La vera storia di Publio Virgilio Marone

di Afaneia
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** "Vendo buoi, ma ne ho sol due." ***
Capitolo 3: *** A pochi passi dal Colosseo. ***
Capitolo 4: *** L'atto di pietà di Mecenate. ***
Capitolo 5: *** "Opera? Bucoliche? Famoso? Napoli? Scrivere? Tu?" ***
Capitolo 6: *** "Mecenate, Mecenate, Mecenate! Vedo un coniglietto rosa." ***
Capitolo 7: *** La novità di Ottaviano. ***
Capitolo 8: *** Un capitolo serio. ***
Capitolo 9: *** Dalla finestra. ***
Capitolo 10: *** Calabri me rapuere. ***
Capitolo 11: *** 8 a.C. ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Nota dell'autrice: questa fanfiction ha uno scopo puramente ironico e satirico, senza però che sia da intendersi come un tentativo di mancare di rispetto alla sensibilità e al talento artistico di uno dei più grandi autori della latinità. Sto amando moltissimo la traduzione del testo latino dell'Eneide e l'idea di questo Virgilio leggermente sui generis è nata dalle mie "impercettibili" difficoltà nella metrica ^^. Detto ciò, vi auguro buona lettura!

“Virgilio, Virgilio…quante volte te lo devo ripetere? Un esametro si chiama così perché è un verso di sei piedi, quindi sei accenti… come fai a metterne sempre quattro, otto o nove a caso?!” ripeteva un uomo di circa cinquant’anni, ancora piacente, molto elegantemente vestito, che si aggirava inquieto per il soggiorno della propria abitazione.

“Ma Mecenate, ma Mecenate,  ma come sei puntiglioso! Ma chi vuoi che se ne accorga, te ne accorgi solo tu!” gli rispose un giovane con una voce stranamente lenta e allegra. Era un ragazzo di circa venticinque anni, di gradevole aspetto, con folti ricci biondi e sconvenientemente lunghi che gli ricadevano un po’ sugli occhi, un po’ sulle spalle. Era disteso su un divanetto, sostenendosi la testa con un braccio e tenendo nella mano libera un rotolino bianco che emetteva del fumo. “Ehi Mecenate, ehi Mecenate, vuoi fumare Mecenate?”

“Virgilio! Quante volte te lo devo ripetere che ti droghi solo te in tutta l’antica Roma?!” sbottò Mecenate. “E poi, non dovresti  scrivere dopo aver fumato, poi per forza che mi combini certi disastri!”. E gli sventolava davanti alla faccia, con aria evidentemente scocciata, un lunghissimo brano in poesia. “Guarda qui: prima metti quattro piedi, poi ne metti nove al verso dopo!”

“Ma Mecenate, ma Mecenate, ma come sei puntiglioso!” ripeté Virgilio, lisciandosi un lembo della tunica colorata a fiorellini hippie. “Tu non capisci i giovani, la gente è come me, la gente si vuole tutta bene, sei troppo all’antica, vuoi fare un tiro?”

“Virgilio…no! Smettila con questa droga… cosa c’entra se la gente è come te, l’esametro resta sempre un esametro, ci vogliono sei piedi!”

“Ma Mecenate, ma Mecenate, tu non capisci i giovani, ti ci voleva proprio un poeta come me, giovane, pieno di idee, vicino al mondo di Roma…” e blaterando cose insensate sul fatto che la sua poesia avrebbe certamente rivoluzionato l’ambito letterario romano, finì il suo rotolino fumante e cessò di disturbare Mecenate. Il quale, rassegnato ormai alle stramberie del suo più giovane, sensibile e talentuoso poeta, ma anche il più distratto, si sedette e si diede pazientemente ad aggiustare la metrica del primo libro delle Georgiche…

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Capitolo 2
*** "Vendo buoi, ma ne ho sol due." ***


 

 

 

Ma come si saranno conosciuti questi due uomini così diversi e, soprattutto, come saranno diventati amici e collaboratori? Per saperlo dovremo risalire a qualche mese addietro, ossia al giorno in cui Virgilio, abbandonate le terre mantovane, giunse a Roma.

Come abbiamo visto dal prologo, Virgilio era un giovane dallo spirito tendenzialmente hippie, spirito che, purtroppo per lui, molto spesso finiva per coprire quell’incredibile sensibilità artistica e talento letterario che Mecenate era destinato a scoprire e che avrebbe presto portato il giovane mantovano a diventare il cantore del popolo romano. E quale modo di viaggiare poteva confarsi a un ragazzo allegro e alla mano come lui, se non viaggiare sul carro di fieno di un mercante gallico depresso, quello stesso mercante che molti di noi hanno avuto modo di ammirare nel film “Asterix il gallico”?

E fu così che Publio Virgilio “Virgo” Marone fece il suo ingresso a Roma.

“ Vendo buoi, ma ne ho sol due: se li vendo, dite un po’, a casa mia non tornerò! Se ne avessi almeno tre, non dovrei tornare a piè…” cantava il mercante con voce lamentosa, scuotendo i malinconici baffi neri.

“Ma via amico! Ma via amico! Take it easy! Vuoi fare un tiro?” saltò su Virgilio, sporgendosi dal retro del carro e porgendogli il suo ormai famigerato rotolino bianco fumante.

“Che cos’è quella cosa che fumi, amico?” domandò l’ometto tristemente.

“ Eh eh eh! Roba buona! Assaggia!” lo invitò Virgilio, ridendo.

“No grazie…non fumo” replicò il povero mercante depresso.

“Non sai cosa ti perdi!” gli disse Virgilio in tono saggio, mettendosi a sedere accanto a lui. “Quanto manca a Roma? Eh amico? Quanto manca a Roma?”

“ A Roma, hai detto? Ormai ci siamo” rispose il poveretto, il quale purtroppo aveva ancora da incontrare un personaggio come Asterix che gli suggerisse la soluzione di vendere il carro e tornare a casa coi buoi. E per sottolineare la cosa, sollevò tristemente un braccio e gli indicò le mura gigantesche di una città diversissima da quella Mantova dove Virgilio aveva trascorso la giovinezza. Il confronto tra le due città lo colpì molto, malgrado i fumi stupefacenti, e se ne sarebbe ricordato qualche tempo dopo, nello scrivere il primo libro delle Bucoliche.

“Bada ganzo!” esclamò. “ Ma che s’era fumato quello che l’ha progettata! Genio!”

“Amico, io ti lascio qui…se entro a Roma col traffico che c’è non ne esco più…e devo trovare il modo di tornare a casa mia!” disse il povero mercante depresso.

“Vai vai! Grazie del passaggio amico! E te l’ho detto, ho un amico su in Gallia che vende della roba buonissima! Si chiama Erbivendolix! Addio!”

E detto ciò, terminato il suo “rotolino bianco fumante” che a questo punto della storia suppongo che tutti abbiano capito cos’è, terminato il suo “rotolino bianco fumante”, dicevo, penetrò le porte di Roma. E appena varcate le soglie della Città Eterna…

Pestò una cacca di bue.

“Oh, accidenti! Una cacca di bue!” esclamò.

“Ma come puoi pestare una cacca di bue e alterarti così poco?” esclamò un mercante lì vicino, alle prese con il proprio bue.

“Come faccio? Io voglio bene a tutti, anche agli animali! Basta stare sempre calmi e fumare della roba buona!” replicò Virgilio, sollevando due dita in gesto di vittoria.

Detto ciò, se ne andò tutto tranquillo per le vie di Roma.



Il povero mercante che qui è comparso non è una mia invenzione, ma, come è esplicitato nel testo, è un personaggio del cartone animato di "Asterix il gallico"!
Grazie mille a Smolly_sev per la recensione!

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Capitolo 3
*** A pochi passi dal Colosseo. ***


E come s’inserisce Mecenate in tutto ciò? Insomma, come s’inserisce questo ricco e snob cavaliere etrusco nelle avventure di un giovane avvocato/poeta molto hippie?

La risposta è: malvolentieri.

In quello stesso giorno infatti, Mecenate si stava godendo la sua ricchezza nella sua casa nel centro di Roma. Come tutti i giorni, egli si era alzato, era stato servito e riverito, e si era trovato alfine a guardare fuori dalla finestra del soggiorno pensando: “Come ho fatto bene a comprare questa casa in centro, proprio dove sorgerà il Colosseo! Quando tra un anno e mezzo avranno finito i lavori avrò un bellissimo spettacolo!”

Purtroppo, i ritardi nei lavori erano molto frequenti anche all’epoca, ma lasciamo Mecenate a sognare tranquillo la sua casa a pochi passi dal Colosseo…

In quel momento sentì un gran baccano proveniente dall’esterno della sua dimora. Uscì immediatamente di casa e chiese a un servo cosa stesse succedendo. La risposta fu: “Signor Mecenate, un ragazzo ubriaco si sta pulendo i sandali dalla cacca di bue sulla soglia di casa!”

Come poteva prenderla Mecenate, che aveva appena finito di sognare la sua bella casa a pochi passi dal Colosseo?

Si scagliò immediatamente verso l’uscio, scontrandosi, appena uscito, con un ragazzo biondo dall’aspetto piuttosto trasandato, vestito con un’orribile tunica a fiorellini colorati.

“Cosa vuoi? Non ho pagato questa casa per permettere alla gentaccia ubriaca come te di pulircisi i piedi! Vai via!”

Il ragazzo sollevò lo sguardo dai propri sandali, guardò Mecenate, barcollò e gli disse: “Fai l’amore, non fare la guerra! Se mi cerchi, sono avvocato e domani ho la mia prima causa! Arrivederci!”

E se ne andò. Mecenate invece se ne tornò dentro dicendo: “Mah! Gioventù bruciata. Di certo non farà strada quel ragazzo. Avvocato! Mah! Morto di fame, piuttosto!”



N.B.: so benissimo che il Colosseo sarà progettato e completato solo molti anni dopo la morte di Mecenate e di Augusto, addirittura nell’80 d.C. La mia è solo una licenza poetica! ;)

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Capitolo 4
*** L'atto di pietà di Mecenate. ***


Un caro ringraziamento a Smolly_sev per la recensione e l'aggiunta alle seguite e a OlandeseVolante per aver aggiunto la mia storia alle seguite. Suvvia, continuate a sostenere Virgilio e Mecenate durante le loro avventure!

Il giorno seguente Mecenate, dimentico di tutto, si recò nel foro, dove si doveva svolgere un processo che avrebbe visto coinvolto un caro amico, tale Marcus, il quale aveva accusato un proprio  liberto di averlo derubato. Nel foro era stata costruita per l’occasione una tribuna in legno, sulla quale si erano ritrovati i giudici. Mecenate prese posto poco distante dalla tribuna e si diede ad aspettare tranquillamente, chiacchierando con un amico seduto vicino a lui, certo che la sentenza sarebbe stata favorevole a Marcus.

Dopo pochi minuti il processo ebbe inizio: la parola spettava per primo all’avvocato di Marcus. Mecenate gli aveva sentito dire che aveva assoldato un avvocato giovane ma talentuosissimo e straordinariamente sensibile, che gli era stato caldamente raccomandato dal padre, un vecchio amico.

“La parola è data a Publio Virgilio Marone, avvocato d’accusa!”

“Publio Virgilio Marone, eh? Un bel nome. Farà strada, questo ragazzo, se oggi se la cava.” pensò Mecenate, sedendosi comodamente e disponendosi ad ascoltare l’arringa dell’avvocato.

