L'eredità del drago

di Argorit
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Rinascita ***
Capitolo 3: *** Annuncio ***
Capitolo 4: *** Punto di partenza ***
Capitolo 5: *** Farin ***
Capitolo 6: *** La prima meta ***
Capitolo 7: *** La pianura di Bagret ***
Capitolo 8: *** Fresa la rossa ***
Capitolo 9: *** Il colore del sangue ***
Capitolo 10: *** Lacrime di mezzanotte ***
Capitolo 11: *** La ballata del dragone ***
Capitolo 12: *** Il demone del Nord ***
Capitolo 13: *** L'Impiccato ***
Capitolo 14: *** Oriveila ***
Capitolo 15: *** La Valle Nera ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


                                                                                          Prologo
                                              
                                                                                                                                      Syn.Confine Sud-occidentale. Anno 1850
 
Le fiamme avanzavano implacabili, divorando case e alberi, lasciando dietro di se soltanto cenere. L’aria era pregna di fumo denso e nero, che oscurava la luce della luna e rendeva impossibile respirare.
Nel mezzo di questo inferno, un bambino stava correndo a perdifiato tra i vicoli della città. Il viso e i capelli erano grigi, imbrattati dalla fuliggine, gli occhi rossi per il fumo e il calore delle fiamme. Legata al fianco, una spada troppo lunga per la sua statura tracciava solchi irregolari nel terreno ad ogni passo.
« Madre!» gridò, tentando di sovrastare il crepitio del fuoco.« Madre!!» ripeté più forte.
Le lacrime cominciarono a scendergli dagli occhi. Tutta quella distruzione era colpa sua: se non avesse fatto quei sogni, se non avesse trovato quella spada, la città non sarebbe stata distrutta.
Il bambino scosse la testa, ricacciando indietro il senso di colpa. Quello non era il momento per piangersi addosso. Doveva trovare sua madre e, insieme a lei, fuggire il più lontano possibile.
Un leggero rumore attirò la sua attenzione. Pieno di speranza, si precipitò in quella direzione.
« Madre, siete voi? » chiese il bambino, svoltando l’angolo.
Fermo! Sbraitò una voce nella sua testa. Sorpreso, il bambino si bloccò. Meno di un istante dopo, il terreno dinanzi a lui esplose. Un passo in più, e di lui non sarebbe rimasto altro che polvere.
Come un’apparizione demoniaca, un uomo incappucciato sbucò dalle fiamme. Il fuoco ed il fumo vorticavano intorno a lui, come dotate di una propria volontà.
« Sei stato fortunato “ balai jin”. O dovrei dire sfortunato? Quella era la tua unica occasione di morire senza soffrire.» il fuoco aumentò di intensità, staccandosi dal suolo. Come un vortice, si condensò sulla mano dell’uomo, formando una sfera.
Scappa. disse la voce nella testa del bambino.
« No!» urlò lui. « non senza mia madre.»
Per lei è tardi, ma tua vita è troppo preziosa, devi fuggire.
« Ho detto no! Ti ho ascoltato una volta, e questo è il risultato.»
« Che stai facendo balai jin? Cerchi di trarmi in inganno, o la tua perversa natura ti sta facendo impazzire?» lo schernì l’uomo con disprezzo.
Va via sciocco! Urlò disperata la voce, ma il bambino rimase immobile: se sua madre era morta, allora non valeva la pena di salvarsi per poi rimanere da solo.
Con un ghigno estasiato sul volto, l’uomo lanciò la sfera ardente, che volò come una saetta verso il bambino.
Il piccolo tentò di sorridere all’idea che presto avrebbe raggiunto sua madre, ma, non appena percepì il calore del fuoco, l’istinto di sopravvivenza ebbe la meglio su di lui.
La spada emise una luce abbagliante, di un bianco candido. In un istante, la notte si tramutò in giorno. L’incantesimo dell’uomo incappucciato si dissolse, mentre lui veniva investito da un torrente di potere allo stato puro.
Il bagliore si espanse rapidamente, risucchiando e spegnendo le fiamme che divoravano il villaggio.
Improvvisamente la luce si ridusse, formando una sfera di poco più di due metri, poi esplose.
Ricomparve pochi istanti dopo, a diverse miglia da dove era scomparsa. Fluttuò per un po’,  poi si adagiò sull’erba, svanendo e lasciando il bambino lì disteso.
Con fatica, il bambino sollevò il braccio destro, maledicendo lo strano simbolo che gli era comparso sul dorso della mano quando aveva preso la spada.
Due voci concitate ruppero il silenzio della notte, ma al bambino non interessava più. Ebbe appena il tempo di distinguere la sagoma sfuocata di una donna, poi perse i sensi.


P.s. Scusate se riporto la mia fic in prima pagina così, ma visto che l'html del prologo faceva schifo, ora che so come impostare un pò meglio la pagina ho pensato di renderla più godibile, dato che la versione originale faceva schifo.
Sayonara.
 

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Capitolo 2
*** Rinascita ***


                                                                                                       RINASCITA

 

 

 

                                                                                                                                 Regno di Ansha. Confine Est. Anno 1857

 

 

 

Il ritmico rumore dei martelli e dei picconi riempiva la cava, mentre la violenza dei colpi sollevava nuvole di polvere sottile, che ostruiva i pori e intasava i polmoni, e spargeva ovunque schegge, talvolta pericolose. Le pesanti catene legate alle caviglie dei lavoratori, segno della loro condizione di prigionieri, rendevano il già duro lavoro degli uomini un’impresa titanica. I petti madidi di sudore si alzavano e si abbassavano affannosamente, alla continua ricerca di aria preziosa; le braccia, affaticate e tremanti, stentavano a sollevare i pesanti attrezzi, ed ogni colpo era più lieve del precedente. Molti di loro sarebbero collassati senza una pausa, ma nessuno osava chiederlo, per paura delle punizioni in cui sarebbero incorsi tutti. Per questo stringevano i denti e andavano avanti, spronati solo dalla prospettiva della libertà che era stata loro promessa se avessero svolto quel lavoro con precisione e discrezione.
Nel frattempo, da un palco sopraelevato, un uomo osservava gli schiavi, perché quello erano ai suoi occhi, con un’espressione di cupa soddisfazione. Indossava abiti da nobile, fatti con stoffe pregiate, ricamate con oro e argento. Il suo stesso aspetto suggeriva un alto tenore di vita: la corporatura imponente, i muscoli ben scolpiti e guizzanti sotto la pelle, tipici di chi passa lunghe ore a maneggiare la spada; la schiena dritta e fiera, grazie a frequenti cavalcate; i capelli, lucenti e ben curati, legati da un fermaglio d’oro intarsiato di gemme in una coda che gli scendeva fino a metà della schiena.
Erano tuttavia gli occhi a restare impressi ai suoi interlocutori: altezzosi, di un azzurro imperscrutabile, sembravano guardare il mondo con disprezzo e disgusto. Erano gli occhi di chi si riteneva un eletto, superiore a tutto e a tutti, e non temeva di darlo a vedere, anzi, se ne compiaceva.
Una voce fastidiosa e raschiante lo distolse dai suoi pensieri «Principe Alner?».
L’uomo si girò lentamente, piantando le iridi di ghiaccio sul vecchio scheletrico che aveva parlato. Certe volte il principe si pentiva di essersi affidato a lui: era debole, di corpo e di mente, ma era anche ambizioso e, a dispetto della veneranda età, avido come pochi. Avrebbe venduto il suo primogenito per denaro.
«Dica consigliere Saja» Sibilò Alner, chiaramente seccato.
Il vecchio deglutì vistosamente «Una delle guardie ci informa che a questo ritmo per domani mattina dovremmo aver terminato gli scavi».
Il principe represse un moto di stizza «Questo è male consigliere. Non ho tutto questo tempo, li faccia lavorare più in fretta».
L’anziano sbiancò «Ma mio signore, li stiamo già forzando al limite. Molti di loro non ce la faranno. Rischiamo di scatenare una sommossa» Non che fosse preoccupato per le loro vite, ma era facile che, in una situazione del genere, un vecchio fragile e indifeso come lui morisse. E di sicuro non poteva contare sulla protezione del principe, questo lo sapeva bene. Conosceva il carattere del futuro monarca.
Alner lo guardò con un’espressione che solo un despota avrebbe potuto assumere «E in che modo questo dovrebbe interessarmi? Disponiamo di abbastanza guardie da reprimere una ribellione sul nascere. E poi…» Le labbra dell’uomo si tesero in un sorriso a metà tra il sarcastico e il disgustato «non sopravvalutare l’amor proprio di questi cani: se andasse a loro vantaggio, smembrerebbero volentieri i propri compagni, a morsi se necessario».
L’immagine evocata dal futuro sovrano fece rabbrividire il consigliere che, senza perdere altro tempo, si girò e andò ad eseguire gli ordini ricevuti.
Con una punta di divertimento il principe lo vide correre alla massima velocità che il corpo decrepito gli consentiva, dirigendosi verso Radven, suo braccio destro, nonché capo delle guardie. Alner lo considerava il sottoposto ideale: forte come un toro, fedele come un cane e intelligente come un macigno.
Il principe vide le labbra dell’uomo tendersi in un ghigno sadico, mentre il consigliere gli comunicava le sue disposizioni e, come un bambino che, ricevuto un nuovo giocattolo, si stanca di quello vecchio, così Radven gettò la frusta di corda che impugnava e ne andò a prendere un’altra, più spessa e pesante, di cuoio conciato misto a lamine di metallo.
Con un sorriso di pura estasi l’uomo prese a menare sferzate a destra e a manca, lasciando segni scarnificati e sanguinolenti sui corpi dei malcapitati che gli finivano a tiro.
«Maledetti bastardi» Sibilò uno dei prigionieri, tastandosi il punto in cui lo scudiscio lo aveva sfiorato, lasciandogli una lunga striatura rossa «Anche se siamo criminali non possono trattarci così».
L’uomo alla sua destra ridacchiò, amaramente divertito «A loro non importa un bel nulla di noi Karl. Siamo come bestie da soma, privi di qualunque diritto».
«Come diavolo fai a stare così calmo?» Sbottò Karl «Proprio tu che sei stato in galera per due anni pur essendo innocente. Ti sei persino perso la nascita di tua figlia!».
L’amico gli sorrise con mestizia «Già, ma mi consola il pensiero che presto la rivedrò».
«SILENZIO VOI DUE!» Latrò una delle guardie, facendo schioccare la sferza a pochi centimetri dai loro volti.
Masticando una serie di imprecazioni, i due uomini tornarono a dedicarsi alla loro mansione, sferrando simultaneamente due colpi carichi di frustrazione. La roccia cedette sotto i picconi, spalancandosi in una voragine nera che rischiò di ingoiare la metà dei minatori.
A quella vista il principe si precipitò sul posto come un falco in picchiata, sbraitando ordini: «Portatemi una torcia, e una fune. Che nessuno a parte me osi scendere. Se ci provate vi faccio mettere sulla forca».
In preda ad un’eccitazione febbrile Alner si legò la corda alla vita e si calò nelle tenebre, affidando l’altro capo della cima al fido Radven.
La discesa fu breve, ma gli parve durare un’eternità. Non appena i suoi piedi toccarono terra iniziò a esplorare l’anfratto, a stento illuminato dalla fiaccola. Si sentiva guidato dall’istinto, e, infatti, impiegò pochi minuti a trovare ciò che cercava: un bottone mimetizzato nella roccia. Alner esultò. Gli scritti che aveva passato notti intere a consultare non mentivano.
Il principe lo pigiò senza esitazione. Alcuni stridii metallici ruppero il silenzio, mentre una serie di cardini nascosti facevano scorrere lateralmente una vasta porzione di pietra.
Una zaffata di aria mefitica spirò dall’ingresso appena aperto. Trattenendo i conati di vomito, Alner si legò un fazzoletto intorno alla bocca e al naso: poteva essere rischioso respirare a lungo quell’aria marcia.
Neanche lui avrebbe saputo dire per quanto tempo camminò, se minuti o ore: la galleria pareva infinita ed immutabile.
Il principe provava la spiacevole sensazione di essere osservato. Le pareti parevano avere occhi che lo scrutavano, famelici; l’ombra, a malapena scacciata dalla luce della fiaccola, lo inseguiva, come una belva pronta a balzare sulla preda alla sua minima distrazione. Quel luogo trasudava odio e potere, ma proprio per questo l’uomo era sicuro che ciò che cercava si trovasse lì.
Ogni singola fibra del suo essere gli diceva di girarsi e andarsene il più lontano possibile, ma la voglia di avere quell’oggetto era troppa.
Una violenta folata di vento fece oscillare pericolosamente la fiamma della torcia: doveva esserci un’altra entrata, nascosta da qualche parte.
Chi sei? Sibilò una voce, così lieve e fuggevole che Alner credette di essersela immaginata. Chi sei? Ripeté la voce, stavolta in tono più chiaro e nitido. Il principe rabbrividì.
«Tu chi sei?» Sbraitò l’uomo, più per scacciare la paura che per la rabbia «Come osi rivolgerti a me così? Io sono il principe di Ansha! Il futuro re!»
Un’onda di puro gelo inondò il tunnel, e una seconda, potente folata di vento assestò il colpo di grazia alla torcia, che si spense con uno sbuffo.
Modera i termini principe. Io sono più vecchio del più vecchio dei tuoi avi. Il tono dellavoce era calmo, ma in esso si poteva percepire una nota di minaccia.Se sei ancora in vita, è per via della mia curiosità. Sai, è raro che io abbia ospiti.
Alner deglutì. Forse era meglio mostrarsi più umili: sarebbe stato poco saggio incorrere nell’ira di un essere sconosciuto, specie se antico di almeno mille anni.
Dunque, che ci fai tu qui?
«Cerco la spada dell’uomo che dominò queste terre mille anni fa».
La voce scoppiò a ridere, e fu una risata orrenda, gelida e crudele, che riverberò sin nelle ossa del principe.Molti l’hanno cercata. Disse tra una risata e l’altra.Alcuni sono persino giunti dove sei tu ora. Eppure nessuno, nessunoè mai riuscito a portarla via con sé. Cosa ti fa credere di potercela fare?
«Sono un principe!» urlò Alner, sicuro dei propri diritti.
Qui il tuo titolo non vale nulla. Il tuo sangue blu è rosso come quello di chiunque.
«Dispongo di un vasto esercito, e ho al mio fianco maghi assai potenti».
Nessun esercito mortale, per quanto numeroso, può controllare un potere che sfiora il divino. E molti degli uomini che giacciono in questo luogo erano maghi molto più dotati di quelli che tu puoi schierare.
L’erede al trono non sapeva come controbattere, ma non se ne sarebbe andato senza di ciò per cui era venuto.
C’è però una cosa in cui tu superi i tuoi sciocchi predecessori. Disse la voce, ora stranamente cordiale.Sei molto più avido ed egoista di tutti loro.
«Cosa?» Alner era allibito. Davvero bastava quello?
Chi ha cercato quella spada lo ha fatto per i più svariati motivi: c’era chi voleva proteggere la propria famiglia, chi la propria città, chi se stesso. C’era chi bramava il potere fine a se stesso, chi lo desiderava per annientare i propri nemici, altri ancora volevano vendetta per i torti subiti.
Ma tu sei diverso: tu non vuoi né distruggere né proteggere; tu vuoi dominare.

Al principe si gelò il sangue nelle vene. Aveva la spiacevole sensazione che quell’essere stesse scavando all’interno del suo cuore, come se stesse carpendo ogni suo desiderio, per poi amplificarlo, fino a renderlo un bisogno lacerante,vitale.
Il bisogno di avere quell’arma, già prima ossessivo, si fece spasmodico: doveva averla.
«Si!» Urlò in preda alla follia «Dici il vero! Io voglio il potere, e il regno. Voglio spodestare quell’inetto che ammuffisce sul trono già da troppo tempo. Voglio strappargli il cuore e bruciarlo!»
Ed è giusto così. Sussurrò la voce, mentre una lieve brezza, priva del puzzo che aleggiava in quel luogo, accarezzò la guancia di Alner.Tu sei giovane, vigoroso, e saggio, tuo padre, invece, è fragile e titubante. È tuo diritto e dovere impedire che faccia ancora danni.
«Si, era proprio ciò che pensavo» Mormorò il principe. Non riusciva a riflettere lucidamente: era come se la sua testa galleggiasse su di una nuvola. I suoi piedi si mossero da soli, seguendo una strada indicata solo da un lieve profumo sconosciuto, ma che per lui era dolce come nient’altro. Vieni. Lo incitava la voce. Manca poco ormai.
Quando finalmente riprese coscienza di sé si scoprì essere al centro di una grande grotta. L’intero spazio era illuminato da decine di bracieri, alimentati con la torba, se l’olfatto non lo ingannava. Il pavimento e le pareti erano lisce, a tal punto che la roccia pareva marmo al tatto. Da un’estremità all’altra la spelonca misurava almeno sessanta metri, mentre la volta era ad almeno trenta metri di altezza. Nel suo preciso centro, proprio di fronte a dove il principe era inginocchiato, si ergeva un piccolo obelisco.
Alner lo fissò come ipnotizzato: era nero, ma di un nero sconvolgente, così profondo e cupo che sembrava risucchiare la luce generata dalle fiamme. Non superava neanche il metro e mezzo, ma in esso c’era qualcosa, qualcosa che lo faceva apparire enorme, schiacciante. Era come se fosse avvolto da una nube di energia. Nonostante avesse la mente ancora intorpidita, Alner capì di trovarsi di fronte ad una forza colossale, talmente immensa da sfuggire alla sfera del reale.
«Dove sono?» Mormorò atterrito.
Esattamente dove volevi essere. Disse la voce. Solo che stavolta sembrava provenire da una direzione precisa: il piccolo obelisco nero.
«Non capisco» Disse Alner «pensavo che mi avresti condotto alla spada».
Un passo alla volta. Guarda ai tuoi piedi, con molta attenzione.
Il principe obbedì, scrutando con cura il pavimento levigato come uno specchio. Vi fece scorrere sopra le dita, sperando di avvertire qualcosa. Cercò per vari minuti, finché il suo indice non incontrò una sottile scanalatura. Tremante, scostò la polvere accumulatasi nei secoli, rivelando un cerchio inciso sul suolo.
Bravo. Lo adulò la voce. Ora devi solo fare il baratto.
«Baratto?» Chiese Alner, confuso «Devo dare qualcosa in cambio?».
Oh non ti preoccupare. Sussurrò rassicurante. Si tratta solo di versare alcune gocce di sangue, poi ciò a cui aneli sarà tuo.
Impaziente, il principe sfilò un coltello dallo stivale, incidendosi il pollice. Strinse i denti quando il metallo gli morse la carne.
Le gocce cremisi caddero al suolo, formando piccole macchie circolari che sparirono subito, assorbite dalla pietra. Sotto lo sguardo incuriosito di Alner, la scanalatura s’illuminò di rosso. La roccia nell’area interna del cerchio sparì, facendo cadere il principe in una pozza di melma nera, che, come fosse viva, si avvinghiò saldamente alle sue gambe.
«Ma che diavolo…?!» Urlò in preda al terrore, mentre la melma risaliva rapida il suo corpo, inglobando prima l’inguine, poi il busto.
«Mi hai ingannato!» Sbraitò contro la voce e contro se stesso, maledicendosi per essere caduto in una trappola così semplice.
Oh, assolutamente no. Disse melliflua la voce. Beh, forse avrei dovuto avvisarti che il tuo corpo e la tua mente sarebbero andati distrutti. Pazienza.
«Che tu sia…» La fanghiglia gli avvolse la testa, stroncando la frase sul nascere. Penetrò nel suo corpo sussultante dalle orecchie, dal naso, dagli occhi e da qualsiasi altro orifizio. Il sangue gli evaporò letteralmente nelle vene, sostituito da quella poltiglia densa e scura; le carni si dissolsero, le ossa divennero polvere, gli organi e la pelle si sciolsero. In poco più di un minuto, del principe Alner non rimase nulla, persino le sue vesti vennero avidamente fagocitate.
Per alcuni secondi non accadde altro, poi l’obelisco iniziò a vibrare violentemente, emettendo una pulsante luce violacea. La melma si sollevò dalla pozza, levitando e compattandosi in una sfera. Lentamente, la sfera prese a mutare forma e, centimetro dopo centimetro, assunse un aspetto vagamente umano.
Una sottile crepa comparve al centro di quella statua di fango, diramandosi come una ragnatela per tutta la sua superficie. Con un sonoro crepitio i pezzi neri e duri si staccarono, rivelando la figura di un uomo.
Sorridendo, la creatura appena rinata si tastò il viso, controllando che i lineamenti fossero tutti al posto giusto: erano secoli che non aveva un corpo fisico, poteva aver posizionato male qualcosa durante la ricostruzione. Per fortuna era tutto in ordine.
Ghignando, l’essere che fino a qualche minuto prima era il principe Alner alzò una mano. Immediatamente i frammenti di melma residui si aggregarono, formando un lungo spadone nero privo di qualsiasi decorazione a parte un rubino rosso sangue incastonato appena sotto la coccia.
Soddisfatto del risultato, l’essere si avviò verso l’uscita. Era a dir poco entusiasta: dopo mille anni, e chissà quanti tentativi, sarebbe finalmente uscito da quel buco infernale.
Fu rapidissimo a raggiungere la fune. Ai suoi occhi l’oscurità era chiara come la luce del giorno. S’issò senza sforzo ma, arrivato in cima, due possenti paia di braccia lo sollevarono.
L’essere fissò disgustato la cava gremita di uomini sudati e puzzolenti. Il loro lezzo lo nauseava, così come lo nauseavano le espressioni tronfie delle guardie, ma ciò che lo stava irritando di più era il vecchio che, non appena lo aveva visto, gli era andato incontro per tempestarlo di domande.
Decisamente un pessimo inizio. Pensò mentre cercava di contenere la rabbia. Scandagliò i ricordi del principe, cercando di capire se anche uno solo di quegli idioti gli sarebbe stato utile in qualche modo. Ovviamente no. Un sorriso feroce gli increspò le labbra: in quel caso poteva lasciarsi un po’ andare.
«Principe?» Chiese dubbioso Saja, preoccupato dallo strano comportamento dell’uomo. «Che vi succ…» Non poté terminare la frase. Veloce come il vento, l’essere squarciò l’esile ventre del consigliere. Le viscere del vecchio si sparsero al suolo con un tonfo liquido, mentre un fiume di sangue eruttava dalla ferita. Era morto sul colpo, l’essere aveva sentito con chiarezza la sua anima estinguersi, ma, come se quella cariatide volesse aggrapparsi alla vita anche dopo la morte, il suo corpo rimase ritto per qualche secondo, prima di accasciarsi sulle proprie interiora.
Di fronte agli attoniti spettatori l’essere scoppiò in una risata, contento di aver mietuto la sua prima vittima da secoli. Nessuno osava, o riusciva, a muovere un muscolo. Solo il mastodontico Radven si fece avanti, la faccia sfregiata da miriadi di cicatrici torta in un’espressione preoccupata.
«Maestà? Perché avete ucciso il consigliere?» L’uomo non si capacitava di quell’azione: uccidere un membro del consiglio reale avrebbe avuto forti ripercussioni, rischiando di mandare a monte il piano che il principe aveva organizzato nei minimi dettagli. Alner era un uomo astuto, impulsivo, ma astuto, quindi perché si era accollato un simile rischio?
L’essere si limitò a sorridergli, prima di sferrargli un pugno sul petto muscoloso, mandandogli le costole in frantumi. Il gigante si accasciò, tossendo. Anche sorpreso e dolorante com’era, non poté fare a meno di chiedersi da quando il suo signore avesse tutta quella forza.
«Signori» Disse l’essere. «Vi ringrazio per il vostro operato» Sollevò la spada sopra la propria testa, il rubino cremisi scintillava. «Ora però non siete più di alcuna utilità» Il rubino emise una luce intensa, che sovrastò quella dei falò. Gli uomini sbiancarono, cadendo ad uno ad uno come frutti troppo maturi.
Quando il bagliore si attenuò, l’essere passò in mezzo allo stuolo di cadaveri con noncuranza, avviandosi verso l’uscita.
Arrivato alla soglia si girò, mormorando a mezza voce alcune frasi cantilenanti. Sul suo palmo aperto si formò una sfera azzurra, delle dimensioni di una mela. L’essere la lanciò verso la volta della grotta, dove esplose con un fragore assordante. L’intera cava prese a tremare, e l’essere vide enormi pezzi di roccia cadere l’uno dopo l’altro, tornando a seppellire quella che per quasi un millennio era stata la sua prigione.
«Che tutto giaccia dimenticato» Sibilò. «Stavolta nessuno dovrà intralciarmi.»






Madre de Dios, finalmente questo aborto scrittorio è terminato. Spero piaccia ( aspetta e spera NdVoi; la speranza è l'ultima a morire! NdMe)
Ringrazio AquamarinePrincess e YuXiaoLong per aver avuto lo stomaco di leggere e commentare il prologo.
Adesso se volete scusarmi, vado a fustigarmi. Ciao.

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Capitolo 3
*** Annuncio ***


                                                            ANNUNCIO
                                                                                                                 Regno di Ader. Rublia. Anno 1859.
 
La stanza era immersa nella penombra. Le candele, ridotte allo stoppino, stentavano ad illuminare l’oscurità. Al centro dell’ambiente vi era un grande tavolo di legno, ingombro di carte, libri e rotoli di pergamena. Ad una sua estremità, intento a consultare delle mappe, era seduto un uomo. Di quasi cinquant’anni, aveva una corporatura ancora invidiabile, con muscoli possenti e tonici, temprati e mantenuti dai costanti allenamenti a cui si sottoponeva, che risaltavano sotto la tunica di stoffa leggera che aveva indosso. I lunghi capelli striati di grigio scendevano liberi e disordinati fino alle spalle, incorniciando un viso dai lineamenti duri e autoritari e due penetranti occhi nocciola.
Scorse una serie di rapporti di confine, sospirando sconsolato.
« Non vi è dunque altro modo, amico mio?» Chiese all’uomo alla sua destra: un vecchio alto e dinoccolato.
«Temo di no maestà. Questa è l’unica possibilità che il fato ci ha concesso.»
Il re sospirò nuovamente «Mi risulta comunque difficile affidare una missione di tale importanza alla mia unica figlia, spero che questo lo capirai.»
Il consigliere lo squadrò da capo a piede, sperando di fargli capire quale assurdità avesse appena detto. «Maestà, conosco quella ragazza dal giorno in cui è nata, e la sua sorte mi è cara tanto quanto lo è per voi. Anch’io preferirei evitare di farle correre questo rischio, ma bisogna anteporre il bene del regno ai nostri sentimenti; inoltre, anche se all’apparenza può non sembrare, la principessa è una delle maghe più dotate del regno, e sono sicuro che tornerà sana e salva.»
«Lo spero.» Sussurrò il re: non era la forza della figlia a preoccuparlo. «Ora però mandala a chiamare.» Il consigliere annuì e dette istruzioni ad un servo. Dopo neanche cinque minuti di attesa le porte della stanza si aprirono, lasciando entrare la ragazza. Il re si riempì gli occhi di quella visione: amava sua figlia e lei, come per ricompensarlo per tutto l’affetto ricevuto, diveniva ogni giorno più bella.
Quella sera indossava una semplice tunica di seta verde, del colore dell’erba fresca, mantenuta aderente al corpo da una cintura legata poco sotto il seno florido. I capelli, neri e setosi, le scendevano dolcemente fino alla vita sottile, danzando intorno alla sua esile figura ad ogni movimento. Un cerchietto d’argento le ornava il capo, impedendo che la chioma le finisse davanti agli splendidi occhi blu profondo. Le leggere scarpe di tela volteggiavano aggraziate sulla pietra del pavimento senza produrre alcun rumore. Un sorriso, venato da una nota di preoccupazione vista l’ora tarda a cui era stata convocata, le illuminava i lineamenti delicati del volto.
«Buonasera padre.» Sussurrò la giovane, mantenendosi ad una certa distanza dal sovrano. « E buonasera anche a voi zio Nahir.» Disse rivolta al consigliere.
«Buonasera a te Meliandra.» La salutò il re. «Non restare lì, avvicinati.» La principessa rimase sorpresa di quello strappo alla consuetudine, che voleva una distanza minima dal monarca di almeno due metri. Questa regola valeva anche per i membri della famiglia reale e della corte, ad eccezione della regina e del consigliere prediletto. La ragazza, tuttavia, si affrettò ad ubbidire, sedendosi accanto al padre.
«Per caso hai avuto notizia di quei villaggi di confine distrutti dai banditi?» Meliandra storse la bocca e annuì. Le era stato riferito che alcuni villaggi erano stati attaccati e rasi completamente al suolo. In nessun caso erano stati trovati sopravvissuti, e sia i cadaveri sia le macerie erano stati dati alle fiamme, come a voler eliminare ogni traccia del proprio passaggio. La gente mormorava che probabilmente si trattava di una nuova banda di predoni, come ne stavano spuntando molte di recente.
La voce profonda del re interruppe le sue rimembranze. «Non si è trattato di banditi.»
La principessa alzò la testa di scatto, stupita. «E di cosa allora?
«Quei villaggi sono stati distrutti dall’esercito reale di Ansha, il regno con cui confiniamo a Ovest.» Fu come se l’uomo le avesse dato un pugno alla bocca dello stomaco. Meliandra si accasciò per un istante sulla sedia, inerte.
«Ci hanno dichiarato guerra?» Mormorò.
Il re scosse la testa. «No. Per il momento stanno tentando di non farsi scoprire.»
«Per quale motivo re Atren ha impartito simili ordini? Non è mai stato un uomo bellicoso.»
«Re Atren è morto due settimane fa: assassinato. Ad aver impartito questi ordini è stato con ogni probabilità suo figlio, Alner.»
«Ma perché?» Sbottò la ragazza, esasperata dalla reticenza del padre. Aveva capito che sapeva qualcosa, glielo leggeva negli occhi.
L’uomo emise un ultimo, sfinito sospiro, e disse alla figlia tutto ciò che sapeva. La vide perdere progressivamente colore, fino a diventare pallida come un cadavere, cosa che preoccupò non poco il re.
«So che ti sembra impossibile, e anch’io, se potessi, non ti caricherei di un simile fardello. Ma non temere, non sarai sola» Disse il monarca per tranquillizzarla.
«Avrò dei compagni?» Chiese la ragazza, tentando di riprendersi. Non voleva apparire debole di fronte al padre.
«Uno.» Intervenne Nahir. «Un mercenario di Ansha che gode di una certa fama anche qui da noi.»
«Perché prendersi il disturbo di assoldare un mercenario? Potrei farmi accompagnare da un membro del nostro esercito.» Stentava a comprendere il motivo di una scelta così rischiosa. Certo, capiva perché suo padre volesse che fosse accompagnata da un guerriero esperto, ma perché un mercenario? Avrebbe potuto tradirla, se qualcuno gli avesse offerto più soldi di quanti non facesse lei. Quelle persone pensavano solo al proprio tornaconto. Decise tuttavia di attendere la risposta del padre, prima di contestarlo.
«Perché quel mercenario e la tua metà.»Ribatté secco il re. Meliandra spalancò la bocca in una muta espressione di stupore.
«Capisco.» Mormorò accarezzandosi la mano sinistra, sul cui dorso un tatuaggio azzurro disegnava un arabesco incompleto sulla sua candida e delicata pelle.
«Partirai domattina all’alba, e ti recherai ad Ansha. A Zavren, la capitale, per l’esattezza. Lì troverai il mercenario, gli darai le informazioni che riterrai necessarie e contratterai il suo prezzo. Se necessario, hai il mio permesso per prosciugare la sala del tesoro.»
«Ora, però, andate a salutare vostra madre.» Disse Nahir, inserendosi nella conversazione.
La giovane annuì, fece un leggero inchino e se ne andò.
Certa di non essere più esposta agli occhi di nessuno si appoggiò alla parete, respirando pesantemente nel tentativo di frenare le lacrime. Non voleva e non poteva mostrarsi debole. Era una principessa, e come tale era suo dovere essere forte e salda nelle azioni e nelle decisioni; il popolo in lei doveva vedere una guida e un esempio, non una pavida ragazzina spaventata dal futuro che le si prospettava.
Con grande sforzo sgombrò la mente, calmandosi quel tanto che bastava per non tremare, e si avviò verso le stanze di sua madre. Camminava spedita, salutando garbatamente, ma in modo conciso, i pochi servitori che ancora si aggiravano per i corridoi del castello, occupati da chissà quali incombenze.
Quando le guardie la videro arrivare si fecero da parte con un riverente inchino, permettendole l’accesso alla camera da letto della madre. L’interno era identico a quello che ci si sarebbe aspettati di trovare nella stanza di una bambina: le pareti erano dipinte di un rosa leggero; la mobilia era completamente sommersa da pupazzi di ogni forma e dimensione, sparpagliati alla rinfusa senza nessun senso logico. Il grande letto a baldacchino che torreggiava imponente ad un lato della camera era sfatto, con le lenzuola gettate a terra.
Sua madre era seduta su una grande poltrona di velluto. In mano stringeva un orsetto di pezza, che carezzava con la cura che sarebbe stata riservata ad un neonato. Al vedere la figlia gli occhi le si illuminarono. Mise da parte il bambolotto e le corse incontro, abbracciandola felice.
«Ciao mamma.» Sussurrò la ragazza all’orecchio della donna.
La regina la squadrò con curiosità e preoccupazione. I grandi occhi blu, identici a quelli della figlia, la osservavano attentamente. «Hai paura di qualcosa Mel?»
«No, non preoccuparti.» La rassicurò lei. «Sono solo venuta a salutarti.»
«Vai via?» Piagnucolò lei. Due lacrimoni le spuntarono agli angoli degli occhi.
La principessa sorrise mesta. Due anni prima la donna era stata vittima di una grave malattia. Per salvarla erano stati chiamati a corte i migliori guaritori del regno e, seppur con difficoltà, la sua vita era stata salvata, ma il prezzo da pagare era stato alto: il morbo si era portato via una parte di lei, lasciandola con la mentalità di una bambina.
«Si, devo andare, ma tornerò presto.» La consolò la giovane, carezzandole con dolcezza i corti capelli rossi. La donna, tuttavia, non pareva convinta, ma la figlia sapeva come farle riacquistare il buon umore. «E magari» Disse con un mezzo sorriso.«se, e ripeto se, farai la brava mentre non ci sono, potrei anche decidere di portarti un regalino.»
Il volto della donna si rasserenò. «Allora ti devo dire una cosa.»
Meliandra la guardò incuriosita. «Cosa?»
«Il tuo futuro è accanto alla luce.»
La giovane inarcò un sopracciglio. «Che vuol dire?»
«Non lo so! So solo che te lo dovevo dire.» Trillò lei con un sorriso smagliante prima di tornare a dedicarsi al suo pupazzo.
Meliandra la baciò sul capo e se ne andò: aveva molto da fare prima dell’alba.
 


voooooooooooooooooiiiii!!!!!!!! Come vi va la vita gente? (Ti presenti dopo due settimane e questo è tutto quello che hai da dire!?Nd Voi incazzati come caimani stitici per il mio mastodontico ritardo.)
*Si inchina conficcando il capo nel suolo* Chiedo scusaaaaa*Piange* ma tra l'interrogazione di filosofia sui sofisti e socrate, letteratura italiana e greca, matematica e scienze trovavo a stento il tempo per andare al bagno. D'ora in avanti cercherò di essere il più puntuale possibile, ma non garantisco nulla. Il liceo classico è duroT_T. Ora vi saluto, e attendo i vostri commenti, buoni o negativi che siano.
P.S. In questo commento ho inserito una piccola citazione, chi mi sa dire qual'è e da dove viene?

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Capitolo 4
*** Punto di partenza ***


                                                                 PUNTO DI PARTENZA
                                                                            
                                                                                                                                Regno di Ansha. Zavren. Anno 1859.
 
