Les Mémoires Blessées di GirlWithTheGun (/viewuser.php?uid=84843)
Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Last Carnival ***
Capitolo 2: *** The Other Side ***
Capitolo 3: *** A Midnight Full Of Stars ***
Capitolo 4: *** Looking Back ***
Capitolo 5: *** Galvanometer/Letters ***
Capitolo 6: *** In The Androgynous Dark ***
Capitolo 7: *** Unsayable ***
Capitolo 8: *** All Is Violent, All Is Bright ***
Capitolo 9: *** Always Summer ***
Capitolo 10: *** Then The Quiet Explosion ***
Capitolo 11: *** Contention ***
Capitolo 12: *** The End Of Childhood ***
Capitolo 1 *** Last Carnival ***
Les Mémoires
Blessées
Prologo
Last
Carnival
Oltre il
vetro oscurato i prati di Englelfield, inondati di pallido sole, si riducevano a
immense distese color fumo di Londra.
Sirius
detestava quel colore con tutto se stesso. Detestava con tutto se stesso anche
il gelo incantato nell’abitacolo dell’auto, e i sedili e il loro odore di
plastica, e la pelle che prudeva in punti irraggiungibili – come la pianta del
piede sinistro rinchiusa in una delle due plimsoll, ad esempio -, l’intero
Berkshire, e qualunque altra cosa avesse l’ardire di esistere sulla
faccia della Terra. Non sovvenendogli altro modo adatto a placare la sua
insofferenza - o almeno a metterla da parte, seppellirla sotto qualcos’altro,
giacché eliminarla gli era impossibile – lanciò uno sguardo su Regulus, che
giaceva sprofondato nel sedile ad un assurdo metro e mezzo di distanza: perso
in una contemplazione laconica del paesaggio, rigido contro lo schienale
gommoso, il cravattino annodato così stretto che ci si sarebbe potuto soffocare,
magari. Magari. Osservando suo fratello gli montò dentro una stanchezza
spossante che rotolò a macigni sopra l’insofferenza e lo stordì
provvidenzialmente. Era troppo lontano per riuscire a infastidire Regulus senza
spostarsi, e a Sirius non andava di spostarsi, affatto, nemmeno di un
centimetro. Fosse stata presente, sua madre gli avrebbe profeticamente sibilato
addosso che un giorno sarebbe finito annegato nella sua stessa pigrizia, ipotesi
che, peraltro, non pareva preoccuparla più di quel tanto. Si chinò con fatica
insensata a slacciare le scarpe, che finirono abbandonate sulla moquette insieme
a un paio di calzini appallottolati. Regulus lo sorprese intento a grattarsi il
piede e arricciò il naso in un’espressione vagamente disgustata.
“Ti serve
qualcosa?”.
“No”
mormorò suo fratello, ricomponendosi con nonchalance “Siamo arrivati”.
Sirius si
voltò e lo sguardo gli si riempì degli immensi confini di Englelfield House.
L’auto
scivolò lungo un paio di curve e improvvisamente furono oltre il cancello
principale. Scendendo dalla macchina Sirius si chiese se meditare un’evasione
notturna valesse la pena, in mezzo al nulla dove erano stati spediti. Regulus lo
affiancò avanzando di soppiatto, e alzò il naso sulle svettanti mura rossastre,
tutte un rincorrersi di profili squadrati e vetrate. In cima, le torrette si
assottigliavano in punte affilate. L’insieme era l’esatto contrario
di ciò che avrebbe dovuto essere una residenza estiva: una dimora atrocemente
fredda solo a guardarsi, cupa, piena di stanze vuote. Aveva smesso da tempo di
chiedersi per quale psicotica inclinazione, fra tutte quelle coltivate con
passione in famiglia, ogni residenza dei Black dovesse sfoggiare un aspetto così
ostile, ma la minacciosa imperturbabilità di Englelfield lo colpiva, era perfino
superiore alla tetraggine gotica del maniero dove zio Cygnus e zia Druella
avevano deciso di tumularsi per il resto della loro esistenza. Terrificante,
ecco cos’era.
“E’
bellissima” disse Regulus “Però la ricordavo più grande. Mamma e papà sono stati
gentili a farci tornare qui, no?”.
Suo
fratello occupava gran parte del tempo parlando a vanvera, desiderosissimo di
ascoltarsi. Tutta la sua essenza era riassunta in tredici anni di inettitudine e
idiozia, fasciate in completo elegante. Era così grottesco da lasciarlo
interdetto, di tanto in tanto.
“Gentili?”
le sue pidocchiosissime sigarette si erano perse un’altra volta nella fodera dei
blue jeans “Mamma e papà ci hanno confezionati e spediti a calci in culo nel
primo buco disponibile per andare a cavalcare draghi in Romania, per quel che ne
sappiamo. O a catturare Babbani al lazo, che ne pensi?”.
Finalmente il pacchetto si fece trovare e riuscì a infilarsi una sigaretta tra
le labbra. Tutto stava nello scovare anche un accendino.
“Sei il
solito” replicò stizzito Regulus, sistemandosi il colletto della camicia
immacolata.
“Già,
grazie a Dio” i piedi nudi cominciavano a far male, così immobili sulla ghiaia
“Di', hai da accendere?”.
“Sai che
non fumo” rispose, ancora più inviperito, suo fratello. Perché lui rispondeva
sempre, anche quando era palesemente da acefali farlo “Appena la mamma saprà
che non hai veramente smesso, ti Schianterà”.
“E tu
sarai lì per godere, godere e golosamente godere”.
Le guance
di Regulus si imporporarono in un modo delizioso, da bambinetta, e Sirius era lì
lì per farglielo notare quando il maggiordomo e un paio di cameriere si
Materializzarono di fronte a loro.
“Signorino Sirius, signorino Regulus: benvenuti a Englefield” esordì
pomposamente il maggiordomo, ingessato nella scarsa credibilità di un frac
stantio.
Sirius
gli indirizzò un cenno, tentando di stirare un sorriso, mentre andava
interrogandosi sul perché quei disgraziati individui si sentissero obbligati a
conciarsi in quel modo. Regulus li ignorò aristocraticamente.
“Le
signorine sono nei giardini. Vi aspettano con trepidazione” proseguì il
pover’uomo, senza perdere un colpo.
Sirius
tentò di immaginarsi Bellatrix occupata ad aspettarlo con trepidazione, ipotesi
attendibile solo nei termini di un agguato teso a procurarsi il suo scalpo.
All’idea di dover interagire con la cugina maggiore gli montò dentro una nausea
violenta.
“Grazie”
disse, impietosito “Le raggiungeremo da soli”.
“Certamente. La cena è servita dopo il tramonto”.
Sirius
annuì, perso in lugubre riflessioni, e si avviò solcando le aiuole, seguito a
ruota da un trotterellante Regulus.
L’unica,
esclusiva, sola ragione che gli avrebbe permesso di non impiccarsi a un platano
entro le successive quarantotto ore e, forse, di superare indenne le vacanze
estive, era Andromeda. Sirius ne era pateticamente cosciente, al livello di
cercare con gli occhi la cugina preferita in ogni cespuglio che incontravano sul
sentiero per i giardini. Gli era mancata tantissimo, dopo l’ultima riunione
natalizia trascorsa insieme a Grimmauld Place - sempre rintanati a una sicura
distanza dal resto della famiglia, sempre seduti vicini a pranzo e a cena,
sempre occupati a chiacchierare di qualcosa che tutti gli altri puntualmente non
avrebbero capito o avrebbero aborrito, o a passeggiare a perdere tra le strade
di Londra -. Poi la mancanza si era sopita grazie a una decina di gufi che erano
andati diradandosi con il sopraggiungere a Hogwarts della primavera, e di divise
femminili mirabilmente ridotte, e tentativi di continuare a fare i loro porci e
legittimi comodi senza farsi espellere – lui, James e Remus, dato che Peter era
geneticamente incapace di compiere imprese sufficientemente suicide -; perché
davvero Sirius adorava Andromeda, ma passare i pomeriggi a scriverle
delle sue paturnie, dei suoi pensieri, era molto più facile in inverno, quando
l’intero castello soffriva, azzannato dal vento, avvolto nel candore purissimo
della neve, e di giorno i corridoi sussurravano, mentre le notti erano un unico
incubo non sempre confessabile.
*
La
colonna di luce violacea tagliò a metà il prato, accompagnata da un fischio
acutissimo, stracciando tutti i boccioli in fiore che incontrava sul suo
cammino. Bellatrix e il suo pallore brillarono di un sorriso ferino. All’ultimo,
però, lo scudo di Andromeda respinse l’incantesimo e quello schizzò indietro,
violento come era arrivato. Bellatrix non ebbe il tempo di pensare a un contro
incantesimo: si acquattò il più velocemente possibile a terra e l’incanto si
schiantò contro il faggio dietro di lei. Una pioggia di schegge e terra la
costrinse a coprirsi gli occhi con una mano.
Narcissa,
abbandonata su un telo al margine della radura, emise un gridolino di
disapprovazione.
“Non
usare i tuoi nuovi giochetti con me, Bella!” esclamò ad alta voce Andromeda,
ritta dall’altra parte.
Bella si
sollevò e restituì uno sguardo furente alla sorella, che pareva malignamente
deliziata, ma in quel modo dolce, tipicamente suo.
“Ti sei
fatta male?” le chiese, sincera.
Seguì un
istante di onesto disorientamento. Erano mesi che qualcuno non si preoccupava
seriamente del suo stato, tantomeno nei duelli. In tutto quel tempo passato a
cibarsi di bestialità, a sfiancarsi fino allo svenimento pur di apprendere,
aveva dimenticato Andromeda. Una parte di lei, quella parte che non
esisteva per nessuno, fremette.
Aveva
avuto qualcos’altro da fare, qualcosa di più importante da fare, mormorò una
voce, da qualche parte.
Sua
sorella si era cristallizzata nell’attesa di una risposta. Aveva i capelli
scompigliati, le guance infuocate e degli stupidi abiti Babbani indosso. Odiava
quei vestiti. Glieli aveva bruciati, glieli aveva strappati a mani nude, fatti
Evanescere, ma erano ritornati comunque. Eppure, in qualche modo distorto, a
Bella pareva sempre di incontrare se stessa in uno specchio, quando guardava
negli occhi Andromeda. Come fosse una distorsione, un crudele effetto ottico.
Come fosse un’altra lei, a volte.
“No”
ringhiò, tornando in posizione.
Il
sorriso di Andromeda scivolò nella strafottenza, mentre la imitava con
un’eleganza invidiabile.
“Quel
vestito ridicolo ti impedisce i movimenti. Dovresti mettere un paio dei miei
pantaloni”.
Si lanciò
all’attacco.
Andromeda
schivò il colpo e l’incantesimo rase al suolo un cespuglio selvatico.
“Quando
vedrà come hai ridotto il suo adorato boschetto, Mr. Rogers ti avvelenerà il
porridge” la canzonò, il respiro accelerato, girandole intorno.
“Chiudi
quella bocca, dannazione!”.
Un altro
incantesimo a vuoto. Andromeda era troppo brava a parare i colpi e, nonostante
il rigoroso esercizio dell’ultimo periodo, Bella si scoprì in difficoltà. La
frustrazione soverchiò ogni altro pensiero compiuto, appannandole la vista.
Sua
sorella contrattaccò, un lampo di intensa luce rossa le si precipitò contro, ma
Bellatrix lo deviò altrove con un lieve scatto del polso.
“Vuoi
Schiantarmi, Dromeda?! Non siamo a lezione di Incantesimi”.
“Hai
Schiantato Cissy!”.
Bella
lanciò uno sguardo alla sorella minore e la scoprì tramortita.
“Tecnicamente, l’hai Schiantata tu. E poi non la tollero, continua a starnazzare
da quando abbiamo cominciato”.
Una
scrollata di spalle e il volto di Andromeda si dipinse di un’espressione
confusa, tra l’indignato e il divertito, che la rendeva buffa.
“In
guardia” la incalzò Bella, subendo la forza involontaria di un sorriso
incresparle le labbra.
Sua
sorella scosse la testa.
“Sei
impossibile”.
Sei
impossibile. Impossibile, Bella. Le piaceva, come lo diceva.
Le era
mancata? Le era mancata così tanto?
La
bacchetta tremò fra le dita. Dimenticò l’incantesimo che le serviva.
Andromeda
si distrasse, rapita da qualcosa che stava oltre le sue spalle.
“Expelliarmus”
sussurrò, incerta.
L’incantesimo andò inaspettatamente a segno. La bacchetta di sua sorella rotolò
sul prato e lei la richiamò subito a sé.
“Ho
vinto!” si lasciò sfuggire, stringendo il trofeo nella mano destra.
Ma
Andromeda non stava ascoltando.
“Sirius!”.
Quando
comprese, Bellatrix si voltò lentamente, una collera vorace nel petto.
Sirius.
*
“Quindi è
questo che fate, voglio dire, quando siete fra voi?”.
Andromeda
gli rispose con un sorriso e gli si incastrò fra le braccia, sfiorandogli la
guancia con un bacio fresco. Oltre il suo abbraccio c’era Bellatrix, un
irrequieto e vibrante buco nero aperto sul verde vivo dei giardini. Aveva un
viso così bianco, di un’immobilità surreale. Estraneo.
Sirius
aveva un solo ricordo piacevole, di Bella, e non era nemmeno certo che non fosse
uno scherzo della memoria. Ad ogni modo, nella sua mente, era rimasta l’impronta
di qualcosa. In un giorno impossibile della sua infanzia, Bellatrix gli aveva
accarezzato i capelli, nella solitudine polverosa di Grimmauld Place. E
pensandoci, anche se se ne asteneva per puro senso di coerenza verso se stesso e
verso l’astio che provava per quella creatura sprezzante che era diventata la
cugina maggiore, Sirius avrebbe potuto giurare di aver solo sognato quel
ricordo. Di esserselo inventato. Era certo, invece, che non sarebbe mai stato
capace d’inventare nessuna delle infinite sfumature d’odio intessute nello
sguardo con cui Bella lo trapassò. Se avesse posseduto zanne al posto degli
occhi lo avrebbe masticato e mandato giù. Tutt’un tratto la tensione rinchiusa
in quel corpo si fece troppo ingombrante, e fu costretto a rivolgere
l’attenzione altrove.
Andromeda
e il suo profumo.
Narcissa
abbandonata in una posizione innaturale sul prato.
“Tua
sorella non sta bene?”.
“Quale
delle due?”.
Regulus,
dopo aver lanciato un’occhiata adorante e timorosa a Bellatrix, si avvicinò a
Narcissa, osservandola con cautela dall’alto.
“E’
Schiantata” osservò, laconico.
Andromeda
si lasciò sfuggire una risatina innocente e appellò la sua bacchetta, che sfuggì
alle dita di Bella. Sirius notò il lampo di furia che la fece trasalire e
avvertì la necessità di allontanarsi il più velocemente possibile. Quando
entrambi si trovavano a dover sopportare un’eccessiva prossimità l’unico
risultato era sempre e solo la collisione violenta, e non aveva le forze per
affrontare l’ennesima lite all’arma bianca. Non in quel momento.
Successivamente, forse, quando anche le urla di Bella sarebbero apparse un
allettante diversivo, nel rigurgitante nulla di Englefield.
“Innerva”
mormorò Dromeda, e Cissy parve tornare confusamente alla vita.
“Regulus?” pigolò, storcendo un poco la bocca.
“Togliti
da lì, abbi pietà” suggerì distrattamente Sirius al fratello “Non so davvero
cosa fare, con lui, ha così poco buon senso”.
Andromeda
reagì con uno dei suoi sguardi indefinibili. Di solito non erano mai sguardi
ostili, ma nemmeno totalmente condiscendenti. D’avvertimento, ecco. A volte lei
si metteva in testa di dover difendere l’indifendibile, che in quel caso era
rappresentato dalla goffissima figura di Regulus.
“Hai da
accendere?” le chiese, placido.
La fiamma
fiorì sulla sua bacchetta senza ulteriore spreco di parole.
“Walburga
non aveva giurato di mozzarti la testa, l’ultima volta?” .
“Beh,
capirai. Lo dice ogni giorno anche a Kreacher e lui gode di ottima salute”.
“Ma
magari al muro, poi, inchioderà la tua”.
La voce
di Bellatrix era, in effetti, impossibile da confondere con qualunque altra.
Sirius le
restituì un sorriso glaciale.
“Non
avevate travasato dei ferocissimi pesci rossi nella vasca della fontana, quattro
estati fa?”.
“Sì…”
rispose Andromeda, presa alla sprovvista.
“E sono
ancora vivi?”.
“Credo di
sì”.
“Ecco,
andiamo a trovarli” concluse, allontanandosi tra i faggi rimasti integri.
“Perché
devi fare così?”.
“Così
cosa?”.
Andromeda
inarcò le sopracciglia: lampante sintomo di irritazione. Sirius sbuffò,
soffiando fuori il fumo tutto in una volta.
“Dromeda,
sei seria?”.
“Sono
terribilmente seria! Potreste provare a convivere nello stesso spazio senza
azzannarvi l’un l’altro. Come conoscenti, o come le persone che si incontrano
tutte le mattine in ascensore, o come due cugini sani di mente”.
“Ok. Non
sei seria”.
“Da
quanto non vi vedevate?”.
“Dall’ultima volta che l’ho incontrata in ascensore”.
“Sirius”.
Accelerò
il passo sull’erba curata, lasciandola indietro.
Era stato
ad Hogsmeade, prima di Natale. Di quel pomeriggio al Testa di Porco ricordava
l’odore alcolico e fetido di un ubriaco che gli era finito addosso, la
discussione serrata tra Remus e James, Peter che continuava a pestargli i piedi
e… Bella. L’aveva riconosciuta dalla risata. Gli altri non si erano
accorti di nulla, lui, invece, aveva setacciato i dintorni con lo sguardo, fino
a puntare gli occhi su un cappuccio nero. Lei gli dava le spalle, si stava
alzando da un tavolaccio in fondo alla fumosa oscurità del pub: salutava gli
amici. Due brutte facce conosciute di vista, quel genere di persone che solo
Bellatrix avrebbe potuto trovare piacevoli. Una ciocca morbida era scivolata
fuori dalla prigione della sua cappa, srotolandosi lungo la schiena, mentre si
dirigeva verso l’uscita. Sirius le era sfuggito nascondendosi dietro alla mole
di un bestione peloso che gli stava vicino. L’aveva seguita senza un vero
perché, dopo. Era sgusciato oltre la porta, nell’aria gelida di dicembre, aveva
cancellato con cura le sue orme sul sentiero. Lei aveva passeggiato per qualche
metro, nera come i carboni spenti. Poi, improvvisamente, si era voltata, e
l’aveva colto con gli occhi sbarrati dalla sorpresa. Ed era sparita, lasciando
dietro di sé il candore abbacinante della neve.
“Non me
lo ricordo”.
“Allora è
passato tantissimo tempo. Siete così infantili da darmi la nausea, non avete
nessun motivo per detestarvi con tanto accanimento”.
Andromeda
lo raggiunse, riportandolo al presente con un pizzicotto sul braccio.
Sirius
studiò quegli occhi buoni, chiedendosi se il coraggio di disilluderli non fosse
altro che pura cattiveria.
“Io
ho tutti i buoni motivi di questo mondo. Ti ricordo che durante le ultime
vacanze natalizie passate insieme ha tentato di cavarmi gli occhi. Con impegno”.
“Stai
esagerando”.
“Va bene,
allora diciamo – ribadendo l’ovvio, concedimelo - che io e Bella abbiamo punti
di vista diametralmente opposti. Differenti modi di vedere le cose, se ti piace
di più. Così è abbastanza diplomatico, mi pare”.
“E’
diplomatico ma non ha nessun senso. Io e Bella la pensiamo diversamente quasi su
tutto, ma ci vogliamo bene. Sa essere molto dolce, se vuole”.
“Potrei
vomitare”.
Andromeda
gli affibbiò uno spintone energico e Sirius fu costretto a trotterellare di
qualche passo in avanti. Quando giunsero in prossimità della fontana, sua cugina
lo prese per mano, guidandolo lungo il bordo di marmo rosato.
“Dove
sono andati a ficcarsi?” chiese al vento, cercando i pesci.
Sirius
superò con gli occhi la statua discinta che si ergeva nel centro, e li trovò:
pancia all’aria nell’acqua limpida. Si inchiodarono a guardarli per qualche
istante, poi Dromeda tentò di rianimarli pungendoli sul ventre con la bacchetta,
senza nessun risultato. I pesci andarono a sbattere uno contro l’altro, gonfi
come palloncini, e presero a vagare nella fontana.
“Sai che
hai ragione? Bella sa proprio essere molto dolce, a volte”.
Lei non
ebbe la forza di discolparla.
“Sta
male” mormorò, sedendosi sul marmo.
Sirius la
imitò.
“Io lo
dico da sempre”.
Dromeda
gli lanciò uno sguardo estremamente serio.
“E’
tornata ieri da non so dove, ma prima di venire qui è stata da mamma e papà”
disse “Le hanno combinato il matrimonio”.
Quelle
parole gli scatenarono uno smottamento interno piuttosto strano.
“E chi è
il fortunato?”.
“Rodolphus Lestrange”.
“Ottima
scelta. Qualcuno gli ha già detto che Bella lo farà fuori dopo
l’accoppiamento?”.
Andromeda
gli rivolse un sorriso malinconico che non seppe interpretare, di nuovo.
“Mi offro
come volontario”.
“Sirius”.
“E dai,
Dromeda”.
Lei
scosse la testa, prima di posargliela sulla spalla con un sospiro d’abbandono.
“Tra
quanto pensi che succederà?” domandò, sovrappensiero.
“Che?”scrutò quel poco che del suo viso riusciva a vedere.
“Tra
quanto mamma deciderà che anche io devo portare avanti la dinastia, costi quel
che costi, e sfornare almeno un paio di figli sangue puro” la risposta fu un
sussurro; le dita sul dorso della sua mano tracciarono un disegno chimerico “Io
non sono come Bella. Lei è pronta a tutto pur di fare la cosa giusta, si
sacrificherà senza emettere un fiato”.
“Tua
sorella non farà la cosa giusta”.
“Secondo
lei, lo è. Secondo tutti, lo è” un attimo d’esitazione “Ma dovevi sentirla,
stanotte. Piangeva e urlava come una bambina. Io so che vorrebbe essere felice,
e che si odia, per questo”.
“Questo?”.
Lei
sollevò lo sguardo sulle finestre di Englefield e, quando rispose, la sua voce
non aveva niente della consueta delicatezza.
“Per la
sua debolezza, Sirius. Ci hanno insegnato che i Black non possono essere deboli.
I Black hanno il sangue puro, e il sangue puro è forte. Indistruttibile”.
*
Aveva
incantato il soffitto e giaceva distesa sul letto troppo grande, a guardare i
putti guerreggiare furiosamente tra loro, pestandosi le forme pingui a vicenda.
Ogni tanto, qualcuno riusciva a spiccare il volo con le sue ridicole ali.
Vittima del torpore, si sollevò lentamente a sedere. Era esausta. Discese dal
letto, senza sapere esattamente cosa fare né perché, e vagò per gli angoli della
stanza, resi indefiniti dall’oscurità azzurrina che era scesa insieme al
crepuscolo. Fuori, i giardini gemevano di richiami notturni e l’aria era
fragrante, densa. Dentro, la luce si spegneva poco a poco e tutto languiva.
Improvvisamente, incontrò il suo riflesso nello specchio. Sempre più spesso, le
capitava di riconoscersi a fatica, come se la cognizione di se stessa avesse
cominciato a sfuggirle. Accadeva anche di notte, quando si svegliava di
soprassalto e non capiva a chi appartenessero quelle braccia che vedeva
abbandonate sulle lenzuola, o dove finissero le gambe che parevano allungarsi
all’infinito sotto le coperte. Succedeva senza preavviso. La mente era lì,
lucida, senza alcuna identità, e il corpo apparteneva a qualcun altro. Allungò
la mano sinistra e la posò sulla superficie gelida e spettrale, ripercorrendo i
tratti che vedeva imprigionati nel suo interno, irraggiungibili. Non ricordava
più quando il viso aveva cominciato a scavarsi, quando aveva smesso di essere
morbido e aveva iniziato a cedere dietro la spinta degli zigomi, che si erano
trasformati in spigoli, e nemmeno come avessero fatto i suoi occhi a diventare
così grandi. Nel sollevare il braccio la manica dell’abito era scivolata
indietro, fino ad accomodarsi nell’incavo del gomito, lasciando scoperta la
carne pallida. Lo sguardo si incagliò sulla pelle incorrotta, liscia, che
foderava l’interno dell’avambraccio.
Il rumore
attutito di una risata la fece sobbalzare. Istintivamente, coprì il braccio e lo
premette forte contro il petto, mentre rivolgeva il capo nella direzione dalla
quale il rumore era arrivato. Vide ombre intermittenti tranciare la fessura di
luce dorata che si stendeva sul pavimento, ai piedi della porta, e di nuovo
quella risata, seguita da alcune frasi concitate, si insinuò oltre l’uscio.
Forse attratta da quell’inaspettata esplosione di vita, si materializzò nel
corridoio esterno. In fondo, sul ciglio delle scale, Sirius si allontanava con
Andromeda abbarbicata in spalla. Continuavano a sghignazzare, probabilmente
senza nessun motivo valido per farlo. Dopo pochi istanti, quando entrambi erano
già scomparsi oltre la rampa, sentì sua sorella strillare, poi distinse i tonfi
di corpi che cadono. Si materializzò due metri più avanti e si sporse appena,
spinta da un’insanabile curiosità. Sirius e Dromeda se ne stavano aggrovigliati
sugli ultimi scalini, piegati dal ridere, troppo occupati a darsi la colpa
vicendevolmente per accorgersi di lei. Erano sempre stati così, tutti e due. Non
erano cresciuti mai. Non erano cambiati mai. Si ritrasse, mentre loro si
risollevavano a fatica, sbilanciandosi l’un l’altro, e lanciò uno sguardo dietro
di sé. La porta della sua camera prometteva un’altra notte senza fine, ma, per
quanto fosse pronta a combatterla, l’idea di sprofondare immediatamente in
quell’oblio le parve insopportabile. Pensò alla cena, pensò che non avrebbe
toccato cibo. Discese il primo scalino. Pensò che avrebbe avuto minor tempo a
disposizione per attendere il mattino dopo.
*
NdA: E’ la prima,
prima in assoluto, fan fiction che scrivo su Harry Potter. Lo dico
giusto per proteggermi da eventuali lapidazioni: abbiate pietà di me e della mia
inesperienza, insomma. Spero di non lanciarmi in strafalcioni eccessivi, nel
caso accadesse, gradirei che qualche anima pia mi fermasse prima del baratro, e,
se possibile, che lo facesse in modo carino. Se non carino, almeno educato.
Tengo a specificare che sono davvero poco pratica di OOC e crismi vari, quindi,
anche in questo… abbiate tanta pietà. Essendo la mia prima esperienza nel fandom,
mi farebbe piacere ricevere dritte, avvertimenti, suggerimenti e quant’altro,
quindi, se ne avete il tempo e la voglia, fatevi avanti perché ho un disperato
bisogno di istruzioni. *Faccio almeno un po’ pena?*
Tengo a comunicare
che questa storia è stata concepita per partecipare ad un contest dal quale poi
mi sono ritirata per difficoltà varie (a parte l’impossibilità di consegnare
entro la data stabilita, la storia si è allungata troppo per riuscire a
rispettare i parametri imposti dal bando). Il contest in questione è “Enjoy the
pain, pureblood”, pubblicato sul forum di EFP, sezione Harry Potter (http://freeforumzone.leonardo.it/discussione.aspx?idd=9596322).
Direi che non c’è nient’altro da aggiungere. Spero avrete voglia di farmi sapere
cosa ne pensate di questo prologo, insomma se è il caso di andare avanti o di
darmi alla cucina tailandese.
Nel frattempo,
tanto per essere ottimista, mettiamoci un “alla prossima” e non pensiamoci più.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 2 *** The Other Side ***
Capitolo 2
The Other Side
La polvere. La pelle. La luce che scende lenta fra i capelli. Le sue mani.
Gli occhi di Sirius si spalancarono improvvisamente, contro la sua volontà, come
volessero impedire lo scorrere del sogno. Riprendendo conoscenza, non ebbe di
che lamentarsi: non ricordava nulla di ciò che stava sognando, ma aveva la netta
sensazione che fosse meglio così. Il vago sentore di ansia latente e la
spossatezza mentale più intensa del solito parlavano chiaro. Era abituato ai
suoi incubi, spesso e volentieri confusi, mai rievocabili in immagini distinte,
mai riconducibili a qualcosa in particolare, sempre senza fine e senza
principio. C’erano e basta, li faceva da un’eternità. Ciò non significava che
gli piacessero. Li detestava, insieme ai camini spenti, ai cravattini, al
porridge, a Bellatrix – detestare Bella quanto una scodella di porridge era
coerente, come presa di posizione? – e a un’enormità di altra roba che comunque,
in un modo o nell’altro, si ritrovava a dover gestire. In realtà, poteva
ritenersi fortunato, pensò, arrancando con poca convinzione verso il bordo del
letto. I camini si potevano accendere, i cravattini sciogliere, le pappette
sgradite farle sparire con almeno una dozzina di trovate fantasiose che aveva
sperimentato personalmente. E, da parte, aveva qualche altra centinaia di idee
altrettanto geniali per sbarazzarsi dei consanguinei psicotici. Mentre
barcollava alla ricerca della porta, in quel delirio post Incantesimo Esplosivo
che era la camera di Andromeda, pensò anche che gli piaceva, iniziare le
giornate così, tra angosce e piani maligni.
Primo giorno a Englefield. Forse avrebbe dovuto cominciare a scrivere un diario,
qualcosa tipo ‘racconti dal fronte’, o ‘tre mesi in trincea’. Impiegò quindici
minuti buoni a scendere le infinite rampe di scale per raggiungere i piani
inferiori. Rotolò giù dagli scalini dell’ultima quando era finalmente arrivato a
detestare anche se stesso, e si aggirò confuso da un androne all’altro, cercando
la meta agognata. In preda al panico, stava chiedendosi se, dietro qualche
angolo, non fossero nascosti altri scalini marmorei da affrontare, quando un
elfo domestico gli si Materializzò sui piedi con un crac assordante.
“Oh! signorino! Smoky chiede scusa, signorino, chiede scusa! Stupido Smoky
incapace babbeo inetto, non ha preso bene le misure, signorino. Smoky è nuovo,
signorino, nuovo vecchio idiota lento Smoky”.
Di tutti i risvegli traumatici che Sirius aveva avuto, quello era sicuramente
uno dei peggiori. L’Elfo Domestico dall’enorme testone grigio continuava a
gracchiare e piegarsi su se stesso, profondendosi in scuse incomprensibili, il
corpicino bitorzoluto strizzato dentro a un guanto da cucina scucito.
“Ti prego, smettila”.
Aveva sussurrato, ma Smoky lo sentì ugualmente e si zittì, puntando su di lui un
paio di iridi violacee piuttosto inquietanti. Odorava di cibo, però.
“Stavo cercando la cucina e mi sono perso”.
Smoky tirò su e giù il suo cranio gigante un paio di volte, e solo allora Sirius
si accorse che teneva tra le manine rugose un cucchiaio sporco di qualcosa che
somigliava proprio a…
“Crema al cioccolato, signorino. Smoky mescolava la crema al cioccolato e siete
stato Sentito. Smoky è stato mandato a guidarvi, ma Smoky è nuovo e tanto tonto
inutile sbadato. Smoky non ha preso bene le misure, stupido sciocco gonzo
Smoky”.
Stava per darsi il cucchiaio in testa, ma Sirius intercettò il movimento in
tempo per impedirglielo.
“Fermo dove sei, niente autoflagellazioni di prima mattina. E il cucchiaio lo
tengo io. Portami in cucina, questa dannata catacomba è un labirinto”.
“Smoky obbedisce, signorino, Smoky obbedisce immediatamente subito ora”.
“Smoky mi scende anche di dosso, per cortesia?”.
Cucchiaio in bocca, seguì Smoky in un dedalo di corridoi che aveva completamente
rimosso dalla memoria. Quando finalmente arrivarono in cucina, nel regno degli
Elfi Domestici scoppiò il finimondo. Tra inchini, scuse e strepiti, caddero a
terra un paio di pentoloni, un Elfo prese fuoco, e Sirius fu circondato da
un’orda di esserini adoranti che imploravano il suo perdono.
“Ok. Per favore, non facciamoci prendere dal panico. Tornate tutti al lavoro,
con calma”.
Detestava dare ordini, ma aveva imparato a sue spese che gli Elfi non prendevano
in considerazione nessun altro modo di comunicare. Da bambino aveva tentato di
intraprendere qualche conversazione amichevole con Kreacher, idea che si era
rivelata pessima: quando sua madre l’aveva scoperto lo aveva messo in castigo
per una settimana e aveva costretto Kreacher al digiuno.
Si trascinò fino al centro della stanza, cercando di non calpestare nessuno
durante il tragitto, e andò ad appollaiarsi sulla lunga penisola in muratura
cementata nel centro. Guardandosi intorno, realizzò che la cucina era immensa,
come qualunque altra cosa in quel mausoleo. Standosene lì, a succhiare il suo
cucchiaio al cioccolato, si sentì improvvisamente piccolissimo, un bambinetto.
Gli occhi scivolarono sulle mattonelle di cotto, percorrendo i confini che lo
circondavano. C’era una grande finestra rettangolare, alla sua sinistra,
affacciata sui giardini Nord. La luce divina del sole, là fuori, incendiava
fiori e prati fino all’orizzonte. La mente schizzò avanti, rincorrendo un
ricordo. Poco prima che i pensieri ne potessero disegnare i contorni, però, una
fitta gli spaccò a metà il cervello.
“Per Merlino” sfiatò, trovandosi a guardare i profili ossei delle sue ginocchia
a un dito di distanza.
Il cucchiaio si schiantò sul pavimento e, per qualche istante, Sirius lo guardò
luccicare, certo di vomitare da un momento all’altro. Invece la nausea passò
veloce come era arrivata, lasciandolo di nuovo in preda ai morsi della fame.
Non si chiese cosa fosse successo. Forse perché non voleva ricordare davvero.
“Allora, cosa bisogna fare, qui, per meritarsi una colazione?”.
Forse perché aveva già dimenticato.
“Rowle mi ha mandato un gufo, due giorni fa”.
“Thorfinn Rowle?”.
Narcissa sollevò la testa, interrompendo la contemplazione delle proprie gambe
candide, e i suoi capelli fecero da specchio al sole, costringendo Sirius a
distogliere lo sguardo.
Smoky lo aveva guidato fino alle porte dei giardini Est, rifiutandosi però di
oltrepassare il perimetro murato della casa e farsi vedere dalle padroncine.
Terrorizzato, aveva farfugliato qualcosa riguardo alla ‘signorina Narcissa’ e
alla ‘signorina Bella’, prima di Smaterializzarsi. Così, era stato costretto ad
aggirarsi come un’anima in pena nel parco, fino a che aveva sentito il cicalare
di Andromeda e Cissy oltre una macchia di betulle. Ridacchiavano come due
ragazzine, sedute lungo il bordo della piscina.
“Quanti Rowle conosci?”.
“Beh, Thorfinn ha un fratello niente male”.
“Ma non avrà nemmeno quattordici anni!”.
“E quindi?”.
“Quindi sei un’assatanata. A saperlo mi sarei portato dietro Peter”.
Dromeda gli sorrise, guardandolo sbucare dal boschetto, Narcissa storse un po’
la bocca in quello che voleva essere un saluto cordiale.
“Non sono così assatanata”.
“Altrimenti c’è sempre il buon Regulus a portata di mano”.
Suo fratello si aggirava indeciso sul bordo opposto, un paio di mutandoni
impermeabili e verdastri addosso. Quando si accorse che tutti e tre lo
fissavano, rispose con uno sguardo torvo.
“Lascialo in pace”.
Fu Narcissa a parlare. Sirius scrollò le spalle.
“Comunque Thorfinn non è male” disse Dromeda, mentre lui si arrotolava i
pantaloni del pigiama attorno alle ginocchia, prima di mettersi a mollo accanto
a lei.
“Ma è così…”.
“… vichingo?” si intromise Sirius.
Dromeda gli rivolse un’occhiata maliziosa.
“E dove sarebbe il problema?”.
“Ti prego, l’ho visto concentrarsi per contarsi le dita dei piedi. E non ha idea
di cosa sia la lingua parlata. Si esprime a grugniti, perlopiù”.
“In effetti non ho capito molto di quel che mi ha scritto” fece Narcissa,
titubante, studiando l’acqua.
“E va bene, se siete così decisi a depennare Rowle… Però, Cissy, sei troppo
esigente, quasi tutti gli amici di Bella ti hanno chiesto di uscire, in un modo
o nell’altro. Chi manca all’appello?”.
“Rosier, Mulciber, Tiger…”.
“E Malfoy”.
Sirius intercettò lo sguardo scocciato che Cissy indirizzò a Dromeda.
“Tutte personcine per bene, insomma”.
Il suo commento passò nell’indifferenza generale, con suo sommo disappunto.
“Beh, escludiamo Rosier e Mulciber, non mi convincono per niente e poi sono
affetti da egolatria fulminante. Tiger, ti scongiuro, no. Ti
interesserebbe Tiger?”.
Le labbra di Narcissa si arricciarono come se avesse appena ingoiato pus di
bubotubero.
“Rimane Malfoy”.
“Disgustoso”.
“Taci, tu. Non sono affari che ti riguardano”.
“Non lo so, non ci ho mai pensato”.
Invece doveva averci pensato, e parecchio, visto il modo in cui aveva abbassato
gli occhi appena Andromeda l’aveva nominato. Sirius, sempre più nauseato, prese
a spogliarsi.
“Io non capisco che problemi avete, voi femmine Black. Tra tutti i Maghi in
circolazione sicuro come l’oro che andrete a impantanarvi con i peggiori”.
