Lavori in corso

di micho
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Giulia ***
Capitolo 2: *** Davide ***
Capitolo 3: *** Alex ***
Capitolo 4: *** Gea ***
Capitolo 5: *** Giulia ***
Capitolo 6: *** Davide ***
Capitolo 7: *** Alex ***
Capitolo 8: *** Giulia ***



Capitolo 1
*** Giulia ***


GIULIA
 
Ricordo molto bene quella sera. Ne ricordo soprattutto la rabbia e la delusione, il sapore amaro del tradimento, l’odio per la mia stupida ingenuità, la paura e soprattutto quel misto di orrore e sollievo che aveva caratterizzato il nostro primo incontro. Ricordo delle mani rudi che mi stringevano le braccia, le risate di scherno dei ragazzi nel vicolo, i loro sguardi persi nel delirio di qualche sostanza, i loro fiati alcolici e l’espressione stravolta e colpevole di quello che credevo un amico e mi aveva attirata in quella trappola.
Bastardo. Traditore. Vigliacco. Mi hai trascinata qui come se fossi una vittima sacrificale. Cosa ottieni in cambio? Un po’ di roba gratis? Un posto a sedere sotto il tacco di Otis, che si fa chiamare capo, ma è solo un ragazzino come te e me? Un mostro bambino che estorce amicizie con la paura e la violenza che tutti sembrano così ansiosi di subire? Verme schifoso. Io non sono come tutti gli altri.
Ero riuscita a liberarmi la mano sinistra e a estrarre dalla tasca posteriore dei jeans il piccolo coltello a scatto che in segreto portavo sempre con me. Mi sarei difesa, non avevo nessuna intenzione di soccombere senza prima aver fatto male ad almeno uno di loro. Erano troppi, ma almeno uno avrebbe avuto un gran brutto ricordo di me, per la precisione quello che mi stringeva l’altro braccio.
-Troia!- aveva urlato infatti quando il coltellino gli si era piantato nella mano. La mia soddisfazione era durata solo un attimo, perché un manrovescio proveniente da chissà dove mi aveva scaraventata a terra facendomi sbattere la testa, ma era stato un attimo davvero esaltante.
Poi c’era stata confusione, come se qualcosa avesse momentaneamente distratto il branco. Dalla mia prospettiva un po’ annebbiata dal colpo avevo visto solo le ruote di un’auto che si fermava vicino, la portiera aprirsi, uno stivale posarsi sulla strada, poi due, l’orlo scuro di un cappotto e avevo sentito una voce maschile profonda e fredda dire:-Adesso la piantate. Subito.-
Parecchie risate e frasi provocatorie erano risuonate nel vicolo.
-Se no cosa fai, cazzone?-
-Vuoi divertirti anche tu?-
-Sei da solo, vattene, o ti diamo il tuo!-
Mentre cercavo di allontanarmi strisciando e con la testa che mi girava, avevo sentito la voce replicare:
-Temo per voi che stasera sarò io l’unico a divertirsi.-
C’era una calma glaciale nel suo tono, che mi aveva spaventato davvero, ma che pareva non avesse neanche scalfito la sicurezza incosciente dei miei assalitori.
-Testa di cazzo! Adesso vedi!- aveva urlato qualcuno.
Idioti. Avevo pensato chiudendo gli occhi.
Ero rimasta immobile con le mani sopra la testa mentre rumori sordi, respiri affannati, gemiti di dolore e scalpiccii frenetici riempivano lo spazio angusto del vicolo. Non avevo osato muovere un muscolo neanche quando il silenzio era tornato a farla da padrone e un suono di passi leggeri (quasi solo una vibrazione che si trasmetteva direttamente al mio orecchio appoggiato sul selciato) si era fatto vicino.
-Come stai?- aveva detto la voce che stentavo a riconoscere, tanto in quel momento si era fatta calda e venata di apprensione.
Mi ero sollevata a fatica, ritraendomi e puntando il coltello che ancora stringevo in mano, avevo sbattuto più volte le palpebre per schiarirmi la vista e mi ero trovata davanti un paio d’occhi grigi, un sorriso quasi invisibile e due mani coperte da guanti di pelle alzate in segno di resa.
-Mi fa male la testa.- avevo detto abbassando l’arma e facendo rientrare la lama.
-Bel coltello.- aveva commentato lui mentre il sorriso si allargava.
-Forza, in piedi.- si era alzato sfilandosi il guanto sinistro e mi porgeva la mano. L’avevo presa con un certo timore, perché malgrado quell’uomo mi avesse tirato fuori dai guai, non potevo certo fidarmi a priori di lui. Chi è? Perché l’ha fatto? Cosa vuole?
-Sono Alex. Ti trovavi in una bruttissima situazione e non ce l’avresti fatta da sola nonostante la buona volontà. E poi non sopporto i prepotenti. Vorrei solo portarti a casa.- aveva detto lui quasi leggendomi nel pensiero mentre mi aiutava ad alzarmi.
-Grazie di tutto, davvero.- avevo risposto nascondendo la sorpresa. -Ma vado da sola.-
Ora Alex è in piedi davanti a me, appoggiato al tavolo grezzo e ingombro di carte che è il centro nevralgico del nostro rifugio. Tiene le braccia conserte e ha la postura rilassata di un gatto. Elegante. E letale. Gli occhi grigi che spesso non sembrano fissarsi su niente, ma in realtà notano tutto, ora scandagliano il mio viso e quello degli altri tre ragazzi presenti nella stanza. C’è tensione nell’aria, ma non sembra toccarlo.
Colpi perentori alla porta rompono il silenzio. Tutti e quattro ci voltiamo lentamente in quella direzione e il gelo scende su di noi, azzerando ogni emozione.
Non c’è più spazio per l’incertezza, i dubbi, le domande e i ripensamenti. Non c’è più tempo per la paura e il rimpianto. Come tante altre volte un pensiero mi attraversa la mente. Forse dopo oggi non ci sarà più un futuro.
Loro sono qui.
E’ ora.
 

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Capitolo 2
*** Davide ***


Chiedo scusa a Cartacciabianca per il nome di questo personaggio. C’è già un Davide nella sua Helleborus. Non so che farci, è nato così, con un altro nome… non sarebbe più lui.
 
DAVIDE
 
Era stata davvero una giornata storta.
Mi ero svegliato tardi, avevo rincorso le lezioni all’università, mi ero dimenticato due quaderni di appunti in due aule diverse e avuto il risultato dello scritto di matematica (8/30 e ammettevano all’orale da 9/30). Una pioggia battente mi aveva accolto all’uscita dalla facoltà, la moto aveva stentato a partire e già mi sentivo pendere sulla testa una bella multa per essere passato sfrecciando oltre il limite di velocità proprio davanti ai vigili urbani.
Quando entrai gocciolante e trafelato nella segreteria della scuola di Kung Fu che frequentavo da anni, ricordandomi in un lampo di aver lasciato a casa i soldi per pagare il mese, lei era lì.
Aveva circa trent’anni, riccioli rossi corti e scomposti, occhi chiari. Se ne stava seduta su uno sgabello, le gambe accavallate fasciate in pantaloni stretti e stivali alti sopra il ginocchio. Portava una maglia piuttosto lunga e comoda, di lana sottile grigio chiaro, con un cappuccio che le ricadeva sulle spalle e un bracciale di cuoio che le spuntava dall’orlo della manica sinistra.
Mi squadrò per un secondo e poi mi sorrise, facendomi sentire un perfetto idiota.
-Davide!- la voce di Rosa, la segretaria, mi distolse dall’imbarazzo.
-Davide, ma come sei combinato! Ma un ombrello non ce l’hai? Spero ti sia rimasto almeno qualcosa di asciutto nella borsa!-
Sorrisi; Rosa si era autonominata seconda mamma di tutti noi.
-Ero in moto. Non si può andare in moto con l’ombrello.- risposi.
-Ma lo sai che sono previdente, ho un cambio d’emergenza nello spogliatoio.-
Lei con un unico cenno del capo disapprovò la moto e approvò la mia previdenza.
-Sbrigati.- disse. -Avete lezione con Nico nella sala rossa e non sembra affatto rilassato stasera.-
“Come se lo fosse mai stato…” pensai schizzando per le scale verso lo spogliatoio e lasciando dietro di me una scia di gradini bagnati.
Evitai per un soffio la presa al collo di Marco che mi aspettava in agguato dietro la porta e parai in lieve ritardo il calcio laterale di Flavio nascosto dietro la tenda della doccia, poi aprii il mio armadietto con cautela, tenendo la guardia ben alta. Fortunatamente, nessun ulteriore aggressore balzò fuori da lì.
I due ragazzi risero e io mi accasciai sulla panca. Ero proprio distrutto quella sera e l’dea di affrontare Nico e le sue urla, non mi sorrideva per niente. Avrei preferito due ore di meditazione profonda.
-Ehi, l’hai vista quella strafiga in segreteria?- mi chiese Marco con un sogghigno.
Annuii stancamente.
-Sì, quella coi capelli rossi e gli stivali da dominatrice…- aggiunse Flavio con uno scintillio malizioso negli occhi.
-Ma che dominatrice! Quelli non erano stivali da dominatrice!-
-Sì, perché tu te ne intendi vero? Con tutta la tua esperienza…- mimò un gesto inequivocabile.
-No, perchè quelli da dominatrice sono…-
Mi alzai in piedi e sbattei la borsa bagnata nell’armadietto.
-Ma la volete piantare?- mi spazientii. -Io ho visto solo una bella donna di trent’anni, ben vestita e con un bel sorriso!-
Non so perché sentii il bisogno di porre fine a quegli apprezzamenti volgari; avevo sentito centinaia di volte i miei compagni (quei due in particolare) parlare di ragazze in quei termini senza farci troppo caso, ma quella volta non potei proprio trattenermi.
-Un bel sorriso? Ma non hai visto il resto?- rincarò Flavio.
-No.- mentii.
-E dai! Non dirmi che non ti piacerebbe farci un po’ di lotta a terra!-
Mi cambiai sbuffando, sforzandomi di ignorare i commenti e le punzecchiature di quei due riguardo alla mia evidente mancanza di testosterone.
“Ve lo do io il testosterone.” pensai sempre più infastidito. “Aspettate di arrivarmi a tiro.”
Quando ci presentammo nella sala rossa, tutti gli altri allievi erano già entrati, ma il nostro istruttore (Nico) ancora non si vedeva.
Marco e Flavio chiusero finalmente la bocca: per fortuna portavano il dovuto rispetto al luogo in cui ci trovavamo. Gli sguardi irridenti erano stati sostituiti da una maschera di profonda serietà e concentrazione. Fuori dalla sala si divertivano a fare i cretini con me, a tendermi agguati scherzosi dietro gli angoli, a prendermi in giro perchè non avevo davvero mai fatto a botte con qualcuno e per questo mi avevano soprannominato Peace and Love, ma sapevano bene che varcata la soglia e salutato l’altare, si entrava (forse io più di loro) in un altro mondo, nel quale non avevo alcun problema ad affondare i colpi se mi veniva richiesto o se solo credevo fosse giusto e a incassarli con la stessa naturale umiltà.
C’erano due aneddoti che amavano raccontare su di me. Il primo risaliva al periodo di forsennato ripasso e allenamento che aveva preceduto il nostro primo esame.
 
FLAVIO:-… e allora l’istruttore, mi pare che fosse Giorgio, fa “Davide, se tre tipi più grossi di te ti vengono addosso armati di coltello, tu cosa fai?” sai, lo voleva provocare, perché lui se ne stava sempre sulle sue. E Davide ci pensa su un attimo, poi fa un mezzo sorriso e risponde:”Penso che sono pronto a morire.” E non scherzava, capisci? Non scherzava proprio, no, aveva uno sguardo… Giorgio è rimasto senza parole, senza parole!
 
L’altro riguardava un combattimento prestabilito a tre che avevamo dovuto montare in mezzora durante una lezione per poi mostrarlo all’istruttrice.
 
MARCO:-… col primo calcio sono andato troppo lungo, troppo storto e troppo forte e ho preso Davide proprio sul costato, decisamente fuori bersaglio. Ho capito dalla sua faccia che aveva sentito un male cane, ma non si è mica fermato, no, ha continuato imperterrito, ma col doppio della forza, come una bestia ferita. E tra l’altro ci dava così dentro solo con me, lo vedevo che con Flavio ci andava molto più piano! Nella presa finale mi ha slogato il pollice e io me ne sono stato ben zitto. Poi quando la lezione è finita l’ho preso da parte e gli ho detto:”Alla faccia del realismo!” ero un po’ incazzato, sapete, e lui cosa mi risponde? “Devi stare più attento.” Aveva degli occhi freddi da far paura. Gli faccio:”Ma mi hai slogato il pollice!” e lui dice:”E’ successo perché sei troppo distratto e ti credi di essere un duro, avresti potuto battere prima.” Non ci siamo parlati per tre settimane. Solo l’anno dopo ho scoperto che con la mia cazzata gli avevo spaccato due costole.
 
