Nient'altro importa.

di HarryJo
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Per la prima volta. ***
Capitolo 2: *** Lascia che sia. ***
Capitolo 3: *** Lei è un mistero. ***
Capitolo 4: *** Segreto ***
Capitolo 5: *** Questo è un appello. ***
Capitolo 6: *** Lo spirito va avanti. ***
Capitolo 7: *** Dietro agli occhi blu ***
Capitolo 8: *** Qualcuno come te ***
Capitolo 9: *** Nero ***



Capitolo 1
*** Per la prima volta. ***


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Capitolo 1

Capitolo 1.

 

Per la prima volta.

 

 

 

We just now got the feeling

That we’re meeting

For the first time.

- The Script.

 

 

 

 

 

La porta si aprì all’improvviso facendomi sobbalzare ed alzando la testa mi accorsi di essermi assopito sopra il libro di filosofia mentre ascoltavo musica; la guancia destra aveva preso la forma della pagina su cui mi ero beatamente addormentato e l’auricolare dell’mp3 pendeva distrattamente dall’orlo del tavolo.

« Riccardo! » Nella voce di mia madre si sentiva un bel rimprovero, come minimo una strigliata d’orecchi con la solita predica. Già mi preparavo alla solita risposta: sì, mamma, lo so che devo studiare. Sì, mamma, lo so che ho gli esami di maturità quest’anno. Sì, mamma, lo so che la musica non mi porterà da nessuna parte, ma devi ammettere che nemmeno la filosofia lo farà.

« C’è Giacomo al telefono, vuole parlarti per il concerto di domani » disse invece, senza nessun accenno allo scarso impegno che avevo nei confronti della scuola. Quel giorno sarebbe stato da ricordare solo per quello.

Mi alzai di scatto senza pensarci due volte. Non avevo nessun riflesso che fosse più rapido di quello che mi veniva quando si trattava di musica, o meglio, di suonare.

Presi il cordless e cominciai a camminare avanti e indietro per la stanza mentre parlavo con Giacomo, il mio batterista. L’indomani avremo suonato nella nostra scuola in occasione della giornata della memoria, e, anche se non era la prima volta, ero eccitatissimo all’idea di suonare davanti ai tremila studenti del nostro liceo scientifico. Era una bella soddisfazione.

« Ehi, Jack. Come va? » gli dissi tutto contento.

« Non molto bene purtroppo. Ho la febbre a 39 e non sembra volersi abbassare » disse tossendo.

« Che cosa?! Ma domani puoi suonare, vero?! »

« Ma ti pare che io possa? Quando l’ho chiesto a mia madre ha cercato di uccidermi con lo sguardo, sai com’è quella donna! »

In effetti Giacomo era piuttosto cagionevole di salute, e, ogni volta che aveva anche solo un piccolo raffreddore, sua madre lo teneva a casa per giorni, preoccupata che si potesse evolvere in qualcosa di più.

« E che facciamo per il concerto? » chiesi allarmato.

« L’unico modo è cercare un altro batterista, oppure non lo facciamo e basta » mi rispose.

« Ma neanche per sogno! » Non avrei mai rinunciato a quel concerto, neanche se fosse stata questione di vita o di morte. « Tu dimmi, conosci qualche batterista valido nella nostra scuola che potrebbe conoscere le canzoni? »

« È tutta adesso che ci penso, ma non saprei proprio. Ci sarebbe Matteo, ma ti odia a morte, non verrebbe mai a suonare con te ».

Sbuffai. Quel ragazzo era un bravo batterista, forse molto più di Giacomo, ma il suo ego era tanto da far schifo, ed io non lo potevo sopportare.

« Nessun altro? » chiesi speranzoso.

« Eh, non è che non ce ne siano, anzi, siamo pieni di batteristi lì a scuola! Pensa che all’autogestione eravamo il gruppo più numeroso, tanto che la preside era venuta a… »

« Taglia corto » lo fermai, impaziente di trovare un sostituto al più presto.

« Beh, il punto è che trovare un batterista che conosca le canzoni e che le sappia suonare bene è difficile, soprattutto con un anticipo così breve ».

« Argh! Non è giusto, Jack! » esclamai furioso.

« Senti, amico, non ci posso fare niente, domani vai lì e cominci a chiedere chi ha voglia di suonare un po’. Se trovi qualcuno bene, sennò amen ».

Riattaccai senza dire parola, e poi mi accasciai sul letto disperato.

Ma perché proprio a me? Perché Giacomo doveva stare male proprio quel giorno? Lo aspettavo da così tanto tempo, tutti sapevano quanto importanti erano per me i concerti.

Mi torturai con quel pensiero fino all’ora di cena, e fu motivo di discussione anche con i miei.

« Riccardo, qualche problema? Sembri stravolto » aveva detto mia madre, con tono gentile.

« Giacomo sta male, quindi domani non può suonare e io non so chi potrebbe sostituirlo » avevo risposto arrabbiato mentre mangiavo un boccone troppo grande di pasta e rischiavo di soffocarmi.

« E per queste cose ti arrabbi in questo modo? Ragazzo, sono altri i problemi della vita » mi aveva rimbeccato mio padre.

« Per me è importante » e con queste parole mi ero alzato da tavola, senza terminare la cena. Loro non avrebbero mai capito quanto per me era importante la musica.

Certo, dopotutto, non potevo biasimarli. Sapevo che per me progettavano un futuro ben diverso da quello che volevo io, mi volevano vedere con un lavoro stabile, con un livello di istruzione che mi avrebbe permesso di aver più possibilità. Ma non potevano lamentarsi: a scuola andavo molto più che bene, e alla fine ciò che mi chiedevano l’avevo sempre fatto.

Se avessi rimosso la chitarra dai miei pensieri, forse per loro sarei stato perfetto.

Ma io mi sentivo perfetto così, e non ci trovavo niente di male.

Ricordavo ancora in ogni minimo particolare com’era iniziata. Ero alle elementari, e stavo tornando a casa a piedi da scuola, un venerdì pomeriggio. Si solito tornavo stressato, non mi piaceva fare i rientri, eppure quel giorno ero euforico, perché la bellissima Chiara mi aveva dato un bacino sulla guancia. Contento com’ero, avevo deciso di andare a casa per le stradine più nascoste di Cureggio ed evitare le vie principali. Così facendo ero passato davanti alla scuola di musica del mio paese. Lì, avevo sentito per la prima volta suonare qualcuno dal vivo. Lì avevo sentito per la prima volta una chitarra che non fosse stata suonata per un cd. Lì mi ero messo ad origliare quei suoni, e dopo quella prima volta ne seguirono molte altre, finché i miei non si erano rassegnati all’idea di mandarmi a suonare e comprarmi una chitarra.

Da quel giorno, io e la mia Fender Stratocaster eravamo diventati inseparabili.

Le cose che amavo di più erano i saggi: mi permettevano di far vedere, o meglio, di far sentire ai miei genitori quanto per me era importante la musica e quanto quindi per me era importante continuare a suonare. E non era solo quello, era proprio una sfida con me stesso, una sfida in cui ci mettevo l’anima.

Per quello, quando ci avevano proposto di suonare a scuola non avevo avuto un minimo di esitazione.

Giacomo era il mio batterista da anni.

Avevamo fondato noi il nostro gruppo dopo esserci conosciuti per caso ad una festicciola di un’amica comune: avevamo iniziato a parlare e subito ci siamo ritrovati come gusti musicali, entrambi suonavamo e volevamo sfondare… Ci potevano essere condizioni migliori per creare una boy band? Poco tempo dopo siamo diventati anche migliori amici, stessa scuola, stessa classe.

Inseparabili, oserei quasi dire.

Non riuscivo a credere che per la prima volta sarei dovuto andare sul palco senza che le sue mani mi battessero il tempo. Sarebbe stato meglio trovare qualcuno di bravo, che non mi facesse sfigurare dopo tutti quei giorni persi a provare.

E con quel pensiero, mi addormentai.

 

La mattina dopo fu traumatico l’alzarsi dal letto.

Non ero abituato a svegliarmi così presto, ma forse era un sacrificio che valeva la pena di sopportare.

Preparai tutto con cura: la mia amata chitarra, il mio amplificatore, i cavi, i plettri e tutto ciò che mi sarebbe servito per il concerto di quel giorno. Ero pronto.

Mi mancava solo il batterista.

Perciò non mangiai nemmeno quella mattina, spronai mio padre a trascinarmi a scuola prestissimo e cominciai a chiedere a chiunque passasse: « Scusa, tu per caso sei un batterista? O conosci qualcuno che lo è e che potrebbe aiutarmi? »

« No » mi risposero tredici ragazzi.

« Sì » dissero invece in due.

«Conoscete queste canzoni? » chiesi a questi due tendendo loro una lista che conteneva sei brani. Per la precisione, Don’t Cry dei Guns N’ Roses, The promise land di Bruce Springsteen, Let it be dei Beatles, Wasting Love degli Iron Maiden, In a darkened room degli Skid Row e, ultima e più importante, Nothing Else Matters dei Metallica.

Entrambi scossero la testa però, non le sapevano suonare, o almeno, non tutte.

Mi accasciai contro il muretto della scuola e mancava un quarto d’ora per l’inizio delle lezioni, ed io non avevo tirato fuori un ragno dal buco.

« Scusa, in giro dicono che ti serve un batterista che conosca alcune canzoni, è vero? » disse poi una voce femminile, e mi voltai a guardare chi aveva parlato.

Una ragazza - sarà stata al terzo anno - bionda, con due bellissimi occhi verdi, era davanti a me che attendeva risposta.

« Sì, disperatamente. Per caso conosci qualcuno? » le chiesi con l’ultimo filo di speranza. Annuì, e mi sentii sollevato.

« Certo. Lei » e mi indicò una persona con un dito.

Capelli castani, molto magra, piuttosto bassa, chiacchierava con alcune amiche tranquilla.

« Lei? » chiesi sospettoso.

« Sì. Non sei convinto? »

Non risposi. No, non ero affatto convinto, ma dirlo ad alta voce mi sembrava brutto.

« Dopotutto, che alternative hai? » mi chiese la bionda, lanciandomi un’occhiata e poi urlò: « Elena! »

La ragazza castana si girò verso di noi e ci venne incontro. Non era male, aveva dei bellissimi occhi azzurri, ma quello che mi colpì subito fu una collanina che pendeva distrattamente dal suo collo, un cuore con una lettera: D.

« Ehi cara, come stai? » domandò alla bionda.

« Tutto bene. Senti conosci queste canzoni? » Prima che me ne potessi accorgere mi aveva già sfilato da mano la scaletta che avrei dovuto eseguire.

« Ovvio. » rispose Elena.

« E le sai suonare? »

« Sì ».

La sua voce sembrava essersi fatta più flebile a questa domanda.

« Potresti suonarle oggi alla conferenza col suo gruppo? Il loro batterista si è ammalato » continuò la ragazza bionda, indicandomi. Ma insomma, non potevo fare io qualche domanda? Mi davano estremamente fastidio le persone che parlavano di me come se non fossi lì presente accanto a loro.

Elena si rivolse direttamente a me, come se mi avesse letto nel pensiero.

« Chi sarebbe il vostro batterista? »

« Giacomo Grimaldi » risposi con un fil di voce.

« Ok. E vi va bene come suona? » si informò, per non capivo quale motivo.

« Sì » risposi.

« Bene. Se ti serve una mano, io ci sto » mi disse, e vidi i suoi occhi inumidirsi per un secondo. O forse era solo una mia impressione.

Acconsentii.

Dopotutto, che altro avevo da perdere? O lei, o nessun altro.

 

Quel giorno la incontrai per la prima volta.                                                        

 

 

 

 

 

 

{ Spazio HarryJo.

Eccomi qui, che inizio a torturarvi con un’altra long ^^

Beh, questa è diversa dalle altre, e non tratterà solo d’amore. Ovviamente, un punto importante di questa fic è la musica. Mentre per il resto, beh, lo scoprirete.

Se avete voglia, mi dite perché secondo voi ad Elena sono venute le lacrime agli occhi all’idea di suonare? Potete anche semplicemente dire che non ne avete idea xD Son solo curiosa di sapere che vi passa per la testa leggendo le mie schifezze :D

A presto allora miei cari,

Erica :)

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Capitolo 2
*** Lascia che sia. ***


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Capitolo secondo.