“Ma gente, gente, gente, popolo romano! Fate l’amore, non fatela guerra! Perché vi dovete litigare? Siamo tutti fratelli!” disse improvvisamente una voce, mentre la figura esile di un ragazzo si arrampicava scompostamente sulla tribuna. Una figura esile fasciata in un’orribile tunica bianca a fiorellini colorati…

“Oggiove, no!” gemette Mecenate, sprofondando nel suo sedile con le mani sulla faccia. L’amico lo guardò sorpreso: “Ma Mecenate, cosa… lo conosci?!”

Mecenate scosse la testa, pensando a come sarebbe stata infangata la sua reputazione se si fosse sparsa la voce che conosceva quel tizio.

Il nostro Virgilio aveva ormai raggiunto la lignea tribuna dei giudici e si stava volgendo a parlare verso gli astanti, tenendo in mano il suo…

…celeberrimo…

…rotolino bianco fumante.

“Ma gente, gente, gente! Questi tribunali a cosa vi servono? Bisogna volersi bene!” esclamò, fermandosi un momento per aspirare un tiro dal…avete capito, insomma. Proseguì con la stessa voce comicamente lenta e assuefatta: “ Chi è che si litiga qui? Su! Ditemelo! Quei due, eh? Ma datevi un bacio e fatela finita! Qui siamo tutti fratelli! Volete un tiro, eh?”

Era ormai calato un silenzio profondo e desolante, del quale Virgilio pareva non accorgersi, a dispetto del quale, anzi, continuava a sproloquiare assolutamente a sproposito. Marcus era impallidito e, come Mecenate, si teneva il capo tra le mani; il liberto, al contrario, se la rideva, al pensiero di come quell’avvocato strafatto gli avrebbe fatto vincere la causa…

“Basta! Basta!” esclamò al fine Marcus, balzando in piedi. “Vattene!”

“Ehi amico, calmati!” lo riprese Virgilio tranquillamente, accostandosi a lui. Gli sorrise con aria furba: “Lo so io cosa ci vuole a te! Vuoi fare un tiro, eh? Vuoi?” e gli porgeva, insistente, il suo rotolino fumante. A questo punto Marcus non ci vide più dalla rabbia, afferrò il malcapitato avvocato per il collo della sua tunica hippie e lo scaraventò giù dalla tribuna. Immediatamente i giudici lo afferrarono a loro volta per impedirgli di rovesciare su altri la propria rabbia…indignato e furioso per la dignità umiliata dell’amico, Mecenate balzò in piedi e si precipitò dall’altra parte della tribuna, dove Virgilio era seduto col capo tra le mani a riprendersi dalla botta.

“Ragazzo! Vieni qui!” gli ordinò Mecenate. Vedendo però che il giovane non accennava ad alzarsi, si decise ad accostarsi lui stesso al poveretto.

“Cosa ti è saltato in mente, di  venire al foro in queste condizioni?” sbottò. Virgilio sollevò lo sguardo su di lui e per la prima volta a Mecenate parve di vedergli in volto uno sguardo presente e mite, quasi melanconico.

“Ma io sono così! Io non sono fatto che così, non ho una faccia per il foro e una per il resto del tempo, ho questa soltanto. Io sono Virgilio e per me è questa la vita.”

“Allora non fare l’avvocato!”

“Ma io non volevo diventare avvocato! L’ha deciso mio padre per me. Io non volevo, io sono un artista, voglio fare il poeta!”

“Il poeta?! Tu?!” esclamò Mecenate incredulo. “Scherzerai!”

“No! Io sono un poeta. Di certo non un avvocato. Beh, meglio che me ne vada da Roma, qua di sicuro non troverò un altro lavoro, ma devo mangiare e comprarmi la roba…me ne tornerò a Mantova!”

“La roba è quella cosa bianca?”

“Certo, vuoi un tiro?”

“Mmmm…no grazie, non mi convince” rispose Mecenate. Poi, colto da un improvviso attacco di gentilezza, gli disse: “Ascolta, di certo tuo padre non sarà contento di vederti tornare a Mantova a mani vuote. A Napoli ho un amico, si chiama Sirone, ha una scuola di stampo epicureo, è proprio quello che fa per te. Se vuoi andare da lui, digli che ti mando io e vedrai che ti accoglierà a braccia aperte.”

“Davvero? Wow, l’epicureismo sì che fa per me! Grazie mille fratello, ti devo un favore!” esclamò Virgilio, risollevato, alzandosi in piedi e avviandosi.

“Aspetta, dove vai? Come farai ad arrivare a Napoli?” gli gridò dietro Mecenate.

“Come ho fatto ad arrivare a Roma!” rispose Virgilio voltandosi indietro. “Mi guadagnerò un passaggio con la mia simpatia! Al mondo siamo tutti fratelli. Addio!”

“Bah!” borbottò Mecenate, avviandosi verso casa. “ Strano ragazzo. Mi domando se ho fatto bene. Beh, non importa. Tanto, probabilmente non ne sentirò più parlare.”

Si sbagliava. Un mese dopo, gli arrivò una lettera di Sirone. C’era scritto:

“La prossima volta che mi mandi un allievo, levagli almeno le sostanze stupefacenti. Le guardie statali fanno controlli su controlli. Questa me la paghi! Comunque, se la cava abbastanza.

Con affetto, Sirone.”

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Capitolo 5
*** "Opera? Bucoliche? Famoso? Napoli? Scrivere? Tu?" ***


Grazie a prelude10 e a Mareike Tiaycia (spero di aver scritto bene) per aver aggiunto questa storia alle seguite e grazie anche a chi legge senza lasciare traccia del suo passaggio. Ma su, che vi costa lasciare una recensioncina? Pensate al nostro povero Mecenate! XD

Buon capitolo!

Erano trascorsi circa due anni da quel disastroso processo in tribunale, che Mecenate aveva ormai pressoché dimenticato. Dopotutto, che importanza poteva avere un qualsiasi ragazzo con ambizioni poetiche nella mente di colui che, rapidamente, sarebbe diventato uno degli uomini più intimi e fidati di Ottaviano? Del resto, la sua vita era ormai molto piena e non aveva quasi più tempo di pensare a se stesso, figurarsi ad altri! Ormai trascorreva quasi tutte le sue giornate nell’occuparsi della preparazione di giovani intellettuali di belle speranze, che promettevano di divenire poeti e scrittori molto talentuosi. Era davvero soddisfatto di loro.

Un giorno, mentre stava mangiando tranquillamente leggendo, frattanto, la bozza di un poemetto di un amico, un servo lo informò che era desiderato. Sperando che fossero notizie da parte di Ottaviano, accettò immediatamente di vedere chiunque fosse  alla porta e si alzò, speranzoso…

“Ma Mecenate, Mecenate, Mecenate! Quanto tempo!”

Mecenate ebbe improvvisamente uno spasmo di terrore nell’udire quella voce che, malgrado non ricordasse dove potesse aver udito, non gli sembrava nuova; si aggrappò al tavolo, cercando istintivamente una via di fuga da quel nome ripetuto tre volte…

“No, tu no! Va’ via! VIA!” urlò disperato, quando entrò nella stanza una magra figura slanciata, avvolta non più nell’orribile tunica bianca a fiorellini che Mecenate ricordava, ma in una ben più strana , completamente colorata con tutti i colori dell’arcobaleno che formavano una sorta di spirale terrificante. Sulle spalle, il giovane portava un mantello  dall’aspetto piuttosto costoso, ma anch’esso colorato senza criterio, peraltro in aperto contrasto colle tonalità della tunica. Persino i sandali del giovane portavano degli orribili fiocchetti!

“Ma Mecenate, Mecenate, Mecenate, non sei contento di vedermi?” chiese Virgilio, aspirando un tiro dal suo rotolino.

“NO! Come fai ancora a ricordarti dov’è casa mia?!” protestò l’uomo, sedendosi a causa di un’improvvisa mancanza di forze.

“Beh, in effetti non me lo ricordavo affatto” ammise Virgilio, sedendosi con noncuranza.

“Come no? E allora come mi hai trovato?”

“Come? È molto semplice. Appena sono arrivato a Roma ho cercato qualcuno che sapesse dove abitavi. Prima ho chiesto a un tizio presso le porte, ma non lo sapeva. Poi in piazza ho chiesto a uno che stava vendendo una mucca. Mi ha detto che se lo avessi aiutato a vendere la mucca me lo avrebbe detto, perciò ho iniziato a cantare le lodi della mucca, ma quel tizio mi ha mandato urlando via senza dirmelo: che merdaccia! Poi sono andato da un tipo che vendeva schiavi, ma appena ha scoperto che non volevo acquistare ha smesso di prestarmi attenzione. Così ho chiesto a uno schiavo, ma subito il tizio di prima mi ha mandato via a calci. Allora sono andato a giro per Roma chiedendo a tutti notizie di te, ma tutti o non lo sapevano, o mi scacciavano in malo modo. Proprio non capisco perché!”

“Gran Giove, no!” mormorò stravolto Mecenate, che come sappiamo teneva molto a tenere alta la propria dignità e a non far sapere che conosceva quel giovane strafatto. “Beh, speriamo che lo considerino solo un esaltato…”

“Poi ho incontrato un signore dall’aria importante, vestito da condottiero, che andava in giro tutto circondato da guardie armate ed era armato pure lui. Ho pensato che lui poteva conoscerti…”

“No, no, no!” mormorava Mecenate, che riconosceva in quella descrizione nientemeno che Ottaviano.

“Così gli ho chiesto se ti conosceva e se sapeva dove abitavi, perché anche se siamo amici non mi ricordavo dove abitavi…”

“Amici? Hai detto a Ottaviano che siamo amici? Ma io sono rovinato! Finito! Morto!” gemette l’uomo, buttandosi per terra e rotolandosi mentre si strappava i capelli.

“Ma perché? Suvvia, non fare questa coturnata! Comunque lui lo sapeva dove abitavi e me l’ha detto, ecco. Mi ha pure chiesto se fossi un artista, perché ha detto che lo sembravo proprio, ecco. Insomma, avevo l’aria, ha detto. Da artista. Tu non trovi?” domandò Virgilio, pavoneggiandosi nella sua tunica orripilante.

“No, no, no!” gemette Mecenate con fare melodrammatico.

“Oh Mecenate, ma come sei noioso! Comunque il tizio ha guardato le sue guardie e ha detto loro: ‘vedete? Mecenate ha un grande talento nel riconoscere i giovani talentuosi. Chi di voi avrebbe mai sospettato che sotto questa tunica di pessimo gusto si nascondesse uno dei suoi nuovi poeti? Evidentemente Mecenate è andato oltre l’apparenza e ha capito che la sensibilità artistica di questo giovane va ben oltre quella estetica!’. Poi mi ha detto dove abitavi e mi ha salutato. E così sono venuto qui.” Concluse Virgilio, soddisfatto. Mecenate stava mordendo la tovaglia per l’angoscia: cosa sarebbe potuto accadere se Ottaviano avesse scoperto che quello che lui considerava un estroso artista era in realtà un povero ragazzetto sconosciuto, legato a lui solo dalla pietà di un attimo?

Dopo un momento però lo sguardo di Virgilio si fece più serio e profondo; buttò via il suo rotolino, tese la mano a Mecenate e lo costrinse ad alzarsi, dicendogli: “Mecenate, sono venuto a Roma per ringraziarti dell’opportunità che mi hai dato di frequentare la scuola epicurea a Napoli. Senza quest’istruzione epicurea io non avrei mai potuto scrivere così la mia prima opera, le Bucoliche, che mi ha fatto diventare molto famoso a Napoli e dintorni…”

“Cosa?” lo interruppe bruscamente Mecenate,  svegliandosi da quello stato di sofferenza e tormento interiore in cui era sprofondato. “Opera? Bucoliche? Famoso? Napoli? Scrivere? Tu?”

