Gamlehaugen

di GoldSaints
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Le stanze ***
Capitolo 2: *** I corridoi ***
Capitolo 3: *** I tetti ***
Capitolo 4: *** Rowing ***



Capitolo 1
*** Le stanze ***


Bergen, Norvegia

Bergen, Norvegia.

Dicembre 1979.

 

 

 

Non capita tutti i giorni di fare visita ad un re.

Il vento soffiava, quell’inverno, su Bergen, come se fosse stato agitato dagli spiriti delle foreste in persona. E nelle terre nordiche tagliava, il vento, nel buio, graffiando le guance ed aggrovigliando i capelli. Ogni luce, anche la più vicina, si faceva fioca, e veniva spontaneo affrettare il passo per entrare in casa, come se potesse sparirsene da un momento all’altro. Anche se si trattava di un castello.

Il figlio del Primo Ministro aveva il cuore che batteva forte, i capelli ben pettinati, le spalle esili tirate indietro, impettito. Il padre, di fronte a tanta diligenza, si era lasciato sfuggire un mezzo sorriso, e con intento rassicurante aveva appoggiato piano la mano sulla schiena esile davanti a lui, mentre camminavano di stanza in stanza.

“So che sei emozionato.” Il ragazzino non si era sprecato a negare; già il solo tocco di suo padre l’aveva fatto lievemente trasalire. Ora però alzava gli occhi curiosi a lui, che aveva immediatamente soggiunto, sbrigativo ma gentile, come sempre: “Io e Sua Maestà avremo da discutere riguardo delle riforme particolarmente delicate, ed è il motivo per cui ci tratterremo. È stato un gesto cortese invitarci a passare qui il Natale. Comportati sempre educatamente e non mancherai verso nessuno.”

Il vento fischiava, agitato dagli spiriti. Per il padre era soltanto vento di riforme, c’è da dire. Tanto che se ne sorrideva, beatamente sordo agli ululati spettrali della foresta. Il figlio aveva annuito, guadagnandosi una nuova stretta veloce ma affettuosa alle spalle.

“Ora vai, Rune.”

“Posso davvero?”     

L’uomo annuì, distrattamente, gonfiando il petto per sistemarsi la giacca sulle spalle.

Gli occhi e la mente già rivolte verso il colloquio impegnativo che stava per affrontare, trovò il tempo di voltarsi, un cenno di saluto. Poi furono solo il ragazzino, i suoi enormi occhi, e il castello.

 

 

 

 

Capitolo I
Le Stanze

 

 

Rune se ne gironzolava per l’intera residenza, come un turista.

Di stanza in stanza, con curiosità, con ammirazione.

Che castello enorme.

Non era così grande, in realtà. Gamlehaugen era molto meno imponente rispetto alla fortezza millenaria dell’Akershus, che aveva conosciuto la voce tonante dei primi re di Norvegia. Era più nuovo, costruito apposta come un castello delle fiabe, più in piccolo. Come se fosse un’immensa casa di bambole. Per ogni porta c’era una nuova stanza, ricca di meraviglie.

Per natura poco invadente, appena tredicenne, Rune si faceva strada a piccoli passi discreti, ascoltando le poche voci di chi passava, o di chi chiacchierava, in una stanza lontana. Sgranava gli occhi, cercando di definire quella sorta di austera meraviglia che lo pervadeva, così giovane ed esile.

E immenso.

E antico.

E lugubre.

C’era da dire che Rune, giovane ed entusiasta, coglieva poco la differenza fra un maniero millenario e un lussuoso castello residenziale, disegnato a malapena un secolo prima. Avrebbe potuto vederne di simili, e più grandi, in Francia, o in Scozia. Ma, ignaro di ciò, camminava contento. Tanto che, naso per aria, non si accorse della porta massiccia che, al suo passaggio, si schiuse con un cigolio sinistro: il rumore, però, improvviso, gli fece spiccare un salto.

Si voltò. Silenzio.

Guardò meglio. Ancora silenzio.

Della porta semichiusa, tutto ciò che gli era concesso alla vista era uno spiraglietto scuro. Uno spiraglio che avrebbe astratto irresistibilmente qualsiasi ragazzino. Fece un passetto nella sua direzione, cercò di mettere a fuoco.

Mh...”

Trattenne il fiato, drizzando le orecchie. Come se venisse dal fondo della stanza misteriosa, e poi sempre più vicino allo spiraglio, lo raggiunse un fiato, poi una lugubre, bassa risata. Rune cacciò un gemito di sorpresa, assolutamente impreparato ad un rumore del genere. Sbatté gli occhi più volte, avvicinandosi, di un passo, di due:

“C’è qualcuno?”

Un altro passo avanti. Altri due. Ed una testa sbucò dallo stipite della porta, oplà, come una marionetta rotta. Questo gli fece lanciare un urlo, mentre cadeva sedere a terra. Non poté in alcun modo trattenersi.

“…fufufu” rideva la testa. Non di marionetta, bensì umana. Decisamente umana.

Quando Rune si riebbe dallo spavento, riconobbe la figura di un ragazzo, oltre la sua testa, poco distinguibile nel buio della stanza che si affacciava a malapena alla sua vista. Un ragazzo forse più grande di lui, con un vago sorriso in volto, che rimaneva in silenzio. Quando ebbe osservato bene l’ospite – o almeno, così parve a Rune – un ghigno si fece strada, lentamente, sul suo viso pallido. Senza metterlo affatto a suo agio.

“Ah…” arrossì istantaneamente il figlio del Primo Ministro. Si rialzò in fretta, rassettandosi i pantaloni. Adesso che l’aveva messo a fuoco, moriva di vergogna per la brutta figura.

“Perdonami. Non… non ti avevo visto, e…”

Si spolverava i pantaloni, alternando le occhiate preoccupate dai suoi vestiti al viso del ragazzo silenzioso. Lo inquietava il fatto di non riuscire a vedergli gli occhi, coperti dai capelli troppo lunghi. Unico segno di vita, quello strano sorriso, che adesso si allargava, divertito, come una mezzaluna bianchissima che gli divideva il volto pallido.

“Vieni avanti” disse.

Rune titubò. Poi avanzò appena, obbediente. E gli sorrise, amichevole, presentandosi per primo: “Come ti chiami? Io sono Rune.”

Gli tese la mano, incoraggiante.

Che rimase a mezz’aria, mentre la voce del ragazzo si alzava, senza preavviso:

“Dovrei essere io a chiedertelo per primo.”

Ritirò appena la mano, Rune, senza capire. Quello proseguì, senza scomporsi affatto, senza muoversi nemmeno, solo un ghigno spettrale dalla soglia di una stanza buia:

“Sei a casa mia. Presentati.”

 

Rune era impallidito, cominciando vagamente ad intuire qualcosa sull’identità del misterioso ragazzo. Almeno, quello che aveva soffiato dallo spiraglio della porta lasciava adito a ben pochi dubbi: il padrone di casa lì portava una corona in testa. Si inchinò, all’istante, sciorinando nome e cognome, e nome e cognome di chi era figlio, e perché si trovasse in quel luogo. Tutto sommato, era ancora calmo. Aveva fatto un banale errore di protocollo, ma d’altro canto, come poteva sapere? Senza dubbio a causa della situazione in cui si trovava – che spavento, maledizione! – nemmeno riusciva a venirgli in mente un nome che fosse uno. E dire che suo padre gliene aveva ripetuti: nomi su nomi, con grande pazienza. Ma non riusciva a ricordare né quello, né il volto del ragazzo che, come un fantasma, rideva soffuso sulla soglia di una porta misteriosa. Non poteva essere figlio del re, il re era ormai anziano. Che fosse uno dei figli del principe reggente? Se li ricordava più piccoli. Certo, sembrava poco più grande di lui; ma, con quella scarsa luce, mezzo immerso nella penombra della stanza da cui non usciva, non riusciva ad indovinarne con esattezza le fattezze né la fisionomia. Quello che vedeva con chiarezza, quello sì, era il viso pallido, affilato, solcato a metà da quel ghigno vago, quasi distratto, ed incorniciato da una massa di capelli talmente chiari da sembrare bianchi. Erano lisci, folti, e lo nascondevano allo sguardo. Rune si sentiva a disagio. Non riusciva a scorgere i suoi occhi. Non riusciva a capire che espressione avesse in realtà. Era abbastanza irreale.

