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Non capita
tutti i giorni di fare visita ad un re.
Il vento
soffiava, quell’inverno, su Bergen, come se fosse stato agitato dagli spiriti
delle foreste in persona. E nelle terre nordiche tagliava, il vento, nel buio,
graffiando le guance ed aggrovigliando i capelli. Ogni luce, anche la più
vicina, si faceva fioca, e veniva spontaneo affrettare il passo per entrare in
casa, come se potesse sparirsene da un momento all’altro. Anche se si trattava
di un castello.
Il figlio del
Primo Ministro aveva il cuore che batteva forte, i capelli ben pettinati, le
spalle esili tirate indietro, impettito. Il padre, di fronte a tanta diligenza,
si era lasciato sfuggire un mezzo sorriso, e con intento rassicurante aveva
appoggiato piano la mano sulla schiena esile davanti a lui, mentre camminavano
di stanza in stanza.
“So che sei
emozionato.” Il ragazzino non si era sprecato a negare; già il solo tocco di
suo padre l’aveva fatto lievemente trasalire. Ora però alzava gli occhi curiosi
a lui, che aveva immediatamente soggiunto, sbrigativo ma gentile, come sempre:
“Io e Sua Maestà avremo da discutere riguardo delle riforme particolarmente
delicate, ed è il motivo per cui ci tratterremo. È stato un gesto cortese
invitarci a passare qui il Natale. Comportati sempre educatamente e non
mancherai verso nessuno.”
Il vento
fischiava, agitato dagli spiriti. Per il padre era soltanto vento di riforme,
c’è da dire. Tanto che se ne sorrideva, beatamente sordo agli ululati spettrali
della foresta. Il figlio aveva annuito, guadagnandosi una nuova stretta veloce
ma affettuosa alle spalle.
“Ora vai,
Rune.”
“Posso
davvero?”
L’uomo annuì,
distrattamente, gonfiando il petto per sistemarsi la giacca sulle spalle.
Gli occhi e
la mente già rivolte verso il colloquio impegnativo che stava per affrontare,
trovò il tempo di voltarsi, un cenno di saluto. Poi furono solo il ragazzino, i
suoi enormi occhi, e il castello.
Capitolo
I Le Stanze
Rune se ne
gironzolava per l’intera residenza, come un turista.
Di stanza in stanza,
con curiosità, con ammirazione.
Che castello
enorme.
Non era così
grande, in realtà. Gamlehaugen era molto meno imponente rispetto alla
fortezza millenaria dell’Akershus, che aveva conosciuto la voce tonante
dei primi re di Norvegia. Era più nuovo, costruito apposta come un castello
delle fiabe, più in piccolo. Come se fosse un’immensa casa di bambole. Per ogni
porta c’era una nuova stanza, ricca di meraviglie.
Per natura poco
invadente, appena tredicenne, Rune si faceva strada a piccoli passi discreti,
ascoltando le poche voci di chi passava, o di chi chiacchierava, in una stanza
lontana. Sgranava gli occhi, cercando di definire quella sorta di austera
meraviglia che lo pervadeva, così giovane ed esile.
E immenso.
E antico.
E lugubre.
C’era da dire che
Rune, giovane ed entusiasta, coglieva poco la differenza fra un maniero
millenario e un lussuoso castello residenziale, disegnato a malapena un secolo
prima. Avrebbe potuto vederne di simili, e più grandi, in Francia, o in Scozia.
Ma, ignaro di ciò, camminava contento. Tanto che, naso per aria, non si accorse
della porta massiccia che, al suo passaggio, si schiuse con un cigolio
sinistro: il rumore, però, improvviso, gli fece spiccare un salto.
Si voltò.
Silenzio.
Guardò meglio.
Ancora silenzio.
Della porta
semichiusa, tutto ciò che gli era concesso alla vista era uno spiraglietto
scuro. Uno spiraglio che avrebbe astratto irresistibilmente qualsiasi
ragazzino. Fece un passetto nella sua direzione, cercò di mettere a fuoco.
“Mh...”
Trattenne il
fiato, drizzando le orecchie. Come se venisse dal fondo della stanza
misteriosa, e poi sempre più vicino allo spiraglio, lo raggiunse un fiato, poi
una lugubre, bassa risata. Rune cacciò un gemito di sorpresa, assolutamente
impreparato ad un rumore del genere. Sbatté gli occhi più volte, avvicinandosi,
di un passo, di due:
“C’è qualcuno?”
Un altro passo
avanti. Altri due. Ed una testa sbucò dallo stipite della porta, oplà,
come una marionetta rotta. Questo gli fece lanciare un urlo, mentre cadeva
sedere a terra. Non poté in alcun modo trattenersi.
“…fufufu”
rideva la testa. Non di marionetta, bensì umana. Decisamente umana.
Quando Rune si
riebbe dallo spavento, riconobbe la figura di un ragazzo, oltre la sua testa,
poco distinguibile nel buio della stanza che si affacciava a malapena alla sua
vista. Un ragazzo forse più grande di lui, con un vago sorriso in volto, che
rimaneva in silenzio. Quando ebbe osservato bene l’ospite – o almeno, così
parve a Rune – un ghigno si fece strada, lentamente, sul suo viso pallido. Senza
metterlo affatto a suo agio.
“Ah…” arrossì istantaneamente
il figlio del Primo Ministro. Si rialzò in fretta, rassettandosi i pantaloni.
Adesso che l’aveva messo a fuoco, moriva di vergogna per la brutta figura.
“Perdonami. Non…
non ti avevo visto, e…”
Si spolverava i
pantaloni, alternando le occhiate preoccupate dai suoi vestiti al viso del
ragazzo silenzioso. Lo inquietava il fatto di non riuscire a vedergli gli
occhi, coperti dai capelli troppo lunghi. Unico segno di vita, quello strano
sorriso, che adesso si allargava, divertito, come una mezzaluna bianchissima
che gli divideva il volto pallido.
“Vieni avanti”
disse.
Rune titubò. Poi
avanzò appena, obbediente. E gli sorrise, amichevole, presentandosi per primo: “Come
ti chiami? Io sono Rune.”
Gli tese la
mano, incoraggiante.
Che rimase a
mezz’aria, mentre la voce del ragazzo si alzava, senza preavviso:
“Dovrei essere
io a chiedertelo per primo.”
Ritirò appena la
mano, Rune, senza capire. Quello proseguì, senza scomporsi affatto, senza
muoversi nemmeno, solo un ghigno spettrale dalla soglia di una stanza buia:
“Sei a casa mia.
Presentati.”
Rune era
impallidito, cominciando vagamente ad intuire qualcosa sull’identità del
misterioso ragazzo. Almeno, quello che aveva soffiato dallo spiraglio della
porta lasciava adito a ben pochi dubbi: il padrone di casa lì portava una
corona in testa. Si inchinò, all’istante, sciorinando nome e cognome, e nome e
cognome di chi era figlio, e perché si trovasse in quel luogo. Tutto sommato,
era ancora calmo. Aveva fatto un banale errore di protocollo, ma d’altro canto,
come poteva sapere? Senza dubbio a causa della situazione in cui si trovava – che
spavento, maledizione! – nemmeno riusciva a venirgli in mente un nome che
fosse uno. E dire che suo padre gliene aveva ripetuti: nomi su nomi, con grande
pazienza. Ma non riusciva a ricordare né quello, né il volto del ragazzo che,
come un fantasma, rideva soffuso sulla soglia di una porta misteriosa. Non
poteva essere figlio del re, il re era ormai anziano. Che fosse uno dei figli
del principe reggente? Se li ricordava più piccoli. Certo, sembrava poco più
grande di lui; ma, con quella scarsa luce, mezzo immerso nella penombra della
stanza da cui non usciva, non riusciva ad indovinarne con esattezza le fattezze
né la fisionomia. Quello che vedeva con chiarezza, quello sì, era il viso
pallido, affilato, solcato a metà da quel ghigno vago, quasi distratto, ed
incorniciato da una massa di capelli talmente chiari da sembrare bianchi. Erano
lisci, folti, e lo nascondevano allo sguardo. Rune si sentiva a disagio. Non
riusciva a scorgere i suoi occhi. Non riusciva a capire che espressione avesse
in realtà. Era abbastanza irreale.
“E…” decise di
rompere il silenzio, tentando con un sorriso, giusto per vagliare la reazione.
