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La porta si aprì
all’improvviso facendomi sobbalzare ed alzando la testa mi accorsi di essermi
assopito sopra il libro di filosofia mentre ascoltavo musica; la guancia destra
aveva preso la forma della pagina su cui mi ero beatamente addormentato e
l’auricolare dell’mp3 pendeva distrattamente dall’orlo del tavolo.
« Riccardo! » Nella voce di
mia madre si sentiva un bel rimprovero, come minimo una strigliata d’orecchi
con la solita predica. Già mi preparavo alla solita risposta: sì, mamma, lo so che devo studiare. Sì,
mamma, lo so che ho gli esami di maturità quest’anno. Sì, mamma, lo so che la
musica non mi porterà da nessuna parte, ma devi ammettere che nemmeno la
filosofia lo farà.
« C’è Giacomo al telefono,
vuole parlarti per il concerto di domani » disse invece, senza nessun accenno
allo scarso impegno che avevo nei confronti della scuola. Quel giorno sarebbe
stato da ricordare solo per quello.
Mi alzai di scatto senza
pensarci due volte. Non avevo nessun riflesso che fosse più rapido di quello
che mi veniva quando si trattava di musica, o meglio, di suonare.
Presi il cordless e
cominciai a camminare avanti e indietro per la stanza mentre parlavo con
Giacomo, il mio batterista. L’indomani avremo suonato nella nostra scuola in
occasione della giornata della memoria, e, anche se non era la prima volta, ero
eccitatissimo all’idea di suonare davanti ai tremila studenti del nostro liceo
scientifico. Era una bella soddisfazione.
« Ehi, Jack. Come va? » gli
dissi tutto contento.
« Non molto bene purtroppo.
Ho la febbre a 39 e non sembra volersi abbassare » disse tossendo.
« Che cosa?! Ma domani puoi
suonare, vero?! »
« Ma ti pare che io possa?
Quando l’ho chiesto a mia madre ha cercato di uccidermi con lo sguardo, sai
com’è quella donna! »
In effetti Giacomo era
piuttosto cagionevole di salute, e, ogni volta che aveva anche solo un piccolo
raffreddore, sua madre lo teneva a casa per giorni, preoccupata che si potesse
evolvere in qualcosa di più.
« E che facciamo per il
concerto? » chiesi allarmato.
« L’unico modo è cercare un
altro batterista, oppure non lo facciamo e basta » mi rispose.
« Ma neanche per sogno! »
Non avrei mai rinunciato a quel concerto, neanche se fosse stata questione di
vita o di morte. « Tu dimmi, conosci qualche batterista valido nella nostra
scuola che potrebbe conoscere le canzoni? »
« È tutta adesso che ci
penso, ma non saprei proprio. Ci sarebbe Matteo, ma ti odia a morte, non
verrebbe mai a suonare con te ».
Sbuffai. Quel ragazzo era
un bravo batterista, forse molto più di Giacomo, ma il suo ego era tanto da far
schifo, ed io non lo potevo sopportare.
« Nessun altro? » chiesi
speranzoso.
« Eh, non è che non ce ne
siano, anzi, siamo pieni di batteristi lì a scuola! Pensa che all’autogestione
eravamo il gruppo più numeroso, tanto che la preside era venuta a… »
« Taglia corto » lo fermai,
impaziente di trovare un sostituto al più presto.
« Beh, il punto è che
trovare un batterista che conosca le canzoni e che le sappia suonare bene è
difficile, soprattutto con un anticipo così breve ».
« Argh! Non è giusto, Jack!
» esclamai furioso.
« Senti, amico, non ci
posso fare niente, domani vai lì e cominci a chiedere chi ha voglia di suonare
un po’. Se trovi qualcuno bene, sennò amen ».
Riattaccai senza dire
parola, e poi mi accasciai sul letto disperato.
Ma perché proprio a me?
Perché Giacomo doveva stare male proprio quel giorno? Lo aspettavo da così
tanto tempo, tutti sapevano quanto importanti erano per me i concerti.
Mi torturai con quel
pensiero fino all’ora di cena, e fu motivo di discussione anche con i miei.
« Riccardo, qualche
problema? Sembri stravolto » aveva detto mia madre, con tono gentile.
« Giacomo sta male, quindi
domani non può suonare e io non so chi potrebbe sostituirlo » avevo risposto
arrabbiato mentre mangiavo un boccone troppo grande di pasta e rischiavo di
soffocarmi.
« E per queste cose ti
arrabbi in questo modo? Ragazzo, sono altri i problemi della vita » mi aveva
rimbeccato mio padre.
« Per me è importante » e
con queste parole mi ero alzato da tavola, senza terminare la cena. Loro non
avrebbero mai capito quanto per me era importante la musica.
Certo, dopotutto, non
potevo biasimarli. Sapevo che per me progettavano un futuro ben diverso da
quello che volevo io, mi volevano vedere con un lavoro stabile, con un livello
di istruzione che mi avrebbe permesso di aver più possibilità. Ma non potevano
lamentarsi: a scuola andavo molto più che bene, e alla fine ciò che mi
chiedevano l’avevo sempre fatto.
Se avessi rimosso la
chitarra dai miei pensieri, forse per loro sarei stato perfetto.
Ma io mi sentivo perfetto
così, e non ci trovavo niente di male.
Ricordavo ancora in ogni
minimo particolare com’era iniziata. Ero alle elementari, e stavo tornando a
casa a piedi da scuola, un venerdì pomeriggio. Si solito tornavo stressato, non
mi piaceva fare i rientri, eppure quel giorno ero euforico, perché la
bellissima Chiara mi aveva dato un bacino sulla guancia. Contento com’ero,
avevo deciso di andare a casa per le stradine più nascoste di Cureggio ed
evitare le vie principali. Così facendo ero passato davanti alla scuola di
musica del mio paese. Lì, avevo sentito per la prima volta suonare qualcuno dal
vivo. Lì avevo sentito per la prima volta una chitarra che non fosse stata
suonata per un cd. Lì mi ero messo ad origliare quei suoni, e dopo quella prima
volta ne seguirono molte altre, finché i miei non si erano rassegnati all’idea
di mandarmi a suonare e comprarmi una chitarra.
Da quel giorno, io e la mia
Fender Stratocaster eravamo diventati inseparabili.
Le cose che amavo di più
erano i saggi: mi permettevano di far vedere, o meglio, di far sentire ai miei
genitori quanto per me era importante la musica e quanto quindi per me era
importante continuare a suonare. E non era solo quello, era proprio una sfida
con me stesso, una sfida in cui ci mettevo l’anima.
Per quello, quando ci
avevano proposto di suonare a scuola non avevo avuto un minimo di esitazione.
Giacomo era il mio batterista
da anni.
Avevamo fondato noi il
nostro gruppo dopo esserci conosciuti per caso ad una festicciola di un’amica
comune: avevamo iniziato a parlare e subito ci siamo ritrovati come gusti
musicali, entrambi suonavamo e volevamo sfondare… Ci potevano essere condizioni
migliori per creare una boy band? Poco tempo dopo siamo diventati anche
migliori amici, stessa scuola, stessa classe.
Inseparabili, oserei quasi
dire.
Non riuscivo a credere che
per la prima volta sarei dovuto andare sul palco senza che le sue mani mi
battessero il tempo. Sarebbe stato meglio trovare qualcuno di bravo, che non mi
facesse sfigurare dopo tutti quei giorni persi a provare.
E con quel pensiero, mi
addormentai.
La mattina dopo fu
traumatico l’alzarsi dal letto.
Non ero abituato a
svegliarmi così presto, ma forse era un sacrificio che valeva la pena di sopportare.
Preparai tutto con cura: la
mia amata chitarra, il mio amplificatore, i cavi, i plettri e tutto ciò che mi
sarebbe servito per il concerto di quel giorno. Ero pronto.
Mi mancava solo il
batterista.
