Là - Gl'incubi dei campi di Manzolino

di Sophie Isabella Nikolaevna
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Non si scherza con il fuoco ***
Capitolo 2: *** Il Guardiano Nero del Tramonto - Parte 1 ***
Capitolo 3: *** Di Notte ***
Capitolo 4: *** Flammae Evocatae Sunt ***



Capitolo 1
*** Non si scherza con il fuoco ***


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NON SI SCHERZA CON IL FUOCO

 

Finalmente giugno! I ragazzi, nelle scuole, non sono certo gli unici a sentirsi più leggeri quando l’anno scolastico finisce: anche noi professori abbiamo sempre avuto i nostri buoni motivi per tirare sospiri di sollievo. Io ad esempio per un po’ di tempo non avrei più dovuto avere a che fare con classi di mostri selvaggi a cui non importava niente di quello che provavo a spiegare e che mentre parlavo mi ignoravano tutt’altro che cordialmente: un inferno di cui, per fortuna, era giunta la fine. Ora mi aspettava un’altra quindicina di giorni a Bologna, la città dove insegnavo in un Liceo Classico, e poi avrei passato una (meritatissima) settimana di vacanza lontano dal caos della vita di tutti i giorni: sarei andato a trovare mio cugino Paolo nella casa di campagna dove quando eravamo bambini trascorrevamo le estati, e che ora era di sua proprietà. Si trattava di una grande abitazione divisa in due parti (in una avevo vissuto io con i miei genitori, nell’altra gli zii, Paolo e i nonni) poco distante dal paesino di Manzolino di Castelfranco Emilia, circondata da un enorme giardino che mio cugino curava amorevolmente.

Le prime due settimane di giugno, che mi separavano dalla casa di campagna, trascorsero lente e noiose nell’afa tipica della Pianura Padana, ma finalmente anche l’ultima domenica passò e il lunedì mattina presto (era una giornata limpida e luminosa) ero già in macchina con la valigia nel portabagagli pronto a partire. Il viaggio fu scorrevole e senza traffico e dopo un’ora parcheggiai l’auto  davanti al cancello del giardino di campagna. Quale sollievo provai nello scendere dalla vettura e sentire il cinguettio degli uccelli e l’odore dell’erba! Mi tornarono subito alla mente le immagini delle mie estati di bambino trascorse in quel posto: quanti ricordi!

Aprii il portone che conduceva alla “parte” di casa in cui per tradizione avevo sempre abitato ed entrai: l’interno era in penombra e piacevolmente fresco, i vecchi mobili perfettamente curati e le pareti tappezzate di quadri rappresentanti scene rurali che mia nonna aveva dipinto molti anni addietro. Appoggiai la valigia su una poltrona, l’avrei disfatta più tardi, e andai ad avvisare Paolo del mio arrivo. Feci il giro della casa arrivando alla sua “parte”. Da quel lato del giardino c’era uno stagno circondato da boschetti di bambù, salici, betulle e piccoli canali attraversati da ponticelli di legno. Era ancora in piedi la vecchia altalena su cui mio cugino ed io avevamo giocato in gioventù, a sinistra della quale stava il deposito degli attrezzi da giardino. Sul retro di questo erano il forno a legna, usato per cuocere le pizze, e l’albero di fichi sul quale nella mia infanzia mi ero arrampicato numerosissime volte. La “mia” parte di giardino invece era più semplice: c’erano un platano e un tiglio altissimi (un tempo anche un ippocastano che però era stato abbattuto) che dominavano i cespugli e gli alberi bassi delle aiuole; al centro esatto dell’insieme stava una vasca circolare; tramite un cancello poi si accedeva ad un vasto campo di noci in cui io e Paolo avevamo più volte costruito rifugi segreti.

Avvicinandomi alla porta della casa di mio cugino fui piuttosto sorpreso nel notarvi un biglietto attaccato con lo scotch. Diceva: “Caro Franco, scusami se mi sono assentato senza avvisarti. Come sai, mia moglie Margherita e nostra figlia sono ancora a Modena, e la bambina non è stata bene. Margherita mi ha chiesto per favore di aiutarla a badare a lei finché non guarisce. Non so quando sarò di ritorno, ma spero entro pochi giorni. Paolo”. Subito rientrai e telefonai a mio cugino per dirgli che avevo letto il biglietto, lui mi fece sapere che la bambina era già quasi guarita e che sicuramente sarebbe tornato il giorno dopo verso l’ora di pranzo.

Così, trascorsi la giornata in solitudine godendomi finalmente un po’ di vita all’aria aperta. Quando il sole smise di picchiare spietatamente mi incamminai per fare una passeggiata nei dintorni: imboccai la stradina asfaltata che costeggiava la casa e che quando ero bambino era stata una cavedagna, finchè non arrivai fad un boschetto che riconobbi all’istante: quante esplorazioni vi avevo fatto da piccolo! Abbandonai la stradina, che poco più avanti tornava ad essere una cavedagna (era stata asfaltata anni e anni addietro per costruirvi vicino una ferrovia, progetto che era poi sera stato abbandonato), e mi inoltrai nella vegetazione. La selva era composta da tanti tunnel di alberelli come lunghissime volte a botte verde smeraldo il cui pavimento era formato da terra, ramoscelli e foglie. Sulle pareti delle volte stavano, somiglianti a gemme e pietre preziose, i frutti degli alberi, il cui colore variava dal giallo limone al viola-blu passando per il rosso fuoco. Esattamente come era mia abitudine quando ero bambino, ne mangiai una gran quantità, e questo mi bastò come cena.

