La Città del Cielo

di Elos
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Città del Cielo ***
Capitolo 2: *** palazzo-giardino ***
Capitolo 3: *** palazzo-prigione ***
Capitolo 4: *** stazione di attracco ***
Capitolo 5: *** Terra-di-sotto ***



Capitolo 1
*** Città del Cielo ***





- Città del Cielo



Minacciava, certe volte, di fare con lui quello che aveva fatto con tutti gli altri.
- Fa' attenzione a come ti comporti... - diceva. - … perché se dovrò averti drogato, per averti felice di essere qui, ti avrò drogato, questo non dubitarlo. -
Era una minaccia che Elwyn prendeva sempre molto sul serio: impallidiva - oh, sì, anche sulla pelle bianchissima e trasparente di Elwyn il pallore si vedeva - e restava molto silenzioso, poi, molto tranquillo.
Murad lo minacciava, certe volte, e poi gli offriva regali, doni per farsi perdonare e per ingraziarselo e per vedere se un giorno o l'altro gli sarebbe riuscito di vederlo sorridere, magari, perché doveva essere molto meglio avere intorno un Elwyn appagato, in pace con sé stesso, in pace con la sua situazione, in pace con Murad, soprattutto con Murad. Non era mai riuscito a comprarsi un sorriso di Elwyn, ma insisteva, ancora e ancora, sperando di riuscire ad indovinare la giusta offerta, il giusto prezzo per quel sorriso.
Perché Murad lo minacciava, sicuro: ma, poi, conosceva una verità diversa.

Prendete una massa di cristallo e metallo bronzeo racchiusa in un anello di motori ad energogramma; lavoratela in una semisfera dalla superficie superiore di mille e duecentocinquanta chilometri quadrati e sospendetela a tremila metri dal suolo; dotatela di tutto quello che può esservi di bello e di prezioso agli occhi dell'uomo, parchi e giardini sospesi racchiusi in serre dov'è sempre estate, sempre primavera, laghi d'acqua piovana più pura del cristallo, palazzi come castelli e palazzi come templi, e avrete una Città del Cielo.
Erano stati tutti umani, una volta. Avevano tutti lavorato la terra, nutrito il bestiame. Avevano viaggiato, navigato, nuotato. Erano morti di malattia e morti in guerra. Avevano tutti camminato sulla superficie – la vera superficie, quella là sotto – ma adesso ai Celestiali non faceva più piacere ricordare che così fosse stato. Era passato troppo tempo.
Murad l'aveva trovato, Elwyn, in mezzo alla folla caotica e variopinta che infestava i piani inferiori della Città del Cielo: tecnicamente i piani inferiori erano chiusi a tutti, perché ospitavano i motori e i sistemi vitali, e non molto altro. Non si vedeva il cielo, laggiù, e l'aria chiusa era calda, afosa, appiccicosa. Non era un bel posto, ma la gente che vi viveva era lì per graziosa pietà dell'Enclave, veniva da là sotto, e tutto andava bene per loro. Nelle Città del Cielo la guerra non arrivava. Le radiazioni non arrivavano, l'acqua velenosa non arrivava, non arrivavano i cumuli di immondizia accumulati in secoli e secoli di sfacelo né i residui tossici che un tempo - quando la Terra s'era creduta grande, e potente, e destinata a non terminare mai - erano stati buttati dove capitava perché tanto, s'era pensato, c'era spazio. C'era tempo.
Quando il tempo era finito, erano arrivate le Città del Cielo: e tutti quelli che erano rimasti indietro... be', erano rimasti indietro.
Tutto qui.

Anche Elwyn veniva da là sotto. Sui suoi documenti c'era stato scritto Elwyn Shaw Marmaduke Coleridge. Era stato il suo nome, ma adesso non lo era più, aveva detto Murad. Adesso Elwyn era solo Elwyn: e, quando Murad l'avesse voluto, avrebbe avuto un altro nome ancora, scelto nella sua lingua, che sarebbe stato quello al quale avrebbe risposto fino al giorno della propria morte.
Murad aveva, presso l'Enclave, un potere comprato nei quattrocento anni in cui la sua famiglia aveva costruito, espanso, favorito e rinnovato la Città del Cielo; e così nessuno aveva trovato niente da ridire quando aveva chiesto che il gruppetto di girovaghi che lanciavano coltelli e camminavano su cavi tesi e inghiottivano palle di fuoco e fazzoletti annodati per racimolare qualche soldo, nel bel mezzo dei piani inferiori, fosse fermato per un controllo. La famiglia di Murad aveva costruito quella Città del Cielo. Murad era ricco, era giovane. Avrebbe seduto presto nell'Enclave. La sorveglianza era stata lieta di poter fare qualcosa che gli fosse gradito: dopotutto, i girovaghi erano gente di là sotto. A nessuno importava. Erano lì per servire.
A Murad i girovaghi non interessavano. Potevano continuare a fare il loro piccolo spettacolo e chiedere la loro piccola elemosina. Potevano portare avanti la loro piccola vita come avevano fatto finora. A Murad non interessava: ma aveva chiesto lo stesso che venissero fermati, e che dal controllo sui loro documenti risultasse che c'era qualcosa che non andava. Che erano clandestini, che erano arrivati lì illecitamente, che non avevano fatto rinnovare il permesso per soggiornare negli intestini della Città del Cielo. Non ci sarebbe stato neanche bisogno di trafficare troppo: gran parte di quelli che vivevano così giù venivano da là sotto; e avevano tutti, o quasi, qualcosa da nascondere.
Venne fuori che il lanciatore di coltelli il permesso per soggiornare non ce l'aveva. C'era l'espulsione, per una cosa del genere, e una mezza dozzina d'anni di carcere per soprammercato. Il vecchio a capo del gruppo di girovaghi era sbiancato: espulsione era una brutta parola di per sé, ma accoppiata a carcere diventava potenzialmente letale. Irrimediabile.
Il lanciatore di coltelli poteva ottenere un nuovo permesso, spiegò Murad, generosamente. Un vero permesso, firmato dall'Enclave. A tempo indefinito. Tutto quel che Murad voleva in cambio, per dimenticare l'irrisoria questione del permesso che non c'era, era la graziosa, piccola ragazza che aveva estratto topolini vivi dalle maniche troppo larghe della sua maglia, che aveva tirato fuori un'enorme bandiera dalle pieghe del corpetto - prima di inghiottirla così com'era, intera - e che aveva fatto ridere la folla dei piani inferiori facendo boccacce e saltando da una parte all'altra, con la sua faccia impiastricciata di improbabile trucco.
Il vecchio girovago era apparso perplesso. Murad voleva il pagliaccio?
La ragazza pagliaccio, sì, era quel che Murad voleva.
Ma non c'era nessuna ragazza pagliaccio, aveva detto il vecchio, stupito. C'era un pagliaccio, però. Un ragazzo pagliaccio. Era lui che Murad voleva?