Mi stavo sciogliendo i muscoli nel mio angolo preferito quando Nico fece la sua comparsa. La sua espressione, se possibile, era più truce del solito e tutti quanti ci affrettammo a metterci in posizione. Dopo il saluto Nico si esibì in un fuori programma: non cominciò immediatamente a urlare, ma parlò con voce quasi suadente.
-Abbiamo ospite nella nostra scuola una persona esperta in tecniche di combattimento miste sia a mano nuda che armata. Si trova qui per offrire a due di voi uno stage esclusivo nella sua disciplina e farà la sua scelta in base a quello che vedrà durante la lezione di oggi.-
Nessuno fiatò. Flavio e Marco si scambiarono un’impercettibile sguardo d’intesa, Eliana, la mia partner preferita negli scambi di calci, si voltò verso di me e mi sorrise. Io pensai che un provino  del genere era solo il giusto coronamento di una giornata da dimenticare e con una stretta allo stomaco mi disposi ad entrare in quella che i compagni chiamavano la mia modalità terminator.  
-Gea…- disse Nico facendo un gesto verso la porta e quando ad attraversare la soglia fu la donna della segreteria, mi parve che il silenzio si fosse fatto ancora più assordante. Avevamo smesso tutti di respirare.  
Parlò poco o niente, con una voce musicale in cui si intuiva un leggero accento che non seppi identificare. Si muoveva sfiorando appena il pavimento e producendo quasi nessun rumore. I suoi gesti erano fluidi, precisi e misurati, ogni suo movimento era diretto ad ottenere la massima efficacia con il minimo spreco di energia ed era veloce, molto veloce, implacabile. La frase che le sentii pronunciare in assoluto più volte fu “In piedi”. Quando qualcuno di noi finiva a terra senza quasi rendersi conto del perché lei sorrideva senza scherno, ma con comprensione. -In piedi.- diceva porgendo la mano aperta col palmo in su. Mai un commento. Mai una correzione. Mai una spiegazione. Solo quella mano che non potevi far altro che afferrare.
Durante una breve pausa Nico uscì dalla sala, lasciandoci tutti lì, ammutoliti e ansanti. Lei ci osservò, rilassata, con un’unica goccia di sudore che le rotolava sulla tempia, il respiro appena un po’ corto.
Nico rientrò con tre coppie di armi tradizionali (bastone, spada dritta e spada curva) e quando fu il mio turno fui certo senza ombra di dubbio che non avrei mai voluto, per nulla al mondo, trovarmi a fronteggiarla in qualcosa che fosse anche solo di poco più reale di quel confronto dimostrativo.
-Grazie a tutti.- disse alla fine di quel massacro, mentre noi riuscivamo a stento a reggerci sulle gambe e ci sforzavamo di non massaggiarci le parti del corpo doloranti e contuse. Gea strinse la mano a Nico e gli sussurrò qualcosa che non riuscimmo a udire, poi fluttuò, letteralmente, fuori dalla sala rossa.
Sentivo male dappertutto…
 
 
… Una voce attraversa il buio.
-Davide! Davide!-
Percepisco una nota di preoccupazione e subito dopo una coltellata di dolore mi attraversa la testa. Mi guardo intorno, qualcosa appanna la mia vista. Sollevo una mano: è sangue. Sento dei rumori confusi: colpi d’arma da fuoco da lontano.
-Davide! In piedi!-
Spalanco gli occhi a quel comando. Gea sta appostata dietro il muro contro cui sono sdraiato, ha una pistola col silenziatore nella mano destra e una lama corta nella sinistra.
-Cosa…?-
-Ti anno preso di striscio alla tempia.-
-Quanto…?-
-Non più di trenta secondi.-
-Gli altri…?-
-Sono più avanti, appostati sui tetti. Ci stanno coprendo.-
-Ok.-
Prendo un respiro profondo. Il crepuscolo sta diventando notte, circostanza oltremodo sfavorevole a chi ci insegue. Appoggio le mani sulle ginocchia e mi alzo con il dolore che mi pulsa nella testa al ritmo del mio cuore.
-Non hai per niente un bell’aspetto.- dice Gea con aria critica. Non le rispondo.
-Be’ non importa. Puoi correre?- continua lei.
-Direi di sì.-
-Bene, perché non dovrai fare altro.-
La guardo. Nel buio che avanza veloce vedo le sue fattezze emanare una leggera luminescenza azzurra, la stessa che lei sta vedendo su di me. Rinfodera la lama perché i suoi riflessi non ci tradiscano nell’oscurità e poi parla nell’auricolare.
-Davide sta bene. Al mio via intensificate il fuoco di sbarramento.-
Butta uno sguardo rapido oltre l’angolo del muro.
-Sei pronto?-
-Sì.-
-Allora via!-
I colpi crepitano furiosi mentre scatto fuori dal nascondiglio temendo per il mio equilibrio ancora precario. Gea è dietro di me, non sento il suono della sua corsa né il rumore del suo respiro, percepisco la sua presenza, come un debole calore alle mie spalle. Quel calore mi dice che ce la farò, che l’ombra è mia alleata, che la salvezza è vicina e che presto sarò lontano da qui, vivo.
 
 
 
 
Nota dell’autrice per chi ha voglia di perdere un po’ di tempo su alcune precisazioni.
 
Sul kung fu
Gli aneddoti raccontati su Davide dai suoi compagni di kung fu sono per gran parte autobiografici. Parlo sempre più o meno di me nelle storie che scrivo, soprattutto attribuendo ai personaggi note di carattere e pensieri che mi appartengono, ma mai l’ho fatto in modo così smaccatamente reale. Questa nota è in sostanza una piccola concessione alla mia vanità.  Ho praticato il kung fu per otto anni e la frase riguardante i tre bruti armati di coltello mi fu rivolta dall’istruttore che seguiva la nostra preparazione al primo esame. La mia risposta fu leggermente diversa da quella di Davide, io risposi “Penso che sto per morire.” suscitando sommesse risatine intorno a me. Fu l’istruttore a dire “No, dovresti pensare che sei pronta a morire.” e le risatine si spensero in un attimo. Il secondo episodio accadde a me proprio come a Davide, compresa la reazione da bestia ferita e il pollice slogato, solo che il pollice il disgraziato se lo slogò da solo cadendo malamente, non ci fu alcun scambio di battute tra noi alla fine della lezione che non mi ritrovai con due costole rotte, ma soltanto con una. Inoltre io, a differenza di Davide,  lo dissi a tutti spiegando nei minimi particolari com’era andata.
Sul saluto all’altare
Nella mia scuola era uso salutare al momento dell’ingresso della scuola stessa con la mano destra aperta  di taglio al petto o con la mano destra a pugno avvolta nella sinistra. In ogni sala di allenamento poi c’era un altare con l’incenso che andava salutato entrando e anche uscendo. Questo  in segno di rispetto e per sottolineare la transizione tra i due luoghi, con l’idea di lasciare fuori dalla sala tutto il resto per poi riappropriarsene all’uscita. E’ stato per me curioso ritrovare gesti simili in Brotherhood nei saluti che gli adepti rivolgono a Ezio all’interno del covo.
Su “Avresti potuto battere prima.”
Nella pratica di tutte le arti marziali chi è sottoposto a una presa o a una leva articolare segnala battendo sul pavimento se si trova a terra o sulla propria gamba se si trova in piedi di non poter sopportare oltre. Inutile dire che bisogna essere pronti e concentrati trovandosi in posizione sia passiva che attiva. Comunque io non ho mai visto nessuno subire danni in una situazione simile. E’ ovvio che Davide l’ha fatto apposta.
Su “In piedi”
Queste parole continuavano a girarmi in testa, penso di averle sentite con la stessa insistenza in un film che mi sarebbe piaciuto citare nel capitolo. Il problema è che non riesco a ricordarmi che film fosse, forse Matrix? Se è davvero quello, dopo “Neo che scende dalla macchina”… Se qualcuno me lo può confermare lo faccia e provvederò subito a inserire la citazione. Grazie.
Fine nota. O diventa più lunga del capitolo.

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Capitolo 3
*** Alex ***


ALEX
 
Sono stanco. Questa notte sembra non finire mai. Siamo in fuga da ore.
Hanno bussato alla porta (e ancora mi domando perché) e noi siamo usciti dalla botola segreta fin sul tetto. La trappola fumogena è scattata quando hanno sfondato il battente, concedendoci un po’ di vantaggio. Siamo riusciti a sopraffare le due guardie sul retro solo per trovare la nostra macchina con tutte e quattro le gomme tagliate e non è restato che fuggire a piedi.
Avevo tre chiavi in tasca ognuna con una targhetta con il nome in codice di un nuovo rifugio e ne ho scelta una a caso.
-Drago.- ho sussurrato e i ragazzi hanno annuito.
È tutto pianificato nei minimi dettagli e questa è la procedura nella sua spietata semplicità. Ognuno di noi ha memorizzato un percorso diverso per raggiungere l’obiettivo, con punti di riunione prestabiliti e tempi calcolati per arrivarci. Si può aspettare non più di cinque minuti in un punto di riunione e poi bisogna ripartire. Chi è rimasto indietro sa di dover proseguire senza fermarsi fino al punto successivo e via così fino a destinazione. Se lì non ci si ritrova tutti dopo mezzora bisogna abbandonare la posizione, scegliendo a caso un nuovo obiettivo e ricominciando  tutto da capo,  lo stesso se il rifugio appena raggiunto risulta compromesso. Nel caso qualcuno non fosse riuscito ad arrivare in tempo dovrà battere tutte le restanti destinazioni stabilite fino a identificare quella giusta. Nessuna possibilità di comunicazione.
Siamo all’ultimo punto di riunione e Giulia non c’è.
Guardo l’orologio: è già passato un minuto.
Ci troviamo davanti a un locale e la musica attraversa la porta coi suoi bassi profondi e ovattati. Gruppetti di ragazzi chiacchierano fumando e col bicchiere in mano.
Mi cavo di tasca il pacchetto di sigarette e me ne accendo una. Ho smesso da un anno, ma ho sempre saputo che non sarebbe durata.
Offro il pacchetto ai ragazzi; Paolo che è il più vecchio e Fabio che è il più giovane accettano passandosi l’accendino, mentre Patrick esita.
-Lo so che consideri il tuo corpo come un tempio, ma considerala una causa di forza maggiore. Cosa ci facciamo qua fuori? Dobbiamo mimetizzarci, almeno fai finta.-
Questo gli sussurro e lui si accende la sigaretta con una smorfia di disgusto.
Due minuti.
Giulia, dove sei?
I ragazzi sono nervosi. Patrick sembra il più calmo, si guarda intorno mentre la sigaretta gli si consuma tra le dita, ma i suoi occhi sono quelli di un animale in gabbia e pare che solo io riesca a notarli. So che ha un debole per Giulia, anche se non si è mai fatto avanti. Nessuno degli altri se n’è accorto, nemmeno lei, perché è molto bravo a dissimulare, è la sua specialità. Non può battermi però a un gioco in cui pure io sono molto dotato: ho dodici anni di esperienza più di lui.
Tre minuti.
Alcuni frequentatori del locale rientrano alla spicciolata, mentre due di quelli rimasti fuori discutono animatamente. Faccio finta di nulla, ma li tengo d’occhio. Ci mancherebbe solo di essere coinvolti nostro malgrado in una bella rissa.
-Deficienti.- mormora Paolo, che a quanto pare sta avendo il mio stesso pensiero, schiacciando la sigaretta sotto lo stivale.
La tensione cresce mentre Fabio si sforza di far spuntare un sorriso sulla sua faccia stanca.
-Arriva.- dice -Sicuro. È troppo in gamba.-
Patrick gli lancia un’occhiata truce, come se percepisse quell’affermazione come un cattivo auspicio.
-Quattro minuti.- annuncio con voce piatta.
-Alex, non potremmo aspettare un minuto in più?- chiede Fabio.
-Sono certo che arriverà, me lo sento.-
Mi aspettavo questa domanda.
-No.-
Paolo non dice una parola, controlla già la strada che dovrà prendere. Gli occhi di Patrick sono piantati nei miei e il nostro è un dialogo muto e feroce. Non mi sta sfidando, non metterebbe mai in discussione la mia autorità, ma mi promette odio, se mai Giulia non dovesse più arrivare. Sostengo il suo sguardo e nel mio si può solo leggere che per me sarà molto più dura sopportare la perdita di Giulia che il suo odio; sono stato già odiato da molti, uno in più non fa differenza.
-Alex…- la voce di Fabio mi distoglie dal confronto.
Guardo l’orologio: cinque minuti.
- Risparmia il fiato, è ora di correre. Ci vediamo a destinazione.-
 