 
Meliandra fissò il cielo color piombo e le nubi nere e minacciose che si addensavano a Oriente. Non poté fare a meno di pensare che probabilmente a Rublia stesse già piovendo, e che di lì a poco sarebbe toccata la stessa sorte anche a Zavren.
Si strinse nel pesante mantello da viaggio per ripararsi il più possibile dal vento gelido e, leggermente amareggiata, calcolò che erano ormai tre giorni che si trovava in città, ma del mercenario non c’era ancora traccia.
Quel tipo aveva saltato l’incontro che avevano stabilito per lei gli uomini di suo padre, e così la ragazza era stata costretta a cercarlo in lungo e in largo, perdendo tempo prezioso.
Sapevo che non c’era da fidarsi, ma in fondo, che mi potevo aspettare da un uomo che vive della morte di altri?   
Le sue rimuginazioni furono interrotte dal suo stomaco che, prepotente, le ricordò, con un sonoro brontolio, che era da quella mattina che non toccava cibo.
Imbarazzata, entrò nella prima taverna che le capitò a tiro. Non appena mise piede all’interno, lo stivale sprofondò nella paglia marcia che copriva il pavimento con un disgustoso risucchio, e il tanfo di sudore e sporcizia le aggredì il naso sensibile, troppo abituato ai dolci profumi della nobiltà per resistere agli odori a cui il volgo, per pura e semplice assuefazione, non faceva caso.
Quasi in apnea, si sedette all’unico tavolo libero del piccolo locale, sperando che almeno il cibo fosse decente.
La venne a servire la donna più brutta che avesse mai visto: bassa, così grassa che quasi era impossibile vederle il collo e con il viso annerito dal sudiciume e coperto di pustole infette. Meliandra sperò vivamente che non fosse lei a cucinare: il solo pensiero di mangiare qualcosa preparato da quelle mani luride le fece venire un conato di vomito.
«Che ti porto?» Chiese con sgarbo, sputacchiando dalla bocca sdentata.
Stavolta reprimere un’espressione di disgusto fu più difficile. «G-gradirei una minestra e dell’acqua.» L’espressione della donna le fece intendere che l’acqua non era contemplata nella lista delle vivande.
«Allora mi dia la cosa più leggera che ha.» Disse conun sospiro rassegnato mentre la taverniera se ne andava con un grugnito.
Mentre attendeva che le portassero ciò che aveva ordinato ne approfittò per darsi un’occhiata intorno.
La taverna non era nulla di che, un semplice edificio di legno con un tetto di paglia. Nell’ambiente erano piazzati quattro tavoli di legno, il massimo che lo spazio ristretto poteva contenere, segnati da un mosaico inestricabile di scalfitture, tagli e incisioni. In quel momento erano tutti occupati, e la curiosità costrinse la ragazza a gettare uno sguardoai suoi commensali.
Seduto al tavolo più vicino a lei c’erano un uomo e una donna. Lui era impegnato a mangiare senza ritegno, mentre la donna, seduta accanto a lui, gli si strusciava addosso in modo provocante. Non ci volle molto più di questo per far capire a Meliandra quale fosse il mestiere che esercitava. La maggior parte della gente l’avrebbe definita “puttana”, ma lei era troppo ben educata e pudica per usare un termine tanto scurrile. Infastidita dai gesti lascivi di quella, la ragazza si concentrò sul tavolo di centro, dove erano seduti due uomini nerboruti dall’aria truce, intenti a bere, tra risa sguaiate, una quantità sicuramente smodata di vino. Dal loro tono di voce e dal rossore dei loro volti Meliandra capì che erano ubriachi fradici già da un bel pezzo. Istintivamente, si coprì un po’ di più con il mantello, cercando di celarsi alla loro vista.
Quasi per caso, l’occhio le cadde sul tavolo in fondo alla taverna. L’uomo, o la donna, indossava un mantello nero così spesso da far sembrare il suo di seta trasparente. Gli strati di stoffa erano così tanti che non si scorgevano le forme del corpo, rendendo impossibile determinarne il sesso. Sedeva a gambe incrociate, sorseggiando una bevanda semitrasparente dai riflessi azzurrini. La ragazza si chiese cosa fosse.
Le sue elucubrazioni furono malamente interrotte dalla taverniera, che le posò davanti, con un’irritante malagrazia, un piatto  e un boccale di medie dimensioni, fortunatamente pulito.
«Eccoti servita.» Mugugnò.
Meliandra contemplò dubbiosa la minestra densa e verdognola, chiedendosi fino a che punto quella roba fosse commestibile, e parimenti fece con il boccale, ricolmo di un liquido rosso chiaro.
Raccogliendo tutto il suo coraggio, la ragazza sorbì una cucchiaiata di minestra, resistendo a stento all’impulso di sputarla quando il suo sapore amaro le invase la bocca. Si sforzò di mandarla giù, bevendo un sorso dal boccale e storcendo il naso per il sapore dolciastro della bevanda.
Era di sicuro il pasto peggiore della sua vita, ma aveva fame, e non poteva permettersi di sprecare il poco denaro che aveva con se, quindi mangiò tutto, seppur a fatica.
Si era appena alzata per andare a pagare, quando una mano grande e callosa le strinse violentemente il polso in una morsa. Sorpresa, la ragazza si girò, riconoscendo nel suo aggressore uno dei due ubriachi da cui prima aveva tentato di non farsi notare. L’uomo la squadrava da capo a piedi con un’espressione che non prometteva nulla di buono.
Meliandra avrebbe potuto facilmente neutralizzarlo con uno qualsiasi degli incantesimi difensivi che conosceva, ma la paura la bloccava, impedendole di formulare le giuste parole.
«Mi lasci.» Fu l’unica cosa che riuscì a dire.
«Sta buona sgualdrinella» Biascicò l’uomo in risposta, inondandole il viso con il suo alito saturo d’alcool.
La ragazza provò a divincolarsi, ma quello la schiacciò col suo peso, ridendo della sua ovviamente inutile resistenza. Senza indugio, quasi pensasse fosse suo diritto, fece saettare la mano sotto il mantello della giovane, tentando di palparle il seno.
Il taverniere, preoccupato più di non macchiare ulteriormente il nome della sua schifosa bettola che del benessere della ragazza, si avvicinò minaccioso. «Non tollero certi atteggiamenti nella mia taverna, andatevene.»
Senza curarsi più di tanto della minaccia del taverniere, il compare dell’ubriaco sguainò un pugnale, costringendo l’uomo a ritirarsi per scansare un eventuale pericolo.
L’uomo armato infilò la lama sotto l’orlo della tunica di Meliandra, con l’intento di denudare la giovane.
Improvvisamente un calcio di tacco colpì l’uomo armato alla mascella, catapultandolo contro una panca come se pesasse meno di un fuscello. Il legno del mobile si ruppe con un fragore assordante, spargendo schegge per tutto il pavimento del locale.
Stupefatti, la ragazza, l’ubriaco e il taverniere si voltarono all’unisono, concentrando la loro attenzione sul responsabile di quel gesto: il tipo incappucciato che prima beveva in fondo al locale.
Ingoiando lo stupore, l’ubriaco si avvento sullo sconosciuto, cercando di colpirlo con uno degli enormi pugni, ma l’altro li schivò con una facilità surreale, come se fossero fermi a mezz’aria. Lasciò che l’ultimo colpo gli scivolasse di fianco, facendo perno sul piede sinistro per compiere una veloce rotazione, dopodiché afferrò il polso dell’uomo e, sfruttando il suo stesso slancio, lo ribaltò. L’ubriaco si schiantò al suolo con violenza, e un sonoro scricchiolio accompagnò l’impatto.
L’uomo ululò, contorcendosi per il dolore.
Con un grugnito infastidito, lo sconosciuto si avviò verso l’uscita, ma venne bloccato da Meliandra.
«V-vi ringrazio dell’aiuto.» Disse la ragazza, impegnandosi in una profonda riverenza. Voleva mostrarsi cortese, in fondo l’aveva salvata senza neanche conoscerla.
«Non l’ho fatto per te.» Mugugnò quello in risposta. Il pesante strato di tessuto che aveva davanti la bocca ne distorceva troppo la voce perché fosse possibile riconoscerne il sesso. «Le tue urla mi davano fastidio. Se non sei capace di difenderti, non uscire di casa.» Detto questo, uscì dalla taverna.
La ragazza lo fissò sbigottita: come poteva trattarla così? E dire che lei, una principessa, lo aveva addirittura ringraziato. Avrebbe voluto alzarsi e sbattergli in faccia il suo titolo, ma se lo avesse fatto, l’avrebbero arrestata all’istante, e oltretutto doveva ancora trovare il mercenario. No, non era il caso di impuntarsi su una quisquilia simile, perciò ingoiò il disappunto e si rivolse al taverniere.
«Può dirmi dove posso trovare un mercenario?»
L’uomo la squadrò per un istante. Trovava strano che una donna facesse una richiesta del genere, ma in fondo non gli interessava più di tanto, e risponderle non gli costava nulla. «La città ne è piena piccola. Cerchi qualcuno in particolare, o ti va bene chiunque?»
Meliandra prese un pezzo di pergamena e lo porse all’uomo. Sopra vi era disegnata una spada circondata da sei ali che partivano dal guardamano. Quel simbolo era l’”emblema” del mercenario che stava cercando: un sistema ideato dalle gilde per permettere ai clienti di contattare con maggiore facilità i soldati di ventura, di solito difficili da rintracciare.
L’uomo sussultò non appena vide l’emblema. Gli occhi si ridussero a due fessure, cosa che fece preoccupare non poco la ragazza.
«Tu cerchi Farin.» Meliandra annuì..
«Sa dove posso trovarlo?»
Il taverniere si strinse nelle spalle. «E’ appena uscito.»
La ragazza spalancò la bocca in un moto di stupore, paralizzandosi per un attimo. Come poteva esserci arrivata così vicino ed esserselo lasciato scappare? Si diede mentalmente della stupida e si lanciò all’inseguimento, sperando vivamente che il mercenario non si fosse allontanato troppo.
Corse per le strade affollate della capitale, incurante degli sguardi infastiditi dei passanti, scrutando tra la folla alla ricerca di un mantello nero come la pece.
Uno scorcio di tessuto svolazzò ad una svolta, e la ragazza vi si precipitò, entrando nel vicolo. Si stupì di trovarlo completamente deserto, ma non si poté fare molte domande, perché inciampò in un  fosso, giusto in tempo per evitare una freccia, che passò esattamente dove un secondo prima c’era la sua testa.
Una seconda freccia si conficcò nel terreno, a meno di un centimetro di distanza dal suo naso, e la terza l’avrebbe colpita, se Meliandra non avesse avuto la prontezza di evocare in tutta fretta un sottile scudo luminescente. La punta del dardo vi impattò contro,spezzandosi per la violenza dell’urto. La ragazza tirò un sospiro di sollievo: nessuna arma da lunga distanza, per quanto potente, poteva infrangere quella barriera. Non sapeva chi l’aveva attaccata, ma per il momento era al sicuro.
La risposta al suo quesito non si fece attendere: da uno degli edifici scese un uomo. Nella mano destra impugnava una balestra, che gettò a terra con un gesto stizzito. Evidentemente si era reso conto che l’arma era ormai inutile. Tuttavia non pareva eccessivamente preoccupato, e Meliandra ne capì il motivo quando l’uomo sfoderò la spada che portava sulla schiena.
La lama era ricoperta da un’intricata serie di simboli che, dalla guardia fin quasi alla punta, ricoprivano la lama.
Un sigillo di penetrazione. Tutto il sollievo della ragazza si sbriciolò come gesso secco: contro un’arma incantata il suo scudo sarebbe servito a ben poco. La parte razionale del suo cervello, però, approfittò della situazione per trarre alcune conclusioni: primo, quell’assassino era lì proprio per lei, altrimenti non si sarebbe portato dietro un’arma del genere; due, chiunque l’avesse assoldato, o era un mago assai abile, giacché per tracciare un sigillo occorreva una grande quantità di potere, o era abbastanza ricco per pagarne uno, il che restringeva il campo ad una manciata di nobili e, forse, a qualche facoltoso mercante.
Riteneva impossibile che il neo-regnante di Ansha fosse già a conoscenza della sua presenza entro i confini del suo regno, in fondo gli unici ad essere a conoscenza della sua partenza erano i membri del consiglio reale di Ader, la cui fedeltà alla corona era assoluta.
Qualunque fosse la risposta, Meliandra non ebbe modo di pensarci oltre, perché il sicario le si scagliò contro, apparentemente deciso a porre fine allo scontro in un unico colpo, forse per evitare che lei reagisse con una formula d’attacco.
Istintivamente, la ragazza ampliò il diametro della barriera per tenere l’aggressore il più lontano possibile da lei, e nel contempo saltò all’indietro. La lama della spada squarciò il suo incantesimo protettivo come se fosse un velo di fragile seta, ma Meliandra non si lasciò cogliere impreparata e, recitando una breve formula, lanciò un incantesimo paralizzante contro il sicario, sperando di neutralizzarlo. Quello, però, scartò di lato, evitando l’incantesimo, che si abbatté innocuo contro un muro.
Approfittando della falla che si venne a creare nella difesa della principessa, l’assassino tentò un affondo, ben sapendo che la ragazza non avrebbe avuto il tempo di recitare un’altra formula.
Meliandra strinse i denti, cercando di prepararsi alla sconosciuta sensazione di essere trafitti, ma non appena la lama fu ad un soffio dal suo petto l’istinto di sopravvivenza ebbe il sopravvento e, d’impulso, rilasciò un’onda di energia pura che, a contatto con la spada del sicario, generò un violento contraccolpo, che la scagliò contro la parete lignea di una casa.
L’urto fu forte e dannatamente doloroso. Decine di luci colorate le danzarono davanti agli occhi, mentre il corpo le trasmetteva segnali di dolore da ogni parte.
Anche il sicario era stato spinto all’indietro ma, a differenza di Meliandra, era solo volato nel vuoto senza colpire nulla, quindi si rialzò senza troppa fatica, avvicinandosi a quella che ormai era una preda indifesa.
Sebbene semi-incosciente, Meliandra conservava ancora una discreta percezione della realtà. Non abbastanza per rialzarsi e reagire, ma sufficiente a rendersi conto di ciò che avveniva intorno a lei. Fu perciò in grado di sentire le gocce di pioggia che iniziavano a scendere dal cielo, e fu in grado di capire che l’assassino era sopra di lei, la spada levata a infliggerle il colpo fatale.
Il suo cuore fu attraversato da una miriade di sentimenti: vergogna per la sua inutilità, tristezza per il suo popolo, che riponeva in lei le proprie speranze, rabbia per non essere riuscita a sconfiggere neanche un singolo nemico, ma soprattutto provò paura; paura di morire, di lasciare quel mondo a cui tanto teneva.
In quella situazione, un unico pensiero si fece largo nella sua mente che stava scivolando nel buio:Aiuto!
Come in risposta al suo richiamo la bianca lama di una spada trapassò il petto del sicario, che barcollò leggermente prima di accasciarsi morto al suolo.
La patina opaca che le stava scendendo sempre più rapidamente sugli occhi le impedì di vedere il volto del suo salvatore, ma capì che la stava coprendo col suo mantello. Si sentì sollevare dolcemente da terra, e pensò che, chiunque fosse, aveva un tocco davvero gentile. Sentì dal profondo dell’anima di potersi fidare di quella persona e, senza riuscire a trovare l’origine di quella misteriosa sensazione, sprofondò nell’incoscienza.
 


Salve popolo di EFP, come ve la passate? Vi sono mancato? (Veramente ci eravamo scordati della tua esistenza NdVoi spietati; CATTIVIIIIII T_T. Ho solo avuto un leggero ritardo a causa della scuola; Quasi tre settimane non sono un "leggero ritardo" pezzo d'idiota!!!! NdSperbia Squalo; Squalo-sama, cosa ci fate voi qui? NdMe in stato di adorazione; Sono venuto a vedere che M***a stai scrivendo! NdSqualo-sama; E un onore per me avere qui il numero due dei Varia, prego si sieda. NdMe; Grazie, ora va avanti con le scuse! NdSqualo-sama.)
Scherzi a parte (E chi scherzava? NdSqualo-sama) sono davvero dispiaciuto per il ritardo, ma non ho avuto davvero tempo per scrivere.
Spero che il capitolo vi piaccia. Alla prossima!!!

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Capitolo 5
*** Farin ***


                                                                              FARIN
 
                                                                                                                             Regno di Ansha. Zavren. Anno 1859
 
Un morbido e caldo raggio di sole, filtrato attraverso la pesante tenda di broccato che copriva una finestra posta accanto al letto su cui era adagiata, costrinse Meliandra ad aprire gli occhi.
Quando si fu abituata alla luce, la prima cosa che notò fu di trovarsi in una stanza sconosciuta, immersa fino al collo in calde coltri di lana; la seconda fu di essere quasi completamente nuda.
Sconvolta e imbarazzata si tirò a sedere di scatto, piegandosi in due con un gemito quando un violento dolore le aggredì la schiena, simile ad una vampa infuocata. Stupefatta, si fissò lo strato di bende che le fasciava quasi interamente il busto.
Ancora dolorante ispezionò la stanza con lo sguardo, alla ricerca della sua tunica. La vide appoggiata su una cassapanca accanto alla porta, perfettamente piegata.
Con movimenti lenti e calibrati con cura, volti a non scatenare un’altra fitta, si alzò dal letto, rabbrividendo per il freddo quando i suoi piedi nudi sfiorarono il legno del pavimento. Ogni passo le causò una lieve sofferenza, ma con calma e attenzione riuscì a raggiungere l’indumento. Fu una piacevole sorpresa scoprire che era stato lavato da poco. Dal tessuto si levava un piacevole odore di lavanda, che portò un minimo di quiete nella sua mente che, ancora intorpidita, cercava invano di capire in che situazione fosse finita.
Indossò la tunica ed uscì dalla stanza, percorrendo il breve corridoio che si trovò di fronte fino a quella che aveva tutta l’aria di essere una sala da pranzo, imbandita con una quantità di cibo sufficiente a sfamare almeno quattro persone.
Il suo stomaco gorgogliò sonoramente, palesando la propria intenzione di unirsi al banchetto. Solo allora Meliandra si rese conto di essere terribilmente affamata. La tentazione di sedersi e mangiare si fece sentire subito, forte, implacabile, un bisogno lacerante che le ardeva nelle viscere con un’intensità anche maggiore di quella del dolore che aveva provato poco prima alla schiena. Non poteva, però, servirsi del cibo altrui senza nemmeno chiedere: sarebbe stato irrispettoso ed indecoroso, e avrebbe anche rischiato di far irritare il suo salvatore, chiunque egli fosse.
Era ancora in bilico tra l’etichetta, che le vietava nella maniera più assoluta di mangiare, e i brontolii del suo stomaco, che la spingevano in tutt’altra direzione, quando una voce maschile alle sue spalle la distolse dal suo dilemma.
«Siediti e mangia.» Ordinò perentorio lo sconosciuto.
Sorpresa, Meliandra fece per voltarsi, ma due mani delicate, eppure incredibilmente forti, la bloccarono, impedendole di compiere un movimento che, senza ombra di dubbio, le avrebbe causato un dolore atroce.
«Calmati, non sono un tuo nemico.»
Senza aggiungere altro, lo sconosciuto la superò, sedendosi e ordinandole di fare altrettanto.
«Serviti pure.» Disse con voce bassa e gelida, come se dal suo cuore non traspirasse alcuna emozione.
Troppo affamata per opporre una qualsivoglia protesta, Meliandra obbedì e cominciò a mangiare, stupendosi leggermente nel notare la presenza, tra le varie vivande, numerose porzioni di carne rossa e pane bianco, cibi moderatamente costosi che, nella maggior parte dei casi, il popolo non poteva permettersi. Non in grande quantità almeno. Lo sguardo del suo commensale, tuttavia, la avvertiva che non avrebbe gradito proteste di sorta, indi per cui tacque.
Quando si fu riempita lo stomaco a sufficienza da riuscire a tornare a ragionare con lucidità si decise a porre quelle domande che le ronzavano per la testa dal primo momento che aveva visto quel ragazzo.
«Ehm…» Cominciò, cercando le parole giuste. «Dove mi trovo? E tu chi sei?»
Il suo interlocutore non si degnò nemmeno di alzare lo sguardo, rispondendole atono:«Sei a casa mia, in uno dei sobborghi di Zavren, e io sono Farin. Se non sbaglio mi stavi cercando, vero principessina?»
Per poco Meliandra non si lasciò scappare il boccone dalla bocca: quello era Farin? La ragazza lo squadrò con attenzione. Doveva avere si e no uno o due anni più di lei. Aveva un fisico magro e asciutto, ma possedeva anche una sorta di grazia innata nei movimenti che si esprimeva, indipendentemente dalla sua volontà, in ogni suo gesto. I lineamenti del viso erano delicati, quasi con un lievissimo accenno femminile. Le labbra, rosee e sottili, risaltavano appena nell’incarnato pallido del ragazzo, quasi fossero una semplice linea chiara priva di espressione. Gli occhi, grandi e di un’intensa tonalità verde smeraldo, erano incorniciati da sottili sopracciglia bianche, e bianchi erano anche i capelli, di un bianco candido e brillante, simile al colore della neve posatasi di fresco in alta montagna. Tenuti mediamente lunghi, sembravano non aver mai visto un pettine in vita loro, in quanto ogni ciocca andava in una direzione tutta sua, creando un tutto sommato piacevole caos.
Meliandra non riusciva in alcun modo a conciliare la figura del mercenario che l’aveva aiutata contro quell’ubriacone, e che l’aveva salvata da quell’assassino, con quella del ragazzo che aveva di fronte.
Le labbra del ragazzo si tesero in un sorriso a metà tra il sarcastico e il divertito. «Sembra che tu non mi creda.»
«E’ che non riesco a credere che un ragazzo così giovane possa fare un mestiere duro come quello del mercenario.»
«Non è un caso così raro. Il mondo, fuori dalla bambagia dorata dove sei cresciuta, è duro. Per sopravvivere si deve fare di tutto.»
Meliandra lo fissò, chiedendosi se credergli o meno.
«Mostrami il marchio e Veheza e ti crederò.»
Farin inarcò un sopracciglio. «Il marchio c’è l’ho, ma non ho idea di cosa sia Veheza. Spiegati meglio.»
La ragazza spalancò la bocca per lo stupore. Come poteva non sapere nulla? Poi, però, le venne in mente che quel ragazzo non poteva avere nessuna nozione di storia antica, quindi si affrettò a spiegare:«Veheza è la spada che apparteneva al tuo predecessore come “custode del dono d’addio”, e che so che, se sei chi dici di essere, dovresti avere con te.»
«Custode di cosa?» Chiese Farin mentre sguainava la spada, posandola innanzi a se sul tavolo, e si toglieva il guanto sulla mano destra, scoprendo il complicato disegno che ne ornava il dorso.
La domanda del ragazzo, però, si perse nel vuoto, perché Meliandra stava fissando, come ipnotizzata la spada. Non riusciva a staccare gli occhi da quella meraviglia.
La foggia di quella spada rasentava la perfezione: il pomolo di forma ovale sembrava fatto di un materiale bianchissimo, simile all’osso, ed era pieno di minuscoli simboli in lingua antica, incisi con estrema perizia. Sull’elsa, invece, era inciso un dragone che, elegante e sinuoso, risaliva fino alla guardia dorata dall’insolita forma circolare. La coccia triangolare recava inciso un magnifico sole, e la lama, lunga e incredibilmente sottile, sfavillava, lucida come uno specchio d’argento.
Dopo averla rimirata a lungo, senza quasi accorgersene spostò la propria attenzione dalla spada, alla mano del ragazzo e, istintivamente, spinta da una volontà simile ad un ricordo, intrecciò la propria mano con quella di Farin che, sebbene lo volesse, non riuscì a respingerla, bloccato dalla stessa misteriosa sensazione che spingeva lei ad agire.
I simboli sulle mani dei due giovani iniziarono a brillare, spandendo una luce dal colore indefinibile su tutta la sala da pranzo, e mutarono forma, mescolandosi, come in una danza, l’uno con l’altro, fino a divenire uno solo. Un profondo senso di dolcezza li avvolse. Con una sicurezza che non le apparteneva, Meliandra fissò i propri occhi in quelli di Farin, scorgendovi un’ombra di profonda tristezza, che però il ragazzo si affrettò a scacciare, insieme alla mano della ragazza.
Di nuovo padrone di se stesso, Farin le scoccò un’occhiata furente.
«Che cazzo è stato?!» le sbraitò contro, trattenendo a stento l’impulso di afferrare la spada e puntargliela alla gola. Gli era sembrato che il suo cuore si aprisse, e che quella ragazza potesse scorgervi dentro qualcosa di cui solo lui doveva essere a conoscenza.»
«N-non lo so. Il marchio reagisce al suo gemello, ma questo è tutto quello che so. Forse i poteri che Kahali mi ha concesso si sono amplificati a causa della tua vicinanza.» Le urla di Farin l’avevano spaventata, costringendola a rattrappirsi sulla propria sedia.
«Cosa? Che roba è Kahali?»
Meliandra risollevò la mano sinistra, mettendo in mostra un piccolo e sottile anello d’argento, ornato da una gemma a forma di quarto di luna.
Osservandolo, il ragazzo provò solo un vago formicolio alla mano, e di nuovo, come un retrogusto residuo, una lieve sensazione di felicità, che però stavolta respinse con facilità.
La sua irritazione crebbe, ma decise di assumere un atteggiamento calmo e controllato, onde evitare di spaventare ulteriormente Meliandra, che sembrava sull’orlo di uno svenimento.
«Cos’è?» Chiese, ora con un tono nuovamente privo di qualsivoglia inflessione.
Stupita dal repentino, seppure apparente, cambio di umore di Farin, Meliandra tardò un po’ a rispondere.
«S-si chiama Kahali, che vuol dire l’”occhio che comprende”, e fu creato assieme a Veheza “la luce inarrestabile”. Esattamente come la tua spada ha un potere speciale, che solo chi possiede il marchio può utilizzare.»
«Sarebbe?»
«Kahali mi concede la facoltà di vedere l’aura degli esseri viventi.»
«E che utilità avrebbe?»
«Per un guerriero come te, nessuna credo. Ma per un mago è molto utile. Studiando l’aura posso capire gli stati d’animo e le sensazioni delle altre persone, oppure posso percepire molto meglio i flussi naturali e usarli per rendere le mie magie più potenti.»
Il viso di Farin fu attraversato da un lampo do preoccupazione al pensiero che qualcuno riuscisse a leggere le sue emozioni, ma si affrettò a ripristinare la propria maschera di ghiaccio, onde evitare che Meliandra, che aveva appena ritrovato la calma, si agitasse.
«Quindi è un potere che viola l’altrui intimità? Senza alcun dubbio utile ad una principessina viziata come te che, probabilmente, passa il proprio tempo a spettegolare con le cortigiane. Fammi un favore, non guardare la mia. Mi seccherebbe molto diventare un pettegolezzo di corte.» Disse con l’espressione più maligna e arrogante che gli riuscì in quel momento, cercando di far irritare la ragazza.
Evidentemente doveva aver raggiunto il suo scopo, perché vide Meliandra diventare di un acceso color rosso pomodoro.
«Non temere.» Sibilò lei.«Non userò mai il mio potere impropriamente, come invece sono certa che tu faccia.»
«E quale sarebbe il potere di questa spada? Non ho mai notato nulla di strano.»
Meliandra si concesse una breve risatina, beandosi della momentanea superiorità delle proprie conoscenze. Si stupì lei stessa del proprio comportamento, ma le parole del ragazzo, unite alla sua espressione, l’avevano irritata come nient’altro aveva mai fatto prima.
Gustandosi a fondo anche l’ultimo istante, rispose:«Veheza non può essere danneggiata in alcun modo, e non c’è materiale che non possa tagliare. Ecco perché è chiamata “luce inarrestabile”. È l’arma perfetta, che non teme nemmeno la magia e può squarciare anche le tenebre più fitte.»
«Capisco. Non ci avevo mai fatto caso. Pensavo fosse una normale spada, magari irrobustita da qualche sigillo. Mi andava bene finché fosse servita allo scopo, e non me ne sono mai interessato più di tanto.» Aveva parlato con un tono calmissimo, come se il pensiero di possedere un’arma praticamente invincibile non lo toccasse minimamente.
«Ora però smettiamola di girarci intorno principessa. Tu come sai queste cose? E soprattutto, cosa c’entro io? Sia chiaro, per me è un lavoro come un altro, ma non posso fare nulla finché non mi spieghi la situazione.»
«La ragazza cercò di capire una volta per tutte se poteva fidarsi del ragazzo che aveva di fronte. Si era spinta molto in là con le informazioni, ma le cose che gli aveva detto erano decisamente meno importanti di quelle che ancora gli nascondeva.
Non riuscendo però a penetrare la maschera che era il viso di Farin, decise di fidarsi, se non altro perché sapeva che, da sola, avrebbe senza dubbio fallito. Prese quindi un profondo respiro e cominciò a raccontare.



Salve gente, scusate il ritardo! (Cosa cazzo ti saluti dopo un mese! NdSqualo-sama)
Avrei voluto postare prima, ma i miei numerosi impegni scolastici (Leggi recuperi dell'ultimo mese) mi hanno impedito di postare prima. senza contare che ho riscritto il capitolo almeno 4 volte, e nemmeno mi è venuto un granchè.
Detto ciò vi saluto.
Adios amigos! (Cazzo ti parli in spagnolo che non sai una mazza! NdSqualo-sama)

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Capitolo 6
*** La prima meta ***


                                                                                            La prima meta
                                                                                                                                    Regno di Ansha. Zavren. Anno 1859
 

«Recentemente alcuni reparti armati dell’esercito reale di Ansha hanno raso al suolo dei villaggi sul confine con il mio regno» Disse Meliandra.
«Si, l’ho saputo. Se non ricordo male è stato il trentaquattresimo reparto di fanteria»
«E tu come lo sai? Le nostre spie hanno impiegato settimane a scoprirlo»
Farin si strinse nelle spalle. «Nell’ambito della malavita le informazioni circolano con molta più facilità che altrove. Molti ufficiali e uomini di potere in cerca di svago si recano nei bassifondi delle città, si ubriacano e raccontano tutti i loro segreti alle puttane, che poi, a propria volta, le rivendono al miglior offerente, arrotondando così la propria paga. Ricordalo sempre, se c’è qualcosa che vuoi sapere basta andare nei quartieri dei piaceri e sborsare un po’ di soldi»
Meliandra si lasciò sfuggire un sorrisino. «Il fatto che tu sappia queste cose significa che bazzichi certe zone?»
Voleva metterlo in difficoltà. Mirava a farlo sentire in imbarazzo. Invece lui le rivolse la sua miglior occhiata da “e allora?”.
«Non sono mica obbligato a restare casto fino al matrimonio come te, verginella»
Meliandra trattenne una risposta a tono. Possibile che quel ragazzo avesse sempre la risposta pronta?
«Adesso, però, ti decidi a concludere il discorso? Preferirei evitare di diventare vecchio qui» Farin era seccato, e molto anche. Non sopportava di dover aspettare i comodi di quella principessina. Odiava la vicinanza di persone così pure e ingenue: gli ricordavano troppo un passato che preferiva dimenticare.
«Come vuoi» Sibilò lei. «Stavo dicendo: alcuni villaggi di confine sono stati distrutti, così abbiamo indagato. La cosa che è balzata subito agli occhi dei nostri ispettori è stata che il numero di cadaveri rinvenuti non coincideva con quello riportato sulle liste dei censimenti. Certo, molti corpi erano stati ridotti in cenere dai roghi, ma comunque la differenza era troppa»
«E che fine hanno fatto?»
«Non ne abbiamo idea. Abbiamo rinvenuto evidenti tracce di un rituale di sacrificio, quindi è probabile che nessuno di loro sia sopravvissuto» L’espressione della ragazza si offuscò, e gli occhi le si velarono di un sottile velo di lacrime.
«Vedo che ti dispiace per loro»
«E’ normale che mi dispiaccia. Sono i miei sudditi, ed è mio dovere proteggerli»
Farin scoppiò a ridere, piegandosi in due per gli spasmi convulsi che lo scossero.
«Non sei neppure in grado di proteggere te stessa e pensi di poter difendere gli altri?» Disse indicando le bende che fasciavano il corpo della ragazza che, a quelle parole, si ricordò che c’era un’altra domanda di cui le premeva conoscere la risposta.
«A proposito, perché mi hai fasciato in questo modo?»
«Perché avevi la mente piena di schegge. Ah, e complimenti per il fisico. Con la tunica indosso non lo dai a vedere, ma non sei niente male. Quei due buzzurri alla taverna avevano buon occhio»
Meliandra arrossì per la vergogna e l’indignazione, ma preferì non chiedergli cosa esattamente aveva visto: era sicura che non le sarebbe piaciuta la risposta.
«Come ho fatto a ferirmi?» Chiese Meliandra, visibilmente confusa. Ricordava l’attacco dell’assassino, ma i suoi ricordi si fermavano al momento in cui l’uomo aveva squarciato il suo scudo difensivo, ma di lì in poi la sua memoria era avvolta nella nebbia più fitta.
«Non lo ricordi, eh? Non mi sorprende, con il colpo che hai preso»
Sul suo viso si dipinse un sorriso sadico e cattivo, e Meliandra seppe per istinto che il ragazzo stava per dirle un’altra frase offensiva.
«Quando tu, come un’idiota, hai rilasciato quell’impulso di magia pura, il tuo potere magico ha reagito violentemente col sigillo di penetrazione inciso sulla spada di quell’assassino da operetta, spezzandolo. Se sei una maga di un certo livello, saprai bene che quando si forza la rottura di un sigillo, esso rilascia all’istante tutta l’energia che contiene, la cui quantità è spesso elevatissima. Ecco perché solo i maghi potenti possono spezzare un sigillo: o lo si scioglie con gli appositi metodi, o il mago deve essere in grado di reggere il contraccolpo. Tu non lo sei stata, e l’onda d’urto ti ha scaraventata contro una casa. Sei stata fortunata che fosse una costruzione in legno. Se fosse stata di pietra saresti morta di sicuro»
«Ne sai molto di magia per essere un semplice mercenario»
«Ho avuto modo di studiare la materia» Replicò lui, vago. «E in ogni caso io non sono un semplice mercenario. Io sono il migliore»
Che modestia. Pensò lei, poi le venne in mente una cosa che non le piaceva nemmeno un po’.
«Tu come fai a saperlo? Quando sei arrivato lo scontro era già concluso» Non poteva credere che quello che pensava fosse vero. Non voleva credere che il suo futuro compagno di viaggio fosse un tale bastardo.
«Non dirmi che il motivo per cui non ti sei presentato sul luogo del nostro appuntamento è perché sapevi che ero seguita»
Il ragazzo non si difese né si giustificò, bensì si strinse nelle spalle con una noncuranza che aveva dell’inverosimile.
«Mi hai usata come esca? Ma lo sai che ho rischiato di morire? Come puoi essere così crudele?»
«Non sei morta, quindi evita di asfissiarmi. Il metodo migliore per uccidere un sicario è farlo uscire allo scoperto, e non c’è esca più allettante della sua preda»
Meliandra era sul punto di esplodere. Non aveva mai insultato nessuno con cattiveria, né tantomeno aveva pensato di fare del male a qualcuno. Quel ragazzo, però, sembrava invitarla a fulminarlo. Il suo atteggiamento al contempo indifferente e offensivo la irritava come nulla aveva mai fatto prima. Le ci volle tutta la pazienza che aveva per trattenere l’incantesimo di fuoco che, spinto dalla sua rabbia, premeva per uscire dalla sua gola.
Con uno sforzo titanico decise di mettere da parte l’avversione personale che provava e tornare ai problemi del proprio paese, ben più importanti.
«Stavo dicendo: le possibilità che siano ancora in vita sono quasi nulle. In ogni caso, nonostante le indagini non abbiamo conseguito alcun risultato, così siamo stati costretti a chiedere consiglio a mia madre, che ha il dono della chiaroveggenza. Come suo solito ci ha risposto per enigmi, ma interpretandone il significato siamo riusciti a trovare una pista»
«Sarebbe?»
«La predizione di mia madre recita così:
Il re muore e la stirpe cade,
senza passato non c’è futuro
odi il canto del drago
nella terra rossa dove regna il terrore,
nella terra rossa, dove le catene cingono i polsi e il cuore»
«La città carceraria di Fresa. Il suo antico nome era Farei Sar, cioè “terra color sangue”, per via del particolare colore delle rocce tipiche del luogo. Inoltre i carcerieri di Fresa hanno fama di essere i più crudeli e sanguinari. Un uomo che viene incarcerato lì vi resta incatenato a vita, perché i ricordi della prigionia lo perseguiteranno fino alla fine dei suoi giorni»
Meliandra lo fissò a bocca aperta, sbalordita dalla perspicacia e dall’incredibile capacità di associazione mentale di Farin. Certo, il ragazzo era avvantaggiato in quanto nativo di Ansha, ma restava il fatto che aveva impiegato meno di un minuto per risolvere un enigma per cui i migliori sapienti di Ader avevano perso una settimana intera.
«Dunque cosa dobbiamo fare ora? Ho capito che la nostra meta è Fresa, e già per questo sarà un’impresa, visti i controlli severissimi di quel luogo, ma non ho la benché minima idea di cosa sia il “canto del drago”»
«A questo posso rispondere io. Questa parte della predizione di mia madre si riferisce alla “ballata del dragone”: un testo in lingua antica la cui unica copia è conservata negli archivi sotterranei di Fresa. Leggendolo, forse troveremo la risposta alle nostre domande»
Farin sorrise. Finalmente, dopo tanto tempo, un lavoro che valeva la pena di fare. Già sentiva l’adrenalina scorrergli nelle vene.
«Allora, accetti l’incarico?»
«Ovviamente si, ma ti devo avvisare: io costo molto»
«Questo non è un problema. I fondi del mio regno basteranno e avanzeranno»
«Molto bene…allora sono cinquemila monete d’oro e quattro libbre di pietre preziose a mia scelta»
«Quanto!?» Sbraitò Meliandra con un tono davvero poco adatto ad una reale. Cosa aveva in testa quel ragazzo? Segatura? Con una somma del genere avrebbe comodamente potuto comprare un piccolo feudo e vivere di rendita per il resto dei suoi giorni.
«Non temere: è compreso anche il prosieguo della missione. Non ti chiederei una simile somma solo per portarti fino a Fresa e ritorno»
Meliandra tirò un sospiro di sollievo: non doveva sborsare una fortuna per nulla.
«Ora riposati. Finisci di mangiare, se devi, poi curati la schiena, o durante il viaggio ti si riapriranno le ferite. Partiremo domattina all’alba. Se tutto va bene saremo a destinazione in quattro o cinque giorni»
Il ragazzo si alzò, avviandosi verso la propria camera da letto, e Meliandra, desiderosa di prendersi una piccola rivincita, usò un incantesimo di paralisi sulla sua gamba. Sottovoce, attenta a non farsi sentire, recitò la formula e una sottile nebbiolina azzurra si dipanò dalle sue dita, volteggiando leggera e avvolgendosi intorno alla caviglia del giovane, risalendo rapidamente la coscia.
La principessa chiuse la mano a pugno, pregustando l’attimo in cui Farin sarebbe caduto a terra, ma l’incantesimo, invece di attivarsi, si dissolse, come spazzato via da un’improvvisa raffica di vento.
«Beh, ti muovi o no?» Disse Farin, del tutto indenne.
Meliandra fissò sconvolta la propria mano, chiedendosi cosa fosse accaduto.
Forse sono ancora troppo debole per usare la magia. Eppure non mi sento eccessivamente stanca.
Stava ancora tentando di trovare una risposta quando Farin la richiamò ancora, stavolta con meno calma. Meliandra, quindi, decise di rimandare l’esame delle proprie condizioni a dopo, onde evitare di irritare ulteriormente il ragazzo.
Farin non si curò nemmeno di accompagnarla nella propria stanza, anzi, la ignorò lungo tutto il tragitto, trincerandosi dietro la robusta porta di legno della sua stanza.
Incredula di fronte a tanta scortesia, Meliandra entrò nella propria camera sbattendo la porta alle proprie spalle.
Si gettò sul morbido materasso e chiuse gli occhi, ispezionando il flusso dei propri poteri in cerca di anomalie, ma non trovò nulla. Tutto scorreva liscio come l’olio.
Forse si era trattato di un calo nella sua concentrazione. Era probabile, visto quanto era arrabbiata.
Sospirò pesantemente e, avvilita, si dedicò alla cura della propria schiena, cadendo poi in un sonno profondo.
 