“Certo! Non lo sapevi? A Napoli ho steso un’opera intitolata “Bucoliche”, è stata apprezzata moltissimo, so che se ne è parlato molto anche a Roma! Non ne hai sentito parlare?” domandò Virgilio, vagamente deluso. “Te ne avevo portato una copia in regalo, come ringraziamento di aver salvato la mia vita…”

“Salvarti? Ma che sciocchezze!” protestò con sincera modestia Mecenate, strappando avidamente dalla mano di Virgilio un papiro arrotolato che srotolò con rabbia: i suoi occhi corsero rapidi sui primi versi della prima ecloga. Gli veniva in mente che, in effetti, negli ultimi mesi gli era parso di sentir parlare di un giovane poeta napoletano, ma che gli era parso solo una moda passeggera…

“Hai scritto tu tutto questo?” domandò stordito. Virgilio annuì orgogliosamente. Mecenate proseguì la lettura, prima di soffermarsi a esaminare l’aspetto metrico. “Ehi, Virgilio…che versi hai usato?”

“Esametri!”

“Ma…ma…ma qui ci sono almeno dieci accenti!”

“Oh, sì, anche Sirone mi ha accennato qualcosa del genere un po’ di tempo fa” replicò quegli con noncuranza.

“Cosa? E hai pubblicato così la tua prima opera? Sei un pazzo! Il primo verso peggio che mutilo!” gemette Mecenate, sedendosi di scatto.

“Ma Mecenate, ma Mecenate, sono tutte sciocchezze! Ormai nessuno fa più caso alla metrica da un bel po’! E’ ovvio, altrimenti qualcuno se ne sarebbe accorto e non avrei avuto tutto questo successo!”

Si udì improvvisamente un colpo secco. Guardandosi attorno, Virgilio non vide più Mecenate. Egli era steso sul pavimento, svenuto.

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Capitolo 6
*** "Mecenate, Mecenate, Mecenate! Vedo un coniglietto rosa." ***


Salve a tutti! Se qualcuno era preoccupato per il nostro Mecenate, augurategli in bocca al lupo: questo per lui sarà un capitolo lungo e difficile, ispirato dal mio caro Sbingo, che ringrazio sentitamente.

Buona lettura!


Era il 38 a.C. , e Virgilio era ormai entrato a far parte, per così dire, del celeberrimo circolo di Mecenate. Non, beninteso, che Mecenate fosse precisamente soddisfatto della piega che avevano preso gli eventi. Aveva riletto tutte le Bucoliche due, tre, quattro  volte e ogni tanto se le risfogliava così, per curiosità, e si era ritrovato a scoprire nell’intera opera  c’erano solo dodici versi regolarmente accentati, cosa che reputava fosse accaduta per caso e non per intenzione dell’autore. Era pur vero che, malgrado ne conoscesse ormai la trama, si commuoveva sempre un po’ alla prima ecloga, il cui finale in particolar modo risultava di un’insperata eleganza e soprattutto manifestava un’estrema sensibilità artistica e umana, cosa che, a dire il vero, non si sarebbe mai aspettato da parte di Virgilio. Ma anche tutto il resto dell’opera, doveva riconoscere a malincuore, risultava in ogni aspetto, tranne che in quello metrico, a un livello nettamente, decisamente superiore rispetto alle decine di altri poemetti, carmina eccetera eccetera degli  altri giovani poeti, persino di coloro che aveva adorato prima dell’arrivo di Virgilio. Davvero Virgilio aveva stravolto la sua vita.

Va pur detto che Virgilio, che ormai praticamente abitava in casa sua (Mecenate gli aveva trovato una piccola abitazione nella periferia di Roma per non averlo tra i piedi, ma Virgilio, che ancora  conosceva poca gente in città e che odiava con tutto il cuore la solitudine perché si annoiava, trascorreva con lui la maggior parte delle giornate e spesso, la sera, troppo fatto per andare a casa, dormiva da lui, o per meglio dire si addormentava in qualunque punto della casa si trovasse e risultava impossibile svegliarlo) non gli aveva reso la vita facile. Insisteva per accompagnarlo ovunque, anche dove Mecenate avrebbe preferito andare da solo, e non di rado vi arrivava strafatto, con gli occhi rossi e con una scarsissima capacità di ragionamento, cosa che rendeva difficile a Mecenate presentarlo come “un talentuosissimo poeta, molto sensibile, che viene con me per conoscere qualche usanza romana, dato che è nato a Mantova ma ha studiato da Sirone a Napoli”. Insomma, nessuno sembrava molto disposto a credere che un ragazzo vestito con i colori più strambi che andava in giro dicendo cose tipo: “Mecenate, Mecenate, Mecenate! Vedo un coniglietto rosa, credi che farà le uova rosa oppure normali?” fosse l’autore delle Bucoliche. Eppure lo era, malgrado tutto.

Un giorno bussarono alla porta della magnifica casa “a pochi passi dal Colosseo” (i continui ritardi nella costruzione stavano facendo imbestialire il cavaliere etrusco, tra l’altro.) e fu introdotto un servo di Ottaviano, che veniva a invitare Mecenate a una cena presso di lui, la sera seguente,  in compagnia di altri scrittori e poeti.

“Ottaviano chiede anche notizie dell’autore delle Bucoliche” soggiunse il servo inoltre. “Dice che è molto incuriosito dalla sua opera e che vorrebbe avere modo di riparlargli personalmente.”

A queste parole Mecenate si trovò travolto da sentimenti contrastanti: da una parte era lieto di poter presentare Virgilio in società in modo più ufficiale, dall’altra si scopriva non preoccupato, non spaventato, ma assolutamente TERRORIZZATO al pensiero di cosa avrebbe potuto combinargli Virgilio. Pertanto, appena congedato il servo con la promessa di partecipare entrambi alla cena, andò di corsa a cercare Virgilio per tutta la casa.

E lo trovò, ma non nelle condizioni in cui sperava di trovarlo.

Nella stanza in cui solitamente rinchiudeva Virgilio con la scusa di farlo leggere e scrivere, in realtà col solo scopo di restarsene un po’ in pace a lavorare per conto suo, vide un gran macello: due vasi di poco valore, che aveva messo lì solo per rasserenare l’ambiente, erano in terra in frantumi e i loro cocci erano stati sparpagliati ovunque nella stanza da una grande piega che aveva preso il tappeto, come se fosse stato calciato con forza. Sullo scrittoio nell’angolo erano stati buttati alla rinfusa pezzi di pergamena strappata e vari stilo, e il divanetto foderato in velluto rosso sul quale Virgilio spesso si sedeva a riflettere o a fumare era stato spinto da una parte. Mecenate entrò di corsa e si guardò intorno: Virgilio era nella stanza, in un angolo, con gli occhi arrossati e sgranati, come persi nel vuoto. Non era il classico effetto dei suoi rotolini fumanti.

“Virgilio! Che cos’hai preso stavolta?!”

Gli rispose solo un mugugno e Virgilio lo guardò allucinato, chinando il capo da una parte e dall’altra come se stesse esaminando qualcosa di strano e non capisse bene da che parte guardarlo. Mecenate si avvicinò, ma il giovane agitò le braccia come per allontanarlo, dopodiché si buttò per terra e la rimase tremante, coprendosi il capo per non guardarlo o per proteggersi, questo Mecenate non lo sapeva.

Infuriato, il cavaliere lo afferrò per le spalle e lo tirò su, per poi iniziare a trascinarlo verso la porta, temendo che restando in quella stanza avrebbe potuto farsi male con i cocci e quant’altro. Virgilio si mise a urlare e Mecenate, resistendo a stento all’idea di tirargli uno schiaffo, gli disse infuriato: “Virgilio, accidenti a te! Se domani arrivi in queste condizioni da Ottaviano, giuro che ti ci riporto in quel tribunale, ma stavolta non come avvocato! Hai capito bene?!”

“Mecenate, Mecenate, Mecenate…” borbottò Virgilio, con una voce che non sembrava la sua. “Vedo…vedo…” e vagava con gli occhi sulla stanza, come se seguisse una linea precisa.

Mecenate lo trascinò a spalla nella propria stanza, lo buttò senza troppi complimenti sul letto e, preso uno sgabello, vi si sedette sopra e si diede ad ascoltare per ore i vaneggiamenti di Virgilio, roba tipo: “Il vino nei fiumi” oppure “una testa tra le onde che chiama il suo nome”, tutte cose che il povero etrusco avrebbe avuto a capire più avanti.

A Virgilio ci volle tutta la notte prima di riprendersi, la qual cosa non faceva che accrescere l’ira e la preoccupazione di Mecenate, che vedeva avvicinarsi senza speranza l’ora del banchetto con Ottaviano.  E il mattino seguente era già inoltrato e il sole si era fatto alto e caldo, quando Virgilio, che aveva dormito due o tre ore di un sonno tormentato e agitato che non sembrava affatto sonno, aprì gli occhi rossi e lucidi e lo guardò, stentando, sulle prime, a riconoscerlo.

“Mecenate, Mecenate…ehi, Mecenate…”

Troppo arrabbiato per parlare, Mecenate gli rivolse un’occhiataccia, poi, suo malgrado sollevato dal risveglio di Virgilio, e non solo in prospettiva del banchetto, si alzò in piedi e fece per andarsene.

“Perché sono qui? Che ore sono?”

“L’ora quinta inoltrata, ormai! E io non ho dormito neanche un po’, accidenti a te, e oggi ho molto da fare. Stasera io e te siamo invitati da Ottaviano a una cena, e io ho da lavorare, prima.”

“Ma perché sono qui?”

“Perché? Non me lo chiedere, io non so cosa tu abbia preso ieri sera, ma se lo riprendi un’altra volta, non farti più vedere qui! Hai distrutto una stanza di casa mia. Sei contento ora?”

“Mi spiace.”

“Mi fa piacere” replicò Mecenate dirigendosi a grandi passi alla porta.

“Mecenate, aspetta!”

“Che vuoi?”

Virgilio si mise a sedere sul letto, facendo smorfie come se avesse mal di testa. “Che trip pazzesco” borbottò. “Mecenate, vieni qui, ti prego…ho visto delle cose…stranissime.”

“Già, parlavi di qualcosa come Orfeo decapitato, o roba del genere” replicò acidamente quegli, avvicinandosi suo malgrado. Virgilio annuì.

“Avevo…non lo so neanche io…accidenti. Grazie per essere rimasto con me. Sei stato molto buono.”

Mecenate non rispose neppure.  Poi  sentì qualcosa che lo lasciò senza fiato:
“Mecenate, in quel trip ho capito qualcosa. L’epicureismo…non va bene. Ho compreso il logos, Mecenate, il logos che controlla la nostra esistenza. Gli stoici avevano ragione, Mecenate, il logos esiste… ho compreso lo stoicismo! Quella è la verità!”

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Capitolo 7
*** La novità di Ottaviano. ***


Prima di questo capitolo desidero inserire una spiegazione. Ho deciso di modificare gli avvertimenti e il genere della storia, aggiungendo i campi “sentimentale” e “shounen-ai” per un motivo semplicissimo.

