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Un caloroso saluto a tuttiiiiii! xD Sono tornata e dopo
un’infinità di tempo, mi sono dedicatanuovamente a Kodocha.. *-*
Per tutte le precisazioni sulla storia, vi mando alla
fine del capitolo! xD
Breathless
“-Sai,
a volte mi succede ancora.
-Cosa?
-A volte capita che mi manca il
respiro…”
CAPITOLO UNO:
CAMBIAMENTI
Si guardò allo specchio ancora una volta e sorrise,
aggiustandosi meglio il fermaglio luminoso che le teneva legate alcune ciocche
dei lunghi capelli.
Non c’erano dubbi, era davvero bella come le dicevano
tutti.
Si stupì un istante per quel pensiero così poco modesto.
Un tempo, ne era certa, nella sua mente spensierata e leggera non ci sarebbe
stato spazio per tanta vanità.
Ma forse, si disse, il trascorrere degli anni riesce a
cambiare tutti. E alla fine aveva cambiato anche lei.
Se ne rese conto per la prima volta proprio quella sera,
quando nel riflesso del suo bel viso le sembrò di scorgere nei suoi occhi una
luce diversa. Così diversa che, per un attimo, quasi fece fatica a
riconoscersi.
Non c’erano più gli occhi allegri di una bambina, né
quelli curiosi e impazienti di un’adolescente.
Di fronte a lei c’erano gli occhi maturi e consapevoli di
una donna.
Aveva solo 24 anni, è vero. Ma erano stati 24 anni pieni
di tutto. Pieni di vita vera, di vita forte, di vita che a volte era stata anche
crudele. Che le aveva tolto molte cose, ma che gliene aveva regalate
altrettante.
Non c’era stato neppure un istante vuoto, niente. Ogni
attimo era stato pieno di qualcosa e qualcosa aveva raccontato.
Alla fine, quindi, si era sempre sentita molto fortunata
e aveva sempre pensato che la vita spesso le aveva donato anche molto più di
quanto meritasse.
Fu con questi pensieri felici che si passò una mano fra i
morbidi capelli ramati e diede un’occhiata veloce all’orologio appeso al muro
della sua stanza.
Aveva esattamente mezz’ora di ritardo.
Sorrise, immaginando l’espressione nervosa e preoccupata
sul volto del suo fidanzato che proprio in quel momento la stava aspettando nel
ristorante più bello di tutta New York.
Le sembrava quasi di poterlo vedere, mentre ticchettava
nervosamente con le dita sul tavolo e guardava di continuo l’ora sull’orologio
da polso che lei stessa gli aveva regalato il Natale precedente.
Sapeva che non era giusto farlo aspettare sempre così
tanto. Che era un comportamento scorretto e da prima donna. Ma sapeva anche che
non appena l’avrebbe vista, il nervosismo sarebbe sparito e avrebbe lasciato il
posto ad uno splendido sorriso.
Si sentì un po’ in colpa, perché spesso le era capitato
di pensare che forse non meritava tutto quell’amore. Che non era giusto che lui
la amasse così tanto. Che l’amasse oltre ogni limite conosciuto, oltre ogni
umana capacità d’amare.
Poi però il senso di colpa spariva non appena si
convinceva del fatto che, dopotutto, anche lei lo amava molto.
“Se mi ami almeno la metà di quanto ti amo io, allora mi
ami abbastanza” le aveva detto lui un giorno, guardandola dritta negli occhi,
nel tentativo di scacciare anche la minima ombra dal suo cuore.
Quella frase le era rimasta nella testa, le si era
appiccicata, e tornava prepotente ogni volta che, restando da sola, sentiva di
nuovo riaffiorare quello strano senso di inadeguatezza.
E si sentiva subito meglio.
Come previsto, quando arrivò nel ristorante lui la guardò
e le corse incontro sorridendo, salutandola con un bacio dolcissimo.
- Scusami per il ritardo… magari sei qui da
molto..
Lui scosse la testa deciso.
- Sono appena arrivato.
Le rispose con un sorriso.
Sapeva che non era vero, che lui lo diceva solo per non
farla sentire in colpa.
Sorrise anche lei e lo baciò, felice e innamorata,
perdendosi nel mare dei suoi occhi azzurri.
***
Aprì un poco gli occhi dorati e la prima cosa che avvertì
fu il dolore acuto che proveniva dalla sua fronte sudata. Vi portò
istintivamente una mano, premendola forte nel tentativo di farla smettere di
pulsare in quel modo così forsennato e insopportabile.
Ma il dolore non accennava a diminuire.
Dannazione a lui che non imparava mai la lezione. Che di
nuovo aveva passato la notte a ingurgitare tutto l’alcol che gli era passato tra
le mani, mandando a quel paese tutti i buoni propositi con i quali aveva
iniziato la settimana.
Era solo mercoledì – o giovedì, non avrebbe saputo dirlo
con certezza vista la confusione mentale- e già di quei buoni propositi non era
rimasta neppure l’ombra.
Ma non era affatto come si poteva pensare.
Akito Hayama non era di certo un ubriacone.
Non era per niente il tipo di persone che si lascia
divorare da vizi o dipendenze. Lui amava tenere il controllo di tutto, in
particolar modo della sua vita.
Quindi, il fatto che a volte passasse le notti in
compagnia dell’alcol era una sua libera, liberissima scelta.
Un modo per staccare, per allontanarsi da quella realtà
che a volte diventava soffocante.
Non gli era bastato comprare una casa tutta per sé o
affermarsi nel mondo del karate. Certe notti sentiva comunque quella maledetta
voglia di scappare.
E quando questo succedeva, Akito era solito scegliere tra
due opzioni.
La prima era, appunto, quella di mettere a tacere i
pensieri inondandoli di alcol.
La seconda era quella di farsi una sana scopata in
compagnia di un’emerita sconosciuta.
Quella notte, però, i suoi pensieri dovevano essere stati
abbastanza rumorosi perché, a giudicare dalla bionda che gli dormiva accanto
completamente nuda, aveva avuto bisogno di entrambe le opzioni.
***
Tsuyoshi Sasaki non era mai stato portato per quel genere
di cose. Era bravo a farne molte altre, di cose. Per esempio, era bravo a tenere
in ordine la casa. O a fare la spesa. O a parlare con le persone. Ma
soprattutto, era bravo ad amare la donna che, proprio in quel momento, lo
guardava con aria interrogativa.
- Dai a me.. faccio io.
Gli disse, scuotendo la testa rassegnata e stringendosi
nelle spalle esili. Lui la guardò con una luce liberatoria a brillare negli
occhi scuri.
- Ti ho mai detto quanto ti amo?
Le chiese con sguardo ruffiano, porgendole il foglio
bianco che da ormai più di due ore lo stava tormentando.
Aya Sugita sorrise del suo sorriso più dolce.
- Me lo ripeti in continuazione. E poi sai, il fatto che
tu voglia sposarmi è una prova abbastanza schiacciante.
Tsuyoshi scoppiò in una piccola risata, mentre con una
mano si aggiustava meglio gli occhiali enormi.
- Perspicace.
- Già. Comunque, amore, almeno potresti andare a fare la
spesa per domani? Credi di riuscire a farcela da solo o ti serve il mio
aiuto?
- Perspicace e anche spiritosa. Non c’è che dire. Ho
scelto la migliore.
Scherzò, avvicinandosi a lei e depositandole un tenero
bacio sulla fronte candida.
Diede un’occhiata da dietro la finestra al cielo che
diventava sempre più scuro e minaccioso e, per precauzione, si convinse che
sarebbe stato molto più prudente uscire con un ombrello.
- Ah, Aya…
Le disse, prima di richiudersi la porta alle
spalle.
- … Sarebbe inutile dirti che non devi sistemare quei due
allo stesso tavolo, vero?
Aya sbuffò, leggermente contrariata.
- Si si, lo so.. non preoccuparti. Sana e Akito
siederanno il più lontano possibile.
- Perspicace, spiritosa e ragionevole. Mi congratulo
sempre di più con me stesso.
Stavolta lei non sembrò aver apprezzato l’umorismo.
Magari per colpa di quello stupido senso di tristezza e malinconia che la
coglieva sempre se pensava a Sana e Akito. O meglio, se pensava al fatto che in
realtà, di Sana e Akito, o almeno di quella Sana e di quell’Akito che conosceva,
non era rimasto più nulla.
- Non essere triste per loro, Aya. Forse… è stato meglio
così.
Come già detto, se c’era una cosa in cui Tsuyoshi
eccelleva era proprio nell’amare e nel capire la sua fidanzata. Nel saper
leggere ogni espressione, ogni sfumatura di sentimento che le attraversava gli
occhi. Anche se durava solo un istante.
Lei lo guardò un attimo, facendo un cenno d’assenso con
il capo e poi tornò a concentrarsi sul foglio bianco che le stava di
fronte.
Decidere la suddivisione dei tavoli per gli invitati al
suo matrimonio sembrò risollevarla almeno un po’.
Per questo Tsuyoshi finalmente si decise ad uscire,
salutandola nuovamente con un bacio.
Appena varcò la soglia di casa alzò gli occhi verso il
cielo e si strinse meglio nel cappotto pesante.
Nell’aria fredda di quel pomeriggio di inizio dicembre
c’era un forte odore di pioggia.
***
Sbuffò sonoramente, mentre con una mano cercava
inutilmente di mettere in ordine i capelli scuri scomposti dalle forti raffiche
di vento. Magari era una sua sensazione, ma ogni volta che usciva di casa le
sembrava che persino il vento si divertisse a farle i dispetti.
Certo, come no. Ora secondo te anche il vento ha una
personalità?
Scosse la testa, dandosi mentalmente della
sciocca.
Ma che ci poteva fare se un giorno si era svegliata ed
era diventata la persona più pessimista del mondo?
Lei, proprio lei, che dell’ottimismo, quell’ottimismo a
volte anche immotivato e infantile, aveva sempre fatto il suo punto di
forza.
Magari è normale… crescendo un po’ di spensieratezza la
si perde per forza, no?
Perché tanto la realtà ti sbatte in faccia comunque,
prima o poi.
Ed era capitato che ad un certo punto di quell’ottimismo
non aveva più saputo che farne.
Meglio essere realisti, si era detta. Meglio smetterla di
pensare che la vita sia una favola rosa. Anche perché di “rosa” o di “favola”
nella sua vita non c’era rimasto poi molto.
Entrò in macchina e controllò i messaggi nella segreteria
del suo nuovo telefonino, regalo del suo ultimo compleanno.
La voce metallica e impersonale della segretaria
cantilenava “Hai un nuovo
messaggio”.
Premette il tasto “1” per ascoltarlo, anche se era
praticamente quasi certa che fosse di sua madre.
O, al più, del suo capo che, per inciso, odiava
mortalmente. Così come odiava il suo stupido lavoro di segretaria sottopagata di
uno studio legale. Lei, lei che era sempre stata la più brava in tutto,
specialmente nello studio, che voleva andare all’università, laurearsi a pieni
voti e diventare un medico o un avvocato. Proprio lei che di quella vita sognata
non aveva vissuto neppure un miseroistante.
“Fuka, amore…
Sua madre.
…
Quando passi a prendere Shin? Oggi è un po’ irrequieto. Credo voglia la sua
mamma.”
Il giorno in cui Fuka Matsui aveva perso il suo
meraviglioso ottimismo era stato quello in cui, completamente sola, aveva
scoperto di aspettare un bambino.
***
Chi l’ha detto che l’amore può vincere tutto?
Domanda strana, lo sapeva bene. Una domanda alla quale,
con molta probabilità, non avrebbe mai trovato una risposta. Perché forse una
risposta non c’era. O forse era molto più semplice di quanto potesse pensare.
Forse non c’era stato nessuno che aveva decretato che
l’amore è la forza più grande. Forse erano state le persone, quelle che davvero
l’avevano vissuto, l’amore - ma quello vero, quello che ti divora il cuore-a
riconoscergli un tale potere.
Comunque, c’era stato un tempo in cui Sana Kurata se
l’era fatta spesso, quella domanda. Specialmente quando le capitava di pensare a
quella sera che risaliva ormai a 4 anni prima. Quella sera in cui era bastato un
istante per distruggere quello che, almeno per lei, poteva essere, doveva essere, l’amore con la “A”
maiuscola. Quello che ti capita una sola volta nella vita o che addirittura a
volte non ti capita mai. Ma anche quello che richiede un incredibile impegno,
un’assoluta devozione. Perché l’amore dà, ma deve anche ricevere. Perché per
arrivarti nell’anima ha bisogno che tu gli indichi la strada, che gli liberi il
cuore. E se ci riesci il cuore te lo prende tutto e diventa la catena che ti
lega l’anima all’anima di un’altra persona.
C’era stato un tempo in cui si era sentita esattamente
così. Saldamente legata ad un’altra anima.
Forse era stato in quell’istante… quando in un pomeriggio
qualunque, passeggiando per le vie della sua Tokyo, Akito le aveva
involontariamente sfiorato una mano. Un gesto normale, ovvio per due
fidanzati.
Forse era stato il modo in cui poi si erano guardati e
avevano inconsciamente sorriso, come se si fossero davvero resi conto che
sfiorarsi, toccarsi, guardarsi e sorridersi erano la cosa più naturale del
mondo. E più facile. E più giusta.
Forse fu proprio in quel pomeriggio che Sana Kurata pensò
per la prima volta che la mano di Akito sarebbe stata quella che avrebbe stretto
per tutta la vita.
Poi c’era stato quel giorno, quando Akito era tornato a
casa, stanco e nervoso, dopo l’ennesima giornata di allenamenti e aveva trovato
Sana con quella strana espressione sul viso.
“Mi hanno offerto una parte importante in un altro film,
Akito.” Gli aveva detto leisenza
neppure guardarlo negli occhi.
Lui si era lasciato cadere sul divano e aveva incrociato
le braccia, non degnandola neppure di uno
sguardo.
“Mi fa piacere per te.”
“E’ in America. Dovrei trasferirmi lì per almeno un
anno.”
Akito aveva spalancato gli occhi dorati e si era alzato
di scatto, avvicinandosi alla sua fidanzata.
“Non capisco perché me ne parli, dal momento che sono
sicuro che non accetterai.”
Finalmente lei l’aveva guardato e, con gli occhi lucidi,
aveva scosso la testa, muovendo i suoi capelli lunghi. Solitamente, sarebbe
bastato l’odore meraviglioso che si sprigionava nell’aria ogni volta che
Sanafaceva quel gesto così
naturale per far sparire l’Akito stanco e nervoso e far apparire l’Akito
perdutamente innamorato.
Quella volta però l’unica cosa che avvertì nell’aria non
fu il profumo dei capelli appena lavati di Sana, ma quello amaro di un’
inevitabile separazione.
“I… io.. non posso rifiutare. È troppo importante per il
mio lavoro!”
“E
io allora? Io che fine faccio? NOI CHE FINE
FACCIAMO?”
“Io non voglio lasciarti, Akito! Non lo farei mai!
Possiamo.. possiamo farcela… puoi aspettarmi…
tu..”
“SMETTILA! Se sapessi con certezza che questa sarebbe
l’ultima volta che mi lasci per uno stupido lavoro, ti aspetterei! Ma sappiamo
entrambi benissimo che presto ci sarà un’altra offerta… io non ce la faccio più
ad andare avanti così, Sana…”
Aveva abbassato il viso, lasciando che il miele dei suoi
capelli gli ricoprisse la fronte.
“Devi scegliere, Sana… o il tuo lavoro… o
me.”
“Non chiedermi questo, Akito! Non costringermi a
rinunciare!”
“Scegli, Sana.. “
“NO AKITO! Non farmi scegliere…sai benissimo che senza il
mio lavoro sarei infelice!”
“Io non ti ho mai chiesto di rinunciare al tuo lavoro!
Vorrei solo che tu non andassi in ogni parte del mondo per girare un
FOTTUTISSIMO FILM DEL CAZZO!”
“FANCULO AKITO! SAI QUANTO AMO IL MIO LAVORO! LO
SAI!”
“No Sana… non so più niente. Anzi, una cosa la
so…”
Lei l’aveva guardato, preoccupata e
interrogativa.
“…
so che non stai scegliendo me…”
Era rimasta impietrita. Per la prima volta nella sua
vita, Sana Kurata non era riuscita a trovare le
parole.
Lui le aveva dato le spalle, mormorando un “Domani
manderò qualcuno a prendere le mie cose” e poi si era avviato verso la porta,
con le gambe che erano improvvisamente diventate pesanti come blocchi di
cemento.
Senza neppure sapere come, Sana gli si era letteralmente
avventata contro, stringendogli forte la vita con le braccia
esili.
“Ti prego Akito.. è come se io ti avessi chiesto di
scegliere tra me e il karate.”
Lui si era voltato, lasciando che lei scorgesse quella
piccola goccia salata che era nata in un angolo dei suoi occhi
dorati.
“Esempio sbagliato, Sana. Perché io avrei scelto
te.”
Si
era sentita trafiggere il cuore da mille pugnali e aveva mollato la
presa.
Era rimasta lì, immobile e silenziosa, e si era lasciata
cadere sulle ginocchia, mentre l’aveva guardato andare
via.
Aveva pianto tutta la notte, stringendo forte il cuscino
sul quale fino a poche ore prima aveva dormito Akito. Aveva pensato di chiamarlo
per dirgli che lo amava da impazzire e che per lui avrebbe rinunciato a
qualsiasi cosa. Che non esisteva vita se non poteva averlo accanto. Che senza di
lui si sarebbe sentita irrimediabilmente sola. E persa. E
vuota.
Già. Aveva pensato di
chiamarlo.
Ma
non l’aveva fatto.
E,
facendo prevalere la parte più smisurata del suo ego, la mattina dopo aveva
preparato le valigie ed era partita per New York. Poi, da lì, non era mai più
tornata.”
