Tekken: Dead World

di morrigan89
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Risveglio ***
Capitolo 2: *** Dead Heart ***
Capitolo 3: *** Claustrofobia ***
Capitolo 4: *** Il Segno della Rivoluzione ***
Capitolo 5: *** Warmachine ***
Capitolo 6: *** Addiction ***



Capitolo 1
*** Risveglio ***


cronologi

Tekken: Dead World

Cronologia.

Anno 2149. La popolazione mondiale ammonta a 13 miliardi. L’intero mondo è in ansia a causa del contrasto fra le grandi potenze nucleari. In tutto il pianeta comincia la corsa per la costruzione di giganteschi bunker antiatomici in grado di ospitare milioni di persone e i dati genetici di migliaia di esseri viventi.

Anno 2150. L’equilibrio fra le potenze militari si infrange: scoppia la Guerra Nucleare che colpisce gran parte del mondo. Una parte della popolazione riesce a rifugiarsi nei bunker sotterranei.

Anno 2151. Fine della Guerra. Coloro che, rimasti in superficie, sono miracolosamente sopravvissuti alle esplosioni raggiungono i rifugiati nei bunker. In seguito molti muoiono per le radiazioni assorbite. La popolazione mondiale è ridotta a 1 miliardo di persone. Nubi di polveri radioattive ricoprono il cielo impedendo ai raggi solari di passare: è l’inizio dell’inverno nucleare.

Anno 2152. Fine dell’inverno: il sole torna a illuminare il pianeta ridotto a un deserto di macerie radioattive. Le escursioni termiche e i residui radioattivi impediscono la ricrescita della vegetazione. I superstiti, guidati da un team dei migliori scienziati, iniziano ad organizzarsi. Comincia la costruzione di sei grandi megalopoli sulle rovine di quelle che prima erano le città maggiori: nascono Nuova Edo, New York II, La Ciudad, New London, Al-Qahirah 2 e Bombay II.

Anno 2155. La costruzione delle città è velocemente completata al 100% grazie all’uso delle moderne tecnologie. Comincia l’esodo dal sottosuolo: coloro che erano rimasti nei rifugi, divisi in gruppi in base a etnia e provenienza, vanno ad occupare le megalopoli a loro assegnate.

Anno 2156. Dopo un breve periodo di anarchia viene stabilita una data per le elezioni governative, che avvengono lo stesso giorno in tutto il mondo. Nelle città di New York II, New London, Al-Qahirah 2 e Bombay II  nascono governi di tipo repubblicano o monarchico-moderato.  La Ciudad e New Edo subiscono un colpo di stato che porta alla nascita di dittature. I rapporti fra le i governi democratici e le dittature si incrinano: i primi compongono un decreto di alleanza mentre La Ciudad e New Edo vengono lasciate a se stesse.

Anno 2191. Quarant’anni dopo lo scoppio della Guerra Nucleare il pianeta Terra è ancora un deserto radioattivo. La popolazione superstite si è adattata a vivere al riparo delle immense cupole delle città. La vita sul pianeta dipende più che mai dalla tecnologia.



To see the last survivor fall
To see their bastards sons against the wall
To see the emptiness as we decay
I see the world is dead, I am betrayed.
Dead heart in a dead world
 
Nevermore – Dead Heart in a Dead World
 
 
1.     Risveglio
 
5 Marzo 2191
Ore 8:00 am
 
Macchie bianche su fondo grigio volteggiavano davanti ai suoi occhi. La testa le girava come quando, da bambina, giocava a girare su se stessa finché non cadeva a terra, ridendo per la buffa sensazione mentre la stanza ondeggiava attorno a lei. Ad un tratto nella sua mente confusa si fece strada un pensiero: doveva essere su una nave! Ma no, ci rifletté, era impossibile: aveva sentito parlare di navi solo nei racconti del nonno, che gli aveva parlato di quei tempi lontani in cui il mondo non era ancora un arido deserto. Non sapeva come doveva essere viaggiare su una nave.
Mosse la testa a fatica. Non era su una nave ma nel suo minuscolo appartamento, eppure non riusciva a capire perché diavolo la testa le girasse così tanto. Si accorse di avere qualcosa di freddo nella mano destra, lo portò vicino agli occhi per osservarlo e quando finalmente riuscì a metterlo a fuoco si rese conto che si trattava di un flacone di pillole. Si alzò lentamente a sedere, nauseata e con la vista un po’ annebbiata, e scaraventò il flacone contro il muro. La boccetta non si ruppe, ma in compenso cadde un altro largo pezzo d’intonaco.
Un senso di oppressione e disgusto la assalì. Quelle maledette pillole erano l’unica cosa in grado di restituirle quel senso di tranquillità che la vita le aveva sottratto, ma allo stesso tempo le stavano togliendo giorno per giorno la forza di reagire. Ogni mattina si alzava ed era un po’ più esausta e un po’ più vuota.
“Devo smetterla” pensò “ Solo perché questo mondo fa schifo non è un buon motivo per andarsene all’altro…”.
Guardò fuori dalla piccola finestra e vide un occhio enorme: era l’immagine raffigurata su un pannello elettronico gigante appeso sulla facciata del palazzo di fronte; uno dei tanti ritratti di Heihachi Mishima che si trovavano in ogni angolo della città.
“Buongiorno vecchio decrepito” è quel che disse alla gigantografia che la scrutava dalla finestra.
Lasciò cadere il braccio appesantito accanto a sé, afferrò la maschera da volpe e se la posizionò sul volto.
Un altro duro giorno era iniziato, un altro giorno nel caos, un altro giorno a Nuova Edo.

*

La campanella di inizio lezioni cominciò a trillare, e subito una folla di studenti schiamazzanti si riversò nel portone di vetro e acciaio dell’Università di N.E., facoltà di Scienze. Nel folto gruppo di persone avanzavano due ragazze: una si chiamava Ling Xiaoyu, indossava un vestito blu con simboli cinesi e portava i capelli neri legati in due codine, l’altra si chiamava Miharu Hirano, portava un vestito alla marinara e aveva i capelli castani scalati.
-Hai studiato i capitoli sugli innesti meccanici?- chiese Miharu.
-Sì, ma non ho capito un granché. La prossima volta che andremo alla Biotech mi farò spiegare meglio dalla dottoressa Julia- rispose Ling.
Ling rimase un attimo impalata guardando davanti a sé, poi balzò dietro la schiena di Miharu esclamando -Guarda! Guarda lì! C’è Takeshi Kawamura! Nascondimi!-.
L’amica sghignazzò, notando che una ventina di metri di fronte a loro camminava un ragazzo alto e muscoloso, con i capelli neri sparati all’indietro dal gel e lo sguardo serio. Takeshi Kawamura era il nome con cui tutti lo chiamavano, era il nome che si trovava sulla sua carta d'identità e negli archivi della scuola, dei negozi in cui faceva acquisti e nella cartella clinica dell’ospedale; e, cosa più importante di tutte, era il nome scritto molte volte sul diario segreto di Ling Xiaoyu. Ma il suo vero nome non era questo: il suo vero nome era Jin Kazama.

Sembrerebbe un’impresa impossibile andare in giro con una falsa identità in una città sotto dittatura, ma per ora ci era sempre riuscito senza farsi scoprire. L’identità di Takeshi Kawamura gliel’aveva data, insieme a una certa quantità di soldi e a una sistemazione sicura, sua madre Jun prima di morire in circostanze misteriose.
Jin/Takeshi non sembrava altro che un normale ragazzo che studiava alla scuola di Biotecnologia e che era stato cresciuto da una benestante famiglia adottiva, quando in verità era il nipote del Leader Supremo Heihachi Mishima. Ma questo non era a conoscenza di nessuno, nemmeno di Jin.
 
*

Dati e numeri scorrevano sul computer, davanti ai suoi occhi, mentre digitava velocemente sulla tastiera: stava archiviando i vecchi progetti dei Laboratori Biotech, un lavoro noioso e di routine che quel giorno era toccato a lei.
La dottoressa Julia Chang alzò gli occhi dal monitor e se li strofinò, sbadigliando stancamente.
-Lavoro noioso, vero?-.
Julia si girò: a parlare era stato un anziano minuto, un po’ curvo, con pochi capelli sulla testa, gli occhiali, e un volto amichevole.
-Oh, scusi dottor Boskonovitch…- esclamò Julia -Riprendo subito a lavorare-.
-Faccia presto dottoressa Chang- disse il dottore, sorridendo -Ho bisogno della sua assistenza per quest’ultimo esperimento sulla riforestazione…-.
-Non si preoccupi- sorrise Julia in rimando -Finirò in un lampo-.
 
*

Appartamento 1560, 30° piano, Edificio Abitativo 27, Blocco 6, Quarto B, Zona Rossa.
Il ragazzo coi capelli arancioni, immerso in una nuvola di fumo, spense un mozzicone di sigaretta nel portacenere a terra. Solo poche persone conoscevano il suo vero nome, gli altri lo chiamavano solamente Hwoarang, uno pseudonimo ricavato dall’arte marziale che aveva appreso: il Tae-kwon-do.
Guardò l’orologio a muro con aria schifata e insieme rassegnata; mancava un minuto alle 8 e fra poco la televisione si sarebbe accesa automaticamente per trasmettere il notiziario di N.E. Television.
Si girò sul divano sfondato su cui stava sdraiato scompostamente e diresse gli occhi sulla tv che si era appena accesa. “Chissà che cazzate inventeranno oggi” pensò.
La sigla del telegiornale, una musichetta che Hwoarang aveva imparato ad odiare, iniziò e poi comparve un mezzobusto di colore con in mano dei fogli. Sulla sua scrivania c’era una targhetta con sopra scritto il suo nome: Bruce Irvin, speaker.
-Benvenuti all’edizione delle 8 di Information, il notiziario di NE Television. Iniziamo subito con una notizia scottante-.
“Voglio proprio vedere. Parlerà dell’esplosioni che sono avvenute stanotte nel centro della città?” pensò Hwoarang.
-Proprio così! È in cantiere un nuovo film della grandissima star Christie Monteiro! L’attrice ha rilasciato ieri un’intervista in cui ci svela alcuni segreti sul suo prossimo film. Vediamo!-.
Sullo schermo apparve una donna seduta in poltrona con le lunghe gambe accavallate, avvolta in una pelliccia bianca e con indosso un vestito corto e argentato. Si passò una ciocca di capelli castani dietro l’orecchio e sorrise civettuolamente alla telecamera prima di iniziare a parlare del suo film.
Hwoarang restò un momento a guardare la bella attrice, poi volse lo sguardo verso il soffitto, scoraggiato.
“Che schifo” pensò il ragazzo corrugando il volto in una smorfia “Quando succede qualcosa che potrebbe turbare l’ordine della città non si fanno nessun problema ad ignorarlo. Tutto ciò che non va viene cancellato come se non fosse mai accaduto. Stanotte deve esserci certamente stato qualcosa di grosso… e questo giornalista del cazzo ha il coraggio di parlare del nuovo film di una pupattola!”. Si portò le mani sulla faccia e poi, pieno d’ira, si afferrò i capelli. Restò qualche attimo immobile, con uno sguardo che avrebbe perforato l’acciaio, poi afferrò il telefono e digitò un numero.
 
-Pronto?-.
La donna con la maschera di volpe, Kunimitsu, si spaventò della voce rauca e afona uscita dalla sua bocca.
-Kunimitsu? Ma sei te?-.
-Sì, Hwoarang. Sono io…-. Kunimitsu si sdraiò stancamente sul letto.
-Ma che hai? Ti senti male?- chiese la voce di Hwoarang, al di là della cornetta.
-Lascia perdere… Piuttosto come mai mi hai chiamato a quest'ora? Ci sono novità?-.
-Beh, più o meno- il tono era profondamente ironico -I giornalisti di Information non hanno nemmeno accennato ai fatti di stanotte-.
-Ai fatti di stanotte?- la ragazza si rialzò di scatto -Che cosa è successo?-
-Come, non ne hai saputo niente?! Pare che stanotte ci siano state delle esplosioni nell’Inner Core della città!-.
-Chi te l’ha detto?-
-È stato il vecchio Marshall, ma non so da chi l’abbia saputo lui. Gira voce che siano stati colpiti alcuni degli Edifici Amministrativi principali, ma non si sa se sia stato un incidente o meno. Io spero che siano stati dei ribelli e che non si facciano beccare, altrimenti…-. La frase di Hwoarang si perse nel vuoto di parole di chi aveva sentito già troppe brutte notizie.
-…altrimenti la Mishima li farà sparire come ha fatto con gli altri-.
-Sì…-.
Kunimitsu rimane un secondo in silenzio, pervasa da una profonda amarezza, poi aggiunse -Altre notizie?-.
-No, ma ho bisogno che questo pomeriggio alle 3 tu passi dal White Crow a vedere se il mio socio ha portato la roba-.
-Ti ho detto mille volte che non ho nessuna intenzione di entrare nel tuo merdoso giro!-.
-Kuni, ti prego… è importante! Se non la vendo non posso fare soldi, e in questo momento ne ho davvero bisogno. In fondo si tratta solo di un semplice lavoretto, niente di rischioso!-.
-Ma Hwo… non mi reggo in piedi! E poi sono affari tuoi, perché non ci vai tu?-.
-Non posso spiegartelo adesso. Ho avuto qualche contrattempo e perciò per oggi è meglio che io rimanga a casa. Io… davvero, non ho tempo di passare dal White Crow-.
Kunimitsu corrugò la fronte, preoccupata. Da quando si erano conosciuti molti anni prima il suo amico si era già messo migliaia di volte nei guai, nascondendo ogni volta le sue disavventure dietro eufemismi del tipo "qualche contrattempo". Ma stavolta il tono della sua voce la preoccupava. -Hwo, si può sapere che cosa è successo?-.
-Ti giuro che te lo spiegherò più tardi, non appena questa faccenda sarà risolta. Adesso devo andare. Pensi di potermi fare il favore che ti ho chiesto?-.
-Uff… e va bene: andrò io, ma spera di non avermi sulla coscienza!-.
-Non ti succederà niente, Kunimitsu. Te lo prometto-.
 
*

Lei Wulong sedeva alla scrivania nel suo ufficio privato. La sua attenzione era rivolta a vari fogli su cui si posava a strisce la luce che filtrava dalle tapparelle. Sul computer c’era una pianta della Zona Rossa su cui si muovevano un sacco di piccoli puntini blu: le volanti della polizia in pattuglia. Quel giorno, a causa degli eventi della notte, tutta la CyberPolizia era in completo subbuglio e la sorveglianza sulla ZR, che era sempre strettissima, era stata triplicata; non per niente la Zona Rossa era sede di lavoratori, ma soprattutto culla della peggior feccia di NE: assassini, ladri, spacciatori, banditi, drogati, prostitute e altra gentaglia di quella risma. Non era dunque illogico pensare che se i responsabili degli attentati notturni fossero nascosti da qualche parte, quell'inferno sarebbe stato il rifugio più ovvio.
Lei Wulong detestava la malavita e la criminalità sin da quando era un bambino, motivo per cui era entrato nella CyberPolizia: in centrale era probabilmente quello più sveglio, più intelligente, più diligente, più impegnato di tutti; doti che in breve tempo l’avevano portato alla carica di detective. Aveva risolto brillantemente casi difficilissimi e incastrato assassini e mafiosi. Ora si stava dedicando da tempo al traffico di droga nella Zona Rossa… praticamente una missione impossibile! Il narcotraffico in quella zona era come un vasto meccanismo di cui non se ne vedeva un motore, ma solo gli elementi piccoli dell’ingranaggio: viti, ultime ruote del carro che se anche venivano arrestate, subito erano sostituite da altre.
Nessuno era mai riuscito a capire quale fosse il nucleo di questo meccanismo, nemmeno Lei Wulong, ma si era promesso che un giorno sarebbe riuscito a scoprirlo.
La concentrazione di Lei fu interrotta quando la mappa della ZR scomparve dal monitor lasciando spazio a un volto arcigno.
-Detective Wulong- disse la voce proveniente dal computer.
-Mi dica, comandante- rispose prontamente il detective.
-Wulong, ho deciso che dirigerai la  squadra investigativa  che si occupa delle esplosioni di stanotte. Si pensa che sia un attentato. Lascia da parte le indagini sul traffico di droga, questo è più importante-.
Lei si morse la lingua. Dopo tutto il tempo che aveva speso per questa indagine ora doveva mollare ogni cosa e passare l’incarico ad un'altra persona, rischiando di rendere inutili tutti i progressi che aveva fatto in questo periodo. Sospirò.
-Certo, comandante-.
-Bene. L’agente Hinagawa ti illustrerà la situazione-.
Il volto del comandante venne sostituito da quello di un giovane poliziotto.
-Le bombe hanno colpito gli Edifici Amministrativi 3, 4 e 7 mentre un numero non precisato di persone facevano irruzione nel caveau della Banca Centrale di NE. Tutti i sistemi di sicurezza, telecamere comprese, sono stati disattivati per la durata di 10 minuti perciò non abbiamo nessuna informazione sui terroristi. L’unica immagine che siamo riusciti a trovare proviene dalla postazione di  un rilevatore di smog che scatta foto ogni 15 minuti. La faccio comparire sul monitor-.
L’agente Wulong si avvicinò allo schermo strizzando gli occhi per osservare l’immagine di pessima qualità. Per un momento non vide altro che una grande massa di fumo bianco, probabilmente causato da un fumogeno, poi riuscì a stento a distinguere alcune figure umane che correvano nascoste dalla nebbia. Solo una figura risaltava un po’ meno indistintamente, ma non abbastanza da permettergli di capire se si trattasse di un uomo o di una donna. Riuscì a vedere chiaramente solo una cosa: una maschera giapponese.
 
*

In effetti un po' d'aria pulita non poteva farle male, pensò Kunimitsu mentre usciva dal portone cadente dell'Edificio Abitativo 2 del Blocco 5, anche se a dire il vero chiamarla pulita era un po' azzardato: l'aria che si respirava nella città, infatti, era sempre la stessa che da anni veniva filtrata e rifiltrata e arricchita di ossigeno.
Kunimitsu si sentiva ancora la testa pesante e lo stomaco di pietra, ma non ci fece caso. Alzò lo sguardo verso l'immensa cupola di vetro che proteggeva la città dagli sbalzi di temperatura, dalle nubi radioattive e dai raggi ultravioletti. Tutto ciò le dava un po' la sensazione di essere un pupazzo in una boccetta con la neve finta, roba che ormai si vedeva solo negli antiquari.
Si guardò attorno e non vide poliziotti, ma solo dei bambini che giocavano sul marciapiede con dei rottami, due ceffi in un vicolo e qualche cumulo di immondizia. Nient’altro che il solito, misero squallore della Zona Rossa.
Il White Crow si trovava nello stesso Blocco in cui era lei ma doveva sbrigarsi perché non voleva rischiare di incontrare dei poliziotti, quindi si incamminò.
Non si accorse che qualcuno la stava seguendo.

*
 
A prima vista poteva apparire lo studio di un affarista molto ricco, ma quel luogo irraggiungibile situato all'ultimo piano di un immenso grattacielo era più che un semplice ufficio, era una roccaforte, era la sede del comando, era il cuore di tutto l'ingranaggio: l'ufficio del Leader Supremo Heihachi Mishima.
Heihachi era lì, separato dal mondo dai 10 centimetri di vetro antiproiettile dell'immensa finestra, e come un'aquila sulla cima della montagna dominava su tutta NE e una buona fetta di mondo.
Un tempo lui era stato davvero un semplice affarista, ma la sua totale mancanza di scrupoli gli aveva permesso di approfittare di tutte le situazioni a lui favorevoli e di acquistare ricchezza, influenza e un potere che col tempo e col sacrificio di moltissime persone era diventato assoluto.
Molto anni prima, in un mondo che andava a rotoli per il surriscaldamento climatico e per la guerra nucleare, Heihachi aveva trovato un terreno fertile per le sue speculazioni: prima aveva fomentato la guerra con la sua industria bellica, l'ARES Industries, che era diventata l'unica fornitrice di armi delle grandi potenze militari e in seguito, dopo lo scoppio della guerra, il suo immenso capitale gli aveva permesso di inglobare quasi tutte le aziende che erano sopravvissute alle catastrofi e di diventare uno degli uomini più potenti sulla faccia della terra. Dopodichè era stato davvero un gioco da ragazzi impadronirsi con la forza di NE, la più grande e ricca delle 6 megalopoli rimaste sul pianeta.
Ormai rivestiva la carica di Supremo da quasi 40 anni e sembrava che solo la morte avrebbe potuto mettere fine al suo potere… ma anche su questo punto si stava organizzando grazie a certi studi segreti del dottor Abel che nel migliore dei casi avrebbero portato a un cospicuo allungamento della sua vita. Certo, un giorno sarebbe morto sul serio, ma anche quando ciò sarebbe successo il potere sarebbe passato nelle mani del figlio adottivo, Lee Chaolan, che a sua volta avrebbe tramandato il comando di generazione in generazione. Per Heihachi sarebbe stato come non morire mai.
-E il suo regno non avrà fine…-

*

Davanti alla porta dell’ufficio di Heihachi, Lee Chaolan camminava nervosamente avanti e indietro sotto gli sguardi immobili delle guardie di sicurezza. Da quando il padre lo aveva nominato direttore dell’ARES Industries si era più volte trovato a sbrigare affari delicati, ma questo era sicuramente il caso più difficile che gli fosse mai capitato: tre bombe e un furto colossale nel bel mezzo dell’Inner Core, a poche centinaia di metri dal Mishima Palace. Come se non bastasse i ribelli erano riusciti ad infiltrarsi nel laboratorio segreto dove avevano messo le mani sul Numero 9, un esperimento così top-secret che nemmeno Lee sapeva esattamente di cosa si trattasse.
Nessuno era mai arrivato a tanto in 35 anni di dittatura, ogni oppositore della Mishima Zaibatsu era stato ucciso senza fatica e senza lasciare una benché minima traccia.
Certo, Lee non sarebbe stato costretto a sporcarsi personalmente le mani in questa faccenda ma il padre gli aveva comunque affidato il compito di risolverla, motivo per cui non poteva fare a meno di essere nervoso: un fallimento poteva costargli caro, Heihachi avrebbe addirittura potuto estrometterlo dall’eredità. Del resto non perdeva mai occasione di ricordagli che in fondo non era lui il suo vero figlio, cosa che Lee riusciva a stento a sopportare.
Fece un respiro profondo nel tentativo di calmare il nervosismo, riacquistando l’aria gelida e sicura di sé che gli aveva procurato il soprannome di “Diavolo dai capelli d’argento”, dopodichè spalancò la porta.
-Eccomi, Padre- disse rispettosamente Lee avanzando sul lungo tappeto rosso.
Heihachi, che stava in piedi scrutando il panorama attraverso la finestra, non si voltò.
-Finalmente Lee, ti stavo aspettando-. Una voce piatta, priva di familiarità. -Hai risolto qualcosa in tutto questo tempo?-.
L’uomo dai capelli argentati si fermò davanti la scrivania, ostentando tutta la sua fierezza.
-La Cyberpolizia se ne sta occupando. Ho fatto in modo che le indagini vengano affidate al più valido degli investigatori, l’agente Wulong-.
-Sei sicuro che questo agente sarà in grado di trovare i responsabili? E soprattutto sei sicuro che sia una persona fedele alla Mishima?-.
-Ho controllato personalmente la sua scheda, Padre. È il migliore nella Cyberpolizia ed è una persona ossequiosa delle leggi e degli ordini, perciò non dovrebbe causare alcun proble…-
-”Dovrebbe”, Lee?- lo interruppe Heihachi -Pensi che un “dovrebbe” mi basti come rassicurazione?-.
L’angolo della bocca di Lee ebbe un tremito, l’unico segno d’ira che poteva permettersi.
-Sapevo che l’avresti detto, Padre. Per questo motivo ho già avvertito un membro speciale del Tekken Force perché controlli le azioni dell’agente Wulong e lo elimini nel caso che cominci a mostrare segni di ribellione. Inoltre ci avvertirà quando scoprirà i colpevoli in modo che potremo ucciderli senza scomodare ulteriormente la polizia-.
-Stai parlando dell’Agente W, vero?-.
-Sì, Padre-.
Il volto di Heihachi fu attraversato da un sorriso compiaciuto. -Perfetto-.

*

Oscurità. Silenzio.
Caricamento dati in corso…
Una serie di impulsi elettrici che attraversano il sistema nervoso.
Caricamento effettuato. Inizio analisi…
Ricordi? Avanzi di una vita passata?
Così dolorosi che sembrano balenare nel buio.
Frammenti di un’esistenza disintegrata, taglienti come vetro.
Controllo funzioni vitali................................................................................................STATO:OK
Chi sono io?
Che cosa mi è successo?
Analisi dell’ambiente circostante.............................................................................COMPLETATA
Dove mi trovo, adesso?
Quantificazione del livello di radioattività ambientale...................................................STATO:OK
Non riesco a sentire il mio corpo.
Quantificazione del livello di radioattività corporea.............................................STATO:CRITICO
Avverto solo una cosa…
-ATTENZIONE: PERICOLO. LIVELLO DI RADIOATTIVITA' IN AUMENTO. INIZIARE LE PROCEDURE DI CONTENIMENTO-
Rabbia.

Nota: il passaggio in html ha cancellato una frase nel dialogo fra Kunimitsu e Hwoarang. Ora l'ho inserita di nuovo

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Capitolo 2
*** Dead Heart ***


2. Dead heart
 

Il White Crow era un pub, uno dei pochi della Zona Rossa che non era stato ancora fatto chiudere. Era un edificio piccolo e cadente, la sua facciata era fatta di acciaio e cemento armato e c'era un'insegna su cui, appunto, era disegnato un corvo bianco. Un uomo alto due metri, un buttafuori dalla carnagione scura e la corporatura massiccia, stava in piedi di fronte alla porta quando vide avvicinarsi una donna coi capelli rossi lunghi e una maschera da volpe sul volto.
–Salve Craig– gli disse.
–Ciao– rispose Marduk, il buttafuori.
Il gigante si spostò dalla porta e Kunimitsu entrò.
Appena ebbe fatto un passo dentro il locale fu avvolta da una spessa nube di fumo di sigaretta. Il locale era un po' buio e aveva odore di vecchio e di chiuso, c'erano tavoli e sedie di metallo incassate nelle rientranze ovali del muro, un bancone con degli sgabelli, un palco vuoto e delle porte sul fondo; era già molto affollato sebbene fosse ancora primo pomeriggio perché evidentemente molti erano subito accorsi a cercare informazioni sull’attacco notturno. Un paio di persone si girarono verso di lei sentendola entrare, altri erano seduti ai tavoli intenti a discutere, a bere o semplicemente da soli, altri ancora stavano appollaiati sugli sgabelli del bancone, fumando o bevendo.
Ricordando quello che le aveva detto Hwoarang si diresse verso il bancone e si sedette su uno sgabello, cercando di capire quale fosse il socio dell'amico.
La porta di ingresso si aprì con uno scampanellio e Kunimitsu si voltò. Sulla soglia c'era una persona dall'aria piuttosto strana avvolta in una lunga giacca nera: aveva sul volto una specie di respiratore camuffato da maschera del teatro Noh e una chioma leonina dal colore rosso acceso, che evidentemente faceva parte della maschera. La particolare figura si guardò attorno e poi, con una camminata da ubriaco, si diresse verso un tavolo nascosto in un angolo. Kunimitsu, piuttosto sorpresa, seguì con lo sguardo i suoi movimenti. "Strano" pensò "credevo di essere l'unica pazza ad andare in giro con una maschera Noh”.
–Ciao Kuni–. La kunoichi si voltò appena in tempo per vedere una donna dai capelli rossi a caschetto e con indosso un vestito rosso piuttosto succinto sbucare da sotto il bancone. Il suo nome era Anna Williams ed era l'intrattenitrice del bar. –Cosa ti servo?– chiese.
–Niente grazie: sto cercando un amico di "Pel di carota"– Kunimitsu sorrise sotto la maschera a causa dell'appellativo di Hwoarang.
Anna, capendo il senso sottinteso della frase, sorrise, rispose –Dev'essere nei paraggi– e si allontanò a servire un'altra persona.
Un uomo seduto alla sinistra di Kunimitsu, con i lati del volto coperti dal bavero di una giacca, diede due colpi di tosse. "È lui" pensò.
–Scusa, hai una sigaretta?– chiese lei.
–Come no– disse l'uomo. Sfilò una sigaretta dal pacchetto e gliela offrì mentre allo stesso tempo le passava un piccolo involucro sotto il bancone.
Kunimitsu infilò lestamente il pacchetto in tasca, sollevò di poco la maschera e si mise la sigaretta in bocca. –Grazie…–
–Prego– rispose l'uomo dal volto mezzo nascosto dalla giacca.
–Cosa posso darti in cambio?– chiese mentre si accendeva la sigaretta, incrementando la nuvola maleodorante di fumo del bar.
–Niente. Salutami Pel di Carota e digli che ci vediamo tra qualche tempo– ghignò il tipo, evidentemente divertito dal soprannome.
–Bene–.
 
–Fermi tutti! Polizia!–.
La porta d'acciaio del pub si spalancò lasciando entrare 9 uomini vestiti di elmetto e armatura e con un mitragliatore laser appeso alla cintura.
Il vociare della clientela si congelò, venti sigarette si tuffarono nei portacenere, una decina di bicchieri si posò sui tavoli con un rumore secco, Anna si voltò verso il retro del locale e gridò un nome: –Marshall!–.
Un cinese con dei baffi sottili uscì dal retro con l’aria piuttosto scocciata: –Che cosa sta succedendo?–.
Uno dei cyberpoliziotti, evidentemente il capitano, si fece avanti mentre gli altri rimasero davanti alla porta, tenendo d'occhio i presenti. –Perquisizione–.
–Perquisizione?– pronunciò il cinese con una smorfia –Avete il mandato?–.
–Ovviamente– il poliziotto gli sventolò un foglio davanti al viso e Marshall Law lo prese.
–Posso sapere il perché?– chiese Law controllando il mandato.
–Controllo anti-droga. Avanti, muovetevi!– il capo fece un cenno agli altri poliziotti: due rimasero davanti alla porta mentre gli altri si sparpagliarono per il locale, controllando i clienti con i rilevatori di droga.
 –Che cosa c'è là dietro?– chiese il capitano al proprietario del pub, indicando una porta sul fondo del locale.
–I privet, il cortile, il magazzino– rispose Law, serio.
–E là?– il poliziotto indicò una porta al di là del bancone.
–Il mio ufficio–.
–Voi due– esclamò il capitano rivolgendosi a due agenti –Andate a controllare lì–.
Kunimitsu rimase inchiodata al bancone. In condizioni normali non avrebbe probabilmente rischiato nulla, anche se sapeva che spesso la cyberpolizia usava le perquisizioni anti-droga come pretesto per fare arresti, e, dopo i fatti della notte, la cosa che più volevano era mettere sotto torchio quanta più gente possibile per ricavare qualche informazione.
Ma questa volta non si trovava in condizioni normali. Questa volta un piccolo pacchetto dall'aria innocente, ma che avrebbe potuto farle passare dei guai terribili, si trovava nella sua tasca destra.
–Ti prego riprenditelo! Nascondilo!– sussurrò al fornitore di Hwoarang, mentre osservava i cyberpoliziotti in armatura che camminavano per il locale.
–Fossi matto! Adesso sono fatti tuoi– sussurrò l'uomo, allontanandosi di un posto da quello della ragazza.
"Anna…" pensò, ma incontrò il suo sguardo smarrito e terrorizzato… non avrebbe potuto fare niente per aiutarla.
Il panico cominciava a insinuarsi nel suo cervello e nelle ramificazioni nervose… che cosa avrebbe dovuto fare? Aveva poco tempo ormai, fra poco avrebbero perquisito anche lei e in quel momento la sua vita sarebbe finita.
Tentò di calmarsi e di analizzare la situazione: due agenti si trovavano nell'ufficio di Law, due erano sulla porta, tre controllavano il magazzino e i privet, il capitano e un altro perquisivano gli avventori nella sala. Loro avevano un mitragliatore laser, lei poteva contare solo sul suo kunai, un affilato coltello giapponese nascosto nel suo stivale, e nella sua agilità, che aveva acquisito dopo anni di sforzi e allenamenti. Lo scontro non sarebbe stato decisamente pari.
Dato che la sigaretta aveva cominciato a tremarle in bocca la posò nel posacenere e si risistemò la maschera sul viso.
–Capitano, qui non c'è niente– dissero i due poliziotti che uscivano dall'ufficio di Law. Kunimitsu si girò verso di loro, e in quel breve lampo in cui la porta si richiuse vide uno spiraglio di luce: una finestra.
–Ehi tu!–. Quella voce si rivolgeva a lei e, insieme, ricevette uno strattone che la fece ruotare sul posto. Davanti a lei, piantato nella solida armatura d'assalto, ora c'era il capitano.
–Non lo sai che è vietato girare con il volto coperto? Togliti quella cazzo di maschera!– ringhiò il poliziotto, di cui Kunimitsu vedeva solo le labbra contratte in una smorfia d'ira. Tutto attorno regnava il silenzio.
–Non posso– rispose lei, d'un fiato.
–Oh… non posso…– cantilenò il comandante –Togliti quella cazzo di maschera o ti sbatto in galera!!–.
–Ho detto che non posso– affermò lei, stavolta con un tono di aperta sfida –A meno che non vogliate contemplare l’effetto delle radiazioni su un volto umano–. Ovviamente non era vero, ma la bugia era venuta fuori da sola. "Fanculo" pensò "non potevo tirare fuori niente di più macabro!".
–Agente– ordinò il capitano al poliziotto che imbracciava il rilevatore di droga –Perquisiscila–.
Fu un lampo, e improvvisamente avvenne. Era uno di quei momenti che aveva già tolto d'impaccio Kunimitsu molte volte in passato, uno di quei momenti in cui la ragione lasciava spazio all’istinto, le sue azioni diventavano meccaniche ed il primordiale desiderio di vivere la guidava e le impediva di sbagliare.
Tutto le apparve come al rallentatore, la scena passò sotto i suoi occhi come vista da una terza persona: sentì l'allarme del rilevatore, vide il poliziotto che cadeva all'indietro sotto i suoi calci e investiva il comandante nella caduta, vide se stessa che saltava dietro il bancone, Anna che si buttava per terra per ripararsi dai laser, le bottiglie d'alcool che si infrangevano per gli spari, il pavimento ricoperto di cocci, vide la propria mano che spalancava la porta dell'ufficio, vide lo squallido stanzino, vide la finestra e i frammenti di vetro che schizzavano come saette mentre lei ci passava attraverso.
E veloce come era arrivato, il momento finì e tutto tornò alla sua normale velocità. La kunoichi si ritrovò per strada, il corpo coperto di graffi, e come il vento prese a correre lontano dal caos che regnava nel White Crow.
"Accidenti Hwoarang, in che casini mi hai messo".