Questa storia non era pensata, in origine, per diventare shounen ai, ma in seguito a una mia lunga pausa dalla scrittura, si è “trasformata”. Ossia, sono riuscita a tornare a scriverla con nuove idee solo guardandola in quest’ottica, il che probabilmente è un indice di notevole limitatezza da parte mia, ma tant’è. E poiché la trasformazione della storia in un genere che, evidentemente, mi è più congeniale, mi ha ridato una carica che ormai non mi aspettavo più, ho deciso di attenermi a una modifica che non ho voluta, ma che mi è ormai semplicemente necessaria per continuare a scrivere.

Chiedo perdono a quei lettori che da questo punto in poi non troveranno più la storia di loro gusto o la abbandoneranno, ma è davvero tutto ciò che potevo fare per riprendere in mano le avventure di Virgilio e Mecenate. Come mio solito, auguro buona lettura a coloro che vorranno proseguire ugualmente.

 

 

 

Mecenate lavorò tutto il giorno senza permettere a Virgilio di lasciare la stanza nella quale lo aveva rinchiuso, con gli occhi che gli si chiudevano e i nervi che gli affioravano ogni volta che ripensava alla notte appena trascorsa. Comunque, verso le sette, concluso il suo lavoro, si preparò e mandò a dire a Virgilio che facesse lo stesso (poiché ormai Virgilio conservava una buona parte delle proprie cose a casa sua).

Si diressero verso casa di Ottaviano, mentre Virgilio continuava a fantasticare e a ripetere i precetti della filosofia stoica; Mecenate, ancora troppo arrabbiato per rivolgergli la parola, si limitava ad ascoltarlo farneticare, senza rispondere alle sue numerose domande.

“Ehi, Mecenate, Mecenate, tu credi nella palingenesi?”

“Ehi, Mecenate, Mecenate, sai tollerare il tuo logos?”

“Ehi, Mecenate, Mecenate, lo sai come è morto Orfeo?”

E altre cose del genere, per tutto il tragitto. Finché Mecenate esclamò: “Virgilio! Se il mio logos è di avere te attaccato per tutta la vita, non intendo sopportarlo! Piuttosto faccio preparare una pira funebre e mi trafiggo con la spada, anche a costo di vagare per tutta l’eternità negli Inferi!”

E come avrebbe potuto sapere il nostro Mecenate che le sue parole avrebbero lasciato un segno profondo e duraturo nell’animo di Virgilio?

Senza più badargli, comunque, Mecenate proseguì la sua strada fino alla casa di Ottaviano Augusto sul Palatino, con Virgilio che lo seguiva pensoso fumando come una ciminiera.

Appena un domestico li ebbe fatti entrare, i due raggiunsero la sala dove li attendevano Ottaviano e numerosi altri ospiti. E un attimo dopo aver raggiunto una graziosa saletta, accadde precisamente ciò che Mecenate paventava da più di ventiquattro ore.

Non appena vide Ottaviano alzarsi dal divanetto sul quale era semidisteso, Virgilio lo guardò fissamente con occhi sgranati, si voltò verso Mecenate ed esclamò, additandolo deliberatamente: “Ehi, Mecenate, Mecenate! Quello ha la vagina!”

Capite ora per quale motivo Mecenate era tanto preoccupato per la propria dignità?

“Virgilio!” mormorò furioso: “Bada a quello che dici, eppure ti ho spiegato che Ottaviano è il personaggio più influente di Roma!”

Ottaviano, che era rimasto un po’ stupito dall’esclamazione di Virgilio, parve comunque non darsene troppo peso, tanto si parlava a Roma delle stranezze del poeta preferito da Mecenate;  così, senza reagire, esclamò: “ Mecenate, Virgilio! Ho una bella notizia per voi, carissimi!”

Le parole di Ottaviano non suscitarono alcun effetto in Virgilio, che subito si avvicinò a un braciere collocato in un angolo e si mise a osservare le fiamme, probabilmente riflettendo su quei precetti stoici che assimilano il logos al fuoco. Le sue riflessioni furono ben presto interrotte dall’arrivo di un paio di giovani poeti che egli aveva già conosciuto grazie a Mecenate , tutti desiderosi di scambiare con lui qualche opinione letteraria, e subito Mecenate, certo che in loro compagnia Virgilio non potesse farsi male, si rivolse direttamente a Ottaviano e domandò a bassa voce: “Ottaviano, cos’hai in mente?”

Ottaviano pareva ardere di contentezza e rispose con occhi luminosi: “Mio caro Mecenate, desidero presentarti un giovane poeta che ho da poco incontrato, e che sono sicuro che possa diventare famoso almeno al pari di Virgilio.”

“Per Giove, Ottaviano! Mi è sufficiente che non sia come Virgilio” esclamò Mecenate. “Per il resto, mi va bene chiunque. Giuro che di drogati ne ho abbastanza, uno di questi giorni uccido Virgilio!”

Ma a queste parole, Ottaviano si mise a ridere e battendogli sulla spalla, esclamò: “Oh, Mecenate! Ma se lo sai anche tu che a Virgilio vuoi fin troppo bene!”

E questa cosa, sentendosi punto sul vivo, Mecenate se la tenne per detta e non replicò.

Per il resto, la serata trascorse più o meno tranquilla, e anche Virgilio non si fece sentire più di tanto: ottenebrato dal fumo e dalle riflessioni sullo stoicismo, egli pareva non curarsi di nulla, e solo di rado intervenne nella conversazione.

Ma poi, verso la fine della serata, finalmente si rivelarono quelle notizie che Ottaviano aveva preannunciato. A un tratto, quando la cena si era ormai conclusa e i commensali si svagavano con un po’ di musica, fu introdotto un uomo forse poco più giovane di Virgilio. Non appena lo vide, Ottaviano parve illuminarsi e, balzato in piedi, esclamò: “Orazio, finalmente sei qui! Non vedevo l’ora di presentarti a Mecenate!”

Pareva che nell’ambito della sala più d’uno conoscesse il ragazzo, ma la cosa che maggiormente sorprese Mecenate fu che anche Virgilio diede prova di conoscerlo: destatosi un momento dal suo stato di profonda riflessione, egli scorse il giovane, lo salutò con la mano e tornò a concentrarsi sui propri pensieri. Mecenate, che gli sedeva accanto, si protese verso di lui e mormorò: “Virgilio! Lo conosci?”

“Credo di sì” rispose Virgilio. “Abita accanto a un mio amico.”

Mecenate, che sapeva che genere di amici Virgilio avesse a Roma, considerò dunque che il giovane tanto atteso da Ottaviano venisse da una zona piuttosto malfamata, probabilmente nota per commerci di basso livello e di straordinari, stupefacenti effetti.

Fu collocato un divanetto tra quello di Ottaviano e quello di Mecenate. Il cavaliere, che conosceva bene Ottaviano, sospettava che ciò non fosse avvenuto per caso. E per tutto il resto della serata, infatti, Mecenate conversò col giovane Quinto Orazio Flacco, che stava avviando una carriera letteraria lavorando a degli epodi dei quali, purtroppo, non gli accennò molto. Anche per questo motivo non fece molto caso al fatto che Virgilio parlò a lungo con Ottaviano e che, via via che il discorso proseguiva e si faceva più acceso, Virgilio sembrava svegliarsi sempre più e concentrarsi maggiormente sulla conversazione, cosa che, da quando si erano conosciuti, Mecenate aveva visto accadere forse tre o quattro volte. Ma non vi fece caso, tanto si sentiva preso dalla conversazione col giovane Orazio, e si ritrovò a parlarne con Virgilio dolo quando quella sera, molto più tardi, si rimisero sulla strada di casa.

“Ehi Virgilio! Di cosa stavi parlando con Ottaviano?” domandò Mecenate, durante una pausa forzata a pochi metri dalla casa che avevano appena lasciato: Virgilio si era infatti seduto sul gradino di un’abitazione per arrotolarsi uno di quei rotolini bianchi di cui Mecenate aveva ormai imparato il procedimento. Virgilio alzò appena  lo sguardo dalle proprie mani e replicò: “Stavamo parlando delle sue idee sull’agricoltura.”

Mecenate aggrottò le sopracciglia e rispose: “Mi sorprende che tu ti sia così appassionato alla discussione.”

“Pensavo che ha ragione. È sull’agricoltura che si è arricchita Roma, da principio. E poi, tu sai che noi avevamo un podere…una volta.”

“Stavo pensando a una nuova opera, sai. Ne ho parlato con Ottaviano, stasera. Sull’agricoltura, proprio come ne parla Ottaviano.”

“Ci hai pensato stasera?” domandò Mecenate. Virgilio teneva gli occhi bassi e Mecenate sospettava che ci fosse qualcosa che non sapeva come dirgli.

“Stasera? Un po’. Ma è da stanotte che rifletto su questo genere di cosa. Sarà qualcosa di completamente diverso dalle Bucoliche, qualcosa sulla durezza del lavoro, su…”

“Ehi, Mecenate” proseguì. “Voglio dedicarla a te, comunque sia, come ringraziamento per avermi salvato ancora una volta e per prenderti cura della mia vita.”

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Capitolo 8
*** Un capitolo serio. ***


“Ehi, Mecenate” proseguì. “Voglio dedicarla a te, comunque sia, come ringraziamento per avermi salvato ancora una volta e per prenderti cura della mia vita.”

 

A quelle parole, Mecenate rimase non poco sorpreso. Scrutava Virgilio come se si aspettasse una delle sue uscite patetiche, ma ciò non accadde: a guardarlo non era il solito Virgilio estroverso e strafatto, era il Virgilio delle rare occasioni speciali, era il Virgilio che solo lui conosceva. Fissandolo, Mecenate  si sentì tornare in mente le parole di Ottaviano, e arrossì, ma la notte era buia, e Virgilio non se ne avvide.

“Non ti ho salvato la vita” disse Mecenate. “Non ti ho mai salvato, Virgilio…né tre anni fa al foro, né stanotte. Ti ho solo aiutato. E comunque, sono ancora arrabbiato!” soggiunse, impettendosi.

Ma Virgilio scosse la testa con calma, finendo di fare il suo rotolino, e disse senza alterarsi: “E invece mi hai salvato, Mecenate, e in molti più modi di quanto credi.”

“Ma che sciocchezze…”

“Ascolta invece! Quel giorno mi hai salvato dal linciaggio, dalla povertà, dall’umiliazione; hai trovato uno scopo alla mia vita; quando sono tornato a Roma mi hai dato protezione, fiducia, un appartamento tutto per me; hai corretto le mie bozze, mi hai spiegato la metrica, anche se non l’ho mai capita, mi hai presentato alla gente importante, mi hai fatto diventare  importante; mi hai accolto in casa tua, mi hai dato tutto l’affetto che una persona può desiderare, anche se controvoglia; mi hai dato una casa, che non è il mio appartamento vuoto, ma è qualcosa che ho trovato in un posto che non è fatto di pietra e di legno; e tu, tutto questo non lo chiami salvare una vita? Ma se per te non lo è, va bene, allora senti qui: stanotte mi hai salvato un’altra volta. Potevo collassare, potevo farmi male con qualcosa, ma tu mi hai aiutato, sei stato accanto a me tutta la notte, e ti sei arrabbiato, certo, ma sei rimasto con me. Capisci cosa vuol dire per me sapere che tu non mi hai lasciato solo, anche se non sono buono a fare nulla e ti combino solo casini? Certo, spesso ti arrabbi e mi insulti tutti i giorni, ma tu sei buono con me: se tu non lo fossi, stanotte mi avresti gettato per strada e fatto picchiare dai tuoi servi, invece sei stato con per tutta la notte accanto a me e mi hai ascoltato, mi hai protetto, mi hai salvato. Ti sei preso cura di me per tutta la notte, anche se non volevi, ma l’hai fatto, l’hai fatto, e per questo ti ringrazio.”