Chi l’ha detto che l’amore può vincere tutto?
Ancora oggi, quando rimaneva sola con i suoi pensieri,
Sana Kurata si poneva questa domanda.
E, da qualche tempo, era riuscita a darsi una risposta.
Sempre la stessa.
Non so chi è stato, ma di certo doveva essere un gran
sognatore. O semplicemente molto ubriaco.
/-/
Note
dell’autrice: Allora, parto subito col dirvi che il mio progetto iniziale su
questa fan fiction era quello di fare un unico capitolo. Però, man mano che
scrivevo, mi sono resa conto che sarebbe stato un capitolo eccessivamente
lungo.. xD Quindi alla fine ho deciso di postare questo che dovrebbe essere
un’introduzione per il resto della storia. Prendetelo come una “visione
d’insieme” sulla vita dei personaggi.
Comunque, visto che la storia sul mio PC è giunta quasi,
e dico “quasi”, al termine, gli aggiornamenti dovrebbero essere più o meno
puntuali. Almeno spero.. xD
Credo di aver detto tutto. A risentirci presto!
Ovviamente attendo di sapere il vostro parere.. ^-^
Saaaaaaaalve gente!!! Sono di nuovo io! ^-^ Si, lo so. Ho
aggiunto questa storia solo pochi giorni fa però visto che questo capitolo era
già pronto ho pensato di postarlo subito. ^-^
Per i soliti chiarimenti, vi aspetto al termine del
capitolo!
CAPITOLO DUE: OCCHI
Sana Kurata avrebbe assolutamente potuto affermare, senza
la minima ombra di dubbio, di adorare la città di New York. Di adorarne ogni
singola strada, ogni suono, ogni altissimo grattacielo.
Quella città l’aveva stregata con il suo continuo e
incessante movimento. Non c’era un istante in cui si poteva dire “Ecco, New York
sta dormendo.” Perché New York non si fermava mai. Proprio come lei.
Ma c’era una cosa che adorava più di tutte. Era quando,
nelle notti d’estate, se ne stava tranquillamente accoccolata nelle braccia
calde di Naozumi, seduta sull’alta terrazza della loro splendida casa in centro
e con occhi sognanti ammirava lo scintillio di milioni di luci colorate, sotto
lo sguardo amorevole del suo dolcissimo fidanzato.
In quei momenti, se alzava lo sguardo, sopra di lei non
c’erano più gli immensi grattacieli, ma solo il manto di stelle dei limpidissimi
cieli d’agosto.
Però, ogni volta che Naozumi non c’era, ogni volta che
rimaneva da sola e sentiva quello strano peso farsi largo sul cuore, si rendeva
conto che il suo amore per New York, forse, era motivato anche e soprattutto da
un altro fattore.
Le luci di New York non si spegnevano mai e,
fortunatamente, non le lasciavano neppure il tempo di ricordarsi quanto orribile
fosse avere paura del buio.
***
- Allora è vero quello che dicono tutte su di
te!
Akito si voltò di scatto e si rese conto che la “bionda”
– così l’aveva ribattezzata visto che, accidenti a lui, non riusciva a
ricordarne il nome-, si era finalmente svegliata.
- Buongiorno…
Le disse, mentre sul suo viso comparve una leggerissima
ombra di imbarazzo non appena notò che la ragazza con la quale aveva passato la
notte non aveva alcuna vergogna nel mostrarsi completamente nuda.
Ovvio, Akito! C’hai passato la notte, anche se non
ricordi un bel niente! Perché dovrebbe
vergognarsi?
- Buongiorno anche a te, biondo.
Gli disse lei, accennando un sorriso
divertito.
- Allora… questa notte noi…
- Abbiamo fatto sesso per tutta la notte, si. Ed è stato
anche molto bello. Era questo che volevi sapere vero?
Akito spalancò un poco gli occhi dorati, cercando nel
viso che gli stava di fronte un indizio, un ricordo, un’immagine qualsiasi che
potesse riportarlo alla notte appena trascorsa. Ma non trovò niente.
Forse perché l’unica cosa alla quale riusciva a pensare
era quella di alzarsi e di prendere al più presto una medicina per quel dannato
mal di testa.
- Bene…
La voce acuta della “bionda” lo riscosse dai suoi
pensieri.
- … ora devo andare. Il mio manager mi
aspetta.
Manager?
Allora doveva essere un’attrice, una showgirl o qualcosa
del genere.
Capì che la sua sensazione era più che giusta non appena
lei si alzò e mise in mostra il suo fisico perfetto. Solo ora che poteva vederla
“interamente” il biondo acceso dei lunghi capelli gli sembrò palesemente finto,
un biondo forzato, innaturale. Guardandola meglio, anche in quel seno perfetto,
ma un po’ troppo grande per il suo fisico snello, c’era decisamente molto poco
di naturale.
- Ciao biondo. È stato un piacere!
Salì con un ginocchio sul letto e si sporse verso di lui,
salutandolo con un leggero bacio sulle labbra.
- Ah..
Disse poi, sorridendo furbescamente.
- … non preoccuparti se non ricordi il mio nome. Ieri non
mi hai neppure lasciato il tempo di dirtelo.
Akito scosse la testa e sorrise appena.
- Devo chiamarti “bionda” o un nome vero ce
l’hai?
Rise divertita.
- Mi chiamo Naoko, ma “bionda” mi piace di
più.
- Come ti pare…
Lei rise ancora e Akito notò che il suo sorriso,
contrariamente alla maggior parte del suo aspetto esteriore, era fresco e
leggero e le dava un’aria un po’ più infantile.
- Ma cos’è che hai detto prima? Cosa dicono tutte su di
me?
Le chiese, prima che lasciasse la sua stanza. Lei lo
guardò un lungo istante, come se quei lineamenti poco più che sconosciuti
volesse imprimerli per bene nella memoria.
- Che a due occhi come i tuoi è impossibile dire di
no.
Rise un poco anche lui. Ma solo un attimo, come si
conveniva ad Akito. Uno per cui un sorriso costava più fatica di una maratona
per tutta la città.
“Bionda” uscì dalla camera da letto, lasciandosi dietro
una fortissima scia di profumo. Così forte che il mal di testa di Akito non potè
fare altro che peggiorare.
***
- SANA, AMORE , CI SEI? SONO A CASA!
Scese le scale a grandi falcate e si gettò tra le braccia
di Naozumi,- appena tornato dall’ennesimo servizio fotografico-, incurante del
fatto di avere indosso solo un minuscolo asciugamano.
- Nao finalmente!
Urlò. Lui sorrise, più con gli occhi che con le labbra e
sentì salire un lieve rossore sulle guance. Cretino lui che ancora, nonostante
tutto il tempo trascorso, moriva di imbarazzo se la vedeva mezza
nuda.
Lei se ne accorse e arrossì a sua volta.
- Sa… Sana io credo che…che sia meglio se vai a
vestirti.
Per tutta risposta, lei gli si avvinghiò al collo e lo
baciò, facendo scorrere sul petto le mani ancora umide.
- Io ho un’idea migliore.
Disse, mentre gli sbottonava i primi bottoni della
camicia. E allora Naozumi scollegò il cervello, come succedeva ogni volta che
faceva l’amore con Sana. Bastava una sua carezza e il cuore quasi esplodeva,
tanta era la felicità di vederla finalmente solo sua.
- Mmm… direi che la tua idea mi piace molto più della
mia.
Rise, mentre lui la baciava ancora e tuffava una mano tra
i capelli appena lavati, chiudendo gli occhi e beandosi dell’estatica sensazione
che gli provocava quell’avvolgente odore di pesca.
- Le mie idee sono sempre migliori delle tue,
Nao.
Sorrise divertito, prendendola in braccio e portandola su
per le scale, verso la camera da letto, senza lasciare mai quelle labbra così
morbide e perfette.
- Mi sei mancata così tanto…
Le disse, mentre lei, lei che a volte era ancora la
ragazzina goffa di un tempo, faceva apparire difficile anche una cosa
estremamente semplice come sbottonare la cintura dei suoi pantaloni.
Proprio quando sembrava essere finalmente riuscita
nell’impresa, ovviamente non senza l’aiuto di Naozumi, un suono proveniente
dalla stanza accanto attirò la loro attenzione.
- Ma che…?
Fece Sana, tremendamente rossa in viso per l’eccitazione
che, fino ad un istante prima, stava provando.
- Ah! Dev’essere una mail!
Riuscì a dire poi, scostandosi da Naozumi e mettendosi in
ginocchio sul letto.
Lui la imitò, mettendosi a sedere sconfortato.
- Perché non spegni mai il PC, Sana? E poi chi ti manda
una mail a quest’ora della notte?
- E secondo te come faccio a saperlo se non vado a
controllare?
Naozumi sbuffò.
- Ok vai… ma torna immediatamente qui.
Lei sorrise e si risistemò l’asciugamano che le aveva
tolto lui solo un istante prima. Velocemente si alzò e sentì un brivido di
freddo non appena il suo corpo lasciò il caldo rifugio delle lenzuola di cotone
e delle braccia di Naozumi. Desiderò ignorare quella dannata mail e tornare a
fare quello che aveva interrotto, ma non lo fece. E in un attimo si trovò
davanti lo schermo illuminato del suo PC.
Giuro che se è la solita mail pubblicitaria me la prendo
con ogni singolo oggetto che mi ritrovo
davanti!
Cliccò sull’icona raffigurante la piccola busta chiusa e,
non appena lesse le prime righe, spalancò gli occhi più di quanto fosse
umanamente possibile.
Il mittente era sconosciuto. Ma le prime 4 parole
riuscirono a scombussolargli lo stomaco, la mente, il cuore, ogni cosa. Le
sembrò che anche la più piccola cellula del suo corpo si mettesse a correre
impazzita. Sulle prime, non riuscì a muovere neppure un muscolo e non poté fare
altro che continuare a leggere.
“
Ciao, Sanachan. Sono Aya. Forse ti chiederai come faccio ad avere il tuo
indirizzo mail visto che tu non me l’hai mai dato. Bè, diciamo che l’ho chiesto
a Rey. “Chiesto” è un po’ riduttivo…direi che l’ho letteralmente obbligato a
darmelo. Lui non voleva. Ha detto che era per la
privacy.
Privacy? Tra me e te?
Quasi sono scoppiata a ridergli in faccia.
Comunque, alla fine come vedi sono riuscita a
convincerlo.
Innanzitutto, vorrei dirti che ho cercato di trovare le
parole giuste per iniziare questa mail. Mi sono arrovellata il cervello per non
sembrarti troppo invadente, o troppo distante.
Ma
non so affrontare certe situazioni. Non sono affatto brava a programmare i
discorsi. Specialmente con te, che sei sempre stata la persona che meno badava a
certi artifizi.
Per questo ho pensato che mi sarebbe bastato iniziare con
un “Ciao, Sanachan!”. Perché era così che ti salutavo un tempo, quando ti vedevo
arrivare a scuola tutta trafelata, perché come al solito eri in ritardo. O
quando venivo a prenderti sotto casa tua, nei pomeriggi d’estate, per andare a
fare un giro per negozi con Hisae e Fuka.
Te
le ricordi queste cose? Ti ricordi com’era?
Io
si. Mi ricordo ogni singolo momento passato insieme.
Sai, quando sei andata via, per i primi tempi, covavo la
stupida convinzione che un giorno ti saresti resa conto che New York non era
casa tua e che partire era stata una follia.
Ma
poi passavano i giorni e tu non tornavi. E io non sapevo come fare per avere tue
notizie.
Così ho lasciato che gli anni scivolassero via e che,
insieme al tempo, portassero via anche le risate, gli sguardi complici, le
parole che ci leggevamo negli occhi senza neppure
pronunciarle.
È
che avrei così tante cose da dirti… perché 4 anni di silenzio sono troppi anche
per me. Sono successe così tante cose… siamo tutti così tanto
cambiati.
Vorrei vedere come sei diventata. Vorrei sapere se sei
davvero felice come appari sulle foto dei giornali, se davvero sei convinta che
andare a New York sia stata la cosa giusta.
Scusami, sto divagando. Non volevo affatto mettermi a
fare certi discorsi tristi. Scusami.
Il
motivo per cui ti ho scritto è per darti una bellissima
notizia.
Io
e Tsuyoshi ci sposiamo! Ebbene, si! Finalmente ci siamo decisi ad affrontare il
grande passo!
E
ti vorrei accanto nel giorno più bello della mia vita. Vorrei che tu fossi con
me sull’altare a sorridermi e a dirmi che ci sarai sempre, come un tempo, ogni
volta che avrò bisogno di un’amica.
Vuoi essere la mia testimone, Sana?
So
che è una domanda improvvisa, quindi non ti chiedo di rispondermi ora. Prenditi
tutto il tempo che ti serve per riflettere.
Il
matrimonio è fissato per il giorno di Natale. Romantico,
vero?
So
che ti sto dando poco preavviso, visto che mancano poco meno di venti giorni.
Però non sai quanto ho riflettuto prima di decidermi a mandarti questa
mail.
Comunque, la sera del 22 dicembre terrò una festa a casa
mia e di Tsu (conviviamo da quasi due anni!).
L’indirizzo puoi chiederlo a Rey o a tua madre visto che
loro sono venuti a trovarci qualche volta.
Se
verrai, allora saprò che sarai la mia testimone.
Ovviamente l’invito è esteso anche a
Naozumi.
Ti
voglio bene, Sanachan. E sappi che questo non cambierà
mai.
Con affetto, Aya.”
Le sembrò di non riuscire a vedere più nulla, se non uno
schermo opaco e appannato. Forse, era per colpa delle lacrime che avevano
iniziato a rigarle il volto fin da quando aveva letto il nome della sua migliore
amica.
Strinse forte le ginocchia al petto e si sfogò in un
pianto liberatorio.
Attirata dalle sue lacrime, la sagoma di Naozumi comparve
da dietro lo stipite della porta e le si avvicinò, posizionandosi proprio di
fronte alla piccola sedia sulla quale stava malamente seduta.
Sana quasi non se ne accorse.
- Ma che diavolo è successo? Perché stai
piangendo?
Non rispose, limitandosi a fare un minuscolo cenno con la
testa rossiccia per indicargli lo schermo del computer dietro di lui.
Naozumi si voltò, lesse quelle poche righe in un istante
e in quello stesso istante capì il motivo di quelle lacrime.
- Vuoi andarci?
Alzò il viso e incontrò due occhi azzurri che la
guardavano seri e preoccupati.
Lì per lì non seppe cosa dire. Voleva andare? Voleva
davvero fare ritorno a Tokyo dopo tutto quel tempo? Forse si.
- Si.
Le labbra di Naozumi si sciolsero in un sorriso
tenerissimo, mentre una mano si mosse veloce per raggiungere il suo viso e
asciugarle le lacrime.
- Allora andremo.
***
- Tu credi che accetterà l’invito?
La guardò, facendo due passi verso di lei e sedendole
accanto sul divano del soggiorno appena ristrutturato.
Poi sbuffò un poco. Era appena tornato dal supermercato
dopo essere stato letteralmente investito da un temporale e l’ultima cosa che
voleva era affrontare quel genere di discorsi che gli intristivano il
cuore.
- Non fartela proprio questa domanda, Aya. È di Sana che
stiamo parlando. Certo che accetterà.
- Come fai ad esserne così sicuro? Voglio
dire…è…
Abbassò il capo, lasciando che i lunghi capelli, - ormai
non portava più quel fiocchetto infantile-, le nascondessero gli occhioni
nocciola.
- … è passato così tanto tempo.
- Questo non vuol dire niente!
Quasi urlò nel dirle quelle parole.
- Tu non puoi saperlo!
- Aya, ascolta. Noi siamo i suoi migliori amici. Siamo
praticamente cresciuti insieme. Davvero credi che potrebbe non venire al nostro
matrimonio?
Lei gli sorrise. Un sorriso esattamente a metà tra la sua
immancabile dolcezza e un’insolita nostalgia.
- Già. Forse hai ragione tu. Forse mi sto facendo troppe
paranoie. È che ne soffrirei moltissimo se non l’avessi accanto a me nel giorno
più bello della mia vita.
Tsuyoshi le sfiorò una guancia. La pelle di Aya era
incredibilmente candida e delicata. E nonostante l’avesse sfiorata infinite
volte ormai, era assolutamente convinto che non se ne sarebbe mai
stancato.
E si rese conto che anche lui nutriva le sue stesse
paura. Anche lui avrebbe sofferto se non avesse avuto accanto tutti coloro con i
quali, un tempo, era solito dividere le giornate.
- Verrà Aya, vedrai. Certe cose nemmeno il tempo riesce a
farle morire.
Disse poi, cercando di convincere soprattutto se
stesso.
***
C’era un altro motivo per cui Sana Kurata adorava New
York. Era il fatto che c’era sempre così tanta gente che era praticamente
impossibile sentirsi soli.
Eppure, quella notte ripensò alle parole di quella che un
tempo era una delle sue migliori amiche e sentì distintamente aprirsi quella
maledetta spaccatura al centro del cuore.
Così, mentre Naozumi la teneva stretta tra le braccia e
la cullava in un silenzio così assoluto da sembrare quasi irreale, si rese conto
che, forse per la prima volta da quando era a New York, neppure la dolcezza di
Naozumi sarebbe riuscita a curarla.
E si sentì irrimediabilmente sola.
***
- MAMMA, MAMMA!
Vide il piccolo Shin muovere le labbra in uno splendido
sorriso, non appena oltrepassò la soglia della porta della casa dove abitavano i
suoi genitori.
- Eccomi qui, tesoro. Mi dispiace di averti fatto
aspettare.
Spalancò le braccia e inginocchiandosi accolse suo
figlio, avvolgendolo in una lunghissima stretta.