 

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Capitolo 7
*** La pianura di Bagret ***


                                                                             La pianura di Bagret
                                                                                                                                    Regno di Ansha. Pianura di Bagret. 1859
 
 
Meliandra respirò a pieni polmoni la frizzante aria mattutina, sperando che scacciasse gli ultimi residui di sonno che le intorpidivano la mente e la stanchezza che le permeava le membra, per nulla placata dalle poche ore di riposo che si era potuta concedere.
L’immensa, brulla distesa stepposa della pianura di Bagret si estendeva dinanzi ai suoi occhi in tutta la sua immensità, perdendo i propri confini oltre l’orizzonte.
Ovunque si voltasse, la principessa vedeva sempre lo stesso paesaggio, e se all’inizio le era sembrato affascinante nella sua maestosa desolazione, dopo quasi due giorni cominciava ad esserne alquanto insofferente.
«Manca ancora molto?» Si azzardò a chiedere sperando di ricevere risposta, cosa che di solito non avveniva.
Durante il breve tempo che avevano passato insieme Meliandra aveva capito due cose di Farin: era un autentico schiavista ed era muto come una lapide.
Era stato capace di trascinarla per due giorni costringendola ad una marcia forzata e obbligandola a seguire i suoi stessi ritmi di veglia e sonno. Come se non bastasse aveva aperto bocca solo per dare ordini, ignorandola completamente qualsiasi cosa facesse.
In breve avevano coperto il doppio della distanza che avrebbero percorso a velocità normale. Inutile dire che Meliandra era a dir poco distrutta. Le gambe le facevano costantemente male; i piedi delicati, abituati alle leggere e morbide scarpe di tela che era solita indossare a palazzo, mal sopportavano le rigide calzature di cuoio che Farin le aveva rifilato, e quando la sera se le toglieva era costretta a curarsi le piaghe con la magia, contribuendo in tal modo ad accentuare la sua propria stanchezza. La fame e la sete, a stento placate durante le sporadiche pause che il mercenario concedeva, la assillavano costantemente, non con l’impeto del digiuno ma con il tarlo dell’insoddisfazione.
Farin, invece, era fresco come una rosa, quasi fosse abituato a seguire quel programma disumano.
«Tra uno o due giorni saremo a destinazione. Non lamentarti: sprecheresti fiato prezioso»
Beh, se non altro mi ha risposto. Pensò afflitta la ragazza.
Ripresero il cammino, procedendo senza posa sotto il sole cocente che pian piano raggiungeva lo Zenit.
Meliandra arrancava a fatica, sforzandosi sempre più per tenere il passo del ragazzo, che non accennava a rallentare.
«Farin, non potremmo riposarci un po’? Non ce la faccio più» Chiese lei, sperando che lui si muovesse a pietà, concedendole un minimo di ristoro.
«No. Se sei stanca, fermati e poi raggiungimi»
«Ma io non so seguire le tracce. Ti perderei»
«Allora continua a camminare»
«Ti prego, mi sento male» La sua voce si era fatta piagnucolante, come quella di una bambina che fa i capricci, la qual cosa fece infuriare Farin, che si girò di scatto verso di lei.
«Vuoi smetterla di lagnarti?» La frase, però, gli morì in gola. Meliandra era pallida come un cencio, e respirava a fatica. Il viso, rosso in modo anomalo, era contratto in una smorfia sofferente che ne deformava i tratti delicati. Sembrava sull’orlo di un collasso, cosa che avvenne.
La ragazza tentò di muovere un altro passo, ma gli occhi le si chiusero all’improvviso e cadde in avanti. Se Farin non l’avesse afferrata sarebbe caduta lunga distesa al suolo.
Imprecando, il ragazzo cercò con frenesia un posto all’ombra dove adagiare la principessa. Intravide in lontananza un’enorme roccia che forse avrebbe offerto loro un po’ di riparo dalla spietata luce del sole, si caricò in spalla Meliandra con tutta la delicatezza di cui era capace e cominciò a correre.
Una volta arrivato si sfilò di dosso il mantello, lo stese a terra e vi depose la principessa sopra per controllarne le condizioni.
Si maledisse nei modi più coloriti che conosceva, che invero non erano pochi. Meliandra stava male, e molto anche. Era disidratata, e la quantità di cibo che ingurgitava quotidianamente era evidentemente inferiore al suo fabbisogno.
Farin si sarebbe volentieri preso a pugni per la propria stupidità: era ovvio che la principessa non era abituata ad una vita tanto spartana e a ritmi così duri, ma lui non ci aveva fatto caso, anzi, inutile prendersi in giro, non aveva voluto farci caso. Nel suo disperato tentativo di ignorarla, di non instaurare il benché minimo rapporto con quella ragazza, non aveva prestato attenzione alle sue condizioni, e quelle ne erano le conseguenze.
Afferrò uno dei coltelli da lancio che teneva nascosti nelle maniche e tagliò un lembo del mantello. Prese la propria borraccia, per fortuna ancora quasi piena, e bagnò la stoffa, poggiando la pezza improvvisata sulla fronte della ragazza.
Devo farla bere.
Tagliò un altro pezzo di tessuto e lo inumidì con l’acqua, dopo di che glielo strizzò sulla bocca, sperando che ne ingoiasse un po’. Purtroppo le labbra di lei rimasero serrate, lasciando scivolare il prezioso liquido al suolo, dove venne avidamente assordito dalla terra arida.
Farin la guardò contrariato, cercando di trovare una soluzione al problema. Solo una gli venne in mente, e quasi gli venne voglia di strozzarsi: non aveva alcuna intenzione di farlo.
Rendendosi però conto di non avere altra scelta, e non potendo attendere il risveglio della ragazza, il mercenario non poté far altro che prendere la borraccia e sorbire una breve sorsata del suo contenuto, poi si chinò su di lei, le sollevò leggermente il capo e la baciò, usando la lingua per spalancarle le labbra serrate e riversando nella sua bocca l’acqua che aveva bevuto lui, massaggiandole la gola per stimolarle la deglutizione.
Ripeté l’operazione finché non fu certo di averla fatta bere abbastanza da reidratarla e la riadagiò sul mantello, poi si sedette al suo fianco e attese.
Ci vollero quasi sei ore prima che Meliandra rinvenisse, e la prima domanda che rivolse al ragazzo fu: «Cosa mi è successo? Ho un mal di testa d’inferno»
E Farin le disse tutto per filo e per segno, bacio d’emergenza incluso.
«Eh?!» L’urlo della principessa squarciò il silenzio serale, spaventando uccelli e pipistrelli e stordendo il povero Farin, che aveva commesso l’errore di avvicinarsi troppo a lei.
Il giovane si accasciò su se stesso, stringendosi l’orecchio leso.
«Si può sapere che accidenti ti prende? Maledizione a te, mi hai distrutto un timpano»
«Ah si? E che dovrei dire io? Non sono forse io ad essere stata baciata mentre ero incosciente? Sei un maledetto pervertito»
Farin si passò una mano dietro la nuca in un gesto di assoluta e ferrea noncuranza. Sembrava non concepire in alcun modo l’entità del torto che le aveva fatto.
«Si può sapere che hai da sbraitare tanto? Diamine, non hai fatto tante storie nemmeno quando ti ho detto di averti spogliata, quindi non vedo perché dovresti strepitare tanto per un paio di baci indegni di essere considerati tali»
Il colorito di Meliandra virò dal rosso al violetto, e ingoiare quell’onta fu la cosa più difficile che le fosse mai capitato di fare in tutta la sua vita.
«Lasciamo stare, altrimenti rischierei di perdere il controllo»
Farin sghignazzò, chiaramente non spaventato dalle minacce della ragazza. «Come preferisci»
Si alzò e si avviò verso una quercia secca ma imponente.
«Dove vai?» Gli urlò dietro la ragazza.
Per tutta risposta Farin sguainò la spada e iniziò a fare a pezzi il tronco dell’albero con mosse potenti ed eleganti al contempo.
Sebbene come maga provasse una naturale ed involontaria empatia con qualsiasi forma di vita, e il suo cuore piangesse alla vista di quello scempio, non poté, in quanto umana, e quindi naturalmente affascinata dalla violenza, non ammirare l’incredibile capacità di taglio di Veheza, rabbrividendo al pensiero che con la stessa facilità con cui stava facendo a brandelli il duro legno della quercia avrebbe potuto tranciare il metallo di un’armatura, e la carne e le ossa al di sotto di esso.
Farin andò avanti instancabile finché ai suoi piedi non si fu accumulata una notevole catasta di schegge di grandi dimensioni, e con un ampio movimento circolare diede il colpo di grazia al tronco, tranciandolo di netto e ridacchiando divertito quando quello si schiantò al suolo con un fragore assordante.
Osservandolo mentre raccoglieva la legna e la portava sotto la roccia, Meliandra si chiese se non fosse leggermente pazzo.
«Renditi utile e spezza un macigno in una ventina di pezzi grandi quanto la tua testa» Ordinò.
L’unico motivo per cui Meliandra stavolta obbedì fu perché, per una volta, Farin aveva usato un tono di voce quasi cortese. Scelse una roccia che le arrivava alla vita e la colpì al centro con un attacco magico che la sbriciolò, riducendola in frammenti esattamente delle dimensioni che le occorrevano.
Sbuffando soddisfatta, recitò una breve formula e le sollevò a mezz’aria, portandole senza alcuno sforzo dal mercenario, il quale le prese e le dispose in un cerchio di circa due braccia di diametro.
«Che stai facendo?» Chiese Meliandra con una nota di sincera curiosità nella voce.
«Tuo padre non ti ha mai portato a fare una scampagnata nei boschi? No? Nemmeno il mio: non ne ha avuto il tempo» Pronunciò l’ultima frase con un tono talmente basso e flebile  che Meliandra pensò di essersela immaginata.
Quando ebbe realizzato un cerchio pressoché prefetto, Farin prese la legna e la gettò all’interno.
«Vuoi accendere un fuoco? Non credo serva, in fondo fa caldo»
Il ragazzo sghignazzò, suscitando l’imbarazzo e l’irritazione di Meliandra.
«Che ho detto di strano stavolta?»
«Si vede che non sei mai uscita dalle mura del castello. Qui la notte fa un freddo cane» Si voltò e la fissò negli occhi, un brillio divertito gli illuminava le iridi smeraldine.
La replica acida di Meliandra le si bloccò in gola: nello sguardo di Farin non vi era crudeltà né derisione, cose di cui invece la sua voce era piena. Per la prima volta da quando l’aveva conosciuto, la principessa provò un vago senso di curiosità nei confronti di quel ragazzo.
Evidentemente Farin dovette intuire il suo interesse, perché si affrettò a distogliere lo sguardo, maledicendosi per la propria disattenzione.
«Nella mia borsa c’è un sacchetto verde. Portamelo» Disse col tono di voce più cupo e arrogante che gli riuscì, evitando accuratamente di mostrarle il viso.
Per un istante il suo comportamento le fece pensare di aver preso un grosso abbaglio, ma Meliandra, sebbene ingenua, non era affatto una stupida, quindi interpretò il suo come un tentativo volto a sviarla.
Con un mezzo sorriso sulle labbra, la mora si chinò sulla borsa del ragazzo, prese ciò che doveva e la richiuse senza interessarsi d’altro: curiosità o no i suoi precettori le avevano insegnato il rispetto dell’altrui proprietà. Avrebbe scoperto in altri modi ciò che voleva sapere.
«Tieni» Disse gettando il sacchetto a Farin, che lo afferrò al volo senza nemmeno voltarsi.
Il ragazzo lo aprì e vi prese da dentro una manciata di polvere rossa, che gettò sulla legna. Prese un pugnale dallo stivale, afferrò una pietra e la sfregò con violenza contro il metallo, generando una pioggia di scintille che infiammò la polvere, generando una vivace fiamma violetta.
«Cos’è?» Chiese la ragazza, affascinata dal colore del fuoco.
«Mahri» Rispose seccato lui«Un minerale estremamente infiammabile che si estrae alle pendici di alcuni vulcani»
La fiamma arse alta e intensa per quasi un minuto, poi tossicchiò e si spense. Sbuffando, Farin ripeté l’operazione, con il medesimo risultato.
«Che succede?»
Il ragazzo si alzò e fissò torvo la legna, poi puntò le dita contro la catasta, mormorò una breve formula e una gigantesca vampa cremisi accese il falò.
«Forse la polvere era di bassa qualità. Beh, tanto peggio. Vorrà dire che cambierò fornitore»
«T-tu…» Balbettò Meliandra, attirando l’attenzione del ragazzo, che, notando la sua espressione basita, la fissò confuso.
«Che c’è? Mi è spuntato un fungo in fronte per caso?» Sbottò Farin.
«Sei un mago!»
«Si. E allora?»
«Sei un mago e non me l’hai detto! Siamo compagni di viaggio, stiamo rischiando la vita ad ogni passo, e tu mi tieni nascosta una cosa così importante?» Ecco come sapeva tutte quelle cose sui sigilli, ed ecco perché l’incantesimo che gli aveva scagliato contro giorni prima non aveva fatto effetto «Perché non me l’hai detto?»  Urlò infine lei con tutto il fiato che aveva in gola, rossa per la rabbia.
«Perché tu non me l’hai chiesto» Rispose lui con una tranquillità incredibile.
La principessa si piegò all’indietro, spiazzata dalla risposta del ragazzo. Che razza di atteggiamento era quello?
«E’ tardi. Mettiti a dormire» Disse mentre stendeva il proprio mantello e vi si piazzava sopra, usando la propria borsa come cuscino. In meno di un minuto si addormentò, quasi fosse capace di farlo a comando, lasciando Meliandra a chiedersi se doveva scoppiare a ridere o folgorarlo.
Simili pensieri le erano insoliti, se ne rendeva conto da sola: di solito era paziente e gentile, ed era difficile che si infervorasse, ma con quel ragazzo era diverso. Ogni singola parola che gli usciva dalle labbra le accendeva dentro vampe di collera, scatenando in lei sentimenti di violenza che non le erano mai appartenuti.
Era tentata di svegliarlo a calci e farsi spiegare tutto, ma col sopraggiungere della calma il sonno cominciò a farsi sentire, quindi decise di seguire il “consiglio” di Farin e si mise a dormire.
Avrebbe chiesto spiegazioni il giorno dopo.

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Capitolo 8
*** Fresa la rossa ***


                                                                        Fresa la rossa
                                                                                                                              Regno di Ansha. Fresa. Anno 1859
 
«Eccoci arrivati. Benvenuta ai cancelli di Fresa “la rossa”» Annunciò Farin in tono teatrale, spalancando esageratamente le braccia come per abbracciare tutto il cupo paesaggio della città.
Fresa rendeva onore al proprio nome: non ci si voleva voltare senza scorgere galere e cortei di prigionieri, spronati ad avanzare tramite i crudeli e spietati colpi delle sferze delle ben poco rassicuranti guardie incappucciate. Cantieri strapieni di lavoratori, costretti a patire la fame e la sete sotto il sole cocente, spuntavano in ogni dove, rendendo la città un luogo di disperazione. Persino la terra, pigmentata dalle celebri rocce rosse, sembrava impregnata di sangue quando veniva colpita dai caldi raggi del sole.
«Allora, che te ne pare? Bel posticino vero?» Le chiese dolcemente, sperando in una sua reazione indignata. Meliandra, tuttavia, non sembrava incline a dargli questa soddisfazione. Da quando Farin si era rifiutato di rispondere alle sue domande su dove aveva imparato la magia, troncando i suoi discorsi con un acido “fatti gli affari tuoi”, lei si era rinchiusa in un ostinato silenzio durato due giorni.
Il ragazzo si strinse nelle spalle: anche l’indifferenza gli andava bene, purché non si affezionasse a lui. Deciso tuttavia a rincarare la dose, Farin prese ad elencarle ad uno ad uno tutti gli edifici degni di nota che incontravano.
«Quella a destra è una prigione; lì, se non sbaglio, tengono gli interrogatori - e ti posso assicurare che non è una bella esperienza -; quello invece è un centro per la riscossione delle taglie di cui sono assiduo frequentatore; quella è un’altra prigione – qui abbondano -, il patibolo, ed infine quello che interessa a noi: la biblioteca di Fresa, accessibile solo ai nobili e agli alti ufficiali dell’esercito»
Pur senza mostrare tracce di rabbia, Meliandra voltò il capo di scatto, fissando attonita l’edificio.
Alto e imponente, sembrava più una torre fortificata che una biblioteca. Era stata costruita in pietra nera, fortemente contrastante col rosso delle altre costruzioni.
La biblioteca reale di Ader, che lei era solita frequentare con gli altri allievi del suo maestro di magia, era illuminata da ampie vetrate colorate, che riempivano le sale di luce e deliziavano gli occhi con i loro stupendi disegni, mentre in quella di Fresa erano alte e strette come quelle di una roccaforte. L’insieme faceva ribrezzo.
A completare il quadro già di per sé non proprio roseo, poi, c’era l’unico ingresso visibile: una massiccia porta di ferro brunito, priva d’intarsi o decorazioni di sorta, sorvegliata da mezza dozzina di alabardieri.
«Dei del cielo, che razza di posto. Come faremo ad entrare?» Chiese sbigottita Meliandra, rivolgendosi a Farin più per bisogno che per voglia.
Il ragazzo si strinse nelle spalle con noncuranza «Un modo lo troveremo. Sono già stato qui altre volte per lavoro. Certo, il più delle volte incassavo taglie o riacciuffavo evasi, ma mi è anche capitato di trafugare qualche oggetto qui e là»
La ragazza lo guardò disgustata «Sei anche un ladro?» C’era qualche reato che quel ragazzo non aveva ancora commesso?
«Fintantoché mi pagano faccio qualunque cosa» Replicò, per nulla toccato dall’evidente vena accusatoria nella voce di lei: se avesse visto la lista dei crimini di cui era accusato il furto sarebbe stato l’ultimo dei suoi pensieri.
«E ora che facciamo? Un sopralluogo?»
Il mercenario alzò gli occhi al cielo in un moto di genuina disperazione. Fin dove sarebbe arrivata l’ingenuità di quella ragazza?
«E secondo te quei simpatici signori armati di alabarda ci lasceranno curiosare in giro come nulla fosse, vero? Usa il cervello una volta tanto. Non appena ti avvicinerai ti arresteranno, se sarai fortunata»
«E allora come entriamo?»
Il ragazzo si strinse nelle spalle «Ancora non lo so. Per prima cosa ci serve un posto dove dormire e pianificare con cura le nostre prossime mosse. Ne conosco uno perfetto».
Chiuse gli occhi e si sforzò di ricordare la strada per la taverna in cui era solito alloggiare.
Ad un certo punto s’illuminò, afferrò la mano di Meliandra e la trascinò quasi di peso per le strade di Fresa, fermandosi solo per orientarsi nuovamente.
Infine giunsero a destinazione: una sordida bettola di terz’ordine. L’insegna sudicia diceva “dai Due Leoni”, ma quelli che dovevano essere i leoni erano talmente consumati dal tempo e dall’incuria da rendere impossibile la loro identificazione come tali.
«Alloggeremo qui?» Domando afflitta la principessa.
«Si, e non fare quella faccia. Farà pure schifo, ma è l’unico posto in questa città dove si possano condurre in sicurezza affari illegali. In più il proprietario è un asso nel reperire informazioni»
Spalancò la porta con strafottenza ed entrò dritto filato nella taverna, come se l’aria greve che si respirava all’interno non lo turbasse affatto.
«Salve Rau»
«Guarda chi si vede: il piccolo Farin. Sono mesi che non ti si vede da queste parti» Sbraitò entusiasta l’uomo, spalancando le braccia ossute. Non si riusciva a capire se fosse felice di vedere il ragazzo, o fosse semplicemente contento di avere un cliente, razza certamente rara, visto che solo un folle o un disperato come loro poteva decidere di alloggiare lì.
Facendosi coraggio, Meliandra varcò la soglia, cercando di ignorare il lezzo di muffa che regnava sovrano.
Solo allora Rau si accorse della sua presenza.
La principessa rabbrividì sotto lo sguardo lascivo dell’uomo, che pareva seriamente intenzionato a spogliarla con gli occhi, o peggio.
«Questa volta te ne sei trovata una di qualità, eh? Non è che quando hai finito mi ci fai dare una bottarella?» Ghignò l’uomo passandosi la lingua sulle gengive sdentate, e lanciando un’altra occhiata al corpo snello e formoso della ragazza.
Meliandra s’inalberò, ma prima che potesse urlare alcunché, Farin le stampò un bacio sulle labbra. Stupita, la maga fu costretta a flettere la schiena per assecondare la spinta del mercenario, altrimenti sarebbe caduta, trascinandoselo addosso.
Stava per spingerlo via, quando incrociò il suo sguardo e due sfavillanti iridi verdi le intimarono collaborazione e silenzio.
«Spiacente Rau», sghignazzò Farin rivolto all’oste «ma con quello che l’ho pagata non faccio a metà con nessuno. E poi, dopo che avrò finito con lei non riuscirà nemmeno a rialzarsi»
L’uomo scoppiò a ridere, divertito dalle sue affermazioni. Afferrò una chiave logora e arrugginita e gliela lanciò.
«Divertiti allora, ma vedete di non fare troppo rumore, altrimenti disturbate gli altri clienti» lo ammonì.
«Non preoccuparti. Farò in modo che abbia la bocca piena» e gli rivolse un occhiata molto eloquente, affibbiando nel contempo un forte pizzico a Meliandra, che a fronte di quella discussione rischiava davvero di perdere le staffe.
«Ora, se permetti, ci accomiatiamo» disse spintonando la principessa verso le scale. All’improvviso, però, si bloccò, si volse e chiese a Rau: «A proposito, per caso nel tuo inesauribile, nonché illegale, archivio hai i piani di costruzione della biblioteca cittadina? Te li pago bene»
Rau si strinse nelle spalle sporgenti «Controllerò»
Mugugnando un "grazie", Farin condusse la giovane maga nella loro stanza, la quale non era in condizioni migliori del resto della locanda.
«E io dovrei dormire qui?» guardò con sincera afflizione le lenzuola color topo, che in tempi lontani forse erano state bianche, e si chiedesse come un essere umano potesse accettare di coesistere con un tale porcile. Non che pretendesse una dimora principesca, sapeva benissimo che in missioni importanti come la sua bisognava fare di necessità virtù, ma avrebbe quantomeno gradito che le condizioni igieniche non fossero così pessime.
«Possiamo anche fare altro se vuoi» disse il ragazzo, assumendo un’aria di palesemente finta speranza.
Il viso della principessa virò istantaneamente verso un acceso rosso pomodoro «Assolutamente no! Anzi, ora pretendo che mi spieghi perché mi hai fatta passare per una prostituta davanti a quel lurido porco»
L’espressione di Farin ridivenne subito seria.
«Non ti ho fatto passare per una puttana, ma per la mia puttana»
«E che differenza ci sarebbe, di grazia?»
«Oh, la differenza c’è eccome. Come forse avrai capito, la clientela di questo posto non è delle più raccomandabili. Tra quelli che mi conoscono, però, sono in pochi quelli che avrebbero le palle di toccare qualcosa di mia proprietà, e per tua fortuna Rau non fa parte del gruppo. Fintantoché penserà che sei sotto la mia protezione sarai al sicuro»
«Fingerò di crederci» disse lei, scettica «ma che sia l’ultima volta. Sono una principessa, per gli Dei, non una… una… oh, insomma, hai capito che intendo»
Il mercenario fece spallucce.
«Come ti pare»
Lei annuì «E ora che facciamo? Aspettiamo i comodi di quel tipo?»
Farin aprì la bocca per rispondere, ma un rumore di passi lo interruppe.
«Spogliati» Sibilò con un tono che non ammetteva repliche, gettando per terra mantello e casacca.
«Come?!»
«Tu dovresti essere una puttana, no? E allora comportati come tale! Rau sa tenere i segreti dei propri ospiti, ma preferisco evitare le domande scomode, specie quelle sulla tua reale identità»
«M-ma non posso spogliarmi davanti a te»
Uno sbuffo esasperato fuoriuscì dalle labbra del ragazzo «Non hai nulla lì sotto che io non abbia già visto quando ti ho curato la schiena, quindi muoviti»
Il colorito della ragazza passò dal rosso al viola, ma obbedì, e con malcelata agitazione si sfilò il mantello e la tunica, fiondandosi subito dopo sotto le coperte.
In quello stesso istante Rau bussò alla porta. Farin spinse gli stivali di lato ed andò a aprire, simulando, senza troppe difficoltà, un’espressione estremamente irritata.
«Che c’è?»
L’uomo indietreggiò di un passo, trafitto da quello sguardo di ghiaccio «H-ho trovato quello che mi hai chiesto» balbettò porgendogli una pergamena arrotolata, che Farin afferrò con malagrazia, strappandogliela dalle dita storte.
La esamino con attenzione, poi si voltò e si diresse verso la propria sacca. Nel mentre Rau si sporse per sbirciare nella stanza, ritraendosi deluso quando vide che Meliandra era sotto le coperte.
«Hai fatto in fretta» osservò Farin «credevo ti servissero almeno un paio d’ore per trovarla». Prese alcune monete d’argento da un borsellino di cuoio e le porse al taverniere.
«C’è l’avevo sotto mano. Sai, può sempre servire»
Il mercenario inarcò uno dei candidi sopraccigli, chiedendosi quanto di vero ci fosse in quello che aveva detto.
Lo ringraziò e lo congedò con un brusco cenno del capo, chiudendogli la porta in faccia. Poi, per sicurezza, tracciò con l’indice un cerchio intorno alla maniglia della porta e recitò una breve nenia, creando un sigillo temporaneo che avrebbe scongiurato eventuali intrusioni notturne.
«Puoi anche uscire principessina: se n’è andato»
«Si, ma tu sei ancora qui»
«Ti ho detto che ti ho già visto nuda. Che t’importa?»
«E’ imbarazzante lo stesso»
Farin gettò la spugna, poso la pergamena sul minuscolo tavolino al centro della stanza e s’infilò nel letto, proprio accanto a Meliandra.
«Ma che fai?» Sbraitò lei, ormai sull’orlo di una crisi di nervi.
«Cosa vuoi che faccia? Sono stanco e quindi dormo. Tranquilla, non ti farò nulla» Concluse intuendo il motivo dell’ansia della ragazza. Come se lui, poi, non avesse niente di meglio da fare che violentarla.
«Devo crederti?» chiese lei, dubbiosa.
Il mercenario alzò una mano «Parola di spadaccino» borbottò prima di addormentarsi.
Ancora incerta, la maga si scostò un altro po’ da lui e sprofondò la faccia nel cuscino, sperando che la notte passasse il più in fretta possibile.


Tadaaaaan, sono tornatoooooo!! E chissenefrega direte voi. E vabbè, comunque ecco il nuovo capitolo. Giuro che dal prossimo Farin smetterà di comportarsi da pervertito e farà qualcosa di socialmente utile(No, non introdurrà Meliandra ai "misteri della vita") e forse ammazzerò qualcuno.
Sayonara.

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Capitolo 9
*** Il colore del sangue ***


                                                                      Il colore del sangue
                                                                                                                                      Regno di Ansha. Fresa. Anno 1859
 
Farin intinse la punta della penna nel calamaio e tracciò con sicurezza alcune crocette sugli schemi di costruzione della biblioteca.
«Dunque, l’ingresso principale è da escludersi a priori. Stesso dicasi per quello posteriore, che sarà certamente altrettanto sorvegliato» affermò il giovane mercenario.
«E che mi dici delle finestre?» chiese Meliandra.
Il ragazzo scosse il capo. «No, sono troppo strette e troppo in alto, inoltre temo siano sbarrate.»
Scostò il primo foglio e controllò il secondo. «L’unica possibilità sembra sia passare attraverso questo vicolo. Tieniti pronta, partiremo stanotte.»
 
 
«Notte tersa e luna piena. Ottimo» asserì Farin, sbirciando fuori dalla finestra. Soddisfatto, tornò a prepararsi.
Sotto lo sguardo incuriosito di Meliandra, prese dalla sua sacca da viaggio due bracciali, costituiti da una serie di sezioni d’acciaio a forma di V sovrapposte, legate tra loro da alcune stringhe di cuoio, e culminanti in due quadrati dagli spigoli smussati atti a coprire i dorsi delle mani.
Con movimenti esperti fissò le protezioni agli avambracci. Poi afferrò un discreto numero di coltelli da lancio, controllò che il bilanciamento tra il peso della lama e quello dell’impugnatura, che doveva essere in perfetto rapporto di parità, fosse corretto, e ne saggiò punta e filo su un pezzo di legno morbido.
Concluso l’esame, ripose i coltelli adatti in due strisce di stoffa munite di apposite sacche che si legò sul busto partendo dalle spalle fino ai fianchi opposti. Le armi restanti furono invece riposte su dei ganci sulla cintura del mercenario, pronte per essere afferrate in caso di necessità. La cinta di cuoio fu poi adagiata sul letto.
«Come farai ad indossare la cintura sotto l’armatura?» chiese Meliandra.
«Semplice, non indosserò l’armatura. Dato il mio stile di combattimento, sarebbe più un peso che altro. E poi, mi spieghi con tutta quella chincaglieria addosso come farei ad introdurmi furtivamente in biblioteca? Farei più rumore io che una banda di paese.»
Infilò di nuovo le mani nella sacca e prese una sorta di cappotto lungo, sagomato come se dovesse fungere da seconda pelle. La cosa che più impressionò Meliandra, però, fu la “copertura” di tale indumento: era come se un abilissimo sarto avesse cucito nella stoffa delle lamine d’acciaio brunito intrecciate tra loro, in modo da mantenerne il fattore protettivo senza intaccarne elasticità e leggerezza. Ad un esame più attento, poi, la giovane maga notò che sulla scura e liscia superficie del metallo erano incise, con minuzia e mirabile perizia, un’infinità di sigilli protettivi.
«Non avevo mai visto una corazza così. Chi l’ha inventata?» chiese ammirata.
Lo sguardo di Farin si oscurò, al punto che Meliandra si pentì di aver posto quella domanda.
«La inventò il mio maestro» la sorprese invece lui, «è uno degli oggetti più preziosi che possiedo»
«Come si chiama?»
«Avra Sekh, barriera flessibile, questo è il suo nome.»
«Il tuo maestro è un vero genio. Vorrei proprio conoscerlo» mormorò la maga, colpita dalla nota di malcelato ma sincero affetto nella voce del giovane.
«E’ morto» disse con semplicità, «anni fa.»
Ignorò l’espressione costernata della ragazza e terminò di prepararsi, staccando, tramite apposite linguette, delle strisce di cuoio dalla parte posteriore del collo degli stivali e sostituendole con due barre d’acciaio a cui erano state saldate tre lame ciascuna. Poi, finalmente, indossò l’Avra Sekh, si legò la cintura in vita, inserì Veheza nel fodero sul fianco sinistro e fu pronto.
«Bene, andiamo ora.»
 