 

Lascia che sia.

 

She is standing right in front of me

Speaking words of wisdom: let it be.

-          The Beatles.

 

 

 

Avevo una ragazza, si chiamava Sofia.

Stavamo insieme da qualche settimana, e mi piaceva molto. Aveva i capelli neri, lunghi e lisci e due occhi marroni bellissimi, che risaltavano particolarmente quando lei li contornava con il trucco, cioè, praticamente sempre.

Era davvero bello passare il tempo con lei: espansiva, vivace, non mi avrebbe mai deluso. Con i miei amici non si trovava mai in imbarazzo, e credo fosse per questo che stava molto simpatica anche a loro.

Quel giorno, prima di iniziare il concerto, lei venne da me ad augurarmi la buona fortuna, ed io ero talmente agitato che mentre cercavo di darle un bacio sulle labbra, mi scontrai con il suo naso, facendola ridere.

« Dai, Riccardo, andrai benissimo, già lo so! » mi disse e scappò via con le sue amiche a cercare un posto all’interno dell’aula magna.

Era enorme quel posto. L’avevo sempre adorato, perché aveva il pavimento inclinato verso il basso, con una marea di posti a sedere. Mi sentivo sempre piccolo ad entrarci, ma quel giorno, iniziando a preparare le mie cose al centro esatto della stanza, più che piccolo cominciai a sentirmi davvero insignificante.

Mentre iniziava l’affluire dei ragazzi delle varie classi, io mi agitavo sempre di più. Nicola alla mia destra stava accordando il basso con aria svogliata, tremendamente tranquillo. In tutto il tempo che lo conoscevo non ero mai riuscito a beccarlo una volta che fosse una con un po’ di agitazione. Per questo un po’ lo invidiavo, ad essere sincero: era sempre se stesso, e riusciva a controllare le sue emozioni.

Il cantante invece, Paolo, era a parlare con i professori, e si stava mordicchiando un labbro. Era completamente l’opposto di Nicola, lui non era mai sicuro di se stesso, l’emotività prendeva sempre il sopravvento sul suo cervello.

E poi c’ero io, la via di mezzo. Io che, d’altro canto, quel giorno ero l’ansia fatta persona.

Non riuscivo nemmeno ad accordare bene la mia Fender, anzi, proprio non ne ero capace. In quei momenti di solito c’era Giacomo che mi tranquillizzava con le sue pessime battute, ma quel giorno lui non c’era.

« Dammi » mi disse una voce femminile alle mie spalle.

Mi girai, ed Elena tendeva il braccio indicando la mia chitarra.

Spontaneamente la strinsi ancora di più a me.

« Eh? No no, mi arrangio, sta pure tranquilla. Piuttosto, lì ci sono le bacchette con cui puoi suonare » e gli indicai il paio di Vic Firth sopra alla sedia della batteria.

La vidi scrutarle per un attimo, poi le prese, con un gesto lentissimo. Sembrava quasi che ci stesse parlando insieme grazie ad un contatto visivo. Si girò verso di me e mi scoprì osservarla, al che arrossii molto e, per evitare di parlarci insieme, mi sedetti sopra al mio amplificatore e continuai a strimpellare la chitarra cercando di accordarla.

« Sei troppo agitato » notò Elena, accucciandosi vicino a me.

« Ci tengo molto, tutto qui » le risposi.

« Se vuoi te l’accordo io ».

« No, grazie ». Non riuscivo a capire bene il perché ma ancora diffidavo di quella ragazza.

« Come ti pare » rispose alzando le spalle.

Dopo cinque/sei minuti però mi ritrovai a doverle chiedere aiuto, con la coda tra le gambe.

« Sai suonare anche la chitarra? » le chiesi, quando mi restituì la Fender dopo appena due minuti ed accordata perfettamente.

« Io sono una batterista. Mio padre era un chitarrista e mi ha insegnato qualcosina; come per esempio come accordarla. Ma non chiedermi altro, a parte le note e qualche accordo qui e lì, mi perderei ». Sorrise.

« Grazie » mormorai imbarazzato.

« Figurati. Ti fai prendere sempre così dall’ansia? »

« Più o meno… Di solito c’è Jack, con lui sono più a mio agio » le spiegai, accarezzando il manico della chitarra.

« Ah, capisco. Beh, non sono Giacomo, ma un consiglio te lo do comunque. Lasciati trascinare. Lascia che sia la musica a comandare ».

La guardai stupefatto, ma prima che potessi dire alcunché il preside della scuola prese parola.

Persino Paolo era pronto.

E quando le prime note di Let it be iniziarono ad avvolgere l’intera sala, chiusi gli occhi e sentii le parole di Elena risuonarmi nella mente.

Lascia che sia la musica a comandare… Lascia che sia la musica…Lascia che sia… Let it be.

Finalmente anche quella canzone aveva un senso.

Scoprii ben presto di dovermi ricredere su Elena.

Era perfetta. Stava a tempo, mi sentivo bene come quando suonavo con Giacomo, ma la sua musica era diversa.

Faceva qualcosa di strano mentre suonava il charleston, non riuscivo ben a capire che cosa, ma era come se stesse dando un colpo più leggero e in un tempo breve subito dopo al colpo normale e standard che segnava il susseguirsi degli ottavi.

Non sapevo spiegarmelo bene in realtà: il mio mondo era fatto di assolo, di corde strimpellate, non di bacchette, piatti e tamburi.

Però c’era qualcosa di speciale. Lei contribuiva a rendere la musica più vera, come se la sentisse propria, come se fosse lei stessa parte integrante della canzone.

Mi girai più volte ad osservarla, ma la vidi semplicemente intenta a suonare, con un sorriso un  po’ triste, e gli occhi – stavolta ne ero sicuro – tremendamente lucidi.

Una dopo l’altra le canzoni si susseguirono, e non saprei dire quale venne meglio. Sbagliai qualche nota, ma fui bravo a camuffare i miei errori, perciò non me ne preoccupai: l’importante era non fermarsi. L’importante era continuare a suonare, cantare e sorridere. L’importante era non cadere in panico.

Nient’altro importava.

Nothing else matters

Con le note di quell’ultima canzone si concluse quel piccolo concerto.

Sentendo gli applausi mischiati ad alcuni fischi di ammirazione mi risollevai e sorrisi, fiero.

Era quello che desideravo per me, per la mia vita.

Mi girai per ringraziare Elena. Era stato tutto così perfetto, proprio come avevo desiderato, e solo grazie al suo aiuto. Ma prima che potessi anche solo vedere il suo volto, mi passò davanti mentre fuggiva via, lontana, diretta verso la porta d’uscita, ed un attimo dopo di lei non rimase nulla.

Quando mi era passata vicino, l’avevo sentito chiaro e forte, inconfutabile, triste.

Un singhiozzo.

Non so per quale motivo, ma poggiai la mia chitarra vicino al muro e la seguii.

Nel corridoio però non c’era nessuno.

Mentre tornavo all’aula magna, Sofia mi raggiunse e mi disse: « Ehi, sei stato bravissimo, lo sapevo! »

« Grazie cara » le risposi sfiorandole le labbra con un leggero bacio.

« Ma perché te ne sei andato via in quel modo? »

« Eh, sai la ragazza che ha sostituito Jack? »

« Sì ».

« È fuggita via appena finito il concerto senza neanche lasciarmi il tempo di ringraziarla, volevo vedere se riuscivo a beccarla in corridoio, ma evidentemente è già scappata da qualche parte. Fa niente » dissi, scrollando le spalle.

« Ah, forse aveva un impegno! » mi rispose Sofia, quasi come se lo ritenesse ovvio. « Forse ha un ragazzo che la aspettava… »

Pensai alla collanina con la lettera D che avevo notato quella mattina.

« Sì, hai ragione ».

Per qualche strano motivo però sentivo che non era così.

Insomma, perché quel singhiozzo allora?

C’era qualcosa che non quadrava bene in quella storia, ma decisi di lasciar perdere.

« Vieni a pranzo con me, Paolo e Luca? Pensavamo di restare qui a scuola a mangiare un boccone, e poi andare a fare un giro nel negozio di dischi che c’è in centro » dissi a Sofia.

« Volentieri. Aspetta, avviso Maria che vengo con voi allora. Aspettami al bar » disse prima di scomparire tra la folla.

Ritornai con i pensieri ad Elena.

Chi era? Chi era D? Cos’è che faceva col charleston? Ma soprattutto, perché aveva singhiozzato?

Quel pianto, quasi sussurrato, e la sua esile figura che spariva dietro la porta di ingresso mi aveva mandato il cervello in tilt.

 

 

 

 

 

{ Spazio HarryJo.

Cercando di pubblicare un capitolo a settimana, eccomi di nuovo qui!

Allora, che ne dite? Sono riuscita ad incuriosirvi almeno un po’?

Spero tanto di sì. Fatemi sapere cosa ne pensate del capitolo con una recensione, se vi va.

Ah, devo ringraziarvi, siete davvero tanti già adesso che mi recensite/seguite/ricordate/preferite.

*Erica si inchina onorata*

Grazie mille per tutto ragazzi, a presto!

Erica

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Capitolo 3
*** Lei è un mistero. ***


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Capitolo 3

 

 

Lei è un mistero.

 

She’s a mystery, my most beautiful regret

I will never understand her.

- Bon Jovi

 

 

« Allora, andiamo? »

La voce di Sofia mi tolse dai miei continui pensieri.

Eravamo al bar della scuola. Non era molto grande in realtà: qualche tavolino e un po’ di corridoio, tutto lì il trucco. Da mangiare c’erano sempre un sacco di cose: le piadine – quelle le avrei divorate a quintali – le pizzette (rotonde e quadrate, e no, non erano la stessa cosa), i toast, i panini, i gelati, e un sacco di pietanze di cui non sapevo il nome, ma che erano buonissime.

Ok, ero molto goloso. Mangiavo di continuo, eppure ero magro, terribilmente magro. Per questo mi invidiavano: io in realtà non ci facevo quasi caso.

« Ci sediamo lì? » mi chiese Paolo, indicando un tavolo vuoto.

Annuii, e appoggiai la mia cartella vicino ad una sedia lì vicina, per dirigermi a fare la fila per prendermi da mangiare. Sofia aveva deciso di andare a prendersi un pacchetto di patatine dalle macchinette pur di non restare in coda: era una cosa che l’innervosiva parecchio.

Io, d’altro canto, avrei aspettato anche ore, pur di mettere sotto i denti qualcosa di caldo ed appetitoso.

Mentre raggiungevo il bancone, una decina abbondante di minuti dopo, mi scontrai con una persona.

« Scusa » le dissi, senza nemmeno guardarla.

« Fa niente » rispose una voce femminile, che riconobbi subito.

Mi girai di scatto: Elena era lì davanti a me, con un biglietto di prenotazione in mano, che aspettava di essere servita.

Non sembrava essersi accorta che io ero il chitarrista con cui aveva suonato prima, quindi la salutai.

« Ehi, ciao ».

Si rivolse a guardarmi per un secondo, mi riconobbe e mi fece un cenno col capo, prima di prendere il vassoio che la donna del bar le stava servendo e uscire dalla fila. Piadina, toast e pizzetta rotonda: quella ragazza aveva buon gusto, oltre che un buon appetito.

Poco dopo servirono anche me, ed io cercai subito con lo sguardo Elena.
Era seduta sola, poco distante dal mio tavolo, e stava mangiando in silenzio.

Non ci pensai due volte e mi avvicinai.

« E tu che ci fai qui? » le chiesi, sperando finalmente che fosse l’occasione giusta per ringraziarla.

« Io sono sempre qui » mi rispose evitando lo sguardo.

« Come mai? » le domandai. Mossa sbagliata, mi fulminò.

Ma poi, invece di rimproverarmi come mi sarei aspettato, rispose flebilmente: « Magari te lo spiego più avanti, non voglio sconvolgerti la vita già adesso ».
Rise. Una risata triste però, e dovetti trattenermi molto per non farle altre domande.

Il suo sguardo accarezzava il pavimento. Era sola, sovrappensiero, lontana dalla gioia, lontana dal sole.

« E tu cosa ci fai qui? » mi chiese lei dopo qualche istante.

