Mai Nata

di ethelincabbages
(/viewuser.php?uid=65851)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 - Prima di andare via ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 - Hogwarts ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 - Favole ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 - Limiti ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5 - Rosso come il rancore ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6 - Soli a metà ***
Capitolo 8: *** Capitolo 7 - La prima bugia ***
Capitolo 9: *** Capitolo 8 - All my childish fears I ***
Capitolo 10: *** Capitolo 8 - All my childish fears II ***
Capitolo 11: *** Capitolo 9 - Lacrime mentre piove ***
Capitolo 12: *** Capitolo 10 - Fogli dal passato ***
Capitolo 13: *** Capitolo 11 - Don't let him touch you ***
Capitolo 14: *** Capitolo 12 - Non ***
Capitolo 15: *** Capitolo 13 - Scarred ***
Capitolo 16: *** Capitolo 14 - It could have gone that way ***
Capitolo 17: *** Capitolo 15 - Non è ancora l'alba ***
Capitolo 18: *** Capitolo 16 - 'Till Kingdom Come ***
Capitolo 19: *** Capitolo 17 - Insicurezze ***
Capitolo 20: *** Capitolo 18 - Ingiustizie ***
Capitolo 21: *** AVVISO: Mai Nata Ritorna! ***
Capitolo 22: *** Capitolo 19 - Fanny ***
Capitolo 23: *** Capitolo 20 - When I ruled the world ***
Capitolo 24: *** Capitolo 21 - Colpe ***
Capitolo 25: *** Capitolo 22 - Come eravamo ***
Capitolo 26: *** Capitolo 23 - Teorema Blackwood ***
Capitolo 27: *** Capitolo 24 - Giocare alla guerra ***
Capitolo 28: *** Capitolo 25 - Conseguenze ***
Capitolo 29: *** Capitolo 26 - Notturno - Interludio ***
Capitolo 30: *** Capitolo 27 - Hurricane ***
Capitolo 31: *** Capitolo 28 - Bambole in frantumi ***
Capitolo 32: *** Capitolo 29 - Estremi rimedi ***
Capitolo 33: *** Capitolo 30 - Sassolini ***
Capitolo 34: *** Capitolo 31 - Making the green one red ***
Capitolo 35: *** Capitolo 32 - Contro un equilibrio sempre un po' precario ***
Capitolo 36: *** Capitolo 33 - Petali di rosa e Prugne Dirigibili ***
Capitolo 37: *** Capitolo 34 - Waiting on a friend ***
Capitolo 38: *** Capitolo 35 - Goodnight Moon ***
Capitolo 39: *** Capitolo 36 - Feeling so small ***
Capitolo 40: *** Capitolo 37 - Stumble and Fall ***
Capitolo 41: *** Capitolo 38 - Incanti terapeutici e altri palliativi ***
Capitolo 42: *** Capitolo 39 - Tra cenere e polveri ***
Capitolo 43: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Titolo: Mai Nata
Autrice: jaybree
Personaggi: Hermione Granger, Harry Potter, Chris Granger (NP), Ted Lupin, Damian Blackwood (NP), Ronald Weasley, Ginny Weasley, Minerva McGranitt, Victoire Weasley, Nuovi Personaggi
Coppie: Harry Potter/Hermione Granger, Ted Lupin/Chris Granger (NP), Damian Blackwood (NP)/Chris Granger (NP), Ron Weasley/Hermione Granger, Ted Lupin/Victoire Weasley, Harry Potter/Ginny Weasley
Generi: Avventura, Angst, Slice of life, Drammatico, Romantico
Avvertimenti: AU, What if?, (Possibile) OOC
Contesto: Dopo la II guerra magica/Pace
Beta-reading: Bea Potion <3
Supporto Psicologico Eterno: roxy_xyz <3
Disclaimer: I personaggi e le ambientazioni presenti appartengono a J.K. Rowling, Bloomsbury Group, Warner Bros e chiunque altro ne detenga i diritti.

 
Prologo
Un errore.
L’ingrediente caduto per caso nel calderone che manda la pozione in malora, il tremolio delle dita che ti fa cadere la bacchetta, la distrazione che ti allontana dal Boccino d’Oro.
Un’incrinatura sul percorso lineare del destino. Lo sbaglio: quello che non doveva essere, ma che ora non può essere cancellato. Quello che sarebbe potuto essere.
Perché? Vivere, soffrire, piangere?
Niente. Non sei niente. Tu non dovevi essere.
Sei un errore.
Frutto di debolezza. Conseguenza della tentazione. Risultato di una notte dimenticata di solitudine. Figlia di un amore ripudiato. Abbandonata, sbattuta all’angolo, rifiutata, orfana d’affetto, scartata.
Rinnegata.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Capitolo 1 - Prima di andare via ***


Capitolo 1
Prima di andare via
Chriseys Anne Granger. La targhetta col nome sul baule luccicava più del dovuto. Gli abiti, i libri, la bacchetta, e tutte le sue cianfrusaglie babbane erano sistemati con ordine rigoroso, pronti per la partenza. Opera di Hermione, ovviamente.
Da brava e ossessiva sorella maggiore aveva già organizzato tutto in vece sua: anche quell’anno, Chris avrebbe preso l’Espresso il primo settembre, avrebbe raggiunto Hogwarts, trascorrendo il suo sedicesimo anno di vita come era stato per il quindicesimo, e il quattordicesimo, e il tredicesimo, e così via. Ma quello, nel cuore di Chris, non sarebbe mai potuto essere un anno come gli altri.
Chris aveva appena detto addio al corpo freddo della sua mamma, non era ancora pronta a tornare alla vita di sempre. Solo sei mesi, questo il tempo che le era stato concesso per capire, per gestire la malattia e per affrontare la morte. Sei mesi di speranze flebili e paure, di oscillazioni estreme tra la voglia di mettere fine a tutto il dolore, e il bisogno di appigliarsi ai più piccoli e illusori segni di miglioramento.
Si alzò dal proprio letto e si trascinò verso la camera della madre: la stanza dove aveva esalato l’ultimo respiro e rivolto l’ultimo sguardo alle sue due bambine. Sembrava tutto così uguale: l’armadio bianco e lucido, la tv accanto alla foto di suo padre sulla cassettiera, i libri e la piccola croce greca sul comodino. Eppure lei mancava.
Ci aveva provato, Chris, con tutte le sue forze, a far sì che restasse in vita, sana. Aveva messo in gioco tutta se stessa - forse anche un po’ di più. E aveva perso. La ferita sul polso sembrava persino fare più male, ora. Se solo Hermione avesse saputo…
Aveva perso e ora non era rimasto niente. Nessun sorriso a metà, nessun rimprovero impaziente, nessun abbraccio di conforto. Se non quella voglia egoistica di averla ancora accanto, ancora per un minuto. Se non la veglia silenziosa, il caffè, e quella stanza bianca e vuota, con il letto rifatto. Ogni cosa in ordine. Tutto perfettamente in ordine, come se non fosse successo nulla.
Si costrinse a lasciare la camera da letto per raggiungere gli altri al piano di sotto. C’erano Hermione e Ron, Harry, Ginny, la signora e il signor Weasley; la seconda famiglia di sua sorella. Sempre così premurosi, così gentili, così scrupolosi e familiari. A Rose e Hugo era stato risparmiato lo strazio di assistere ai funerali, erano bambini ed erano rimasti alla Tana con lo zio George.
Erano sistemati da una parte o dall’altra del salotto, chi con una tazza in mano, chi con lo sguardo vuoto, chi appoggiato al muro con gli occhi stanchi. Sembravano tanti pesci in una boccia: ci si guardava in silenzio, senza riuscire a dire niente che avesse senso o che potesse alleviare il dolore.
Hermione giocherellava sul tavolo con la fede senza molta convinzione: il turbinio di energia che l’aveva travolta prima del funerale sembrava del tutto esaurito, sembrava svuotata. Ron la osservava preoccupato. Harry e Ginny, sul divano, si bisbigliavano qualcosa, e Arthur Weasley, seduto sulla poltrona di fronte il camino, si era appisolato. Fu la signora Weasley, impegnata nel mescolare magicamente qualcosa che pareva essere una grande pentola di cioccolato caldo, a notare la sua presenza.
“Chriseys! Vieni, cara.”
La ragazza si avvicinò agli altri e andò a sedersi sul divano accanto a Harry e Ginny. Hermione aveva alzato lo sguardo e aveva abbozzato un sorriso. A Chris parve di vedere in quel mezzo sorriso un messaggio solo per lei: adesso siamo io e te, bollicina.
Harry le passò un braccio sulle spalle, e Chris appoggiò la testa su quella di lui. Le piaceva lasciarsi abbracciare da Harry, era sempre caldo e protettivo. Era bravo a prendersi cura delle persone, Harry Potter.
E nonostante il taglio sull’avambraccio sinistro bruciasse più che mai, Chris resistette alle lacrime che minacciavano di sciogliersi sul viso.
Nessuno parlava. Quel silenzio faceva più male di tutto il resto: erano come pesci in una boccia incapaci di proferire parola.
“Hai preparato le tue cose per scuola?” le chiese Harry, infine. Anche lui era insofferente ai silenzi.
“Oh, ti pare che ne avessi bisogno? Ci ha pensato qualcun altro,” rispose annoiata e infastidita, adocchiando la sorella, “anche se avevo espresso chiaramente altre volontà.”
“Tornerai a Hogwarts, Chris,” Hermione intercettò la risposta di Harry prima che arrivasse. Cos’era? Si era finalmente svegliata? Il suo tono era calmo, di quella tranquillità pericolosa che non vuole ammettere repliche.
Chris si liberò dall’abbraccio di Harry, irritata dal tono della sorella. “Cosa ca-,” si fermò, mordendosi il labbro, prima di poter dire qualcosa che avrebbe offeso la sensibilità di gran parte dei presenti. “Non ho più niente da fare lì.” Non era una conversazione che avrebbe voluto tenere davanti a tutti quegli occhi.
“E cosa vorresti fare qui?” La logica. Il punto forte di Hermione Jean Granger-Weasley era la sua esasperante razionalità: trovava sempre il fallo nelle argomentazioni emotive della sorellina. A Chris bastava aver voglia di mollare tutto per farlo, a Hermione servivano le motivazioni.
“Forse dovreste parlarne dopo, con calma. Chriseys, prendi un po’ di cioccolata.” Come sempre Molly Weasley metteva le pezze dove colava l’acqua.

 
*

“Ehi,” Hermione si fermò sulla porta, non voleva urtare i sentimenti di Chriseys più del necessario. Chris, da parte sua, era stesa sul marmo gelido del pavimento, con le mani sotto la testa e gli auricolari nelle orecchie; teneva lo sguardo fisso sulle stelle di plastica, applicate sul soffitto fin da quando era piccina. “Ce la facciamo quella chiacchierata?”
“Non saprei, sei ancora della tua opinione?” rispose senza neanche alzare la testa.
“Ma mi senti con quegli aggeggi nelle orecchie?” Hermione si sedette ai piedi del letto e offrì una mano a Chris per tirarsi su.
“Sto ascoltando il mare,” spiegò, alzandosi e appollaiandosi accanto alla sorella.
“Il mare? C’è bisogno di metterlo nelle cuffie, il mare?”
“Beh,” scrollò le spalle, indicandole la visuale che concedeva la finestra della camera. Kensington Park Gardens in tutto il suo splendore tardo pomeridiano: gente affaccendata di qua e di là, auto, turisti persi per le viuzze londinesi e impiegati impazienti di poter tornare a casa.
“Ti manca?” chiese Hermione, cercando di incontrare gli occhi della sorellina. Ti manca il mare? Ti manca mamma? Una di quelle domande che sentiva l’esigenza di farle, anche se conosceva la risposta.
“Da morire.” La ragazza finalmente le concesse uno sguardo diretto. Era come guardarsi allo specchio: le stesse ciglia e sopracciglia, gli stessi occhi arrossati e stanchi, le stesse borse, causate dalla veglia e dalle ansie, le stesse lacrime non ancora asciugate, versate per troppo e da troppo poco tempo. Solo il colore differiva di poco, il nocciola degli occhi di Hermione, nello sguardo di Chriseys sfumava nel verde.
“Vieni?” propose, con un mezzo sorriso, porgendole la mano.
“Dove? E lasciamo Ron da solo?” protestò Chris.
“Ron? Non si accorgerà neppure della nostra assenza.” Senza finire la frase, afferrò il braccio della sorella, e la condusse nel turbinio della Materializzazione Congiunta.
Dover. Le Scogliere Bianche, dove il vento e il mare ti sconvolgono lo stomaco. Dove i gabbiani cantano a modo loro – urlano. Dove si accavallano ricordi e incertezze, e paure antiche. Terreno di speranze, terreno di conquista, terreno di sconfitta. Il tratto preferito di costa di poeti e turisti, e anche da Hermione.
“Oh, Merlino! Adesso vom-,” Chris iniziò a lamentarsi non appena poggiati piedi a terra, odiava la Materializzazione, ma non terminò la frase, colpita dall’immagine che le si parò davanti. “Quella è la…”
“Francia,” Hermione notò con soddisfazione, e un po’ di serenità in più, l’espressione di ammirazione sul viso di Chris. “Sembra così vicina.”
È così vicina!” Senza pensarci troppo, Chris si accovacciò a terra, continuando a fissare l’altra riva e l’oceano gorgogliante. Eccola, la sua musica.
Hermione si sistemò lentamente accanto alla sorellina, per un po’ si limitò a osservarla in silenzio. “Chrissie, perché non vuoi tornare a Hogwarts?” chiese.
“Non ce la faccio,” incominciò, “Io non… Non ho voglia di tornare a guardare le solite facce, come se non fosse successo niente. Farò… farò qualcosa. A Londra, a casa.” Sembrava aver paura di alzare gli occhi, e Hermione capì che forse non era poi così sicura di questa drastica decisione.
“Qualcosa? Questo è il tuo piano? Chris, non fare la sciocca, lo sai che non puoi… non ti lascerò a casa da sola.” Chris annuì. “E sai anche che posso obbligarti a tornare a scuola.” Annuì di nuovo. “Non costringermi a farlo.”
“E cosa proponi?” Finalmente Chriseys si voltò. “Che torni lì a far fermentare pozioni inutili, mentre tu chiudi a chiave la nostra infanzia e ci dimentichiamo il nostro passato?” Presto Hermione sarebbe tornata nella sua casa, forse l’indomani stesso, e la casa che aveva visto così tanto dei loro momenti di bambine, dei momenti felici coi loro genitori, quando erano ancora una famiglia unita, sarebbe rimasta abbandonata.
“La vita deve continuare, Chris.” Hermione mormorò il nome a metà voce. Come se non ci credesse neppure lei.
“Io non voglio dimenticare.” Tirò indietro il polso, portando la mano a protezione, mascherando appena una smorfia di dolore.
“Cos’hai?”
“Nulla,” fu l’evasiva risposta.
“Chrissie, ascoltami. Nessuno vuole dimenticare. Devi solo vivere. È questo che ci ha chiesto, vivere. Per lei. Per la tua musica.” Indicò vagamente l’aria che le circondava, la Francia dall’altra parte, i gabbiani, il mare.
Chris non rispose. Mosse leggermente l’indice, come per dirle di girarsi. Era un piccolo gesto di complicità, vecchio quanto il loro legame. Hermione si voltò come richiesto, e si appoggiarono schiena contro schiena.
“Quando sei stata in questo posto?” chiese la più piccola, lanciando sassolini in aria.
“Molti anni fa, quando cercavamo gli Horcrux.” Il termine Horcrux, come ogni riferimento a Lord Voldemort e alle guerre magiche, faceva sempre rabbrividire Chris. Hermione percepì il suo fremito. “Ancora paura di Vold-,”
“Non fare quel nome. Lo sai che non mi piace. È colpa tua e del tuo maritino, che vi divertivate a raccontare storie inquietanti a una bambina.”
“Hugo e Rose adorano sentire i racconti sulle nostre avventure.
“Hugo e Rose sono figli di Ron Weasley.” Hermione rise di cuore al tono usato da Chris nel pronunciare il nome di suo marito. “Forse un giorno mi piacerebbe ascoltare l’avventura che vi ha condotto qui. Forse.”
“Vorrei davvero che tornassi a Hogwarts,” sussurrò infine Hermione.
“Come Harry.”
“Come, scusa?”
“Vorrei davvero che tornassi a Hogwarts: le stesse parole che mi ha detto Harry prima di andare via stasera.”

 
Note: L’indirizzo di residenza della famiglia Granger non è noto nel canone. Nell’organizzazione di questa fanfiction, casa Granger si trova al numero 28 di Kensigton Park Gardens, nella zona di Notting Hill a Londra.
Chriseys, come Hermione d’altronde, è un nome di origine greca, significa ‘splendente come l’oro’ ed è omofono di Chryseis, Criseide, personaggio appartenente alla mitologia greca, come Hermione d’altronde.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Capitolo 2 - Hogwarts ***


Capitolo 2
Hogwarts
 
Helen Granger era distrutta: magra, stanca, silenziosa, immobile sotto le coperte. Gli occhi semichiusi probabilmente cercavano quel meritato riposo, quel meritato lungo sonno. Dal braccio destro si estendeva il tubo che la legava alle buste per la flebo; non riusciva più nemmeno a nutrirsi da sola. Chris la osservava dal lettino rimovibile che avevano trasportato in camera, perché ci fosse qualcuno che restasse con lei anche di notte. Guardava il volto incavato e si sentiva fragile, le mani rachitiche e si sentiva impotente, i capelli radi e si sentiva furiosa, e molto, molto, molto vile. Avrebbe voluto scappare via, dimenticare, fingere che nulla di tutto ciò stesse accadendo.
Ricacciò indietro le lacrime. Strinse forte la fialetta che aveva in mano. Doveva decidersi ad agire. Era l’ultima chance.
Chriseys, devi farlo, puoi farlo.
Aspettò finché non finì l’ultima goccia dell’antidolorifico.
È l’unico modo per tenerla in vita.
Con un semplice spillo, preso in prestito dal cassetto del cucito di Helen, tracciò la stella pentagonale sul polso sinistro, sulla vena, lasciando cadere il proprio sangue nella fiala.
Con le mani tremanti, e quasi senza guardare, riversò il contenuto dell’ampolla nella nuova sacca di flebo.
La madre si riscosse dal torpore, accorgendosi della sua presenza. Chris si avvicinò al suo viso scavato, la donna le fece cenno di porgerle il bicchiere d’acqua che stava sul comodino. Dopo aver bevuto non più d’un sorso, aiutata da Chris, le disse a bassissima voce “Tesoro, non funzionerà.”
Lacrime salate cominciarono a bagnarle le labbra e l’intero viso. “No! No! Funzionerà, lo so. Deve…”
“Chris! Chriseys! Ehi, va tutto bene, è solo un sogno,” udì una voce calda coccolarla. Ted. Lo avrebbe riconosciuto anche sotto sedativi. Acciuffò la mano che le porgeva.
“Diglielo anche tu, Teddy, diglielo che funzionerà, che deve funzionare!”
“Chris! Chris. Sveglia, su.”
Sentì la mano di Ted lasciare la sua, e posarsi sotto il suo mento, sulla guancia; poi le diede un leggero colpetto. Aprì gli occhi e infine si rese conto di quello che la circondava. Le luci gialle, la campagna scura, il rumore incessante: il treno. Era in una carrozza sull’Espresso per Hogwarts, per il suo sesto anno di scuola. Ted accanto a lei, e Victorie di fronte. Perché Ted era accanto a lei e Blondie di fronte? Ah, si era spostato per svegliarla. Sua madre, nel suo sonno. Ormai poteva rivederla solo in sogno.
Strabuzzò gli occhi un paio di volte e si liberò delle cuffie, che durante il sonno erano cadute a circondarle il collo a mo’ di cappio.
“Ted, mi hai picchiato?” biascicò.
“Ti ho svegliato!” esclamò lui, per difendersi dalle scintille che iniziavano a tornare negli occhi di Chriseys, “Hai fatto un brutto sogno…”
“Già, ho… ho url-, parlato tanto?”
“No, solo un po’, ma ti agitavi molto,” le spiegò Victoire, che sembrava preoccupata almeno quanto Ted. Era davvero in uno stato così pietoso che anche Victoire Weasley finiva per compatirla? Si castigò mentalmente per essersi mostrata debole davanti ai suoi due compagni, e per aver goduto delle carezze consolatorie di Ted di fronte alla sua fidanzata.
“Sto bene, ora,” mormorò, allontanandosi dall’amico e rivolgendo lo sguardo oltre il finestrino. Buio.
“Sicura?” domandò lui, non troppo convinto dai bisbigli di lei.
“Era solo un sogno,” lo rassicurò decisa.
“Bene,” il ragazzo si mise in piedi, e acciuffò una sacca che si trovava nel portabagagli sulle loro teste, “è il caso di cambiarci allora. Stiamo per arrivare.” E con questo, uscì dallo scompartimento, per dirigersi alla toilette.
 
*
 
La peculiarità principale del fascino di Hogwarts era il calore domestico che trasmetteva a tutti gli studenti: le mura alte e protettive, i caminetti accesi di stanza in stanza, le pietanze prelibate che gli elfi preparavano, i letti morbidi e caldi che aspettavano i loro proprietari nei dormitori. Hogwarts era stata per Chris, come per tanti altri, un posto felice, il luogo dove ogni preoccupazione veniva lasciata oltre le mura.
Era stata. Perché quello che riusciva a vedere ora erano solo volti pietosi o indifferenti, e l’uno e l’altro le davano in egual modo fastidio; o sorrisi sereni di bambini, che aspettavano impazienti le meraviglie che il mondo avrebbe offerto loro – innocenti, ciechi, e beati.
Durante tutta la cena e la cerimonia di smistamento dei ragazzi del primo, si era sentita piuttosto insofferente ai saluti dei suoi compagni e alla festosa aria di accoglienza che impregnava la sala. Eppure non si decideva a salire su, rifuggiva l’idea di rimaner da sola, o in compagnia dei suoi soli pensieri e di quella voce, rifuggiva l’idea di addormentarsi e rifare quel sogno. Non c’era pace nella sua mente.
Si era separata dai suoi due compagni di viaggio fin dall’ingresso in Sala Grande; Ted era stato accolto a braccia aperte dai suoi Tassorosso, e Victoire si era diretta senza indugio al tavolo dei Corvonero. Chris fece una breve ricognizione del grande tavolo dei professori. Tutti al loro posto. Negli anni precedenti c’era stata, tra gli studenti, una serie di scommesse su chi sarebbe andato in pensione per primo tra la preside McGranitt e il professor Vitious, ma nessuno dei due dava segni di cedimento: una troneggiava nella sua seggiola centrale, e l’altro sedeva con l’aria solenne e i piedi penzolanti nel posto di fianco.
Chriseys intercettò in un lampo lo sguardo di Harry, che stava seduto tra il professor Paciock e Hagrid. Lui le sorrise, sollevato di vederla finalmente arrivare, e Chris ricambiò il sorriso, prima di prendere posto accanto ai suoi compagni di Casa.
Si preoccupò di sembrare interessata ai nuovi arrivi al suo tavolo e alle chiacchiere dei suoi colleghi. Tobey Geeles, figlio di un ricercatore pozionista, stava raccontando degli esperimenti a cui aveva assistito quell’estate nel laboratorio del padre, mentre Susy Sprite parlava del suo viaggio ai Grandi Laghi canadesi. L’unico sguardo che si sentiva di sostenere al tavolo dei Grifondoro era quello di Sybil, la dolce e saggia Sybil Joyce, la sua compagna di stanza. Syb le parlava benevolmente nella sua solita maniera, sincera in modo disarmante e del tutto priva di filtri, con quel suo modo di fare che spesso la portava a dimenticare di collegare cervello e apparato locutorio e che l’aveva resa famosa per le sue espressioni senza senso apparente, e le sue frasi memorabili. Chris credeva sul serio che Sybil fosse una di quelle poche persone in cui riporre la propria fiducia.
Non appena la preside li congedò, Geeles, in quanto prefetto, prese in consegna i nuovi arrivati, mentre gli altri compagni si attardavano dietro. Chris era in procinto di perdere la pazienza, insieme a Sybil, con una delle rampe di scale mobili quando qualcuno le chiamò.
“Signorina Joyce! Signorina Granger!”
Odiava cordialmente i tentativi di Harry di essere formale con lei quando si trovavano a scuola. Era ridicolo sentirsi chiamare ‘signorina Granger’ proprio da lui, che altrove era capace di viziarla come il migliore degli zii o di farle il solletico fino a farle male, oltre che di prendere in consegna i suoi malumori e risolverli un po’ a modo suo.
“Professor Potter,” salutò Sybil, arrossendo. “È bello ritrovarla.” Fin dal terzo anno, forse per l’aria di mistero e potenza che il passato del Salvatore del mondo magico ispirava, o forse per i suoi brillanti occhi verdi e sempre un poco tristi, la giovane Joyce provava un amore impossibile, e del tutto platonico, per l’affascinante professore di Difesa contro le Arti Oscure.
“Saliamo insieme?” Harry chiese loro impaziente, come se fosse davvero convinto che avrebbero potuto dirgli di no.
“Certo,” risposero le ragazze in coro.
“Tutto bene?” si informò, invitandole con un gesto della mano a salire prima di lui.
“Immensamente,” Sybil asserì sognante, con lo sguardo su Harry, che ancora non aveva imparato, dopo anni e anni di pratica come fronteggiare le adolescenti cotte di lui. Sorrise impacciato alla sua studentessa, ma si rivolse subito dopo alla persona il cui benessere gli stava più a cuore.
“Chriseys?” E Chris si ritrovò addosso non solo lo sguardo preoccupato di Harry, ma anche quello di Sybil, che d’un tratto sembrava aver ritrovato il senno e aver ricordato lo stato catatonico in cui la sua compagna era arrivata quella sera.
“Bene,” disse secca. Balla. Ma cosa avrebbe dovuto rispondere?
Bene. Quante volte Harry stesso aveva utilizzato quella parolina con un tono fintamente deciso, per dissimulare una tranquillità che non c’era? Chris glielo aveva visto fare, e sapeva che la sua asserzione non sarebbe passata come sincera. Harry scosse la testa.
“Ti ha chiesto mia sorella di tenermi d’occhio?” L’uomo finse di cadere dalle nuvole. “Non ho intenzione di distruggere la scuola, se è questo che vi preoccupa. Tanto Syb non me lo permetterebbe mai, vero?” dicendo ciò estrasse una lettera dalla tasca della divisa e la porse a Harry.
Mentre lui l’apriva, Sybil rispose: “Mai,” assicurò. “Magari giusto l’aula di pozioni…” Non è che avesse dei grossi problemi nella materia, ma la professoressa Light non aveva molta stima delle sue uscite non previste e la ragazza rispondeva di conseguenza.
Sia Chris che Harry, mentre leggeva, si lasciarono scappare un risolino all’aria pensierosa e tramante che Sybil aveva assunto. Poi l’uomo riconsegnò la lettera alla proprietaria.
“Quando è arrivata?”
“Prima ancora che entrassi in Sala Grande, ti rendi conto? Se aveva così paura di lasciarmi libera perché mi ha quasi costretto a tornare?”.
“È solo in ansia. Dovresti capirla. Vuole solo il tuo bene.”
“E perché dovrebbe deciderlo Hermione quale sarebbe il mio bene?” Harry aprì la bocca per dir qualcosa ma la richiuse immediatamente.
Nel frattempo erano arrivati davanti al ritratto della Signora Grassa. Sybil disse distintamente la nuova parola d’ordine: artemisia. E la Signora Grassa lasciò che l’ingresso alla Sala si spalancasse.
Infine, Harry si decise a parlare: “Perché è tua sorella, e ti ama più di se stessa. ” E con ciò scoccò un sonoro bacio sulla fronte di una Chriseys che definire allibita sarebbe stato un eufemismo. “Perché mi guardi così? Non è mica la prima volta.”
“Non è la prima volta che baci Chris, ma di certo è la prima che lo fai con la ‘signorina Granger’” disse, indicando la platea di compagni di Casa che dalla Sala Comune potevano aver visto la scena.
Harry dismise il tutto con una scrollata di spalle e un saluto frettoloso. A Chris parve però di sentirgli borbottare qualcosa come: “Ti assicuro che non è la prima volta che bacio  una signorina Granger.”

 
Note: I nomi dei genitori di Hermione erano sconosciuti ai più quando per la prima volta pubblicai questa storia e sono sconosciuti ai più ancora al momento della revisione. J.K. Rowling ha deciso che nell'infinità di informazioni rilasciate da Pottermore questi due nomi non siano poi importanti. La scelta di quale siano i nomi di battesimo del signore e della signora Granger ricade quindi su di noi lettori e, in questo specifico caso, su di me; con Helen Granger mi sono permessa un'ulteriore strizzatina d'occhi alla mitologia greca. Spero possiate perdonarmela.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Capitolo 3 - Favole ***


Capitolo 3
Favole
 
“Vieni a dormire?” chiese a bassa voce Ron, entrando con calma nel salotto. Hermione era appallottolata di fronte al caminetto, così concentrata che sembrava contare ogni singola scintilla. Al suono della voce preoccupata di Ron, voltò il capo verso di lui e gli sorrise.
“Tra un po’,” bisbigliò. Ron si limitò a scrollare le spalle e ad accarezzarle brevemente le labbra con un bacio a stampo.
“A dopo.” Il suo zoticone personale, sempre a contatto con criminali magici d’ogni sorta, quando si metteva d’impegno sapeva essere d’una delicatezza unica. Gli era grata per questo, e per tanti altri piccoli gesti che ogni giorno della vita che avevano condiviso l’avevano salvata da se stessa. Sapeva di essere in debito di attenzioni nei suoi confronti, ma alcune situazioni non potevano essere curate che con la solitudine. Adesso, Hermione aveva bisogno soltanto del silenzio d’una casa addormentata e di contare ogni piccola fiammella in quel camino bruciante.
Quel pomeriggio aveva lasciato Chris alla stazione di King’s Cross, al binario 9 e ¾, poco prima che l’Espresso partisse. Da quel giorno a Dover, la settimana prima, la ragazza non aveva fatto più alcuna resistenza all’idea di tornare a scuola. Si era adattata alla situazione, aveva detto. Hermione vedeva solo una rassegnazione passiva, così poco tipica di lei, che doveva senz'altro preannunciare qualche guaio. Dannata adolescenza! Mamma, dimmi cosa dovrei fare… si rivolse d’istinto all’unica persona che avrebbe saputo come agire in quel frangente. Peccato che non potesse più risponderle. Quando avrebbe smesso di sentirsi così piccola e impaurita? Gli adulti affrontano il dolore, e sostengono le proprie responsabilità. Gli adulti sanno come ci si comporta. E Hermione aveva sempre saputo come comportarsi, lei era la ragazza con la testa sulle spalle che agiva sempre seguendo il suo naturale buonsenso. Solo, adesso si sentiva una bambina spaventata che aveva perso la sua mamma.
Dei passettini vispi interruppero il corso dei suoi pensieri. Non ebbe neppure il tempo di voltarsi che un fagottino rosso gli si catapultò nelle braccia.
“Mamma, ‘ose è cattiva,” mugugnò Hugo contro il suo petto, mentre l’altra sua figlia, Rose, se ne stava appoggiata al muro con le braccia intrecciate e lo sguardo più torvo che riusciva a fare. L’espressione identica a quella che Hermione dedicava a Ron o Harry nei loro momenti più brillanti da ragazzini.
“Ancora svegli, voi due?”
“Il pupo non riesce a dormire!” rispose la bambina, indicando il fratellino che doveva aver pesantemente urtato la sua pazienza se veniva relegato a ruolo di ‘pupo’. “Non fa che parlare!”
“Non ho sonno!” esclamò lui, alzando la testa verso la madre. “E ‘ose non mi vuo’e ‘acconta’e ‘e favo’e.” Hermione fece un po’ di fatica nel capire quella piccola frase dove mancavano una erre di qua, e una elle di là. “Zia Ch’issie non ha finito di ‘acconta’e i’ p’incipe vo’ante.”
“Aladdin, Hugo. Aladdin, non il principe volante. Non era neppure un principe!” Rose lo corresse, per puro gusto di contraddizione. Ma Hermione aveva imparato a non correre dietro alle perenni discussioni dei suoi due bambini, concentrandosi sempre su un problema alla volta. Molly l’aveva definito ‘istinto di sopravvivenza materno’.
“Rose, che fine hanno fatto la erre e la elle di tuo fratello?” La bambina si limitò a biascicare qualcosa di vago, mentre abbassava lo sguardo verso i suoi piedini scalzi.
“ ‘ose ha fatto poppi!” rispose Hugo per lei. Poppi?
“Rose Jean Weasley. Esigo una risposta.”
“Mamma. Lui continuava a parlare, parlare, parlare, e non stava mai zitto, e io volevo solo dormire! E allora… volevo solo che… zitto.” Rose scattò sulla difensiva: grossi lacrimoni minacciavano di scendere dai suoi occhi.
“Sai che potrebbe non parlare più come prima?” esagerò per valutare la reazione della colpevole. Hugo si strinse ancora più forte a lei, mentre Rose impallidì. “Rose, hai cercato di zittire tuo fratello con la magia,” affermò, severa e preoccupata.
“Sì,” mormorò Rosie annuendo.
Hermione si soffermò a pensare se fosse il caso di chiamare Padma Patil, la sua vecchia compagna Corvonero che era la loro Medimaga di fiducia, e ripassò nella memoria quali contro incantesimi avrebbe potuto usare. Afferrò la bacchetta che teneva in tasca e mormorò “Soluent”, sperando che funzionasse al meglio. La lingua di Hugo fece nuovamente poppi. “Tesoro,” gli si rivolse Hermione, “ti dispiacerebbe dire: ‘non farò dormire mai più Rosie’?”
Hugo ridacchiò e lo ripeté perfettamente nella sua vocina acuta. Hermione tirò un sospiro di sollievo. Rose li osservava con gli occhi lucidi, mordicchiandosi il labbro inferiore, probabilmente piena di mortificazione.
“Rosie,” Hermione stese una mano verso di lei e la bimba la prese titubante, poi si accomodò nell’abbraccio della mamma assieme al fratello, anche se lui non sembrava molto d’accordo. “Mi prometti di fare più attenzione a questi scoppi di magia involontaria?” Non riusciva a essere eccessivamente severa, quando vedeva gli occhi azzurri della sua bimba pieni di lacrime. Rose aveva l’abitudine di punirsi già abbastanza da sola per le marachelle che combinava.
“Mamma, ci racconti la favola del principe volante come zia Chris?” chiese Hugo, una volta che si furono sistemati entrambi tra le braccia di Hermione. “Col tappeto volante, e la principessa chiusa nel castello, e la lampada, tutta d’oro, e la spada!”
“Hugo, forse no-,” tentò di interromperlo Rose, ma Hermione la fermò con un dito perché voleva sentire tutto quello che l’eccitazione di Hugo non avrebbe saputo nascondere.
“E poi la caverna con tutti i tesori! Mamma, lo sai che c’era una statua tutta d’oro, con due pietre rosse, di quelle che costano tanto, al posto degli occhi? Io volevo prenderla ma non ci sono riuscito! Zia Chris ha detto che non potevo prenderli perché non ero davvero lì, ma io li vedevo davvero.”
Era esattamente come Hermione aveva sospettato dalle prime avvisaglie di euforia di Hugo. Chris lo aveva fatto di nuovo! Quante volte doveva ancora ripeterle quanto fosse pericoloso sia per lei che per i bambini? Ma lei no, era così sicura non ci fosse niente di male nel giocare con la mente delle persone. Prima o poi tutto questo gran talento l’avrebbe condotta in guai seri.
“Mamma, non sgriderai zia Chris, vero?” domandò Rose, turbata dall’attitudine pensierosa che aveva assunto la madre. “Siamo stati noi a chiederglielo.” Rose sapeva benissimo quanto la sua mamma non approvasse il modo poco ortodosso di Chris di raccontare le favole o suonare il pianoforte.
Hermione dismise l’ansia della bambina con una carezza e un cenno negativo della testa, “No, non adesso.” Poi si rivolse a Hugo. “Ti va bene sentire una storia senza entrarci dentro questa volta?”
Lui si fermò a pensarci un attimo, per poi annuire convinto. Zia Chris poteva fargli vedere la storia, ma non avrebbe mai avuto la voce dolce della sua mamma.
 
*
 
21 Luglio 2002 – 28 Kensington Park Gardens, Londra
 
Kensington Park Gardens, 28. Eccola. Finalmente Hermione era riuscita a tornare a casa. Due settimane di mancanza non erano poi tante, se si consideravano gli anni interi passati a Hogwarts. Ma prima era diverso.
“ ‘Emm! Vuoi vedere che so fare?” l’accolse una piccola Chris saltellante, tutta agitata e contenta.
“Ti prego, amore,” la salutò suo padre, posandole un bacio sulla guancia. “Lasciaglielo fare. Ti torturerà finché non te l’avrà mostrato,” le bisbigliò in un orecchio, adocchiando una Chris sempre più impaziente.
“E cosa mai sarà?” domandò mentre Chris gironzolava attorno a loro, ripentendo in continuazione “Posso? Posso? Posso?”
Hermione allora fermò quella trottolina, posandole una mano sulla spalla. Poi si inginocchiò per poterla guardare in viso direttamente. “Come potrei dirti di no?” Chris allora le dedicò un sorriso immenso in cui si potevano contare tutti i suoi dentini da latte. Acciuffata la mano della sorella, la tirò via fino in salotto davanti al pianoforte. Chris aveva iniziato a studiare il piano da un paio di mesi e non passava giorno in cui non arrivassero notizie su quanto le piacesse darsi da fare sui tasti bianchi e neri, anche se con quelle manine riusciva appena a muoversi da un tasto all’altro.
La bimba si accomodò sullo sgabello, opportunamente rialzato dal papà con un paio di cuscini; era un’immagine che restituiva quella tenerezza e quella comicità che solo i bambini possono regalare. Chriseys era completamente innamorata del suo piano, e Hermione era completamente innamorata di Chriseys.
La bambina si fermò a guardare Hermione negli occhi con una concentrazione che Hermione aveva visto solo su un altro volto: il suo. Poi iniziò a pigiare i tasti, suonando l’Inno alla Gioia, con un’attenzione invidiabile, ditino per ditino. Hermione aveva avuto i suoi momenti di soddisfazione nella vita, ma niente l’aveva mai riempita più di orgoglio che osservare quella piccola peste mentre muoveva la testolina a tempo di musica, una musica che aveva creato lei stessa. Poi successe.
Il salotto incominciò ad allargarsi fino a disperdersi completamente, Hermione si ritrovò all’aperto con Chris tra le braccia. Si sforzò di capire la loro posizione: era un posto conosciuto. Era la campagna aperta nei dintorni di Hogwarts: si scorgevano in lontananza il castello e il Lago Nero.
Avrebbe dovuto andare nel panico, ma la sensazione che dominava la sua testa in quegli istanti era di pura serenità.  Il cielo era di un azzurro cristallino, spolverato di rosso sulla linea dell’orizzonte, come in una di quelle serate al tramonto, in cui, con Harry e Ron, correvano via dalla capanna di Hagrid per riuscire a tornare in tempo al castello. Uno stormo di rondini attraversò quel pezzo di blu, e Hermione si accorse di Harry che, in groppa a Fierobecco, svolazzava libero. Le portò un sorriso alle labbra. Immediatamente dopo, Fanny, la fenice di Silente, si affacciò in quella visione; si dirigeva verso di loro, e Chris aspettava il suo arrivo con tanto d’occhi, e poi… la musica finì.
La mamma le aveva richiamate per il pranzo e la bambina aveva smesso di suonare. Ora teneva gli occhi fissi sulla sorella maggiore, ansiosa di sapere l’effetto che ‘quello che sapeva fare’ aveva avuto su Hermione. “Ti piace?” domandò.
“Amore, come?” Hermione capì che era stata lei a creare quella visione che così tanto l’aveva conquistata. “Dove hai visto quelle cose?” chiese, ma intuì la risposta. Chris indicò il viso della sorella con il suo ditino magico.
“Nei tuoi occhi.”
Hermione prese Chris in braccio e le scoccò un sonoro bacio sulla guanciotta. Qui urgeva una bella chiacchierata con Minerva, d’altronde era da un po’ di tempo che rimandava una visita di cortesia alla professoressa McGranitt.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Capitolo 4 - Limiti ***


Capitolo 4
Limiti
 
A Hogwarts era cominciata la solita vita con poche o nessuna variazione. Una caratteristica della scuola che Chris iniziava a odiare ma da cui subiva l’inevitabile assuefazione era la routine. La fine delle guerre magiche aveva portato tra le mura del castello una relativa tranquillità a cui non si assisteva da prima dei tempi in cui Minerva McGranitt e Tom Orvoloson Riddle giravano pacati tra una lezione e l’altra come due studentelli qualsiasi. Le lezioni avevano il potere di assorbire tanta di quella energia da Chris da farla distrarre per un po’ dai suoi sogni notturni e dal forte senso di vuoto che l’accompagnava dal giorno della morte della madre. Era più facile concentrarsi a lezione e buttarsi nei libri che fermarsi a pensare.
“Settembre sa di miele,” se ne uscì una mattina Sybil, mentre preparavano la relazione lunga un rotolo di pergamena sulle trasfigurazioni umane per il professor Heartfield.
Chris evitò di perdere tempo a chiederle dove sentisse un tale odore tra tutti i libri impolverati della biblioteca. “Settembre sa di pioggia,” rispose invece adocchiando un Ted Lupin completamente fradicio che si avvicinava a loro. Spostò Trasfigurazione Avanzata prima che le sue manacce bagnassero del tutto il volume. “Lupin, sei fradicio!”
“ ‘Giorno anche a te, Chris,” fece lui, pizzicandole la mano. “Sybil,” salutò l’altra compagna, e ignorò l’ ‘ahu’ di protesta dell’amica. I ciuffi quella mattina gli brillavano di un acceso verde, era evidentemente su di giri. “Chi fra voi due belle donzelle mi aiuta col tema sulle trasfigurazioni umane?”
“È una relazione, Teddy.”
“E non è uguale?” Le punte dei capelli divennero un pizzico più scure, sintomo di perplessità. Chris avrebbe potuto scrivere un trattato su come, quando, e perché i capelli di Ted cambiavano sfumatura o tonalità.
“No, non è esattamente così,” rispose Sybil come fosse la cosa più ovvia del mondo. “Un tema presuppone generalmente che ci sia un’argomentazione, una relazione è una semplice descrizione del soggetto di studio,” aveva iniziato a frequentare Hermione anche lei? “Cosa non riesci a fare?” concluse rivolta a Ted.
“Beh, ehm… non so come iniziare…”
“Come proseguire e come finire,” concluse Chriseys per lui, mentre apriva il tomo gigantesco. “Potresti iniziare guardandoti allo specchio,” Ted sorrise compiaciuto “oppure leggendo questo bel capitolo qui, che ne dici?” glielo porse.
“Sì, ma ci vuole troooppo tempo!” Allungò la ‘o’ del ‘troppo’ per sottolineare il proprio disappunto, mentre la sua testa diventava di un tenue colore blu. “Devo vedermi con Victorie questo pomeriggio.”
Ecco. C’entrava sempre Blondie. La cara, dolce, piccola Victoire Weasley, l’irrimediabilmente perfetta biondina del quarto anno, cuore e dolce metà del povero Ted. Dovunque andasse, qualsiasi cosa dicesse, il suo angelo tornava sempre nei suoi discorsi e pensieri. Era schifosamente sdolcinato, e terribilmente doloroso.
 Non parlerà mai di te in quel modo. Non ti guarderà mai così.
Chris s’accorse di stringere con molta più forza del dovuto la piuma che aveva in mano. Ted allontanò con delicatezza dagli occhi di lei una ciocca castana sfuggita al controllo delle pinzette. Questo gesto dolce scacciò via, anche se solo per un po’, quella voce provocatrice dentro di sé.
“Tassorosso. Gran lavoratore. Il Cappello ha sicuramente sbagliato con te,” osservò infine la ragazza, e sbuffando e scherzando tornò a fare quello che sempre aveva fatto, e mai avrebbe smesso nonostante tutte le sue buone intenzioni: aiutare il suo Teddybear, anche se non lo meritava.
 
*
 
La pioggia del mattino aveva lasciato il posto a una serie di nuvole sparse, accerchianti un sole mite e timoroso di venir fuori. Chris e Sybil si ritrovarono con due ore libere da riempire: nonostante sprofondare nel divano di fronte al camino in Sala Comune sarebbe stata un’opzione piacevole in pieno inverno, quei quattro raggi di sole di metà settembre risultarono una tentazione abbastanza forte per godere un po’ della pace che concedevano i prati di Hogwarts.
“Andiamo a vedere gli allenamenti di Quidditch?”
Chris non riuscì a trovare nulla come passabile obiezione, e insieme a Sybil decisero di accodarsi alla loro compagna di stanza, Elize, e al gruppetto di compagni di Casa che volevano andare a sbirciare gli allenamenti della loro squadra.
I giocatori Grifondoro svolazzavano intorno al campo, provando i diversi schemi per distruggere i prossimi avversari, i primi della stagione, che a dar peso agli sproloqui di Susy Sprite sul Cacciatore più venerato degli ultimi anni, Damian Blackwood, dovevano essere i Serpeverde. Chris, dal canto suo, era piuttosto indifferente a chi o cosa si affrontasse durante una partita di Quidditch. Se c’erano due persone meno interessate alla Coppa delle case di Chris e Sybil, nessuno le aveva ancora trovate.
Chris aveva sempre ritenuto la competizione tra Case qualcosa di stupido e inutile - non serviva neppure a ‘incentivare il rendimento scolastico’ come dicevano i professori - forse perché il suo migliore amico era il fiore all’occhiello di una Casa rivale, o forse perché stupidi e intelligenti, ipocriti e onesti indossavano indistintamente sciarpe e divise giallo-nere, scarlatto-dorate, argento-verdi, o bronzo-blu. Magari gli imbecilli argento-verdi avevano la tendenza a farsi notare di più, ma questo non contraddiceva la teoria base di Chris.
“Però Casper Ford è cambiato parecchio, non trovi? Guarda quelle braccia,” le domandò Sybil, osservando ammirata il portiere della sua squadra. Il ragazzino gracile che avevano conosciuto nei loro primi anni di scuola aveva lasciato il posto a un giovanotto aitante e slanciato.
“Ma tu non eri devota al tuo professore di Difesa?” obiettò Chris, indifferente, senza neanche far finta di controllare. Il suo sguardo era diretto in modo stabile dall’altra parte degli spalti, dove Ted e Victoire ridevano con gusto.
“Sì, ma il professor Potter è intoccabile, è il principe cele-,”
“Azzurro, Syb.”
“-ste della situazione, è come la luna, sempre lì, ma non puoi di certo prenderla nel palmo della mano. E poi a quanto pare lui preferisce te,” la provocò infine. Fin dalla scenetta della prima sera, Sybil non aveva lasciato correre un’occasione per prendere in giro Chris. In fondo, come aveva appena detto, una misera streghetta non poteva mica toccare la luna. “Ma ovviamente tu preferisci qualcun altro,” mugugnò. Diresse i propri occhi nella direzione presa da quelli dell’amica, poi con fare teatrale, posò il dorso della mano sulla fronte: “Ah, amor crudele! Ci rendi orbi e spogli di difese!”
Finalmente Chris distolse lo sguardo dai due piccioncini, per lanciare un’occhiata obliqua ed eloquente alla compagna. “Harry è sposato,” disse, fingendo di aver ignorato le ultime frasi di Sybil, “Sai, del tipo: amore delle favole. Pucci-pucci, angelo mio, e roba del genere.” E neanche Chris sapeva più se stava parlando di Harry Potter o della scenetta svenevole che le si parava davanti: Teddy Lupin stava agendo da cavalier servente per la piccola Weasley, sussurrandole parole all’orecchio e suscitando una risata dopo l’altra. “In questi casi è inutile tentare, rischi solo di farti male.” Strinse la mano destra sul polso opposto, fasciato da un polsino scarlatto, come se volesse scacciare un dolore improvviso.
“Da quanto tempo?”
“E che ne so? Penso dai tempi della scuola.”
“Non Potter, Chris. Quei due là.” Indicò con un cenno del capo la coppietta di fronte a loro.
Chris corrugò la fronte un istante. “Quest’estate,” rispose semplicemente, in tono neutro. Cercando di non far percepire all’amica tutto il dolore e l’amarezza di un’estate passata a fare la veglia alla propria madre morente, mentre quello a cui piaceva definirsi il suo migliore amico la ignorava beatamente, tubando con una ragazzina dagli occhi azzurri.
Persino adesso Ted non si era accorto della presenza di Chriseys e Sybil dall’altra parte del campo. Era troppo impegnato a sbaciucchiare Victoire, la quale però non si era di certo lasciata sfuggire gli sguardi di fuoco che provenivano dal lato opposto degli spalti.
Gelosia. La sola cosa che accomunava Chris e Victoire in quel momento della loro vita. Erano state amiche una volta, quando giocare senza altri programmi era ancora possibile, quando Ted non era costretto a dividere le sue attenzioni tra l’una e l’altra, prima che i giochi diventassero troppo pericolosi e quel serpente traditore s’insinuasse tra loro tre, prima di quel maledetto pomeriggio, di cui Victoire portava ancora i segni sulla caviglia. Da quel momento aveva smesso di fidarsi di Chriseys. Chris non l’avrebbe ammesso mai ad alta voce, ma talvolta le mancava l’amicizia di Victorie. Sapeva per certo di essere l’unica esclusa dagli scatti di solarità e affetto di cui la signorina Weasley era capace.
Adesso c’era solo gelosia. Chris avrebbe dato oro colato pur di ricevere le attenzioni che Ted riservava a Blondie, e Victoire era invidiosa marcia del modo in cui Ted e Chris suonavano insieme, di quegli sguardi di comprensione immediata che si scambiavano, o di quegli scoppi di risa che solo loro due sapevano capire.
Blondie non perdeva perciò mai occasione di sottolineare il suo rapporto con Ted sotto gli occhi di Chris. Ogni volta sembrava ripetere, con ogni gesto possibile: è mio. In quel momento, mentre baciava tranquilla il suo fidanzato, salutò con la manina delicata le ragazze di fronte a loro.
Sybil si girò di scatto verso Chris, già all’erta per via della sicura reazione dell’amica. Perché Chris avrebbe sicuramente reagito combinando qualche casino da far imbestialire mezza scuola. Perché Chris non sapeva gestire le proprie reazioni. Perché Chris aveva un reale problema con la propria indole vendicativa. E Victoire riusciva sempre a scatenare tutti i suoi istinti vendicativi.
La bacchetta di Chris scintillava pericolosa, esattamente come gli occhi della proprietaria. “È infantile reagire a una provocazione del genere.” Chris ignorò Sybil. “Credo seriamente che se la fai cadere da lassù si spezzerà l’osso del collo, e non mi piace andare a trovare le persone ad Azkaban. E poi non te lo perdoneresti mai, neppure tu.”
“Mmh…” mugugnò, mentre adocchiava il vecchio Gazza, che ripuliva lo stadio con scopettoni e secchi giganti qualche spalto più in alto. “Che ne dici di una doccia fredda?” E con un gesto repentino della bacchetta, il contenuto di uno dei secchi del custode di Hogwarts finì dritto dritto sulla testa di Blondie.

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Capitolo 5 - Rosso come il rancore ***


Capitolo 5
Rosso come il rancore

"Oggi ho bisogno di tranquillità. Agli esami M.A.G.O. l'anno scorso in pochi ne hanno preparata una decente, voglio proprio vedere cosa riuscite a fare. Pagina 117 del libro: Bevanda della pace."
Artemis Light era, come amava dire Hagrid, una professoressa della nuova leva. Aveva preso il posto che era stato di Horace Lumacorno e Severus Piton senza alcun timore reverenziale per i suoi due predecessori famosi, anche se uno aveva insegnato ai più grandi pozionisti dell'ultimo secolo, e l'altro era diventato eroe indiscusso delle Guerre Magiche.
La professoressa Light possedeva una sorta di orgoglio naturale che le impediva di considerarsi inferiore a nessuno e la conduceva a trattare gli studenti di conseguenza; riteneva se stessa l'insegnante migliore che questi avessero potuto avere. Senso del dovere, severità, e una supposta onestà intellettuale erano i vessilli sotto cui si tenevano le sue lezioni.
Il risultato? Pochi buoni voti, e tanto, tanto astio da parte della maggioranza degli studenti. Chris, come Sybil e Ted, avrebbe volentieri rinunciato a seguire le sue lezioni se non avesse insegnato una materia così fondamentale per una qualsiasi professione decente nel mondo magico.
"Trovate i fiori di gelsomino in quella cesta. Dovreste farcela in mezz'ora. Da adesso."
Bevanda della pace. Un nome in apparenza cristallino. Calma l'ansia e placa l'agitazione, Chris lesse sul manuale. Magari poteva darne un po' a Ted, erano due giorni interi che non le rivolgeva la parola... Eppure qualche goccia in più poteva diventare letale. Se si eccede con gli ingredienti, chi la beve potrebbe cadere in un sonno pesante e a volte irreversibile. E la chiamavano Bevanda della pace?
Chris passò in rassegna tutte le sostanze necessarie: tiglio, essenza di elleboro, fiori di gelsomino.
Ted stava già arruffando qualcosa. La ragazza sperò solo che, agitato com'era, non combinasse uno dei guai a cui li aveva abituati. Come avesse fatto a prendere l'Accettabile necessario per passare il G.U.F.O. restava un mistero anche per lei.
Era infuriato. Ted si arrabbiava solo per tre motivi: quando qualche folle osava parlare male dei suoi genitori, morti durante la seconda battaglia di Hogwarts - lui aveva appena una settimana di vita -, quando qualcuno toccare la sua chitarra senza permesso, e quando Chris e Victoire finivano per litigare. E ovviamente il terzo caso era quello che accadeva più spesso, e ovviamente era il motivo della sua ostilità attuale nei confronti dell'amica.
Okay, forse Chris si era lasciata un po' prendere la mano, ma non si poteva di certo dire che non fosse stata provocata. Forse. Ma la sua colpevolezza Ted poteva solo intuirla dallo sguardo divertito che aveva incrociato subito dopo l'accaduto. Non poteva avercela con Chris, non per un misero dubbio su uno scherzo così innocente!
"Lupin, non ti agitare troppo," gli disse piccata, per mostragli il proprio disappunto sul suo atteggiamento. Lui si limitò a grugnire di rimando. "Hai intenzione di continuare così per molto?"
"Qualcosa in contrario?" La fulminò con una sola occhiata ambrata.
"Dai, era solo uno stupido scherzo," disse prima di potersi rimangiare le parole in bocca. Rimpianse subito l'uscita infelice che confermava la sua colpa. Negare, negare, negare. Non le avevano insegnato nulla le ore in compagnia di Ronald-Non-Ho-Fatto-Niente-Weasley?
"Chris, perlomeno sii sincera. Non è mai solo uno stupido scherzo con te." Sii sincera. Cosa accidenti voleva che dicesse? "È una fortuna che non spuntino serpenti da ogni dove!"
Chris ammutolì, sentì negli occhi quelle lacrime bastarde di rabbia e delusione. Questo non avrebbe dovuto dirlo. Non credeva che Ted avrebbe potuto tirare fuori quella vecchia storia. Eppure eccolo lì, il suo miglior amico.
"Sei ingiusto," lo accusò, evitando di guardare nella sua direzione.
"Granger! Lupin! Silenzio!"
E silenzio fu. Per tutta la durata della lezione.
Venti minuti più tardi, il liquido nel calderone di Chris iniziava a prendere vagamente il colore bianco latteo dovuto, anche se, ad essere onesti, ricordava un beige smorto, più che un bianco immacolato. Ted invece era ancora impegnato nel mescolare, con gesti molto bruschi, in senso orario e antiorario, diverse volte, quel maledetto fluido giallastro-verde che, inutile dirlo, non ci azzeccava niente con la pozione originale.
Fu a causa di un movimento un po' più brusco degli altri che il suo calderone esplose, andando a riversare il proprio contenuto addosso ai due ragazzi presenti al banco. La commozione generale che ne seguì bastò a rassicurare Chris che non erano caduti in quel sonno profondo e irreversibile, minacciato dal libro, anche se quella roba gialla vischiosa le impiastricciava il viso.
"Lupin, chissà perché c'è sempre lei dietro a queste situazioni!" brontolò la professoressa Light. "20 punti in meno a Tassorosso," continuò senza minimamente accennare alle possibili conseguenza che l'ingerire accidentale di una tale sostanza avrebbe potuto provocare.
Nel frattempo, tutti gli occhi dei suoi compagni sembravano puntati su Chriseys. Okay. Aveva una roba gialla sparsa sulla faccia, ma anche Ted! E nessuno sembrava interessato all'artefice del danno. Anzi, lui era il primo a guardarla perplesso.
"Beh, cos'hanno da fissare?" chiese dubbiosa a Sybil, che le si era avvicinata.
"Ehm, hai i capelli rossi."
Rossi?

*

La Sala d'Armi, come al solito, era priva di qualsiasi presenza umana. Per fortuna. Chris amava rinchiudersi in quella stanza abbandonata da tutti quando aveva voglia di prendere a calci il mondo. E una tinta rosso Weasley, indelebile fino opportuna ricrescita, bastava a darle la voglia di spaccare in due tutta Hogwarts. In tutta onestà la ragazza non sapeva per cosa esattamente odiasse quel colore in particolare sulla sua testa, ma le creava comunque un gran voglia di rompere qualcosa.
Ancora di più se attirava i commenti sterili dei suoi compagni o lo sguardo interessato di Damian Blackwood. "Granger," l'aveva chiamata "la mia proposta è sempre valida, lo sai vero?" aveva detto, sorridendo con la sua affettata gentilezza. Come se cambiare il tono modificasse il messaggio: 'Scopiamo, Granger' non era un'idea che la ragazza era intenzionata a considerare. Chris si limitò a mandarlo educatamente al diavolo.
Persino Madama Chips si era premurata di rassicurarla: "Le dona anche particolarmente, signorina." Era l'ultima cosa che Chris desiderava. Forse aveva solo un disperato bisogno di arrabbiarsi con Ted per qualche sciocco motivo. In fondo, lui si era infuriato con lei per uno stupido motivo.
Stupido o no, necessitava a ogni costo la sua ora di silenzio e musica tra le vecchie armi appese ai muri – sciabole antiche, spade dall'elsa d'argento, pugnali lavorati, archi e balestre millenari. Non un'arma da fuoco. E non un'arma magica. Nessun trucco, nessun inganno: duellare con una di quelle armi significava usare unicamente la propria abilità. Harry e il professor Paciock erano bellissimi da guardare quando decidevano di dare un po' di spettacolo.
Le bastava chiudere gli occhi per sentire il rumore dei ferri che si scontravano. Tac, tac. Sudore, concentrazione. Tac, tac. Rabbia, fatica. Tac, tac. Paura. Adrenalina. Era musica. Era musica anche questa.
"Accio chitarra!" Con un ghigno sulle labbra richiamò la chitarra di Ted, che Chris sapeva essere nascosta sotto il suo letto nel dormitorio Tassorosso. Adesso il ragazzo avrebbe avuto un ragione valida per scatenare la sua ira.
Uno, due. Tre, quattro. La scherma è un passo a due. Stoccata, parata. Di eleganza sopraffina e precisione letale. Uno, due. Tre, quattro. Le corde si lasciavano pizzicare con dolcezza e accuratezza dalle dita abili di Chriseys. E la danza la travolse.
Cominciò a vedersi, tredicenne divertita, ad ammazzare il tempo sui prati di Hogwarts, con un Teddy dalle facce buffe e un'undicenne Victoire. Parlavano. Parlavano della torta al cioccolato di nonna Andromeda, delle noie che la piccola Dominique dava alla sorella maggiore, e di quanto fosse severo il professor Heartfield.
Chris si stava impegnando a torturare i cangianti capelli di Ted con un filo d'erba, mentre la piccola Victoire voleva dimostrare a tutti i costi le sue capacità innate nella trasfigurazione. "Volete vedere come riesco a trasformare questo bottone in un anello?"
"Sul serio Vic?" Chris si mostrò scettica. "Facci vedere." La più piccola a quel punto aveva puntato la sua bacchetta di salice sul bottoncino che aveva staccato dal pullover della divisa. E da quel bottoncino aveva fatto apparire un minuscolo anellino di plastica.
"Bravissima." Ted si era assunto il ruolo di tutore, guida, e sostenitore della nuova matricola. Era nel suo DNA essere buono e gentile con tutti, specie con le bambine dolci come Victoire. E anche se l'incantesimo svolto dalla bimba non aveva nulla di eccezionale, era deciso a mostrarsi meravigliato per ogni cosa che facesse. Non avrebbe mai potuto svalutarla come invece faceva Chris.
"Carino," le concesse Chriseys, prima che un'idea cominciasse a stuzzicarle il cervello.
Insegnale qualcosa di più eccitante.
"Sarebbe molto più bello se riuscissi a trasformarlo in qualcosa di... in un animale! Prendi questo filo d'erba ad esempio. Posso trasformarlo in un piccolo serpente. Se vuoi ti insegno come si fa."
Gli occhi di Victoire si sgranarono d'eccitazione, mentre Ted continuava a fare di no con la testa. Quel sorrisetto storto sul viso di Chris, per quanto adorabile, aveva finora portato sempre e solo a una conclusione: punizione dalla preside.
"Chris, non pensi tocchi al professor Heartfiel-" La compagna non lo lasciò neppure terminare.
"Dai, Ted. La mandiamo avanti col programma, giusto di un po'. Ti va, Vic?"
"Sì, sì, sì, sì," Victoire annuì con energia.
"Vedi, basta concentrarsi sulle somiglianze, e poi fare un balzo di fantasia."
Ted non trattenne un risolino e un sospiro di sollievo. Chris sospettò che non ritenesse la sua spiegazione valida.
I tentativi di Victoire risultarono nulli. Chris allora decise di prendere in mano la situazione, e avvicinandosi all'undicenne, prese la sua bacchetta nelle mani e le mostrò come fare. D'un tratto il filo d'erba, morto sul terreno, si trasformò in una vivissima piccola vipera dagli occhi color sangue. Troppo, troppo vicina per rimanere innocua.
"Sangue, sangue." Chris udì distintamente le priorità dell'esserino. Ma le sue capacità reattive erano ancora troppo lente. Quel che vide dopo fu solo una piccola - perché sembrava ancora più piccola in quel momento - svenuta Victoire cadere duramente sul terreno.
Al corpo debilitato di una Vic undicenne nell'Infermeria di Hogwarts si sovrappose un'altra immagine di dolore lancinante. Così recente, così aperta. "Tesoro, non funzionerà..."
"È una fortuna che non spuntino serpenti da ogni dove!" Il viso infuriato del suo amico tornò per un attimo a dominare la sua mente. Aveva forse ragione? Non sapeva lei stessa di essersi già spinta oltre? Sfiorò inconsciamente il proprio polso.
"Compiere qualche gesto avventato a tredici anni, e parlare con i serpenti non fa di te una persona malvagia. Anche io parlavo con i serpenti. Lasciare la tua mente aperta a qualsiasi intruso in questo modo però ti rende terribilmente imprudente e vulnerabile." La voce di Harry Potter, dalla porta, troncò i suoi ricordi e la sua improvvisazione a metà. Chris si asciugò rapidamente gli occhi gonfi di lacrime. "Credevo avessi imparato a gestire queste situazioni."
Da bambina si era ritrovata spesso a condividere i suoi pensieri senza volerlo, quando suonava o quando giocava. Gli esercizi di controllo della mente che Hermione le aveva insegnato fin dai suoi cinque anni avevano limitato i danni finora.
"Infatti, non succedeva da anni." La ragazza cercò in tutti i modi di ricomporsi. "Che ci fai qui? Non viene mai nessuno qui."
"Io vengo qui," le ricordò tranquillamente, mentre le si sedeva a terra accanto. "Quando la smetterai di sederti sul pavimento?" borbottò lui. Chris si limitò a ignorare i suoi evidenti tentativi di coinvolgerla in qualche conversazione, osservandolo mortificata e leggermente irritata. "Perché non ti confidi con qualcuno, eh Chris? Ted, o la signorina Joyce, se il mio figlioccio ti fa arrabbiare." Le afferrò una mano. "Questa è la chitarra che gli ho regalato il Natale scorso?" aggiunse poi, come sovrappensiero, guardando la chitarra.
"Magari non ho voglia di parlare con nessuno, magari ho solo voglia di chiudermi in me stessa, e distruggere la chitarra di Teddy Lupin a furia di rollate. Ho i capelli rossi. Rossi, capito? Rossi!"
Harry abbozzò un sorriso. "Non è un colore così terribile, conos-"
"Ma non è quello che voglio vedere davanti allo specchio la mattina!" Chris gli tagliò la frase a metà, riposando non troppo delicatamente la chitarra di Ted a terra. "Non sembro io." Sospirò pesantemente, e Harry con lei. " Mi sento come una poltiglia densa nel calderone pronta a esplodere da un momento all'altro. Il mio migliore amico mi urla contro perché crede che io odi la sua fidanzata e mi accusa di essere, che accidenti ne so?, l'altra metà di Salazar Serpeverde, e sai che c'è? Che questo non conta un cazzo, perché..." si fermò, quasi incapace di continuare, un magone era tornato a riempirle la gola, "mia madre è morta. E fa così male, che ogni secondo, ogni attimo, sono sul punto di perdere il controllo. E mi sento pure in colpa, perché quando è morto mio padre nemmeno me lo ricordo."
"Vieni qua." Harry la tirò a sé, e le asciugò il viso con i suoi ruvidi polpastrelli. "Hai ragione, non serve parlare." Si rimise in piedi. "Tirati su." Le offrì la mano. Chris l'accettò, confusa dal suo improvviso cambiamento di tattica. "Sciabola o fioretto?"
Il velo di un sorriso sghembo attraversò gli occhi lucidi della ragazza, e rispose come tante altre volte aveva già fatto a quella domanda.
"Spada, ovviamente."
 


Note: A causa dell'attuale irreperibilità di un manuale di pozioni decente, le informazioni sulla Bevanda della Pace sono state estrapolate da Wikipedia. I motivi per cui il danno collaterale sia una tinta gratuita non sono stati resi noti: non è dato sapere cosa il signor Lupin abbia combinato con il calderone in suo possesso.

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Capitolo 6 - Soli a metà ***


L’aveva tra le braccia, il viso di lei era come un fiore bagnato sotto le sue labbra e tutti i loro inutili terrori si rattrappivano come fantasmi al levar del sole. La sola cosa che lo stupiva era di aver discusso con lei da un’estremità all’altra della stanza, quando solo a toccarla tutto diveniva più semplice.
L’età dell’innocenza – Edith Wharton
 
Capitolo 6
Soli a metà

Il fascicolo sull’ultimo sgarro combinato da Arteus Wright giaceva aperto sulla scrivania di Hermione Granger-Weasley al Ministero. Il ladruncolo si era fatto beccare da un nutrito gruppo di Babbani mentre lanciava un Incanto Esplosivo: questa volta non si sarebbe liberato da una bella punizione e qualche anno in gattabuia. Il movente però sembrava inesistente, che il vecchio Arteus fosse definitivamente impazzito? Dopo ore a cercare di lottare con la logica malata del criminale, Hermione ci stava semplicemente rinunciando.
Coi pollici sulle tempie, cercò un po’ di pace sul divanetto che aveva portato nell’ufficio proprio per queste evenienze. La mente le tornò al mese precedente, a quando aveva chiuso gli occhi di sua madre. Si sentiva persa, come se dentro sé avesse un vuoto che niente avrebbe mai più potuto colmare. Era doloroso nello stesso straziante modo di quando l’incendio aveva ucciso suo padre, e per qualche strano motivo sembrava molto peggio. Non ci si abitua mai.
E ora come avrebbe fatto? Chi sarebbe stata la sua ancora di salvezza, chi l’avrebbe rimproverata per  come preparava la tavola o per come trattava Rose e Hugo? Chi avrebbe risolto le sue incertezze e sostenuto le sue spalle deboli?
E Chris? Come avrebbe fatto a levare quel velo dagli occhi Chris? Era debilitante vederla soffrire così. Tutte le sue stupide scelte sembravano ritorcersi contro di lei, quando l’unica cosa che Hermione aveva sempre voluto era soltanto proteggerla. E invece?
Le sembrava che tutti i se della sua vita avessero deciso di tornare con prepotenza a torturarla quel pomeriggio. Teiera alla mano, si versò una tazza di tè verde fumante, preoccupandosi poco di quanto le sue abitudini recenti somigliassero a quelle di Dolores Umbridge. Sentì qualcuno bussò alla porta e subito dopo vide spuntare da un angolo il ciuffo ribelle del suo più caro amico. “Posso?”
“È successo qualcosa a Chris?” domandò senza neppure invitarlo a entrare o salutarlo. Harry accolse la domanda come un invito ad accomodarsi ed entrò con tranquillità nell’ufficio della donna.
“Ci tiene a farti sapere che non ha intenzione di distruggere Hogwarts,” rispose lui senza scomporsi, prendendo posto accanto a lei. “Per ora.”
Alla risposta sarcastica, che era sicura fosse uscita senza remore dalla bocca di Chris, Hermione parve rilassarsi leggermente. “Devo preoccuparmi?” Con un gesto verso la teiera lo invitò a servirsi, lui con un cenno del capo declinò.
“Non più di quanto tu lo sia adesso. Dovrebbe piacerti il suo nuovo colore di capelli: rosso Weasley.”
“Cosa?”
“Ted, durante una lezione di Pozioni, le ha colorato per sbaglio i capelli di rosso. Posso solo dirti che Chris non ha fatto un mistero di odiare il colore, anche se,” alzò infine gli occhi verso l’amica, “le danno un’aria molto più familiare del solito.” Hermione sospirò pesantemente, in quel momento si sentiva addosso molti di più dei suoi trentacinque anni e il tono di Harry non aiutava.
Lui si alzò e incominciò a passeggiare avanti e indietro per quel piccolo ufficio.
Hermione si accorse che aveva una grossa fresca cicatrice a forma di esse sulla guancia destra. “Avete duellato di nuovo con quelle spade arrugginite?” Non era una domanda, era una constatazione, molto, molto irritata. “Harry, è pericoloso, accidenti! Rischiate di ferirvi seriamente! Usassi perlomeno qualche accorgimento protettivo. Chris è una ragazzina in rivolta col mondo, sei tu l’adulto! Dovresti farci caso tu a queste cose. Potresti farle male.”
“Sta migliorando parecchio,” osservò lui, prima di continuare. “Aveva bisogno di sfogarsi,” poi alzò il capo per guardare Hermione fisso negli occhi scuri e agitati. “Non le farei mai del male.”
A Hermione bastò riscuotersi un secondo dalle sue ansie e rivolgere realmente lo sguardo verso Harry per accorgersi che era teso e nervoso tanto quanto lei. Era tornato a fissare il tappeto persiano sotto i suoi piedi, con la fronte corrucciata e gli zigomi tirati. Lei richiamò la sua attenzione, “Che pensi veramente?”
“Come può essere la tua copia esatta e, allo stesso tempo, ricordare così tanto mia madre?” domandò irritato. “Persino Vitious si è accorto della somiglianza. Non sai quanto fa male, certe volte. Me ne sto lì, a guardarla, e non posso consolarla come vorrei. Hermione, perché lo abbiamo fatto, mi ricordi perché?”
“Era la scelta più ragionevole al tempo,” sussurrò la risposta che continuava a ripetere a se stessa da anni ormai: la scelta più ragionevole. Non la più giusta, non la più semplice. Quella che avrebbe ferito meno persone, quella che avrebbe donato a Chris una famiglia, una vera famiglia.
“Almeno tu hai potuto scegliere!”
“Harry, ti prego, non ricominciare. Ho già troppi fantasmi che mi assillano.” Harry, al tono distrutto di Hermione, sembrò tornare alla sua pacata rassegnazione. Tornò a sederle accanto, iniziò a disegnare distrattamente cerchi col pollice sulla mano di lei, che giaceva abbandonata sul cuscino del divano, come fosse un peso. “Scusa,” disse, “è solo che adesso sembra tutto venire fuori all’improvviso. Sta male, Hermione. Guardarla da lontano è-”
“È così difficile,” continuò lei per lui, “Lo so.”                         
Si scambiarono un sorriso. Un loro sorriso, di comprensione e accettazione. Un sorriso privato, segreto e triste. Triste da diciassette anni. Da sempre. Un sorriso pregno di tante parole non pronunciate, di tante azioni mai fatte. Un sorriso come piccolo ponte tra le loro anime spezzate.
“E tu come stai?”
“Come sempre, sopravvivo.”
“Buon compleanno, Hermione,” salutandola e baciandole le tempie, Harry tirò fuori un pacchettino.
Qualche minuto dopo, una camelia bianca brillava nella sua boccia sulla scrivania di Hermione. Sarebbe bastato un piccolo soffio, per lasciare  che quella farfalla riprendesse la sua forma originale e volasse via.
 
*
 
22 Dicembre 1997 – Dover, Kent
 
Grigio. Il tono dominante di quelle giornate alla ricerca degli Horcrux mancanti. Grigio come il cielo ogni giorno, come il maglione di Harry e come il proprio. Hermione aveva due soli obiettivi: mantenere i nervi saldi e nascondere a Harry il proprio sconforto.
Ron era andato via da più di tre settimane, disperso in chissà quale bosco o foresta, mentre loro due continuavano a gironzolare per la Gran Bretagna, alla ricerca di posti isolati in cui nascondersi, cercando di trovare un piano, una traccia, una meta.
Quella sera Harry aveva scelto Dover, picchi esaltanti e mare in tempesta, forse il posto meno riparato in tutto il Regno Unito. Quando Hermione gli aveva domandato se non fosse troppo rischioso per l’Indesiderato n°1 e la Sanguemarcio che gli andava dietro, lui aveva replicato con un umorismo poco appropriato: “Prima di morire ci tocca vederle, no?”
Nella giornata dicembrina l’altra riva era oscurata dalla foschia e dal grigiore del cielo, che stava quietamente trasformandosi in blu notturno. Lo spettacolo che il mare restituiva loro era da mozzare il fiato, qualcosa di meglio di semplicemente bello, qualcosa che ti urta e ti fa male, ti colpisce e smuove l’animo, e ti fa sentire piccolo e fragile nell’immensità della natura.
Hermione dovette ammettere che Harry aveva ragione: era uno spettacolo che andava visto prima di morire.
“Ehi,” Harry le si accostò durante il turno di guardia. “Tremi?” chiese lui ma non ricevette risposta. “Un penny per i tuoi pensieri.” Si sedette accanto a lei, guardando verso il mare.
“Non hai alcun penny, Harry,” controbatté lei, razionale, per fuggire la risposta a quella domanda. A che pensava? A niente. Ai suoi, a Ron, a Hogwarts, alle fiamme del camino in Sala Comune, a Neville, Ginny, Luna, e gli altri, alle fiabe che leggeva ogni sera, in cui sperava di trovare qualcosa, e all’oceano, questo gigantesco, mostruoso eroe impazzito, verdeazzurro, con lo stesso tumulto degli occhi di Harry. A niente.
“Ho un bottone,” propose lui, dopo qualche momento di riflessione, e le mostrò il bottone che aveva in tasca. Si era staccato da uno dei maglioni che gli aveva regalato la signora Weasley durante i Natali precedenti.
“E dovrei barattare i moti segreti del mio animo con un mezzo bottone caduto chissà da dove?” si mostrò fintamente disgustata.
“Con cosa posso tentarti dunque?” Harry si fermò a guardarla. A guardare lei, i contorni del viso dubbioso, le labbra screpolate dal freddo e gli occhi stanchi da lacrime stantie. Un fiocco di neve disturbò la sua visuale, Harry lasciò che gli cadesse in mano. “Toh, guarda. Un fiocco di neve potrebbe valere un tuo sorriso?” Hermione non riuscì a negarglielo. “Vieni dentro, è troppo freddo qua fuori,” le porse la mano e lei l’accettò.
Nevicava. Era pur ora. Doveva essere dicembre inoltrato. La natura tutt’intorno contava i giorni per loro. Il giallo-arancio autunnale si era trasfigurato nel bianco-argenteo invernale con estenuante lentezza. E la neve, la neve aveva tardato ad arrivare. Hermione accolse la novità con uno strano senso di sollievo. Le pareva che quella pacifica cascata lattea avrebbe potuto coprirli e proteggerli. Nasconderli, concedendo loro una sosta dalla loro fuga, dalla loro ricerca, dal costante pericolo.
Harry rinforzò gli incantesimi riscaldanti nella tenda, mentre Hermione restituiva un po’ di vigore alla sua gola indolenzita col tè che lui aveva preparato in sua assenza. Si lasciò cadere sul proprio letto. Si rannicchiò in se stessa, sorseggiando la bevanda fumante. Continuava a rabbrividire. Era colpa del freddo? Degli sbalzi di temperatura? Dei balbettii sconnessi della radio sotto il letto? Degli incantesimi mormorati di Harry? O della paura?
Paura. Aveva paura. Perché era così difficile ammettere di aver paura? In fondo, quando la persona in cui avevi riposto le tue più grandi aspettative ti volta le spalle puoi concederti qualche attimo di sconforto. Quando a diciotto anni sei costretta a lasciare i tuoi genitori, forse per sempre, e sei in fuga con il solo sostegno del tuo migliore amico, che nel frattempo cerca di salvare il mondo, puoi permetterti di lasciarti prendere da momenti di angoscia. Quando c’è una guerra in atto, quando il paese che ami così tanto è minacciato da un tiranno crudele, quando un bastardo senza nome e scrupoli ti perseguita, hai il sacrosanto diritto di essere spaventata a morte.
Ma doveva mostrarsi forte, lo doveva a se stessa, e lo doveva a Harry.
Lo sguardo del suo amico, concentrato su di lei, la sorprese. Incrociò i suoi occhi verdi sotto le lenti. Quante volte ancora quello strano misto di purezza ed esperienza che si celava nel suo sguardo l’avrebbe colpita? In sette anni di amicizia profonda aveva imparato a distinguere gli sbalzi di umore più strani, a leggere ogni suo atteggiamento con un’occhiata, ma ancora non era abituata ad avere gli occhi di lui su di sé.
Harry andò a sedersi ai piedi del letto di lei e le afferrò una mano. “Tremi ancora. Non avrai la febbre?”
“Certo che no. Lo saprei se avessi la febbre.” Harry non era convinto. Portò la mano e poi le labbra sulla fronte di Hermione.
“Non sembri calda,” attestò sempre perplesso. Adesso il suo sguardo era semplicemente amorevole. Si avvicinò all’amica e fece in modo di avvolgerla completamente tra le sue braccia. “Sicura di stare bene?” mormorò tra i capelli di lei.
Lei annuì, raggomitolandosi contro di lui. “Tu sei caldo.” Harry sorrise e le spostò con delicatezza il viso. “Ho paura, Harry,” confessò lei.
Harry si chinò leggermente, per incrociare lo sguardo di lei. Anch’io ho paura, le stava dicendo. “Credo che almeno questo ci sia concesso,” bisbigliò appena.
Hermione si strinse nuovamente nel suo abbraccio, nascondendosi nell’incavo del suo collo, tra il maglione caldo e quello strano odore misto di tè al limone, legna e Harry. Sentì un profondo sospiro uscire dalle sue labbra.
“Certe volte vorrei...” mormorò lui, senza però finire la frase. Si scostò di nuovo, per poi prenderle il viso tra le mani.
Hermione si morse il labbro inferiore e chiuse gli occhi, nel tentativo di scacciare ogni immagine negativa. Erano soli al mondo, ma erano soli insieme. Gli afferrò il polso e, posandogli la mano sul proprio seno sinistro, fece in modo che sentisse il battito del suo cuore.
“Herm-,” iniziò lui, ma si bloccò quando Hermione incrociò le dita alle sue, guidandole a sbottonarle la camicia.
“Forse è di questo che abbiamo bisogno,” sussurrò lei. Bisogno.
Harry annuì impercettibilmente e continuò a sbottonare la camicia, lasciando scoperta una fascia di pelle che correva dal collo fino ai seni di lei. Poi, mantenendo lo sguardo fisso, le accarezzò piano la pelle nuda. Abbassò il viso con lentezza, così da darle tutto il tempo necessario per obiettare, per cambiare idea, per scappare via.
Invano Hermione tentò di tenere il conto dei motivi per cui quell’azione era essenzialmente un grosso errore, pensò di doverlo allontanare, pensò di dover alzarsi e andare via, pensò. Poi spense il cervello. Era questo quello di cui aveva bisogno. Harry era caldo, la faceva sentire meno sola: erano insieme.
Dopo un ultimo sguardo, Harry annullò la distanza tra i loro visi, per incontrare le labbra di lei. Un bacio morbido, delicato e incerto, labbra contro labbra, niente di più. Come la quieta discesa della neve sopra il terreno arido.
Ma non avevano bisogno di dolcezza in quel momento. Avevano bisogno di calore, di forza, di una speranza in cui non credevano più. Coprendo la bocca di lui con la sua, Hermione sembrò volergli trasmettere ogni briciolo di tutto quello che non riuscivano a dirsi a parole. Eppure, di solito, era brava con le parole.
La mano di lui si mosse per toglierle completamente la camicia, e Hermione si sentì rabbrividire. Poi quella stessa mano si mosse ad accarezzarle la pelle liscia, lungo la spalla, il braccio, su e giù, su e giù.
Hermione si avvicinò per cingergli il collo e ricominciò a baciarlo, inarcando la schiena nel suo abbraccio. Sentiva le mani di Harry cercarla, cercare il suo viso, la schiena, i fianchi, mentre continuava il suo gioco con le labbra sul collo.
Poi un sussurro contro il suo seno. “Ho bisogno di te.”
Un disperato bisogno di te.
 