“Rettifico, zio Orion avrebbe dovuto pensare seriamente a Cassandra”.
“Cosa stai facendo?”.
Narcissa era chiaramente inorridita dal fatto che stesse sfilandosi le mutande.
“Un paio di giri di corsa intorno alla vasca e poi qualche miglia a cavallo”.
“E forza, Cassie, metti a bagno quelle chiappe secche”.
Dromeda lo spinse giù con una manata energica e Sirius precipitò di schiena
nella piscina.
Nuotò sott’acqua per un lungo minuto, poi si lasciò riportare pigramente a
galla e rimase a contemplare il cielo, pancia all’aria come i pesci che Bella
aveva assassinato. Da quella prospettiva le cime degli alberi parevano
protendersi all’infinito, davano le vertigini a guardarle.
Uno sciabordio discreto lo distrasse.
Regulus nuotava nei suoi dintorni, lanciandogli di tanto in tanto degli sguardi
indecifrabili. A volte Sirius non riusciva davvero a capire cosa passasse per la
testa di suo fratello, e ancor più raramente credeva si trattasse di faccende
interessanti. Era per via di quel distorto equilibrio tra incomprensione e
indifferenza, che lui e Reg o battibeccavano fino allo sfinimento – altrui,
solitamente – o tacevano per ore ed ore, ed ore.
“Sbaglio, o c’è un verme nudo che galleggia nella mia vasca?”.
Non si premurò nemmeno di alzare la testa per dare il benvenuto alla nuova
arrivata.
Mio,
mio, mio, per Bella tutto quel su cui posava gli occhi le
apparteneva di diritto.
La ignorò deliberatamente, continuando a galleggiare beato sull’acqua.
“Che ci fai con il mantello da viaggio?”.
Sirius riconobbe lo stesso tono che Andromeda usava con lui quando non era
d’accordo su quello che stava per fare: di una tranquillità quasi naturale che
avrebbe ingannato qualsiasi orecchio estraneo.
“Starò via tutto il giorno. Ho lasciato le istruzioni ai Domestici: stasera ci
saranno i miei amici. Non voglio piantagrane tra i piedi” rispose, secca, Bella
“Ci siamo capiti, verme?”.
Sirius portò le braccia dietro la nuca, pacifico.
“Scusami? Non ti stavo ascoltando”.
“Fai vedere la tua faccia e ti Affatturo”.
Le lanciò un gran sorriso insieme a un bacio volante, prima di vederla ruotare
su se stessa e scomparire, lasciandosi dietro l’eco della minaccia.
“Chi verrà?” domandò subito Regulus, aggrappandosi al bordo vasca.
“Crouch” rispose Narcissa, con indolenza “Forse Dolohov, ma spero di no, è così
volgare. Certamente Avery, Mulciber e Evan. Wilkes segue Evan dappertutto,
quindi ci sarà anche lui. Travers è quasi sempre presente, come Rowle. E ieri
Bella mi ha detto che Lucius porterà Rabastan e Rodolphus”.
Sirius levò gli occhi su Andromeda, disperato.
“Ti prego dimmi che in questo deserto c’è qualche pub Babbano dove possiamo
andare a sfondarci di birra”.
Sua cugina rispose con un sorriso furbo.
“Pensavo a qualcosa di più divertente”.
“Sai come le chiamano, i Babbani, le tipe vestite così?”.
Sirius chiuse la porta della camera di Andromeda alle sue spalle e vi si
appoggiò.
Sua cugina si stava studiando nello specchio. La guardò muovere le gambe,
lasciate scoperte da un paio di hot-pants a fiori rossi e blu, poi controllare
il profilo, tirando in dentro la pancia nuda, che spuntava da sotto il top
striminzito in cui si era intrappolata.
“Chi ti insegna queste cose?” gli domandò lei, puntando la bacchetta tra i
capelli per intrecciare qualche ciocca qua e là.
“Harvie Phillips.
Tipo in gamba, è del mio stesso anno. Una volta ha fatto esplodere le mutande ad
Avery”.
“Ah, quindi è proprio un problema generazionale” fu la risposta, poi sua cugina
salì su un paio di zoccoli dall’aria scomoda e piuttosto pericolosa, e gli si
avvicinò allacciandosi un nastrino attorno al capo.
“A che servono questi cosi se non riesco nemmeno ad essere più alta di te?”.
“A farti cadere rovinosamente davanti alla folla di gorilla che rimorchierai
stasera?”.
“Ma piantala” berciò lei, cercando qualcosa in un mucchio di abiti
appallottolati ai piedi dell’armadio.
“No, sul serio” disse Sirius, seguendola nel centro della stanza “Oltre ad
essere un cervello sopraffino sono anche un duellante eccellente, ma davanti a
un’orda di ragazzoni con la bava alla bocca non saprei come reagire”.
“Rilassati, cervello sopraffino” sbuffò Dromeda, piantando le mani sui fianchi e
guardandosi intorno, confusa.
“Scusa, per curiosità, dov’è che pensi di mettere la bacchetta?”.
“Tu pensa a dove metterti la tua” replicò, sbrigativa, lei “Accio borsetta!”.
Sirius schivò per un soffio la mezza dozzina di borse che sfrecciarono verso di
loro da ogni angolo della camera.
“Ok, siamo pronti!” esclamò Dromeda, infilandosi a tracolla uno straccetto di
corda che pareva sottratto agli Elfi Domestici “Prendimi il braccio”.
Obbedì, docile.
“Dov’è che andiamo?”.
Prima di ricevere risposta, venne risucchiato nel tunnel vorticante e vomitato
su qualcosa di duro.
Quando riuscì a rimettere a fuoco la vista, lo stomaco in subbuglio e
l’espressione sconvolta, si ritrovò sul fianco di un colle erboso. Sua cugina lo
guardava dall’alto in basso, un sorriso mefistofelico a incurvarle le labbra.
Ecco, forse così somigliava un poco, ma proprio poco, a Bella.
“Ottery St. Catchpole” rispose, affrontando il declivio con la massima
disinvoltura.
Sirius si rimise in piedi e le andò dietro. Tutt’intorno a loro i profili bruni
delle colline si stagliavano contro il cielo notturno, limpido. La luna era
grande, segata a metà, e illuminava ogni cosa di un tenue bagliore perlaceo. Più
giù, le luci del villaggio parevano sparse a caso, una manciata di chicchi
dorati fatti rotolare giù dal pendio. C’era anche un fiume, poco lontano, che si
dipanava quieto come un filo d’argento, fino a disperdersi nell’orizzonte.
Ai piedi del colle si allargava una macchia di alberi, e fu proprio in quella
direzione che si diresse Andromeda, sicura. Avvicinandosi, Sirius riuscì a
cogliere dei baluginii tra le fronde.
“E’ una specie di festa d’inizio estate” fece sua cugina, affiancandolo “Almeno,
così ha detto Ted”.
“Chi è Ted?”.
Dromeda scrollò le spalle.
“Tonks. Un tipo simpatico, era qualche anno più avanti di me a Hogwarts”.
“E come lo hai conosciuto?”.
“Cassie, ti prego, sembri mia madre” lo canzonò lei “In un pub Babbano, a
Tinworth. Lui era lì con il suo gruppo, io con il mio, e alla fine ci siamo
fusi”.
“Un pub Babbano, eh? Bella sarebbe fiera di te”.
Dromeda non poté rispondere con niente di più di un’occhiata eloquente, perché
appena superarono i primi due alberi la musica esplose intorno a loro,
stordendoli.
Il boschetto era invaso da lanterne coloratissime che svolazzavano a mezz’aria,
creando pozze di chiarore intermittente che spariva veloce, lasciando dietro di
sé una semioscurità. Tra buio e luce si muovevano sagome indistinte, gente
continuava ad arrivare loro addosso e a scusarsi tra risate e sorrisi confusi.
Dromeda lo prese per mano, temendo probabilmente di perderlo, e pian piano si
spostarono verso una zona dove gli alberi erano più radi e alti. Di tanto in
tanto sua cugina si fermava a salutare qualcuno. L’ultima persona in cui
incapparono fu un ragazzo smilzo evidentemente alticcio che pretese di regalarle
un bracciale incantato: a lui Dromeda chiese dov’era Ted e quello rispose con un
cenno vago, indicando un angolo della radura dal quale si alzavano densi fumi
violetti e rossastri. Quando giunsero in prossimità della meta, un tipo alto,
con una lunga e foltissima chioma di capelli biondi, alzò una mano in segno di
saluto e sorrise. Avevano trovato Ted Tonks.
Superata la diffidenza iniziale, Sirius tirò le somme: Tonks era un bel tipo.
Robusto, parlava a voce alta e quando sorrideva gli si illuminava tutta la
faccia. Portava una barbetta biondiccia che gli dava un’aria trasandata e
indossava una camicia ampia dal disegno impossibile - che Sirius non avrebbe
indossato nemmeno sotto Incantesimo - ma, tutto sommato, era ok. L’unico suo
problema stava nella cotta palese che aveva per Andromeda. La guardava in
continuazione ricordandosi saltuariamente del rischio di passare per un idiota e
di dover distogliere lo sguardo. Le ronzava intorno e in un modo o nell’altro
riusciva sempre a tornare nei loro paraggi, anche se non aveva nessun motivo per
esserci. Due o tre volte, durante le conversazioni con lei, si era impappinato
ed era ripartito a caso con delle osservazioni totalmente inopportune. Dromeda,
in compenso, sembrava non accorgersi di nulla e continuava a chiacchierarci con
piacere. Osservandola, Sirius ebbe modo di riflettere: non l’aveva mai vista
così a suo agio in famiglia. Se anche lei l’avesse visto in compagnia di James,
Remus e Peter avrebbe certamente pensato la stessa cosa. Proprio mentre era
immerso nelle sue elucubrazioni, inopportune tanto quanto le frasi demenziali di
Tonks, nei loro paraggi cominciarono a spuntare come funghi lunghissime pipe
fosforescenti, che passarono di mano in mano con una rapidità impressionante. Se
ne trovò tra le dita una ancora prima di capire cosa dovesse farci.
“Ecco” Tonks si infilò un bocchino verdissimo tra le labbra e tirò fuori dalla
tasca una bustina.
Lui e Dromeda lo guardarono aprirla e pigiarne il contenuto nel fornello.
“Ma è ganja!” esclamò Sirius, dopo essersi avvicinato abbastanza.
“E tu che ne sai?” fece sua cugina, sorpresa.
“Diciamo che Harvie Phillips non si occupa solo di far esplodere le mutande
altrui. Qualche volta porta della roba Babbana, quando torna dalle vacanze di
Natale. La frega a suo padre. E James la frega a lui”.
“Bel soggetto, questo James… e poi tormenti Bella per le sue compagnie”.
“Non fare paragoni blasfemi”.
“La roba che usiamo noi, comunque, non è pura. Ce la tratta un pozionista a
Nocturne Alley. È strepitosa” spiegò Ted, mentre il fornello si accendeva
autonomamente.
Sirius lo guardò ardere per un istante e poi sbiadire raffreddandosi. Un denso
fumo viola si sollevò e li avvolse. Lo sentì scendergli attraverso le narici,
quasi fosse materia solida, colare in gola stuzzicando appena le papille
gustative. Aveva sapore, non meramente odore. Era qualcosa che gli
fece venire voglia di masticare.
Tonks sorrise di piacere e chiuse gli occhi. Quando li riaprì, nelle iridi gli
si vedeva qualche bagliore violetto.
“Fantastico. Qui dentro c’è sicuramente qualcosa che ha a che fare con
l’Amortentia, ma non ho ancora capito in che quantità. Il bello è che di tutto
il pacchetto lascia lo stravolgimento e basta”.
“Te ne intendi, di Amortentia?”.
L’occhiata che Dromeda lanciò a Tonks lasciò Sirius interdetto. Ted invece rise
tranquillamente, lasciandolo a interrogarsi su come Merlino avesse fatto a non
capire quello sguardo.
“Che tu ci creda o no, c’è stata una ragazza capace di somministrare al
sottoscritto un filtro d’amore. Incredibile, no?”.
Un trentatré giri virò sopra le loro teste, facendoli piegare.
“Scusate, Paul è in trip con i vinili Babbani. Se solo non li Incantasse potrei
anche giustificarlo”.
“Figurati” disse Dromeda, sorridendogli “Comunque non è incredibile”.
Tonks si immobilizzò nello sforzo evidente di rintracciare il filo logico della
conversazione, mentre Sirius tentava di mimetizzarsi con il prato. Sarebbe stato
anche facile, se magari qualcuno avesse soffiato un po’ di fumo da quella parte…
“Cosa?”.
“Che qualcuno voglia rifilarti un filtro d’amore. Voglio dire…”.
Finalmente Ted comprese e per poco la pipa non gli cadde per terra; Sirius cercò
un pretesto qualsiasi per sfuggire a quella parentesi di flirt selvaggio, nella
quale sua cugina sembrava peraltro sguazzare benissimo; a sottrarre entrambi dal
limbo fu poi la stessa Andromeda, con un colpo da maestro.
“Mi piace questa canzone” commentò “Balliamo?”.
Tonks la guardò per un momento lunghissimo.
“Ok”.
Dromeda gli prese la pipa e la rifilò a Sirius, per poi afferrargli una mano e
trascinarlo in mezzo alla radura, tra le altre coppie che danzavano sulla
melensa hit. Lui rimase a guardarli per un po’, mentre ballavano vicinissimi e
parlavano fitto di chissà cosa. Riusciva a vedere Tonks inciampare nelle frasi
anche da lì e gli fece quasi tenerezza. Quando però la distanza tra i due si
ridusse ulteriormente, fu costretto a concentrare la sua attenzione altrove.
Vagò tra la folla di sconosciuti, un po’ malinconico, fino a che trovò un albero
libero e vi si abbandonò contro, sedendosi a terra. La pipa verde era ancora
accesa: gli sembrò una buona idea approfittarne.
Alla prima boccata il fumo gli scese dentro, invadendogli questa volta la bocca.
Aveva un sapore tutto particolare, molto più ben definito e tuttavia
irriconoscibile. Sirius non ricordava di averlo mai gustato altrove. Scendeva,
scendeva, fino a esplodergli nei polmoni in una nuvola di polvere leggera che lo
fece tossire. Era fantastico sul serio.
Dopo la quarta boccata cominciò a vedere sfocato.
Alla settima il mondo era un rincorrersi di lampi violacei.
Alla decima, solo buio.
“Ti piace questa canzone?”.
Sirius si immobilizzò. Il trenino Incantato che teneva tra le manine continuava
a fischiare sommessamente, ma lui non se ne curava.
“Ti piace questa canzone?” ripeté, di nuovo, la voce.
Era dolce, dolce. Sirius sorrise quando una folta massa di capelli morbidi gli
finì sul viso, oscurando gli orizzonti enormi della stanza.
“Vuoi ballare con me, eh, piccolo? Vuoi ballare?”.
I capelli si allontanarono, definendosi in scurissimi boccoli bruni, e un paio
di occhi lo studiarono. Erano dolci anche quelli, tutto era dolce e grigio come
i temporali.
Bellatrix sorrideva nella luce bianchissima che precipitava dalle vetrate,
allungando le braccia verso di lui.
“Vieni, vieni”.
Sirius le andò incontro, cadendole addosso all’ultimo. Lei lo strinse un po’ a
sé.
“Sai di buonissimo”.
“Anche tu sai di buonissimo, piccolo” mormorò, sistemandogli il colletto della
camicia “E adesso balliamo!”.
Si alzò in piedi e gli parve grande, grandissima. Gli prese le mani tra le sue,
calde e rassicuranti, e ballarono, ballarono insieme. E a Sirius venne da
ridere.
Rise, rise, rise. Bella lo prese tra le braccia e lo coccolò un poco.
“Sai di buonissimo” gli disse, mentre lo teneva seduto sulle sue gambe, e tutti e
due se ne stavano a terra, e tutto il resto lo era davvero, grandissimo “Sai di
buonissimo, piccolo”.
NdA: ritardissimo, vergogna, capitolo demenziale e non corretto. Mi sto
divertendo molto a scrivere questa ff, devo dire la verità. Giusto per chiarire
le mie intenzioni ai poveri lettori che passano di qui, l’esperimento dovrebbe
essere una sorta di “origini del male”, cioè tipo perché Bellatrix desidera così
ardentemente ammazzare Sirius e ci riesce pure, come Andromeda Black è diventata
Andromeda Tonks, con quale strategia quella furbastra di Narcissa ha
accalappiato il buon vecchio Lucius e, in questo circo a tre piste, quali
saranno le sorti del povero Regulus (che a ben vedere è l’unica vera vittima di
tutto il teatrino). L’insieme condito da psicosi, ossessioni, incantesimi su
consanguinei e via dicendo. E trovate kitsch tipo le pipe fosforescenti – lo so,
lo so, abbiate pietà, esco da una sessione d’esami terribile -. Spero
troverete il tempo per dirmi la vostra (:
Alla prossima!
P.S. ah, e la hit melensa, che si prospetta come
Canzone-di-Ted-e-Andromeda-Tonks, è
My Love di Paul McCartney &
The Wings :3
|
Ritorna all'indice
Capitolo 3 *** A Midnight Full Of Stars ***
Capitolo
3
A
Midnight Full Of Stars
La sala
da pranzo del secondo piano era più raccolta, rispetto a quella del primo. Il
soffitto più basso, gli affreschi dai colori più tenui, le dimensioni ridotte,
la rendevano maggiormente idonea alle misure umane. Tuttavia, Sirius continuava
a trovarla spaventosamente dispersiva. Il tavolo, nove piedi di palissandro
lucidato a dovere, era adatto a tutto tranne che a consumare dei pasti in
compagnia. Ripensando ai tavolacci lunghissimi della Sala Grande, traboccanti
studenti in subbuglio ormonale, gli venne in mente che, con una trentina di
invitati, avrebbero potuto rimediare alla desolazione delle cene. Sarebbero
bastati anche solo James, Remus e Peter: insieme avrebbero trovato il modo per
sfruttare al meglio quella bella superficie liscia.
La
malinconia e il giungere del primo piatto lo riportarono bruscamente alla
realtà. Dato di fatto innegabile, la porzione di quiche lorraine che si era
appena materializzata nel suo piatto aveva un’aria appetitosa, ma era certo che,
con un silenzio simile, gli sarebbe stato impossibile digerire. Tornare alla
normalità familiare, dopo la vitalità disordinata e frenetica di Hogwarts, era
ogni anno più pesante. Avrebbe detto inaffrontabile: eppure eccolo seduto a
capotavola, a un’assurda distanza dalle persone con cui avrebbe dovuto dividere
il cibo. Tra le tante cose che non comprendeva, nel mare di convenzioni imposte
che l’avevano sommerso negli anni, c’era la solitudine alla quale ognuno di loro
era costretto. Posti a sedere troppo lontani uno dall’altro, stanze troppo
lunghe o larghe, troppa ipocrita quiete. Niente da dire, niente da confessare,
niente di cui parlare. Il sangue, solo quello, accomunava i membri eletti della
nobile, antichissima casata Black: generazioni e generazioni di boriosi
involucri, una scuderia di purosangue da riproduzione. E solo lui pareva non
coglierne il senso.
“Perché
non ci stringiamo?”.
Levò gli
occhi su Andromeda e fu forzato a sorridere, contro la volontà dei suoi cupi
pensieri.
Il piatto
lo precedette, schizzando lungo il tavolo fino a cascare giù dal bordo smussato.
Sua cugina fu lesta e lo recuperò al volo, poco prima che si schiantasse per
terra insieme a quel che vi stava dentro.
“Mamma
l’ha ripetuto non so quante volte, a zio Orion, che il nome giusto era Attila”.
Sirius le
rispose con un altro sorriso e pescò dal suo piatto la forchetta, appropriandosi
con somma soddisfazione del morso di quiche infilzato in cima.
“E
piantala con queste smorfie. Non sono una matricola Tassorosso qualunque”.
“Che?”.
Dromeda
gli sfilò la forchetta dalle mani e rese pan per focaccia, dilaniando la sua
quiche, prima di restituirgli il piatto.
“Non fare
quel faccino. Gli sguardi sfila biancheria di James Potter e i sorrisi spacca
cuore di Sirius Black sono famosi anche fuori dalle mura di Hogwarts, mio caro”.
Regulus
si fece andare l’acqua di traverso e tossì.
“Le tue
fonti sono guaste, cugina”.
Andromeda
si distese sulla sedia e socchiuse pigramente gli occhi.
“Non
credo proprio. I miei informatori sono attendibilissimi”.
“Permettimi di contraddirti: lascio a James Potter la soddisfazione di
infrangere cuori a destra e a manca. Io, notoriamente, mi accontento della
biancheria. O forse adesso ci accontentiamo della biancheria tutti e due, non
ricordo” gli sembrò una buona idea bere dal calice colmo di vino che lei non
aveva ancora toccato “Perché tu hai da bere e io no?”.
“Perché
io ho compiuto diciassette anni ere geologiche fa, e tu sei un poppante” non gli
concesse il tempo di replicare “Cissy, Reg: vi avvicinate?”.
Sirius le
lanciò un’occhiata tra l’incredulo e il divertito. Avrebbe voluto abbracciarla,
come si abbracciano i bambini molto piccoli, che non possono ancora veramente
capire. Con Andromeda era così facile credere di non appartenere a quel luogo,
dimenticare gli arazzi, gli alberi genealogici, i legami, i segreti. Si chiese
se fosse mai crollata, magari di nascosto. Senza che nessuno sapesse. Non
riusciva a immaginare che rumore avrebbe potuto avere, il suo pianto.
Negli
occhi azzurri di Narcissa, lontana almeno un miglio da loro, passò un lampo
d’incertezza. Regulus si limitò a far saettare lo sguardo da una cugina
all’altra, per poi fermarlo, interrogativo, sulla minore.
“Forse
dovresti mandare un gufo. E’ improbabile che ci sentano, da qui”.
Andromeda
lo zittì con un buffetto.
“Cissy?”.
Narcissa
si prese un altro istante di taciturna esitazione, prima di materializzarsi
accanto alla sorella. Regulus, impacciato, si alzò e aggirò con passo rigido
tutto il tavolo, per poi accomodarsi con un gran baccano alla sinistra di
Sirius. Di fronte a loro rimase la distesa disabitata dell’altra metà del
tavolo.
“Ora è
tutto più carino”.
Il
commento di Andromeda passò nel silenzio più totale. Narcissa si limitò a
scrollare le spalle, Regulus affondò la forchetta nella quiche, spappolandone il
centro.
“Già,
sembriamo quasi persone che si conoscono”.
Le parole
andarono morendogli sulle labbra. Bellatrix gli era improvvisamente esplosa
davanti, nera come niente nell’universo. La reazione al suo arrivo fu il
silenzio tombale.
Tempo
prima, James aveva trovato l’unica espressione calzante per definire in un colpo
il potenziale distruttivo di sua cugina: ‘dove passa lei non cresce più l’erba’,
aveva detto, o qualcosa di affine. Era perfetto. Avrebbe dovuto congratularsi
con lui per quel lampo di genio, nella lettera successiva.
Li
squadrò con quell’impertinenza gelida e odiosa, di chi ha la certezza di stare
sempre un passo avanti rispetto agli altri. E poi quel sorriso piantato sul
volto, come se sapesse qualcosa, qualcosa di fondamentale, che a tutti
quanti sfuggiva. Sirius aveva impiegato i migliori pomeriggi della sua pubertà a
convincersi che niente di ciò che Bella mostrava era reale. Tutta una finzione,
un gioco, un vestito da togliere dietro una porta chiusa.
“Che
state facendo?” chiese, accomodandosi nella desolazione.
Se ne
stette lì per qualche istante, a guardarli e basta, uno per uno,
scandagliandoli. Cosa volesse trovare, impossibile dirlo. Sicuro era che lei
cercasse sempre qualcosa, negli altri. Qualcosa di torbido, possibilmente. E, se
proprio non c’era nulla di torbido da scoperchiare, almeno qualcosa di doloroso
e imbarazzante.
In quei
pochi minuti, l’umanità riconquistata sfiorì. Regulus raddrizzò la schiena, un
burattino di legno, Narcissa abbassò gli occhi, colpevole, e riprese a ingoiare
meccanicamente. Il sorriso di Andromeda si raffreddò appena, e forse fu quello a
far irrigidire Sirius, più della presenza sgradita di Bella, più della sua
soddisfazione malcelata. La vide sorseggiare del vino da un calice, la sentì
sospirare di noia. Poi anche il cibo perse di sapore.
Englefield era puro terrore, di notte. Sirius stava metabolizzando la questione,
immobile in un angolo del letto immenso, a guardare nel buio del camino spento.
Qualcuno aveva avuto l’idea raccapricciante di disseminare specchi un po’
ovunque, dove non c’erano affreschi a tinte fosche a riempire gli spazi. La
volta era talmente alta che vederne la fine lasciava increduli. Il balcone si
affacciava sulla campagna deserta, morta per miglia intere. Nemmeno una luce,
esisteva, in quella brughiera dimenticata. Non era tollerabile. Si alzò di
scatto, le braccia e le gambe tutte un prurito di ghiaccio, e la frenesia di
raggiungere la porta lo fece quasi inciampare nelle sue stesse caviglie. Una
volta abbandonati i battenti dietro di sé, si avventurò nel corridoio, sperduto.
Andromeda gli aveva spiegato bene come trovare la sua camera, in caso di
necessità, ma non ricordava assolutamente niente delle istruzioni. Avrebbe
potuto ribaltare Hogwarts e rimetterla in piedi con le sue mani senza
dimenticare un gradino; Englefield, semplicemente, non gli apparteneva, e non
aveva nessuna intenzione di porre rimedio.
In fondo
si trattava di esplorare il terzo piano. Avrebbero dovuto esserci solo camere da
letto e bagni, lì. E arazzi, corridoi interi rivestiti di arazzi. Il primo sul
quale soffermò distrattamente lo sguardo rappresentava una qualche battaglia.
Nella luce soffusa delle candele, sospese a mezz’aria, i colori parevano
fondersi tutti nel rosso crudo delle ferite. Non appena rallentò il passo,
catturato suo malgrado dalle figure, i soldati ripresero ad affettarsi a
vicenda, trapassandosi con le spade, mentre il sangue schizzava a inzuppare la
terra. Sazio, si allontanò con le mani sprofondate nelle tasche, inseguito dal
clangore attutito di lance e scudi. Entro una ventina di passi si rese conto
che le porte erano troppe, per essere aperte tutte, e cominciò a spalancarle a
caso. Alcune erano serrate con delle travi, ed emanavano un’aria di decadenza
che lo rese nervoso, altre erano chiuse a chiave. Le prime stanze in cui riuscì
a entrare erano vuote, stipate di letti a baldacchino pacchiani oltre il
verosimile e marmi, e dipinti, e camini rigorosamente spenti. Era estate, era
logico, ma i camini spenti lo indisponevano terribilmente, gli mettevano
angoscia addosso: una delle tante fissazioni che James e gli altri proprio non
afferravano. Poi, finalmente, la prima camera abitata. Oltrepassata la soglia,
si avvicinò al letto e vi scoprì Regulus. Aveva addosso il pigiama a basilischi
che zia Druella gli aveva regalato per Natale e dormiva profondamente, la bocca
spalancata. Non era naturale, che fosse così goffo anche nel sonno.
Andava al di là di ogni umana comprensione. Arreso, tornò alla sua esplorazione,
impedendosi di chiedersi per quale comica congiunzione astrale lui e suo
fratello fossero nati nella stessa famiglia. Poco oltre la porta di Regulus,
incontrò quella di Narcissa, riconoscibile dall’incisione argento incantata
sulla superficie, che brillava di luce propria, emanando bagliori da un lato
all’altro del corridoio. Si augurò che anche la porta di Bellatrix fosse
altrettanto identificabile; magari lei ci aveva intagliato un boa constrictor o
qualcosa di simile. Il solo pensiero di piombare nella sua camera da letto gli
fece accapponare la pelle. Fortunatamente, prima di essere costretto ad
avventurarsi in altre stanze, trovò la porta di Andromeda. Lei ci aveva affisso
e incantato il ritratto a grandezza naturale di un tizio ridicolo, stretto in
una tutina a righe, che continuava a dimenarsi su un paio di stivaloni in
vernice scarlatta. Spalancò la porta senza bussare, e fu dentro.
Andromeda
sollevò gli occhi dal libro che aveva in mano. Se ne stava placidamente distesa
sul materasso, circondata da uno studiato disordine di vestiti aggrovigliati tra
loro, altri libri, cuscini, penne, tre o quattro pipe abbandonate qua e là, un
giradischi sistemato ai piedi del letto e una mirrorball di dimensioni
inquietanti sospesa a dieci piedi da terra.
“Che
problemi hai?”.
Sirius
scosse la testa e sospirò, aggirando il letto e lasciandosi cadere a peso morto
accanto a lei.
“Io?
Nessuno. Il tizio lì fuori, invece, è messo maluccio”.
Dromeda
chiuse il libro di scatto e gli lanciò un’occhiata d’ammonimento.
“Non ti
azzardare a bofonchiare su David!”.
“David
chi?”.
“David
Bowie!”.
“Quarto
piano al San Mungo?”.
“Dai, è
carinissimo”.
“Oh, sì.
La voglio anch’io, una tutina come la sua”.
“Non
capisci niente. Bowie è un re. E poi manda fuori dai gangheri Bella”.
“Ok.
Adesso la tutina la voglio sul serio. E anche gli stivali”.
Dromeda
rise, poi, da un minuto all’altro, inclinò un poco la testa.
Arrivava
sempre, quel momento. Quando lei si accorgeva del qualcosa che non
andava.
“Perché
non riesci a dormire?”.
“Non lo
so. Tu perché non dormi?”.
“Non lo
so. Leggo”.
Sirius
frugò tra le coperte sfatte e ripescò il suo libro.
“Sonata a
Krauzer*”.
“Non
riusciresti a pronunciarlo neanche volendo”.
Nemmeno
un battito di ciglia, il libro era già sparito tra le sue mani e lei lo stava
osservando con lo sguardo più fermo del mondo.
Sirius si
lasciò scivolare tra le coltri con un sospiro affranto.
“Sei
proprio decisa a rendere seria questa conversazione?”.
Le iridi
di Andromeda erano piene di riflessi avvolgenti, morbidi, un abisso di calore
lontano anni luce dall’amianto di Bellatrix. Dicevano tutti che Dromeda e Bella
erano identiche: dove si trovasse quella somiglianza, Sirius non era mai stato
in grado di capirlo. Era così evidente, gravitavano in orbite così diverse.
“No. Però
vorrei leggere in santa pace, se per te non è un problema”.
“Preferisci Krauzer a me?”.
“Preferisco Tolstoj, a te. Il che mi rende meno snaturata”.
“Come
cugina?”.
“Come
madre”.
Quando
sorrise, Sirius aveva già chiuso gli occhi e si era abbandonato del tutto al
tepore delle coperte.
Non vide
Andromeda spiarlo dall’alto, non si accorse di cercarle il fianco con la fronte,
prima di cedere al sonno.
*
Sai cosa
succede, continuava a ripetersi, fingendo di dormire, sai cosa succede quando
non ti riconosci più, quando non ti trovi più? E sapeva di ingannarsi, a cosa
serviva, un’altra domanda, a cosa serviva tenere gli occhi chiusi, chi doveva
convincere del suo sonno profondo, sereno, inesistente? Succede che ti perdi.
Che diventi qualcun altro. Sì ma chi, chi.
Avrebbe
preferito dimenticare. Non ricordare più, lasciarsi portare via. Invece ecco la
consapevolezza dolorosa delle lenzuola avviluppate intorno al corpo, del sudore
freddo. Lei non c’era già e, al tempo stesso, era più presente a se stessa che
mai. E là fuori, oltre, c’era il corpo, ormai un’entità estranea, ostile, e il
resto della sua vita che le veniva incontro a grandi passi, calpestando,
sbriciolando. L’avrebbe combattuta, trafitta, se avesse potuto. L’avrebbe
combattuta, tentò di convincersi, ma nemmeno il tempo di pensare al sollievo e
quel pensiero era già diventato un brusio, si era sciolto nel buio.
C’era
qualcosa di bello, c’era qualcosa di bello per scampare all’annegamento. Doveva
esserci. Il vestito bianco, il velo. I calici di cristallo. Andromeda li avrebbe
fatti cantare come la prima estate lì a Englefield, mentre Sirius le stava
seduto sulle ginocchia, e respirava così piano, così piano. E si addormentava in
silenzio addosso a lei. Rodolphus si sarebbe addormentato addosso a lei. Sarebbe
stato dentro di lei. Ma non c’era spazio, per nessuno.
Piangeva.
Si accorse di piangere quando era troppo tardi per smettere. Detestava
visceralmente ogni lacrima e con la stessa intensità avrebbe voluto disintegrare
quegli specchi, la stanza, il castello, bruciare, incenerire, disfare ogni
pietra. Tentò di liberarsi dalla prigione delle coperte, che la stringevano, la
soffocavano. Lottò. E quelle sempre più strette attorno alle gambe. Urlò. Le
strappò tutte, si ferì per sbaglio, e quando fu giù la foga la fece inciampare,
cadde sulle ginocchia e fu altro dolore, intollerabile. La bacchetta le arrivò
tra le mani e il letto si tramutò in una palla di fuoco. Per un lunghissimo
istante, lo guardò bruciare. Le fiamme lo avvolsero, ingoiarono il baldacchino,
il legno intagliato, avide. I putti degli affreschi sfollarono lungo le pareti,
strillando. Nemmeno per un attimo, ebbe paura. Spense l’incendio solo perché,
all’improvviso, ogni voglia le era stata tolta. Si era svuotata, ancora una
volta, forse ad opera del rogo ingordo che aveva sbranato il letto, riducendolo
a una carcassa fumante. Tornò in piedi a fatica, esausta, barcollò, strappandosi
via dalle guance gli ultimi residui del pianto.
“Per
Merlino, cosa ti è successo?”.
Trovò
Andromeda pallidissima, quando si materializzò nella sua stanza.
“Niente”.
Non si
chiese dove avesse trovato la forza di parlare. Si trascinò fino al letto e si
lasciò cadere al suo fianco con l’unica volontà di chiudere gli occhi e
sprofondare nel coma irreversibile.
“Puzzi
dannatamente. Di bruciato”.
Riaprì
gli occhi solo per incontrare il suo sguardo ansioso. Aveva chiuso il libro e lo
teneva posato sul petto, le dita contratte. Poi, la sua attenzione fu destata da
qualcosa che stava oltre le dita di Andromeda. Un ciuffo di capelli corvini, un
altro, un altro ancora. Si sollevò lentamente sui gomiti, e le apparve Sirius.
Istantaneamente, si rizzò a sedere sulle ginocchia. Il movimento imprevisto le
costò una vertigine.
“Perché è
qui?”.
Il sibilo
le sfuggì spontaneamente. Di nuovo, una punta della furia le riaffiorò dentro.
Era come una creatura autonoma, spesso. Si gonfiava a piacimento e riempiva
tutto con la stessa velocità che poi la vedeva esplodere e dissolversi.
Gli occhi
di sua sorella non persero d’apprensione.
“Non
riusciva a dormire neanche lui, come te”.
“Io
riesco a dormire tranquillamente. Sono venuta qui solo per farti compagnia”.
“Va
bene, allora fai pure. Il letto è abbastanza grande per tutti e tre”.
Le
sorrise. Avrebbe voluto risponderle, Dio solo sapeva quanto avrebbe voluto, ma
non poteva, non poteva.
“No. Me
ne vado”.
Riuscì a
mettere solo una gamba giù dal materasso, prima che Dromeda le afferrasse un
polso con forza. Era terribilmente seria, quando si guardarono di nuovo.
“Bella,
per favore. Resta”.
Suonava
come una supplica. Come fosse lei, ad averne bisogno.
La sua
mano calda stretta attorno al polso, la luce fioca che le illuminava solo metà
del viso e i bagliori colorati di quella stupida sfera che continuava a girare
senza interruzione. Eccolo, lo specchio. Ecco, quant’era spietato. La furia si
annodò in gola e diventò qualcos’altro. Era stanca, di quelle trasformazioni.
Era stanca.
“Lasciami”.
Voleva
illudersi di poter decidere, almeno.
Andromeda
obbedì, e la stretta divenne una carezza tenera.
Si
distese prudentemente, un centimetro di corpo alla volta, e lei fece finta di
nulla, come non fosse successo niente, come se non l’avesse sentita urlare, come
se non si fosse accorta che aveva pianto, che era piena di graffi. Quando
discese lungo il suo fianco, fino ad accomodarsi sul ventre, le posò una mano
sul capo, le accarezzò la fronte.
Lo
sguardo celato dalle ciglia, lei scrutò Sirius. Aveva il volto contratto in
un’espressione turbata. La mano, posata anche quella sull’addome di Andromeda,
era serrata in un pugno. Nemmeno il suo sonno viveva di pace.
Ripensò
al Sirius bambino addormentato contro di lei, al peso che aveva sentito gravarle
addosso, a come l’aveva abbracciato quella sera lontanissima. Per non farlo
cadere. E ai suoi capelli che avevano un profumo tutto particolare, che da
adulti si perde. Si chiese se Sirius poteva ricordare. Se ricordava che in quei
prati avevano giocato, se ricordava anche lui i padiglioni bianchi che si
muovevano con il vento.
Poi, il
fulmine.
Non
poteva ricordare.
Serrò gli
occhi.
“Addormentami”.
Forse
implorò.
Sirius
non poteva ricordare.
*
NdA:
secondo capitolo messo insieme per puro miracolo in questi giorni di follia pre
esame. Chiedo perdono per eventuali strafalcioni.
Sonata a
Kreutzer: romanzo breve di Lev Tolstoj.
Mirrorball: la sfera a specchi tamarra che impazzava nelle discoteche durante
gli anni ’70-’80.