Dopo un tempo che mi sembrò brevissimo, anche se probabilmente era passata almeno mezz’ora, il tunnel finì e mi ritrovai davanti ad uno spettacolo mozzafiato: un campo arato si stendeva davanti a me e alla fine di questo si ergeva il rudere di un vecchio castello, molto più alto che largo, dalle torri merlate e diroccate, dietro al quale il sole tramontava dipingendo il cielo color pervinca con violente pennellate arancioni.

La prima domanda che mi venne in mente fu: come mai non l’avevo mai notato prima? Beh, probabilmente perché da bambino non ero mai riuscito ad arrivare alla fine del bosco, e con la foschia che in pianura c’è sempre all’orizzonte non avevo mai notato le torri in lontananza. Eppure mi era familiare…

Ma ora l’avevo davanti e ne ero quasi spaventato: mi ricordava tanto i castelli di cui avevo letto in gioventù, dentro i quali vivevano terribili spiriti, vampiri, fantasmi e via dicendo. E mi era sempre più familiare… Tornai alla cavedagna e decisi di avvicinarmi al rudere.

Come gli fui di fronte notai che l’anta del portone non c’era più e il fossato tipico dei castelli sembrava non esserci mai stato: avrei potuto entrare, se avessi voluto, ma mi limitai a dare un’occhiata da dove mi trovavo: soprattutto a quell’ora, sembrava proprio una dimora di spiriti, e dentro non si vedeva niente.

“Fantasmi!”, dissi a mezza voce, esattamente come avrei fatto da bambino. “Venite fuori! Voglio vedervi!”.

Subito dopo però risi di me stesso scutendo la testa: dov’era finito il professore di Storia e Filosofia con la testa sulle spalle? Visto che il sole era tramontato e entro breve avrebbe fatto buio, tornai indietro. Arrivato in casa subito salii al piano superiore e mi coricai, ma non mi addormentai subito perché un pensiero mi tormentava: ero sicuro di aver già visto prima il castello, ma non ricordavo quando.

I tre sogni che feci quella notte furono inquietanti e apparentemente privi di senso.

Nel primo mi trovavo nella mia parte della casa di campagna, affacciato alla finestra della mia stanza una mattina d’estate. Ero un bambino, e anche mio cugino, che da sotto mi invitava a scendere, lo era.

“Franco, vieni! Andiamo a vederlo o no, il castello degli spiriti?!”, mi urlava impaziente e tutto contento. In mano teneva una torcia e aveva il viso coperto da una strana maschera nera. Poi il sogno cambiò. Vedevo una giovane donna pallida e dall’aria triste guardare fuori da una finestra dai  vetri chiusi, sembrava star osservando qualcosa di molto interessante che stava svolgendosi all’esterno. Aveva il viso bianco e ovale, il naso dritto, gli occhi neri e stanchi e i capelli color ebano raccolti in una crocchia; la stanza in cui si trovava era arredata come usava nel ‘600, e la giovane sembrava una strana bambola dentro la sua casa. Infine il sogno cambiò di nuovo: questa volta mi trovavo nel giardino di Paolo, dietro all’altalena, guardavo verso i campi e il bosco e riuscivo a vedere il castello in lontananza. Il sole era basso e il tramonto stava per iniziare, tingendo il cielo d’oro e allungando le ombre. Il disco si trovava esattamente dietro al castello quindi la costruzione in controluce risultava tutta nera, eccetto però le finestre, che si accesero improvvisamente di un rosso sangue.

Mi svegliai la mattina presto chiedendomi se il primo sogno fosse in verità un ricordo rivisto dopo essere stato dimenticato per tanti anni. Dopo qualche ora arrivò Paolo. Parlammo di come avevamo passato i mesi invernali: io in quell’austero palazzo bolognese ora trasformato in liceo, a casa mia moglie che mentre non c’ero si vedeva segretamente con un suo affascinante collega e il divorzio che seguì; lui invece a Modena a dirigere un importante negozio di piante e arredamento con la fedelissima (dai tempi del liceo) moglie Margherita, promettente avvocato, e la figlia di quattro anni Ada alle prese con la scuola materna. Gli parlai della passeggiata che avevo fatto la sera prima e del castello, che oltre ad aver visto avevo anche sognato di notte.

“E in uno dei sogni”, dissi, “c’eravamo noi due da bambini che volevamo andare ad esplorarlo. Tu indossavi una stranissima maschera. È solo un sogno oppure…?”.

Mi aspettavo che mio cugino avrebbe riso o comunque detto che il mio inconscio faceva solo strani scherzi, invece mi rispose, serissimo:

“Come, non te lo ricordi? È accaduto davvero. Tu avevi nove anni e io otto, e io avevo sentito parlare da mia madre di un castello poco lontano da qui in cui le leggende del posto volevano che vivessero gli spiriti. Allora avevamo organizzato una spedizione per esplorarlo, proprio con la

torcia e le maschere, che abbiamo indossato per non farci riconoscere dagli spiriti. Poi ci siamo presi paura e non ci siamo più tornati… Proprio non te lo ricordi?”.

Sì, me lo ricordai. Mi riaffiorò tutto quanto alla mente: era un assolato giorno di luglio dell’anno 1982 e io e Paolo, bambini curiosi, volevamo scoprire cosa c’era veramente nel castello che stava dopo il bosco e i campi, in cui si narrava abitassero gli spiriti, e soprattutto il fantasma di una donna tenuta prigioniera lì dentro e uccisa dal suo rapitore, per un’atmosfera da “Barbablù”. La nostra spedizione doveva restare segreta, ma prima di avviarci chiedemmo consiglio alla fidatissima nonna.

