niente né del tempo passato, né di quella
sedia.
«Ecco cosa ho da
dirti.» Gli tese la mano. «Scusami. E bentornato.»
Il campione dei falchi,
il suo migliore amico, lo guardò con aria sorpresa, ma poi capì.
Come aveva sempre capito. Gli sorrise e gli strinse la mano, a poco a poco
più forte.
Aggiornamento lampo, appena prima degli esami,
sperando che porti bene. ^^’
Dunque ecco cosa voleva fare Roxas al parco: tornare a trovare i suoi vecchi amici. Aw. In realtà, inizialmente questo capitolo era ben
più lungo, ma ho deciso di tagliarlo in due parti perché preferivo
incentrarmi per una volta su Hayner, sul motivo per
cui lui che è il migliore amico di Roxas si
è rassegnato a perderne i contatti: la paura di dimostrarsi troppo
debole, di non riuscire ad aiutarlo. Sottolineo che non intendevo
assolutamente creare sottintesi Hayner/Roxas. Li vedo troppo come amici per mirare a qualcos’altro.
E poi ricordate che questa storia è AkuRokuu_ù
Purtroppo devo essere rapidissima anche nei
ringraziamenti, ma sappiate che ogni lettura mi rende sempre più felice.
Non cesserò mai di ringraziarvi tutti <3
E ora corro al mio consueto ripasso dell’ultimo
minuto! xD
«Ma che bel quadretto. Avrei dovuto
aspettarmela, questa scena.»
Roxas si voltò a
guardarlo con un sorriso ironico. «Però sei venuto lo stesso.
Nessuno ti ha puntato contro una pistola.»
Axel gli scoccò uno sguardo
stupito. Poi ridacchiò, divertito dal riferimento – anche se non
c’erano tanti motivi di trovarlo divertente.
Fino ad allora si era
tenuto indietro; fosse stato per lui, non sarebbe neanche entrato nel parco –
non c’entrava niente, lui –
ma quando aveva espresso ad alta voce quel pensiero, il ragazzo gli aveva tirato
una manica, piano, facendogli capire senza sguardi né parole che lo
voleva con sé.
Gli aveva dato una
strana sensazione.
Uno come lui, con un
passato inesistente e un futuro incerto, privo di radici e certezze e strade da
seguire, poteva davvero essere un sostegno per qualcuno?
Poteva esserlo per Roxas, che nel suo dolore era mille volte più forte
di lui?
Quel commento sarcastico
che gli era appena venuto alle labbra per stemperare la tensione non aveva
infastidito il ragazzo, che anzi aveva replicato nello stesso tono. Questo non
dimostrava che Roxas era in grado di farcela da solo?
Eppure, lo voleva con
sé...
In quel momento si
accorse degli sguardi incuriositi degli amici di Roxas,
e lui sembrò ricordarsi di fare le presentazioni.
«Oh.
Scusate.» Manovrò la sedia finché non poté guardare
in faccia tanto Axel quanto i tre skater. «Axel, loro sono Hayner, Pence e Olette. Ragazzi, lui
è Axel, un...»
Ma bene. Perfetto. Ancora pubblicit...
Smise di formulare tra
sé quel vecchio concetto ormai inutile quando si rese conto della nota
di esitazione nella voce di Roxas. Distolse lo
sguardo dai tre per posarlo su di lui, e vide che non sapeva come continuare la
frase.
«Lui... Beh, lui
è...»
Non poté trattenersi
dal rivolgergli un sogghigno, sfidandolo a dire la verità. Vedeva
distintamente le parole attraversare alla velocità della luce quella sua
testolina bionda. Si chiese quale avrebbe preferito usare. Ricercato? Spacciatore
mancato? Redento?
Alla fine Roxas sorrise e, senza distogliere gli occhi da lui, scelse
la definizione che evidentemente reputava più giusta.
«È un
amico.»
Axel sentì il
divertimento e la provocazione scorrergli via dal viso come acqua.
Il silenzio fu
interrotto dallo skater con la testa invasa da folti capelli neri, Pence, che sollevò una mano in segno di saluto.
«Beh, ciao, Axel.»
Anche Hayner e Olette lo salutarono, un
po’ confusi ma sorridenti. Axel si
limitò a un paio di cenni con la testa, evitando di andare a ripescare
la voce nel luogo remoto dov’era andata a finire.
Quando la
ritrovò, giudicò opportuno eclissarsi per un po’ da
là.
«Va be’, bimbo, io me ne vado a fare colazione.»
Scompigliò confidenzialmente i capelli di Roxas.
Poi volse intorno uno sguardo svagato. «Mmm,
vediamo... Caffè per tutti?»
Gli skater risero e
declinarono l’offerta. Roxas si sottrasse alla
sua mano e alzò lo sguardo.
«Vengo con te.»
Lui lo fissò di
rimando. «Pensavo che aveste molte cose da raccontarvi, voi
quattro.»
Come a sottolineare
quelle parole, Hayner guardò l’orologio.
«Sono le otto. Tra
un po’ c’è scuola...»
Accanto a lui, Olette si sfilò il casco e si ravviò i lunghi
capelli castani. «Bah. Voi fate come vi pare. Io oggi la scuola la
salto.»
I tre amici la fissarono
con tanto d’occhi.
«Olette!»
esclamò Roxas, un po’ divertito, un
po’ esterrefatto.
«Cosa?» fece
lei, disinvolta. «Tu sei molto
più importante!»
Roxas tacque e
arrossì, mentre Hayner e Pence
scoppiavano a ridere.
«Ma sì, ha
ragione come al solito!» Hayner batté
una mano sulla spalla di Roxas. «E non avrei
mai creduto di dire una cosa simile... Voi andate pure, vi aspettiamo qui. Il
tuo amico ha ragione. Abbiamo tante cose di cui parlare.»
Axel e Roxas
percorrevano a ritroso, l’uno accanto all’altro, il sentiero del
parco che avevano già seguito, diretti al bar all’angolo della
strada. Era un’area in cui gli alberi erano più fitti, quasi a
formare una barriera tra il sentiero e il resto del mondo.
Un silenzio tutto nuovo
gravava su di loro.
«Ehi.»
«Cosa
c’è?»
«Come mai non sei
voluto restare con loro? E non dirmi che hai una fame da lupi, perché
non ci credo.»
Roxas si fissava con
intensità le mani, impegnate nel girare lentamente le ruote della sedia.
Axel intravide comunque la sua espressione,
così genuinamente incerta da farlo sembrare per un attimo il bambino che
non era più.
«Non so.»
Per un po’ rimase in silenzio a riflettere. «Sai... Avevo voglia di
chiedere loro... beh, tante cose. Ad esempio che anno è stato per gli HawkRunners senza... Sai, senza
di me. Ma poi... Ecco... Ho avuto paura di chiederlo, credo.» Si strinse
nelle spalle. «Forse non sono ancora pronto...»
Axel provò
l’assurdo impulso di rassicurarlo, di dirgli che ormai era pronto per
qualsiasi cosa; ma non trovò le parole, né il coraggio.
Così ricorse alla sua carta vincente: tornò a sdrammatizzare.
«Ora che ci
penso... Non mi avevi detto di essere anche un seduttore.»
Roxas alzò gli occhi,
spiazzato. «Eh?»
«Oh, andiamo. Tu sei molto più importante!»
citò, in una molto malriuscita imitazione della voce di Olette, guardandolo con aria allusiva. «Credi che non
si veda che le piaci?»
Di nuovo, Roxas arrossì furiosamente. Axel
provò una strana tenerezza per quel piccolo naufrago che, nella sua
disperata ricerca di appigli alla vita, era ancora in grado di cedere a una
cosa banale come l’arrossire.
«Sei completamente fuori strada. E se proprio
ti interessa, sappi che a Olette piace Hayner, me l’ha detto lei stessa. Un sacco di
volte.»
«Roxas, guarda che l’universo femminile è
complicato...»
Il ragazzo non rispose.
Ma all’improvviso, nel silenzio che si era creato, scoppiò a
ridere.
Axel si fermò
all’istante e si voltò verso di lui. Anche Roxas
smise di spingersi in avanti, e continuò a ridere e ridere e ridere,
come se volesse recuperare tutto il tempo in cui aveva avuto soltanto la voglia
di piangere.
Era un suono così
inaspettato, così puro, che Axel non riuscì più a pensare a nulla. Rimase
semplicemente a guardarlo e a chiedersi se avesse mai sentito qualcosa che gli
avesse fatto più piacere sentire.
Dopo quelli che
sembrarono interi lunghissimi minuti, Roxas si
calmò e lo guardò con gli ultimi strascichi di ilarità.
«Scusami»
ridacchiò. «Scusami, è solo che... Dopo tutto quello che ho
passato prima di arrivare qui, a questo punto... Insomma, stare qui a parlare
con te di ragazze... è davvero
pazzesco.»
Axel capì cosa intendesse.
E, in effetti, non poté che dargli ragione. Rise anche lui, mentre Roxas si calmava del tutto e gli rivolgeva quel sorriso
spensierato che mai prima d’ora si sarebbe sognato di vedergli sulle
labbra.
«Grazie, Axel. Grazie per tutto.»
Lui scosse la testa,
ricambiandolo finalmente con la stessa sincerità.
«No, grazie a te.
È solo merito tuo se siamo qui adesso... a parlare di ragazze.»
«Cretino.» Roxas rise di nuovo, poi ricominciò a muoversi sulla
sua sedia. «Dai, andiamo... O non arriveremo al bar neanche per
l’ora di chiusura.»
Axel gli tenne dietro,
sorridendo allo schienale di metallo.
«Lo sai, mi piace
questo tuo lato simpatico.» Di
colpo si ricordò che aveva anche qualcos’altro da fare, quella
mattina, oltre alla colazione. «Comunque hai ragione. Meglio non fare
tardi, vorrei iniziare la mia vita di persona buona con una puntualità
degna di un bravo ragazzo... Che ne dici?»
Improvvisamente vide Roxas irrigidirsi sulla sedia, e s’interruppe.
C’era qualcosa che
non andava. Lo percepiva; ne era sicuro.
Con due passi fu davanti
a lui, e vide che il visetto del ragazzino era stranamente confuso. Gli occhi
azzurri scesero a guardare stupiti qualcosa che si allargava all’altezza
del suo fianco sinistro.
Axel abbassò lo
sguardo, e lo vide anche lui.
Sangue.
Senza dargli il tempo di
capire cosa fosse successo, Roxas chiuse gli occhi e
si accasciò sul fianco, senza un lamento; il contrappeso rese
pericolosamente instabile la sedia a rotelle, e Axel
si precipitò a sorreggerlo prima che toccasse terra.
Lo tirò a
sé, lontano dalla sedia, oltre il margine del sentiero, fino a
distenderlo cautamente sull’erba; si chinò su di lui e lo
scrollò per le spalle.
«Roxas! Mi senti? Roxas!»
Ma il ragazzino
continuò a tenere gli occhi chiusi.
Nel silenzio che
seguì, Axelcredette
di sentire dei passi felpati allontanarsi nel folto degli alberi.
Reduce
da un 30 e lode in inglese che ancora mi fa gongolare come Undertaker,
faccio la bastardata e aggiorno in ritardo e
con un capitolo catastrofico. Sì, odiatemi. Me lo merito. ;_;
Non
vi anticipo né spiego nulla più che altro per mancanza di tempo –
ma va’? direte voi, ancora una
volta a ragione. Ma ci tengo a esprimervi la mia riconoscenza per ogni lettura,
ogni commento, ogni aggiunta ai preferiti/ricordati/seguiti. Grazie dunque a BlackRuri ed _Ella_, a _Nick_, a Lorenz_123, e
a tutti gli altri di cui non conosco il nick ma che
hanno avuto il pensiero di aprire un link e perdere un po’ di tempo a
leggere. Grazie. <3
Hayner volava sulla tavola,
troppo felice per riuscire a fermarsi.
Quando aveva guardato Roxas allontanarsi con quell’Axel
e si era reso finalmente, totalmente
conto che quello era l’amico che credeva di aver perso per sempre –
che non lo odiava per il suo non essere riuscito a salvarlo – e si era
poi voltato verso i due compagni, si era accorto che nessuno di loro aveva
parole per esprimere il proprio stato d’animo. Ognuno aveva reagito a
modo suo.
Olette aveva pianto di gioia.
Pence si era lasciato cadere
a braccia aperte nell’erba con il suo enorme sorriso sognante.
Lui era balzato di nuovo
sullo skate, e come al solito lo aveva fatto parlare per sé.
Si diede una spinta
maggiore con il piede, ridendo al vento. Aveva voglia di fare tutto il giro del
parco senza mai fermarsi: e mentre lo pensava già si allontanava
dall’area attrezzata per lo skateboard, imboccando lo stesso sentiero su
cui aveva visto allontanarsi Roxas ed Axel.
Solo quando
svoltò a una curva notò qualcosa di strano.
Una sedia a rotelle rovesciata su se stessa.
Si fermò di
colpo, una frenata così brusca che gli fece perdere l’equilibrio.
Lo ritrovò subito e, con lo stomaco raggelato dalla paura, percorse a
passo di corsa gli ultimi metri che lo separavano da ciò che quella
sedia nascondeva alla vista.
Fu di nuovo come uno
zoom lento, solo che stavolta Hayner avrebbe dato
qualsiasi cosa pur di non vedere la
scena che aveva davanti agli occhi.
Roxas era poco oltre la
sedia, semidisteso nell’erba, e su una delle sue gambe immobili scorreva
una scia terribile di sangue che
nasceva nel suo fianco e andava a morire chissà dove. Aveva gli occhi
chiusi e respirava a fatica. Axel, pallido come un
fantasma, lo sosteneva e lo scuoteva piano.
Hayner si bloccò. Gli
mancò il fiato. Mani e gambe presero a tremare. Avrebbe voluto fare
qualcosa, qualsiasi cosa, ma non
riusciva nemmeno a pensare. Questo
non era possibile. Non poteva essere vero...
Poi Axel
alzò lo sguardo su di lui, e al vederlo sembrò riprendere il
controllo degli eventi.
«Va’ a
chiamare qualcuno» gli ordinò, in tono brusco, neanche fosse abituato a trovarsi in situazioni del
genere. «Un’ambulanza. La polizia. Entrambe. Ma fa’ presto.»
Hayner cercò di essere
altrettanto razionale, ma non ci riuscì.
«Che... Che cosa
è successo?» balbettò confusamente.
Axel abbassò di nuovo
gli occhi sul viso di Roxas. Si morse un labbro. «Gli
hanno sparato.»
Il poco fiato rimasto
nei polmoni di Hayner evaporò.
Era assurdo. Assurdo. Chi poteva voler fare del male
a Roxas? E perché,
dannazione, doveva succedergli anche questo? Dopo tutto quello che aveva
già passato? Adesso che era tornato?
L’adolescente dai
capelli rossi tornò a puntargli in faccia quei suoi inquietanti occhi
verdi.
«Vai, per favore» lo
incalzò. «Non c’è altro che possiamo fare per ora.»
Finalmente Hayner si risolse. Annuì e, con un ultimo sguardo a Roxas, si voltò, tornò al suo skateboard e
sfrecciò via di nuovo.
Già una volta non
aveva saputo aiutare il suo migliore amico. Oggi doveva dimostrare, a lui
quanto a se stesso, di poterlo fare.
* * *
L’agente AerithGainsborough non era un’appassionata di piantonamenti,
ma fin dalla retata di due notti prima alla vecchia villa – che le aveva
lasciato addosso quell’odiosa tristezza per aver assistito alla morte di
quello che avrebbe potuto essere un
adolescente come qualunque altro – le piaceva soffermarsi ad assaporare
ogni attimo di tranquilla passività, prima di tornare a combattere con
la crudeltà della vita.
Del resto, sorvegliare
il parco di Twilight Town era la totale antitesi
della faccenda di quel ragazzo, Demyx. In quella
piccola oasi non c’era praticamente nulla per cui preoccuparsi, al di
là di qualche drogato occasionale e di quella famosa banda di
spacciatori che non erano ancora riusciti a stanare da nessuna parte, pur
sapendo che agiva là intorno.
Già, poteva
proprio stare tranquilla...
Superò la pista
per lo skateboard e si avvicinò al parco giochi per i bambini. Su una
panchina là accanto c’era una ragazzina, con i capelli corti e il
viso chino, letteralmente ricoperta da vestiti enormi; proprio in quel momento
le sue spalle minute furono scosse da un singhiozzo e lei sollevò le
mani nascoste dalle maniche per asciugarsi gli occhi.
Aerith si fermò a
guardarla, esitante; sembrava abbastanza grande da badare a se stessa, ma aveva
un’aria così fragile e indifesa – sembrava gridarle senza
voce una disperata richiesta di attenzione.
«Scusami... Ehi,
scusa.»
La ragazzina
saltò su come se avesse preso la scossa. La fissò e fece un passo
indietro, allontanandosi dalla panchina.
L’agente rimase al
suo posto: sapeva per esperienza che con certi ragazzi – e con certe
persone – era meglio evitare il contatto diretto, se non si voleva
rischiare di vederli fuggire. Le rivolse un sorriso rassicurante.
«Perdonami, non
volevo spaventarti. Mi chiedevo solo se non avessi bisogno
d’aiuto...»
Lei si rilassò
impercettibilmente, ma non rispose.
Aerith si decise ad avvicinarsi
con cautela. «Davvero, se posso fare qualcosa per te...»
Si fermò
abbastanza vicina da distinguere un paio di grandi occhi azzurri, appena
arrossati dal pianto, in un viso chiaro e delicato come ceramica. Dopo una
pausa in cui sembrò riflettere sulle sue parole, la ragazza scosse piano
la testa.
«No, io... Sto
bene.»
Aerith sorrise di nuovo.
«Sei sicura? Se hai perso qualcosa... Se hai visto qualcosa che ti ha spaventata...»
Scosse ancora il capo,
tirò su col naso e fece un altro passo indietro.
«No, no. Va tutto
bene. Mi scusi, devo andare.» Sorrise timidamente. «Grazie mille
della sua gentilezza.»
«Oh. Non
c’è di che» mormorò Aerith,
piano, come a se stessa.
Osservò quella
ragazza pallida e triste allontanarsi dal parco giochi deserto, avvertendo una
sensazione crescente di disagio.
Una mano sulla spalla e
una voce all’orecchio la fecero trasalire.
«Non puoi salvare
chiunque ti capiti a tiro, lo sai.»
Sospirò e si
voltò a guardare il suo collega con un sorriso stanco. «Tu e il tuo
pessimismo. Non capirò mai cosa ci trovino in te le donne, Cloud.»
«Questione di
punti di vista» ribatté lui neutro.
«Aiuto! Aiuto! Presto!»
Aerith si voltò
precipitosamente, la mano già pronta sulla pistola sotto la giacca. Vide
un altro ragazzo, in t-shirt e tuta mimetica, sfrecciare verso di loro su uno
skateboard verde. Era sconvolto.
Il ragazzo balzò dallo
skate e continuò a correre verso lei e Cloud.
«Presto,
c’è bisogno di un’ambulanza! Qualcuno ha appena sparato a un
mio amico!»
* * *
Quanto tempo era passato da quando Hayner era andato a cercare aiuto? Non avrebbe saputo
dirlo. Il tempo ormai si quantificava solo nel sangue di Roxas,
che continuava a scorrere implacabile.
Aveva ancora gli occhi
chiusi ma, stranamente, il suo colorito non era affatto pallido. Non fosse
stato per il fiore rosso sul blu della sua felpa, si sarebbe potuto credere che
dormisse.
Axel non riusciva a smettere
di fissarlo e di pensare che era tutta colpa sua.
Lui era piombato nella storia di Roxas,
l’aveva portato fuori, gli aveva raccontato chi era. E adesso lo vedeva
là, con un proiettile piantato nel fianco, a rischiare di perdere una
vita che già era vuota di troppe cose.
Non se lo meritava.
Era tutta colpa sua.
Quel proiettile avrebbe
dovuto colpire lui. Forse era proprio
lui l’obiettivo, forse Roxas si era solo
trovato in mezzo. O forse, quel pezzo di merda di Marluxia
– perché era lui, ne era certo – aveva mirato al ragazzino
di proposito...
Forse... Se
l’aveva seguito... Se l’aveva spiato... Se sapeva...
«... In caso contrario, vuole che tu sappia
che Demyx non sarà l’unico a pagare per
i suoi errori.»
Ed era tutta colpa sua.
Roxas gemette lievemente. Axel si ritrovò a scostargli i capelli biondi dalla
fronte, in un gesto protettivo che sorprese persino lui.
Ecco a cosa aveva
portato tutta quella stramaledetta storia. Demyx era
in trappola. Zexion era morto. E adesso Roxas...
No, non poteva
sopportare nemmeno di pensarlo. Non
lui. Lui non lo meritava. Lui era la persona migliore che conoscesse.
Lui era suo amico.
«Tieni duro»
gli mormorò all’orecchio, con voce un po’ incerta. «Mi
senti, Roxas? Tieni duro. Andrà tutto bene.
Non ti lascio andare via. Non te lo permetto. Memorizzato?»
Axel non aveva mai avuto
paura nella sua vita, mai sul serio.
Si era ritrovato a fronteggiare percosse, minacce, espedienti, rischi. Adesso
– soltanto adesso, davanti all’eventualità
che Roxas non si svegliasse, che restasse per sempre
là immobile tra le sue braccia, spento come era stato il suo sguardo
fino a quella mattina – capiva cosa volesse dire davvero avere paura di
qualcosa.
In quel momento, Roxas aprì lentamente gli occhi e lo guardò.
Axel si sentì, forse
per l’ennesima volta, messo a nudo da quell’azzurro chiaro e
finalmente limpido. Cercò di sorridergli, ma lui non era forte come Roxas.
E ne ebbe la conferma.
Il ragazzo sorrise
debolmente, quasi a comunicargli che aveva capito il suo tentativo. Poi
abbassò di nuovo le palpebre e tornò a sprofondare
nell’incoscienza.
Disperato, Axel si chinò su di lui, tenendolo vicino,
respirandogli sul viso, sperando di potergli in qualche modo infondere quel
calore che stava a poco a poco abbandonando il suo corpo. Chiuse gli occhi, per
non vedere quella paura, e gli sfiorò lievemente la fronte con le
labbra.
Scese fino alle sue, e
là si fermò per un istante di più.
* * *
«Fermo dove sei!»
L’uomo si
voltò.
Si ritrovò a fissare
la canna di una pistola, molto simile a quella che lui stesso aveva in tasca.
Ironia della sorte, a puntargliela contro era lo stesso giovane poliziotto che
due notti prima aveva visto sparare a Zexion. Non
aveva bisogno di voltarsi per intuire la presenza di una seconda persona alle
proprie spalle.
Sorrise.
«Mani bene in
vista!»
Prima ancora di poter
obbedire sentì avvicinarsi la donna, un’altra vecchia conoscenza. Gli
piantò la semiautomatica nella schiena e gli frugò le tasche.
L’uomo di fronte a
lui gli si avvicinò e parve riconoscerlo solo in quel momento.
«Guarda un
po’ chi c’è.» Continuava a tenere la pistola puntata
sul suo cuore. «Ti abbiamo trovato, bastardo.»
Marluxia sorrise di nuovo.
«Sei in arresto
per tentato omicidio, sfruttamento di minori e spaccio di sostanze
stupefacenti.» La voce dell’agente alle sue spalle era chiara e
dura, come lo scatto secco delle manette sui suoi polsi. Nulla a che vedere con
la tristezza che aveva intravisto in lei nel momento in cui si era chinata sul
corpo di Zexion. «Hai il diritto di rimanere in
silenzio; hai diritto a un avvocato e ad un regolare processo...»
Marluxia non ascoltò il
resto. Si concentrò solo su se stesso, escludendo il mondo.
Ecco a cosa si arriva, quando si è soli…
Un prezzo che
però avrebbero pagato almeno in due.
Si augurò che
anche quell’inutile moccioso di Axel fosse
rimasto solo, adesso. Solo coi suoi
rimpianti.
Proprio come lui.
* * *
Axel si ritrasse di colpo
dal viso di Roxas, confuso.
Non ebbe il tempo di
interrogarsi su ciò che era appena successo. Una sirena risuonò
da qualche parte oltre i cancelli del parco, seguita da un’altra e
un’altra ancora. Hayner doveva essere riuscito
a chiamare la polizia o un’ambulanza o tutte e due.
Non riuscì a
trovare la forza di sollevare lo sguardo dal ragazzino ancora immobile tra le
sue braccia, gli occhi chiusi e il respiro irregolare. Nemmeno quando
sentì i passi di una corsa preoccupata, la voce di Hayner,
le grida di Olette e Pence.
«Axel, siamo qui! Come sta Roxas?»
«Roxas!»
«Roxas!»
Nemmeno quando
sentì i passi di una corsa professionale, le parole lontane e confuse
degli infermieri.
Poi qualcuno
entrò ai margini del suo campo visivo, e un paio di braccia forti lo
separarono da lui.
«Tranquillo, ci
occuperemo noi di lui.»
Una voce senza volto per
una persona senza importanza.
Axel seguì con gli
occhi tutti i movimenti che depositarono il suo amico su una barella, che lo
sollevarono gentilmente da terra e che lo allontanarono verso l’ambulanza
dalle portiere spalancate. Solo allora si alzò e si decise a seguirlo.
Nessuno glielo
impedì, e nessuno avrebbe potuto
impedirglielo. Un nuovo sparo non gli avrebbe potuto fare più male di
così.
Le cose più belle devono succedere
sempre in contemporanea con le più brutte, ne? ;_; Poveri Axel e Roxas. E povero Hayner. E poveri Olette e Pence. Marluxia no, lui non lo
compatisco, è un bastardo e basta. è_é
E poi, perché questa non meglio definita ragazzina continua a comparire quando meno la si aspetta?!
Come se non lo sapessi…
^^
Grazissime a ChibiSerenity, Little Duck e
_Nick_ per aver commentato il precedente
capitolo, a Lycoris
per avere aggiunto questa storia alle preferite, e a tutti i lettori che ancora hanno la forza di aprire man mano
i miei sconclusionati (in tutti i sensi!) capitoli. Siete unici. <3
Sora
strappò un secondo foglio di quaderno, perché il primo era
già finito, badando che il professor Xenahort
non si accorgesse del rumore; quindi ripose furtivamente il quaderno nello
zaino ai suoi piedi e scrisse la risposta a quella conversazione frammentaria
che durava da più di un’ora.
No, non sono preoccupato. Mi sarei preoccupato se
non mi avesse lasciato il messaggio. Se l’ha fatto, significa che non ha
avuto problemi ad alzarsi da solo, o almeno non più del previsto. E di
questo non avevo dubbi. E non mi preoccupa nemmeno il pensiero che possa essere
da qualche parte con Axel, perché se Roxas si è fidato di lui, allora posso fidarmi
anch’io.
Sempre tenendo d’occhio il prof intento a
sorvegliare la prima fila di banchi, piegò il foglio, lo nascose sotto
l’astuccio e finse di concentrarsi sulla verifica di storia.
Aspettò che il professore gli desse le spalle prima di recuperarlo e
spedirlo con un lancio preciso oltre le teste di Tidus
e Selphie, sul banco di Kairi.
La ragazza gli rispedì il foglio
appallottolato dopo meno di un minuto. Sora lo cacciò in fretta
nell’astuccio e ostentando tutta l’innocenza del mondo
completò la risposta alla quinta domanda su Re Mickey il Magnifico,
sotto gli occhi indagatori dell’insegnante che proprio in quel momento
gli passava davanti. Quando si ritenne di nuovo al sicuro da quello sguardo di
falco, tirò fuori la pallina di carta e la dispiegò sotto il
banco.
È bello che la pensi così. Sono
fiera di Roxas, ma anche di te.
Sora guardò alla sua destra, perplesso. Kairi teneva il mento su una mano e con l’altra
picchiettava la penna sul compito, con aria concentrata; i capelli scivolati in
avanti su una spalla lasciavano scoperta la curva morbida del collo. Rimase a
guardarla per un lungo istante prima di disincantarsi e controllare la
posizione del professor Xenahort.
Bene, ancora via libera.
Portò anche la
penna sotto il banco e scribacchiò quattro parole.
Perché anche di me?
Accartocciò il foglio, si sollevò
sui piedi e lo rilanciò a Kairi, che si
voltò subito e lo afferrò al volo.
Alcuni compagni avevano cominciato da un pezzo a
seguire la scena con dei sorrisetti allusivi, ma il prof sembrava ancora
ignaro, e questo era ciò che contava. Sora cercò di tornare con
la mente al compito, ma non riuscì ad impedirsi di guardare di sottecchi
la ragazza che, sorridendo, si stava chinando a scrivergli una nuova risposta.
Poco dopo anche Kairi
si sollevò dalla sua sedia e, senza farsi notare da Xenahort,
gli rilanciò il biglietto. Sora lo prese e si rifugiò di nuovo al
riparo del banco.
Alla fine hai lasciato che percorresse la sua
strada. E adesso è bello vederti felice per lui.
Il ragazzo alzò lo sguardo
sull’amica. Stava ancora guardando verso di lui, e gli sorrideva.
Di colpo si sentì arrossire.
Era ancora là incerto se dedicarsi
finalmente alla verifica o rispondere a Kairi con
qualche frase carina e simpatica quando qualcuno bussò alla porta.
«Avanti» disse il professor Xenahort con voce annoiata.
La porta si aprì rivelando la figura di YuffieKisaragi, una ragazza del
quarto anno che Sora aveva conosciuto in occasione della sua efficace campagna
come candidata al ruolo di rappresentante d’istituto.
«Mi scusi, professore, mi manda la
segreteria. Qualcuno ha telefonato per avvertire che Sora Key e KairiUmiko si rechino al
più presto al GoodSamaritan
Hospital...»
Gli sguardi di tutti, insegnante compreso, si
posarono sui due ragazzi chiamati in causa.
Sora si sentì gelare. Ebbe un gran brutto
presentimento.
«Come mai?» chiese in fretta a Yuffie, approfittando del silenzio del professore.
Lei lo guardò e si rivolse direttamente a
lui, un’ombra di tristezza e preoccupazione negli occhi color cioccolata.
«È per tuo fratello.»
* * *
Il
dottor SquallLeonhart si
infilò un paio di guanti in lattice ed una mascherina, senza smettere di
parlare all’infermiera.
«Condizioni?»
«Non buone. Il proiettile è
penetrato in profondità e non sappiamo ancora se siano stati danneggiati
organi interni. C’è un altro particolare...»
«Vale a dire?»
«Il ragazzo è disabile. Accanto a lui
c’era una sedia a rotelle.»
Il giovane medico imprecò a mezza voce.
«Maledizione. Aveva già abbastanza problemi, e ora questo.»
L’infermiera non disse nulla.
Leonhart spinse i battenti ed
entrò senza aggiungere altro in sala operatoria. Steso sul lettino,
circondato da uomini in camice verde pronti a fare di tutto per salvarlo,
c’era un ragazzino biondo che dimostrava ancora meno dei quindici anni
che gli avevano detto che avesse.
Il medico sentì una stretta al cuore.
Aveva intrapreso quel mestiere per salvare vite umane, e giorno dopo giorno si
convinceva che al dolore e al male non c’è mai fine.
Aveva
già abbastanza problemi, e ora questo. Ed è solo un ragazzo...
Augurandosi ardentemente che quel bastardo
figlio di puttana che aveva sparato quel proiettile finisse in galera quel
giorno stesso, Leonhart si avvicinò al
lettino, pronto a combattere ancora una volta per la vita di una persona che
non meritava di morire.
* * *
Il
tenente Tifa Lockhart si lasciò cadere a
sedere alla scrivania e sospirò di sollievo. Quella storia stava
finalmente per finire.
«Avete fatto davvero un ottimo lavoro,
ragazzi.»
AerithGainsborough
e CloudStrife,
responsabili della cattura di uno spacciatore e potenziale omicida che pochi
minuti prima aveva deposto la sua confessione, le rivolsero sguardi che non
esprimevano orgoglio per se stessi, ma soltanto un’identica liberazione.
Tifa si ricompose e li invitò a sedersi
con un gesto della mano. «Raccontatemi di nuovo cos’è
successo, per favore. Temo che dovremo occuparci anche degli ultimi aspetti
della faccenda.»
Strife prese posto su una
delle due sedie libere davanti a lei. «Intende il ragazzo che è
stato ferito, tenente?»
«Già.» Tifa sospirò di
nuovo. «Il nostro Marluxia si è rivelato
una specie di esaltato, ma è evidente che non fa mai niente per caso. Se
ha sparato ad un ragazzino disabile, deve
esserci un motivo. E intendo scoprire qual è.»
Aerith imitò il collega
e prese la parola. «Non c’è molto da dire, tenente. Un amico
del ragazzo ci ha avvertiti dell’accaduto, e ci siamo subito mossi.
Abbiamo chiamato un’ambulanza e siamo riusciti a rintracciare il soggetto
prima che lasciasse il parco. Gli abbiamo trovato in tasca pochi effetti, della
marijuana e una pistola; aspettiamo di verificare, ma siamo ragionevolmente
sicuri che sia la stessa arma che ha colpito il ragazzo. L’unica
stranezza è la totale mancanza di una qualsiasi resistenza...»
Tifa annuì. In cuor suo, credeva che quel
grandissimo stronzo si fosse reso conto di essere rimasto con le spalle al
muro, in tutti i sensi; solo e senza alleati, aveva – forse – compiuto
un’ultima vendetta prima di calare le armi. Non interruppe comunque il
resoconto dell’agente per dare voce ad impressioni personali.
«In seguito l’abbiamo affidato ad
una pattuglia che lo ha condotto qui in centrale» continuò Aerith, «siamo tornati indietro a tranquillizzare gli
amici del ragazzino e abbiamo assistito all’arrivo dei soccorsi.»
«Tenente» intervenne nuovamente CloudStrife, «posso
esprimere un giudizio forse azzardato?»
Tifa non poté impedirsi di sorridere.
«Amico mio, la lotta al crimine spesso è fondata sui giudizi azzardati. Non leggi i thriller? Parla
pure.»
«Al momento dello sparo, insieme al
ragazzo c’era un adolescente sui diciotto, diciannove anni.» Strife si mosse sulla sedia, come se il groviglio di
pensieri e di cose da capire fosse tale da impedirgli
l’immobilità. «La notte dell’attacco alla vecchia
villa c’erano quattro persone, ormai ne siamo praticamente certi.
Ammettendo che una di loro fosse Marluxia, sappiamo
che un’altra è stata catturata e che un’altra ancora
è rimasta... coinvolta...
nella sparatoria...»
Il tenente annuì di nuovo. Conosceva
già tutti i particolari. Il ragazzo ucciso, Zexion, era stato identificato come
l’erede diciassettenne di una delle famiglie più in vista di
quella zona di Twilight Town, dirigenti di una catena
di ristoranti rinomati. Era estremamente triste constatare quanto sembrasse
in certi casi inevitabile lasciarsi
irretire dalla droga, persino quando si aveva già tutto ciò che
si potesse desiderare.
Ma ancora più triste era
l’improvvisa durezza negli occhi del giovane agente.
«Cloud» lo
interruppe, «quanti anni hai?»
Un po’ stupito dalla domanda, esitò
per un istante prima di rispondere. «Venticinque.»
«È stata la prima volta?»
Lasciò in sospeso la domanda, ma lui
capì lo stesso. Annuì, senza abbassare lo sguardo.
«Sì.»
Tifa sospirò. A quella prima volta
sarebbero probabilmente seguite molte altre in cui quel giovane uomo di legge,
come tanti altri prima e dopo di lui, avrebbe dovuto uccidere per non essere
ucciso.
Accennò un gesto stanco con la mano.
«Ti prego, continua.»
CloudStrife
ricompose le idee e riprese da dove si era interrotto.
«Come dicevo, sappiamo con certezza che
l’attacco alla palazzina comprendeva quattro persone. L’ultimo
uomo, però, è fuggito. E di lui non si è saputo più
niente.» Fece una pausa ad effetto, sottolineando al contempo
l’importanza e l’azzardo delle sue ultime parole. «Potrebbe,
ed insisto sull’uso del condizionale, trattarsi della stessa persona di
cui le ho parlato poco fa. Marluxia potrebbe aver
sparato al ragazzino per avvertimento nei suoi confronti, o forse soltanto
perché si è trovato nel posto sbagliato al momento
sbagliato...»
AerithGainsborough
si voltò a guardare il compagno con l’aria di chi era giunto da
tempo alla stessa conclusione ed era felice di trovare un altro pazzo che ci
credesse.
Dopo una breve riflessione, Tifa si alzò di
scatto. Sapeva come muoversi. Era nata per questo.
«Potrebbe, Cloud. In effetti non è solo possibile, ma
addirittura plausibile. Ad ogni modo scopriremo presto cosa c’è sotto...
Ho intenzione di fare una visita in ospedale. A quel povero ragazzo e a chi era
con lui.»
Tenente
Tifa! xD Mi piace immaginarla così. E Leon medico,
aww. Considerate che io dei personaggi di Final Fantasy so poco e niente, giusto quello
che si intuisce da Kingdom Hearts – è anzi possibilissimo che siano
OOC – ma vedete, la polizia è fondamentale in questa storia. Anche
perché, nonostante la cattura di Marluxia,
siamo ancora lontanissimi dal finale. Perciò avevo bisogno di personaggi
che funzionassero in quelle vesti… Non potevo
certo ricorrere ad altri membri dell’Organizzazione (come se ne avessi
ancora qualcuno a disposizione! ^^)
Brevissime
note: i cognomi di Sora e Kairi sono naturalmente inventati
di sana pianta; Key è un
evidente richiamo al Keyblade, mentre Umiko contiene la
parola giapponese umi
che si riferisce al mare e il suffisso -ko
che vorrebbe significare qualcosa come ‘figlia’, ‘bambina’.
Il GoodSamaritan Hospital
è un ospedale di Seattle, che ho preso in considerazione quando ero
ancora dell’idea di trasformare questa fic in
un romanzo; ho mantenuto questo nome perché rimanda un po’ all’autoironia
con cui Axel si definisce ‘buon samaritano’
quando inizia ad entrare in contatto con Roxas.
A
proposito di Axel e Roxas:
si è capito che, quando Roxas ha perso
conoscenza tra le sue braccia, Axel l’ha baciato? ;P
Ringrazio
di cuore ChibiSerenity
e _Nick_ per aver commentato il capitolo
precedente, nonché tutti i miei lettori dai nervi saldi e dalla pazienza
unica. Lo so che mi odiate. Ma io vi
adoro; e dico sul serio. <3
‘Coma’.
L’unica parola che fosse riuscito a distinguere in quell’intrico di
informazioni confuse, strappate agli infermieri che avevano portato via Roxas dal parco.
Qualcuno aveva detto che era in coma.
Axel non sapeva che
aspettarsi da quella parola, ma sperava che, qualsiasi cosa Roxas
stesse affrontando in quella sala operatoria, finisse presto.
Che finisse bene.
La sala d’aspetto era affollatissima,
eppure il silenzio gravava su di loro come un macigno.
Hayner, Pence
e Olette, ancora con le loro attrezzature da
skateboard. Sora e Kairi, con le divise scolastiche in
disordine. E poi lui, che in quel dolore comune a tutti si sentiva un estraneo.
Aveva affondato la testa tra le mani, chinandosi
su se stesso, stanco di vedere le lacrime angosciate delle due ragazze, il
pallore stravolto di Sora e Pence, i passi nervosi di
Hayner che percorrevano su e giù la stanza in
cerca di quiete e di risposte che sembravano destinate a non arrivare mai.
Aveva chiuso gli occhi, cercando dentro di
sé la forza per affrontare quella situazione, ma non riusciva a pensare
in modo razionale. Non ricordava neppure come avevano fatto ad arrivare in
ospedale.
Tutto ciò cui era facile fare riferimento
era il senso di colpa, il sangue di Roxas, le sue
labbra morbide e fredde che ancora scottavano sulle sue...
Avrebbe voluto essere ancora in grado di
credere, per poter pregare per la salvezza del suo amico.
Perché, se per lui era tardi, Roxasmeritava di
salvarsi.
Fu
il tocco esitante e gentile di una mano a riportarlo alla realtà.
«Axel...»
La voce di Sora.
Alzò lentamente la testa. Ancora una
volta incontrò quella rassomiglianza con i lineamenti di Roxas. Sora cercò di sorridergli, sotto la paura e
la preoccupazione.
«Grazie. Immagino che sia stato tu a chiamarci
da scuola...» Prese fiato, e Axel vide
distintamente un brivido percorrere il suo corpicino minuto. «E grazie
anche per essere stato accanto a Roxas quando...
Beh... Lo sai. E grazie per esserci ancora adesso.»
Quelle parole, pronunciate con le migliori
intenzioni del mondo, gli penetrarono nel corpo e nell’anima come
coltelli. Nessun Marluxia al mondo avrebbe mai potuto
fargli altrettanto male, dentro e fuori.
Chiuse gli occhi e chinò di nuovo la
testa, tornando ad affondare le mani tra i capelli.
«Non ringraziarmi» mormorò.
«Non merito né ringraziamenti né parole di altro
genere.»
Intuì la perplessità di Sora senza
doverlo guardare.
«Perché dici così?»
Così innocente, così ignaro.
Proprio come suo fratello. Che lui
aveva messo in pericolo, e che per questo adesso
era in quella sala operatoria. Per colpa sua,
soltanto sua.
E Sora lo ringraziava.
Strinse gli occhi e scosse il capo. Avrebbe
tanto voluto che il ragazzo togliesse quella mano dalla sua spalla.
«Tu non capisci... È colpa
mia...»
«Hai mai voluto fare del male a Roxas?»
Axel alzò di scatto
il viso e lo fissò con occhi annebbiati. «Certo che no!»
Inaspettatamente, Sora gli sorrise di nuovo.
«Allora, qualsiasi cosa tu voglia dire, non può essere colpa
tua.»
Il giovane ammutolì e continuò a
guardare quel ragazzino sorridente. Era lo stesso sorriso che aveva visto sul
volto di suo fratello, solo poco prima – quanto tempo con esattezza?
– e che temeva di non vedere più.
«...
In fondo lui è sempre stato più forte di me...»
Forse fu solo in quel momento che capì
cosa fosse davvero la forza di Sora, come si manifestasse attraverso il suo
sguardo pulito.
Axel tornò a guardare
il pavimento, sentendosi sempre più inerme. La lieve pressione sulla sua
spalla sparì e il fratello di Roxas si
allontanò, lasciandolo ai suoi dubbi e alla voglia inutile di essere
qualcun altro.
Forse
erano passate delle ore o forse erano passati degli anni.
Alla fine, le porte si aprirono e un giovane
medico dai capelli scuri s’incamminò senza fretta verso di loro.
I cinque ragazzi scattarono in piedi, mentre Axel fissava intensamente quell’uomo come se potesse
cogliere dal suo sguardo ciò che stava per dire loro.
Il medico si fermò nella sala
d’aspetto e li guardò uno ad uno. «Siete suoi
parenti?»
«Io
sono suo fratello» saltò su Sora, sempre pallido, ma in tono
fermo. «Come sta?»
Axel si accorse di
trattenere il fiato.
L’uomo studiò ancora per un attimo
il resto dei presenti, evidentemente chiedendosi se per una volta poteva fare
un’eccezione e parlare anche davanti a gente che non aveva legami di sangue
con il paziente di turno. Alla fine sembrò decidere che non gliene
importava nulla. Tornò a guardare Sora e gli rivolse il sorriso caloroso
di chi fa il medico perché ama farlo.
«Ce la farà.»
Sollievo...
Caldo sollievo...
Axel tornò a
respirare, e quasi non si accorse del flusso di emozioni manifestate dagli
altri.
Hayner e Pence
esultarono. Olette ricominciò a piangere di
gioia. Sora e Kairi si abbracciarono in un curioso
insieme di lacrime e risate.
Axel si limitò ad
abbandonare la nuca contro il muro e a sollevare lo sguardo al soffitto. Questa
volta avrebbe voluto saper ancora credere soltanto per poter ringraziare chi
era riuscito a recepire la sua inconsistente preghiera.
Il flusso si calmò a poco a poco, e Sora
sciolse l’abbraccio con Kairi per rivolgersi di
nuovo al medico.
«Grazie. Grazie davvero.» Gli
strinse la mano. «Quando pensa che potremo vederlo?»
L’altro ricambiò il sorriso e la
stretta, ma poi scosse la testa. «Temo che dobbiamo ancora aspettare per
questo. È uscito dal coma, ma ci vorrà qualche ora, forse qualche
giorno, prima che si riprenda del tutto. Nel frattempo, vi consiglio e vi prego
di lasciarlo tranquillo il più possibile.»
Axel si fissò le
scarpe e rivolse loro un sorriso storto.
Lasciarlo
tranquillo.
Se lui
l’avesse fatto fin dall’inizio, a quest’ora Roxas non sarebbe stato nella stanza accanto.
Una seconda porta si aprì, ma stavolta
non ne uscirono dottori né infermieri. Axel
voltò lo sguardo quel tanto che bastava per assistere all’ingresso
in sala d’attesa di una giovane donna dai lunghi capelli neri, atletica
ed efficiente, che in cuor suo identificò ed etichettò subito.
Agente in
borghese.
A conferma del suo pensiero, la donna estrasse
un distintivo da una tasca interna della giacca in pelle.
«Salve. Sono il tenente Tifa Lockhart.»
Il medico si allontanò da Sora per
avvicinarsi a lei. «Buongiorno, tenente. Come possiamo aiutarla?»