Grazie a
tutti coloro (speranzosi, teneri lettori) che hanno inserito questa storia nelle
seguite e nelle preferite.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 4 *** Looking Back ***
“Sai che si dice
in giro?” disse Terence, allungando le gambe sulla sedia lasciata vuota da Evan.
Non rispose,
preferì perdersi nelle profondità del giardino. Oltre. Oltre i compagni e il
prato e le voci.
Suo marito era lì,
lì, lì. E lei sarebbe andata lontano, più lontano.
“Il vecchio
Lestrange va cianciando di un matrimonio in settembre. Proprio non gli pare vero
di aver messo le mani su di te, sai? Se la farà addosso dalla felicità, un
giorno o l’altro”.
Aveva avuto una
bambola, una volta. Mani e faccia di porcellana, occhi di vetro. Un vestito da
festa di velluto verde. L’aveva spogliata per chissà quale capriccio, per vedere
cosa c’era, sotto quel bel vestito. Aveva trovato un cuore di lana e una pelle
di stoffa ingrigita. E aveva scoperto che si squarciava così facilmente sotto le
unghie, quella pancia morbida. Aveva avuto una bambola morta.
"Chiunque di noi
potrebbe finire sposato con chiunque. E' comico, non trovi?".
Bella si arrese a
Terence, lo guardò. Ritornò tra quei chiunque che avrebbe potuto sposare e il
chiunque che avrebbe sposato per davvero.
"No, non trovi" mormorò lui, sorridendo senza sorridere.
Mulciber era proprietario di una follia sottile e sinistra, tanto imprevedibile
quanto incredibilmente lucida. Il genere di morbo che può produrre
un'intelligenza spietata. Aveva occhi verdi e piatti in cui non si poteva
guardare: il suo sguardo schizzava da uomo a uomo senza che nulla lo incrinasse.
Non rabbia, né gioia. Era vivo solo dalla bocca in giù. La maggior parte dei
compagni nutriva per lui una sorta di timore reverenziale, e aveva i suoi
devoti: tutti i più potenti ne avevano. Evan, tanto differente da Terence, tanto
pericoloso. L'aveva visto fare cose orribili quando era solo un bambino.
Dolohov, brutto come il peccato. Lucius. I suoi pensieri corsero a
Cissy, affacciata a chissà quale finestra a spiare. Avrebbe mai avuto il
coraggio di unirsi a loro? Regulus lo aveva già, quel coraggio. O forse si
trattava ancora di imprudenza infantile. Ma era lì, seduto composto su uno
sgabello, a guardare il cugino Rosier come guardava lei. Pieno di paura e
rispetto e cieca ammirazione. L'adepto esemplare. Non sarebbe mai stato uno dei
grandi, Bella ne era certa. I grandi avevano forza, i grandi erano ribelli e
avevano volontà di ferro, e quando i grandi decidevano di consacrarsi a uno
scopo, erano destinati a imprese magnifiche. Gli occhi di Reg avevano dentro la
fedeltà propria del cane legato a un padrone, invece. I loro ranghi erano pieni
di gente simile, gente che sapeva rivelarsi utile per i fini più disparati. Non
a tutti era richiesta l'eccezionalità.
Evan fece emergere un'ombra viva dal suolo, una piccola esalazione oscura che
prese a strisciare nell'erba lamentandosi. Era estremamente ben fatta.
"Che Incantesimo è?" chiese con voce malferma Regulus, diviso tra terrore e
meraviglia, mentre l'ombra raggiungeva le sue caviglie e gli si avvinghiava
intorno.
Mentre lo guardava, Bella sentì il cuore tremare. Quant'era diverso, quant'era
diverso da lui e dal modo in cui le aveva fatto la stessa domanda. Poco
tempo prima di abbandonarla per sempre; un'era più in là rispetto a quel
momento. Aveva pensato molte volte di Incantare sé stessa e cancellare ogni
cosa, ma era una magia pericolosa e qualcuno avrebbe dovuto aiutarla. Ma chi,
chi avrebbe potuto conoscere ogni suo ricordo, ogni istante impresso nella
memoria come un marchio...
I ricordi tornavano e ritornavano ed erano spaventosi. Ed erano bui.
"Come hai fatto?".
"Sono caduto".
"Da dove sei caduto?".
"Nel frutteto".
Sapeva che doveva esserci stato, nel frutteto, prima di scavalcare la
staccionata e uscire oltre i confini di Englefield. Era tipico di Sirius usare
solo una parte della verità per nascondere i misfatti. Un trucco utile che lei
aveva imparato quand'era già grandicella, mentre il bambino che le stava davanti
non ci arrivava nemmeno con la punta dei capelli, alla staccionata che aveva
scavalcato.
"Stai dicendo una bugia".
Lo sollevò, mettendolo a sedere sulla grande penisola della cucina. Gli elfi
domestici erano fuggiti a pulire chissà quale antro del palazzo, quando lei era
entrata.
"Perché continui a scavalcare la staccionata? Lo sai che oltre l'erba è alta
e secca? Nell'erba alta e secca ci sono i serpenti".
"Non è vero" ribatté Sirius, ostinato, incrociando le braccia.
Nascose un sorriso chinando la testa sulla ferita. Una grossa scheggia era
penetrata nella carne del ginocchio sinistro: doveva essere successo quando era
caduto. C'era parecchio sangue, ma lui non sembrava impaurito. Era arrivato da
lei senza traccia di una lacrima sul viso, con un'aria molto infastidita.
Rivelare di essere caduto doveva sembrargli un'umiliazione insopportabile.
"Si che è vero".
"Non mi fanno paura. Me li mangio".
"Te lo sconsiglio. Hanno un saporaccio".
Prese la scheggia con due dita e la tirò fuori all'improvviso. Uscì
dell'altro sangue, ma Sirius non si mosse e non si lamentò. Era troppo
orgoglioso per farlo. Dovette sentire parecchio male, però, perché le sue guance
piene persero colore. Controllò che non ci fossero altre schegge.
"Le altre le hai
tolte tu?".
Sirius annuì
grevemente.
"Stai fermo,
adesso".
Sfoderò la
bacchetta dalla manica e la guidò in un movimento secco. La ferita si
pulì istantaneamente dalla terra e dal siero.
Lui sollevò la
gamba e studiò bene il ginocchio.
"Che Incantesimo
è?".
"Uno facile. Ce ne
sono di più belli".
"E tu li sai fare
tutti?".
"No, non tutti.
Qualcuno, per adesso".
Fece per tirarlo
giù, ma Sirius la scostò e scivolò da solo, atterrando sul pavimento con un
tonfo.
"Vorrei fare anche
io qualche Incantesimo".
"Li farai, una
volta a Hogwarts".
"Mamma dice che
mancano tre anni".
"Giusto. Tre anni
passano in un baleno".
Quando si avvicinò
alla grande finestra il vetro prese a scorrere lento e l'aria fragrante dei
giardini invase la cucina. Era tardo pomeriggio, il sole soffiava oro lucido sui
contorni delle foglie, mutava i fiori in gioielli.
"Tre anni sono
lunghissimi" brontolò Sirius, seguendola fuori.
"Vedrai che il
momento arriverà subito, non te ne accorgerai neppure. Un giorno ti sveglierai
nel dormitorio di Serpeverde, avrai una bacchetta e una divisa, degli amici. E
sarai un mago straordinario".
Sirius le sorrise.
"Raccogliamo dei
fiori per Dromeda?".
"Sì".
Rimase a
guardarlo, mentre si allontanava, alla ricerca dei boccioli più belli. La luce
giocava con i suoi capelli come fossero fili di rame, gli illuminava le dita
ancora troppo piccole.
Sarebbe diventato
grande. Presto, molto presto.
"E tu che farai, Bellatrix?".
Quando focalizzò
gli occhi azzurri di Lucius puntati nei suoi, la maggior parte dei presenti la
stava fissando.
"A che proposito?"
ribatté, alzandosi in piedi con studiata indolenza.
Era scesa la sera,
globi di luce violetta fluttuavano sul prato calpestato. Il tavolo da giardino
era un cimitero di bicchieri usati, riempiti e svuotati a metà. Pozze di Whisky
Incendiario si allargavano sulla tovaglia di lino.
"A che proposito,
dici? Dov'eri, cugina mia, mentre noi decidevamo del futuro del mondo magico?".
Evan si fece
avanti, il viso affilato come un coltello incorniciato da un'orgia di boccoli
d'argento.
"Badavo ai fatti
miei. Abitudine che, a quanto pare, non è di famiglia".
"Non è il momento
di badare ai fatti propri, questo" grugnì Dolohov.
"Antonin..." lo
ammonì Lucius.
Crouch ridacchiò,
attorcigliato al tronco di un melo, poco più in là. Nessuno badò a lui più del
solito.
"Le signore
dovrebbero essere trattate con maggior gentilezza".
Quella voce le
ghiacciò il sangue nelle vene. Afferrò il primo calice che incontrarono le sue
dita e lo sollevò, trattenendo il respiro.
"Queste sì
che sono le parole di un futuro marito" gorgogliò Mulciber, da qualche punto
alle sue spalle.
Evan le sfilò il
bicchiere dalle mani e per un istante i loro sguardi si incrociarono. Fu lesta a
recidere il contatto.
"Tieniti pure
stretto il tuo umorismo, Terence" ribatté Rabastan, avvicinandosi anche lui al
tavolo.
"Non vorrai fare
baruffa il giorno del tuo debutto in società, eh Lestrange?" disse
lentamente Wilkes, seduto accanto a Lucius.
Quando il suo
bicchiere fu pieno, Evan glielo restituì. Chinò il capo con un sorriso diabolico
dipinto sulla bella bocca, e Bella lo liquidò freddamente.
"Ringrazio
Rodolphus e Rabastan per la premura ma, prima di iniziare l'ennesima disputa su
chi ha la bacchetta più lunga, vorrei capire di che questioni fondamentali
stiamo parlando".
"Ah, questioni
assai, assai importanti. Vero, Malfoy?".
Crouch si avvicinò
al gruppo, abbandonando l'oscurità del frutteto. La salutò con un cenno
nervoso, senza riuscire a trattenere un guizzo della lingua lungo le labbra.
Lucius puntò il bastone da passeggio contro di lui, annuendo.
"Proprio così,
Signor Crouch. Discutevamo del Marchio, Bella. Sappiamo che Lui lo ha chiesto
come pegno".
"A tutti noi"
aggiunse Avery, il volto non ben definito di chi non è ancora uomo. In quello
somigliava terribilmente a Terence. E a lui.
"Ci chiedevamo
cosa farai. Quasi tutti, qui, sono sicuri di volerlo" soffiò Evan "E tu?".
"Non si torna più
indietro, vero Bella?" fece Mulciber, eccitato "Potremmo essere i primi, saremo
i primi ad averlo. Pensate, pensate a quel che vorrà dire".
Con la coda
dell'occhio, Bella scorse Regulus agitarsi nell'angolo dove era stato relegato.
"Vorrà dire essere
legati a Lui, per sempre. E se voi lo volete, io lo voglio di più".
Quando rotolarono
sul pavimento, Sirius fu certo di essere sul punto di vomitare. Ancora. Rimase
immobile per qualche minuto, a faccia in giù.
“Alza…alza-ti”
biascicò Dromeda, atterrata da qualche parte intorno ai suoi piedi.
Il peggio passò in
qualche istante, e lui si trascinò su un fianco, tentando di mettersi a sedere
senza scatenare tumulti eccessivi nei meandri del suo stomaco.
“Ci sono… ci
sono”.
La voce proveniva
da qualche antro oscuro, e molto provato, della sua gola, ma non la riconobbe
comunque.
Mise a fuoco. La
stanza di Dromeda era il disastro della sera prima e la luce dell’alba la
illuminava impietosa. L’unico arredo in più era sua cugina, piegata contro il
letto in una posa innaturale.
“Vomito” disse,
socchiudendo gli occhi “Vomito”.
Sirius cercò con
lo sguardo un contenitore idoneo ma trovò solo borsette.
“Aspetta,
aspetta”.
“Vomito”.
La vide
impallidire, farsi verdognola. Spinto dalla disperazione, o dai postumi del
trip, afferrò una grossa borsa di pelle rosa e gliela mise davanti appena in
tempo per evitare il peggio. Dromeda ci rigettò dentro con tutta l’eleganza di
una Black reduce da una nottata di bagordi. Cercò di farsi passare dalla mente
il ricordo vago di sua cugina che spariva tra i cespugli con Ted Tonks e pregò
di aver avuto centinaia, migliaia di allucinazioni, perché altrimenti avrebbe
dovuto fare i conti con un discreto numero di fatti imbarazzanti da spiegare.
Dopo aver finito,
Dromeda si accasciò ancora di più, chiudendo del tutto gli occhi. In quelle
condizioni, era un miracolo che fossero riusciti a Smaterializzarsi senza
Spaccarsi. Rabbrividì al pensiero, mentre abbandonava la borsa dal macabro
contenuto in un angolo, e si dava da fare per sollevare sua cugina senza causare
grossi danni. Fu un’operazione piuttosto complicata, ma alla fine riuscì a
metterla a letto, scomposta e vagamente maleodorante. Una volta compiuto il suo
dovere, si accorse di avere una fame inspiegabile e assolutamente inconciliabile
con lo stato del suo stomaco. Gli tornò in mente il ricordo di un brodino per
l’influenza che sua madre faceva preparare a Kreacher… Afferrò la borsa e uscì
dalla stanza diretto alle cucine.
Nella penombra
della cucina vuota non trovò nessun Elfo ad aspettarlo, e la cosa lo indispettì.
Si liberò della borsa incastrandola in uno dei lavandini e vagò per la stanza,
curiosando nelle dispense alla ricerca di cibo. Non trovò nulla che
assomigliasse a qualcosa di caldo e fumante e finì per accontentarsi delle
croste di pane abbandonate in un cestino. Sembravano tanto i resti di qualche
cena precedente, ma erano commestibili. Nel suo aggirarsi senza senso finì
davanti alla finestra. I postumi dei bagordi cominciarono ad affiorare sotto
forma di un latente mal di testa e fu per alleviare quel dolore che posò la
fronte contro il vetro freddo. Fuori il verde era immenso, un mare che si
estendeva oltre i confini del giardino e non aveva orizzonte. Da bambino era
stato curiosissimo di scoprire dove finiva tutto, qual era l’ultima staccionata
che chiudeva ogni angolo del mondo. Sentiva ancora quella smania addosso, la
voglia di salvarsi prima di annegare. Mentre pensava che quella sensazione non
se n’era mai andata, due figure scure comparvero ai margini del quadro.
Riconobbe la prima senza esitazioni: Bella aveva un suo modo di camminare, in
falcate precise che le spianavano la strada. Riuscì a capire chi fosse la
persona che l’accompagnava solo quando, fermandosi, uscì dall’ombra di Bella.
Era sempre stato convinto che Rodolphus fosse piuttosto brutto e tronfio, e dopo
Hogwarts non era cambiato. Immobile, li guardò parlare. Lui agitato, tentava di
sorridere, ma non gli riusciva. Lei, un pezzo di marmo bianco piantato per
terra, non rispondeva. Rodolphus continuò a farsi più vicino, in un’intimità
forzata. Sirius sapeva che Bella non avrebbe gradito. La vide trasformarsi,
lentamente; una trasformazione che uno sconosciuto non poteva percepire,
riconoscere. Infatti, Rodolphus non capì, e le si strinse addosso, fino a quando,
in uno slancio di pura follia, decise di afferrarla per i fianchi e baciarla. Il
cestino cadde e le croste di pane si sparpagliarono sul pavimento.
Istintivamente, Sirius si ritrovò con i pugni serrati. Rodolphus fu scagliato
lontano da un lampo. Ebbe il tempo di vedere la bacchetta di Bella puntata
contro di lui, prima di Smaterializzarsi. Lei rimase immobile, gli occhi
sbarrati. Restò a guardarla fino a quando la vide voltarsi nella sua direzione.
Fuggì dalla
cucina, salì le scale senza fare rumore, respirando piano, cercando di non
ascoltare la voce nella sua mente. Il dolore alle tempie divenne più intenso.
Quando rientrò nella camera di Andromeda, incontrò per caso il proprio riflesso
nello specchio: i frutti della sua immotivata rabbia erano ancora lì, appesi
alle braccia. Li sciolse lentamente.
Piangeva. Bella
piangeva.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 5 *** Galvanometer/Letters ***
Capitolo 4
Galvanometer/Letters
I pensieri di Sirius erano martellanti, si innescavano come bombe a
orologeria. Non che portassero a conclusioni vere e proprie: più che altro lo
facevano sentire sul punto di esplodere.
Perché Bella piangeva?, la domanda continuava a rimbalzargli di tempia in
tempia.
“Io so che vorrebbe essere felice, e che si odia,
per questo”.
“Sono morta”.
Dromeda entrò nel suo campo visivo ciabattando. La guardò deambulare oltre la
lunga scrivania.
“Il colorito è circa quello”.
La risposta fu un grugnito. Sua cugina si lasciò cadere mollemente nel divano
dello studio.
“Mentre eri in coma è arrivata una lettera per te. Il mittente è… mh! Tale
tremolante Ted Tonks. Conosci?”.
“Dammela” disse perentoria Dromeda, facendo comparire la bacchetta da chissà
dove. La busta schizzò nelle sue mani.
“Per essere morta hai dei riflessi invidiabili” replicò Sirius, tornando alla
sua pergamena.
Stava cercando di scrivere qualcosa di sensato a James, con scarsissimi
risultati. Intinse nuovamente la piuma nell’inchiostro. Qui a Bellatrixlandia
tutto fila liscio, per or
“PER MERLINO!”.
Sirius sussultò e la ‘a’ di ‘ora’ si trasformò in uno sgorbio a punta.
Dromeda era risalita fino in cima allo schienale e teneva tra le mani la
lettera.
“Sì?”.
“Perdonami se non sono mai riuscito a dirtelo guardandoti negli occhi ma io…
ti amo” lesse ad alta voce sua cugina “PER MERLINO! TI AMO!”.
“La pianti di strillare?” le chiese Sirius, il più cortesemente possibile.
“Ma mi ha scritto ti amo!”.
“E quindi?”.
“Mi ha scritto ti amo!”.
“Credo di aver capito, grazie”.
“Ti amo!”.
“L’anno scorso Georgiana Ronson di Corvonero si è fatta tatuare ‘Ti amo James
Potter’ sui seni con l’Inchiostro Ineliminabile. Hanno promosso una petizione
per cacciarla dalla sua Casa”.
Dromeda tacque, lo sguardo fisso sul pavimento e una mano sulla bocca.
Sirius tossì un paio di volte nel tentativo di riportarla alla realtà, senza
ottenere nessuna reazione. Solo quando andò a sedersi accanto a lei Dromeda
diede segni di vita.
“E adesso?” mormorò.
“E adesso dovresti rispondergli, o dovreste vedervi, incontrarvi a
quattr’occhi… credo”.
“Ma io non so se lo amo”.
Gli occhi di sua cugina si fecero grandi e smarriti come quelli di un cucciolo.
“Odio le donne. Come si fa a non sapere una cosa del genere? O lo ami o no!”
sbottò Sirius, irritato.
“Odio gli uomini! Sono inutili, per le mutande di Merlino!” esclamò Dromeda,
stizzita “Ho sbavato dietro a Tonks per degli anni e non mi ha mai neanche
guardata”.
“Aspetta, aspetta… ma lui non è il ‘tipo simpatico’ che hai conosciuto in un pub
Babbano?”.
“Beh, certo” rispose lei, colta in fallo “è anche questo. Ma prima di
essere questo era quello più grande e ribelle e vagamente vichingo
che aveva fatto breccia nel mio cuore di preadolescente senza tette. Quello
che mi ignorava felicemente. Si è accorto di me solo a Tinworth, in effetti. E
credo che le tette siano il fulcro di tutta questa storia”.
“Un giorno mi spiegherai questa tua insana passione per i vichinghi” disse
Sirius, cercando di ripescare il filo conduttore della conversazione “Comunque,
tirando le somme… il ragazzo dei tuoi sogni di giovane matricola si è accorto
che sei cresciuta e ti ha confessato il suo amore. Solo che ora tu sei confusa”.
“A grandi linee…”.
Sirius si concesse ancora qualche istante di meditazione.
“La posizione di Tonks mi è chiara” concluse “Resta un solo dilemma. Perché ieri
sera credo di averti vista infilare le tue mutandine nella sua tasca?”.
“Non sto sindacando le tue abitudini da riccastra libertina, voglio solo
aiutarti a fare chiarezza!”.
Dromeda prese le scale scuotendo i capelli lunghi.
“Ma io non voglio fare chiarezza!”.
“Senti, lo guardavi come se volessi mangiartelo, ti sei lanciata su di lui a
pesce. E poi tutte quelle frasettine… ti prego! Anche senza l’episodio delle
mutandine avrei capito da un miglio che ti interessa”.
Dromeda si voltò prima di imboccare la rampa successiva.
“Avevo solo voglia di divertirmi un po’, ok?” disse, guardandolo dritto in
faccia, la voce ferma.
A Sirius venne in mente che tutti i Black mentivano così, con la stessa
sicurezza. Dei loro occhi non ci si poteva fidare.
“Questo può funzionare per un uomo, non per una donna. E non per te. Tu sei
attratta da Tonks”.
“L’attrazione non è amore”.
“È il trampolino di lancio, e oserei dire che stavolta ha funzionato”.
A quel punto accadde qualcosa che Sirius non aveva preventivato. Lo sguardo di
Dromeda divenne liquido. Senza preavviso, lo afferrò per un braccio e
Smaterializzò entrambi. Quando si Materializzarono, erano nella sua camera.
“Sirius” sussurrò, scuotendo la testa “Quanto sei ingenuo? La tolleranza
della nostra famiglia può passare sopra a un poster, sopra ai miei vestiti, ma
non potrebbe mai fare un salto così grande. Io sono legata a loro,
capisci? Sono mia madre e mio padre, sono le mie sorelle.
Non credo di essere pronta a lasciarli”.
“Nemmeno se amassi Ted Tonks?”.
“Non lo so. Adesso non so nulla”.
E Sirius ebbe, improvvisamente, paura.
Alla fine, il risultato era stato qualcosa di patetico del genere: ‘Caro James,
odio la mia famiglia’. Aveva spedito il gufo di malavoglia, prima di
abbandonarsi all’angoscia.
Andromeda era libera, Andromeda poteva cambiare le cose. Continuava a
ripeterselo, ma già non ci credeva più. Erano tutti dietro alle stesse sbarre e
la gabbia andava restringendosi. Prima o poi, sarebbero rimasti schiacciati.
Bella piangeva.
‘Io sono legata a loro’.
Cuciti uno all’altro.
‘Io so che vorrebbe essere felice’.
Forse anche Bella aveva creduto di poter decidere. Forse aveva sperato di poter
scegliere. Pensò ai suoi occhi. In quel baratro c’era di tutto, ma non aveva mai
visto gioia, lì dentro. Non ricordava di averla mai vista felice. Eppure doveva
esserlo stata, un tempo… tutti lo erano stati. Vero?
Gli venne una gran voglia di non pensare.
*
Sentì l’Incantesimo penetrare nel fianco e la pelle strapparsi come pergamena.
Fece lo stesso rumore. Sentì bruciare.
“Rosier!” l’urlo arrivò da lontano, qualcuno degli altri doveva aver visto, ma
Bella non riuscì a riconoscere la voce.
Evan rise, trionfante, piegando la testa all’indietro. Il collo perlaceo teso,
la giugulare esposta. Poi l’odore del suo stesso sangue che le inquinava il
respiro. Qualcosa, nel sentire così male, le piacque. E un solo pensiero, fisso,
galoppante.
Non si fermò. Era una regola, negli scontri. Il primo colpito era sconfitto,
morto, il vincitore ricominciava con qualcun altro e il perdente si leccava le
ferite. Il che permetteva che non si ammazzassero tra di loro prima del tempo.
Ma Evan, Evan… con i suoi bei capelli da ragazza, e il suo volto perfetto, e la
sua primogenitura perfetta. Suo padre si sarebbe fatto fare lo scalpo, pur di
avere un primogenito maschio come Evan. Invece era nata lei, che tutto avrebbe
potuto essere e non sarebbe importato: non era un uomo.
Gli si scagliò addosso senza prendere fiato.
Uccidere.
Rosier dovette leggergliela negli occhi, quella parola, perché la sua risata si
ghiacciò in una smorfia sorpresa. L’Incantesimo fendette l’aria come una
scudisciata e tracciò una linea rossa sulla sua guancia candida. Quando Bella
vide il furore infiammargli lo sguardo sentì il cuore esplodere nel petto,
l’adrenalina schizzare nelle gambe, nelle orbite.
Evan era bravo, terribilmente bravo, ma non gli sarebbe bastato. Schivò il fuoco
che le aveva lanciato contro e lo colpì dal basso, nascondendosi nella scia
luminosa dell’Incantesimo. Lo vide schivarlo per un soffio e la rabbia le fece
affondare le unghie mano libera. Il desiderio di fargli del male era così
intenso da accecarla.
Prima che potesse attaccare, un secondo strappo le si aprì nel braccio destro.
Vide il sangue sgorgare dai lembi lacerati della carne, bagnare la manica,
strappata anche quella.
“Non preoccuparti, cugina, ti faremo dei bei ricami” gracchiò Rosier, di nuovo
sorridente.
Bella affondò lo sguardo nella terra bruna, mentre abbassava la bacchetta in
atto di resa.
“Hai vinto” mormorò.
“Lo so. Per la seconda volta” disse Evan, rilassandosi.
Intorno a loro si era formato un gruppo di spettatori. Nessuno urlava più, ora?
“Niente di personale, cugina” lo guardò avvicinarsi, tronfio, lo accolse con un
sorriso remissivo.
Quando fu abbastanza vicino, lo colpì puntandogli la bacchetta contro l’addome.
La scossa elettrica fu così forte che per un lungo istante poté vedere l’azzurro
degli occhi di Evan scomparire in un mare di bianco. Poi lui crollò ai suoi
piedi con un tonfo.
Il silenzio avvolse tutti come un manto. Avvertì vagamente la rabbia scivolare
via, il vuoto ritornare a invaderle la mente. Evan se ne stava lì,
accartocciato, con il sangue che gli grondava dal naso alla bocca. E se ci fosse
stata lei, al suo posto, avrebbe fatto la differenza? Ormai tutti stavano a
guardare, e nessuno muoveva un muscolo. Ma Bella sapeva che non era orrore. Non
stavano guardando Evan: stavano guardando lei, e stavano pensando a quanto
avrebbero dovuto temerla. Quasi li poteva sentire, distruggersi il cervello e
calcolare… calcolare…
Evan rantolò. Le sovvennero tutt’un tratto ricordi d’infanzia, pomeriggi in cui
lo aveva ascoltato spiegare come funzionava Hogwarts, dove sarebbe stata
smistata, e le sembrò di vedersi, piena di adorazione. Poi ricordò che erano
venuti i tempi in cui suo padre si era sincerato di farle capire che il sangue
delle donne Black era puro come quello degli uomini, ma che non sarebbe bastato
a risparmiarle un matrimonio, a risparmiarle il dovere di farsi ingravidare.
Sollevò la bacchetta.
“CRUCIO”.
“PROTEGO HORRIBILIS”.
Gli occhi verdi di Mulciber parvero ingrandirsi come lune piene nella luce
dell’Incantesimo. Bella si vide riflessa nelle sue pupille e, ancora una volta,
seppe di non aver visto se stessa.
Quando lo scudo si dissolse, Lucius venne avanti, pacato.
“Non permettere che accada. Mai più” disse.
“Stai attento a chi dai ordini, Lucius” ridacchiò Crouch.
Lucius finse di non aver sentito.
“Lui non gradirebbe”.
Bella non rispose. Voltò loro le spalle e camminò fino a quando non fu libera di
sparire.
Il suo strillo rimbalzò contro le pareti di pietra e fece rimpicciolire l’Elfo
Domestico. Accecata dal dolore, Bella afferrò la bacchetta e lo colpì sul muso
con il manico.
“Sparisci!” sibilò, strattonandolo “Ora!”.
Quando l’Elfo obbedì, il bagno del terzo piano ripiombò in una quiete spettrale.
Finì di slacciare il corsetto da sola, mordendosi le guance nel tentativo di non
emettere un gemito. Fallì più volte, la bocca impastata di sapore metallico. Poi
fu la volta della camicia: dove non si era squarciata, il cotone aveva aderito
alla carne cruda. Nel toglierla, gemette ancora. Una volta alla luce le ferite
brillarono, madide, e lei restò a guardarle a lungo. Le guardò da vicino, nello
specchio, provò a toccarle. Non erano tagli normali: era un tipo di Incantesimo
che aveva già visto fare a Evan sui gatti selvatici. Mormorò una formula
curativa per entrambe, ma il dolore non si attenuò. Bella sapeva che la
lacerazione avrebbe continuato a far male per settimane dopo essersi
rimarginata. Coprì le ferite con dei panni imbevuti nell’Essenza di Dittamo e si
rimise addosso la camicia. Per un momento, pensò di lasciarsi cadere e rimanere
distesa sul pavimento fino al giorno seguente, o fino a quando avrebbe avuto di
nuovo voglia di alzarsi, di sopravvivere.
Sopravvivere. Gliene mancò il desiderio tutt’un tratto, quando riaprì la porta e
vide Sirius. Sembrava la stesse aspettando e nello stesso tempo sembrava proprio
di no. Come se avesse immaginato di veder uscire da lì chiunque, tranne lei.
Restarono a guardarsi negli occhi per un lungo minuto.
“Scusa, pensavo che Dromeda…” disse lui, poi.
Pensava che fosse stata Dromeda, a urlare come un cane?
La sua voce era strana, fu l’unica cosa che Bella ebbe la forza di realizzare,
prima di sentirsi in pericolo.
Il pericolo si trasformò in minaccia concreta quando Sirius, nel tentativo di
sfuggire a quella situazione, a lei, fece vagare lo sguardo e incontrò le sue
mani. Le mani che Bella non aveva pulito. Chiuse sulla camicia che Bella non
aveva cambiato. Sul sangue.
“Cosa ti sei fatta?”.
Lo vide avvicinarsi d’istinto, e la paura diventò terrore, la fece respirare più
forte. Vide le sue dita distendersi sul braccio, percepì il loro peso lieve
mentre lo attraversavano, fino alla macchia che già iniziava a odorare di
marcio. E si sentì un animale braccato.
“Non mi toccare” ringhiò.
Sirius si fermò. Non tornò indietro, ma si fermò e le sue labbra si strinsero.
Diventò più pallido.
“Come vuoi” disse, gelido.
“Stammi lontano” replicò Bellatrix, allontanandosi di un passo.
Restò a guardarlo. Voleva essere sicura. Voleva essere certa che non l’avrebbe
fatto mai più.
“Devi starmi lontano”.
Se ne andò lentamente, come chi aspetta di essere colpito a tradimento.
La porta si spalancò e andò a schiantarsi contro il muro, che emise un gemito di
polvere. I cristalli dormienti, riposti nella lunga credenza, tremarono. Sirius
comparve sull’uscio con i capelli scompigliati dal vento e le guance accese da
dicembre, dalla corsa fino in salotto, dalle vacanze natalizie. Dall’infinità di
cose da raccontare. Bella sentì tutto questo e le venne voglia di lanciare il
libro che aveva tra le mani nel fuoco. Alzò lo sguardo, gli occhi inciamparono
nella sciarpa rossa e oro che si faceva sempre più vicina, annodata stretta al
suo collo. Lui le posò un bacio freddo sulla guancia, premette a lungo, come al
solito.
“Ciao” fece, allegro, prendendo a spogliarsi.
Bella lo guardò sorriderle e, improvvisamente, non seppe più cosa fare.
Lanciò ogni cosa sul divano, svuotò le tasche sul tappeto, le porse uno
scarafaggio di liquirizia.
“No, grazie” disse lei.
Sirius ritirò la mano e lo mise in bocca. Masticò a lungo, continuando a
osservarla. Una volta che l’ebbe ingoiato, si abbandonò sul divano. E aspettò.
Bella ritornò al suo libro. Sirius aspettò ancora, fino a che non venne ora di
cena e il gigantesco pendolo della casa degli zii non emise un lungo e lugubre
ululato. Quando la vide alzarsi e rassettarsi la gonna, si decise a parlare.
“Non mi chiedi niente?” disse, sorpreso.
Bella si voltò, già a metà strada.
“Cosa dovrei chiederti?”.
Forse fu il tono della voce, forse Sirius era già cresciuto abbastanza per
comprendere quando un adulto finge di non capire. Vide il colore delle sue
guance farsi un po’ più spento, i suoi occhi un po’ più grandi. Il viso aveva
cominciato ad affilarsi, ma conservava ancora qualcosa di bambinesco che la fece
sentire immensamente debole.
“Anche tu ce l’hai con me?” chiese lui, andando dritto al punto.
Avrebbe dovuto immaginare che la domanda sarebbe arrivata così. Non rispose
subito.
“Papà non mi rivolge la parola da quando l’ha vista”aggiunse, lanciando
un’occhiata alla sciarpa.
“Non avresti dovuto indossarla” si lasciò sfuggire Bella.
“Ma è la mia sciarpa! E poi lo avrebbero saputo comunque” esclamò Sirius “Cissy
lo ha spifferato a tutti il giorno stesso dello Smistamento, vero? In questi
quattro mesi mi ha scritto solo Dromeda. Nessun altro di voi, nemmeno mia madre.
Nessuno! Nemmeno tu”.
Ancora una volta, Bella non rispose.
Sirius si alzò e le andò incontro.
“Per favore. Non fare così. E’ solo una Casa! Perché fate così?”.
“Non è solo una casa”.
“Non ho scelto io” mormorò Sirius, cercando il suo sguardo.
“Hanno scelto le tue idee, per te. E
quelle idee non sono le nostre”.
Lui parve sgonfiarsi.
“E anche se avessi idee diverse?” disse “Perché non mi hai scritto?”.
Le posò una mano sul braccio, strinse, come se pensasse che così, finalmente,
lei avrebbe parlato e sarebbe tornata la Bella di sempre.
“È ora di cena”.
Non appena riuscì a mettere a fuoco l’ambiente circostante, vide il gufo. La
aspettava appollaiato sullo specchio, la zampa tesa. Prese la lettera e ruppe il
sigillo di ceralacca, portandosi più vicina alla finestra. Distendendo la
pergamena, tremò e non seppe dire se fosse paura o eccitazione.
“25 agosto. Little Hangleton.
L. M.”.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 6 *** In The Androgynous Dark ***
Capitolo 5
In The Androgynous Dark
La verità era che non esisteva nessun posto dove nascondersi. Avrebbe potuto
vagare all’infinito, senza trovarlo. I posti dove nascondersi si riconoscevano
subito, erano luoghi sospesi a metà tra buio e luce, dove potevi vedere senza
essere visto e dove ti avrebbe trovato solo chi ti amava. Hogwarts aveva luoghi
segreti in ogni dove; Sirius era riuscito a trovarne uno perfino in Grimmauld
Place: era sempre stato l’angolo disabitato del terrazzo del vicino. Lì, nessuno
era mai venuto a cercarlo. Neppure sua madre. Curioso, forse. O magari
semplicemente triste.
Chissà dove si nascondeva Andromeda. In quei giorni l’aveva incontrata solo a
notte fonda, quando lei poteva fingere di morire dal sonno e di non avere la
forza di parlare. Era probabile che realmente la forza le mancasse; anche se, in
effetti, doveva mancarle anche il sonno. Per delle ore l’aveva ascoltata
respirare a singhiozzo, senza avere il coraggio di smascherarla. Era questo, che
stavano diventando, dei codardi?
Sirius rinunciò alla sua ricerca controvoglia, abbandonando il calore
insopportabile delle serre con una ciotola di porridge semivuota in mano.
Rientrò attraverso l’accesso secondario per i giardini e, mentre affrontava
l’ennesima rampa di scale, decise di avere ancora fame. Dirigendosi verso la
sala da pranzo principale incrociò Narcissa, vestita di tutto punto, intenta a
specchiarsi con aria preoccupata nella superficie di un’armatura esanime. Quando
lo vide arrivare abbassò istantaneamente lo sguardo e scosse i lunghi capelli
argentei, allontanandosi senza proferire saluto.
“Buongiorno” le grugnì dietro Sirius, improvvisamente fiero del suo pigiama a
righe.
In sala da pranzo trovò Regulus vistosamente occupato a stringere il nodo di un
cravattino minuscolo.
“È qui la festa?” gli chiese, abbandonando la ciotola sul tavolo.
“Non riesco a stringerlo” bofonchiò in risposta Regulus, bisticciando con le sue
stesse dita.
Sirius allungò una mano e afferrò l’ultimo croissant rimasto sul vassoio
d’argento, lasciandosi cadere su una sedia per godersi lo spettacolo in
tranquillità.
“Ti voglio bene”.
Suo fratello era talmente agitato da quel combattimento che non diede segno di
aver sentito.
Quando anche Bella entrò nella stanza, con un gigantesco barbagianni appollaiato
sul braccio, Sirius smise di addentare la sua seconda colazione. Era
bianchissima e fasciata in quell’abito di pizzo nero pareva sul punto di
svenire. Sapeva che non avrebbe dovuto ma si ritrovò all’istante a pensare al
sangue che aveva visto, per terra, nel lavabo, addosso a lei, al suo viso pieno
di dolore, quando ancora non sapeva della sua presenza. Quel momento, quella
frazione infinitesimale di tempo in cui Sirius aveva intravisto il vero volto di
Bella, era stato sufficiente a togliergli quel poco di sonno che gli era rimasto
dopo il tracollo di Dromeda.
Lei ignorò entrambi, raggiungendo in pochi passi la grande finestra in fondo
alla sala. Quando la spalancò del tutto, la luce le irradiò la chioma bruna
risvegliandone i riflessi.
“Potresti aiutarmi?” supplicò Regulus, lanciando a Sirius uno sguardo
implorante.