« Sono con Paolo, Luca e la mia ragazza a mangiare, poi facciamo un giro in centro nel negozio di dischi dietro la stazione » le spiegai alzando le spalle.

« Cosa vai a comprare? »

« Non lo so ancora, vorrei conoscere qualche artista nuovo sinceramente » le spiegai alzando le spalle.

Mi succedeva spesso, di sentirmi incompleto con la musica che conoscevo. Avevo sempre bisogno di qualcuno di nuovo, qualcuno che stuzzicasse la mia fantasia e voglia di suonare. Succedeva che mettevo spesso l’mp3 in riproduzione casuale, ma non riuscivo mai a trovare qualche canzone che mi piacesse ascoltare: dopo il primo minuto (a volte anche solo dopo i primi dieci secondi) la cambiavo, e ripetevo la stessa azione per tutte quante, finché non mi stancavo.

Quando succedeva urgeva solo una cosa: andare a comprare qualcos’altro di nuovo.

« Gruppo preferito? » mi chiese Elena.

« Skid Row, sempre e comunque! » esclamai.

« Allora ti piacciono anche gli Europe, vero? »

« It’s the final countdown, ta-ta-ta-ta-taaa… » le canticchiai di tutta risposta, ma lei sbuffò.

« Ma per favore, non vorrai mica farmi credere che quella è la canzone migliore degli Europe! »

Quell’affermazione mi spiazzò.

« È quella più conosciuta! »

« Pronto? Ho detto migliore, non commercializzata ».

La sua sfacciataggine quasi mi fece imbestialire.

« Sentiamo cara, allora qual è? »

« È difficile dirne una, ma vuoi mettere The final countdown con Carrie? O con Love chaser? No, aspetta, dimenticavo, Oon brokeeen wiiings… » si mise a canticchiare, mentre io la guardavo senza sapere di cosa stesse parlando.

Lei se ne rese conto, perché subito le sparì il sorriso.

« Tower’s callin’? »

Scossi la testa.

« In the future to come? »

« No ».

« Let the good times rock? »

« Mi spiace non le conosco » le dissi arrossendo un po’.

« Quali conosci degli Europe? »

Non risposi. Dirle solo The final countdown mi sembrava orribile, e poi significava ammettere di avere una cultura musicale minore della sua. Minore di quella di una ragazza. Inaccettabile.

Ma lei, come tutte le donne che chissà come mai hanno il sesto senso e capiscono tutto a discapito di noi uomini, capì qual era la risposta.

« Vuoi dirmi che il tuo gruppo preferito sono gli Skid Row e che non conosci gli Europe? » mi chiese debolmente.

« Perché? » le domandai anziché risponderle.

« Beh, sono simili per certi versi » mi spiegò. « Anche se personalmente mi piacciono di più gli Skid Row » annuì.

Non sapevo più cosa dirle, ma lei fu rapidissima, prese un foglio ed una penna dalla cartella e cominciò a scrivere.

« Questi sono i dieci album che non puoi non avere secondo me, per un ragazzo come te che ama la musica e questo genere. Rock anni ‘80 » mi disse tendendomi il foglio.

Lessi velocemente.

« Il primo ce l’ho già » le sorrisi.

“1. New Jersey del 1988, Bon Jovi” c’era scritto.

Era stato uno dei primi cd che mi avevano regalato i miei genitori, e lo adoravo.

« Qual è la tua canzone preferita di quel cd? » mi domandò la ragazza al tavolo, sempre più curiosa, mentre mangiava la sua piadina.

« Born to be my baby »

« Approvato » mi disse e scoppiai a ridere.

Sofia mi raggiunse poco dopo.

« Ehi, Riccardo! » mi disse cingendomi la vita con un braccio.

« Sofia, lei è Elena, la ragazza che ha suonato al posto di Jack » le presentai.

« Oh, piacere! Che bello conoscerti, sei stata molto gentile ad offrirti per suonare oggi, con un anticipo così breve » le disse Sofia tendendo la mano alla ragazza che si stava soffocando con la pizzetta.

Elena ingoiò tutto intero il boccone, si pulì la mano sul fazzoletto e poi ricambiò la stretta, senza accorgersi di essersi sporcata di pomodoro nei contorni della bocca. Sofia glielo fece notare con un rapido gesto della mano.

Era sempre incredibilmente gentile, per questo le volevo così tanto bene.

« Grazie, sono tremendamente impacciata » la ringraziò Elena. « Comunque è stato un piacere per me poter suonare con loro ».

« Sei davvero molto brava » le dissi io con un sorriso, facendola così diventare cremisi.

« Grazie, troppo gentile » rispose.

« Vuoi venire con noi in centro? » le domandò Sofia. « Magari ti interessa, visto che loro vanno sempre a cercare musica, e mi sembra che anche a te piaccia ».

Elena mi guardò titubante, evidentemente voleva sapere se avevo o meno qualcosa di contrario all’idea che si unisse a noi.

« Per me va bene, se vuoi vieni » le dissi alzando le spalle.

Tempo dieci minuti ed eravamo tutti fuori da scuola.

Saremo andati via con la macchina di Paolo, che era maggiorenne e già patentato.

Elena stava discutendo con lui, e mentre aspettavamo che Luca tornasse dal bagno, mi appoggiai sulla macchina e tirai fuori il foglio che mi aveva dato prima Elena.

 

1. New Jersey del 1988, Bon Jovi.

2. Appetite for destruction del 1987, Guns N’ Roses.

3. The wild life del 1992, Slaughter.

4. Cherry Pie del 1990, Warrant.

5. Flesh & Blood del 1991, Poison.

6. Skid Row del 1989, Skid Row

7. Dr. Feelgood del 1989, Motley Cure

8. The final countdown del 1986, Europe

9. Hysteria del 1987, Def Leppard

10. Dancin’ on coals del 1991, Bang Tango

 

« Cosa sono? » mi chiese Sofia appoggiandosi alla macchina accanto a me.

« Titoli di alcuni album che secondo Elena non posso non avere » le risposi facendole vedere. « Di questi ho solo il primo, il secondo e il sesto ».

« Capisco ».

Sofia in realtà non capiva molto di musica, ma non era importante. A me andava bene così.

« Comunque quella ragazza è un mistero » dissi a Sofia indicando Elena.

« Dici? » mi rispose.

« Sì, è strana, e poi prima mi ha fatto un discorso… » e le raccontai di quando mi aveva detto che era meglio che non mi avesse rovinato la vita.

Sofia rimase in silenzio, non sapendo cosa dire né pensare.

Io mi misi senza accorgermene a fissare Elena, e quando si girò e mi scoprì osservarla, arrossii e distolsi lo sguardo.

« Andiamo? » disse Luca arrivando.

« Sarebbe anche ora! » lo rimbeccai.

Salimmo in macchina, io montai dietro, in mezzo tra Elena e Sofia, continuando a torturare il foglio con i titoli nella mano destra.

 

 

 

 

{ Spazio HarryJo.

Ma buonaseraaaa, eccomi tornata, lo so che vi mancavo ^^’

Ma anche no D:

Ok, vabbè, lasciando perdere questi piccoli particolari, volevo innanzitutto dire che la lista dei 10 cd l’ho trovata su internet. Ne avevo trovate altre, ma questa era quella che mi garbava di più. Anche perché concordo precisamente con le scelte che hanno fatto, quei cd sono bellissimi, a parer mio.

Se invece non vi sentite d’accordo con la mia scelta, che ne dite di stilare voi una classifica?

Se vi va, potete benissimo lasciarmela scritta in una recensione ^^

Ok, non so cos’altro dire… O meglio, sì.

Dal prossimo capitolo si scoprirà un po’ più di Elena, e mi dispiace di aver scritto un capitolo così tremendamente musicale e con poca trama, mi è venuto così e non sono più riuscita a sistemarlo D:

Perdonatemi D:

Grazie a tutti coloro che mi seguono, recensiscono eccetera, vi adoro! <3

A prestissimo,

Erica ~ ♥

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Capitolo 4
*** Segreto ***


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Capitolo 4

 

Segreto.

 

 

 

I know I don’t know you but I want you so bad

Everyone has a secret but can they keep it?

Oh, no, they can’t.

- Maroon 5

 

 

 

 

 

« Io e Luca dobbiamo andare via dopo, quindi non aspettateci e prendete l’autobus per tornare, ok? » mi disse Paolo appena scesi dall’auto.

Annuii.

« Prenderai i cd che ti ha consigliato Elena allora? » mi chiese poi mentre stavamo entrando nel negozio; Luca stava osservando ogni singolo mio sguardo a quella lista.

« Può darsi » risposi vago.

Sinceramente non sapevo nemmeno io se seguire o meno i consigli di quella ragazza. Certo, avevo capito che di musica qualcosina era a conoscenza, ma fino ad allora nessuno mi aveva mai consigliato. La cultura che avevo me l’ero creata da solo, e una parte di me continuava a ripetermi che era giusto continuare ad arrangiarsi.

La porta si richiuse dietro di me con un tintinnio strano, che non riuscivo mai a capire da dove provenisse.

Il negozio era grande, grandissimo.

Innanzitutto, tutte le pareti erano tappezzate con foto di alcuni personaggi famosi; oltre che a cantanti o membri di vari gruppi, c’erano scrittori, attori, conduttori televisivi e quant’altro. Poi era stipato di cd, in ogni angolo, mentre al piano di sopra c’erano i libri, sia di musica che di letteratura.

Adoravo quel posto; era perfetto per perdersi, per non pensare, per amare semplicemente la musica. Sembrava fosse stato creato apposta per me.

Passai molto tempo prima di decidere che CD comprare.

« The final countdown » indovinò Elena appena mi vide con un cd in mano. « Hai imparato la lezione? » chiese, ed io arrossii.

« Tu non prendi nulla? » le domandai.

Mi sorrise debolmente prima di rispondere.

« No, non era previsto che venissi qui, quindi niente budget » disse alzando le mani vuote.

« Ma ti posso fare un regalo io! Un qualsiasi cd, scegli tu! » la incoraggiai, mostrandole l’infinita serie di album che si stagliavano lungo tutto il corridoio.

« Ma… Non serve… » mormorò imbarazzata, come se fosse preoccupata all’idea di ricevere un regalo da me.

« È il minimo dopo quello che hai fatto oggi per me! Dai, forza, decidi tu o decido io » la minacciai.

« Grazie allora » rispose arrossendo, e la seguii con lo sguardo mentre di perdeva in mezzo agli scaffali. Sorrisi orgoglioso.

Tornò indietro in pochi secondi.

« Se proprio insisti, questo ». Alzò le spalle porgendomi Away from the sun dei 3 Doors Down.

« Questo? » Non riuscii a trattenermi, pensando che mi stesse prendendo in giro.

« Sì » rispose semplicemente. La squadrai.

« Three Doors Down » l’apostrofai, incredulo.

« Non esiste solo la musica rock anni ’80, lo sai vero? » mi rispose con ovvietà.

Non dissi nulla, quasi ferito, ma portai il cd al banco per pagarlo.

« 8,90€ » mi comunicò svogliato il tizio dietro al tavolo, a cui consegnai una banconota da 10 €. Ci mise un’eternità a restituirmi il resto, e poi finalmente uscii, con Elena dietro di me.

« Pensavo fossi una fan del rock, hard rock et similia » le spiegai porgendole il pacchetto, ma lei scosse la testa.

« Lo sono, ma molto di più sono una fan della musica ».

La guardai attonito. Era davvero strana quella ragazza, a dir poco.

Sofia uscì subito dopo dal negozio tenendo in mano un pacchetto blu. Evidentemente doveva essersi comprata un libro. Le piaceva molto leggere, e preferiva della buona carta stampata ad un cd.

« Eccomi. – disse raggiungendoci raggiante. - Elena, volevo chiederti prima, da quant’è che suoni? » le chiese, e l’altra improvvisamente sbiancò.

« Ho suonato per quattro anni, ma quest’anno ho smesso » mormorò di risposta, cercando di evitare il nostro sguardo.

« Cosa?! E perché?! » le domandai sbalordito.

Per me era inconcepibile una cosa simile. Da quando avevo cominciato a suonare, niente e nessuno era riuscito a convincermi a mollare. Forse la passione di Elena non era tanto forte quanto la mia? Subito quel pensiero sfumò nell’aria: lei stessa aveva detto di amare la musica, in ogni forma. Ma quindi, quale catastrofico ed irreversibile evento l’aveva potuta portare ad una decisione simile? E poi era anche maledettamente brava, non era concepibile che lei smettesse di suonare!

