Sturm und Drang

di Kagura92
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 01. Drang - Primo Movimento ***
Capitolo 2: *** 01. Drang - Secondo Movimento ***



Capitolo 1
*** 01. Drang - Primo Movimento ***


GENERE: Generale, Guerra, Drammatico, Sentimentale
AVVERTIMENTI: Alternative Universe, Shonen-ai, Het, Non betata RATING: Arancione
FANDOM:
 Axis Power Hetalia
PERSONAGGI:
Austria (Roderich Edelstein), Prussia (Gilbert Weillschmidt), Ungheria(Elizveta Hàdvari
Oltre a Germania (Ludwig Weillschmidt) e genderbend!Italia(Maria Vargas), Nuovi Personaggi 
NOTE:
La fanfiction è ambientata nella Prima Guerra Mondiale. per il primo capitolo interamente al fronte occidentale e per il secondo in Austria. In gergo, veniva chiamato tommies gli inglesi, fritz i prussiani, franzmann i francesi, unni o jerrys i tedeschi e ivan i russi. Non credo che le descrizioni siano troppo macabre o crude, ma ho comunque innalzato il raiting. La threesome scelta Prussia/Austria/Ungheria, chiave di interpretazione Avere il piede in due scarpe.
Quarta classificata - a pari merito
Avviso numero uno: questa fanfiction ha provato la mia incapacità di scrivere threesome. Ed Het. Lettore avvisato, mezzo salvato.
Avviso numero due: POV di Prussia in Prima Persona.
Tranne la scena di bendaggio poi presente, che ho inventato di sana pianta causa mancanza di tempo, gli altri momenti riguardanti la vita al fronte hanno riscontri storici, per la maggior parte.
Mi si è fatto presente, nel giudizio del contest, che ci sono dei personaggi di Hetalia celati. Ecco...guardate là! Una scimmia a tre teste!

INTRODUZIONE:

«Non ricordo il tuo nome» dissi.
«Edelstein. Roderich Edelstein»
Allungai la mano destra «Gilbert Weillschmidt»


Sturm und Drang


01. Drang

Primo movimento

[X] [X] [X] [X][X] [X]

Di che reggimento siete, fratelli?

Gli ficcai le due dita in gola, costringendolo ad aprire la bocca. Le ritirai appena in tempo per evitare che mi mordesse, ma gli afferrai subito la faccia, chiudendogli la mascella a forza, costringendolo a masticare. E masticò. Ingoiò. Avrebbe masticato anche le mie dita se avesse potuto, Guarda così i franzmann e non dovrai nemmeno sparare.
Lo lasciai andare, ridendo, e lui si voltò dall'altra parte, furioso. Tornò dagli altri austriaci senza dire una parola.
«Non avresti dovuto, Berlino» commentò il Lucchese, girando di nuovo la carcassa sul fuoco
«Perchè cotta ha un sapore migliore?» risi.
Principessa storse il naso ma non disse nulla; sapeva che nessuno ci avrebbe impedito di continuare a cuocere quel ratto, e nemmeno di mangiarlo – George stesso l'aveva preso dalle mani dell'austriaco, che l'aveva infilzato quasi per sbaglio con la punta della baionetta, non appena l'aveva visto muoversi. Principessa tese una mano, quando Muhlegg estrasse dalle tasche una scatola di fiammiferi piena di sale e cenere : poteva solo cercare di migliorarne il sapore.
«Per essere rigorosi non dovremmo farne a meno?» commentò lo Svevo indicando la scatola «Non ce l'avevamo mica, l'altra volta.»
Principessa sbiancò, e il Lucchese gli rifilò un calcio, che accolse con la solita smorfia. C'era qualcosa nello Svevo che non si poteva spezzare e che noi comunemente chiamavano idiozia. Quanto bastava per buttarsi a terra a ogni granata ma non abbastanza da riuscire a fare qualcosa di più raffinato del comprarsi una belga con una pagnotta – e non abbastanza da capire che Principessa era più credente del Papa, e che noi, sulla carcassa di un ratto, avevamo giurato, quella volta. Principessa ridiede la scatola a Muhlegg per avere la certezza che tutti i suoi santi 1 non se lo portassero via.
Un'altra volta avrei strappato io stesso la scatoletta a Muhlegg e cosparso anche Principessa di sale; mi limitai a farmi il segno della croce.
Il Lucchese mi imitò, mentre alzava gli occhi per vedere se George si decideva a tornare. Io, che ero l'unico in piedi – gli altri erano seduti nel fango intorno al fuoco – gli feci cenno che stava arrivando. Riuscivo a distinguere anche un rigonfiamento ai lati che George, piuttosto asciutto, non doveva aver mai avuto.
Fece un cenno agli austriaci, che camminavano avanti e indietro nelle loro uniformi nuove, le sigarette tra le labbra. Gli avvicinò estraendo dalla giacca un pacco di carta – salame, probabilmente. Quelli agitarono le mani, con noncuranza, ma gli accesero una sigaretta. Erano tre, e riconobbi subito quello che ci aveva involontariamente procurato il nostro prezioso ratto; teneva la sigaretta in mano, come se la fumasse solo per avere qualcosa da fare – per scacciare un pensiero, una vita...un sapore forse.
Mi leccai il sangue dalle dita mentre George si allontanava da loro scrollando le spalle.

L'artiglieria dei tommies sembrava un'unica esplosione che riecheggiava all'infinito, invadeva la nostra aria e il nostro sangue, ci attraversava come se risonasse dalla nostra stessa pelle - una gigantesca mitragliatrice dalle mille bocche d'acciaio che continuava a vomitarci addosso proiettili e granate e polvere e fango; correvamo strisciando, cercando di non cadere sugli elmetti che affioravano dal terreno. Riuscii a buttarmi in una buca abbastanza profonda; sentii sotto di me quel misto di carne e acciaio che, avvolti nel tessuto, una volta avevano fatto un soldato. Sembrava una fossa comune 2 ,
Un altro si buttò subito dopo di me, rotolando tra tutti quei cadaveri.
«Dove diavolo è Pri?» urlò il Lucchese, mettendosi a quattro zampe, abbastanza per cercare di sbirciare aldilà della fossa pur mantenendosi al sicuro. Non gli risposi nemmeno mentre nella fossa ricadevano due uomini e mezzo. Cristo, era il peggiore assalto notturno di tutta la mia vita.
Sentii uno dei due uomini muoversi, probabilmente per ripararsi contro le pareti della fossa. E intanto cominciarono i lamenti. Portai le mani al fucile anche se era tutto inutile; era troppo buio, e l'unico modo per zittirlo sarebbe stato strisciare per tutta la buca, cercando quel corpo ululante per zittirlo con la vanga.
Intanto uno dei due uomini era arrivato fino a noi, e sentivo il suo corpo caldo.
«Elizveta» mormorava «Elizveta, Elizveta...» riuscivo a sentirlo piagnucolare, cercai di sentirlo con tutte le mie forze per ignorare quelle urla strazianti poco lontano addirittura più forte di tutto quello che i tommies ci stavano sparando addosso.
Cercai la mano del Lucchese per stringerla e gli ululati di quella povera carogna furono soffocati dall'urlo lacerante dell'uomo accanto a me; lo afferrai per il colletto e lo sbattei a terra, la faccia sui cadaveri per farlo stare zitto. Una granata era esplosa nella fossa e noi eravamo stati ricoperti di fango, carne e viscere. Desideravo strapparmi la pelle per non sentire i pezzi freschi dei miei commilitoni bruciarmi addosso; e l'uomo che tenevo faccia a terra era solo una recluta, che aveva piagnucolato perché si trovava in una fossa in piena notte e l'unica cosa che riusciva a sentire era il martellare incessante dell'artiglieria.
Gli sollevai la testa e me la portai al petto, costringendolo a nascondervisi, come avevo visto il Lucchese fare a Principessa la prima volta.
«Sta zitto. Zitto!»
Il Lucchese era stato molto più gentile; ma Principessa non aveva che diciassette anni.