In fondo, se si dimostrava molto gentile, anche se infrangeva una o due regole
di protocollo, male non gli poteva andare, no? Comportati educatamente e non
mancherai verso nessuno, aveva detto suo padre. Quindi sorrise e tentò: “E
tu?”
Anche l’altro
sorrise – cioè, quella specie di sorriso – e rispose con un nome strano. Minos.
Era certo un
nome strano per quelle terre, e nonostante questo Rune non lo trovò, lì per lì,
più strano di tanti altri. D’altro canto – ma come poteva saperlo, il giovane
Rune sovrappensiero che gironzolava per un castello da fiaba – anche quello era
il nome di un re, e ben più antico dei loro.
“Tuo padre”
proseguiva l’altro, dal suo angolino buio “è al ricevimento da molto. Perché te
ne gironzoli tutto solo?”
Il tono della
voce andava abbassandosi mano a mano. Toglieva il respiro.
“Io…” Rune si
trovò improvvisamente con il fiato sospeso, e si sorprese a cercare uno sguardo
che non gli riusciva neanche d’intravedere. Poi confessò, ingenuamente: “…ecco,
mi annoiavo a restare in camera.”
E fatto ciò, provò
ancora a guardarlo negli occhi: era un ragazzino timido, ma niente affatto
sottomesso. In compenso, l’altro non pareva aver voglia di dargli una risposta.
Al contrario, gli girò le spalle, e s’infilò nella stanza buia.
“Ah…” Dalla
soglia, senza entrare, Rune tentò: “Ma perché stai al buio?”
Lui non rispose,
se non: “Vieni.”
Inspiegabilmente
attratto, Rune entrò.
Cerò di far
abituare gli occhi al buio, cauto.
“Dove sei?”
“Mmmh. Qui.”
La voce si
muoveva come se procedesse senza colpo ferire, verso un punto ben preciso. Ma
Rune non fece in tempo a raggiungerlo, neanche tentoni, che Minos aveva
spalancato le tende, portando la luce in una stanza piena di marionette e di
bambole. Rune d’istinto si coprì il viso con le mani, per contrastare la luce,
che, benché scarsa, arrivava improvvisa.
“Hai paura?”
Quando i suoi
occhi cessarono di protestare abbassò le braccia, piano piano: “No… perché
dovr-?”
Poi tacque. Aveva
visto le bambole. Per un attimo non osò muoversi, spalancando gli occhi sullo
strano scenario, cercando di scacciare la sensazione d’inquietudine.
“Perché ti sei
coperto gli occhi” sussurrò un fantasma al suo orecchio.
Rune sobbalzò e
si girò di scatto. Quando era arrivato alle sue spalle?
“Per…”
Incontrò degli
occhi giallissimi. Dorati, come quelli delle fiere.
Come quello
delle lucertole e dei draghi. Dei falchi dall’aria maligna.
“Per la luce…”
riuscì a mormorare, incapace di distogliere lo sguardo: il ragazzo non
sorrideva più. Questo lo agghiacciò oltre l’umano dire. Fece un passo indietro,
prima ancora di accorgersene. Fu allora che si ridelineò un sorriso sulle
labbra esangui dell’altro, che ora lo lasciava per andare a controllare le
lampade, ancora spente sui tavolini. Prese ad accenderle. Rune riprese contatto
con la realtà.
Si guardò
attorno di nuovo. Era una stanza abbastanza grande, tappezzata elegantemente, e
la luce bastò per rassicurarlo. Era una stanza delle bambole, si disse.
Eccentrica, ma d’altro canto non si trovavano in un posto ordinario.
“Sono tutte tue?” domandò.
Certo che rimaneva
comunque strano. Riportò gli occhi su quello che si era detto il padrone di
casa. Non gli sembrava tipo da collezionare bambole.
“Sono tutte mie.
Anche quello.”
Ora che luce –
poca, ma chiara – illuminava la stanza, Rune poteva vedere Minos. Il suo aspetto
era assolutamente nell’ordinario, se si escludeva forse lo strano taglio di
capelli che gli nascondeva gli occhi. Ma non era particolarmente magro,
nonostante il viso affilato, né di aspetto malato, nonostante il pallore. Non
camminava curvo, come uno spirito afflitto o un fantasma. Al contrario, se ne
stava ben dritto, le spalle indietro. E gli stava indicando il teatro delle
marionette.
“Mh…” Il
teatrino gli parve subito sinistro. Tanto quanto le bambole che riempivano la
stanza, se non di più. Cercò di scacciare l’impressione, avvicinandosi, e
sbirciando il teatrino da dietro la spalla di Minos. Era davvero più alto di
lui. Forse non era solo un anno a separarli. Forse erano due o tre.
“Guarda. C’è
anche Nøkken” fece lui, con voce profonda, come a confermare le sue teorie.
Allungò le dita lunghe e pallide verso il burattino più vicino, sollevando la
sua testa di cavallo, bianca, intagliata nel legno. “Il genio che abita nelle
acque e nei fiumi.”
“Ma è malvagio!
Fa annegare i viandanti!”
“Certo che lo è.”
Prima che Rune
potesse rendersene conto, un nuovo ghigno si ridipinse in faccia al ragazzo,
che ora infilava la mano sotto la stoffa, dando vita a quell’inquietante testa
animale. La fece muovere su e giù, lentamente, e Rune si ritrovò a
rabbrividire, ringraziando che l’artista non avesse dato agli occhi bianchi di
quel cavallo pupille che potessero fissarlo.
“Egli alletta le
sue prede per trascinarle in acqua con sé” proseguiva intanto Minos, quasi
cantilenando. Era una storia vecchia, quella del Nøkken. Uno dei tanti spiriti
che popolavano le foreste norvegesi. “E sente sempre quando qualcuno sta
affogando.”
“È spaventoso”
commentò subito Rune, di cuore. “Come fa a non spaventarti?”
“Sono io che lo
manovro” fu la pronta risposta. “Come potrebbe spaventarmi?”
Rune tacque. E
Minos prese a far danzare il burattino, avvicinandolo delicatamente a loro,
quasi volesse renderlo più innocuo, ai loro occhi.
“Quando voglio,
egli danza. Non può farmi del male. Se volesse farlo…” qui s’interruppe, serio.
Smise anche di muovere il burattino. “…posso anche ucciderlo.”
Il burattino
cadde con un tonfo sordo a terra. Naturale. Il pugno serrato, erano bastati un
paio di lievi scossoni per sfilarselo di dosso. Nøkken giaceva immobile a
terra. Rune sussultò, e fece un passo di lato verso Minos. Anche lì in basso lo
inquietava, non c’è che dire.
“È vero” diede
comunque ragione al ragazzo. Ma gli prese, istintivamente, un braccio.
Quell’affare, da terra, lo guardava.
“Nessuno di loro
può farmi del male” alzò la voce Minos, senza nemmeno curarsi della presa al
suo braccio. Invece, indicò con un ampio gesto, da banditore, le meraviglie
della sua collezione di marionette. “Non lo faranno nemmeno a te, se non glielo
dico io.”
Rune annuì. Non
ci credeva poi tanto. Se fosse stato altrove, avrebbe sorriso. Ma in quella
stanza era tutto molto realistico.
“Non glielo
dire” gli chiese, ad ogni buon conto. Quello che non si aspettava, dopo quella
richiesta, a dire il vero, era il silenzio. Minos si voltò verso di lui con
un’espressione inspiegabilmente cattiva, un ghigno feroce.
“Se non mi
fai arrabbiare, no.”
Allora Rune
lasciò la presa di colpo, terrorizzato da quel sogghigno, e arretrò davvero.
Inciampò nel
burattino. Cadde a sedere con un tonfo, e anche allora non smise di arretrare.
L’altro, con suo
terrore, avanzò verso di lui di scatto, e lo prese per il braccio, forte,
strattonandolo su. Rune si ritrovò in piedi, vicinissimo a lui. Scosse la
testa, facendo cenno di no con la testa, gli occhi enormi. Non ti farò
arrabbiare. Deglutì, senza riuscire a trovare la forza di parlare.
“Non…”
Ma Minos lo
stava già spingendo fuori dalla stanza.
E fu
un’esplosione di colori, di luce, e di una lunga risata.
~ Gamlehaugen’s
cornerbyRen_chan
Sì, è una Minos/Rune. Eh, lo
so che non sono tra i personaggi.
Ci mobiliteremo per chiederne
l’inserimento. u_u
Chiedo immensamente perdono
alla famiglia reale norvegese, il cui sito ufficiale – sì, embè, io mi
documento, sapete? – mi fa lollare tantissimo, per quello che sto facendo.