Perciò non mangiai nemmeno
quella mattina, spronai mio padre a trascinarmi a scuola prestissimo e
cominciai a chiedere a chiunque passasse: « Scusa, tu per caso sei un
batterista? O conosci qualcuno che lo è e che potrebbe aiutarmi? »
« No » mi risposero tredici
ragazzi.
« Sì » dissero invece in
due.
«Conoscete queste canzoni?
» chiesi a questi due tendendo loro una lista che conteneva sei brani. Per la
precisione, Don’t Cry dei Guns N’ Roses, The promise land di Bruce Springsteen,
Let it be dei Beatles, Wasting Love degli Iron Maiden, In a darkened room degli
Skid Row e, ultima e più importante, Nothing Else Matters dei Metallica.
Entrambi scossero la testa
però, non le sapevano suonare, o almeno, non tutte.
Mi accasciai contro il
muretto della scuola e mancava un quarto d’ora per l’inizio delle lezioni, ed
io non avevo tirato fuori un ragno dal buco.
« Scusa, in giro dicono che
ti serve un batterista che conosca alcune canzoni, è vero? » disse poi una voce
femminile, e mi voltai a guardare chi aveva parlato.
Una ragazza - sarà stata al
terzo anno - bionda, con due bellissimi occhi verdi, era davanti a me che
attendeva risposta.
« Sì, disperatamente. Per
caso conosci qualcuno? » le chiesi con l’ultimo filo di speranza. Annuì, e mi
sentii sollevato.
« Certo. Lei » e mi indicò
una persona con un dito.
Capelli castani, molto magra,
piuttosto bassa, chiacchierava con alcune amiche tranquilla.
« Lei? » chiesi sospettoso.
« Sì. Non sei convinto? »
Non risposi. No, non ero
affatto convinto, ma dirlo ad alta voce mi sembrava brutto.
« Dopotutto, che
alternative hai? » mi chiese la bionda, lanciandomi un’occhiata e poi urlò: «
Elena! »
La ragazza castana si girò
verso di noi e ci venne incontro. Non era male, aveva dei bellissimi occhi azzurri,
ma quello che mi colpì subito fu una collanina che pendeva distrattamente dal
suo collo, un cuore con una lettera: D.
« Ehi cara, come stai? »
domandò alla bionda.
« Tutto bene. Senti conosci
queste canzoni? » Prima che me ne potessi accorgere mi aveva già sfilato da
mano la scaletta che avrei dovuto eseguire.
« Ovvio. » rispose Elena.
« E le sai suonare? »
« Sì ».
La sua voce sembrava
essersi fatta più flebile a questa domanda.
« Potresti suonarle oggi
alla conferenza col suo gruppo? Il loro batterista si è ammalato » continuò la
ragazza bionda, indicandomi. Ma insomma, non potevo fare io qualche domanda? Mi
davano estremamente fastidio le persone che parlavano di me come se non fossi
lì presente accanto a loro.
Elena si rivolse
direttamente a me, come se mi avesse letto nel pensiero.
« Chi sarebbe il vostro
batterista? »
« Giacomo Grimaldi »
risposi con un fil di voce.
« Ok. E vi va bene come
suona? » si informò, per non capivo quale motivo.
« Sì » risposi.
« Bene. Se ti serve una
mano, io ci sto » mi disse, e vidi i suoi occhi inumidirsi per un secondo. O
forse era solo una mia impressione.
Acconsentii.
Dopotutto, che altro avevo
da perdere? O lei, o nessun altro.
Quel giorno la incontrai per la prima volta.
{ Spazio HarryJo.
Eccomi qui, che inizio a torturarvi con un’altra long
^^
Beh, questa è diversa dalle altre, e non tratterà
solo d’amore. Ovviamente, un punto importante di questa fic è la musica. Mentre
per il resto, beh, lo scoprirete.
Se avete voglia, mi dite perché secondo voi ad Elena sono
venute le lacrime agli occhi all’idea di suonare? Potete anche semplicemente
dire che non ne avete idea xD Son solo curiosa di sapere che vi passa per la
testa leggendo le mie schifezze :D
Stavamo insieme da
qualche settimana, e mi piaceva molto. Aveva i capelli neri, lunghi e lisci e
due occhi marroni bellissimi, che risaltavano particolarmente quando lei li
contornava con il trucco, cioè, praticamente sempre.
Era davvero bello
passare il tempo con lei: espansiva, vivace, non mi avrebbe mai deluso. Con i
miei amici non si trovava mai in imbarazzo, e credo fosse per questo che stava
molto simpatica anche a loro.
Quel giorno, prima di
iniziare il concerto, lei venne da me ad augurarmi la buona fortuna, ed io ero
talmente agitato che mentre cercavo di darle un bacio sulle labbra, mi scontrai
con il suo naso, facendola ridere.
« Dai, Riccardo,
andrai benissimo, già lo so! » mi disse e scappò via con le sue amiche a
cercare un posto all’interno dell’aula magna.
Era enorme quel
posto. L’avevo sempre adorato, perché aveva il pavimento inclinato verso il
basso, con una marea di posti a sedere. Mi sentivo sempre piccolo ad entrarci,
ma quel giorno, iniziando a preparare le mie cose al centro esatto della
stanza, più che piccolo cominciai a sentirmi davvero insignificante.
Mentre iniziava
l’affluire dei ragazzi delle varie classi, io mi agitavo sempre di più. Nicola
alla mia destra stava accordando il basso con aria svogliata, tremendamente
tranquillo. In tutto il tempo che lo conoscevo non ero mai riuscito a beccarlo
una volta che fosse una con un po’ di agitazione. Per questo un po’ lo
invidiavo, ad essere sincero: era sempre se stesso, e riusciva a controllare le
sue emozioni.
Il cantante invece,
Paolo, era a parlare con i professori, e si stava mordicchiando un labbro. Era
completamente l’opposto di Nicola, lui non era mai sicuro di se stesso,
l’emotività prendeva sempre il sopravvento sul suo cervello.
E poi c’ero io, la
via di mezzo. Io che, d’altro canto, quel giorno ero l’ansia fatta persona.
Non riuscivo nemmeno
ad accordare bene la mia Fender, anzi, proprio non ne ero capace. In quei
momenti di solito c’era Giacomo che mi tranquillizzava con le sue pessime
battute, ma quel giorno lui non c’era.
« Dammi » mi disse
una voce femminile alle mie spalle.
Mi girai, ed Elena
tendeva il braccio indicando la mia chitarra.
Spontaneamente la
strinsi ancora di più a me.
« Eh? No no, mi arrangio, sta pure tranquilla. Piuttosto, lì ci sono
le bacchette con cui puoi suonare » e gli indicai il paio di Vic Firth sopra
alla sedia della batteria.
La vidi scrutarle per
un attimo, poi le prese, con un gesto lentissimo. Sembrava quasi che ci stesse
parlando insieme grazie ad un contatto visivo. Si girò verso di me e mi scoprì
osservarla, al che arrossii molto e, per evitare di parlarci insieme, mi
sedetti sopra al mio amplificatore e continuai a strimpellare la chitarra
cercando di accordarla.
« Sei troppo agitato
» notò Elena, accucciandosi vicino a me.
« Ci tengo molto,
tutto qui » le risposi.
« Se vuoi te
l’accordo io ».
« No, grazie ». Non
riuscivo a capire bene il perché ma ancora diffidavo di quella ragazza.
« Come ti pare »
rispose alzando le spalle.
Dopo cinque/sei
minuti però mi ritrovai a doverle chiedere aiuto, con la coda tra le gambe.
« Sai suonare anche
la chitarra? » le chiesi, quando mi restituì la Fender dopo appena due
minuti ed accordata perfettamente.
« Io sono una
batterista. Mio padre era un chitarrista e mi ha insegnato qualcosina; come per
esempio come accordarla. Ma non chiedermi altro, a parte le note e qualche
accordo qui e lì, mi perderei ». Sorrise.
« Grazie » mormorai
imbarazzato.