*

Jin Kazama staccò lo sguardo dallo schermo del computer pieno di cifre e schemi e si avvicinò alla finestra della sua camera. Davanti ai suoi occhi si apriva la vista del piccolo giardino di casa dove sua madre adottiva stava piantando dei garofani, una delle poche specie di piante salvate dalla distruzione. Guardandola, Jin non poté fare a meno di pensare a cosa avrebbe detto Jun se fosse stata ancora viva.
Lo sai, Jin, quante specie di piante da fiore esistevano prima della guerra nucleare? Migliaia. Adesso ne saranno rimaste solo qualche centinaio… Non trovi che sia triste?
A Jin sembrò quasi di poterle rispondere. “Sì, mamma, è triste, ma è ancora più triste che tu non ci sia più. Anche se forse nessuno vorrebbe davvero vivere in un mondo morto come questo.”
Non dire così Jin. Voi siete vivi perché il miracolo della vostra sopravvivenza è troppo grande perché lo si possa barattare con la morte. Avete una strada difficile di fronte a voi ma è necessario che voi la percorriate, avete un mondo da ricostruire. 
“No mamma, noi continuiamo a vivere solo per gratitudine alla sorte che non ci ha spazzato via dalla faccia della terra. Quando quarant’anni fa si permise lo scoppio della guerra penso che la razza umana avrebbe davvero meritato di estinguersi. E invece siamo ancora qui, come se niente fosse successo, e continuiamo a vaneggiare e a inseguire le stupide soddisfazioni di sempre. Forse quando la radioattività decadrà sarà possibile migliorare le condizioni del nostro pianeta, ma non è la Terra che dobbiamo curare: siamo noi stessi. Pensa alla condizione della nostra città, una città in cui le sparizioni sono all’ordine del giorno, governata da un dittatore senza scrupoli, abitata da persone che pensano solo al denaro e alle proprie ambizioni mentre più di metà degli abitanti marcisce segregata nella Zona Rossa, una città il cui vero aspetto è nascosto da una facciata di patinato benessere.”
Jin, sembra quasi che io non ti abbia insegnato niente… Le tue parole sono vere, questo non lo nego, e capisco benissimo il tuo scoraggiamento perché è la stessa cosa che ho provato io da bambina quando l’inverno nucleare finì e noi sopravvissuti uscimmo dai bunker sotterranei. Ma sono cresciuta e ho lottato in un pianeta morente, Jin, e quando tu sei nato io ero doppiamente felice perché sapevo di aver fatto qualcosa per migliorare il mondo in cui tu saresti vissuto. E so che anche tu lo farai perché nonostante i tuoi pensieri negativi dentro di te ami questo posto almeno quanto l’ho amato io.
 “Non ti preoccupare, so che cosa devo fare e lo sto già facendo. Forse i miei studi di Biologia saranno un contributo minimo alla scienza, ma sarò felice se anche un solo filo d’erba potesse crescere in mezzo al deserto che ci circonda, come sognavi tu. Tutto quello che faccio lo faccio per te, mamma”
Le dita di Jin si posarono sul vetro della finestra e per un breve istante gli parve quasi di scorgere nel riflesso il volto sorridente della madre, ma un attimo dopo la sensazione era sparita, ed era di nuovo solo.
Solo.
Il sorriso sul suo volto si mutò in un sorriso amaro. Ultimamente aveva indugiato troppo spesso in questa sorta di ricordi e, come sempre, il breve attimo di felicità era svanito lasciando spazio a una serie infinita di interrogativi senza risposta.
Jin diede le spalle alla finestra e il suo sguardo vagò per la camera ordinata fino a posarsi sull’unica foto di Jun che possedeva e nonostante il buio riuscì a scorgerne distintamente i grandi occhi neri.
“Sai mamma, ancora non mi capacito che tu sia sparita lasciandomi in compagnia di tanti segreti. Sono passati dieci anni e non ho ancora scoperto niente. Chi era mio padre? Perché hai insistito che assumessi una falsa identità? Perché esclusa quella foto non rimane altro segno della tua esistenza? E soprattutto… chi è stato a ucciderti?”.
Ma questa volta non arrivò nessuna risposta.
Improvvisamente il completo silenzio della camera venne rotto dal suono di una sveglia; Jin guardò l’orologio – erano le 3 e mezza – ricordandosi che doveva seguire un seminario scientifico alla sede della Biotech, quindi raccolse il portatile e corse giù per le scale.
Una volta in strada Jin assaporò l’aria fresca che si respirava in quel tranquillo quartiere residenziale della Zona B, dove piccole villette a schiera si alternavano ai giardini. Guardando verso nord-ovest poteva vedere l’altissimo Mishima Palace stagliarsi nel centro di Nuova Edo, simile a una lama nera conficcata nella carne, mentre a ovest scorgeva l’irregolare skyline degli eleganti palazzi della Zona A, simbolo della ricchezza e del fulgido progresso della città; se avesse orientato lo sguardo verso nord avrebbe intravisto le moli enorme e sgraziate dei palazzi-dormitorio della ZR, simboli di povertà e squallore attentamente occultati dagli alberi del parco. Ma la Zona Rossa era sostanzialmente un mondo estraneo a Jin poiché aveva avuto la fortuna di essere cresciuto da una famiglia benestante, e raramente guardava in quella direzione se non quando si sentiva in colpa per la sua sorte invidiabile.
La sede della Biotech si trovava nella Zona A a poche centinaia di metri dal confine che delimitava il centro burocratico ed economico di Nuova Edo: l’Inner Core, sede dei palazzi governativi, delle banche e delle grandi società, nonché del laboratorio di ricerche personale della Mishima. Con la metropolitana che avrebbe preso a pochi passi da casa sua avrebbe impiegato solo 10 minuti ad arrivare a destinazione, ma, nonostante fosse largamente in anticipo, qualcosa gli fece decidere che fosse meglio affrettarsi. Quella strana sensazione che si era risvegliata in lui pochi mesi prima e che aveva cercato in tutti i modi di reprimere e di archiviare come un malessere passeggero, forse dovuto allo stress, aveva tutto ad un tratto cominciato ad insinuarsi dentro di lui. Un lieve tremito iniziò a scuotere le sue membra e il suo campo visivo fu attraversato da una sorta di lampo nero; contemporaneamente il cuore cominciò a battere più forte, e non sapeva se fosse un sintomo o solo la paura.
Jin scosse la testa cercando di scacciare la spiacevole sensazione. "Non è nulla. Mi sa che sto solo diventando ipocondriaco". Le porte del treno a pochi passi da lui ondeggiavano al suo sguardo. Quando si sedette su uno dei sedili la sua pelle stava già cominciando a bruciare come fuoco e in quel momento Jin dovette accettare che ciò che temeva sarebbe successo ancora una volta.
 
*

–Qui volante ZR402, stiamo entrando in pattuglia nel Blocco 5, Sezione B, Zona Rossa–.
L'agente al volante, un uomo panciuto con la divisa sporca di fritto, posò il microfono della radiotrasmittente al suo posto. Non aveva mai amato essere di pattuglia nella Zona Rossa: troppe gatte da pelare.
Il collega seduto accanto, un biondino ossuto dallo sguardo vigile, esclamò ad un tratto: –Guarda laggiù!–.
–Che cosa?– rispose il conducente, con aria annoiata.
–Ho visto una persona sparire nel vicolo non appena siamo arrivati noi!–.
–Sì, ho notato… e allora?–
–E allora dovremmo andare a vedere cosa succede!– rispose l'altro, professionalmente.
–Di’, ma come ti vengono in testa certe idee? Guarda che chiunque fosse ormai non lo ripeschiamo e in ogni caso per noi è una pessima idea infilarci in un vicolo: c'è gente qui che non aspetta altro che gli capiti a tiro un novellino come te!–.
–Ma quella persona è stata aggredita!–.
–Un aggressione dici? Lascia perdere ti dico: queste cose qui sono all'ordine del giorno… noi abbiamo altro da fare. E poi non ci penso nemmeno a scendere dal veivolo in un postaccio come questo!–.
"Ma…" pensò il giovane voltandosi a guardare apprensivamente il vicolo appena sorpassato.
 
–Ma che…–
–Ssst!–
I due, immobili per terra, guardarono il veivolo della polizia che scivolava dolcemente nell'aria a pochi metri da loro e passava oltre il vicolo.
–Hai fegato ad andartene in giro così dopo quello che hai combinato nel pub–. Era una voce raschiante, metallica.
Kunimitsu poté finalmente girarsi per vedere chi era stato a trascinarla in quel vicolo buio e con somma sorpresa si trovò davanti quel tipo strano che aveva visto nel bar, quello con la maschera giapponese.
–Chi cavolo sei?–.
–Non ha importanza. Passavo di qui per caso–.
"Come ha fatto ad arrivare qui prima di me?" si chiese Kunimitsu, dubbiosa.
I due si alzarono spolverandosi i vestiti.
–Non c'era bisogno che tu mi scaraventassi a terra… mi sarei nascosta da sola dalla polizia–.
–Ok– rispose serafico –Allora sarai anche abbastanza in gamba da renderti conto che oggi ti sei messa nei guai, guai neri. La polizia non ti darà pace dopo quello che hai fatto. Vediamo un po’: volto nascosto, detenzione di droga, oltraggio a pubblico ufficiale, resistenza all'arresto!–. Mentre enumerava le effrazioni di Kunimitsu sulla punta delle dita sembrava assai divertito e compiaciuto, poi il tono della sua voce si rabbuiò: – In questo posto è roba da non farti vedere mai più la luce del sole. Non so se mi spiego…–
Kunimitsu si morse la lingua. Quel tizio e la sua mancanza di tatto cominciavano a darle sui nervi. –Questi sono fatti miei.– sbottò.
L'uomo riprese a ridere, e la sua risata divertita riecheggiò nel respiratore. –Bene bene, pare proprio che tu non abbia bisogno del mio aiuto!–
–Del tuo aiuto? Io non ho affatto bisogno del tuo aiuto!–. Kunimitsu si sentì punta sull’orgoglio. Se c’era una cosa che non sopportava era che qualcuno insinuasse che fosse debole e indifesa, cosa che del resto non era vera.
–Ne sono contento. Ma se per caso tu dovessi averne bisogno in futuro… beh, fai un salto qui– le tese un foglietto piegato. –Può darsi che per caso io mi trovi da quelle parti–.
–Fai un po' troppe cose "per caso"…– osservò lei con tono inquisitorio.
–Ho solo la fortuna di trovarmi spesso nel posto giusto al momento giusto…– sogghignò il tipo –Fammi il piacere di distruggere quel biglietto dopo averlo letto, ok? Ora, se permetti, vado a passare per caso da qualche altra parte–. Lo sconosciuto le voltò le spalle e fece per andare verso l'uscita del vicolo.
–Aspetta!– Esclamò Kunimitsu.
Lo sconosciuto si voltò senza dire niente.
–Non so chi tu sia, ma… grazie–.
Lo sconosciuto le rivolse un cenno di saluto, poi si allontanò.
Una volta rimasta sola la kunoichi aprì il biglietto e si trovò sotto gli occhi un messaggio piuttosto strano:
 
Blocco 4, ZI, al confine con la ZR.
Vai sul retro della Domestik s.P.a., cerca un tombino dietro un container.
                                                Attenta ai ratti!
 
 
Kunimitsu inarcò un sopracciglio. –Fantastico, salvata da un pazzo furioso–.
 
*

Perdersi nella folla: era tutto ciò che desiderava Ling Xiaoyu in quel grigio pomeriggio di marzo, mentre camminava in mezzo alle vetrine scintillanti, ai grattacieli vertiginosi, alla fiumana di persone sciamanti attraverso il nuovo quartiere di Shinjuku nella Zona A.
Ling stava cercando quel momento in cui ogni pensiero si perde in mezzo alla folla, i problemi si allontanano con la corrente, il battito del proprio cuore si unisce ai cuori pulsanti delle persone che ci camminano accanto, l’individuo diventa parte di qualcosa di più grande e indistinto. E lei voleva smettere di pensare, voleva essere per un po’ quello che gli altri credevano che fosse: una persona felice, una ragazzina ridente e spensierata, forse anche un po’ stupida. Nessuno la conosceva abbastanza bene da capire che non era quello che sembrava, che in realtà il suo perenne sorriso era una maschera rassicurante creata per nascondere la propria paura.
E così vagava senza meta, guardandosi attorno, incurante delle spinte che riceveva, soffermandosi su ogni sguardo, ogni sorriso, ogni smorfia, lasciando che ogni frammento di vita altrui entrasse a far parte della propria.
Mentre era nel cuore della città, lei era tutto ed era niente.
E poi l’incanto si ruppe, disturbato dallo squillo di un cellulare. Gli ci volle qualche attimo per ritrovare se stessa nel caos di Shinjuku, dopodichè si portò il telefono all’orecchio.
–Pronto!– esclamò Ling, con la voce allegra di sempre.
Ciao Xiaoyu, sono Julia! Non so perché ma ho come l’impressione che tu ti sia completamente dimenticata del seminario di oggi, quello obbligatorio per completare l’anno accademico. Ti prego, dimmi che mi sbaglio!–.
Ling si fermò mentre attraversava la strada, suscitando una lunga serie di imprecazioni e clacsonate.
–Oh. Oh mio Dio. Non dirmelo–.
Dovrebbe iniziare fra dieci minuti. Adesso sono le 4. Pensi di farcela?–.
Ma Julia non ricevette nessuna risposta perché quando aveva cominciato la frase Xiaoyu stava già correndo come un fulmine.

*

Lei Wulong avanzava spedito verso l’Edificio 3 dell’Inner Core, attorniato da una folta schiera di assistenti e poliziotti addetti a varie mansioni, quando vide l’agente Hinagawa che gli veniva incontro sbracciandosi.
–Detective Wulong!– esclamò l’agente affiancandosi al suo superiore
–Buongiorno Hinagawa. Ci sono novità?–.
–Alcune. Gli artificieri hanno già analizzato le cause delle esplosioni e sono ormai sicuri che si sia trattato di bombe. Resta solo da scoprirne il prototipo–.
–Di quanta entità sono i danni?–.
–Ehm, forse è meglio che guardi lei stesso…– rispose Hinagawa mentre il gruppo di poliziotti svoltava l’angolo di un palazzo, ritrovandosi di fronte alla loro meta.
Il Detective Wulong non poté che lasciarsi scappare un fischio di disapprovazione alla vista dell’Edificio 3 che come sempre si stagliava nei suoi 50 piani d’altezza ma che stavolta aveva un lato completamente sventrato.
“Nell’Edificio 3 sono archiviati i dati di tutta la popolazione di Nuova Edo” rifletté Lei “Mi sembra un ottimo obbiettivo per un gruppo di terroristi”.
–Mmm… vedo. La Banca Dati Elettronica è stata violata?– chiese Wulong.
–I tecnici hanno detto di no, però nei piani compresi fra il 20° e il 25° erano ancora conservati i documenti cartacei stilati subito dopo la costruzione della città e che non erano ancora stati convertiti in files elettronici–.
–Ma dato che questi piani sono stati devastati dalle fiamme non è possibile sapere con certezza se qualche cosa sia stata sottratta o meno– concluse Lei.
Hinagawa annuì.
–L’Edificio 4 è la sede della Televisione e il 7 è sede dei Laboratori di Ricerca Mishima. Che cosa è successo lì?–.
–Nell’Edificio 4 l’esplosione ha distrutto gli studi di registrazione e anche in questo caso non sappiamo se sia stato rubato qualcosa–.
“Il loro obbiettivo sarà stato quello di interrompere le trasmissioni” rifletté Lei “ma stamattina il notiziario e gli altri programmi sono stati trasmessi regolarmente. Probabilmente NE Television ha mandato in onda programmi pre-registrati e non ha accennato all’attentato di stanotte per non allarmare la popolazione...”.
–E l’Edificio 7?–
–Stesso modus operandi. In questo caso però è stata la Direzione stessa del laboratorio a non rilasciarci informazioni sui danni o eventuali furti–.
–Certo, i Laboratori sono coperti dal Segreto di Stato– rispose Wulong –E per quanto riguarda la Banca Centrale?–.
–In questo caso non c’è stata nessuna bomba: le pareti sono state sciolte con l’acido. La scientifica lo sta analizzando. Sono stati sottratti milioni di Yen sottoforma di lingotti, banconote e denaro virtuale–.
–Ottimo lavoro Agente Hinagawa– disse Lei affibbiandogli un'amichevole pacca sulla spalla –ora procurami gli indirizzi di tutti i negozi di antiquariato di Nuova Edo. Voglio visitarli personalmente–.
L'agente ebbe un attimo di esitazione. –Ehm… certamente Detective–
“Antiquariato?” si chiese perplesso Hinagawa mentre il Detective Wulong si dirigeva verso il furgone della Scientifica seguito dal folto gruppo di poliziotti.

*

La dottoressa Julia fissava il telefono che le era stato appena riattaccato in faccia con uno sguardo che esprimeva un misto di perplessità, preoccupazione e divertimento. "Povera Ling" pensò "in questo periodo ha davvero la testa fra le nuvole. Ma non me ne stupisco vista la sbandata che si è presa per quel Takeshi Kawamura". Non che Ling glielo avesse apertamente confessato, ma dato che entrambi i ragazzi le erano stati affidati dall'Università perché li aiutasse nel loro programma di studi scientifici, era inevitabile che Julia si trovasse talvolta a nominare Takeshi davanti a Ling, ed era anche impossibile che, da scienziata qual era, non notasse l'espressione che Xiaoyu assumeva in quei casi.
Julia sospirò. Era passato qualche anno da quando anche lei aveva provato sensazioni simili e aveva dovuto accantonarle per non togliere spazio a ciò che costituiva l'obbiettivo più importante di tutta la sua vita, per lei degno di ogni sacrificio e di tutta la sua abnegazione: il progetto di esperimenti sulla riforestazione.
Fin da quando era bambina si era sempre rifugiata nel mondo evocato dai ricordi di Michelle, sua madre, che le raccontava sempre di come un tempo lontano, prima che l'uomo iniziasse a rovinarlo e la guerra lo devastasse completamente, il pianeta fosse stato un'oasi di verde, popolato da miriadi di piante e animali, dove gli alberi spandevano la loro ombra sui fiori e gli oceani erano solcati da maestosi cetacei. Anche quando Julia era cresciuta e Michelle aveva smesso di raccontarle il passato, quelle immagini continuavano ad affascinarla, non mutate nemmeno dal disincanto della maturità che le aveva mostrato la realtà in tutta la sua desolazione. Per Julia, riportare il pianeta allo stato in cui era prima della guerra nucleare era diventata man mano una tacita promessa. Aveva studiato biologia e aveva iniziato a lavorare alla Biotech, dove si era dedicata anima e corpo alla sua causa. E finché avesse avuto i mezzi e le opportunità, non avrebbe mai abbandonato la sua ricerca.
Certo, l'impresa era difficile. Il mondo intero era un deserto secco, costellato da gigantesche pozze di acqua salmastra, unici resti degli oceani, e abitato solo da animali primitivi come topi e scorpioni.
I primi tentativi di impiantare i semi delle specie vegetali salvate dalla distruzione erano stati infruttuosi: i residui radioattivi impedivano la crescita della pianta nonostante l'acqua e il nutrimento che le venivano costantemente erogati. Eppure, se solo si fosse riuscito a far crescere alberi in numero sufficiente e a nutrirli artificialmente, questi avrebbero contribuito a drenare il suolo liberandolo dalla radioattività, e l'ossigeno da essi emesso, insieme al vapore acqueo scaturito dai vulcani, avrebbe contribuito a ripristinare l'equilibrio idrico e atmosferico.
Forse ci sarebbero voluti centinaia di anni, ma la Terra avrebbe potuto ristabilirsi: questa almeno era la teoria che la dottoressa Chang sostenteva da anni, scontrandosi contro la realtà; nonostante gli sforzi della Byotech e degli altri scienziati sparsi per il mondo, niente era ancora cresciuto.

La cosa che più abbatteva Julia non erano tanto gli insuccessi quanto il fatto che i laboratori di ricerca della Mishima, pur essendo plausibilmente dotati di strumenti sofisticatissimi oltre che di fondi praticamente infiniti, non aveva mai mosso un dito per questo scopo e, come se non bastasse, cercavano da sempre di allungare le sue mani sulla Byotech per impadronirsene. Ricevevano costantemente visite da impiegati dei laboratori Mishima che mostravano loro l'autorizzazione a essere informati dettagliatamente su tutti gli studi che si conducevano nella Byotech e sul personale che vi lavorava, mentre gli esperimenti della Mishima erano protetti dal segreto di stato. Nessuno sapeva che tipo di studi si conducessero al loro interno, ed erano in molti a pensare che si trattasse di qualcosa di illecito, ma finché la Mishima era al governo e i suoi laboratori facevano capo ai loro, nessuno avrebbe mai potuto lamentarsi. Del resto era già un miracolo che la Byotech, sotto la guida del dottor Boskonovitch, fosse sopravvissuta alla guerra e avesse contribuito alla costruzione delle megalopoli in cui abitavano. Forse solo la gran fama di cui godeva aveva impedito a Heihachi e al dottor Abel di cancellarla del tutto dopo averne già fatto, se non alle apparenze almeno in pratica, una succursale della Mishima.
Julia Chang, essendo l'assistente personale del dottor Boskonovitch, sapeva molto di queste faccende, ma aveva l'impressione che ben più di qualche mistero sfuggisse alla sua conoscenza. Lo stesso Boskonovitch era un'incognita per lei e c'erano molte domande che avrebbe voluto rivolgergli se solo non avesse avuto paura di essere indiscreta: che rapporti aveva avuto con il presente rivale, il dottor Abel, ai tempi del riassetto mondiale? Perché a volte si rendeva irraggiungibile per giorni interi? Chi è che gli spediva così tante lettere - mezzo assai antiquato - che poi lui bruciava sempre (lo aveva visto di nascosto)? Perché solo lui poteva accedere ai magazzini?
Benché le domande fossero tante e il dottore non si confidasse con lei, Julia si fidava di lui e quindi non dava molto peso a questa sorta di misteri. "Del resto tutti noi abbiamo dei segreti" diceva a se stessa.
Julia spense il cellulare, lo mise nella tasca del camice e uscì dal suo studio per andare ad assistere al seminario tenuto dal dottore. Mentre camminava nel corridoio si vide venire incontro un Jin Kazama molto trafelato.
–Oh, ciao Takeshi! Visto che sei in anticipo perché non vai a prendere un posto in sala per te e per l'altra mia allieva?– disse lei pensando che dopo questo Ling Xiaoyu l'avrebbe ringraziata o maledetta per tutta la vita. Ma con sua somma sorpresa Jin le passò accanto quasi correndo, senza rispondere e senza nemmeno guardarla.
"Strano ragazzo" pensò Julia sistemandosi gli occhiali.

*

Jin non si era accorto che la dottoressa Chang gli aveva rivolto la parola, non si era nemmeno reso conto di essere passato accanto a qualcuno. Riusciva ad avanzare nei corridoi della Byotech solo perché ci era stato così tante volte da conoscerli quasi a memoria, perché in quel momento i suoi occhi infuocati non vedevano altro che lampi scuri.
"Non di nuovo… non di nuovo" mormorava Jin mentre andava disperatamente alla ricerca di un posto dove nessuno avrebbe potuto vederlo, tastando i muri in cerca di qualche porta, piegato in due dai dolori lancinanti che si facevano strada nel suo corpo: la testa gli pulsava, la pelle gli bruciava come se da un momento all'altro avesse potuto staccarglisi, il midollo spinale era scosso da scariche nervose, ogni singolo filamento muscolare sembrava aver preso fuoco.
Jin cadde in ginocchio, incapace di muoversi ulteriormente. Ormai avrebbe dovuto affrontare lì la crisi, con la speranza di essersi allontanato dalla sala convegni quanto bastava per non incontrare qualche ricercatore o qualche studente, che ormai avrebbero dovuto essere tutti seduti ad attendere l'inizio del seminario.
La sola idea che qualcuno avesse potuto vederlo nello stato in cui si sarebbe ridotto di lì a poco lo riempiva di terrore. "Non voglio… non voglio diventare un mostro!".

Ma il caso volle che uno studente ritardatario e ancora poco pratico della Byotech si trovasse a passare proprio in quel momento in quel corridoio.
 
Ling Xiaoyu era immobile in mezzo al corridoio e respirava affannosamente per via della corsa appena fatta. Si era fermata di colpo quando aveva visto Takeshi Kawamura accasciato al suolo in preda agli spasmi a pochi metri da lei. 
Titubante, si avvicinò di pochi passi verso di lui, mentre il suo cuore batteva all'impazzata un po' per la fatica un po' per la paura.
–Ka…Kawamura?– sussurrò lei senza ottenere altra risposta che un gemito di dolore. Allora Ling decise che doveva farsi coraggio e, trattenendo il fiato, allungò lentamente una mano a toccare la spalla del ragazzo. Nello stesso istante Jin si sollevò di scatto, urlando per il dolore che il semplice contatto gli aveva provocato, e in quel momento Ling restò pietrificata dal terrore alla vista di qualcosa che non si sarebbe mai potuta immaginare: quegli occhi, che la fissavano con un'espressione mista di spavento e odio, non avevano più niente di umano.

Xiaoyu inciampò indietreggiando maldestramente e si ritrovò seduta per terra, incapace di distogliere il suo sguardo da quello di Jin Kazama. I suoi occhi, iride e sclera comprese, erano completamente neri, e le sue pupille, ridotte a fessure verticali, rilucevano di riflessi sanguigni.
I due restarono a fissarsi con reciproco orrore per un tempo che parve un'infinità, l'una pietrificata dallo spavento e dalla sorpresa, l'uno immobilizzato dalla vergogna e dal dolore che continuava a farsi più acuto. E c'era poi quella rabbia inspiegabile, un odio immotivato e inumano che inondava l'anima di Jin Kazama come un fiume in piena. Ora che i suoi occhi erano cambiati e la sua vista era tornata, la visione di quella ragazza che lo guardava con orrore gli faceva venire il mostruoso desiderio di ucciderla, di vederla in un lago di sangue. Ma Jin era ancora abbastanza in sé da rendersi conto di ciò che stava provando.
–Vattene!– urlò rabbiosamente alla ragazza.
Ling Xiaoyu continuava a guardarlo mentre le lacrime le salivano agli occhi. –Kawamura…–.
–Vattene stupida ragazzina!–.
La ragazza scosse la testa, piangendo.
–Morirai se non te ne vai! Non capisci?– gridò selvaggiamente mentre sentiva che la ragione lo abbandonava lentamente per dare il posto a un furore disumano.
–Che… che cosa ti sta succedendo?– chiese lei singhiozzando mentre la pelle di Jin si ricopriva di strani segni scuri e si dilatava, come se qualcosa stesse crescendo sotto di essa. La sua massa muscolare pareva aumentare a vista d'occhio.
Jin digrignò i denti, avvertendo qualcosa che si muoveva dentro di lui, all'altezza delle spalle. –Vai… via…–.
–No!– urlò Xiaoyu gettandosi al collo di Jin, abbracciandolo, senza nemmeno pensare a cosa stesse facendo, che cosa stesse rischiando. Sapeva solo che quel ragazzo aveva bisogno di aiuto.  
Fu allora che avvenne qualcosa di inspiegabile.
A quel contatto umano Jin sentì il suo cervello frantumarsi in mille pezzi, centinaia di voci riempirono le sue orecchie, la sua vista si oscurò di nuovo e ogni percezione della realtà si infranse.
Uccidila, uccidila!
Disse una voce grottesca dentro la sua testa, una voce così terribilmente simile alla propria.

"No… non posso!" rispose.
Non vuoi assaggiare il suo sangue?
"Non sono io che lo desidero!"
Ma sei tu che lo stai pensando, sei tu che ti stai trasformando in un mostro.
"Sei tu il mostro, non io".
Ma io sono te, non vedi?
"Bugiardo! Tutto ciò non può essere vero!".
Per quanto ancora pensi che riuscirai ad ingannarti? Non frenare il tuo corpo, lascia che la metamorfosi abbia termine. Non vuoi vedere cosa diventerai? Non vuoi liberare il tuo potere nascosto? Puoi abbandonare ogni dolore, se solo lo desideri.
"Non posso permettere che tu mi faccia uccidere qualcuno!".
Potresti perfino vendicare tua madre.
"Lasciami stare!"
Per questa volta ti accontento. Ma sappi che non ti libererai mai di me, perché io e te siamo la stessa cosa, io sono sempre stato dentro di te anche se te ne sei accorto solo da poco. È solo questione di tempo…
"Non importa…" rispose con l'ultima forza di volontà rimastagli "ora lasciami in pace".
 
Spalancò gli occhi. Davanti a lui il corridoio della Byotech splendeva di un bianco accecante.
Le fitte del dolore abbandonavano il suo corpo come la bassa marea lasciando il campo ad un tremendo senso di spossatezza.

–Mio Dio. Che cosa…–. Solo in quel momento si rese conto che qualcuno lo stava abbracciando.
–Kawamura!–. Ling allentò di colpo la presa e si ritrovò a pochi centimetri dal viso di Jin, i cui occhi erano tornati normali. Entrambi indietreggiarono bruscamente arrossendo per la sorpresa e per l'imbarazzo.
–Stai bene adesso?– chiese la ragazza azzardando un sorriso nonostante le lacrime che continuavano a scendere lungo le sue guance.
Jin annuì. Tremava ancora e respirava a fatica, per cui aveva difficoltà a parlare. Squadrò la ragazza, chiedendosi se si trattasse di una persona affidabile. Vedendola aveva sempre avuto l'impressione che fosse infantile e superficiale, ma il coraggio che aveva dimostrato nel restare con lui lo aveva sorpreso. –Promettimi… che non dirai a nessuno… ciò che hai visto–.
–Lo prometto– giurò lei, pur essendo ancora scossa da ciò a cui aveva assistito.
–Adesso andiamo al seminario– disse lui sforzandosi di riguadagnare un po' di autocontrollo –O ci butteranno fuori dall'università–.