Il ragazzo pagliaccio aveva occhi grigi e una pelle chiarissima, ora che il trucco si era sciolto. Aveva labbra sottili, viso sottile, corpo sottile. Con il corpetto e i larghi pantaloni sembrava una ragazza, androgina come un efebo, priva di sesso.
Non sorrideva e non faceva più boccacce. Sembrava irritato, stanco e infelice, pieno di rancore e di amarezza mentre Murad raccoglieva i suoi documenti e li osservava con attenzione.
Si chiamava Elwyn, Elwyn Shaw Marmaduke Coleridge.
Murad gli aveva detto, poi, che i suoi documenti erano stati strappati e bruciati. Che Elwyn non aveva più un nome, né un'identità, che se avesse provato a scappare la sorveglianza l'avrebbe ritrovato e, senza documenti, sarebbe stato prima arrestato e poi espulso. Avrebbero potuto anche rimanere ucciso, chi lo poteva dire? I clandestini senza documenti erano pericolosi.
Ma invece li aveva conservati, quei documenti: e neanche lui sapeva perché.

Elwyn Shaw Marmaduke Coleridge era stato portato nel palazzo di Murad come un pacco regalo, depositato nelle sue nuove e bellissime stanze.
- Se c'è qualcosa che non ti piace... - aveva detto Murad. - … si può cambiare. Se preferisci altre camere, se vuoi un altro letto, altri mobili. Se c'è qualcosa che vuoi, puoi chiederlo. Se è ragionevole, lo avrai. -
La graziosa, piccola circense – il pagliaccio – non era apparso particolarmente raddolcito dall'offerta; tutto ad un tratto, anzi, era sembrato nauseato.

Drogarlo era impossibile. Murad sentiva che anche solo pensarlo era sbagliato.
Se l'avesse drogato, Elwyn sarebbe diventato come tutti gli altri. Non avrebbe pensato. Sarebbe diventato felice. Se l'avesse drogato, sarebbe diventato come tutti gli altri. Non gli sarebbe più piaciuto, poi.
Non ci sarebbero stati più occhi rancorosi, grigi come il ferro, grigi d'alba e d'acqua nuvolosa e della luna pallida del pomeriggio, in quelle stanze.
Se l'avesse drogato, sarebbe diventato come tutti gli altri.






Note: Questa storia ha partecipato al concorso L'Harem... e il Pagliaccio indetto da Eylis, classificandosi seconda.
Per trovare tutte le storie partecipanti potete andare a sbirciare in questo angolino qui, sul solito sito degli Original Concorsi di Eylis.

Ringrazio ancora la giudiciA e faccio tutti i miei complimenti alle altre autrici: ho avuto il tempo di sbirciare le loro storie, e vale la pena di fermarsi a leggerle!

Mi affretto a pubblicare malgrado l'ora perché due settimane fa si è conclusa L'ultima fermata, scritta anch'essa per i concorsi di Eylis. Per cui, volevo in qualche modo mantenere la tradizione. xD



Due note sulla storia: - conosceva una verità diversa: ho scritto questa frase avendo in mente il knows better inglese, assolutamente intraducibile, con una sfumatura che mi sembrava perfetta. Spero di aver reso l'idea.
- questa storia presenterà più avanti, all'altezza del quarto capitolo, una descrizione piuttosto sanguinosa; e tratta di temi decisamente pesanti. Lettore avvisato, scrittore salvato! x°D

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Capitolo 2
*** palazzo-giardino ***