“E…” decise di rompere il silenzio, tentando con un sorriso, giusto per vagliare la reazione. In fondo, se si dimostrava molto gentile, anche se infrangeva una o due regole di protocollo, male non gli poteva andare, no? Comportati educatamente e non mancherai verso nessuno, aveva detto suo padre. Quindi sorrise e tentò: “E tu?”

Anche l’altro sorrise – cioè, quella specie di sorriso – e rispose con un nome strano. Minos.

Era certo un nome strano per quelle terre, e nonostante questo Rune non lo trovò, lì per lì, più strano di tanti altri. D’altro canto – ma come poteva saperlo, il giovane Rune sovrappensiero che gironzolava per un castello da fiaba – anche quello era il nome di un re, e ben più antico dei loro.

 “Tuo padre” proseguiva l’altro, dal suo angolino buio “è al ricevimento da molto. Perché te ne gironzoli tutto solo?”

Il tono della voce andava abbassandosi mano a mano. Toglieva il respiro.

“Io…” Rune si trovò improvvisamente con il fiato sospeso, e si sorprese a cercare uno sguardo che non gli riusciva neanche d’intravedere. Poi confessò, ingenuamente: “…ecco, mi annoiavo a restare in camera.”

E fatto ciò, provò ancora a guardarlo negli occhi: era un ragazzino timido, ma niente affatto sottomesso. In compenso, l’altro non pareva aver voglia di dargli una risposta. Al contrario, gli girò le spalle, e s’infilò nella stanza buia.

“Ah…” Dalla soglia, senza entrare, Rune tentò: “Ma perché stai al buio?”

Lui non rispose, se non: “Vieni.”

Inspiegabilmente attratto, Rune entrò.

Cerò di far abituare gli occhi al buio, cauto.

“Dove sei?”

“Mmmh. Qui.”

La voce si muoveva come se procedesse senza colpo ferire, verso un punto ben preciso. Ma Rune non fece in tempo a raggiungerlo, neanche tentoni, che Minos aveva spalancato le tende, portando la luce in una stanza piena di marionette e di bambole. Rune d’istinto si coprì il viso con le mani, per contrastare la luce, che, benché scarsa, arrivava improvvisa.

“Hai paura?”

Quando i suoi occhi cessarono di protestare abbassò le braccia, piano piano: “No… perché dovr-?”

Poi tacque. Aveva visto le bambole. Per un attimo non osò muoversi, spalancando gli occhi sullo strano scenario, cercando di scacciare la sensazione d’inquietudine.

“Perché ti sei coperto gli occhi” sussurrò un fantasma al suo orecchio.

Rune sobbalzò e si girò di scatto. Quando era arrivato alle sue spalle?

“Per…”

Incontrò degli occhi giallissimi. Dorati, come quelli delle fiere.

Come quello delle lucertole e dei draghi. Dei falchi dall’aria maligna.

“Per la luce…” riuscì a mormorare, incapace di distogliere lo sguardo: il ragazzo non sorrideva più. Questo lo agghiacciò oltre l’umano dire. Fece un passo indietro, prima ancora di accorgersene. Fu allora che si ridelineò un sorriso sulle labbra esangui dell’altro, che ora lo lasciava per andare a controllare le lampade, ancora spente sui tavolini. Prese ad accenderle. Rune riprese contatto con la realtà.

 

Si guardò attorno di nuovo. Era una stanza abbastanza grande, tappezzata elegantemente, e la luce bastò per rassicurarlo. Era una stanza delle bambole, si disse. Eccentrica, ma d’altro canto non si trovavano in un posto ordinario.
“Sono tutte tue?” domandò.

Certo che rimaneva comunque strano. Riportò gli occhi su quello che si era detto il padrone di casa. Non gli sembrava tipo da collezionare bambole.

“Sono tutte mie. Anche quello.”

Ora che luce – poca, ma chiara – illuminava la stanza, Rune poteva vedere Minos. Il suo aspetto era assolutamente nell’ordinario, se si escludeva forse lo strano taglio di capelli che gli nascondeva gli occhi. Ma non era particolarmente magro, nonostante il viso affilato, né di aspetto malato, nonostante il pallore. Non camminava curvo, come uno spirito afflitto o un fantasma. Al contrario, se ne stava ben dritto, le spalle indietro. E gli stava indicando il teatro delle marionette.

“Mh…” Il teatrino gli parve subito sinistro. Tanto quanto le bambole che riempivano la stanza, se non di più. Cercò di scacciare l’impressione, avvicinandosi, e sbirciando il teatrino da dietro la spalla di Minos. Era davvero più alto di lui. Forse non era solo un anno a separarli. Forse erano due o tre.

“Guarda. C’è anche Nøkken” fece lui, con voce profonda, come a confermare le sue teorie. Allungò le dita lunghe e pallide verso il burattino più vicino, sollevando la sua testa di cavallo, bianca, intagliata nel legno. “Il genio che abita nelle acque e nei fiumi.”

“Ma è malvagio! Fa annegare i viandanti!”

“Certo che lo è.”

Prima che Rune potesse rendersene conto, un nuovo ghigno si ridipinse in faccia al ragazzo, che ora infilava la mano sotto la stoffa, dando vita a quell’inquietante testa animale. La fece muovere su e giù, lentamente, e Rune si ritrovò a rabbrividire, ringraziando che l’artista non avesse dato agli occhi bianchi di quel cavallo pupille che potessero fissarlo.

“Egli alletta le sue prede per trascinarle in acqua con sé” proseguiva intanto Minos, quasi cantilenando. Era una storia vecchia, quella del Nøkken. Uno dei tanti spiriti che popolavano le foreste norvegesi. “E sente sempre quando qualcuno sta affogando.”

“È spaventoso” commentò subito Rune, di cuore. “Come fa a non spaventarti?”

“Sono io che lo manovro” fu la pronta risposta. “Come potrebbe spaventarmi?”

Rune tacque. E Minos prese a far danzare il burattino, avvicinandolo delicatamente a loro, quasi volesse renderlo più innocuo, ai loro occhi.

“Quando voglio, egli danza. Non può farmi del male. Se volesse farlo…” qui s’interruppe, serio. Smise anche di muovere il burattino. “…posso anche ucciderlo.”

Il burattino cadde con un tonfo sordo a terra. Naturale. Il pugno serrato, erano bastati un paio di lievi scossoni per sfilarselo di dosso. Nøkken giaceva immobile a terra. Rune sussultò, e fece un passo di lato verso Minos. Anche lì in basso lo inquietava, non c’è che dire.

“È vero” diede comunque ragione al ragazzo. Ma gli prese, istintivamente, un braccio. Quell’affare, da terra, lo guardava.

“Nessuno di loro può farmi del male” alzò la voce Minos, senza nemmeno curarsi della presa al suo braccio. Invece, indicò con un ampio gesto, da banditore, le meraviglie della sua collezione di marionette. “Non lo faranno nemmeno a te, se non glielo dico io.”

Rune annuì. Non ci credeva poi tanto. Se fosse stato altrove, avrebbe sorriso. Ma in quella stanza era tutto molto realistico.

“Non glielo dire” gli chiese, ad ogni buon conto. Quello che non si aspettava, dopo quella richiesta, a dire il vero, era il silenzio. Minos si voltò verso di lui con un’espressione inspiegabilmente cattiva, un ghigno feroce.

Se non mi fai arrabbiare, no.

Allora Rune lasciò la presa di colpo, terrorizzato da quel sogghigno, e arretrò davvero.

Inciampò nel burattino. Cadde a sedere con un tonfo, e anche allora non smise di arretrare.

L’altro, con suo terrore, avanzò verso di lui di scatto, e lo prese per il braccio, forte, strattonandolo su. Rune si ritrovò in piedi, vicinissimo a lui. Scosse la testa, facendo cenno di no con la testa, gli occhi enormi. Non ti farò arrabbiare. Deglutì, senza riuscire a trovare la forza di parlare.

“Non…”

Ma Minos lo stava già spingendo fuori dalla stanza.

E fu un’esplosione di colori, di luce, e di una lunga risata.