Mecenate avrebbe voluto rispondere, schermirsi, calmarlo, ma Virgilio proseguiva, pareva infervorato; pareva volergli dire tutte le cose cui non aveva mai saputo dar voce.

“Vorrei saperti dire che migliorerò e che non ti combinerò mai più casini, ma tanto lo sai che non sarebbe vero: appena avremo finito di parlare mi rimetterò a fumare, e non m’importerà più nulla di tutto quello che ti ho detto finora, o meglio me ne importerà, me ne è sempre importato, ma non avrò più voglia o coraggio di dirti nulla o di fare nulla. Non perché io sia una persona diversa quando fumo da quando non fumo, no, no: per me la vita non è che una sola, e così non vi è che un solo modo di affrontarla; solo che stasera mi sento un po’ più coraggioso delle altre sere, altre sere in cui magari avrei avuto voglia di dirti queste cose, ma pensavo che non mi avresti dato retta perché avevo fumato, oppure semplicemente non trovavo il coraggio. E stasera sono lucido e mi sento coraggioso, perciò stasera so dirti quanto io ti sia grato per aver salvato non una, non due, ma infinite volte la mia vita, e di prenderti tutti i giorni cura di me anche se non me lo merito. E purtroppo io so che non sarò mai in grado di meritarmelo, dunque non te lo prometto per non deluderti un’altra volta; e ti ringrazierò facendo l’unica cosa che posso fare per te, l’unica cosa che io sappia fare: scrivere una bella opera e dedicarla a te, che hai saputo vedere dentro di me più di tutto quello che vedono gli altri, proprio come ha detto Ottaviano, tanto tempo fa. E spero davvero che tu abbia capito qualcosa di tutte le cose che ti ho detto stasera, perché non saprò mai ripetertele una seconda volta, e con questo spero di averti detto proprio tutto, Mecenate, ecco qua.”

Ora Mecenate era immobile come paralizzato, ritto in piedi davanti a Virgilio, e lo sguardo del giovane ardeva di limpidezza e franchezza, di onesta semplicità. Egli era stato sincero, Mecenate lo percepiva con la stessa chiarezza con la quale percepiva le proprie mani.

Virgilio si alzò, e battendogli sulla spalla gli disse: “Ehi, Mecenate, Mecenate! Forza, andiamo a casa. Comincia a far freddo, e il mio mantello è troppo leggero, e lo è anche il tuo.”

Quel tocco lo riscosse, lo richiamò alla realtà. Allora, mentre si avviava al fianco di Virgilio, borbottò volgendo il capo da una parte: “Ti ho preso in casa mia solo perché sei bravo come poeta, tutto qui!”

Ma Virgilio non se la prese, e sorridendo, come se conoscesse un qualche segreto di cui Mecenate era all’oscuro, disse con calma: “ Ed è solo perché sono un bravo poeta che non conosce la metrica che ti sei preso cura di me, stanotte?”

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Capitolo 9
*** Dalla finestra. ***


E poi la vita riprese, e quella sera parve soltanto una sera tra le sere, nel senso che non ne parlarono più; ma Mecenate non dimenticò mai le parole che Virgilio gli aveva rivoltom e le conservò sempre in un piccolo posto privato dentro di sé.

Frattanto Virgilio, le cui convinzioni stoiche si erano ormai consolidate, aveva cominciato a raccogliere materiale per le Georgiche, come intendeva chiamare il suo nuovo progetto; come Mecenate ormai ben sapeva, la raccolta di materiale consisteva nel fumarsi un intero rotolino bianco, sedersi da qualche parte, e ragionare. Mecenate lo lasciava fare, troppo preso da altre occupazioni, da altri personaggi; in primis, quel Quinto Orazio Flacco che, dopo nove mesi di conoscenza, ebbe l’onore di essere accolto tra gli intimi di Mecenate. Era un  giovane assolutamente promettente, e,  tra le altre cose, aveva delle solide basi metriche, che era forse la cosa che Mecenate maggiormente amava in lui. ma aveva anche un buon carattere, comunque.

Ma alla fine Virgilio cominciò a scrivere, un po’ a caso, certo, ma meravigliosamente; e quando il primo libro fu pressoché compiuto, almeno nella sua brutta copia, lo diede a Mecenate e glielo fece leggere. E Mecenate s’infuriò, lo mandò a riscriverlo tutto, ma Virgilio glielo riportò immutato, replicando che non aveva trovato errori e che anzi gli sembrava un inizio piuttosto interessante.  Al che Mecenate gli fece la ripassata che abbiamo visto nel prologo e si ritrovò a correggere tutta la metrica, cosa che gli richiese circa tre settimane di tempo, considerando tutti i suoi altri impegni.

Tre settimane inutili almeno quanto i suoi vani tentativi di insegnargli la metrica: tre mesi dopo, Virgilio cominciò a lavorare a una bozza della bozza della bozza della bozza della prima parte del terzo libro, bello quanto il primo, sbagliato quanto e più del primo, e Mecenate passò giorni interi a correggerlo. Ma era contento che Virgilio si affidasse a lui per le correzioni e i consigli, anche se non glielo disse direttamente.

Ma poi c’era Ottaviano, un Ottaviano che non si poteva trascurare o mettere da parte, e naturalmente un Antonio che era lontano ma che dopotutto si faceva sentire; e poi c’erano altre persone, persone importanti di cui tenere conto.

Nel 33 Orazio pubblicò infine il primo libro delle sue Satire, e Mecenate compì finalmente un progetto che aveva in mente da secoli e acquistò per lui un podere nella campagna sabina. E Orazio andò, come dire, al settimo cielo e abbandonò il suo triste appartamento accanto allo spacciatore di Virgilio per ritirarsi a vivere e a lavorare in pace.

Qualche giorno dopo questi avvenimenti, Mecenate, entrato nel suo bel soggiorno per cercare una certa bozza che gli era stata recapitata, trovò Virgilio seduto, cupo, presso il suo tavolo da lavoro abituale.

“Virgilio! Che cosa succede?” domandò Mecenate, avvicinandoglisi sorpreso. Virgilio alzò lo sguardo su di lui e lo scrutò intensamente: i suoi occhi erano asciutti e lucidi, come Mecenate non li vedeva da almeno quattro anni.

Mecenate si fermò al suo fianco, perplesso, e Virgilio chiese a mo’ di risposta: “Perché gli hai comprato quel podere?”.

Tanto poco si aspettava questa domanda, che Mecenate rimase a lungo in silenzio sorpreso; poi, sedendosi su un divanetto di fronte a lui, replicò: “ È molto semplice, Virgilio: sai in che tipo di casa abitava Orazio, e sai anche che da lungo tempo aveva bisogno di un luogo più sereno dove poter comporre. È tutto qui.” Ma poi, colto come da una terribile sensazione di disagio, si affrettò ad aggiungere: “Virgilio, ascolta. Se a te non ho mai fatto un regalo del genere, è solo perché tu sai di poter venire in ogni momento a casa mia…”

“Oh, Mecenate, Mecenate! Ma cosa vuoi che m’importi di un podere da qualche parte che non sia la mia cara e bella Napoli, e poi non m’importa nulla di qualche regalo: mi hai già acquistato un appartamento, anni fa! Non hai capito ciò che ti sto dicendo?” sbottò Virgilio alzandosi. Mecenate sollevò lo sguardo su di lui, e per la prima volta considerò davvero quanto Virgilio si fosse fatto alto e bello in quegli anni trascorsi assieme, e ammutolì. Virgilio era lucido, non aveva fumato. Ma cosa gli succedeva?

Virgilio lo scrutò con uno sguardo che pareva ardere di passione e di dolore assieme; parlò di nuovo, e parve che la sua voce tremasse.

“Mecenate…sii sincero. Tu preferisci Orazio a me, non è vero?”

A quelle parole Mecenate sgranò gli occhi, stravolto, colpito. Impallidì, arretrando, e subito esclamò: “ Virgilio, mio caro, non essere sciocco! A livello poetico, vi ammiro entrambi in modo eguale, tutti voi artisti così promettenti… e a livello personale, Virgilio, non nutro la benché minima preferenza per nessuno di voi due, lo giuro: “nutro stima e amicizia per entrambi, in modo diverso, è vero, ma in misura eguale. Non posso dire davvero di preferire Orazio a te!”

Ma per qualche motivo quella pareva non essere la risposta giusta. Via via che parlava, Mecenate aveva visto come accendersi e infuocarsi di rabbia gli occhi di Virgilio: egli ristava immobile davanti a lui, con gli occhi infissi nei suoi, e pareva fiammeggiare e far ardere con sé tutta la casa. “Vuoi tu dunque dirmi che non hai mai capito nulla di ciò che cercavo di dirti, di ciò che…?” Mecenate non riusciva a muoversi, confuso. Alla lunga, il suo silenzio gli parve una risposta. Virgilio indietreggiò di un passo, ma non distolse gli occhi dai suoi.

“Ti ho sempre considerato un grande uomo, Mecenate” mormorò. “Sissignore, proprio un grande uomo. Ma questo devo dirtelo, Mecenate…non hai mai capito niente di me.”

 

Per tutta la notte e per tutto il giorno seguente Mecenate continuò a interrogarsi sul significato delle parole di Virgilio. Cosa voleva dire tutto quell’astio, tutta quell’insolenza? E poi, cos’era che Virgilio lo accusava di non aver mai capito?

Così, la sera seguente, dopo aver trascorso tutta una giornata senza ricevere notizie di Virgilio e domandandosi invece ansiosamente il significato di quella scena, Mecenate si avviò risolutamente verso la casa del suo protetto, non troppo sicuro di ciò che doveva fare, ma certo di voler avere almeno un pezzettino di quella verità, forse enorme, che Virgilio conosceva bene e di cui lui era all’oscuro. Era lo stesso segreto di cui gli occhi di Virgilio gli erano parsi scintillare quella sera nell’ombra nera? Mecenate non poteva più non saperlo.

Raggiunse in breve tempo il palazzo al cui secondo piano si trovava l’appartamento di Virgilio. Quando, tanti anni prima, Mecenate lo aveva comprato, gli avrebbe volentieri acquistato una casa anche più grande, magari privata, ma Virgilio aveva detto che gli faceva piacere avere gente intorno, e che comunque non gli sarebbe piaciuta l’idea di abitare in una villa enorme, ma vuota. Perciò si era giunti alla scelta di quel quartiere rispettabile ma semplice, proprio come lui.

Così Mecenate andò a bussare alla porta di Virgilio, e dopo forse un minuto una voce gli domandò: “Chi è?”. Ma non era la voce di Virgilio, e Mecenate rabbrividì.

“Sono Caio Cilnio Mecenate” disse “amico di Virgilio.”

Sentì che un’assicella veniva rimossa e che la porta si apriva; vide un volto pallido e magro con gli occhi rossi, un volto di ragazzo, e riconobbe uno della cerchia di Virgilio. Allora cercò di sorridere e mormorò: “Buona sera. Sono un amico di Virgilio, è un po’ che non lo vedo. È in casa?”