- palazzo-giardino



Qualche volta Elwyn sentiva voci e risate provenire dalle altre camere del palazzo: gli arrivavano ovattate, passando attraverso i filtri delle stoffe e delle vetrate che dividevano le sue stanze dal mondo, ma lui si appoggiava il più vicino possibile ad esse, schiacciandosi contro la porta, contro la tenda, contro la parete che lo allontanava da quelle voci, da quelle risate, per cercare di sentirne il più possibile. Erano un contatto. Erano la dimostrazione che, fuori, c'era ancora qualcos'altro.
I pasti arrivavano attraverso un tavolo a scomparsa: poteva avere tutto quel che voleva, quando lo voleva, le cose più assurde e improbabili, bastava chiederle al computer e le otteneva in un batter d'occhio. Tutto quel che voleva. Quando finiva di mangiare, il tavolo scivolava nel pavimento e tornava nelle cucine, in attesa della richiesta seguente.
C'era una grande schermata traslucida che riempiva tutta una parete e che serviva per leggere e per vedere video, filmati, per ascoltare musica. C'era una grande vasca, nel mezzo delle stanze, circondata da enormi cuscini e da uno strato spesso come il velluto d'erba verdissima e sempre asciutta.
Avrebbe potuto essere una vita bellissima.
Poteva fare tutto quel che voleva, quando lo voleva. Quel che non poteva, era uscire.
Non vedeva nessuno, mai, che non fosse Murad. Murad arrivava nel pomeriggio o la notte, ma mai al mattino: perché, gli aveva spiegato una volta, al mattino c'erano cose che la Città si aspettava che lui facesse.
Da Elwyn Murad non si aspettava nulla: tutto quello che gli veniva chiesto era mettere i vestiti che venivano scelti per lui - vestiti asessuati come quelli della piccola, graziosa circense, del pagliaccio, con larghi calzoni e stretti corpetti che avrebbero potuto nascondere un seno molto acerbo, anche, se ci fosse stato un seno da nascondere (ma non c'era) - e tenergli compagnia.
Qualche volta Murad gli chiedeva di ripetere qualcuno dei suoi trucchi più interessanti - far sparire fazzoletti ingoiandoli e tirarli fuori dalle orecchie, dalle maniche, dal naso, lanciare tre, quattro, cinque palle alla volte senza farle cadere a terra, fare boccacce e mimare cadute. Murad era un bravo spettatore: rideva quando ci si aspettava che ridesse, applaudiva ai momenti giusti, trovava divertente tutto il repertorio del pagliaccio. Qualche volta parlavano. Molto più spesso, però, stavano zitti: erano le volte che Elwyn preferiva, perché gli permettevano di fingere che Murad non fosse lì con lui.
- Pensavo al tuo nome. - aveva detto tutto ad un tratto Murad, un pomeriggio, interrompendo il benedetto silenzio di una di quelle occasioni. - La scelta di un nome è una cosa importante. -
Elwyn un nome l'aveva già. Era un nome lungo e complicato, ma gli piaceva: era il suo. Murad aveva sorriso e aveva detto:
- Nella città di Londra usano nomi simili al tuo, ma io li trovo dissacranti. Non hanno significato: e se ne hanno avuto uno, un tempo, la gente non lo ricorda più. Quel che non viene ricordato è come se non fosse mai esistito. -
Londra era una delle più antiche, più grandi e più famose Città del Cielo: muoveva lungo il meridiano di Greenwich, da nord a sud, attraversando in estate il Circolo Polare Artico, in inverno l'Antartide, senza mai fermarsi. Era una Città immensa, e splendente d'argento, d'acciaio, di luminoso cristallo azzurrato. La notte rifletteva i raggi della luna e da lontano appariva come un immenso gioiello pallido sospeso tra le nuvole.
Murad aveva proseguito lentamente, l'espressione assorta:
- Jawharah è un nome meraviglioso. O Basma: anche Basma sarebbe un bellissimo nome, per te. Poco veritiero, indubbiamente, ma i nomi sono fatti per esprimere auguri e speranze, non è forse così? -
Elwyn aveva vissuto insieme alla gente di quella Città del Cielo sufficientemente a lungo per saper riconoscere un nome femminile quando ne ascoltava uno: l'aveva detto a Murad, che aveva scrollato le spalle, solo, e aveva riso senza rispondergli.
- Potrei chiamarti Anbar. - aveva detto poi. - E' il nome dell'ambra grigia. E' scura e sgradita alla vista, ma preziosa come la mirra, come l'incenso. -
Il nome di Elwyn era una composta in lettere e suoni di tutto quel che Elwyn era. Coleridge era qualcuno che una volta aveva incontrato, in una Città molto lontana da quella, e che gli aveva detto che tornare là sotto non sarebbe stata poi la fine del mondo. Marmaduke era il nome dell'uomo che aveva fatto nascere Elwyn, tirandolo fuori dalla pancia di sua madre, e Shaw il nome di quello che ad Elwyn l'aveva salvato, portandolo via quando era ancora alto appena un metro e poco più, il giorno in cui la Sorveglianza era scesa nei bassifondi di Londra per sgomberarli e sua madre era scomparsa da qualche parte con qualcun altro. Non l'aveva più rivista, poi. Non era mai più riuscito neanche a tornare a Londra. Elwyn era il nome del nonno di un nonno di un nonno: uno che, si diceva, era stato l'ultimo della sua famiglia a nascere, crescere e morire là sotto. Elwyn si teneva il suo nome stretto al cuore come una litania, come una preghiera. Non voleva che Murad gli portasse via anche quello.

Qualche volta Murad gli si rivolgeva al femminile: erano le volte che spaventavano Elwyn più di tutte le altre, perché gli davano la sensazione, improvvisa, viscida e appiccicosa, di stare perdendo tutto. Il suo nome era incerto, sospeso dietro alla continua offerta di un nome diverso - un nome da donna, in un'altra lingua - e Murad continuava a minacciare droghe che gli avrebbero dato l'inconsapevolezza, la felicità, e adesso anche il suo sesso era in dubbio: un po' ragazzo, un po' ragazza, Elwyn andava a dormire la sera, certe volte, stupendosi di non trovare forme femminili sotto agli abiti.
Elwyn, ripeteva allo specchio, mi chiamo Elwyn Shaw Marmaduke Coleridge, e vengo da là sotto.

- Hai gli occhi come l'ambra grigia. - diceva Murad. Oppure: - Come la superficie lucida dei motori. Come l'alba di ferro quando la Città sorvola il Ras Dascian in autunno, la prima luna della sera, l'alba sul mare nello Stretto di Gibilterra. -
Nella voce di Murad, la lingua delle Città del Cielo, che era un miscuglio di mille e mille lingue che erano state parlate nel corso dei secoli e che ora non si parlavano più, la litania adorna dei paragoni prendeva una cadenza d'acqua roca.

Elwyn non era stupido.
Sentiva le voci e le risate dall'altra parte delle porte chiuse e riconosceva voci e risa di donne, femminili, argentine e acute e prive di pensieri. Erano tutte, tutte, tutte, voci di donne. Ciascuno dei suoni che si levavano in quel bellissimo palazzo verde erano suoni causati da una donna: tutti, tranne quelli che era lui stesso a causare.
Una volta Murad gli aveva spiegato di aver comprato tutte le persone delle quali si circondava: perché, così, era sicuro di avere persone accanto che non avrebbero potuto andarsene, allontanarsi, cambiare idea e lasciare il suo servizio.
Elwyn gli aveva detto che avere qualcuno in questo modo era come non avere nessuno.
Murad non era sembrato contento; il suo viso si era piegato in un'espressione fosca, e per un attimo Elwyn aveva pensato che l'avrebbe colpito: ma poi Murad aveva sorriso e aveva raccontato che una volta, quando c'erano ancora i re sul trono, là sotto, il compito dei giullari era stato quello di rivelare le verità che nessun altro voleva affrontare.

Elwyn l'aveva capito solo dopo un po' che se a lui era permesso di dire certe cose, di fare certe cose, di pensare certe cose, era perché, dopotutto, Murad qualcuno lo voleva avere.