« Figurati. Ti fai
prendere sempre così dall’ansia? »
« Più o meno… Di
solito c’è Jack, con lui sono più a mio agio » le spiegai, accarezzando il
manico della chitarra.
« Ah, capisco. Beh,
non sono Giacomo, ma un consiglio te lo do comunque. Lasciati trascinare.
Lascia che sia la musica a comandare ».
La guardai
stupefatto, ma prima che potessi dire alcunché il preside della scuola prese
parola.
Persino Paolo era
pronto.
E quando le prime
note di Let it be iniziarono ad avvolgere l’intera sala, chiusi gli occhi e
sentii le parole di Elena risuonarmi nella mente.
Lascia che sia la musica a comandare… Lascia che sia la
musica…Lascia che sia… Let it be.
Finalmente anche
quella canzone aveva un senso.
Scoprii ben presto di
dovermi ricredere su Elena.
Era perfetta. Stava a tempo, mi sentivo bene come quando suonavo con Giacomo, ma
la sua musica era diversa.
Faceva qualcosa di
strano mentre suonava il charleston, non riuscivo ben a capire che cosa, ma era
come se stesse dando un colpo più leggero e in un tempo breve subito dopo al
colpo normale e standard che segnava il susseguirsi degli ottavi.
Non sapevo
spiegarmelo bene in realtà: il mio mondo era fatto di assolo, di corde
strimpellate, non di bacchette, piatti e tamburi.
Però c’era qualcosa
di speciale. Lei contribuiva a rendere la musica più vera, come se la sentisse
propria, come se fosse lei stessa parte integrante della canzone.
Mi girai più volte ad
osservarla, ma la vidi semplicemente intenta a suonare, con un sorriso unpo’ triste, e gli
occhi – stavolta ne ero sicuro – tremendamente lucidi.
Una dopo l’altra le
canzoni si susseguirono, e non saprei dire quale venne meglio. Sbagliai qualche
nota, ma fui bravo a camuffare i miei errori, perciò non me ne preoccupai:
l’importante era non fermarsi. L’importante era continuare a suonare, cantare e
sorridere. L’importante era non cadere in panico.
Nient’altro
importava.
Nothing else matters…
Con le note di
quell’ultima canzone si concluse quel piccolo concerto.
Sentendo gli applausi
mischiati ad alcuni fischi di ammirazione mi risollevai e sorrisi, fiero.
Era quello che
desideravo per me, per la mia vita.
Mi girai per
ringraziare Elena. Era stato tutto così perfetto, proprio come avevo
desiderato, e solo grazie al suo aiuto. Ma prima che potessi anche solo vedere il
suo volto, mi passò davanti mentre fuggiva via, lontana, diretta verso la porta
d’uscita, ed un attimo dopo di lei non rimase nulla.
Quando mi era passata
vicino, l’avevo sentito chiaro e forte, inconfutabile, triste.
Un singhiozzo.
Non so per quale
motivo, ma poggiai la mia chitarra vicino al muro e la seguii.
Nel corridoio però
non c’era nessuno.
Mentre tornavo
all’aula magna, Sofia mi raggiunse e mi disse: « Ehi,
sei stato bravissimo, lo sapevo! »
« Grazie
cara » le risposi sfiorandole le labbra con un leggero bacio.
« Ma perché te ne sei
andato via in quel modo? »
« Eh, sai la ragazza
che ha sostituito Jack? »
« Sì ».
« È fuggita via appena
finito il concerto senza neanche lasciarmi il tempo di ringraziarla, volevo
vedere se riuscivo a beccarla in corridoio, ma evidentemente è già scappata da
qualche parte. Fa niente » dissi, scrollando le
spalle.
« Ah, forse aveva un
impegno! » mi rispose Sofia, quasi come se lo
ritenesse ovvio. « Forse ha un ragazzo che la aspettava… »
Pensai alla collanina
con la lettera D che avevo notato quella mattina.
« Sì, hai ragione ».
Per qualche strano
motivo però sentivo che non era così.
Insomma, perché quel
singhiozzo allora?
C’era qualcosa che
non quadrava bene in quella storia, ma decisi di lasciar perdere.
« Vieni a pranzo con
me, Paolo e Luca? Pensavamo di restare qui a scuola a mangiare un boccone, e
poi andare a fare un giro nel negozio di dischi che c’è in centro » dissi a Sofia.
« Volentieri. Aspetta, avviso Maria che vengo con voi allora. Aspettami al
bar » disse prima di scomparire tra la folla.
Ritornai con i
pensieri ad Elena.
Chi era? Chi era D?
Cos’è che faceva col charleston? Ma soprattutto, perché aveva singhiozzato?
Quel pianto, quasi
sussurrato, e la sua esile figura che spariva dietro la porta di ingresso mi
aveva mandato il cervello in tilt.
{ Spazio HarryJo.
Cercando di pubblicare un capitolo a
settimana, eccomi di nuovo qui!
Allora, che ne dite? Sono riuscita ad
incuriosirvi almeno un po’?
Spero tanto di sì. Fatemi sapere cosa ne
pensate del capitolo con una recensione, se vi va.
Ah, devo ringraziarvi, siete davvero tanti
già adesso che mi recensite/seguite/ricordate/preferite.
La voce di Sofia mi
tolse dai miei continui pensieri.
Eravamo al bar della
scuola. Non era molto grande in realtà: qualche tavolino e un po’ di corridoio,
tutto lì il trucco. Da mangiare c’erano sempre un sacco di cose: le piadine –
quelle le avrei divorate a quintali – le pizzette (rotonde e quadrate, e no,
non erano la stessa cosa), i toast, i panini, i gelati, e un sacco di pietanze
di cui non sapevo il nome, ma che erano buonissime.
Ok, ero molto goloso.
Mangiavo di continuo, eppure ero magro, terribilmente magro. Per questo mi
invidiavano: io in realtà non ci facevo quasi caso.
« Ci sediamo lì? » mi
chiese Paolo, indicando un tavolo vuoto.
Annuii, e appoggiai
la mia cartella vicino ad una sedia lì vicina, per dirigermi a fare la fila per
prendermi da mangiare. Sofia aveva deciso di andare a prendersi un pacchetto di
patatine dalle macchinette pur di non restare in coda: era una cosa che
l’innervosiva parecchio.
Io, d’altro canto,
avrei aspettato anche ore, pur di mettere sotto i denti qualcosa di caldo ed
appetitoso.
Mentre raggiungevo il
bancone, una decina abbondante di minuti dopo, mi scontrai con una persona.
« Scusa » le dissi,
senza nemmeno guardarla.
« Fa niente » rispose
una voce femminile, che riconobbi subito.
Mi girai di scatto:
Elena era lì davanti a me, con un biglietto di prenotazione in mano, che
aspettava di essere servita.
Non sembrava essersi
accorta che io ero il chitarrista con cui aveva suonato prima, quindi la
salutai.
« Ehi, ciao ».
Si rivolse a
guardarmi per un secondo, mi riconobbe e mi fece un cenno col capo, prima di
prendere il vassoio che la donna del bar le stava servendo e uscire dalla fila.
Piadina, toast e pizzetta rotonda: quella ragazza aveva buon gusto, oltre che
un buon appetito.
Poco dopo servirono
anche me, ed io cercai subito con lo sguardo Elena.
Era seduta sola, poco distante dal mio tavolo, e stava mangiando in silenzio.
Non ci pensai due
volte e mi avvicinai.
« E tu che ci fai
qui? » le chiesi, sperando finalmente che fosse l’occasione giusta per
ringraziarla.
« Io sono sempre qui
» mi rispose evitando lo sguardo.
« Come mai? » le
domandai. Mossa sbagliata, mi fulminò.
Ma poi, invece di
rimproverarmi come mi sarei aspettato, rispose flebilmente: « Magari te lo
spiego più avanti, non voglio sconvolgerti la vita già adesso ».
Rise. Una risata triste però, e dovetti trattenermi molto per non farle altre
domande.
Il suo sguardo
accarezzava il pavimento. Era sola, sovrappensiero, lontana dalla gioia,
lontana dal sole.