I pensieri nella mia testa avevano cominciato a vagare per conto loro senza trovare pace, finché, abbassando lo sguardo, Elena si decise a risponderle.

« Ho avuto un incendio a casa, si è bruciata la mia batteria e tra casini vari ho deciso di lasciare…beh, dire che l’ho deciso io non è proprio esatto » spiegò velocemente.

Calò il silenzio, interminabile silenzio.

« È per quello che rimango a scuola i pomeriggi; non ho molti altri posti dove potrei andare » continuò fingendo un mezzo sorriso.

Sofia disse qualcosa che non riuscii a capire, e pochi secondi dopo le due ragazze si stavano abbracciando.

Dentro di me, le sue parole continuavano a risuonare prepotentemente.

Non riuscivo a crederci. Un incendio. Uno di quelli che fanno tanto vedere nei film, ma la gente non pensa mai che potrebbe accadere veramente, o almeno, non lo pensa mai sul serio.

E lei era lì a dirmi, con poche parole, che aveva visto le fiamme, avvolgere la sua casa.

Era una visione orribile per me da immaginare.

Una strana suoneria mi risvegliò improvvisamente dalla trance in cui ero caduto; Sofia era al telefono.

« Sì… Ok… Va bene, mamma. Di già? Dietro l’angolo? Ok, arrivo subito… » concluse la telefonata senza troppi complimenti.

« È arrivata mia madre a prendermi, scusatemi ragazzi » spiegò. « Ci vediamo domani, tesoro » mi disse sporgendosi per lasciarmi un bacio stampo, e poi aggiunse: « Elena, per qualsiasi cosa… Ci vediamo presto » e poi ci salutò, sparendo dietro l’angolo della strada.

La osservai a lungo, fino a quando persino l’ultimo pezzettino di stoffa sparì dietro l’angolo; non volevo tornare a guardare Elena, avevo paura e mi sentivo terribilmente in imbarazzo all’idea di confrontarmi con lei.

« Non ti preoccupare » mi anticipò, prima che potessi proferire parola.

La guardai attentamente: aveva gli occhi lucidi, una volta ancora.

« Mi dispiace » borbottai, sentendomi un perfetto idiota.

Lei mi diceva che le si era incendiata la casa e tutto quello che riuscivo a dire io era un banale mi dispiace? Avevo passato tutto il giorno a torturarmi su quella ragazza, volevo conoscerla e scoprirla, scoprire il suo segreto, ed ora che sapevo qualcosa avrei preferito continuare a rimanere all’oscuro di tutto.

« Dispiace a tutti » mi rispose con un po’ di rancore nella voce.

Sì, ero decisamente un idiota.

« A me veramente » dissi banalmente, cominciando veramente a pensare di essere uno dei ragazzi col quoziente intellettivo più basso al mondo. Ma non avevo nessuna risposta intelligente da darle?

Il silenzio nel frattempo ci aveva avvolto, di nuovo, lasciandoci soli. O meglio, attorno a noi le persone parlavano, scherzavano, ridevano, ma una bolla di vetro ci teneva separati dagli altri ragazzi. Eravamo solo in due al mondo in quel momento, o meglio, in tre: io, Lei, il Silenzio.

Sei patetico, Riccardo.

« Non ne parlo molto, sai » confessò poi.

« Come mai? » domandai cauto.

« Nessuno mai mi ascolta » mi spiegò. Stava arrossendo di nuovo, le sue gote si infiammavano continuamente.

Avrei potuto poterla aiutare, abbracciare, ma qualcosa mi tratteneva lì, impalato.

« Nemmeno col tuo ragazzo? » le domandai incredulo, incapace di tenere la bocca chiusa.

Sei davvero patetico, Riccardo.

« Ragazzo? »

Le indicai la collana che portava al collo, e subito la sua mano si strinse attorno al cuore con la lettera D.

« D. non è il mio ragazzo, ma mio fratello. È morto nell’incendio ».

No, non sei patetico. Sei un idiota patentato, ecco cosa sei, caro Riccardo.

Avrei voluto sparire.

« Scusa » mormorai, davvero dispiaciuto.

Avrei tanto voluto essere un personaggio di Harry Potter per smaterializzarmi da qualche altra parte in quell’istante, o per addirittura cancellarle la memoria.

« No, tranquillo ».

La fissai a lungo, e la scoprii intenta a sorridere. Eppure i suoi occhi erano ancora circondati da leggere lacrime.

Forse, non tanto leggere.

 

 

 

 

 

{ Spazio HarryJo.

Buonasera, innanzitutto, perdonatemi per l’increscioso ritardo, dovuto ad un blocco inaspettato. >.<

Comunque, ora sono qui, e spero di esser riuscita a soddisfare quelle che in parte erano le vostre curiosità.

Quelli di voi che già mi conoscono ora stanno strabuzzando gli occhi e dicendo: un incendio!

Ok, ora spiego: sì, è vero, io stessa ho subito un incendio a giugno. Ma ci tengo a precisare che non sono Elena, o almeno, non del tutto, solo a tratti. Ho voluto scrivere questo, dell’incendio, per aver modo di sfogare almeno in parte un dolore che ho covato molto silenziosamente finora; sì, anche io resto a scuola tutti i pomeriggi fino alle 4, e sì, anche io ho smesso di suonare. E fidatevi, un incendio non è solo smettere di suonare o stare a scuola, è molto, molto peggio. Più avanti descriverò tutti i sacrifici che il fuoco ha portato a me, ed alla mia famiglia, tramite Elena. Perché non sono molti quelli che sanno bene cosa significa.

Ah, io non ho perso nessuno quel giorno, quindi D. non esiste, possiamo dire, o forse sì.

Perché D. per me non è solo una persona. D. rappresenta tutto ciò che ho perso, dei sogni infranti, dei ricordi perduti. Subire un incendio non vuol solo dire perdere un fratello, o avere una casa da ricostruire. Tante volte penso che ciò che non perdonerò mai al fuoco è proprio l’avermi portato via i miei ricordi.

E con questa triste nota, vi saluto, sperando di non aver perso tutti i miei lettori con questo capitolo.

Erica

 

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Capitolo 5
*** Questo è un appello. ***


If I die tomorrow

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Capitolo 5

 

 

Questo è un appello.

 

This is a call to all my past resignations,
It's been too long.

- Foo Fighters



 

 

« Ma insomma, ragazzi! Stiamo scherzando? Ancora non sapete contro chi erano le filippiche di Cicerone? »

La odiavo. Io detestavo la mia professoressa di latino, la signora Belli, che di bello poi non aveva proprio niente. Avrà avuto una cinquantina d’anni, piuttosto bassa, portava con sé ad ogni lezione una stupidissima borsetta con le pailette colorate. Si vestiva come se avesse avuto vent’anni di meno, con le magliette attillate e con le gonne un po’ troppo corte per la sua età. Il risultato alla fine era uno solo: disgusto, ribrezzo, vomito, o come lo volete chiamare voi.

Un altro punto a suo sfavore poi, come se non bastasse quell’orrenda visione, era che insegnava latino. No, cioè, mi spiego: la-ti-no. Quell’insulsa materia incomprensibile che non serviva a nessuno, se non a rimandare più gente possibile a settembre.

Era fissata con quella lingua, e voleva insegnarcela benissimo. Se fosse stato per lei, probabilmente ci avrebbe fatto scrivere i temi in latino e avrebbe cancellato l’italiano reintroducendo la lingua madre.

E aveva di nuovo tirato fuori queste filippiche. Le filippiche poi, una cosa che non ricordavo mai!

Le filippiche… Sì, quelle lì… Marco Antonio mi sembrava che c’entrasse…

Nella mia testa si ripeteva di continuo quel susseguirsi di parole, senza che mi colpisse nessuna illuminazione.

Lorenzo Marchese nel frattempo aveva già alzato la mano e aveva cominciato una spiegazione degna d’esser scritta in un’enciclopedia, ma questo non sorprese nessuno: era fatto così. Sapeva ogni cosa per quel che riguardava le materie scolastiche, poteva benissimo farti lui lezione su ogni cosa; a volte sapeva le cose anche meglio degli stessi professori.

Ecco, i miei genitori volevano quello da me: volevano che fossi uno studente modello, perfetto, quasi saccente. Sapevano della grande intelligenza di Lorenzo, e mi dicevano sempre di imparare da lui. Nemmeno da morto però mi sarei messo a studiare giorno e notte come quel ragazzo; avrebbe significato un addio alla mia vita sociale.

Infatti, Marchese non usciva mai, era sempre impegnato a studiare. Dopo i primi tempi, in cui cercavamo di invitarlo fuori con noi a giocare, a mangiare una pizza o quant’altro, tutti avevano rinunciato a chiamarlo in giro, ma lui di questo sembrava non preoccuparsene. Oltre alla scarsità di amici poi, si aggiungeva la scarsità del suo interesse per le cose che occupano la mente dei ragazzi normali di quell’età. Il calcio per lui rappresentava l’ignoto, non aveva idea di quale fosse la differenza tra scooter, vespa, ciao, moto e quant’altro (“Perché, ci sono delle differenze?” ci ha chiesto una volta), e, lacuna molto ben più grave, non aveva nessuna conoscenza per quanto riguardava al mondo della musica. Un giorno era venuto fuori un dibattito sui Beatles e la loro bravura. Lui era stato zitto per tutto il tempo, e solo alla fine aveva ammesso di non aver la minima idea di che cosa stessimo parlando.

Insomma, io non sarei mai potuto diventare come lui. Mi venivano i brividi di freddo solo all’idea.

Accolsi il suono della campanella come l’annuncio della vittoria di una guerra in cui avevo rischiato la vita; non vedevo l’ora di tornarmene a casa.

Uscii dalla classe per andare in cerca di Sofia e chiederle se potevamo uscire quel pomeriggio, ma prima di raggiungere la sua classe, m’imbattei in un’altra persona, che, vedendomi, si fermò di botto ed arrossì violentemente.

« Ciao » le dissi con un sorriso.

« Ciao Riccardo » rispose Elena.

Non c’eravamo più parlati da quel pomeriggio in cui le avevo comprato il cd. In realtà avevo fatto di tutto per evitarla e non dover riaffrontare l’argomento dell’incendio. Mi sentivo uno stupido, ma avevo già fatto una stupidissima figura, e non volevo peggiorar la situazione. Per di più avevo avuto la nettissima sensazione di averla fatta anche stare peggio.

« Bello il cd? » le domandai, tanto per rompere quell’imbarazzo.

« Sìsì ». Il suo tono era talmente basso che a mala pena percepii la risposta.

Perché era così difficile scambiare qualche parola con lei?

Era come se non riuscissi ad essere me stesso. Non mi era mai successo prima. Pensavo che si trattasse sempre e solo di semplice imbarazzo. Dopotutto, lei era una persona che dimostrava quant’era crudele la vita, ed io mi lamentavo per sciocchezze, a confronto di ciò che era costretta a sopportare lei, giorno dopo giorno.

Era passata poco più di una settimana, ed io ci avevo pensato molto – veramente troppo – spesso, a lei. Era come una droga: non riuscivo a distogliere la mente dal suo pensiero. Più mi ripetevo di non pensare a lei, più mi si presentava davanti il suo ricordo, come a farlo apposta.

Ero ossessionato dalla sua vita.

Giocavo spesso alla sera, prima di andare a dormire, a cercare i nomi possibili per D. In realtà la mia fantasia era ben poca: Daniele, Dino, Dario, Domenico… Davide. Non so perché, ma mi ero convinto che il fratello di Elena si chiamasse Davide. Mi sembrava il nome più comune, più sentito, e poi era quello che riuscivo più ad associare ad Elena.

In quel momento, trovandomela di fronte, pensai solo a chiedergli come si chiamava, per vedere se avevo pensato giusto oppure no.

« Posso farti una domanda? » le chiesi così, rompendo il nostro immancabile compagno, il Silenzio.

Annuì senza proferir parola.

« Come si chiamava tuo fratello? » le domandai, senza nascondere il tono di curiosità ed impazienza.

