Truelife with a spoon of dreams.

di Lines
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Ubriacata da una goccia di Te. ***
Capitolo 2: *** Rimpiazzata. ***



Capitolo 1
*** Ubriacata da una goccia di Te. ***


Era una mattina d’autunno, dell’anno scorso.
C’era esattamente il tipo di clima che amo: il sole splendeva nel cielo terso, ma l’aria fresca
mi ricordava che l’inverno era alle porte.

Mi sentivo felice, per qualche motivo. In effetti conoscevo esattamente la causa di quell’allegria inensata:
Sabato sarei uscita con Lui.

Dopo incontri causali, messaggi allusivi sui social network, sguardi, sorrisi e ciao azzardati nei corridoi di scuola,
abbracci amichevoli e sigarette rubate…
Mi aveva chiesto di vederci.

Era passato del tempo dall’ultima volta che mi ero sentita così.
Sapevo benissimo che non sarebbe mai diventata una cosa seria e
che probabilmente quella sarebbe stata la prima e l’ultima volta.
Però avevo deciso di prenderla come veniva.

Mi ero stupidamente illusa di potermi comportare da maschio, di potermene fregare della parte sentimentale.
Mai sopravvalutarsi.

Le ore di scuola passavano veloci, noiose, come sempre, ma veloci.
Era un Giovedì che non valeva nulla, l’unica etichetta che affibbiai a quella giornata fu “Due Giorni Prima Di Sabato”.
Di certo non mi aspettavo che sarebbe successo quello che è successo.
 
La campana era appena suonata, stavo andando a casa per pranzo quando vidi sulla panchina in cortile un ragazzo alto,
con chioma ribelle e sorriso sghembo.
Conoscevo fin troppo bene quel modo di appoggiarsi alla panchina,
quella finta strafottenza che aveva sempre appiccicata addosso.

Mandai un messaggio a mia madre con scritto che mi fermavo al bar della scuola,
e con tutta la nonchalanche possibile passai davanti a quella panchina.

Mi prese per un braccio e mi sorrise, levandomi la tracolla e appoggiandola in terra.
-Ehi.. Che ci fai ancora a scuola?-
-Niente, ho una conferenza alle due… Tu?-
-Direttivo della scuola per le decorazioni della festa.
Ci fanno dipingere le scatole, pensa un po’. Però è divertente.- Mentre parlava non mi guardava.

-Ah,capisco… Che ore sono?-
-E un quarto… Manca un bel po’. Dai,raccontami qualcosa.-
-Non so… Dimmi qualcosa tu.- Torturai i capelli freschi di shampoo fino a che ogni singola ciocca
non venne lisciata nervosamente almeno sei volte.

-Sei bella,oggi. Stai bene truccata leggera. E poi quel maglione largo…-
-Grazie… Cos’ha il mio maglione?!-
-Niente. Mi fa venire voglia di immaginare cosa c’è sotto.-
Arrossii violentemente a quelle parole.
Anche perché non sono proprio una di quelle che pagheresti per vederle nude,insomma…

-Piantala.-
-Perché? Mi diverte. Anzi,mi eccita.-
Dicendo questo si avvicinò al mio volto, e proprio quando pensai che mi avrebbe baciato si allontanò di scatto e prese una Lucky Strike,
la accese e poi me la porse.

-Guarda,abbiamo lo stesso accendino…-
-Sì, sono azzurri Puffo!- Mente sorrideva come un bambino, sistemava i due accendini in pose compromettenti.
Scoppiai a ridere fragorosamente, mentre lui mi sbirciava con l'angolo di quell'iride di caramello.

-Andiamo a farci un giro,che ne dici?-
-Ok… Ma dove vuoi andare? Fra poco dovremmo iniziare a muoverci…-
-Tranquilla, solo un giretto.-
Camminava veloce, come se non facesse caso a me. I suoi passi erano cadenzati,spavaldi.
Ostentava davanti al mondo tutta la spensieratezza e la voglia di vivere di un diciassettenne qualunque, ma dietro quell'atteggiamento non troppo studiato leggevo la tristezza e la delusione di chi ha appena perso un'amante.