« E tu cosa ci fai
qui? » mi chiese lei dopo qualche istante.
« Sono con Paolo,
Luca e la mia ragazza a mangiare, poi facciamo un giro in centro nel negozio di
dischi dietro la stazione » le spiegai alzando le spalle.
« Cosa vai a
comprare? »
« Non lo so ancora,
vorrei conoscere qualche artista nuovo sinceramente » le spiegai alzando le
spalle.
Mi succedeva spesso,
di sentirmi incompleto con la musica che conoscevo. Avevo sempre bisogno di
qualcuno di nuovo, qualcuno che stuzzicasse la mia fantasia e voglia di
suonare. Succedeva che mettevo spesso l’mp3 in riproduzione casuale, ma non
riuscivo mai a trovare qualche canzone che mi piacesse ascoltare: dopo il primo
minuto (a volte anche solo dopo i primi dieci secondi) la cambiavo, e ripetevo
la stessa azione per tutte quante, finché non mi stancavo.
Quando succedeva
urgeva solo una cosa: andare a comprare qualcos’altro di nuovo.
« Gruppo preferito? »
mi chiese Elena.
« Skid Row, sempre e
comunque! » esclamai.
« Allora ti piacciono
anche gli Europe, vero? »
« It’s the final
countdown, ta-ta-ta-ta-taaa… » le canticchiai di tutta risposta, ma lei sbuffò.
« Ma per favore, non
vorrai mica farmi credere che quella è la canzone migliore degli Europe! »
Quell’affermazione mi
spiazzò.
« È quella più
conosciuta! »
« Pronto? Ho detto migliore, non commercializzata ».
La sua sfacciataggine
quasi mi fece imbestialire.
« Sentiamo cara,
allora qual è? »
« È difficile dirne
una, ma vuoi mettere The final countdown con Carrie? O con Love chaser? No,
aspetta, dimenticavo, Oon brokeeen wiiings… » si mise a canticchiare, mentre io
la guardavo senza sapere di cosa stesse parlando.
Lei se ne rese conto,
perché subito le sparì il sorriso.
« Tower’s callin’? »
Scossi la testa.
« In the future to
come? »
« No ».
« Let the good times
rock? »
« Mi spiace non le
conosco » le dissi arrossendo un po’.
« Quali conosci degli
Europe? »
Non risposi. Dirle solo The final countdown mi sembrava
orribile, e poi significava ammettere di avere una cultura musicale minore
della sua. Minore di quella di una ragazza. Inaccettabile.
Ma lei, come tutte le
donne che chissà come mai hanno il sesto senso e capiscono tutto a discapito di
noi uomini, capì qual era la risposta.
« Vuoi dirmi che il
tuo gruppo preferito sono gli Skid Row e che non conosci gli Europe? » mi
chiese debolmente.
« Perché? » le
domandai anziché risponderle.
« Beh, sono simili
per certi versi » mi spiegò. « Anche se personalmente mi piacciono di più gli
Skid Row » annuì.
Non sapevo più cosa
dirle, ma lei fu rapidissima, prese un foglio ed una penna dalla cartella e
cominciò a scrivere.
« Questi sono i dieci
album che non puoi non avere secondo me, per un ragazzo come te che ama la
musica e questo genere. Rock anni ‘80 » mi disse tendendomi il foglio.
Lessi velocemente.
« Il primo ce l’ho
già » le sorrisi.
“1. New Jersey del 1988, Bon Jovi” c’era
scritto.
Era stato uno dei
primi cd che mi avevano regalato i miei genitori, e lo adoravo.
« Qual è la tua
canzone preferita di quel cd? » mi domandò la ragazza al tavolo, sempre più
curiosa, mentre mangiava la sua piadina.
« Born to be my baby »
« Approvato » mi
disse e scoppiai a ridere.
Sofia mi raggiunse
poco dopo.
« Ehi, Riccardo! » mi
disse cingendomi la vita con un braccio.
« Sofia, lei è Elena,
la ragazza che ha suonato al posto di Jack » le presentai.
« Oh, piacere! Che
bello conoscerti, sei stata molto gentile ad offrirti per suonare oggi, con un
anticipo così breve » le disse Sofia tendendo la mano alla ragazza che si stava
soffocando con la pizzetta.
Elena ingoiò tutto
intero il boccone, si pulì la mano sul fazzoletto e poi ricambiò la stretta,
senza accorgersi di essersi sporcata di pomodoro nei contorni della bocca.
Sofia glielo fece notare con un rapido gesto della mano.
Era sempre
incredibilmente gentile, per questo le volevo così tanto bene.
« Grazie, sono
tremendamente impacciata » la ringraziò Elena. « Comunque è stato un piacere
per me poter suonare con loro ».
« Sei davvero molto
brava » le dissi io con un sorriso, facendola così diventare cremisi.
« Grazie, troppo
gentile » rispose.
« Vuoi venire con noi
in centro? » le domandò Sofia. « Magari ti interessa, visto che loro vanno
sempre a cercare musica, e mi sembra che anche a te piaccia ».
Elena mi guardò
titubante, evidentemente voleva sapere se avevo o meno qualcosa di contrario
all’idea che si unisse a noi.
« Per me va bene, se
vuoi vieni » le dissi alzando le spalle.
Tempo dieci minuti ed
eravamo tutti fuori da scuola.
Saremo andati via con
la macchina di Paolo, che era maggiorenne e già patentato.
Elena stava
discutendo con lui, e mentre aspettavamo che Luca tornasse dal bagno, mi
appoggiai sulla macchina e tirai fuori il foglio che mi aveva dato prima Elena.
1. New Jersey del1988, Bon Jovi.
2. Appetite for destruction del 1987, Guns
N’ Roses.
3. The wild life del 1992, Slaughter.
4. Cherry Pie del 1990, Warrant.
5. Flesh & Blood del 1991, Poison.
6. Skid Row del 1989, Skid Row
7. Dr. Feelgood del 1989, Motley Cure
8. The final countdown del 1986, Europe
9. Hysteria del 1987, Def Leppard
10. Dancin’ on coals del 1991, Bang Tango
« Cosa sono? » mi
chiese Sofia appoggiandosi alla macchina accanto a me.
« Titoli di alcuni
album che secondo Elena non posso non avere » le risposi facendole vedere. « Di
questi ho solo il primo, il secondo e il sesto ».
« Capisco ».
Sofia in realtà non
capiva molto di musica, ma non era importante. A me andava bene così.
« Comunque quella
ragazza è un mistero » dissi a Sofia indicando Elena.
« Dici? » mi rispose.
« Sì, è strana, e poi
prima mi ha fatto un discorso… » e le raccontai di quando mi aveva detto che
era meglio che non mi avesse rovinato la vita.
Sofia rimase in
silenzio, non sapendo cosa dire né pensare.
Io mi misi senza
accorgermene a fissare Elena, e quando si girò e mi scoprì osservarla, arrossii
e distolsi lo sguardo.
« Andiamo? » disse
Luca arrivando.
« Sarebbe anche ora!
» lo rimbeccai.
Salimmo in macchina,
io montai dietro, in mezzo tra Elena e Sofia, continuando a torturare il foglio
con i titoli nella mano destra.
{ Spazio HarryJo.
Ma buonaseraaaa,
eccomi tornata, lo so che vi mancavo ^^’
Ma anche no D:
Ok, vabbè, lasciando
perdere questi piccoli particolari, volevo innanzitutto dire che la lista dei
10 cd l’ho trovata su internet. Ne avevo trovate altre, ma questa era quella
che mi garbava di più. Anche perché concordo precisamente con le scelte che
hanno fatto, quei cd sono bellissimi, a parer mio.
Se invece non vi sentite d’accordo con la mia
scelta, che ne dite di stilare voi una classifica?
Se vi va, potete benissimo lasciarmela scritta
in una recensione ^^
Ok, non so cos’altro dire… O meglio, sì.