Nessuno in vista, la strada è deserta mentre mi avvicino alla vecchia porta del capannone abbandonato. La chiave gira nella serratura ben oliata e sono dentro.
Un occhio allo spioncino e scorgo Patrick e Fabio appressarsi con passo tranquillo, Paolo, in retroguardia, li segue da poco lontano.
Apro la porta per farli entrare e loro si guardano intorno delusi e in silenzio. Giulia non è arrivata.
L’ambiente è spazioso e spartano, sulle rastrelliere fanno bella mostra di sé armi, munizioni, vestiti di ricambio, forniture di pronto soccorso, silenziatori e lame di varie fogge e misure. Sulla scrivania c’è solo un computer portatile, due divani scuri si fronteggiano separati da un tavolino basso. A fianco di un piccolo angolo cottura, una scala retrattile scende da una botola chiusa sul soffitto, una parete separa la zona destinata agli allenamenti da quella delle stanze.
Mi sistemo alla scrivania e apro il portatile. Invio un’email criptata a conferma del segnale d’emergenza spedito dal mio palmare durante la prima fase della fuga, segnalando la nostra posizione. Spero di non doverne inviare un’altra tra mezzora per dire che dobbiamo andarcene.
Paolo si è buttato su uno dei divani e ha già ceduto al sonno, mentre Patrick misura l’ambiente a grandi passi con le braccia incrociate sul petto e le mani strette sotto le ascelle. Fabio sembra sull’orlo delle lacrime.
-Come hanno fatto a trovarci?- chiede.
-Non lo so e al momento non è la mia priorità saperlo.-
-Credi che siamo al sicuro qui?-
-Non so neanche questo. E comunque è possibile che tra mezzora dobbiamo andarcene.-
Patrick mi fulmina con lo sguardo. So che lo sto portando al punto di rottura, ma non posso fare altro.
Sono le 3,25, punto la sveglia sul palmare alle 3,55.
-Riposatevi.-
Fabio si allunga sul divano libero e Patrick sparisce oltre la porta che dà sulle stanze, chiuso in un silenzio ostinato.
Resto seduto alla scrivania con la testa fra le mani.
Giulia, cos’è successo?
Chiudo gli occhi e gli scenari che si proiettano dietro le mie palpebre abbassate sono uno più orribile dell’altro. Conosco a memoria il suo percorso, come quello degli altri. Ricordo ogni angolo, ogni strada, ogni tetto, ogni muro. Ci siamo esercitati insieme su quella via per decine di volte e ora la vedo mettere un piede in fallo nel salto che le ha sempre creato difficoltà e sfracellarsi sul selciato. Oppure colpita a morte mentre attraversa una strada di corsa. O ancora cadere in un agguato e combattere fino all’ultimo respiro per salvarsi la vita o morire. Trascinata via da braccia robuste e spietate, mentre scalcia e vomita insulti. Svenuta e impotente, gettata nel bagagliaio di una macchina. Sola e legata, chiusa in una stanza buia in attesa del peggio…
Sto perdendo il contatto con la realtà, non so più se sono sveglio o dentro a un incubo.
Un rumore mi strappa al delirio. Un colpo solo, debole, alla porta.
Silenzio.
Fabio ha alzato la testa e Paolo ha socchiuso gli occhi.
Due colpi, più forti, ravvicinati.
Patrick è uscito dalla stanza, ma non osa fare un passo di più.
Mi precipito allo spioncino e un attimo dopo Giulia si appoggia a me come se non riuscisse a reggersi. È coperta di polvere, la maglia strappata su un gomito, le dita sanguinanti.
-Ciao Alex.- sorride, ma gli occhi sono furiosi.
-Merda! Quel salto maledetto! Sono arrivata corta e quella stronza di grondaia si è rotta! Sono riuscita ad aggrapparmi a un davanzale più sotto e mi sono scorticata. E poi quando sono saltata giù c’era una grata sconnessa che non avevo mai notato. Mi sono storta la caviglia e ho pure dovuto cambiare tutto il percorso sul momento! Mi fa un male…-
La sorreggo fino al divano.
-Fammi vedere.-
Le sfilo lo stivaletto e lei lancia un urlo.
-Fai piano Alex!- protesta, e poi aggiunge:
-Avevo paura di non arrivare in tempo e di dover girare a cercarvi per tutta la città in queste condizioni… sono distrutta!-
-Io lo sapevo che ce l’avresti fatta.- dice Fabio, cercando conferma sui nostri visi. Paolo, una volta appurato che è tutto a posto, si è addormentato di nuovo. Questa sua straordinaria capacità di dormire dovunque e comunque, resterà per me un eterno mistero. Patrick ha aperto la cassetta del pronto soccorso. Mi sorride mentre afferra senza tanti complimenti una mano di Giulia per medicarle le escoriazioni. La sua promessa d’odio è ritirata.
Sono le 3,51.
 
 

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Capitolo 4
*** Gea ***


GEA

 

Guidavo da alcune ore su strade secondarie, pioveva e presto il sole sarebbe sorto dietro la massa pesante delle nubi. Accanto a me, Davide se ne stava rannicchiato immobile sul sedile del passeggero. Non aveva detto una parola da quando eravamo saliti in macchina, ma riuscivo a percepire i suoi sguardi roventi come se fossero qualcosa di materiale.
-Chi erano quelli?- disse finalmente.
-Vuoi davvero saperlo?- chiesi.
-Sì.-
-Pensaci bene, Davide. È una scelta cruciale che stai per fare. Influenzerà tutta la tua vita…-
Mi interruppe.
-Non so se ti rendi conto, Gea, ma la mia vita è stata già notevolmente influenzata!- la sua voce vibrava di rabbia.
Fermai la macchina e spensi il motore. In un attimo il parabrezza divenne una macchia indistinta attraverso cui non si vedeva nulla.
Mi voltai a guardare Davide: il suo viso era stanco, ogni suo muscolo teso allo spasimo, al punto di tremare. Mantenni un’aria fredda e distaccata e ripresi a parlare senza alcuna traccia di emozione nella voce, come se non fossi mai stata interrotta.
-Puoi decidere di chiuderla qui. Scendi dalla macchina e noi ci salutiamo. Non mi rivedrai mai più, non ci incontreremo neanche per caso, non saprai più nulla di me. Sarà finita, per sempre.-
Studiai le sue reazioni e vidi i suoi occhi stringersi in due fessure, mentre un altro brivido attraversava il suo corpo.
-Oppure puoi scegliere di avere la tua risposta e la vita che hai conosciuto fino a ieri cambierà radicalmente. Dovrai iniziarne una nuova e non potrai tornare indietro.-
Mi trapassò con uno sguardo pieno di dolore.
-Non c’è ritorno, Gea, già ora. Ho ucciso per te.-
Alzò le mani ancora sporche di sangue davanti ai miei occhi e poi le lasciò ricadere, mentre i brividi si trasformavano in singhiozzi.
-Voglio la mia risposta.- sussurrò a testa bassa.
La pioggia batteva forte sul tetto della macchina e quel suono insistente ci racchiudeva in una specie di bozzolo, un mondo a parte, fatto di segreti e verità scomode.
-Quelli che hanno fatto irruzione ieri sera a casa mia erano Templari.-
Parlai per una buona mezzora dei miei nemici, dei loro scopi e dei loro metodi, del dominio, della tecnologia, delle infiltrazioni ad alto livello. Davide ascoltò senza un fiato e alla fine disse solo:
-E’ una storia assurda.-
-Già, una folle teoria del complotto, non trovi?- risposi con un sorriso amaro.
Lui mi restituì un sorriso che era una smorfia.
-E tu chi sei, per opporti a tutto questo?- domandò con lieve sarcasmo.
-Hai detto che loro vogliono la pace, ma intendono imporla. E tu, o voi, se ci sono altri come te, come pensate che si possa ottenere la pace?-
-Scegliendo la via più difficile, quella di dare fiducia agli uomini.-
-Bè, allora avete già perso, il genere umano fa schifo. Dovreste abbandonarlo al suo destino.-
Gli lanciai uno sguardo obliquo.
-Non ti facevo così cinico.-
Lui alzò le spalle.
-Pensi che l’umanità meriti di essere dominata?- gli domandai.
-Ma lo è già, Gea. Apri gli occhi, cazzo!-
-Nessuno può sfuggire secondo te? Non ce n’è nemmeno uno a cui daresti una possibilità?-
Davide non disse nulla.
-Neanche a te stesso?-
Osservai le emozioni scorrere sul suo viso: per primo l'orrore per le azioni che aveva compiuto, poi lo sconcerto per essere stato capace di compierle e il dubbio lacerante se meritasse o no di essere vivo.
-So come ti senti.- mormorai.
-Ti sei difeso, se non l'avessi fatto ora saresti morto, hai obbedito a un istinto primario. Non c'era nessun conflitto che avresti potuto provare a comporre, nessuna possibilità di trattativa, nessun'altra soluzione. Come puoi contrastare la volontà di uccidere? Perchè è esattamente questo che ti sei trovato davanti: la volontà, ferrea, di uccidere. Il fatto che possiamo essere pronti a morire non ci obbliga affatto a non lottare per salvarci la vita.-
L'ombra di un sorriso sardonico stirò le labbra di Davide.
-A volte se ne dicono di cazzate. Non sono per niente pronto a morire, ma non lo ero neanche a uccidere.-
Sospirai.
-E come potevi esserlo?-
-Tu lo sembravi.-
-Non era la prima volta.-
Davide parve ritrarsi e la sua espressione mi diceva che non era del tutto sorpreso, ma allo stesso tempo faceva fatica a confrontarsi con quella realtà. Capivo alla perfezione quello che gli passava per la mente: la ragione che lo aveva spinto ad avvicinarsi alle arti marziali era che considerava la violenza una forza naturale. La consapevolezza di saperla usare e quindi di poter scegliere di aggirarla o evitarla lo faceva sentire forte. Il controllo che aveva sul suo corpo e sulla sua mente gli dava sicurezza, la disciplina a cui era sottoposto per anni gli forniva equilibrio. In quel momento, tutto quello che aveva acquisito con la pratica era stato portato alle estreme conseguenze e lo aveva messo di fronte a un aspetto di sé stesso che ancora non conosceva e che non riusciva ad accettare.
-Quindi sei un'assassina.- disse evitando di guardarmi, come se quella parola potesse offendermi.
-Sì, ma con la A maiuscola.-
-Nel senso che sei molto brava?- chiese, e non c'era ironia nella sua domanda.
-Nel senso che appartengo a un Ordine che esiste da secoli, e da secoli risulta estinto. Esattamente come i Templari.-
Davide si lasciò andare a una risata quasi isterica.
-E così mi stai dicendo che sono capitato in mezzo a un conflitto che dura almeno dal tempo delle Crociate. Che fortuna!-
-Capitato non direi.- dissi spegnendo in un attimo quello scoppio di ilarità forzata.
-Sono stata io a coinvolgerti, o almeno a provare a farlo.-
Rimase immobile, come impietrito.
-Tu... cosa?-
Due secondi dopo era fuori dalla macchina.
Aprii la portiera e scesi. Si era allontanato di qualche passo e si era fermato accanto a un albero che fiancheggiava la strada. Appoggiò entrambi i pugni al tronco e poi la fronte, mentre la pioggia gli scorreva addosso.
Mi avvicinai e gli afferrai un braccio, lui tentò di sottrarsi, ma io non mollai la presa.
-Alcuni di noi nascono e crescono all'interno della Confraternita.- cominciai.
-Altri sono semplicemente reclutati nei momenti di necessità. Altri ancora vengono cercati, come se si fossero persi. Perchè è vero che l'Ordine non è mai scomparso, ma nel tempo alcuni membri se ne sono allontanati e in periodi di relativa pace hanno deciso di dedicarsi a un altro tipo di vita, tentando di cancellare ogni traccia di quella precedente, nascondendo le loro origini ai loro figli e nipoti. Sono i loro discendenti che vengono cercati perchè portano in sé l'impronta genetica dei loro avi. Ci troviamo a un giro di vite, Davide, e siamo relativamente pochi, abbiamo bisogno di tutta la forza possibile.-
Vidi le sue spalle incurvarsi come se in quel momento gli fosse stato caricato addosso un enorme peso.
-Io ti ho trovato,- continuai. - ti ho valutato, ho pensato che era il caso di provare a coinvolgerti, e a come presentarti tutta la storia, ma a quanto pare la storia ha deciso di presentarsi da sé. Ieri sera ho avuto un'ulteriore prova di chi sei, perchè non hai perso la testa e hai reagito con efficacia. La freddezza, la prontezza che attribuisci a me, tu l'hai dimostrata appieno nella peggiore delle situazioni. E anche se adesso ti senti uno schifo e ti chiedi che cosa sei diventato, io ti dico che questo sei tu, che non ti sei trasformato in un mostro assetato di sangue, che hai semplicemente scelto di vivere. Solo tu puoi decidere cosa fare della tua vita, io non posso obbligarti a seguirmi o anche solo a credermi. Non sei marchiato da un destino implacabile, è tutto nelle tue mani e lo sarà sempre.-
La pioggia si era ormai ridotta a una lieve acquerugiola e frange di nubi basse sfioravano ogni cosa.
Davide rialzò la testa, si liberò della mia stretta e si voltò a guardarmi. Si passò le mani bagnate fra i capelli con un gesto stanco lasciandosi una traccia di sangue sulla guancia. Nei suoi occhi sfilarono una dietro l'altra rabbia, paura, accettazione. Entrambi ci aspettavamo qualcosa dall'altro; decisi che agire spettava a me. Allungai una mano per pulirgli la guancia, ma lui me l'afferrò con la sua e dopo un attimo di esitazione se la portò sul viso chiudendo gli occhi.
Non mi mossi, non sapendo bene interpretare il suo gesto. Forse si stava arrendendo, a me, a sé stesso, alle nostre mani Assassine. Abbassai la testa, a fissare la terra e i ciuffi d'erba ai miei piedi: non c'era niente che potessi dire o fare, nulla che potessi pensare, me ne stavo così, congelata in quel momento, nel silenzio, come se il tempo fosse fermo, in mezzo al rumore delle gocce d'acqua che scivolavano giù dalle fronde dell'albero e precipitavano al suolo.
Le parole le trovò Davide e la sua voce mi parve arrivare da molto lontano. Chiese semplicemente:
-Dove stiamo andando?-

 

Fuori dalla finestra c’è solo il buio e i rumori furtivi delle foglie trascinate dal vento; intorno a questo antico casolare nella campagna fiorentina non ci sono altre abitazioni nel raggio di chilometri, solo telecamere a infrarossi molto ben mimetizzate.
La missione è stata portata a termine senza particolari problemi. La ferita di Davide è cosa di poco conto, l’ho medicato e spedito a letto con un paio di antidolorifici. Devo dire però che quel mezzo minuto in cui è stato privo di sensi è stato uno dei più lunghi della mia vita.
Ora i miei quattro giovani Assassini dormono nelle loro stanze, vinti dalla stanchezza e dal calo di adrenalina. Anch’io ci ho provato, ma senza riuscirci; quel maledetto segnale d’emergenza che lampeggia sullo schermo del mio portatile mi tiene sveglia.