Ovviamente questo non significa che me ne penta. Ma di questo parlerò in
seguito, con una nota apposta a seguire il prossimo capitolo; per ora sappiate
che questo è esattamente il background che io e LeFleurDuMal
desideravamo per Minos. E anche per Rune, naturalmente.
Questa fanfic sarà composta
sicuramente da tre capitoli, stando al suo progetto originale e per la storia
che abbiamo da raccontare. È di tutte e due, ma sarò io che la scriverò, quindi
gli insulti per la forma a me, prego (è un sacco che non leggo romanzi
vittoriani, che potrebbero essermi d’aiuto, e si vede ç_ç).
Essa tratta, come avete
potuto leggere, dell’incontro tra Minos e Rune, prima che il sigillo dei 108
specter fosse rimosso e i due non avevano ancora coscienza di cosa fossero
destinati ad essere. Forse.
Troviamo deliziosa la
coincidenza che Giudice e Procuratore siano entrambi norvegesi: siamo
assolutamente certe che Minos se lo sia portato dietro, Rune, che ha
esattamente la faccia di chi è nato per fare il suo segretario. Orsort
of. E, naturalmente, abbiamo scelto per entrambi un’origine di tutto
rispetto.
Tre capitoli sicuri, quindi,
ed uno spiraglio aperto verso l’idea di proseguire: dipende da molte cose. Voi
fateci sapere se vi piace, intanto! :*
“Nessuno di
loro può farmi del male” alzò la voce Minos, senza nemmeno curarsi della presa
al suo braccio. Invece, indicò con un ampio gesto, da banditore, le meraviglie
della sua collezione di marionette. “Non lo faranno nemmeno a te, se non glielo
dico io.”
Rune annuì. Non ci credeva poi tanto.
Se fosse
stato altrove, avrebbe sorriso.
Ma in quella stanza era tutto molto
realistico.
“Non glielo
dire” gli chiese, ad ogni buon conto. Quello che non si
aspettava, dopo quella richiesta, a dire il vero, era il silenzio. Minos si
voltò verso di lui con un’espressione inspiegabilmente cattiva, un ghigno
feroce.
“Se non mi fai
arrabbiare, no.”
Allora Rune
lasciò la presa di colpo, terrorizzato da quel sogghigno, e arretrò davvero.
Inciampò nel
burattino. Cadde a sedere con un tonfo, e anche allora non smise di arretrare.
L’altro, con
suo terrore, avanzò verso di lui di scatto, e lo prese
per il braccio, forte, strattonandolo su. Rune si ritrovò
in piedi, vicinissimo a lui. Scosse la testa, facendo cenno di no con la testa,
gli occhi enormi. Non ti
farò arrabbiare. Deglutì, senza riuscire a trovare la forza di parlare.
“Non…”
Ma Minos lo stava già spingendo fuori dalla
stanza.
E fu un’esplosione
di colori, di luce, e di una lunga risata.
Capitolo
II I corridoi
Inondati dalla
luce calda delle lampade, era uno scenario che cambiava totalmente, come uscire
strappati da un sogno, con una risata fragorosa:
“Sono leggende! Sono soltanto vecchie leggende!”
Il freddo dei
corridoi pungeva la mente, come un sano risveglio. Gli addobbi natalizi che
decoravano le sale, i quadri, tutto rifletteva nuove luci, più calde. Attorno
era un coro di voci, passi, qualche musica lontana. Tutt’un’altra
cosa. Minos rideva, trascinandosi dietro Rune, senza
più quella presa di ferro sul suo braccio.
“Non ci avrai
creduto?” Si voltò a guardarlo, sempre camminando, da sotto la foltissima
frangia. “Il figlio del primo ministro è un vero credulone.”
Poggiò due dita
sulle labbra, senza staccare lo sguardo, nascosto, dal suo giovane ospite: “Fufufu.”
Appena fuori
dalla stanza, Rune sembrò capace di ristabilire un contatto con la realtà, come
se il tempo avesse ripreso a scorrere, e l’ossigeno tornò ai suoi polmoni. Si
rese conto di avere trattenuto il respiro, e ne prese uno
bello profondo. Anche se stava quasi correndo, trascinato dal passo veloce di
Minos, gli sembrò finalmente più facile inalare aria. Quando poté fermarsi,
tirò via il braccio dalla presa di Minos, delicatamente, senza strattonare.
“Non
ci ho creduto. Scherzavo” disse, anche se sentiva ancora il cuore in gola.
Ripensò alla stanza. Erano solo bambole.
Minos parve
intuire i suoi pensieri, perché gli rivolse un altro
sorriso di quegli strani, che parlava di nuovo di bambole e marionette, e di
spiriti che annegano nell’acqua. Ma un momento dopo
quell’espressione era già spariva, e camminava con un sogghigno più neutrale,
vago, per i corridoi. Pareva che sogghignare per quel ragazzo fosse più una specie
di abitudine che altro. Rune ebbe un ultimo tremito,
residuo dell’inquietudine di prima, e lo seguì. Fosse anche solo per
allontanarsi da quella maledetta stanza.
“Ma tu non dormi lì” notò diligentemente, ricordando che non
c’erano letti. “È la stanza da gioco?” domandò, ingenuamente. Dopotutto era un
castello di re.
“È la stanza
delle bambole” fu la neutrale risposta, che lasciava intendere come un ragazzo
cresciuto preferisse il collezionismo al baloccarsi.
“Capisco” rise
Rune. “Ti sarò sembrato sciocco. Ma non ero mai stato in un castello come
questo, prima d’ora.”
La risata suonò
argentina, tra quelle vecchie pareti. Tanto che Minos non rispose, proseguendo
la sua camminata spedita sino alla fine del corridoio. Lo condusse, con sua pacata sorpresa, fino alle porte della sala dove Rune aveva
lasciato il padre, poche ore innanzi. Il giovane lo seguiva, docilmente.
Riprese a guardarsi intorno, rassicurato.
“Tu aspetta
qui.” La voce dell’altro lo riscosse, quasi. “L’udienza di tuo padre terminerà
a breve.”
“Sì.”
Si fermò,
obbediente, mentre l’altro proseguiva per il proprio cammino, di buon passo. Lo
vide imboccare quasi subito un corridoio a destra, sparendo alla sua vista.
Incerto, si domandò se avesse in mente qualcosa, o se il principe avesse
semplicemente lasciato intendere che aveva altro da fare. Il principe,
tornò a ragionare il ragazzino, ancora senza capacitarsene. Ma
era poi vero? Il suo volto non gli era noto. L’albero
genealogico della famiglia reale continuava ad affacciarsi ordinato alla sua
memoria, senza che il nome di quel ragazzo riuscisse a trovare una collocazione. Passò diversi minuti a
questo modo, spostando lo sguardo sui soffitti alti, sugli arazzi alle pareti. Decisamente, meglio ovunque che in quella stanza, si ritrovò
a pensare.
Ad un tratto dovette cessare di guardarsi
svagato attorno, come il cigolio delle pesanti porte gli annunciò l’arrivo del
re, vecchio e in forma, a fianco del suo primo ministro, circondati da un
corteo di funzionari ed altre personalità di alto rango. Gli uomini erano
preceduti dal brusio della conversazione, che, intavolata a mezzo, ancora non
interrompevano. Rune aderì quasi al muro con la
schiena, per non dare nell’occhio, ed accennò un inchino al passaggio del
sovrano. Vide con la coda dell’occhio il padre allungare il capo, riconoscerlo,
ed esibire un largo sorriso.
“Rune! Vieni qui, Rune.”
Sembrava molto
soddisfatto, più del solito. Evidentemente la riunione era andata molto bene.
Rune accorse, solerte, ed accennò un nuovo inchino col
capo, incerto sul protocollo.
Il re si limitò
a sorridere, educatamente, al ragazzino dagli occhi grandi che lo guardava come
se fosse stato quell’anzianotto in persona a edificare la fortezza dell’Akershus, scavando la pietra nera
ed erigendo le torri possenti a vegliare su tutta Oslo. Ad ogni buon conto, si impettì,
mantenendo un’aria di studiata indulgenza; certo, era facile fare colpo sui
ragazzini, ma assunse lo stesso quella posa, quella da chi potrebbe, per un
ghiribizzo qualsiasi, decidere di aggiungere una torre o due, per dire. Rune ci
cascò con tutte le scarpe.