*

Note: Questo è un capitolo cruciale all’interno della storia,  avrei sempre da scrivere tanto su di esso, quasi dovessi giustificarmi per averlo scritto (perché poi?) ma cercherò di limitarmi alle cose essenziali.
Il titolo si riferisce alla canzone omonima, interpretata da Manuel Aspidi: “In questa notte di complicità, anche la luna si domanderà quanto ci costa aver scelto di vivere soli a metà.” La citazione in epigrafe è tratta da L’età dell’innocenza di Edith Wharton e credo si spieghi da sé durante la lettura.
Il testo riprende alcune atmosfere dai video di alli6, dall’inverno sulle colline calabresi, da troppi romanzi rosa e da alcune parole pronunciate da JK Rowling: “Harry needs [Hermione] badly.”
In breve, tutto quello che riconoscete non mi appartiene.

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Capitolo 7 - La prima bugia ***


Capitolo 7
La prima bugia

Quando Harry uscì dagli uffici del Ministero della Magia il sole era già tramontato, una luce crepuscolare e pacifica circondava Londra. Si nascose dagli sguardi curiosi dei Babbani di passaggio dietro un paio di cassonetti dell’immondizia e si Materializzò a casa, direttamente in salotto, dove Al e Jamie correvano, rotolavano e saltellavano sul tappeto in pose plastiche e assurde, che solo due ragazzini di otto e nove anni potevano permettersi di compiere: un classico ritorno a casa.
Afferrò con prontezza da vecchio Cercatore il Boccino d’Oro che sbatteva le ali tra il divano damascato e il vaso cinese, regalo di zia Muriel. I due bambini cercavano di acciuffarlo nei più bizzarri modi possibili. Se sei alto quanto un tavolo da cucina e non hai la scopa volante a portata di mano agguantare un Boccino d’Oro diventa un’impresa degna di Emrys il Saggio.
“Cosa ripete sempre vostra madre sul giocare col boccino in casa?” domandò nel tono più severo che riusciva a imitare. Inutile dire che non sortì gli effetti sperati, c’era fin troppa ilarità nella sua voce.
“Ma, papà, è scappato!” si affrettò a chiarificare James, il più grande e il più pestifero, col viso corrucciato perché gli era stata tolta la possibilità di battere il fratellino.
“Ah, sì?” E in un lampo Harry, mettendo il Boccino in tasca, corse all’attacco dei suoi due maschietti saltellanti. Ovviamente le due piccole pesti finivano sempre per fare a pezzi il papà e mettevano ancora più in subbuglio il salotto. Dopo aver fatto un po’ di baccano crollarono tutti e tre sul divano.
“Dov’è la mamma? E Lily?” domandò Harry mentre scompigliava la già scarmigliata capigliatura del piccolo Albus.
“Di sopra!”, “In cucina.” Pur con notizie discordanti, i due bambini risposero all’unisono, provocando un’occhiataccia reciproca e un sorrisetto sul volto del padre.
“Riuscite a stare fermi per un po’?”
“Certo!” gli assicurò Albus, ma lo sguardo malandrino di suo fratello prometteva ben altro.
Harry non dovette cercare per molto sua moglie. Lily giocherellava con la vecchia Puffola Pigmea di James, Steve, e Ginny si divertiva a guardare le facce buffe dell’animaletto e della bambina, mentre lavava l’insalata per la cena. O forse era meglio dire che l’insalata si lavava per la cena. Ogni foglia dondolava con tranquillità sotto il getto d’acqua, e poi andava ad adagiarsi nel contenitore di plastica. Scienza dei materiali Babbana e magia millenaria erano un mix estremamente soddisfacente nelle faccende domestiche.
“Ciao, amore!” Harry sorprese la piccola Lily, baciandole sonoramente una guancia. La bambina lasciò scappare l’irritato Steve, per saltare tra le braccia del papà appena tornato, ma quando si rese conto che il suo animaletto preferito era fuggito via, abbandonò senza scrupoli il padre per correre dietro a quell’esserino rosa shocking.
“Lily deve ancora decidere se le piacciamo di più noi o quel coso peloso,” osservò Ginny, mentre dava un bacio di benvenuto al marito.
“È umiliante venire a sapere che mia figlia preferisce un confetto spelacchiato rosa a me.” Harry scelse di non pensare a quando la sua piccola Lily, in un futuro molto, molto lontano, avrebbe anteposto le priorità di un ragazzino con gli sbalzi ormonali a quelle del suo papà. Bastavano le occhiate lascive di Blackwood e dei suoi pari su Chris per ricordargli quanto quella parte gli piacesse poco. Ma con Chris era tutto così diverso.
“Cosa hai fatto alla guancia?” si allarmò Ginny notando la ferita fresca sullo zigomo, avvicinandosi immediatamente per controllare con mano.
“Incidenti di percorso,” sminuì Harry, pur assecondando l’attenta ispezione della moglie.
“Perché non sei passato dall’Infermeria?” Più che altro era una domanda retorica, sua moglie conosceva benissimo l’allergia di Harry per i rimedi di Madama Chips. Aveva passato da ragazzo troppe giornate e nottate a guardare il soffitto di quelle stanze mentre riposava, per aver voglia di sentirsi ripetere altri predicozzi. “Non ti ha ucciso il più potente mago oscuro di tutti i tempi, non ti hanno scalfito orde di delinquenti magici, adesso a farti fuori sarà una banda di ragazzini?” lo schernì mentre puliva e poi medicava magicamente il taglio.
“Ragazzine,” precisò lui, ridendo.
“Ah, beh, certo,” ridacchiò anche lei. “Dovevo aspettarmelo questo da te, non hai mai saputo come trattare con le donne.” Harry le lanciò un’occhiata da playboy arrancato, come per dire: Ho recuperato, no? “Chi è stato?” domandò lei.
“Chris,” rispose, senza accorgersi di aver subito perso il sorriso. Lo stato in cui aveva trovato la ragazza quel pomeriggio gli faceva ancora male come centomila e più di quei tagli, come una Maledizione Cruciatus lanciata con gratuita crudeltà. Ma era solo la gratuita crudeltà della vita a ferire. Era in questi momenti che le parole del professor Piton gli tornavano alla mente come un mantra, vere nella loro scarna semplicità: la vita è ingiusta.
“Non avrete tirato di scherma di nuovo?” scattò Ginny allibita, delusa e pure un po’ arrabbiata. Il nome di Chris le aveva subito portato una smorfia di apprensione sul viso.
“Stop, stop, stop.” Alzò le mani in segno di resa. “Ci ha pensato Hermione a farmi la ramanzina e, credimi, le sue prediche bastano e avanzano.”
“Sei passato da Hermione?” Ginny finse di dimenticare il soggetto precedente di conversazione. Non le andava di far albergare i suoi dubbi eterni nell’ansia del momento. Se c’era una cosa in cui lei non sarebbe mai potuta entrare era il rapporto che legava Harry e sua sorella, Hermione: era un legame tutto loro, neppure Ron riusciva a starci dietro; un rapporto cementato a furia di cicatrici e salti nel vuoto, di silenzi, regole infrante e attimi di terrore. E Chriseys, con quell’aria di sfida e i suoi fottuti occhi verde-nocciola, stava lì in mezzo. Ginny non aveva mai voluto sapere né il come, né il perché. Certe cose è meglio non saperle.
“Come sta?” si premurò di chiedere. Nonostante tutto, Hermione era un’amica, oltre che la sua cognata preferita, e usciva da un lutto devastante.
“Come al solito,” sibilò Harry, tira avanti a calci e pugni, e non riesce ancora a farsene una ragione. Io sono più di trent’anni che non so farmene una ragione. Ma la vita è ingiusta, non riuscì a frenare i pensieri. “Indaffarata,” raddrizzò le sue riflessioni per una risposta appena, appena tranquillizzante. “Le ho portato un regalino.”
Ginny rispose con una smorfia di disappunto, adocchiando la data sul calendario: 19 settembre. “Ho scordato il suo compleanno. Sono una pessima amica! Certo che quell’idiota di mio fratello poteva anche ricordarmelo quando è venuto a scroccare il pranzo. Avrei preparato una torta, perlomeno. O forse avrebbero preferito quella di mamma…” Harry assistette al monologo della moglie con un senso di bonaria ironia e silenziosa accettazione. Era buffa quando arricciava il naso in quel modo, sembrava avesse di nuovo tredici anni. Lo stupiva sempre la cura che metteva nei dettagli insignificanti. L’ultima cosa che Hermione avrebbe voluto in quel momento era una torta di compleanno.
“Non credo abbia molta voglia di festeggiare.”
“È proprio questo il punto, Harry.”
 
*
 
26 Dicembre 1997 - Foresta di Dean, Glouchestershire
Harry era rimasto pietrificato. Pietrificato era il termine adatto. Immobile su quella terra bagnata dalla neve sciolta, le mani strette su rametti, terriccio, sassolini ed erba.
Fissava l’illusione creata dal medaglione con un senso di terrore e vergogna. Autentica, ineguagliabile vergogna. Senso di colpa. E non riusciva a fiatare. Sapeva che Ron, a terra, terrorizzato e disgustato, non aspettava altro che una sua rassicurazione per agire. Un suo aiuto. Urla, cercava di ripetersi. Urlagli che è solo uno scherzo malvagio dell’Horcrux creato appositamente per ferirlo. Urlagli che avete un disperato bisogno di lui. Perché è il tuo migliore amico, la persona a cui affideresti la tua vita. La persona che ti ha appena salvato la vita.
Ma quelle ombre simili a Harry e Hermione che gli si paravano davanti si stringevano in una brama di sesso brutale e carnale. Superbi e arroganti. Paghi di loro stessi. E non erano loro due. No, non era stato così. No, era stato diverso. Era puro. Era stato un naturale bisogno d’amore; l’amore che furiosamente avevano voglia di sentire e condividere. Era amore, non… questo.
Il suo cuore si ribellava con tutte le forze a quella visione volgare, ma una parte di sé sapeva bene quanta verità ci fosse. Era stato un vile, aveva concesso alle sue debolezze di vincerlo. Sapeva bene quali fossero i sentimenti di Ron per Hermione. Sapeva bene di avere una Ginny impaziente che lo attendeva a Hogwarts. Eppure lo aveva voluto, con tutte le sue forze. Ma le donne degli amici non si toccano.
Chiuse gli occhi. “Fallo, Ron!” urlò infine. Colpisci. Affonda. Uccidi la mia colpa. Quello che riuscì a sentire poi furono solo le grida imbestialite del suo amico e il clangore del metallo del medaglione che si frantumava.
Ron si era poi fermato, immobile, in piedi con la spada in mano, guardava i resti infranti del medaglione sulla pietra piatta. Piangeva? La tortura dell’Horcrux aveva toccato le sue corde più deboli, le sue più grandi paure. Harry si sentì sudicio, e non per la terra, o la neve, o la pioggia. Si appressò alla roccia e raccolse l’Horcrux frantumato.
Ron si lasciò cadere a terra insieme alla spada, tremante, con la testa tra le mani. Harry gli si inginocchiò accanto, posandogli una mano sulla spalla. E la vide.
Vide lo sguardo ferito e pieno di lacrime durante tutte quelle notti, il corpo nudo e addormento su di lui, la piccola mano stretta alla sua a Godric’s Hollow, le lacrime soffocate mentre gli diceva di aver spezzato la sua bacchetta, il sorriso vago e rassicurante quando avevano discusso di Silente. E il bacio tenero che gli aveva regalato quella sera stessa prima di andare a letto.
Tradimento. Adesso finalmente capiva cosa significasse.
“È come una sorella per me.”
Sei parole, per mentire al tuo migliore amico, che ti ha appena salvato la vita. Sei parole, per dimenticare il sorriso confortante della donna che ti ha sostenuto nell’inferno. Sei parole, per tradire te stesso.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Capitolo 8 - All my childish fears I ***


Capitolo 8
All my childish fears
Parte I
These wounds won't seem to heal 
This pain is just too real 
There's just too much that 
time cannot erase 

“Mamma, ma perché restiamo qui?” Era la quinta benedetta volta che Hugo glielo chiedeva. Era in momenti come questo che Hermione capiva l’esigenza di Rose di chiudere la bocca al fratellino. Sorrise della sua stessa esasperazione: se sua madre fosse stata lì adesso l’avrebbe osservata ridendo e le avrebbe ricordato tutte quelle mattine e quei pomeriggi in cui la voce squillante della piccola Hermione era il solo suono che vibrava nell’aria.
“Perché l’abbiamo promesso a Chris,” rispose con una pazienza che neppure sapeva di possedere. Ogni promessa è debito e, in fondo, a questa promessa ci teneva anche lei. Aveva assicurato a Chris che non avrebbe lasciato che il loro vecchio appartamento finisse in mano altrui o venisse distrutto dai tarli, avevano quindi deciso che ogni tanto avrebbero passato qualche week-end a Kensington Park.
In quel momento, Hermione stava cercando di concentrarsi sul lavaggio delle stoviglie, mentre Hugo non sapeva proprio cosa fare e la assillava di domande. Nell’appartamento a Kensington Park Garden non aveva né giochi, né fumetti, né la collezione di figurine delle Cioccorane, né gli ologrammi dei suoi giocatori di Quidditch preferiti.
“Ma zia Chris è a ‘owars. Non lo sa mica. Noi stavamo a casa, e facevamo finta…”
“Hogwarts, amore. Vuoi che dica una bugia a tu-, mia sorella?” Doveva essere davvero stanca se commetteva questi lapsus. Per fortuna, un bimbo di sei anni completamente impegnato nei suoi ragionamenti personali non fa caso a dei miseri aggettivi possessivi.
“No, no,” rispose il piccolino di casa scuotendo i riccioli rossi, preoccupato dallo sguardo ‘non-si-fa-così’ della mamma. “Fare finta non è come dire una bugia. È come… come… un gioco!” Si stupì per primo della sua trovata geniale.
“Ah sì, amore?” Scoppiò a ridere. E gli bagnò la punta del naso con un pizzico di sapone incantato, giusto per occupargli la mente per un po’. Le bollicine crescevano sul nasino del bimbo e, quando ne scoppiava una, ne nasceva subito un’altra.
“Mamma!” Rose entrò in cucina alla velocità della luce, stringendo qualcosa di veramente importante in mano.  “Mamma, guarda cosa abbiamo trovato! Si è rotta, ma se l’aggiusti la mandiamo a zia Chris.”
“Attenta al vetro, Rosie.” Ron la seguiva, molto più tranquillo. Tornavano entrambi da una piccola esplorazione dello scantinato. Cercavano, per soddisfare la curiosità di Rose, una copia di Alice nel paese delle meraviglie che Hermione ricordava di possedere, senza sapere bene che fine avesse fatto. Evidentemente quello che avevano trovato era molto più interessante di un libro Babbano per ragazzi.
L’oggetto tra le mani di Rose era un vecchio portafoto, con il vetro frantumato. I soggetti della foto erano corsi via oltre la cornice ma Hermione ne riconobbe subito lo sfondo, così come, probabilmente, avevano fatto anche Ron e Rose; ne avevano una copia in bella mostra nel salotto di casa a Porter Street.
“E non poteva sistemarla papà?” Hermione si rivolse a Rose, ma ovviamente la domanda era per il marito.
“Ha detto che nessuno è bravo come te a fare gli incantesimi.” Rose sembrava sinceramente convinta della veridicità dell’affermazione del padre. Quando gli fa comodo… sogghignò Hermione, lanciando un’occhiata scettica a Ron che se la rideva sotto i baffi; si era defilato dalla conversazione tra mamma e figlia, preferendo giocare con Hugo e le sue bolle di sapone svolazzanti.
“Finalmente lo ha capito anche lui.” L’occhiolino che Hermione fece a Rose provocò nella bimba uno scoppio di risa altamente contagioso. Rosie aveva una risata così cristallina e onesta che non si poteva non amarla.
Una famiglia felice. Come era facile essere felici con i suoi bambini, riuscivano a farle dimenticare quasi tutto. Una famiglia felice. Esattamente come quella che si nascondeva dietro le cornici di quella foto, scattata nemmeno troppi anni addietro, nel cottage che i Granger affittavano ogni tanto a Füssen, in Baviera.
Quando i soggetti avevano l’accortezza di mostrarsi, si potevano vedere le braccia forti di Edward Granger abbracciare le sue tre donne: una Helen rilassata e felice che alternava occhiate amorevoli a suo marito e alle sue due bambine, una Chris di tre anni, prima imbronciata e poi sorridente, stretta in braccio a una Hermione particolarmente allegra.
Era un autoritratto di famiglia scattato l’ultima volta che erano andati a Füssen tutti e quattro insieme. Edward e Helen, oltre che Hermione stessa, amavano andare spesso in quella cittadina per le loro vacanze invernali, c’era tutto quello di cui avevano bisogno, e col castello di Neuschwanstein così vicino si respirava sempre un’aria da favola.
La volta successiva, quella che poi sarebbe diventata l’ultima vera volta in cui avrebbero messo piede in città, quando lo scoppio della brace nel caminetto mise fine alla vita di Edward, Hermione non c’era. Era rimasta in Inghilterra poiché era appena stata trasferita dal Dipartimento della Regolazione e Controllo delle Creature Magiche a quello sulla Regolazione della Legge Magica, era un momento d’oro per la sua carriera. E a causa di ciò, quando era morto suo padre, lei non c’era.  Non era mai riuscita a perdonarselo, aveva da sempre la sensazione che se ci fosse stata, forse, avrebbe potuto evitarlo. Anche con un misero tocco di bacchetta. Avrebbe fatto qualcosa, qualsiasi cosa. Ormai era diventato un altro incubo ricorrente da aggiungere agli altri: il pugnale di Bellatrix Lestrange, il muro crollato di Hogwarts, i volti spenti di Remus, Tonks e Fred, il corpicino addormentato di Chriseys nell’incubatrice prima della partenza per il suo settimo anno, e quel cottage distrutto dal fuoco. Eccoli: rimpianti, rimorsi, angosce della vita di Hermione Granger.
La cornice d’argento era quella che Chris teneva in camera fino a qualche mese prima. Finché un giorno era semplicemente scomparsa. Dallo stato in cui si trovava adesso, Hermione dedusse che fosse stata proprio la ragazza a disfarsene, con buona probabilità, neanche tanto delicatamente. Hermione riusciva a immaginare la scena con dovizia di dettagli: Chris in lacrime dopo un’altra seduta di terapia della mamma, che rivedeva la foto fin troppo felice per i suoi gusti, e perdendo la pazienza la scaraventava a terra, o sul muro.
Era assurdo. Tutto così assurdo. Aveva ceduto i propri diritti e doveri su Chris ai suoi genitori per poterle dare una famiglia unita e solida, e la morte gliel’aveva portata via un pezzo alla volta. Chris era rimasta orfana di padre a quattro anni e mezzo e di madre a sedici appena compiuti. Non era così che aveva visto il suo futuro. Non era così che doveva andare.
Riparò quel vetro incrinato con un semplice movimento di bacchetta e un “Reparo” rapido. Non si decideva però a chiamare quel vecchio rimbambito gufo di Leo per spedirla alla sua proprietaria. Rose, prima di correre a giocare (o a fingere di giocare) a scacchi magici col fratellino (non che Hugo sapesse farlo comunque), le aveva strappato la promessa che avrebbe mandato la foto a Chris. Sapeva essere davvero decisa quella bambina quando voleva qualcosa.
 “Non la mandi?” le chiese Ron, intercettando il suo sguardo concentrato sull’immagine.
“Credi che sia pronta? Sai perché hai trovato questa foto in uno scatolone di sotto, no? L’avrà lanciata contro il muro, o vi avrà scagliato contro qualche incantesimo per farle fare questa fine. Insomma, qualcosa degno di lei.” Hermione sospirò ansiosa.
“Penso che ne abbia bisogno.” Bisogno di ricordare, di sorridere al pensiero che una volta erano insieme, e si poteva sentire il profumo di casa e felicità. Bisogno di sapere che non era un sogno, ma la realtà. Che l’amavano, l’amavano più di ogni altra cosa. “E anche tu,” sussurrò lui.
Hermione percepì tutta l’apprensione di Ron in quel sussurro. Talvolta, era incredibilmente complicato far entrare anche lui in quell’angolo privato che era il dolore per la perdita dei suoi genitori. “Anche se fa piangere?” chiese, infine, con la voce ormai spezzata.
“Anche se fa piangere,” annuì lui, stringendole la mano. I polpastrelli ruvidi che le accarezzavano il palmo sembravano pregarla di liberarsi di quel dolore nascosto. Perché ognuna di quelle lacrime andata versata. Finalmente.

 
*
 
Note: Titolo e citazione in epigrafe sono ripresi dal brano My Immortal interpretato dagli Evanescence. Le traduzioni dei passaggi citati sono, in ordine: “Tutte le mie paure di bambino” “Queste paure non sembrano finire, il dolore è fin troppo reale; troppe cose il tempo non può cancellare.”

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Capitolo 8 - All my childish fears II ***


Capitolo 8
All my childish fears
Parte II
 
10 Gennaio 2003, Füssen, Baviera

Aveva freddo. Ed era buio. Si era svegliata nel bel mezzo della notte coi piedini completamente congelati. E non serviva né sfregarli in continuazione l’uno contro l’altro, né rannicchiarsi, né appallottolarsi come una ciambellina su se stessa. Aveva freddo. Non devi piangere. Non piangere, si ripeteva.
Pensò di correre, veloce veloce, nel lettone tra mamma e papà: si sarebbe accoccolata nelle braccia forti del papà e la mamma le avrebbe riscaldato i piedini, sorridendole e accarezzandole i riccioli. Il lettone di mamma e papà era sempre caldo; lei lo sapeva. Ma aveva promesso, e Chrissie manteneva le promesse.
 
“Non sono piccola!” aveva esclamato, tirandosi su in tutti i suoi novantatré centimetri di altezza, e poi aveva sfidato con lo sguardo questo papà impertinente che continuava a chiamarla ‘piccola’.
Edward ridacchiava di nascosto dalla bambina dalla sua comoda posizione sulla poltrona di fronte il focolare. La visita al castello quella mattina lo aveva stancato parecchio; Helen si era appisolata sul letto di sopra, ma la loro piccola peste a batterie ultracariche non era intenzionata a concedergli un attimo di tregua. Quando lo guardava in quel modo, con la fronte corrucciata e le guanciotte da mangiare a morsi arrossate, quando arricciava le labbra arrabbiata, e stringeva le braccia attorno a sé, era dolcissima. Era così uguale a Hermione, con i suoi boccoli castani svolazzanti e lo sguardo sveglio, eppure così diversa, più decisa, meno disposta ad accettare le regole. Era la bambina della sua bambina. Ed era il suo regalo più bello.
“Ah, no? Le bambine grandi non fanno arrabbiare mamma e papà.”
Chris incominciò a mordicchiarsi il labbro inferiore. Stava ripensando a tutte le volte che la mamma l’aveva sgridata perché aveva fatto cadere qualcosa nello studio, o si era riempita la bocca di caramelle, o quando aveva spinto TeddyBear, o aveva tirato via gli occhiali all’amico tutto impettito di Hermione o… beh, tutte quelle volte che aveva fatto arrabbiare mamma e papà. Poi un sorriso compiaciuto le illuminò il faccino tondo. Anche Hermione li aveva fatti arrabbiare: una volta aveva visto la mamma sgridarla e guardarla come guardava lei mentre combinava i suoi guai. E Hermione era grande.
“Ma anche ‘Emmione fa arrabbiare la mamma!” Edward si ritrovò a ridere. Gliel’aveva fatta ancora. Gliela faceva sempre.
“Allora tu sei una cucciola grande come Hermione?”
“No. Sono grande un po’ più piccola di ‘Emmione.”
“Senti, cucciola grande un po’ più piccola, ci vieni tra le braccia di questo vecchio?” Chris si fermò un po’ a riflettere, poi, come se gli stesse concedendo il più grande favore al mondo, si arrampicò sulla poltrona e tollerò di farsi tenere un po’ in braccio, ammettendo segretamente solo nella sua testolina quanto le piacesse riposarsi insieme al papà.
“Papà? Ti prometto che stanotte dormo da sola, come una cucciola grande.”
 
Aveva promesso e avrebbe mantenuto la parola data. Lei non si rimangiava le promesse solo perché aveva un po’ di freddo, non come quel fessacchiotto di TeddyBear che correva sempre dalla nonna. Lei era coraggiosa. Gliel’aveva detto Harry Potter: “Sei una bimba coraggiosa, Chriseys.” Le piaceva come suonava. Coraggiosa.
Ma faceva freddo! Troppo freddo. Voleva solo un po’ di caldo.
Chrissie, accendi un fuoco. Così ti riscalderai.
E fu così che comparve. Era una fiammella di luce, piccola, tonda, calda. Chris la vide galleggiare su di sé, e avvicinò i piedini sotto la coperta alla fiamma. Finalmente ricominciò a sentire le dita dei piedi rilassarsi, e il calore iniziò a tranquillizzarla. C’era la luce, e c’era caldo. Si riaddormentò.
A risvegliarla fu un forte dolore al piede destro e le lingue di fuoco che la guardavano dall’alto.
“Brucia!” urlò.
 
*
 
Bruciava. Bruciava come se mille piccole fiammelle le stessero attraversando la mano. Ma Harry non doveva accorgersene. Doveva far di tutto perché Harry non se ne accorgesse.
Harry colpiva, parava, girava, con maestria. E Chris poteva solo difendersi dai colpi precisi di lui. Era uno spadaccino eccellente. Era Harry Potter ed era nato per questo: combattere. Mentre Chris era solo molto, molto arrabbiata. Con Ted. Con Hermione. Con la professoressa Light. Con tutti. E sentiva il cuore pulsare, l’adrenalina pompare nelle vene, l’ira iniziare a dominarla. Ma quella cazzo di ferita sul polso bruciava.
Ti fidi di Harry Potter?
Certo che si fidava di Harry Potter, come le venivano in testa quelle domande? Harry era il suo amico, il suo mentore, il professore più fidato, lo zio da convincere per farsi comprare le caramelle. Lei voleva bene a Harry Potter. Anche quando la lama della sua spada arrivava così vicino a tagliarle i capelli. Tanto meglio: erano rossi.
Bene. Sei sicura che lui ti voglia bene? Sicura che non sia solo dovere il suo? Sicura non ti dica solo un mare di bugie?
Bugie. Perché Harry avrebbe dovuto mentirle? Harry non era come gli altri, non come i suoi compagni di scuola o i professori. Non come tutti i Weasley o la signora Tonks. A Harry importava sul serio di lei. Oppure no? Era un altro ipocrita che si riempiva la bocca di parole grosse e promesse mancate? Una sua stoccata la fece ruzzolare a terra.
“Stai bene, Chris?” domandò, prima che la ragazza si lasciasse tirare su. “Vuoi che smettiamo?”
“No. Continua.”
Non lo senti, Chriseys? Il sangue. Il sangue grida vendetta.
 
*

Il sangue le colava dal naso. E Chris piangeva, urlava, e non capiva, avvinghiata a quelle braccia distrutte. Papà. Dov’era il suo papà? Perché non tornava il suo papà? E perché la mamma piangeva ed erano fuori al freddo? E tutta quella luce gialla e rossa. Era fuoco.
Tanto fuoco intorno a loro. E nessuna risposta.
“Sei stata tu, Chriseys?” La voce di Harry l’atterrì, come i suoi colpi con la spada. Non era la solita voce. Non era il solito Harry. Stava di fronte a lei, pallido, gli occhi di un verde quasi trasparente.
“Sei stata tu, Chriseys?”  Un’altra voce, quella di suo padre: di Edward Granger. Suo padre, ne era certa. Anche se erano passati dodici anni, aveva rinvenuto quella voce dall’oblio della sua memoria.
Nessun’altra parola. Solo il buio e quegli occhi rossi, iniettati di sangue, che l’osservano dallo specchio. “Sei stata tu, Chriseys.” Non era più una domanda.
Si svegliò di scatto, ansimando pesantemente. Cos’era? Un sogno? Così vivido, così vero? Si girò verso il comodino, sopra la copia di Alice nel paese delle meraviglie che aveva rubato a Hermione, la foto. Quella maledetta foto doveva aver pungolato la sua mente confusa e sofferente. O almeno sperava.
Si alzò dal letto cercando di fare il minor rumore possibile, per non svegliare le ragazze. Dormivano beatamente, Elise dietro la sua tenda tirata e Sybil col telo tutto aperto perché preferiva addormentarsi al chiaro di luna. Chris si diresse a tentoni verso il bagno. Rischiò di inciampare sul vecchio calderone di Sybil. Perché accidenti Syb doveva tenere un calderone pieno di cianfrusaglie tra i loro due letti?
Aveva bisogno di schiarirsi le idee dopo quel sogno non proprio piacevole. Era stata lei a fare cosa? La risposta le parve ovvia e scontata. E cosa voleva dire? Ma era stato solo un sogno? Oppure un ricordo rimosso nella sua memoria aveva deciso di tornare con forza a bussare nel suo cervello? E cosa c’entrava Harry?
Non riusciva a levarsi dalla mente quella voce. Non ci riusciva mai, era sempre lì. Insieme a lei, a guidarla, a suggerirle cosa fare, a prendere le sue decisioni. E sul serio, non riusciva a capire, era quella la sua voce? Si bagnò ripetutamente il viso.
Sei stata tu, Chriseys.
Alzò la testa. Nello specchio il proprio viso, e due occhi rossi, iniettati di sangue, gelidi, l’osservavano.
 
I'm bound by the life you left behind
Your face it haunts my once pleasant dreams
Your voice it chased away all the sanity in me [...]

But you still have all of me
 *
 
Note: Anche in questo caso citazione finale ripresa dal brano My Immortal interpretato dagli Evanescence: “Sono legata alla vita che ti sei lasciato dietro, il tuo viso infesta i miei sogni un tempo piacevoli, la tua voce mi ha tolto la sanità mentale … Eppure hai ancora tutto di me.” 
Nella revisione completa della longfic, queste due parti dell'ottavo capitolo risultano riunite. Ho scelto di mantenere la separazione nella pubblicazione su EFP perché mi dispiacerebbe cancellare i bei commenti dei miei vecchi lettori. Se non ho mai davvero demorso nella scrittura di questa storia è in gran parte dovuto all'amore che questa storia ha sempre ricevuto. <3
 

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Capitolo 9 - Lacrime mentre piove ***


Capitolo 9
Lacrime mentre piove
 
All'età di quindici anni, durante il suo quinto alla Scuola di Stregoneria e Magia di Hogwarts, Harry James Potter aveva deciso che, se fosse sopravvissuto a Lord Voldemort, sarebbe diventato un membro del Corpo Speciale Auror. Nel corso del tempo gli era anche capitato di fantasticare su diversi sogni a occhi aperti – si era immaginato giocatore professionista di Quidditch, giornalista sportivo, allevatore di specie strampalate insieme a Rubeus Hagrid, braccio destro di Hermione Granger in una immaginaria agenzia investigativa – ma mai, in nessuna delle sue fantasie, avrebbe pensato di diventare il Professor Potter. Si era sempre considerato troppo impulsivo, poco paziente e per nulla organizzato, per ritenersi capace di preparare una lezione o gestire una classe di adolescenti in maniera adeguata.
A diciotto anni era entrato in Accademia, a ventuno era diventato matricola e aveva iniziato a lavorare in coppia con vari senior, a ventitré era già la punta di diamante del Dipartimento, a ventisette era stato promosso a Capodipartimento Auror. Nessuno poteva fermare la brillante carriera del Salvatore del Mondo Magico. A trentun anni, il colpo di bacchetta di un certo Harvey, novello Mangiamorte, gli rinnovò vecchie ferite e vecchie paure, e la concreta possibilità che i suoi bambini potessero perdere il loro papà per le sue manie di eroismo convinse Harry a cambiare mestiere.
Dare a quattro ragazzini delle dritte su come affrontare un Avvincino gli sembrò allora molto più interessante che chiudersi in un ufficio al Ministero. La preside McGranitt non aspettava altro che un suo cenno del capo per averlo tra le file del corpo insegnanti della sua scuola.
Un mese, due, tre e Harry aveva piacevolmente scoperto i vantaggi del suo posto a Hogwarts: era gratificante riuscire a condividere la sua esperienza e conoscenza con i ragazzi della scuola, poteva tenere sotto controllo Chriseys e Ted senza invadere i loro spazi e, infine, poteva nuovamente sentire il profumo di casa. Perché Hogwarts era la sua casa.
Non che non amasse da morire il cottage a Godric’s Hollow che divideva con Ginny e i suoi bambini, ma le mura di Hogwarts possedevano quel calore che gli avrebbe ricordato per sempre quale era stata la sua prima casa. Quando vedeva i bambini e i ragazzi correre nei corridoi verso i dormitori, gli sembrava di risentire le battute bofonchiate di Ron e la risata cristallina di Hermione. Hogwarts lo completava.
Quel pomeriggio il professor Potter era impegnato nel valutare i miglioramenti dei ragazzi del sesto anno negli incantesimi non verbali. Erano una ventina di giovani maghi, tra Grifondoro e Corvonero, che avevano superato brillantemente i G.U.F.O.; effettivamente la classe del sesto quell’anno era davvero eccellente. Harry iniziava a stuzzicare l’idea di avvicinarli all’evocazione di un Patronus.
Erano tutti molto concentrati ad attaccare o a parare i colpi dell’avversario; Harry prendeva appunti mentalmente, così come gli aveva insegnato Hermione, focalizzando i punti chiave.
La prima bacchetta a saltare fu quella di Susy Sprite. Nessuna sorpresa. La signorina Sprite gli ricordava così tanto Lavanda Brown che scoprirla presa ad ammirare il ciuffo biondo di Daniel Bentley anziché concentrarsi sull’incantesimo di difesa non gli parve affatto una novità. “10 punti a Corvonero.” Regalare punti alle altre case non gli piaceva per niente, esattamente come vent’anni prima, ma perlomeno non erano Serpeverde.
Tra uno studente e l’altro ebbe anche il tempo di arrossire come un quattordicenne qualsiasi a un apprezzamento scappato alla bocca sincera di Sybil Joyce – “Sa, professore, la barbetta le dona.” – e di dare uno scappellotto a William MacDonald per la risatina che si era lasciato sfuggire.
Una coppia di duellanti davvero brillante erano Chris e la sua compagna di stanza, Elise Thomas: aveva visto incantesimi e protezioni volare da una parte e dall’altra senza che nessuna delle due dicesse una singola parola. E sapeva benissimo che Chris non solo stava combattendo con la compagna, ma anche col desiderio di leggerle la mente e chiudere immediatamente la partita. Dedicò alle due ragazze un sorriso compiaciuto. Per fortuna niente e nessuno gli poteva impedire di provare quell’istinto di soddisfazione dovuto al suo orgoglio paterno. La sua Chrissie non era niente male con gli incantesimi.
Quando Chris intercettò il suo sguardo giubilante con un’occhiata interrogativa, perse il contatto visivo con la sua avversaria che la disarmò immediatamente con un Expelliarmus muto. “Bel lavoro, Thomas!” esclamò Harry, sorpreso. Concentrazione: cardine primo di un buon duello.
Quel che accadde subito dopo, però, costrinse Harry a sostituire l’orgoglio con lo sgomento. Una piccola lingua di fuoco partì dalle dita di Chris verso la compagna. Per fortuna, come se persino lei fosse stata colta alla sprovvista dalla propria reazione, pronunciò frettolosamente un “Finite Incantatem” prima che la fiamma si allontanasse troppo dalla sua mano.
“Chris, cosa accidenti fai?” fu la legittima domanda stupita di Elise. Chris aveva appena compiuto due rapidi incantesimi senza la sua bacchetta, di cui uno non verbale e altamente pericoloso, che di certo non si insegnava nei corsi pre-M.A.G.O.
“Non lo so,” borbottò, abbassando lo sguardo.
Harry non perse tempo, congedò la classe, e prese Chriseys di parte. “Chris, il Reparto Proibito è … proibito.” L’Inflamate non era un incantesimo da mago qualsiasi, era roba di un’altra categoria. E l’aveva eseguito senza bacchetta, per Merlino! Erano trucchetti che riuscivano solo ai migliori maghi del mondo, gente della pasta di Silente. Harry stesso non c’era mai riuscito, e non aveva battuto pochi maghi a duello.
“Ti giuro, Harry, non so come sia potuto succedere…”
“Non mentirmi.”
“È la prima volta che succede. Ho reagito d’istinto, ero senza bacchetta e ho sentito l’esigenza di difen-, attaccare?” Fermò la sua apologia balbuziente colpita da un qualche pensiero nascosto. Per un attimo a Harry parve che fosse sul punto di dirgli qualcosa, qualcosa d’importante. “Non lascerò che accada mai più,” si limitò a concludere.
“Lo spero.” Contro ogni logica, Harry decise di fidarsi. “Questa era la tua ultima lezione per oggi, vero?” Chris annuì. “Bene, sono sicuro che Gazza apprezzerà il tuo aiuto nella pulizia dei bagni femminili del secondo piano.”
“Stai scherzando, vero? Dai! L’ho fermato, non ho colpito nessuno!” Harry iniziò a raccogliere il suo libro ignorando Chris. “Sai benissimo chi c’è nei bagni al secondo piano,” continuò lei, sospirando, con una buffa faccia tra il rassegnato e l’infastidito.
“L’entrata per la Camera dei Segreti?” Harry le diede un buffetto sulla guancia. “Mirtilla adorerà la tua compagnia. Sta sempre sola, poverina.”
 
*
 
7 Gennaio 1998 – Foresta di Dean, Glouchestershire
Osservare impotenti Hermione lasciare la tenda con un bel botto di rabbia stava quasi diventando una routine quotidiana. Ce l’aveva con Ron perché era andato via, ce l’aveva con Harry perché l’aveva lasciato tornare e, come pareva da quelle mattinate in giro per i boschi, non sopportava la compagnia di nessuno dei due.
“Okay. Basta.” Harry posò con calma la tazza di latte che tanto non era riuscito a toccare. “Cosa le hai detto questa volta?” domandò a Ron che se ne stava mogio, mogio, accovacciato sul letto.
“Ehm, beh …”
“Lascia stare. Provo a parlarle.” Uscì all’esterno, nella foresta. Aveva una vaga idea che ad attenderlo ci fosse una Hermione furiosa, ma si sbagliava. La ragazza era in piedi davanti un albero, indecisa se tagliarne i rami o meno, e piangeva.
“Harry Potter non ci provare,” lo avvisò di non avvicinarsi, lui se ne infischiò altamente: Hermione stava piangendo. Vederla piangere, ancora, era una tortura bella e buona. Harry non sapeva mai cosa fare quando vedeva Hermione piangere, non sapeva mai fin dove sarebbe riuscito a trattenersi pur di farla smettere. Perché Hermione non doveva piangere. Le si parò davanti. Le alzò il viso. Lei si rifiutava di guardarlo negli occhi. Ponderò con calma quali parole usare.
“Qualsiasi cosa abbia detto sono sicuro che…”
Finalmente Hermione alzò lo sguardo: i suoi occhi erano infuocati. Fuor di metafora.
“Tua sorella, Harry? Sul serio?” Non si fermò a riflettere su quanto un incantesimo avrebbe raggiunto meglio e prima l’effetto desiderato. Lo schiaffeggiò. “Credevo che almeno tu avessi una più alta opinione del mio intelletto. Non sono la bambolina che tu e il tuo amichetto Ron potete gestire a vostro piacimento. Non sono la tua Firebolt che puoi decidere a chi, come e quando prestare o regalare per farci un giro. Quindi non ci provare neppure ad avvicinarti a me.” Quel che più spaventò Harry era il tono basso della sua voce. Troppo basso.
“Hermione,” mormorò mortificato, cercando di formulare un pensiero coerente. Tutto quello che sentiva era il bruciore sulla guancia destra, tutto quello che vedeva erano gli occhi marroni di Hermione lucidi e arrabbiati con lui, con la sua presunzione. E il medaglione. E Ron. Si odiò per le parole che pronunciò. “Ron ti ama. E tu ami lui.” Ma sapeva che non erano lontane dalla verità.
“Oh, Harry, non fare supposizioni su quello che non conosci.”
“Non sono supposizioni. È un’analisi accurata su anni di dati di fatto.” Stronzo. Era una risposta che sarebbe potuta uscire dalla bocca di Hermione, non da quella di Harry. Era una risposta studiata a tavolino per mostrarle la perfezione del suo ragionamento. Stronzo. Non è in questi casi che bisogna ragionare.
“E quello che è successo la settimana di Natale non contraddice i tuoi dati di fatto?” Evidentemente variabili e condizioni non facevano parte dello schema perfetto di Harry Potter. Quanto? Quanto si stava odiando in quel momento?
“Non necessariamente. Potrebbe essere stato …”, Harry si morse le parole e il labbro, ingoiando amaro. “Debolezza.”
Hermione indietreggiò per appoggiarsi all’albero dietro di lei, come se stesse perdendo i punti di riferimento in quella grigia foresta. Vertigine? Calo di zuccheri? “Non sarebbe stato più semplice ammettere fin dall’inizio di aver fatto un errore, Harry? L’avrei …” fu il suo turno di inghiottire la verità, “l’avrei accettato.”
“Tu non l’hai visto.” Harry trovò il coraggio di ammettere. “Tu non lo sai. Siamo noi. Siamo noi la sua più grande paura. Io e te. Non un branco di ragni incontrollabili, non la morte di uno dei suoi fratelli, nessun Lestrange, Grindelwald o Tom Riddle, nessun drago o mostro. Io e te. Non possiamo. Non se lo merita, mi ha salvato la vita. È la persona più cara che ho, insieme a te. E tu… lo ami.”
 
*
 
E se amassi di più te? Avrebbe voluto dirlo, ma per lui era stata solo debolezza. Avrebbe potuto dirlo, ma non lo fece mai. Svenne.
 

Note: Il titolo del capitolo è ripreso dal brano L'ultimo bacio di Carmen Consoli: "L'ultimo bacio, mia dolce bambina, brucia sul viso come gocce di limone, l'eroico coraggio di un feroce addio, ma sono lacrime mentre piove, piove..."

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** Capitolo 10 - Fogli dal passato ***


Capitolo 10

Fogli dal passato

Qualcosa ancora non tornava tra il giro d’accordi segnato di fretta su quella consunta pergamena e il suono che usciva dalla chitarra. Era qualcosa che le sue scarse conoscenze di teoria musicale e lo sbadato autore di quello spartito non avrebbero mai potuto risolvere. Non senza un aiuto.
Ted sapeva benissimo chi avrebbe saputo sciogliere il suo dilemma: Chris. Ma ancora non si era concesso di pensare benevolmente a quella testa calda della sua amica. Non doveva, non poteva lasciarle passare anche questa. Chriseys doveva capire che nessuno lì condivideva il suo gusto stupido per gli scherzi idioti. Non ai danni di Victoire. In fondo Ted non chiedeva poi molto: cosa costava a entrambe imparare a tollerarsi senza provocarsi a vicenda? Cosa c’era di difficile? Non avrebbe fatto di certo male ad entrambe cercare di ricordare che una volta, prima di quell’assurdo incidente, si erano volute bene.
Scacciò l’immagine degli occhi lucidi di Chris dopo le sue parole amare durante la lezione, tornando a concentrarsi sulla musica. Chiunque fosse stato l’autore doveva essere un gran pasticcione – testo e accordi si confondevano sotto un pentagramma tutto storto in cui si rincorrevano note vuote, piene e frettolose.
Ogni volta che Ted apriva quei quattro fogli di pergamena ingiallita si chiedeva chi fosse quel musicista incompreso o cosa stesse facendo in quel momento. Magari ora suonava in qualche pub acclamato da pochi accaniti fan, o di nascosto in camera per non farsi sentire dai parenti, o magari era morto in una delle guerre magiche, come tanti, troppi altri. Come suo padre, come sua madre.
Lo spartito gli era caduto in mano per caso mentre spulciava il vecchio libro di Erbologia di Remus Lupin sperando di trovare qualche indicazione utile tra gli appunti paterni. Una delle poche cose intatte che gli restavano di lui: i suoi libri. Consumati, stanchi, ricoperti di appunti confusi o scribacchiati di sciocchezze. Di qua e di là aveva trovato qualche caricatura di vecchi professori, firmata S.B., qualche richiesta stramba da parte di due mani diverse, una enorme, tondeggiante e decisa, e l’altra minuta e tremolante, e qualche correzione agli appunti ad opera di ‘Lils’. Era come se i vecchi amici di suo padre avessero cristallizzato la loro giovinezza in quelle pagine. Non una di quelle persone era ancora in vita, ma i Malandrini avevano lasciato il loro segno anche lì.
Ogni tanto Ted si fermava a leggere quei libri con la mera illusione di sentire suo padre un po’ più vicino. Dietro il capitolo sui Metamorfomagus del sesto volume di Trasfigurazione, c’era una notina che Teddy supponeva fosse di Sirius: “Dovresti conoscere la mia cuginetta!” E sì, l’aveva incontrata poi.
Una volta aveva mostrato i libri a Harry. Erano rimasti ore a guardare quelle grafie così diverse, così importanti. Un ricordo così prezioso, così lontano. Così poco.
Su quello spartito Ted non era riuscito a riconoscere nessuna dei tratti che aveva osservato per così tante volte. Sapeva solo che quello era un bel testo, e aveva voglia di tirar fuori da quella polvere anche la musica. Chris ci sarebbe riuscita in un lampo.
Il pensiero dell’amica non la voleva finire di tormentarlo. Aveva sbagliato? Doveva sul serio sbatterle in faccia quel vecchio errore? Il ricordo dello sguardo deluso di lei sembrava volergli dire di sì. Sì, Ted. L’hai ferita gratuitamente. Ma lei aveva umiliato Victoire, davanti a tutta quella gente; per qualche suo stupido capriccio, per una sua improvvisa voglia di attenzione… Era dal mese precedente che Chris esagerava tutti i suoi comportamenti fastidiosi, gli scatti d’ira, le ore chiusa in solitudine, le risposte lunatiche. Dal mese precedente.
La realizzazione del fatale errore costrinse Ted a maledirsi miliardi di volte mentalmente. Si era ripetuto così tante volte che doveva mostrare all’amica come la vita continuasse, che doveva comportarsi con lei come se nulla fosse accaduto, che non avrebbe dovuto in alcun modo ricordarle la signora Helen, che aveva finito per dimenticare lui. Ora sapeva di essere un piccolo verme strisciante. Era il peggiore amico che potesse trovarsi sulla faccia della terra.
Come aveva potuto pensare che Chris potesse superare indenne la morte della madre dopo solo un mese e qualche giorno?
Abbandonando il suo strumento sul letto, tirò fuori la Mappa del Malandrino dal cassetto accanto a lui. Una voglia tremenda di sapere dove fosse, di andare a cercarla, di chiederle scusa si era impossessata di lui.
“Giuro solennemente di non avere buone intenzioni.” Il foglio vergato dalle firme dei quattro malandrini originari si aprì mostrandogli ogni singolo angolo della sua scuola. Torre dei Grifondoro? No. Biblioteca? No. Sala Grande? No. Ingresso? No. Serre? No. Aula di Babbanologia? No.
Attraversando con gli occhi l’aula di Trasfigurazione oltrepassò tranquillo il nome di Victoire, circondata da quelli dei suoi compagni di anno. Nel suo ufficio Harry passeggiava un po’ su e un po’ giù, mentre Hagrid pareva proprio dirigersi da lui. Trovò finalmente il nome Chriseys Granger sulle scale che conducevano alla torre di Astronomia, e proprio mentre le stava salendo, Ted notò un altro nome appressarsi a lei. La risoluzione di parlarle immediatamente si fece più urgente. Cosa diavolo voleva quel pomposo di Damian Blackwood dalla sua amica?
 

*

1 Settembre 2011 – King’s Cross Station, Londra

“Perché non vai?” chiese Harry, gettando occhiate a destra e a manca, a due passi dal treno, dove Chris e Ted erano appena entrati, sperando che né Hermione, né Andromeda Tonks facessero caso alla loro conversazione.
“Miseriaccia! Non capisco davvero perché non potresti dargliela tu?”
Harry si spazientì. Quante volte doveva ancora ripeterglielo? “Perché adesso sono un professore, perderei di credibilità ai loro occhi se gli consegnassi la mappa.”
Ron avrebbe voluto ricominciare a elencargli la sfilza di altri mezzi che avrebbe potuto usare per fare in modo che la Mappa del Malandrino finisse nelle mani di Teddy o di Chris, ma ci rinunciò, limitandosi ad alzare gli occhi al cielo. C’era una certa qual logica nel ragionamento di Harry che non poteva non condividere.
Harry si era convinto che la mappa dovesse passare di mano in mano, da malandrino a figlio di malandrino, e così nei secoli dei secoli ci sarebbero state generazioni di piccoli impertinenti che eludevano il controllo di Gazza o di chi per lui. Ted era il legittimo erede di quel pezzo di pergamena tanto prezioso, e anche Chris, pur se non legittimamente. D’altronde, la ragazzina si era meritata il titolo di malandrina honoris causa. Il talento per i guai. Un tratto così squisitamente Potter che Harry si era chiesto tante volte come facessero gli altri a non accorgersene.
“Ok, ma sappi che lo faccio solo per Chrissie e Teddy.” Meritavano anche loro un po’ di tempo da Malandrini. “Non di certo per te.” Detto ciò saltò con due balzi nel treno dove un tempo correva eccitato per un nuovo anno di scuola o per una nuova estate. Trovò i due tredicenni quasi subito, stavano riponendo i loro bauli, e per fortuna non c’era nessun altro ragazzino a rompergli le uova nel paniere.
Ted aggrottò la fronte quando lo vide. Nessun adulto saliva mai sul treno. Ron chiuse la porta dello scompartimento dietro di sé, e i due ragazzi parvero sempre più confusi. Ambasciator non porta pena, ma se Hermione lo avesse scoperto, sarebbero stati guai amari.
“Ragazzi, mi è stato affidato un compito.” Ron ispirò profondamente, e continuò la sua declamazione, ora divertito dalle facce dei due ragazzini. Forse questo ruolo di messo non era poi tanto male. “Signor Lupin, ho il piacere …”
“Ron, smettila di parlare come il Ministro!” lo interruppe Chris. Aveva quel tono spazientito e saccente tipico dell’Hermione adolescente. Era inquietante.
“Zitta tu, Hermione II – Il ritorno,” le fece, pizzicandole il naso. Chris spalancò immediatamente la bocca pronta a rispondergli inviperita. Odiava sentirsi paragonata a Hermione, lei non era affatto uguale a quella seriosa rompiscatole di sua sorella! Ron la fermò prima che diventasse tutta fuoco in faccia. “Dai, dai. Sennò non finisco più! E se tua sorella, e tua nonna,” si rivolse a Ted, “vengono a scoprire cosa sto per darvi mi tagliano le mani, se mi va bene. Ecco.” E consegnò nelle mani del piccolo Metamorfomagus la pergamena bianca.
“Un foglio bianco?”
“Oh, no. Non un semplice foglio bianco. Prendi la bacchetta, su, su.” Ted tirò fuori la bacchetta dalla sua tasca posteriore, con l’espressione perplessa e curiosa. Chris stringeva ancora le braccia intorno al petto, offesa dall’atteggiamento di Ron, ma non poté fare a meno di sbirciare. “Ora ripeti ‘Giuro solennemente di non avere buone intenzioni.’ Sai chi sono questi quattro, vero Ted?”
“I messeri Lunastorta, Codaliscia, Felpato e Ramoso sono orgogliosi di presentare la Mappa del Malandrino.” Gli occhi sgranati e le bocche spalancate dei due ragazzini bastarono a Ron per ripagarlo di tutte le noie che Harry gli aveva dato per convincerlo a consegnarla. Dopo un mezzo minuto di contemplazione Ted si risvegliò.
“Lunastorta era il mio papà.”
Ron annuì. C’era un non so che di soddisfacente in questo passaggio di consegne. “Questa è vostra ora. Mi raccomando, fatene buon uso.”

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** Capitolo 11 - Don't let him touch you ***


Capitolo 11
Don’t let him touch you

La torre di Astronomia godeva del suo fascino anche in piena luce crepuscolare. Era riparata dalla curiosità di studenti troppo pigri per salire lassù dopo le lezioni e talvolta, con un po’ di fortuna, si riuscivano a vedere le piume dorate di una vecchia fenice colorare il cielo grigio.
Chris amava cercare quello spruzzo di colori lungo l’orizzonte. Fanny le aveva sempre fatto compagnia nei momenti più impensabili e il suo sostegno silenzioso era quello che ci voleva dopo una nottata in preda ai dubbi e soprattutto dopo le ultime due ore passate in compagnia di Mirtilla Malcontenta.
“Granger, cosa fai quassù oltre l’orario di lezione? Non vorrai costringermi a togliere punti alla tua casa?” Il tono fintamente gentile del Caposcuola la raggiunse non appena sbirciò dalla balaustra. Il volto più adorato di Hogwarts seguì immediatamente la sua voce. Damian Blackwood possedeva quell’aria da principe buono che stonava completamente con l’idea che Chris aveva di lui e che la faceva sempre rabbrividire.
“Lungi da me negarti questo gran passatempo.” Si voltò verso il ragazzo e ne incrociò lo sguardo più vicino di quanto si fosse aspettata. Bisognava aggiungere il passo felpato e rapido alle sue numerose virtù? “Cosa vuoi, Blackwood?” domandò sostenuta e infastidita.
“Mi meraviglia sempre la gentilezza che sai dedicarmi, Granger. In fondo, ci conosciamo da sei anni. Si può dire che siamo quasi amici.” Lui evitò di rispondere, continuando col suo tono incurante e calmo. Blackwood era bravissimo a dosare le parole e i gesti. Non si lasciava mai cogliere da offese  vis à vis. Blackwood agiva in silenzio, di nascosto, dietro quegli specchi di ghiaccio che erano i suoi occhi. Non c’era mai verità nei suoi occhi.
“Io e te non siamo amici,” chiarì Chris. Lei non dimenticava, la facciata da studente modello poteva incantare il resto della scuola, non lei. L’ipocrisia era un difetto che non poteva perdonargli. “Sei una serpe strisciante.”
“Oh, ma lo sanno tutti a scuola,” Blackwood si avvicinò. “A te piacciono i serpenti,” le sussurrò, sfiorandole quasi l’orecchio.
Damian Blackwood era l’incarnazione di quelle paure che attanagliavano le notti di Chris. In quegli occhi albergava lo stesso gelido colore di quella voce. In sua presenza, Chris non poteva evitare di sentirsi continuamente in bilico tra mille sensazioni diverse.
“Questa è troppo volgare persino per te,” lo sfidò, bloccandogli la mano che stava per accarezzarle il volto. Si decise a colpire. Era il suo unico mezzo per difendersi. “Non ho mai capito da dove derivi tutta questa arroganza. Non sei nemmeno un Purosangue.” La sicurezza nello sguardo del ragazzo vacillò per un millesimo di secondo, e la mascella gli si serrò. Chris lasciò andare il braccio. Come si può essere così legati a una credenza stupida?
“Strano che sia una piccola Sanguesporco come te a ricordarmelo,” disse, pacato, quasi non volesse dar peso alle parole pronunciate, fingendo di dimenticare la portata che avevano. Ecco. Le serpi si mimetizzano tra le foglie, ma vengono sempre fuori alla fine. Ecco. Il sangue che ricomincia a sgorgare dai tagli così bene incisi. Ecco, perché Chriseys non riusciva a tollerare Damian Blackwood.
Chris percepì chiaramente la ferita riaprirsi dalla clavicola alla base del collo. Sanguesporco. Magia nera. Indelebile e immutabile. Quei tagli mai nessuno li aveva segnati sulla sua pelle, se non le parole di Blackwood, sei anni prima. Parole incoscienti e infantili ma che, proprio per questo, facevano anche più male.
Eppure, ormai Chris si era assuefatta al dolore. L’unica cosa che la infastidiva era che Hermione lo avrebbe sentito. Ogni singola lettera sarebbe riapparsa sul collo di Hermione, ancora e ancora. Ogni volta che qualche idiota come Blackwood sarebbe tornato a pronunciare quelle parole. Bellatrix Lestrange. Una Mangiamorte. Magia Oscura. Aveva segnato per sempre la pelle di Hermione, il destino di Chriseys e il loro legame. Quale bizzarro dio del destino aveva deciso che dovesse essere proprio questo il vincolo più stretto che la univa a sua sorella?
Il colletto bianco della camicia incominciò subito a colorarsi di sangue. “Succede sempre?” domandò Blackwood, curioso. Magia oscura di arcana e abile fattura: tutto quello che lui aveva sempre rincorso. Quel lampo che gli accese lo sguardo sembrò quasi dare vita ai suoi occhi e renderlo ancora più attraente. Per un attimo.
Chris non si degnò di rispondere, lanciandogli semplicemente un’occhiata furente. Fece per andarsene, ma Blackwood le si parò davanti. Bloccandola. “Posso… vedere?” sibilò, prima di tentare di sbottonarle la camicia. E a Chris non rimase che immobilizzarsi e chiedersi perché. Perché glielo stava lasciando fare?
“Vattene,” soffiò, come stesse parlando in serpentese con la più viscida delle vipere nell’erba di Hogwarts, ma non ci credeva neanche lei.
Con lo sguardo vitreo e la bacchetta stretta nel pugno, Blackwood divorava avido con gli occhi la ferita e la spalla nuda di Chris. “Io e te, Chriseys,” bisbigliò contro la sua pelle, baciandone ogni centimetro, lettera per lettera, accarezzando e levando via con la lingua ogni rivolo di sangue.
Chris strinse gli occhi. Li chiuse, persa nell’oblio di quella sensazione. Era morbida, la lingua di lui, e alleviava il dolore. E le piaceva, cazzo. Le piaceva sentire la bocca di Blackwood venerare il suo collo. Per una volta non doveva pregare che Ted la guardasse o le dedicasse un sorriso, perché Damian Blackwood, il più adorato ragazzo della scuola, voleva lei e continuava a volere lei.
“Siamo uguali,” concluse lui, sfiorando con le labbra l’orecchio di Chris, mentre s’impossessava dei suoi polsi e la spingeva verso il parapetto.
Era vero? Da cosa stava cercando di nascondersi? Il suo animo, il suo cuore erano neri e arditi? Fiamme inconsulte uscivano dalle sue mani quando lasciava vincere la sua rabbia. Cosa le aveva rivelato di nuovo il suo ultimo incubo che lei non sapesse già? Aveva passato troppe ore nella libreria di Grimmauld Place perché cercava un modo per salvare sua madre o perché era naturale per lei? Stava solo fingendo di essere qualcun altro? Conoscenza, potere, capacità sconosciute, rendere possibile l’impossibile; non aveva forse già sperimentato molte volte quel brivido? Era vero? Era stata lei la causa della morte di suo padre? Era destinata a macchiare la sua vita dal peccato di conoscenza, come Blackwood? Persino Ted pensava a lei come a qualcosa di pericoloso. Il suo Ted aveva paura di lei.
“Toglile. Le mani. Di dosso.” Chris riconobbe a stento la sua voce. Quel tono minaccioso non era mai uscito così strozzato dalla bocca di Ted. Era terrificante. Chris spalancò gli occhi, ricordandosi cosa stava accadendo. Stava lasciandosi sedurre dal più disprezzabile dei Serpeverde. Cosa ci faceva Ted lì? Lo sguardo e i capelli neri. Nerissimi. Una mano stringeva stropicciandola la Mappa del Malandrino, l’altra teneva salda la bacchetta puntata contro la schiena di un Damian Blackwood stranamente immobile. Chris ne approfittò per cercare di liberarsi, ma Blackwood ripresosi dallo stupore rafforzò la sua presa, con un ghigno sul volto, che sfidava lo sguardo di fuoco di Chris.
“Lupin, ci hai interrotto sul più bello. Ci faresti la cortesia di andartene al diavolo.” Come faceva a dire quelle cose con quella fottuta inflessione tranquilla?
Ted aveva consolidato la presa sulla bacchetta e guardava fisso verso Chris, con quegli occhi impenetrabili e neri. Chriseys non riusciva a distinguere le pupille. E mai come in quel momento aveva desiderato rivedere gli occhi ambrati del suo amico.
“Lasciala andare,” sibilò ancora Ted.
“Vuoi che me ne vada, Granger?” chiese Blackwood, con un’occhiata destinata a scrutarla a fondo. Chris annuì, chiedendosi perché sembrasse titubante in quel frangente.
Damian Blackwood osservò la ragazza e sorprese lo sguardo preoccupato, terrorizzato, e innamorato, che la Granger lanciò a Lupin. Indietreggiò, liberandole i polsi. Non aveva mai dovuto imporsi su qualcuno e di certo non avrebbe iniziato adesso. Chriseys Granger preferiva ancora quel ragazzino smidollato a lui? Non ci avrebbe messo molto a farle cambiare idea. Stava già cambiando idea. Erano simili, loro due. Avrebbero fatto scintille insieme.
“Arrivederci, Granger,” le soffiò in un orecchio, e se ne andò, evitando di guardare Ted Lupin.
“Stai bene, Chris?” chiese Ted, con voce insicura, mentre si appoggiava di schiena alla ringhiera. Stava tremando. Lentamente riprendeva i suoi colori naturali.
Chris annuì ancora stranita, “Tu stai bene, Ted?”
Il ragazzo, che aveva recuperato i suoi capelli blu e gli occhi color ambra, si lasciò andare a una sonora risata. “Credo che tu abbia appena conosciuto il gemello cattivo di Ted Lupin.”
“No, Ted. Non fa ridere. Io …” Incominciò Chris. … ho paura. Di me stessa. Io scateno serpenti e incendi, tu ti arrabbi. Io agisco, tu minacci. Lasciò finire la frase solo nei suoi pensieri, perché Ted la bloccò.
“No, Chriseys. Sul serio. Io ti conosco. Lo so che stai pensando, senza aver bisogno di ricorrere al tuo trucchetto. No, non lasciare che ti entri in testa. Tu non sei come Blackwood. Abbiamo tutti una parte egoista, ambiziosa, arrabbiata dentro di noi, non c’è nessuno che sia solo bianco o solo nero.” Era convinto, ed era di nuovo Ted. Chris aveva voltato la testa dall’altra parte: si vergognava. Ted le afferrò le mani. “Guardami negli occhi Chris!” La ragazza mosse di poco il viso, per eseguire l’ordine. “Tu. Non. Sei. Come. Damian. Blackwood.”
“Ma se …” tentò di opporsi, così come il suo senno si opponeva ogni volta al suo istinto. Lui non sapeva. Ted non conosceva la verità. Quella voce, la ferita sul polso, quel sogno così reale, quelle fottute fiamme.
“Niente ma e niente se. Che ci ripete Harry in continuazione?” Ma Chris voleva davvero lasciarsi convincere.
“Sono,” iniziò ricordando le parole del loro professore. Harry lo ripeteva sempre ai ragazzi così come Silente lo ripeteva a lui. “Sono le nostre scelte a decidere chi siamo.”
“Esatto. Blackwood ha scelto di stare dalla parte sbagliata. Tu no.” E se non fosse stato vero? Non poté evitare di chiedersi la ragazza. Cosa stava diventando? Si morse il labbro, ricacciando, ancora una volta, il dubbio e il dolore. L’orgogliosissima Chriseys Granger piangeva un po’ troppo spesso ultimamente.
Quanto faceva male vedere quegli occhi tremanti di dubbio e lucidi di pianto? Ted asciugò la lacrima solitaria sul viso di Chris, e poi l’avvicinò a sé. Chris buttò le braccia intorno al collo e affondò il volto nella sua spalla come se non avesse aspettato altro da tutta la vita. Avevano passato troppi giorni arrabbiati l’uno con l’altra perché fosse salutare per entrambi. Avevano ignorato i sintomi, ma adesso si accorsero tutti e due che l’assenza dell’altro si era fatta sentire in maniera quasi fisica. Ted si ritrovò a stupirsi di quanto gli fosse mancato il profumo di Chris: muschio bianco e pergamena nuova.
“Teddy?” lo chiamò, senza muoversi dalla quella comoda posizione.
“Mmh …” mugugnò Ted, ancora perso nei suoi pensieri strani. Perché sembrava così giusto avere Chris tra le braccia?
“Perché lo hai fatto?” la ragazza si allontanò per guardarlo in viso. “Voglio dire, far uscire il tuo gemello cattivo?” Chris tentò di sorridere, ma la domanda era seria, terribilmente seria. Voleva, doveva saperlo.
“Non…” Ted rimase sorpreso dalla richiesta. Non si era chiesto perché, lo aveva fatto e basta. Aveva visto le manacce di quell’essere su Chris e il suo stomaco si era ribellato. “Non mi piace Blackwood.”
La ragazza capì che non avrebbe ricevuto altra risposta al riguardo. Una parte di sé si concesse di sperare che quel gesto non fosse stato dettato da un isolato atto di cavalleria o dall’antipatia che Ted nutriva nei confronti del Caposcuola.
“Mi lasci controllare?” chiese invece il ragazzo, rivolto al sangue sulla camicia dell’amica, ancora sbottonata.
“È come al solito, tra nemmeno un quarto d’ora torneranno invisibili.” Lasciò che controllasse. Le piaceva il modo in cui Ted si prendeva cura delle sue ferite. Di tutte le sue ferite. Lo faceva sempre, e lo faceva con grazia e dolcezza. Ted sarebbe davvero diventato un Medimago fantastico un giorno, di questo era certa.
“Io non capisco. Voglio dire, com’è possibile?”
“Non lo so, non l’ho mai capito. Qualcosa che è successo durante la guerra a Hermione, lo sai. È magia oscura.”
 La cicatrice stava già richiudendosi. Ted l’accarezzò con la punta delle dita. Un tocco così diverso da quello che l’aveva lambita qualche minuto prima. Timido.
“Non…” sentì Ted inghiottire amaro. “Non lasciarti toccare da lui. Mai più.” Era arrabbiato, deluso, disgustato, preoccupato, triste? Chris non riusciva a capire. Annuì senza dire una parola.
“Ho uno spartito da farti vedere. Possiamo scappare nell’Aula di Musica per un po’.” Come faceva Ted ad alternare in maniera così indolore un tono talmente leggero e noncurante a uno così grave e carico di implicazioni? Forse nella stessa maniera in cui i suoi capelli blu notte diventavano azzurrini o viceversa. Era Teddy. Le sorrise, mentre le riaggiustava la camicetta e le prendeva la mano. E adesso dava inizio al suo valzer quotidiano. Un, due, tre; le carezze sul palmo di lei. La mano di Chris era lo scacciapensieri personale di Ted. Un, due, tre; in continuazione. Era rilassante, stimolante, rassicurante, e tutti gli ante che il cervello della ragazza riusciva a immaginare.
“Che roba è?” domandò Chris, ancora perplessa dal cambio repentino di tono. L’idea di sfogarsi sul pianoforte non le dispiaceva affatto. Erano ore, tempo, minuti che Ted avrebbe dedicato a lei. “Una vecchia pergamena nascosta nella rilegatura del libro di erbologia di mio padre. Una specie di canzone d’amore.” Ecco. C’era sempre l’incaglio.
“D’accordo,” sospirò. “Prima credo dovremmo passare da Harry, però.” Per quanto riluttante, gli lasciò la mano e incominciò a dirigersi verso le scale.
“Ah, sì? E perché?” Ted era rimasto leggermente insoddisfatto dalla subitanea perdita del suo antistress privato.
“Sono sicura che la Mappa ha la tua risposta.” Ted osservò scettico l’espressione compiaciuta dell’amica. Odiava quando Chris metteva su l’atteggiamento ‘la so più lunga di te’, soprattutto perché in genere Chris la sapeva sempre più lunga di lui. Puntò gli occhi sulla mappa ancora leggibile con un broncio semi-serio: nello studio di Harry c’era davvero un nuovo nome – Hermione Granger.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** Capitolo 12 - Non ***


Capitolo 12
Non

 
28 Marzo 1998, Villa Malfoy, Wiltshire
“Tutti tranne la Sanguesporco.” La voce risuonò nella sala stridula, acuta, nera, furiosa. Eppure lucida nella sua follia.
L’aveva guardata con disprezzo, senza celare il guizzo di crudeltà negli occhi neri. Quello fu il primo tremito di terrore. Neppure la voce implorante di Ron la raggiunse del tutto, perché quel disprezzo e il pugnale che la donna stringeva nella mano destra erano diretti a lei, e a lei sola.
Avrebbe potuto urlare dal dolore mentre la trascinava per i capelli al centro della stanza, ma quello era solo l’inizio, e Hermione lo sapeva. 
“Non…” pregò in silenzio, sentendo il sapore delle proprie lacrime sulle labbra. Non. Non lasciare che se ne accorga. Non lasciare che gli faccia del male. Lascia che viva. Non riprendertelo così presto.
Chissà se poi c’era davvero qualcuno che ascoltava. Quel Pastore che avrebbe dovuto vegliare sui suoi passi, quel Padre che nelle preghiere bisbigliate di Helen Granger avrebbe dovuto proteggerla. Hermione l’aveva rinnegato, biasimato per la sua sofferenza, per la guerra, per averla costretta a scelte impossibili, per l’addio forzato ai suoi genitori, per le notti in bianco e le mattine da schifo passate a evitare gli sguardi perplessi di Ron e Harry, per quella gravidanza non programmata, per quel bambino che non poteva volere, arrivato al momento sbagliato – nel momento più sbagliato.
E adesso, mentre il pugnale argenteo di Bellatrix Lestrange le accarezzava la pelle, Hermione si sorprese a pregare versando lacrime mute affinché quel Qualcuno che aveva abbandonato lei, proteggesse lui; come soleva fare sua madre ogni sera. Urlò e bisbigliò perché quel Padre vigilasse su quel bambino  che Hermione non poteva volere ma che adesso – adesso – era parte di lei. La parte migliore di lei. Resisti. Devi tenere duro.
“Così, Sanguesporco,” fiatò Bellatrix, mettendo tutto il suo spregio in quella misera parola. È solo una parola, Hermione. Solo una parola. La lama d’argento le rinfrescò appena la pelle quando la Mangiamorte l’avvicinò alla vena giugulare. “Dove avete preso quella spada?” Si stava trattenendo, Hermione lo sentiva; stava trattenendo il desiderio di vederla contorcersi dal dolore. Bellatrix Lestrange aveva un grande talento per le scene madri.
“L’abbiamo trovata,” rispose in fretta, distogliendo lo sguardo da quel luccichio di malvagità. Urlò. E non seppe neppure lei come e quando finì, le parve di squarciarsi. Tagli. Netti. Il suo sangue. Sporco? La lama era scesa di quel tanto che bastava per non ucciderla sul colpo.
“Dimmi, dove avete preso quella spada!” ordinò, a denti stretti. Bellatrix era al limite, la furia voleva esplodere. L’eleganza dell’antica casata dei Black era andata a farsi fottere. Esisteva solo il sangue. Inutile, lercio, infetto: quello di Hermione. Pulsante, eccitato, isterico di follia e ira: quello della Lestrange.
“L’abbiamo trovata,” riuscì a insistere Hermione. Nonostante il dolore, nonostante la debolezza, nonostante il terrore di perdere quel che, adesso sapeva, avesse di più prezioso. “Nel bosco.” Altro urlo. Altro taglio.
Bellatrix accompagnò le urla di dolore con la propria furia. “La verità, Sanguesporco. La verità!” Ancora un affondo. Preciso. Insopportabile. Più giù. “Te lo chiedo un’altra volta! Dove avete preso quella spada?” A Hermione non rimase che la voglia di scappare, di cedere, di soccombere al dolore. Di dimenticare tutto e tutti. Tranne il silenzio e la pace.
“L'abbiamo trovata... l'abbiamo trovata... per favore!” urlò di nuovo. Ennesimo colpo. Sull’osso, sulla clavicola. E iniziò a credere di dover smettere. Smettere di sentire, smettere di urlare.
“Stai mentendo, sudicia Sanguesporco, lo so! Siete stati nella mia camera blindata alla Gringott! Che cos’altro avete rubato? Dimmi la verità o giuro che ti trapasso con questo pugnale!”
Hermione si ritrovò a chiederle mentalmente di farla finita. Fallo. Non si era mai sentita così vile. Il coraggio di cui Godric Grifondoro andava tanto fiero cos’era poi? Finiamola qui, Bellatrix. Non posso, non posso più!
E poi la riconobbe. Lieve, quasi inesistente. Una bollicina, lì, all’altezza dello stomaco. Un piccolo massaggio calmante. Una bollicina che galleggiava nella sua pancia. Il suo bambino.
“È questa la verità. L’abbiamo trovata,” trovò nuovamente la forza di controbattere. Sentì di essere strattonata per poi cadere. Si abbandonò sul marmo gelido. Era finita forse? Sarebbe stato troppo bello per essere vero. Cercò di guardare la Mangiamorte attraverso gli occhi appannati di lacrime e fatica.
Alta e indomita, Bellatrix teneva stretto il pugnale nella mano sinistra, e la bacchetta nella destra, contorceva il viso in un espressione di rabbia.
Stava arrivando. Hermione sperava solo di avere abbastanza forza d’animo e resistenza. “Che altro avete preso? Rispondimi! Crucio!” Era arrivato.
Niente. Il vuoto assoluto. Sospesa nel nulla. Sospesa o a precipizio nel nulla? Non era questo che si aspettava. E poi li sentì - uno ad uno -, colpi roventi di lancia in ogni più piccola parte del suo corpo, ripetutamente inferti e poi tirati indietro, inferti e tirati indietro. “Non …” la preghiera si unì all’urlo. Non. Non morire.
La Lestrange rilasciò la maledizione. “Quel sudicio piccolo goblin che c'è giù nei sotterranei vi ha aiutato?”
“L'abbiamo incontrato solo stasera,” singhiozzò Hermione. Le serviva un’idea. Quella non si sarebbe fermata se non avesse avuto le sue risposte. Non si sarebbe fermata fino alla fine. “Non siamo mai stati nella sua camera...” La spada. La spada. La spada. La spada di Grifondoro nella camera blindata alla Gringott, nell’ufficio del preside di Hogwarts. Ecco! “Quella non è la vera spada! È una copia, solo una copia!”
“Una copia?” strillò Bellatrix. “Ah, questa è buona!” E si mossero, mandarono a chiamare il goblin rinchiuso nei sotterranei, gli chiesero la conferma delle sue parole. Hermione sperò che l’aiutasse. Ma non capiva, non riusciva a seguire tutto. La lucidità che l’aveva tenuta in vita finora stava per cedere, eppure era concentrata. Sentiva di stare facendo un terribile sforzo di concentrazione: non morire.
Nomi, Codaliscia?, Draco?, urla, fracasso, incantesimi, Ron?, Harry?. Doveva restare lucida. Avvertì soltanto il gelo sul collo, di nuovo. Attese il colpo definitivo che non arrivò mai. Finché non percepì un cigolio, un stridio  insolito che proveniva dall’alto, proprio sulla testa di Bellatrix.
La stretta che teneva in piedi Hermione si liberò in un attimo, lasciandola rovinare a terra. Poi qualcosa cadde. Il lampadario crollò, sfasciandosi contro il pavimento, scaraventando in ogni angolo frammenti di cristallo e catene.
Ormai era poco quello che riusciva a distinguere. Esisteva solo la sua preghiera: non… morire.
Solo dopo sentì una mano rapida, tremante, che le tastava il polso, e levava via i detriti.  “Andrà tutto bene, Herm. Tutto.”
Piangeva. Ron.
 