 

 

 

 

 

 

 

 

~ Gamlehaugen’s corner  by Ren_chan

 

 

Sì, è una Minos/Rune. Eh, lo so che non sono tra i personaggi.

Ci mobiliteremo per chiederne l’inserimento. u_u

                                      

Chiedo immensamente perdono alla famiglia reale norvegese, il cui sito ufficiale – sì, embè, io mi documento, sapete? – mi fa lollare tantissimo, per quello che sto facendo. Ovviamente questo non significa che me ne penta. Ma di questo parlerò in seguito, con una nota apposta a seguire il prossimo capitolo; per ora sappiate che  questo è esattamente il background che io e LeFleurDuMal desideravamo per Minos. E anche per Rune, naturalmente.

Questa fanfic sarà composta sicuramente da tre capitoli, stando al suo progetto originale e per la storia che abbiamo da raccontare. È di tutte e due, ma sarò io che la scriverò, quindi gli insulti per la forma a me, prego (è un sacco che non leggo romanzi vittoriani, che potrebbero essermi d’aiuto, e si vede ç_ç).

Essa tratta, come avete potuto leggere, dell’incontro tra Minos e Rune, prima che il sigillo dei 108 specter fosse rimosso e i due non avevano ancora coscienza di cosa fossero destinati ad essere. Forse.

Troviamo deliziosa la coincidenza che Giudice e Procuratore siano entrambi norvegesi: siamo assolutamente certe che Minos se lo sia portato dietro, Rune, che ha esattamente la faccia di chi è nato per fare il suo segretario. Or sort of. E, naturalmente, abbiamo scelto per entrambi un’origine di tutto rispetto.

Tre capitoli sicuri, quindi, ed uno spiraglio aperto verso l’idea di proseguire: dipende da molte cose. Voi fateci sapere se vi piace, intanto! :*

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Capitolo 2
*** I corridoi ***


Eton, Inghilterra

“Nessuno di loro può farmi del male” alzò la voce Minos, senza nemmeno curarsi della presa al suo braccio. Invece, indicò con un ampio gesto, da banditore, le meraviglie della sua collezione di marionette. “Non lo faranno nemmeno a te, se non glielo dico io.”

Rune annuì. Non ci credeva poi tanto.

Se fosse stato altrove, avrebbe sorriso.

Ma in quella stanza era tutto molto realistico.

“Non glielo dire” gli chiese, ad ogni buon conto. Quello che non si aspettava, dopo quella richiesta, a dire il vero, era il silenzio. Minos si voltò verso di lui con un’espressione inspiegabilmente cattiva, un ghigno feroce.

“Se non mi fai arrabbiare, no.”

Allora Rune lasciò la presa di colpo, terrorizzato da quel sogghigno, e arretrò davvero.

Inciampò nel burattino. Cadde a sedere con un tonfo, e anche allora non smise di arretrare.

L’altro, con suo terrore, avanzò verso di lui di scatto, e lo prese per il braccio, forte, strattonandolo su. Rune si ritrovò in piedi, vicinissimo a lui. Scosse la testa, facendo cenno di no con la testa, gli occhi enormi. Non ti farò arrabbiare. Deglutì, senza riuscire a trovare la forza di parlare.

“Non…”                        

Ma Minos lo stava già spingendo fuori dalla stanza.

E fu un’esplosione di colori, di luce, e di una lunga risata.

 

 

 

Capitolo II
I corridoi

 

 

Inondati dalla luce calda delle lampade, era uno scenario che cambiava totalmente, come uscire strappati da un sogno, con una risata fragorosa:

“Sono leggende! Sono soltanto vecchie leggende!”

Il freddo dei corridoi pungeva la mente, come un sano risveglio. Gli addobbi natalizi che decoravano le sale, i quadri, tutto rifletteva nuove luci, più calde. Attorno era un coro di voci, passi, qualche musica lontana. Tutt’un’altra cosa. Minos rideva, trascinandosi dietro Rune, senza più quella presa di ferro sul suo braccio.

“Non ci avrai creduto?” Si voltò a guardarlo, sempre camminando, da sotto la foltissima frangia. “Il figlio del primo ministro è un vero credulone.”

Poggiò due dita sulle labbra, senza staccare lo sguardo, nascosto, dal suo giovane ospite: “Fufufu.”

Appena fuori dalla stanza, Rune sembrò capace di ristabilire un contatto con la realtà, come se il tempo avesse ripreso a scorrere, e l’ossigeno tornò ai suoi polmoni. Si rese conto di avere trattenuto il respiro, e ne prese uno bello profondo. Anche se stava quasi correndo, trascinato dal passo veloce di Minos, gli sembrò finalmente più facile inalare aria. Quando poté fermarsi, tirò via il braccio dalla presa di Minos, delicatamente, senza strattonare.

“Non ci ho creduto. Scherzavo” disse, anche se sentiva ancora il cuore in gola. Ripensò alla stanza. Erano solo bambole.

Minos parve intuire i suoi pensieri, perché gli rivolse un altro sorriso di quegli strani, che parlava di nuovo di bambole e marionette, e di spiriti che annegano nell’acqua. Ma un momento dopo quell’espressione era già spariva, e camminava con un sogghigno più neutrale, vago, per i corridoi. Pareva che sogghignare per quel ragazzo fosse più una specie di abitudine che altro. Rune ebbe un ultimo tremito, residuo dell’inquietudine di prima, e lo seguì. Fosse anche solo per allontanarsi da quella maledetta stanza.

Ma tu non dormi lì” notò diligentemente, ricordando che non c’erano letti. “È la stanza da gioco?” domandò, ingenuamente. Dopotutto era un castello di re.

“È la stanza delle bambole” fu la neutrale risposta, che lasciava intendere come un ragazzo cresciuto preferisse il collezionismo al baloccarsi.

“Capisco” rise Rune. “Ti sarò sembrato sciocco. Ma non ero mai stato in un castello come questo, prima d’ora.

La risata suonò argentina, tra quelle vecchie pareti. Tanto che Minos non rispose, proseguendo la sua camminata spedita sino alla fine del corridoio. Lo condusse, con sua pacata sorpresa, fino alle porte della sala dove Rune aveva lasciato il padre, poche ore innanzi. Il giovane lo seguiva, docilmente. Riprese a guardarsi intorno, rassicurato.

“Tu aspetta qui.” La voce dell’altro lo riscosse, quasi. “L’udienza di tuo padre terminerà a breve.”

“Sì.”

Si fermò, obbediente, mentre l’altro proseguiva per il proprio cammino, di buon passo. Lo vide imboccare quasi subito un corridoio a destra, sparendo alla sua vista. Incerto, si domandò se avesse in mente qualcosa, o se il principe avesse semplicemente lasciato intendere che aveva altro da fare. Il principe, tornò a ragionare il ragazzino, ancora senza capacitarsene. Ma era poi vero? Il suo volto non gli era noto. L’albero genealogico della famiglia reale continuava ad affacciarsi ordinato alla sua memoria, senza che il nome di quel ragazzo riuscisse a trovare una collocazione. Passò diversi minuti a questo modo, spostando lo sguardo sui soffitti alti, sugli arazzi alle pareti. Decisamente, meglio ovunque che in quella stanza, si ritrovò a pensare.

Ad un tratto dovette cessare di guardarsi svagato attorno, come il cigolio delle pesanti porte gli annunciò l’arrivo del re, vecchio e in forma, a fianco del suo primo ministro, circondati da un corteo di funzionari ed altre personalità di alto rango. Gli uomini erano preceduti dal brusio della conversazione, che, intavolata a mezzo, ancora non interrompevano. Rune aderì quasi al muro con la schiena, per non dare nell’occhio, ed accennò un inchino al passaggio del sovrano. Vide con la coda dell’occhio il padre allungare il capo, riconoscerlo, ed esibire un largo sorriso.

“Rune! Vieni qui, Rune.”

Sembrava molto soddisfatto, più del solito. Evidentemente la riunione era andata molto bene. Rune accorse, solerte, ed accennò un nuovo inchino col capo, incerto sul protocollo.