“No. È più divertente così” replicò lui, sorseggiando del succo di zucca fresco.
Il barbagianni spiccò il volo e Bella si voltò con la bacchetta tesa. Il
cravattino di Regulus andò al suo posto, stringendosi attorno al suo collo in
una morsa salda.
“Grazie. Sono pronto. Dovresti prepararti anche tu” disse Reg, alzandosi in
piedi con le guance imporporate.
“Pronto per cosa, di grazia?” disse Sirius, squadrandolo da capo a piedi.
Aveva indossato uno degli abiti più ridicoli che gli avesse mai visto addosso e
il suo sesto senso gli comunicò che quello non era affatto un buon segno.
“Stanno arrivando” Regulus aggirò il tavolo “Come sto?”.
“Terribilmente” lo liquidò Sirius, colto da un atroce presentimento “Chi sta
arrivando?”.
“Nostra madre, nostro padre e gli zii”.
“Cosa?!”.
L’esclamazione si duplicò, variando dal tono gelido e perentorio di Bella a
quello piatto e irrisorio di Sirius.
Lui le lanciò un’occhiata stupita, scoprendola immobile come una statua.
“È-è arrivato un gufo questa mattina… presto. Saranno qui a momenti. Credo”.
Regulus rispose con voce tremolante, intimidito da entrambi e incerto se
guardare l’uno o l’altra.
“Perché?” la voce di Bella fu un sussurro minaccioso.
“Non lo so”.
Se avesse potuto, probabilmente Regulus sarebbe scoppiato a piangere come un
bambino.
Il suono assordante di una campana fece sussultare tutti e tre prima che
potessero aggiungere altro a quella surreale conversazione a triangolo.
“Cosa intendevi, di preciso, con ‘saranno qui a momenti’?” domandò Sirius, dopo
un interminabile secondo di silenzio.
“Dove diamine sono i Domestici?”.
La voce di Walburga Black era appena un tono sotto allo stridore delle unghie
sulla lavagna.
Sirius sorrise mestamente tra se e se, finendo con un morso particolarmente
violento la sua brioche.
Non sapeva precisamente quando ma, proprio come era successo con
Bellatrix, tra lui e sua madre, in un punto preciso delle loro esistenze, era
finito tutto. Aveva ricordi vaghi e confusi della sua infanzia, un paio di
momenti di risate, quando ancora non era in grado di capire davvero tutte le
pericolose sciocchezze che Walburga tentava di inculcargli a suon di storielle.
Quello che ricordava bene, invece, era il terrore: lei gli aveva sempre fatto
paura, con quei suoi occhi scuri e penetranti, capaci di soffocare ogni moto di
ribellione. Lo erano stati, fino a quando Sirius non aveva capito che esisteva
anche dell’altro, qualcosa al di fuori di quelle mura e delle parole dei suoi
genitori. Forse una parte di lui aveva sempre saputo, come una parte di Walburga
certamente aveva sempre temuto di ritrovarsi per le mani un figlio pericoloso.
Quando raggiunse il resto della famiglia nel gigantesco androne, tutti si
voltarono nella sua direzione. Suo padre Orion si limitò a squadrarlo senza
proferire parola, sommerso dal fumo della sua stessa pipa. Il più delle volte
fingeva semplicemente che lui non esistesse, trincerandosi dietro mormorii
sibillini o puri silenzi di tomba: del resto, le sue speranze per il futuro
risiedevano completamente nelle mani impacciate di Regulus. Walburga, invece,
faticava ancora ad arrendersi.
Le labbra della donna si arricciarono visibilmente alla vista del suo pigiama.
“Avresti almeno potuto degnarti di indossare qualcosa di pulito” sibilò,
lasciando che un Elfo tremante le sfilasse i guanti leggeri dalle mani rigide
come artigli.
C’erano stati giorni in cui parole così, sguardi così, l’avevano colpito a
morte. Sirius faticava ancora ad ammetterlo a se stesso e non l’avrebbe mai
raccontato a nessuno. Non aveva dimenticato il dolore. Il rifiuto gli aveva
scavato nell’anima una ferita profonda e ora la cicatrice era così spessa da
averlo reso quasi insensibile.
“Buongiorno, madre. Il viaggio è stato di vostro gradimento?” replicò, scuotendo
via le briciole dal colletto di flanella.
“Meravigliosamente” intervenne zia Druella, sfoderando un sorriso gelido “Le
vostre vacanze come procedono, ragazzi?”.
Chiaramente non stava parlando con lui, perché gli voltò quasi immediatamente le
spalle, rivolgendosi al resto della progenie.
Solo allora, Sirius notò la presenza di Andromeda: era vestita esattamente come
Bella e Narcissa, con un lungo abito blu di foggia magica.
Il cuore gli sprofondò nel petto. Cercò i suoi occhi ma lei non si voltò mai,
per tutta la durata dei convenevoli. Quando lo zio Cygnus le posò un bacio di
saluto sulla fronte, proprio come aveva fatto con le altre due figlie, lei gli
sorrise quieta.
Sirius avvertì una forte sensazione di nausea alla bocca dello stomaco. Restò
ancora un istante a guardare la cerchia di sconosciuti alla quale sarebbe dovuto
appartenere, se tutto fosse andato come previsto. Si sentì solo, differente, e
muovendosi ai margini di quel fosco quadro familiare, ricordò a se stesso dove e
come avrebbe potuto trovare la sua vera famiglia: lontano, lontanissimo da lì.
L’incubo era iniziato.
“Presto, le sarte saranno qui a momenti” aveva detto sua madre, imbrigliandole i
lunghi capelli in un nastro “Togliti questo vestito, per Salazar, sembri
sull’orlo della tomba”.
Quando aveva preso a slegarle i lacci del corsetto, Bella si era ritratta ed era
sfuggita alle sue mani rifugiandosi dietro al paravento della camera, con la
scusa di essere abbastanza grande per farcela da sola.
“Benvenute!” cinguettò sua madre ad un certo punto, oltre la barriera.
“Oh signora Black, che meravigliosa tenuta, che fantastici giardini!”.
“E che belle figlie!”.
Anche Dromeda e Cissy salutarono garbatamente, mentre qualcosa di grosso e
pesante atterrava sul pavimento con un tonfo.
Le mani di Bella si soffermarono a lungo sulle bende, verificandone la tenuta.
“E la futura sposa? Dove si nasconde?”.
“Ha già iniziato a spogliarsi. Con quale modello potremmo iniziare?” rispose,
agitata, sua madre.
“Pensavamo a un pizzo chantilly veramente sublime, qualcosa che esalti la sua
carnagione. Come questo”.
Bella sentì Cissy trattenere il respiro e sua madre squittire.
“Le starebbe così bene! Iniziamo, iniziamo!”.
I passi oltre il paravento si fecero sempre più vicini e lei sentì la forza
mancarle. Una parte della sua mente continuava a ripeterle che avrebbe dovuto
fuggire, che non doveva succedere per forza, non doveva succedere davvero.
La donnina minuscola che le si parò davanti la colse in un momento di puro
terrore.
“Salve, cara” la salutò, seguita a ruota da un monumentale abito sospeso a un
metro da terra “Sei pronta?”.
Bella annuì tentando di stendere le labbra in un sorriso.
“Non temere, sarà molto più facile di quanto credi” rise, e i boccoli biondi che
le circondavano il viso avvizzito presero a dondolare come campanellini.
“Alza le braccia”.
Seguì le istruzioni scrupolosamente, senza emettere un fiato, mentre la donna
prendeva possesso pian piano del suo corpo, foderandola in metri di pizzo
candido senza che potesse opporsi in alcun modo. Mentre la gabbia le si
stringeva intorno, gli occhi di Bella fissavano il vuoto.
“Ed ecco qui, cara” disse poi la donna, dopo aver sbuffato un po’ per
rassettarle la gonna ed essere indietreggiata per contemplarla “Una visione!”.
“Forza, Bellatrix, esci da lì” le intimò perentoria sua madre.
Bella fece un passo e la pesantezza dell’abito la fece barcollare.
“Oh! Attenzione! Bisogna farci un po’ l’abitudine, non è vero, cara?” blaterò la
sarta, prendendole una mano.
Lei si scostò bruscamente e avanzò abbandonando la protezione del grande
paravento.
Non appena la vide, sua madre portò le mani al viso in un gesto plateale e Cissy
la guardò con un sorriso invidioso sul viso.
Tra tutti gli sguardi sognanti della stanza, Bella cercò istintivamente l’unico
che spiccava per seriosità.
Dromeda la guardava. Non guardava l’abito, né il pizzo o chissà che altro.
Dromeda guardava lei, dentro lei. Non era uno sguardo gioioso: era uno
sguardo consapevolmente preoccupato che scivolò lentamente sulle bende e poi di
nuovo nel profondo di Bella, dove erano sepolti i pensieri e le paure che nessun
altro avrebbe potuto intuire.
Fu la prima ad abbassare lo sguardo, mentre un’altra sarta la avvicinava,
tendendo le mani sconosciute verso le sue spalle nude, lasciate scoperte dal
corsetto. Era così stretto, così stretto che le pareva di non respirare quasi
più.
“Vede, le cade così bene, signora Black!”.
“Ed è così simile al suo abito, se lo ricorda? Una delle nostre spose più
belle”.
Sua madre sorrise vezzosamente, scuotendo i capelli biondi come era solita fare
Cissy per pavoneggiarsi.
“Fai un giro, Bella, da brava” disse, con un gesto.
Bella obbedì, mentre i contorni della stanza si facevano via via più sfocati,
come in un sogno.
“Anche dietro è comunque una meraviglia. In effetti pensavo a qualcosa di più
tradizionale, qualcosa con delle maniche, capite?”.
“Madre, sarà ancora piena estate” replicò Andromeda.
“Non essere sciocca, Andromeda. Ci si sposa una sola volta nella vita”.
“Appunto. Sarebbe meglio non svenire all’altare per un colpo di calore”.
“Infatti non accadrà” disse con tono glaciale sua madre, segnando una linea di
demarcazione oltre la quale la figlia non avrebbe dovuto spingersi “Vorrei che
provasse un abito più classico”.
Provò l’abito classico. Un tripudio di veli e pizzi pesantissimi, con un
corpetto sottile che le si chiuse sotto la gola.
“Ecco. Ci siamo” fu il verdetto della madre “Guardati nello specchio, figlia
mia”.
Bella avrebbe voluto poter dire che no, non lo avrebbe fatto. Che non voleva
vedere cosa ne sarebbe stato di lei, una volta indossato quel vestito e il nome
che non le sarebbe mai appartenuto.
Lo specchio le spinse contro la sua stessa immagine, l’immagine di lei che si
osservava come una bestiola braccata, stringendo forte i pugni in un ultima,
inutile difesa.
Non riusciva a vedere nient’altro, né l’abito, né le persone che la
circondavano. Sua madre e Cissy le furono subito accanto, mentre la prima
lacrima le solcava una guancia.
“È un’emozione unica, vero?” mormorò sua madre, stringendole il braccio proprio
dove la ferita pulsava più forte “Farai commuovere anche me”.
Narcissa accarezzava la gonna gonfia, sovrappensiero, seguendo la linea dei
ricami.
Quando anche Andromeda la raggiunse, asciugandole il volto con un gesto colmo di
pietà, Bella cercò la sua mano.
“Sarai bellissima. La signora Lestrange… ancora fatico a crederci” disse sua
madre.
Bella strinse forte e a lungo le dita di sua sorella, unico appiglio in un mare
di disperazione.
Rimasero a definire i dettagli della cerimonia fino a tardi, fino a quando Bella
si sentì svenire nel boudoir e sua madre ebbe la prontezza di farla mangiare in
fretta e furia, prima di spedirla nella sua stanza a riposarsi.
Dopo cena, Andromeda si era accomiatata dalla famiglia accusando un forte mal di
testa. Bella barcollò inconsciamente fino alla sua stanza, con l’intenzione di
raggiungerla. Quando bussò, dall’interno non giunse nessuna risposta. Entrò
comunque, esausta e incapace di tornare nella sua camera affrontando una notte
in solitudine. Dromeda aveva l’abitudine di passeggiare nei giardini, prima di
dormire. Non voleva parlarle né sentirla parlare: aveva solo bisogno di avere
qualcuno vicino, accanto a sé. Qualcuno che non si aspettasse di vederla felice.
Ubriaca di stanchezza e dolore, avanzò nell’oscurità spessa fino al letto e vi
si lasciò cadere, vestita solo per metà.
Ogni cosa sarebbe finita e lei avrebbe abbandonato per sempre la sua casa. Per
sempre.
Sirius aveva trovato qualche residuo delle strane sostanze fornite da Tonks
nella tasca dei jeans che aveva usato il giorno della festa notturna. Esiliato
da pranzi e cene di famiglia per sua precisa volontà – aveva sentito Walburga
strillare il suo nome a più riprese in lungo e in largo per Englefield House –
si era trastullato con pipa e dolcetti per gran parte della giornata. Il
risultato della combinazione tra eccesso di zuccheri e fumo era stato una sorta
di pace meditativa.
Quando l’oscurità era scesa, inondando la tenuta, si era rassegnato a strisciare
lento nell’orrorifica dimora, ben attento a non farsi notare.
Oramai aveva preso stanza nel letto di Dromeda e fu proprio lì che trovò la sua
meta.
Si sentì in pace solo quando richiuse la porta dietro di sé, sprofondando nel
buio.
“Sono tornato” biascicò, cercando di mantenere viva quel poco di lucidità
superstite “Oggi mi hai spezzato il cuore”.
Urtò con il ginocchio il baldacchino, lanciò un gemito e poi atterrò con le mani
sul materasso, interrompendo la rovinosa caduta.
“Sono a pezzi” ridacchiò, senza chiedersi perché “Merlino… sono davvero a
pezzi”.
Tutt’un tratto si sentì immensamente triste.
Posò goffamente la testa sui cuscini, allungando un braccio alla ricerca della
cugina. Trovò il suo corpo caldo a poca distanza da lui, disteso.
“Non vuoi nemmeno parlarmi?” mormorò.
Dromeda non rispose.
Sirius decise che non gli importava: scivolò al suo fianco e le circondò la vita
in un abbraccio saldo.
Rimase così, immobile, per quello che gli parve un tempo infinito.
“Ho paura, Dromeda” sussurrò poi, mentre sentiva il sonno corrompere quel poco
di forze che gli era rimasto “Ho paura che ci facciano del male. Ho paura per
me, per te… ho paura per Bella. Ho paura per Bella. Aiutala…”.
Prima che tutto divenisse un sogno, Sirius sentì la mano di Andromeda chiudersi
sulla sua. Era fredda.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 7 *** Unsayable ***
Capitolo 6
Unsayable
Il suo errore più grande.
Dopo di lui, Bella aveva promesso a se stessa che non avrebbe mai permesso a
nessun altro di ingannarla così. Perché questo era stato: un terribile inganno.
Un errore che aveva tentato di cancellare.
Bella si incantò a osservare le volute di vapore che emergevano dalla sua tazza
di the. Si stagliavano contro il bagliore del fuoco e poi sparivano nel buio,
proprio come i suoi pensieri: lampi opachi persi nel silenzio della notte. La
casa degli zii appariva desolata, con i suoi occupanti immersi nel sonno. Poche
ore prima erano tutti riuniti a quello stesso tavolo.
Dirigendosi ai piani superiori, mentalmente esausta per le continue osservazioni
di sua madre riguardo al taglio di capelli che avrebbe esaltato i suoi
lineamenti, Bella aveva superato lo studio dello zio. La porta semiaperta le era
sembrata un richiamo irresistibile: suo padre e Orion erano rinchiusi lì da
un’eternità.
“Devo ammetterlo: è stato un duro colpo anche per me e Druella. Le ragazze sono
sconvolte” sentì dire da suo padre.
“Non riesco a comprendere quale sia stato il mio errore. L’ho allevato come un
vero Black e ora mi ritrovo un primogenito Grifondoro. Gli faranno il lavaggio
del cervello, come a tutti quelli della sua Casa, e tra qualche anno sarà
invischiato nelle peggiori schiere di Babbanofili del Regno Unito”sibilò lo zio
“I nostri poveri padri sarebbero inorriditi”.
“Prego che non faccia la fine di Cedrella. Tanto talento gettato alle ortiche…”.
“Non ripetere quel nome davanti a Walburga. È fuori di sé. Ero tentato di
impedire al ragazzo di tornare, per questo Natale”.
Il tintinnio dei cristalli e l’odore di Ogden’s Old arrivarono fino a lei.
“Abbiamo sempre dovuto lottare per la purezza del nostro sangue, Orion. Hai
fatto tutto ciò che era in tuo potere, il ragazzo è ovviamente un’anomalia.
Neppure io ho di che rallegrarmi: con tre figlie femmine sono destinato a
perdere il nostro nome”.
“Le tue figlie sono l’orgoglio dei Black. I Purosangue non vedevano tre bellezze
simili da lungo tempo”.
“Mi lusinghi, Orion. Non fraintendermi, amo le mie figlie, ma sono donne e
l’unico orgoglio che mi daranno sarà frutto della scelta del pretendente…
contavo molto su Sirius. Era davvero…
brillante. Un autentico primogenito Black”.
Sono donne. Suo padre lo aveva detto con una nota di disprezzo, una punta di
delusione, un profondo senso di rassegnazione. Erano passate le ore più buie
della notte e Bella sentiva ancora quelle parole deflagrarle nella mente,
ripetersi, rimbalzare.
Nessuno avrebbe mai ricordato quanto capace o intelligente fosse Bellatrix
Black. Un giorno avrebbero ricordato la sontuosità del suo abito da sposa, la
raffinatezza del ricevimento, ma non una parola sarebbe stata spesa riguardo al
giorno in cui aveva imparato, prima tra una schiera di eredi maschi, a Incantare
con il pensiero. Non una parola sulla sua devastante potenza, il suo immenso
talento. Riconoscere questo le faceva mancare il respiro. Accettare che un
giorno qualcuno l’avrebbe oscurata, cancellata e rinchiusa in una prigione di
incontri mondani e chiacchiere, proprio come sua madre… Non poteva permetterlo.
Abbandonò il the ormai freddo sul tavolo, risalì le scale in punta di piedi.
Nella stanza degli ospiti dormiva pacifica Dromeda, accoccolata come una
bambina.
Avrebbe dovuto svegliarla, salutarla, forse. Esitò, fermandosi ai piedi del suo
letto. Guardandola, le parve di star abbandonando una parte di se stessa, così
simile eppure differente. La parte buona e pulita del suo cuore.
Indietreggiò, spaventata. Il grande specchio appeso al fondo del baldacchino
rispose con il suo riflesso, l’immagine di una giovane donna terrorizzata
dall’idea di quello che stava per fare.
Fuggire. Lasciare indietro ogni cosa, anche il suo nome. Poteva davvero farlo?
E chi si sarebbe preso cura di Dromeda? Chi l’avrebbe protetta dalle smanie
della loro madre? Se fosse diventata come lei, un giorno? Dura. Dura e fredda.
Con le dita gelide, recuperò un angolo di pergamena dallo scrittoio e vi
impresse un messaggio per la sorella.
Infilò gli stivali e raccolse i capelli in un nastro, prima di tornare giù
silenziosamente.
Non le piaceva dover strisciare via, ma era certa che non avrebbe saputo
affrontare una discussione. Confrontarsi con gli occhi di suo padre e
riconoscervi l’amarezza, l’insoddisfazione di aver generato una figlia incapace
di essere all’altezza, di renderlo orgoglioso come avrebbe voluto... sarebbe
stato anche peggio del sentirsi costretta a sparire.
Recuperò il suo mantello nel sottoscala, prima di imboccare il corridoio che
portava all’uscita.
Mormorò il controincantesimo e l’Incanto che proteggeva la porta si dissolse.
“Bella”.
Il richiamo fu debole, sussurrato, ma sufficiente a farla trasalire.
Si voltò lentamente e non del tutto, esponendo solo un profilo allo sguardo
penetrante che l’aveva colta in fallo.
Non aveva bisogno di guardare in faccia il proprietario di quella voce, perché
le era bastato il tono, la connotazione precisa che aveva preso il suo nome,
pronunciato in
quel modo.
“Dove vai?”.
Non rispose. Sapeva che avrebbe dovuto varcare la soglia e chiudere la porta
dietro di sé, senza esitare, senza pensare. In quella notte era la seconda volta
che i suoi sentimenti le tendevano trappole diaboliche.
Una mano si posò sulla sua spalla e Bella non poté più fingere di essere
impassibile.
“Sirius” disse, controllando la voce, spegnendo il tremito “Torna a dormire”.
“Perché te ne vai?”.
La fece voltare gentilmente, spingendola con la sua mano ancora piccola eppure
non più infantile, una sorta di miniatura perfetta della mano di un uomo.
Bella indugiò con lo sguardo tra le sue dita lunghe, prima di incrociare i suoi
occhi. Erano grandi e profondi, ed erano tremendamente simili ai suoi. Erano i
suoi occhi piantati in un’altra persona, il suo spirito innestato in un essere
diverso e complementare, con le stesse atroci paure e le stesse imperfezioni.
Pensare a quello che aveva perso, con Sirius, le fece dolere la gola, come se
fosse sull’orlo del pianto.
Per Salazar, avrebbero potuto essere… avrebbero potuto essere, insieme, un
giorno…
“Non ti riguarda” rispose con rabbia.
“È per colpa mia?” chiese Sirius, sincero e limpido “Cosa è successo?”.
Per un istante nella mente di Bella balenò il desiderio di crollare,
abbracciarlo e cancellare la realtà, fingere che nulla fosse accaduto. Invece
qualcosa era già successo, insinuò una voce dentro di lei, qualcosa stava già
succedendo e sarebbe stato sempre peggio. Stavano diventando tutti adulti e i
loro sentieri erano destinati a unirsi, legarsi o dividersi per sempre.
Ma era solo un bambino…
“Sì, è per colpa tua” mentì, con voce ferma.
La tristezza che riempì lo sguardo di Sirius la fece vacillare, come se qualcuno
stesse tentando di spingerla oltre un dirupo.
“Credevo che avresti voluto essere come me. Hai sempre detto questo, no? Che
saresti cresciuto e saremmo stati dei Maghi invincibili. Non è così?” continuò
“Invece hai preferito rinnegarmi. Sai cosa dicono della nostra famiglia, nella
tua Casa? Dicono che siamo malati. Credi che non sappia cosa ti dicono di me,
Sirius?”.
La mano di Sirius scivolò lungo il suo braccio, come morta, e le sue guance
impallidirono.
“Io ti ho difesa, con chiunque. Ho fatto a botte, per voi” rispose “Anche se non
mi hai mai scritto, io ti ho difesa, ho litigato con i miei amici per te”.
“I tuoi
amici?” ringhiò Bella, sentendo il suo cuore iniziare a battere sempre più
veloce “I tuoi amici sono la tua famiglia. Io sono tua amica. Come hai
potuto rifiutarci così? Per quale motivo l’hai fatto, Sirius? Noi ti
amiamo come nessun altro potrà mai fare”.
Sentì qualcosa di bagnato colarle lungo le guance. Sfiorò la pelle con le dita,
incredula, e si riscoprì in lacrime.
Sirius allungò le braccia magre verso di lei ma Bella lo spinse via con energia,
facendolo inciampare. Eppure lui non si arrese, le afferrò i polsi e tentò
disperatamente di riconquistare il suo sguardo.
“Sai che non è così, Bella. Sai che non lo è. Lo vedi, come ci trattano. Vedi
che non pensano a cosa vogliamo e a cosa desideriamo. Mia madre e mio padre non
mi hanno mai amato davvero.
Questo non è amore” Sirius la bloccò in un angolo, tenendo bassa la voce e
allo stesso tempo quasi supplicandola.
Bella sentì venire meno il controllo. Suo padre, sua madre, Dromeda, Sirius…
“Io
ti amo” singhiozzò, soffocando la voce “Io avrei potuto amarti anche di più
di così. Questo… questo non puoi capirlo”.
Si lasciò scivolare, affondando nel suo stesso vestito.
Sirius si inginocchiò ai suoi piedi e, improvvisamente, non fu più un bambino.
“Io lo so” sussurrò “Lo so. Ti prego, non te ne andare. Possiamo continuare a
essere noi, anche se qualcosa cambierà? Ti prego, Bella, puoi farlo, almeno
tu?”.
Bella scosse la testa.
“Un giorno mi disprezzerai. Crescendo, mi odierai” rispose “Arriverà un giorno
in cui le persone come noi e le persone come voi si scontreranno, Sirius. Accade
sempre. E allora da che parte sarai schierato?”.
“Non ci deve per forza essere una guerra. Perché sei così?” mormorò affranto
Sirius.
Era talmente vicino. Poteva contare le sue ciglia, una a una.
“Perché succederà. Ci sarà la guerra” disse Bella “Da che parte sarai schierato?
Chi sceglierai?”.
“Io non voglio una guerra. Nessuno la vuole” rispose lui, e sul suo volto si
manifestò la paura.
“Io farò quello che sarà giusto fare, Sirius. E anche tu lo farai. Se dovrò
ucciderti, cosa credi che farò?” aggiunse imperterrita Bella.
Una consapevolezza spietata si fece largo negli occhi di Sirius. Una parte di
lui, si vedeva, non voleva ancora credere. Una parte di lui desiderava ancora
sperare.
“Tu mi uccideresti?” chiese, diretto “Mi uccideresti
davvero?”.
Ecco, pensò Bella, questo momento traccerà la linea tra il prima e il dopo.
Questo momento significherà dirgli addio. Non si concesse il tempo di pensare.
“Sì” disse.
Sentì le lacrime scavare più a fondo.
“Sì” disse ancora.
Sirius smise di respirare. La guardò a lungo, negli occhi, e cercò la conferma
di quelle parole vagliando la sua anima angolo per angolo.
Quando la ricerca fu conclusa, le prese la mano che stringeva la bacchetta e,
piano, la puntò contro la sua stessa fronte. Bella non capì immediatamente.
“Cancella” disse Sirius, abbassò lo sguardo e la sua voce tremò “Cancella
tutto”.
“Cosa…?” disse Bella.
“Non voglio ricordare più niente. Più niente di me e te” non alzò gli occhi ma
la voce si fece ferma “Io non posso odiarti, Bella, se non lo fai soffrirò e
basta”.
Il terrore le si irradiò fino alla punta delle dita.
“Non…”.
“So che lo sai fare” disse Sirius “Fallo e basta. Solo tu sai cosa cancellare.
Ti prego, è l’ultima cosa che ti chiedo. Non voglio più stare così male”.
“N-no” sussurrò Bella.
“Dannazione, fallo. Sarà più facile anche per te” disse Sirius “Ti prego”.
Cancellare tutto.
“Adesso”.
Sirius strinse più forte la sua mano.
Nella memoria di Bella il ricordo appannato di un Sirius minuscolo, piccolo,
avvolto in un panno bianco, passò come un lampo. Poi il giorno in cui avevano
fatto il bagno al tramonto, nel lago. Lui non sapeva ancora nuotare, le si era
stretto addosso. Gli sguardi complici a tavola. Le sue infinite sciocchezze. Le
risate sguaiate. Ogni ricordo tracciava una ferita lancinante.
La mano di Bella divenne immobile all’improvviso.
Fu il momento in cui Sirius, il Sirius appena undicenne che ricordava ancora
ogni cosa, la guardò per l’ultima volta.
“Io
ti amo”.
“Oblivion”.
Nei successivi cinque anni aveva tentato, con tutti i mezzi a sua disposizione,
di rinnegare il rimorso. Ma incontrarlo, rivederlo, non faceva altro che
riportare a galla i ricordi. I ricordi la facevano sentire debole, insicura. Lei
non era questo.
Lo sguardo inciampò sul volto di Sirius, ancora addormentato. Era l’alba e dalla
stanza di Dromeda si poteva vedere il sorgere del sole: qualche raggio pallido
già si insinuava tra le pieghe delle cortine, colorando d’oro il profilo delle
lenzuola.
Aveva dormito con lui. O, almeno, ci aveva provato. Non aveva avuto il coraggio
di rivelarsi, aveva preferito lasciargli credere di essere qualcun altro, pur di
sentirsi amata. Dove era arrivata la sua disperazione? In quale fondo buio stava
scavando?
Era stato così strano, spaventoso, lasciarsi abbracciare. Proprio da lui che la
odiava.
Osservandolo, incredibilmente pacifico e rilassato, i pugni stretti attorno
all’angolo martoriato di un guanciale, si pentì. I momenti più terribili erano
simili a quello: gli istanti razionalmente rifiutati in cui la parte più
istintiva del suo essere reclamava indietro tutto l’amore che era andato perso,
spazzato via insieme alla sua memoria.
E allora quale, quale era stato il suo errore più grande?
La sua mente non registrò subito il rumore, o meglio lo colse ma lo eliminò
dalla sfera dei sensi. Quando, finalmente, Bella scostò lo sguardo da Sirius,
trovò Andromeda a pochi passi da lei, intenta a osservarla con un’espressione
confusa in volto. Gli occhi di sua sorella erano incorniciati da un paio di
occhiaie profonde e livide, segno rivelatore dell’insonnia; aveva i capelli
scarmigliati, come se fosse di ritorno da una corsa tra i cespugli. O, peggio,
da una notte di bagordi.
“Cosa ci fai qui?” mormorò, spostando lo sguardo da lei a Sirius e viceversa.
Bella, esausta, abbandonò qualsiasi tentativo di schermaglia. Scosse la testa.
“Non voglio parlarne, ora” rispose, tenendo la voce bassissima.
Sirius avrebbe potuto svegliarsi in qualsiasi momento, trovarla lì e
riconoscerla. Questo la preoccupava meno del dover spiegare quanto era accaduto.
Lentamente, scivolò giù dal letto, curando di non urtarlo per errore.
Uscì dalla stanza e, a un suo cenno, Dromeda la seguì.
“Perché?”.
La voce di Dromeda era ferma e gelida.
“Non voglio che lo sappia. Crede di aver dormito con te”.
“Perché sei così, Bella?”.
Ancora quella domanda.
“Per Salazar…” rispose, esausta “Lui mi detesta, Meda. Smettila di far finta di
non vedere”.
Il tavolo della colazione era ancora deserto ma già traboccava di croissant,
succo freddo e cheesecake ai frutti di bosco.
Bella non aveva toccato cibo, proprio come sua sorella. Si erano limitate ad
accomodarsi, una di fronte all’altra, prima di cominciare lo scontro.
“Non è così. Devi credermi” disse Dromeda, decisa “E’ ancora un ragazzo, per lui
è tutto bianco o nero, non capisce che può esserci una via di mezzo… ma ti vuole
bene, si preoccupa per te”.
Bella ignorò e soffocò il pensiero delle parole di Sirius, sussurrate a pochi
centimetri dal suo orecchio nell’oscurità.
Ho paura per Bella. Aiutala.
“Alcune cose lo sono davvero, bianche o nere. Quando anche tu dovrai fare la
scelta giusta, te ne accorgerai” disse.
Sua sorella accusò il colpo, le tremarono le mani.
“Dimmi, Bella, è questa?” disse, estraendo dalla sua borsa una busta
verde bottiglia “E’ questa la scelta giusta?”.
Gliela allungò sul tavolo. Prima di afferrarla, Bella la scrutò. Era quadrata,
la carta impreziosita da fili d’argento. La aprì e la fece scivolare via,
liberando il contenuto. Quello che sembrava un pesante invito le cadde tra le
mani. Guardò Dromeda senza capire.
“Leggilo” le disse sua sorella, improvvisamente triste.
Bella spalancò le due facciate e ritrovò il suo nome impresso, d’argento anche
quello.
La sensazione fu quella di ricevere un pugno dritto nello stomaco. Bella sapeva,
quanto male facesse, perché l’aveva provato. Forse, forse era peggio di un
pugno. Uno schiaffo, uno schiaffo in pieno volto di fronte a una folla di
sconosciuti. Era quel genere di punizioni che a sua madre piacevano tanto e,
anche questa volta, non si era smentita.
Il nome di Rodolphus brillava accanto al suo, in un tripudio di fronzoli e luci.
“È l’invito per la tua festa di fidanzamento. È per sabato. Questo sabato” disse
Dromeda.
Bella rimase in silenzio a osservare l’abominio di pergamena che aveva tra le
mani.
“Le ha spedite a mezzo Mondo Magico. Sono state invitate tutte le
famiglie Purosangue della Gran Bretagna e dell’Oltremanica. Lei non te l’ha
detto, Bella”.
Tentò di nascondere il moto di rabbia che le esplose nel sangue.
“Le chiederò spiegazioni” disse, alzandosi di scatto.
Andromeda la imitò e si sporse sul tavolo, afferrandole un polso.
“È vero. Sirius ha ragione” disse, costringendola con prepotenza a guardarla
negli occhi “Questa non è la scelta giusta. Lo sai, Bella. Non lo devi fare. Non
devi per forza essere infelice”.
“Io non sarò infelice” disse, tentando di divincolarsi.
Gli occhi di Dromeda brillarono di lacrime.
“Tu lo sei già. Sei già infelice da così tanto tempo…” disse “Bella, fermati
prima che sia troppo tardi. Non lasciarti piegare. Sarai tu che dovrai vivere
con quest’uomo per il resto della tua vita, non loro”.
“Tu non capisci” alzò la voce Bella “E’ per questo che siamo migliori degli
altri! Sappiamo a cosa dobbiamo rinunciare. È questo che ci rende superiori:
fare la cosa giusta, obbedire alle regole dei nostri Padri. Solo così si è
davvero dei Sanguepuro. Tu lo sei, Meda?”.
“Sono tua sorella, prima di ogni altra cosa, anche del sangue. Io ti vorrò bene,
sempre, anche se deciderai di distruggerti. Anche se lo farai, io ti vorrò bene”
disse Dromeda, continuando a guardarla negli occhi.
“Spero di poter fare lo stesso con te, Meda. Spero che le tue sciocche abitudini
non me lo impediranno, un giorno. I Black non tollerano i tradimenti” disse
Bella, sfuggendo al suo sguardo e indugiando di proposito sui suoi abiti, così
fuori luogo.
“I tradimenti non sono questi. I tradimenti peggiori sono quelli che facciamo
verso noi stessi. Stai attenta a quello a cui rinunci” disse Andromeda, prima di
lasciarla andare “Certi errori non si possono cancellare.”
Neppure il suo errore più grande?
|
Ritorna all'indice
Capitolo 8 *** All Is Violent, All Is Bright ***
Capitolo 7
All is violent,
all is bright
“Eccoti, finalmente”.
La voce di Andromeda sopraggiunse alle sue spalle, sottile e discreta, prima
ancora che l’eco soffice dei suoi passi la preannunciasse.
Sirius si voltò di soprassalto, piegando istintivamente a metà la pergamena che
aveva tra le mani. La piuma gli scivolò dalle dita e cadendo a terra gli macchiò
la camicia d’inchiostro.
“Dannazione” imprecò, scendendo con un balzo dal tavolaccio di legno dove si era
rifugiato.
Dromeda sorrise affettuosa e lui si sentì in colpa. Nel palmo destro, nascoste
per bene, stavano le parole che non aveva avuto il coraggio di dirle e che,
invece, presto sarebbero state lette da James.
“Credo che anche Meda mi abbia abbandonato”. L’aveva scritto sorridendo tra
se e se, amaramente: ora, davanti a lei, gli sembrò una frase infinitamente
patetica. L’avrebbe cancellata e riscritta da capo.
“Che ci fai qui? Fa un caldo infernale” disse lei, ignorando gentilmente il suo
disagio.
“Sì, beh… stavo evitando…”.
“L’invasione nemica?” lo aiutò Meda, superando la soglia della serra e
addentrandosi nella cappa umida e soffocante che permeava l’ambiente.
Indossava un abito da sera, blu notte, tempestato di preziosi lungo la
scollatura generosa, e aveva i capelli raccolti in un’acconciatura morbida, da
adulta. Era bellissima ma vederla così perfettamente composta, l’ulteriore
elemento in sintonia con lo sfondo del quadro, fece sentire Sirius braccato,
isolato. Distolse lo sguardo dal suo, raccolse la piuma da terra e infilò la
pergamena in tasca, accartocciandola.
“Già” replicò, muovendo due passi nella sua direzione “comunque, stavo per
andarmene”.
“Certo” disse lei, senza mostrare intenzione di liberare l’uscita.
Sirius si fermò prima di arrivarle troppo vicino e tentò di evitare i suoi
occhi, soffermandosi in modo impacciato sul grande coleottero che camminava
lungo il vetro alla sua sinistra, sul grosso fiore carnivoro schiuso ai suoi
piedi, sul gioco di luci aranciate e rossastre che il tramonto proiettava nel
cielo.
“Sirius” il richiamo di Andromeda fu deciso e implacabile.
“Cosa c’è?” sospirò lui, sconfitto.
“Perché mi eviti?” gli chiese, diretta.
Stava per ribattere che non era affatto così, mentendo spudoratamente, ma lo
sguardo di sua cugina lo sondò e lo mise in guardia. Sirius non riuscì a placare
l’insofferenza e ritornò sui suoi passi.
“Somigli a Bella conciata così, sai?” disse, tagliente.
“Non hai risposto alla mia domanda” disse Meda, indifferente alla sua
provocazione.
“Oh sì, invece, l’ho appena fatto” Sirius incrociò le braccia al petto e sollevò
il mento con aria di sfida “Guardati. Sembri il prodotto perfetto del percorso
di indottrinamento Purosangue. Dovrebbero brevettare il metodo, a questo punto”.
Provò a esibire uno dei suoi sorrisi strafottenti ma il tentativo fallì ed ebbe
improvvisamente paura.
“Con te sembra non aver funzionato, però” ribatté lei, tranquillamente.
“Walburga avrebbe dovuto prendere lezioni dalla tua carissima madre. Potresti
suggerirglielo: chissà che non venga anche a lei la brillante idea di combinarmi
un matrimonio. A proposito, ti ha già comunicato il nome del tuo futuro?”.