Muhlegg era andato. Il Lucchese gli aveva quasi calpestato il braccio mentre arrancavamo verso la prima linea approfittando dell'alzabandiera 3 . Teneva stretta in mano la foto di sua moglie; gliela strappammo per darla a uno dei sassoni, che si preoccupasse di portarla alla famiglia alla prossima licenza: l'ennesimo caduto sulla Terra di Nessuno, un colpo dritto al cuore, signora mi creda, è morto senza nemmeno accorgersene. Come quell'altro sassone nella fossa. Ma dove fosse il resto di Muhlegg, lo sapeva Dio.
L'attacco a sorpresa notturno dell'altro ieri era stato calibrato perfettamente, in modo da colpire solo noi che stavamo arrivando, e George bestemmiò almeno un paio d'ore contro quei bavaresi di merda che ci avevano quasi fatto ammazzare tutti per fare comunella con i tommies; poi il Lucchese gli chiese se aveva tanta voglia di farsi ammazzare e non tornare più nella sua fottuta Londra : se i tommies avevano fatto un patto con i bavaresi ne avrebbero fatti tre con i sassoni.
Io non dissi nulla. Ero prussiano e non c'era inglese migliore di un inglese morto: ma dovevo tornare a casa.

«Al diavolo» sbottò George quella mattina, cercando di stirarsi le gambe. Era il nostro secondo giorno in trincea e già il rancio tardava a arrivare, il che era piuttosto strano «Ci dovrebbe essere Bloem di turno.» Si girò per sistemarsi meglio contro la parete di terra e legno; l'unica cosa che si sentiva, per una volta, era la penna dello Svevo che scriveva a casa. Anche lui teneva le orecchie tese, mentre inventava qualcosa da raccontare ai suoi figli : aspettavamo di sentire qualche urlo, il suono del metallo o il respiro affannoso di un uomo in corsa che ci rassicurasse, che ci dicesse che il rancio sarebbe arrivato prima della fine della tregua, che non dovevamo saltare i crateri delle granate e i reticolati d'acciaio a stomaco vuoto.
«Chiedo scusa»
Alzai gli occhi : era l'austriaco del primo giorno. La divisa verde della fanteria austriaca gli stava alla perfezione, e non sembrava né particolarmente magro né muscoloso. La carnagione era pallida, e aveva un paio di occhiali sottili. I capelli scuri erano tirati all'indietro tranne per un ciuffo ricurvo.
«Ehi!» ghignai.
«Vengo da parte della mia compagnia: non è ancora arrivata la colazione?»
Colazione. Come se stesse aspettando il suo cameriere.
«Non è meglio così? Sei senza mutande 4 , mangiare quella roba non ti farà bene»
Si morse le labbra e continuò a ignorarmi, guardando il Lucchese, ma io avevo riconosciuto la voce della recluta nella fossa.
«Dico davvero! Una cosa è la diarrea con le mutande, ma senza...»
«Sta zitto, Fritz» disse George secco. Aveva detto “Fritz”, anche se da quel leccainglesi che era, e per un prussiano non poteva esserci offesa.
«Tommies» ringhiai a bassa voce: George era di Hannover. Se non fosse stato per l'austriaco e per il braccio del Lucchese, mi sarebbe saltato alla gola.
Invece mi ignorò, limitandosi a scostare il braccio del Lucchese, che guardava l'austriaco con lo sguardo fraterno e cameratesco che riservava alle reclute «Il bombardamento dell'altro giorno ha danneggiato le retrovie, e con la pioggia dell'altra notte può essere franata qualche trincea» disse, tranquillizzante «Succede prima o poi» aggiunse, ambiguo.
L'austriaco ringraziò e fece per tornare dai suoi compagni, ma il Lucchese mi indicò «Si chiama Weillschmidt, è prussiano ed un'imbecille. Te lo manderò se entro mezz'ora non sarà arrivato niente»
L'altro esitò, come se non sapesse bene cosa dire; alla fine fece un cenno col capo e strisciando contro il muro sparì nella sezione vicina.
«Fottiti, Franz» scattai, appoggiandomi sulle gambe posteriori in quello che è l'unico modo in prima linea per stare in piedi «Che ti salta in mente?»
Il Lucchese alzò le spalle e si appoggiò di nuovo alla terra; con un braccio tirò a sé George, ancora irritato, e Principessa, gli occhi famelici: Principessa aveva solo diciotto anni e veniva da un piccolo villaggio non troppo lontano dalla Galizia, dove aveva dieci fratelli ma era figlio del capo-fattore; prima di venire in trincea di mangiare pane di rape con carne di rape e sugo di rape in mezzo piatto non se l'era mai sognato.
«Mi salta in mente» disse, tranquillo «che quelle sono delle reclute e tu sei un veterano, ecco che mi salta in mente»
Ringhiai, e mi lascia cadere sul muro di terra, sbirciando la lettera che lo Svevo continuava a scrivere: ...Mi manchi tanto mio amore, cosa studiano i bambini? Romano ha passato il compito?...mangia di più mio tesoro, se tu ti sciupi chi baderà ai bambini?
Di bene in meglio. Anche se non era un granché, guardai il cielo.

Non era arrivato nessuno dalla sera prima. Il Lucchese si avvicinò alla sezione dell'altra squadra di sassoni, poi, dopo aver scambiato un paio di cenni, tornò da noi.
«Pare che Bloem sia stato sostituito» disse, prima di passarsi una mano tra i capelli biondi. Noi non reagimmo; solo Principessa ebbe la forza per specchiare sul volto quello che tutti pensavamo; gli occhi dilatati, sporchi di terra e polvere, le armi al fianco, erano stati tre notti senza dormire e quasi due senza mangiare. E Bloem, Bloem che era diventato famoso per aver portato il rancio agli uomini di Compiegnè agitando una mano oltre il parapetto per chiedere ai Franzmann di non sparare, Bloem che ci aveva raggiunto la prima mattina attraverso la trincea martoriata colma di fango con fagioli bianchi e pane, perchè sapeva che quel giorno ci toccava scavare, Bloem era stato sostituito e ora nella cucina del reggimento c'era qualcuno che se ne stava al sicuro tra i fornelli.
«Ed è scaduta l'ora» aggiunse, amaro.
L'ora per la colazione era finita, la tregua non scritta tra noi e i tommies era appena cessata : ogni minuto poteva arrivare l'ordine di sparare. E se era a noi che quell'ordine arrivava non bastava sparare, bisognava correre, oltrepassare il filo spinato i cadaveri e i crateri di acqua melmosa, aperti dalle granate nelle terra di nessuno, per arrivare fino ai tommies e spaccargli la testa.
«Vaffanculo»
I soldati imprecano, bestemmiano e urlano, ma noi non eravamo proprio soldati qualsiasi: George una volta insegnava letteratura tedesca a Londra. «Vaffanculo» ripeté : e aveva detto tutto
Il Lucchese si morse le labbra, guardandoci. «Berlino» disse poi «Va' dagli austriaci. Digli di stare calmi. Ci penso io»
«Che cazzo fai?» sbottò George; il Lucchese mi fece cenno di andare, poi saltò in piedi.
«Frederick!»
«Don't shoot! Don't shoot!» teneva le braccia alzate e sorrideva 5 .
«Muoviti, prussiano» sibilò. «Don't shot!» urlò di nuovo. Si issò sul parapetto. George era sbiancato, Continuavamo a guardare il Lucchese, seduto sul parapetto con aria tranquilla, che con una mano toglieva i capelli biondi dalla faccia come per pettinarsi.
«We have not breakfast!» Il suo accento era pessimo, le parole storpiate si comprendevano a fatica. George fece per alzarsi, ma lo Svevo gli tirò il braccio facendolo rovinare a terra. «We can't eat!» continuò il Lucchese. Non si sentì nulla; era come se l'intero fronte trattenesse il respiro.
«Fool Jerrys!» urlò uno degli inglesi dall'altra parte. Ma non successe nient'altro. Il Lucchese fece un cenno e saltò giù, tornando a accucciarsi tra di noi.
«Se Dio vuole...»
«Vaffanculo, Frederick» sbottò George dandomi un calcio; lo Svevo tornò alla sua lettera.
«Vaffanculo» Il Lucchese trattenne una smorfia, mentre George ritirava il pugno dal suo stomaco. Principessa rise, debolmente, poi si accucciò contro una delle pareti di terra. Gli scompigliai i capelli, poi cominciai a cercare una copia del bollettino che lo Svevo aveva infilato da qualche parte nello zaino.
E poi mi colpì in testa. Un barattolo di latta che rotolò nel fango davanti a noi e si fermò sotto i nostri occhi con assoluta calma.
«Kamerade
Il George l'afferrò e balzò in piedi, mentre lo Svevo faceva in tempo a schivarne un'altra; mi alzai anch'io. Vidi uno dei jerreis, dall'altra parte, che sventolava una lattina in aria. Un suo compagno accanto ci faceva segno di non sparare.
«Kamerade!» urlò ancora, ed era evidente che tutta la sua conoscenza del tedesco era ferma a quel Kamerade: avanzò cautamente sulla terra di Nessuno, che tra di noi non era che di una ventina scarsa di metri; aveva una specie di sacco tra le braccia. Ce lo lanciò oltre il parapetto senza avvicinarsi troppo; si sentiva ancora il rumore della latta. Era il corned beef degli inglesi.
«Wait!» George si sporse sul parapetto, e gli lanciò un pacco di sigarette; l'inglese lo prese volentieri, poi lo Svevo, che ancora non si fidava a uscire, gli lanciò uno di quei salami che era la nostra scorta d'emergenza. A quella vista gli occhi dell'inglese brillarono: qualcos'altro volò oltre il parapetto, e lui si affrettò a raccoglierlo.
«Kamerade!» disse ancora prima di tornarsene in trincea. Il Lucchese contava già le scatole, dividendole; io guardai il tommies che tornava in trincea più in fretta che poteva, il suo compagno che continuava a agitare le braccia per rassicurarci.
Aveva i capelli di un rosso sporco di terra, gli occhi di un verde fango; camminava sulla terra di nessuno con i nostri ringraziamenti tra le braccia, e il suo compagno dai capelli neri che continuava a rassicurarci mentre seguiva ansioso con gli occhi i passi dell'altro sul fango e i detriti, mentre lo guardava rischiare di scivolare su un elmetto che una volta era di un soldato che chissà da quale parte stava.
«Dieci» il Lucchese aveva allineato tutte le latte davanti a sé, mentre l'inglese saltava nella sua trincea. Sicuramente i suoi compagni l'attendevano, e lui ora spartiva con loro le sigarette, cercava un coltellino per tagliare il salame, mostrava una di quelle pipe che per noi aveva benedetto il principe in persona; magari qualcuno gli avrebbe dato un calcio e urlato “Vaffanculo”.
«Tre sono di mermellata» disse George, separandole quelle lattine dalle altre.
Kamerade; chissà dove quel tommies aveva imparato quella parola.