“Farete meglio”, ci disse lei, “a mettervi delle maschere. Dovete sapere che gli spiriti non vogliono mai essere disturbati, e se hanno da dirci qualcosa sono loro a manifestarsi a noi. Se li si vuole chiamare per vederli bisogna per forza indossare delle maschere perché sennò loro, arrabbiati, un giorno esatto dopo essere stati chiamati, andranno dalla persona che li ha disturbati e la prenderanno con sé per sempre. Se invece si ha la maschera, gli spiriti saranno costretti a farsi vedere e non potranno tornare a prendere chi li ha cercati, perché non sanno chi è. Ma fate attenzione: anche quando si è fuori dal castello bisogna portare le maschere, perché gli spiriti possono affacciarsi alle finestre e vedere in faccia i loro visitatori per scoprirne l’identità”.

Così la mattina ci avviammo armati di torce, maschere e scorte per il pranzo. Il cammino si rivelò più lungo del previsto: il bosco infatti era più vasto di quello che credevamo, e le scorte che ci eravamo presi finirono prima che fossimo a metà tragitto. Quando arrivammo al castello indossammo le maschere per non farci riconoscere dagli spiriti e, emozionantissimi, entrammo. Dentro era buio pesto in confronto alla luce che ci eravamo lasciati alle spalle ma riuscimmo a distinguere un lungo e alto corridoio con le pareti coperte da grandi specchi alla fine del quale due enormi scale a chiocciola, una per salire e l’altra per scendere, si intrecciavano. I nostri riflessi negli specchi ci inquietavano perché, sebbene le uniche persone presenti fossimo noi, ci facevano sentire osservati da migliaia di strane figure mascherate, così corremmo fuori spaventati dopo pochi minuti.

Tornai alla realtà.

“Sono soltanto storie che la nonna raccontava per spaventarci”, dissi a Paolo, ma non senza un tremolio nella voce. La donna che avevo sognato. Affacciata alla finestra. Chi stava guardando?

“Fossi in te starei attento”, rispose lui, ma alla fine sorrise.

Ero deciso ad andare in fondo alla faccenda. Subito prima del tramonto (quando il cielo diventa dorato e le ombre si allungano), l’ora in cui il giorno prima ero stato nei pressi del castello, mi avviai verso il bosco e guardai oltre: riuscii a distinguere la costruzione in controluce. Sperai con tutto me stesso: no, no, no. La risposta, però, fu “sì”: dopo qualche secondo le finestre si accesero di rosso. Mi sentii ghiacciare. Corsi subito in casa di Paolo e lo chiamai a gran voce, ma senza ottenere risposta. Mi precipitai al piano di sopra e notai con orrore la porta del bagno chiusa e il rumore della doccia provenire dall’interno accompagnato dai gorgheggi in cui mio cugino, perfetto tenore, si cimentava.

“PAOLO!”, urlai, ma lui non mi sentì. Mi chiusi in camera sua e guardai dalla finestra: vidi di nuovo il castello, le vetrate ancora illuminate di rosso. In quel momento cominciò il tramonto vero e proprio: il rosso, lo stesso rosso fuoco delle finestre, invase il cielo, arrivò sul prato, entrò dalla finestra e dipinse con le sue tinte violente l’intera stanza, me compreso. L’unico altro colore della scena era il nero delle ombre, lunghe e taglienti. Osservai con attenzione il castello, il bosco, il giardino: nessuno spettro o roba simile stava venendo a prendermi. Stetti a controllare per qualche minuto, ma, sebbene le finestre del castello restassero rosse, non succedeva niente. Tirai un sospiro di sollievo: come avevo potuto essere così stupido da credere alla storia con cui mia nonna, anni addietro, aveva voluto spaventarmi? Mi voltai per uscire, ma la porta della stanza si aprì ed entrò una vecchietta. Stava ricurva, avvolta in uno scialle, il capo chino. Non mi preoccupai, anzi, volli parlarle, perché quella persona mi ricordava tanto la nonna, che non vedevo da diciotto anni.

“Si è persa, signora?”, chiesi gentilmente, “posso aiutarla?”.

La vecchia non rispose, si limitò ad alzare il viso, e finalmente la vidi in faccia.

Non so quali parole usare per descrivere l’agghiacciante ghigno che le distorceva i lineamenti. Gli occhi iniettati di sangue mi fissavano, folli e assassini. Mi paralizzai e, con la capacità i muovermi, improvvisamente persi l’udito, non sentendo così le parole che pronunciò quando aprì la bocca sdentata. Poi fu il tatto a svanire, quando mi accorsi di non sentire più il pavimento sotto ai piedi… Smisi di percepire l’odore della campagna e fui sicuro che se avessi avuto qualcosa in bocca non me ne sarei accorto. L’ultima che persi fu la vista.

 

Franco Palazzi fu dichiarato disperso tre giorni dopo, a dare l’allarme era stato il cugino. Le ricerche proseguirono per qualche mese, ma nessuno lo trovò, e il caso venne chiuso per sempre.

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Capitolo 2
*** Il Guardiano Nero del Tramonto - Parte 1 ***


Il Guardiano Nero del Tramonto
Parte 1


Era una calda sera di agosto, una delle tante calde sere di agosto che ci sono state nella mia vita. Anche se il sole stava tramontando e non picchiava più forte come nel pomeriggio, la stradina asfaltata delimitata da fossi sulla quale io e mia cugina eravamo sedute a gambe incrociate era ancora bollente. Attorno a noi, campi di grano già arati con qualche sprucco secco e dorato che spuntava, qualche albero scuro, frondoso e solitario, e la vecchia casa abbandonata. Dovevamo fare attenzione nello stare sedute per terra perché alcune pagliuzze provenienti dalle erbacce che crescevano sull'orlo dei fossi si infilavano dappuertutto: nelle scarpe, sotto i vestiti, nei capelli. E c'erano anche dei semini appiccicosi che si attaccavano ai vestiti e non ne volevano sapere di andarsene. Davanti a noi stava la vecchia casa abbandonata. Ogni anno veniva a mancarne un pezzo, e quella primavera un'intera stanza del piano di sopra era crollata, mettendo a nudo la parte destra dell'abitazione.