“Non iniziare, Sir, per favore…” pregò Dromeda, alzando debolmente una mano nel
tentativo di placare la sua rabbia.
Forse quel gesto lo fece infuriare ancora di più, gli fece venire voglia di
ferirla, in profondità.
“Punto su Rosier. Insieme ve la spasserete” disse, misurando la voce “Certo,
dovrai smetterla di andartene in giro insieme ai tuoi amichetti Babbanofili,
fingendoti la nobile sovversiva che non sei mai stata. Evan mi sembra un tipo un
tantino integralista, quindi, fossi in te, sorvolerei sulle scopate clandestine
nel club dei Mezzosangue”.
Andromeda gli fu di fronte in un attimo e… Merlino, lo schiaffo gli arrivò
diritto in viso come una sferzata.
Le afferrò il polso colpevole e lo strinse a lungo, soverchiato dal rancore e
dalla vergogna per quello che era appena successo, per le parole che gli erano
appena uscite di bocca. Lei lo fissava, le guance pallide e lo sguardo di
pietra.
“Diamine, Sirius” mormorò, divincolandosi dalla sua presa con uno strattone
“Come fai a dire certe cose?”.
Avrebbe voluto rimanere in silenzio per il prossimo secolo e piantarla di
sentirsi indifeso anche in quel momento. La superava di una testa in altezza e
sapeva che avrebbe potuto sollevarla, spostarla da lì, se avesse voluto, ma non
ne aveva la forza emotiva.
“Non eri tu la brava bambina dell’altro giorno? Quella che si è cambiata in
tutta fretta per accogliere suo padre? E i tuoi bei vestiti Babbani, che fine
hanno fatto?” sussurrò, inclinando il capo e lasciando che i capelli gli
oscurassero il campo visivo.
“Non è così semplice” disse lei.
“Certo che lo è. Io ero solo”.
Come avrebbe potuto realmente spiegarle cosa aveva provato? Il desiderio intenso
di spartire con qualcuno la sensazione annientante di rifiuto, la condanna, il
disgusto profondo, che dagli occhi dei suoi genitori gli erano stati scagliati
addosso come sassi. Non era più in grado di accusare il colpo e si odiava per
questo.
“Cosa vuoi che faccia? Una sorta di dichiarazione?” chiese Meda, esasperata “Le
tue idee ti lampeggiano in fronte dal giorno in cui sei stato Smistato. Non vale
lo stesso, per me, e lo sai. Certe cose le ho capite davvero solo da pochi anni.
Alcune addirittura in questi giorni… ti prego, dammi tempo. Ho ancora bisogno di
un ultimo momento in compagnia della mia famiglia, voglio fingere che vada tutto
bene, ancora per un momento. Non trattarmi così”.
“Cos’è, una specie di commedia, per te?” disse Sirius.
“Sì” annuì sua cugina “Ho bisogno di continuare a fingere e potrò farlo ancora
per poco. Puoi aspettarmi?”.
Ritrovò il coraggio di guardarla e se ne pentì subito. Bastò la sua prima
occhiata per piegare definitivamente gli istinti bellicosi che, una manciata di
minuti prima, l’avevano spinto a esplodere.
Andromeda lo rinchiuse in un abbraccio stretto, posando la fronte sul suo
torace, proprio vicino al cuore.
“Ti prego, non dire mai più le cose che hai detto” sospirò.
“Scusa” disse Sirius, stringendole le spalle magre “Io… non so cosa mi sia
preso, è che questi giorni sono stati così… estenuanti”.
Lei scosse la testa contro la sua camicia.
“Lo so. Avresti dovuto parlarne con me, invece di evitarmi. Dove hai dormito?
Sono venuta a cercarti nella tua stanza tutte le notti”.
Sirius ingoiò a vuoto.
“Un po’ qui, un po’ lì. Scusa”.
“Ci sarai, questa sera? Ho bisogno di te” disse Meda, ricomponendosi.
Aveva gli occhi un po’ lucidi ma lui finse di non accorgersene.
“Ho già la nausea” mormorò in riposta.
“Devi salvarmi dalle ascelle tossiche di Mulciber: all’ultimo ballo ho dovuto
Affatturarlo per togliermelo dai piedi e non ha gradito” disse lei, implorante.
“Lo farò. Ma me ne pentirò e dovrò bere molto, molto, per dimenticare”.
“Ti innaffierò di Whiskey Incendiario. Ora dobbiamo solo rimediarti un completo
decente”.
Andromeda lo prese per una mano e lo trascinò via di gran carriera. Sirius non
si accorse che la lettera indirizzata a James era scivolata dalla sua tasca e,
distratto, la dimenticò.
“E questa a cosa servirebbe?”.
Andromeda gli stava porgendo una sontuosa maschera veneziana, argentata.
“È una festa in maschera” gli rispose, rifilandogliela a tradimento “Un’idea
geniale di mia madre, suppongo”.
Sirius la guardò riemergere dal suo baule con indosso una delicata mascherina
grigia, che le copriva occhi e naso, lasciando esposta la bocca carnosa.
“Dovrei metterla in faccia?” le chiese, disgustato.
“Sono certa che sapresti farne un uso più fantasioso” rispose lei, aiutandolo a
legare il nastro dietro la nuca “Comunque per iniziare credo che vada bene la
faccia”.
“Sono sempre più elettrizzato” ringhiò Sirius.
Dalle fessure incise in corrispondenza degli occhi riusciva ad avere una buona
visuale.
“Puoi premere qui e farla Evanescere, se vuoi” gli mostrò Dromeda, sfiorandosi
una tempia.
La maschera si dissolse e riapparve solo a un secondo tocco.
“Sto per svenire dalla meraviglia” disse, laconico “Quanto avranno speso i tuoi
per questa follia?”.
“Aspetta di vedere il matrimonio” rispose sua cugina, sistemando il corsetto
sotto il seno “Andiamo?”.
Sirius le porse il braccio, un momento prima che Meda Smaterializzasse entrambi
nell’ampio Giardino Est.
La prima impressione che lo colpì fu di essere stato catapultato in un festino
Serpeverde decisamente sopra le righe. Eleganti lanterne verdi galleggiavano fra
i presenti, intenti a chiacchierare in piccoli gruppi e a bere abbondantemente
dai flute Incantati che anche Walburga amava esibire agli eventi, eredità di
qualche antenato megalomane. Druella aveva rispolverato le anticaglie di
famiglia e tra queste erano compresi diversi parenti lontani. I gioielli delle
nuove generazioni Purosangue si aggiravano impettiti tra i grandi gazebo eretti
sui terrazzati ai piedi di Englefield House, stando ben attenti a non eccedere
sia nel bere che nel mangiare: il momento più opportuno sarebbe arrivato e
allora tutti avrebbero dato il meglio in entrambe le attività. Sirius intercettò
con lo sguardo un paio di elementi veramente sgraditi ai margini della pista da
ballo e spinse con decisione Andromeda verso le scale.
“Che te ne pare? Il party soddisfa le tue aspettative?” gli chiese lei.
“Metà delle persone che ho riconosciuto mi Schianterebbero volentieri anche in
mezzo alla folla. L’altra metà mi eliminerebbe dietro a un cespuglio” rispose
Sirius, esibendo un sorriso.
“Oh, non gongolarti così. Di certo neppure io sono l’ospite d’onore della
serata” ribatté Meda, guidandolo verso uno dei gazebo velati.
“Sì ma vedi, tu sei una donna. Le tette inducono all’indulgenza anche il nemico
più accanito” le spiegò con tono scientifico Sirius.
Dromeda esplose in una risata che fece voltare un paio di Streghe incipriate e
lui ne approfittò per rimediare un paio di calici dal lungo tavolo al quale
erano serviti.
“Non sapevo di questo arcano potere” disse Meda, accettando di buon grado
l’iniziativa.
“Me l’hai insegnato tu: le tette sono la chiave di tutto. Ti prego di notare la
poesia di questa affermazione”.
“Mi sei mancato” disse lei, a bruciapelo.
“Anche tu” disse Sirius “propongo un brindisi speciale tra noi due: alle tette!
Le tue e quelle di qualunque altra fanciulla presente a questo tremendo evento”.
Avevano appena fatto tintinnare i cristalli, quando la voce di Orion distolse
bruscamente la loro attenzione dal fondo dei flute.
“Mi spiace dover infrangere questa parentesi tanto elegante” disse suo padre,
gelido “Ti stavo cercando”.
Sirius nascose il fastidio dietro un’altra maschera ben collaudata e più
resistente: l’indifferenza.
“Eccomi, dunque” ribatté.
“Volevo pregarti di risparmiare alla nostra famiglia e ai nostri ospiti gli
imbarazzi che deriverebbero da una condotta inappropriata. Non intendo mostrarmi
tollerante a idee balzane di nessun tipo”.
Sirius lo degnò di una vaga occhiata e scrollò le spalle.
“Certamente, padre. Sarò l’invitato meno sconveniente della festa, te lo
prometto. Anche perché un paio di degni eredi concorrono al titolo più
vigorosamente di me. Il cugino Rosier sarà almeno all’ottavo bicchiere di
champagne. I flute Incantati sono la trovata più sensata di questa sera”.
Suo padre si limitò ad arricciare le labbra, senza dargli la soddisfazione si
spostare lo sguardo. Sirius sapeva che, dopo un paio di convenevoli
accuratamente studiati per distogliere l’attenzione, avrebbe redarguito anche
Evan.
“Non costringermi a prendere provvedimenti” minacciò, prima di allontanarsi
“Buon proseguimento, Andromeda”.
Sua cugina rispose con un cenno del capo e Orion si dileguò tra la gente facendo
svolazzare il lungo mantello.
“Per Merlino… mia madre deve averla infilata bene e a fondo quella scopa”
sospirò Sirius.
Andromeda rise e qualche goccia alcolica le finì sul mento, mentre, in basso,
l’orchestra iniziava a suonare un motivetto vivace.
“Ti prego, andiamo a ballare” gli disse.
Seguendo Meda incrociò Malfoy, intento a braccare con lo sguardo Narcissa,
l’inconfondibile chioma abbandonata sensualmente lungo la schiena pallida. Non
vi era traccia, invece, della fidanzatina dell’anno. Sirius soffocò le sue
domande e anche la dignità in uno swing agitato.
*
Bella aveva fatto la brava. Aveva accettato gli auguri di chiunque con un bel
sorriso sulle labbra, aveva sopportato le interminabili chiacchiere sull’anello
di fidanzamento – le doleva il dito, per quante volte zie o semi-sconosciute le
avevano artigliato il cimelio di famiglia con aria avida -, sull’abito, sui
preparativi. Aveva perfino tollerato le attenzioni del vecchio Lestrange e le
sue ciance senza senso sulle presunte qualità del futuro sposo. Contro ogni suo
istinto, sulla scia di un paio di bicchieri ricolmi di Ogden’s Old consumati al
sicuro nella sua stanza, aveva finto intimità con Rodolphus, permettendogli di
stringerle la mano e baciarla sulle guance. Quando le mani di lui erano
affondate nei suoi capelli, tuttavia, non era riuscita a non allontanarsi,
fingendo di dover salutare un’ospite muffita. Sua madre aveva fatto spuntare
invitati da ogni dove e gran parte dei presenti Bella non ricordava di averli
mai visti in vita sua. Tutti, in compenso, conoscevano lei: anche perché Druella
le aveva impedito di indossare la maschera. Un particolare che contribuiva a
farla sentire nuda di fronte a un esercito infinito di ospiti. A notte inoltrata
le doleva la testa per il continuo frastuono dell’orchestra e i piedi, infilati
a forza in un paio di scarpe di un numero più piccolo – per rendere il piede più
grazioso, come le aveva detto sua madre – sembravano andare a fuoco. Nessuno
avrebbe visto i suoi piedi, sotterrati dai metri di stoffa della gonna ampia, e
nessuno avrebbe più visto lei, una volta che le sarebbe stato permesso di
mettere la sua maschera.
Rodolphus seguitava a starle addosso, fiutandola come un segugio anche quando
tentava di perdersi tra la folla. La sua presenza rendeva l’aria calda e pesante
dell’estate ancora più irrespirabile.
“È il momento di un bel ballo” le disse a un certo punto, scovandola riparata
dai veli del gazebo.
“Io non ballo” replicò Bella, bruscamente.
Lui rimase spiazzato dal tono, in un primo momento, poi pronunciò le parole
magiche.
“Tua madre ha detto che l’avresti detto. E ha detto di dirti che nessuna buona
moglie rifiuta un ballo al proprio marito” disse, senza nascondere la bieca
soddisfazione.
Bella avrebbe voluto lasciarsi andare a una crisi isterica senza precedenti,
strapparsi di dosso l’abito e quegli stupidi tacchi. Invece, ingoiò l’ennesimo
boccone amaro della serata, stupendosi della sua stessa arrendevolezza.
“Va bene. Permettimi di sottolineare che non siamo ancora né marito né moglie”
disse, gelida, porgendogli la mano.
L’aria tronfia di Rodolphus non fu scalfita dalla sua osservazione.
“Considerala un’esercitazione. Più tardi potremmo fare qualche altro genere di
prove” rispose.
Bella sfiorò la tempia, nascondendo finalmente la sua umiliazione.
Lui la trascinò in pista come una bambola di pezza, la strinse, troppo a tratti,
la fece volteggiare e poi la riportò contro di sé, ribadendo con ogni gesto,
ogni dito impresso sulla sua vita, che ormai lei era una cosa sua. Lei
chiuse gli occhi più volte, dietro la maschera, immaginando di non essere
realmente lì ma altrove. Era un trucco che funzionava sempre quando, da piccola,
Druella la riprendeva per il portamento. “Per Salazar, Bellatrix, sembri un
elefante zoppo”. Quando Rodolphus fece scivolare la mano destra oltre il
confine del suo bacino e poi più giù, chiudere gli occhi non fu sufficiente.
L’orchestra ripartì provvidenzialmente con un ritmo sfrenato e tutti si
disposero per lo scambio delle coppie. Bella approfittò della confusione per
sfuggirgli e rifugiarsi ai margini della pista. Facendo vagare lo sguardo per
evitare di essere scoperta un’ennesima volta intercettò Andromeda e nella mente
le si fece largo un’idea disperata.
Afferrò la sorella per un braccio e la trascinò fuori dal cerchio.
“Bella! Sei impazzita?” esclamò Meda, tentando di mantenere l’equilibrio.
“Scambiamoci le maschere” sibilò immediatamente Bella, slegando la sua in fretta
e furia.
“Perché? Bella, per favore, cosa stai facendo?” mormorò Dromeda, prendendola per
una spalla.
“Non ce la faccio, non ce la faccio” soffocò un singhiozzo ma la voce rimase
tremante “Per favore balla un poco con lui”.
Meda toccò la tempia e fece riaffiorare i suoi occhi, spalancati dalla sorpresa.
“Non posso, se ne accorgerà” rispose, sconcertata.
“Sì che puoi. È praticamente buio, non distinguerà neppure il colore dei
vestiti. Ti supplico, Meda”.
Forse fu la sua aria sconvolta a convincerla, forse la sua preghiera: Bella non
l’avrebbe mai saputo.
Andromeda sfilò la maschera argentata e gliela porse, ottenendo in cambio la
sua, nera come la notte.
Non riuscì a ringraziarla, perché Meda si dileguò in un istante. Poi, prima che
potesse anche solo pensare a quello che sarebbe successo, qualcuno le si
precipitò addosso. Lo sconosciuto le afferrò una mano e la riportò in pista,
scaraventandola tra la folla con una risata.
Quando la prese per la vita e la strinse a sé, il cuore di Bella saltò a piè
pari un battito.
“Sono ubriaco e, esclusivamente per questo, mi sto divertendo” le disse
all’orecchio.
Sirius.
Aveva fatto un passo avventato ed era precipitata nel baratro.
Tentò di sciogliere il corpo ma non ci riuscì.
“Sei stanca?” le chiese lui, allontanandosi un poco e guardandola diritto in
viso.
Se ne sarebbe accorto.
Se ne sarebbe accorto!
Bella scosse la testa vigorosamente.
L’orchestra spiazzò tutti con un lento melenso lanciato senza preavviso.
“Oh bene, puoi riposarti!” disse Sirius, rallentando gradualmente il ritmo.
La musica era così alta che anche lui non parlò più, limitandosi a cullarla, una
mano salda sulla sua schiena. Bella provò a controllare il respiro. Era, forse,
la notte peggiore della sua vita.
Dall’altro lato della pista, intercettò Meda intenta a gestire le attenzioni
pressanti di Rodolphus al suo posto e la sua mente ritornò alla conversazione
che avevano avuto pochi giorni prima. Come aveva potuto accettare una follia
simile? Si sarebbe spezzata in due e sarebbe successo da un momento all’altro.
Quando Sirius volteggiò per evitare una coppia barcollante, Bella finì con il
capo contro il suo petto.
Aveva lo stesso odore di quando era bambino. Perfettamente identico a quello dei
giorni in cui Bella ricordava di essere stata autenticamente felice. Quel
pensiero la fece sentire debole.
“Andiamo, hai bisogno di riprenderti” disse lui, premuroso.
Tenendola per una mano, la guidò lontano dalla musica, seguendo un sentiero
preciso che tagliava a metà il Giardino Est, fino alla serra.
I sensi di Bella urlavano il comando di scappare, il prima possibile, senza
preavviso. Ma le sue gambe rifiutavano di obbedire.
Superarono la serra, arrivarono al Giardino Sud e Sirius le cedette il passo,
facendola camminare davanti a lui.
Anche lì svolazzavano alcune lanterne, sfuggite ai festeggiamenti come loro.
“Perché lo stai facendo?” quella domanda le gelò il sangue nelle vene.
Lui scivolò nuovamente di fronte a lei: la maschera era sparita.
“Perché fai questo, Bella?” disse, allungando le dita fino al suo viso,
sfiorandole la tempia.
Non rispose.
“Ti ho vista, l’altra mattina. Non so cosa credevo, magari che, per Merlino, non
fossi in te, come sempre” mormorò, incredulo, lui “Ma anche ora… Perché?”.
“Non lo so”.
Non era la sua voce, no. Era la voce gentile di qualcun altro. Dopotutto, quella
Bella, per lui, non era mai esistita.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 9 *** Always Summer ***
Capitolo 8
Always Summer
Fino al giorno in cui l’aveva scoperta distesa al suo fianco, Sirius credeva di
aver tracciato dei confini precisi riguardo a cosa avrebbe dovuto pensare di
Bellatrix. Dopo la notte trascorsa nella stanza di Andromeda, con la cugina più
odiata stretta tra le sue braccia, ogni schema era andato perso, lasciandolo
disarmato. Aveva ripercorso con la mente l’episodio per interminabili ore, dopo
l’accaduto, senza trovare una pacifica conclusione; il momento inquieto in cui
aveva aperto gli occhi, nella luce gelida che precede l’alba, era stato il
peggiore: prima ancora che la sua mente rivelasse la verità, il suo organismo
aveva lanciato il segnale d’allarme, rendendolo preda di una paura inspiegabile.
Era stato l’odore. Non si era mai trovato tanto vicino a Bella e non
avrebbe potuto registrare il suo profumo così in profondità da riconoscerlo…
eppure, prima ancora di vedere il suo viso, la certezza che si trattasse di lei
lo aveva colpito al cuore. La sua mano, posata sul fianco della cugina, era
scivolata lentamente, pericolosamente, fino al costato; le dita erano inciampate
in un osso dopo l’altro, rendendogli una prova certa. Aveva già toccato
Andromeda e quello non era il suo corpo. Vicinissimo alle sue labbra, il collo
pallido di Bella era rimasto scoperto dalla cortina dei capelli, adagiati sotto
al capo, e la sua pelle gli rispediva indietro il proprio respiro. C’era un neo
che aveva riconosciuto istantaneamente: era certo che l’avrebbe trovato, pur non
conservando un ricordo del perché avrebbe dovuto saperlo, ne era stato sicuro
prima ancora di posarvi lo sguardo. Il dolore diffuso che gli premeva contro le
tempie era diventato trascurabile, in confronto a quello che stava accadendo.
Metà del suo essere aveva urlato rabbioso il comando di alzarsi e sorprenderla o
quantomeno fuggire senza guardare indietro, fingendo che quell’assurdo incontro
non fosse mai avvenuto; l’altra metà era stata sconvolta da una sofferenza
incomprensibile, più chiara e profonda di qualsiasi altra avesse mai
sperimentato. Quando lo sguardo aveva preso ad annebbiarsi, Sirius era stato sul
punto di credere che si sarebbe risvegliato dall’incubo, poi la nebbia, dopo
essersi accumulata, era sparita, e così il processo aveva continuato a ripetersi
più volte, fino a quando non aveva avvertito il cuscino inzupparsi sotto la
guancia e qualcosa solleticargli la pelle. Erano lacrime. Non era riuscito a
ricordare l’ultima volta in cui aveva pianto, né a spiegarsi il perché di quello
sfogo inaspettato. Non sapeva di preciso neppure perché stesse piangendo.
Istintivamente, si era proteso verso Bella, come guidato da una volontà
incosciente, e aveva annullato la distanza, sprofondando tra i suoi capelli,
fino alla nuca, aderendo a lei totalmente; l’aveva stretta forte a sé, chiudendo
gli occhi e cancellando ogni altra cosa, ogni sopruso e ogni cattiveria, ogni
vendetta, in quell’abbraccio disperato. Aveva compreso che era sveglia, quando
l’aveva sentita lasciarsi sfuggire un singhiozzo; l’aveva ascoltata piangere a
lungo, mentre gli teneva stretti i polsi come per non lasciarlo andare,
credendolo addormentato. E, fino al limite estremo delle sue forze, aveva
sperato, aveva pregato che niente di ciò che era accaduto tra loro, in passato,
fosse realmente successo: che, da qualche parte, esistesse una speranza per una
vita di ricordi alternativi, dolci, perfetti.
Da quella mattina in poi, era
scesa l’oscurità.
Non era riuscito a sciogliere il nodo, gli si era incastrato in un punto
specifico del petto e, a tratti, soffocava il respiro. Il dolore alle tempie non
era più andato via e neppure la sensazione di smarrimento. In quei quattro
giorni nessuno dei tentativi compiuti era servito a razionalizzare l’accaduto e
neppure a ipotizzare un significato. Aveva brancolato nel buio. Aveva finto di
non sapere, con Andromeda, con Bellatrix, in un tentativo estremo anche con se
stesso. Non era servito. Le sensazioni, marchiate a fuoco sulla sua pelle,
impossibili da scrollare via, avevano tracciato il punto di non ritorno. Poi,
quella stessa notte, l’incontro: l’aveva vista supplicare Andromeda, rimanere
finalmente sola; l’aveva tratta a sé, fingendo, ancora, con il solo scopo di
estorcerle la verità. C’era una speranza? E, se esisteva, perché l’aveva
taciuta? Prima, però, il ballo e il suo capo premuto contro il petto, il respiro
spaventato di una bestiola in gabbia, le labbra strette e una paura disarmante,
così poco da lei. Le certezze di Sirius si erano infrante definitivamente. Un
passo indietro, il mondo era schiavo di un equilibrio rassicurante – anche
crudele, certo, e forse proprio per questo più autentico -, un attimo dopo tutto
era precipitato nella confusione, lasciandolo incerto persino su ciò che avrebbe
dovuto fare, pensare. Finanche in quel particolare e delimitato momento,
con Bellatrix priva di alcuna difesa, non aveva idea di cosa avrebbe dovuto
dire. Rimpianse la rabbia apparentemente cieca della cugina e, dentro di sé,
quasi implorò di vederla riaffiorare improvvisa. Bella, invece, lo guardava
finalmente diritto in viso, con gli occhi grandissimi, smisurati, le pupille
dilatate all’inverosimile, come a chiedergli “E ora?”. Fu peggio di qualsiasi
altra cosa sarebbe potuta accadere.
Giriamo i tacchi,
balbettò una voce nella sua mente, giriamo i tacchi e continuiamo a fingere
di odiarci, come tutti vorrebbero, come sappiamo di dover fare.
Fu più forte di qualsiasi buonsenso, il desiderio di comprendere perché.
Remus, nella sua lucidità adulta, lo diceva sempre, che il suo istinto un giorno
lo avrebbe ucciso, che la sua incapacità di fermarsi e ragionare, condurre
sensazioni e emozioni su sentieri sicuri, gli avrebbe dimezzato la vita. Era,
naturalmente, tutto vero.
“Io non capisco” mormorò, senza chiedersi se quell’assurdità fosse una trappola
costruita sotto ai suoi piedi, senza pensare al pericolo.
Bella, apparentemente altrettanto devastata da quell’incontro, pareva essersi
cristallizzata in una maschera di terrore.
Sirius tornò a essere il bambino dei suoi undici anni, quando ancora si aggirava
implorante nella sua stessa casa, elemosinando briciole d’attenzione che gli
venivano regolarmente negate, abbracci e carezze a lui scrupolosamente
rifiutati; mentre il vuoto intorno si allargava e scavava la voragine dalla
quale non sarebbe più uscito.
Non hai ancora imparato?
la voce del suo io si fece dura, giocando l’ultima carta, quella tagliente,
non ti vuole. Nessuno ti vuole. Hai perso la tua famiglia dentro a un cappello.
Si lasciò sfuggire una risata amara, chinando la testa. Touché, mia saggia
metà.
“Cosa stai tentando di fare?” continuò, imperterrito, forzandosi in un tono
asettico “E’ una specie di passatempo, il tuo? Credi davvero che non mi
vendicherei, se cercassi di farmi del male?”.
Ancora una volta.
Cosa desiderasse sentirsi dire, Sirius non lo sapeva neppure. Forse una risata
spietata che avrebbe spiegato tutto, ancora una volta. L’ennesimo pugnale
affondato fino all’elsa, giù nel suo amor proprio che ormai era un colabrodo:
faceva acqua da tutte le parti e il suo destino era quello di un annegato.
Spesso, quando pensava al futuro, non vedeva altro che il nulla. Con quelle
premesse, che altro avrebbe mai potuto esserci?
Dammi l’ennesimo buon motivo per odiarti, Bella; li ho inchiodati tutti nella
memoria con la perizia di un collezionista.
La rabbia, ecco, la rabbia avrebbe potuto salvarlo, temporaneamente.
Dammi una scusa per aggredirti e mandare tutto irrimediabilmente in malora.
Bella prese a scuotere la testa, lentamente, come per negare qualsiasi scelta
presa fino a quel momento e tutte quelle che avrebbe compiuto da lì in poi.
“Vuoi farmi del male?”.
Bella negò.
“Vuoi colpirmi?”.
Bella continuò a negare, con tutto il corpo scosso dai brividi.
“Vuoi sposarti?”.
Le sue mani corsero al viso, una andò a coprire la bocca, l’altra vagò dietro il
collo, tra i capelli, istericamente. Il suo respiro si fece corto,
trasformandosi presto in un continuo singhiozzo senza senso, come se fosse sul
punto di soffocare.
Sirius le andò vicino, trasalì quando lei gli artigliò la spalla e lo trasse a
sé, le braccia sconquassate dalla crisi e gli occhi spalancati, fermi su di lui,
in cerca d’aiuto. Salvami, sembravano implorare.
Salvami.
Avrebbe voluto urlare. Non c’era tregua, stava morendo.
Avrebbe voluto scoppiare in un pianto liberatorio e invece tutto il suo essere
pareva essersi asciugato. Non avvertiva neppure il sangue nelle vene.
Solo il bisogno di aria, di respirare, interrotto, spezzato dal terrore.
Stava scivolando via e lì in fondo, dove sarebbe certamente finita, nessuno
avrebbe più potuto salvarla. Sirius le stava davanti ed era l’ultimo appiglio in
un oceano di pura follia.
È troppo tardi, vero? Così tardi che ho già il suggello della morte impresso in
fronte.
Lo sentiva bruciare.
Avrebbe voluto parlare e spiegare tutto quello che le faceva esplodere la testa,
confondere il giorno e la notte, inciampare nei suoi stessi passi.
Mi sono spinta tanto oltre da non poter tornare più indietro.
Il passato le stava stringendo le mani, caldo come nient’altro. Sirius stava
parlando ma Bella non era in grado di comprendere.
Le sue labbra si muovevano lentamente, scandendo il suo nome come la formula di
un Incantesimo. I ricordi cominciarono a martellarle il cuore senza pietà.
Sirius si tese verso di lei, guardandola con ammirazione.
Aveva dieci anni, quel giorno, e splendeva come il tramonto.
“Mi piace qui” le disse, sorridendole “Vorrei stare sempre qui, con te. Vorrei
che fosse sempre estate”.
Perché ti ho cancellato Perché ti ho cancellato Perché ti ho cancellato
Sirius le tirò con forza le dita, facendole male, strappandole dalla sua bocca
una per una.
Iniziò ad avvertire il rumore del suo stesso pianto; era terrificante, come
quello di un maiale destinato al macello.
“Respira. Ti prego” la supplica di Sirius fece breccia nella sua coscienza, un
lampo in mezzo alla fine del mondo.
Lo vide allungare le mani fino al suo torace, lo sentì premere sul costato.
“Sono qui, Bella. Respira”.
Tentò di riportare le dita alle labbra ma lui glielo impedì, scostandola
bruscamente e risalendo fino alla sua gola, sollevandola e tendendola
all’indietro. A quel movimento, Bella iniziò a vedere solo la volta celeste,
trapunta di milioni di stelle. Infinita.
Il respiro smise di essere un singhiozzo e rallentò fino allo stadio di un
ansito concitato. L’aria riprese a scorrere dentro e fuori da lei; intanto,
lassù, il cielo si consumava in una bellezza straniante.
Le ultime tracce del delirio andavano attraversandole la mente. Avrebbe voluto
essere proprio lì, dispersa. L’orgoglio immenso della sua famiglia si tramandava
di generazione in generazione, nei figli che portavano sulle loro spalle il peso
dei nomi delle stelle e delle galassie di mezzo universo. Bella non si era mai
sentita un astro splendente, come di certo sua madre avrebbe voluto. Del resto,
come anche gli antichi raccontavano, Bellatrix, “la guerriera”, non era altro
che un mediocre ambasciatore: dietro di lei sorgeva Sirio, di una luminosità
seconda unicamente al Sole. Non era stata forse questo, per gran parte della sua
vita? Aveva annunciato la venuta della punta di diamante di un intero Casato.
Poi, dopo la disfatta di ogni piano, nessuno si era più preoccupato di renderle
la luce che meritava.
Stava davvero respirando, finalmente. Sirius la riportò dritta, reggendole con
una mano la nuca; fu dolorosamente consapevole delle sue dita incastrate tra i
capelli, del braccio con cui la cingeva, spaventato. Cosa temeva, ora?
Erano tornati al passato senza nessun preavviso.
Bella si concesse il lusso di guardarlo davvero negli occhi, ricambiata dopo
un’eternità incolmabile. Avrebbe voluto che anche lui potesse capire la loro
natura di entità gemelle, orientate su poli opposti ma identiche in ogni
sfaccettatura, ogni sentimento e insofferenza; ugualmente ferite e oramai
irrecuperabili, qualunque fosse stata la strada che avrebbero scelto. Per
entrambi, tutto era già finito: occorreva aspettare che anche il tempo facesse
il suo corso e poi si sarebbero ritrovati, alla fine del cammino.
Essere così vicina a lui smise di farle paura e divenne solo, terribilmente,
triste.
Mi sei mancato. Ho cercato, sai, di ripetermi che tutto è più giusto così com’è.
Ho fallito miseramente.
Le sue confessioni inespresse le scorrevano nella mente; sperò che lui potesse
capire, perché non sarebbe riuscita a trovare la forza di parlare. Sciocca,
stupida Bella, forza per parlare, di quella ne hai a sufficienza, le ammissioni,
invece, sono un mondo perduto.
C’era un ricordo preciso di cui aveva grande nostalgia, aveva a che fare con le
ciglia lunghe di Sirius; un ricordo che, a ben vedere, non era esistito. Se i
ricordi erano solo dentro di lei e mai in qualcun altro, chi avrebbe potuto
garantire che non si fosse trattato di un sogno?
Si allungò fino al suo viso, tendendo quel che restava del suo corpo verso di
lui. Posò la bocca sulla sua, sfiorandogli le labbra in un contatto debole,
dapprima, poi del tutto incontrollabile. Chiuse gli occhi, per dimenticare quel
che stava facendo, proprio nell’istante in cui la sua volontà pareva esprimersi
nel modo più schietto e sincero che avesse mai provato. Sirius era immobile, non
rispondeva, non respirava, mentre lei si concedeva quel bacio. Non era una resa
né una vittoria; rassomigliava a un requiem cupo, recitato pelle a pelle insieme
a quello che era e sarebbe stato il suo peggiore nemico.
“Io
ti amo”.
Non appena Sirius accennò una reazione, Bella si scostò, sfuggendo al suo
abbraccio e barcollando di un passo lontano da lui. Non voleva sapere cosa ne
sarebbe stato di quel momento; mentre continuava a scrutarlo, sempre più perso
in una confusione palese, era già certa di ciò che avrebbe fatto. Quante volte
le era già sembrato di non avere altra scelta? Quante volte il futuro si era
mostrato così chiaro? Niente di quel che era stato poteva essere recuperato e da
quell’unico errore infantile gli eventi si erano moltiplicati, allungando un
abisso di ostacoli insormontabili tra quello che avrebbe potuto essere e
l’impietoso corso delle loro esistenze. Così chiaro.
“Mi dispiace” gli disse.
No, non era vero. Stava cadendo a pezzi.
Finalmente, lui comprese e tentò di proteggersi inutilmente: nient’altro che una
frazione di tempo e la bacchetta era già puntata al suo indirizzo.
“Oblivion”.
Bella restò a guardare i suoi occhi che si svuotavano, lo sguardo ottuso che le
restituirono, insieme a un biglietto di sola andata per l’oblio. Aveva appena
seppellito l’ultima traccia umana di se stessa dentro alla sola persona che
probabilmente avrebbe potuto amarla come lei voleva, non fosse stato per
un’unica pecca incorreggibile.
Gli diede le spalle, le mani tremanti strette attorno al corpo come uno scudo, e
si allontanò solcando i Giardini. Di lì a poco si sarebbe risvegliato dalla
catatonia e non voleva essere nei paraggi, quando sarebbe accaduto. Affrontando
a pedate l’erba grassa si ritrovò a formulare un ennesimo pensiero di pura
follia. I nemici, mia cara Bella, i nemici sono coloro che abbiamo amato di
più. A tutti avrebbe dichiarato la sua guerra personale, affrontando la
prima battaglia con un colpo mancino diretto alla sua stessa memoria. Prima,
però, avrebbe pianto sui morti, si disse, superando l’uscio della serra e
riparando tra le sue fronde carnivore; del resto, il primo cadavere da
sotterrare sarebbe stato il proprio. Stremata, si accasciò nell’erba e scorse, a
un tiro di sasso da lei, una pergamena accartocciata; languivano entrambi su un
fianco, lei e quel pezzo di carta, così allungò la mano e la stese con
meticolosità, spianando le pieghe. Il foglio le rispedì contro una calligrafia
conosciuta, più di quello però fu il messaggio a risvegliarle i sensi.
“Se lei lo ama, perché non dovrebbe lasciare tutto questo schifo e fuggire con
lui?”.
*
Bella aveva atteso la conclusione della festa, l’intera notte e un pugno di ore
prima del giorno; nella sua mente, aveva ripetuto i passi del tradimento
alimentando la rabbia. Quando era stato il momento di agire, l’aveva fatto senza
rimorsi.
*
Fino a un istante prima, Sirius era concentrato sul dolore intenso che gli si
era insinuato dietro gli occhi. Doveva aver bevuto troppo, perché della sera
precedente ricordava ben poco e, non fosse stato per il resoconto di Andromeda,
avrebbe giurato di non aver partecipato a nessun festeggiamento. Sembrava lo
avesse fatto, invece, e a lungo. Era uno dei validi motivi per cui non avrebbe
dovuto condividere la colazione con i parenti, quella mattina, invece era stato
costretto da Meda ad accompagnarla, con la stupida scusa di un sostegno morale.
Per che cosa, poi? Tutt’un tratto, Bellatrix aveva fatto la sua comparsa; aveva
un sorriso gelido stampato in faccia e pareva stesse semplicemente godendo
dell’attenzione attirata su di sé con quell’entrata teatrale; almeno così gli
era sembrato, fino a quando non l’aveva vista sventolare una pergamena di fronte
al pubblico parzialmente assonnato.
“Se mi permettete, vorrei leggervi una cosa” esordì la cugina, con tono vivace.
Zio Cygnus sollevò lo sguardo dall’edizione domenicale del Profeta ma non
disse nulla; zia Druella, invece, si lasciò sfuggire un sospiro insofferente.
“Cara, non sento davvero la necessità di ascoltare annunci o sciocchezze del
genere” la redarguì, mitigando il fastidio con un abbondante sorso di Succo di
Zucca.
“Niente di tutto questo, madre” replicò Bella, per nulla scalfita nel suo
entusiasmo.
Cosa la eccitasse in quel modo era impossibile prevederlo ma Sirius era certo
che non si trattasse di nulla di buono e, a conferma di ciò, un senso di nausea
lo fece istintivamente allontanare dal tavolo. Spingendosi rumorosamente
indietro scatenò l’insofferenza di Walburga, sotto lo sguardo vigile di suo
padre, intento a godersi la prima pipa della giornata.
“Stai composto e ascolta quello che dice tua cugina” ordinò sua madre.
Andromeda lanciò a Sirius un’occhiata ammonitrice. Niente drammi. Accanto
a lei, Narcissa inarcò le labbra in un sorrisetto soddisfatto, credendo di non
essere vista, continuando a stendere una quantità infinitesimale di marmellata
sulla metà di una fetta di pane.
L’intero quadro pareva l’esercizio di stile di un pittore psicotico.
Mentre giurava a se stesso che non si sarebbe più fatto coinvolgere in nulla di
simile, neppure per Andromeda, Bellatrix iniziò la lettura.