Gli austriaci ringraziarono quasi in coro, e si distribuirono le lattine in poche minuti: io rimasi lì, perchè se fossi tornato subito dalla mia squadra il Lucchese mi ci avrebbe rimandato con un'altra scusa. Aveva uno strano modo di intestardirsi, il Lucchese. Al mio austriaco era toccata la mermellata di prugne e pere: la mangiava con assoluta calma, facendo finta che io non esistessi.
Ci mise mezz'ora, ma io mi ero accomodato per potermi godere lo spettacolo: quando ormai anche il cucchiaio era lucido e splendente mi guardò con le sopracciglia aggrottate, mordendosi un labbro, lottando contro sé stesso.
Alla fine la buona educazione ebbe la meglio.
«Non credo che ci siamo presentati» disse con voce controllata, un viso freddamente cordiale, abbassando il cucchiaio «Sono Roderich Edelstein, settima compagnia, quarto reggimento»
«Berlino» risposi. Aggrottò di nuovo le sopracciglia «Sarebbe il tuo soprannome?»
Lo avevo già infastidito.
«No, quello è il Magnifico»
Si morse le labbra un'altra volta e appoggiò la scatola di latta accanto a sé.
«Tranquillo, puoi chiamarmi così. Tutte le reclute lo fanno. Gli inglesi mi chiamano La Magnifica Bestia Sanguinaria, ovviamente.»
Aprì bocca, poi scosse la testa e la richiuse, come riflettendo. Infine disse «Ringrazia il tuo compagno da parte mia. Se c'è qualcosa che posso fare che non esiti a chiederlo»
Lassù in cielo non sapevano se far piovere o meno.
«Sai, io starei attento a fare certe offerte» lo guardai «Possono essere prese alla lettera.»
Mi guardò perplesso.
«Sei carino, sai» aggiunsi.
Divenne livido, e sbarrò gli occhi, per un attimo totalmente stravolto: si sistemò gli occhiali, portandoli alla cima del naso.
«Succede» continuai io, guardandolo «Lo capirai»
«No» disse secco «Non credo»
Mi misi a sedere: l'austriaco aveva l'aria aristocratica, capelli piuttosto scuri che ricadevano leggeri sulla fronte e una bella linea del volto, facile da percorrere con un dito.
«Vogliamo scommettere?» sussurrai dopo averlo fatto girare verso di me: mi sporsi e lui trasalì ma non si mosse subito: fu quando mi avvicinai di più con un ghigno che scacciò via la mano, livido, arretrò. Risi.
«Tutto bene, Roderich?»
Uno dei suoi compagni, con in mano una scatola di latta e nell'altra un coltello, ci si sedette accanto.
«Io sono Malchik. Tu sei amico di quello che ci ha garantito questi, vero?» mostrò il corned beef «Ringrazialo da parte mia»
«Stavamo parlando delle modalità del ringraziamento» dissi io, facendo un cenno alla sezione «Ma non importa»
Il soldato aggrottò le sopracciglia «È quello che penso io?»
«Bravo» dissi «Il tuo amico qui non ci arrivava»
L'austriaco si morse le labbra, e stava per dire qualcosa, furioso, quando l'altro scosse la testa «Con un uomo...ma dico io»
cacciò una mano nella divisa «Possiamo avere creature meravigliose e quelli vanno con gli uomini. Che schifo» ne estrasse una foto e me la mise sotto il naso «Non è splendida?» gli occhi verdi brillavano d'orgoglio.
La ragazza doveva essere molto carina quando sorrideva: nella foto aveva un'aria a metà tra l'imbronciato e l'assente, i capelli lisci che le cadevano su un abito di pizzi e trine molto elegante, un grembiule ricamato e un grosso fiocco blu sulla testa. Assomigliava a una bambola, nonostante il coltello da torta che teneva graziosamente in grembo.
«Fa la governante» disse lui sorridendo «Spero di poterla rivedere presto»
«Auguri per il matrimonio» dissi restituendogliela: rise, di una risata tonante quasi forzata, ma per un attimo parve altrove.
«E tu non avevi una Elizbeta?» chiesi all'austriaco, che aveva seguito la scena come irritato.
«Elizveta» mi corresse, secco «È mia moglie»
«Tu hai una moglie?» lui parve innervosirsi mentre lo guardavo «E che ci fai, ci giochi a carte?»
«Non vedo come la cosa ti riguardi» scattò, e finalmente sembrava furioso. L'altro soldato inarcò un sopracciglio, una ciocca di capelli castani che gli cadeva sul volto, arricciandosi: aveva l'aria tranquilla, ma non rassicurante. Guardai l'austriaco un'ultima volta, il volto che finalmente mostrava qualche emozione: feci un cenno svagato di saluto prima di andarmene, ma non era un addio.