Lei si immobilizzò, per un momento parve proprio rinunciare a respirare, ed in un secondo capii di aver toccato un tasto dolente.

Ma quanto stupido ero?! Era ovvio che non avrei dovuto chiederle niente!

Continuavo a fare errori sopra errori con quella ragazza, e non riuscivo mai a tirarle fuori un sorriso; evidentemente ero capace solo di far piangere la gente.

« Scusa » le sussurrai abbassando lo sguardo.

Nemmeno per un secondo lei era sembrata voler rispondere.

« Tranquillo » mi disse, e se ne andò così, lasciandomi in sospeso.

Mi voltai a guardarla mentre se ne andava; la sua figura minuta mi ispirava una sorte di fragilità.

Fragilità che, a quanto pareva, non era disposta a condividere, non con me almeno.

Un po’ amareggiato da ciò che era successo ritornai in classe senza nemmeno ricordarmi di passare da Sofia.

La mia mente si era offuscata, e tutte le cose che dovevo fare come abitudine, come normalità, non mi venivano più così spontanee.

Così come non mi ricordai di sedermi vicino a Giacomo durante l’ora di religione. I banchi durante quelle lezioni erano per la metà vuoti visto che erano in molti a non avvalersi dell’insegnamento della materia e quindi io mi sedevo sempre vicino a Giacomo. In quelle ore giocavamo a tris sui banchi, e chiacchieravamo del più e del meno mentre la professoressa Tonolo cercava di leggerci dei versetti della Bibbia e di renderci partecipi della discussione. Come se fosse possibile.

« Rick. Ehi, Rick! » la voce del mio migliore amico mi raggiunse come lontana anni luce.

« Eh? » risposi, risvegliandomi dalla trance, e mi accorsi così che si era seduto accanto a me.

« Mi son seduto qui io, visto che non sembravi aver intenzione d’alzarti. Cos’è, hai perso l’uso delle gambe? » mi chiese ironicamente.

« Ah, ah. Molto divertente, Giacomo » risposi senza reale entusiasmo, appoggiando la testa sul banco, mentre la professoressa cominciava con il suo solito: « Come c’è scritto nella Bibbia, ai versetti… ». Non sembrava cambiato nulla dalle ultime lezioni, erano sempre terribilmente uguali.

Ma in realtà qualcosa era cambiato, e non di poco. Sapevo che Giacomo se ne sarebbe accorto subito, e mi stavo preparando psicologicamente al suo terzo grado; infatti stava tracciando sul banco la griglia tre per tre per giocare a tris, come sempre, ma io scossi la testa, svogliato, e questo non era assolutamente normale.

« Che hai? » mi chiese subito, con gli occhi fuori dalle orbite.

Sinceramente, non sapevo proprio cosa rispondergli. Non perché non volessi dirgli che cosa mi passava per la testa, ma proprio perché nemmeno io riuscivo a capire che cosa mi stava succedendo. L’unica cosa evidente era che c’entrava Elena.

« Ti ricordi Elena? » Lo dissi fingendo un tono disinteressato, ma non ero sicuro d’esserci riuscito.

« Elena chi? » rispose subito con un’aria buffa. Alzava sempre il sopracciglio in modo strano quando si metteva a pensare o a cercare di ricordare qualcosa; per non ridergli in faccia ogni volta che lo faceva c’erano voluti anni e anni di allenamenti forzati.

« La ragazza che ti ha sostituito al conce… »

« Ah, sì! Elena Ferilli! » mi interruppe, prima che potessi concludere la mia spiegazione.

« Esatto, proprio le… Ehi, ma come fai a sapere il cognome?! » gli domandai stupito.

« Io so tutto » mi rispose con aria di sufficienza alzando le spalle. « No, dai, l’ho incrociata per i corridoi l’altro giorno, era con una professoressa che l’ha chiamata “Ferilli” e quindi ho intuito che fosse il suo cognome… » spiegò con semplicità. « Allora, che hai con la Ferilli? »

« Nulla » risposi, un po’ troppo in fretta per essere creduto.

« A chi vuoi darla a bere! Dai, che c’è? » mi incitò.

Aprii bocca per rispondere, ma la chiusi subito. All’improvviso mi era venuta in mente una cosa geniale da fare, che forse avrebbe anche portato fine alla mia insulsa ossessione che avevo per lei.

« Jack, ho bisogno di un favore. Posso venire a casa tua questo pomeriggio? Mi serve internet, e da me il computer non funziona » gli chiesi, cambiando discorso.

«It’s allright. Però devi dire ai tuoi che vieni ad insegnare matematica, perché mia madre non vuole che passi il mio tempo a chiacchierare quando devo recuperare una materia così importante dove ho la media del 3+ » disse.

« Qualunque cosa » risposi, e dal mio tono sapevo che aveva capito che per me era importante.

L’avrei scoperto. Avrei scoperto il nome del fantomatico D.

Questo era un appello rivolto ai miei pensieri. Avrei vinto.

Avrei posto fine alla mia ossessione per Elena, quel pomeriggio.

 

 

 

{ Spazio HarryJo.

Salve a tutti.

Eh, lo so, ero morta, son secoli che non aggiornavo. Mi spiace.

Nel caso voleste sapere il perché, ecco qui: Un cuore spezzato. È una flashfic di sfogo, e praticamente spiega proprio perché scrivere era diventato così difficile.

Non importa, sopravvivo ora, anche se non si è risolto proprio nulla, ce la farò. Come sempre.

Devo ringraziare di cuore tutti quelli che comunque hanno continuato a seguirmi, a sostenermi, eccetera. Questo capitolo è stato scritto un po’ per forza quindi se non è bello come gli altri, è per quello.

In ogni caso, spero che voi gradiate lo sforzo di aggiornare.

Tornerò presto con un nuovo capitolo, promesso. Sono già in grado di dirvi il titolo: Lo spirito va avanti.

Au revoir a tutti coloro che ancora hanno voglia di leggere questa long!

Erica ~ ♥

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Capitolo 6
*** Lo spirito va avanti. ***


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Capitolo 5

 

 

Lo spirito va avanti.

 

 

If I die tomorrow I’d be allright

Because I believe that after we’re gone

The spirit carries on.

-          Dream Theater

 

 

Erano appena scoccate le tre quando arrivai a casa di Giacomo. Abitava in una villetta molto graziosa. Fuori dal cancello c’era il citofono, che però puntualmente io non suonavo mai ed entravo senza far nulla. Ormai erano talmente abituati a vedermi per casa che per i suoi era quasi normale. Ed il citofono era pressoché inutile, per me.

« Ciao Riccardo! È un piacere vederti! Giacomo è in camera, va pure, caro » mi salutò sua madre, in un sorriso a trentadue denti. Era alta, magra, e aveva gli stessi occhi azzurri di suo figlio. Giacomo diceva sempre che aveva una specie di adorazione per me, e che se avesse potuto avrebbe volentieri fatto scambio con mia madre.

« Ciao Beatrice » la salutai, dirigendomi al piano di sopra.

Adoravo la stanza di Giacomo. Era tutta tappezzata di poster dei suoi gruppi preferiti, un sacco di foto di batterie e in qua e in là c’erano spezzoni di versi di canzoni. Il disordine regnava sovrano, ed era per questo che un po’ mi affascinava.

Jack, invece di studiare, era disteso a letto con le cuffie alle orecchie ed uno spartito sottomano. Sapevo bene che quando era così concentrato non bisognava disturbarlo; per lui quello era il momento sacro della giornata.

« Il computer è lì, già connesso » mi disse semplicemente, senza nemmeno salutarmi. Non ci badai poi molto; sapevo che una volta finita la sua perfetta ed attenta analisi del brano avremo potuto parlare. Era sempre così.

Mi sedetti alla sua scrivania appoggiando lo zaino contenente i libri di matematica per terra, con il vago sospetto che non li avremo nemmeno aperti. Poi, con grande eccitazione, aprii la pagina di Google.

Digitai quelle quattro parole con estrema velocità, ma respirai a lungo prima di schiacciare il pulsante “Cerca”.

Incendio famiglia Ferilli Cureggio.

Il primo risultato era quello giusto, già lo sapevo. Aprii la pagina e cercai di combattere il battito del cuore che si faceva sempre più veloce, mentre cominciai a leggere.

 

 

Scoppia la caldaia, marito e moglie feriti, figlio morto nel disastro.

 

CUREGGIO. Terrore ieri pomeriggio in via Cassoli: lo scoppio della caldaia ha causato il rogo dell’abitazione dell’imprenditore Francesco Ferilli e della moglie Serena Canzian, entrambi feriti. La donna è stata portata al Maggiore della Carità con ustioni alle mani e alle braccia, il compagno è rimasto intossicato dall’esalazione del carbonio. Il figlio maggiore della coppia, di diciannove anni, è morto in seguito allo scoppio della bombola a gas.


 Erano da poco passate le 14.30 quando è scoppiata la paura nel casolare di via Cassoli, al civico 3, appena fuori dal centro abitato di Cureggio. La famiglia di Francesco Ferilli, imprenditore di 44 anni, aveva da poco terminato il pranzo, cercando qualche minuto di riposo prima di tornare al lavoro. Per cause ancora al vaglio degli esperti, la caldaia che si trovava al piano inferiore, all’esterno della casa, è esplosa, prendendo fuoco in pochi istanti. I coniugi avrebbero tentato di accenderla, rimanendo sorpresi dal ritorno di fiamma.

La donna è stata raggiunta dal fuoco alle mani e alle braccia, che teneva in avanti nel tentativo di proteggersi il volto. Subito soccorsa dal marito, è stata portata fuori mentre un fumo nero e denso iniziava a sprigionarsi dall’abitazione. Immediata la telefonata ai vigili del fuoco: dalla caserma dei pompieri sono arrivate due autopompe e un mezzo veloce, con due squadre dei pompieri in azione per arginare in fretta il diametro dell’incendio. Le fiamme però erano già riuscite a far danni all’interno dell’abitazione, distruggendo la mobilia e danneggiando la struttura. Cercando di spegnere il fuoco, il signor Ferilli, con i suoi fratelli e suo figlio più grande, avrebbero cominciato a buttare acqua tra le fiamme che invadevano la casa, invano. Le fiamme hanno raggiunto la bombola a gas procurandone l’esplosione; sul colpo è morto il figlio. Sul posto si è precipitato anche il Suem, inviando un’ambulanza e un’auto medica. L’attenzione dei soccorritori si è concentrata subito su Serena Canzian: la donna, infatti, che aveva riportato delle ustioni significative, è stata portata in fretta all’ospedale Maggiore della Carità per essere visitata da uno specialista. Le ferite fortunatamente non erano gravi. L’edicolante è rimasta a lungo nella sala del pronto soccorso, venendo poi raggiunta anche dal marito: Francesco Ferilli, infatti, ha dato le prime indicazioni ai vigili del fuoco, ma si è esposto troppo al fumo, tanto da venir portato in ospedale a causa dell’intossicazione da monossido di carbonio. Non c’è stato nulla da fare invece per il figlio; nessun intervento dei medici è riuscito a salvarlo. Le condizioni di entrambi i coniugi, fortunatamente, non erano gravi e già nel tardo pomeriggio hanno potuto lasciare l’ospedale per ritornare a casa. Ma non gli è stato consentito nemmeno di entrare: l’abitazione di via Cassoli è stata giudicata inagibile dai tecnici del Comune e dai vigili del fuoco, rimasti fino a sera sul posto per verificare la stabilità. Inoltre la pericolosità delle polveri sottili ha costretto i coniugi Ferilli a chiedere ospitalità ai parenti per la notte, assieme ad Elena, la figlia più giovane. Polizia e carabinieri hanno bloccato il traffico per tre ore, l’ingresso a Cureggio è stato off limits. Il conto dei danni non è ancora stato fatto, ma si tratterrebbe di decine di migliaia di euro. Le cause dell’incendio sono ancora al vaglio dei vigili del fuoco, ma non ci sarebbero dubbi: è stato lo scoppio della caldaia, posta sotto il porticato, a scatenare il terribile incendio.

I funerali per il giovane Ferilli sono previsti per giovedì 17 alle ore 16.00.
 
(Massimo Guerretta)

 

 

Era finita la mia ricerca. E non aveva prodotto il risultato sperato.

Nulla. Nessun nome.