“Caro James, ho finito la scorta di buona volontà”.
Sirius scattò in piedi come una molla, facendo crollare la sedia ai suoi piedi
con un tonfo sordo. Al suo fianco, Regulus trasalì e fece ribaltare una caraffa
d’acqua sul tavolo, inzuppando se stesso e la tovaglia.
“Razza di…” l’insulto volgare che Sirius pronunciò riecheggiò tra i marmi della
sala da pranzo.
Sua madre gli conficcò le unghie nel braccio, strattonandolo.
“Come osi rivolgerti così a Bella?” sibilò, iraconda.
“Dove l’hai trovata? Frughi nella mia roba, adesso?” si rese conto di urlare ma
non gli importava realmente.
Ritrasse il braccio dalla furia di Walburga, ricavandone un graffio profondo.
“Sta fermo dove sei!” strillò lei, alzandosi a sua volta e piantandogli davanti
al naso un dito affilato “Non costringermi a punirti come un bambino”.
“È la mia posta privata” ringhiò Sirius, a un soffio dal suo volto.
“Privata?” la voce profonda di suo padre si impose su entrambi “Cosa vorrebbe
dire privata?”.
“Nulla che possa riguardarvi. Non è altro che una stupida lettera” disse Sirius,
tentando di apparire conciliante, nell’ultimo tentativo di evitare il disastro.
Sapeva precisamente come proseguiva quella lettera e non erano i beffeggi
rivolti ai propri genitori che lo allarmavano. Andromeda assisteva a quella
scena pietosa come tutti gli altri, immobile e ancora inconsapevole.
“L’intemperanza alla quale ti abbandoni mi fa rammaricare di averti messo al
mondo” ribatté pacatamente Orion, senza guardarlo “Ora siediti e risparmiami la
fatica di obbligarti a obbedire”.
Walburga mormorò un Incantesimo e la sedia tornò dritta, colpendolo alle
ginocchia e piegandolo alla sua volontà.
Dall’altro capo del tavolo, Bella sorrideva ferina.
“Te la farò pagare” le sputò contro Sirius, stringendo i pugni fino a farsi
dolere le dita.
“Taci!”.
Sua madre gli assestò uno schiaffo in pieno viso; sentì Andromeda gemere ma non
riuscì a pensare ad altro che a quello che sarebbe successo. L’angoscia era più
forte dell’umiliazione. Cercò lo sguardo della cugina preferita, mentre Bella
riprendeva a leggere a voce alta.
“Non resisto più in questo inferno di buone maniere, i miei genitori sono più
intollerabili di quanto ricordassi. Mia madre si aggira per Englelfield
starnazzando i suoi ordini a chiunque le capiti a tiro, perciò ho optato per
l’esilio”.
Walburga prese a respirare profondamente dalle narici, come faceva sempre nei
momenti di tensione.
“Mio padre finge di non sentirla e si nasconde a fumare dove capita, come
sempre. Inutile dire che, quando sono presente, continuo a essere il bersaglio
preferito. Oh, povero caro” squittì Bella, fingendo rammarico.
Meda incrociò finalmente i suoi occhi e Sirius mormorò a fior di labbra delle
scuse; lei non capì in tempo.
“Arriva la parte che preferisco” la voce di Bellatrix si fece improvvisamente
dura “Credo che anche Meda mi abbia abbandonato. Ero certo che amasse
sinceramente Tonks e a farmelo pensare non sono stati solo i loro incontri
notturni. Come fa a sopportare tutto questo? Se lei lo ama, perché non dovrebbe
lasciare tutto questo schifo e fuggire con lui?”.
Nella stanza calò un silenzio tombale, le labbra di Andromeda impallidirono.
È la fine.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 10 *** Then The Quiet Explosion ***
Capitolo 9
Then The Quiet Explosion
Sirius varcò la porta della sua camera e la richiuse dietro di sé con un calcio:
l’urto fece tremare le pareti ma non provocò nessun suono; Walburga l’aveva
Incantata tempo prima, privandolo dell’adolescenziale soddisfazione di
comunicare una protesta. Il pensiero aumentò esponenzialmente il suo senso di
frustrazione e anche la nausea; in preda alla furia afferrò un lembo del
sontuoso piumone che copriva il letto e scoperchiò il materasso, schiantando
tutto quello che gli capitava a tiro dall’altra parte della stanza. Nella foga
colpì con un ginocchio la struttura del baldacchino e il dolore si aggiunse a
tutto il resto, facendolo crollare sul tappeto. Restò immobile per diverso
tempo, ad assorbire il male con i denti stretti e i pugni serrati.
Non gli avevano permesso di salutare Andromeda, costretta all’isolamento, a
meditare sul tradimento. Zio Cygnus si era premurato di comunicare a tutti
loro che l’aveva condannata al digiuno, con una sorta di disgustoso imbarazzo,
come scusandosi del fatto che, fino a quel momento, non aveva potuto spingersi
oltre. Le mani di Sirius, anche chiuse com’erano, continuavano a tremare dalla
tensione.
Gli occhi di Meda, pieni di paura e sgomento, erano stati l’ultima cosa che
aveva visto prima di essere trascinato fuori dalla sala da pranzo contro la sua
volontà. Dopo qualche resistenza suo padre lo aveva afferrato con decisione
dietro il collo, come si fa con gli animali disobbedienti, e l’aveva sollevato
con forza dalla sedia dove si era arroccato. Aveva tentato di richiamare
l’attenzione della cugina - avrebbe voluto urlare le sue scuse per un errore
così stupido e terribile se a fermarlo non ci fosse stata la paura di aggravare
ancora di più la sua posizione – ma lei non si era voltata, aveva continuato a
fissare Bellatrix come se guardasse un’estranea. Sirius era passato nel mezzo
del percorso tracciato da quello sguardo, insieme ai suoi genitori e a Regulus:
sul volto di Bella non c’era un briciolo di umanità, si godeva il momento come
se si trattasse di uno spettacolo e non della vita di sua sorella che andava in
pezzi. Appariva quasi felice. Non riuscì a controllarsi e la rabbia gli riempì
gli occhi di lacrime. Meda, la sua Meda, la stessa che aveva riletto
senza sosta la lettera di Tonks, consumandola con le dita, assottigliandola
sotto il peso dei suoi pensieri, ripetendone le parole a mezza voce nelle notti
insonni; la sua Meda di fronte a un plotone d’esecuzione che ne avrebbe
piegato la volontà fino al limite estremo, fino all’annullamento. A
Sirius mancò il respiro. Perché, perché doveva succedere? Neppure durante
l’ultimo giorno trascorso a Englefield, con zia Druella nascosta a spurgare le
sue immense vergogne e Narcissa e Bellatrix sparite chissà dove, gli era stato
permesso di vedere Meda. Walburga, subito dopo il rientro con la Metropolvere in
Grimmauld Place, aveva chiuso la faccenda con un sospiro affettato, sibilando un
soddisfatto: “Ora sanno cosa si prova”; poi l’ennesima minaccia ringhiata a un
palmo dal suo viso, un indice puntato a fondo nel suo petto e l’occhiata di
disgusto che negli ultimi cinque anni non era mai mancata: “Non ti permetteremo
mai di disonorarci in questo modo”.
Sirius immerse le dita nei capelli, nel tentativo di tenerle ferme, e si forzò
in un lungo respiro. Le domande gli investirono la mente come una frana: quando
avrebbe rivisto Andromeda? (Quando sarebbe finalmente e irrimediabilmente
impazzito?) Quando avrebbe rivisto Andromeda? (Sarebbe stata la stessa Andromeda
di sempre?). Scivolando sempre più in basso, trascinato dalla marea degli
interrogativi, si addormentò all’improvviso, esausto, rannicchiato contro la
parete.
*
Andromeda se ne stava piegata su un fianco, le ginocchia nude raccolte contro il
petto e gli occhi, sbarrati, fissi contro il muro della sua stanza spoglia. Sua
madre aveva fatto portare via tutto: prima i vestiti, poi le borse, in ultimo
ogni libro babbano che era riuscita a scovare: li aveva inceneriti
personalmente; Bella aveva assistito a una crisi isterica di fronte alla sfera
piena di specchi che avevano sganciato dal soffitto, insieme al poster indecente
che Meda aveva fissato alla porta. Non erano ancora partiti solo perché suo
padre aveva deciso che avrebbero rispettato la tabella di marcia, senza destare
inutili sospetti in merito a quanto era accaduto; così era stato stabilito che
sua sorella avrebbe scontato la parte più dura della pena lì a Englefield. Non
era la prima volta che andava a trovarla e sapeva che Cissy aveva fatto lo
stesso senza ottenere in cambio nulla che non fosse silenzio. Più di ogni altra
cosa, Bellatrix aveva bisogno che sua sorella finalmente mostrasse di
comprendere cosa l’aveva spinta a compiere un gesto tanto estremo; che capisse
quanto intensamente desiderasse proteggerla. Avrebbe fatto di tutto, pur di
salvaguardare il loro legame. Nessuno pareva averne il coraggio: lei, invece,
era disposta a correre il rischio di lasciarsi odiare pur di fare le cosa
giusta. Andromeda doveva sforzarsi di accettarlo o, prima o poi, avrebbe
commesso qualche errore così pericoloso da allontanarla per sempre dalla
famiglia. Non avrebbe mai potuto sopportarlo.
Tentò di non soffermarsi a lungo a riflettere su quanto apparisse pallida e
sofferente, né sul bicchiere vuoto che faceva mostra di sé sul comodino. I tre
canonici giorni di digiuno imposti da suo padre sarebbero dovuti finire quella
sera: continuò a pensare a questo e a nient’altro per un lungo minuto. Soffocò
la pena e anche la curiosa sensazione di disagio che le strozzava il respiro,
ricordando a se stessa l’urgenza che l’aveva spinta a dirigersi subito nella
camera della sorella non appena di ritorno dall’ultimo viaggio, senza neppure
sfilarsi il mantello. Il venticinque di agosto andava avvicinandosi a grandi
passi, insieme ai suoi inquietanti doveri da futura sposa e a un giuramento che
avrebbe cambiato le sorti del Mondo Magico. Doveva mettere al sicuro Andromeda
prima che fosse troppo tardi.
“So che mi ascolti” esordì, pentendosi subito dopo del tono duro che aveva usato
“Devo parlarti di una cosa molto importante”.
Non giunse nessuna risposta, solo un battito di ciglia su uno sguardo ancora del
tutto assente. Bella abbassò gli occhi sulle sue mani e si impose di non
esitare.
“So che hai dei sospetti sui miei viaggi degli ultimi due anni e so che
circolano delle voci al riguardo. Sono qui per spiegarti tutto quello che
dovresti sapere e per metterti in guardia, Andromeda. Io voglio aiutarti”
continuò.
Le raccontò del primo incontro, del reclutamento e degli allenamenti, di quanto
le fosse costato, fisicamente, lasciarsi accettare come rappresentante
della loro famiglia. Le spiegò il grande progetto che Lui aveva per tutti loro,
le rivelò che presto l’ordine delle cose sarebbe stato sovvertito.
“Immagina un mondo pulito, Meda, dove noi Maghi non dovremo nasconderci né
temere che qualcuno possa minacciare la nostra esistenza. Nessuno, mai più,
potrà farci del male” le disse, spingendosi in ginocchio fino al suo letto e
afferrandole una mano inerte “Io parteciperò alla distruzione di questo sistema
perverso e poi potremo costruire insieme quello che verrà dopo”.
Tentò di farla ragionare sul fatto che, prima, avrebbero dovuto eliminare
coloro che si rifiutavano di accettare un progetto tanto grande e rischioso,
quelli che li avevano traditi rigettando il sangue magico, mischiandosi a chi
per secoli aveva dominato senza averne l’autorità e neppure il potere.
“Tutto quello che è stato rovinato, noi potremo ricostruirlo, capisci? Te lo
immagini?” le disse, scostandole una ciocca di capelli dalla guancia “Io ti
voglio con me, quel giorno. Non dovrai sporcarti le mani: lo farò io per tutti
voi. Dovrai solo aspettare insieme a Cissy, a mamma e papà e poi potremo vivere
in un mondo perfetto. Io voglio questo per te”.
Un mondo dove non sarà più necessario sposare qualcuno per garantirsi la
sopravvivenza e scampare all’oblio.
Le posò un bacio sulla fronte.
“Io devo proteggerti. Lo capisci? Se dovrò farti ancora del male, lo farò, anche
se mi odierai. È un prezzo che sono disposta a pagare” le sussurrò all’orecchio.
Mentre erano così vicine, il ricordo improvviso del suo respiro contro la
camicia di Sirius le attraversò la mente. Lo ricacciò indietro ingoiando a
vuoto, come un boccone ingombrante e amaro. Non adesso. Mai più.
Fu in quel preciso istante che Andromeda prese a stringerle forte le dita,
rianimandosi. Si allontanò un poco per guardarla in viso e la trovò
insperatamente presente, come se si fosse appena svegliata da un lungo sonno.
“Perdonami” mormorò solo quella parola.
Per Bellatrix fu sufficiente: ci sarebbe stato il tempo per le scuse e anche
quello per le spiegazioni. In quel momento sentiva solo l’impellente necessità
di un lungo abbraccio.
“Non so davvero cosa pensare”.
Suo padre lasciò che Narcissa gli colmasse il secondo bicchiere di Whisky
Incendiario, sotto lo sguardo agitato della loro madre, che si tormentava una
ciocca sfuggita alla crocchia severa.
Bella affondò la schiena nel velluto imbottito, lasciandosi sfuggire un sospiro
esausto.
“Sono certa che si sia trattato di un momento di debolezza. Non vorrete
realmente basarvi sulle parole di Sirius…” disse, scrutando attentamente i
genitori, uno alla volta.
Sua madre continuava a sembrare del tutto sconvolta, scatenando la sua
irritazione.
“Chiaramente Meda non ama quel sudicio Mezzosangue, altrimenti non
avrebbe implorato il nostro perdono. Deve aver preso coscienza di quella che è
stata solo una pericolosa inclinazione e se ne è pentita. In effetti il
ritrovamento della lettera è stato provvidenziale: ci ha permesso di porre
rimedio prima che le cose precipitassero” continuò Bella, decisa.
“Non riesco a capire come sia stato possibile questo incontro” disse suo padre,
fissando il tappeto e scuotendo la testa.
“Oh, Cygnus” squittì sua madre, arricciando le labbra “Io te l’avevo detto, te
l’avevo detto che eri troppo indulgente. Se avessi seguito il mio consiglio…”.
“Per Salazar, Druella! Ancora questa storia?” ringhiò in risposta suo padre “Se
avessi seguito il tuo consiglio ora nostra figlia sarebbe sposata con un
mentecatto. Le alleanze matrimoniali vanno stipulate con criterio: un concetto
che sembra andare al di là della tua portata”.
Sua madre incassò il colpo con eleganza, abbassando lo sguardo e tornando a
tacere; Narcissa allungò una mano sulla sua schiena, accennando una carezza
lieve e fissandola con apprensione.
Bellatrix si interrogò fuggevolmente sull’identità dell’erede idiota che aveva
sollevato l’indignazione di suo padre, interrompendo il flusso dei pensieri
prima che iniziassero a percorrere confini pericolosi. Dal giorno della lettera
stava spendendo gran parte delle sue energie nel controllo della coscienza,
rinunciando anche al sonno per evitare incontri spiacevoli con una parte di sé
che presto avrebbe provveduto a estirpare. Strinse le mani attorno ai braccioli
della poltrona, in un riflesso involontario.
“L’ho trovata sinceramente pentita e affranta per il grande dolore che ci ha
arrecato” disse, decisa.
In realtà Meda aveva fatto poco altro che piangere e balbettare qualche frase
sconnessa, mentre le si abbarbicava addosso come un bambino che non sa nuotare,
ma l’unica cosa a cui pensava Bella, in quel momento, era al modo più rapido per
riempire lo stomaco della sorella con qualcosa che non fosse acqua.
Lanciò uno sguardo significativo a Cissy, quando fu certa che non potesse essere
intercettato dai loro genitori.
Aiutami.
“Potrebbe essersi spaventata per via del fidanzamento di Bella. L’idea
dell’allontanamento dalla nostra amata sorella, il pensiero di un matrimonio
imminente…” intervenne Narcissa, con veemenza.
Sua madre spalancò gli occhi e la bocca in un’espressione folle.
“Ma cosa potrebbe mai esserci di così orribile in un matrimonio?!” esclamò,
sconcertata.
Bella lasciò vagare lo sguardo sugli arazzi dell’ampio salotto che era stato
eletto come quartier generale. Si sentiva direttamente responsabile per il
comportamento sconsiderato di Andromeda, le sue crisi dovevano averla
impressionata profondamente, fino al punto di terrorizzarla e spingerla
direttamente nelle braccia del nemico. Era stata stupida ed egoista. Annotò
nella mente l’ennesimo
codice infranto che le era stato ripetuto come una preghiera fin dall’infanzia:
mai lasciarsi andare. Mai esternare emozioni che superassero la barriera
imposta dalla decenza; le labbra di Sirius contro le sue; il sapore che le
era rimasto nella bocca e sembrava non andare più via.
Si alzò in piedi all’improvviso, intrecciando le braccia intorno al corpo, e suo
padre le lanciò uno sguardo interrogativo.
“Credo solo che non sia il momento per un simile scandalo” disse, voltando le
spalle a tutti loro.
“E con il matrimonio così imminente!” sospirò con tono angosciato sua madre.
“Non sapete proprio parlare d’altro, Madre?” Bella non sollevò neppure lo
sguardo, mentre riempiva un bicchiere di Whisky anche per sé “Credetemi, presto
ci saranno motivi molto più seri perché il nome della nostra famiglia non debba
essere associato a quello di un Mezzosangue”.
Li uccideremo tutti,
pensò, mandando giù un lungo sorso. L’intento era stato piuttosto chiaro fin dal
principio ma negli ultimi sei mesi ne avevano parlato esplicitamente, formulando
piani e stabilendo strategie di attacco programmatiche. Bella non era mai stata
spaventata dall’idea di togliere la vita a qualcuno.
Quando si rivolse nuovamente verso i suoi genitori, nel silenzio che era calato
dopo l’ultima osservazione, li sorprese a fissarla con imbarazzo. Entrambi
sapevano tutto quel che c’era da sapere sulle sue frequentazioni e lo stesso
valeva per la maggior parte dei padri e delle madri dei suoi compagni: eppure
vigeva il tacito accordo di non discuterne affatto, di non farvi mai
riferimento, perché a certe cose si poteva solo alludere e parlare di assassinii in famiglia non era buon costume. Inoltre, fingere di non essere a
conoscenza delle attività dei figli avrebbe permesso a tutti loro di restare al
di fuori di ogni possibile pericolo o scandalo.
Sua madre tirò stizzita una ciocca, prima di fermarla con un gesto nervoso
dietro l’orecchio, ma non ebbe il coraggio di aggiungere altro; suo padre si
schiarì energicamente la voce.
“Dunque…” disse “Partiremo domattina, ho già dato istruzioni ai Domestici”.
“Questa sera Meda potrà mangiare?” chiese Bella, dopo aver vuotato il bicchiere.
“Sì”.
Bella non avrebbe mai dimenticato lo sguardo che suo padre le rivolse, prima di
congedarla: i suoi occhi tradivano ammirazione e paura. Prese
improvvisamente coscienza del fatto che, se non avesse posseduto motivi ben più
profondi, quello sguardo sarebbe bastato per giustificare ogni singolo cadavere
calpestato sul suo cammino.
Quando Bella fece ritorno al piano superiore aveva con sé cibarie sufficienti
per una cena abbondante; era anche riuscita a sottrarre una fiaschetta di
Idromele dalle cucine, dopo essersi liberata dei Domestici: lei e Andromeda lo
avrebbero diviso, avrebbero mangiato insieme e poi parlato. Le cose sarebbero
tornate ad essere come dovevano.
Non appena varcò la soglia, Bella realizzò l’assenza della sorella. Il letto era
disfatto e vuoto.
“Meda?” chiamò, riaffacciandosi sul corridoio.
Forse alla fine aveva deciso di fare il bagno, come lei le aveva suggerito prima
di scendere. Entrò nella camera per posare il vassoio sul comodino e poi
raggiungerla nella stanza accanto; i suoi progetti a breve termine si infransero
su un rettangolo di pergamena bianca, invisibile tra le lenzuola se non fosse
stato sporcato da una macchia d’inchiostro recitante il suo nome. Allungando la
mano davanti a sé la vide tremare; afferrò la lettera come in trance,
ripercorrendo con gli occhi i tratti esitanti vergati da una piuma incerta, la
aprì senza riuscire a respirare.
“Ti vorrò sempre bene”.
*
Sirius vide il gufo planare nel crepuscolo, diretto verso il terrazzo di
Grimmauld Place, quando era ancora lontano; restò immobile a osservarlo
avvicinarsi, una sigaretta accesa tra le labbra, fino a quando non lo riconobbe:
era l’allocco grigio di Andromeda. Scattò in piedi un momento prima che
l’animale planasse con un rapido movimento circolare sopra alla sua testa, per
poi atterrare con grazia sul cornicione. Sfilò il rotolo di pergamena che
portava legato con un nastro alla zampa destra e lo distese sulla pietra,
piegandosi verso le luci notturne che giungevano dalla strada. Il gufo non
attese oltre, spiccando nuovamente il volo mentre lui era intento a decifrare le
prime righe.
“Sono scappata. Sono al sicuro. Ho dovuto farlo. Sono certa che i miei genitori
non daranno la notizia prima di essere sicuri che non tornerò: presto scriverò
anche a loro. Fino a quel momento non parlarne con nessuno. Ho bisogno di
raccontarti molte cose.
Non posso
dirti dove mi trovo adesso ma appena possibile, forse domani, avrai mie notizie.
Stai attento”.
La firma sbavata di Meda chiudeva il messaggio.
Sirius spense il mozzicone a terra, in un gesto automatico, soffiando fuori
l’ultima boccata di fumo. In pochi istanti realizzò che l’unico consanguineo al
quale era realmente legato aveva appena intrapreso un viaggio di sola andata
verso la diseredazione. Il suo iniziale sollievo, all’idea che la cugina
preferita si fosse finalmente liberata, fu seguito quasi immediatamente da un
vago malessere. Immaginò il perfetto sorriso di Andromeda, intessuto
nell’arazzo, sostituito dal buco nero che aveva cancellato ogni membro disertore
della famiglia; come se bastasse incenerire un nome per eliminare ogni legame.
Per suo padre e sua madre il mondo funzionava realmente così: chi rifiutava i
codici imposti dal sangue doveva essere eliminato dalla memoria, come se non
fosse mai esistito. Non aveva alcun dubbio in merito al fatto che gli zii
avrebbero rinnegato Meda senza nessuna esitazione, una volta accertata la sua
scelta. Per lui era del tutto impossibile comprendere con quale coraggio un
genitore potesse decidere coscientemente di dimenticare un figlio.
Tornò a sedere nella semioscurità del suo rifugio, il cielo di Londra incombente
sul margine dello sguardo, come la cortina che minaccia di calare sul sipario.
La mattina dopo non era ancora giunta nessuna notizia della fuga di Andromeda. I
suoi genitori avevano deciso di rimediare al ritorno improvviso da Englefield
con una gita a Tinworth, per godersi un paio di giorni in riva all’oceano. A
cena, la sera prima, Sirius aveva finto con scarso impegno un malessere generico
e suo padre aveva commentato la cosa con un lungo tiro di pipa.
Verso mezzogiorno, finalmente solo, Sirius stava consumando un sandwich umido
nel suo letto, quando l’allocco di Andromeda era tornato a fargli visita,
planando nella sua stanza attraverso la finestra aperta; aveva lasciato cadere
il biglietto ai suoi piedi e poi si era appollaiato sull’unico angolo libero
della scrivania, sommersa da vestiti sporchi e libri. Nella fretta di decifrarlo
rischiò di soffocare, ingoiando con foga un grosso morso, e cosparse il foglio
di briciole. Il messaggio era essenziale: “Dingwalls. 11 Middle Yard, Camden
Lock. Ti aspetto qui”.
Recuperò un paio di jeans sdruciti da sotto il letto, dopo essere atterrato sul
tappeto con un balzo poco agile, e sfilò una t-shirt dal mucchio che invadeva la
mobilia, sotto il becco severo del gufo, che continuava a guardarlo con un
cipiglio molto simile a quello esibito da sua madre a colazione. Gli rifilò a
tradimento quel che rimaneva del suo pranzo, prima di incastrare la bacchetta
nella cintura e prendere la porta. Scendendo le scale incrociò Kreacher, intento
a lucidare il corrimano con la devozione di un fedele chinato a pregare in
chiesa, ma non sprecò fiato per un saluto che, in ogni caso, sarebbe stato
ricambiato con un grugnito deferente. Non appena uscì in strada, lasciandosi
alle spalle il corridoio cupo di Grimmauld Place, gli parve di tornare a
respirare dopo una lunghissima apnea; l’aria sporca di Londra aveva un odore che
lasciava presagire pioggia, e le nuvole pesanti accumulate sui tetti delle case
confermavano l’ipotesi di un acquazzone imminente, ma il cattivo tempo non
incrinò il suo ritrovato buonumore. Non si lasciò scoraggiare e si mischiò agli
sconosciuti indifferenti che percorrevano le strade di Islington, sentendosi più
leggero ad ogni metro guadagnato: l’idea di riabbracciare Meda lo fece sorridere
tra se e se, mentre intraprendeva a passo svelto il cammino conosciuto che lo
avrebbe condotto a Camden Town. Attraversò incroci e tagliò la strada a passanti
ignari, senza essere realmente consapevole di ciò che lo circondava, concentrato
a elaborare teorie e modi che gli avrebbero permesso di aiutare la cugina, se ne
avesse avuto bisogno, in barba a qualsiasi follia punitiva familiare. Lo sfiorò
l’idea di accompagnarla in quella fuga ma subito la sua coscienza si ritrasse al
pensiero, lasciandolo turbato. Non era disposto ad ammetterlo con nessuno e in
ultima analisi, probabilmente, nemmeno con se stesso, eppure anche soltanto
immaginare di lasciarsi per sempre alle spalle il mondo che lo aveva incatenato
lo spaventava. Quelle riflessioni lo fecero rabbuiare un poco e finì per
macinare la restante parte del percorso con le mani sprofondate in tasca, a
maledirsi per aver scordato accendino e sigarette nel nascondiglio del terrazzo.
Quando finalmente raggiunse il luogo dell’appuntamento, un locale lungo la
doppia chiusa di Camden Lock, prese a guardare nelle vicinanze alla ricerca di
Meda. Sapeva che i locali dei dintorni erano frequentati anche da alcuni del suo
anno, che ritenevano trasgressiva l’idea di mescolarsi a masse di Babbani sudati
per assistere ai live delle band alternative che si esibivano lì e alla
Roundhouse, in Chalk Farm Road. Harvie l’aveva letteralmente supplicato di
accompagnarlo a un concerto, sicuro che Sirius sarebbe stato un ottimo compagno
per un’occasione simile: aveva sempre declinato gli inviti, specie nell’ultimo
periodo, dopo la scoperta del piccolo problema peloso di Remus e il loro
conseguente – e collettivo – arrovellarsi su quale potesse essere il modo
migliore per stargli vicino senza rimetterci la pelle, anche nei momenti
peggiori. Il più delle volte le loro riunioni a ridosso delle vacanze estive e
natalizie erano finite nella frustrazione generale, almeno fino a quel momento;
James aveva proclamato che entro l’anno successivo avrebbero trovato di certo la
soluzione e, anche se non aveva davvero la più pallida idea del come, Sirius ci
credeva altrettanto fiduciosamente.
“Ehi”.
Qualcuno gli sfiorò un braccio e Sirius si voltò: incorniciata dall’entrata in
mattoni rossi di Dingwalls sullo sfondo, c’era Andromeda. Aveva i capelli legati
in una coda disordinata e indossava abiti che l’avrebbero resa indistinguibile
tra la folla di Camden Market, proprio come lui; sorrideva nel modo tirato di
chi sta soffrendo, le lunghe ciglia abbassate su un paio di occhiaie che negli
ultimi tempi erano diventate familiari. Il saluto che voleva rivolgergli le morì
sulle labbra non appena incrociò il suo sguardo e Sirius non attese oltre, le
afferrò un polso e la tirò verso di se, intrappolandola in un lungo abbraccio.
Meda si aggrappò alla sua maglietta e posò la fronte sul suo petto, piangendo
sommessamente; le accarezzò la schiena tentando di calmarla, ricordando ogni
singolo momento in cui lei aveva fatto lo stesso, nel tempo in cui era solo un
ragazzino che cercava di metabolizzare il rifiuto dei suoi genitori. Sirius non
aveva mai pianto e sentire la cugina singhiozzare contro di lui lo impressionò,
si sentì impotente e del tutto impreparato rispetto al compito che gli veniva
affidato in quel momento, consolare una donna che aveva appena detto addio a un
universo intero di ricordi e amore. Non riusciva a comprenderla fino in fondo,
ma sapeva che Meda aveva coltivato un affetto sincero, intensissimo, per le sue
sorelle e i suoi genitori e poteva solo immaginare cosa volesse dire realizzare
che non avrebbe potuto più abbracciarli o parlare con loro. Sperava solo che
anche gli zii, Narcissa e Bellatrix avrebbero sofferto altrettanto per quel
distacco, anche se non era per nulla ottimista al riguardo: temeva che tutto il
sincero rammarico di Andromeda fosse tempo sprecato, sottratto a una nuova
felicità che ora lei avrebbe potuto scegliere e afferrare, in totale libertà.
Tenne quei pensieri per sé e continuò a stringerla tra le braccia.
“Andrà tutto bene” sussurrò.
Dopo qualche minuto di sconforto, Meda iniziò a calmarsi e allentò la presa
d’acciaio sulle pieghe della sua t-shirt.
“Sei contento, ora? Perché io non lo sono per niente…” disse, scostandosi e
asciugando il viso con le mani.
Sirius incassò il colpo senza fiatare, allungando una mano fino ad accarezzarle
la guancia, ancora umida di pianto. Andromeda gli regalò un altro sorriso
triste.
“Ovviamente avevi ragione” disse, scrollando le spalle.
“Mi dispiace davvero”.
“Lo so”.
“Vuoi fare un giro al mercato?”.
Meda alzò gli occhi nella direzione vaga che le aveva indicato.
“Certo”.
Prima che si incamminassero gli si accostò e gli diede un bacio tenero sulla
guancia, agganciandosi al suo braccio destro come una bambina.
Vagarono per le bancarelle stracolme, scrutando con poco interesse oggetti
Babbani palesemente inutili e merce magica pericolosa mimetizzata tra
bigiotteria innocente e antiquariato fasullo. Andromeda gli spiegò che per il
momento dormiva da una sua ex compagna di scuola lì a Camden ma presto lei e
Tonks avrebbero trovato un posto dove stare insieme.
“Sei sicura? Vuoi davvero vivere con lui?” le chiese Sirius, superando un banco
che vendeva lecca lecca al gusto di cannabis.
“Sì” rispose Andromeda, rivolgendogli il primo vero sorriso da che si erano
incontrati.
Sirius soffocò l’istinto di abbracciarla ancora, lì in mezzo alla folla, solo
per la paura irrazionale di passare per il sentimentale che non era affatto.
“Vorrei solo non sentirmi così…” disse lei, raccattando un paio di orecchini con
delle lunghe piume da chissà dove.
Li portò alle orecchie con finta disinvoltura, mimando uno sguardo da seduttrice
nel tentativo vano di alleggerire le parole che aveva appena pronunciato.
“Non mi piacciono” replicò Sirius “Così come?”.
Meda fece indugiare le dita su un anello con una grossa pietra azzurra
incastonata in cima.
“Questo ti piace?”.
“No. Mi piace questa”.
Le mostrò una collanina con un piccolissimo ciondolo dorato a forma di
libellula.
“È bella” disse Meda, senza guardarlo “Come se non avessi più nessuno al mondo”.
“Sai che non è vero. Hai me, hai Ted, i tuoi amici…”.
“Sì ma loro non possono capire. Non sono come noi”.
“Questo potrebbe essere un bene”.
“Già”.
“Come hai fatto a scappare? Credevo che ti tenessero rinchiusa da qualche parte
nelle segrete”.
Andromeda appoggiò la testa alla sua spalla, mentre continuavano a camminare
nella luce del primo pomeriggio.
“Ho finto di essere molto pentita. Sai bene che i Black hanno un vero talento
nell’arte dell’inganno”.
“Non guardare me, se fossi stato davvero un buon bugiardo mi sarei fatto
Smistare in Serpeverde e avrei riservato le sorprese per la maggiore età”.
“Un po’ come ho fatto io, insomma?”.
“Sei sempre stata il mio mentore”.
“Sediamoci un po’”.
Meda lo guidò oltre il confine delle bancarelle, scavalcando una bassa
balaustra, fino al margine del ponte, dove si sedettero con le gambe a
penzoloni.
“Vengo spesso qui” disse lei, mentre il riflesso del sole sull’acqua giocava con
i suoi capelli “Anche da sola. A volte non compro niente. Mi piace stare in
mezzo alla gente con la certezza, o almeno la concreta possibilità, che non ci
sia nessuno che mi conosca. È come fare un salto in un altro pianeta”.
Sirius provava la stessa sensazione in compagnia dei suoi amici. Dopo i primi
due anni a Hogwarts la differenza tra lui e il resto della discendenza passata
per quelle mura era diventata talmente evidente da renderlo un individuo a se
stante. Era molto più conosciuto come compagno di scorribande di James Potter,
che come primogenito Black. Andromeda stava parlando del posto dove tu sei tu e
basta, e anche se quel te stesso è un signor nessuno va più che bene: l’esatto
contrario della politica propagandata in famiglia, dove, come era stato
insegnato a Sirius, tu non sei tu ma l’erede di un sangue antico con un carico
di cemento sulle spalle che tutti chiamavano alto lignaggio.
“Tu come fai? Intendo a sopportare tutto questo”
Sirius meditò per qualche secondo sulla risposta incoraggiante, e
drammaticamente finta, che avrebbe potuto dare, poi decise di essere
spietatamente sincero.
“Non lo faccio. Non riesco a sopportarlo e non credo ci sia un modo per
riuscirci. Voglio dire, i miei genitori che hanno deciso di non volermi più,
come se fossi, non lo so… e mio fratello… penso che sono cose che nessuno può
superare o affrontare, e penso anche che ti lasciano un segno, per sempre. Remus
dice che con un po’ più di fiducia nel prossimo potrei riuscirci. Non ne sono
convinto ma ci sto provando, almeno con i miei amici”.
Andromeda lo stava fissando, come se volesse andare oltre alla confessione che
le aveva appena fatto.
“Ho capito solo ora come ti sei sentito per tutto questo tempo. Forse per te è
stato anche peggio. Era in assoluto la cosa di cui avevo più paura e ora che è
successo mi sembra di non avere più una vita”.
“Puoi costruirtene una con Ted, credo che se lo meriti” disse Sirius “O con
qualsiasi altro tizio dall’aria vichinga che riesci a incontrare”.
Lei sorrise ma brevemente.
“Come fai a fare i conti con i ricordi? Ci sarà stato qualche momento con i tuoi
o con Reg che ricordi con affetto. Non ti tornano mai in mente?”.
Sì. E fanno un male cane.
“Sì, però sono lontanissimi e spero che prima o poi li rimuoverò del tutto”.
“Quindi l’unica soluzione è dimenticare. Non so se ne sono capace. Hai
dimenticato anche Bella? Pensare a voi due mi ha sempre resa molto triste, anche
prima, e ora sarà peggio. Eravate davvero uniti, fin da quando eri bambino”.
Sirius la scrutò, incredulo.
“Non ricordo di essere mai stato unito a Bellatrix in nessun senso. La
sola idea mi fa rabbrividire” mentre lo diceva, un vago dolore alla testa gli
fece strizzare gli occhi.
“Lei ti adorava e tu la seguivi ovunque. Mi ricordo che, un Natale, hai detto a
tutti noi che avevi deciso di sposarla. Avrai avuto sì e no otto anni, eri
abbastanza grande per ricordartelo. Non puoi davvero aver dimenticato tutto di
Bella”.
Il dolore aumentò allo sforzo impiegato per ripescare nella memoria un evento
tanto assurdo.
“Adorarmi? Una cosa del genere non può essere mai successa. Bella mi ha sempre
odiato” disse, portando istintivamente una mano alla tempia.
“Stai esagerando. Alla festa di fidanzamento avete ballato insieme, questo lo
ricordi?”.
Non appena Meda terminò la frase Sirius avvertì una fitta fortissima, come se
qualcuno stesse cercando di tranciargli a metà il cranio, e si piegò in avanti,
portando le mani a coprire la testa. Andromeda lo afferrò per un braccio e urlò
qualcosa, agitata, ma non riuscì a capire le sue parole. Tutto sembrava essere
precipitato in un vortice, la sua voce e i contorni delle cose si confondevano
in un unico guazzabuglio di colori e suoni; quando riemerse dalla confusione un
conato lo costrinse a sporgersi sul fiume. Vomitò il suo pranzo e anche buona
parte della colazione nel rigagnolo.
“Ehi amico! Ci hai dato dentro?” strillò qualcuno, da lontano.
“Vieni qui” Meda lo sollevò lentamente fino a farlo stare dritto.
Era molto pallida e aveva tra le mani un fazzoletto di stoffa con cui gli pulì
le labbra.
“Per Merlino…” sfiatò Sirius, quando fu certo di essere nuovamente in sé.
“Che ti è preso? Stavi male stamattina? Avresti potuto dirmelo!” disse sua
cugina, bianca come un lenzuolo.
“No, no. Sto benissimo. Deve essere stato il sandwich di Kreacher, quello
schifo”.
Andromeda non sembrò tranquillizzarsi, anzi, se possibile, parve agitarsi ancora
di più.
“Spostiamoci da qui, forse il sole forte ti ha dato fastidio. Riesci ad
alzarti?”.