“Ehi amico” borbottò il ragazzo. “Ti chiami Mecenate, eh? Eppue Virgilio era proprio ieri a casa tua, e tutto oggi ha…oh, non importa. Te lo chiamo.” E scomparve in una stanzetta adiacente, e dopo pochi momento ne emerse Virgilio. Pareva tutto arruffato e con gli occhi rossi; alla sua vista, Mecenate si sentì pulsare lo stomaco come di uno strano impulso, ma non reagì.

“Ehi, Mecenate” borbottò Virgilio. “Che cosa vuoi?”.

“Mecenate era ancora immobile sulla porta. Ora la richiuse, e schiarendosi la voce, come per darsi un contegno, mormorò: “Mi stavo interrogando sul senso delle tue parole…e ancora non sono riuscito a trovarvi una risposta.”

Virgilio aggrottò un momento le sopracciglia, freddamente, e non parve intenzionato a rispondere. Ma dopo qualche momento, vedendo che Mecenate non demordeva, replicò a bassa voce:  “Se ancora non l’hai capito, devi essere ben stupido.”

Mecenate si sarebbe altrove offeso profondamente, avrebbe protestato contro quell’ingiuria. Ma in quel momento, dinanzi a quell’individuo, si sentì invece profondamente colpito e infelice.  Non avrebbe voluto che proprio Virgilio dicesse o pensasse questo di lui. E tutto ciò che poté fare il grande Mecenate, l’amico e collaboratore di Ottaviano, l’uomo più ricco e potente di Roma, fu chinare mestamente il capo dinanzi a quel ragazzo venuto dalla provincia, sentendosi, come aveva detto lui, molto stupido. Non sapeva cosa avesse fatto, ma di qualunque cosa si trattasse, era stata la cosa sbagliata, e avrebbe voluto poter rimediare.

“Hai ragione” disse semplicemente, e ne era convinto.

Virgilio sbuffò, arricciò le labbra. Non voleva aver ragione.

“Sono anni che cerco di fartelo capire, Mecenate” mormorò. “Non intendo passare altro tempo a…oh, basta così. Vattene pure dal tuo caro Orazio se devi, oh, il tuo caro Orazio con  i suoi Epodi e le sue Satire, con il suo Archiloco e il suo scudo gettato! Chi sono io, chi è il povero Virgilio con le sue Bucoliche e le sue Georgiche che non vanno mai bene? Ma vattene pure, forza! Vattene da qui, e torna solo quando avrai capito la verità.”

E gli indicò, con sguardo severo, la porta; e Mecenate non poté fare altro che obbedire, e allontanarsi in silenzio, ferito, da quella casa.

 

Ma continuò a vagare per le vie di Roma, sentendosi scoppiare il cuore di un certo sentimento che, fino ad allora, non aveva mai provato.  Era un bel sentimento buono, positivo, eppure egli aveva l’impressione di sentirlo diventare un dolore nel proprio animo. Ma cos’era?

Era quella strana fitta rabbiosa che aveva provato nel vedere quel giovane a lui ancora sconosciuto in casa di Virgilio. Era lo strano pulsare delle sue viscere, che aveva provato parlando col suo protetto dopo il lasso di tempo più lungo che li avesse mai divisi mentre si trovavano nella stessa città. Ed era lo strano, eccessivo dolore causato dalle aspre parole di Virgilio, ed era una specie di terribile, tragico senso di una fatalità che stava solo a lui impedire, ma non sapeva più in quale modo.

Ma nel frattempo calava la notte, ed egli, confuso, si faceva trascinare qua e là dal vento di una notte per nulla calda. Era ormai tardi, ed egli avrebbe dovuto tornare a casa: non aveva avvertito i servi, ed essi l’avrebbero aspettato con la cena in caldo. Tuttavia, egli sentiva come una terribile forza che lo tratteneva, che gli impediva di andare dove voleva, o meglio dove avrebbe dovuto: quando Mecenate guardò, capì che altro non aveva fatto se non girare per ore nelle vie attorno al quartiere di Virgilio, ma senza allontanarsene.

“Mecenate, Mecenate” si disse. “Sei diventato un uomo molto sciocco, o un uomo molto vecchio. Lo sai come si dice quando non si riflette sulle cose: o sei vecchio, oppure sei…”

Allora Mecenate si fermò e si toccò la sua morbida faccia non più giovanissima, e tacque: si volse di colpo e tornò indietro lungo le vie e le strade buie, ed ecco, si sentiva  mossa come da un sentimento di determinazione e confusione insieme. Sentiva come se da qualche parte della sua mente vi fosse la risposta a tutti i suoi perché , il nome del sentimento che aveva cercato tanto a lungo. C’era la verità, insomma, tra tutti quei dubbi e quelle macchie nere che affollavano la sua mente; eppure, egli non poteva ancora guardare in quell’angolo e scoprire tutto, no, no: non poteva farlo da solo.

Così tornò indietro, e giunse fino al palazzo di Virgilio, e salì le scale senza incontrare nessuno; e ugualmente, nessuno rispose ai suoi colpi. Egli bussava, ma Virgilio non apriva. Continuava a bussare, e gli pareva che quei colpi rintoccassero nella notte come lugubri suoni degli inferi. Perché Virgilio non gli apriva?

Allora, preso dal panico, Mecenate si diresse alla porta di fianco; bussò; gli fu chiesto chi fosse.

“Sono Gaio Cilnio Mecenate; potete aprirmi?”

Ora c’era un uomo austero di mezza età, che ben doveva conoscere il suo nome; e Mecenate si affrettò a spiegarsi. “Signore, buonasera. Voi conoscete Publio Virgilio Marone, non è vero?”

“Certo. È il mio vicino” replicò l’uomo con calma, senza scomporsi.

“Temo che si senta male” disse Mecenate. “E vorrei andare da lui, ma non posso, poiché egli, in preda ai suoi attacchi, è incapace di aprirmi la porta, e io sono molto preoccupato. Vorreste essere così gentile da lasciarmi passare per la vostra finestra?”

L’uomo lo scrutò: Mecenate era bello e ben vestito, ed era famoso, e il suo volto pareva segnato da infinite rughe di preoccupazione. Ma Mecenate, prendendo per recalcitranza la sua esitazione, estrasse dal mantello un sacchetto e glielo porse, dicendo seriamente: “Vi pagherò per l vostro disturbo, ma vi prego, un minuto per passare dalla vostra finestra! E se volete potrò pagarvi ancora.”

L’uomo guardò la borsa che Mecenate gli offriva. Era un borsetto modesto, che chiunque avrebbe potuto portarsi dietro, eppure tintinnava in modo invitante, e a offrirglielo era un uomo molto ricco e forse molto disperato, un uomo che forse in quel momento si curava di tutto, fuori che del proprio denaro.

“Va bene” gli disse. “Venite. Ho una finestra che dà accanto alla sua; potete passare, se ci riuscite.”

Lo fece passare. Mecenate attraversò un modesto appartamento che non guardò minimamente.

C’era una finestra non molto grande, ma Mecenate, affacciandosi e sporgendosi col busto, ne vide un’altra esattamente di fianco. Distava forse un metro, e Mecenate ringraziò quell’uomo di tutto cuore e gli diede il denaro; poi si arrampicò sulla finestra e s’inginocchiò in precario equilibrio sullo stretto davanzale.

Ecco, egli era ora inginocchiato sul davanzale di una finestra a sei, forse sette metri di distanza dal suolo. E cos’avrebbe pensato Ottaviano, di più, cos’avrebbe pensato l’intera Roma, e quale scandalo vi sarebbe stato, alla vista di Gaio Cilnio Mecenate, cavaliere etrusco, l’uomo più ricco di Roma, in bilico a sei metri dal terreno, in piena notte, sul davanzale della finestra di un estraneo, in procinto di entrare di straforo nella casa del suo protetto Virgilio? Oh, che scandalo, che disonore! Sì, Mecenate sarebbe morto se questo si fosse saputo, se soltanto una voce si fosse diffusa a Roma di tutto questo. Ma allo scandalo, ora, era bene non pensare.

Il suo mantello non era pesantissimo, ma neppure leggero, e lo sbilanciava non poco penzolando dall’una o dall’altra parte. Oltretutto, se si fosse sollevata anche solo una breve raffica di vento, cosa non rara in quella stagione, il mantello gli sarebbe svolazzato intorno impacciandolo. Perciò Mecenate si slacciò il soggolo dorato e guardò il suo prezioso mantello di lana spagnola cadere e appiattirsi sulle lisce pietre della strada sottostante. Poi si fece forza, prese coraggio e si protese, tendendo al massimo tutti i deboli muscoli del suo corpo sedentario, e si aggrappò alla finestra vicina. Vi erano due imposte, in quel momento accostate, e Mecenate si calò all’interno scivolando; e nel calarvisi, guardò di sotto e vide l’ultimo, miserabile resto della sua dignità perduta, immobile sulla strada. Era finita, ormai. Quel ricco mantello perduto gli provava che, qualunque cosa potesse accadere in quella casa, nulla sarebbe stato lo stesso di ieri e degli anni passati.

“Che diamine…ehi, chi c’è?”

Era la voce di Virgilio, che si avvicinava dalla stanza di fianco e apriva la porta. Si diffuse dalla porta uno spiraglio di luce, e Mecenate si scoprì imbarazzato e vergognoso lì sul pavimento come un ladruncolo, come un volgare amante. Virgilio era rimasto immobile sulla soglia, incredulo:  lo aveva riconosciuto nella flebile striscia di luce proveniente dalla stanza di fianco, e la sua vista lo aveva sconvolto. Lo fissava.

“Ma…Mecenate! Sei impazzito? Cosa ci fai qui?”

Ma Mecenate non rispose.

“Oh, ma tu sei pazzo! Sei passato dalla finestra? Ma…ma come hai fatto? Da dove sei passato?”

Mecenate si alzò in piedi con cli occhi acciecati dalla luce, ma ostinatamente fissi su Virgilio; allargando le braccia, mormorò: “Ho pagato il tuo vicino perché mi facesse passare dalla sua finestra.”

“Hai pagato Tito? Oh, ma tu sei impazzito per davvero! Sei metri almeno da terra! E quanto gli hai dato?”

Era una fiumana di domande incessanti che gli si addiceva ben poco: ma Mecenate alzò dolcemente le mani per fargli cenno di smettere, e Virgilio si quietò.

“Ho capito la verità” disse. La sua voce era bassissima e rauca, ma Virgilio pareva pendere dalle sue labbra. “Io…avevi ragione, Virgilio. Tutti questi anni senza capire, senza…sono stato uno stupido” soggiunse con semplicità, arrossendo vagamente, ma senza un vero imbarazzo: sorrideva. “Ma ora ho capito la verità, e mi dispiace, mi dispiace di non averla capita prima. Ma nondimeno sono qui, ora, e tutta la mia dignità, tutto il mio onore, li ho buttati via per te, nell’arrampicarmi da quella finestra come un malvivente…e quello che ne resta, ammesso che ne resti qualcosa, lo depongo ai tuoi piedi e puoi farne ciò che vuoi. Ho capito la verità, finalmente. Ti amo, e perdonami se ho tanto tardato a capirlo.”

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Capitolo 10
*** Calabri me rapuere. ***


“Mecenate, oh Mecenate, è terribile! Fa’ sellare un cavallo, presto!”