*

 
17 Ottobre 2009, Hogwarts, Scottish Highlands
I piedi di Ted continuavano a percorrere il pavimento di pietra in un misto tra l’ansia per la ferita di Chris e il terrore di dover fronteggiare la preside nel suo studio. Lo sguardo della professoressa Light sembrava quasi disgustato: se ne stava lì, con una smorfia sul viso e la braccia conserte, borbottava in continuazione qualcosa come ‘balia’, ‘ragazzini’, e ‘perdinci!’. Teddy davvero, davvero, davvero desiderava sparire da quel corridoio, magari tornare in infermeria da Chris, o in camera, o anche direttamente in punizione da Gazza, pur di non restare lì ad aspettare l’inevitabile.
Il gargoyle che indicava l’ingresso dello studio della preside si spostò e ne uscì Damian Blackwood con la fronte corrucciata e lo sguardo fisso sulle mani. Chissà cosa si era inventato questa volta, trovava sempre il modo di apparire intelligente e corretto agli occhi dei professori, lui: era uno dei migliori della scuola fin dal primo giorno. Ma lo aveva detto. E Ted si sarebbe giocato una mano sul fuoco, col Veritaserum in corpo: era stato lui a far uscire quegli orribili tagli sulla pelle di Chris.
“Professoressa Light, la prego, riaccompagni il signor Blackwood al suo dormitorio. Signor Lupin, prego, accomodati.” L’unico moto che Ted riuscì a percepire in quella voce tesa era una specie di rabbia trattenuta. Maledì per l’ennesima volta la sua goffaggine cronica e i suoi piedi traditori. A occhi bassi, si avvicinò lentamente alla scrivania dietro la quale si trovava la professoressa McGranitt. Rischiò di inciampare nella frangia del tappeto dall’aria decisamente antica che stava tra lui e la preside.
“Ted, alzeresti gli occhi per cortesia?” Ancora poco convinto il bambino alzò di poco il ciuffo blu notte, riflettendo i suoi occhi color ambra nello sguardo squadrato dalle lenti della preside.
C’era qualcosa nel modo in cui il piccolo Ted Lupin trotterellava i piedi in terra o si mordicchiava il labbro inferiore che colpiva come un doloroso pugno la memoria stanca di Minerva McGranitt. Stanca di non riuscire a dimenticare. Come quella dannata ferita sul collo della piccola Granger – undici lunghi anni e ancora piangi per loro, undici difficili anni e ancora si sanguina, undici infiniti anni e ancora si aprono ferite ingiuste. “Sai cosa vogliono dire quei segni sul collo di Chriseys Granger, sì? Sai che devo capire da dove siano venuti fuori, perché...”
“È stato lui, professoressa.” Il coraggio di tirare fuori quello sdegno al fiele era entrato in Ted come uno schiaffo. Aveva rimosso in un attimo tutte le possibili implicazioni delle sue parole, tutte le possibili bugie che Blackwood aveva fabbricato per difendersi a cui la preside avrebbe potuto credere, e tutte le sue paure nel trovarsi a nemmeno un mese dall’entrata a Hogwarts nell’ufficio più temuto. Il ricordo di Chris che cedeva al dolore sulle scale, quelle urla strazianti, e quel sangue sulla maglia era stato lo schiaffo che aveva raddrizzato la schiena del piccolo Ted. “Damian Blackwood. Lo ha detto lui.”
“Ted, ti rendi conto di quello che stai insinuando?” Non stava mettendo in dubbio la sincera convinzione di Ted, trovava semplicemente improbabile che un ragazzino di dodici anni potesse avere le conoscenze e le capacità, oltre che la crudeltà, per tirare fuori un tale incantesimo. “Perché non mi racconti cosa è successo? Fin dall’inizio.”
“Con dovizia di particolari possibilmente.” Una voce calda e veneranda si rivolse al ragazzo. Era il ritratto di Albus Silente, con lo stesso sguardo meditabondo che lo rendeva il più ammirato dei dipinti tra le scale del castello.
“Evitando divagazioni inutili,” intervenne un’altra voce. Strascicante e forse pure un po’ seccata. Ted si ritrovò a pensare che se fosse stato costretto in una cornice forse anche lui sarebbe stato un po’ seccato. La voce e il volto del ritratto erano quelli di Severus Piton, o almeno così diceva la targa.
La preside si mostrò scocciata dalle interruzioni. “Potresti far finta che non esistano,” suggerì al bambino mentre sistemava i propri occhiali sul naso. “Dimmi come è andata, Ted.”
Ted ingoiò qualcosa come venti litri di saliva, tutti gli sguardi degli ex-presidi di Hogwarts non lo mettevano affatto a suo agio. “Stavamo corr … no cioè, io e Chris, eravamo un po’ in ritardo per la lezione di Incantesimi, e sono inciampato per le scale, e … è successo che Blackwood era lì, no? E poi, cadendo, l’ho spinto, ehm, e lui, sa come fanno i Serpeverde, no? Mi spintona, e ‘Levatevi di torno, tu e quella…’ e poi lo ha detto. E a Chris è iniziato a uscire il sangue. E ha urlato. Tanto.” Ted non poteva fare a meno di sentirsi in colpa, se fosse riuscito a mettere i piedi dalla parte giusta, quell’imbecille non avrebbe mai avuto modo di dire quelle parole.
“Già, è quello che ha detto il tuo compagno.” La versione di Ted e quella di Blackwood coincidevano quasi in tutto, a parte la prospettiva. Damian Blackwood era abbastanza intelligente da sapere quando fosse conveniente dire la verità. Aveva giurato e spergiurato che il suo ‘sbotto’ era stato assolutamente accidentale e che non avrebbe mai più usato quel termine in seguito. Il fatto che Minerva fosse disposta a dargli credito non lo esimeva da una punizione esemplare.
“C’è molto di più dietro, Minerva.” La professoressa McGranitt si girò di scatto indispettita verso la voce in questione. “Ascolta. La causa accidentale, le parole che il giovane Blackwood ha inavvertitamente pronunciato, ha scatenato l’effetto, il comparire di quel…”
“Marchio.”
“Già, Severus… di quel marchio sulla pelle della signorina Granger.”
“Ma non spiega un bel niente del motivo primitivo. È roba oscura. Molto oscura.”
Ted si ritrovò a passare la testa da un dipinto all’altro, cercando di seguire il loro discorso. Perché qualcuno voleva marchiare Chris con quella parola?
“Credo che Herm-, ehm, la signora Granger-Weasley di sotto abbia le risposte che stiamo cercando.”
“Grazie a entrambi. Non ci sarei mai arrivata da sola.” Il tono esasperato della preside non sfuggì neppure a un Ted impegnato nei suoi dubbi. “Ora se non vi dispiace,” osservò l’uno, l’altro, diede un’occhiata decisamente eloquente agli altri quadri piuttosto attenti alla situazione, e poi si rivolse a Ted “signor Lupin, ti va di accompagnarmi a vedere le condizioni della tua amica?”
 



Note: Come avrete avuto modo di poter notare, nella stesura di questa storia ho deciso di seguire un modo personale di relazionarmi al canone: qualcosa si prende, qualcosa si lascia. Nel caso specifico di questo capitolo, sono presenti numerosi passaggi che si rifanno al Capitolo 23 - Villa Malfoy di Harry Potter e i Doni della Morte, con differenze dovute principalmente alla loro funzione in questa storia. In particolare, il marchio che Bellatrix incide su Hermione, presente unicamente nella versione cinematografica, è stato spostato dal braccio al collo.

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** Capitolo 13 - Scarred ***


Capitolo 13
Scarred

17 Ottobre 2009, Hogwarts, Scottish Highlands
Sanguesporco. Sulla pelle della sua bambina.
“Hermione, potresti venire con me un attimo. Chriseys è in buone mani,” le sussurrò la professoressa McGranitt, indicando il piccolo Lupin che si accomodava sul letto dell’amica. Hermione non riusciva a levare gli occhi di dosso dalla bambina. “Se ha metà della resistenza dei suoi genitori, non devi aver nulla di cui preoccuparti,” continuò cercando di rassicurarla.
Una scossa elettrica attraversò la mente di Hermione all’accenno, non tanto velato, della paternità naturale di Chris. Era rarissimo che Minerva le ricordasse quella da lei considerata come la più sciocca scelta che avesse mai potuto fare. La sua cara insegnante non aveva mai avuto problemi nell’esprimerle le sue più cordiali e schiette opinioni. Eppure, in quel maggio ’98, era stata lei a suggerirle un viaggio chiarificatore, e ad accompagnarla in Australia dai suoi genitori. Come un’amica. Una dei pochi di cui potersi fidare.
Si voltò, piuttosto insicura, verso la preside di Hogwarts. Le doveva alcune spiegazioni. “Andiamo di là.” Con un arrancato sorriso di cortesia, suggerì l’ufficio, gentilmente reso disponibile da Madama Chips.
“Ho immediatamente mandato un gufo a tua madre,” esordì Minerva, mettendosi a sedere su una delle due sedie davanti la scrivania di Poppy, dopo aver invitato Hermione a fare altrettanto. Era la prassi: avvisare prontamente genitori o tutori dei ragazzi ogniqualvolta ci fossero incidenti, gravi o veniali. “Hai preceduto la sua eventuale risposta.” Hermione annuì. Aveva anticipato l’arrivo del gufo perché il dolore l’aveva avvisata molto prima di qualsiasi forma di posta.
“L’ho sentito,” affermò semplicemente, mentre la sua interlocutrice continuava a guardarla dritta in viso, timorosa di aver già capito cosa avesse provocato la ferita della piccola Chriseys. Solo una brutta maledizione e un forte legame di sangue potevano provocare una tale reazione.
Per rispondere a quelle domande mute, Hermione non dovette far altro che scostare leggermente una piccola benda nascosta dietro il colletto della blusa: la cicatrice ‘sanguesporco’ brillava di sangue rosso appena versato e malamente asciugato.
Tremava. Era la prima volta che mostrava il suo collo scoperto a qualcuno che non fosse Ron. Harry ne conosceva l’esistenza per il solo fatto di esserne stato testimone. A sua madre non aveva ancora concesso il malaugurato privilegio di scoprire la sua vergogna. Amava credere che fosse semplice riserbo naturale, ma il suo io conosceva ben altre verità: infamia crocifissa sulla pelle, senso di colpa per un crimine immaginario.
“Bellatrix Lestrange, durante la ricerca degli Horcrux, quando ci siamo fatti beccare dai Ghermidori, lei … mi ha … torturato,” mormorò. Senza lacrime. Era un dato di fatto d’altronde. Uno stupido dato di fatto che aveva rivoluzionato la sua percezione del mondo, e adesso minacciava di farlo anche con Chris.
“Exsecratio perpetua!” L’esclamazione di Minerva nasceva più dal dolore di sentir confermate le proprie paure che dallo stupore.
“Comunemente detta Maledizione di Spartaco,” cantilenò rassegnata Hermione. Quante volte aveva letto quel capitolo nel vecchio libro sulle Arti Oscure che aveva sgraffignato a Grimmauld Place?
“Speravo davvero che non fosse così,” biascicò Minerva. “Che cosa hai intenzione di fare a riguardo?”
“Ho cercato un contro-incantesimo in lungo e largo. Ho persino provato a inventarne uno. Non c’è nulla da fare al momento, Minerva. Le spiegherò perché è accaduto e speriamo capisca.”
Sanguesporco. Sulla pelle della sua bambina. La sua testa continuava a ripeterle: È colpa tua.
 

*

 
Oscura magia antica. Quello che Bellatrix Lestrange aveva usato per marchiare la pelle di Hermione Granger era un rito molto arcaico, risalente almeno all’epoca romana, comunemente usato da maghi e Babbani, non ancora miscredenti, per contraddistinguere gli schiavi, e i figli degli schiavi, per certificare il loro posto nella società, la loro origine, il loro essere ultimi. Bellatrix Black in Lestrange sapeva come levarsi qualche piccolo cruccio, o come lasciare un ricordino in eterno.
Vedere ogni mattina quei segni sul collo per Hermione era stato per molto tempo disgustoso e umiliante. Ci aveva messo mesi, anni interi ad auto-convincersi che era solo una sciocca cicatrice, un segno sulla pelle come il neo sotto l’orecchio destro o quel piccolo taglio a v che aveva sul pollice. E se scoprire che quella cicatrice, quel segno sciocco sulla sua pelle, era suscettibile di cambiamento, che letteralmente tornava ad aprirsi quando qualcuno pronunciava quella parola  in sua presenza non era stato facile da superare, scoprire che se uno stupido idiota osava ripetere quella parola ai suoi bambini, avrebbero sentito anche loro quel dolore, quell’umiliazione, quel senso di putridume, era semplicemente intollerabile. Eppure non c’era soluzione. Non esisteva contro incantesimo o antidoto. Non c’era nulla da fare se non combattere i pregiudizi della gente.
E ancora adesso, dopo anni, quel pensiero tornava a torturarla: Sanguesporco. Sulla pelle della sua bambina.
Stai bene? Non lo chiese. Non serviva chiederlo. Non serviva controllare se la spalla e il collo di Chris fossero tornati realmente immacolati. Non serviva ricevere un’alzata di occhi al cielo e un monosillabo seccato per sapere la risposta. Come Harry, Chris aveva il maledetto vizio di non esprimere mai direttamente i suoi reali sentimenti, e come con Harry, a Hermione bastava vedere in che modo piegava lo sguardo per capire il suo umore. Sopracciglia alzate e mezzo sorriso erano più che sufficienti a rassicurarla su quanto la presenza di un certo Teddy Lupin fosse decisamente benefica per Chriseys.
Ovviamente la sua acquisita tranquillità non le impedì di soffocare Chris in uno dei suoi famosi abbracci. Accidenti! Non la vedeva da più di un mese, e aveva tutto il diritto di stringerla adesso.
“ ‘ermion-, soffoco.”
“Dai, Chris, sei sopravvissuta a Hagrid, che sarà mai un abbraccio di tua sorella?” commentò Teddy tra il sadico e il divertito, osservando le due Granger. Il mezzo gigante si era imbattuto nei due ragazzi, tornando alla sua capanna, e si era premurato di mettere in chiaro quanto affetto avesse per entrambi.
L’espressione tesa di Harry non era la risposta che Ted si aspettava dal suo padrino, ma fu subito chiaro il motivo di tanta reticenza quanto intercettò l’occhiataccia di Gazza che si trovava a passare di là. Il custode non aveva ancora imparato né ad accettare l’esuberanza del professor Potter e dei suoi amici, né tantomeno a fingere di tollerare gli studenti.
Harry condusse i ragazzi e Hermione di nuovo nel suo studio, accanto all’aula dove teneva le sue lezioni di Difesa Contro le Arti Oscure. Alcune volte interpretare il ruolo del saggio professore gli costava davvero, davvero tanta fatica. Aveva voglia di mandare al diavolo quel vecchio custode e di spedire una bella maledizione, dolorosa ed eterna, a chiunque avesse ancora osato ripetere quella parola in presenza di Chris e di Hermione. Per quanto la battuta di Ted, e soprattutto la sua presenza, lo avessero rassicurato su un punto che l’aveva tormentato negli ultimi giorni – Perché accidenti non si parlano? – non era ancora in vena di dimenticare il fatto che a Hogwarts esistevano ancora i fanatici del sangue puro.
Il campo minato di Harry Potter, come era stato ribattezzato da Hermione e Ginny, era una stanzetta al terzo piano del castello con un armadietto nell’angolo, un camino recentemente sconquassato, qualche libro appoggiato su uno scaffale, una scrivania piena zeppa di fogli di pergamena e inchiostro sparso, e tante, tante, tante, tantissime foto di vecchi compagni, dei Weasley, dei bambini, dei suoi genitori. Qualche giovanotto dal sorriso sghembo e dal ciuffo rosso, qualche professore con la barba bianca e l’aria veneranda, e qualche vecchio elfo libero. Harry sentiva il bisogno di ricordarli, anche solo così. Con una foto sul muro.
Chi è stato? Perché lo ha detto? Una parola e lo Crucio fino a sentirlo implorare. Questi erano i pensieri ricorrenti di Harry, mentre Chris, Ted e Hermione facevano salotto davanti alla sua scrivania, con quattro tazze fumanti di cioccolata calda – educata pretesa del caro Teddy.
Hermione si era precipitata nel suo studio con un balzo di Metropolvere non appena aveva percepito la ferita riaprirsi. Era ovvio che qualcuno stava importunando Chris, e così come era successo la prima volta, e poi tutte le altre volte (non troppe, ma neppure troppo poche), si era catapultata a controllare il suo stato di salute. E a quel punto entrambe cancellavano l’accaduto e l’argomento. Non c’era stata una sola volta in cui Chris gli avesse detto i nomi dei bastardi, né gli avesse concesso di avvisare la preside. No. Dismetteva il tutto come se fosse niente, e Hermione accordava con lei. La campionessa contro le ingiustizie, Hermione Granger, accordava nel non agire in un tale frangente.
“Non è giusto,” borbottò tra i denti.
“Harry …” Tra i ventimila toni che Hermione aveva usato nel corso della sua vita per pronunciare il suo nome, questo era quello che gli piaceva di meno. Perché era l’unica cosa che riusciva a farlo desistere dallo scatenare i suoi istinti irrazionali. Gli ricordava di riflettere, di provare a capire. Gli ricordava vecchi discorsi: “Non è solo dolore fisico, Harry. È umiliante, degradante. Vorresti sparire. Quando quei segni tornano a comparirti sul corpo ti senti quasi indegna di avere in tasca una bacchetta, come se davvero il tuo sangue fosse macchiato da qualcosa. Può sembrare una cosa sciocca, un’idiozia, ma non c’è logica in queste sensazioni. Ogni giorno prego perché Rose e Hugo non debbano mai provarla, ma a Chris è successo. E non possiamo scegliere noi come deve reagire alla cosa. Può cercare di nascondere i segni oppure può scegliere di indossarli come uno scudo. Ma è lei che può e deve decidere. Se ti chiede di lasciare stare, tu devi lasciare stare. Non è la tua cicatrice, è la sua.”
Quell’ ‘Harry’ gli aveva ricordato tutte quelle parole e lo sforzo che Hermione aveva fatto per spiegargli perché Chris non volesse mai denunciare quei vigliacchi dei suoi compagni, perché Hermione non avesse mai voluto imporle nulla. Pudore. Vergogna. Ma che vergogna dovevano provare due tra le streghe più meritevoli che avesse mai conosciuto?
L’unica cosa che lo fermava dall’indagare era il rispetto che sentiva di dovere ad entrambe. Con la sua seppur giusta indignazione non avrebbe mai potuto impedire a quella ferita di ricomparire.
 “Sai, bollicina, il rosso ti dona sul serio.” Il complimento che Hermione dedicò a Chris interruppe il suo corso di pensieri. D’altronde, era vero che Chris portava bene i capelli più chiari.
“Potresti evitare di ricordarmelo.” Ma era altrettanto vero che la ragazza li odiava, per qualche suo inspiegato motivo.
Harry stava assaporando con piacere i biscotti al burro inzuppati nella sua cioccolata calda e la familiarità tranquilla di questo incontro improvviso. Ted e Chris non amavano molto farsi vedere in giro col professor Potter, temevano le ripercussioni nel loro rapporto con i compagni, o forse, Harry si costrinse ad ammettere, la sua presenza li imbarazzava non poco. Ciononostante, era bello averli intorno ed era bello ritrovare Hermione a Hogwarts. Era casa.
“Dovrei provare a far esplodere la mia pozione in faccia a Harry, magari gli copre i capelli bianchi.” Teddy gli lanciò un’occhiata di traverso, dopo aver sorseggiato un po’ della sua bevanda.
“Io non ho capelli bianchi!” Si ritrovò a difendersi suo malgrado, desiderando improvvisamente uno specchio. Sul serio aveva già i capelli bianchi? Ma se non aveva nemmeno trentacinque anni!
 “Certo, che ce li hai, guarda, ce n’è uno proprio lì.” Hermione si sporse verso di lui, e prese a spulciargli la testa, nel tentativo di mostrare ai ragazzi i suoi presunti capelli bianchi. Chris e Ted non la finivano di ridere.
“Ah, vi state prendendo gioco di me-”
“E del tuo fragile ego,” lo interruppe Hermione.
“Ma non sono io il più vecchio qua dentro,” concluse, con un tono della voce forse un po’ troppo cantilenante, ma Hermione se l’era cercata.
“Ahah. Questa tu e Ron l’avete usata un po’ troppo spesso. E poi è l’età che uno si sente dentro che conta.”
Forse solo tirando fuori una linguaccia sarebbero potuti sembrare più infantili. Ma ritrovare il sorriso negli sguardi di Hermione e Chris, anche se solo per la durata di una tazza di cioccolata, valeva tutte le linguacce e i capricci da bambino che riusciva a tirare fuori. D’altronde, nessuno gli aveva mai permesso di essere davvero un bambino, no?
“Non ti preoccupare, prof.,” s’intromise Ted. “Qualche capello bianco non fa che aumentare il tuo fascino irresistibile.”
“Sybil farebbe carte false per una cena, sappilo,” lo punzecchiò anche Chris. “E sono piuttosto sicura che anche Daniel ci stia facendo un pensierino.”
“Oh, professor Potter, vedo che qui si hanno ancora problemi coi fan. Cosa intende fare a riguardo?” Hermione gli puntò un biscotto contro il petto, prima di sventolarglielo sotto gli occhi.
“Nulla, assolutamente nulla, dottoressa Granger. Posso solo costituirmi parte civile.”
“Siete ridicoli,” sentenziò Chris, con Teddy che accordava. Stringevano entrambi gli occhi per osservarli meglio e scuotevano piano la testa.
“Ma a noi piacete così lo stesso.”

Ritorna all'indice


Capitolo 16
*** Capitolo 14 - It could have gone that way ***


Capitolo 14
It could have gone that way

“Ti va se ti accompagno a casa?”
“Certo.” Hermione acconsentì sorridendo. Come se due tra i più brillanti maghi della storia magica avessero bisogno di un taxi, un autobus o una bicicletta per tornare a casa dopo il lavoro. Ti va se ti accompagno a casa nel gergo privato di Harry e Hermione significava fare due passi verso il punto di Apparizione accanto alla Testa di Porco, e poi passare la serata insieme a Porter Street, come il vecchio Golden Trio faceva in Sala Comune: tra discussioni animate su chi giochi meglio tra Puddlemere United e Cannoni di Chudley, le più bizzarre scoperte di Luna pubblicate sul Cavillo, il nuovo stupido test del Settimanale delle Streghe e i bambini che fanno baldoria in salotto.
Nello studio di Harry erano rimasti in due. Il crepuscolo, l’ora della sera che volge al ritorno e che conduce tutti a casa, era passato da un po’. Chris e Ted se l’erano svignata borbottando qualcosa riguardo un saggio di Babbanologia da completare, quando le risate erano andate scemando e i commenti sui loro risultati scolastici avevano iniziato a pesare un po’ troppo sulla conversazione.
“Puoi aspettare un attimo, Hermione?” Harry stava trafficando nel suo confuso armadietto alla disperata ricerca di qualcosa come una quarantina di compiti del quarto anno.
“Saranno per caso questi?” chiese l’amica mentre alzava dalla scrivania un malloppo di pergamene tenute insieme da un sigillo magico, recante la dicitura ‘Test Draghi IV Anno’. “Potresti usarla quella bacchetta ogni tanto, giusto per mettere un po’ d’ordine.” Recitò il monito che ripeteva a Harry da qualche anno a questa parte. La classica risposta di Harry, “Ma questo è il mio ordine,” non mancò di farsi sentire, ma Hermione ormai aveva l’attenzione rivolta a tutta altra parte. L’improvviso spostamento di fogli e aria aveva provocato un leggero terremoto sulla scrivania di Harry; una foto stava svolazzando verso terra. Hermione l’afferrò. Con tenerezza e un sorriso non completamente felice osservò i soggetti ritratti.
“Si è staccata dalla parete.” Hermione alzò lo sguardo verso la voce del suo amico, che quasi in tono di scuse le spiegava la presenza di quella foto tra le sue cartacce. “Certe volte la magia non basta,” concluse Harry.
Hermione si trovò a chiedersi dove conducessero le parole di Harry. Era diventato stramaledettamente bravo a parlare per enigmi e double entendre. Doveva averglielo insegnato Silente.
“Mi stupisce di più che tu la tenga ancora,” commentò con onestà.
“Perché? Tu l’hai buttata via?” Harry non attese la risposta. La conosceva già. Girò dietro la scrivania, per guardare meglio la foto insieme a Hermione. “Ogni tanto mi aiuta a ricordare che sarebbe potuta finire così. E poi, siete bellissime in questa foto,” confessò, senza timore di dire troppo. Quell’immagine aveva davvero colto un momento perfetto.
C’erano rimpianti nelle vite di Harry Potter e Hermione Granger? Sì. Erano disposti a rinunciare a tutto quello che avevano costruito? A Rose e Hugo che si strappavano  le consonanti a vicenda? A Jamie e Al che si rincorrevano per tutta casa Potter, disturbando Lily e la sua Puffola Pigmea? No. E non c’era niente da fare al riguardo, erano solo desideri vacui.
Le loro dita accarezzarono in contemporanea i contorni del viso di Chris. La ragazza era appena letteralmente scappata via dalle loro attenzioni, eppure eccoli ancora lì, questi due genitori a metà, a guardare quasi con venerazione una vecchia fotografia Babbana che la ritraeva da bambina.
“Sai, una volta mi ha confessato di temere che la guerre magiche non fossero  finite realmente. Mi ha detto: ‘Non finiranno mai davvero.’ Mi è parso quasi che sentisse il peso di quello che abbiamo passato, come se in qualche parte dentro di sé avesse accolto in eredità questo dolore impossibile da gestire. Si porta dietro le torture di Bellatrix e certe volte pare che abbia qualcos-, non so. Mi sembra solo tremendamente ingiusto. Non è affatto giusto. È colpa nostra, Harry?”
Harry non volle rispondere. Sigillò di nuovo con la bacchetta la foto al suo posto tra le altre e condusse l’amica fuori da quell’ufficio. Verso casa.
Sulla parete, una sola fotografia diversa dalle altre cercava di confondersi tra sorrisi e saluti lontani e allegri. Una foto Babbana. Una persona informata dei fatti avrebbe riconosciuto la sposa, Hermione, coccolare il faccino della sua sorellina Chriseys, appisolata sulla spalla del testimone dello sposo, Harry. Qualsiasi osservatore esterno avrebbe giurato di vedere una mamma che accarezza il volto della sua bimba addormentata sulla spalla del suo papà, il giorno del loro matrimonio.
Un ritratto di famiglia. Quasi.
 

*

 
18 Marzo 1998, Wyre Forest, Worchestershire          
“Ehi!”
“Ronald!” Hermione si tirò d’un tratto in piedi. “Mi hai spaventata!”
“Mi spiace. Non volevo,” rispose Ron con sincerità. Neppure lui era in vena di trascinarla in una delle loro stupide discussioni. L’aveva seguita, sicuramente curioso di sapere dove la conducessero le sue lunghe passeggiate mattutine.
Hermione si sentiva così stanca. Dormiva poco e male, e questo lo sapeva anche Ron. In quei giorni, forse era proprio lui l’unico capace di farsi una sana dormita in quella tenda. Harry era totalmente assorto nelle sue folli teorie sui doni della morte e a lei toccavano altre ossessioni, di tutt’altro genere.
“Stai bene?”
“No,” rispose subito lei. Che senso aveva mentire su quel punto? Affermare che il suo malessere fosse evidente sarebbe stato l’eufemismo del secolo. Ho appena finito di rigurgitare l’anima in quello schifo di bagno portatile che abbiamo dietro. Ma questo non lo disse, probabilmente mister Spione se n’era già accorto da sé. “Siamo tutti molto stressati,” aggiunse, cercando di non scaldarsi all’idea che Ron invadesse la sua privacy, se ancora poteva esistere una sorta di privacy nella situazione in cui erano costretti a vivere.
“È solo stress, Hermione?” Perché poi faceva tanto il dolce? Era troppo difficile nascondergli la verità quando si comportava così. Quell’espressione compariva sul viso di Ron solo quando era preoccupato fino al tormento. E quegli occhi grandi, limpidi e azzurri, sembravano invocare Hermione affinché gli confessasse cosa la turbava. Quando faceva così, Hermione avrebbe voluto davvero dirgli tutto.
Ma non poteva. Non poteva fargli questo. Quel cielo azzurro sarebbe diventato grigio e tempestoso, quella mano che ora stringeva la sua l’avrebbe scacciata e schiaffeggiata. Per quanto le sarebbe piaciuto sentirsi forte e indipendente come sempre, in quel momento, non riusciva neanche a contemplare il pensiero di perdere Ron. Un’altra volta.
Era tutta colpa sua. Se fosse stata più attenta, meno istintiva, più cosciente delle proprie azioni. Se fosse stata più Hermione. Harry aveva ragione: Ron non lo meritava, nonostante tutti i suoi difetti. Il suo Ron non meritava tutto questo. Ma Harry conosce solo metà della verità.
Come aveva potuto agire così stupidamente? Hermione, la mente fredda e razionale, la più brillante della sua generazione. Brillante? Sì. Incinta. A diciotto anni. Senza genitori. Incinta del suo miglior amico, che deve a tutti i costi salvare il mondo, col pericolo di morire ogni giorno. Incinta. Nomade e  in fuga, tra foreste gelide e scogliere inospitali. Incinta. Intimorita dal pensiero di fare anche solo un passo, di dire una parola, di lasciarsi sfuggire uno sguardo o un movimento sbagliato. Con il costante terrore di perdere uno dei suoi ragazzi. O entrambi. Incinta. Gran bel traguardo, Hermione Granger.
Si lasciò cadere, sedendosi alle radici dell’albero dietro di loro. “Stress e una brutta indigestione?” Tentò di buttarla sul ridere, sperando che Ron le credesse.
“Miseriaccia!” Esclamò lui, rivolto a quel brutto ramo fastidioso che gli impediva di accomodarsi accanto a Hermione. “Magari, disillusi per bene, possiamo fare un salto da Madama Chips … no, eh? Hermione stiamo mangiando roba di qualsiasi tipo, cioè … se fosse più pericoloso di un mal di stomaco? Non mi piace vederti … stare male. Tu sei importante … ehm, voglio dire, per la nostra ricerca, gli Horcrux.”
“Credimi, Ron. Ho solo lo stomaco infastidito.” Da un bambino. Il modo in cui Ron inciampava nelle parole, arrossiva, si confondeva, e neppure in tale frangente riusciva ad ammettere i propri sentimenti, le aveva fatto ritornare il suo tono naturalmente deciso e sicuro. Stava davvero diventando brava a dire balle. “Fidati di me. Ho tutto sotto controllo,” concluse. Come poteva invocare tale fiducia proprio nel momento in cui la stava tradendo?
“Mmh, ok.” Ron si limitò a mugugnare, accettando silenziosamente le rassicurazioni di lei. Se Hermione diceva di avere tutto sotto controllo, doveva essere vero. Forse era davvero lo stress della vita da nomadi, della ricerca di questi dannati Horcrux. Doveva crederle. Voleva crederle. Ron si ritrovò a fissarla. Ancora.
Mentre si appoggiava all’albero dietro di lei, una ribelle ciocca castana le coprì l’occhio destro. Hermione sentì le dita ruvide di Ron spostarla delicatamente al suo posto dietro l’orecchio e il respiro di lui farsi più vicino. Accennò a un bacio. E lei lo lasciò fare. Si lasciò andare a quello che aveva creduto di desiderare per anni. Un bacio come Ron. Ruvido, impaziente, impacciato, eppure attento, dolce, a modo suo.
Poi si riscosse. Lacrime le pizzicavano gli occhi. Era sbagliato. Lo allontanò. “Non ora, Ron. Non è questo il momento giusto.”
 

 



Note: "It could have gone that way" sono parole di JK Rowling che per quelli come me, che amano giocare con i se delle storie, diventano un tesoro prezioso.

Ritorna all'indice


Capitolo 17
*** Capitolo 15 - Non è ancora l'alba ***


Capitolo 15
Non è ancora l’alba

4 Maggio 1998 – Hogwarts, Scottish Highlands
Tanti corpi, stanchi e provati, feriti e in stato d’incoscienza, riposavano nei letti dell’Infermeria di Hogwarts. Pochi erano stati trasferiti d’urgenza al San Mungo, molti avevano trovato accoglienza tra le mura di Hogwarts, gli altri non ce l’avevano fatta.
Poppy Chips girava tra un letto e l’altro per assicurarsi che tutti fossero addormentati e a proprio agio, per quanto possibile in una tale situazione. La quotidianità scolastica era stata sospesa per il tempo a venire, anche se difficilmente qualcuno tra i frequentatori della vecchia Hogwarts avrebbe potuto considerare gli avvenimenti dell’ultimo anno come tranquilla e rassicurante quotidianità. Stava per sorgere una nuova alba, ma quella mattina Poppy Chips non avrebbe visto nessuno studente gironzolare per i corridoi e finire dalle sue parti per qualche stupido scherzo o per colpa di un bolide mal calibrato.
Il braccio spezzato del giovane Thomas aveva poco a che fare con un bolide di qualsiasi genere, la cicatrice che divideva in due la fronte del professor Vitious non era il risultato di un incantesimo riuscito male a una matricola, l’occhio bendato della signorina Lovegood non era l’ennesima beffa di esserini invisibili, e la spalla fratturata di Minerva non aveva nulla a che fare con la sua età.
“Professoressa McGranitt!” Apostrofarla col titolo ufficiale aveva sempre un effetto autoritario con la professoressa di Trasfigurazione. “Ti pare l’ora adatta per gironzolare nella mia Infermeria? Dovresti riposare, come tutti gli altri pazienti.” Poppy rimarcò con fermezza l’inciso finale, non accettava insubordinazioni nella propria Infermeria.
“Sono i miei ragazzi.” Questa semplice frase, secondo la professoressa, doveva bastare a spiegare e giustificare ogni cosa. Nessuno avrebbe potuto considerare quell’affermazione non veritiera. Sono i miei ragazzi. Anche senza la certificazione burocratica, erano davvero suoi. “È compito mio assicurarmi che stiano bene.”
“In realtà, quello sarebbe il mio compito, Minerva.”
“Magari potreste dividervelo.” Una voce, già perfettamente sveglia ma praticamente atona, interruppe il loro battibecco. Le due donne scostarono le tende intorno al letto della paziente in questione. Hermione Granger stava seduta sul proprio letto, masticando il cappuccio di una penna a sfera Babbana e scribacchiando qualcosa su un foglio di carta.
La ragazza era stata condotta in Infermeria, priva di sensi, dalle braccia di un Harry Potter distrutto e atterrito, un paio d’ore dopo la fine della battaglia. Dopo aver assistito alla morte di tanti amici cari, fatto un salto nell’aldilà ed esser ritornato, ucciso il peggior Mago Oscuro di tutti i tempi, l’ultima cosa che quel ragazzo era in grado di sopportare era il peso della sua amica che gli cadeva letteralmente tra le braccia, poco dopo la partenza del clan Weasley verso Ottery St. Catchpole.
“Signorina Granger, dovrebbe riposare. Non è ancora l’alba.”
Hermione si limitò a scuotere la testa. Erano mesi che il suo sonno non prendeva un corso lineare e tranquillo, perché avrebbe dovuto iniziare adesso? Perché la guerra era finita? Perché non era ancora sorto il sole? Aveva smesso di credere all’idea di un’alba senza guerra e adesso si sentiva spaesata, sola e confusa. “Quando posso andar via?”
“Quando si sarà ristabilita.”
“Non sono malata. Lei sa bene ch- …” Trasalì, lasciando la frase a metà. Voleva lasciare l’Infermeria, ma non aveva una casa dove andare e nessuno con cui parlare. Finora aveva vissuto col solo obiettivo di arrivare a quell’alba e adesso che era arrivata non sapeva come agire, selezionava pro, contro e variabili di ogni possibile movimento. Rifugiarsi alla Tana e cercare il sostegno di Molly non era un’opzione, né tantomeno poteva confidarsi con Harry come aveva sempre fatto. Harry era l’ultima persona che doveva conoscere la verità in quel momento. Avrebbe voluto saltare sul primo volo per l’Australia e sfogare tutte le sue lacrime sulla spalla di sua madre. Una madre che non ricordava neppure di avere una figlia. Era così difficile prendere qualsiasi decisione. Non era pronta.
Tutto ciò, mentre la bollicina, il suo bambino, sembrava voler venire al mondo a ogni costo, cocciuto e resistente - come il padre e la madre.
“Poppy, potresti continuare il tuo giro, mentre io faccio una chiacchierata con la nostra Hermione.” La voce della professoressa suonò alle orecchie di Poppy Chips come un misto tra il suo consueto tono autoritario e l’inflessione che aveva usato qualche minuto prima per rivendicare i diritti e doveri sui suoi ragazzi. Una voce che la persuase, per la prima volta, nella sua Infermeria, a lasciare l’ultima parola a un paziente.
Non dubitò mai della saggezza della sua decisione – non quando sentì i singhiozzi sommessi della signorina Granger che confessava a qualcuno quel segreto su cui le aveva imposto il Voto Infrangibile; non quando, due giorni dopo, studentessa e professoressa lasciarono Hogwarts, in partenza, insieme a Kingsley Shacklebolt, per St. Leonards, Victoria, Australia; né soprattutto, quando undici anni e mezzo dopo, una ragazzina con gli occhi nocciola e degli indomabili boccoli castani fece il suo ingresso in infermeria con un polso lussato, a soli tre giorni dal suo arrivo a Hogwarts.
 

*

 
 “Ah! Ti ho trovato!” L’esclamazione di Ted riverberò per tutta la stanza, mentre il ragazzo conservava la mappa del castello di suo padre, rivelatasi inutile in quel frangente. La porta della Stanza delle Necessità si richiuse alle sue spalle.
Chris gli dedicò un’alzata di sopracciglia dal divano su cui si era accucciata assieme alla chitarra Gibson che la Stanza le aveva fornito. Non poté evitare di sorridere, l’atteggiamento euforico del suo amico era contagioso, ma Ted, Chris era certa, conosceva qualche strano incantesimo segreto che la faceva sorridere sempre. Ovviamente però, questo non la fermò dal riprenderlo. “Dovevamo incontrarci qui, è per questo che la Stanza ti ha lasciato entrare.”
“Sul serio?” Ted continuò la sua piccola farsa, slacciando il proprio mantello e allentando il cravattino giallo-nero. “Non perché desideravo ardentemente ammirare la tua chioma fulvo-cioccolatosa?” Scherzò, cadendo sul divano accanto a Chris proprio come il suo mantello sul pouf, messo lì per queste evenienze.
“Dovevo tagliarli a zero. Subito,” borbottò Chris, sempre più insofferente a battute o anche apprezzamenti sul proprio colore di capelli. “Fulvo-cioccolatosa? Ed è legale un aggettivo del genere? Che vorrebbe dire poi?”
“Ehm, che hai capelli un po’ castani e un po’ rossi?” completò la frase con un sorrisetto, e una perfetta imitazione, tono su tono, giochi di luce e sfumature, di tale chioma fulvo-cioccolatosa.
Chris fu tentata dall’idea di sbattergli la chitarra in testa, ma anche se la Stanza delle Necessità era equipaggiata con ogni tipo di strumento necessario aveva ancora troppo a cuore l’incolumità di quel piccolo gioiellino Gibson per spaccarlo sulla testa mutante di uno stupido metamorfomago. “La smetti?”
“Perché non la smetti tu?” chiese lui, tranquillo, mentre prendeva tra due dita una ciocca dei capelli di Chris e gliela sventolava contro il viso. “Ti vedi tutte le mattine allo specchio, no? Sai benissimo che questo colore ti dona.” Adesso era un tantino meno tranquillo di prima; una trasformazione che non aveva nulla a che fare con la sua natura di metamorfomago stava avvenendo sul suo volto: arrossiva. “Non che non stessi bene prima, ma … non sei mica brutta!”
“Sarebbe un complimento, Ted?” Chris non sapeva se sentirsi offesa per la mancanza di tatto, o lusingata dal fatto che Ted si era accorto che non era mica brutta. “Certe volte sei peggio di Ron!” mormorò, un po’ compiaciuta, un po’ indispettita, e un po’ più rosa sugli zigomi.
 “Uhm?”
“Che vuol dire ‘uhm’?” Ted aprì la bocca per rispondere, ma Chris lo anticipò. “Lascia stare. Tieni.” Gli porse la chitarra che aveva in grembo, e dal divanetto, saltò in un secondo verso il pianoforte, dove raccolse alcuni fogli.
“Vuoi sapere la novità?” Ancora una volta, non lo lasciò rispondere. “Ho scoperto chi è il tuo autore misterioso.” Le sopracciglia alzate e la chioma blu, variegata di giallo, dovevano dare alla ragazza la misura dello scetticismo di Ted, ma la piccola avventura vissuta da Chris con quel pezzo di pergamena le aveva dato con sicurezza il nome del musicista incompreso. Versare succo di zucca sul foglio che si stava leggendo poteva risultare un’attività piuttosto proficua in questo senso.
“Hai rovesciato del succo di zucca sulla mia pergamena?”
“La distrazione non è tua prerogativa, sai? Comunque l’ho immediatamente bombardata di incantesimi finché non si è ripulita, qualche Gratta e Netta, e altri due trucchetti che mi ha insegnato la signora Weasley, e vuoi vedere cosa è venuto fuori?” A questo punto, Chris stava già mostrandogli il vecchio foglio: tutt’intorno il pentagramma era comparsa una cornice di ghirigori, molto simili a un LE ripetuto all’infinito, in filigrana, e in basso, sempre in controluce, si potevano leggere data e dedica:

17 Agosto 1977
Per Lils
Aspetterò quel ‘si’ fino alla fine dei miei giorni.
J.P.

“Carino. Adesso sappiamo che questa canzone ha esattamente ventuno anni meno di te e-”
“E che è dedicata a una certa Lils.”
“Lils!” Gli occhi di Ted si spalancarono di comprensione. “Come Lily. La madre di Harry si chiamava Lily!”
“E il padre di Harry si chiamava James. J.P.” Chris picchiettò l’indice sulle iniziali, quasi a rafforzare il suo punto.
James Potter e Lily Evans. Due nomi che suonavano sulla lingua con il clangore della leggenda. Eroi, martiri, morti in difesa del mondo magico e del loro bambino. A risentire i loro nomi persino gli occhi della professoressa McGranitt diventavano lucidi d’emozione.
Eroi, martiri, leggende avevano avuto diciassette anni anche loro, e avevano camminato in quegli stessi corridoi e studiato su quegli stessi tavoli, e avevano pianto, riso, giocato, studiato, avevano amato e vissuto.
“Aspetta un attimo.” Ted corrugò la fronte e poi scosse il capo. “Ma perché allora non abbiamo riconosciuto la grafia? Quante volte abbiamo consultato il libro di Trasfigurazione di mio padre pieno degli scarabocchi di James?”
“Io penso che avesse fatto un incantesimo alla pergamena, che il bizzarro misto tra succo di zucca e gli incantesimi della signora Weasley deve aver spezzato in qualche modo. Avrà camuffato la grafia e nascosto la dedica per non farla leggerla a occhi indiscreti.”
“Come i nostri?”
“I nostri non sono occhi indiscreti. I nostri occhi sono quelli di Pierre-François Bouchard davanti alla Stele di Rosetta o quelli di Sir Frederic York davanti al manoscritto autografo della Fonte della Buona Sorte di Beda.”
“Il manoscritto autografo della Fonte della Buona Sorte?”
Chriseys non seppe evitare una risata davanti alla faccia da pesce confuso di Ted.
Forse quella pergamena non era da considerarsi un pezzo di Storia come la Stele di Rosetta, ma di certo avrebbe potuto benissimo essere un pezzettino della loro storia.
 

 



Note: Come fa notare Chriseys in queste ultime battute – in cui, per quanto lei possa negarlo, viene fuori il suo lato Granger *Hermione II – Il Ritorno* – il capitano Pierre-François Bouchard è stato il primo a mettere gli occhi sulla Stele di Rosetta, la cui importanza storica per la comprensione dei geroglifici non credo sia necessario ricordare. Della scoperta di un manoscritto autografo della fiaba La fonte della buona sorte di Beda (contenuta nell’antologia Le fiabe di Beda il Bardo) non è possibile certificare la verità dei fatti. Chissà se possiamo fidarci di Chris!?
 

Ritorna all'indice


Capitolo 18
*** Capitolo 16 - 'Till Kingdom Come ***


Capitolo 16
‘Till Kingdom Come

Guardare gli occhi di Ted era come vedere le lampadine nel cervello del ragazzo accendersi di euforia. Chris era soddisfatta di essere riuscita a risolvere il suo piccolo giallo, la trascrizione della tablatura di quel pentagramma per pianoforte nei buchi di tempo dallo studio l’aveva tenuta lontana da quella voce e dalle sue ansie, e le aveva permesso di riavvicinarsi a Ted.
“Ecco a lei, signor Lupin.” Gli porse la partitura per chitarra che aveva trascritto. Adesso il ragazzo avrebbe potuto tranquillamente suonare e cantare il testo.
In quei giorni, si era rifiutata di pensare per chi Ted volesse imparare quella canzone. Ma c’era qualcosa che la tranquillizzava su quel punto: quelle parole non sarebbero mai davvero appartenute a Blondie, quelle parole raccontavano dell’amore infinito di James Potter per la sua Lily, quelle parole sembravano parlare direttamente a lei e a Ted, e a nessun altro.
“No. Suoniamo insieme.” Ted le riconsegnò in mano la Gibson, che a quanto pareva, era destinata a passare in continuazione dall’uno all’altra.
“Certo, ti mostro i passag-” Chris la impugnò immediatamente, ma Ted le fermò la mano sul ponte, coprendola con la propria.
“No, no, suoniamo insieme.” Sottolineò le parole, spostando lievemente il viso di lei verso di lui. “Prendi questa chitarra e suona con me, Chris. Canta con me. Io prendo la Telecaster.”
Chriseys si stupì leggermente della richiesta, si aspettava di dover semplicemente fare il lavoro sporco, trascrivergli la partitura, dargli qualche dritta sulla ritmica. In quel momento non si sentiva pronta, non era preparata a eseguire qualcosa davanti a qualcuno. Non aveva fatto gli esercizi di Occlumanzia e Controllo della Mente che faceva di solito prima di suonare. Foss’anche Teddy Lupin questo qualcuno.
Quando, molti anni prima, la professoressa McGranitt aveva visto per la prima volta i giochi di illusione che Chris mostrava quando perdeva il controllo sulle proprie emozioni, aveva parlato di Legilimanzia innata, quasi fosse un talento inestimabile. Ma Chris aveva imparato che ogni benedizione è accompagnata da una condanna. Chris era propensa a considerare questa presunta dote come un difetto di fabbrica, uno di quegli scherzetti da divinità birichine: ti diamo la capacità di vedere all’interno della mente altrui senza grandi sforzi, ma in compenso anche la tua mente deve essere aperta e visibile a tutti gli altri. In teoria, quindi Chris sarebbe stata capace di fare tutto quello che un Legilimens esperto avrebbe potuto fare per giocare qualche trucchetto alla mente che aveva scelto di soggiogare; di fatto, non c’era né volontà né controllo da parte, e di conseguenza anche la sua mente, le sue emozioni, i suoi pensieri risultavano completamente liberi a chi le si parava davanti. Sotto stress sarebbe stata del tutto incapace di tenere per sé quello che le passava per la testa.
Erano anni che Hermione continuava a ripeterle di esercitarsi a gestire la propria emotività. Occlumanzia e Controllo della Mente: era quasi un mantra. Ma quando metteva le mani su uno strumento l’espressione ‘controllo delle emozioni’ assumeva tutto un altro significato, tutte le sue forze si concentravano sulla musica.
A Ted piaceva suonare insieme a Chris. Era come tornare a giocare nella sabbia le sere d’estate, era liberatorio e appagante. Questo Chris lo sapeva bene. Eppure, in quel particolare momento della sua vita, c’erano solo due persone che Chris voleva tenere lontane, lontanissime dai suoi pensieri: Hermione e Ted.
“Okay, ma devi darmi il tempo di fare due o tre esercizi di controllo.”
“No, no, no, forse non mi sono spiegato,” affermò Ted con sicurezza. Si posizionò completamente di fronte a Chris, e le alzò nuovamente il viso, prima rivolto verso le corde della chitarra, di modo che lo fissasse negli occhi. “Nessun esercizio. Scordati il controllo. Vorrei che tu suonassi con me. Che suonassi come facevi quando eravamo piccoli, quando mi permettevi di essere parte di quella cosa meravigliosa che è la tua mente, Chris. Per favore.”
“Ted, io non lo so se …”
“Taci. E suona. Do, Re, Fa. Fa così giusto?” chiese prima di eseguire in ordine i tre accordi, uno dopo l’altro. Chris annuì, e poi acconsentì a quello che le proponeva.
Ted incominciò a cantare. “Still my heart and hold my tongue, I feel my time, my time has come. Let me in, unlock the door, I've never felt this way before.”
Dir di no era impossibile. Perché non sapeva dire no a Ted? L’aveva capito anche lui? Sapeva anche lui che quella canzone parlava direttamente a loro due? Il ragazzo sorrideva, mentre solleticava le corde e continuava a cantare.
“And the wheels just keep on turning, the drummer begins to drum, I don't know which way I'm going, I don't know which way I've come. Chris. Suona. Con. Me.”
Accarezzare le corde di nylon era naturale, era il suo universo. In fondo, cosa dicevano le parole di quella strana canzone? Forse solo la verità. “Hold my head inside your hands, I need someone who understands, I need someone, someone who hears.” Sapeva di essere sul punto di confine tra mondo concreto e quello della sua mente, ma finché non guardava Ted negli occhi era semplice, bastava chiudersi in sé. “For you, I've waited all these years.” Per te, ho aspettato tutti questi anni. Ma non poteva evitare gli occhi del suo amico troppo a lungo. Una frase. Una frase in rima, scritta da un mago adolescente trentasette anni prima era tutto quello che serviva a Chris per spogliarsi completamente davanti agli occhi di Ted. Non c’era via di ritorno.
E adesso erano in mare. E adesso iniziavano ad affondare. C’era calma nella testa di Ted, c’era la primavera. E degli amici che correvano sui prati del castello, che perdevano tempo sotto un albero, che ridevano. Il regno: il paradiso per Ted aveva gli occhi dei suoi genitori.
“For you I'd wait 'til kingdom come, until my day, my day is done …” E c’era anche lei nel paradiso di Ted, ma questo forse era un appiglio della sua fantasia. “And say you'll come and set me free. Just say you'll wait, you'll wait for me.”
Aspettami. Sto arrivando, sto correndo verso di te.
 “In your tears and in your blood, in your fire and in your flood, I hear you laugh, I heard you sing. I wouldn't change a single thing.” Dopo, come piccoli lampi di realtà, i ricordi si confusero coi desideri: il ginocchio sbucciato e sanguinante di un piccolo TeddyBear alla Tana, le vampe di fuoco intorno al vecchio cottage di Füssen – le loro lacrime –, i volti di Helen, Andromeda, Edward, Remus, Hermione, Ninfadora, Harry, Victoire, Hugo, Rose, Ron, James, Al, Lily, Ginny. Tutti. Tutti. E poi una risata. Contagiosa e bonaria, sulla musica.
“Io ti amo,” confessò Chris a mezza voce, tra prati e cieli chiari e visi conosciuti. Amava Ted, i suoi occhi che cambiavano colore quando cambiava umore, i suoi sorrisi sempre pronti ad essere dispensati verso tutti, le sue espressioni sciocche, le mani che stringevano le sue e ballavano il loro valzer quotidiano.
Percepì poi quella mano, tenera e delicata che le accarezzava la guancia, Ted la osservò con uno sguardo, morbido e assoluto.
“Just say you'll wait, you'll wait for me. Just say you'll wait, you'll wait for me” concluse Chris, pizzicando le ultime note. Un mero bisbiglio contro gli occhi di Ted, contro i propri occhi – velati da qualche lacrima. “Mi dispiace …” Posò la chitarra a terra.
Ted non le diede il tempo di abbassare lo sguardo e scappare via. Non le diede il tempo neppure di vergognarsi dei propri desideri. Catturò il viso di lei con entrambe le mani. Spinse le proprie labbra su quelle della ragazza, arrabbiato e quasi brutale, smanioso di qualcosa, che neppure lui sapeva di desiderare così tanto. Arrivò fino a quasi mordere il labbro inferiore di Chris, immobile e sconvolta dall’improvvisa e imprevedibile reazione di Ted alla sua confessione.
Ted, il suo Teddy, era pigiato contro di lei, e spingeva con la lingua contro le sue labbra. Terrorizzata ed elettrizzata, iniziò a partecipare attivamente al bacio: schiuse le labbra e lasciò la sua lingua guerreggiare con quella di Ted. Un secondo, due, tre, un’eternità e il pollice di lui incominciò a disegnare morbidi cerchi sulla sua guancia, mentre l’altra mano si spostava a cingerle la vita. Chris acciuffò la camicia di lui, nel disperato tentativo di sentirlo vicino, più vicino. Ancora più vicino.
“Chris …” affannato, mormorò il nome di lei, come nascondesse dei significati proibiti che solo ora era riuscito a comprendere. C’era stupore, tenerezza, desiderio, e qualcos’altro che la ragazza non riuscì ad afferrare. Lo guardò ancora e ancora in quei suoi occhi che avevano assunto una sfumatura scura e quasi scarlatta.
Chris si ritrovò senza sapere per quale motivo a giocare con i bottoni della camicia di lui, mentre gli riacciuffava le labbra. Uno contro l’altra, ancora, su quel piccolo divano, schiacciati contro i cuscini. Affrettati e incoscienti, due adolescenti impegnati a scoprire l’uno il corpo dell’altra.
“Non posso.” Due parole, mormorate contro la spalla di Chris. E quel fragile e bellissimo castello di sabbia si frantumò esattamente com’era stato creato. Da un nonnulla. Un’illusione ottica. “Non posso fare questo a Vic.”
Ted si alzò lentamente, mordendosi il labbro inferiore, incapace di lasciare andare del tutto la vita di Chris, che teneva ancora ferma nel suo abbraccio. “Non è giusto.” Scosse la testa e la allontanò finalmente.
La ragazza rimase muta, immobile, al suo posto sul divanetto, con le dita sulle proprie labbra; cercando di collegare quei confusi brandelli di realtà. Cosa diavolo era successo?

Hai mostrato a Ted Lupin la tua anima.
E lui ti ha rifiutato.

 

Note: Il brano che suonano insieme Chris e Ted, purtroppo, non è stato davvero composto da James Potter, ma è la ghost track di X&Y, il terzo album dei Coldplay. ‘Till Kingdom Come si traduce letteralmente come Finché non arriverà il regno, con un chiaro riferimento al regno dei cieli, quindi, fino alla fine del mondo.
La traduzione in lingua italiana dei pezzi che cantano i due ragazzi fa più o meno così:
Sta fermo mio cuore e fammi tacere, sento che il mio momento è arrivato. Lasciami entrare, apri la porta, non mi sono mai sentito in questo modo prima.
E le ruote continuano a girare, il batterista comincia a suonare. Non so dove sto andando, non so da dove sono venuto.
Tienimi la testa tra le mani, ho bisogno di qualcuno che capisca, ho bisogno di qualcuno, qualcuno che ascolti.
Per te aspetterei fino alla fine del mondo, fin quando i miei giorni saranno conclusi.
Dimmi che verrai e mi libererai. Di’ soltanto che aspetterai, che mi aspetterai.
Nelle tue lacrime e nel tuo sangue, nel tuo fuoco e nella tua scia,  ti sento ridere, ti ho sentito cantare. Non cambierei neppure una sola cosa.
Dimmi che aspetterai, che mi aspetterai.

Ritorna all'indice


Capitolo 19
*** Capitolo 17 - Insicurezze ***


Capitolo 17
Insicurezze
"L'incantesimo che cercherò di insegnarvi oggi è magia molto avanzata, molto al di sopra del Fattucchiere Ordinario. Scommetto che parecchi di voi ne hanno sentito parlare, si chiama Incanto Patronus." Il professor Potter stava sperimentando, per la prima volta, l'inserimento del Patronus nel programma dei M.A.G.O., i ragazzi del settimo anno avevano iniziato a lanciare i loro piccoli sbuffi di luce argentea già dalla settimana precedente; i risultati positivi dei più grandi e il ricordo dell'Esercito di Silente lo avevano convinto che anche il suo miglior sesto anno meritava una chance in questo senso. L'attenzione assoluta dei ragazzi Grifondoro e Tassorosso rendeva il compito ancora più piacevole.
"Il Patronus è una forza positiva, una proiezione delle cose di cui si alimenta il Dissennatore: la speranza, la felicità, il desiderio di sopravvivere." Harry percepì un vago senso di dé-jà vu nel procedere della sua spiegazione. Le parole di Remus – del professor Lupin – gli ticchettavano nella memoria come fosse passato un solo giorno da quel gennaio '94. Era buffo e quasi perturbante rivedere tra i suoi studenti quegli stessi occhi, attenti e pronti, che gli avevano insegnato l'Incanto. Quando Teddy non sceglieva di mutarlo in qualcos'altro, avevano lo stesso sguardo.
"Vediamo, ecco, mettetevi in fila. Così. Perfetto." Istruendo i ragazzi su dove posizionarsi, passò in rassegna tutta la classe. Tra una frase e l'altra, Harry dedicò qualche occhiata obliqua a Ted, che aveva disertato il suo posto accanto a Chris. Avevano litigato di nuovo, e Harry non poteva fare a meno di preoccuparsi per l'aumento di frequenza di questi lunghi litigi. Questa volta non solo si scansavano nei corridoi, ma, persino in classe, evitavano di guardarsi. O meglio, Chris sfuggiva accuratamente ogni contatto con Ted, mentre quest'ultimo sembrava proprio non volersi sottrarre dal bisogno di osservare la ragazza, anche da lontano, salvo poi abbassare immediatamente gli occhi quando veniva scoperto.
Harry, a più riprese, era andato dall'uno e dall'altra nel tentativo di capire i loro screzi; entrambi, però, eludevano con zelo la discussione su quel preciso argomento. Chriseys non era riuscita a nascondere gli evidenti segni di insofferenza alle sue domande esplicite, era arrivata a rispondere con un chiaro e infastidito "Ma che t'importa?"
Harry, in quello come in tanti altri momenti, avrebbe davvero voluto poter esercitare i suoi diritti biologici; anche se, probabilmente, neanche in quel caso Chris sarebbe stata propensa a confidarsi con lui.
"Bene, ora voglio che focalizziate il momento più felice della vostra intera esistenza."
"Come Peter Pan!" Il sopracciglio alzato di William MacDonald era rivolto al sorriso di Sybil, accanto a lui, ma nessuno in classe si privò di una risatina alla battuta del ragazzo.
"Già, MacDonald, e a fine lezione perché non scrivi un bel saggio per spiegare ai tuoi compagni, cresciuti nel Mondo Magico, chi sia Peter Pan?" Harry lo osservò severo, tentando di nascondere una risata lui stesso.
"Sta scherzando, professore, vero?" Stupito, il ragazzo spalancò gli occhioni azzurri, esibendosi in una di quelle facce buffe che tanto facevano divertire i suoi compagni di classe.
"Se continui ad interrompere la lezione potrei non saperlo più. Ora," riprese la spiegazione dirigendo lo sguardo sull'intera classe, lasciando MacDonald a mordersi la lingua, "Non sto parlando di un ricordo qualsiasi. Dovete concentrarvi sull'emozione più intensa che abbiate mai provato." Il sorriso di tua madre, il primo volo su una Firebolt, il primo abbraccio del tuo migliore amico, la prima volta con la donna che ami, la prima volta che prendi in braccio la tua bambina. Qualcosa così. "Solo quando sarete completamente concentrati su quel ricordo, la forza positiva contro la forza negativa che è il Dissennatore, sarete pronti a lanciare l'Incanto." Puntò la bacchetta in aria. "Expecto Patronum!" pronunciò. Il maestoso cervo che aveva salvato un paio di volte la vita di Harry e dei suoi amici comparve al centro della sala, guadagnandosi gli sguardi ammirati degli studenti. "Ecco. Ora tocca a voi."
Un coro di 'Expecto' fece da eco alla fine del discorso di Harry. Gran parte delle bacchette vibrarono in aria senza alcun risultato visibile, solo qualche sbuffo argenteo ebbe l'accortezza di far capolino. Una ventina di minuti dopo, e una serie di tentativi, più o meno risolti in nuvolette d'argento, mentre girava attorno ai propri studenti, Harry vide venirgli incontro un bellissimo luminoso esemplare di lupo. Alzò lo sguardo, incontrando il viso entusiasta di Teddy.
"Bel lupacchiotto, Lupin!" Gli lanciò una pacca sulla spalla e un occhiolino complice. Non lo stupiva affatto che fosse stato proprio Ted il primo ad evocare un Patronus completo.
"Oh, no," fece il ragazzo, avvicinandosi all'animale, "non è un lupo. È un husky." Harry rimase perplesso a guardare il Patronus di Ted; il taglio degli occhi, in qualche modo, gli confermò che Teddy aveva ragione. Ora l'attenzione della maggioranza dei suoi compagni era rivolta al suo husky siberiano dal viso dolce.
"Oh, Ted, accidenti! A che pensavi?" chiese Micheal Coleman, un Tassorosso con le orecchie a sventola e un gran senso di inferiorità.
"Io ... be', pensavo ... a, mhm, i miei amici ... ?" farfugliò Ted, arrossendo, senza soddisfare la curiosità degli altri. Harry non si fece sfuggire lo sguardo confuso che, a metà frase, lanciò verso Chris, attenta e silenziosa dall'altra parte della sala.
"Ragazzi, su. Concentrazione." Richiamò l'attenzione degli studenti verso il loro compito, mentre lui si fermava a riflettere su quali significati potesse nascondere quello sguardo.
Chris, dall'altro lato della stanza, non era affatto felice dei suoi piccoli sbuffi argentei; il risultato più misero di tutta la classe. Avvicinandosi, Harry indagò sulle difficoltà dei ragazzi raggruppati in quell'angolo – Chris, Sybil Joyce, Will MacDonald ed Elise Thomas. "Come andiamo qui?" chiese, sorridendo. Un giro di 'bene', 'benino' ribatté alla sua domanda.
"Uhm..." Il borbottio di Chriseys si perse nel suo mordicchiarsi il labbro inferiore. Esattamente come Hermione. Harry si fermò ad osservarla attento.
"Cosa c'è che non va?"
"Forse ... non ho un Patronus?" Azzardò alzando le sopracciglia. "No, sul serio. È frustante."
"È un incantesimo complesso. Possono volerci diversi tentativi. Non devi aver fretta," Chris alzò gli occhi verso il cielo, quasi sbuffando "Tale e quale." Mormorò Harry, prima di tornare a parlare direttamente con la ragazza. "Il fatto che..."
"No, per favore. Non iniziare a farmi la predica su quanto Hermione si impegnasse in ogni cosa. Lo. So." Scandì chiaramente le ultime due parole, per sottolineare le innumerevoli volte in cui il suo impegno e i suoi risultati fossero stati confrontati con quelli di Hermione.
"Granger. Sai benissimo che questo tono e questo atteggiamento non possono essere tollerati nella mia classe." Chris ebbe l'accortezza di arrossire e abbassare lo sguardo, la sua frustrazione con la propria incapacità le aveva fatto dimenticare dove fosse e quale fosse il ruolo del suo interlocutore in quel frangente.
"Scusa, Har-, mi scusi professor Potter." Harry sorrise. Odiava fare il duro con Chris, odiava fare il duro con tutti i ragazzi, ma non poteva permettere nella sua classe tali insubordinazioni, da nessuno.
"Bene. La lezione è finita. Riprenderete ad esercitarvi domani. Ora potete andare." Congedò la classe. "No, Granger, tu rimani." Chris lasciò che i suoi compagni si allontanassero – Ted per ultimo – prima di avvicinarsi alla cattedra dove Harry stava sistemando alcuni fogli.
"Mi dispiace per prima. Davvero." Lo implorò con i suoi due enormi occhi da cerbiatto pentito. Harry aveva sempre qualche problema nel mantenersi obiettivo quando Chris sceglieva di sfoderare il suo sguardo più innocente e tenero. Com'era brava ad usare quello sguardo! La prese per un braccio e la fece accomodare sulla cattedra.
"Te lo chiedo nuovamente, cosa c'è che non va, Chris?"
"Mi spiace. Sul serio. È frustante vedere come tutti siano brillantemente capaci, mentre dalla tua bacchetta non esce neanche uno sbuffo di fumo."
"Chris tu sei brillante e capace. Evocare un Patronus è estremamente difficile. Quasi nessuno riesce ad evocarlo la prima volta, sono ancora stupito dal risultato di Ted."
"Lo so," biascicò sconfitta. Saperlo non alleviava il fastidio. Harry sogghignò all'impazienza di lei, e non resistette: portò una mano ad accarezzarle una guancia.
"La prossima volta andrà meglio; magari non eri abbastanza concentrata, magari hai sbagliato il momento felice su cui concentrarti ..."
"Magari non ce l'ho un pensiero felice in cui rifugiarmi." L'interruzione di Chris spezzò, come un macigno sulle costole, il discorso di incoraggiamento che Harry aveva pronto.
"Lo pensi sul serio?" si ritrovò a chiedere l'uomo.
"Non lo so. Davvero, non lo so."

 
*

16 Agosto 1998 – St. Leonards, Victoria, Australia
"Non. Puoi. Farlo."
Amara delusione e gelida determinazione. Il sangue ribolliva di rabbia, ma urlare ancora avrebbe solo scosso eccessivamente Hermione. E, pur nel suo stato mentale sconvolto, aveva scoperto - in un momento a caso tra la sorpresa, la paura, l'incredulità e la frustrazione delle ultime quattro ore - un appena nato senso di protezione per la ragazza e il suo bambino.
Oh, lo aveva fatto. Urlato come un matto, arrabbiato e deluso; si era guadagnato le occhiate bieche di Edward Granger, che passava avanti e indietro dalla finestra fingendo di avere da fare in giardino, e lo sguardo bagnato di Hermione. E odiava quello sguardo più di quanto odiasse tutte le menzogne che gli aveva raccontato negli ultimi mesi, perché quello sguardo lo faceva vacillare. E alla fine smetteva di urlare, pur sapendo di avere tutte le ragioni per farlo.
Hermione. La sua migliore amica Hermione, onesta, leale, e sincera fino a fare male, era stata capace di nascondergli una verità così importante, per otto mesi. Per otto lunghissimi mesi. Gli aveva nascosto i dolori, le ansie, l'eccitazione forse, le giornate lunghe, le notti insonni, le piccole sorprendenti scoperte. Dovevamo condividerle, dovevi condividerle con me! Ti avrei ... Cosa? Neppure lui avrebbe saputo continuare a quel punto. C'era Voldemort da uccidere, la guerra da terminare. C'era una taglia sulle loro teste, ricercati in tutto il Regno Unito magico, e forse anche oltre. E c'era Ron.
Ron. Strano che non avesse, neppure per un secondo, dubitato della paternità di quel bambino. Mio. Strano che se l'amico non l'avesse mollato a due giorni dalla partenza, ora, probabilmente la conversazione sarebbe stata completamente diversa. O forse no.
Quando i due ragazzi si erano vicendevolmente convinti a partire per quella che avevano battezzato 'Missione Recupero Hermione', Harry si era preparato per tutto un altro tipo di viaggio. "Andiamo, prendiamo Hermione, e ci godiamo una bella vacanza prima dell'Accademia. Resort a cinque stelle e SPA, altro che campeggio questa volta! E Merlino sa se non ce la siamo meritata una dannata vacanza!" Ron era così eccitato all'idea. Era stato costretto a dare forfait dopo una crisi di George, che, in un attacco di rabbia e pianto, aveva accidentalmente dato fuoco a metà dell'appartamento che aveva condiviso con Fred prima della Battaglia. Harry si era offerto di rimandare, ma Ron aveva insistito perché partisse comunque e magari convincesse Hermione a tornare, mentre lui cercava di risistemare i cocci di un negozio e di un fratello in frantumi.
Chissà come avrebbe reagito a questa nuova piega? A botte.
E adesso, Ron non c'era. E invece Harry era lì; a scavare una fossa con le sue lunghe falcate avanti e indietro, avanti e indietro, nel salottino di casa dei Wilkins, ritrovati Granger, a St. Leonards, Victoria, Australia; a cercare di ignorare i mormorii, per nulla mormorati, dei signori Granger in giardino; a fissare lo sguardo sulle forme – così diverse – di Hermione che, dal suo canto, ricambiava le occhiate con l'espressione che tirava fuori solo prima di uno scontro contro un enigma particolarmente ostico o contro un nemico. Oppure contro Harry. Lo avrebbe anche convinto, forse, se quelle tracce di lacrime non l'avessero fatta apparire esitante e fragile.
Incinta. Hermione. Del suo bambino. "Bambina," l'aveva corretto con un sorriso che sapeva orribilmente d'amaro. La loro bambina. Ma lei, Hermione, era risoluta a lasciarla andare. E lui, Harry, aveva pianto, e l'aveva abbracciata, e aveva urlato. Perché lui doveva, poteva, voleva prendersi cura di questa bambina. Una bambina – il solo pensiero era sconvolgente e sorprendente –, una famiglia con Hermione. Tutto quello che aveva sempre desiderato: una famiglia.
"Non siamo pronti." Scuoteva la testa mentre l'osservava con i suoi occhi grandi e lucidi. E, oh, sembrava così piccola. Ma non una lacrima era disposta a cadere; le coloravano gli occhi di una nuova sfumatura dorata, ma non cadevano. "Tu adesso non riesci a ragionarci su, è troppo ... presto. Ma non siamo pronti. Non possiamo. Non potremmo mai darle la famiglia che si merita. C'è Hogwarts, e l'università, forse, e l'Accademia. Harry, devi entrare in Accademia. Il tuo sogno. Devi poter fare il diciottenne, vivere la tua età per una volta, uscire il sabato sera e perder tempo con Seamus, Dean e Neville, nasconderti con, uhm, Ginny dalla curiosità della signora Weasley."
"Scuse. Un ammasso di balle che ti sei creata per giustificare questa pazzia." Sputò, più cattivo di quello che avrebbe voluto. Fece un passo verso di lei, sedendole accanto. Le prese il viso tra le mani, costringendola a fissarlo negli occhi. "Guardami, Hermione. Possiamo farlo. Io e te. Abbiamo sempre funzionato bene insieme: quando abbiamo liberato Sirius, ricordi? Con Fierobecco. Io e te. E in tenda, avevamo il nostro ritmo, ricordi?"
"Harry," Hermione chiuse gli occhi, elaborando l'effetto che quelle parole e quel contatto ravvicinato avevano sui suoi nervi fragili. Afferrò le mani di Harry con le proprie, con l'intenzione di scacciarle via dal suo viso. Ma non lo fece. "Sei stato tu a tirarti indietro," sussurrò, flebile come un respiro. "Ron ..." Il nome appena accennato si perse nel suo mordicchiarsi il labbro inferiore.
"Capirà. Ci vorrà del tempo, ma alla fine capirà." A botte. Finirà a botte. Ma alla fine capirà. Harry desiderava con tutte le forze che capisse, e adesso, Ron non c'era. E Harry era lì. E se Ron non c'era era facile scordarsi di lui – come l'altra volta. Era facile pensare che si fosse tirato indietro – come l'altra volta. Era facile. Troppo facile perché fosse giusto.
Finalmente Hermione trovò il coraggio di allontanarsi, accennando a un 'no', 'no', 'NO', con la testa. Lacrime, cocciute, non osavano scendere. "Non è questo quello che dobbiamo fare, Harry. Non lo sai nemmeno tu quello che vuoi." Ginny? "Ci ho pensato per mesi. Loro possono prendersi cura di lei, come noi non potremmo mai. Lo so. Le daranno il posto e l'amore che si merita, sarà felice." Aveva riacquistato sicurezza nella positività delle sue ragioni.
Harry continuava a non seguire, a voler urlare, a scuotere la testa, ma perse i suoi personali ragionamenti nel vedere il viso della ragazza seduta di fronte a lui contrarsi in una smorfia di dolore.
"Oh," boccheggiò lei, portando istintivamente una mano al ventre tondo.
Harry percepì quella ormai familiare forma di paralisi che lo colpiva ogni volta che lei, o Ron, o Ginny si trovavano in situazioni di pericolo. "Ti senti bene?" La domanda venne fuori quasi mozzata dalla sua improvvisa ansia. È così? Sarà sempre così, adesso?
"Non ..." deglutì. "Non ne sono sicura."
 
Note: In Peter Pan di J.M. Barrie, per poter volare è necessario concentrarsi sui propri pensieri felici, William MacDonald non è il primo Nato Babbano che fa questo confronto tra i due universi. Magari anche il Mondo Magico di Harry Potter è solo un modo per non crescere mai?
Ted Lupin sarà anche un po' incapace in Pozioni, ma è il figlio di Remus Lupin e Ninfadora Tonks, ovviamente è un talento incredibile in Difesa delle Arti Oscure. ;)
La seconda parte del capitolo, dal punto di vista temporale, si colloca nel periodo successivo alla seconda guerra magica, è quindi molto plausibile che né George né tutti gli altri Weasley se la passino al meglio: Blast http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=968023&i=1 .

