La vera storia di Publio Virgilio Marone di Afaneia (/viewuser.php?uid=67759)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** "Vendo buoi, ma ne ho sol due." ***
Capitolo 3: *** A pochi passi dal Colosseo. ***
Capitolo 4: *** L'atto di pietà di Mecenate. ***
Capitolo 5: *** "Opera? Bucoliche? Famoso? Napoli? Scrivere? Tu?" ***
Capitolo 6: *** "Mecenate, Mecenate, Mecenate! Vedo un coniglietto rosa." ***
Capitolo 7: *** La novità di Ottaviano. ***
Capitolo 8: *** Un capitolo serio. ***
Capitolo 9: *** Dalla finestra. ***
Capitolo 10: *** Calabri me rapuere. ***
Capitolo 11: *** 8 a.C. ***
Capitolo 1 *** Prologo ***
Nota dell'autrice: questa fanfiction ha uno scopo puramente ironico e satirico, senza però che sia da intendersi come un tentativo di mancare di rispetto alla sensibilità e al talento artistico di uno dei più grandi autori della latinità. Sto amando moltissimo la traduzione del testo latino dell'Eneide e l'idea di questo Virgilio leggermente sui generis è nata dalle mie "impercettibili" difficoltà nella metrica ^^. Detto ciò, vi auguro buona lettura!
“Virgilio,
Virgilio…quante volte te lo devo ripetere? Un
esametro si chiama così perché è un
verso di sei piedi, quindi sei accenti…
come fai a metterne sempre quattro, otto o nove a caso?!”
ripeteva un uomo di
circa cinquant’anni, ancora piacente, molto elegantemente
vestito, che si
aggirava inquieto per il soggiorno della propria abitazione.
“Ma Mecenate, ma Mecenate,
ma come sei puntiglioso! Ma chi vuoi che se ne accorga, te
ne accorgi
solo tu!” gli rispose un giovane con una voce stranamente
lenta e allegra. Era
un ragazzo di circa venticinque anni, di gradevole aspetto, con folti
ricci
biondi e sconvenientemente lunghi che gli ricadevano un po’
sugli occhi, un po’
sulle spalle. Era disteso su un divanetto, sostenendosi la testa con un
braccio
e tenendo nella mano libera un rotolino bianco che emetteva del fumo.
“Ehi
Mecenate, ehi Mecenate, vuoi fumare Mecenate?”
“Virgilio! Quante volte te
lo devo ripetere che ti droghi
solo te in tutta l’antica Roma?!” sbottò
Mecenate. “E poi, non dovresti
scrivere dopo aver fumato, poi per forza che
mi combini certi disastri!”. E gli sventolava davanti alla
faccia, con aria
evidentemente scocciata, un lunghissimo brano in poesia.
“Guarda qui: prima
metti quattro piedi, poi ne metti nove al verso dopo!”
“Ma Mecenate, ma Mecenate,
ma come sei puntiglioso!” ripeté
Virgilio, lisciandosi un lembo della tunica colorata a fiorellini
hippie. “Tu
non capisci i giovani, la gente è come me, la gente si vuole
tutta bene, sei
troppo all’antica, vuoi fare un tiro?”
“Virgilio…no!
Smettila con questa droga… cosa c’entra se la
gente è come te, l’esametro resta sempre un
esametro, ci vogliono sei piedi!”
“Ma Mecenate, ma Mecenate,
tu non capisci i giovani, ti ci
voleva proprio un poeta come me, giovane, pieno di idee, vicino al
mondo di Roma…”
e blaterando cose insensate sul fatto che la sua poesia avrebbe
certamente
rivoluzionato l’ambito letterario romano, finì il
suo rotolino fumante e cessò
di disturbare Mecenate. Il quale, rassegnato ormai alle stramberie del
suo più
giovane, sensibile e talentuoso poeta, ma anche il più
distratto, si sedette e
si diede pazientemente ad aggiustare la metrica del primo libro delle
Georgiche…
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Capitolo 2 *** "Vendo buoi, ma ne ho sol due." ***
Ma come si saranno conosciuti questi
due uomini così diversi
e, soprattutto, come saranno diventati amici e collaboratori? Per
saperlo
dovremo risalire a qualche mese addietro, ossia al giorno in cui
Virgilio,
abbandonate le terre mantovane, giunse a Roma.
Come abbiamo visto dal prologo,
Virgilio era un giovane
dallo spirito tendenzialmente hippie, spirito che, purtroppo per lui,
molto
spesso finiva per coprire quell’incredibile
sensibilità artistica e talento
letterario che Mecenate era destinato a scoprire e che avrebbe presto
portato
il giovane mantovano a diventare il cantore del popolo romano. E quale
modo di viaggiare
poteva confarsi a un ragazzo allegro e alla mano come lui, se non
viaggiare sul
carro di fieno di un mercante gallico depresso, quello stesso mercante
che
molti di noi hanno avuto modo di ammirare nel film “Asterix
il gallico”?
E fu così che Publio
Virgilio “Virgo” Marone fece il suo
ingresso a Roma.
“ Vendo buoi, ma ne ho sol
due: se li vendo, dite un po’, a
casa mia non tornerò! Se ne avessi almeno tre, non dovrei
tornare a piè…”
cantava il mercante con voce lamentosa, scuotendo i malinconici baffi
neri.
“Ma via amico! Ma via
amico! Take it easy! Vuoi fare un
tiro?” saltò su Virgilio, sporgendosi dal retro
del carro e porgendogli il suo
ormai famigerato rotolino bianco fumante.
“Che
cos’è quella cosa che fumi, amico?”
domandò l’ometto
tristemente.
“ Eh eh eh! Roba buona!
Assaggia!” lo invitò Virgilio,
ridendo.
“No grazie…non
fumo” replicò il povero mercante depresso.
“Non sai cosa ti
perdi!” gli disse Virgilio in tono saggio,
mettendosi a sedere accanto a lui. “Quanto manca a Roma? Eh
amico? Quanto manca
a Roma?”
“ A Roma, hai detto? Ormai
ci siamo” rispose il poveretto,
il quale purtroppo aveva ancora da incontrare un personaggio come
Asterix che
gli suggerisse la soluzione di vendere il carro e tornare a casa coi
buoi. E
per sottolineare la cosa, sollevò tristemente un braccio e
gli indicò le mura
gigantesche di una città diversissima da quella Mantova dove
Virgilio aveva
trascorso la giovinezza. Il confronto tra le due città lo
colpì molto, malgrado
i fumi stupefacenti, e se ne sarebbe ricordato qualche tempo dopo,
nello
scrivere il primo libro delle Bucoliche.
“Bada ganzo!”
esclamò. “ Ma che s’era fumato quello
che l’ha
progettata! Genio!”
“Amico, io ti lascio
qui…se entro a Roma col traffico che
c’è non ne esco più…e devo
trovare il modo di tornare a casa mia!” disse il
povero mercante depresso.
“Vai vai! Grazie del
passaggio amico! E te l’ho detto, ho un
amico su in Gallia che vende della roba buonissima! Si chiama
Erbivendolix!
Addio!”
E detto ciò, terminato il
suo “rotolino bianco fumante” che
a questo punto della storia suppongo che tutti abbiano capito
cos’è, terminato
il suo “rotolino bianco fumante”, dicevo,
penetrò le porte di Roma. E appena
varcate le soglie della Città Eterna…
Pestò una cacca di bue.
“Oh, accidenti! Una cacca
di bue!” esclamò.
“Ma come puoi pestare una
cacca di bue e alterarti così
poco?” esclamò un mercante lì vicino,
alle prese con il proprio bue.
“Come faccio? Io voglio
bene a tutti, anche agli animali!
Basta stare sempre calmi e fumare della roba buona!”
replicò Virgilio,
sollevando due dita in gesto di vittoria.
Detto ciò, se ne
andò tutto tranquillo per le vie di Roma.
Il povero mercante che qui è comparso non è una
mia invenzione, ma, come è esplicitato nel testo,
è un personaggio del cartone animato di "Asterix il gallico"!
Grazie mille a Smolly_sev per la recensione!
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Capitolo 3 *** A pochi passi dal Colosseo. ***
E come s’inserisce Mecenate in tutto ciò? Insomma, come
s’inserisce questo ricco e snob cavaliere etrusco nelle avventure di un giovane
avvocato/poeta molto hippie?
La risposta è: malvolentieri.
In quello stesso giorno infatti, Mecenate si stava godendo
la sua ricchezza nella sua casa nel centro di Roma. Come tutti i giorni, egli
si era alzato, era stato servito e riverito, e si era trovato alfine a guardare
fuori dalla finestra del soggiorno pensando: “Come ho fatto bene a comprare
questa casa in centro, proprio dove sorgerà il Colosseo! Quando tra un anno e
mezzo avranno finito i lavori avrò un bellissimo spettacolo!”
Purtroppo, i ritardi nei lavori erano molto frequenti anche
all’epoca, ma lasciamo Mecenate a sognare tranquillo la sua casa a pochi passi
dal Colosseo…
In quel momento sentì un gran baccano proveniente
dall’esterno della sua dimora. Uscì immediatamente di casa e chiese a un servo
cosa stesse succedendo. La risposta fu: “Signor Mecenate, un ragazzo ubriaco si
sta pulendo i sandali dalla cacca di bue sulla soglia di casa!”
Come poteva prenderla Mecenate, che aveva appena finito di
sognare la sua bella casa a pochi passi dal Colosseo?
Si scagliò immediatamente verso l’uscio, scontrandosi,
appena uscito, con un ragazzo biondo dall’aspetto piuttosto trasandato, vestito
con un’orribile tunica a fiorellini colorati.
“Cosa vuoi? Non ho pagato questa casa per permettere alla
gentaccia ubriaca come te di pulircisi i piedi! Vai via!”
Il ragazzo sollevò lo sguardo dai propri sandali, guardò
Mecenate, barcollò e gli disse: “Fai l’amore, non fare la guerra! Se mi cerchi,
sono avvocato e domani ho la mia prima causa! Arrivederci!”
E se ne andò. Mecenate invece se ne tornò dentro dicendo:
“Mah! Gioventù bruciata. Di certo non farà strada quel ragazzo. Avvocato! Mah!
Morto di fame, piuttosto!”
N.B.:
so benissimo che il Colosseo sarà progettato e completato solo molti anni dopo
la morte di Mecenate e di Augusto, addirittura nell’80 d.C. La mia è solo una
licenza poetica! ;) |
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Capitolo 4 *** L'atto di pietà di Mecenate. ***
Un
caro ringraziamento a Smolly_sev per la recensione e l'aggiunta alle
seguite e a OlandeseVolante per aver aggiunto la mia storia alle
seguite. Suvvia, continuate a sostenere Virgilio e Mecenate durante le
loro avventure!
Il giorno seguente Mecenate,
dimentico di tutto, si recò nel
foro, dove si doveva svolgere un processo che avrebbe visto coinvolto
un caro
amico, tale Marcus, il quale aveva accusato un proprio
liberto di averlo derubato. Nel foro era
stata costruita per l’occasione una tribuna in legno, sulla
quale si erano
ritrovati i giudici. Mecenate prese posto poco distante dalla tribuna e
si
diede ad aspettare tranquillamente, chiacchierando con un amico seduto
vicino a
lui, certo che la sentenza sarebbe stata favorevole a Marcus.
Dopo pochi minuti il processo ebbe
inizio: la parola
spettava per primo all’avvocato di Marcus. Mecenate gli aveva
sentito dire che
aveva assoldato un avvocato giovane ma talentuosissimo e
straordinariamente
sensibile, che gli era stato caldamente raccomandato dal padre, un
vecchio
amico.
“La parola è
data a Publio Virgilio Marone, avvocato d’accusa!”
“Publio Virgilio Marone,
eh? Un bel nome. Farà strada,
questo ragazzo, se oggi se la cava.” pensò
Mecenate, sedendosi comodamente e
disponendosi ad ascoltare l’arringa dell’avvocato.