Note:
Jawharah: gioiello
Basma: sorriso
Anbar: l'ambra grigia
I nomi sono tutti nomi realmente esistenti (così come il loro significato), e sono nomi arabi.
Per quanto riguarda le fonti dei nomi: purtroppo non ho fonti riscontrabili. Derivano tutti da ricerche online, portate avanti su forum di discussione in lingua inglese dei quali non ho conservato, non troppo intelligentemente, i links.

Allo stesso modo, sono realmente esistenti anche i luoghi della Terra che vengono nominati. Qui potete vedere che cos'è l'ambra grigia. Il Ras Dascian è uno dei picchi più alti dell'Africa, situato in Etiopia. Lo Stretto di Gibilterra è il tratto di mare che collega il Mar Mediterraneo e l'Oceano Atlantico, separando Marocco e Gibilterra.

Un grazie speciale a tutti coloro che si sono fermati a commentare lo scorso capitolo.

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Capitolo 3
*** palazzo-prigione ***





- palazzo-prigione



Nei primi mesi d'aprile la Città del Cielo aveva attraccato da qualche parte sui monti dell'Armenia: c'era una stazione di supporto a duemilasettecento metri dal suolo, lì, alta sopra una valle di rocce pallide. La Città avrebbe scambiato acqua piovana, pulita, frutta e verdura in cambio di pietre e metalli, spiegò Murad ad Elwyn. Gli aveva chiesto di sedersi accanto a lui, quel giorno, con le gambe incrociate su un alto cuscino di velluto rosso, e gli aveva passato un braccio attorno alle spalle, appoggiandosi a lui mentre guardavano fuori dalle finestre.
Oltre i vetri il meraviglioso giardino si stagliava su diversi livelli, stratificandosi verso l'alto piano su piano. Un ramo rampicante carico di albicocche grosse come la testa d'un bambino si sporgeva all'interno delle stanze di Elwyn. Murad allungò una mano, staccò un frutto e glielo offrì.
La frutta era una cosa, l'aveva scoperto con il tempo, che qualche volta riusciva a comprare Elwyn: acquistava un momento di serenità, un accenno di rilassatezza, due grammi di accondiscendenza. Elwyn mangiava la frutta avidamente, sotto gli occhi divertiti del Celestiale. Non doveva averne avuta spesso, prima, pensava Murad. Aveva fatto arrivare per lui i frutti dell'annona, dalla polpa bianchissima e dolce, e quelli della passiflora; l'avocado, il mango e i datteri crescevano liberamente nel giardino, accanto alle arance, grosse arance scure da spremere nei bicchieri di vetro verde, più piccole arance gialle e lievemente amarognole, alle mele farinose, agli ananas e al cocco.
Anche questa volta Elwyn, che se n'era stato fino a quel momento con la schiena rigida, sostenendo il braccio di Murad come fosse un peso ostile, spaventoso, si distese appena mentre accettava l'albicocca.
- C'è qualcosa che vorresti? - gli chiese Murad mentre mangiava, piegandosi per guardarlo in viso.
Elwyn disse che avrebbe voluto uscire. Non poteva uscire? Andare fuori, fuori dal palazzo, anche solo per un po'?
Il viso sorridente di Murad era diventato molto meno sorridente, tutto ad un tratto.
- Se potessi uscire... - gli domandò. - … dove vorresti andare? -
Fuori, rispose Elwyn semplicemente, fuori di qui.
Ma Murad gli aveva detto di no. Quella, sembrava, era una cosa che Elwyn non poteva avere.

Murad aveva un viso affilato da falco. Portava i capelli molto lunghi, perché era quello l'uso della sua famiglia, e li teneva legati in una coda, perché lasciarli sciolti lo infastidiva. Sulle vesti che usava per discutere d'affari quella chioma fluente formava un contrasto anacronistico; ma sugli abiti di seta velata che teneva nel suo palazzo-giardino diventavano a posto. A posto, tutto qui.
Aveva la pelle scura. Gli piaceva tenere tra le proprie mani una di quelle di Elwyn: che aveva un palmo piccolo, e dita sottilissime, nel confronto, e molto, molto, molto pallide.
- Potrei chiamarti Suha. - gli aveva detto una volta. - Ma non Khalisah. - C'era un sorriso, in Murad, che in certi momenti appariva insieme divertito e infelice, ed era quel sorriso che aveva tirato fuori, parlando, nel guardare verso Elwyn. - E' un nome che è una promessa di sincerità. Darti un nome così sarebbe una menzogna. -
I nomi di Murad, la lingua di Murad, venivano da un luogo lontano decine di secoli e almeno un paio di mondi. Erano nomi di un altro tempo.
Raccontava Murad che in quell'altro tempo i giardini erano cresciuti sulla terraferma e nel deserto, e li avevano chiamati oasi. Raccontava Murad che l'acqua era stata preziosa come l'oro, lì, ed era scivolata tra sassi e sabbia ogni volta che la pioggia era scesa dal cielo. Raccontava di un posto dove si tramandava la storia di qualcuno che aveva narrato mille favole ad un re per allontanare la morte, e poi chiedeva ad Elwyn di raccontare lui qualcosa: così, diceva, avrebbero tenuto lontana la noia.

Avevano lasciato la stazione d'attracco da forse una settimana il giorno in cui Elwyn tentò per la prima volta la fuga.
Aveva aspettato, appiattito contro la parete, che la porta delle sue stanze venisse aperta per permettere a Murad di passare: poi, quando il Celestiale era entrato, l'aveva colpito alla nuca con un grosso piatto di metallo ed era scappato correndo giù per i corridoi e giù per le scale dell'immenso palazzo-giardino.
Non conosceva nulla che non fossero le sue camere: aveva perso tre volte l'orientamento nel cercare di raggiungere il pianterreno, perché i gradini a tratti sembravano portare verso il basso, e invece conducevano solo ad un interpiano chiuso, un vicolo cieco, e a tratti non c'erano gradini da nessuna parte, per quanto lui li cercasse, solo porte serrate e risate dietro a battenti sbarrati e tende tirate.
Era entrato in una stanza dove una bella ragazza vestita di verde dormiva su un divano senza braccioli, ed era riuscito ad andarsene senza svegliarla. Era passato attraverso una finestra per raggiungere una parte isolata del giardino, e da lì era rientrato dall'altro lato del complesso.
Aveva sentito la Sorveglianza venire allertata e aveva capito che Murad si era ripreso, e che aveva dato l'allarme.
Aveva avuto, per la prima volta da quando la sua fuga era iniziata, paura di essere ripreso. Paura delle conseguenze.
Il palazzo sembrava stringerglisi attorno ad ogni corridoio che prendeva, ad ogni scalinata che imboccava. Tutte le porte erano chiuse, adesso, sbarrate dal sistema centrale di sicurezza. Elwyn era andato a sbattere contro un grande battente serrato e aveva scoperto che le piastre d'apertura erano state disattivate: aveva appoggiato la fronte alla porta, giunto alla fine della sua fuga, e aveva chiuso gli occhi.