*

–Questo è l'ultimo– disse l'agente Hinagawa.
Lei Wulong e il suo assistente, entrambi in borghese, si trovavano di fronte a un piccolo e cadente edificio a due piani ai margini della Zona A, a poche centinaia di metri dagli sbarramenti che la divideva no dalla Zona Industriale.
Dalla vetrina del negozio al piano terra, piuttosto buio e angusto, si affacciava una variopinta moltitudine di cianfrusaglie, mascheroni africani, statuette rococò, ceramiche Ming e Buddha sorridenti; una marea di oggetti che qualcuno aveva salvato dalle esplosioni e che per qualche ragione erano finiti tutti là, per essere acquistati da qualche nostalgico dei tempi andati.

Lei aprì la porta con uno scampanellio e i due entrarono nella penombra polverosa dell'antiquario. Dopo qualche istante un vecchietto cinese si fece strada verso di loro passando tra uno Shiva danzante e un jukebox del 1960.
–Buonasera, sono Wang Jinrei. Cosa posso fare per voi?– chiese il negoziante sorridendo lievemente.
–Buonasera, signore. Siamo agenti della Polizia– disse Lei mostrando il distintivo –Se non le dispiace vorrei farle alcune domande su un oggetto–.
Alla vista del distintivo il vecchio smise di sorridere e si fece serio –Mi dica–.
Wulong gli mostrò una fotografia che raffigurava il terrorista mascherato immerso nel fumo. –Riconosce questa maschera?–.
Il vecchietto portò la fotografia sotto la luce di una lampada e inforcò un paio di spessi occhiali. Dopo che la ebbe studiata per qualche secondo annuì. –Impossibile per me non riconoscerla. È una maschera demoniaca del teatro Noh risalente al 1200, un oggetto unico e prezioso. Io la possedevo insieme ad altre maschere fabbricate dallo stesso artigiano, ma le ho vendute tutte in blocco un bel po' di anni fa–.
–Sapreste dirmi il nome di chi le ha acquistate?–.
L'anziano con i suoi profondi occhi scrutò il poliziotto con sospetto. –Perché volete saperlo? Chi è la persona nella foto?–.
–Mi dispiace ma non sono tenuto a dare queste informazioni. Mi auguro che sarà così gentile da non ostacolare le indagini– rispose Lei con professionalità, tentando di dimostrarsi cortese. Non aveva mai amato le dimostrazioni di potere compiute dagli altri poliziotti.
L'antiquario se ne andò senza dire niente nel retro del negozio. Pochi minuti dopo ritornò con due giganteschi cataloghi, che appoggiò su una scrivania sollevando una nuvola di polvere. Lei prese a starnutire violentemente e tentò di allontanare la polvere sventolando le mani.
–Sono allergico– si scusò sorridendo
–Questo è il registro delle vendite degli ultimi anni e quest'altro è il registro delle opere d'arte.– disse il vecchio con freddezza mentre apriva i cataloghi. –L'acquirente si chiama Sunichiro Kunikata e ha comprato queste maschere il 27 settembre del 2163. Qui ci sono le polaroid che ho scattato per l'inventario–.
I due poliziotti si chinarono a osservare le fotografie raffiguranti nove eleganti maschere di legno, tutte smaltate di bianco, una delle quali conoscevano bene.
–È proprio lei– mormorò Wulong ponendo l'indice sulla foto del demone Hannya.
 
Un'ora più tardi il detective Wulong sedeva alla sua scrivania con le mani intrecciate dietro la testa, assorto nella riflessione. Le ricerche che aveva svolto negli archivi elettronici dell'anagrafe avevano avuto qualche risultato. Sunichiro Kunikata, morto nel 2183 all'età di 85 anni, era stato proprietario di un dojo prima dello scoppio della guerra e, scampato alla morte, aveva continuato ad esercitare la sua professione fino all'età di 64 anni, quando la sua palestra era fallita per mancanza di fondi; suo figlio e sua moglie erano morti parecchi anni prima in un incidente, lasciando a lui il compito di occuparsi della nipote ancora bambina. Nonno e nipote avevano vissuto insieme in un piccolo appartamento nella parte più povera della Zona B, dove pare che il vecchio si fosse dato all'artigianato e in particolare alla forgiatura di spade e altri oggetti metallici, che poi rivendeva agli antiquari ricavandoci da vivere. Questo fino al 2183 quando era morto di vecchiaia. Da quel momento in poi la nipote allora sedicenne, Motoko Kunikata, era scomparsa senza lasciare traccia, forse perché era morta o forse perché si era data alla clandestinità, cosa che non era affatto difficile in una città popolosa e caotica come Nuova Edo. Considerando le varie ipotesi Lei Wulong era più propenso a credere che fosse ancora viva e che abitasse nella Zona Rossa insieme ad altre migliaia di senza nome; e, sebbene non potesse ancora definirsi sicuro al 100%, pareva che ne avesse avuto una prova.
Controllando le denunce sporte quel giorno dagli altri poliziotti, si era ritrovato davanti ad un identikit che, pur non avendo all'apparenza niente di speciale, gli aveva fatto venire un colpo: –Donna bianca, età sconosciuta, corporatura media, altezza 1.70 circa. Ricercata per: detenzione di droga, aggressione a pubblico ufficiale, resistenza all'arresto, volto non identificabile. Ultimo avvistamento: White Crow Pub, Blocco 5, Zona Rossa–.
Quello che lo aveva fatto saltare sulla sedia non erano tanto i reati commessi quanto il disegno che la raffigurava: una donna dai capelli rossi che indossava una maschera bianca. A quel punto Lei Wulong aveva febbrilmente frugato fra le foto delle maschere acquistate da Sunichiro Kunikata e ne aveva tirato fuori una per confrontarla col disegno.
–"Kitsune"– aveva sussurrato mentre la osservava –La maschera della volpe–.
Un attimo dopo aveva inviato alcuni agenti ad interrogare i proprietari del pub sull'identità di quella donna, il cui nome era probabilmente Motoko Kunikata e che, ancora più plausibilmente, era una dei terroristi che stava cercando.    



Nota: la maschera del demone Hannya è questa qui. Vi dice nulla? :P



Appendice

Nuova Edo (NE)

Scheda della città.

Abitanti: 170 milioni circa.
Etnia principale: asiatica.
Lingue ufficiali: Giapponese, Cinese, Inglese.
La città di Nuova Edo ha pianta circolare e si divide in quattro quarti (A, B, C, D) più una zona concentrica situata nel cuore della città, l'Inner Core.
Zona A (sud-ovest): Centro città.
Non è il centro geometrico della città ma è il luogo in cui si concentra la vita di Nuova Edo: vi si trovano tutti gli uffici, le scuole, i negozi, i punti d'incontro e tutte le altre attività che non siano sotto il controllo diretto della Mishima. All'interno di questa parte della città esistono anche alcune zone residenziali ma è possibile abitarvi solo se si è in grado di pagare cifre astronomiche.
Zona B (sud-est): Zona residenziale
Frazione della città completamente adibita a contenere abitazioni per individui e famiglie di classe alta e media. Il costo dell'abitazioni diminuisce man mano che ci si avvicina al confine con la zona residenziale C, rendendosi accessibile anche a individui di classe medio-bassa.
Zona C (nord-est): Zona Rossa.
Zona-dormitorio per le classi sociali meno abbienti di Nuova Edo, per cui sono stati costruiti giganteschi palazzi denominati Edifici Abitativi. L'alta densità abitativa e le cattive condizioni di vita hanno portato ad un alto sviluppo della criminalità. Per favorire l'ordine e i controlli da parte della polizia, questa zona ha subito una divisione geometrica più severa rispetto a quella adottata nelle altre frazioni. La Zona rossa è divisa in 4 parti, ognuna dei quali è divisa in 10 blocchi che comprendono un numero variabile di edifici abitativi.
Zona D (nord-ovest): Zona Industriale.
In questa parte della città sono situate tutte le fabbriche e le industrie di NE, insieme alle coltivazioni in serra e agli allevamenti. Ogni fabbrica è munita di filtri per l'aria per evitare che lo smog si diffonda in tutta la città. Gli scarichi e lo smog non filtrati sono incanalati in tubi che li portano fuori dal confine di Nuova Edo.
Inner Core.
E' il centro della città, separata dal resto da un parco a forma di anello e da una spessa muraglia presieduta da militari. E' la sede del Mishima Palace e di tutti gli organi a cui essa fa capo, come il palazzo del governo, i laboratori mishima, l'archivio di stato, l'anagrafe, la banca centrale di NE, NE Television, la sede della Cyberpolizia e molti altri. Alcuni di questi edifici sono stati denominati unicamente con un numero per mantenere il segreto sulle mansioni che vi si svolgono. Per accedere all'Inner Core e agli edifici che ne fanno parte è necessario possedere un pass speciale.




Questa è la prima volta che pubblico una fanfiction in internet  ed è quindi con grande emozione che inauguro il mio primo "angolo dell'autore" (cosa che dà un'aria molto profescional, sisi).
Grazie ad Angel Texas Ranger, Valy_Chan, Elilly, AleTokio, Miss Trent e DarkTranquillity per aver recensito positivamente il primo capitolo, rigenerando il mio ego! Questo è lungo il doppio del precedente ed è anche doppiamente incasinato, ma spero che non vi abbia dispiaciuto.
Valy Chan: Anche io come puoi ben vedere ho amato "1984". Mi è rimasto impresso così tanto da diventare di fonte di ispirazione per questa fiction, non solo per quanto riguarda l'atmosfera generale ma anche per certe caratteristiche: i manifesti del dittatore sparsi per tutta la città, le persone continuamente bombardate dai media, la mancanza di informazione e memoria storica ecc ecc. La mia paura era che questa fiction risultasse un po' troppo "pretenziosa" visto gli argomenti trattati, ma spero di essere riuscita a evitarlo (spero <_<)
Dark Tranquillity: evvai un altro fan dei Nevermore! :D Sarei molto curiosa di sapere su cosa era basato il tuo racconto. Io stessa ero lì per lì per dare a questa fiction il titolo della canzone ma poi l'ho tagliato
Miss Trent: Grazie per i complimenti! La mia intenzione è proprio quella descrivere ogni scena in modo che possa facilmente essere immaginata. Per quanto riguarda lo scrivere un paragrafo per personaggio devo ammettere che lo faccio più che altro per comodità, perché così invece di andare in ordine cronologico posso scrivere prima le parti per cui ho ispirazione e lasciare per dopo quelle che non mi riescono (tanto poi riordino tutto una volta che ho finito il capitolo xD). Insomma, se in futuro dovesti notare delle incongruenze ora sai perché.
Angel Texas Ranger: A dire il vero non ho fatto molto caso all'età... Comunque direi che valgono quelle che i personaggi hanno fra tekken 4 e 5 (anche perché non so quale sia l'anno mondiale che ha usato la Namco <_<)

Al prossimo capitolo (che sicuramente non arriverà veloce come questo)!

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Capitolo 3
*** Claustrofobia ***


3. Claustrofobia


Il sole era già tramontato quando Kunimitsu aveva deciso che sarebbe stato sicuro fare ritorno a casa sua dopo un intero pomeriggio passato a nascondersi dalla polizia; ed era con un vago senso di stanca soddisfazione che la donna avanzava cautamente nel vicolo buio, alla cui fine scorgeva l’ingresso fiocamente illuminato dell’Edificio Abitativo 2.
Kunimitsu?–. Quel sussurro inaspettato, proveniente dal buio di fronte a lei, la raggelò.
Kunimitsu si fermò, cercando di distinguere l’altra persona. –…Anna! Sei tu? Non si vede niente–.
Sst–. La sagoma della barista del White Crow si scostò dalla parete, stagliandosi nella penombra. –Grazie al cielo sei arrivata! È da ore che ti sto aspettando!–.
–Certo che sono arrivata!– esclamò la kunoichi, sorpresa. –Perché mi stavi aspettando?–.
–Sono venuta ad avvertirti, Kuni…– Anna parlava con concitazione –La polizia ha fatto irruzione in casa tua due ore fa! Io non so cosa volessero ma erano Agenti Speciali! Sanno chi sei, hanno diramato il tuo identikit a tutte le stazioni–.
Il cuore che salta un battito.
Cos’è questa sensazione, Kunimitsu? È forse quella del topo caduto nella trappola? È forse paura?
–No. Non è possibile– cercò di ragionare –Ho abbandonato la mia vera identità anni fa, nessuno conosce il mio volto e il monolocale non è registrato a nome mio. Non possono essere risaliti a me!–.
Anna non rispose, il silenzio avvolse le due donne.
–A meno che…– la voce di Kunimitsu si fece ad un tratto più dura –A meno che qualcuno non abbia fatto la spia. È così, Anna?–.
Nessuna risposta, solo il rumore di un respiro trattenuto.
–È così, Anna?–.
Kunimitsu la sentì scoppiare in lacrime. –Mi… mi dispiace tanto! Hanno detto che avrebbero portato via me e Marshall se non… se non gli avessimo detto dove trovarti! E così… e così Marshall ha parlato. Tu sai cosa significa essere “portati via”, vero?–.
Per un attimo fu presa dall'impulso di prenderla a pugni. –Temo che per colpa vostra potrei scoprirlo molto presto– osservò gelidamente.
Anna afferrò il braccio dell’amica. –Kuni ti prego, non fare così! Lasciami spiegare!–.
–Non fare scenate Anna– disse l’altra, allontanando il braccio dalla presa della donna –Non c’è niente da spiegare: volevate vivere. È umano. Del resto sono stata io a mettervi in questa situazione. Però non riesco a capire per quale motivo la polizia ce l’abbia così con me... Agenti Speciali addirittura! In genere non mandano mai agenti della Squadra Speciale a stanare gli abitanti di questa zona per reati minori come detenzione di droga e clandestinità. Cazzo, qui tutti detengono droga e usano identità false!–.
–Anche a me sembra strano... Io e Marshall pensiamo che potrebbero averti scambiato per un'altra persona.– disse Anna, che sembrava aver riacquistato un po’ della sua compostezza –Senti, c’è un'altra cosa che devo dirti–.
–Cioè?–.
–Marshall mi ha pregato di dirti che vista la situazione dovresti accettare l’aiuto che ti è stato offerto–.
–Quale maledettissimo aiuto?!– esclamò. Poi ebbe un fugace flash di un uomo con la voce metallica e la maschera da teatro Noh.
–Non ne ho idea. Marshall è stato poco chiaro su questo punto, ma ha detto che tu avresti capito–.
Kunimitsu indugiò sotto il peso della sorpresa. Dunque Marshall conosceva quel pazzoide? E voleva che lei andasse a cercarlo lì dove le era stato detto? Cercò di riportare alla mente il contenuto del biglietto: Zona Industriale, dietro la fabbrica di elettrodomestici. Certamente un luogo poco invitante.
–Credo di aver capito infatti, anche se la cosa mi sembra assurda–.
–Allora sei al sicuro?– la voce di Anna era sollevata –Mi sento molto meglio!–.
–Ora come ora la parola “sicuro” mi sembra un’esagerazione ma forse ho un posto dove andare. Però prima ho bisogno che tu mi faccia un favore–.
–Qualsiasi cosa, Kunimitsu. Mi sento così in colpa per quello che è successo…–.
–Quando vedi Hwoarang digli che mi dispiace di aver combinato questo casino e che mi farò viva quando la situazione si sarà fatta più tranquilla. Puoi farlo?–.
–Certo, glielo dirò, non ti preoccupare–. Anna si mise la mano sul cuore come per dare più forza al suo giuramento, pur sapendo che l’altra poteva a stento vederla.
–Bene, allora… vado–.
E così Kunimitsu tornò da dove era venuta, lasciando alle spalle la sua casa, e mentre affondava nuovamente nell’oscurità più cupa dei vicoli interni ebbe la spiacevole sensazione di stare per abbandonare tutto ciò che era stata.

*

Lee Chaolan stava sdraiato su una chaise-longue nel suo elegante salotto in stile minimalista, immerso nel silenzio e in una rilassante penombra, lasciando che gli occhi si riposassero dopo quella stressante giornata. Al di là delle finestre la rigogliosa vegetazione del giardino era immota, scossa soltanto dal lieve muoversi di qualche insetto. L’unica fonte di luce erano i globi luminosi delle lampade da esterno, il cui fioco bagliore filtrava attraverso le piante posandosi gentilmente sulla mobilia.
Improvvisamente il silenzio fu rotto da una voce di donna: –Sai, penso che dovresti migliorare il sistema di sicurezza della tua villa–.
Lee aprì gli occhi e sorrise. Ora una sagoma conosciuta sedeva sulla finestra aperta.
–Fortunatamente non ci sono persone più pericolose di te da cui dovrei difendermi, Nina– osservò lui con calma.
–E non pensi di doverti difendere da me?–. “Insinuante, Nina. Come sempre” pensò Lee.
–Che motivo avresti di farmi del male? In questa città non ci sono persone più potenti di me per cui lavorare, eccetto mio padre–.
–Lee, mi tratti sempre come se fossi uno schifoso mercenario!– rispose Nina, con tono ironicamente dispiaciuto. Touché.
–Non è forse quello che sei, Agente W?– chiese lui con un pizzico di cattiveria.
–Può darsi– disse lei con una smorfia simile a un sorriso.
–Per farmi cambiare idea, per esempio, potresti cominciare a passare dalla porta invece che infiltrarti furtivamente dalla finestra, che ne dici?–.
–Non mi va– sbottò lei, stiracchiandosi le braccia –Per entrare qui bisogna superare tanti di quegli sbarramenti di sicurezza… è solo una perdita di tempo!–.
Lee decise che era meglio tagliare corto. –Parliamo di cose serie adesso: che mi dici delle indagini dell’agente Wulong?–.
–L’ho seguito per tutto il giorno e l’unica informazione ricavabile è che le indagini proseguono molto a rilento. L’unica informazione che hanno è che uno di loro possiede una maschera Noh comprata da un antiquario, ma non è stato ancora rintracciato–.
–Pensi che sia un individuo affidabile?–.
–Oh, sì, è proprio una brava persona: diligente, scrupoloso, amante della legalità… Poverino, mi fa quasi pena. Non credo che possa rappresentare una minaccia per la Mishima, ma continuerò a tenerlo d’occhio in attesa che scopra qualcosa–.
–Ottimo, e per quanto riguarda quella faccenda del laboratorio? Il dottor Abel ha ritrovato l'Esperimento Numero 9?–.
Nina scosse la testa. –Basta parlare di lavoro per ora…– disse lei perentoriamente, saltando giù dalla finestra, per poi muoversi con passo felino verso l’uomo. Lee la vide armeggiare con la lampo e un secondo dopo la sua tuta da spia era scivolata a terra e la luce tremula dei globi luminosi si rifletteva sulla pelle nuda. “Sei proprio un uomo fortunato, Lee Chaolan” si ritrovò a pensare lui.
–Divertiamoci–.

*

Due occhi completamente neri, da bestia assassina, privi di ogni sentimento umano.
Ling Xiaoyu si svegliò di soprassalto e si guardò attorno nel disperato tentativo di riconoscere qualche oggetto familiare nell'oscurità della sua camera. Lo schermo luminoso della sveglia segnava le 3.42 a.m.
Si rannicchiò ancora di più nelle coperte, cercando di scacciare quell'immagine dalla sua mente, ma era difficile considerando che da quel pomeriggio non riusciva a pensare ad altro. Chi avrebbe mai immaginato che la sua storia d'amore si sarebbe trasformato in un horror?
Era difficile accettare che Kawamura, un ragazzo tranquillo e posato, anche se dal carattere ombroso e distaccato, potesse trasformarsi in qualcosa del genere. Già, ma che cosa, esattamente? Ciò che aveva visto quel pomeriggio sfuggiva da ogni classificazione, non aveva per niente l'aria di essere una malattia. Ma che cosa poteva essere allora?
Dopo che quel strano attacco era finito, Takeshi era tornato quello di sempre, se possibile più gentile di quanto era abituato ad essere. Forse aveva paura che lei avesse potuto svelare il suo segreto a qualcuno, e chi poteva biasimarlo? Ling non riusciva a immaginare in che modo si potesse convivere con qualcosa del genere. In ogni caso non doveva assolutamente preoccuparsi di lei, perché aveva giurato di non dirlo a nessuno.
Certo, probabilmente Kawamura non si sarebbe immaginato che Xiaoyu si sarebbe buttata da un palazzo di cento piani se lui glielo avesse chiesto! E nonostante la paura che ora cominciava ad ispirarle, lei era ancora pronta a fare qualsiasi cosa per lui, a dimostrazione che una cotta portentosa a volte può produrre più cambiamenti di un tornado.
Ling non dubitava che dopo questo episodio Takeshi si sarebbe fatto vedere di nuovo: appena il seminario del dottor Boskonovitch era finito, l'aveva guardata con uno sguardo indecifrabile e poi se ne era andato fingendo di essere la persona più tranquilla del mondo, come se non fosse successo niente. Ma lei sapeva che non era così.
Qualsiasi ragazza normale sarebbe fuggita di fronte a una situazione del genere, ma lei non poteva assolutamente, nemmeno volendo. Non poteva lasciare che i sogni che covava da anni, per quanto fossero infantili, morissero così, sotto quello sguardo gelido e inumano. Qualunque fosse stato il suo problema, lei l'avrebbe aiutato a risolverlo.
"Trema Kawamura! Mi occuperò io di te" pensò con un gran sorriso, incurante del fatto che forse quella che avrebbe dovuto tremare era lei.

*

"Ma che cazzo sto facendo?" pensava Kunimitsu mentre camminava con cautela avvolta nel buio della Zona Industriale, evitando la luce dei pochi lampioni solitari che rischiaravano la notte. Quel luogo lugubre le dava la spiacevole sensazione di essere l'ultima abitante di una città fantasma.
"Forse mi sto cacciando in un guaio ancora peggiore. Chi mi dice che quel tipo mascherato sia una persona affidabile? Penso che farei meglio a rifugiarmi da qualche altra parte". Ma ormai aveva già svoltato l'angolo e si era trovata di fronte l'insegna della Domestik s.P.a. Visto che ci aveva messo ore e ore per attraversare la città e arrivare là, tanto valeva tentare.
Kunimitsu si infilò nella stradina che costeggiava la fabbrica e raggiunse il retro, scarsamente illuminato da qualche lampione al neon ormai intermittente; dopo essersi guardata attorno scavalcò la rete che lo delimitava e si trovò in un largo piazzale occupato da un mucchio di containers e una massa di rottami. Avanzò esitando in quel cimitero di carcasse metalliche. "E adesso come faccio a sapere qual è il container giusto?" si chiese seccata.
Un suono acuto e sgradevole la fece scattare sull'attenti. Piccole figure zampettanti, spaventate dal suo arrivo, attraversarono una zona d'ombra e sparirono dietro un container con un sonoro squittio.
–Topi...– mormorò disgustata –Beh, almeno ho trovato l'ingresso–.
Seguì i roditori e si trovò di fronte ad un tombino leggermente socchiuso da cui esalava un odore di marcio. Kunimitsu esitò. Chi avrebbe mai potuto nascondersi in un posto simile? Forse quel tizio le aveva giocato un brutto tiro.
Stava quasi per andarsene quando un balenio di luci in movimento la raggelò, costringendola ad appiattirsi contro la parete metallica del container. Il balenio continuava a non molti metri da lei. Impossibile non riconoscere delle torce elettriche.
"Cazzo. Chi sono questi?". A quel punto le fogne le sembrarono stranamente invitanti e così, abbassatasi, iniziò a spingere il coperchio del tombino con estrema cautela; se quelle persone erano poliziotti il minimo rumore poteva costarle caro. Ormai cominciava a distinguere le loro voci, anche se non riusciva a capire cosa dicessero.
Il coperchio, dopo uno sforzo che le parve durare ere geologiche, si aprì su una scala a pioli che sprofondava in una nera voragine. Kunimitsu si affrettò ad entrare e a chiudersi il cerchio metallico sul capo, poi rimase lì ad attendere col fiato sospeso, illuminata solamente dai fili di luce che passavano attraverso la grata.

Per poco non perse la presa quando due piedi si posarono sul coperchio metallico.
L'abbiamo persa– disse una voce in superficie, stranamente fredda e impersonale.
Sei sicuro che sia entrata nel retro?– chiese una seconda voce.
Certo, l'ho vista con i miei occhi–.
Io non ho visto niente. L'abbiamo persa prima di raggiungere il retro della fabbrica– disse una terza persona.
Tu l'hai persa. Io sono sicuro che sia passata di qui–.
Forse si nasconde tra i container. Continuiamo a cercare!
Andiamo–.
Ancora rumore di passi e i suoi inseguitori si erano allontanati.
Kunimitsu prese a scendere le scalette mentre il cuore le batteva a mille. Ormai non aveva dubbi che quelli fossero poliziotti, forse della Squadra Speciale. Ma quando avevano cominciato a seguirla? Lei non si era accorta di nulla e ora avrebbe voluto prendersi a schiaffi. “Dannazione, forse erano rimasti ad aspettare vicino a casa mia. Certo, è così, razza di idiota che non sei altro! Ti sei fatta inseguire!”.
Dopo una lunga discesa toccò finalmente il suolo; era all'asciutto ma non vedeva assolutamente nulla. Una ventata di aria calda e fetida la raggiunse, provocandole un brivido di disgusto. Dalla stessa parte sembrava che provenisse una debole luminescenza verdognola.
Tese l'orecchio ma udì solo un lontano zampettare di ratti.

Tirò fuori un accendino e lo accese, scoprendo così di trovarsi in un cunicolo abbastanza alto da far passare una persona in piedi; vide che il cunicolo si estendeva dritto e pianeggiante per poi venire inghiottito nel buio ristagnante come nella gola di un mostro e così, fatto un respiro profondo, decise di imboccarlo.
 
Dopo un tempo che le parve un'eternità ma che poteva essere solo una manciata di minuti stava ancora proseguendo nel buio, nella speranza che la fogna la conducesse da qualche parte. Usava l'accendino solo ogni tanto per evitare che si esaurisse troppo in fretta.
Ad un certo punto si fermò, sentendosi incredibilmente idiota. "Ma che sto facendo? Qui non c'è nessuno oltre a me! Visto che lassù mi cercano per stanotte mi fermerò qui, ma è inutile andare avanti. Rischio solo di perdermi". E così si sedette in mezzo al corridoio, dove l'aria si era fatta nel frattempo più respirabile, e attese, nemmeno lei sapeva cosa.
Il tempo passò con incredibile lentezza, finché un rumore la fece scuotere.
Passi.

Passi nel cunicolo. Non sapeva dire di quante persone fossero perché l'eco ne amplificava e moltiplicava il rumore.
Kunimitsu saltò in piedi estraendo il kunai nello stesso tempo, decisa a far fuori almeno qualcuno dei suoi inseguitori prima di essere arrestata e rinchiusa in qualche luogo remoto.
I passi si avvicinarono velocemente, poi si fermarono. Kunimitsu era perfettamente immobile e silenziosa come una volpe in agguato. Qualcuno si era fermato a pochi passi da lei e indugiava ad andare avanti. Poteva sentirlo respirare di uno strano respiro soffocato.
La kunoichi si stava preparando ad attaccare quando una luce abbagliante si accese dal nulla rivelandole ciò che aveva davanti: un viso mostruoso e sfigurato, bianco come un cadavere putrefatto, con occhi gialli e sporgenti.
Kunimitsu urlò. L'essere orrendo urlò e la luce si spense. Un attimo dopo si riaccese.

Kunimitsu passò di colpo da uno stato di terrore a uno di allibita stupefazione. –TU!– gridò furibonda.
Quello non era un viso sfigurato, ma la maschera corrugata del demone Hannya e davanti a lei, con tanto di palandrana nera e criniera rossa, stava il misterioso individuo che poche ore prima le aveva offerto il suo aiuto.
–Oh, ma che piacevole sorpresa!– esclamò con la sua voce metallica non appena si fu ripreso dallo spavento.
–Si puoi sapere perché hai urlato!?– lo rimbrottò lei rinfoderando il pugnale ancora in preda allo shock.
–Mi hai spaventato! E tu perché hai urlato?–.
–Anche tu mi hai spaventato– ammise –Pensavo che fossi un mostro–.
L'uomo decise di sorvolare sulla frase poco complimentosa e le disse: –Non mi aspettavo di trovarti qui oggi. Come mai sei venuta?–.
Kunimitsu indugiò un po' a rispondere, ora che si trattava di confessare il motivo per cui era arrivata fin là. –Ho bisogno di aiuto, la polizia ha scoperto dove abito e non so dove andare–.
–Ah, e io che speravo che tu fossi venuta perché avevi voglia di vedermi!– esclamò lui con tono dispiaciuto.
–Non mi pare il momento di scherzare– replicò lei. –Mi spieghi dove ci troviamo? Non mi dirai che vivi qui!–.
–No, infatti. È un rifugio in cui vengo quando non so dove nascondermi e se proseguiamo per questa parte vedrai che arriveremo…–. Improvvisamente si zittì e si voltò.
Di nuovo passi, questa volta chiaramente di un gruppo di persone, risuonavano in fondo al cunicolo mentre fasci di luce fendevano il buio.
–Non mi avevi detto di aver portato ospiti– osservò.
–Maledizione!– esclamò costernata –Credevo che se ne fossero andati!–.
–Non importa, al buio faremo perdere le nostre tracce– disse lui spegnendo la torcia –Dammi la mano, ti guiderò io–.
I passi accelerarono di colpo: dovevano essersi accorti della loro presenza. Kunimitsu prese la mano dello sconosciuto senza esitare e sì lanciò a correre nell'oscurità. Ormai non poteva far altro che affidarsi a lui.
–Dove stiamo andando?– chiese con apprensione.
–Fuori di qua. Ai condotti d'areazione–.  

*

Jin Kazama fissava la sagoma della finestra che i lampioni proiettavano sul soffitto della sua camera. Quella notte si era imposto di non dormire e, nonostante la stanchezza che gli intorpidiva le membra, fino ad ora c'era riuscito benissimo. Non aveva nessuna intenzione di addormentarsi e ripiombare nei sogni notturni, ora che la sua stessa vita diurna si era trasformata in un incubo.
Quello che aveva avuto quel pomeriggio era stato il decimo attacco in 5 mesi, ed era stato il peggiore: quella voce gli aveva già parlato prima d'ora, ma le scorse volte non si era mai ritrovato in un tale stato di schizofrenia, non gli era mai successo di parlare con se stesso; perché ora sapeva che quella voce bestiale era sua e non poteva rifiutarsi di accettarlo. Era stato lui stesso a dire di uccidere Ling Xiaoyu, sebbene fosse un lui diverso.
"Beh, sto impazzendo, non c'è niente da fare"; ma la pazzia poteva spiegare solo quello che accadeva nella sua mente, non quello che capitava al suo corpo.
Stavolta i cambiamenti nella sua morfologia erano stati più dolorosi del solito e, benché non si fosse visto allo specchio, sapeva che erano stati più evidenti delle altre volte. Aveva sentito le sue membra espandersi, i muscoli gonfiarsi fra la pelle e le ossa. E poi c'era stata quella sensazione orribile, come se qualcosa avesse voluto schizzare fuori dalla sua schiena.
Una malattia avrebbe potuto spiegare quei sintomi e lo stato di alterazione mentale? Non ne era sicuro; e se non era sicuro nemmeno di se stesso di che altro avrebbe potuto esserlo?
Come se non bastasse si era aggiunto un altro problema: Ling Xiaoyu. Lei sapeva e avrebbe potuto dirlo a qualcuno, cosa che non poteva assolutamente permettersi.
Da quando la guerra nucleare era finita il governo aveva cominciato a raccogliere in istituti speciali tutte le persone che avevano subito malformazioni o malattie sconosciute. Jin lo sapeva solo perché lo aveva visto accadere ai suoi vicini di casa: un giorno alcune persone in giacca scura erano venute a prendere il loro figlio nato da poco, dicendo che per via della sua malattia avrebbe dovuto vivere per qualche tempo in un istituto speciale, dove fior fior di medici avrebbero salvaguardato la sua salute; ma erano passati anni, il figlio non era più tornato e l’uniche notizie che ricevessero erano lettere sempre uguali che dicevano “vostro figlio sta bene e fa progressi”, finché i due dovettero autoconvincersi che fosse la verità.
Dicevano che era per il loro bene, ma questo non era un dato di fatto; il dato di fatto era che persone come quel bambino svanivano nel nulla e Jin non dubitava che avrebbe fatto la stessa fine se le autorità avessero scoperto quello che gli stava succedendo; perciò aveva preso la risoluzione di parlare con quella ragazza per decidere se avrebbe potuto fidarsi di lei.