Ritorna all'indice


Capitolo 20
*** Capitolo 18 - Ingiustizie ***


Capitolo 18
Ingiustizie

17 Agosto 1998, St. Leonards, Victoria, Australia
Gli ospedali sanno di disinfettante in ogni parte del mondo. Di disinfettante, di attesa, di rabbia, pianti e silenzi. Sanno di mura strette, chiuse, come prigioni. Sanno di vetri sterilizzati e manine quasi irraggiungibili.
Mani cucciole. Pugni chiusi, a vagare in aria, come due fragoline, su un corpicino fragile e addormentato. Dietro il vetro - piccola, piccola, piccola – stava il suo amore più grande.
“È perfetta.” Harry annuì di risposta alla voce del signor Granger, senza alzare lo sguardo da quel miracolo. Tua figlia, Harry. Come poteva lui aver contribuito alla creazione di tutto ciò, alla creazione di qualcosa di così etereo e reale, piccola e perfetta, così bella? Hermione. Ovviamente, tutte le cose più belle della sua vita erano merito di Hermione.
Aveva una voglia matta di ridere e una voglia matta di piangere. Non poteva lasciarla. Doveva davvero lasciarla?
“Non è giusto,” disse, col tono più cristallino che riusciva ad imitare in quel momento. Sentiva un grosso groppo bloccargli la respirazione al solo pensiero di dover abbandonare quel tesoro, il suo tesoro più grande; ma voleva che Edward Granger sapesse chiaramente quale fosse la sua opinione in proposito, la sua più completa e onesta opinione.
“No, non lo è.” L’uomo sospirò, mentre osservava quel ragazzo, appena diciottenne. C’erano stati momenti in cui lo aveva cordialmente odiato – d’altra parte, si era portato via tutto quello che restava della sua bambina –, e quando aveva urlato contro Hermione gli avrebbe volentieri sbattuto la testa contro il muro, solo lo sguardo di sua figlia lo aveva fermato. Ma in quel momento non riusciva a disprezzarlo, nemmeno un po’. Se lo avesse odiato, sarebbe stato più semplice. Invece, poteva vedere e capire: il modo in cui teneva gli occhi fissi sul quel corpicino addormentato, il modo in cui le sue dita si piegavano sul vetro dell’incubatrice. Si stava innamorando della piccola Chriseys, esattamente come lui. Anzi no, era già innamorato perso. E ti aspettavi altro, vecchio Ed?
“Se solo me lo lasciasse fare,” non era necessario che spostasse leggermente il capo verso l’esterno per capire a chi si riferisse, “potrei amarle e proteggerle e prendermi cura di loro, come non può neppure immaginare, signore.”
Edward sorrise, suo malgrado. “Lo immagino, Harry. Lo immagino benissimo.” Cosa pensava quel ragazzino? Non si era forse innamorato perdutamente anche lui, diciannove anni prima? Non aveva forse affrontato dubbi, eccitazioni, e il primo dentino, e il primo sventolio di magia? Non aveva forse dovuto lasciare che la sua cucciola crescesse in fretta, diversa da tutti, speciale? Non l’aveva forse vista prendere un treno rosso che l’aveva condotta lontana da lui, ogni anno di più, un passo più lontana da lui, un passo più vicina a una guerra che non apparteneva al suo mondo, un passo più vicina a Harry Potter?
“Lei non crede ch’io ne sia capace, non è così?” Harry finalmente distolse gli occhi dalla piccolina, per rivolgerli diretti e rabbiosi al suo interlocutore. D’istinto chiuse la mano a pugno, come a ricordarsi di trattenere l’ira. Odiava l’atteggiamento condiscendente del padre di Hermione, odiava quella finta comprensione. O forse odiava soltanto l’idea che sarebbe stato lui a prendersi il suo ruolo. Odio, odio, odio. Non avrebbe dovuto riempire la mente di tutto questo odio, proprio quel giorno. Non ti meriti tutto questo, amore.
“Sei così,” Edward scosse la testa, quasi volesse scacciare un pensiero, “giovane. Impulsivo, insicuro.”
“Lei non ha la minima idea di quello che ho dovuto affrontare, così giovane.” Quando doveva portare sulle sue spalle la giustizia del mondo, nessuno si era preoccupato della sua giovane età. Quando doveva uccidere o morire per mano del Mago Oscuro più potente di tutti i tempi nessuno gli aveva rinfacciato i suoi diciassette anni. ‘Vai, Harry! Sei la nostra salvezza!’ Così, gli avevano detto. “Io ho dovuto ucc-”
“So benissimo,” lo interruppe Edward, intercettando l’occhiata curiosa di un inserviente di passaggio “cosa e chi hai dovuto affrontare, Harry. Conosco il tuo coraggio, il tuo senso del dovere, la tua lealtà. I miei resoconti su di te sono sempre stati piuttosto parziali.” Harry si trovò ad arrossire leggermente riuscendo solo a immaginare quali lunghe filippiche Hermione avrebbe potuto tirare fuori per lui, o contro di lui, durante i primi anni a Hogwarts. “Ma hai ancora tanto da imparare. Dovete crescere ancora entrambi, per quanto maturi vi siate dimostrati nell’ultimo anno. E,” si schiarì la voce, marcando sulla congiunzione, “avere un rapporto sessuale non protetto non è un atteggiamento maturo.”
Dal pulsare della vena giugulare del signor Granger, Harry ebbe la percezione di quanto gli fosse costato mantenere un tono civile nel pronunciare l’ultima frase.
Il ragazzo si trovò di nuovo ipnotizzato dalla bimba che sonnecchiava dietro il vetro dell’incubatrice. Stai attento quando la sfiori. È così piccola, è così delicata che potresti romperla. Non vuoi romperla, vero Harry?
“Io e Helen non siamo perfetti, Harry, nessuno lo è. Abbiamo fatto tanti, tanti errori. Avremmo dovuto capire … Non siamo e non saremo mai i genitori ideali. Ma come io sono onesto con te, tu devi esserlo con me. Pensi davvero di esserne capace, sapresti aiutarla a crescere nel migliore dei modi, quando il primo a farlo dovresti essere tu?”
“Potremmo crescere insieme,” rispose col primo pensiero che gli sfiorò la mente, con l’unica obiezione che riusciva a fare. Sentì il calore di una mano posarsi sulla sua spalla.
“Non te la sto portando via, Harry. Non voglio e, anche se volessi, non potrei mai portartela via sul serio.”
Non vuoi romperla, vero Harry?
 

*

 
27 Agosto 1998 – Air China International, Rotta Melbourne – Pechino
Chissà perché non esisteva la Metropolvere Internazionale. Probabilmente i viaggi attraverso le canne fumarie avevano un limite spaziale; o era forse una questione di sicurezza? Una volta scesa da quell’aereo avrebbe chiesto al signor Weasley.
Gli aerei le avevano da sempre dato molto più fastidio rispetto a un semplice volo in scopa, in groppa a qualche grosso ippogrifo, o cavalcando un Thestral invisibile qualunque. Non che avesse gradito quei particolari viaggetti a cui la sua memoria stava facendo ritorno, ma perlomeno quelle erano state sempre questioni di vita o morte. Invece, adesso, quell’immenso Boeing-747 le appariva eccezionalmente piccolo e soffocante.
Soffocava. Come se stesse affogando, senza aria, senza appigli, senza punti di riferimento. Ed era stata lei a buttarsi in quel mare nero. A scegliere di affogare.
Bollicina, dove sei? Starai bene? Adesso?
Martellava con le dita sul volantino delle istruzioni da seguire in caso di emergenza, appiccicato sullo schienale del posto di fronte al suo, desiderando mettere il più rapidamente possibile piede a terra. Il film proiettato nei monitor di bordo non riusciva a prenderla abbastanza da farla addormentare, né tantomeno i suoi buffi pensieri sui mezzi di trasporto magici aiutavano.
Tre mesi. Appena possibile, torneranno in Inghilterra. Devi solo aspettare tre mesi. Lasciò scorrere altre lacrime. Possibile che le lacrime non finissero mai? Credeva di aver esaurito la sua scorta personale quando l’aveva tenuta in braccio l’ultima volta. Tre mesi. Sua madre glielo aveva specificato chiaramente: “Quando sarà possibile, la porteremo a casa.” Le aveva sussurrato da dietro la spalla, come se temesse di disturbarla nel suo piccolo momento con la bimba.
I medici le avevano concesso di tenerla in braccio per un po’. Solo un po’. Era nata troppo presto. Sei già una piccola combina guai, eh, tu? E lei, la piccolina, cogli occhi spalancati, sembrava quasi osservarla; le aveva stretto l’indice e non aveva nessuna intenzione di lasciarlo andare. Non voglio lasciarti andare.
Avrebbe voluto tenerla così per l’eternità. Tutte le persone che aveva intorno le parvero una minaccia: sua madre, accanto a lei, Harry, dall’altro lato del letto, che non smetteva un secondo di fissare la bambina, l’infermiera che sarebbe tornata per riportarla nella sua incubatrice, suo padre sulla porta che osservava dubbioso. Loro non capivano. Non avrebbero mai capito. Sarebbe stato semplice dirlo. Sono la tua mamma, bollicina, e non voglio lasciarti andare. Non lo disse. Ti amo più di ogni altra cosa al mondo; è per questo che devo lasciarti andare.
“Possiamo sempre tornare indietro, sai?” La voce di Harry la raggiunse attutita dal maglioncino che usava come coperta. Si era rannicchiato dall’altro lato, con la testa per metà poggiata sullo schienale, e per l’altra metà penzoloni verso il finestrino; gli occhiali tondi erano malamente caduti sulla fronte. Hermione sentì quei due occhi verdi scrutarla come tentassero di attraversarla. Neanche una briciola di sonno nella loro vivace attenzione.
Credevo stessi dormendo,” disse lei, distogliendo lo sguardo. Harry riassettò i propri occhiali sul naso e se stesso in una posizione più appropriata.
“Non dormo da anni ormai.” Accennò un vago sorriso, mentre asciugava, sullo zigomo di lei, un paio di lacrime sfuggite all’accurata perlustrazione delle mani di Hermione.
“Ouff, quando smetterai di ripeterlo?” Hermione si convinse a piegare leggermente le labbra al buffo senso dell’umorismo di Harry: era dal quinto anno a Hogwarts che il ragazzo continuava a ribadire il suo ormai definitivo addio a una dormita coi fiocchi.
Harry preferì non rispondere, e lasciò andare la guancia della ragazza, appoggiandosi allo schienale del proprio posto, puntando lo sguardo sulla sua testa, alle curiose bocche per l’aria condizionata, focalizzando tutta un’altra immagine nella sua memoria: un corpicino lungo quanto il suo avambraccio, fasciato in una copertina colorata da pupazzi; una testolina già piena di spettinati capelli castani, incornicianti un faccino tondo, rosso e morbido, un nasino all’insù e due occhi troppo grandi di un indefinito color grigio-verdastro. “Possiamo tornare indietro,” mormorò, continuando a contemplare nella sua mente l’immagine della piccola Chriseys tra le sue braccia.
“Devo ripeterti la lista dei motivi per cui è questa la decisione migliore?” domandò Hermione, non davvero pungente. La mano d’istinto le cadde sulla tasca dei jeans dove teneva al sicuro una delle prime foto della bambina.
“Dannazione, Hermione! A che ti serve una lista di Pro e Contro in cui non credi neppure tu? Sono passate tre ore e già mi manca. Ti manca.” Sottolineò, costringendola a guardarlo. “Mi dici come faremo per il resto della vita? Come farò a tirare avanti per tutta la mia fottuta esistenza sapendo di aver abbandonato mia figlia?”
Hermione avrebbe voluto imporgli di stare zitto. Scosse la testa, nervosa, ancora sull’orlo di una crisi. Che ne sapeva lui? Cosa accidenti ne sapeva lui di quale luogo di tortura fosse la sua mente in quel momento? Cosa poteva capire Harry? Aveva forse convissuto e lottato per sopravvivere insieme alla sua bollicina per nove mesi? Sapeva forse Harry quanto quella bollicina le fosse diventata indispensabile per respirare?
Eppure si trattenne. Ancora una volta, doveva essere lei quella forte. Ancora una volta, doveva mostrare a Harry la strada giusta. Giusta, Hermione? Giusta? La strada più ragionevole: due adolescenti appena scampati ad una guerra non possono prendersi cura di una neonata, due adolescenti non sicuri dei propri sentimenti non hanno le basi per tirare su una famiglia, due adolescenti senza uno straccio di titolo di studio non hanno i mezzi per tirare su un futuro.
Harry sbuffò, ancora riluttante ad accettare del tutto la prospettiva che la ragazza cercava di spiegargli in continuazione. Con rabbia malcelata, rivolse gli occhi all’esterno – dappertutto, tranne che su Hermione – scorse qualche nuvola bianca, e desiderò come non mai avere la propria Firebolt sottomano.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 21
*** AVVISO: Mai Nata Ritorna! ***


Avviso ai lettori

L’ultima volta che pubblicai un capitolo inedito di questa longfic era il 28 Maggio 2011.

Chiedevo scusa per il ritardo nelle pubblicazioni. All’epoca. Ero più educata.

Dovrei scusarmi ancora, dovrei prostrarmi ai piedi di tutti i lettori che avevo allora e che meritavano molto di più che una storia lasciata così, mozza, sul più bello. Ma, come il Dottore insegna, bisogna sempre gironzolare un po’ prima di tornare a casa, prendendo la strada lunga.

Da quella data ad oggi sono passati 2055 giorni – duemilaecinquantacinque giorni –, quasi sei anni, un paio di tesi, un’infinità di drabble e one-shot, tante canzoni e diversi telefilm preferiti, qualche viaggio, qualche trasferimento, qualche ritorno a casa, qualche momento di gioia e qualche momento di sconforto, e Jay che finge di diventare adulta [SPOILER ALERT: Non è ancora successo e non credo accadrà mai].

Tanto è passato da quel maggio 2011. Eppure Chriseys non mi ha mai abbandonato. Non vuole andarsene. Si rifiuta. E insieme a lei non se ne vanno né Ted, né Sybil, né Blackwood, né gli altri [NdA: Che Hermione e Harry non mi abbandoneranno mai è un dato di fatto, cfr. la mia pagina autore per conferma].

Mai Nata è sempre stato il mio cruccio più grande: passavano i giorni, i mesi, gli anni e, anche se talvolta disperavo di sapere come fare, sapevo che sarei sempre tornata su questi personaggi e questi personaggi continuavano a tornare da me, con motivazioni e aspetto diverso alcune volte, ma son sempre tornati. Li ho conosciuti, li ho visti cambiare, sono diventati miei amici.

Adesso vorrei potessero diventare vostri amici, amici di chiunque avrà piacere di leggere le loro vicende. Perché Chriseys, Harry e Hermione sono tornati. Per restare.

Nel corso degli ultimi mesi, più o meno in silenzio, sono stati revisionati e aggiornati i capitoli già editi. Da mercoledì prossimo, invece, arriverà *su tutti i vostri schermi* il resto della storia, tutti i capitoli inediti che sono stati composti nel corso di questi anni. Spero soltanto che possano in qualche modo dare piacere a voi lettori e che possano, quindi, dare una degna conclusione a questa storia *quasiforsenonpiù* infinita.

A questo punto, da parte mia, posso giurare solennemente che:
- La storia è conclusa.
- Verrà pubblicato regolarmente un capitolo a settimana per i prossimi mesi.
- Tutti i capitoli sono stati letti dal resto delle sorelle bree, guidati e controllati da roxy_xyz, approvati da Lights e, last but not least, betati da BeaPotion [Sì. La composizione di questa storia necessita di un Gruppo di Sostegno Psicologico]. <3 <3 <3
- Harry Potter porta gli occhiali ed è ancora l’Idiota-Sopravvissuto.
- Hermione Granger è ancora viva.
- Per ora.
- Qualche personaggio ha cambiato nome. [Se c’è qualche lettore che è superstite dall’era paleozoica e per qualche inconcepibile congiunzione astrale dovesse ricordare i nomi originali … D i m e n t i c a t e l i!]
- Ted Lupin ha i capelli blu.

 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 22
*** Capitolo 19 - Fanny ***


Capitolo 19
Fanny

Fai piano. Attenzione, calma e passo felpato erano i soli tre mezzi con cui avrebbe evitato la curiosità indigesta di quella dannata gatta. Perché poi non era mai morta? Doveva avere un casino di anni.
Il rudimentale incantesimo di disillusione ingannò Mrs. Purr e salvò Chriseys da una lunga punizione in compagnia di Gazza. Gettando una rapida occhiata a destra e a sinistra, si assicurò dell’assenza di Prefetti rompiscatole e affrettò i propri passi tra i lunghi corridoi.
Distillato Di Morte Vivente era il titolo del quadro. Era inciso sulla destra, sotto il calderone contenente la pozione omonima, adagiato su una lucente scrivania in legno; sulla sinistra, un vecchio mago, dal mantello logoro, stava disteso sulla sua poltrona, come dormiente, mentre sullo sfondo due occhi biechi, seminascosti da un cappuccio nero, lo osservavano. Il vecchio mago non si spostava mai dalla sua posizione, ma ogni tanto trovava come lamentarsi del fatto che fosse destinato a “essere lì, lì per morire” e non farlo mai sul serio, mentre il proprietario di quello sguardo, dietro lui, non apriva mai bocca; solo, raramente, spariva dietro una porta, che compariva al suo posto.
Per gran parte degli studenti quella era solo una bizzarra coincidenza, da aggiungere alle tante stranezze che rendevano Hogwarts così misteriosa e speciale.
“Chriseys Granger.” Il tono affettato di Blackwood bloccò l’incantesimo che Chris stava per compiere sul nascere. Come si definisce quella particolare casualità cosmica per cui è possibile attraversare semi-indisturbati sette piani di scale e venire beccati a un passo dalla meta? Sfiga.
Chris, in sole due imprecazioni biascicate tra i denti, maledisse la sua inquietudine, i gatti vecchi e spelacchiati, le scale di marmo, i Tassorosso coi capelli blu, le fenici istigatrici, e soprattutto i Serpeverde attraenti e impiccioni. Si voltò giusto quel tanto per salutare il Caposcuola con un ghigno a coprire la delusione di essere stata beccata. Senza Mappa del Malandrino – senza Ted –, prima o poi sarebbe dovuto succedere.
“Granger, che mi combini? Nei sotterranei. In piena notte,” mantenne il tono calmo, basso come se temesse di venir beccato anche lui. “Ci sarebbero gli estremi per levare un sacco di punti ai Grifondoro, sai?”
“Blackwood, non sono in vena per i tuoi giochetti,” ribatté lei, e Blackwood si concesse un’alzata di sopracciglia che sembrava dire ‘E quando mai?’, ma la ragazza continuò ignorandolo. “Non capisco perché non li togli direttamente questi punti, invece di stare sempre a minacciare.”
“Mettiamola così.” Blackwood colse l’occasione per riposizionare dietro l’orecchio destro un ciuffetto ribelle dietro l’orecchio di Chris. Lei gli lanciò un’occhiataccia e gli schiaffeggiò la mano. Lui sorrise, proseguendo con una proposta che Chris non poté evitare di valutare: “Io ti lascio fare qualsiasi cosa stessi per fare, a patto che mi porti con te.” Poi si fermò a guardarla, come a voler contemplare l’effetto che le sue parole stavano avendo sul contegno di lei.
Chris si ritrovò a mordicchiarsi indecisa il labbro. Un tempo la risposta negativa che le stava correndo sulle labbra non avrebbe avuto problemi ad essere espressa con veemenza. Ma adesso?
Perché no?
No. No. Assolutamente no. Poteva forse tirarsi dietro Damian Blackwood in una delle sue escursioni notturne? Probabilmente lui avrebbe approfittato della situazione in ogni maniera possibile, con i suoi sorrisi sghembi e le mani che non stavano mai a posto. E sicuramente Fanny non avrebbe gradito la sua presenza. Avrebbe riconosciuto le vibrazioni negative del ragazzo.
Vibrazioni negative? Sembri Sybil.
“Non mi fido di te,” affermò, a mezza voce. Blackwood continuava a scrutare curioso il polsino sul braccio sinistro di lei, che il maglioncino verde non nascondeva completamente. Insicura per via di quello sguardo fisso, Chris tirò giù la manica.
“Sbagli,” ribatté lui e incominciò a elencarne i motivi. “Uno, potrei chiamare Gazza o la professoressa Light e lasciare che ti costringano a pulire tutte le coppe nella sala trofei per settimane, ma non lo faccio. Due,” sul suo volto comparve il sorrisetto che tanto faceva impazzire le sue compagne di classe, “il verde ti dona e non oserei mai sciupare quel maglioncino. Tre…” Si fermò, si premurò di avvicinarsi il più possibile all’orecchio di lei, sfiorandolo. “Avrei molte cose da dirti su quel taglietto che condividiamo sul polso sinistro,” bisbigliò.
Chris percepì una vaga insicurezza nelle sue ultime parole; non poté fare a meno di gettare uno sguardo al braccio sinistro di Damian, il polsino bianco della camicia, perfettamente inamidata, che spuntava dal mantello, copriva ogni verità o menzogna.
Perché no, Chriseys?
Perché no, Chriseys? Perché? Questa volta non ci sarebbero state false illusioni, nessun Ted Lupin pronto a ricondurla sulla retta via. Damian Blackwood stava di nuovo, cocciuto, offrendole la sua alternativa. Perché tentava ancora di sfuggire alla verità? “Siamo uguali.”
Abbandonò quella lotta di sguardi senza dire una parola; si rivolse al quadro di fronte a loro, con Blackwood che la osservava ammaliato. “Efer nos,” fu tutto quello che pronunciò, puntando la bacchetta contro il dipinto. Gli occhi pitturati si colorarono di un verde fosforescente, la figura incappucciata si voltò e aprì la porta alle sue spalle, scomparendo poi nell’oscurità. Il passaggio era ora libero.
Chriseys entrò e fece cenno a Blackwood di seguirla. Percorrevano una galleria di legno e pietra, la magia la teneva in piedi attraverso tutta la lunghezza del Lago Nero, era larga abbastanza per ospitare due o tre persone, e riportava, lentamente, verso la superficie.
Attraversarono il tunnel in silenzio. Chris non era ancora certa di aver preso la decisione giusta nel lasciarsi seguire, oscillava tra la curiosità molesta di sapere tutto su Blackwood e il suo taglio, e la voglia di abbandonarlo a se stesso nella Foresta Proibita. Quando era scappata dal dormitorio quella sera, istigata dallo stridore degli artigli di Fanny sulla sua finestra, puntava solo a uscire da quelle mura, respirare un po’ d’aria fresca, trovare l’animale e un po’ di tregua alle continue chiacchiere che aveva in testa, Blackwood era un’incognita troppo variabile in quell’equazione.
Erano anni che la fenice del compianto Albus Silente la cercava di notte e la spingeva fuori dal castello. Era stata lei a farle scoprire il passaggio segreto nei sotterranei. Fanny tornava spesso dalle parti della scuola, era come se fosse legata a quei luoghi. E tu le piaci molto, Chriseys. Era stato il professor Paciock a notare la simpatia che la vecchia fenice sembrava nutrire per lei, la seconda o la terza volta che l’animale si era fatto vivo tra le serre durante le loro lezioni di Erbologia.
Giunsero a vedere il bagliore della luna in poco meno di dieci minuti. L’uscita era lì vicino: il tunnel sotterraneo attraversava tutto il Lago nella sua lunghezza e si congiungeva poi con una galleria naturale ai confini della Foresta Proibita e del territorio che cadeva sotto la giurisdizione di Hogwarts.
“La Foresta?”
“Ti aspettavi un salto a Hogsmeade? Sono sicura ci siano passaggi segreti anche per quello,” rispose Chris, tirando dritto tra arbusti ed erbacce. Conosceva ormai quella strada, col tempo i piccoli cambiamenti nell’ambiente minacciavano di confonderla, ma le costanti non mancavano mai di ricordarle la via,  c’erano intagli e pieghe di rami che mani sapienti di Centauri avevano modificato per il loro orientamento. “Magari nei tuoi appostamenti la prossima volt-” tentò di continuare, ma Blackwood la interruppe, acciuffandole saldamente il braccio, e costringendola a rivolgersi verso di lui e a guardarlo negli occhi, cosa che Chris si era appurata di non fare assolutamente.
“Dove stiamo andando, Granger?” C’era una strana furia curiosa nel suo sguardo, forse anche un po’ spaventata. Di sicuro, non voleva restare un minuto in più all’oscuro delle intenzioni di lei. Le stringeva forte l’avambraccio: c’era sempre qualcosa di iroso nel modo in cui Blackwood la toccava, c’era sempre qualcosa che la faceva rabbrividire nel modo in cui le si accostava.
“A incontrare Fanny,” rispose Chris, stupita della sua stessa sincerità. Avrebbe voluto farlo ancora cuocere nel suo brodo, ma non era riuscita a stare al gioco di quei due occhi di ghiaccio. “Siamo,” lui le lasciò andare il braccio, “quasi arrivati.”
La radura dove Chris fermò i suoi passi era dominata da una grossa sequoia secolare, se non, forse, millenaria; talmente enorme, da non permettere ad altri alberi di crescerle accanto. Poca luce passava attraverso i rami, ma era abbastanza da colorare d’argento qualche filo d’erba a terra, o qualche foglia tra i rami. Su uno di essi, appollaiata, attendeva Fanny.
Chris sorrise alla vista della fenice, aspettandosi di ricevere il solito caloroso benvenuto e quel buffo benessere che la rasserenava ogni volta che la incontrava. Ma quella notte, l’animale non sembrava avere intenzione di fare il suo solito giretto attorno a Chriseys. La ragazza ne incrociò lo sguardo tondo. Le fenici sono animali estremamente intelligenti, ricordò le parole del professor Paciock: Damian Blackwood probabilmente non piaceva neanche a lei.
“Così, questa è Fanny?” domandò lui, non nascondendo lo stupore nell’osservare il maestoso animale di fronte a lui.
“Già, e non le piaci.”
Come a risponderle, la fenice spalancò le grandi ali, e andò a ruotare attorno ai due ragazzi, assicurandosi di osservare bene Damian. Toccò a Chris sopportarne lo sguardo disapprovante; la ragazza ricambiò con un’occhiata che sembrava fare appello al senso di tolleranza dell’animale. Fanny, con una rapida alzata d’ali, tornò al suo ramo. La sua ispezione era conclusa.
“È questo che fai? Di notte? Sgattaioli fuori dal castello per… questo?”
Fanny stridé.
“Devo forse darti conto, Blackwood?”
“Certo che no. È solo strano. Credevo che facessi qualcosa di più…”
Chris piegò la testa di lato e strinse gli occhi, sfidandolo a trovare la parola che stava cercando. Il signorino Caposcuola e cravatta stirata con chi pensava di avere a che fare?
“E ne vale la pena?” chiese lui invece, senza concludere la frase.
“Talvolta sì.” Chris si scoprì sincera nel rispondergli. Non era difficile smettere di antagonizzarlo quando Blackwood faceva altrettanto.
 “Sembra quasi che riesca a capirti,” constatò poi lui, osservando un altro scambio di occhiate tra Chris e Fanny.
Dopo quelle prime volte, vicino alle serre, Fanny era tornata sempre più spesso a farle compagnia, era quasi come se l’animale avesse deciso di prendersi cura di lei, di adottarla, in un certo senso. Di diventare sua amica. Forse si sentiva sola anche lei.
Chris si sedette ai piedi della sequoia su una radice particolarmente prominente. Blackwood sbuffò di malcontento, ma poi seguì il suo esempio. Un ghigno di indecifrata natura gli graziava il viso.
“Non mi uccide, vero,” indicò Fanny, “se provo a baciarti?”
Chris avvampò di rossore in un attimo. Sorrisi sghembi e mani che non stanno mai a posto. L’ambiguità della sua posizione colpì Chris di botto: aveva appena condotto un ragazzo, che aveva chiaramente espresso il suo interesse nei suoi confronti, in un posto nascosto, isolato, dove le sue uniche forme di difesa erano la sua bacchetta e una fenice con la luna storta. E lo aveva fatto di sua spontanea volontà. Voleva baciare Damian Blackwood? Forse.
Blackwood la osservava attento, in attesa della sua risposta, la sua espressione non tradiva alcuna impazienza o ansia.
“Sanno essere molto aggressive le fenici, sai?” Chris trovò il coraggio di controbattere, distogliendo lo sguardo dal viso di Damian verso Fanny che li osservava attenta.
“Oh, Granger, pensi davvero che brucerei così questa, forse unica, occasione con te?” domandò. Blackwood invece non aveva problemi a tenere fissi gli occhi sulle labbra di Chris. La sua mano cercò convinta il braccio di lei, piano l’afferrò e col pollice le solleticò la pelle, sul maglioncino, sul polsino. “Perché lasci che ti prenda la mano, se ti faccio ribrezzo? Perché posso sempre sfiorarti,” si avvicinò a lambirle piano lo zigomo e poi l’orecchio, “se non vuoi?” Si allontanò di poco, lasciò la mano e le accarezzò piano la guancia. Stava cercando una sua reazione. “Dì di no, se non vuoi.” Chris si stupì nel trovare sincerità nel suo sguardo chiaro.
Chris annuì appena, dopo aver gettato un’occhiata a quella bocca che non faceva altro che tentarla. Blackwood premette le labbra contro quelle di lei. Dolce, con delicatezza, quasi timido, senza quell’arroganza caratteristica dei suoi approcci verbali. Così inaspettato. Così diverso da Ted. “Perché, Granger? Perché?” Damian bisbigliò contro le labbra, prima di allontanarsi, per scrutare il viso di lei.
Chris si sorprese a trattenere il respiro. Non lo so. Non sarebbe stata una risposta adeguata. Distolse, ancora una volta, il viso per non sopportare quell’esame così evidente.
“Mostrami il polso, Damian,” disse, invece, riacquistando un po’ di controllo. Era la prima volta che lo chiamava per nome.
“Dritta al punto, eh?” rispose lui, leggermente stizzito. Chris lo sentì sospirare, senza avere ancora il coraggio di guardarlo di nuovo. “Respiro d’Anima, un nome più adatto a un filtro d’amore, non trovi? Hai cercato di salvare tua madre; è per questo che sei così diversa dalla primavera scorsa,” commentò lui, arrotolando in maniera del tutto tranquilla – troppo tranquilla –, il pullover della divisa. “Visto che siamo uguali? Avevo un fratellino una volta, sai? Kei,” si fermò, la sua serenità per un momento oscurata. “Keiran, adesso avrebbe compiuto dodici anni. È finito in coma dopo un incidente con l’auto di mio padre. Così schifosamente Babbano, non trovi? Ho provato ogni cosa, ma lui, be’, lui semplicemente non apparteneva più a questo posto.”
“Che vuol dire?”
“Lo sai anche tu, no? Quello che la magia può fare non è solo affascinante, tutti questi sciocchi limiti. Ho sempre apprezzato i vecchi libroni polverosi, non perché sia un folle malato di magia oscura, Chriseys. Amo scoprire le cose, cosa c’è di male? Un tempo esistevano molte meno restrizioni. Avevo la possibilità di salvarlo, e l’ho fatto, ma lui… lui si è lasciato morire. Siamo simili: medesime sofferenze, medesime reazioni, vedi? Non sopportavi di restare a guardare mentre se la portavano via, no?”
Sbottonò il polsino della camicia, e arrotolò la manica fino al gomito: un serpente strisciava placido nelle cavità di un teschio. Era come un tatuaggio fatto col sangue. Era un Marchio Nero e pulsava di vita propria. “Era una stella una volta, una stella incisa in un pentagono,” spiegò Damian, osservando la reazione disgustata di Chriseys. “Mostrami il tuo,” continuò.
Chris gli porse il braccio e lasciò che il ragazzo le afferrasse la mano e togliesse il polsino. “Una stella a cinque punte, incisa in un pentagono.” Blackwood ne tracciò i contorni col pollice, lasciando vagare lo sguardo tra quel braccio e l’espressione infastidita, terrificata e addolorata di Chris. “Sta cambiando, non è così?”
“Sì,” Chris annuì; una lacrima solitaria le scappò dall’occhio destro. Non aveva forza per parlare, non aveva forza per capire. “Fa male,” bisbigliò, si sforzò di ricordare, di spiegare. “Io non… mia madre, lei no-, non ha avuto effetto su di lei, il tumore ha continuato a procedere normalmente; ho fatto tutto quello che c’era da fare, controllato e ricontrollato, avrebbe dovuto arrestarne il corso ma non è accaduto.” Frettolosamente asciugava le lacrime con la manica del maglioncino. Odiava piangere davanti alla gente. Odiava piangere e basta, in realtà.
“Ma non ha senso!” Damian aggrottò la fronte perplesso, poi scosse la testa. “La compatibilità c’era tutta. A meno ch-, sei sicura di non essere stata adottata?”
“Potrei aver sbagliato,” Chris s’irrigidì, e si ricompose di scatto. Cosa stava insinuando Blackwood? Adottata? Di certo non le avrebbero nascosto una cosa del genere. E lo sguardo alla Hermione per cui Ron e Harry la prendevano sempre in giro? Adottata? Era molto più probabile che lei avesse commesso qualche errore nel preparare la pozione. “È il Marchio Nero?” chiese, invece, dando voce alla seconda impellente domanda che quel rendez-vous aveva scatenato.
“È cambiato dopo qualche mese. La mia stellina,” disse con un strascico di sarcasmo nel tono, “è diventata un bel teschio. Non ho mai voluto arrivare a questo, lo sai, vero? Potrei non amare il mondo Babbano, ma non sarei mai arrivato a questo da me.” Chris alzò gli occhi al cielo, Blackwood era tante cose: egocentrico, arrogante, ambizioso, importuno e pericolosamente incline a scoprire cose che dovevano restare nascoste; come poteva credere che non avesse fatto tutto da sé? Di certo, ne aveva le capacità.
“Strane affermazioni per uno che continua a usare certi appellativi.”
“Io non …” Blackwood scosse la testa. “Lo sai che non ci cred-”
“Cosa? Ti piace vedermi sanguinare il collo? Credi che sia un gioco?”
Blackwood tirò un profondo sospiro e, voltando il capo, passò più volte la mano tra i capelli. Quando tornò a guardare Chris negli occhi, un ricciolo ribelle gli era caduto sullo sguardo. “Non volevo il Marchio Nero sul mio braccio, Chriseys. Credimi.”
“Parlami del filtro.”
 “Credo fosse una pozione antica ma la versione che ho letto io era stata modificata da qualcuno. Ho seguito alla lettera quello che veniva riportato. Era un testo di mio zio, del fratello di mia madre.” Lyra Lestrange, la sorella prodiga di Rodolphus e Rabastan, che dopo essere scappata con un Babbano poco prima della seconda Guerra Magica era tornata sui suoi passi e alle tradizioni babbanofobe familiari dopo il fallimento del suo matrimonio. Chris aveva ascoltato pettegolezzi a sufficienza e conosceva abbastanza nomi invischiati nelle Guerre Magiche per temere che quel libro fosse appartenuto a uno dei due noti ex-Mangiamorte. “E tu? Tu dove hai trovato le indicazioni per creare la pozione?”
 “Grimmauld Place. È di proprietà di Ha-, del professor Potter… era la casa patronale dei Black.” Harry non si era preoccupato di limitare le sue letture quando gli aveva chiesto di poter dare un’occhiata. Era un libricino logoro, in brossura, con la costa leggermente staccata, riportava diverse notizie e riti sul rapporto con l’aldilà e la morte. Regulus A. Black aveva ricoperto ogni angolo libero di quelle pagine gialle di appunti, annotazioni, correzioni. “Il libro era di Regulus Black, anche lui fu…”
“Un Mangiamorte. Potrebbero essersi scambiati le informazioni. Dovevano essere molto vicini, magari speravano di salvare qualcosa o qualcuno prima che... Magari glielo chiese lui.”
Lord Voldemort.
Il ragionamento di Blackwood filava, probabilmente vi aveva dedicato più di un semplice pensiero di passaggio. Poteva davvero credergli? Chris sospirò e trattenne un singhiozzo. “Cambierà anche il mio?” Come aveva fatto a diventare una di quelli? Gli stessi che avevano maledetto il suo sangue e quello di Hermione? Gli stessi che avevano perseguitato Harry per anni? Gli stessi che avevano ucciso i genitori di Teddy?
“Chriseys,” richiamò la sua attenzione. “Io penso che stia tornando.”
“Cosa? Non può tornare! Lui è morto. Harry lo ha ucciso definitivamente diciassette anni fa! Il corpo è stato mostrato all’intero Mondo Magico per quindici giorni, non hai letto il libro di storia? O La Gazzetta del Profeta? Perché mia sorella ha un sacco di vecchie edizioni, e posso mostrartele. È morto!” rispose. Si sentiva tremare come una foglia al solo pensiero. Non poteva, non poteva tornare.
Blackwood le posò le mani sulle spalle, massaggiandole per la lunghezza del braccio, in un gesto consolatorio. “Oh, calma, Granger,” disse. “È solo una supposizione.”
“Scusa, è che… il suo nome non mi fai mai un buon effetto.” Chris respirò profondamente e sembrò riacquistare un po’ di calma. Fanny, che era rimasta appollaiata sul ramo, decise che era il caso di intervenire e volò diretta a posarsi tra i due ragazzi. Poi piegò il capo verso Chriseys, accarezzandole la guancia.
 “Siete una strana coppia.”
Chris ridacchiò e annuì. “Le piaccio.”
“Decisamente una strana coppia.”
 

Note: Capitolo nuovo, nuovo, nuovo, eppure vecchio, vecchio, vecchio. Capirete di certo la strana gioia e la logica paura che provo nel pubblicarlo finalmente; è stato nascosto nel mio PC per così tanto tempo. 
Come al solito, tutto quello che riconoscete non mi appartiene, per tutto il resto, potete prendervela con me.

Ritorna all'indice


Capitolo 23
*** Capitolo 20 - When I ruled the world ***


Capitolo 20
When I ruled the world
“La Seconda Battaglia di Hogwarts fu una delle più violente e sanguinose battaglie di entrambe le Guerre Magiche e segnò la conclusione definitiva del secondo conflitto. Durante la notte del 2 maggio 1998, infatti, Lord Voldemort, al secolo Tom O. Riddle, e i Mangiamorte suoi seguaci, furono battuti dall’Ordine della Fenice, organizzazione segreta di Resistenza, fondata durante la Prima Guerra Magica da Albus P.W.B. Silente, e da un gruppo eterogeneo di coraggiosi studenti di Hogwarts e altri volontari, conosciuti come Esercito di Silente, sotto la guida del Bambino Sopravvissuto, Salvatore del Mondo Magico, Harry J. Potter.”
I caratteri gotici e neri del primo volume del Glossario di Storia Moderna del Mondo Magico si confondevano sempre di più alla luce delle fiamme del camino. Chriseys leggeva, tentando di mantenere l’attenzione vigile, accoccolata sul tappeto in Sala Comune, mentre William MacDonald giocava contro se stesso una partita a scacchi magici ed Elise e Sybil completavano un saggio di trentacinque centimetri per il professor Vitious. Avrebbe dovuto studiare anche lei, ma i libri di testo giacevano immobili e chiusi accanto a lei, mentre la sua mente e il suo sguardo vagavano ancora sul volume preso in prestito dalla biblioteca. Forse, non avrebbe dovuto abbandonare Storia della Magia subito dopo i G.U.F.O.
Si ritrovò nuovamente a guardare la foto sulla pagina di destra, che era stata scattata appena dopo la battaglia. In primo piano, seduti sulle panche mezze distrutte della Sala Grande, c’erano il professor Paciock e Luna Lovegood, la ricercatrice amica di Harry, mentre sullo sfondo si intravedevano l’ingresso e Ron e Hermione che, stringendosi la mano, cercavano qualcuno con lo sguardo: Harry, che in quel momento veniva stretto dall’abbraccio orgoglioso di Hagrid. Quella panoramica della Sala Grande dopo la battaglia era un ritratto, il ritratto della desolazione che aspettava un sussurro per far rinascere la speranza. Non per la prima volta, Chris si chiese chi avesse avuto la prontezza di spirito per scattare una foto del genere, in quel momento.
La Battaglia di Hogwarts sembrava un passato così lontano, eppure era lì, sotto i suoi occhi. Sua sorella era lì, con i riccioli spettinati, che scappavano da una treccia, e diverse ferite sul volto, Harry era lì, il labbro spaccato, lo sguardo scuro, il corpo coperto di fuliggine. Era così stranamente vicino.
Non le era mai piaciuto indugiare sui racconti degli anni scolastici di sua sorella. Non aveva mai amato sentire le vecchie storie di Arthur Weasley sulla guerra. Temeva il pensiero di lui, temeva quello che era stato, quello che avrebbe potuto fare, e soprattutto, temeva che sarebbe potuto tornare. Non era mai stata una Grifondoro coi fiocchi, molte volte aveva dubitato di appartenere a quella Casa, e le parole di Damian Blackwood avevano risvegliato una vecchia paura. Ancora più forte se accostate al dolore che costantemente le segnava il polso.
Era realmente possibile un suo ritorno? Era davvero il Marchio Nero quello che si stava formando sul suo avambraccio? E questo cosa avrebbe significato per lei? Lei portava un cognome, Granger, che rappresentava esattamente l’antitesi di tutto quello che era un Marchio Nero.
Chi sei, Chris? Chi sei?
Una domanda semplice, in fondo. Chriseys Anne Granger. Sedici anni, capelli mossi e castani, occhi nocciola con puntine di verde attorno alla pupilla, Nata Babbana, Grifondoro. Secondogenita di Edward e Helen Granger, sorella minore di Hermione, figlioccia di Minerva McGranitt, migliore amica di Ted Lupin, zia preferita di Hugo Weasley – una volta le aveva persino regalato una spilletta per farlo sapere a tutti; discreta pianista, pessima con gli strumenti a fiato. Amante del mare, delle palline di cioccolato nel latte, degli aggeggi elettronici che a Hogwarts non funzionavano mai, appassionata di Beda il Bardo, di Hans Christian Andersen e di William Shakespeare, l’altro Bardo.
Chriseys. Chris, Chrissie, Bollicina.
Ma era solo un nome. E quella che noi chiamiamo rosa se avesse un altro nome profumerebbe ugualmente, no? Un nome non potrà mai dirti chi sei davvero.
Chiuse gli occhi, cercando di scordare le fiamme, le date, le voci, i volti. Cercando di scordare tutto. Voleva solo non sentire niente, niente.
Niente.
 
*
 
2 Maggio 1998, Hogwarts, Scottish Highlands
“Cerca in te un po’ di rimorso…”
La voce che pronunciò l’affronto era stanca e roca, ma nel suo tono c’era audacia e la sprezzante aria di superiorità di chi crede di essere nel giusto. Potter puntava gli occhi verdi, seri e concentrati, sul suo diretto opponente; sicuro, troppo sicuro.
“Tu osi?” chiese. Come osava? Era solo un piccolo insignificante ragazzino! Troppe volte la fortuna era stata dalla sua parte, ma questa volta no, era arrivata la resa dei conti finale. No. L’avrebbe battuto, avrebbe lanciato la maledizione letale mille e più volte se fosse stato necessario. Erano riusciti a svelare il suo segreto, erano riusciti a tagliare la testa di Nagini – la sua compagna di sempre, Nagini! Potter avrebbe anche potuto sopravvivere ancora una volta, ma le protezioni adesso erano finite. Nessuna mammina poteva coprirlo ora, nessuna bacchetta mal scelta poteva salvarlo, era un testa a testa finalmente, uno contro l’altro. Solo il migliore nelle arti magiche avrebbe vinto. E non c’era dubbio su chi fosse il migliore tra i due.
Distese le labbra in un sorriso sicuro. Sarebbe stato divertente beffare Potter un’ultima volta. In fondo, era curioso anche lui di sapere come sarebbe stato avere una bacchetta come Horcrux, avere la Bacchetta come Horcrux.
Era ancora un ragazzino e, per quanto incosciente e spavaldo, un ragazzino non poteva competere contro il Signore Oscuro. Tutti quegli anni passati a studiare il modo migliore per sopravvivere, le sue ricerche, i viaggi, i passi che l’avevano condotto fino a quel punto. Adesso Lord Voldemort possedeva la Bacchetta… mentre quel ragazzino blaterava di rimorso.
“Sì, oso,” rispose Potter, “perché l'ultimo piano di Silente non si è ritorto contro di me. Si è ritorto contro di te, Riddle.”
Un tremolio gli percorse le dita. Quello sciocco nome Babbano non gli apparteneva più, non gli era mai appartenuto davvero. Babbano e mortale, due aggettivi che mai più sarebbero stati accostati al suo titolo. Strinse forte la Bacchetta di Sambuco. Lui era immortale. Non sarebbero state le parole sprezzanti di un ragazzino a distruggerlo, né Silente e i suoi sotterfugi mal congeniati. Potter poteva anche cianciare per l’intera nottata. Alla fine, non sarebbe rimasto che un corpo morto.
“Piton non ha mai sconfitto Silente! Hanno deciso insieme la sua morte! Silente voleva morire imbattuto, essere l'ultimo vero padrone della Bacchetta!”
Sentì il sollievo rinvigorirgli le membra; la situazione non era poi così favorevole al ragazzo come voleva credere. “Ma allora, Potter, è come se Silente l'avesse consegnata a me! Io ho rubato la Bacchetta dalla tomba del suo ultimo padrone! Il suo potere è mio!”
Stavano ruotando uno intorno all’altro, in un gioco di sguardi e di concentrazione. Potter parlava per distrarlo, forse. A cosa sarebbe servito tutto questo discorso? La conclusione sarebbe stata una e una soltanto.
“Ancora non capisci, Riddle? Possedere la Bacchetta non basta! Tenerla, usarla non la rende davvero tua. Non hai sentito Olivander? È la bacchetta che sceglie il mago... la Bacchetta di Sambuco ha riconosciuto un nuovo padrone prima della morte di Silente, qualcuno che non l'ha mai nemmeno sfiorata. Il nuovo padrone ha tolto la Bacchetta a Silente contro la sua volontà, senza mai capire cosa aveva fatto, o che la bacchetta più pericolosa del mondo gli aveva offerto la sua obbedienza... Il vero padrone della Bacchetta di Sambuco era Draco Malfoy.”
Draco? Il ragazzino incapace? Respirò affannosamente, mentre le parole di Potter iniziavano ad avere senso nella sua mente. “Ma che importanza ha?” sibilò. “Anche se tu avessi ragione, Potter, non farebbe alcuna differenza per te e per me. Non hai più la bacchetta di fenice: il nostro sarà un duello di pura abilità... e dopo che avrò ucciso te, potrò occuparmi di Draco Malfoy...”  Gli aveva già concesso una grazia fin troppo lunga. Potter parlava, ma cosa diamine voleva? La sentiva, la maledizione si propagava dal suo sangue, attraverso le dita, nella bacchetta, verso l’oggetto del suo odio. Potter morto e la Bacchetta di Sambuco come suo ultimo Horcrux. Era ancora lui a possedere il controllo.
“È troppo tardi,” osservò Potter. “Hai perso l'occasione. Sono arrivato prima io. Ho battuto Draco settimane fa. Gli ho portato via questa.” Potter agitò la bacchetta che stringeva in mano, quella di biancospino. “Quindi è tutto qui, capisci?” sussurrò. “La bacchetta che hai in mano sa che il suo ultimo proprietario è stato Disarmato? Perché se lo sa...”
Ira, odio, paura. Per un attimo, lasciò che tali sentimenti gli accecassero la visuale e dominassero le sue azioni. Il sole stava sorgendo, rosso. La maledizione crebbe in sé, attraversò la Bacchetta, e lui la scagliò con violenza. Lord Voldemort non può morire. Il Signore Oscuro è immortale.
Avada Kedavra!
Il ragazzo rispose. “Expelliarmus!” Lo scoppio fu come un colpo di cannone e le fiamme dorate che eruppero tra loro, al centro esatto del cerchio che avevano disegnato, segnarono il punto in cui gli incantesimi si scontrarono. La Bacchetta di Sambuco gli scappò dalle mani, volò in alto, scura contro l’alba. Si sentì cadere, tramortito dallo stupido colpo del ragazzino fortunato. Ancora una volta fortunato? Com’era possibile? Potter, Potter, Potter sempre lui. Ma aveva combattuto troppo, per perdere tutto ora, per colpa di un ragazzino fortunato. La Fortuna non esiste, siamo noi a plasmare il nostro destino. E il suo destino non prevedeva la morte. Lord Voldemort non poteva morire.
Cadde all’indietro. Gli occhi nel suo ultimo sforzo incontrarono lo sguardo sbalordito della Sanguemarcio di Potter. Sempre accanto a lui, sempre un passo indietro. Perché non lo abbandonava mai? Sentì il suo sguardo su di sé, e la vide portare una mano al ventre.
C’era qualcosa lì, piccolo, piccolo, piccolo. La sua anima era ormai divisa e là c’era qualcosa che avrebbe potuto salvarlo: vita. Piccola, indifesa vita. Vita, troppo preziosa per lasciarla andare via. Con un estremo sacrificio di volontà lasciò andare il corpo che lo aveva accompagnato per così tanti anni, ma cos’è un corpo in confronto alla possibilità di vivere per sempre? Solo un misero incidente materiale, una circostanza da sfruttare, un involucro. Un diadema, una coppa, un medaglione, un serpente… una vita. Di un altro involucro aveva bisogno, solo di un’altra occasione. Il rito per rendere la Bacchetta un Horcrux gli era rimasto sulle labbra, in fondo, la magia sta tutta nell’intenzione, non è vero, professor Silente?
Grazie alla forza di una maledizione lasciata a metà e della disperazione si appigliò a quella piccola immensa vita non senziente.
Hermione Granger portò una mano contro il ventre a placare quel bizzarro movimento nel suo corpo. Ma nient’altro si mosse.
Era caduto, Harry Potter lo aveva fatto cadere, ma non era stato sconfitto. Lord Voldemort non muore mai.
Solo io posso vivere per sempre.
 
*
 
“Ehi, Chris!”
“Cosa?” Saltò all’improvviso, gli occhi limpidi ed enormi di Sybil su di lei. Sentiva le ossa doloranti per via dell’orribile posizione in cui si era addormentata, il libro di storia sotto la testa.
“Andiamo in dormitorio?”
“Certo, certo,” borbottò, mentre si lasciava tirare su dall’amica. Elise e William ridacchiavano un po’ più indietro. Nella testa di Chriseys solo le immagini troppo vivide della Seconda Battaglia di Hogwarts.
 


Note: Gran parte dei dialoghi presenti in questo capitolo riprendono i dialoghi presenti nel Capitolo 36 – La falla nel piano di Harry Potter e i Doni della Morte.
Il titolo del capitolo riprende il ritornello del brano Viva la vida dei Coldplay: “never an honest word, but that was when I ruled the world”, “mai una parola onesta, ma questo succedeva quando governavo il mondo”.
È presente anche un piccolo riferimento al monologo di Giulietta, in Romeo e Giulietta, di William Shakespeare, l’altro Bardo.
Inoltre, vorrei approfittare di questo spazio per ringraziare chi non ringrazio mai abbastanza, la mia BetaBea, BeaPotion, che con un sacco di pazienza risponde alle mie continue noie. 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 24
*** Capitolo 21 - Colpe ***


Capitolo 21
Colpe
Clash! I piatti cozzarono l’uno contro l’altro con eccessiva veemenza. Le cinque teste ancora sedute a tavola si voltarono verso di lei di scatto e con l’espressione sorpresa in volto.
“Scusate,” borbottò, ma non c’era nessuna intenzione di scusarsi nell’inclinazione del suo sguardo, diretto e infuocato verso suo marito. Ron alzò le sopracciglia, rifiutandosi di riconoscere l’ennesimo richiamo, e continuò a giocherellare col suo dessert. Era tutta la sera che faceva così, e, per Morgana, questo suo atteggiamento le faceva scatenare tutta l’ira che invece avrebbe dovuto controllare. Ronald non poteva credere sul serio di poter ignorare tutta quella assurda situazione.
Scuotendo la testa incrociò gli sguardi turbati di Arthur e Molly. Era mortificante mostrare loro, ancora una volta, questo lato della sua relazione con il loro figlio. Sospirò e tirò fuori la bacchetta, abbandonando l’istinto di sparecchiare alla Babbana. Non era giusto che tutti i commensali – la famiglia di Ron – risentissero delle sue frustrazioni, soprattutto quando questi spettacoli avvenivano in casa sua.
“Ti do una mano,” proruppe Harry. Balzò in piedi, con gli occhiali sul naso e la sua aria da professore-ora-risolvo-tutto-io. Doveva, forse, prendersela anche con lui? “Mi piace lavare i piatti,” disse, quasi convinto di sé.
Ginny tirò fuori un sorriso sghembo e fece per alzare il dito per controbattere a quella ridicola affermazione ma Harry glielo impedì forzandole il braccio di nuovo sul tavolo. “Il dessert,” indicò, piegando la testa. Sempre bravo in sottigliezza, Harry.
Hermione avrebbe dovuto intimare loro di smettere di fare gli idioti, ma si limitò ad alzare gli occhi al cielo, preferendo dirigersi verso la cucina, dove avrebbe potuto scatenare i suoi istinti omicidi sulle stoviglie.
Harry la seguì. “Mi piace insaponare,” le spiegò e Hermione si convinse controvoglia a dargli la spugna in mano. Di fatto, ormai aveva capito, una sessione di tranquille chiacchiere tra amici era ciò che le si prospettava.
“Che ne dici di parlare un po’?” incominciò Harry, dato che lei non aveva alcuna intenzione di aprire bocca.
“No,” rispose, sguardo fisso sul fiotto d’acqua che le cadeva sulle mani e sui piatti da sciacquare.
“Almeno dimmi perché stiamo lavando i piatti con le mani,” le sussurrò nell’orecchio, prima di  spintonarla un po’con la spalla.
“Perché non posso lanciare un incantesimo su Ron davanti ai suoi genitori, quindi devo tenere le mani impegnate in qualcos’altro,” rispose lei, brusca. Si girò verso Harry e gli piazzò un dito sugli occhiali. “Potrei prendermela con te, se preferisci.”
Harry scosse ripetutamente la testa e ingoiò un sonoro “No”. Ricominciò poi ad insaponare le forchette e i cucchiai con una certa passione. Avrebbe dovuto sudarsela, quella chiacchierata.
Quando posò le posate nel suo lato del lavabo, le acciuffò la mano, sapone e tutto il resto. “Credevo che certe cose appartenessero al passato.”
“Cosa?” si ritrovò a chiedere lei. Si rivolse di nuovo verso di lui, curiosa di sapere se avesse intuito più di quanto loro gli avessero detto.
“Ron che fa qualcosa di sciocco, perché è Ron e non ci pensa, e tu che reagisci in maniera esagerata,” spiegò, passandole l’ultima pentola.
“E allora?” sibilò lei. Se avesse lasciato fare al proprio istinto il volume della sua voce sarebbe salito di troppe ottave e quella scappatina in cucina non sarebbe servita proprio a nulla. “Siccome si tratta di Ron, tutto quello che fa non ha conseguenze? E tu, mi raccomando, sempre dalla sua parte.”
Harry scosse la testa e sbuffò leggermente, poi le passò sulle mani lo strofinaccio con cui aveva asciugato le proprie. La tirò a sé e la fece sedere sullo sgabello più vicino. Hermione si ritrovò ad alzare gli occhi al cielo, senza neanche sapere perché. “E poi io non sto reagendo in manie-”
“Era un pezzo di torta, Hermione,” puntualizzò lui, interrompendola.
“Gli zuccheri rendono Hugo iperattivo,” recitò. La frase era sempre la stessa, quante volte l’aveva ripetuta sia all’idiota lì presente, che all’altro idiota in salotto? Ma non era quello il problema e questo probabilmente Harry lo avvertiva, mentre Ron voleva ignorarlo.
“Hugo è sempre iperattivo,” rispose Harry, come fosse la cosa più ovvia del mondo. “È tuo figlio,” spiegò, alzando le spalle.
“E questo cosa vorrebbe dire?” domandò lei, lanciandogli la tovaglietta sul viso e incrociando le braccia sul petto. Harry l’acciuffò, e poi le diede un’occhiata che sembrava disperatamente chiederle di parlargli con sincerità.
“Non c’entra niente l’effetto che lo zucchero ha su Hugo, vero?”
“No,” annuì. A che pro nasconderlo ora, tanto ormai la cena era stata rovinata. “Mi spiace, forse avrei dovuto annullare la cena. Inventare una scusa. Ma ci eravamo promessi di bypassare la cosa. Si vede che non sono tanto brava come lui a fingere che sia tutto a posto.”
“Cosa è successo veramente?”
“Ron ha fatto qualcosa di sciocco perché è Ron,” Hermione mimò le virgolette in aria, “e ovviamente non ci pensa, e io…” si fermò a metà frase, chiudendo gli occhi. Stava reagendo in maniera esagerata? Stava forse sbagliando lei? Harry si avvicinò e le accarezzò le braccia, con l’evidente intento di invitarla a continuare. “Ieri ho trovat-,” non riusciva neanche a dirlo.  “Sai quella stupida abitudine che avete voi Auror,” Harry aprì la bocca come a voler precisare che la sua attuale occupazione fosse un’altra, ma Hermione continuò, “quella di arraffarvi tutte le armi che pensate non servano più dai casi chiusi. ‘Oggi la bacchetta non mi basta più. Oh, guarda, ecco una spada! Carino quel coltello, ora me lo prendo.’ Non funziona così? Stupido Mondo Magico, con leggi da Medioevo. È ridicolo, non potete prelevare delle prove solo perché i casi vi sembrano risolti. Ho pensato più di una volta di procedere contro il Dipartiment-,”
“Hermione?” Harry la bloccò a metà arringa. “Cosa hai trovato?”
“Nella giacca di Ron, c’era il pugnal-, il pugnale di Bellatrix.” Quel pugnale.
Harry alzò gli occhi il cielo, non riusciva a crederci. Neanche lei, avrebbe voluto crederci. “Sei sicura?”
Hermione annuì e basta. “Harry, non se n’è accorto. Lo ha preso perché gli piaceva l’impugnatura, c’è un corvo sull’elsa. Ma Ron è Ron e non ci pensa, giusto? Non se n’è neanche accorto. È stupido che faccia così male?”
“No, non c’è niente di stupido,” la rassicurò lui, prendendole le mani tra le sue. “Assolutamente niente.”
 
*
12 Dicembre 1998 – Accademia di Alta Formazione Forze Speciali Auror, Greater London
Harry si tuffò sotto il getto della doccia calda e rilassante come fosse il premio più ambito di tutti i tempi, altro che coppe ornate nascoste nella boscaglia irlandese. L’Accademia stava diventando sempre più dura. Per chiudere in bellezza la prima metà dell’anno accademico, i cadetti erano stati divisi in squadre e spediti, con il preavviso di mezz’ora, nel bel mezzo della foresta di Glengariff in Irlanda con l’ordine di ritrovare un preciso artefatto magico, una stupida coppa, prima delle altre squadre. E ritornare sani e salvi al Quartier Generale. Se ci riuscivano.
Harry e i suoi due compagni di squadra, Macmillan e Alistair, avevano impiegato quarantatré ore per ritrovare la coppa, perché quell’imbecille di Macmillan insisteva nell’andargli sempre contro. Con Hermione e Ron probabilmente avrebbe impiegato una decina di ore in meno.
Hermione e Ron in Accademia, insieme a fare danni e combattere i brutti ceffi, come ai vecchi tempi. Era un pensiero che lo sfiorava spesso. Ma Hermione era a Hogwarts a finire la scuola e a litigare con i suoi fantasmi e Ron aveva scelto di stare accanto a George ai Tiri Vispi. E guardarlo negli occhi in questi giorni era così difficile anche senza l’opportunità di incontrarlo ogni giorno.
Harry si sorprese a scuotere la testa mentre ripuliva con la mano la condensa sullo specchio. In questi giorni, era faticoso persino guardare se stesso negli occhi.
Come un segno del destino a seguire i suoi pensieri pieni di sensi di colpa, non appena uscì dallo spogliatoio gli comparve davanti il volto scuro del suo migliore amico.  Ron attendeva con le spalle contro il muro, le braccia conserte contro il petto e l’espressione torva. Non gli diede neppure il tempo di salutare: quando si avvicinò, Harry avvertì un dolore incredibile alla mascella, lì dove il pugno lo aveva colpito. Riflessi meravigliosi per un cadetto Auror. Si sentì sbilanciare all’indietro a causa della sacca che portava in spalla, ma Ron lo acciuffò per le scapole e lo spinse contro il muro.
“Maledetto bugiardo,” bofonchiò a denti stretti mentre lo sbatteva contro la parete.
“Cos-, accidenti, Ron?” chiese stupito e spaventato. Che senso aveva quell’imboscata?
“Eri un fratello per me. Un fratello. Ti ho affidato la mia vita. E tu… tu…”
Harry ricevette il secondo pugno senza sapere bene come reagire. D’istinto, fece scivolare nella mano la bacchetta che portava sull’avambraccio destro, pronto a scaraventare l’amico dall’altra parte del cortile, se fosse stato necessario. Ron dovette aver visto quella nuova decisione nello sguardo che gli lanciò perché lo lasciò andare in malo modo, anche se continuava ad osservarlo con gli occhi pieni di rabbia e, forse, delusione. “Ti hanno fatto un incantesimo? Cosa diamine vai blaterando?” chiese Harry.
“Hermione,” disse fremente di rabbia, “mi ha detto tutto.”
“Hermione… ti ha… detto… tutto?” balbettò Harry incredulo. Hermione?
“Ha una bambina così carina, signor Potter. Congratulazioni,” continuò Ron, quasi come se stesse sputando ad ogni parola. Sputava su di lui e sul dolore che gli aveva inflitto.
Harry sentì un brivido percorrergli la schiena all’accenno a Chriseys. Ron sembrava così arrabbiato. Di certo non avrebbe fatto nulla di pericoloso, no?
Ron era furioso e ferito. Harry sentì tutto il peso del tradimento che gli aveva inflitto in quello sguardo spezzato. Era per questo che non avevano parlato finora, era per questo che non poteva guardarlo negli occhi.
Come era possibile che Hermione avesse scelto di confessare ora? E senza avvertirlo? Quella Hermione che aveva costretto Harry a mettersi da parte e a nascondersi in Accademia, la stessa Hermione che aveva ceduto la loro bambina in affidamento perché non voleva ferire Ron? Perché confessare proprio ora, Hermione? “Perché proprio ora?” chiese ad alta voce, più a se stesso che verso il suo interlocutore.
 “Non poteva sopportare di mentire ancora, ha detto. Sono stato a Hogwarts oggi. Volevo, volevo… Per Morgana, le ho detto che l’amavo, Harry. Io la amo, Harry, e tu, tu lo sapevi. Lo sai da quanto tempo, tu dovevi… mi hai mentito! Non riuscivo a capire. Dopo quello che era successo durante la battaglia, credevo avremmo iniziato qualcosa. Stupido Ron, non capisce mai un cazzo! Invece lei scappa via e quando torna è così distante, sembra sempre così… colpevole. E adesso so perché. Mi avete mentito per più di un anno. Che amici ho? Avrei dato la mia vita per voi due. Merlino, lo farei anche adesso!”
C’erano lacrime non versate nello sguardo di Ron. Harry non lo aveva visto mai così straziato. Si sentì mancare le ginocchia: era lui il colpevole in questa situazione.
“Hai tutto, Harry! Tutto! Riesci a immaginare che vuol dire avere qui, qui,” premette l’indice contro la tempia, “a martellarmi nel cervello l’immagine di voi due insieme? Che l’abbracci, la stringi, l’accarezzi? Io non… come faccio a sopportarlo?”
“Ron, l’anno scorso è stato tutto così strano e complicato e confuso. Nessuno di noi voleva che andasse in questo modo. Tu non c’eri e noi non… è stato… è stata solo una notte… credevamo che così, non dirlo… volevamo proteggerti, la nostra amicizia è...”
“Volevate proteggere voi stessi,” borbottò, scuotendo la testa.
“Non è così semplice, Ron…” Scosse la testa anche lui, cercando di trovare le giuste parole, la giusta spiegazione. Ma non c’era niente di giusto in quella situazione.
“Guardate,” proclamò Ron, spintonandolo per una spalla per mostrarlo a un non meglio precisato pubblico. “Guardate il grande Harry Potter, il Ragazzo Sopravvissuto, l’Uomo Che Ha Vinto, il Conquistatore del Mondo Magico… ridotto a una balbettante massa di scuse…”
Harry si lasciò spintonare per un po’, ma il suo istinto di preservazione scattò. Era un anno che si nascondeva, era un anno che chiudeva gli occhi pensando a quanto dolore avrebbe inflitto al suo amico. La fine della guerra avrebbe dovuto portargli serenità e invece gli aveva portato solo altri dubbi, altre paure, altre colpe. “Cosa ti aspetti che ti dica? Cosa vuoi che faccia? Ti ho mentito, sì, ho mentito al mio migliore amico e non ne vado fiero. Ma era l’unica cosa che riuscivo a immaginare in quel momento. Ho rinunciato a mia figlia per te, ho rinunciato a Herm-.” Chiudi gli occhi, respira, Harry, conta fino a tre. Non sai quello che dici. “Volevamo davvero, davvero evitarti tutto questo. Se ha scelto di dirtelo ora, c’è solo un motivo, e tu sei davvero uno sciocco.”
“E tu non potevi permettere che avessi qualcosa che fosse solo mio?”
 “Non l’hai capito, ancora? Stiamo parlando di Hermione, non qualcosa da possedere. È lei che prende le sue decisioni. Vuole te, ha scelto te. Ha sempre scelto te.”


 

Ritorna all'indice


Capitolo 25
*** Capitolo 22 - Come eravamo ***


Tra una flash e una chiacchierata,
un’altra stagione è già passata;
bisogna farsene ragione,
il tempo è sempre in formazione.
Ma Lucetta che è precisa,
con il POP non improvvisa,
anche se è sempre modesta,
oggi è tempo di far festa!
Nel ricordar questa occasione,
pur nella sua imprecisione,
questo canto bazzicato
solo a te è dedicato,
ché ogni an va festeggiato
tanti auguri, caro Capo!

 
Capitolo 22
Come eravamo
12 Dicembre 1998 – 12, Grimmauld Place, Londra
Se avesse potuto Harry si sarebbe Smaterializzato direttamente sul divano di Grimmauld Place. Non per la prima volta si ritrovò a pensare che avrebbe dovuto settare di nuovo gli incantesimi di protezione. Aveva un forte bisogno di spegnere il cervello. Forse questa sarebbe stata la serata giusta per inaugurare una delle tante bottiglie di liquore che la gente continuava a inviargli, con tanti saluti alla sua giovane età.
L’istinto, il suo stupido istinto, perfezionato da anni e anni di abitudine, gli suggeriva di correre da Hermione. Ma per dirle cosa? Sfogare la rabbia e i sensi di colpa su di lei. A che pro? Ormai era stato detto tutto, ma non c’era quel senso di sollievo che di solito accompagna i segreti svelati. Nessuna rivelazione divina avrebbe cambiato le cose. La sua bambina sarebbe stata cresciuta dai Granger. Ron amava Hermione e Hermione amava Ron.
Si lasciò cadere sulla poltrona più prossima al camino, i palmi sulle tempie e le dita tra i capelli nel vano tentativo di cacciare via tutto il brusio che gli risuonava nel cervello.
“Harry, cosa diamine ti è successo al viso?” La domanda arrivò senza preavviso e per un secondo Harry si sentì spaesato. Maledetti Weasley e la loro abitudine di fare feste a sorpresa. Ginny stava entrando nel suo salottino con un bicchiere di quello che sembrava tè, senza scarpe e col cravattino della divisa scolastica slacciato.
“Ginny, cosa diamine ci fai tu a casa mia?”
“Kreacher mi ha lasciato entrare,” si giustificò lei, accomodandosi sul sofà, di fronte a Harry. “E grazie per il gentile benvenuto,” puntualizzò, sorseggiando la sua bibita in tutta tranquillità.
Harry si tirò a sedere in una posizione più composta, roteò gli occhi verso il cielo, prima di serrare la mascella e scuotere la testa. Gli piaceva che Grimmauld Place fosse diventato un posto in cui i suoi amici si sentivano a loro agio, avrebbe soltanto preferito lo avvisassero prima di spuntare fuori dal nulla. Soprattutto in serate come quella.
“Okay, mi sono intrufolata,” gli concesse lei, mugugnando appena con gli occhi bassi, poi alzando il tono e lo sguardo verso Harry. “Ma avevo una buona ragione,” specificò.
“Non dovresti essere a Hogwarts?”
“È sabato sera,” spiegò lei, seguitando a bere dal suo bicchiere. Allo sguardo perplesso di Harry continuò, “lo sapevo!” Arricciò il naso, e Harry si preparò alla pacca sul braccio che arrivò nei due attimi seguenti. Le piaceva credere di essere pericolosa, e a Harry piaceva lasciarglielo credere. “È sabato, Harry. Tu dovresti essere a Hogwarts, o meglio, a Hogsmeade, con me, Luna, Hermione, Neville e tutti gli altri. La cena da Rosmerta, Harry? Dai, la serata che cerchiamo di organizzare da due mesi, giorno più, giorno meno.”
“Oh, oggi è quel sabato.”
“Già, è quel sabato. E poi tu non ti presenti, Hermione è dispersa in qualche punto sconosciuto della sua mente che da un po’ di tempo a questa parte è sempre più contorta, e Ron scappa via con l’espressione più scura di un Mangiamorte. Suppongo abbiano litigato di brutto questa volta. Ho mollato Luna e Neville che discutevano animatamente di piante… graminacee…”
“Sembra interessante,” offrì lui, come magra consolazione.
“Sono allergica,” fu la pronta controbattuta di Ginny. Era facile immaginare Neville e Luna immersi in una delle loro infinite conversazioni fatte di pensieri profondi e nomi strani di piante e animali, sotto lo sguardo di una Ginny piuttosto frustrata.
“Mi dispiace,” incominciò Harry, alzandosi. Tirò un sospiro. Quante volte avrebbe detto ancora ‘mi dispiace’? Quante volte lo aveva pensato quel giorno? Con le scuse non si risolve nulla. “Di averlo scordato,” chiarì, offrendole un sorriso abbozzato. Si diresse poi verso la credenza in cui nascondeva le migliori bottiglie che gli erano state regalate. “Posso farmi perdonare con…” Acciuffò la prima bottiglia che gli si presentò davanti. “Idromele alle erb-, no, un cognac brandy con un nome francese che non so pronunciare? Giuro che la signora Weasley non lo verrà a sapere.”
“Alcol da adulti? Sembra una buona idea.”
Harry si applicò nel versare il liquore, gli piaceva osservare il liquido scorrere dalla bottiglia e scivolare sul ghiaccio. Ginny accettò il calice con grazia e fece incontrare i due bicchieri, proponendo di fatto un brindisi silenzioso.
“Stai bene, Harry? A parte le ovvie escoriazioni sul viso… Qual è il fattaccio che ci sta dietro?”
“I cadetti devono portare a termine una inchiesta guidata il primo anno. Ho passato gli ultimi due giorni in una foresta irlandese, cercavamo una stupida coppa.” Di nuovo. Come con gli stupidi Horcrux. Molto meno degno di nota questa volta però.
“È per questo che…?” Indicò il livido violaceo intorno all’occhio destro di Harry.
“No, quello è stato Ron,” confessò lui a mezza voce. Tracannò un altro sorso del suo liquore. Bruciava da morire.
 “Ron? Perché mio fratello avrebb-, oh,” si bloccò. Harry vide negli occhi della ragazza la realizzazione: il litigio tra Ron e Hermione era solo la punta di un iceberg ancora sepolto sotto un oceano di cose non dette. Era paziente, Ginny, più paziente di quanto Harry avrebbe creduto fosse possibile. Non gli aveva mai chiesto cos’era successo durante quei lungi mesi in fuga, non gli aveva mai fatto pressioni quando il resto del mondo credeva che avrebbero dovuto dare inizio alla più grande storia d’amore mai raccontata. Ginny aveva la sua scuola, la sua vita e degli ovvi sentimenti nei confronti di Harry, ma aveva scelto di stare in silenzio e guardare avanti, pur restandogli accanto.
“Sai, Harry,” Ginny lasciò scorrere il dito sul bordo del bicchiere, poi si morse il labbro, forse soffocando una domanda che avrebbe voluto fare. “Quando smetterai di dimenticarti di essere un mago?” chiese invece, alleviando all'istante il tono della conversazione. Lasciò il bicchiere, si tirò su, e afferrò la bacchetta che teneva nel fodero del mantello della divisa. “Epismendo,” disse, sventolando la bacchetta. Il dolore all’occhio e alla mascella di Harry svanì subito. Era decisamente più brava di Tonks e Luna in questo tipo di cose. “E prego, Potter.”
Harry non poté evitare un sorriso. Ginny Weasley era davvero un bel tipino.
“Gin,” incominciò lui, ma la ragazza lo interruppe prima che avesse modo di concludere il pensiero.
“Non devi sentirti obbligato a dirmi quello che non ti senti pronto a dire, Harry.” Gli passò una mano tra i capelli, dedicandogli un sorriso comprensivo. “Mi sono intrufolata a casa tua solo per assicurarmi che fossi intero. E perché mi stavo annoiando a morte.”
Harry ricambiò il sorriso. Aveva scordato quanto potesse essere rinfrescante il sorriso chiaro di Ginny. Era brava a fargli dimenticare i problemi, quasi quanto un bicchiere di brandy col nome complicato. “Sei una buona amica, Ginny Weasley.”
“Felice di poter essere d’aiuto.”
 
*
  
Il titolo dell’editoriale della sezione sportiva della Gazzetta del Profeta era un programma: Ennesima stagione deludente per i Cannoni. La soluzione secondo Ginevra Potter. “Gin,” sospirò Ron, annotando mentalmente quel paio di cose che avrebbe dovuto dire alla sorella. Non che quello che scrivesse fosse del tutto falso, era il punto di vista che faceva uscire Ron dai gangheri.
Sospirò e lasciò sprofondare la testa sul cuscino: forse aveva un debole per le cause perse. D’altronde, i Cannoni di Chudley erano gli underdog del campionato e tifare per gli sfavoriti era un po’ parte del suo DNA. Le soluzioni proposte da Ginny non erano tutta questa grande filosofia del Quidditch, ma prendersela con sua sorella era tutto quello che Ron riusciva a fare per ignorare ancora un po’ l’assenza fondamentale sull’altro lato del suo letto.
Erano mesi che Hermione passava le nottate a rimuginare o scribacchiare nello studio o davanti al camino. Ci aveva provato, ci aveva davvero provato a capire, a essere comprensivo e paziente. Aveva fatto di tutto per starle accanto, ma lei continuava ad allontanarsi. A martoriarsi sulle lettere monosillabiche di Chriseys, sui litigi infiniti di Rose e Hugo (“Sono bambini e sono fratelli, litigano; è naturale!”), e su tutte quelle minuscole e insignificanti cause perse al Ministero. Su tutto e tutti tranne che su suo marito.
Ron era arrivato al punto di sentirsi esultante quando lo aveva rimproverato come un pupetto di sedici anni, per quel casino che aveva combinato con il recupero artefatti inutilizzati al Quartier Generale. Finalmente sua moglie tornava ad accorgersi di avere un marito.
Certo era stata un’esultanza effimera, e lo aveva fatto ritornare indietro di quasi vent’anni: quando Grattastinchi litigava con ogni essere animato e inanimato nella Sala Comune della torre di Grifondoro e Ron trovava ogni scusa per far infuriare Hermione. Ma Ronald Weasley non aveva più quindici anni, e, Merlino, se aveva capito adesso il gran macello che aveva combinato.
Il pugnale di Bellatrix Lestrange, Ron! Schiantati da solo!
Sentì il rumore di alcuni passi e intravide l’ombra di Hermione aggirarsi nella luce soffusa del bagno. Per un breve attimo pensò di chiudere il giornale e fingere di essere addormentato. Evitare le discussioni era uno dei consigli preferiti di Charlie, peccato che Charlie non ne sapesse proprio nulla di matrimoni.
Quando Hermione finalmente arrivò a letto gli diede le spalle, aveva sciolto i capelli e una massa di riccioli scuri fu l’unica cosa che gli si parò davanti quando trovò il coraggio di parlare. La stava perdendo, erano mesi che la stava perdendo e lui cos’era riuscito a fare? In un colpo solo l’aveva delusa e ferita. Se solo fosse stato più consapevole, meno infantile, più attento, se solo fosse stato un po’ più come Ha-.
“Mi dispiace. Non avevo capito a chi appartenesse quel pugnale, non avevo idea… e non stavo cercando di minimizzare la cosa, ma non volevo litigare,” disse tutto d’un fiato, e fu felice di vedere la sagoma di sua moglie voltarsi verso di lui a metà della frase. “Consideralo già eliminato.”
Hermione tirò un profondo sospiro. “Sarebbe stato così difficile fare questo bel discorso quando ti ho spiegato come stavano le cose?”
“Io…” Devo crescere ancora? Avrebbe potuto dirlo, ma non era il caso di buttarsi nell’umorismo spicciolo. C’era ancora troppa delusione in quegli occhi scuri. “Sono davvero, davvero dispiaciuto.” Con un dito aveva iniziato a giocherellare con uno dei riccioli che le incorniciavano il viso.
“Lo so,” disse lei, acciuffando la mano che giocava con i suoi capelli, “Dammi solo un po’ di tempo.”
Ron annuì, senza però lasciare la mano di lei. C’era un dubbio nella sua mente. Era un dubbio che lo accompagnava da una vita. Preferiva tenerlo nascosto, protetto, lontano da ogni sua azione quotidiana, ma era sempre lì. C’era sempre stato.
“Pensi mai a cosa sarebbe successo se…” incominciò. Per Merlino, era così difficile tirarlo fuori. “Pensi mai a come sarebbe andata a finire adesso se non avessi lasciato Chris ai tuoi? Se…”
“Ro-” Hermione cercò di interromperlo. Probabilmente aveva capito dove sarebbe andato a parare.
“Se… avessi scelto Harry?” Le sue paure di ragazzino erano da tempo diminuite, d’altronde, le avevano fatte realizzare tutte, no? Era stato difficile abituarsi all’idea, cancellare l’immagine nella sua mente, che Harry, il suo miglior amico, avesse avuto una relazione con la sua Hermione. Ci aveva messo anni prima di riuscire a riguardare entrambi con occhio cordiale. Eppure alla fine ce l’avevano fatta a costruire piano, piano il loro lieto fine. Ronald Weasley aveva battuto Harry Potter lì dove più contava: Hermione aveva scelto lui.
Ma il dubbio continuava a tornare.
Osservò Hermione mordersi il labbro, forse alla ricerca della risposta più sensata.
“Ci pensi spesso, non è così?”
“Pensi mai a cosa avresti fatto se avessi continuato a lavorare con George?”
“Non è la stessa cosa.”
“Cosa ti aspetti che risponda? Sì. Talvolta, ci penso.”
Ron si sentì sprofondare. Sapeva di correre un rischio ponendo una domanda del genere, ma una risposta così crudele nella sua onestà lo spiazzò. Gli parve quasi di restare senza appigli, ma una volta innescata la reazione non si può più tornare indietro. “Saresti stata più felice?”
“Ron,” Hermione scosse la testa, prese la mano che stringeva ancora e ne baciò il palmo. “Smettila. È tardi e non sai quello che dici. Sì, ogni tanto penso a cosa sarebbe successo se, lo fanno tutti prima o poi. È parte della vita. Ma il passato è passato, e io ho preso le mie decisioni.”
“È solo che… in questi ultimi giorni… il pugnale…” Harry non avrebbe mai fatto un errore del genere. Harry sapeva come starle accanto senza lasciarla correre via negli intricati labirinti di cui era formata la sua mente. Harry forse l’avrebbe resa più felice. Odiava avere questi pensieri, odiava ritornare a queste stupide insicurezze.
“Scusa se sono esplosa così. Ma non ti saresti arrabbiato anche tu nella mia posizione? È il pugnale che mi ha fatto questo,” inclinò il collo, ad indicare la ferita nascosta tra le sue pieghe. “Non c’entra niente tutto il resto,” spiegò.
Ron annuì accettando la spiegazione, ma aveva un’ultima domanda sulla punta della lingua. “Perché hai scelto di stare con me?” chiese prima di riuscire a mordersi la lingua.
“Non fare domande sciocche,” sorrise.  “Perché ti amavo…” Gli baciò pigramente le labbra. Un bacio piccolo, una rassicurazione tranquilla. Ma Ron non si sentì per nulla rassicurato. “Dovremmo dormire.”
Amavo. Imperfetto. Tempo passato.
Passato.
 