L'avevano riportato a Murad senza bisogno di usare la forza. Sembrava così esile e così fragile accanto alla Sorveglianza – tutti quegli uomini parevano tanto più alti, tanto più massicci, nel confronto! – che per un attimo Murad aveva esitato.
Ma poi Elwyn l'aveva guardato, e aveva gli occhi così pieni d'odio, e di disprezzo, che ogni pietà era come svanita dal suo cuore.
- E' stata una pessima idea, la tua. - gli aveva detto con amarezza. - Davvero una pessima idea. - E poi, scuotendo la testa: - Avevo sperato che non saremmo mai arrivati a questo. -
E a quelle parole l'odio negli occhi di Elwyn s'era diluito nella paura.

Due giorni più tardi Elwyn era tornato dalla clinica con un carico aggravato di malumore ed ostilità ed una piccola, quasi invisibile cicatrice sul braccio destro.
Aveva dormito per tutto il tempo, sedato, nello speciale avioveicolo che l'aveva condotto dal palazzo-giardino alla clinica e dalla clinica al palazzo-giardino, e così non aveva nemmeno avuto la soddisfazione di poter vedere un po' di fuori, un po' d'esterno. Murad aveva pensato che sarebbe sembrato una specie di premio, altrimenti. Che avrebbe potuto favorire altri atti di ribellione, altri tentativi di fuga.
Aveva preso da parte Elwyn, la sera in cui il ragazzo si era svegliato, e gli aveva spiegato:
- Quello che ora hai sotto la pelle è un segnalatore. E' collegato alla sicurezza del palazzo: se cerchi di uscire da queste stanze, il sistema comunicherà alla piccola capsula piena di sonnifero che è annessa al segnalatore di aprirsi. Ti addormenterai ovunque sei. Ogni tentativo di fuga verrà stroncato ancor prima d'iniziare. -
Elwyn l'aveva guardato, stancamente disgustato, e Murad gli aveva stretto il mento in una mano:
- Questa volta è il segnalatore. Non cambierà la tua vita. Non cambierà niente in te. La prossima volta sarà qualcosa di più drastico. Non mi costringere a farlo... - La voce del Celestiale s'era abbassata, sfumando in qualcosa che avrebbe potuto sembrare una preghiera, anche, una supplica. - … non mi costringere a farlo. Se devo farlo, lo farò. -

Ogni possibilità di veder sorridere Elwyn, dopo il segnalatore, era andata persa.

Murad gli aveva fatto portare un cesto di fragole, una settimana più tardi. Elwyn non ne poteva avere mai assaggiate: erano frutti che crescevano poco anche in serra, e che avevano bisogno di cure, di spazio, di freddo. Le idrocolture ne producevano in quantità limitata, e se le potevano permettere, anche tra i Celestiali, solo i più ricchi, i più potenti, quelli che avevano i migliori contatti con le sezioni dei coltivatori.
Elwyn non le aveva nemmeno guardate finché Murad, spazientito, non gli aveva ordinato:
- Mangiale. -
Elwyn gli aveva obbedito. Sembrava masticare polistirolo, e invece aveva desiderato, Murad, di poter vedere una volta di più l'espressione famelica e meravigliata che la frutta aveva sempre fatto nascere sul suo viso.
Meraviglia. Non disgusto. Meraviglia. Meraviglia per i doni che gli faceva avere, per la vita bellissima che gli faceva vivere. I bassifondi erano lo schifo e la feccia. Questo era il paradiso. Questo doveva essere il paradiso, aveva pensato Murad, confusamente.
L'aveva sentito vomitare, dopo, chiuso nel bagno, e l'aveva odiato per questo.
- Se dovrò averti drogato, per averti felice... - gli aveva urlato addosso, ferocemente, prima di uscire. - … ti avrò drogato! -
Ed Elwyn, Elwyn, Elwyn che non sapeva come stavano veramente le cose, Elwyn che non sapeva che cos'era un giullare – raccontare le verità, dire sempre la verità – Elwyn che non riusciva a capire quando Murad mentiva, Elwyn che non sapeva di essere qualcuno, Elwyn, ebbene, gli aveva creduto.






Note:
Un grazie speciale a Averroe, che si è fermata a commentare lo scorso capitolo.

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Capitolo 4
*** stazione di attracco ***