Dal prossimo capitolo si scoprirà un po’ più
di Elena, e mi dispiace di aver scritto un capitolo così tremendamente musicale
e con poca trama, mi è venuto così e non sono più riuscita a sistemarlo D:
Perdonatemi D:
Grazie a tutti coloro che mi seguono,
recensiscono eccetera, vi adoro! <3
This is a call
to all my pastresignations,
It's beentoo long.
- FooFighters
«
Ma insomma, ragazzi! Stiamo scherzando? Ancora non sapete contro chi erano le
filippiche di Cicerone? »
La
odiavo. Io detestavo la mia professoressa di latino, la signora Belli, che di
bello poi non aveva proprio niente. Avrà avuto una cinquantina d’anni,
piuttosto bassa, portava con sé ad ogni lezione una stupidissima borsetta con
le pailette colorate. Si vestiva come se avesse avuto vent’anni di meno, con le
magliette attillate e con le gonne un po’ troppo corte per la sua età. Il
risultato alla fine era uno solo: disgusto, ribrezzo, vomito, o come lo volete
chiamare voi.
Un
altro punto a suo sfavore poi, come se non bastasse quell’orrenda visione, era
che insegnava latino. No, cioè, mi spiego: la-ti-no.
Quell’insulsa materia incomprensibile che non serviva a nessuno, se non a
rimandare più gente possibile a settembre.
Era
fissata con quella lingua, e voleva insegnarcela benissimo. Se fosse stato per
lei, probabilmente ci avrebbe fatto scrivere i temi in latino e avrebbe
cancellato l’italiano reintroducendo la lingua madre.
E
aveva di nuovo tirato fuori queste filippiche. Le filippiche poi, una cosa che
non ricordavo mai!
Le filippiche… Sì, quelle lì…
Marco Antonio mi sembrava che c’entrasse…
Nella
mia testa si ripeteva di continuo quel susseguirsi di parole, senza che mi
colpisse nessuna illuminazione.
Lorenzo
Marchese nel frattempo aveva già alzato la mano e aveva cominciato una
spiegazione degna d’esser scritta in un’enciclopedia, ma questo non sorprese
nessuno: era fatto così. Sapeva ogni cosa per quel che riguardava le materie
scolastiche, poteva benissimo farti lui lezione su ogni cosa; a volte sapeva le
cose anche meglio degli stessi professori.
Ecco,
i miei genitori volevano quello da me: volevano che fossi uno studente modello,
perfetto, quasi saccente. Sapevano della grande intelligenza di Lorenzo, e mi
dicevano sempre di imparare da lui. Nemmeno da morto però mi sarei messo a
studiare giorno e notte come quel ragazzo; avrebbe significato un addio alla
mia vita sociale.
Infatti,
Marchese non usciva mai, era sempre impegnato a studiare. Dopo i primi tempi,
in cui cercavamo di invitarlo fuori con noi a giocare, a mangiare una pizza o
quant’altro, tutti avevano rinunciato a chiamarlo in giro, ma lui di questo
sembrava non preoccuparsene. Oltre alla scarsità di amici poi, si aggiungeva la
scarsità del suo interesse per le cose che occupano la mente dei ragazzi normali di quell’età. Il calcio per lui
rappresentava l’ignoto, non aveva idea di quale fosse la differenza tra
scooter, vespa, ciao, moto e quant’altro (“Perché, ci sono delle differenze?”
ci ha chiesto una volta), e, lacuna molto ben più grave, non aveva nessuna
conoscenza per quanto riguardava al mondo della musica. Un giorno era venuto
fuori un dibattito sui Beatles e la loro bravura. Lui era stato zitto per tutto
il tempo, e solo alla fine aveva ammesso di non aver la minima idea di che cosa
stessimo parlando.
Insomma,
io non sarei mai potuto diventare come lui. Mi venivano i brividi di freddo
solo all’idea.
Accolsi
il suono della campanella come l’annuncio della vittoria di una guerra in cui
avevo rischiato la vita; non vedevo l’ora di tornarmene a casa.
Uscii
dalla classe per andare in cerca di Sofia e chiederle se potevamo uscire quel
pomeriggio, ma prima di raggiungere la sua classe, m’imbattei in un’altra
persona, che, vedendomi, si fermò di botto ed arrossì violentemente.
«
Ciao » le dissi con un sorriso.
«
Ciao Riccardo » rispose Elena.
Non
c’eravamo più parlati da quel pomeriggio in cui le avevo comprato il cd. In
realtà avevo fatto di tutto per evitarla e non dover riaffrontare l’argomento
dell’incendio. Mi sentivo uno stupido, ma avevo già fatto una stupidissima
figura, e non volevo peggiorar la situazione. Per di più avevo avuto la
nettissima sensazione di averla fatta anche stare peggio.
«
Bello il cd? » le domandai, tanto per rompere quell’imbarazzo.
«
Sìsì ». Il suo tono era talmente basso che a mala pena percepii la risposta.
Perché
era così difficile scambiare qualche parola con lei?
Era
come se non riuscissi ad essere me stesso. Non mi era mai successo prima.
Pensavo che si trattasse sempre e solo di semplice imbarazzo. Dopotutto, lei
era una persona che dimostrava quant’era crudele la vita, ed io mi lamentavo
per sciocchezze, a confronto di ciò che era costretta a sopportare lei, giorno
dopo giorno.
Era
passata poco più di una settimana, ed io ci avevo pensato molto – veramente
troppo – spesso, a lei. Era come una droga: non riuscivo a distogliere la mente
dal suo pensiero. Più mi ripetevo di non pensare a lei, più mi si presentava
davanti il suo ricordo, come a farlo apposta.
Ero
ossessionato dalla sua vita.
Giocavo
spesso alla sera, prima di andare a dormire, a cercare i nomi possibili per D.
In realtà la mia fantasia era ben poca: Daniele, Dino, Dario, Domenico… Davide.
Non so perché, ma mi ero convinto che il fratello di Elena si chiamasse Davide.
Mi sembrava il nome più comune, più sentito, e poi era quello che riuscivo più
ad associare ad Elena.
In
quel momento, trovandomela di fronte, pensai solo a chiedergli come si
chiamava, per vedere se avevo pensato giusto oppure no.
«
Posso farti una domanda? » le chiesi così, rompendo il nostro immancabile
compagno, il Silenzio.
Annuì
senza proferir parola.
«
Come si chiamava tuo fratello? » le domandai, senza nascondere il tono di
curiosità ed impazienza.
Lei
si immobilizzò, per un momento parve proprio rinunciare a respirare, ed in un
secondo capii di aver toccato un tasto dolente.
Ma
quanto stupido ero?! Era ovvio che
non avrei dovuto chiederle niente!
Continuavo
a fare errori sopra errori con quella ragazza, e non riuscivo mai a tirarle
fuori un sorriso; evidentemente ero capace solo di far piangere la gente.
«
Scusa » le sussurrai abbassando lo sguardo.
Nemmeno
per un secondo lei era sembrata voler rispondere.
«
Tranquillo » mi disse, e se ne andò così, lasciandomi in sospeso.
Mi
voltai a guardarla mentre se ne andava; la sua figura minuta mi ispirava una
sorte di fragilità.
Fragilità
che, a quanto pareva, non era disposta a condividere, non con me almeno.
Un
po’ amareggiato da ciò che era successo ritornai in classe senza nemmeno
ricordarmi di passare da Sofia.
La
mia mente si era offuscata, e tutte le cose che dovevo fare come abitudine, come normalità, non mi venivano più così spontanee.
Così
come non mi ricordai di sedermi vicino a Giacomo durante l’ora di religione. I
banchi durante quelle lezioni erano per la metà vuoti visto che erano in molti
a non avvalersi dell’insegnamento della materia e quindi io mi sedevo sempre vicino
a Giacomo. In quelle ore giocavamo a tris sui banchi, e chiacchieravamo del più
e del meno mentre la professoressa Tonolo cercava di leggerci dei versetti
della Bibbia e di renderci partecipi della discussione. Come se fosse
possibile.