*

L'uomo mascherato si accasciò al suolo lasciandole la mano. Kunimitsu frenò di colpo, allarmata.
–Che hai!?– chiese con apprensione.
–Niente, ho solo bisogno di riprendere fiato… Non sono più un ragazzino, eh eh– ridacchiò lui mentre il respiratore emetteva degli sbuffi affannosi. –Ormai… dovremmo averli seminati–.
Kunimitsu si voltò a fissare il buio, augurandosi che i loro inseguitori si fossero persi nel labirinto delle fognature. Non aveva idea di come la sua guida fosse riuscita ad orientarsi in quell'intricato groviglio di canali, al buio per di più.
Lo sconosciuto si rimise lentamente in piedi e accese la sua torcia elettrica illuminando una scaletta di ferro che pendeva sopra le loro teste. –Saliamo–.
I due salirono e uscirono da un tombino del tutto simile a quello da cui erano entrati.
Kunimitsu si guardò attorno, ora che i cunicoli erano illuminati da piccole lampadine, e vide che lo scenario era cambiato: non si sentiva più alcun fetore e i vicoli di pietra si erano allargati trasformandosi in spaziosi corridoi di cemento. Alzò la testa: il soffitto era percorso da una dozzina di tubi simili a serpenti d'alluminio.
L'uomo mascherato richiuse il tombino e ci spostò sopra un bidone metallico già pronto in un angolo. Evidentemente non era la prima volta che passava di là.
–E così ci siamo liberati dei nostri sgraditi ospiti– disse lui spolverandosi le mani.
–Dove ci troviamo?– chiese la kunoichi.
–Alle porte della città, per così dire. Oltre queste mura ci sono i macchinari che prendono l'aria dall'esterno quando il vento allontana le nubi tossiche. Poi la filtrano e la mettono in circolazione dentro la cupola– spiegò.
–Non ero mai stata così lontana dal centro di questa città-prigione– disse lei con aria sollevata –Mi sembra di essere a un passo dalla libertà–.
–Non c'è libertà oltre questi cancelli– disse lui con un tono di voce che si era fatto improvvisamente tetro –Solo desolazione–.
Kunimitsu lo guardò stupita per quel repentino cambio di umore e per la prima volta che si trovava con lui sentì un brivido attraversarle la schiena. Chi era questa persona? Ora che si trovava fuori pericolo e aveva più tempo per pensare, si era resa conto di non sapere assolutamente niente di lui, nemmeno il suo nome.
–Vogliamo andare?– chiese lui ritornando allegro. Lei annuì, un po' interdetta.
E così i due ripresero a camminare con passo sostenuto nei grigi corridoi, che alla luce fredda delle lampade prendevano un aspetto tetro, di catacomba. "Persino il buio delle fognature era più invitante" pensò lei, ma forse era solo una sensazione dovuta al fatto di trovarsi ai confini della civiltà con un perfetto sconosciuto. E se fosse stata una trappola?
Mentre le camminava davanti con la sua massa di capelli rosso fuoco lei lo osservò attentamente, studiandolo. Era ovvio che fra loro due ci fosse una certa somiglianza, e questo l'aveva stupita già la prima volta che si erano incontrati, ma c'era qualcos'altro che le dava da pensare. "Ha un'aria così familiare…" rifletté, "Ok, questo non mi tranquillizza per niente!".
Procedevano in completo silenzio da alcuni minuti quando la voce di Kunimitsu interruppe la quiete.
–Questo pomeriggio mi stavi seguendo, vero?–. La rivelazione le aveva fatto capolino nella mente, chiara come l'evidenza.
L'uomo mascherato non si scompose. –Sì–.
Quella conferma così distaccata la mise sulle spine, dicendole che probabilmente si trovava sulla via per scoprire l'identità di quel misterioso personaggio. –E perché?–.
–Marshall Law mi ha parlato di te un po' di tempo fa–.
Il nome dell'amico barista la tranquillizzò. Allora era davvero a questo strano tipo che si riferiva il messaggio riferitole da Anna. –E così conosci Marshall–.
–Beh, un po' tutti conoscono Marshall– ammise lui.
–Io però non ti ho mai visto al White Crow, eppure ci passo tutti i giorni– osservò lei, stando attenta alle sue reazioni.
–È vero, non vengo mai al White Crow… Troppi impegni da sbrigare, sai com'è! Si può dire che oggi abbia fatto un'eccezione apposta per te– ridacchiò. –E a giudicare da come hai messo k.o. quel poliziotto penso di aver fatto bene–.
Kunimitsu si fermò di botto. La lampadina che illuminava quel tratto di corridoio si spense e si riaccese sfrigolando. –Ok, la chiacchierata è finita!– esclamò lei minacciosamente –Dimmi chi cazzo sei e che cazzo vuoi da me–.
Lo sconosciuto si voltò lentamente, mostrandole il feroce e sardonico sogghigno del demone Hannya. –Non conosco il mio vero nome ma tutti mi chiamano Yoshimitsu e ci ho messo un sacco di tempo a trovarti, Kunimitsu. O forse dovrei dire… Motoko–.
Trasalì. Era da anni che non sentiva quel nome, nessuno che fosse ancora vivo l'aveva mai chiamata così. L'unico modo che uno avrebbe avuto per risalire al suo nome era consultare la Banca Dati Elettronica di Nuova Edo, e quella era accessibile solo a quelli del governo e ai cyberpoliziotti. E agli agenti della Squadra Speciale.
La donna dai capelli rossi cominciò ad indietreggiare senza rendersene conto. –Motoko è morta anni fa. Io sono Kunimitsu, la volpe–. Quasi meccanicamente estrasse il suo kunai.
Yoshimitsu fissò la lama lucente che rifletteva il bagliore elettrico della lampadina rotta. Ridacchiò, per poi replicare con tono insinuante: –E pensare che un tempo eri una bambina così gentile, Motoko. Questa Kunimitsu invece mi pare che abbia un caratteraccio…–.
–Ti sbagli, io non ti conosco!– esclamò lei brandendo il pugnale nella direzione dell'uomo –Mi ricorderei di un tipo strano come te–.
Yoshimitsu sospirò, ignorando anche quest'altra frase poco complimentosa. –Effettivamente all'epoca tu eri troppo piccola e io ero un po' diverso da ora… Sai, non portavo ancora la maschera e nemmeno tu la portavi, del resto. E nessuno dei due aveva ancora i capelli rossi– disse lui passandosi una mano nella folta criniera. –La mia purtroppo è solo una parruca, eh sì–.
–Smettila di fare il cretino– sbottò lei –Sei un Agente Speciale in borghese, è così? Hai fatto tutta questa messa in scena per arrestarmi e probabilmente hai ingannato anche Marshall! Forse speravi che ti avrei dato informazioni su altri ricercati, è perciò che mi cercate?–.
L'uomo si mise una mano sul petto, offeso. –Io? Agente Speciale? Se io fossi uno di loro tu a quest'ora saresti già morta– tuonò, poi prese ad avanzare verso di lei. –Finiamola con questa farsa, Kunimitsu. Rinfodera il kunai– disse lui protendendo il braccio sinistro verso di lei.
–Non ti avvicinare!–.
Un breve lampo e Yoshimitsu fu costretto a ritirarsi. La manica dell'impermeabile presentava ora un largo squarcio all'altezza dell'avambraccio.
–Scusami, hai ragione. Capisco la tua diffidenza– si affrettò a spiegare lui mostrandole i palmi delle mani in segno di pace –Ma non c'è bisogno di distruggere ulteriormente la mia giacca nuova, ok? Ti spiegherò tutto dopo–
Anche Kunimitsu si era ritratta, stupita. Quando il suo kunai era entrato in contacco col braccio del suo avversario aveva udito un rumore metallico. Nessuna traccia di sangue sporcava la lama.
La kunoichi si rimise in posizione di guardia, studiando l'avversario. –Un braccio meccanico?–.
Yoshimitsu annuì. –Più o meno–.
Kunimitsu continuava a puntargli la lama contro e a squadrarlo con diffidenza, soppesando le sue intenzioni. –Devo ammetterlo, non hai l'aria di essere un Agente Speciale. Ma allora come fai a conoscere quel nome... "Motoko"? E non dirmi "ti spiegherò tutto dopo". Voglio saperlo ora–.
Yoshimitsu annuì e poi cominciò a raccontare: –Ho conosciuto tuo nonno, Sunichiro, durante l'inverno nucleare. Siamo diventati amici, più o meno. Mi insegnò alcune delle sue tecniche di combattimento e poi mi disse che, se un giorno ne avessi avuto bisogno, avrebbe forgiato una spada per me. "Il bushido è inutile quando i tempi si fanno troppo duri, ma una spada vale sempre" diceva–.
A quelle parole Kunimitsu sentì che le lacrime stavano per salirgli agli occhi. Suo nonno ripeteva spesso questa frase anche a lei.
L'uomo continuava a parlare: –Alcuni anni dopo, quando il suo dojo era già fallito andai a visitarlo per dirgli che avevo bisogno di una katana. Lui accettò e mi presentò la sua nipote di sei anni dicendomi che presto avrebbe cominciato a insegnarle il ninjutsu. E così ha fatto, evidentemente–. Yoshimitsu sorrise al di sotto della sua maschera.
La ninja lasciò la posizione di guardia e rinfoderò il pugnale, ritrovandosi a sorridere per la nostalgia. –"Il samurai decide le sorti della battaglia, il ninja decide le sorti della guerra". Mio nonno amava i vecchi proverbi. Ti credo–.
–Ne sono felice, la mia giacca nuova non avrebbe resistito ad altri attacchi!– disse lui sollevato –Ora però è meglio che ci sbrighiamo: se stiamo ancora a chiacchierare rischiamo di imbatterci nei tecnici del turno mattutino–.
–Sì–.
 
I due avevano camminato per un'altra mezzora finché non si erano ritrovati di fronte a una porta d'acciaio su cui era posto il cartello "Ingresso del personale addetto alla manutenzione" sormontato da uno di "attenzione, cautela".
–Ci siamo quasi– disse Yoshimitsu mentre si sforzava di far girare la ruota che la chiudeva. Entrarono in un buio androne che aveva l'aria di un magazzino, lungo almeno un centinaio di metri e dal soffitto altissimo. Gigantesche pale arrugginite, simili a quelle di un ventilatore, erano allineate in perfetto ordine accanto ai muri, ognuna sorretta da un sostegno metallico. Il centro dell'enorme area era occupato da un gigantesco portellone d'acciaio mentre sul fondo vi erano dei macchinari simili a gru, coperti di ragnatele. Dall'altra parte una porta anch'essa altissima permetteva l'ingresso nella sala ai macchinari. Ogni cosa sembrava essere stata abbandonata lì da qualche anno: evidentemente quei condotti non erano in funzione così spesso da aver bisogno di molta manutenzione. –Wow– mormorò Kunimitsu osservando tutto questo.
Yoshimitsu si era chinato di fronte a una cassa arrugginita vicina alla porta e ne aveva tirato fuori  un involucro bianco. –Maledizione– imprecò –Ne è rimasta soltanto una... Beh, non mi aspettavo di avere visite stasera e non immaginavo che tu ti trovassi in tali condizioni di pericolo, altrimenti ti avrei cercato una via di fuga diversa. Ma ormai sembra che tu non possa fare altro che venire con me–
–Che cos'è quella roba?– chiese Kunimitsu vedendo l'altro che la srotolava.
–Una tuta per evitare di farsi friggere dalle radiazioni. Tienila tu, io ormai posso farne anche a meno– rispose lui tendendogli il pesante indumento, a metà tra una camicia di forza e una tuta da astronauta.
Kunimitsu la prese. –Una tuta antiradiazioni? A che mi serve?–.
–La usano i tecnici per la manutenzione dei condotti d'areazione. Noi la useremo per uscire di là– disse Yoshimitsu e indicò un portellone più piccolo incastonato nel pavimento a pochi passi da loro.
Kunimitsu rabbrividì. Uscire… di là? Nel condotto d'areazione? –Nel bel mezzo delle radiazioni? Tu sei pazzo!– gridò completamente sconvolta –Questo aggeggio non può funzionare! Moriremo entrambi, prima tu e poi io!–.
Yoshimitsu respirò profondamente, sembrava un po' teso. –Non ti preoccupare, non è pericoloso se usi quella tuta e non ti esponi alle radiazioni per più di cinque minuti–.
–Ma si può sapere perché dovremmo uscire all'aperto? Che cosa c'è là fuori?–.
–C'è un veivolo schermato nascosto dietro una collina. Ci porterà lontano da questa città. È l'unico posto in cui tu possa essere al sicuro dagli Agenti Speciali, se questi ti stanno dando la caccia–.
Kunimitsu lo guardò a bocca aperta. Abbandonare la città? Non aveva ancora avuto il tempo di realizzare che forse avrebbe dovuto fare una cosa del genere. Pensò a casa sua messa a soqquadro dagli Agenti Speciali e a quelli che l'avevano pedinata fin dentro le fogne della Zona Industriale. Non sapeva perché fosse ricercata così senza posa dalla polizia, ma era evidente che se fosse rimasta lì l'avrebbero stanata nel giro di qualche ora.
–Beh, immagino di non avere altra scelta per stavolta. Ma tu come farai senza tuta?–.
Yoshimitsu fece spallucce. –A me non serve, sono schermato a sufficienza–.
–Di' un po', sei sicuro che riuscirò a raggiungere il tuo velivolo in cinque minuti?– chiese con sospetto.
–Per niente, ma tanto vale tentare, no?– disse lui con aria serafica.
Kunimitsu lo fissò con orrore.

*

Hwoarang, piegato in due con la testa poggiata sull'asfalto di un vicolo, sputava sangue sotto lo sguardo ostile di tre uomini ben piazzati e armati di pistola. Il Taekwondo non serviva a molto in questi casi.
–Hai fatto bene a farti vedere in giro stamattina, piccolo bastardo– ringhiò uno dei tre, vestito di nero e con lo sguardo coperto da occhiali da sole –O non avremmo potuto renderti la lezione che ti meritavi–.
–Il nostro capo non tollera che i suoi spacciatori spariscano senza restituire i soldi– intervenne minacciosamente un altro, quasi gemello del primo.
–Il vostro capo mi sembra ragionevole, vorrei stringergli la mano– disse Hwoarang col fiato spezzato a causa delle botte ricevute.
–Maledizione, smettila di fare lo spaccone!– inveì il primo preparandosi a dare un calcio.
Il terzo, che fino ad ora era stato a controllare l'uscita del vicolo, si voltò: –Arriva–.
–Ritieniti onorato– continuò il secondo gorilla –Il nostro capo si sporca raramente le mani con dei topi di fogna come te–.
Un quarto uomo, se possibile ancora più nerboruto dei tre, avanzò nel vicolo. Quando fu vicino, Hwoarang, che si trovava ancora carponi, lo squadrò con la coda dell'occhio guardandolo dal basso verso l'alto: scarpe costose, completo rosso scuro cucito su misura, anelli d'oro alle dita, capelli lunghi fino alle spalle, basette spesse e sopracciglia selvagge.
"Cazzo" pensò il giovane dai capelli arancioni "Feng Wei. Sono morto".
–L'avete conciato piuttosto male– disse il capo con assoluta nonchalance alla vista del ragazzo sanguinante che si trascinava a fatica verso un muro.
–Continuava a fare l'ironico– spiegò il primo scagnozzo.
–Capisco...– disse Feng Wei –L'ironia è un'ottima dote ma può risultare pericolosa per chi si comporta slealmente con me, ragazzo–.
–Me ne sono accorto– disse Hwoarang mentre si metteva a sedere contro la parete.
"Visto?" parve dire il primo scagnozzo che stava per lanciarsi a picchiarlo di nuovo quando il boss lo bloccò con un cenno della mano. Dopodiché si mise a passeggiare su e giù davanti allo sguardo pesto del ragazzo.
–Quante scene che fate voi mafiosi– mormorò il ragazzo dai capelli arancioni mentre si massaggiava lo stomaco dolorante..
–Mi risulta– cominciò Feng senza dar segno di averlo sentito –che da un mese intero non ci fai più avere tutti i soldi che ricavi dalla vendita della droga che ti passiamo. Io concedo ai miei spacciatori di trattenere una percentuale dal ricavato, ma tu hai preferito fare l'ingordo e ti sei tenuto più di quanto avresti dovuto. Pensavi davvero di farla franca?–.
Hwoarang scosse lentamente la testa. –Giuro che restituirò tutto... Ero solo un po' a corto di soldi. Appena avrò venduto il pacco di ieri restituirò tutto quello che devo–.
–Il punto non è questo.– lo raggelò Feng –Il punto è che hai commesso un errore imperdonabile. E gli errori si pagano–.
Il ragazzo rimase zitto. In fondo il boss aveva ragione sul suo conto. Tanto valeva che lo uccidessero subito e gli risparmiassero quel teatrino da film di serie B.
–Però– continuò –visto che sei ancora un novellino per questa volta chiuderò un occhio. Non ti ucciderò a patto che tu restituisca tutto prima della mezzanotte di sabato prossimo. Mancano sette giorni, pensi di avere abbastanza voglia di vivere?–.
–Sì. Sette giorni. Non c'è nessun problema–.
–Ottimo. Andiamocene adesso, ho perso fin troppo tempo–.
E così Fei gli voltò le spalle e se ne andò seguito dai tre scagnozzi, dopo che tutti e tre ebbero sputato addosso al giovane spacciatore.
Hwoarang restò solo nel vicolo, completamente inerte.    
"Il problema" pensò "è che il pacco di ieri non è ancora arrivato. Devo cercare Kuni".
 
Craig Marduk se ne stava sconsolatamente seduto sull'ingresso del White Crow quando vide un ragazzo dai capelli arancioni e dal volto tumefatto che barcollava verso di lui. Il volto solitamente inespressivo si contrasse in una smorfia di sconcerto.
–Ehi piccoletto, chi ti ha ridotto così?– chiese al ragazzo quando gli fu davanti.
–Lasciamo perdere…– rispose Hwoarang mentre, piegatosi a sostenere il peso della schiena puntando le braccia contro le ginocchia, riprendeva fiato. Solo quando si sollevò notò che sotto la finestra dell'ufficio c'era una grande quantità di cocci di vetro.
–Che è successo qui? Marshall ha buttato un altro esattore dalla finestra?–.
Marduk scosse la testa, facendo un'espressione indecifrabile. –È meglio che ne parli con lui–.
Quando Hwoarang aprì la porta si trovò di fronte a uno spettacolo che non avrebbe mai immaginato. Il locale, solitamente gremito fin dal mattino, era completamente vuoto, il bancone di legno era del tutto carbonizzato e pieno di fori e le innumerevoli bottiglie di alcol che gli stavano dietro erano tutte infrante.
Marshall Law e Anna Williams, seduti attorno a un tavolo circolare nel centro della sala, si voltarono verso di lui e poi si scambiarono un'occhiata, allarmati.
Hwoarang li guardò a bocca aperta. –Chi ha combinato questo casino?–.
Marshall, dopo un attimo di esitazione, decise di prendere in pugno la situazione e di sobbarcarsi l'onere di raccontare tutto. Sapeva che l'avrebbe presa malissimo, forse avrebbe sfasciato il locale più di quanto già non fosse.
–Vieni Hwoarang, siediti– disse indicando una sedia al loro tavolo.
Il ragazzo avanzò barcollando e si sedette, osservando prima Marshall e poi Anna, che se ne stava a capo chino senza guardarlo. Il barista cinese, senza dire una parola, gli porse un fazzoletto con cui iniziò a tamponarsi il sangue. Non era raro vederselo arrivare in quello stato.
–Allora?– chiese il ragazzo.

–Ecco…– esordì con nervosismo il proprietario del White Crow, guardando il coreano negli occhi –Ieri pomeriggio Kunimitsu è stata qui–.
Hwoarang ne fu sorpreso e allarmato. Cosa c'entrava la sua amica con tutto quello sfacelo?
Law continuò a parlare con circospezione. –A quanto mi ha detto Anna era venuta qui a ritirare un pacco di droga…–.
–Sì, sì– sbottò Hwoarang con impazienza –Era venuta per conto mio. Ma che c'entra?–.
Il cinese abbassò lo sguardo.–Mentre era ancora qui sono arrivati degli agenti della polizia per una perquisizione antidroga, e l'hanno scoperta…–.
Hwoarang scattò in piedi. –Che cosa!?–.
–Ma è riuscita a scappare!– esclamò Law prima che l'altro cominciasse a fare una scenata –è scappata dalla finestra. Non l'hanno presa Hwo, non ti preoccupare! Corre troppo veloce per quella gente–.
Hwoarang prese a camminare su e giù nervosamente, tentando di calmarsi. –E dopo cosa è successo?–.
–I poliziotti sono andati a cercarla ma non l'hanno trovata. Poi non ne abbiamo saputo più niente per qualche ora–. Sospirò. Ora arrivava la parte dolente.
–Due ore dopo sono arrivati degli agenti della Squadra Speciale. Non so perché. Hanno cominciato a farci domande sul suo conto. Volevano sapere quale fosse il suo nome e volevano che descrivessimo il suo viso. Ma noi ovviamente non lo sapevamo, e loro ci hanno creduto, a quanto pare–.
–Certo, sì, capisco–.
–Poi ci hanno chiesto dove abitava. Hanno detto che ci avrebbero portato nel carcere di massima sicurezza nell'Isola speciale fuori città. Quella da cui non torna più nessuno–.
L'Isola. Una gigantesca prigione dotata di schermo antiradiazioni, costruita a venti chilometri da N.E. Il terrore di ogni abitante della Zona Rossa.
Hwoarang spalancò gli occhi. –E voi?–.
–Gliel'abbiamo detto, Hwoarang– ammise Marshall –Non avevamo scelta–.
Il ragazzo rimase a fissarlo, ammutolito, mentre le mani cominciavano a tremargli.
Il cinese si affrettò a continuare. –Dopo che se ne sono andati Anna è corsa ad aspettare Kunimitsu sotto il suo edificio mentre i poliziotti perquisivano casa sua. Poco dopo il tramonto Kuni è arrivata e Anna le ha raccontato tutto. Non ti preoccupare, sai bene che se l'è sempre cavata... So per certo che un mio conoscente le ha offerto aiuto e sono convinto che adesso si trovi al sicuro–.
Il ragazzo dai capelli arancioni abbassò la testa e strinse i pugni, in silenzio. Anna e Marshall lo osservarono con la speranza che si fosse tranquillizzato abbastanza.
Un attimo dopo Hwoarang scaraventò con un calcio il tavolo a cui stavano seduti, facendoli sussultare terribilmente. Anna si coprì la bocca con le mani.
–Come avete potuto!?– gridò furiosamente perforando i due amici con lo sguardo –Traditori! Non vi rendete nemmeno conto di cosa avete fatto!–.
Marshall scattò in piedi e tentò di afferrarlo per le spalle –Cerca di calmarti, Hwoarang! Kunimitsu sta bene! Non è questo che conta?–.
Hwoarang lo respinse mentre lacrime d'ira gli salivano agli occhi. –Vigliacchi… siete dei vigliacchi…–.
Anna, anche lei sul punto di piangere, scattò in piedi. –Hwoarang, non ti devi preoccupare perché…–.
Ma il ragazzo corse in strada senza nemmeno darle l'occasione di finire la frase.
 
Hwoarang correva come un lampo per le sudicie strade della Zona Rossa, incurante dei dolori che lo afferravano come una morsa a ogni passo. Per quanto lo riguardava sarebbe anche potuto morire in quel momento, ormai non gli importava. Non gli importava più niente.
Che cosa avrebbe fatto se Kunimitsu fosse morta per causa sua? Perché sì, la colpa era sua e non di Marshall ed Anna. Era stato lui che le aveva chiesto di ritirare la droga per conto suo, solo perché aveva paura che gli scagnozzi di Wei lo avrebbero ammazzato di botte se si fosse fatto vedere in giro.
Non riusciva a pensare ad altro. 
"Che cosa ho fatto… è tutta colpa mia… sono io il vigliacco!".
Non credeva assolutamente a quello che gli aveva detto Law. Se gli Agenti Speciali ti cercano, non sei al sicuro da nessuna parte. Nessun fantomatico "conoscente" di Marshall avrebbe potuto nasconderla a lungo da loro. Era finita. Non l'avrebbe rivista mai più. E pensare che ieri le aveva promesso che non le sarebbe successo niente!
Hwoarang imboccò l'ingresso dell'edificio in cui abitava Kunimitsu. Venti rampe di scale per arrivare al suo cubicolo, nessun ascensore. Quando arrivò davanti alla porta scardinata del suo appartamento, sentì il cuore scoppiargli, non sapeva se per la fatica o per il panico.
Entrò e si guardò intorno con orrore crescente. La scarsa mobilia era rovesciata, il materasso era stato squartato, ogni oggetto che aveva costituito la vita di Kunimitsu era scomparso. In breve qualche senzatetto sarebbe venuto ad occupare quello spazio e di lei non sarebbe rimasto più niente.
Hwoarang cadde in ginocchio mentre le lacrime finora trattenute cominciavano a rigargli il viso, mescolandosi al sangue che ancora lo sporcava.
–Perdonami…–.







E allora... ecco che anche questo capitolo è finito! Finalmente abbiamo scoperto chi era il misterioso individuo mascherato anche se pare che Yoshimitsu sia restio a dire tutta la verità a Kunimitsu. Chi è? Dove la starà portando? Credo che lei cominci a non vedere l'ora di prenderlo a calci e non posso darle torto.
Come abbiamo visto Lei Wulong aveva ragione, Kunimitsu era davvero Motoko Kunikata, la nipote del forgiatore di spade (i nomi li ho inventati, ma nella storia di Tekken Kuni è davvero nipote di un forgiatore di spade), ma il detective ha ancora parecchio da indagare.
Mi sto rendendo conto di bistrattare selvaggiamente Jin e Hwoarang... ma non dubito che anche loro si faranno valere prima o poi.


Miss Trent: Grazie grazie... hai addirittura paragonato la scena del White Crow a Matrix... Troppo onore! Kunimitsu, come si sarà capito, è il mio personaggio preferito. Come vedi avevi ragione: Nina è apparsa e credo proprio che la rivedremo ancora. Spero che per ora non sia risultata troppo OOC.
DarkTranquillity: grazie per la recensione. Mmm... non sapevo che questo stile si potesse chiamare "Point of view". Beh, grazie a te ho scoperto qualcosa di nuovo! Per quanto riguarda "V per vendetta" l'ho visto quando avevo già cominciato a scrivere la storia e devo dire che mi ha colpito molto, per cui immagino che l'atmosfera mi abbia involontariamente contagiato nel proseguire il racconto (quando l'ho visto mi sono detta "Caspita, ma V è uguale a [spoiler]"). Mi dispiace che Jin e Ling non ti stiano piacendo... spero che riuscirò a farti cambiare idea!
Grazie anche a Elilly e AngelTexasRanger.

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Capitolo 4
*** Il Segno della Rivoluzione ***


4. Il segno della rivoluzione.
 




“Se la Squadra Speciale ti cerca, non c’è posto a Nuova Edo in cui tu possa essere al sicuro”. È questo che avevano sempre insegnato a Hwoarang, ed era per questo motivo che era così preoccupato per la sua amica con la maschera da volpe. Ma Hwoarang non sapeva che all’alba di quello stesso giorno Kunimitsu aveva lasciato la città.
 
6 marzo 2191
Ore 6:05 am
 
Un sole pallido e velato faceva capolino nell’immenso tunnel circolare del condotto d’areazione e la sua luce rosata veniva scomposta dal movimento di gigantesche pale metalliche.
Kunimitsu, nonostante la situazione, non poté che fermarsi anche per un solo istante ad ammirare quello spettacolo che la mole dei palazzi le aveva sempre nascosto. La prima alba della sua vita.
–Sarà anche l’ultima se non ti sbrighi!– urlò Yoshimitsu mentre le correva davanti, diritto a una piccola porta aperta nell’impalcatura metallica dell’areatore.
Kunimitsu si riscosse e cominciò a correre con la massima velocità che l’ingombrante tuta antiradiazioni le permetteva. Non pensò più a niente. Niente dubbi, niente rabbia, niente paura, niente sospetti, niente nostalgia, niente “e adesso che cazzo gli dico a Hwoarang”. Solo un conto alla rovescia, scandito dal suo battito cardiaco.
“5 minuti, 5 minuti, 5 minuti. Ti prego, fai che questa tuta funzioni”.
Yoshimitsu scomparve oltre il margine del tunnel, si aggrappò a una lunga scaletta di metallo e scivolò giù per una trentina di metri, finché il suolo polveroso arrestò la sua discesa.
–Fai attenzione!– gridò alla piccola sagoma bianca che  lo stava già imitando e che un secondo dopo era già accanto a lui.
I due ripresero a correre, lui davanti e lei dietro, attraversando l’immensa spianata che circondava la città verso un mucchio disconnesso di rocce e colline che si stagliavano in lontananza. Kunimitsu non avrebbe saputo dire a che distanza fossero, ma ciò che era certo è che erano lontante, troppo lontane.
Un giorno le avevano detto che se c’è una perdita di radiazioni in un reattore nucleare, basta starci vicino per una manciata di secondi per essere condannati. Bastò questo ricordo a ricacciare nella sua mente la paura. “Quante radiazioni ci saranno adesso, dopo tutti questi anni? In quanto tempo decade l’uranio? Tempo… quanto tempo  ho ancora? 4 minuti?”.
Quella figura che le correva davanti con la chioma rossa al vento e la giacca svolazzante divenne il suo unico punto di riferimento. Focalizzò la sua attenzione su di lui, perché lui l’avrebbe tirata fuori da quella situazione orribile, no?
Ormai non poteva più impedire a se stessa di abbandonarsi a pensieri sconnessi. “Cazzo, se muoio per colpa sua lo perseguiterò anche nell’aldilà. 3 minuti, 3 minuti, 3 minuti”.
Le sagome rocciose erano ormai vicine e davanti a loro si aprì quello che sembrava essere un piccolo canyon. Ci corsero dentro alla velocità della luce mentre le spesse mura di pietra grigia e cemento diventavano via via più alte e incombenti.
“Se muoio chi si prenderà cura di quel teppistello scansafatiche di Hwoarang? Chi lo prenderà a calci nel culo? Maledizione, solo 2 minuti”.
Yoshimitsu fece uno scarto è scatto a destra, cominciando a inerpicarsi con agilità sconcertante saltando da una roccia all’altra. Kunimitsu lo seguì come meglio poteva, impedita com’era dalla tuta ingombrante.
–Ci siamo!– urlò lui una volta che ebbero scavalcato la scarpata. Davanti a loro, riparato da uno sperone roccioso, era parcheggiato un veivolo alato, una via di mezzo fra un overcraft e una di quelle astronavi che si vedevano nei vecchi film di fantascienza.
Kunimitsu rimase a fissare per interminabili secondi l’uomo intento a trafficare con le tasche della sua giacca. Fra poco le radiazioni avrebbero corroso la barriera protettiva della tuta e si sarebbero fatte strada al suo interno.
–1 minuto!– urlò lei, allo stesso tempo spaventata, esasperata e arrabbiata. Finalmente l’uomo estrasse un telecomando e il portellone del velivolo si aprì.
Kunimitsu senza quasi rendersene conto si ritrovò scaraventata per terra all’interno di una cabina di vetro, senza sapere più quale fosse il sotto e quale il sopra. Si rialzò in piedi con l’aiuto dello strano tipo e in quel momento sentì il salvifico suono di un liquido che scrosciava dall’alto sulla superficie della sua tuta: il fluido antiradiazioni. Fortunatamente il veivolo era dotato di cabina di contenimento.
Uno Yoshimitsu completamente inzuppato l’afferrò per le spalle e cominciò a scuoterla. –Ce l’abbiamo fatta! Ahaha, ce l’abbiamo fatta!– esultò.
Kunimitsu, trascinata dall’adrenalina, non sapeva se mettersi a ridere o a piangere e se abbracciare quel tizio o prenderlo a pugni. Alla fine optò per una risata euforica intervallata da imprecazioni.
–Sì! Ahah, hai visto che roba? Eravamo due scheggie, cazzo, mai corso così! Pensavo che mi avresti ucciso, maledetto schizoide imparrucatto!–.
Yoshimitsu decise di ignorare anche quest’alta frase poco complimentosa, la terza in poche ore., e si limitò a rispondere con una pacca sulla spalla.
Ripresasi dall’attacco di ilarità, la kunoichi cominciò a togliersi la tuta affinché il benefico effetto del fluido potesse eliminare eventuali tracce di radiazioni che avessero raggiunto il suo corpo. Finalmente poteva tirare un sospiro di sollievo.
 