Solo foto. Foto, e tante parole. Ed insieme alle parole, tanto orrore.

Tanto dolore.

Mi venne in mente il viso di Elena, così giovane, spensierato, avvolto tra mille fiamme voraci.

Mi venne in mente Elena mentre suonava. Non c’entrava nulla, ma l’incendio le aveva portato via anche quello, la musica. Le aveva portato via un fratello, una casa, i ricordi di una vita.

Ed io cosa volevo? Credevo di poter capire tutto da un nome? Se anche si fosse chiamato Dumbo la sua importanza sarebbe rimasta la stessa.

« Trovato quello che cercavi? »

La voce di Giacomo proveniva da un pianeta lontano anni e anni luce.

« No, nulla… » dissi, scoprendolo in piedi di fianco a me, che leggeva l’articolo.

Mi guardò a lungo. Voleva leggermi probabilmente, capire cosa mi stava succedendo. Non mi era mai capitato di ossessionarmi per un nome.

« Perché ti interessa tanto? » mi chiese.

« Non lo so… » gli risposi stropicciandomi gli occhi con le mani.

Mi squadrò, e capii all’istante che non mi credeva. Ma io avevo detto la verità: non avevo la più pallida idea di come mi fosse venuta fuori quella stranissima ossessione.

Mi continuavo a ripetere che era pura e semplice curiosità per una vita tanto diversa dalla mia. Io stavo bene, di che mi potevo lamentare? Del fatto che i miei genitori non erano contenti della mia passione per la musica? Quello non era niente messo a confronto con le foto della casa di Elena. Non era nulla messo a confronto con quella collana.

Aveva perso un fratello, e si portava dietro il suo spirito in una letterina appesa al collo.

« Posso darti un consiglio? Lascia perdere e pensa a Sofia » mi disse con uno strano cipiglio.

Sofia. Quel nome mi ricordava qualcosa…

Era da tanto che non pensavo a lei. Troppo.

« Dai, facciamo matematica » dissi chiudendo in fretta il discorso e aprendo il quaderno per iniziare un problema.

Bizzarro, pensai cercando una penna nell’astuccio, persino il libro di matematica è pieno di problemi e mi ricorda Lei.

 

 

 

 

 

 

{ Spazio HarryJo

Salve a tutti!

Lo so, pensavate che fossi morta, e ne avete tutte le ragioni. In realtà, vi dirò, questo capitolo l’avevo scritto a metà e non riuscivo a finirlo. Infatti è più corto degli altri. Questo perché dopo l’articolo non riuscivo ad esprimere le emozioni di Riccardo. Ah, l’articolo è quasi uguale a quello che si trova in internet cercando le informazioni del mio incendio, solo riadattato con nomi e luoghi.

Spero che vi piaccia, e spero che non siate morti voi durante questa mia enorme assenza.

Fatemi sapere che ne pensate, un bacio,

Erica ;)

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Capitolo 7
*** Dietro agli occhi blu ***


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Capitolo 7

 

Dietro agli occhi blu

 

 

No one knows what it's like
To be the bad man, to be the sad man
Behind blue eyes 

Behind Blue Eyes – The Who

 

 

Passò qualche giorno dalla visita a casa di Giacomo prima che rividi Elena, e successe per puro caso. La professoressa di matematica mi aveva detto di raggiungerla in ricreazione nella classe della terza F per riconsegnarle l’ultima verifica. Io non potevo sapere che quella classe fosse la stessa di Elena.

Arrivai e nemmeno mi accorsi di lei.

« Prof, le ho portato la verifica… »

« Bravo Riccardo » mormorò lei prendendomi di mano il foglio protocollo e controllando che ci fosse la firma dei miei genitori.

Alzai lo sguardo e osservai distrattamente i ragazzi dentro all’aula. Nessuno sembrava fare troppo caso a me: alcuni stavano risolvendo un esercizio alla lavagna, c’era un gruppetto di ragazze che stava in un angolo a parlottare e qualcuno che era seduto al proprio banco che stava scrivendo frettolosamente. Probabilmente stavano copiando i compiti dell’ora successiva.

E poi, la vidi. La testa china, mentre scriveva sul suo quaderno, concentrata, inconfondibile.

Fu più forte di me; non resistetti alla tentazione e mi avvicinai, anche solo per vederla meglio. Al collo portava ancora quella collana, ma cercai di non pensare a quello.

« Ehi » mormorai per salutarla.

Si alzò di scatto e mi imbarazzai molto. Probabilmente ce l’aveva ancora con me per la domanda che le avevo fatto sulle scale qualche giorno prima.

« Ciao Riccardo » mi salutò invece, sorridendo. « Che ci fai qui? »

« Sono venuto a portare alla Razzon il mio compito di matematica. Tu che fai? » le chiedi cortesemente, ben grato al fatto che non mi avesse mandato via.

« Sto copiando latino » mi disse con una smorfia. « Non ci capisco niente, è arabo per me ».

« E credi di imparare qualcosa in questo modo? »

Si zittì all’improvviso e mi guardò con un’espressione indecifrabile.

« Non hai niente da dire? » le chiesi senza pensare. Fatale errore. La stavo rimproverando esattamente come faceva mia madre ogni giorno con me. Anzi, no. Molto peggio. Stavo rimproverando Elena.

E allora capii che sentimento era dipinto nei suoi occhi: rabbia.

« Lasciami stare » rispose togliendo lo sguardo. « Tu non hai idea… Lasciami in pace » concluse tornando a scrivere la frase che aveva lasciato a metà.

« Contenta tu » alzai le spalle, girandomi, ma capii all’istante che non avrei mai dovuto fare così.

« Tu cosa hai fatto ieri, Riccardo? » La sua voce tremava dalla rabbia.

« Tu cosa hai fatto ieri? » ripeté, mentre gli occhi le si inumidivano. « Io sono rimasta qui a scuola a studiare scienze e inglese che mi dovevano interrogare, ho fatto tutto italiano e lo schema di arte. Sono tornata a casa alle cinque e mezza, con l’intento di fare queste due benedette versioni, ma mio padre mi ha chiesto di andare ad aiutarlo a lavorare sulla casa, fino alle sette. Poi siamo andati a fare la spesa, perché a casa non c’è rimasto più niente da mangiare. Sono tornata all’appartamento alle otto, ho cenato e ho finito di studiare inglese, perché volevo recuperare il mio cinque. Ho finito alle undici, ho lavato i piatti e me ne sono andata a letto ».

Aveva detto tutto questo stringendo i denti e parlando sottovoce, tremante. Avrei preferito che mi urlasse dietro quelle parole, perché così sussurrate in quel modo cadevano lentamente come macigni nello stomaco.

« Perciò, tu che hai fatto ieri, Riccardo? Tu, che riesci sempre a fare tutti i compiti ed eccelli in ogni campo, ieri hai lavorato? Sei rimasto a scuola? »

L’avevo ferita. Sentivo la sua delusione in ogni parola. Si tratteneva per non urlare, ma avrebbe voluto scoppiare, forse uccidermi.

Mi girai a guardarla, e la colsi mentre una lacrima le rigava il viso, ma lei non sembrava volerci dedicare attenzione; era tornata a copiare.

Mi avvicinai con l’intento di toglierle la lacrima, ma lei mi bloccò la mano prima che potessi sfiorarla, ed in quel momento suonò la campanella.

« Vattene » disse.

Mi accorsi solo allora che alcune sue compagne ci stavano osservando. Me ne andai con un peso al cuore, come se avessi appena ingoiato l’intera ruota del London Eye.

Durante tutto il tragitto fino al mio ritorno in classe continuai a darmi dello stupido senza fermarmi un momento. Ma perché avevo detto quelle cose? Perché davanti a lei dovevo sempre e solo fare delle incredibili figuracce? Cercai di ricordare un po’ com’erano andate le cose tra me e Elena fino a quel giorno: non c’era stato neppure un momento in cui le avevo fatto una buona impressione. Mi ero fatto accordare la chitarra perché ero troppo agitato, avevo fatto la figura dell’idiota a conoscere solo The Final Countdown degli Europe, per non parlare di come era andata al negozio di musica, di quando avevo scoperto dell’incendio, dell’incontro sulle scale e adesso quello.

Ma perché? Per quale assurdo motivo diventavo così stupido quando c’era lei nei paraggi? Con Sofia non mi era mai successo. Ero stato spavaldo e normale sin dal primo incontro, non mi ero mai sentito in soggezione con lei.

E poi, perché dovevo paragonarla a Sofia? Cosa c’entrava con lei? Quelle due ragazze non avevano nulla a che vedere insieme. Non potevano coesistere nello stesso pensiero, non aveva senso.

Adesso smettila, mi ritrovai a pensare, serrando i pugni. Quella situazione mi stava facendo letteralmente impazzire.

Arrivai in classe e sbattei la porta dietro di me con veemenza, senza che però nessuno ci facesse caso; la maggior parte di loro infatti era in angolo a giocare a carte di nascosto, aspettando l’arrivo della professoressa d’inglese. Solo Giacomo mi fissava con un’espressione indecifrabile.

« Ho fatto un casino » gli comunicai mentre mi sedevo al suo fianco.

« No, ne hai fatti due » rispose lui con semplicità.

Vedendo la mia perplessità, aggiunse: « Sofia è stata qui, poi ti spiego. Prima dimmi il tuo casino. Scommetto che c’entra quella Elena ».

Da quando Giacomo era diventato così perspicace? La cosa un po’ mi inquietava.

« Sì » ammisi, e cominciai a raccontargli tutto ciò che era successo. La sua espressione dura mentre mi intimava di andarmene, la severità con cui io le avevo rivolto la parola… Alla fine mi sentti un po’ più libero, ma ancora più in colpa di prima.

« Ti facevo meno stupido, amico » mi disse di tutta risposta quando conclusi. « Pensa a quante volte abbiamo copiato noi due i compiti di latino. E pensa cosa avresti detto ad una persona che ti veniva lì a rimproverare ».

In effetti non ero mai stato una cima quando si trattava di traduzioni. La letteratura in generale (lo studio degli autori, della storia, degli usi e dei costumi) mi veniva bene, ma molte volte lasciavo perdere le traduzioni e le copiavo in classe, gli anni scorsi. E allora perché cavolo ero andato a dirle quelle cose? Più i secondi passavano, più mi sentivo sbagliato.

« E comunque, Sofia non è molto contenta di questa cosa » aggiunse. Mi risvegliai dalla trance da cui ero caduto, chiedendomi per un momento chi fosse Sofia.

« In che senso? » domandai allarmato.

« Si è accorta che sei un po’ distante. Oggi in ricreazione è venuta qui non per parlare con te, ma con me » spiegò. « Di te » aggiunse, notando il mio sguardo attonito.

« E… Cosa ti ha detto? » chiesi, anche se non ero molto sicuro di voler sapere la risposta.

« Mi ha domandato cosa ti passa per la testa in questo periodo. Dice che si è accorta che qualcosa non va e mi ha chiesto se vuoi lasciarla ».

« Ma questo è assurdo, perché dovrei lasciarla?! » sbuffai contrariato. Perché le ragazze dovevano sempre farsi mille paranoie?

« Forse per la tua nuova ossessione ».

Quello era un colpo basso, aprii la bocca per ribattere, ma la serrai quasi subito. Non avevo nulla da dire. In effetti era strano tutto quel pensare ad Elena, ma di sicuro non avrei mai pensato di sostituire Sofia con lei. Forse.

« Amico, posso darti un consiglio? » Giacomo stava bisbigliando.

« Spara » risposi, sconsolato.

« Pensa a Sofia ».

Lo guardai dritto negli occhi per un pezzo, capendo cosa voleva dire.

« Lo farò » promisi. « Ma prima voglio sistemare con Elena ».

Giacomo sbuffò, scuotendo la testa.

« Poi non venire a me da piangere però, perché l’unica cosa che riceverai come risposta sarà: “Te l’avevo detto” ».

Lo guardai a lungo, ma lui mi ignorò per il resto della lezione ed io evitai di ritirare fuori l’argomento. Odiavo quando Giacomo faceva così, soprattutto quando aveva ragione.

 

 

 

 

 

 

 

 

{ Spazio HarryJo.

Devo essere sincera, non immaginavo che avrei aggiornato oggi, ma una persona mi ha praticamente obbligata a farlo. Per questo la ringrazio di cuore, e le voglio dedicare questo capitolo che ha tanto atteso.