Lo Svevo sciacquò l'elmetto con l'acqua della pozzanghera, ripulendolo dalla polvere: io, il Lucchese e George cercavamo di accenderci una sigaretta, proteggendola con il colletto rialzato per evitare che si spegnesse. Principessa guardava il cielo e la pioggia cadere con uno strano sorriso, canticchiando. Probabilmente pensava a casa sua, ai campi arati e a tutta la verdura che ci cresceva. Erano strani i contadini. Perfettamente sereni tra acqua e fango incuranti del fatto che tutta quella schifezza ci arrivava alle caviglie.
Era il quinto giorno, e non avremmo dovuto essere ancora lì, in prima linea, ma nelle retrovie, con un piatto caldo, a contarci per l'ennesima volta e a scambiarci tabacco e sigarette. Se solo non avesse piovuto e i piani alti non si stessero ancora torcendo le mani per la preoccupazione di un altro assalto inglese durante il trasferimento.
«Cosa porterai a tua moglie, Antonio?» chiese il Lucchese, riuscendo finalmente a fare un tiro: George premette la sigaretta contro la sua, infilandosi i pochi fiammiferi in tasca..
«Non lo so» rispose lo Svevo, infilandosi l'elmo «Forse della cioccolata» la sigaretta di George si accese, e lui fece un bell'anello bianco, perfettamente tondo.
«Un mazzo di rose» disse dolcemente il Lucchese, la voce carezzevole di quando si perdeva nei ricordi. L''ultima licenza del Lucchese era durata solo cinque giorni, e si era chiuso nell'osteria a qualche chilometro dal fronte: poi il capitano l'aveva richiamato, e lui era tornato, odorando vagamente di vino e vernice, e di profumo da quattro soldi. Aveva recuperato poi i dieci giorni con George, che se l'era trascinato a Hannover, dove oltre a trovare sua madre doveva incontrare quella di Seeger, una pallottola nel cuore e via anche lui. Dalla valanga di chiacchiere del Lucchese si era capito che dalla madre di George non erano stati che pochi giorni: e d'altronde, Quello era cominciato dopo quella licenza, quindi non era poi così sorprendente. In compenso, la moglie di George riceveva molte più lettere di quanto avesse dovuto.
«Ti stai sentendo a casa, George?» chiesi, scostandomi appena nel caso avesse deciso di spegnermi la sigaretta in faccia: invece un altro anello di fumo, più piccolo, seguì il secondo.
«Non piove così tanto, a Hannover» disse poi.
Soddisfatto tesi una mano, ma George ci fece cadere solo un po' di cenere; dato che me l'ero meritato, dovetti cercare una sigaretta per conto mio tra le tasche della divisa. Ne trovai una un po' ammaccata, e un fiammifero spezzato a metà: bastava.
Se mio padre avesse visto uno dei suoi figli fumare una sigaretta...feci un tiro e non ci pensai. L'unico ricordo che volevo di mio padre era la croce prussiana che il maggiore Frederick Hermann Weillschmidt si era guadagnato a Sedan nel 1841; e al momento, stava sotto la mia divisa. Distrattamente mi chiesi come stava: lascia cadere la sigaretta e la spensi, schiacciandola assieme al ricordo del sorriso di mia cognata, umido di lacrime prima che partissi anch'io, prima che la lasciassi come aveva fatto mio fratello.
Per dimenticare mio fratello non potevo fare nulla: George borbottò qualcosa sul modo in cui avevo sprecato una sigaretta e il suo borbottio si fece più astioso quando mi vide cercare da bere. Il Lucchese, che mi conosceva bene e sapeva cosa ne pensavo di solito della grappa, passò un braccio intorno a George e fece un altro tiro.
«Sarà una giornata lunga» commentò lo Svevo mentre George trasformava il borbottio in un sibilio su cosa ne pensava della gente che si comportava da idiota.
Era sempre una giornata lunga.


Sfrecciavano attorno a noi i proiettili, come insetti, fischiando: lo Svevo agitò il braccio sinistro, come a gettar via qualcosa e io scartai verso destra, evitando uno dei crateri che continuava a riempirsi d'acqua. George mi imitò a agitò il braccio a sua volta.
«Oi!» urlò il Lucchese dietro di noi, in risposta. Continuammo a correre, e il fuoco cominciava a diminuire, lo sciame di proiettili che lentamente si ritraeva, tornando verso le trincee inglesi: lo Svevo fu il primo di noi a saltare nella trincea, lo vedemmo in lontananza. Dopo poco il fucile fece capolino sul parapetto, e cominciò a sparare verso i tommies. Il Lucchese e Principessa ora ci affiancavano, e accelerammo; allora cominciarono le granate, sassi lanciati in un mare di fango e cadaveri.
«Giù!» urlò: la terra sotto di me sparì, e vi stavo per franare quando George mi tirò per un braccio e Principessa urlò. Ci girammo e aveva uno dei frammenti di acciaio e plastica infilati nella gamba. Ma il Lucchese aveva uno di quei frammenti a attraversargli il torace.
Afferrai George, e il Lucchese ci spinse addosso Principessa: era esile e me lo caricai addosso, George si liberò e prese il braccio del Lucchese intorno alle spalle. Cercai di correre di nuovo, e Principessa saltellava come un fenicottero sbilenco: lo Svevo apparve d'improvviso e gli prese le gambe, urlò qualcosa che venne soffocato da una granata, ma indicò: mi girai e vidi che George e il Lucchese erano ancora qualche metro più in là, e George era stato preso al braccio, forse di striscio: in cielo sembrava rimbombare il tuono che precede il lampo, le cariche si intensificavano.
Fu allora che il Lucchese sorrise, d'un sorriso pallido con il volto sporco di terra e polvere, con il sangue che gli colava dalle labbra. Sorrise e si sporse, sfiorò il volto di George: e poi lo spinse via. Cadde come un giglio nel fango di un cratere colmo d'acqua, sporca di sangue. Urlai e corsi: George fece per tuffarsi dietro di lui ma uno dei bavaresi lo fermò e quando lo raggiunsi mi diede una mano a tenerlo.
Gettammo anche lui nel fango della nostra trincea, lo tenemmo fermo mentre urlava, prendemmo i suoi pugni e i suoi morsi, le minacce di morte, le maledizioni eterne. Non cercammo nemmeno di ripulire il sangue che aveva ancora sulle labbra,
Lo Svevo cercava di tranquillizzare Principessa che singhiozzava e piangeva. Dal Paradiso ci gettavano secchi d'acqua.
George mi forse la mano, tirò calci e si sporse sul parapetto: lo presi per la divisa, mentre anche lo Svevo scattava afferrandogli i capelli biondi e in quel momento lanciò un urlo, uno strazio disumano: là, dove avevamo lasciato il Lucchese, avevano gettato una granata.
Era un urlo disperato e finì così com'era venuto: si lasciò cadere nel fango in silenzio. Rannicchiato, si toccava le labbra ridendo.

Dopo un'ora avevano smesso e gli inglesi non sembravano rispondere: c'era di nuovo silenzio.
Principessa gemeva, mentre Malchik gli esaminava la gamba. Lo guardammo tendere la gamba di Principessa con misto di bende e garze attorno alle gambe, esaminando la ferita che nessuno di noi aveva osato toccare.
L'altro austriaco era dritto accanto a George, che non diceva una parola. Era pieno di polvere e schizzato di sangue.
«Sedalo» risolse Malchik infine, come rasserenandosi: George finalmente ci guardò mentre imbevevamo il fazzoletto nella grappa. Lo afferrò quando cercai di passarlo allo Svevo: guardò Principessa gemere, e poi gli stampò in faccia il fazzoletto: lo tenemmo fermo per qualche istante, poi lo sentimmo rilassarsi. Era sera.
Malchik ci fece segno di non lasciarlo, e si passò un po' di grappa sulle dita: poi afferrò con attenzione, e tirò. George soffocò un urlo di Principessa, mentre Malchik strappava via i pantaloni sopra al laccio che aveva stretto prima a monte della ferita e cominciava a togliere, ricucire e bendare. Alla fine disse: «E speriamo che non si infetti»
Malchik si sedette tra noi, bevve un sorso di grappa tenendo d'occhio Principessa, agitando la mano per scacciare sigarette, cioccolata e prosciutto.
«Non è niente» disse bruscamente: George scoppiò in una risata stentata, mentre lo Svevo sorrise. Dopo qualche parola gettata a caso, lui e Malchik finirono a discutere animatamente di nastri e fiori, pizzi e merletti e quant'altro si può portare in dono a una donna. L'austriaco interveniva ogni tanto, tagliando idee sul nascere. Io e George guardavamo Principessa, che sembrava dormire. George tuttavia vedeva tutt'altro, e scattava a ogni rumore e a ogni gemito.
Sapevo che stava aspettando di sentire il rumore di qualcuno che strisciava fino al parapetto, o le urla di un uomo in agonia dopo che una granata gli ha fatto esplodere lo stomaco. Nessuno di noi aveva visto il Lucchese morire: poteva benissimo agonizzare. troppo debole per un vero urlo, nella Terra di Nessuno.
L'austriaco se ne andò un'ora dopo, più bianco di quanto fosse mai stato, forse incapace di sopportarlo un minuto di più
Cercai di farlo inciampare, senza troppa convinzione: se fosse caduto il gentile rimprovero del Lucchese mi sarebbe rimbombato in testa.
Mi strinsi nella divisa e ci guardammo senza parlare, seduti nella trincea che, solo qualche giorno fa, era ancora inglese 6 .
Poi si alzò una voce maschile, chiara e dolce: potevamo vederla stagliarsi contro il cielo. Intonava solo note: dopo poco si unì un'altra voce che poteva sembrare di donna, e una più vecchia e cupa ma ancora bella. Poi la voce maschile più profonda si scostò, intrecciandosi con quella maschile più dolce:

Requiem aeternam dona eis, Domine,
et lux perpetua luceat eis.
Te decet hymnus, Deus, in Sion,
et tibi reddetur votum in Jerusalem.
Exaudi orationem meam;
ad te omnis caro veniet.
Requiem aeternam dona eis, Domine,
et lux perpetua luceat eis.