ILGRANDE SOTTO ATTACCO IN FUGA ORE 23:32 SI ATTIVA PROCEDURA

Quelle poche, impersonali parole si rincorrono per il mio cervello senza arrivare da nessuna parte, insinuando tra i pensieri la sensazione disperante di stare correndo davanti a un’inondazione: non si può tornare indietro, non c’è altra direzione né altra scelta.
Quelle parole hanno per me un volto familiare e caro, il volto di qualcuno che conosco da molto tempo, e che non vedo da circa un anno.
Ansia. Impotenza.
La procedura richiede il suo tempo ed è del tutto inutile e controproducente restare qui a fissare lo schermo aspettando notizie che arriveranno solo tra alcune ore, ma non riesco a smettere di farlo. Sembra che io abbia perso la freddezza di un tempo.
Sono alla disperata ricerca di qualcosa che mi distragga dalla mia preoccupazione, ma niente sembra venirmi in soccorso finché non sento bussare timidamente alla porta della mia stanza.
-Avanti.-
Davide mette dentro solo la testa.
-Scusa- sussurra -Ho visto la luce sotto la porta.-
-Dovresti cercare di dormire.- è la mia risposta ipocrita, mentre dentro di me sto benedicendo quel diversivo.
-Lo so, ma non ci riesco. Vabbè scusa, me ne vado. Buonanotte.-
Il battente comincia a richiudersi.
-Aspetta.-
La sua testa fa di nuovo capolino. Osservo il suo viso: sotto gli steril-strip che gli ho messo sulla ferita si sta formando un livido che si allarga fin sulla guancia.
-Ti fa male?-
-No, mi sento solo indolenzito. Quella roba che mi hai dato funziona, ma non dovrebbe far venire sonno?-
-In genere sì, ma forse hai ancora troppa adrenalina in circolo.-
-Può darsi. Anche se non capisco perché allora gli altri sono già tutti crollati.-
Sembra aver esaurito gli argomenti, poi gli cade l’occhio sul portatile appoggiato sulle mie gambe.
-E’ successo qualcosa?-
Gli faccio cenno di entrare e lui viene a sedersi sul bordo del mio letto. Gli mostro lo schermo.
-Oh, cazzo.- mormora. -Non ci sono altre notizie?-
-Per ora no. Sai, la procedura…-
-Sì, è una cosa lunga. Non si può far altro che aspettare. Merda.-
Mi passo le dita tra i ricci aggrovigliati, mentre Davide scruta ogni mio gesto e ogni mia espressione nel tentativo di decifrare i miei pensieri. Ostento una calma che non provo affatto.
-Come la vedi?- chiede poi.
-Alex è molto esperto. Ho fiducia in lui. Ha un’ottima squadra. C’erano informazioni non confermate su una minaccia in atto, quindi sarà stato preparato.-
Uno sguardo allo schermo, uno a Davide, uno al buio oltre la finestra. Immagino lo scalpiccio di piedi veloci nella notte, voli attraverso i tetti, nascondigli angusti. Il tempo che scorre veloce, l'attesa ai punti di controllo, baluginio di lame, voci concitate, silenzi assordanti. Ansia e fiato corto. Quante volte ho affrontato la procedura? E la fuga in solitaria? E la caccia? Innumerevoli volte e anch'io sono preparata ed esperta, ma all'incertezza non ci si abitua mai. Qualcosa può sempre andare storto, un piede in fallo, un errore di valutazione...

 

...Alex ed io ci alleniamo insieme in palestra. Alex è in prima fila quando ricevo l'Investitura. Alex è in appoggio al mio primo incarico. Senza Alex avrei fallito miseramente il mio terzo incarico. Alex parla in mia difesa. Alex ed io in fuga disperata per quattro giorni. Alex ricuce il mio braccio ferito mentre io strillo come un'aquila, io ricucio la sua spalla e lui si impegna a non fare un fiato, ma poi sviene. Alex scassina la porta della stanza in cui mi sono chiusa a chiave dopo una accesa discussione, io gli lancio contro un vaso di cristallo che lui prende al volo. Alex sorride dal portatile, proprio dietro le parole SI ATTIVA PROCEDURA...

 

Uno sguardo alla finestra, uno allo schermo, uno a Davide. Mentre ero persa nei miei pensieri si è addormentato, un braccio appoggiato alla pediera del letto e la testa abbandonata su di esso. Il suo viso è rilassato e innocente in quell'abbandono, come se si fosse concesso di cedere alla stanchezza solo nel momento in cui si è trovato vicino a me. Sorrido, mentre un'onda di tenerezza mi assale all'improvviso. Mi sono accorta di come mi guarda, dice che io sono l'unica capace di farlo arrendere.
Penso che dovrei svegliarlo e rimandarlo nella sua stanza, quando un cicalino insistente dal mio portatile gli fa spalancare gli occhi. Guardo lo schermo mentre la sua voce impastata mi chiede se ci sono notizie. Il segnale di emergenza è scomparso.

 

ILGRANDE RAGGIUNTO DRAGO

-Sono al sicuro.- dico mentre lui si alza dal letto.
-Bene, sono contento.- si stira. -Sarà meglio che vada a dormire, quella roba sta facendo effetto.-
Si dirige verso la porta.
-Scusa se ti ho disturbata, buonanotte.-
-Non mi hai disturbata. Dormi bene.-
E grazie.
Il battente si chiude alle sue spalle.

 

 

Messaggi istantanei criptati

 

04:18am

Gea _ ehi, è molto tardi, che fai ancora sveglio?
Alex_ Penso a te, tesoro. E tu come mai non sei ancora a dormire?
Gea_ penso a Davide
Alex_ Traditrice. E me lo dici così, senza nessun pudore?
Gea_ e ai ragazzi. Spiritoso, sai benissimo cosa voglio dire.
Alex_ Scusa, speravo pensassi a me...
Gea_ penso anche a te. È lunga questa notte, ero preoccupata.
Alex_ Per me?
Gea_ sì
Alex_ E' andata, ma è stata dura. Giulia non è arrivata all'ultimo punto d'incontro, ma ha raggiunto la destinazione appena in tempo. Si è rotta una grondaia.
Gea_ capita
Alex_ Già.
Alex_ Dimmi cosa pensi. Sento gli ingranaggi del tuo cervello da qui.
Gea_ mentre aspettavo notizie mi sentivo in trappola, avevo paura e pensavo a Davide, al fatto che lui è diverso dagli altri tre, aveva una vita diversa, normale. Gli altri li ho tolti dalla strada, erano degli sbandati senza un futuro, è come se non avessero mai avuto altra scelta.
Alex_ Gea, che dici? Tutti hanno scelto, anche Davide ha scelto, tu l'hai lasciato decidere. C'è sempre una scelta, cambiano solo gli ambiti, possono essere più piccoli o più grandi, ma ciascuno di noi può scegliere. Stai dimenticando tutto quello in cui crediamo?
Gea_ No, ma non dimentico neanche il mio passato. La Confraternita mi ha dato tutto, puoi davvero dire che io ho avuto scelta?
Alex_ Sì.
Alex_ E ce l'hai ancora. Puoi lasciare quest'incarico domani, puoi abbandonare la Confraternita e costruirti una vita nuova. Puoi anche decidere di tradire, far fuori Davide e gli altri, venire qui e provare a piantarmi la tua lama nella schiena.
Alex_ Ma spero davvero che tu non lo faccia.
Gea_ sei un bastardo
Alex_ Lo so.
Alex_ E' per questo che ti piaccio.
Alex_ E questa forse è l'unica cosa su cui non hai scelta.
Gea_ piantala Alex, non mi sto divertendo.
Alex_ E' perchè ti manco.
Gea_ piantala ho detto
Gea_ ok, mi arrendo, è meglio che vada a dormire, e dovresti farlo anche tu, hai bisogno di riposo.
Gea_ buonanotte
Gea has left the room
Alex_ Buonanotte anche a te
Alex has left the room

 

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Capitolo 5
*** Giulia ***


GIULIA

 

L'aria era gelida e il cielo bianco di nuvole prometteva neve quando parcheggiai la moto davanti a quel palazzo signorile. Era rimasta una sola busta da consegnare in fondo alla mia borsa e già pregustavo di celebrare la fine della giornata lavorativa con una cioccolata calda nel bar che avevo giusto adocchiato dietro l'angolo.
Tirai fuori la busta e le diedi un'occhiata.

 

A.L.

Spm

Aquila Consulenze Informatiche

 

L'intestazione era curiosa e mancava il mittente, ma l'indirizzo era corretto, quindi nessun problema. Mi avvicinai al portone e controllai i citofoni: all'interno interessato (l'ultimo) non c'era alcun nome. Premetti il pulsante e dopo qualche secondo il portone si aprì; solo in quel momento notai l'occhio indiscreto di una telecamera spiarmi dall'alto. Con una smorfia mi infilai nell'atrio che si rivelò elegante come l'esterno: un'ampia e curva rampa di scale saliva verso i piani superiori e non c'era ascensore. Valutando che mi avrebbe fatto comodo, ma di sicuro avrebbe rovinato l'estetica dell'insieme, mi rassegnai all'arrampicata di cinque piani.
Raggiunto l'attico il freddo era diventato solo un ricordo, avevo aperto la cerniera del piumino e mi ero tolta i guanti, infilandoli nel casco insieme alla busta.
Il portoncino non aveva alcuna targa e un altro occhio invadente sorvegliava il pianerottolo. Suonai il campanello che risultò del tutto silenzioso.
Venne ad aprirmi un ragazzo sui vent'anni, biondo e con un sorriso gentile, vestito in modo informale.
-Ciao.- disse.
-Ciao. Questa è l'Aquila Consulenze Informatiche?-
-Sì, lo è.- rispose il ragazzo.
-Vieni dentro.- aggiunse poi facendo cadere lo sguardo sulla busta.
-Ultima porta a sinistra.-
L'ingresso era piuttosto spartano e disadorno, solo una scrivania con un computer portatile quasi sepolto da una marea di carte e dalla finestra una magnifica vista sui tetti del centro storico. Lungo il corridoio che il ragazzo mi stava indicando notai cinque porte di cui solo l'ultima era socchiusa.
-Grazie.-
Arrivata in fondo al corridoio spoglio bussai e spinsi il battente.
-Buonasera. Devo consegnare...-
Le parole si bloccarono.
Niente cappotto scuro. Niente guanti di pelle. Però gli stivali erano gli stessi di quella sera.
-Alex?- farfugliai.-Sei tu A.L.?-
Lui sorrise e i suoi occhi grigi si colorarono di una sfumatura maliziosa.
-Sono io. E tu hai ancora quel bel coltello?-
-Sì, lo porto sempre con me.-
-Ottima abitudine.-
Fece qualche passo verso di me e io gli porsi la busta pensando a chi mai avrebbe potuto commentare in quel modo il fatto che io girassi armata. Di sicuro lo sconcerto si era dipinto sul mio viso.
-Una ragazza che si muove da sola per la città e per il suo lavoro viene a contatto con tante persone diverse deve avere modo di difendersi. Il coltello è una buona arma, e so che non avresti paura di usarlo, però imparare a essere più... efficace di certo non guasterebbe. Hai mai pensato a un corso di difesa personale?-
Ero sempre più sorpresa.
-Sì... effettivamente ci ho pensato, ma al momento non credo di potermelo permettere.-
-Una soluzione si può sempre trovare.- disse lui con un'alzata di spalle.
-Che vuoi dire?-
-Voglio dire che è un ambito in cui sono abbastanza esperto.-
Non avevo dubbi in proposito.
-E che tengo dei corsi proprio qui. Non hanno una cadenza fissa, ci organizziamo di volta in volta a seconda dei partecipanti. Se ti interessa vedere di cosa si tratta ci incontriamo domani sera.-
Non sapevo cosa pensare. Una parte di me mi invitava a non fidarmi, un'altra mi diceva che se quello strano tipo mi aveva aiutata una volta avrebbe potuto farlo ancora, un'altra ancora era curiosa di vederlo in azione, visto che quella famosa sera mi ero guardata bene dall'alzare gli occhi dal selciato.
-A che ora?- disse la mia voce scavalcando tutti i pensieri.
-Alle nove.-
-Non sono sicura di farcela, ma ci proverò.-
-Bene. Nel caso, a domani.-
Uscii dalla stanza e mi avviai per il corridoio. Arrivai nell'ingresso e il ragazzo biondo si alzò dalla scrivania emergendo dalla jungla di carte per aprirmi la porta. Lo ringraziai.
-Di nulla.- rispose lui con un sorriso.
Scesi le scale con la voce della ragione che litigava con l'istinto di ripresentarmi lì la sera dopo.
Quando aprii il portone nevicava.