«
Rick. Ehi, Rick! » la voce del mio migliore amico mi raggiunse come lontana
anni luce.
«
Eh? » risposi, risvegliandomi dalla trance, e mi accorsi così che si era seduto
accanto a me.
«
Mi son seduto qui io, visto che non sembravi aver intenzione d’alzarti. Cos’è,
hai perso l’uso delle gambe? » mi chiese ironicamente.
«
Ah, ah. Molto divertente, Giacomo » risposi senza reale entusiasmo, appoggiando
la testa sul banco, mentre la professoressa cominciava con il suo solito: «
Come c’è scritto nella Bibbia, ai versetti… ». Non sembrava cambiato nulla
dalle ultime lezioni, erano sempre terribilmente uguali.
Ma
in realtà qualcosa era cambiato, e non di poco. Sapevo che Giacomo se ne
sarebbe accorto subito, e mi stavo preparando psicologicamente al suo terzo
grado; infatti stava tracciando sul banco la griglia tre per tre per giocare a
tris, come sempre, ma io scossi la testa, svogliato, e questo non era
assolutamente normale.
«
Che hai? » mi chiese subito, con gli occhi fuori dalle orbite.
Sinceramente,
non sapevo proprio cosa rispondergli. Non perché non volessi dirgli che cosa mi
passava per la testa, ma proprio perché nemmeno io riuscivo a capire che cosa
mi stava succedendo. L’unica cosa evidente era che c’entrava Elena.
«
Ti ricordi Elena? » Lo dissi fingendo un tono disinteressato, ma non ero sicuro
d’esserci riuscito.
«
Elena chi? » rispose subito con un’aria buffa. Alzava sempre il sopracciglio in
modo strano quando si metteva a pensare o a cercare di ricordare qualcosa; per
non ridergli in faccia ogni volta che lo faceva c’erano voluti anni e anni di
allenamenti forzati.
«
La ragazza che ti ha sostituito al conce… »
«
Ah, sì! Elena Ferilli! » mi interruppe, prima che potessi concludere la mia
spiegazione.
«
Esatto, proprio le… Ehi, ma come fai a sapere il cognome?! » gli domandai
stupito.
«
Io so tutto » mi rispose con aria di sufficienza alzando le spalle. « No, dai, l’ho
incrociata per i corridoi l’altro giorno, era con una professoressa che l’ha
chiamata “Ferilli” e quindi ho intuito che fosse il suo cognome… » spiegò con
semplicità. « Allora, che hai con la
Ferilli? »
«
Nulla » risposi, un po’ troppo in fretta per essere creduto.
«
A chi vuoi darla a bere! Dai, che c’è? » mi incitò.
Aprii
bocca per rispondere, ma la chiusi subito. All’improvviso mi era venuta in
mente una cosa geniale da fare, che forse avrebbe anche portato fine alla mia
insulsa ossessione che avevo per lei.
«
Jack, ho bisogno di un favore. Posso venire a casa tua questo pomeriggio? Mi
serve internet, e da me il computer non funziona » gli chiesi, cambiando
discorso.
«It’s
allright. Però devi dire ai tuoi che vieni ad insegnare matematica, perché mia
madre non vuole che passi il mio tempo a chiacchierare quando devo recuperare una
materia così importante dove ho la
media del 3+ » disse.
«
Qualunque cosa » risposi, e dal mio tono sapevo che aveva capito che per me era
importante.
L’avrei
scoperto. Avrei scoperto il nome del fantomatico D.
Questo
era un appello rivolto ai miei pensieri. Avrei vinto.
Avrei
posto fine alla mia ossessione per Elena, quel pomeriggio.
{ Spazio
HarryJo.
Salve a tutti.
Eh, lo so, ero morta, son secoli
che non aggiornavo. Mi spiace.
Nel caso voleste sapere il
perché, ecco qui: Un cuore spezzato. È una flashfic
di sfogo, e praticamente spiega proprio perché scrivere era diventato così
difficile.
Non importa, sopravvivo ora, anche
se non si è risolto proprio nulla, ce la farò. Come sempre.
Devo ringraziare di cuore tutti
quelli che comunque hanno continuato a seguirmi, a sostenermi, eccetera. Questo
capitolo è stato scritto un po’ per forza quindi se non è bello come gli altri,
è per quello.
In ogni caso, spero che voi
gradiate lo sforzo di aggiornare.
Tornerò presto con un nuovo
capitolo, promesso. Sono già in grado di dirvi il titolo: Lo spirito va avanti.
Au revoir a tutti coloro che
ancora hanno voglia di leggere questa long!
Erano appena scoccate le tre
quando arrivai a casa di Giacomo. Abitava in una villetta molto graziosa. Fuori
dal cancello c’era il citofono, che però puntualmente io non suonavo mai ed
entravo senza far nulla. Ormai erano talmente abituati a vedermi per casa che
per i suoi era quasi normale. Ed il citofono era pressoché inutile, per me.
« Ciao Riccardo! È un piacere
vederti! Giacomo è in camera, va pure, caro » mi salutò sua madre, in un sorriso
a trentadue denti. Era alta, magra, e aveva gli stessi occhi azzurri di suo
figlio. Giacomo diceva sempre che aveva una specie di adorazione per me, e che
se avesse potuto avrebbe volentieri fatto scambio con mia madre.
« Ciao Beatrice » la salutai,
dirigendomi al piano di sopra.
Adoravo la stanza di Giacomo. Era
tutta tappezzata di poster dei suoi gruppi preferiti, un sacco di foto di
batterie e in qua e in là c’erano spezzoni di versi di canzoni. Il disordine
regnava sovrano, ed era per questo che un po’ mi affascinava.
Jack, invece di studiare, era
disteso a letto con le cuffie alle orecchie ed uno spartito sottomano. Sapevo
bene che quando era così concentrato non bisognava disturbarlo; per lui quello
era il momento sacro della giornata.
« Il computer è lì, già connesso
» mi disse semplicemente, senza nemmeno salutarmi. Non ci badai poi molto;
sapevo che una volta finita la sua perfetta ed attenta analisi del brano avremo
potuto parlare. Era sempre così.
Mi sedetti alla sua scrivania
appoggiando lo zaino contenente i libri di matematica per terra, con il vago
sospetto che non li avremo nemmeno aperti. Poi, con grande eccitazione, aprii
la pagina di Google.
Digitai quelle quattro parole con
estrema velocità, ma respirai a lungo prima di schiacciare il pulsante “Cerca”.
Incendio
famiglia Ferilli Cureggio.
Il primo risultato era quello
giusto, già lo sapevo. Aprii la pagina e cercai di combattere il battito del
cuore che si faceva sempre più veloce, mentre cominciai a leggere.
Scoppia la caldaia,
marito e moglie feriti, figlio morto nel disastro.
15 giugno 2010 —
pagina 25 sezione: Cronaca
CUREGGIO. Terrore ieri
pomeriggio in via Cassoli: lo scoppio della caldaia ha causato il rogo
dell’abitazione dell’imprenditore Francesco Ferilli e della moglie Serena
Canzian, entrambi feriti. La donna è stata portata al Maggiore della Carità con
ustioni alle mani e alle braccia, il compagno è rimasto intossicato
dall’esalazione del carbonio. Il figlio maggiore della coppia, di diciannove
anni, è morto in seguito allo scoppio della bombola a gas.
Erano da poco passate le 14.30 quando è
scoppiata la paura nel casolare di via Cassoli, al civico 3, appena fuori dal
centro abitato di Cureggio. La famiglia di Francesco Ferilli, imprenditore di
44 anni, aveva da poco terminato il pranzo, cercando qualche minuto di riposo
prima di tornare al lavoro. Per cause ancora al vaglio degli esperti, la
caldaia che si trovava al piano inferiore, all’esterno della casa, è esplosa,
prendendo fuoco in pochi istanti. I coniugi avrebbero tentato di accenderla,
rimanendo sorpresi dal ritorno di fiamma.