“Ma gente, gente, gente,
popolo romano! Fate l’amore, non
fatela guerra! Perché vi dovete litigare? Siamo tutti
fratelli!” disse
improvvisamente una voce, mentre la figura esile di un ragazzo si
arrampicava
scompostamente sulla tribuna. Una figura esile fasciata in
un’orribile tunica
bianca a fiorellini colorati…
“Oggiove, no!”
gemette Mecenate, sprofondando nel suo sedile
con le mani sulla faccia. L’amico lo guardò
sorpreso: “Ma Mecenate, cosa… lo
conosci?!”
Mecenate scosse la testa, pensando a
come sarebbe stata
infangata la sua reputazione se si fosse sparsa la voce che conosceva
quel
tizio.
Il nostro Virgilio aveva ormai
raggiunto la lignea tribuna
dei giudici e si stava volgendo a parlare verso gli astanti, tenendo in
mano il
suo…
…celeberrimo…
…rotolino bianco fumante.
“Ma gente, gente, gente!
Questi tribunali a cosa vi servono?
Bisogna volersi bene!” esclamò, fermandosi un
momento per aspirare un tiro
dal…avete capito, insomma. Proseguì con la stessa
voce comicamente lenta e
assuefatta: “ Chi è che si litiga qui? Su!
Ditemelo! Quei due, eh? Ma datevi un
bacio e fatela finita! Qui siamo tutti fratelli! Volete un tiro,
eh?”
Era ormai calato un silenzio profondo
e desolante, del quale
Virgilio pareva non accorgersi, a dispetto del quale, anzi, continuava
a
sproloquiare assolutamente a sproposito. Marcus era impallidito e, come
Mecenate, si teneva il capo tra le mani; il liberto, al contrario, se
la
rideva, al pensiero di come quell’avvocato strafatto gli
avrebbe fatto vincere
la causa…
“Basta! Basta!”
esclamò al fine Marcus, balzando in piedi.
“Vattene!”
“Ehi amico,
calmati!” lo riprese Virgilio tranquillamente,
accostandosi a lui. Gli sorrise con aria furba: “Lo so io
cosa ci vuole a te!
Vuoi fare un tiro, eh? Vuoi?” e gli porgeva, insistente, il
suo rotolino
fumante. A questo punto Marcus non ci vide più dalla rabbia,
afferrò il
malcapitato avvocato per il collo della sua tunica hippie e lo
scaraventò giù
dalla tribuna. Immediatamente i giudici lo afferrarono a loro volta per
impedirgli di rovesciare su altri la propria
rabbia…indignato e furioso per la
dignità umiliata dell’amico, Mecenate
balzò in piedi e si precipitò
dall’altra
parte della tribuna, dove Virgilio era seduto col capo tra le mani a
riprendersi dalla botta.
“Ragazzo! Vieni
qui!” gli ordinò Mecenate. Vedendo però
che
il giovane non accennava ad alzarsi, si decise ad accostarsi lui stesso
al
poveretto.
“Cosa ti è
saltato in mente, di venire
al foro in queste condizioni?” sbottò.
Virgilio sollevò lo sguardo su di lui e per la prima volta a
Mecenate parve di
vedergli in volto uno sguardo presente e mite, quasi melanconico.
“Ma io sono
così! Io non sono fatto che così, non ho una
faccia per il foro e una per il resto del tempo, ho questa soltanto. Io
sono
Virgilio e per me è questa la vita.”
“Allora non fare
l’avvocato!”
“Ma io non volevo diventare
avvocato! L’ha deciso mio padre
per me. Io non volevo, io sono un artista, voglio fare il
poeta!”
“Il poeta?! Tu?!”
esclamò Mecenate incredulo. “Scherzerai!”
“No! Io sono un poeta. Di
certo non un avvocato. Beh, meglio
che me ne vada da Roma, qua di sicuro non troverò un altro
lavoro, ma devo
mangiare e comprarmi la roba…me ne tornerò a
Mantova!”
“La roba è
quella cosa bianca?”
“Certo, vuoi un
tiro?”
“Mmmm…no grazie,
non mi convince” rispose Mecenate. Poi,
colto da un improvviso attacco di gentilezza, gli disse:
“Ascolta, di certo tuo
padre non sarà contento di vederti tornare a Mantova a mani
vuote. A Napoli ho
un amico, si chiama Sirone, ha una scuola di stampo epicureo,
è proprio quello
che fa per te. Se vuoi andare da lui, digli che ti mando io e vedrai
che ti
accoglierà a braccia aperte.”
“Davvero? Wow,
l’epicureismo sì che fa per me! Grazie mille
fratello, ti devo un favore!” esclamò Virgilio,
risollevato, alzandosi in piedi
e avviandosi.
“Aspetta, dove vai? Come
farai ad arrivare a Napoli?” gli
gridò dietro Mecenate.
“Come ho fatto ad arrivare
a Roma!” rispose Virgilio
voltandosi indietro. “Mi guadagnerò un passaggio
con la mia simpatia! Al mondo
siamo tutti fratelli. Addio!”
“Bah!”
borbottò Mecenate, avviandosi verso casa. “ Strano
ragazzo. Mi domando se ho fatto bene. Beh, non importa. Tanto,
probabilmente
non ne sentirò più parlare.”
Si sbagliava. Un mese dopo, gli
arrivò una lettera di
Sirone. C’era scritto:
“La prossima volta che mi
mandi un allievo, levagli almeno
le sostanze stupefacenti. Le guardie statali fanno controlli su
controlli.
Questa me la paghi! Comunque, se la cava abbastanza.
Con affetto, Sirone.”
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Capitolo 5 *** "Opera? Bucoliche? Famoso? Napoli? Scrivere? Tu?" ***
Grazie a prelude10 e a
Mareike Tiaycia (spero di aver scritto bene) per aver aggiunto questa
storia alle seguite e grazie anche a chi legge senza lasciare traccia
del suo passaggio. Ma su, che vi costa lasciare una recensioncina?
Pensate al nostro povero Mecenate! XD
Buon capitolo!
Erano trascorsi circa due anni da
quel disastroso processo
in tribunale, che Mecenate aveva ormai pressoché
dimenticato. Dopotutto, che
importanza poteva avere un qualsiasi ragazzo con ambizioni poetiche
nella mente
di colui che, rapidamente, sarebbe diventato uno degli uomini
più intimi e
fidati di Ottaviano? Del resto, la sua vita era ormai molto piena e non
aveva
quasi più tempo di pensare a se stesso, figurarsi ad altri!
Ormai trascorreva
quasi tutte le sue giornate nell’occuparsi della preparazione
di giovani
intellettuali di belle speranze, che promettevano di divenire poeti e
scrittori
molto talentuosi. Era davvero soddisfatto di loro.
Un giorno, mentre stava mangiando
tranquillamente leggendo,
frattanto, la bozza di un poemetto di un amico, un servo lo
informò che era
desiderato. Sperando che fossero notizie da parte di Ottaviano,
accettò
immediatamente di vedere chiunque fosse
alla
porta e si alzò, speranzoso…
“Ma Mecenate, Mecenate,
Mecenate! Quanto tempo!”
Mecenate ebbe improvvisamente uno
spasmo di terrore
nell’udire quella voce che, malgrado non ricordasse dove
potesse aver udito,
non gli sembrava nuova; si aggrappò al tavolo, cercando
istintivamente una via
di fuga da quel nome ripetuto tre volte…
“No, tu no! Va’
via! VIA!” urlò disperato, quando entrò
nella stanza una magra figura slanciata, avvolta non più
nell’orribile tunica
bianca a fiorellini che Mecenate ricordava, ma in una ben
più strana ,
completamente colorata con tutti i colori dell’arcobaleno che
formavano una
sorta di spirale terrificante. Sulle spalle, il giovane portava un
mantello dall’aspetto
piuttosto costoso,
ma anch’esso colorato senza criterio, peraltro in aperto
contrasto colle
tonalità della tunica. Persino i sandali del giovane
portavano degli orribili
fiocchetti!
“Ma Mecenate, Mecenate,
Mecenate, non sei contento di
vedermi?” chiese Virgilio, aspirando un tiro dal suo
rotolino.
“NO! Come fai ancora a
ricordarti dov’è casa mia?!”
protestò
l’uomo, sedendosi a causa di un’improvvisa mancanza
di forze.
“Beh, in effetti non me lo
ricordavo affatto” ammise
Virgilio, sedendosi con noncuranza.
“Come no? E allora come mi
hai trovato?”
“Come? È molto
semplice. Appena sono arrivato a Roma ho
cercato qualcuno che sapesse dove abitavi. Prima ho chiesto a un tizio
presso
le porte, ma non lo sapeva. Poi in piazza ho chiesto a uno che stava
vendendo
una mucca. Mi ha detto che se lo avessi aiutato a vendere la mucca me
lo
avrebbe detto, perciò ho iniziato a cantare le lodi della
mucca, ma quel tizio
mi ha mandato urlando via senza dirmelo: che merdaccia! Poi sono andato
da un
tipo che vendeva schiavi, ma appena ha scoperto che non volevo
acquistare ha
smesso di prestarmi attenzione. Così ho chiesto a uno
schiavo, ma subito il
tizio di prima mi ha mandato via a calci. Allora sono andato a giro per
Roma
chiedendo a tutti notizie di te, ma tutti o non lo sapevano, o mi
scacciavano
in malo modo. Proprio non capisco perché!”
“Gran Giove, no!”
mormorò stravolto Mecenate, che come
sappiamo teneva molto a tenere alta la propria dignità e a
non far sapere che
conosceva quel giovane strafatto. “Beh, speriamo che lo
considerino solo un
esaltato…”
“Poi ho incontrato un
signore dall’aria importante, vestito
da condottiero, che andava in giro tutto circondato da guardie armate
ed era
armato pure lui. Ho pensato che lui poteva
conoscerti…”
“No, no, no!”
mormorava Mecenate, che riconosceva in quella
descrizione nientemeno che Ottaviano.
“Così gli ho
chiesto se ti conosceva e se sapeva dove
abitavi, perché anche se siamo amici non mi ricordavo dove
abitavi…”
“Amici? Hai detto a
Ottaviano che siamo amici? Ma io sono
rovinato! Finito! Morto!” gemette l’uomo,
buttandosi per terra e rotolandosi
mentre si strappava i capelli.
“Ma perché?
Suvvia, non fare questa coturnata! Comunque lui
lo sapeva dove abitavi e me l’ha detto, ecco. Mi ha pure
chiesto se fossi un
artista, perché ha detto che lo sembravo proprio, ecco.
Insomma, avevo l’aria,
ha detto. Da artista. Tu non trovi?” domandò
Virgilio, pavoneggiandosi nella
sua tunica orripilante.
“No, no, no!”
gemette Mecenate con fare melodrammatico.
“Oh Mecenate, ma come sei
noioso! Comunque il tizio ha
guardato le sue guardie e ha detto loro: ‘vedete? Mecenate ha
un grande talento
nel riconoscere i giovani talentuosi. Chi di voi avrebbe mai sospettato
che
sotto questa tunica di pessimo gusto si nascondesse uno dei suoi nuovi
poeti?
Evidentemente Mecenate è andato oltre l’apparenza
e ha capito che la
sensibilità artistica di questo giovane va ben oltre quella
estetica!’. Poi mi
ha detto dove abitavi e mi ha salutato. E così sono venuto
qui.” Concluse
Virgilio, soddisfatto. Mecenate stava mordendo la tovaglia per
l’angoscia: cosa
sarebbe potuto accadere se Ottaviano avesse scoperto che quello che lui
considerava un estroso artista era in realtà un povero
ragazzetto sconosciuto,
legato a lui solo dalla pietà di un attimo?
Dopo un momento però lo
sguardo di Virgilio si fece più
serio e profondo; buttò via il suo rotolino, tese la mano a
Mecenate e lo
costrinse ad alzarsi, dicendogli: “Mecenate, sono venuto a
Roma per
ringraziarti dell’opportunità che mi hai dato di
frequentare la scuola epicurea
a Napoli. Senza quest’istruzione epicurea io non avrei mai
potuto scrivere così
la mia prima opera, le Bucoliche, che mi ha fatto diventare molto
famoso a
Napoli e dintorni…”
“Cosa?” lo
interruppe bruscamente Mecenate, svegliandosi
da quello stato di sofferenza e
tormento interiore in cui era sprofondato. “Opera? Bucoliche?