Prima di rispondere, Tifa Lockhart
si guardò intorno, esaminando le facce dei ragazzi. Quando il suo
sguardo si posò su di lui, Axel vide qualcosa
di simile al trionfo illuminare i suoi occhi.
Subito dopo, la donna si diresse decisa verso la
sedia dov’era ancora seduto e gli si fermò di fronte.
«Vorrei scambiare quattro chiacchiere con te» disse, quasi in risposta alla
domanda del chirurgo. «Pensi di potermi concedere un po’ di
tempo?»
Axel ricambiò
l’occhiata, inespressivo.
«Sei ancora dell’idea... di andare a
parlare con la polizia?»
«Credo sia l’unica cosa di cui sono
davvero sicuro.»
Sono
in ritardo ;_; Perdonatemi! Tra casa e accademia è davvero un periodaccio,
e certi miei accessi di pessimismo cosmico dinanzi ai più recenti
avvenimenti nel mondo non fanno che peggiorare la situazione. Ma in fin dei
conti di pessimismo ce n’è già troppo in giro.
Scusate
anche la brevità del capitolo, ma meglio così piuttosto che accumulare
il sollievo di Axel con tutto ciò che
succederà dopo… Ok, lo faccio apposta. xD
Ringraziamenti
vivissimi a _Nick_ e infiammabile per le loro recensioni, e di nuovo a infiammabile e a BlackRuri per aver inserito la
storia tra le preferite *o* Sono onoratissima, dico davvero. Mi fate felice
<3
Alla
prossima con – lo giuro! – un capitolo più lungo ed
esauriente.
Il pozzo buio nella sua mente si diradò,
a poco a poco, e in qualche modo Roxas capì
che stava tornando alla vita.
Dapprima fu solo un vago
odore di disinfettante. Poi un brusio sommesso, un bip appena accennato. Infine un
chiarore che si faceva strada sotto le palpebre chiuse.
Cosa gli era successo?
L’ultima cosa che ricordava era quella sensazione di freddo, e il dolore
al fianco, e il sangue e...
«... Andrà tutto bene. Non ti lascio
andare via...»
Aprì gli occhi.
Una stanza bianca, un letto
d’ospedale.
Di colpo gli
sembrò di essere tornato indietro di due anni, al momento in cui si era
svegliato dopo l’incidente che gli era costato due gambe e una famiglia.
Che strano, però. Non aveva più pensato neanche per un attimo al
suo passato da quando si era alzato dal letto e aveva deciso di affrontare il
presente...
Il ricordo improvviso,
unito ad un pungente senso di colpa per l’averlo accantonato per qualche
ora, lo colpì forte al punto da fargli accelerare il cuore. E se quel
battito era una conferma ulteriore al fatto che era vivo, sul momento non
avrebbe saputo dire se fosse una buona o una brutta cosa.
Il bipdi poco prima si intensificò. Voltando la testa capì
che il macchinario che vedeva confusamente accanto al letto era in
realtà il monitor che teneva sotto controllo la sua vita.
«Ah, bene. Ti sei
svegliato, Roxas.»
Una voce sconosciuta
introdusse una presenza nel suo campo visivo.
Roxas batté le
palpebre per schiarirsi la vista e individuò un medico molto giovane,
con in volto un sorriso che pareva sincero e non di circostanza.
«Mi chiamo SquallLeonhart e sono il chirurgo
che ti ha operato. Desolato per l’intrusione; ma volevo essere presente,
quando avessi aperto gli occhi.» Accostò una seggiola di plastica
al letto e vi sedette. «Come ti senti?»
Il ragazzo ci
pensò su per un attimo. Non sentiva un particolare dolore; ma era come
se tutta la parte sinistra del corpo gli mancasse. Si portò la mano
destra alla testa ancora così confusa, e nel farlo si accorse dell’ago
di una flebo nel braccio.
«Non...»
esordì, ma la sua voce si perse da qualche parte sotto il lenzuolo.
Il medico sollevò
subito una mano per interromperlo.
«Perdonami. Non
parlare, sei ancora debole. Lascia che ti rassicuri: non hai perso sensibilità
nella parte sinistra, sono solo gli effetti dell’anestesia prolungata.
È stata una lunga battaglia, ma ce l’abbiamo fatta.» Gli
sorrise di nuovo. «La prontezza dei tuoi amici ti ha probabilmente
salvato la vita. Sei fortunato.»
Roxas guardò il soffitto.
Amici.
Amici che credeva di
aver perso da tempo.
Se non fosse stato per Axel...
«Ascoltami»
riprese il dottor Leonhart, «so che non dovrei
dirtelo ora, che è ancora presto per le forti emozioni... Ma credo sia
meglio approfittare di questo momento in cui ancora riesco a tenere a bada tuo
fratello e gli altri. Devo parlarti di una cosa che devi essere il primo a
sapere, da solo. Per questo ho aspettato che ti svegliassi... D’altro
canto, ho la sensazione che tu sia un ragazzo forte. Ne hai decisamente passate
tante – troppe, forse, per lasciarti impressionare da quanto sto per
dirti.»
Roxas spostò di nuovo
gli occhi su di lui. Ora come ora, non si sentiva in grado di emozionarsi per
nulla. E per quanto riguardava l’essere forte, beh...
Aspettò che l’uomo
continuasse, e gradualmente vide rinascere il sorriso di poco prima.
«Come ti dicevo,
è stata una lunga lotta, ma ci ha lasciato intravedere anche delle
speranze future. Il proiettile che ti ha colpito ha quasi sfiorato la tua
colonna vertebrale, così che abbiamo potuto constatare alcune
cose.» S’interruppe, dandogli il tempo di assimilare le idee.
«Non voglio annoiarti con inutili nozioni tecniche, perciò
verrò subito al punto. Roxas, ci sono serie
probabilità che tu possa tornare a camminare.»
Il ragazzo lo
fissò, senza sapere bene come prendere la rivelazione.
Una parte di lui avrebbe
voluto credergli, tanto.
Un’altra aveva
voglia di ridergli in faccia, e forse se non si fosse sentito così
esausto l’avrebbe fatto.
SquallLeonhart
si alzò all’improvviso.
«Ci credi ai
miracoli, Roxas?»
Quella domanda lo
sorprese. Studiò per un attimo il suo volto gentile, i lineamenti
vagamente duri di un giovane francamente buono, e cominciò a riflettere.
Sua madre aveva cercato
di trasmettergli alcune delle sue credenze cattoliche, ma lui non aveva mai
avuto un’idea precisa della religione. Sentiva che c’era qualcosa, qualcosa che l’uomo non avrebbe potuto
spiegarsi neppure tra un milione di anni; ma così come non sapeva
definirlo, non sapeva nemmeno identificarlo. Perciò adesso non aveva
idea di come rispondere al medico.
Si strinse nelle spalle,
sperando che lui capisse. E lui capì.
«Quello che ti
è successo oggi è qualcosa che gli si avvicina molto, te
l’assicuro. Sotto molti aspetti.»
L’uomo
voltò le spalle e fece per allontanarsi. Roxas
si sentiva troppo provato per mettersi a riflettere sulle sue parole; subito
dopo lo vide girarsi di nuovo verso di lui.
«In altre
circostanze non te lo chiederei, ma... Desideri vedere subito qualcuno? Tuo
fratello, forse?»
Il ragazzo chiuse gli
occhi per un attimo.
Un riflesso di verde.
«... Non ti lascio andare via...»
Riaprì gli occhi
e prese fiato. «C’è Axel?»
Leonhart gli tornò
accanto, evitandogli di alzare troppo la voce. «Il ragazzo che ha
aspettato l’ambulanza con te?»
Roxas annuì.
«In questo momento
un tenente della polizia lo sta interrogando. Ma gli farò sapere al
più presto che sei sveglio, d’accordo? E anche a tutti gli altri,
se per te va bene.»
Lui annuì di
nuovo.
«Grazie»
mormorò. «Per tutto.»
«Non ringraziarmi.
È il mio lavoro.» Il giovane chirurgo gli posò una mano su
una spalla. «Nessuno merita di vivere quello che hai vissuto tu. Prendi
questo momento come una rivalsa personale sul destino. E adesso
riposati.»
Lo seguì con lo
sguardo mentre attraversava la stanza, apriva una porta e spariva in un
corridoio, in un’altra camera, in un’altra vita e forse in
un’altra bella notizia.
Poi chiuse di nuovo gli
occhi e sciolse le briglie dei pensieri, cercando di scuotersi dalla
spossatezza.
Non si soffermò
sulla notizia datagli dal medico, sull’eventualità di tornare a
reggersi in piedi. In quel momento gli appariva un’ipotesi troppo remota,
troppo inconcepibile. Addirittura superflua.
Si concentrò
invece su ciò che gli aveva appena detto di Axel.
Un tenente della polizia...
Evidentemente, uno sparo
ad un ragazzo disabile era un fatto su cui indagare. Per la prima volta dal
momento in cui aveva perso i sensi, Roxas
pensò allo sparo in sé: era stato uno dei vecchi
‘amici’ di Axel a ridurlo in quello
stato? Probabilmente sì... Strano, la cosa non gli faceva un grande
effetto.
Tutto ciò cui in
effetti riusciva a pensare era che, a meno che non avesse cambiato idea, Axel stava per confessare alla polizia il modo in cui aveva
vissuto negli ultimi due mesi, e che a quel punto sarebbe andato incontro al suo destino, alla sua personale pena da
scontare.
Quando gli aveva
comunicato la sua decisione non ci aveva pensato. Ma ora quella domanda lo torturava.
Cosa gli avrebbero
fatto?
La stanchezza
cominciò ad avere la meglio; il suo respiro si fece più regolare.
Prima di addormentarsi risentì all’orecchio le parole di SquallLeonhart.
«Ci credi ai miracoli, Roxas?»
Forse era stato un
miracolo a farlo alzare quella mattina e a riportarlo da Hayner
e gli altri.
Forse era stato un
miracolo a salvargli la vita salvandolo per prima cosa da se stesso.
No. Era stato Axel...
Avvertì
all’improvviso una strana sensazione di calore sulle labbra, che non
seppe spiegarsi; infine scivolò di nuovo nel sonno ristoratore.
* * *
Tifa Lockhart sedeva
su una poltroncina in una saletta vuota, attigua a quella in cui aveva trovato
la persona che stava cercando – che adesso era seduta di fronte a lei e,
senza schermi e senza freni, le stava dando tutto quello che lei voleva. La
verità.
Si sporse in avanti
verso l’adolescente. «Credi che Marluxia
abbia sparato al tuo amico per sbaglio?»
Axel sollevò da terra
gli occhi verdissimi e, senza cambiare posizione, le sorrise amaramente di
sotto in su.
«Lei crede che si
sarebbe fatto scrupoli a sparare a me,
dopo aver sbagliato mira?»
Tifa sospirò.
Capiva perfettamente. Come lei stessa aveva detto poche ore prima ad Aerith e Cloud, quel bastardo era
uno che faceva le cose per bene.
Axel non aspettò una
risposta e tornò a scrutarsi i piedi. «Adesso immagino di dover
venire con lei al commissariato o dove accidenti è.»
Il tenente Lockhart incrociò le braccia. «Immagini
bene.»
Il ragazzo annuì.
Poi la guardò negli occhi.
«Posso chiederle
un favore?»
«Quale
favore?»
«Il tempo di
vedere Roxas e di assicurarmi che torni a casa
presto.»
Tifa ricambiò lo
sguardo. Quelli erano occhi maledetti, occhi che avevano visto il brutto della
vita, quello vero, quello che andava ben oltre una turpe e meschina faccenda di
droga, senza la paura o il rimorso di sguazzarci in mezzo. Occhi che
però avevano fatto una scelta, occhi che non avevano più niente
da perdere. E in quegli occhi vide la sincerità e il bisogno di
quell’ultima e unica richiesta appena formulata.
Distolse i suoi.
«Forse
passerò dei guai per questo.» Si alzò. «Vedremo.
Comunque sappi che ti tengo d’occhio.»
Prima di uscire dalla
stanza, vide di sfuggita che Axel chinava di nuovo il
capo, le spalle mosse da un sospiro silenzioso. Si chiese se avesse ancora da qualche
parte la capacità di piangere.
Tifa si chiuse la porta
alle spalle, si avviò lungo il corridoio asettico dell’ospedale ed
estrasse il cellulare da una tasca. Non le restava che da fare una telefonata.
* * *
In tanti anni di lavoro nelle prigioni di Stato,
CidHighwind non aveva mai
visto un prigioniero più strano.
Tanto per cominciare,
aveva un’aria distinta e colta, una faccia che sarebbe stata più adatta
ad un rappresentante o a un altro riccastro del genere piuttosto che al
criminale che era in realtà. Così impettito, così
elegante. I capelli tinti, la pelle liscia. Per non parlare della camminata.
Capì subito che
quell’individuo gli sarebbe sempre stato sul cazzo.
«Allora, posso
vedere la mia cella?»
L’uomo gli sorrideva
come se niente fosse, neanche parlasse di una suite di un albergo a cinque
stelle appena pagata sull’unghia. Cid si chiese
se c’era o ci faceva.
«Sei davvero
così impaziente di finire in gattabuia?»
Il tizio scosse la
testa, disinvolto. «Tutt’altro. Ma sa, non voglio farle perdere
tempo.»
Sorrise di nuovo, e Cid ebbe la certezza che lo stesse spudoratamente prendendo
per il culo.
Con un sogghigno
crudele, gli aprì la porta del corridoio. «Ma prego, vossignoria Testa-di-cazzo. Da
questa parte.»
Per nulla impressionato,
quello lo precedette lungo la fila di celle da cui si affacciavano molte facce
divertite e altre poco raccomandabili e alcune che erano tutte e due le cose
insieme.
«Guardate, questo
qui ha la puzza sotto il naso.»
«Che bel
faccino.»
«Meglio che stia
alla larga se vuole tenerselo com’è.»
Risate sguaiate da tutte
le parti. Cid vi si unì, ma il suo bislacco
compagno non fece una piega.
Si fermarono davanti a
una cella vuota. La guardia prese una chiave dal mazzo e l’aprì,
quindi si produsse in un inchino esagerato.
«Vi prego,
vossignoria, entrate nella vostra nuova dimora. Spero che non soffrirete di
solitudine. I ratti dovrebbero risolvere il problema, vi pare?»
Il prigioniero che, gli
avevano detto, portava il nome di Marluxia
entrò nella cella e si guardò intorno con aria indifferente.
Cid era ben deciso a vendicarsi
dell’irritante ironia di poco prima, e continuò a punzecchiarlo.
«Non mi
rispondete, miocaro? Ma questo significa che non avete più nemmeno l’arma
della parola. Vi hanno sequestrato anche quella, insieme alla robaccia di merda
che vi piace dare ai ragazzini?»
L’altro si
voltò di nuovo a guardarlo e sorrise.
«Lei non
può capire. Chi è solo, sa quando è il caso di calare le
sue armi. Tutte quante.»
Cid rimase per un attimo
perplesso. Quindi sbuffò, chiuse violentemente la grata della cella e
fece segno alle due guardie che erano con lui di seguirlo.
«Venite, lasciamo
il signor Testa-di-cazzo alla sua filosofia da
quattro soldi.»
Si allontanarono lungo
il corridoio, lasciandosi alle spalle un uomo solo e ormai impotente, ma che
aveva trovato comunque il modo di mettere a tacere la lingua notoriamente
biforcuta di CidHighwind.
* * *
Demyx riagganciò e
rimase a fissare il telefono come se fosse un’innovazione tecnologica mai
vista prima.
E così, era
finita.
Possibile che Marluxia si fosse arreso così presto?
Si allontanò
lentamente dall’apparecchio e si lasciò cadere a sedere sul letto.
L’avevano preso.
Aveva confessato. E lui, una volta
scontata la sua parte di pena, sarebbe stato libero di uscire di nuovo.
Soprattutto, lei era salva.
Un piccolo sorriso gli
si affacciò alle labbra a quel pensiero. Si disse che alla fine era solo
quello a contare. E che era davvero una bella sensazione, sentire di aver fatto
finalmente una cosa giusta.
Non aveva più
voglia di espiare con la morte. Ora sapeva che gli era rimasta una cosa da
fare, quella più importante.
L’avrebbe
ritrovata. E, a distanza di sette anni, avrebbe mantenuto una promessa.
Due settimane di puro inferno, tra problemi
di salute e di studio e di familiari impazziti…
So che suona banale, ma vi chiedo umilmente scusa per la sparizione. Spero non
accadrà più ç///ç
Ringrazio davvero tutti i miei lettori; chi
inserisce la storia tra le preferite/ricordate/seguite; chi puntualmente
commenta con una gentilezza quasi disumana – vi voglio bene, non so cosa
farei senza il vostro entusiasmo! <3
E spero soprattutto di non farvi più
aspettare tanto, a partire dal prossimo aggiornamento ^^’
Fuori dell’aeroporto, Naminè
recuperò il cellulare da una tasca della borsa da viaggio e lo accese.
Pochi giorni prima,
quando aveva lasciato la sua scuola alle DestinyIslands – il mondo a parte dove i suoi capelli troppo
biondi e la sua pelle troppo bianca erano fonte di stupore per tutti e di
alienazione per lei – e aveva organizzato quella che vedeva come una
tranquilla vacanza di metà trimestre insieme a Kairi,
Sora e Roxas, non avrebbe mai immaginato di
ritrovarsi invece nella situazione che sua sorella le aveva descritto al
telefono tra le lacrime quella mattina.
Trovò il telefono
invaso da messaggi, ma li ignorò tutti e premette subito il tasto per
inviare la chiamata.
Kairi rispose al secondo
squillo.
«Nami, sei già arrivata?»
«Sì, sono
appena uscita dall’aeroporto.» Naminè
s’impose la calma e fece la domanda che più le premeva sulle
labbra. «Come sta Roxas?»
Un sospiro di sollievo e
liberazione le arrivò direttamente nell’orecchio da una qualche
parte della città.
«Sta meglio. Non
so se si è già svegliato, ma i medici dicono che
l’intervento è andato bene e che non dobbiamo più
preoccuparci.»
Naminè rispose con un identico
sospiro.
«Grazie al
cielo.» Si sistemò la cinghia della borsa sulla spalla e
s’incamminò lentamente verso la fermata del taxi. Era ancora
inquieta. «Non riesco a credere che... che una... cosa del genere sia successa a lui.»
«Non sei
l’unica.» Kairi abbassò la voce.
«La polizia ha chiesto di interrogare la persona che era con lui... Naminè, questa storia mi fa una paura
tremenda.»
Delle due, Kairi era la sorella maggiore, eppure era proprio Naminè il suo punto di riferimento, quella cui si
rivolgeva quando era spaventata o arrabbiata o quando aveva voglia di ricordare
i loro genitori o quando non riusciva a smettere di fantasticare su Sora. Naminè la ragazza saggia, Naminè
con la testa sulle spalle. Naminè che
frequentava una scuola lontana anni luce soltanto perché i suoi avevano
voluto così, prima di lasciarle. Naminè
che era figlia di un’altra mamma, ma che la madre di Kairi
aveva accolto e amato fin dal primo istante. E che, dal basso dei suoi sei mesi
in meno, aveva sempre una parola di conforto per la sua sorellastra e migliore
amica.
Una parola che in quel
momento le mancava.
«Fa paura anche a
me, Kairi. Non sai quanto.» La ragazza si
fermò sul marciapiede e guardò in strada, aspettando la comparsa
di un taxi. «Pensi che possa venire subito in ospedale?»
«Ma sarai
stanchissima. Il fuso orario...»
«In questo momento
non riuscirei a riposarmi da nessuna parte.»
«Almeno devi prima
mangiare qualcosa» tornò all’attacco Kairi.
Naminè avrebbe voluto
rispondere che le importava molto di più di Roxas
piuttosto che della propria alimentazione. Invece si concesse un piccolo sorriso,
il primo da ore, davanti alla sollecitudine di sua sorella.
«D’accordo,
ora vedo che posso fare.» Notò un taxi che si avvicinava alla
fermata e sollevò un braccio per richiamare l’attenzione
dell’autista. «Ci sentiamo più tardi. Se hai modo di vedere Roxas, abbraccialo forte da parte mia. O assicurati che lo
faccia qualcun altro, va bene?»
Un sorriso vibrò
anche nella voce dell’altra. «Va bene.»
«E... Kairi...»
«Sì?»
«Stai vicina a
Sora. In questo momento ha bisogno di te.»
Una breve pausa.
«Tranquilla. Lo
farò.»
Naminè la salutò,
chiuse la comunicazione e salì in macchina, nella mente le chiare iridi
incupite del ragazzo che più di tutti le era mancato. E che aveva
rischiato di perdere per la seconda volta.
* * *
Kairi ripose il cellulare
nella tasca dell’uniforme scolastica. Sora la guardò tornare a
sedersi al suo fianco e abbandonarsi contro lo schienale con un sospiro.
Sembrava stanca, come tutti.
«Non mi avevi
detto che Naminè sarebbe tornata in
città.»
Lei gli sorrise
tristemente.
«Volevamo farvi
una sorpresa.» Distolse lo sguardo e abbassò la voce.
«Invece, a quanto pare, Roxas ne ha fatta una a
noi...»
«Non è
stata colpa sua» mormorò Sora.
Kairi scosse la testa.
«No, lo so.
È proprio questa la cosa più brutta.» Si morse il labbro.
«Lui non ha fatto niente.»
Sora capì cosa
volesse dire. Roxas non aveva fatto niente, niente di male, eppure qualcuno
aveva pensato bene di tentare di ucciderlo.
Scosse la testa; non voleva pensarci, non ora.
Nel silenzio che
seguì, i due ragazzi lasciarono vagare gli sguardi nella sala
d’aspetto, sui volti tirati e pallidi dei tre skater. Hayner,
Pence e Olette avevano
appena finito di tranquillizzare per telefono le rispettive famiglie; anche Kairi aveva chiamato la nonna per spiegarle la situazione.
Sora aveva assistito a quella scena con un sorriso amaro. Lui non aveva nessuno
da rassicurare, perché tutto ciò che restava della sua famiglia
era lì, in un letto di quello stesso ospedale, reduce da una battaglia
tutta nuova tra la vita e la morte.
E se per due anni era
riuscito a sopportare quel loro essere soli, oggi si sentiva annientato come e
più di suo fratello.
Axel non era più
ricomparso da quando aveva seguito il tenente Lockhart
in un’altra sala. Sora dubitava che un semplice interrogatorio di
circostanza potesse normalmente durare ore.
E se la polizia sospettasse di Axel?... No, era
assurdo. Lui l’aveva guardato
negli occhi, aveva visto la sua disperazione e il suo tormento e anche quello
strano, immotivato senso di colpa. Era certo che chiunque avesse incrociato lo
sguardo di Axel, quel giorno, non avrebbe potuto
sospettare di lui neanche per un istante.
Si scosse da quei
pensieri solo quando il giovane medico ricomparve nella sala d’aspetto e
li guardò tutti con simpatia.
«Roxas si è svegliato.»
Ogni tentativo di
reazione e di richieste fu prevenuto da un gesto del chirurgo.
«È esausto,
credo sia meglio lasciarlo riposare ancora un po’. Ragazzi, vi suggerisco
di tornare a casa, mangiare un boccone e rilassarvi per quanto vi è possibile.
Potrete tornare a trovarlo quando volete. Sento che sto infrangendo decine di
regole alla volta, ma l’ospedale per voi è sempre aperto,
garantisco io.»
Sora si passò una
mano tra i capelli, con un profondo respiro. In realtà avrebbe voluto
correre subito nella stanza di Roxas e restare al suo fianco per il resto dei suoi giorni;
ma capiva che il medico aveva ragione. Non dovevano stancarlo troppo.
Nel silenzio meditativo
di tutti i presenti, si alzò e andò ancora una volta a stringere
la mano all’uomo che senza saperlo aveva salvato anche lui.
«Io non so davvero
come ringraziarla, dottore.»
Il medico sorrise e
scosse lentamente il capo, come a dire che non c’era bisogno che
continuasse.
«Puoi chiamarmi Leon.
E mi basta essere riuscito a fare qualcosa per tuo fratello.»
Hayner, Olette
e Pence erano già usciti dalla porta a vetri,
un po’ sollevati, e Kairi lo aspettava con il
battente aperto, quando Sora si sentì richiamare indietro dal dottor Leonhart.
Si voltò e si
riavvicinò subito a lui, allarmato. «Cos’è successo?
C’è qualche problema?»
L’altro scosse
ancora la testa, con un sorriso rassicurante.
«No, è
tutto a posto. Penso solo che tu debba sapere una cosa.» Abbassò
la voce, ma il suo tono non si fece grave. Solo confidenziale. «Poco fa,
quando si è svegliato, ho chiesto a Roxas se
se la sentisse di vedere qualcuno. Lui ha fatto il nome di quel ragazzo, Axel. Ho ritenuto opportuno fartelo sapere; è
normale che tu voglia essere il primo a...»
Sora aveva capito da un
pezzo dove quel discorso sarebbe andato a parare. Stavolta fu lui a sorridere e
a scuotere il capo.
«No, è
giusto così. È ovvio che Roxas voglia
vedere Axel. Non soltanto perché erano insieme
quando... quando è successo.» Deglutì e si sforzò di
proseguire senza cambiare tono. «Per me non c’è problema,
davvero. Quando vede Axel, può dirgli
che...»
Proprio in quel momento,
la porta oltre la quale l’adolescente era sparito alcune ore prima con
Tifa Lockhart si riaprì, e lui ricomparve.
Aveva gli occhi bassi e
rossi e Sora pensò che avrebbe pianto, se solo avesse avuto l’aria
di una persona ancora in grado di piangere.
Si allontanò da Leonhart, e andò lui stesso a parlare ad Axel.
* * *
Quando la donna l’aveva lasciato solo in
quella sala, gli ci erano voluti svariati minuti per riprendersi.
Alla fine l’aveva
fatto davvero: aveva parlato con la polizia. In circostanze diverse da quelle
che aveva immaginato, certo, ma l’aveva fatto. E ora non sentiva
né caldo né freddo, né bene né male.
Soltanto una strana
spaccatura, uno squarcio interiore che ancora non riusciva a giustificare.
In sala d’aspetto,
Axel fu costretto ad alzare lo sguardo quando si
accorse di una presenza di fronte a sé.
«Axel... Roxas ha ripreso conoscenza.»
Fissò gli occhioni blu di Sora senza capire. Il ragazzino sorrise e
proseguì, non notando o forse ignorando la sua confusione.
«Io sto andando
via, adesso. Ti va di salutarmelo e... e di dirgli che siamo tutti con
lui?»
Axel rimase attonito a guardarlo.
«Io?»
«Sì,
tu.»
No, lui non aveva il diritto di essere così vicino a
persone così migliori di lui.
Poi al fianco di Sora
comparve da chissà dove la sua amica, Kairi,
anche lei sorridente.
«Se ti va»
aggiunse, «dagli anche un abbraccio e digli che è da parte di Naminè. E che verrà presto a trovarlo.»
Axel guardò da Kairi a Sora e viceversa. Occhi uguali, stessi sorrisi.
Così maledettamente simili a...
Non trovando le parole,
annuì, e a loro sembrò bastare.
Si congedarono dal
medico, che aveva assistito in un discreto silenzio, e attraversarono la sala
fino a sparire oltre i vetri della porta principale della hall.
Dopo un minuto lungo una
vita, Axel guardò il chirurgo, che gli sorrise
e gli indicò l’imbocco di un corridoio alle sue spalle.
Mai una volta che mi riesca di essere
puntuale ;_; Oh, be’. Vi ringrazio tutti per
non avermi ancora assassinata nel sonno xD
Ma vi spettano ringraziamenti lunghi ed esaustivi, e vi giuro che tenterò in ogni modo di
rispondere ai vostri commenti in modo decente, da questo aggiornamento in poi.
Ripercorso il corridoio, SquallLeonhart sbucò in un’altra sala
dell’ospedale, dove avrebbe potuto provare finalmente il lusso del primo
caffè della giornata. Si diresse al distributore automatico a testa
bassa, cercando nelle tasche del camice una qualche moneta da inserire in
quell’odiosa macchina; quando la trovò e si risolse ad alzare lo
sguardo, vide che già qualcun altro stava combattendo la stessa
battaglia.
La donna che gli si era
presentata come il tenente Tifa Lockhart aveva appena
ottenuto un caffè ristretto. Vide Leonhart e
gli rivolse un cenno di saluto con il capo; quindi si dedicò a berlo
così com’era, amaro e bollente, un’espressione esausta
dipinta sui lineamenti giovani e avvenenti.
Il medico si
avvicinò al distributore e inserì la moneta nella fessura,
rispondendo al saluto di lei.
«Giornata dura, mi
pare.»
Tifa Lockhart
ingollò un sorso di caffè e alzò gli occhi al cielo.
«Non può neanche immaginare quanto.»
Leon sorrise al
bicchiere che si andava riempiendo. «Crede? Nemmeno la mia è stata
rose e fiori, gliel’assicuro.»
Lei sospirò,
scuotendo insieme la testa e i lunghi capelli neri.
«No, certo. Mi
perdoni, dimenticavo che anche lei ha le sue grane. Quel povero ragazzo...»
S’interruppe, come se temesse di aver parlato troppo, e si
concentrò in un altro sorso. «Spero solo che la sorte lo lasci un
po’ in pace, d’ora in poi.»
«Lo spero
anch’io» convenne il chirurgo, zuccherando il suo caffè
macchiato. «Ma questo dipende, in una certa misura, anche da noi.»
Guardò la donna oltre il bordo del bicchiere. «Lei è ancora
qui perché sta sorvegliando l’amico del mio paziente, non è
così?»
Il tenente Lockhart distolse subito lo sguardo, evidentemente
imbarazzata.
«Dottore, saprà
meglio di me che in questi casi la riservatezza è...»
«Oh, mi creda, so
benissimo cosa sta per dirmi» la interruppe gentilmente Leonhart. «E in quanto medico, so benissimo che anche
lei ha le sue... grane, per prendere in prestito le sue parole. Ma
c’è una cosa che ci terrei a sapere, alla luce della speranza che
lei stessa ha appena espresso.» Si concesse a sua volta un sorso di
caffè prima di continuare. «Vorrei sapere se ho appena compiuto
una stupidaggine, facendo entrare quel giovane nella camera dove quel ragazzino
sta riposando. Glielo chiedo come medico e come uomo.» Allargò le
braccia, con un nuovo sorriso conciliante. «Scelga pure la parte di me
che preferisce, tenente.»
Tifa Lockhart
sospirò e distolse nuovamente gli occhi. Finì di bere il suo caffè,
accartocciò il bicchiere di plastica con la mano e lo lanciò nel
cestino. Solo allora si decise a rispondere.
«No. In fin dei
conti, non credo che lei abbia compiuto una stupidaggine.» Voltò
le spalle e sollevò una mano. «Buona giornata, dottore.»
«Buona giornata a
lei.»
Leon la seguì con
lo sguardo mentre usciva dalla stanza, bevendo in silenzio il suo caffè.
* * *
Era una stanza spoglia e anonima, bianca e
vuota. Dalle tapparelle abbassate per metà filtrava la luce dorata di un
tramonto di aprile, che andava a sfiorare come una carezza la guancia di Roxas, profondamente addormentato con il viso rivolto alla
finestra e un braccio abbandonato sullo stomaco. Ai due lati del letto,
un’asta con una flebo e un monitor che esibiva il battito regolare e
tranquillo del suo cuore.
C’era anche una
seggiola di plastica, e Axel vi si diresse
lentamente, mentre il malessere dentro di lui s’intensificava.
Roxas non si svegliò
ai suoi movimenti silenziosi; continuò a dormire con l’aria serena
di un bambino. Axel si protese verso di lui e, come
aveva fatto molte ore prima, gli scostò senza un motivo i capelli dagli
occhi.
Capì in quel
momento la ragione del proprio abisso interiore.
Non era, come aveva
ipotizzato tra sé, la paura di una condanna, delle conseguenze della sua
confessione.
Era il timore di essere
separato da quel ragazzino, dal suo amico,
dall’unica cosa buona che avesse mai avuto, all’improvviso e in
così poco tempo.
Proprio adesso che...
Roxas strinse gli occhi e poi
li aprì.
Quando lo mise a fuoco e
lo riconobbe, le sue labbra si distesero in un pallido sorriso.
«Che fai con
quella mano alzata?»
Una voce un po’
roca e impastata dal sonno. Ma era la voce di sempre, senza toni di accusa o
note che tradissero dolore.
Axel sogghignò,
abbassò prontamente la mano su di lui e gli frizionò piano la
tempia con le nocche.
«Controllavo la
presenza di eventuali bernoccoli, ma è difficile carpire la differenza,
con la testa dura che hai.»
Roxas si portò la mano
destra alle palpebre e se le strofinò. Axel
ritrasse la sua.
«Come ti
senti?»
Il ragazzo tornò
a guardarlo, senza smettere di sorridere.
«Ho il fianco
ancora un po’ addormentato» mormorò. «Mi
toccherà chiederti il secondo favore in...» Sembrò
ricordarsi di qualcosa. «Quanto tempo è passato?»
Axel guardò
l’ora sull’orologio appeso a una parete. «Più o meno
dieci ore. Sei stato bravo, hai fatto in fretta.»
Roxas non rilevò il
complimento. «Il secondo favore in meno di un giorno, allora.»
«Vuoi un altro
appuntamento?»
Lo vide affondare il
viso nel cuscino. Con sua sorpresa, invece di uno sbuffo imbarazzato gli
arrivò una risatina sarcastica.
«Dammi almeno il
tempo di riprendermi dal primo.» Poi alzò lo sguardo e, con
l’aria più serena del mondo, gli fece una richiesta che – Axel ne era certo – il giorno prima si sarebbe
ingoiato la lingua pur di non fare.
«Mi aiuti a sollevarmi?»
Axel perse subito
l’atteggiamento ironico, ma ci mise un secondo a riacquistare un sorriso
in cambio del suo.
«Certo.»
Si alzò, si
chinò su di lui e senza alcuno sforzo riuscì a sollevarlo a
sedere contro la testiera, evitando in tutti i modi di fargli male. Quindi si
sedette sul bordo del letto, di fronte a lui, e a quel punto si ricordò
delle parole di Kairi.
«Ah, già...
Devo fare una cosa. Non spaventarti, eh.»
Si sporse di nuovo verso
di lui e lo circondò con le braccia.
Roxas rimase per un attimo
interdetto, poi sbottò contro la sua spalla.
«Ma che cavolo
fai?!» disse, con voce appena un po’ più alta di poco prima.
Axel si ritrasse e
sogghignò di nuovo. «Da parte di una certa Naminè,
che ti abbraccia e che ti verrà a trovare presto.»
Roxas arrossì e lo
allontanò, usando sempre la mano destra.
«Non è che
devi prendere tutto alla lettera, sai?» sbuffò.
«Te l’ho
già detto che sei un seduttore?» fece Axel
di rimando, picchiettandogli la fronte con l’indice. «Prima Olette, adesso Naminè. Chi sarebbe questa Naminè,
me lo spieghi?»
Sotto il rossore, il
biondino ricambiò il ghigno. «Che c’è, sei
geloso?»
La sua partecipazione al
gioco ebbe l’effetto di far capire ad Axel che
era arrivato il momento di smettere di giocare.
Si tirò indietro
sul letto e incrociò le braccia.
«Ma perché
fai così?»
Roxas sembrò capire
subito. Tornò serio.
«Guarda che hai
cominciato tu.»
Axel scosse la testa.
«Non mi riferivo a questo.»
«E allora che vuoi
dire?»
«Perché non
mi dici che è tutta colpa mia e che se non fosse per me tutto questo non
ti sarebbe mai successo? Forse staremmo meglio tutti e due, se me lo dicessi.
Perché è la verità, è
così.» Non poté impedirsi di distogliere lo sguardo, di
abbassare la voce a un sussurro. «Dovresti odiarmi.»
Calò un silenzio
di riflessione, forse da entrambe le parti.
Alla fine, Roxas sospirò.
«Forse
dovrei.» Cominciò a spostare le coperte, finché
riuscì a scoprirsi buona parte delle gambe. «Axel,
le vedi queste?»
Riluttante,
l’adolescente abbassò gli occhi all’altezza delle sue
ginocchia. Era la prima volta che gli guardava apertamente le gambe da quando
si erano conosciuti. Sembravano normali, come sempre. Nessuno che fosse entrato
in quel momento nella stanza avrebbe mai detto che non poteva muoverle.
Annuì a malincuore.
«Beh, queste mi
ricordano quello che ho perso. È una cosa che mi fa malissimo, e lo
farà sempre. Ma in qualche modo, so che non è colpa mia. Tu,
invece» e qui Roxas gli sfiorò la spalla
rabberciata, provocandogli un immediato disagio, «hai questa a farti ricordare. Tutto quello
che devi fare è impedire che questa cicatrice diventi una tua colpa. E
devi impedire soprattutto che prenda lo stesso significato di questa qui»
continuò portandosi la mano al fianco sinistro. Axel
incrociò il suo sguardo e vide che sorrideva di nuovo. «Se anche
il fatto che io ora sia qui in questo letto diverrà una tua colpa, sappi che allora ti
odierò. E non sto scherzando.»
Axel chinò di nuovo
lo sguardo, con un sorriso storto.
Decise di cambiare
argomento.
«Ho parlato con la
polizia» disse.
«Lo so. Il
chirurgo me l’ha detto.»
«L’hanno
preso. Marluxia. Quello che ti ha sparato.»
Silenzio.
«E, beh, ho detto
loro del mio coinvolgimento. Ho detto che l’obiettivo di quel proiettile
ero io.» Aveva appena mentito,
sì; non riusciva a dirgli come la pensava davvero al riguardo.
Andò avanti e basta. «Mi hanno lasciato un po’ di tempo, ma
quando starai bene dovrò consegnarmi.»
Ancora silenzio.
Axel tornò a sedersi
sulla seggiola, e guardò Roxas solo quando lo
sentì parlare.
«Non possono farti
nulla.»
Gli sorrise.
«Sentiamo. Cosa te lo fa dire?»
«Ci ho pensato. Non
possono farti nulla. Tu hai fatto parte
della banda, va bene, ma non in modo così... attivo. E lo dimostra il
fatto che quel ragazzo... Demyx, giusto?, non abbia
parlato di te. Se così fosse, la polizia avrebbe saputo chi eri da molto
prima di oggi.»
Axel lo fissò
interdetto. Di sicuro ci aveva rimuginato parecchio. Cercò di recuperare
un filo di ironia.
«E chi ti dice che
io non ti abbia mentito, quel giorno al parco?»
Roxas ricambiò lo
sguardo, sorpreso. «E perché avresti dovuto farlo?»
Cadde un nuovo silenzio,
stavolta perché l’adolescente non aveva più parole.
Infine, il ragazzino gli
sorrise ancora. «Hai fatto la cosa giusta, Axel.
Con me l’hai fatta di
sicuro.»
E Axel
capì che per quel sorriso, per tutto ciò che aveva guadagnato in
quei pochi giorni di primavera, valeva la pena di affrontare tutti gli
interrogatori e tutte le confessioni del mondo.
* * *
«Hai fatto una cosa molto bella,
Sora.»
Camminavano vicini sul
marciapiede che ogni giorno percorrevano al ritorno da scuola. Il crepuscolo allungava
le loro ombre al suolo, come ad allontanarle, a risparmiare a quei miseri
riflessi la sofferenza e la confusione che i due corpi cui stavano incollate si
portavano addosso.
Sora si voltò a
guardare Kairi. La luce del sole morente sembrava
giocare nei suoi capelli ramati.
«Perché?
Cos’ho fatto?»
La ragazza
ricambiò l’occhiata con un lieve sorriso.
«Dai, non fare il
tonto. Lo sai benissimo.» Quasi volesse concedergli riservatezza mentre
gli faceva quel complimento, distolse di nuovo gli occhi da lui e li
puntò sulla strada. «Ti sei fatto da parte per una persona che
è quasi un totale sconosciuto. In cuor tuo vorresti essere con Roxas, in questo momento, eppure non hai fiatato quando
è stato evidente che lui voleva qualcun altro accanto a sé...
È una cosa molto bella da parte tua.»
Sora si guardò i
piedi, a disagio.
«Non è
vero. Ho fatto solo quello che credevo giusto.» Sorrise, ma fu lieto che Kairi non stesse guadando la tristezza di quel sorriso.
«Forse è solo che non voglio più che Roxas
viva a modo mio. Forse sto solo rispettando quello che vuole lui, adesso.
Sempre che non sia tardi per questo...»
«Sono certa che
non lo è.»
I passi di Kairi si fermarono. Sora alzò il viso e si accorse
che erano arrivati all’incrocio. Si fermò anche lui.
«Vai a
casa?»
Si guardarono e si
sorrisero con aria colpevole. Avevano parlato contemporaneamente.
«Avevo intenzione
di stare un po’ con la nonna e con Naminè.
Potresti...» Kairi si morse il labbro
inferiore, incerta. «Potresti venire da me, stasera.»
Sora si sentì
avvampare. Ringraziò mentalmente la luce rosseggiante del crepuscolo che
avrebbe nascosto il suo rossore.
«Stavo per
chiederti la stessa cosa» confessò. «Lo sai, è che...
Quell’appartamento è così grande... E senza Roxas...»
Kairi posò la mano sulla
sua, rendendolo ancor più nervoso.
«Non sei solo,
Sora» gli disse dolcemente. «Non lo sei mai stato. Ci sono io con
te.»
Non c’era bisogno
di altre parole.
Ripresero a camminare, e
a poco a poco la sua stretta sulla mano di lei si fece più sicura.
Dite la
verità, l’accenno Leon x Tifa proprio non ve lo aspettavate. Lo
so, sono un genio del male. u__ù x’D
(Colgo l’occasione
per specificare che, anche se lo chiamo con il suo nome originale in Final Fantasy, SquallLeonhart, a lui comunque piace farsi chiamare Leon
anche da me, perciò non è che le mie siano sviste. Rispetto solo
il suo volere. ^^)
Un altro piccolo
appunto sui pairing: all’epoca in cui scrissi
questa storia sostenevo molto il Sora x Kairi; a
distanza di molto, molto tempo posso dire di essermi definitivamente convertita
al Riku x Sora, però non ho avuto cuore di
modificare questa cosa. In qualche modo mi sembrava importante. Perciò
passatemi quella svampita di Kairi, ok? Non è
che sia poi tanto presente, alla fine. :P
Per il resto… Beh, pian piano le cose tra Axel e Roxas si stanno smuovendo,
e vi giuro solennemente che Axel non
resterà lì a rimuginarci su in eterno xD
Grazissime a chiunque stia
leggendo codeste parole, per la mia infinita felicità. <3
Questa volta sono
stata regolare con l’aggiornamento, ne? Spero di esserlo anche per il
prossimo! ^^’
Roxas si svegliò
sereno. Doveva essere il primo risveglio tranquillo da molto tempo.
Piuttosto paradossale
che gli capitasse proprio ora, ma tant’era.
Intuì che era molto
presto; la debole luce che filtrava sotto le sue palpebre era meno che smorta.
Senza aprire gli occhi, soffocò uno sbadiglio e mosse appena un braccio,
per poi accorgersi che era quello sinistro. Finalmente aveva di nuovo
sensibilità. In quel momento avvertì anche uno strano peso sul
fianco.
Aprì gli occhi.
La prima cosa che
distinse, nella penombra della camera d’ospedale, fu una macchia di rosso
all’altezza del suo stomaco. Batté le palpebre finché
poté riconoscere la figura di Axel, appoggiato
a lui, la testa abbandonata sulle braccia conserte.
Ricordò che la
sera prima non era voluto tornare al condominio, che era rimasto accanto al suo
letto per tutto il tempo – «Dove diavolo andresti a finire senza di
me, bimbo?» – e che a lui aveva fatto molto più piacere di
quanto fosse disposto ad ammettere.
«Di’ la
verità» aveva sorriso, «lo fai solo per rimandare la tua
ora.»
«Mai detto il
contrario» aveva sogghignato Axel.
Ma era evidente che,
qualunque cosa fosse a muoverlo, era qualcosa che faceva bene a entrambi. Era
sempre stato così, fin dall’inizio. Nonostante tutto.
Axel si mosse appena sulla
sua seggiola, scivolando ancora di più su di lui fino a posare la
guancia sulle coperte. Persino quando dormiva aveva quell’aria da cattivo
ragazzo, da anima dannata.
Roxas sorrise. Chi
l’avrebbe mai detto che proprio un’anima dannata, oltre a metterlo
in pericolo e ad aprirgli gli occhi su un mondo sconosciuto, sarebbe stata
l’unica in grado di salvarlo dai suoi fantasmi?
Lasciò vagare lo
sguardo sulla sua figura addormentata. Forse avrebbe dovuto aspettarselo, si
disse. Era piuttosto normale, in fondo, che soltanto un demone uscito
dall’inferno avesse il dono di scacciare demoni provenienti da un posto
altrettanto remoto.
Da quando aveva deciso
di tornare dagli HawkRunners,
una mattina o un’esistenza prima, non aveva quasi più pensato alla
sua condizione, a tutto ciò che per due anni lo aveva distolto da tutto
il resto. Quando aveva rivisto Hayner, Pence e Olette si era imposto di
non crollare, di sopravvivere alla vista delle loro tavole e al ricordo dei
suoi genitori che lo guardavano volteggiare su una rampa con occhi lucidi e
fieri.
Era questo che si
provava a lasciarsi l’è
stato alle spalle, a concentrarsi sul può
essere, a vivere come Sora?
«Mamma e papà non vorrebbero questo,
lo sai.»