 

 

A due giorni dalla fuga la caviglia mi fa ancora male; non molto, ma quel tanto che basta a farmi sentire un peso per la squadra. Penso che potrei correre, ma di certo non alla mia solita velocità e forse potrei pure arrampicarmi, ma non con la consueta scioltezza, anche perché le dita scorticate ancora mi bruciano.
Alex mi ha bendato la caviglia e mi ha fatto indossare dei guanti di cotone bianchi sopra le medicazioni. Mi sento un rottame e solo per una stupida caduta, un incidente senza onore.
Me ne sto seduta su uno dei divani a guardare gli altri che si allenano: flessioni, addominali, stretching... mi sto annoiando a morte ad assistere a quegli esercizi, tanto quanto a farli. Mi vengono in mente alcune mie compagne di scuola che sarebbero state ore ad osservare i ragazzi in palestra riempiendosi gli occhi di tutti quei muscoli sotto sforzo. Vivere con quattro maschi in perenne allenamento avrebbe rappresentato per loro un autentico paradiso. Sempre se fossero riuscite a sopravvivere a tutto il resto.
-Ok ragazzi, al centro.- scandisce la voce di Alex strappandomi ai miei pensieri.
Osservare gli altri esercitarsi nel combattimento ha una sua utilità. Sono molto diversi tra loro, sia come fisico che come atteggiamento nei confronti dell'avversario. Paolo è il più alto e il più robusto di noi; sfrutta molto la potenza e l'allungo e poiché è molto abile e forte a parare preferisce servirsi del contrattacco. Inoltre è molto calmo e controllato ed è pure un ottimo incassatore, sembra che non senta mai male anche quando viene colpito duro. All'estremo opposto c'è Fabio, che è più basso di Paolo di tutta la testa e sembra pesare almeno venti chili meno di lui. Veloce, agile e preciso, la prima impressione che si ha nell'affrontarlo è di non riuscire mai a colpirlo. Sa schivare con estrema efficacia senza mai allontanarsi tanto da non riuscire a colpirti di rimessa. Sa sempre dove andrà a finire l'attacco, dove si troverà l'avversario una volta sfogata la tecnica e quanto si sbilancerà. In mezzo c'è Patrick. Lui ha grande coraggio e determinazione, molto abile a colpire d'incontro ama chiudere la misura per portarsi a contatto con l'avversario allo scopo di trascinarlo a terra. In quest'ultimo aspetto io gli somiglio. Molto spesso ci siamo rotolati sul pavimento per una decina di minuti buoni senza riuscire a sopraffare del tutto l'altro. Di Alex non saprei cosa dire. Sembra che nessuno di noi sappia mai prevedere una sua mossa: sa fare tutto e non ha tecniche o tattiche preferite. Che usi le mani nude o una qualsiasi arma, che si stia allenando o combattendo realmente, ha sempre la stessa sicurezza ed eleganza, la stessa freddezza ed efficacia; non c'è alcuna differenza, tranne che nel suo sguardo. Quando si allena nei suoi occhi c'è sempre un sorriso, sul campo non ne resta più traccia.
Mentre li osservo volteggiare in quella specie di danza letale, mi metto con la mente al posto di uno o dell'altro, valuto le differenze, giudico le reazioni e le scelte. È come se non fossi solo una semplice spettatrice: assorbo. Anche a scuola facevo così, i miei compagni non mi sopportavano perché ero sempre preparata anche se non studiavo quasi niente. Alex la chiama “osmosi” e scoppia a ridere ogni volta. Non ho ben capito perché. Ricordo il termine dalle lezioni di fisica: forse paragonarmi a una membrana semipermeabile ha qualcosa di comico.
Dal computer portatile sta venendo un cicalio insistente. Aspetto che Alex si liberi dalla presa ferrea di Paolo e lo spedisca a terra con la consueta naturalezza e poi attiro la sua attenzione.
-C'è un messaggio.-
-Continuate.- dice lui rivolto ai ragazzi e dopo aver afferrato un asciugamano dalla rastrelliera delle armi si dirige alla scrivania.
Osservo il sorriso nei suoi occhi svanire lentamente mentre legge l'email, le sue labbra stringersi, la mascella irrigidirsi: brutte notizie. È come se la temperatura nella stanza fosse improvvisamente scesa di una decina di gradi. Rabbrividisco e il silenzio che mi romba nelle orecchie mi fa capire che anche Patrick, Fabio e Paolo sentono freddo e si sono fermati.
-Che è successo?- chiedo con un filo di voce. Alex esita, sembra che stia scegliendo le parole da usare per rispondere.
-Dobbiamo andarcene.- è tutto quello che riesce a dire.
-Quando?-
-Perché?-
-Dove?-
Chiedono Paolo, Patrick e Fabio allo stesso tempo.
-Cosa dice la mail?- domando io.
-L'email è semplicemente un rapporto sulla situazione delle altre squadre. Purtroppo quello che ho letto mi fa capire che in Italia è rimasta solo un'altra squadra oltre a noi. Il sospetto sull'esistenza di uno o più traditori si fa sempre più fondato. Sono stato lasciato libero di scegliere come comportarmi senza informare il Quartier Generale.-
-Quindi nessuno sospetta di noi.- dice Paolo.
-Esatto.-
-E dell'altra squadra?- chiede Fabio.
Osservo le emozioni sfilare sul viso di Alex a una velocità tale da non riuscire a separarle.
-Nessun sospetto neanche su di loro.-
Chiude il portatile.
-Quindi uniremo le forze. In un quarto d'ora dobbiamo essere fuori di qui. Procedura di fuga fino al punto d'incontro 12. Da lì si prosegue in macchina tutti insieme.-
Nessuno aggiunge una parola, i ragazzi scattano verso le stanze per raccogliere le loro poche cose: tutto il nostro bagaglio può stare in un marsupio di media grandezza.
Guardo la ruga sulla fronte di Alex approfondirsi, nei suoi occhi vedo il gelo e uno scintillio sinistro mentre si allaccia la fondina ascellare e controlla il meccanismo della lama celata.
-Preparati Giulia.-
Già, non c'è altro da fare.

 

 

 

 

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Capitolo 6
*** Davide ***


DAVIDE
 
 
 
L’impatto con il terreno mi spezzò il respiro. Vedevo un’infinità di puntini luminosi danzare dietro le mie palpebre chiuse e non appena le aprii l’azzurro accecante del cielo mi ferì gli occhi.
-Cazzo, che è successo?- mormorai senza  fiato.
-Presa incerta sull’appiglio. Tutto bene?-
La voce di Gea veniva dall’alto e mi sforzai di mettere a fuoco la sua posizione. Il tetto delle vecchie scuderie del casolare si trovava a tre metri di altezza e la sagoma di quell’affascinante negriera che era la mia mentore si stagliava elegante contro il cielo luminoso.
-Sono ancora vivo, probabilmente.- risposi cercando di mettermi seduto.
-Bene, allora puoi riprovarci subito.-
Mi ero trovato in passato a pensare che la scuola di kung fu fosse dura, ma avevo dovuto ricredermi. Quello a cui Gea mi stava sottoponendo da ormai cinque mesi faceva sembrare le mie esperienze precedenti un gioco solo leggermente faticoso.
Dire che Gea avesse sconvolto la mia vita era riduttivo. Lei aveva spazzato via tutta la mia realtà, come un soffio di vento dissolve un velo di nebbia e da quel momento avevo cominciato a guardare il mondo con occhi diversi. Gea mi aveva cercato, mi aveva trovato e stava forgiando il mio corpo e la mia mente con la maestria di un armaiolo che forgia una lama da un buon metallo. Non avevo scelto di essere un buon metallo, la direzione che avevo preso prima di incontrarla era come se l’avessi avuta nel sangue. Lei aveva parlato di impronta genetica e questo fatto era l’unica opposizione alla questione del libero arbitrio su cui non aveva mai potuto obiettare.
Durante le giornate che non trascorrevamo in estenuanti corse sui tetti del casolare o esercitandoci al combattimento, passavamo le ore a parlare di storia e di politica, spingendoci anche nel territorio spinoso della religione e della filosofia. Lei mi raccontava storie riguardanti l’Ordine e i suoi personaggi di spicco e mi aveva particolarmente colpito una frase attribuita a un Maestro vissuto nel Rinascimento che pareva un giorno avesse affermato che “la sua Chiesa non era di Dio”: una frase interessante per uno come me che diffidava della religione organizzata ma non della spiritualità individuale. I dettami dell’Ordine erano sostanzialmente semplici e chiari e imponevano di “trattenere la lama dalla carne degli innocenti”, di “agire nell’ombra” e di “non compromettere la Confraternita”, ma per quanto riguarda la frase “nulla è reale, tutto è lecito” che pareva riassumere in sé tutto il Credo degli Assassini, le interpretazioni erano molteplici e quasi ogni giorno me ne veniva in mente una diversa. Gea le ascoltava e sorrideva, ma non mi aveva mai fornito la sua personale idea a riguardo, probabilmente per non influenzarmi. Conducevamo una vita semplice e ritirata e io mi sarei sentito sempre più una specie di monaco guerriero, se non avessi avuto accanto a me un maestro come lei, implacabile, salda come una roccia, paziente davanti ai miei errori, generosa coi miei successi, diretta ed efficace come un animale feroce e bella in una maniera altrettanto pericolosa. Io non volevo far altro che dare il meglio di me. Desideravo la sua approvazione. Volevo che fosse fiera dei miei progressi.
Mentre cercavo faticosamente di rimettermi in piedi Gea volò letteralmente dal tetto atterrando su di me e vanificando tutti i miei sforzi. Prima che potessi rendermi conto di quello che stava succedendo mi costrinse a terra in una presa ferrea, puntandomi alla gola la sua lama celata.
-Sei morto.- sussurrò con un sorriso sbieco.
Mascherai con fatica il brivido segreto che mi assalì mentre sentivo il suo corpo che aderiva al mio senza lasciarmi scampo. La lama mi pungeva appena la gola e io me ne restai immobile, senza fiato per la caduta e per l’eccitazione, godendomi il momento della mia sconfitta e allo stesso tempo sforzandomi di convincere il mio corpo a non manifestare reazioni imbarazzanti. Furono lunghi secondi che finirono troppo presto. Gea si alzò, lasciandomi addosso un’ombra del suo calore e profumo di frangipane; io continuai a non muovermi, sconcertato, interdetto, confuso e con uno strano appagamento che mi solleticava la mente. Lei mi tese la mano e dopo un attimo di esitazione e un sospiro io l’afferrai, tirandomi in piedi.
Gea mi osservò con il viso inclinato e le mani sui fianchi. Rimasi in silenzio aspettando le sue critiche.
-Hai scelto un appiglio e poi hai cambiato idea ad azione iniziata, per questo la tua presa è stata debole e sei caduto.-
-Altro?-
-Sei sopravvissuto alla caduta, ma non alla lentezza della tua reazione.- sorrise, spolverandomi la polvere dalla camicia.
-Ho formato una squadra.- aggiunse.
La fissai interrogativo.
-Due ragazze e un ragazzo. Miei allievi, buoni elementi. Credo che potrete lavorare bene insieme.-
Gea continuava a sorridere, ma notai qualcosa nel suo sguardo che non seppi bene identificare.
-Sarà interessante.- dissi soffocando un moto di istintivo fastidio verso quell’imminente e inaspettato cambiamento.
-Sì, penso che lo sarà.- rispose lei.
La guardai e fui certo che poco prima, mentre eravamo distesi nella polvere, avesse letto il mio corpo e i miei pensieri come fossero un libro aperto e per salvarmi da me stesso, avesse deciso in quel momento che il nostro rapporto esclusivo avrebbe dovuto aver fine. Mi sentivo allo stesso tempo deluso e sollevato.
-Vuoi che ci riprovi?- chiesi indicando il tetto delle scuderie.
Lei annuì.
-Vai per primo, ti seguo.-
Sì, decisamente c’era qualcosa in fondo ai suoi occhi.
 