 
Qualunque cosa facesse, Farin non smetteva mai di sorprenderla e irritarla allo stesso tempo.
La principessa non sapeva spiegarsi come, ma, nonostante il non indifferente peso dell’arsenale che si era caricato addosso, il mercenario riusciva a muoversi di ombra in ombra con la grazia di un felino, senza produrre alcun suono.
Ma come fa?Pensò la ragazza, seguendolo faticosamente ma con discreti risultati.
Facendole segno di sbrigarsi, il ragazzo sgusciò in un vicolo, sul lato Est della biblioteca.
Si avvicinò alla parete e, usando Veheza come uno scalpello, rimosse la malta che teneva insieme i massicci blocchi di pietra nera.
«Spostale con la magia, ma attenta a non fare rumore» le sussurrò all’orecchio.
«Perché non lo fai tu?»
Il mercenario si passò una mano dietro la testa, come se fosse imbarazzato ma non volesse darlo a vedere. «Non sono molto abile con i lavori di precisione. Rischierei di far esplodere tutto.»
La principessa annuì, cercando di reprimere la risata che le risaliva in gola. Prese un respiro profondo e, congiunte la mani, recitò una breve formula con voce bassa e musicale. Le rocce presero a tremolare, dapprima leggermente, poi sempre più forte, finché non iniziarono lentamente ad uscire dai loro scomparti. L’operazione le richiese una discreta quantità di tempo, e altrettanto le occorse per rimetterle al proprio posto.
«Ottimo. Ora andiamo avanti.»
Una volta entrati, grazie alla piantina fornita loro da Rau, fu facile orientarsi e trovate la biblioteca vera e propria, quella nascosta nei sotterranei. Si trattò solo di scendere tre rampe di scale e –incredibilmente Farin si dimostrò capace anche di questo – forzare una porta.
Arrivati, però, si resero conto della reale entità dell’impresa che dovevano compiere: la biblioteca era immensa, ancora più grande di come appariva dall’esterno. Un’apparentemente infinita fila di scaffali alti fino al soffitto, strapieni di tomi e rotoli di pergamena. Persino il gelido Farin ne sembrò colpito, anche se lo dimostrò solo con una leggera dilatazione delle pupille.
«Magnifica. Assolutamente magnifica. E dire che pensavo fosse l’esatto opposto.»
«Magnifica? No, dico, hai la benché minima idea del tempo che impiegheremo a trovare un libro, di cui non conosciamo neppure l’aspetto, in mezzo a questo scempio?»
Meliandra lo guardò allibita, per poi scoppiare in una risata forzatamente sommessa che le causò un lieve accesso di tosse.
«Che hai da ridere come una iena?» chiese Farin, incenerendola con un’occhiataccia.
«Non ci occorre cercare a caso. Dobbiamo solo consultare l’indice dei libri e trovare il tomo.»
Il mercenario le rivolse un sorriso di scherno «Ogni tanto anche tu ne pensi una giusta, eh?»
Senza perdere altro tempo, si diressero verso quella che aveva tutta l’aria di essere la scrivania del bibliotecario: un massiccio tavolo di legno scuro finemente intagliato, talmente ingombro di carte da piegarsi sotto il loro peso. I resti di un’unica, minuscola candela testimoniavano quanto quel posto fosse frequentato. A giudicare dalle due dita di polvere che ricoprivano tutto, era almeno un anno che nessuno dava una pulita lì dentro.
Ad uno schiocco delle dita del mago lo stoppino si accese, dopo di che lo usò per dar fuoco ad alcune fiaccole agganciate al muro, rischiarando l’ambiente.
Intanto Meliandra, con mosse abili ed esperte, cominciò a setacciare tra le scartoffie, mentre Farin, stavolta del tutto inutile, diede un’occhiata in giro.
Nonostante l’incredibile patrimonio culturale lì contenuto, l’ambiente rasentava lo squallore più assoluto, accentuato, se possibile, dalla totale mancanza di colore.
La sua attenzione fu attirata da un grande albero inciso sulla parete Nord. A differenza del resto, questo era stato realizzato con perizia e cura. Le foglie erano state rese con dettagli ricchi e accurati, al punto da poter scorgere, aguzzando la vista, le venature che le percorrevano. Il tronco era stato inciso con tale precisione da mostrare tutte le imperfezioni di una vera corteccia. Persino alle radici, che affondavano nel pavimento come se esso fosse terreno fertile, era stata dedicata un’attenzione quasi maniacale.
Il fregio sembrava nuovo, nonostante lo sporco che lo ricopriva, ma probabilmente, pensò il mercenario, doveva essere vecchio di almeno qualche secolo. Eppure il tempo non aveva potuto intaccarne la bellezza.
«Trovato!» esclamò improvvisamente Meliandra, distogliendolo dalle sue riflessioni.
«Fa vedere». Si avvicinò alla ragazza, gettando un’occhiata a quella che gli sembrò solo un’infinita sfilza di titoli, numeri, e caratteri messi a caso.
«E tu ci capisci qualcosa?»
«Certamente» gongolò lei, soddisfatta di aver, per una volta, zittito Farin. «Vedi accanto ai titoli? Ci sono: una runa nanica, un numero e una lettera dell’alfabeto elfico. La runa indica la sezione in cui si trova il libro, la lettera indica lo scaffale e il numero ne indica la posizione sullo stesso.»
«Oh, benissimo» gemette lui, «in fondo le rune base dei nani sono solo quattrocento, combinabili in appena ventiduemila rune complesse. E, se non ricordo male, l’alfabeto elfico conta circa seicento lettere. Ci vorranno mesi.»
«Ma no, sarà sufficiente scorrere la lista.»
Tuttavia, anche così la ragazza impiegò quasi due ore intere per controllare ogni singolo tomo dell’indice.
«Allora?»
La principessa scosse il capo «La “Ballata del dragone” non è registrata qui – in effetti sarebbe stato troppo facile – ma ho notato una cosa strana»
«Vedi?» disse indicando uno dei tomi, «questa runa si leggeIt, ma, nel giusto ordine, lì dovrebbe esserci scritto Ahn. Il carattere è sbagliato.»
«Non può trattarsi di un errore?»
«Se fosse stato un caso isolato ti darei ragione, ma l’errore si ripete più volte» poi si bloccò, e il suo sguardo si illuminò. Eccitata, afferrò una penna abbandonata, sciolse l’inchiostro secco con un incantesimo e cerchiò i caratteri errati, trascrivendoli su un’altra pergamena.
«Guarda: unendo le rune viene fuori una frase.»
Il ragazzo si sporse e la lesse ad alta voce. «Itja Kat’balei.»
«Dunque, Itja significa sotto, e balei credo derivi da balè, albero. Però non ho idea di cosa sia quel”Kat”»
Farin si appoggiò alla scrivania, meditabondo. Fu quasi per volere del fato che l’occhio gli cadde sul fregio.
E se…
«E se stesse per katba
«Cosa?» chiese la maga, colta alla sprovvista.
«Kat potrebbe essere l’abbreviazione per katba, radice. In quel caso Itja kat’balei starebbe per Itja katba balei, sotto le radici dell’albero.»
Parlava tra sé e sé, senza considerare davvero Meliandra. Per questo non si curò di attenderla né di spiegarle null’altro, bensì si avvicinò al fregio impolverato, soffiando a pieni polmoni per ripulirne al meglio la base.
Lentamente, mentre lo spesso strato di sporcizia si staccava, disperdendosi in aria come uno sciame di minuscoli insetti, le linee dell’incisione divennero più nitide, ma ancora non bastava. Per confermare la sua teoria avrebbe dovuto ripulirlo del tutto.
Spazientito, il ragazzo si pose frontalmente alla parete, le braccia tese in avanti, il palmo della mano destra dietro il dorso della sinistra. Le sue labbra pronunciarono sommessamente una formula magica.
Man mano che pronunciava le parole, con la cadenza di una cupa filastrocca, rapide correnti d’aria andarono compattandosi in una sfera turbinante.
Quando Farin fu soddisfatto della potenza raggiunta, rilasciò l’incantesimo, che si andò a schiantare contro il fregio, esplodendo in una raffica abbastanza violenta da rimuovere ogni residuo da esso.
«Che diavolo fai?» sbraitò la principessa, sbalzata indietro insieme all’intera scrivania.
«Come sarebbe: che faccio? Do una pulita.»
«D’accordo, ma almeno, prima, avvisami, per gli Dei del cielo.»
«Si, si» minimizzò lui, agitando una mano e chinandosi per esaminare meglio il fregio. Inizialmente non notò nulla di strano, ma ebbe un moto di esultanza quando, dopo un più accurato controllo, percepì sotto le proprie dita una sorta di scanalatura, sottile quanto un capello.
Pigiò con forza, e una porzione di pietra quadrangolare si staccò, rivelando una serie di pulsanti numerati e una leva circolare lunga quasi quanto il suo avambraccio.
«Presto, dimmi le cifre che sono accanto alle rune errate.»
La maga annuì, scorse per l’ennesima volta l’indice e glieli comunicò.
Non senza fatica, Farin schiacciò gli antichi pulsanti, afferrò la leva, la ruotò e la tirò a sé. Un cassetto segreto scivolò docilmente su cardini nascosti per qualche secondo, poi il millenario meccanismo s’inceppò.
Farin tirò con tutte le proprie forze, puntellandosi con i piedi, facendosi addirittura aiutare da Meliandra – Per debole che fosse – ma anche così riuscirono a spostarlo solo di qualche centimetro.
«Temo che non si muoverà più di così» disse Meliandra, il respiro affannato, la delicata pelle delle mani arrossata per l’attrito col ferro.
«Non fa nulla. Così è sufficiente.»
S’inginocchiò accanto al cassetto e vi fece aderire l’orecchio, assestando dei leggeri colpetti sul metallo con le nocche.
Le labbra gli si curvarono in un sorriso diabolico, si alzò in piedi e sguainò Veheza. La lama scivolò dal fodero con uno stridio minaccioso.
Impugnando l’arma con entrambe le mani, menò un fendente contro il bordo del cassetto, tranciandolo di netto. Il pezzo di metallo cadde tintinnando sul pavimento.
Scoccandogli un’occhiata omicida, Meliandra infilò le mani nello scomparto, pregando che il contenuto, vecchio di quasi mille anni, non fosse stato danneggiato dal tempo o dall’avventato gesto del mercenario.
Fortunatamente, però, la “Ballata del dragone” non solo si era salvata dal fendente di Farin, ma era in condizioni assolutamente perfette, intonsa e immacolata come appena rilegata. La copertina in cuoio non mostrava graffi né macchie, e le pagine non odoravano di muffa, come ci si sarebbe aspettato da un volume antico.
«Com’è possibile?» mormorò.
«Forse è protetto da un incantesimo» suggerì Farin, dal cui tono non si capiva se fosse realmente interessato alla cosa. In ogni caso, a Meliandra non interessava. In fondo, per lui quello era solo un lavoro come un altro, l’ennesima fatica per guadagnare soldi. Era lei, quella che rischiava di perdere il proprio regno, la propria casa.
Sospirò rassegnata e ripose il libro in una tela cerata, onde scongiurare anche il più remoto rischio.
«Adesso possiamo andar…» La sua voce si spense contro la mano di Farin, quando questi la usò per tapparle la bocca. Come suo solito Meliandra provò istintivamente a liberarsi, ma il mercenario la anticipò, portandosi l’indice alle labbra e indicandole la porta dalla quale erano entrati.
Incuriosita, la maga fece capire al ragazzo che non avrebbe parlato e drizzò le orecchie. Con terrore si rese conto che qualcuno si stava avvicinando. Il clangore prodotto da pesanti stivali corazzati rimbombava ritmicamente sul pavimento di pietra.
«Resta nascosta» le sussurrò.
Silenzioso come un fantasma, Farin scivolò nuovamente tra le ombre, svanendo nel nulla. Temendo che volesse fuggire da solo abbandonandola lì, Meliandra decise, in via del tutto eccezionale, di usare una piccola frazione del potere di Kahali.
«Destati, o Veggente, e mostrami ciò che i miei occhi indegni non possono scorgere» esclamò a bassa voce, deponendo un lieve bacio sulla gemma a forma di luna calante.
Immediatamente le sue pupille si tinsero d’oro, e i contorni del mondo divennero più sfocati, eppure incredibilmente più nitidi. Perché, come già detto, tale era il potere di Kahali: scorgere la vera essenza, l’anima – o aura, che dir si voglia – delle cose.
Grazie ad esso, la maga individuò subito Farin, che nel frattempo si era appostato dietro uno scaffale vicino la porta d’ingresso. Con apprensione lo vide sganciare un coltello dalle fasce di stoffa.
Un istante dopo la guardia varcò la soglia, guardandosi intorno con aria annoiata. Evidentemente non si aspettava di trovare nessuno, e in fondo, perché avrebbe dovuto? Quale ladro si sarebbe mai introdotto in una biblioteca?
Lo sguardo dell’uomo – un grassone goffo ma dall’aspetto possente - quindi, scorse rapidamente l’intero ambiente.
Purtroppo, nonostante dall’aspetto si capisse che non era un pozzo di sapienza, qualcosa non lo convinse del tutto, spingendolo ad un’ispezione più attenta. Allora notò lo scomparto segreto aperto e distrutto.
«Intrusi!» Urlò a squarciagola, appena prima che il coltello da lancio di Farin lo  centrasse alla base del collo, uccidendolo sul colpo.
Il cadavere rimase ritto in piedi, poi, spinto dalla gravità, barcollò in avanti e cadde supino, a pochi passi da Meliandra. Per un breve momento, gli occhi dell’uomo, già velati dalla morte, s’incrociavano con quelli blu della principessa.
«Corri» le intimò il ragazzo.
La maga, però, sembrò non udirlo. Continuava a fissare con aria assente il corpo ancora caldo e pulsante della guardia.
«Che ti prende?» Il mago la fissò in volto e capì: era la prima volta che quella mocciosa vedeva uccidere qualcuno. Naturale che si fosse imbambolata a quel modo.
Quanti problemi.Pensò sconsolato. Non aveva il tempo di assecondare le sue turbe, perciò ricorse al metodo più antico ed efficace conosciuto dall’uomo per riscuotere una persona da uno shock: le diede uno schiaffo.
Subito la maga si portò la mano al volto, dando segno di ripresa.
«C-cosa…?»
«Dobbiamo andarcene. Muoviti.»
«S-si» mormorò barcollando.
Ringraziando tutti gli Dei e i Demoni esistenti, Farin la superò, uscendo dalla porta.
«Eccoli, sono qui!» gridò concitatamente una voce sconosciuta. Subito dopo, cinque guardie gli corsero incontro, armi alla mano, dal corridoio di fronte a lui, e altri tre da quello dietro.
«Resta lì!» ordinò a Meliandra, preparandosi a combattere.
Ad una velocità inumana scattò in avanti, sfoderando nel contempo Veheza.
Il primo soldato morì così, con la testa spiccata dal collo prima ancora che potesse anche solo accennare una reazione.
Il secondo riuscì a mettersi in posizione d’attacco, ma Farin ne superò la guardia, colpendolo al volto con un pugno che, probabilmente, gli fratturò la mascella. Poi ruotò repentinamente su se stesso e intercettò una flamberga diretta contro la propria spalla. L’impatto spezzò l’arma nemica con una facilità talmente assurda che il suo proprietario rimase per un momento basito a fissare il moncone dell’arma. Secondo che gli fu fatale, perché il mercenario ne approfittò per trafiggerlo al petto. A nulla valse il suo ultimo, disperato tentativo di frapporre un piccolo scudo tondo in sua difesa: Veheza, tenendo fede al suo soprannome di “luce inarrestabile” penetrò il legno e il ferro, passando l’uomo da parte a parte. Poi, quando estrasse la lama dal corpo dell’avversario con un ampio movimento circolare, il sangue fuoriuscì dalla ferita con la potenza di un’eruzione vulcanica, imbrattando pavimento e pareti, e finendo per macchiare anche il volto del ragazzo.
Un sibilo minaccioso alle sue spalle lo avvertì di un attacco, così Farin si appiattì a suolo, giusto in tempo per schivare l’affiata lama di un’alabarda puntata contro il suo ventre. La punta dell’arma, mancato il bersaglio, si andò a conficcare nella coscia di un’altra guardia, lacerandole l’arteria femorale. La morte sarebbe sopraggiunta di lì a poco.
Quasi analoga fu la fine dell’alabardiere: Farin, con un preciso fendente laterale, gli tagliò entrambe le gambe, lasciandolo poi a terra a gemere come un maiale sgozzato senza nemmeno curarsi di infliggergli il colpo di grazia.
Gli ultimi tre soldati furono, se possibile, ancora più sventurati: il giovane mago evocò un incantesimo, e una sorta di cappio invisibile si strinse intorno alle loro gole, aumentando gradualmente di potenza finche le loro vertebre non si spezzarono con uno schiocco raccapricciante.
Il clamore dello scontro, però, aveva attirato nuove guardie. Purtroppo per loro, il potere magico di Farin era enorme, ma non altrettanto grande era la sua pazienza, e lui non aveva intenzione di perdere altro tempo inutilmente.
Divaricò gambe e braccia e intonò una nuova formula, stavolta una lunga e complessa serie di suoni gelidi e stridenti, privi di qualunque inflessione umana.
Con orrore, Meliandra si rese conto di conoscere l’incantesimo che stava per usare e si lanciò in avanti, nel disperato tentativo di impedire altre vittime, ma era già troppo tardi.
Due gigantesche vampe vermiglie scaturirono dalle mani di Farin e si diressero ruggendo verso le guardie.
Le modeste dimensioni del corridoio concentrarono le fiamme, aumentandone la potenza distruttiva a dismisura. I soldati furono spazzati via senza nemmeno avere il tempo di urlare: i loro corpi si tramutarono in cenere, e le armi e le armature si fusero in un contorto ammasso di metallo incandescente.
Immediatamente l’aria stantia si mescolò all’odore di carne bruciata.
Per Meliandra fu insopportabile. Quell’orrendo puzzo, mescolato alle ancora vivide scene del massacro a cui aveva appena assistito e a tutto quel sangue le diedero la nausea.
Calde lacrime le rigarono le guance, mentre, con un singhiozzo ed un singulto, piegandosi su se stessa, la principessa rigurgitò tutto il contenuto del proprio stomaco, inzaccherandosi di vomito fino alle ginocchia.
Farin la avvicinò, posandole una mano sulla spalla «Ehi, non è il momento adatto per questo. Dobbiamo andarcene alla svelta.»
La giovane si riscosse di colpo, respingendo il tocco del mercenario con uno spintone.
«Non mi toccare!»
Sorpreso, sebbene la spinta della ragazza fosse stata debole, indietreggiò, fissandola con uno sguardo che chiunque, a mente fredda, avrebbe detto essere di immensa tristezza, ma che attraverso il velo d’ira che le offuscava la vista le sembrò freddo ed indifferente come al solito. Forse addirittura compiaciuto.
«Sei solo un assassino» mormorò, riprendendo a piangere, «non era necessario che morissero. Avresti potuto utilizzare un incantesimo paralizzante.»
«Hai ragione» ammise lui, «la prossima volta lo terrò presente.»
Fu la classica goccia che fece traboccare il vaso: Meliandra tirò indietro il braccio e tentò di colpire Farin con un pugno, ma lui la bloccò.
I suoi occhi smeraldini assunsero la durezza dell’acciaio «Se hai da recriminarmi qualcosa, fallo dopo.»
La maga allora sputò fuori tutto il suo disprezzo, ribollente come una pozza di lava: «No, non ci sarà nulla dopo. Non ho niente da dire ad un mostro. Tu semini morte, e prosperi sopra di essa come un parassita. Ho sempre odiato i mercenari, ma tu sei addirittura peggiore. Sei il figlio della sventura, e, non pago, godi nell’esserlo. Forse persino un mostro sarebbe migliore di te.»
Figlio della sventura. Quelle parole gli si conficcarono nel cuore come una lama. Era l’unico insulto che non riusciva ad ignorare, perché era l’unico insulto che corrispondesse al vero. Dovette fare violenza su se stesso per non far vedere a Meliandra quanto le sue parole l’avessero ferito, ma era uno sforzo che era ben disposto a compiere: per quella ragazza era senza alcun dubbio meglio odiarlo e non avere nulla a che fare con lui, il cui destino era la solitudine.
Con l’animo più leggero – o almeno cosi volle credere – le rivolse un sorriso sghembo «Come vuoi. Basta che tu ti muova» disse voltandosi.
Non attese la sua replica, non ce n’era bisogno.
Da quel momento in poi fu Meliandra a neutralizzare le guardie che sbarravano loro il passo. Forse fu l’effetto della rabbia, ma la maga dimostrò una più che discreta bravura con gli incantesimi d’impatto e in quelli di paralisi. Solo tre volte non riuscì ad essere più veloce di Farin, e in tutti i casi preziose vite furono spezzate.
Demone. Questo si ripeteva Meliandra mentre, correndo a perdifiato, scagliava sortilegi a destra e a manca nel tentativo di bloccare i soldati prima che fossero travolti dalla furia distruttrice del mercenario.
Finalmente il portone d’ingresso apparve di fronte a loro, e a quel punto nessuno poté impedirgli di fuggire, svanendo nel buio della notte con il prezioso manoscritto.


Oddio e Oddea, questo è stato il capitolo più lungo che ho scritto finora. Vabbè sono le 4 e passa, e non connetto più, quindi vi saluto.

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Capitolo 10
*** Lacrime di mezzanotte ***


                                                                    Lacrime di mezzanotte
                                                                                                                       Regno di Ansha. Pianura di Bagret. Anno 1859
           
 
I cavalli avanzavano sempre più lentamente. I petti possenti e muscolosi erano scossi da spasmi frenetici, nel tentativo di incamerare quanta più aria possibile, e i lisci velli scuri erano impregnati del sudore di quasi due giorni di galoppo continuo.
Farin guardò preoccupato la propria cavalcatura e quella di Meliandra. Quei destrieri da corsa li avevano rubati a Fresa, dalle scuderie della guardia cittadina, dove la principessa si era rivelata inaspettatamente utile, visto che aveva avuto la brillante idea di gettare un incantesimo sui restanti animali, facendoli cadere in un sonno profondo e impedendo così ai soldati di inseguirli.
Fino al punto in cui erano arrivati, costatò Farin, erano stati un aiuto inestimabile, che aveva permesso loro di allontanarsi di molte, preziose miglia dalla città, ma era anche evidente che ormai erano allo stremo delle forze. Altre due, massimo tre ore, e sarebbero collassati per mancanza di cibo e acqua.
Gettò un’occhiata distratta alla sua compagna di viaggio. La ragazza si era fin da subito rivelata un’ottima cavallerizza, al punto da potersi scegliere da se un cavallo sia adatto alla corsa che di carattere mansueto.
Aveva passato tutto il tempo chiusa nel suo ostinato mutismo, china sulla groppa del destriero, interrompendo di tanto in tanto questo suo esercizio di pazienza per lanciargli uno sguardo sospettoso, come se temesse che il giovane potesse ucciderla alla prima distrazione che si fosse concessa.
Farin avrebbe riso volentieri, se così facendo non avesse rischiato di attirare su di se attenzioni indesiderate. Era buffo: proprio ora che era finalmente riuscito a convincerla che non valeva la pena di avere a che fare con lui, ecco che cominciava a sentire la mancanza dei loro battibecchi.
Nel suo essere tanto diversa da tutti i nobili che aveva incontrato, quella ragazza gli era simpatica. Ingenua lo era, certo, ma non stupida, e a dispetto delle apparenze, Farin era sicuro che avesse potere e talento da vendere.
Ma questo non riguarda me. Pensò mestamente lo spadaccino, fissando di sottecchi la bella principessa.
«Sta per calare la notte. Dove ci accamperemo?» esclamò a tradimento la giovane maga, distogliendolo dalle sue elucubrazioni. Era sorpreso, ma non doveva darlo a vedere. Il suo cuore e la sua mente dovevano rimanere inaccessibile a chiunque, almeno finché anche l’ultimo dei membri del Sindrai Rakr Lath non fosse giaciuto morto ai suoi piedi, e oltre.
«Allora?» sbottò la ragazza, infastidita dal silenzio del mercenario. Odiava dover rivolgere la parola a quello spietato assassino.
«Pensavo avessi detto che non ci sarebbe stato alcun “dopo”» replicò il giovane, riassumendo in un lampo la sua maschera d’indifferenza e cinismo. La fanciulla lo trucidò con un’occhiataccia «Infatti sto cercando di limitarmi allo stretto indispensabile al completamento della mia missione. Rispondi alla mia domanda ora.»
Farin si strinse nelle spalle e indicò una piccola sporgenza rocciosa in lontananza. «Con questa andatura arriveremo lì un’ora prima del tramonto. Se non muoiono anzitempo, dietro l’altura c’è un boschetto e, se non ricordo male, un ruscello, dove i cavalli potranno mangiare e bere. Forse saremo abbastanza fortunati da trovare della selvaggina per noi.»
«Allora vediamo di sbrigarci. La tua compagnia mi ripugna.»
«Occhio che potrei offendermi, sai?»
Stavolta Meliandra non si degnò di dargli una risposta, preferendo tornare a dedicarsi al manoscritto. Stranamente, aprirlo si era rivelato facile ed innocuo, per cui, o il sigillo protettivo che impediva allo scritto di essere danneggiato aveva riconosciuto in lei una dei Custodi del dono d’addio, o le informazioni contenute nel libro erano accessibili a chiunque.
La prima cosa che aveva notato, era che esso era diviso in due parti. La prima era stata vergata in una forma arcaica della lingua comune sia ad Ansha che ad Ader, ed anche dopo mille anni era facilmente traducibile, ma per la seconda era stata usata la Enme Balsi, la “lingua arcana”, antica di quasi tre millenni; la stessa con cui venivano recitati gli incantesimi.
Le sfuggì un sospiro disperato: se le formule magiche venivano imparate a memoria un motivo c’era. La “lingua arcana”, infatti, era composta da decine di alfabeti, differenti eppure strettamente connessi tra loro. Molti caratteri si scrivevano allo stesso modo ma avevano suoni diversi, o avevano un’identica pronuncia ma significati totalmente opposti. Le variabili in gioco erano tali e tante che parlarla fluentemente era quasi impossibile. Certo, tradurre le parole della Ballata sarebbe stato più facile, tuttavia rimaneva un’impresa titanica, che avrebbe richiesto molto tempo.
«Siamo arrivati» disse Farin, facendola sobbalzare. Era incredibile quanto fosse sfacciato quel ragazzo, per avere ancora l’ardire di rivolgerle la parola.
Con un gesto stizzito scese da cavallo e condusse la povera bestia verso una zona ricca di piante commestibili, lasciandola a rifocillarsi.
La cavalcatura di Farin, invece, fu meno fortunata. Forse a causa del peso dell’equipaggiamento del mercenario, stramazzò improvvisamente al suolo, rischiando di schiacciare il mago sotto il proprio peso. Imprecando, il giovane saltò giù dall’animale un istante prima che questo si abbattesse su di lui, salvandosi per un soffio.
Guardando contrariato il destriero, si abbassò su di esso e ne fissò le pupille dilatate, ne auscultò il battito cardiaco e ne esaminò la respirazione, debole e rasposa. Nonostante l’astio che provava verso di lui, Meliandra non poté che apprezzare le attenzioni che Farin dedicava alla bestia sfinita. Improvvisamente, però, il ragazzo sguainò un lungo pugnale e lo conficcò alla base del cranio dell’animale, ruotandolo per spezzare le vertebre cervicali. I muscoli del cavallo si tesero per lo spasmo della morte, poi giacque immobile.
Aveva appena estratto l’arma dal cadavere, che un maglio d’aria lo investì in pieno, scaraventandolo contro un albero. La vista gli si annebbiò per la violenza dell’impatto.
«Ma che diavolo…» mugugnò tastandosi il capo.
«Oh, allora lo senti il dolore. Cominciavo a pensare che non fossi in grado di provare neppure quello» sussurrò Meliandra, il volto contratto in una smorfia rabbiosa.
«Che ti prende, si può sapere?» ringhiò lui, rialzandosi e avanzando minaccioso in direzione della maga, che, per nulla impensierita e sicura delle proprie possibilità, gli lanciò contro una breve scarica di saette magiche, che si abbatterono, innocue, su una barriera semitrasparente prontamente evocata dallo spadaccino.
Poi Farin, stanco di stare in difesa, puntò due dita verso di lei e mormorò la stessa formula appena utilizzata dalla ragazza, generando però una potenza enormemente superiore, e una folgore colossale puntò su Meliandra, che, tuttavia, non si lasciò intimorire e, deviando una corrente d’aria, intercetto il colpo, deviandone la traiettoria in modo che l’energia si scaricasse in alto. Un sorriso compiaciuto le increspò le labbra delicate.
«Che hai da ridere?» chiese il suo avversario, la bocca ad un soffio dal suo viso. Meliandra sbiancò, maledicendo mentalmente la propria distrazione, che aveva permesso al mercenario di avvicinarsi.
Provò ad arretrare di un passo, per avere il tempo e lo spazio per contrattaccare, ma Farin non glielo permise.
Muovendo rapidamente la mano, la afferrò per la gola, la sollevò da terra senza sforzo e la sbatté al suolo, piazzandosi su di lei a cavalcioni e bloccandole le braccia. La sentì tremare. Ora si che avrebbe avuto paura, ora si che l’avrebbe odiato.
«L-lasciami» balbettò, conscia del pericolo che correva. Quel ragazzo avrebbe potuto farle qualsiasi cosa.
«Perché dovrei? Tu hai appena tentato di uccidermi.»
«Non a-avevo intenzione di ucciderti. Ero arrabbiata e…e volevo…» deglutì, «darti una lezione.»
Farin ridusse gli occhi a due fessure, nere e crudeli «Capisco. Tu volevi dare una lezione a me» rise, con una voce così gelida che la principessa ebbe l’impressione di sentire la temperatura abbassarsi. «E se invece fossi io a dare una lezione a te?» La mano del mercenario scivolò languidamente lungo la gamba esile della ragazza, solleticandone la pelle liscia e giovane, e risalì lentamente sino al suo seno prosperoso, stringendolo in una morsa dolorosa.
Ormai Meliandra piangeva, terrorizzata dalla propria sorte. Che cosa aveva fatto per meritare una punizione del genere?
«Ti prego, perdonami» singhiozzò la maga, tossendo, «non farò più nulla, te lo giuro.»
Ghignando come un demone, il giovane depose un piccolo bacio sul collo della principessa, per poi sussurrarle: «La prossima volta che fai una cosa del genere, non credere di potertela cavare con così poco» ciò detto, la lasciò andare, avviandosi verso un largo spiazzo erboso dove sarebbe stato facile accamparsi.
Il suo cuore sembrò spezzarsi in due quando sentì Meliandra rannicchiarsi su se stessa e scoppiare in un pianto folle, costellato da gemiti e sconnesse frasi di scuse. Il non poterla consolare fu una tortura che accolse quasi con piacere. Sapeva che, in quel momento, lei vedeva in lui ciò che lui aveva visto negli uomini che avevano attaccato, anni prima, il suo villaggio: un mostro.
È per il suo bene. È per il suo bene.Si ripeté come un mantra, sperando di convincersi.
Mordendosi a sangue le labbra, si dedicò alla creazione di un fuoco. Depose in cerchio delle pietre per delimitarne i contorni, raccolse degli arbusti e li accumulò in una pila ordinata. Aveva l’acciarino nella sacca da viaggio, ma non aveva alcuna voglia di andarlo a prendere, quindi si limitò a creare una vampa con la magia, con la quale accese il falò. Le fiamme attecchirono immediatamente, rischiarando l’imminente tenebra notturna.
Meliandra era ancora lì dove l’aveva lasciata, intenta a fissarsi con sguardo vacuo i lividi scuri che le erano comparsi sui polsi. La chiamò, ordinandole di raggiungerlo.
La maga tremò al suono della sua voce, e lo fissò con apprensione. Nei suoi spaventati occhi blu, Farin lesse che avrebbe preferito affrontare il gelo della notte piuttosto che avvicinarsi nuovamente a lui, ma che aveva paura di contrariarlo. A quanto pareva lo spettacolino inscenato dal mercenario aveva avuto effetto.
In ogni caso, seppur esitante, la fanciulla mosse i primi passi in direzione del mercenario. Mettere un piede davanti l’altro fu la cosa più difficile che avesse mai fatto. Come aveva potuto essere così sciocca da attaccare Farin? Per quanto potesse essere abile nella magia, non aveva alcuna esperienza di combattimento reale, mentre il ragazzo non aveva fatto altro per anni. Era scontato che non sarebbe riuscita a batterlo, anzi, era già di per se un miracolo che fosse ancora viva.
Cosa ne sarà di me?Si chiese.
Quando si fu seduta vicino al fuoco, nel punto più distante dallo spadaccino, il giovane si alzò e, sguainando nuovamente il coltello, si avvicinò al corpo del cavallo.
Senza esitazioni, cominciò a macellare la bestia. Si concentrò sui quarti posteriori, lacerando la pelle e i muscoli della carcassa sino a ricavarne cinque o sei fette di medie dimensioni.
Se avessi una sacca di sale potrei conservarne un po’, ma l’ho lasciata a Zavren. Pensò contrariato. Ma in fondo, cosa importava: poteva benissimo cacciare, se necessario.
Raccogliendo le rozze bistecche, tornò indietro, afferrò una roccia piatta e si diresse al ruscello. Sciacquò la pietra e si lavò le mani dal sangue del destriero, dopo di che tornò indietro. Prese la roccia e la adagiò tra le fiamme scoppiettanti del falò. Quando fu rossa per il calore, vi pose sopra due delle fette.
Pur senza condimento, l’odore che si levò solleticò l’olfatto di Meliandra, che solo allora si rese conto che erano circa quattordici ore che, immersi nella fuga, non toccavano cibo. lo stomaco le brontolò rumorosamente. Imbarazzata, si portò le mani al ventre. In quello stesso istante, la punta di un coltello entrò nel suo campo visivo, gelandole il sangue nelle vene. Ci mise alcuni secondi a realizzare che alla base dell’arma era infilzata della carne.
Volse titubante lo sguardo verso Farin, che frattanto aveva addentato la sua cena come un lupo famelico, strappando senza troppi complimenti ampi brani della bistecca.
Solo a metà dell’opera si rese conto che la ragazza non accennava ad afferrare il proprio pasto. «Ti muovi o devo rimanere col braccio alzato per tutta la notte?» chiese stizzito, e Meliandra, temendo una sua reazione, si affrettò ad afferrare la carne. Non era abituata a mangiare senza posate, ma quanto poteva essere difficile?
Spalancò la bocca il più possibile e affondò i piccoli denti candidi nella carne fumante, tirando con tutta la propria forza per lacerarne le robuste fibre muscolari. Era quasi insapore, ma non aveva importanza.
Mangiarono in un silenzio così assoluto da essere irreale, rotto solo dal crepitare del fuoco e dallo stormire delle fronde, mosse da un vento leggero ma freddo.
Assonnata, la principessa si rannicchiò su se stessa, cercando in tutti i modi di non dare le spalle a Farin. La sua mente tornò inconsciamente alla sua vita a palazzo, quando, da piccola, in notti come quella, sgambettava a piedi nudi sino in camera di sua madre e suo padre, pregandoli di dormire con loro. Ricordava con immenso affetto la donna che, fingendosi contrariata, le lasciava un po’ di spazio al centro del grande letto a baldacchino per attirarla in trappola, mentre il re faceva del proprio meglio per non ridere. Era divertente quando la regina scattava come un serpente, trascinandola nelle coltri e stritolandola in un abbraccio leonino. Anche a distanza di anni, il calore di quel semplice contatto era uno dei momenti più belli della sua infanzia. Le sfuggì un singhiozzo al pensiero della sua situazione attuale. Quel tempo felice le sembrava così vicino, eppure terribilmente lontano, come se lo stesse osservando attraverso una lastra di vetro.
Chiuse gli occhi, tentando di addormentarsi: le avevano detto che il sonno era il miglior alleato contro i pensieri cupi. Era il momento per scoprirlo.
Rilassò la mente con un esercizio di respirazione e regolò il respiro, avvicinandosi sempre più all’incoscienza. Stava per assopirsi quando, incurante del suo torpore, Farin si alzò e si diresse verso un boschetto adiacente all’accampamento.
La maga strinse i pugni in un impeto di rabbia. Quel ragazzo non voleva concederle neppure una notte pacifica? Per un istante, l’odio tornò a farsi sentire, e soverchiò la paura, permettendole di mormorare un ben poco elegante: «Bastardo» sottovoce. Lei stessa si sorprese di cosa quel ragazzo le scatenasse nel cuore, ma, semplicemente, era l’esistenza di una persona tanto egoista e spietata a risultarle assurda.
«Nessuno dei due termini è corretto per quel ragazzo» disse una voce femminile nella sua mente. Meliandra sobbalzò: non poteva essere lei. Non dopo tutti quegli anni.
«Il tempo è relativo per uno spirito. Tu più di tutti dovresti saperlo, principessa. Tuttavia sono felice di rivederti, se così si può dire.»
Le labbra della ragazza si tesero in un sorriso felice. Quella voce, che aveva udito per la prima volta da piccola, qualunque cosa fosse l’aveva guidata agli inizi della sua istruzione magica, offrendole consiglio, aiuto e supporto morale. Era lei ad averle insegnato ad usare Kahali. Poi, improvvisamente, era svanita, rimanendo muta fino ad allora.
«Perché sei tornata a parlarmi? Non l’hai più fatto da allora.»
La sua interlocutrice invisibile rise, e la gemma di Kahali brillò, creando una sorta di cupola opaca intorno alla maga. Da essa, con quieta lentezza, cominciarono a cadere, come candidi fiocchi di neve, delle minuscole schegge di luce, che, sospinti da una brezza leggera, vorticarono, fondendosi nella figura di una donna d’indicibile grazia e bellezza. Anche se non poteva vederne i tratti del viso, Meliandra sapeva che stava sorridendo.
Lo spirito tese la propria mano splendente verso la principessa, sfiorandole la guancia delicata con dita impalpabili.
«Non ti ho più parlato perché non ce n’era bisogno. Eri in grado di fare da sola ciò che andava fatto, e così doveva essere. Ora devi adempiere al tuo destino, per quanto difficile possa sembrarti il tuo compito.»
Il suo tono di voce era dolce, ma fermo.
Meliandra, però, sospirò, mentre un singhiozzo affranto sfuggiva al contegno che stava cercando di mantenere «Non credo di esserne in grado.»
«Perché dici questo?»
«Provo troppo odio, e ho paura. Farin è un mostro. Non ha rispetto per la vita, e non prova alcun rimorso per ciò che fa.»
«Meliandra» la redarguì severamente lo spirito di Kahali, «tu sei portatrice dell’Occhio, come puoi fermarti alle mere apparenze? Hai mai pensato di usare il tuo potere per scoprire se l’Erede è davvero il demone che tu dici essere?»
La maga chinò vergognosamente il capo, dicendo che no, non l’aveva fatto.
«Va da lui, e almeno in parte scoprirai quello che devi sapere.» La giovane maga impallidì. «N-non posso. Se se ne accorgesse, mi ucciderebbe, o peggio. H-ho paura.»
Allora l’apparizione assunse l’espressione di una madre amorevole, la abbracciò e le poggiò le mani sul cuore. Un piacevole tepore la avvolse, chetando i suoi dubbi, rasserenando la sua anima confusa.
«Non corri alcun pericolo, te lo garantisco.» E Meliandra le credette, perché in quella voce non poteva esservi alcuna menzogna. «Ora va. Pregherò perché la fortuna possa sempre arriderti.»
La luce di Kahali diminuì sino a scemare, lasciandola sola nella radura.
Rincuorata, si diresse nel bosco, seguendo la sottile scia lasciata dal potere magico di Farin. Di norma non sarebbe stato possibile, perché la traccia energetica di un mago svaniva molto rapidamente, e si confondeva facilmente con le forze della natura, ma Farin possedeva una quantità di energia così elevata da essere chiaramente percettibile, se si prestava la dovuta attenzione.
Prendendo un profondo respiro, come se si stesse per tuffare in un lago ghiacciato, mosse il primo passo. Se fosse stata una fanciulla come le altre, le tenebre, che giocavano con le ombre di piante e rocce, creando mostri spaventosi dalle fauci spalancate, e i mille sussurri della foresta, che orecchie profane udirebbero come urla, gemiti e pianti, l’avrebbero terrorizzata. Ma lei era una maga, e per quanto, nonostante i tentativi di svariati maestri di scherma, l’arte della spada rimanesse per lei un mistero, c’erano ben pochi aspetti della natura che le erano ignoti.
Ad un tratto, in lontananza, le giunse lo smorzato scrosciare di una cascata, accompagnato da una potente onda d’energia. L’istinto la spinse a correre in quella direzione.
Man mano che si avvicinava, il suono sommesso che aveva udito si tramutava in un frastuono assordante, tanto forte da riverberarle dentro come una cupa vibrazione.
Superò un albero abbattuto, fissandolo contrariata: il tronco era stato tagliato da un oggetto così affilato da tranciarlo in due con un unico colpo, lasciando un ceppo più liscio del vetro. Solo Veheza era in grado di fare una cosa del genere.
Proseguendo s’imbatté in molti altri alberi. Molti erano come il primo, recisi dalla spada del mercenario. Altri, invece, sembravano essere stati colpiti da un oggetto piccolo e compatto, capace di generare una grande potenza distruttiva.
Esaminandoli meglio, lungo il bordo frastagliato della corteccia scorse tracce di un liquido rosso scuro ancora fresco.
Sangue. Non era possibile. Per quanto fosse forte, era impossibile che un essere umano potesse spezzare un tronco di legno a mani nude. Che cos’era quel ragazzo?
Scosse il capo. Non era il momento di pensare a cose del genere.
Tornò a concentrarsi sulla scia di Farin, e riprese a camminare. Improvvisamente, Kahali si scaldò sino ad arderle contro il palmo, quasi volesse incitarla a sbrigarsi. Accelerò il passo.
Finalmente scorse la cascata, e quando arrivò sul posto, si bloccò, seminascosta da un cespuglio. La scena cui assistette le sembrò frutto del tocco di un abilissimo pittore.
La cascata precipitava dal cielo come una freccia azzurra, e impattava contro la superficie di un limpido laghetto. La potenza del getto sollevava morbide volute che, alla pallida luce della luna, riluceva come una nube di gemme impalpabili.
Farin era lì, immerso fino alla cintola nell’acqua, la schiena appoggiata ad una roccia affiorante. Volgeva lo sguardo alle stelle, silenziose e fredde testimoni del suo dolore. Veheza era conficcata sulla riva, a breve distanza da dove si trovava lo spadaccino. La lama brillava di un lieve bagliore argenteo.
Una lacrima solitaria, carica di mille urla trattenute e di mille pianti mai sfogati, sfuggì alla ferrea presa dell’autocontrollo del giovane, scivolandogli lungo il mento.
Con dita tremanti, infilò una mano nella casacca e sollevò un ciondolo, portandoselo alle labbra come fosse la più sacra delle reliquie.
«Perdonami» mormorò, e Meliandra, istintivamente, seppe che mai persona fu più sincera.
Se prima di quel momento non aveva mai avuto la tentazione di farlo, ora, per la maga, scrutare l’anima del ragazzo era diventato un bisogno quasi vitale, che nasceva dalla parte più intima di lei. Doveva sapere la verità.
«Destati, o Veggente, e mostrami ciò che i miei occhi indegni non possono scorgere» sussurrò sommessamente, le labbra quasi aderenti all’anello per non farsi udire dal mercenario.
Rimase folgorata. Inizialmente aveva evitato di usare il suo potere su di lui per via della rigida educazione impartitale – prima regola del buon mago, le ripeteva sempre il suo maestro, mai abusare del proprio potere -, poi, conosciutolo meglio, non l’aveva fatto perché credeva che l’aura di Farin altro non fosse che un disgustoso ammasso di odio ed egoismo, ma solo ora si rendeva conto di quanto superficiale fosse stata a giudicare una persona in base a pochi giorni di conoscenza.
L’anima del ragazzo era meravigliosa. Brillava come il sole di mezzogiorno, emettendo una luce calda e struggente, di un bianco candido e puro.
Quel candore perfetto era però velato e inquinato da ogni genere di emozione.
Tra le splendenti vampe di quella meravigliosa gentilezza ardeva, cupa, una fiamma blu scuro di profondo dolore, e una violenta vena rosso sangue di rabbia e odio gli scorreva nelle vene. Una solitudine grigio plumbeo gli sormontava il capo. Nel nucleo più profondo dello spirito del giovane, ribollivano desiderio di vendetta, paura – si, anche quella – e senso di colpa.
Tutto in lui chiedeva disperatamente e a gran voce aiuto, eppure al contempo lo aborriva, come se riceverlo lo avrebbe portato alla rovina.
Smise di scatto di usare il proprio potere. D’un tratto si sentiva gretta e meschina, sporca, per aver detto tali cattiverie su Farin senza nemmeno provare a chiedersi la ragione delle sue azioni.
Finalmente tutti gli sguardi del mercenario le apparivano sotto una nuova luce: non indifferenti, ma vuoti; non illuminati di sadico divertimento nel contemplare la morte, ma colmi di pena e pietà.
Sono stata un’idiota. Che vergogna.
Tornò mestamente al campo, trovando il fuoco ormai spento, ridotto a tizzoni fumanti. Era stata via più di quanto avesse creduto.
Con decisi movimenti di un bastone riattizzò le ceneri, gettandovi sopra altra legna. Voleva che la fiamma fosse alta e calda per quando Farin fosse tornato.
Ci vollero tuttavia altre due ore di attesa, prima che il ragazzo si decidesse ad abbandonare il suo eremitaggio.
Credendola addormentata, il mago le aggiustò la coperta sulle spalle e si distese un po’ più in là, usando la sacca da viaggio come un cuscino.
«Perché hai ucciso quei soldati, alla biblioteca?» gli chiese improvvisamente la principessa. Farin dovette fare uno sforzo enorme per tramutare la propria espressione stupita in una smorfia seccata «Credevo di avertelo già spiegato. Mi sbarravano il passo, quindi li ho eliminati.»
«Voglio sapere la verità» disse lei, una tranquillità assoluta nei limpidi occhi blu. Il mercenario trasalì quando percepì la determinazione che traspariva dalla sua voce. Che lo avesse smascherato? No, era impossibile. Doveva solo mentire in modo più convincente.
«Te l’ho appena detta» ringhiò.
«La verità, Farin, non pietose bugie»
A quel punto il ragazzo capì che non sarebbe riuscito in alcun modo ad ingannarla. Emise un lungo sospiro. Perché doveva rendergli le cose così difficili?
«Sulle guardie di Fresa viene posto un sigillo che le obbliga a combattere fino alla morte, indipendentemente dalla quantità e dalla gravità delle ferite riportate.»
«Ma perché non hai usato un incantesimo paralizzante? Mi dicesti che non ci avevi pensato, ma è davvero così?»
Lo spadaccino scosse la testa «Non li so usare.»
«Cosa?» sbottò stupefatta. Era assurdo: quelle magie erano tra le più facili che esistessero.
«Te lo dissi prima di entrare nella biblioteca, ricordi? A causa del mio enorme potere magico non posso utilizzare nessuna tecnica che richieda un’elevata capacità di controllo. Eccelgo in attacco e in difesa, ma l’arte della guarigione e gli incantesimi di arresto mi sono preclusi. Il mio limite sono le illusioni di poco conto.»
La maga lo guardò allibita «Potevi lasciar combattere me.»
Farin le scoccò un’occhiata scettica «Ci siamo scontrati con quasi trenta uomini, e gli incantesimo di arresto, se non sono sigilli, richiedono un costante afflusso di energia. Hai una riserva di potere abbastanza grande da reggere un simile sforzo?»
La maga boccheggiò, poi chinò il capo, scuotendolo.
Il mercenario annuì «Appunto.»
«E hai ucciso il cavallo perché non avevi altra scelta?» domandò la fanciulla, strappandogli un sommesso “si”. Non era stato difficile capirlo. Anche lei, nel momento in cui il suo cuore si era liberato dalla rabbia, si era resa conto che l’animale era troppo stanco per riprendersi. Quello del ragazzo non era stato un gesto crudele, ma un atto di pietà. «Capisco» sussurrò, «in tal caso ti perdono e ti chiedo scusa per le mie parole. Non ho riflettuto prima di aggredirti.»
«Toglimi una curiosità: come hai scoperto che mentivo?» Doveva sapere cosa lo aveva tradito, così da non ripetere l’errore in futuro. La maga, però, si strinse nelle spalle, in evidente imbarazzo «Ho scrutato la tua anima con Kahali.» Non osò aggiungere ulteriori dettagli. Ciò che aveva visto ancora le bruciava nella mente con l’intensità di un incendio.
Farin, dal canto suo, cercava disperatamente di placare i propri timori. Che cosa avrà visto? Il mio passato? No, non credo ne abbia il potere. Però di sicuro non riuscirò ad ingannarla nuovamente. Devo trovare un altro modo per allontanarla da me, ma quale? E se la violentassi per davvero? No, ma che diavolo mi salta in mente…ah, dannazione!
Con quell’andazzo gli sarebbe esploso il cervello. Avrebbe deciso il da farsi il giorno dopo, sperando che la notte gli portasse consiglio.
Sotto lo sguardo divertito della principessa, il ragazzo borbottò qualcosa, si tirò il mantello sopra la testa e chiuse gli occhi. Poi Meliandra parlò nuovamente «Sai» sussurrò, «non dovresti fingere di essere quello che non sei.»
«E’ qui che ti sbagli» borbottò lui in risposta, «io sono per davvero un mostro. Solo che tu ancora non te ne rendi conto.»
E detto questo si voltò, chiaro segno che la loro conversazione, per quella sera, poteva dirsi conclusa.
Meliandra non insistette, ma giurò a se stessa che, prima che quella storia fosse finita, avrebbe dimostrato a Farin che si sbagliava. A qualunque costo.




