Regina dei cristalli

di Bec77
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I ***
Capitolo 2: *** Capitolo II ***
Capitolo 3: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Capitolo I ***


La regina dei cristalli
Regina dei Cristalli

Capitolo I

Sofia era una bambina sempre ammalata. I medici non sapevano spiegarsi il perché, e ogni volta che la madre li chiamava e chiedeva se c'era soluzione loro alzavano le spalle e scuotevano la testa; guardavano quella bimba così gracile nel suo lettuccio, ignara di tutto e sorridente, con occhi lucidi.
Sofia guardava sempre fuori dalla finestra, mattino pomeriggio e sera. Sembrava attendere qualcosa, sempre ferma immobile in quella posizione. La madre la guardava e piangeva, scuoteva la testa e usciva dalla stanza senza far rumore. Sofia non la chiamava mai indietro, sapeva che la mamma soffriva anche solo a guardarla. La bimba si era arrangiava, sapeva ormai cavarsela da sola.
Sofia non aveva bisogno di mangiare o bere. La madre le preparava sempre un pasto caldo e dei grandi bicchieri di latte, che posava sul comodino a fianco del piccolo letto. Ma così come li metteva lì la mattina, alla sera li ritrovava.
Sofia era una bambina strana, non solo per il suo atteggiamento: i suoi occhi erano grandi, color della giada, e i suoi capelli lunghi, lisci e lucidi come l'onice; la sua pelle era perlacea, così chiara da sembrare trasparente. Molte volte sua madre, quando entrava nella stanza per rimboccarle le coperte e la vedeva investita dalla luce lunare, la scambiava per un fantasma. Doveva trattenersi per non lanciare un urlo.

“Mamma?” chiamò un giorno. La bimba aveva una voce così sottile che la madre credette di aver udito solo uno spiffero di vento. Si girò: Sofia la stava guardando con i suoi occhioni febbricitanti.
“Dimmi, tesoro.”
“Posso uscire?”
La madre la guardò stupita. “Sei ammalata, tesoro. Faresti meglio a stare sotto le coperte.”
La bimba la guardò con un'espressione corrucciata per un attimo, salvo poi arrendersi e tornare a guardare fuori dalla finestra.

Sofia parlava raramente. Dopo quell'episodio, però, in breve tempo la bimba parlò più di quanto avesse fatto in sei anni di vita. Erano continue domande sull'esterno, sul mondo.
Un giorno accadde qualcosa: la madre di Sofia, mente la bimba si stava facendo un bagnetto nella tinozza, svuotò l'unico cassetto del comodino. Trovò delle pietre: grandi e piccole, brillanti e opache, e tutti di mille colori diversi. Le prese in mano senza crederci, senza riuscire nemmeno a parlare. Le pietre più grandi erano tutte di giada, e fra di esse c'era persino una pepita d'oro.
“Che cosa hai fatto?!”
La donna si girò. Dietro di lei c'era Sofia, avvolta in un asciugamano ormai vecchio, con i lunghi capelli gocciolanti e gli occhi pieni di lacrime; la sua faccia era trasfigurata dalla paura e dallo stupore. Quando si girò, la madre trovò solo una cosa da chiedere, con un filo di voce.
“Dove le hai prese, Sofia?”
La bimba non le rispose. Invece, ella corse e s'inginocchiò, raccogliendo tutte le pietre preziose in pochi istanti. Le ripose con cura all'interno di un fazzoletto bianco, chiudendolo con un nodo stretto, accurato. Poi le abbracciò, come se fossero il suo tesoro più grande. E pianse.

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Capitolo 2
*** Capitolo II ***


La regina dei cristalli
Capitolo II

Sofia diventava sempre più strana man mano che i mesi passavano. Da quando la madre aveva trovato le sue pietre, la bimba non se ne separava mai. Ogni volta che la donna entrava lei le allontanava, in modo da non fargliele sfiorare nemmeno per sbaglio.
Sofia stava diventando pazza. Questa era la conclusione dei medici. Ma la madre non si voleva arrendere: voleva scoprire come la sua bambina fosse entrata in possesso di quelle pietre preziose. Per farlo rimase con lei giorno e notte, dormendo sul pavimento scomodo e duro, avvolta solo da una coperta troppo leggera per la stagione invernale.
All'inizio non riusciva a tenere gli occhi aperti, si addormentava quasi subito. Pian piano, però, si abituò, e i suoi occhi cominciarono a rimanere aperti sul mondo reale sempre più a lungo. Fu in quel periodo che accadde: una notte, mentre guardava fuori dalla finestra, qualcosa di mosse.
Le ci vollero molte notti per capire di cosa si trattasse, e anche molta pazienza, poiché l'ombra sgusciava sempre da una parte all'altra molto velocemente, impedendole di identificarla. Scoprì infine che si trattava di un gatto, pelle e ossa e un po' sgraziato, dal pelo corto e opaco alla luce della luna. La prima volta che si fece vedere anche da lei la scrutò con diffidenza, stando attento a rimanere lontano; lo stesso fece lei, limitandosi a notare come invece sembrasse in sintonia con sua figlia, e come ogni tanto portasse un pezzo di stoffa in bocca, che depositava sul materasso bitorzoluto del letto.
Sofia non le aveva rivolto nemmeno un cenno d'attenzione fino a quel momento. Eppure quella volta si girò verso di lei, guardandola con i suoi grandi occhi verdi come se la vedesse per la prima volta. Non le sorrise, non fece niente di particolare. La guardò solamente.