La donna è stata raggiunta dal fuoco alle mani e alle
braccia, che teneva in avanti nel tentativo di proteggersi il volto. Subito
soccorsa dal marito, è stata portata fuori mentre un fumo nero e denso iniziava
a sprigionarsi dall’abitazione. Immediata la telefonata ai vigili del fuoco:
dalla caserma dei pompieri sono arrivate due autopompe e un mezzo veloce, con
due squadre dei pompieri in azione per arginare in fretta il diametro
dell’incendio. Le fiamme però erano già riuscite a far danni all’interno
dell’abitazione, distruggendo la mobilia e danneggiando la struttura. Cercando
di spegnere il fuoco, il signor Ferilli, con i suoi fratelli e suo figlio più
grande, avrebbero cominciato a buttare acqua tra le fiamme che invadevano la
casa, invano. Le fiamme hanno raggiunto la bombola a gas procurandone
l’esplosione; sul colpo è morto il figlio. Sul posto si è precipitato anche il Suem,
inviando un’ambulanza e un’auto medica. L’attenzione dei soccorritori si è
concentrata subito su Serena Canzian: la donna, infatti, che aveva riportato
delle ustioni significative, è stata portata in fretta all’ospedale Maggiore
della Carità per essere visitata da uno specialista. Le ferite fortunatamente
non erano gravi. L’edicolante è rimasta a lungo nella sala del pronto soccorso,
venendo poi raggiunta anche dal marito: Francesco Ferilli, infatti, ha dato le
prime indicazioni ai vigili del fuoco, ma si è esposto troppo al fumo, tanto da
venir portato in ospedale a causa dell’intossicazione da monossido di carbonio.
Non c’è stato nulla da fare invece per il figlio; nessun intervento dei medici
è riuscito a salvarlo. Le condizioni di entrambi i coniugi, fortunatamente, non
erano gravi e già nel tardo pomeriggio hanno potuto lasciare l’ospedale per ritornare
a casa. Ma non gli è stato consentito nemmeno di entrare: l’abitazione di via Cassoli
è stata giudicata inagibile dai tecnici del Comune e dai vigili del fuoco,
rimasti fino a sera sul posto per verificare la stabilità. Inoltre la
pericolosità delle polveri sottili ha costretto i coniugi Ferilli a chiedere
ospitalità ai parenti per la notte, assieme ad Elena, la figlia più giovane.
Polizia e carabinieri hanno bloccato il traffico per tre ore, l’ingresso a
Cureggio è stato off limits. Il conto dei danni non è ancora stato fatto, ma si
tratterrebbe di decine di migliaia di euro. Le cause dell’incendio sono ancora
al vaglio dei vigili del fuoco, ma non ci sarebbero dubbi: è stato lo scoppio
della caldaia, posta sotto il porticato, a scatenare il terribile incendio.
I funerali per il giovane Ferilli sono previsti per
giovedì 17 alle ore 16.00. (Massimo Guerretta)
Era finita la mia
ricerca. E non aveva prodotto il risultato sperato.
Nulla. Nessun nome.
Solo foto. Foto, e
tante parole. Ed insieme alle parole, tanto orrore.
Tanto dolore.
Mi venne in mente il
viso di Elena, così giovane, spensierato, avvolto tra mille fiamme voraci.
Mi venne in mente
Elena mentre suonava. Non c’entrava nulla, ma l’incendio le aveva portato via
anche quello, la musica. Le aveva portato via un fratello, una casa, i ricordi
di una vita.
Ed io cosa volevo?
Credevo di poter capire tutto da un
nome? Se anche si fosse chiamato Dumbo la sua importanza sarebbe rimasta la
stessa.
« Trovato quello che
cercavi? »
La voce di Giacomo
proveniva da un pianeta lontano anni e anni luce.
« No, nulla… » dissi,
scoprendolo in piedi di fianco a me, che leggeva l’articolo.
Mi guardò a lungo.
Voleva leggermi probabilmente, capire cosa mi stava succedendo. Non mi era mai
capitato di ossessionarmi per un nome.
« Perché ti interessa
tanto? » mi chiese.
« Non lo so… » gli
risposi stropicciandomi gli occhi con le mani.
Mi squadrò, e capii
all’istante che non mi credeva. Ma io avevo detto la verità: non avevo la più
pallida idea di come mi fosse venuta fuori quella stranissima ossessione.
Mi continuavo a
ripetere che era pura e semplice curiosità per una vita tanto diversa dalla
mia. Io stavo bene, di che mi potevo lamentare? Del fatto che i miei genitori
non erano contenti della mia passione per la musica? Quello non era niente
messo a confronto con le foto della casa di Elena. Non era nulla messo a
confronto con quella collana.
Aveva perso un
fratello, e si portava dietro il suo spirito in una letterina appesa al collo.
« Posso darti un
consiglio? Lascia perdere e pensa a Sofia » mi disse con uno strano cipiglio.
Sofia. Quel nome mi
ricordava qualcosa…
Era da tanto che non
pensavo a lei. Troppo.
« Dai, facciamo
matematica » dissi chiudendo in fretta il discorso e aprendo il quaderno per
iniziare un problema.
Bizzarro, pensai cercando una penna nell’astuccio, persino il libro di matematica è pieno di
problemi e mi ricorda Lei.
{ Spazio HarryJo
Salve a tutti!
Lo so, pensavate che fossi morta, e ne
avete tutte le ragioni. In realtà, vi dirò, questo capitolo l’avevo scritto a
metà e non riuscivo a finirlo. Infatti è più corto degli altri. Questo perché
dopo l’articolo non riuscivo ad esprimere le emozioni di Riccardo. Ah,
l’articolo è quasi uguale a quello che si trova in internet cercando le
informazioni del mio incendio, solo riadattato con nomi e luoghi.
Spero che vi piaccia, e spero che non siate
morti voi durante questa mia enorme assenza.
No one knows what it's like
To be the bad man, to be the sad man
Behind blue eyes
BehindBlueEyes – The Who
Passò
qualche giorno dalla visita a casa di Giacomo prima che rividi Elena, e
successe per puro caso. La professoressa di matematica mi aveva detto di
raggiungerla in ricreazione nella classe della terza F per riconsegnarle
l’ultima verifica. Io non potevo sapere che quella classe fosse la stessa di
Elena.
Arrivai
e nemmeno mi accorsi di lei.
«
Prof, le ho portato la verifica… »
«
Bravo Riccardo » mormorò lei prendendomi di mano il foglio protocollo e
controllando che ci fosse la firma dei miei genitori.
Alzai
lo sguardo e osservai distrattamente i ragazzi dentro all’aula. Nessuno
sembrava fare troppo caso a me: alcuni stavano risolvendo un esercizio alla
lavagna, c’era un gruppetto di ragazze che stava in un angolo a parlottare e
qualcuno che era seduto al proprio banco che stava scrivendo frettolosamente.
Probabilmente stavano copiando i compiti dell’ora successiva.
E
poi, la vidi. La testa china, mentre scriveva sul suo quaderno, concentrata, inconfondibile.
Fu
più forte di me; non resistetti alla tentazione e mi avvicinai, anche solo per
vederla meglio. Al collo portava ancora quella collana, ma cercai di non
pensare a quello.
«
Ehi » mormorai per salutarla.
Si
alzò di scatto e mi imbarazzai molto. Probabilmente ce l’aveva ancora con me
per la domanda che le avevo fatto sulle scale qualche giorno prima.
«
Ciao Riccardo » mi salutò invece, sorridendo. « Che ci fai qui? »
«
Sono venuto a portare alla Razzon il mio compito di
matematica. Tu che fai? » le chiedi cortesemente, ben grato al fatto che non mi
avesse mandato via.
«
Sto copiando latino » mi disse con una smorfia. « Non ci capisco niente, è
arabo per me ».
«
E credi di imparare qualcosa in questo modo? »
Si
zittì all’improvviso e mi guardò con un’espressione indecifrabile.