*

Era circa l’una di notte e in quella strada al confine fra il centro della città e la zona residenziale l’unica anima viva che si scorgeva era una coppietta, un uomo e una donna, che se ne andavano tranquillamente a braccetto, e qualche gatto randagio. Quella notte sembrava che al mondo non esistesse nessun altro oltre a loro due e perfino i palazzi, quasi tutti bui e silenziosi per via dell’ora, sembravano disabitati.
Le uniche finestre illuminate erano quelle dei Laboratori Biotech che occhieggiavano di sbieco fra un edificio e l’altro. Si lavorava sempre fino a tardi lì.
–Uffa– sospirò la donna –mi fanno malissimo i tacchi… meno male che siamo quasi a casa!–.
L’uomo sorrise e prese a sbeffeggiarla bonariamente –Te l’avevo detto di metterti le scarpe basse, tesoro–.
–L’hai detto ma io so bene che in verità mi preferisci coi tacchi alti!– disse la donna con tono da finta offesa.
–Ops, mi hai scoperto!– se la rise lui.
I due continuarono a camminare in silenzio per un po’ finché, passando davanti ad una stradina a fondo chiuso, l’uomo sentì un brivido inspiegabile percorrere la propria schiena e avvertì il bisogno di fermarsi.
–Hai sentito?– chiese l’uomo.
–No, che cosa?– chiese lei.
–Quello strano verso…–mormorò lui guardando verso il vicolo cieco privo di illuminazione.
La donna si sporse a osservare nella stessa direzione del suo compagno. –Sarà stato un gatto–
L’uomo scosse la testa, un po’ preoccupato  –Non credo, sembrava più il lamento di una persona…–. Fece per andare verso la strada chiusa ma la sua compagna lo tirò per il braccio.
–Non vorrai mica infilarti in quel vicolo, vero? Dai, andiamo a casa…è tardi– si lamentò lei.
L’uomo appoggiò una mano sulla spalla della donna e disse: –Tu aspetta qui, io vado a vedere. Farò in un attimo–.
La donna trattenne a stento uno sbuffo mentre stava a guardare il suo compagno che si infilava inesorabilmente in quella zona buia, dove tutti i lampioni sembravano stranamente fuori uso: “Uffa, proprio un medico con la vocazione mi dovevo sposare!”. Era sicura che nel giro di un minuto sarebbe tornato indietro facendo spallucce e dicendole che aveva ragione, che in quella strada non c’era nessuno se non qualche gatto o magari un uomo ubriaco; era la cosa più probabile.
Non si immaginava che nel giro di qualche minuto avrebbe sentito quel suono orribile che, se mai avesse potuto sentire qualcosa del genere, avrebbe paragonato al verso emesso da un vitello quando viene sgozzato dal macellaio.
Il cuore le saltò nel petto, facendole morire in gola le parole. –…Ken? Va tutto bene?– chiese. Per alcuni secondi rimase paralizzata dalla paura in attesa di una risposta che non venne. –Forse si è già allontanato troppo– disse fra sé e sé, cercando di trovare una risposta razionale a quel silenzio. –Lo raggiungo–.
Inutile pensare a quel rumore strano, probabilmente non era niente.
E così anche lei imboccò la stradina buia in cerca del marito. Provò a chiamarlo di nuovo, ma l’unico suono che si sentiva era quello dei suoi tacchi sull’asfalto.
Aveva fatto una decina di metri quando vide davanti a sé la sagoma in controluce di un uomo chino su un’altra sagoma, questa stesa a terra nel bel mezzo di una piccola pozza traslucida.
A quella vista la donna si preoccupò e, indicando la persona stesa al suolo, chiese al marito: –Oh Dio! Che cos’ha?–.
L’uomo si alzò lentamente in piedi senza darle risposta e alla donna sembrò stranamente gigantesco. Molto più alto di suo marito.
Improvvisamente capì come stava la situazione, capì che, fra le due, la sagoma di suo marito era quella stesa a terra e che il liquido che luccicava sull’asfalto non era certo acqua.
La pagherete…– disse la voce rauca e impersonale del gigante, mentre questo si avvicinava alla donna con passi pesanti e strascicati, tanto lenti quanto inesorabili.
Dopo alcuni minuti l’unico suono a riecheggiare nella strada, non udito da nessuno, era quello di una lugubre e tonante risata.
 
 
*
 
Yoshimitsu scosse la parrucca ancora zuppa di fluido antiradiazioni e digitò velocemente alcuni comandi sull’ampio pannello di controllo. Il veivolo si alzò dolcemente in aria, fluttuando come se fosse privo di peso, e iniziò a scivolare fuori dall’incavatura rocciosa.
Kunimitsu, seduta sulla seconda poltrona di comando, osservava le manovre dell’uomo mascherato, esterrefatta per il semplice fatto che fosse ancora vivo dopo essere stato 5 minuti esposto ai residui.
–Beh, penso che sia arrivato il momento delle spiegazioni – osservò, squadrandolo –Tanto per cominciare spiegami cosa sei. Un essere umano non potrebbe resistere là fuori senza protezioni–.
Yoshimitsu ridacchiò mentre faceva scavalcare al veivolo una piccola collinetta. – Chissà, forse non sono umano–.
–Ah no, eh? Allora cosa sei? Un androide?– lo prese in giro lei. Accidenti quanto la irritavano le frasi a effetto di quello svitato!
–Beh, spero di essere un tantino più intelligente di un androide…– rispose lui con assoluta serietà.
Kunimitsu spalancò gli occhi. –Cosa vorresti dire? Che sei un cyborg?–. Lei non ne aveva mai visto nessuno ma in fondo non erano poi così rari. Sapeva che spesso venivano impiegati come medici per via della loro assoluta precisione o come soldati per via della loro inclinazione a non ribellarsi ai propri creatori. Sarebbe stato abbastanza plausibile.
L’uomo mascherato scosse la testa –No, nemmeno. Ma è un argomento che non vorrei affrontare adesso. Ne parliamo quando siamo arrivati, ok? –.
La ragazza dai capelli rossi annuì con un sospiro di rassegnazione, immaginando che non avrebbe potuto cavargli di bocca niente che lui non avesse voluto dire spontaneamente, e così ritornò a guardare fuori.
Fu solo allora che si rese conto che quelle sagome indistinte intraviste durante la sua folle corsa non erano semplici formazioni rocciose, ma ammassi di cemento e metallo dalle forme geometriche, ricoperti da uno strato di terra e detriti. Kunimitsu vide con orrore quelle lugubri costruzioni scheletriche scorrere davanti ai suoi occhi nel debole chiarore dell’alba, vide i palazzi sventrati dalle esplosioni di quarant’anni prima e crollati su se stessi a formare disegni grotteschi, unica reliquia della città popolosa che un tempo si estendeva al posto di Nuova Edo. Quella vista era fin troppo orribile anche per lei.
–Oh mio Dio…– disse in un soffio.
Yoshimitsu assunse un’espressione interrogativa, sorpreso dall’uscita inaspettata di quella ragazza che fino ad ora aveva solo sentito imprecare rumorosamente. –Oh, quello…– disse accennando al paesaggio desolato –Beh, immagino che faccia sempre questo effetto a chi non l’ha mai visto. Ma ci si abitua in fretta, purtroppo. O per fortuna–.
Kunimitsu non disse niente, provò solo l’istinto codardo di raggomitolarsi sulla comoda poltrona e distogliere lo sguardo mentre la dura realtà le scivolava inesorabilmente accanto. Ma non lo fece e continuò a riempirsi gli occhi di quell’orrore.
I due rimasero a lungo in silenzio mentre la navicella fluttuava su quella devastazione, accompagnati unicamente dal suono elettronico dei comandi.
Dopo un po’ di tempo la kunoichi decise che era meglio riprendere il tentativo di farsi dare delle spiegazioni.
–Se proprio ci tieni a fare il misterioso almeno parlami di mio nonno. Tanto questo non è un segreto, no?–.
L’uomo mascherato annuì e si schiarì la voce. –Dunque, vediamo… Come ti ho già detto sono stato allievo di tuo nonno durante gli anni passati nei bunker. Era un valente maestro di arti marziali e una brava persona. È stato molto generoso con me accettando di insegnarmi quello che sapeva senza aspettarsi nulla in cambio e forgiando una katana apposta per me–.
–Eppure lui non mi ha mai parlato di te, come mai?–.
–Immagino che abbia preferito evitare di parlare alla sua giovane nipote di una persona che si era data all’illegalità. Ed è buffo se si considera che è stato lui a regalarmi questa maschera per coprire la mia identità–.
Kunimitsu saltò quasi sulla sedia a quelle parole. Ora capiva come mai quella persona le sembrava così familiare, ed era perché aveva già visto una volta quella maschera. L’aveva vista nella vetrina che ospitava la collezione di maschere Noh di cui suo nonno andava così fiero, quella stessa collezione a cui apparteneva la sua.
Hannya e Kitsune, dopo tanti anni le due maschere si erano ritrovate.
–Oh beh, questo ha dell’incredibile!– osservò colpita dalle rivelazioni che le si presentavano davanti. Ora riusciva a focalizzare quel posto vuoto sullo scaffale, proprio accanto a quella che un giorno sarebbe diventata la sua maschera.
Yoshimitsu emise la sua solita risata metallica. –Non poi tanto, visto che ho iniziato a cercarti anni fa! Anche se probabilmente non ti avrei mai trovata se Marshall non mi avesse parlato di una esperta di ninjutsu che se ne andava in giro con la maschera di una Kitsune bianca!–.
–E qui ritorniamo alla domanda principale: perché diavolo mi stavi cercando?– insistette lei, stufa di ripetere la stessa questione.
–Potrei dirti che avevo voglia di rivedere l’unica parente ancora in vita del mio vecchio maestro, ma questa non è l’unica verità. La verità più importante è che sto cercando persone come te, Kunimitsu–.
L’uomo si fermò per trarre un sospiro, poi riprese a parlare con un tono insolitamente solenne per lui. –Persone che abbiano capito in che razza di ambiente si trovano a vivere, che si rendono conto che la legge che regna a Nuova Edo non corrisponde alla giustizia, che posseggano la volontà di non lasciarsi trascinare dalla massa e di non colare a picco insieme a questo cadavere di mondo. Ho bisogno di persone che abbiano la forza di lottare contro la Mishima Zaibatsu, per rovesciarla con le buone maniere o con la forza. Io penso che tu possegga tutte queste cose, Kunimitsu, anche se forse non te ne sei ancora resa conto. E tu?–.
Kunimitsu assistette con grande sorpresa a questo improvviso monologo e sentì che una qualche emozione, smossa da quelle parole che le dicevano ciò che aveva sempre provato e desiderato, si era improvvisamente staccata dal suo subconscio e aveva cominciato a volteggiare dentro di lei, trascinando con sé  una ragnatela di pensieri.
–Io… io…– balbettò, confusa. –Non capisco… Chi sei tu? Cosa mi stai chiedendo?–.
Io sono il leader del movimento ribelle Manji – disse lui, e anche se non poteva vederlo, la ragazza immaginò che in quel momento stesse sorridendo con convinzione –e quello che ti sto chiedendo è, Kunimitsu: vuoi unirti a noi?–.
Impossibile dire quali emozioni si risvegliarono in quel momento nell’animo della donna con la maschera sul volto. Stupore? Eccitazione? Euforia? Paura? Agitazione? Confusione? Rimpianto? Tutto ciò le impedì di rispondere immediatamente.
Yoshimitsu continuò a parlare e a dare quelle spiegazioni che aveva rimandato per ore, lasciando che la ragazza raccogliesse i propri pensieri.
–L’ideogramma Manji (卍), come saprai, per i buddhisti è il simbolo dell’armonia universale e del circolo della vita ma per il nostro clan è il segno della rinascita a cui aspirano quelli come me e te, se lo vorrai. Non siamo molti, per ora, 300 circa fra diplomatici, pensatori, guerriglieri, politici e chiunque altro abbia scelto di dedicarsi alla nostra causa, quella di portare la democrazia e la giustizia in questa città. Cosa ne pensi?–.  
Kunimitsu non stava più nella pelle dopo questa rivelazione. –Io… sapevo che doveva esistere per forza una resistenza! Le esplosioni di stanotte… erano opera vostra, vero?–.
Il leader del Manji annuì.
–Non ti preoccupare, avrai tutto il tempo che vuoi per pensarci. Ora guarda, siamo arrivati– disse indicando quel che rimaneva di un grattacielo, steso su un fianco come il relitto di un naufragio. Stranamente la facciata era ancora in buone condizioni ad eccezione di una voragine circolare in cui andò a infilarsi il veivolo.
–Ti piacciono le montagne russe?– chiese Yoshimitsu di punto in bianco –Beh, spero di sì…–.
Kunimitsu non fece nemmeno in tempo a dire “cosa?” che l’aereonave mise il muso in giù e iniziò a precipitare in picchiata nel buio delle rovine. La kunoichi si aggrappò ai braccioli mentre la forza d’inerzia la premeva con forza incredibile sullo schienale della poltrona.
Dopo pochi secondi di terrore il veivolo si raddrizzò con una brusca frenata e si udì il rumore dei sostegni che toccavano terra, seguito dal fragore metallico di un portellone che si richiudeva sopra di loro.
–Eccoci qua– disse il leader del Manji stiracchiando le braccia –Ancora pochi secondi e potremmo uscire… giusto il tempo di decontaminare il veivolo. Ti sei divertita?–.
Kunimitsu, ancora tremante per lo shock, si voltò lentamente verso di lui – Accidenti… a… te…–.
 
*
 
La dottoressa Chang tirò la leva dell’interruttore generale e un attimo dopo le luci dei corridoi della Biotech si accesero una dopo l’altra con un sonoro scatto. Benché l’orario di apertura fosse alle 8 e il sole fosse sorto da poco, lei era già là accompagnata solamente dall’eco dei suoi passi.
Julia era grata che il dottor Boskonovitch le avesse dato il permesso di accedere al laboratorio a qualsiasi ora del giorno e della notte, perché in certi momenti quello era l’unico posto in cui si sentisse davvero a casa.
Entrò nel suo luogo di lavoro, la stanza degli esperimenti sulla riforestazione, e fu avvolta dalla tranquillizzante penombra in cui la stanza era perennemente immersa; l’unica illuminazione proveniva da qualche lampada e dalle colture biologiche: cilindri alti circa mezzo metro con dentro un po’ di terra raccolta fuori della città e un seme ciascuno illuminato da un fascio di luce. Quello che si cercava di far crescere in quella stanza non erano semplici piante, era la salvezza futura del pianeta.
Julia, munita di cartellina, passò in mezzo ai cilindri illuminati scrutandoli attentamente in cerca della più piccola foglia. “Niente da fare, anche questi non hanno dato risultati. Dovremo procurarci nuovi semi e altra terra radioattiva”. Aveva posato la cartellina e stava quasi per andarsene nel suo studio quando sentì un rumore che sembrava provenire dal piano inferiore, dove si trovava il laboratorio di ricerche  sul DNA. Trattene il fiato cercando di capire se per caso non fosse stata la sua immaginazione. Il rumore si ripeté.
“Strano” si disse “non dovrebbe esserci nessuno a quest’ora! Oh, forse è il dottore. Vado a parlarci…”.
La dottoressa scese velocemente al piano di sotto e si fermò davanti allo spesso portellone metallico su cui campeggiava la scritta “Ricerche Genetiche. Responsabile: Dr G. Boskonovitch”. Armeggiò con qualche pulsante e il portellone si aprì con uno sbuffo per poi richiudersi dopo il suo passaggio. Dentro sembrava non esserci anima viva, ma la luce era stranamente accesa.
–Dottore?– disse Julia a voce abbastanza alta poiché il suo superiore era un po’ duro d’orecchi. Nessuna risposta. “Strano, molto strano” pensò addentrandosi nell’ampio androne gremito di cavi, schermi, macchinari di ogni sorta e scaffali refrigerati che contenevano campioni di sangue di molte specie animali. Si guardò attorno, come sperduta. Possibile che se lo fosse solamente immaginata?
–C’è nessuno?–. La domanda si spense nuovamente nel vuoto, ma stavolta una voce posata e melliflua le rispose: –Vedo che qui alla Biotech siete molto mattinieri–.
Julia trasalì. Quella non era la voce del dottor Boskonovitch.
–Chi… chi c’è là?– domandò lei con tono insicuro.
Un uomo in camice, seguito da altri due uomini in giacca scura, comparve da dietro l’alto macchinario a forma di torre in cui erano immaganizzati migliaia di mappe genetiche. Julia non lo aveva mai visto prima d’ora ma riconobbe con un sussulto quell’uomo anziano e dal volto arcigno che le era stato descritto innumerevoli volte.
A quel punto non poté far altro che tentare di mascherare la propria tensione dandosi un’aria fredda, distaccata e professionale. –Non so come sia entrato ma lei non può stare qui. Dovrebbe sapere che i laboratori non si possono visitare prima dell’apertura, Dottor Abel–.
L’uomo tirò su l’angolo delle labbra assumendo un sorriso beffardo: –Questo potrà valere per le visite scolastiche ma non per il Consigliere Scientifico della Mishima Zaibatsu, signorina–.
Julia si sistemò gli occhiali con nervosismo –Dottoressa, prego–.
–Bene, dottoressa…– aguzzò la vista sul cartellino che pendeva dal camice di Julia – dottoressa Chang. Visto che lei è qui per farmi rispettare le regole con la sua solerzia tornerò un’altra volta, ma spero che prima accetterà di farmi un favore, vuole?–.
–Mi dica e io le dirò se sarà possibile–.
Il dottor Abel giunse le mani in un atto che poteva sembrare quello di una preghiera ma anche il gesto di chi si sfrega le mani con compiacimento.
–Bene, la prego di far sapere al Dottore che ho la sensazione che qualcosa di mio sia stato sottratto dai miei laboratori e che adesso si trovi da queste parti. Io sono favorevole alla collaborazione fra scienziati, ma il furto è un’altra cosa… non so se mi spiego. Pensa di poter riferire questo messaggio?–.
–Senza dubbio–.
–Perfetto, andiamo allora–. Il dottore fece un cenno ai due uomini e poi uscì dalla stanza passando accanto alla dottoressa.
Julia rimase perfettamente immobile finché non sentì rumore di passi sulle scale, poi si diresse verso una sedia girevole e vi si lasciò cadere come un corpo morto.
Le gambe le tremavano terribilmente.
 
*

I due avevano appena varcato il portellone a chiusura ermetica del rifugio quando Yoshimitsu si sentì arrivare un colpo tra capo e collo che per poco non lo mandò disteso per terra.
Kunimitsu si voltò assumendo istintivamente la posizione da combattimento e si ritrovò davanti un uomo alto e muscoloso, coi lunghi capelli biondi legati in una coda e il viso dai lineamenti occidentali incorniciato da una barba di parecchi giorni.
–Capo! È questo il modo di comportarsi?– esclamò il nuovo arrivato sgridando impietosamente l’uomo mascherato che ancora barcollava per il colpo inferto –Ci hai fatto preoccupare–.
–Ahi… ahi…– si lamentò Yoshimitsu mentre massaggiava il punto dove si era abbattuta la manata dell’altro uomo –Che dolore…–.
–Sono passate più di 24 ore dal nostro ritorno alla base e non ci hai mandato nemmeno un messaggio per dirci cosa stava succedendo in città! Angel ha delle notizie per te e ha cercato di contattarti tutto il tempo! Pensavamo che ti avessero preso– continuò imperterrito il biondo, squadrando Yoshimitsu a braccia conserte.
Poi, con grande sorpresa della ragazza, i due scoppiarono a ridere.
–Kunimitsu– disse il mascherato ancora ridendo –Ti presento Phoenix–.
L’uomo afferrò la mano di una titubante Kunimitsu e la stritolò con una poderosa stretta –Phoenix, come la fenice che rinasce dalla cenere, è così che mi faccio chiamare– disse lui ammiccando. “Strano” pensò lei mentre cercava di divincolarsi “anche questo tipo ha un’aria familiare”.
–Piacere– mormorò la kunoichi ritraendo la mano dolorante –Kunimitsu, come… beh, come la spada. E il fiore…–.
Phoenix diede un’occhiata più approfondita ai due e poi prese a grattarsi il mento barbuto, assumendo un’aria pensosa. –Ma cos’è, una nuova moda? Sembrate due cloni!–.
–Cosa!?– esclamò lei, evidentemente poco contenta di essere paragonata a quello squinternato, e avrebbe aggiunto altro se Yoshimitsu non si fosse messo provvidenzialmente in mezzo.
–Ehm... Phoenix, potresti accompagnarla nella “stanza degli ospiti”?–. Poi si rivolse a Kunimitsu –Sarai chiusa in una stanza personale finché non deciderai se sarai dei nostri o meno. Se decidi di unirti a noi potrai accedere al resto dell’edificio, altrimenti dovrai restare lì finché la situazione non si sarà calmata abbastanza da poterti rimandare  a casa senza problemi–.
La kunoichi lo guardò con stupore –Insomma volete mettermi in prigione?–.
–È solo una misura di sicurezza– la rassicurò lui –Potrai avere tutto ciò di cui hai bisogno nel frattempo–.
–Mm ok– tagliò corto lei. Tutto a un tratto si sentiva stanca, troppo stanca per discutere. Per il momento un letto le sarebbe stato più che sufficiente, anche se fosse stata la branda di una prigione.
–Vedrai, ti troverai bene– disse Phoenix dandole una pacca sulla spalla che le fece quasi schizzare gli occhi fuori dalle orbite –Seguimi–.
L’uomo e la ragazza si stavano già allontanado quando la voce di Yoshimitsu li fece fermare: –Kunimitsu, dimentichi niente?–.
–Io?– chiese lei senza capire, poi si portò la mano alla tasca e quasi le venne un colpo al cuore. La droga. Dopo tutto ciò che era successo il pacchetto era ancora là al suo posto. Kunimitsu si chiese con orrore se per caso se la fosse scordata davvero, o se invece avesse sempre saputo che si trovasse lì nella sua tasca, sperando che Yoshimitsu non se ne sarebbe ricordato.
–Dammela– disse lui tendendo la mano meccanica –Bisogna distruggerla…–.
–Oh… beh… certo– disse lei con tono titubante, e poi gliela porse.
Mentre attraversava il corridoio seguendo la sagoma massiccia di Phoenix non potè fare a meno di pensare con preoccupazione che ben presto avrebbe cominciato a sentire la necessità di quel pacchetto dall’aria tanto innocua.
 
 
La stanza di controllo era sempre buia ad eccezione della pallida luminescenza dei monitor e quasi sempre vuota ad eccezione di una una ragazza occhialuta che ora se ne stava rannicchiata su una poltrona con una tazza di caffè sintetico stretta nelle mani. Il suo vero nome era Asuka ma all’interno del clan era conosciuta come Angel, perché come un angelo custode vegliava sui suoi compagni dalla stanza di controllo.
Quando Yoshimitsu entrò nella stanza, la poltrona ruotò di scatto.
–Yoshi!– esclamò Angel, l’esperta informatica  –Che fine avevi fatto? È da ieri sera che aspettavamo un tuo messaggio! Sono stata sveglia tutta la notte!–.
Yoshimitsu sospirò. Quel giorno lo stavano sgridando e insultando un po’ tutti. –Mi dispiace Asuka, dovevo cercare una persona e poi ho avuto dei contrattempi–.
–Sì, l’ho vista quando siete entrati– disse la ragazza facendo cenno ai monitor collegati alle telecamere di sicurezza –Comunque sia, eravamo preoccupati. In più il Dottore ci ha fatto sapere che vuole parlarti il prima possibile–.
–Come? Vi ha detto perché?– chiese Yoshimitsu con apprensione.
La ragazza scosse la testa. –No, non era un messaggio lungo. Era solo un codice morse. Forse ha avuto paura di essere intercettato–.
Yoshimitsu scosse la testa. Per arrivare a contattarlo nonostante il rischio intercettazione il Dottore doveva trovarsi in guai seri.
–Andrò da lui appena possibile. Altre novità?–.
–Guarda tu stesso– disse Asuka digitando alcuni comandi sulla tastiera. Sul monitor più grande apparve un mandato d’arresto con l’identikit di Kunimitsu.
–Sì, lo so. E allora?–.
Asuka sospirò scuotendo la testa. –No. Guarda i motivi del mandato, aggiornati alle 4 di ieri pomeriggio–.
Il leader del clan Manji spalancò gli occhi. –“Sospettata terrorista…”. Ma cos…–.
–E guarda qui cosa ci ha mandato il nostro infiltrato della polizia?– chiese Asuka con malcelata compiacenza. Nonostante la pericolosità della situazione non poteva esimersi dal provare un po’ di orgoglio per aver svolto così bene il suo lavoro.
Sul monitor accanto a quello raffigurante l’identikit apparve una foto sfocata: alcune ombre immerse in una nuvola di fumo, e una persona mascherata che risaltava leggermente meglio delle altre.
Yoshimitsu strinse i denti, capendo la portata di quelle notizie e le loro conseguenze. Non gli importava nulla di essere stato visto dalla polizia perché sapeva che prima o poi gli sarebbe successo. Il problema era un altro.
–Pensano che lei sia te. Le danno la caccia al posto tuo– disse Angel, dando voce alle sue preoccupazioni.
L’uomo con la maschera da Hannya guardò l’identikit della donna con la maschera da Kitsune, scuotendo la testa con rassegnazione. –Quando lo verrà a sapere mi ucciderà…–.

*

Come ogni mattina le due inseparabili amiche e compagne di studi, Ling Xiaoyu e Miharu Hirano, percorrevano insieme la strada che conduceva alla Facoltà di Scienze. Le due si conoscevano da quando erano bambine e avevano sempre condiviso tutto con grande amicizia: scuola, amici, giochi, vestiti, sogni e tutto ciò che può occupare la mente di una semplice ragazza dall’asilo nido all’università. Fra loro non c’erano mai stati segreti, almeno fino a quel momento. Con che coraggio, infatti, avrebbe potuto dire alla sua migliore amica che il ragazzo dei suoi sogni, quello di cui amava fantasticare insieme a lei fin dal liceo, era una specie di mostro?
–Che ti prende Ling?– chiese Miharu di punto in bianco –Oggi mi sembri stranamente seria!–.
Ling si affrettò a sorridere e a sventolare la mano come per dare poca importanza alla faccenda  –Oh, niente niente! Sono solo un po’ stanca per via dello studio!–.
–Mah…– rifletté l’altra con poca convinzione –e da quando saresti diventata una secchiona?–.
La cinesina si voltò verso di lei e le fece una linguaccia scherzosa –Smettila di prendermi in giro! Guarda che fra noi due sei tu la più somara, o mi sbaglio?–.
Ma Miharu non rispose alla provocazione perché stava guardando diritta davanti a sé con gli occhi spalancati dalla sorpresa. Ling riportò lo sguardo sulla strada per vedere quale fosse la causa della sorpresa dell’amica e in breve assunse la stessa espressione.
Takeshi Kawamura, con la sua camminata sicura di sempre, stava andando dritto dritto verso di loro guardandole negli occhi; qualcosa di inconcepibile.
–Oh mio Dio– sussurrò Miharu senza quasi muovere le labbra –Ti sta guardando, sta venendo verso di te!–.
–Ma no, che dici!– rispose Ling cercando di dissimulare il terrore.
Ma Xiaoyu non poté convincersi a lungo che il ragazzo stesse facendo la stessa strada solo per caso, perché subito dopo si fermò davanti a loro costringendole ad arrestare il loro cammino.
Jin/Takeshi, senza nemmeno salutare e mantenendo la stessa espressione seria che lo caratterizzava, prolungò un attimo il suo silenzio e poi chiese con gran naturalezza: –Ling Xiaoyu, vuoi uscire con me domani?–. Nessuno notò che la mascella di Hirano aveva quasi raggiunto il marciapiede.
La ragazza con le codine, completamente sconvolta, poté a malapena annuire.
–Bene– disse Jin –Allora vediamoci domani sera alle 9 all’ingresso del Luna Park–. Detto questo voltò loro le spalle e se ne andò da dove era venuto.
Le due ragazze si guardarono strabuzzando gli occhi, l’una sorpresa perché mister silenzioso aveva rivolto loro la parola, l’altra perché non si aspettava un simile comportamento da un ragazzo che il giorno prima aveva visto trasformarsi in una specie di chissà–cosa.
–Oh mio Dio!– esclamò Miharu mettendosi a saltare per la felicità –Ti ha chiesto un appuntamento!!! Ti ha chiesto un appuntamento!!!–.
Anche Xiaoyu prese a saltellare trascinata all’euforia dall’amica, ma la sua felicità era più apparente che reale perché in fondo sapeva che quello non poteva essere davvero un appuntamento.
 
*
 
 La porta si aprì con un cigolio rugginoso e i due entrarono nella stanza buia. Phoenix accese la luce e Kunimitsu si ritrovò davanti a quella che sembrava una fotocopia del luogo in cui aveva abitato fino alla sera prima: una stanza quadrata, dai muri grigi senza finestre, non piccola ma spoglia, occupata solamente da una brandina e da un comodino a cassetti. In fondo c’era una porta che probabilmente si apriva su un bagno.
–Certo non è il Ritz…– scherzò Phoenix –Ma almeno è tutta tua e nessuno verrà a scocciarti mentre riposi–.
La kunoichi si voltò verso di lui con apprensione. –E dovrai chiudermi a chiave?–.
L’uomo si grattò la testa, un po’ imbarazzato. Certo, essere chiusi a chiave in una stanza non avrebbe fatto piacere a nessuno e lui si sentiva a disagio nel dover mettere qualcun altro in quella situazione.
–Ecco… sì, è così che facciamo sempre. Finchè non accetti se essere dei nostri o meno non possiamo permetterci che tu venga a sapere troppe cose sul nostro rifugio e sulle persone che ci abitano–.  
–Capisco…–disse lei. In realtà non aveva nessuna intenzione di essere chiusa lì dentro e quindi sperava di riuscire a persuadere quell’uomo, che le dava idea si avere un buon cuore, a non farlo. Non che avesse intenzione di ficcanasare in giro, ma, oltre al fatto che il trovarsi a sostenere degli obblighi la metteva in agitazione, aveva bisogno di recuperare il pacchetto di droga.
–Ma vedi…– continuò Kunimitsu, cercando di assumere un tono innocente e preoccupato –Io soffro di claustrofobia… ed è terribile l’idea di dover essere chiusa qui senza nemmeno sapere quando potrò uscire!–.
–Mi dispiace– disse Phoenix con aria contrita –Ma le regole sono queste…–.
–Non potresti lasciare la porta aperta? Giuro che me ne starò chiusa qui buona, ma il sapere che la porta non è chiusa a chiave aiuterebbe–.
Phoenix restò un attimo in silenzio a considerare l’ipotesi. In fondo se il capo aveva portato quella donna fin là doveva trattarsi di una persona affidabile, no? Per un attimo presere seriamente in considerazione l’idea di lasciare la porta aperta, poi il suo senso del dovere ebbe la meglio sulla sua gentilezza.
–Scusa, volpe. Ma non posso proprio, non oggi almeno–. Phoenix si scusò con un sorriso per poi indietreggiare e uscire dalla stanza. –Fra un po’ qualcuno verrà a portarti qualcosa da mangiare–.
Kunimitsu osservò l’uomo mentre tirava fuori un mazzo di chiavi dalla tasca dei pantaloni, il tutto come se scorresse al rallentatore. “È così che devono sentirsi i carcerati” pensò con rassegnazione lanciando all’uomo uno sguardo implorante che lui non poteva vedere..
Quando udì il rumore della chiave che girava nella serratura e i passi di Phoenix che si allontanavano per il corridoio lasciandola immersa nel silenzio, un brivido di freddo le percorse la schiena.
*
Quella mattina il Dottor Boskonovitch stava percorrendo la solita strada che portava ai laboratori Biotech quando qualcosa attrasse la sua attenzione: transenne bianche e arancioni, fosforescenti.
Il Dottore sgranò gli occhi e avanzò verso di esse con la massima velocità che le sue gambe stanche permettevano. Vide che su quelle strisce sospese all’inizio di una strada c’era scritto qualcosa in inglese: “do not trespassing”. Un agente della cyberpolizia faceva la guardia dall’altra parte.
–Prego signore, si allontani, non ostacoli il passaggio degli addetti– disse la guardia con voce impersonale.
–Che cosa è successo?– chiese Boskonovitch, un po’ affannato dalla corsa, cercando di vedere al di là delle robuste spalle del poliziotto.
–Un incidente. Ma la prego di allontanarsi, qui non c’è niente da vedere–.
Ma il Dottore aveva già visto abbastanza: aveva visto due lenzuoli stesi a coprire due corpi in una pozza di sangue.
Un brivido gli percorse la schiena mentre, meccanicamente, si voltava a guardare le finestre della Biotech che occhieggiavano fra i palazzi a veramente poca distanza.
“Troppo poca per essere una coincidenza”.
 