La madre aveva rinunciato a parlare con la sua bambina. Tutto il tempo che passavano insieme era fatto di silenzi e brevi sguardi, soprattutto da parte sua. La situazione non cambiò nemmeno quando il gatto nero, improvvisamente, decise che poteva degnarla della sua attenzione: un mese dopo la sua prima apparizione, infatti, il felino la guardò con i grandi occhi gialli e le atterrò a fianco con un balzo, passando sul letto della bambina. Sofia lo guardò attentamente, così come la donna.
Il gatto depositò ai suoi piedi un pezzo di stoffa bianco identico a quello che portava tutte le volte a Sofia. Questo, srotolandosi, rivelò fasciare una pietra preziosa. Gli occhi della donna si allargarono a dismisura.
“Allora sei tu che le porti a Sofia...” mormorò. Dopo qualche attimo di smarrimento afferrò la pietra, rigirandosela fra le mani: era piccola, dalla superficie liscia e chiara. Un turchese, il colore dei suoi occhi. Mentre la stringeva nel palmo della mano, si chiese come un gatto fosse in grado di trovare pietre del genere. Non era per nulla normale.
Quella, comunque, non fu l'unica volta che il felino le portò delle pietre. Continuò a farlo, e si trattava sempre dello stesso tipo di turchese. Sofia la guardava con occhi sempre più lucidi e febbricitanti; la malattia la stava lentamente logorando da dentro, rendendola sempre più simile ad un fantasma e all'ombra della bimba vitale che era appena nata; e siccome Sofia non le permetteva di avvicinarsi a lei nemmeno di un metro, la madre era costretta a guardarla soffrire. Non poteva nemmeno sperare di starle a fianco durante la notte, poiché Sofia sembrava non dormire mai. Ciò era testimoniato dalle occhiaie sempre più profonde e nere che le circondavano gli occhi.
Una notte, non sopportando più la situazione, la donna pianse forte, raggomitolandosi ai piedi del letto della figlia. Sofia le lanciò solo uno sguardo, ma quella volta, a differenza delle precedenti, sembrò volerle trasmettere qualcosa: affetto, forse.
Il felino, intanto, aveva cominciato ad andare e venire tutte le notti, portando ogni tanto delle pietre: alla piccola Sofia quelle di giada, e alla madre sempre dei turchesi. Una sera, con voce flebile, Sofia sembrò volerle spiegare il significato delle azioni del gatto.
“Il turchese dovrebbe proteggerti e darti tanta forza per passare l'inverno.” le disse con sicurezza e un tono infantile. Con una mano, intanto, aveva stretto l'ennesima giada, per poi alzarla e metterla in mostra. La guardò con occhi lucidi prima di farla cadere sul materasso, assieme alle altre. In risposta, la madre strinse la sua nel pugno, ancora indecisa su che emozioni avrebbe dovuto provare in quella particolare circostanza.