Note: Come eravamo è un film del 1973 che - non ho mai visto ma - aveva come colonna sonora una dolce e tristissima canzone, interpretata da Barbra Streisand, The way we were, che a un certo punto fa: “Can it be that it was so simple then? Or has time rewritten every line? If we had a chance to do it all again, tell me, would we? Could we?” “È possibile che fosse davvero così semplice allora? O il tempo ha riscritto ogni battuta? Se avessimo l’occasione di rifare tutto daccapo, dimmi, lo faremmo? Saremmo capaci?”

Ritorna all'indice


Capitolo 26
*** Capitolo 23 - Teorema Blackwood ***


Capitolo 23
Teorema Blackwood

Quando sei in dubbio, vai in biblioteca. La massima preferita di Hermione si stava rivelando per Chris poco veritiera e del tutto fuorviante. Per le paure che le assillavano la mente, non c’era nessuna risposta da trovare tra le mura silenziose della biblioteca di Hogwarts, non c’erano né silenzi tonificanti né libri profumati che potessero salvarla.
Nascondersi dietro il manuale di Incantesimi e il librone di Lynch sulla Teoria Magica Sperimentale non era una soluzione: né poteva fingere di studiare, né riusciva a evitare di pensare ai suoi sogni sempre più bizzarri e sempre più vividi. La cicatrice sul braccio continuava a fare male e a modificarsi e le spiegazioni di Blackwood su quello che stava accadendo sembravano le uniche ad avere senso. Esisteva davvero la concreta possibilità che Tu-Sai-Chi potesse tornare? Aveva già battuto la morte, d’altronde. C’era un motivo per cui Chris non aveva mai amato la storia: era la prova costante che il male trovava sempre il modo di tornare e tornare e tornare. E nessuno conosceva l’arte del ritorno meglio di lui.
Lui. Quando ascoltava le storie di Ron e del signor Weasley da bambina, correva a nascondersi tra le braccia di Hermione, o stringeva forte, forte la manina di Teddy, sperando che la smettessero di raccontarle quelle brutte, brutte storie. Da bambina, la manina di Teddy era sempre stata là, a stringere la sua.  Perché adesso invece quella mano continuava a sfuggirle dalle dita?
Con chi avrebbe potuto parlare ora? Di certo non con Sybil che sarebbe entrata nel panico anche più di lei. Con Harry? Con la professoressa McGranitt? Con Hermione? Cosa avrebbe potuto dirle? Mi sta nascendo un Marchio Nero sull’avambraccio, perché ho eseguito un rito di magia nera sulla mamma. E sogno in continuazione la Battaglia di Hogwarts. Probabilmente il Signore Oscuro ha trovato un modo per ritornare, o almeno questo è quello che pensa Blackwood. Che, tra l’altro, mi ha baciato. Ed è stato completamente diverso da Te-. Per Morgana, come faceva il suo cervello a tradirla così tanto? Nascose il viso tra le mani come se potesse coprirsi da suoi stessi pensieri. Non era il momento di perdersi in confusioni sentimentali. No, non poteva di certo parlarne con nessuno, non finché non avesse avuto qualcosa di concreto su cui basare tutte quelle supposizioni.
“Non risolverai nulla fingendo di studiare, lo sai, vero?” bisbigliò Blackwood, posando piume e pergamene sullo spazio accanto a lei. “Libero?” chiese, approfittando dell’assenza di reazione di Chris. Aveva alzato le labbra verso sinistra, con quel suo piccolo ghigno derisorio. Da dove diavolo era spuntato? Odiava questa sua capacità di sgusciare dovunque di soppiatto.
“Cosa ci fai qua?”
“Ti risulterà difficile crederlo,” mormorò lui, mentre si abbassava sempre più vicino al viso di lei. “Ma io studio.” Si tirò indietro, girandosi di scatto verso gli scaffali dietro di loro. “Biblioteca. Libri. Scuola. Studente,” continuò, più aperto e meno calcolato di quanto l’avesse mai visto.
“Perché mi stai sempre intorno?” borbottò Chris, più per se stessa che per lui. Rivolse di nuovo lo sguardo sul Lynch, aveva letto quella stessa pagina miliardi di volte quel pomeriggio: sperimentare con gli incantesimi non era cosa da fare senza un’adeguata preparazione e senza una stanza insonorizzata. Questo l’aveva capito.
Blackwood le si sedette accanto, libro in mano, sopracciglia alzate e ghignetto sulle labbra. L’idea di averlo come compagno di studi rendeva Chris persino più inquieta. La loro passeggiata notturna li aveva avvicinati fin troppo per i suoi gusti. Non voleva i suoi consigli, non voleva la sua amicizia, e non voleva i suoi baci. Perlomeno, era piuttosto sicura di non volere i suoi baci. Più o meno.
“Okay, Granger, siamo onesti,” iniziò lui, tirando un gran sospiro. “Se ti dà così fastidio la mia presenza, posso sempre trovare un altro posto. Credevo avessimo raggiunto una specie di armist-”
“Cosa?”
“Se non mi vuoi qui, vado via,” spiegò di nuovo, deglutendo rumorosamente. Alzò gli occhi al cielo come infastidito, forse da Chris, forse da se stesso. Era davvero cambiato qualcosa da quella sera, la maschera di impassibilità che copriva il volto di Damian Richard Blackwood continuava a cadergli sempre più spesso. Era molto più facile pensare a lui come a una marionetta modellato dalla madre a odiare tutti quelli che non corrispondevano al suo ideale di mago puro, sempre ordinato, sempre preciso, mai un’emozione.
Se non con te.
“Smettila,” gli intimò, prima di rituffarsi ancora una volta su quel povero Lynch. Avrebbe fatto una brutta fine quel libro, una bruttissima fine.
“Di fare cosa?”
“Di fare il carino,” sbottò, guadagnandosi le occhiatacce di alcuni Corvonero che studiavano dall’altra parte della stanza. Abbassò il tono. “Tu non sei gentile con me. Sei… provocante, al massimo! T-, tu sei fin troppo cortese con chi ti pare, ma non con me. Sei ipocrita. E arrogante e razzista e subdolo. E qualsiasi cosa sia successa l’altra notte, io non credo fossimo del tutto sani di mente.”
Blackwood l’aveva fissata per tutto il tempo della sua piccola arringa, solo quando iniziò a parlare abbassò lo sguardo. “E se volessi davvero essere cordiale, per una volta?” disse piano.
“Perché?” chiese Chris, non riuscendo a mitigare il tono esasperato della sua domanda. Avrebbe quasi voluto pregarlo di ricominciare a chiamarla sanguesporco e offese varie.
“Perché,” incominciò a spiegare, facendo cadere l’occhio sull’avambraccio di lei, “certe cose- .” Sembrava avere parecchia difficoltà a finire la frase. Scosse la testa, e passò una mano tra i capelli, fermandola tra i riccioli scuri. “So che cosa vuol dire sentirsi impotenti di fronte a cose più grandi di noi. So che cosa vuol dire passare il limite e perdere il controllo e non avere idea di… So cosa vuol dire temere di non essere più se stess-”
“Non sai quello che dici,” lo interruppe, “non ne hai neppure la minima idea.” Svegliarsi da un incubo così reale credendo di essere Il Signore Oscuro. No, Damian Blackwood non conosceva neanche l’abc di quel casino che era la sua mente. “Torna dalla Selwyn e da tutte le altre che ti fanno gli occhi dolci. Io non ti piaccio davvero. Sono un gioco, una scommessa. Ti piace questa strana, malata idea che hai di me. Io non sono come te, non voglio essere come te. E non era così anche per te? Non sono una sporca babbana? Sai quelle cazzate che ti hanno insegnato da bambino, quella roba che siamo inferiori, non degni neanche di pulir-”
“Basta,” le impedì di continuare con un solo sibilo. “Tu, Potter, la McGranitt tutta quella branca di esaltati dei Grifondoro, siete sempre così sicuri di essere dalla parte giusta. Dalla parte del ‘bene’,” mimò le virgolette, il tono pieno di sarcasmo e rabbia. “E sai che c’è, Granger? Non è questo cravattino che decide da che parte stai, non sono i tuoi genitori, né tantomeno i tuoi amici. Sei tu, le scelte che fai. E non sempre si fanno le scelte giuste nella vita, non sempre si è giusti e onesti e puri, e non sempre si è disonesti, corrotti o crudeli. E mi dispiace,” sputò. C’era qualcosa nei suoi occhi azzurri, come se fosse ferito. “ Mi dispiace se l’idea di essere simile a me ti fa così tanta paura, ma io e te siamo i campioni delle decisioni sbagliate.” Si tirò su dal tavolo. “Volevo solo darti la possibilità di non affrontarne le conseguenze da sola.”
Prima che andasse via Chris gli afferrò il braccio. “Resta.” Damian si voltò e la osservò attento, aspettava una spiegazione. “Io no-, è tutto così strano e complicato e tu, tu non sei propriamente chiaro e lineare con me,” tentò di elaborare lei. Prima la guardava con disprezzo, poi con desiderio, un po’ minaccioso, un po’ gentile, un po’ arrogante, un po’ delicato, chiuso e poi sincero.
“Chiaro e lineare? Tu sei bipolare quando sei con me,” si difese lui, decidendo di riposare i libri sul banco. Chris non gli aveva ancora lasciato il braccio. Alla sua occhiata, lei lo strattonò per indicargli di risedersi. “Vedi.”
“Jones e Smith ci uccideranno,” mormorò lei, rivolta ai ragazzini Corvonero che stavano studiando più in là, li stavano fissando così forte da avere gli occhi fuori dalle orbite. “Scusate,” mimò con le labbra.
Blackwood aveva iniziato a sfogliare uno dei libri che si era portato dietro, e senza guardarla iniziò a mormorare. “Non ero venuto qui per litigare. È che avevo trovato una cosa,” finalmente si girò verso Chris che ora lo guardava perplessa, “una cosa che ti riguarda.” Indicò il collo di Chris, poi glielo sfiorò piano. Parlava della maledizione di Spartaco. “Non ho mai capito come fosse possibile,” si inumidì le labbra, fissando il punto in cui sarebbero potuti ricomparire i tagli. Chris si sentì arrossire sotto quello sguardo diretto, ricordò come le sue labbra l’avevano contemporaneamente assalita e accarezzata l’ultima volta che la ferita era comparsa.
“Possibile che tu sia così ossessionato dal mio collo?” A Chris parve di scorgere un movimento d’imbarazzo nello sguardo di Damian, ma passò subito.
“Possibile che tu non ti sia mai chiesta a cosa fosse dovuto? Non sei curiosa neanche un po’? È magia antica. Ti nasce una ferita sul collo ogni volta che qualcuno ti chiama sang- quella parola, e tu non fai fuoco e fiamme per scoprire come mai?”
“Non ho bisogno di fare fuoco e fiamme. È solo una conseguenza della guerra e della posizione che mia sorella ha scelto di occupare. È stata maled-“
 “Exsecratio Perpetua. Lo sapevo,” la interruppe, con un sorrisetto di soddisfazione.
“Non c’è niente da esultare, Blackwood,” rinfacciò Chris, lanciandogli un’occhiataccia. “Sei sveglio, sai che novità?”
“No, ma vedi, non ero convinto del tutto perché… ho fatto le mie ricerche e c’è qualcosa che non torna. Quello che non riesco a capire è come mai la maledizione si sia trasferita su di te. A meno che - , e d’altronde, la cosina che hai fatto per tua madre non è che abbia funzionato molto… per favore non farmelo dire ad alta voce. Sei sveglia anche tu.” Blackwood le passò il libro che aveva portato con sé. Chris scorse un attimo lo sguardo sulla descrizione della maledizione. Era un libro di storia magica antica, con fonti che si rifacevano a Tito Livio e all’età augustea, Blackwood sapeva davvero come fare le sue ricerche. Quando lei non proferì parola, Damian continuò. “Vedi, la Maledizione di Spartaco serviva a ghettizzare gli schiavi e i figli degli schiavi. Colpisce in maniera verticale e non orizzontale, come potrebbe colpire in maniera orizzontale?”
Chris rimase a bocca aperta. Non sapeva cosa rispondere, era l’idea più assurda che avesse mai sentito. Poi scoppiò a ridere. Blackwood sembrava tanto intelligente, ma c’era qualche ingranaggio in quella sua bella testolina che non lavorava granché. “Hai davvero pensato un sacco a questa cosa. Tu sei fuori di testa. È una maledizione antica, nessuno ne conosce tutte le ramificazioni, Blackwood. Non sappiamo davvero come funziona e nessuno, credimi, ha voglia di indagare.”
“Questa è la tua spiegazione? E ti convince? Potresti aver ragione,” le concesse a malincuore. Sul suo viso restavano ancora i segni della perplessità. “Ma ti convince sul serio?”
“Devo andare.” Chris si tirò in piedi, sentendo l’impellente bisogno di correre a lezione. Una lezione che non sarebbe iniziata prima di due ore. “C’è il corso speciale di Difesa, oggi.”
 

 



Note: Qualcuno mi aveva chiesto che fine avesse fatto Chriseys. Spero che vi abbia fatto piacere ritrovarla insieme alle sue solite ossessioni e al Caposcuola più impiccione e irritante che ci sia. ;)
Vorrei approfittare di questo spazio, stavolta, per ringraziare tutti voi che seguite la storia con interesse e costanza. Talvolta, ho la sensazione di non esternare abbastanza il piacere che mi danno e la crescita che mi permettono di fare i commenti di tutti voi.
 
Grazie.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 27
*** Capitolo 24 - Giocare alla guerra ***


Capitolo 24
Giocare alla guerra
Bacchetta, cartella, mantello e tanta pazienza. Harry si curò di raccogliere tutto il necessario prima di correre verso il punto di incontro. Si era addormentato sulla scrivania mentre correggeva i compiti sulle tecniche base di protezione dei ragazzi del secondo anno: mano sotto la guancia e punta della piuma sul naso.
La sera prima aveva tardato alla Testa di Porco in compagnia di Ron e di un paio di calici di Whiskey Incendiario. I due amici avevano bisogno di parlarsi guardandosi negli occhi.
Ron si era impossessato del pugnale di Bellatrix Lestrange con la leggerezza e l’arroganza della sua posizione di capitano del corpo Auror; lo facevano tutti d’altronde, lo aveva fatto anche lui. Quando Hermione lo aveva posto di fronte al proprio errore, aveva fatto finta di non sentire per acquietare il senso di colpa. Sapeva bene quanto fosse stato sciocco e avventato, quella che aveva rubato non era affatto una lama qualsiasi, ma per ammetterlo ad alta voce aveva avuto bisogno di un po’ di tempo in più.
“Le cose stanno cambiando, Harry. E tu sei l’ultima persona con cui dovrei parlarne, ma si sta allontanando. E io non so cosa fare,” gli aveva confessato a fine serata.
Harry non aveva saputo cosa rispondergli. Gli aveva offerto un altro bicchiere e lo aveva visto mentre annegava i suoi sensi di colpa e la sua confusione nel doppio-malto ambrato del Blishen's.
Alla fine si erano ritirati ben oltre l’ora della buonanotte di Lily e Hugo.
E adesso era in ritardo. Responsabile e ligio al dovere. Sempre responsabile e ligio al dovere, vero, professor Potter? Si precipitò, sbagliando un paio di rampe di scale, verso il capanno di Hagrid, il punto d’incontro con i ragazzi del sesto anno era dietro l’orto delle zucche. Sarebbe dovuto arrivare un po’ prima per controllare il perimetro, assicurandosi che non ci fosse qualche bizzarro pericolo per i ragazzi – tipo l’ultimo cucciolo di Hagrid; un Erumpent di neanche tre mesi, presente di Luna da uno dei suoi viaggi in Africa.
Aveva organizzato questo ciclo di lezioni all’aperto per simulare un tipo di duello più vicino alla realtà. La parola chiave era ‘simulare’ non ‘realtà’, non c’era affatto bisogno che i suoi sedicenni fossero costretti ad affrontare un piccolo rinoceronte magico.
Per sua fortuna, quando raggiunse il punto d’incontro il numero di studenti presenti era ancora ridotto, c’era solo Sybil Joyce che chiacchierava con un paio di Tassorosso. Salutò i ragazzi e mormorò un “Goruch site”, uno dei primi incantesimi che insegnavano in Accademia. L’incanto si espanse per un’area di circa duecento metri, senza rimbalzare su alcuna entità magica, era ancora il mezzo più sicuro per dare il cessato allarme. Restava solo un’ultima accortezza: si recò sul lato ovest, in prossimità delle zuccone di Hagrid, dove il territorio di giurisdizione hogwartiana confinava con la Foresta, per lanciare un paio di incantesimi di isolamento. Si fermò giusto in tempo, prima di bloccare due ignari studenti in quella parte di Foresta per un paio di ore, tra gli abeti c’era qualcuno che litigava vigorosamente e Harry non ebbe difficoltà a riconoscere le voci. Chris e Teddy avevano quindi ricominciato a parlarsi? A modo loro, ovviamente.
“-trascinarmi di qua e di là?” A Harry sfuggì la prima parte della frase che Chris stava urlando contro Ted, ma non era difficile da indovinare. Si avvicinò con l’intenzione di riportarli in mezzo alle zucche e ai loro compagni di classe, ma nessuno dei due si accorse della sua presenza. Ted stringeva il polso di Chris e non sembrava avere intenzione di lasciarlo andare nonostante i ripetuti strattoni di lei.
“Dobbiamo parlare,” chiarì Ted, sguardo fisso e mascella serrata.
Adesso dobbiamo parlare?” Nonostante la distanza, Harry ebbe la percezione che Chris alzasse gli occhi al cielo. “E lasciami il braccio!” insisté, convincendo Teddy ad allentare la presa.
Chris strinse le braccia contro il petto, in segno di stizza e sfida. Cosa avevano combinato quei due da essere ridotti a strascinarsi nella Foresta Proibita per poter parlare?
“Questa cosa è ridicola,” iniziò Ted, con un filo di imbarazzo nel tono. Harry avrebbe voluto interromperli, avrebbe dovuto interromperli, ma, come tante altre volte gli era successo, il bisogno di sapere dove quella conversazione sarebbe andata a parare fu più forte, e scelse di non palesarsi. “Passiamo settimane senza parlarci e non mi piace questo tira e molla, quando non ci sei, mi manchi,” continuò Ted, si era avvicinato e stava accarezzando la spalla di Chris cercando di ottenere un po’ di empatia da parte della ragazza, ma lei scelse semplicemente di abbassare lo sguardo e scostarsi. “E poi te ne vai in giro con Damian Blackwood. Sì, questa cosa è assolutamente ridicola,” concluse Teddy, ritornando a usare un tono piccato.
Chris e Blackwood? A Harry parve di aver perso qualche passaggio in tutta quella situazione. Chris e Blackwood non era un pensiero che gli piaceva intrattenere, quel ragazzo era ambiguo, e per Chris non era il momento giusto per sperimentare con i ragazzi. Forse tra un paio di anni. O una ventina.
“Cos-, che fai? Mi spii?” domandò Chris, nuovamente infervorata. Scostò infastidita la ciocca di capelli che il vento le aveva portato sugli occhi e Harry credette di vederla resistere all’impulso di spintonare Ted. “Stai usando la Mappa per tenermi d’occhio. E non provi nemmeno a scusarti?”
“Chris, non mi fido di Blackwood e non dovresti neanche tu.” Su questo, Harry non aveva nulla da obiettare.
“Da quando sono di nuovo fatti tuoi, Ted? Perché da quel che ricordi, non sono stata io ad alzare i tacchi e scappare via dopo ch-,” Chris morse sulla lingua la fine di quel discorso, stringendosi nelle spalle. Harry dovette resistere all’impulso di correre ad abbracciarla. Era arrabbiata, era furiosa con Ted econ buona probabilità anche con il resto del mondo, ma agli occhi di Harry appariva anche tanto piccola e vulnerabile. Poi parve ricomporsi, fissando di nuovo lo guardo su Ted. “Damian è-, lui mi sta aiutando con … una ricerca.”
“Una ricerca? Si dice così adesso?” domandò Ted indignato. Non riusciva a stare fermo un momento: le gambe tremolanti d’anticipazione e fastidio, le mani tra i capelli, nelle tasche, tra i bottoni del mantello. Harry lo vide abbassare il capo e ritirare la mano che sembrava nuovamente voler accarezzare la ragazza. “Chris, sono preoccupato per te. Blackwood è quello che ti chiama sang- in quel modo, per soddisfare la sua curiosità e i suoi giochetti sadici… non vorrei che a furia di giocare col fuoco finissi per rimanere scottata.”
“Oh, Teddy, dici sul serio? Parli proprio tu?” rispose Chris. A Harry non era mai piaciuto prendere parte nelle discussioni tra i due ragazzi. Non che fossero mai state molte prima dell’estate precedente, solo sciocche questioni, piccole gelosie. Adesso invece il tono di Chris sembrava implicare qualcosa di diverso, più profondo; come se quello di cui ora accusava Teddy l’avesse ferita irrimediabilmente. “Sai benissimo che sono già stata bruciata. E non è stato Damian ad accendere il fuoco,” concluse lei, fissando Ted negli occhi. Poi distolse lo sguardo e iniziò a dirigersi verso Hogwarts, e lo vide, “Harry,” disse sorpresa. Aveva gli occhi lucidi.
Harry le si accostò, incapace a trattenersi dallo sfiorarle i capelli. “Cosa succede?”
Chris strinse gli occhi e gli afferrò la mano, con l’intenzione di toglierla da lì. “Nulla. Assolutamente nulla,” gli offrì un mezzo sorriso e lo lasciò indietro, dirigendosi verso la scuola.
Teddy seguì Chris e quando incrociò lo sguardo di Harry si limitò a far spallucce, il viso contratto in un’espressione di rassegnata irritazione.
Tutte le domande che Harry avrebbe dovuto porgergli, tutte le parole di conforto e i tentativi di mediazione, erano scomparsi. “Stiamo per iniziare,” disse semplicemente.
 
*
 
Chris si diresse verso il gruppetto dei suoi compagni di classe che si era formato nei pressi dell’orto delle zucche. Ci mancava solo Harry ora, Harry con i suoi occhi verdi e grandi che volevano spiegazioni. Quali spiegazioni aveva? Nessuna. Teddy è un cretino. E averlo vicino fa male quasi quanto averlo lontano.
“Chrissie, non hai una bella cera. Cosa è successo con Teddy? Avete litigato ancora? Sapevo che non avrei dovuto lasciarti andare, cosa ha fatto? Vuoi che tiri fuori quella cosa che dicevamo? William mi ha detto che un suo cugino una volta ci è riuscito. E non ci servirebbe neppure usare la magia, quindi non violeremmo nessuna regola della scuola. Almeno credo.”
Chris ignorò la cascata di parole di Sybil, preferendo sedersi su una delle zucche di Hagrid più prominenti. Voleva tenere lontano tutto e tutti. Stupido, stupido mondo e stupida gente. Perché volevano entrare nella sua testa e confonderle le idee? E Blackwood con le sue folli idee e la sua nuova gentilezza senza apparente motivo, e Teddy che spariva e poi tornava e poi diventava geloso e protettivo e poi tornava da Blondie, e aveva rovinato l’unica cosa buona che le era accaduta negli ultimi mesi, e la cicatrice sul braccio che bruciava ancora e si muoveva ancora, e la mamma che non c’era e non c’era. E Harry con i suoi grandi occhi verdi e preoccupati e le sue braccia forti. Perché non la stringeva e proteggeva tra quelle sue braccia forti?
“Bene, ragazzi, vedo che ci siamo tutti, possiamo anche iniziare.”
Eccolo, al centro del prato, circondato da Tassorosso e Grifondoro impazienti di tuffarsi in una sfida all’ultimo incantesimo; eccolo, l’eroe per caso, con il sorriso sghembo e gli occhi tristi da orfano, l’uomo sincero e leale, il professore che tutti ammirano, giusto, onesto e divertente.
Sempre così buono, Harry Potter.
“Chris, sei sicura di stare bene? Andiamo in Dormitorio?” sentì appena l’offerta di Sybil. Si limitò a scuotere la testa, dopo l’ennesima discussione con Ted, non era disposta a perdere neanche un secondo di quello scontro. Magari sarebbe anche riuscita a sfogare in parte la rabbia e a dimenticare un po’ di tutto.
 “Allora, due squadre,” iniziò Harry a spiegare, “Grifondoro contro Tassorosso. Vi lascio un’ultima chance per approvare le formazioni miste. No, eh? Io ci ho provato. Avete a disposizione il perimetro che va dal limitare della Foresta alla capanna di Hagrid, al giardino dei Caduti. L’obiettivo è disarmare gli avversari. Potete usare tutti gli incanti e controincanti che abbiamo studiato finora. L’utilizzo di incantesimi non presenti nel vostro percorso studi sarà severamente punito, non fate scherzi. E… che vinca la squadra migliore,” concluse, guardando negli occhi i ragazzi uno per uno, anche Chris alla fine. Stai bene?, le chiese muto muovendo solo le labbra quando le si rivolse, lei scelse semplicemente di annuire, poi lui continuò sempre mimando Fai la brava, facendole l’occhiolino.
Chris non seppe evitare di alzare gli occhi al cielo, ma fu trascinata via da Sybil che la tirava per una spalla, “Perché siamo nascosti dietro una zucca?”
William MacDonald stava cercando di riunire i Grifondoro per fare strategia di squadra, un’idea che in linea di principio non aveva nulla di sbagliato. Peccato che la sua grande tattica vincente fosse: nascondiamoci dietro le zucche e poi pietrifichiamoli tutti.
Chris non avrebbe puntato un centesimo sulla riuscita di quella strategia, ma, ad esser onesti, non stava ponendo molta attenzione alla discussione, tutto quello che riusciva a focalizzare era la testa blu di Ted, che ascoltava il blaterare dei suoi compagni di casa. Pensava davvero di avere qualche diritto di parola su chi o cosa lei volesse frequentare? Pensava davvero di poter uscire ed entrare dalla sua vita come se nulla fosse accaduto? Il suo migliore amico, proprio quando aveva più bisogno di una spalla su cui appoggiarsi, era scappato via. Lei gli aveva aperto il suo cuore e lui era scappato via.
Un luccichio blu colpì il picciolo della zucca dietro di loro, facendo esplodere la polpa e i semi addosso a Elise e Sybil.
“Ouch!” Sybil rispose all’attacco con un Rictumsempra ai danni dell’assalitore.
Presto il prato si colorò di numerosi fiotti di luce variegata. Chris si ritrovò senza accorgersene ad attaccare e proteggersi con un certo compiacimento. Micheal Coleman si era impuntato su di lei, continuava a lanciare fatture inutili che rimbalzavano sullo scudo di protezione che Chris stava mantenendo attivo senza grossi problemi. Era brava in questo tipo di cose. Era semplice duellare con le bacchette, molto più facile che dare di scherma, era quasi naturale. Le serviva solo mantenere la concentrazione. Quando si sarebbe stancato lo avrebbe colpito senza sforzo.
Con la coda dell’occhio, vide Ted che, dopo aver duellato con Susy Sprite avendo facilmente la meglio, si dirigeva a passo svelto verso Harry. Il professore gironzolava con la sua cartellina in mano e osservava con apprensione ogni angolo del campo di battaglia, aveva già recuperato tre bacchette di altrettanti studenti che erano stati disarmati e quindi finiti fuori dai giochi. Ted gli gettò in mano la bacchetta che aveva conquistato a Susy e gli si rivolse quasi urlando, il tono secco e duro: “Adesso, giochiamo a fare la guerra, professor Potter?”
Pensi a mamma e papà, eh, Teddy?
Chris decise di averne avuto abbastanza di Coleman, annullò l’incantesimo di Protezione e disarmò il ragazzo senza che lui avesse tempo di controbattere. “Scusa, Micheal,” disse, per niente dispiaciuta mentre prendeva possesso della sua bacchetta. Micheal Coleman, stabilì Chris, era fin troppo lento di riflessi per essere un buon duellante.
Lanciò la bacchetta di Coleman a Harry, interrompendo di fatto la sua discussione con Ted. Chris si accorse solo in quel momento che Teddy stava per cedere volontariamente la sua bacchetta. Si stava arrendendo.
“Non puoi mollare, Ted,” gli urlò, maturando dentro sé il coraggio di fare quello che, forse, avrebbe voluto fare fin dall’inizio di quella sciocca esercitazione. Magari così avrebbero finalmente scaricato tutte le loro frustrazioni l’uno sull’altra. “Non ancora perlomeno.”
Perché non mostriamo al piccolo Teddy come si fa la guerra?
 “Chris,” Harry avvisò, posando istintivamente braccia e cartellina tra i due ragazzi.
“Chris, non ho nessuna intenzione di duellare con te.” Ted voltò le spalle ad entrambi e fece per andare via, verso il gruppo di ragazzi che ormai ridacchiava a lato del perimetro.
“Scappa Teddy, corri sempre via. È così facile andare via quando c’è qualcosa che non capisci, non è così?” Sempre a correre via, Teddy Lupin. Via dalle proprie azioni, via dalle cose difficili da capire. Anche quel po’ che sapeva del turbinio di pensieri e paure che era il cervello di Chris lo faceva correre via. Era davvero così vile? Non era neanche capace di fermarsi un attimo. “Aguamenti,” gridò Chris.
Il getto d’acqua che fuoriuscì dalla sua bacchetta fu sufficiente per infradiciare sia la cartellina di Harry sia la figura di Ted che si allontanava. Ted si rigirò di scatto verso di lei. Finalmente una reazione. Con una mano scostò i capelli che gli erano finiti sugli occhi e con l’altra stringeva forte la bacchetta, che alla fine non aveva affatto ceduto a Harry.
“Non ho intenzione di duellare con te, Chris!” ripeté. Aveva di nuovo gli occhi scuri. Solo una volta, lo aveva visto trasformare i suoi occhi in quel nero profondo.
Depulso.” Chris rispose con lo Schiantesimo più innocente che conosceva, Ted ribatté deviando l’incantesimo verso un’altra povera zucca. “Davvero non vuoi combattere, Teddy?” chiese lei. Quello sguardo non era di certo dei più pacifici.
Expelliarmus.”
Credeva davvero di farla finita così facilmente? Chris non si lasciò prendere di sorpresa e rinsaldò la presa sulla bacchetta. “Questo è l’incantesimo di Harry, non si fa!”
Ted a quel punto appellò un gruppo di foglie che Hagrid doveva aver raccolto per il suo Erumpent, e gliele oppugnò contro. “Dammi quella bacchetta, Chris!” Un’infinità di foglie puzzolenti le si catapultò addosso, facendola quasi rovinare a terra. Questo non l’aveva previsto.
“Chris, Teddy!” I richiami di Harry si stavano facendo sempre più insistenti, ma Chris decise di ignorarli. Adesso che Ted aveva deciso di ballare, niente l’avrebbe fermata.
 “Questa era bella, Teddy!”
“Chris, fagli vedere cosa sai fare!”
“Accidenti, questi due sono proprio idioti.”
Chris sentì le urla provenire da una parte e dall’altra, probabilmente i ragazzi che ancora erano impegnati a gareggiare erano stati distratti dal loro piccolo battibecco. Il campo di allenamento era diventato più confuso di un giardino infestato da gnomi.
Harry cercò invano di riportare un po’ di ordine, “Ragazzi, tornate alla vostra esercitazione. E voi due, smettetela,” si rivolse ad entrambi, ma Chris sapeva che, così come lei, neanche Ted era pronto ad ascoltarlo.
Si sentì sbalzare all’indietro, Harry aveva lanciato uno scudo di protezione che la divideva e allontanava da Teddy e dalla loro sfida. “Smettetela.”
“Qualsiasi cosa tu abbia deciso di credere, lo sai, devi saperlo che non avrei mai voluto farti del male di proposito,” disse Ted, abbassando il tono e la bacchetta. “Sei la mia migliore amica.”
Quante belle parole sapeva usare Teddy. Quante belle promesse. A Chris però le parole non bastavano più. Gli amici non si comportano come Ted. Gli amici restano anche quando hanno paura. Gli amici parlano e provano a risolvere i problemi. Gli amici si prendono cura l’uno dell’altro. Non a intervalli irregolari. Ma sempre, il più possibile. Gli amici non ti mandano via quando non sanno come capirti. Ci provano, a capirti.
Stringi. Tanto lui non capisce.
Lo scudo che li divideva scomparve non appena Chris rinsaldò la presa sulla bacchetta. Non era la prima volta che riusciva a fare qualcosa che andava oltre le sue capacità, persino oltre quelle che credeva fossero le sue volontà. C’era un Marchio Nero in fieri sul suo braccio, c’era una lista infinita di scelte sbagliate, come diceva Blackwood, e c’era la segreta convinzione di avere qualcosa di diverso lì nella testa, qualcosa che le suggeriva le mosse e la guidava.
“Quale amico ti lascia quando più hai bisogno di lui?”
Non capirà mai.
L’incantesimo Incarceramus partì prima ancora che riuscisse a pronunciare la formula per intero. Le corde si avvolsero rapidamente sul corpo di Ted, sempre più feroci, sempre più strette. Intorno al busto, alle braccia, fino a farlo cadere in ginocchio. Fino a serrargli la gola.
Stringi. Stringi. Non ti merita.
 
*
 
Diffindo!” L’incantesimo di Harry si infranse contro le corde che stringevano il corpo di Teddy, inerme, a terra. “Perché diamine non funziona, Chris?” Chris sentì finalmente la voce di Harry chiamarla, Harry con i suoi occhi grandi, verdi e preoccupati.
Enodo,” mormorò, sciogliendosi in ginocchio sul terreno, insieme alle funi che legavano Teddy.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 28
*** Capitolo 25 - Conseguenze ***


Capitolo 25
Conseguenze
Madama Chips che si muoveva avanti e indietro, da una parte all’altra, il professor Hartfield con l’occhio stanco e severo che se ne stava appoggiato al muro, Victoire che le era volata accanto come una piccola fata in apprensione. E la signora Tonks, dov’era la signora Tonks?
Chris rimaneva immobile di fronte alle porte dell’Infermeria, mentre tutti correvano così tanto.
“La preside vuole vederti.” Harry le posò una mano sulla spalla. La sentì appena. Lui non correva. Chris annuì, incapace di comprendere appieno. Cosa aveva fatto?
Lo seguì senza dire una parola, senza soffermarsi sul suo sguardo confuso e deluso, senza indugiare sui suoi silenzi, senza pensare a chi stava riposando in Infermeria e perché. Che cosa aveva fatto?
La preside li attendeva nel suo studio, in cima alla torre, osservava con attenzione le montagne distanti che la vetrata le mostrava, nel silenzio più totale. Nessuno tra i quadri di solito chiacchieroni sembrava intenzionato a proferire parola.
“Venite, accomodatevi,” li invitò ad avvicinarsi, alzando quasi impercettibilmente lo sguardo sopra i suoi occhiali squadrati. “Sedetevi pure,” disse, mentre lei prendeva posto nella sua poltrona.
Chris sentiva di non avere più volontà propria: muoveva i piedi, alzava lo sguardo, annuiva così come le veniva chiesto. Che fine aveva fatto tutta la rabbia di qualche ora prima? Tutta quella voglia di correre, di capire, di prendersela con Ted e con il mondo? Fissò lo sguardo sulla lampada ad olio a testa di drago sulla scrivania della preside.
“Come sono le condizioni del signor Lupin?”
“Sta bene,” rispose Harry. “Deve solo riposare.”
Chris tirò un sospiro di sollievo che non sapeva di stare trattenendo. Da quanto tempo? Harry le si rivolse per la prima volta da quando si erano allontanati dalle porte dell’Infermeria. “Nessuno me l’ha detto,” bisbigliò, abbassando lo sguardo. Neanche lei riusciva a guardarlo negli occhi.
“Chriseys,” incominciò la professoressa, “potresti spiegarmi per bene quello che è accaduto?”
“Credo.”
“Credi?” Harry parve quasi saltar sulla sedia. “Chris, l’incantesimo Incarceramus, per quanto antipatico, non dovrebbe avere certi effetti.” Sembrava arrabbiato, e stupito, e teso, e confuso, e arrabbiato.
Chris si rivolse alla preside, ignorando l’interruzione di Harry. Cosa si aspettava dicesse? “Professoressa, cr-, credo di aver quasi strozzato a morte una delle persone più im-”. Vide Harry sciogliersi sulla sedia. Aveva di nuovo i suoi occhi grandi, verdi e preoccupati puntati su di lei. Chris si ritrovò a desiderare che non la guardasse mai più così. Aveva ferito Ted e aveva deluso Harry. Cosa aveva fatto? “No, non sono sicura di saper rispondere a questa domanda. Mi dispiace.”
“Chriseys, quello che è accaduto, questo… incidente, non ci metterà molto ad uscire dalle mura del castello. I tuoi compagni, i loro genitori, vorranno capire cosa è successo, vorranno sapere perché è così facile per i loro figli ferirsi vicendevolmente. Non voglio insultare l’intelligenza dei presenti chiedendoti perché tu conosca determinati incantesimi ma il Consiglio dei Genitori vorrà indagare e non posso escludere conseguenze per te o per Har-, il professor Potter.” Con una certa apprensione, Chris notò l’occhiata severa che la professoressa McGranitt rivolse a Harry, sembrava quasi che gli stesse imputando la colpa dell’accaduto.
“Ma Harry non c’entra niente!” la interruppe. Perché dovevano esserci conseguenze per Harry? Era lei che si era rifiutata di ascoltarlo, era lei che si era buttata su Ted con tutto il malessere represso degli ultimi mesi, era lei che aveva… “È solo colpa mia,” concluse quel corso di pensieri. Un altro bisbiglio sussurrato controvoglia. Strinse i denti sul labbro, cercando di contenere le lacrime. Lacrime sciocche e inutili.  Aveva quasi ucciso Teddy. Cosa c’era da piangere ora? Stupide lacrime di coccodrillo.
Sentì le dita di Harry intrecciarsi con le sue e stringerle forte la mano. “Non credo sia così s-,” iniziò lui, ma Chris non poteva permettergli di continuare.
“Sono stata io a cercare lo scontro con Ted, io ho insistito e l’ho provocato, io ho volutamente ignorato i tuoi richiami, ed ero io che volevo fargl-” Male. “Volevo,” deglutì, incapace di dare voce ai suoi pensieri. Lo aveva attaccato. Con l’intenzione di sfogare quella parte di lei che bramava il piacere di uno scontro. Con l’intenzione di fargli capire cosa provava lei, in continuazione, - tutto quel dolore - con l’intenzione di vederlo soffrire. “È colpa mia.”
La bocca del drago della lampada ad olio sulla scrivania lanciò uno sbuffo di fuoco ed esplose, spegnendosi di fatto, sotto lo sguardo incandescente di Chris. Harry incominciò a chiedere: “Chris, dov’è la tua bacchetta?” Ci mancava solo la lampada ad olio che scoppiettava.
Chris si rivolse quindi alla preside, scuotendo la testa. Non aveva spiegazioni neanche questa volta, ma alla professoressa non era quello che interessava, aveva alzato due dita, intimando a Harry di non parlare, osservava Chris con l’aria grave di chi cerca di ritrovare il bandolo di una matassa incredibilmente complicata. “Non preoccuparti di questa vecchia lampada, Chriseys. Quel che voglio capire è perché? Si tratta di Teddy,” disse solo il nome. Senza apposizioni, senza attributi. Era Teddy, il Teddy che saltellava sempre accanto a lei e le faceva le boccacce.
“Noi… litighiamo spesso ultimamente. Volevo sfidarlo, sfogarmi; sapevo che non avrebbe resistito molto. Volevo solo vincere il duello, non pensavo che sarebbe andata a finire così, dovevo solo bloccarlo e batterlo. Credo d-, di… ho perso il controllo.” Di nuovo. Come con Victoire. Come a Füssen. Come quando cercava una soluzione alla morte dove soluzione non si può trovare. “Come quando non riesco a controllare la mente. Come se ci fosse qualcosa dentro di me che non so tenere a bada.” Forse quella stella sul polso, quel Marchio Nero, dicevano di più di lei di quanto fosse disposta ad ammettere ad alta voce. Non so più chi sono.
“È successo anche altre volte, quindi. Chriseys, avresti dovuto avvertire me o il professor Potter, o uno degli altri professori. Magia senza controllo, sarebbe potuta finire peggio.”
“Chrissie,” la chiamò Harry, con due dita le alzò il mento per invitarla a guardarlo in faccia. “Dopo la mo-, dopo quello che è successo quest’estate, non è così strano che la tua magia ne risenta.”
“Spero tu capisca che questo non giustifica le tue azioni,” spiegò la McGranitt. Chris scostò la mano di Harry e si rivolse verso la professoressa, annuì piano. Nessuno capiva più di lei l’impossibilità di una qualsiasi giustificazione. “Sono sicura,” continuò la professoressa, “tu abbia realizzato la gravità della situazione, ma non posso permettere che una tale insubordinazione delle regole scolastiche passi impunita, capisci?” Chris annuì ancora, perché non la puniva e basta senza fare tutti questi giri di parole. “Ma non ho ancora deciso come procedere, preferirei parlare con tua sorella, prima. Al contempo però gradirei dare un’occhiata alla tua bacchetta.”
 “Vuole sequestrarmi la bacchetta?”
 
*
 
La gravità della situazione aveva colpito Hermione come un bolide fuori dal campo da Quidditch non appena aveva trovato il gufo reale di Minerva McGranitt ad attenderla all’uscita della sala udienze del Wizengamot. Il pensiero corse immediatamente a Chris e a Harry. Il messaggio che strappò dalle zampe del gufo non fece nulla per tranquillizzarla. Si precipitò nell’Atrium per raggiungere il prima possibile uno dei focolari che l’avrebbe condotta a Hogwarts.
Anni di esperienza non l’avevano resa immune alla vertigine causata dalle fiamme e dai cambiamenti repentini di camino in camino, ma quando vide le due chimere gemelle sul tappeto persiano tanto amato dalla preside, sbatté piano le palpebre e si accomodò nello studio. Minerva era seduta sulla sua poltrona, dietro la scrivania, teneva in mano una lampada ad olio con la testa di drago bruciacchiata, discuteva con Harry, che passeggiava invece avanti e indietro per lo studio, testa china.
“Buonasera,” disse, ritrovandosi il volto sorpreso di Harry a due passi dal viso.
“Sei arrivata,” bisbigliò lui, passandosi una mano tra i capelli che avevano preso il piglio incolto dei suoi migliori anni a Hogwarts.
“Buonasera, Hermione, accomodati pure,” la invitò Minerva, con uno sguardo di scuse per l’atteggiamento maleducato di Harry.
“Potreste spiegarmi bene cosa è successo? Come sta Teddy? Dov’è Chris?” chiese. Erano solo le prime di una miriade di domande con cui la sua mente continuava a bombardarla. E mentre Minerva le raccontava a grandi linee quello che era accaduto quel pomeriggio, i timori e i dubbi si quintuplicarono. I suoi problemi con Ron l’avevano forse distratta dalle lettere di Chris. C’era qualcosa che non aveva capito in quelle lettere? Ma d’altra parte, era da agosto che Chriseys non era più tranquilla come un tempo, e non era difficile capire perché.
“Prima della lezione l’ho beccata a litigare con Ted, ” spiegò Harry, posando una mano sulla sedia di Hermione. “Litigano da settimane ormai. Chris sembrava… così ferita.”
Hermione fece spallucce. “Questa è la parte più facile da capire di tutta questa situazione,” disse, sospirando. Le tornò in mente un stormo di canarini che, qualche anno prima, era finito addosso a Ron per puro caso. Se Chris aveva anche solo un briciolo del suo sangue, quella rabbia repressa nei confronti di Ted non aveva niente di inspiegabile. Peccato che a Harry sembrava sfuggire il collegamento: la stava osservando con quello stesso sguardo confuso che aveva visto così tante volte. “Harry? Sul serio? Sei tu quello che vive con loro ogni giorno. Chris è gelosa. Di Ted e Victoire.”
“Cosa?”
“Chrissie ha una cotta per Ted. Una esorbitante cotta per Ted.”
“Chrissie e Teddy? La mia Chrissie e il mio Teddy? Perché non me l’hai mai detto?”
“Cosa avrei dovuto dirti?”
“Non lo so, qualcosa! Sarei stato più pronto per tutta questa cosa. Non è tipo… incest-”.
Tic. Toc. Tic. Toc. La bacchetta di Minerva girava su e giù tra le dita della preside, sbattendo a cadenza regolare sulla scrivania. Tic. Toc. Il suo sguardo severo e allibito cadeva dritto sui due litiganti, le lenti squadrate una misera protezione contro quell’occhiata mortificante. “Abbiamo finito?” chiese, quando ebbe l’attenzione di entrambi. “Capisco che gran parte della vostra infanzia sia stata rubata da eventi orribili che nessuno vuole rivangare, ma non è questo il momento adatto in cui cercare di recuperarla.”
Hermione aveva dimenticato il potere dei rimproveri della professoressa McGranitt. Stavano davvero discutendo su queste cose quando i due ragazzi in discussione si erano quasi feriti a morte?
“Chriseys sta affrontando la cosa con un atteggiamento molto più maturo del vostro. Era mortificata di aver costretto Ted allo scontro,” concluse Minerva, “Non sono queste gelosie da adolescenti a preoccuparmi, piuttosto dobbiamo trovare il modo di aiutarla ad incanalare meglio la sua magia, di modo che non sbotti così incontrollata. Potrebbe diventare fin troppo pericolosa.”
Chrissie aveva ferito quasi a morte il suo più caro amico, la sua magia era in continua fibrillazione e non riusciva a controllarla, non poteva, perché non aveva il controllo delle sue emozioni. Fin dal giorno in cui avevano dichiarato terminale il cancro della mamma, Chris era cambiata. La sua magia era cambiata. Non le piaceva più. Hermione ricordò quando l’aveva pregata di non mandarla a scuola quell’anno, forse avrebbe dovuto darle retta, permetterle di distanziarsi dal Mondo Magico così come aveva chiesto.
“Fors-,” incominciò Hermione, cercando di esternare i propri pensieri. “Dov’è ora Chris? Vorrei parlarle.”
“Buona fortuna,” disse Harry, “credo sia terrorizzata all’idea di parlare con te,” le spiegò. Hermione dovette girarsi sulla sedia per guardarlo in faccia. Stava dondolando sui propri piedi, esattamente sulle spalle di Hermione.
“Harry, potresti smetterla di starmi addosso come un avvoltoio?”
Iniziava a darle pesantemente sui nervi questa sua incapacità di stare fermo. Gli acciuffò il braccio, spingendolo giù fino a farlo sedere sulla sedia accanto alla sua. “Siediti,” gli intimò, poi continuando a tenere una mano sul suo braccio, si rivolse alla preside. “Lo scorso agosto,” Hermione lasciò che i ricordi di quell’estate le ripiombassero addosso.  “Chris aveva espresso il desiderio di lasciare la scuola, magari, distanziarsi dalla magia potrebbe essere quello che le serve.” Sentì Harry agitarsi sotto la sua mano, e gli strinse il braccio ancora più forte. “Se è quello che vuole.” Harry le lanciò un’occhiataccia, ma lo vide mordersi una risposta sulla lingua, al suo sguardo.
“Dubito che toglierle un’educazione mirata in questo momento possa aiutarla a tenere sotto controllo i suoi poteri magici,” rispose invece Minerva.
“Hermione,” Harry la chiamò, “Chris lancia incantesimi inflamanti senza bacchetta e ha annullato il mio Protego Maxima, senza dire una parola. Non credo proprio che la magia sia intenzionata a distanziarsi da lei.”
“E questo cosa vuol dire? Adesso Chris è tipo un prodigio che è troppo potente anche per il suo stesso bene? ”
“Hermione, Chris è troppo potente, ha sedici anni. Dovrebbe lanciare qualche Fattura Orcovolante, non incantesimi inflamanti.”
“È ridicolo, Harry. Nessuno nasce più potente degli altri. Nemmeno tu-”
“Smettetela, è ovvio che Chriseys sta imbottigliando un’infinità di sensazioni: ha sedici anni e, a tutto quello che comporta quell’età, ha dovuto aggiungere la perdita della persona che più le è stata vicino nella sua vita. E sta soffrendo. Sta soffrendo parecchio. E in un modo o nell’altro sta perdendo il controllo della sua magia, rischiando di ferire gravemente se stessa e chi le sta intorno. Quindi voi due smettetela di fare i bambini, rimboccatevi le maniche e cercate di prendervi cura di vostra figlia, prima che sia troppo tardi.”

Ritorna all'indice


Capitolo 29
*** Capitolo 26 - Notturno - Interludio ***


 

Capitolo 26 
Notturno - Interludio


Un castello delle dimensioni di Hogwarts conosce i peggiori e migliori silenzi. Le voci sulla lezione speciale del professor Potter si erano spente con il calar della sera o, con molta più probabilità, si erano ritirate al caldo delle Sale Comuni. Nei lunghi corridoi, freddi e silenziosi, le poche figure che ancora mormoravano nei quadri si zittivano alla presenza di Chriseys. Adesso era diventata anche motivo di chiacchiera per qualche quadro pettegolo.
Il coprifuoco doveva essere attivo da un po', ma Chris tornava proprio in quel momento dallo studio della preside e peggio di così non sarebbe di certo potuta andare. Forse se avesse girovagato abbastanza si sarebbe persa tra le mura e avrebbe evitato una sicura discussione con Hermione. Forse c'erano abbastanza antri segreti nel castello per farla scomparire per un po'. Se non per sempre.
Ma neanche le sue stesse gambe volevano aiutarla in quell'occasione. Si ritrovò a percorrere androni fin troppo conosciuti, e in un lampo vide comparire la porta dell'Infermeria. Si fermò a contemplare il simbolo di Esculapio intagliate sulle porte: un serpente attorcigliato intorno a una bacchetta. Le ricordava un così diverso marchio.
La mano si mosse ad accarezzare la coda del serpente e a spingere la porta. A cosa sarebbe servito rimandare quella conversazione a quel punto? Se il suo stomaco voleva vedere Teddy non c'era niente che la sua mente avrebbe potuto fare per impedirglielo.
Nel buio dell'Infermeria s'intravedeva una luce proveniente dallo studio di Madama Chips; la porta era socchiusa.
"...zzo sta bene, non si deve preoccupare più del necessario. È in ottime mani."
Madama Chips stava conversando sommessamente con la signora Tonks. Chris ne riuscì a intravedere il viso, le rughe attorno agli occhi accentuate in un'espressione attenta e preoccupata. La signora Tonks non meritava altre preoccupazioni, ne aveva avute fin troppe nella sua lunga vita. A Chris parve che il senso di colpa per quello che aveva combinato quel pomeriggio divenisse d'un tratto fisico, lo sentì quasi acuirsi all'altezza dello sterno, come se qualcuno le avesse lanciato un peso addosso.
"Cosa fai qui?" La voce di Ted chiese roca.
I letti vuoti si distinguevano appena alla luce della luna e della candela che arrivava dallo studio di Madama Chips; Ted era l'unico paziente presente in Infermeria, e Chris si avvicinò piano al suo letto. Non lo vedeva da dopo il loro duello: aveva i capelli spenti in un biondo miele che gli ricadevano sul viso spett e, anche se i due grandi lividi che si incrociavano sul collo non erano del tutto visibili nel chiaroscuro, Chris tremò al pensiero di quanto potessero risaltare alla luce piena del giorno.
"Volevo controllare che stessi bene."
Ted se ne stava seduto su due cuscini, incapace di distendersi completamente. "Sto bene," disse, serio, senza aggiungere altro. Lanciò un'occhiata rapida alla sua destra: con il braccio destro tratteneva Victoire, che si era appisolata sul suo fianco, accucciata come un fagottino di cui lui avrebbe dovuto prendersi cura.
"Non volevo svegliart-vi, solo control-"
"Controllare che stessi bene. Lo hai già detto." Ted si mosse nel letto, stringendo più forte il corpo addormentato di Victoire.
E Chris, ancora una volta, a dispetto anche dell'opinione che aveva di se stessa, desiderò essere quel fagottino tra le braccia di Ted. Aveva bisogno delle braccia di Ted. Aveva bisogno di essere perdonata da lui. Un abbraccio, uno solo, forte, caldo, profumato di miele e pioggia.
Si appressò ancora di più al letto, per accarezzargli la mano sinistra. L'altra mano, quella che non era impegnata a stringere la sua fidanzata.
"Teddy, mi dispiace."
"Lo so." Ted iniziò a giocherellare con le dita della mano di Chris. Un, due, tre; le carezze sul palmo. Il suo valzer quotidiano. "Ne riparliamo poi." Victoire si mosse nel sonno, Teddy lasciò andare la mano di Chris. "È tardi."
"Ted," iniziò Chris. Lo stava invocando. Stava quasi pregando il suo nome. Perché aveva riconosciuto il congedo nel tono di lui.
"Per favore, Chris, ora vai via."
 
*

Quando le informazioni in possesso alle signorine Clarke di Chatterton House raggiunsero l'orecchio di Albus Percival Wulfric Brian Silente era già notte inoltrata sul castello di Hogwarts.
Le signorine che prendevano il tè delle cinque con sempiterna puntualità, sempre tranquille nella loro cornice di acacia, accanto all'aula di Trasfigurazione del secondo piano, avevano bisbigliato l'intera vicenda a Sir Terryn lo Storpio, che, tramite i cacciatori di frodo del settimo quadro a sinistra, aveva riferito il tutto a Wilson il Fornaio.
Secondo la testimonianza delle signorine di Chatterton House, la ragazzina che quel pomeriggio aveva quasi strozzato il prefetto di Tassorosso coi capelli blu se ne era andata in giro per la scuola, ben oltre l'orario del coprifuoco, senza bacchetta e con l'aria depressa. Si era poi rinchiusa nei bagni insieme a quella noiosa di Mirtilla senza più farsi vedere per gran parte della nottata.
" 'E adesso se possibile vorremmo tornare a dormire.' Così hanno detto, professore, e così io vi dico."
Silente ascoltò con l'ombra di un sorriso saputo sulle labbra il resoconto che Wilson gli stava fornendo, con tanto di sventolamento di una bella pagnotta nella mano destra.
Senza mancare di cortesia verso il fornaio chiacchierone, l'ex-preside si congedò dalla sua cornice di fronte alla Sala Grande per ritrovarsi all'interno della gemella nello studio più importante del castello.
Non appena la professoressa McGranitt si chiuse la porta alle spalle, nella tranquillità della sua cornice il professor Piton lanciò un'occhiata significativa verso il quadro che riposava accanto al proprio. "Con una comunicazione interna così efficiente, ci sarebbe da chiedersi quale sia la funzione reale di tutti questi ragazzini che fingono di fare i prefetti."
 
*
 
"Dorme!" Gli occhi sparati dalle orbite di Mirtilla Malcontenta le si pararono davanti non appena entrò nell'atrio dei bagni del secondo piano.
"Si è chiusa là dentro." Il fantasma, dopo esserle saltata addosso, si accomodò su uno dei lavabi, con le braccia conserte e le labbra protese in un sorrisetto contrariato. "È anche più fastidiosa di quanto non fossi tu. E fa più paura."
"Buonasera anche a te, Mirtilla," borbottò Hermione tra i denti. Non per la prima volta, si chiese se l'orribile destino di quella povera ragazza giustificasse il suo atteggiamento nei confronti del resto del mondo. Ma Mirtilla era una fantasma, ed era stata costretta ad avere quindici anni e nessun corpo per sempre. Sii paziente, si impose. Certo, tra tutti gli studenti che erano passati per quei bagni dalla sua morte, Mirtilla doveva proprio ricordarsi di lei? Colpa di una Pozione Polisucco. E di Harry. E della guerra. Ovviamente.
Le scarpe di tela rosse di Chris si intravvedevano da sotto la porta di uno dei bagni. Era vero quello che dicevano quelle impiccione delle signorine Clarke. Chris era andata a nascondersi proprio nel bagno di Mirtilla, dove non andava mai nessuno, forse per imbarazzo o per frustrazione. Hermione mormorò un Alohomora veloce, senza neanche contemplare l'ipotesi che la porta potesse essere aperta, chissà quanto tempo era passato da quando era corsa in quel buco.
Trovò Chris accovacciata a terra, contro il muro, le braccia strette attorno alle gambe, i capelli che le coprivano in parte il viso. Il respiro affannato tradiva un sonno agitato. Hermione si inginocchiò e le spostò una ciocca di capelli via dal viso per poterla osservare meglio. Due solchi tracciati dalle lacrime ormai asciugate le segnavano il volto: doveva essere esausta per essersi addormentata piangendo in una tale posizione. Hermione si ritrovò a scuotere la testa, chiedendosi ancora una volta come fare per capire la sua Bollicina.
"Buonasera, Harry Potter," sentì la voce stridula di Mirtilla cercare di imitare le fusa di un gattino languido quanto più potesse. La sua cotta per Harry peggiorava di anno in anno. "È così raro averti qui."
E chi mai vorrebbe venire qui di propria spontanea volontà? Si ritrovò a pensare. Avrebbe dovuto castigarsi per la cattiveria gratuita, ma aveva la risposta lì davanti ai suoi occhi: Chriseys. Chris che sapeva escogitare tutti i mezzi più assurdi per autopunirsi, che preferiva litigare con Mirtilla Malcontenta e chiudersi in un bagno piuttosto che parlare con lei.
Bollicina, cosa ti succede? Chris era cresciuta così tanto negli ultimi due anni, si credeva adulta e indipendente eppure era così piccola, così bambina, così spaventata e insicura. Era ancora la sua bollicina, sempre la sua bollicina. E lei non era stata capace né di proteggerla, né di guidarla, né di sostenerla. Perché non riusciva mai a fare la cosa giusta con Chris?
La mano di Harry che le si posò sulla spalla la distrasse. "Portiamola fuori di qui," disse lui semplicemente.
Hermione si avvicinò a Chris quel tanto che bastava per sussurrare. Temeva di interrompere quel sonno precario che sembrava essere stato raggiunto con tanta difficoltà. Le accarezzò piano la guancia. "Ehi, bollicina, fatti portare a letto."
Chris reagì al contatto, ma girò il volto dall'altro lato. "Altri cinque minuti, 'Mione," borbottò, chiaramente ancora addormentata.
Hermione condivise un sorriso con Harry: c'era qualcosa di familiare in questa reazione.
"Okay, non preoccuparti, ci penso io."

Ritorna all'indice


Capitolo 30
*** Capitolo 27 - Hurricane ***


Capitolo 27
Hurricane

Bollicina, fatti portare a letto.
Vai via, Chris.
Stringi. Lui non può capire.
Nel buio, le voci si rincorrevano una dietro l’altra, ciascuna declamando il proprio punto di vista, abbandonando Chriseys sola in un angolo, contro il muro, con un martellante battito sulla tempia destra a scandire il ritmo di ogni parola.
Si costrinse a non aprire gli occhi, ma in un attimo le tornò in mente quello che era accaduto il giorno prima. Vai via, ripetevano le voci, vai via. Era come sentire il ticchettio di una bomba echeggiare continuamente nella sua testa: presto sarebbe esplosa. Era così stanca. Perché era così stanca?
Scostò le tende del baldacchino che circondava il letto e si ritrovò a osservare le sue compagne di dormitorio: Elise saltellava da una parte all’altra della stanza, alle prese con un orecchino, mentre Sybil era immersa per metà nel proprio baule, scavando alla ricerca di qualche foulard o camicia perduta.
“Buongiorno, Chris,” le si rivolse Syb, dopo esser risalita a galla trionfante con un paio di occhiali da sole in mano. “Sei uno stracc-.”
Chris a stento riuscì a recepire lo sguardo preoccupato dell’amica. Tu-tu-tum. Sbatteva il martello in testa. Vai via, Chris. Tu-tu-tum. Nessuno ti può capire. Tu-tu-tum. Dovette correre verso il bagno, senza riuscire a trattenere un forte conato di vomito. Vai via, Chris.
Dimmi, Chriseys, saresti capace di uccidere?
Acqua fredda. Aveva bisogno di un po’ di acqua fredda sul viso. Lavare via il caldo, lo sporco. Gettare il martello lontano.
Saresti capace di uccidere per dimostrare di avere ragione?
Posò il capo contro la fresca ceramica del lavabo, cercando disperatamente un po’ di sollievo. Quasi come una preghiera. Per lavare via il caldo, lo sporco e quella voce. Sarebbe stata davvero capace di uccidere?
Saresti capace di uccidere per vendetta?
“Ehi, Chrissie,” si sentì chiamare dall’uscio. “Tutto bene?”
No.
Ma Sybil non si sarebbe accontentata di un semplice diniego. Alzò piano la testa, gli occhi allo specchio, gonfi, stanchi, umidi. Tirò un forte sospiro. Non c’erano più bagni in cui nascondersi. Si rivolse verso Sybil abbozzando il miglior sorriso che riuscì a tirare fuori. “Sto bene, Syb.”
“Sicura? Senza offesa, ma non hai una bella cera. Passiamo da Madama Chips prima d-,”
“No. No, no, no. Niente Madama Chips. Sto bene. Non posso andare in Infermeria,” spiegò, tirandosi in piedi. Si sentì quasi cadere, ma strinse il bordo della vasca per mantenere l’equilibrio, le voci continuavano a parlare. Sybil annuì, non era difficile capire perché non volesse andare in Infermeria. C’era Ted là.
“Forse devi riposare un altro po’. Ieri notte era tardissimo quando il professor Potter ti ha riportato in camera,” chiarì Sybil, col viso corrucciato.
“Harry?” si stupì. Ecco perché non ricordava di essere andata a letto. Era andata da Ted e poi era corsa via. A piangere. Come una bambina terrorizzata, una patetica scusa di essere umano, che corre a piangere in bagno. Da quando era diventata una piagnona? Si sedette sul bordo della vasca, cercando di mantenere l’equilibrio. “Mi ha portato Harry?” chiese ancora.
“Sì, e c’era anche tua sorella,” s’intromise Elise, spuntando tra la porta e Sybil.
Oh, pensò. Anche se non c’era niente da stupirsi. Sapeva che Hermione sarebbe arrivata a Hogwarts per parlare con la professoressa McGranitt. Era da una sicura conversazione con lei che scappava, no? Era inutile rimandare il confronto a quel punto. Doveva solo trovare le energie per vestirsi e prepararsi. Qualsiasi cosa le stesse succedendo, ormai sarebbe stato impossibile affrontarla da sola.
Quando Elise tirò Sybil per un braccio, sussurrandole qualcosa nell’orecchio, Chris ricordò i balletti per la stanza di poco prima. “E voi siete in ritardo per Hogsmeade,”constatò.
Elise annuì con gli occhi spalancati e incoraggianti. Sybil, d’altra parte, continuava ad arricciare il naso perplessa e ad adocchiare Chris tormentata. “Potremmo r-,” iniziò, ma lo sbuffo di Elise la interruppe.
“Non guardarmi così, Syb, per favore. Sto bene. E sono in punizione. Credo.” Di fatto la professoressa McGranitt non aveva detto nulla riguardo Hogsmeade e non aveva preso alcun provvedimento specifico, ma era senza bacchetta e tanto bastava a Chris per autoconsiderarsi in punizione fino a data destinarsi. “Andate pure. Senza pensieri.”
“Grazie,” le mimò Elise con le labbra. Mentre Sybil la salutava, lanciandole un bacetto sulla guancia.
 
*
 
Dovette passare più di una mezz’ora di autoconvincimento prima che Chris trovasse le energie per uscire dal proprio dormitorio. Di solito Harry non restava mai a scuola durante i weekend ma la conversazione con sua sorella non poteva più essere rimandata e il metodo più rapido per contattarla era tramite il professor Potter. Se Harry non fosse stato in ufficio, si sarebbe diretta in Guferia. Hogwarts e la sua repulsione alla tecnologia significavano anche questo.
La Sala Comune era semi deserta. La maggior parte dei suoi compagni di casa non aveva perso l’occasione di trascorrere una giornata fuori dalle mura del castello. Solo qualche bimbetto del primo biennio giocava a Sparaschiocco sul tappeto di fronte al camino, erano piuttosto carini mentre saltellavano dallo spavento per via delle carte che esplodevano. Quando la videro attraversare la Sala però interruppero il gioco, gettando verso di lei qualche occhiata preoccupata.
“Buongiorno?” disse, quasi volesse domandare il permesso di augurare loro una buona giornata. Un paio di ragazzini risposero mormorando, gli altri alternavano l’attenzione tra Chris, le carte e i propri compagni. C’era curiosità nelle loro espressioni e anche un certo timore. Chris realizzò in leggero ritardo: avevano paura di lei. Non seppe bene cosa fare con questa nuova informazione, eppure la sensazione che ne scaturì non era esattamente di dispiacere.
Non incontrò nessun altro per i corridoi: il fine settimana era fatto per l’ozio sfrenato, corridoi e aule non si sposavano bene con questa idea. Persino i quadri avevano deciso che non era più divertente spettegolare su di lei.
Quando arrivò nei pressi dell’ufficio di Harry, si rese conto che la porta era socchiusa. C’erano buone probabilità che Harry avesse deciso di fermarsi a Hogwarts quella notte. Avvicinandosi Chris sentì, infatti, la sua voce ringraziare qualcuno e poi il pop chiaro di una Smaterializzazione. Un elfo probabilmente. Erano gli elfi gli unici che potevano materializzarsi a Hogwarts, vero? Era una di quelle cose tecniche che Hermione amava ripetere, una di quelle cose che non riusciva mai a ricordare con sicurezza. Gli elfi erano creature simpatiche. Strane ma simpatiche. E le aggiustavano sempre il letto. Cosa per cui dovresti essere grata ogni giorno, Chris. Hermione diceva sempre anche questo.
I ciondoli del braccialetto che Chris portava al polso passavano ripetutamente uno per uno tra le dita perquisitori della ragazza.
“Comunque,” Chris sentì con chiarezza Harry schiarirsi la gola. “Ci deve essere un modo per sistemare le cose. Siete insieme da troppo tempo per… Cosa sta succedendo?”
“Per cominciare? Giocava a fare l’eroe con il pugnale di Bellatrix Lestrange. Il pugnale che ha ucciso Dobby, Harry! Perché è così sbadato?”
“Lo so. Ma sta cercando di rimediare, lo ha portato da Malfoy, o mi sbagli-? ”
“Ne abbiamo già parlato. E poi perché ci tieni tanto? Possiamo lasciar stare? Ho solo bisogno di tempo.”
Forse non era il caso di entrare. La discussione sembrava accesa e non poteva di certo contribuirvi lei. Sarebbe stata sua sorella a cercarla, se avesse voluto parlarle, no? Certo, sua sorella l’aveva cercata, e anche a lungo, il giorno prima. Aveva girato tutto il castello probabilmente. E lei si era addormentata, perché è di gran lunga meglio addormentarsi piangendo mentre Mirtilla blatera qualcosa che affrontare faccia a facc-
“Vieni, Chris. Non è il caso di rimuginare davanti una porta.” La voce di Hermione la sorprese al punto da farla quasi saltellare all’indietro.
“Ti si vede da qui,” chiarificò Harry.
Cosa aveva detto Sybil? L’avevano riportata in dormitorio in piena notte. Li aveva costretti a passare la notte a cercarla, era naturale che non avessero avuto modo o energie per tornare a casa. Se Chris avesse avuto bisogno di un'altra scossa al suo senso di colpa, ecco, l’aveva trovata.
Sospirò a fondo e aprì piano la porta socchiusa. La scrivania di Harry era apparecchiata a tavola da pranzo, piena di tutto quel bendidio che di solito si trovava in Sala Grande: uova, bacon, croissant, tè, caffè e succhi di ogni genere. Harry stava addentando un pezzetto di bacon e Hermione sorseggiava qualcosa, che a giudicare dall’aroma doveva essere caffelatte. Un caffelatte che, se non fosse stata terrorizzata dalla situazione in quel momento e dalla nausea di qualche ora prima, le avrebbe volentieri rubato.
In un flashback improvviso, le tornò in mente l’ultima volta in cui li aveva visti così, qualche settimana prima, quando Damian aveva riattivato la maledizione di Spartaco. Le venne in mente chi c’era con lei quella volta e il braccialetto con cui stava giocherellando perse tutti i ciondoli sul pavimento dello studio di Harry.
“Stai bene?”
“Perché tutti mi chiedete se sto bene? Non sono io quella bloccata in un letto da Madama Chips,” rispose brusca e si morse il labbro quando vide le espressioni turbate di Harry e Hermione. “Mi dispiace,” bisbigliò. “Mi dispiace, non volevo. Non volevo sbottare, non volevo farvi passare la notte in bianco, non volevo fare del male a-, mi dispiace.”
Si sentì sciocca e piccola. Perché aveva così tanta voglia di piangere? Non aveva finito le lacrime la sera prima? Avrebbe solo voluto tornare a casa, senza magia che scoppiava all’improvviso, senza voci nella testa, senza sogni strani, e senza Ted che la congedava con freddezza. Tornare a casa a piangere tra le braccia della mamma che le diceva che sarebbe andato tutto bene. Ma dov’era la sua mamma? Dov’era?
Sì sentì scivolare verso il basso, finché qualcuno non l’afferrò, portandola verso di sé. Avvertì due braccia stringerla e cullarla e qualcuno bisbigliarle di non piangere, che tutto, tutto sarebbe andato bene.
“Chrissie, ehi,” mormorava Hermione, mentre le baciava le tempie, “andrà tutto bene. Per favore, non piangere.”
Ma i singhiozzi aumentarono comunque. Le braccia di Hermione erano quasi come quelle della mamma.
“Mi dispiace,” continuò Chris a mugugnare tra i singhiozzi, “Io… non lo so… non lo so… che succede… Ted… il marchio… io…”
“Ehi, bollicina, guardami,” Hermione le prese il viso tra le mani, e con i pollici le asciugava le lacrime che scendevano copiose. “Andrà tutto bene. Vieni, siedi qua.”
Chris si lasciò guidare da Hermione, inspirando ed espirando il più possibile, nel tentativo di calmare le lacrime. Si sedette sulla poltrona prima occupata dalla sorella, che ora le si era inginocchiata davanti, afferrandole le mani. La pregava di guardarla negli occhi. “Andrà tutto bene, Chris. Parlami però. Dimmi cosa ti succede. Ho bisogno di capire come aiutarti. Va bene se non riesci a controllare la magia talvolta. Va bene se ti arrabbi e vuoi gridare, va bene s-, cosa ti succede, Chris? Parlami.”
Cosa ti succede, Chris? Perché non vuoi dirlo alla sorellina?
Saresti capace di uccidere, Chris? Dillo a Hermione. Dillo.
Chris scosse la testa, cercando di non dare troppo peso alle sue paure. Abbassò lo sguardo e si accorse che le mani di Hermione avevano perso il loro colore naturale lì dove le stava stringendo. E nonostante ciò non c’era segno di fastidio sul viso di lei: stava sopportando la sua stretta senza dire una parola, perché è così che si fa, quando si ci vuole bene, no?
“Non è così semplice,” mormorò. “Hermione, qualunque cosa sia, non è semplice.”
“No, non è mai semplice,” sentì una voce maschile intervenire. Harry. Aveva scordato Harry. Era poggiato sulla scrivania, le mani strette intorno ai bordi, le nocche bianche dallo sforzo. Chris non aveva forza di alzare gli occhi per guardarlo in viso.
“Harry, ti dispiacerebbe,” incominciò Hermione, rivolgendogli uno sguardo che pareva di scuse, “lasciarci da sole?” E Chris gliene fu grata. Non poteva, non poteva affrontare quella conversazione anche con Harry.
La scrivania barcollò nel momento in cui Harry lasciò andare le mani. Evidentemente non era molto d’accordo all’idea di uscire dal proprio ufficio.
“Per favore,” lo pregò Chris, incontrando finalmente il suo sguardo. E se ne pentì subito. Troppo chiari, troppo grandi gli occhi di Harry Potter. Lo vide socchiuderli e stringere piano le labbra, poi le si avvicinò e le diede un piccolo bacio sulla fronte.
“È solo preoccupato per te,” spiegò Hermione, una volta andato via. “Ti vuole bene. Tanto.”
“Lo so. È solo che non…”
“Non è un problema. Parla con me, Chris.”
“Non riesco a controllare la magia. Mi succedono cose, è come se sapessi fare cose che non ho mai imparato a fare.” Hermione fece per rispondere ma Chris glielo impedì. “Lasciami finire. È sempre stato così, vero? C’è sempre stata questa cosa nella testa… Non so controllarlo e so che l’hai capito: è peggiorato tutto da quan… da agosto. Non è solo nella mia testa.”
Chris lasciò andare le mani di Hermione. Le aveva strette fin troppo, e adesso erano le sue a tremare. Lentamente alzò il polsino della camicia e slacciò la fascia che le copriva costantemente l’avambraccio destro. Vide Hermione sussultare. Il Marchio era in procinto di formarsi quasi completamente: la stella a cinque punte era ancora là, ancora rossa, come il primo giorno, ma da essa ora usciva un serpente che scivolava verso la mano di Chris
“Cos’è? Quando è successo? Chi te lo ha fatto?” chiese Hermione a raffica. Scosse la testa, guardò il braccio, poi il viso di Chris, poi di nuovo il braccio.
A Chris parve di scorgere nel volto della sorella quell’espressione di attenta concentrazione che le colorava il viso ogni volta che doveva risolvere un rompicapo. Era chiaro, dopo lo stupore era subito passata all’azione. Era Hermione Granger. Stava passando a memoria tutte le possibili spiegazioni che potessero dare un senso alla comparsa di quel simbolo sul braccio della sorellina. Per un attimo, Chris si sentì rassicurata. Solo un attimo.
“Quando la mam-,” incominciò, “Io…”
Perché non parli con la sorellina, Chris?
Diglielo, dille quello che saresti capace di fare!
Puoi fidarti? Puoi davvero fidarti?
Cercò di riordinare le idee, di spiegare, ma era come se ci fosse qualcosa all’altezza dello sterno che le impedisse di dare forma al suo discorso. Non sarebbe riuscita a spiegare quello che era successo a parole. “Mi potresti prestare la bacchetta?” chiese invece. Avrebbe potuto provare anche senza, ma preferiva avere almeno la possibilità di incanalare l’incantesimo nella bacchetta, prima di perdere il controllo anche sui suoi ricordi. “È più facile così.”
Hermione capì, annuì e la lasciò fare. Chris chiuse gli occhi, navigando nella propria memoria alla ricerca dei momenti giusti. Forse non era pronta a riviverli, ma non c’era altro modo.
“Partem animi,” bisbigliò e si ritrovò a guidare Hermione tra i suoi ricordi: quando la mamma le parlò della malattia la prima volta, lo sgomento, la rabbia, il senso d’impotenza; quando trovò quel libricino nella libreria di Grimmauld Place, la curiosità, i dubbi, e poi la decisione; la frustrazione nel preparare il filtro, la disperazione nel mettere il piano in atto; la realizzazione che non avrebbe funzionato.
“Chris,” fu tutto quello che Hermione riuscì a dire quando uscirono dal ricordo. C’era indignazione nel suo tono e anche compassione.
“Non ha funzionato, ‘Mione. Ho venduto l’anima per nulla.”
“Che dici, piccolina? Troveremo un modo per capire quello che sta succedendo. Ed è ovvio che non avrebbe funzionato. Era nelle istruzioni, Chris! Perché diamine pensavi potesse funzionare?”
“Ero… Io volevo… Volevo solo che lei… volevo che non andasse via.”
A che serve? A che serve tutto questo potere se non puoi salvare le persone che ami?
“So che volevi fare, e lo capisco. Credimi, lo capisco.”
Capisce davvero?
“Mentirei se ti dicessi di non averci pensato un paio di volte anche io.  Cosa me ne faccio della magia se devo restare impotente di fronte alla sofferenza delle persone che amo? Ma non avrebbe mai potuto funzionare, tesoro.” Hermione tornò ad inginocchiarsi di fronte a Chris, prendendole il viso tra le mani. Anche i suoi occhi erano gonfi dal pianto.
“Perché, ‘Mione? Perché non ha funzionato?” Era tutto pronto. Tutto perfetto. E non aveva funzionato e non passava giorno, non passava minuto che Chris non ripensasse a quella decisione, a tutta la sua inutilità e a quello che aveva comportato. Quella voce. Era più forte da quel giorno.
Non temere me.
Non temere te stessa.
“Perché, perché, perché,” borbottò piano Hermione. Forse non aveva risposta anche lei. Abbassò lo sguardo, e lasciò scorrere un dito sull’avambraccio di Chris. Bruciava.  “Certe cose,” Chris la sentì appena, “non funzionano mai davvero.”
Perché adesso non la guardava più negli occhi?
Sa qualcosa che tu non sai.
Chiediglielo.
“Cos’è?” domandò agitata. Era vero, c’era qualcosa nel suo contegno. Qualcosa di nascosto e privato. “Cosa sai che non so?”
“Fin troppe cose,” sospirò Hermione, tirandosi in piedi. Lo aveva detto bisbigliando, quasi a se stessa. Come un pensiero di passaggio. Un pensiero di passaggio che a Chris non piaceva per nulla.  “Troveremo un modo,” disse poi, “capiremo cosa ti sta succedendo.”
Hermione sorrideva. Un sorriso forzato, quasi insicuro, non raggiungeva lo sguardo, scuro. Stava mentendo, stava coprendo qualcosa e Chris sentì montare la rabbia. Quando avrebbero smesso di trattarla come una bambola di porcellana incapace di capire quello che le accadeva intorno? D’altronde, non chiedeva molto. Voleva solo sapere la verità. Se Hermione conosceva qualcosa che avrebbe potuto aiutarla, Chris aveva diritto di saperlo.
La verità? Basta un sussurro per scoprire la verità.
Usa la bacchetta.
“Legilimens!”
 