All’improvviso me lo trovai parato davanti. Per la prima volta mi sentivo davvero guardata da lui, sentivo quel profumo
di ammorbidente della sua felpa col cappuccio e giurerei di aver percepito anche i battiti del suo cuore farsi piu' veloci. Sempre piu' lenti dei mei,comunque.
Eravamo al piano terra, davanti al bagno dei maschi, e per i corridoi passeggiava un silenzio tranquillo.

Si avvicinò al mio viso con chiare intenzioni, ma nel momento esatto in cui mi protesi per baciarlo si scansò e con un gesto gentile mi tirò dolcemente oltre la porta.
-Cosa avresti intenzione di fare?- Cercai di assumere un'aria indignata e perplessa,alzando un sopracciglio. Con scarsi risultati.
-Io? Niente… che tu non voglia fare.- La malizia traboccava da ogni suo gesto come cioccolato da una fontanella.
Dicendo questo mi spinse senza troppa violenza contro il muro gelido e iniziò a baciarmi con traporto.
“Con trasporto” è un po’ riduttivo, perché aveva una foga e una passione tali che quasi mi spaventai.
Mi sfiorava la pelle, mi stringeva, mi leccava il collo e le orecchie, infilava le mani nei miei capelli e mi morsicava le labbra con eccessiva veemenza.
Il suo alito sapeva di caffè scadente delle macchinette, tabacco e dentifricio. Il sapore migliore del mondo.

La parte del mio cervello che non era assuefatta ed inebriata da lui mi comunicò che c’erano delle persone in avvicinamento.
Senza dire una parola mi posò,anzi,mi strinse una mano sulla bocca e mi tirò,stavolta con decisione e forza,dentro un bagno,
chiudendo a chiave con il lucchetto arrugginito.

Mentre dei ragazzi bevevano e si lavavano le mani, interloquendo fra di loro con parole colorite tipiche del nostro dialetto,
Lui si levava con impazienza la felpa rossa e la appendeva al gancino della porta.

Sempre con quei ragazzi al di là della scassata porta di legno e cartone, riprese a baciarmi sul collo, sulle guance, sulla bocca,
accarezzandomi la schiena da sotto i vestiti.

Poi mi levò il maglione con un movimento calcolato che non lasciava tempo a repliche (il mio maglione preferito,
quello color tortora comprato in America,accidenti) e lo gettò a terra senza troppi riguardi.

Lo rimproverai con un’occhiata furente, ma lui mi appoggio' un dito ruvido per i calli della chitarra sulle labbra e continuò imperterrito.
Era decisamente eccitato, accaldato e quasi… famelico. Affamato.
Quando finalmente ragazzini se ne andarono,si sentì libero di slacciarsi (e di slacciarmi) il bottoncino dei jeans.
Ora, credetemi, se vi foste trovate in quella situazione difficilmente vi sareste fermate, ma quel minimo di amor proprio
che avevo per me e per la mia reputazione mi suggerì caldamente di smettere prima che fosse troppo tardi.

Sembrava alquanto deluso dal fatto che tenessi le braccia avvinghiate al suo collo e non alle sue mutande,
quindi mi prese le mani con la finta scusa innocente di baciarle e se le infilò letteralmente nei boxer. Cio' che prima premeva all'altezza del mio bacino adesso pulsava sotto le mie dita.

Non avevo il coraggio di rifiutarmi, perché temevo che non avrebbe piu’ voluto uscire con me, avevo una paura folle di perderlo prima ancora di averlo.
Perciò, dopo un attimo di esitazione, iniziai a toccarlo,prima dolcemente e poi piu’ veloce, sperando che continuasse a baciarmi
e non notasse l’espressione colpevole che avevo stampata in volto.

Quando riportai le mie mani dove dovevano stare, mi chiese se c’era qualche problema e gli dissi semplicemente che
era quasi ora di andare e non mi sembrava il caso di spingersi oltre.

Lui, in risposta, iniziò a baciarmi il collo e il seno, anche se mi ero tassativamente rifiutata di levarmi altri indumenti,
facendomi sussultare al contatto con le mattonelle gelide e le sue mani bollenti.