 L'eterno riposo dona loro, Signore,
e splenda ad essi la luce perpetua.
Si innalzi un inno a te, o Dio, in Sion,
a te si sciolga il voto in Gerusalemme.
Esaudisci la mia preghiera,
a te venga ogni mortale.
L'eterno riposo dona loro, Signore,
e splenda ad essi la luce perpetua.


Il canto si spense in silenzio, la voce maschile più chiara sfumava perdendosi nel cielo.
Poi George chiese: «Conoscete l'Inno alla Gioia?»
E la voce rispose: «Lo conosco»
Era la voce dell'austriaco, la sentivo vibrante e viva sotto la pelle.
«Anch'io» disse la voce più cupa, e entrambe cominciarono a intonare:

  O Freunde, nicht diese Töne!
Sondern laßt uns angenehmere
anstimmen und freudenvollere.
Freude! Freude!

  O amici, non questi suoni!
ma intoniamone altri
più piacevoli, e più gioiosi.
Gioia! Gioia!


Cominciai a cantare, come tutti gli altri: poi venne quell''unica, ultima strofa:

Seid umschlungen, Millionen!
Diesen Kuß der ganzen Welt!
Brüder, über'm Sternenzelt
Mußein lieber Vater wohnen.
Ihr stürzt nieder, Millionen?
Ahnest du den Schöpfer, Welt?
Such' ihn über'm Sternenzelt!
Über Sternen muß er wohnen.

Abbracciatevi, moltitudini!
Questo bacio vada al mondo intero Fratelli,
sopra il cielo stellato
deve abitare un padre affettuoso.
Vi inginocchiate, moltitudini?
Intuisci il tuo creatore, mondo?
Cercalo sopra il cielo stellato!
Sopra le stelle deve abitare!

E tutto si spense.


[X] [X] [ ] [X] [X] [X]






NOTE:
[1] tutti i suoi santi non se lo portassero via : Principessa è polacco e cattolico, tutti gli altri sono protestanti.
[2] Sembrava una fossa comune: Poteva succedere, vista la precarietà dei fronti, dai confini ballerini, che una fossa comune – magari scavata per ripulire frettolosamente il campo di battaglia - fosse situata in mezzo alla Terra di Nessuno, e che venisse scoperchiata dai bombardamenti.
[3] era passata l'alzabandiera : una delle regole non scritte prevedeva che non si sparasse nell'ora vicino all'alba, o in quella subito dopo il tramonto: in ogni caso, nessuno si fidava fino in fondo, e si sorvegliava comunque. C'erano tregue non scritte anche per l'orario dei pasti – in particolare colazione e cena.
[4] sei senza mutande : come raccontato in Niente di nuovo sul fronte occidentale, era normale, per le reclute, venire colti da diarrea durante il loro primo assalto; il consiglio dei veterani era di sbarazzarsi delle mutande perchè impicciavano, per farsene dare di nuove al campo.
[5] Don't shoot, don't shoot! : comunicazioni tra fronti nemici avvennero sopratutto durante le prime fasi della guerra – e sfociarono infatti nel Christmas Truce – ma anche dopo che questo fu proibito, i soldati di entrambi i fronti tirarono avanti lo stesso; si sentivano molto più vicini ai soldati nemici che ai propri superiori, lontani dalla prima linea e al caldo, Questo portava a vari episodi, quali lo sparare in aria per avvertire i nemici dell'attacco imminente, lo scambio di viveri in caso la linea nemica non ne ricevesse, addirittura il semplice baratto, a seconda di quanto i due fronti avessero legato. Questo avveniva sopratutto - sul fronte occidentale - tra inglesi e tedeschi – purchè non prussiani, i quali erano gli unici a credere fermamente nella guerra e ad attenersi rigidamente alle regole. Gilbert è un'eccezione, ma il suo comportamento più rilassato è dovuto anche al fatto che si trova in un reggimento misto, composto sopratutto da sassoni, che con gli inglesi andava a braccetto. Essere prussiano fino in fondo non gli avrebbe giovato.
[6 ] era ancora inglese : sì, sono riusciti a prendere la trincea inglese. Sì, quella da cui venivano i due tommies che gli hanno lanciato da mangiare. Sì, molto probabilmente quei due sono morti.

Le canzoni cantate sono la Messa da Requiem di Mozart e parte dell'Inno alla Gioia di Bethoveen - che è un brano che io lego sistematicamente a Prussia ed Austria in generale, per contenuti e storia. In questo caso loro due non c'entrano niente: George lo richiede perchè al Lucchese piaceva molto. Era amatissimo, e faceva sempre successo in opere e teatri.
Spero di essermi spiegata bene, ma comunque Roderich e i due commilitoni eseguono il solfeggio cantato, poi Malchik prosegue con il solfeggio cantato, e gli altri cantano. Non era proibito farlo, ma era a proprio rischio e pericolo – così come era pericoloso fumare – in particolare, era proibito accendere tre sigarette. Il motivo è sempre lo stesso: cecchini. In questo caso va a tutti di lusso, perchè avendo preso la trincea adesso, gli inglesi hanno dovuto ricomporsi – allo stesso modo, Principessa non viene curato come si deve subito dopo essersi messi al sicuro perchè la trincea deve venire sistemata; inoltre, se Malchik non fosse venuto di sua spontanea volontà a curarlo, non lo sarebbe stato affatto. I medici militari erano troppo preziosi per stare in prima linea continuamente, e i soldati semplici spesso erano costretti ad arrangiarsi.

Sì. Dunque.
...guardate il bannerino!

Si ringrazia MyPride

Lo amo. Detto questo, non ho altro da aggiungere. Spero apprezziate, e spero mi prenderete a calci nel caso io avessi sbagliato qualcosa. La scena del bendaggio l'ho inventata di sana pianta, ma mi dicono che è plausibile. Magari me lo dice lo stesso che ha detto a Shore “Operarsi di tumore nella vasca da bagno! Vai tranquillo!”, ma comunque...
Scrivere questa fanfiction è stata una faticaccia. Non tanto per la documentazione – amo documentarmi – ma per cercare di rendere quello che volevo rendere. Ho dato spazio ai commilitoni di Gilbert e Roderich, perchè è impensabile scrivere su una guerra senza dare spazio ai commilitoni. Sopratutto, non sulla Prima Guerra Mondiale. Davvero, vi prego, informatevi di più sulla Prima Guerra Mondiale. E' DAVVERO la Grande Guerra.
Vi ringrazio per aver letto, e per il tempo che mi avete dedicato. Vi ringrazio altresì in anticipo per eventuali recensioni.
La fanfiction prevedeva due capitoli – uno dal punto di vista di Gilbert e uno da quello di Roderich – per un totale di almeno undici pagine a testa. Per evitare di risultare pesante, il capitolo di Gilbert è stato diviso in due parti. Il capitolo di Roderich, dopo la lettura de “La cripta dei cappuccini” è in riscrittura – quindi penso di dividere anche questo in due parti - magari pubblicate contemporaneamente.
Bene, questo è tutto.
Grazie ancora.