L'inverno, intanto, si era fatto sempre più freddo. Era la vigilia di Natale quando le condizioni di Sofia peggiorarono drasticamente: alla febbre molto alta si erano aggiunte la tosse e un lancinante dolore al petto, di cui la bimba aveva cominciato a lamentarsi il giorno prima. Quella mattina sua madre si alzò di corsa, si coprì ed uscì di casa in fretta per andare a chiamare il medico.
A visita terminata, il dottore prese la giovane madre da parte e le diede la terribile notizia.
“Sua figlia non passerà il Natale, signora. Mi dispiace molto...”
Il mondo le crollò addosso. Accompagnò l'uomo fuori dalla porta in uno stato di choc, quindi tornò nella piccola stanza con addosso la sensazione di essere schiacciata da un peso insostenibile. Sofia era stesa, ben avvolta nelle coperte che il medico le aveva portato quando gli aveva parlato di un'emergenza. La donna si accasciò letteralmente a terra, appoggiando apatica il viso sulle braccia, poggiate a loro volta sul materasso scomodo.
Sofia la guardò con i suoi grandi occhi verdi. Poteva avvertire nella sua voce la fatica che faceva a respirare.
“Non essere triste, mamma. Il gatto me lo aveva detto che sarebbe successo...”
La donna la guardò senza capire, inizialmente. Quando nei suoi occhi apparve un barlume di comprensione e la bocca cominciò a spalancarsi, la bimba parlò ancora.
“Mi ha spiegato che per colpa mia tu saresti morta prima del tempo, perché hai dato a me sei anni della tua vita.” E quando il viso della donna era trasfigurato dall'orrore e dallo spavento, Sofia terminò dicendo: “Così gli ho detto di prendere i miei sei anni e di restituirli a te. E lui l'ha fatto... con le pietre.”
Fu a quel punto che per la prima volta il gatto apparve di giorno. La guardò con i suoi occhi gialli, e in essi la donna poté leggere a chiare lettere quelle poche parole che la spezzarono definitivamente: tua figlia morirà per te. Pazza furiosa, la donna afferrò una delle sei pietre preziose che il gatto le aveva donato e gliela scagliò con ferocia contro, facendolo fuggire. Urlò fino a quando non le andò via la voce e i vicini non chiamarono i medici per farla portare via, temendo che la pazzia della figlia l'avesse contagiata.

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Capitolo 3
*** Epilogo ***


Epilogo


Era successo. Sofia era morta la notte di Natale, nello stesso istante in cui il Salvatore nasceva. Era terribilmente ironico tutto ciò. Ciò che l'aveva ridotta in lacrime nel suo letto d'ospedale, però, era stato il non poter essere al suo fianco nel momento in cui chiudeva gli occhi sul mondo, a tenere la sua piccola manina scheletrica.
Sofia era nata sottraendole inconsapevolmente sei anni di vita, ed era morta per ridarglieli. C'era qualcosa di incredibilmente ingiusto in tutto ciò. Per questo aveva continuato ad urlare tutta la notte, fino a che un sordo dolore al petto non l'aveva costretta a smettere; non le cinghie, non i medici e quelle loro dannate siringhe, ma il dolore. Il dolore per la morte di una figlia che in realtà aveva fatto di tutto per salvarla, senza dirle nulla. Ora riusciva a spiegarsi molte cose, tra cui anche il significato dei suoi sguardi apparentemente apatici. E la donna volle rivivere tutti quei momenti nella sua mente, in una sorta di atto autolesionista; volle ricordarli uno per uno, e piangere per ognuno di essi fino a sentire le tempie martellare per lo sforzo.
Probabilmente divenne veramente pazza, alla fine. I medici non la rilasciarono mai, non le permisero di presenziare nemmeno al funerale della sua bambina. Si chiese mille volte, da dietro le sbarre della sua stanza, mentre guardava il cielo, dove potessero averla sepolta. Amava immaginare una piccola lapide bianca con scritte dorate a fianco a quella del suo amato e defunto marito, morto così presto da non poter nemmeno conoscere la loro piccola Sofia; se li immaginava incontrarsi e conoscersi in Paradiso, nei rari momenti di lucidità durante i quali si accorgeva di avere ancora abbastanza forza per piangere.
Con sé, la donna aveva portato le pietre che la sua piccola Sofia aveva collezionato grazie a quel maledetto gatto. Con regolarità, ogni domenica, la donna le tirava fuori dal cassetto e le disponeva sul materasso, fra le coperte, affiancandoci anche i cinque turchesi che le erano rimasti da quella fatidica mattinata. E fu proprio di domenica che quel gatto apparve di nuovo.
Il felino era sgusciato fra le sbarre, atterrando con un salto elegante sulla sedia posta sotto di esse, e l'aveva guardata con quei maledetti occhi gialli, contro cui lei aveva lanciato tutte le possibili maledizioni negli anni passati. Era troppo stanca per farlo anche in quel momento, però. Lo guardò con rassegnazione, notando ironicamente quanto fosse ingrassato in quegli anni, e come quella sua abitudine di portarsi dietro un fazzoletto con una pietra fosse rimasta immutata.
La pietra, che il felino buttò sul letto, si rivelò essere un turchese. Il sesto, quello che gli aveva lanciato contro. La donna lo prese in mano, muovendosi con esasperata lentezza. Calcolò mentalmente gli anni passati dalla morte della sua bambina.
Sorrise amaramente.
“Sono già passati sei anni. Sei venuto a mietere la mia anima, maledetto gatto?”
Il gatto non si mosse, ma i suoi occhi risposero per lui; ora la donna poteva vederci l'Inferno in quei sue specchi gialli, non più solo parole. Il felino voleva darle un assaggio di ciò che l'aspettava.
Si mosse con estrema lentezza, scendendo dal letto a piedi nudi. Si affacciò un'ultima volta oltre le sbarre, facendo passare una mano e un braccio. Stava scendendo la notte, notò, e le luci colorate della città che si vedevano dalla sua stanza sembravano volerle ricordare il giorno della morte della sua piccola Sofia. Era uno dei rari momenti di lucidità, quello, per cui non si stupì di veder cadere sul muretto bianco della finestra qualche lacrima. Stringendo nella mano il sesto turchese, la donna si girò verso il felino.
“E va bene: facciamola finita, demonio.”