Roxas sospirò. Non
sapeva se era in grado di portare fino in fondo quella scelta. Lui non era mai stato come Sora...
Però, se non
altro, vedendo cadere Axel gli era venuta voglia di
rialzarsi con lui.
Chiuse di nuovo gli
occhi.
«Ci credi ai miracoli, Roxas?»
Perché doveva
essere così difficile crederci?
Gli venne in mente che
non aveva ancora detto ad Axel
dell’eventualità di cui gli aveva parlato il chirurgo. Avrebbe
dovuto essere la cosa più facile da affrontare, in confronto a tutto il
resto; invece era l’unica che ancora non riusciva a concepire.
Proprio come era stato
in quel momento in cui si era ritrovato in piedi a urlare contro di lui.
Da qualche parte intorno
al suo stomaco giunse un respiro un po’ più forte.
Aprì gli occhi e
guardò di nuovo Axel.
«Ci credi ai miracoli, Roxas?»
Una volta, quando aveva
sette anni, sua madre gli aveva parlato degli angeli custodi, presenze
invisibili che vegliavano sulle persone e nei momenti più bui tenevano
loro compagnia e le ascoltavano e le curavano e le aiutavano a rimettersi in
piedi dopo una brutta caduta.
Gli sfuggì un
risolino. Axel, un angelo custode?
E dire che poco prima
aveva pensato a lui come a un demone.
Scosse la testa e
alzò lo sguardo verso quegli assurdi macchinari di cui non ci teneva a
sapere il nome. Il suo cuore non era più sorvegliato; già la sera
prima, dopo avergli personalmente e scrupolosamente applicato delle bende
pulite sulla ferita al fianco, il dottor Leonhart
aveva ritenuto di poter staccare quel monitor, affermando anche che se le cose
fossero continuate a migliorare lo avrebbero al più presto spostato in
una stanza normale. L’unico filo che gli avessero lasciato addosso era
quello della flebo. Così privo di impedimenti, si disse che poteva
provare ancora una volta a sollevarsi da solo.
Spostò il cuscino
contro la testiera del letto, e si mosse con molta lentezza e cautela fino ad
appoggiarvisi con le spalle. Durante quelle manovre, Axel
scivolò lontano da lui e, senza svegliarsi, gli si riaccostò subito
al fianco, come un gatto che perduta la fonte di calore su cui si fosse
accoccolato si allungasse a cercarla di nuovo.
In posizione semiseduta,
Roxas non si sottrasse alla vicinanza
dell’amico. Si voltò verso la finestra e intravide dalle
tapparelle il colore grigio che precedeva l’alba.
La nascita di un nuovo
giorno indica sempre nuovi inizi.
Si chiese cosa stesse
per iniziare adesso, e si augurò che fosse meglio di ciò che era
stato finora. Per sé, ma anche per Axel.
* * *
SquallLeonhart
guardò esitante la ragazza bionda che gli stava di fronte.
Aveva aspettato la fine
del turno per tutta la notte; dopo le ore di lavoro prolungate per via
dell’assenza di un collega, sognava la tranquillità della sua casa
vuota quasi quanto il primario Sephiroth sognava la
pensione. E ora che stava finalmente per levare le tende, gli si presentava una
ragazzina avvolta in un vestitino bianco, molto somigliante a una bambola di
porcellana, che gli chiedeva di poter vedere – all’alba – il ragazzo che lui aveva recentemente
salvato dalla morte.
«Ascolta, non
credo che sia il caso. Ho già fatto un’eccezione, permettendo a un
suo amico di restare a dormire.» Ne
ho fatte fin troppe, di eccezioni, nelle ultime ventiquattr’ore.
«Ed è troppo presto per le visite...»
La ragazza sorrise
dolcemente.
«Lo so, mi
dispiace. Sarei voluta venire ieri, subito dopo essere atterrata...» Gli
si avvicinò, e Leonhart vide i segni della
stanchezza sul suo bel visetto. «La prego, dottore. È così
tanto tempo che non lo vedo. Sarà già dura in sé, dopo
quello che è successo... Per favore.»
Leon la soppesò
per un attimo con lo sguardo, una ragazza arrivata da chissà dove, che
ancor prima che il sole sorgesse aveva rivolto il suo primo pensiero ad un
amico, e che aveva gli occhi più espressivi
che avesse mai visto.
Lasciò sulla
scrivania la giacca che aveva già afferrato per uscire e la precedette
fuori del suo studio, in corridoio.
«Vieni, ti
accompagno.»
* * *
La scena era davvero molto simile ad una che avevano
già vissuto.
Seduto in un letto non
suo, Roxas guardava con aria assorta la finestra che
rendeva il buio penombra. L’unica nota dissonante era una presenza
inedita, un adolescente dai capelli rossi, seduto accanto al letto e
addormentato con le braccia incrociate al fianco del ragazzo.
Naminè si fermò sulla
soglia e aspettò in silenzio che il suo vecchio amico si accorgesse di
lei, cercando di non sentirsi di troppo.
Quando Roxas si voltò e la vide, non diede alcun segno di
sorpresa o d’altro che testimoniasse il tempo passato. Soltanto, sorrise.
Un sorriso che, Naminè ne era certa, non aveva, l’ultima volta che si erano visti.
«È un
brutto momento?»
Roxas scosse la testa.
«No, vieni. Sono contento di vederti.»
La ragazza si
avvicinò al letto, mascherando quel che c’era dietro il proprio,
di sorriso, perché sapeva che a lui avrebbe fatto male vederla triste.
«Anch’io
sono contenta di vederti. Ma avrei preferito un altro contesto.»
Roxas non cambiò
espressione e alzò leggermente le spalle, in un chiaro gesto di che-ci-vuoi-fare.
Naminè non riusciva a smettere di guardarlo
negli occhi: sapeva che li avrebbe trovati cambiati, l’aveva intuito da
quel poco che Kairi le aveva detto; ma certo non si
era aspettata che fossero così... sereni ed esposti, privi di qualsiasi
barriera.
In quel momento, il
ragazzo sembrò ricordarsi della presenza di una terza persona nella
stanza; dopo una breve occhiata al compagno, che non dava segno di aver sentito
le loro parole e continuava a dormire praticamente appoggiato a lui,
tornò a guardarla con un sorriso un po’ imbarazzato.
«Ho ricevuto il
tuo abbraccio. Grazie.»
Naminè si sedette quasi ai
piedi del letto, senza mai guardargli le gambe, per portare gli occhi
all’altezza dei suoi. Fissò a sua volta il giovane tra loro.
«Immagino sia
stato lui a consegnartelo.»
Roxas sospirò e
abbassò di nuovo lo sguardo. «Già. È stato
quest’idiota.»
Naminè si stupì della
nota di divertita complicità nella sua voce, ma non lo diede a vedere.
«Ed è stato
sempre lui a farti uscire da quell’appartamento.»
A questo Roxas non rispose. In fondo, non era una domanda.
La ragazza
continuò a mezza voce, rispettando tanto il sonno dello sconosciuto
quanto il silenzio dell’amico.
«Non ho idea di
chi sia questo... idiota, come
l’hai appena chiamato. Ma se ha saputo esserti così vicino, forse
non è tanto un idiota.» Sorrise ancora. «Deve essere una
persona importante per te.»
Roxas alzò lentamente
gli occhi e la guardò per un attimo, come studiando lei o la domanda o
entrambe. Alla fine arrossì e sorrise in modo quasi colpevole.
«Credo di
sì» mormorò.
Naminè guardò di nuovo
il rosso addormentato, chiedendosi cosa nascondesse dietro quei lineamenti
sottili e quell’aria cupa, quali e quante abilità fossero state in
grado di vincere le resistenze di Roxas. Quando
alzò lo sguardo, vide che il ragazzo aveva chinato il suo e si passava
stancamente una mano sugli occhi.
«Mi sento in
colpa, Naminè.»
Restò in
silenziosa attesa. Continuando a fissare il lenzuolo steso sulle sue gambe,
gemello di un lenzuolo di un letto di due anni prima, Roxas
prese fiato e coraggio e proseguì.
«Ieri mattina ho
deciso di uscire perché volevo rivedere Hayner
e gli altri. Perché... qualcosa
mi aveva convinto che non ci vuole un paio di gambe per affrontare la
realtà. E soprattutto, non volevo perdere la loro amicizia solo
perché non potevo più usare uno skate.» S’interruppe,
e Naminè immaginò che, se solo avesse
potuto piegare le ginocchia, lo avrebbe fatto pur di seppellirvi il viso.
«Credo sia stato l’unico giorno in due anni in cui non abbia pensato
a quel maledetto incidente. E sai la cosa più buffa?» Chiuse gli
occhi e fece una smorfia, come se non ci fosse proprio niente di buffo in ciò che stava per dire. «Il
chirurgo che mi ha tolto dal fianco quel proiettile sostiene che
c’è la possibilità che io torni a camminare.»
Naminè non reagì in
alcun modo a quella rivelazione inaspettata.
Capì subito quale
fosse la ‘colpa’ di Roxas. Ma voleva che
fosse lui a parlarne apertamente, che si liberasse di quel peso che gli aveva
impedito di vivere per due anni.
E Roxas
lo fece. La guardò negli occhi e sciorinò la sua ammissione.
«È che mi
sembra di tradirli. Di tradire loro e
i miei ricordi. Non posso affrontare tutto questo: l’aver ritrovato Hayner, Olette, Pence, e forse anche una speranza. Mi fa sentire troppo...
in colpa.»
Calò il silenzio
che segue ogni confessione difficile. Tra di loro, il respiro regolare del
giovane dai capelli rossi.
Naminè sovrappose a quel suono
la propria voce tranquilla.
«Tu non stai
tradendo niente e nessuno, Roxas. Hai solo cominciato
a guardare avanti. È quello che vorrebbero i tuoi.»
Roxas tirò un sospiro
profondo. Era evidente che aveva sentito parole del genere così tante
volte da non avere più nemmeno voglia di starle a sentire. La ragazza si
sollevò, per andare a sedersi più vicino a lui.
«Lo so»
sorrise, «qualsiasi cosa io ti dica in questo momento suonerebbe come una
frase fatta. Vorrei dirti di continuare quello che hai iniziato... Di
continuare a seguire questo»
mormorò posandogli una mano all’altezza del cuore. «Ma devi
essere tu a scegliere. Riguarda solo te.» Si voltò a guardare lo
sconosciuto, che in quel momento si mosse appena, quasi percepisse la sua
attenzione. «Forse potresti parlarne a lui. Qualcosa mi dice che non è un tipo da frasi
fatte.»
Avvertì che Roxas si rilassava e si voltò in tempo per vederlo
sorridere al lenzuolo. Alla fine lui sollevò lo sguardo ed una mano per
stringere la sua.
«Grazie, Naminè.»
«Per cosa?»
«Non mi hai
chiesto come mi sentissi. L’hai capito da sola. Come sempre.» Il
sorriso si fece più sicuro. «Non sei cambiata.»
Naminè ricambiò la
stretta.
«Grazie a te per
averlo fatto, invece.» Si alzò e gli posò un bacio lieve
sulla fronte. «Ti lascio tranquillo. Tieniti stretto il tuo amico, Roxas Key; nessuno merita di perdere una persona come
te.»
Roxas arrossì e
sorrise di nuovo. «Ci proverò.»
Lei si voltò e
uscì dalla stanza, lasciandola piena di occasioni e decisioni e, forse,
di cambiamenti.
L’immagine di un Axel
addormentato su una sedia, ma appoggiato con testa e braccia sul letto di Roxas, mi ossessionò non appena iniziai a scrivere i
capitoli dell’ospedale *_* La trovavo infinitamente dolce.
Ecco dunque spiegato il ruolo di Naminè: spero non giudichiate troppo negativamente i
leggerissimi accenni RokuNami, poiché, anche se
sostengo fortemente l’AkuRoku, io personalmente
adoro anche lei. <3
Grazie a chiunque stia leggendo, come
sempre. Fate sempre la mia gioia.
La posizione prolungata si fece sentire e il
dolore ai muscoli della schiena lo svegliò.
Ritrovandosi seduto
nella stessa posa in cui quella notte si era assopito, molte ore dopo aver
visto Roxas addormentarsi tranquillo, Axel si sorprese di non essere caduto da quella sedia
precaria. Poi capì che nel sonno si era tanto avvicinato al letto da diventarne
quasi parte integrante.
Aprì gli occhi e
mise a fuoco la figurina di Roxas. Era seduto contro
la testata, lo sguardo rivolto alla porta in fondo alla stanza, il viso e i
capelli accarezzati dalla debole luce rosata che proveniva dalla finestra. Gli
sembrò lontanissimo.
«Che ti ha
detto?»
Roxas sussultò e
abbassò lo sguardo su di lui, accorgendosi solo allora che era sveglio.
«Hai deciso di
farmi venire un accidente?» sbottò.
Axel si tirò su e si
sgranchì i muscoli di schiena e braccia, nascondendo uno sbadiglio
dietro la mano.
«No, quella
sarà solo l’ultima fase.»
«Ah, ah. Ma che
ridere.» Il biondino riprese a respirare normalmente. Sollevò le
sopracciglia. «Che mi ha detto chi?»
«La persona che
è stata qui.»
Roxas continuò a
guardarlo, confuso, con una lieve traccia di misterioso imbarazzo. «La
persona... Cosa?»
«Stavi
fissando la porta con aria imbambolata. Sarò pure uno stronzo, ma non
sono mica scemo.» Axel si appoggiò allo
schienale della sedia, incrociando le braccia. «Dai, dillo. Era una
persona che non ti aspettavi di vedere o che ti ha detto qualcosa che ti ha
dato di che riflettere. O tutte e due le cose.»
Visibilmente impressionato,
il ragazzino sorrise.
«Tutte e due le
cose, in effetti.» Scosse il capo. «Grande. Non credevo che fossi
così intuitivo.»
«Era un
insulto?» Axel gli puntò un dito contro.
«Sappi che ho ucciso per molto meno, bimbo.»
Roxas non si lasciò
intimidire e gli scostò la mano con la sua. «Non sei credibile. Lo
so che non hai mai ucciso nessuno.»
Colpito.
«Aaah, sono troppo tenero con te.» Il giovane
alzò gli occhi al cielo, intrecciando le mani dietro la nuca. Poi si
decise a tornare serio. «La famosa Naminè,
immagino.»
Roxas distolse lo sguardo.
«Sì... Era lei.»
La sua voce era
diventata bassa e affettuosa. Axel avvertì
qualcosa alla bocca dello stomaco, qualcosa come... fastidio. Si diede mentalmente dell’idiota, e tornò ad
ascoltare le parole di Roxas con una forzata
neutralità.
«È sempre
stato facile parlare con lei. Eppure stavolta mi è sembrato... Non so.
Quando NaminèUmiko
ti smaschera fa sempre effetto; ma oggi... beh, più del solito.»
Lo guardò, inespressivo. «Forse perché c’entravi
tu.»
Sorpreso, Axel abbassò le braccia. «Io?»
«Ehi, non crederti
tanto importante.» Di colpo Roxas
sogghignò. «Sono soltanto circostanze, non montarti la
testa.»
«Sarà»
fece lui con lo stesso ghigno, «ma intanto parli di me quando non ti
ascolto. Cos’è che vi siete detti?»
Si aspettava che il
ragazzo continuasse con lo scherzo, con una qualche battuta ironica. Invece lo
vide sorridere pensoso al vuoto.
«Magari prima o
poi ti racconto.»
L’ingresso delle
infermiere pronte al primo giro di pulizie della giornata interruppe quello
strano scambio di battute. Ma anche se non ebbe modo di rispondere alle sue
parole, Axel continuò a rimuginare a lungo sul
tono di Roxas.
Era il tono di una
persona che si era liberata di un peso.
* * *
Tifa Lockhart sedeva
sul divano di un appartamento in cui lei stessa aveva provveduto a sistemare
quello che molti dei suoi colleghi avevano sarcasticamente definito «il
figliol prodigo» dell’egregio signor Marluxia.
Nella poltrona di fronte, Demyx aveva appena finito
di raccontarle una storia di parole date e mai mantenute e di ricordi scacciati
dalla finestra e tornati a bussare alla porta.
«È... vero?» gli chiese soltanto,
profondamente colpita.
Il ragazzo fece un
sorriso triste e si strinse nelle spalle. Infilò una mano nella tasca
laterale dei jeans.
«Posso
dimostrarglielo.» Le mostrò una fotografia. «È da
questa che è cominciato tutto. Quando Marluxia
se l’è procurata e io l’ho vista, ho capito che mi stavo
perdendo. E che così avrei perso anche l’unica cosa che mi fosse
rimasta.» Le tese la foto, senza cambiare espressione. «La
prenda.»
Esitante, Tifa gliela
sfilò dalle dita e osservò la ragazzina, inconsapevole
responsabile della cattura di un individuo senza alcuno scrupolo né
morale.
«Vorrei rivederla,
tenente.» Il tono di Demyx si fece affranto.
«Vorrei avere la possibilità di spiegarle tutto. Non può
aiutarmi?»
La donna sollevò
lo sguardo su di lui. Vide un diciannovenne allampanato, un ragazzo cresciuto e
un giovane uomo, un ennesimo naufrago della vita. Vide ciò che si
agitava nei suoi occhi verdi, e per un attimo ripensò a quelli –
così simili – di Axel, a ciò che
lei vi aveva letto quando le aveva chiesto di poter restare al fianco del suo
amico...
Sospirò, e ancora
una volta distolse i suoi.
Pensò che, se
anche si fosse fatta licenziare e radiare dalla polizia, almeno avrebbe avuto
un posto assicurato in Paradiso.
* * *
L’unica cosa che mancava davvero a Saïx era il fumo.
Non si trattava, come
credevano gli stupidi e i superficiali, dell’effimero effetto adrenalinico
che poteva avere sulla mente umana. Per lui il fumo era molto dipiù.
Gli piaceva assaporarlo, ma più ancora gli piaceva starsene disteso per
ore a guardarlo, serpente evanescente nell’aria, a studiarne i movimenti
e l’impalpabilità, ad allungare una mano per maneggiarlo a suo
piacimento. Ed era così esaltante disperdere con un gesto qualcosa che
neppure si poteva toccare...
Saïx era consapevole di
essere pazzo. Solo che sapeva nasconderlo molto bene.
Era una cosa che aveva
sempre saputo. Ne aveva avuto la conferma a otto anni, quando aveva infilato un
gatto in un secchio pieno di acido, solo per il gusto di sapere cosa si provava a fare del male a un
essere vivente.
Il gatto era morto e lui
si era sentito potente.
Come quando aveva
appiccato il fuoco ai pantaloni di quel ragazzino, di due anni più
grande, che a scuola l’aveva chiamato ‘checca’. O quando
aveva iniziato ad appostarsi nel bagno delle femmine per picchiarle e vederle
piangere.
In breve tutti avevano
cominciato a girare alla larga da quello strano bambino con i capelli lunghi
sulle spalle e gli occhi gialli da falco. E lui aveva cominciato a credere di
poter davvero fare qualsiasi cosa, di poter creare le forme della vita
dall’illusione del fumo.
Quelli che erano
definiti da tutti «i suoi attacchi»
non erano mai stati sistematici; così, gli assistenti sociali e gli
insegnanti avevano creduto che fossero momenti di aggressività
temporanea, distruttiva ma non ingiustificabile, dovuti alla sua difficile
situazione familiare: tra un padre drogato e una madre puttana, era abbastanza ovvio che il figlio avesse degli accessi
di violenza verso il mondo. Nessuno aveva visto il germe della follia che il
piccolo Saïx, per contro, aveva già
imparato a riconoscere.
E a gestire.
E più cresceva il
suo essere folle, più lui sviluppava la capacità di non farlo notare.
Era scappato di casa e
si era dato alla malavita, e ancora nessuno era arrivato all’ovvia
verità.
Dubitava che, oggi
stesso, qualcuno potesse capire cosa ci fosse davvero nella sua testa. Nessuno
aveva capito, mai. La sua famiglia prima, i suoi amici poi. Nemmeno gli sbirri,
nemmeno il giudice che l’aveva sbattuto in galera, nemmeno Marluxia.
Un lieve sospiro gli
affiorò alle labbra.
Marluxia…
Aveva fatto qualsiasi
cosa per lui, qualsiasi. Sapeva di occupare il posto d’onore nel suo
libro paga, ma avrebbe voluto far parte anche di qualcosa d’altro...
Invece era arrivato quel dannato moccioso, e Marluxia
aveva letteralmente perso la testa per lui. Per la prima volta in vita sua, Saïx si era ritrovato a fare i conti con una cocente
impotenza.
Per questo motivo aveva
commesso troppi errori, troppe imprudenze. E alla fine si era fatto beccare.
Sarebbe stato facile e
giusto spifferare alla polizia che quel giorno con lui c’era anche quello
stronzetto di Demyx, che era riuscito a svignarsela
sotto il loro naso... Ma non aveva potuto
farlo.
Lui era pazzo, non cattivo.
«Ehi, Saïx! Dormi?»
Aprì gli occhi e
tornò al presente, alla branda scomoda di una cella umida. Seguendo il
richiamo, si alzò e si diresse con movimenti felini alle sbarre della
porta, oltre le quali si snodava un corridoio semibuio su cui si affacciavano
altre celle uguali alla sua.
Da una di esse, di
fronte a lui, giungeva il ghigno crudele di un detenuto dalla corporatura
robusta e il volto irsuto di basette lunghe. Xaldin,
detenuto numero 10277, accusa per rapina a mano armata.
«Hai sentito la
novità? Hanno preso un boss di spacciatori, ieri mattina.»
Saïx lo fissò senza
espressione. «E allora?»
«E allora, potrebbe essere il tuo,
no?» Il ghigno si accentuò. «Dicono che è stato
tradito da uno dei suoi, un pisciasotto senza palle.
Un Demyx qualcosa, ho sentito una guardia che ne
parlava mentre tu dormivi.» Xaldin si
portò una mano a coppa al lato della bocca, in atteggiamento
confidenziale e volutamente provocatorio. «Pare che il boss si chiami Marluxia. Ti dice niente?»
Saïx non lasciò
salire al viso ciò che gli aveva appena colpito lo stomaco. Si
voltò lentamente e tornò a stendersi senza degnare quel pezzo
d’idiota di una qualunque risposta.
Nel silenzio, le parole
dello scimmione continuarono a martellargli il cervello a lungo.
«Hanno preso un boss di spacciatori... Dicono
che è stato tradito da uno dei suoi... Un Demyx
qualcosa...»
Una volta – lo
stesso giorno in cui aveva accolto quella puttanella di Larxene
tra le sue fila – Marluxia aveva detto una cosa
che l’aveva colpito: che soltanto quando si è completamente soli
si può considerare l’idea di arrendersi.
Sorrise al soffitto. Lui non l’avrebbe lasciato solo.
Mai più.
In un modo o
nell’altro...
Saïx chiuse di nuovo gli
occhi e si preparò all’ennesimo pomeriggio vuoto e bianco.
Pensò che
l’unica cosa che gli mancava davvero era il fumo.
MI
SCUSO INIFINITAMENTE PER LA PROLUNGATA ASSENZA E PER LA SINTETICITà DI QUESTE NOTE. STO PASSANDO UN PERIODO DI
GRAVI PROBLEMI FAMILIARI CHE MI HANNO SERIAMENTE
INDOTTA A PENSARE DI MOLLARE VARIE COSE; MA LA
SCRITTURA MAI. GRAZIE A CHIUNQUE STIA CONTINUANDO A LEGGERE, SEGUIRE E
COMMENTARE: SPERO DI TORNARE PRESTO A FARE LA SCEMA
COME AL SOLITO NELLE MIE PUBBLICAZIONI SU QUESTA OASI DI
SALVEZZA CHE è EFP.
Il sole splendeva
implacabile sulle lapidi grigie, in uno strano accostamento tra freddo e caldo,
vita e oblio. Per quanto avrebbe desiderato concentrarsi sull’aspetto positivo
di quel contrasto, atto a ricordare che il sole sarebbe sempre sorto il giorno
dopo, in quel momento sentiva di non esserne in grado.
L’agente AerithGainsborough aveva appena
assistito all’ultimo saluto ad un ragazzo sconosciuto e, per la prima volta
da che era entrata in polizia, aveva pianto.
Benché si
trattasse del funerale di un adolescente, oltretutto di una famiglia piuttosto
nota in città, il cimitero era quasi vuoto. Aerith
osservò ancora una volta i coniugi Ienzo,
pallidi e distrutti nei loro vestiti neri, immersi in un dolore che – a
giudicare dalla fissità dei loro sguardi – sembrava andare al di
là delle lacrime. Erano soli, accanto alla fossa, e non si toccavano e
non si guardavano. Come se volessero estraniarsi dal mondo, avevano rifiutato
la vicinanza dei pochi invitati, forse per orgoglio, forse per apatia. Aerith si chiese se il loro unico figlio avesse avuto lo
stesso sguardo fiero e la stessa espressione inflessibile, sotto quel cappuccio
nero in cui si era nascosto per vendere l’anima e il corpo alla droga.
Si chiese il
perché.
Si rispose che nessuno
l’avrebbe mai saputo.
Continuò a
guardare quell’esiguo e misero addio da lontano, al riparo dei cipressi
che delimitavano un lato del camposanto, finché non avvertì una presenza
da qualche parte alla sua destra.
Sorrise.
«Così sei
venuto anche tu.»
Si voltò nello
stesso istante in cui Cloud si fermava accanto a lei.
«Non sono riuscito
a fare altrimenti.» Doveva esserci qualcosa di caldo nei suoi occhi di
ghiaccio, perché il freddo abituale sembrava essersi sciolto.
«È stato più forte di me. Dio santo» proruppe
all’improvviso, a mezza voce, «se penso che era solo un
ragazzino...»
Aerith si limitò ad
annuire. Era la stessa, identica cosa che anche lei aveva pensato e detto sul
momento. Lei che era sempre stata la più debole della loro squadra, la
più sensibile, la più sentimentale
– così diceva Cloud. Mentre il compagno
reagiva con distacco alla vista di un diciassettenne morto sotto i loro occhi,
lei si era sentita per un lungo minuto perduta.
Faceva uno strano
effetto, ora, sentire quelle stesse parole dalle labbra di lui: il poliziotto
che aveva solo fatto il suo lavoro,
l’uomo che aveva solo premuto
un grilletto. Capì d’improvviso che quando, quella notte, Cloud le aveva stretto una mano, con quel contatto non
cercava di infonderle sicurezza, ma ne chiedeva lui stesso.
Rimasero a lungo in
silenzio a condividere quel tutto che li annullava e un vuoto che li riempiva.
Quando parlò di
nuovo, Cloud lo fece guardandola negli occhi, e
sollevando una mano verso il suo viso.
«Hai
pianto.»
Aerith rimase immobile a
sentire il contatto del suo palmo. «No.»
Lui non ribatté a
quella sua insensata negazione. Sospirò e tornò a guardare la
tomba spoglia in lontananza.
«A volte mi chiedo
se tu ed io non abbiamo scelto il mestiere sbagliato.»
Colpita, Aerith studiò il suo profilo deciso nell’ombra
degli alberi. Alla fine sorrise di nuovo.
«Sei già un
passo avanti. Io mi chiedo se non abbiamo scelto il mondo sbagliato.»
Cloud non cambiò
espressione.
I presenti cominciarono a lasciare il cimitero,
e in breve quella non fu altro che un’altra tomba a ricordare
un’altra vita che era finita troppo presto e troppo male. Si alzò
un vento leggero, e l’erba alta si piegò docilmente a sfiorare la
lapide, un lieve abbraccio che non avrebbe mai potuto essere tale.
Aerith uscì dal cono
d’ombra dei cipressi e fece per avvicinarsi.
Fu costretta a fermarsi
dalla vibrazione del cellulare nella tasca dei pantaloni.
Quando vide il numero
sul display, si impose di smettere i panni della giovane donna in cerca di
risposte sulla vita e di tornare a indossare quelli di un’agente di
polizia pronta a cancellare quelle sbagliate.
Premette un pulsante e
si portò il telefonino all’orecchio.
«Mi dica,
tenente.»
«Aerith» giunse la voce asciutta di Tifa Lockhart, «ho bisogno del tuo aiuto per una faccenda
delicata. Ho pensato a te perché so di potermi fidare del tuo tatto. Lo
farei io stessa, ma...» Sospirò. «Ho paura di essermi
già esposta troppo.»
«Di che si
tratta?»
«Devi rintracciare
una persona.» Una breve esitazione. «Per conto di Demyx.»
Sorpresa, la giovane
sgranò gli occhi. «Per conto di... Come?»
«Non
c’è niente di cui allarmarsi.» Nel tono del tenente Lockhart comparve una nota di urgenza. «Non te lo
chiederei, se così non fosse. Il ragazzo me lo ha chiesto come un favore
del tutto personale, e io mi fido di ciò che lo muove. Tu devi solo
fidarti di me.»
«Ma certo che mi
fido di lei, tenente.» Aerith era sempre
più confusa. «Solo che non capisco cosa...»
«È una
storia complicata. Ascoltami...»
Mentre il suo capo le
spiegava la storia complicata, lei
ebbe una serie di diverse reazioni, dall’incredulità alla
partecipazione. L’ultima cosa che pensò, appena prima della fine
di quel discorso, fu che in fondo lei e Tifa Lockhart
erano davvero molto simili.
«Va bene, tenente.
Me ne occuperò io.»
«Ti
ringrazio.» La donna sembrava sollevata. Forse si aspettava che il suo
interesse per le vicende personali del soggetto che stavano ancora sorvegliando
venisse deriso. «Demyx mi ha dato una foto
della ragazza. Te la farò avere al più presto.»
«D’accordo.»
Una pausa.
«Aerith... Posso permettermi una confidenza con te?»
«Certamente.»
«Nel nostro
lavoro, dicono sia indispensabile non mescolare i sentimenti con la
professionalità, lasciarsi coinvolgere il meno possibile.» Nella
voce di Tifa si poteva distinguere il sorriso. «Io, come avrai notato,
non ci sono mai riuscita.»
Aerith non poté fare a
meno di sorridere a sua volta. «Temo che siamo in due, tenente Lockhart.»
L’altra rise.
«Allora noi due siamo davvero molto simili.»
Dopo aver chiuso la comunicazione, Aerith si voltò a guardare Cloud,
che aveva seguito la telefonata in silenzio.
«Una nuova
indagine?» le chiese.
Lei annuì e
ripose il cellulare in tasca. «Più inimmaginabile di quanto tu possa
immaginare.»
Si voltò di nuovo
e riprese a camminare verso la tomba, ripetendosi mentalmente tutta quella
«storia complicata» e riflettendo su quante e quali svolte la vita
potesse presentare agli occhi degli esseri umani. Come nel caso di quel ragazzo,
Demyx, che aveva tirato le somme del suo futuro
quando si era ritrovato a fronteggiare un lontano passato.
Si fermò accanto
alla lapide e rimase per un po’ immobile a guardarla.
Lasciarsi coinvolgere il meno possibile...
Sentì Cloud avvicinarsi alle sue spalle, ma questa volta non si
preoccupò di negare o nascondere nulla.
AerithGainsborough
si inginocchiò accanto alla tomba di ZexionIenzo e pregò per lui, augurandosi che, qualunque
fosse il posto in cui si trovava adesso, potesse ripagarlo di ciò che
– non importava di chi fosse la colpa – aveva perduto.
Eccomi qui! Capitolo piuttosto breve, lo
so, ma un pensiero appositamente per Zexion era cosa
doverosa. Ed era anche importante specificare che Tifa ha tutte le intenzioni
di rintracciare la ragazzina che Demyx cerca, e che Aerith in questo avrà un ruolo determinante.
Come avrete notato sto uscendo dalla crisi
maniaco-depressiva e sto rapidamente tornando serena e cordiale ^^ E questo
anche grazie al sostegno dei miei lettori e recensori, che non cesserò
mai di ringraziare. Siete meravigliosi.
<3
Ah, sì: perdonate la banalità
del cognome di Zexion. Davvero non mi è venuto
in mente altro ;_;
«Cavolo,
Sora, è una settimana che sono qui. Non è che muoio, se per un giorno dimostri di non
preoccuparti per me e rimani a casa, sai?»
«Cosa? È così che accogli la
visita disinteressata di tuo fratello e di una scatola di cioccolatini?»
«Cioccolatini?» Roxas
si raddrizzò sul letto e tese le braccia verso di lui. «Da’
qua!»
Sora scoppiò a ridere e gli
consegnò la scatola, voltandosi subito dopo per sistemare distrattamente
un pacchetto di fazzoletti sul comodino, in modo da nascondere a suo fratello
quella stupida commozione che si sentiva pungere negli occhi ormai ogni volta
che lo guardava.
In soli sette giorni lo aveva visto ricominciare
a ridere, a scherzare, a guardare dritto in viso chiunque avesse davanti; era
come se quell’ospedale, invece che deprimerlo, gli avesse dato la forza
di non lasciarsi più abbattere.
Forse era vero: quando si è sul fondo,
non si può che risalire.
Sora non sapeva ancora se Roxas
avesse scoperto quella forza nel ritorno di Naminè,
che veniva a trovarlo quasi ogni giorno, o nella vicinanza ormai totale di Axel, che – a quanto lui stesso aveva notato –
non tornava al condominio neppure per la notte. Non lo sapeva e neppure gli
interessava saperlo: gli bastava poter finalmente leggere negli occhi di suo
fratello, oltre i ricordi e le paure.
Si voltò appena in tempo per vedere Roxas scartare un cioccolatino con occhio critico e
divertito.
«Mmm. Cioccolato
puro al cento per cento, direttamente da Traverse Town. Una cosa al di
là dei tuoi discutibili gusti. Questo l’ha scelto Kairi, poco ma sicuro.»
Sora rise di nuovo. «Mi hai scoperto...
Comunque sì, indovinato. Oggi non è potuta venire, ma lei e Naminè ti mandano come sempre tutto il loro affetto.»
Roxas sorrise di rimando.
«Ringraziale... Anzi no, non farlo, ci penso io appena le vedo.»
Sora tornò a far scorrere gli occhi sul
comodino, testimone dei regali di tutte le visite che suo fratello aveva ricevuto
da quando era stato spostato in una camera priva di quelle terribili
apparecchiature: album da disegno, matite, pastelli e riviste varie da parte di
Kairi, Naminè, Hayner, Olette, Pence, e persino da Riku, Tidus e Selphie; i dolci della
nonna, che aveva lasciato la villa da sola e di buon trotto e si era presentata
in ospedale con un’intera torta alla frutta per il dottor Leonhart, che aveva ringraziato con uno dei suoi abbracci tritacostole; anche alcuni libri da parte del professor Ansem, titoli difficili di Defoe e Wilde e Dickens e
un’edizione rilegata in pelle dell’Odissea che Sora aveva praticamente terrore di guardare, ma che per
qualche motivo aveva entusiasmato Roxas più di
tutti gli altri volumi messi insieme.
Pensò a due anni prima, a quando in
un’altra piccola stanza bianca non era potuto entrare nessuno
all’infuori di lui, Kairi e Naminè.
Pensò che, da quando la sua sedia a
rotelle aveva incrociato le gambe di Axel, Roxas ne aveva fatta di strada. Molta più di quanta
ne avesse mai percorsa coi piedi su uno skateboard.
Curioso che proprio la presenza di Axel fosse l’unica a non avere un segno tangibile su
quel comodino...
Sora andò finalmente a sedersi accanto al
letto.
«Come mai oggi non c’è il
nostro dirimpettaio?»
«Sarà qui fuori da qualche
parte» rispose Roxas con un’alzata di
spalle. «Non è che passa tutto
il tempo con me... Non ho più cinque anni, non so se hai notato»
aggiunse in un sorrisetto.
Fu solo in virtù di quel sorriso, per non
vederlo diventare una piccola o di
stupore, che Sora non disse che in realtà – anche se lui sembrava non essersene accorto
– da sette giorni Axel non si era mai allontanato dall’ospedale. E
che forse non era soltanto il suo senso di colpa o il semplice desiderio di
stargli vicino a trattenerlo lì... Forse gli nascondeva qualcosa.
Lasciò correre. «Beh, in ogni caso
mi fa piacere che ci sia lui qui con te. In fondo io non posso venire a
trovarti in qualsiasi momento... Voglio dire, la scuola, i compiti e...»
«Perché sei rosso?»
Sora si bloccò e lo fissò,
interdetto. «Sono che cosa?»
Roxas gli puntò un
polpastrello su una guancia.
«Sei arrossito. E poi evitavi di guardarmi
in faccia.» Di colpo i suoi occhi s’illuminarono, e sorrise con
aria trionfante. «Ah-ha, ho capito. Sta
succedendo qualcosa. Kairi, giusto?»
Sora sentì distintamente il sangue salirgli
di corsa su per le guance fino alla fronte. Si ritrasse e proruppe in uno
sbuffo scocciato.
«Non sta succedendo un bel niente! Solo...»
Ripensò al profumo dei capelli di Kairi contro la sua guancia, al suono e al calore del suo
respiro, alla mano di lei sulla sua, e gli mancarono tanto le parole quanto il
sostegno della sedia. Deglutì e si sforzò di tornare a guardare Roxas, che ancora sorrideva, un sopracciglio sollevato e lo
sguardo furbetto.
«Solo...?»
Sora sbuffò di nuovo e alzò gli
occhi al soffitto. «Oh, uffa. Mi ha chiesto di dormire da lei,
stasera.»
E ieri
sera. E quella prima. E le precedenti. Da una settimana.
Ma questo non lo disse.
Provò uno strano sollievo, però,
dopo aver snocciolato quelle parole. La verità era che Roxas era l’unico a conoscenza di quella sua stradannatissima
cotta di vecchia data e, per quanto lo infastidisse parlarne, Sora sapeva che
non avrebbe mai potuto né voluto farlo con altri che con lui.
Sbirciò la sua espressione, ma non
trovò traccia di malizia nel suo sorriso o nel suo silenzio. Così
si rilassò, e decise di contraccambiare il colpo.
«E di te e Naminè
che mi dici?» sogghignò. «So che lei viene sempre a trovarti
da sola, non si fa mai accompagnare né da Kairi
né dalla nonna. Chissà come mai...»
Se avessero avuto ancora tredici anni, se
fossero stati seduti in una macchina diretta a un bel parco in una giornata di
sole, insieme ai loro genitori, Roxas sarebbe
arrossito furiosamente, gli avrebbe lanciato addosso qualcosa e gli avrebbe
dato del cretino. Ma era un giorno
diverso, un luogo diverso, e di sicuro anche loro due erano troppo diversi.
Roxas si limitò a
scuotere la testa con espressione compassionevole.
«Sei proprio incorreggibile, Sora.»
«Ehi, uno di noi deve pur esserlo,
no?»
Le loro risatine furono coperte dal suono
leggero della porta che si apriva e da una voce d’uomo venata di
compiacimento.
«Siamo di buon umore, vedo.»
Sora e Roxas si
voltarono all’unisono a guardare il dottor Leonhart,
che avanzò fino al letto con passo sicuro e sguardo rassicurante.
«Sono lieto di trovarvi così
sereni, ragazzi, ma ora c’è qualcosa di cui vorrei discutere con Roxas. Nulla di cui preoccuparsi, non temete.»
Roxas annuì. Il suo
viso si fece serio, ma Sora capì che ormai non temeva più nulla,
che era anzi pronto a fronteggiare qualunque novità, bella o brutta che
fosse. Anche da solo.
Per questo motivo si alzò.
«Ok, credo che me ne andrò a
cercare Axel e lo costringerò a farsi quattro
chiacchiere con me. Ci vediamo più tardi, Rox.»
Suo fratello lo guardò sorridendo, evidentemente
grato di quella dimostrazione di fiducia nei suoi confronti.
Alla fine
hai lasciato che percorresse la sua strada...
Sora salutò anche il chirurgo ed
uscì dalla stanza con un sorriso.
Si disse che Kairi
sarebbe stata di nuovo fiera di lui.
* * *
Il
bicchiere di plastica atterrò nel mucchio dei suoi predecessori nel
cestino. Axel fece un rapido calcolo: il tredicesimo
caffè in meno di sette ore. Un record personale. Probabilmente dovuto
all’assenza di sigarette. Dio, quanto gli sarebbe piaciuta una sigaretta.
«Hai l’aria di uno che aspetta la
manna dal cielo.»
Riconobbe la voce del tenente Tifa Lockhart senza il bisogno di voltarsi. Quando lo fece, la
vide avvicinarsi senza fretta, lungo il corridoio che conduceva alla nuova
stanza di Roxas.
«Toh, di nuovo lei. Quant’è
piccolo il mondo.»
La donna si fermò accanto a una finestra
e vi si appoggiò con i gomiti, guardandolo con – beh, con qualcosa
di molto simile alla simpatia.
«Come se non sapessi che sono qui per te.»
Axel infilò le mani
nelle tasche dei jeans che Sora gli aveva portato dall’appartamento
– «Va bene, ho capito che hai intenzione di dormire qui, ma almeno
un cambio di vestiti ogni tanto ti
serve, cavolo!» – e si puntellò con una spalla contro il distributore
automatico, a poca distanza dalla finestra.
«Sono lusingato, tenente. Non credevo di
aver fatto colpo.»
Tifa Lockhart rise di
gusto.
«Immagino sia per questa tua vena ironica
che ti ho preso a cuore» disse.
«Mi ha preso a cuore? Davvero?» Axel sgranò gli occhi, enfatizzando il tono
sorpreso. «Suppongo di doverla considerare una cortesia.»
«Nel tuo caso, diciamo pure una
grazia.» Tifa infilò una mano nella tasca anteriore della giacca,
estraendone un accendino e un pacchetto di sigarette. «Comunque
sì, ti ho preso a cuore. Anche se questo potrebbe significare che sto
abbassando la guardia. Fumi?»
Axel esitò per un
solo istante prima di accettare una sigaretta e lasciare che l’agente
gliel’accendesse.
«E in cosa consisterebbe» chiese
poi, un po’ diffidente, «questo ‘abbassare la
guardia’?»
La donna si prese il tempo di accendere
un’altra sigaretta per sé e di espirare una boccata fuori dalla
finestra aperta; quindi rispose con lo stesso tono leggero di poco prima.
«Quando sarai uscito di qui, almeno fino
al giorno dell’udienza, posso farti avere gli arresti domiciliari. Forse
anche un buon avvocato.» Lo guardò seriamente, per la prima volta
dall’inizio di quella conversazione. «Sono quasi certa che ai piani
alti avranno da ridire; ma in tutta sincerità, permettimi
l’espressione, me ne sbatto altamente. Io so solo che la tua storia non
è molto diversa da quella di Demyx. Se lui
avrà delle attenuanti, credo che tu potresti averne anche di più...
A meno che tu non mi abbia mentito, la qual cosa non mi sembra molto
plausibile.»
Una cosa analoga a ciò che anche Roxas gli aveva detto. Axel si
ricordò solo in quel momento di portarsi la sigaretta alle labbra.
«Le ispiro così tanta
fiducia?» commentò, avvicinandosi a sua volta alla finestra
perché il fumo potesse uscire dal locale.
Tifa sorrise. «Se ti piace come suona,
mettiamola in questi termini.»
L’adolescente spostò lo sguardo sul
balconcino affacciato su un cortiletto interno, molto simile a quello del
condominio, e per qualche tempo non ci fu altro che fumo e cose in sospeso.
Notò la bizzarria della scena: uno pseudo-fuorilegge
e un membro della polizia dei sobborghi di Twilight
Town, affacciati a un davanzale a fumare insieme. D’altronde, da
più o meno tre settimane nulla,
in quella che era la sua vita, poteva considerarsi normale.
«Avanti, tenente» sbottò alla
fine. «Deve riconoscere che tanto interessamento da parte sua è
piuttosto sospetto. Dov’è la fregatura?»
Tifa Lockhart spense
la cicca sul davanzale e si voltò per gettarla nel cestino là accanto.
Poi si volse di nuovo a guardarlo con un altro sorriso.
«Vuoi davvero saperlo?»
Sollevò un braccio e gli indicò gli occhi. «È qui.
Qui dentro, ogni volta che parli del tuo amico. Questi occhi sono la fregatura,
quella che mi ispira fiducia.»
Axel rimase immobile a
guardare la sua mano, finché lei non l’abbassò e gli diede
le spalle.
«Ci si vede, Axel.
Saluta Roxas da parte mia.»
Il tenente Lockhart si
allontanò da quella piccola sala d’ospedale senza aggiungere
altro, lasciandolo più confuso che mai.
Il flusso disordinato dei pensieri del ragazzo
fu interrotto da una nuova comparsa nel corridoio.
«Ehi, Axel!»
Il ragazzino dai capelli impossibili
arrivò alla sua altezza e gli passò accanto salutandolo
allegramente con la mano, diretto al distributore.
«Ehi, Sora» ribatté lui
laconico, spegnendo la sigaretta e lanciandola a far compagnia alla sorella.
Sora continuò a parlargli con aria svagata,
mentre sceglieva uno snack dalla macchina.
«Non era il tenente Lockhart
quella che ho appena visto allontanarsi?»
«Ah-ha.»
L’altro sembrò decidersi e qualche
secondo dopo gli si riavvicinò con un pacchetto di patatine in mano,
regalandogli uno dei suoi soliti sorrisi luminosi stile albero di Natale.
«Lo sapevi che qualche giorno fa è
venuta a trovare Roxas? Lui era molto sorpreso, forse
si è anche un po’ allarmato; ma è stata più che
altro una visita di cortesia. E ha portato con sé anche i due agenti
che... che erano al parco quel giorno. È stato gentile da parte loro.»