 
Note: In questo momento, una parte di me si sente in colpa per il cliffhanger, questo e il prossimo capitolo erano stati originariamente progettati come un unicum, ma le cose da dire, da vedere, da sentire erano un po’ troppe per costringerle in un unico capitolo. In fondo, chi non ama un bel finale in sospeso?
Il titolo e alcune espressioni nel testo fanno riferimento al brano Hurricane dei Thirty Seconds to Mars, che in un refrain meraviglioso e angosciante suona più o meno così: “Tell me, would you kill to save your life? Tell me, would you kill to prove you’re right? Crash, crash! Burn, let it all burn! This hurricane’s chasing us all underground.” “Dimmi, uccideresti per salvarti la vita? Dimmi, uccideresti per dimostrare di aver ragione? Colpisci, colpisci! Brucia, lascia che bruci tutto! Questo uragano ci sta perseguitando tutti clandestinamente.”

Ritorna all'indice


Capitolo 31
*** Capitolo 28 - Bambole in frantumi ***


 Capitolo 28

Bambole in frantumi

Basta un sussurro per scoprire la verità.

“Legilimens.”

La mente è qualcosa di meraviglioso e ingarbugliato. Un incredibile labirinto di parole e immagini, storie vere o finzioni. Ricordi, giochi, illusioni. Cercare una mente è come girovagare nello spazio infinito, di stella in stella, universi dopo universi. Alcuni simili, altri impossibili da immaginare.

 

Note. Una dopo l’altra riscaldarono la stanza, una dopo l’altra. Insieme a formare un ricordo, un perché, un futuro. A scandagliare ogni emozione possibile. Note bianche e nere sotto le dita di Chris. Piccola, folle Chris, suona il suo pianoforte mentre la mamma chiude gli occhi. Per sempre.

Ed eccole,  Hermione, le dita fragili di tua madre tra le tue. Spente.

 

Non esiste nulla che sappia mentire meglio della propria memoria. Chris si sorprese a nuotare  tra i ricordi e i sogni di Hermione, onda dopo onda, scoglio contro scoglio.

 

“Ma mi senti con quegli aggeggi nelle orecchie?”

“Sto ascoltando il mare.”

“Il mare? C’è bisogno di metterlo nelle cuffie, il mare?”

 

“Smettila, Chriseys,” la richiesta le rimbombò in testa. Ma non aveva nessuna intenzione di smettere. Perché poi avrebbe dovuto smettere? Era facile cercare la verità. Così. Adesso.

Hermione Granger aveva qualcosa da nascondere.

C’era? Qualcosa da nascondere? Tra gli angoli del tempo? Tra le pieghe della volontà?

Harry Potter con i suoi occhi grandi e verdi. Perché?

 

Hermione si strinse nel suo abbraccio, nascondendosi nell’incavo del collo di lui, tra il maglione caldo e quello strano odore misto di tè al limone, legna e Harry. Sentì un profondo sospiro uscire dalle sue labbra.

“Certe volte vorrei,” mormorò lui, senza però finire il pensiero. Si scostò appena e le prese il viso tra le mani.

Hermione si morse il labbro inferiore e chiuse gli occhi, nel tentativo di scacciare ogni immagine negativa. Erano soli al mondo, ma erano soli insieme. Gli afferrò il polso e, posandogli la mano sul proprio seno sinistro, fece in modo che sentisse il battito del suo cuore.

 

C’era tanto, tanto da nascondere. Tanto da proteggere. Hermione e Harry. Harry e Hermione. Per quanto assurdo potesse sembrare, l’idea che Hermione potesse celare dei sentimenti non proprio fraterni nei confronti di Harry non stupì Chris poi così tanto. Era sempre stato una costante nella sua vita.

C’era tanto, tanto da ricordare. Acqua, spruzzi, risate. Un cancello verde mirto, un gelato al bacio e caramello, una sfida a Super Mario Bros e una manciata di semi di zucca. La biblioteca di Hogwarts, una bacchetta di vite col nucleo di cuore di drago, un abito da sera blu pervinca, il ritratto di una bambina sotto una quercia e pasta dentifricia alla menta. Una stella di peluche color rosa pallido e tante bolle di sapone.

 

“Piuttosto eccitante, no? Infrangere le regole.”

“Chi sei tu? E che ne hai fatto di Hermione Granger?”

 

C’era tanto, tanto da dimenticare: una voce stridula, uno sguardo vitreo. La punta di un pugnale. La morte.

 

“Stai mentendo, sudicia Sanguesporco! Siete stati nella mia camera blindata alla Gringott! Dimmi la verità! Che cos’altro avete rubato? Dimmi la verità o giuro che ti trapasso con questo pugnale!”

Hermione si ritrovò a pensare: fallo. Non si era mai sentita così vile.

 

E la vita.

 

La riconobbe. Lieve, quasi inesistente. Una bollicina, lì, all’altezza dello stomaco. Un piccolo massaggio calmante. Una bollicina che galleggiava nella sua pancia. Il s-.

 

Una bollicina?

Chris si accorse di aver interrotto il contatto con la perdita della concentrazione. Riconobbe gli arredi familiari dell’ufficio di Harry, le pareti piene di foto, la scrivania ricoperta di cibo, la bacchetta di Hermione stretta così forte nella sua mano da lasciarle i segni delle viti sul palmo.

Hermione le aveva promesso onestà e invece le aveva nascosto qualcosa. Cercare di invaderle la mente le era parso istintivo. Semplice, così semplice. Quando ti serve qualcosa, Chriseys, vai a prenderla. Non fermarti. Vai. Raggiungi il tuo obiettivo. Senza remore.

“Cosa credevi di fare?” domandò Hermione, afferrandole una spalla. Era brava, bravissima ad arrabbiarsi, e quegli occhi sgranati e le labbra serrate erano sufficienti a far sì che Chris riconoscesse di aver oltrepassato il limite della sua pazienza. Hermione odiava anche solo il pensiero di lasciare la propria mente libera alla lettura di qualcun altro. Chris lo sapeva, lo aveva sempre saputo, ma non poteva fermarsi. Aveva bisogno di capire.

“Ho bisogno di capire, Hermione!”

“So che hai paura e sei confusa ma-, ma ci sono certe cose, c’è un motivo per cui la lettura della mente è vietata se non in casi estremi, Chris. Certe cose, cert-”

“Segreti,” la interruppe. Sentì il disprezzo per il concetto correrle sulla lingua. Segreti, segreti, segreti. Rovinano tutto. Hermione sapeva qualcosa. Qualcosa che non riusciva a dirle e che forse – sicuramente – avrebbe potuto aiutarla a capire perché c’era quella cosa, quell’altra coscienza nella sua testa. E Hermione, sua sorella Hermione, continuava a tenerla all’oscuro. Che razza di sorella era?

“Pensieri. Certi pensieri appartengono solo… preferirei che alcune cose restassero solo mie!”

“Sto solo cercando di capire! Io… sono stata onesta con te. Ti ho detto tutto. Tutto! E tu invece continui a nascondermi la verità. Vorrei solo potermi fidare di te. Perché non riesco a fidarmi, ‘Mione?”

Perché sta mentendo.

“Chrissie.” Hermione le si avvicinò: due passi lenti, attenti, gli occhi di nuovo comprensivi e confusi. Era un’incredibile altalena di emozioni contrastanti, quella conversazione. Ma Chris non riusciva a tralasciare la sensazione che la sorella le stesse nascondendo qualcosa di importante.

Si allontanò di scatto. Non voleva averla vicina, non voleva fidarsi di nuovo dei suoi abbracci. I suoi abbracci mentivano. Si guardavano, in piedi, una di fronte all’altra, quasi in posizione di attacco e difesa, quasi fosse un duello: la poltrona di Harry era stata tralasciata da un po’.

“Dimmi cosa sai, ti prego. Vorrei solo che la smettessi di trattarmi come se fossi delicata come una bambola, ” chiese. Pregò. “Non lo sono.”

“Io…” Hermione chinò piano il viso, socchiuse gli occhi e posò piano i palmi delle mani sulla fronte. Stava pensando. Stava ragionando su cosa fare, su cosa dire. Si stava proteggendo. Ancora.

Il cigolio dei cardini della porta che si apriva risuonò con molta più intensità del dovuto nel silenzio. Chris aspettava una risposta da Hermione, mentre quest’ultima cercava un modo giusto per rispondere. O forse, solo per evitare di farlo.

Harry ricomparve nel suo ufficio anche più teso di quanto non fosse pochi minuti prima. “Cosa succede? Temo che questa stanza non sia così insonorizzata come vorreste voi,” spiegò,  con una mano tra i capelli e un’occhiata a Hermione.

Chris lo vide piegare un po’ il capo verso destra e sgranare gli occhi. Hermione, che si era girata verso di lui al suo ingresso, alzò gli occhi al cielo e gli negò una risposta. Perlomeno, una risposta verbale.  Stavano comunque comunicando in silenzio, si stavano dicendo qualcosa tipo “Che fine hanno fatto i tuoi grandi incantesimi insonorizzanti, Granger?” o “Vai al diavolo, Harry,” oppure “Perché diamine Chris ha la tua bacchetta?”

E si capivano. Facevano discorsi interi senza dire una parola e si capivano. Era frustrante e fuori luogo.

Chris percepì un leggero tremolio sulla punta delle dita, intorno alle viti della bacchetta: Harry. Con lui i viaggi mentali non erano così carichi di imprevisti. Grande mago, Harry Potter, ma pessimo Occlumante. Tuttavia, era possibile che Harry non conoscesse tutti i segreti di sua sorella.

“Cosa succede, Chris? Credevo vi steste chiarendo,” le si rivolse con un tono che voleva essere compiacente.

“Più chiaro di così?”

“Stai bene?”

“Ancora? Anche tu? Forse se la smetteste di trattarmi come se potessi rompermi da un momento all’altro…”

Ma tu sei a un passo dal frantumarti in mille pezzettini, Chriseys.

Piccola bambola di porcellana.

Trattenne un singhiozzo. Forse era già stata distrutta in mille pezzettini. Si lasciò cadere a terra, sul pavimento duro e scosceso di Hogwarts. Nessun tappeto nello studio del professor Potter, a Harry non piacevano i tappeti. “S-, e se quello che non vuoi dirmi fosse la chiave di tutto?” bisbigliò, lasciando andare la bacchetta.

Harry scivolò giù accanto a Chris, gambe intrecciate, quasi dovesse accomodarsi attorno al fuoco per una serata di chiacchiere vane. D’altronde Chris e Harry avevano un passato di conversazioni sulla pietra hogwartiana. Abbassò piano il capo per guardare la ragazza negli occhi. Era difficile per chiunque non lasciarsi guidare dall’intensità di quello sguardo.

Senza togliere gli occhi fissi su Chris, Harry stese il braccio verso Hermione, così con semplicità, con il palmo aperto pronto ad accogliere quello di lei. Hermione accettò senza fiatare e si lasciò guidare verso il pavimento, anche lei a gambe intrecciate. Una bella chiacchierata sterile intorno al fuoco.

“Chris, se avessi la chiave per capire cosa ti sta succedendo, credimi, te lo direi.”

Bugiarda.

Niente riusciva a toglierle dalla testa quel pensiero: bugiarda. Sua sorella stava mentendo e lei continuava a non capire il perché. Aveva quel piglio, quel piglio preoccupato e stanco, e il tono da Hermione Granger Paladina della Giustizia era fuggito via tra qualche causa persa e qualche bugia bianca. Perché si rifiutava di guardarla negli occhi se non aveva nulla da nascondere? Si rifiutava di guardarla eppure stringeva la mano di Harry. String-

Oh. Avevano intrecciato le dita, una nell’altra.

 “Era un ricordo!”

 

Si strinse nuovamente nel suo abbraccio, nascondendosi nell’incavo del collo di lui, tra il maglione caldo e quello strano odore misto di tè al limone, legna e Harry.

 

“Quello non era un desiderio, era un ricordo! Voi due? Avete una relazione?” Era forse questo che Hermione voleva proteggere a tutti i costi? Chris era convinta che le stesse nascondendo qualcosa che riguardava lei e invece… come aveva fatto il suo istinto a sbagliare di così tanto?

“Cosa? Di che accidenti stai parlando?”

“Le vostre mani,” indicò. E i due lasciarono andare la stretta dell’altro come scottati. “Nella tua testa,” spiegò rivolgendosi a Hermione. “Come? Una cosa è pensare certe cose,  un’altra è… come potete fare questo a Ron? Ron!”

“Chris,” Hermione le intercettò lo sguardo. Finalmente. “Io e Harry non abbiamo nessuna relazione. Non di quel tipo. Non adesso.”

“Ma l’avete avuta. In passato. L’ho visto! Quello non era un tuo anomalo desiderio, quello era un ricordo.” Un tempo passato che Hermione aveva cercato di obliare dallo sguardo di Chris a ogni costo. Se ne vergognava forse? Se era, come aveva appena detto, passato, che motivo c’era di vergognarsene?

“Le hai lasciato leggerti la mente?” domandò Harry, che alla fine era riuscito a capire cos’era successo nel suo studio durante la sua assenza. Era stupito dall’incapacità di Hermione di tenere a bada Chris. Non era mai successo.

“Credevi stessimo urlando per imitare le sirene del Lago Nero?”

Certo, avevano uno strano rapporto quei due. Vecchi amici, compagni d’arme, cognati. Amanti? Migliori amici. Avevano proprio un bel modo di dimostrarlo.

“Quando? Quand’è che siete stati insieme?” Chris si scoprì curiosa di sapere.

“Un sacco di anni fa.”

“A Hogwarts? Dopo la scuola? Durante la guerra? Quanto è durata? Ron lo sa? Come? Come fate a guardarvi in faccia ogni giorno? Voglio dire siete stati insieme e siete ancora così vicini?” chiese a raffica. C’era un’infinità di cose che avrebbero dovuto chiarire. Non potevano lanciare questa bomba e lasciarla scoppiare senza subirne il minimo danno. Le bombe esplodono e hanno conseguenze. Anche se, più che una bomba a mano, si trattava di una mina antiuomo, una mina che Chris era andata a scovare tutta da sola.

“Chris, è stato così tanti anni fa.” Hermione si rassegnò a parlare, lasciò la testa cadere con delicatezza contro una gamba della scrivania di Harry. “Durante la guerra. Eravamo ragazzini, eravamo soli e spaventati. È stato… più assurdo, folle e complicato di quanto avessimo mai potuto immaginare.”  Aveva evitato di fissare lo sguardo su un punto preciso, finora, quasi come rapita dai suoi ricordi, ma fu un attimo: piegò lo sguardo quel tanto che bastava per incrociare di lato gli occhi di Harry. Stavano ancora facendo quella cosa per cui si capivano senza parlare. Irritanti.  “È stato di gran lunga il nostro momento migliore e il peggiore, non trovi?”

Chris si ritrovò ad osservare lo scambio quasi come fosse un incendio sul limitare della foresta.  Le foglie, gli alberi, l’ossigeno brucia, il fumo sale su, fino al cielo, l’aria si riscalda e tu resti lì a guardare, non puoi distogliere lo sguardo e non sai cosa fare. Come fai a capire cosa fare quando tutto brucia?

Hermione le si rivolse per un secondo, poi scosse la testa e ritornò su Harry. Mimò qualcosa con le labbra e Harry le riacciuffò la mano.

“Chrissie,” la chiamò Harry. C’era una strana determinazione nel suo contegno, una determinazione quasi rassegnata. “Hai ragione. C’è qualcosa che non sai, ma prima… è importante che tu capisca che quello che ti diremo potrebbe cambiare il modo in cui… il modo in cui… tutto, potrebbe cambiare tutto.”

Un macigno sprofondò di colpo nello stomaco di Chris. Finalmente avrebbe avuto delle risposte, finalmente avrebbe capito. Ma.

Era okay avere paura adesso? Era okay voler tappare la bocca a tutti e due ora?

Cresci, Granger.

Annuì.

Due dita le sfiorarono il viso, fu tentata dalla voglia di scacciarle via, ma lo sguardo di sua sorella le chiedeva altro. “Ricorda soltanto che ti vogl-, ti vogliamo bene. Per favore.”

“Ti ricordi i racconti di Arthur?” incominciò Harry, “Tutte quelle storie sulla guerra?

“Non mi piacciono i racconti di guerra,” rispose di riflesso, come aveva sempre fatto. Odiava i racconti sulla guerra.

“Lo so, ma ti ricordi com’è che abbiamo fatto a battere Riddle?”

Non era chiaro dove Harry volesse andare a parare con quelle domande. O forse, avrebbe potuto esserlo se Chris avesse scelto di non ignorare i segnali. Tuttavia, ebbe la sensazione che lui stesse cercando di perdere tempo.

Horcrux.

“Horcrux,” una voce suggerì.

Un diario. Un anello. Un medaglione.

“È un oggetto, una cosa qualsiasi, in cui si può nascondere un frammento della propria anima per raggiungere l’immortalità. Lui… lui ne aveva creati sei, voi li avete cercati e distrutti.”

Una coppa. Un diadema.

Un serpente.

“Sette, ne aveva creati sette. Uno era dentro di me. Un piccolo pezzo d’anima di Tom Riddle mi gironzolava in testa e mi faceva vedere cose strane e fare cose strane, e suggeriva altre cose…”

Harry Potter.

Ghiaccio. Nelle ossa, su per lo stomaco, all’altezza del cuore, nella gola. Chris si sentì gelare. Un piccolo pezzo d’anima di Tom Riddle.

Chriseys Granger.

Nella testa. Era possibile? Come? Non era neanche nata quando lui terrorizzava l’Inghilterra. Durante la guerra, i suoi genitori erano dall’altra parte del mondo, no? Cos’era che Harry stava cercando di dirle? C’era qualcosa che collegava la sua esperienza a quella di Harry? Tante similitudini, è vero, ma era davvero possibile?

Lo sai.

Non lo sai?

Chris si tirò in piedi in fretta. Harry le stava parlando e Hermione li osservava. L’ufficio di Harry fece un bizzarro salto in avanti e poi indietro, ma sfidò sia i capogiri che il senso di nausea. Sentiva il bisogno di distanziarsi il più possibile dalle parole di Harry. Distolse lo sguardo e si accostò al muro; sulla parete c'erano tante foto, e in una, in particolare si riconobbe.  Era una foto Babbana – non doveva aver avuto più di cinque anni – e dormiva in braccio a Harry, mentre Hermione, vestita da sposa, le accarezzava il viso.

 

Una bollicina lì, all’altezza dello stomaco. Una bollicina che galleggiava nella sua pancia. Il suo bambino.

 

Bollicina?

Bollicina era solo un nomignolo, uno scherzo affettuoso tra lei e ‘Mione, no? Chi era Bollicina?

“Harry, non funziona così, tu sai che non è così che funziona…”

“Allora, trovala tu una spiegazione. Hermione, sei tu quella intelligente! Trova una spiegazione più logica di questa…”

Litigavano. Discutevano. Su di lei. Per lei. Senza di lei. Chi siete? Chris si ritrovò a chiedersi. Credeva fossero due delle persone più affidabili che avesse mai conosciuto. Aveva sempre creduto nella loro onestà. Erano o non erano due eroi? Aveva mai davvero conosciuto Harry Potter? Aveva mai davvero conosciuto sua sorella?

“Basta! Smettetela…” li interruppe. Aveva bisogno delle sue risposte. Ora. Non aveva più la bacchetta di Hermione tra le mani per darle forza, ma non ne aveva bisogno. Incontrò gli occhi di Harry. “C’è un motivo per cui credi che ci sia un pezzetto di-di-di Voldemort in me,” poi si rivolse a Hermione, “c’è un motivo per cui il filtro non ha funzionato sulla…” ricacciò in gola un singhiozzo, “mamma, c’è un motivo per cui la maledizione di Spartaco ha colpito anche me, e c’è un motivo per cui non volevi che sapessi della vostra relazione. Ed è un unico motivo.” Finalmente Hermione le concesse uno sguardo diretto. Occhi marroni, grandi, determinati, spesso concentrati e sempre preoccupati, ora arrossati per via delle lacrime. Quasi come guardarsi allo specchio. Quasi, perché il suo nocciola sfumava nel verde. “Dimmelo. Ora. Chi è Bollicina?”

“Tu.” Tu sei la nostra bambina.

Crash. Tutto. Brucia tutto.

Adesso che la miccia era stata lanciata, erano tante le parole di Hermione. Parole bagnate, confuse, ma parole nondimeno. Chris non riuscì ad ascoltare. Bruciava tutto. Tutto si stava distruggendo nel fumo, nel fuoco.

Parlavano, e trovavano scuse e inventavano spiegazioni e dubbi, ansie, timori; e buone intenzioni e parole, parole, parole. Le avevano mentito, l’avevano abbandonata e le avevano mentito. Da sempre. E loro parlavano e inventavano scuse e cercavano di toccarla, avvicinarla, stringerla, farle capire. Cosa? Cosa c’era da capire? Bruciava tutto.

Dov’era? Dov’era la sua bacchetta? Perché se lei bruciava, tutti dovevano bruciare insieme a lei.

“Chris, guardami, ti prego,” qualcuno chiese. Una mano le si accostò sulla spalla.

“Non toccarmi. Non osare toccarmi!”

Via. Vai via. Lontano, lontano, lontano. Tutto brucia e tutto si distrugge.

E si trasforma.

Niente più Chris Granger. Un nome così stupido. Niente più bollicine.

Chi sei, Chriseys, Chris, Chrissie? Chi sei?

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 32
*** Capitolo 29 - Estremi rimedi ***


Capitolo 29
Estremi Rimedi

Chi sei, Chris? Chi sei?
Un errore. L’ingrediente caduto per caso nel calderone che manda la pozione in malora, il tremolio delle dita che ti fa cadere la bacchetta, la distrazione che ti allontana dal Boccino d’Oro.
Un’incrinatura sul percorso lineare del destino. Sei un pensiero scritto frettolosamente nella stesura di una lettera altrimenti perfetta, una frase sbagliata che hanno cercato con sollecitudine di cancellare, sistemare, riorganizzare in qualche modo. E non ci sono riusciti.
Sei solo il frutto di una notte di debolezza, la conseguenza della tentazione. E hanno avuto il coraggio di ammetterlo solo dopo sedici anni e le spalle al muro.
Ti hanno mentito, ti hanno abbandonato. Dicevano, quante parole dicevano? Tutta la tua vita è una grande bugia. Tutta la tua esistenza è una farsa. Quante promesse vane d’affetto ti hanno confessato a mezza voce? Dicevano che ti avrebbero protetto, guidato, capito. Dicevano. Nessuno di loro ha mai avuto la costanza di mantenere quelle promesse.
Ma ora lo vedi. Non lo vedi? È una gigantesca menzogna. Un’illusione in cui i deboli amano cullarsi. Soli. Siamo tutti soli a questo mondo e c’è un unico modo per andare avanti, Chriseys. Un unico modo.
Sono solo parole. Troppo, troppo facile parlare: amore, giustizia, onestà. Ti riempiono la testa di parole ma poi? Poi non restano che idee vane, come lacrime nell’acqua marina: niente.
Le lacrime nell’acqua marina non servono a nessuno. Tu non hai bisogno di promesse sciocche. Non hai bisogno di loro.
L’amore? Non esiste.
 

*

 
Rinunciare alla possibilità di uscire un po’ dalle mura di Hogwarts non era qualcosa che Damian avrebbe fatto di sua spontanea volontà generalmente. Tuttavia, talvolta, alcuni mali estremi potevano indurre chiunque a prendere estremi rimedi. Usare come diversivo qualche lancio  in un campo da Quidditch - completamente coperto dalla neve -, ad esempio.
Il due di picche di Amelia Selwyn non aveva niente a che fare con queste decisioni estreme. E nemmeno la fattura Orcovolante che gli aveva scagliato contro nel bel mezzo della biblioteca la sera prima solo perché lo aveva beccato a parlare con Chris Granger. Era Amelia che gli faceva gli occhi dolci da mesi e ad avergli chiesto quell’appuntamento, per Merlino, e mandava tutto all’aria per una chiacchierata?
No. Damian Blackwood aveva deciso che il motivo per cui quel sabato mattina non avrebbe fatto compagnia ai suoi compagni di bevute era unicamente legato alla sua voglia di eccellere sul campo da Quidditch. Era o non era un perfezionista? Qualche lancio di prova non gli avrebbe fatto che bene!
D’altronde, non era sua abitudine rincorrere gli ormoni delle ragazzine che non sapevano accettare un po’ di sana competizione. Non era mica colpa sua se Chriseys Granger continuava a spuntare in ogni angolo della sua vita, con la sua stella sul braccio, gli occhi grandi e le labbra mordicchiate. Ovunque. In ogni momento. Anche adesso. Per Salazar, cosa diamine ci faceva nei sotterranei mentre tutti erano a Hogsmeade?
No. Decise. Via, la sua scopa sembrava suggerirgli. Andiamo fuori. Lontano, lontano, lontano.
“Ehi, Granger! Ti sei persa?” La sua lingua aveva decisamente altre intenzioni. C’era Chris Granger, nei sotterranei, davanti al vecchio moribondo e al suo passaggio segreto. Era ovvio che il suo stupido istinto lo avrebbe tradito ancora una volta. Il suo stupido istinto non aveva mai funzionato granché con lei, era arrivato persino a raccontarle di Keiran. “Hai intenzione di fuggire di nuovo? Sabato mattina?”
“Blackwood?” La ragazza si rivolse verso di lui. Aveva un aspetto pessimo, un viso incredibilmente pallido e gli occhi arrossati e gonfi a causa di lacrime che ancora non si erano del tutto asciugate. Stringeva i pugni sulle maniche del pullover della divisa. “Okay,” bisbigliò, prima di afferrargli la mano e mettersi a correre all’impazzata all’interno del tunnel. 
Correva come non ci fosse un domani, come se un Ungaro Spinato avesse deciso, proprio in quel momento, di avere arrosto di adolescente per cena. Damian si lasciò guidare. Per quanto una parte di lui odiasse finire invischiato nei casini sentimentali della Granger – “Babbani e Sanguesporco! Lasciali perdere, Damian, portano solo guai,” una voce simile a quella di sua madre continuava a suggerirgli – c’era un’altra parte, la parte stupida e incosciente, che non sapeva ignorare l’ascendente che il loro rapporto altalenante suscitava in lui. Si assomigliavano, in qualche strano modo. Amavano entrambi giocare con fuochi e incantesimi, e rischiavano sempre di lasciarsi bruciare. In due, forse, avrebbero potuto imparare a gestire le fiamme.
Chris continuava a correre. Non si fermò neanche una volta usciti dal tunnel, correva senza direzione, a occhi chiusi, nella foresta innevata. Era la prima neve ed era bianca e fredda e silenziosa. E Chriseys Granger correva nella Foresta Proibita, affondandogli le unghie nel braccio e piangendo lacrime silenti.
Damian sentì montare un moto di rabbia. Pensò a quello che si erano detti il giorno precedente, e a quello che gli avevano raccontato fosse successo alla lezione speciale di difesa di Potter. Aveva litigato con Lupin e adesso?
“Ehi, ehi, ehi!” La costrinse a fermarsi. Per chi lo aveva preso? Un orsacchiotto da tirare fuori quando Lupin la trattava male? Non era disposto a stare a questo gioco. “Cosa diamine ti è successo? Lupin ti ha spezzato il cuore?” Era lui che dettava le regole.
Chriseys abbandonò la stretta sul suo braccio. Forse aveva capito. Alzò gli occhi verso di lui, stretti, rossi, stanchi, furiosi. Damian sentì la rabbia affievolirsi: qualcosa si era spezzato in lei.
“Co-,” incominciò, ma una sferzata ghiacciata di neve sul viso gli impedì di continuare.  Sentì la pelle del viso bruciare al contatto gelido e venne catapultato all’indietro dall’impatto. Si ritrovò immerso a metà nella neve. A terra. Come un pupetto spintonato dal bullo di turno. In un battito di ciglia, Chris aveva appellato un mucchietto di neve caduto sui rami dell’abete che aveva di fronte e gliel’aveva scaraventato addosso.
“Fa male?” La sentì chiedere, a denti stretti. “Blackwood? Quanto fa male?”
Damian si tirò in piedi. Chris sembrava così piccola, debole e distrutta, e poi riusciva a scatenare tutta quella magia senza neanche usare la bacchetta? Era davvero successo qualcosa di grosso. Più grosso del suo litigio con Ted Lupin. “Che cazzo ti è successo, Granger? Come… come ci riesci senza bacchetta?”
“Posso farti ancora più male, se ne ho voglia,” continuò lei, senza dargli risposta. “Posso fare molto male, quando voglio.”
Damian si sentì rabbrividire e non era colpa della neve. Chris Granger stava là, in mezzo alla neve, quasi mimetizzandosi col suo viso bianco, i pugni stretti, un paio di sciocche scarpe di tela, il pullover della divisa e il mantello posato alla rinfusa sulle spalle. Gli occhi gonfi e vuoti. Vuoti. Ed era sbagliato, sbagliatissimo. Chris Granger doveva gridare, sbuffare, roteare lo sguardo verso l’alto, sbeffeggiarlo in qualche modo. Farlo sogghignare e arrabbiare.
Chris?” chiese piano. Perché gli sembrava che Chris non fosse più lì? “Dimmi cosa è successo! Ti prego.” Stava implorando. Non aveva mai capito davvero il significato dietro quella sciocca formula di cortesia. Ti prego.
La osservò mentre abbassava su e giù le palpebre, come se stesse soppesando la possibilità di dargli soddisfazione con una risposta. Altro che condurre il gioco, Damian.
“Avevi ragione,” disse infine lei, stringendo le braccia intorno al proprio petto, nascondendo i pugni. Tornava a proteggersi, tornava a sentire il freddo. Bene, pensò Damian. Meglio sentire freddo che niente.
“Ragione? Su cosa?” La mente corse alle ultime conversazioni che avevano avuto. Il ritorno del Signore Oscuro? La maledizione di Spartaco? L’incapacità di Lupin di starle dietro? La loro tentennante simil-amicizia-forse-però-voglio-qualcosa-di-più? Ne avevano di discussioni lasciate a metà.
“Su tutto. Io non… io non…” sospirò. “I miei genitori non erano i miei genitori,” spiegò, non prima di aver distolto lo sguardo da Damian. Ecco spiegati gli occhi rossi e il rancore muto.
Talvolta, tra un’ipotesi e una prova c’è un universo in mezzo, altre volte sarebbe meglio non verificare mai le proprie teorie: la curiosità, in effetti, uccise il gatto. In qualsiasi altra circostanza, Damian avrebbe amato rifocillare il proprio ego nella consapevolezza di aver avuto ragione, ma questa non era una partita a WiziTrivial Pursuit. Era l’intera vita di Chris Granger, ed era una gigantesca bugia. Si morse la lingua prima di chiederle se allora era vera anche l’ipotesi su chi fosse sua madre naturale. Continuava ad assomigliarle davvero tanto, d’altronde.
“Oh, Chris,” sentì se stesso bisbigliare. Cosa avrebbe fatto lui se avesse scoperto di non avere un vero legame di sangue con i suoi genitori? Forse una festa. Ma Chris non era Damian e i suoi genitori non avevano combattuto la Guerra delle Rose tra di loro. Chriseys amava la sua mamma Babbana.
Damian non aveva proprio idea di come confortare qualcuno in una situazione del genere. Poteva inventare qualche parola di circostanza, o consigliarle qualche incantesimo per sfogare la rabbia sugli alberi o su di lui, o proporle un bravo magianalista. Oppure cercare il contatto con quegli occhi spenti e tentare di abbracciarla. Gli abbracci fanno bene, si dice.
Con il capo chino e i pugni serrati, Chris rimase immobile, decisa a non dargli soddisfazione in quell’abbraccio. Forse non voleva per niente essere consolata. Adesso, probabilmente, sarebbe anche scoppiata a ridere. O a piangere. Una delle due.
Damian lasciò scorrere una mano sui capelli di lei, mentre l’altra le cingeva la vita. Non era questo il tipo di abbraccio che immaginava avrebbe condiviso con Chris Granger. Damian Blackwood, si disse, tu, il gioco, lo hai perso in partenza. Percepì poi qualcosa muoversi contro il suo petto. Chris stava trascinando piano due dita sui contorni del numero cinque della sua divisa da Quidditch.
“Cerchi ancora di fare il carino, Damian?”mormorò lei, per poi alzare gli occhi e tirarsi sulle punte dei piedi. “Non ti si addice,” continuò, sfiorandogli le labbra, per una frazione di secondo. Rimase lì, sulle punte dei piedi, con la bocca socchiusa e il respiro sulla pelle di Damian. Lo stava punzecchiando, stava chiedendo una sua reazione.
“Chriii-,” un bacio sotto il mento, “-seeeys”, un altro al lato delle labbra, “tu non… stai…” un altro, e un altro, e un altro. Piccola. Promessa. Stuzzicante.  Damian non poté evitare di rispondere automaticamente a quelle provocazioni, lasciò scivolare la mano lungo la schiena di lei e accolse con fervore la lingua di Chris che si divertiva fin troppo con le sue labbra. Il mondo era freddo, gelato, e la sua, la sua bocca, invece, era calda.
E Damian Blackwood aveva finito di giocare.
Damian non aveva un’immaginazione carente. Aveva osservato un numero sufficiente di gambe per conoscere il lato divertente del gioco delle aspettative e le sue osservazioni su Chris Granger non erano affatto da considerarsi incomplete. Tuttavia, niente lo aveva preparato a quell’intensità. Quando Chris gli mordicchiò il labbro, Damian non seppe evitare la pressione dei suoi fianchi verso di lei.
Chris si lasciò andare a un piccolo sorrisetto di soddisfazione contro le labbra di lui. Lo aveva portato esattamente dove voleva lei. Esattamente. Poi scostò il viso quel tanto che bastava per sussurrargli all’orecchio: “Cos’era che volevi? Scopiamo, Blackwood.”
Scopiamo, Granger. Era quella la sua eterna proposta, no? Era così che suonava quando glielo chiedeva? Così inappropriato? Quelle due paroline lo svegliarono dallo stupore in cui era caduto non appena Chris aveva posato le labbra sulle sue. Quella ragazza aveva appena scoperto di essere stata adottata, era fragile e confusa, e chiaramente, poco padrona delle sue stesse azioni. Non era questo il momento per fare certe cose. Damian, sii uomo.
“Dovremmo tornare al castello,” riuscì a bisbigliare, col fiato corto e senza il coraggio di staccarsi dal corpo di lei. “Non è questo il momento adatto,” si costrinse a spiegare. In quel momento, Chris aveva iniziato a giocherellare con i suoi capelli, sciogliendo i riccioli con le dita.
“Che stai dicendo?” gli chiese, confusa.
Niente. Sciocchezze. Dove eravamo rimasti? Baciala, prendila, scappa e non tornare più.
“Dannazione!” Si tirò indietro con tutto il corpo, allungando le mani in avanti, nel terrore di non sapere resistere. “Non è il luogo, né il momento adatto, Chris.”
“Damian!” Adesso una cascata di neve gelata ci stava a pennello. “Ti stai tirando indietro?”
“No! Sì! Cioè … non sei in te in questo momento. Non è questo quello che volevo. Non è questo quello che vuoi tu,” spiegò, permettendosi di abbozzare una carezza al viso di lei, che la ragazza però intercettò. Sapeva stringere bene quelle dita sul suo avambraccio. Rimasero così per un attimo, in bilico. Damian non seppe negarsi un sorriso nell’osservare il solito mordicchiarsi il labbro inferiore da parte di Chris. Chissà che diamine pensava in quel momento, a parte ucciderlo, ovviamente.
Con una delicatezza che faceva a botte col suo sguardo infervorato, gli girò piano il braccio, facendo in modo che il palmo della mano fosse rivolto verso l’alto. Damian la lasciò fare, rimase ad osservare, immobile alla mercé di lei. C’era una concentrazione bizzarra e fuori luogo nel suo contegno. Con calma, piegò poi la manica della divisa, fino a scoprire metà del suo avambraccio. Damian sentiva l’aria gelida soffiargli sulla pelle, sapeva di dover dire o fare qualcosa ma la ragazza fragile e confusa di poco prima aveva assunto un’aria troppo solenne. Era affascinante.
Chriseys gli accarezzò attentamente il Marchio Nero, tracciandone ogni contorno dal teschio al serpente con precisione. “Credevo fossi diverso,” disse. “Avevi ragione anche su questo. Lui tornerà. Ed è più vicino di quanto tu possa immaginare.” Soffiò con delicatezza sulla pelle. Quasi un altro bacio. “Chiamalo.”
Damian non capiva. Era come rapito dalla religiosità delle sue carezze. Non comprese subito a cosa lei si riferisse. “Cosa?”
“Chiamalo.”
Voldemort. Chriseys gli stava chiedendo di chiamare all’appello il Signore Oscuro.
 “Chris, non stai per niente bene in questo momento. Torniamo al castello. Parliamo.”
“Non ne sei capace, vero? Hai paura? Sei una farsa, Blackwood. Ti piace passare per pericoloso e pieno di segreti oscuri e tormentati, ma sei solo un pagliaccio. Bello e dannato. Sei un cliché, Damian. Sei solo un cazzo di cliché. Solo parole e nessun fatto. Non ne hai le palle. Provami che sei un uomo, provami che il Signore Oscuro sta tornando. Chiamalo.”
La veemenza con cui si lanciò contro le labbra di Chris le ricacciò quella cascata di accuse in gola. Prese il viso della ragazza tra le mani e premette ruvido sulle labbra di lei, fino forse a farle male, costringendola a dischiudere la bocca per lui. Come poteva accusarlo di non avere coraggio? Come faceva a non rendersi conto? Si era appena tirato indietro per lei.
Si staccò solo quando ormai non aveva più fiato in gola. Le tirò indietro la testa bruscamente: la carnagione pallida aveva lasciato il posto a un rossore soffuso su tutto il viso, aveva i capelli in disordine selvaggio e le labbra erano gonfie e umide. Un sorrisetto di compiacimento le graziava il viso. “Chiamalo,” disse, col fiato corto.
E Damian lo chiamò. Perché la Granger glielo aveva chiesto. E lui le palle le aveva. Due dita sul Marchio Nero, era facile, fin troppo facile. Glielo aveva chiesto e lui voleva dimostrarle che poteva e sapeva farlo. Damian Blackwood non aveva paura di qualche sciocco fantasma.
Trattenne il fiato per qualche secondo o un’eternità. Forse, sarebbe arrivato sul serio.
Nulla accadde. Per un attimo, gli parve di vedere un bagliore rosso sugli occhi verdi di Chris. Doveva essere un gioco di tutta quella luminosità dovuta alla neve.
Chriseys sorrideva. Un sorriso vuoto, soddisfatto, ma spento, non le raggiungeva lo sguardo.
Damian sentì ancora una volta i brividi percorrergli la schiena sotto lo sguardo vitreo della ragazza. Doveva assolutamente riportarla al castello, dalla professoressa Light, dalla McGranitt, da Potter persino. Rimase impassibile, però. C’era di nuovo quella solennità nell’aria, era come se emanasse una folle aura di potere.
Chris gli si appressò, sempre col suo sorrisetto convinto sulle labbra, le dita con calma gli accarezzarono il fianco destro, poi con estenuante calma gli sfilò la bacchetta dalla fodera lungo la gamba. Cosa?
Damian, sei uno sciocco. Damian era sicuro che il suo cervello avesse dato l’ordine al braccio di muoversi e afferrarle la mano che gli stava rubando la bacchetta, ma le dita si rifiutarono di collaborare.
 “Ti ringrazio, Damian Blackwood. Sarai ricompensato,” sussurrò lei, contro il suo orecchio. “Forse.”
Fel Marui,” fu l’ultima cosa che sentì prima di cadere tramortito nella neve.

Ritorna all'indice


Capitolo 33
*** Capitolo 30 - Sassolini ***


Capitolo 30
Sassolini
Foresta Proibita, Dintorni di Hogwarts, Scottish Highlands
Il freddo consuma senso dopo senso, entra sotto pelle, nelle ossa, con lentezza estenuante: non puoi muoverti, non puoi parlare, non riesci più a capire. Damian si rese conto di quanto stesse succedendo quando ormai non c’era più nulla da fare. Lo aveva disarmato e pietrificato. Forse sarebbe morto così: uno sciocco, immobile, nella neve.
 
*
 
Ufficio Controllo Artefatti Pericolosi, Prima Sezione Associata, Ministero della Magia, Londra
Uno, due, tre, quattro, cinque. Contò fino a dieci per stabilizzare il respiro. Il polso riprese a battere regolarmente. Possibile che fosse…? L’allarme. Doveva suonare l’allarme. Qualcuno doveva arrivare. Granger, Weasley, Alistair, il Ministro. Doveva parlare con il Ministro.
Erano passati così tanti anni da quando aveva visto quegli occhi l’ultima volta, anni da quando l’alba stava per sorgere su Hogwarts e quegli occhi erano puntati su Potter, arroganti e crudeli. Rossi, freddi, iniettati di rabbia e sete di vendetta. Possibile che fosse proprio… ?
L’allarme. Se solo fosse riuscito ad allertare Godric, giù al gabbiotto, qualcuno sarebbe arrivato, ma ogni volta che tentava di avvicinarsi alla bacchetta la spalla bruciava da morire. Avrebbe dovuto lasciarsi vedere da un Medimago.
Una ragazza. Era stato attaccato, disarmato e ferito da una ragazzina. Maledettamente brava con la bacchetta, ma pur sempre una ragazzina.
Eppure aveva quegli occhi.
Se l’era ritrovata alle spalle, probabilmente era si era intrufolata di nascosto. Come aveva fatto a entrare senza che nessuno se ne accorgesse? Lo aveva disarmato con un incanto non verbale e poi aveva colpito. Spalla e ginocchio. Facile, precisa, pulita, immediata, colpi diretti per impedirgli di muoversi o contrattaccare. Preciso, pulito, crudele. Come quegli occhi.
Possibile che fosse proprio l… ?
“Chi sei? Cosa vuoi?” le aveva chiesto, accasciato a terra, cercando di capire dove fosse finita la sua bacchetta. Forse se si fosse concentrato abbastanza sarebbe riuscito ad appellarla a sé.
La ragazza si degnò di rispondergli solo dopo aver trovato con lo sguardo il suo obiettivo: un pugnale. Il pugnale che Weasley gli aveva chiesto di neutralizzare e distruggere, lo stesso che era appartenuto a sua zia così tanti anni fa. Quello con l’elsa intarsiata a forma di corvo e la punta maledetta. Un capolavoro di artefatto magico.
“Cosa voglio?” iniziò lei, con calma, mentre premeva la punta della lama sul palmo della mano. “Percepire il mormorio dell’onda che spumeggia sugli infiniti sassolini del greto,” sussurrò con deliberazione. Aveva lo sguardo fisso sul rivolo di sangue che le scorreva sulla mano.
“Cosa?” Erano parole strane, antiche, musicali. Eppure non sembravano un incantesimo. Cosa voleva dire?
Finalmente gli rivolse uno sguardo diretto, arrogante e determinato. Quelli erano davvero i suoi occhi. “Dovresti applicarti di più, Malfoy. È sempre stato questo il tuo problema,” sentenziò lei, mentre con un colpetto della punta del piede fece rotolare la bacchetta verso Draco; un poco, solo un poco, non abbastanza per permettergli di afferrarla senza sforzare la spalla e il ginocchio. Un’altra forma di tortura.
Solo a quel punto sparì in una nuvola di polvere.
Possibile che fosse proprio lui?
 
*
 
Foresta Proibita, Dintorni di Hogwarts, Scottish Highlands
Prima arrivò il calore. Quel caldo buono che ti protegge e rinvigorisce, il caldo del Salone d’Ingresso dopo una mattinata di esercitazione nella brina scozzese.
Poi arrivarono anche le beccate. Una dopo l’altra, ripetute e insistenti.
Tentò di allargare piano le dita della mano destra sulla terra bagnata, ma ancora i movimenti gli risultarono impossibili. Terra, erba e fango. Non c’era più neve intorno a coprirgli gli arti immobilizzati. C’era una fenice, con i suoi occhi neri fin troppo vicini, determinata e concentrata. Gli stava beccando il viso. Lo voleva caldo, sveglio e vivo.
Io non… cercò di articolare. Non posso muovermi, pennuto. La tua amica… cosa è successo alla tua amica?
Fanny sembrò quasi scuotere il capo, si alzò in un volo basso e agitato. Iniziò a girargli intorno, fino a che non si decise ad afferrargli la spalla sinistra con gli artigli e Damian si sentì risucchiare come tra le fiamme verdi di un viaggio in Metropolvere.
 
*
 
Quartier Generale Auror, Ministero della Magia, Londra
L’aria nell’Infermeria del Quartier Generale Auror era grigia e pesante. Era l’Infermeria dei numeri due, tre o settantamila, qui finivano agenti, impiegati e criminali che non stavano abbastanza male per meritare il San Mungo. Draco lasciò cadere lo sguardo sui movimenti intricati della bacchetta del Medimago di turno, un ragazzetto che non poteva avere più di ventitré anni. Non gli serviva uno stupido incantesimo antidolorifico – e chissà se poi il tipo sapeva farlo sul serio? Gli serviva solo la sua bacchetta e quella bottiglia di Odgen’s Old Stock, nascosta nel suo vecchio baule scolastico in soffitta. Tutta.
Gli occhi rossi di quella ragazza non erano stati un’illusione dettata dalla sorpresa e dalla paura. Ne aveva ora la conferma marchiata sul braccio -  e non era solo la spalla a fare male ora: il Signore Oscuro era tornato.
“Finito il riposino, Malfoy?”
Col tempo le cortesie e l’aspetto del Capitano Ronald Weasley non erano migliorati per nulla: il suo incedere era sempre strascicato, la divisa blu gli cadeva male sulle spalle e ora, mentre gli dedicava un’occhiata annoiata, masticava un bastoncino di liquirizia.
“Dov’è tua moglie?” Non era Lenticchia che aveva chiesto di vedere, non era lui che avrebbe ascoltato e avrebbe capito. Il Draco Malfoy a pezzi che era uscito fuori dalla Guerra Magica aveva imparato da tempo a masticare l’orgoglio e a fidarsi della professionalità di Hermione Granger. Se quel ragazzino arrogante e terrorizzato fosse stato più simile all’uomo che era diventato, forse la storia della sua vita avrebbe preso un altro corso.
“Forse gli anni che hai passato tra un processo e l’altro ti hanno confuso un po’, Malfoy. Quando sei la vittima non ti dovrebbe servire l’avvocato difensore.” Cosa voleva insinuare? Adesso era anche complice della sua aggressione?
“La situazione è un po’ più complessa, Weasley, ma tu sei sempre in ritardo. Sempre la terza ruota del carro.” Perché non gli avevano mandato la Granger come aveva chiesto? Lenticchia non seguiva. Mai.  “Ho consegnato una fiala intera di ricordi. Supponendo che i tuoi scagnozzi abbiano compilato per benino quei fogli che hai in mano… ”
“Una ragazza, Malfoy. Sul serio?” chiese, ridacchiando sotto i baffi. Il Capitano Weasley stava leggendo ora il fascicolo e non lo stava nemmeno facendo con attenzione. Perché, perché, perché gli avevano mandato il capitano più idiota di tutto il corpo Auror?
“Ti hanno preso il pugnale? Il pugnale che io ti avevo dato? Non ci credo…”
“Non ci hai neanche provato, a leggerlo.”
“Fammi un riassunto breve. Eri bravo a scuola in queste cose.”
“Ronald, per cortesia, evitiamo di farci i dispetti come se avessimo ancora sedici anni. Quella ragazza,” chiuse gli occhi nel tentativo di focalizzare al meglio l’immagine di quel viso concentrato e crudele, “aveva qualcosa…  i suoi occhi erano rossi. Rossi. E poi questo…”  Scostò di poco la manica della veste che gli aveva tenuto coperto il braccio fino a quel momento: il Marchio Nero era ritornato a pulsare sul suo avambraccio. “Qualcosa è successo, Ronald.”
“Okay, fammi vedere questa fiala…”
*
Hogwarts, Scottish Highlands
Erano passati anni dall’ultima volta che Hermione aveva posato lo sguardo su Fanny. La fenice aveva arpionato le zampe sulla testiera di uno dei letti vuoti in Infermeria e i suoi occhi neri osservavano con serietà la conversazione che stava avvenendo in sala. Hermione aveva scordato quanto intelligente e umano sembrasse il suo sguardo.
Era comparsa in Infermeria in uno sbuffo di polvere dorata, portando con sé il ragazzo immobilizzato: Damian Blackwood, le aveva spiegato Ted. “Lo ha lasciato cascare sul letto. Non riusciva a muoversi.”
Era stata Chris. Lui l’aveva seguita fuori dal castello e lei gli aveva rubato la bacchetta, lo aveva immobilizzato e mollato in mezzo alla neve. Erano amici. O qualcosa del genere.
Il ragazzo parlava, Fanny osservava, Minerva ascoltava, Madama Chips perdeva la pazienza, Ted giocava con una pergamena che a Hermione sembrava pericolosamente simile alla Mappa del Malandrino, e Harry era sul punto di maledire il ragazzo e distruggere l’intera ala del castello.
Chris era scappata, questa volta per davvero, era fuggita via con in corpo tutta la rabbia che avrebbe dovuto riversare su di lei, aveva lasciato vincere i suoi istinti più oscuri.
E cosa avrebbero potuto fare ora? Fare esplodere l’ala del castello non sarebbe servito a niente. Parlarle non era servito a niente. Confessare la verità non era servito a niente.
Chris eseguiva riti oscuri di cui ben pochi erano conoscenza, Chris andava a passeggio una notte sì e l’altra pure nella Foresta Proibita per seguire una sciocca fenice, Chris dialogava con i serpenti e lanciava maledizioni di fuoco e sangue senza un minimo di controllo. C’era un’anima oscura dentro di lei e non era la sua.
Possibile che fosse vero quello che credeva Harry? Erano stati loro a trasmetterle quel potere oscuro, quasi fosse una malattia genetica? Non è così che funziona la genetica, Hermione, il suo lato ragionevole continuava a ripeterle. Doveva essere successo qualcos’altro, ma essere incapace di capire cosa esattamente fosse questo qualcos’altro la mandava in confusione e le impediva di ragionare lucidamente.
“Non toccarmi,” le aveva detto. Con una furia fredda nello sguardo. E Hermione non aveva potuto fare altrimenti: l’aveva tradita, le aveva mentito per così tanto tempo, le doveva almeno questo. La lasciò andare. Ancora una volta, aveva lasciato andare la sua bambina. Cosa succedeva alla sua bambina?
“Le ho chiesto di tornare indietro, ma non voleva darmi retta.” Il ragazzo, Damian, era insofferente; l’intervento di Fanny aveva impedito che il freddo gli provocasse qualche danno permanente, ma Madama Chips lo aveva confinato a letto per qualche ora.
“Perché avrebbe dovuto dare retta a te?” borbottò di risposta Ted, dall’altro letto. Il giorno di riposo di cui anche lui aveva bisogno era andato perso nel caos delle ultime ore.
Blackwood preferì ignorarlo e si rivolse invece a Minerva. “Non era in sé, professoressa. Credevo fosse arrabbiata e confusa ma… c’era qualcos’altro. Non era lei. Quasi ci fosse…” Tirò un sospiro e passò una mano tra i riccioli scuri.
Era un bel ragazzo, Damian. Forse era questo che a Ted non andava giù. Damian Blackwood era un bel ragazzo che conosceva alcuni lati di Chriseys sconosciuti al suo miglior amico. Sconosciuti anche a sua madre.
“Cosa diamine sai tu di Chris? Non siete amici. Vuoi solo scopart-. Tu non sai niente di lei,” Ted si era alzato dal letto, ma Madama Chips lo bloccò con un incanto protettivo. Ci mancava solo una zuffa tra due ragazzini feriti.
“Hai ragione, Lupin,” rispose Damian, ostentando una tranquillità tradita solo dai suoi occhi chiari. “Ma so che è stata male per mesi e tu l’hai ignorata.” Aveva marcato il pronome, rivolgendosi a Ted, ma Hermione non poté evitare di sentire un moto di senso di colpa. Se fosse stata più attenta, se le avesse impedito di usare il filtro sulla mamma, se avesse tenuto sotto controllo le sue azioni, se l’avesse osservata meglio, se avesse capito prima cosa si muoveva dietro quei suoi occhi confusi, se le fosse stata più vicina… troppi se.
“So che si è sentita tradita dalla persona di cui più si fidava.” L’occhiata che Damian le rivolse le rivelò che il ragazzo conosceva più verità di quanta fosse disposto a condividere in quel momento.
Hai sbagliato tutto, Hermione. La testa le pesava in maniera incredibile, e le spalle, e gli arti, e il busto, e ogni più piccola parte del suo stanco, stanco corpo sembrava dovessero venire risucchiate dal centro della terra, sempre più forte, sempre più a fondo, e la forza di combattere non le bastava più. Chris era andata via e lei continuava a sbagliare tutto, tutto, tutto.
“So solo quello che ho avuto l’accortezza di chiedere. E di ascoltare. Quante volte le hai fatto tu questa cortesia negli ultimi mesi, Teddy?” concluse Damian.
“È scappata lo stesso, però, no?”
“Era confusa, arrabbiata, e non era in sé,” ripeté Damian a denti stretti. “Non era Chriseys.”
 
*
 
“Cosa è successo a Chris?”
Ron si era catapultato nell’Infermeria senza tanti convenevoli, nonostante i tentativi di Gazza di impedirgli l’ingresso. Aveva quasi buttato giù le porte e si era rivolto a Harry, ignorando del tutto sua moglie che ascoltava Ted e Blackwood bisticciare.
Si era lanciato contro Harry. Forse per rabbia, forse per istinto. Qualcosa era successo a Chris e doveva per forza essere Harry il responsabile. Harry, il professore incapace di tenere a bada una ventina di ragazzini; Harry, l’eroe in pensione, troppo Grinfondoro, ancora incosciente, ancora avventato; Harry, il padre che cercava rifugio in un’istintiva frenesia e stringeva la bacchetta alla disperata ricerca di qualcosa da fare per trovare sua figlia, per capire sua figlia.
Il caos in cui era piombata la sua ala di comando spinse Madama Chips a cacciarli via, come ai vecchi tempi, come quando erano loro ad avere sedici anni e a finire feriti per un motivo o per un altro. Ted e Blackwood dovevano essere lasciati al loro malgradito riposo, ma anche se la discussione si fosse spostata di qualche metro, nello studio dell’Infermiera, Harry era sicuro che i ragazzi non avrebbero smesso di cercare di origliare, pur continuando a litigare.
Ron veniva direttamente da un’altra infermeria, quella del Ministero, con un fascicolo in mano che gli aveva quasi lanciato addosso. Malfoy era stato aggredito nel suo ufficio da una ragazza con gli occhi rossi. “Ho visto il ricordo di Malfoy e ho visto la paura nel suo sguardo. Ora mi spiegate per bene cosa cazzo succede oppure non usciamo da qui.”
“Signor Weas-“ iniziò a rimproverarlo Minerva, ma Ron la interruppe.
“Scusi, professoressa, ma non credo sia il caso di badare a queste cose al momento.” Il pragmatismo non era mai mancato a Ronald Weasley e, una volta ancora, Harry gliene fu grato.
Cosa è successo a Chris? Harry attendeva la risposta di Hermione. Era lei quella che capiva e spiegava sempre tutto. Tranne questo. Cosa avrebbero dovuto rispondere? Da dove avrebbero dovuto iniziare? 
Hermione se ne stava in un angolo, con le spalle appoggiate al muro, la fronte corrucciata, le labbra strette in silenziosa concentrazione, mentre Ron e la McGranitt cercavano di mettere insieme i pezzi del puzzle.
“Come fa a Smaterializzarsi così facilmente? È minorenne. È riuscita a confondere la Traccia del Ministero?”
“Beh, è abbastanza chiaro dove abbia compiuto l’ultimo incantesimo, ma dopo l’attacco a Malfoy è scomparsa. Se Malfoy ha ragione, non credo che abbia problemi a confondere la Traccia. Per la miseria, non avete niente da dire voi due?”
“Credi davvero che Malfoy possa aver ragione? Non è mai… io non ho…” L’Horcrux nella sua testa non aveva mai davvero preso il sopravvento su di lui; con Ginny però era stato diverso, il diario era riuscito a possederla quasi del tutto. “Dobbiamo trovarla,” sentì la propria voce pronunciare. Il suo tono suggeriva una determinazione che credeva di aver perso. “Dobbiamo capire perché proprio quel pugnale.”
Ron lo osservò come se avesse detto la cosa più ovvia del mondo. Stava ancora ignorando Hermione, e Hermione ignorava lui. Il grande drago invisibile nella stanza era lì, lì per lanciare le sue lame di fuoco. Vent’anni di equilibri precari erano tutti racchiusi in quella stanza, tra un pugnale rubato e un’adolescente fuggita.
“Cosa ha detto?” chiese all’improvviso Hermione. Spalancò gli occhi stanchi e li rivolse finalmente verso Ron, e Harry si accorse solo in quel momento che continuavano ad essere lucidi di lacrime. “Chris. Cosa ha detto? Prima, hai detto che se ne è uscita con una frase stramba. Che frase era?”
Ron passò una mano tra i capelli, in un gesto automatico e familiare. “Qualcosa su sassolini e la spuma del mare. I sassolini che spumeggiano sul greto? Chi dice ancora greto?”
Hermione scosse leggermente il capo e Harry la vide avvicinarsi, per poi sfilargli dalle dita il fascicolo che aveva dimenticato di avere tra le mani. Alzò lo sguardo e incontrò l’occhiata perplessa di Ron. Hermione avanti e loro due a ruota. Sempre. Draghi invisibili o meno, certe cose non cambiano mai.
Hermione sfogliò le pagine in fretta, fino a trovare quello che stava cercando. “Ovvio,” bisbigliò, stringendo le labbra. Scosse la testa piano, come a scacciare un pensiero. “So dov’è,” spiegò infine, con una nuova determinazione nello sguardo.
 

 
Note: C’è qualcosa che non mi appartiene in questo capitolo. Cosa sia ve lo dico prossima volta. O me lo direte voi, quando mi direte anche dov’è che si trova la piccola ragazza in fuga.

Ritorna all'indice


Capitolo 34
*** Capitolo 31 - Making the green one red ***


the murmuring surge,
that on unnumber’d idle pebble chafes
cannot be heard so high
William Shakespeare – King Lear
 
 
Capitolo 31
Making the green one red
L’oceano era un mostro. Gli antichi uomini che avevano calpestato quelle rive lo sapevano bene; un mostro dai mille nomi e mille volti, ingannevole e incostante. Solo quando abbandonava i suoi mormorii, quel mostro mostrava il suo vero volto, non lieve spuma, non timidi sassolini sul greto, ma violenza infinita, immensa, incontrollata.
Shakespeare si sbagliava: era proprio quell’altezza che permetteva al mostro di entrarti nelle viscere. Là, nella gola, all’altezza dello sterno, nello stomaco, in ogni muscolo, tendine, fibra di quel corpo. Sbraitava la bestia.
L’amore non esiste.
Le onde sbattevano con veemenza contro le scogliere, bianco su bianco, lasciando indietro ad attardarsi le sfumature di blu, e verde, e grigio, una sull’altra, confuse nell’orizzonte annebbiato da una tempesta in preparazione.
Una tempesta. Era quello che ci voleva.
In piedi, ascoltando il ruggito del mare, col vento che sferzava tra le falde del mantello, la ragazza aspettava.
Nella mano destra stringeva la bacchetta d’acero, nella sinistra il pugnale con la testa di corvo. Il pugnale di Bellatrix e la bacchetta di Damian. Nulla gli apparteneva davvero. Nulla. Eppure quel pugnale e quella bacchetta sarebbero stati sufficienti. Per il momento.
Il becco del corvo sull’elsa premeva contro la ferita aperta da poco, il sangue nel taglio brillava rosso nel tentativo di rimarginarsi.
Aveva mani secche, la ragazza. Così piccole, queste mani. Dita lunghe, snelle, rapide sui tasti del pianoforte. Queste mani così delicate. Estranee. Tremanti e rosse.
Non c’era mai stato tanto rosso sulle sue mani. Non c’era mai stata tanta rabbia nel movente delle sue azioni. Non in orfanotrofio, non quella sera al maniero dei Riddle, non quella notte a Godric’s Hollow, né tantomeno quel mattino nel cortile di Hogwarts. Il rosso non era mai stato il suo vero colore. Non tremava mai la sua bacchetta, colpiva diretta e fredda. Verde.
Aveva un progetto allora, un disegno. Un cammino che avrebbe ripreso adesso. Anche con queste nuove mani e anche se dipinte di rosso.
Con la dovuta pazienza, tutto – tutto – sarebbe tornato in ordine. Tranquilla, piccola Chriseys, il mostro Nettuno macchierà il suo verde col tuo rosso. Tranquilla, io e te abbiamo aspettato così a lungo, aspetteremo un altro po’ di tempo. Tranquilla, chi ti ha ferito, sarà punito. E poi, io e te, piccola Chriseys, conquisteremo il mondo.
Con queste mani.
 
*
 
Le correnti della Manica sembravano preannunciare un acquazzone, Hermione avvertì il vento sul viso non appena mise piede sul terreno scosceso delle scogliere di Dover. Le mani di Ron e Harry erano entrambe calde e abbandonarle non le parve una prospettiva allettante.
Cosa l’attendeva oltre quelle colline? Ron era convinto che l’Horcrux di Riddle – o quello che era – avesse preso il sopravvento sulle volontà di Chriseys. Il Marchio Nero era ricomparso sulle braccia dei Mangiamorte ancora vivi, Voldemort era tornato e Chris era il tramite scelto.
“Gli occhi di Draco non mentivano,” le aveva detto, con tanta onestà e terrore nel suo sguardo chiaro da farle ritornare in mente con prepotenza gli anni della loro adolescenza, quando quel terrore era stato una costante nelle loro vite. Le aveva parlato: nonostante la guerra fredda che era scesa sulla loro relazione da qualche settimana, la paura che Voldemort potesse realmente tornare aveva eclissato quell’altra paura – che il loro tempo insieme avesse i giorni contati. Perché adesso, insieme, dovevano affrontare questa cosa. Insieme Ron e Hermione. E Harry. In tre, insieme. Il trio contro il resto del mondo.
Eppure Hermione non riusciva a crederci davvero. Chris non poteva essere del tutto posseduta dalla volontà di Voldemort. Chris era la sua Bollicina. Aveva attaccato Malfoy, aveva rubato quel pugnale e aveva lasciato quel messaggio diretto solo ed esclusivamente a lei. Sapeva che l’avrebbero cercata e aveva fatto in modo di essere trovata, per parlarle, per inveirle contro, per ferirla come loro avevano ferito lei. Aveva scelto Dover, aveva scelto Shakespeare e il suo Re Lear, qualsiasi cosa fosse successa, Riddle o non Riddle, rabbia o non rabbia, marchio o non marchio, Chris era ancora Chris. Doveva essere ancora la sua Bollicina.
Dopo un po’ trovarono la ragazza là dove Hermione l’aveva condotta qualche mese prima: come fosse una turista di passaggio con un po’ troppa voglia di avventura, osservava i nuvoloni sulla Manica e la tempesta in procinto di arrivare. E con la mano destra faceva roteare tra l’indice e il pollice l’elsa del pugnale – uno scacciapensieri, un anti-stress, un gioco.
“Ce l’avete fatta,” li accolse, quasi avesse avvertito la loro presenza alle sue spalle. Il contegno solenne non tradiva ansia o timore, ma c’era una sicurezza nella sua postura che non le era mai appartenuta.
Solo all’avvicinarsi, Hermione poté accorgersi di quello per cui Ron era tanto intimorito. Lo sguardo freddo che le lanciò non nascondeva la sfumatura sanguigna che avevano preso i suoi occhi.
“Chris,” sentì Harry bisbigliare a denti stretti. L’espressione di sgomento e collera che gli si disegnò sul volto doveva essere simile alla sua in quel frangente. Com’era potuto accadere? Cosa aveva permesso che accadesse tutto ciò? Cosa aveva fatto quel mostro alla loro bambina? Era colpa loro?
Impugnò la bacchetta con rinnovato vigore. Anche se non riusciva a immaginare come avrebbe potuto puntarla contro quel viso. Era severo, era freddo, era scuro, ma era ancora il suo viso.
“Chriseys è andata via.” Erano le sue labbra, era la sua voce. Eppure perché quelle parole sembravano incontrovertibile verità? “Voi,” si premurò di osservare in volto sia lei che Harry, “l’avete fatta fuggire.”
“Lasciala andare,” issò Harry.
Lo sguardo preoccupato che Ron le rivolse nascondeva molto più che semplice ansia per la riuscita di un piano abbozzato all’improvviso. Una squadra rodata da anni di scontri in campo non avrebbe dovuto fallire, ma c’erano troppe variabili in quella folle situazione. Harry che perdeva la pazienza non era che l’ultima.
Aleo dormiens.” Ron lanciò l’incantesimo in un sibilo. Colpire di sorpresa, riportarla a Hogwarts, limitare i danni. Trovare con calma il modo di neutralizzare Voldemort. Era questo il piano. Era il massimo che poteva concedergli. Per la prima volta, non esistevano seconde opzioni nei piani di Hermione Granger, perché un piano B avrebbe necessariamente portato a una conclusione che non riusciva neanche a contemplare.
Il colpo di Ron partì con perfetto tempismo, ma l’istinto protettivo di quella ragazza con le sembianze della sua bambina non era affatto scalfibile da un misero incanto sedativo. Quasi come fosse scocciata, assorbì l’incantesimo con un semplice colpo di bacchetta. “Davvero? Addormentarmi? È questo il meglio che avete?”
“Lasciala andare,” ripeté Harry, avvicinandosi sempre più verso Chris. Era furioso, Harry. Nonostante ciò – Hermione lo vedeva con chiarezza –  si sforzava con ostinazione di mantenersi calmo e lucido, impugnava la bacchetta in posizione di attacco e respirava affannosamente.
“Non posso e tu lo sai.” Nel rispondere, Chris – o quello che restava di lei – si premurò di sistemare con attenzione il pugnale nella fibbia della bacchetta che teneva stretta lungo il braccio sinistro. C’era risoluzione nei suoi movimenti, fin troppo cosciente di possedere queste nuove ritrovate abilità e un tremendo asso nella manica. “Ti ricordi come funziona, vero?”
Come funziona, Hermione, tu, tu te lo ricordi? Cosa bisogna fare per distruggere una scheggia d’anima incastrata in un corpo altrui?
“Nessuno ha ripassato la lezione?”
Il contenuto si perde solo se si distrugge il contenitore.
“Se moriamo, moriamo insieme,” concluse. Aveva come un ghigno sul viso, che aveva poco di quello che si suole chiamare sorriso. Era un gioco macabro, una sfida fin troppo facile da vincere. “Proviamo?” lanciò la provocazione. Un tremendo asso nella manica.
Expelliar- ” iniziò Harry, nell’unico modo che conosceva. Harry e il suo sciocco incantesimo di disarmo, tredici anni nelle file degli Auror e l’unico attacco che riusciva a immaginare in quel momento era uno stupido tentativo di disarmo. Non sarebbe mai riuscito a portarle via la bacchetta così facilmente.
“Mi prendi in giro? Credi che sia un gioco, Harry Potter?”
Chriseys interruppe il pronunciare dell’incantesimo di Harry sul nascere, con la stessa irruenza delle onde che si scontravano sulle scogliere. La boria, la calma, la noia non erano altro che delle pose. Era bastata una piccola scintilla di luce rossa a far cadere la maschera. C’era ancora tanta rabbia in quel corpo. Rabbia per Harry. Rabbia per lei. Tanta di quella collera da permetterle di scagliare una maledizione Cruciatus.
Crucio!” gridò Chris, e i ricordi e gli incubi si rincorsero nella mente di Hermione. Si accorse appena che lo Schiantesimo lanciato da Harry gli permise di schivare la maledizione.
“Non giocare con me, Harry Potter!” Una raffica di scintille argentee si catapultarono contro Harry, che riuscì appena a deviarle verso il mare della Manica. “Non ti permettere di giocare con me. Non più!”
Da dove usciva quell’energia? Quegli incantesimi? Era ancora troppo strano sentirli pronunciare dalla voce di Chris. Cosa avevano fatto alla sua bambina? Doveva fermarla, in qualche modo. Doveva impedire a quella rabbia di esplodere. Doveva. Doveva un sacco di cose.
Il raggio giallo arrivò all’improvviso. Hermione vide la traiettoria dell’incantesimo scaturire dalla bacchetta di Ron alle spalle di Chris. Provò una fitta al cuore nel vedere il suo viso contrarsi in una smorfia di dolore: le aveva colpito in pieno la spalla sinistra.
Adesso. Hermione, adesso. Metti fine a questa storia.
Chris si torse appena verso Ron, intercettando il suo colpo successivo con un breve, brevissimo “Recido multipla.”  Il colpo ferì in più punti il braccio destro di Ron, sulla spalla, lungo il gomito, sulla mano. Gli impedì di fatto ogni contrattacco immediato.
Adesso. Adesso era il momento di agire. Adesso sulle urla di dolore di Ronald. Gli aveva reciso il braccio senza neanche guardarlo in faccia. Dittamo. Serviva del dittamo.
Adesso, Hermione. Prendi la bacchetta, Hermione. Smettila di guardare come un’idiota.
Fylateine!” Le fiamme si sprigionarono con violenza dalla bacchetta di Chriseys, indifferenti alle gocce di pioggia che avevano appena iniziato a cadere.
L’ennesimo scudo protettivo di Harry riuscì a limitare i danni, ma non poté alleggerire il contraccolpo. Hermione vide Harry rovesciare all’indietro, sul terreno ormai sporco di fango. Si rialzò con fatica, mentre Chris si avvicinava.
Perché continuava a giocare così? Che fine avevano fatto i colpi puliti e immediati? Un solo lampo verde e poi nessun dolore.
Hermione sentiva la pioggia bagnarle lentamente gli abiti e le membra. Sentiva il vento ruggire contro il fuoco e i colpi sbattere uno contro l’altro, quasi fosse un gioco, come uno scontro con quelle spade arrugginite. Una musica. Uno. Due. Tre. Quattro. Ma Chris non era mai stata così abile con la spada. Inciampava e rideva quando aveva una spada tra le mani.
Era lui che la stava usando, ma lei gli permetteva di farsi usare. Chris aveva mollato. Voldemort era tornato e stava usando sua figlia.
Adesso, Hermione.
 
*
 
“Guardami, Chriseys. Voltati, sono qui.”
Mani rosse e tremanti. Mani, perché tremate? Calma e pazienza non era la soluzione, calma e pazienza non avrebbero condotto a nulla. Harry Potter non ascoltava, Harry Potter giocava con qualche scudo e qualche Schiantesimo di terza categoria, Harry Potter, eroe senza macchia e senza paura, era un vigliacco.
I suoi piani di affrontare la situazione con lucidità erano stati abbandonati in favore di un approccio più diretto. La pioggia ormai scendeva copiosa, c’era qualcosa di liberatorio nel lasciare sfogo ai propri istinti. Delusione, rabbia, paura, umiliazione. Solitudine.
Dolore.
“Chris, Chris, è me che vuoi. Guardami, Chris!”
“Io non sono Chris!” urlò, di risposta, voltandosi di scatto. Chris era andata via. Chris aveva mollato. Adesso, decido io. E adesso sarebbe finito tutto, finalmente sarebbe finito tutto. Potter e Granger e Weasley, addio.
“Prendi il pugnale. È per questo che lo hai preso, vero? Per me. Usalo. So di averti ferito e adesso tu vuoi ferire me. È il tuo turno, Chris.”
“Io non s-” Distrazione. Tattica da ragazzina che si sente più intelligente del nemico. O da disperati.
La pioggia scendeva copiosa ormai, Ronald Weasley era a terra, dolorante, Harry Potter si rialzava appena, sporco di fango e di sangue, e Hermione Granger tentava una carta disperata.
Ma cosa voleva? Cosa chiedeva ancora? Aveva già perso troppo tempo. Afferrò il pugnale dalla fibbia a cui lo aveva assicurato poco prima. Era facile quello che chiedeva, in fondo.
La vide annuire, poi continuò. “Shakespeare? Un colpo di classe … Hai sempre avuto un certo gusto per il drammatico, lo avete sempre avuto entrambi. Vieni,” invitò.
“Che c’è? Pensi che non sia capace di farlo?” chiese, mentre si avvicinava là dove Hermione attendeva, con le braccia aperte in posizione di resa. Credeva davvero che non l’avrebbe fatto? Non c’era niente di più semplice a questo punto.
“Sei ferita e arrabbiata, e hai ragione a esserlo, ed è facile lasciare andare tutto, lasciare che vinca lui…”
“Io non s- …” Si morse il labbro, assaporando per un attimo il proprio sangue. Il sangue di Chris. Non poteva dare soddisfazione a Hermione Granger.
Premette la punta del pugnale all’altezza della vena giugulare, lì dove si intravedeva la vecchia ferita. Sanguesporco. Hermione non fece nulla per impedirglielo. Aveva gli occhi stanchi e probabilmente pieni di lacrime, ma non si tirava indietro. “Grifondoro dalla testa ai piedi, sciocchi e incoscienti fino alla fine. La paura di perdere non vi sfiora mai.”
“Oh, ma io ho paura, Chris.” Non sono Chris! Perché? Perché continuava a insistere, a che gioco giocava? “L’idea di perdere non mi spaventa, no… mi terrorizza l’idea di perderti.”
Sentì un tocco lungo il gomito. Una carezza.
Ora era il momento, doveva solo premere un po’ più a fondo. Occhi marroni l’osservavano con determinazione. Occhi grandi, stanchi e arrossati, occhi fieri e spaventati. Quasi come guardarsi allo specchio.
“Non puoi lasciare che vinca lui,” sussurrò. La lama era così vicina, sarebbe stato così facile adesso. Talmente facile. Granger e Potter, addio.
“Chrissie…” Ancora. Un’altra voce chiamava. Harry.
 
*
 
15 Maggio 2004 – Giardino de La Tana, Ottery St Cathpole, Devon
 
Un, due, tre. Un, due, tre. Harry girava, girava e girava. E aveva gli occhiali grandi, grandi. Un, due, tre. Era un valzer, glielo aveva spiegato il maestro Lancel cos’era un valzer. Un, due, tre. E c’erano tanti fiorellini e tante luci, e ‘Mione era bianca come la panna e aveva i riccioli belli, belli sugli occhi. Come i suoi. Uno. Due. Tre…
“Fatti portare a letto, bollicina …”
“Altri cinque minuti, ‘Emmione.” Non aveva sonno. Non c’era bisogno di andare a nanna. No. No. Un, due, tre.
“Non ti preoccupare, ci penso io.” Era bella la voce di Harry, quasi, quasi come quella del signore delle favole, quella della storia della Bestia e di Belle che gli ha salvato la vita.
“Mi racconti la storia di Belle, ‘arry?” Sbadigliò. Non aveva sonno lei, no, no.
“Ma tu lo sai quanto ti voglio bene, piccoletta?” Pungeva un po’ la barba di Harry quando gli dava quei baci. Ma le piacevano i suoi baci. “Ti vogliamo un sacco di bene. Non te lo scordare. Non lo scordare mai.”
“Anch’io ti voglio bene, ‘arry, anche se pungi…”
“Buonanotte, amore.”
 
*
 
Mani rosse e tremanti fecero il resto.
“Chris!”
Era l’urlo disperato di suo padre che invocava il suo nome, erano le braccia di sua madre che le impedivano di cadere giù contro la roccia scoscesa. La stringevano e cullavano, sussurrandole che sarebbe andato tutto bene.
Erano le sue mani, secche, piccole, snelle e rapide sul pianoforte. Rosse.
Poi più nulla.
 