Il sole ardeva limpido fuori dalla finestra e Mecenate si accorse, nello svegliarsi bruscamente, di essersi appisolato senza volerlo sul lettino della sala e di aver dormito per almeno due ore. Balzato giù seduta stante dal lettino, egli accorse sbadigliando alla porta della sua modesta villa di Ostuni, presso Brindisi, e guardò fuori, tutto assonnato e cisposo.  Ecco, c’era un tale che risaliva il sentiero tutto affannato: era il servitore di Virgilio, e nell’accorgersene il cuore di Mecenate diede in un sobbalzo. Ma come? Eppure egli aveva accompagnato Virgilio nel suo viaggio in Grecia! Si avviò a passo svelto lungo il sentiero, verso di lui. avrebbe voluto correre, ma ormai era troppo vecchio per poterlo fare.

“Gneo! Che succede? Che cosa ci fai qui?”

S’incrociarono sulla stradina tortuosa che serpeggiava tra i campi: Gneo era tutto rosso e affannato.

“Mecenate, è terribile! Il mio padrone è tornato di furia in Italia per una gran febbre che non accenna a passare…”

“Virgilio…malato?” mormorò Mecenate con voce rotta. “Ma non sarà mica grave, vero? Che cos’è? Dov’è ora?”

“È sbarcato a Brindisi ormai, è in una casa in fondo alla via Appia e mi ha mandato a chiamarti di corsa a cavallo perché tu lo sapessi… oh, per favore, Mecenate, fai sellare un cavallo e corri da lui, presto!”

“Va bene” mormorò Mecenate. “Va bene…”

Era sbiancato d’un colpo, eppure non sembrava aver compreso appieno ciò che Gneo gli aveva detto. Pareva assorto, confuso. Si avviò a piccoli passi verso la villa, passandosi una stanca mano tra i candidi capelli sfoltiti. Gneo lo seguiva da presso, stravolto, tremante per lo sforzo e l’emozione, come a volerlo pregare di fare in fretta, di non perdere tempo, di comprendere la gravità della situazione; ma Mecenate non accennava ad affrettarsi. Entrò in casa e cominciò ad afferrare oggetti a casaccio, ora una mantella leggera, ora una tavoletta per scrivere, e a spostarle e rispostarle senza metterle da nessuna parte. Si guardava intorno, è vero, ma con uno strano sguardo vacuo, cieco, distaccato…

“Mecenate…”mormorava Gneo torcendosi le mani, con tutti i suoi nervi che parevano urlare: “Andiamo! Andiamo!”. Ma Mecenate non si muoveva.

Infine, come percorso da un brivido, egli si riscosse e barcollò. Cadde seduto sul suo lettino, vi si aggrappò con la massima forza e urlò: “Sesto! Vieni, presto!”. Era un suo liberto, che ancora, malgrado la libertà, forse per non saper dove andare, lo accompagnava e serviva, fedele come un cane; e infatti arrivò subito, un vecchierello incanutito e tremante, ma pieno di vita.

Alzatosi, Mecenate si era rimesso a girare per la stanza, tornando ad afferrare oggetti, ma ora come spinto da una più precisa volontà: un pesante mantello di lana, una manciata di monete.

“Sesto, devo partire, affrettarmi…per Brindisi… Virgilio, ma io… ah, manda un messaggio a Marco per dirgli che non potrò venire stasera, e fammi preparare un cavallo…tornerò…ma non domani…oh, muoviti!” urlò rivolto a Sesto, che gli pareva attardarsi. “Prima il cavallo e poi il messaggio, forza! Oh, stupido vecchio” borbottò, mentre il suo mantello vorticava e gli si avvolgeva addosso fasciandolo. “Ma dimmi, Sesto…oh, Gneo, intendevo dire…non capisco nulla! Com’è accaduto? Stavo dormendo…”

Così Gneo gli raccontò l’accaduto, tutto dal giorno in cui Virgilio aveva incontrato il novello Augusto in Grecia e questi, preoccupato dal suo aspetto tanto pallido e malaticcio, lo aveva invogliato a tornarsene in Italia. Il patetico viaggio in mare, le lunghe giornate interminabili che Virgilio trascorreva un po’ al chiuso e un po’  in coperta, sotto un gazebo solo parzialmente coperto dai gelidi venti, ma almeno un po’ più aperto delle nauseanti sottocoperte, cosa che non impediva a Virgilio di avere nausee continue e di vomitare continuamente. E, per finire, la lunga sosta fuori dalla baia, ad aspettare che cambiasse la marea per entrare in porto, e la dolce preghiera di Virgilio al suo servitore:

“Ti prego, raggiungi la costa in qualsiasi modo, va’ da Mecenate e pregalo, scongiuralo di raggiungermi, e se non vorrà venire digli che deve venire a salvarmi, non dalla malattia, ma nell’unico modo in cui ormai può salvarmi.”

Ma alla fine Mecenate fu pronto e il cavallo bardato, e il povero cavaliere, abbandonato Gneo, partì di corsa per Brindisi, tutto avvolto in un grande mantello pesante per ripararsi dal freddo del sei di dicembre, attraverso il vento e il gelo e, dopo poco, contro la notte e il buio e i pericoli dell’oscurità. Egli aveva paura, ma non dei ladri o degli assassini: sentiva che una parte della sua vita stava vacillando e forse cedendo, e che vi era qualcosa cui il suo cuore anelava e che si trovava ogni momento più vicino, e insieme irrimediabilmente distante. Egli era solo su quella via Appia che non gli era mai parsa tanto ostile e buia e la percorreva di volata, senza più curarsi della sua grande storia, ma tutto proteso verso il grande desiderio del suo cuore…

Infine, le porte di Brindisi all’orizzonte: egli continuò ad avanzare, raggiunse la modesta casa vicino al porto, in fondo alla via Appia, proprio come gli aveva detto Gneo. Eccola, la casa, il giardino, la porta. Mecenate fermò il cavallo a pochi passi dall’entrata, mandando una voce per avvertire del suo arrivo. Non ce la faceva più: non era fatto per cavalcare, lui. Non era fatto per molte cose, Mecenate: per cavalcare, perché era ricco e poco atletico, e a quanto aveva appreso negli ultimi anni, non era fatto per capire la gente. Ma ora era tardi per rimediare.

Si sentiva le gambe tutte intorpidite e informicolite per il freddo e per il prolungamento di una posizione forzata a lui nuova, tremava in tutto il corpo e non gli riusciva di sollevare la gamba abbastanza da riuscire a scendere da cavallo: se appena provava a farlo, si ritrovava a pendere tutto da una parte, minacciando pericolosamente di cadere.

“Aiuto!” singhiozzò avidamente, col cuore in gola e la voce spezzata. “Aiutatemi, vi prego! Sono qua fuori!”

La porta si spalancò dopo un momento: Mecenate, ancora aggrappato alle collo del suo cavallo, scorse un’ombra scura stagliarsi contro la magra luce di un camino. Un attimo dopo, era accanto al cavallo, lo staccava dalla sella: era Plozio Tucca, amico di Virgilio.

“Mecenate! Ti ha mandato a chiamare Gneo, vero?”.

Mecenate gli rivolse uno stanco gesto d’assenso, appoggiandosi a lui con gambe molli che non gli rispondevano più.

“Dov’è Virgilio? È…?”

Non riuscì a dirlo. Guardava Tucca con occhi spaventati e imploranti. Egli scosse il capo.

“È a letto. Prima stava dormendo, ma ora non lo so più. Oh, fortuna che sei arrivato! Non ha chiesto che di te da quando è sceso dalla nave. Vieni.”

Si diressero insieme verso l’edificio: via via che camminava, appoggiato a lui, Mecenate si sentiva sempre più tornare padrone delle proprie gambe. Una volta dentro, percorso un breve corridoio, Tucca aprì una porta e gli fece cenno di entrare. Lui avrebbe atteso fuori. Mecenate entrò e chiuse la porta.

Vi era un lettino di modeste dimensioni al centro della stanza, che era molto buia, a parte per una fiammella che ardeva su un tavolo di legno. Col cuore in gola, Mecenate si accostò al lettino e si chinò a guardare.

Vide Virgilio, il suo caro e amato Virgilio, col volto reclinato su una spalla e gli occhi chiusi, e il suo viso di uomo cinquantenne pareva risplendere nella luce della torcia.

Mecenate fu colto dai dubbi. Che fare? Svegliarlo, parlargli un’ultima volta, consacrargli ancora una volta la propria vita? Oppure lasciarlo dormire, nella speranza, seppur vana, di vederlo svegliarsi guarito? Sì, ma se d’un tratto avesse visto il suo petto abbassarsi nel ritmico movimento del respiro, e poi non rialzarsi più, senza averlo potuto salutare, baciare per l’ultima volta…?

Ma poi, a toglierlo d’impaccio, vi fu il brusco risveglio di Virgilio: d’un tratto egli sussultò, aprì gli occhi, si agitò, lo guardò. Il suo volto s’illuminò dolcemente di una luce che non aveva nulla a che fare con quella della torcia ed egli mormorò sorridendo: “Ehi, Mecenate…sei qui.”

“Sì” disse l’uomo chinandosi su di lui, e a quella vista il suo sorriso si addolcì ancora.

“Credevo che Gneo non ce l’avrebbe fatta. Ora sono molto più tranquillo” disse Virgilio. I suoi occhi erano spenti e lucidi, ma egli appariva sereno.

“Certo che puoi stare tranquillo. Ora è tutto a posto, e tra poco…”

Avrebbe voluto dirgli che sarebbe tutto finito entro breve, ma non voleva angustiarlo: in quale senso Virgilio avrebbe inteso le sue parole? Allora gli prese la mano e la strinse forte, come per non volerlo lasciare. Virgilio chiuse gli occhi e si appoggiò alla sua mano.

“Mecenate…ascolta. La mia Eneide, il mio poema, non è concluso. Non lo è, anche se lo può sembrare, perciò ti prego, mio caro, promettimi che lo farai bruciare dopo la mia morte!”

“Ma Virgilio, la tua Eneide…ci hai lavorato tantissimo!” esclamò Mecenate, incapace di trattenersi. Virgilio fece cenno di no col capo.

“Lo so, lo so, ormai sono dieci anni, ma…sento di non essere riuscito a esprimere tutto ciò che volevo. Non posso pensare che il mondo legga qualcosa che ho lasciato incompiuto, ti prego…fallo bruciare. L’ho detto a Tucca e anche a Vario, ma tu sei il solo di cui mi possa davvero fidare. Me lo prometti?”

“Oh, stupido caro! Farò bruciare il tuo capolavoro se vuoi, farò tutto quello che vuoi. Ma tu ora stai tranquillo e riposati.”

“Me lo prometti?” insisté Virgilio. Mecenate si sentiva scoppiare il cuore nel sentirsi affidare così, in punto di morte, quel triste testamento, e tuttavia non poteva sottrarsi al proprio compito.

“Certo, te lo prometto. Farò tutto quello che vuoi, ma tu ora riposati.”

Virgilio appoggiò il capo alla sua mano e chiuse gli occhi, traendo un profondo respiro. Mecenate vide come delle gocce lucenti scintillare sulle sue ciglia nere e ammutolì.

“Ehi, Mecenate” mormorò ancora Virgilio con voce rauca. “Ti ricordi quella notte, tanti anni fa…quella notte in casa tua, quando avevo preso quella cosa e tu restasti per tutta la notte con me?”

“Certo che me ne ricordo” rispose Mecenate.

“È proprio come allora, eh? Proprio come quella notte.”

“Certo, mio caro” disse Mecenate a bassa voce.

“Ma io ero molto più giovane. Ed ero molto più bello, eh? Ti ricordi com’ero? Con le mie tuniche colorate e i miei mantelli…”

“Me lo ricordo” disse Mecenate con voce spezzata.