Aprì il pacchetto e glielo offrì; al suo cenno di diniego, si
cacciò una manciata di patatine in bocca e guardò di nuovo verso
il corridoio. «Strano che lei sia ancora qui, però.»
Axel lo fissò di
sottecchi. Se conosceva Roxas, almeno una minima parte di quanto pensava di
conoscerlo, era certo che non avesse parlato a nessuno della sua vera
identità, nemmeno a suo fratello, e che ora Sora non gli stesse
lanciando alcuna allusione.
Ma sentiva che non era giusto.
«Sora, ascoltami...»
Il ragazzo ingoiò il boccone e
bloccò sul nascere le sue parole.
«Bla, bla, bla. Non voglio sapere
niente. Lo so che qui sta succedendo qualcosa; non sono uno stupido, sai. Ma
non c’è bisogno che tu mi spieghi nulla, Axel,
capito?» Gli sorrise di nuovo. «Tu e Roxas
siete amici. Mi basta sapere questo di te.»
Per la seconda volta in pochi minuti, Axel si ritrovò senza parole.
A disagio, tornò a guardare fuori dalla
finestra, chiedendosi se prima di incontrare Roxas
gli fosse mai capitato che così tante persone dimostrassero di avere fiducia in lui.
Una domanda retorica.
* * *
Nel
momento esatto in cui Sora era sparito oltre la porta, il dottor Leonhart si era seduto al suo posto, sulla seggiola accanto
al letto.
«Allora, Roxas.
Ti trovo davvero molto bene.»
Il ragazzo gli sorrise con sincera riconoscenza.
«Credo sia merito suo, in fondo.»
Leon – diceva sempre che poteva chiamarlo
così – rise e scosse la testa.
«Temo che non sia del tutto vero, ma ti
ringrazio per le tue parole.» Poi si fece serio, e Roxas
capì subito cosa stesse per dirgli. «Hai parlato a qualcuno di
ciò che ti ho detto la settimana scorsa?»
Per
l’appunto.
Naminè era l’unica cui
fosse riuscito a dirlo, perché sapeva che lei l’avrebbe tenuto per
sé, che avrebbe lasciato a lui la scelta: se, quando e come dirlo. Ma
nonostante il suggerimento dell’amica, quello di parlarne almeno con Axel, non si sentiva ancora pronto a condividere quella
possibilità con altri. C’era sempre stata una domanda a bloccarlo.
E se poi
è solo una speranza e niente più?
Non avrebbe sopportato la delusione sul viso di
Sora, di Hayner, di Naminè.
Di Axel.
Abbassò lo sguardo sul lenzuolo e ne
attorcigliò un lembo con le dita. Era una cosa che faceva spesso, da
bambino, quando era nervoso; suo padre diceva sempre che, quando in casa si
trovava un qualsiasi tipo di tessuto ridotto alla forma di un serpente a
sonagli, allora Roxas aveva qualche problema.
Represse un sorriso triste. Non aveva mai capito
quel curioso meccanismo di collegamento secondo il quale alla mente umana
può bastare anche un solo piccolo particolare per ricordare tutta una
catena di eventi e di situazioni ormai dimenticate...
Alla fine scosse lentamente la testa. «No.
Non ne ho parlato con nessuno.»
A sorpresa, il medico si sporse verso di lui per
posargli una mano salda sulla spalla.
«Non devi vergognartene. È normale.
Stai ancora affrontando in prima persona la cosa, e hai bisogno di tempo per
riuscire a sostenere anche le reazioni di chi ti vuole bene. Credo che al tuo
posto mi sentirei proprio come te.»
Roxas sollevò lo
sguardo e sorrise colpevolmente al sorriso del chirurgo.
«Ha mai pensato di fare lo
psicologo?»
Leon rise di nuovo e si lasciò ricadere
sulla sedia.
«Mai.» Gli sorrise con aria
complice, come se gli stesse svelando un segreto. «Sai, Roxas, per quanto mi riguarda credo che estrarre un
proiettile dal corpo di una persona le sia molto più utile che cercare
di entrare nella sua testa, con l’alta possibilità di non farla
mai ragionare come le altre teste del mondo. Se ci pensi, è stupido,
oltre che inutile. Ognuno di noi è diverso dagli altri. Non ha senso
cercare di cambiare il tuo prossimo. Spesso già capirlo è difficile di per sé...»
Un lampo lontano, un eco improvviso...
«Non
capisci che io non sono come te, non lo sono mai stato! Non posso vivere a modo
tuo, Sora!»
«... anche se, certo, ci sono casi in cui
la psicologia fa miracoli. Ma diciamocelo, tu
non hai bisogno di uno psicologo. Soltanto di un po’ di
tranquillità, volesse il cielo – e di fiducia in te stesso.»
Roxas fu costretto a
distogliere di nuovo lo sguardo da quel giovane con gli occhi maturi di chi ha
trovato un senso alla sua vita.
Era proprio come la mamma. Stesso lavoro, stessa
passione, stessa comprensione.
Che strano. Perché oggi ricordare i suoi
genitori non gli faceva male come poco più di una settimana prima?
Eppure non era passato così tanto tempo
dall’ultima volta che aveva pianto per loro.
Leon si alzò all’improvviso, e la
sua voce lo strappò via dalle meditazioni.
«Bene, Roxas, ho
un’altra cosa da dirti. Ormai ti sei perfettamente ristabilito, e non
c’è più motivo per me di trattenerti qui. Sei pronto per
tornare a casa. Che ne dici?»
Il ragazzo alzò la testa, sorpreso.
«Posso davvero?»
«Stasera stessa, se vuoi.» Il medico
sorrise per l’ennesima volta. «Non vedi l’ora di andartene da
questo posto, vero?»
«Non è questo» Roxas scosse la testa. «È solo che...»
S’interruppe, cercando le parole più adatte, e alla fine
scrollò le spalle. «Non so. Mi sembra così strano
tornare... a com’era prima.»
«Già. Posso immaginare.» Leon
si diresse alla porta, l’aprì e trascinò qualcosa nella
stanza. «E immagino anche che ti farà male rivedere questa. Ma
quello di cui parli potrebbe anche non essere un ritorno definitivo. Non
credi?»
Quando posò gli occhi sulla sedia a
rotelle – la sua vecchia sedia
a rotelle, quella su cui aveva seguito Axel
attraverso il parco, quella che aveva trascinato fino agli HawkRunners, un po’ trasandata e ancora macchiata
di un piccolo schizzo di rosso – Roxas non
manifestò alcuna reazione e nessuna emozione.
Ma fu probabilmente in quell’istante che
capì che non poteva continuare a ignorare ciò che il dottor SquallLeonhart gli aveva detto
quando l’anestesia aveva esaurito i suoi effetti.
Potrebbe
non essere un ritorno definitivo... Potrebbe...
Per lui le cose erano già cambiate. Fin
dalla comparsa, nel suo condominio e nella sua vita, di quel misterioso
dirimpettaio con il diavolo negli occhi e una pistola nella tasca.
E allora, in fondo, non sarebbero potute
cambiare di nuovo?
* * *
Quando
rientrò nella stanzetta di Roxas – dopo
aver lasciato Sora al telefono con Kairi – Axel si fermò per un istante sulla soglia, sorpreso.
Accanto alla branda c’era quella
maledettissima sedia a rotelle che aveva imparato da un pezzo a conoscere. Roxas era seduto contro la testiera del letto, e non la
guardava; sembrava tranquillo come non mai, mentre disegnava con un lapis rosso
su uno degli album di cui gli amici lo avevano rifornito, tenendolo sulle gambe
sempre stese sotto il lenzuolo, in una posizione che non doveva essere poi
così comoda.
Axel realizzò che, in
tutto il tempo in cui era rimasto con lui in quella camera, non l’aveva
mai visto disegnare. Aveva intuito – anche a detta di Sora – che
quello era un suo vecchio sfogo, forse l’unico. Evidentemente,
però, non ne aveva più avuto bisogno... finora.
Curioso, gli si avvicinò per sbirciare;
il ragazzino non alzò la testa e mantenne la sua aria concentrata.
Axel arrivò fino
all’altezza del cuscino cui Roxas poggiava le
spalle, si appoggiò al muro e abbassò gli occhi sul suo foglio.
«Ma guarda.» Sogghignò,
nascondendo l’ammirazione per il suo tratto pulito e preciso. «Hai
bisogno di disegnarla per imprimertela bene in testa?»
Vide che Roxas
sorrideva, ma ancora non incontrò il suo sguardo.
«Perché non mi chiedi quel che
vorresti chiedermi davvero?»
«Cioè?»
Finalmente gli occhi azzurri si sollevarono fino
a quelli verdi.
«Cioè che cosa ci fa quella sedia
qui dentro.»
Axel colmò la propria
espressione di un esagerato stupore. «Sei telepatico, bimbo?»
«No, solo sveglio. Me l’hai detto
anche tu una volta, ti ricordi?» Roxas
abbassò di nuovo lo sguardo, poi la voce. «Il dottor Leonhart dice che posso tornare a casa.»
Axel non disse nulla. Sapeva
che c’era dell’altro.
«E... dice anche un’altra
cosa.»
Aspettò ancora.
Roxas finì di
tratteggiare uno dei sostegni della sedia che stava disegnando con tanta
minuzia. Di colpo lo guardò e gli tese il foglio.
«Mi faresti un altro favore?»
Colto alla sprovvista, prese automaticamente il disegno
dalla sua mano. «Quale favore?»
Roxas non sorrideva
più. «Puoi buttarlo giù dalla finestra?»
Axel lo fissò.
Era ovvio che non scherzava.
Dopo un lungo istante di esitazione, si
voltò, si avvicinò alla finestra aperta a pochi passi dal letto e
tese il braccio.
Aprì le dita, e il vento primaverile fece
il resto.
Guardò il disegno volteggiare lentamente
giù per i piani del GoodSamaritan
Hospital, virare a una nuova folata e dirigersi verso i rami di un albero del
giardino, dove rimase impigliato e continuò a dibattersi debolmente in
una lotta senza speranza. Lo guardò dando sempre le spalle a Roxas, dandogli il tempo di recuperare il coraggio, le
parole o qualunque cosa gli servisse per finire il discorso lasciato a
metà.
E alla fine, quello che fosse, Roxas lo trovò.
«Dice anche che potrei tornare a
camminare.»
Axel provò
l’impulso irrefrenabile di voltarsi a guardarlo, senza sapere cosa ci
sarebbe stato nei propri occhi e nei suoi; ma qualcosa lo tenne fermo al suo
posto.
Continuò a rispettare il suo silenzio e
la difficoltà che quella nuova possibilità doveva costargli,
riflettendo.
Ecco dunque il significato di quel simbolo
abbandonato a se stesso, al vento e ai rami di un albero.
L’immagine di Roxas
in piedi davanti alla sua sedia, con il respiro ansante e la delusione negli
occhi, gli balenò nella mente. Un pensiero di ritorno da molto lontano. Era
davvero possibile che...?
«Axel?»
Si voltò.
Roxas lo guardava con quegli
occhi ormai liberi, azzurri da far impallidire il cielo.
«Pensi...» Sorrise e arrossì.
«Pensi di potermi concedere un ultimo favore?»
Axel ricambiò il
sorriso.
Per quanti
possa fartene, ho paura che non sarà mai abbastanza.
Niente avrebbe potuto ripagare ciò che si
provava a poter incrociare, dopo tante palizzate da entrambe le parti, quegli
occhi così puliti. Mai.
Tornò accanto al letto, si sedette ai
suoi piedi e gli strizzò l’occhio. «E va bene, vada per un
altro appuntamento.»
Ringrazio
infinitamente i pazientissimi lettori che hanno letto e sopportato anche il
precedente, pur breve com’era.
Vi
confesso che, man mano che rileggo questa storia a distanza di anni, ho l’impulso
sempre più forte di smettere
di pubblicarla tanto il mio stile è cambiato -_-’ Come dire, non
mi ci rispecchio più. Ma voglio andare fino in fondo, per voi che siete
tanto unici da continuare sempre a seguirmi. <3
AerithGainsborough
camminava senza fretta nello stesso parco in cui, una settimana prima, lei e CloudStrife avevano arrestato il
capo di un gruppo di spacciatori poco più che maggiorenni, un individuo elegante
e mellifluo che ad occhi ignari sarebbe potuto parere insospettabile. Era
ancora fermamente convinta che quell’arresto non fosse tutto merito suo o
di Cloud; Marluxia Ross non
era un delinquente mediocre. Che si fosse fatto sorprendere in modo così
palese – e che non si fosse neanche liberato della pistola e della droga
prima di rischiare d’incappare nella polizia – le faceva pensare
che forse lui stesso aveva già
deciso per loro come sarebbero andate a finire le cose. Lo sguardo del tenente Lockhart, quando quel giorno aveva convocato lei e Cloud, le aveva fatto capire che non era la sola a vederla
in quel modo. Ma a volte si preferisce avere l’illusione di possedere un
merito che non si ha, piuttosto che riconoscere che nella vita ci sono episodi
e coincidenze e risultati che non capiremo mai. Una piccola presunzione della
nostra piccola umana realtà.
Ma quel giorno non aveva
tempo per pensare alla logica personale della psiche di Marluxia.
C’era un altro compito che doveva svolgere in quel parco. Come se tutto
fosse destinato a cominciare e finire lì. Ancora una coincidenza?
Aerith infilò le mani
nelle tasche della giacca e sentì sotto le dita la consistenza liscia e
fredda della foto procuratale da Tifa Lockhart, che a
sua volta l’aveva ricevuta da Demyx. Aveva
letto le parole che quel ragazzo aveva scritto, in una grafia incerta e
nervosa, sul retro del piccolo rettangolo di carta plastificata – e
benché indagare fosse parte del suo lavoro, si era sentita
un’intrusa, un’estranea che violava il passato di qualcun altro.
Ormai conosceva quelle poche righe a memoria, e ripetendosele non poté
non capire che cosa avesse indotto il tenente Lockhart
a concedere a Demyx quell’unico favore, a
dispetto di ogni buonsenso e di ogni ordine dai ‘piani alti’.
Poi aveva voltato la
foto e aveva guardato un viso che già conosceva.
E aveva subito capito
dove cercarla.
Mentre si allontanava
dall’area per lo skateboard, dirigendosi al parco giochi, AerithGainsborough sorrise e
pensò che a volte la vita è un cerchio perfetto di coincidenze.
* * *
La ragazza senza nome si asciugò gli
occhi con le maniche della felpa, chiedendosi se le sue lacrime non sarebbero
finite mai.
Era stanca di piangere.
Era passato così tanto tempo che avrebbe voluto smettere, se non altro
per non vedere più la preoccupazione e la compassione negli occhi di
quella gente che diceva di essere la sua famiglia.
«Cosa c’è, tesoro? Perché
non ne parli con noi? Perché non riesci ad essere felice?»
Lei non poteva essere
felice.
Perché poteva cedere, ma non accettare.
Così, piangeva.
E cercava quella
felicità che le mancava in un foglio di ricordi che si faceva sempre
più sbiadito, sempre più umido delle sue lacrime.
Sapeva che i ricordi non
sarebbero tornati. Non sarebbero tornati loro
e non sarebbe tornato lui. Anche se
gliel’aveva promesso...
Non gliene faceva una
colpa. Non era colpa di nessuno se tutto era finito, se tutto era cambiato, se
loro non avevano più potuto vedersi.
Solo che le mancava. Da
morire.
E in tutti quegli anni
in cui aveva cambiato tante città e tante scuole e tante case, costretta
dal lavoro importante di due persone che non sarebbe mai riuscita a chiamare
‘papà’ e ‘mamma’, aveva perso la speranza che il
suo ultimo ricordo mantenesse la promessa e la ritrovasse.
La ragazza senza nome chiuse
gli occhi e rimpianse di non riuscire più a ricordare un suo abbraccio.
Rimase in quella
posizione, il viso chino e gli occhi serrati, per qualche minuto. Da bambina le
piaceva pensare che chiudendo gli occhi e sprofondando nel buio la scena
intorno cambiasse; un po’ come in un film, quando l’immagine si
oscurava e al suo posto ne compariva una completamente diversa. Abbassava le
palpebre, prendeva un bel respiro e contando fino a dieci desiderava di
trovarsi in un altro posto e con un’altra compagnia.
Non voglio più essere qui, non voglio più
essere me.
Poi apriva gli occhi e
si ritrovava nella cameretta rosa che quelle persone avevano preparato apposta
per lei, esattamente dov’era prima di chiuderli.
Con il tempo aveva
capito che era inutile, ma non aveva mai smesso, neanche per un giorno, di
formulare tra sé quel desiderio. E di restare delusa.
Un rumore improvviso la
fece trasalire e tornare al presente. Aprì gli occhi e si voltò.
Una giovane donna, con
lunghi capelli castani raccolti in una treccia, stava prendendo posto sulla
panchina accanto a lei. La ragazza senza nome la riconobbe: anche se aveva dei
vestiti diversi, era la stessa poliziotta sorridente che qualche giorno prima
le aveva offerto il suo aiuto. Sembrava un po’ stanca, e non la guardava.
La ragazza senza nome
provò l’istinto di alzarsi e allontanarsi, al più presto,
ma la donna non sembrava interessata a lei. Aveva appena estratto qualcosa
dalla tasca e lo stava osservando attentamente.
All’improvviso,
però, alzò la testa e la guardò.
«Credo che questa
appartenga a te.»
La ragazza rimase tanto
stupita da dimenticare di evitare quel contatto con un mondo che stava cercando
di tenere lontano da anni.
«A... me?»
La donna si
limitò ad annuire e le tese ciò che aveva in mano.
Esitante, lei prese la
foto e vide che ritraeva una scena analoga a quella che stava sperimentando:
lei seduta su quella stessa panchina, che si scostava i capelli dal viso e
guardava verso un punto alla sua destra.
Si chiese cosa
significasse.
«Prova a
voltarla» suggerì la poliziotta.
Sempre più
confusa, lei obbedì, quasi senza accorgersene.
Quel che lesse le fece
chiedere se di colpo il suo gioco di bambina non avesse finalmente iniziato a funzionare.
* * *
«Dem!»
La bambina piange disperata, correndo su per i gradini verso
di lui. Demyx la raggiunge prima che
l’assistente sociale possa riacciuffarla e la stringe a sé.
«Non voglio!» La bambina grida, nasconde il viso
tra le sue braccia. «Non voglio andarci! Voglio restare con te!»
Demyx si sente
la gola in fiamme e gli occhi umidi. Ma lui non può piangere, lui
è grande. Lui deve essere forte. Per tutti e due.
Le accarezza i capelli, guardando con la coda
dell’occhio la donna anziana che sale in fretta le scale d’ingresso
dell’edificio, pronta a separarli di nuovo, stavolta in modo definitivo.
«Ascoltami.» Si china perché le parole
arrivino direttamente all’orecchio della piccola, tra i suoi capelli
lucidi e neri. «Nemmeno io voglio lasciarti. Ma è necessario. Non
possiamo fare altro.»
«Ma io non voglio!
Non mi lasciare!»
Lui la stringe più forte. «Non ti lascio. Non
ti lascerò mai.»
Ma ecco che l’assistente sociale afferra la bambina
per una spalla e l’allontana bruscamente. Lei cerca di divincolarsi, il
faccino lucido di lacrime e rosso per lo sforzo, ma arrivano due uomini che
aiutano la donna a trascinarla di nuovo giù per i gradini. Disperato, Demyx li segue.
«Non mi lasciare!» La bambina continua a
gridare, sempre più forte. «Non mi lasciare, Dem!
Non mi lasciare!»
«Non ti lascerò mai! Non importa se saremo
lontani, sarò sempre con te!»
«Demyx, torna
indietro!»
È la voce del direttore. Demyx
fa finta di non sentirlo. Vede che la donna e i due uomini spingono la piccola
in una macchina; poi gli inservienti fanno largo e l’assistente sociale
si siede accanto all’autista, e l’automobile si prepara a partire.
Nel sedile posteriore, la bimba batte i pugni sul vetro del
finestrino. Nemmeno il rombo del motore riesce a coprire del tutto le sue grida
disperate.
«No, no! Non voglio! Dem!»
La macchina si muove e Demyx
comincia a correre per tenerle dietro. Ormai anche lui è in lacrime, ma
non fa nulla per asciugarle.
«Non ti lascerò mai! Ci ritroveremo e saremo di
nuovo insieme! Te lo prometto! Te lo prometto!»
Una mano salda su una spalla lo costringe a fermarsi.
L’auto lascia il vialetto di ghiaia ed esce dal
cancello, e l’ultima cosa che il ragazzo riesce a distinguere sono gli
occhi azzurri e bagnati della bambina che chiama il suo nome oltre un vetro.
Quando il puntino nero sparisce all’orizzonte, Demyx sfugge alla mano del direttore, cade in ginocchio e
scoppia in singhiozzi.
Oggi ha dodici anni.
Oggi ha imparato a piangere.
Gliel’avevo
promesso.
E invece, non era
riuscito a mantenere la parola.
Nella villa vuota in cui
aveva trascorso le ultime settimane, Demyx non aveva
ancora trovato il coraggio di affacciarsi alla finestra per vedere se lei fosse già arrivata. Era
seduto sul letto, gambe incrociate e spalle inerti, e si guardava intorno in
cerca di qualcosa che riuscisse a tranquillizzarlo.
Ma incontrare il proprio
passato non può mai essere una passeggiata. Soprattutto quando in quel
passato c’è qualcosa che si è mancato di fare.
Gliel’avevo promesso.
Dio solo sapeva quante volte aveva cercato di
raggiungerla là dove era andata a stare. Purtroppo, ogni volta si era
trovato di fronte a un nulla di fatto. Alla fine era stanco, sfinito, deluso.
Forse lei lo aveva dimenticato, forse era felice altrove, o forse lui non era
in grado di trovarla e basta. Aveva cominciato a cedere alla disperazione, e si
era fermato in quella fottutissima città.
Poco dopo aveva
incontrato Marluxia.
Ora non gli importava
del tempo trascorso. Voleva rivederla, farle sapere che solo il pensiero di lei
l’aveva ricondotto a se stesso. Voleva mantenere infine la sua promessa.
Si passò le dita
tra i capelli, sospirando. Forse lei ormai lo odiava. Ne avrebbe avuto tutti i
motivi.
Eppure era solo grazie a
lei che lui aveva avuto una
possibilità di salvarsi...
Un rumore lontano, un
suono un po’ smorzato che riuscì a riempire il vuoto della
palazzina. Demyx si scosse e rimase all’erta.
Pochi istanti dopo ne ebbe la certezza.
Stava arrivando.
* * *
La ragazza senza nome seguiva la donna come un
cucciolo segue la mamma: istintivamente.
Non era sicura di
ciò che stesse succedendo; le sembrava troppo impossibile, troppo
assurdo... troppo da poter sognare.
Ma non poteva fare a meno di affidarsi a quella sconosciuta, che l’aveva
guidata fuori dal parco, poi su un’automobile, lungo troppe strade assolate
e infine nel cortile di una casa enorme che sembrava abbandonata.
Così, contro ogni
buonsenso, contro ogni sua convinzione. La seguiva ancora adesso, su per quelle
scale, verso qualcosa che avrebbe tanto voluto che fosse reale.
È un sogno. Non può essere vero. Tra due
minuti mi sveglio.
La giovane donna che le
aveva detto di chiamarsi Aerith le fece strada in un
corridoio buio, verso una porta di legno bianco un po’ screpolata. Quando
vi arrivarono, bussò e l’aprì senza aspettare risposta.
La ragazza senza nome
sentì che il cuore le batteva più forte.
Sono passati due minuti?
Aerith si voltò e le
sorrise. «Entra pure.»
Non seppe mai dove aveva
trovato la forza di muovere quei pochi passi che la separavano dalla porta
aperta, ma in qualche modo riuscì ad arrivarci e a oltrepassarla.
Perché non mi sveglio? È vero, allora?
Sentì la porta
chiudersi alle sue spalle. La donna non l’aveva seguita. Rimase sola in
una stanza elegante, dove sembrava che nessuno avesse abitato per molto tempo,
ma non del tutto sciupata dall’abbandono. Pensò che le sarebbe
piaciuto mantenersi integra nello stesso modo, invece che sentirsi ridotta a
pezzettini ogni giorno. Capì che con quegli stupidi paragoni stava solo
evitando di pensare al motivo per cui la poliziotta l’aveva portata
lì, alle parole scritte sul retro di quella fotografia...
E alla fine lo vide.
Era in piedi, davanti a
un’altra porta che conduceva a un’altra stanza; era più
alto, più pallido e meno sorridente di come lo ricordava, ma non poteva
che essere lui.
Il battito furioso del
suo cuore, ormai, era al limite dell’umano.
È vero... È tutto vero...
Rimasero a guardarsi per
un tempo infinito, condividendo la stessa espressione, quella di chi non sa o
non capisce e ha paura ma spera.
Alla fine, lui
pronunciò piano il suo nome, quello che lei aveva rifiutato sette anni
prima.
È vero!
Avrebbe voluto urlare,
ma le uscì solo un soffio.
«Dem...»
Finalmente lui sorrise e
allargò le braccia.
Lei pianse e gli corse
incontro.
Proprio come da bambini.
Mentre si stringeva a lui
e ritrovava intatto nella memoria il calore del suo abbraccio, la ragazza senza
nome capì di aver ritrovato anche se stessa.
Rullo
di tamburi! Squillino le trombe! E congratulazioni a chiunque avesse capito che
la ragazza del prologo e quella sulla fotografia che ha fatto ‘rinsavire’
Demyx erano la stessa persona! Beh, ci sono voluti
trenta capitoli, ma almeno questo l’abbiamo chiarito xP
Non
temete, comunque: la storia è ancora piuttosto lunga – e abbiamo
lasciato in sospeso le vicende dei nostri due protagonisti, no?
Le ruote ticchettavano leggermente sul
marciapiede, ma nel silenzio e nell’oscurità quasi totale il suono
sembrava moltiplicarsi all’infinito, sovrastando il rumore appena percettibile
dei suoi passi. Quando passarono sotto un lampione, Axel
osservò l’espressione distesa e naturale di Roxas.
«Come mai non hai
voluto aspettare Sora?»
«Stanotte
dormirà fuori.»
«Ma almeno
avvertirlo...»
«Perché
metterlo in pensiero?» Roxas lo guardò
con un sorrisetto. «Tanto ci sei tu, no?»
Che ironia. Il lupo con l’agnello.
Axel distolse gli occhi.
Solo un’ora prima,
Sora aveva lasciato l’ospedale: appena dopo averlo visto svoltare
l’angolo dalla finestra, Roxas aveva detto a SquallLeonhart che era pronto a
tornare a casa. Il medico avrebbe voluto farlo accompagnare, ma il ragazzino
aveva scosso la testa con un sorriso, dichiarando che un altro viaggio sulla
sua sedia a rotelle non gli avrebbe certo fatto male. L’uomo si era
arreso, poi gli aveva stretto calorosamente una mano e con la sincerità
nella voce gli aveva augurato buona fortuna.
Axel era l’unico a
sapere che quella notte Roxas sarebbe tornato al
condominio. In un certo senso, era come se avesse voluto con sé soltanto
lui. Di nuovo.
Provava uno strano senso
di inadeguatezza, di disagio; ma al tempo stesso sapeva che niente avrebbe
potuto impedirgli di stargli vicino in quel momento.
Nemmeno i due fari che
li seguivano a distanza costante sin dall’ospedale.
Il marciapiede
svoltò; Axel si sistemò in spalla la
borsa con le cose di Roxas e seguì la sedia a
rotelle verso il condominio alla fine della strada. Rivisse per un attimo il
momento in cui aveva visto per la prima volta il palazzo sotto la pioggia, in
un’altra epoca e in un’altra vita. E dire che quella notte,
all’inizio della sua latitanza, non avrebbe mai pensato di poter davvero
‘mettere la testa a posto’...
«Perché
sorridi?»
La domanda di Roxas lo colse impreparato.
«Non
sorrido.»
«Sì,
invece. Ti ho visto sorridere.»
Si voltò. Il
biondino era ancora concentrato sul movimento regolare delle ruote, ma lo stava
fissando di sottecchi, evidentemente divertito. Axel
sbuffò.
«Fai troppe
domande, bimbo.»
«E tu dai poche
risposte.»
«Mi sembra di
avertelo già detto. Io sono per i fatti, non per le parole.»
«Va bene, va
bene.» Roxas alzò le spalle.
«Resta il fatto che sorridevi.»
Axel ridacchiò e
scosse la testa. Non aveva la minima intenzione di rispondere alla sua domanda
e di fargli capire che sorrideva perché ora, soltanto ora, si sentiva giusto.
Arrivarono
all’ingresso del condominio e, come aveva già fatto quando erano
tornati dal parco, la prima e unica
volta che si era deciso a uscire di lì, Roxas
fece salire la sedia sulla passerella rialzata accanto alle scale. Nel corso della
manovra, Axel lo vide portarsi una mano al fianco e
reprimere una smorfia di dolore. La ferita doveva ancora dargli qualche fitta.
Si sforzò di fingere di non averlo notato, ma quella vista gli fece male
all’anima.
Non avevano più
parlato di Marluxia o di qualsiasi altro aspetto di
quella sporca faccenda. Cercava di convincersi che quel silenzio era solo per
non farlo soffrire, ma la parte più nascosta del suo subconscio urlava
con chiarezza qualcos’altro.
Parlarne gli avrebbe
strappato la verità. E cioè, che Marluxia
aveva cercato di togliergli la cosa più importante.
Non era stato, come
aveva detto a Roxas, uno sbaglio di mira. Ne era
sicuro. Ma ammetterlo ad alta voce avrebbe spaventato il suo amico, e ancor di più avrebbe
spaventato lui.
Perché mai
avrebbe pensato di poter davvero trovare qualcosa da proteggere.
Roxas si fermò davanti
all’uscio e bussò; le sue chiavi le aveva date a Sora. Axel lo raggiunse.
«Non sarebbe ora
di metterci un citofono o almeno un campanello, in questo condominio di quarta
categoria?»
«Vallo a dire a Vexen.»
«Si può
sapere chi diavolo è a
quest’ora?!»
La voce del vecchio era
risuonata appena oltre la porta. Doveva essere ancora in piedi, o non avrebbe
fatto così presto a raggiungerla. Axel
sospirò silenziosamente; quell’uomo era un classico, odioso
pignolo senza la minima possibilità di recupero.
«Parli del
diavolo...» sorrise Roxas, con l’aria di
divertirsi da matti.
La porta si
spalancò e comparve il portinaio, avvolto nella stessa vestaglia nera da
vampiro rachitico con cui aveva accolto l’arrivo di Axel
tra le misere fila dei suoi condomini. Vexen
puntò loro addosso uno sguardo acido.
«Vi avverto,
ragazzini. Non posso tollerare quelli che buttano giù dal letto gli
onesti cittadini nel cuore della notte.»
Axel e Roxas
ricambiarono l’occhiata, entrambi impassibili. Quando sembrò
metterli a fuoco, il vecchio sbuffò sonoramente.
«Ah, voi.»
Si soffermò in particolare su Roxas. «Di
ritorno dal mondo dei morti, mi sembra di capire.»
In quel momento, Axel sentì di odiarlo sul serio.
Roxas gli scoccò il
più innocente dei sorrisi. «Ci scusi, signor Vexen.
Non avevamo intenzione di disturbarla.»
«Tutti uguali, voi
giovani. Non avete il minimo rispetto per chi ha più anni di voi,
più esperienza, più...»
Axel smise di ascoltare a
metà discorso; aveva appena notato il bagliore dei fari illuminare la
parete del palazzo alla sua destra. Sorrise tra sé. All’improvviso
gli faceva piacere la compagnia di quella macchina discreta e silenziosa.
Si concentrò di
nuovo sul monologo di Vexen, che Roxas
stava ascoltando e accettando come un bravo bambino.
«... E in quanto a
te» sputò di colpo il
vecchio, guardandolo con evidente disprezzo, «sappi che non manca molto
alla scadenza dell’affitto. Spero che non te ne dimentichi. Sono ancora
sicuro di non potermi fidare.»
Axel sorrise ancora,
cercando di assomigliare il più possibile ad uno sponsor di dentifrici,
ma sapeva bene che il suo sorriso era molto meno bendisposto di quello di Roxas.
«Di quello che
pensa lei, signorVexen,
non me ne può fregare un cazzo di meno. Ora, se vuole scusarci, il mio
amico ed io siamo molto stanchi e ce ne andiamo a letto. Buonanotte.»
Superò lo
scandalizzato portinaio, urtandolo con la borsa e augurandosi che il trauma gli
facesse venire un colpo apoplettico. Mentre attraversava l’ingresso e si
dirigeva all’ascensore, sentì la sedia di Roxas
affrettarsi alle sue spalle.
«Axel! Non avresti dovuto rivolgerti a lui
così!»
Si voltò a
guardarlo senza fermarsi. «Vogliamo parlare di come si è rivolto lui a te?»
Roxas rimase per un attimo
incerto. Poi sospirò, scosse la testa e si lasciò sfuggire una
risatina.
Axel si fermò davanti
alle porte dell’ascensore e, incurante della raccomandazione di usarlo
«solo per le emergenze», pigiò il pulsante di chiamata.
«Che
c’è da ridere?» chiese.
Roxas si fermò al suo fianco.
Non lo guardò; scosse di nuovo il capo.
«Niente. È
che... Qualche settimana fa mi avrebbe dato fastidio, credo, questa tua presa
di posizione. Invece adesso...»
«Bimbo»
sbuffò Axel, «guarda che non ti stavo difendendo. L’ho fatto solo
perché morivo dalla voglia di farlo da tre settimane;
memorizzato?»
Il ragazzino si
voltò verso di lui, sollevando le sopracciglia. «Stavo cercando di
ringraziarti.»
«E per cosa? Per
aver insultato Vexen? Se è per questo, guarda
che posso farlo un altro mezzo miliardo di volte. Non c’è
problema, non mi dà nessun fastidio.»
Roxas rise di nuovo. «Sei
proprio tutto matto.»
«Lo so. Sono
diventato amico tuo.»
Mentre l’ascensore
arrivava e si apriva davanti a loro, il rumore sferragliante e arrugginito che
si mescolava all’eco della risata di Roxas, Axel non poté trattenersi dal sorridere con lui.
* * *
Il portinaio era tanto scioccato che ancora
indugiava sull’uscio aperto, quando le due figure sparirono nel buio del
condominio. Mentre si avvicinava a quell’uomo, Tifa Lockhart
ridacchiò tra sé per la lingua tagliente e l’encomiabile
faccia tosta di quel teppistello di Axel.
Arrivata sui gradini,
vide che il vecchio si era finalmente accorto di lei.
«Il signor Vexen?» indagò.
L’altro
annuì, cercando di riprendersi dal colpo di essere stato praticamente
mandato al diavolo da un personaggio che aveva meno della quarta parte dei suoi
venerabili anni.
«Che cosa
vuole?» abbaiò poi.
Però, che ripresa rapida.
Tifa si fermò
sull’ultimo gradino del portico e mostrò il distintivo.
«Tenente Lockhart, polizia cittadina.»
Alla luce incerta delle
stelle e delle poche luci in strada, le sembrò di vederlo cambiare
espressione. Di certo il suo tono si ammorbidì in modo notevole.
«Che posso fare
per lei?»
Sembrava anche un
po’ intimidito. Tifa ripensò alle parole che gli aveva sentito
pronunciare poco prima. Quelli che
buttano giù dal letto gli onesti cittadini... Per un attimo
osservò quel volto intriso di malignità, chiedendosi se
appartenesse davvero a un ‘onesto
cittadino’, ma alla fine decise di pensare soltanto al motivo della
sua presenza al cospetto di quel vecchio dall’aria ostile. Non c’era
altro di cui le importasse ora, davvero.
«Per me, nulla. Ma
io posso fare qualcosa per lei. Devo
raccontarle una cosa.»
Ora Vexen
era soltanto sorpreso. «Come?»
«Già. Il
motivo per cui ci vorrà un po’ di tempo prima che la nostra comune
conoscenza possa pagarle l’affitto che lei gli ha gentilmente ricordato
poco fa...»
Capitolo
corto e un po’ stupido. Ma il ritorno a casa di Roxas
va trattato piano piano, così come il fatto
che Axel – non dimenticate – ora è
sotto stretta sorveglianza. E qualcuno doveva pur dirlo a Vexen,
vi pare? xD
Vi
ringrazio tutti, come sempre. Amo alla follia ogni lettore.
Roxas accese la luce,
illuminando a giorno l’appartamento 2A. Gli fece uno stranissimo effetto
ritrovarsi di nuovo sulla soglia di quelle cinque stanze. L’ultima volta
che era stato lì risaliva esattamente a una settimana prima, alla
mattina in cui aveva capito di potersi alzare da solo dal suo letto, aveva
raggiunto Axel al 2B, era andato insieme a lui a
cercare gli HawkRunners
e... e aveva trovato un pazzo assetato di vendetta.
Il vecchio capo di Axel.
Quel pensiero gli
provocò un brivido. Non ci aveva mai pensato prima; non in quei termini.
«Tutto
bene?»
La voce dell’amico
s’insinuò nel suo orecchio, per una volta priva di qualsiasi nota
ironica. Roxas si voltò e vide che lo stava guardando
attentamente. Sorrise.
«Certo. Fa
solo...»
«Un certo
effetto» completò per lui Axel, in tono
affermativo e non interrogativo.
Roxas annuì.
«Sì.»
Allontanò la sedia a rotelle dalla porta d’ingresso. «Beh,
non so tu, ma io sono stanco per davvero. E penso che una bella dormita farebbe
bene anche a te.»
Da qualche parte alle
sue spalle, Axel ripescò un tono leggero.
«Mah, potrei anche
decidere di andare a farmi un giro. Una bella scorrazzata sulla scala
antincendio sarebbe l’ideale. Sono secoli che non ci salgo, comincio a
sentire la sua mancanza» sghignazzò. «Oppure potrei andare a
cercare tuo fratello e dirgli che sei qui. Ti immagini se decidesse di andarti
a trovare in ospedale prima di tornare al condominio? Come minimo gli verrebbe
un colpo.»
Roxas si fermò al
centro del corridoio che conduceva alla camera da letto. Si voltò con il
busto e lo guardò, senza accuse.
«Non
c’è bisogno che tu faccia finta di niente. Me ne sono accorto, che
la polizia ci ha seguiti passo passo per tutta la
strada.»
Il sorriso scomparve
dalle labbra di Axel gradualmente, come sabbia smossa
da un’onda sul bagnasciuga.
«Non ti si
può nascondere niente, vero?» Si riassestò nervosamente la
borsa sulla spalla. «Beh, in fondo prima o poi avrei dovuto parlartene...
Mi tengono d’occhio perché da questa sera, ufficialmente, sono
agli arresti domiciliari.»
Roxas non disse nulla.
Arresti domiciliari.
Abbassò lo
sguardo.
«Ci ho pensato. Non possono farti nulla...»
Negli ultimi sette giorni,
in ospedale, non si era più soffermato su ciò cui Axel sarebbe dovuto presto andare incontro. Ripensarci
adesso, doveva ammetterlo, faceva un po’ male.
Arresti domiciliari.
Come sarebbe andata a
finire?
Loro due erano amici, no? Doveva proprio rischiare di
perdere anche questo?
Scosse la testa con
energia. No, sarebbe andato tutto bene. Questa volta sarebbe stato in grado di
affrontarlo. Era pronto, ormai.
Riprese a muovere la
sedia, fino a raggiungere la sua stanza. Sentì i passi di Axel che lo seguivano, insicuri, quasi meccanici.
Aperta la porta,
premette l’interruttore alla sua destra e la luce colpì anche
quelle quattro mura che racchiudevano due letti, qualche mobile e due anni di
vita rinchiusa in se stessa. Roxas lasciò
scorrere lo sguardo su quella scena tanto familiare: il caos sulla scrivania,
il letto di Sora sfatto come al solito, l’album sulla poltrona, il
disegno sul comodino – lo stesso disegno che quella lontana mattina aveva
lasciato a suo fratello.
Si mosse in quella
direzione, senza fretta. Allungò una mano e prese il foglio per
portarselo davanti agli occhi.
Era come lo ricordava.
Il parco, la pista per lo skate, la gente. Eppure mancava qualcosa.
Voltò ancora una
volta la sedia, raggiunse la scrivania e frugò nel disordine, in cerca di
una matita. Quando la trovò, sorrise e apportò senza esitazioni
la modifica che in altri tempi non si sarebbe mai sognato di fare.
Infine studiò di
nuovo il disegno.
Ce l’ho fatta, mamma. Ce l’ho fatta,
papà.
Grazie a un demone o a
un angelo custode.
«Non avevi detto
che eri stanco?»
Ancora una voce neutra,
né grave né divertita. Roxas
lasciò la matita e il disegno sulla scrivania e guardò di nuovo Axel, che aveva appena posato la borsa a terra.
«Infatti»
gli rispose.
Mentre si accostava con
la sedia al letto, ebbe l’impressione di vedere una muta domanda nascere
nei suoi occhi verdi. Gli offrì un sorriso come risposta, e si dispose a
fare ciò che aveva già fatto e che – forse – avrebbe
potuto fare di nuovo.
* * *
Quando vide Roxas
sollevarsi sui propri piedi, Axel si chiese se per
caso non stesse sognando. Solo lo sforzo nei suoi grandi occhi azzurri e nel
suo viso determinato lo convinse che stava succedendo davvero.
Il tentativo andò
a vuoto; Roxas ricadde a sedere, sfinito. Axel fece subito per avvicinarsi e aiutarlo
nell’impresa, ma si vide rivolgere un’occhiata testarda, quasi
truce.
«Resta – dove – sei.»
Obbedì.
Il ragazzino
provò altre due volte. Alla terza riuscì a restare sollevato quel
tanto che gli bastò a lasciarsi cadere sul letto, abbandonando la sedia
vuota poco più in là.
Mentre riprendeva fiato,
Roxas lo guardò e inaspettatamente rise.
«Non fare quella
faccia. Non è la prima volta che mi alzo.»
Axel si chiese se fingesse o
se la stesse davvero prendendo così bene.
Scosse il capo.
«D’accordo, bimbo.
Visto che non hai più bisogno di me, sarà meglio che vada a
dormire anch’io.» Lo guardò in tralice, con un po’ d’indecisione,
ma deciso a non lasciargliela intuire. «Di’ un po’, sei
sicuro che non ti sentirai solo?»
Aiutandosi con le mani, Roxas si tirò le gambe sul letto. Alzò il
viso e fece segno di no con la testa.
«Non preoccuparti.
Sto bene.» Il suo sorriso si fece più ampio e luminoso, e in quel
momento assomigliò molto più del solito a Sora.
«Benissimo.»
Convinto soprattutto
dalla sua espressione, Axel si allontanò dalla
porta, dove era rimasto fino ad allora, e si diresse alla finestra.
«Però
ricordati» disse aprendola, «sono solo a un pianerottolo da
qui.»
Lo vide annuire, poi
distendersi sulle coperte, vestito com’era, e allungare una mano verso un
altro interruttore posto appena sopra la testata del suo letto.
«Buonanotte, Axel.»
La luce si spense. Axel si ritrovò guidato soltanto dal bagliore delle
stelle fuori dalla finestra.
«Buonanotte, Roxas» mormorò.
Da qualche parte, nel
buio, giunse il bisbiglio di un sorriso.
«E... grazie.»
Scavalcò il davanzale e atterrò
sulla scala antincendio.
Inspirò
profondamente l’aria della notte, riflettendo: quell’impalcatura lo
aveva visto coinvolto in complotti, confidenze, spedizioni e sfoghi... E se non
ci fosse stata lei, ridacchiò tra sé, con ogni probabilità
lui e Roxas non si sarebbero nemmeno mai conosciuti.
Si allontanò dal
2A quasi a malincuore.
Percorrendo il
pianerottolo, gli cadde lo sguardo sul cortile e da lì sul vicolo. Non
si stupì di vederlo sbarrato.
Sorrise nel buio. Anche
se era praticamente intrappolato nel regno di Vexen
il vampiro, si sentiva bene. Meravigliosamente bene. Liberato.
Arrivò alla
finestra del 2B. Ricordava di averla lasciata socchiusa, la mattina che Roxas era andato a trovarlo e gli aveva chiesto di
accompagnarlo al parco; e socchiusa la ritrovò.
Entrò in quella
che, fino all’udienza di cui gli aveva parlato il tenente Lockhart, sarebbe stata la sua prigione – ma ancora
una volta non avvertì nessuna oppressione a quel pensiero. Si mosse
verso il letto, senza accendere la luce, ma prima di arrivarci si
ricordò di colpo di qualcosa.
Qualcosa che avrebbe
dovuto fare tempo prima...
Beh, meglio tardi che mai.
Senza esitare,
andò al comodino e lo aprì. Non aveva bisogno di luce per vedere
cosa c’era dentro. Afferrò in fretta il contenuto, richiuse
l’anta e si allontanò di nuovo.
Per prima cosa,
trovandolo di strada, sollevò il coperchio del secchio per la spazzatura
e vi lasciò cadere quella dannata pistola.
Poi, in bagno, accese la
luce e aprì la sacca nera riportatagli da Zexion
due settimane prima, insieme all’arma.
Sostenne la vista della
cocaina senza provare la minima emozione. Era la ‘scorta
d’emergenza’, quella che gli aveva consegnato Demyx
poco prima del suo esame di coscienza, quando gli aveva detto che anche un pivellino come lui aveva il
diritto di concludere un affare, se gli capitava.