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Capitolo 2
*** 01. Drang - Secondo Movimento ***


0.1 Drang - Secondo Movimento

Secondo movimento

[X] [ ] [X] [X ][X] [X]

George sparì non appena fu abbastanza buio: lo guardammo scavalcare il parapetto, e lo sentimmo allontanarsi. Non dicemmo nulla.
Malchik e lo Svevo mormoravano a bassa voce, mentre Principessa tremava. Feci un gesto vago allo Svevo, poi strisciai fino alla sezione austriaca: erano rimasti in tre in tutto. Dormivano, ma svegliai il mio con il piede: si svegliò di scatto, e vedendomi si morse le labbra, a soffocare un'imprecazione.
Gli agitai una sigaretta sotto il naso: la prese come di contro voglia.
Fece un tiro, espirando profondamente, e gli feci cenno di passarmela.
«Cecchini» dissi soltanto: me la diede.
Feci un tiro anch'io, poi diedi un colpetto alla sigaretta, lasciando cadere la cenere bianca sul fango. Sembrò brillare per qualche istante, poi la spazzai via con un piede.
«Non ricordo il tuo nome» dissi.
«Edelstein. Roderich Edelstein»
Allungai la mano destra «Gilbert Weillschmidt» me la strinse, seppur esitando: sotto i guanti aveva una mano magra e fine, come quella di una donna.
Aspirai ancora, poi gli passai la sigaretta: il fumo grezzo si vedeva debolmente nella notte.
«Austria dove?» chiesi, poi.
«Vienna» rispose. Mi ripassò la sigaretta.
«E cosa facevi?»
«Insegnavo. Musica. Sono un pianista»
«Non ti hanno preso alla filarmonica di Vienna?»
«Avevano» disse, e la sua voce suonò amara «Poi mi hanno arruolato»
Il fruscio dei passi dei ratti e il respiro dei compagni dormienti: Roderich lasciò bruciare la sigaretta.
«Suppongo tu sia di Berlino» disse poi, fumando finalmente «Eh! Allora ti ricordi quando ti parlo!» feci, scrollando le spalle «Puoi giurarci che sono di Berlino. Il cuore della Prussia» era piacevole da dire.
«Facevo l'ingegnere» continuai poi. Nominai la ditta dove lavoravo.
La voce di Roderich era severa «Non possono averti arruolato»
«Non ho mica detto che mi hanno arruolato» dissi io «Mi sono arruolato» gli strappai la sigaretta.
«Dunque è vero che voi prussiani amate combattere» disse, nel tedesco austriaco che suona sempre più dolce e carezzevole.
«E voi austriaci siete buoni a far parate» aspirai «Mio fratello faceva l'architetto. È stato arruolato nel '14» le parole si mischiarono al fumo «È morto il gennaio del '15»
Feci un tiro ancora, assaporando il silenzio della sorpresa.
«Li sono sempre piaciute le case» dissi.
«Immagino fosse molto bravo»
«Cazzo se lo era» stracciai la sigaretta tra le dita. Il mio fratellino aveva sempre amato le case; quando nostra madre era ancora viva, aveva convinto nostro padre a comprargli una casa per le bambole: lui era inorridito, ma poi aveva guardato con soddisfazione Ludwig che gettava via via i mobili e tutte quelle “sciocchezze inutili” e cercava di capire come faceva la casa a star su.
«Mio padre era fiero di lui» cercai un'altra sigaretta, ma Roderich mi aveva preceduto: me ne offrì una, assurdamente fine, o almeno così sembrava. Feci un tiro profondo: oh, com'era stato fiero di lui nostro padre. Ludwig era bello, alto e muscoloso, capelli biondi e occhi azzurri, l'aria severa, un lavoro rispettabile, una moglie bella e solare che cucinava come nessun'altra al mondo. Anch'io ero fiero di lui. E lui era morto.
«Il tuo non doveva esserlo un granché» aggiunsi, scacciando via il fumo.
«No, non lo era» sembrava impassibile.
«Nemmeno il mio, di me» mi sistemai contro il parapetto in silenzio, mentre tendevo la sigaretta a Roderich: la prese con controllata tranquillità, ma lasciò uscire fumo e un sospiro.
Lo guardai: non era come mi sarei aspettato, non sembrava che quei giorni in trincea fossero riusciti davvero a scalfirlo: era sporco di terra, polvere e sangue, aveva l'aria esausta, lo sguardo vuoto, i primi segni di occhiaie.
Nonostante questo, sembrava risplendere, come se nulla fosse - doveva ormai essere preda dei pidocchi, come tutti noi, eppure non scattava per grattarsi nervosamente; nonostante la stanchezza cercava di sembrare sveglio, e nonostante la sporcizia cercava di sembrare composto: doveva avere un'eleganza naturale da cui trarre giovamento per mantenere un po' della sua antica dignità.
Gli strappai la sigaretta, e feci un tiro brusco, prima di ripassargliela: in fondo Roderich mi irritava, più di ogni altra cosa. Era lì, seduto, con le mani fini – come quelle di una donna – appoggiate sul grembo – graziosamente appoggiate – ed era come se ci stessimo sfiorando.
«Sei sposato» dissi poi. Lui annuì «Si chiama Elizveta» la voce divenne dolce, carezzevole «Non c'è donna al mondo che sia al pari di lei» ora, sorrideva, di un sorriso appena accennato «Fa da precettrice alle figlie di certe signore»
«Figli?» chiesi, ancora. Scosse il capo «In futuro, forse. Ci siamo sposati da poco» disse, a mo' di scusa. Lasciò cadere un po' di cenere.
«La tua fidanzata?» chiese, allora. Scossi la testa «Non sono da sposarmi, io» dissi, e gli presi di nuovo la sigaretta «Non mi piace il matrimonio. La stessa donna per tutta la vita » scrollai le spalle «È già abbastanza doverle subire per cinque minuti» mi guardò «E tuo fratello?»
«Oh, lui sì» dissi io «Si è sposato con un'italiana. Si chiama Maria»
«Dove si sono conosciuti?»
«A Firenze. Mio fratello ci era andato per studiare»
«Ed è insopportabile?»
«No, lei no» risi «Lei è l'unica donna che posso tollerare. Una creatura splendida» Roderich non aggiunse altro,
Ridacchiai in silenzio all'idea che l'austriaco si chiedesse cosa e quanto mia cognata, con la sua pelle bianca e i capelli sottili e rossicci, potesse essere splendida, per me.
«Sono felice di averla come sorella» aggiunsi. Roderich mi passò la sigaretta: la presi senza fretta, sfiorandogli le dita.
La nostra non era una conversazione strana, né speciale: era una conversazione come le tante altre che i soldati tenevano in quelle trincee di fango e sangue, lontani da casa, lontani da tutto. Ce n'erano state di più intime tra noi della compagnia, altre sere, altre notti, altri giorni: più silenziosi, più lievi, momenti in cui ci sembrava di vivere senza pelle.
Ma al momento mi sentivo come un cane, come se io e Roderich fossimo due cani lungo uno dei parchi di Berlino, intenti ad annusarci .
Avevo una gran voglia di mordergli la coda.
«Dev'essere dura per lei» disse, gentile.
Dev'essere dura per lei.
Rividi il suo sorriso tra le lacrime, sentii di nuovo la voce di mio fratello che me l'affidava.
«Beh, non dev'essere facile nemmeno per la tua» risposi «Ma almeno ora ti hanno spedito qui» feci un gesto vago con la mano, indicando il cunicolo.
Gli occhi lampeggiarono, e fece come per andarsene: gli presi il polso, e lui si voltò, furioso: lo guardai negli occhi per un unico, lungo istante. Poi si liberò bruscamente della mia mano, ma sembrava essersi calmato.
Lo osservavo come Principessa avrebbe fatto come uno strano uccello, come il Lucchese faceva con fiore, albero o sprazzo di cielo che per un istante gli ricordasse la vita e il colore: ogni tanto sembrava trattenersi dal delineare con le dita i contorni di qualcuno di quei frammenti di vita, come se non chiedesse che poterlo ritrarre.
«Parlami di Vienna» dissi. E lui lo fece.
La prima cosa che mi descrisse fu la Rathaus Platz, senza troppa convinzione: poi accennò alla Maria Therese Platz, e la sua voce parve infiammarsi: mi parlo del Kunsthistorisches, il cui palazzo era enorme e riccamente decorato, delle sue gallerie dalle volte di marmo scolpito, con angeli e fregi in rilievo, dei quadri appesi nelle loro cornici di legno ed oro, della bellezza dei volti che vi erano impressi; mi disse della statua dell'Imperatrice, scolpita del ferro, del modo in cui sua moglie la guardava tristemente ogni volta, perchè era seduta con i cavalieri ai suoi piedi, mentre il giorno in cui era diventata Regina d'Ungheria cavalcava fiera ed eretta, e la sua Elizveta per questo l'ammirava molto. Con un sorriso mi raccontò di quando erano fidanzati e erano andati al museo per la prima volta: erano dovuti uscire quasi subito perchè il quadro degli Arcimboldi, frutta e verdura, continuava a far ridere la sua futura moglie. Seguendo quei ricordi mi parlò dei parchi di Vienna, delle pasticcerie, delle fragole e la panna che si abbracciavano gentilmente sul pandispagna e del cioccolato che soffocava ogni cosa. Parlò della torta del giorno in cui aveva deciso il suo fidanzamento, dell'orgoglio, per la prima volta, negli occhi di suo padre, della felicità fragile di sua madre verso Elizveta, che ogni tanto era troppo brusca e troppo spavalda, abituata com'era a vivere solo con suo padre e suo fratello. Accennò alla carriera di Prefetto che non aveva mai voluto scegliere, parlò della prima volta che aveva suonato il piano.
Fu solo in quel momento che parve davvero illuminarsi: mi parlò di piani e spartiti, della qualità delle corde dei piani e della forma dei tasti; mi descrisse il Burg in ogni suo squisito dettaglio, dai candelieri di intricato oro agli affreschi, alle poltrone di velluto, parlò dei compositori e dei pianisti, accennò le arie e le melodie, disse ogni nome come se fosse quello di una donna amata: mi parlò della Filarmonica doveva aveva potuto suonare solo una volta, delle altre orchestre in cui aveva suonato, dei musicisti che aveva incontrato – gli italiani dalla bella voce e i russi rigidi, dello svedese taciturno che era sempre inquietante tranne che quando suonava il violoncello, il direttore inglese di cui tutti avevano paura, il nobile francese che una volta aveva assistito a uno dei loro concerti e poi aveva preteso di conoscerli tutti – e a ognuno di loro era arrivato una bottiglia di vino e un mazzo di rose. Mi descrisse cosa si provava nel suonare ; le mani sui tasti che basta accarezzare per sentirne il suono, il modo in cui riusciva a distinguere le note, in cui le sentiva unirsi e susseguirsi, sentire la melodia cambiare a ogni tocco delle sue dita, la musica stessa al suo comando.
Le sue mani l'avevano assecondato, e le dita in aria sembravano suonare un pianoforte invisibile: mormorò qualche nota, poi cominciò a cantarla lentamente.
Finì e le sue mani parvero cadere. Immaginai che avesse gli occhi chiusi, il respiro trattenuto.
«Chopin»
«Sì» rispose. E fu tutto.