- stazione di attracco



Elwyn aveva aspettato che gli dicessero che erano attraccati di nuovo ad una stazione di servizio, prima di chiudersi in bagno.
Questa volta era il monte Ararat. Elwyn non sapeva cosa fosse, dove fosse: sapeva solo che la Città del Cielo era ferma, ed era ancorata, e toccava qualcosa che era terra, finalmente, che era qualcosa di diverso da sé stessa. Sembrava molto più aperta, così.
Murad l'aveva lasciato da forse un'ora. Era quasi buio, fuori dalle finestre. A quell'altezza avrebbe dovuto fare molto freddo quando la notte calava, ma i sistemi della Città del Cielo la mantenevano tiepida e asciutta in ogni stagione, ad ogni altitudine e ad ogni ora. Regolavano l'afflusso di ossigeno. Regolavano l'ingresso della pioggia tramite schermi e tettoie mobili: a nessun Celestiale piaceva affrontare la stagione dei monsoni senza un'opportuna copertura.
In bagno Elwyn aveva portato il coltello con il quale tagliava il pesce, il rasoio magnetico che usava per radersi la barba sottile - Murad preferiva che avesse il viso glabro, liscio - e una lastra di vetro che aveva staccato ad un bicchiere rotto. Non sapeva quale delle tre cose sarebbe andata bene, quale delle tre cose avrebbe funzionato.
Bastò il coltello del pesce. Era un sollievo: Elwyn aveva avuto paura, nel reggere la scheggia di vetro, che avrebbe potuto spezzarsi nella carne, restare tra i muscoli, tra i nervi, danneggiarlo. Aveva avuto paura del dolore, anche, ma ogni volta che sembrava farsi troppo, ogni volta che le fitte e la nausea gli montavano nello stomaco e minacciavano di farlo crollare, pensava a Murad.
Se dovrò averti drogato, per averti felice...
La lama aveva tagliato la pelle ed era affondata nel muscolo. Il sangue aveva riempito i lembi della ferita ed era traboccato ai lati del braccio. Elwyn aveva cercato di tagliare meno che poteva, solo in corrispondenza della cicatrice, ma poi si era reso conto che avrebbe dovuto ficcarci dentro le dita - di pinze non ce n'erano, non c'era niente per fare leva - ed aveva allargato il taglio.
Aveva vomitato nel lavandino quando la punta del coltello aveva incontrato la superficie di qualcosa di liscio e duro, ma poi si era reso conto che non era osso, quello, ma metallo. Era il segnalatore: l'aveva trovato. Aveva sentito le lacrime colargli sul viso, un po' per il dolore, un po' per il sollievo.
Con le dita non era riuscito a tirarlo fuori. Aveva provato ad usare un coltello, poi un cucchiaio. Quello che era riemerso dalla ferita era stato un grumo di sangue filamentoso avvolto attorno ad una piccola sfera di metallo. L'aveva lasciato cadere nel lavandino e aveva usato brandelli di vestiti per fasciare il taglio, fermare il sangue, l'emorragia.
Il braccio gli faceva male, fitte lancinanti che gli davano l'emicrania, che lo nauseavano, ma ogni volta che pensava a Murad il dolore sembrava allontanarsi di un passo.
Se devo farlo, lo farò. Spalancò una delle finestre che davano sul grande giardino circolare. Sopra la finestra c'era una terrazza, due metri più in su una sporgenza. Ancora più su, tubature. Più in alto ancora spigoli circolari. La sommità del palazzo sembrava lontanissima, ma Elwyn sapeva che era possibile. Poteva farlo: ora l'aveva capito. Non come tutti gli altri, dalle porte, dalle scale, ma dalle finestre, sì, lui poteva. Non tutti potevano farlo, ma lui poteva.
Alzò le mani e si aggrappò alla terrazza, issandosi. I rami dell'albicocca rampicante gli fecero da scala, mentre saliva, saliva, saliva.

- - -



Erano i sensi di colpa ad averlo riportato davanti alla porta delle stanze di Elwyn, pensò Murad.
Una parte di lui era consapevole di aver agito per il meglio: che il segnalatore era per il meglio, che le minacce erano per il meglio. Che la vita che gli stava offrendo era per il meglio, e sarebbe andata bene ad entrambi, prima o poi. Un'altra parte di lui continuava a pensare, ossessivamente, all'espressione di Elwyn, odio, schifo, rancore, disgusto. Niente meraviglia. Niente piacere.
Murad aveva trascurato le altre stanze del palazzo, in quei mesi, per fare visita solo a quelle di Elwyn: era più soddisfatto così, perché stare seduto vicino al pagliaccio rendeva più leggere le sue giornate. Dopo la clinica, dopo il segnalatore, non si parlavano quasi per niente. Elwyn obbediva, sicuro, se gli veniva ordinato di rispondere, ma Murad non voleva ordinarglielo. Non voleva che ci fosse bisogno di ordinarglielo. Voleva che Elwyn desiderasse rispondergli. Le altre persone nel palazzo lo desideravano, quindi perché lui no?
Posò una mano sui battenti chiusi e mandò un comando vocale al sistema di controllo: le porte divennero trasparenti, mostrando l'interno delle stanze di Elwyn. Le luci erano ancora accese. Se fossero state spente forse non sarebbe entrato; così, invece, Murad spinse la porta e chiamò:
- Elwyn? -
Avrebbe dovuto dargli un altro nome, si disse. Suha o Basma, che era il nome del sorriso, perché sicuramente un giorno Elwyn avrebbe sorriso, e gli sarebbe stato grato, e non avrebbe più pensato di voler essere altrove. Avrebbe dovuto chiamarlo Anbar, come l'ambra grigia, perché come l'ambra grigia Elwyn poteva essere sgradevole e ostile, ma poi aveva in sé quello che lo rendeva prezioso, quello che faceva l'aria leggera, fragrante.
- Elwyn. - chiamò ancora Murad quando nessuno gli rispose. Elwyn non era sui cuscini e non era sulla terrazza. Non era nel suo letto, non era accanto alla vasca. Non era neanche nel bagno: ma c'erano delle chiazze sul lavabo, altre chiazze sui grandi specchi accanto alla vasca, e sul pavimento, una pozza rossa che Murad riconobbe a stento. Non aveva visto spesso del sangue, prima.
Per un attimo non riuscì a distogliere lo sguardo dal rosso, dalle chiazze, dal sangue, e aveva paura di rialzare la testa perché avrebbe potuto trovare il corpo di Elwyn, forse, nella vasca o nell'alcova della doccia, o...
Non c'era nessun cadavere da nessuna parte. Nel lavello, però, c'era un grumo di roba molliccia e insanguinata e di metallo, una capsula, che a Murad risultò estremamente familiare. Aveva chiesto lui che venisse messa in Elwyn. Sotto la sua pelle. Dentro al suo braccio.
In quel momento tutti gli allarmi di tutto il palazzo sembrarono esplodere e scoppiare, e il suono travolse Murad insieme alla consapevolezza che Elwyn era scappato – di nuovo – e che era ferito.