Axel estrasse la bustina di
plastica, dall’aria così innocente in modo così
spudoratamente falso, dalla sacca. Tese il braccio e finalmente, come aveva
desiderato di fare fin dall’inizio, la gettò in quel sacrosanto
cesso.
Solo che ora aveva
motivi migliori che non il timore di farsi beccare con le mani sporche.
Il frastuono dello
sciacquone fu anche più piacevole del previsto. Axel
sorrise: non più il suo solito ghigno insolente, ma un sorriso vero.
Spense la luce e
tornò in camera da letto, sfilandosi la maglietta. Emergendone con la
testa, si guardò senza volerlo la spalla. Poco più in basso,
riluceva una cicatrice bianca.
Mentre si stendeva sul
letto e incrociava le braccia dietro il capo, tornò a concentrarsi sul
piccolo miracolo avvenuto un pianerottolo più in là e sorrise di
nuovo.
* * *
«Siamo sicuri che il tenente non stia
concedendo un po’ troppa fiducia a questi ragazzini?»
Nel sedile del
passeggero, Cloud scrutava accigliato la sagoma di
Tifa Lockhart al di là del finestrino. La
donna aveva appena chiuso il suo colloquio con un allarmato portinaio –
chissà com’era, scoprire di aver affittato un appartamento a un
condannato agli arresti domiciliari? – e si stava dirigendo alla
macchina.
Seduta al volante, Aerith gli rispose senza nemmeno riflettere.
«A volte la
fiducia non tiene conto di nulla, tantomeno del comune buonsenso.»
Cloud si voltò a
guardarla, forse meditando su una risposta scettica; ma non disse nulla.
Il tenente Lockhart raggiunse la vettura e batté le nocche sul
vetro. L’agente si affrettò ad abbassare il finestrino.
«Bene, ragazzi.
Avete già bloccato il vicolo?»
«Sissignora.»
«Avete anche
bevuto qualche litro di caffè?»
«Sissignora.»
Tifa sospirò.
«Allora vi lascio di guardia. Perdonatemi se sono così poco di
compagnia, ma mi sento distrutta. Per fortuna questa storia sta per
finire...»
«Non si preoccupi,
tenente.» Aerith sorrise. «Passi una
buona notte.»
La donna ricambiò
il sorriso e agitò una mano in segno di saluto, mentre si allontanava
dalla volante che quella sera aveva scortato in incognito Axel
Kasai e Roxas Key, e che si apprestava a sorvegliare
il condominio da quel momento in poi. Mormorò una risposta che si perse
nella penombra.
«Lo sai, Aerith? Credo proprio che lo sarà davvero.»
AerithGainsborough
e CloudStrife rimasero
immobili ad osservare Tifa Lockhart, i capelli
sciolti sulle spalle, le mani affondate nelle tasche, allontanarsi a piedi
sotto la luce delle stelle.
Fu di nuovo Cloud a rompere il silenzio.
«Sai una
cosa?»
«Che cosa?»
Il poliziotto guardava
oltre il parabrezza con una tale intensità che Aerith
si stupì che il vetro non si fondesse. Infine lo sentì sospirare
nell’ombra dell’abitacolo.
«Darei qualsiasi
cosa per essere come lei.»
* * *
Era mattina, e Sora sbadigliava.
Aveva lasciato la casa
di Kairi ancora insonnolito. Nonostante fosse tuttora
imbarazzato all’idea di dormire ogni notte da lei, al mattino il sonno
aveva sempre la meglio su qualsiasi altra emozione; così aveva salutato
lei, Naminè e la nonna senza impacciarsi
troppo, aveva fatto colazione al solito bar e, più morto che vivo, aveva
attraversato le molte strade che dividevano la villa dal condominio, per recuperare
alcuni libri prima della scuola.
Sbadigliò ancora,
lasciandosi alle spalle l’ultimo gradino della rampa di scale e
incamminandosi lentamente verso la porta del 2A. Chiunque avesse stabilito che
le lezioni cominciassero così presto andava strangolato nel sonno, di
questo era fermamente convinto.
Pescò le chiavi
da una tasca dei pantaloni, aprì la porta e marciò pian pianino
verso la camera da letto, col vago desiderio di lasciarsi ricadere a dormire
per altri cinque minuti, meglio dieci, facciamo quindici.
Ma quando ci
arrivò, vide qualcosa che riuscì dove anche la vicinanza
così pericolosamente stretta di Kairi aveva
fallito: svegliarlo del tutto.
Addormentato nel suo
letto c’era Roxas.
Sora non seppe come
reagire a quella vista. Si stropicciò gli occhi più e più
volte e si pizzicò forte le guance, ma vedendo che l’immagine non
accennava a svanire dovette riconoscere che era davvero sveglio. Allora alla
sorpresa si sostituì un leggero risentimento: perché Roxas non gli aveva detto che sarebbe tornato al
condominio, la sera prima?! E poi subentrò la contentezza, perché
nonostante tutto era lieto di rivedere suo fratello in quella stanza; gli era
mancato così tanto. E anche un po’ di orgoglio: Roxas stava diventando non solo più forte, ma anche
indipendente. Negli ultimi tempi aveva affrontato da solo le esperienze
più traumatizzanti che si potessero immaginare, e l’aveva fatto da solo, senza chiedere aiuto... E
infine un accenno di tristezza, quando i suoi occhi si posarono sulla sedia a
rotelle ai piedi del letto e lui si disse che, alla fin fine, tutto era tornato
come prima.
O forse no?
Ancora molto scosso,
Sora si mosse verso la scrivania, ripetendosi che avrebbe dovuto sbrigarsi per
andare a scuola e che non aveva tempo per giocare al Festival-delle-Emozioni-e-delle-Reazioni.
Si bloccò.
Sul piano di legno, in
bella vista sopra il casino generale, c’era un disegno che conosceva
bene. Ma quella mattina sembrava diverso.
Lo prese in mano: era la
stessa scena, quella del parco in cui lui e Roxas
avevano vissuto tanti momenti felici da bambini, e dove suo fratello aveva
trovato i suoi più grandi amici e la sua più grande passione,
prima di perdere tutto... E poi notò la differenza.
Una settimana prima,
l’uomo e la donna in primo piano nel disegno non avevano lineamenti.
Adesso invece sì,
e anche molto familiari.
E – cosa
più importante e più bella di tutte – sorridevano.
Ci
siamo. Roxas è tornato a casa. Axel è agli arresti domiciliari. E Demyx e la ragazza senza nome si sono ritrovati.
Resta
qualcosa in sospeso, però, vero? Sbaglio o tempo fa abbiamo trovato un Saïx folle e inasprito dalla cattura di Marluxia? E Roxas non aveva la
possibilità di tornare a camminare? E Axel non
l’aveva forse baciato? x3
Ehh, come vedete ce ne vuole ancora di tempo
per risolvere tutto.
Grazie
a chiunque passi di qui, come sempre; e a presto! <3
Sora schizzava da una
parte all’altra della stanza, in divisa e calzini, una fetta di pane
imburrato in bocca e le braccia che lottavano per disincastrarsi dalla giacca.
S’infilò le scarpe senza fermarsi, saltellando su un piede solo,
ora il destro ora il sinistro; ingoiò il boccone e per poco non si
strozzò; sbottonò l’uniforme e infilò i bottoni
nelle asole giuste. Il tutto alla velocità della luce.
Roxas lo osservava dalla sua
sedia accanto alla scrivania, trattenendo a stento le risate. Negli ultimi
tempi gli succedeva spesso. Era bello dormire sonni senza incubi, svegliarsi di
buon umore e assistere al quotidiano déjà-vu di Sora che
rischiava di rompersi l’osso del collo nelle sue corse prescolastiche.
Era bello soprattutto
– quando suo fratello aveva lasciato il condominio – aprire la
finestra e lasciar entrare nell’appartamento le speranze che per tanto
tempo si era negato.
Vedendolo finalmente
vestito del tutto e nel modo giusto, gli si avvicinò e gli tese la
cartella. «Ecco a te. Sbrigati, se non vuoi far infuriare Kairi.»
Sora lo guardò,
grato come se gli avesse appena offerto un biglietto per un concerto della band
di Yuna. Afferrò la cartella al volo.
«Grazie! A
stasera!»
In un lampo era
già sparito dall’appartamento.
Roxas ascoltò
l’eco sempre più lontano delle sue scarpe da tennis sulle scale.
Si sentiva un po’ in colpa per non avergli mai parlato di ciò che
faceva ogni mattina, invece di seguire le lezioni del professor Ansem – che aveva chiesto di spostare al primo
pomeriggio.
Erano gli inizi di
maggio; e ormai andava avanti con quel piccolo grande segreto da più di
dieci giorni. E non sapeva nemmeno spiegare a se stesso il motivo per cui
l’unica persona che volesse coinvolgere fosse Axel.
Aspettò ancora
qualche minuto prima di aprire le persiane.
Come sempre, la finestra
del 2B era già aperta. Axel era seduto sul
davanzale. Lo guardò con un sorriso sornione.
«Il gatto è
uscito?»
Roxas ricambiò. Era
lieto che Axel avesse rispettato la sua scelta,
evitando di svelare quella cosa a Sora e a chiunque altro. Più di tutto,
però, era felice di vederlo così tranquillo e a suo agio, pur
sapendo di essere tenuto al guinzaglio dalla polizia.
«Sì, e i
topi ballano.»
Axel saltò sul pianerottolo
e lo raggiunse alla finestra.
«Dio, con tutto
questo mistero mi sembra di vivere in un dramma teatrale. Guarda, non ci manca
nemmeno il balcone.» Appoggiò le mani al davanzale e iniziò
a declamare con voce sottile e disperata. «Oh, Romeo, Romeo, perché sei tu Romeo?»
Roxas scoppiò a
ridere.
«Vieni dentro,
Giulietta» disse, ritraendosi e chinandosi per slacciarsi le stringhe.
«Romeo ha bisogno di te per fare una cosa.»
Axel scavalcò il
davanzale scoccandogli un’occhiata scaltra. «Sei un pervertito,
Romeo.»
Roxas si sentì
avvampare. Gli lanciò addosso la scarpa che si era appena sfilato.
«Fottiti, Axel.»
Lui si scansò
ridacchiando.
* * *
La ricreazione stava per finire. Sora si
lasciò cadere nell’erba del cortile a riprendere fiato, mentre Riku e Tidus continuavano la
corsa dietro la lattina vuota che faceva da palla in quella partita
improvvisata. Per quella mattina, lui aveva già corso abbastanza.
Con la coda
dell’occhio vide una macchia di rosso e d’azzurro muoversi nella
sua direzione. Si voltò e riconobbe la figura di Kairi
che, allontanandosi da Selphie e dal gruppetto di
ragazze, andava a raggiungerlo al bordo del campo.
L’amica gli
sorrise mentre s’inginocchiava al suo fianco. «Come stai?»
Sora allargò
appena le braccia. «Seduto!»
Kairi rise, scuotendo la
testa. Il ragazzo si costrinse a non incantarsi nel movimento ipnotico dei suoi
capelli rossi.
«Intendevo come
vanno le cose.»
Sora tornò a
seguire il gioco, riportando le dita tra l’erba.
«Bene. Mi suona
ancora assurdo pensarlo, eppure sono convinto che tutta questa storia abbia
fatto bene a Roxas. È sereno, sorride sempre.
È tornato come prima. Sai... Prima di due anni fa.» Scosse le
spalle, con un sorrisetto. «Dovrò fare un monumento ad Axel, quando i suoi problemi con la legge saranno finiti.»
Circa una settimana
prima, il suo dirimpettaio lo aveva incrociato sulle scale del condominio,
forse non per caso. Lo aveva bloccato e gli aveva raccontato una storia che
Sora ancora faticava a credere. Eppure, lui non aveva avuto nessuna paura. Gli
aveva sorriso come al solito: Axel avrebbe anche
potuto essere il più pericoloso criminale del pianeta, ma per lui
sarebbe sempre stato soltanto colui che aveva – consapevolmente o no
– convinto Roxas a ricominciare a lottare.
«Insomma, è
come rinato. Magari l’anno prossimo potrebbe persino tornare a scuola. Le
strutture ci sono, e lui, beh, mi sembra pronto.»
«Ma...?»
Sora sorrise, colpevole.
Eccolo là, l’intuito femminile, la sensibilità, o come
altro si chiamava.
«Ma...»
Sospirò. «Ma lo ammetto, a volte vorrei tanto che non fosse
capitato a noi. Credo sia normale... Sarebbe tutto così facile, se quel
dannato incidente non ci fosse mai stato. Se Roxas
fosse ancora il campione degli HawkRunners. Se avessimo ancora una famiglia vera, se vivessimo
a casa nostra, e se il mio unico pensiero fosse quello di trovare il coraggio
di invitarti a uscire...»
Al suo fianco, Kairi si voltò in fretta a guardarlo.
Ancora concentrato sulla
partita, Sora non vide la sua espressione, ma si bloccò
all’istante, imbarazzatissimo.
Come cavolo aveva fatto a lasciarsi sfuggire
una cosa del genere?!
Rimase lì
attonito, senza scuotersi né al suono della campanella, né alla
vista dei compagni che tornavano in classe. L’unica cosa di cui era ben
conscio era il respiro irregolare di Kairi, unito al
caldo insopportabile che si sentiva in volto.
Alla fine, lei si
schiarì la voce e si alzò. «Dobbiamo andare... Xenahort interroga.»
Sora prese un respiro
profondo. Si alzò, guardando fisso le proprie scarpe.
«Va bene
venerdì sera?»
Sollevò lo
sguardo in preda alla confusione. Kairi era
arrossita, ma sorrideva euforica.
Quando capì il
senso della sua domanda, Sora la fissò sorpreso, incapace di
risponderle. Ma lei non gli diede neppure il tempo di cercare le parole; senza aggiungere
nulla corse via nel cortile.
Passò qualche
istante prima che lui si riscuotesse e si muovesse per seguirla, sorridendo ai
suoi capelli al vento.
* * *
Axel era inginocchiato
accanto al letto e ai piedi di Roxas. Si sarebbe
quasi detta una prosecuzione della piccola schermaglia shakespeariana di poco
prima; ma in realtà l’attività che stavano svolgendo non
offriva proprio nulla di cui scherzare.
Oltre al suo calore, il
dottor Leonhart aveva lasciato a Roxas
anche una serie di consigli, che andavano ora tradotti nell’aiuto
concreto di Axel.
In fondo non ci voleva
una laurea in medicina. Era solo il ripetersi di un movimento regolare: alto,
basso, alto, basso... E gli faceva piacere che Roxas
lo avesse chiesto a lui, certo.
Però, passare tutto quel tempo solo con lui in
quella cameretta stava cominciando a fargli venire in mente degli strani e
confusi ricordi.
Il ragazzino che sorrideva e chiudeva gli occhi e lui che si
chinava sulla sua fronte e poi sulla sua b...
«Che ti
prende?»
Axel scosse la testa con
vigore. Era certo che il turbamento gli si leggesse negli occhi, e si
affrettò ad abbassarli ancora di più.
«Niente.»
Roxas sembrò decidere
di non insistere.
Riprese a sollevargli
alternativamente le gambe inerti, senza sforzo. Su e giù, su e
giù. Quei movimenti avrebbero dovuto abituare i muscoli delle sue gambe
a rimettersi in moto, o qualcosa del genere. Axel non
aveva bisogno di spiegazioni dettagliate; qualsiasi cosa potesse essere utile a
Roxas, l’avrebbe fatta anche a occhi chiusi.
In fondo, era stato lui a salvarlo da se stesso.
Dopo qualche minuto il
ragazzino parlò di nuovo.
«Posso farti una
domanda?»
«Spara.»
A testa bassa, Axel si accorse che Roxas stava
stritolando un lembo del copriletto tra le dita.
«Dov’è
la tua famiglia?»
Alzò lo sguardo
su di lui.
Il ragazzo
arrossì, ma non distolse il suo.
Rifletté per un
istante prima di rispondergli.
«Non lo so. Non
l’ho mai conosciuta.»
Roxas parve sinceramente
sorpreso. Axel proseguì imperterrito,
impersonale. Era un argomento che non l’aveva mai toccato troppo.
«Mia madre
è morta subito dopo il parto, e mio padre era già sparito da un
pezzo. Io sono finito in una sottospecie di orfanotrofio.» Chinò
il viso e riprese a muovergli le gambe, più lentamente. «Un covo
di mocciosi problematici con l’unico genere di assistenza che si riserva
ai cani... Anzi, meno. A quattordici anni ho tagliato la corda – tanto
non m’interessava di essere adottato. Ho lasciato la scuola del quartiere
in cui vivevo e mi sono dato alla macchia.» S’interruppe, raccogliendo
le idee. «Da allora, per quattro anni, ho vissuto per strada. Di avanzi.
Di piccoli furti, all’occorrenza. Sono stato anche alle dipendenze di
gente che non ti consiglierei mai di frequentare» ghignò,
fermandosi e guardando di nuovo l’amico in faccia. «E alla fine ho
incontrato Demyx.»
Roxas annuì. «E
adesso?»
Axel lo soppesò
ancora con gli occhi. Ci pensò su. «E adesso, non lo so.»
Rimasero per un attimo
immobili a guardarsi e – almeno, questo valeva per lui – a
chiedersi quando e come sarebbe cominciato quell’adesso.
Poi Roxas
tornò a concentrarsi sulla coperta, e Axel
riprese gli esercizi.
Passò ancora
qualche lungo minuto di stallo.
«Mi
dispiace.»
Alzò di nuovo la
testa.
Roxas non lo guardava.
Continuava a stringere il tessuto in una mano. Aveva un’aria tristissima.
«Non deve essere
stato facile.»
Il mondo si
fermò.
Un quindicenne su una
sedia a rotelle, che aveva perso i genitori, una passione, e per tanto tempo
anche gli amici e la voglia di vivere; che gli aveva gridato in faccia la
differenza tra loro due, che gli aveva fatto vedere una strada; che per colpa
sua aveva rischiato di morire per
mano di uno psicopatico malato d’orgoglio ferito e che, nonostante tutto,
aveva ritrovato il coraggio di andare avanti – quel quindicenne, adesso,
seduto su quel letto, lo guardava coi suoi occhi puliti e gli diceva che era
dispiaciuto per lui.
Per lui.
Si sentì
così inerme.
Axel non si chiese se
l’avesse sempre saputo o se lo stesse capendo soltanto ora; però
ora sapeva. Sapeva che quel giorno, con quel gesto, non aveva semplicemente
seguito un impulso. Che c’era un significato in ciò che aveva
fatto.
E allora lo fece di
nuovo.
Si sollevò sulle
ginocchia e portò il viso all’altezza di quello di Roxas.
Le sue labbra appena dischiuse sapevano di un mare di cose
che non aveva mai avuto e che non avrebbe mai voluto perdere.
Quando riuscì a
ritrarsi, si fermò a poca distanza da lui e lo vide sorpreso, spiazzato,
smarrito. I suoi occhi azzurri divennero due specchi d’acqua chiara sopra
l’oceano rosso fuoco delle sue guance. L’imbarazzo contagiò
anche Axel, che si maledisse mille volte.
Ma non si pentì
del proprio gesto.
Il ragazzino distolse lo
sguardo, arrossendo ancor più intensamente. Capendo che qualcosa si era
appena spezzato, e che in quel modo rischiava di rovinare tutto, Axel si alzò.
Voltò le spalle e
s’incamminò verso la finestra.
Aveva bisogno di
riflettere. Aveva bisogno di lasciarlo
riflettere...
Aveva già una
gamba oltre il davanzale quando la voce lo fermò al suo posto.
«A... Axel...»
Incerto su cosa aspettarsi,
si voltò.
Roxas era in piedi davanti al letto, la testa
bassa, concentrato sui propri calzini. Lo fissò.
E alla fine fece una
cosa che – di nuovo – fermò il mondo circostante.
Mosse un passo verso di
lui.
Axel distinse lo sforzo nella
sua espressione, e temendo di vederlo cadere si staccò subito dalla
finestra.
«Roxas, fermati, sei ancora...»
Ma gli morirono le
parole in gola.
Il ragazzo
allungò una mano e si chinò per sostenersi al piano del comodino;
riprese fiato e fece un altro passo.
Axel avrebbe voluto
fermarlo, ma si sentiva il piombo nelle scarpe.
Roxas si staccò dal
comodino, fece un passo più lungo e posò la mano sulla libreria.
«Accidenti a
te» gemette Axel. «Accidenti a te, accidenti a te.»
Lui non diede segno di
averlo sentito. Continuò a camminare,
piano, un piede alla volta, senza mai lasciarsi scoraggiare dalla fatica.
Superò lentamente la scrivania. Alla fine abbandonò ogni sostegno
e si ritrovò proprio di fronte ad Axel.
Qui si fermò,
tirò il fiato e abbassò le palpebre, esausto. Cominciò a
vacillare. L’adolescente tese le braccia e lo sostenne.
«Tu sei pazzo!» ringhiò.
«Lo so...»
Gli occhi chiusi, il respiro ansante, Roxas sorrise
stancamente e gli si aggrappò. Riaprì gli occhi. «Sono
diventato amico tuo.»
Senza parole, Axel sentì l’ira e la frustrazione sbollire in
fretta. Si rese conto in quel momento di quanto
gli fosse vicino.
Contemporaneamente,
capì anche perchéRoxas avesse camminato verso di lui.
E sorrise incredulo alle
sue guance ancora rosse.
Avrebbe voluto
scostargli i capelli dagli occhi, percorrere con le dita il contorno del suo
sorriso; ma non poteva lasciarlo andare, non poteva e non ci riusciva. E allora
si limitò a baciarlo di nuovo.
SORPRESA! Dai che non ve l’aspettavate.
Vi ho colti alla sprovvista, eh? xD
Beh, non mi dilungo su questo capitolo.
Anche perché sono certa di non
averlo strutturato nel migliore dei modi; mi sarebbe piaciuto metterci tanto in
più – di Axel,
soprattutto di Axel, e della sua comprensione
finalmente completa su ciò che lo lega a Roxas.
Ma è stato più complicato del previsto. Spero solo non vi deluda
;_;
Naminè guardò quelle
scarpe da tennis calpestare esitanti il tappeto e dirigersi lentamente verso di
lei. Poi le due gambe che muovevano quei piedi si abbandonarono sul letto al
suo fianco, e nella stanza risuonò un sospiro.
La ragazza alzò
il viso. «Ce l’hai fatta davvero, Roxas.»
L’amico le rispose
soltanto con un sorriso imbarazzato.
Anche se la notizia
della riabilitazione fisica di Roxas era ormai
pubblica, c’era stato un lungo periodo in cui nessuno ne aveva saputo nulla.
Solo cinque minuti prima, lo stesso Roxas le aveva
raccontato tra le risate della faccia che Sora aveva fatto il giorno che era
rientrato da scuola e lo aveva trovato in piedi davanti al frigo aperto, mentre
lui masticava un panino farcito e gli sorrideva beato.
Naminè si era commossa nel
sapere che ormai il ragazzo riusciva ad attraversare la sua stanza praticamente
senza appigli. Le lacrime, però, avevano rischiato di cadere soltanto
quando lo aveva guardato negli occhi e lo aveva sentito ridere in quel modo.
«Non so ancora se
ce l’ho fatta.» Roxas si strinse nelle
spalle. «Quel che è certo è che non è per niente
merito mio.»
Naminè lo fissò,
sorpresa. «Stai scherzando, vero? Sei stato tu a decidere di riprendere
in mano la tua vita.»
Roxas distolse lo sguardo.
Per quel poco che poteva vedere del suo viso, le sembrò che fosse
arrossito.
«Non avrei mai
fatto proprio niente, senza Axel.»
Il tono in cui pronunciò
quel nome fece capire a Naminè molto
più di quel che c’era in superficie. Gli sorrise, senza malizia.
«Non devi
vergognarti di questo, Roxas. Tutti abbiamo bisogno
di qualcuno...»
* * *
«... Ma non tutti sono in grado di andare
oltre il loro orgoglio e tendere la mano per risalire.»
Tifa guardava con il
solito interesse l’adolescente scontroso e ostile che in nome di
un’improbabile quanto inevitabile amicizia si trovava lì con lei,
invece che in una cella umida o – peggio ancora – in un qualche
covo di criminali magari peggiori del suo ex boss.
Axel sospirò e si
appoggiò alla poltrona, un braccio disteso sullo schienale.
«Arriviamo al punto, tenente. Non credo che il motivo della sua visita
sia il desiderio sfrenato di tessere le mie lodi.»
La donna sorrise
divertita.
«In parte. Solo in
parte.» Si accomodò a sua volta nella sedia traballante di fronte
alla poltrona; era piuttosto evidente che Axel non
era molto interessato ad offrire il massimo dei comfort ai suoi –
ipotetici – ospiti. Ma c’era anche da dire che neppure il resto del
condominio, da quanto aveva visto, era in condizioni idilliache. «In
realtà sono venuta a parlarti dell’udienza definitiva. È il
sedici maggio.»
Axel non disse nulla.
Né reagì in altro modo. Si voltò soltanto a guardare il
corridoio oltre la porta aperta. Tifa seguì il suo sguardo, indovinando
che laggiù da qualche parte c’era una finestra affacciata su una benedetta scala antincendio che univa
l’appartamento 2B al 2A.
Guardò di nuovo
il suo ospite e si sporse verso di lui.
«Axel» affermò, sicura e diretta. «Lo so che
non sono nella posizione di poterti assicurare nulla. So che mi sono esposta
molto, troppo, sia con te che con Demyx. E so che questa cosa in polizia non
è piaciuta a tutti e che sto rischiando – sarò franca
– di finire con il culo per terra. Ma non sono mai stata più
convinta di qualcosa in vita mia.» Alzò la voce di un tono.
«Quando uscirai da quel tribunale, tu tornerai dal tuo amico a testa
alta. Questa è una promessa.»
Lui non si voltò;
fece solo un sorriso storto.
* * *
«Così oggi torni alle isole.»
Naminè era in piedi davanti
alla finestra, i capelli biondi mossi dal vento, lo sguardo rivolto alla scala
antincendio di fronte a lei. Roxas la osservava dal
letto, senza però provare quel vecchio imbarazzo che un tempo era una
costante in sua presenza. E temeva di conoscere bene il motivo di un tale
cambiamento.
La ragazza annuì.
«Ero venuta proprio per salutarti. Parto questa sera.»
Roxas abbassò lo
sguardo, sospirando. «Mi dispiace che tu abbia dovuto passare questo mese
di vacanza a preoccuparti per me.»
Naminè si allontanò
dalla finestra e tornò lentamente verso il letto. Gli sedette di nuovo
accanto e gli sfiorò una guancia con le dita.
«Guardami.»
Lui obbedì.
Quando incontrò i suoi occhi profondi e intensi, si ritrovò a
pensare ad altri occhi, molto diversi
ma in un certo senso anche molto simili, che in poco tempo e più volte
– l’ultima delle quali se la sentiva ancora sulle labbra –
gli avevano sconvolto l’esistenza. Stordito, s’impose di concentrarsi
sulle parole di Naminè.
«Sono due anni che
vivi in virtù di altri. Hai fatto quel che hai fatto pensando sempre e
soltanto ai tuoi ricordi, ai tuoi genitori, ai tuoi amici che dovevano restare
così come li ricordavi, perché non volevi tradire quel che
è stato. So che è così, me l’hai detto tu.»
Gli sorrise. «Adesso non preoccuparti anche di me, e cerca di pensare a
te stesso. Credo che sia ora di cominciare ad essere un po’
egoisti.»
Roxas accolse e
ricambiò il suo abbraccio senza arrossire e senza parlare. Le parole
avevano perso da molto tempo il loro valore, con lei che sapeva andare oltre.
Fu un rumore da fuori a
distoglierlo dalla stretta. Un rumore ormai familiare quanto la luce del sole.
Mentre un fiotto
d’imbarazzo lo irrigidiva al suo posto, quasi percependo il suo
nervosismo, Naminè si scostò da lui e
si protese a guardare la finestra.
Un attimo di silenzio,
poi una voce non troppo lontana.
«Ma bene. Oggi il
mio piccolo seduttore ha visite...»
Nel tono di Axel c’era un’ironia molto vicina al sadismo. Roxasnon
riuscì a voltarsi a guardare dalla finestra, ancora immobilizzato da
una sensazione stranissima e fastidiosissima che da una settimana a quella
parte lo impacciava fin troppo spesso.
Dal canto suo, Naminè sorrise con aria angelica all’inquilino
del 2B. «Non preoccuparti, la visita stava per finire. È tutto
tuo.»
La ‘sensazione’
crebbe ulteriormente, e in modo esponenziale.
Roxas si decise a seguire lo
sguardo dell’amica. Vide Axel, un gomito
puntato sul davanzale, l’altro braccio morbidamente abbandonato
penzoloni, che guardava fisso proprio lui. Sotto l’ironia, nella sua
espressione c’era anche una punta di accusa... Gelosia?
Scosse vigorosamente la
testa, ma sentì di non essere riuscito a scrollare via il rossore.
Axel notò di certo il
suo turbamento, perché sul suo volto passò il lampo di un sogghigno,
prima che tornasse a rivolgersi a Naminè.
«Ma no, posso
cederti tranquillamente il privilegio di aiutarlo nei suoi esercizi quotidiani.
Dopotutto, a giudicare da come lo vedo zampettare per camera sua, presumo che quella
sia ormai solo una scusa per restare solo per qualche ora al giorno con il
sottoscritto.»
A giudicare da come mi vede... Cos’è, mi spia?!
Roxas si alzò sulle
sue gambe – aveva imparato suo malgrado che la facilità di quel
movimento era direttamente proporzionale alle sue emozioni – e
andò ad afferrare il davanzale, dal quale lanciò
un’occhiata irritata ad Axel e gli
consigliò di andare in un posto in cui raramente mandava la gente.
Il rosso
sghignazzò e guardò ancora Naminè,
sbirciando oltre le sue spalle. «Senti come diventa aggressivo, il
tigrotto, quando si sente attaccato?»
Naminè raggiunse Roxas alla finestra e lo fissò, un po’
sconcertata e un po’ divertita. «Davvero. Credo sia la prima volta
che ti sento parlare così da che ti conosco.»
Roxas la guardò in
tralice, poi tornò a puntare lo sguardo su Axel.
«Non è
colpa mia. È lui che mi fa dire cose che... che non dico di
solito.»
La serietà
intrinseca di quella frase fece calare sensibilmente l’atmosfera
scherzosa e il sarcasmo del ghigno provocatorio di Axel.
Fu proprio lui a
interrompere il silenzio che si era creato; sembrava voler riprendere il
controllo della situazione.
«E va bene, basta
con le cretinate. Tra l’altro devo scusarmi del ritardo, bimbo, ma sono
stato trattenuto dal grande capo in persona.»
Mentre lo guardava
scavalcare la sua finestra e incamminarsi sulla scala antincendio, Roxas lasciò che la curiosità sostituisse
l’irritazione.
«Di chi stai
parlando?»
Axel arrivò di fronte
ai due ragazzi, che si scostarono per lasciargli spazio; Roxas
si teneva ancora al davanzale con una mano per non rischiare di perdere
l’equilibrio – sarebbe stato troppo imbarazzante se Axel si fosse affrettato a sorreggerlo davanti a Naminè;
sapeva benissimo come l’avrebbe
fatto. Lui infilò le gambe nel 2A, si appoggiò
all’architrave e si stiracchiò, ostentando indifferenza. Alla fine
guardò da Naminè a Roxas.
«Il tenente Lockhart. È venuta a farsi quattro chiacchiere...
Sapete, sull’udienza.»
Roxas ricambiò il suo
sguardo, e di colpo si ricordò che c’erano cose molto più
forti, improrogabili e definitive di quel vuoto allo stomaco che avvertiva ogni
volta che Axel entrava nel suo appartamento.
* * *
Naminè si sciolse
dall’abbraccio collettivo in cui Sora e Kairi
l’avevano avvolta e si voltò a guardare Roxas.
Soltanto in quel momento Axel smise di estraniarsi e
di vagare con gli occhi in cerca del punto in cui il taxi era sparito dopo
averli lasciati davanti all’aeroporto.
Roxas si alzò dalla
poltroncina della sala d’aspetto in cui si era lasciato cadere qualche
minuto prima. Aveva voluto accompagnarla così, sui suoi piedi, lasciando
al condominio la sedia che ancora usava per quelle poche occasioni in cui si
spostava dall’appartamento. Rimase immobile e senza sostegni per un
attimo, poi sorrise e allargò le braccia. Naminè
si strinse a lui, riempiendo lo spazio vuoto tra loro e rendendolo un incastro.
Axel non si sorprese troppo
della fitta di disappunto che gli ghermì le costole.
La ragazzina
sollevò la testa, sussurrò qualcosa all’orecchio di Roxas e infine lo baciò lievemente su una guancia.
Axel distolse lo sguardo.
Da quando aveva aperto
gli occhi su ciò che quel piccolo naufrago aveva scatenato in lui, da
quando aveva rischiato il tutto per tutto in una scommessa che gli era nata
dentro e che gli era andata a finire sulla bocca, il pensiero di vederselo
sfuggire via gli era ancora più intollerabile. Non gli restava altro da
fare che augurarsi che le promesse di Tifa Lockhart
fossero affidabili.
Grande. Riporre piena
fiducia nel capo degli stessi sbirri che avevano fatto fuori Zexion...
Ma che mi hai fatto, bimbo?
«Ehi.»
Il bisbiglio che gli era
appena stato soffiato accanto lo fece sussultare.
All’altezza del
suo petto, due occhi blu lo scrutavano fermi. Axel
ricambiò l’occhiata, in attesa.
Naminè si sollevò sulle
punte dei piedi, avvicinando il viso all’incavo della sua spalla,
perché all’orecchio non arrivava. La sua voce quasi si perse nel
rombo lontano di un aereo in partenza.
«Tu prova a farlo
soffrire ancora e, te lo giuro, ti verrò a cercare anche in capo al
mondo per ucciderti con le mie mani.»
Axel non si mosse. Oltre i
suoi capelli biondi, oltre le figure silenziose di Sora e Kairi,
guardò Roxas; si era seduto di nuovo e aveva
gli occhi fissi su di lui, ma quando si scoprì osservato voltò subito
la testa, con un sorrisetto timido. Sorrise a sua volta e si ritrasse
perché Naminè potesse vedere la
sicurezza e la sincerità con cui le rispose.
«Non
c’è pericolo.»
La ragazza annuì,
convinta. S’incamminò per recuperare la borsa da viaggio che aveva
lasciato sul pavimento, accanto alla fila di sedili. Volse intorno un ultimo
sorriso e un ultimo saluto.
Dagli altoparlanti
dell’aeroporto si diffuse una voce femminile dall’inflessione
meccanica.
«Attenzione: ultima chiamata per il volo
delle quindici e trenta diretto alle DestinyIslands...»
Roxas alzò lo sguardo
su Naminè. «Tornerai
quest’estate?»
Lei sorrise. Le
sfuggì una lacrima. «Certo che tornerò.»
Doveva essere la prima
volta che Roxas chiedeva apertamente la vicinanza di
qualcuno, da quando...
No... Axel se ne rese conto all’improvviso. No, non è la prima volta.
«E dai, bimbo, non prendertela. È che
mi hai sorpreso, tutto qui.»
«Credimi, sorprende anche me. Solo che... ho
qualcosa da fare lì. E ho pensato che forse tu...»
L’aereo divenne scia e la scia divenne
cielo.
Roxas si alzò di nuovo
in piedi, oltrepassò Sora e Kairi – che
lo guardavano in silenzio, con l’aria di chi ha appena cominciato a
credere ai miracoli – e andò ad aggrapparsi alla spalla di Axel.
«Andiamo a
casa.»
Gli altri annuirono e li
precedettero fuori dall’aeroporto, nella luce smorta di un ennesimo
tramonto.
Axel sostenne Roxas con un braccio. Come altre volte, si stupì di
quanto sembrasse piccolo anche quando non era seduto su quella dannata sedia a
rotelle. Il ragazzino arrossì quando lui lo strinse, e cominciò a
muovere i piedi a testa bassa.
S’incamminarono
così come erano arrivati. Pochi passi davanti a loro, Sora stringeva la
mano di Kairi. Axel non
riuscì a trattenere un sorrisetto.
«Che
c’è di tanto buffo, stavolta?»
Si voltò per scoprire
che il biondino lo sbirciava di sotto in su, ancora un po’ paonazzo.
«Niente, niente...
Una cosa che mi ha detto la tua amica.»
Roxas sollevò la
testa, incuriosito. «Perché? Che ti ha detto?»
Axel sorrise più
apertamente. Si chinò e posò un bacio sulla sua tempia.
«Magari prima o
poi ti racconto.»
L’altro distolse
lo sguardo e arrossì ancora di più, ma il luccichio nel suo
sguardo aveva tutta l’aria di essere di divertimento. La mano con cui si
teneva alla sua spalla gli strinse più forte la felpa.
«Axel...»
«Cosa
c’è?»
Roxas tacque per un attimo,
apparentemente concentrato sui passi di Sora e Kairi,
forse augurandosi che non si voltassero all’improvviso ad interromperlo. Lui se l’augurava di certo. Alla
fine lo vide sorridere.
«Il giorno
dell’udienza» mormorò, «andrà tutto bene. Lo
so. Fidati di me.»
Axel non rispose.
Continuò a camminargli accanto, guardando la strada.
In cuor suo, sentiva di
potersi fidare di Roxas mille volte più che di
Tifa Lockhart, di se stesso o di chiunque altro.
Già, già. Un capitolo un po’
giù di tono. Non so, dovevo congedare Naminè
e non ho saputo farlo meglio di così. Personalmente penso che quella
ragazza si meriti più attenzione; non siate crudeli con lei ç_ç
Ci avviciniamo al processo. Axel e Demyx saranno giudicati
colpevoli o innocenti? Ai posteri l’ardua sentenza... No, aspettate:
quella è un’altra storia. xP
A guardia del portone di legno, l’uomo in
uniforme era chiaramente intenzionato a dimostrare di meritarsi lo stipendio.
«Senti, piccolo,
te lo dirò per l’ultima volta. Questo non è un posto per
ragazzini. È il mio ultimo avvertimento. Fuori di qui.»
Roxas avrebbe desiderato con
tutto il cuore di potergli sferrare un calcio nella mascella; ma sapeva che
così facendo, oltre a minare la stabilità delle proprie gambe,
avrebbe certamente peggiorato il suo status.
Gli altri cercavano
ancora di tenere testa alla guardia.
«Lei non
capisce...»
«È
importante...»
«Dobbiamo entrare!»
L’uomo mise mano a
una ricetrasmittente e la brandì con fare minaccioso.
«E io invece dico
che dovete andarvene!» sputacchiò. «Non fatemi perdere
definitivamente la pazienza, o sarò costretto a...»
«A perdere il
posto di lavoro?»
Roxas si voltò di
scatto. Gli si allargò il cuore alla vista del tenente Lockhart che marciava verso la guardia con la sua migliore
espressione da poliziotta in carriera, mostrando il distintivo. Dietro di lei
venivano due giovani agenti che ben conosceva.
«I ragazzi sono
con noi» spiegò il tenente, amabile, appoggiandosi al banco.
«Ora ti conviene aprire quella porta e farci entrare, se ci tieni che le
tue chiappe continuino a poggiare su quella tua bella poltrona di pelle. Non
mettermi alla prova, ho molte conoscenze.»
L’uomo
esitò per un istante; ma alla fine, contrariato, ripose nella cintura la
ricetrasmittente e si voltò con uno sbuffo stizzito ad aprire il portone
alle sue spalle.
Roxas alzò di nuovo lo
sguardo sulla donna. Lei gli rivolse una strizzatina d’occhi e un
sorrisetto impercettibile. Ci volle solo un istante perché il ragazzo si
rendesse conto di aver ricambiato il sorriso.
* * *
Non somigliava affatto a ciò che aveva
immaginato.
Seduto su una semplice
sedia di legno, accanto a un tizio che chiamavano ‘avvocato’ e che
era un semplice sconosciuto, in una semplice sala quasi vuota, Axel si guardava intorno. Considerando quella che era stata
tutta la sua vita, si disse che avrebbe dovuto figurarsi spesso una scena del
genere; adesso, invece, si rendeva conto che non ci aveva mai riflettuto
davvero. E di certo i pochi pensieri confusi degli ultimi sei giorni non
corrispondevano a realtà.
Anche ora che ci si ritrovava
dentro, non sapeva bene come dovesse sentirsi. Era piuttosto apatico, in fondo,
e senza un vero interesse faceva scorrere lo sguardo sui volti severi e quelli
curiosi e quelli indifferenti come il suo, ascoltando senza sentirlo il brusio
delle chiacchiere che – forse – precedevano sempre l’inizio
di un processo a un delinquente redento ma senza scopi nella vita.
Rendendosi conto del
proprio pensiero, Axel abbassò la testa a
guardare il parquet per nascondere un sorriso. Uno scopo forse no, ma
qualcos’altro certo l’aveva trovato.
Quando alzò di
nuovo gli occhi, si ritrovò a guardare una platea di sguardi puntati sul
fondo della sala. Li seguì automaticamente e si chiese se quel qualcos’altro, tra le sue varie
facoltà, detenesse anche quella di materializzarsi dai suoi pensieri.
La porta si era appena
spalancata sull’ingresso di Roxas. Il ragazzino
si guardava intorno come lui, un po’ intimidito, ma con lo sguardo di chi
sa quel che fa, che vuole andare fino in fondo, che cammina per la sua strada.
Da solo e, finalmente,
sulle sue stesse gambe.
Dietro di lui intravide
Sora e Hayner, e un passo più in là Kairi, Olette e Pence. Chiudevano il corteo nientemeno che AerithGainsborough, CloudStrife e Tifa Lockhart.
Axel tornò a fissare Roxas, interdetto. Non si era aspettato di vederlo in aula
quel giorno. Un paio d’ore prima, quando si era affacciato alla sua
finestra per salutarlo, si era visto accogliere da un sorriso sicuro, ma
vederlo lì era comunque una sorpresa.
«... Andrà tutto bene...»
Roxas incrociò il suo
sguardo. Si fermò in piedi accanto a una fila di posti vuoti e gli
sorrise, ancora. La distanza non bastò ad impedire ad Axel di vedere con chiarezza l’azzurro chiaro dei
suoi occhi.
Mentre quello strano
assembramento di ragazzini e poliziotti, sognatori e disillusi – chi era cosa, in realtà? – prendeva posto in quella sala di
tribunale, Axel guardò fisso davanti a
sé, nel punto in cui da un momento all’altro un nuovo estraneo in
toga avrebbe deciso se fargli scontare i suoi ultimi due mesi di esistenza al
buio e da solo, o se permettergli di uscire e cominciare a vivere.
Andrà tutto bene.
Questa volta non si
curò di nascondere il sorriso.
Dov’era finito?
Nella confusione di
teste e gambe e persone sconosciute che si alzavano e sparivano dalla sua
strada, aveva finito col perderlo di vista.
Scrutò nervoso le
facce intorno a lui, con un nuovo interesse. Doveva vederlo, doveva parlargli, adesso...
«Axel!»
La sua voce. Un vuoto
allo stomaco.
Si voltò e vide Roxas, appena sbucato dalla folla, e di colpo si rese conto
di non avere le parole.
Si guardarono. Si
sorrisero. Lasciarono che l’eco di quella parola parlasse per loro.
Assolto.
«Te l’avevo
detto.» Roxas si avvicinò di un passo.
Sembrava emozionato. «Ti ricordi, no?»
Axel rifugiò lo
sguardo sulle sue scarpe da tennis, le stesse che gli aveva visto il giorno in
cui si era trovato a sorreggerlo per la prima volta.
«Però non
mi avevi detto che saresti venuto.»
Roxas si avvicinò
ancora e si chinò per poterlo guardare in faccia. Axel
osservò il suo sorriso euforico e si chiese se in quel preciso istante,
su quel pianeta, ci fosse un’altra persona altrettanto felice.
«Volevo portarti
in un posto, quando fossi uscito di qui. Perché ero sicuro che saresti uscito di qui.»
«Mmm.» Quasi senza volerlo, Axel
si ritrovò a sogghignare. «Se non sbaglio, questo dovrebbe essere
il tuo primo appuntamento in piedi e con un uomo libero.»
Il biondino
avvampò all’istante. Si raddrizzò, incrociò le
braccia e alzò gli occhi al cielo.
«Sempre il
solito» sbuffò. «Mai serio, neanche oggi!»
Axel abbassò la voce.
«Guarda che io sono
serio.»
Roxas lo guardò,
imbarazzato. L’arrivo tempestivo di Sora gli evitò di ribattere a
quelle parole.
«Axeeel!» Piombò tra di loro come un
acquazzone, portandosi appresso i suoi amici sorridenti. Aveva tutta
l’aria di aver preso quella storia di processi e compagnia bella come un
gioco divertente. «Evvai, è fatta!
Torniamo insieme al condominio, allora?»
L’adolescente
sorrise all’espressione spumeggiante di Sora.
«Non subito. Prima
avrei da fare con tuo fratello.» Guardò oltre le sue spalle, nel
semicerchio che i compagni di Sora e Roxas stavano
formando davanti a loro. «Vero, bimbo?»
Curioso, Sora si
voltò a guardare il fratello, subito imitato dagli altri. Lui li
ignorò tutti e ricambiò l’occhiata di Axel.
Il suo colorito stava tornando normale.
«Vero.»
Annuì e sorrise. «Abbiamo un appuntamento.»