Allora gente, come va la vita? Si lo so, sono in rutardo apocalittico, ma ormai è la norma. Lo sapete.
Spero che anche questo capitolo vi sia piaciuto. Avrei voluto dedicare un pò più spazio al diverbio tra Farin e Meliandra, ma se l'avessi fatto mi sarei incasinato da solo la sequenza temporale, quindi ho preferito evitare.
Vorrei approfittare di questa occasione per ringraziare tutti quello che recensiscono, chi ha messo la storia tra le preferite e chi l'ha messa tra le seguite. Ringrazio anche chi legge soltanto, e se per caso aveste coglia di lasciare un commentino, positivo o negativo che sia, male non mi fate.
Sayonara.

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Capitolo 11
*** La ballata del dragone ***


                                                                           La ballata del dragone

                                                                                                           
                                                                                                               Regno di Ansha. Pianura di Bagret. Anno 1859
Le fiamme ardono alte, riducendo in cenere tutto ciò che incontrano senza pietà, senza tregua. L’aria è così densa di fumo e polvere da azzerare la visibilità.
Farin cammina tra i vicoli in preda alla fame vorace del fuoco, i pugni così serrati che le unghie gli lacerano la pelle dei palmi, facendo sgorgare calde gocce di sangue che sfrigolavano nell’aria, prima di toccare terra. Il calore non gli da fastidio. Ha visto tante volte quella scena, e sa che non gli accadrà nulla. Non al se stesso attuale, almeno.
Una casa scricchiola e crolla. La guarda con mestizia: ci aveva mangiato lì, una volta, quando il mondo sapeva ancora di luce e non di ferro insanguinato e terra morta.
Volge lo sguardo verso la strada principale. Ancora poco e arriverà, ancora poco e quel periodico supplizio avrà fine. Calde lacrime gli scendono lungo le guance pallide, e lui le lascia scorrere liberamente, senza fare nulla per fermarle.
Può piangere, lì, dove nessuno può vederlo.
Singhiozza. Era arrivato. I capelli sporchi, il viso annerito e una spada inutile, troppo lunga, troppo pesante. Urla in cerca della madre. Dove vai piccolo sciocco? Mamma non c’è più.
Ma il bambino non lo sente, non può, e quando il demone nero – non sa il suo nome; non l’ha mai saputo – sbuca dalle fiamme, resta immobile, in attesa di una morte che non arriverà.
L’ira prende il sopravvento nel suo cuore quando la palla di fuoco vola verso il bambino che era stato. L’incantesimo è lento, goffo e debole. Il guerriero che è adesso potrebbe schivarla ad occhi chiusi, ma il bambino che era stato no.
Farin distoglie lo sguardo e si prepara. Sa come andrà a finire, e sa anche che non potrà fare nulla per evitarlo. Di li a pochi istanti, la luce lo avvolgerà, conducendolo verso una salvezza che non vuole, che non merita, e che gli procurerà solo altro dolore. Farin lo sa, perché ha già rivissuto quel momento centinaia di volte, e sa che tra poco si sveglierà e si ritroverà solo, come sempre.

I cupi, freddi occhi smeraldini di Farin si spalancarono così velocemente da fargli male. Fu solo grazie ad una forza di volontà consolidata nel tempo che non urlò. Ancora quel maledetto sogno.
Contrariato, si asciugò le lacrime dal viso e gettò un’occhiata al cielo, trovando il sole già alto.
Il fuoco era ridotto in braci fumanti, che il ragazzo spense ricoprendole di terra. Si alzò in piedi e si stiracchiò, sentendo le ossa della schiena gemere dopo la notte passata all’addiaccio.
Infilatosi una mano sotto la casacca, prese il suo ciondolo d’argento e lo aprì, deponendo un lieve bacio sul ritratto in esso contenuto. «Buongiorno» disse con straziata dolcezza; poi riassunse l’aria corrucciata che lo caratterizzava: la principessa non era dove l’aveva lasciata. Dove diavolo è andata? Ringhiò. Le sue cose erano ancora al bivacco, ordinatamente sistemate accanto ad una roccia, quindi non poteva essersi allontanata di molto. Esaminò il suolo in cerca di tracce, ma il terreno era troppo solido e la ragazzina troppo leggera perché potesse averne lasciate.
Tracciò un cerchio a mezz’aria con l’indice, cercando di usare un incantesimo di ricerca, tuttavia impresse troppa potenza alla formula, spezzandone l’equilibrio.
«Dannazione!» sibilò contro se stesso e la propria incapacità di controllarsi.
Prese un profondo respiro e stava per chiamarla a gran voce, quando, sulla minuscola altura che sovrastava il campo, scorse una macchiolina nera che si alzava e si abbassava ritmicamente.
Il mercenario sbuffò: che diavolo era andata a fare quella mocciosa lassù?
Irritato, imboccò un sentiero che costeggiava lo sperone roccioso e la raggiunse.
La fanciulla gli dava le spalle, ed era intenta a genuflettersi dinanzi ad una statuetta infissa nel terreno. Raffigurava una donna d’indicibile grazia, vestita solo si una semplice tunica. Il viso era sorridente, e le braccia erano spalancate, come a voler abbracciare il mondo intero.
Farin la riconobbe al primo sguardo: era Ailen, la dea della luna e della pace, protettrice delle vergini, delle donne gravide e degli infermi, una della quattro divinità ancestrali.
Dunque la principessa era una sua fedele, constatò con una punta d’astio.
Calpestò di proposito un rametto secco, in modo da palesare la propria presenza, ma la maga, assorta com’era nelle sue ferventi preghiere, non lo udì.
Il mercenario valutò l’idea di interromperla in modo più brusco, poi, però, decise di permetterle di prendersi quel piccolo momento di sfogo. L’esperienza gli suggeriva che il peggio di quell’avventura doveva ancora venire.
Si sedette a gambe incrociate e attese, godendosi, suo malgrado, il basso e delicato mormorio della voce della principessa. Le parole di amore e speranza che pronunciava, però, gli erano amare come fiele, l’ombra splendente e lontana di una felicità che non avrebbe mai potuto stringere nelle proprie mani, e che ciononostante gli appariva continuamente innanzi, come a provocarlo, a sfidarlo a cercare altro dolore. Come se in vita sua non ne avesse già provato abbastanza.
«Hai finito?» chiese, approfittando della prima pausa che la fanciulla si concesse. Lei si voltò di scatto, divenne rossa come un pomodoro e, rapida, nascose la statuetta di Ailen sotto la veste, fissandolo in inspiegabile imbarazzo. Quando lui si alzò, chiedendole di smettere di perder tempo, lo seguì senza proferire parola. Lo aiutò persino a disfare il campo, e salì in silenzio sull’unico cavallo che era loro rimasto.
«Si può sapere che ti prende mocciosa?» sbottò dopo un po’, infastidito da quell’immotivato silenzio. Meliandra rispose con un mugugno incomprensibile, e lui le lanciò un’occhiataccia truce «Non ho sentito.»
A quel punto la principessa sollevò la testa così rapidamente da farsi dolere il collo. Aveva le guance ancora imporporate. «E’ che a-ad Ader la preghiera è un atto molto intimo, e viene eseguita in ambito strettamente privato. Neppure i parenti usano assistervi. Vederti spuntare così all’improvviso alle mie spalle mi ha, come dire, spaventata.»
Farin inarcò un candido sopracciglio, scrutandola con manifesta sufficienza. «Capisco» si limitò a dire, sforzandosi di suonare atono.
«Da voi si fa in modo diverso?» domandò, ora curiosa.
«Non ne ho idea.»
«Eh?»
«Io non prego» e nei suoi occhi brillò un lampo d’ira, come se la semplice idea di genuflettersi dinanzi a qualcuno, finanche un dio, gli risultasse indigesta. Meliandra si bloccò, basita. Da che mondo era mondo, non aveva mai sentito di nessuno che abiurasse completamente la fede negli dei. Nel suo regno, infatti, tutti, chi più, chi meno, facevano periodicamente piccole offerte per ingraziarsi il favore dei Superni.
La principessa avrebbe voluto chiedergli perché, ma era sicura che, se l’avesse fatto, Farin si sarebbe trincerato dietro un muro di ferro, perciò ingoiò la propria curiosità; sarebbe venuto il giorno in cui il mercenario le avrebbe aperto il suo cuore, ne era certa, ma ci sarebbe voluto tempo e fatica, e ora aveva cose più importanti a cui pensare: la salvezza del suo regno, ad esempio.
Dato che il cavallo di Farin era morto, dovettero condividere quello di Meliandra, che, sebbene rifocillato, faticava a reggere il peso di due persone sommato a quello dei loro bagagli. Per evitare ulteriori, scomodi decessi, il ragazzo stabilì numerose, brevi soste lungo tutto il tragitto che li avrebbe riportati a Zavren, in modo che il destriero avesse il tempo di recuperare le forze di volta in volta.
La presenza del giovane alle proprie spalle metteva la giovane in agitazione, soprattutto perché Farin, per non cadere, appoggiava languidamente la mano intorno alla sua vita, ma dato che non avevano scelta – il cavallo non gradiva il tocco delle redini del mago, quindi toccava a lei condurlo – non si lamentò, anche perché era certa che se l’avesse fatto il suo compagno di viaggio l’avrebbe abbandonata lì, in mezzo al nulla.
Tutti i suoi tentativi di fare conversazione erano miseramente falliti, dato che il ragazzo sviava con abilità ogni domanda oppure rispondeva a monosillabi, ed essere in due sulla stessa sella si era ben presto rivelato scomodo oltremisura. Alla fine, dopo poche miglia di viaggio, su viva insistenza della principessa sostituirono la sella con un mantello e presero a cavalcare a pelle.
Ad ogni sosta che fecero, la maga iniziò a esaminare la prima parte della “Ballata del dragone”, ma le pause erano brevi, e quindi riusciva a vertere solo poche righe prima di dover ripartire.
Dovette attendere la sera, quando Farin disse che si sarebbero fermati per la notte, per potersi concentrare a lungo e con la dovuta calma sul testo. Il mercenario, nel frattempo, si diede da fare per procurare loro la cena, se non altro per avere qualcosa da fare.
Aveva scelto apposta quel luogo come bivacco, perché sapeva che era vicino ad una pozza d’acqua molto frequentata, dove era sicuro di poter cacciare qualcosa di sostanzioso.
Scartò a priori l’idea di usare la magia. Trovava noioso abbattere le sue prede con un incantesimo, e inoltre, con la sua abilità nel dosare la potenza avrebbe disintegrato un bufalo, figurarsi un cervo o un cinghiale.
Sguainò Veheza e la utilizzò per tagliare, ripulire e rendere aguzzi due rami dritti e larghi quanto il suo braccio, dopo di che lasciò la spada, inutile in quella situazione, accanto a Meliandra e si incamminò.
A differenza del suolo su cui avevano dormito la notte prima, qui il terreno era morbido, umido, e le impronte degli animali erano ben visibili. Scorse i contorni netti delle orme di un giovane daino, e per un momento carezzò l’idea di inseguirlo, ma, dopo una breve riflessione, si rese conto che era inutile uccidere una creatura così grande senza essere in grado di conservarne le carni. Optò per seguire la pista di un paio di conigli.
Ne ripercorse le tracce a ritroso per un lungo tratto, senza degnare di una minima occhiata il bel paesaggio circostanze. Non riusciva a capire come certe persone potessero passare ore a contemplare un cielo stellato o un campo fiorito; potevano essere belli finche volevano, ma alla fine potevano solo mascherare quello che il mondo degli uomini era davvero: una fogna che rigurgitava sterco e sangue alla prima occasione.
Scosse il capo con violenza. Non era il momento adatto per pensare a cose del genere; era arrivato alla tana dei conigli, e doveva fare attenzione a non fare rumore.
Si acquattò alle spalle di un cespuglio, una delle lance improvvisate stretta in mano, l’altra legata saldamente sulla schiena da una striscia di stoffa, e attese. Non aveva fretta – aveva ancora molte ore di luce – ed era ovvio che la preda non gli sarebbe balzata addosso in quattro e quattr’otto. La caccia era una delle poche cose in cui aveva pazienza.
Per sicurezza saggiò la direzione del vento, ma quel giorno non tirava un filo di brezza, e quindi i conigli non avrebbero potuto percepire il suo odore.
Rimase immobile come una statua di pietra per ore, avendo cura di respirare piano, di non muoversi per non far frusciare le foglie del cespuglio. Chiuse gli occhi per percepire anche il più piccolo rumore e rinsaldò la presa sulla propria arma, per essere pronto a scagliarla.
Ben presto, però, l’attesa si prolungò oltre i tempi previsti da Farin e, visto che non voleva rimanere troppo a lungo lontano dal bivacco, decise di passare alle maniere forti.
Sigillò l’ingresso principale della tana con un masso, per impedire che le bestiole, spaventate dai suoi passi, fuggissero, dopo di che ispezionò l’area in cerca di uscite secondarie. Ne trovò tre; due le ostruì, mentre dinanzi alla terza accese un fuocherello con alcuni arbusti resinosi.
Lasciò che il fumo denso e acre si diffondesse negli intricati cunicoli della tana, prima di liberare la prima via d’uscita.
Non dovette attendere molto perché una piccola testa pelosa sbucasse dal foro sotterraneo per trovare salvezza. Farin lasciò che facesse un paio di metri e scagliò il bastone acuminato con tutta la propria forza, inchiodando l’animaletto al suolo, trafitto esattamente al centro del petto.
Il mercenario sbuffò soddisfatto, e in quel momento un secondo coniglio si diede alla fuga. Farin tirò ancora, ma la bestiola scartò di lato, evitando il dardo. La potenza del colpo fu tale che la punta di legno esplose in migliaia di schegge.
Il ragazzo alzò gli occhi al cielo: mai una volta che tutto filasse per il verso giusto. Spiccò un balzo rapidissimo, così veloce che il suo corpo sembrò solo una macchia sfuocata, e si portò al fianco del fuggiasco. La sua mano scattò come una freccia, afferrando la preda per la collottola. Quella si divincolò, folle di paura, ma la morsa del giovane era ferrea.
Per un istante, i vividi occhi smeraldini del guerriero s’incrociarono con le acquose iridi scure della creatura, e la tentazione di lasciarla libera fece capolino nella sua mente. La scacciò torcendole rapidamente il collo fino a spezzarglielo con uno schiocco secco. Aveva imparato da anni che la pietà non aiuta nessuno e non riempie lo stomaco.
Con un gesto rabbioso sguainò un pugnale dallo stivale destro e spellò i conigli, li sventrò, estraendo loro le viscere e gettandole da parte insieme alle pellicce, e li appese alla lancia superstite, in modo che, durante il tragitto di ritorno, il sangue gocciolasse via.
Terminata la sgradevole ma necessaria operazione, andò alla polla e si sciacquò le mani, tingendo l’acqua limpida di rosso carminio. Si asciugò le mani sul mantello, rabbrividendo per il freddo, e si incamminò verso il campo.
Guardò il cielo. La notte era scesa troppo in fretta, e la temperatura era bruscamente calata. Di sicuro la principessina lo stava aspettando raggomitolata nella sua coperta, maledicendolo per il suo ritardo.
S’incupì pensando a lei. Quella ragazza stava ficcanasando troppi e lui non riusciva a farla smettere. A causa di quel suo dannato anello magico non poteva neanche mentirle senza essere scoperto.
Si passò una mano tra i capelli bianchi, angosciato dalla sua attuale situazione, e sospirò.
Tornò a fissare la volta celeste, come ormai faceva da anni, e fulminò le stelle con un’occhiataccia astiosa, riversando tutto il proprio odio in una semplice domanda: «Perché?» al solito, però, non gli giunse alcuna risposta.
Improvvisamente, quando fu nei pressi del bivacco, percepì un vago sentore di fumo e l’allegro scoppiettio delle fiamme.
Curioso, allungò il passo, e quando finalmente arrivò a destinazione rimase basito nel notare la presenza di un piccolo falò.
«C-come…?» balbettò, squadrando Meliandra che, sorpresa dal suo arrivo, sollevò lo sguardo dalle pagine del manoscritto.
«Che c’è?» chiese la giovane, confusa dal suo atteggiamento titubante.
«Come hai…?» non finì la frase e indicò il fuoco. La principessa rise, comprendendo il motivo del suo sbigottimento, e si strinse nelle spalle sottili con disinvolta ilarità «Ti ho visto farlo almeno una ventina di volte e ho provato ad imitarti. Non sono stupida, anche se forse tu credi il contrario. Che te ne pare?»
Sforzandosi di recuperare un po’ della sua impassibilità, esaminò il falò. La buca era abbastanza profonda da contenere il fuoco senza assorbirne tutto il calore. In mancanza di sassi, la giovane aveva eretto un compatto muretto usando il terriccio smosso per impedire alle fiamme di eccedere. I rami secchi erano stati accatastati con cura e ordine, e un fitto sotto strato di foglie ardeva sul fondo.
Diede un paio di colpi al terriccio: era ben saldo.
«Allora? Va bene?» chiese lei, speranzosa, con gli occhi blu illuminati di una gioia di vivere pura e semplice che, per un istante, gli ricordò un’altra persona. Qualcuno il cui cuore si era fermato da tempo.
«Come hai fatto a tagliare la legna?» domandò, sperando di scacciare quei ricordi molesti.
La principessa arrossì fino alla punta dei capelli e distolse lo sguardo, improvvisamente molto affascinata dal nulla assoluto della pianura deserta. Poi lo guardò di sottecchi, come a saggiarne l’umore. Lui attese paziente. «Ho preso in prestito Veheza. Scusa» disse infine, strizzando gli occhi aspettandosi una sfuriata colossale che non arrivò. La reazione di Farin, infatti, fu piuttosto pacata: si limitò a piantare l’asta al suolo e ad esaminare la lama della spada in cerca di sporcizia o scheggiature, probabilmente dimentico delle parole della fanciulla circa l’indistruttibilità di quell’arma.
Non notando anomalie di sorta, prese due rami identici a quelli usati per fabbricare le lance e prese dalla sacca un rotolo di spago.
Sotto gli occhi interessati di Meliandra, Farin spezzò le aste in due e legò saldamente due metà in una croce le cui estremità inferiori erano molto più lunghe di quelle superiori. Replicò il processo con gli altri due pezzi di legno e li conficcò ai lati del falò, abbastanza vicino da cuocere la carne ma non tanto da rischiare di bruciare lo spago.
Terminato il lavoro, infilzò i conigli su un bastoncino lungo, sottile e aguzzo e lo incastrò sulle basi che aveva costruito.
Stanco e annoiato, si stese supino e chiuse gli occhi, godendosi il silenzio della notte e il lieve sfrigolio dei liquidi contenuti nella carne che già cominciavano ad evaporare.
Meliandra comprese che il ragazzo non era in vena di fare conversazione – quando mai lo era, in fondo – e rispettò la sua non palesata richiesta di quiete, tornando a concentrarsi sul manoscritto che le giaceva in grembo.
Da quando si erano fermati e il mercenario era andato a caccia, lei si era finalmente potuta concentrare con la dovuta cura sulla traduzione della “Ballata”, compiendo in breve tempo dei veri e propri passi da gigante.
Era una lettura avvincente, e molto interessante se considerata da un punto di vista puramente intellettuale, ma non c’era assolutamente nulla che avesse una qualche utilità per la sua situazione attuale, mentre secondo la profezia di sua madre quel libro conteneva la chiave per la salvezza del regno. Dopotutto, però, era solo alla metà della prima parte. Forse il resto le avrebbe fornito maggiori informazioni.
Per qualche strana ragione sentiva un groppo di angoscia alla bocca dello stomaco, e il marchio sul dorso della sua mano pizzicava come ad ammonirla di prestare attenzione.
Sollevò le iridi blu su Farin, chiedendosi se stesse dormendo per davvero o se avesse solo chiuso le palpebre per riposare la vista. Per puro caso, il suo sguardo si soffermò sulle candide ciglia del giovane. Non aveva mai notato quanto fossero lunghe, troppo per un ragazzo. Il pensiero che il mercenario fosse in realtà una lei la fece quasi scoppiare a ridere. Riuscì a controllarsi con grande sforzo e scosse il capo corvino: che Farin fosse una donna era impossibile – non ne aveva i tratti, la corporatura o gli atteggiamenti -, ma senza dubbio era un mistero. Non solo era un guerriero dotato di incredibile forza e abilità, ma era anche un mago di enorme potere. Un altro enigma era rappresentato dai suoi capelli. Dacché ne sapeva, solo i Sanguemisto avevano i capelli di quel colore, ma, a parte quel particolare, Farin sembrava in tutto e per tutto umano.
La principessa non riusciva neppure ad immaginare cosa si celasse nel suo passato, e non era nemmeno sicura che le sarebbe piaciuto saperlo. Ciononostante, voleva aiutarlo a liberarsi di quella tenebra che sembrava stritolargli l’anima ogni secondo di più.
Quasi in risposta a questi suoi pensieri, il giovane borbottò qualcosa e si girò su un fianco, dandole la schiena.
Con un sospiro, la giovane tornò al proprio compito. Quasi immediatamente, la lettura di quell’antico testo la riportò con la mente nelle amene sale di lettura della Biblioteca Reale di Ader, un luogo che per lei aveva rappresentato un rifugio e una seconda casa per tutti gli anni della sua infanzia; il duro terreno divenne la sua sedia di velluto preferita, gli alberi circostanti si tramutarono negli alti scaffali della sezione riservata alla magia, le sue ginocchia nel lustro tavolo di mogano laccato su cui era solita appoggiare massicce pile di libri e la fredda aria notturna si riempì del leggero profumo alla lavanda che tanto amava, e che le serve mettevano per lei nei bracieri.
Con il cuore gonfio di nostalgia, corrugò la fronte nello sforzo di richiamare alla memoria il Terzo sillabario delle rune, ricontrollò il testo e annotò mentalmente la traduzione.
In poco tempo riuscì ad avanzare di circa cinque pagine, finché non incappò in un periodo dal significato particolarmente ostico.
Uno sbadiglio ruppe la quiete quando Farin si stiracchiò, rialzandosi con la chioma bianca in assoluto disordine. Senza dire una parola, massaggiandosi la nuca, prese il pugnale e saggiò il punto di cottura della carne.
Compiaciuto, tagliò una coscia al primo coniglio e la porse alla principessa, che la afferrò distrattamente con la mano libera, mentre con l’altra picchiettava distrattamente sul bordo del manoscritto.
Staccò un piccolo morso e lo masticò lentamente. Sapeva di stare sbagliando e di aver bisogno di cibo, ma aveva lo stomaco così chiuso che la sola idea di ingoiare le dava la nausea, eppure lo fece. Dopo di che porse il tomo a Farin e gli chiese: «Secondo te che vuol dire la frase al sedicesimo rigo?»
Fulmineo, il giovane tagliò un altro arto alla bestiola e rivolse uno sguardo torvo alla maga «Cosa ti fa credere che io conosca un dialetto vecchio di oltre mille anni?»
Meliandra sbuffò; ora che sapeva che lei era in grado di scrutargli nell’animo quando voleva per capire se stava mentendo o meno avrebbe anche potuto mostrarsi più collaborativo «Madre Divina Farin, sei un mago, e una parte essenziale della formazione di un incantatore degno di questo nome è la conoscenza delle lingue, antiche e non. Ora, visto che il tuo stipendio dipende dal mio successo in quest’impresa, vuoi cortesemente degnarti di aiutarmi?» e come per sottolineare tutto il discorso, gonfiò minacciosamente le guance.
Il mercenario sgranò gli occhi in un moto di assoluto sbigottimento e spalancò la bocca. Rimase in quella posizione, paralizzato, per alcuni interminabili secondi e poi scoppiò in una risata fragorosa, così forte da fargli dolore le costole.
La principessa rimase sorpresa da quello sfogo. L’aveva già sentito ridere in precedenza – più che altro dopo averle detto qualche cattiveria – ma era un suono freddo, crudele e privo d’ilarità. Ora, invece, era l’esatto opposto, una melodia cristallina, carica di vita. L’aura del giovane pulsava come una stella nascente, spandendo bianche ondate di calore in ogni direzione.
Un sorriso spontaneo le si aprì sul volto diafano «Hai una bella risata» disse, e quelle parole ebbero il potere di pietrificare Farin. Un leggero ma diffuso rossore gli imporporò il viso e la risata gli morì in gola. Tossicchiò per recuperare almeno in parte il contegno perduto e si maledisse per non essere riuscito a contenersi. Purtroppo l’espressione che la maga aveva assunto quando l’aveva rimproverato era stata troppo buffa persino per i suoi nervi saldi.
La fissò in cagnesco, come se incenerirla con lo sguardo fosse sufficiente a cancellare l’accaduto, e le strappò il libro dalle mani.
Esaminò con cura la frase, rughe sottili gli curvarono la pelle liscia della fronte nello sforzo della concentrazione. Arricciò il naso in una smorfia perplessa «Credo significhi “forgiata dalle anime più pure del suo popolo”, ma non ho la minima idea di cosa voglia dire.»
Annuendo, Meliandra gli rivolse un sorriso radioso e si riprese la “Ballata” «Allora avevo tradotto bene» cinguettò compiaciuta.
Farin la osservò ancora per qualche istante, i gelidi occhi verdi accesi da una fiamma oscura, poi sbadigliò e si stese sul manto erboso. Per colpa del pisolino che si era concesso poco prima non aveva per nulla sonno. Valutò l’idea di mettersi a comporre, ma decise di non aver voglia di farlo; era un lavoro che richiedeva concentrazione, e lui in quel momento aveva molte cose a cui pensare.
Non avendo altro da fare, lasciò semplicemente che il tempo gli scorresse intorno, abbandonandosi ad un ozio immotivato ma piacevole. Dopo un po’ si rese conto di non essersi allenato come avrebbe dovuto nelle ultime settimane, tuttavia la cosa non lo impensierì più di tanto: grazie alla Danza del Fulmine la tecnica era spesso superflua. E dire che all’inizio pensava che fosse un potere inutile. Quanto aveva avuto torto, e quanto il suo maestro aveva avuto ragione ad insistere. Ma in fondo, si disse, quello era solo uno dei tanti anelli della lunga catena di errori cominciata con il nascere che era la sua vita. Perché curarsene?
Osservò Meliandra che, per chissà quale strana ragione, era diventata pallida come un cencio. Scorreva le pagine con furia febbrile, come se la sua vita dipendesse dall’arrivare alla fine di quelle pagine.  Il suo viso diafano era imperlato di sudore. «Che ti succede ragazzina?» le chiese, cercando di non far trapelare alcuna emozione dalla sua voce.
Tremando, la maga alzò gli occhi blu, pieni di lacrime a stento trattenute. «H-ho appena finito di tradurre la prima parte della “Ballata”. Credo di sapere perché il principe Alner ci ha  dichiarato guerra.»
Farin si fece subito attento, vigile. I muscoli di tutto il suo corpo si erano irrigiditi, e l’espressione del volto sembrava chiedere a gran voce ulteriori informazioni «Che hai scoperto?»
Lei prese un profondo respiro e gattonò fino al mercenario, piazzandoglisi al fianco, quasi in cerca di protezione.
«Si tratta di un racconto. Una specie di resoconto storico in prosa riferito ad una guerra che ebbe luogo più di mille anni fa, intorno all’anno 729. Secondo la “Ballata”, Ader e Ansha erano un unico regno, al quale erano accorpati anche i domini degli elfi, i monti dei nani e le selve degli Sha-en.»
«Per secoli, il Regno venne governato con giustizia ed equità da una stirpe di maghi illuminati, uomini di grande potere, conoscenza e pietà.»
«Probabilmente, anzi sicuramente, l’autore della “Ballata” ha esagerato con le lodi, ma non credo di essere in errore dicendo che quella fu la cosa più simile ad un’età dell’oro che questo mondo abbia mai visto.»
«Che cosa cambiò?» chiese Farin, scostandosi da lei per non dover sentire quel corpo morbido e caldo premere contro il suo.
La principessa rabbrividì «Alehor» disse, «il principe Alehor, l’ultimo discendente di quella gloriosa genia di re. Quando venne al mondo, nel Regno festeggiarono per giorni interi. Artisti, nobili e plebei di ogni razza giunsero a rendere omaggio all’erede al trono.»
«Crescendo, il piccolo sembrò incarnare in se la speranza e le aspettative del popolo. Era bello, forte, sano e intelligente. A sette anni, a detta di un’esterrefatta corte di maestri, sembrava già in grado di reggere sul proprio capo il peso della corona.»
Farin la fissò di sottecchi e, visto che continuava a tremare, le gettò il proprio mantello, in un atto di gentilezza di cui poi si sarebbe sicuramente pentito.
«Grazie» sussurrò la maga, stringendosi nel tessuto reso piacevolmente tiepido dal calore corporeo del mercenario. Il ragazzo scrollò le spalle come a dire “non importa” e la invitò a continuare il racconto con un brusco cenno del capo.
«Il bambino divenne uomo circondato dal lusso, dagli agi e da stuoli di sudditi adoranti. Diventò arrogante, a tratti persino dispotico, ma nessuno ci fece caso, imputando quei difetti alla sua giovane età. Forse, se i suoi genitori non fossero stati così accecati dall’amore, se i sudditi non fossero stati tanto obnubilati dall’ammirazione, ciò che accadde sarebbe stato impedito, ma così non fu. Ci vollero anni perché il mostro mostrasse il suo volto al mondo.»
«Col tempo sembrò sviluppare un’estrema avversione per i non umani. Licenziò tutti gli elfi e i nani del suo seguito, e cominciò a sobillare i nobili e le alte cariche religiose contro le creature magiche, fomentando e sfruttando le loro paure più profonde. Lentamente, un passo alla volta, fece promulgare una lunga serie di leggi che, oltre a limitare mostruosamente le possibilità dei non umani, aumentarono al contempo il suo potere personale. Alla fine, spossati dall’incessante persecuzione del principe, gli elfi, i nani e gli Sha-en si ritirarono nei loro regni, dove avevano ancora libertà, e tagliarono i ponti con gli umani.» Gli esili pugni della principessa si serrarono con tale forza da sbiancarle le nocche. «Volevano solo vivere in pace, ma ad Alehor non bastava. Non si limitava a disprezzare la loro presenza, era la stessa esistenza di quegli esseri a risultargli intollerabile. Quando suo padre morì in circostanze misteriose – l’autore della “Ballata” dice che probabilmente fu avvelenato dal figlio – e lui, per diritto di nascita, divenne re, il suo primo proclama fu condannare a morte ogni non umano, accusandoli di alto tradimento nei confronti della Corona.»
«E il popolo fu d’accordo?» domandò Farin, inarcando un sopracciglio con grande scetticismo.
«Ovvio che no!» sbottò lei, allargando le braccia in un gesto irato. «Si opposero fin da subito. Molti di loro avevano amici e parenti nelle altre razze, era escluso che accettassero passivamente una decisione del genere. Purtroppo per loro, però, le decisioni del re erano inappellabili, e l’esercito era tenuto ad eseguire i suoi ordini senza protestare.» Un singhiozzo strozzato le sfuggì dalle labbra. «Morirono centinaia di persone. Uomini, donne, bambini. Persino i neonati furono tacciati di tradimento e annegati nei pozzi» e improvvisamente scoppiò in lacrime, gettandosi a capofitto sul mercenario, aggrappandosi alla sua casacca. «Oh Farin, io conosco gli elfi, sono andata nelle loro terre da piccola, e sono persone meravigliose. Come ha potuto far loro una cosa del genere?» Alzò lo sguardo sul ragazzo, che la fissava, rigido come una statua di marmo. Negli occhi del mercenario balenò un lampo di dolore, forse di compassione, subito sostituito da un vuoto siderale, freddo come la sua voce: «La morte non risparmia nessuno, principessa; di certo, non chi non può difendersi. Non si possono aiutare i morti ragazzina, quindi smettila di frignare, perché con le lacrime non risolverai nulla, e concentrati sulla tua missione: salvare il tuo regno. Solo quello deve contare per te.»
Meliandra si staccò dal ragazzo come se questo fosse stato improvvisamente circondato dalle fiamme, lo guardò allibita e, senza pensarci, gli tirò uno schiaffo così forte da fargli scattare la testa di lato. Aveva il fiato grosso. «Anche se so che stai mentendo, ciò che hai detto è troppo crudele perché io possa perdonartela.»
Con un gesto fulmineo e rabbioso, il giovane la afferrò per il bavero della tunica e la tirò ad un soffio dal suo viso. La fanciulla di sentì avvampare. «Ascoltami bene» sibilò il mago, «a meno che tu non sappia resuscitare i morti, e non credo, per quella gente non puoi far nulla. L’unica cosa che ti è concessa è salvare i tuoi sudditi, e non lo farai continuando a piangerti addosso. Io ti aiuterò, sono pagato per questo, ma non posso farlo se non so qual è il pericolo da affrontare, quindi smettila di agitarti come una cavalletta impazzita e continua a raccontare.»
E fu allora che Meliandra capì che, nel suo personale, inspiegabile, contorto e assolutamente indelicato modo di fare, Farin stava cercando di consolarla. Non con parole dolci o con stucchevoli carezze, né con ipocrite frasi fatte, bensì mettendola di fronte alla realtà. Prese un profondo respiro. «Come dicevo: le condanne a morte non solo seminarono lo scontento tra la popolazione umana, ma scatenò anche le ire dei sovrani magici. Essi dichiararono guerra al Regno, e Alehor fu ben lieto di accettare la sfida. La superiorità numerica del suo esercito schiacciò le fila nemiche come colonne d’insetti. Fu uno scempio orripilante; la terra si tinse letteralmente di rosso, così come l’acqua dei fiumi. Ad Alehor, però, neppure questa vittoria bastò. Istituì una vera e propria rete di spie e assassini a lui devoti sino alla morte che presto si tramutò in una vera e propria setta d’invasati.»
«In meno di un mese l’esercito dei non umani venne decimato, e i regnanti delle varie razze, più un gruppo di umani che si erano ribellati al re, si riunirono per decidere il da farsi.»
«Resileria, l’allora regina degli elfi, folle di dolore per la morte del suo consorte, avvenuta per mano degli assassini di Alehor, propose un attacco frontale al palazzo reale, nella speranza di catturare il re ed ucciderlo, ma persino gli Sha-en, che per natura sono una razza bellicosa, si dimostrarono scettici sull’effettiva efficacia di un piano del genere. I nani proposero di sorprenderli alle spalle grazie ad un tunnel sotterraneo, ma si resero presto conto che far passare un intero esercito sotto terra sarebbe stata un’impresa titanica, inattuabile.»
«E quindi cosa fecero?»
«Alla fine furono le ninfe ad ideare un piano. Un piano che era al contempo geniale ed assolutamente folle.»
«Ovvero?»
«Decisero di chiedere aiuto ai draghi»
Farin esplose in una risata «Decisero di chiedere aiuto a dei giganteschi lucertoloni sputafuoco?»
«Sembra strano, lo so, ma a quanto pare i draghi erano intelligenti, saggi e potenti oltre ogni dire. Con il loro appoggio le ninfe erano sicure di poter garantire la sopravvivenza dei non umani.»
«E come pensavano di convincerli?» chiese dubbioso il mercenario.
«Con la logica. Te l’ho detto, i draghi erano intelligenti. Le ninfe contavano sul fatto che avrebbero compreso l’entità del pericolo imminente e agito di conseguenza.»
«C’era però un problema: i draghi vivevano sui monti Valentine, nell’estremo Est del Regno. Un’ambasciata completa avrebbe impiegato mesi a giungere sul luogo, senza contare che non sarebbe mai riuscita a passare inosservata. Per questo motivo scelsero di inviare un unico messo, Lena, la principessa delle ninfe, una giovane ma potente maga, di grande acume e incredibile bellezza.»
«Lena partì quella notte stessa, e cavalcò a rotta di collo finché il suo destriero non fu troppo stanco per continuare. Allora si fermò in una radura per farlo riposare. Quando si addormentò, fu aggredita da una banda di briganti.»
«La sua magia era potente, ma, colta di sorpresa, poté fare molto poco per difendersi. Provò a fuggire, però il suo cavallo venne abbattuto da un quadrello di balestra e lei fu gravemente ferita da un colpo di pugnale. Se di lì non fosse passato per puro caso un cavaliere errante, probabilmente sarebbe morta, invece sopravvisse, e il suo salvatore, Gar, decise, nonostante le vive proteste della ninfa, di seguirla nella sua missione in qualità di scorta. »
«Insieme giunsero senza ulteriori intoppi ai monti Valentine, dove i draghi, che in qualche modo sapevano già del loro arrivo, li accolsero con un tripudio di ruggiti e fiammate alte fino al cielo. Lena, sebbene terrorizzata dall’imponente mole di quelle creature, chiese e ottenne un incontro con Vaus, il capobranco, e, nonostante l’incredibile potere che quell’essere emanava, non ebbe alcuna esitazione ad esporre le richieste dei regnanti non umani.»
«Vaus ascoltò con calma ed attenzione ogni singola parola pronunciata dalla ninfa senza mai interromperla, ma quando parlò, la sua voce parve scuotere le viscere stesse del mondo.»
Farin si stiracchiò e si distese sull’erba fresca, rimanendo tuttavia rigido come un ciocco di legno secco «Hai detto “parlò”? i draghi parlavano la lingua degli uomini? E come diamine facevano?»
La fanciulla si picchiettò un lato della fronte «Comunicavano i loro pensieri direttamente nelle menti dei propri interlocutori. Era telepatia ad un livello che noi non possiamo neppure immaginare.»
«Capisco» mormorò il giovane con una smorfia aspra, «e cosa fece il bestione?»
La principessa reclinò il capo in avanti con aria affranta: chiedere un minimo di garbo e di finezza a Farin era pretendere troppo, vero? Sospirò. «Vaus non accettò. Non subito almeno. Si riservò di ponderare per qualche tempo le parole di Lena e le conseguenze di un loro intervento diretto. Frattanto, comunque, li ospitò nella sua grotta, affidando suo figlio Vasil alla loro attendenza, in modo che fossero a proprio agio – a quanto pare i draghi seguivano pressappoco le stesse norme di ospitalità dei nani.»
«Stranamente, fu Gar a sbloccare la situazione, risultando decisivo per il buon esito delle trattative. L’uomo, infatti, di buon cuore e allegro, nelle brevi settimane che trascorsero lì strinse una profonda amicizia con Vasil, e Lena, che inizialmente aveva guardato con sospetto e disgusto alla decisione del cavaliere di seguirla – le ninfe, nel caso non lo sapessi, considerano gli esseri umani ne più ne meno che bestie selvagge, rozze e impure – si sorprese spesso a sorridere nel vedere Gar giocare spensieratamente con una cucciolata o fare scherzosamente la lotta con il futuro capobranco, nonostante quest’ultimo fosse quasi dieci volte più grosso di lui.»
«Gar convinse Vasil dell’urgenza dell’intervento del suo popolo, e lui, a sua volta, fece pressioni sul padre, che infine, con la morte nel cuore al pensiero di tutte le vite che sarebbero state stroncate, accettò.»
Gli occhi blu della maga brillarono come fuoco «L’intervento dei draghi fu ancora più decisivo di quanto previsto. Arrivarono come un’immensa nube multicolore che oscurò il cielo, e rovesciarono in un istante le sorti del conflitto. Essi imperversarono tra le truppe nemiche come una tempesta di zanne, artigli e fuoco. Interi contingenti dell’esercito reale furono decimati nell’arco di poche ore, senza aver avuto alcun possibilità di vittoria, e molti altri disertarono e si diedero alla fuga dopo aver visto con quale enormità avrebbero dovuto confrontarsi.»
«Quando Alehor seppe che, dopo gli schiaccianti successi conseguiti durante le fasi iniziali del conflitto, le sue truppe erano state messe in rotta, la sua ira fu tremenda. Si dice che sterminò quasi tutta la sua corte, e buona parte degli ufficiali di alto grado dell’esercito, e che, perso nella follia, chiamò a se i migliori maghi del Regno e si inoltrò nei sotterranei del suo castello, sigillati da secoli per mezzo di potenti incantesimi. Vi rimase per giorni, mentre i suoi uomini venivano spazzati via come foglie secche, e quando ne riemerse, solo e lordo di sangue, era armato dei segreti più oscuri e delle magie più abbiette che la mente umana avesse mai concepito.»
«Con i nuovi poteri in suo possesso riuscì a riappianare la disastrosa situazione bellica in cui versava e creò un corpo di soldati scelti, potenziati dalla magia e dall’alchimia, con il solo scopo di sterminare i draghi senza alcuna pietà.»
«Secondo Dedran, l’autore della “Ballata”, gli scontri che seguirono fecero tramare di paura la terra, e, purtroppo, la situazione era destinata a peggiorare. Durante i combattimenti con questi cacciatori, lentamente, i draghi persero moltissimi elementi, finché lo stesso Vaus perì, ferito a morte da una lancia intrisa di veleno. Prima che il padre morisse, però, Vasil, ora capobranco, convocò Gar e Lena, che nel frattempo, nello stupore generale di tutte le razze, erano convolati a nozze, e creò per loro Veheza e Kahali.»
Addentando un rimasuglio di coniglio ormai freddo, Farin inarcò un candido sopracciglio «La mia spada l’ha creata un drago? E come?»
«Con la magia, ovviamente. Per Gar, che era un valente guerriero ed uno spadaccino di talento, forgiò una spada perfetta, una spada che l’avrebbe sempre protetto, e che non avrebbe temuto nulla, ne l’acciaio, ne la magia, ne il male. Una spada “forgiata con le anime più pure del suo popolo”» declamò, ripetendo la traduzione che Farin aveva fatto poco prima. Nella sua voce era possibile percepire lo stesso sconcerto che tremolava nello sguardo smeraldino del mercenario. Meliandra sapeva che il ragazzo stava riflettendo sui vari buchi logici di quella storia – era troppo intelligente per non averli notati – eppure lui, per qualche ragione che decise di non esternare, non disse nulla. Si limitò a sguainare la spada e a guardarla con curiosità, come a volerne sondare i segreti, prima di poggiarla di piatto contro la propria fronte, con un’espressione rilassata che la maga non credeva potesse apparire sul suo volto pallido. Per un istante, la lama dell’arma le sembrò sbiadire, emettendo una debole luce sui lineamenti del giovane, e il marchio sul dorso della propria mano divenne caldo.
Sorpresa, le venne in mente che, a parte qualche breve domanda personale, ne lei ne Farin si erano posti molti interrogativi su quello strano sigillo che per ben due volte aveva influenzato la loro sfera emotiva. La cosa, tuttavia, non la inquietò quanto avrebbe dovuto.
Qualcosa le sobbalzò nel petto mentre scrutava il mercenario, un sentimento che non le apparteneva, un ricordo non suo, un dolore profondo. Poi, com’era cominciata, quella strana situazione finì, e il mago si ritrovò a fissare la propria spada con un’espressione confusa.
Ringuainò l’arma e disse, con calma sorprendente: «E’ successo di nuovo, vero?» e sollevò il pugno destro, sul quale il simbolo dei “custodi” ancora sfavillava, come a sottolineare la domanda.
«Si. Sembra che di tanto in tanto i nostri marchi reagiscano l’uno all’altro. Non so perché questo avvenga. Le poche informazioni che avevo quando sono partita dal palazzo reale le avevo ottenute da un compendio rinvenuto nella biblioteca seguendo le indicazioni di mia madre.» Corrugò la fronte, preoccupata. «E’ stato spiacevole?»
Lui scosse il capo «No, ma è stato strano, come se qualcuno mi sussurrasse nella mente, anche se credo fosse solo una mia impressione. Continua col tuo racconto.»
«Come vuoi.» Ora veniva la parte peggiore. «Creati Veheza e Kahali – che, per inciso, era un anello magico forgiato dai nani che venne infuso con l’anima di Vaus, in modo da concedere a chiunque ne fosse degno la vista interiore dei draghi – Gar e Lena ricevettero da Vasil un altro dono, che Dedran chiama l’Eredità, anche se non specifica di cosa si tratti. Fatto sta che, qualsiasi cosa fosse, Alehor si sentì abbastanza minacciato da ricorrere all’utilizzo del Sigillo dei Sei.»
Farin si voltò verso di lei, incerto. Era un esperto di sigilli, ma quello gli era del tutto sconosciuto.
«E’ difficile spiegarti cosa fosse. Io stessa, malgrado le dettagliate descrizioni che fornisce il testo, ci ho messo un po’ per comprenderne lo scopo. In parole povere, serviva ad incanalare l’energia dei quattro elementi del mondo materiale – fuoco, acqua, terra e vento – e dei due pilastri del mondo spirituale – la luce e l’oscurità – e a concentrarla in un unico punto. Riesci a immaginare quale potenza potrebbe generare un sigillo del genere?»
E il mercenario comprese cosa aveva spaventato tanto la principessa. Gli venne da ridere al pensiero di tanta ingenuità «E tu credi che Alner voglia riattivare questo sigillo per usarlo per se? Andiamo ragazzina, anche ammesso di riuscire a dirigere tanto potere in una direzione specifica, quale catalizzatore sarebbe così resistente da reggere ad un simile quantitativo di energia? Sai bene quanto me che per funzionare a dovere, un sigillo deve essere in grado di contenere le forze che evoca.»
Un velo cupo oscurò gli occhi blu della maga «Alehor usò le ossa dei draghi sconfitti. I corpi di quelle creature erano saturi di magia, e possedevano una capacità catalizzante pressoché illimitata.»
Il mercenario annuì, ma c’era ancora qualcosa che non gli quadrava «Se Alehor entrò in possesso di un simile potere» disse, «come mai non siamo tutti sotto il dominio dei suoi discendenti, e perché nessuno serba alcun ricordo di questa storia? Non bastano mille anni per cancellare eventi di una tale portata.»
«Prima che riuscisse ad assorbire completamente l’energia degli elementi, Gar e Lena lo sconfissero, e fecero in modo che nessuno trasmettesse ai posteri il ricordo della guerra, così da celare l’esistenza dei catalizzatori, che vennero spostati e nascosti in luoghi sicuri.»
«Bene!» sbottò Farin. «E perché già che c’erano non li hanno anche distrutti? Ci avrebbero risparmiato un mucchio di seccature.»
«Non poterono. Alehor, prima di morire, lanciò un incantesimo che avrebbe protetto i catalizzatori per tutti i secoli a venire.»
«Quindi neppure noi saremo in grado di danneggiarli» constatò il mercenario con una punta d’ira repressa nella voce. Odiava non sapere cosa fare, e quella missione si stava rivelando molto più seccante e complessa di quanto avesse previsto il giorno in cui i messi reali gli avevano proposto l’incarico.
Meliandra, però, fece un cenno di diniego «Noi possiamo. La prima metà della “Ballata” si conclude con una specie di profezia. Recita pressappoco: “Quando colui che ha perso la luce rinascerà dalle ombre, le catene che cingono le sei vie del potere marciranno e si spezzeranno. A te che leggi queste parole, io rivolgo la mia preghiera: infrangi l’incanto, o usalo con saggezza e pietà”. Credo che, avviando le ricerche sui catalizzatori, Alner abbia in qualche maniera soddisfatto le condizioni necessarie ad annullare l’incantesimo protettivo.» Si concesse una pausa, in attesa che il mago replicasse, ma lui si limitò ad annuire con fare cupo «Trovare i catalizzatori e distruggerli. Perfetto. Come li troviamo?»
Arrossendo come un pomodoro, e sperando che il suo giovane compagno di viaggio non s’irritasse ulteriormente, la maga gli comunicò l’ultima brutta notizia «La seconda parte del manoscritto è piena di dettagli tecnici e coordinate geografiche, e credo ci fornirà tutte le indicazioni che ci occorrono, tuttavia dobbiamo prima fare un’altra cosa.»
E ti pareva Pensò Farin, incenerendola col pensiero «Sarebbe?»
«A causa degli incantesimi preparatori a cui sono state sottoposte, le ossa dei draghi usate per i catalizzatori sono sospese in una sorta di limbo tra il mondo materiale e quello spirituale. Per poterli distruggere, dobbiamo eseguire particolari riti, per i quali è necessario il sangue di un drago.»
«Cosa?!» esplose il ragazzo, digrignando i denti come un cane rabbioso. «Tu mi hai fatto sorbire un’ora intera di sproloqui storici per poi dirmi che serve il sangue di una creatura estinta da oltre mille anni? Stai cercando di farmi perdere la pazienza per caso?»
La sua rabbia era così intensa che la fanciulla fece involontariamente un passo indietro «S-so dove possiamo procurarcelo, Dedran ne fa cenno. Gar e Lena ne prelevarono un po’ dal corpo ancora caldo di Vasil, e lo consegnarono a dei sacerdoti, affinché lo proteggessero come la più sacra delle reliquie. Dobbiamo solo recarci al tempio e farcelo consegnare.»
«E questo tempio dove sarebbe?»
«In un luogo chiamato la “Valle Nera”» disse, e, incredibilmente, Farin sbiancò.