Spedì la Sorveglianza a cercarlo in Città. Nei bassifondi, nelle strade circostanti, che rastrellassero ogni angolo e ogni piega per cercarlo. Uno dei sensori di movimento l'aveva rilevato quando aveva messo piede sul tetto; ma, da quel momento in poi, era come scomparso. Non c'erano telecamere, nel palazzo-giardino: era il posto quieto e sicuro di Murad, quello, un posto come una fortezza, un santuario. Niente telecamere, nel posto in cui voleva essere lasciato in pace, lontano dagli occhi degli altri, lontano dagli occhi di tutti.
La Sorveglianza riferì che nei bassifondi Elwyn non c'era. Nessun ragazzo/ragazza dai capelli chiari, la pelle chiara, gli occhi chiara. Nessun ragazzo/ragazza con un braccio ferito. Murad aveva trovato il coltello con il quale si era aperto la pelle, la carne, per raschiare l'osso e togliere il segnalatore: lo teneva tra le mani, ora, con il sangue coagulato a macchiare la lama e l'impugnatura, a scorrergli tra le dita. Era questo l'odore che aveva il corpo umano, quando lo si spaccava? Quest'odore di ferro, di ruggine?
Non era nei bassifondi, rifletté Murad, ancora in piedi nelle camere di Elwyn. Non era per le strade. Nessun palazzo l'avrebbe accolto, fuggitivo, senza documenti, nessun Celestiale l'avrebbe protetto. Non c'era luogo della Città in cui avrebbe potuto nascondersi. Non c'era luogo...
- Ai cavi. - comunicò alla Sorveglianza attraverso il ricevitore. - E' ai cavi d'attracco. - E poi, prima di permettersi il tempo di ripensarci, aggiunse: - Verrò anche io. -

Voleva essere lì quando l'avrebbero trovato, Elwyn, si disse Murad. Voleva essere lì perché Elwyn sapesse fin da subito che non sarebbe stato perdonato, che lui era furioso, che l'avrebbe punito. Per essere fuggito. Per essersi ferito. Come aveva osato, Elwyn, danneggiarsi così? Non avrebbe mai, mai dovuto. Non si apparteneva. Apparteneva a Murad.
Voleva essere lì per poterglielo dire di persona. Voleva essere lì perché così, quando l'avrebbero trovato, avrebbe potuto essere sicuro fin da subito che il danno non fosse irrimediabile. Che fosse vivo.
Lo trovarono dove si erano aspettati di trovarlo, Elwyn, solo un po' più avanti. A Murad, che lo vide con un piede già sul cavo d'attracco, una fune d'acciaio dal diametro di un metro e mezzo, l'altro piede sul gancio, in equilibrio precario su un vuoto fatto della neve e delle rocce della montagna dove le nuvole si insinuavano, buie di notte, tra la Città del Cielo e l'Ararat, si gelò il sangue nelle vene. La Sorveglianza si era fermata prima di raggiungerlo: nessuno desiderava fare una mossa sbagliata, un passo sbagliato, e rischiare di far cadere una delle proprietà di Murad.
Murad superò gli uomini della propria scorta e poi quelli della Sorveglianza della Città, avanzando verso Elwyn con il braccio teso. Il ragazzo rimase in piedi sul cavo, gli occhi fissi su di lui, e non si mosse. Contro la massa scura della montagna era tanto pallido da sembrare fatto di luna, o di vetro, così che pareva che la luce della Città gli passasse attraverso il viso e si riflettesse sui suoi vestiti. Portava gli abiti che Murad gli aveva dato, gli abiti della circense – gli abiti del pagliaccio.
- Torna indietro. - disse Murad, piano. - E' inutile. La stazione d'attracco è già stata allertata. Se anche tu riuscissi ad arrivare in fondo al cavo ti prenderebbero e ti riporterebbero qui. Ma è impossibile: c'è troppo vento, più in basso. Cadresti. Moriresti. -
Elwyn continuò a fissarlo e non disse niente.
- Vieni qui. - ripeté Murad, con impazienza, sentendosi lo stomaco vuoto alla vista di tutto quel niente sotto ai piedi del pagliaccio. - Non farmelo ripetere. -
Era la cosa sbagliata da dire: Elwyn fece un altro passo indietro, a quelle parole. Tutta la Sorveglianza si mosse verso di lui come un'onda viva, ma Murad alzò una mano e li trattenne. Non poteva rischiare di spaventarlo. Non poteva rischiare che cadesse.
- Non farlo. - esclamò. - E' inutile. E' stupido. Torna indietro, subito. Non sarai punito. -
Elwyn taceva, e aveva l'espressione fissa, stanca. Sembrava impossibile capire a cosa stesse pensando, ma non arretrava più: e questo, pensò Murad, voleva dire che quella era la strada giusta da imboccare.
- Ti darò quel che vorrai. Ritorna qui, adesso. -
Tutto quel che Elwyn avesse voluto, purché rimettesse piede sulla Città del Cielo, al sicuro, purché Murad potesse toccargli le braccia ed assicurarsi che fosse vivo, integro, che potesse continuare a guardarlo, a tenerlo, che la piccola, graziosa circense – il pagliaccio – fossero ancora lì con lui.
Elwyn aprì bocca e disse:
- Non posso... -
- Tutto quel che vorrai. - insisté Murad.
- Non basterebbe. - disse Elwyn. Scosse la testa: pareva esausto. - Non basterebbe. -
Murad pensò, disperato, che gli stava sfuggendo tra le dita. Per un attimo accarezzò l'idea folle di lanciarsi in avanti, di afferrarlo, trattenerlo, erano solo pochi passi, pochi passi sul cavo...
- Non puoi andare da nessun'altra parte... -
- Non qui. - lo interruppe Elwyn. - Altrove. -
Fece un altro passo, e tutto ad un tratto Murad non riuscì a vedere altro che non fosse la sua folle idea, afferrarlo, trattenerlo, e il passo di Elwyn l'aveva portato alla sua destra, non indietro, e tutto ad un tratto non c'era più il cavo d'acciaio sotto ai suoi piedi, nessuna cosa ferma e piena, solo il vuoto e le nuvole e il buio che li separava dalla montagna, metri e metri e metri più in basso, ad un infinito abisso di distanza.
Murad si lanciò in avanti per afferrare Elwyn, e la Sicurezza si lanciò in avanti per afferrare lui. Lo trattennero per l'orlo della veste mentre già era con un piede sul cavo, e Murad riuscì solo a vedere Elwyn che andava giù, giù, ed Elwyn lo guardò e sorrise.