* * *
Era un lunedì ventoso. Roxas camminava sicuro sul sentiero di ghiaia, pugni in
tasca e sguardo fisso, al fianco di Axel. La loro
meta si stagliava davanti a loro, bianca nel sole di maggio, con una traccia
sottile di nero a recare alcune scritte impresse nel marmo e nella memoria.
Ci aveva pensato molto,
prima di tornare in quel posto. Si era svegliato nel cuore della notte nel suo
letto, in lacrime, e aveva avuto paura e aveva avuto rimorsi. Ma aveva capito
che paura e rimorsi andavano affrontati. Li aveva
affrontati. Forse superati.
Con Axel.
Ed era così che
doveva finire. Con Axel, ancora una volta.
A pochi passi di
distanza da quelle scritte, Roxas chiuse gli occhi e
rivisse il sogno che glieli aveva aperti.
«Roxas.»
La camera era buia, rischiarata solo dal riflesso azzurrino
del cellulare che Sora, addormentato con la bocca aperta e una gamba fuori dal
materasso, aveva ancora in mano. Roxas sorrise
ricordando il fratello che durante la notte messaggiava
freneticamente con Kairi, affermando di poter andare
avanti fino all’alba e sbadigliando intanto come un sanbernardo.
«Roxas...»
Si sollevò a sedere, più perplesso che
preoccupato. Non riusciva ancora a individuare la fonte della voce.
Guardò la finestra ai piedi del letto, aspettandosi di vedere la figura
alta e scura di Axel; ma la scala antincendio al di
là delle persiane sembrava deserta. Guardò di nuovo Sora, ma lui
continuava a dormire beato.
«Roxas, svegliati.»
«Sono sveglio» mormorò confusamente nel
buio.
Poi avvertì un peso accanto alle gambe e si
voltò ancora, per scoprirsi osservato dagli occhi di suo padre.
Roxas si
sentì mancare il fiato. Il papà era identico a come lo ricordava,
il sorriso buono, l’odore del dopobarba che una volta Sora aveva provato
di nascosto – gli erano rimaste le guance rosse per giorni – la
pelle chiara, priva di ferite, priva di sangue, senza alcun ricordo di quella
macchina distrutta.
Seduto sul suo letto c’era proprio lui, suo padre, in carne ed ossa.
«No che non lo sei.» Il papà scosse la
testa, sorridendo tristemente. «Da molto tempo vivi ancorato ai tuoi
sogni, Roxas. Ma è tempo di svegliarsi.»
Roxas avrebbe
voluto toccarlo, abbracciarlo, ma qualcosa lo bloccava.
«Che cosa vuoi dire?» chiese, anche se conosceva
già la risposta.
Il papà scosse ancora il capo. «Non chiedere
cose che già sai.»
Il ragazzo chinò lo sguardo. Vide il lenzuolo
distorto da un velo improvviso di pianto represso. Strinse le mani, e non gli
sembrarono più le sue.
«Ma io non posso lasciarvi andare»
mormorò.
Una mano calda gli scostò i capelli dalla fronte. Un
profumo nuovo si sparse nella stanza – nuovo, ma conosciuto – e gli
fece battere il cuore più forte. Quando sollevò lo sguardo sul
viso di sua madre, Roxas si sentì tornato ai
suoi tredici anni.
«Ascoltami, Roxas. Noi
sappiamo cosa provi.» Anche il sorriso della mamma era triste. «Per
tutta la vita ti sei sentito paragonato a tuo fratello, non è vero? Hai
sempre pensato di essere meno forte, perché ti sentivi meno sicuro,
perché avevi più paura. Lo vedevi amato e benvoluto da tutti, non
solo da noi.» Si sedette accanto a lui e lo abbracciò con
dolcezza, annullando il tempo e tutto il resto. Ed era così reale.
«Quando siete rimasti soli, tu sentivi di essere quello che aveva
più bisogno di noi. E questo finora ti ha impedito di rialzarti. Di
svegliarti.»
Roxas si
strinse a lei e chiuse gli occhi. Intuiva ciò che sarebbe arrivato dopo,
ma non era sicuro di volerlo ascoltare.
«Ma adesso hai trovato qualcosa che ti rende unico.»
La mamma lo baciò sulla fronte, senza sciogliere l’abbraccio.
«Hai trovato qualcuno da salvare. E l’hai salvato. Questo significa
che sei pronto.»
Il ragazzino singhiozzava, si sentiva più bambino ad
ogni millesimo di secondo, disperso e disperato.
«Non posso. Non è vero. Io non ho fatto niente,
non posso fare niente! Non sono capace di lasciarvi andare! Non posso fare
più niente!»
Sua madre lo allontanò e lo costrinse gentilmente a
guardarla negli occhi, azzurri come i suoi.
«Ti sbagli, e lo sai. Guarda il braccio di tuo
padre.»
Roxas
obbedì. Vide una manica di camicia arrotolata al gomito del papà.
Nella penombra spiccava una cicatrice, quella che lui stesso gli aveva ricucito
in una baita di montagna, non troppo diversa dalla piccola mezzaluna sotto la
spalla di Axel.
Forse fu per quella vista, forse per quel pensiero, ma di
colpo capì di avere di nuovo quindici anni.
«Tu sei pronto, Roxas. Sei
pronto a svegliarti.»
Gli occhi e i sorrisi e i profumi svanirono come erano
apparsi, come se non ci fossero mai stati, e di fronte al suo letto ci fu di
nuovo soltanto una finestra.
La stessa da cui, un giorno al crepuscolo, aveva visto Axel.
Allora capì che poteva svegliarsi davvero.
Inginocchiato di fronte a due lapidi bianche, Roxas chiese scusa al cielo e a se stesso per non essere
riuscito prima a venire a camminare in quel cimitero.
Una parte di lui era
ancora convinta di non potercela fare – eppure, riuscì a non
abbassare gli occhi.
Guardò le due
foto di volti sorridenti che aveva visto per la prima e ultima volta alla fine dell’unico
funerale cui avesse assistito in vita sua. Riconobbe intatti come nel suo sogno
i lineamenti che aveva sperato di dimenticare e che mai avrebbe voluto
dimenticare. Sorrise e si concesse di crederci.
«Grazie»
sussurrò soltanto.
Il vento gli restituì
solo il silenzio di Axel, in piedi dietro di lui.
Roxas si alzò e si
voltò, lasciandosi alle spalle i ricordi dei sogni degli ultimi due anni
– e trovandosi davanti agli occhi gli occhi verdi di una nuova
realtà.
Pare proprio velocissima, la riabilitazione
fisica di Roxas. Vi imploro di perdonarne la
superficialità. Questa storia mi ha messa in difficoltà come
nessun’altra ç////ç
E ora, siete pronti alla notiziona? La fanfic si concluderà tra dieci capitoli esatti. Eh
già, finalmente ci avviamo alla conclusione. Spero di non deludervi troppo,
strada facendo. ^^
Non gli era mai capitato di sentirsi così
inadeguato.
Il suo amico ora
camminava libero, in tutti i sensi, senza un accenno di affaticamento o di
bisogno di sostenersi a lui. Axel non riusciva a smettere
di lanciargli occhiate furtive. Si conoscevano da poco più di un mese;
non avrebbe saputo dire chi dei due fosse più cambiato, né se
quel tempo fosse stato troppo lungo o troppo breve. Camminando sulla strada di
casa, con la coscienza fresca di bucato e senza più nulla da nascondere
a se stesso o agli altri, lo spacciatore fallito non pensava più alla
propria condizione, ma a quella della persona che gli stava accanto,
l’unica che volesse con sé e l’unica che lo facesse sentire
sempre nettamente inferiore.
«Hai perso la
lingua?»
Roxas lo guardava
impassibile. Axel si strinse nelle spalle.
«Pensavo.»
«Pensavi?»
Il ragazzino ridacchiò. «Tu?»
«Ridi, ridi
pure.» Axel gli indirizzò un mezzo
sorriso senza ironia. «Pensavo che somigli moltissimo a tua madre.»
Roxas tacque, sorpreso. Poi
distolse lo sguardo e continuò a camminare.
«Lo prendo come un
complimento.»
Non replicò; per
una volta non ci teneva a rimarcare il suo imbarazzo. Probabilmente lui non era
neppure in grado di immaginare il
percorso e la lotta interiore che Roxas aveva dovuto
affrontare prima di mettere piede in quel cimitero e tornare a guardare negli
occhi la sua famiglia. Se solo avesse potuto dimostrargli quanto significasse per lui essergli stato vicino in un momento del
genere...
Scosse la testa.
Erano arrivati. Davanti
all’ingresso del condominio, Vexen zoppicava in
giro, raccattando dalla strada dissestata quelli che sembravano giornali vecchi
ancora in buono stato. Chissà, magari voleva farsi una cultura. Axel ricordò che una volta, in un numero di Topolino trovato in un altro parco
troppi anni prima, aveva visto Paperon de’ Paperoni comportarsi esattamente nello stesso modo.
Un sogghigno gli venne
spontaneo, nel preciso istante in cui il vecchio portinaio alzava lo sguardo e
lo intercettava. L’espressione acida si venò di una fievole
traccia di allarme, ma durò soltanto un nanosecondo; Vexen
finse ostentatamente di non averli visti e zoppicò in fretta su per i
gradini d’ingresso fino al portone, chiudendoselo alle spalle con uno
schianto secco.
Roxas rise allegramente.
«Tu lo terrorizzi, Axel!»
«No, è solo
offeso perché non è ancora riuscito a estorcermi
l’affitto.» Scrollò le spalle e ripercorse i passi di Vexen verso l’uscio. «Per quel che mi riguarda,
può anche stare tranquillo. Ora che sono ufficialmente un bravo ragazzo
provvederò anche a questa rottura di scatole, prima o poi...»
«Axel... Fermati.»
«Dai, lo so che
non dovrei scherzarci su, però...»
«Non hai
capito.» Roxas lo raggiunse e lo afferrò
per una manica. «Fermati un attimo!»
Senza capire, Axel si fermò ai piedi dei gradini e lo
fissò, inarcando un sopracciglio.
«Beh?»
Roxas arrossì e lo
lasciò andare.
«Devo... dirti una
cosa.» Fece un profondo sospiro. «Ti ho detto che ero sicuro che
oggi saresti potuto tornare a casa... Beh, non ero l’unico ad esserlo.
Sora e Kairi hanno organizzato un... una festa per
te. Che comincerà appena tu ed io arriveremo al secondo piano.»
Axel continuò a
fissarlo, a dir poco sbalordito. Alla fine gli affiorò alla bocca un
dubbio.
«Mi stai dicendo»
disse lentamente, «che mi hai portato laggiù al cimitero... per distrarmi?»
Roxas alzò di scatto
la testa. Sembrava arrabbiato, o deluso, dalle sue parole.
«Ti sembro capace
di una cosa del genere?»
Axel realizzò la
sciocchezza detta in meno di un baleno. Distolse lo sguardo e abbassò la
voce.
«No. Scusa.»
Seguì un silenzio
impacciato. Quelle ultime due sillabe echeggiarono per un pezzo nell’aria
circostante; Roxas pareva sorpreso, come se non si
aspettasse quella risposta, e Axel dovette riconoscere
di non essere meno impressionato da se stesso.
Finalmente si decise a
tornare alla questione in sospeso. «Allora?»
Roxas alzò gli occhi,
ancora confuso. «Allora cosa?»
«Allora, che c’è? Hai deciso di
rovinarmi la sorpresa della festicciola solo perché ti andava, o
c’è un motivo preciso per cui mi stai preparando alla cosa?»
Il biondino
sembrò ritrovare il filo del discorso. Sollevò le spalle.
«Più o
meno. È che... In questo momento, io non ho molta voglia di
festeggiare.» Arrossì ancora. «Cioè, sono felice per
te, lo sai, però non credo di volermi ritrovare in mezzo a tanta gente,
ora come ora. Perciò, ecco, te l’ho detto, così ora tu vai
da Sora e gli altri e io...redo di
volermi ritrovare in mezzo a tanta gente, ora come ora. se.»
«Non se ne parla
neanche.»
Roxas s’interruppe.
Axel lo afferrò per
un braccio, fece dietrofront e se lo trascinò dietro. «Tu vieni
con me. Non ti lascio solo. Memorizzato?»
Non si voltò a
guardare la sua espressione, ma a giudicare dal suo silenzio capì che
sì, aveva memorizzato. E che non gli dispiaceva.
* * *
«E voi due che ci fate qui?»
Si fermarono. Avevano
circumnavigato una buona metà dell’edificio, fino al punto in cui
il vicolo rivelava il cortile interno, ma a quel punto si erano imbattuti in
due agenti di polizia: per la seconda volta da quella mattina, Roxas riconobbe CloudStrife ed AerithGainsborough.
«Dunque,
vediamo.» Axel soppesò
quest’ultima con lo sguardo prima di rispondere alla sua domanda.
«Fino a qualche ora fa ci abitavamo, e dovrebbe essere ancora
così, a meno che le circostanze non ci abbiano sfrattati nel frattempo.
Ma, ora che ci penso, potremmo fare a voi
la stessa domanda.»
Roxas approfittò del
suo enfatico sarcasmo per sfilare il braccio dalla sua stretta, augurandosi che
l’imbarazzo non gli si leggesse in faccia.
La giovane donna sorrise
gentilmente e mostrò ad Axel ciò che il
suo collega teneva in mano.
«Beh, a quanto
pare siamo venuti a sgomberarvi la strada.» Si voltò per rimuovere
anche le ultime transenne tra quelle che nelle ultime settimane avevano
bloccato il vicolo e assicurato gli arresti domiciliari di Axel.
«Comunque, se questo è il vostro metodo per rientrare in casa,
devo ammettere che è un po’ inusuale. Grane col signor Vexen?»
Ne aveva azzeccate due
in un colpo: Roxas non poté impedirsi di
sorridere tra sé e sé.
Dal canto suo, Axel allargò le braccia e scosse la testa.
«Eh, lasci stare,
è una storia lunga.» Prese di nuovo Roxas
per un braccio e ricominciò a trascinarlo verso il vicolo. «Allora
ci si vede, signori. Buona giornata.»
«Altrettanto»
sorrise Aerith, accompagnata da un semplice cenno del
capo da parte di Strife.
Roxas fece per ricambiare il
saluto, ma subito dopo si ritrovò nel vicolo con Axel
e si distrasse: era la prima volta che passava di lì, da quando viveva
al condominio.
«Meno male»
sbuffava intanto Axel in sottofondo, producendo con
la sua bassa voce baritonale un eco rombante sotto la volta di cemento.
«Se non altro, ho finito di sentirmi come un topo in trappola.»
Stava già per
dirgli che d’ora in poi avrebbe potuto guadagnare ben più di
questo, quando si rese conto che in quella trappola
in realtà Axel c’era stato benissimo, o
comunque non se n’era mai lamentato prima. Rinunciò in partenza e
si rassegnò a tenergli dietro.
Visto dal basso, il
cortile del condominio sembrava molto più grande che dalla sua finestra
al secondo piano, ma non meno sporco e mal tenuto. Tuttavia non gli dispiaceva
quel cambiamento di prospettiva.
Lo sguardo di Axel si posò sulla scala antincendio e
d’improvviso scintillò pericolosamente.
«Bene, piccolo Roxas.» Non era sicuro che quel vezzeggiativo
significasse qualcosa di buono. «Direi proprio che è arrivato il
momento di mostrarti la mia camera da letto.»
C’era da aspettarselo.
Roxas si sentì
avvampare, poi tirare di nuovo in avanti. Cercò di divincolarsi.
«Insomma, Axel! Mollami! Guarda che so cammina...»
La voce gli si spense,
mentre si rendeva pienamente conto del senso delle parole che aveva scelto per
protestare.
Axel smise di trascinarlo e
si voltò, guardandolo con occhi indecifrabili. Confuso, Roxas ricambiò lo sguardo.
So camminare.
Era così strano
per lui pronunciare quelle due sole parole. Eppure gli erano salite alle labbra
così, spontaneamente, senza riflettere. La risposta più ovvia del
mondo.
Non avrebbe saputo
spiegare il senso di estraniazione appena provato; ma Axel
capì lo stesso.
Gli sorrise, lo
lasciò andare e si diresse senza fretta alla base della scala.
Grato del suo silenzio, Roxas si scosse e lo seguì.
L’adolescente era
già alla metà della rampa che conduceva al primo pianerottolo
quando si fermò improvvisamente, si voltò e seguì un
pensiero chissà dove. Una decina di gradini sotto di lui, Roxas vide la sua espressione indurirsi. Per un attimo gli
apparve di nuovo il pericoloso sconosciuto che una notte aveva percorso quella
scala antincendio con una pistola in mano e una persona da uccidere.
Abbassò gli occhi sul gradino di metallo davanti ai propri piedi,
così stranamente piantati al
suolo.
«Sai che fine ha
fatto Zexion? Quello che hai visto venire a cercarmi
qui, il mese scorso?»
«No. Che fine ha
fatto?»
«Gli hanno
sparato. Quei due simpaticoni qui fuori.»
Pausa.
«Sul serio?»
Axel chiuse gli occhi e si
stiracchiò. «Sul serio. Strana la vita, eh?»
Roxas annuì e
alzò la testa.
«Mi
dispiace.»
Al suo fianco, l’altro
sobbalzò e lo fissò con aria stordita.
«Quando sei arrivato
quassù?»
«Proprio
adesso.» Roxas tagliò corto e
continuò a salire i gradini, guardandosi i piedi e ripetendosi
mentalmente che erano proprio i suoi. «Perché non me ne hai
parlato prima?»
Axel non rispose.
Raggiunto il
pianerottolo del primo piano, che nasceva davanti alla finestra dell’appartamento
1B, lui proseguì sulla piattaforma fino a quella dell’1A,
sbirciando l’amico ancora fermo sulla rampa inferiore. Quando
incontrò il suo sguardo assorto, si fermò.
«Che
c’è?»
«È...»
Axel non batté ciglio. «Niente. È
un po’... strano vederti salire
le scale, ecco tutto.»
L’intensità
con cui lo fissava lo mise di nuovo a disagio. Distolse il viso e riprese a
camminare.
I passi di Axel riecheggiarono dopo qualche istante, un rumore
smorzato nel silenzio assoluto.
Le persiane alla
finestra del 2A, quella della sua stanza, erano chiuse come le aveva lasciate
prima di uscire con Sora quella mattina per recarsi all’udienza in
tribunale. Meglio così; sarebbe stato alquanto imbarazzante se Sora o Hayner o chiunque altro in quel momento stessero guardando
proprio da quella finestra, accorgendosi che lui, invece di presentarsi alla porta del suo appartamento, stava
per entrare così furtivamente nel 2B...
Si fermò di nuovo
sul pianerottolo del secondo piano, aspettando che Axel
facesse gli onori di casa. Lui lo raggiunse, lo superò e scavalcò
agilmente il davanzale.
«Non la chiudi
mai, questa finestra?» cercò di scherzare Roxas.
Recuperata
all’istante l’indole sarcastica, Axel
sogghignò.
«Non potrei mai.
È la mia via di fuga preferita.» Fece un passo indietro.
«Non ti serve aiuto, non è vero?»
Il ragazzo sorrise. Se
per qualche secondo Axel aveva guardato alle sue
gambe rinnovate con gli occhi di tutti gli altri, ecco che ora tornava al suo
vecchio pragmatico distacco.
«Non mi avvilisco per così poco...»
Proprio come piaceva a
lui.
«No. Non mi serve
aiuto.»
Si avvicinò al
davanzale, vi si sostenne con una mano e sollevò la gamba sinistra fino
a oltrepassarlo. Sedette a cavalcioni e tirò dentro anche la destra,
ritrovandosi infine in piedi di fronte ad Axel.
«Fatto.»
L’altro aveva
ancora gli occhi fissi sui suoi jeans. Roxas ebbe la
preoccupante impressione che avesse seguito tutti i suoi movimenti con estrema
cura. Ma perché lo rendeva
così nervoso?
Cercò di ignorare
quel pensiero così stupido
guardandosi intorno nella stanza di Axel.
A prima vista, sembrava
che l’inquilino del 2B si fosse trasferito là il giorno stesso.
L’immagine gli ricordò quella del soggiorno, che aveva già
avuto modo di vedere un’unica volta. C’erano pochissimi mobili, che
parlavano di scarna essenzialità, e praticamente nessun effetto
personale. Un letto sfatto, un armadio, un comodino. Ogni particolare dava
l’idea di un proprietario che non aveva la minima voglia di far sua
quella stanza o, più semplicemente, intendeva passarci meno tempo
possibile.
Roxas si avvicinò
lentamente al letto.
«Mmm.»
«‘Mmm’, cosa?» Axel gli
si affiancò, incrociando le braccia. «Che ti aspettavi, un albergo
a cinque stelle?»
«No di certo. Ma
forse qualcosa con un minimo di personalità...»
«Traduzione,
prego.»
Si voltò a
guardarlo divertito, con fare paziente. «Voglio dire che questa stanza non
dice niente di te. La mia, per esempio, è un caos: qualcosa vorrà
dire.»
Axel ridacchiò.
«Magari è solo che non c’è niente da dire su di
me.»
«No, questo
è impossibile.»
«Andiamo, bimbo!
Tu sai di me tutto quello che vale la pena sapere e anche qualcosa che non vale la pena sapere.» Si tolse
la felpa e rimase in t-shirt. «Eccetto il mio più grande talento,
forse.»
Roxas mosse un passo
indietro, con un bruttissimo
presentimento. «Sarebbe a dire...?»
Axel gli si avvicinò
ghignando. «Prima devi dirmi tu una cosa. Soffri il solletico?»
«Il...»
Sgranò gli occhi e indietreggiò ancora, fino a toccare il
materasso. «Che cosa?»
«Perché questa» lo interruppe
l’altro, tendendo le mani, «è una cosa di me che non
varrebbe la pena sapere. Ma pazienza, io te la dico lo stesso!»
Prima di avere il tempo
di reagire, Roxas si ritrovò quasi
scaraventato sul letto, con Axel al suo fianco
intento in un ossessivo attacco di solletico. Scoppiò a ridere e
piegò automaticamente le gambe per difendersi, ma l’adolescente
aveva braccia più lunghe e forti delle sue e riuscì a vincere
presto ogni sua resistenza. In preda alla ridarella e ormai alle lacrime, Roxas si sfilò il cuscino da sotto la testa e
colpì ripetutamente, alla cieca, dove e come capitava.
«Dovevi marcire in
prigione!» boccheggiò. «Ti odio! Ti odio! Ti odio!»
Axel si fermò
all’improvviso. Rideva anche lui. Roxas
lasciò ricadere il cuscino e rimase ansante, a braccia aperte, a cercare
di calmare le risate.
«Forse non so
tutto di te» esalò poi, «ma una cosa è certa. Sei lunatico.»
«Lunatico?
Io?»
«Sì, tu! Un
attimo prima hai uno sguardo da assassino, un attimo dopo ti trasformi nel
Signore del Solletico. Durante gli arresti domiciliari fai sempre lo scemo, poi
ti sento dire che ti sentivi in trappola.» Scosse la testa, esasperato.
«Come mai sei così contraddittorio?»
Axel sorrise e gli
asciugò la guancia, dove una lacrima si era scavata una via per andare a
disperdersi nel cuscino.
«Che pretendi da
me? È colpa tua... Mi fai fare cose che di solito non faccio.»
Roxas perse ogni voglia di
ridere. Aveva riconosciuto la parafrasi delle sue stesse parole, e sapeva che
non c’era nulla di ironico in quella frase.
Soltanto allora si rese
conto di quanto Axel fosse vicino.
Imbarazzato,
sfuggì al verde magnetico e indagatore dei suoi occhi e si
concentrò sulla sua spalla. Sotto la manica della t-shirt nera si poteva
distinguere una piccola macchia bianca a forma di mezzaluna. Senza neppure
accorgersene, portò una mano a sfiorargli la cicatrice. Liscio sul
ruvido, freddo sul caldo.
«Prima non mi hai
risposto.» Ancora non lo guardava. «Perché non mi avevi
detto che il tuo amico... Che era successo quel che è successo?»
Axel non si muoveva; ancora
in quella posizione, sollevato sui gomiti puntati, poco sopra di lui,
sembrò riflettere sulla domanda.
«Era una cosa che
non riuscivo a fronteggiare, credo. Mi sembrava... irreale. Ma l’amicizia
non c’entra. Zexion non era esattamente mio amico... Una volta credo di aver avuto
un’amica, una bambina dell’orfanotrofio. Da allora non ho
più avuto bisogno di simili stupidaggini.»
Roxas alzò gli occhi,
imbronciato. «Ma scusa, allora io cosa dovrei essere? Tuo zio?»
Axel gli sorrise, sicuro di
sé. «Proprio non ci arrivi?»
Il ragazzo lo
fissò, incerto, ma l’altro non aggiunse nulla. Il silenzio e la
vicinanza si facevano sempre più imbarazzanti. Avvertendo
l’accelerare frenetico dei battiti del cuore, Roxas
si rifugiò di nuovo nella contemplazione della cicatrice sul suo braccio
destro. Una cicatrice: ciò che l’aveva convinto a chiedergli di
accompagnarlo al cimitero, dai suoi genitori...
«Hai trovato qualcuno da salvare. E
l’hai salvato. Questo significa che sei pronto.»
Axel scese lentamente con il
capo e gli posò le labbra tra i capelli.
«Mi odi
davvero?» bisbigliò.
Roxas chiuse gli occhi. Lentamente,
scosse la testa.
«Sicuro?»
Le labbra si spostarono
sulla punta del suo naso.
«Sicuro» mormorò
lui, le palpebre ancora chiuse.
Un improvviso sospiro
sommesso lo indusse a sollevarle. Axel si stava
ritraendo.
«Bene. Fantastico.
Questa... non è una cosa
normale.» Aumentò la distanza tra loro, ma rimase chino su di lui.
«Senti, Roxas, non mi è capitato molto
spesso. Mai, a dirla tutta. E... Insomma...» Sospirò di nuovo,
guardò la parete al lato del letto e imprecò a mezza voce.
«Merda. Io non voglio farti male, capisci? Non voglio che tu debba
affrontare anche... questo... adesso. Non voglio vederti fare di nuovo i conti
con le chiacchiere della gente... Non potrei sopportarlo.»
Roxas osservò a lungo
il suo profilo sottile, affilato, con un crescente stupore per quell’inaspettato
tratto di sé che gli stava svelando e una morsa allo stomaco che non
tardò troppo a giustificare.
Alla fine, tolse la mano
dal suo braccio e gliela portò al viso, costringendolo a guardarlo in
faccia.
«E tu credi che me
ne importi qualcosa?»
Per qualche secondo, Axel non reagì. Poi sorrise, posò la mano
sulla sua e se l’allontanò dal volto, chinandosi ancora sul suo.
«Menefreghista.»
Roxas ricambiò il
sorriso. «Lunatico.»
«Impertinente.»
«Mai quanto
te.»
«Tregua?»
«Tregua.»
Mentre chiudeva gli occhi,
sentì sulle labbra il sapore di quelle di Axel
e convenne con lui: almeno in quel momento, non gli importava di niente e di
nessuno.
E non si sentiva neppure
in colpa.
* * *
«Alla buonora! Ma dove cavolo siete
stati?»
«Uh. In
giro.» Axel allungò una mano e
arraffò la pasta al cioccolato che Sora stringeva in mano, addentandola
con gusto. «Ehi, c’è una festa?»
«Sì che
c’è una festa! Roxas non ti ha detto
niente?»
Il rosso alzò le
spalle e continuò a masticare. Confuso al punto da non protestare neppure
per la pasta perduta, Sora spostò lo sguardo da lui a suo fratello, che
era appena entrato nell’appartamento con aria svagata; sembrava
letteralmente perso tra le nuvole.
«Roxas!»
Hayner e Olette
si avvicinarono in fretta alla porta, ma di fronte alla sua strana espressione
gli fecero subito ala, forse temendo che non si sentisse bene.
«Ehi, tutto a
posto?»
«Che ti è
successo?»
Roxas li guardò come
se non li riconoscesse; poi, proprio come Axel,
scrollò le spalle e rubò il pasticcino alla crema di Hayner.
Sora non ci capiva
nulla. Fissò ancora Axel, interrogativo. Il
rosso ingoiò l’ultimo boccone di cioccolato e gli strizzò
l’occhio.
«Tranquillo. Non
l’ho drogato, te l’assicuro. Abbiamo solo fatto una lunga chiacchierata sull’amicizia,
tutto qui... È stato a dir poco illuminante.» Rivolse la sua
attenzione al tavolo che i ragazzi avevano sistemato nell’ingresso
già un paio d’ore prima. «Però, gente, vedo che ci
sapete fare con il catering!»
Sora lo seguì con
occhi attoniti mentre si avvicinava al rinfresco, accolto dalla risata di Pence, e intercettò così lo sguardo di Kairi. Lei inclinò il capo da un lato, evidentemente
perplessa quanto lui dal ritardo del festeggiato e del suo accompagnatore.
Interdetto, Sora tornò a guardare Roxas.
La cosa più strana,
rifletté, erano gli sguardi che lui ed Axel
continuavano a lanciarsi di sottecchi.
Dio, finalmente è finita! Oh, no,
non la fanfic. Parlo della festa patronale del mio
paese, che mi ha tenuta occupata per pochi giorni eterni – impedendomi di
scrivere e pubblicare quanto avrei voluto ;__; Ma, ringraziando tutti i numi
celesti, finalmente è finita,
e io spero di tornare a farmi viva con regolarità su EFP. ^^
Beh, ho poco da dire su questo capitolo:
anche in questo caso avrei voluto lavorare molto meglio sul, ehm, ‘rafforzamento’
del legame tra i due protagonisti indiscussi... Ma in fondo mi pare sia piuttosto
comprensibile che Axel è ormai perso di Roxas,
ne? x3
Tifa Lockhart
fermò la volante accanto al viale d’accesso di una casa a due
piani che fino a un paio di mesi prima recava un cartello con la scritta Vendesi. Era una villetta sobria ma
elegante, in un quartiere in vista, solo due strade più in là
rispetto a un ristorante Ienzo. Mise il cambio in
folle e la indicò al suo passeggero.
«La casa è
quella. L’abbiamo trovata senza problemi.»
Il viso del giovane si
rifletteva sul finestrino. Tifa vide l’emozione e il sentimento nei suoi
occhi verdi prima ancora che si voltasse verso di lei.
«Non so come
ringraziarla. Invitarla a cena fuori sarebbe troppo poco.»
Tifa scoppiò a
ridere.
«Soprattutto
considerando le tue attuali finanze.» Scosse la testa. «Per ora mi
basta saperti là dentro, chiaro?»
«Chiaro.» Il
ragazzo annuì, sganciò la cintura di sicurezza e aprì la
portiera. «Grazie ancora, tenente, per tutto quanto.»
La donna sorrise,
guardandolo scendere dalla macchina. «Grazie a te.»
Sorpreso, lui tenne lo
sportello aperto e si chinò a guardarla. «Per quale motivo?»
«Per avermi
ricordato cosa significa l’uniforme che porto.»
Demyx ricambiò il
sorriso. Fece un cenno di saluto con la mano, chiuse la portiera e si
allontanò lungo il viale.
Tifa lo osservò
ancora per un solo istante. Alla fine innestò la prima, fece scattare la
freccia a sinistra e s’immise di nuovo in strada. Non riusciva a smettere
di sorridere.
Erano le storie come
quella, ciò per cui valeva davvero la pena di fare quel mestiere.
* * *
Ascoltando l’allontanarsi della macchina
della polizia fuori servizio, Demyx sollevò lo
sguardo sulla villetta bianca e si ripeté la parola che gli aveva
cambiato tutto, che gli aveva permesso di essere lì quel giorno.
Assolto.
Per un attimo rivide
nella mente il momento in cui si era ritrovato a dirle la verità: chi era diventato, che cosa era stato negli
ultimi anni, quel che aveva fatto – e per chi – dalla fuga fino al
risveglio, e ciò cui sarebbe andato incontro. Rivide due occhi chiari
farsi lucidi, prima che lei si
stringesse a lui senza parlare.
Aveva avuto così
tanta paura che lo odiasse che, in quel momento, quell’abbraccio gli era
sembrato il più bel regalo del mondo.
Ma adesso c’era
un’altra svolta...
Alle immagini dei suoi
pensieri si sovrappose la vista presente del cancello in ferro battuto che delimitava
il confine della casa e di un mondo a parte. Si fermò, cercò con
gli occhi il citofono e premette un pulsante.
Qualche secondo dopo,
una voce femminile e sconosciuta gli chiese chi fosse.
«Buongiorno,
signora. Mi chiamo Demyx. Mi rincresce disturbare
così presto, ma ho urgente bisogno di parlare con sua figlia.»
Nonostante la lieve
esitazione con cui aveva pronunciato l’ultima parola, dovette ammettere
– con un po’ di amarezza – che il vecchio Marluxia
sarebbe stato ancora una volta fiero delle sue doti oratorie.
La donna all’altra
parte dell’apparecchio parve rifletterci su.
«Mia
figlia?» Un breve silenzio. «Posso chiederti il motivo di tanta...
urgenza, caro?»
Demyx sorrise. «Le ho
fatto una promessa.»
Un’altra pausa
dubbiosa. Poi una concessione che valeva un riscatto.
«Va bene. Un
secondo.»
La voce si spense. Demyx sospirò, intrecciando le dita alle sbarre del
cancello. Un secondo poteva fare una differenza infinita.
Chiuse gli occhi,
appoggiò la fronte al ferro gelido e tornò indietro, ancora.
«Non
voglio che mi lasci di nuovo» gli aveva detto a bassa voce, su quel
divano, mentre lui le accarezzava i capelli – come da bambini.
«Lo
so» le aveva risposto, «non lo voglio neanch’io...»
Uno scatto improvviso,
metallico, lo richiamò al presente; il cancello si dischiuse e lui perse
l’equilibrio. Si raddrizzò e, superando la confusione, fece
qualche passo nel vialetto che attraversava un giardino verdeggiante e curato.
Non arrivò
neppure a metà.
La porta
d’ingresso si spalancò di colpo; una figurina scura si
materializzò sul portico, volò giù per i gradini e gli
corse incontro.
Demyx ebbe solo il tempo di
sollevare le braccia: lei lo stava
già abbracciando. Sorridendo, il ragazzo ricambiò forte la
stretta e le sussurrò all’orecchio quella parola che aveva segnato
la fine e l’inizio.
Assolto.
La ragazzina dai capelli
neri pianse e rise insieme, stringendolo ancora di più. Sembrava che non
avesse mai provato tanta gioia in vita sua – nemmeno il giorno in cui si
erano ritrovati.
«Non sparire
più» gli mormorò.
Demyx si ritrasse, le
baciò la fronte, il naso, le guance, l’abbracciò di nuovo.
«Promesso.»
Sul portico c’era
una donna bionda, con gli occhi gentili, che assisteva stupita alla scena.
Piangeva anche lei.
Non potevo lasciare in sospeso il
ricongiungimento tra Demyx e la ragazzina misteriosa
del suo passato. Tenete bene a mente questi due: si sarà ancora da
parlare di loro.
Perdonatemi se non mi dilungo, ma la mia
connessione è kaputt e sto
aggiornando clandestinamente da un altro pcxD Vi ringrazio tutti comunque di seguirmi ancora!
Ancora sorpreso, CidHighwind afferrò il mazzo di chiavi e fece segno al
ragazzo dai capelli rossi di seguirlo.
«Che io sappia sei
il primo che gli fa visita, da quando è qui.»
L’altro gli si
affiancò con passo deciso. Era giovane, molto, però non sembrava
intimidito da quell’ambiente, come se lo conoscesse già – o
non potesse aspettarsi dalla vita niente di peggio di quanto aveva già
vissuto. Una cosa non escludeva l’altra, in fondo.
«Me lo
immagino» disse, con una traccia di ironia nel tono e
nell’espressione. «E le assicuro che non è un piacere
neppure per me essere qui. D’altro canto, voglio togliermi questo dannato
sasso dalla scarpa.»
Cid non poté evitare
una sonora sghignazzata. «Non la si spunta facilmente con quello stronzo
dai modi altolocati. Dovresti saperlo, se lo conosci bene come sembra.»
Il ragazzo che gli aveva
detto di chiamarsi Axel gli lanciò
un’occhiata in tralice e un sorriso sghembo.
«Certo che lo so.
Ma vede... Anche se lui ci ha provato...
non sono io quello che è
rimasto solo.»
Cid non capì cosa
intendesse, ma dovette riconoscere che in effetti il rosso si trovava in netto
vantaggio rispetto al suo ospite: si augurò che il pezzo di merda di cui
stavano parlando lo sapesse a sua volta.
Si avvicinò alla
porta piantonata da due guardie, l’aprì e disse ad Axel di aspettare dentro. Quindi si voltò e
attraversò un altro corridoio, diretto alla cella di Marluxia.
* * *
Entrò con la sua andatura sicura e
composta, persino un po’ sprezzante. Fissandolo – e chiedendosi se
era davvero pazzo come gli dava da pensare – Axel
sentì di odiare tutto di lui, dal suo aspetto curatissimo allo schifo
che vi si celava sotto. Lo guardò in faccia e capì che il
sentimento era reciproco.
Marluxia abbandonò la
custodia delle guardie e venne a sedersi di fronte a lui, con l’aria
più serena del mondo. «Buonasera, Axel.»
Non gli rispose; era
troppo concentrato sul desiderio sfrenato di incenerirlo con gli occhi per
parlare.
«Avete dieci
minuti» disse la guardia che lo aveva accompagnato, uscendo insieme ai
due compagni. «Fateveli bastare.»
La porta si chiuse
dietro di loro, e Axel e Marluxia
rimasero soli, a quel tavolo di quella saletta, a studiarsi a vicenda.
Lasciando che il
silenzio si protraesse, Axel osservò il suo ex
capo, l’uomo che in qualche modo aveva deciso della sua esistenza per
qualche tempo, l’unico vero responsabile della morte di Zexion, il bastardo che aveva sparato a Roxas.
Si sentì ribollire di rabbia, e si rammaricò nel profondo che la
prigione non lo avesse ancora reso un derelitto senza alcuna ombra di
vitalità nello sguardo.
Marluxia sembrava sorpreso dalla
sua presenza, quasi divertito.
«Ti confesso che
non mi aspettavo una tua visita. Vedo che tu
non hai pene da scontare. Non che la cosa mi riempia di gioia. Avrei certo
preferito vedere Demyx, ma...» Fece un gesto
vago con una mano, sospirando. « Dimmi, che ne è stato di lui?»
Axel si decise a parlare,
caricando d’odio ogni sillaba ed esibendo il più cinico dei suoi
sogghigni.
«Assolto anche
lui. Ma dubito che il tuo tesoruccio venga a trovarti. A quanto ne so, ha
trovato un’altra strada.»
«Mmm.» L’altro annuì con aria grave.
«Strano il modo in cui vanno le cose, non trovi? Fai di tutto per una
persona, giungi ad amarla più di te stesso, e all’improvviso
scopri che l’hai persa.»
«Il che è
ciò che tu volevi far provare
anche a me» sibilò Axel, senza più sorridere. «Dimmi, ho colto
nel segno? O è un altro il motivo che ti ha portato a sparare quel
colpo?»
«Non fare
l’ingenuo con me, ragazzino.» Anche il tono di Marluxia
cambiò, mentre smetteva di recitare la parte del povero saggio
benefattore pugnalato alle spalle dai suoi cari. «Sapevo benissimo cosa
avevi intenzione di fare, quel giorno. Luxord non era
l’unica spia del nostro gruppo.»
Fu solo per un istante
che il ragazzo cedette alla sorpresa; subito dopo tornò la rabbia.
«E così hai
deciso di rimuovere l’ostacolo alla radice, eh? Eliminando Roxas, non mi avresti solo mostrato cosa significa perdere
qualcuno, ma ti saresti anche vendicato della persona che mi aveva
inconsapevolmente messo contro di te, giusto? Davvero degno di te, capo. Due piccioni con una fava... Anzi,
con una pallottola.»
«Roxas...» Marluxia
sembrò assaporare il suono di quel nome, come se non avesse ascoltato
nulla di ciò che era seguito. «Già. Il povero piccolo Roxas. Non ricordavo che si chiamasse così.»
Axel lo guardò e si
sentì gelare.
«Spiegati.»
In quegli occhi chiari e
maligni passò un lampo di qualcosa che somigliava a orgoglio.
«I giornali ne
parlarono molto, all’epoca dei fatti. Tutto il Paese ne rimase sconvolto.
Una famiglia disastrata, per via di un incidente d’auto nei pressi del
parco di Twilight Town, ad opera di un misterioso
pirata della strada. Due genitori morti e un ragazzino di tredici anni rimasto
paralizzato. Ne parlarono tanto, sì, eppure non riuscirono mai a venirne
a capo.» Sollevò lo sguardo fino ad incontrare di nuovo il suo.
«Vi ho visti insieme, più di un mese fa, una mattina in quello
stesso parco... Solo pochi giorni dopo aver mandato Zexion
da te. Ero lì per incontrare Luxord, e vi ho
visti. Non l’ho riconosciuto allora, ma, pensa un po’, soltanto
quando ho capito chi era per te.»
Sorrise, un sorriso freddo e spietato come lui. «E allora mi sono detto:
ma guarda un po’, quant’è piccolo il mondo. Guarda chi
è il giovane pupillo di Axel, del lupo
solitario. Proprio il ragazzino che due
anni fa ho reso orfano e handicappato in un colpo solo...»
Axel non ebbe il tempo di
rendersi conto delle proprie azioni.
Quando il velo nero
intessuto d’odio che gli aveva offuscato la vista si diradò, si
ritrovò in piedi, sporto in avanti sopra il tavolo, con la faccia a un
soffio da quella di Marluxia e le mani strette come
artigli intorno al suo collo.
«Tu... schifoso... assassino...»
Il sorriso
dell’altro non si era neppure incrinato.
«Fallo»
sussurrò, la gola immobile sotto le sue dita. «Che aspetti? Non ho
altro da perdere. Avanti, uccidimi.»
Axel strinse più
forte, ansante. Sarebbe stato così liberatorio... così giusto... spegnere per sempre il sorriso
empio di uno che non provava il minimo rimorso per aver distrutto più
volte un ragazzo che aveva avuto l’unica colpa di trovarsi sulla sua
strada... Ma le sue parole gli echeggiarono nelle orecchie, trattenendolo.
Io, invece, ho molto da
perdere. Adessosì.
Mollò la presa di
scatto, ricadendo a sedere. Si guardò le mani tremanti e aspettò
che il respiro tornasse normale.
«Era
questo...» mormorò quando fu in grado di parlare. «Era
questo che ero venuto a dirti.»
Alzò gli occhi. Marluxia ricambiava il suo sguardo, impassibile, come se
nulla di ciò che era appena successo lo toccasse.
Axel allontanò la
sedia dal tavolo e si alzò in piedi.
«Io non
sarò mai come te» concluse, «e forse è per questo che
le cose sono andate così. Perché non importa se sarò solo,
non importa se perderò tutto: io
ho capito che c’è qualcosa per cui vale la pena cambiare strada.
Addio, Marluxia.»
Nel silenzio che
seguì, voltò le spalle, si diresse alla porta e uscì dalla
stanza senza guardarsi indietro.
* * *
«Pence! Pence, togliti di
mezzo, per la miseria!»
L’amico si
spostò appena in tempo per non essere investito da Hayner,
che, cercando di evitarlo all’ultimo secondo, interruppe la manovra e
atterrò con malagrazia sull’asfalto. Quando si ritrovò a
terra, scoppiò a ridere.
«Scusami, è
colpa mia» disse subito Pence, avvicinandosi e
tirandolo su di peso.
«Non preoccuparti,
ho la pelle dura...»
«Proprio come la
testa!» sbuffò Olette, divertita,
saettando loro accanto.
«Ma che
simpatica.» Hayner rimontò sullo skate e
la inseguì, lasciandosi Pence alle spalle.
«Quanto scommetti che ti prendo?»
La ragazza si
voltò a guardarlo, senza smettere di far volare la tavola rasoterra. Si
accorse che stava sorridendo.
«Un invito al
cinema?»
Hayner si sentì
agguantare da un imbarazzo assurdo. In altre circostanze le avrebbe di sicuro
urlato addosso di tutto – salvo poi chiederle di uscire lo stesso,
probabilmente. Ma decise che quel
giorno non gliene importava nulla.
«Chi vince sceglie
il film!»
Lei rise, e
cominciò l’inseguimento.
Hayner respirava a fondo
l’atmosfera di quei momenti. Erano secoli che non si sentiva così
sereno, che un allenamento non era così stimolante e pieno di risate e
di partecipazione, da parte di tutti e tre. Beh, ok, non proprio secoli... Due
anni, in effetti.
Ma da quando era
ricomparso Roxas, andare sullo skate era di nuovo
bello come allora.
* * *
Era martedì. Di solito il parco era
affollato soltanto nei fine settimana, quando la mancanza di scuola e lavoro
permetteva alle famiglie di riunirsi e andare fuori insieme. Ma quel pomeriggio
– come molti altri – c’era sicuramente almeno una famiglia, e Roxas
sapeva bene dove trovarla.
Non si era sbagliato.
Hayner, Pence
e Olette erano dove dovevano essere, nell’area
per lo skateboard, tutti e tre raggianti sulle loro tavole e intenti a
rincorrersi e volteggiare tra boardslidese kickflips. Erano
bravi come se li ricordava. Per un attimo – e si odiò per questo – Roxas si
sentì escluso.