Quando entrò alla Biotech la prima cosa che il dottore fece fu quella di controllare la casella della posta nel suo ufficio. Probabilmente era uno dei pochi uomini a Nuova Edo a mantenere quell’usanza ormai soppiantata dai messaggi elettronici.
L’aprì ed era vuota come l’aveva lasciata. “Ma dove diavolo si sarà cacciato? “ si chiese con ansia. “Non è da lui non rispondere alle richieste di aiuto. Eppure sono passate molte ore…”.
La seconda cosa che fece fu quella di dirigersi verso una certa zona dei magazzini, quella a lui riservata, ben sapendo però che ormai non avrebbe trovato più niente.
“Non avremmo dovuto immischiarci nei loro piani” pensava con amarezza e preoccupazione “Volevamo fare del bene ma stiamo facendo più male che altro”.
Mentre era così assorto nei suoi pensieri la Dottoressa Chang lo intercettò nel corridoio. Boskonovitch fu stupito nel vedere quello sguardo di apprensione negli occhi della sua ricercatrice più determinata.
–Dottore, devo parlarle…– disse lei tormentandosi un lembo del camice.
–Sono un po’ impegnato in questo momento, Dottoressa Chang, ma se vuole può raggiungermi nel reparto di ricerche genetiche fra mezzora– disse lui, cercando di nascondere il proprio nervosismo sotto l’aria amabile che lo contraddistingueva.
Improvvisamente la dottoressa afferrò l’anziano superiore per una spalla. Un gesto impulsivo a cui nessuno dei due si sarebbe aspettato di assistere.
Julia Chang si guardò attorno per accertarsi che non ci fosse nessuno e poi parlò a voce bassa, concitata. –Abel è stato qui. Stanotte. Ci accusa del furto di qualcosa… Dottore, che sta succedendo?–. Ora il suo sguardo era quasi inquisitorio.
Boskonovitch si sentì raggelato da questa notizia, ma non lo diede a vedere. al suo posto tentò di scacciare la preoccupazione di Julia con una risata, come se fosse cosa di poco conto. –Ha detto così? Oh, non si preoccupi Chang. Si tratta solo di un malinteso, mi occuperò io della questione. Torni pure a occuparsi dei suoi studi–.
Julia restò interdetta dallo sguardo sorridente del suo superiore. –Cosa? Ne è sicuro? –.
–Certamente, le ripeto di non preoccuparsi. Non è successo niente–.
Ma il dottore Boskonovitch sapeva bene che questa non era che una gigantesca bugia e la stessa Julia ne avvertì il sospetto una volta rimasta sola nel corridoio.








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Università... il nemico numero uno delle fanfiction.
Che dire, mi scuso per il ritardo... spero non sarà troppo difficile riprendere il ritmo del racconto e ricordarsi cosa era successo nei capitoli precedenti! Ma veniamo a questo capitolo...
Le cose, spero, cominciano a farsi più chiare. Le esplosioni e i furti avvenuti nel bel mezzo di Nuova Edo sono opera del clan Manji, che da gruppo di ladri in tekken sono diventati una schiera di cospiratori politici capitanata da Yoshimitsu, il quale, come ormai abbiamo capito tutti, è un grande fan di "V per Vendetta".
Nello stesso tempo però si pongono nuovi interrogativi: che cosa avrà in mente il nostro Jin? Kunimitsu entrerà nel clan? chi sarà il misterioso assassino che si aggira nei pressi della Biotech? E che cosa va farfugliando il dottor Boskonovitch? Ma soprattutto riuscirà morrigan89 a diventare puntuale e a smettere di fare domande a effetto?




Miss Trent: Grazie come sempre per la tua recensione accurata :) Spero che la coppia scoppiata Nina-Lee non turberà troppo la tua lettura! Comunque ti assicuro che Nina non si farà mettere facilmente i piedi in testa da quel figlio di buona donna
Dark Tranquillity: Ecco Paul! Capisci ora perché non avevo risposto alla tua domanda  :P Per quanto riguarda King penso che potrebbe fare qualche apparizione in futuro ma non avrebbe in ogni caso un ruolo fondamentale visto che ho già inserito un bel po' di personaggi principali e la storia è già abbastanza ingarbugliata per conto suo.
Angel Texas Ranger: ehm, se l'ultimo aggiornamento ti era parso tardivo che cosa dirai di questo? Chiedo perdono ç_ç








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Capitolo 5
*** Warmachine ***


5. Warmachine
 




–Maledizione! Come pretendono di facilitare le indagini se non ci lasciano nemmeno entrare a indagare?–.
A porsi questa domanda era stato uno stizzito Lei Wulong mentre scendeva a grandi passi l’interminabile rampa di scale dell’edificio in cui erano situati i Laboratori Mishima. Non aveva nemmeno avuto la pazienza di aspettare che l’ascensore giungesse al suo piano, tanta era la sua irritazione e il bisogno di sfogarsi lontano da orecchie indiscrete.
–Segreti di Stato… bah, e dire che ho sempre pensato che NOI agenti facessimo parte dello Stato! In tanti anni di servizio non mi era mai successo di vedermi chiudere la porta in faccia! “Informazioni strettamente confidenziali”!– continuò a bofonchiare irosamente tra sé e sé, quasi dimentico del trafelato Hinagawa che lo seguiva cercando di stare al suo passo.
–Ehm…– esordì il giovane collega cercando di non far notare il fiatone –Forse dovremmo fare a meno di queste informazioni e concentrarci su ciò che abbiamo già–.
–Ma ancora non abbiamo niente. Solo una sospettata terrorista che però è scomparsa nel nulla dopo che la Squadra Speciale le ha dato la caccia fin dentro le fogne della Zona Industriale–. Già, anche questa era una bella rogna. Una persona che non volesse farsi trovare avrebbe potuto cavarsela per anni prima di venire inchiodata dai sistemi di controllo; e Wulong ne sapeva qualcosa dopo che aveva passato anni a cercare un fantomatico e ancora sconosciuto boss della droga che pareva aleggiare sulla città invisibile come un fantsma.
–Però suppongo che tu abbia ragione, Hinagawa– disse Lei fermandosi di botto in mezzo alle scale col rischio di essere investito dall’altro agente. –Per ora questa matassa ha un unico capo. Tiriamolo e forse riusciremo a dipanarla. Andiamo subito al White Crow!–. E così dicendo riprese a scendere le scale come un forsennato.
L'agente annuì senza fiato e poi riprese a inseguire il suo instancabile superiore.
 
*

Sono di nuovo sveglio.
Vorrei non esserlo.

Caricamento dati in corso…
Queste persone che mi guardano con orrore, come se fossi un mostro. Non sanno che sono io quello che riesce a malapena a guardarle. Non hanno nemmeno idea di cosa mi ha tolto gente come loro. Non sanno. Non sanno niente.
Meritano di morire.
Caricamento effettuato. Scanner corporeo attivato. Inizio scansione…
Non provo niente. Non sento niente. Il mio corpo è insensibile come se fossi morto. L'unica scintilla di vita attraversa il cervello come una scarica elettrica. Ma è estranea e artificiale come una protesi. Mi mostra cose che non ho mai saputo. Trasmette ricordi che non dovrei e non vorrei più avere.
Scansione effettuata… Stato: OK.
Forse è proprio questa la morte, forse sono davvero morto. Un morto che cammina.
Scanner cerebrale attivato. Inizio scansione…
Sono stato riprogrammato come un computer.
Avevo un nome che mi è impedito ricordare. Ma non sono riusciti a cancellare la consapevolezza di chi ero. Hanno sbagliato. Avrebbero dovuto cancellarlo. Dovrei essere consapevole solo di ciò che sono ora, ma i miei ricordi mi mostrano crudelmente che non sono sempre stato così.
Scansione effettuata. Stato: Rilevata anomalia nella Corteccia Peririnale.
Un mostro. Una macchina da guerra. Loro mi hanno reso così.
Vorrei morire ma una voce estranea nel mio cervello mi comanda di non farlo, di non suicidarmi.
Posso solo uccidere.
E ucciderò.
 
*
 
Il White Crow era ancora chiuso al pubblico ma ormai buona parte dei segni della sparatoria erano stati cancellati. Marshall, Anna e qualche altro volontario ci avevano lavorato giorno e notte, interrotti soltanto dalle ripetute visite della polizia. Ci erano così abituati che quasi non alzarono la testa dalle loro occupazioni quando due agenti in borghese varcarono la porta.
–Detective Lei Wulong, Cyberpolizia– disse il poliziotto mostrando il distintivo. Alle sue spalle l'ispettore Hinagawa faceva lo stesso.
Marshall Law appoggiò a terra gli attrezzi e si fece avanti pulendosi le mani su un panno. Il suo viso era innaturalmente inespressivo come quello di una persona che cerca di mascherare l'irritazione. –Oh, finalmente due agenti che mostrano i loro volti piuttosto che il loro visore elettronico. Buongiorno Detective–.
Wulong recepì immediatamente la rabbia repressa del barista e benché sapesse che avrebbe avuto il potere di richiamarlo immediatamente all'ordine decise di non farci caso. –A quanto pare avete già avuto a che fare con la Squadra Speciale– disse mostrandosi amichevole –Ma anche io avrei delle domande da farle, signor Law–.
–Bene, abbiamo già risposto adeguatamente ai suoi colleghi ma siamo sempre pronti a renderci utili. Mi segua pure– disse avviandosi verso i privet.
I due agenti e il proprietario del pub si sedettero attorno a un tavolo da poker illuminato da un riflettore.
Il Detective studiò attentamente l'uomo per alcuni istanti e notò che sembrava perfettamente a loro agio. Prese la parola. –So già cosa avete detto alla Squadra Speciale, ho letto i rapporti. So anche che la Squadra Speciale ha metodi bruschi e per questo ispira timore. E il timore induce molte persone a dire il minimo indispensabile, tralasciando i dettagli che potrebbero essere importantissimi per l'indagine–. Gli lanciò un'occhiata significativa.
Law appoggiò entrambe le mani sul tavolo verde e guardò Lei dritto negli occhi, senza esitazione. –Come ho appena detto abbiamo riferito alla Squadra Speciale tutto ciò che sapevamo, Detective–.
–Lo credo e lo spero bene, signor Law– disse Lei con un sorriso –Ma io ho metodi diversi dalla Squadra Speciale e ho bisogno di parlare apertamente con le persone che sono implicate nel caso–.
–Capisco, mi chieda quello che vuole–.
–Riprendi, Hinagawa–. A quelle parole il giovane agente tirò fuori una telecamera tascabile e l'appoggiò sul tavolo.
Lei Wulong si mise comodo sulla sedia. –Conosceva quella donna, Kunimitsu?–.
–Superficialmente. Era una cliente abituale–.
–Cosa intende per "superficialmente"?–.
–La vedevo qui spesso. So come si faceva chiamare da tutti. Ma questo non è un mistero. Ignoro il suo vero nome e la sua età–.
–Le ha mai parlato?–.
–Sì, ma solo chiacchiere da bar che faccio un po' con tutti i clienti–.
–L'ha mai vista senza maschera?–.
Law scosse la testa –La porta da sempre, che io sappia–.
–Ha amici?–.
–Penso di sì. Ma non saprei dire chi sono. Non passo mica tutto il mio tempo a osservare i clienti, le pare?–
–Lo immagino. Sa perché è ricercata?–.
–Mi hanno detto che aveva addosso un bel po' di droga–.
Lei Wulong intrecciò le dita davanti a sé. –È proprio questo il punto. Si è mai chiesto come mai un singolo caso di detenzione di droga, come ce ne sono a migliaia in questo covo di delinquenti, abbia richiesto uno spiegamento di forze del genere?–.
–Non è affar mio come la polizia decide di indagare sui propri casi– sbottò Law.
Il Detective si sporse in avanti sul tavolo –Probabilmente no. Ma sono convinto che lei non sia uno sprovveduto perciò immagino che si sarà comunque fatto un'idea del perché–.
Law assunse un'aria pensierosa come se stesse pensando a quella questione per la prima volta. –Sarà invischiata in qualcosa di più grosso, non posso saperlo–.
Lei si riappoggiò allo schienale, con un lieve sorriso sulle labbra. –Che cosa direbbe se le dicessi che è sospettata di atti di matrice terroristica?–.
A guardarlo con stupore non fu solo Law ma anche l'agente Hinagawa.
–Terrorismo?–. Inarcò le sopracciglia. –Stento a crederlo–.
–Eppure è così– disse Lei ignorando completamente la sorpresa negli occhi del suo collega. Sapeva benissimo che non era tenuto a divulgare questa informazione, ma a volte per ottenere quello che si vuole bisogna abbandonare il protocollo. – Si potrebbe sospettare che il suo pub è un luogo di ritrovo per terroristi oltre che di spacciatori e ubriachi. Il che mi darebbe l'autorità di arrestarla su due piedi, signor Law. Fare terra bruciata, è così che si dice–.
Il proprietario del White Crow aggrottò lievemente le sopracciglia. –Mi sta minacciando? Mi pareva che avesse detto di non usare i metodi della Squadra Speciale–.
–No, la sto solo avvertendo. Parliamo chiaramente, signor Law. Finchè non troviamo questa Kunimitsu lei e tutte le persone collegate a lei sono in pericolo. Trovarla è affar mio, ma se non ci riuscirò in tempo breve il caso mi sarà tolto e passerà direttamente alla Squadra Speciale e allora sì che potrebbe passare dei guai seri–. Lei Wulong strinse i denti. Odiava quella parte, odiava la maschera da cattivo, odiava lo strapotere della Squadra Speciale. Eppure sapeva che era necessario, che senza questi espedienti sarebbe impossibile governare su quella Babilonia di criminali che era la Zona Rossa.
Law sospirò cercando di non apparire nervoso. –Anche io parlerò chiaramente, Detective. Non sono responsabile delle persone che frequentano il mio locale, e lei mi sembra una persona abbastanza ragionevole da capirlo. Finchè pagano le ordinazioni non ho nessun motivo per impicciarmi dei loro affari. Se la Squadra Speciale viene a prendermi non posso farci niente–. Lanciò al poliziotto un'occhiata accusatrice, come se si chiedesse con che coraggio potesse permettere una cosa del genere. –Non posso aiutarla–.
–E invece io le darò la possibilità di farlo. So che i miei colleghi non le hanno ancora mostrato questo– disse il detective Wulong mentre faceva scivolare una fotografia sul tessuto verde del tavolo. Law si chinò a guardarla. Era una foto scattata con un modello assurdamente vecchio di fotocamera, probabilmente qualche rimasuglio di magazzino ante guerra, roba da due soldi. Mostrava due persone in atteggiamenti amichevoli: una ragazza con una maschera di volpe teneva un braccio appoggiato sulle spalle di un ragazzo dai capelli di una strana sfumatura di arancione. Due amici allegri che non avevano alcuna idea di ciò che gli sarebbe successo.   
–Era nascosta sotto una mattonella in camera di Kunimitsu. Mi dica chi è l'altro e dove posso trovarlo–.
Marshall Law alzò lentamente lo sguardo. Deglutì.
  
*

Lei Wulong sedeva alla sua scrivania riguardando al computer la registrazione della sua interrogazione a Marshall Law. Non era per niente contento: le risposte che aveva ottenuto non gli avevano detto niente che già non sapesse e il ragazzo coi capelli arancioni erano rimasto senza nome. Aveva consultato da cima a fondo l'archivio elettronico in cerca di informazioni sul suo conto e non aveva trovato nulla. Questo era forse l'unico aspetto positivo per un abitante della Zona Rossa: non sei nessuno, ma se non sei nessuno è molto più difficile rintracciarti.
Fece scivolare un dito sul touch screen ritornando così al punto della registrazione che gli interessava.
"Non conosco questo tizio" disse il barista sullo schermo.
Lei digitò qualche tasto sulla tastiera e l'immagine zummò immediatamente sull'occhio color nocciola dell'asiatico. Il volto del detective si illuminò. Tornò indietro di qualche secondo.
"Non conosco questo tizio".
Mentre l'uomo pronunciava questa frase la pupilla si contrasse leggermente, un movimento che sarebbe stato invisibile a occhio nudo ma che la tecnologia riusciva a registrare nei minimi dettagli.
Non poteva sbagliarsi. Marshall Law sapeva bene che sarebbe stato scoperto, eppure aveva mentito.

*
 
La stanza era buia e angusta e umida. Non era il genere di posto in cui uno trascorrerebbe il suo tempo se non ci fosse costretto da qualche necessità, come la necessità di non essere spiati da nessuno.
L’anziano era seduto in attesa su una sedia di plastica, unica forma di comfort concessa per benevolenza verso la sua età.
Improvvisamente un lieve soffio d’aria riempì la stanza e l’uomo capì di non essere più solo. Un respiratore emetteva il suo rumore soffocato nella semioscurità.
–Sono venuto appena ho saputo, Dottore. Perché ha lanciato l'allarme?– disse la voce metallica carica di apprensione.
Il Dottore sospirò e si agitò sulla sedia. –L'Esperimento Numero 9 è scappato poche ore dopo che me lo avete portato, nel cuore della notte, e ha distrutto tutto quello che ha incontrato. A quanto pare era difettoso altrimenti non si sarebbe attivato da solo–.
L'uomo col respiratore rimase un attimo in silenzio. –Bryan– osservò e la sua voce metallica risuonava d'irritazione. –Si chiama Bryan–
Il Dottore scosse la testa con severità. –Non è più umano, Yoshimitsu. E tu lo sai. Non possiamo farci niente–.
Yoshimitsu prese a passeggiare nervosamente su e giù per la stanza, mentre la lunga palandrana nera si riempiva di polvere. –Che cosa consiglia?– chiese infine, col tono di uno che preferirebbe non avere una risposta.
–Purtroppo non abbiamo scelta. È pericoloso. Ci sono state due morti nei pressi del Laboratorio e sono quasi certo che siano opera sua. Deve essere fermato– rispose con comprensione. Poi aggiunse –Mi dispiace. So bene che lo conoscevi–.
Yoshimitsu continuò a camminare e poi si fermò. Se la sua voce avesse avuto un'inflessione naturale, probabilmente in quel momento sarebbe stata rotta dal dolore. –Pensavo che avrei potuto salvarlo–.
Il Dottore si alzò e mise una mano sulla spalla dell'altro uomo, benché la raggiungesse a fatica a causa della sua altezza. –Non darti la colpa, sono stati loro a fare questo. In questo momento la cosa più misericordiosa che possiamo fare è dargli la morte–.
–Ha ragione. Ci penserò io– rispose con riacquisita fermezza.
Il Dottore emise un sospiro. In tutti quegli anni Yoshimitsu non era cambiato di una virgola. –Non puoi salvare tutti–.
–Lo so fin troppo bene, Dottore. Fin troppo bene…–.
 
*
 
Lei Wulong aveva appena dirimato a tutte le stazioni di polizia l'identikit del ragazzo dai capelli arancioni. Non era sicuro che fosse coinvolto nelle esplosioni notturne ma era sicuro che avrebbe potuto sapere molte cose sulla donna volpe; sempre che lo avessero preso, ovviamente, il che era difficile. Ma del resto che altro poteva fare? Non aveva altri indizi su cui lavorare dal momento che i Laboratori Mishima si erano rifiutati di lasciarlo entrare a cercare prove.
Stava per uscire dal suo ufficio quando il telefono sulla scrivania squillò. Fu molto stupito dal vedere che il display non riusciva a rintracciare il numero da cui proveniva la chiamata.
Sollevò la cornetta. –Pronto?–.
Buonasera, Detective Wulong–. Lei trasalì. La voce all'altro capo era così pesantemente distorta da non lasciargli nemmeno distinguere se appartenesse a un uomo o a una donna.
–Chi parla?–.
Non ha importanza. Voglio solo darle un consiglio–.
Wulong rimase in silenzio per lasciar parlare la voce.
Visiti i Laboratori Biotech. Potrebbe essere istruttivo–.
Click. La comunicazione si interruppe lasciando il detective a osservare il ricevitore, perplesso. 

*
 
L'Agente W, al secolo Nina Williams, appese la cornetta e si lasciò cadere con un sospiro su una poltrona di pelle. Si trovava nella buia stanza dei computer in una delle numerosi sedi segrete del Tekken Force, la squadra di agenti speciali al diretto servizio di Heihachi Mishima.
Quell'idiota di un poliziotto stava perdendo tempo. Lee Chaolan le aveva detto che era il detective più sveglio di tutta Nuova Edo eppure continuava ancora a brancolare nel buio, ben lontano da ciò che davvero interessava alla Mishima: la Biotech. Davvero, Nina non riusciva a capire perché non avessero voluto affidare direttamente il caso a lei. A quell'ora, da sola o con l'aiuto della Squadra Speciale, avrebbe raso al suolo ogni ostacolo al potere della Mishima, eliminando ogni problema alla radice; invece si trovava a fare da angelo custode a un sempliciotto con un distintivo. Un compito ben al di sotto delle sue capacità.
–La tua soffiata non renderà lui sospettoso?– le chiese un uomo con un profondo accento straniero, seduto dall'altra parte della stanza e seminascosto da una spessa voluta di fumo di sigaro. L'Agente D non parlava molto bene il giapponese, la lingua ufficiale di Nuova Edo, ma non era importante. Del resto per compiere il suo lavoro non aveva bisogno di parole.
–Non importa, tanto è solo uno strumento senza valore. Quando avrà finito lo eliminerò come un cane– disse Nina con ostentata noncuranza. Ma le sue parole erano più fredde e affilate di un coltello e indicavano rabbia.
–Sembra quasi che tu abbia preso questa storia sul personale– disse l'Agente D emettendo qualcosa di simile a una risata. Lui non rideva mai. –Irritata col capo?–.
Nina gli lanciò un'occhiataccia. –Non vedo perché dovrei esserlo–.
–Non saprei– disse l'uomo alzandosi e spegnendo il mozzicone di sigaro in un portacenere –Forse perché lui non fa a te abbastanza favori anche se tu fai abbastanza favori a lui. Se capisci cosa intendo…–.
Nina affondò le dita nei braccioli della sedia e fissò il volto pallido e segnato da cicatrici dell'Agente D come se questo potesse mandarlo in pezzi. I due rimasero per un po' a fissarsi, occhi di giaccio contro occhi di ghiaccio.
–Non scherzare col fuoco, Dragunov. Quello che faccio sono affari miei– sibilò Nina.
–Ci sono cose che bruciano più del fuoco, Williams– disse Dragunov con una smorfia che qualcuno che non lo conosceva bene avrebbe potuto scambiare per un abbozzo di sorriso. Uscì dalla stanza lasciando l'altro agente a riflettere su quella frase enigmatica.
Nina si rilassò e lasciò andare i braccioli della poltrona. Le velate insinuazioni del russo erano una gatta da pelare a cui avrebbe preferito non pensare. Evidentemente lui sapeva che il suo rapporto con Lee Chaolan, il rampollo della Mishima, non era unicamente un rapporto di lavoro.
Si sentì spiata e quella sensazione, nuova per lei che spia lo era di professione, le era odiosa. Eppure sapeva benissimo che era perfettamente naturale che venisse controllata, dato che probabilmente, tra tutti i milioni di persone che abitavano Nuova Edo, lei era la più vicina ad avere la possibilità di uccidere il signor Chaolan se solo lo avesse voluto. Se Lee fosse morto sarebbe stato un duro colpo per la Mishima, anche se non era certo un individuo indispensabile.
Nessuno era indispensabile per Heihachi e Nina lo sapeva bene.
In quella metropoli la lotta per restare a galla era continua; in milleni di civiltà, quell'epoca postbellica era probabilmente la più vicina alla legge della giungla. Uccidi o vieni ucciso, eccelli o vieni rimpiazzato. L'Agente W conosceva questa legge più di qualunque altro: eccelleva nell'uccidere ed era diventata fredda e lucida come una macchina. Sembrava essere nata apposta per essere un membro del Tekken Force. E finché avesse continuato a svolgere le sue missioni alla perfezione nessuno l'avrebbe gettata via come uno strumento senza valore.
 
*

–Perché, Marshall?–. Anna scosse la testa per scacciare le lacrime agli occhi. Il suo volto era contratto da una rabbia venata di paura. –Perché hai mentito a quel poliziotto?–.
Marshall, seduto alla sua scrivania, era scuro in volto. Non rispose.
–Ora daranno la caccia anche a te!– esclamò, come se la terribile idea non fosse già evidente a entrambi. Il proprietario del White Crow annuì senza dire una parola.
–E la cosa non ti spaventa!?–.
–Che cosa avrei dovuto fare, Anna? Consegnare anche Hwoarang nelle mani della polizia?– disse con tono lugubre. L'aveva già fatto, a malincuore, aveva tradito un’amicizia e non aveva il coraggio di rifarlo. –Non ci sono riuscito–.
–Ma Kunimitsu…–.
–Per lei è diverso. Era già sotto la protezione del clan–.
–E sentiamo, perché questo fantomatico clan non può proteggere anche lui?– chiese Anna, stizzita. Che razza di potere aveva questo clan se non poteva proteggere nemmeno un ragazzo?
–Non arriverebbe mai in tempo. La Squadra Speciale è molto più veloce. Ho saputo che anche Kunimitsu è riuscita a scappare per miracolo. Ma di Hwoarang non sanno niente, nemmeno dove abita. Riuscirà a non farsi beccare se tu lo avvertirai in tempo–.
Anna scosse la testa, disperata. –E tu?–.
–So dove nascondermi. Se parto ora non mi troveranno– disse cercando di mostrarsi sicuro di sé, benché lui stesso non ne fosse convinto. Improvvisamente abbandonare la propria vita era così difficile. Marshall non era mai stato un tipo molto interessato all'azione e tutta la sua esistenza era strettamente legata a quel pub malandato. Il White Crow era casa sua. Quasi quasi avrebbe preferito restare lì a farsi catturare.
Ma no, aveva dei doveri da cui non poteva sottrarsi e, oltretutto, sapeva troppe cose sul clan perché potesse permettersi di cadere in mani nemiche. Del resto era lui il tramite fra il Manji e gli abitanti della Zona.
–Naturalmente mentre sarò via l'amministrazione del pub sarà compito tuo. I lavori sono già a buon punto. Forse tra qualche giorno potrai riaprirlo– disse con un sorriso rassicurante.
Anna annuì a malincuore.
–Ho anche già disposto che tu diverrai la proprietaria, nel caso che io non dovessi tornare–.
Lei lo guardò, furibonda. –Non dirlo neanche per scherzo. Tu tornerai!–. Poi il suo volto sì addolci mentre si costringeva a scherzare. In certi frangenti l'unica cosa saggia da fare era sdrammatizzare. –Non vorrai mica costringermi a portare avanti questa baracca tutta da sola!?–.

*
 
Era già pomeriggio quando Lei Wulong varcò da solo le porte di vetro dei Laboratori Biotech. Aveva preferito non informare il suo assistente di questa sua mossa benché nemmeno lui sapesse dire esattamente perché. Forse era stata quella telefonata misteriosa a metterlo a disagio.
–Vorrei parlare col direttore– disse mostrando il distintivo a una segretaria seduta dietro un immenso bancone bianco nel centro della sala.
La segretaria digitò sulla tastiera. –Il Dottor Boskonovitch in questo momento sta lavorando a un esperimento ma posso metterla in contatto con la sua assistente– rispose con cortesia.
 

Il detective si trovava davanti a una spessa porta metallica. Sopra di essa una targhetta di plastica recitava la scritta: Riforestazione. Responsabile: Dr.sa. J. Chang.
Suonò il campanello e dopo qualche minuto venne aperto da una donna che le rivolse un'occhiata interrogativa. Wulong la osservò attentamente: portava occhiali dalle lenti spesse, aveva dei capelli fuori posto che uscivano dalla sua treccia e l'aria di una persona che non dorme molto. Sgranò gli occhi quando vide il distintivo.
–È lei la Dottoressa Chang?–.
–S-sì, in che cosa posso esserle utile?–. Sembrava nervosa. Il detective si chiese se lo fosse di natura o se fosse agitata dalla comparsa inaspettata di un poliziotto.
–Vorrei farle qualche domanda, se non la disturbo–.
–Prego, mi segua– disse Julia facendogli strada attraverso una grande stanza buia illuminata da cilindri di vetro pieni di terra. Alcuni ricercatori, sparsi qua e là fra i tubi luminosi, alzarono lo sguardo con curiosità prima di ritornare alle proprie occupazioni.
I due si sedettero attorno a una scrivania nel piccolo studio della dottoressa.
–Mi dica, detective– disse Julia sforzandosi di sorridere come se fosse perfettamente a suo agio, benché a occhio esperto era evidente che non lo fosse. Allacciò le dita fra loro come per una preghiera –Come mai si trova ai laboratori Biotech?–.
In effetti nemmeno lui sapeva perché si trovasse lì ed era incerto su che domande fare. Se voleva cavarci qualcosa doveva mostrarsi sicuro di sé e forse la dottoressa avrebbe rivelato spontaneamente qualche particolare interessante. Scese un po' sulla sedia, mettendosi comodo, e con nonchalance aggiustò la penna appesa al taschino della camicia, attivando una telecamera nascosta. –Non saprei. Me lo dica lei–.
La dottoressa inarcò un sopraciglio. –Prego?–
–Ha notato niente di strano ultimamente? Voci di corridoio, qualche comportamento insolito…–.
Julia strinse i denti. Di cose che lei aveva ritenute strane ne aveva viste a bizzeffe negli ultimi tempi: la visita notturna di Abel, il comportamento circospetto del Dottor Boskonovitch il quale d'altra parte si ostinava a dire che tutto andava bene, le lettere che riceveva, le sue lunghe soste nei magazzini… Avrebbe potuto parlare a lungo dei suoi sospetti, eppure si ritrovò a chiedersi quale fosse la cosa giusta da fare. Fidarsi del dottore e andare contro la legge o rivelare le sue preoccupazioni a quel detective dall'aria amichevole?
–Direi di no– disse infine. La bugia non le costò molto, dato che dopo l'ultima visita del dottor Abel la sua fiducia nelle istituzioni era diminuita notevolmente.  –Del resto passo tutto il tempo qui dentro e ne esco solo per dormire un po'. È difficile che noti qualcosa di strano–. Sorrise, compiaciuta per aver tirato fuori una menzogna credibile.
–La capisco, anche il lavoro del detective spesso e volentieri si consuma lambiccandosi il cervello seduti a una scrivania– scherzò Lei. –Ma saprà almeno se i laboratori hanno iniziato qualche nuovo esperimento, nell'ultimo mese–.
Julia scosse la testa. –No, abbiamo già abbastanza studi per le mani e molti non hanno ancora avuto risultati–. Come la ricerca sulla riforestazione. Sospirò.
–Vorrei che mi parlasse del dottor Boskonovitch. Da quanto lo conosce?–.
–Da alcuni anni. Mi sono laureata con lui–.
–Oggi avrei voluto parlare con lui, ma in astanteria mi hanno detto che stava lavorando. Su cosa esattamente? In parole povere, la prego. Non me ne intendo di scienza– disse facendo un occhiolino.
Ciò strappò un sorriso dalle labbra della dottoressa. –Studia le mutazioni genetiche nell'uomo. In particolare come contrastare la formazione di quelle dannose e favorire lo sviluppo di quelle vantaggiose. Sa, a causa delle radiazioni sono diventate molto più numerose di quanto lo fossero nei secoli precedenti e se ne registrano di nuovi tipi in continuazione– spiegò con professionalità. –Si stupirebbe se sapesse quante persone al giorno d'oggi hanno mutazioni non evidenti. Alcuni non si accorgono nemmeno di averle, a meno che non gli si faccia una mappatura del DNA. Altre si rendono conto di avere qualcosa di strano, come capacità che nessun altro ha, e credono che si tratti di una malattia o addirittura di un dono soprannaturale. Ma le chiedo scusa, sto divagando!– disse con lieve imbarazzo.
–Invece è stata una spiegazione interessante, Dottoressa. Ci sono stati sviluppi in questo studio?–.
–Credo che la persona più indicata per rispondere sia lo stesso dottore. Anche se è stato il mio campo per alcuni anni ora mi occupo di tutt'altra cosa e lo aiuto solo di tanto in tanto–.
–Bene, direi che abbiamo finito– disse Lei alzandosi dalla sedia –Mi promette di chiamarmi se nota qualcosa di strano?–. Le porse un biglietto da visita elettronico con sopra lo stemma della polizia.
Julia lo prese e gli diede un'occhiata. Nel giro di qualche secondo l'immagine raffigurata cambiò lasciando il posto a una foto del detective e il numero con cui rintracciarla. L'aria da cittadino onesto che aveva in fotografia le sembrò quasi fatta apposta per ricordarle che aveva appena taciuto delle verità a un pubblico ufficiale.
–Certo– rispose, benché sperasse di non doverlo mai fare.
 