Il re si limitò a sorridere, educatamente, al ragazzino dagli occhi grandi che lo guardava come se fosse stato quell’anzianotto in persona a edificare la fortezza dell’Akershus, scavando la pietra nera ed erigendo le torri possenti a vegliare su tutta Oslo. Ad ogni buon conto, si impettì, mantenendo un’aria di studiata indulgenza; certo, era facile fare colpo sui ragazzini, ma assunse lo stesso quella posa, quella da chi potrebbe, per un ghiribizzo qualsiasi, decidere di aggiungere una torre o due, per dire. Rune ci cascò con tutte le scarpe.

“Rune, figlio mio. Io e Sua Maestà abbiamo parlato anche di te, lo sai?

“Di me?”

Il padre rise, scambiò un veloce sguardo con il re impettito, e confermò: “Pensiamo di averti trovato un compagno di giochi.”

A questo, il re rise. Parlare di compagni di giochi a quell’età era veramente buffo. Rune infatti arrossì, trovandolo ben poco divertente.

“Compagno di giochi. Mh, sì. Chissà che non possa servire, per una più stabile collaborazione tra corona e governo, un contatto tra le generazioni più giovani.

“Saggia considerazione, Vostra Maestà.”

“Rune, vero? Avvicinati, Rune. Voglio presentarti mio nipote. È un principino, sai.”

“Mi… mi lusingate, Maestà” balbettò quello, profondamente incerto, ma composto. Allora si trattava di lui? La confusione che aveva in testa non lo aiutava a reagire con il giusto tempismo. Di quale principino stava mai parlando il re di Norvegia? I suoi nipoti non raggiungevano la decina d’anni! Questo tuttavia non impedì a Sua Maestà di farsi di lato per lasciare passare e palesare il maggiore dei figli di suo figlio. Quello illegittimo, certo, e mai riconosciuto.

 

Il re, snocciolando nomi, cognomi, circostanze, titoli e formule di rito, sorrideva. Ce la mise tutta e compensò con un gran sorriso l’insopportabile, impenetrabile sogghigno del giovanotto che non si era mai impegnato particolarmente per farsi benvolere, a corte, con i suoi modi stravaganti. Ne erano tutti discretamente terrorizzati, a dire il vero. Rune per primo sbiancò e rischiò il collasso.

“Vostra Altezza.” Il Primo Ministro diede prova della sua scarsa empatia una volta di più, sorridendo come se si stesse proponendo un picnic all’aperto, e spinse avanti il sangue del suo sangue in pasto al figlio spiritato di Sua Altezza Reale: “Questo è mio figlio, Rune!”

“Ehm…”

Molto piacere, Rune.”

Sibilò Minos, tendendo avanti la mano. Perché gliela baciasse, ovviamente. E prova a darmi del tu adesso, era il messaggio del suo immancabile sogghigno. Rune rimase imbambolato per un attimo, dopo un capogiro da record. Poi, tentennante, fece quello che esattamente ci si aspettava da lui: si inchinò, e baciò la mano che gli era stata porta.

“Spero che diventeremo ottimi amici.”

 Il re ignorò il tono di voce affatto rassicurante con cui il nipote stava dando spettacolo, e il lampeggio furibondo degli occhiacci gialli. Ora che aveva visto Rune, era ottimista: sembrava così dolce e rassicurante, il compagno ideale per limare gli spigoli del carattere di quell’erede intrattabile. Che comunque erede non sarebbe mai stato, com’era stato accuratamente deciso. Il Primo Ministro, da parte sua, era ottusamente felice. Rune ritrovava l’innocente sorriso di giovane norvegese senza ombre: “Lo spero anche io.”

Una manica di poveri illusi, insomma.

Minos inclinò appena il capo di lato, senza smettere di sorridere. Come una marionetta, di nuovo. Rune rabbrividì, di un brivido involontario, ma lui pareva divertito, quindi timidamente gli ripropose un sorriso. La voce del re li interruppe, anche se era rivolta al suo primo ministro:

“Direi che possiamo anche lasciarli. Rune si ambienterà benissimo, già lo so.”

“Allora possiamo andare?” strascicò mellifluo Minos, senza onorare il nonno di alcun appellativo.

“Andate, andate!” rimase gioviale, il monarca, contando che gli era anche andata bene. “Gamlehaugen è vostro!”

Un intero pomeriggio libero si srotolava come un tappeto davanti ai due ragazzi, liberi di fare sostanzialmente tutto ciò che aggradava loro, e Minos aveva tutta l’aria di chi ha intenzione di godersi le vacanze di Natale, prima di ritornare al college. L’Inghilterra era noiosa, di quel periodo. E in più aveva trovato un nuovo giocattolo.

 

“Tanto per cominciare” ghignò spietato, il giovane principe, incedendo lungo i corridoi con finalmente un galoppino a disposizione “che ne diresti di utilizzare una forma più rispettosa, quando ti rivolgi a me?”

Rune sbatté gli occhioni e replicò, prontamente, disponibile: “Come vuoi che ti chiami?”

Era uno di quei ragazzini che non hanno mai ricevuto punizioni corporali, e che se mancano di rispetto lo fanno in buona fede. Ciò non lo salvò dall’occhiata superiore dell’altro ragazzo, e dal tono improvvisamente duro con cui lo apostrofò:

“Come ti appelleresti ad un membro della famiglia reale, Rune?

Rune sussultò. Non ci aveva pensato. Aveva creato una sorta di intimità, quel primissimo incontro, che l’altro evidentemente non condivideva. Chinò il capo, diligente, un filo di voce: “Perdonate, Vostra Altezza.”

“Così va meglio” lo gratificò soddisfatto l’altro, smettendo di camminare per godersi il risultato delle sue parole.

I suoi repentini cambi di umore disorientavano Rune, che non sapeva esattamente come porsi nei suoi confronti. Si limitò a raddrizzarsi, decidendo di lasciare a lui ogni più piccola iniziativa, e lo guardò, senza dire nulla, se non con i suoi occhi grandi. Minos li contemplò, pensando che fossero molto interessanti. Erano gli occhi di una persona innocente, innocente come non aveva mai visto nessuno, nemmeno i suoi coetanei. Soprattutto i suoi coetanei. Gli voltò le spalle, camminando a passo spedito, pensando a quale godimento gli avrebbe procurato gettare nel fango una creatura di quel genere.

 

Nelle piccole passeggiate che compirono per Gamlehaugen, quel primo pomeriggio, Rune si limitò a seguire Minos, sempre rispettosamente di un passo indietro, senza osare chiedere nulla. Ma con sua grande sorpresa Minos si limitò concludere i loro giri semplicemente al primo piano, sui quali gradini tornò a rivolgergli la parola:

“Ti hanno già fatto vedere dove dormirai?”

“Sì, in verità, Vostra Altezza” si affrettò a rispondere lui.

Mh. Immaginavo.”

“Vi ringrazio…” saltellò un paio di gradini in fretta, per affiancarlo, con un sorriso “…per questa opportunità. Per me è un grande onore crescere al fianco del principe di Norvegia.

Minos rimase in silenzio, senza sprecarsi a confermare. Dopotutto, non l’aveva nemmeno deciso lui. In quel silenzio, si limitò ad indicare una porta, poco più in là. La sua.

Interpretando il suo silenzio, Rune aprì la porta della propria camera, rimanendo però fermo sulla soglia. Minos annuì, svogliatamente, e si defilò quasi immediatamente, congedandosi laconico: “Se avrò bisogno di te, ti chiamerò.”

Ma…”

Inutile. Se ne era già andato. Rune provò a fare qualche passo e a sporgersi dalla scala: “Aspettate!”

Silenzio. Fece solo in tempo a vedere la sua ombra dileguarsi per il corridoio. Non gli rimase che entrare, decidendo di restarsene buono e fermo lì fino a nuovo ordine: per quanto lo riguardava, aveva avuto l’impressione di averlo contraddetto anche troppo, il giovane principe, per quell’oretta scarsa che avevano trascorso assieme. Inoltre ne aveva avuto abbastanza di aggirarsi da solo per i corridoi, quindi si accinse ad obbedire. Entrò in una stanza elegante e ben tenuta, la stessa che lo aveva accolto quella mattina. Rune notò anche che le sue valige erano già state fatte portare ai piedi del letto, così si risolse a disfarle, per prendere tempo, e per tenere occupate le mani mentre la testa era piena di pensieri. Chissà quando avrebbe sentito bussare alla porta, e chissà per quali nuove passeggiate sarebbe stato condotto.