Famoso? Napoli?
Scrivere? Tu?”
“Certo! Non lo sapevi? A
Napoli ho steso un’opera intitolata
“Bucoliche”, è stata apprezzata
moltissimo, so che se ne è parlato molto anche
a Roma! Non ne hai sentito parlare?” domandò
Virgilio, vagamente deluso. “Te ne
avevo portato una copia in regalo, come ringraziamento di aver salvato
la mia
vita…”
“Salvarti? Ma che
sciocchezze!” protestò con sincera modestia
Mecenate, strappando avidamente dalla mano di Virgilio un papiro
arrotolato che
srotolò con rabbia: i suoi occhi corsero rapidi sui primi
versi della prima
ecloga. Gli veniva in mente che, in effetti, negli ultimi mesi gli era
parso di
sentir parlare di un giovane poeta napoletano, ma che gli era parso
solo una
moda passeggera…
“Hai scritto tu tutto
questo?” domandò stordito. Virgilio
annuì orgogliosamente. Mecenate proseguì la
lettura, prima di soffermarsi a
esaminare l’aspetto metrico. “Ehi,
Virgilio…che versi hai usato?”
“Esametri!”
“Ma…ma…ma
qui ci sono almeno dieci accenti!”
“Oh, sì, anche
Sirone mi ha accennato qualcosa del genere un
po’ di tempo fa” replicò quegli con
noncuranza.
“Cosa? E hai pubblicato
così la tua prima opera? Sei un
pazzo! Il primo verso peggio che mutilo!” gemette Mecenate,
sedendosi di
scatto.
“Ma Mecenate, ma Mecenate,
sono tutte sciocchezze! Ormai
nessuno fa più caso alla metrica da un bel po’!
E’ ovvio, altrimenti qualcuno
se ne sarebbe accorto e non avrei avuto tutto questo
successo!”
Si udì improvvisamente un
colpo secco. Guardandosi attorno,
Virgilio non vide più Mecenate. Egli era steso sul
pavimento, svenuto.
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Capitolo 6 *** "Mecenate, Mecenate, Mecenate! Vedo un coniglietto rosa." ***
Salve a
tutti! Se qualcuno era preoccupato per
il nostro Mecenate, augurategli in bocca al lupo: questo per lui
sarà un
capitolo lungo e difficile, ispirato dal mio caro Sbingo, che ringrazio
sentitamente.
Buona
lettura!
Era il 38 a.C. , e Virgilio era ormai
entrato a far parte,
per così dire, del celeberrimo circolo di Mecenate. Non,
beninteso, che
Mecenate fosse precisamente soddisfatto della piega che avevano preso
gli
eventi. Aveva riletto tutte le Bucoliche due, tre, quattro volte e ogni tanto se le
risfogliava così,
per curiosità, e si era ritrovato a scoprire
nell’intera opera c’erano
solo dodici versi regolarmente
accentati, cosa che reputava fosse accaduta per caso e non per
intenzione
dell’autore. Era pur vero che, malgrado ne conoscesse ormai
la trama, si
commuoveva sempre un po’ alla prima ecloga, il cui finale in
particolar modo
risultava di un’insperata eleganza e soprattutto manifestava
un’estrema
sensibilità artistica e umana, cosa che, a dire il vero, non
si sarebbe mai
aspettato da parte di Virgilio. Ma anche tutto il resto
dell’opera, doveva
riconoscere a malincuore, risultava in ogni aspetto, tranne che in
quello
metrico, a un livello nettamente, decisamente superiore rispetto alle
decine di
altri poemetti, carmina eccetera eccetera degli altri
giovani poeti, persino di coloro che
aveva adorato prima dell’arrivo di Virgilio. Davvero Virgilio
aveva stravolto
la sua vita.
Va pur detto che Virgilio, che ormai
praticamente abitava in
casa sua (Mecenate gli aveva trovato una piccola abitazione nella
periferia di
Roma per non averlo tra i piedi, ma Virgilio, che ancora conosceva poca gente in
città e che odiava
con tutto il cuore la solitudine perché si annoiava,
trascorreva con lui la
maggior parte delle giornate e spesso, la sera, troppo fatto per andare
a casa,
dormiva da lui, o per meglio dire si addormentava in qualunque punto
della casa
si trovasse e risultava impossibile svegliarlo) non gli aveva reso la
vita
facile. Insisteva per accompagnarlo ovunque, anche dove Mecenate
avrebbe
preferito andare da solo, e non di rado vi arrivava strafatto, con gli
occhi
rossi e con una scarsissima capacità di ragionamento, cosa
che rendeva
difficile a Mecenate presentarlo come “un talentuosissimo
poeta, molto
sensibile, che viene con me per conoscere qualche usanza romana, dato
che è
nato a Mantova ma ha studiato da Sirone a Napoli”. Insomma,
nessuno sembrava
molto disposto a credere che un ragazzo vestito con i colori
più strambi che
andava in giro dicendo cose tipo: “Mecenate, Mecenate,
Mecenate! Vedo un
coniglietto rosa, credi che farà le uova rosa oppure
normali?” fosse l’autore
delle Bucoliche. Eppure lo era, malgrado tutto.
Un giorno bussarono alla porta della
magnifica casa “a pochi
passi dal Colosseo” (i continui ritardi nella costruzione
stavano facendo
imbestialire il cavaliere etrusco, tra l’altro.) e fu
introdotto un servo di
Ottaviano, che veniva a invitare Mecenate a una cena presso di lui, la
sera
seguente, in
compagnia di altri
scrittori e poeti.
“Ottaviano chiede anche
notizie dell’autore delle Bucoliche”
soggiunse il servo inoltre. “Dice che è molto
incuriosito dalla sua opera e che
vorrebbe avere modo di riparlargli personalmente.”
A queste parole Mecenate si
trovò travolto da sentimenti
contrastanti: da una parte era lieto di poter presentare Virgilio in
società in
modo più ufficiale, dall’altra si scopriva non
preoccupato, non spaventato, ma
assolutamente TERRORIZZATO al pensiero di cosa avrebbe potuto
combinargli
Virgilio. Pertanto, appena congedato il servo con la promessa di
partecipare
entrambi alla cena, andò di corsa a cercare Virgilio per
tutta la casa.
E lo trovò, ma non nelle
condizioni in cui sperava di
trovarlo.
Nella stanza in cui solitamente
rinchiudeva Virgilio con la
scusa di farlo leggere e scrivere, in realtà col solo scopo
di restarsene un
po’ in pace a lavorare per conto suo, vide un gran macello:
due vasi di poco
valore, che aveva messo lì solo per rasserenare
l’ambiente, erano in terra in
frantumi e i loro cocci erano stati sparpagliati ovunque nella stanza
da una
grande piega che aveva preso il tappeto, come se fosse stato calciato
con
forza. Sullo scrittoio nell’angolo erano stati buttati alla
rinfusa pezzi di
pergamena strappata e vari stilo, e il divanetto foderato in velluto
rosso sul
quale Virgilio spesso si sedeva a riflettere o a fumare era stato
spinto da una
parte. Mecenate entrò di corsa e si guardò
intorno: Virgilio era nella stanza,
in un angolo, con gli occhi arrossati e sgranati, come persi nel vuoto.
Non era
il classico effetto dei suoi rotolini fumanti.
“Virgilio! Che
cos’hai preso stavolta?!”
Gli rispose solo un mugugno e
Virgilio lo guardò allucinato,
chinando il capo da una parte e dall’altra come se stesse
esaminando qualcosa
di strano e non capisse bene da che parte guardarlo. Mecenate si
avvicinò, ma
il giovane agitò le braccia come per allontanarlo,
dopodiché si buttò per terra
e la rimase tremante, coprendosi il capo per non guardarlo o per
proteggersi,
questo Mecenate non lo sapeva.
Infuriato, il cavaliere lo
afferrò per le spalle e lo tirò
su, per poi iniziare a trascinarlo verso la porta, temendo che restando
in
quella stanza avrebbe potuto farsi male con i cocci e
quant’altro. Virgilio si
mise a urlare e Mecenate, resistendo a stento all’idea di
tirargli uno
schiaffo, gli disse infuriato: “Virgilio, accidenti a te! Se
domani arrivi in
queste condizioni da Ottaviano, giuro che ti ci riporto in quel
tribunale, ma
stavolta non come avvocato! Hai capito bene?!”
“Mecenate, Mecenate,
Mecenate…” borbottò Virgilio, con una
voce che non sembrava la sua.
“Vedo…vedo…” e vagava con gli
occhi sulla stanza,
come se seguisse una linea precisa.
Mecenate lo trascinò a
spalla nella propria stanza, lo buttò
senza troppi complimenti sul letto e, preso uno sgabello, vi si sedette
sopra e
si diede ad ascoltare per ore i vaneggiamenti di Virgilio, roba tipo:
“Il vino
nei fiumi” oppure “una testa tra le onde che chiama
il suo nome”, tutte cose
che il povero etrusco avrebbe avuto a capire più avanti.
A Virgilio ci volle tutta la notte
prima di riprendersi, la
qual cosa non faceva che accrescere l’ira e la preoccupazione
di Mecenate, che
vedeva avvicinarsi senza speranza l’ora del banchetto con
Ottaviano. E il
mattino seguente era già inoltrato e il
sole si era fatto alto e caldo, quando Virgilio, che aveva dormito due
o tre
ore di un sonno tormentato e agitato che non sembrava affatto sonno,
aprì gli
occhi rossi e lucidi e lo guardò, stentando, sulle prime, a
riconoscerlo.
“Mecenate,
Mecenate…ehi, Mecenate…”
Troppo arrabbiato per parlare,
Mecenate gli rivolse
un’occhiataccia, poi, suo malgrado sollevato dal risveglio di
Virgilio, e non
solo in prospettiva del banchetto, si alzò in piedi e fece
per andarsene.
“Perché sono
qui? Che ore sono?”
“L’ora quinta
inoltrata, ormai! E io non ho dormito neanche
un po’, accidenti a te, e oggi ho molto da fare. Stasera io e
te siamo invitati
da Ottaviano a una cena, e io ho da lavorare, prima.”
“Ma perché sono
qui?”
“Perché? Non me
lo chiedere, io non so cosa tu abbia preso
ieri sera, ma se lo riprendi un’altra volta, non farti
più vedere qui! Hai
distrutto una stanza di casa mia. Sei contento ora?”
“Mi spiace.”
“Mi fa piacere”
replicò Mecenate dirigendosi a grandi passi
alla porta.
“Mecenate,
aspetta!”
“Che vuoi?”
Virgilio si mise a sedere sul letto,
facendo smorfie come se
avesse mal di testa. “Che trip pazzesco”
borbottò. “Mecenate, vieni qui, ti
prego…ho visto delle cose…stranissime.”
“Già, parlavi di
qualcosa come Orfeo decapitato, o roba del
genere” replicò acidamente quegli, avvicinandosi
suo malgrado. Virgilio annuì.
“Avevo…non lo so
neanche io…accidenti. Grazie per essere
rimasto con me. Sei stato molto buono.”
Mecenate non rispose neppure. Poi
sentì qualcosa che lo lasciò senza
fiato:
“Mecenate, in quel trip ho capito qualcosa.
L’epicureismo…non va bene. Ho compreso
il logos, Mecenate, il logos che controlla la nostra esistenza.
Gli stoici avevano ragione, Mecenate, il logos esiste… ho
compreso lo
stoicismo! Quella è la
verità!”
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Capitolo 7 *** La novità di Ottaviano. ***
Prima di
questo
capitolo desidero inserire una spiegazione. Ho deciso di modificare gli
avvertimenti e il genere della storia, aggiungendo i campi
“sentimentale” e “shounen-ai”
per un motivo semplicissimo.