Note: Questo capitolo è stato uno dei più complessi da scrivere, i motivi sono molti e penso evidenti. Non so quanto il risultato sia soddisfacente, forse ho esagerato con i toni, ma così sono e così va questa storia. Spero sia comunque gradito al lettore. Quando l'ho scritto avevo appena visto il Macbeth con Micheal Fassbender e quando incontri davvero Shakespeare lascia sempre un certo segno sulla tua pelle. Infatti, il titolo, così come alcuni piccoli riferimenti del testo, sono ripresi da Macbeth, Atto II, Scena II: Macbeth immagina di lavarsi le mani insanguinate nel verde del mare, rendendolo rosso. L'altro riferimento, quello del capitolo scorso, ritorna ed è un furto sempre di un'altra tragedia Shakeaspereana, Re Lear, Atto IV, Scena VI, in cui Edgar, il figlio di Gloucester, descrive al padre cieco la visuale che offrono le scogliere di Dover. 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 35
*** Capitolo 32 - Contro un equilibrio sempre un po' precario ***


Capitolo 32
Contro un equilibrio sempre un po' precario

 

Distesa a faccia in giù, ascoltava il silenzio. Era sdraiata e percepiva contro la pelle il pavimento freddo, rivestito di un marmo gelido e scosceso. Nel silenzio.
Poi una nota. Una nota distinta, un la chiaro e colorito tintinnò nell’aria. Un pianoforte.
Seguirono dei piagnucolii confusi, come di un gattino sofferente.
Aprì gli occhi e si sorprese ad assaporare polvere sulle proprie labbra. Una luce bronzea, forse un tramonto inoltrato, penetrava da una lunga finestra angolare. Sotto quella finestra, un pianoforte a coda, una sagoma scura contro le lunghe pareti giallo pastello, troneggiava in una stanza altrimenti vuota.
Nell’angolo contiguo, nascosto dalla penombra, stava la cosa che continuava a piagnucolare. Non era un gattino. Pareva fosse un bambino, piccolo e nudo, rannicchiato a terra con la pelle ruvida e rossa, come scorticato. L’ombra ne offuscava i dettagli del viso, ma sembrava sforzarsi di respirare.
Si alzò con lentezza, levando via la polvere dai propri vestiti; avrebbe dovuto aiutarlo, era piccolo, fragile e ferito, anche se disgustoso. Avrebbe dovuto prenderlo, consolarlo, ma non ci riusciva.
“Non possiamo fare niente per lui, ora.”
Un giovane uomo stava seduto sullo sgabello. Era stato lui a suonare la nota, probabilmente pigiando un tasto a caso. Stava fermo sullo sgabello, la mano destra immobile sulla tastiera, la fronte corrucciata quasi a porre una qualche misteriosa richiesta a quei tasti.
Abbandonò il bambino scorticato e raggiunse il ragazzo, per prendere il suo posto davanti ai tasti bianchi e neri. I suoi tasti. L’uomo rimase saldo nella sua posizione, senza dire una parola, la squadrava col suo paio di occhi chiari, grigio-azzurri, quasi bianchi.
Uno, due. Iniziò, come sempre. Tre, quattro. Come i battiti del proprio cuore. Uno, due. Come il ruggito del mare. Tre, quattro. E il clangore di due incantesimi che si scontrano. Uno, due. Le ferite, nell’addome. Tre, quattro. Colpi secchi di pugnale. A chiudere i conti. A spegnere i fuochi. Per sempre.
“Non hai nulla da chiedere, Chris?” I due occhi chiari continuavano a fissarla.
“Siamo morti, Tom?”
 
*
 
“Chrissie…” L’aveva chiamata. Solo ora riusciva a pronunciare il suo nome. Solo ora, dopo aver ascoltato le parole di Hermione – lei ci credeva che quegli occhi, quelle mani, quelle labbra, quella rabbia fossero ancora parte di Chris –, solo ora, dopo aver controbattuto colpo su colpo nella sciocca speranza di batterlo senza farle male.
Aveva pronunciato il suo nome solo alla fine. Il suono del mare non gli aveva raggiunto l’udito se non in quel frangente. “Chrissie…” E poi era accaduto tutto così in fretta. Pioveva, pioveva tanto, ed era sempre più buio. Harry non seppe neppure rendersi conto di quando il pugnale si allontanò dalla gola di Hermione.
Aprì gli occhi e il sangue che sgorgava copioso nel fango era quello di Chriseys.
“No, no, no, no,” sentì cantilenare la voce di Hermione. La stringeva tra le braccia per impedirle di cadere sul terreno sporco e bagnato.
Harry cadde in ginocchio accanto a loro. No, no, no. Non stava succedendo davvero. Era un incubo e presto si sarebbe svegliato, una delle sue stupide paranoie. Adesso avrebbe riaperto gli occhi e tutto sarebbe scomparso. Senza acqua, senza fango, senza sangue, Tom Riddle morto e sepolto e Chris che ride alle sciocchezze di Ted. No, no, no. Non era stato sufficiente perdere sua madre, suo padre, Sirius, Silente, Fred, Remus… quale pena infinita stava scontando? Quale colpa doveva ancora pagare? Non aveva pagato abbastanza? No, no, no. Non potevano portarsi via anche la sua bambina.
“Harry, non…” La voce di Ron gli arrivò spezzata dal vento e dall’affanno, mentre Hermione mormorava parole senza senso apparente, una dopo l’altra. Erano incantesimi. Bisbigliava tutti gli incantesimi medici che aveva letto in chissà quale libro e che le tornavano alla mente in quel momento. Bisognava fermare l’emorragia, impedirle di perdere tutto quel sangue.
“Harry,” richiamò Ron. “Non possiamo muoverci, ora.” Gli si era avvicinato a fatica. Aveva diversi tagli sul braccio destro che brillavano rossi alla fioca luce crepuscolare ma, con una cocciutaggine tutta Weasley e l’aiuto di qualcuno degli incantesimi analgesici imparati in Accademia, ricacciava via il dolore.
Non possiamo muoverci, Harry. No. Nessuno di loro poteva muoversi ora, tranne lui. Doveva correre subito. Bisognava fermare tutto quel sangue e portare immediatamente Chris al San Mungo. Annuì e, senza perdere altro tempo, strinse forte la bacchetta e sparì in un lampo alla ricerca dei migliori medici del mondo magico.
 
*
 
Uno. Por una cabeza de un noble potrillo.
Due. Que justo en la raya afloja al llegar.
Un, due. Tango argentino. Anno 1935. Metro binario.
Per un colpo di testa. Sorrise. Era come se le sue dita scegliessero automaticamente dove andare a posarsi. Per un colpo di testa. “No olvides, hermano, vos sabes no hay que jugar,” intonò sotto lo sguardo gelido di Tom. Forse non gli piaceva il tango? Magari portava alla mente ricordi tristi: gli anni ’30, l’orfanotrofio, Silente, il maniero dei Riddle.
Por una cabeza todas las locuras. A sua madre piaceva questo tango, lo suonavano in un film famoso. In diversi film, forse. “Ah, il tango,” diceva, sospirando, rievocando chissà quali avventure di gioventù. “Hermione,” poi chiamava, disturbandola in una di quelle sue infinite ricerche di studio, “tu, dovresti ballare di più.” La tirava su per un braccio e la costringeva a fare un giro di danza. Chris ridacchiava, mentre continuava a esercitarsi. Ah, il tango… Dovevano ballare di più.
Tom non parlava, guardava nell’angolo opposto, verso quella cosa. Non guardare nell’angolo opposto, continua a suonare, si impose lei. Si concentrò sulla musica e su quel giovane uomo col volto perfettamente simmetrico e gli occhi di ghiaccio. Voleva apparire calmo e neutrale, ma lei lo conosceva ormai. Sì, che lo conosceva. Col pollice della mano sinistra continuava ad accarezzare l’anulare della destra, come se si aspettasse la presenza di un anello; e ricordava, sì, quella musica portava alla mente tanti ricordi.
Que importa perderme mil veces la vida; ¿para qué vivir?
 
*
 
Si era trascinato addosso la pioggia, il fango e la paura. La sentiva tra le dita, la paura. Aveva passato anni a combattere i peggiori mostri che questo pianeta avesse mai prodotto, il suo sangue aveva pulsato e bruciato sotto i peggiori incubi e mai come in quel momento aveva sentito la paura corrergli nelle vene.
L’aveva sorpreso. L’aveva colto di sorpresa, come un temporale che si nasconde dietro le nuvole in una tranquilla serata estiva. Tu sei in giardino a riposare, ti godi la brezza leggera che ti accarezza fresca la pelle, i bambini si divertono sull’altalena nel cortile e tutto va bene. Poi un lampo e un tuono. Si scaraventano contro l’altalena e istantaneamente senti il panico salirti nelle vene. I tuoi bambini stavano giocando sull’altalena e niente va bene. Non c’è uragano che tenga, devi correre e portarli via in salvo.
Chris aveva bisogno di lui.
I mattoni rossi del magazzino Purge & Dowse Ltd. perdevano gran parte del loro colore sotto la scarsa luce dei lampioni sulla strada.
Harry era vagamente cosciente delle chiacchiere che si alzavano al suo passare dalle bocche degli attendenti in sala d’aspetto, aveva addosso quintali di fango, d’altronde. Tuttavia, attraversò l’atrio senza guardarsi attorno. La signorina in accettazione era occupata a scribacchiare qualche foglio.
“Ho bisogno di una squadra di soccorso.”
“Come, sc-?”
“Capitano Harry Potter, signora,” chiarì, e in un gesto che non aveva mai fatto con tanta consapevolezza, passò una mano tra i capelli, lasciando libera alla vista la cicatrice a forma di saetta che gli marchiava la fronte.
“Sì, signore.”
“Ho un codice rosso. Scogliere Bianche, Dover. Ferita di arma da taglio, con lama maledetta o avvelenata. Ho bisogno del professor Lane e della migliore squadra che avete. Adesso.”
Doveva correre a portare via la sua bambina dall’altalena.
 
*
 
La luce che proveniva dalla finestra stava affievolendosi. Ma le dita di Chriseys e i tasti con cui sapientemente giocavano continuavano a combinarsi con la memoria della ragazza, i ricordi si catapultavano uno contro l’altro. Anni dopo anni, ricordi di una, due, mille vite.
Hermione le aveva mentito per la durata intera della sua esistenza. Sua madre, suo padre, Harry, probabilmente anche Ron, e chissà quanti altri avevano partecipato a quella menzogna. La volevano protetta e ignorante. Perché dovevano mentirle? Sentì nuovamente la rabbia accecarle lo sguardo e le lacrime bruciarle gli occhi. Perché era così sola? Perché si sentiva così sola nonostante tutte quelle voci, tutta quella gente, tutte quelle mani che volevano guidarla?
Le dita interruppero la loro danza di colpo: si voltò di scatto a controllare Tom Riddle che stava ancora seduto accanto a lei senza proferir parola. “So quello che stai cercando di fare. Non riprenderai il controllo, non vincerai tu.”
Tom aveva smesso di giocherellare con le dita. Guardava ora, alternativamente, le mani di Chris e il crepuscolo oltre la finestra. “Non ho fatto nulla,” si difese appena, ma a Chris parve di notare una leggera piega delle labbra verso l’alto. Non avrebbe fatto il suo gioco.
“Non lascerò che la rabbia e l’odio governino gli ultimi istanti della mia esistenza,” proclamò, lasciando andare il pianoforte. “Io non sono te.”
“Manchi di coraggio.” Tom piegò la testa di lato, abbozzando un ghigno che smosse appena la perfetta simmetria di quel viso efebico. “Guardami negli occhi, Chriseys.”
Chris sentì il peso della spada prima ancora di vederla materializzarsi nella sua mano. La luna era ormai alta in cielo, la stanza si era vaporizzata nella notte, un vento affatto timido soffiava tra i rami e le foglie di qualche sempreverde. Avvertì sotto la pianta del piede il solletico dell’erba fresca e un poco umida. Le sue scarpe erano sparite, o forse non le aveva mai avute.
Tom scosse la testa, a metà tra lo scocciato e il divertito. Adesso si trovava di fronte a lei, impeccabile nella sua divisa scolastica, anche lui impugnava una spada. “Davvero?” mimò con labbra. Poi aggiunse il suono della sua voce: “Sei così prevedibile,” sembrava lamentarsi, tuttavia, s’inchinò con tranquillità. “Tirati su, vediamo cosa ti ha insegnato Potter.”
 
*
 
“Mi congratulo, mi congratulo, capitano. Il suo intervento tempestivo le ha permesso di conservare il braccio intatto. Eh, ma io l’ho sempre detto al colonnello Rowen che il corso di primo magisoccorso è fondamentale nel percorso dell’Accademia …” Il Professor Geoffrey Marcel Rufus Longwaters spiegava e parlava e tossiva e parlava. Era un ometto dai capelli bianchi sparsi a destra e a manca, col viso tondo e sproporzionato, gli occhi troppo grandi e il naso troppo piccolo. Si era intrufolato nell’ambulatorio da qualche minuto e aveva iniziato a borbottare ordini, spiegazioni e complimenti al Capitano Weasley. Forse non aveva sentito che c’era Harry Potter alla fine del piano terra.
Ron osservò con simpatia la fronte crucciata della giovane medimaga – Guaritrice May –  che gli aveva ricucito il braccio. Gli aveva rifilato un paio di pozioni dal gusto altamente discutibile, ma il tutto era necessario per assicurarsi la salvezza completa del suo tanto amato quanto indispensabile arto. Del dolore lancinante di qualche ora prima non era rimasto che uno strano senso di intorpidimento e una perfetta fasciatura.
Mentre il professor Longwaters continuava a cianciare, Ron cercò di ripercorrere quello che era accaduto durante quell’assurda giornata, ma era così difficile ritrovare un filo logico, una successione sensata di causa ed effetto, in tutto quello che era successo. Malfoy, Hogwarts, Dover, Chrissie.
Un soffio, erano stati solo ad un soffio dall’innescare lo scenario ideale per una terza guerra magica. Una parola in più, una parola in meno, un incantesimo finito male. Solo un soffio.
Si congedò dalle chiacchiere dell’invadente professore adducendo come scusa il riposo dovuto al suo stato di paziente. Aveva bisogno di un bagno caldo, con l’essenza di vaniglia e papavero. Un bagno, un calice di Burrobirra, un divano, Rosie che legge e Hugo sulle gambe che chiacchiera, chiacchiera, chiacchiera. E Hermione.
Lo stato delle sue ferite gli aveva impedito di seguire lo sviluppo delle condizioni di Chriseys non appena era entrato in ospedale. Adesso era giunto il momento di affrontare la realtà.
I corridoi degli ospedali hanno sempre un qualcosa che ricorda i labirinti, così lunghi, così confusi, così vuoti. Porte, scale, ascensori, barelle, gente con gli occhi bassi e spenti. Un soffio, solo un soffio, sarebbe bastato. In quei corridoi, tutti uguali e tutti diversi, Ronald Weasley si ritrovò a contemplare la precarietà di una pace raggiunta - tanto più preziosa, tanto più fragile, tanto più difficile da costruire -, la precarietà di ogni tipo di pace. I compromessi diplomatici tra pregiudizi, miseria e interessi economici, il silenzio di un animo adolescente sconvolto dalla morte, dalle menzogne e dai sogni infranti oppure la calma apparente tra le quattro mura della tua casa, una casa fin troppo silenziosa e quieta. E spenta.
Spinse piano la porta, per paura di disturbare Chris. Ma Chris dormiva ancora, e forse nulla l’avrebbe potuta disturbare in quel frangente. Era distesa nel letto, tra tubi e strane luci di monitoraggio. Al capezzale, i suoi genitori.
Il senso di abbandono che l’aveva accompagnato fino a quel momento a causa dell’assenza di Hermione al suo fianco si tramutò immediatamente in senso di colpa nel vedere il corpicino di Chris in quello stato. L’istinto, maturato in dieci anni di matrimonio, gli suggerì di raccogliere in silenzio il proprio ego ed offrire a sua moglie una spalla su cui posarsi. Ma l’istinto tradisce. A Hermione non serviva una spalla – o almeno, non la sua.
Li osservò con attenzione. Osservò la scena come uno spettatore che si ritrovi a guardare uno scontro frontale durante una partita di Quidditch: lo spettatore vede con chiarezza che le scope si scontreranno ma non può fare niente per impedirlo e niente per distogliere lo sguardo.
Hermione aveva il viso arrossato dal pianto e aveva raccolto i capelli in uno chignon frettoloso, tracciava sovrappensiero disegni astratti sul braccio di Chris adagiato sopra il lenzuolo; Hermione scaricava le sue emozioni nel contatto fisico, negli abbracci, nelle carezze, nelle strette di mano, lo aveva sempre fatto, continuava a farlo. Harry le cingeva il braccio e nascondeva parte del viso nell’incavo del collo di lei, mentre anche lui manteneva fisso lo sguardo su Chriseys.
Non parlavano. Non si guardavano. Entrambi incredibilmente concentrati e soli, del tutto incapaci di realizzare la sconveniente intimità che tradiva quell’abbraccio. Del tutto ignari della sua presenza.
Li osservò con attenzione, poi, chiuse la porta.
 

Note: La chiusa di questo capitolo mi lascia sempre un po' triste. Triste la vita, vero? 
Ho scritto questo capitolo lo scorso luglio, e lo ricordo con vividezza perché da poco erano accaduti i terribili fatti di Nizza, e il cuore piangente di Ron era un po' il mio. Quanto è fragile uno stato di pace? Quanto è precario, tanto è importante...
In ogni caso, spero che le note positive del capitolo siano arrivate, perché qualcosa di positivo c'è, se cercate bene, a partire dal titolo, che si rifà a una canzone dei Nomadi, il cui ritornello è un piccolo indizio sulle condizioni e sul futuro di Chriseys.
Il brano suonato da Chris è, invece, Por una cabeza di Carlos Gardel, le parole che intona in italiano sarebbero, più o meno, così: "Per un colpo di testa di un nobile puledro, che proprio sulla riga si affloscia all'arrivo. Non dimenticare, fratello, tu lo sai che non devi giocare. Per un colpo di testa, (farei) qualunque follia! Che importa perdere mille volte la vita pur di continuare a vivere?" Interpretatelo come più vi aggrada!

Ritorna all'indice


Capitolo 36
*** Capitolo 33 - Petali di rosa e Prugne Dirigibili ***


Capitolo 33
Petali di rosa e Prugne Dirigibili
C’era una volta un ragazzo insicuro con un amico importante e un’amica che lo era anche di più. C’era una volta un ragazzino spaventato e geloso che aveva voltato le spalle a entrambi. C’era una volta una gelosia cieca e rabbiosa, c’era la paura di sbagliare, di non essere mai all’altezza, mai abbastanza. Solo in seguito vennero gli scontri, le maledizioni, le morti, le vittorie e le stelline di Capitano.
Le Prugne Dirigibili pareva dovessero avere degli strani effetti benefici – o almeno così diceva Luna. Piacevano tanto a Rosie, quelle palline svolazzanti intorno a un albero storto. Ron le prese a pugni una ad una, dedicandovi una concentrazione che concedeva a poche altre cose nella vita. Era un po’ come lanciare lontano dalla porta una Pluffa o due. Era un po’ come prendere a cazzotti il viso finto-innocente di Harry Potter. Pugni e cazzotti che non sarebbero serviti a nulla, pugni e rabbia che non facevano altro che ferire solo il suo cuore già abbastanza malandato.
Ronald Weasley e Hermione Granger. Gli era sempre piaciuto il suono dei loro due nomi accostati l’uno all’altro. Avevano una bella famiglia, ci avevano messo così tanto a costruirla e a renderla serena, si erano perdonati così tante cose a vicenda. Cos’era rimasto adesso? Quando si era incrinato il loro rapporto? Quando avevano smesso di parlare? Quando avevano smesso di litigare?
Lasciò che fosse il vento freddo di dicembre ad asciugargli le lacrime e la frustrazione, a terra, in piena notte, sotto l’albero di Prugne Dirigibili che separava la collina in due: la proprietà dei Lovegood dalla Tana – da casa.
Entrò in cucina a passi leggeri, per scoprire Ginny che prendeva appunti alla luce di una candela e sua madre che sistemava le ultime stoviglie sotto un getto d’acqua infinito. Le donne Weasley non riposavano mai.
“Dove sono i bambini?”
“Dormono.”
“Bene.”
“Cosa è successo, Ron?”
Domande – una dopo l’altra – spiegazioni, chiarimenti, sguardi preoccupati, cordoglio. Domande, conversazioni che non era in grado di sostenere.
“Ti faccio una tazza di tè.” La proposta così squisitamente inglese di Ginny non ammetteva risposte negative. Se qualcosa va male, facciamo una tazza di tè. Tutti meritano una tazza di tè.
“Dovresti stare con tua moglie, ora, Ron.  Lo sai che i bambini stanno benissimo qua. Adesso riposati un po’ però, torna nella tua cameretta, sono sicura che a Hugo non dispiacerà dividere il letto con il suo papà.” Sua madre si preoccupava, come sempre.
Gli scoccò un bacio sulle tempie. Non si lasciava andare a queste dimostrazioni d’affetto da anni. Era così ingiusto doverle dare altre preoccupazioni. Non aveva già votato abbastanza giorni al dio della pace domestica? La Tana non sarebbe mai stata casa senza di lei. No, non era giusto aggiungerne di nuove Ron la ringraziò di cuore.
“Vado a letto tra un po’, finisco prima questa.”
“Buonanotte,” disse infine Molly, guardando entrambi i suoi figli a fondo. Forse, pensò Ron, stava resistendo alla voglia di chiamarli ancora bambini miei. Perché, in fondo, quando avevano smesso di esserlo?
“Ha ragione lei, sai?” bisbigliò Ginny. Tracciava col dito il bordo della sua tazza, perdendo lo sguardo nelle sfumature scure dell’infuso. Non aveva ancora chiesto di Harry. Forse non lo avrebbe fatto: a Ginny piaceva non chiedere mai nulla. Strano approccio alla vita per una giornalista.
“Gin, no, non farlo.”
“Sto solo cercando di dir-”
“Niente,” la interruppe. “Non dire niente. Non sono in vena. E non mi importa del tuo stupido patto con Harry. Io e Hermione, il nostro rapporto non funziona così.” Anche se forse non funziona più. “Chris… tu non l’hai vista, era posseduta, Gin, - Voldemort era sul punto di tornare, tramite una bambina! – e ades-”
“Cosa? Pensi che io non sappia cosa voglia dire? Non t’azzar-”
“E adesso,” alzò la voce in maniera istintiva, “potrebbe morire e ovviamente – ovviamente – i suoi genitori sono spaventati a morte. Perché, per la miseria, Harry e Hermione sono i suoi genitori. Per quanto possano nascondere la verità agli occhi degli estranei, restano i suoi genitori. Prima riesci a dirlo ad alta voce, prima riusciremo tutti ad affrontare questa storia.”
“E quindi? Cosa succede se lo diciamo ad alta voce, Ron? Cosa cambia? Cosa è cambiato ora?” Ginny abbandonò la perlustrazione della sua tazza di tè per guardarlo dritto negli occhi. Alla luce di quel mezzo moccolo di candela, aveva gli occhi scuri e determinati. Sempre determinati gli occhi di Ginevra Weasley - Potter. “Lo hai appena detto tu, Tu-Sai-Chi stava tornando, di nuovo, stava usando una ragazzina, di nuovo. E i suoi genitori sono spaventati a morte.” Allungò le dita sul tavolo per afferrare la sua mano, in un raro momento di comprensione. “E fa male, lo so che fa male, e so quello che ti fa ricordare. Ma è normale che i suoi genitori siano terrorizzati, è giusto che sia così, è così che funziona. Ma temo che qui non c’entri Chriseys, o almeno non del tutto, e non c’entra il mio rapporto con Harry.”
“Tranquilla, non ci vorrà molto prima che ne risenta anche tu.” Strinse labbra e occhi non appena pronunciò quelle parole amare. Era ingiusto un tale pensiero, ma c’era e non poteva ignorarlo. Era il suo cuore affranto a parlare, la gelosia, il ragazzino insicuro che c’era una volta. L’amore della sua vita era andato distrutto dal tempo e dai silenzi, e Harry Potter era l’ombra che li seguiva dovunque, ancora là, sempre là. Se io perdo lei, tu perderai lui.
“Ron…” lo rimproverò semplicemente bisbigliando il suo nome, alla maniera di sua madre. Gli lasciò andare anche la mano.
“Ha smesso di parlare con me. Ha smesso di fidarsi di me. Adesso abbiamo persino smesso di litigare. Mi sembra di non conoscerla più.”
“Non puoi lasciarti andare a questi pensieri, Ron, non adesso. Soprattutto adesso, dovresti, dovremmo stare al loro fianco.”
Uno alla volta, pugni e cazzotti contro due stupide Prugne Dirigibili. Una risata amara gli salì lungo il petto fin su alla gola. Ginny Weasley-Potter era indistruttibile. Ma lui no.
“E se loro non avessero bisogno di noi?”
 
*
 
“Due uova di Ashwinder, petali di rosa in quantità, peperoncino in polvere, mescolare sette volte in senso antiorario e due volte in senso orario. Come diamine si fa? Come accidenti si fa, Chris?” mugugnava tra sé e sé.
Rilesse in fretta le istruzioni sul libro impolverato a causa del peperoncino che gli era appena caduto. Che cazzo c’era tornato a fare a lezione? Doveva andare a casa, da nonna Andromeda e trovare un modo, una scusa per andare da Chris. Questo doveva fare. Come si fa? Sospirò. Come stai, Chris?
Ted leggeva, mescolava e aggiungeva ingredienti a caso, ma il buco che aveva nello stomaco gli impediva di comprendere appieno le azioni che continuava a compiere. Era a lezione, nei sotterranei, a mescolare stupide pozioni. Nello stesso tempo, però, era a Londra, in ospedale, a pregare che Chrissie stesse bene.
Non era tornata quella sera, non era più tornata. Harry e Hermione l’avevano trovata ma nessuno di loro si era ripresentato al castello. Le scarse informazioni che era riuscito a cavare fuori dalla professoressa McGranitt non potevano per nulla colmargli quel buco nello stomaco.
“Ted, per cortesia, smetti di torturati le ferite sul collo.”
Sentì appena il rimprovero bisbigliato di Sybil, che dal tavolo dietro di lui cercava di far fermentare la sua Amortentia insieme a Elise Thomas. Lasciò scivolare via le mani. Non era colpa sua se continuava a premere sulle ferite, era diventata una reazione automatica: le dita gli correvano sulle tracce lasciate dalle corde causate dall’incantesimo di Chris ogni volta che pensava a lei.
Era stata poi davvero lei a lanciare quell’incantesimo? Perché adesso, dopo tutto quello che era successo, non ne era più tanto sicuro? Blackwood si era convinto ci fosse qualcun altro dietro le sue azioni sconsiderate, qualcuno di cui non aveva voluto fare il nome. La reazione di Ron non faceva altro che avvalorare quella tesi. Chrissie, come stai? Ted non riusciva a non pensarci.
“È che non posso fare a meno di- ” Ho paura e non so cosa fare e mi manca e se poi non … .
“Lo so,” bisbigliò Sybil, tirando un sospiro. Era preoccupata anche lei. “Anche io,” confermò, abbassando lo sguardo sul mortaio e i semi di peperoncino. “Starà bene, vero?”
“Sì.”
Sì. Che cosa poteva rispondere? Chriseys Granger non aveva mai mollato una sfida in vita sua, figurarsi se mollava ora. Ted non avrebbe saputo immaginare nessun altro scenario. Starà bene.
Ma se poi non … ?
Due uova di Ashwinder, petali di rosa in quantità, peperoncino in polvere. La pozione d’amore più potente al mondo, impara a prepararla e avrai il suo cuore tra le tue mani.
Aveva avuto il suo cuore tra le mani e la sua fragilità lo aveva spaventato. Aveva avuto il suo cuore tra le mani e non aveva saputo proteggerlo. Va’ via. Erano le ultime parole che le aveva detto. Va’ via. Erano l’ultima preghiera che Chris aveva sentito dalla sua voce. E se poi non…?
Si tirò giù le maniche e asciugò in fretta le lacrime che gli avevano bagnato gli occhi prima che qualcuno lo vedesse. Chiuse il libro di fretta e, mugugnando qualcosa a metà tra una richiesta di permesso e qualche scusa verso la professoressa, lasciò l’aula di Pozioni.
Avvertì i passi svelti di qualcuno che lo seguiva. L’ultima cosa che aveva voglia di fare era dare retta alla professoressa Light e al suo falso senso d’autorità.
“Ted.” Era Sybil. “Prendi quella cartina colorata del castello.” Cartina colorata? Se Chris fosse stata lì in quel momento si sarebbe indignata a quella denominazione degradante della Mappa del Malandrino. “Ci serve Blackwood.”
Sybil Joyce aveva un piano ed Edward Lupin lo avrebbe seguito.
 
*
 
Damian Blackwood non era un argomento che a Ted piaceva particolarmente. Se avesse deciso di guardarsi a fondo nell’animo avrebbe anche saputo perché, ma non era quello il momento per darsi da fare in sedute di autoanalisi. Tuttavia, Ted si ritrovò ugualmente a seguire Sybil che camminava a passo spedito tra gli intricati corridoi dei sotterranei di Hogwarts.
Blackwood stava studiando. Perlomeno così appariva. Lo trovarono nell’aula per le esercitazioni di Incantesimi, circondato da un numero indeterminato di fogli e un paio di libri. Faceva rotolare la bacchetta avanti e indietro sul piano scosceso del tavolo.
“Hai di nuovo la bacchetta,” esordì Ted. Erano entrati a sorpresa in un’aula vuota, non doveva certo preoccuparsi dei convenevoli in momenti del genere. L’assenza della sua bacchetta era stata una delle lamentele preferite di Blackwood sabato sera, quando erano stati costretti a condividere l’Infermeria.
“La McGranitt me l’ha restituita ieri sera. A cosa devo questa invasione? Sono un po’ impegnato, come potete vedere.”
Ted vide Sybil annuire e sottrargli un libro dalle mani. “Questo è un libro sulle guerre magiche?” Lo sfogliò appena e poi ne lesse il titolo “Il Marchio Nero e i suoi significati…”
Blackwood riacciuffò il testo con aggressività. L’approccio simil-imboscata non era di certo il migliore per assicurarsi la sua collaborazione, ma Sybil aveva un’idea e degli strani modi di fare e a Ted non importava granché di entrare nelle grazie di Blackwood. Non gli importava proprio, a essere onesti.
“Cosa accidenti volete?”
“Ci servi,” spiegò Sybil, senza tanti giri di parole. Una prima volta per lei, forse. “Vogliamo andare al San Mungo. Da Chris.” Il piano di Sybil era semplice e geniale. Ted non aveva saputo di desiderarlo finché la ragazza non gliel’aveva spiegato.
“E io perché dovrei aiutarvi?” Blackwood giocava a fare il difficile, ma non era così bravo a dissimulare il suo interesse come voleva fargli credere.
“Tre validi motivi, Damian. Posso chiamarti Damian?” chiese Sybil, continuando ininterrotta il suo treno di pensieri. “Odio chiamare le persone con il loro cognome, è maledettamente impersonale.”
“Okay,” Blackwood annuì, ghignando appena. “Sybi-il, giusto?”
“Wow! Certo che questo sorriso però stenderebbe chiunque… Chrissie, sai essere davvero cieca quando t’intestardisci,” borbottò tra sé, inconsapevole o del tutto incurante dei suoi due ascoltatori.
Ted si ritrovò a sbuffare, impaziente: cosa aveva di così speciale quel sorriso? Due denti bianchi.
“Scusa, scusate…” ricominciò Sybil. “Il piano, un piano, per vedere Chris. Perché ci devi aiutare? Tre ragioni. Uno: il tuo ruolo di Caposcuola ti permette di saltare le lezioni adducendo qualche sciocco motivo istituzionale. Ci serve solo raggirare Gazza, i professori non dovrebbero disturbarci. Abbiamo la cartina. Due: hai diciassette an- ”
“Diciotto.”
“Meglio. Non hai più la Traccia addosso e puoi Smaterializzarti dove ti pare.”
“Ancora non vedo perché dovr-?”
“Tre: vuoi vedere anche tu Chriseys.” Il che era probabilmente vero. E sicuramente irritante.
Blackwood si tirò in piedi e iniziò a raccogliere i fogli che aveva sparpagliato sul tavolo. Con precisione maniacale li impilava uno sull’altro. “Non ci permetteranno mai di entrare.” Scuoteva la testa, foglio dopo foglio.
“Questo significa che ci stai?”
 

 

Note: Prima c'è il trauma e poi tutto lo strascico di conseguenze che si porta con sé. In questo capitolo, ne iniziamo a vedere qualcuna. 
Come sempre, tutto ciò che riconoscete non mi appartiene.
Ho solo un messaggino per chi voleva una sana scazzottata tra Damian e Ted: credo dobbiate aspettare un po', per il momento pare vogliano firmare un piccolo armistizio.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 37
*** Capitolo 34 - Waiting on a friend ***


Capitolo 34
Waiting on a friend
Le Buone Novelle. Harry aveva sempre trovato quell’albero delle Buone Novelle una risorsa incredibilmente affascinante, a parte il nome ridicolo. Lo riportava ai tempi in cui il Mondo Magico gli riservava sorprese sempre nuove e pillole di ingegno quasi favolistico, quando si faceva sorprendere come un bimbo innamorato. Un grande abete pieno di campanelline colorate a suonare ogni qualvolta un paziente si ristabiliva o una famiglia festeggiava una nascita; era qualcosa di sdolcinato e tenero allo stesso tempo.
Sopra ogni campanella era inciso un nome; ogni tanto ne spuntava una nuova e l’albero si allargava, e ogni tanto ne scompariva qualcuna e l’albero si restringeva. Il paziente veniva dimesso oppure… andava via. A quello non c’era rimedio neanche nel Mondo Magico. Harry, purtroppo, quella lezione l’aveva imparata fin troppo presto.
Tuttavia, era sempre una piacevole sorpresa sentire il tintinnare di una campanella. Din Don. Cosa avrebbe dato per sentirne tintinnare una in particolare.
La Sala da Tè era pressoché vuota: c’era una signorina che chiedeva informazioni all’Elfa di servizio dietro il bancone dei dolci, e un paio di Medimaghi si dividevano un pranzo frettoloso intorno a un tavolo riparato.
Harry sorseggiava con calma e a più riprese un latte macchiato, bollente, senza zucchero ma con una spruzzata di cacao. Era il preferito di Chris, quello che le piaceva sgraffignargli quelle poche mattine in cui passava dal suo ufficio. Provava uno strano senso di sollievo nel sentire il liquido caldo scivolargli giù nella gola.
I Guaritori ancora non volevano pronunciarsi sull’effettiva pericolosità delle sostanze di cui la lama del pugnale era intrisa, ma preferivano mantenere Chris in stato di incoscienza, per controllare gli effetti del sospetto veleno.
Era tornato a casa una sola volta in quei tre giorni, solo per cambiarsi d’abito. Aveva visto i bambini due minuti, aveva dato un bacio forte a tutti e tre e promesso loro che tutto sarebbe andato bene. Una promessa che aveva bisogno di sentire lui stesso. Ginny era passata due o tre volte in ospedale e non aveva detto niente. Ron era passato due o tre volte in più e, anche lui, non aveva detto niente. Non parlava più nessuno.
Forse avrebbe dovuto sentirsi in colpa nel cercare così tanto spesso, in quelle ore, le mani di Hermione, ma non riusciva a trovare in se stesso abbastanza coraggio per non farlo. Quella di Hermione era l’unica mano che lo aveva tenuto saldo in ogni sua avventura, in ogni suo momento di debolezza e in ogni suo momento di forza, e lui ne aveva bisogno come l’aria. Ne avevano entrambi bisogno come l’aria.
Ron era infastidito da tutta quella situazione, Harry lo percepiva in maniera chiara quando arrivava in ospedale e stringeva le braccia intorno al petto, o si inumidiva le labbra, nascondendo, forse, qualche frase che voleva evitare di pronunciare. Ginny, invece, arrivava col suo sorriso poco convinto e qualche strano dolce inventato da Molly. A lei non dava fastidio, o forse, lo nascondeva bene.
Harry non poteva fare a meno di considerare tutta quella situazione vagamente surreale. Ma a breve Chris si sarebbe svegliata e tutto sarebbe tornato a posto. Tutto sarebbe andato bene. Era una stupida promessa che doveva fare a se stesso.
Scivolò tra corridoi e scale, stringendo il suo bicchiere, continuando a sorseggiare con calma e a più riprese, per sentire quell’attimo di caldo sollievo. Un sacco di gente si muoveva tra le corsie, era orario di visite. Ogni giorno, a quell’ora, l’ospedale si riempiva di una specie di allegria forzata e fuori luogo: visitatori solitari e imbarazzati, intere famiglie chiacchierone, vecchi amici curiosi o sinceramente preoccupati, ragazzini…
Rischiò di lasciar scivolare il bicchiere dalle mani quando intercettò la sagoma di Teddy che balbettava qualche parola di giustificazione al signor Prenston, uno degli inservienti che si occupavano di mantenere una parvenza di ordine nei corridoi dell’ospedale. Ted, Sybil Joyce e Damian Blackwood erano davanti alla porta della camera di Chris. Ted, Sybil Joyce e Damian Blackwood avevano mollato una mattinata scolastica – probabilmente senza permesso – per una visita in ospedale a Chris.
“Signor Prenston, lasci stare. Sono parte della famiglia,” interruppe la conversazione, tranquillizzando l’inserviente. Le regole sulle visite ai pazienti gravi erano piuttosto severe. Tuttavia Harry non riusciva a considerare quei tre incoscienti degli intrusi.
“Se lo dice lei, professor Potter.” Prenston annuì e si allontanò. Era il papà di una piccola Corvonero del secondo anno e con occhiali giganti, e aveva preso l’abitudine di chiamarlo professore. A Harry andava bene. Era molto più soddisfacente quel titolo rispetto a tutti gli altri che gli avevano imposto nel corso della sua esistenza.
“Grazie, Harry,” lo ringraziò Ted. “Noi, ecco… siamo venuti per…”
Com’è che era lui il portavoce di quella banda di disgraziati? Quando, solo qualche anno prima, si sarebbe nascosto dietro alla furbizia degli altri bambini? Se salti la lezione e ti becchi il professore davanti hai bisogno di tutte le tue risorse retoriche per tirarti fuori dai guai, invece Ted era e sarebbe sempre stato l’oratore meno adatto a perorare qualsiasi tipo di causa.
“Siamo qua per Chris. Vorremmo sapere come sta.” Ma aveva cuore, lo aveva sempre avuto.
“Non potreste. Dovreste essere a scuola. Avete lezione a quest’ora. Sono piuttosto sicuro che il signor Blackwood dovrebbe avere due ore di Difesa in questo momento.”
“Mancava il professore, professore,” rispose prontamente il diretto interessato. Blackwood non aveva problemi a tirare fuori la sua prontezza di spirito. Harry si ritrovò a concedergli un po’ di tregua, il ragazzo aveva un colorito troppo tendente al verde per essere salutare e  anche lui era lì per Chriseys d’altronde.
“Vorremmo solo sapere come sta, magari vederla,” continuò Ted. Lo guardava coi suoi piccoli occhi ambrati, pregandolo silenziosamente. Avrebbe dovuto raccontare tutto anche a lui quando la situazione si sarebbe ristabilita. Perché la situazione si sarebbe ristabilita. Per forza.
“Posso almeno lasciarle un regalo?” parlò Sybil per la prima volta. Se ne era stata in disparte, osservando chissà cosa nell’azzurro di quel corridoio.
“Hai portato un regalo?” chiese Ted, sorpreso.
“Certo, chi va in ospedale senza un pensierino? È da maleducati.”
Harry ascoltò quel battibecco. Ted era perplesso e sorpreso dall’atteggiamento di Sybil, Blackwood aveva prima alzato gli occhi al cielo e poi si era lasciato andare a un mezzo sorriso.
A vederli spuntare in corsia, tipo cavalleria in pronto soccorso, gli era subito tornata in mente la premiata ditta Potter, Granger e Weasley, quelli che stavano sempre dove non dovevano stare e correvano sempre a salvare l’insalvabile, ma quei tre non erano Potter, Granger e Weasley, quei tre non avevano nulla in comune se non il loro affetto per Chris.
Chris, che si era sentita tanto sola e abbandonata da lasciarsi dominare da Lord Voldermort. Chris che una volta gli aveva anche detto di non ricordare nessun momento felice nella sua vita. Harry si sentì mancare. Come aveva potuto non rendersene conto? Eppure la vedeva ogni giorno. Perché aveva lasciato che perdesse contatto con tutto l’affetto che aveva intorno a lei?  Devi sentirlo, amore. Devi sapere quanto sei amata.
“Non ha ancora ripreso conoscenza, Sybil,” si costrinse a spiegare. Ogni volta era difficile pensarlo ed era difficile dirlo.
“Lo troverà quando si sveglia.” Sybil non mollava. Ted e Blackwood annuirono.
“Uno alla volta e senza fiatare.”
 
*
Granger, non startene lì in silenzio… che fai? Dormi. Almeno fa’ bei sogni. Mi piaci di più quando ti lamenti perennemente della mia presenza. Certo che, tra tutti i casini in cui potevi andare a cacciarti, dovevi proprio infilarti in un letto di ospedale? Così, con gli occhi chiusi e tutte queste strane lucette? Cerca di tornare al castello, per favore. Abbiamo troppi discorsi incompiuti e non ho nessuno a cui promettere di togliere punti senza di te.
*
Chriseys, come stai? Ti lascio questo qui, così lo trovi quando ti svegli. È un fiore di loto, mia madre dice che il loto serve a purificare il nostro cammino su questa terra, perché nasce negli stagni libero dal fango. È importante saperle queste cose. Prima, per venire qua, io e Ted abbiamo mollato la lezione della Light. È stato divertente. Avresti dovuto esserci.
*
Chrissie, hai gli occhi chiusi. Vorrei che li avessi aperti. Ho bisogno di guardarti negli occhi per dirti quanto mi dispiace. Non basteranno mai le scuse, lo so. Non sono stato un buon amico, non ho saputo ascoltare i tuoi silenzi. Non volevo mandarti via, non avrei mai dovuto mandarti via. Ma tu dammi un’altra occasione, apri quegli occhi e ti prometto… Non sono riuscito a toccare la chitarra da quella volta, da quando ci siamo… Non la toccherò. Sta aspettando te.
 
*
 
“Mangia qualcosa. Fatti un giro. Respira un po’ d’aria fresca.” Harry Potter come voce della ragione un’immagine bizzarra. Per una volta, i loro ruoli si erano invertiti e ora toccava a lui fare il saggio. Si era avvicinato, le aveva preso la mano e vi aveva posato il bicchiere in cartoncino con metà del suo caffellatte, tiepido, come piaceva a lei.
Mangia qualcosa, fatti un giro, ci sono tre idioti che hanno infranto tutte le regole scolastiche senza un motivo logico – dal momento che, se richiesto, non ci sarebbero stati problemi a dare loro un permesso – solo per sapere come sta Chrissie, tre ragazzini idioti scappati da Hogwarts pronti a infrangere ogni regola per gli amici.
Hermione aveva lasciato il capezzale di Chris solo perché le sembrava doveroso fidarsi di quei tre. Ora doveva solo preoccuparsi di scegliere tra biscotti al cacao farciti alla vaniglia o un mix di noccioline, arachidi e mandorle. Hugo avrebbe scelto i biscotti ad occhi chiusi, Rose ci avrebbe pensato un po’ di più, ma poi avrebbe preferito le noccioline. Li comprò entrambi.
Hugo e Rose stavano bene. Erano entrambi con Molly, giocavano coi cuginetti in mezzo alla neve e alle torte di zucche e non chiedevano dove fosse la mamma. O perlomeno non lo chiedevano spesso. Appena tutta quella storia sarebbe finita, avrebbe eretto una statua in onore di Molly, enorme, all’ingresso del Ministero: Alle Nonne, le spine dorsali del nostro Stato.
Anche sua madre era stata una grande nonna. E una madre paziente.
Quel suo cervello stanco faceva tin-tin come la pallina impazzita di un flipper tra migliaia di pensieri e immagini diverse. Di tutto, pur di non fermarsi su quell’unica immagine che si rifiutava di contemplare.
“Primo Piano.” Uscì dall’ascensore prima che la voce metallica potesse informarla di tutti i reparti presenti in quel particolare angolo di San Mungo. Era diventata insofferente anche a queste piccole cose. Aveva intenzione di dirigersi nuovamente verso la stanza di Chris, ma si soffermò un secondo ad osservare il ragazzo che, seduto sul primo gradino della rampa di scale che conduceva dal primo al secondo piano, beveva avidamente da una bottiglia d’acqua.
“Damian? Blackwood?” chiese. Il ragazzo alzò lo sguardo verso di lei e annuì. “Credevo fossi di là.”
“Sì,” annuì ancora, “ma uno alla volta,” disse a mo’ di giustificazione, prima di sorseggiare di nuovo un po’ d’acqua dalla bottiglietta. “C’è Sybil Joyce adesso, credo,” spiegò, prima di alzare lo sguardo e rivolgerle un sorriso di circostanza.
“Perdonami, Damian, se ti sembro inopportuna ma… hai una pessima cera. Sei quasi verde in viso. Sei sicuro di stare bene?”
“Sì, sì, certo, signora Granger?” Granger andava bene. Hermione annuì, invitandolo a continuare. “Vede, io non ho un bel rapporto con gli ospedali. Anzi, ho un pessimo rapporto con gli ospedali. Si può dire che ci odiamo a vicenda,” sospirò prima di concludere un po’ sottotono, “Mi viene sempre un po’ di nausea.”
Aveva un nonsoché di tenero, quell'adolescente con i riccioli sistemati a regola d’arte e la camicia perfettamente stirata che si ritrovava in imbarazzo per un po’ di mal di stomaco. Hermione trattenne a stento l’istinto di sorridere alle piccole disavventure del ragazzo. “Vado a chiamare qualc-?”
“No, no, no. Non c’è bisogno,” interruppe la proposta sul nascere. “Starò meglio tra un po’. Po-, il professor Potter sta cercando un focolare per farci tornare al castello. Non pensa che sia capace di tornare a Hogsmeade.” Hermione riuscì a percepire nel tono di Damian giusto un po’ del suo discontento con il professor Potter, ma capiva l’apprensione di Harry. “Ho passato l’esame, a pieni voti, giuro,” aggiunse lui, notando forse un’espressione di diffidenza sul viso di lei.
“A dire il vero,” incominciò lei, mentre prendeva posto sul gradino accanto a lui, “con la vostra gitarella avete infranto le regole della scuola, è normale che Harry voglia evitare altri guai. E poi vorresti davvero Smaterializzarti in questo stato?”
Damian alzò gli occhi al cielo. “Immagino lei abbia ragione,” concesse, probabilmente a malincuore. Hermione vide che passava l’indice sul collo della bottiglia, con gli occhi abbassati, come a ponderare qualcosa. Infatti, la richiesta non tardò. “Posso chiederle una cosa?”
Annuì. Non avrebbe avuto senso negare una risposta senza conoscere la domanda.
“Cosa è successo? Cosa è successo davvero? Mi scusi, è che… non voglio risultare inopportuno, vorrei solo capirci qualcosa di più. Dove l’avete trovata? Cosa faceva? Chi è stato a ferirla così? Era sotto Imperio? C’era qualcuno nella sua testa, non è così? Perché per quanto Chriseys potesse essere confusa e delusa e arrabbiata, non posso credere che avrebbe potuto tentare di su-… Chriseys è testarda e ha la pessima tendenza di chiudersi a riccio in se stessa ma è sempre stata particolarmente combattiva. C’era qualcuno che la controllava.”
Harry considerava quel ragazzo ambiguo, secondo sue testuali parole, ma Chris sembrava avergli accordato una grande dose di fiducia. Fin troppa, forse. Era sveglio e curioso, una combinazione pericolosa. Però vomitava quando entrava negli ospedali e si era introdotto volontariamente in uno di essi pur di vedere Chris.
D’altronde, anche Hermione era sempre stata sveglia e curiosa.
Chiuse gli occhi, sospirò e annuì. Era troppo da ammettere ad alta voce.
Damian aprì nuovamente la sua bottiglia d’acqua e bevve con avidità. Poi parlò: “Ho pensato c’entrasse il Signor-, voglio dire, Voldemort, per via del Marchio, ma è una folli-” Hermione riuscì a vedere riflesso nel suo sguardo la sua sorpresa. Era riuscito a intuire anche questo? “Non è una follia.”
“Ha cercato di usarla per tornare in vita,” disse, quasi in maniera automatica. Il senso di colpa tornava a provocarle fitte all’altezza dello stomaco ogni volta che ci ripensava. “Ma lei ha resistito.” Era stata brillante e coraggiosa come Harry alla sua età. Chris era stata fenomenale e loro avevano fallito. Avevano fallito nel proposito di non permettere mai più a nessuno bambino, nessun ragazzo, di sopportare quello che loro avevano dovuto sopportare. Ancor di più, avevano fallito nella promessa che si erano fatti, vent’anni prima, di proteggere la loro bambina.
“Ecco perché il Marchio è scomparso.” Il sussurro di Damian la sorprese, aveva smesso di porgli completa attenzione quando le aveva ricordato il motivo per cui erano là.
“Hai un Marchio Nero, Damian?” Quel simbolo trovava sempre il modo di tornare ad ossessionare le menti della gente, lo aveva visto tracciato su muri a Diagon Alley e evocato contro un cielo stellato. Lo aveva visto sul braccio di gente crudele, brillante, debole e ingenua. “Come hai fatto ad averlo?”
“Alla stessa maniera di Chris, ho fatto qualcosa che non avrei dovuto,” le spiegò, abbassando lo sguardo. Se ne vergognava. E ben faceva. “Parte del mio pessimo rapporto con gli ospedali,” continuò. Probabilmente c’era una storia là dietro. “Ma adesso è scomparso. Ieri c’era e adesso non c’è più.” Finalmente una buona notizia. “Che significa, signora Granger?”
“Significa che sta vincendo lei.”
 


Note: Questi tre cavalieri in pronto soccorso sono dolci, non trovate? Anche se un po’ imbranati: uno s’impappina sulle parole, l’altro rischia di rimettere da un momento all’altro e Sybil… Sybil è meravigliosa, come sempre.
Sempre di più ci avviciniamo alla conclusione di queste vicende, manca ancora qualche capitolo ma siamo in dirittura d’arrivo, e vorrei ringraziare tutti voi lettori che seguite con costanza. Il vostro supporto, in qualsiasi modo abbiate deciso di darlo, in silenzio o chiacchierando con me nella sezione commenti, è fondamentale per la continua ‘rinascita’ di questa storia. Grazie!
 

Ritorna all'indice


Capitolo 38
*** Capitolo 35 - Goodnight Moon ***


Capitolo 35
Goodnight Moon
Mantenere i piedi saldi sul terreno, coprire il corpo con la spada, stringere il braccio lungo i fianchi per ridurre i punti di contatto e poi colpire con la parte appuntita. Le regole le erano sempre sembrate semplici, sulla carta. Metterle in pratica era un’altra storia.
“I tuoi insegnanti non sono stati granché o è colpa dell’allieva?” Tom era agile e rapido, si copriva bene e attaccava anche meglio. Non appena Chris respingeva un attacco, la lama di Tom si riproponeva contro di lei. Dove diamine ha imparato a dare di scherma così bene?
“Non ho mai nascosto il mio interesse per le armi letali, Chris. E io imparo, di solito. Al contrario di te.”
Tom ascoltava, Tom osservava e aspettava, lo aveva fatto per anni. Ecco perché sapeva benissimo come colpire.
“A che gioco stiamo giocando, Tom?”
“Questa è la tua testa, Chriseys.”
Una notte cristallina davanti a un lago pacifico, tra alberi da giardino e bubuli di gufi. Questa era la sua testa. Un affondo, una parata, un altro affondo, lo stridore di due spade che si incrociano. “E come ci sei finito tu nella mia testa?” La schiena contro una quercia, e poi colpiscimi con la parte appuntita, Tom.
“Come spiegarlo in poche parole?” Tom lasciò scivolare la punta della spada lungo il braccio di Chris. “L’anatema che dovrebbe uccidere non lo fece – come sempre con Harry Potter, dovrei dire –  ma il rituale aveva già scinto nuovamente la mia anima, quel che rimaneva aveva solo bisogno di qualcosa o qualcuno che l’accogliesse, senza fare tante storie. E tu eri lì, indifesa e ancora incosciente.”
“Quindi,” incominciò Chris. Tom aveva interrotto il viaggio della sua spada sulle dita della mano di Chris. “Sei un parassita?” chiese lei. Strinse poi il palmo contro la lama – non poteva farle realmente del male nella sua testa.
Tom si avvicinò, riducendo ai minimi termini il suo spazio personale, la spingeva sempre più contro il tronco della quercia, a cercare il suo sguardo diretto. Quel viso di serafico adolescente perse le sue sembianze pacifiche in un attimo, e adesso Chris riconosceva il mostro delle antiche storie di Ron e Hermione: un mostro senza scrupoli, senza paura, senza passato, senza affetti. “Ti piaccia o no, sono parte di te.” Affondò la spada nel palmo della mano, le urla di Chris si persero nella vastità di quel prato notturno.
Ma Tom aveva lasciato il proprio fianco completamente scoperto e Chris non aveva di certo abbandonato la presa sulla sua spada – attaccò le costole, con tutta la forza che aveva, forse poca, ma abbastanza per farlo indietreggiare e lasciargli sanguinare il fianco sinistro. “Perché non sei ancora morto?”
E se moriamo, moriamo insieme. Chris sentì distintamente la frase risuonare nell’aria, nella sua testa, come un monito, un ricordo, una promessa. Tom era parte di lei. Quel mostro era parte di lei.
“Quella cos- quel bambin-,” incominciò, cercando di mettere ordine ai propri pensieri. Se questa era una proiezione della sua mente, se Tom era parte di lei, allora anche il bambino scuoiato e sofferente che avevano abbandonato nella stanza del pianoforte era parte di lei.
“Non c’è niente da fare per lui,” urlò Tom. Lo aveva già detto, sembrò annoiato di doverlo ripetere. Portò la lama a coprirgli il busto e si avvicinò per lanciare un ulteriore attacco. “È morto,” sputò, sul clangore delle spade che si incrociavano.
Chris parò con calma e contrattaccò. Sapeva osservare anche lei. Anche se peccava di pulizia.
“Chi sei davvero?”
Tom aveva indietreggiato ma rimaneva in posizione d’attacco, coi piedi bagnati nell’erba umida, una ferita sanguinante sul fianco sinistro, la divisa di Hogwarts sgualcita, un graffio lungo il collo. Respirava affannosamente e si rifiutava di mollare la spada. Testardo, teneva gli occhi fissi su di lei.
Occhi verde nocciola.
“Questa è la tua testa, Chriseys.”
Il suo lago, i suoi tasti, il suo prato, le sue spade. La sua testa. Suoi erano il pallone, il campo e le regole di questo bizzarro gioco.
Sue la linea melodica e l’armonia, sue le penne colorate sugli spartiti e gli orsacchiotti blu nella neve, suoi i litigi, gli abbracci e i mignolini incrociati in segno di pace, sua la torta di zucca e Alice nel Paese delle Meraviglie, sue le risate alla luce scarlatta del camino e le corse a perdifiato nella foresta, sue le carezze tra i riccioli prima di addormentarsi,  sue le chiacchierate sui pavimenti scoscesi, suoi i buongiorno, i grazie e gli arrivederci, sue le favole della buonanotte.
Ma tu lo sai quanto ti voglio bene, piccoletta?
Chriseys sorrise. Quel mostro aveva paure, aveva un passato, aveva scrupoli e aveva affetti. I suoi occhi non erano rossi, né grigi. Quel mostro si arrabbiava e si infastidiva, piangeva e rideva, correva e cambiava idea per nulla. Ed era parte di lei.
Lord Voldemort è morto.
Tom piegò leggermente il capo di lato, accennando un sorrisetto. Alzò di poco le spalle e, in segno di resa, lasciò scivolare la spada a terra.
Buonanotte, amore.
 
*
 
“ … ”
Aveva una parola sulla punta della lingua – un saluto, una promessa, un augurio. Sapeva di avere qualcosa da dire ma non riusciva a ricordare cosa. E non c’era neanche abbastanza forza per articolare bene le parole. Deglutì e solo allora si accorse di essere nel fondo del lago. Ora sì che non avrebbe potuto pronunciare nessuna parola.
Acqua tutt’intorno, alghe e pesci di un verde sconnesso. Il cuscino era troppo rigido.
La consapevolezza di essere in dormiveglia la raggiunse lentamente: come accade in questi casi, non è mai possibile ritrovare quel momento, quell’esatta frazione di secondo, che segna il confine tra alghe, pesci di un verde sconnesso e un cuscino troppo rigido.
Aprì gli occhi e ad accoglierla fu il bianco squallore di un soffitto rettangolare. Niente del baldacchino rosso scarlatto a cui era abituata. C’erano stati pochi risvegli nella sua vita che non avessero implicato una immediata voglia di rigirarsi nel letto e tentare nuovamente di farsi coccolare da Morfeo. Questa era una di quelle rare occasioni.
D’istinto, tentò di girarsi per smuovere un po’ quel cuscino fastidioso, ma non appena accennò un movimento sentì una fitta all’addome e non abbastanza forza per combattere il dolore.
“Bentornata.” Tre dita lievi le sfiorarono i capelli sulla fronte. Hermione. “Dove credi di andare?” sussurrò con delicatezza e un accenno di sorriso.
“C- cuscino,” spiegò a stento. Chissà da quanto tempo non apriva bocca. Adesso, un po’ d’acqua le avrebbe fatto bene. Hermione si sporse sul letto e sistemò il cuscino sotto di lei, poi, quasi avesse indovinato i suoi bisogni con uno sguardo, le porse un bicchiere d’acqua e l’aiutò a berlo. Piano, piano, uno, due sorsi. Scosse la testa, era già troppa.
Era un ospedale. Chris era in ospedale, in un letto e uno, no, due cuscini scomodi, con le pareti bianche, le lucette colorate a destra del letto – verde, gialla e rossa –, le finestre socchiuse e Harry addormentato su una sedia di fortuna.
Oh, ricordò.
L’arrivo di un Guaritore e seguito fece scattare Harry in piedi imbarazzato e le impedì di ricordare tutto e troppo in fretta. Il Medimago scrutò, chiacchierò, esaminò quello che aveva da esaminare, bisbigliò robe ai suoi assistenti, sorrise condiscendente, le chiese due o tre cose senza senso alcuno.
Stava bene, sarebbe tornata a stare bene, a quanto pareva. Avrebbe potuto godersi tranquillamente la convalescenza durante le vacanze di Natale. Piacevole.
Sembravano cauti e diffidenti, gli assistenti là dietro. Confusi dalla presenza di Harry Potter forse, o dallo strano modus dell’ “incidente”. Il Guaritore continuava  a ripetere “incidente”, quasi potesse aggiungere le virgolette nel tono della voce. Non aveva avuto nessuna intenzione di uccidersi, se era questo quello che pensava. Stava solo cercando di riprendere il controllo della propria vita – e del proprio corpo, e della propria anima. Addio, Tom. Non è stato per niente piacevole finché è durata. Grazie mille.
“Non volev-, non stavo cercando di suicidar-,” fu la prima cosa che tentò di spiegare non appena i Medimaghi lasciarono la stanza. Harry e Hermione la guardarono entrambi con un’espressione di sorpresa dipinta sul viso. “E non stavo neanche cercando di uccidere voi, comunque…”
“Nessuno ha mai pensato volessi farlo, Chris,” si affrettò a specificare Hermione. Tornò al posto in cui l’aveva trovata appena sveglia, accanto al suo letto, con le mani impegnate a carezzarle la fronte, la mano, il braccio. Qualsiasi minimo fazzoletto di pelle pur di sentire la sua presenza. Hermione non cambiava mai.  “I Medimaghi fanno solo il loro lavoro. Sappiamo che non eri in te.”
Harry aveva preferito posizionarsi di fronte a lei, stringendo le nocche attorno alla pediera del letto. Aveva i capelli schiacciati su un lato e la camicia tutta sgualcita a causa, forse, della pessima posizione in cui si era addormentato. I suoi famosi occhi verdi sotto le lenti tonde sembravano scrutarle l’anima nel tentativo di capire se stesse davvero bene o meno.
Harry Potter era suo padre.
“Ti serve qualcosa? Un po’ d’acqua, un altro cuscino? Un giornale?” Hermione era sua madre.
Ora aveva preso a stringerle delicatamente la mano, passava avanti e indietro il pollice sul taglio che le segnava il palmo, quasi potesse farlo guarire così.
Chris tirò indietro la mano e girò il braccio, aveva bisogno di vedere il proprio polso: il serpente era andato via, come anche il teschio, restava solo il segno di una cicatrice a forma di stella racchiusa in un pentagono. Il peccato originale.
Harry Potter e Hermione Granger erano i suoi genitori. Perché? Si affacciò la domanda nel silenzio che era piombano sulla stanza. Perché non gliel’avevano detto? Perché mentirle per così tanto tempo? Perché farle credere di essere un’altra persona? Cosa cambiava adesso? Nulla. Assolutamente nulla. I suoi veri genitori erano stati e sempre sarebbero stati Edward e Helen Granger.
“Ti va un croissant?”
“Harry!”
La domanda di Harry e la susseguente reazione indignata di Hermione spezzarono il corso dei suoi pensieri. Erano davvero due idioti cronici quei due. E a lei toccavano i loro geni combinati? Adesso sì che si spiegano tante cose.
“È stata addormentata per giorni. Ha bisogno di zuccheri, non è così?” Parlava con Hermione, ma si rivolse verso Chris alla fine. Si era sistemato gli occhiali sul naso e aveva inarcato leggermente le sopracciglia, prima di passarsi la mano tra i capelli, spettinandoli ancora di più. Harry Potter era suo padre, ed  era divertente, sciocco e imbarazzato, e aveva una voglia matta di scappare via dall’aria pesante che c’era in quella stanza.
“Non mi dispiacerebbe un croissant.” Chris ebbe pietà di lui. Forse voleva solo schiarirsi le idee. Una passeggiata sarebbe servita anche lei, ma difficilmente quella paranoica di sua sor-, Hermione l’avrebbe lasciata andare a spasso per il San Mungo.
Harry strinse le braccia intorno al petto e annuì soddisfatto verso Hermione, che alzò le mani in segno di resa. In un lampo poi si appressò alla testiera e le baciò rapido la guancia per lasciare la stanza in direzione probabilmente della Sala da Tè. Chris si ritrovò a toccarsi la guancia e a sorridere alle sue maniere buffe,  la barbetta del giorno prima le aveva solleticato la pelle. Ti voglio bene, anche se pungi.
“Non credo tu possa mangiare un croissant, adesso. Forse è meglio chiedere al professor Lane …” Partiva per la tangente, Hermione. Probabilmente in quel momento le stavano volando in testa miliardi di pensieri al secondo.
“Hermione?” la chiamò, catturando la sua attenzione, prima che potesse scappare anche lei. “Non preoccuparti.”
“È il mio lavoro,” spiegò lei. Fece spallucce e poi si fermò a osservarla. A Chris risultava vagamente fastidioso questo sguardo concentrato sulla sua persona, ma Hermione era Hermione, le era davvero impossibile smettere di preoccuparsi. Tuttavia, dopo tutto quel gran macello che era successo, forse preoccuparsi era comprensibile, anche se decisamente fuori tempo massimo. “Mi dispiace,” bisbigliò, infine. “Mi dispiace,” ripeté. Adesso era il momento per scusarsi? “Non avrei mai vol-, noi non volevam-”
“Cos’è quello?” la bloccò Chris prima che potesse continuare. Un po’ perché quel fiore sul comodino era davvero curioso, e un po’ perché non si sentiva ancora pronta per sentire quel tipo di scuse e affrontare quella conversazione.
“Questo? Un fiore di loto, lo ha lasciato Sybil.” Hermione si fermò ad osservarlo e poi glielo porse. Il fiore, probabilmente rafforzato dalla magia, galleggiava bonario in un boccia d’acqua, le enormi foglie verdi facevano risaltare i petali bianchissimi. Gentile e puro come la sua amica.
“È venuta con Teddy e Damian Blackwood ieri mattina,” chiarì. “Minerva non è stata molto felice della loro trovata, ma io penso siano stati molto carini.”
Chris ascoltò e sorrise, pensando alla gentilezza che avevano dimostrato. Poi si fermò.
“Con Teddy e Damian? Insieme?”
Hermione annuì, ridacchiando, forse per l’espressione che doveva esserle balenata sul viso. Teddy e Damian non funzionavano insieme nella stessa frase. Teddy e Damian andavano d’accordo adesso? Teddy e Damian erano andati fino al San Mungo insieme per… lei? L’ultima volta che li aveva visti insieme di certo non sembrava sarebbero potuti diventare grandi amici, l’ultima volta che li aveva visti…
“Damian!” Oh, merda! “L’ho lasciato a congelare nella neve!”
“Sì,” rispose Hermine mentre rimetteva il fiore di loto al suo posto. “Direi di sì.”
E aveva fatto anche altre cose, prima di abbandonarlo nella Foresta. Strane cose. Ma lo aveva abbandonato nella Foresta, gli aveva rubato la bacchetta e lo aveva lasciato svenuto nella neve, in mezzo al nulla. E aveva quasi strozzato Ted, aveva reciso con violenza il braccio di Ron e anche il tipo al Ministero non lo aveva trattato nel migliore dei modi.
Hermione si piegò a guardarla per richiamare la sua attenzione, e lei se la ritrovò davanti con quegli occhi marroni così tanto simili ai suoi. “Non eri tu, Chris.”
Solo quando sentì la carezza di Hermione che le asciugava il viso si rese conto che il magone si era trasformato in pianto. “E sta bene, adesso?” chiese.
“Fanny lo ha trovato e riportato al castello.” Fanny? Quindi, alla fine, aveva iniziato a trovarlo simpatico.
Quante persone aveva deluso? Quanto dolore aveva causato? Era stupido ora ritrovarsi a piagnucolare, lasciandosi divorare dal senso di colpa. Le ritornò alla mente il volto di Tom Riddle e quel mostriciattolo nascosto dalla penombra. Era lui che guidava, ma lei gli aveva lasciato il timone.
“A quante persone ho fatto del male, Hermione?”
“Non eri in te. Non è stata colpa tua.” Avrebbe potuto ripeterlo miliardi di volte. Forse alla fine le sarebbe entrato in testa. “E non è successo nulla di irreparabile, Chris. Non hai mai oltrepassato il limite, e questo deve pur voler dire qualcosa.”
“E che cosa? Cosa vorrebbe dire?”
“Vuol dire che sei stata coraggiosa e testarda come sempre e sei riuscita a tenergli testa. Hai vinto, Chris, hai vinto tu e hai fatto tutto da sola.”
Hermione non era in torto, forse. Ma ciò non significava che Chris fosse pronta a perdonarsi. Non si sentiva pronta per un sacco di cose in quel momento, avrebbero dovuto lasciarla dormire ancora un po’. Un altro paio di anni sarebbero bastati, forse.
“Dovresti riposare, adesso. Stare tranquilla.”
Facile a dirsi. Chiamate un Medimago. Avrebbero potuto darle una o due delle loro pozioni anestetiche. Annuì con poca convinzione.
“Su, datti tempo,” ribadì Hermione, tornando a stringerle la mano. “Tornerà tutto a posto, bollicin-”
“N-, no!” Chris non seppe evitare di sussultare al nomignolo. Scostò di scatto la mano che la stringeva, quasi fosse un pericoloso veleno. Perché aveva dovuto tirare fuori quel nomignolo, adesso? Stava andando quasi bene ora.
Era troppo presto per sentire di nuovo quel nome, significava troppe cose. Chris sentiva davvero il bisogno di una pozione narcotizzante.
Hermione si morse il labbro, quasi a ricacciare le parole in bocca. Lanciò occhiate alternate al viso di Chris e alla sua mano abbandonata sul lenzuolo. Con buona probabilità, quella reazione l’aveva ferita, ma Chris, davvero, cosa poteva fare? Tutta quella situazione la opprimeva in modo incredibile. Poteva perdonarle quel piccolo insignificante dettaglio così come se non fosse esistito? Come se non avesse completamente rivoluzionato le basi della loro intera relazione?
“Scusa, scusa. Solo… non chiamarmi così, per favore. Non… farlo.” 
“Certo, hai ragione, scusami,” borbottò, in fretta, abbassando lo sguardo. Era riuscita a castigare con successo Hermione Granger. Chissà cosa avrebbero pensato i suoi colleghi al Wizengamot. Hermione Granger non si lasciava zittire mai da nessuno.
Hermione Granger, la sorella più fastidiosa e straordinaria di sempre, era sempre stata il suo modello di rettitudine e coraggio. Ma era sua m… adre. Era un pensiero così difficile da considerare.
Perché? Perché mi avete mentito per così tanto tempo? Tornava la domanda, ma Chris sapeva in cuor suo che non avrebbe avuto la forza di accettare alcuna risposta in quel momento. Era stanca, stanca, stanca. Si sentiva tremante e flebile come la lucetta gialla che lampeggiava sul suo letto.
“Possiamo riparlarne più in là, quando starai meglio,” sussurrò Hermione infine. “Non devi pensare a nulla ora, solo a riposarti e rimetterti in forze. E…” Preoccuparsi era il suo mestiere, in fondo. “Possiamo anche vedere se il professore ti permette di mangiare il croissant.”
Il croissant di Harry. Lo aveva scordato.
Croissant ora, e disastri famigliari dopo. Sì, questo poteva funzionare.


Note: Il viaggio sta per concludersi e questo capitolo, a mio avviso, ne è una prova. Il confronto - duello mentale tra Chris e Tom si è risolto, la verità in tutta la sua durezza si presenta nelle relazioni tra Harry, Hermione e Chris. Ora non resta che cercare di capirne le conseguenze.
Goodnight Moon è il titolo di una famosa favola della buonanotte negli Stati Uniti - forse, se avrete voglia di ascoltarmi, un giorno potrò spiegarvi il ragionamento contorto che mi ha spinto a sceglierla come titolo per questo capitolo.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 39
*** Capitolo 36 - Feeling so small ***


Capitolo 36
Feeling so small

Decorate la sala con rami d’agrifoglio. Decorate, cantate e siate chiassosi. Questa è la stagione per essere felici. Decorate, siate chiassosi e felici. E non discutete.
Qualcosa nell’imperativo categorico del canto natalizio che risuonava dalla filodiffusione non si accordava nel migliore dei modi con l’atmosfera che si respirava alla Tana. Per quanto si possa amare il periodo natalizio, Natale non è sempre Natale, alcune volte anche l’aria rarefatta di neve e pungitopo rischia di diventare eccessivamente pesante. Soprattutto quando tutti provano davvero troppo a decorare la sala con rami d’agrifoglio e allegria forzata.
Imbarazzante. Era l’aggettivo più adatto a descrivere la situazione. Forse solo i bambini che facevano chiasso sul tappeto insieme ai loro nuovi giochi riuscivano a salvarsi.
Stai bene, Chris? Vuoi un altro cuscino, Chris? Sicura che non hai freddo, Chris? Merlino, vienimi a prendere, per favore!
La casa sull’albero non era poi così distante, osservò gettando un’occhiata fuori dalla finestra: c’erano un po’ di neve, migliaia di gnometti dispettosi nascosti nel giardino, un’infinità di ragazzini che probabilmente l’avrebbero seguita e quel piccolo dettaglio della convalescenza per cui provare a spostarsi dal divano e dal focolare significava attirare tutti e ventimila gli occhi Weasley su di sé.
“Possiamo sempre escogitare un piano di fuga, sai?” sentì il sussurro così vicino all’orecchio da farla rabbrividire. “Potrei portarti in braccio,” propose la voce.
“Sembra quasi tu creda davvero di avere abbastanza forza per farlo, Teddy.”
Ted sprofondò sul cuscino accanto al suo con l’indifferenza sfrontata di chi frequenta una casa fin troppo spesso. “Posso sempre provare.” Sorrideva Teddy, di un sorriso che voleva essere di comprensione. “Ho sempre una bacchetta.” Strizzò l’occhio sinistro in un maldestro tentativo di occhiolino. Era dolce, il suo Ted. Le era mancato quel sorriso. “Perché sei così triste?”
“Non son-, non lo so, sembro triste?” chiese. Non si sentiva triste, non di per sé, si sentiva stanca, confusa e vagamente malinconica. Colpa del mix di pozioni che le avevano prescritto i Guaritori – o, perlomeno, le parve più semplice trovare una spiegazione così.
Teddy la osservava con calma, mentre lei cercava di esprimere il proprio disagio verso tutta quella situazione. Chris lo vide prima gonfiare le guance, perplesso, e poi allargare gli occhi e annuire. Riuscì a strapparle un sorriso con le sue facce da idiota.
“Non è che sono triste,” spiegò lei. “Sono confusa. Tutto questo mi confonde.” Le feste di Natale senza la mamma e il mostro nella sua testa che finalmente era andato via e quell’altra strana storia sui suoi veri genitori e Hermione silenziosa e Ron nervoso e Harry e Ginny e le frasi a metà e nascondere tutti i problemi sotto il tappeto di casa Weasley e giocare con le farfalline svolazzanti di Lily e continuare a conversare col tè in mano sull’ultima legge cavillosa proposta da Percy Weasley. Sembravano tutti così infelici. Altro che rami d’agrifoglio e stagione dell’allegria!
“Suppongo che il primo Natale sia sempre il peggiore.” Supponeva Ted. Per lui non era mai esistito un Natale migliore dell’altro, Teddy aveva sempre convissuto col rimpianto nel retro della memoria.  “Ma poi passa, in qualche modo. Ti vogliamo tutti un sacco di bene qua dentro, lo sai no?”
Tutti? Era un’intrusa in quella riunione di famiglia, si era sempre sentita un po’ di troppo in mezzo ai Weasley. Solo ora ne capiva a fondo il motivo.
“Lo sai che puoi parlare con me, vero? Dico sul serio, Chris. So che sono stato pessimo negli ultimi tempi, ma posso ascoltarti, voglio ascoltarti. Qualsiasi cosa tu abbia da dire.” La guardava con l’espressione contrita e seria. Si stava scusando, si scusava delle assenze e delle mancanze, si scusava delle fughe. Le prese la mano e incominciò il suo valzer quotidiano: uno, due, tre, le carezze sul palmo. “Dobbiamo parlare.”
Chris si lasciò cullare dal tocco di Ted sulla mano. Era bello tornare ad avere la sua mano da stringere: era protezione, era sostegno, era forza.
“Mi dispiace di averti ferito,” bisbigliò lei, abbassando lo sguardo. Anche lei aveva tante cose da farsi perdonare.
“Dispiace a me averti ferito. Non capivo, Chris. C’è questa cosa, qui, nella pancia, e qui,” batté la mano ad altezza del petto, “e tu… tu lo sapevi, t-”
“Teddy…” Chris sussurrò il suo nome, interrompendolo di fatto, e si stupì di ritrovarsi a scuotere piano la testa. “Vuoi davvero avere questa conversazione nel bel mezzo della cena di Natale alla Tana? La tua… fidanzata è nell’altra stanza.”
Ted posò i gomiti sulle ginocchia e abbassò il capo alla ricerca degli occhi di Chriseys. “Victoire non è più la mia fidanzata.”
“Oh…!” Chris strinse gli occhi, aspettando quel tuffo al cuore che non tardò ad arrivare. Per quanto tempo aveva aspettato quella notizia? Dov’era il sollievo? Dov’era la speranza? “Lo era ancora però… quando? Due ore fa?”
“Chrissie,” incominciò Ted, “io sto cercando di dirti qualcosa di- di importante e… tu non mi stai aiutando. Aiutami un po’,” concluse borbottando.
Non qui, non ora, Ted. Non in mezzo a settantamila teste Weasley, non con stupide canzoni di Natale come colonna sonora, non con gli occhi di Victoire Weasley sulla nuca e non dopo tutto il resto. Perché tutto quel resto era accaduto. Weasley e Potter e Lupin potevano fingere di essere allegri sotto le loro sciocche note di Natale ma era successo.
“Ted, sono successe così tante cose da quella sera nella Stanza delle Necessità, così tante, e tu… non c’eri.”
“Lo so, lo so. Ho sbagliato tutto! Ma, io e te, com’era? Il miglior team che sia mai esistito, no? Non potremmo ritornare a quello?”
Chris si sorprese a distogliere lo sguardo, lontano dall’espressione di Ted. La stava pregando di qualcosa che nemmeno lui capiva fino in fondo. Parliamo. Suoniamo insieme. Torniamo quelli di prima. Più di prima.
No. L’incendio che era esploso quando finalmente Harry e Hermione le avevano parlato aveva distrutto tutto, la foresta era bruciata, fino all’ultimo ramo. Di quello che Chris era prima non restava più nulla.
“Harry ti ha parlato?” chiese invece a mezza voce, anziché dargli una risposta. “Ti ha spiegato quello che è successo?”
Ted scosse la testa. “Dice che sarai tu a parlarmene quando vorrai. E che quando accadrà sarò poi io a cercare lui. Non ho capito granché onestamente, era molto evasivo. Ma va bene così, me ne parlerai quando sarai pronta. Se ne avrai voglia.”
“L’ultimo pezzetto di Tu-Sai-Chi era dentro di me,” bisbigliò lei; ogni volta che ci pensava la situazione le sembrava sempre più ridicola. Neanche questa era una discussione da tenere nel salotto di casa Weasley.
Ted scosse la testa incredulo, pronto a protestare, ma Chris continuò, sempre a bassa voce, temendo che qualcuno dei bambini che giocava più in là potesse carpire qualcosa. “Hai presente le storie sull’ultima Guerra Magica? Harry in fuga, la missione che gli aveva affidato Silente, gli Horcrux? Ti ricordi cosa ci raccontava il signor Weasley?” Ted annuì, la ascoltava perplesso ma concentrato. “Durante l’ultimo duello, lui, Voldemort, cercò di dividere ancora la sua anima, e quando la maledizione rimbalzò lo privò nuovamente del corpo ma lui aveva già trovato un altro recipiente per quell’ultimo pezzettino, un recipiente accogliente e non senziente. Me.” 
“Chris, questa cosa non ha senso. Cosa c’entri tu con la Battaglia di Hogwarts? Non eri neanche nata.”
“No, ma mia madre era incinta.”
“Ed in Australia,” puntualizzò Ted, cocciuto. Non le credeva, come poteva crederle?
“Ed era là.” Chris si ritrovò a insistere, indicando col capo e con lo sguardo verso la direzione in cui Hermione sorseggiava una tazza di qualcosa insieme a Fleur e Molly Weasley. “Hermione era là.”
Chriseys vide riflesso nello sguardo di Ted prima la perplessità, poi lo stupore. Il ragazzo si voltò a osservare nella direzione che Chris gli aveva indicato, poi tornò a guardare lei.
“Hermione è tua ma-?” La donna in questione se ne stava con le spalle appoggiate allo stipite della porta che divideva la cucina dal soggiorno, con un occhio teneva sotto controllo i bambini sul tappeto, con l’altro spiava non molto furtivamente Chris e con un orecchio forse ascoltava ciò che la signora Weasley più anziana avesse da dire. Neanche a Hermione piacevano granché i rami d’agrifoglio quell’anno.
“Perché avrebbe dovuto nasconderti questa cosa? Perché ti ha mentito? Non le avranno fatto viol- …?” Ted era un continuo di domande irrisolte. Un po’ come era accaduto a Chris quando aveva capito la verità. “E chi è tuo padre?” domandò lui, infine.
“Harry.”
Ted scosse la testa, finalmente consapevole sui significati dello strano discorso che il suo padrino gli aveva fatto. Chris lo vide stringere i pugni e trattenere un moto di rabbia. I suoi occhi si rivolsero verso la cucina dove sapeva fosse l’oggetto dei suoi pensieri e cambiarono più volte sfumatura nel giro di pochi secondi. Adesso sì che avrebbero parlato.
“Ecco perché sono scappata dalla scuola e perché ho fatto tutto quello che ho fatto. Ted, ascoltami.” Chris si ritrovò a trattenere un magone che le si era formato in gola. Più ne parlava, più capiva l’importanza che sfogarsi avrebbe avuto, eppure le parole, le immagini, il dolore si accalcavano nella sua mente come cinghiali impazziti rinchiusi in un recinto fin troppo stretto; liberarli distruggeva ogni recinzione, e faceva male. “Quindi, sì.” Ripensò al loro bacio nella Stanza delle Necessità, a quanto lo aveva voluto e a quanto diverse le apparissero le cose ora. “Sì, credevo di essere innamorata di te, forse lo ero davvero, ma cosa ne so? Quante persone mi hanno mentito per tutta la vita? L’unica voce sincera l’avevo in testa, ed era quella del mago oscuro più potente di sempre che ha causato la morte di migliaia di persone. E adesso che importa se, come, quando o perché avessi una cotta per qualcuno? I miei genitori non erano i miei genitori, mia sorell-, oh, e Harry! E mentre tutto esplodeva t-, tu non c’eri. Tu mi hai mandato via. Quindi non chiedermi quello che non poss- ... Non sono triste, sono confusa e stanca e arrabbiata, Teddy. Io ho bisogno… neanche lo so quello di cui ho bisogno.”
“Un amico?” Sentì le labbra umide di Ted sfiorarle la fronte prima ancora di lasciarsi andare all’abbraccio che la stringeva con forza.  “Ti serve il tuo vecchio amico idiota con i capelli blu. Mi dispiace, Chrissie, mi dispiace, dispiace, dispiace.”
 