A missohara, ovvero Cecilia, che è convinta che questa sia la mia migliore storia e per la quale cercherò di aggiornare più spesso. Grazie di cuore, cara.

Beh, fatemi sapere cosa ne pensate di questo capitolo se ancora qualcuno sta seguendo la storia, a presto,

Erica :3

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Capitolo 8
*** Qualcuno come te ***


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Capitolo 8

 

Qualcuno come te

 

 

 

Never mind I’ll find someone like you,

I wish nothing but the best for you,

Don’t forget me, I beg…

Someone like you - Adele

 

 

« Elena! »

Non mi ricordavo come ero arrivato lì. Cioè, sapevo di voler rimediare al casino che avevo fatto, ma proprio erano spariti dalla mia mente i ricordi delle ultime ore. Come c’ero arrivato al cortile della scuola?

Era sabato, avevo appena terminato le mie ore di scuola solite, ma non mi ricordavo nemmeno di essermi alzato dal letto quella mattina. Ero giunto lì, vicino ad Elena, l’avevo chiamata e basta. Tutto il resto era scivolato via dalla mia mente, non era importante.

L’unica cosa che importava era che lei era lì, in tutto il suo splendore. Appena la chiamai si voltò a guardarmi, ed io stupidamente rimasi impalato, con la bocca aperta, immobile, senza sapere cosa dire. Imbarazzato, rivolsi il capo a terra, studiando le mie scarpe.

C’era un motivo per cui non riuscivo a guardarla negli occhi. Aveva quella luce che, insolita, non risplende in ogni universo, ma si limita ad avere un focolaio dentro poche persone. Quelle che solitamente non nota mai nessuno. E poi, d’un tratto, cominciano a risplendere come sotto ad un lampione. E il lampione, in quel momento, avrei tanto voluto essere io.

Continuando a guardare a terra, mi accorsi con terrore che due paia di scarpe avevano raggiunto le mie. Erano delle normali converse nere un po’ usate, un piede minuto, come quello di una ragazza. Sofia aveva delle converse nere? Non me lo ricordavo, però in quel momento avrei tanto voluto che fosse lei quella davanti a me, per non dover fare altre figuracce e per non affrontare la situazione.

Da quanto sei così codardo?, diceva la voce dentro di me – che fosse quella maledetta coscienza di cui tanti parlano? – facendosi sempre sentire nei momenti meno opportuni.

Alzai gli occhi con cautela, certo di beccarmi minimo uno schiaffo.

Elena era davanti a me, che mi guardava con un sopracciglio alzato. Indossava una giacca nera un po’ troppo grande per lei, che la faceva sembrare ancora più minuta di quanto non fosse. Al collo risplendeva l’argento della sua collana, come a volermi ricordare che c’era una presenza lì con noi e che non ci avrebbe lasciati mai da soli: suo fratello. Cercai di togliermi quell’orribile pensiero e cominciai a guardare Elena da più vicino di quanto avessi mai fatto fino ad allora.

Gli occhi azzurri erano circondati da un leggero cenno di matita nera e erano circondati da tracce di occhiaie. Probabilmente ce le aveva sempre avute, ma io non l’avevo mai notato. Sembrava davvero stanca, come se non dormisse da secoli, o come se ne stesse patendo più di quanto una persona fosse in grado di sopportare; o forse era solo il fatto che sapevo che era così che me lo faceva vedere?

Era allarmante come tutto intorno a noi si fosse improvvisamente fermato, come se non esistesse null’altro.

« Elena » presi fiato, « io volevo… Scusarmi. Sono stato a dir poco orribile, e… » Le parole mi morirono in gola. Cercai di trovare qualcosa di sensato da dirle per farle capire che non volevo accusarla, che ero preoccupato per lei, che non facevo altro che pensare al suo volto tutto il giorno e…

Basta, Riccardo.

« Scusami » borbottai, e feci quasi per andarmene, quando la sua mano mi afferrò per un braccio.

La sua stretta era calda, ma mi fece venire i brividi.

« Non importa, stai tranquillo » mi disse. « È successo di peggio, non sono arrabbiata con te. Dopotutto hai ragione… »

« Non è vero! »

« Sì invece » ribatté sicura. « Non studio molto, per un motivo o per l’altro, e non è che me ne preoccupo. Più che altro me ne frego, sai com’è. Arrivi ad un certo punto e non puoi fare a meno di pensare che la scuola è solo un peso inutile e che non ti prepara alla vita che c’è lì fuori, quindi, a che serve sapere cosa diceva Cicerone se poi non hai una casa dove tornare? »

Rimasi paralizzato. Lo diceva con talmente tanta tranquillità da farmi a dir poco paura. Avevo quasi la voglia di prendere e scappare, andarmene lontano, non tornare più vicino a lei. Sentire quelle parole così vere e così crudeli non mi faceva affatto stare bene.

« Elena… » mormorai, chiedendomi se nel dizionario esistessero sufficienti parole per certe situazioni o se era il caso di inventarne di nuove.

« Dico sul serio, non dire che ti dispiace » mi disse, aprendo il volto in un sorriso.

« Sono preoccupato per te » dissi, mordendomi subito il labbro per non essere rimasto zitto.

« Perché? » sgranò gli occhi.

Come facevo a spiegarglielo? Come facevo a dirle che ogni volta che la vedevo avrei voluto stringerla in un abbraccio? Come facevo a dirle che stavo morendo dalla voglia di prenderle una mano, così, senza un apparente motivo?

« Non lo so » ammisi.

« Non preoccuparti mai per me » disse dura. « Odio le persone che lo fanno. Non voglio il minimo di compassione da parte tua ».

« Non è compassione! » mi affrettai a precisare. « Non mi fai pena, non… Non è così ».

« E allora com’è? »

Sei in trappola, amico, mi disse in quel momento la vocina fastidiosa.

« Hai presente quando vorresti che una persona stesse bene? Quando non puoi fare a meno di desiderare il meglio per lei, quando ti chiedi perché non possono essere così tutti quanti al mondo? » mormorai velocemente, guardandola di sfuggita. Lei corrugò la fronte.

« Sì. Ma che c’entra? »

« C’entra » cercai di spiegarle ed il cuore che improvvisamente cessò di battere, « perché ogni volta che vedo te penso questo. Vorrei che non ti fosse accaduto nulla, che tu fossi felice e mettessi da parte il tuo sguardo malinconico. Vorrei che ogni persona fosse forte come te e così spudorata da non aver paura di dire cosa prova ».

Il vento mi colpì in pieno viso, facendomi lacrimare per un secondo. Non era semplice, non mi ero mai sentito così in difficoltà a parlare con una persona, era come se le parole avessero deciso di lasciarmi da solo, abbandonandomi a me stesso. Una parte di me – quella più grande – voleva fuggire e andare a nascondersi, forse cambiare i connotati, comprare una parrucca e un paio di baffi e trasferirsi in Messico a vendere nachos. L’altra, invece, voleva solo che Elena si affrettasse a rispondere, a dire qualcosa, qualsiasi cosa.

« Ma tu non hai la ragazza? » mi chiese, e mi sentii morire.

Forse non proprio qualsiasi, eh, Riccardo?

Di tutte le risposte che pensavo di sentirmi dire, quella era la peggiore.

« Sì, Sofia » mormorai.

« Allora perché ti preoccupi di me? »

« Non è la stessa cosa, io… io con te mi sento me stesso ».

Sembrava una frase fatta ma non lo era. Forse il suo significato era stato ripetuto talmente tante volte da persone, film, libri, da esser considerata una corbelleria come tante altre, ma io non mi ero mai sentito più sincero in tutta la mia vita come allora.

« Non mi conosci nemmeno » disse lei, pacata. « Non mi piace chi mi prende in giro ».

« Non ti sto prendendo in giro » le risposi paziente. « Non lo farei mai, non ci riuscirei nemmeno volendo. Ti dico la verità, con te non ho avuto paura di essere me stesso e tu mi hai dimostrato che nel mondo c’è molto altro fuori di me. È come se mi avessi regalato degli occhiali ed ora riesco a vedere cosa prima i miei occhi mi nascondevano ».

« Non ti seguo ».

« Non mi seguo nemmeno io, non importa » mi affrettai ad aggiungere. « Lascia perdere ciò che ho detto finora, voglio solo che tu sappia che non volevo farti star male con quello che ti ho detto l’altro giorno ».

Elena rise. « Tu ti preoccupi troppo, non sono arrabbiata con te! »

« Davvero? » Non avevo mai sentito il mio tono così speranzoso prima d’allora.

« Davvero! » continuò a ridere. « Non sarai né il primo né l’ultimo a dirmi quelle cose. Amici? » mi chiese, tendendomi la mano.

Per un momento esitai, incerto su cosa fare. Quella parola, amici, in quel momento per chissà quale motivo mi sembrava orribile.

« Certo » mormorai mite, afferrandogliela, ma subito mi rallegrai vedendo che stava sorridendo come non mai.

« Bene » disse. « A presto, Riccardo » mi salutò, avvicinandosi e dandomi un bacino sulla guancia. Arrossii immediatamente, non preparato a quel gesto, e quando si staccò cominciarono a tornarmi i brividi di freddo, improvvisamente più intensi.

« Ciao » salutai debolmente, stordito.

La guardai mentre si allontanava da me e si avviava verso la fermata dell’autobus. Mi accorsi solo allora che portava la gonna: la gonna con le converse. Non riuscii a fare a meno di sorridere come un’ebete al vento, al pensiero che esistesse Elena.

Elena, così diversa eppure così semplice.

« Ahia » una voce familiare mi arrivò da dietro alle orecchie. « Ahia, sento odore di guai ».

« Jack » sbuffai voltandomi. « Cosa c’è adesso? »

« Ragazza a ore tre » si limitò a dirmi alzando le spalle, e poi mi superò.

Vidi Sofia venire verso di me con un’espressione indecifrabile nel volto, ma non potei fare a meno che sorriderle. Ero talmente euforico per via di Elena che non riuscivo ad essere triste o preoccupato. Non c’era nessuno come lei, nessuno in grado di rendermi così spensierato tutt’ad un tratto.

« Riccardo, ti aspettavo dal cancello posteriore, avevi detto che ci saremmo visti lì » mi disse Sofia appena mi venne incontro. Sembrava confusa.

« Sì, Sofia, scusami, ma avevo da fare e mi sono dimenticato di avvertirti » biascicai, sperando di non arrossire. « Se vuoi ora possiamo andare ».

« Okay » mormorò lei, ma non sembrava troppo convinta. « Se ci fosse qualcosa che non va me lo diresti, vero? » mi chiese poi.

« Certo » la rassicurai, dandole un lieve bacio sulle labbra. Quel leggero tocco parve farla rinascere.

« Va bene, allora possiamo andare » mi sorrise, prendendomi una mano, ed io la seguii fuori da scuola, pronto a passare il pomeriggio al suo fianco.

 

Al suo fianco? Io direi piuttosto che fisicamente eri lì, ma con la mente da tutt’altra parte, o meglio, da tutt’altra ragazza.

Zitta, fastidiosa coscienza. Taci, tieniti le tue verità per te.

 

 

 

 

 

 

 

 

{ Spazio HarryJo.

Ma buonasera a tutti! Lo so, mi detestate e mi odiate, lo capisco. Faccio schifo, ci ho messo più di un mese ad aggiornare. Sono pronta al linciaggio, certo, ma prima lasciatemi dire alcune parole.

Innanzitutto il ritardo è dovuto ad alcuni problemi personali, la maggior parte dei quali non mi ha del tutto lasciata. So che non ve ne può fregar di meno, ma non ho mai pensato – né penserò mai – di lasciare questa storia: state pur certi che la continuerò, anche se con ritardi madornali, continuate ad aver fede! *passa palla di fieno*

Poi. Volevo ringraziare due persone: innanzitutto Alessandro (Ciao, Ale!) che mi odia a morte per non aver pubblicato prima e che mi ha praticamente costretto a “sbloccare la mia tastiera”. Grazie mille di cuore, spero che non ti abbia fatto troppo schifo il capitolo D:

In secondo luogo – ma non meno importante – voglio pubblicamente ringraziare quella maledetta donna che qui porta il nome di MedusaNoir. Sì, Med, proprio tu. Perché Medusa mi ha spedito un pacco dove ha scritto sopra “Nient’altro importa” e dentro c’era una collana con la lettera D. Collana che peraltro ora indosso sempre. Grazie, Med, perché sei meravigliosa. E, a voialtri do un consiglio, se siete fan dei fandom in cui scrive, andate a leggerla e non ve ne pentirete.