*
 
Sdraiata sulla sua brandina, Kunimitsu fissava il soffito cercando di costringersi a non urlare. Solo il tremito del piede indicava il suo nervosismo.
Non aveva idea di quante ore fossero passate da quando era entrata lì e le avevano portato da mangiare. Aveva dormito, forse un paio d'ore, poi si era svegliata e da quel momento era rimasta perfettamente immobile mentre ondate di panico la sommergevano a intervalli.
Si tirò sui gomiti e alzò lo sguardo su una videocamera che la occhieggiava beffardamente da un angolo. Si ributtò giù con un gemito di sconforto facendo cigolare le molle. Nelle ultime ventiquattro ore le erano successe un sacco di cose che avrebbero potuto tenerle occupate la mente, eppure riusciva a pensare solo a quanto si sentisse in trappola in quel momento.
"Le mie maledette pillole. Sto per andare in astinenza, cazzo". Poi si rese conto che se fosse andata avanti focalizzandosi unicamente su questo pensiero non avrebbe resistito a lungo.
Pensare, doveva pensare ad altro. Provò a recitare mentalmente un mantra di inenarrabili insulti diretti a Yoshimitsu, colui che l'aveva fatta richiudere in quella stanza, e questo parve farla sentire meglio. L'immagine dell'uomo mascherato richiamò quasi subito alla sua mente le parole che le aveva detto. Io sono il leader del movimento ribelle Manji e quello che ti sto chiedendo è, Kunimitsu: vuoi unirti a noi?.
Il suo cuore aveva sussultato a quelle parole in un modo che non credeva più possibile. Per la prima volta da quando suo nonno era morto qualcuno le aveva offerto una forma di redenzione da quella patetica vita da disadattati ai margini della società. Un tempo era stata piena di rabbia, quel genere di rabbia salutare che vorrebbe distruggere ogni cosa per ricominciare tutto da capo e raddrizzare ogni cosa storta. Un tempo aveva bruciato per la fiamma di quella rabbia, ma poi la vita l'aveva fatta soffocare. Aveva smesso di combattere contro ciò che la disgustava, aveva cominciato a trascinarsi nella sua esistenza come un fantasma, aveva conosciuto la droga e se n'era fregata di tutto.
L'unica cosa di cui le importava ancora era Hwoarang. Lui era come lei, anche lui aveva bruciato della stessa rabbia e poi si era spento. Lo conosceva da anni e aveva sempre vegliato su di lui come una sorella maggiore. Per lo meno fino in quel momento: ora che era lei quella nei guai non l'avrebbe potuto più proteggere. Chissà, forse non si sarebbero più rivisti.
Il pensiero la folgorò, ma prima che anche questa preoccupazione andasse a incrementare le ondate di panico, la porta si aprì facendone entrare Yoshimitsu.
Kunimitsu si tirò immediatamente a sedere.
–Oh, finalmente qualcuno si è degnato di farsi vedere!– sbottò lei, evidentemente spazientita. –Che ore sono?–.
–Mi stavo giusto chiedendo perché mi fischiassero le orecchie– scherzò Yoshimitsu sedendosi su una sedia accanto al letto. –È di nuovo notte. Hai dormito a lungo–
–Davvero? Devo aver perso la cognizione del tempo qui dentro–. Era già passato così tanto tempo? Non c'era da meravigliarsi che si sentisse scoppiare. Si chiese quanto ancora avrebbe potuto resistere senza pillole prima di cominciare a stare seriamente male. Si chiese se avebbe dovuto dirlo ma scoprì che esitava all'idea.
–Spero che tu abbia avuto abbastanza tempo per riflettere su quello che ti ho detto– esordì l'uomo. –Sentiti libera di scegliere, non sei obbligata a fare nulla che tu non voglia. Però…–
–Però?–.
–Però ricordati che se decidi di non essere dei nostri non potremo rimandarti indietro finché il compito del clan non sarà esaurito. Personalmente mi fido di te ma il clan non può rischiare che tu ci tradisca, magari senza nemmeno volerlo–.
Kunimitsu annuì a malincuore benché l’idea di starsene chiusa lì un minuti di più le facesse quasi scoppiare la testa. Aveva sentito numerose storie di persone che sotto tortura avevano accusato perfino i propri familiari innocenti. Chiunque sotto tortura sarebbe stato costretto a parlare. –Capisco–. 
–Bene. Allora…–. Yoshimitsu iniziò a parlare con una solennità così estrema da contrastare con la sua persona bizzarra –Ti ho esposto i nostri obbiettivi e ti ho chiesto se volevi servire la nostra causa, la causa di tutti coloro che sono stati schiacciati dal regime. Molti hanno dato la loro vita e molti ancora sono disposti a farlo finché il nostro obbiettivo non sarà stato raggiunto. I rischi a cui va incontro un membro del clan sono i più orribili che una persona possa correre, è bene che tu lo sappia. E di nuovo ti chiedo, Kunimitsu: vuoi far parte del Clan Manji?–.
Non ebbe bisogno di pensarci a lungo. Quelle parole risvegliariono la fiamma della rabbia sopita dentro di lei, le dissero che il suo cuore non era ancora morto. Kunimitsu si rese conto che aveva sempre saputo la risposta. –Sì–.
–Bene!– esclamò Yoshimitsu battendo le mani con gioia e distruggendo in un secondo la solennità del momento. –Sono davvero contento della tua scelta! Ora non ci resta che metterti alla prova–. Scattò in piedi.
–Prova? Quale prova!?– chiese una stupita Kunimitsu. Quando c'era di mezzo quello squilibrato le sorprese non finivano mai.
–Il resto del clan ancora non ti conosce e deve giudicare se sei degna di farne parte. Ogni vita è preziosa e ogni membro del clan rischia di perderla in ogni missione. Perciò per il loro bene non possiamo accettare persone che rischierebbero la loro vita inutilmente–.
–Per esempio?– chiese la kunoichi con un cattivo presentimento.
–Per esempio persone troppo giovani o che non sono in grado di combattere, niente malati, niente invalidi. Nessuno che dipenda da alcol o droghe sintetiche–.
Kunimitsu si sentì sbiancare sotto la maschera. Se prima si era chiesta se avrebbe dovuto parlare del suo problema con le pillole ora sapeva che non poteva assolutamente farlo. Se lo avesse detto sarebbe rimasta lì a marcire come in una prigione, la fiamma si sarebbe spenta di nuovo e il suo cuore sarebbe morto di nuovo. Non voleva più essere messa da parte. La testa prese a girarle.
–Mi… mi sembra giusto–.
–Bene, verrò a trovarti fra qualche ora– disse Yoshimitsu e fece per andarsene ma si fermò dopo qualche passo, colpito da un pensiero. –Oh, già…– mormorò rabbuiandosi istantaneamente. –C'è una cosa che dovresti sapere…–.
–Cioè?–.
Il leader del clan Manji si mantenne a distanza di sicurezza, esitante. –Beh, temo che mi ucciderai ma non penso ci sia un modo non traumatico per dirtelo–. Inspirò facendosi coraggio –La Cyberpolizia sospetta che tu sia una terrorista–.
Kunimitsu spalancò gli occhi dall'orrore. –Che cosa!? Com'è possibile? Pensavo mi cercassero solo per la droga!–.
Yoshimitsu abbassò lo sguardo. Strano come quella ragazza lo impaurisse più di un plotone di poliziotti della Squadra Speciale. –Sono riusciti ad avere una mia foto e… beh, ecco… pensano che tu sia me. Ti cercano al posto mio–.
La reazione della kunoichi fu proprio quella che si era aspettato.
–Che cosa?–. Kunimitsu saltò in piedi sul letto come se fosse stata punta da un serpente. –CHE COSA?– urlò con furia omicida. –Vuoi dire che tutte le fottutissime cose che mi sono capitate sono colpa tua, perché sei stato così IDIOTA da farti fotografare dalla polizia!?–.
Yoshimitsu indietreggiò portando le mani avanti. –Ti prego, stai calma! Sei al sicuro finché sei col clan!–.
Kunimitsu strinse i pugni fino a farsi sbiancare le nocche. Era così inverosimile da essere ridicolo. Avrebbe fatto a pezzi quel dannato parruccone e tutto il suo maledettissimo clan. –Io rischio di essere catturata e uccisa, scopro che è tutta colpa tua e tu mi dici di STARE CALMA?!–. Saltò giù dal letto e investì Yoshimitsu come un fulmine. Non ci vedeva più dalla rabbia. Ore e ore di spossante attesa in quella minuscola camera e poi scopriva che era tutta colpa sua. Se fosse morta, se fosse rimasta lì a marcire per sempre, se non avesse più rivisto Hwoarang sarebbe stata tutta colpa sua.
Desiderava solo prenderlo a pugni; e lo avrebbe fatto con immenso piacere, se mentre lo strattonava non avesse cominciato a tremare violentemente. Lo lasciò andare e barcollò indietro, stupita di quello che il suo corpo le stava facendo così d’improvviso.
Respirava velocemente e faticosamente, si rese subito conto di stare iperventilando. Panico o astinenza? Non lo sapeva. Forse tutti e due. Le tempie cominciarono a dolergli come se qualcuno ci avesse piantato dei chiodi, le labbra cominciarono a formicolargli, ogni cosa prese a vacillare sotto il suo sguardo che lentamente si annebbiava.
Cadde in ginocchio e l'ultima cosa che vide prima di svenire fu Yoshimitsu che l'afferrava per le spalle cercando di fermare i suoi tremiti.






*Spolvera le ragnatele* E rieccomi qua coi miei sporadici aggiornamenti!
Che dire di questo capitolo? Non molto avvincente, temo, visto che praticamente è tutto un andirivieni del povero Lei che, ahimé, non ci sta capendo niente, ma tutto ciò è necessario per il proseguimento della storia.
Ed ecco svelato chi è il misterioso personaggio del "caricamento dati in corso". Ma forse non era poi così misterioso, no? Direi che non ho certo un futuro da giallista ma almeno ci si prova, suvvia.


Krisalia Kinomya. Grazie! Kunimitsu ha bisogno di più fan, lo dico sempre (in quanto sostenitrice delle cause perse). Per quanto riguarda Lee...oddio, non credevo che avrei suscitato l'ira di qualcuno <.< Comunque non è mia intenzione dipingerlo come viscido e gigolò, visto che in fondo sembra che sia stata Nina quella a farsi avanti per prima (e come potrebbe Lee rifiutare?). Certamente lo vedo come un personaggio un po' ambiguo, assoggettato a un padre dispotico ma desideroso di rivalsa, ed è proprio per questo che lo trovo interessante e intendo svilupparlo di più nei prossimi capitoli.
Angel Texas Ranger. *inchino* Ma tranquilla che tanto mi sa che appuntamento è una parola grossa!
Nefari. Grazie, è bello sapere che i miei lettori non sono ancora morti di inedia :P
Miss Trent Basta con questi complimenti, potresti creare un mostro! :P Comunque, per quanto riguarda Dragunov... Lol, detto fatto xD A dire il vero quando ho iniziato questa storia non avevo pensato a inserire anche lui, principalmente perché non ho Tekken DR e quindi è un personaggio che conosco poco, ma mi serviva qualche altro agente sanguinario da affiancare a Nina, anche se so già che non sarà mai all'altezza del tuo Dragunov in "Neve e Sangue"!
sackboy97. Ai suoi ordini! 





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Capitolo 6
*** Addiction ***


6.    Addiction



Injustice made it's mark
All the political whores only come out after dark
If anyone knows the way
Build me a bridge so I won't fall astray

Inside four walls, inside four walls my friend
They took away your freedom
And the pigs still preach their lies

[Nevermore – Inside four walls]




7 Marzo 2191



Le porte scorrevoli dell’ufficio di Lee Chaolan, situato al penultimo piano del grattacielo della Mishima Zaibatsu, si aprirono senza alcun suono lasciando entrare una donna vestita di nero, dallo sgauardo serio e l’aria marziale.
–Stavo proprio pensando a te, Nina– disse Lee con un lieve sorriso mentre alzava lo sguardo dal computer su cui stava lavorando. –Vedo che almeno qui hai la compiacenza di entrare dalla porta–.
–Ovviamente, Lee. Siamo al centesimo piano–. Nina si sedette davanti alla scrivania senza mutare espressione, indifferente al tentativo di battuta di spirito dell’altro. –E io non faccio mai niente di inutile e innecessario–.
–Per questo sei l’Agente numero uno del Tekken Force– osservò Lee appoggiando la schiena al morbido schienale della poltrona. –Allora, ci sono novità? Come se la cava il nostro detective?–.
Nina fece una smorfia e incrociò le braccia. –Fin’ora ha fatto solo buchi nell’acqua. Si è perfino lasciato scappare il proprietario del White Crow. Se solo tu mi avessi dato il permesso di agire a quest’ora io…–.
–No– la interruppe Lee –Lasciamo che vadano avanti le pedine sacrificabili. Vedi, è come il gioco degli scacchi: posso permettermi di perdere un fante, ma non la mia preziosa Regina…–. Sorrise amabilmente, guardandola dritta negli occhi.
Nina parve non lasciarsi toccare nemmeno da quello sguardo. Anzi, assottigliò gli occhi, come una vipera pronta a mordere. –Non l’hai già persa, la tua preziosa regina?–.
Il sorriso sul viso dell’uomo si spense di colpo nel sentire la sferzata nascosta in quelle parole apparentemente calme e innocue. –Non è lei, la mia Regina. Sei tu– disse, con un tono di voce e un’espressione assolutamente seri. Non era il solito Lee galante e dongiovanni in quel momento.
–Davvero romantico…– sbuffò lei.
–La guerra è alle porte, Nina.– continuò l’uomo dai capelli argentei, continuando a guardarla negli occhi. Voleva essere certo che l’altra capisse pienamente il senso di quello che stava dicendo: parole che non avrebbe mai avuto il coraggio di pronunciare apertamente davanti a suo padre, motivo per cui si era personalmente accertato che la stanza fosse completamente isolata dall’esterno. –Mio padre è troppo assorto nei suoi sogni di immortalità per accorgersi pienamente della gravità della situazione. Ormai è chiaro che abbiamo dei nemici, nemici di cui sappiamo ben poco, e questo li rende ancora più pericolosi. E quando loro attaccheranno avrò bisogno di averti al mio fianco. Non a fianco della Mishima, non a fianco di mio padre. Al mio–.
–Ci sarò– tagliò corto lei –Come sempre. È solo per questo che mi hai chiamata?–.
–No– disse Lee –Voglio che tu vada a trovare l’ex-Regina–.  
Ora era il suo volto ad esibire una smorfia, una smorfia lieve, quasi impercettibile, ma in cui Nina riconobbe un amaro sarcasmo.
–Offrile una speranza prima che salga sul patibolo–.


*


Palpitazioni, stress, tic nervosi, capogiri, tremori, iperventilazione. Tutti chiari sintomi della Sindrome di Panico da Pre-appuntamento.
Ling Xiaoyu sedeva insieme a un mucchio di vestiti sul copriletto rosa confetto nella sua camera, intenta a mangiucchiarsi nervosamente le unghie, il che probabilmente le avrebbe causato un’ennesima ondata di panico una volta che si fosse resa conto che poi avrebbe avuto bisogno anche di una manicure; ma non riusciva a farne a meno, non a due ore dall'appuntamento col ragazzo che conosceva come Takeshi Kawamura. Ovviamente sapeva che non era un vero appuntamento, ma questo rendeva la cosa ancora più preoccupante. Cosa sarebbe successo? Non ne aveva idea.
Allungò la mano e afferrò il suo unico strumento di salvezza: il telefono.
–Pronto, Miharu?–.
–Ling!– rispose una voce eccitata almeno quanto lei –Stavo cominciando a preoccuparmi! Pensavo che mi avresti chiamata molto prima!–.
–Miharu, sono in preda al panico!– esclamò Xiaoyu continuando a divorarsi le unghie –Non so cosa fare! Non so come mi dovrò comportare! Non so nemmeno come vestirmi!–.
–Non hai ancora scelto?– chiese l'altra, stupita. –Ma cosa hai fatto fino ad ora?–.
–Oh beh– ridacchiò nervosamente. –Ho messo a soqquadro tutto il guardaroba cercando qualcosa di adatto ma non ho la più pallida idea di come vestirmi–. Tra sé e sé aggiunse –E fosse solo questo il problema…–.
–Perché non metti uno di quei tuoi vestiti tradizionali? Quello rosso lungo fino alle ginocchia–.
Xiaoyu si batté una mano sulla fronte. –Ma certo! Ma certo! Perché non ci ho pensato subito? È perfetto!– esclamò. E dir che aveva pensato a tutto tranne che a quello! A volte la sua amica riusciva a tirarla fuori dai guai con una semplicità sconcertante.
–Bene. E per il resto?–.
–Per il resto sono pronta. Devo solo darmi qualche ritocco– disse osservandosi le unghie martoriate. Sospirò. Avrebbe voluto parlare alla sua amica delle sue vere preoccupazioni, ma sapeva di non poterlo fare. La sua paura non era solo quella di uscire con la persona che sognava da anni. Avrebbe dato qualsiasi cosa perché le sue paure fossero davvero quelle di una ragazza qualsiasi nervosa per il suo primo appuntamento con un ragazzo qualsiasi, ma non era così.
–Tutto bene?– chiese Miharu, preoccupata dal suo silenzio –Sei nervosa?–.
–Da morire. Così nervosa che mentre ti parlo sto rimbalzando sul letto–. Suo malgrado rise perché in effetti era vero: non riusciva a stare ferma.
–Andrà tutto bene! Del resto è evidente che gli piaci, sennò non ti avrebbe mai chiesto di uscire con te, no?–. Benché Miharu cercasse di confortarla, quelle parole fecero l'effetto contrario; le ricordarono che Takeshi non era davvero interessato a lei, ma solo al suo silenzio, probabilmente. Questo pensiero la fece intristire immediatamente.
–Già, hai ragione…– mormorò, ben poco convinta.  


*


Seduto alla scrivania con la testa fra le mani, Lei Wulong si dedicava a pieno regime all'attività principale di ogni detective: pensare. E benché sapesse ancora poco su quale fosse la realtà, di cose a cui pensare ne aveva parecchie. Da una parte aveva tre persone scomparse nel nulla: Kunimitsu, il ragazzo dai capelli arancioni, latitante da anni, e adesso persino Marshall Law, sparito subito dopo aver mentito all'interrogatorio. Da un lato aveva il problema dei laboratori: una soffiata anonima indirizzava le sue indagini sulla Biotech, senza che nessuno si fosse preso la briga di denunciare qualcosa, e, come se non bastasse, non era ancora riuscito a parlare col dottor Boskonovitch, che dava l'aria di essere la persona più indaffarata della terra. Probabilmente sarebbe stato costretto a richiedere che si presentasse al distretto di polizia per poterlo interrogare e chiarire qualche mistero.
Per esempio: che collegamento c'era fra la Biotech e i terroristi? Non ne aveva idea. L'unica che avrebbe potuto fare luce sul rapporto tra gli antagonisti della Mishima e il dottor Boskonovitch era la Mishima stessa. Ma se i suoi laboratori si rifiutavano addirittura di aprirgli le porte, come avrebbe potuto scoprire qualcosa? Era strano, era incredibilmente strano. In molti anni di onorata carriera non gli era mai capitato di avere le mani così legate e di possedere così pochi mezzi. Era come giocare a moscacieca. Era come se qualcuno si stesse divertendo a vederlo brancolare nel buio.
Prese in mano il telefono. –Avete notizie di Marshall Law?–.
–Gli agenti lo stanno cercando. Hanno portato la sua collega in centrale per interrogarla ma continua a ripetere di non sapere dove sia andato. Io stesso sto presiedendo all'interrogatorio– rispose l'ispettore Hinagawa. –Altri ordini?–.
–Per il momento no. Continuate a tenerla sotto torchio e non disturbatemi per ora. Io continuerò a sondare l'archivio dal mio ufficio– disse Lei, poi attaccò la cornetta e si alzò. Sembrava che non ci fosse nient'altro da fare a parte aspettare. Ma il detective Wulong non era mai stato il tipo da starsene a costruire castelli mentali dietro una scrivania: doveva andare a vedere di persona, toccare con mano, e ora che il mistero si era infittito per via della telefonata anonima, voleva farlo da solo.


*


Quando riprese i sensi la prima cosa che Kunimitsu vide fu lo sguardo indemoniato della maschera di Hannya, galleggiante nelle tenebre. Le parve un cattivo presagio. Si agitò nel letto cercando di scacciare la fastidiosa immagine che la osservava attraverso il velo opaco del suo stato di semicoscienza. Ma non c'era niente da fare, Hannya continuava a guardarla con un'aria che alla kunoichi pareva di disapprovazione.
“Perché mi guardi così, demone?”.
Poi, improvvisamente, ricordò: aveva avuto una crisi. Per quanto tempo? Non ne aveva idea. Non se l'era aspettato, non avrebbe mai immaginato che l'assenza di quelle pillole avrebbe potuto provocargli una cosa del genere.
Hannya, o meglio, Yoshimitsu scosse lentamente la testa quando si rese conto che Kunimitsu si era ripresa.
–Perché non me l'hai detto subito?–. Il suo tono era calmo e gentile, ma a lei parve vibrare di rimprovero e delusione.
–Mi dispiace…– mormorò debolmente Kunimitsu con la voce impastata. Le dispiaceva davvero essersi ridotta così. Incapace di lottare, inutile per il clan, inutile per il suo mondo, tutto per colpa della sua debolezza. Sotto lo sguardo inespressivo della maschera si sentiva sprofondare.
–Mentre eri priva di sensi ci siamo presi la libertà di farti un'analisi del sangue– disse Yoshimitsu, con voce piatta, come se fosse un medico intento a dare una cattiva notizia a un paziente. La differenza qui era che Kunimitsu sapeva bene cosa avevano scoperto.  –Abbiamo trovato tracce di quella droga in capsule che chiamano H-Sinth. Ma questo ovviamente tu lo sapevi già. Sai, la gente dice che H stia per Heaven, anche se io la vedrei meglio come Hell–.
Kunimitsu restò in silenzio e se non fosse per il modo in cui stringeva i pugni si sarebbe potuto credere che fosse di nuovo addormentata.
–Suppongo che tu conosca già gli effetti di questa sostanza, ma quasi nessuno conosce tutti gli effetti collaterali. È bene che tu ascolti il Dottore– disse alzando lo sguardo.
La kunoichi trasalì accorgendosi solo in quel momento che c'era un'altra persona dall'altra parte del letto, un anziano che la guardava bonariamente. Lo scrutò attentamente e benché avesse la vista annebbiata lo riconobbe quasi subito. Era il famoso Dottor Boskonovitch che aveva visto spesso sui giornali, un pezzo di storia di Nuova Edo, uno degli scienziati che aveva reso possibile l'uscita dai bunker e la ricolonizzazione del mondo. Uno degli uomini più importanti di quel nuovo mondo.
–Lei…?– mormorò, stupita.
Il Dottore la guardò negli occhi senza mostrare alcuna reazione al suo stupore. –L'H-Sinth è in grado di creare visioni attraverso la stimolazione cerebrale– spiegò. –Finché l'effetto dura l'individuo crede che le visioni facciano parte di una realtà senza tempo, vera e felice. Come un Paradiso Sintetico, appunto. Ma ha un effetto collaterale gravissimo: è in grado di debilitare l'organismo a tal punto da non permettergli di funzionare correttamente una volta che essa venga sottratta. Per dirlo in parole povere è come se distruggesse sostanza nutritive necessarie e ne prendesse il loro posto. Così sì è obbligati a non smettere di prenderla. E non è nemmeno possibile disintossicarsi da soli, perché è pericoloso. È necessaria la presenza di un medico che somministri dei farmaci in grado di contrastarne gli effetti e reintegrare le sostanze che l’H-Sinth disgrega–.
Kunimitsu sapeva benissimo che un paradiso sintetico si paga a caro prezzo, eppure non immaginava che una sostanza così diffusa tra i vicoli e i locali della Zona Rossa nascondesse un veleno così potente. Nessuno le aveva mai detto che cosa fosse davvero in grado di fare. Ecco cos’era in verità l’H-sinth: non uno spiraglio di libertà ma uno strumento di controllo, un guinzaglio, una forma di schiavitù nascosta dietro il paradiso artificiale dell’evasione della realtà. Nient’altro che l’ennesimo lavaggio del cervello a cui lei aveva cercato di sottrarsi per tutta la vita. E invece ci era caduta in pieno.
La brutalità della verità in quelle parole gentili era insopportabile. Non disse niente, temendo che un tremito nella voce rivelasse agli altri due il suo turbamento.
–Che cosa vuoi fare adesso?– chiese Yoshimitsu.
–Perché, ho qualche scelta? Così sono inutile per il clan– rispose lei con amarezza. Probabilmente l'avrebbero tenuta rinchiusa lì dentro fino alla conclusione della loro missione, per giorni, mesi o forse anni, a consumarsi nella commiserazione o nell'astitenza finché non si fosse disintossicata. Probabilmente non si meritava nient’altro. Si chiese quanto del suo pessimismo fosse naturale e quanto fosse causato dalla privazione della droga.
A quel punto Yoshimitsu fece qualcosa che la stupì. Si sedette sul letto e le afferrò il polso con la stretta della fredda mano robotica. –Certo che cel'hai, non essere idiota– disse bruscamente. –Tutti hanno una scelta, Kunimitsu–. Sempre tenendola per il polso guardò Boskonovitch. –Non è vero, Dottore?–.
Kunimitsu, che in altre occasioni avrebbe spaccato la testa a chiunque si fosse permesso di darle dell'idiota, si tirò a sedere sul letto senza dire niente, sentendo rinascere una debole speranza.
Il Dottore annuì. –Puoi ancora entrare nel clan, se lo desideri. Devi solo disintossicarti. Qui abbiamo alcuni medici validi che ti possono aiutare e assistere secondo i procedimenti tradizionali–.
–Ma ci vorranno settimane, forse mesi perché io guarisca!– protestò lei –E nel frattempo cosa dovrei fare?–.
I due uomini si scambiarono un'occhiata. –Ecco…– cominciò Boskonovitch, esitante.
–Glielo dica, dottore. È giusto che sappia che c’è un’altra possibilità–.
–Ecco… sì, esiste un altro metodo più veloce, ma è ancora in fase di sperimentazione. Si tratta di iniettare nel sangue un composto in grado di eliminare le tossine dal tuo corpo in un paio di giorni. Ma devi sapere che è estremamente doloroso e anche pericoloso per chi non si trova in condizioni fisiche ottimali. Non te lo consiglio–.
Kunimitsu capì dall'espressione grave del dottore che non le stava mentendo.
–Quanto doloroso?– chiese, trepidante.
–Ben al di là dei normali limiti di sopportazione– rispose il dottore. Serrò le labbra. Era ovvio che avrebbe preferito non ricorrere a quel mezzo e forse sperava che Kunimitsu non accettasse di farlo.
La ragazza si voltò verso Yoshimitsu. Non aveva detto una parola ma continuava a stringerle il polso, forse non rendendosene conto a causa dell'insensibilità dell'arto. Avrebbe pagato qualcosa per sapere con che espressione la stava guardando in quel momento. Apprensione, curiosità, incoraggiamento? Ma non lo sapeva. Avrebbe dovuto decidere da sola, come aveva sempre fatto.
Si girò verso il dottore. Sospirò. –Non importa. Lo farò–.
 

*


La dottoressa Chang, seduta alla sua scrivania, faceva scattare il tappo di una penna in attesa che arrivasse l'ora di chiusura dei laboratori e i ricercatori uscissero. Non era insolito per lei restare fino a tardi, ma stavolta aveva altri motivi che non riguardavano i suoi studi sulla riforestazione. Non sapeva bene cosa avrebbe dovuto fare, ma sapeva che tanto se fosse andata a casa quella sera non avrebbe dormito comunque: era troppo agitata.
La visita del poliziotto sembrava aver confermato tutte le sue paure: c'era davvero qualcosa che non andava. Possibile che lei fosse la sola in tutta la Biotech ad essersene accorta? "Prima la strana visita notturna del dottor Abel, poi il dottor Boskonovitch che si comporta come se fosse una cosa normale, poi l'arrivo di un poliziotto che chiede di parlare proprio con me. E come se non bastasse ora il dottore è irrintracciabile sul cellulare, sparito subito dopo essersi occupato del suo esperimento!". Julia non era mai stata una dal temperamento nervoso, ma quella situazione le faceva saltare i nervi.
"Ricapitoliamo" pensò. "Il dottor Abel crede che sia stato sottratto qualcosa dai laboratori Mishima e il dottor Boskonovitch dice di non saperne nulla. Chi dei due mente? Se vogliamo dare ascolto al detective e qui sta succedendo davvero qualcosa di strano, allora dovrebbe essere Boskonovitch a mentire. Possibile che mi stia nascondendo qualcosa? A me, che sono la sua assistente da anni?". Julia lasciò andare la penna e si massaggiò le tempie. Non riusciva credere che il dottore fosse dietro a qualcosa di losco, lo conosceva come una persona irreprensibile, una sorta di benefattore dell'umanità. Eppure, andando a ripescare nei suoi ricordi recenti, c'era davvero qualcosa di strano. "Non solo sparisce in continuazione, il che è comunque scusabile dato che forse, a differenza di me, dovrà pur avere una vita privata, ma riceve un sacco di messaggi cartacei anonimi. Possibile che mi stia nascondendo qualcosa? A me, che sono la sua assistente da anni, che ho le chiavi di tutte le stanze dei laboratori?". Julia sussultò a quel pensiero. Non era vero che aveva tutte le chiavi perché c'era un posto a cui nemmeno lei poteva accedere: uno degli scomparti del magazzino.
Uscì dal suo laboratorio e si guardò attorno, per paura che ci fosse qualcun altro che tirava tardi come lei, ma ormai in giro non c'era anima viva. Anche se non aveva le chiavi voleva comunque andare a dare un'occhiata di ricognizione con la speranza di scoprire qualcosa, perciò prese l'ascensore e scese fino ai sotterranei.
Quando varcò la soglia del buio e immenso magazzino il cuore prese a batterle più forte. Passò in fretta in mezzo ai lunghi scaffali polverosi, pieni di ogni sorta di strumenti e materiali di varia natura in attesa di essere utilizzati. Ciò che le interessava erano le porte che si aprivano in fondo allo stanzone e che contenevano gli oggetti più preziosi. Julia ne superò nove su cui campeggiavano scritte come "Innesti Biomeccanici" e "Microcircuiti elettronici". L'ultima non aveva scritte ed era proprio quella di cui nessuno, eccetto il dottore, aveva la chiave.
Julia restò a guardarla, sospirando. Se davvero era stato sottratto qualcosa ai laboratori Mishima quello era il posto più probabile in cui nasconderlo. Sapeva che se voleva davvero entrarci doveva prima rubare la chiave al dottore e aveva già qualche idea su come fare. Ma ne avrebbe avuto il coraggio?