Questa
storia non era
pensata, in origine, per diventare shounen ai, ma in seguito a una mia
lunga
pausa dalla scrittura, si è
“trasformata”. Ossia, sono riuscita a tornare a
scriverla con nuove idee solo guardandola in quest’ottica, il
che probabilmente
è un indice di notevole limitatezza da parte mia, ma
tant’è. E poiché la
trasformazione della storia in un genere che, evidentemente, mi
è più
congeniale, mi ha ridato una carica che ormai non mi aspettavo
più, ho deciso
di attenermi a una modifica che non ho voluta, ma che mi è
ormai semplicemente
necessaria per continuare a scrivere.
Chiedo
perdono a quei
lettori che da questo punto in poi non troveranno più la
storia di loro gusto o
la abbandoneranno, ma è davvero tutto ciò che
potevo fare per riprendere in
mano le avventure di Virgilio e Mecenate. Come mio solito, auguro buona
lettura
a coloro che vorranno proseguire ugualmente.
Mecenate lavorò tutto il
giorno senza permettere a Virgilio
di lasciare la stanza nella quale lo aveva rinchiuso, con gli occhi che
gli si
chiudevano e i nervi che gli affioravano ogni volta che ripensava alla
notte
appena trascorsa. Comunque, verso le sette, concluso il suo lavoro, si
preparò
e mandò a dire a Virgilio che facesse lo stesso
(poiché ormai Virgilio
conservava una buona parte delle proprie cose a casa sua).
Si diressero verso casa di Ottaviano,
mentre Virgilio
continuava a fantasticare e a ripetere i precetti della filosofia
stoica;
Mecenate, ancora troppo arrabbiato per rivolgergli la parola, si
limitava ad
ascoltarlo farneticare, senza rispondere alle sue numerose domande.
“Ehi, Mecenate, Mecenate,
tu credi nella palingenesi?”
“Ehi, Mecenate, Mecenate,
sai tollerare il tuo logos?”
“Ehi, Mecenate, Mecenate,
lo sai come è morto Orfeo?”
E altre cose del genere, per tutto il
tragitto. Finché
Mecenate esclamò: “Virgilio! Se il mio logos
è di avere te attaccato per tutta
la vita, non intendo sopportarlo! Piuttosto faccio preparare una pira
funebre e
mi trafiggo con la spada, anche a costo di vagare per tutta
l’eternità negli
Inferi!”
E come avrebbe potuto sapere il
nostro Mecenate che le sue
parole avrebbero lasciato un segno profondo e duraturo
nell’animo di Virgilio?
Senza più badargli,
comunque, Mecenate proseguì la sua
strada fino alla casa di Ottaviano Augusto sul Palatino, con Virgilio
che lo
seguiva pensoso fumando come una ciminiera.
Appena un domestico li ebbe fatti
entrare, i due raggiunsero
la sala dove li attendevano Ottaviano e numerosi altri ospiti. E un
attimo dopo
aver raggiunto una graziosa saletta, accadde precisamente
ciò che Mecenate
paventava da più di ventiquattro ore.
Non appena vide Ottaviano alzarsi dal
divanetto sul quale
era semidisteso, Virgilio lo guardò fissamente con occhi
sgranati, si voltò
verso Mecenate ed esclamò, additandolo deliberatamente:
“Ehi, Mecenate,
Mecenate! Quello ha la vagina!”
Capite ora per quale motivo Mecenate
era tanto preoccupato
per la propria dignità?
“Virgilio!”
mormorò furioso: “Bada a quello che dici, eppure
ti ho spiegato che Ottaviano è il personaggio più
influente di Roma!”
Ottaviano, che era rimasto un
po’ stupito dall’esclamazione
di Virgilio, parve comunque non darsene troppo peso, tanto si parlava a
Roma
delle stranezze del poeta preferito da Mecenate;
così, senza reagire, esclamò:
“ Mecenate,
Virgilio! Ho una bella notizia per voi, carissimi!”
Le parole di Ottaviano non
suscitarono alcun effetto in
Virgilio, che subito si avvicinò a un braciere collocato in
un angolo e si mise
a osservare le fiamme, probabilmente riflettendo su quei precetti
stoici che assimilano
il logos al fuoco. Le sue riflessioni furono ben presto interrotte
dall’arrivo
di un paio di giovani poeti che egli aveva già conosciuto
grazie a Mecenate ,
tutti desiderosi di scambiare con lui qualche opinione letteraria, e
subito
Mecenate, certo che in loro compagnia Virgilio non potesse farsi male,
si
rivolse direttamente a Ottaviano e domandò a bassa voce:
“Ottaviano, cos’hai in
mente?”
Ottaviano pareva ardere di
contentezza e rispose con occhi
luminosi: “Mio caro Mecenate, desidero presentarti un giovane
poeta che ho da
poco incontrato, e che sono sicuro che possa diventare famoso almeno al
pari di
Virgilio.”
“Per Giove, Ottaviano! Mi
è sufficiente che non sia come
Virgilio” esclamò Mecenate. “Per il
resto, mi va bene chiunque. Giuro che di
drogati ne ho abbastanza, uno di questi giorni uccido
Virgilio!”
Ma a queste parole, Ottaviano si mise
a ridere e battendogli
sulla spalla, esclamò: “Oh, Mecenate! Ma se lo sai
anche tu che a Virgilio vuoi
fin troppo bene!”
E questa cosa, sentendosi punto sul
vivo, Mecenate se la
tenne per detta e non replicò.
Per il resto, la serata trascorse
più o meno tranquilla, e
anche Virgilio non si fece sentire più di tanto: ottenebrato
dal fumo e dalle
riflessioni sullo stoicismo, egli pareva non curarsi di nulla, e solo
di rado
intervenne nella conversazione.
Ma poi, verso la fine della serata,
finalmente si rivelarono
quelle notizie che Ottaviano aveva preannunciato. A un tratto, quando
la cena
si era ormai conclusa e i commensali si svagavano con un po’
di musica, fu introdotto
un uomo forse poco più giovane di Virgilio. Non appena lo
vide, Ottaviano parve
illuminarsi e, balzato in piedi, esclamò: “Orazio,
finalmente sei qui! Non
vedevo l’ora di presentarti a Mecenate!”
Pareva che nell’ambito
della sala più d’uno conoscesse il
ragazzo, ma la cosa che maggiormente sorprese Mecenate fu che anche
Virgilio
diede prova di conoscerlo: destatosi un momento dal suo stato di
profonda
riflessione, egli scorse il giovane, lo salutò con la mano e
tornò a
concentrarsi sui propri pensieri. Mecenate, che gli sedeva accanto, si
protese
verso di lui e mormorò: “Virgilio! Lo
conosci?”
“Credo di
sì” rispose Virgilio. “Abita accanto a
un mio
amico.”
Mecenate, che sapeva che genere di
amici Virgilio avesse a
Roma, considerò dunque che il giovane tanto atteso da
Ottaviano venisse da una
zona piuttosto malfamata, probabilmente nota per commerci di basso
livello e di
straordinari, stupefacenti effetti.
Fu collocato un divanetto tra quello
di Ottaviano e quello
di Mecenate. Il cavaliere, che conosceva bene Ottaviano, sospettava che
ciò non
fosse avvenuto per caso. E per tutto il resto della serata, infatti,
Mecenate
conversò col giovane Quinto Orazio Flacco, che stava
avviando una carriera
letteraria lavorando a degli epodi dei quali, purtroppo, non gli
accennò molto.
Anche per questo motivo non fece molto caso al fatto che Virgilio
parlò a lungo
con Ottaviano e che, via via che il discorso proseguiva e si faceva
più acceso,
Virgilio sembrava svegliarsi sempre più e concentrarsi
maggiormente sulla conversazione,
cosa che, da quando si erano conosciuti, Mecenate aveva visto accadere
forse
tre o quattro volte. Ma non vi fece caso, tanto si sentiva preso dalla
conversazione col giovane Orazio, e si ritrovò a parlarne
con Virgilio dolo
quando quella sera, molto più tardi, si rimisero sulla
strada di casa.
“Ehi Virgilio! Di cosa
stavi parlando con Ottaviano?”
domandò Mecenate, durante una pausa forzata a pochi metri
dalla casa che
avevano appena lasciato: Virgilio si era infatti seduto sul gradino di
un’abitazione
per arrotolarsi uno di quei rotolini bianchi di cui Mecenate aveva
ormai
imparato il procedimento. Virgilio alzò appena lo sguardo dalle proprie
mani e replicò: “Stavamo
parlando delle sue idee sull’agricoltura.”
Mecenate aggrottò le
sopracciglia e rispose: “Mi sorprende
che tu ti sia così appassionato alla discussione.”
“Pensavo che ha ragione.
È sull’agricoltura che si è
arricchita Roma, da principio. E poi, tu sai che noi avevamo un
podere…una
volta.”
“Stavo pensando a una nuova
opera, sai. Ne ho parlato con
Ottaviano, stasera. Sull’agricoltura, proprio come ne parla
Ottaviano.”
“Ci hai pensato
stasera?” domandò Mecenate. Virgilio teneva
gli occhi bassi e Mecenate sospettava che ci fosse qualcosa che non
sapeva come
dirgli.
“Stasera? Un po’.
Ma è da stanotte che rifletto su questo
genere di cosa. Sarà qualcosa di completamente diverso dalle
Bucoliche,
qualcosa sulla durezza del lavoro, su…”
“Ehi, Mecenate”
proseguì. “Voglio dedicarla a te, comunque
sia, come ringraziamento per avermi salvato ancora una volta e per
prenderti
cura della mia vita.”
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Capitolo 8 *** Un capitolo serio. ***
“Ehi, Mecenate”
proseguì. “Voglio dedicarla a te, comunque
sia, come ringraziamento per avermi salvato ancora una volta e per
prenderti
cura della mia vita.”
A quelle parole, Mecenate rimase non
poco sorpreso. Scrutava
Virgilio come se si aspettasse una delle sue uscite patetiche, ma
ciò non accadde:
a guardarlo non era il solito Virgilio estroverso e strafatto, era il
Virgilio
delle rare occasioni speciali, era il Virgilio che solo lui conosceva.
Fissandolo, Mecenate si
sentì tornare in
mente le parole di Ottaviano, e arrossì, ma la notte era
buia, e Virgilio non
se ne avvide.
“Non ti ho salvato la
vita” disse Mecenate. “Non ti ho mai
salvato, Virgilio…né tre anni fa al foro,
né stanotte. Ti ho solo aiutato. E
comunque, sono ancora arrabbiato!” soggiunse, impettendosi.
Ma Virgilio scosse la testa con
calma, finendo di fare il
suo rotolino, e disse senza alterarsi: “E invece mi hai
salvato, Mecenate, e in
molti più modi di quanto credi.”
“Ma che
sciocchezze…”
“Ascolta invece! Quel
giorno mi hai salvato dal linciaggio,
dalla povertà, dall’umiliazione; hai trovato uno
scopo alla mia vita; quando
sono tornato a Roma mi hai dato protezione, fiducia, un appartamento
tutto per
me; hai corretto le mie bozze, mi hai spiegato la metrica, anche se non
l’ho
mai capita, mi hai presentato alla gente importante, mi hai fatto diventare
importante; mi hai accolto in casa tua, mi
hai dato tutto l’affetto che una persona può
desiderare, anche se controvoglia;
mi hai dato una casa, che non è il mio appartamento vuoto,
ma è qualcosa che ho
trovato in un posto che non è fatto di pietra e di legno; e
tu, tutto questo
non lo chiami salvare una vita? Ma se per te non lo è, va
bene, allora senti
qui: stanotte mi hai salvato un’altra volta. Potevo
collassare, potevo farmi
male con qualcosa, ma tu mi hai aiutato, sei stato accanto a me tutta
la notte,
e ti sei arrabbiato, certo, ma sei rimasto con me. Capisci cosa vuol
dire per
me sapere che tu non mi hai lasciato solo, anche se non sono buono a
fare nulla
e ti combino solo casini? Certo, spesso ti arrabbi e mi insulti tutti i
giorni,
ma tu sei buono con me: se tu non lo fossi, stanotte mi avresti gettato
per
strada e fatto picchiare dai tuoi servi, invece sei stato con per tutta
la
notte accanto a me e mi hai ascoltato, mi hai protetto, mi hai salvato.