Accendemmo una nuova sigaretta, quando mi chiese di parlarmi di Berlino; gliela passai e mi accorsi che non l'avevo mai visto, senza guanti.
Gli descrissi Postdam e ogni suo albero, il palazzo di Souns-souci in ogni sua intarsiatura, la sua storia come l'aveva dipinta mio padre, che da bambino mi aveva portato portato nella cattedrale di Postdam, sulla tomba del Grande per dirmi “Ecco chi è davvero tuo padre”. Gli parlai della croce prussiana di ferro che io ora portavo al collo e che lui aveva meritato, mio padre che era uno degli uomini che avevano fatto la Germania. Ripescai il ricordo di Bismarck, a cui mio padre aveva stretto la mano, accennai ridendo alla nostra cintura, su cui ogni soldato tedesco aveva scritto Dio è con noi.
Gli raccontai di mia madre, che accompagnava me e mio fratello al parco, scortati dai due grossi pastori tedeschi di mio padre e di mio zio, morto da eroe al fianco degli austriaci. Disegnai nell'aria uno dei piatti che mia cognata aveva portato dall'Italia, cosparsi di pomodoro e origano. Scaccia con le dita il ricordo delle donne che avevo frequentato solo nei salotti e parlai a lungo dei cani che avevo addestrato. Gli raccontai del modo in cui i francesi si spaventavano nel vedermi correre verso di loro con gli occhi rossi e i capelli bianchi, terrorizzati quasi quanto i bambini con cui cercavo di giocare da bambino, e notai che non rideva. Parlai dei lavori che avevo fatto, dei libri che avevo letto, le cose che per me erano parte di Berlino forse più dei suoi mattoni.
Sentii che capiva, e sapevo che lo sentiva.
Gli parlai del giorno in cui mio fratello era arrivato a casa, aveva baciato sua moglie, salutato nostro padre, abbracciato suo fratello e appoggiato l'ultima busta paga sul tavolo, perchè l'architetto Ludwig Weillschmidt era stato arruolato. Del sorriso di mia cognata tra le lacrime, mentre cercava solo di pensare a quello che a suo marito doveva servire durante una guerra. Di come aveva sussurrato che sapeva che lui sarebbe tornato presto, perchè avrebbe avuto una figlia e l'avrebbe chiamata Maria. Di come lei e le altre donne del vicinato si erano strette tra loro, in silenzio. Dell'abbraccio con cui Ludwig mi aveva salutato, affidandomi sua moglie e la sua futura figlia.
Di come invece era nato un maschio che aveva chiamato Otto, qualche giorno prima che arrivasse una lettera annunciare la morte di Ludwig, e un suo commilitone a consegnarcela.
Un colpo al cuore e via.
Il maggiore era sopravvissuto al minore.

Gli dissi di come avevo dato il mio lavoro a mio padre, la mia promessa a lui, e mi ero arruolato facendo il mio dovere. Di quel debole orgoglio che nonostante tutto l'aveva colto mentre consegnava la croce al suo primogenito, sempre così magro e solitario. Della prima volta che avevo messo piede in caserma e avevo capito che quello era il posto a cui ero sempre appartenuto. E lui parlò dell'orgoglio del suo, di padre, nel vedere il suo unico figlio partire per diventare uomo, difendere la patria, affrontare la vita, lontano per una volta dal suo pianoforte e i suoi completi eleganti.
Eravamo seduti vicini in una trincea piena di fango, la Terra di Nessuno alle spalle, il suo ricordo e le sue ombre soppiantate da altre, più cupe, più grandi, curiosamente meno ostili mentre si fondevano tra loro ad ogni parola.
Sentimmo il rumore di qualcuno che saliva sul parapetto nella sezione accanto: dovevo andare.
Ci stringemmo brevemente la mano in cenno di saluto.

George era tornato: lo Svevo aveva procurato un po' di luce, fioca, e era chino su di lui; Principessa si era trascinato verso di lui - sentii Malchik sfiorarmi mentre in silenzio lasciava la sezione.
Era ricoperto di fango e sangue, per aver strisciato, fradicio per l'acqua che si era raccolta nei crateri; puzzava di esplosivo e carne morta, e quell'odore non veniva mai via.
Ci vedeva ma non sembrava riconoscerci davvero: aveva un portafoglio di pelle spessa, cascante, le dita serrate intorno, sangue sotto le unghie. Si accorse di me solo quando gli gettai in faccia un po' di grappa: non lo ripulì, ma cancellò il segno del pianto.
«L'ho riportato.» disse soltanto «È qui.»
Non guardammo oltre il parapetto – sapevamo che non mentiva: lo Svevo tese le dita verso il portafoglio. George glielo porse, ma fui io a strapparlo.
Dentro c'erano un paio di vecchie banconote, piegate e ben nascoste, come conservate per qualcosa: c'era un penny d'argento, che fece sussultare George, un fazzoletto con una macchia di vernice rossa e un vago odore di colonia, una foto ingiallita non da prima della guerra, ma da prima ancora: il Lucchese nella foto aveva a malapena trent'anni, e capelli biondi che ricadevano sulle spalle in curve morbide e intricate. Aveva già la barbetta, e un pennello in mano, accanto a una donna dai capelli corti che sorrideva.
Dietro c'era scritto: Paris, 1904. Seguiva un indirizzo schizzato a matita.
Ora capivamo perchè il Lucchese aveva odiato meno di tutti noi.
Dentro c'era anche qualche petalo di rosa, e una medaglietta di San Cristoforo.
Lo Svevo rimise tutto nel portafoglio, e lo ridiede a George: lui lo prese, tremando, poi lo svuotò con un gesto secco. Lo tese allo Svevo con mano ferma: lui esitò, poi lo prese. Diede la medaglietta a Principessa, che la mise subito al collo, e mi mise in mano il penny. Il resto finì nel suo portafoglio, da cui spuntava il lembo di un altro fazzoletto, macchiato di un rosso che non era vernice.
Lasciò a terra solo le due banconote: le presi, ancora piegate – c'era di sicuro qualcosa per cui conservarle.
Poi, George si accucciò contro la parete di fango e legno: lo Svevo gli si avvicinò, e Principessa si sistemò tra loro. Alla fine, mi avvicinai anch'io, alla sinistra di George. Dormimmo.