“Per carità, Meda, non esagerare. È solo un po’ di nausea”.
Per confermarle la sua buona salute si alzò in piedi con decisione “Dove vuoi
andare?”.
“Andrà bene qualsiasi bar”.
La ricerca durò poco e appena sei minuti dopo Sirius si ritrovò seduto a un
tavolino di plastica, con un tizio da una cresta arancione che gli chiedeva
l’ordinazione.
“L’acqua andrà benissimo, e una limonata per me”.
Il cameriere atipico inarcò le sopracciglia con perplessità e portò via i menu
che ospitavano una quantità esorbitante di nomi di birre.
“Come ti senti?”.
“Sto bene”.
“Non sembra proprio, sei verde”.
“E tu sembri un cadavere, ok?”.
“Hai ancora la nausea?”.
“Meda. ti. prego”.
Sua cugina si trincerò in un silenzio cupo fino a quando il cameriere
non ritornò; quando anche con il suo bicchiere di limonata ghiacciata davanti
sembrava non aver intenzione di muovere un muscolo, Sirius parlò.
“Scusami. Davvero, sto benissimo. Deve essere stato il caldo, vai a capire”
disse, con tono affabile “Tu non dovevi raccontarmi tante cose?”.
Andromeda non si rilassò per niente, anzi, si incupì ancora di più.
“In effetti una cosa ci sarebbe” disse “Credo di essere incinta”.
*
NdA: ciao a tutti! So di pubblicare sempre con molto ritardo rispetto ai
“normali” standard delle autrici buone&care che vi vogliono veramente bene, ma
per me è già un miracolo riuscire a portare avanti questa storia come vorrei
(considerando l’antica data di concepimento del primo capitolo >.<). Come al
solito, spero che questo aggiornamento vi piaccia e vi stimoli a proseguire con
la storia nonostante i miei tempi biblici: se così non fosse sentitevi liberi di
consigliare/bacchettarmi su quello che non vi sconfinfera (vi prego, siate
coccolosi se lo farete perché il mio povero cuore non reggerebbe i commenti al
vetriolo). Prima di ringraziare, volevo inserire due o tre note su alcune cose
di questo capitolo:
1)
Dingwalls è un locale di Camden aperto nel ’73 o giù di lì, ospitava e ospita
attualmente molti live – anche di artisti cosiddetti alternativi -;
2)
La Roundhouse è il parente nobile e parecchio più figo di Dingwalls, aperto
negli anni ’60 e attivissimo nei ’70, che ha ospitato artisti tipo Rolling
Stones, Bowie (del quale la mia Meda è una fan sfegatata), Hendrix e così via,
tanto per dirne alcuni.
3)
Idealmente ho collocato la residenza cittadina dei Black, Grimmauld Place, nel
borgo di Islington, solo ed esclusivamente perché è stato scelto come location
per la collocazione della casa dei Black durante le riprese di vari film di
Harry Potter. La scelta mi è piaciuta molto.
4)
Per me Camden Town è un ideale luogo di fusione tra mondo magico e mondo babbano,
per motivi scontati, ci tenevo a piazzare la cosa da qualche parte.
5)
Il ponte dove Sirius rigurgita roba varia è tipo così:
http://www.true-london.com/wp-content/uploads/camden2.jpg
6)
Non odiatemi per le inesattezze su Camden e Islington o su Londra in generale,
non sono praticissima e prima di scriverne ho provato a rimediare aiuto sul mio
fake con scarsi risultati q_q
7)
Mi sembra giusto specificare che i malesseri di Sirius vanno messi in relazione
ai ricordi che sono stati rimossi da Bellatrix: chiaramente Bella non è un
Medimago e perciò, per quanto talentuosa, non avrebbe dovuto nemmeno pensare di
intervenire a modificare parti così sensibili della memoria del cugino (se
stessimo parlando di una personcina pienamente sana, questo concetto sarebbe
stato chiaro). Una delle spiegazioni che inserirò in qualche modo nei restanti
capitoli riguarda proprio il fatto che modificare ricordi legati a sfere emotive
profonde come, in questo caso, l’amore, può provocare danni sensibili
all’apparato cerebrale. Questa spiegazione sarà essenziale per il successivo
sviluppo della follia di Bella, ma non voglio spoilerare troppo.
Dovrei aver finito con le precisazioni inutili. Ho notato, negli ultimi giorni,
un incremento di letture e di preferiti/seguite: non so da dove siate spuntati
ma vi ringrazio davvero tanto! Spero di risentirvi presto, un saluto a tutti :3
|
Ritorna all'indice
Capitolo 11 *** Contention ***
Capitolo 10
Contention
La stanza, un buco dimenticato dal mondo, era piccola e, anche seduta all’angolo
opposto rispetto al letto, Rodolphus le sembrava sempre troppo vicino. Si faceva
più vicino di minuto in minuto, mentre la luce del giorno aumentava e le pareti
scure parevano restringersi su di loro; o era il suo corpo nudo, abbandonato, a
ingigantirsi? Un polpaccio avvolto nelle spire delle lenzuola, le forme maschili
scoperte, la schiena ampia una distesa di muscoli rilassati che si tendevano
pigramente a ogni respiro, foderati dalla pelle spessa che le sue unghie avevano
graffiato la notte prima, senza pietà. Un solco violaceo gli attraversava una
scapola, risalendo fino al collo e, contemplandolo, Bella portò istintivamente
una mano a tastare la carne morbida che sormontava la clavicola, ripercorrendo i
segni del morso che le riposava addosso. I margini della ferita dolevano e, tra
le gambe, l’epidermide bruciava. Non era stato propriamente bello, né
umano.
*
Little Hangleton riposava nell’oscurità, i suoi Babbani mollicci nascosti oltre
le porte chiuse, come se bastasse un giro di chiave a salvarli dal male. Non era
possibile Materializzarsi direttamente entro le mura della casa, così Bella era
stata costretta a comparire dietro al solito cespuglio di viburni. Mossa
dall’agitazione, riemerse dal verde senza controllare il vialetto, dimentica di
eventuali esploratori notturni; non appena mise piede in strada, qualcuno le
puntò un oggetto duro tra le scapole, ghiacciandola sul posto.
“Fai più rumore di un Ghoul arrabbiato, cugina”.
La voce di Evan fu una carezza spettrale. Si voltò, ritrovando la sua bacchetta
ancora puntata contro. Non si vedevano più dal giorno in cui aveva tentato di
torturarlo e per un attimo arrivò a temere che volesse vendicarsi, impedendole
di raggiungere l’appuntamento. Lui non avrebbe tollerato ritardi e di certo
Bella non avrebbe avuto il coraggio di presentarsi anche solo un minuto dopo
l’orario prestabilito.
“Vuoi che finisca il lavoro che ho cominciato da Malfoy?” ringhiò.
La risata di Evan incrinò il silenzio della notte.
“Sei davvero comica” disse lui, abbassando il braccio “Dovremmo riappacificarci,
non credi?”.
Rimase immobile mentre si avvicinava di un passo, circondandole la vita in un
abbraccio da amanti, prima di posarle due baci sulle guance, con lentezza
esasperata. Avrebbe voluto strangolarlo a mani nude ma trattenne gli istinti
malevoli, sforzandosi di concentrarsi sul reale motivo della loro presenza lì.
“Tra poco saremo più che fratelli, mia cugina adorata” sussurrò Evan al suo
orecchio “Non è meraviglioso?”.
Il suo volto affondò tra le ciocche di capelli che le proteggevano il collo e
Bella lo sentì annusare. Rosier aveva sempre amato, fin da bambino, quegli
stupidi giochi maliziosi. Non riuscendo a sopportare oltre, lo spinse con
energia lontano da sé, ricavando nient’altro che una smorfia divertita. Lo
guardò socchiudere gli occhi pallidi, nell’espressione di un felino che si
prepara a gustare la preda.
“Puzzi di Dittamo. Non sei ancora guarita?”.
Non rispose, gli diede nuovamente le spalle e prese a risalire il dolce pendio
che conduceva fino ai cancelli della casa. Sentì Evan scivolarle dietro e poi se
lo ritrovò al fianco, dritto nella nobile grazia che sua madre decantava con
adorazione.
“Quali novelle dal vostro ramo?”.
“Non ho voglia di chiacchiere”.
“Per Salazar, sei sempre così maleducata” sibilò lui “Non vuoi
raccontarmi neppure di Meda, sai, circolano delle vo-”.
Prima che potesse filtrare la rabbia in una risposta sferzante, la sua mano era
corsa alla bacchetta e Bella fu quasi sorpresa quando si ritrovò a contemplarne
un’estremità affondata nella spalla del cugino. Ormai era tardi per ritrarla.
“Allora è vero…” mormorò Evan, per nulla scosso dalla minaccia di un’altra
aggressione.
“Non una parola”.
“Che razza di ingrata”.
Sembrava sinceramente impressionato dalla notizia, ogni traccia di insolenza si
era dissolta, ma qualsiasi discussione al riguardo era fuori questione. Non con
lui. Non in quel momento, a due passi dal Signore Oscuro, che avrebbe
potuto frugarle nei pensieri e magari trovare le tracce di un sentimento
pericoloso. Avrebbe rischiato di compromettere ogni cosa.
“Non. Una. Parola. Rosier”.
Finalmente lui alzò le mani in segno di resa, tacendo. Bella riprese a
camminare, ignorandolo, troppo concentrata nel tentativo di rimuovere ogni
traccia di agitazione dalla mente, respingendo le immagini e i ricordi di quei
giorni lontano dalla memoria. Era uno degli esercizi più duri che aveva
affrontato nell’ultima settimana, peggiore anche del digiuno quasi totale che si
era imposta. Si fermarono solo quando giunsero al cancello secondario, lì
avrebbero dovuto attendere Mulciber e Dolohov, poi sarebbero entrati sotto un
unico Incantesimo di Camuffamento: lo sciocco Babbano che sorvegliava aveva il
suo tugurio dal lato opposto della grande villa ma era meglio essere prudenti.
“Non si parla solo di Meda, comunque. Le tue sorelle si sono contese i
pettegolezzi di mezzo Mondo Magico, nell’ultimo periodo”.
Bella non commentò e le parole di Evan sprofondarono lentamente nel buio,
insieme ai loro sguardi, fino a quando due sagome indistinte si affacciarono in
fondo al sentiero, muovendosi nella direzione in cui si trovavano.
“Pensi tu a farci sparire?”.
“Certo” rispose Evan “In ogni caso, per quanto possa interessarti, pare che
Malfoy abbia messo le mani su Cissy. E non simbolicamente”.
Bella registrò l’informazione senza battere ciglio, il volto in parte nascosto
dal grande cappuccio del mantello, tesa come una corda di violino. Le sembrava
di doversi spezzare da un momento all’altro, come una lastra di vetro
scheggiata.
“Compagni…”.
Il saluto di Dolohov fu poco più che un grugnito, mentre Mulciber si limitò a un
sorriso delirante. Dopo un paio di rapidi convenevoli, Evan applicò
l’Incantesimo a tutti, prima di superare il cancello. Oltrepassarono il giardino
abbandonato a ranghi serrati e, nella quiete morente del luogo, Bella poté
registrare ogni dettaglio di quel momento; il respiro eccitato di Terence
incollato a una tempia, l’odore stantio di Antonin e il fianco sinistro di suo
cugino che la sfiorava delicatamente, come avrebbero fatto le sue parole
melliflue dirette all’Oscuro Signore, di lì a poco. Stavano andando incontro al
loro destino, oltre l’uscio marcio che proteggeva l’ingresso ovest, su per le
scale sfondate che poche altre volte avevano risalito e mai per un evento tanto
straordinario. All’ultimo, Evan le strinse un polso come per farle coraggio e
Bella non trovò la forza di divincolarsi.
Lui attendeva di spalle, affacciato alla vetrata infranta che si affacciava sul
villaggio, in un mosaico di occhi di cristallo aperti, là dove il tempo era
stato misericordioso, e chiusi, dove invece il ticchettio degli orologi aveva
sbriciolato ogni cosa. Un quadrato di quattro compagni già li attendeva e, dopo
il consueto inchino indirizzato a Lui e solo a Lui, si unirono agli altri. Bella
riconobbe un occhio di Lucius, una pietra dura conficcata nella metà del volto
illuminata dall’unica candela che rischiarava la stanza, e fu certa che
Rodolphus era lì, perché era stata lei stessa a pregare Malfoy di occuparsi dei
Lestrange. In compenso, aveva dovuto prendere con sé Mulciber, che in pochi
tolleravano.
Rimasero immobili, frementi di aspettazione, nell’attesa degli ultimi due
gruppi, che arrivarono poco dopo. Quando seppero di essere tutti presenti,
Lucius le fece un cenno. Nel suo sguardo decifrò l’irrimediabilità del momento,
di quello che avrebbero fatto; un singolo istante che avrebbe cambiato ogni
cosa, rendendoli immortali.
“Mio Signore, siamo al completo”.
La sua stessa voce le giunse estranea all’udito, come se si trattasse del
richiamo fermo di qualcun altro. Lei non riusciva a sentirsi ferma, né
sicura, lo stomaco ridotto a un mucchio di nodi tremanti, le fauci aride e le
dita serrate intorno ai lembi del mantello.
Non è paura,
continuava a ripetersi, non è paura.
Lui si voltò lentamente, metà del suo essere irrorato dal bacio argenteo della
luna, nel consueto aspetto. Bella continuò a guardarlo direttamente, senza
cedere: fin dal primo incontro, i suoi tratti non erano mai riusciti a
disgustarla del tutto. Guardare i suoi sfregi, quei tratti deformati e ridotti a
vaghi abbozzi di natura umana, era come affacciarsi su un pozzo di potenza
infinita, sfrenata, così devastante da aver trasformato l’uomo in qualcosa di
affine a un dio orrendo. A terrorizzarla ed eccitarla, simultaneamente, era la
forza invasiva e feroce che pareva diffondersi a ondate da quel corpo, falciando
ogni pretesa di dignità nello spirito altrui. La sua forza era magnetica, un
polo calamitante che aveva trascinato ognuno di loro con disarmante energia.
Si fermò a un passo da lei, sovrastandola. Non era più un organismo ma una
montagna, la sua ombra la nascose, poi la avvolse. Bella non riuscì a
distogliere gli occhi dai suoi, come avrebbe dovuto, rilevando il margine di un
rosso vivo che ne corrompeva le iridi, un dettaglio che non ricordava di aver
registrato l’ultima volta in cui i loro sguardi si erano incrociati.
“Noti un cambiamento?”.
Il sibilo le perforò i timpani e temette di essersi spinta troppo in là. Tacque,
senza neppure annuire.
Poi un altro sibilo riecheggiò solo nella sua mente, rendendola preda del
panico.
“Io lo noto. Un turbamento pericoloso, mia serva”.
Restò immobile, senza abbassare lo sguardo, follemente certa che quello sarebbe
stato l’unico modo per garantirgli la sua fedeltà, oltre il dolore, oltre
qualsiasi sentimento irrazionale. Ripescò con cura nei suoi pensieri il ricordo
della sera trascorsa a Englefield House, della risposta che avrebbe voluto
pronunciare anche al suo cospetto, se gliene fosse stata data l’opportunità:
Vorrà dire essere legati a Lui, per sempre. E se voi lo volete, io lo voglio di
più.
“Mi giuri eterna fedeltà, Bellatrix Black?”.
Ora la sua voce era fuori, dove tutti avrebbero potuto udirla.
“Lo giuro”.
“Giura di servirmi, sul tuo sangue, sulla tua vita, sul tuo onore”.
“Lo giuro sul mio sangue, sulla mia vita, sul mio onore”.
Le sue non erano propriamente mani comuni e quando le sfiorarono il braccio, in
un gelo metallico, un brivido le percorse la schiena. Era terrore, desiderio o
esaltazione? Si tese verso di Lui, la carne candida esposta, le dita distese
come per cogliere un frutto.
“Ricorda, mia serva”
era di nuovo nel punto più profondo di lei, ora sussurrava per rivelare un
segreto “Quanto più in alto vuoi costruire, più a fondo devi distruggere”.
Era un monito chiaro. Cosa aveva visto? Per un momento, temette che avrebbe
ritratto la bacchetta negandole il premio. Invece l’esitazione era servita a
sondarla ancora una volta, solo con le pupille, ultimi avamposti di un’origine
comune alla sua.
Il dolore si insinuò sotto la pelle, tracciando un solco immaginario nei
tessuti, strappando le vene e lacerando le fibre, mentre il suo avambraccio
restava intatto. Ingoiò la sofferenza fisica dentro di sé, serrando le labbra.
Io lo voglio di più. Lo strazio percorse un viaggio incandescente, dal
polso alla spalla, scavando come una lancia fino al cuore, che accelerò,
impazzito. Quando le prime linee scure si dipanarono sull’epidermide, non riuscì
a frenare un sorriso disperato. Il Marchio, simbolo dell’unico voto che aveva
scelto nella sua vita, era impresso su di lei, all’interno di lei,
irreversibile, incancellabile, il distintivo che avrebbe esibito per
riconquistare il suo libero arbitrio, la sua libertà, il mondo. Non le restava
nient’altro che Lui, non c’era niente di più importante che Lui.
Lo giuro sul mio sangue, sulla mia vita, sul mio onore.
Lo giuro sul mio sangue, sulla mia vita.
Lo giuro sulla mia vita.
Si ritrovarono dispersi nella macchia di arbusti che avrebbe protetto il loro
cammino fino al punto in cui si sarebbero congedati gli uni dagli altri. Presto
le istruzioni sarebbero arrivate attraverso il suggello e fino ad allora non
avrebbero dovuto fare altro che attendere. Prepararsi e attendere. Erano
stremati e ripercorsero il sentiero senza proferire parola. Il Marchio riposava
su ognuno di loro, quieto, ma il dolore era ancora intenso.
“Da qui noi proseguiamo per un’altra strada”.
La voce di Lucius fu poco più che un mormorio e ad accoglierla trovò qualche
occhiata sofferente.
Quanto più in alto vuoi costruire, più a fondo devi distruggere.
Bella incontrò gli occhi di Rodolphus, dritto accanto a Lucius. Neppure lui
aveva emesso un lamento. Prima che voltasse le spalle per incamminarsi con gli
altri tre compagni, lo richiamò.
“Lestrange”.
Solo uno dei due fratelli si voltò, ed era quello giusto.
Quanto più in alto vuoi costruire, più a fondo devi distruggere.
“Vieni con me”.
Non lo chiese, lo ordinò, a lui e a se stessa, con la stessa sgraziata
prepotenza.
Si dileguarono in silenzio, nel silenzio Bella si lasciò condurre in un luogo
che non conosceva, lasciò che lui li rinchiudesse entrambi tra le mura spesse
dove il suo martirio si sarebbe infine consumato.
Fu lei a disfarsi del mantello per prima, poi dei nastri che stringevano il
corsetto, evadendo un indumento alla volta dalla prigione di stoffa in cui era
solita lasciarsi soffocare. Lui sembrava talmente stupito dal repentino
cambiamento da non riuscire a muoversi ma tutto cambiò quando lo costrinse a
sedere sul bordo del letto, montandogli addosso: a quel punto riemerse l’avidità
che gli aveva letto negli occhi e poi fu troppo tardi per imporgli un freno. Si
spogliò frettolosamente, respirando forte contro le sue forme mentre i loro
corpi entravano in contatto, aprendo la bocca in un ansito animalesco non appena
lei si lasciò toccare davvero, in profondità. Le entrò dentro senza cerimonie,
spingendo privo di riguardi, mosso solo dal desiderio cieco che gli appannava la
vista. Lei non si arrese subito, riuscì a tenerlo sotto di sé per qualche
minuto, lottando con tutto il suo peso. Del resto, non ci si poteva aspettare
che la bestia sacrificale si offrisse all’olocausto con eleganza. Quando lui la
ribaltò sulla schiena, con un colpo feroce, si vendicò conficcando le unghie fin
dove poteva, godendo del suo dolore e del piacere che, inesorabile, iniziava a
ottunderle i sensi. Lui era più forte di quanto aveva creduto, anche più
crudele. Pareva che volesse ucciderla, più che possederla. Non mostrò nessun
tipo di pietà o esitazione e accolse l’orgasmo sfogandolo in un morso nella sua
carne.
Più tardi, con il viso di Rodolphus affondato tra le cosce e le sue mani
impresse ovunque, anche dove non credeva che sarebbe riuscito ad arrivare, Bella
si frantumò e ricompose, seguendo le linee spezzate dell’acme che l’aveva segata
a metà. Un piacere devastante diviso con un pianto amaro.
Quanto più in alto vuoi costruire, più a fondo devi distruggere.
Era finita.
Era iniziata.
*
Il ritorno l’aveva lasciata esausta, la frenesia si era dissolta in una
sensazione di vuoto angosciante. Ripercorrendo la casa quieta percepì
chiaramente la propria solitudine, che ormai pareva essersi trasformata in uno
stato definitivo. Si ritrovò a pensare al giorno precedente, quando avevano
lasciato Englefield, alla parabola lenta che i lenzuoli bianchi avevano seguito,
prima di calare su ogni cosa, mobili e ricordi che avrebbero dovuto proteggere
dal trascorrere impietoso del tempo. Invece, quel rito le era parso un saluto
funebre. Era nei momenti come quello che davvero non riusciva a non pensare ad
Andromeda. L’immagine del suo sorriso, il suono della sua voce, lo sguardo di
rimprovero che così spesso le aveva rivolto; ogni dettaglio del passato
riverberava nello specchio della memoria, percorrendo orme già tracciate,
incidendo nuove ferite. Le mancava già in un modo brutale, talvolta
insostenibile, e per quanto tentasse di alimentare l’odio enumerando i colpi
duri che le aveva inferto, non c’era verso di superare il dolore. Era un battito
insistente, soverchiava ogni altro suono durante la notte, era onnipresente e
ormai aveva quasi paura di incontrare il proprio riflesso, perché vi avrebbe
visto lei, lo sapeva.
Davanti alla porta chiusa della camera di Meda, esitò. Nessuno percorreva
l’ampio corridoio e Bella non poté resistere all’istinto di posare una mano
sulla superficie inanimata, rimandando il riposo. Alla leggera pressione la
porta cedette, sorprendendola. Dall’interno giunse un tramestio sospetto e la
curiosità la spinse a spalancare l’uscio; per un secondo impossibile sperò
addirittura di ritrovare sua sorella.
“Oh, cara, sei tu…”.
Non fu Andromeda ad accoglierla, magari china sull’ennesimo libro proibito.
“Madre?”.
Non poté nascondere completamente la delusione e lei dovette interpretare il
tono come una sorta di rimprovero, perché girò il viso da una parte, nascondendo
la guancia bagnata dal pianto. Naturalmente rimaneva il viso congestionato a
tradirla, insieme all’aspetto disordinato – i capelli flosci intorno al volto,
la camicia da notte drappeggiata di sbieco – e agli occhi arrossati.
Sorprendendola in quello stato, Bella non riuscì a provare altro che disgusto.
“Sei rientrata ora?” disse sua madre, sferzante.
L’alba stava per concludersi, quando aveva raccolto i suoi pochi effetti dalla
stanza ed era andata via, lasciando Rodolphus addormentato. Mentre Druella si
crogiolava nel compatimento di se stessa, strisciando nelle ore buie fuori dal
suo nascondiglio di cipria, lei aveva regalato pezzo per pezzo il suo corpo a
qualcuno che a malapena conosceva. Il passo dal disgusto alla rabbia fu
repentino.
“Certo. Ho il mantello da viaggio, vedi?”.
“Dove sei stata?”.
“Lo sai, dove sono stata”.
Continuò a fissarla, nonostante tentasse in tutti i modi di evitare il suo
sguardo e nel contempo di darsi un contegno, rassettando la vestaglia sulle
spalle magre. In meno di una settimana dalla fuga di Andromeda era già deperita,
un fiore appassito avvolto nella seta; era di una debolezza - mentale, fisica,
emotiva – insopportabile. Si concedeva ore di disperazione vuota , in attesa del
prossimo matrimonio, una rivincita sociale che avrebbe in parte oscurato l’onta
del tradimento.
“Cosa ci fai qui?” la incalzò, occupando l’ingresso.
“Oh, non lo so… stavo controllando che tua sorella non avesse rubato la collana
della nonna. Sai, quella del debutto… voglio dire, se finisse nelle mani di quel
lurido io… io…”.
Quando la vide portare una mano alla bocca per domare un singhiozzo, dovette
respingere il desiderio di colpirla.
“Ti prego…”.
“Tu non capisci…” pigolò lei “La gente comincerà a chiedere, a parlare, questa
storia mi perseguiterà fino alla tomba. La gente non vede l’ora, sai, di trovare
qualcosa da dire. Ci hanno sempre invidiati così tanto… le più belle figlie, le
più belle figlie…”.
“Madre…”.
“A te non importa…”.
“Ho detto per favore…”
“Tu non capisci cosa vuol dire…”.
“Madre”.
“Tu non capisci, non capisci… così vicino al matrimonio… io impazzirò, non puoi
capire il dolore, la vergogna. Tu non puoi capire… Tu-”.
“MADRE!”.
L’urlo la fece trasalire. Bella avanzò in due falcate verso di lei e la afferrò
per un braccio con forza.
“NON POSSO CAPIRE?” la strattonò come una bambola.
La rabbia era tale da accecarle la vista, avrebbe voluto stringerle le mani
intorno al collo e troncarle il respiro fino a farla tacere.
“IO non capisco?!”.
Era terrorizzata, un pupazzo inanimato, flaccido, gli occhi spalancati, larghi e
cadenti; Bella affondò le unghie.
“Dove vivi, tu? In quale mondo assurdo credi di vivere?”.
La spinse indietro, lei inciampò goffamente nelle gambe del baldacchino e finì
seduta sul materasso spoglio. Era così bianca da confondersi con la superficie
alle sue spalle, un fantasma sbiadito.
“Quando la strada di Andromeda incrocerà di nuovo la mia io dovrò ucciderla”
sibilò, vicinissima a quel volto terreo “È questo il giuramento che ho fatto. È
questo il mio impegno di fronte all’Oscuro Signore”.
Quando pronunciò quel nome, lo sgomento di sua madre produsse un rantolo
imbarazzante. Bella decise di affondare l’ultimo colpo, perpetuare la vendetta
che aveva serbato così a lungo, di fronte a ogni sopruso, ogni imposizione
demente, ogni costrizione imposta fino al limite della follia. Slegò il mantello
all’altezza della gola, lo fece scivolare via in un unico colpo deciso,
scoprendo il Marchio. Druella distolse lo sguardo, voltandosi da un lato, le
labbra ridotte a una lama tremante.
“Guarda” ringhiò, prendendole il mento tra le dita e costringendola “È l’inizio
di una guerra che avresti dovuto combattere tu per prima. Ma la tua mancanza di
coraggio, la tua stupidità … sei una codarda e la tua inutilità mi ha privato di
mia sorella”.
Puntò la bacchetta contro di lei, sovrastandola.
“Dovrei Marchiarti, potrei farlo” la minacciò “Lo vuoi? Vuoi giurare fedeltà al
Signore Oscuro?”.
Nessuna risposta e gli occhi abbassati, le prime lacrime autentiche, vili, che
le scavavano le guance sfiorite.
“Vuoi giurare, madre? RISPONDI!”.
Trasalì ancora, prese a piagnucolare come una bambina. Una visione
insopportabile, che le fece salire l’amaro in bocca.
“Sei davvero desolante” sussurrò, senza più guardarla “È solo colpa tua. Non ti
perdonerò mai per questo”.
Non ti perdonerò mai mai mai mai mai mai
La rabbia si trasformò in dolore, così improvvisamente, svuotandola di tutte le
forze che le erano rimaste. Sua madre se ne stava accasciata sul letto dove
aveva guardato Meda dormire, dove avevano diviso l’insonnia e le confessioni, in
un tempo che non sarebbe tornato mai più. Come avrebbe potuto dimenticare? Lei
era il suo specchio, il suo riflesso migliore.
Vorrei morire qui,
pensò, vorrei cancellare ogni cosa.
Indietreggiò fino alla porta, fuggendo alla vista di quella creatura ignobile
rattrappita di fronte a lei, invecchiata in un unico momento.
“Non celebrerai il mio matrimonio. Mi sposerò presto e tu non ci sarai. Prima di
allora potrai divertirti con Narcissa: pare che malgrado lo scandalo tu sia
riuscita a vendere anche l’ultima figlia”.
Neppure attese una risposta, varcò la soglia e chiuse la porta dietro di sé, per
sempre.
*
Sirius lanciò la divisa appallottolata in un unico groviglio di stoffa sul
sedile, prima di lasciarsi cadere al suo posto con un gemito.
“Merlino, grazie” mormorò.
La tensione si sciolse, il peso sullo stomaco si trasformò in una felice
eccitazione, il profumo dolciastro di Walburga finì dissolto nell’etere.
“Non allargarti troppo” disse James, spostandogli le gambe con una manata
“Occupi il mio spazio”.
Sirius gli rivolse un largo sorriso, pieno di allegria.
“Va bene, mamma James” rispose, raddrizzandosi.
Lo guardò ravviarsi i capelli, la camicia bianca sbottonata fino al petto e una
Sigaretta Mai Finita infilata dietro l’orecchio, mentre un gruppetto di ragazze
Tassorosso del quarto anno percorreva il corridoio, sbirciando con curiosità
oltre la porta a vetri.
“Ciao dolcezza” mimò l’amico con le labbra, alzando una mano.
Una biondina arrossì in modo adorabile e accanto a lei comparve Remus, che
registrò istantaneamente il quadretto e scosse la testa, sconsolato.
“Ti prego, non siamo nemmeno partiti” disse, entrando.
James rise e lo abbracciò, senza dargli il tempo di chiudere la porta.
“Si può sapere dove eri finito?” lo salutò, ignorando il rimprovero “Ti abbiamo
cercato sulla banchina!”.
Sirius si allungò e guardò l’amico bene in viso: era molto pallido e un taglio
profondo gli attraversava lo zigomo. Gli strinse le spalle energicamente,
guardandolo dritto negli occhi e riconoscendovi la solita tristezza mista a
rassegnazione. Perlomeno sembrava più in carne di come l’avevano lasciato prima
delle vacanze estive, aveva solo bisogno di un po’ di brio.
“Fai veramente schifo” gli disse, con affetto.
“Grazie” rispose lui, regalandogli il primo sorriso.
Dopo qualche convenevole, si accomodarono tutti e tre. Remus aveva sottobraccio
la consueta copia del Profeta, al quale era abbonato probabilmente dal
grembo materno.
“Le vacanze?” chiese, abbandonando il giornale alla sua sinistra.
“Fantastiche” James arrotolò le maniche sui gomiti “Ho conosciuto una rossa a
Montecarlo… Merlino, era la fine del mondo”.
“Dorea ti ha trovato una nuova tata?” lo stuzzicò Sirius, puntandogli un piede
in uno stinco.
James si appropriò fulmineamente del Profeta e gli assestò un colpo sulla
fronte.
“Vi prego, fatemi finire almeno la pagina politica…”.
Le proteste poco convinte di Remus si confusero con il buongiorno di Peter,
entrato in quel momento. Sirius l’aveva già salutato prima di salire
sull’Espresso, quindi lo sfogo verdino che gli era esploso in fronte non suscitò
il suo interesse: era troppo concentrato sulla vendetta ai danni di James.
“Che cosa hai fatto lì?”.
“Oh niente” ridacchiò Peter “Uno scherzo di cattivo gusto”.
“I compagni del campo estivo a Stonehenge erano delle merde” specificò James,
respingendo con un colpo da maestro i calzini usati che Sirius si era sfilato e
gli aveva lanciato addosso, rimanendo a piedi nudi.
Peter sorrise scoprendo gli incisivi sporgenti, senza nascondere l’imbarazzo.
“E tu, Sirius? Come sono andate la vacanze?” chiese Remus, distogliendo
l’attenzione generale dal triste racconto.
“Ah, una meraviglia”.
“Le tue lettere erano semplicemente deliranti” James si specchiò nel finestrino,
mentre il treno iniziava a muoversi.
“Vorrei vedere te rinchiuso in un covo di serpi incestuose”.
“Tua cugina ha tentato di sedurti?”.
“Quale delle tre?” rispose Sirius, sentendosi tutt’un tratto a disagio, senza un
motivo particolare.
“Non so, Narcissa? Un po’ frigidina ma ha un paio di… mmh”.
James simulò nell’aria il gesto di strizzare due entità invisibili e parecchio
estese. Un guizzo rosso fuori dal vetro attirò l’attenzione di Sirius: Lily
Evans sfilò davanti al loro scompartimento con la consueta eleganza, mentre il
palpeggiamento immaginario dei seni di Cissy andava in scena. L’occhiata che
lanciò a tutti loro tradì un profondo biasimo e James si accorse troppo tardi di
essere stato visto.
“A proposito di frigide…” mugugnò subito, lasciando cadere le braccia “Uno non
può nemmeno divertirsi”.
Sirius lo vide scivolare in punta del sedile, seguendo con lo sguardo la gonna
di Lily che spariva oltre la cornice, e fece partire il conto alla rovescia.
Presto James si sarebbe dileguato con qualche scusa patetica per correre dietro
alle mutandine della Evans, mandando le sue annuali promesse di resa in malora.
“Ho saputo di Andromeda” disse Peter.
“Già” annuì Sirius “Rimanga fra noi, per ora, ma… presto diventerò zio”.
“Cavolo!”.
“Zio?!”.
“Non avresti dovuto permetterle di riprodursi con nessun altro a parte me.
Comunque onore a Tonks per il concepimento lampo”.
James si alzò, ravviandosi nuovamente i capelli.
“Ti è bastato sentire l’odore, eh?” lo pungolò Sirius.
“Non so di cosa stai parlando, ho qualcosa di urgente da discutere con Harvie.
Torno subito”.
Raggiunse la porta a tempo record ma questo non gli permise di sfuggire allo
schiaffo che Sirius gli assestò dietro il collo, saltando sul sedile. Gli
rivolse un gesto molto volgare allontanandosi, suscitando il terrore in quattro
bimbi del primo anno che si trovavano a passare.
“Quanto sono teneri” osservò Sirius “Io non sono mai stato così”.
“Confermo” disse Remus “Quindi ora dove vive tua cugina?”.
“Sta a Londra, ha trovato un appartamento con Ted. Stanno bene, andrò a trovarla
presto. Mia madre l’ha già eliminata dall’albero genealogico, ovviamente”.
“Oh” gemette Peter.
Remus scrollò le spalle, desolato.
“È davvero una follia. Come tutte le idiozie estremiste che stanno circolando
nei salotti della nobiltà Purosangue… Edward Affilapenna ne parla da mesi nella
sua rubrica”.
“Chi è Edward Affilapenna?”.
“Uno dei giornalisti di punta del Profeta, Peter”.
“Beh, non so cosa ne pensa Affilapenna ma ho come il sospetto che molto presto
farò anche io la stessa fine di Meda. E non mi dispiace per niente”.
“E tuo fratello?”.
Sirius rivolse lo sguardo verso Remus. In fondo lui aveva sempre desiderato
qualcuno che lo aiutasse a combattere la sua solitudine, qualcuno che
condividesse le sue pene: in parte, loro lo facevano già come amici. Lui non
poteva capire quanto fosse terribile la disgrazia di ritrovarsi un consanguineo
sbagliato.
“Quale fratello?”.
Rise e scalciò le scarpe lontano.
La moquette del corridoio era tiepida, i piedi vi affondavano piacevolmente e
Sirius arricciò le dita un paio di volte, godendosi il contatto. Aveva abbassato
di poco un finestrino, fermandosi a guardare il paesaggio: il via vai era più
rado, nello scompartimento i suoi amici stavano già indossando le divise.
Allungò la mano appena fuori dal vetro, scuotendo la cenere in eccesso. La sua
Sigaretta Mai Finita avrebbe continuato a bruciare e ricomporsi, fino a quando
non fosse stato costretto a liberarsene.
Stava vivendo il benessere intenso del momento, la sensazione di trovarsi
nuovamente al sicuro, amato, sfottuto e inguaiato dalle uniche tre persone di
cui si sarebbe mai potuto fidare davvero. Il pensiero era sensazionale,
vertiginoso. Appagante oltre ogni speranza.
Le sue piacevoli elucubrazioni furono interrotte da una voce familiare.
“Non dovresti fumare”.
Si voltò, già stufo, e trovò Regulus ad attenderlo, rinchiuso nella divisa che
aveva indossato la mattina stessa, contro ogni buonsenso.
Eh?” rispose, laconico, poi fece un altro tiro.
“Mamma ti ucciderà”.
“Già tremo tutto. Sei qui per un motivo specifico?”.
“No. Sto andando a salutare alcuni miei amici. Tu eri qui…”.
“Amici? Facciamo progressi. Di qui a ventisei anni potresti addirittura farti la
ragazza”.
Le guance di Regulus si imporporarono.
“Ciao”.
“Buon anno, fratellino”.
Lo guardò allontanarsi, sempre più stranito dall’assurdità della sua esistenza,
fino a quando lo vide voltarsi nuovamente e tornare indietro di qualche passo,
verso di lui.
“Come sta…?” domandò.
“Come sta chi?”.
“Meda”.
Sirius si irrigidì.
“Bella ti ha mandato a fare la spia?”.
Regulus strinse i pugni.
“Voglio solo sapere come sta”.
“E cosa ti importa? Mamma l’ha bruciata, no? Non è tutto quello che devi
sapere?”.
Fu volutamente sferzante e suo fratello esitò, il volto contratto in
un’espressione indecifrabile. Timore? Rabbia? Irritazione? Sembrava realmente
combattuto e gli fece pena.
“Come vuoi che stia, Reg” sospirò, incredulo “Pensi che questa sia la domanda
giusta?”.
Gli occhi di suo fratello si allargarono, poi finirono nascosti dietro le
palpebre, mentre lui abbassava la testa. Si allontanò senza parlare, senza
salutare e Sirius lo lasciò andare.
