Aizel
abbassò gli occhi sul fuoco del camino, assonnata ed immersa
nel calore delle fiamme che scoppiettavano placide. Minuscole scintille
si rincorrevano, simili a stelle d’oro che morivano
inghiottite dalle tenebre. Tutto era avvolto da una tetra luce
giallastra che fendeva a stento il buio della cucina, il freddo
s’insinuava nella stanza dalla finestra semichiusa, il vento
gelido che ululava tra i battenti, lugubre e malinconico. Si strinse di
più nel lungo mantello di lana, coprendo meglio il fagottino
che teneva tra le braccia. Le accarezzò una guancia ed
avvertì il lieve tepore della sua pelle sulle dita. Era
pallida, bianca come neve, e piccola. Capelli candidi le ricadevano
sulla fronte e le orecchie a punta ed incorniciavano i grandi occhi
chiusi, le ciglia tremolanti davano l’impressione che stesse
sognando. Era incredibile la sua somiglianza con lui: in lei vedeva il
suo riflesso, più cresceva e più diventavano
simili. Il suo ricordo era ancora vivido e presente, un fantasma del
passato che ancora non accennava a scomparire, a trovare pace.
Riaffiorava amaro come bile ad ogni sguardo.
Le
soffiò un bacio leggero e si alzò, cercando di
non svegliarla con scossoni o sussulti. Scivolò verso la
finestra e chiuse i battenti, poi afferrò la coperta che
aveva appoggiato sullo schienale della sedia per avvolgere la bambina.
Un rumore lieve di passi la riscosse, ed intravide una figura maschile
sotto lo stipite della porta. Si irrigidì, trattenne il
respiro per un istante, raggelata. Ancora, dopo tanto tempo, la sua
mente continuava ad evocare in altri ciò che aveva perso, a
trasformare la mancanza in una presenza inquietante. Quando finalmente
l’intruso fu entrato, tirò un sospiro di sollievo
nel riconoscerlo. Spesso, quando era sola e sveglia nel cuore della
notte, lui la raggiungeva per sfruttare ogni istante con lei.
«Aizel…» Voltò di nuovo il
capo per ignorarlo e spostò l’attenzione sulla
piccola che continuava a dormire tranquilla. Lo sentì
avvicinarsi, poi avvertì la sua mano sulla spalla. A volte
si era illusa che quel tocco fosse di un altro, più noto e
familiare, ed era stata tentata di abbandonarsi completamente a quel
contatto, lasciarsi abbracciare, stringere forte. Lo aveva desiderato,
lo aveva voluto, ma aveva capito che era solo un modo per illudersi che
fosse un’altra vita, che nulla fosse successo. Si impose
freddezza, e restò muta, come se fosse sola nella stanza.
«Perché mi eviti?» Protestò
lui. «Serdar…» Sospirò lei,
le pupille piantate come spilli nel buio denso del corridoio. Si
accorse che ora era più vicino, e si scansò senza
nemmeno pensarci. La chiamava di nuovo, la voce rauca che pareva
chiedere compassione. Si chiese per cosa dovesse mostrargli
pietà. «Non posso sopportare un’altra
notte a sentirti piangere». La sua espressione
mutò in puro disprezzo a quell’affermazione: non
era lui che soffriva, non era lui ad aver perso il proprio mondo in una
notte soltanto, la propria ragione di vita. Non era lui ad avere ogni
ragione per disperarsi quando gli affanni consolatori del giorno
lasciavano il passo alla solitudine opprimente della notte. Non
soffocava sotto il peso dell’angoscia di anni.
Non
osò replicare, si limitò a fingere di essere
sola, di nuovo. Strinse al petto la piccola e con il passo di un gatto
raggiunse le scale.
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