- Finalmente sei arrivata, figlia mia!
Sua madre le si presentò davanti, con le braccia
incrociate e gli occhi stanchi. Dopotutto, badare a Shin praticamente ogni
mattina non doveva essere un’impresa facile. D’altronde, però, non era facile
neppure crescere un figlio senza un marito, un compagno o una qualsiasi figura
maschile.
Così come non era facile mantenere sé stessa e il suo
bambino con quel misero lavoro da segretaria.
Certo, i suoi genitori l’aiutavano, ma non navigavano
certo nell’oro e non potevano fare più di tanto. Quindi, alla fine, era
costretta a lavorare comunque e ad assentarsi da casa ogni mattina.
Le capitava spesso di sentirsi in colpa per non essere in
grado di vivere ogni secondo accanto a suo figlio.
- Scusami, mamma. So che sono in ritardo, ma il mio capo,
il mio odiosissimo capo, non ne voleva
proprio sapere di lasciarmi andare!
- Non preoccuparti, tesoro. So che è difficile, ma sappi
che sono orgogliosa di te.
Orgogliosa, certo. Come no!
Avrebbe voluto tanto poter dire che anche lei era, in
primo luogo, orgogliosa di se stessa.
Ma non era mai stata una persona bugiarda e mentire non
le riusciva proprio. Senza contare il fatto che mentire a se stessi è un’impresa
praticamente impossibile.
C’erano giorni nei quali odiava praticamente ogni cosa.
Odiava il sole, le nuvole, il vento. Odiava gli alberi e la spiaggia. Odiava il
suo lavoro, le persone, la sua casa.
Soprattutto, odiava Osaka. Quella città dalla quale,
molti anni prima, era scappata e nella quale, alla fine, era stata costretta a
tornare.
- Torniamo a casa, mamma? Sono stanco e ho tanto
sonno.
Ma c’era una cosa che proprio non era mai riuscita ad
odiare. Una cosa che le faceva sempre tornare la voglia di sorridere.
-Certo, amore. Andiamo a casa.
Era il volto fresco e pulito di suo figlio.
Salutò sua madre con un bacio e poi, con la mano stretta
forte in quella minuscola di Shin, si avviò verso la porta.
Non appena entrarono in macchina, sentì addosso lo
sguardo curioso del suo bambino.
- Mamma… perché ogni tanto diventi triste?
Ai bambini certe cose non puoi proprio
nasconderle.
- Ma no, tesoro. La mamma è solo un po’
stanca.
Oh, no. Non era affatto stanchezza. Perché era tornata
ancora quella strana fitta al centro dello stomaco. Succedeva sempre, ogni volta
che guardava il volto di suo figlio e nei suoi occhi vedeva altri due occhi.
E come sempre accadeva, pensò che fossero stati messi lì
apposta, al solo scopo di rinfacciarle quanto stupida fosse stata, quando, di
fronte a quegli stessi occhi, aveva scioccamente ceduto.
Avrebbe potuto sopportare ogni cosa. Che Shin avesse
quegli stessi capelli, quello stesso colore di pelle, quello stesso
insopportabile carattere. Oh, si. L’avrebbe accettato, prima o poi.
Ma non quegli stessi occhi che, proprio in quel momento,
la stavano guardando e di nuovo la uccidevano, mentre, ignari e ancora
innocenti, brillavano sfacciatamente dello stesso, bellissimo colore
dell’oro.
/*/
Note
dell’autrice: Bene, eccoci giunti alla fine di questo secondo capitolo. ^-^
Non ho assolutamente idea del numero di capitoli che comporranno questa storia
perché le idee nella mia testa cambiano continuamente… xD Posso assicurarvi,
comunque, che arriverò più o meno ad una diecina, o forse di più. ( Non ne ho la
più pallida idea.. xD).
Mi sembra inutile tormentarvi ancora con i miei deliri e,
quindi, vi lascio con l’invito ad esprimere, come sempre, quello che pensate su
questa storia! ^-^
Un ringraziamento particolare a chi ha commentato il
precedente capitolo, ovvero:
-
EUTERPE_12;
-
DEB;
-
ELENAFIRE;
-
RYANFOREVER.
E un grazie anche a chi si è limitato a leggere! xD A
risentirci presto!
Ciao a tutti!! ^-^Sto aggiornando davvero a tempo di record! (Forse perché la maggior parte
dei capitoli l’avevo già scritta.. xD) Comunque, ci risentiamo alla fine di
questo terzo capitolo. ;)
CAPITOLO TRE: VECCHI
TEMPI
Dopotutto, si capisce subito quando una giornata inizia
male. Lo percepisci fin dal primo istante, fin da quando apri gli occhi. E Akito
di certo non avrebbe saputo immaginare un buongiorno peggiore di quello.
Insomma, come si può concepire l’idea di sentir suonare il campanello quando la
sveglia segna appena le 8 del mattino?
In un primo momento, cercò di ignorare quel
fastidiosissimo suono e si rintanò meglio sotto le coperte, nella speranza che
quella tortura cessasse presto.
Ma quel dannatissimo campanello non sembrava affetto
intenzionato a tacere.
Allora si alzò, e, con un gesto di stizza, raccolse i
pantaloni della tuta gettati malamente sulla poltrona accanto a lui e se li
infilò, maledicendo colui che quella mattina aveva gentilmente deciso di andare a
svegliarlo.
Chiunque ci sia dietro quella maledetta porta, come
buongiorno speciale, si ritroverà un bel pugno sul
naso!
Con i nervi a fior di pelle, si precipitò verso
l’ingresso e spalancò la porta biascicando un “Ma che cavolo…”. Ma tutte le
parole offensive gli morirono in gola e gli istinti omicidi parvero placarsi non
appena davanti a lui comparve il volto sorridente del suo migliore
amico.
- Tsuyoshi? Ma che accidenti ci fai qui?
- Buongiorno anche a te, Akito! Non mi fai
entrare?
Si passò confuso una mano fra i capelli biondi ancora
spettinati a causa del brusco risveglio e, spostandosi appena, gli permise di
entrare in casa.
- Tu lo sai che sono le 8 del mattino, si?
Per tutta risposta, Tsuyoshi si sedette sul divano
facendogli cenno di accomodarsi al suo fianco.
- A quest’ora la gente normale sta uscendo per andare a
lavoro, sai?
- Io non lavoro alle 8 del mattino!
- Non dovresti trascurare così il karate.
Lo rimproverò Tsuyoshi, sfilando gli occhiali enormi e
pulendoli con il fazzoletto che aveva appena tirato fuori dalla tasca dei
pantaloni scuri.
- Io non trascuro proprio un bel niente! Ho una palestra
che gestisco come mi pare e piace!
- E sentiamo… da quando non vai a tenere una lezione ai
tuoi allievi?
Akito sbuffò, vistosamente infastidito.
- Te lo dico chiaramente Tsuyoshi. Sono già abbastanza
incazzato perché ho avuto un risveglio a dir poco spiacevole, quindi per
cortesia evita di farmi la predica!
A Tsuyoshi fu chiarissimo che l’argomento “karate” era da
considerarsi morto. Pazienza. Non era certo andato a casa del suo amico per
parlare di lavoro.
- Ok, ok.. Ho capito. Andrai in palestra quando vorrai
farlo. Perfetto. Comunque…
Si posizionò meglio sul divano in pelle nera.
- … non sono venuto qui per questo.
- Voglio sperarlo.
- In realtà…
Sorrise, leggermente a disagio.
-…avevo voglia di vederti.
Ok. Gli istinti omicidi tornarono a farsi prepotenti.
Che diavolo di scusa era?
- Stai scherzando?
- Affatto.
- E, di grazia, perché d’un tratto hai sentito
l’impellente bisogno di vedermi?
- A dirti la verità, non lo so neppure io.
Gli occhi scuri divennero improvvisamente seri e sul
volto ancora assonnato di Akito l’espressione rabbiosa di poco prima lasciò il
posto ad uno sguardo confuso.
Ma non disse nulla, attendendo che Tsuyoshi si decidesse
a dire qualcosa di sensato.
- Sai forse è stato per un discorso che ho affrontato
ieri con Aya… noi abbiamo parlato un po’ dell’amicizia, dei vecchi tempi
e…
Crac. Rottura
di qualcosa nel petto in corso.
Le parole “vecchi” e “tempi” facevano decisamente male se
usate nella stessa frase.
- E…?
Cercò di esortarlo a terminare il concetto, anche se non
era del tutto sicuro di voler continuare a sentire.
- … E mi è venuta una folle nostalgia…
- Non riesco a seguirti.
Oh, invece ci riusciva. Eccome se ci riusciva! Solo che
voleva accuratamente evitare di ascoltare le vocine insistenti che da dentro il
cervello gli urlavano “Non fare il forte. Sei maledettamente nostalgico anche
tu!”.
- Il fatto è che ho pensato che ora sono felice, anzi
felicissimo… però..
- ….
- … però ci sono delle volte in cui credo che, crescendo,
abbiamo perso qualcosa… come se ogni anno in più si sia preso in sacrificio una
piccola parte di noi.
- Si può sapere di cosa avete parlato ieri tu e
Aya?
- Di com’era quando eravamo ancora “tutti
insieme”.
Akito lo guardò negli occhi, guardò negli occhi il suo
migliore amico, e si sentì incredibilmente uguale a lui. Perché quei pensieri,
quei ricordi, tornavano spesso a tormentare anche lui.
- E se crescere non fosse servito a nient’altro che a
separarci?
- Non possiamo evitare di crescere. È
impossibile.
- Si questo lo so, però…
Lo vide abbassare il volto e stringere le mani forte,
fortissimo, a mo di pugno.
- E poi non è vero quello che dici.
Tsuyoshi alzò lo sguardo, arricciando un sopracciglio in
segno di domanda.
- Noi, per esempio, non ci siamo mai separati. E non
credo succederà mai.
Era vero. Mai nella vita Akito aveva pensato, neppure per
il più piccolo istante, neppure nei momenti in cui il mondo sembrava crollargli
sulle spalle, di poter fare a meno del suo migliore amico.
Si sentì un po’ più sollevato, quando lo vide alzarsi e
riprendere la sua solita espressione allegra.
- Grazie, Akito. Non sai quanto avessi bisogno di sentire
queste parole.
Quasi gli venne da piangere, quando sentì le braccia
esili di Tsuyoshi stringergli forte le spalle larghe. A mala pena, riuscì a
restituire la stretta.
- Ora vai su. Che ho decisamente bisogno di
dormire.
Tsuyoshi rise un poco.
- Giusto. Aya si starà chiedendo dove sono finito.
Sorrise ancora una volta e poi si voltò, dirigendosi
verso l’uscita.
- Ah… Akito.
- Mmm…?
- Te l’ho già detto che ti voglio bene e che voglio che
tu sia il mio testimone di nozze?
Akito scosse la testa rassegnato.
- Mi hai chiesto di farti da testimone più di un mese
fa.. e io ti ho già risposto di si.
- E la prima cosa?
Fece spallucce.
- Non c’è bisogno che tu me lo dica perché lo so
già.
Tsuyoshi sorrise. E Akito rivide di nuovo quel bambino
delle elementari dalla faccia ingenua e pulita che, con un paio di occhiali
malamente messi sul naso e l’espressione smarrita da “primo giorno di scuola”,
l’aveva guardato e, quasi automaticamente, gli aveva sorriso, senza aver neppure
minimamente immaginato che quella, per Akito, era in assoluto la primissima
volta che qualcuno gli regalava un sorriso.
***
Che poi, ripensandoci, la colpa forse era stata solo
sua.
Insomma, come aveva potuto pensare che quella notte,
maledetta eppure bellissima, non avrebbe avuto conseguenze?
Eppure lei certe cose le capiva al volo. Non era una che
si illudeva facilmente. E non era neppure il tipo di ragazza che si lascia
trasportare dalle emozioni del momento e che và a letto con lo sconosciuto di
turno. Anzi… nella sua vita aveva amato una persona soltanto. Sin dalle
elementari il suo cuore era sempre appartenuto agli occhi scuri e al bel viso di
Takaishi. E proprio quando aveva creduto di averlo perso per sempre, quando a
separarla da lui si c’erano messi anche i chilometri che dividevano Tokyo da
Osaka, lui era tornato. E quell’amore che pareva assopito si era risvegliato,
trasformando quel sentimento bambino in un sentimento diverso… più maturo, molto
più immenso di prima.
Era bastato un “Fuka, mi manchi”, sussurrato in una
notte d’inverno, durante le loro solite telefonate, per far ricominciare
tutto.
Da quella notte erano passati quasi undici
anni.
Se ci pensava ora, però, il momento che più le era
rimasto impresso nella mente, marchiato a fuoco nel cuore, era quello in cui,
durante una serata casalinga passata a cenare insieme e a guardare la tv
abbracciati sul divano, Takaishi l’aveva guardata e, senza il minimo tremore
nella voce, le aveva detto un gelido “Fuka, basta così…”.
Da quella notte, invece, di anni ne erano passati
quattro.
Quello che c’era stato in mezzo, in quei sette anni di
fidanzamento, quasi non riusciva a ricordarlo.
O forse non voleva farlo perché ancora faceva male.
Perché dopo quella notte, dopo l’ultima notte, c’era stata la notte successiva. Quella che per sempre
le avrebbe cambiato la vita.
Quando senza neppure sapere il perché si era presentata
fuori casa di Akito, sconvolta e spaventata, e gli aveva detto semplicemente “Mi ha
lasciata…”
Akito aveva capito e l’aveva invitata ad entrare.
L’aveva seguito silenziosa sul divano, troppo devastata
dal suo dolore per vedere le bottiglie vuote abbandonate sul pavimento o per
sentire l’inconfondibile puzza d’alcol che impregnava i vestiti di Akito.
L’unica cosa che aveva pensato in quel momento era stato “Siamo uguali. Anche lui è stato lasciato.
Anche lui sa come mi sento…”
Solo una settimana prima, infatti, Aya le aveva
confessato che Sana era partita per New York, lasciando Akito in modo forse
definitivo. Nel sentire quelle parole quasi si era sentita morire.
“Che diavolo le
passa per la testa a quella scema?” si era detta, furente. “I… io… ho lasciato Akito solo perché
credevo che lei lo amasse davvero!”.
Quel pensiero l’aveva spaventata. Perché in quel momento
si era resa conto che, se non fosse stato per Sana, se Akito non ne fosse stato
innamorato al punto tale da non riuscire a stare con nessun’altra, allora lei…
lei non l’avrebbe lasciato affatto.
Forse allora… forse non era vero che l’unico uomo che
aveva amato era stato Takaishi.
Quello che provava per Akito non era mai riuscita a
capirlo fino in fondo. Però le pareva che pensare a lui la destabilizzasse, le
facesse perdere un po’ l’equilibrio.
Ne aveva avuto la conferma proprio quella notte, quando
distrutta per la sua storia finita, aveva passato ore intere sdraiata sul
pavimento del soggiorno di quella casa che fino a pochi giorni prima era stata
anche di Sana, a fare l’amore con Akito.
E, nonostante sapesse che lui l’aveva fatto solo perché
era disperato, ubriaco e con il cuore in frantumi, nonostante sapesse che era
una cosa indiscutibilmente sbagliata e immorale, non se n’era mai pentita.
***
“-
Ho deciso di tornare ad Osaka.
Gli occhi di Aya e Tsuyoshi si spalancano all’unisono e
le loro mani lasciano cadere i fili d’erba fresca con cui stavano giocando solo
un istante prima.
-
C… cosa? E perché? Quando? Per quanto tempo?
Fuka socchiude gli occhi, inspirando a fondo il
meraviglioso profumo di quel pomeriggio d’inizio
estate.
-
I miei vogliono tornare lì. Papà dice che è per lavoro. Partiremo la settimana
prossima. E non so proprio quando torneremo
-
La settimana prossima? Fuka ma… ma è
prestissimo!
Aya non è mai stata brava a reggere i cambiamenti. Forse
è per questo che sul suo bel viso sembra correre una lacrima
dispettosa.
-
Lo so, Ayachan… ma credimi.. è meglio così…
-
Ma allora dobbiamo organizzare una festa per salutarti! Dobbiamo dirlo anche ad
Akito!
Ad
Akito? No. A lui proprio no.
-
Nient’affatto Tsu! Nessuna festa…! Sapete come sono… non amo gli addii… e
poi…
Stringe i pugni e prova ad inventare un
sorriso.
- …Akito lo
chiamerò io.
Sul volto di Aya altre lacrime si aggiungono alla
prima.
-
Perché andate tutti via? Prima Sana che và a New York… ora tu…Per caso c’entra
qualcosa la rottura con Takaishi?
-
No no…! Takaishi non c’entra nulla…
Si
avvicina ad Aya e la abbraccia forte, cercando di soffocare quella maledetta
voglia di urlare la verità. Di dire che non parte per il lavoro di suo padre, ma
che se và via è perché è incinta di un bambino di Akito. E perché Akito non
dovrà saperlo mai.
-
Osaka non è lontana come New York. Potrete venire a trovarmi ogni volta che
vorrete… e poi cercherò di tornare ogni tanto.
-
Promesso?
Sorride. A furia di stare sempre insieme, Aya e Tsuyoshi
fanno all’unisono anche le domande.
-
Promesso.”
***
Stanco, si lasciò cadere sul letto. Anche se non
l’avrebbe mai ammesso ad alta voce, il discorso di Tsuyoshi l’aveva
destabilizzato. Quelle due piccolissime parole erano state capaci di far tornare
in superficie tutti quei ricordi che a fatica era riuscito a mandar
giù.
Vecchi tempi…
Che poi non c’era da stupirsi più di tanto, perché già lo
conosceva quel nodo alla gola.
C’aveva convissuto per anni, da quando all’improvviso era
nato per tormentarlo, il giorno in cui lei se n’era andata.