 

Per aspettare, aspettò.

Aspettò tra le luci calde e le voci del castello. Aspettò tanto che si spensero.

Aspettò sino a che i lumi furono bassi, e che il cielo, già scuro, si facesse nero.

Allora rinunciò e si infilò il pigiama e si intrufolò a letto, interrotto nell’operazione solo da suo padre, che era passato per la buonanotte, e per farsi raccontare le sue impressioni sulla giornata. Avevano parlato per un po’, e il primo ministro si era dimostrato orgoglioso dell’onesto entusiasmo che il figlio lasciava trapelare: il brav’uomo temeva di aver caricato le sue esili spalle di un peso troppo grande, ma calata la sera era bello poter contemplare il suo visetto bianco animato da quel genere di sorriso capace di confortarti e rassicurarti che andava tutto bene, anche dopo una giornata passata a discutere su ogni più piccolo comma dimenticato da Dio. Gli fece una carezza affettuosa tra i capelli biondi, e lo benedisse ad alta voce, di cuore. Poi lo lasciò coricarsi, e gli spense la luce, come faceva anni prima, quando lo portava a letto già addormentato. La notte si preannunciava silenziosa.

Rune aveva chiuso gli occhi già da un pezzo, dopo che il padre l’aveva lasciato. La tempesta si era placata, i venti anche, e lui si girò sul fianco, nella morbidezza confortevole del materasso, in attesa di prendere sonno. Si accomodò. Non si stava affatto male, non fosse stato per quello spiraglio d’aria fredda sul collo. Si rannicchiò, senza nessuna intenzione di abbandonare la sua nicchia calda per andare a controllare la finestra, e si immerse nelle coperte sino al naso. Poi, quando osò abbassarle, per puro caso, si ritrovò davanti una faccia. E lanciò un urlo da svegliare l’intero castello.

 

 

 

 

 

 

 

 

~ Gamlehaugen’s corner  by Ren_chan

 

 

Povero Rune. No, sul serio. Non dovete pensare che lo dica di circostanza. Povero Rune.

Due parole sulla famiglia reale norvegese, che ho pensato bene di tirare in ballo senza troppe remore. Ecco a voi un avviso obbligatorio da leggere:

 

à QUESTA FANFICTION INCLUDE PERSONE VERE E LUOGHI VERI ß

 

Saint Seiya è ambientato nel 1986, questa fanfic prende le mosse dal 1979: Minos ha 16 anni, Rune 13.

Mi rifaccio inoltre per i miei loschi scopi a Wikipedia all’albero genealogico della famiglia reale norvegese, il cui re attualmente è Harald V di Norvegia. Harald ha ereditato il trono nel 1991 alla morte del padre, Olav V di Norvegia: all’epoca della narrazione, il re era ancora quest’ultimo, mentre il primo aveva il titolo di principe ereditario. Da ciò se ne desume che Minos, nella mia artistica ricostruzione che lo vuole figlio illegittimo di questa casata, sarebbe il primogenito di costui. È ovviamente superfluo rettificare però che l’albero genealogico e la conformazione della famiglia reale norvegese mi serve unicamente come fonte d’ispirazione; è altresì il motivo per cui non faccio nomi di persona nel corso della narrazione vera e propria, e non ne farò ogni qual volta dovrei tirare in ballo un personaggio istituzionale che all’epoca era in carica. Quindi nessun intento diffamatorio nei confronti di quei simpatici nordici, ok? Se volete ulteriori conferme della loro estraneità ai fatti potete andare a chiedere udienza a Palazzo Reale. Che però sta ad Oslo. A proposito, anche Gamlehaugen esiste. Ed è bellissimo e lo bramoh. *O*

 

 

 

Grazie a

 

Chi ha messo la fan fiction fra le seguite (Lawliet, Marluxia25, l’immancabile e adorato Shinji) e chi, dandoci subito fiducia, tra le preferite (la gentilissima Malu Lani, la nostra Ruri, Marluxia25, e shura 4 ever).

Lasciateci anche un commentino, dai, dai, dai! <3 L’esortazione non vale per Malu Lani, che ci commenta sempre e sempre con la solita gentilezza, e Shinji perché è il Dio degli Inferi. E perché recensisce puntuale come un orologio svizzero viola. Se ci è consentito di fare pubblicità, in questo minuscolo inciso, Shinji è un altro che in questo momento si sta lisciando gli specter con una longfic deliziosa e che noi amiamo come fosse nostra, Il Canto della Banshee. Guardatela e amate il protagonista. <3 Poi un grazie immenso a Stateira per il supporto dolce e tenace, e a li_l, che ci assicura che ci sono fan della coppia che ci supportano! u_u Alla prossima allora! *_*

 

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Capitolo 3
*** I tetti ***


Eton, Inghilterra

La notte si preannunciava silenziosa.

Rune aveva chiuso gli occhi già da un pezzo, dopo che il padre l’aveva lasciato. La tempesta si era placata, i venti anche, e lui si girò sul fianco, nella morbidezza confortevole del materasso, in attesa di prendere sonno. Si accomodò. Non si stava affatto male, non fosse stato per quello spiraglio d’aria fredda sul collo. Si rannicchiò, senza nessuna intenzione di abbandonare la sua nicchia calda per andare a controllare la finestra, e si immerse nelle coperte sino al naso. Poi, quando osò abbassarle, per puro caso, si ritrovò davanti una faccia. E lanciò un urlo da svegliare l’intero castello.

 

 

 

Capitolo III
I tetti

 

 

Lanciò un urlo, tirandosi su di scatto e appiattendosi contro la testiera.

Minos, per tutta risposta, gli tese una mano, senza scomporsi, senza muoversi per il resto di un solo millimetro. Il suo viso era per metà nascosto, la bocca dritta e immobile. Rune lo fissava, nel buio, tutto il suo contrario, con gli occhi spalancati e luminosi, a raccogliere quella poca luce che filtrava dalla porta.

“Altezza! Siete voi!” riuscì a sussurrare. Il cuore gli batteva fortissimo per lo spavento, ma il suo naturale istinto di obbedienza gli fece automaticamente eseguire quelle due cose che aveva imparato in quel breve pomeriggio: dare al principe del ‘voi’, ed assecondare incondizionatamente ogni suo gesto. Dopo qualche attimo allungò incerto la mano nella sua. Le sue dita furono prese ed afferrate saldamente, e Minos non perse tempo, muovendosi subito, trascinandolo con sé verso la finestra. Rune lo seguì, correndo quasi per stargli dietro: “Dove andiamo, Vostra Altezza?”

Finalmente, su quel volto pallido fiorì un’espressione. Un ghigno bianco, schiuso lentamente, mentre apriva entrambe le braccia e spalancava la finestra.

“Ah!” scosso da un brivido, Rune si serrò le braccia attorno al corpo, assumendo un’espressione spaurita. “Voi… non avete freddo? Altezza!”

Forse avrebbe dovuto imporsi, pensava intanto, esitante, dietro di lui. Non voleva certo che il principe si ammalasse! Goffamente, tese una mano avanti, staccandola meno possibile da sé, per non lasciare spiragli all’aria gelida, ma Minos fu lesto ad afferrarla.

“Vieni, Rune.”

Rune si sentì strattonare in avanti, incredulo, mentre quello con uno scatto saliva sul davanzale. Vide tutto con esattezza, e non poté crederci. Vide le gambe, agili e svelte, scattare, le ginocchia piegarsi, le mani reggersi salde agli infissi di legno. E in tutto questo si accorse a malapena del fatto che Minos lo stesse trascinando con sé, i capelli chiarissimi che si sollevavano nel vento. Che era gelido. Rune lo avvertì tutto nel momento in cui sentì che cosa gli stava dicendo: “Vieni a vedere i folletti della notte.”

“Co… cosa? Che cosa dite!” tentò disperatamente di deglutire. E poi i folletti non esistevano, no? “Non potete uscire con questo freddo!”