 
 
 
Un suono simile allo squillo di un vecchio telefono risuona per tutto il casolare e anche all’esterno, strappandomi al meritato riposo che mi sono concesso all’ombra di un acero.
Il vago senso di allarme che per tutta la mattinata è rimbalzato per la mia mente diventa reale tensione mentre corro verso l’entrata sotto il sole ancora caldo di questo primo pomeriggio d’inizio autunno.
Irene ha aperto la porta.
-Che succede?- le chiedo quasi travolgendola nella mia corsa.
-Una macchina al cancello principale.- scorgo l’ansia sul suo viso.
-Gea? Gli altri?-
-Sono tutti giù, stavo venendo a chiamarti.-
Mentre scendiamo le scale che portano al seminterrato che ospita tutta l’attrezzatura di sorveglianza sento Irene sussurrare: -L’email.-
Lo stesso pensiero che sto avendo io.
L’email che stamattina presto ha trasformato gli occhi di Gea in due pozze di ghiaccio mentre spegneva il portatile e lo scollegava dalla presa telefonica. Quel gesto e il suo ordine successivo di interrompere il collegamento wireless dei nostri palmari con la rete significava semplicemente che aveva deciso di chiudere ogni contatto con il Quartier Generale e che da quel momento eravamo soli.
-C’è rimasta solo un’altra squadra oltre a noi in Italia, si sospetta un’infiltrazione, ma non è ben chiaro a che livello. Mi è stata data carta bianca.-
Questa è stata la sua risposta ai nostri sguardi interrogativi e preoccupati.
-Qual è il piano?- ha chiesto Altea.
-Un giorno di attesa.-
Quando Irene ed io raggiungiamo il seminterrato, Luca è seduto alla postazione di sorveglianza, Gea, alle sue spalle, con le mani appoggiate allo schienale della sua sedia, gli sta chiedendo di tornare indietro di quindici minuti con la registrazione delle telecamere posizionate all’incrocio con la via d’accesso mentre Altea fissa il monitor che trasmette le immagini dal cancello principale. La macchina è un Defender polveroso, il riflesso sul parabrezza impedisce di vedere all’interno. Poi il finestrino si abbassa e la mano sinistra del guidatore si sporge da esso: mostra il dorso alla telecamera, l’anulare è piegato. Le labbra di Gea si stringono appena. Un attimo dopo la portiera si apre e scende un uomo sui trentacinque, capelli scuri non troppo corti, barba di un paio di giorni, un sorriso accattivante, jeans sdruciti e una maglia scura a maniche lunghe. Si appoggia al cofano della macchina incrociando la braccia sul petto.
-Ciao Alex.- sussurra Gea.
La guardo: la tensione è scomparsa dal suo viso a parte una ruga sottile che si attarda sulla sua fronte. C’è sollievo nei suoi occhi, e una luce che non avevo mai visto.
-Vieni Altea, andiamo ad aprire.-
Le due scompaiono oltre la porta..
Luca, Irene ed io ci fissiamo tra di noi.
-L’altra squadra superstite.- dice Luca e tutti e tre torniamo ad osservare lo schermo. Anche le altre portiere si aprono e compaiono tre ragazzi e una ragazza. Quest’ultima attira la mia attenzione poiché zoppica leggermente e indossa dei guanti bianchi. È sottile e non molto alta, i capelli castani appena mossi sono tagliati in un caschetto asimmetrico e trattenuti da un fermaglio a forma di stella.
 
Dopo rapide presentazioni, il grande tavolo nella sala da pranzo vede finalmente occupati tutti i suoi posti. Gea siede a capotavola, le mani intrecciate una nell’altra, Alex alla sua destra e io alla sua sinistra; al mio fianco Irene, poi Luca e Altea. All’altro capo c’è Patrick, seguito da Fabio, Giulia e Paolo.
Osservo i due capi squadra; sui loro visi c’è la fredda determinazione dettata dall’esperienza. Al contrario, le espressioni dei miei compagni non sono diverse da quelle dei nuovi arrivati, né (suppongo) dalla mia: c’è una sorta di smarrimento nei loro occhi, insieme all’evidente sforzo per dissimularlo.
È Alex a prendere la parola e la sua voce è profonda e musicale.
-L’email di questa mattina ci ha informato che siamo le uniche due squadre rimaste in Italia. Si suppone alla base della neutralizzazione delle altre squadre ci sia un’infiltrazione nemica o un tradimento. L’attacco di due giorni fa al nostro rifugio rende la situazione particolarmente preoccupante e ci fa capire una cosa. Poiché questo posto non è ancora stato preso di mira, non è stato scoperto.-
Si appoggia allo schienale della sedia e fa girare quei suoi occhi grigi e acuti su tutti quanti. Nessuna particolare emozione traspare dal suo sguardo e appare del tutto calmo, come se niente al mondo potesse incrinare la sua sicurezza. È l’atteggiamento di chi ha ben chiari i suoi scopi, ed è in possesso di tutte le migliori capacità per conseguirli, è la forma mentale che ho imparato a conoscere in Gea e che in più di un’occasione mi ha fatto sentire inadeguato, lontano anni luce da lei, infinitamente distante anche solo dalla speranza di riuscire un giorno a raggiungere un simile obiettivo.
-Ci è stata lasciata la libertà di agire autonomamente. Interrompere tutti i contatti col Quartier Generale è stata una scelta obbligata e necessaria.- continua Alex.
-Ci rende invisibili e ci mantiene al sicuro.-
-Scusa Alex,- sussurra la voce di Giulia.
-Come fai a essere così certo che anche questo posto non verrà scoperto?
-Perché nessun altro oltre a noi ne conosce l’esistenza.-
-Solo il Maestro lo sa.- aggiunge Gea.
-Perchè noi?- chiedo d’istinto.
Gea si lascia andare a un breve sorriso.
-Una volta ti ho detto che alcuni Assassini vengono cercati come se si fossero perduti.-
-Sì, me lo ricordo.-
-L’attuale Maestro era convinto che il dono dell’Occhio dell’Aquila, un dono che si è manifestato più volte nel passato in figure di spicco dell’Ordine non fosse così raro e che la sua presenza in altri Assassini non fosse passata, per qualche motivo a lui ignoto, all’onore delle cronache. Decise di cercare all’interno dell’Ordine e trovò Alex e poi me. A questo punto si formò nella sua mente l’idea di cercare anche fuori dalla Confraternita, allo scopo di costituire una specie di forza d’elite e affidò a noi due l’incarico della ricerca e dell’addestramento di questi elementi. Abbiamo trovato voi.-
Alex si stringe nelle spalle.
-Un po’ esigua come forza d’elite, ma questo è ciò che il tempo ci ha concesso, prima che la situazione precipitasse.-
Precipitasse… quella parola mi rimbomba nella mente, mentre una fitta di dolore mi trapassa la tempia ferita. Chiudo gli occhi aspettando che si attenui e quando li riapro incontro lo sguardo di Giulia. Lei sta fissando il livido sulla mia faccia, che ormai ha assunto una sfumatura verde giallognola. Ripenso alla sua andatura zoppicante e alle mani nei guanti bianchi che ora tiene nascoste sotto il piano del tavolo. È come se vedessi scorrere i suoi pensieri dietro quello sguardo, identici ai miei: eh sì, la situazione sta precipitando, la già esigua forza d’elite ha due elementi che non sono al 100% e uno di quei due sono io.
La voce di Alex mi distoglie dall’autocommiserazione.
-Quello che ancora non sapete è che esiste una terza squadra. Garantire la sua sopravvivenza e la possibilità che possa continuare a svolgere il suo lavoro è il nostro scopo primario.-
-Cosa stanno facendo?- chiede Luca.
-Una nostra agente infiltrata all’Abstergo Industries è riuscita a far evadere una persona di fondamentale importanza per entrambe le parti in causa. Questa persona è un venticinquenne di nome Desmond Miles ed è un discendente di Altair Ibn La’Ahad ed Ezio Auditore. L’Abstergo stava cercando di accedere alla sua memoria genetica attraverso un’apparecchiatura chiamata Animus, allo scopo di localizzare un manufatto potente e pericoloso, creato da una civiltà precedente a noi e di cui i due Gran Maestri sono stati in possesso. Un oggetto in grado di manipolare e controllare le menti.-
Quello che mi sorprende di più è che io stia ascoltando queste informazioni come se fossero la cosa più normale del mondo, ma qui stiamo parlando di macchine che scandagliano il DNA, di civiltà antiche come il mito di Atlantide, di oggetti misteriosi con mistiche facoltà… ma dove sono finito? E soprattutto, cosa cavolo mi è successo?
Gea apre il suo portatile e batte sui tasti, poi gira lo schermo verso di noi.
-Durante la sua permanenza all’Abstergo, la nostra infiltrata è riuscita a trafugare i progetti dell’Animus permettendoci così di realizzarne una versione migliorata, per poter continuare il lavoro di ricerca.-continua Alex.
- Quest’immagine viene dal database delle sessioni dell’Animus 2.0 effettuate dopo la fuga. Vi presento la Mela dell’Eden.-
 La sfera sta in una mano, appare metallica e screziata di simboli sconosciuti, emana una forte luminescenza. Mi domando come sia toccarla, se sia calda o fredda. Trasmette potere, è affascinante, e spaventosa.
Il silenzio è assoluto, come se tutti stessero trattenendo il respiro, gli occhi incollati allo schermo del portatile. Nemmeno Alex e Gea sembrano immuni al fascino di quell’immagine che appare dotata di vita propria. Ho la curiosa sensazione che la Mela sia rotolata sul tavolo e parli di sé, imponendo la sua presenza come reale, così reale che devo trattenere la mia mano dall’allungarsi e afferrarla.
nulla è reale…
Gea chiude il portatile con uno scatto secco, interrompendo quella specie di incantesimo.
Le sedie scricchiolano, i respiri ripartono, le palpebre sbattono. La Mela è tornata ad essere un semplice file archiviato su un hard disk. È evidente il motivo per cui deve essere recuperata: è lo strumento perfetto per costringere alla pace e annullare ogni possibilità di scelta. Un oggetto del genere non dovrebbe esistere, dovrebbe essere stato distrutto da tempo, ma non posso fare a meno di chiedermi se sarei in grado di farlo trovandomelo fra le mani.
 
Nota dell’autrice
Innanzitutto scusate il ritardo. Questo capitolo mi ha dato seriamente del filo da torcere, e tuttora non ne sono soddisfatta. La cosa più difficile è stata collegare finalmente la storia al gioco, con tanto di spiegazioni, che sappiamo tutti a memoria, ma che erano doverose. Un’altra difficoltà: dare una collocazione temporale ai fatti. Dalle mie ricerche risulta la data dell’1 settembre 2012 per la prima sessione nell’animus di Desmond e il 10 ottobre per il ritrovamento della Mela alla fine di Brotherhood. Non mi è ancora ben chiaro quando i nostri eroi arrivino a Monteriggioni, mi sembra che la prima email sia datata 19 settembre. Dato che nei rapporti sullo stato delle altre squadre sparse per il mondo si parla di talpe e tradimenti (27 settembre), è in questo periodo che avrei deciso di piazzare la storia. Mi piacerebbe essere il più possibile precisa nella sequenza degli eventi quindi se notate qualche incongruenza qui o in futuro, segnalatemelo.
Con ciò, chiudo.
 