Ti sei
preso cura di me per tutta la notte, anche se non volevi, ma
l’hai fatto, l’hai
fatto, e per questo ti ringrazio.”
Mecenate avrebbe voluto rispondere,
schermirsi, calmarlo, ma
Virgilio proseguiva, pareva infervorato; pareva volergli dire tutte le
cose cui
non aveva mai saputo dar voce.
“Vorrei saperti dire che
migliorerò e che non ti combinerò
mai più casini, ma tanto lo sai che non sarebbe vero: appena
avremo finito di
parlare mi rimetterò a fumare, e non
m’importerà più nulla di tutto quello
che
ti ho detto finora, o meglio me ne importerà, me ne
è sempre importato, ma non
avrò più voglia o coraggio di dirti nulla o di
fare nulla. Non perché io sia
una persona diversa quando fumo da quando non fumo, no, no: per me la
vita non
è che una sola, e così non vi è che un
solo modo di affrontarla; solo che
stasera mi sento un po’ più coraggioso delle altre
sere, altre sere in cui
magari avrei avuto voglia di dirti queste cose, ma pensavo che non mi
avresti
dato retta perché avevo fumato, oppure semplicemente non
trovavo il coraggio. E
stasera sono lucido e mi sento coraggioso, perciò stasera so
dirti quanto io ti
sia grato per aver salvato non una, non due, ma infinite volte la mia
vita, e
di prenderti tutti i giorni cura di me anche se non me lo merito. E
purtroppo
io so che non sarò mai in grado di meritarmelo, dunque non
te lo prometto per
non deluderti un’altra volta; e ti ringrazierò
facendo l’unica cosa che posso
fare per te, l’unica cosa che io sappia fare: scrivere una
bella opera e
dedicarla a te, che hai saputo vedere dentro di me più di
tutto quello che
vedono gli altri, proprio come ha detto Ottaviano, tanto tempo fa. E
spero
davvero che tu abbia capito qualcosa di tutte le cose che ti ho detto
stasera,
perché non saprò mai ripetertele una seconda
volta, e con questo spero di
averti detto proprio tutto, Mecenate, ecco qua.”
Ora Mecenate era immobile come
paralizzato, ritto in piedi
davanti a Virgilio, e lo sguardo del giovane ardeva di limpidezza e
franchezza,
di onesta semplicità. Egli era stato sincero, Mecenate lo
percepiva con la
stessa chiarezza con la quale percepiva le proprie mani.
Virgilio si alzò, e
battendogli sulla spalla gli disse: “Ehi,
Mecenate, Mecenate! Forza, andiamo a casa. Comincia a far freddo, e il
mio
mantello è troppo leggero, e lo è anche il
tuo.”
Quel tocco lo riscosse, lo
richiamò alla realtà. Allora,
mentre si avviava al fianco di Virgilio, borbottò volgendo
il capo da una
parte: “Ti ho preso in casa mia solo perché sei
bravo come poeta, tutto qui!”
Ma Virgilio non se la prese, e
sorridendo, come se
conoscesse un qualche segreto di cui Mecenate era all’oscuro,
disse con calma: “
Ed è solo perché sono un bravo poeta che non
conosce la metrica che ti sei
preso cura di me, stanotte?”
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Capitolo 9 *** Dalla finestra. ***
E poi la vita riprese, e quella sera
parve soltanto una sera
tra le sere, nel senso che non ne parlarono più; ma Mecenate
non dimenticò mai
le parole che Virgilio gli aveva rivoltom e le conservò
sempre in un piccolo
posto privato dentro di sé.
Frattanto Virgilio, le cui
convinzioni stoiche si erano
ormai consolidate, aveva cominciato a raccogliere materiale per le
Georgiche,
come intendeva chiamare il suo nuovo progetto; come Mecenate ormai ben
sapeva,
la raccolta di materiale consisteva nel fumarsi un intero rotolino
bianco,
sedersi da qualche parte, e ragionare. Mecenate lo lasciava fare,
troppo preso
da altre occupazioni, da altri personaggi; in primis, quel Quinto
Orazio Flacco
che, dopo nove mesi di conoscenza, ebbe l’onore di essere
accolto tra gli
intimi di Mecenate. Era un giovane
assolutamente promettente, e, tra
le
altre cose, aveva delle solide basi metriche, che era forse la cosa che
Mecenate maggiormente amava in lui. ma aveva anche un buon carattere,
comunque.
Ma alla fine Virgilio
cominciò a scrivere, un po’ a caso,
certo, ma meravigliosamente; e quando il primo libro fu
pressoché compiuto,
almeno nella sua brutta copia, lo diede a Mecenate e glielo fece
leggere. E
Mecenate s’infuriò, lo mandò a
riscriverlo tutto, ma Virgilio glielo riportò
immutato, replicando che non aveva trovato errori e che anzi gli
sembrava un
inizio piuttosto interessante. Al
che
Mecenate gli fece la ripassata che abbiamo visto nel prologo e si
ritrovò a
correggere tutta la metrica, cosa che gli richiese circa tre settimane
di
tempo, considerando tutti i suoi altri impegni.
Tre settimane inutili almeno quanto i
suoi vani tentativi di
insegnargli la metrica: tre mesi dopo, Virgilio cominciò a
lavorare a una bozza
della bozza della bozza della bozza della prima parte del terzo libro,
bello
quanto il primo, sbagliato quanto e più del primo, e
Mecenate passò giorni
interi a correggerlo. Ma era contento che Virgilio si affidasse a lui
per le
correzioni e i consigli, anche se non glielo disse direttamente.
Ma poi c’era Ottaviano, un
Ottaviano che non si poteva
trascurare o mettere da parte, e naturalmente un Antonio che era
lontano ma che
dopotutto si faceva sentire; e poi c’erano altre persone,
persone importanti di
cui tenere conto.
Nel 33 Orazio pubblicò
infine il primo libro delle sue
Satire, e Mecenate compì finalmente un progetto che aveva in
mente da secoli e
acquistò per lui un podere nella campagna sabina. E Orazio
andò, come dire, al
settimo cielo e abbandonò il suo triste appartamento accanto
allo spacciatore
di Virgilio per ritirarsi a vivere e a lavorare in pace.
Qualche giorno dopo questi
avvenimenti, Mecenate, entrato
nel suo bel soggiorno per cercare una certa bozza che gli era stata
recapitata,
trovò Virgilio seduto, cupo, presso il suo tavolo da lavoro
abituale.
“Virgilio! Che cosa
succede?” domandò Mecenate,
avvicinandoglisi sorpreso. Virgilio alzò lo sguardo su di
lui e lo scrutò
intensamente: i suoi occhi erano asciutti e lucidi, come Mecenate non
li vedeva
da almeno quattro anni.
Mecenate si fermò al suo
fianco, perplesso, e Virgilio
chiese a mo’ di risposta: “Perché gli
hai comprato quel podere?”.
Tanto poco si aspettava questa
domanda, che Mecenate rimase
a lungo in silenzio sorpreso; poi, sedendosi su un divanetto di fronte
a lui,
replicò: “ È molto semplice, Virgilio:
sai in che tipo di casa abitava Orazio,
e sai anche che da lungo tempo aveva bisogno di un luogo più
sereno dove poter
comporre. È tutto qui.” Ma poi, colto come da una
terribile sensazione di
disagio, si affrettò ad aggiungere: “Virgilio,
ascolta. Se a te non ho mai
fatto un regalo del genere, è solo perché tu sai
di poter venire in ogni
momento a casa mia…”
“Oh, Mecenate, Mecenate! Ma
cosa vuoi che m’importi di un
podere da qualche parte che non sia la mia cara e bella Napoli, e poi
non
m’importa nulla di qualche regalo: mi hai già
acquistato un appartamento, anni
fa! Non hai capito ciò che ti sto dicendo?”
sbottò Virgilio alzandosi. Mecenate
sollevò lo sguardo su di lui, e per la prima volta
considerò davvero quanto
Virgilio si fosse fatto alto e bello in quegli anni trascorsi assieme,
e
ammutolì. Virgilio era lucido, non aveva fumato. Ma cosa gli
succedeva?
Virgilio lo scrutò con uno
sguardo che pareva ardere di
passione e di dolore assieme; parlò di nuovo, e parve che la
sua voce tremasse.
“Mecenate…sii
sincero. Tu preferisci Orazio a me, non è
vero?”
A quelle parole Mecenate
sgranò gli occhi, stravolto,
colpito. Impallidì, arretrando, e subito esclamò:
“ Virgilio, mio caro, non
essere sciocco! A livello poetico, vi ammiro entrambi in modo eguale,
tutti voi
artisti così promettenti… e a livello personale,
Virgilio, non nutro la benché
minima preferenza per nessuno di voi due, lo giuro: “nutro
stima e amicizia per
entrambi, in modo diverso, è vero, ma in misura eguale. Non
posso dire davvero
di preferire Orazio a te!”
Ma per qualche motivo quella pareva
non essere la risposta
giusta. Via via che parlava, Mecenate aveva visto come accendersi e
infuocarsi
di rabbia gli occhi di Virgilio: egli ristava immobile davanti a lui,
con gli
occhi infissi nei suoi, e pareva fiammeggiare e far ardere con
sé tutta la
casa. “Vuoi tu dunque dirmi che non hai mai capito nulla di
ciò che cercavo di
dirti, di ciò che…?” Mecenate non
riusciva a muoversi, confuso. Alla lunga, il
suo silenzio gli parve una risposta. Virgilio indietreggiò
di un passo, ma non
distolse gli occhi dai suoi.
“Ti ho sempre considerato
un grande uomo, Mecenate” mormorò.
“Sissignore, proprio un grande uomo. Ma questo devo dirtelo,
Mecenate…non hai
mai capito niente di me.”
Per tutta la notte e per tutto il
giorno seguente Mecenate
continuò a interrogarsi sul significato delle parole di
Virgilio. Cosa voleva
dire tutto quell’astio, tutta quell’insolenza? E
poi, cos’era che Virgilio lo
accusava di non aver mai capito?
Così, la sera seguente,
dopo aver trascorso tutta una
giornata senza ricevere notizie di Virgilio e domandandosi invece
ansiosamente
il significato di quella scena, Mecenate si avviò
risolutamente verso la casa
del suo protetto, non troppo sicuro di ciò che doveva fare,
ma certo di voler
avere almeno un pezzettino di quella verità, forse enorme,
che Virgilio conosceva
bene e di cui lui era all’oscuro. Era lo stesso segreto di
cui gli occhi di
Virgilio gli erano parsi scintillare quella sera nell’ombra
nera? Mecenate non
poteva più non saperlo.
Raggiunse in breve tempo il palazzo
al cui secondo piano si
trovava l’appartamento di Virgilio. Quando, tanti anni prima,
Mecenate lo aveva
comprato, gli avrebbe volentieri acquistato una casa anche
più grande, magari
privata, ma Virgilio aveva detto che gli faceva piacere avere gente
intorno, e
che comunque non gli sarebbe piaciuta l’idea di abitare in
una villa enorme, ma
vuota. Perciò si era giunti alla scelta di quel quartiere
rispettabile ma
semplice, proprio come lui.
Così Mecenate
andò a bussare alla porta di Virgilio, e dopo
forse un minuto una voce gli domandò: “Chi
è?”. Ma non era la voce di Virgilio,
e Mecenate rabbrividì.
“Sono Caio Cilnio
Mecenate” disse “amico di Virgilio.”
Sentì che
un’assicella veniva rimossa e che la porta si
apriva; vide un volto pallido e magro con gli occhi rossi, un volto di
ragazzo,
e riconobbe uno della cerchia di Virgilio. Allora cercò di
sorridere e mormorò:
“Buona sera. Sono un amico di Virgilio, è un
po’ che non lo vedo. È in casa?”
“Ehi amico”
borbottò il ragazzo. “Ti chiami Mecenate, eh?