Salve gente. Ok ok, avevo detto che ci avrei messo del tempo per postare il nuovo capitolo, ma non pensavo che ce ne sarebbe voluto così tanto. In ogni caso, eccomi qui, anche se non sono molto sicuro del risultato finale. MI sembra troppo semplicistico il modo con cui ho reso la storia di Gar e Lena.
In ogni caso, questo è quello che passa il convento. Dal prossimo capitolo la storia si biforcherà, perché mi sono accorto che, a parte qualche leggera citazione, non ho mai mostrato la guerra vera e propria.
Spero di poter aggiornare più in fretta la prossima volta, ma non garantisco.
Ci terrei a ringraziare tutti quelle che leggono e che seguono, e in particolare quelle persone che sono così gentili da recensire questo parto della mia fantasia.
Un ringraziamento particolare, però, va alla mia carissima Tayra, per tutto il sostegno che mi da. Senza di lei, forse ci avrei messo il doppio a postare. Ti ringrazio amica mia.
Sayonara.

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Capitolo 12
*** Il demone del Nord ***


                                                                        Il demone del Nord
                                                                                                                   Regno di Ader. Confine Nord Orientale. Anno 1859


Zakary sospirò, stringendosi meglio nel pesante mantello foderato di pelliccia d’orso che aveva indosso, nella speranza di allontanare il freddo gelido dei venti di Settentrione. Un lampo illuminò il cielo plumbeo, seguito da un tuono che annunciava l’imminente arrivo di una tempesta.
La guardia imprecò. Già essere stato stanziato al Passo dei Lupi, una delle zone periferiche più aspre e impervie del regno, era di per sé una sventura, ma essere addirittura assegnato ai turni di notte per due settimane consecutive era un’autentica sciagura. Certo, non sarebbe successo se non si fosse fatto scoprire a letto con la figlia del capitano Montgomery, però la bella Esper era stata tutt’altro che costretta a giacere con lui, quindi non capiva come mai dovesse essere punito.
Un lupo ululò, facendo correre un brivido gelido lungo la spina dorsale del giovane soldato. Quelle maledette bestiacce erano la cosa peggiore del lavorare lì: non si poteva mettere il naso fuori dal ponte levatoio senza rischiare di essere spolpati fino all’osso.
Sbadigliò rumorosamente, il sonno arretrato cominciava a farsi sentire. Si guardò intorno, circospetto, poi, certo di essere solo, si appoggiò alla lancia. Avrebbe fatto un riposino, prima di riprendere la ronda, e nessuno se ne sarebbe mai accorto. In fondo erano quasi cinquecento anni che il Passo non subiva attacchi, di sicuro non avrebbero tentato un’invasione proprio quella notte.
«Si batte la fiacca soldato?» latrò una voce alle sue spalle. Colto di sorpresa, Zakary si mise sull’attenti, urlando: «Nossignore» Solo allora, quando i battiti del suo cuore si furono calmati, si rese conto dell’identità del nuovo arrivato «Miles, sei un pezzo di…»
«Sai Nick, amico mio» lo interruppe l’altro scuotendo la testa con aria di rimprovero, la spada mollemente appoggiata di traverso sullo spallaccio dell’armatura di cuoio, «se proprio vuoi poltrire, dovresti per lo meno evitare di farti scoprire.» Afferrò una fiasca che portava legata alla cintura e se la portò alle labbra, ingoiandone una lunga sorsata.
Stavolta fu Zakary a sorridere «Sei tu quello che dovrebbe stare attento a non farsi scoprire. Se il capitano ti sorprende con quella, ti appenderà per i talloni ad un gancio da macellaio.»
Miles non sembrò dar peso alle parole dell’amico, anzi, le trovò divertenti, e sembrò sentirsi in dovere di rispondere a tono «Sta zitto e fatti una bevuta. Se ti addormentassi con questo freddo rischieresti di non svegliarti più» disse gettandogli la fiasca.
Chinando il capo in segno di ringraziamento, la guardia prese il beccuccio di legno tra i denti e inclinò il contenitore per far uscire il liquore.
Un tonfo sordo lo interruppe. Miles sbiancò e barcollò in avanti, boccheggiando. Un fiotto di sangue scuro gli fuoriuscì dalla bocca.
La seconda freccia gli perforò le scapole, sbucando dal petto, e la violenza dell’impatto spinse a terra il soldato ormai cadavere.
Stupefatto dall’improvvisa piega degli eventi, Zakary rimase immobile, pietrificato, finché un terzo dardo non gli perforò l’armatura, spezzandogli la spalla e scatenando nel suo corpo una scarica di dolore incandescente che gli schiarì la mente. Finalmente conscio della situazione la guardia si mise al riparo e tentò di estrarre la freccia, ma i barbigli della punta s’impigliarono nella carne, aumentando la sua sofferenza. Urlò come mai aveva pensato di poter fare, e dopo un po’ fu costretto a fermarsi: non aveva quasi più fiato nei polmoni, e rischiava di svenire da un momento all’altro.
Tentò di prendere il corno per suonare l’allarme e avvisare del pericolo le truppe più a valle, ma scoprì di non potersi muovere. Il dardo doveva essere intriso di qualche veleno ad azione rapida.
Un rampino superò l’orlo della muraglia, agganciandosi alla balaustra di pietra del corridoio di camminamento. Pochi minuti dopo una figura ammantata di nero la scavalcò, atterrando dolcemente davanti al corpo morente di Zakary.
L’invasore diede una rapida occhiata alle sue condizioni, poi, accertatosi che non rappresentava una minaccia, si chinò su Miles e, caricatoselo sulle spalle, lo gettò nel fossato sottostante.
«Ho bagnato le punte delle mie frecce nel veleno della Serpe dei pini. Ti resta poco da vivere e non esiste antidoto. Perdonami» sussurrò alla giovane guardia. Nonostante il velo mortifero che gli stava offuscando la vista, Zakary percepì chiaramente del sincero rammarico nella sua voce chiaramente femminile. Chiunque fosse, quella donna non agiva di sua propria volontà.
Non fu particolarmente consolante come ultimo pensiero, ma fu quello che lo accompagno nel baratro oscuro della morte.
L’assassina si liberò del suo corpo e s’incamminò. Aveva passato giorni ad osservare i turni delle guardie, i loro orari, le loro abitudini: tra un cambio e l’altro intercorrevano sempre sei ore, e i soldati stavano bene attenti a non tardare di neanche un minuto. Inoltre, dato che sorvegliavano una zona diversa ciascuno, era difficile che si incrociassero. Dalle informazioni che aveva raccolto nelle città di frontiera aveva dedotto che l’ufficiale incaricato di supervisionare quella zona era particolarmente rigido e non tollerava la minima ingerenza nelle sue disposizioni. I soldati che aveva appena ucciso infrangevano le regole, ma questo giocava a suo favore, perché le aveva permesso di sbarazzarsi di due vedette in un colpo solo. Ora non le restava che eliminare le altre.
Percorrendo la muraglia, uccise chiunque si trovasse sul suo cammino, centrandoli alla testa o al cuore con i dardi avvelenati. Quando li terminò, erano rimaste in vita solo tre guardie.
Scivolò alle spalle della prima, sgozzandola come un agnello sacrificale. La seconda fu distratta da un mattone staccatosi dalla balaustra, e non seppe mai a chi apparteneva la lama che gli trapassò la nuca. La terza fu invece più fortunata, ma, anche se si girò in tempo per scorgere l’ombra nera dell’assassina che si avventava su di lui, non lo fu abbastanza per schivare la piccola ascia da lancio che lei gli lanciò e che gli spaccò il cranio a metà.
Anche a distanza di anni, l’odore del sangue e della materia cerebrale le diede la nausea. Se il re non avesse minacciato di uccidere la sua famiglia non avrebbe mai ripreso in mano un pugnale. Sperava che quel capitolo della sua vita fosse finito quando aveva incontrato suo marito, ma a quanto pareva si sbagliava.
Ansimando per la fatica, l’assassina ricontò mentalmente i soldati uccisi: erano ventinove, esattamente il numero di vedette che l’avamposto era solito utilizzare.
Agganciò il rampino e si calò nel campo base nemico, facendo ben attenzione a non far rumore. Attraversò l’intero accampamento in totale silenzio, tesa come la corda di un arco pronto a scoccare, sforzando i propri sensi al massimo per non lasciarsi sfuggire alcun suono, e si diresse verso il portone principale, alto circa tre volte più di lei e spesso oltre un braccio; non sarebbe mai riuscita ad aprirlo da sola, tuttavia il suo aguzzino aveva pensato anche a quello.
Titubante, infilò una mano nella tasca interna del mantello e prese una fialetta di vetro delicato, ricolma di un liquido verde metallico. Prese le distanze e ve la gettò contro, suo malgrado leggermente curiosa di sapere che effetto avrebbe avuto.
Quando entrò in contatto con la sostanza, il legno si tinse di un nero putrido e malato, marcendo a gran velocità, e le robuste barre di ferro che lo rinforzavano si sciolsero con un sommesso sfrigolio, colando in rivoli argentei che si raccolsero in una pozza sul suolo duro.
Dallo squarcio appena aperto, entrò un uomo dall’aria inquietante. Alto ed eccessivamente magro, era completamente calvo e nudo, ad eccezione di un corto gonnellino di stoffa rossa. La pelle era di un insano colorito giallastro, e così sottile da aderire perfettamente alle ossa sottostanti, facendolo somigliare vagamente ad uno scheletro. Tutto il suo corpo era ricoperto di complessi tatuaggi, simboli magici e lettere arcane, che s’intrecciavano in un messaggio che solo pochi eletti erano in grado di comprendere.
I suoi occhi erano ciechi, bruciati dai ferri roventi in un tempo remoto, eppure si muoveva con sicurezza, come se potesse realmente vedere ciò che aveva davanti.
L’assassina lo trovava ributtante: da quando lo conosceva non aveva mai aperto bocca, se non per riferirle gli ordini del suo signore o per salmodiare frasi senza senso in una lingua morta.
«Sbrigati. Non c’è molto tempo prima che sorga l’alba.»
La donna annuì e tornò a concentrarsi sul suo compito, seguita subito dopo dall’uomo che, nonostante camminasse con calma serafica, riusciva in qualche modo a starle dietro con facilità.
«Dove si trova la tomba?» chiese lei, sguainando due corte spade dalle lame gocciolanti di veleno. La risposta le giunse in un sussurro roco e raschiante «Più avanti. Sotto le radici di una quercia, al centro esatto del campo.»
Proseguirono nella direzione indicata dall’uomo di gran fretta, senza concedersi un attimo di riposo, mentre nel cuore della donna la consapevolezza di ciò che si apprestava a fare le straziava l’animo.
Per una fortuita casualità non incontrarono nessuno, così lei poté evitare di mietere altre vittime. Maledì il destino, che aveva fatto sì che gli emissari di re Alner bussassero alla porta di casa sua e ripensò a suo fratello, barbaramente trucidato per non aver voluto eseguire lo stesso compito che lei era stata costretta a portare a termine.
Quando arrivarono alla loro meta, scoprirono che l’albero era scomparso, probabilmente abbattuto per ricavarne legna da ardere, ma il ceppo era rimasto, troppo robusto e dalle radici troppo in profondità per essere rimosso.
«Procedi» le ordinò l’uomo, inginocchiandosi verso Ovest e iniziando a pregare.
Col cuore in gola, la donna si spogliò, esponendo il corpo sodo e giovanile alle sferzate della gelida brezza notturna. A piedi nudi, salì sui resti del tronco e si portò al centro. Lì alzò un sottile pugnale di argento brunito e disse ciò che le era stato imposto di dire: «Con la mia voce ti risveglio dal tuo sonno.» L’arma sfavillò di una cupa luce verde e azzurra. «Con la mia carne placherò la tua fame, con il mio sangue spengerò la tua sete» e calò la lama con decisione, trafiggendosi il ventre. Il sangue defluì dalla ferita a velocità allarmante, bagnando il ceppo, che parve assorbire il liquido denso e scuro.
Tossì, stordita dalla ferita e dal dolore, tuttavia non poteva fermarsi; aveva quasi terminato il rituale, e lo sguardo dell’uomo, prima vacuo ora febbricitante di gioia selvaggia, sembrava urlarle di sbrigarsi.
Le sfuggì un sorriso triste. Stava per morire, e la sua morte avrebbe liberato un orrore sopito da secoli, ma almeno suo marito e sua figlia sarebbero stati salvi.
Con un ultimo, disperato colpo si affondò nuovamente l’argento incantato nella carne, e stavolta si trafisse il cuore, uccidendosi.
Il pugnale brillò più forte che mai, e sul legno comparve una crepa sottile, che si allargò rapidamente, diramandosi come una ragnatela per tutta la superficie del ceppo, accompagnata da un coro di schiocchi e gemiti.
Molti soldati furono destati da quei rumori molesti, ma, quando accorsero, videro solo un uomo nudo inginocchiato a poca distanza dal cadavere di una donna.
Confusi, gli si avvicinarono per interrogarlo. In quel preciso istante, però, ciò che restava della quercia millenaria esplose in migliaia di schegge affilate e qualcosa afferrò il corpo.
I soldati osservarono la scena paralizzati dal terrore. L’essere che avevano di fronte era la cosa più spaventosa su cui avessero mia posato gli occhi, uno scheletro privo di pelle, coperto solo di muscoli laceri e putrescenti, ossa scoperte e organi marci, tenuti insieme da chissà quale oscuro potere.
La creatura ruggì, con la mano artigliata divelse il pugnale dalla donna, gettandolo via, e la lacerò dallo sterno all’inguine. Senza sforzo la sollevò sopra il capo, bevendo e bagnandosi del sangue che ne piovve.
Il mostro rise, gustandosi quel sapore dolce e metallico sulla lingua, e le strappò cuore e fegato, divorandoli con avidità. Poi si avventò sugli intestini, sui polmoni, sulla milza e sulle ovaie, fino a ridurla ad un involucro vuoto. Non ancora sazio, mangiò anche i muscoli e spezzò le ossa per succhiare il midollo.
Terminato il pasto volse i suoi occhi – due cavità nere come la pece incastonate in un teschio zannuto – sull’uomo genuflesso, scrutando con curiosità il messaggio inciso sul suo corpo. Sorrise; il suo padrone era tornato sul trono che gli spettava e chiamava a raccolta i suoi servi.
Superò il messo con un balzo disumano. Aveva ancora fame. Mille anni di digiuno si facevano sentire, e lì intorno era pieno di prede allettanti, il leggero odore di paura che emanavano lo tentava come il più dolce dei profumi.
Man mano che il mostro si avvicinava, i soldati parvero riscuotersi da loro allibito torpore. Resisi contro del pericolo che correvano sguainarono le armi e si prepararono a combattere per la propria vita, ma era già tardi. L’essere si avventò su di loro con la furia di una tempesta, facendone scempio.
Le loro grida attirarono i rinforzi, tuttavia il loro intervento non variò minimamente la situazione. La creatura era incredibilmente forte e veloce, e spazzò via chiunque provasse ad intralciare il suo cammino. Più uccideva e mangiava, più il suo aspetto mutava, si rigenerava, finché, quando anche l’ultima guardia divenne un informe ammasso di carne macellata, al centro del campo tinto di rosso non c’era più un mostro insanguinato, bensì un uomo d’indicibile bellezza, alto e sottile, coi muscoli compatti e guizzanti e la pelle candida come la luna.
Sempre col capo chino, l’uomo tatuato gli si avvicinò, gettandosi ai suoi piedi «Lord Oren, è un onore per me incontrarvi, finalmente. Se mi consentite l’ardire, dovremmo sbrigarci: il re ci attende, e a breve il grosso delle truppe verrà qui per scoprire cos’è successo all’avamposto. I nostri soldati si occuperanno di invadere questo misero regno.»
Oren annuì, senza però degnarsi di rispondere a quell’insignificante mortale. Non era più affamato, ma non aveva recuperato abbastanza potere da combattere un intero esercito da solo. Stiracchiandosi, cominciò a camminare con calma verso Ansha, dove si sarebbe ricongiunto con il suo padrone.
Tenendogli dietro, l’uomo tatuato si premette due dita sulla tempia sinistra. Parte dei simboli si staccò, addensandosi in una bolla nera sospesa a mezz’aria. «Recati dal re» le ordinò, «e avvertilo che ho compiuto la mia missione.» Tremolando leggermente, la sfera rimpicciolì e saettò verso il cielo, in direzione di Zavren.

                                                                                                                   Regno di Ansha. Zavren. Anno 1859. Tre ore dopo

Il principe Alner – o almeno l’entità che lo possedeva – era mollemente seduto su un’elegante poltrona intarsiata nella sala dei banchetti, davanti ad una tavolata riccamente imbandita, intento a gustarsi una corposa porzione di maiale arrosto e patate. Suo malgrado, il cibo era una cosa che gli era mancata molto nei secoli della sua prigionia, sebbene nella sua forma di spirito non avesse mai sentito il bisogno di nutrirsi.
Al suo fianco, incatenati, sporchi, laceri e feriti, c’erano un uomo e una bambina di circa dodici anni, il marito e la figlia dell’assassina pentita che aveva avuto la fortuna di rintracciare pochi giorni prima. Convincerla era stata una vera noia. Certo, avrebbe potuto costringere chiunque ad eseguire il rituale del risveglio di Oren, ma un’anima oscura ritornata alla luce era l’ideale per far funzionare al meglio quel tipo di incantesimi.
L’uomo lo scrutava con odio manifesto, mentre la bambina piangeva disperatamente ma in silenzio, troppo spaventata dalle punizioni in cui sarebbe potuta incorrere se l’avesse fatto a voce alta.
Il sigillo di comunicazione che aveva impresso sulla pelle del suo servitore lo raggiunse mentre sorbiva con gusto un sorso di vino pregiato, uno dei tanti piaceri che aveva reimparato a concedersi ora che aveva di nuovo un corpo fisico.
La bolla nera esplose, e il materiale di cui era composta rimase sospeso nel nulla, gravitando intorno al re fino a quando quest’ultimo non gli avvicinò un fazzoletto di lino candido. A quel punto la sostanza si depositò sul tessuto, disponendosi in ordinate file di rune. “Missione compiuta maestà. Lord Oren è libero” diceva il messaggio.
Un sorriso crudele gli curvò le labbra: il suo miglior servitore era finalmente tornato a calcare il mondo dei vivi, pronto ad obbedire ai suoi comandi. Lento, compiaciuto, si voltò verso i suoi due graditi ospiti «Sono lieto di informarvi che vostra moglie, mastro Jir, ha portato a termine il suo compito con successo» disse, godendosi l’espressione devastata dell’uomo. Aveva sperato che in qualche modo la sua amata si salvasse, l’essere lo sapeva, e rendersi conto che non l’avrebbe più rivista l’aveva sconvolto. L’odio che provava verso l’artefice di quella tragedia era grande, e il re lo assimilò, alimentandosi di esso. L’urlo angosciato della bambina e il suo dolore furono un contorno eccellente, che ritemprò il suo cuore marcio, deliziandolo ed eccitandolo al contempo.
Con un movimento così rapido da sembrare un vago sfavillio di seta scura, il sovrano afferrò l’uomo per il petto, affondando le dita nella sua carne con agevolezza. La spada gli si materializzò nella mano libera, scorrendo fuori dal suo stesso corpo come un rivolo di melma.
«Ora lei non mi occorre più mastro Jir» ghignò prima di decapitarlo con un unico fendente.
Recisa, la testa cadde sulle gambe della piccola, imbrattandole di sangue il viso e il vestito liso. Un pensiero malsano gli invase la mente mentre osservava la giovinetta strisciare sul pavimento di marmo, dibattendosi come un’ossessa per allontanarsi da lui e dai resti del padre: l’avrebbe uccisa lentamente, assaporando ogni minuto, ma prima si sarebbe divertito un po’ con lei.

                                                                                                                  Regno di Ader. Rublia. Anno 1859. Due giorni dopo

Nicolas, sovrano del regno di Ader, si passo distrattamente una mano tra i lunghi capelli grigi, strizzando gli occhi per schiarirsi la vista, affaticata dagli ultimi giorni di veglia continua. Il rapporto che gli era giunto dal Nord era a dir poco terrificante: duecentonovantasette soldati orrendamente mutilati, e un intero contingente dell’esercito di Ansha alle porte del Passo dei Lupi, pronto a penetrare nel punto più sicuro ed impenetrabile del suo regno. Le sue truppe erano riuscite a respingerli per puro miracolo, ma avevano subito gravi perdite e perso quasi metà degli arcieri, fondamentali per difendere il valico. Il generale a cui era affidato quel settore aveva ovviamente inviato dei rinforzi, tuttavia a spaventare il re non era tanto la concreta possibilità di una guerra, quanto l’idea che Alner si sentisse così sicuro di sé da attaccarlo dove era più forte.
Un uomo convinto di poter vincere uno scontro con una strategia del genere o era pazzo o aveva un asso nella manica, e in entrambi i casi rappresentava un pericolo mortale.
Intinse la piuma d’aquila nel calamaio e scolò l’inchiostro in eccesso sul bordo di vetro della boccetta, dopo di che prese una pergamena pulita e redasse una serie di ordini per assicurare ai suoi uomini salmerie abbondanti e un adeguato contingente di maghi e guaritori. Sigillò la lettera con qualche goccia di ceralacca, imprimendovi il proprio sigillo con una leggera pressione dell’anello reale che gli cingeva l’indice, e chiamò un messo, cui disse di consegnarla all’accademia militare di Rublia, dove aveva sede anche la più rinomata scuola di magia del regno.
Stremato e col polso dolorante per tutti i documenti che aveva dovuto firmare in quei giorni, si appoggiò allo schienale della poltrona, sperando di riuscire a concedersi qualche minuto di riposo prezioso, ma non aveva neppure chiuso gli occhi che un sommesso bussare lo costrinse a rimettere in moto la mente.
«Avanti» grugni stancamente, pregando gli Dei che non fosse un altro dispaccio militare.
Per una volta, le sue richieste vennero ascoltate, perché ad entrare, a capo chino e con un’espressione di sincero rammarico sul volto anziano, fu Lisa, la vecchia balia che da anni badava a sua moglie, avendo cura che non si facesse del male e soddisfacendo i suoi bisogni. Era in quel castello da quasi cinquant’anni, e aveva aiutato un gran numero di nobildonne e cortigiane a mettere al mondo e ad allevare i loro bambini. Inoltre era una buona amica di suo padre e aveva assistito alla sua nascita, anche se all’epoca era solo un’apprendista.
«Che succede Lisa?»
«Vostra moglie si rifiuta di mangiare sire. Credo che le manchi la principessa. So che siete molto impegnato, ma potreste tentare di convincerla? Io non so più come fare.»
Il sovrano si lasciò sfuggire un sospiro, massaggiandosi le tempie «Vedrò cosa posso fare. Tu intanto puoi ritirarti nelle tue stanze.» Grata, la balia lo salutò con un rispettoso inchino e abbandonò la sala, mentre Nicolas, ignorando le proteste delle sue ossa anchilosate, si diresse verso la camera da letto della moglie.
Ad essere del tutto sinceri, avrebbe preferito non incontrarla. Sia chiaro, amava la donna che aveva sposato, ma, da quando la malattia l’aveva prosciugata dei ricordi di tanti anni passati assieme, lei sembrava temerlo, e lui non osava darle torto di questo.
Quando si erano incontrati la prima volta, il giorno del loro matrimonio, lei aveva quindici anni, molto pochi se comparati ai suoi trentaquattro. Era stata un’unione improvvisa, dettata da gravi necessità politiche, cui nessuno dei due aveva potuto sottrarsi. Quella stessa notte l’aveva privata della verginità, per sugellare la loro unione come imponevano le leggi e la tradizione. Si era sentito una bestia a possedere una fanciulla nel fiore degli anni, poco più di una bambina, e aveva cercato fino all’ultimo minuto di sottrarsi a quell’obbligo, ma suo padre – un uomo tanto giusto quanto severo e inflessibile – non aveva voluto sentir ragioni, e, nonostante la giovane età della ragazza, aveva preteso che il figlio ottemperasse ai suoi doveri.
Anche se sua moglie non gliel’aveva mai fatto pesare in alcun modo, Nicolas aveva intuito quanto difficile fosse stato per lei accettare di giacere con un uomo che poteva quasi essere suo padre.
Due anni più tardi era nata Meliandra, la loro amata figlia.
Quelli erano stati senza alcun dubbio gli anni migliori della sua vita: suo padre aveva abdicato in suo favore, la piccola cresceva sana e forte e sua moglie aveva scoperto in lui un compagno fidato e un marito fedele e paziente, per quanto autoritario come imponeva il ruolo che rivestiva. Poi però era giunta la malattia, e tutto era finito.
Sospirando, girò la maniglia della porta ed entrò. Il colore rosa pallido delle pareti urtò i suoi occhi stanchi, ma passò oltre. Lisa doveva evidentemente aver pulito di recente, perché l’ultima volta che era stato lì, circa due settimane prima, l’unica cosa in ordine era il soffitto.
La donna era seduta a gambe incrociate sul pavimento, i corti capelli rossi tutti arruffati, intenta a muovere dei pupazzetti di pezza secondo un copione noto a lei e a lei soltanto. Non appena lo vide, però, impallidì, mise via i giocattoli e si schiacciò contro la parete, tremando visibilmente.
Nicolas le si avvicinò lentamente, attento a non fare movimenti bruschi, e cominciò a carezzarle il capo con tutta la dolcezza che le sue mani callose da guerriero gli consentirono, finché non si calmò abbastanza da permettergli di sollevarla dal pavimento e condurla fino alla poltrona.
«Kelastria, piccola mia» le chiese gentilmente, «perché ti rifiuti di mangiare?» La donna mise il broncio, portandosi le ginocchia al petto «Mi manca Mel» mugugnò contrariata lei, tenendo gli occhi bassi per non dover incrociare quelli del sovrano.
«Capisco» commentò pacatamente l’uomo, raccogliendo le bambole e riconsegnandoli alla moglie. «Allora ti rivelerò un segreto: manca molto anche a me.»
La regina-bambina alzò la testa di scatto, un brillio eccitato nelle splendide iridi blu cupo, così simili a quelle della figlia «Davvero? Allora perché l’hai fatta andare via?»
L’uomo sospirò, riprendendo a carezzare i capelli della moglie «L’hai detto tu stessa: Coloro che recano il marchio lotteranno per la salvezza, uniti combatteranno, divisi cadranno.»
Kelastria sembrò confusa da quelle parole di cui non capiva il senso «Io non ho mai detto una cosa così difficile» protestò.
«L’hai fatto, solo che non te lo ricordi. Hai detto tante cose che non ricordi.»
«Non capisco.»
«Non serve che tu lo faccia. Ora devo andare, però voglio che tu mi prometta di mangiare. Non vuoi che Meliandra torni e ti trovi tutta pelle e ossa, vero?»
Lei parve pensarci su per un po’, ma alla fine acconsentì, rivolgendo al re un sorriso che non vedeva da tempo su quel viso tanto amato.
«Allora mangerai, giusto?» La regina annuì, contenta senza alcuna ragione d’esserlo, come solo una bambina potrebbe fare.
Sorridendo a sua volta, il re le sfiorò la guancia con le dita e uscì, ritornando a passo spedito nella sala delle udienze. All’interno, seduto dall’altro lato della scrivania, trovò Nahir, il suo fido consigliere, circondato da lettere e con un’aria estremamente annoiata. Quando vide il sovrano, fece per alzarsi, ma Nicolas lo fermò, sedendosi a sua volta.
«Ti imploro amico mio, dammi una buona notizia» esalò, trattenendo uno sbadiglio. Il vecchio fu ben lieto di accontentarlo, mise da parte un rotolo di pergamena fittamente scritto e si schiarì la voce «E’ proprio per questo che sono qui. Le nostre spie ci informano che vostra figlia è riuscita ad appropriarsi del manoscritto. La Ballata del dragone è in mano sua ormai.»
Nicolas tirò mentalmente un sospiro di sollievo. Pur non dandolo a vedere, l’ansia per la sorte della fanciulla l’aveva divorato come e più del destino del regno «Bene, ne sono lieto. Le profezie di mia moglie non preannunciavano nulla di buono.» Solo allora, leggermente rinfrancato dalla notizia, sembrò degnare della doverosa attenzione la corposa pila di missive. Inarcò un folto sopracciglio «E quelle cosa sono?»
«Lettere da parte di nobili allarmati. Nulla di cui la vostra regia persona si debba preoccupare.»
«Spero che questa situazione si risolva in fretta Nahir.»
«Anch’io sire, anch’io.»