Tenevo un cuscino stretto fra le braccia e ridevo a crepapelle, mia cugina faceva lo stesso.
"E pensa se", disse tra le risa, "pensa se una mattina ci alziamo e ci ritroviamo nel fosso!".
"
Nel fosso?! E come ci saremmo finite?".
"Ci avrebbe buttate dentro tua nonna!".
Le risate esplosero nuovamente.
Olly mi rubò il cuscino.
"Ridammelo!".
"No!".
Mi buttai a recuperare il cuscino, ma Olly si scansò prontamente. Mi allungai ancora di più e riuscii ad afferrare quel grande e sofficie batuffolo bianco, ma così facendo spinsi Olly nel fosso e, visto che ero aggrappata al cuscino, precipitai con lei, in una babele di risate scalcagnate e strilli.
"Ahio! Mi ha punto un'ortica!".
"Anche a me!".
Non ero mai stata a testa in giù in fondo ad un fosso, con mia cugina e un cuscino. Guardai con furia omicida le bolle che mi si stavano cominciando a formare sulla caviglia sinistra. Io odiavo le ortiche. C'era una sola cosa che odiassi di più delle ortiche, qualcosa che, mi accorsi con orrore, dentro quel fosso proliferava: le zanzare.
"Usciamo subito di qui, Olly!".
Non ero tranquilla, anche se prima di uscire mi ero cosparsa di anti-zanzare dalla testa ai piedi, ed emanavo un odore talmente pungente da farmi starnutire (e a dirla tutta, ormai ero convinta che il mio fisico avesse assimilato l'anti-zanzare, tanto me ne ero messo quell'estate).
"No, aspetta! Non salire", rispose Olly, sporgendosi a guardare la strada. Mi sporsi anch'io.
Una bicicletta si stava avvicinando, cigolante. Olly l'osservava nervosamente.
"Sarà il vecchietto delle galline! Forza, torniamo su", dissi, apprestandomi a risalire a livello del mare.
Olly mi bloccò e mi mise una mano sulla bocca:
"Sssh!".
Mi rassegnai. A volte mia cugina aveva queste... strane idee. Le piaceva inventarsi cose su quella campagna, anche solo per giocare.
Osservammo insieme la bici e il suo guidatore che si avvicinavano.
La prima cosa che pensai fu: 'ma non ha caldo?'.
Alla guida della bici c'era un giovane uomo, vestito con i pantaloni lunghi e la felpa con il cappuccio tirato su. Io e Olly eravamo in canottiera, pantaloncini e infradito.
La bici e il suo proprietario erano una sagoma scura in movimento: nera la bicicletta, neri i vestiti del ragazzo e nera la sua pelle. Però, osservai con una certa inquietudine mano a mano che costui si faceva più vicino, il colore della pelle non era il classico marrone molto scuro brutalmente definito "nero". Quell'uomo aveva la pelle nera per davvero. Le cornee dei suoi occhi erano gli unici punti bianchi, e le iridi erano di un grigio sfaccettato e risplendevano come pietre preziose lavorate finemente.
Quella particolarissima creatura ci sorpassò e puntò sempre dritto. Oltrepassò il piccolo pollaio poco lontano da noi, si recò oltre il vigneto, oltre la casa dei Giovannini, poi fu troppo distante e non lo vedemmo più.
"Visto che non era il vecchietto delle galline?", disse Olly togliendomi finalmente la mano dalla bocca.
"Aveva la pelle nera!", esclamai sconvolta, "e gli occhi? Hai visto il colore degli occhi? Ed era vestito come se fosse novembre... ci sono trentacinque gradi!".
"Appunto", rispose Olly, serissima.
Silenzio.
"Dove credi che sia andato?", chiesi, "laggiù in fondo, prima della ferrovia, abitano solo i nonni Ghelli...".
"Allora la nonna della Laura Ghelli è in pericolo!", sussultò Olly, "fortuna che la Laura sta a Manzolino centro...".
"In pericolo? Che ne sai che quell'uomo è pericoloso? Magari è malato e ha freddo, si è messo delle lenti a contatto e ha la pelle tanto scura da sembrare nera", dissi, sapendo di essere poco convincente soprattutto perché io stessa non credevo alle mie parole. Non opposi dunque resistenza quando Olly mi prese per mano e mi trascinò in un battibaleno fuori dal fosso. Nell'altra mano avevo ancora il cuscino, tutto pieno di erbacce.
Olly mi portò di corsa nella vecchia stalla di casa sua, che era quasi lì di fronte, e svelta l'aprì con le chiavi di suo nonno. Sapevo cosa voleva fare: prendere le bici e inseguire il losco figuro.
"Fortuna che le ruote le ho gonfiate 'stamattina! Tu prendi quella di mia madre", decretò mentre portava fuori la sua bicicletta bianca.
Dopo qualche secondo sfrecciavamo come saette lungo la stradina asfaltata, che dopo un centinaio di metri tornava ad essere di ghiaia.
Passammo veloci accanto al vigneto popolato dalle lucciole, lasciando scie nella ghiaia. Superammo la casa larga e gialla dei Giovannini, il loro boschetto, poi arrivammo finalmente ai campi di proprietà dei Ghelli. La stradina iniziava a salire, e in cima alla lieve pendenza un pergolato di pietra ci separava dalla ferrovia. Proprio a ridosso di questo pergolato, stava la casa dei nonni Ghelli.
Una bici nera era parcheggiata fuori.
"E' la sua!!!", disse Olly con voce strozzata. Sistemammo le nostre biciclette nel fosso, in modo da tenerle nascoste, ed entrammo nel cortile dei Ghelli. Era piccolo e rettangolare, il lato destro delimitato dal muro giallo della casa, che era, al contrario della nostra e di quella dei Giovannini, più alta che larga. Di quel luogo ricordavo i pomeriggi passati con Olly, la Laura Ghelli e i due figli dei Giovannini a giocare con l'infinità di giocattoli che i nonni Ghelli tenevano in casa. Una volta la Laura Ghelli aveva trovato un cucciolo di pipistrello, in quel cortile, e avevamo dovuto fare attenzione che i loro gatti non se lo mangiassero. Avevano anche dei pulcini, che tenevano un grande scatolone.
"Secondo te dove può essere andato?", sussurrai.
"Dividiamoci", propose Olly. Mi sembrò improvvisamente di essere in uno di quei film horror in cui gli abitanti della nuova casa si dividono per trovare il fantasma. Risultato: muoiono tutti e due, mentre se fossero stati insieme avrebbero potuto aiutarsi a vicenda.
"Non se ne parla".
La famiglia Ghelli, che conoscevo da quando ero nata, aveva sempre avuto una caratteristica: la sovrabbondanza di oggetti. Erano, sia i nonni che i genitori di Laura che Laura stessa, di quelle persone che non buttano mai via niente. Casa loro, all'interno, era un unico accumularsi di giornali, cestini, soprammobili, fogli, pupazzi, gabbie di pappagallini (sì, c'erano state anche quelle), confezioni di merendine nuove ogni giorno, giochi da tavolo, bambole, vecchi oggetti scolastici appartenuti a Laura... persino in cucina la situazione era questa, aggiungendo pomodori su pomodori, padelle di ragù e giusto un nanometro libero per ogni fornello (perennemente acceso e con sopra qualcosa di appetitoso). Insomma, una simpatica e colorata esplosione, per non parlare dell'infinita gamma di odori che si potevano sentire. Solo due parti della casa sembravano essere sacre ed inviolabili: il seminterrato e una scala.
Il seminterrato, dal momento che la casa non era molto larga, era composto da un'unica stanza ed era sempre in penombra. C'ero stata poche volte, ricordavo che i nonni Ghelli vi tenevano dei grossi pupazzi alti più di me che Laura aveva vinto a qualche fiera.
La scala, invece, si trovava sul lato della casa opposto a quello che si affacciava sulla stradina, e non vi ero mai salita. Era buia, alta e ripidissima, e l'unica volta che mi ci ero affacciata, subito la nonna di Laura aveva chiuso la porta, dicendo che era troppo pericolosa. Avevo fatto in tempo a scorgervi qualche gatto che mangiava dei croccantini caduti a terra.
"Secondo me, potrebbe essere o nel seminterrato o sulla scala", dissi.
"Allora dividiamoci, una va in un posto e una nell'altro", propose Olly.
"No, no, non ci dividiamo. Pensa se poi a una delle due succede qualcosa! Hai presente quei film...".
"Uffa, non siamo mica in un film, e poi non siamo da sole, dentro ci sono i Ghelli: se c'è pericolo, noi urleremo e loro verranno. Adesso tu vai alla scala e io al seminterrato".
Olly si allontanò in fretta verso una delle finestrine del seminterrato, che era rimasta socchiusa. L'aprì completamente e in un batter d'occhio fu dentro.
Rassegnata, mi diressi verso la porta della scala. Ovviamente, era chiusa. Passai oltre l'angolo della casa e mi ritrovai sul retro. Camminavo nel piccolo spazio che c'era fra la parete della casa e il pergolato di pietra della ferrovia, spazio che diventava quasi inesistente nel punto in cui due grosse bombole rumoreggianti - una rossa e una nera - ostruivano il passaggio. Da bambina ero riuscita a passare tra queste e la ferrovia, ma ora realizzai che non ce l'avrei fatta. Avrei potuto tornare indietro e fare il giro dall'altra parte...
Decisi invece di arrampicarmi sulle bombole. Tenendomi con le mani, in un salto vi fui sopra. Mi alzai in piedi, sentendomi importante.
Il sole era ormai tramontato e il cielo era di un color azzurro scuro, rosato all'orizzonte. I campi e gli alberi erano in bianco e nero. Soprattutto nero.
Mi sedetti e mi voltai verso la direzione in cui stavo andando, pronta a scendere.
Davanti a me trovai una sagoma interamente nera, con due iridi luminescenti.
Fu un attimo, poi l'uomo incominciò a correre.
"Ehi!", esclamai, saltando giù dalle bombole e inseguendolo. Voltai l'angolo: eccolo che attreversava il cortile, dirigendosi verso il prato e gli alberi da frutta.
"Olly! Sta scappando!", gridai, ma non mi fermai ad aspettarla: avevo una preda da inseguire.
Verso gli alberi da frutta. Poi, lo vidi svoltare nella striscia di prato che separava due campi. Ero veloce a correre, ma lui lo era molto di più, come se avesse le gambe chissà quanto lunghe.
Correre nell'erba con le infradito non era l'ideale. Me le scrollai di dosso e restai a piedi nudi: faceva male, ma avevo molta più presa sul terreno e non rischiavo di cadere.
Improvvisamente vidi qualcosa muoversi alla mia sinistra. Mi voltai: l'uomo stava correndo sulla stradina di ghiaia. Come era possibile che fosse arrivato lì senza che lo vedessi tagliarmi la strada? Ero senza fiato, ma raggiunsi ugualmente la stradina. Scrutai l'orizzonte: non lo vedevo più. Mi fermai, esausta.
Dopo qualche secondo due mani possenti (e nere) mi afferrarono per la vita da dietro.
Mi immobilizzai. Mi aveva presa.
"Allora, che cosa vuoi?", disse in un sussurro. I piedi mi dolevano.
"E lei, che cosa voleva dai Ghelli?", chiesi con la voce che tremava.
"Voi bambine non dovreste impicciarvi di questo".
"Li conosce?".
"Conosco anche voi".
Sentii dei passi che correvano alle nostre spalle.
"E' Olly", mi disse lui.
"Mi lasci! Cosa sa lei di mia cugina?!".
Le sue mani erano fredde come ghiaccioli e dure come il marmo. In questo mi ricordava un personaggio di un libro orrendo che avevo letto, e feci una smorfia disgustata.
"So che in camera sua tiene una collezione di vecchie cartoline", disse, "l'avete guardata insieme quando eravate piccole. So che è molto gelosa delle sue cose. So che le piace essere se stessa, anche se gli altri possono criticarla".
"E di me che cosa sa?".
"Sei proprio sicura di volerlo sapere?".
Non potei rispondere: fui interrotta da un urlo di mia cugina.
"LASCIALA STARE!".
"In effetti, è inutile che stia qui a perdere tempo. Non dovreste nemmeno avermi visto... me ne vado".
"Prima mi dica lei chi è", risposi diffidente.
"Il Guardiano Nero del Tramonto".
Le sue mani sparirono, lui sparì.
Mi voltai indietro: era in fondo alla via che correva. Come faceva ad essere già là...?
"Olly", gemetti, "improvvisamente, sono molto stanca".
"Anche io", disse lei chiudendo gli occhi e barcollando.
Le mie palpebre erano così pesanti, e le gambe così fragili. La testa non poteva stare in equilibrio sul collo, no. Le braccia mi trascinavano a terra. No, per strada no: il mio destino, quel giorno, era di finire nei fossi.