“Rune, figlio
mio. Io e Sua Maestà abbiamo parlato anche di te, lo sai?”
“Di me?”
Il padre rise,
scambiò un veloce sguardo con il re impettito, e confermò: “Pensiamo di averti
trovato un compagno di giochi.”
A questo, il re
rise. Parlare di compagni di giochi a quell’età era veramente buffo. Rune infatti arrossì, trovandolo ben poco divertente.
“Compagno di
giochi. Mh, sì. Chissà che non possa servire, per una
più stabile collaborazione tra corona e governo, un contatto tra le generazioni
più giovani.”
“Saggia
considerazione, Vostra Maestà.”
“Rune, vero? Avvicinati, Rune. Voglio presentarti mio nipote. È un principino, sai.”
“Mi… mi lusingate, Maestà” balbettò quello, profondamente incerto, ma
composto. Allora si trattava di lui? La confusione che aveva in testa
non lo aiutava a reagire con il giusto tempismo. Di quale principino stava mai
parlando il re di Norvegia? I suoi nipoti non raggiungevano la decina d’anni!
Questo tuttavia non impedì a Sua Maestà di farsi di lato per lasciare passare e
palesare il maggiore dei figli di suo figlio. Quello
illegittimo, certo, e mai riconosciuto.
Il re,
snocciolando nomi, cognomi, circostanze, titoli e formule di rito, sorrideva.
Ce la mise tutta e compensò con un gran sorriso l’insopportabile, impenetrabile
sogghigno del giovanotto che non si era mai impegnato particolarmente per farsi
benvolere, a corte, con i suoi modi stravaganti. Ne erano tutti discretamente
terrorizzati, a dire il vero. Rune per primo sbiancò e
rischiò il collasso.
“Vostra
Altezza.” Il Primo Ministro diede prova della sua
scarsa empatia una volta di più, sorridendo come se si stesse proponendo un
picnic all’aperto, e spinse avanti il sangue del suo sangue in pasto al figlio
spiritato di Sua Altezza Reale: “Questo è mio figlio, Rune!”
“Ehm…”
“Molto
piacere, Rune.”
Sibilò Minos,
tendendo avanti la mano. Perché gliela baciasse, ovviamente. E prova a darmi
del tu adesso, era il messaggio del suo immancabile sogghigno. Rune rimase imbambolato per un attimo, dopo un capogiro da
record. Poi, tentennante, fece quello che esattamente ci si aspettava da lui: si inchinò, e baciò la mano che gli era stata porta.
“Spero che
diventeremo ottimi amici.”
Il re
ignorò il tono di voce affatto rassicurante con cui il nipote stava dando
spettacolo, e il lampeggio furibondo degli occhiacci gialli. Ora che aveva
visto Rune, era ottimista: sembrava così dolce e rassicurante, il compagno
ideale per limare gli spigoli del carattere di quell’erede intrattabile. Che
comunque erede non sarebbe mai stato, com’era stato accuratamente deciso. Il
Primo Ministro, da parte sua, era ottusamente felice. Rune ritrovava
l’innocente sorriso di giovane norvegese senza ombre: “Lo spero anche io.”
Una manica di
poveri illusi, insomma.
Minos inclinò
appena il capo di lato, senza smettere di sorridere. Come una marionetta, di
nuovo. Rune rabbrividì, di un brivido involontario, ma
lui pareva divertito, quindi timidamente gli ripropose un sorriso. La voce del
re li interruppe, anche se era rivolta al suo primo ministro:
“Direi che
possiamo anche lasciarli. Rune si ambienterà
benissimo, già lo so.”
“Allora possiamo
andare?” strascicò mellifluo Minos, senza onorare il nonno di alcun
appellativo.
“Andate, andate!” rimase gioviale, il monarca, contando che gli era
anche andata bene. “Gamlehaugen è vostro!”
Un intero
pomeriggio libero si srotolava come un tappeto davanti ai due ragazzi, liberi
di fare sostanzialmente tutto ciò che aggradava loro, e Minos aveva tutta
l’aria di chi ha intenzione di godersi le vacanze di Natale, prima di ritornare
al college. L’Inghilterra era noiosa, di quel periodo. E in più aveva trovato
un nuovo giocattolo.
“Tanto per
cominciare” ghignò spietato, il giovane principe, incedendo lungo i corridoi
con finalmente un galoppino a disposizione “che ne diresti di utilizzare una
forma più rispettosa, quando ti rivolgi a me?”
Rune sbatté gli occhioni e replicò,
prontamente, disponibile: “Come vuoi che ti chiami?”
Era uno di quei
ragazzini che non hanno mai ricevuto punizioni corporali, e che se mancano di
rispetto lo fanno in buona fede. Ciò non lo salvò dall’occhiata superiore
dell’altro ragazzo, e dal tono improvvisamente duro con cui lo apostrofò:
“Come ti
appelleresti ad un membro della famiglia reale, Rune?”
Rune sussultò. Non ci aveva pensato. Aveva creato una sorta di intimità, quel primissimo incontro, che l’altro
evidentemente non condivideva. Chinò il capo, diligente, un filo di voce:
“Perdonate, Vostra Altezza.”
“Così va meglio”
lo gratificò soddisfatto l’altro, smettendo di camminare per godersi il
risultato delle sue parole.
I suoi repentini
cambi di umore disorientavano Rune, che non sapeva esattamente come porsi nei
suoi confronti. Si limitò a raddrizzarsi, decidendo di lasciare a lui ogni più
piccola iniziativa, e lo guardò, senza dire nulla, se non con i suoi occhi
grandi. Minos li contemplò, pensando che fossero molto interessanti. Erano gli
occhi di una persona innocente, innocente come non
aveva mai visto nessuno, nemmeno i suoi coetanei. Soprattutto i suoi coetanei.
Gli voltò le spalle, camminando a passo spedito, pensando a quale godimento gli
avrebbe procurato gettare nel fango una creatura di quel genere.
Nelle piccole
passeggiate che compirono per Gamlehaugen, quel primo
pomeriggio, Rune si limitò a seguire Minos, sempre rispettosamente di un passo
indietro, senza osare chiedere nulla. Ma con sua grande sorpresa Minos si
limitò concludere i loro giri semplicemente al primo
piano, sui quali gradini tornò a rivolgergli la parola:
“Ti hanno già
fatto vedere dove dormirai?”
“Sì, in verità,
Vostra Altezza” si affrettò a rispondere lui.
“Mh. Immaginavo.”
“Vi ringrazio…”
saltellò un paio di gradini in fretta, per affiancarlo, con un sorriso “…per questa opportunità. Per me è un grande onore crescere al
fianco del principe di Norvegia.”
Minos rimase in
silenzio, senza sprecarsi a confermare. Dopotutto, non l’aveva nemmeno deciso
lui. In quel silenzio, si limitò ad indicare una
porta, poco più in là. La sua.
Interpretando il
suo silenzio, Rune aprì la porta della propria camera, rimanendo però fermo
sulla soglia. Minos annuì, svogliatamente, e si defilò quasi immediatamente,
congedandosi laconico: “Se avrò bisogno di te, ti chiamerò.”
“Ma…”
Inutile. Se ne
era già andato. Rune provò a fare qualche passo e a
sporgersi dalla scala: “Aspettate!”
Silenzio. Fece
solo in tempo a vedere la sua ombra dileguarsi per il corridoio. Non gli rimase
che entrare, decidendo di restarsene buono e fermo lì fino a nuovo ordine: per
quanto lo riguardava, aveva avuto l’impressione di averlo
contraddetto anche troppo, il giovane principe, per quell’oretta scarsa che
avevano trascorso assieme. Inoltre ne aveva avuto abbastanza di aggirarsi da
solo per i corridoi, quindi si accinse ad obbedire.
Entrò in una stanza elegante e ben tenuta, la stessa che lo aveva accolto
quella mattina. Rune notò anche che le sue valige
erano già state fatte portare ai piedi del letto, così si risolse a disfarle,
per prendere tempo, e per tenere occupate le mani mentre la testa era piena di
pensieri. Chissà quando avrebbe sentito bussare alla porta, e chissà per quali
nuove passeggiate sarebbe stato condotto.
Per aspettare, aspettò.
Aspettò tra le
luci calde e le voci del castello. Aspettò tanto che si spensero.
Aspettò sino a
che i lumi furono bassi, e che il cielo, già scuro, si facesse nero.