Note:
Il prossimo capitolo sarà l'ultimo. Per tutti i definitivi ringraziamenti, ci vediamo tra due settimane, quindi!
Nel frattempo, grazie ancora ad Averroe e a abcdefghilm.

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Capitolo 5
*** Terra-di-sotto ***





- Terra-di-sotto



A Murad avevano detto di aver trovato i segni, in un cumulo di neve alto dieci piedi, cinquanta metri più in basso del gancio d'attracco, di un qualcosa grosso abbastanza da pesare una cinquantina di chili che era affondato lì e che forse, poi, era scivolato a valle. Gli avevano detto che avrebbero continuato a cercare il corpo perché, be', nessuno avrebbe potuto mai sopravvivere ad una caduta del genere.
Se anche fosse sopravvissuto, c'era la neve. C'era il vento freddo, e tremila metri di montagna da superare. Se non l'aveva ucciso la caduta, l'aveva ucciso il gelo.
Murad teneva il coltello di Elwyn in una tasca, al sicuro: l'aiutava a ricordarsi, ogni volta che la sensazione di vuoto tornava ad assalirlo e si mescolava alla noia, e il tutto lo spingeva ad essere violento, aggressivo, irrazionale, delle parole del pagliaccio.
Non basterebbe. Non c'era stato niente che era bastato a comprare Elwyn. Niente che era bastato, sulla bilancia, a fare pari con la sua libertà.
Non basterebbe, e Murad aveva svuotato il palazzo. Tutti fuori, anche quelli che dopotutto non volevano, che dentro il palazzo-giardino stavano bene, erano soddisfatti, perché Elwyn l'aveva detto, Elwyn il pagliaccio, che come tutti i giullari aveva il dono della verità: avere qualcuno così era come non avere nessuno. Il qualcuno di Murad si era andato a schiantare in un cumulo di neve e, non basterebbe, Murad sapeva che non c'era niente che avrebbe potuto fare pari neanche con quello.
A Murad avevano detto che Elwyn doveva essere morto. Non poteva essere sopravvissuto. Il suo corpo doveva stare incastrato tra una roccia e l'altra, ora, dove le sue ossa sarebbero sbiancate al sole.
Murad guardava la Terra in basso, lontana, lontanissima ora che la Città del Cielo era di nuovo in movimento, i cavi d'attracco sganciati, la stazione di servizio abbandonata: diceva di sì a tutti ma, poi, conosceva una verità diversa.

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Il cielo era di un azzurro pallidissimo. Le nuvole spumose erano sembrate gelide quando le aveva attraversate, camminandoci attraverso e inzuppandosi ancora di più le vesti già fradice: ma, da lì sotto, sembravano schiuma e panna montata, lucide come la polpa luminosa del litchi.
Scendeva tra le rocce dorate che portavano a valle e gli faceva male tutto: il braccio e la schiena e la gamba, soprattutto la gamba, che uno di quelli della stazione di servizio - uno di quelli di là sotto - gli aveva bendato e stretto senza fare domande. A loro non importava, gli aveva detto. Se il Celestiale lo stava cercando, be', che continuasse a cercare. A loro non importava. Non avevano visto passare nessuno, no, avevano detto i suoi compagni alla Sorveglianza della Città del Cielo. Se venivi da là sotto, aveva detto l'uomo, là sotto eri il benvenuto.
Scendeva tra le rocce dorate come l'ambra, come la sabbia di un mare che aveva visto solo una volta, dall'alto, ma adesso avrebbe potuto toccarlo, forse. Andare a guardarlo da vicino. Gli avevano detto di non andare a nord - c'era un'epidemia - e di non andare ad ovest - c'era una guerra - ma a sud, ad est, c'era spazio. Cose da esplorare. Possibilità. Là sotto.
Là sotto sembrava arido e scuro, mentre là sopra tutto era stato verde, lucido, splendente. Elwyn pensava al giardino nascosto e pensava a Murad, e tutto ad un tratto mescolate alle minacce e alle quattro pareti della sua prigione arrivavano tutte le altre parole, quelle sui nomi e sulla frutta e sulle storie, tutte le altre parole che, a guardarle da là sotto, sembravano tutto ad un tratto più simili a quelle che erano state davvero. Le ricordava, e sedavano il dolore.
Pensava alla sua gamba spezzata, scendendo tra le rocce dorate, e sapeva che non avrebbe mai più potuto fare quel che aveva fatto prima, camminare sui fili, correre tra i tetti, perché la sua gamba non l'avrebbe retto più, mai più, così. Si era trattato della sua ultima esibizione.
Camminava sulla terra arida e c'era un pascolo d'erba stentata dove le capre brucavano. Un pastore sedeva sulle rocce e le sorvegliava, molti e molti metri più in là; Elwyn alzò il viso, e il vento gli passò tra i capelli e dietro le orecchie, sotto ai vestiti bagnati e sulla pelle umida. Anche quello sedava il dolore. Sedava l'ansia.
In piedi sulla superficie di Terra-di-sotto, sollevò la testa e guardò verso il monte Ararat. Alta sopra di lui muoveva ancora la Città del Cielo.






Note: E con questo è finalmente finita. Pubblico alle quattro del mattino perché sono in piena follia da studio e non so domani se riuscirò ad avvicinarmi ad EFP.

Un grazie, ancora, ad Eylis, per aver indetto il concorso che ha fatto nascere questa storia.
Grazie ad abcdefghilm, perché ogni volta che passa e mi lascia una parola mi scalda il cuore, ad Averroe per i suoi meravigliosi ed affascinanti commenti (dovete leggerli, gente, sono meglio della storia!), a Tatan che ogni tanto si lascia commuovere e mi elargisce frasi bellissime, a dierrevi che ha commentato anche se l'avvertimento slash non gli andava né giù né su, a Loryblackwolf che è la fortunata proprietaria di un personaggio del quale potete leggere qui, del quale sono perdutamente innamorata e che prima o poi sposerò. Davvero.

Un grazie a tutti quelli che si sono fermati e che hanno letto. Due grazie anticipati a chi mi lascerà un ultimo commento. Vi direi che farò finire bene la prossima storia scritta per un tema di Eylis (perché la fine di questa mi ha personalmente depressa), ma forse mentirei. x°D

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