La mattina dopo mi svegliai infreddolita, bagnata di rugiada e (sì) piena di punture di ortiche e zanzare. Mi alzai ammaccata. A giudicare dalla posizione del sole, era ancora molto presto, ma era probabile che mio nonno fosse già in piedi: non dovevo farmi vedere mentre tornavo a casa.
Della sera precedente avevo ricordi confusi: avevo riso e scherzato con Olly fino a tardi tenendo in mano un cuscino, poi lei me l'aveva rubato e nel tentativo di riprendermelo eravamo cadute nel fosso... e lì evidenmente ci eravamo addormentate.
"Olly!", chiamai.
La vidi spuntare dal fosso, poco lontano da me.
"Che facciamo? Torniamo a casa?", mi chiese. Alzai le spalle.
C'era qualcosa, nel ricordo che avevo della sera precedente, che non quadrava. Come se il sonno fosse arrivato in modo inaspettato, dopo avere fatto qualcosa di troppo importante...
Un paio di occhi argentati apparvero nella mia mente, per poi scomparire subito dopo. C'era qualcosa che era rimasto in sospeso. Ricordai il tramonto rosato all'orizzonte, le bombole... perché mi ricordavo delle bombole?
"D'ora in poi, al tramonto, dovremo fare attenzione", dissi, assorta. Mi sarei sforzata finché non avrei ricordato ogni cosa.
Presi Olly per mano e mi avviai verso casa.