E rieccomi qui con un nuovo capitolo. Introduttivo stavolta. Bene, avete fatto la conoscenza con Oren (uno degli scassapalle peggiori della storia) e con Nicolas, il padre di Mel. D’ora in poi (e questo alya16 e Tayra già lo sapevano) la storia si biforcherà in due, talvolta tre archi narrativi differenti, in modo da darvi un quadro più ampio della situazione  e per introdurvi personaggi che prima o poi si riveleranno preziosi.
Detto ciò, ci tengo a ringraziare (di nuovo) tutti quei santi che seguono, leggono o recensiscono la mia storia, in particolar modo le due citate prima:
alya16, che con i suoi commenti da criticona non può che migliorarmi (Torna a farlo a proposito, che quasi mi mancano i problemi che riesci a scovare) e alla mia carissima Kohai Tayra, che mi minaccia più o meno settimanalmente perché io aggiorni.
Detto ciò, vi saluto.

Sayonaraaaaa!

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Capitolo 13
*** L'Impiccato ***


                                                                            L’Impiccato
                                                                                                                           Regno di Ansha. Zavren. Anno 1859
 
La disperazione cammina per le strade, qui. Questo pensava Meliandra mentre, avvolta in un ampio mantello che ne celava le morbide forme femminili, scivolava per i sudici vicoli dei sobborghi di Zavren, circondata da un marcescente lezzo di sterco, urina, sangue e altre cose alle quali preferiva non pensare.
La prima volta che era stata lì era stata troppo occupata a cercare Farin di taverna in taverna per rendersi conto della degradante realtà della città, ma ora essa le appariva manifesta in tutta la sua desolazione. I margini delle strade erano gremiti di mendicanti, sgualdrine e tagliagole. Erano questi ultimi, con i loro coltellacci bene in vista e i ghigni crudeli sui volti lerci, a preoccuparla maggiormente. Non le piaceva il modo in cui sembravano scrutarla, come se la considerassero una facile preda.
Il lungo pugnale d’acciaio temprato che Farin le aveva dato le pesava al fianco, rassicurandola e spaventandola al contempo, perché, se era vero che avere un’arma la faceva sentire più sicura e protetta, era vero anche che non ne aveva mai posseduta una, e non era certa che all’occorrenza avrebbe avuto il coraggio di usarla. Ovviamente ne aveva viste molte a corte, al fianco o alla coscia dei cavalieri di suo padre e dei loro scudieri, ma quelle erano da nobili, con else ornate di gemme e lame filigranate in oro e argento, più belle che letali. Il pugnale del mercenario, invece, era anonimo; un nudo pezzo di metallo affilato come un rasoio, con un’impugnatura di legno duro avvolta in una striscia di cuoio bollito. Un’arma per uccidere, non per intimidire.
Chissà quanto sangue ha versato, si chiese la fanciulla, richiamando alla memoria il ricordo dello scontro a Fresa e di Farin che volteggiava con Veheza in pugno, leggiadro e terribile come Orlon il nero, le cui immagini affrescavano la parete nord del tempio degli antichi dei a Rublia.
Con un sospiro, scacciò quel pensiero e prese la cartina che il suo compagno di viaggio le aveva lasciato sul tavolo della cucina, accanto ad un messaggio dove le ordinava senza troppe cerimonie di raggiungerla ad una birreria dal discutibile nome l’”Impiccato”. Non era molto distante dalla casa del ragazzo, tuttavia i tortuosi vicoli di Zavren erano così intricati e pieni di tornanti da rendere quasi impossibile orientarsi, e più di una volta si era ritrovata al punto di partenza, incerta su quale strada prendere. Era tutto il giorno che camminava, e cominciava ad avere fame, quindi accelerò il passo, ignorando le minacce e le proposte lascive che di tanto in tanto le giungevano alle orecchie.
Raggiunse la piazza indicata sulla cartina in circa quindici minuti e non si sorprese di trovarla piena fino a scoppiare di popolani urlanti. C’erano diversi carrettieri che cercavano di vendere la propria merce, in gran parte rinsecchita o avariata. Alcuni mercanti d’armi enumeravano le prodigiose doti dei loro prodotti, sebbene la maggior parte di essi fosse rovinata dalla ruggine e dallo sporco. In un angolo scorse una sudicia prostituta che si faceva montare da un uomo butterato dal vaiolo, incurante degli sguardi altrui. Era la prima volta che la principessa assisteva ad una scena del genere, e distolse lo sguardo, sperando che fosse anche l’ultima.
L’insegna dell’Impiccato – un cappio nero su sfondo giallo - era ben visibile anche da quella distanza, e lei s’infilò nella folla, schivando i popolani come meglio poté.
L’interno del locale era decisamente pulito rispetto alla media dei sobborghi, e l’odore di carne arrosto le raggiunse le narici, facendole gorgogliare lo stomaco.
Si avvicinò titubante al proprietario, una montagna d’uomo bionda e corpulenta alta quasi sette piedi intenta a lustrare il bancone con uno straccio liso, e, cercando di controllare il tremito nella propria voce, disse: «Devo andare al piano di sotto.» Le istruzioni di Farin erano precise.
Il bestione non la degnò di uno sguardo, ma le rispose ugualmente «Non c’è nessun piano di sotto. La birreria è tutta qui.»
Meliandra deglutì, la gola arida per la tensione «Ho bisogno di andare al piano di sotto.»
Stavolta l’uomo alzò il viso dal proprio lavoro, inchiodandola con due occhi di gelida acquamarina, cupi e profondi. Indicò gli avventori con un boccale «Quelli che stanno lì non sono idioti come questi qui o come la feccia la fuori. Ci vuole ben più di un mantello per fregarli signorina.»
Involontariamente, la giovane fece un passo indietro, e la sua mano corse all’elsa del pugnale, anche se dubitava di avere il coraggio o l’abilità di usarlo.
«Non essere sciocca ragazzina. Si vede lontano un miglio che sai a stento come s’impugna quell’arma.» Nei suoi occhi brillò un lampo di pacato interesse. «In ogni caso, cosa dovresti farci tu laggiù? Ci sono solo assassini e mercenari.»
«Devo incontrarmi con una persona.»
«Chi?»
«Farin.» Il nome del mercenario doveva possedere una sorta di potere magico, perché non aveva neppure finito di pronunciarlo che il proprietario sbiancò. Annuì con lentezza solenne e si voltò, facendole segno di seguirla nel retrobottega. Dubbiosa, la principessa gli andò dietro tenendosi a distanza di sicurezza.
Il gigante la condusse fino ad un’immensa botte scuro. Le sue dita si posarono sul legno, ben più in alto di un uomo normale, e pigiarono con forza, rivelando una rientranza di forma circolare. Girò rapidamente la serratura e, con uno scricchiolio sommesso, ai loro piedi si aprì una botola nascosta che celava una scalinata fiocamente illuminata da torce quasi completamente consumate.
Il piano inferiore era decisamente più piccolo di quello superiore, ma più caldo e ancor meno affollato. Nella grotta artificiale c’erano appena una ventina di persone intente a bere, ridere e discutevano pacatamente, non urlavano e non si minacciavano, eppure l’atmosfera che le circondava era un roboante vortice di pericolo. Per pura curiosità aprì il terzo occhio e fu sopraffatta dalla mefitica valanga di emozioni che turbinava intorno a quegli uomini; il verde rancido dell’avidità, il rosso cangiante della follia e della lussuria e il nero fumoso della ferocia le ferirono il cuore, minacciando di farla scoppiare in lacrime. Poi, come un raggio di sole che buca le nubi, un’onda di luce bianca la investì, riempiendola di calore e tristezza allo stesso tempo. Meliandra vi si aggrappò con tutte le sue forze, usandola come uno scudo per ignorare tutte le altre aure, e si lasciò condurre da essa verso il suo proprietario.
Proprio come la prima volta che lo aveva visto, Farin seduto ad un solitario tavolo in penombra, nel punto più isolato della stanza, con una caraffa d’acqua davanti. Non appena la vide le indicò la panca di fronte a sé. Lei si sedette.
«Sei in ritardo» esordì il giovane, scrutandola da capo a piedi con i gelidi occhi smeraldini. I capelli bianchi sembravano scintillare alla luce delle fiaccole.
«Mi sono persa al bivio sui canali di scolo» si scusò la principessa. Un sonoro gorgoglio seguì le sue parole.
«Hai fame?» Il mercenario sghignazzò, alzando il braccio per richiamare l’attenzione di un servo di passaggio. Ordinò dell’anatra al limone.
«Dove sei andato questa mattina?» chiese la maga. «Sei sparito lasciandomi solo un pugnale, una mappa e un messaggio.»
Un’ombra attraversò i lineamenti di Farin, rabbia, dolore e delusione. Strinse così forte i pugni che il cuoio dei guanti gemette. «Avevo un impegno.» Il tono con cui lo disse lasciava intendere che non avrebbe aggiunto altro, perciò Meliandra non insistette. «Tra quanto partiremo per la Valle?» chiese invece.
«Domani. A quanto sono riuscito a scoprire, stamane è partita una compagnia di soldati di ventura diretti a Kaol Kan. Per raggiungerlo dovranno percorrere il Sentiero delle Serpi, che per una fortuita coincidenza è anche la strada che dovremo percorrere noi. Se tutto va bene, le belve saranno spaventate dal trambusto e spariranno per qualche tempo. Noi li seguiremo a qualche miglio di distanza.»
«Non potremmo viaggiare con loro?»
«No. Nessuno si reca alla Valle Nera se può evitarlo. Se ci unissimo a loro farebbero domande, e spero di non dover essere io a spiegarti che meno persone sanno della nostra missione meglio è. Se la notizia giungesse alle orecchie sbagliate, specie qui, vicino alla capitale, ci ritroveremo su una forca prima del tramonto.»
L’anatra fu servita proprio in quel momento da un servetto dai capelli rossi e il viso pieno di lentiggini che si avvicinò a Farin come se temesse di essere sbranato. Il mercenario se ne accorse e sorrise, facendo frusciare Veheza nel fodero mentre la sguainava lentamente. Il giovinetto impallidì, si inchinò in fretta e furia e si defilò in un lampo.
«Devi per forza essere così antipatico?» lo rimproverò Meliandra. Lui sorrise – uno di quei rarissimi sorrisi sinceri che gli sfuggivano ogni tanto – e cominciò a spartire l’anatra.
Mentre aspettava, la principessa allungò la mano per afferrare la caraffa e riempirsi la tazza. L’acqua aveva una strana tonalità azzurrina, ma non ci diede peso. Appena prima di servirsi, si ricordò delle buone maniere e chiese il permesso. Il mago si strinse nelle spalle con indifferenza.
Meliandra bevve con gratitudine. L’acqua le scese dolce e fresca lungo la gola…e fu allora che si rese conto che quella non era per nulla acqua. Una vampa di calore le risalì dalle viscere alla bocca, incenerendo ogni cosa sul suo cammino. Tossì, sputando sul tavolo parte del liquore, e gli occhi presero a lacrimarle senza controllo. Inspirò bruscamente, nel tentativo di calmare il bruciore, ma si accorse di avere il fiato corto, mentre uno strano senso d’intorpidimento le invadeva i muscoli.
Farin alzò gli occhi al cielo, ostentando una smorfia annoiata, e le porse un fazzoletto per pulirsi le labbra.
«Cos’era quella roba?» ansimò la giovane, stringendosi la gola. Lo stomaco tornò a gorgogliarle, stranamente stuzzicato da quel veleno trasparente.
«Acquafiamma. Un infuso ricavato dalle rape e mescolato con svariate erbe. È un po’ forte per chi non è abituato ai liquori.»
«Avresti potuto avvertirmi, infame traditore» ringhiò lei. Poi afferrò il proprio piatto e cominciò a mangiare l’anatra, stando attenta che l’olio caldo che grondava dalla pelle dell’animale non le colasse sul mantello.
Silenziosamente divertito dal suo risentimento, Farin piluccò distrattamente il cibo, immerso nei propri pensieri, finché un urlo furibondo e un boccale scagliato contro il suo viso non lo distrassero. Il dardo improvvisato non lo sfiorò neppure, ovviamente, ma lo sguardo del mercenario saettò all’istante sul nuovo venuto.
Era un uomo alto e massiccio. L’armatura che indossava era logora e arrugginita, e la malconcia celata dell’elmo gli copriva il volto, lasciando fuoriuscire solo un ciuffo di capelli neri. Nel pugno guantato stringeva una spessa spada a due mani dalla lama sporca di grasso e sbeccata dall’uso.
Urlò qualcosa nella parlata strascicata degli ubriachi e si lanciò all’attacco. Meliandra non ebbe né il tempo di rendersi conto della reazione di Farin, né di pregarlo di essere clemente. Il mercenario agì come suo solito: con efficienza spietata e brutale; si mosse alla velocità di un lampo, rapido come un baleno. Il fendente dell’uomo attraverso l’aria con un sibilo, ma il giovane si gettò a terra, lasciandosela passare innocua sopra la testa, e rotolò alle spalle dell’avversario. Prima ancora di essersi risollevato, il suo pugno si abbatté di traverso sul ginocchio del nemico, spezzandoglielo con un tremendo schianto di ossa e metallo che fece stringere i denti alla principessa.
L’uomo cadde urlando come un forsennato, stavolta di dolore, e la spada gli cadde di mano, ruzzolando via.
Rialzandosi, Farin gli assestò un calcio nelle costole e tornò a sedersi senza degnarlo di ulteriore attenzione. Due servi si precipitarono verso il cavaliere e lo portarono via di peso.
«C-chi era?» domando Meliandra, scioccata. Il guerriero fece spallucce «Non ne ho idea. Forse gli ho ucciso un parente, non ricordo.»
«Che posto è questo Farin? Perché mi hai fatto venire qui?»
Il giovane ingollò un’abbondante sorsata di Acquafiamma, svuotando il boccale. «L’Impiccato è un luogo di ritrovo per mercenari e assassini di professione. Ci riuniamo qui per scambiarci informazioni l’un l’altro. La Valle Nera è un luogo strano, ragazzina, strano e pericoloso. Non è mai uguale, cambia continuamente, come per capriccio, quasi avesse una volontà propria. Le bestie che ci vivono sono temibili anche per una compagnia ben equipaggiata, e noi siamo da soli. Mi sono dovuto informare sulle sue attuali condizioni.»
Si sistemò più comodamente sulla panca. «Per quanto riguarda il farti venire qua, volevo vedere se ne saresti stata capace.»
«Cosa?»
Lo sguardo di Farin inchiodò il suo con una tale intensità da bloccarle il respiro in gola. «Principessa» disse, «d’ora in avanti entreremo nel vivo della tua missione. A quest’ora Alner avrà saputo dell’assalto alla biblioteca di Fresa. Se non è completamente idiota, impiegherà poco a capire cosa c’era in quel cassetto nascosto e avrà preso provvedimenti. Se davvero il re vuole trovare i Catalizzatori, noi e il libro rappresentiamo una minaccia non indifferente. Non posso proteggerti da tutto e tutti, anch’io ho i miei limiti, per quanto vasti, e se tu non sei neppure in grado di muoverti senza dare nell’occhio ci farai ammazzare. Chiaro?»
La sua espressione era così seria, così severa che Meliandra poté solo annuire. L’oca tutto ad un tratto sapeva di cenere.
«Partiremo domani al calar della sera e cavalcheremo per qualche miglio prima di accamparci. Uno dei miei fornitori mi ha procurato due buoni cavalli e delle provviste.»
La principessa annuì nuovamente, poi si ricordò di avere ancora il pugnale di Farin legato al fianco. Fece per restituirlo, ma lui rifiutò «Tienilo. Potrebbe servirti.»
Lei fissò per un lungo istante la lama e, pur sapendo che la risposta non le sarebbe piaciuta, non riuscì a trattenersi dal chiedere: «Farin, e…e se mi fossi fatta scoprire?»
Il mercenario gettò una manciata di monete di rame sul tavolo «In quel caso, nella migliore delle ipotesi saresti stata violentata e uccisa, e io mi starei cercando un nuovo lavoro. Ricordalo ragazzina, io sono la tua spada, non la tua balia.»
 
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                                                                    Regno di Ader. Confine Nord Orientale. Anno 1859  
 
Le ossa incrostate di sangue secco scricchiolavano sinistramente sotto i pesanti stivali di ferro del comandante Montgomery, responsabile della sicurezza del Passo dei Lupi.
Ho fallito, pensò osservando la piazza gremita di cadaveri. Anche dopo due giorni, molti dei morti giacevano ancora insepolti, dilaniati e smembrati. Erano anni che il vecchio soldato non provava una tale sensazione di disgusto e d’impotenza. Qualunque cosa avesse attaccato i suoi uomini era stata spietata. A gran parte dei cadaveri mancavano gli arti o erano stati sventrati in due come capretti, in alcuni casi entrambe le cose. Le loro interiora lordavano tuttora il suolo.
Le sue labbra, screpolate dal freddo intenso, si curvarono in una smorfia sofferente, spaccandosi a sangue. A cosa serviva un comandante che non riusciva a proteggere i propri uomini? A cosa serviva un lord incapace di difendere i propri domini?
Gli venne in mente il volto del giovane soldato che aveva sorpreso a letto con sua figlia. Come si chiamava? Mitchell? Owen? Non riusciva a ricordarlo. Avevano trovato il suo cadavere fuori dalle mura, trafitto da frecce avvelenate e col cranio spaccato dall’impatto con il terreno gelato.
Esper era scoppiata in lacrime quando l’aveva saputo. Forse si sentiva in colpa, forse lo amava davvero, chi poteva dirlo. Troppe donne avrebbero pianto in quei giorni, troppi padri, troppe madri. Trecento uomini perduti in una notte, trecento vite spezzate, trecento spade mancanti.
Mai come ora, il Passo dei Lupi era vulnerabile ad un assalto in forze, e i rinforzi dalla capitale non sarebbero arrivati prima di una settimana.
A passo lento, Montgomery s’incamminò verso il cancello principale. La pesante barriera di legno e acciaio era stata fusa da una sorta di potentissimo acido, il buco era così grande che potevano passarci due uomini affiancati, ma i suoi mastri costruttori spergiuravano di poterla riparare. Finora, il massimo che erano riusciti a fare era stato tapparlo per impedire ai lupi di entrare.
Un corvo calò in picchiata su un cadavere e cominciò a beccargli gli occhi. Un soldato di passaggio lo uccise con una freccia.
Il lord sospirò e diede ordine di accelerare le operazioni di sgombero dei corpi: i mangia carogne cominciavano a farsi più audaci, spronati dall’odore del sangue e della carne.
In lontananza si levò il suono di un corno. Il richiamo riverberò per le gole del Passo, e qua e là si staccarono pezzi di ghiaccio e cumuli di neve fresca.
Il comandante s’irrigidì e mise mano alla spada che portava al fianco, in attesa. Quella mattina aveva inviato una squadra di esploratori a perlustrare il valico, in modo da individuare eventuali aggressori. Un solo segnale voleva dire “campo sgombro”, due una pattuglia, tre un esercito.
L’eco del primo suono non si era ancora estinto, che un secondo lo seguì.
Montgomery imprecò, sguainando l’arma. Per fortuna quel giorno era uscito dalla caserma indossando l’armatura. «Alle armi!» urlò. La sua voce possente, allenata dal comando, raggiunse ogni angolo della piazza. «Fanteria, prepararsi al confronto. Arcieri, sui camminamenti. Voglio che quei cani non riescano a vedere il sole.»
I suoi uomini obbedirono all’istante, quasi ottocento soldati corsero ad indossare corazze, schinieri ed elmi, ad affilare spade e ad accumulare dardi. In pochi, sferraglianti minuti davanti al cancello principale era ammassata una forza sufficiente a respingere un modesto assalto. Le pareti superiori del Passo erano gremite di arcieri e balestrieri, che da quella posizione potevano abbattere un uomo a circa centottanta piedi di distanza.
Le truppe nemiche impiegarono poco a comparire all’orizzonte, vestite con le stesse armature imbottite che usavano i difensori del valico per impedire al gelo di saldare il metallo alla carne. Purtroppo per loro, le loriche che avrebbero dovuto difendere il petto e la schiena erano più sottili e fragili di quelle normali, e la sola cotta di maglia non era in grado di arrestare una freccia a breve distanza. Per ovviare a questo problema portavano scudi larghi e spessi, ma il loro peso li avrebbe svantaggiati durante i combattimenti.
«Incoccare» urlò Montgomery, sovrastando il clamore del campo. Gli arcieri presero gli strali dalle proprie faretre. Il comandante attese che i bersagli fossero a duecentocinquanta piedi, poi ordinò: «Mirare. Tendere.» Gli archi furono tesi e i difensori scrutarono il nemico, valutando la traiettoria del tiro.
Le prime fila degli invasori notarono i preparativi, esitarono, dopo di che sollevarono gli scudi e ripresero ad avanzare, spinti dai compagni alle proprie spalle. Vogliono portarci allo scontro fisico, costatò l’ufficiale con un sorriso tetro. Beh, sognare non costa nulla. «Scoccare!» Trecento dardi si levarono in cielo all’unisono, precipitando come un’unica, compatta massa di acciaio sibilante.
Gli scudi di legno fecero il loro dovere, ma anche così le vittime nell’avanguardia furono numerose. I loro corpi intralciarono i commilitoni, rallentandoli e rendendoli più vulnerabili alla salva che cadde loro addosso. Ben prima di essere a cento piedi dalle mura, l’ala sinistra del loro schieramento era scomparsa, e il centro era ridotto ad uno sparuto gruppo di testuggini crivellate di colpi. L’ala destra era in condizioni migliori, tuttavia, anche così, non superavano le duecento unità.
Quando giunsero a cinquanta piedi, Montgomery ordinò ai suoi di sterminare i superstiti, catturando chiunque si fosse arreso di sua spontanea volontà.
Avanzò in testa alla colonna, mulinando la spada con consumata abilità. La sua lama si aprì facilmente la strada nella gorgiera di un fante, un fiotto cremisi sgorgò dallo squarcio, lordando il metallo di sangue. Il cadavere non aveva ancora toccato terra che il vecchio soldato si era già avventato su un altro uomo. Le loro spade cozzarono l’una contro l’altra per cinque volte prima che una freccia vagante sfiorasse la guancia di Montgomery e si conficcasse nell’occhio del suo avversario, sprofondando fino a metà dell’asta. Il secondo uomo che uccise di suo pugno usava un pesante spadone a due mani. Calò un fendente trasversale mirato alla sua spalla destra, ma il comandante era troppo esperto per farsi colpire da un attacco così goffo.
Spiccò un balzo all’indietro, lasciando che la punta dell’arma nemica gli sfiorasse il pettorale, poi mosse il braccio ad arco e gli trafisse il fianco nel punto in cui la corazza era più sottile. Impresse una rotazione per aggravare la ferita e strappò con forza la lama dalla carne.
Alla fine di quella scaramuccia, venti dei suoi erano morti, tuttavia avevano catturato sei persone, di cui due erano ufficiali. Impugnò personalmente i ferri da interrogatorio.
 
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                                                                                         Regno di Ansha. Zavren. Anno 1859
 
Lo stilo acuminato di Alner incise con cura la morbida pelle su cui stava lavorando. Rune sottili ed antiche, dimenticate dal mondo, cariche di un potere perduto che lui aveva riportato alla luce secoli prima dalle cripte del palazzo.
Una leggera sbavatura di sangue fresco rovinava la composizione sulla spalla destra, così lo ripulì con un panno imbevuto nell’aceto. Il suo esperimento emise un debole lamento, segno che la pozione soporifera che le aveva somministrato stava cominciando a perdere effetto. A breve avrebbe dovuto riportarla in cella, ma per sicurezza la avvolse in un potente incantesimo di paralisi.
Oren scivolò nella stanza, silenzioso come nebbia ed altrettanto sfuggente. Aveva un bell’aspetto ora che aveva ripreso a mangiare regolarmente, i muscoli erano tornati tonici come un tempo, gli occhi dorati erano tornati al fulgore che avevano un millennio prima. I capelli erano di un argento più scuro di quanto ricordasse, ma in fondo non aveva importanza.
L’antico demone s’inchinò rispettosamente, attendendo il permesso di parlare. Il sovrano glielo concesse con un’unica domanda: «Dunque?»
«La pattuglia che avete inviato al Passo dei Lupi è stata sterminata come previsto. Attraverso lo sguardo dei Marchiati ho potuto valutare che le forze nemiche di stanza al forte non superano le mille unità. Non ho percepito la presenza di maghi o guaritori. Probabilmente dalla capitale invieranno delle truppe di rinforzo, ma per ora sono alquanto sguarniti.»
«Rammento bene il Passo dei Lupi. Già quand’ero ancora umano quel buco schifoso era maledettamente difficile da espugnare. Mille uomini possono bloccarne cinquantamila lassù.»
«Ma sire A…Alner» gli risultava ancora strano chiamarlo con quel nome, dopo che per quasi vent’anni ne aveva usato un altro, «perché assaltarlo allora? Potevamo far passare le truppe sul Ponte dell’Abisso e poi sfondare per le città limitrofe, oppure attraversare le Grandi Pianure e mirare direttamente alla capitale, anche se in quel caso avremmo dovuto affrontare in campo aperto la cavalleria di Ader, che è di gran lunga superiore alla nostra.»
Alner sorrise e agitò lo stilo, facendo cadere piccole gocce di sangue sul pavimento di marmo scuro. «Quegli uomini erano solo un diversivo.» Indicò la bambina stesa sul tavolo. «Mi occorre ancora del tempo perché la ragazzina sia pronta, e non posso richiamare l’Orda prima dell’eclissi, quindi ho bisogno di tenerli occupati con qualcosa di grosso. E cosa c’è di meglio che attaccarli dove credono di essere più forti?» Lo fissò con i penetranti occhi neri, lucide gemme di tenebra profonde come gli Inferi. «Per te ho un altro incarico. I discendenti di Gar e Lena sono nel mio regno. Sono ancora troppo debole in questo corpo mortale per rintracciarli con precisione, ma sento il puzzo della loro presenza, un lezzo flebile ma persistente. Trovali e uccidili. Puoi usare qualsiasi mezzo, incluso il Sindrai Rakr Lath.»
Oren annuì, e senza aggiungere altro svanì in un soffio, troppo veloce perché l’occhio potesse scorgerlo.
Non mi intralcerai stavolta Gar, né tu né quel tuo maledetto drago. Lo stilo affondò con rabbia, disegnando una runa crudele e slabbrata, latrice di odio e morte. La bambina urlò, cercando di contorcersi, ma l’incantesimo con cui il re la teneva avvinta era troppo potente, e la bloccava in una presa ferrea. Poteva solo piangere e pregare, anche se ormai aveva esaurito sia le lacrime che la fede; se c’erano degli dei, di certo non l’avrebbero ascoltata.
Riponendo lo strumento aguzzo, il re prese una caraffa di acqua e aceto, la riscaldò con la magia e la rovesciò sulle ferite della piccola. Poi, stiracchiandosi, chiamò un servitore che la riportasse in cella e un altro per farsi preparare la cena. Entrambi entrarono nel laboratorio muti e silenziosi, col capo chino e gli occhi bassi, palesemente disgustati dalle condizioni della bambina ma troppo spaventati per darlo a vedere. Nell’osservarli, il volto di Alner rimase impassibile, ma la creatura dentro di lui sorrise: quanto gli piaceva essere di nuovo un re.




Ehm...cough, cough. Salve! =) Si, sono ancora vivo. Cominciavate a dubitarne, nevvero? E invece no, è solo che tra le guide per la patente, i compiti, il computer che ogni tanto decide di morire e poi resuscita di sua sponte e la mia preside/reincarnazione di Hitler intenzionata a trasformare il mio liceo nel quarto reich non ho avuto proprio tempo per scrivere il capitolo in cartaceo e digitalizzarlo. Col prossimo non dovrei metterci tutto sto tempo (le ultime parole famose), anche perchè in ogni caso è già in cantiere.
Detto ciò, vi ringrazio per la pazienza che avete dimostrato non fanculizzandomi dalle vostre liste dopo il terzo mese di assenza e vi saluto.
Sayonaraaaaa

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Capitolo 14
*** Oriveila ***


                                                                                    Oriveila
 
                                                                                                                              Regno di Ader. Passo dei lupi. Anno 1859
 
Una freccia nemica gli sibilò a poche dita dal viso, ma Ian Montgomery non se ne curò, confidando nella protezione dell’elmo. Evitò con una piroetta un fendente d’ascia e mozzò la testa del soldato che la impugnava, dopo di che sguainò un corto pugnale di ferro e lo scagliò contro un lanciere con tanta forza da conficcarglielo nell’occhio fino all’elsa. Ebbe appena il tempo di rallegrarsi con se stesso per l’ottimo tiro, che un uomo gli si avventò contro mulinando una spada. Il comandante imprecò, aggiustò la presa sul suo pesante spadone a due mani ed ingaggiò un breve scontro, avendo in poche mosse ragione dell’inesperto avversario.
Dannazione, pensò, quanti diavolo di uomini ci sta mandando addosso Alner? Era il terzo plotone che li assaltava da quando, due settimane addietro, la prima pattuglia aveva cercato di attraversare il Passo, e non dava l’impressione di essere l’ultimo.
I rinforzi dalla capitale erano stati una manna dal cielo – senza non avrebbero retto neppure al secondo attacco -, ma anche così le battaglie, così poco distanti l’una dall’altra, fiaccavano sempre più i difensori. Ormai non disponeva più di uomini freschi, ed i guaritori erano sommersi di feriti da rimettere in sesto in fretta e furia. La conta dei morti saliva di giorno in giorno, e neanche l’aiuto dei maghi dell’Accademia riusciva a far fronte all’immane fiumana umana che li stava investendo.
In mancanza di alternative aveva arruolato tutti gli uomini ed i ragazzi abili dei villaggi nei dintorni, armandoli al meglio con quello di cui disponeva, ed aveva inviato un messaggero a Rublia con la richiesta di ulteriori rinforzi, ma non c’era garanzia che avrebbero resistito abbastanza a lungo da riceverli.
Di questo avrebbe dovuto cedere la piazzaforte e ripararsi dietro le mura secondarie, benché la sola idea di fuggire di fronte ad un invasore lo ripugnasse profondamente.
Lo spallaccio destro della sua corazza intercettò un giavellotto, che cadde a terra tintinnando, lasciando solo una larga ammaccatura nel metallo. L’istante successivo l’uomo che l’aveva scagliato venne avvolto da una vampa di fuoco vermiglio e al fianco del comandante si materializzò Jalut, il possente mago dalla pelle scura che era a capo degli incantatori.
«Siamo troppo pochi» commentò in tono pacato con la sua possente voce da basso.
«Lo so» rispose Montgomery, afferrando il giavellotto e scagliandolo contro un fante «Ma ciò non mi impedirà di portarne negli Inferi il maggior numero possibile. Uomini! Formazione ad anello.» Il suo ordine sovrastò il clamore della battaglia, ed i suoi uomini, obbedendo al comando, abbandonarono le proprie posizioni, lasciarono che i nemici sfondassero al centro e li circondarono, schiacciandoli in una morsa senza vie di fuga.
«Bella tattica» approvò Jalut, evocando al contempo un globo di fulmini grande quanto un barile. L’incantesimo si abbatté sulla retroguardia Anshari, trasmettendosi rapidamente attraverso il metallo delle armature e folgorando i soldati al loro interno. La risata tonante del mago accompagnò lo sfrigolio della carne bruciata.
Montgomery grugnì in segno d’approvazione. «Anche il tuo trucchetto non è male. Quanti ne puoi fare?»
«Non abbastanza comandante. È un incantesimo faticoso.»
«Peccato. Arcieri! Coprite la ritirata. Uomini, ripiegare!» I luogotenenti ripeterono subito l’ordine, ed in breve oltre millecinquecento guerrieri indietreggiarono fino alla prima cinta muraria, in una posizione più sicura.
Il resto del plotone tentò di inseguirli, ma una salva di frecce li decimò prima che potessero muoversi. I pochi sopravvissuti si diedero alla fuga.
«Li lasciamo andare?» chiese un tenente, un ragazzo di umili origini di nome Caleb con un incredibile talento nell’uso dell’ascia. Ian annuì «Lascia che siano i lupi a finirli.» Gli antichi signori di quelle terre non tolleravano intrusioni di sorta nel loro territorio, e decimavano le fila nemiche quasi quanto gli scontri con le sue milizie, come a voler proteggere il regno da coloro che lo minacciavano. Anche il freddo contribuiva: abituati ai climi miti della pianura, i soldati di Alner mal sopportavano i venti gelidi e le tempeste di ghiaccio che sferzavano il Passo. Mollaccioni, pensò con disprezzo, passandosi una manciata di neve sulla fronte madida di sudore. Il gelo gli schiarì la mente dalla fatica quel tanto che bastava a rammentargli di ridisporre le truppe, organizzare i turni di riposo ed effettuare un sommario controllo delle provviste, dopo di che, per la prima volta da giorni, andò a concedersi una lunga dormita.
 