Micho  

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Capitolo 7
*** Alex ***


ALEX
 
La cena è stata tranquilla e silenziosa; un notevole contrasto con l’estenuante pomeriggio di domande e discussioni.
La tensione, che ha portato concitati confronti anche in cucina, sembra essersi dissolta.
I ragazzi se ne stanno tutti attorno al camino acceso, chi sul divano, chi sdraiato sul tappeto, mentre le note malinconiche di “The road to Drumleman” si diffondono per il casolare. Patrick ha scovato una chitarra in soffitta e dichiara alla Confraternita le sue origini scozzesi con una voce profonda e gradevole.
Mi alzo dalla poltrona ed esco sul portico, e la musica mi segue, ostinata come il canto dei grilli ritardatari che porta con sé la sensazione che la fine dell’estate sia la fine di tutto e non solo l’inizio dell’autunno.
La brezza leggera fa tremolare la fiamma dell’accendino e mentre esalo il fumo lentamente, l’aria frizzante che mi solletica la schiena viene sostituita da un piacevole calore e da un profumo di frangipane che riconoscerei ovunque. Un paio di braccia sottili ma forti mi avvolgono, incrociandosi sul mio stomaco.
-Sei qui.- sussurra Gea al mio orecchio; il suo respiro mi accarezza il collo.
-Sì, quasi non ci credo.-
Lei appoggia la testa alla mia spalla e non dice nulla. Anch’io resto in silenzio a godermi l’abbraccio.
La sigaretta si sta consumando tra le mie dita, come i pensieri disordinati e le sensazioni contrastanti consumano la mia mente.
Non voglio pensare, non adesso.
La sigaretta finisce sotto il mio stivale e le mie mani su quelle di Gea sciolgono l’abbraccio. Mi volto verso di lei e guardo il suo viso. Alla debole luce del portico i suoi occhi appaiono enormi e lucidi. I ricordi mi passano sopra come un’onda mentre affondo le dita tra i suoi ricci e poso le labbra sulle sue. Lei si aggrappa a me come fossi l’ultimo appiglio sopra un baratro senza fine e risponde al mio bacio con un’intensità quasi disperata. Sento il suo corpo aderire al mio, la sua pelle cercare la mia attraverso i vestiti, il suo respiro entrare nei miei polmoni, le sue emozioni afferrarmi dentro. Mi trascina via dal portico senza staccarsi da me, inciampando nei gradini e ridendo sommessamente con il fiato corto. La musica aleggia ancora nell’aria mentre ci appoggiamo alla porta delle scuderie che si apre trascinandoci dentro. Gea la chiude con un calcio. Nell’oscurità quasi totale le sue mani si insinuano sotto la mia maglia e la sua bocca mi assedia. Non vedo quasi nulla e non so come muovermi in quest’ambiente che non conosco; sento una parete contro la schiena, poi più nulla. Una superficie morbida attutisce la caduta: fieno, ricoperto da qualcosa di ruvido, forse una coperta di lana grezza. Mi sfugge una risata, lei ride sopra di me. L’urgenza del momento sembra stemperarsi per un attimo. Il suo alito sfiora il mio viso, profuma di caffè e del mezzo dito di brandy che ha bevuto dopo cena. Mi bacia la punta del naso e poi le labbra, con estrema delicatezza. Resto immobile, nel tentativo oltremodo faticoso di prolungare il momento. La lana della coperta mi punge la pelle lasciata scoperta dalla maglia sollevata. Le sue labbra morbide si posano sul mio collo, poi scendono sullo stomaco, scivolano sull’ombelico. Il respiro si accorcia mentre lei traffica con la mia cintura. Il momento si è prolungato anche troppo e in pochi attimi febbrili non ci sono più barriere tra la mia pelle e la sua e lei finalmente mi accoglie, mi stringe, mi avvolge, lenta, morbida. E’ un preludio eterno, estenuante, esasperante, che mi eccita sempre di più, che continua a tenermi sull’orlo di un precipizio, mentre una parte di me desidera non mettere mai fine a quella sospensione e l’altra urla di saltare. Voglio essere uno strumento per lei, di cui può disporre, voglio che si prenda tutto ciò che desidera, finché lo desidera, fino alla fine del tempo. Resisto alla smania quasi incontenibile di precipitarmi subito in fondo al baratro che mi chiama con voce imperiosa. L’esperienza mi ha insegnato che prolungare il presente è un’arte difficile ed esaltante. Anche lei lo sa: a volte cede alla tentazione di accelerare e sento tutti i suoi muscoli contrarsi mentre si avvicina al punto di non ritorno, sento che si ferma, respira, lascia che il cuore rallenti di qualche battito e poi ricomincia da capo. Mi trascina con sé in questa altalena, mettendo alla prova tutta la capacità di controllo che entrambi possediamo. Improvvisamente mi lascia, mi invita a scambiare i ruoli e io lotto per mezzo minuto con l’impulso di accettare subito: trenta secondi eterni. Rotolo su di lei, aderisco al suo corpo, sento il suo respiro, resto immobile finché non la sento agitarsi sotto di me e i suoi gemiti diventare un lamento. Mi sta chiedendo di darle quello con cui abbiamo giocato fino ad ora, e sono pronto per questo.
E’ il momento…
Di andare…
Fino in fondo…
 
Ho imparato ad affrontare il pericolo, la paura e la morte (quella dei miei nemici, dei miei amici ed eventualmente anche la mia), a sopravvivere per me stesso e per il contributo che posso dare, a cercare di vivere ogni giorno come fosse l’ultimo, assaporando ogni respiro, ogni attimo…
… il calore del sole sulla pelle, l’aria della notte, la pioggia, la neve, la fatica, una coperta ruvida sul fieno profumato, le curve morbide di Gea contro di me, il suo cuore che batte, la perdita di ogni controllo, il dolore della separazione…
-Mi aspettavi?- la mia voce è poco più di un sussurro rauco.
-Parli di questo posto?- la domanda ha un tono divertito.
-Sì.-
-Davide ci viene a meditare.-
Scoppio a ridere.
-Credo che l’atmosfera sia stata irrimediabilmente compromessa.- sospiro.
-Non c’era altra soluzione.-
-A parte rotolarsi nel prato.-
-Troppo rischioso. Troppo umido.-
-O l’astinenza…-
Silenzio: opzione non contemplata.
Sorrido nel buio, una mano che accarezza pigramente la sua schiena.
-Sai, ho pensato che senza di te sarei stata più concentrata.-
-Ma…?-
-Ma ora che sei qui sento che avevo bisogno di condividere un po’ di responsabilità.-
-Un modo diplomatico per dire che ti sono mancato?-
Si allontana da me puntandomi le mani contro il petto, posso immaginare la sua espressione e anche la successiva, mentre si abbandona di nuovo tra le mie braccia.
-Non sai quanto ti volevo.-
-Lo so invece.-
Gea ed io abbiamo condiviso parecchi incarichi da “buoni fratelli” prima che un’estenuante fuga di quattro giorni ci facesse scoprire la folle urgenza di avvicinarci.
Ricordo un rifugio che era poco più di una catapecchia, all’ultimo piano di un fatiscente palazzo abbandonato. Le scale polverose e semibuie mi erano sembrate interminabili mentre mi sforzavo di convincere le mie gambe esauste a non inciampare nei gradini diseguali tentando di non lasciare dietro di me troppe tracce di sangue.
All’ultimo punto d’incontro Gea si stringeva un braccio al petto. Il sangue filtrava dalla rozza fasciatura che aveva raffazzonato utilizzando lo scarno kit di pronto soccorso che ognuno di noi porta sempre con sé e il suo viso era pallido e tirato. Avevo visto riflessa nei suoi occhi la stessa stanchezza mortale che mi sentivo nelle ossa, la sensazione di non essere distante  dal crollo per la mancanza di sonno, la fatica e la perdita di sangue era una realtà tangibile e spaventosa. Avevamo ripreso fiato per i cinque minuti in cui avremmo atteso i compagni, se ne avessimo avuti, e poi via di nuovo di corsa nella notte, alimentando nel cuore e nel cervello la speranza che dopo quell’ultimo sforzo avremmo potuto fermarci.
Al quarto giorno di fuga, aver finalmente trovato un rifugio non compromesso mi faceva balenare nella mente immagini sconnesse di un letto e di un pasto decente, oltre al desiderio disperato di una dose da cavallo di antidolorifici che spegnesse il tormento della ferita alla spalla. Dietro la porta Gea mi aspettava con la lama pronta. Quasi sicuramente nessuno di noi due sarebbe sopravvissuto a un incontro diverso, ma il sollievo di riconoscerci rischiava di farci abbassare del tutto la guardia.
-Aiutami.- aveva detto lei postando sul tavolo l’occorrente per una sutura e strappando la fasciatura con un gesto stanco. Ricordo di aver temuto che le sue urla ci facessero scoprire e di aver fatto di tutto per non emettere neanche un lamento mentre toccava a me. Ricordo anche di aver fatto una battuta alla fine, di cui ora non mi sovviene il contenuto, e di essere svenuto miseramente un attimo dopo con negli occhi l’immagine del suo sorriso esausto.
Non ho memoria dei minuti né delle ore seguenti, ad un certo punto avevo semplicemente aperto gli occhi nella luce che penetrava dalle finestre. Gea dormiva accanto a me sullo stretto letto duro che faceva parte dello scarno arredamento della stanza. Guardavo il suo viso segnato e la polvere sui suoi capelli  e pensavo che poche cose nella mia vita mi erano apparse più belle.
Con il trascorrere della giornata avevamo cominciato a credere che la fuga fosse davvero finita. Dovevamo solo aspettare un altro giorno prima di poter fare rotta verso il quartier generale in relativa sicurezza. Seduti al tavolo traballante mentre davamo fondo alle scorte di cibo del rifugio, avevamo ripercorso i fatti degli ultimi giorni ed esaurita l’analisi, il silenzio ci aveva sorpresi uno negli occhi dell’altra, a cercare parole che non trovavamo. Guardavo le sue labbra socchiuse in un’espressione di stupore piegarsi in un lieve sorriso mentre allungava una mano e mi accarezzava la guancia. Sentivo su di me tutte le conseguenze del gesto, prendendo quella mano e baciandone le dita dalle unghie spezzate. Soffocavo in fondo alla mente il pensiero che fosse tutto sbagliato, che ci avrebbe indebolito e messo in pericolo, che dovevo desistere dal superare lo spazio del piccolo tavolo che ci separava e colmare la distanza fra noi, perché sapevo che se non mi fossi mosso in quel momento l’avrei rimpianto per sempre. Posso solo dire che mi mossi e che la mia anima e il mio corpo gridavano di trionfo mentre l’aria tra di noi si assottigliava sempre di più, portandoci a contatto. Accettavo qualunque cosa, anche a che finisse quel giorno, anche che fosse solo un incontro dettato dallo stordimento della fuga, dagli antidolorifici e dalla stanchezza, destinato a non ripetersi. Accettavo che fosse un modo come un altro di scaricare la tensione, o il manifestarsi della componente più antica del cervello umano, quella che portava le persone a fare l’amore nei rifugi sotto i bombardamenti: quando la morte è vicina vuoi sentirti vivo. E contro ogni previsione eravamo più vivi che mai…
-A cosa pensi?- la voce di Gea nel buio delle scuderie.
-Alla nostra epica fuga di quattro giorni.-
-All’ultimo giorno?-
Sussurro sulle sue labbra.
-Sì.-
 
 
 
 
 
 
 
 
 
E per chi vuole struggersi…
http://www.youtube.com/watch?v=xJYtwOUSGAM

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Capitolo 8
*** Giulia ***


GIULIA
 
La porta laterale dell’abbazia era aperta e i cardini perfettamente oliati. Ad Alex bastò appoggiare la mano sulla maniglia e fummo dentro. Dopo il buio compatto e il freddo delle ultime ore della notte, il fioco bagliore delle poche candele sembrò quasi scaldarmi.
-Sbrighiamoci.- sussurrò Alex.
-Tra poco ci sarà luce.-
Ci dirigemmo sicuri dietro l’altare, dove una scala a chiocciola chiusa solo da una catenella e da un cartello si arrampicava verso il soffitto a capriate. Il cartello recitava: “RIPARAZIONI IN CORSO VIETATO L’ACCESSO AI NON ADDETI AI LAVORI”.
Scavalcammo quell’esile barriera e percorremmo la scala rapidi e in silenzio, raggiungendo la botola che conduceva sul tetto. Con un tronchese prontamente estratto da una tasca interna della giacca Alex tagliò il debole lucchetto che la bloccava e uscimmo all’aperto su uno stretto pianerottolo. Le ringhiere che proteggevano il camminamento sul margine del tetto fino al campanile erano state smontate e sostituite da precarie barriere in legno la cui sicurezza lasciava molto a desiderare, ma quella non era la strada che noi dovevamo seguire. Posammo i piedi sulle tegole malferme e ci dirigemmo a passo leggero e spedito verso il colmo del tetto, tenendoci bassi per l’ultimo tratto di salita, fino a sdraiarci sullo spiovente.
Il cielo si andava ormai schiarendo.
Alex si sfilò lo zaino dalle spalle e lo aprì mentre io facevo lo stesso col mio. Lui estrasse un potente binocolo e scrutò in lontananza appoggiando i gomiti sul colmo, io tirai fuori una valigetta scura e l’aprii. Il silenzio era interrotto solo dal rumore delle parti del fucile di precisione che stavo assemblando che si incastravano una nell’altra. Avevo ripetuto quell’operazione centinaia di volte anche nella più completa oscurità, con il cronometro spietato di Alex che misurava ogni mio progresso.
-Pronta.-
L’appoggio era saldo nonostante la superficie non fosse delle migliori. Accostai l’occhio al mirino e posai il dito sul grilletto.
-Bersaglio.- disse Alex.
-652 metri. Visuale libera.-
La sagoma si trovava sul tetto di una cascina, aveva forma umana e la brezza la faceva ondeggiare leggermente. Rallentai il respiro e lo approfondii, rilassando i muscoli ad ogni espirazione, finché l’unica parte in tensione del mio corpo fu il dito che tenevo a contatto col grilletto. Espirai un’ultima volta e mirai, contando nella mia mente i secondi di apnea. Quando il mio dito si contrasse ero arrivata a cinque. L’arma silenziata produsse uno sbuffo soffocato.
-Confermato.- disse Alex.
-Nuovo bersaglio.- aggiunse poi.
-Indietro. Dodici gradi a sinistra.-
-598 metri. Visuale libera.-
Respiro, rilassamento, mira.
-Confermato. Nuovo bersaglio. Avanti. Ventuno gradi a destra.-
Nel mirino vidi solo un fienile abbandonato, con una macchina parcheggiata davanti. Non c’era proprio nulla che potessi identificare come bersaglio.
-703 metri. Non ho visuale.- non sapevo che altro dire.
-Aspetta.-
Aspettai, sforzandomi di dominare la tensione che sentivo mi stava afferrando. Aspettai , finché un’altra macchina non entrò nella mia visuale, trascinandosi dietro una nuvola di polvere. Non accadde nulla per un paio di minuti, la polvere ricadde al suolo, poi la portiera si aprì e un uomo scese.
La voce di Alex mi entrò nel cervello come una lama gelida.
-Bersaglio.-
 