Da allora c’aveva provato ad andare avanti. E da qualche
tempo credeva di esserci riuscito.
E allora perché gli erano bastate quelle maledette parole
per sentirsi di nuovo soffocare?
Era stato come vedersi sbattuti in faccia, uno dopo
l’altro, tutti i momenti della sua vita passata.
Era apparso di nuovo quel viso… il
viso di Sana. Però era stato strano, perché di Sana ne erano apparse due. Una
erala Sana bambina, quell’undicenne rumorosa e
perennemente allegra che gli era entrata fin dentro le viscere, diventata poi
l’adolescente, ancora più bella e rumorosa, con la quale per la prima volta
aveva fatto l’amore. Quella era indiscutibilmente la sua Sana.
L’altra, invece, era
la Sana
in lacrime, col volto pallido e distrutto, che
quattro anni prima era scappata in America, lasciandolo lì da solo, con il cuore
frantumato, senza nessuno che potesse aiutarlo a rimetterne insieme i pezzi.
Di
nuovo la stessa storia eh, Akito? Pensare a lei farà sempre così male? Il dolore
non lo mandi giù. È come una macchia d’olio che, prima o poi, trova il modo per
tornare a galla.
Comunque, insieme ai ricordi di Sana, era tornato anche
un sentimento che credeva d’aver già superato. Era tornato il senso di colpa, lo
stesso con cui si era svegliato la mattina dopo aver fatto l’amore con
Fuka.
Che poi, in tutto quel tempo, a Fuka non c’aveva pensato
molto. Però, nelle poche volte che la sua mente tornava a quel giorno, ricordava
tutto alla perfezione. Ricordava persino quell’odore, l’odore bello, bellissimo,
che gli era rimasto addosso per molti giorni, quasi come se volesse
torturarlo.
L’odore di Fuka, della sua pelle, dei suoi capelli scuri.
L’odore forte dei loro corpi nudi sul pavimento gelato, mischiato a quell’acido
odore di alcol.
L’aveva portato addosso per molto tempo, come una
punizione. Una punizione più che meritata, dopotutto.
Però non avrebbe mai potuto dire di essersene
completamente pentito perché fare l’amore con Fuka, la migliore amica della
donna che amava, per quanto sbagliato fosse, era stata la cosa più simile ad
un’emozione che aveva provato da quando Sana era andata via.
Sdraiato sul suo letto, chiuse gli occhi nella speranza
di riaddormentarsi per far passare quella stanchezza che gli toglieva anche la
forza per respirare. Nello stato che precedette il sonno, la sua mente fu
colpita da una nuova consapevolezza. Qualcosa che in realtà già conosceva, ma
alla quale non aveva mai pensato seriamente. Un pensiero che per un lunghissimo
istante gli si bloccò nella gola, graffiandola, per poi scendere giù, fino a
pesargli sul cuore, come un macigno.
Dopo quella notte, di Fuka non aveva saputo più
nulla.
***
“
– Dici sul serio, Ayachan?
-
Certo che dico sul serio. Me l’ha detto Fukachan ieri sera al
telefono.
Sana sorride, mettendosi a saltellare come una bambina,
sotto lo sguardo rassegnato dei suoi migliori amici e del suo
fidanzato.
-
Sana datti un contegno! Se non te ne fossi accorta siamo in pieno centro in
mezzo a migliaia di persone!
-
Non cominciare Akito! Perché devi sempre essere così cupo e insensibile? Non sei
contento per Fuka?
Akito si limita a fare
spallucce.
-
Non sono certo affari miei.
-
Su questo Sana ha indiscutibilmente ragione, Akito! Sei il solito
insensibile!
-
Stai per caso cercando di morire, Tsuyoshi?
Tsuyoshi ride, seguito a ruota da Aya e da una sempre
raggiante Sana.
-
Visto? Cerca di mostrarti un po’ più entusiasta per le cose belle che succedono
ai tuoi amici!
Akito alza un dito verso un azzurro cielo
primaverile.
-
Oh, oh! Takaishi si trasferisce a Tokyo per stare più vicino a Fuka! Ma che
notizia meravigliosa!
Dice poi, in modo palesemente ironico, infilando
nuovamente la mano in tasca.
-
Così và meglio?
Chiede avvicinandosi al viso della sua fidanzata, sicuro
del fatto che da un momento all’altro lei lo colpirà con quel suo solito,
stupidissimo martello di plastica.
-
SEI L’UOMO PIU’ INSENSIBILE CHE CONOSCO, AKITO!
E
infatti in men che non si dica si ritrova con un bel bernoccolo a troneggiare
sulla fronte.
-
Andiamo, Sana! Non si può nemmeno scherzare! Mi hai fatto
male!
-
Sana lascialo stare… Akito fa il duro, ma in fondo sono sicuro che è
contentissimo per Fuka.
Il
solito Tsuyoshi che cerca di mettere tutti
d’accordo.
-
Si, lo so.. però potrebbe anche far vedere che è contento. Almeno una volta
nella vita potrebbe mostrare quello che prova!
Sana incrocia le braccia, facendo comparire sul viso un
broncio a dir poco adorabile. O meglio, adorabile per Akito, che le si avvicina,
posizionandosi ad un centimetro dal suo naso.
-
Mi pare che a te ho mostrato quello che provo,
no?
Le
guance di Sana si colorano di un accesissimo rosso
porpora.
-
S… si.. Akito… ma.. ma…
Tipico. Nonostante siano passati quasi due anni da quando
sono diventati una “vera” coppia, ogni volta che si ritrova il volto di Akito
così vicino al suo, a Sana ancora tremano le
gambe.
Aya e Tsuyoshi si guardano e sorridono. A volte stentano
ancora a credere che finalmente quei due si siano messi insieme come due persone
normali. Ogni tanto si ritrovano a parlare di loro, della loro stranissima
storia, e scoppiano a ridere nel ricordare l’espressione imbarazzata di Sana e
quella fiera di Akito quando per la prima volta arrivarono a scuola tenendosi
per mano.
Decisamente un momento
indimenticabile!
-
Sana per caso hai perso la parola?
La
rimbecca lui, sogghignando. Forse è da presuntuosi, ma vedere l’effetto che ha
sulla sua fidanzata lo mette sempre di buon
umore.
-
Sei un imbecille, Akito!
Urla, allontanandosi da lui e rivolgendo ad Aya la sua
attenzione.
-
Fuka ti ha detto quando verrà Takaishi?
-
Si.. pare che tra massimo un mese dovrebbe aver finito con il
trasloco.
Sana inizia nuovamente a saltellare, sotto lo sguardo
rassegnato di Akito.
-
Wow! Ma allora finirà qui il liceo!
-
Esatto!
-
Lui deve amarla davvero molto per fare un così grande passo! Sono assolutamente
convinta che staranno insieme per sempre!
Akito la guarda e sorride appena, ben attento a non farsi
vedere, perché ancora si stupisce di quanto lei sappia essere così
smisuratamente romantica.
-
Come fai a dirlo? Il tempo e le circostanze possono far cambiare
tutto.
Non può farci niente. Adora farla arrabbiare. Ma,
contrariamente a ciò che pensava, Sana non si arrabbia affatto. Piuttosto,
assume un’espressione spaventata.
-
Che vuol dire questo, Akito?
-
Niente. Solo che di certe cose non puoi esserne
certa.
-
Vale anche per noi?
-
Cosa?
-
Non puoi essere certo neppure di noi?
Akito spalanca gli occhi un poco, sotto lo sguardo
stupito di Aya e Tsuyoshi. Ok, non voleva dire questo. Assolutamente no! Voleva
fare una battuta per farla arrabbiare un po’, come al solito. Ma lei doveva aver
frainteso perché i suoi luminosi occhi nocciola erano diventati improvvisamente
tristi.
-
Non volevo dire questo, Sana!
-
Ah no? E allora perché per noi dovrebbe essere diverso? Tu non credi che staremo
insieme per sempre? Tu non ci credi!
Senza sapere come e perché, qualche lacrima scende a
rigarle il viso.
-
Ma che accidenti…? Sana ma perché piangi?
-
Fanculo, Akito!
Le
si avvicina incerto, asciugandole le lacrime con il dorso della mano. Il
discorso si era evoluto nel modo peggiore.
-
Noi siamo un’altra cosa, Sana. E so che per noi sarà per
sempre.
Lei alza il viso verso di lui, mordendosi nervosamente il
labbro inferiore.
-
D… davvero?
Akito sorride e negli occhi di lei si riaccende la solita
luce.
-
Certo.
Sana gli getta le braccia al collo, stringendolo così
forte che ad Akito, per qualche secondo, manca il
respiro.
-
Scusami, Akito. È che al solo pensiero che tra noi possa esserci una fine mi si
ferma il cuore.
Le
accarezza il viso e le lascia un bacio leggere sulle labbra ancora
salate.
-
Scusami anche tu.
Sana scuote la testa, asciugando le ultime lacrime. Poi,
sorridente come sempre, si rivolge ad un’Aya e ad uno Tsuyoshi ancora
frastornati per la scena alla quale hanno appena assistito, e con un
semplicissimo “Dai ragazzi! Andiamo a vedere quel negozio!” li esorta a
continuare la loro passeggiata pomeridiana. Loro la assecondano, dirigendosi
allegri verso la vetrina indicata dall’amica.
Akito guarda Tsuyoshi e alza le spalle, riassumendo la
sua solita espressione da duro. Poi prende la mano di Sana e inizia a camminarle
accanto. Entrando nell’ennesimo negozio della giornata si ripromette di non fare
mai più certe battute alla sua ragazza.
Manon
immagina neppure lontanamente che, alla fine, sia su Fuka che su loro due
avrebbe avuto ragione.”
***
Si posizionò meglio sul sedile, mentre con una mano si
allacciava la cintura. Girò il capo, nella speranza di trovare gli occhi azzurri
di Naozumi. Ma la sua speranza si rivelò vana quando notò che lui stava già
dormendo.
Ma
guardalo! Non siamo neppure partiti e già dorme come un
bambino!
Comunque, non poté fare a meno di sorridere nel notare
quanto bello fosse Naozumi quando dormiva. A volte le capitava di svegliarsi
durante la notte solo per guardarlo dormire e rigirarsi nelle coperte. Bastava
uno sguardo e lei si sentiva incredibilmente bene, in pace con il
mondo.
Quando la voce del pilota annunciò il decollo, l’orologio
sul suo polso segnava le due di notte del ventunesimo giorno di
dicembre.
Era stata lei a scegliere quel volo, perché l’aveva
ritenuto perfetto. Sarebbero arrivati proprio qualche ora prima della festa a
casa di Aya e Tsuyoshi. Né troppo tardi per presentarcisi perfettamente
riposati, né troppo presto per avere il tempo di fare un giro per le vie di
Tokyo.
Tokyo…
Ancora non era riuscita a rendersi del tutto conto che da
lì a poche ore sarebbe tornata nella sua vecchia città. Che avrebbe rivisto i
suoi vecchi amici.
Vide che fuori dal finestrino le luci di New York si
allontanavano lentamente e già le sembrò di essersi pentita della sua
decisione.
Dovette faticare non poco per trattenere le lacrime che
le si erano formate dietro gli occhi nocciola, già al solo pensiero di rivedere
i suoi amici.
Bugiarda. Sai bene che quelle lacrime sono per
lui.
Stupida lei, che quando aveva deciso di partire non aveva
preventivato il fatto che avrebbe dovuto fare i conti anche con lui. Per quanto avrebbe cercato di
evitarlo, sarebbe comunque stata costretta a vederlo, anche solo per pochissimo
tempo.
Strizzò gli occhi forte, fortissimo, nel tentativo di
rispedire indietro quella morsa nello stomaco.
Ma fu solo quando Naozumi finalmente si svegliò, le
strinse una mano e le sorrise, che tornò a sentirsi un po’ meglio.
/*/
Nota
dell’autrice: Perfetto, eccoci giunti alla fine del terzo capitolo. Come
avrete avuto modo di notare molte delle domande che mi avete posto nelle
recensioni hanno trovato una riposta, come promesso. ^-^
Per il quarto capitolo ci vorrà più o meno una settimana,
credo (non sono mai certa di niente.. xD).
Un ringraziamento particolare và, ovviamente, a chi mi ha
fatto sapere le sue impressioni sulla mia storia fin’ora. Spero che continuerete
a darmi il vostro parere anche nei capitoli che seguiranno! ;)
Eccomi con il quarto capitolo! Puntuale come un orologio
svizzero.. ;)
CAPITOLO QUATTRO:
SCOMMESSA
- Sana guarda! Siamo quasi arrivati!
Esortata da un Naozumi entusiasta, rivolse la sua
attenzione allo spettacolo che si stagliava da dietro il finestrino e non poté
fare a meno di spalancare le labbra, stupita.
Le luci di Tokyo erano ancora più belle di quanto
ricordasse.
- E’ stupendo vero, Sana?
- Già.
- Su, allacciati la cintura. Il pilota ha detto che
stiamo per atterrare.
In silenzio, obbedì alla richiesta del suo fidanzato, per
poi tornare a concentrarsi sul meraviglioso spettacolo che la attendeva proprio
sotto ai suoi occhi.
Quando l’aereo finalmente toccò terra, le sue mani
iniziarono inspiegabilmente a tremare. Le infilò nelle tasche del cappotto
pesante per evitare che Naozumi potesse accorgersene.
- Forza, Nao! Scendiamo da questo coso!
Disse sorridendo, cercando di mascherare l’inquietudine
con un tono di voce più alto del solito.
Naozumi la guardò, scrutando quel viso in ogni minimo
particolare e non riuscì a sentirsi tranquillo.
- Tutto ok, Sana? Qualcosa non và?
Lei scosse vistosamente la testa.
- No, no! È tutto ok!
- Se vuoi… se non te la senti noi… possiamo tornare
indietro…
- Assolutamente no! Non posso mancare al matrimonio di
Aya e Tsuyoshi! Non me lo perderei per nulla al mondo!
Le accarezzò il viso, costringendola ad incrociare il suo
sguardo.
- E allora perché stai piangendo?
Cosa? Da dove diavolo erano uscite quelle lacrime? Non le
aveva rimandate giù?
Sorpresa, si passò una mano sulle guance e sobbalzò un
poco nel sentirle bagnate.
- Non preoccuparti. Queste… queste sono lacrime di
gioia.
Mentì.
- Davvero?
- Certo! Sono solo molto felice di poter rivedere Tokyo e
i miei amici!
Naozumi non rispose. Si limitò a fare un cenno d’assenso
con il capo e ad aiutarla a slacciare la cintura.
Sana gli sorrise, cercando di convincersi del fatto che
quella strana angoscia che sentiva era davvero dovuta alla gioia di essere
tornata.
Ma non ci riuscì, perché mentire a sé stessi era troppo
difficile.
Allora, mentre le porte dell’aereo si aprivano per
lasciarli uscire, strinse forte la mano di Naozumi, pregando intensamente che
almeno lui a quelle parole c’avesse creduto.
***
Sospirando appena, richiuse la pesante valigia che era
adagiata sul suo letto da più di due ore.
Sarebbe stata via da casa solo per pochi giorni eppure, a
giudicare dall’enorme quantità di roba che aveva a forza stipato in quel piccolo
bagaglio, sembrava che la sua “vacanza” sarebbe dovuta durare dei
mesi.
Era sempre stata così, lei. Preparare le valigie non era
mai stato il suo forte.. non sapeva proprio come scegliere ciò che portare e ciò
che, invece, sarebbe stato meglio lasciare a casa.
Nella sua vita le uniche volte che aveva preparato una
valigia era stato quando aveva cambiato casa.
Prima, quasi un secolo fa, da Tokio a Osaka. Poi di nuovo
a Tokio, prima di fare definitivamente ritorno ad Osaka, quattro anni prima. Ora
la sua destinazione era nuovamente Tokyo, ma stavolta per un motivo diverso. Non
si sarebbe di certo ritrasferita in quella città! Lì non c’era più niente per
cui valesse la pena tornare. O meglio, lì, tra quelle strade affollate che aveva
imparato ad amare, tra quei parchi pieni d’alberi in fiore, a due passi dalla
scuola dove aveva smesso i panni di bambina per indossare quelli
indiscutibilmente più scomodi di un’adulta, lì… c’era il padre del suo
bambino.
L’uomo che le aveva per sempre sconvolto la vita, senza
averne la minima idea.
Non aveva mai pensato di dirglielo.
Nonostante sua madre e suo padre le ripetevano spesso
“Fuka, non è giusto che lui sia all’oscuro di tutto” e altre frasi del genere,
lei il coraggio di parlare non l’aveva mai trovato.
Dopotutto, a cosa sarebbe servito confessare una tale
verità?
Chi ne avrebbe tratto vantaggio?
Di certo non lei. Che avrebbe dovuto affrontare gli
sguardi accusatori di un Akito certamente furioso e le domande indisponenti dei
suoi migliori amici.
No, una tale situazione non avrebbe mai potuto
reggerla.
Il telefono accanto a lei squillò più volte, fino a
quando non si decise, scocciata, di andare a rispondere.
- Pronto?
- Allora sei in casa!Credevo fossi già uscita!
- No, mamma ci sono ancora. Stavo per prendere le ultime
cose.
- A che ora parte il treno, tesoro?
- Tra un’ora.
- Sei davvero sicura di voler andare?
Quella doveva essere la millesima volta che sua madre le
poneva la stessa domanda.
- Si, mamma. Ne abbiamo già parlato. Non posso mancare al
matrimonio di Aya e Tsuyoshi.
- Ma ci sarà anche lui, vero?
Spero con tutta me stessa di
no!
- Credo di si…
- Capisco… però…
Desiderò ardentemente porre fine a quella scomoda
conversazione.