Allora rinunciò
e si infilò il pigiama e si intrufolò a letto,
interrotto nell’operazione solo da suo padre, che era passato per la
buonanotte, e per farsi raccontare le sue impressioni sulla giornata. Avevano
parlato per un po’, e il primo ministro si era dimostrato orgoglioso
dell’onesto entusiasmo che il figlio lasciava trapelare: il brav’uomo temeva di
aver caricato le sue esili spalle di un peso troppo
grande, ma calata la sera era bello poter contemplare il suo visetto bianco
animato da quel genere di sorriso capace di confortarti e rassicurarti che
andava tutto bene, anche dopo una giornata passata a discutere su ogni più
piccolo comma dimenticato da Dio. Gli fece una carezza affettuosa tra i capelli
biondi, e lo benedisse ad alta voce, di cuore. Poi lo lasciò coricarsi, e gli
spense la luce, come faceva anni prima, quando lo portava a letto già
addormentato. La notte si preannunciava silenziosa.
Rune aveva chiuso gli occhi già da un pezzo, dopo che il padre
l’aveva lasciato. La tempesta si era placata, i venti anche, e lui si girò sul
fianco, nella morbidezza confortevole del materasso, in attesa di prendere
sonno. Si accomodò. Non si stava affatto male, non
fosse stato per quello spiraglio d’aria fredda sul collo. Si rannicchiò, senza
nessuna intenzione di abbandonare la sua nicchia calda per andare a controllare
la finestra, e si immerse nelle coperte sino al naso.
Poi, quando osò abbassarle, per puro caso, si ritrovò davanti una faccia. E lanciò un urlo da svegliare l’intero castello.
~ Gamlehaugen’s cornerbyRen_chan
Povero Rune. No, sul serio.
Non dovete pensare che lo dica di circostanza. Povero Rune.
Due parole sulla famiglia
reale norvegese, che ho pensato bene di tirare in ballo senza troppe
remore. Ecco a voi un avviso obbligatorio da leggere:
àQUESTA FANFICTION INCLUDE PERSONE
VERE E LUOGHI VERIß
Saint Seiya è ambientato nel 1986, questa fanfic
prende le mosse dal 1979: Minos ha 16 anni,
Rune 13.
Mi rifaccio inoltre per i
miei loschi scopi a Wikipedia all’albero
genealogico della famiglia reale norvegese, il cui re attualmente
è Harald V di Norvegia. Harald ha ereditato il trono nel 1991 alla morte del
padre, Olav Vdi Norvegia: all’epoca
della narrazione, il re era ancora quest’ultimo, mentre il primo aveva il
titolo di principe ereditario. Da ciò se ne desume che Minos, nella mia
artistica ricostruzione che lo vuole figlio illegittimo di questa casata,
sarebbe il primogenito di costui. È ovviamente superfluo rettificare
però che l’albero genealogico e la conformazione
della famiglia reale norvegese mi serve unicamente come fonte d’ispirazione;
è altresì il motivo per cui non faccio nomi di persona nel corso della
narrazione vera e propria, e non ne farò ogni qual volta dovrei tirare in ballo
un personaggio istituzionale che all’epoca era in carica. Quindi
nessun intento diffamatorio nei confronti di quei simpatici nordici, ok? Se
volete ulteriori conferme della loro estraneità ai fatti
potete andare a chiedere udienza a Palazzo Reale. Che però sta ad Oslo. A proposito, anche Gamlehaugen
esiste. Ed è bellissimo e lobramoh.
*O*
Grazie a…
Chi ha messo la fan fiction
fra le seguite (Lawliet,
Marluxia25, l’immancabile e adorato Shinji)
e chi, dandoci subito fiducia, tra le preferite (la gentilissima MaluLani, la
nostra Ruri,
Marluxia25, e shura4ever).
Lasciateci anche un commentino, dai, dai, dai! <3 L’esortazione non
vale per MaluLani,
che ci commenta sempre e sempre con la solita gentilezza, e Shinji
perché è il Dio degli Inferi. E perché recensisce puntuale come un orologio
svizzero viola. Se ci è consentito di fare pubblicità,
in questo minuscolo inciso, Shinji è un altro che in
questo momento si sta lisciando gli specter con una longfic deliziosa e che noi amiamo come fosse nostra, Il Canto della
Banshee. Guardatela e amate il protagonista. <3 Poi un grazie immenso a Stateira per il supporto dolce e tenace, e a li_l, che ci assicura che ci sono
fan della coppia che ci supportano! u_u
Alla prossima allora! *_*
Rune aveva
chiuso gli occhi già da un pezzo, dopo che il padre l’aveva lasciato. La
tempesta si era placata, i venti anche, e lui si girò sul fianco, nella
morbidezza confortevole del materasso, in attesa di prendere sonno. Si
accomodò. Non si stava affatto male, non fosse stato per quello spiraglio
d’aria fredda sul collo. Si rannicchiò, senza nessuna intenzione di abbandonare
la sua nicchia calda per andare a controllare la finestra, e si immerse nelle
coperte sino al naso. Poi, quando osò abbassarle, per puro caso, si ritrovò
davanti una faccia. E lanciò un urlo da svegliare l’intero castello.
Capitolo
III I tetti
Lanciò un urlo,
tirandosi su di scatto e appiattendosi contro la testiera.
Minos, per tutta
risposta, gli tese una mano, senza scomporsi, senza muoversi per il resto di un
solo millimetro. Il suo viso era per metà nascosto, la bocca dritta e immobile.
Rune lo fissava, nel buio, tutto il suo contrario, con gli occhi spalancati e
luminosi, a raccogliere quella poca luce che filtrava dalla porta.
“Altezza! Siete
voi!” riuscì a sussurrare. Il cuore gli batteva fortissimo per lo spavento, ma
il suo naturale istinto di obbedienza gli fece automaticamente eseguire quelle
due cose che aveva imparato in quel breve pomeriggio: dare al principe del
‘voi’, ed assecondare incondizionatamente ogni suo gesto. Dopo qualche attimo allungò
incerto la mano nella sua. Le sue dita furono prese ed afferrate saldamente, e
Minos non perse tempo, muovendosi subito, trascinandolo con sé verso la
finestra. Rune lo seguì, correndo quasi per stargli dietro: “Dove andiamo,
Vostra Altezza?”
Finalmente, su
quel volto pallido fiorì un’espressione. Un ghigno bianco, schiuso lentamente,
mentre apriva entrambe le braccia e spalancava la finestra.
“Ah!” scosso da
un brivido, Rune si serrò le braccia attorno al corpo, assumendo un’espressione
spaurita. “Voi… non avete freddo? Altezza!”
Forse avrebbe
dovuto imporsi, pensava intanto, esitante, dietro di lui. Non voleva certo che
il principe si ammalasse! Goffamente, tese una mano avanti, staccandola meno
possibile da sé, per non lasciare spiragli all’aria gelida, ma Minos fu lesto
ad afferrarla.
“Vieni, Rune.”
Rune si sentì
strattonare in avanti, incredulo, mentre quello con uno scatto saliva sul davanzale.
Vide tutto con esattezza, e non poté crederci. Vide le gambe, agili e svelte,
scattare, le ginocchia piegarsi, le mani reggersi salde agli infissi di legno.
E in tutto questo si accorse a malapena del fatto che Minos lo stesse
trascinando con sé, i capelli chiarissimi che si sollevavano nel vento. Che era
gelido. Rune lo avvertì tutto nel momento in cui sentì che cosa gli stava
dicendo: “Vieni a vedere i folletti della notte.”
“Co… cosa? Che
cosa dite!” tentò disperatamente di deglutire. E poi i folletti non esistevano,
no? “Non potete uscire con questo freddo!”
Lo seguì. Anche
sul davanzale. Aveva quell’incoscienza tipica dei tredici anni, era svelto e
per il momento non guardava in basso. Lo seguì, pensando ad un modo gentile ed
educato di ricondurlo dentro. Minos lo strattonò per la mano, facendosi seguire
a forza, salendo con una facilità impressionante verso l’alto. Lo strattonò
senza particolare cattiveria, come se avesse solo fretta. Rune era lì lì per
protestare, seppur debolmente, ma una volta sul tetto sembrò rendersi conto
improvvisamente di che altezza aveva raggiunto, e rischiò di svenire. Per la
paura, la vertigine, ed il freddo. Fischi orribili gli perforavano le orecchie
e schiaffeggiavano i capelli sulla nuca, ed i più gelidi sembravano bucare la
stoffa del pigiama. Minos, la cosa più strana e fuori posto in quello scenario
notturno, era vestito di tutto punto. Parlava così piano, eppure si sentiva,
nel vento.