Concludo qui. Non ho null’altro da dire, ma se c’è ancora qualche anima pia che segue questa storia che faccia un fischio in una recensione, è sempre apprezzato…

Buona notte a tutti,
Erica :3

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Capitolo 9
*** Nero ***


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Capitolo 9

 

Nero

 

 

Oh, the pictures have

All been washed in black

Tattooed everything…

Black – Pearl Jam

 

 

 

Dopo pochi giorni Sofia partì in gita scolastica. La sua classe sarebbe andata per cinque giorni a Parigi, mentre noi saremmo andati a Londra qualche settimana più tardi.

Se devo dire qualcosa di quei cinque giorni, sono sicuro che non mi soffermerei troppo sulla mancanza di Sofia, perché non la sentii molto. Furono cinque giorni all’insegna di verifiche, studio, musica, e… Elena.

Quasi tutte le volte mi avviavo verso la sua classe durante le ricreazioni perché volevo vederla, scambiarci due chiacchiere, a proposito di qualsiasi cosa. Era un riflesso incondizionato che non sapevo contrastare, le mie gambe mi portavano verso di lei senza che io potessi fare nulla per impedirlo. La cosa assurda è che, quando mi trovavo a pochi metri dalla sua aula, improvvisamente cominciavo a sentirmi stupido e ritornavo in classe mia, senza vederla. Stando ai pensieri di Giacomo ero preoccupante.

Proprio l’ultimo giorno di gita di Sofia, il venerdì, successe probabilmente una delle cose più belle che mi potessero accadere. Ero arrivato ormai di fronte alla porta dell’aula di Elena, e come al solito stavo già cominciando a retrocedere, quando lei uscì e mi vide. La sua voce mi raggiunse le orecchie con il suono della musica più dolce che conoscessi.

« Riccardo! »

Mi voltai a guardarla, sperando di non essere arrossito, e le sorrisi lievemente. « Ehm, ciao ».

« Cosa ci fai qui? » Si avvicinò a me e non potei fare a meno di notare quanto belli e grandi fossero i suoi occhi.

« Io… Qui… Ti cercavo » ammisi, senza riuscire a trovare una scusa migliore da dirgli.

« Oh » si sorprese, « e perché? Qualche problema? » Sembrava quasi preoccupata. L’idea che Elena si preoccupasse per me mi fece diventare all’improvviso più contento e sicuro di me.

 « No, nessun problema » mormorai. Non sapevo che dirle: perché l’avevo cercata? Perché in quei giorni sembrava che volessi solo lei di fianco a me? La risposta era chiara dentro la mia mente: per parlare un po’. Perché mi mancava la sua voce, perché volevo assicurarmi che stesse bene. Ma di certo non potevo dirle niente del genere; quei pensieri dovevano rimanere oscuri a tutti se non a me. Li sentivo sbagliati.

Elena continuava a osservarmi attendendo una risposta, e cominciai a perdere anche quella poca sicurezza che ero riuscito a conquistarmi negli ultimi secondi. « Mi chiedevo se… Cioè, oggi tu rimani a pranzare a scuola? »

Si irrigidì un momento. « Sì ».

« E poi resti qui per tutto il pomeriggio? »

« Solo un paio di ore ».

Mi cominciai a guardare le dita delle mani, nervoso. Non sapevo da dove mi stavano uscendo quelle parole – di sicuro non dal cervello – né di quanta stupidità fossi in possesso in quel momento per pronunciarle. « Mi domandavo se magari ti andava di venire a mangiare da me invece di restare qui. Poi potresti fare i compiti a casa mia, magari parliamo un po’ e se serve ti riporto a casa io… » Abbassai notevolmente il tono della voce. « Se puoi e se vuoi… »

« Oh ». Elena rimase in silenzio per qualche secondo e temetti di aver fatto l’ennesima figura da idiota. « Non lo so, non voglio disturbare. E poi dopo devo andare a casa, oggi mio padre ha detto che dobbiamo lavorare, sai… » arrossì violentemente fino a diventare dello stesso colore della maglia bordeaux che indossava.

« E se venissi con te? »

Sgranò gli occhi, e nello stesso istante li sgranai anch’io rendendomi conto di cosa avessi appena detto. « Cosa? »

« Potrei provare a venire a darti una mano » spiegai, incerto. « A lavorare sulla casa. Sempre se tuo padre è d’accordo. E tu chiaramente. Se vuoi. Mi piacerebbe poterti aiutare ». Mi sembrava di aver perso la capacità di fare un discorso logico compiuto e finito mentre parlavo – probabilmente era davvero così.

« Nessuno mi ha mai… chiesto una cosa simile » rispose, quasi come se fosse senza fiato. Azzardai alzare gli occhi e guardarla, sembrava stupefatta e senza parole. « Mi… Mi farebbe piacere, sì » ammise. « Ma non voglio che tu venga se non te la senti, non è un bello spettacolo, e poi penso che mio padre non sarebbe gentile con te solo perché non sei suo figlio. Ti farebbe sgobbare come me senza ritegno e comincerebbe a dirti un sacco di parole per ogni cosa che non gli va bene, quindi io ti consiglierei di pensarci bene prima, perché potresti detestarlo e non voglio rovinarti la giornata ». Parlò tutto d’un fiato e sembrava non voler accennare a smettere. Evidentemente non ero l’unico a provare imbarazzo in quel momento.

« Tranquilla » annuii debolmente, senza capacitarmi di ciò che stava succedendo. « Sono abituato ai rimproveri e poi lo faccio volentieri se è per aiutare te ».

Rimanemmo in silenzio per un po’ a guardarci, entrambi senza saper cosa dire. Però sentivo che, mentre le volte precedenti il Silenzio ci aveva fatto visita distruggendoci e caricandoci di un peso troppo grande, ora sembrava volerci solo far compagnia. Elena sorrise.

« Grazie, Riccardo. Non so perché lo fai, ma… grazie ».

Avrei voluto dirle che nemmeno io sapevo perché lo stavo facendo, ma mi limitai a ricambiare il sorriso mormorando: « Di nulla ».

La campanella, poi, ci salvò. Quasi sussultai sentendola e cominciai ad arretrare – probabilmente anche in maniera molto buffa e goffa.

« Allora io torno in classe, ci vediamo dopo, va bene? »

« A dopo » salutò Elena. Mi voltai e tornai nei miei passi.

Era la cosa più assurda e insensata che io avessi mai programmato di fare da quel che potessi ricordare. Lavorare da qualcun altro? Ma se non facevo nulla nemmeno a casa mia!

Eppure ogni cosa sembrava trovare una risposta quando pensavo ad Elena: non era tanto lei in sé che mi faceva diventare matto, ma quello che rappresentava ai miei occhi. La sua sofferenza, cercata di reprimere in fondo al cuore come meglio poteva, la sua passione per la musica stroncata da un così violento episodio, la perdita di una persona così importante come poteva essere la figura di suo fratello. Mi sentivo quasi in dovere di aiutarla, di dimostrarle che potevo essere lì a darle quella mano che nessuno le aveva mai offerto prima. Mio padre lo diceva sempre: “Quando accade un incidente a qualcuno, subito tutti si offrono di aiutarlo, ma già dal giorno dopo ognuno ritorna a pensare solo a se stesso.” Io non volevo essere una di quelle persone. Non per Elena.

Non raccontai a Giacomo ciò che avevo intenzione di fare. Avevo come l’impressione che mi avrebbe rimproverato e avrebbe nominato Sofia… ma dopotutto, chi era Sofia?

 

Il pranzo insieme a Elena fu molto piacevole. Parlammo solo di scuola, è vero, però gli aneddoti che raccontava erano divertenti e quindi riuscimmo ad essere quasi contenti, pur ben sapendo a che cosa saremmo andati incontro dopo qualche ora. (Non è completamente esatto: lei lo sapeva, io lo potevo solo immaginare, e neanche così bene.)

La osservai fare i compiti di matematica con cura, e analizzai ogni suo movimento: come si spostava indietro una ciocca di capelli, come si stringeva forte tra le dita la collana ogni volta che non le veniva un esercizio, come sbuffava quando qualcuno nei tavolini di fianco a noi parlava troppo forte per i suoi gusti. Non la interruppi nemmeno per un momento: continuai a osservarla in silenzio e sembrava che apprezzasse la mia discrezione. Forse anche lei, come me, pensava a quello che avremo trovato di lì a poco. Forse cercava un modo per nascondermi qualche particolare, quando si mordicchiava il labbro e mi guardava con la coda dell’occhio – convinta che io non lo notassi. Io, da canto mio, avevo solo tanta, tanta paura. E non per me, ma per lei. Avevo paura di scoprire quanto dolore potessero contenere delle mura avvolte da fiamme.

 

Mentre andavamo con l’autobus a casa sua, non spiaccicò parola. Continuava a guardare fuori dal finestrino. Io facevo lo stesso.

 

Arrivammo a casa sua persino troppo presto per i miei gusti. Da fuori non sembrava esserci un granché: l’abitazione era bianca, grande, spaziosa ed elegante. Solo qualche alone nero qui e lì facevano intuire che fosse successo qualcosa, ma da lontano nemmeno ce se ne accorgeva.

 

Elena si avvicinò all’entrata e io la seguii. Aveva la mano sulla maniglia quando si voltò verso di me e quasi mi implorò tacitamente con il suo semplice sguardo.

« Sei sicuro di volerlo fare? »

« Sicurissimo ».

Ormai era la millesima volta che glielo dicevo.

« Ok… Non c’è molto ordine, anzi » mi avvisò imbarazzata, mentre apriva la porta.

Dire che non c’era ordine era un eufemismo. Il caos assoluto si stagliava nella stanza davanti a me. Divani, vestiti, televisione, mobili, forno, pentole, sedie, tavoli… Praticamente tutto quello che poteva esserci in una casa era ammucchiato lì. Ma non era semplicemente il caos più totale che mi aveva lasciato senza parole; bensì il nero.

Il nero si stagliava in ogni oggetto. Il fumo aveva avvolto tutto ed il suo colore era rimasto per testimoniarlo.

Tra tutte le immagini che mi ero fatto per prepararmi alla vista, la peggiore non si avvicinava neanche lontanamente.

Soffermai lo sguardo sui muri e poi sul soffitto, sentendomi mancare il pavimento da sotto i piedi. Le crepe profonde non lasciavano spazio all’immaginazione. Le pareti, che una volta erano state gialle, ora erano colorate del nero più scuro che avessi mai visto, di quelli che non trovi neanche negli incubi più spaventosi; ma non fu neanche quello che catturò maggiormente la mia attenzione.

Nel soffitto l’oscurità continuava, ma era attraversata da molti piccoli cerchi bianchi in sequenza.

« Sono segni del getto d’acqua che hanno buttato i pompieri » mi spiegò Elena, vedendo che mi ero incantato ad osservarli. Subito nella mia mente si affiorò l’immagine di un uomo vestito di rosso che con una pompa spegneva l’incendio che si stava propagando in quei muri. L’odore di fumo aiutava a dare più concretezza alla scena. Orribile.

Guardai Elena, aspettando che magari dicesse qualcosa per rompere il silenzio, ma lei non aprì bocca. Eppure sentivo che niente era così loquace come il suo silenzio.

 

 

 

 

{ Spazio HarryJo.
Sono passati millenni, vero? Mi dispiace molto, è stato un periodo scioccante. Avevo deciso di abbandonare EFP, quindi anche questa storia, ma come potete vedere, ora sono qui.

Spero che a qualcuno interessi ancora questa storia, perché io sono arrivata al punto che volevo descrivere: una casa dopo aver subito un incendio. Ah, so che qualcuno cercava il link dell’articolo di giornale del mio incendio. Eccolo qui: http://ricerca.gelocal.it/tribunatreviso/archivio/tribunatreviso/2010/06/15/TCBPO_TCB01.html?ref=search

Au revoir, fatemi sapere che pensate di questo capitoletto,

Erica

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