- Senti, mamma. Shin resta con te e papà, no? Quindi non
c’è assolutamente niente di cui preoccuparsi!
Dall’altro capo del telefono, sentì sua madre sospirare a
lungo.
- Come dici tu. Allora buon viaggio, tesoro. Fai un colpo
di telefono appena sei a Tokyo.
- Perfetto. Dai un bacio a Shin.
E con quel frettoloso saluto la conversazione si
concluse.
Prendendo in mano i bagagli e il biglietto del treno sul
comodino in salone, uscì a passo svelto, richiudendosi la porta alle
spalle.
Le preoccupazioni di sua madre erano assolutamente
infondate.
Anche se avesse visto Akito, anche se lui le avesse
chiesto il motivo del suo improvviso trasferimento ad Osaka, anche se nei suoi
occhi avesse rivisto gli occhi di Shin, non gli avrebbe detto nulla. Perché,
come detto, nessuno ne avrebbe tratto vantaggio.
Così, mentre saliva sul taxi che l’avrebbe portata in
stazione, ignorò l’ovvia considerazione che magari, invece, qualcuno, di quella
verità, ne avrebbe giovato.
Quel qualcuno era Shin, perché lo sapeva anche lei che
era profondamente ingiusto non dirgli chi fosse suo padre.
Un giorno, quando sarebbe stato abbastanza grande per
capire, quando a scuola le maestre gli avrebbero assegnato un tema dove
descrivere i suoi genitori, quando i suoi compagni gli avrebbero chiesto dove
fosse il suo papà, lui certamente avrebbe preteso una spiegazione.
- Dove la porto, signorina?
Per ora, comunque, non c’era niente di cui
preoccuparsi.
- Alla stazione centrale, grazie.
Avrebbe avuto ancora qualche anno per inventare una
storia credibile.
***
- Tesoro è tutto pronto per stasera?
In realtà, la domanda che Tsuyoshi avrebbe voluto porre
alla sua fidanzata, quasi moglie, era un’altra.
Notizie di Sanachan?
Però, vedere il volto di Aya così incredibilmente felice,
gli aveva bloccato quelle parole in gola.
Era così dannatamente serena, così entusiasta, mentre,
aiutata da un’altrettanto raggiante Hisae, finiva di appendere gli ultimi
addobbi nel grande soggiorno che avrebbe ospitato la festa di quella
sera.
- Si, amore. Questi sono gli ultimi.
Gli disse lei indicando i festoni che teneva tra le mani
sottili.
Lui le sorrise, andandole accanto per aiutarla a
sistemarli meglio.
- Sono così felice! Non posso credere che stasera ci sarà
la nostra festa pre-matrimoniale!
Quando Aya se n’era uscita con le geniale trovata, almeno
secondo lei, di organizzare una festa proprio pochi giorni prima del matrimonio,
lui non aveva avuto il coraggio di opporsi.
D’altronde si sa, meglio non contraddire una futura
sposa!
- Sono sicuro che sarà una festa bellissima.
Lei gli si gettò tra le braccia, ma solo per un istante.
Perché poi fu richiamata da Hisae che, dal tono di voce preoccupato, doveva aver
combinato qualche guaio in cucina.
- Amore vado a vedere cos’ha combinato quella
pazza!
Tsuyoshi nemmeno rispose, troppo preso ad annusare il
dolce profumo che i capelli di Aya lasciarono nell’aria intorno a lui. E,
d’improvviso, chiedersi se Sana sarebbe o meno venuta alla festa, divenne una
questione del tutto secondaria. Perché non c’era nulla da fare. Quando la vedeva
sorridere in quel modo, non poteva proprio fare a meno di essere
felice.
***
Per un istante, non appena mise piede nell’enorme
aeroporto di Tokyo, ebbe voglia di prendere il primo volo e di tornare
indietro.
Di guardare Naozumi negli occhi e di dirgli “Ok, Nao.
C’ho provato, ma non ci riesco. Torniamo a casa”
L’unica cosa che riuscì a fare, però, fu quella di
guardarsi intorno, con aria stordita e il cervello disorientato.
Naozumi le si avvicinò, trascinando a fatica i bagagli
che aveva appena recuperato. Lei gli andò incontro, porgendogli una mano come a
chiedergli se avesse bisogno di aiuto.
- Ce la faccio anche da solo, Sana. Non
preoccuparti.
Lei non replicò, ancora troppo frastornata per accorgersi
che, in realtà, al suo ragazzo,mingherlino come un tempo, un aiuto servisse sul
serio.
In qualche modo, lui riuscì a caricare i bagagli sul taxi
che li attendeva appena fuori dall’aeroporto.
- Su, Sana. Saliamo.
Le disse poi, esortandola con un gesto della
mano.
Lei rimaste immobile per qualche istante, con le braccia
mollemente abbandonate lungo i fianchi, prima di riscuotersi, entrare nel
piccolo abitacolo del taxi e sedersi accanto ad un Naozumi stranamente
silenzioso.
Devo dirglielo.
- Nao… io…
Devi dirgli che non ce la
faccio.
- Cosa?
Non ce la faccio.
- ….
-
Sana?
Torniamo a casa, Nao.
- No, niente.
Niente.
***
Mentre si accingeva ad uscire di casa, ben coperto con
un’enorme sciarpa e un pesante cappotto scuro, si maledisse infinite volte per
la sua inguaribile pigrizia.
Perché se avesse portato l’auto dal meccanico quando si
era rotta, ben due mesi prima, ora non sarebbe certo stato costretto ad andare
fino a casa di Tsuyoshi contando solo sulle sue gambe e rischiando di prendersi
una bella polmonite.
Avrei potuto chiedere a Tsuyoshi di venirmi a
prendere…
Si, avrebbe potuto. Si maledisse anche per il suo stupido
e immotivato orgoglio. Lui che aiuto non lo chiedeva a nessuno.
Quando arrivò fuori casa del suo migliore amico, nervoso
e infreddolito, notò di avere una buona mezz’ora di anticipo.
Fuori dal cancello c’era solo una macchina parcheggiata,
oltre a quelle di Aya e Tsuyoshi ovviamente.
Capì subito che si trattava di quella di Gomi.
Ma
perché Gomi e Hisae arrivano sempre in
anticipo?
Non li vedeva da un po’, in effetti.
Una delle ultime volte che aveva visto Gomi era stato
quando si era presentato a casa sua, un pomeriggio d’estate di più di un anno
prima, e con un enorme sorriso gli aveva comunicato che Hisae aveva accettato di
sposarlo.
Non era stato in grado di decifrare il sentimento che
aveva sentito nel petto.
Gli era sembrata felicità per la gioia del suo amico di
sempre. Ma di sicuro c’era stata anche una punta, neppure tanto celata,
d’invidia.
Comunque, era stata una cosa strana. Perché sul fatto che
Tsuyoshi e Aya si sarebbero sposati, un giorno o l’altro, era stato sempre
abbastanza sicuro.
Su Gomi e Hisae, però, non c’avrebbe scommesso neppure un
misero yen.
Ma, d’altronde, lui non era mai stato portato per le
scommesse.
“
Secondo voi chi si sposerà per primo tra noi?
Tipiche domande di una Sana Kurata seduta nella mensa del
liceo, con i suoi storici amici e il suo finalmente fidanzato, Akito
Hayama.
-
Sana ma che domande fai?
-
Akito non rompere! Nessuno ti ha interpellato! Stavo parlando con Ayachan e
Fukachan!
Aya e Fuka, appunto, scoppiano a
ridere.
-
Bè, Sana... saremo indiscutibilmente io e Tsu a sposarci per primi! Vero
amore?
Le
guance di Tsuyoshi si colorarono di rosso. Incredibile come ancora sembrasse un
idiota quando si affrontavano certi discorsi.
-
Non credo proprio, Ayachan! Saremo io e Takaishi a sposarci per
primi!
Takaishi, appena trasferitosi da Osaka, sorride e muove
la testa in cenno d’assenso, prima di tornare a concentrarsi sul libro di fisica
per cercare di ripassare la lezione in vista dell’imminente
compito.
Sana alza un
sopracciglio in segno di stupore.
-
Ne siete davvero convinte? Sarò io a sposarmi per
prima!
-
Non credi che dovresti almeno interpellarmi prima di decidere certe cose? Si da
il caso che dovrei essere io quello che ti chiede di
sposarlo.
Si
avvicina ad Akito, sbattendo forte le ciglia e mordendosi il labbro inferiore,
nella speranza di intenerirlo.
-
Ma tu me lo chiederei prima di Tsuyoshi e Takaishi,
vero?
Akito alza gli occhi al cielo e, tra le risate fragorose
dei loro amici, biascica un -Mi farai impazzire, prima o poi…ne sono
sicuro….
Sana spalanca le labbra in uno dei suoi meravigliosi
sorrisi e ad Akito viene quasi voglia di prenderle una mano e di chiederglielo
in quel momento, in una mensa scolastica, davanti a centinaia di persone, a soli
diciassette anni, se per caso, se per miracolo, vuole sposarlo.
Sana, ovviamente, non se ne accorge e gira il volto
allegro in direzione delle sue due amiche.
-
Ma Hisae che fine ha fatto?
Aya fa spallucce.
-
Pare che abbia preso l’influenza.
-
Mmmm… si però non vi sembra strano che manchi anche
Gomi?
-
Che vuoi dire Fukachan?
La
mora scuote la testa, dopo aver sentito la domanda ingenua di una Sana che,
spesso, sa essere ancora tremendamente
infantile.
-
Ayachan ti prego spiegaglielo tu a questa
ritardata!
Aya ride di gusto, notando l’espressione offesa di
Sana.
-
Sanachan, se mancano tutti e due magari ora sono insieme… ultimamente sono un
po’ strani non l’hai notato? Sembrano molto più intimi di due normali
amici.
-
Cosa? Davvero? Non me ne sono accorta!
-
Ma come cavolo si può essere così rimbambiti?
-
AKITO! SEI UNO STUPIDO! Non è colpa mia se certe cose non le capisco.
-
Ma l’hanno capito tutti!
-
E io no! E comunque, se davvero quei due si mettessero insieme sarei
felicissima!
Esclama entusiasta, con sguardo sognante. Pensare Gomi e
Hisae insieme la rende felice.
Poi d’improvviso si alza di scatto dalla sedia sulla
quale stava seduta.
-
Sana che succede?
Chiedono tutti
all’unisono.
-
Se Hisae e Gomi si mettono insieme allora dobbiamo aggiungere anche loro per la
nostra scommessa al “chi si sposa per primo”!
Tutti scoppiano a ridere. Tutti tranne Akito, ovviamente,
ancora troppo impegnato a finire la
sua porzione di sushi.
Il
suono della campanella che scandisce la fine della pausa pranzo li obbliga ad
abbandonare la mensa per avviarsi verso le rispettive
classi.
Si
salutano in fretta, conil sorriso
sulle labbra e la convinzione che si sarebbero rivisti tutti dopo, una volta
finite le lezioni, per organizzare un’altra delle loro ormai solite “serate tra
coppie”.
Sulla porta della loro classe, Sana e Akito si scambiano
un velocissimo bacio, stando ben attenti a non farsi vedere dal
professore.
-
E comunque, Akito… sappi che quella scommessa voglio vincerla
io!”
Quel pomeriggio in mensa gli era tornato in mente per la
prima volta proprio quando aveva saputo dell’imminente matrimonio tra Gomi e
Hisae.
Sana, forse, non ne era mai venuta a conoscenza perché,
stando a quanto aveva sentito dire da Hisae ad Aya, il giorno della cerimonia,
lei era impegnata in qualche parte del mondo per girare un film.
Meglio così. Si era risparmiato lo strazio di rivederla e
di vedersi sbattuta in faccia la cruda verità.
Abbiamo
fallito…
Perché quella stupida scommessa l’avevano vinta Gomi e
Hisae.
***
Un brivido di freddo le percorse tutta la schiena, non
appena l’autista del taxi la informò che era arrivata a destinazione.
Lei pronunciò un frettoloso “Grazie” seguito da un
altrettanto frettoloso “arrivederci” e poi, finalmente, abbandonò il sedile
posteriore della piccola vettura.
Rimase immobile per un lunghissimo istante, prima di
decidersi ad avviarsi verso il grande cancello, trascinando a fatica i pesanti
bagagli che aveva preparato.
Si sentì incredibilmente sciocca e fuori luogo quando si
rese conto che forse, quando Aya al telefono le aveva detto “Fukachan, non preoccupartiperl’albergo. Resti a dormire a casa mia e di Tsu!”,
lei avrebbe dovuto dire un categorico “No
grazie!” seguito da un altrettanto categorico “Ah… e credo che non potrò esserci
neppure per il matrimonio!”.
Ma proprio non ce l’aveva fatta a smorzare l’entusiasmo
che aveva sentito nella voce allegra della sua vecchia amica. Così si era detta
“Coraggio, Fuka! pochi giorni passeranno
in fretta!”
Insomma, era vero che aveva messo in conto il fatto che
tornare a Tokyo l’avrebbe quantomeno destabilizzata, ma quella strana e folle
paura che sentiva in quel momento, proprio non se l’aspettava.
Per questo, subito dopo aver suonato il campanello,
desiderò intensamente scappare via, per tornare ad Osaka e riabbracciare il suo
bambino.
***
Il cuore le batteva all’impazzata, così forte che ebbe la
sensazione che, da un momento all’altro, potesse schizzarle via dal
petto.
Poco
male.
Dopotutto, lei c’era già passata, la conosceva bene,
quella sensazione. La sensazione di quando qualcuno il cuore te lo strappa
via.
Però era abbastanza strano il fatto che si sentisse così
anche in quel momento, mentre si avviava verso la casa di quelli che, in un
tempo che ormai le sembrava lontanissimo, erano stati i suoi migliori
amici.
Che comunque, era davvero felice di poterli rivedere. Di
vedere come erano cambiati… di vedere se il volto di Aya aveva ancora
quell’alone di materna tenerezza e se l’aria da bambino sperduto che
caratterizzava il viso di Tsuyoshi, alla fine era andata via proprio com’erano
andati via gli anni.
Pensandoci bene, durante la sua permanenza a New York non
aveva legato praticamente con nessuno. Nessuno a parte Naozumi,
ovviamente.
Strano. Perché lei era sempre stata un tipo molto
socievole. Una di quelle persone che piacciono a tutti perché hanno la luce del
sole sul viso, ogni volta che sorridono.
E un tempo lei sì, che sorrideva spesso.
Forse sono davvero
cambiata…
- Sana, siamo quasi arrivati. Tutto ok?
La voce calma di Naozumi la riscosse dai suoi
pensieri.
- S.. si. Tutto ok.
Gli sorrise un attimo, poi il sorriso le morì sul volto,
non appena si accorse di essere di fronte a quella che doveva essere la casa di
Aya e Tsuyoshi. Era una bella casa, posizionata proprio accanto al quartiere
dove erano cresciuti.
Tipico di Aya…lei i cambiamenti li ha sempre
odiati.
Arrivarono di fronte al grande cancello e restarono
immobili per qualche secondo, come se ancora non avessero realmente deciso cosa
fare.
C’è anche lui, dietro quella porta.
Respirò a fondo, portandosi una mano sul petto, mentre
con l’altra si avvicinava al campanello.
Ho
paura.
Poi le parve di stare meglio non appena sentì la mano
calda di Naozumi stringere forte la sua.
Forse come per infonderle quel coraggio che da sola non
avrebbe trovato mai. O forse semplicemente per entrare in quella casa e lanciare
il chiarissimo messaggio che “Sana è la mia ragazza. Mia e basta.”
Capì che la seconda opzione era quella giusta quando, non
appena si decise a suonare il campanello, lui le sorrise senza che quel sorriso
riuscisse a nascondere la folle paura che traspariva dai suoi occhi
azzurri.
Si, quella mano stretta nella sua avrebbe dovuto lanciare
un messaggio.
E chi fosse il destinatario non c’era stato affatto
bisogno di chiederlo.
Note
dell’autrice: Bene, anche il quarto capitolo è andato! ^-^
Nel prossimo (che dovrei pubblicare tra una settimana)
credo proprio che ci sarà l’incontro tra Sana e Akito. ;) Attendo le vostre
recensioni.. e un grazie particolare a chi mi fa sempre sapere quello che pensa
su questa storia! A risentirci presto.. ^-^
Eccomi con il quinto capitolo! Buona lettura…! ^-^
CAPITOLO CINQUE: APPARENZE
A Tsuyoshi, non aveva chiesto nulla.
Eppure c’erano stati momenti nei quali avrebbe dato
qualsiasi cosa per trovare il coraggio necessario per porre quella semplice,
semplicissima domanda.
“Ci sarà anche lei?”
Quattro parole. Poche, pochissime, anche per uno che di
usare le parole ne faceva sempre volentieri a meno.
Quattro parole. Quattro, come gli anni che erano passati
dall’ultima volta che Sana aveva respirato la sua stessa aria.
Un tempo così lungo che, se ripensava a quegli ultimi
momenti insieme, aveva l’impressione che si trattasse di un’altra
vita.
Ma era un’impressione che durava solo un istante, perché
poi tornava prepotente la consapevolezza che la vita era la stessa e che lei, di
quella vita, gliene aveva fottuta anche troppa.
Se
non fosse stato per lei, una vita, forse, non ce l’avresti nemmeno
avuta.
Oh, certo… il senso di colpa.
Si, lo sapeva benissimo… era perfettamente cosciente del
fatto che, se Sana non ci fosse stata, probabilmente avrebbe posto fine ai suoi
giorni quando ancora era troppo piccolo per poter anche solo capire cosa fosse,
la morte.
Questa era una cosa che sapevano proprio
tutti.
Sana gli aveva insegnato ad amare la vita. Però, quella
stessa vita, gliel’aveva portata via.