Lo seguì. Anche sul davanzale. Aveva quell’incoscienza tipica dei tredici anni, era svelto e per il momento non guardava in basso. Lo seguì, pensando ad un modo gentile ed educato di ricondurlo dentro. Minos lo strattonò per la mano, facendosi seguire a forza, salendo con una facilità impressionante verso l’alto. Lo strattonò senza particolare cattiveria, come se avesse solo fretta. Rune era lì lì per protestare, seppur debolmente, ma una volta sul tetto sembrò rendersi conto improvvisamente di che altezza aveva raggiunto, e rischiò di svenire. Per la paura, la vertigine, ed il freddo. Fischi orribili gli perforavano le orecchie e schiaffeggiavano i capelli sulla nuca, ed i più gelidi sembravano bucare la stoffa del pigiama. Minos, la cosa più strana e fuori posto in quello scenario notturno, era vestito di tutto punto. Parlava così piano, eppure si sentiva, nel vento.

“Hai paura, Rune?”

“N…no.” sussultò, alla sua voce. Tremava, e si guardava attorno spaurito. “Non ho paura.”

E mentiva. C’era qualcosa che andava persino oltre la paura, un filo invisibile e teso, come un cappio, che avrebbe potuto strangolarla, la paura. Non osava nemmeno dargli nome, tratteneva il respiro e le parole. Rimaneva con gli occhi spalancati, tremando per il freddo.

Minos rise, soffuso, così vicino a lui. Gli sollevò il viso, costringendolo guardarlo. E allora Rune lo vide.

“Anche perché…” Il vento furioso gli scopriva la fronte, e gli occhi erano gialli, brillantissimi e mobili sotto la luce bianca della notte. L’aria gelata lo frustava senza scalfirlo. “…ormai è troppo tardi, Rune.

E sotto la luna enorme, in quella landa di streghe, Minos gli apparve davvero come una creatura soprannaturale ed oscura, la sagoma aguzza della torre dietro di lui come grandi ali nere. Gli prese la mano, e lo trascinò con sé dentro l’inferno.

 

Minos!

Trascinato, Rune scordò ogni formula di cortesia che aveva imparato. Gli si aggrappò, gli occhi stretti nel vento, senza rendersi conto di quel che gli succedeva attorno, terrorizzato. Nella mente aveva impressa a fuoco quell’immagine tremenda e terribile – occhi gialli ed ali nere – eppure familiare, a suo modo, come se l’avesse già vista. Cercava disperatamente di ricordare dove, il cuore che batteva all’impazzata.

“Sei stato attirato” sussurravano parole al suo orecchio, intanto, mentre salivano, sempre poco distinguibili, nel vento. “Così ingenuo, Rune. Sei stato attirato. Come la preda del Nøkken: lui ti aspetta sotto il pelo dell’acqua, e tu non puoi fare altro che andargli incontro.”

 

La ruota del Fato ha cominciato a girare. E lui, per primo, sente.

Nessuna chiamata, a destarlo: Minosse, re antico, ne viene cullato sin dalla nascita, come una ninna nanna. Destinato agli Inferi, attratto dall’oscurità, si nasconde poco e tuttavia finge molto: non ha ancora coscienza di sé e del suo futuro, né tantomeno può prevederlo. Ma percepisce il girare della ruota, e sa attendere, Minosse, re antico. I mostri sono suoi figli, li sono sempre stati: di vita in vita, dal possente Minotauro ai genii delle foreste norvegesi. I mostri sono suoi figli, e quando non gli appaiono, li tira con i suoi fili. Li colleziona come bambole. In attesa.

 

Rune aveva gli occhi spalancati, e la gola bloccata. La testa gli ronzava senza sosta. Era totalmente inconsapevole, eppure qualcosa aveva cominciato ad avvertire, come se il Nøkken stesse cantando la sua ninna nanna delle tenebre da sotto il pelo dell’acqua. Non poteva far altro che correre dietro a Minos, incespicando, sotto quella grande luna senza notte.

“Minos, ti prego…” agghiacciato dalle sue parole, puntava i piedi, debolmente, cercando almeno di rallentare la sua corsa sui tetti. “Non andiamo oltre!”

“Oltre qui ci sono i mostri” ghignò per tutta risposta lui. All’espressione terrorizzata di Rune, tuttavia, inaspettatamente alzò il capo, guardando lontano, e lo precedette: “No. È una bugia. Il Nøkken si annida nei laghi, i folletti nelle foreste. I figli nascosti di Eva sottoterra. Qui non c’è nessuno.”

Lo condusse nel punto più alto, nella sua presa gelida. Per aggrapparsi alle guglie. Rune gli si aggrappava terrificato, affondandogli le unghie nel polso magro, come se lasciandolo potesse davvero precipitando all’inferno.

“Non… dove stiamo andando? Aspetta…”

Guardò giù, e venne colto dalla vertigine. Fu allora che Minos lo prese per la vita, sorprendendolo per quanto sicura potesse essere quella stretta. E lo trascinò con sé, come una cavalcata infernale, negli ululati della notte; arrivò ai piedi del tetto scosceso della torre, da cui si vedevano le luci di Bergen, e gli alberi innevati, e la foresta al di là della distesa d’acqua grigia e verde. Le luci si diradavano sino al nero lontano e misterioso dei boschi, e Minos si guardava attorno, in silenzio.

Rune non si era nemmeno accorto di avergli buttato le braccia al collo, tanta era la paura. Solo quando furono arrivati alzò appena il viso dalla sua spalla, e contemplò: le luci radenti, come in un quadro di Rembrandt, e il buio del bosco, che era l’apoteosi del buio. Erano a Bergen, e non erano affatto a Bergen. Il respiro concitato, Rune venne scosso da un brivido; gli occhi non riusciva a chiuderli, e gli sembravano diventati di vetro, tanto gli bruciavano.

“Rune.”

Alzò il viso, di scatto, quando si sentì chiamare. Erano premuti l’uno addosso all’altro, e Minos lo reggeva con apparente noncuranza, ma stretto, per non farlo cadere. Il vento freddo aveva schiaffeggiato Rune così violentemente da non permettergli più tanta sensibilità, e a stento riusciva a percepire il corpo contro al proprio. Rabbrividì, di nuovo, quando lo vide abbassare gli occhi gialli nei suoi, per poi distoglierli, puntati nell’immenso buio.

“Giurami eterna fedeltà.”

L’aveva sibilato, senza guardarlo. E Rune lo guardò fisso come se l’avesse schiaffeggiato.

Si tese, contro il suo corpo, petto contro petto, inguine contro inguine, un gemito nel vento, perché quell’ordine era come se non gli fosse stato impartito in quel momento, ma un’infinità di tempo prima. Si rese conto di piangere, senza sapere per qualche motivo. Se ne rese conto quando le lacrime, silenziose, gli scorsero sino al mento, seguendo la linea della guancia.

Rendo il mio cuore a voi.

Parlò, senza capire il significato delle proprie parole.

E davanti a voi piego il ginocchio.”

E se ne stupì.

 

In silenzio, erano scesi. Minos non aveva lasciato la presa un momento, agile come era salito. Rune lo guardava timidamente, il fiato bloccato in gola, domandandosi che cosa aveva giurato. E a chi.

Quando furono più stabili sulle gambe, Minos lo lasciò, continuando per conto proprio. Rune, ancora scombussolato, si infilò i capelli dietro l’orecchio, perché non gli dessero fastidio nel vento, ed affrettò il passo per stargli dietro, sino a che non venne preso per mano e ricondotto attraverso la finestra nella propria stanza. Dal freddo al caldo, da un sogno al risveglio, il ragazzino tirò un sospiro di sollievo, strofinandosi vigorosamente le braccia intirizzite. Minos si stava già defilando dalla porta, senza aspettarlo.

“Aspettate!” preso di provvista, Rune lo seguì, a piedi scalzi, per il corridoio. Quello si girò, l’espressione tornata impenetrabile e assente: “Mmh?”

“Io… ecco…” s’intartagliò il ragazzino, in imbarazzo.

“Vai a dormire. È tardi.”

Rune rimase a guardarlo, nel corridoio buio, come incantato.

Rimaneva in piedi, a guardarlo neutro, con quegli occhi gialli di falco. Perfettamente normale, e fisica, la sua figura, ora. Niente vento demoniaco, o torri come ali nere. Ma quegli occhi, e quella luce spettrale inchiodarono Rune lì dov’era.

“Vai.”