Prima o poi Walburga avrebbe ridotto Regulus a un manichino inservibile.
Una moretta Corvonero gli passò davanti, squadrandolo da capo a piedi con un
sorrisetto malizioso dipinto in faccia. Forse la conosceva già, biblicamente? Si
concentrò con intensità sulle sue gambe che si sfioravano tra un passo e
l’altro.
Non era un suo problema.
*
NdA: si ritorna dopo l’estate con un nuovo numero di follie. La Sigaretta Mai
Finita è una mia invenzione trash, così come il nome Affilapenna: ho finito il
capitolo tre secondi fa, abbiate pietà di me. Spero davvero che, nonostante gli
errori in cui di certo incapperete, il capitolo sia di vostro gradimento. Sono
molto curiosa di sapere come avete visto gli avvenimenti che sono rappresentati:
credete abbia calcato troppo la mano o che, al contrario, abbia trattato la cosa
troppo superficialmente? Sono già in paranoia. Ah, da qui in poi cominceranno i
primi salti temporali che percorreranno i momenti più importanti dal matrimonio
di Narcissa a quello di Bella, passando per la fuga di Sirius fino a quello che
sarà, purtroppo, l’epilogo. *scoppia a piangere e accarezza il suo Sirius sulla
testolina*. Spero di riuscire ad aggiornare in modo ragionevole. Baci.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 12 *** The End Of Childhood ***
Capitolo
11
The
End Of Childhood
“Queste
non sono mie”.
Sirius
sollevò davanti a sé un indumento di biancheria intima. James, disteso sul suo
letto, rispose con un grugnito automatico: era troppo concentrato nella lettura
del libro che aveva trafugato dal Reparto Proibito. Con un lancio preciso, fece
atterrare gli slip tra le pagine aperte e riprese a gettare grovigli di vestiti
nel baule.
“Non sono
neppure mie” rispose finalmente James, infastidito.
“Allora
sei presente?”.
Sirius
diede un calcio casuale a un paio di scarpe che l’avevano fatto inciampare poco
prima, spedendole sotto al baldacchino di Phillips.
“Sto solo
cercando di capire perché mai ogni volta che tentiamo la trasformazione ci esca
così tanto sangue dal naso…”.
“Preferisco di gran lunga il sangue alla diarrea dello scorso anno” mugugnò
Sirius, rabbrividendo al solo ricordo.
Di certo
Remus non avrebbe mai potuto accusarli di non essere dei buoni amici.
“Non va
bene ugualmente” disse James, massaggiandosi il setto.
Aveva un
paio di occhiaie identico al suo. Chiunque pareva dare per scontato che fossero
il frutto di notti brave, invece erano il risultato di ore passate a infilarsi
metri di cotone nel naso. Pareva che i comuni Incantesimi di guarigione non
funzionassero con quelle particolari controindicazioni.
“Comunque
le mutande sono di Georgiana Ronson”.
“Come fai
a…”.
James le
sollevò indicandogli le iniziali cubitali ‘GR’ color argento che campeggiavano
sul didietro in pizzo.
“La
ragazza è tenace”.
“È il
terzo paio della settimana che mi ritrovo nella cartella. Inizio a indispormi”.
James
agitò la bacchetta e fece levitare la biancheria fino al materasso di Peter.
Sirius lo guardò infilare gli slip sotto al cuscino dell’amico, senza riuscire a
nascondere un sorriso ferino.
“Almeno
serviranno a rendere felice qualcuno” James scrollò le spalle, ritornando al suo
libro “I tuoi peli?”.
“Ah…”
Sirius sfilò la camicia senza sbottonarla “Volevo dirtelo, sono quasi spariti”.
Esibì la
schiena, ormai quasi del tutto pulita. Durante l’ultimo tentativo, gli era
comparso un tappeto di foltissimi peli neri su tutto il dorso e non c’era stato
verso di farli sparire. Erano caduti lentamente per tutta la settimana.
“Ti è
rimasto un ciuffo in basso” James aggrottò le sopracciglia “Disgustoso ma almeno
è in regressione”.
“Non
voglio trasformarmi in una specie di scherzo della natura, la prossima volta”.
Sirius
tornò al suo bagaglio, tentando di riepilogare cos’altro stava dimenticando.
“Siamo
ancora troppo instabili. Forse per riuscire a fare il salto dovremmo tentare la
trasformazione di un arto alla volta”.
“Sì, mi
immagino già a Trasfigurazione con un braccio da orso e una coda da procione. La
McGranitt sprizzerà gioia”.
“Non
sappiamo ancora a che forma corrisponderemo” lo redarguì James, serissimo.
“Appunto.
Peter tiene addosso il berretto anche di notte, hai controllato le sue
orecchie?”.
“Sono
quasi guarite. Quanto la fate lunga! Provate a camminare per cinque giorni con
un paio di zoccoli al posto dei piedi. Altro che orecchie o peli… gli
allenamenti sono stati un inferno!”.
“Beh,
almeno tu hai qualche indizio in più su cosa potresti essere. Tipo un
cinghiale”.
James gli
rivolse un’occhiata fulminante e Sirius alzò le mani in segno di pace.
“Va bene,
va bene” disse “Il baule dovrebbe essere pronto”.
“Tra
quanto è prevista la partenza?”.
“Mezz’ora”
ripose, cercando inutilmente una camicia pulita “È un peccato che il tuo vecchio
sia così intransigente, se ci fossi stato tu sarebbe stato almeno sopportabile”.
James
chiuse di botto il libro e crollò con la fronte sulla copertina.
“Non sai
quanto vorrei accompagnarti. Questa sera mi aspettano quattro ore di pulizie nei
bagni del terzo piano”.
“Preferirei pulire tutti i bagni di Hogwarts piuttosto che andare al matrimonio
di Narcissa, credimi”.
“L’invito
dei tuoi zii era una pura formalità e sai com’è mio padre, tende a essere un
tantino rigido per certe questioni”.
Sirius
puntò con lo sguardo una camicia inamidata distesa sul letto di Remus.
“Non posso
davvero biasimarlo” replicò “Avvisi Remus che l’ho presa in prestito?”.
“Certo.
Dovrebbe rientrare al massimo domani”.
“Pensaci
tu a rimetterlo in sesto. Non so se la storia del Prefetto sia stata una buona
idea…”.
“Certo che
lo è, la vecchia canaglia non sbaglia mai”.
“Non lo
so… dovrebbe servire a stringerci il guinzaglio e a fargli acquistare sicurezza
ma mi sembra che entrambi gli obiettivi siano stati mancati, per ora. Remus si
fa troppi scrupoli”.
“Deve solo
abituarsi” James si mise a sedere “Un grosso problema da risolvere, piuttosto, è
la verginità sempiterna di Peter”.
Sirius
scoppiò a ridere, chiudendo il bagaglio.
“Mi pareva
un discorso troppo serio” disse James “Ti accompagno”.
Sistemarono il baule nel centro della stanza, dove gli Elfi l’avrebbero
recuperato, e si avviarono verso la Sala comune. Sirius salutò Peter, chino
sulle pergamene di Aritmanzia con la fronte imperlata di sudore, e insieme a
James oltrepassò il ritratto, lasciandosi alle spalle il calore rassicurante dei
dormitori. Poco dopo superarono le clessidre luccicanti nel Salone d'ingresso ed
entrambi notarono con disappunto l’esiguo vantaggio su Serpeverde.
“Merlino,
che freddo”.
James
infilò le mani nelle tasche, mentre i pesanti battenti si spalancavano
lentamente sul parco innevato.
“Non fare
niente di divertente senza di me” disse Sirius, chiudendo il mantello.
“E tu non
fare quella faccia, tra tre giorni sarai di nuovo qui”.
“In tre
giorni con i Black può succedere qualsiasi cosa. E poi tra poco ci saranno le
vacanze di Natale, sto preparando il lutto”.
James alzò
gli occhi al cielo.
“Va bene,
vado” ridacchiò Sirius, allontanandosi.
“E dai un
bel bacio a Cissy da parte mia” gli urlò dietro l’amico, quando stava già
solcando il sentiero.
Sirius
sorrise senza voltarsi, stringendosi nel mantello. Il sole era tramontato da un
buon quarto d’ora e quando raggiunse il cancello ovest la neve riprese a cadere;
nella penombra riconobbe Regulus, ritto come un fuso nel bel mezzo del gelo
invernale.
Si
scambiarono dei saluti a mezza bocca. Dall’inizio dell’anno suo fratello
sembrava essere già cresciuto in altezza; portava i capelli più lunghi e l’idea
che così si assomigliassero maggiormente infastidì Sirius.
“Papà ha
mandato una carrozza” disse Reg, estraendo il suo orologio da taschino “Dovrebbe
essere qui a momenti”.
“Non vedo
l’ora” mormorò Sirius.
Il suo
commento passò sotto il più totale silenzio. Sarebbe stato un lunghissimo fine
settimana.
*
La crisi
iniziò mentre sua madre tentava di stringere il nastro d’argento attorno al
bouquet e Narcissa fu la prima ad allarmarsi.
“Madre?”
squittì, voltandosi di scatto nella sua direzione.
La donna
alzò una mano pregandola di star ferma, mentre con l’altra copriva a stento la
bocca.
“Ti prego,
cara, devo chiudere questa fila di bottoni…” lamentò la sarta.
Il bouquet
le cadde dalle ginocchia dopo un colpo di tosse troppo forte, fu come un istante
riprodotto al rallentatore; i boccioli si infransero sul tappeto scuro e qualche
petalo candido non scampò all’impatto.
“Bella fai
qualcosa!”.
Gli occhi
profondi di Narcissa la fissarono terrorizzati. Sua sorella rimase immobile,
stretta – imbrigliata – nel suo abito da sposa, tra le mani salde della
sarta, mentre lei si chinava verso sua madre.
“Le mie…”
rantolò la donna, di fronte al suo sguardo impassibile “le mie…”.
“Le
essenze, Bella!”.
Estrasse
le essenze dalla pochette posata sul comò, dove erano raccolte in una boccetta
d’oro, e le spinse sotto al suo naso. Inizialmente sembrò non riuscire a
inalarle poi, lentamente, fecero effetto e la tosse si calmò. Narcissa si
rilassò all’istante.
“State
meglio?” chiese, con un sorriso tremulo.
“Certo”
rispose Druella, la voce arrochita dallo sforzo “È solo un po’ di tosse, niente
di che”.
“I malanni
stagionali” pigolò la sarta con aria saputa, chiudendo gli ultimi bottoncini.
Raccolse
il bouquet da terra e lo adagiò nuovamente nel grembo della madre, alzando gli
occhi sul guanto che le foderava la mano con la quale aveva tenuto a bada la
verità: macchie di sangue scuro grandi come punte di spillo ne ricoprivano tutto
il palmo. Lei la implorò con un’occhiata patetica e l’Incantesimo le attraversò
la mente un momento dopo, la bacchetta nascosta in una manica del vestito. Ogni
traccia si dissolse, cancellandosi, e lei riprese ad annodare il nastro, un
centimetro alla volta, con spaventosa dedizione. Se qualcuno tempo prima le
avesse detto che sua madre si sarebbe ammalata d’umiliazione, non gli avrebbe
creduto. Bella aveva il monito ancora impresso nella mente: “i Black hanno il
sangue puro, e il sangue puro è forte. Indistruttibile”.
“Avevate
detto che avreste chiamato il medico, perché non l’avete fatto?” sbottò Cissy
con tono accorato, quando la sarta si allontanò.
Sua madre
tacque, fissandola in estasi. Narcissa aveva scelto una cascata di pizzo bianco
spruzzata di cristalli, le maniche e il colletto stretti sulla carne visibile in
trasparenza, fino al corpetto che le fasciava la vita. I capelli le ricadevano
sulla schiena e la tiara tirava morbidamente indietro le ciocche che avrebbero
potuto coprire il viso. Era bellissima, ma chiunque se lo sarebbe aspettato.
“Oh,
figlia mia… Sei meravigliosa” esalò Druella.
Bellatrix
si voltò per nascondere l’insofferenza, con il pretesto di recuperare il collier
ancora rinchiuso nella fodera, e si allontanò da quella visione nauseante.
L’unica cosa che desiderava era che la giornata trascorresse il più velocemente
possibile. Quando si piegò per tirar fuori il gioiello dall’ultimo cassetto del
comò, la ferita al fianco bruciò intensamente. Le sfuggì un gemito che richiamò
l’attenzione di sua sorella, mentre invece sua madre pareva essere troppo rapita
dalla contemplazione della sposa per prestare attenzione a qualunque altra cosa.
“Madre, da
qui in poi potrà aiutarmi Bella” disse Cissy, prendendole le mani “Precedetemi
pure, nostro padre inizierà a sentirsi solo”.
Dopo un
ultimo sospiro adorante, Druella annuì, commossa. Bellatrix abbassò la testa al
suo passaggio, avvicinandosi a Narcissa con i diamanti distesi attorno a un
polso.
“Manca
solo questo” disse.
Sua
sorella si limitò a fissarla. Si fronteggiarono a lungo, in silenzio.
“Non
solo questo” mormorò Cissy, alla fine.
Bella si
irrigidì.
“Non è il
momento”.
“Non so
neppure perché lo sto facendo”.
“Che
cosa?”.
Sembrò che
volesse chiederle scusa.
“Penso a
lei da questa notte. Non ho mai pensato a lei così a lungo da quando…”.
Bella
scosse la testa e il volto perfetto della sorella si distorse in un’espressione
di dolore. Fu un momento, gli occhi si velarono di lacrime e le labbra si
contrassero attorno alle due parole più distruttive che avrebbe potuto
pronunciare.
Mi manca.
Narcissa
non parlò ad alta voce, neppure sussurrò, furono solo lettere accarezzate con la
bocca. Nessun altro avrebbe potuto udire, nessun altro capire. La verità era che
non erano state preparate, né messe in guardia in merito a quella possibilità:
il pericolo di perdere quanto di più caro avevano al mondo.
Bella
forzò il pianto in rabbia, il modo migliore per fuggire dal male.
Non
possiamo permetterci nulla di tutto questo. Le lacrime sono per i bambini e
l’infanzia è finita per sempre.
La sorella
concentrò intensamente lo sguardo sui diamanti che rilucevano di bagliori
sinistri, una lacrima appesa al mento, più preziosa di qualunque altra pietra.
Bella fece scivolare i brillanti sulla sua pelle, il più delicatamente
possibile, e fu pronta.
“Sei
bellissima”.
Narcissa
sorrise sinceramente.
“Cos’hai
lì?”.
“Dove?”.
Strofinò
un indice all’interno del colletto di Rodolphus, la macchia era ancora fresca e
il polpastrello si tinse di rosso. Lui posò il calice sulla tovaglia immacolata,
poi le prese la mano e infilò il dito tra le labbra, succhiando senza ritegno.
Oltre la sua spalla, Bella incrociò lo sguardo di Druella e si concesse un
ghigno soddisfatto.
“È per
questo che sei arrivato in ritardo alla cerimonia?” chiese, quando sua madre si
arrese e deviò l’attenzione altrove.
“Ho
sostituito lo sposo in una faccenda spinosa. Tua sorella non avrebbe gradito se
si fosse presentato ricoperto di sangue”.
“Terence
era con te?”.
All’altro
capo del tavolo, Mulciber alzò un bicchiere di sidro all’indirizzo degli sposi.
“Sì. Ha
uno strano modo di intendere la tortura. L’obiettivo non è durato più di dieci
minuti”.
“È un
principiante”.
“Non
direi. Il cervello è rimasto intatto e non ho idea di come ci sia riuscito,
abbiamo ripulito i resti per due ore”.
“Tempo
sprecato”.
Rodolphus
scrollò le spalle e ridacchiò.
“Quel
bastardo… si è infilato un alluce nel taschino. Tu hai idea di cosa voglia
farci?”.
Terence si
voltò nella loro direzione, un fazzoletto di seta rossa ripiegato là dove doveva
trovarsi il macabro souvenir. Bella notò la strana protuberanza che tendeva la
stoffa e sospirò d’irritazione.
“Ti prego
fallo sparire prima che si ubriachi e faccia finire quella schifezza nel piatto
di qualcuno”.
Rodolphus
scoppiò a ridere sonoramente, attirando l’attenzione di diversi commensali, e si
calmò solo quando suo fratello maggiore gli assestò una gomitata al riparo del
tavolo.
“Agli
ordini, mia signora” disse poi, massaggiando una costola.
“Chi
era?”.
“Non ne ho
idea. Aveva delle informazioni, a Lui bastava quello che gli abbiamo portato”.
“Come ti è
sembrato?”.
“Non l’ho
visto. Abbiamo lasciato la consegna al quartier generale, non c’era nessuno”.
Bella
accavallò le gambe, fissando laconicamente i resti della seconda portata
accumulati nel piatto: il menu ne prevedeva almeno altre cinque e non era in
grado di prevedere con precisione a che punto sarebbe accaduto, ma di certo
avrebbe vomitato prima di arrivare al dolce. La neve incantata, asciutta e
distribuita in fiocchi perfetti, continuava a cadere dal cielo, sciogliendosi un
secondo dopo essere atterrata. Il caldo era così opprimente e la sala talmente
affollata che le pareva di soffocare. Il corsetto, poi, segava la pelle proprio
dove la ferita era ancora aperta, limitandola nei movimenti. Mentre una stecca
affondava nella carne viva e lei soffocava il dolore in un morso serrato,
Narcissa guardava Lucius come se fosse un’emanazione divina. Lui la stava
educatamente ignorando, preso in qualche chiacchiera politica di poco conto con
suo padre. Bella gli leggeva negli occhi il disprezzo, il vanto per una
superiorità dovuta unicamente al caso. Del resto, poteva davvero uno schizzo di
sperma nobile essere migliore di un altro? Il pensiero la fece ridere tra sé e
sé. Le mancava solo qualcosa tra le gambe, qualcosa tra le gambe e avrebbe
potuto essere il capo degli eredi seduti a quel tavolo. Rodolphus le sorrise
ancora, in modo complice. Lo sarebbe diventata comunque. E lui, l’aveva già
capito?
Ingoiò
l’ultimo sorso di vino. L’orchestra d’archi sospesa a mezz’aria intonò l’attacco
di un valzer. La musica le fece perdere il conto dei bicchieri che aveva
svuotato e le riportò la mente su sentieri pericolosi. L’aveva incontrato nel
corridoio di marmo bianco, appoggiato con indolenza a una parete, la sigaretta
accesa e la camicia stropicciata, sbottonata, come se fosse reduce da un
festino. La cerimonia stava per iniziare, tutti erano già schierati, oltre
l’entrata, e lui era l’unico a essere rimasto lì, proprio come lei, che
aspettava Rodolphus con un geranio bianco tra le mani. Non l’aveva salutata. Si
era solo voltato e aveva aggrottato le sopracciglia, gli occhi grandi adombrati
dalla furia. Aveva un labbro spaccato, la crosta sembrava tendersi a ogni tiro,
ma questo non gli aveva impedito di sorridere con strafottenza, prima di
dileguarsi. “La prossima sarai tu”, aveva sussurrato.
“Cugina,
mi concedi questo ballo?”.
Bella
trasalì, trascinata a forza fuori dai suoi pensieri.
“Non è il
caso di agitarsi così, la mia è pura cortesia. Del resto sei l’unica femmina
seduta a questo tavolo” aggiunse Rosier.
Accettò
l’invito con un moto di stizza, ignorando la mano che le stava porgendo e
precedendolo sulla pista. Quando fu il momento di attaccare il primo passo, gli
afferrò la vita.
“Quanto mi
piaci quando fai il maschiaccio” sibilò Evan, stringendosi a lei.
“Guarda e
impara”.
Prese la
guida con decisione, attirando lo sguardo confuso di qualche dama. Evan si
lasciò addomesticare per i primi tre tempi, rivelandosi una ballerina piuttosto
talentuosa, poi sovvertì la situazione premendole un palmo sulla ferita.
“Stai
buona” mormorò al suo orecchio, pilotandola nuovamente al centro della pista.
Bella
serrò gli occhi e si lasciò trasportare.
“Sbaglio o
avresti dovuto essere tu, la sposa?” chiese lui, una volta certo della
sua resa.
“Ho
preferito lasciare la scena a Narcissa. In posa rende meglio di me” rispose.
“Brava
ragazza. C’è chi si chiede se l’affare con Lestrange andrà in porto”.
“È già
andato in porto da un pezzo, lo sanno tutti”.
Evan rise,
inarcando le sopracciglia.
“Mi
riferisco al contratto matrimoniale”.
“Anche
io”.
Bella gli
conficcò le unghie nel braccio, quando le sembrò che stesse tentando di farla
cadere.
“Per
Salazar, quanta tensione. Cosa ti preoccupa, cara?”.
“Non hai
trovato nessuna vittima di tuo gusto, tra le invitate?”.
Lui curvò
in velocità, seguendo la musica.
“A dirti
la verità, la Selwyn controlla la scollatura in modo così pudico… è invitante”.
“Che
peccato. Puntavo su suo fratello”.
“Un’eccellente alternativa”.
Volteggiarono di fronte al tavolo di zia Walburga e, con la coda dell’occhio,
riuscì a cogliere l’assenza di Sirius.
“Non ti ho
invitata a ballare per mero divertimento, comunque” Evan rallentò appena “Devo
riportarti notizia”.
Bella
scrutò a lungo il suo volto, tentando vanamente di identificare una traccia di
ironia.
“Cosa?”.
“Mi è
stata appena riferita da Avery, pare siano voci fresche da Hogwarts”.
“Parla”.
Evan non
esitò.
“Pare che
tua sorella sia incinta”.
Il suo
sguardo corse subito a Cissy, mentre lui la faceva volteggiare per la piroetta
conclusiva. Quando si ricongiunsero, Evan scosse la testa.
“Non
lei, Bella”.
*
Sirius
tamponò il labbro con il tovagliolo, seduto nel chiostro esterno. Si gelava,
quasi certamente si sarebbe guadagnato una febbre da cavallo, ma il freddo
sedava la rabbia, costringendolo a tremare. La spaccatura nel labbro si era
riaperta, l’umiliazione era tornata a bruciare insieme alla carne viva. Lo
schiaffo di sua madre - l’anello che aveva strappato via pelle e sangue -;
Regulus che distoglieva lo sguardo nel silenzio compiaciuto di suo padre; gli
invitati che avevano assistito alla scena con serafica curiosità. Aveva gettato
la giacca chissà dove, in uno dei buchi spettrali della casa degli zii, e
addosso non aveva nient’altro che la camicia, sopravvissuta al tentativo di
liberazione che aveva fallito, in preda alla furia. Non ricordava neppure il
motivo di tanta collera. Cosa aveva detto? Cosa aveva fatto?
Le
finestre si aprivano sulla sala da ballo, dove gli invitati danzavano con
eleganza. Per loro era impossibile vederlo, non c’era luce che rischiarasse il
cortile di pietra, mentre lui aveva quello spettacolo fasullo a fargli
compagnia, luci dorate e abiti da festa sullo sfondo muto della campagna
inglese.
“Tra tre
giorni sarai di nuovo qui”.
Oh, James.
Ma tre giorni non sono sufficienti a farti sprofondare?
Il rumore
dei tacchi piantati nella pietra infranse la quiete, mettendolo in allarme. Quel
passo…
Bellatrix
emerse dall’ombra. Era sola e sembrava sconvolta. Dall’ultima volta in cui
l’aveva vista aveva perso peso, si era assottigliata. Quando si immobilizzò, a
pochi passi da lui, lo colse la delirante intuizione che fosse venuta a
cercarlo, forse per assecondare le ansie di Walburga. Mentre stava ancora
formulando il pensiero, lei gli puntò contro la bacchetta.
“Lasciami
in pace” le disse, lanciando l’ultimo mozzicone nella neve “Ho abbastanza freddo
per rientrare da s-”.
Perse
contatto con il terreno e l’unica cosa di cui restò consapevole fu il vuoto.
Improvvisamente, senza un collegamento tra il prima e il dopo, si ritrovò
immerso nel ghiaccio di schiena, il respiro mozzato e un dolore intenso che si
irradiava dalla spalla sinistra fino al petto. Non la sentì arrivare, forse lei
era già lì ancora prima che atterrasse, china su di lui.
“Dov’è?”
ringhiò, premendogli la bacchetta addosso.
Sirius
sentì il panico aggrovigliargli le viscere.
Andromeda.
Non fece
in tempo a prepararsi per il secondo schianto. L’energia lo trapassò e si
scaricò nel suolo, facendo sobbalzare il suo corpo come quello di un pupazzo
inanimato. Chiuse gli occhi, smise di respirare una seconda volta. Il cervello
si inceppò su considerazioni elementari. È così freddo, freddo, fred-mi
ucciderà ora? Proteggere Andro-dov’è?dov’è?
Fingersi
morto o almeno svenuto. Srius obbedì alla voce nella sua testa, non si mosse
più. La mente riprese a lavorare più lentamente. I piedi di Bella, sepolti nei
metri di tulle, dovevano essere poco lontani dalla sua gamba destra. La sorpresa
lasciò spazio alla consapevolezza.
“Inner-”.
Non le
diede il tempo di terminare la formula, si girò sul fianco e spazzò il selciato
sotto di lei con le gambe, sbilanciandola all’indietro. Le fu sopra ancora prima
che cadesse, si impossessò della bacchetta e la lanciò lontano nell’oscurità. I
suoi graffi colpirono il collo e il petto, per un attimo riuscì a divincolarsi,
poi Sirius la sollevò, approfittando del suo peso, e la schiantò a terra,
facendole sbattere la nuca. Bella soffocò un gemito digrignando i denti. La
schiacciò senza nessuno scrupolo, piantandole i polsi sopra la testa,
sfregandoli sui ciottoli affilati.
“Ti
uccido” sfiatò.
Avrebbe
voluto urlare, invece lo scontro l’aveva lasciato ansimante. La rabbia ottundeva
i sensi, l’aria sembrava improvvisamente così incandescente, il dolore non
esisteva più. C’era solo il desiderio bestiale di colpirla fino a farle chiudere
quegli occhi crudeli.
La gola di
Bella, tesa all’indietro, si contrasse. Stava ridendo.
“Uccidermi…” gorgogliò, senza più muoversi.
I suoi
capelli affondavano nella neve fresca, serpenti neri arrotolati e vivi, le
labbra erano bianche come il gesso, tese sui canini appuntiti. Non sembrava
neppure umana.
“Lasciala
in pace, Bella, hai capito?”.
Aveva
recuperato un po’ di fiato e la minaccia non suonò del tutto vuota. Lei non
commentò ma smise di ridere.
“Te lo
giuro, Bella. Se le fai del male ti uccido”.
Nessun
Incantesimo, solo le mie mani strette intorno al tuo collo.
Lei lo
guardò a lungo negli occhi, impassibile, poi scosse la testa.
“È colpa
tua”.
Fu un
sussurro ma non c’era nient’altro intorno a loro e risuonò nel nulla come un
tuono. Sembrava esausta. Per un istante, Sirius fu sul punto di pentirsi per la
violenza con cui l’aveva trattata. Le lasciò lentamente i polsi, senza smettere
di guardarla. Le dita di lei si sollevarono rapidamente e non riuscì a scansarle
in tempo. Si paralizzò quando, invece di sentirle conficcate nella carne, le
avvertì scivolare sulla pelle, dal colletto della camicia alla mascella e poi
oltre, lungo la tempia, attraverso una linea invisibile che gli solcava la
fronte. I polpastrelli di Bella sembrarono percorrere strade così familiari sul
suo viso, come se conoscesse precisamente la meta. Lo sguardo di Sirius si
appannò. Pensò che si trattasse di un Incantesimo e temette di soccombere,
invece la vista si fece nitida quasi immediatamente. Il palmo di Bella accolse
una sua guancia, in un contatto così naturale… così naturale. La vista si
appannò di nuovo. Capì di stare piangendo quando vide una goccia d’acqua
infrangersi sulle labbra di lei, esplodere nel vapore grigio dei loro respiri.
Anche Bella piangeva, le lacrime scavavano due tracce precise ai lati del suo
viso.
Perché?
La lama
penetrò nella mente all’improvviso, sfrecciò nel profondo del suo essere
tranciando una resistenza debole.
“Io
ti amo”.
La voce
urlò nella sua coscienza.
Sirius
scattò all’indietro e finì nuovamente nelle braccia ghiacciate dell’inverno.
Scappò prima che qualsiasi risposta potesse raggiungerlo.
*
Due
settimane dopo
Aveva gli
occhi chiusi e fu per questo che riuscì a sentire la presenza di Remus quando
era ancora in fondo alle scale. A occhi chiusi il mondo era chiaro, non poteva
nascondere nulla di veramente vicino e il pericolo di spaventarsi per qualcosa
di ancora lontano era scongiurato. Lo sapeva meglio di chiunque altro: gli
incubi peggiori si affollavano sempre sull’orizzonte.
“Sirius”
l’amico gli sorrise, sollevato “Da quanto sei qui?”.
Si rigirò
la pergamena tra le mani. I bordi si erano consumati, per quante volte l’aveva
aperta e ripiegata.
“Non lo
so” confessò.
Remus
sembrò cogliere al volo i sottintesi di quell’ammissione, infatti si rabbuiò e
lo raggiunse, sedendosi al suo fianco, sullo scalino
“Ti
stavamo cercando”.
“Scusa. È
che dovevo spedire una lettera… poi…”.
Il
risultato era ben evidente e smise di parlare prima di ribadire l’ovvio.
“Che cosa
non va?”.
“No, sto
bene. È solo questa stupida lettera”.
Si forzò
in una risata. Era il genere di stratagemma che sembrava riuscirgli meglio, in
situazioni del genere; ma, ancora una volta, quel poco di buono che c’era nel
suo sangue – il talento innato nel mentire – lo tradì.
“James non
è d’accordo, però io credo sia meglio parlarne…”.
“Parlare
di che?”.
“Cosa è
successo?”.
Il brivido
non sfuggì allo sguardo vigile di Remus, che forse dovette spaventarsi a morte,
anche se non lo diede a vedere. Sirius gliene fu immensamente grato.
“Cosa ti è
successo? Dal tuo ritorno sei un fantasma. Se non ci spieghi qual è il problema
non possiamo aiutarti a risolverlo” continuò, con voce calma.
Il vento
spazzò le scale e Sirius tirò le maniche del maglione oltre le dita, nascondendo
i palmi contro il petto. Mentirgli era fuori discussione. Sarebbe stato inutile,
perché in ogni caso Remus avrebbe fiutato la menzogna. Se la sua vocazione era
la finzione, quella dell’amico era la capacità di decifrare tutti loro come
libri aperti. Dove chiunque altro non avrebbe notato nulla più di una ruga, una
smorfia involontaria, un’esitazione mancata, Remus avrebbe letto la reticenza,
il dolore, un segreto.
“Sai, a
volte ammettere qualcosa aiuta a stare meglio. È una specie di catarsi”.
Avrebbe
voluto parlare ma la voce sembrava essersi nascosta in qualche anfratto
irraggiungibile.
“Prendi
me, per esempio” aggiunse l'amico “da quando tutti sapete del problema,
va meglio. Il problema è sempre uguale, le mie preoccupazioni sono le
stesse. Ma non sono solo. Capisci la differenza?”.
Annuì,
ripiegando ancora in quattro la lettera.
“Perché
hai paura?”.
“Perché ho
paura”.
“È peggio
di un alter ego licantropo?”.
Sirius
affondò le dita tra i capelli, lasciando che il maglione risalisse lungo gli
avambracci.
“Credo di
sì, Remus”.
“Spiegami”.
L’amico
non si scompose, rimase al suo fianco, sinceramente interessato a ciò che aveva
da dirgli. Sapeva che sarebbe rimasto lì fino al mattino seguente, se ce ne
fosse stata la necessità.
“Non so
neppure come fare…”.
“Provaci”.
“Se ti
rendessi conto che una parte della tua mente…” il respiro gli morì in gola,
ritentò “Quello che voglio dire è, se ti rendessi conto di non poterti fidare di
una parte importante di te stesso. Cioè se scoprissi di aver… perso
qualcosa che avrebbe potuto cambiarti, renderti una persona completamente
diversa”.
“Dipende
da quello che credi di aver perso”.
“Ho
un’ipotesi che, se fosse vera, potrebbe cambiare tutto”.
Remus lo
incoraggiò con gli occhi.
“Non devi
parlarne con nessuno, neppure con Peter. Neppure con James. Me lo devi giurare.
Non ne parlerei neppure con te, se non avessi davvero bisogno di aiuto”.
“Te lo
giuro”.
Sirius
respirò a fondo. Pronunciare quelle parole ad alta voce lo spaventava molto più
che pensarle soltanto. Si strinse nel suo stesso abbraccio. L’unica cosa che
avrebbe voluto fare, in quel momento, era correre lontano, nel parco, perdersi
ancora una volta e sparire.
“Credo che
Bellatrix abbia rimosso alcuni miei ricordi”.
Remus incassò il colpo ma non
interruppe il contatto visivo.
“Perché lo
pensi?”.
“Sono
successe delle cose strane, quest’estate… Meda mi ha parlato per caso di alcuni
episodi che non ricordo affatto, cose successe quando ero già abbastanza grande.
Non ho nessun ricordo in comune con Bella prima dei miei undici anni. Nessuno
dei ricordi di cui mi ha parlato Andromeda, lei compare solo di sfuggita… è come
tentare di afferrare un sogno. È tutto così confuso… e quando tento di forzare
la memoria, sto male. Fisicamente”.
“Come te
ne sei accorto?”.
“Al
matrimonio Bella mi ha aggredito, voleva sapere dove vive Meda” rispose Sirius
“L’ho disarmata. E poi lei… lei ha smesso di combattere. Mi ha… mi ha
accarezzato… io l’ho sentita nella mia testa, Remus. La cosa peggiore è che
ripeteva la stessa frase che stavo pensando anche io, o almeno una parte di me
che non ho mai sentito. Una parte di me che non dovrebbe esistere”.
Non ebbe
il coraggio di continuare a guardare l’amico negli occhi. La paura era ancora
lì, allacciata ai muscoli.
Era
scappato da Bella, quella notte, ma l’eco di ciò che era apparso nella sua
coscienza aveva continuato a perseguitarlo nei sogni. Io ti amo. Il
singolo istante in cui avrebbe voluto abbracciarla, con la sensazione di
ritornare a casa. Si era spinto a fondo nella memoria, fino a sputare sangue:
non era servito, nessun ricordo era ricomparso. Solo nel sonno qualcosa pareva
riemergere dall’abisso, niente più che immagini spettrali.
“A chi
stai spedendo la lettera?” chiese Remus, dopo diversi minuti di mutismo.
“Non la
spedisco più, era per Meda”.
“Volevi
raccontarle di questa storia?”.
“Sì, ma ho
cambiato idea”.
“Credo
dovresti tenerla fuori. Se le tue ipotesi sono reali, potresti non essere
l’unico a cui Bella ha modificato la memoria”.
Sirius si
afferrò il capo, puntando i gomiti contro le ginocchia.
“Ho paura
di me stesso, non sono stato neppure in grado di reagire. Non so se voglio
conoscere la verità… vorrei solo poter cancellare quello che è successo. Credi
che potrei farlo? Voglio dire, rimuovere un ricordo su me stesso, è possibile?”.
Remus lo
guardò con angoscia.
“Se quello
che pensi è successo davvero, hai già rischiato troppo. Dovrei documentarmi
meglio, ma quello che so è che è illegale modificare i ricordi legati alla sfera
emotiva. Cioè, non sono semplici ricordi, sono ancorati alla parte più profonda
di te, per così dire. Questa parte della memoria coinvolge sentimenti troppo
intensi per non creare un trauma nel cancellarli. Il cervello non può restare
indenne”.
“Vuoi dire
che potrei essere già compromesso in qualche modo?”.
“Non credo
che staremmo qui a parlarne se si trattasse di un danno grave. Ma non puoi
pensare di cancellare qualcosa. Secondo me sarebbe troppo rischioso”.
“Capisci
che questo potrebbe cambiare tutto?”.
“Tutto
cosa?”.
“Me,
lei. Non saprò mai qual è la verità…”.
“È
importante? Sai in cosa credi”.
Sirius
circondò le gambe con le braccia. Si sentiva perso. Era bastato così poco.
“Forse
Bella ti ha fatto un regalo”.
Avrebbe
voluto sorridere. In un’altra circostanza una frase del genere sarebbe suonata
comica, in quel frangente, invece, era drammatica.
“Perché
pensi che avrebbe potuto farlo?”.
Remus
scosse la testa e toccò a lui lasciar vagare lo sguardo nel vuoto, alla ricerca
di risposte.
“Non lo
so, Sirius. Vuoi davvero scoprirlo?”.
*
Bella
aveva scavato una fossa nelle lenzuola umide, si specchiava negli occhi di
Rodolphus e vedeva solo buio.
“Sei
sicura che non sia pericoloso?”.
Mai più
pericoloso della sua coscienza che esplodeva, penetrando nel cuore di Sirius.
Infinitamente meno rischioso di qualsiasi tranello conservato nella memoria.
“Devo
farlo” rispose “Non so come potrei reagire. Se dovessi supplicarti, non lasciare
la presa. Non lasciare la presa anche se dovessi piangere o urlare, anche se
tentassi di colpirti. Non lasciare la presa, fino a quando non avrò finito”.
“Come me
ne accorgerò?”.
“Non lo
so”.
“Bella lo
sai, che potresti bruciare tutto?”.
Avrebbe
voluto possedere la forza per scoppiare a ridergli in faccia.
Bruciare,
bruciare! Non c’è più nulla che il fuoco possa consumare.
Gli prese
la mano e la avvolse stretta intorno alla sua, che manteneva la bacchetta
puntata contro la fronte.
Neppure un
respiro, prima di cancellare un universo di ricordi.
“Oblivion”.
|
Ritorna all'indice
Questa storia è archiviata su: EFP /viewstory.php?sid=686313
|