Il
bilancio torna ad essere in pareggio, Sana. Non ti devo più
niente.
E allora quel maledetto senso di colpa poteva anche
sparire, una volta per tutte.
Fu Tsuyoshi che gli aprì il portone, dopo che ebbe
suonato il campanello.
- Ciao Akito, vieni entra!
Lo esortò l’amico, e lui non se lo fece ripetere due
volte. Con un unico passo fu dentro l’ingresso e già gli sembrò di sentirsi un
po’ meglio, visto il bel calduccio che c’era in casa.
Prima di avviarsi verso la camera nella quale si stava
svolgendo la festa, Tsuyoshi gli si piazzò di fronte, guardandolo così
intensamente che Akito fu costretto a distogliere lo sguardo.
Sapeva benissimo il motivo di quello sguardo. Tsuyoshi
stava cercando di fare quello che faceva praticamente da sempre, sin da quando
l’aveva conosciuto, sin da quando era diventato il suo migliore
amico.
Stava cercando di capire cosa ci fosse, oltre quegli
occhi freddi, al di là di quel viso sempre impassibile.
- Non è ancora arrivata. E francamente non so se
arriverà.
E, come sempre, aveva capito.
Ad Akito venne quasi da chiedergli a chi si
riferisse, ma poi capì che sarebbe stata una domanda quantomeno ridicola, perché
sapeva benissimo che Tsuyoshi parlava di lei.
- Non mi interessa.
Che poi, non era esattamente una bugia. Che ci fosse o
meno non era importante. Tanto, lei, c’era comunque.
- Ho ritenuto opportuno dirtelo lo stesso.
Akito si strinse nelle spalle e poi si avviò verso il
salone a passo svelto.
Non appena lo raggiunse, notò che era praticamente quasi
vuoto. Vide la figura snella di Aya che si intratteneva a conversare con Hisae
accanto all’enorme tavolo apparecchiato con ogni genere di cibarie possibile e
immaginabile. Seduto al tavolo, appunto, Gomi stava già divorando un qualche
genere di pasticcino.
Solo in un secondo momento, si accorse di un’altra figura
familiare e sentì una strana sensazione nello stomaco.
Seduta sul divano, in un angolo della stanza, con le mani
poggiate sulle ginocchia, Fuka lo stava guardando.
Forse era una sua impressione, ma vide una strana paura
negli occhi della sua vecchia amica.
“Amica”, forse, non era la parola più adatta per
descrivere Fuka. Fuka che era stata la sua prima ragazza, l’unica verosimile
alternativa a Sana.
Le si avvicinò, con l’intento di salutarla nel modo più
normale possibile. Non appena le fu abbastanza vicino per poterla vedere bene in
volto, dovette ammettere che era davvero diventata una bellissima donna. Bella
lo era sempre stata, in effetti.
- Ciao, Matsui.
La salutò, facendo un piccolo cenno con
il capo.
- Ciao, Hayama.
Rispose lei, accennando un piccolo sorriso. Sembrava
visibilmente in imbarazzo e Akito giunse alla conclusione che quel leggero
tremore che avvertì nella voce della donna, potesse essere la logica conseguenza
di quell’unica notte che avevano passato insieme.
Forse quattro anni sono ancora troppo pochi per
dimenticare.
- Come ti và la vita, Matsui?
La vide stringersi nelle spalle e abbassare il volto,
notevolmente a disagio.
- Diciamo che và.
Akito si lasciò scappare una mezza risata.
- Queste sono le mie risposte, Matsui! Sono io quello di
poche parole. Tu, invece, sei quella che parla a macchinetta!
Anche Fuka, rise un poco. Un riso amaro, tetro. Così
diverso rispetto al suono della sua risata allegra.
- Bè, Hayama, nella vita si cambia.
Disse lei, cercando di dare alle sue
parole il tono più ironico possibile. Ma non ci riuscì e quelle poche lettere
arrivarono alle orecchie di Akito piene di una freddezza tale che lui sentì
distintamente un pezzo di cuore congelarsi e staccarsi da tutto il
resto.
Forse una cosa come quella che abbiamo fatto noi due, Fuka,non la si dimentica
mai.
E Akito non poté fare altro che riconoscere quanto Fuka
avesse ragione.
***
Se qualcuno gliel’avesse chiesto, non sarebbe stata in
grado di spiegare quello che provò quando il viso allegro e felicemente commosso
di Aya le si presentò di fronte, più tenero e dolce che mai.
- O mio Dio, Sanachan! Alla fine sei venuta!
Gridò la sua vecchia amica, stringendola immediatamente
in un soffocante abbraccio. Sana ricambiò il gesto, mentre sul suo viso un
sorriso sincero prendeva il posto dell’espressione smarrita e spaventata che
aveva avuto fino ad un attimo prima.
- Secondo te potevo mancare?
Scherzò poi, staccandosi da lei e risistemandosi i lunghi
capelli ramati dietro le spalle.
- Certo che no! Ma vieni di là… ci sono già
tutti!
La esortò Aya, prima di notare finalmente la presenza di
Naozumi alle spalle di Sana.
- Ah, Naozumi! Ci sei anche tu!
Gli si avvicinò, dandogli un veloce abbraccio seguito da
una leggera pacca sulla spalla.
- Ma non state lì impalati! Sana, Naozumi,
andiamo!
Disse, aumentando il sorriso, se possibile, ancora di
più. Poi prese la mano di Sana e iniziò a condurla verso la stanza nella quale
si stavano svolgendo i festeggiamenti.
Sana si bloccò un istante, piantonando i piedi su una
delle piastrelle chiare dell’ingresso.
Nel vederla improvvisamente immobile, anche Naozumi e Aya
si fermarono, preoccupati.
- Amore c’è qualcosa che non và?
Chiese lui, apprensivo. Aya, invece, non disse nulla.
Piuttosto, si limitò a fissare il volto di Sana, scandagliandone ogni minimo
particolare, conscia di aver già capito il motivo di quella frenata
improvvisa.
D’altronde, anche Naozumi sembrava aver compreso perché
non si mostrò affatto stupito quando Sana abbassò gli occhi senza dare una
risposta alla sua domanda.
Aya le si avvicinò e la strinse nuovamente in un
abbraccio.
- Non avere paura.
Le sussurrò piano, talmente piano che solo lei poté
sentire. A Sana, per un attimo, parve di essere tornata indietro nel tempo.
Quando, nei momenti difficili, che si trattasse di un compito in classe andato
male o di una furiosa litigata con Akito, Aya riusciva sempre a trovare le
parole giuste per farla stare meglio. Era un po’ come la voce della coscienza,
lei. E proprio come la coscienza, era sempre stata in grado di decifrare i suoi
pensieri, anche quelli più nascosti, trasformandoli in parole, frasi che
riuscivano a spiegare tutto quello che lei non riusciva a dire.
Quanto le era mancata quella voce calma e
paziente!
- Grazie, Ayachan.
Le disse in un orecchio, sorridendole luminosa, prima di
prendere la mano del suo Naozumi e di ricominciare a camminare sicura,
seguendola in salotto.
***
Com’era facilmente prevedibile, non appena lei e Naozumi
misero piede nella sala addobbata a festa, gli sguardi di tutti i presenti si
focalizzarono su loro due.
Ci fu un lunghissimo istante di silenzio, nel quale le
sembrò di soffocare.
Inutile dire che la prima testa che notò fra quel mare di
teste familiari, fu quella sempre biondissima di un Akito abbandonato contro il
muro, con una mano nella tasca dei jeans e l’altra che reggeva un bicchiere
quasi vuoto.
Stavolta il cuore le si fermò davvero. E, insieme al
cuore, si fermò anche tutto il resto, tutto il mondo, tutte le persone in quella
stanza che, di fronte al ciuffo biondo e sempre disordinato di Akito, parevano
ora incredibilmente lontane.
Lui la guardò di rimando, negli occhi la solita aria di
imperscrutabile indifferenza, prima di portarsi il bicchiere alle labbra per
continuare a bere, incredibilmente tranquillo.
La prima cosa che pensò, non appena fu di nuovo in grado
di concepire un pensiero, fu che il ragazzo, l’uomo, che le stava di fronte, proprio
dall’altro lato della stanza, non era cambiato affatto.
Forse era un po’ più alto, e i capelli sembravano più
lunghi. Per il resto, aveva esattamente lo stesso viso che ricordava. Gli occhi,
quegli occhi così dannatamente belli, erano identici a quelli che, a volte,
ancora la tormentavano, infestandole i sogni.
Poi accadde tutto in un istante, una frazione di tempo
ancora più breve del battito di un cuore, e lui si staccò dal muro al quale
stava poggiato e prese a camminare verso di lei.
Stregata da quella visione, neppure si accorse che al suo
fianco, Naozumi era diventato improvvisamente teso.
- Ciao.
Disse Akito, non appena le fu abbastanza vicino, nella
voce il solito tono freddo e distaccato.
D’istinto, lo guardò negli occhi e le venne spontaneo
chiedersi come fosse possibile che due occhi come quelli, colorati come il sole,
potessero invece essere freddi e taglienti come il ghiaccio.
- C.. ciao.
Balbettò, incerta e ancora frastornata dall’effetto che,
nonostante i suoi innumerevoli buoni propositi, lui era ancora in grado di esercitare
sul suo debole cuore.
Stupido, stupidissimo cuore!
Restarono per un po’ così, muti e immobili, mentre i loro
occhi parlavano già di tutto.
Fu Naozumi a interrompere quella strana e surreale
scenetta.
- Ciao, Hayama! Ne è passato di tempo, eh?
Akito a mala pena lo guardò, senza preoccuparsi di
nascondere l’astio che aveva sempre nutrito nei suoi confronti.
- Già.
- Noto che sei sempre uno che ama parlare.
Akito neppure rispose. Quell’uomo aveva la capacità di
farlo innervosire anche senza dire nulla, figuriamoci se si metteva anche a fare
battute.
Oh, no. Non avrebbe retto oltre all’impulso irrefrenabile
di togliere quello stupido sorrisino da quel faccino da pubblicità.
Quindi, per evitare di correre inutili rischi, decise che
la cosa migliore da fare era allontanarsi da lui, o meglio…da loro.
Perché, si. Vederlo stringere con tanta vanità la mano di
Sana non contribuiva certo a fargli passare la voglia di prenderlo a
pugni.
Così gli diede le spalle e si avviò verso Tsuyoshi, che
fin dall’inizio, preoccupato come al solito, aveva osservato tutta la scena e
che lo attendeva paziente dall’altro lato del grande salone.
***
“-
Fukachan, sai che ti voglio un sacco di bene e che sei la mia migliore amica,
vero?
-
Su, Sanachan, spara. Cosa devi chiedermi?
-
Cosa ti fa pensare che dove chiederti qualcosa? Non posso semplicemente dirti
che ti voglio bene?
Fuka alza le sopracciglia e scuote la testa, prima di picchiettare la
spalla di Sana con dei piccoli buffetti
affettuosi.
-
Sanachan, ti conosco da troppo tempo per non sapere che quando inizi un discorso
con frasi del tipo “sai che ti voglio bene” o “sei l’amica migliore del mondo”,
devi chiedermi un favore.
-
Uff… è così poca la fiducia che riponi nella tua cara
amica?
-
Proprio perché sei una “cara amica” certi tuoi atteggiamenti li capisco al
volo.
Sana incrocia le braccia al petto, nascondendo un poco i piccoli
fiorellini colorati disegnati sul minuscolo vestitino che ha scelto di indossare
per quella che ama definire “una sana passeggiata tra amiche in compagnia di un
po’ di sano shopping!”. Si, le chiama tutte così, le loro uscite pomeridiane. E
Fuka ogni volta non può fare altro che sorridere, perché è assolutamente
consapevole del fatto che Sana ha l’assurda tendenza di dare un nome ad ogni
cosa. Nomi lunghi ed insensati, ovviamente.
-
Ok, hai vinto! Volevo chiederti se potevi aiutarmi a studiare matematica, visto
che gli esami di maturità sono pericolosamente vicini e io sono terribilmente
indietro per colpa del mio lavoro.
-
Sempre colpa del lavoro, eh?
-
Cosa vorresti dire? Che è colpa mia se non ho abbastanza tempo per studiare come
te?
L’espressione offesa che appare sul volto di Sana, per Fuka, è
incredibilmente divertente.
-
Assolutamente no, Sanachan! Cosa te lo fa
pensare?
Scherza poi, sperando di farla arrabbiare ancora di
più.
-
Sono troppo felice per arrabbiarmi con te, quindi non proseguirò oltre questo
argomento.
-
Come mai così felice? C’entra qualcosa con il fatto che stamattina hai visto
Akito?
Non c’è dubbio, l’espressione che assume Sana quando si parla di Akito è
la migliore tra tutte le sue mille espressioni.
-
No, non c’entra nulla. Sono felice perché oggi c’è un sole stupendo. Perché
dev’essere sempre colpa di Akito se sono di buono o di cattivo
umore?
Fuka si stringe nelle spalle.
-
Forse perché è il tuo ragazzo e lo ami
follemente?
-
Oh, non è affatto vero. Lo amo come ogni ragazza ama il suo fidanzato.
Fuka la osserva girare il viso per nascondere il rossore che, di certo,
le sta colorando le guance e non può fare altro che lasciarsi andare ad un
sorriso.
A
volte si ritrova a pensare alla fortuna che hanno avuto Sana e Akito. Insomma,
devi stare proprio simpatico al destino se, a soli undici anni, ti ha fa
incontrare l’amore della tua vita.
-
Allora Fukachan, mi aiuterai a studiare oppure
no?
La
fortuna, comunque, deve aver baciato anche lei e Takaishi, visto che si sono
conosciuti ancor prima di Akito e Sana.
-
Certo, Sanachan. Non potrei sopportare il peso di non vederti passare l’esame
per colpa mia.
E
poi, altro favore per il quale ringraziare il destino o la fortuna, c’è
l’amicizia che la lega a Sana e che l’ha fatta sentire parte di lei sin dal loro
primo incontro.
Com’è che si dice? “Anime affini”.
-
Ah, Fukachan…Guarda che, comunque, quello che ti ho detto prima lo penso
davvero.
-Dici così tante cose che
mi perdonerai se non ricordo con esattezza ciò a cui ti stai
riferendo.
-
Spiritosa! Intendevo quando ti ho detto che ti voglio un sacco di bene. Dicevo
sul serio, lo sai si?
La
vede sorridere del suo sorriso migliore, bellissimo come solo un sorriso di Sana
può essere.
-
Certo che lo so. Ti voglio un sacco di bene anch’io,
Sanachan.”
***
Quando la vide entrare, ebbe il fortissimo istinto di
alzarsi dal divano e di correre ad abbracciarla forte, fortissimo. Di dirle che,
nonostante tutto, nonostante il tempo, lei le voleva ancora un gran bene e che
sarebbe stata per sempre la sua migliore amica.
Poi la vocina dentro di lei, chiamatela coscienza o
razionalità, aveva parlato e le aveva caldamente suggerito che certe
manifestazioni d’affetto non sarebbero state opportune. Specialmente se rivolte
ad una di quelle persone alle quali nascondi un segreto grande come il
mondo.
Quindi, era rimasta immobile sul divano, tra l’attesa e
la paura che Sana si accorgesse della sua presenza.
Poi aveva visto Akito muoversi verso di lei e salutarla,
nonostante la scomoda presenza di Naozumi, proprio nello stesso modo, con la
stessa gelida freddezza, con cui aveva salutato anche lei poco tempo prima, non
appena era arrivata alla festa.
Quando Akito si allontanò dalla coppia hollywoodiana,
capì che era arrivato il momento. Che Sana si sarebbe irrimediabilmente accorta
della sua presenza.
E infatti accadde che Sana girò il viso e, incontrando i
suoi occhi, diede vita ad un bellissimo sorriso.
Il
sorriso non l’hai perso comunque, vero Sana?
- FUKACHAN!
Urlò quasi correndo verso il divano sul quale stava
seduta e gettandole le braccia al collo.
- Ciao, Sanachan..
- Mio Dio, Fukachan!! Come stai? Non sai quanto mi sei
mancata! Cosa fai? Lavori? Sei andata all’università? Sei….
- Calma, calma Sana! Una domanda per volta…!
Scherzò, prendendole le mani per invitarla a prendere
fiato.
Non hai perso né il sorriso, né la
parlantina!
Sana rise, tirandosi un piccolo pugno sul capo e
scombinando appena i capelli perfetti.
- Si, hai ragione. Scusa…
- Figurati! Ricordo bene quanto ami parlare!
Cercò di non fare caso a quella strana sensazione che
provò nel dire quelle parole. Perché le sembrò che ricordare i tempi in cui le
sue giornate erano piene delle parole a raffica e spesso insensate della sua ex migliore amica ( non era forse così,
dopotutto?) le facesse venire una fottutissima voglia di piangere.
- Allora… prima domanda: come stai?
Fuka rise di gusto. Si, era incredibilmente bello
riempirsi le giornate dei discorsi assurdi di Sana.
- Oh, sto benissimo. Me la cavo. E tu? Vedo che ti sei
sistemata bene!
Le disse, facendo l’occhiolino e muovendo il capo in
direzione di Naozumi che parlava allegramente con Aya.
Sana arrossì.
E
non hai perso neanche il vizio di arrossire, quando si parla di
sentimenti.
- Bè diciamo che non mi lamento. E tu?
- Io cosa?
- Voglio dire… tu e Takaishi?
Fuka abbassò lo sguardo. Dopotutto, sapeva che prima o
poi gliel’avrebbe chiesto.
- Ci siamo lasciato molto tempo fa.
- Oh!
- Tranquilla. È tutto passato, ormai. Eravamo…. Come si
dice? Incompatibili!