Dopo un po’ mi mise le mani sulle spalle e mi sussurò una frase che all’inizio non capii…
Vai giu’.
Quando ne appresi il significato,allibita e un po' scossa, a malincuore mi spostai e feci per vestirmi.
Quello decisamente non lo avrei fatto.
A lui avrei fatto di tutto, ma sicuramente non una cosa del genere nel bagno della scuola prima di una conferenza.
Lui mi fermo e provò un paio di volte a farmi cambiare idea, senza successo. Ero un po’ spaventata perché era piu’ che una richiesta, mi stava… quasi costringendo.
Presi come scusa quella di controllare l'orario,ma effettivamente mi resi conto che entrambi i nostri impegni ci avrebbero voluto presenti da almeno mezz’ora prima,
quindi raccolsi in fretta il mio maglione e me lo infilai, gli lanciai la felpa e mi fiondai fuori da quel dannato bagno, grata per una volta alle lancette dell’orologio.

-Allora, beh, ci vediamo Sabato… Se vuoi ancora uscire.- Pronunciai quelle parole sottovoce, quasi avessi paura della risposta.
-Cosa ti fa pensare il contrario? Vai, e pettinati un po’,magari, che sembri uscita da un frullatore.-
-Colpa tua.-
Un ultimo bacio fugace e poi mi precipitai alla conferenza… Quel che riuscii ad ascoltare mi entrò da un orecchio e mi uscì dall’altro,
avevo la testa decisamente da un’altra parte.

I miei amici si accorsero che qualcosa non andava in me,però non mi fecero domande sul motivo del ritardo.
Provavo piacere, vergogna, esaltazione, senso di colpa, paura, delusione.
Emozioni complementari e contrastanti, tutte nello stesso momento.

Certo, quel ragazzo si era ormai portato via un pezzo di me, ero consapevole di quanto mi interessasse,ma...
Sapevo anche che lui era ancora innamorato di Lei.

Già,Lei,l'ex fidanzata di una vita.
La G incisa ad ago e china sulla sua mano destra mi ricordava in ogni istante che il suo cuore non sarebbe mai stato mio.

Ce l'ho anche io un tatuaggio fai da te come quello, una insulsa stellina da tredicenne. Stesso punto,significato zero.
In quel momento ancora non lo sapevo, ancora non potevo nemmeno immaginare quello che Lui avrebbe provocato nella mia testa.
Ero ancora felice.

Felice ed illusa.
L.

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Capitolo 2
*** Rimpiazzata. ***


Esiste un’emozione terribile,senza rimedio.
Al dolore basta il tempo, all’amore un tradimento, alla delusione delle scuse, al lutto la fede o la rassegnazione,
al rimorso il pentimento, alla noia un buon libro.
Ma quando ti senti rimpiazzata non esiste nulla che possa farti sentire meglio.
A me è capitato, e tutt’ora, dopo quasi tre anni, non mi sono ripresa.
Ad abbandonarmi per qualcosa di nuovo è stato infatti colui che piu’ amavo,rispettavo,idolatravo ed ammiravo:
è stato mio padre.