*


Quando il sole tramontava certi quartieri della Zona Rossa calavano nel buio più totale. Nessun lampione illuminava le vie e le uniche luci accese erano quelle delle stanze popolate negli Edifici Abitativi, quelle enormi moli di cemento che si innalzavano contro il cielo come una gigantesca e sgraziata arca di Noè senza speranza.
Eppure era proprio dopo il tramonto che le strade si riempivano di più. Ogni genere di persona abbandonava i propri rifugi per occuparsi di ogni sorta di affari più o meno leciti, piccoli capanneli si formavano a ogni angolo per scambiarsi notizie. Fra tutto questo via vai e il sussurrare concitato sembrava che solo una persona se ne stesse in disparte, passeggiando senza meta per le strade, in preda ai pensieri.
–Cazzo– sibilò Hwoarang dando un calcio a una lattina sfuggita da una busta della spazzatura. Nonostante i lividi e le ferite ricevute al suo ultimo incontro con gli scagnozzi di Feng Wei, da allora non si era fermato mai un momento. Aveva racimolato tutti i suoi risparmi, era persino andato a reclamare i suoi soldi da quelle poche persone che erano in debito verso di lui, ma quello che aveva raccolto non era nemmeno la metà della somma che doveva al capomafia.
"Sono con le spalle al muro" pensò. "Che cosa dovrei fare? Scappare? Macché. È impossibile uscire da Nuova Edo a meno che non si abbia abbastanza soldi per pagare alla fottuta frontiera. Mi costerebbe meno saldare il debito con Feng Wei! E da quando le altre città ci hanno messo l'embargo non c'è nemmeno una maledettissima areonave commerciale per imbarcarmi come clandestino. Sono rovinato, rovinato… Non saprei nemmeno a chi chiedere un prestito. A Marshall? No, non posso farlo. Non dopo che gli ho dato del vigliacco, maledizione. Forsei potrei rapinare una banca… Ehi, ma dove diavolo sto andando?".
Si fermò, cercando di capire dove fosse andato a finire a furia di girovagare nel buio. Un sorriso beffardo gli si dipinse sulle labbra livide quando se ne rese conto. Nonostante tutto era finito a un tiro di schioppo dal White Crow, come se i suoi passi infingardi l'avessero portato proprio dove per orgoglio aveva deciso di non andare.
"Sembra che nonostante tutti i miei propositi di uscire da solo da questa situazione del cazzo io mi ritrovi sempre a sperare nell'aiuto degli altri. Beh, già che ci sono posso andare a dare un'occhiata al pub. Se Marshall ha davvero messo al sicuro Kunimitsu forse potrebbe mettere al sicuro anche me. O almeno potrei chiedergli scusa…".
L'insegna al neon, raffigurante un corvo bianco dalle ali spiegate, era già vicina quando qualcuno esclamò –Ehi, tu!– e gli afferrò con forza la spalla dolorante.
–Ahia, e che cazzo!– esclamò Hwoarang voltandosi verso l'uomo che lo aveva fermato così bruscamente. Si ritrovò di fronte a un cinese che portava i lunghi capelli neri legati in una coda. Un altro scagnozzo di Feng Wei venuto a reclamare soldi? Ora sì che stava per perdere la pazienza.
–Basta! Ne ho abbastanza di voi e dei vostri cazzo di soldi! – ringhiò Hwoarang, cercando di divincolarsi dalla presa –Il tuo capo mi ha detto che ho una settimana di tempo, quindi perché non mi lasciate in pace? Che è, si è rimangiato la parola?–.
L'altro uomo sgranò gli occhi, senza capire. –Che cosa?–.
Hwoarang impallidì a vista d'occhio. A causa del buio non era riuscito a scrutare bene il suo assalitore, ma ora che lo guardava meglio si rese conto che quell'uomo non aveva per niente l'aria opulenta del mafioso. Piuttosto aveva l'aria di…
–Oh, merda! Uno sbirro!– esclamò il ragazzo liberandosi dalla presa grazie all'attimo di smarrimento dell'altro uomo. Fece uno scatto e corse via più forte che poteva verso i vicoli da cui era uscito. Non era ridotto bene ma liberarsi degli inseguitori era sempre stata una delle sue specialità più ammirate da tutti gli sbandati del suo Blocco.
–Fermo!– intimò il poliziotto mentre lo inseguiva. –Detective Wulong, Polizia!–.
–Col cazzo!– gridò Hwoarang mentre sfrecciava in un vicolo, forse, si trovò a pensare, lo stesso in cui era passata Kunimitsu per seminare i cyberpoliziotti. Dei bidoni gli sbarravano la strada; ci saltò sopra e con un potente calcio li spedì a rotolare alle sue spalle.
Con la coda dell'occhio vide il detective intento a schivarli goffamente. Esultò mentalmente: nonostante le sue ferite era ancora in grado di dare del filo da torcere a uno schifoso piedipiatti.
–Fermati! È un ordine!– gridò ancora il poliziotto unendo il suono della sua voce a quello dei loro passi veloci. Un momento dopo Hwoarang sentì degli spari riecheggiare fra i muri di cemento.
–Fanculo, questo mi ammazza!– ansimò il ragazzo coprendosi le mani con la testa, per reazione istintiva. Si voltò un solo istante per vedere se il poliziotto mirava a lui o al cielo, ma ciò gli fu fatale. Inciampò in un groviglio di cavi di scarto e cadde lungo disteso al suolo.
Il poliziotto fu subito su di lui. –Hai finito di scappare, terrorista!– esclamò Lei Wulong con il fiato spezzato dalla corsa mentre gli bloccava le mani dietro la schiena. –Ti ho riconosciuto subito anche con quella faccia piena di lividi!–.
–Terrorista!?– esclamò Hwoarang, sbigottito, mentre cercava di liberarsi dalla presa con tutte le sue forze, ma in breve sentì la temuta stretta delle manette che si chiudevano attorno ai suoi polsi. –Ma che dici, sbirro, sei suonato?–.
–In piedi!– grugnì il detective afferrando Hwoarang e tirandolo su in malo modo.
–Amico, devi avermi preso per un altro!– replicò il ragazzo barcollando per la spinta. –Io non so niente di terroristi!–.
–Ah no?– replicò il detective con uno sbuffo divertito. –E allora perché sei scappato?–.
Hwoarang si assestò in piedi e rivolse al poliziotto uno sguardo di sfida. –Perché, ho anche bisogno di un motivo per scappare da uno di voi cani rabbiosi? Credi che non sappia cosa fate a quelli come me?–.
–Bada a come parli, ragazzo– lo ammonì Lei afferrandolo per un braccio e dandogli una scrollata. –Su, in marcia!–.
Il detective si avviò tra i cumuli di rifiuti trascinando con sé uno Hwoarang estremamente recalcitrante.
–Li pestate a sangue, più di quanto quegli altri bastardi non abbiano già fatto con me– continuò con uno sguardo carico d'odio. Ma il poliziotto continuava a camminare senza degnarlo di un'occhiata.
–Se non parlano, passate a maniere ancora più dure e meno lecite. Finchè il poveraccio non è costretto ad ammettere anche colpe che non ha commesso e a fare i nomi di altra gente. Anche gente innocente, tanto per voi è uguale. No?–.
–Sciocchezze– rispose Wulong guardando dritto davanti a sé.
–Per voi basta che uno abiti nella Zona Rossa ed è già un pericolo pubblico. Quanti di noi avete già portato nell'Isola, eh? Per voi siamo carne da macello!–.
–Ora basta!– esclamò l'altro, punto sul vivo. Si fermò e lo afferrò per il bavero, guardandolo dritto negli occhi. Non amava le maniere forti, ma quel tizio sembrava costringerlo a usarle; non poteva lasciare che continuasse a infangare il nome della Cyberpolizia con delle false accuse. –Chi ti ha raccontato queste bugie? La polizia non fa cose del genere!–.
Hwoarang avrebbe alzato un sopracciglio per manifestare la sua incredulità, se la sua faccia non fosse stata così dolorante. –Sbirro, o sei un grandissimo paraculo o sei la persona più ingenua della terra–.
Stava per aggiungere altro quando un movimento a poca distanza attirò la sua attenzione. Un folto gruppo di uomini dall'aspetto poco rassicurante aveva fatto il loro ingresso a pochi passi da loro. Hwoarang non li conosceva, ma a giudicare dagli ideogrammi e dagli stemmi che avevano cuciti sui vestiti di pelle, si trattava di una banda di motociclisti. Sgranò gli occhi, incredulo per la sua fortuna.
–Ehi, ragazzi! Guardate qui, uno sbirro!– urlò con quanto fiato aveva in gola.
Gli uomini girarono alla testa all'unisono e in breve sulla faccia di molti di loro apparve un ghigno divertito.
–Guarda guarda…– disse un uomo non più tanto giovane che aveva l'aria di essere il capo. Portava una maschera antismog sulla parte inferiore del volto e teneva i capelli ingrigiti legati in una coda. Aveva uno sguardo severo e penetrante e, a giudicare dal taglio degli occhi, doveva essere anche lui di origine koreana. –Uno sbirro di  merda ha catturato un ragazzo e a quanto vedo lo ha anche riempito di botte. E nella nostra zona, per di più! Vi sembrano cose da farsi, ragazzi?–.
Gli altri teppisti, sghignazzando, fecero segno di no e cominciarono avvicinarsi lentamente ai due. Alcuni tirarono fuori dei coltelli, altri dei nunchaku, altri delle mazze da baseball.
Questa volta fu il detective a impallidire. –No, vi sbagliate! Non l'ho picchiato io!–.
–ADDOSSO!– gridò il capobanda alzando un braccio contro il cielo. In men che non si dica tutta la schiera di teppisti fu addosso al malcapitato poliziotto, gridando e roteando le loro armi come dei guerrieri all'attacco in un campo di battaglia.
Lei Wulong, vedendosi in netta minoranza, fu costretto a scappare a darsi immediatamente alla fuga. Cercò di trascinarsi dietro il suo prigioniero ma questi gli faceva una tale resistenza che dopo pochi passi fu costretto a mollare la presa.
E fu così che Hwoarang cadde rovinosamente al suolo per la seconda volta nel giro di qualche minuto.
–Cazzo, che botta…–.
Restò a guardare l'asfalto mentre le grida si allontanavano. Si sentiva stanco, incredibilmente stanco. Quasi quasi se ne sarebbe rimastò lì disteso ad arrendersi al sonno, ma qualcuno lo prese per un braccio e lo tirò su. Era il capo della banda.
–Grazie, amico. Mi avete salvato la vita– farfugliò.
–Di niente, ragazzo– disse l'uomo dandogli una vigorosa pacca sulla spalla dolorante. Hwoarang strinse i denti e strabuzzò gli occhi.
–La mia banda non lascia nessuno in mano a uno sporco sbirro, quanto è vero che mi chiamo Baek Doo San. Ora vieni con me, andiamo a raggiungere gli altri. E poi troveremo qualcuno in grado di aprire queste manette–.  
E così i due si avviarono nel buio della Zona Rossa seguendo le grida in lontananza.
 

*


Kunimitsu osservava con apprensione il dottor Boskonovitch mentre questi faceva su e giù per il laboratorio, manovrando fiale piene di liquidi dai colori strani e strumenti elettronici. Se ne stava semisdraiata su una comoda poltrona reclinabile, simile a quella di uno studio dentistico, situata al centro della sala, eppure non riusciva minimamente a rilassarsi. Di certo le cinghie di cuoio con cui era stata legata al lettino non erano d’aiuto.
–È solo per evitare che tu ti faccia male. Sai… nel caso che tu abbia degli spasmi– spiegò Yoshimitsu, in piedi accanto a lei.
–Se stai cercando di rassicurarmi non ci stai riuscendo per niente– osservò Kunimitsu con un certo sarcasmo.
–Se non vuoi farlo sei ancora in tempo per tornare indietro, sai?–.
–No, voglio farlo. Devo farlo–. Era la sua scelta, solo sua, e non sarebbe tornata indietro. In fondo le sembrava abbastanza equo passare qualche minuto o qualche ora di sofferenza pur di redimersi dagli anni di stupidità che aveva vissuto, sprecando la sua vita con l’H Sinth.
Il dottore si avvicinò. Aveva uno sguardo serio in volto e teneva una piccola siringa piena di liquido cristallino in mano. –Siamo pronti?–.
La kunoichi annuì. –Sì–.
–Ti spiego un’altra volta come funziona. Inietterò questo siero nel tuo braccio. Impiegherà circa dieci secondi per cominciare a fare effetto, dopodiché le tossine rilasciate dall’H-Sinth inizieranno ad abbandonare il sistema circolatorio e i tessuti. Questa prima fase sarà breve, ma estremamente dolorosa. Chi l’ha provato ha detto…–
–…che preferirebbe morire che essere sottoposto di nuovo a qualcosa del genere– continuò lei, ripetendo parole che il dottore le aveva già detto più volte, forse nella speranza di dissuaserla –Ma non si preoccupi, non ho intenzione di averne bisogno di nuovo–.
Le venne quasi da ridere. Sembrava così forte e sicura di sé mentre diceva queste cose, eppure la realtà era che stava morendo di paura e se non stava tremando era solo perché le cinghie erano troppo strette per permetterle di muoversi. Guardò Yoshimitsu, chiedendosi se fosse in grado di leggere la realtà, se riuscisse a vederla al di là della sua maschera, ma l’espressione di Hannya era sempre la solita, inamobivile, e lei non era in grado di sapere di più.
–Permettimi di sollevarti la maschera un istante– disse lui ad un certo punto –È meglio se tieni qualcosa tra i denti, così non rischierai di staccarti la lingua–.
Kunimitsu sbuffò, non molto contenta di sentirsi parlare di lingue staccate quando già stava facendo un’immensa fatica a mantenere il suo autocontrollo. –Certo che tu sai proprio come mettere una ragazza a proprio agio, eh? Avanti, muoviti–.
Yoshimitsu non disse una parola a sua discolpa: in effetti era meglio se la kunoichi se ne stava concentrata a considerarlo la persona più indelicata sulla faccia della Terra, piuttosto che pensare a quello che stava per fare. E sì, lui lo sapeva che stava morendo di paura. Era abbastanza sicuro che in condizioni normali Kunimitsu non avrebbe permesso a nessuno di sollevare la sua maschera e che piuttosto gli avrebbe affettato una mano, anche da legata com’era. Invece non disse niente mentre lui le scopriva la metà inferiore del viso e le metteva un rettangolino di gomma fra le labbra rosee. Lei lo strinse fra i denti, contenta di aver qualcosa a cui aggrapparsi fisicamente, qualcosa su cui concentrarsi.
–Iniziamo– disse il dottore con tono grave e senza indugiare oltre si avvicinò al fianco della ragazza. Il sottilissimo ago entrò nella pelle senza difficoltà e per alcuni momenti l’unica cosa che la kunoichi potè sentire fu quella lieve puntura e una curiosa sensazione di freddo che si spandeva lentamente nel suo braccio, mentre il fluido scorreva nelle sue vene. Le fece venire un brivido, ma in fondo non era così spiacevole.
Poi, man mano che i secondi passavano, iniziò a capire con assoluta precisione perché le persone che si erano disintossicate in quel modo avrebbero preferito la morte piuttosto che farlo di nuovo.
Era terribile.
Era come se stesse bruciando dentro, come se quel ghiaccio incandescente nelle sue vene stesse divorando la sua carne e scavando le sue ossa. In quel momento avrebbe dato qualsiasi cosa per tornare indietro, avrebbe voluto piangere, avrebbe voluto urlare, ma teneva i denti così stretti attorno a quel pezzo di gomma che non riuscì a emettere alcun suono. Avrebbe addirittura invocato la morte, se solo avesse potuto, ma non riusciva a parlare e le cinghie premevano così tanto sulla sua pelle da impedirle non solo di abbandonarsi agli spasmi che la scuotevano, ma anche di fare qualsiasi gesto volontario.
No, non poteva scappare a quel dolore micidiale, poteva solo resistere. Resistere e sperare che passasse presto.
Per sua fortuna, dopo quello che a lei parve un tempo infinito, ma che in realtà dovettero essere solo pochi minuti, i suoi sensi cominciarono ad affievolirsi: si appannò la luce al neon del laboratorio, si attutirono i suoni e infine si attutì anche la sua percezione del dolore, finché i sensi non l’abbandonarono del tutto e non sentì più nulla. Non sentì nemmeno la mano di Yoshimitsu posata sul suo braccio ancora scosso da fremiti.
–Sono fiero di te, Kunimitsu…–


*


Seduto su una cassa di lattine davanti a un falò Hwoarang guardava con riconoscenza i polsi arrossati ma ormai liberi da manette.
Attorno a lui era tutto un rombare di motociclette e uno schiamazzare di gente riunita attorno a dei bidoni in cui danzavano le fiamme, rimedio antico contro il buio e il freddo in un angolo della città in cui anche la tecnologia basilare sembrava non essere ancora arrivata. I membri della banda avevano messo in fuga il poliziotto e ora si erano ritirati in uno dei loro luoghi di ritrovo: un’ampia spianata nel bel mezzo di un cantiere edile abbandonato ormai da anni.
–Ehi!– tuonò una voce gioviale alle sue spalle. Hwoarang si girò appena in tempo per vedere il capo della gang sedersi accanto a lui e porgergli una lattina di birra. –Tieni, non fare complimenti. Per stasera sei nostro ospite–.
Il ragazzo prese la lattina mormorando un ringraziamento e rimase a guardare le fiamme che danzavano di fronte ai suoi occhi, senza dire una parola. Ora che finalmente era fuori pericolo la stanchezza accumulata negli ultimi giorni gli era piombata tutta addosso assieme alla consapevolezza di quanto fosse dura la situazione in cui si trovava. Non solo la mafia, ma ora come se non bastasse anche la polizia gli stava alle calcagna e benché non ne sapesse il motivo aveva la netta sensazione che la scomparsa di Kunimitsu c’entrasse qualcosa: troppe coincidenze legate al White Crow. Ma se anche il pub era ormai troppo pericoloso per lui dove poteva rifugiarsi in una situazione del genere?
Si sorprese a pensare a quanto fino ad ora fosse dipeso dall’aiuto degli altri: Kunimitsu, Marshall, la gang di motociclisti. Forse, dopo tutto, la sua indole da ribelle e da fuorilegge non era altro che spacconaggine, una maschera per mostrarsi più forte di quanto in realtà fosse.
–Non per farmi i fatti tuoi…– disse Baek, interrompendo il corso dei suoi tetri pensieri –Ma com’è che quello sbirro ce l’aveva con te?–.
Hwoarang fece un’alzata di spalle. –Sembra che mi abbia scambiato per un terrorista–.
–Terrorista?–. Un guizzo passò negli occhi dell’uomo, ma il giovane non lo notò, assorto com’era a fissare il nulla nel fuoco. –Strano. Non sento mai nominare la parola “terrorismo” dalla polizia e, credimi, io con quella merda ci ho avuto a che fare più spesso di quanto possa piacermi, quindi so come funziona la loro testa. Ai piani alti non piace che girino voci su gente a cui non piace il governo. Vogliono che la gente creda di vivere in un fottuto mondo felice. Perciò se sei nemico dello stato gli sbirri preferiscono levarti di mezzo senza fiatare–.
Hwoarang annuì distrattamente, gli occhi persi nel fuoco, meritandosi così un doloroso scappellotto dietro al collo.
–Oh! Per che cos’era quello!?– gridò, confuso da quella mossa inaspettata.
–Non mi stai ascoltando, ragazzino! Hai capito cosa ti ho detto?–.
–Sì sì…– mugugnò Hwoarang, massaggiandosi dietro il collo. “Ma cosa vuole questo vecchio pazzo? –La polizia non parla mai di terrorismo, e quindi?–.  
–Avrai sentito parlare delle esplosioni nell’Inner Core, no? O sei uno di quegli sfattoni drogati che stanno tutto il giorno sdraiati sul marciapiede mentre questo mondo di merda gli vomita addosso?–.
Hwoarang lo guardò con perplessità. Quel Baek aveva un’aria gioviale e tranquilla all’inizio, pur essendo il leader di una banda di malviventi, ma improvvisamente si era animato di una severità e di una rabbia che non si sarebbe aspettato nemmeno da uno come lui. Diamine, faceva quasi paura.
–Sì che ne ho sentito parlare, per chi mi hai preso!? E ho capito cosa vuoi dire. Pensi che il fatto che la polizia sia in movimento voglia dire che le voci sono vere? Che finalmente c’è una Resistenza all’opera?–.
–Bene, sei sveglio dopo tutto. Per un momento ho pensato che tu fossi una di quelle nullità dal cervello bollito– disse Baek dandogli una pacca sulla spalla. –Come ti chiami, ragazzo?–.
–Mi chiamano Hwoarang–.
–“Hwoarang”?–. Baek parve sorpreso. –Il titolo onorifico che si dava ai giovani guerrieri sotto il regno di Chinhung nel VI secolo Dopo Cristo?–.
Ora era Hwoarang a essere sorpreso. Da quando gli stati non esistevano più, spazzati via dalla guerra, quasi ogni forma di cultura e tradizione locale, compresa la storia nazionale, era scomparsa sotto l’imperante globalizzazione. Il regime aveva cancellato la storia dei popoli per far posto al glorioso racconto di come Heihachi Mishima avesse riportato il benessere, perciò dopo tanti anni di governo totalitario era una rarità incontrare gente che avesse una memoria storica che arrivasse a un secolo prima dello scoppio del conflitto nucleare. Lui stesso non ne sapeva granché, a dire il vero: aveva solo incontraro il nome “Hwoarang” in un vecchio trattato d’arti marziali e lo aveva adottato come suo perché gli era parso figo. Punto.
–Sì, perché?–.
–Non è che per caso pratichi il Taekwondo?–. Avrebbe potuto giurare che in quel momento gli occhi da falco di Baek stavano brillando.
–Sì. O meglio, lo praticavo qualche anno fa…– rispose, sempre più perplesso. –Poi il mio maestro si è fatto arrestare–.
Trasalì letteralmente quando l’uomo balzò in piedi di colpo, animato da un’energia straordinario. –Ragazzo, è il tuo giorno fortunato! Io sono 5° Dan!–.
–…e quindi?–.
–E quindi hai trovato il tuo nuovo maestro!–.
Hwoarang scoppiò in una mezza risata. Sì, certo, come se con tutto quello che gli era crollato addosso avesse ancora tempo per dedicarsi alle arti marziali!. –Mi spiace vecchio, ma non mi interessa. Ho troppi casini per darmi allo sport–.
Un’altra manata gli piombò fra capo e collo, facendogli quasi strabuzzare gli occhi.
–OOH! La vogliamo finire!?– gridò.
–Punto uno– sibilò Baek, visibilmente alterato, puntandogli l’indice contro il petto –Il Tae Kwon Do non è uno sport: è uno stile di vita, è una filosofia, è ferrea disciplina… solo un debole abbandona! Tu sei un debole?–.
“Debole”. Quella parola affondò come un pugnale. –No che non lo sono!–.
–Punto due: lo so che sei nei casini. Cazzo, basta guardarti come sei ridotto in faccia. Per questo ti sto offrendo una soluzione– disse, continuando ad affondargli il dito nel petto.
–E quale sarebbe?–.
–Punto tre…– continuò l’altro, ignorandolo bellamente –Io non sono vecchio, ok? Non ho nemmeno 50 anni!–.
–Ma quale sarebbe la soluzione?– chiese ancora Hwoarang, piuttosto spazientito.
Baek lo guardò dall’alto, il volto fiero e deciso solcato da un sorriso che era insieme burbero e benevolo. –Entra nella gang. Ci chiamiamo Sam-Jang, “Fuoco”. Troverai un maestro e forse anche la fine dei tuoi problemi–.
Il ragazzo restituì lo sguardo con un’espressione un po’ sconvolta. Chi era questo vecchio pazzo che sembrava così deciso a sconvolgergli la vita? –Ma se non ho nemmeno una cazzo di moto! –.
–Non ti serve una cazzo di moto, cretino– brontolò l’altro –Ti serve solo un’occasione per rialzarti, e io te la sto offrendo–.


*


Quando l’Agente Williams aprì la porta della stanza degli interrogatori non poté impedire al suo volto solitamente serio di contrarsi in una smorfia di disgusto. Il pensiero del colloquio totalmente indesiderato che le toccava fare era quasi fastidioso quanto la patetica vista che le si profilava davanti.
Una donna stava seduta con i gomiti poggiati sul tavolo e le mani fra i capelli rossi, esausta per le lunghe ore di interrogatorio. Sollevò la testa al sentire la porta che si apriva e i suoi occhi cerchiati si spalancarono dalla sorpresa.
–Cosa ci fai tu qui!?– protestò riprendendosi istantaneamente dalla sonnolenza –Rischi di far saltare la copertura!–.
Nina sollevò imperiosamente una mano zittendo l’altra donna. –Ho un lasciapassare. E comunque la vera domanda non è cosa ci faccio io qui. La vera domanda è cosa ci fai tu qui, Anna– replicò squadrando l’altra donna dall’alto in basso, con sufficienza. Guardandola si rese conto che in tutto quel tempo sua sorella non le era mancata per niente. –Non ti sei ancora chiesta perché la Squadra Speciale ti abbia portato qui pur sapendo benissimo chi sei? –.
–Certo– sbottò Anna –Nessuno al di fuori della Squadra Speciale deve sapere chi sono. Se il detective Wulong e i suoi compagni di squadra venissero a sapere della nostra esistenza sarebbe un…–.
–Sbagliato– la interruppe nuovamente Nina. Scosse lentamente la testa abbozzando un sorriso ironico. Ridicola. Le veniva quasi da ridere. –Anna, Anna, Anna… Possibile che tu non ci sia arrivata da sola? Pensavi davvero che l’avresti fatta franca a lungo?–. Si sedette anche lei mentre Anna ricambiava il suo sguardo con improvviso e crescente orrore.
–C-cosa?– balbettò.
–Del resto non me ne stupisco: il doppio gioco è sempre stata la tua specialità. È stata la tua abilità a guadagnarti la fiducia delle persone che ci ha permesso di arrestare molti oppositori del regime, in passato. Ma pensavi davvero di ingannare il Tekken Force con le sue stesse armi?–.
–Io non so di cosa tu stia parlando– replicò Anna tentando di apparire sicura di sé, ma le ore di interrogatorio avevano già esaurito i suoi nervi; un tempo forse avrebbe resistito per giorni interi ma ormai non era più quella di una volta.
–Ah no? Cominciamo dal principio, allora–. Nina si rilassò appoggiando la schiena contro la sedia mentre continuava a gettare il suo sguardo gelido sulla persona che le stava di fronte. La odiava, l’aveva sempre odiata. Ora si sarebbe presa tutto il tempo necessario per assistere con compiacimento alla capitolazione di quella donna che, pur possedendo il suo stesso sangue, aveva per lei lo stesso valore di una spina nel fianco.
–Due anni fa i Mishima ti hanno scelto per una missione delicata: infiltrarsi nel White Crow, uno dei principali punti di ritrovo della Zona Rossa nonché il principale luogo di riunione degli oppositori del regime. Ci sei riuscita senza molti problemi e per un anno hai continuato a informarci su ogni possibile tentativo di rivolta. Poi però le cose sono cambiate. Hai cominciato a fare rapporto sempre meno frequentemente, a darci informazioni che si rivelavano sbagliate, a denunciare persone quando ormai erano già scappate all’estero. Perché, Anna?–.
–Non è colpa mia!– protestò accoratamente. –Si sono accorti che qualunque cosa facessero venivano scoperti e si sono fatti più prudenti. Nemmeno Marshall mi ha mai detto tutto quello che sa. Io sono un membro del Tekken Force, il Tekken Force è tutta la mia vita! Come potete sospettare di me?–.
Nina studiò il suo volto contratto dall’ira, gli occhi scintillanti di fervore che sembravano sfidarla a provare che mentisse. Uno sguardo inesperto l’avrebbe giudicata sincera ma Nina sapeva bene che Anna conosceva i trucchi del mestiere almeno quanto lei. Un membro del Tekken Force era allenato sia a mentire senza farsi scoprire che a riconoscere la bugia sui volto altrui. Sul volto di Anna non lesse offesa per essere sospettata, ma solo paura, una paura senza fine.
–Se c’è una cosa che ho imparato in questi anni è che non ci si può fidare di nessuno. Le parole non valgono, valgono solo i fatti. E tu in quanto a fatti ti sei dimostrata molto scarsa, ultimamente. –.
–E questo basta a fare di me una traditrice?– chiese Anna, sprezzante.
–No, questo fa di te una persona inutile. Il che è anche peggio di essere una traditrice. Un agente del Tekken Force è un’arma e le armi inutili vengono buttate–.
–Che sciocchezze, Nina. Io non sono mai stata inutile. Tu dovresti saperlo bene, no? – disse Anna, sforzandosi di ridacchiare. Era sempre stata brava a fingere di essere qualcun altro. Ora poteva anche fingere di non essere terrorizzata –Sono stata sempre io la preferita di nostro padre e se tu non avessi fatto la puttana in mia assenza sarei ancora la preferita di Lee–.
Il successivo movimento di Nina fu così fulmineo che nemmeno Anna se ne accorse finché non si ritrovò la gola premuta fra le dita della sorella.
Guardò con orrore l’espressione fredda e decisa di Nina. Conosceva bene quella presa, sapeva che con il giusto movimento e la giusta pressione avrebbe potuto ucciderla in pochi istanti. Ma dopo qualche istante l’Agente W abbandonò la presa lasciandola a emettere dei brevi rantoli soffocati.
–Ti ho sempre ritenuta una sciocca, Anna, ma mai fino a questo punto. Io non getterei mai la mia vita, la mia libertà, la mia carriera per un uomo. Tu invece l’hai fatto– disse Nina, ora in piedi davanti al tavolo, osservando sua sorella in difficoltà senza alcuna simpatia. Tutto ciò che provava era disgusto. –Hai gettato tutto ciò che eri per l’amicizia o addirittura… l’amore… di quel Law, non è così? Non sei mai stata altro che una debole e quindi ti sei lasciata sedurre da degli stupidi sentimenti. E tutto ciò è patetico. Patetico–.
–No… non è vero…– ansimò Anna, con una mano contro la gola, mentre gli occhi le si riempivano di lacrime. E invece era davvero così.
Prima ancora che fosse nata il suo destino e quello della sua sorella era già stato deciso. Era stata cresciuta come un arma, priva di cuore, priva di emozioni, sensibile solo agli ordini che le venivano impartiti dai Mishima. Aveva imparato ad uccidere senza provare niente, a mentire senza provare senso di colpa, a sedurre senza innamorarsi, ad agire ad occhi chiusi senza chiedersi mai il perché. Poi aveva cominciato la sua missione sotto copertura nella Zona Rossa; e lì aveva capito. Aveva capito che tutta la sua vita era basata sul puro niente e aveva provato orrore di se stessa, di tutto ciò che era stata fino ad ora. Aveva visto il dolore e le speranze nelle altre persone comprendendo quanto di umano mancava in lei. Era cambiata in una maniera che Nina non poteva nemmeno sperare di comprendere e aveva tradito il Tekken Force e la Mishima Zaibatsu, firmando la sua condanna.
–Ti consiglio di dirci spontaneamente tutto quello che ci hai nascosto sul White Crow e i terroristi– continuò Nina. –Altrimenti ci toccherà usare i nostri metodi; e tu sai bene quanto spiacevoli possano essere. Dopodichè sarai uccisa e il tuo corpo verrà usato come cavia ai Laboratori Mishima–. Almeno da morta si sarebbe rivelata utile, pensò. –Se invece decidi di confessare potrei anche chiedere a Lee di farti risparmiare, in memoria dei vecchi tempi–.
Detto questo Nina le voltò le spalle e fece per andarsene.
–Oh, dimenticavo– disse mentre apriva la porta e lanciava un’ultima occhiata carica d’odio alla sorella. –Ovviamente farò in modo che tutti i tuoi… amichetti del White Crow sappiano chi sei veramente–.
La porta si chiuse con un clangore metallico e al sentire quel suono sinistro Anna Williams capì che la sua vita era finita.



Inside four walls, inside four walls my friend
They took away your freedom

But they'll never take your mind

[Nevermore – Inside four Walls]








N.d.q.F.d.A (Note di quella fedifraga dell'autrice)
Non.... non odiatemi, vi prego! D:
So che è passato un anno dall'ultimo aggiornamento, so anche che i lettori che mi hanno seguito da quando ho cominciato questa storia (sempre che siano ancora miei lettori xD) probabilmente avranno rimosso cosa è successo negli ingarbugliatissimi capitoli precedenti ma... non odiatemi!
*si prostra al suolo*
Comunque, forse vi interesserà sapere che se siete arrivati fin qua avete già letto più di 80 pagine word! Pian piano questa storia sta diventando sempre più voluminosa, quindi spero che non me la tirerete dietro o rischierei un serio trauma cranico.
Al prossimo capitolo!
*scappa*

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