Sana aggrottò le sopracciglia, pensierosa. E Fuka si
ritrovò a pensare che se una notizia del genere gliel’avesse data una diecina di
anni prima, avrebbe dovuto fare fuoco e fiamme per fermare le urla isteriche
che, ne era certa, Sana avrebbe lanciato.
Ma
sei una donna, ora. E una donna cresciuta certe cose non le fa più,
vero?
- Strano… avrei scommesso che sareste stati insieme per
sempre!
- Le cose cambiano, Sana.
- Lo so…
Però
sarebbe bello tornare indietro.
- E poi, sai, ho perso una scommessa anch’io.
- Ah, si? Su cosa avevi scommesso?
Almeno in questo non era cambiata. Nel capire certe cose
sarebbe stata sempre incredibilmente lenta.
- Su te e Akito.
Nel silenzio che seguì la sua risposta, avrebbe potuto
giurare di aver sentito distintamente qualcosa spezzarsi nel petto della donna che le stava di fronte.
E non seppe capire bene cosa fosse, se imbarazzo,
sorpresa o nostalgia, la smorfia alla quale Sana diede vita, nella speranza,
forse, di farla somigliare ad un sorriso.
***
Il resto della serata passò senza lasciare segni troppo
evidenti, ma solo se per “evidenti” intendiamo i segni visibili agli occhi degli
altri.
Perché, anche se non erano stati evidenti, le risate forzate di Sana, gli
sguardi nascosti di Akito e l’espressione finta serena di Fuka, un segno
dovevano averlo lasciato per forza.
Comunque nessuno, a parte loro tre, si era accorto di
nulla.
Meglio così. Almeno le apparenza erano riusciti a
salvarle.
***
- Come ti sono sembrati?
- Di chi parli?
- Di Sana e Akito ovviamente!
Si strinse nelle spalle, continuando a spazzare il
pavimento per liberarlo dai segni lasciati dalla festa appena
terminata.
- Mah… come sempre.
- In che senso?
Le sorrise un poco.
- Innamorati.
L’espressione che poi vide sul volto di Aya gli fece
capire che anche lei aveva avuto la sua stessa impressione.
Forse non erano stati poi così bravi neppure a salvare le
apparenze.
/*/
Nota
dell’autrice: Finalmente sono riuscita a descrivere i vari “incontri”.. xD
mi è piaciuto parecchio scrivere questo capitolo, perché è pieno di pensieri
introspettivi dei protagonisti e io amo scavare nelle teste dei personaggi delle
mie storie (anche se, in questo caso, si tratta di pensieri quasi tutti
abbastanza tristi.. xD).
Per qualsiasi domanda o curiosità, aspetto le vostre
recensioni! J
E, ovviamente, il solito “grazie” a chi continua a dirmi
sempre quello che pensa. Siete voi che mi spronate a continuare!
Avrebbe fatto qualsiasi cosa, si sarebbe spogliata di
qualsiasi cosa, se solo fosse servito per evitarle di vedere l’espressione che
invece vide sul volto di Naozumi quando, appena usciti da casa di Aya e
Tsuyoshi, spinta da una forza che non credeva di avere –che non voleva avere- , incrociò il suo
sguardo e gli disse semplicemente “Nao, devo parlare con lui”.
Lui capì, come sempre. E come sempre le sorrise,
mascherando la paura folle che ancora aveva di lui.
- Ti aspetto sveglio, Sana.
Le disse poi, abbracciandola forte, forse per ricordarle
quanto lui la amasse.
Come se già non fosse abbastanza chiaro.
Come se già non bastasse guardare un istante nei suoi
occhi azzurri per capire che Naozumi Kamura amava Sana Kurata in un modo che
molte persone non riescono neppure a concepire. Ed era proprio per questo,
perché Sana sapeva che per lei Naozumi avrebbe fatto qualsiasi cosa, che quando
si staccò dal suo abbraccio per avviarsi verso un Akito che, ignaro di tutto, si
stava allontanando lentamente verso casa,sentì l’irrefrenabile bisogno di chiedergli scusa. E su quel “Mi
dispiace” , sussurrato così piano che forse lui neppure riuscì a sentirlo, gli
diede le spalle e corse via.
***
Nel brevissimo tratto di strada che la separava da Akito,
l’unica cosa che il suo cervello riuscì ad elaborare fu un confuso “Ma che diavolo gli
dico?”
A quella domanda, alla quale ovviamente non seppe trovare
risposta, ne seguirono moltissime altre.
In effetti, c’era qualcosa che voleva chiedergli. Tante,
tantissime cose.
Per esempio, le sarebbe piaciuto sapere se praticava
ancora il karate.
Se si era fatto nuovi amici o se, cosa molto più
probabile, le sue amicizie iniziavano e finivano con Tsuyoshi. E se era ancora
solo con lui che si sfogava quando era arrabbiato.
Poi avrebbe voluto sapere anche com’erano stati, quei
quattro anni… cos’aveva fatto, come aveva passato le giornate, senza di
lei.
Se, - e le sembrò di tremare al solo pensiero-, aveva
conosciuto qualche ragazza.
Se baciava ancora bene come ricordava. Se era ancora
dannatamente bello, quando faceva l’amore.
Se qualcun’altra l’aveva notata, quella piccolissima
piega che gli corrugava la fronte mentre sognava.
Se altre mani, mani sconosciute, aveva toccato i suoi
capelli biondi e conosciuto il suo corpo perfetto, sfiorando quel neo sul fianco
che lei aveva baciato un milione di volte.
- AKITO!
Lo chiamò, per attirare la sua attenzione.
Ma si, qualcosa da dirgli l’avrebbe trovata.
***
Nel sentirsi chiamare, lui fermò la sua avanzata e si
voltò di scatto, spalancando gli occhi, sorpreso di vedere chi era la persona
che l’aveva appena chiamato. O sorpreso per il fatto che quella persona era
sola, senza quel dannato damerino.
- A.. Akito…
Ripeté lei, muovendo qualche timido passo per avvicinarsi
a lui. Quando gli fu di fronte, lo guardò negli occhi per un interminabile
istante e si sentì una stupida per aver chiesto a Naozumi di andare via. Perché
davvero, non sapeva cosa diavolo ci fosse da dire.
E di certo il modo in cui Akito la stava guardando, -
come se stare lì con lei fosse l’ultima cosa al mondo che gli interessasse-, non
l’aiutava affatto.
- Cosa vuoi?
Le chiese, il tono di voce meno scocciato di quanto
volesse far credere.
- I.. io.. volevo parlarti. Facciamo due passi, ti
và?
- Veramente…
- Ti prego. Solo due passi.
Quasi lo implorò.
Vide lo sguardo di Akito addolcirsi leggermente, prima
che lui iniziasse a camminare, senza dire una parola. Istintivamente lo seguì,
pensando che quel suo silenzio volesse dire che era d’accordo.
Camminarono l’uno accanto all’altra per un po’, senza che
nessuno dei due avesse il coraggio di iniziare una conversazione. O meglio, lui
non ci pensava neppure ad iniziarla.
Dopotutto, non era forse lei che gli aveva chiesto di
parlare?
Forza, Sana. Da quando ti mancano le
parole?
Prese un profondo respiro e si strinse nelle spalle,
cercando di non far caso al freddo che c’era quella notte.
- E così Hisae e Gomi si sono sposati, eh? Tu lo
sapevi?
Oh, brava, Sana! Bel modo di iniziare una
conversazione!
- Si.
- Come mai nessuno me l’ha detto?
Akito fece spallucce.
- Forse perché nessuno sapeva come rintracciarti e in che
parte del mondo fossi finita.
Colpita e affondata!
- Questo è vero, comunque…
Lui si fermò di scatto, guardandola truce.
- Mi hai raggiunto per parlarmi di Gomi e
Hisae?
- N.. no.
- Lo spero, perché altrimenti la passeggiata termina
qui.
Al diavolo! Era riuscita a farlo irritare nel giro di
cinque secondi. Si sentì sciocca, e fuori luogo.
Per un attimo, desiderò davvero concludere lì quella
breve passeggiata per tornare a casa da Naozumi che, di certo, la stava
aspettando preoccupato.
Però non lo fece, perché ogni parte di lei, anche la più
piccola e nascosta, desiderava restare lì, su quella strada quasi deserta, a
notte inoltrata, per camminare accanto ad Akito.
E avrebbe potuto passare ore intere anche senza dirgli
nulla, solo per sentirlo respirare.
Non farlo, Sana. Non ricordarti
com’era…
Comunque, con molta probabilità, lui non la pensava allo
stesso modo e, se non si fosse finalmente decisa a parlare di qualcosa di
sensato, sarebbe andato via in fretta.
- Akito…
Il mugugno che uscì dalle labbra di lui, la convinse a
continuare.
- Come stai?
- Cosa?
- Si insomma, come… come te la passi? Come ti và… la
vita?
- Và…
Tipiche risposte di Akito che, accidenti a lui, non era
affatto cambiato.
- Oh, Akito! Possibile che tu non abbia niente da dirmi?
Raccontami qualcosa!
- Cosa vuoi sapere?
- Qualsiasi cosa…
- “Qualsiasi cosa” è un argomento troppo
generico.
Ecco, in quel momento ebbe voglia di strangolarlo. O di
tirare fuori il piko per prenderlo a martellate, come faceva un
tempo.
- Ok, Akito. Probabilmente tra un secondo mi pentirò di
quello che sto per chiederti, perché avevo
promesso a me stessa che non avrei toccato l’argomento
neppure sotto tortura, però… però ora mi sembra l’unica domanda
possibile.
Senza sapere il motivo, si fermò di scatto e abbassò il
viso.
- ... Com’è stato dopo che sono andata via?
Lui spalancò gli occhi. Di certo non aveva gradito la
domanda. Ma, nel vederla così incredibilmente indifesa, non poté fare a meno di
dirle la verità.
- Come se ogni minuto qualcuno mi sbranasse il
cuore.
Era vero. Avrebbe voluto dirle molto di più, però. Per
esempio, che ogni giorno era stato come girare a vuoto, percorrere una strada
che conduceva ad un vicolo cieco. Perdersi nei minuti di una vita che non
sembrava più sua, perché la sua se l’era portata via lei, il giorno in cui era
salita su quel maledetto aereo.
Comunque, non gli sembrò il caso di renderla partecipe di
ciò che aveva provato. Lei che il suo dolore non lo meritava neppure.
Sana finalmente alzò lo sguardo per incrociare quello di
Akito e tremò, - si, tremò davvero-, nel vedere che quegli occhi dorati
somigliavano tanto a quelli che l’avevano guardata infinite volte.
Quelli si, che erano gli occhi del suo Akito.
Si, Sana.. ma non avevi detto che era meglio non
ricordare?
- Mi hai mai perdonata?
- Per cosa?
Gli si avvicinò e, senza sapere per mezzo di quale strana
forza avesse agito, alzò una mano fino a sfiorargli il viso. Mossa sbagliata!
Perché non appena le sue dita furono a contatto con quella pelle così familiare,
si sentì morire.
- Per essermene andata… per non aver avuto il coraggio di
restare con te.
Quando, di preciso, aveva iniziato a piangere, non lo
sapeva. E non sapeva neppure come fare per fermare quelle lacrime.
- Non c’è niente da perdonare. Ormai è tutto
passato.
Passato…
Com’era possibile che quelle parole, invece di
consolarla, le fecero aumentare la voglia di piangere?
Si sforzò di ricacciare indietro le lacrime, per
dimostrare a se stessa che Akito non sortiva più il minimo effetto su di
lei.
Quindi si ricompose, asciugandosi il viso con il dorso
della mano che, intanto, aveva già abbandonato il viso di Akito.
- Forse hai ragione. Forse non c’è niente da perdonare,
però… però sento lo stesso il bisogno di chiederti scusa…
- Ti ho già detto che non è affatto
necessario.
- Si, me l’hai già detto. Ma non potresti solo accettare
le scuse senza dover sempre ribattere?
Ok, ora era irritata. Incredibile come avesse la capacità
di cambiare umore nel giro di pochi secondi.
Però era strano, perché certe cose le succedevano solo se
davanti a lei c’era Akito. Naozumi invece, il suo bellissimo e dolcissimo
Naozumi, aveva il potere di trasmetterle una serenità inaudita.
- Come ti pare…
Rispose lui, prima di darle le spalle per andare a
sedersi su una panchina poco distante.
Sana lo seguì, anche perché in effetti cominciava a non
poterne più di camminare su quei tacchi altissimi, e, in silenzio, gli si
sedette accanto.
Restarono così, immobili, senza dirsi una parola per
moltissimi minuti.
Poi, casualmente, entrambi alzarono lo sguardo e i loro
occhi si incontrarono ancora.
E Sana sentì un calore quasi dimenticato, eppure tanto
familiare, impossessarsi del suo petto. Presa da una strana e inspiegabile
paura, distolse lo sguardo per rivolgerlo alle deboli luci dei lampioni che
illuminavano la panchina sulla quale erano seduti.
- Certo che non l’hai perso mai…
Tornò a guardarlo, stupida dal fatto che fosse stato lui,
stavolta, a parlare per primo.
- Cosa?
- Il vizio di arrossire quando ti guardo.
Istintivamente, si portò le mani sulle guance, colpevole.
E forse neppure si accorse del tono amaro con cui Akito aveva pronunciato quelle
parole.
- Oh, non è affatto vero, Akito!
- Si che lo è.
- Visionario.
- Bugiarda.
Le sembrò di scorgergli sul viso una smorfia molto simile
ad un sorriso. Magari flebile, flebilissimo, ma pur sempre un
sorriso.
E le venne una voglia matta di sorridere a sua volta. E
di abbracciarlo.
- Se è per questo, Akito, neanche tu l’hai perso
mai.
- Cosa?
- Il vizio di guardarmi in quel modo.
Sembrò seriamente stupito.
- Quale modo?
- Come quando… mi
amavi.
Di nuovo, Akito si lasciò andare ad un mezzo
sorriso.
Si, aveva voglia di sorridere. Di abbracciarlo. E di
piangere.
- Visionaria.
- Bugiardo.
A mala pena, riuscì a respirare.
***
Camminava avanti e indietro nella stessa stanza, - che,
per inciso, era l’ingresso della casa d’infanzia di Sana-, da un tempo che gli
sembrava infinito.
Nervoso, diede l’ennesima occhiata al suo
orologio.
Erano passate quasi due ora da quando l’aveva lasciata e
ancora lei non tornava.
Si maledisse una, due, cento volte, per aver acconsentito
anche a quella richiesta. Dopotutto, sarebbe bastato dire un semplice “Sana, mi dispiace. Non voglio che parli con
lui.”
Era o non era il suo ragazzo? Avrebbe dovuto dirle che si
era sentito morire già dal momento in cui avevano deciso di fare ritorno a
Tokyo. Vederla davanti a lui, mentre, con occhi imploranti, gli chiedeva di
capirla, di capire che aveva bisogno
di parlare con quell’Hayama, era stato il colpo di grazia.
Cazzo, Naozumi! Sei un uomo! Ricaccia indietro quella
voglia di piangere!
No, non doveva pensare al peggio. Dopotutto, dove stava
scritto che Sana l’avrebbe lasciato per tornare con Hayama? Il solo fatto che,
dopo ben quattro anni, aveva sentito il bisogno di parlare con lui, non voleva
assolutamente dire nulla.
Non era stata una fidanzata perfetta per tutto il tempo
passato a New York?
Si, che lo era stata. E, in quei quattro anni, il
fantasma di Akito non era mai tornato a tormentarlo.
Sana era la sua donna e, in quanto tale, era di lui che
era innamorata.
Hayama apparteneva al passato. Un passato ingombrante,
certo. Ma pur sempre passato.
E allora non c’era proprio niente di cui
preoccuparsi.
***
Percorrere la strada che conduceva alla sua vecchia casa,
avendo Akito al suo fianco, era indubbiamente uno strano scherzo del
destino.
“Ironia della
sorte!”, le venne da pensare.
- Da quanto tempo non ti riaccompagno a casa,
eh?
Sorrise, amara.
- Sembra un’infinità.
- E’
un’infinità.
A volte in effetti, quei quattro anni, erano sembrati
millenni.
- Akito…
- Mmm…?
- Ti.. ti squilla il cellulare, credo…
Mise una mano in tasca ed estrasse il cellulare che,
effettivamente, stava squillando.
Lesse il nome del chiamante sul display, assunse
un’indecifrabile espressione, e si allontanò di qualche passo, facendo segno a
Sana di aspettarlo lì.
Lei avvertì una strana sensazione e una folle voglia di
sapere chi diavolo chiamasse Akito a quell’ora di notte.
Sarà una ragazza?
Al pensiero, le sembrò che le gambe iniziassero a
cederle.
Smettila, Sana! Non fare la
bambina!
Dopo qualche minuto, finalmente Akito concluse la
telefonata. Lei lo osservò e, senza pensarci due volte, glielo
chiese.
- Chi era?
Lui la guardò, sorpreso e confuso per quella domanda così
diretta. O forse solo per la sfacciataggine con la quale Sana gliel’aveva
posta.
- Non credo siano affari tuoi.
- Lo so, ma…
- Niente ma, Sana! Non sono affari tuoi!
- Lo so benissimo che non sono affari miei, Akito! COSA
CREDI?
Il tono della sua voce si era involontariamente
alzato.
- … ma non potresti…
Abbassò il volto, perché non aveva nessunissima
intenzione di supplicarlo guardandolo negli occhi.
- … dirmelo lo stesso…?
- Vuoi davvero saperlo?
- S.. si.
- Bene. Era una ragazza. Vuoi che ti dica anche come si
chiama? Si chiama Naoko! Contenta?
Se solo avesse potuto, sarebbe tornata indietro, avrebbe
riavvolto il nastro di pochi minuti, giusto il tempo di evitare di fargli quella
stupida domanda.