 
Era una fredda sera invernale, il cielo aveva pianto ininterrottamente per ore grossi e soffici fiocchi di neve
che in quel momento vestivano l’erba,le strade e le montagne di un manto candido e cristallino.
Mi trovavo nell’ appartamento sulle Alpi con mia sorella e mio padre, che non incontravo da almeno un mese.
Ero così contenta di vederlo, nonostante tutto.
Certo, il divorzio era un gran bel casino ma ero fermamente convinta che lui e la mamma ne sarebbero usciti presto,
e che le cose si sarebbero sistemate.
Nonostante le insinuazioni dei parenti, l’ira incondizionata di mia sorella, le voci di corridoio e i miei sospetti personali,
volevo ancora bene a mio papà.
Fra i miei andava molto male da anni, ormai, ed era inevitabile che si separassero.
Senza contare la presenza di questa donna, B., che girava intorno al mio papi come una mosca schifosa su un vasetto di miele.
Pensare che ero così amica di sua figlia. Mi sarebbe piaciuto averla come sorella,
al posto di quella depressa cronica con crisi d’autostima che mi ritrovavo.
Avevo appena finito di servire la pasta al pesto cucinata con tanto impegno
(visto che mio padre sa a malapena arrostirsi un toast e Miss Principessa dell’Oltretomba non avrebbe alzato un dito)
quando mi accorsi che c’era nell’aria qualcosa di strano: troppi sorrisi, troppi per favore, troppa fretta di sparecchiare.
Quando lui si infilò i guanti di lattice e iniziò a lavare la pentola con il detersivo per pavimenti, ebbi la conferma dei miei sospetti.
Papà ci fece accomodare sulla panca di legno, poi si sedette con estrema calma davanti a noi e iniziò a parlare con quel suo solito tono bonario.
Gli occhi blu anticipavano una notizia piu’ grande di lui.
-Ragazze, devo dirvi una cosa. Non brutta, bella, cioè, per me stupenda, ma penso anche per voi.
Ormai lo avrete capito che fra papà e la mamma le cose non si risolveranno mai… Non ci amiamo piu’… Quindi… Insomma…-
-B. è incinta!-
-B. è incinta.- Vomitai quelle parole pescandole da qualche parte nel mio subconscio, stupendomi di me stessa e spaventando addirittura papà,
che ora ci sorrideva a trentadue denti.
-Da quanto?- Chiesi, gelida. Non ero ancora pronta a digerire la notizia, ma la curiosità fu per un attimo piu’ forte dello chock.
-Cinque mesi… E’ un maschietto.-
-Ah… Pensavo avesse messo su qualche chiletto di troppo. Congratulazioni.- L’apatia della mia voce trasudava tutta la delusione
che mi stava investendo in quel momento. Non riuscivo proprio a trovare neanche mezzo motivo per essere felice di una cosa del genere, vi giuro che lo avrei pagato oro.
Mia sorella non disse una parola, farfuglio’ un bene, non me ne frega niente e torno’ ad eclissarsi nella sua bolla di indifferenza, mentre io ancora sanguinavo.
-Lo chiamerò…Emanuele. Come mio padre.-
-Cristo, papà, MI CHIAMO IO COME IL NONNO! Non puoi farmi questo! Io, io… ti odio! Vai a quel paese!
Neanche è nato e già mi frega il posto! Ti odio!-
Era veramente troppo, all’inizio pensavo scherzasse, poi ho letto nei suoi occhi e ho capito che lo avrebbe fatto sul serio.
Non era possibile, non era vero. Non poteva assolutamente essere.
Mi buttai addosso la giacca a vento ed uscii sbattendo la porta, urlando di non cercarmi per l’ora e mezza successiva
e che quando mi fossi calmata sarei tornata da sola.
I fiocchi di neve fecero compagnia alle mie lacrime salate fino a quando arrivai alla piazza del paese,
e non sapendo cosa fare citofonai a casa della mia compagna di classe.
Mi rispose svogliata, tuttavia dopo pochi minuti la vidi corrermi incontro.
Le buttai letteralmente le braccia al collo e scoppiai.
Non che non stessi già piangendo, ma mi misi ad urlare ancora piu’ forte e a stringerla fino a soffocarla nel pelo del cappuccio.
Dopo una mezz’ora smisi di piangere e le spiegai la situazione.
Lei si mise ad insultare mio padre con espressioni poco adatte ad una quattordicenne, però la sua solidarietà mi tirò un po’ su,
quanto bastò per permettermi di entrare nel bar senza dare troppo nell’occhio e ordinare due cioccolate calde con doppia panna montata.
Era abbastanza tardi quando mi decisi a rincasare, ma papà mi aspettava sveglio sul divano.
Avevo volutamente lasciato il cellulare sul tavolo, ma non ebbe il coraggio di rimproverarmi…
Semplicemente mi guardò con gli occhi gonfi e mi disse che mi voleva bene e che non mi avrebbe mai rimpiazzata con nessuno.
Non gli credetti e andai a letto vestita. E feci bene.
In Aprile nacque il bambino, ma non volli conoscerlo.
Per piu’ di un anno mi rifiutai sempre di incontrarlo.
Vedere le sue foto sugli sfondi di cellulare e laptop, sentire mia nonna chiamarlo piccolo Mele, entrare in macchina
quella volta alla settimana e dovermi sedere davanti perché dietro c’era il seggiolino, mi faceva bruciare il cuore.
Da quel momento, le cose cambiarono per sempre.
So che in fondo mi vuole sempre bene, ma devo dividere il mio posto con lui.
Non ho piu’ l’esclusiva, non sono piu’ la cocchina di papà.
E mi manca.
Mi manca terribilmente potermi fidare di lui.

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