Eppue Virgilio era proprio ieri a casa tua, e tutto oggi
ha…oh, non importa. Te
lo chiamo.” E scomparve in una stanzetta adiacente, e dopo
pochi momento ne
emerse Virgilio. Pareva tutto arruffato e con gli occhi rossi; alla sua
vista,
Mecenate si sentì pulsare lo stomaco come di uno strano
impulso, ma non reagì.
“Ehi, Mecenate”
borbottò Virgilio. “Che cosa vuoi?”.
“Mecenate era ancora
immobile sulla porta. Ora la richiuse,
e schiarendosi la voce, come per darsi un contegno, mormorò:
“Mi stavo
interrogando sul senso delle tue parole…e ancora non sono
riuscito a trovarvi
una risposta.”
Virgilio aggrottò un
momento le sopracciglia, freddamente, e
non parve intenzionato a rispondere. Ma dopo qualche momento, vedendo
che
Mecenate non demordeva, replicò a bassa voce:
“Se ancora non l’hai capito, devi
essere ben stupido.”
Mecenate si sarebbe altrove offeso
profondamente, avrebbe
protestato contro quell’ingiuria. Ma in quel momento, dinanzi
a
quell’individuo, si sentì invece profondamente
colpito e infelice. Non
avrebbe voluto che proprio Virgilio
dicesse o pensasse questo di lui. E tutto ciò che
poté fare il grande Mecenate,
l’amico e collaboratore di Ottaviano, l’uomo
più ricco e potente di Roma, fu
chinare mestamente il capo dinanzi a quel ragazzo venuto dalla
provincia,
sentendosi, come aveva detto lui, molto stupido. Non sapeva cosa avesse
fatto,
ma di qualunque cosa si trattasse, era stata la cosa sbagliata, e
avrebbe voluto
poter rimediare.
“Hai ragione”
disse semplicemente, e ne era convinto.
Virgilio sbuffò,
arricciò le labbra. Non voleva aver
ragione.
“Sono anni che cerco di
fartelo capire, Mecenate” mormorò.
“Non intendo passare altro tempo a…oh, basta
così. Vattene pure dal tuo caro
Orazio se devi, oh, il tuo caro Orazio con
i suoi Epodi e le sue Satire, con il suo Archiloco e il
suo scudo
gettato! Chi sono io, chi è il povero Virgilio con le sue
Bucoliche e le sue
Georgiche che non vanno mai bene? Ma vattene pure, forza! Vattene da
qui, e
torna solo quando avrai capito la verità.”
E gli indicò, con sguardo
severo, la porta; e Mecenate non
poté fare altro che obbedire, e allontanarsi in silenzio,
ferito, da quella
casa.
Ma continuò a vagare per
le vie di Roma, sentendosi
scoppiare il cuore di un certo sentimento che, fino ad allora, non
aveva mai
provato. Era un bel
sentimento buono,
positivo, eppure egli aveva l’impressione di sentirlo
diventare un dolore nel
proprio animo. Ma cos’era?
Era quella strana fitta rabbiosa che
aveva provato nel
vedere quel giovane a lui ancora sconosciuto in casa di Virgilio. Era
lo strano
pulsare delle sue viscere, che aveva provato parlando col suo protetto
dopo il
lasso di tempo più lungo che li avesse mai divisi mentre si
trovavano nella
stessa città. Ed era lo strano, eccessivo dolore causato
dalle aspre parole di
Virgilio, ed era una specie di terribile, tragico senso di una
fatalità che
stava solo a lui impedire, ma non sapeva più in quale modo.
Ma nel frattempo calava la notte, ed
egli, confuso, si
faceva trascinare qua e là dal vento di una notte per nulla
calda. Era ormai
tardi, ed egli avrebbe dovuto tornare a casa: non aveva avvertito i
servi, ed
essi l’avrebbero aspettato con la cena in caldo. Tuttavia,
egli sentiva come
una terribile forza che lo tratteneva, che gli impediva di andare dove
voleva,
o meglio dove avrebbe dovuto: quando Mecenate guardò,
capì che altro non aveva
fatto se non girare per ore nelle vie attorno al quartiere di Virgilio,
ma
senza allontanarsene.
“Mecenate,
Mecenate” si disse. “Sei diventato un uomo molto
sciocco, o un uomo molto vecchio. Lo sai come si dice quando non si
riflette
sulle cose: o sei vecchio, oppure sei…”
Allora Mecenate si fermò e
si toccò la sua morbida faccia
non più giovanissima, e tacque: si volse di colpo e
tornò indietro lungo le vie
e le strade buie, ed ecco, si sentiva
mossa come da un sentimento di determinazione e confusione
insieme.
Sentiva come se da qualche parte della sua mente vi fosse la risposta a
tutti i
suoi perché , il nome del sentimento che aveva cercato tanto
a lungo. C’era la
verità, insomma, tra tutti quei dubbi e quelle macchie nere
che affollavano la
sua mente; eppure, egli non poteva ancora guardare in
quell’angolo e scoprire
tutto, no, no: non poteva farlo da solo.
Così tornò
indietro, e giunse fino al palazzo di Virgilio, e
salì le scale senza incontrare nessuno; e ugualmente,
nessuno rispose ai suoi
colpi. Egli bussava, ma Virgilio non apriva. Continuava a bussare, e
gli pareva
che quei colpi rintoccassero nella notte come lugubri suoni degli
inferi.
Perché Virgilio non gli apriva?
Allora, preso dal panico, Mecenate si
diresse alla porta di
fianco; bussò; gli fu chiesto chi fosse.
“Sono Gaio Cilnio Mecenate;
potete aprirmi?”
Ora c’era un uomo austero
di mezza età, che ben doveva
conoscere il suo nome; e Mecenate si affrettò a spiegarsi.
“Signore, buonasera.
Voi conoscete Publio Virgilio Marone, non è vero?”
“Certo. È il mio
vicino” replicò l’uomo con calma, senza
scomporsi.
“Temo che si senta
male” disse Mecenate. “E vorrei andare da
lui, ma non posso, poiché egli, in preda ai suoi attacchi,
è incapace di
aprirmi la porta, e io sono molto preoccupato. Vorreste essere
così gentile da
lasciarmi passare per la vostra finestra?”
L’uomo lo
scrutò: Mecenate era bello e ben vestito, ed era
famoso, e il suo volto pareva segnato da infinite rughe di
preoccupazione. Ma
Mecenate, prendendo per recalcitranza la sua esitazione, estrasse dal
mantello
un sacchetto e glielo porse, dicendo seriamente: “Vi
pagherò per l vostro
disturbo, ma vi prego, un minuto per passare dalla vostra finestra! E
se volete
potrò pagarvi ancora.”
L’uomo guardò la
borsa che Mecenate gli offriva. Era un
borsetto modesto, che chiunque avrebbe potuto portarsi dietro, eppure
tintinnava in modo invitante, e a offrirglielo era un uomo molto ricco
e forse
molto disperato, un uomo che forse in quel momento si curava di tutto,
fuori
che del proprio denaro.
“Va bene” gli
disse. “Venite. Ho una finestra che dà accanto
alla sua; potete passare, se ci riuscite.”
Lo fece passare. Mecenate
attraversò un modesto appartamento
che non guardò minimamente.
C’era una finestra non
molto grande, ma Mecenate, affacciandosi
e sporgendosi col busto, ne vide un’altra esattamente di
fianco. Distava forse
un metro, e Mecenate ringraziò quell’uomo di tutto
cuore e gli diede il denaro;
poi si arrampicò sulla finestra e
s’inginocchiò in precario equilibrio sullo
stretto davanzale.
Ecco, egli era ora inginocchiato sul
davanzale di una
finestra a sei, forse sette metri di distanza dal suolo. E
cos’avrebbe pensato
Ottaviano, di più, cos’avrebbe pensato
l’intera Roma, e quale scandalo vi
sarebbe stato, alla vista di Gaio Cilnio Mecenate, cavaliere etrusco,
l’uomo
più ricco di Roma, in bilico a sei metri dal terreno, in
piena notte, sul
davanzale della finestra di un estraneo, in procinto di entrare di
straforo
nella casa del suo protetto Virgilio? Oh, che scandalo, che disonore!
Sì,
Mecenate sarebbe morto se questo si fosse saputo, se soltanto una voce
si fosse
diffusa a Roma di tutto questo. Ma allo scandalo, ora, era bene non
pensare.
Il suo mantello non era pesantissimo,
ma neppure leggero, e
lo sbilanciava non poco penzolando dall’una o
dall’altra parte. Oltretutto, se
si fosse sollevata anche solo una breve raffica di vento, cosa non rara
in
quella stagione, il mantello gli sarebbe svolazzato intorno
impacciandolo. Perciò
Mecenate si slacciò il soggolo dorato e guardò il
suo prezioso mantello di lana
spagnola cadere e appiattirsi sulle lisce pietre della strada
sottostante. Poi
si fece forza, prese coraggio e si protese, tendendo al massimo tutti i
deboli
muscoli del suo corpo sedentario, e si aggrappò alla
finestra vicina. Vi erano
due imposte, in quel momento accostate, e Mecenate si calò
all’interno
scivolando; e nel calarvisi, guardò di sotto e vide
l’ultimo, miserabile resto
della sua dignità perduta, immobile sulla strada. Era
finita, ormai. Quel ricco
mantello perduto gli provava che, qualunque cosa potesse accadere in
quella
casa, nulla sarebbe stato lo stesso di ieri e degli anni passati.
“Che
diamine…ehi, chi c’è?”
Era la voce di Virgilio, che si
avvicinava dalla stanza di
fianco e apriva la porta. Si diffuse dalla porta uno spiraglio di luce,
e
Mecenate si scoprì imbarazzato e vergognoso lì
sul pavimento come un
ladruncolo, come un volgare amante. Virgilio era rimasto immobile sulla
soglia,
incredulo: lo aveva
riconosciuto nella
flebile striscia di luce proveniente dalla stanza di fianco, e la sua
vista lo
aveva sconvolto. Lo fissava.
“Ma…Mecenate!
Sei impazzito? Cosa ci fai qui?”
Ma Mecenate non rispose.
“Oh, ma tu sei pazzo! Sei
passato dalla finestra? Ma…ma come
hai fatto? Da dove sei passato?”
Mecenate si alzò in piedi
con cli occhi acciecati dalla
luce, ma ostinatamente fissi su Virgilio; allargando le braccia,
mormorò: “Ho
pagato il tuo vicino perché mi facesse passare dalla sua
finestra.”
“Hai pagato Tito? Oh, ma tu
sei impazzito per davvero! Sei metri
almeno da terra! E quanto gli hai dato?”
Era una fiumana di domande incessanti
che gli si addiceva
ben poco: ma Mecenate alzò dolcemente le mani per fargli
cenno di smettere, e
Virgilio si quietò.
“Ho capito la
verità” disse. La sua voce era bassissima e
rauca, ma Virgilio pareva pendere dalle sue labbra.
“Io…avevi ragione,
Virgilio. Tutti questi anni senza capire, senza…sono stato
uno stupido”
soggiunse con semplicità, arrossendo vagamente, ma senza un
vero imbarazzo:
sorrideva. “Ma ora ho capito la verità, e mi
dispiace, mi dispiace di non
averla capita prima. Ma nondimeno sono qui, ora, e tutta la mia
dignità, tutto
il mio onore, li ho buttati via per te, nell’arrampicarmi da
quella finestra
come un malvivente…e quello che ne resta, ammesso che ne
resti qualcosa, lo
depongo ai tuoi piedi e puoi farne ciò che vuoi. Ho capito
la verità,
finalmente. Ti amo, e perdonami se ho tanto tardato a
capirlo.”
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Capitolo 10 *** Calabri me rapuere. ***
“Mecenate,
oh Mecenate, è terribile! Fa’ sellare un cavallo,
presto!”