“Mi dispiace molto, signore: sua moglie è stata trovata stamattina, impiccata nella sua stanza d'ospedale. Abbiamo tenuto alta la guardia per un certo periodo, pensavamo fosse fuori pericolo, ma...”
L'uomo dai capelli neri si prese la testa fra le mani, sconvolto e distrutto dalla notizia. Pensò alla piccola Sofia, che stava aspettando fuori da quella stanza di poter vedere la mamma dopo due mesi, e al fatto che non l'avrebbe mai più potuta vedere.
“Ha... sofferto?” chiese con voce tremante.
Il medico si aggiustò gli occhiali sul naso, sospirando indeciso.
“Pare che fosse preda di una delle sue solite allucinazioni quando si è soffocata. Non sappiamo quanto ci abbia messo per... esalare l'ultimo respiro, signore.”
L'uomo si passò una mano sul viso, asciugando le lacrime che, copiosamente, gli rigavano le guance scavate dalla stanchezza. Ancora una volta il pensiero andò alla sua piccola Sofia, e a cosa le avrebbe detto. Si chiese come poteva essere accaduto tutto ciò, per l'ennesima volta. Il medico lo guardò con l'indecisione ben evidente negli occhi, poi finalmente si decise.
“Devo chiederle una cosa.”
“M-mi dica, dot-tore.”
“Da quanto tempo e da quando sua moglie soffriva di queste allucinazioni?”
L'uomo si prese qualche secondo per riordinare le idee, poi, con bocca asciutta e umettandosi continuamente le labbra, rispose al medico con voce ancora singhiozzante.
“E' cominciato tutto quando dodici anni fa ho perso il lavoro. Rita aveva paura che non saremmo più riusciti a riprenderci economicamente – aveva paura della povertà, ed è entrata in paranoia. In più era appena nata Sofia...” Si fermò un attimo per riprendere il respiro. “Rita non voleva Sofia. Cercava di non darlo a vedere, riempiendola di premure come avrebbe fatto, secondo lei, una madre normale, ma non riusciva a non darlo a vedere. Così ha finito per entrare in depressione e... dopo un po' di tempo ha cominciato ad avere le allucinazioni: la trovavo la notte stesa per terra con una coperta, nella camera di nostra figlia, con gli occhi sbarrati e rivolti alla finestra; mormorava qualcosa ogni tanto, e nominava spesso un gatto e il nome di nostra figlia.”
Il medico, che aveva preso appunti in silenzio, fece un cenno d'assenso.
“Capisco. Mi risulta che prima di ricoverarla l'avete tenuta in casa per circa sei anni, è corretto?”
“Sì. Pensavamo che si sarebbe potuta riprendere... ma dopo sei anni non ce l'ho più fatta. Mi distruggeva vederla ridotta in quello stato. Addirittura non mi guardava più, non mi vedeva più... come se per lei fossi morto.”
Il medico sfogliò un rapporto.
“Sono state trovate delle pietre preziose sul letto di sua moglie, signore.”
L'uomo dai capelli neri si tirò su di scatto, sorpreso.
“Oh. Allora le aveva ancora con lei...”
“Sa cosa potevano significare per la signora, o se avevano qualche ruolo particolare nelle sue allucinazioni?”
L'uomo deglutì.
“Gliene regalavo una, a lei e a nostra figlia, ogni tanto. Rita ha sempre amato le pietre preziose, fino ad esserne ossessionata. Per lei avevano ognuna un significato... La sua pietra preferita era il turchese. Era anche la mia, perché era il colore dei suoi occhi.”
A quel punto la voce dell'uomo si spezzò, e con la testa fece segno di non farcela più.
Il dottore, quindi, lo congedò facendogli le sue condoglianze.

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