“Hai paura,
Rune?”
“N…no.”
sussultò, alla sua voce. Tremava, e si guardava attorno spaurito. “Non ho
paura.”
E mentiva. C’era
qualcosa che andava persino oltre la paura, un filo invisibile e teso,
come un cappio, che avrebbe potuto strangolarla, la paura. Non osava nemmeno
dargli nome, tratteneva il respiro e le parole. Rimaneva con gli occhi spalancati,
tremando per il freddo.
Minos rise,
soffuso, così vicino a lui. Gli sollevò il viso, costringendolo guardarlo. E
allora Rune lo vide.
“Anche perché…”
Il vento furioso gli scopriva la fronte, e gli occhi erano gialli,
brillantissimi e mobili sotto la luce bianca della notte. L’aria gelata lo
frustava senza scalfirlo. “…ormai è troppo tardi, Rune.”
E sotto la luna
enorme, in quella landa di streghe, Minos gli apparve davvero come una creatura
soprannaturale ed oscura, la sagoma aguzza della torre dietro di lui come
grandi ali nere. Gli prese la mano, e lo trascinò con sé dentro l’inferno.
“Minos!”
Trascinato, Rune
scordò ogni formula di cortesia che aveva imparato. Gli si aggrappò, gli occhi
stretti nel vento, senza rendersi conto di quel che gli succedeva attorno,
terrorizzato. Nella mente aveva impressa a fuoco quell’immagine tremenda e
terribile – occhi gialli ed ali nere – eppure familiare, a suo modo,
come se l’avesse già vista. Cercava disperatamente di ricordare dove, il cuore che
batteva all’impazzata.
“Sei stato
attirato” sussurravano parole al suo orecchio, intanto, mentre salivano, sempre
poco distinguibili, nel vento. “Così ingenuo, Rune. Sei stato attirato. Come la
preda del Nøkken: lui ti aspetta sotto il pelo dell’acqua, e tu non puoi fare
altro che andargli incontro.”
La ruota del
Fato ha cominciato a girare. E lui, per primo, sente.
Nessuna
chiamata, a destarlo: Minosse, re antico, ne viene cullato sin dalla nascita,
come una ninna nanna. Destinato agli Inferi, attratto dall’oscurità, si
nasconde poco e tuttavia finge molto: non ha ancora coscienza di sé e del suo
futuro, né tantomeno può prevederlo. Ma percepisce il girare della ruota, e sa
attendere, Minosse, re antico. I mostri sono suoi figli, li sono sempre stati: di
vita in vita, dal possente Minotauro ai genii delle foreste norvegesi. I mostri
sono suoi figli, e quando non gli appaiono, li tira con i suoi fili. Li
colleziona come bambole. In attesa.
Rune aveva gli
occhi spalancati, e la gola bloccata. La testa gli ronzava senza sosta. Era
totalmente inconsapevole, eppure qualcosa aveva cominciato ad avvertire, come
se il Nøkken stesse cantando la sua ninna nanna delle tenebre da sotto il pelo
dell’acqua. Non poteva far altro che correre dietro a Minos, incespicando,
sotto quella grande luna senza notte.
“Minos, ti
prego…” agghiacciato dalle sue parole, puntava i piedi, debolmente, cercando
almeno di rallentare la sua corsa sui tetti. “Non andiamo oltre!”
“Oltre qui ci
sono i mostri” ghignò per tutta risposta lui. All’espressione terrorizzata di
Rune, tuttavia, inaspettatamente alzò il capo, guardando lontano, e lo
precedette: “No. È una bugia. Il Nøkken si annida nei laghi, i folletti nelle
foreste. I figli nascosti di Eva sottoterra. Qui non c’è nessuno.”
Lo condusse nel
punto più alto, nella sua presa gelida. Per aggrapparsi alle guglie. Rune gli
si aggrappava terrificato, affondandogli le unghie nel polso magro, come se
lasciandolo potesse davvero precipitando all’inferno.
“Non… dove
stiamo andando? Aspetta…”
Guardò giù, e
venne colto dalla vertigine. Fu allora che Minos lo prese per la vita,
sorprendendolo per quanto sicura potesse essere quella stretta. E lo trascinò
con sé, come una cavalcata infernale, negli ululati della notte; arrivò ai
piedi del tetto scosceso della torre, da cui si vedevano le luci di Bergen, e
gli alberi innevati, e la foresta al di là della distesa d’acqua grigia e
verde. Le luci si diradavano sino al nero lontano e misterioso dei boschi, e
Minos si guardava attorno, in silenzio.
Rune non si era
nemmeno accorto di avergli buttato le braccia al collo, tanta era la paura.
Solo quando furono arrivati alzò appena il viso dalla sua spalla, e contemplò:
le luci radenti, come in un quadro di Rembrandt, e il buio del bosco, che era
l’apoteosi del buio. Erano a Bergen, e non erano affatto a Bergen. Il respiro
concitato, Rune venne scosso da un brivido; gli occhi non riusciva a chiuderli,
e gli sembravano diventati di vetro, tanto gli bruciavano.
“Rune.”
Alzò il viso, di
scatto, quando si sentì chiamare. Erano premuti l’uno addosso all’altro, e
Minos lo reggeva con apparente noncuranza, ma stretto, per non farlo cadere. Il
vento freddo aveva schiaffeggiato Rune così violentemente da non permettergli
più tanta sensibilità, e a stento riusciva a percepire il corpo contro al
proprio. Rabbrividì, di nuovo, quando lo vide abbassare gli occhi gialli nei
suoi, per poi distoglierli, puntati nell’immenso buio.
“Giurami eterna
fedeltà.”
L’aveva
sibilato, senza guardarlo. E Rune lo guardò fisso come se l’avesse schiaffeggiato.
Si tese, contro
il suo corpo, petto contro petto, inguine contro inguine, un gemito nel vento,
perché quell’ordine era come se non gli fosse stato impartito in quel momento,
ma un’infinità di tempo prima. Si rese conto di piangere, senza sapere per
qualche motivo. Se ne rese conto quando le lacrime, silenziose, gli scorsero
sino al mento, seguendo la linea della guancia.
“Rendo il mio
cuore a voi.”
Parlò, senza
capire il significato delle proprie parole.
“E davanti a
voi piego il ginocchio.”
E se ne stupì.
In silenzio,
erano scesi. Minos non aveva lasciato la presa un momento, agile come era
salito. Rune lo guardava timidamente, il fiato bloccato in gola, domandandosi
che cosa aveva giurato. E a chi.
Quando furono
più stabili sulle gambe, Minos lo lasciò, continuando per conto proprio. Rune,
ancora scombussolato, si infilò i capelli dietro l’orecchio, perché non gli
dessero fastidio nel vento, ed affrettò il passo per stargli dietro, sino a che
non venne preso per mano e ricondotto attraverso la finestra nella propria
stanza. Dal freddo al caldo, da un sogno al risveglio, il ragazzino tirò un
sospiro di sollievo, strofinandosi vigorosamente le braccia intirizzite. Minos
si stava già defilando dalla porta, senza aspettarlo.
“Aspettate!”
preso di provvista, Rune lo seguì, a piedi scalzi, per il corridoio. Quello si
girò, l’espressione tornata impenetrabile e assente: “Mmh?”
“Io… ecco…”
s’intartagliò il ragazzino, in imbarazzo.
“Vai a dormire.
È tardi.”
Rune rimase a
guardarlo, nel corridoio buio, come incantato.
Rimaneva in
piedi, a guardarlo neutro, con quegli occhi gialli di falco. Perfettamente
normale, e fisica, la sua figura, ora. Niente vento demoniaco, o torri come ali
nere. Ma quegli occhi, e quella luce spettrale inchiodarono Rune lì dov’era.
“Vai.”
Si sentì chinare
il capo, soggiogato dalla sua forza. Si girò e tornò nella sua stanza, mentre
lui rientrava nella propria, scivolandovi piano e senza rumori.
~ Gamlehaugen’s
cornerbyRen_chan
Dichiarazioni: Minos è così
gotico da farmi vergognare, ed ogni esagerazione e/o barocchismo è puramente
voluto. Perdonatelo, vi prego. Mi pare uscito fra un crossover tra un romanzo
dell’orrore vittoriano e un manga della Kaori Yuki. Ma facciamo finta di niente
e proseguiamo.