“Dovrai accettare la mia morte, lo sai. Tutto accade per un motivo, il logos che guida le nostre esistenze. E comunque, prima o poi torneremo su questa Terra, noi vite mortali, e io e te ci ameremo ancora. Come ci siamo amati in tutti questi anni a Roma, e come forse ci siamo amati in infiniti cicli passati, senza che ce ne ricordiamo.”

“Sarebbe bello” convenne Mecenate con voce infranta. “Ma riposa, ti prego, mio caro sciocco, riposati un po’.”

“No, non voglio risposarmi. A che cosa servirebbe? Non mi resta molto tempo e voglio passarlo con te. Ma tu non agitarti, eh! La mia morte avrà qualche ragione che io e te non conosciamo, che forse nessuno conosce, ma che di certo c’è. Forse non avrei dovuto andare in Grecia, ma ormai è troppo tardi. Il mio viaggio mi ha ucciso, ma ti prego, non avercela con me.”

“Non ce l’ho con te.”

“Forse mi odi un po’, perché se fossi rimasto a Roma, forse ora non starei per morire.”

“Virgilio” lo interruppe Mecenate con le lacrime agli occhi “Da quando ti ho conosciuto, non ti ho mai odiato meno di così.”

Virgilio spalancò gli occhi e ridacchiò dolcemente. Mecenate si sentiva stringere il cuore: gli sembrava che Virgilio si stesse sempre più allontanando da lui, anche se lui avrebbe voluto opporsi, combattere, salvarlo, strapparlo dalla strada che aveva intrapreso…

Poi Virgilio trasse un sospiro profondo e reclinò il capo sulla spalla, chiudendo gli occhi, e disse quasi senza voce: “Mecenate, ascoltami….promettimi che sarai molto calmo dopo la mia morte, che starai tranquillo e che ti ricorderai di tutte le cose che ci siamo insegnati in questi anni. Com’era che diceva Catullo? Ma ora non c’è tempo per mille baci. Dammi l’ultimo bacio di questa vita, caro, e non scordarti di me.”

Mecenate si asciugò in un tremito le guance, si chinò e baciò le labbra di Virgilio, labbra secche e fredde ormai quasi spoglie di vita. E, mentre era chino su di lui, sentì d’un tratto il suo petto alzarsi e non più ridiscendere, proprio come aveva temuto…rimase a lungo immobile, chino, sul suo volto, ma a poco a poco se ne allontanò e lo scrutò con doloroso affanno: dov’erano i suoi respiri? Dov’era la vita che esalava da lui, dov’era quella dolcissima vita che era stata anche la sua, per un certo periodo? Gli era forse rimasta sulle labbra mentre lo baciava?

“Virgilio!”

Vi fu rumore di passi, di grida che fecero eco alle sue: Tucca entrò di corsa mentre Mecenate si gettava sul cadavere.

“Tucca! È morto, è morto?”

Tucca lo guardò con occhi colmi di sbigottimento. Non poteva vederlo, poiché Mecenate gli ostruiva la vista, ma come mettere in dubbio la sua reazione e la strana innaturale immobilità di Virgilio?

“Mecenate…”

“VIRGILIO!”

Ma Virgilio non gli rispondeva più. Era nell’unico posto nel quale Mecenate non poteva più salvarlo.

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Capitolo 11
*** 8 a.C. ***


“Funeris heu tibi causa fui? Per sideras iuro, per superos et si qua fides…”

“Ti prego” disse improvvisamente Mecenate con voce stanca e triste, ma con un pallido sorriso sulle labbra. Orazio ebbe un sussulto e si volse immediatamente verso di lui, poggiandosi una mano sul cuore.

“Mecenate” disse, poggiando l’opera sul suo leggio. “Spero che non ti dispiaccia se stavo leggendo la tua Eneide.”

“Figurati” rispose Mecenate, sedendosi lentamente su un lettino. “Ma ti prego, non… non amo molto sentirla leggere. Perdonami.”

“Lo so. Perdonami tu” disse Orazio. Guardava il suo caro protettore: gli appariva molto vecchio, e molto stanco. Eppure non aveva che tre anni più di lui. Andò a sedersi al suo fianco sul lettino, e dopo un poco mormorò: “Pare che alla fine avesse imparato la metrica, eh…?”

“No” disse Mecenate “Non è vero, purtroppo. Quando Ottaviano ha convinto Vario e Tucca a curarne la pubblicazione, l’Eneide era ancora piena di errori.” Chinò lo sguardo, come consapevole di una grande colpa, e mormorò: “Malgrado tutti i mie sforzi, le mie preghiere… Ottaviano ha voluto pubblicarla a ogni costo.”

Chinatosi verso di lui, Orazio gli ripeté ancora qualcosa che tentava di dirgli da molto tempo: “Non è stata colpa tua, Mecenate.”

“Ah, se mi fossi opposto…se l’avessi bruciato lo stesso, malgrado Ottaviano…”

“E se tu fossi morto, proprio come Cicerone?” domandò Orazio sorridendo. “L’Eneide era troppo importante per Augusto, lo sai.”

“Ma a che mi è valso vivere fino a ora?” chiese Mecenate con una triste voce amara e carica di rimpianto, alzandosi.

Si avvicinò al leggio e appoggiò le mani sul poema. Le sue povere, stanche mani ingiallite e fragili come pergamena antica e ormai sciupata, come quei preziosi manoscritti dell’Antico Regno che il Nilo, talvolta, restituiva. Era proprio stanco.

“Gli vuoi ancora molto bene, vero?”

Mecenate esitò, immobile. Orazio era in piedi, fermo, alle sue spalle; ora taceva, ma la sua voce si era appena spenta nell’aria ed era diventata, lentamente, silenzio: in quel silenzio Mecenate percepiva la sua presenza, la sua attesa, la sua pazienza. Eppure era un’altra la presenza che avrebbe voluto percepire, una presenza che talora, chiudendo gli occhi e respirando appena, in quei lunghi anni aveva potuto illudersi di sentire, di percepire… ecco, anche ora, come tante volte in quei lunghi anni, ora che ristava immobile, in silenzio, gli pareva di udir risuonare l’aria della cara dolce amata voce di Virgilio, di quella voce carica ed espressiva, quella voce che talora era stata di gioia o di pianto, di disperazione o di tenero amore o di passione, o talora anche di rabbia, ma di una rabbia che Mecenate sarebbe stato lieto di subire ancora, se solo avesse potuto avere ancora una volta la presenza di Virgilio, lì, in quella stanza. Ma Virgilio non c’era, egli lo sapeva, ne era consapevole, cosciente, e forse per questo Mecenate non accennava a voltarsi, per il solo poter godere, ancora per un momento, di quella dolce amarissima illusione, che Virgilio non fosse morto, che la sua vita esistesse ancora e che esistesse lì, con lui, in quella casa a Roma.

“Gli voglio ancora molto bene” disse stancamente, lentamente: gli pareva per la prima volta di dire a parole qualche cosa che il suo cuore gli ripeteva da molto tempo. Chinò lo sguardo di nuovo su quelle sue vecchie odiose fragili mani ossute, poggiate su quel suo libro per cui provava sentimenti tanto contrastanti, e dopo un attimo la sua voce mormorò: “Ora va’, ti prego, Orazio…non vorrei cacciarti, ma sono molto, molto stanco.”

Sì, Mecenate era stanco, era stanco davvero. Udì un sospiro, un saluto, un suono di passi, una porta, poi silenzio, finalmente. Mecenate era di nuovo solo, così com’era stato per tanto tempo, per tutti quegli anni, solo in quella lussuosa casa a pochi passi dal Colosseo. Un giorno, da giovane – se si poteva dire che mai fosse stato giovane, lui che per quasi tutta la sua vita non si era curato mai che della gloria e della ricchezza, che aveva sempre anteposto il proprio nome a ogni cosa, persino al rispetto e alla pietà umana- da giovane, sì, aveva forse creduto che quella ricca e lussuosa casa fosse tutto ciò di cui avrebbe avuto bisogno, che non avrebbe mai provato la solitudine in quelle ampie stanze, forse che non avrebbe provato mai alcun sentimento davvero. Sì, un tempo era stata questa la sua illusione, che la ricchezza potesse mettere a tacere tutto, ogni suo sentimento o emozione, che quella domus bastasse a fare la sua felicità. Ebbene, ora Mecenate non la pensava più così, ora avrebbe volentieri venduta o persino regalata la sua casa, se solo con tale gesto avesse potuto riavere quella vita che aveva amata più della propria, in un certo momento, e se solo Virgilio fosse stato con lui ancora, magari per qualche giorno soltanto, a ridirgli tutte le cose belle che gli aveva insegnato in quegli anni. Certo, non che Mecenate le avesse scordate, ma avrebbe voluto ripassarle con lui.

“Ah, Mecenate, vecchio mio” proruppe infine, bruscamente strappandosi, come altre volte, a quel leggio e a quei pensieri troppo tristi e ormai noti, che in quegli anni lo avevano sempre condotto alle stesse conclusioni. Si toccò con le dita la pelle fragile, gonfia e rugosa là sotto l’occhio, e trovò che essa era umida e fredda. Vergognoso, si asciugò in fretta le guance bagnate e, allontanandosi dal leggio, borbottò, come sentendosi in dovere di giustificarsi verso quell’uomo altero e severo che era stato: “Ah, Mecenate, Mecenate, stai invecchiando… piangi per un nulla e poi ti chiedi perché.”

Ma Mecenate lo sapeva il perché di quelle lacrime e ancora, imbarazzato, mormorò: “Oh, andiamo, Mecenate…dopotutto, sono passati undici anni. A dicembre saranno undici anni.”

Già, undici anni. Le sue guance erano asciutte ora. Mecenate sistemò il volume sul leggio, stancamente, e lentamente si avviò verso la porta. Sì, a dicembre sarebbero stati undici anni: sarebbe tornato a Napoli anche quell’anno, certo, ma non sapeva se si sarebbe sentito molto in grado, o molto in forze…

Si sentiva stanco, stanco per davvero.

 

 

Ecco qua, è finito. Che dire? Era una storia nata per caso, per giustificare i miei continui errori nell’accentazione metrica dell’Eneide; e ora, ecco qua, è diventata per me una delle storie d’amore che più mi è piaciuto scrivere, nella quale ho versato forse un po’ dei miei ideali romantici senza essere melensa.

Un caldo, caldissimo ringraziamento a chi ha voluto seguire fino alla fine, ma anche a chi si è fermato a metà strada, magari quando ho cambiato temi. Grazie dunque a chi ha recensito: Smolly, OlandeseVolante, gleeklove e Wadding; a chi ha aggiunto la storia ai preferiti: Wadding e gleeklove; a chi l’ha aggiunta alle seguite: Hadi_Foltler, prelude10, Smolly e Wadding.

In particolar modo, un grazie speciale a gleeklove e a Smolly, per aver contribuito anche personalmente nel sostenermi.

Ma soprattutto un pensiero a quelle grandi personalità della cui fama ho indegnamente usufruito, in modo spero non offensivo né degradante: Virgilio, Mecenate, Orazio, Ottaviano, sia che compaiano saltuariamente, sia come personaggi protagonisti.

Insomma, detto questo, spero che questa mia abbia saputo riscuotere un poco di apprezzamento; spero altresì di ricevere almeno qualche parere, positivo o negativo che sia.

A presto!

Afaneia ;)

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