Si sentì chinare il capo, soggiogato dalla sua forza. Si girò e tornò nella sua stanza, mentre lui rientrava nella propria, scivolandovi piano e senza rumori.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

~ Gamlehaugen’s corner  by Ren_chan

 

 

Dichiarazioni: Minos è così gotico da farmi vergognare, ed ogni esagerazione e/o barocchismo è puramente voluto. Perdonatelo, vi prego. Mi pare uscito fra un crossover tra un romanzo dell’orrore vittoriano e un manga della Kaori Yuki. Ma facciamo finta di niente e proseguiamo.

 

Siamo abbastanza decise nell’idea di proseguire la fanfic oltre al terzo capitolo, e abbiamo molte idee in serbo. Ma voi dite: sareste pronti a distogliere gli occhi dalla foresta?

 

 

 

Grazie a…

 

Ai commentatori: Shinji, NoorDaimon, MaluLani e PerseoeAndromeda. Rispondere a distanza di tempo punto per punto diventa un po’ troppo artificioso, quindi ci limitiamo a ringraziare e basta, ma sappiate che è davvero di cuore! Ci siamo fatte attendere lungamente, ma questa fanfic non è stata certo dimenticata. È che abbiamo troppi progetti in corso, sob. Ci sembrava doveroso, comunque, chiudere almeno questo (primo?) trittico, così com’era stato progettato.

Speriamo che, sebbene in ritardo, possa giungere come degna chiusa. Per il momento.

E poi? Che dite? Andreste avanti? ;)

 

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Capitolo 4
*** Rowing ***


gamle4

Eton, Inghilterra.

Gennaio 1980


La ruota del Fato ha cominciato a girare. E lui, per primo, sente.
Nessuna chiamata, a destarlo: Minosse, re antico, ne viene cullato sin dalla nascita, come una ninna nanna. Destinato agli Inferi, attratto dall’oscurità, si nasconde poco e tuttavia finge molto: non ha ancora coscienza di sé e del suo futuro, né tanto meno può prevederlo. Ma percepisce il girare della ruota, e sa attendere, Minosse, re antico. I mostri sono suoi figli, li sono sempre stati: di vita in vita, dal possente Minotauro ai genii delle foreste norvegesi. I mostri sono suoi figli, e quando non gli appaiono, li tira con i suoi fili. Li colleziona come bambole. In attesa.


Capitolo IV
Rowing


Il prato verde tagliato corto si estendeva nella sua dolce pendenza sino all’acqua scura, che baluginava ad ogni colpo di remo, muovendosi pigra e quasi senza rumore.
Gli scrosci lenti e il vociare dei ragazzi che scendevano dalle canoe attraversavano l’aria piatta e fredda sino a giungere distanti alle orecchie di Minos. Il ragazzo cincischiava slacciandosi e riallacciandosi le stringhe delle scarpe, già seduto sull’erba, evidentemente poco interessato a rimettere a posto remi ed attrezzi.
Un ragazzo decisamente più robusto di lui lo urtò di proposito, senza ricevere dal compagno la benché minima occhiata. Quella arrivò tardi, intensa ed indecifrabile, nascosta dalla folta frangia, e rivolta più che a lui alle sue spalle; ma quello già stava facendo finta di niente, mettendo via le lunghe aste di legno, un sorrisetto complice ad un compagno di canottaggio. Che, tanto per dar manforte all’amico, si era già piazzato davanti a Minos, pestandogli le stringhe.
Ci fu un gran sghignazzare, fino a che proprio lui, che era il più magro, pallido ed esile dei tre si alzò in piedi, e con uno spintone spedì il tizio dei remi dritto in acqua.
Un grande scroscio, molti ragazzi si voltarono, e le risate del tizio delle stringhe aumentarono inspiegabilmente di volume, mentre il norvegese si sfregava le mani: “Idiota. Te lo do io il remo.”
Con somma calma, riemersero due mani.
Poi riemerse tutto il corpo, giovane, robusto e temprato dagli allenamenti di rowing.
Senza dire una parola, il ragazzo risalì sulla riva, strizzò la canottiera, la rimise nei pantaloni.
Il perfetto gentiluomo. Umidiccio.
Holy God, Minos. Non sai stare allo scherzo.”
Ti faccio passare io la voglia di… e tu non ridere” anticipò con un’occhiata gialla l’altro, che ovviamente si stava sbellicando. Il Lord zuppo, intanto, si rinfrancava come ogni suo pari discorrendo sulle condizioni metereologiche: “Mh. Il sole è così tiepido, questa mattina, non è vero?”
Non abbastanza per riscaldarlo, evidentemente, perché dovette togliersi la canottiera, dopo qualche vano secondo di speranza nella pallida mattina lattiginosa di Eton. Minos lo degnò vagamente di uno sguardo, stendendosi sull’erba con una studiata aria sofisticata:

Voi inglesi non sapete far altro che parlare del tempo.”
E la cosa peggiore è che è la cosa più interessante, qui intorno” chiosò il terzo dello sparuto gruppetto, ignorando sia il gesto ostentato con cui il norvegese si calcava in testa un cappello alquanto improbabile (e quasi sicuramente fuori regolamento), che lo spogliarello del biondino. Costui, che più che sfoggiare chissà cosa aveva intenzione di evitare di prendersi un raffreddore, pensò bene di finire di mettere a posto i remi. Nel mentre, diede prova di un’ironia un po' più diretta: “La Norvegia, immagino, è molto più vivace.”
“Puoi scommetterci.” Sbottò invece l’interpellato, alzandosi mezzo seduto. “In Scandinavia, o splende il sole o infuria la tormenta. Nessuna mediocre via di mezzo.”
“Posso immaginare” non raccolse, l’altro, schizzandogli appena qualche goccia d’acqua mentre tornava a sdraiarsi vicino gli altri due, sul prato. Tutti gli altri ragazzi si stavano già andando a cambiare, per godere il più possibile dei minuti di tempo libero dopo l’allenamento.
“Non resisteresti una notte” sfoderò un ghigno spettrale, tornando alla carica, quello che l’inglese aveva avuto la sfortuna di ritrovarsi per quel semestre come vicino di stanza: “Agli ululati della tormenta…”