 
 
Anche l’alba ha un suo crepuscolo, che la precede invece di seguirla. Si porta via gli strascichi della notte ed è carico di una tensione che si dissolve allo spuntare del sole.
Dopo colazione Gea mi ha messo in mano un vassoio con sopra un’enorme tazza di caffè e un cornetto scaldato nel tostapane.
-Porta questo a Davide, per favore. È sveglio da ore. Lo trovi nel fienile.-
L’aria è fredda e nella penombra immobile tutti i colori hanno una sfumatura uniforme. Non c’è un alito di vento. Affretto il passo verso il fienile, con la ghiaia che scricchiola sotto i miei piedi. Quando arrivo a destinazione sono intirizzita e il mio fiato si condensa mescolandosi col vapore del caffè bollente.
Spingo il battente con la spalla e quello che mi trovo davanti mi lascia decisamente interdetta.
-E’ un….?-
-Ultraleggero. Pendolare a due posti. Caffè?-
Davide butta la chiave inglese nella cassetta degli attrezzi e viene verso di me fissando la tazza con occhi bramosi. L’afferra e trangugia due sorsi.
-Grazie, ne avevo bisogno.-
Allunga la mano verso il cornetto, ma sottraggo il vassoio dalla sua portata, notando il grasso che gli imbratta le dita.
-Non c’è un rubinetto qui?- chiedo.
Lui sembra pensarci un attimo.
-No.- risponde poi.
-Oh…-
Mi sfilo un guanto con i denti, prendo il cornetto e glielo porgo. Ne stacca un morso e mastica soddisfatto, mentre il mio sguardo torna a posarsi sul velivolo che ingombra il fienile. L’ala ricorda molto quella di un deltaplano, e pur essendo più grande appare comunque fragile e delicata, è sospesa con tubi e tiranti sopra un carrello a tre ruote che ospita due sedili uno dietro l’altro, ancora più indietro si trova un’elica.
-Non hai paura di volare, vero?- chiede Davide afferrandomi il polso per poter addentare l’ultimo boccone di cornetto.
-No, ma certo non ho idea di che effetto faccia farlo su un affare del genere.-
-E’ molto divertente, di sicuro, sì. Non come il volo libero, lì ti senti davvero come un uccello, ma con un motore puoi essere sicuro della durata del volo, cioè finchè non finisci la benzina. E visto che la capienza del serbatoio è un dato noto …-
Poso il vassoio per terra e mi avvicino per toccare l’ala che è di un colore grigio azzurro.
-Tu lo sai guidare?-
-Sì, certo.-
Mi volto verso di lui e incontro il suo sorriso.
-Mi sembra di capire che non vedi l’ora di provare.- dice.
-In effetti mi incuriosisce molto la cosa.-
-Bene, perché ho giusto in programma un volo di prova.-
-E da dove pensi di decollare, scusa?-
-C’è un enorme campo abbandonato ai piedi della collina, credo che ci coltivassero il grano una volta. Bastano meno di cento metri per prendere il volo. L’unica rottura è che dovrò smontare l’ala, caricarlo sul pick up e portarlo fino là.-
-Ti aiuto io.-
Davide getta uno sguardo sulle mie mani bendate.
-Ti fanno male?-
-Non granché.- rispondo con un’ombra di fastidio.
-Zoppicavi ieri.-
-Va molto meglio oggi.-
-Che ti è successo? Se posso chiederlo.-
-Una grondaia non ha retto il mio peso.-
Lui mi squadra per un attimo.
-Non sembri molto pesante.-
-Infatti, doveva essere già rotta, la stronza.-
Si fa una risata. Vedere l’ironia della situazione fa scemare il mio risentimento per non essere al meglio.
-E tu che hai combinato?- chiedo indicando la sua faccia.
-Un colpo di striscio. Pare che sia svenuto per trenta secondi. Una vera pena.-
Non posso fare a meno di ridere.
-Vediamo il lato positivo.- continua lui.
-E quale sarebbe?-
-Abbiamo le ali.-
 
Dopo aver caricato sul pick-up il carrello e l’ala smontata stretta in un’ingombrante involto legato con delle corde abbiamo raggiunto il campo, mentre il cielo assumeva una sfumatura perlacea.
Ora che il velivolo ha ripreso il suo aspetto originale, devo ammettere un brivido che si insinua lungo la mia schiena. Sto pensando alle implicazioni strategiche di un simile mezzo, quando sento il rumore di una macchina.
Mentre mi volto vedo Alex scendere dal nostro vecchio Defender al limitare del campo. Lo raggiungo.
-Solita marca, modello e calibro.- dice porgendomi il fucile.
Controllo l’otturatore. Ovviamente è scarico.
-Grazie, avevo in mente proprio questo.-
Alex sorride, vedo la solita calma sul suo viso, ma anche qualcosa di nuovo e inaspettato, una sorta di… appagamento? Mentre torno verso il campo, mi domando se non abbia a che fare con la sua sparizione di ieri sera, in contemporanea, guarda caso, con quella di Gea. Ma quale domanda… non ho dubbi in proposito. Non riesco a trattenere un sogghigno, che è la prima reazione degli allievi quando hanno una prova tangibile dell’umanità dei loro maestri.
-Allora è questa la tua specialità.- commenta Davide notando l’arma tra le mie mani e rivolgendo ad Alex un cenno di saluto.
-Nella squadra sono quella con la mira migliore.- è la mia risposta. È una risposta che tende a sminuire la mia capacità e suona come una specie di bugia, di falsa modestia che Davide percepisce, visto che mi rivolge uno sguardo obliquo che sembra chiedere:”Tutto qui?”
Visto che non ho intenzione di soddisfare la sua curiosità mi indica il sedile anteriore.
-Sali, forza. Allacciati la cintura e metti questo.- mi porge un casco e ne infila uno a sua volta.
Mentre mi sistemo sul sedile e incastro il fucile accanto a me, il brivido di poco fa torna ad arrampicarsi per la mia spina dorsale.
-Quanta esperienza hai fatto qua sopra?- chiedo voltandomi indietro.
-Non molta, ma il brevetto me l’hanno dato.-
Touchè…
Con la coda dell’occhio vedo Alex, che ha seguito il nostro scambio di battute, ridacchiare sotto i baffi, mentre Davide grida: -Via dall’elica!!!-
Con uno buffo di vapori di benzina il motore si risveglia. Sembra un tagliaerba. Sto per volare su un tagliaerba. Non è possibile.
Con il motore che sale gradualmente di giri, Davide molla i freni e dopo un attimo stiamo correndo sul campo a folle velocità, con le scarse sospensioni che non riescono ad attutire le asperità del terreno. Sembra che da un momento all’altro le ruote debbano staccarsi, e quando ci solleviamo da terra è come una liberazione. La differenza è la stessa che c’è tra la cartavetro e il velluto. Il piccolo pendolare si arrampica nel cielo con facilità e morbidezza e curva dolcemente sopra il casolare, permettendomi di notare i nostri compagni col naso all’insù.
La nostra rapida salita sta accelerando l’alba e il sole si affaccia sulle colline con velocità innaturale. La sua luce sembra avere il potere di scacciare almeno in parte il freddo del vento sferzante su mio viso, mentre contemplo sotto di noi la campagna morbida ancora in ombra.
-Allora?- la voce di Davide mi raggiunge attraverso l’interfono del casco.
-Mi piace molto.-
-Facciamo un giro.-
Riconosco il bivio, la strada sterrata che abbiamo percorso ieri e il cancello principale. Davide mi indica i confini. La proprietà è costituita da una collina, circondata a una quarantina di metri dalla base da una recinzione alta a occhio e croce due metri e mezzo. È grande, ma facilmente difendibile. Il casolare si trova sulla sommità della collina e dal suo tetto potrei tenere sotto tiro chiunque si stesse avvicinando, anche perchè gli alberi si trovano alla giusta distanza e non sono abbastanza alti da togliere visuale. Questo posto sembra essere stato progettato proprio per questo scopo, non dico che potrei tenerlo da sola, ma già solo in due ci si potrebbe riuscire. Sapere che siamo in dodici mi trasmette un idea di sicurezza.
Dal mio palco privilegiato osservo la luce del sole che striscia sulla terra restituendole i suoi colori e le sue ombre lunghe e scure. Mentre ci allontaniamo dalla proprietà, i campi ordinati, le fattorie, i filari di cipressi scorrono sotto di noi: è una natura plasmata dall’uomo, ma non per questo priva di una sua civilizzata bellezza.
È una sensazione di armonica potenza quella che sto provando, qualcosa di nuovo e un po’ sconcertante; mi sento piccola in questo grande cielo, ma forte di averlo in qualche modo conquistato, grazie a un’ala dall’apparenza fragile e al motore di un tagliaerba… le implicazioni strategiche sono finite in un cantuccio in fondo alla mia mente ed è lì che voglio lasciarle ancora per un po’. Mi rendo conto che per la prima volta da parecchio tempo mi sto godendo davvero qualcosa. Che c’è di male se per qualche minuto allontano il pensiero del dovere? Mi lascio sfuggire un sospiro, che raggiunge Davide attraverso l’interfono.
-Ti stai rilassando?- sento il sorriso nella sua voce.
-Sì.- sento il bisogno di confessare.
-E’ tanto che non lo faccio. Non so perché ci riesco proprio ora. Questi ultimi giorni sono stati così tesi. L’attacco, la fuga, la procedura, la caduta. Ho rischiato di non arrivare in tempo al rifugio, ho pensato che non ce l’avrei fatta, che non ero all’altezza.- mi domando perché sia così facile lasciarmi andare a queste ammissioni, con qualcuno tra l’altro, che è un perfetto estraneo per me, ma non riesco proprio a resistere.
- Avevo paura di farmi ammazzare, o di farmi prendere. Stavo fallendo miseramente, e questo tradiva le aspettative di Alex che aveva buttato il suo tempo con me.-
-Ti capisco. Ma non sei morta, non ti hanno presa e sei arrivata in tempo. E ora sei un’aquila un po’ rumorosa.-
Sorrido. Mi diverte l’idea dell’aquila rumorosa. Ti capisco, ha detto Davide e sento per istinto che non è una semplice frase consolatoria. La consapevolezza di aver subito una seppur piccola batosta ci accomuna e il disagio che questo sia accaduto proprio adesso ci avvicina.
La cinta muraria di Monteriggioni getta l’ombra delle sue torri sui campi ancora addormentati. Si può resistere, sta dicendo, basta essere fatti del materiale giusto ed essere costruiti con maestria.
Penso ai miei occhi che sanno vedere oltre, alla mia mira infallibile, al tempo e al sudore dell’addestramento. Materiale e costruzione. È come se mi fossi liberata di un peso. Penso che avrei potuto anche non portare il fucile. So, in questo preciso istante, che da quassù non mancherei un solo bersaglio, perché essermi staccata da terra acuisce in qualche modo i miei sensi e approfondisce la concentrazione, portando al massimo livello le mie capacità.
Alex mi ha insegnato a fidarmi dell’istinto, ma anche a pianificare con esasperante precisione. Appoggio la mano sul freddo metallo dell’arma incastrata accanto a me.
-Puoi fare un giro su quelle cascine laggiù? Vorrei provare a mirare. Dovrai tenerlo il più livellato possibile.-
-Andiamo.-
La pigra curva della nostra fragile ala ci conduce verso il nuovo obiettivo puntando per un attimo contro il sole.
Vorrei che questo volo non finisse mai.
 
 
Nota dell’autrice
Ebbene sì, non ho resistito alla tentazione di portare alla ribalta un piccolo discendente della macchina volante di Leonardo, complici la mia passione per il volo e “Flight over Venice 1”.
Se volete dargli un’occhiata:
http://digilander.libero.it/aeronauticaitaliana/delta1.jpg

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