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Capitolo 3
*** Di Notte ***


La seconda parte di “Il guardiano nero del tramonto” la pubblicherò più avanti. *Si scusa umilmente* spero che questo capitolo, che è sempre sulle due protagoniste dello scorso, sia ugualmente di vostro gradimento :) l’ho scritto quasi due anni fa. Baci :)

 

 

DI NOTTE

 

Avevo preso l’abitudine di uscire di notte.

Era proibito, ma così affascinante! Di notte tutto era diverso, dai suoni alla forma degli alberi del giardino.

Di notte era strano camminare sulla stradina asfaltata perché la si sentiva rovente sotto ai piedi anche se non c’era più il Sole.

Di notte tutto era più accattivante, perché le cose erano rivestite da un velo di oscurità e ci si potevano immaginare che fossero qualcos’altro, fino a prendersi un bello spavento.

Di notte non si pativa il caldo delle giornate di agosto, di notte si stava bene.

Ogni sera aspettavo che tutti si fossero addormentati. Allora sgattaiolavo silenziosamente fuori dalla mia stanza, scendevo le scale in punta di piedi, aprivo la porta di servizio che stava in cucina e andavo in giro.

Percorrevo il giardino in lungo e in largo. Mi sdraiavo sull’erba ispida del campo dei noci, che di notte sembrava morbida, andavo in altalena, e di notte sembrava davvero di volare, entravo nel giardino degli zii e mi sedevo sulla riva dello stagno, ad ascoltare le rane che gracidavano e che di notte mi sembrava quasi di capire.

Perché di notte tutto è blu o nero, non ci sono tutti quei colori fastidiosi che tengono impegnati gli occhi tutto il giorno, ed è così che di notte si possono vedere i colori veri; perché di notte tutto è silenzioso e il solo rumore che si sente è quello della vita sommessa delle creature notturne, e le nostre orecchie non sono impegnate da tutti quei suoni che devono sentire di giorno, ed è così che di notte si possono sentire i rumori veri.

Ed è così che solamente la notte riuscivo a pensare e a vivere veramente.

La mia famiglia però voleva che, nottetempo, dormissi, e me ne andassi in giro in altri momenti. Loro non capivano.

 

Una sera, mentre ero nella casa di mia zia e giocavo con mia cugina, le proposi di venire con me quella notte.

“Devi credermi, è bellissimo!”, dissi, “non ci scopriranno”, la rassicurai poi, “io esco ogni notte. So come fare”.

Così, ci mettemmo d’accordo: avremmo aspettato, ognuna nella sua casa, che le nostre famiglie si fossero addormentate, poi ci saremmo trovate al cancello che separava i nostri giardini.