Quel giorno non ci fu nessun alzabandiera: era ora di tornare. Malchik venne a aiutarci a trasportare Principessa, e poi anche Roderich e gli altri due austriaci chiesero se avevamo bisogno di aiuto: probabilmente immaginavano cosa doveva esserci oltre il parapetto. Vidi Roderich cercare di non respirare, mentre aiutava Malchik e lo Svevo per fare il più in fretta possibile: per lui, il cadavere del Lucchese, probabilmente puzzava e basta. Si sporse con me e George dal parapetto, tendemmo le braccia e tirammo.
Non appena cadde nella trincea lo coprimmo con una coperta: Roderich e l'altro austriaco si voltarono, e sentimmo uno di loro vomitare.
Non era il peso di un uomo, e Principessa era leggero: la terza squadra della quinta compagnia non ostacolò in nessun modo il rientro del quarto reggimento.
In effetti, avrebbe potuto anche non esserci.
Spezzai a metà la tavoletta di cioccolata, e mi misi in tasca quella di George, che continuava a scavare. Il capitano ci aveva dato il permesso di metterci subito al lavoro, e avevano già preparato la croce, bianca con le lettere incise nel legno.

Frederick Wagner
1873 – 1915.

E basta.
Era un buon camerata» disse Willemburg, accendendosi una sigaretta «Mi diede un paio di mutande nuove, dopo la prima volta. Era gentile» fece un tiro e me la passò. La tenni tra i denti e ripresi in mano la pala. L'odore copriva un po' quello degli altri cadaveri.
George scavava spalando via la terra, gettandola dappertutto come un cane, Era già abbastanza profonda, ma scavammo ancora.
«Volete seppellirci anche un cavallo?» Landa ci raggiunse, una corona di fiori in mano. Guardò la tomba e fischiò «Ora nemmeno una bomba lo tirerà su» Erano fiori di ciliegio. Fottutissimi fiori di ciliegio che crescevano ancora.
George gettò via la pala solo quando arrivò anche il capellano Von Heidenberg
seguito da un paio di sassoni.
Il Lucchese era stato un buon camerata.
Il suo corpo cadde nella tomba con un tonfo, mentre George, pallido, incrociava le braccia, guardandolo in fondo alla buca. Sfilai dalla tasca il fazzoletto dello Svevo e la croce di legno di Principessa, che era ancora all'ospedale.
Landa portò all'altezza del petto la corona di fiori, Willemburg si mise rigido.
«Cari fratelli e sorelle, siamo qui riuniti...»
Si interruppe mentre anche lo Svevo arrivava ansante e mi strappava il fazzoletto di mano.
«...per ricordare...» da lontano si udiva di nuovo l'eco degli spari. Ma il capellano si interruppe di nuovo, perchè anche qualcun altro potesse raggiungerlo.

Notizie di Principessa ci arrivarono solo verso sera a cena, quando Landa ci affiancò e spinse via una recluta dalla pentola dei fagioli.
«Ho sentito mio fratello» cominciò «Ci ha rimesso il piede, ma sarà a casa molto prima di tutti noi»
Sorridemmo; lo Svevo gli offrì una sigaretta e George gracchiò piano.
«A quanto pare saranno solo i tedeschi a rimanere qui, A quanto dice mio cugino» continuò – il nonno di Landa aveva avuto dodici figli e tutti i nipoti in età arruolabile « anche gli austriaci se ne vanno. Contro gli ivan, beati loro!» addentò un pezzo di carne « Basta sedersi e sparare!» spezzai a metà il pane.
«Quando partono?» chiesi, passandone metà alla recluta.
«Domani mattina» deglutì « un ordine improvviso. Strano, no?»
Lo Svevo si accigliò, George vuotò un bicchiere d'acqua. A me non importava. Mi scrollai le briciole di pane dai pantaloni e presi un altro pane che non si spezzasse se chiudevo il pugno.


«Gilbert» Era poco più di un sussurro: mi misi a sedere, scostando la coperta.
«Roderich?» riuscivo a distinguerne a malapena la sagoma nel buio, ma la voce, con quell'accento di seta, era inconfondibile,
Scossi la testa per svegliarmi «Che diavolo...»
Mi prese per il colletto e mi baciò.
Non doveva essere la prima volta che mi succedeva, ma non ne ricordavo altre. Gli passai una mano tra i capelli, arruffandoli, e sentii che si appoggiava a me, mentre cedevo sotto il suo peso.
Poi si staccò. 
Sentivo solo il respiro dei miei compagni.
Capii.
«Sigaretta»
Gli presi la mano e lo tirai su a forza. Non disse nulla, nemmeno una flebile protesta mentre me lo portavo dietro per l'accampamento, evitando le sentinelle- una di loro mi salutò, così domani sarei rimasto senza sigarette. Stringevo più forte che potevo e sentivo le sue dita stringere a loro volta.
Arrivammo davanti alla baracca di Landa, che fumava: mi limitai a ficcargli in mano il mio portafoglio. Non c'era niente che – ma in trincea non esiste niente di più caro; ci spinse dentro. Sul pavimento c'erano un paio di brande, e qualche coperta. Era il meglio che potessimo avere. Non appena la porta si chiuse, tirai a me Roderich.
Fece solo una smorfia quando cademmo sul pavimento che pochi centimetri di branda non ammorbidivano – e tanto meno rendevano più pulito. Poi esitò, e mi baciò di nuovo.
Si sdraiò mentre gli sbottonavo la divisa, e sentii anche la mia che si allentava.

Cominciava a albeggiare: ci eravamo già rivestiti e io avevo recuperato il mio portafoglio da Landa, che mi avrebbe aspettato a colazione per discutere il prezzo. Io e Roderich tornavamo dalla sua compagnia, che doveva partire non appena fosse sorto il sole.
Non avevamo più detto molto: le baracche del reggimento austriaco erano già visibili. Suonò la sveglia, e il rullo di tamburi continuò nei passi crescenti dei soldati che correvano per il campo.
Avevo la fede di Roderich in tasca – un anello d'oro liscio e perfetto, come se nulla l'avesse mai sfiorato. Solo, c'era un po' di fango secco. Gliel'avevo rubato dal dito e quando i suoi occhi avevano cominciato a lampeggiare avevo riso.
«Te la ridarò dopo. Quando avrai suonato per me»
Aveva socchiuso appena le labbra, incapace di dire alcunché: poi aveva detto «Va bene», gli occhi limpidi dietro le lenti.
Eravamo a pochi passi dai suoi compagni, in uno dei vicoli tra le baracche dove i bavaresi si giocavano ai dadi le puttane del villaggio. A terra c'erano ancora mozziconi e un paio di dadi.
Si voltò.
«Arrivederci» la luce debole del sole illuminava ogni dettaglio del suo profilo.
«Addio, semmai, damerino» incrociai le braccia «Senza il Magnifico Me non durerai una settimana!»
«Sopravviverò» sorrideva: per l'ultima volta.

Di che reggimento siete, fratelli?
Parola tremante
nella notte
Foglia appena nata.

Nell'aria spasimante
involontaria rivolta
dell'uomo presente alla sua
fragilità

Fratelli

[G. Ungaretti]

[ ] [ ] [X] [X][x] [ ]

L'unica cosa che posso segnalare, è che c'è stata una variazione dell'originale inviata al concorso, per quanro riguarda la scena dell'anello, che inizialmente era Roderich a dare a Gilbert; rendendomi poi conto dell'assurdità della cosa, ho trasformato l'iniziale sicurezza di Roderich in qualcosa di diverso - per quanto egli sia deciso, sul momento, non lo è fino in fondo. Spero che i prossimi capitoli aiuteranno a fare chiarezza.
Grazie a tutti coloro che hanno letto, recensito e aggiunto alle preferite, a tutti coloro che apprezzano questa storia.
Sto pregando in aramaico di aver mantenuto una caratterizzazione decente.

La parte di Gilbert termina qui,.

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