Siamo abbastanza decise
nell’idea di proseguire la fanfic oltre al terzo capitolo, e abbiamo molte idee
in serbo. Ma voi dite: sareste pronti a distogliere gli occhi dalla foresta?
Grazie a…
Ai commentatori: Shinji,
NoorDaimon, MaluLani e PerseoeAndromeda. Rispondere a
distanza di tempo punto per punto diventa un po’ troppo artificioso, quindi ci
limitiamo a ringraziare e basta, ma sappiate che è davvero di cuore! Ci siamo
fatte attendere lungamente, ma questa fanfic non è stata certo dimenticata. È
che abbiamo troppi progetti in corso, sob. Ci sembrava doveroso, comunque,
chiudere almeno questo (primo?) trittico, così com’era stato progettato.
Speriamo che, sebbene in
ritardo, possa giungere come degna chiusa. Per il momento.
La
ruota del Fato ha cominciato a girare. E lui, per primo, sente.
Nessuna
chiamata, a destarlo: Minosse, re antico, ne viene cullato sin dalla
nascita, come una ninna nanna. Destinato agli Inferi, attratto
dall’oscurità, si nasconde poco e tuttavia finge
molto: non ha
ancora coscienza di sé e del suo futuro, né tanto
meno può
prevederlo. Ma percepisce il girare della ruota, e sa attendere,
Minosse, re antico. I mostri sono suoi figli, li sono sempre stati:
di vita in vita, dal possente Minotauro ai genii delle foreste
norvegesi. I mostri sono suoi figli, e quando non gli appaiono, li
tira con i suoi fili. Li colleziona come bambole. In attesa.
Capitolo
IV Rowing
Il
prato verde tagliato corto si estendeva nella sua dolce pendenza sino
all’acqua scura, che baluginava ad ogni colpo di remo,
muovendosi
pigra e quasi senza rumore.
Gli
scrosci lenti e il vociare dei ragazzi che scendevano dalle canoe
attraversavano l’aria piatta e fredda sino a giungere
distanti alle
orecchie di Minos. Il ragazzo cincischiava slacciandosi e
riallacciandosi le stringhe delle scarpe, già seduto
sull’erba,
evidentemente poco interessato a rimettere a posto remi ed attrezzi. Un
ragazzo decisamente più robusto di lui lo urtò di
proposito, senza
ricevere dal compagno
la benché minima occhiata. Quella arrivò tardi,
intensa ed
indecifrabile, nascosta dalla folta frangia, e rivolta più
che a lui
alle sue spalle; ma quello già stava facendo finta di
niente,
mettendo via le lunghe aste di legno, un sorrisetto complice ad un
compagno di canottaggio. Che, tanto per dar manforte
all’amico, si
era già piazzato davanti a Minos, pestandogli le stringhe.
Ci
fu un gran sghignazzare, fino a che proprio lui, che era il
più
magro, pallido ed esile dei tre si alzò in piedi, e con uno
spintone
spedì il tizio dei remi dritto in acqua.
Un
grande scroscio, molti ragazzi si voltarono, e le risate del tizio
delle stringhe aumentarono inspiegabilmente di volume, mentre il
norvegese si sfregava le mani: “Idiota. Te lo do io il
remo.”
Con
somma calma, riemersero due mani. Poi
riemerse tutto il corpo, giovane, robusto e temprato dagli
allenamenti di rowing.
Senza
dire una parola, il ragazzo risalì sulla riva,
strizzò la
canottiera, la rimise nei pantaloni.
Il perfetto gentiluomo.
Umidiccio.
“Holy
God,
Minos. Non sai stare allo scherzo.”
“Ti
faccio passare io la voglia di… e tu non ridere”
anticipò con
un’occhiata gialla l’altro, che ovviamente si stava
sbellicando.
Il Lord zuppo, intanto, si rinfrancava come ogni suo pari discorrendo
sulle condizioni metereologiche: “Mh. Il sole è
così tiepido,
questa mattina, non è vero?”
Non abbastanza per riscaldarlo,
evidentemente, perché dovette togliersi la canottiera, dopo
qualche
vano secondo di speranza nella pallida mattina lattiginosa di Eton.
Minos lo degnò vagamente di uno sguardo, stendendosi
sull’erba con
una studiata aria sofisticata:
“Voi
inglesi non sapete far altro che parlare del tempo.”
“E
la cosa peggiore è che è la cosa più
interessante, qui intorno”
chiosò il terzo dello sparuto gruppetto, ignorando sia il
gesto
ostentato con cui il norvegese si calcava in testa un cappello
alquanto improbabile (e quasi sicuramente fuori regolamento), che lo
spogliarello del biondino. Costui, che più che sfoggiare
chissà
cosa aveva intenzione di evitare di prendersi un raffreddore,
pensò
bene di finire di mettere a posto i remi. Nel mentre, diede prova di
un’ironia un po' più diretta: “La
Norvegia, immagino, è molto
più vivace.”
“Puoi scommetterci.” Sbottò invece
l’interpellato, alzandosi mezzo seduto. “In
Scandinavia, o
splende il sole o infuria la tormenta. Nessuna mediocre via di
mezzo.”
“Posso immaginare” non raccolse, l’altro,
schizzandogli appena qualche goccia d’acqua mentre tornava a
sdraiarsi vicino gli altri due, sul prato. Tutti gli altri ragazzi si
stavano già andando a cambiare, per godere il più
possibile dei
minuti di tempo libero dopo l’allenamento.
“Non resisteresti
una notte” sfoderò un ghigno spettrale, tornando
alla carica,
quello che l’inglese aveva avuto la sfortuna di ritrovarsi
per quel
semestre come vicino di stanza: “Agli ululati della
tormenta…”
Lui
alzò un aristocratico sopracciglio all’espressione
da fantasma con
cui quell’altro, evidentemente, voleva spaventarlo:
“Che
assurdità. Non dici altro che
assurdità.” Minos
rovesciò il capo indietro, ridendo, e da quella posizione
rivolse un
ghigno anche all’altro ragazzo:
“E tu? E tu resisteresti?”
“Io?
Io le cose che ululano...” ghignò lui
“…me le mangio.”
E
da là sopra gli fece il verso,
restituendogli una smorfiaccia da fantasma. Il biondino, ignaro
dell’improvvisa complicità degli altri due, aveva
intrecciato le
mani sotto la nuca, godendosi il tepore di quella mattinata gentile.
Ma venne interpellato ben presto:
“Non
come il piccolo lord, qua.”
“Già.
Mangia solo porridge,
lui.”
“Minos.
Ryan.”
Calmissimo e immobile, non aprì nemmeno gli occhi.
“Fuck
off.”
Nessuno
si fece impressionare dalla sua
piazzata, men che mai un giovane principe norvegese, che si
alzò
apposta per oscurargli il sole sulla faccia, incitandolo a male
parole. Sembrava molto più allegro e divertito di quanto
fosse nel
rigore reale di Oslo, o tra le nevi incantate di Gamlehaugen; era
più
rapido, più reattivo, gli occhi più svegli. La
parlantina più
sciolta, toni di voce più alti, si divertiva ora a scuotere
alla
buona con un piede il compagno che oziava sul prato, pronunciando il
suo nome come se fosse qualche cosa d’irrimediabilmente
comico:
“Avanti,
Charles.
Siamo sempre stati cordiali l’uno con l’altro, ma
adesso che
siamo vicini di stanza dovresti fare lo sforzo di socializzare, non
ti pare?”
Nessuna
reazione.
“Sii…”
gli schiacciò lo stomaco col piede.
“…socievole!”
Peccato
che gli studenti dell’Eton College non fossero
accondiscendenti
come i suoi domestici, né docilmente sottomessi come le sue
bambole:
si prese senza troppe cerimonie una gomitata un pancia e venne
atterrato da un inglese deciso e scocciato. Erano in vita sua le
prime volte che finiva per prendere botte, ma aveva cominciato
inspiegabilmente a prenderci gusto. Rise, malignamente ma rise,
opponendo una blanda resistenza, per quel che ne era capace.
Ad
un certo punto Ryan decise che tutto quel contatto fisico a casaccio
gli piaceva.
“Non
è un comportamento da gentiluomini, il tuo” stava
impartendo
lezione Charles, tenendo giù Minos con un ginocchio. E gli
arrivò
l’altro addosso.