Così fu. Ci trovammo davanti al cancello, e notai con stupore che Olly indossava un sontuosissimo vestito di broccato chiaro con ricami blu e argento. Sembrava una contessina. O almeno lo sembrava alla luce della Luna: di giorno sarebbe parsa solo una ragazza travestita.

“E quello dove lo hai preso?”, chiesi, riferendomi all’abito.

“L’ho avuto da mia madre che lo ha avuto dalla sua e così via.”, rispose lei, “penso che appartenesse ad una contessa.”

Notai che teneva in mano un altro vestito: questo era scuro con corpetto di velluto blu e gonna di seta, molto austero ma nobile.

“E questo è per te.”, fece allungandomelo. “Vai in casa e mettitelo.”

“Perchè?”, mi incuriosii. Olly si strinse nelle spalle:

“Sai, mi vergognavo a farteli vedere perchè ormai siamo grandi per giocare ai travestimenti. Ma di notte non sembreremmo travestite, ma delle vere dame d’altri tempi... mi sembrava carino andare in giro con questi, ecco.”

“La trovo una buona idea!”, acconsentii prendendo l’abito e tornando in casa.

Avevo bisogno di uno specchio per vedere come stavo, così salii di corsa le scale per andare in bagno. Dopo aver constatato che il vestito non era blu bensì verde scuro ma mi donava ugualmente, spensi la luce del bagno e aprii la finestra, per avvisare Olly che stavo arrivando.

Olly purtroppo era fuori dal mio campo visivo. Proprio davanti a me arrivò invece, in volo, una strana lucina color azzurro. Era piccola e luminescente, sembrava una lucciola ma non poteva esserlo: di solito sono verdi e lampeggiano, mentre quella sorta di lumicino era celeste e non si spegneva mai. Sembrava essere comunque una forma di vita, perchè quando sembrò accorgersi che lo fissavo, si allontanò alla svelta.

Rapita, lo… seguii. Fu semplice: staccai i piedi dal pavimento, allungai le braccia come per nuotare e oltrepassai la finestra.

Stavo volando.

Il giardino era ad almeno dieci metri sotto di me. Ero talmente eccitata ed euforica che mi dimenticai di Olly e mi misi a fare le capriole. Descrivevo ampi cerchi nell’aria, scendevo giù in picchiata per poi risalire.

“OLLY!”, gridai poi, lasciando perdere tutte le persone che dormivano beate in casa, “Olly, guarda cosa so fare!”

Quando però raggiunsi il cancello, notai che non c’era nessuno. Vidi invece illuminata la finestra della camera di mia cugina, al primo piano. Vi voltai e mi affacciai: la vidi che si stava preparando per andare a letto.

Evidentemente pensava che le avessi fatto uno scherzo e che me ne fossi tornata a dormire e si era offesa.

 

Così, tornai in camera anche io. Che senso aveva volare nella notte se mia cugina era arrabbiata con me?

 

Mi svegliai alle nove e mezza, avevo ancora il vestito.

Per prima cosa corsi in bagno e provai a volare di nuovo, ma avevo paura di staccare i piedi, sapevo che sarei caduta.

Avevo sognato! Come si fa ad essere così stupidi?, pensai. Gli uomini non possono volare! Non abbiamo mica le ali.

Eppure, quando andai a cercare Olly, lei non si presentò.

Allora era davvero arrabbiata! Non capivo più cos’era reale e cosa no.

Avevo il diritto di sapere. Appena calò il Sole, senza aspettare che tutti si addormentassero, mi rimisi il vestito e andai in bagno.

Funzionò. Il mio corpo era di nuovo leggero. Allora non era stato un sogno, potevo sul serio volare nella notte! E questa volta Olly non mi sarebbe sfuggita.

Andai da lei e mi affacciai alla sua finestra al primo piano:

“Olly!”, chiamai, “scusami per ieri! Ti prego, vieni! Ti devo insegnare una cosa!”.

“Sono dietro di te!”, disse la sua voce alle mie spalle.

Mi girai e vidi che Olly, con il vestito di broccato, era in volo dietro di me.

“Sai...”, balbettai incredula, “sai volare anche tu...?”.

“So volare da molto tempo. Anche io uscivo durante la notte, cosa credi?”.

Rimasi a bocca aperta. Perchè non me l’aveva mai detto?

“Perchè pensavo che non mi avresti creduto”, mi rispose.

“Ma perchè non ci siamo mai incontrate, in queste  notti?”.
“Io uscivo da molto prima di quando hai iniziato te, di conseguenza ho imparato a volare da settimane. E non ci incontravamo perchè tu eri per terra e io nel cielo”.

Ero stupefatta. Dunque qualcuno che amava la notte quanto me e che la conosceva anche meglio di me c’era!

“Beh...”, riprese Olly. “Ora che sai volare anche tu, perchè non facciamo un giro?”.

Ci prendemmo per mano e partimmo velocissime, superando lo stagno, lungo la stradina asfaltata, volando attorno alla casa abbandonata, facendoci beffe della ferrovia dell’alta velocità, che appariva enorme da terra mentre dal nostro livello era poco più che un moscerino.

E così volavamo, tenendoci per mano, sempre più lontano, verso l’orizzonte.

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Capitolo 4
*** Flammae Evocatae Sunt ***


 

 

FLAMMAE EVOCATAE SUNT

 

Quel luogo perseguitava i miei sogni e i miei pensieri da quando ci ero entrata per la prima volta, l’estate di quattro anni fa, avevo appena undici anni. Era un luogo proibito e dannato, in cui la mia famiglia non voleva che andassi. Ma io e mia cugina ci entravamo di soppiatto, stando attente a non farci vedere, e ne uscivamo di corsa dopo un’ora o a volte un’ora e mezza, guardando se per caso qualcuno era lì e ci vedeva.

Era la casa abbandonata che stava ad un centinaio di metri dalla nostra casa di campagna. Era cadente e ormai sul punto di crollare. Era grottesca e oscura, malridotta e terribilmente affascinante. Magica e maledetta.