                                                                                                                                       Isola di Oriveila. Valsik. Anno 1859
 
La lancia sibilò, veloce come il vento, tracciando un iridescente arco blu nell’aria tersa del mattino mentre si abbatteva su uno scudo fissato ad un trespolo, squarciandolo come se fosse fatto di carta.
Il ragazzo che la impugnava sorrise, invertì il movimento dell’arma con una fulminea rotazione del polso e tagliò nuovamente il bersaglio, questa volta per la lunghezza. I quattro pezzi sussultarono e caddero al suolo, ma il lanciere già non li guardava più.
Con un gesto distratto Shur, figlio del Decano Shoi, afferrò un asciugamano e se lo passò rapidamente sul viso affilato, detergendosi dal sudore le guance magre, il naso aquilino e la fronte liscia, dedicando una particolare cura alle orecchie a punta.
Sbadigliando, l’elfo si stiracchiò, stappò una borraccia e bevve a lungo.
Alle sue spalle un tonfo sordo ruppe il silenzio, e poi un altro, un altro ed un altro ancora, in rapida successione. Shur si voltò con un sorriso, giusto in tempo per godersi l’espressione concentrata di sua sorella Selene mentre scoccava l’ennesimo tiro perfetto contro il paglione, centrandolo nel cerchio più piccolo, che ormai somigliava ad un puntaspilli gigante da quante frecce vi erano conficcate. La migliore arciera elfica. Ne era orgoglioso. Malgrado la coordinazione e la vista acuta, doti innate del suo popolo, lui non era mai stato un bravo tiratore. Troppo impaziente, troppo impulsivo. Selene era il suo esatto opposto: calma e precisa, infallibile.
Erano gemelli, ma non avrebbero potuto essere più diversi l’uno dall’altra. Lui era alto e muscoloso, ben più massiccio della media dei suoi simili. I suoi capelli erano neri come la notte, così come gli occhi, e la fronte era sempre corrugata, tranne quando combatteva.
Lei invece era esile e slanciata, all’apparenza fragile come fine cristallo. La folta chioma color grano le arrivava poco al di sopra dei piccoli seni, ed incorniciavano un viso perfetto e ridente dalla labbra carnose, un nasino all’insù costellato di efelidi e grandi occhi acquamarina.
Diversi come il sole e la luna, eppure inseparabili, legati, promessi.
Selene scoccò ancora, spezzando l’asta di una freccia già presente. Un altro centro.
«Vedo con piacere che l’abilità di tua sorella non è diminuita» commentò una voce profonda alle sue spalle, facendolo sobbalzare. Shur si volse in un lampo, la mano già pronta ad afferrare la lancia, ma si bloccò quando riconobbe il nuovo venuto. «Worth!» esclamò, stupito. Non l’aveva sentito arrivare. Per essere uno Sha-en di quasi due metri era in grado di muoversi in modo incredibilmente silenzioso, il che lo rendeva uno dei sicari più abili della sua razza, nonché l’unico del Popolo della foresta ad avere il diritto di mettere piede sul suolo di Oriveila. «Che ci fai qui?»
Il gigantesco guerriero fece spallucce e disse: «Porto un messaggio dalla capitale.»
Riponendo l’arco in una rastrelliera, Selene si avvicinò al fratello. «Notizie di Meliandra?» La voce dell’elfa era carica d’ansia, ed era comprensibile, visto che la principessa non era solo una sua carissima amica, ma la sua Ayl-shaal, la sua sorella di spirito, colei che un giorno avrebbe fatto da testimone e protettrice al suo matrimonio.
Lo Sha-en sorrise, scoprendo i denti candidi e leggermente aguzzi. «La principessa sta bene. Ha recuperato il manoscritto ed ora si trova sulla strada che porta alla Valle Nera. Il mercenario che è con lei pare sia un tipo difficile, ma gode di una certa fama nel suo ambiente.»
Shur sbuffò «Come no, una fama di assassino senza scrupoli. Avrei dovuto accompagnarla io.» Quando aveva saputo della profezia della regina Kelastria si era offerto volontario. Era disposto persino a sottoporsi ad un incantesimo per rendere più umani i suoi lineamenti – abbassare gli zigomi, accorciare le orecchie, rendere meno liscia la pelle -, ma il re non aveva voluto contravvenire neppure ad una riga della profezia. No, doveva essere quel Farin a proteggere la principessa, per quanto l’idea non piacesse a nessuno.
Sospirò «Beh, qual è questo messaggio?»
«Sua maestà vuole che ci rechiamo oltre le linee nemiche. Dobbiamo scoprire di quali forze dispone Alner, quali sono i suoi piani e, se possibile, sabotarli.»
«E Mel?»
«Se saremo fortunati la incontreremo durante il viaggio, ma Ansha è grande, e lei ha la sua missione da compiere.»
Shur annuì, serio «Quando partiamo?»
Gli occhi grigi dello Sha-en scintillarono, lasciando intravedere per un attimo la possente fiera che albergava nel suo animo. «Subito.»


Ebbene si, Madame e Messeri, dopo eoni sono riuscito ad aggiornare. Chiedo venia per l'attesa a quei santi che non mi hanno fanculizzato dopo il primo mese di attesa XD
Stavolta non ho scuse. Semplicemente non sapevo che scrivere, o meglio come scriverlo, e quindi ci ho messo un secolo. 
Al solito mi tocca ringraziare tutti quelli che leggono e commentano, ed in particolar modo Alya (Che farei senza le tue critiche XD) e Tayra, la mia invogliatrice col fucile (Che farei senza di te :*)
Detto ciò, al prossimo capitolo.
Sayonaraaaa

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Capitolo 15
*** La Valle Nera ***


                                                                            La Valle Nera
                                                             
                                                                                                                              Regno di Ansha. Valle Nera. Anno 1859
Farin e Meliandra seguirono la compagnia di ventura per una settimana, tenendosi a circa mezzo miglio di distanza, abbastanza lontano da non essere scorti ma non tanto da perderli di vista.
La Valle Nera era una macchia all’orizzonte, a diversi giorni di viaggio, scura come la pece. Persino da lì era minacciosa e terribile come una bestia dormiente eppure pronta a scattare.
Farin, notò Meliandra, era strano, irrequieto. La naturale cupezza che lo caratterizzava sembrava acuirsi ad ogni passo, come se un peso opprimente gli schiacciasse il petto, togliendogli il respiro. La principessa non aveva bisogno di Kahali per scorgere il dolore che si agitava nel suo sguardo.
Non osava però chiedergli a cosa fosse dovuta quella sofferenza, per paura che il ragazzo si chiudesse a riccio, tagliando fuori il mondo dal suo cuore.
D’un tratto un mercenario le lanciò una borraccia «Bevi, o ti disidraterai.» Non era una richiesta e lei non si sognò neppure di vederla come tale, quindi l’accettò di buon grado e bevve. Quando gliela restituì, Farin aveva di nuovo un’espressione assente.
«Fra quanto arriveremo?» Lo chiese per attirare la sua attenzione ed impedirgli di smarrirsi nei propri pensieri, ma di certo non si aspettava la risposta che ricevette: «Non aver fretta di arrivare principessa, non è un bel posto quello dove stiamo andando.»
«Ci sei già stato?» domandò in un impeto di coraggio.
Il ragazzo strinse le redini con tale forza da far gemere il cuoio. «Una volta, tempo fa, e se avessi potuto non ci sarei mai tornato. Una volta all’interno presta molta attenzione, e riferiscimi qualunque stranezza, non importa quanto insignificante ti possa sembrare.»
Quel discorso fu l’ultimo che fecero, perché il giovane si rinchiuse in se stesso ed ignorò ogni tentativo di conversazione.
Il decimo giorno il cielo si fece plumbeo, e nel pomeriggio scoppiò un violento acquazzone che costrinse la carovana di guerrieri a fermarsi per coprire i carri di salmerie. Impiegarono circa un’ora, durante la quale Farin e Meliandra allestirono il campo sotto un costone roccioso.
Fu una notte fredda, quella, perché non poterono accendere un fuoco per asciugare i vestiti, che al mattino dopo erano ancora umidi e pesanti, e dovettero consumare l’ennesima cena a base di gallette e carne secca, di cui cominciavano ad essere stanchi.
Di tanto in tanto il mercenario tirava fuori una consunta fiaschetta di metallo e beveva un sorso di Acquafiamma, talvolta offrendone un po’ anche alla principessa, che però, memore di quanto fosse forte quel liquore, rifiutava sempre.
Il mattino seguente il cielo si era schiarito, e Farin insistette per mettersi presto in marcia per recuperare il tempo perso.
Percorsero le successive dieci miglia al piccolo galoppo, riducendo la distanza che li separava dalla retroguardia della compagnia. Un comportamento rischioso, forse, ma il mercenario era stanco di aspettare: seguirla era stata una buona idea ed aveva risparmiato loro notevoli rischi su una strada abitualmente frequentata da una grande varietà di bestie selvatiche, ma ora era solo un impaccio di cui liberarsi.
Se la memoria non lo ingannava mancava poco al bivio che li avrebbe condotti alla Valle vera e propria.
Il ragazzo si lasciò sfuggire un triste sospiro. Quanti anni erano che evitava quel posto come la peste? Dovrei andare da Zenar, Mirdral e gli altri, pensò. Chissà se gli portavano rancore, visto che era colpa sua se erano morti.
Lo sguardo gli scivolò furtivamente sulla principessa: avrebbe fatto domande se avesse visto le tombe? Scosse il capo, rimproverandosi. Sta attento idiota, non è il momento di distrarsi. Perdere la concentrazione era un errore che non poteva concedersi.
La biforcazione fu in vista nel primo pomeriggio. I mercenari svoltarono a sinistra, diretti al Kaol Kan, e ben presto li persero di vista.
Farin trasse un profondo respiro e si preparò mentalmente. Non esitò nello spronare il cavallo, ma le sue mani tremavano.
Proseguirono dritti per circa un miglio, poi il rettilineo divenne una salita. Risalirono le massicce colline che circondavano la Valle e, infine, giunsero al limitare del bosco che ne costituiva il nucleo.
La principessa sgranò gli occhi: Farin le aveva spiegato che quel luogo doveva il suo nome all’insolita colorazione della vegetazione, ma vederlo di persona era completamente diverso dal sentirlo descrivere. Era tutto nero: gli arbusti, l’erba, il muschio sulle rocce, ogni cosa sembrava pece. Gli alberi erano alti, imponenti e minacciosi, con cupi rami color ebano sormontati da rami ritorti carichi di foglie scure. Anche sul limitare, il boschetto era in penombra, come se la luce del sole non avesse la forza di bucare la coltre di tenebra che sembrava aleggiare nell’aria.
Ma non era solo questo. C’era qualcosa in quel posto, qualcosa di solo vagamente accennato eppure presente, simile ad un’ombra colta con la coda dell’occhio. Una presenza vaga, tuttavia sensibile e feroce.
«Sembra affamata» sussurrò la fanciulla, stringendosi nel mantello.
«Lo è» fu la risposta del mercenario. «Famelica e subdola. Stammi vicino.»
L’interno del bosco era ben più freddo e secco di quanto avrebbe dovuto, ed alle narici giungeva un leggero odore di putrefazione. I cavalli sbuffavano infastiditi, ed i loro zoccoli sprofondavano nel terreno morbido.
Di tanto in tanto Farin sguainava Veheza e sferrava un colpo contro un tronco, lasciandovi uno sguardo che rigurgitava una linfa scura e sfrigolante.
«Cos’è quella roba?» domandò la principessa, disgustata.
«Non ne ho idea. Questi maledetti alberi si rigenerano ad una velocità incredibile, ed i segni non restano per più di sette ore, quindi per non perdersi occorre incidere con una lama arroventata, in modo da bloccare il processo. È una procedura lenta e puzzolente, soprattutto perché bisogna ripeterla ogni trenta metri circa. Fortunatamente per noi Veheza sembra contrastare questa capacità.»
«Questo posto è stato creato con la magia nera, vero?»
«Cosa te lo fa pensare?»
«La natura non crea abomini del genere se non viene forzata.»
Il ragazzo si strinse nelle spalle «Potresti avere ragione, non so. La mia conoscenza di questa branca della magia è molto limitata. Ora fa silenzio.»
Alcune ore dopo si erano talmente inoltrati da essere costretti ad accendere una torcia, perché le fronde erano così fitte da non far filtrare neppure un raggio di luce. Anche così, rimaneva impossibile vedere più lontano di dieci metri.
Il senso del tempo, notò Meliandra, mutava nel buio, scemando rapidamente fino a perdere significato. Fu per questo motivo che rimase leggermente sorpresa quando Farin annunciò che si sarebbero fermati per dormire.
Ancora più strano fu il modo in cui costruirono i giacigli: anziché stenderle normalmente sul suolo, legò le coperte ai rami come se fossero amache e le incastrò con un paio di pugnali.
«Perché questo?» domandò incuriosita la principessa.
Il mercenario fissò con astio il terreno marcescente «So cosa striscia lì sotto, e credimi quando ti dico che non ho nessuna intenzione di ritrovarmi qualcosa addosso mentre dormo.»
Accendere un fuoco si rivelò un’impresa improba, in mancanza di legna secca, e tre tentativi a vuoto spazientirono abbastanza il ragazzo da fargli usare un’abbondante manciata di Mahri, che avvampò nello stesso istante in cui venne colpito dalle scintille.
Fu la prima cena calda che consumavano da quando erano partiti da Zavren, ed anche se consisteva solo in un banale stufato di carne salata e verdure rinsecchite li scaldò fin nelle ossa, lasciandoli piacevolmente satolli.
«Hai mai fatto un turno di guardia?» le chiese d’un tratto. Lei inarcò un sopracciglio «Secondo te?»
«Bene, vorrà dire che questo sarà il primo della tua vita. Chiamami quando non riuscirai più a rimanere sveglia, ed avvertimi se ti sembra di sentire o vedere qualcosa, non importa quanto ti sembri insignificante, chiaro?» Gli occhi verdi del mercenario la fissarono con un’intensità disarmante; alla luce delle fiamme emettevano un bagliore severo, ma alla principessa non sfuggì la parte più importante di quel discorso, cioè che, volente o nolente, Farin le stava concedendo la sua fiducia. Sotto il mantello avvertì il peso del pugnale e lo strinse con forza, annuendo gravemente.
Il ragazzo la fissò ancora per un lungo momento, poi andò a sdraiarsi ed in breve si addormentò.
Non sapendo bene come si monta la guardia, si sedette su un tronco e si mise a scrutare il bosco scuro. Il fuoco le crepitava accanto, rassicurante, e di tanto in tanto la giovane vi gettava dentro un po’ di ramoscelli, che sfrigolavano rumorosamente mentre il calore bruciava la resina. Puzzava tremendamente, ma era sempre meglio che rimanere al freddo.
Resistette per un po’, prima di rendersi conto di essere al limite. Si alzò, stiracchiando le membra irrigidite dall’inattività, ed andò a svegliare Farin. Fu sufficiente sfiorarlo per farlo destare.
«E’ successo qualcosa?» chiese. Per tutta risposta lei gli sbadigliò in faccia, strappandogli un ghigno. «Stanca?»
La fanciulla annuì senza rispondere, dimenticandosi anche di scusarsi per l’infrazione dell’etichetta, e si sdraiò nel mantello tiepido, sprofondando quasi subito in un sonno tranquillo.
La chiamò all’alba, mettendole sotto il naso una ciotola di stufato fumante.
«Mangia in fretta. Dobbiamo metterci in marcia.»
«Perché tutta questa impellenza?» domandò lei, afferrando il cucchiaio. Lo sguardo del ragazzo tradì un lampo di preoccupazione. «Ho fatto un giro di perlustrazione, ed ho trovato alcune orme. Non sono fresche, ma preferisco non rischiare. Non con gli Shuma.»
Il pezzo di carne le andò di traverso, facendola scoppiare in un violento accesso di tosse. «Shuma?» anaspò, «Ci sono degli Shuma qui?»
Farin annuì «Il branco più grande di Ansha. Perché credi che la gente eviti questo posto come la peste? Per paura del buio?»
Meliandra lo fissò, incapace di dire alcunché. Il colore del suo viso passò dal consueto pallore ad un bianco cadaverico, per poi virare verso un rosso porporino. «E non mi hai detto nulla?» sbottò, balzando in piedi.
«A che sarebbe servito informarti?»
«A non farmi prendere un colpo adesso» ringhiò, cominciando a raccogliere le sue cose.
«Sembri avere familiarità con gli Shuma.»
«Idiota! La mia guardia del corpo è uno Sha-en. Pensi che non me ne abbia mai parlato?»
Il giovane fece spallucce «Come vuoi, ma muoviti.»
La principessa fu pronta in pochi minuti. I cavalli erano già sellati, ma erano impazienti, agitati, e questo metteva Farin a disagio, costringendolo a rimanere coi nervi tesi e la mano costantemente sull’elsa della spada. Fu felice di potersi rimettere in viaggio, sebbene il terreno consentisse solo un trotto lento. Il pensiero degli Shuma lo faceva fremere di collera e paura, rievocando ricordi che avrebbe voluto seppellire.
Nel corso della giornata, mentre si avvicinavano al cuore del bosco, trovò altre due serie di impronte, più recenti stavolta, e la carcassa spolpata di un grande cervo.
Imprecando furiosamente, il mercenario infilò una mano nella sua sacca da viaggio e prese la cintura coi coltelli da lancio.
«Che succede?»
«Gli Shuma non lasciano mai i resti di una preda, neppure le ossa. Sono qui intorno, da qualche parte, e noi siamo finiti proprio nel loro territorio. Se te lo ordino, evoca uno schermo e mettiti al sicuro.»
«E tu che farai?»
La furia del mercenario la avvolse in una nube ardente, mozzandole il respiro. «Io li farò pentire di essere venuti al mondo.»
Si rifiutò di aggiungere altro, concentrandosi così tanto sul bosco da non notare nient’altro. Forse fu questo il suo errore: gli Shuma erano feroci e letali, ma in un tempo lontano, prima di smarrire il senno e degenerare nelle belve scatenate che erano ora, erano stati così simili agli Sha-en che le due razze venivano spesso considerate una sola. Anche se con i secoli la follia aveva completamente sconvolto le loro menti, conservavano ancora un barlume di quell’antica intelligenza che li aveva resi un grande popolo.
Farin si aspettava che attaccassero dal fitto della boscaglia, come avrebbe fatto un puma, invece gli Shuma avevano sfruttato l’innaturale resistenza dei rami e la loro furtività, straordinaria per creature della loro stazza, per sorprenderli dall’alto. Quando il mercenario si accorse dello stratagemma era già troppo tardi.
«Principessa, al ripar…» fu tutto ciò che riuscì ad urlare, prima che una compatta massa di muscoli e pelo grigio si abbattesse su di lui, disarcionandolo.
Meliandra gridò di puro terrore, rilasciando istintivamente una saetta di energia che sferzò la schiena dello Shuma. La bestia ruggì di dolore, ed il mercenario ne approfittò per liberarsi dai suoi artigli e rotolare via. Non sembrava ferito gravemente, sebbene dal labbro gli colasse un rivolo di sangue.
«Proteggiti, stupida» la rimproverò, sguainando Veheza. Il suono della lama che usciva dal fodero fu un gelido sibilo di morte. Non aspettò che la principessa eseguisse il suo ordine – sapeva che l’avrebbe fatto- e si mise in guardia.
L’esemplare era enorme e ben più orribile di quanto ricordasse. Era una creatura sgraziata, con un torace ampio quanto due uomini adulti ed un bacino piccolo e tozzo. Le zampe anteriori erano lunghe e muscolose, mentre quelle posteriori erano corte e robuste, capaci di balzi scatti insospettabili. Entrambe erano dotate di artigli affilati come rasoi, resi ancora più pericolosi dallo spesso strato di sporcizia che li ricopriva. Il suo muso aveva una forma strana, schiacciata come quella di un mastino e leggermente allungato all’indietro.
Ruggì, furente, e mise in mostra un’impressionante fila di zanne. Al garrese la bestia superava il metro e cinquanta.
Il mercenario rimase impassibile, anche se dentro di sé tremava come una foglia, sconvolto da un vortice di emozioni contrastanti: aveva paura, una paura vecchia di anni, eppure era anche in collera. Sarebbe voluto fuggire, ma l’odio che ribolliva in lui lo costringeva a rimanere fermo al suo posto.
Quando lo Shuma lo caricò, il passato di sovrappose al presente, portando con sé le immagini di un massacro. Una nube rossa scese sulla mente del ragazzo, cancellando tutto tranne un unico pensiero: Questa volta no.
Farin gli corse incontro, schivò un colpò di artigli e vibrò Veheza sulle zampe della fiera. La pelle degli Shuma era dura come cuoio indurito, ma la lama incantata la squarciò con facilità, amputandogli l’arto sinistro. Sangue denso e scuro sprizzò nell’aria in un arco cremisi, ed un guaito di sorpresa e dolore scosse il bosco.
Silenzioso come uno spettro, il giovane si avvicinò alla creatura agonizzante e le conficcò la spada nel fianco, trapassandole i reni. Non sarebbe stato un trapasso sereno.
Uno di meno, pensò. Poi, fissando la lama insanguinata, scoppiò a ridere, un suono arido come il deserto e privo di qualsiasi ilarità che fece tremare Meliandra più della vista dello Shuma.
Altre tre bestie uscirono allo scoperto, attratti dalle grida del loro compagno morente. Uno di loro si gettò sulla principessa, ringhiando di frustrazione quando le sue zampate si abbatterono inutilmente sulla barriera traslucida da lei evocata. I rimanenti circondarono Farin, circospetti.
Le risa cessarono all’istante ed il mercenario li fissò con sguardo vacuo. Erano più massicci di quello steso ai suoi piedi, ma nulla di più. Davvero aveva temuto per anni creature così patetiche? Ridicolo.
Rinsaldò la presa su Veheza e si lanciò all’attacco, veloce come un lampo. Colpì il primo con un calcio tanto violento da spezzargli le zanne e scaraventarlo a terra. Il secondo reagì sferzando l’aria con gli artigli, ma il giovane lo schivò con una delicata rotazione, rimediando solo dei sottilissimi graffi alla gamba sinistra.
E poi, quando anche il terzo Shuma, stanco di attaccare una preda che non riusciva a raggiungere, preferì concentrarsi su un bersaglio più accessibile, Farin indietreggiò di qualche passo, sollevò la spada all’altezza della fronte e cominciò a combattere sul serio.
Sotto lo sguardo sbalordito di Meliandra batté ritmicamente il piede sul terreno, come a cercare il ritmo di una musica a lei inudibile, finché una delle belve non decise di attaccare ed il mercenario diede vita alla propria danza, fatta di affondi precisi e fulminei, di giravolte, scatti e torsioni ai limiti del corpo umano, di parate e schivate. Movimenti così lievi che la principessa distingueva a stento, eppure sufficienti a portarlo sempre fuori dalla portata degli attacchi nemici.
In un crescendo di velocità e ferocia, la giovane assistette ad uno spettacolo di macabra magnificenza, di pura violenza e calma piatta riunite in un unico stile di scherma che ad una profana come lei sembrava assolutamente perfetto.
Il sangue e le membra degli Shuma turbinavano in una nube scarlatta screziata dal bianco candido di Veheza, ed al centro di quel vortice c’era Farin, con un’espressione in viso a metà fra la concentrazione e la follia.
E sebbene quello spettacolo avrebbe dovuto disgustarla, come già aveva fatto il combattimento a Fresa, si riscoprì invece affascinata da ciò che vedeva. Ciò che aveva innanzi era senza dubbio terribile, eppure ogni passo, ogni colpo a segno portato dal suo compagno le faceva battere il cuore un po’ più forte, toccando una parte della sua anima di cui ignorava l’esistenza. Se ne vergognò, ma non tanto da distogliere lo sguardo.
Poi, com’era cominciato, tutto finì. Farin decapitò il primo Shuma con un fendente, schivò un morso e, con un repentino scatto del polso, conficcò un pugnale nel cuore del secondo, ruotando la lama per essere sicuro di averlo ucciso. L’ultimo rimasto, sorpreso dall’improvvisa morte dei suoi simili si diede alla fuga. Il giovane gli permise di fare qualche metro prima di sollevare il braccio, una formula magica già sulle labbra, trafiggendolo con una lancia di pura luce.
Ringuainò Veheza e, stremato, si mise a sedere, ansimando. Meliandra lo raggiunse di corsa e senza pensarci gli buttò le braccia al collo. «E’ stato...è stato…»
«Tremendo?» suggerì lui, con una traccia di amarezza nella voce.
«Incredibile!» sbottò invece la principessa. «Non ho mai visto niente del genere. Il modo in cui ti muovevi, la velocità, la forza. Come hai fatto?»
«A-allenamento» balbettò il ragazzo, leggermente intontito dalla sua veemenza.
«Non basta l’allenamento per fare una cosa del genere.» Il suo sguardo cadde sui corpi degli Shuma, ed i suoi occhi si velarono di tristezza, non per le bestie massacrate, bensì per colui che le aveva uccise. «Devi odiarli davvero tanto.»
«Più di quanto immagini.»
«Mi dirai il perché?»
«Forse» concesse lui, «ma non ora. Dobbiamo andarcene in fretta. Questi erano cacciatori d’avanguardia. Fanno da apripista per il branco ed individuano le prede. Spesso riescono anche ad abbatterla. Il grosso del branco arriva dopo. Non sono ancora allo stremo, ma non potrei reggere un altro scontro. Dove sono i cavalli?»
«Il mio è ancora qui, ma il tuo è scappato quando sei stato disarcionato.»
Il mercenario imprecò «Hai visto dove è andato?»
«In quella direzione.»
«Dobbiamo recuperarlo. Non posso sostituire il mio equipaggiamento, e gran parte delle provviste sono sulla mia sella.»
Per loro fortuna l’animale non era andato lontano. Si era rifugiato in un piccolo spiazzo tra gli alberi e si scrutava intorno in preda al terrore. Quasi fuggì quando li vide arrivare, ma Farin riuscì ad afferrargli le briglie e si impose con polso fermo, calmandolo quel tanto che bastava a montargli in sella e riprendere il viaggio.
Cavalcarono per un paio d’ore senza incontrare neppure uno scoiattolo – ammesso che ce ne fossero in un bosco del genere -, al punto che Meliandra si era quasi convinta che quei quattro fossero soli, quando una serie di latrati esplose alle loro spalle. La principessa digrignò i denti maledicendosi per la propria ingenuità e, dopo aver spronato il cavallo, si voltò ed iniziò a declamare un incantesimo.
«Che stai facendo?» le urlò Farin. Lei non gli rispose, continuando a recitare parole in una lingua che il giovane non aveva mai udito. Sembrava fare molta fatica. Il suo viso era contratto in una smorfia concentrata, ed un copioso rivolo di sudore le calava lungo le tempie, eppure non stava accadendo nulla. Poi, però, con un fragore assordante di schianti e scricchiolii gli alberi alle loro spalle si curvarono bruscamente, ed i rami e le liane si intrecciarono in una rete fitta come maglia di ferro, sbarrando la strada.
«Questo dovrebbe rallentarli per un po’» disse la maga, tergendosi la fronte con un lembo del mantello.
«Cosa hai fatto?»
«Magia driadica. L’ho imparata dalle ninfe. Ho spinto gli alberi ad ostacolare gli Shuma.»
«Sembri stanca.»
«Ho obbligato un pezzo di bosco a spostarsi, certo che sono stanca. Di solito però non è così difficile: c’era qualcosa che opponeva resistenza. C’è davvero della magia nera all’origine di questo luogo.»
«L’importante è che tu ce l’abbia fatta. Ottimo lavoro» si congratulò. Meliandra lo fissò a bocca aperta, basita. Mi ha fatto un complimento. Stava forse per crollare il cielo?
In ogni caso, malgrado la buona idea una semplice barriera non poteva fermare a lungo la furia famelica degli Shuma. Guadagnarono alcuni preziosi minuti di vantaggio, ma il branco era ancora alle loro calcagna e recuperava rapidamente terreno. In poco più di mezzo miglio il loro puzzo giunse ai due ragazzi. A quel punto non ci volle molto perché il primo predatore sbucasse dagli alberi, ringhiando e sbavando in preda alla fame. Farin afferrò immediatamente un coltello da lancio, prese la mira e lo scagliò, colpendolo dritto in un occhio. Lo Shuma guaì, perse l’equilibrio e si schiantò al suolo, ruzzolando nelle foglie marce. Urtò qualcosa, una sorta di collinetta di terriccio, e sotto lo sguardo sconvolto di Meliandra una brulicante fiumana purpurea emerse dalla costruzione e ricoprì l’animale, che prese a contorcersi nel vano tentativo di scappare.
«E quelle che cos’erano?» ansimò la ragazza.
«Formiche.»
«Formiche?!»
«Formiche» confermò con calma il mercenario. «Non avrai davvero pensato che gli Shuma fossero l’unica minaccia della Valle, vero?»
«Ci avevo sperato» borbottò lei. «Stando con te sto imparando che non c’è mai limite al peggio.»
«Lieto di esserti utile.»
Un secondo Shuma li raggiunse. Era un esemplare giovane ed ancora relativamente piccolo, quindi Meliandra intessé rapidamente un incantesimo e lo scagliò contro le sue zampe. Era lo stesso trucco che aveva tentato di usare su Farin tempo prima, ma stavolta funzionò: la magia bloccò i muscoli della belva proprio mentre questa cercava di scansare un albero. L’impatto fu così violento che il suono di ossa rotte si udì distintamente al di sopra dei latrati.
Farin inarcò un sopracciglio «Sei in vena di sorprese oggi.»
«Non l’ho fatto apposta. Ho agito d’impulso» mormorò la maga, stupita.
«Beh, cerca di agire d’istinto più spesso. Potrebbe esserci…»
Una pulsazione sorda scosse l’intera Valle, simile al battito di un cuore sotterraneo. I marchi dei due giovani brillarono per un istante, spazzando via le tenebre del bosco, riempiendoli di una sensazione sconosciuta eppure familiare, come se stessero correndo incontro ad un amico perduto ma mai dimenticato. Qualcosa li chiamò, qualcosa di antico e potente, reliquia di un’era passata che ancora viveva e vibrava di energia, cantando nel loro sangue una melodia di forze e dolcezza.
La consistenza del terreno cambiò gradualmente, divenendo più compatto a mano a mano che avanzavano tra gli alberi, che d’un tratto avevano iniziato a farsi più radi.
Gli zoccoli dei cavalli calpestarono una superficie dura che produsse un suono limpido ed acuto. Scuotendo la testa per schiarirsi la mente, Farin guardò verso il basso e non credette ai propri occhi. Cristallo; stavano galoppando su una vasta lastra di cristallo rossastro, che formava una piattaforma di circa duecento metri di diametro. Il peso degli animali lo crepava, ma si rigenerava istantaneamente ed il danno svaniva.
Al centro di quello spiazzo c’era un tempietto consumato dalle intemperie. Il pronao non esisteva più, cancellato da decenni di pioggia e vento, e gran parte delle colonne che circondavano la struttura erano crollate o stavano per farlo.
Gli Shuma li raggiunsero, sbucando a frotte dalla macchia, ma si fermarono sul limitare della piattaforma, ruggendo di frustrazione. Per qualche ragione non osavano spingersi sulla sua superficie, rifiutandosi persino di toccarla.
«Che succede?» domandò Meliandra.
Farin fece fermare il cavallo con un deciso strattone delle briglie e lo fece voltare. «Sembrano spaventati» commentò, stupito. Cosa poteva bloccarli in quel modo? Gli Shuma non temevano nulla, pensavano solo ad inseguire ed uccidere la propria preda, senza badare a nient’altro. Erano capaci di gettarsi a testa bassa su file e file di lance, pur di azzannare coloro che le impugnavano.
Facciamo un esperimento. La formula magica che usò era meno esotica e complessa di quella usata poco prima dalla principessa, ma risultò altrettanto efficace. Una morsa eterea si strinse su un cucciolo ululante e lo sollevò da terra, attirandolo sul cristallo. La belva si contorse nel vuoto, cercando di liberarsi, ed il mercenario ci mise poco ad accontentarlo, lasciandolo cadere.
La reazione della lastra fu incredibilmente violenta: un impulso di energia lo illuminò al calor bianco, ignorando i due ragazzi e le loro cavalcature ma riducendo in cenere lo Shuma.
«Ma che…» balbettò il mercenario, fissando sconcertato la superficie lucida. Esitò, poi smontò dalla sella e, cautamente, vi poggiò un piede, pronto a balzar via al minimo accenno di pericolo. Non accadde nulla; qualsiasi cosa avesse scatenato l’attacco contro il predatore, in lui era assente. «Scendi principessa» disse, «credo sia sicuro.»
Meliandra era dubbiosa, ma obbedì. Neppure lei scatenò reazioni di sorta.
«Sembra che non gradisca solo gli Shuma. Per un po’ dovremmo essere al sicuro.» Con una smorfia dolorante trovò un palo dove legare i cavalli e si scoprì la gamba. «Puoi guarirla?»
La maga esaminò con aria critica i quattro lunghi graffi che gli solcavano il polpaccio e schioccò rumorosamente la lingua «Posso, ma prima occorre disinfettarla o rischia di andare in cancrena lo stesso. Dammi la tua fiaschetta.» L’ordine fu così autoritario che Farin lo eseguì senza pensarci. Lei la prese e la stappò, versandone il contenuto sulla ferita e strappando un gemito al ragazzo.
«Brucia?»
«Un po’.»
«Bene.» Cominciò a recitare l’incantesimo necessario. Ne usò uno piuttosto debole, perché il danno era minimo. «Ti fa male da qualche altra parte?»
«No.»
«Farin…» il suo tono era vagamente ammonitore. Il mercenario sospirò «Credo di avere un paio di costole incrinate.» Alcuni minuti dopo non lo erano più.
«Ora dovresti essere a posto.» Commentò a lavoro concluso.
Farin la ringraziò con un borbottio, dopo di che si introdussero al tempio. La sensazione di familiarità che quel luogo trasmetteva li sconcertava, ma non sembrava esserci alcun pericolo, quindi entrarono. L’interno non era meno diroccato dell’esterno. Gli affreschi che decoravano le pareti erano stati cancellati da secoli di incuria, e fregi e statue giacevano in pezzi sul pavimento dissestato.
Era una costruzione così piccola che impiegarono meno di dieci minuti ad esplorarla tutta, senza tra l’altro trovare nulla di utile nelle celle dei monaci ed in quella che doveva essere stata la dispensa.
Mentre si avvicinavano al sacrario, la fonte delle pulsazioni faceva sentire sempre di più la propria presenza, come una voce flebile e lontana che diveniva man mano più forte e chiara.
La sala in cui si trovava il sangue di drago era circolare e spoglia, piccola e per nulla imponente, con un semplice ma robusto piedistallo di marmo candido, stranamente pulito nonostante le condizioni in cui versava tutto il resto, completamente ricoperto di rune e simboli antichi.
L’ampolla era di vetro sottile, non più larga di un dito. Conteneva a stento qualche goccia di liquido, eppure irradiava un potere immenso, come un minuscolo sole nel suo universo isolato.
Ai piedi della colonna giaceva rannicchiato uno scheletro avvolto da un consunto mantello d’un rosso sbiadito.
Non sembravano esserci trappole, ma Farin non si fidava abbastanza da rischiare. Cautamente mise Meliandra alle proprie spalle, raccolse un pezzo di muro e lo scagliò sul pavimento della stanza. Attese qualche secondo, poi riprovò con un frammento più grande con il medesimo risultato.
«Direi che è sicuro» commentò la principessa.
«Così parrebbe.»
Si avvicinarono alla colonna col cuore a mille per la tensione, frementi per l’imponente presenza del sangue.
«Prendilo tu» sussurrò Farin. Per qualche ragione sentiva che era più giusto così. La ragazza annuì, tendendo lentamente la mano. Non appena le sue dita si strinsero attorno all’ampolla, il suo marchio brillò nuovamente di un azzurro intenso e pacifico. «E’ caldo» mormorò, stringendoselo al petto. Un sorriso radioso le attraversava il volto. Avevano conseguito un successo, un ulteriore passo avanti per scongiurare la guerra.
Si volse verso il mercenario, coi grandi occhi blu accesi di speranza, e gli porse quell’inestimabile tesoro. «Toccalo Farin.»
Lui tese istintivamente la mano, ma la ritrasse prima di sfiorare il vetro. «Tienila tu» disse, ringuainando Veheza. Meliandra lo seguì, leggermente delusa dal suo gesto. Fai proprio del tuo meglio per essere infelice, eh Farin?
Quando uscirono dal tempio i cavalli andarono docilmente loro incontro, mentre gli Shuma ululavano di frustrazione e paura, indietreggiando ad ogni passo che i due facevano. Anche dopo aver lasciato la piattaforma non osarono attaccarli, seguendoli da lontano.
Il bosco stesso risentiva dell’influsso del sangue: gli alberi schiarivano e le foglie morte sui rami e sul terreno tornavano al loro colore originale, dipingendosi del rosso e dell’oro propri dell’autunno; l’aria si faceva più pulita, priva dell’onnipresente odore dolciastro della putrefazione, e la costante sensazione di odio e minaccia della Valle si diradava. Solo l’oscurità costante rimaneva immutata, ma era anche meno densa e pesante, e veniva facilmente scacciata dalla luce delle torce.
Fu verso il tramonto, davanti ad un’insolita roccia a forma di croce, che Farin sgranò gli occhi e disse che si sarebbero accampati. Preparò il fuoco, le amache e la cena, il tutto in perfetto silenzio. Meliandra non fece domande, cosa di cui il ragazzo le fu segretamente grato.
Grazie alla presenza del sangue non ci fu bisogno di fare turni di guardia, quindi mangiarono con calma e poi andarono a dormire.
Farin attese ad occhi chiusi finché non sentì il respiro della principessa farsi pesante e si rialzò. Prese una torcia e si mise in marcia, camminando a passo sicuro nella notte. La sua meta non era distante, e seguendo i segni che aveva lasciato anni  prima la ritrovò con facilità.
Con sguardo spento, perso in un dolore profondo, il mercenario contemplò una lunga fila di lapidi di pietra, parzialmente ricoperte di foglie morte, sporcizia ed erbacce.
Il mercenario sospirò, trovò un posto dove fissare la torcia e cominciò a ripulirle con gesti secchi ma carichi di rispetto. Impiegò circa un’ora per eliminare ogni traccia di incuria, dedicando particolare attenzione alle due tombe centrali.
Quando ebbe finito vi si sedette accanto. Ne carezzò la rozza superficie squadrata, che aveva sbozzato lui stesso a colpi di spada, incurante delle schegge che gli volavano intorno lasciandogli ferite di cui ancora portava le cicatrici. «Mi dispiace Zenar» mormorò, ingoiando le lacrime che gli spezzavano la voce. Per un istante fu tentato di crogiolarsi nei ricordi, ma scacciò quel desiderio: già sapeva cosa lo aspettava alla loro fine.
Zenar, Mirdral, Alzack, Richard e gli altri. Quanti erano morti per causa sua? Quante vite poteva portarsi sull’anima un uomo da solo? Il loro peso lo schiacciava, ed ogni giorno era sempre peggio. «Non ce la faccio più Zenar. Sono stanco. Combattere è l’unica cosa che mi fa andare avanti.» Sfiorò ancora una volta il nome di uno dei pochi uomini che l’avevano chiamato amico e si rialzò. Con un gesto lento e solenne sguainò Veheza e si portò l’elsa al cuore, nel gesto di saluto insegnatogli da Alzack. Non l’aveva mai rivolto a nessuno all’infuori dei suoi compagni, e nessuno tranne loro l’aveva mai rivolto a lui. La fiducia che quel gesto esprimeva era cosa rara.
«Addio, amici miei» sussurrò. Gettò un ultimo sguardo alle lapidi, dopo di che tornò al campo.
Meliandra dormiva ancora profondamente, raggomitolata nel mantello, con i lunghi capelli corvini che le ricadevano scomposti sul viso. Il suo respiro li sollevava delicatamente, scoprendo a tratti le labbra.
Era una vista rilassante. La principessa era solo un lavoro, ovviamente, e tale sarebbe dovuta rimanere, ma era l’unica cosa viva che aveva al momento. Con tutti i suoi sforzi, con tutte le sue malevolenze, non era riuscito ad impedire a quella piccola regina in erba di entrargli in simpatia.
Non si rimise a dormire, perché sapeva che quella notte non gli avrebbero lasciato requie. Rimase invece a guardarla, con la schiena rivolta al fuoco e la mente che già pensava al giorno seguente.
 
 
 
Ebbene si gente, sono ancora vivo. Manco da eoni, ma sono ancora vivo. Mi sorprende che nessuno mi abbia droppato dopo i primi due mesi di assenza, ma non posso dire che la cosa mi dispiaccia. Cercherò di non sparire più per così tanto tempo.
Che dire, spero che sto capitolo vi piaccia.
Alla prossima gente (Stavolta senza far passare un'era geologica)
Sayonara! 

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