Scosse la testa e mosse
qualche altro passo, fermandosi in piedi al limitare della pista preferita
degli HawkRunners.
Come fosse riuscito a
camminare sulle sue gambe fino a lì, o dove avesse trovato il coraggio
per tornarci, ancora non lo sapeva. Però aveva dovuto. Affrontare il passato vivendo finalmente nel presente. Ora poteva farlo, ne era sicuro.
Avrebbe voluto di nuovo Axel accanto a sé, ma l’amico gli aveva
già detto che quel giorno aveva qualcosa da sbrigare – un
“peso da togliersi di dosso”. Roxas non
aveva fatto domande. A ciascuno la sua
battaglia, si era detto.
D’un tratto,
Olette si voltò verso di lui. Lo vide, lo riconobbe, puntò un
piede per frenare, s’immobilizzò.
Hayner le piombò
addosso meno di un secondo dopo, afferrandola alle spalle.
«Presa! Ho vinto
io! Che ne dici de L’Organizzazione
XIII?»
Olette non sembrava
minimamente intenzionata ad ascoltarlo. Divertito, Roxas
vide la confusione sul viso di Hayner e il suo
sguardo che scorreva da lei fino a lui.
Poi sentì
soltanto un intrico confuso di grida esultanti.
«Roxas!»
La sua squadra gli fu
subito incontro. Sembravano, se possibile, ancora più felici di quando
lo avevano rivisto la prima volta, un mese prima. Roxas
rise con loro, catturato dai loro abbracci.
In quel momento gli
sembrò di poterla vincere sul serio, la sua battaglia.
«Roxas, è meraviglioso rivederti qua!»
squittì Olette, senza smettere di stringerlo.
«Straordinario!»
rincarò Pence, dandogli una pacca poderosa
sulle spalle e sorridendo da orecchio a orecchio.
«Sapevo che ce
l’avresti fatta» disse Hayner.
«Bentornato, amico.»
Roxas lo guardò. Non
trovò la voce per ringraziarlo, così si limitò a
sorridere.
Sì, era tornato.
* * *
La voce gli arrivò alle orecchie assieme
al tintinnio.
«Ehi, Saïx. Alzati.»
Obbedì per
metà, malvolentieri, sollevandosi su un gomito sul materasso muffito.
Oltre le sbarre c’era una guardia, ma il suo viso era in ombra; non
capiva chi fosse. Peccato. Gli piaceva guardare in faccia chi gli parlava.
«Sei sordo?»
La guardia imprecò. «Alzati ed esci di qui. Sei libero.»
Ora distingueva la fonte
del suono: l’uomo stava girando una chiave nella toppa.
«Libero?»
«Sì, libero!» La porta si
spalancò con un rumore secco che tradì tutta l’irritazione
repressa del tizio in divisa. «Hanno deciso che hai fatto il bravo e che
puoi risparmiarti il resto della pena. Una grandissima cazzata, per come la
vedo io; ma a quanto pare, il tuo sguardo spiritato non dà da pensare a
nessun altro, e non sono i poveri stronzi come me a comandare. Perciò,
fuori.»
Saïx si alzò
lentamente.
L’unico pensiero
che gli toccò la mente fu il viso di Marluxia.
Sentì un sorriso
affiorargli alle labbra secche.
La guardia
imprecò di nuovo, aggiungendo qualche bestemmia.
«Parola mia, tu
sei strano.» Si protese ad
afferrarlo per un braccio, spingendolo poi fuori dalla cella con la forza.
«Andiamo. Non vedo l’ora di saperti fuori di qui, anche se questa
prospettiva non mi lascia del tutto tranquillo.»
Saïx accettò la
spinta senza reagire. Solo il suo sorriso si fece più ampio.
«Dicono che è stato tradito da uno dei
suoi... Un Demyx qualcosa...»
La guardia si
sbatté la porta alle spalle. Non avrebbe mai nemmeno immaginato cosa ci
fosse dietro il suo «sguardo spiritato»... cosa ci sarebbe stato di
lì a poco... cosa sarebbe venuto fuori.
Lui non avrebbe abbandonato Marluxia.
In nessun modo.
Sì, direi che ci avviamo decisamente
all’epilogo. Ma manca ancora qualcosina da
raccontare, e sarò felice se vorrete seguirmi fino in fondo. Intanto vi
lascio liberi di linciare Marluxia, e mi preparo ad
unirmi a voi >w<
Piccola nota sulla proposta di Hayner a Olette riguardo il film:
volevo inventare un titolo horror, ma ho pensato che L’Organizzazione XIII avrebbe fatto molto ‘Kingdom Hearts style’; voi che ne dite? xD
Tenete anche a mente il ritorno di Roxasin piedi al
parco, perché sarà importante.
Gli HawkRunners al completo erano seduti nell’erba, a qualche
metro dal chiosco dei gelati, ciascuno con un ghiacciolo in mano.
«Perché
sorridi in quel modo, Roxas?»
Sfuggendo allo sguardo
indagatore di Olette, il ragazzo scosse la testa e si
cacciò a forza dalla mente il pensiero del ghiacciolo che gli aveva
comprato Axel con i soldi del suo primo mese
d’affitto.
«Niente,
niente.» Diede un altro morso e si voltò a guardare Hayner. «Ehi, che fine ha fatto la SK-8? Gareggiano
ancora?»
Hayner sbuffò,
scrutando truce lo stecco del gelato.
«Figurati. Quelli
sono esibizionisti, per loro gareggiare equivale al miglior palcoscenico.
Dovresti vedere i loro allenamenti. Uno spettacolo di varietà, ecco
cos’è. Con quella fila di ragazzine urlanti che delirano come
oche... Seifer, Seifer! Guarda
da questa parte! Sposami, Seifer!» Scosse
la testa con commiserazione. «Una scena penosa. Cosa ci troveranno in
quel tizio con la faccia da ebete, poi, devo ancora capirlo.»
«E tu che ne sai
dei loro allenamenti? Non verranno qui al parco, adesso...»
Roxas si accorse che Olette lanciava a Hayner
un’occhiata di fuoco. Lui alzò le spalle.
«Sono passato per
caso accanto al ‘loro’ famoso campetto, e li ho visti.»
Roxas lo fissò,
incerto se ridere o compatirlo. «Per caso, eh?»
«Sì.»
Hayner lo guardò. Sbuffò di nuovo.
«Uffa! E va bene. Non tanto per caso.»
Roxas optò per la
prima scelta e sorrise, scuotendo la testa a sua volta. «Sono ancora
bravi, almeno?»
«Beh,
sì» intervenne Pence, con aria contrita.
«Da quello che ci ha raccontato Hayner sono
persino migliorati. C’è un ragazzo nuovo, un certo Vivi, che viene
da non so dove e pare sia nato con la tavola incollata ai piedi.»
«E Seifer, con tutte le sue arie da pallone gonfiato, resta
pur sempre un osso duro» aggiunse tristemente Olette.
«Razza di
egocentrici boriosi e pieni di sé!» Hayner
cominciò ad agitare in aria lo stecco, furioso. «È
esibizionismo, vi dico! Non lo fanno perché gli piace, lo fanno per
farsi guardare! Non hanno la minima
passione per lo skate, non come noi quattro!»
«Non come voi
tre» precisò Roxas.
Si pentì subito
di averlo detto.
Era già stata
dura. Aveva superato il terrore di riascoltare i discorsi sullo skateboard, e
aveva chiamato a raccolta tutta la sua forza di volontà – ma per
quanto potesse combattere, in fondo sentiva di non poter più essere
quello di una volta. Riusciva a camminare, certo; poteva parlare dei suoi
genitori senza ripiombare nell’abisso, d’accordo. Ma le cose erano cambiate, questo era innegabile. E
il peggio era che non aveva la minima idea di come spiegarlo a Hayner e agli altri, perché non sapeva spiegarlo
neppure a se stesso.
I tre amici lo
guardarono, e per un attimo ci fu un pesante silenzio. Poi Olette
gli sfiorò una mano con la sua.
«Rox...»
«Ma bene. Ecco i
poveri piccioni spennati. Avete con voi quelle tavole per una cerimonia
commemorativa?»
Era una voce che
conosceva, anche se non l’aveva sentita per molto tempo, tra
l’altro senza sentirne la mancanza. Roxas
alzò lo sguardo e si ritrovò a guardare i suoi avversari storici,
i componenti della SK-8, che in più di un’occasione avevano
battuto gli HawkRunners a
un soffio dalle finali.
Hayner s’irrigidì
al suo fianco. Pence e Olette
mantennero un dignitoso silenzio. Roxas vide SeiferAlmasy, leader indiscusso
della SK-8, immutato nella sua tenuta hip hop,
concentrare l’attenzione su di lui.
«Ehi, guardate.
Non è il nostro vecchio amico? Il nanerottolo tanto decantato dai
sostenitori dei piccioni, l’angioletto biondo?»
Detto da uno che
probabilmente si platinava i capelli con l’acqua ossigenata – e che
nascondeva l’atroce risultato sotto un immancabile berretto di lana,
anche in piena estate – era un appellativo piuttosto stupido. Roxas non batté ciglio, ma ritenne saggio mettere
una mano sulla spalla di Hayner, che aveva cominciato
ad emettere un sordo ringhio.
«Bada a come
parli» sbottò Olette.
«Che ci fai qui, Seif?» domandò Pence,
piatto. «Non mi pare che la SK-8 si sia mai fatta vedere da queste
parti.»
«Acuta
osservazione, Ciccio.» Seifer sogghignò.
«Ma dal momento che il tuo amichetto, qui» aggiunse indicando Hayner, «ha potuto spiarci indisturbato – e non
provate a negarlo, perché ho i miei informatori – non ci è
sembrato disdicevole riservare a voi lo stesso trattamento... Sebbene non ci
sia poi molto da spiare, s’intende.»
Gli altri componenti
della SK-8 – Fujin, Rajin
e un ragazzino di colore che Roxas immaginò
essere Vivi – ridacchiarono forte. Hayner
digrignò i denti.
Roxas abbandonò
nell’erba lo stecco del ghiacciolo e si alzò in piedi.
«Nessuno vuole
negare niente. Ma la strada è di tutti, così come il parco
è di tutti. Se pensi che Hayner vi abbia
spiati intenzionalmente, magari vuoi solo nascondere che hai paura di lui.»
Dietro di lui, Hayner rimase in uno stupefatto silenzio.
Seifer lo guardava
dall’alto in basso. Era decisamente più alto di come se lo
ricordava; Roxas calcolò che ormai doveva
avere quasi diciassette anni. Fantastico: adesso andava anche a cercarsi grane
con quella sottospecie di figurino.
Quello gli rivolse un
sorriso strafottente. «A quanto pare il periodo di isolamento forzato ti
ha affilato la lingua, angioletto.»
Hayner scattò in piedi
con una rapidità sorprendente, ma Olette fu
ancora più veloce.
«Ti ho
detto» strillò, parandosi di fronte al capo supremo della SK-8,
«bada a come parli!»
Rajin fece schioccare
minacciosamente le nocche. Roxas trattenne Hayner per i vestiti, aiutato da Pence,
e si voltò di nuovo verso Seifer.
«Evidentemente
sì. Non puoi nemmeno immaginare quante cose sono cambiate.»
Altre, però, non
cambiavano mai. Seifer esibì un nuovo sorriso
sprezzante, e infine fece cenno alla sua degna squadra di seguirlo. I quattro
voltarono le spalle e sparirono alla vista.
Roxas e Pence
lasciarono andare Hayner, mentre Olette
si voltava verso di loro, ansante e paonazza.
«Io lo disintegro!» Hayner
stava facendo a pezzi il suo stecco; Roxas ebbe la
seria paura di vedergli uscire fumo e fiamme dalla bocca. «Lo ammazzo, lo
distruggo, lo cancello dal creato...»
«Come
osa...» gemeva Olette. «Come osa... Come ha osato...»
Sconsolato, Roxas incontrò lo sguardo di Pence.
Lui scosse la testa.
«Non fare quella
faccia, Roxas. Hanno ragione loro. È stato
veramente un bastardo.»
«Ma non ne vale la
pena» fece Roxas, tornando a guardare i due
amici. «Dai, ragazzi. Va tutto bene.»
Olette si calmò, ma Hayner non sembrava disposto a cedere tanto presto.
«Fa così
perché ha paura di te, Roxas, ecco tutto. Lui
sa che adesso puoi tornare a gareggiare e a farlo nero. Se la fa sotto,
fidati.»
«Tornare a
gareggiare?» Il ragazzo lo fissò, attonito. «Hayner, tu sogni.»
Finalmente la furia di Hayner lasciò il posto a qualcos’altro:
confusione.
«Ma perché,
scusa? Non hai intenzione di riprendere ad allenarti?»
Silenzio.
«Roxas, adesso non farmi incavolare anche tu. È
impensabile che lasci perdere tutto, chiaro? Non puoi mollare. Non adesso che
hai dimostrato a tutti di potercela fare!»
Ancora silenzio.
«Roxas...»
«Non lo so, accidenti!» Roxas si prese la testa tra le mani. «Sta succedendo
tutto così in fretta. Un’altra
volta. Io non so se... Cercate di capirmi. Ancora non riesco a credere
nemmeno di essere qui.»
Hayner tacque. Olette, con aria mortificata, si avvicinò e gli
posò una mano sulla spalla.
«Noi vorremmo solo
che tu ritrovassi te stesso, Rox»
mormorò.
Lui sospirò e
abbassò le mani e lo sguardo.
È proprio questo il difficile, si disse.
* * *
Axel si fissava le scarpe
disastrate, per non alzare gli occhi sul posto infame che stava attraversando.
Avrebbe volentieri fatto a meno di quell’infelice passeggiata, ma
sfortunatamente il parco cittadino non era solo sulla strada per il condominio, ma costituiva la strada più breve per arrivarci – partendo dal posto
ancora più infame in cui si trovava ora il più meschino degli
esseri umani che avesse incontrato negli ultimi diciotto anni e mezzo.
Sentì
l’esigenza di fermarsi, ma ancora non sollevò gli occhi.
Quante cose erano
successe là, proprio là, in quel posto in cui la gente veniva a
rilassarsi e a divertirsi? Quante e quanto orribili? Pensò a Roxas, un ragazzino che aveva perso troppo, troppo in
fretta. Pensò a tutto quel che aveva vissuto in quella distesa
d’erba delimitata da cancelli. Una rinuncia. Uno sparo. Un incidente...
E dietro c’era
sempre stato lo stesso viscido essere, uno che in quello stesso parco
probabilmente aveva incrociato e spezzato altre cento storie.
Per un lungo, improvviso
istante si sentì sopraffare dal bisogno di tornare sui suoi passi e
andare a spezzare invece quel collo bianco come la neve. Forse non era
così diverso da lui, dopotutto; forse anche Axel
avrebbe potuto essere capace di uccidere.
Un’esplosione di
voci, da qualche parte davanti a lui, lo scosse dal suo istinto omicida e lo
indusse ad alzare la testa.
A qualche metro di
distanza, sul ciglio del sentiero, si fronteggiavano due gruppi di persone. Una
ragazza dai lunghi capelli castani stava urlando in faccia a un bellimbusto
alto due spanne più di lei. Axel riconobbe con
stupore Olette, e a quel punto spostò lo
sguardo sui tre ragazzi appena dietro di lei: un Hayner
visibilmente infuriato trattenuto a stento da Pence e
Roxas.
Solo allora si
ricordò delle parole che si erano scambiati il giorno precedente.
«Domani? In realtà dovrei andare...
a trovare una persona. Non so ancora quanto ci vorrà.»
«Capisco.» Roxas si era chinato per allacciarsi le scarpe. Era ancora
presto quando Axel si era affacciato alla sua
finestra, come ogni mattina; sembrava che non avesse dormito molto. Aveva il
viso un po’ segnato. «Volevo chiederti una cosa, ma non
c’è problema. Penso di poterlo fare da solo. Anzi... forse
è meglio così.»
Axel aveva scavalcato il
davanzale, atterrando nel 2A col solito sogghigno.
«Possiamo sempre
rimandare l’appuntamento a domani, bimbo.»
Il ragazzo lo aveva fulminato
con gli occhi, arrossendo. Poi si era alzato in piedi e aveva cominciato a
rifare il letto, girandoci intorno con naturalezza e passando davanti alla
sedia a rotelle inutilizzata come se non la vedesse. Gli faceva sempre uno
strano effetto, vederlo camminare. Vederlo così sicuro. Era...
sì, in un certo senso, appagante.
«Smettila di
chiamarmi ‘bimbo’.»
Sorridendo, lui lo aveva
raggiunto e gli aveva posato una mano sulla guancia, costringendolo a voltarsi.
«Scusa,
bimbo» aveva bisbigliato sulla sua bocca.
Non fu la consapevolezza della
‘cosa’ che Roxas avrebbe voluto
chiedergli a riscuoterlo, ma il modo in cui lo vide rivolgersi al tizio
palestrato. La distanza gli impedì di capire le sue parole, e la
posizione di leggergli le labbra – l’esperienza gli aveva insegnato
col tempo l’utilità di quell’espediente – ma il
messaggio nello sguardo era inequivocabile. Il signorino si voltò verso
i suoi compari, uno dei quali aveva un atteggiamento e una corporatura più
che minacciosi, e con un cenno si allontanò insieme a loro.
Axel li seguì con lo
sguardo, esaminandoli: un griffato dalla testa ai piedi, un gorilla dalle
fattezze umane, una ragazza con la puzza sotto il naso e un tipo più
basso e minuto dalla pelle nera. Vide il capo della combriccola gesticolare
stizzito, mentre tutti e quattro sparivano tra gli alberi del parco.
Chi l’avrebbe mai detto? Si ritrovò a
sorridere. Alla faccia del povero piccolo
Roxas.
Ma quando si
voltò di nuovo, vide che Roxas non era affatto
soddisfatto di sé, dopo essersi liberato dei quattro soggetti impettiti.
Al contrario, sbottò contro Hayner e si
affondò le mani nei capelli. Rimase con lo sguardo basso anche quando Olette, ancora rossa in viso, gli sfiorò una spalla.
Era chiaro che
l’apparizione dei quattro aveva scatenato qualcosa di imprevisto.
Una parte di lui avrebbe
preferito proseguire per la sua strada e tornare al condominio: Roxas non aveva tutti i torti, c’erano cose che
avrebbe fatto meglio ad affrontare da solo. Ma vederlo all’improvviso
così smarrito e rattristato, con l’aria di essere distante anni
luce dagli amici che lo circondavano – che aveva ritrovato da così poco tempo, spinse Axel a prendere una decisione.
Si mosse verso la
squadra degli HawkRunners,
finalmente dimentico di Marluxia.
Nella durata di quei
venti passi, si rese conto che c’era ancora una cosa che poteva fare per
lui.
Aveva pensato di essere preparato a tutto,
ormai. Aveva creduto di poter affrontare ben più che un ritrovo al parco
con i suoi amici. Allora perché le parole di Hayner
gli davano quell’odiosa sensazione di... paura?
Il silenzio si protraeva
e la mano di Olette esitava ancora, bollente sulla sua spalla improvvisamente
fredda. Con un sospiro, Roxas si risolse ad alzare il
capo, senza tuttavia sentirsi pronto per la conclusione del discorso.
Prima che potesse anche
solo pensare a cosa rispondere, un’ombra calò su di loro.
«Salute, figli
dello skate. Posso rapirvi la pecorella smarrita da sotto il naso?»
Roxas fu l’ultimo a
voltarsi, trattenendo un gemito. Il tono di Axel non
gli piaceva per niente.
Hayner, Olette
e Pence, le cui espressioni rilassate tradivano il
sollievo di aver potuto superare un’imbarazzante impasse, lo accolsero
con allegria.
«Ehi, guardate chi
si è rifatto vivo!»
«Axel! Di ritorno tra i comuni mortali?»
«Già»
rise lui, «alla fine ho, come dire, chiuso tutti i ponti rimasti
aperti.»
Roxas lo fissò
attonito, chiedendosi se con quelle parole intendesse rivolgersi proprio a lui.
No, meglio non esagerare; non poteva attribuirgli doti come la telepatia, sarebbe stato troppo.
L’altro
ricambiò lo sguardo, apparentemente divertito dalla sua confusione. Roxas cercò di darsi un tono.
«Non dovevi andare
a trovare qualcuno, oggi?»
Axel si rabbuiò, ma
dopo un attimo il suo sguardo tornò scintillante.
«Già fatto.
Ci ho messo meno tempo del previsto.» Dimostrando di non voler
approfondire l’argomento, superò Olette
e andò a posargli pesantemente una mano sulla spalla, tornando a
rivolgersi agli altri. «Allora, posso rapirlo o no?»
Roxas si sentì
arrossire. Mentre i tre amici gli lanciavano risolini allegri, sperò di
non avere uno sguardo troppo preoccupato.
«Ma certo»
fece Hayner. «Non c’è problema. A
patto che ce lo riporti presto, chiaro.»
«Chiaro»
sorrise Axel, trionfante.
No, non gli piaceva
proprio per niente.
«Ah, Roxas, un attimo.» Pence
s’illuminò di colpo. Cominciò a frugarsi nelle tasche
enormi della tuta. «Devo darti una cosa... Solo un secondo, deve essere
qui da qualche parte... Sì, eccola!»
Aveva estratto un
involto sottile... no, una busta da lettere, e gliela porgeva con un grande
sorriso. Confuso, Roxas andò con gli occhi
dalla busta nelle sue mani alla sua espressione pacifica.
«Ehm... Che
cos’è?»
«Un
regalino.» Pence sorrise più
apertamente. «Prendila e aprila più tardi, con comodo, va
bene?»
Roxas fissò di nuovo
la busta. Si sentiva addosso gli sguardi di tutti, mentre l’afferrava con
dita incerte. Qualunque fosse il contenuto, era più spesso della normale
carta da lettere.
«Va bene»
mormorò. «Grazie, Pence.»
Hayner e Olette
si scambiarono un sorriso complice. Roxas sentiva il
disagio crescere, come la pressione della mano di Axel.
«Andiamo?»
gli ricordò infatti lui.
Annuì sospirando.
* * *
«Tenente, devo raccontarle una cosa...
strana.»
Tifa Lockhart
si allontanò dalla macchina per il caffè. Odiava
quell’aggeggio: rimpianse amaramente il caffè che aveva assaggiato
al GoodSamaritan Hospital,
di gran lunga il migliore che avesse avuto modo di bere negli ultimi anni. Si
voltò a guardare l’agente che la fissava torcendo le dita in modo
convulso.
«Che
succede?»
CloudStrife
distolse per un attimo lo sguardo, come per trovare un coraggio al quale
avrebbe rinunciato volentieri. Infine la guardò con occhi neutrali e
rispose senza inflessioni.
«Questa mattina mi
hanno incaricato di scortare in tribunale un uomo, uno che è stato
appena scarcerato. Un certo Saïx.»
«Sì, ne
sono al corrente.»
«Quando l’ho
lasciato alle altre guardie» proseguì il giovane, sempre
monocorde, «Saïx si è voltato a
guardarmi e mi ha chiesto di provvedere perché qualcuno presenti
“i suoi omaggi” a... a Marluxia.»
Tifa sentì
soltanto il rumore soffocato del bicchiere di plastica che colpiva il
pavimento. Sbigottita, si avvicinò a Strife e
gli strinse un gomito con improvvisa energia.
«Il nostroMarluxia?
Ne sei sicuro?»
Lui annuì.
«Più che sicuro, tenente. Non so perché, ma lo so.»
La donna lo
lasciò andare e si premette le mani sulle tempie. Possibile? Un nuovo
elemento in quell’assurda catena di legami tra cose, luoghi e persone?
Doveva vederci chiaro.
«Grazie per avermi
informato, Cloud.» Recuperata la sua
efficienza, Tifa Lockhart raccolse il bicchiere e
tornò alla macchina del caffè. «Come mi pare di avere
già detto, mai sottovalutare
un giudizio azzardato.»
* * *
«Axel, questa
è veramente una stupidaggine!»
«Non si
discute.»
«Ma
insomma...»
«Sai che sei
carino col broncio?»
«Cosa?!»
«Non
sbirciare!»
Roxas sibilò qualcosa
di incomprensibile, ma obbedì. Aveva le guance rosse rosse
e l’aria molto molto scocciata. Axel sorrise. Non aveva detto una bugia.
Aveva cercato dentro di
sé il coraggio di raccontargli del viaggetto in autobus fino al carcere,
di Marluxia e di ciò che si erano detti;
avrebbe davvero voluto dirglielo, ma alla fine aveva deciso che era meglio di
no. Roxas aveva già sofferto troppo per la sua
famiglia: non sarebbe stato lui a riaprire vecchie ferite. Mai.
Continuò a
pilotarlo in silenzio. Il ragazzo camminava a occhi chiusi, la mano saldamente
aggrappata al suo braccio. A tratti incespicava nell’erba.
«Mi vuoi dire dove
stiamo andando?»
«Ma se ti ho detto
che è una sorpresa...»
«Io odio le sorprese.» Roxas sbuffò. «E non so se fidarmi delle
tue.»
«Antipatico.»
«Come ti
pare.»
«Ecco, siamo
arrivati.» Axel si fermò.
«Aspettami qui. Non sbirciare, mi raccomando.»
«Dove vai?»
Nella vocina di Roxas si affacciò una nota
isterica, quando lui si sottrasse alla sua presa. «Dove mi hai portato? Axel!»
«Stai tranquillo,
bimbo. E non sbirciare!»
Il biondino rimase fermo
al suo posto, contrariato. Avrebbe obbedito comunque; si fidava, e lo sapevano
entrambi.
Axel lo osservò per
un istante. Vederlo là sulle sue gambe, con gli occhi ancora chiusi e i
capelli scomposti sulla fronte, gli dava un colpo al cuore e uno allo stomaco.
Oggi più del solito.
Si voltò e
raggiunse l’unico spettatore di quella scena bizzarra, che lo fissava con
aria totalmente stupefatta. Mentre gli si avvicinava, il ragazzo infilò
le mani nelle tasche e sentì la filigrana frusciargli tra le dita.
L’affitto di Vexen avrebbe dovuto aspettare
ancora un po’.
Il parco giochi era
evidentemente chiuso, ma lui sapeva che ogni pomeriggio il responsabile
arrivava sempre con un po’ di anticipo, sperando che qualche bravo
bambino che avesse finito presto i compiti riuscisse a trascinare fin lì
la mamma o il papà. Era lo stesso uomo che ora lo osservava imbambolato,
e che fece sparire le sopracciglia sotto la visiera del berretto quando si vide
sventolare davanti al naso il mucchietto di banconote da cinquanta e da cento.
«Bastano per
garantirci un po’ di privacy?» sogghignò Axel.
L’uomo lo
squadrò, guardò il denaro, lanciò una rapida occhiata
tutt’intorno. Forse temeva di essere vittima di una qualche candid camera. Alla fine però annuì, secco,
arraffò le banconote e si allontanò intascandole con
disinvoltura.
Soddisfatto, Axel tornò da Roxas.
«Eccoci. Dammi la
mano e seguimi... Tieni gli occhi chiusi.»
Il ragazzo sbuffò
sonoramente. «Razza di despota.»
Strinse di nuovo la sua
manica, rincamminandosi a piccoli passi esitanti dietro di lui.
«Mi sento
veramente stupido» bofonchiò.
«Non sarà
mica la prima volta.»
«Vai a
farti...!»
«Ehi, bimbo, dove
diavolo hai imparato queste espressioni così scurrili?»
«Prova un
po’ a indovinare!»
Axel rise e lo costrinse
gentilmente a fermarsi. «Ci siamo. Ora puoi guardare.»
«Era o...»
Quando poté
rivedere il celeste scuro delle sue iridi, non poté fare a meno di
chiedersi cosa sarebbe venuto dopo il lampo di stupore.
* * *
Il
ginocchio gli fa ancora male. Si siede sul bordo del tappeto elastico, dal lato
opposto a quello dove sta la mamma: vuole far finta di essere stanco, ma non ha
intenzione di far capire a quel cretino di suo fratello che gli prude la
sbucciatura – così l’ha chiamata la mamma. Che strana
parola, ‘sbucciatura’. Come se la pelle fosse un frutto e il sangue
la polpa... Bleah, che schifo!
Però brucia sul serio. È fastidioso. Cercando
di non farsi notare da Sora, Roxas solleva la gamba
dei pantaloni e studia attentamente la ferita.
«Ti fa male?»
Sobbalza, spaventato: qualcuno è appena arrivato alle
sue spalle.
Si volta in fretta e cerca di nascondere il ginocchio.
Dietro di lui c’è un bambino con i capelli color sabbia e gli
occhi scuri e curiosi. Non sembra che lo stia prendendo in giro, comunque.
Roxas non
riesce ad evitare di dirgli la verità.
«Un po’. Ma ora passa» aggiunge subito.
Il bambino gli sorride amichevole. «Speriamo. Facciamo
a chi salta più in alto?»
Che strano. Non si sono mai visti, eppure lo tratta come un
amico. Roxas ricambia timidamente il sorriso e
annuisce.
«Va bene.» Si rialza e, mentre lo segue sul
tappeto accanto a quello di Sora, si ricorda di una cosa. «Come ti
chiami?»
«Hayner.»
«Ciao, Hayner.»
«E tu?»
«Roxas.»
«Ciao, Roxas.»
Ridono insieme mentre spiccano il primo salto.
Roxas fissò a lungo la
fila di tappeti elastici, vuoti e silenziosi. Per qualche minuto ricordò
le risate, i colori, il modo in cui quel posto gli era sembrato grande e bello
e divertentissimo, da piccolo. Ora vedeva chiaramente che era soltanto una
piattaforma rettangolare, sopraelevata rispetto al terreno, divisa in tante
corsie per assicurare un tappeto personale a ciascun bambino: soltanto un
posto, un posto qualsiasi, un posto vuoto, il cui significato si era perso da
qualche parte di sette anni prima.
«È impensabile che lasci perdere
tutto, chiaro? Non puoi mollare. Non adesso che hai dimostrato a tutti di
potercela fare...»
All’improvviso
capì cosa fosse quella stretta al petto.
Non voleva che anche lo
skateboard diventasse un ricordo.
Non osava alzare lo
sguardo su Axel, immobile al suo fianco. In cuor suo
avrebbe voluto ringraziarlo; sapeva perché lo aveva portato lì:
era l’ultima cosa rimasta in sospeso, l’ultimo ponte rimasto
aperto. L’ultimo, certo, a parte...
Ebbe un lieve sussulto
al ricordo della busta che Pence gli aveva dato pochi
minuti prima, e che adesso teneva nella tasca anteriore della felpa. La
sfiorò con una mano e sentì il cuore accelerare i battiti. Sapeva cosa c’era dentro.
Fece un passo verso la
piattaforma. Forse per la prima volta da quando si era ritrovato in piedi a
camminare verso Axel, si rese pienamente conto di
cosa rappresentasse la sua capacità di mettere di nuovo un piede davanti
all’altro. Allo stesso tempo, tirò fuori la busta e se ne fece
scivolare il contenuto nella mano aperta, il cuore assordante nelle orecchie.
Il riflesso di se stesso
a tredici anni lo osservava dalla fotografia, sorridente e felice tra Pence e Olette, con la mano di Hayner
sulla spalla e una vecchia tavola rossa, bianca e blu tra le braccia.
«... Promettiamo che la nostra squadra sarà
sempre unita. Sempre amici. Io prometto!»
«Roxas...?»
Era quasi innaturale
sentire tanta esitazione nella voce di Axel.
Sospirò
profondamente, poi si voltò a guardarlo con un sorriso.
«Grazie»
mormorò. «Ho capito, adesso.»
Axel non disse nulla, ma il
suo sguardo si rasserenò.
Roxas si voltò di
nuovo. Si avvicinò ancora alla piattaforma, un passo dopo l’altro,
assaporandoli tutti fino in fondo. Per quel giorno, si disse, via libera alle
stupidaggini.
Saltò.
* * *
Notte. Il suo regno. Da sempre.
Si strinse addosso il
vecchio impermeabile, rabbrividendo. Era una notte fredda. Ma era stato facile
trovare l’edificio; le vecchie conoscenze nei bassifondi più
infimi tornavano sempre utili, specie quando si vociferava su uno sporco
traditore.
C’era una luce
accesa, alla finestra dell’ultimo piano.
Così è troppo facile.
Meglio aspettare, meglio
concedergli un falso senso di sicurezza... Sarebbe stato più eccitante,
poi, guardargli il passato negli occhi.
Si accese una sigaretta
– oh, quanto, quanto gli era
mancato – e sorrise beato. Dissipò con una mano il primo filo di
fumo che gli uscì dalle labbra, pregustando il momento in cui, allo
stesso modo, avrebbe sparpagliato al vento una colpa.
Io non sono io se non metto insieme il
fluff più assurdo e l’angst più
pesante, dico bene? E così non poteva mancare l’epilogo minaccioso
in un capitolo che invece voleva essere una sorta di risoluzione per
l’ultima cosa che Roxas aveva deciso di
lasciarsi alle spalle. Sì, sono un caso clinico. Strana forte.
Negli occhi verde scuro di Olette
la pazienza regnava sovrana. «Non è vero, e lo sai.»
Sospirò di sconforto. Perché
quella ragazza era sempre così... logica?
«Ti dico che cado.»
«No che non cadi.»
«Invece sì.»
«Roxas, mi stai
dicendo che vuoi cadere?»
Si sentì un po’ meno convinto.
«No.»
«E allora, che cosa aspetti?»
Olette gli tese la mano
aperta. Roxas tirò un altro sospiro, ma questo
era di resa. Accettò il sostegno dell’amica, drizzò le
spalle e fece leva sul piede sinistro, ancora saldo sull’asfalto. La
tavola di Olette scivolò lentamente in avanti.
Avvertendo il movimento – così familiare, così dimenticato
– sotto la scarpa destra, Roxas si
ritrovò col fiato corto.
Strinse forte la mano della ragazza, che
camminava accanto allo skateboard, unica presenza sicura all’inizio di un
viaggio di cui non si sapeva ancora il come, il dove o il perché. Ma era
un’altra, la presenza che sentiva più forte...
Dentro
l’armadio, la nicchia nascosta dall’asse mobile ormai era vuota.
Eppure nascondeva ancora qualcosa.
Lo aveva scoperto per caso, una sera di due anni
prima, quando era appena arrivato all’appartamento e trascorreva tutto il
suo tempo tra le quattro mura di quella cameretta. Non lo aveva mai mostrato a
Sora. Né allora, né in seguito, né adesso.
Però, adesso c’era Axel.
E Axel si era chinato
alle sue spalle e aveva parlato in tono incuriosito. «Che stai
guardando?»
Roxas aveva allungato la mano
verso la parte interna dell’armadio aperto, fin dentro la nicchia
scoperta, e aveva sollevato il pannello nascosto nel muro.
«Il mio segreto.»
Axel era rimasto in
silenzio.
Lo strato di polvere non sfumava la bellezza
dolorosa di quel ricordo. Dolorosa... Faceva davvero male; ma all’improvviso
il dolore sembrava sopportabile. Forse era per questo che – per quanto
avesse desiderato farlo – non era riuscito a liberarsene. Forse aveva
sperato di poterlo guardare di nuovo, un giorno, senza provare quelle vecchie
fitte di rimpianto che gli mozzavano il respiro.
Evidentemente, quel giorno era arrivato.
Roxas era tornato a se stesso
e aveva sfiorato con la punta delle dita il suo vecchio skateboard rosso,
bianco e blu. Si era ritratto in fretta, quasi per non sciupare con un tocco prolungato
quel qualcosa di estremamente fragile che finora aveva tenuto relegato
nell’angolo più lontano e buio della sua stanza e dei suoi
pensieri.
Aveva guardato Axel,
neutro. «Magari non è ancora il momento.»
Lui aveva ricambiato lo sguardo. Poi gli aveva
scostato i capelli dalla fronte, senza cambiare espressione.
«Magari sì.»
«Roxas! Apri gli occhi!»
Non si era accorto di averli chiusi.
Obbedì.
Olette sorrideva raggiante; lo
seguiva ancora di pari passo, di corsa,
ma non gli teneva più la mano.
Era come se il tempo non fosse mai passato.
Di nuovo su una tavola, le braccia aperte in
cerca di equilibrio, un piede a sospingersi e l’altro a sentire il
fremito di scivolare a un palmo da terra. Era facile, era istintivo, era come
se lo ricordava.
Di colpo si sentì sopraffatto, e
piantò il piede al suolo per fermarsi. Ansimava, scosso.
«Hai visto? Te l’avevo detto che non
saresti caduto.» Il sorriso di Olette divenne
un’espressione preoccupata quando l’amica lo guardò in viso.
«Ehi, va tutto bene?»
Roxas scese dalla sua tavola.
Cercò di tornare a respirare normalmente.
«Scusami. Io... Io vorrei farcela,
davvero. Ho solo un po’... di...»
Abbassò lo sguardo, ma la voce della
ragazza lo raggiunse dall’altra parte del suo schermo, piena di dolcezza.
«... Ricordi?»
Lui si strinse nelle spalle, con un sorrisetto
colpevole.
Sentì i passi di Hayner
e Pence avvicinarsi senza fretta. Pensò che
quel rumore era strano; era assurda la mancanza del grattare delle ruote delle
loro tavole sulla pista.
Si scosse al piccolo pugno di Hayner sul gomito.
«Va tutto bene, amico. Non sei
solo.»
Alla voce tranquilla di Pence.
«Giusto, Roxas.
Sempre insieme. Ti ricordi, no?»
Il ragazzo alzò gli occhi sui tre amici.
Li rivide come in quella foto, scattata due anni prima, che per tutto quel
tempo aveva atteso solo di essere guardata da lui. Rivide la propria
espressione nel rettangolo lucido di quel momento fissato per sempre. Alla fine
annuì.
«Prometto.»
Hayner, Olette
e Pence sorridevano.
Mentre rimetteva il piede destro sullo skate di Olette, Roxas si sentì
finalmente abbastanza sereno da sbirciare tra gli alberi al di là della
pista e chiedersi dove si fosse appostata la presenza che lo aveva guidato fin là.
* * *
Adesso
credeva di capire il perché di quella strana richiesta.
«Scusami, bimbo, ma non ci arrivo. Vuoi
che venga con te, però non vuoi che venga con te?»
«Non voglio che tu non venga con
me.» Un silenzio confuso. Il ragazzino si era preso la testa tra le mani.
«Aaah, mi stai facendo impazzire!»
«Evviva! Obiettivo raggiunto!»
«AXEL!»
Gli occhi azzurri scintillavano più del solito, lucidi di mille emozioni
contrastanti. «Sto cercando di farti capire quanto sia difficile.»
E in effetti, ora che – non visto –
lo guardava affrontarsi e affrontare quella dannata, semplicissima tavola con
le ruote, capiva. Capiva che Roxas non sapeva ancora
se attraversare quel ponte da solo o meno, capiva perché lo avesse
voluto così... ‘vicino ma non troppo’.
Ma aveva pensato che la sua presenza lo avrebbe
incoraggiato, e lui sentiva di dovergli
essere grato anche solo per questo.
E dopotutto, la sistemazione che si era trovato
non era neppure così male.
«Che ci fa un ex pivellino appollaiato
lassù?»
Axel sobbalzò e
rischiò di cadere dal ramo dell’acero su cui era seduto. Si
aggrappò al tronco appena in tempo e, con una certa apprensione mista
all’irritazione e alla sorpresa, guardò giù.
Ai piedi dell’albero c’era
l’ultima persona che si sarebbe mai aspettato di vedere.
Demyx lo fissava di rimando,
con un sorriso storto e le sopracciglia aggrottate.
«È un pedinamento? Hai iniziato a
lavorare in proprio? Eppure una certa poliziotta di mia – di nostra conoscenza mi ha detto che anche
tu eri stato riaccolto dalla retta via.»
Punto nel vivo, Axel
dimenticò presto la sorpresa iniziale e rispose a tono, lieto di essere
in una posizione così sopraelevata.
«Vedo che ultimamente hai trovato anche il
senso dell’umorismo, oltre che alla luce della ragione. Buon per
te.»
Le labbra di Demyx
parvero congelarsi nel ghigno.
Cadde un silenzio lungo e imbarazzato, inframmezzato
solo dai lievi rumori del parco circostante, dal vento tra i rami
dell’acero e dalle voci smorzate dei pochi avventori, HawkRunners inclusi.
Axel non riuscì a
sostenere a lungo lo sguardo del vecchio compagno. L’ultima volta che si
erano parlati erano dallo stesso lato della barricata – quello opposto.
Adesso, anche se erano ancora dalla stessa parte, era una situazione
completamente diversa.
Fu Demyx il primo a
parlare.
«Posso venire su da te?»
Tornò a soppesarlo con gli occhi per un
tempo indefinito. Poi gli fece un cenno.
«Sali.»
Demyx si era sistemato su un ramo più basso, ma dalla sua
posizione riusciva anche lui a seguire la scena nella pista da skateboard; Axel lo capì quando lo sentì canticchiare tra
sé.
«He was a skater boy, she said: see you
later, boy...» Appoggiandosi
alla corteccia e incrociate le braccia, il ragazzo abbandonò
l’aria svagata e tornò a guardarlo. «Beh, che ci facciamo
quassù?»
Axel sorrise, gli occhi
già di nuovo fissi su Roxas. «Tu, non lo
so. Io sono qui per vedere dove va la mia
retta via.»
Demyx non replicò.
Magari non aveva capito, o, se aveva capito, non intendeva chiedere niente.
Axel puntò un piede
sul ramo e distese il braccio sul ginocchio. L’acero costituiva un luogo
d’osservazione molto ospitale; per un attimo gli ricordò il faggio
piantato dietro l’orfanotrofio, quella pianta altissima – almeno
così gli pareva allora – dove lui e Xion
un tempo si erano fabbricati un covo e sulle cui asperità avevano
lasciato parecchia epidermide, unghie e sangue.
Si stava già preparando a un altro lungo
silenzio, ma la voce di Demyx lo sorprese ancora una
volta.
«Lo sai perché l’ho
fatto?»
Non si era aspettato di affrontare
l’argomento in modo così diretto. Abbassò lo sguardo, ma
non incontrò il suo; allora si concentrò di nuovo sulle
ripetizioni di skateboard di Roxas e scosse piano la
testa, certo che Demyx stesse in realtà
osservando tutti i suoi movimenti.
L’altro parlò nel tono di chi
ancora riflette su ciò che sta per dire.
«È una storia... beh, lunga. Anche
un po’ assurda.»
Axel si trattenne dal
sorridere. Ne sapeva qualcosa, di storie assurde.
Alla fine Demyx
cambiò posizione, piegò le braccia dietro la testa e
iniziò un’ennesima confessione.
«Quando avevo dieci anni»
esordì, la voce a un livello che avrebbe potuto confondersi col fruscio
delle foglie nel vento, «mio nonno morì nel sonno. Era già
molto vecchio quando mia sorella ed io c’eravamo trasferiti da lui. Era
il nostro unico parente. A quel punto, noi due finimmo in un istituto.»
Che strano. Le tappe della vita di Demyx sembravano coincidere con le sue. Cercò di
immaginarsi sua sorella, senza riuscirci, e si chiese dove sarebbe andato a
finire quel racconto che partiva da così lontano.
«Non passò molto tempo che il posto
fallì.» Nella voce del vecchio compagno tremò un sorriso
dal suono sconfitto. «Lo sai anche tu, credo; i soldi sono un problema di
tutti, e dato che la presenza di noi poveri orfanelli gliene assicurava pochi e
gliene toglieva troppi, il buon vecchio direttore prese la drastica decisione
di spedirci tutti in altre strutture altrettanto economiche, di passare ad
altri quella patata bollente. In questo modo, più o meno, finimmo tutti
separati. Quello fu l’ultimo giorno in cui vidi mia sorella.»
Anche senza guardarlo, Axel
sapeva che i suoi occhi erano chiusi, lontani quanto i ricordi che stava
rievocando per lui, per spiegargli qualcosa che – sospettava – alla
fine avrebbe compreso fin troppo bene.
«Insieme ad altri due ragazzini, io ero
destinato a finire da qualche parte a Traverse Town. Ma ero disperato. Avevo
promesso a mia sorella che saremmo stati sempre insieme... Dovevo provare a
mantenere la parola, dovevo farmi perdonare. Una volta in stazione, aspettai
che nessuno badasse a me e saltai sul primo treno in partenza. Alla prima
fermata ne scelsi un altro, poi un altro ancora, e così per altre tre o
quattro volte. Credo di aver attraversato quasi tutto il Paese, in questo modo.
Però stavo ingannando me stesso. Non sapevo dove trovarla, non mi avevano
detto dove l’avrebbero portata. Non avevo più nemmeno la speranza
di rivederla.» Demyx tacque per qualche
istante; poi la sua voce si riempì di affetto. «Mia sorella si
chiama Xion, e oggi ha quasi quindici anni.»
Per la prima volta dall’inizio della sua
storia, Axel si voltò a guardarlo. La
meraviglia scatenata dalle sue ultime parole fu seconda soltanto a quella che
gli suscitò la vista della lacrima che gli rigava la guancia.
Demyx non se ne curò:
continuava a fissare la coltre verde di foglie che gli sfioravano la testa.
«Arrivai a Twilight
Town» riprese, «e smisi di scegliere treni a caso. Non potevo
farcela. Avevo solo dodici anni. Avevo fame, e faceva freddo. In una parola,
mollai. E credo che sarei finito a vivere tra i barboni proprio in questo
parco, se su quel marciapiede sporco non mi avesse trovato Marluxia.»