Lui alzò un aristocratico sopracciglio all’espressione da fantasma con cui quell’altro, evidentemente, voleva spaventarlo: “Che assurdità. Non dici altro che assurdità.”
Minos rovesciò il capo indietro, ridendo, e da quella posizione rivolse un ghigno anche all’altro ragazzo: “E tu? E tu resisteresti?”
Io? Io le cose che ululano...” ghignò lui “…me le mangio.”
E da là sopra gli fece il verso
, restituendogli una smorfiaccia da fantasma. Il biondino, ignaro dell’improvvisa complicità degli altri due, aveva intrecciato le mani sotto la nuca, godendosi il tepore di quella mattinata gentile. Ma venne interpellato ben presto:
Non come il piccolo lord, qua.”
Già. Mangia solo porridge, lui.”
Minos. Ryan.” Calmissimo e immobile, non aprì nemmeno gli occhi. “Fuck off.”
Nessuno si fece impressionare dalla
sua piazzata, men che mai un giovane principe norvegese, che si alzò apposta per oscurargli il sole sulla faccia, incitandolo a male parole. Sembrava molto più allegro e divertito di quanto fosse nel rigore reale di Oslo, o tra le nevi incantate di Gamlehaugen; era più rapido, più reattivo, gli occhi più svegli. La parlantina più sciolta, toni di voce più alti, si divertiva ora a scuotere alla buona con un piede il compagno che oziava sul prato, pronunciando il suo nome come se fosse qualche cosa d’irrimediabilmente comico:
Avanti, Charles. Siamo sempre stati cordiali l’uno con l’altro, ma adesso che siamo vicini di stanza dovresti fare lo sforzo di socializzare, non ti pare?”
Nessuna reazione.
Sii…” gli schiacciò lo stomaco col piede. “…socievole!”
Peccato che gli studenti dell’Eton College non fossero accondiscendenti come i suoi domestici, né docilmente sottomessi come le sue bambole: si prese senza troppe cerimonie una gomitata un pancia e venne atterrato da un inglese deciso e scocciato. Erano in vita sua le prime volte che finiva per prendere botte, ma aveva cominciato inspiegabilmente a prenderci gusto. Rise, malignamente ma rise, opponendo una blanda resistenza, per quel che ne era capace.
Ad un certo punto Ryan decise che tutto quel contatto fisico a casaccio gli piaceva.
Non è un comportamento da gentiluomini, il tuo” stava impartendo lezione Charles, tenendo giù Minos con un ginocchio. E gli arrivò l’altro addosso.
Levati!” protestò, rauco. Tuttavia, cercare di scalzare via un altro atleta in maniera composta è auspicabile, per un Lord, ma non sempre fattibile; riuscì a saltare indietro con più decisione solo quando la risatina spettrale di Minos cominciò a suonare troppo melliflua. Tutti e due si tolsero presto di mezzo e rimasero a guardarlo abbastanza perplessi. Charles fece gesto di spolverarsi una camicia che non aveva, dal momento che era ancora a torso nudo: “Minos! Le lezioni del professor Talbot non ti hanno insegnato nulla? Contegno!”
Intanto ti sei levato.”
Lui scosse il capo, apparentemente cambiando argomento:
È quasi l’ora del tè.”
Mancano tre quarti d’ora!”
Mentre
gli altri due battibeccavano, Minos, da steso che si era rimesso, si rivoltò a pancia in giù, ozioso. Passò le dita lungo un filo d’erba e lo staccò, tacendo per ancora qualche minuto. Poi domandò ai due compagni, senza voltarsi a guardarli:
Voi che cos’avete fatto durante le vacanze di Natale?”
Dopo i primi secondi di silenzio, passati a guardarsi come se dovessero consultarsi, il biondino assunse un’aria molto seria,
quasi contrita:
“Ho cantato molte carole.”
Il più scuro dei due invece si limitò ad alzare le spalle: 
“Ho ripreso a masticare coca.”
Charles si voltò con aria scandalizzata verso
il ragazzo di fianco.
Ah, ma tu racconta pure delle carole.”
Mia sorella” lo fulminò con un’occhiataccia, infatti, riprendendo a raccontare “suonava il piano.”
Ha
una sorella?, fu l’espressione scambiatasi in simultanea degli altri due.
“…quando era ancora in vita.”
Ah.”
Quindi da quest’anno ho iniziato a suonare io.”
Com’è inglese, questa faccenda delle sorelle che muoiono.”
Passane anche a me” s’intromise subito Minos, i capelli sulla fronte che rendevano indecifrabile l’espressione del viso. Sembrava attento e vigile. Naturalmente si riferiva alla coca.
Nah” ghignò il moretto, che effettivamente qualcosa ruminava, al momento, ma poteva essere anche solo un filo d’erba. “Ai ragazzini magrolini fa male.”
Magrolino. Tskch.” Lo guardò malissimo lui, punto sul vivo. Non era affatto come diceva Ryan, per giunta, nonostante l’idiota allungasse le manacce per pungolarlo alle costole, come a dimostrargli quanto fossero in rilievo. Era anzi di corporatura sana ed atletica, teneva il passo in marcia, sfilava dritto facendo la sua figura nelle processioni studentesche: era solo che di fianco a entrambi i compagni, di indole più sportiva, la sua muscolatura scadeva al confronto. Se gli altri due non avessero colto ogni opportunità buona per rinfacciarglielo, non vi avrebbe dato neanche troppo peso.
Charles sospirava, in
tanto, il viso rivolto al lago che si perdeva fra le fronde, senza badare a loro.
Little Elizabeth…
Ma secondo te” interloquì il moro, le sopracciglia contratte, prima di sputare a terra il filo d’erba ripetutamente masticato “è una tara genetica degli inglesi, o è solo lui?”
Solo lui e Coleridge,
stava per dire Minos. Ma anche Byron, pensò. E Wordsworth. E Keats. Quindi tacque. Forse era una tara degli inglesi.
Non saprei” rispose quindi, indifferente, ad una domanda altrettanto indifferente. “Non ho sorelle morte.”
Io sì, ma non faccio mica tutte quelle scene.”
Dovresti trovarti un hobby, Minos, anche dove vivi tu” li riscosse la voce profonda del ragazzo seduto poco avanti. Serio, come se le sorelle fossero un hobby. Poi spostò gli occhi verso Ryan, guardandolo come se fosse un totale insensibile.
Ho già un hobby. E non m’interessano i marmocchi.”
Aveva parlato Minos, adesso, gli occhi gialli attenti.
La conversazione si era portata su toni assurdamente surreali, e persino lo scroscio dell’acqua si era fermato. Guardò con attenzione i suoi due compagni di college, senza un motivo particolare – senza pensare a suo fratello minore, il suo fratellastro di sei anni che avrebbe regnato sulla vasta Norvegia. O alla bambina, sua sorella. Non gli importava.
Schiuse le labbra, in quel silenzio irreale e
morto, e fissò lo sguardo in quello di Ryan, scuro e fermo quanto il suo. Irreale.
Anche tu?”
Cosa?”
Sorelle morte.”
Lui serrò le labbra, sbrigativo. Ma non distolse gli occhi dai due, affascinato.
Ah. Sì.” Tono plumbeo. Occhi fissi. Charles guardava l’acqua. “Due.”
Surreale. Il racconto. Il tono della voce. L’acqua.
L’atmosfera si fece pesante. Come avevano fatto a non avvertirla, molto prima?
Il biondo seduto sulla riva smise di sfidare il debole sole di gennaio. Si rimise la canottiera, distogliendo col rumore della stoffa e dei remi goffamente urtati l’attenzione da quell’atmosfera densa e inquietante:“…and we all ate Christmas pudding.”
Una qualsiasi inglesità che era matematico catturasse l’attenzione dei due compagni,
i quali infatti recuperarono in fretta la loro verve.
Ah, certo” ghignò Minos. “E tu?”
Io?” rispose Ryan, sgrattandosi i capelli scuri. “Le cose che facciamo tutti gli anni. La corsa coi lama…”
La corsa coi lama!” rise Minos nel suo modo maligno e sarcastico, mentre Charles guardava Ryan come se gli avesse detto che andava a lezione senza cravatta.
Eh. Perché, non è una noia mortale?” ribatté quello, un sorrisetto.
Sempre a dire assurdità… lama! Ma come ti vengono in mente?”
Ma
fu la voce di Minos che inspiegabilmente catturò l’attenzione di entrambi.
Io…”
Si voltarono.
Il ragazzo disteso aveva appoggiato il mento su entrambe le mani: un ghigno allungato, una mezzaluna pallida gli solcava il volto bianco. I due ragazzi si bloccarono, senza cambiare espressione, di fronte a quel sorriso, a quello spettro, a quella marionetta dall’espressione sardonica che li fissava entrambi. Videro scintillare due lampi dorati da sotto i capelli, come se il mondo, l’orario delle lezioni, l’acqua del lago si fosse fermata per accogliere qualcosa.
E lui schiuse le labbra, improvvisamente perfido.
Io ho trovato un giocattolo.”




~ Gamlehaugen’s corner by Rucci


Prepotente cambio scena, prepotente cambio di personaggi. Rimane solo Minos, sempre generoso nel distribuire le sue angherie al prossimo. Anche se in questo capitolo lo si vede soprattutto subire, non tarderà a prendere in mano i fili della situazione, come ben avrete immaginato; ma abbiamo voluto mostrarvelo anche così, in bilico fra un mondo prevalentemente terreno e ancora l’altro. Lo scenario è meno suggestivo e ricco di spunti della foresta norvegese, e ci sono in gioco personaggi decisamente più pragmatici con cui raffrontarsi: qual è il legame con le forze infere?
La struttura della fanfic, ad ogni modo, è impostata a 'triadi' di capitoli, di cui la prima è già conclusa: tre a tre sono autoconclusive, se così si può dire. Ma ovviamente si richiamano tutte a vicenda.
Questa è la seconda: speriamo che vi piaccia abbastanza da continuare, perché abbiamo bisogno di tanto supporto, con tutti i progetti che abbiamo in corso. Sììì, sono troppiii! Dannazione! Vogliamo la stanza dello spirito e del tempo! Ci spetta di diritto! *C*;

Grazie a…

Shinji e Ayako, che ci hanno commentato nello scorso capitolo. Ma a tutti coloro che hanno letto e seguito la fic, che l'hanno gradita tanto da metterla fra preferiti e seguiti, cercheremo di non deludervi. Davvero. Un bacio.


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