Il
sole ardeva limpido fuori dalla finestra e Mecenate si accorse, nello
svegliarsi bruscamente, di essersi appisolato senza volerlo sul lettino
della
sala e di aver dormito per almeno due ore. Balzato giù
seduta stante dal
lettino, egli accorse sbadigliando alla porta della sua modesta villa
di Ostuni,
presso Brindisi, e guardò fuori, tutto assonnato e cisposo. Ecco, c’era un
tale che risaliva il sentiero
tutto affannato: era il servitore di Virgilio, e
nell’accorgersene il cuore di
Mecenate diede in un sobbalzo. Ma come? Eppure egli aveva accompagnato
Virgilio
nel suo viaggio in Grecia! Si avviò a passo svelto lungo il
sentiero, verso di
lui. avrebbe voluto correre, ma ormai era troppo vecchio per poterlo
fare.
“Gneo!
Che succede? Che cosa ci fai qui?”
S’incrociarono
sulla stradina tortuosa che serpeggiava tra i campi: Gneo era tutto
rosso e
affannato.
“Mecenate,
è terribile! Il mio padrone è tornato di furia in
Italia per una gran febbre
che non accenna a passare…”
“Virgilio…malato?”
mormorò Mecenate con voce rotta. “Ma non
sarà mica grave, vero? Che cos’è?
Dov’è ora?”
“È
sbarcato a Brindisi ormai, è in una casa in fondo alla via
Appia e mi ha
mandato a chiamarti di corsa a cavallo perché tu lo
sapessi… oh, per favore,
Mecenate, fai sellare un cavallo e corri da lui, presto!”
“Va
bene” mormorò Mecenate. “Va
bene…”
Era
sbiancato d’un colpo, eppure non sembrava aver compreso
appieno ciò che Gneo
gli aveva detto. Pareva assorto, confuso. Si avviò a piccoli
passi verso la
villa, passandosi una stanca mano tra i candidi capelli sfoltiti. Gneo
lo seguiva
da presso, stravolto, tremante per lo sforzo e l’emozione,
come a volerlo
pregare di fare in fretta, di non perdere tempo, di comprendere la
gravità
della situazione; ma Mecenate non accennava ad affrettarsi.
Entrò in casa e
cominciò ad afferrare oggetti a casaccio, ora una mantella
leggera, ora una
tavoletta per scrivere, e a spostarle e rispostarle senza metterle da
nessuna
parte. Si guardava intorno, è vero, ma con uno strano
sguardo vacuo, cieco,
distaccato…
“Mecenate…”mormorava
Gneo torcendosi le mani, con tutti i suoi nervi che parevano urlare:
“Andiamo!
Andiamo!”. Ma Mecenate non si muoveva.
Infine,
come percorso da un brivido, egli si riscosse e barcollò.
Cadde seduto sul suo
lettino, vi si aggrappò con la massima forza e
urlò: “Sesto! Vieni, presto!”.
Era un suo liberto, che ancora, malgrado la libertà, forse
per non saper dove
andare, lo accompagnava e serviva, fedele come un cane; e infatti
arrivò
subito, un vecchierello incanutito e tremante, ma pieno di vita.
Alzatosi,
Mecenate si era rimesso a girare per la stanza, tornando ad afferrare
oggetti,
ma ora come spinto da una più precisa volontà: un
pesante mantello di lana, una
manciata di monete.
“Sesto,
devo partire, affrettarmi…per Brindisi… Virgilio,
ma io… ah, manda un messaggio
a Marco per dirgli che non potrò venire stasera, e fammi
preparare un
cavallo…tornerò…ma non
domani…oh, muoviti!” urlò rivolto a
Sesto, che gli
pareva attardarsi. “Prima il cavallo e poi il messaggio,
forza! Oh, stupido
vecchio” borbottò, mentre il suo mantello
vorticava e gli si avvolgeva addosso
fasciandolo. “Ma dimmi, Sesto…oh, Gneo, intendevo
dire…non capisco nulla! Com’è
accaduto? Stavo dormendo…”
Così
Gneo gli raccontò l’accaduto, tutto dal giorno in
cui Virgilio aveva incontrato
il novello Augusto in Grecia e questi, preoccupato dal suo aspetto
tanto
pallido e malaticcio, lo aveva invogliato a tornarsene in Italia. Il
patetico
viaggio in mare, le lunghe giornate interminabili che Virgilio
trascorreva un
po’ al chiuso e un po’
in coperta, sotto
un gazebo solo parzialmente coperto dai gelidi venti, ma almeno un
po’ più
aperto delle nauseanti sottocoperte, cosa che non impediva a Virgilio
di avere
nausee continue e di vomitare continuamente. E, per finire, la lunga
sosta
fuori dalla baia, ad aspettare che cambiasse la marea per entrare in
porto, e
la dolce preghiera di Virgilio al suo servitore:
“Ti
prego, raggiungi la costa in qualsiasi modo, va’ da Mecenate
e pregalo,
scongiuralo di raggiungermi, e se non vorrà venire digli che
deve venire a
salvarmi, non dalla malattia, ma nell’unico modo in cui ormai
può salvarmi.”
Ma
alla fine Mecenate fu pronto e il cavallo bardato, e il povero
cavaliere,
abbandonato Gneo, partì di corsa per Brindisi, tutto avvolto
in un grande
mantello pesante per ripararsi dal freddo del sei di dicembre,
attraverso il
vento e il gelo e, dopo poco, contro la notte e il buio e i pericoli
dell’oscurità. Egli aveva paura, ma non dei ladri
o degli assassini: sentiva
che una parte della sua vita stava vacillando e forse cedendo, e che vi
era
qualcosa cui il suo cuore anelava e che si trovava ogni momento
più vicino, e
insieme irrimediabilmente distante. Egli era solo su quella via Appia
che non
gli era mai parsa tanto ostile e buia e la percorreva di volata, senza
più
curarsi della sua grande storia, ma tutto proteso verso il grande
desiderio del
suo cuore…
Infine,
le porte di Brindisi all’orizzonte: egli continuò
ad avanzare, raggiunse la
modesta casa vicino al porto, in fondo alla via Appia, proprio come gli
aveva
detto Gneo. Eccola, la casa, il giardino, la porta. Mecenate
fermò il cavallo a
pochi passi dall’entrata, mandando una voce per avvertire del
suo arrivo. Non
ce la faceva più: non era fatto per cavalcare, lui. Non era
fatto per molte
cose, Mecenate: per cavalcare, perché era ricco e poco
atletico, e a quanto
aveva appreso negli ultimi anni, non era fatto per capire la gente. Ma
ora era
tardi per rimediare.
Si
sentiva le gambe tutte intorpidite e informicolite per il freddo e per
il
prolungamento di una posizione forzata a lui nuova, tremava in tutto il
corpo e
non gli riusciva di sollevare la gamba abbastanza da riuscire a
scendere da
cavallo: se appena provava a farlo, si ritrovava a pendere tutto da una
parte,
minacciando pericolosamente di cadere.
“Aiuto!”
singhiozzò avidamente, col cuore in gola e la voce spezzata.
“Aiutatemi, vi
prego! Sono qua fuori!”
La
porta si spalancò dopo un momento: Mecenate, ancora
aggrappato alle collo del
suo cavallo, scorse un’ombra scura stagliarsi contro la magra
luce di un
camino. Un attimo dopo, era accanto al cavallo, lo staccava dalla
sella: era
Plozio Tucca, amico di Virgilio.
“Mecenate!
Ti ha mandato a chiamare Gneo, vero?”.
Mecenate
gli rivolse uno stanco gesto d’assenso, appoggiandosi a lui
con gambe molli che
non gli rispondevano più.
“Dov’è
Virgilio? È…?”
Non
riuscì a dirlo. Guardava Tucca con occhi spaventati e
imploranti. Egli scosse
il capo.
“È
a
letto. Prima stava dormendo, ma ora non lo so più. Oh,
fortuna che sei
arrivato! Non ha chiesto che di te da quando è sceso dalla
nave. Vieni.”
Si
diressero
insieme verso l’edificio: via via che camminava, appoggiato a
lui, Mecenate si
sentiva sempre più tornare padrone delle proprie gambe. Una
volta dentro,
percorso un breve corridoio, Tucca aprì una porta e gli fece
cenno di entrare. Lui
avrebbe atteso fuori. Mecenate entrò e chiuse la porta.
Vi
era
un lettino di modeste dimensioni al centro della stanza, che era molto
buia, a
parte per una fiammella che ardeva su un tavolo di legno. Col cuore in
gola,
Mecenate si accostò al lettino e si chinò a
guardare.
Vide
Virgilio, il suo caro e amato Virgilio, col volto reclinato su una
spalla e gli
occhi chiusi, e il suo viso di uomo cinquantenne pareva risplendere
nella luce
della torcia.
Mecenate
fu colto dai dubbi. Che fare? Svegliarlo, parlargli un’ultima
volta,
consacrargli ancora una volta la propria vita? Oppure lasciarlo
dormire, nella
speranza, seppur vana, di vederlo svegliarsi guarito? Sì, ma
se d’un tratto
avesse visto il suo petto abbassarsi nel ritmico movimento del respiro,
e poi
non rialzarsi più, senza averlo potuto salutare, baciare per
l’ultima volta…?
Ma
poi,
a toglierlo d’impaccio, vi fu il brusco risveglio di
Virgilio: d’un tratto egli
sussultò, aprì gli occhi, si agitò, lo
guardò. Il suo volto s’illuminò
dolcemente di una luce che non aveva nulla a che fare con quella della
torcia
ed egli mormorò sorridendo: “Ehi,
Mecenate…sei qui.”
“Sì”
disse l’uomo chinandosi su di lui, e a quella vista il suo
sorriso si addolcì
ancora.
“Credevo
che Gneo non ce l’avrebbe fatta. Ora sono molto
più tranquillo” disse Virgilio.
I suoi occhi erano spenti e lucidi, ma egli appariva sereno.
“Certo
che puoi stare tranquillo. Ora è tutto a posto, e tra
poco…”
Avrebbe
voluto dirgli che sarebbe tutto finito entro breve, ma non voleva
angustiarlo:
in quale senso Virgilio avrebbe inteso le sue parole? Allora gli prese
la mano
e la strinse forte, come per non volerlo lasciare. Virgilio chiuse gli
occhi e
si appoggiò alla sua mano.
“Mecenate…ascolta.
La mia Eneide, il mio poema, non è concluso. Non lo
è, anche se lo può sembrare,
perciò ti prego, mio caro, promettimi che lo farai bruciare
dopo la mia morte!”
“Ma
Virgilio, la tua Eneide…ci hai lavorato
tantissimo!” esclamò Mecenate, incapace
di trattenersi. Virgilio fece cenno di no col capo.
“Lo
so, lo so, ormai sono dieci anni, ma…sento di non essere
riuscito a esprimere
tutto ciò che volevo. Non posso pensare che il mondo legga
qualcosa che ho
lasciato incompiuto, ti prego…fallo bruciare. L’ho
detto a Tucca e anche a
Vario, ma tu sei il solo di cui mi possa davvero fidare. Me lo
prometti?”
“Oh,
stupido caro! Farò bruciare il tuo capolavoro se vuoi,
farò tutto quello che
vuoi. Ma tu ora stai tranquillo e riposati.”
“Me
lo prometti?” insisté Virgilio. Mecenate si
sentiva scoppiare il cuore nel
sentirsi affidare così, in punto di morte, quel triste
testamento, e tuttavia
non poteva sottrarsi al proprio compito.
“Certo,
te lo prometto. Farò tutto quello che vuoi, ma tu ora
riposati.”
Virgilio
appoggiò il capo alla sua mano e chiuse gli occhi, traendo
un profondo respiro.
Mecenate vide come delle gocce lucenti scintillare sulle sue ciglia
nere e
ammutolì.
“Ehi,
Mecenate” mormorò ancora Virgilio con voce rauca.
“Ti ricordi quella notte,
tanti anni fa…quella notte in casa tua, quando avevo preso
quella cosa e tu
restasti per tutta la notte con me?”
“Certo
che me ne ricordo” rispose Mecenate.
“È
proprio come allora, eh? Proprio come quella notte.”
“Certo,
mio caro” disse Mecenate a bassa voce.
“Ma
io ero molto più giovane. Ed ero molto più bello,
eh? Ti ricordi com’ero? Con le
mie tuniche colorate e i miei mantelli…”
“Me
lo ricordo” disse Mecenate con voce spezzata.