Io e mia cugina ci entravamo e ci sistemavamo in una stanza al piano di sopra, quella che si era conservata meglio ma anche la più buia: l’anta della finsetra era incastrata, e non si poteva aprire. Ci mettevamo sedute lì, accendevamo una candela, bruciavamo sopra alla fiamma le erbe che coglievamo dai nostri giardini e invocavamo gli spiriti. Il gioco della seduta spiritica era ricorrente nei nostri pomeriggi di sole da undicenni.

Poi entrambe crescemmo e arrivò l’anno in cui io avrei compiuto quindici anni e lei quattordici. La casa era ogni anno in condizioni peggiori, ed erano passate quattro lunghissime estati dall’ultima volta in cui vi avevamo messo piede. Aveva passato tempeste e calori insopportabili ed era ancora in piedi, ma sarebbe durata poco.

Proprio perché lo sapevamo decidemmo di entrare un’ultima volta in quiel luogo pericoloso, dimora di spiriti inesistenti, frutto della fantasia di due bambine. Portammo la candela, le erbe e i fiammiferi.

Ci inoltrammo nella casa badando che non ci fosse nessuno nei paraggi, salimmo le scale consumate e arrivammo alla stanza buia. Osservai con un brivido il soffitto, constatando che una trave stava per staccarsi. Il pericolo era dell’aria… Ci sistemammo al centro, sedute l’una di fronte all’altra, accendemmo la candela e bruciammo alla sua fiamma le piante che avevamo portato, che emanarono un fortissimo profumo di alloro e salvia, per poi ridursi a quattro briciole di carbone. L’odore era ancora nell’aria, però.

Fu allora che udimmo i passi. Proseguivano, lenti e sommessi, lungo il corridoio.

Ci guardammo terrorizzate, poi Olly si coprì gli occhi. Io invece li sbarrai e mi voltai verso la porta.

Il suo viso era orribile, ustionato, sfigurato e contratto in un ghigno. Un occhio gli mancava ed era vestito solamente con una tunica mezza bruciacchiata. Da dietro di lui comparve una bambina, i capelli ricci mezzi bruciati, il viso annerito e il vestito sontuoso di broccato rosso stracciato.

“Ci avete chiamato?”, chiese l’uomo con voce cavernosa. Io e Olly non avemmo la forza di rispondere e restammo semplicemente lì, basite, di fronte alle forze che avevamo risvegliato.

Improvvisamente un rumore alle nostre spalle ci fece sobbalzare. Una creatura era dietro di noi e avanzava strisciando. Era una donna con ormai pochi capelli e le braccia ustionate, il viso scarno e due tizzoni ardenti al posto degli occhi.

Il terrore ci impediva di scappare. Eravamo bloccate, incollate al pavimento.

Improvvisamente una mano rovente mi avvinghiò la caviglia, e notai con orrore che la donna infuocata e strisciante mi aveva raggiunta e stava tentando di dirmi qualcosa. La sua bocca si aprì, i suoi occhi mi fissarono e la loro luce si fece più cupa e minacciosa.

Flammae evocatae sunt. Et flammae vos interficient.”, disse con voce strozzata. Le fiamme sono state evocate, e le fiamme vi uccideranno.

Mi divincolai dalla presa di fuoco della donna, che mi lasciò andare ma mi graffiò il calcagno. Fu come se delle frecce infuocate mi si fossero conficcate nella gamba.

La bambina soffiò in direzione della candela che stavamo usando e che era rimasta accesa. Anziché spegnersi, la fiamma improvvisamente si propagò per tutta la stanza, spandendosi sul pavimento e risalendo le pareti.

Fu come un’esplosione.

Mi coprii il viso con un braccio e con l’altro presi Olly vicino a me.

In un breve attimo di lucidità, mentre il fuoco mi stava per raggiungere, intravidi la finestra chiusa. Quando si è nel panico l’adrenalina aumenta in noi, ho sentito dire.

Sferrai un pugno fortissimo all’anta, che finalmente si aprì, uscendo dai cardini, e cadde a terra. Mi assicurai di avere Olly ben stretta a me e, visto che era l’unica via di uscita, mi buttai.

Non avevo calcolato quanto l’impatto con il suolo avrebbe potuto essere violento.

Dopo una frazioen di secondo nel vuoto, mi ritrovai accartoccita a terra, un dolore lancinante al ginocchio destro e al palmo della mano, sempre destra. Olly, poco lontana da me, si teneva stretta una spalla e sembrava non riuscire più a muovere il braccio sinistro.

“Corriamo”, mormorai a fatica e, sebbene il ginocchio mi facesse male, partii a razzo, seguita a ruota da mia cugina. Corremmo per tutta la stradina asfaltata, ci sembrava di non toccare terra da quanto andavamo veloci. Soltanto quando arrivammo davanti al cancello del mio giardino ci fermammo.

“Secondo te erano…” chiese Olga in mezzo a respiri affannosi, “…anime dell’Inferno?”.

Non avevo il fiato per risponderle. Mi voltai verso ciò da cui eravamo scappate.

Un tramonto di fuoco illuminava il cielo e il sole rosso e schiacciato era ormai sul punto di sparire dietro l’orizzonte. E, proprio davanti all’astro, la casa in cui da bambine avevamo giocato e sognato ardeva da cima a fondo, le fiamme si stagliavano maestose verso il cielo e una colonna di fumo nero tingeva il tramonto dei colori della morte.

Iniziai a sentire le voci preoccupate dei miei genitori chiedersi da dove veniva quel fumo e, soprattutto, dove accidenti erano finite Laura e Olga.

Presi mia cugina per mano, mi voltai di nuovo e camminammo verso casa.

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