La pausa che seguì fu di certo la
più pesante. Durò solo l’arco di un sospiro, ma il modo in
cui aveva pronunciato quel nome indusse Axel a
chiedersi se in quel sospiro ci fosse anche un filo di rimpianto.
«Da allora non ho quasi più pensato
a Xion» continuò Demyx
in un sussurro. «Probabilmente cercavo solo di annegare i sensi di colpa
per non essere riuscito a ritrovarla. Ma poi, solo il mese scorso, Marluxia mi ha affidato quel... quel compito...» La
faccia gli si contorse in una smorfia di dolore. «C’era una ragazzina,
un viso nuovo, che lo interessava
molto. Pensava di potersi assicurare una nuova cliente. E invece che
coinvolgere te, per una volta voleva contare sulla... mia...
disponibilità.» Voltò il capo, quel tanto che gli bastava
per poterlo guardare negli occhi. Ormai c’era solo un’innaturale
durezza nei suoi lineamenti, fredda e disgustata, come il suo tono di voce.
«Mi ha ordinato di vendere della droga a mia sorella, Axel.
A mia sorella, che credevo di aver
perso, e che forse a quel punto avrei perso per davvero.»
Fu Axel il primo a
guardare altrove. Non riusciva più a vedere Roxas
e i suoi amici, né la pista. I suoi occhi erano persi nella storia di Demyx.
«Io non sono uno psicologo, non so
definire cosa mi sia successo. Diciamo che, quando ho rivisto la mia vita e mi
sono trovato davanti all’eventualità di rinnegarla una volta per
tutte, ho aperto gli occhi. Forse è come hai detto tu: la luce della
ragione.» Di nuovo l’eco di quel sorriso sconfitto.
«Chissà.»
Cadde il silenzio. La pausa si protrasse. Axel cercò una domanda per romperla, ma appena
iniziò a parlare, le parole gli sembrarono inutili e senza senso.
«Lui sapeva...?»
Demyx gli venne
miracolosamente in aiuto.
«Se sapeva chi era lei?» Sospirò
ancora. «Non ne ho idea. Ci sono cose che non saprò mai. Come non
riuscirò mai a capire perché si sia lasciato prendere così
facilmente.»
Axel scosse la testa. Aveva
una sua teoria precisa al riguardo; avrebbe potuto esporgliela... Ma Demyx aveva ragione, rifletté concentrandosi su Roxas – che in quel momento scivolava più
deciso sullo skateboard di Olette, tanto spontaneo da
far credere che quella tavola fosse sempre stata la sua. C’erano davvero cose che nessuno avrebbe mai
potuto dire con assoluta certezza di poter capire.
«Perché non mi hai messo in
mezzo?»
La domanda si era posta da sola, senza che lui
se ne rendesse conto.
Tanto valeva aspettare una risposta.
Demyx rimase in silenzio per
un po’. Poi, ai margini del suo campo visivo, scrollò le spalle.
«Tu non c’entravi niente, con noi.
Magari tu non te ne accorgevi, ma io sì. Ero come te...
all’inizio.»
Axel lo guardò di
nuovo. Stava ancora assimilando le sue parole quando lo vide allontanare la
schiena dal tronco dell’acero.
«Devo andare.» La sua voce era
tornata leggera, pratica. «Stavo giusto andando a trovare Xion. Ora che la sua famiglia adottiva si è
trasferita da queste parti, ci tengo a recuperare tutto il tempo
perduto.» Cominciò a scendere dal ramo. «Magari ci si
rivede, pivellino.»
In silenzio, Axel lo
osservò saltare a terra. Quando l’altro sollevò lo sguardo,
gli indirizzò un sorrisetto.
«Fammi un favore. Porta a tua sorella i
saluti di AxelHibana.»
Demyx ricambiò il
sorriso. «D’accordo.»
Si allontanò attraverso il parco, verso
il sentiero asfaltato che ne usciva, una delle tante linee conosciute o meno
che correvano in quel fulcro di vite normali e su cui qualcosa era iniziato e
finito.
Axel si voltò di
nuovo e lasciò scivolare la gamba, fino a tornare cavalcioni sul ramo.
Fissò gli HawkRunners.
Invece di ripercorrere la ‘lunga e assurda’ storia di Demyx, lasciò che la canzone che poco prima gli
aveva sentito cantare gli affiorasse alle labbra.
«... There is more than meets the eye, I see
the soul that is inside...»
«Mia
sorella si chiama Xion...»
Assurdo. Davvero
assurdo.
Sulla pista davanti alla fila di alberi, Roxas impennò la tavola.
«I’m with the skater boy; I
said: see you later, boy, I’ll be back stage after the show.» Assiemealle parole, glisfuggì un sorriso. «I’ll be at a studio
singing the song we wrote about a girl you used to know...»
Non
era la prima volta che riviveva tutto, ma nessuna delle precedenti occasioni lo
aveva fatto sentire così... sollevato.
Forse perché Axel poteva capirlo meglio di
chiunque altro. C’era stato dentro,
e ne era uscito ben prima di sporcarsi troppo: non aveva mai avuto niente a che fare con loro. Glielo aveva letto negli
occhi tante volte, lo schifo che provava per Marluxia,
che si sforzava di reprimere soltanto perché in qualche modo doveva
vivere. L’aveva visto, compreso e inconsciamente invidiato, e
l’aveva deriso per questo.
«...
Sono qui per vedere dove va la mia
retta via...»
Scendendo dall’autobus e avviandosi senza
fretta sul marciapiede, Demyx ripensò al
ragazzino biondo che aveva visto allenarsi allo skateboard sotto lo sguardo
attento del suo vecchio complice e sorrise tra sé, chiedendosi quale
fosse stato il suo ruolo nella storia personale di Axel.
Un’altra cosa che forse non avrebbe mai
saputo.
La sorpresa più grande di quel giorno,
però, era stata un’altra: lo sguardo sbalordito di Xion quando le aveva parlato di lui, e ciò che gli
aveva confessato sull’orfanotrofio e su quel ragazzo grande e dispettoso
dai capelli rossi che era diventato il suo unico amico.
Un’altra cosa che di certo non si sarebbe
mai spiegato.
Era già il tramonto quando Demyx arrivò in vista della palazzina. Non gli
dispiaceva più pensare a quel luogo come alla propria casa, non la
sentiva più estranea. Sorrise di nuovo, apertamente, al pensare alla
nuova immagine di se stesso che ogni mattina guardava allo specchio: un adulto
finalmente autonomo, con un posto in cui stare e uno in cui lavorare, e la
coscienza un po’ meno sporca di un mese prima.
Era piacevole, una volta tanto, gestire la
propria vita.
Il tenente Lockhart
aveva davvero fatto molto per lui. Anche quel lavoro, pur momentaneo, al
negozio di articoli musicali era un obiettivo cui non si sarebbe mai aspettato
di poter arrivare senza il suo intervento. Già, doveva proprio invitarla
a cena fuori: il primo stipendio sarebbe stato l’occasione ideale.
Ora che ci pensava, chissà se Axel aveva problemi di quel genere? Magari poteva chiedere
a Tifa di intercedere anche per lui... Sempre che non lo stesse già
facendo, certo. Più che per uno sbirro, quella donna sarebbe potuta
passare per una missionaria.
Demyx arrivò all’altezza
del giardino della palazzina e si scosse dai suoi pensieri. Il portone
principale era socchiuso.
Imprecò contro la propria sbadataggine;
doveva averlo lasciato aperto quel pomeriggio, prima di uscire.
Però...
Attraversò il giardino, in fretta. No,
non poteva essere: si ricordava bene di averlo chiuso, perché nel farlo
gli erano cadute le chiavi per ben due volte. Perciò, se non lo aveva
lasciato aperto lui...
Valutò le possibilità.
Primo: Tifa. Lei era l’unica ad avere una
copia delle chiavi. Che avesse deciso di fargli una sorpresa? Poco probabile.
Secondo: un ladro o un malintenzionato. Anche
questa era un’ipotesi inconsistente; cosa poteva attirare chicchessia in
quel posto dimesso e visibilmente disabitato?
Terzo...
Demyx s’irrigidì
sulla soglia. Sentì qualcosa di gelido scorrergli giù per il
collo e la schiena. No, si rifiutava anche solo di prendere in considerazione
la terza possibilità. Sarebbe stato assurdo. Impossibile. Marluxia era fuori dalla sua vita, ormai. Era dietro le
sbarre.
Ma non riusciva a scrollarsi di dosso quel
pensiero.
Va tutto
bene,
cercò di convincersi, la mano stretta convulsamente sulla maniglia del
portone. È colpa mia, sono stato
distratto. Adesso vado di sopra e trovo la porta dell’appartamento chiusa
come l’ho lasciata.
Sforzandosi di ignorare il senso di allerta in
cui quel particolare l’aveva fatto precipitare, entrò
nell’ingresso e si sbatté forte l’uscio alle spalle. Si
prese tutto il tempo di cui aveva bisogno per convincersi di credere davvero a
quella bugia, arrancando lentamente verso la lunga rampa di scale e di
pianerottoli, scarsamente illuminata da una serie di finestre dalle ante
ammuffite.
Distratto,
distratto,
si ripeteva. È sempre stato un mio
problema. Come quando... Come quando... Beh, in questo momento il paragone non
mi viene, ma c’è di sicuro. C’è.
Un gradino dopo l’altro, un piano alla
volta, sempre più su.
Naturalmente
resta sempre valida la prima possibilità. Può essere che il
tenente Lockhart avesse un momento libero e...
Si ritrovò all’improvviso davanti
alla porta che era ancor più sicuro di aver chiuso a chiave. Era
dischiusa anche quella, e sul pavimento davanti ai suoi piedi era disegnata una
lama della luce elettrica proveniente dall’interno, il lampadario del
soggiorno.
Demyx ne fu sicuro
all’istante: oltre quella porta c’era qualcuno – qualcuno che
voleva fargli sapere che lo stava
aspettando.
Lo dicevo.
Un
ladro non avrebbe lasciato segni così evidenti della propria presenza. È Tifa, è senz’altro
lei.
Da quando in qua il pensiero del tenente gli
provocava quel tremore assurdo? Certo, la giovane donna gli piaceva molto, ma
quella non era ansia di rivederla... Era... paura?
Sciocchezze.
Scosse
la testa e deglutì. Demyx, apri questa
cazzo di porta.
Mosse un altro passo, l’ultimo, e spinse
il battente.
Davanti a lui, il soggiorno era vuoto.
Nonostante la luce accesa, si sentiva come se si
fosse immerso in un salto nel buio più profondo; ma lo scenario
familiare di casa sua lo confortò un poco. Azzardò qualche altro
passo, allontanandosi dalla porta.
In quel preciso istante squillò il
telefono.
Demyx sobbalzò
violentemente. Quando riconobbe il suono, familiare e innocuo, il sollievo fu
tale da farlo ridere come un idiota. Si avvicinò, con le ultime tracce
di circospezione, al mobile nell’angolo e sollevò la cornetta
dell’apparecchio.
«Pronto?» balbettò.
«Ehi, Demyx.»
La voce calda di Tifa Lockhart fu quasi un toccasana
per la sua testa su di giri. «Dov’eri finito? Ti cerco da un
pezzo.»
Il ragazzo si schiarì la gola; non voleva
sembrarle turbato.
«Mi scusi, tenente, sono stato fuori. Mi
chiamava per un invito a cena? Perché le ricordo che l’iniziativa
spetta a me...»
La sua risata argentina lo calmò un altro
po’.
«Sei senza speranza, ma ti perdono.»
Di colpo, la donna assunse un tono serio. «In realtà, ci tenevo ad
informarti di una cosa... Vedi, qualche giorno fa, una persona che tu dovresti
conoscere ha ottenuto... un favore. Per la sua buona condotta, sai. Dico e
ripeto dovresti perché si
tratta di una mia supposizione...»
Demyx non aveva seguito tutte
le sue parole; un formicolio alla base del collo, accompagnato da un orribile
presentimento, lo aveva distratto circa a metà del discorso.
«Demyx, mi stai
ascoltando?»
Il disagio si intensificava. Il rumore della
porta che si chiudeva alle sue spalle lo fece trasalire di nuovo.
«Demyx...?»
Con la cornetta ancora in mano, si voltò.
Un uomo vestito di uno strano impermeabile
scuro, con capelli lunghi fino ai fianchi, lo osservava coi suoi occhi gialli
da falco. Sorrideva, come trasognato.
Quando parlò, il suono della sua voce
dolce e crudele riaffiorò dal passato, insieme a mille altre cose che
nel passato non potevano essere trattenute.
«Ci rivediamo, piccolo.»
Non riusciva a muoversi. Tutto gli fu chiaro:
qualcuno lo aveva effettivamente aspettato, e lui sapeva anche il
perché.
«Saïx»
sussurrò.
La cornetta
scivolò a terra, mentre il pensiero di Demyx
correva a sua sorella, all’unica e ultima persona che avesse mai potuto
salvare.
Vi
concedo di linciarmi. Fatelo, ci sentiremo tutti meglio. u////ù
Vorrei stare qui ore a ringraziare
tutti i lettori/recensori che si aggiungono di volta in volta, ma spero che un
sincero grazie possa riuscire dove un’intera
pagina web non potrebbe. <3
Era stata una giornata calda. Il terreno
appariva sfocato alla vista, ma poteva anche essere per la stanchezza degli
occhi.
Le prime gocce di una
pioggia leggera caddero dalle nuvole addensate su Twilight
Town come una cappa grigia di malaugurio. Dall’erba secca si levò
all’istante uno sfrigolio spento. Era come se la terra stessa sospirasse
– difficile stabilire se di sollievo o di sconfitta.
In un modo o
nell’altro, quella era una fine.
* * *
CloudStrife
aveva venticinque anni, ed era stanco.
Non era una stanchezza
fisica; nasceva molto più in fondo.
C’entravano
qualcosa gli occhi di Aerith, pieni di lacrime. C’entravano
gli occhi di Tifa Lockhart, sconvolti. C’entravano
gli occhi sbarrati di ZexionIenzo,
un ricordo tanto tangibile da essere quasi palpabile, e adesso anche quelli di DemyxMizu.
Quanti altri sguardi
simili avrebbe dovuto sostenere?
Notoriamente, Cloud non era un uomo che si lasciasse coinvolgere
facilmente da ciò che gli stava intorno. Anche con le persone era sempre
stato ermetico; solo Aerith riusciva talvolta, con la
sua aura buona, a penetrare le sue barriere. Eppure quella dannata storia era
diversa dalle altre.
Che si trattasse
dell’interessamento particolare del tenente verso quel ragazzo, o del
fatto che lui stesso avesse ucciso per la prima volta, o delle persone
innocenti che loro malgrado erano rimaste coinvolte, sentiva che non avrebbe
mai superato davvero e del tutto
quella serie di disgraziati eventi.
Sotto la pioggia, si concesse
di ammettere di sentirsi stanco.
* * *
AerithGainsborough
teneva lo sguardo basso, perché non aveva il coraggio di guardare la
ragazzina dai capelli neri.
Per l’ennesima
volta si chiese cosa ci fosse adesso dietro quegli occhi liquidi, cosa si provasse
a vedersi crollare il mondo addosso, e se un’anima potesse finire
squarciata e il dolore arrivare a un punto in cui le lacrime e le grida e i
pugni sui muri non erano più niente.
Ripensò al
momento in cui Tifa Lockhart aveva spalancato la
porta del suo ufficio ed era schizzata fuori ordinando a lei e Cloud di seguirla alla villetta; ricordò la sua
espressione quando erano arrivati e avevano visto le porte aperte, le stanze
silenziose, il corpo riverso a terra. Cercò di immaginare come si fosse
presentata a casa della ragazza e le parole che aveva scelto per dirle che il
fratello maggiore che era tornato da lei se n’era andato di nuovo,
stavolta per sempre.
«Voglio farlo
io» aveva mormorato soltanto.
Le vennero in mente gli Ienzo, superstiti senza lacrime di un’altra condanna.
Aveva trovato la
risposta: sì, era possibile ritrovarsi con l’anima squarciata.
Sollevò il capo;
cercò di mettere a fuoco il lungo rettangolo di terra smossa davanti a
lei, ma la pioggia negli occhi non le facilitava il compito.
Poi si accorse che le
gocce si erano fermate: erano lacrime, ancora e soltanto lacrime, quelle che le
offuscavano la vista. Alzò lo sguardo, confusa, e le sembrò di
vedere la mano di Cloud a sorreggere l’ombrello
che la riparava dalla pioggia.
Sospirò e scivolò
con la testa sulla spalla del compagno. Sentì il suo braccio libero
circondarla, prima di rifugiarsi nel buio inutile delle palpebre abbassate.
Sotto la pioggia, si
concesse di accogliere dentro di sé tutto il dolore di qualcun altro.
* * *
Tifa Lockhart non si
curava del fango sui vestiti.
Quando era bambina, i
suoi genitori non la finivano mai di sgridarla per quelle brutte macchie sui
pantaloni, per le corse pazze nella melma, per le battaglie a schizzi di
pozzanghere con i figli dei vicini.
«Ti prenderanno
per un maschiaccio» le dicevano sempre. «Non vuoi diventare una
bella signorina e trovarti un bel ragazzo? Come pensi che qualcuno voglia
uscire con te, se sei sempre conciata così?»
«Io non voglio un
ragazzo!» strillava lei, arricciando il naso o pestando i piedi.
«Io i ragazzi li pesto. E lo farò anche da grande. Anzi, meglio:
li manderò tutti in prigione!»
Suo padre e sua madre, a
quel punto, scoppiavano a ridere.
Oggi le cose non erano
cambiate: sedeva sulla nuda terra sotto la pioggia, lontana dagli uomini, e il
fango non contava niente.
Trovò
semplicemente ridicolo stare
lì a pensare alla sua infanzia mentre assisteva alla fine di
un’altra vita.
Un’altra persona. Quello era stato Demyx.
Uno dei tanti.
Uno dei tanti da cui lei
avrebbe dovuto diffidare. Uno dei tanti che lei avrebbe voluto salvare. Uno dei
tanti suoi fallimenti.
Pensare che aveva
comunque fatto tutto il possibile per lui non le era di alcun conforto. Avrebbe
dovuto parlargli delle sue paure. Quando quel criminale era uscito di galera e
per prima cosa aveva chiesto di Marluxia, lei aveva
avuto un presentimento, una sensazione orribile, ma l’aveva tenuta per
sé. Avrebbe dovuto chiamarlo,
e subito, invece che rimuginare sulla plausibilità di quella sensazione.
Invece no, aveva taciuto, aveva aspettato troppo, e ora davanti ai suoi occhi
c’era solo una nuova lapide piantata prima che fosse giunto il momento
giusto.
Non aveva ancora
compiuto diciannove anni...
Tifa avvertiva una
presenza accanto a sé; la ragazzina dai capelli neri che aveva
accompagnato, avvolgendola nella sua giacca nella vana speranza di fermarne il
tremito, che si era aggrappata alla sua mano come se non avesse avuto altro al
mondo, che adesso era là in piedi al suo fianco, vuota anche delle
lacrime.
Sentiva la sua presenza,
ma le sembrava lontanissima.
Non trovava neanche la
forza di desiderare di superare la
barriera.
Se c’era un limite
a separare la passione dalla follia, lei lo aveva attraversato. Ormai stava
cedendo. Magari quel lavoro era al di là delle sue capacità. Si
soffriva più del previsto, si soffriva troppo...
Sotto un velo
d’acqua – pioggia? Lacrime? – cercò di visualizzare la
lapide, la scritta nera funesta nella pietra chiara, e si disperò perché
dentro di sé non sapeva scegliere le parole per mandarlo via.
Avevamo una cena in sospeso, Demyx.
Sarebbe stato così facile salutarti solo per tornare a casa...
Sotto la pioggia,
nessuno vide l’ombra fredda del suo sorriso disperato.
* * *
Roxas piangeva. Ed era la
prima volta che lo faceva per un estraneo.
Qualcosa lo faceva
sentire ancora fuori posto, sbagliato, in quel cimitero. Lui non aveva mai
conosciuto Demyx; era l’unico dei pochi
presenti a non averlo mai neanche visto. Ma aveva visto lo sguardo tormentato di Axel,
quella mattina, quando aveva ricevuto la telefonata del tenente Lockhart. Aveva sentito il tono spento della sua voce
mentre ne parlava con lui e gli raccontava tutto. Soprattutto, aveva avvertito
fin dentro la pelle ciò che era successo.
C’era qualcosa a
legarlo a Demyx. E non si trattava soltanto della
presenza di Axel. Era una scelta, quella di entrambi:
la scelta di rialzarsi.
La differenza era che
oggi lui poteva andare avanti, Demyx no.
Così, aveva
voluto essere lì anche lui.
Non aveva mai
partecipato a un funerale dopo quello dei suoi genitori. Di quel giorno aveva
un ricordo confuso, pieno di lampi di dolore fitto alle gambe e di un senso
ovattato alla testa, per via dei medicinali e dei tranquillanti che gli avevano
inferto. C’erano tante persone, tantissime. C’era il sole, e in
qualche modo lui aveva trovato la lucidità per odiarlo. C’erano
silenzi e sguardi tristi e mani strette e subito dimenticate.
Questo funerale non avrebbe potuto essere più diverso; il
cimitero era vuoto, il silenzio rotto solo dal ticchettio della pioggia, e ogni
contatto umano e visivo praticamente inesistente. Soltanto le dita di Axel serrate a pugno sulla sua spalla ricordavano
l’esistenza di un mondo che andava oltre la pioggia.
Roxas piangeva. Non poteva
evitarlo.
Era questo che ci si
doveva aspettare, dopo la curva? Era questo che meritava una persona che aveva
ripensato la sua vita pur di proteggere una sorella? Era questa la fine della
storia? Non era giusto.
La mano di Axel si serrò un po’ di più. Roxas chiuse gli occhi e inspirò: l’odore
della pioggia, quello che aveva sempre amato, si filtrò in quello
plastificato e neutro della giacca a vento di lui. Si passò le mani sulle
palpebre e le riaprì.
La ragazza di cui Axel gli aveva parlato era laggiù, accanto alla
tomba. Roxas osservò i suoi lineamenti
regolari e colmi di vuoto, la pelle del viso bianchissima sotto i capelli neri
bagnati. Sentì di capirla come non aveva mai capito nessuno in tutta la
vita, forse neanche Axel.
Conosceva fin troppo
bene quello sguardo: erano gli occhi di un naufrago, in bilico su un precario
pezzo di legno, che si volta a guardare la sua nave affondare nella bufera. Gli
occhi di chi ha perso anche se stesso.
* * *
Axel sapeva che era un
incubo, però non riusciva a svegliarsi.
Ma chi voleva prendere
in giro? Quella era la schifosissima realtà. Una realtà che prima
ti dava l’illusione di poter cambiare e poi, di colpo, ti fotteva in tutta
la sua spietatezza.
E lasciava libero un
pazzo scatenato che già sembrava essersi dissolto nell’aria.
Il tenente Lockhart gli aveva raccontato tutti i particolari quel
pomeriggio, quando si erano visti prima del funerale. Aveva detto che a quel
punto non le importava più un cazzo della segretezza,
dell’etichetta professionale, né di un eventuale licenziamento
– che, anzi, forse sarebbe stato una liberazione. Gli aveva parlato di Saïx, della scarcerazione, dei suoi sospetti quando
sulla bocca dell’uomo era affiorato il nome di Marluxia,
della sua telefonata a Demyx, del nome che lui aveva
sussurrato nella cornetta prima di lasciar cadere il telefono, e anche dei
segni di strangolamento rinvenuti sul suo corpo.
«Axel» aveva concluso, con uno sguardo febbricitante.
«Se anche tu conosci quest’uomo, devi dirmelo. Per il tuo stesso
bene. Mi capisci?»
Lui capiva, ma aveva
scosso la testa.
«Non ho avuto modo
di conoscerlo; era già in carcere quando ho conosciuto... quando sono
entrato nel gruppo. Non posso aiutarvi.»
E fu così che l’uomo nero sparì nella
notte buia e tempestosa...
Neanche a dirlo, si
udì l’eco di un tuono.
La spalla di Roxas sussultò sotto le sue dita, più volte,
piano, come se il ragazzo cercasse di reprimere i singhiozzi. Dischiuse le dita
e lo strinse. Nonostante tutto, era felice di averlo accanto a sé.
«Per il tuo stesso bene...»
E se Saïx,
invece, avesse saputo chi era lui? Quante volte aveva già rischiato di
perdere Roxas? Non credeva di poter sopportare
l’idea che...
Lo sguardo gli cadde
sulla figurina nera accanto alla tomba, e si sentì improvvisamente
egoista.
Senza distogliere gli
occhi da lei, si chinò perché la sua voce raggiungesse
l’orecchio di Roxas.
«Vado a
parlarle.»
Lui tirò su col
naso. Si scostò la frangia zuppa dalla fronte, tirò su le spalle
e annuì. «Ti aspetto qua.»
Axel lo guardò,
premette ancora una volta la mano sulla sua spalla – era lui ad aver
bisogno di quel contatto, lui: perché
lui non sarebbe mai stato forte come Roxas – poi la ritrasse, si strinse nel bavero
della giacca a vento e s’incamminò lentamente tra le pozzanghere.
Senza il contatto di Roxas, sentiva freddo.
Arrivò
all’altezza della ragazza e ancora non aveva deciso cosa dirle. Le si
fermò accanto, imbarazzato; si conoscevano già, ma in quel
momento temeva di non essere altro che un estraneo per lei, per il suo dolore.
Un altro tuono. Il
crepuscolo si faceva sempre più scuro, impossibile vedere le prime
stelle.
Perché durante i
funerali doveva sempre piovere? Gli era capitato di vedere scene esattamente
identiche a quella, nei pochi film e nei pochissimi libri che aveva avuto modo
di esaminare in orfanotrofio. Forse era una qualche metafora di purificazione.
Forse era solo per rendere il tutto più deprimente – come se non
lo fosse già abbastanza il fatto di dover “dire addio a una
persona cara”.
Il piccolo Axel non aveva mai capito la faccenda della persona cara. Lui non aveva persone
care, non aveva parenti, non aveva neanche degli amici. Non c’era nessuno
di cui gli importasse davvero qualcosa. Non prima né dopo di Xion.
Però, adesso c’era Roxas.
Abbassò infine lo
sguardo sulla ragazzina che gli stava accanto in silenzio, lontana un passo o
chissà quanto. Quella era stata la prima persona che avesse mai osato
definire ‘cara’; buffo, davvero buffo che la sua crescita fosse
iniziata con lei e che anche alla fine comprendesse lei.
Una buffa ennesima
coincidenza.
Una cosa che nessuno
avrebbe mai potuto dire con assoluta certezza di poter capire.
In quel momento, per la
prima volta, la ragazza distolse lo sguardo dalla tomba di suo fratello e lo
puntò su di lui.
«Mi sarebbe
piaciuto rivederti in circostanze diverse.»
Era la voce che
ricordava. Disillusa.
Annuì.
«Anche a me.»
Lei fece un sorriso
triste. Axel si chiese dove trovasse la forza per
cambiare espressione. Poi la vide chiudere gli occhi e portare le mani al viso,
la sentì soffocare un gemito.
Da quando era entrata
nel cimitero, non aveva versato una sola lacrima.
Istintivamente, Axel l’attirò e la strinse a sé. I suoi
piccoli pugni gli si aggrapparono al petto mentre la diga si rompeva, e i suoi
singhiozzi gli penetravano nella pelle e scuotevano anche il suo cuore.
Era così piccola.
Sola. Alla deriva.
Proprio come Roxas.
Proprio come lui.
* * *
Quando glielo dissero, si sentì
curiosamente spaccato in due.
Sapere di Saïx, della sua fedeltà che ancora resisteva al
tempo, del suo commovente desiderio di dimostrargli che non era cambiato nulla,
lo aveva toccato nel profondo. Ma se da un lato ritrovava intatto tutto
ciò che lo aveva legato a lui, dall’altro vedeva frantumarsi
definitivamente tutto ciò che era stato con Demyx.
Marluxia rimase a lungo immobile
nella sua cella, rannicchiato sul pavimento, a chiedersi se era davvero giusto
che la storia finisse così.
Lo sapevo che mi saresti mancato, piccolo mio...
Alla fine, sotto il
rumore dolce della pioggia oltre le sbarre alla finestra, si addormentò.
Disperazione pura. La provai quando scrissi
questo capitolo anni fa e la provo oggi che lo rileggo, per motivi più o
meno analoghi.
Nella realtà
il lieto fine non esiste quasi mai. Era ciò che volevo esprimere. È
passato del tempo, ho accumulato altre esperienze, e ne sono più che mai
convinta.
Ma queste note non sono per deprimervi
quanto sono depressa io; al contrario, vogliono solo ringraziarvi di essere
giunti fin qui, e dirvi che, se vorrete seguirla ancora, questa storia si chiuderà
definitivamente tra due capitoli.
Vivi era bravo. Quasi più bravo di Seifer. Era silenzioso e sicuro di sé, come un
sicario, e mentre faceva ruotare la tavola in una serie di kickflips ne dimostrava anche la
stessa fluidità di movimento. Hayner staccava gli
occhi da lui solo per puntarli sul tabellone.
La SK-8 era forte.
Piuttosto che ammetterlo ad alta voce si sarebbe mangiato lo skate – ma
il bello dei più intimi pensieri era che nessuno poteva sentirli.
La SK-8 era forte,
sì. Ma gli HawkRunners
avevano dalla loro parte una consapevolezza e una convinzione in più:
nella vita c’erano cose più importanti che vincere una gara.
Ritrovare se stessi.
Ritrovare una speranza. Ritrovare un amico.
Però, se doveva
essere completamente sincero con se stesso, era vero che vincere non era tutto,
ma non sarebbe neppure dispiaciuto a nessuno!
L’esibizione della
squadra avversaria stava per finire. Hayner non
fischiò ai tricks
di Seifer, Vivi e gli altri, come avrebbe voluto
fare, ma si voltò verso i suoi compagni e stese in fuori il pugno
chiuso.
«Io
prometto» disse soltanto.
Olette mise subito la mano
sulla sua.
«Prometto.»
Pence si mise il casco in
testa e si unì a loro.
«Prometto.»
Si voltarono tutti e tre
a guardare il campione dei falchi.
Il loro amico, la cosa più importante, sorrise e
posò la mano su quella di Pence.
«Fino alla
fine.»
* * *
Sora era orgoglioso. Orgoglioso di poter dire
che quel ragazzino biondo con il casco blu che stava per scendere in pista era
il suo gemello. Era il suo fratellino, quello che da piccolo se ne stava ore e
ore a guardare la pioggia e a disegnare le persone che amava, quello che
piangeva quando si sentiva perso, quello che non voleva essere il fratello di Sora e che soltanto su una tavola
con le rotelle riusciva ad essere se stesso senza schermi.
Quel ragazzino che
salvava gli altri e che era la persona più forte che potesse mai sperare
di conoscere.
«Terra chiama
Sora!»
Si scosse quando la mano
di Kairi s’immerse nel suo pacchetto di
patatine e ne uscì fulminea. Alzò gli occhi in tempo per vederla
masticare il suo bottino con espressione soddisfatta.
«Ehi!»
Allontanò il pacchetto da lei. «Che ti sei messa in testa? Solo
perché adesso sei la mia ragazza, non puoi prenderti certe
libertà!»
«Ah, no?» Kairi allungò di nuovo la mano, sporgendosi su di
lui. «Se no che mi fai?»
Sora rise, le
afferrò il polso e la tirò a sé. «Indovina un
po’...»
«Oh, avete finito
di fare gli sdolcinati, voi due? State diventando davvero imbarazzanti.»
Sora si ritrasse subito
dal viso di Kairi, sentendosi avvampare. Lei si
voltò come una furia verso Selphie.
«Perché non
chiudi semplicemente gli occhi, tesoro?»
Riku e Tidus
scoppiarono a ridere.
«Non posso!»
Selphie arrossì a sua volta. «Altrimenti
come potrei guardare il fratello del tuo ragazzo, eh?!»
Questa volta fu Kairi a scoppiare a ridere; Tidus
quasi si strozzò, mentre lanciava a Selphie
un’occhiata sconcertata.
Sora sorrise e scosse la
testa. Sbirciò l’adolescente taciturno seduto alla sua destra; non
aveva ancora aperto bocca.
In cuor suo, pensava che
a suo fratello avrebbe fatto più piacere ricevere gli sguardi di qualcun altro; ma non lo disse,
perché Selphie era un’amica.
* * *
Axel era teso. Non aveva mai
assistito ad una gara di skateboard – beh, di nessuno sport, a dirla
tutta. Avvertiva una carica adrenalinica di ansia alla bocca dello stomaco, ma
probabilmente non era la gara in sé a provocarla.
Erano passati più
di due mesi dal momento in cui Roxas era salito sullo
skate di Olette. Dopo quel primo giorno in cui lo
aveva accompagnato e osservato a distanza, Axel gli
aveva lasciato affrontare gli allenamenti da solo. Quella era una cosa che
apparteneva a lui e basta; era una faccenda tra Roxas
e la tavola. E lui voleva farcela e poteva
farcela.
Oggi, però, lo
aveva di nuovo voluto con sé a quella gara. E Axel
cominciava a chiedersi quali e quanti progressi avesse compiuto in quei due
mesi, se gli erano bastate due sole settimane per riprendere a camminare.
Le chiacchiere
spensierate di Sora e dei suoi amici non si distinguevano dal brusio degli
altri spettatori: un rumore sommesso, un sottofondo privo di senso logico. Ma
per qualche motivo non riuscì ad escludere allo stesso modo la voce
femminile che all’improvviso gli risuonò accanto.
«C’è
un posto libero qui?»
In piedi sui gradini che
attraversavano le tribune, la ragazzina dai capelli neri sembrava piccolissima
e fuori posto, ma la sua espressione era – se non sorridente –
almeno tranquilla.
Axel la fissò per un
attimo, sorpreso; poi si voltò a guardare i ragazzi che gli sedevano al
fianco.
Sembravano tutti
interessati alla nuova arrivata. Sora scoccò uno sguardo incuriosito ad Axel, ma qualcosa nella sua espressione dovette convincerlo
a concentrarsi subito sulla pista ed a riavviare una conversazione con Kairi e gli altri.
Axel si rivolse di nuovo
alla ragazzina e azzardò un filo di ironia. «Se non ti dispiace
sederti sulle mie ginocchia.»
Lei scosse
impercettibilmente la testa, e sul suo volto passò un altrettanto
impercettibile lampo di sorriso.
Ricambiò, le
porse la mano e l’aiutò a prendere posto. Mentre lei sedeva sul
suo ginocchio – come se volesse occupare meno spazio possibile –
lui lanciò un’altra occhiata a Sora, della serie niente-domande-prego.
«Allora,
dov’è il tuo amico?»
Axel le indicò il
punto da cui gli HawkRunners
sarebbero sbucati da un momento all’altro. «Là dietro a fare
i conti con se stesso.»
«Deve essere stata
dura, per lui.»
«Sì.»
Abbassò il braccio e la voce. «Tu come stai?»
Non si erano visti
molto, dopo quel giorno al cimitero. Ma qualche volta lei lo aveva cercato al
parco, qualche volta aveva pianto ancora al riparo delle sue felpe più sgualcite.
La ragazza si strinse
nelle spalle. Axel non poteva vedere il suo viso,
soltanto la guancia pallida sfiorata dai capelli.
«Sto. Come
prima.»
Calò il silenzio
brumoso del pubblico attento, rotto solo dalle occasionali urla al microfono
dello speaker della gara. Chissà se Sora lo stava ancora sbirciando; non
poteva esserne certo, dal momento che teneva lo sguardo fisso davanti a
sé, sui volteggi dei quattro pagliacci che aveva visto quella volta al
parco.
Fu di nuovo lei a
parlare per prima.
«Tu cosa fai, di
solito, per non fermarti a pensare?»
«Beh...» Axel sentì le labbra tendersi in un sorriso storto.
«Non moltissimo, in realtà. Il buon vecchio tenente Lockhart mi ha aiutato ad assicurarmi un lavoro.»
Evitò di specificare di chi
era stato il posto in quel negozio di articoli musicali. «In
realtà, il più del tempo lo passo con Roxas.»
Annuì, come se
capisse benissimo tutto ciò che c’era dietro quelle parole, il
bisogno e il conforto e tutto il resto.
«So che lei si
è trasferita.»
«Sì, ha
chiesto di allontanarsi per un po’. Le ricerche di... di Saïx sono passate in mano a qualcun altro.»
«Io non credo che
lo troveranno mai.»
«In realtà neanch’io.»
«Mi piace, Tifa Lockhart. È una donna buona. E anche Aerith.»
«Già.»
Altro silenzio brumoso.
«E tu?» Axel era felice che lei stesse guardando la pista: non
sarebbe stato facile porle quella domanda in viso. «Che farai
adesso?»
La ragazzina parve riflettere;
le sue gambe magre sulla sua ebbero un fremito. Era leggerissima, dava
l’impressione di potersi dissolvere nell’aria da un momento
all’altro.
«Ci trasferiamo di
nuovo» sussurrò. «Forse stavolta non sarà tanto male,
dopotutto.»
Axel non disse nulla.
Sospettava che la sua piccola vecchia amica stesse per aggiungere qualcosa
d’importante.
E infatti,
all’improvviso, lei si voltò a guardarlo.
«In fondo sono
contenta che l’ultima cosa di cui Demyx mi ha
parlato sia stato tu.»
I suoi occhi erano
limpidi, senza più tracce di lacrime. Per la prima volta da che lui
ricordasse, sorrideva.
Un sorriso identico a
quello di suo fratello.
Un sorriso davanti al
quale Axel non poté che abbassare lo sguardo.
Sulla pista, la SK-8 era
sparita. Il tabellone segnava già i nuovi punteggi. Era il turno degli HawkRunners.
«E ora»
annunciava lo speaker, «vogliate accogliere con un applauso...»
La sentì alzarsi
in piedi; allora sollevò lo sguardo su di lei.
«Abbi cura di te, Axel.»
«Anche tu, Xion.»
«Sì.
Anch’io.» Lo ripeté come se non ci credesse fino in fondo,
ma la sua voce non tremò. Si chinò a baciargli leggera una
guancia. «E saluta Roxas da parte mia.»
«Lo
farò.»
Un attimo dopo, era
sparita come era apparsa.
* * *
«... Hayner!»
Roxas inspirò
profondamente, cercando di calmarsi.
Non era solo adrenalina
quella che gli scombussolava lo stomaco. C’erano tante, tante cose,
troppe.
Una volta aveva sentito
dire che davanti al destino si è portati a riconsiderare tutta la
propria vita. Certo, lui non stava fronteggiando
il destino, ma non poteva fare a meno di rivivere tutto ciò che lo aveva
portato a quel punto.
«... Olette!»
Vide uno skateboard
bianco, rosso e blu chiuso in un armadio. E il giorno in cui aveva riaperto le
ante.
Vide gli occhi dei suoi
genitori, sentì le loro parole. E l’attimo in cui si era svegliato
e aveva capito.
Vide il disegno di una
sedia a rotelle, perso nel vento fuori dalla finestra di una stanza bianca
d’ospedale.
Vide una macchia di
sangue sul proprio fianco.
Vide la scala antincendio
del suo condominio, illuminata dalla luna, portatrice di persone nuove e di
speranze insperate.
«... Pence!»
Poi gli occhi tornarono
al presente, alla stessa tavola bianca, rossa e blu. Sarebbe stata la prima
volta, dopo due anni.
«E... Roxas!»
Il naufragio si era
concluso. Era il momento di risalire la riva e proseguire il viaggio.
Fece mente locale per
l’ultima volta; visualizzò con chiarezza nella mente il fattore
comune, l’elemento alla base di ognuno di quei pezzi della sua vita.
Questo è per te, Axel.
Mise il piede sulla
tavola, prese fiato e slancio, e seguendo Hayner, Olette e Pence uscì alla
luce del sole.
* * *
Sembrava quasi che volasse.
Axel ammirò tutti i
suoi movimenti, ogni singolo guizzo delle sue gambe, ogni minimo dettaglio del
suo talento – e anche se le urla di Sora e dei suoi amici erano
assordanti, gli sembrava che il mondo non esistesse più. Tutto
cominciava e finiva con lui, perché tutto era cominciato e sarebbe
finito con lui.
Fu soltanto quando gli
applausi scroscianti del pubblico decretarono la fine dell’esibizione che
si scosse.
Lui non era un esperto
in materia, ma i punteggi sul tabellone parlavano chiaro. Gli HawkRunners si erano appena
classificati per la gara successiva.
Gli avevano detto che
era la prima volta che si scontravano direttamente con la SK-8 prima delle
semifinali; chissà, magari il cambiamento avrebbe portato fortuna anche
per l’ultima fase del campionato. E per qualche motivo sentiva che ora il
peggio era passato, che tutto sarebbe andato solamente in meglio.
Un po’ di
ottimismo poteva anche concederselo, no?
La folla cominciò
a disperdersi e Axel si alzò. Lo vedeva
ancora, sul circuito, circondato dai suoi compagni. Non partecipava al giubilo
di Hayner, Pence e Olette: sembrava guardarsi intorno, quasi spaesato, in cerca
di qualcosa o qualcuno.
Axel si allontanò da
Sora.
Cercò di
raggiungerlo, ma la ressa glielo impedì; allora si fermò al
margine della pista, gli occhi fissi sulle schiere di ragazzi che si erano
appena tuffati sui falchi per sollevarli in trionfo.
Anche a quella distanza
lo vide sottrarsi alle mani aperte e agli abbracci pronti, continuare a cercare
con lo sguardo – finché con lo sguardo si fermò su di lui.
Soltanto allora, Roxas sorrise. Felice come mai l’aveva visto.
E questa era la cosa più bella che avesse davvero ammirato su
quella pista.
Il ragazzo si fece
strada tra amici e sconosciuti, diretto verso di lui. Quando la distanza tra di
loro fu dimezzata cominciò a correre.
Axel non si sarebbe
meravigliato troppo se lo avesse visto volare per davvero.
La ragazza che aveva rifiutato il proprio nome si
guardò indietro per un’ultima volta, prima di salire
sull’aereo che l’avrebbe allontanata da un altro posto ancora.
Sapeva che stavolta si
stava lasciando alle spalle ben più di quanto avesse abbandonato le
altre volte.
Le mancavano
già, quei pochi giorni in cui si era ritrovata, in cui si era sentita di
nuovo viva. Le mancavano ma, stranamente, non era triste al pensiero di
lasciarseli alle spalle.
Forse le bastava averli
vissuti. Sarebbe stato peggio, se non ci fossero mai stati. Ma così,
almeno, le rimaneva dentro qualcosa.
Si erano ritrovati.
Si voltò e li
seguì – suo padre e sua
madre – sulla rampa di scale. Non sapeva se sarebbe mai tornata, ma
sperava di poterlo fare, un giorno, per rivedere la tomba di suo fratello e
magari sapere che il suo essere giustiziato aveva trovato giustizia...
No, in realtà
non era per questo.
Avrebbe voluto
tornare anche solo per ringraziarlo.
Quando il portello
si chiuse e tutti trovarono i loro posti, lei chiuse gli occhi e si
concentrò sul rombo dell’apparecchio che iniziava a muoversi,
pensando ancora con gratitudine a Dem.
Aveva mantenuto la
promessa.
Dopo tanti anni, finalmente, la ragazza senza nome era di nuovo felice
di chiamarsi XionMizu.
Ci
tengo a ringraziarvi tutti, uno per uno, perché è stato per voi
che ho deciso di pubblicare questa storia che già non mi convinceva più
e perché è stato per voi che – soprattutto – non ho
rinunciato all’idea. Grazie dunque infinitamente:
a
_Ella_, Kisshou, fragolottina, BlackRuri, ChibiSerenity, Little Duck, SyranjilSarephen, _Nick_, habanera, Jericho XVIII, Lightvampire,
Francesca Akira89, Axellina, Dead Master e Kiku J, per le meravigliose recensioni che di volta in volta mi hanno
allietato pomeriggi e serate interi, sperando di non averli delusi;
a
Axellina, BaMbI 12, BlackRuri, ChibiSerenity, Dark Angel, Dead Master, DelenaWincest, Francesca
Akira89, Frozen Ronnie, habanera, Kisshou, Lightvampire, Little Duck, RedFlame, RokuXion_And_AkuRoku, Yami no Koshakufujin, _Ella_,
_Nick_e
___Faxas, per aver riposto in questa storia tanta fiducia da aggiungerla
alle preferite, sperando non abbiano dovuto pentirsene;
a
DelenaWincest,
eleonor97, KairiSkywalker, Lorenz_123, Niah,
verry e _Nick_, per averla aggiunta alle storie
ricordate;
a
ale94, Axellina, Ayesha, Bibi_, ChibiSerenity, Crazy_Bunny, DelenaWincest, fragolottina, Ichigo06, Jericho XVIII, Juliett_94, ka93, KaoruDupre, Kiku J, Lightvampire,
LilRomantic Girl,
LittleKairi14, Lycoris, Mikhi, pralinedetective, RikaaKawaii, RokuXion_And_AkuRoku, Shapira, utopico e distopica,
WiccaGirl,
Yami no Koshakufujin, _Ella_e ___Faxas per averla seguita fin dove
non avrei mai pensato di arrivare;
e
a tutti i lettori che in questo momento stanno leggendo queste ultime righe.
Spero
di essermi meritata almeno una minima parte del vostro interesse. Giuro che
sono sincera. <3
Se
ho dimenticato qualcuno è per via della mia distrazione cronica, non
certo perché il suo passaggio sia passato inosservato.