“Dovrai
accettare la mia morte, lo sai. Tutto accade per un motivo, il logos
che guida
le nostre esistenze. E comunque, prima o poi torneremo su questa Terra,
noi
vite mortali, e io e te ci ameremo ancora. Come ci siamo amati in tutti
questi
anni a Roma, e come forse ci siamo amati in infiniti cicli passati,
senza che
ce ne ricordiamo.”
“Sarebbe
bello” convenne Mecenate con voce infranta. “Ma
riposa, ti prego, mio caro
sciocco, riposati un po’.”
“No,
non voglio risposarmi. A che cosa servirebbe? Non mi resta molto tempo
e voglio
passarlo con te. Ma tu non agitarti, eh! La mia morte avrà
qualche ragione che
io e te non conosciamo, che forse nessuno conosce, ma che di certo
c’è. Forse non
avrei dovuto andare in Grecia, ma ormai è troppo tardi. Il
mio viaggio mi ha
ucciso, ma ti prego, non avercela con me.”
“Non
ce l’ho con te.”
“Forse
mi odi un po’, perché se fossi rimasto a Roma,
forse ora non starei per morire.”
“Virgilio”
lo interruppe Mecenate con le lacrime agli occhi “Da quando
ti ho conosciuto,
non ti ho mai odiato meno di così.”
Virgilio
spalancò gli occhi e ridacchiò dolcemente.
Mecenate si sentiva stringere il
cuore: gli sembrava che Virgilio si stesse sempre più
allontanando da lui,
anche se lui avrebbe voluto opporsi, combattere, salvarlo, strapparlo
dalla
strada che aveva intrapreso…
Poi
Virgilio
trasse un sospiro profondo e reclinò il capo sulla spalla,
chiudendo gli occhi,
e disse quasi senza voce: “Mecenate,
ascoltami….promettimi che sarai molto
calmo dopo la mia morte, che starai tranquillo e che ti ricorderai di
tutte le
cose che ci siamo insegnati in questi anni. Com’era che
diceva Catullo? Ma ora
non c’è tempo per mille baci. Dammi
l’ultimo bacio di questa vita, caro, e non
scordarti di me.”
Mecenate
si asciugò in un tremito le guance, si chinò e
baciò le labbra di Virgilio,
labbra secche e fredde ormai quasi spoglie di vita. E, mentre era chino
su di
lui, sentì d’un tratto il suo petto alzarsi e non
più ridiscendere, proprio
come aveva temuto…rimase a lungo immobile, chino, sul suo
volto, ma a poco a poco
se ne allontanò e lo scrutò con doloroso affanno:
dov’erano i suoi respiri? Dov’era
la vita che esalava da lui, dov’era quella dolcissima vita
che era stata anche
la sua, per un certo periodo? Gli era forse rimasta sulle labbra mentre
lo
baciava?
“Virgilio!”
Vi
fu
rumore di passi, di grida che fecero eco alle sue: Tucca
entrò di corsa mentre
Mecenate si gettava sul cadavere.
“Tucca!
È morto, è morto?”
Tucca
lo guardò con occhi colmi di sbigottimento. Non poteva
vederlo, poiché Mecenate
gli ostruiva la vista, ma come mettere in dubbio la sua reazione e la
strana
innaturale immobilità di Virgilio?
“Mecenate…”
“VIRGILIO!”
Ma
Virgilio non gli rispondeva più. Era nell’unico
posto nel quale Mecenate non
poteva più salvarlo.
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Capitolo 11 *** 8 a.C. ***
“Funeris heu tibi causa
fui? Per sideras iuro, per superos
et si qua fides…”
“Ti prego” disse
improvvisamente Mecenate con voce stanca e
triste, ma con un pallido sorriso sulle labbra. Orazio ebbe un sussulto
e si
volse immediatamente verso di lui, poggiandosi una mano sul cuore.
“Mecenate” disse,
poggiando l’opera sul suo leggio. “Spero
che non ti dispiaccia se stavo leggendo la tua Eneide.”
“Figurati”
rispose Mecenate,
sedendosi lentamente su un lettino. “Ma ti prego,
non… non amo molto sentirla
leggere. Perdonami.”
“Lo
so. Perdonami tu” disse
Orazio. Guardava il suo caro protettore: gli appariva molto vecchio, e
molto
stanco. Eppure non aveva che tre anni più di lui.
Andò a sedersi al suo fianco
sul lettino, e dopo un poco mormorò: “Pare che
alla fine avesse imparato la
metrica, eh…?”
“No”
disse Mecenate “Non è
vero, purtroppo. Quando Ottaviano ha convinto Vario e Tucca a curarne
la
pubblicazione, l’Eneide era ancora piena di
errori.” Chinò lo sguardo, come
consapevole di una grande colpa, e mormorò:
“Malgrado tutti i mie sforzi, le
mie preghiere… Ottaviano ha voluto pubblicarla a ogni
costo.”
Chinatosi
verso di lui, Orazio
gli ripeté ancora qualcosa che tentava di dirgli da molto
tempo: “Non è stata
colpa tua, Mecenate.”
“Ah,
se mi fossi opposto…se l’avessi
bruciato lo stesso, malgrado Ottaviano…”
“E
se tu fossi morto, proprio
come Cicerone?” domandò Orazio sorridendo.
“L’Eneide era troppo importante per
Augusto, lo sai.”
“Ma
a che mi è valso vivere
fino a ora?” chiese Mecenate con una triste voce amara e
carica di rimpianto,
alzandosi.
Si
avvicinò al leggio e
appoggiò le mani sul poema. Le sue povere, stanche mani
ingiallite e fragili
come pergamena antica e ormai sciupata, come quei preziosi manoscritti
dell’Antico Regno che il Nilo, talvolta, restituiva. Era
proprio stanco.
“Gli
vuoi ancora molto bene,
vero?”
Mecenate
esitò, immobile.
Orazio era in piedi, fermo, alle sue spalle; ora taceva, ma la sua voce
si era
appena spenta nell’aria ed era diventata, lentamente,
silenzio: in quel
silenzio Mecenate percepiva la sua presenza, la sua attesa, la sua
pazienza.
Eppure era un’altra la presenza che avrebbe voluto percepire,
una presenza che
talora, chiudendo gli occhi e respirando appena, in quei lunghi anni
aveva
potuto illudersi di sentire, di percepire… ecco, anche ora,
come tante volte in
quei lunghi anni, ora che ristava immobile, in silenzio, gli pareva di
udir
risuonare l’aria della cara dolce amata voce di Virgilio, di
quella voce carica
ed espressiva, quella voce che talora era stata di gioia o di pianto,
di
disperazione o di tenero amore o di passione, o talora anche di rabbia,
ma di
una rabbia che Mecenate sarebbe stato lieto di subire ancora, se solo
avesse
potuto avere ancora una volta la presenza di Virgilio, lì,
in quella stanza. Ma
Virgilio non c’era, egli lo sapeva, ne era consapevole,
cosciente, e forse per
questo Mecenate non accennava a voltarsi, per il solo poter godere,
ancora per
un momento, di quella dolce amarissima illusione, che Virgilio non
fosse morto,
che la sua vita esistesse ancora e che esistesse lì, con
lui, in quella casa a
Roma.
“Gli
voglio ancora molto bene”
disse stancamente, lentamente: gli pareva per la prima volta di dire a
parole
qualche cosa che il suo cuore gli ripeteva da molto tempo.
Chinò lo sguardo di
nuovo su quelle sue vecchie odiose fragili mani ossute, poggiate su
quel suo
libro per cui provava sentimenti tanto contrastanti, e dopo un attimo
la sua
voce mormorò: “Ora va’, ti prego,
Orazio…non vorrei cacciarti, ma sono molto,
molto stanco.”
Sì,
Mecenate era stanco, era
stanco davvero. Udì un sospiro, un saluto, un suono di
passi, una porta, poi
silenzio, finalmente. Mecenate era di nuovo solo, così
com’era stato per tanto
tempo, per tutti quegli anni, solo in quella lussuosa casa a pochi
passi dal
Colosseo. Un giorno, da giovane – se si poteva dire che mai
fosse stato giovane,
lui che per quasi tutta la sua vita non si era curato mai che della
gloria e
della ricchezza, che aveva sempre anteposto il proprio nome a ogni
cosa,
persino al rispetto e alla pietà umana- da giovane,
sì, aveva forse creduto che
quella ricca e lussuosa casa fosse tutto ciò di cui avrebbe
avuto bisogno, che
non avrebbe mai provato la solitudine in quelle ampie stanze, forse che
non
avrebbe provato mai alcun sentimento davvero. Sì, un tempo
era stata questa la
sua illusione, che la ricchezza potesse mettere a tacere tutto, ogni
suo
sentimento o emozione, che quella domus bastasse a fare la sua
felicità.
Ebbene, ora Mecenate non la pensava più così, ora
avrebbe volentieri venduta o
persino regalata la sua casa, se solo con tale gesto avesse potuto
riavere
quella vita che aveva amata più della propria, in un certo
momento, e se solo
Virgilio fosse stato con lui ancora, magari per qualche giorno
soltanto, a
ridirgli tutte le cose belle che gli aveva insegnato in quegli anni.
Certo, non
che Mecenate le avesse scordate, ma avrebbe voluto ripassarle con lui.
“Ah,
Mecenate, vecchio mio”
proruppe infine, bruscamente strappandosi, come altre volte, a quel
leggio e a
quei pensieri troppo tristi e ormai noti, che in quegli anni lo avevano
sempre
condotto alle stesse conclusioni. Si toccò con le dita la
pelle fragile, gonfia
e rugosa là sotto l’occhio, e trovò che
essa era umida e fredda. Vergognoso, si
asciugò in fretta le guance bagnate e, allontanandosi dal
leggio, borbottò,
come sentendosi in dovere di giustificarsi verso quell’uomo
altero e severo che
era stato: “Ah, Mecenate, Mecenate, stai
invecchiando… piangi per un nulla e
poi ti chiedi perché.”
Ma
Mecenate lo sapeva il perché
di quelle lacrime e ancora, imbarazzato, mormorò:
“Oh, andiamo,
Mecenate…dopotutto, sono passati undici anni. A dicembre
saranno undici anni.”
Già,
undici anni. Le sue guance
erano asciutte ora. Mecenate sistemò il volume sul leggio,
stancamente, e
lentamente si avviò verso la porta. Sì, a
dicembre sarebbero stati undici anni:
sarebbe tornato a Napoli anche quell’anno, certo, ma non
sapeva se si sarebbe
sentito molto in grado, o molto in forze…
Si
sentiva stanco, stanco per
davvero.
Ecco
qua, è finito. Che dire? Era una storia nata per caso, per
giustificare i miei
continui errori nell’accentazione metrica
dell’Eneide; e ora, ecco qua, è
diventata per me una delle storie d’amore che più
mi è piaciuto scrivere, nella
quale ho versato forse un po’ dei miei ideali romantici senza
essere melensa.
Un
caldo, caldissimo ringraziamento a chi ha voluto seguire fino alla
fine, ma
anche a chi si è fermato a metà strada, magari
quando ho cambiato temi. Grazie
dunque a chi ha recensito: Smolly, OlandeseVolante, gleeklove e
Wadding; a chi
ha aggiunto la storia ai preferiti: Wadding e gleeklove; a chi
l’ha aggiunta
alle seguite: Hadi_Foltler, prelude10, Smolly e Wadding.
In
particolar modo, un grazie speciale a gleeklove e a Smolly, per aver
contribuito anche personalmente nel sostenermi.
Ma
soprattutto un pensiero a quelle grandi personalità della
cui fama ho
indegnamente usufruito, in modo spero non offensivo né
degradante: Virgilio,
Mecenate, Orazio, Ottaviano, sia che compaiano saltuariamente, sia come
personaggi protagonisti.
Insomma,
detto questo, spero che questa mia abbia saputo riscuotere un poco di
apprezzamento; spero altresì di ricevere almeno qualche
parere, positivo o
negativo che sia.
A
presto!
Afaneia
;)
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