“Levati!”
protestò, rauco. Tuttavia, cercare di scalzare via un altro
atleta
in maniera composta
è auspicabile, per un Lord, ma non sempre fattibile;
riuscì a
saltare indietro con più decisione solo quando la risatina
spettrale
di Minos cominciò a suonare troppo melliflua. Tutti e due si
tolsero
presto di mezzo e rimasero a guardarlo abbastanza perplessi. Charles
fece gesto di spolverarsi una camicia che non aveva, dal momento che
era ancora a torso nudo: “Minos! Le lezioni del professor
Talbot
non ti hanno insegnato nulla? Contegno!”
“Intanto
ti sei levato.”
Lui
scosse il capo, apparentemente cambiando argomento:
“È
quasi l’ora del tè.”
“Mancano
tre quarti d’ora!”
Mentre
gli
altri due battibeccavano, Minos, da steso che si era rimesso, si
rivoltò a pancia in giù, ozioso. Passò
le dita lungo un filo
d’erba e lo staccò, tacendo per ancora qualche
minuto. Poi domandò
ai due compagni, senza voltarsi a guardarli:
“Voi
che cos’avete fatto durante le vacanze di Natale?”
Dopo
i primi secondi di silenzio, passati a guardarsi come se dovessero
consultarsi, il biondino assunse un’aria molto seria, quasi
contrita:
“Ho cantato molte carole.”
Il
più scuro dei due invece si limitò ad alzare le
spalle:
“Ho
ripreso a masticare coca.”
Charles
si voltò con aria scandalizzata verso il
ragazzo di fianco.
“Ah,
ma tu racconta pure delle carole.”
“Mia
sorella” lo fulminò con un’occhiataccia,
infatti, riprendendo a
raccontare “suonava il piano.” Ha
una sorella?,
fu l’espressione scambiatasi in simultanea degli altri due.
“…quando
era ancora in vita.”
“Ah.”
“Quindi
da quest’anno ho iniziato a suonare io.”
“Com’è
inglese, questa faccenda delle sorelle che muoiono.”
“Passane
anche a me” s’intromise subito Minos, i capelli
sulla fronte che
rendevano indecifrabile l’espressione del viso. Sembrava
attento e
vigile. Naturalmente si riferiva alla coca.
“Nah”
ghignò il moretto, che effettivamente qualcosa ruminava, al
momento,
ma poteva essere anche solo un filo d’erba. “Ai
ragazzini
magrolini fa male.”
“Magrolino.
Tskch.”
Lo guardò malissimo lui, punto sul vivo. Non era affatto
come diceva
Ryan, per giunta, nonostante l’idiota allungasse le manacce
per
pungolarlo alle costole, come a dimostrargli quanto fossero in
rilievo. Era anzi di corporatura sana ed atletica, teneva il passo in
marcia, sfilava dritto facendo la sua figura nelle processioni
studentesche: era solo che di fianco a entrambi i compagni, di indole
più sportiva, la sua muscolatura scadeva al confronto. Se
gli altri
due non avessero colto ogni opportunità buona per
rinfacciarglielo,
non vi avrebbe dato neanche troppo peso.
Charles
sospirava, intanto,
il viso rivolto al lago che si perdeva fra le fronde, senza badare a
loro.
“Little
Elizabeth…”
“Ma
secondo te” interloquì il moro, le sopracciglia
contratte, prima
di sputare a terra il filo d’erba ripetutamente masticato
“è una
tara genetica degli inglesi, o è solo lui?”
Solo
lui e Coleridge, stava
per dire Minos. Ma
anche Byron, pensò. E Wordsworth. E
Keats. Quindi tacque. Forse era una tara degli inglesi.
“Non
saprei” rispose quindi, indifferente, ad una domanda
altrettanto
indifferente. “Non ho sorelle morte.”
“Io
sì, ma non faccio mica tutte quelle scene.”
“Dovresti
trovarti un hobby, Minos, anche dove vivi tu” li riscosse la
voce
profonda del ragazzo seduto poco avanti. Serio, come se le sorelle
fossero un hobby. Poi spostò gli occhi verso Ryan,
guardandolo come
se fosse un totale insensibile.
“Ho
già un hobby. E non m’interessano i
marmocchi.”
Aveva
parlato Minos, adesso, gli occhi gialli attenti. La
conversazione si era portata su toni assurdamente surreali, e persino
lo scroscio dell’acqua si era fermato. Guardò con
attenzione i
suoi due
compagni di college, senza un motivo particolare – senza
pensare a suo fratello minore, il suo fratellastro di sei anni che
avrebbe regnato sulla vasta Norvegia. O alla bambina, sua sorella.
Non gli importava.
Schiuse
le labbra, in quel silenzio irreale e morto,
e fissò lo sguardo in quello di Ryan, scuro e fermo quanto
il suo.
Irreale.
“Anche
tu?”
“Cosa?”
“Sorelle
morte.”
Lui
serrò le labbra, sbrigativo. Ma non distolse gli occhi dai
due,
affascinato.
“Ah.
Sì.” Tono plumbeo. Occhi fissi. Charles guardava
l’acqua. “Due.”
Surreale.
Il racconto. Il tono della voce. L’acqua.
L’atmosfera
si fece pesante. Come avevano fatto a non avvertirla, molto prima? Il
biondo seduto sulla riva smise di sfidare il debole sole di gennaio.
Si rimise la canottiera, distogliendo col rumore della stoffa e dei
remi goffamente
urtati l’attenzione da quell’atmosfera densa e
inquietante:“…and
we all ate Christmas pudding.”
Una
qualsiasi inglesità che era matematico catturasse
l’attenzione dei
due compagni, i
quali infatti recuperarono in fretta la loro verve.
“Ah,
certo” ghignò Minos. “E tu?”
“Io?”
rispose Ryan, sgrattandosi i capelli scuri. “Le cose che
facciamo
tutti gli anni. La corsa coi lama…”
“La
corsa coi lama!” rise Minos nel suo modo maligno e
sarcastico,
mentre Charles guardava Ryan come se gli avesse detto che andava a
lezione senza cravatta.
“Eh.
Perché, non è una noia mortale?”
ribatté quello, un sorrisetto.
“Sempre
a dire assurdità… lama! Ma come ti vengono in
mente?”
Ma
fu
la voce di Minos che inspiegabilmente catturò
l’attenzione di
entrambi.
“Io…”
Si
voltarono. Il
ragazzo disteso aveva appoggiato
il mento su entrambe le mani: un ghigno allungato, una mezzaluna
pallida gli solcava il volto bianco. I due ragazzi si bloccarono,
senza cambiare espressione, di fronte a quel sorriso, a quello
spettro, a quella marionetta dall’espressione sardonica che
li
fissava entrambi. Videro scintillare due lampi dorati da sotto i
capelli, come se il mondo, l’orario delle lezioni,
l’acqua del
lago si fosse fermata per accogliere qualcosa.
E
lui schiuse le labbra, improvvisamente perfido.
“Io
ho trovato un giocattolo.”
~
Gamlehaugen’s
cornerbyRucci
Prepotente
cambio scena, prepotente cambio di personaggi. Rimane solo Minos,
sempre generoso nel distribuire le sue angherie al prossimo. Anche se
in questo capitolo lo si vede soprattutto subire, non
tarderà a
prendere in mano i fili della situazione, come ben avrete immaginato;
ma abbiamo voluto mostrarvelo anche così, in bilico fra un
mondo
prevalentemente terreno e ancora l’altro.
Lo scenario è meno suggestivo e ricco di spunti della
foresta
norvegese, e ci sono in gioco personaggi decisamente più
pragmatici
con cui raffrontarsi: qual è il legame con le forze infere?
La struttura
della fanfic, ad ogni modo, è impostata a 'triadi' di
capitoli, di
cui la prima è già conclusa: tre a tre sono
autoconclusive, se
così si può dire. Ma ovviamente si richiamano
tutte a vicenda.
Questa è la
seconda: speriamo che vi piaccia abbastanza da continuare,
perché
abbiamo bisogno di tanto supporto, con tutti i progetti che abbiamo
in corso. Sììì, sono troppiii!
Dannazione! Vogliamo la stanza
dello spirito e del tempo! Ci spetta di diritto! *C*;
Grazie
a…
Shinji
e Ayako,
che ci hanno commentato nello scorso capitolo. Ma a tutti coloro che
hanno letto e seguito la fic, che l'hanno gradita tanto da metterla
fra preferiti e seguiti, cercheremo di non deludervi. Davvero. Un
bacio.