And I am feeling so small
It was over my head
I know nothing at all
 
*
Note: Talvolta non mi piace lasciare questi commenti a fine capitolo e rovinare la sensazione che vorrei la lettura vi avesse impresso, ma certe cose non posso evitare di dirle. Questo è stato uno dei capitoli più in bilico da sempre, la discussione tra Ted e Chris ha cambiato forma e direzione miliardi di volte, confesso di essere stata un po’ riluttante ad ascoltare quello che i miei personaggi cercavano di dirmi. Forse l’esito di questa conversazione deluderà qualcuno, ma penso che il percorso fatto da Chris non potesse che portarla a questa conclusione. Il suo sfogo finale è solo un primo passo in un percorso di comprensione e accettazione di una situazione poco lineare, ingiusta e ingarbugliata. Ma è così che va la vita, no?
Spero abbiate presente questo anche quando leggerete il prossimo capitolo, strettamente legato a questo – di cui era la seconda parte prima che entrambi si espandessero in maniera abnorme.
Titolo e citazione finale sono tratti entrambi dal brano Say Something degli A Great Big World. Per chi non l’avesse mai sentita o non conoscesse il significato del testo, il passaggio citato significa più o meno questo: “E mi sento così piccolo, andava oltre la mia comprensione, non so proprio niente”.
L’ossessiva canzone che martella nella mente di Chris all’inizio del capitolo, per chi non l’avesse riconosciuta dalle mie parafrasi effimere, è Deck the Halls, canto tradizionale gallese, che tutti conoscono e di cui nessuno sa il titolo, l’incalzante fa la la la che ci investe senza via di scampo durante il periodo natalizio.

Ritorna all'indice


Capitolo 40
*** Capitolo 37 - Stumble and Fall ***


Capitolo 37
Stumble and Fall
And I will stumble and fall
I’m still learning to love
Just starting to crawl
 
Hermione percepì il sollievo rilassarle le membra al sentire il respiro regolare di Hugo. Il bambino aveva ceduto al richiamo piacevole del suo lettino solo dopo aver finito la scorta di canzoncine da canticchiare e storie da ascoltare. Rose, invece, aveva smesso di contare le monetine che aveva vinto al Mercante in Fiera ormai da un po’, si era addormentata col malloppo stretto nel pugno, come una piccola Scrooge in fieri. Hermione avrebbe dovuto farle un discorsetto sul valore del denaro il prima possibile.
Per il momento si lasciò cullare dal silenzio che finalmente regnava nella stanza. Le giornate alla Tana, insieme a tutto il clan Weasley, non le erano mai parse così lunghe come quella appena trascorsa. Uscendo piano dalla camera dei bambini, intercettò la sua immagine riflessa nello specchio dell’atrio: le borse sotto gli occhi le appesantivano lo sguardo e l’espressione. Quante rughe e quanti anni in più le avevano impresso sul viso gli ultimi giorni?
Le note di un inequivocabile Chopin che provenivano dal suo studio le fornirono una buona scusa per non indugiare troppo su questi pensieri. Quando però scoprì Chris tutta presa dal suo Notturno preferito non riuscì a trovare il coraggio di interromperla. Aveva scordato quanto potesse essere babbanamente magica la concentrazione che Chrissie dedicava al pianoforte.
Si appoggiò all’uscio e si fermò ad ascoltare. C’era una sorta di serenità intangibile tra quelle note. Merlino stesso non aveva idea di quanta serenità avessero bisogno tra le mura di quella casa.
“I bambini dormono,” informò Chris solo a brano terminato.
La ragazza annuì e poi fece spallucce. “Avevo l’impellente bisogno di sentire un po’ di musica vera.”
Hermione si sorprese a sorridere a quel guizzo dell’arroganza della vecchia bollicina. Spartiti, pianoforti, chitarre erano sempre stati il suo orgoglio e il suo vanto.
“Posso?” Le chiese un po’ di spazio sullo sgabello. D’altronde, nonostante da un bel un po’ di tempo fosse diventato più un elemento d’arredo che uno strumento musicale, quello era ancora il suo pianoforte.
Chris si fece da parte e alzò le mani quasi ad arrendersi alla sua volontà. Hermione accarezzò con delicatezza il do centrale e accennò un paio di scale, poi, cercò di improvvisare l’unico brano che conoscesse a memoria. Una volta, tanto tempo prima, aveva anche tentato di insegnarlo a Ron, quando erano nascosti a Grimmauld Place e cercavano un motivo per non dover pensare sempre e solo alla guerra e alla loro missione.
“È terribile!” Il bisbiglio dal tono disgustato di Chris non la sorprese affatto. Aveva sempre adorato maltrattarla quando si intrufolava nel suo universo musicale.
“Suvvia, non faccio così schifo!” Ma Hermione aveva un certo orgoglio da difendere.
“Le tue dita rigide stanno offendendo la storia della musica,” infierì la ragazza, poi continuò, con un pizzico di comprensione e dolcezza in più. “Da quand’è che non metti mano a questo piano? Vedi?” Hermione osservò le dita di Chris accarezzare i tasti con fluidità, mentre ognuno di quei suoni riverberava nell’aria in armonia.
Tentò di ricreare il passaggio, l’effetto però fu ancora leggermente meccanico, era passato troppo tempo da quando esercitava le dita con regolarità.
Durante la sua infanzia, suonare il pianoforte in casa Granger era stato un dovere: due volte a settimana entrava in casa il maestro Lancel con la sua valigetta e la sua infinita pazienza, ma poi era arrivato l’Espresso per Hogwarts, e Trasfigurazioni, Aritmanzia, amici attira-guai e guerre in corso avevano lasciato sempre meno tempo per le scale e gli arpeggi. Non era mai stato così per Chris, la pazienza del maestro Lancel aveva trovato nella sua nuova allieva un modo per venir ripagata. La dedizione che Chriseys riservava alla musica era sempre stata assoluta.
Chris aveva sempre coperto silenzi e rumori con la musica. Come in quel momento: dedichiamoci completamente alla musica, per dimenticare i silenzi che ci opprimono.
“Chris?” Parlami, guardami, ascoltami, perdonami.
Parole. Hermione Granger lavorava con le parole, ogni giorno imparava sempre di più a pesarle, misurarle, usarle con attenzione per convincere, persuadere, sedurre i suoi interlocutori. Parole. Guardami, ascoltami. Fuggivano in quel frangente.
“Io vado a letto. Non fare troppo tardi, okay?”
Chris annuì brevemente, concedendole appena un’occhiata di sfuggita. Quando sarebbero tornati gli sguardi e le parole tra di loro?
“Hermione?”
“Sì.”
“Buon Natale. Io… so che è difficile anche per te.”
“Buon Natale, Chrissie.”
*
Entrò piano in camera da letto, cercando di limitare al minimo i rumori per timore di disturbare il sonno di Ron. Suo marito però non dormiva. Hermione si stupì di trovarlo ancora resistente a Morfeo; gli ultimi giorni erano stati pesanti un po’ per tutti e la stanchezza era più che evidente anche sul suo viso. Malgrado ciò, se ne stava seduto sul letto, immobile, con i gomiti sulle ginocchia e le mani penzoloni. Aveva abbandonato la maglietta del pigiama stropicciata al suo fianco.
“Cos’hai?” domandò lei, mentre allentava finalmente l’elastico che le aveva stretto i capelli per l’intera giornata.
Ron non rispose. Aveva lo sguardo fisso su un punto e Hermione si trovò a seguirne la direzione. A terra, nell’angolo tra la cassettiera e la parete, erano cadute diverse schegge di vetro, sabbia, terriccio e un paio di foglie verdi. Si accorse in ritardo di aver perso un battito cardiaco: a terra, nell’angolo tra la cassettiera e la parete, stava quello che rimaneva della camelia che Harry le aveva regalato il giorno del suo ultimo compleanno, la camelia tanto bianca e tanto dolce che le aveva fatto compagnia negli ultimi mesi. Il frantumarsi della boccia che la conteneva doveva aver spezzato l’incantesimo, la camelia era tornata alla sua natura di farfalla e ora, probabilmente, era volata via.
Ron non si smuoveva dalla sua posizione e non distoglieva lo sguardo dai frammenti di vetro, aveva sul volto un’espressione di confusione e sofferenza.
Hermione strinse gli occhi e gli si sedette accanto. Forse il tempo per rimandare le conversazioni era scaduto. “Cosa è successo?” chiese, sussurrando, non del tutto sicura di voler conoscere la risposta. Magari aveva fatto un movimento sbagliato e la boccia era caduta. Succede. Oppure l’incantesimo si era spezzato da sé e la farfalla aveva provocato la caduta, anche questo era plausibile; oppure qualcuno aveva sfogato una rabbia repressa da troppo tempo su quella piccola camelia. Qualcuno.
“È finita,” fu l’unica risposta che uscì dalle labbra di Ron.
“Cosa?” chiese lei, memore di Ulisse e del suo fingersi folle pur di non partire per Troia. Osservò Ron: respirava profondamente, poi si voltò con lentezza verso di lei, dirigendo con calma gli occhi chiari incontro ai suoi.
“Noi,” disse lui con decisione, quasi avesse portato il peso della calotta celeste sulle spalle e ora, finalmente, fosse libero di lasciarla cadere. Addosso a tutti.
“È la notte di Natale, Ron…”
“Anche Natale è finito. Venti minuti fa.”
Alla fine, Ulisse a Troia dovette andare lo stesso.
“Ron…” Ron. Ron Ron Ron Ron. Ticchettava il suo nome nella testa come una bomba a orologeria. Ron. Lo aveva deluso, lo aveva trascurato, di questo era più che consapevole, ma non potevano essere davvero a quel punto! Hermione si rifiutava di crederci, la sua mente non riusciva ad accettare quel che il suo cuore forse sapeva già da tempo.
“Abbiamo perso, Hermione. Abbiamo fallito e siamo in ritardo nell’ammettere la sconfitta.”
Si accorse appena di stare stringendo il pugno attorno al lenzuolo che copriva il duvet, il cotone era freddo e sembrava quasi rifiutare la sua mano. Quello era il suo letto matrimoniale, quelle erano le coperte che dovevano proteggerla e riscaldarla per il resto della sua vita. Finché morte non ci separi.
Finché morte non ci separi. Hermione ci aveva scommesso, su quella promessa. Era stato così difficile scegliere, chiudere gli occhi, prendere una decisione e dire sì, lasciando per sempre indietro tutte le altre vite alternative – quell’unica vita alternativa – che aveva sognato. Eppure aveva creduto a quel sì, a quella promessa. Aveva voluto crederci con tutte le sue forze. Aveva sbagliato.
“Io ci ho provato davvero a starti accanto in questi mesi, ma tu continui ad allontanarmi e non posso rincorrerti per sempre.” Era come se Ron avesse finalmente trovato il modo di distruggere la diga che teneva a freno tutte le insicurezze della loro relazione. Il fiume delle verità che aveva tenuto nascoste finora, adesso travolgeva in pieno Hermione. “Come facciamo ad andare avanti insieme, se tu non ci sei? Merlino! Ti sei ricordata della mia presenza solo quando ti ho ferito, come quando eravamo ragazzini. Sono tuo marito! Sono io quello che dovrebbe fornirti la spalla su cui piangere, darti conforto, infonderti coraggio, consigliarti. Sono io quello che dovrebbe farti ridere… Una volta ti facevo ridere. Quand’è stata l’ultima volta che abbiamo riso insieme?”
Castelli, giochi, regole infrante, fotografie, bolle di sapone. Hermione scavò, cercò, inseguì nella sua memoria castelli, chitarre, scope, fotografie e Boccini d’Oro. Una volta ridevano tanto insieme. Una volta.
“Non potresti perlomeno… dire qualcosa?”
Dì qualcosa, Hermione. C’era qualcosa che avrebbe potuto dire, che avrebbe potuto frenare quella cascata inesorabile. Qualcosa che aveva provato neanche troppo tempo addietro, qualcosa che avrebbe ridato vivacità e speranza agli occhi rassegnati di Ron – lui stava sperando con tutto se stesso che lei lo dicesse, Hermione glielo leggeva nel contegno, nello sguardo, in tutte quelle accuse sparate a raffica.
“Qualsiasi cosa io dicessi non potrebbe cambiare quella decisione nel tuo sguardo.” Mentì. Una cosa c’era. “Io…” Ma Hermione sapeva di non potere più pronunciarla in maniera veritiera.
Ron scosse la testa. Avevano davvero perso tutto? Non c’era più nulla da recuperare? Rosie e Hugo? Cosa avrebbero detto Rosie e Hugo?
Le mani di Hermione abbandonarono il freddo delle lenzuola per cercare il caldo delle mani di Ron, lui non si tirò indietro. “Dimmi quello che dovrei fare, che dovrei dire.”
“Perché?” incominciò lui, invece, “perché hai scelto me?”
“Perché sapevi farmi ridere.”
Ron si lasciò andare a un sorriso amaro, appena accennato, strinse più forte la mano di lei e se la portò le labbra. “Ma non basta più, vero?” ammise, a mezza voce. Poi distolse lo sguardo e lasciò andare la mano. Sabbia, rametti e frammenti di vetro restavano nel loro angolino. Chi avrebbe raccolto i cocci ora?  “È da lui che vai se hai bisogno di un abbraccio.”
Hermione percepì appena il rimprovero. “Io non…”
“E nemmeno te ne accorgi.”
*
Era la notte del venticinque dicembre. Hermione Granger sedeva immobile sul suo letto matrimoniale a osservare Ronald Weasley che, in silenzio, raccoglieva un cuscino e andava via. Anche gli eroi cadono, nessuno lo sapeva meglio di loro.
Una o due lacrime forse le bagnarono le guance. Gli eroi cadono più degli altri. Aveva sbagliato, Hermione Granger. Aveva creduto in qualcosa che non si può promettere con certezza. Aveva fallito.
Era la notte del venticinque dicembre. Hermione Granger sedeva immobile sul letto, finché una macchia bianca non svolazzò attorno ai suoi occhi velati di lacrime. D’istinto, alzò piano la mano ad accogliere l’inaspettato ospite sulle sue dita, una piccola - libera - farfalla bianca.

Ritorna all'indice


Capitolo 41
*** Capitolo 38 - Incanti terapeutici e altri palliativi ***


Capitolo 38
Incanti terapeutici e altri palliativi
Nel corso della sua lunga vita Molly Prewett in Weasley aveva affrontato e conosciuto tante cose, anche lezioni che nessuno vorrebbe imparare.
Il punto a croce non era che l’ultima sfida. I ragazzi non erano mai stati particolarmente entusiasti del suo uncinetto –  tranne Harry, lui aveva sempre amato i suoi maglioni di lana – ma il ricamo era un’altra cosa. Era una stanza tutta per sé, era un privilegio che si concedeva alla fine della giornata, alla luce aumentata di sette candele Splendor. Il ricamo erano draghetti, unicorni, lettere intarsiate impossibili da riprodurre, erano dettagli, dettagli che le permettevano, punto dopo punto, di dimenticare tutto il resto.
Quando ricamava tutto doveva restare fuori: Arthur e le sue statuette di legno, lo spiritello in soffitta, la polvere sulla credenza, Louis e Dominique che sarebbero arrivati il giorno dopo, Ron che era tornato a casa e adesso litigava con Harry nella sua vecchia cameretta di bambino. Doveva restare tutto fuori.
Che cosa aveva sbagliato con quei ragazzi?
Ma i dettagli dell’unicorno su sfondo azzurro che stava cercando di ritrarre non erano abbastanza per distrarla dalle urla che provenivano dal piano di sopra.
Quando Ron, dopo Natale, si era presentato in cucina con un baule pieno di rimpianti e cianfrusaglie alle sue spalle, Molly aveva pensato fosse stata un’altra sciocchezza delle sue, un litigio da niente, la classica esplosione tipica di Ron e Hermione; d’altronde, la loro relazione non era mai stata semplice. La sorellina di Hermione era stata male, c’era stato quell’allarme strano al Ministero, erano entrambi sicuramente fin troppo stressati per ragionare lucidamente, avrebbero sbollito la rabbia nel giro di qualche giorno e tutto sarebbe tornato alla normalità.
Quasi due settimane erano passate e nessuno aveva accennato a risolvere la sciocchezza.
“Che cazzo di problema hai, Ron?”
La statuina a cui Arthur stava lavorando gli cadde dalle mani. Molly lo vide tremare e trattenere l’istinto di andare a fermarli; anche lei stava trattenendo l’istinto di lanciare in aria quello stupido unicorno. Harry e Ron erano due adulti e avrebbero risolto i loro problemi, qualunque essi fossero, da adulti.
Quella sera, Harry era arrivato sul loro uscio con le labbra piene di scuse per l’orario e il disturbo, e una luce furiosa nello sguardo. Aveva gettato un’occhiata alla tavola da pranzo, dove Ron leggeva scartoffie, e chiesto di parlargli in privato. Erano saliti nella stanza che avevano condiviso per così tante estati ed erano scomparsi dalla visuale di Molly.
Ma non ci avevamo messo molto a farsi sentire. Il tono delle loro voci si era alzato fin dal primo scambio di battute. Harry non capiva e chiedeva spiegazioni che Ron si rifiutava di dare. Forse non c’era proprio niente di sciocco in questa nuova trovata di suo figlio, Molly fu costretta ad ammettere a se stessa.
Cosa aveva sbagliato con quei ragazzi? Cosa succedeva alla sua bella grande famiglia?
Il maledetto unicorno non ne voleva sapere di prendere forma.
Il tonfo, come di qualcosa che cadeva pesantemente a terra, che proveniva dal piano di sopra le impedì di continuare la sciocca sfida col ricamo.
“Okay, ora basta. Dobbiamo fermarli.”
Non aveva neanche bisogno di dirlo, Arthur stava già salendo le scale con risoluzione.
Dove aveva sbagliato con quei ragazzi?
 
*
 
Epismendo,” scandì deliberatamente ogni sillaba mentre puntava la bacchetta contro il proprio naso dolorante; percepì un leggero sollievo, ma non gli servì guardarsi allo specchio per rendersi conto che l’incantesimo non aveva raggiunto l’effetto sperato. I pugni di Ron erano diventati, di anno in anno, sempre più efficaci.
Tirò un profondo respiro prima di sentirsi scuotere le spalle dal bisogno di scoppiare a ridere. Perché alla fine era sempre lui che ci rimediava un naso storto e un labbro sanguinante?
Gettò un’occhiata con colpevole desiderio all’armadietto dei liquori, in ricordo dell’ultima scazzottata che si erano scambiati.
Ron aveva lasciato Hermione. Aveva preso le sue cose e lasciato la sua casa. Dormiva alla Tana, temporaneamente – aveva detto. Come osava, quell’idiota? Come osava spezzare il cuore di Hermione ancora una volta?
Harry si ritrovò a osservare con cura una bottiglia dopo l’altra. Non era serata da Odgen’s, né da Blishen’s. No, meglio un Santiago de Cuba Invecchiato.
Aveva bisogno di una sacrosanta e lunga dormita. Ricominciare le lezioni non era mai semplice, né da studente, né da professore, ma il giorno dopo Chris sarebbe tornata a scuola e adesso tra di loro tutto era cambiato: doveva essere pronto, non poteva perdere il sonno dietro all’ultima follia del suo migliore amico. Tanto Ron avrebbe presto riacquistato il senno, no? Sarebbe tornato. Tornava sempre alla fine.
Harry prese posto sul suo angolo preferito di divano con una calma che sapeva di non possedere realmente, fu costretto a saltellare senza grazia sui cuscini quando il becco di un pupazzo di Snaso gli si infilò tra le costole. Luna e i suoi regali: non sarebbe stato tutto più semplice se anche il resto del mondo fosse stato più simile a Luna e ai suoi pupazzetti? Teneri, curiosi e onesti. Niente rabbia, niente silenzi, niente bugie, niente errori né promesse infrante.
Il rum gli scese giù nella gola, caldo e violento. Ron aveva lasciato Hermione. Cosa vuol dire?
Lasciò scivolare lo Snaso sul tavolinetto da caffè e si chinò a osservare la busta da lettera che vi era posata. Era indirizzata a Ginny, due biglietti in tribuna stampa per una tournée parigina delle Holyhead Harpies.
“Non ti ho sentito rientrare.” La voce di Ginny lo raggiunse proprio nel momento in cui stava sbirciando la sua posta privata. Nell’incrociare il suo sguardo, l’espressione di sua moglie passò da stanca per via della lunga giornata a preoccupata per le evidenti lesioni sul suo viso. “Cosa hai fatto al naso?” chiese con apprensione.
“Sono passato da Porter Street…”
“E Hugo ti ha travolto con le sue minipluffe di vetro?”
“…e poi sono andato alla Tana,” spiegò. Avrebbe preferito di gran lunga finire vittima dei giochi del piccolo Hugo. “Si chiamano biglie, comunque,” aggiunse poi ripensandoci, mentre Gin gli tastava il naso per verificare l’entità del danno. Non faceva male. No, non è lì che fa male.
“Hai visto Ron.”
“Sì.”
“E vi siete comportati come i due bambini che siete.”
“Sì. Di nuovo.”
Ginny si limitò a scuotere la testa e a tirare fuori la bacchetta per ripetere l’incantesimo curativo che a Harry riusciva così malamente.
“Ti riesce davvero bene quest’incantesimo,” si complimentò con sincerità. Nessuno gli sapeva curare il naso meglio di Ginny.
“È per questo che mi hai sposato,” scherzò lei.
Harry le dedicò un sorriso di ringraziamento, che però non riuscì a durare più di qualche istante. Neanche la pazienza di Gin sarebbe riuscita a salvarlo da quella situazione. Eppure era sempre la stessa storia: Ron faceva casini, Hermione ci stava male, Ginny si prendeva cura dei suoi nasi rotti. E lui, Harry, cosa faceva? Piagnucolava su se stesso, incapace di prendere una posizione.
“Vai a Parigi?” domandò invece, indicando la busta sul tavolo. Cambiare argomento forse lo avrebbe aiutato a sgombrare la mente.
“Oh, quelli? Perry insiste, ma non ho ancora deciso,” chiarì lei, facendo spallucce. Harry sospettava che nel segreto del suo animo Ginny amasse essere costantemente corteggiata dal suo direttore per questi viaggi. Come risposta alla sua indecisione, Harry si limitò ad annuire e a tirare un altro sorso di rum.
Ginny adocchiò il bicchiere nelle sue mani, quasi si fosse accorta solo in quel momento della sua presenza tra le dita di Harry. Non erano molte le occasioni in cui si concedeva un goccio in più. “Perché mio fratello ti ha spaccato il naso?”
“Perché non ho ancora imparato a dare di boxe?” scherzò pigramente lui, ma fu costretto a cambiare strategia a causa dell’occhiataccia di sua moglie. “Sono andato a parlargli per cercare di capire cosa sta combinando. Non posso parlare apertamente neanche con il mio presunto migliore amico?”
“Cosa gli sei andato a dire? Oh, Harry, sapevamo sarebbe successo prima o poi. Era da mesi che tiravano avanti a stento. Non dovresti prendertela con Ron.”
“E con chi dovrei prendermela?” Con te stesso, una vocina gli suggerì. Doveva prendersela con quella parte di sé che non riusciva a fare a meno di dipendere da Hermione. Ron era andato via per causa sua. Ancora una volta. “Sta mollando. Di nuovo. Quando le cose si fanno difficili, voltiamo le spalle e andiamo via! Ma di cosa mi sorprendo? Lo ha sempre fatto.”
Ginny lo osservò senza nascondere lo stupore e la rabbia. “È questo quello che pensi sul serio? Pensi che Ron voglia abbandonare i suoi figli e la donna che ha amato per tutta la sua vita? Che migliore amico hai conosciuto negli ultimi trent’anni?”
Harry si sentì accaldato. Posò con rabbia il bicchiere sul tavolo e slacciò in fretta i primi due bottoni della camicia. Forse era colpa del rum, forse delle parole di Ginny. Non gli piaceva quello che stava accadendo, si era ripromesso che quando Chrissie si fosse ristabilita tutto sarebbe ritornato alla normalità, ma non c’era niente di normale in quella situazione. Che fine stava facendo il lieto fine a cui aveva lavorato così tanto?
Per quel lieto fine, Harry aveva chiuso a chiave una parte del suo cuore che non avrebbe più potuto recuperare, aveva rinunciato a così tanto perché Ron e Hermione fossero felici. A Ronald Weasley aveva chiesto solo una cosa, un’unica semplice cosa: doveva solo proteggerla, amarla.
“Harry…”
“Quello che sto cercando di dire è che Ron dovrebbe saperlo, dovrebbe sapere che Hermione ha un modo tutto suo di affrontare il dolore. Ron dovrebbe capire certe cose, perché, come mi hai gentilmente ricordato, ci conosciamo da quasi trent’anni. Hermione ha sempre cercato di apparire più forte di quello che è, non vuol dire che lo sia davvero.”
“E nessuno lo sa meglio di te, no?” Mentre Harry parlava Ginny aveva afferrato lo Snaso dal tavolino e ora infilava le unghie tra le pieghe del pupazzo. A fondo. Era ingiusto con lei, era ingiusto parlarle così di suo fratello, era ingiusto scaricare le proprie frustrazioni su di lei.
“Scusa, è che questi giorni sono stati pesanti un po’ per tutti. Chrissie stava morendo, Gin, e riesci a immaginare cosa passasse nella mente di Hermione in quei momenti? Io posso. E lo so che noi non parliamo di questa cosa, lo so, ma…”
“Ma cosa?” lo interruppe Ginny. Aveva alzato il volume della voce per contrastare il tono di Harry, e un rossore diffuso le era comparso sul viso e sul collo. “Non potrebbe essere che non ce la fa più? Che il peso della situazione sia troppo da sopportare?” Nella furia lanciò lo Snaso che rotolò, innocente, a terra. “Forse Ron ha semplicemente capito che non ne vale più la pena. Forse pensa che lei non voglia il suo conforto, forse pensa che sia meglio affrontare la verità ora piuttosto che pagarne il dazio tra qualche anno, forse è stanco di vivere una vita che altro non è che una menzogna!”
Harry rimase allibito, gli occhi gli caddero sullo sciocco Snaso triste sul parquet lucidato. “E tu?”, le chiese, cercando i suoi occhi nocciola. Era una menzogna anche la loro vita? “Lo pensi anche tu?”
“Io…” Ginny non si sottrasse dalla domanda; era brava, lei, a sostenere gli sguardi diretti. “Io penso che dovresti restare accanto alla persona che ami,” disse, poi si fermò quasi a scrutare ancora più a fondo il suo viso, la sua espressione. Cosa leggeva Ginny sul suo volto? “Solo se questa persona ha bisogno di te.”
“La smettete, per favore?” La vocina assonnata di Lily interruppe sul nascere i dubbi e le domande che stavano sorgendo in Harry. La loro piccolina stava scendendo un gradino alla volta la scala che separava le camere da letto dal piano di sotto: con una mano si stringeva al corrimano, con l’altra trascinava per il corno un altro pupazzo regalo di Luna, un Ricciocorno Schiattoso verde pisello. La sua piccola Lily.
“Perché non dormi, piccolina?” le domandò, facendole posto tra di loro sul divano.
Lily saltellò con calma sui cuscini, ma preferì poi infilarsi tra le braccia della sua mamma. “Io voglio dormire, ma voi gridate. Tanto.”
“Stiamo urlando, papà?” gli chiese Ginny, nel tono più dolce che avrebbe potuto usare in quel momento. Le loro urla avevano svegliato la loro bambina, non era così che funzionava una famiglia. Non era così che funzionava un lieto fine.
“Scusa, piccola. Andiamo a nanna?”
Lily annuì convinta, e quando Harry si alzò e le offrì le braccia non ebbe dubbi su dove tuffarsi. Harry s’incamminò verso le scale. Nell’abbraccio della sua piccolina, forse poteva dimenticare il dolore al naso. No, non è lì che fa male.
“Ehi, Lils,” sentì la voce di Ginny chiamare, “tu lo sai dov’è Parigi? Ci verresti con la mamma?”

Ritorna all'indice


Capitolo 42
*** Capitolo 39 - Tra cenere e polveri ***


Capitolo 39
Tra cenere e polveri
 
3:00 PM. Al nostro solito posto.
Damian
Chris attraversò con calma il tunnel sotto il Lago Nero prima di spiegare nuovamente l’origami inviatole da Blackwood. Voleva assicurarsi di non essersi sbagliata. Damian aveva una grafia così minuta e precisa che era quasi irritante. Come tutto di lui, del resto.
“Adesso abbiamo anche un posto nostro?” domandò, a mo’ di saluto, non appena lo vide. Era rannicchiato su se stesso ai piedi della quercia che aveva fatto da cornice al loro primo incontro privato nella Foresta Proibita, aveva un libro sulle gambe e il mantello gli copriva ogni lembo di pelle. Su di lui, Fanny se ne stava accovacciata, arpionando concentrata uno dei suoi rami preferiti. Era un quadretto strano, in quel paesaggio imbiancato dalla neve. Strano, ma non del tutto spiacevole.
Quando Damian sentì la voce di Chris, alzò gli occhi dal libro e ne incrociò lo sguardo. Sorrise.
“Hai capito benissimo a quale posto mi riferissi. Sei qui, no?”
Damian mise via il libro e le porse una mano inguantata. Chris l’afferrò e gli si sedette accanto. Scoprì con piacere che intorno al ragazzo la temperatura era considerevolmente più calda. Capì solo con qualche attimo di ritardo e un po’ di rossore in viso che non era solo merito del calore umano che il corpo di Damian emanava: il ragazzo aveva riscaldato l’aria intorno alla quercia, con buona probabilità grazie a uno di quegli incantesimi che non si stancava mai di leggere sui suoi libri polverosi.
“Perché siamo qui?” gli chiese, piegando di lato il capo, alla ricerca dei suoi occhi chiari. Per quanto i suoi incantesimi potessero essere efficienti, avrebbero comunque potuto chiacchierare con tranquillità al calduccio in una qualsiasi delle aule di Hogwarts.
“Fanny voleva vederti,” disse lui, indicando la fenice che li osservava coi suoi occhi neri. “Mi daresti il braccio? Il sinistro.”
“No,” rispose lei d’istinto. Mesi a proteggerlo le avevano fatto dimenticare che ormai di quel segreto non restava che una sciocca cicatrice.
“Dammi la mano, Chris,” Damian strinse i denti nel pronunciare il suo nome. “Per cortesia.”
Non sarebbe stata un po’ di reticenza a farlo demordere. Era fastidioso il suo sguardo fisso. Adesso stava anche accennando il suo solito piccolo ghigno, che aveva da sorridere?
Chriseys decise, infine, di dargliela vinta, porgendogli il braccio. D’altronde, non aveva molto altro da nascondergli da quel punto di vista.
Damian afferrò la mano fredda di lei tra le sue coperte dai guanti di lana. La lana le irritava la pelle, avrebbe voluto puntualizzare lei, ma rimase in silenzio a osservare le azioni risolute di Blackwood. Con calma le spostò il mantello e poi, sempre in silenzio, arrotolò piano la manica del pullover. L’aria fredda accarezzò la cicatrice sul polso della ragazza: i contorni della stella erano quasi del tutto sbiaditi, ma il simbolo del Signore Oscuro non esisteva più.
“Ti stavo dicendo,” ricominciò lui, “Fanny voleva vederti.”
Chris decise di dare attenzioni anche al resto del mondo solo dopo che lui ebbe parlato, si rese conto che Fanny aveva abbandonato il suo trespolo e volava intorno alle loro teste, le ali che sbattevano a ripetizione. Chris ne vide gli occhi concentrati e stanchi. Era una macchia bianca quella sotto l’occhio destro? Da quando stava invecchiando, la sua Fanny? Non poté però soffermarsi su quelle nuove paure perché la fenice si era ora appressata al suo braccio e due sue piccole lacrime le bagnarono la pelle con dolcezza. La cicatrice scomparve.
“Lo ha fatto anche per me.”
“Oh!” Chris si sentì commossa, confusa e spaesata. Due lacrime di fenice non avrebbero potuto annullare l’anno passato, due lacrime di fenice non potevano restituirle le persone che aveva perso, né cancellare tutti i ricordi che aveva condiviso con Riddle, ma veder scomparire quel doloroso promemoria era già tanto per cui essere grata.
Grazie. Fanny annuì al suo cenno del capo, prima di tornare a posarsi sul suo ramo prediletto. Aveva difficoltà a svolazzare.
“Oh!”
“Gi-ià,” Damian balbettò, richiamando l’attenzione su di sé. Continuava a tenerle la mano nella sua, ma guardava altrove, quasi fosse imbarazzato. Qualche fiocco di neve si era incastrato tra i suoi ciuffi scuri e si scioglieva lentamente.
“E… da-, da quando voi due andate d’accordo?”
“Da quando mi ha salvato dalla morte per ipotermia,” spiegò lui. Sembrava più che sereno a riguardo.
“Oh,” bisbigliò appena Chris, cercando nei suoi occhi la condanna che sentiva di meritarsi.
Damian si rifiutò di darle corda, preferiva catalogare l’avvenimento come qualcosa di sciocco e irripetibile. “La punta del grammofono si è bloccata, Granger?”
“Io…” iniziò lei, ma non seppe proseguire. “Mi dispiace.”
Le dita inguantate di Damian ora le solleticavano le nocche. Voleva rafforzare la stretta sulla sua mano, intrecciando le loro dita.
“Lo so. E lo sa anche Fanny. E lo sanno tutti. Non eri te stessa in quel momento.”
“Non è andata esattamente così.” Chris si bloccò, cercando di trovare le parole giuste per spiegare cosa le passasse per la testa in quei momenti. Damian annuì, incoraggiandola a continuare. “Mi piacerebbe davvero credere che non fossi in controllo delle mie azioni ma… Mi sentivo arrabbiata e confusa e sola, e quella cosa, la sua ultima scheggia d’anima, era lì, con me, lo è sempre stata. Era – è – parte di me. Era come dicevi tu, e Ted, e Harry, e la professoressa McGranitt.”
“L’assenza della luce è una parte necessaria della sua stessa esistenza,” asserì Damian con sicurezza, quasi stesse proclamando una massima antica di indubitabile verità.
“Questo non è uno dei Sette Principi Fondamentali sull’Universo secondo i pensatori magici orientali, vero?”
“In realtà, credo sia una canzone,” chiarì lui, scuotendo un po’ con le dita i riccioli che gli erano caduti sul viso. “Chriseys, facciamo tutti delle cose che feriscono le persone che ci stanno intorno prima o poi, anche con le migliori intenzioni, anche per scherzo o per abitudine, anche solo perché non abbiamo mai guardato una situazione attraverso gli occhi di qualcun altro.” Abbassò lo sguardo e Chris si rese conto che le stava osservando l’incavo del collo. “Ma neanche io sono un coglione arrogante ventiquattro ore su ventiquattro.”
“Non ventiquattro su ventiquattro, no. Abbastanza spesso però.”
Chris sorrise all’evidente imbarazzo di lui, e si stupì dell’agio con il quale le loro dita si erano intrecciate. A chi apparteneva quella mano così salda e protettiva?
Damian Blackwood non era il tipo che Chris avrebbe accostato a una chiacchierata consolatoria. Era un presuntuoso invadente con la scrittura ordinata e troppo nitida che aveva gli occhi di tutta Hogwarts concentrati sul suo bel viso. E si era imposto con cocciutaggine e insolenza nel suo dolore solitario quando nessun altro aveva cercato di comprendere quella solitudine. Siamo uguali, gli piaceva proclamare quando voleva farla arrabbiare. Siamo maschere, aveva sempre cercato di dirle. Era sveglio e impiccione, e alto, moro e affascinante. E adesso le prendeva la mano e non chiedeva nulla, nulla, nulla se non un po’ di serenità condivisa. Serenità, un concetto con cui Chris aveva perso familiarità da un po’ di tempo.
“E quindi come stai, Chriseys?” Aveva anche un bel modo di pronunciare il suo nome. Per intero, con calma, attento a far sibilare le due esse e a scandire per bene le vocali.
“Potrebbe andare peggio,” lei si lasciò sfuggire.
Era tutto così diverso, ormai. I pensieri non scappavano più, non c’erano serpenti, non c’erano voci segrete nella testa, tutto sembrava essere più leggero, in un certo senso. E malgrado ciò, provare a ristabilire un rapporto onesto con Harry e Hermione, i suoi genitori, era una questione che non riusciva ad affrontare del tutto.
“Hermione, mia sorella, quella che credevo fosse mia sorella, è in realtà mia madre. Ma questo tu l’avevi già capito. E… Harry Potter, quello che credevo fosse uno dei migliori uomini che camminasse su questa terra, è mio padre,” spiegò. “Mi hanno dato in adozione ai miei… nonni e tutti insieme appassionatamente mi hanno mentito da sempre.”
Damian sogghignò sorpreso. Di fatto, l’unica informazione che gli mancasse in quel gran casino che era la situazione familiare di Chris era il nome del suo padre biologico. Harry, l’Eroe. Ma era ancora un eroe poi?
“E io non so ancora bene cosa fare di tutta questa cosa,” continuò lei, con un gesto delle mani indicò se stessa e quello che aveva intorno, quasi non sapesse come afferrare questa cosa. “È cambiato tutto.” La foresta era bruciata e ora non restava che cenere. Quante volte aveva fatto quell’analogia? Non riusciva a smettere. La piccola Chrissie non era che un albero a cui avevano bruciato ogni foglia e che adesso provava, tra cenere e polveri, ad assorbire quel poco di linfa che restava nelle radici.
“Ti hanno ferito,” rispose lui con calma, “è giusto che tu sia arrabbiata…”
“Perché ho la sensazione che ci sia un ma alla fine di questa frase?”
“Ma,” ricominciò lui. “Non lasciare che rabbia e silenzi si intromettano tra te e le persone a cui vuoi bene.”
Chris si ritrovò ad annuire. Aveva la sensazione di aver già imparato quella lezione. Si sentiva ferita e arrabbiata dalle azioni di Harry e Hermione, ma sapeva di amarli profondamente, così come loro amavano lei. Ed era proprio per questo motivo che faceva così male.
“Sei un tale vecchio saggio, Blackwood. Non avrei mai pensato di conoscere questo lato di te.”
“Non è il solo lato di me che non conosci.” Damian sorrise di nuovo, con tutti i suoi trentadue perfetti denti bianchi. Perché non sorrideva così più spesso? “Dimmi un po’, come va con Lupin?” domandò.
“Va,” rispose lei, sospirando appena. Anche con Ted non era poi così semplice ricominciare da dove avevano lasciato. La loro amicizia un tempo si nutriva di giochi di bambini e musica, mentre adesso stavano cercando di imparare a suonare una nuova canzone. “E a te? Come va con Amelia Selwyn?”
“Non va,” la imitò lui, prima di elaborare. “Troppo possessiva e poco comprensiva. E non le piace la Scozia. Non l’avremmo mai concluso quel primo appuntamento…” scherzò. Poi, dopo aver giocherellato un po’ con le dita di Chris, parve diventar serio. “Mi-, mio padre è scozzese,” spiegò.
“Il tuo papà Babbano?”
“Quello che ti è successo mi ha fatto pensare molto, non so perché…” Chris riconobbe nel contegno di Damian la necessità di parlare e la difficoltà a farlo. Di solito, s’irrigidiva al solo nominare il suo papà Babbano, provocarlo costantemente su quel punto era una delle armi che Chris era abituata ad usare per tenerlo a distanza. Prima. “Durante le feste sono stato a Invercauld, da lui.”
“I tuoi saggi consigli sono dettati da esperienza, quindi…”
“Non parlavamo da-, non ci vedevamo da tre anni, da quando…” Era morto suo fratello. “Ha una nuova compagna adesso, e io ho una nuova sorella. Molto, molto piccola. Minuscola. Masie, si chiama così. Ha gli occhi di Kei. Enormi e azzurri. Ha i suoi occhi, capisci?”
Chris annuì e strinse più forte la mano inguantata che ancora la proteggeva dal freddo. “Perché mi racconti queste cose, Damian?”
“Perché adesso posso, no?”
“Certo che puoi.”
Chris si sentì travolgere dalla voglia di stringerlo tra le braccia e non lasciarlo andare più tra i meandri di quel folle, folle mondo che li aveva resi così distanti all’apparenza eppure così simili. “Siamo amici, Damian?” gli chiese.
“Amici?” rispose lui. Non sembrava del tutto felice di quella definizione.
La mano di Chris decise di sua spontanea volontà di abbandonare la stretta di quella di lui per accarezzargli la guancia e sentire la sua pelle leggermente ispida sotto le dita. Damian piegò il collo e un accenno di sorriso ricomparve sul viso, a mostrarle quanto apprezzasse quella carezza. Chris riuscì a percepire i muscoli della sua mandibola contrarsi mentre lei ne tracciava i contorni col pollice.
Non solo amici…”
Le loro labbra s’incontrarono a metà strada. Rapide, incoscienti e delicate.
Chris gli accarezzò le labbra con la punta della lingua, delicata e impertinente al tempo stesso. Lui rispose succhiandogliela con risoluzione, mentre le cingeva la vita e la attirava a sé. La ragazza si ritrovò a posizionarsi a cavalcioni su di lui, mentre le sue dita continuavano l’esplorazione di viso e collo, fino a giocherellare con i riccioli dietro la nuca.
Era passato fin troppo tempo dall’ultima volta. Chris si ripromise di non far trascorrere mai più intervalli così lunghi tra i loro baci. La lasciavano sempre senza fiato, i suoi baci.
“Damian,” sussurrò col fiato corto. “Non dovr-!”
“Lo so, lo so,” si affrettò a bisbigliare lui, senza permetterle di allontanarsi. “La vita è un casino, noi siamo un casino.” Le sfiorò il naso con il proprio, aveva un sorriso nello sguardo. “Proviamoci, Chris.”
Damian riprese a baciarla e lei non poté fare a meno che lasciarsi sedurre ancora una volta da quella sua talentuosa bocca. Non era mai stata davvero capace di resistere a quelle labbra, d’altronde.
Lo sbattere d’ali della loro silenziosa terza amica li avvertì che c’era anche un universo intorno a loro due, e che Fanny aveva deciso un'altra volta di cambiare posizione. I due ragazzi si allontanarono mal volentieri l’uno dall’altra.
“Non mi ha ucciso, alla fine,” disse lui, lanciando un’occhiatina verso la fenice.
Chriseys sorrise. “È brava a giudicare le persone.”
Con una pacatezza dovuta alla sua incredibile età, Fanny decise di andare a posarsi esattamente alle spalle dei due ragazzi. Chris si sorprese di nuovo a scoprire la stanchezza nei suoi movimenti. Ciononostante, questa apparente difficoltà non impedì all’animale di provocare Damian beccandogli più volte l’orecchio sinistro.
“Ahi!”
“Vuol dire che ti trova simpatico.” Chris questa volta non trattenne la risata che le corse sulle labbra. Fanny si rivolse a lei, posando il becco sulla sua spalla, quasi le volesse parlare.
Li stava salutando, per sempre o per un po’. Questo è quello che accade quando offri il cuore a una creatura selvatica. Prima o poi, vola via.
“Che le prende?”
Dopo un ultimo sguardo a Chriseys, Fanny si allontanò, spalancò le proprie ali e spiccò il volo. Era una visione sensazionale. Una macchia di rosso in quella foresta innevata, il colore che sprizza da ogni parte sul bianco della neve.
“Sta andando via,” spiegò Chris, cercando istintivamente rifugio nell’abbraccio di Damian. Posò il capo sulla spalla che lui le porgeva mentre osservava la sua amica volare via. “Ha finito di tenermi d’occhio.”
“Quindi sta morendo sul serio,” bisbigliò lui. Anche Blackwood aveva imparato a capirla. Era semplice, in fondo, quando Fanny voleva farsi comprendere.
“Sì,” sussurrò anche lei. “Ma è una fenice.”
Troverà sempre un modo per rinascere dalle proprie ceneri.

 
 
Note: Prima di tutto, in questo testo ci sono due o tre allusioni a robe di cultura popolare e meno popolare, ciò che riconoscete è merito di, in ordine, George Martin, Jason Mraz, Bernie Su e Kate Rorick, e Truman Capote.
E adesso… *respirone* Ci vorrebbe una fotografia di me in questo momento per spiegarvi quanto è complicato scrivere queste note: ci sono troppe cose che vorrei dire e che credo esploderanno la settimana prossima. Oppure imploderanno.
Questo capitolo è stato un punto interrogativo gigantesco per un sacco di tempo, ma in fondo Chris e Damian avevano imboccato questa stradina di nascosto tanti capitoli fa e non c’era nulla che io potessi fare per costringerli a cambiare direzione. Ovviamente considero mio ogni singolo personaggio di questa storia, ma a questi due ho dato un nome. Potrebbe sembrare una cosa sciocca, ma non lo è per me – li ho immaginati, li ho scoperti diversi da come pensavo fossero, sono cresciuti e cambiati tra le mie mani. Dovevo rispettare questo cambiamento.
Non restano che altre tremila parole, non resta che un epilogo. E adesso che la fine è vicina, a me non resta che affrontare il mio ultimo sipario. Così cantava Frank Sinatra. Onestamente spero che questo non sia affatto il mio ultimo sipario, ma sei anni son tanti e forse questa conclusione tanto agognata mi colpisce più di quanto dovrebbe. Non posso promettere che il finale vi soddisferà, non posso promettere che ne varrà la pena – per me lo è valsa, tutti questi anni, ne è valsa completamente la pena, ma solo grazie a chi prendeva in giro la mia lentezza e alla fine mi spingeva a continuare, solo grazie a chi ha letto ed è tornato ogni settimana, credendo in questi sciocchi personaggi, solo grazie a voi. Posso però anticiparvi che faremo un salto temporale di tre anni, e posso assicurarvi che ritroveremo Harry, ritroveremo Hermione e ritroveremo Chris. Come è giusto che sia.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 43
*** Epilogo ***


 

Questo epilogo è dedicato
a chi da sempre mi ha ascoltato,
lunghe prediche ha sopportato
e stupide rime col participio passato.
Auguri sciocchi arrivano in ritardo
ma vorrei usarli come stendardo
di ore vissute a ridere e plottare
le vite traverse di Harry e Hermione,
e consigli e sostegno e parole e silenzio
quel racconto d'inverno ha segnato un settennio
e "Altri cento!" e "Altri mille!" è l'augurio che lascio
senza scordare un bicchiere di scotch liscio.

Eppure...

Tra i sorrisi e le lacrime di questa conclusione
so che c'è un'altra giornata da celebrare,
quella banda di amici  'delusionali'
che presto o tardi finiranno negli annali;
frutto perfetto di un'imperfetta commistione
di menti, follia e una passione viscerale:
tra rebus, fanfiction, teorie e rock 'n rolling
ancora non siamo stati capaci di trovare
chi è quel pazzo che ha dato la roba alla Rowling!


 
 
Epilogo
È in Arabia un uccello chiamato Fenice, che può rinascere attraverso gli umori che si rinnovano dalla sua carne, una volta morto ritorna in vita. Dobbiamo credere che solo gli uomini non possano rinascere?
Sant’Ambrogio - Sulla morte del fratello Satiro
Southwark, London, 17 Marzo 2018
Chriseys A. Granger. La grafia minuta e scomposta identificava con assoluta certezza la proprietaria di quell’infinità di spartiti sparpagliati sulla tastiera dell’organo.
Chris li raccolse uno alla volta, avendo cura di sistemarli in ordine secondo la scaletta. Deve essere passata la signora Winchester, rifletté, mentre cercava la quinta pagina dell’Hallelujah di Handel. Dove sarà finita?
La signora Winchester si occupava di tenere in ordine la chiesa e la segreteria di padre William ma, per qualche motivo sconosciuto alla ragazza, adorava anche lanciarle occhiatacce bieche quando la incontrava e, soprattutto, sembrava nutrire una passione sconfinata nel metterle in disordine gli spartiti quando spolverava la vecchia chiesa. E c’era molto da spolverare, in quella chiesa, dove trovasse il tempo per farle i dispetti restava un mistero.
Era piccola la Chiesa di San Dunstan di Canterbury – o di san Deusdedit o di un altro santo con un nome altrettanto improbabile; i nomi delle chiese suonavano all’orecchio di Chris sempre un poco strani. Era piccola, vecchia e polverosa. E bellissima. La pietra delle colonne che adornavano la navata centrale aveva il profumo delle scale di Hogwarts, e la luce che cadeva dal rosone nel tardo pomeriggio illuminava di sfumature rossastre le ali della colomba scolpita in bassorilievo sul fronte dell’altare.
Chris l’aveva scoperta una di quelle sere in cui vagava senza meta tra una stazione metro e l’altra, mentre cercava di ritrovare quel gelataio all’angolo dove aveva comprato un cono fragola e pistacchio insieme a Teddy o quella statua con gli occhiali a cui aveva inavvertitamente cambiato colore a sette anni.
Dopo quella che ormai soleva ricordare come la Catastrofe, si era ritrovata sempre più spesso a fare quelle lunghe passeggiate in solitaria, muovendosi nella sua città come i suoi concittadini Babbani, con i mezzi pubblici e le proprie gambe. Se ne andava alla ricerca della sua infanzia felice, di quel perché che aveva dato un senso alle scelte di Harry e Hermione. Aveva bisogno di trovare un senso a quelle scelte. Volevamo solo che fossi felice, bollicina. E lo era stata – felice –, con le macchie di gelato sulla maglia e le sue prime magie involontarie.
Rincorrendo quei ricordi lontani, aveva scoperto in un angolo nascosto di Southwark quelle quattro vecchie mura, un parroco loquace e un organo meraviglioso. Abituarsi all’idea di scambiare due chiacchiere con padre William pur di toccare i tasti di quell’organo era stato fin troppo semplice. Quelle colonne e quella luce soffusa del tardo pomeriggio contenevano in sé la quiete dei suoi Notturni preferiti.
“Chissà dov’è Chris?”
Il soggetto di quella domanda percepì con chiarezza la voce di Harry chiedere con curiosità. Era evidente dal tono usato che il suo padre biologico non aveva mai avuto modo di apprezzare davvero l’atmosfera di una chiesa e il silenzio che si dovrebbe a quei luoghi sacri. Gironzolava attorno alle prime file di banchi, avanti e indietro, piegandosi a leggere le incisioni sulle lastre di marmo delle colonne o gli strani disegni sul pavimento. In quel momento, sembrava affascinato in particolare dalle lettere greche scolpite sulla gigantesca candela a destra dell’altare. Padre William lo aveva chiamato cero pasquale, o qualcosa di simile.
Hermione, invece, aveva preferito sedersi in una delle panche centrali. Ignorava i movimenti impazienti di Harry e, con il capo chino, pareva volesse concentrare tutta la sua attenzione sulle proprie mani raccolte una nell’altra. Lei le preghiere da bambina le aveva conosciute.
Chris non li vedeva insieme in una stessa stanza da mesi e, in quel momento, poté constatare con i propri occhi quello che la professoressa McGranitt si era appurata di sottolineare con le sue frasette a metà durante l’ultimo tè e pasticcini che avevano condiviso. Era la stessa cosa che persino Ron si era preoccupato di farle notare.
Ronald Weasley aveva uno strano modo di biasimare chi gli aveva stravolto la vita, e aveva un approccio ancora più bizzarro all’idea di non preoccuparsi più degli affari di quei due idioti incapaci capoccioni che erano stati i suoi migliori amici per gran parte del suo tempo al mondo.
“Pensi davvero che dovrei odiare le persone che mi hanno portato a prendere la migliore decisione della mia esistenza?” le aveva spiegato mentre prendevano i biglietti per la passeggiata al giardino magizoologico che avevano promesso a Hugo da mesi. “Chrissie, il fatto è che credevo... no, ero sicuro che una volta che avessimo spezzato il Circolo della Taciturnità Sommersa saremmo riusciti tutti a vivere una vita più serena.”
“Il circolo di cosa?”
“Della Taciturnità Sommersa. È una cosa che mi ha spiegato Luna.”
Luna Lovegood, ovviamente. La stessa Luna che, mentre loro facevano la fila, bisbigliava segreti e meraviglie all’orecchio del sempre più impaziente piccolo Weasley. Diceva un sacco di cose intelligenti e strambe Luna Lovegood, non solo all’orecchio di Hugo, e Ron di recente aveva preso l’abitudine di ascoltarle, ripeterle un po’ a pappagallo e di sorridere come un imbecille a qualsiasi cosa gli accadesse. Chris aveva avuto l’onore di incontrarla quell’unica volta e aveva capito due cose: Ron aveva finalmente trovato qualcuno che condivideva la sua nonchalance con le pubbliche dimostrazioni d’affetto, e Hugo aveva scovato l’accompagnatrice perfetta per le sue osservazioni ossessive sulla polvere dorata prodotta dal corno del Ricciocorno Schiattoso. Le famiglie infelici saranno tutte disgraziate in maniera propria, ma anche quelle felici hanno il diritto di scoprire il loro unico modo per esserlo. La serenità conquistata da Ron dopo il suo divorzio da Hermione era tanto più preziosa agli occhi di Chriseys: nessuno meritava un lieto vivere più di Ronald Weasley.
Un lieto vivere che, invece, la sua ex-moglie sembrava determinata a evitare ad ogni costo. Ed era questo che preoccupava Ron e la professoressa McGranitt e, a quel punto, anche Chris.
Qualche mese dopo la Catastofe e il divorzio di Ron e Hermione, Ginny aveva seguito l’esempio del fratello e, con un biglietto d’aereo sempre in borsa, aveva deciso di assecondare le richieste del suo caporedattore e coprire tutte le trasferte delle squadre di Quidditch più in voga. Il ramo più giovane della grande e felice famiglia Weasley aveva ceduto, alla fine.
Lo stakanovismo di Hermione aveva preso il sopravvento sul suo dolore e sul suo senso di colpa e si era circondata sempre più di lavoro e lavoro e lavoro, concedendosi solo qualche cena o passeggiata imbarazzante con Chrissie, Rosie e Hugo. Harry invece si sforzava fin troppo di dividersi tra i suoi studenti e i suoi figli – i suoi quattro figli. I tentativi di limitare i danni di una separazione frettolosa erano lodevoli ma abbozzati, e nel frattempo dimenticava se stesso; Chris non lo aveva visto mai trasandato e distratto come in quel periodo.
Chriseys sapeva di avere un ruolo da protagonista in quella situazione, anche lei aveva avuto il suo bel da fare con i postumi della Catastrofe – c’era un motivo per cui ricordava gli eventi di quel periodo con quel nome. Ma anche la rabbia e la delusione più profonda hanno uno strano modo di abbandonare i cuori mentre il fuoco che le alimenta si spegne piano, piano, grazie a imbarazzanti gesti d’affetto e buona volontà. E, ora che il fuoco aveva finito per consumarsi su se stesso, Chris finalmente riusciva a vedere quanta verità ci fosse nelle preoccupazioni di Ron e della professoressa McGranitt. Vedeva sua madre e vedeva suo padre. Ed erano soli.
I vent’anni che avevano passato in mezzo al Circolo della Taciturnità Sommersa non potevano, d’altronde, essere trascorsi senza lasciare dei segni più o meno permanenti.
Chris si soffermò qualche istante in più nell’abside che ospitava l’organo senza farsi vedere dai suoi genitori. Osservò Harry mentre si sedeva accanto a Hermione e le chiedeva qualcosa sottovoce. “Sonorus,” la ragazza bisbigliò l’incantesimo il più delicatamente possibile. D’altronde, era stato proprio Harry a insegnarle che origliare non è sbagliato se si persegue un bene superiore.
“Le chiese sono strane. È tutto così silenzioso e ritualistico. Mi rendono inquieto. Non aveva detto alle cinque? Dove sarà?” domandò Harry. Sta mettendo a frutto le tue lezioni di Ficcanasaggine101 dietro una stupida colonna. Hermione non si curò di rispondere alle sue richieste impazienti. “Forse potremmo approfittarne per parlare un po’ io e te,” continuò lui, utilizzando tutto un altro tono.
“Il silenzio ti ispira confessioni, Harry?” rispose lei.
“Il silenzio non saprei, ma lo sguardo di quella statua lassù sicuramente sì,” le spiegò Harry, alzando gli occhi verso il Cristo in croce che cadeva dal soffitto sull’altare. Chris si morse la lingua prima di lasciarsi sfuggire un risolino che avrebbe tradito la sua posizione.
Hermione da parte sua non dovette trattenere il sorriso. Rivolse anche lei gli occhi alla statua. Chris si sorprese a osservare l’espressione addolorata che le si dipinse all’improvviso sul viso, la vide poi piegare di nuovo la testa verso il pavimento e sentì appena il bisbiglio: “Tu conosci tutti i miei peccati.”
“E nessuno più di te conosce i miei. Almeno fino a qualche tempo fa… e solo tu puoi aiutarmi, cosa si fa quando ti manca la tua migliore amica?”
A Chris parve di percepire tutto d’un tratto il carattere inopportuno del suo origliare silenzioso. Stava tradendo la loro intimità e se ne vergognò. Queste non erano confessioni che toccava a lei sentire. Strinse gli spartiti tra le mani e uscì fuori dal suo nascondiglio, ma né Harry né Hermione si accorsero della sua presenza, impegnati com’erano a bisbigliarsi segreti tra le panche di una chiesa.
“E se avesse ragione Ron? Se il circolo della Taciturnità Sommersa non fos-”
“Hai parlato anche tu con Luna? Per Merlino, devo vederla assolutamente. Devo capire in maniera precisa cosa diamine è questo benedetto circolo di cui parlate tutti…”
“È quello che succede quando si smette di comunicare con sincerità delle proprie emozioni, paure o sentimenti,” Chris si avvicinò per spiegare la sua interpretazione dell’argomento, facendo sobbalzare Hermione e sorridere Harry. “O almeno questo è quello che sono riuscita a capire mentre Hugo lanciava bolle di sapone dalla bocca blaterando sul Ricciocoso.”
“Allora ci sei.” Chris lasciò che Harry le baciasse affettuosamente la guancia in segno di saluto e si accoccolò nel suo abbraccio. Era tenero e imbarazzante al tempo stesso, ma riuscivano a incontrarsi sempre così poco, che male c’era a godere di un po’ di affetto? In fondo, avevano ancora qualche anno da recuperare.
Hermione si limitò a sorriderle dolcemente, mentre metabolizzava il fatto che nessuno avesse ritenuto necessario farle presente che il suo bambino incontenibile avesse lanciato bolle di sapone dalla bocca. Probabilmente, in quel frangente, stava decidendo che mai più avrebbe permesso a Chris e Ron di portare in giro Hugo, almeno per i successivi dieci anni.
“Per quanto il posto sia carino,” incominciò Harry, piegandosi di lato nel tentativo di guardare Chris negli occhi. “Cos’è che devi dirci di così importante da necessitare di un altare?”
Chriseys notò Hermione alzare gli occhi al cielo e scuotere la testa, incapace di trattenere un sorriso canzonatorio. Tipico di Harry. Non aveva letto la brochure che Chris gli aveva mandato e aveva immaginato da sé ventimila teorie, una più assurda dell’altra, sul perché del loro incontro.
“Non è che adesso mi spunta Blackwood all’improvviso?” Ecco appunto. Una teoria più assurda dell’altra. Cosa avrebbero dovuto fare lei e Damian in una chiesa? Oh! Sentì le guance avvampare, probabilmente in quel momento aveva il viso più rosso di un peperone.
“No!” Solo Harry con la sua iperprotettività poteva andare a pensare una cosa del genere. Non aveva neanche vent’anni, per Merlino! Altari, chiese, fidanzati e anelli. Non era ancora il tempo di pensare a queste cose. Decisamente no. “No, no. Non hai letto il volantino che ti ho mandato? È qui che tengo il concerto la settimana prossima…”
“Oh, il concerto! Con l’organo e la tipa strana!” La tipa era un soprano dall’aspetto giunonico che aveva avuto il piacere di incontrare l’aitante genitore della bimbetta al piano e non aveva avuto problemi a rendere noto il suo immediato interesse per quegli occhi verdi profondi e tormentati. Harry aveva accettato le sue avances per i primi cinque minuti della loro conoscenza e poi era scappato a gambe levate.
“Il pub della famiglia di William è dietro l’angolo…” continuò a spiegare Chris, sperando di distrarre Harry dai suoi pessimi ricordi del suo ultimo spettacolo.
“Certo, MacDonald! Me l’avevi detto che saremmo andati al pub di MacDonald, vero?”
Chris annuì lentamente. “Mi sarà sfuggito di mente,” borbottò lui, abbassando lo sguardo.
“Allora possiamo andare?”
“No. A dire il vero, prima volevo farvi vedere una cosa.” Per il discorso che Chris aveva in mente, i tavoli in legno del pub di William non erano il contesto ideale. Aveva bisogno di un posto ben riparato e di recuperare dentro di sé il coraggio di parlare chiaramente con i suoi genitori. “C’è una… un fonte battesimale di là, che,” si rivolse esclusivamente a Hermione, “che pensavo ti potesse piacere…” Non era una scusa di per sé, anche se il fonte battesimale era solo una delle cose che aveva intenzione di mostrare loro.
Il fonte in piombo era installato su una colonna in pietra nell’unica cappella laterale della chiesa. Chris si premurò di isolare il luogo da occhi indiscreti prima di farsi perseguire da sua madre per Esposizione Inappropriata della Magia. Le ali spiegate di una fenice in volo costituivano il decoro scultoreo principale del fonte, il becco dell’animale puntava verso l’alto mentre fiamme decise si alzavano dalla colonna a circondare l’immagine dell’uccello nell’atto della sua rinascita.
“Una fenice su un fonte battesimale? Decisamente appropriato,” mormorò Hermione, quasi riflettesse tra sé e sé, poi si rivolse a Chris con un sorriso saputo. “Dai, spara questo grande rospo che sembra ti stia mangiando viva…”
“Perché siete così convinti che debba dirvi qualcosa di terrificante?”
“Perché tu sembri terrorizzata. E ci hai invitato a cena, insieme. Non stiamo mai insieme, noi tre.”
Chris si sorprese a dover constatare la verità di quell’affermazione, quante volte si era ritrovata da sola con Harry e Hermione dopo aver scoperto di essere figlia loro? Le contava sulle dita di una mano.
“LaprofessoressaMcGranittdicechevoinonriuscitepiùaesserelepersonecheeravateprimaecheèarrivatoilmomentodilasciareandareilpassatoeperdonare,” disse tutto d’un fiato. Aveva chiuso gli occhi come una bambina che confessa il grave peccato di aver rubato un paio di caramelle. Era difficile esternare tutto ciò che non andasse in quel loro precario equilibrio, forse non era poi così semplice spezzare i circoli.
“Se magari riuscissi a ripetere tutto senza mangiarti le parole, forse, potremmo capire qualcosa anche noi,” Harry la bacchettò bonariamente, mentre tirava su gli occhiali e le fissava gli occhi sul viso.
“Ron e la professoressa McGranitt sono preoccupati per voi,” spiegò, stando attenta a scandire le parole.
“Ron?”
“Anche Ron, sì. Siamo tutti preoccupati. Voi due state… Credo di dover partire da… posso?” chiese e indicò a entrambi i gradini che conducevano al fonte battesimale come possibile seduta. Harry si accomodò sul gradino più alto, con le spalle poggiate al muro, Hermione scelse il gradino più basso ai suoi piedi, Chris si posizionò di fronte ad entrambi, dando le spalle al fonte battesimale. Le chiacchierate sui pavimenti scoscesi sarebbero potute diventare facilmente una tradizione di famiglia.
“A Hogwarts avevo un professore di Difesa Contro le Arti Oscure piuttosto capace,” Chris alzò le sopracciglia rivolta verso suo padre. Harry non trattenne una risata mentre Hermione alzava gli occhi al cielo. “E non ho mai avuto molti problemi nella materia, giusto?”
“Sei sempre stata piuttosto capace anche tu, tesoro.”
“Ma non sono mai riuscita ad evocare un Patronus completo.” Chris fermò sul nascere la protesta che vide comparire nello sguardo di Harry. Era un tratto così squisitamente paterno che Chris, nonostante tutto, non riusciva a non apprezzare: Harry avrebbe difeso per sempre le capacità della sua bambina anche e soprattutto dal suo stesso implacabile senso di autocritica.
Prima della Catastrofe, era stata colpa di Riddle, che le inibiva ogni pensiero felice perché la voleva triste, sola e alla sua mercé, ma anche dopo la sua definitiva scomparsa Chris aveva sempre avuto problemi a cercare un momento talmente gioioso da permetterle l’evocazione del suo Patronus. I suoi pensieri felici erano sempre stati un po’ confusi, ingarbugliati tra rabbia, delusione, gioia, noia, paura, e tutto quell’ammasso di emozioni contrastanti che di solito veniva chiamato vita. William MacDonald aveva sempre avuto ragione: per evocare un vero Patronus bisogna possedere un po’ dell’incoscienza e dell’innocenza di Peter Pan.
“Qualche giorno fa stavo cercando di capire se fosse il caso di alzare di un semiton-, cioè ero all’organo di là e c’era una bella luce e mi è tornata in mente una cosa che mi ha detto Damian una volta sulla mia testa dura e la tendenza che ho a pensare troppo alle cose. Lo sapete quanto gli piaccia avere un’opinione decisa su tutto.” Non ti devi concentrare, Chris. Ti concentri e poi pensi troppo. Non ti lasci avvolgere dal ricordo: deve conquistarti, sorprenderti, dominarti. Prova a pensare al tuo amato pianoforte. “Mi ha consigliato di pensare alla musica. Allora mi son seduta al piano e ho capito.”
“Prova a pensare a cosa ti succede quando suoni,” le aveva consigliato una sera a cena, tra un pezzo di pizza, un bicchiere di vino e le classiche lamentele da fine giornata. “Oppure potresti pensare a me,” aveva poi concluso, con un mezzo occhiolino e un bacio rapido.
Chris si era fermata spesso a pensare alla risposta giusta da dare alla prima proposta, quella seria. Cosa succedeva quando suonava? Era diverso. Il mondo scompariva e restavano solo le note a vibrare nell’aria. La gente la smetteva di sbagliare e confondersi con mezze parole e buone intenzioni. Quando suonava, non aveva l’urgenza di dover pensare a qualcosa di felice.
Non doveva sforzarsi. Come quando Damian intrecciava le dita fredde tra le sue e se ne stavano così a fare gli idioti insieme senza aspettarsi nient’altro. Come quando Hugo voleva ascoltare la storia del Principe Volante e allora si accucciava insieme a Rosie tra le sue braccia. Come quando, da bambina, rubava il primo boccone della torta alle mele della mamma. Come quando Teddy e Albus volevano far gareggiare una lumaca e una tartaruga sulla strada sterrata dietro la Tana e James rideva a crepapelle.
Come quando Harry le baciava la guancia, anche se pungeva. Come quando Hermione si metteva al piano con lei, anche se suonava malissimo. Non doveva sforzarsi.
“Expecto Patronum,” scandì con chiarezza, rievocando i suoi pensieri con l’incoscienza e l’innocenza di Peter Pan. Dalla punta della bacchetta si alzò rapida in volo, sbattendo rapida le sue ali, una piccola fenice d’argento.
Piroettò in aria un po’, rilasciando la sua scia argentea tra i capelli spettinati di Harry e le dita di Hermione, fino ad andare a posarsi sulla spalla di Chriseys.
Chris sentì lo sguardo orgoglioso di Hermione su di sé e non poté fare a meno di sorridere soddisfatta. “E sapete qual è la cosa più bella di Ariel?” ricominciò a spiegare. “Che è un po’ come l’acqua nel fonte battesimale, no? È un simbolo.” Una fenice trova sempre il modo di risorgere tra le polveri di mirra e cannella, le fenici ricominciano sempre da capo. Ricominciare: verbo transitivo e intransitivo, cominciare daccapo, riprendere dopo una interruzione più o meno lunga. Rinascere. “L’acqua del battesimo purifica il bambino, le ceneri della fenice le permettono di ricominciare. Non credo di riuscirmi a spiegare bene.”
“La fenice ritorna in vita, ristorata dai fluidi prodotti dal proprio organismo, lascia andare il passato e ricomincia da capo, non dimenticando, ma ripartendo da ciò che l’ha cambiata, perché tutto ciò che ha affrontato, nel bene e nel male, l’ha resa più forte… È quello che hai fatto tu ed è quello che stai cercando di dirci, anche se in maniera un po’ bislacca,” chiarificò Hermione per lei. Nessuno sapeva spiegare le cose meglio.
“Ecco.” Annuì, lasciando che la mano di sua madre stringesse la sua. “Temo voi due abbiate passato troppo tempo nelle vostre ceneri da aver dimenticato come fare a rinascere. Eravate due eroi una volt-”
“Chris, noi no-”
“Eravate i miei eroi, una volta.” Non poteva lasciare che la interrompessero ora. “Ma tutti i più grandi eroi sono uomini, e gli uomini sbagliano e voi avete fatto la vostra buona dose di sciocchezze. E se ogni errore ha una sua condanna, ogni condanna raggiunge il suo tempo. Smettetela di punirvi, non serve a nessuno, tantomeno a voi due. Non è distruggendo la vostra identità o la vostra amicizia che recupererete quello che avete perso.”
Chris osservò, distorti dalle lacrime, il capo chino di Harry che ascoltava con attenzione e il viso concentrato di Hermione. Era da qualche anno che aveva smesso di lottare con la sua naturale emotività. Commuoversi e arrabbiarsi con gli occhi lucidi era parte di lei. Tirò un profondo respiro. “Stiamo bene, stiamo tutti bene. È arrivato il momento di andare avanti.”
“Quand’è che sei diventata così determinata?”
“Non saprei, pare sia una dote di famiglia.”
 
 

 
Appendice

“Aspetta un secondo, hai chiamato il tuo Patronus come la sirenetta della Disney?”
“Peggio. Lo ha chiamato come lo spiritello della Tempesta di Shakespeare.”
“Uhm… entrambi?”
“…”
“Sei una tale secch-…  Granger!”
“E cosa vorrebbe dire essere Granger, secondo te?”
*
“Mi spieghi per bene quella roba delle bolle di sapone che uscivano dalla bocca di mio figlio?”
“Ma niente, solo un incantesimo andato male, credo… Avrà fatto tutto da solo, sai com’è a quell’età? Io cambiavo sempre il colore delle cose, ti ricordi? Oppure sarà stata la bimbetta bionda con la madre strana che abbiamo incontrato alla gabbia del leone.”
“Chi era?”
“Ron ha detto di conoscerla, Laura, Leila, Lav… Qualcosa del genere.”
“Lav?”
“Ora che ci penso Luna non sembrava tanto contenta di averla incontrata. Andavate a scuola insieme?”
“Lav!”
“Harry, smettila di ridere.”
 
*
“Posso uccidere Blackwood?”
“No.”
“Posso mutilarlo o ferirlo gravemente?”
“Harry!”
“No!”
“Tre anni sono un sacco di tempo, no? Voglio dire, per due ragazzini... ”
“Harry, finiscila! Damian è un gran bravo ragazzo, è intelligente, determinato, educato. Dovresti apprezzare un po’ di più il buon gusto di Chris.”
“Hermione, parli così solo perché è così determinato a entrare nelle tue grazie che ti porta il caffè tutte le mattine.”
“È un ottimo assistente personale. Non credo che avrei potuto trovare di meglio tra tutti quei burocrati al Ministero.”
“Be’, fa davvero un caffè fantastico, soprattutto la mattina quando fa freddo e sei sotto il piumo-, oh!”
“…”
“…”
“Posso ucciderlo? Perché non posso ucciderlo?”
*
“Pensi davvero che dovrei accettare la carica di Ministro?”
“Certo.”
“È che… queste leggi medievali mi hanno sempre un po’ destabilizzato. Non sarebbe meglio se fossero i maghi e le streghe a scegliere il loro Ministro? O perlomeno a scegliere i rappresentanti che poi scelgano il Ministro? Mi spiego?”
“Ed è proprio per questo motivo che saresti un Ministro fantastico.”
*
“Ma non arriva più Ted? Mi aveva detto che sarebbe passato più tardi.”
“Avrà avuto qualche contrattempo. Il tirocinio al San Mungo non è una passeggiata.”
“Oh, sì, probabilmente avrà avuto un contrattempo alto, biondo e disponibile.”
“Harry!”
“Be’, è quello che fa quasi ogni sera, no? Sto iniziando a preoccuparmi. Quella di questo mese si chiama Dalida.”
“Non è bionda però. Ed è piuttosto… simpatica.”
“Non lo pensi davvero, Chris.”
“No. Ma che possiamo farci? Finché lui è contento.”
“Ma lo è davvero?”
“Non potreste entrambi rispettare le scelte di Ted e… cambiare discorso perché è alla porta e non credo sarebbe felice di sapere che state spettegolando di lui.”

*
 
“Su, professor Potter! Giù con quella birra!”
“Chrissie, forse dovresti dire al tuo amico di non andarci così pesante con Harry.”
“Lo regge.”
“Ne sei sicura?”
“Sì, che lo regge!”
“Harry non è mai andato molto d’accordo con le bollic-ehm”
“…”
“…”
“Mi manca un po’, sai?”
“Cosa?”
“Essere… lo sai… Bollicina.”
“Tu sei sempre la mia Bollicina, Chris. Sempre.”

 

Questa storia mi ha accompagnato per quasi un buon quarto della mia vita. Un sacco di tempo. Ho portato con me Chriseys per così tanto tempo perché sono cocciuta e non volevo lasciarla andare prima che la sua storia fosse conclusa. Quest’anno sono riuscita finalmente a condividerla con voi e spero che questa lettura vi abbia dato un po’ di gioia e un po’ di tristezza e un po’ di rabbia e un po’ di commozione, spero che abbiate potuto conoscere i miei Chris, Damian, Harry, Hermione, Ted, Ron e Ginny, tutti parte imperfetta di questa girandola incostante che è la vita.
Se sono arrivata a mettere questa tanto sognata parola FINE lo devo a roxy, che c’era all’inizio e c’è ancora adesso, lo devo a Bea, che ogni settimana leggeva pazientemente i miei messaggi noiosi e miei capitoli complicati, lo devo a Lights, che continuava a prendermi in giro diffidando delle mie intenzioni di portare a termine la storia e alla fine l’ha letta (yeah!) e continua a prendermi in giro per la mia lentezza; ma soprattutto lo devo a voi lettori pazienti, quelli di sei anni fa, quelli che son tornati, quelli che son arrivati quest’anno, voi che mi avete accompagnato in questo lungo percorso e avete sognato e combattuto insieme a Chris e ai suoi genitori a metà.
Grazie!

 

 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=615273