«
Non hai niente da dire? » le chiesi senza pensare. Fatale errore. La stavo
rimproverando esattamente come faceva mia madre ogni giorno con me. Anzi, no.
Molto peggio. Stavo rimproverando Elena.
E
allora capii che sentimento era dipinto nei suoi occhi: rabbia.
«
Lasciami stare » rispose togliendo lo sguardo. « Tu non hai idea…
Lasciami in pace » concluse tornando a scrivere la frase che aveva lasciato a
metà.
«
Contenta tu » alzai le spalle, girandomi, ma capii all’istante che non avrei
mai dovuto fare così.
«
Tu cosa hai fatto ieri, Riccardo? » La sua voce tremava dalla rabbia.
«
Tu cosa hai fatto ieri? » ripeté, mentre gli occhi le si inumidivano. « Io sono
rimasta qui a scuola a studiare scienze e inglese che mi dovevano interrogare,
ho fatto tutto italiano e lo schema di arte. Sono tornata a casa alle cinque e
mezza, con l’intento di fare queste due benedette versioni, ma mio padre mi ha
chiesto di andare ad aiutarlo a lavorare sulla casa, fino alle sette. Poi siamo
andati a fare la spesa, perché a casa non c’è rimasto più niente da mangiare.
Sono tornata all’appartamento alle otto, ho cenato e ho finito di studiare
inglese, perché volevo recuperare il mio cinque. Ho finito alle undici, ho
lavato i piatti e me ne sono andata a letto ».
Aveva
detto tutto questo stringendo i denti e parlando sottovoce, tremante. Avrei
preferito che mi urlasse dietro quelle parole, perché così sussurrate in quel
modo cadevano lentamente come macigni nello stomaco.
«
Perciò, tu che hai fatto ieri, Riccardo? Tu, che riesci sempre a fare tutti i
compiti ed eccelli in ogni campo, ieri hai lavorato? Sei rimasto a scuola? »
L’avevo
ferita. Sentivo la sua delusione in ogni parola. Si tratteneva per non urlare,
ma avrebbe voluto scoppiare, forse uccidermi.
Mi
girai a guardarla, e la colsi mentre una lacrima le rigava il viso, ma lei non
sembrava volerci dedicare attenzione; era tornata a copiare.
Mi
avvicinai con l’intento di toglierle la lacrima, ma lei mi bloccò la mano prima
che potessi sfiorarla, ed in quel momento suonò la campanella.
«
Vattene » disse.
Mi
accorsi solo allora che alcune sue compagne ci stavano osservando. Me ne andai
con un peso al cuore, come se avessi appena ingoiato l’intera ruota del London Eye.
Durante
tutto il tragitto fino al mio ritorno in classe continuai a darmi dello stupido
senza fermarmi un momento. Ma perché avevo detto quelle cose? Perché davanti a
lei dovevo sempre e solo fare delle incredibili figuracce? Cercai di ricordare
un po’ com’erano andate le cose tra me e Elena fino a quel giorno: non c’era
stato neppure un momento in cui le avevo fatto una buona impressione. Mi ero
fatto accordare la chitarra perché ero troppo agitato, avevo fatto la figura
dell’idiota a conoscere solo The Final Countdown
degli Europe, per non parlare di come era andata al
negozio di musica, di quando avevo scoperto dell’incendio, dell’incontro sulle
scale e adesso quello.
Ma
perché? Per quale assurdo motivo diventavo così stupido quando c’era lei nei
paraggi? Con Sofia non mi era mai successo. Ero stato spavaldo e normale sin
dal primo incontro, non mi ero mai sentito in soggezione con lei.
E
poi, perché dovevo paragonarla a Sofia? Cosa c’entrava con lei? Quelle due
ragazze non avevano nulla a che vedere insieme. Non potevano coesistere nello
stesso pensiero, non aveva senso.
Adesso
smettila,
mi ritrovai a pensare, serrando i pugni. Quella situazione mi stava facendo
letteralmente impazzire.
Arrivai
in classe e sbattei la porta dietro di me con veemenza, senza che però nessuno
ci facesse caso; la maggior parte di loro infatti era in angolo a giocare a
carte di nascosto, aspettando l’arrivo della professoressa d’inglese. Solo
Giacomo mi fissava con un’espressione indecifrabile.
«
Ho fatto un casino » gli comunicai mentre mi sedevo al suo fianco.
«
No, ne hai fatti due » rispose lui con semplicità.
Vedendo
la mia perplessità, aggiunse: « Sofia è stata qui, poi ti spiego. Prima dimmi
il tuo casino. Scommetto che c’entra quella Elena ».
Da
quando Giacomo era diventato così perspicace? La cosa un po’ mi inquietava.
«
Sì » ammisi, e cominciai a raccontargli tutto ciò che era successo. La sua
espressione dura mentre mi intimava di andarmene, la severità con cui io le
avevo rivolto la parola… Alla fine mi sentti un po’ più libero, ma ancora più in colpa di prima.
«
Ti facevo meno stupido, amico » mi disse di tutta risposta quando conclusi. «
Pensa a quante volte abbiamo copiato noi due i compiti di latino. E pensa cosa
avresti detto ad una persona che ti veniva lì a rimproverare ».
In
effetti non ero mai stato una cima quando si trattava di traduzioni. La
letteratura in generale (lo studio degli autori, della storia, degli usi e dei
costumi) mi veniva bene, ma molte volte lasciavo perdere le traduzioni e le
copiavo in classe, gli anni scorsi. E allora perché cavolo ero andato a dirle
quelle cose? Più i secondi passavano, più mi sentivo sbagliato.
«
E comunque, Sofia non è molto contenta di questa cosa » aggiunse. Mi risvegliai
dalla trance da cui ero caduto, chiedendomi per un momento chi fosse Sofia.
«
In che senso? » domandai allarmato.
«
Si è accorta che sei un po’ distante. Oggi in ricreazione è venuta qui non per
parlare con te, ma con me » spiegò. « Di te » aggiunse, notando il mio sguardo
attonito.
«
E… Cosa ti ha detto? » chiesi, anche se non ero molto
sicuro di voler sapere la risposta.
«
Mi ha domandato cosa ti passa per la testa in questo periodo. Dice che si è
accorta che qualcosa non va e mi ha chiesto se vuoi lasciarla ».
«
Ma questo è assurdo, perché dovrei lasciarla?! » sbuffai contrariato. Perché le
ragazze dovevano sempre farsi mille paranoie?
«
Forse per la tua nuova ossessione ».
Quello
era un colpo basso, aprii la bocca per ribattere, ma la serrai quasi subito.
Non avevo nulla da dire. In effetti era strano tutto quel pensare ad Elena, ma
di sicuro non avrei mai pensato di sostituire Sofia con lei. Forse.
«
Amico, posso darti un consiglio? » Giacomo stava bisbigliando.
«
Spara » risposi, sconsolato.
«
Pensa a Sofia ».
Lo
guardai dritto negli occhi per un pezzo, capendo cosa voleva dire.
«
Lo farò » promisi. « Ma prima voglio sistemare con Elena ».
Giacomo
sbuffò, scuotendo la testa.
«
Poi non venire a me da piangere però, perché l’unica cosa che riceverai come
risposta sarà: “Te l’avevo detto” ».
Lo
guardai a lungo, ma lui mi ignorò per il resto della lezione ed io evitai di
ritirare fuori l’argomento. Odiavo quando Giacomo faceva così, soprattutto
quando aveva ragione.
{ Spazio HarryJo.
Devo essere sincera, non
immaginavo che avrei aggiornato oggi, ma una persona mi ha praticamente
obbligata a farlo. Per questo la ringrazio di cuore, e le voglio dedicare
questo capitolo che ha tanto atteso.
A missohara,
ovvero Cecilia, che è convinta che questa sia la mia migliore storia e per la
quale cercherò di aggiornare più spesso. Grazie di cuore, cara. ♥
Beh, fatemi sapere cosa ne
pensate di questo capitolo se ancora qualcuno sta seguendo la storia, a presto,