Dio, che sciocca!
Chissà per quale assurdo motivo era convinta che non ci
fosse nessuna ragazza.
Ovviamente, aveva sbagliato.
- Ci stai insieme? È la tua ragazza?
- Oh, andiamo! Ora smettila!
Si, Sana. Smettila!
- Ma non puoi dirm..
- ORA BASTA! CHE CAZZO VUOI SAPERE, KURATA?
Era a dir poco furioso.
- Vuoi sapere se ci sto insieme?? Se me la sono portata a
letto? VUOI SAPERLO? BE’ LA
RISPOSTA E’ SI! ME LA
SONO PORTATA A LETTO! E NON E’ STATA
L’UNICA! SODDISFATTA?
Soddisfatta?
Poteva definirsi tale? Era “soddisfazione” quello che sentiva? O era il suo
cuore che veniva fatto a pezzi?
Stavolta proprio non ci riuscì, a trattenere le
lacrime.
- Cammina!
Le ordinò cattivo,- si, proprio cattivo-, scuotendola per un braccio,
mentre ingaggiava una lotta contro se stesso per non far caso alla voglia matta
che aveva di abbracciarla e di asciugarle le lacrime.
Aveva sempre odiato vederla piangere. Ogni volta che
pensava a lei, - il che, nonostante tutto, avveniva ancora troppo spesso-, la
immaginava con il suo migliore sorriso. Quello luminoso, caldo. Così
inequivocabilmente suo.
Nel sentirsi trascinare, lei si riscosse, strattonando il
braccio per liberarsi dalla presa di Akito.
Lui se ne accorse, ma non la lasciò.
- Andiamo, ti porto dal tuo ragazzo.
Le disse poi, marcando con un maggiore astio le ultime
due parole, senza degnarla di uno sguardo e continuando a
trascinarla.
Sana, nel sentire la frase pronunciata da Akito, si
imbambolò, aprendo la bocca, sorpresa.
Già, il suo
ragazzo.
Il viso tranquillo e sempre sorridente di Naozumi tornò
prepotente nella sua mente, facendola sentire una persona orrenda.
Come aveva potuto non pensare a lui? A lui che, di certo,
la stava aspettando, più preoccupato che mai?
Che diavolo aveva in testa quando aveva deciso di
intromettersi nella vita privata di Akito con quelle domande inopportune?
Ma, soprattutto, perché il cuore continuava a farle un
male cane?
Con la mente tartassata da domande, neppure si accorse
che erano già arrivati,- o meglio, che Akito l’aveva trascinata-, di fronte la sua vecchia
casa.
Non appena il grande cancello si stagliò di fronte a
loro, Akito mollò la presa.
- Bene, Kurata. Direi che la nostra passeggiata termina
qui.
Perentorio, come sempre. E senza attendere la sua
risposta, le diede le spalle e iniziò a camminare.
- Aspetta, Akito!
No, Sana. Lascia che vada
via…
Lui, comunque, si fermò, continuando a mostrarle la
schiena.
- … so che c’è il matrimonio di Aya e Tsu, ma dopo la
cerimonia…insomma… puoi dirmi se è con lei, con quella ragazza di prima,
che…
Non farlo! Non renderti
ridicola!
-… passerai la notte di Natale?
Bastò un istante, un secondo soltanto, e già si pentì di
averglielo chiesto.
Dopotutto, che diritto aveva lei di sapere con chi Akito,
- il suo ex, e odiato, compagno di
classe, ex amico, ex fidanzato, ex centro del suo mondo-, passava il
Natale?
“Ex”, Sana, sta proprio a significare che di certe cose
non dovresti interessarti più.
Oh, accidenti!
E poi perché lui si era voltato e stava avanzando verso
di lei senza dire nulla?
Credeva che guardarla in quel modo, con quei dannatissimi occhi, sarebbe servito
a qualcosa?
Maledetto lui, che non smetteva di fissarla. E maledetta
lei che, ancora, in quegli occhi d’oro vedeva il mondo intero.
Cercava di farla sentire in colpa? Di farle del male? Di
ferirla?
Forse. O forse stava male anche lui, anche lui si sentiva
impazzire, al pensiero che anche questo Natale li avrebbe visti
separati.
Sei per caso impazzita? Hai passato gli ultimi natali con
Akito? No, Sana! Li hai passati con Naozumi,
ricordi?
Si, era vero. Però, da egoista qual era, aveva badato
solo al dolore provato nel pensare che Akito potesse passare il Natale con
qualcun’altra.
Forse
anche Akito si è sentito così quando ha saputo di me e Naozumi.
Considerazione scontata, la sua.
Akito, intanto, aveva ancora quello sguardo. E Sana pensò
che avrebbe dato qualsiasi cosa per sapere cosa si ci nascondeva
dietro.
Po lui finalmente rispose. Secco, laconico,
monosillabico.
- No.
Due lettere. E lei capì.
Quello sguardo voleva solo dire che lui, almeno lui, non era ancora pronto per
passare il Natale con qualcun’altra.
E bastò per farla sentire egoista. E
vigliacca.
Non
posso più stare qui. Non posso più…guardarlo.
Così, fedele al suo egoismo e alla sua vigliaccheria, gli
diede le spalle e, senza neppure salutarlo, corse via, con in bocca il sapore
amaro delle sue lacrime.
***
-C’hai mai pensato al fatto che la vita è
strana?
La
guarda, senza rispondere. Sa che non servirebbe, perché quella è una delle
solite domande alle quali Sana risponde da sola. Quelle che ogni tanto si pone,
quando la sua mente è presa a farneticare su quel genere di discorsi che solo
lei stessa è in grado di capire.
-
… Voglio dire, hai mai pensato all’eventualità che potremmo non passare insieme
il prossimoNatale?
Si
stringe nelle spalle, posizionandosi meglio sul divano del salone, sotto
l’enorme plaid di lana che Sana, la ragazza più freddolosa del mondo, gli ha
praticamente costretto a tirar fuori
dall’armadio.
-
Come ti vengono in mente certe cose?
-
Non si risponde ad una domanda con un’altra domanda, lo sai
Akito?
-
Ah, no? E come dovrei rispondere ad una domanda del
genere?
Lei sbuffa, finta irritata, e si accoccola meglio tra le
braccia del suo ragazzo.
-
Per esempio potresti dire che non passerai mai il giorno di Natale con
qualcun’altra…questa si che sarebbe una bella
risposta!
-
Sei in cerca di romanticherie, Kurata?
Le
chiede, guardandola come solo lui sa guardarla. Sana si lascia andare ad un
piccola risata divertita. Eccolo svelato, il motivo di quella
domanda.
-
Mmm… e se anche fosse? Potresti assecondarmi almeno per una volta,
no?
Sbuffa, mettendo su il suo inconfondibile broncio. Akito
alza gli occhi al soffitto e scuote la testa.
Poi, nel vederla così vicina al suo viso, non può fare
altro che baciare quelle labbra rosse e
invitanti.
-
Perché devi fare sempre così, Akito?
Chiede staccandosi da lui,- dopo qualche minuto, in
verità-, incrociando le braccia nella speranza di mostrarsi
offesa.
-
Oh, e và bene, Kurata! Prometto…
Le
si avvicina di nuovo, sorridendo. E Sana si rende conto che non c’è niente al
mondo più bello del sorriso di Akito.
-
… che non passerò mai il Natale con qualcun’altra.
Contenta?
Il
sorriso splendido che si spalanca sul volto di Sana e l’irruenza con la quale
poi gli si getta tra le braccia, valgono indubbiamente come un
convintissimo“si”.
Prese a pugni il muro dell’ingresso, non appena mise
piede dentro casa.
Neppure fece caso ai graffi che gli sfiguravano il dorso
della mano. O al sangue che gli colava dalle dita e che gli macchiava i polsi
del maglione.
Nella sua mente solo una furiosa rabbia.
La stessa che aveva provato quando si era reso conto che
era stata lei, bugiarda,ad infrangere quell’antica
promessa.
***
Per quanto si sforzasse, quella notte proprio non ci
riusciva proprio a prendere sonno.
Indubbiamente, ricordare l’immagine di Sana che tornava a
casa, con gli occhi gonfi e rossi, non contribuiva a renderlo
tranquillo.
E poi, anche il fatto che lei non gli avesse dato la
minima spiegazione e che si fosse messa a letto senza guardarlo negli occhi, non
era certamente un buon segno.
Per lo meno, dopo qualche minuto di teso silenzio,
l’aveva chiamato chiedendogli di sdraiarsi accanto a lei.
Almeno mi vuole accanto…
Magra consolazione.
- Sana…?
Non ottenne risposta.
- Sana, dormi?
Lei scosse la testa, e i suoi capelli provocarono un
leggero fruscio sul cotone del cuscino.
- Nemmeno io. Senti… prima hai pianto vero?
- N.. non.. ne voglio parlare.
- Sana! Ho il diritto di sapere cos’è successo, non
credi?
Si, aveva indubbiamente il diritto di sapere cosa era
successo tra la sua ragazza, la donna che amava praticamente da sempre, e l’uomo
che più di tutti temeva al mondo.
Lei parve notare la difficoltà con cui Naozumi le fece
quella domanda, così come parve accorgersi anche del tremore che ne caratterizzò
ogni sillaba.
- Scusami, Nao…
- Non voglio che tu ti scusi! Voglio solo che mi dica
cosa è successo…
La vide girarsi nel letto, forse per cercare il suo
viso.
- Hai ragione. Ho pianto.
Era già arrivato a questa conclusione,- gli occhioni
gonfi erano stati un illuminante indizio-, eppure quelle parole gli fecero un
male atroce.
- P.. perché?
- Perché sono un’egoista. E una bugiarda.
- Una bugiarda?
- Come la chiameresti una persona che non tiene fede ad
una promessa?
Non rispose, seguendo quella parte di cuore, o di
cervello, che gli urlava di non indagare oltre.
Lei si girò di nuovo, dandogli le spalle, e poi,
probabilmente, si addormentò.
***
- Fuka è già andata a dormire?
- Credo di si. È chiusa nella camera degli ospiti da un
bel po’.
Si tolse gli occhiali, poggiandoli sul comodino accanto
al letto, prima di raggiungere la sua futura sposa sotto il caldo tepore delle
coperte.
- Senti, Tsu… non ti è sembrata un po’ strana?
- Strana? in che senso?
- Mah… non lo so. Soprattutto con Akito… non l’hai quasi
mai guardato.
Nel buio della camera da letto, cercò gli occhi di
Aya.
- Ma no, tesoro. È normale che dopo tutto questo tempo ci
sia un po’ di imbarazzo.
- Ne sei convinto?
Le sorrise, carezzandole il capo, per farla poggiare sul
suo petto.
- Certo.
La sentì tirare un mezzo sospiro.
- Ok, allora sono convinta anch’io.
/*/
Note
dell’autrice: Perfetto, eccoci giunti alla fine del sesto capitolo! Devo
ammettere che è stato il capitolo più difficile da scrivere fin’ora. Il
confronto tra Sana e Akito mi ha messo un bel po’ in difficoltà. Spero di
essermela cavata abbastanza bene, comunque. Questo, però, potete dirmelo solo
voi nelle vostre recensioni! ^-^
I soliti ringraziamenti a chi continua a seguirmi, perché
mi aiuta a mantenere intatta la mia voglia di scrivere!
La mattina dopo, si svegliò con un nodo in gola e con un
macigno sullo stomaco.
Ovvio, visti gli avvenimenti della nottata
precedente.
Ma era comunque spaventata, perché quello stato d’animo
era mille volte peggio di quanto si aspettasse.
Una paura strana. Paura di qualcosa che le si era
infilato dentro, incastrandosi forzatamente nelle pieghe della tristezza e della
nostalgia che si erano impossessate di lei da quando aveva rivisto il volto di
Akito.
Che poi era strano, perché le sembrava di averla già
provata, quella sensazione.
Senza la tristezza e la nostalgia, però. Solo quella
sensazione, che già in passato,- un passato remoto, andato, sepolto-, le aveva
incasinato il cuore.
Era tornato ancora, quello stupido batticuore, proprio
come all’inizio di tutta la storia. Quando, in un giorno qualunque, sulla strada
di casa dopo la scuola, l’aveva sentito per la prima volta.
“-
ECCOME SE TI ODIO, AKITO HAYAMA!!
Urla, come al solito. E come al solito non si rende conto
di essere su una strada, in mezzo a centinaia di persone. E, per lo più, di
stare parlando completamente sola.
Ma
che ci può fare se anche oggi quello stupido l’ha fatta
arrabbiare?
Insomma, non è mica colpa sua se le uniche parole che le
riserva quello che, in teoria, dovrebbe essere il suo migliore amico sono
“stupida”, “gallina” e altri insulti che di “amichevole” hanno decisamente
poco!
Mentre è impegnata a farsi rodere il fegato dalla rabbia,
un bambino le sfiora involontariamente una gamba. Si gira per guardarlo, lui
sorride e poi và via, con la piccola manina stretta in quella della donna che
dovrebbe essere sua madre.
L’ha visto un attimo appena, giusto il tempo di notare
che quel bambino ha i capelli dello stesso colore di quelli di
Hayama.
Allora si concede di pensare un po’ al suo migliore
amico, perché la rabbia le pare già un po’ diminuita. Pensa alle sue espressioni
imbronciate, ai loro quotidiani scambi di
battute.
Poi le vengono in mente quegli occhi dorati e
d’improvviso la rabbia sparisce.
Si
ritrova a sorridere da sola come una stupida ed ha un po’
paura.
Perché quello strano batticuore proprio non riesce a
capirlo.”
***
Prese un profondo respiro, mentre lo specchio di fronte a
lei rifletteva la sua immagine.
In fondo, era stata brava.
La festa era trascorsa senza particolari intoppi e non
c’erano state domande indiscrete alle quali, ne era certa, non avrebbe saputo
rispondere.
Rivederlo era stato strano. Non bello, non brutto. Solo
terribilmente strano.
Non appena l’aveva salutato, - notando che il tempo era
passato, ma lui era ancora più bello di quanto ricordasse-, quasi aveva avuto
voglia di dirglielo. Di svelare il segreto che per sempre le avrebbe permesso di
tenerlo legato a sé.
Poi si era ricordata quanto fosse orribile avere la
sensazione di stare con qualcuno che non ti lascia solo perché è troppo
altruista, o troppo vigliacco, per prendere una decisione.
Sorrise, ironica.
Ancora, come quand’erano appena adolescenti, era Akito
l’uomo che le rovesciava la mente.
Rivedere Sana, invece, era stato bello. Bello e doloroso
allo stesso tempo. Bello rivedere quegli occhioni cioccolato, quel sorriso che
con il tempo era, forse, meno spontaneo, ma sempre contagioso. Bello risentire
la sua risata.
Doloroso era stato, invece, rendersi conto di quanto il
tempo le avesse separate, portandole in due mondi completamente
opposti.
- Fukachan, sei sveglia?
Da dietro la porta della camera degli ospiti, Aya la
chiamò.
- Si, mi sono appena svegliata!
- Perfetto. Allora scendi così preparo la
colazione.
Eppure, nonostante a separare il suo mondo da quello di
Sana ci fossero una valanga di segreti e bugie, oltre che migliaia di
chilometri, ci sarebbe stato sempre qualcosa a tenerle legate.
Non l’affetto o i ricordi, no. La vita non era certo così
sdolcinata.
A legarle c’erano quelle vicissitudini,- scherzi di
cattivo gusto concepiti da un destino beffardo- che, per amore o per semplice
follia, avevano fatto di Akito Hayama il centro esatto del loro
universo.
***
- Sana, ti và di uscire a fare una
passeggiata?
Se le andava? Ovviamente no.
Se avesse potuto scegliere, sarebbe rimasta tutto il
giorno chiusa in casa, rigorosamente barricata sotto le coperte, nel buio e nel
silenzio più totali, per cercare di liberarsi dal senso di colpa che la stava
distruggendo e che le bloccava il respiro se pensava all’assurda e patetica
scenata fatta ad Akito la notte prima.
Che la faceva sentire la persona peggiore del mondo se
guardava Naozumi negli occhi e dentro ci vedeva solo la paura che aveva di
perderla.
Paura che lei, di certo, non contribuiva a far
sparire.
Se chiedere scusa fosse stato sufficiente, l’avrebbe
fatto mille, un milione, un miliardo di volte.
Tutto, purché Naozumi tornasse a fidarsi di lei.
- Si, ok. Usciamo.
Al fatto che forse, invece, era lei, per prima, a non
avere fiducia in se stessa, non c’aveva ancora pensato.
***
Imprecò contro il fato, il destino, la sorte e anche
contro ogni possibile ed eventuale Dio, non appena se la ritrovò di fronte, a
pochi metri da lui, mentre sorrideva amabilmente a quell’idiota di
Kamura.
Possibile che fra tutte le strade della città, fra tutti
i possibili posti da vedere, quei due
avessero scelto di passare la mattinata proprio lì, a passeggiare sulla strada
che, per forza di cose, lui era costretto a percorrere essendo l’unica che dal
supermercato riconduceva a casa sua?
Bella mossa, destino del cavolo! Questa giuro che me la
paghi!
Preso com’era ad imprecare contro ogni entità
soprannaturale che fosse mai stata concepita dalla mente umana, non si accorse
che la coppietta in questione stava avanzando tranquilla verso di
lui.
Ebbe un moto di stizza, nel ritrovarseli a pochi
centimetri.
- Ciao, Hayama.
Lo salutò Naozumi, tranquillo.
Sana, invece, a mala pena alzò lo sguardo. Evidentemente,
i ricordi della litigata della nottata precedente ancora la
tormentavano.
- Kamura.
Rispose, guardandolo un attimo e girando il capo, già
intenzionato ad allontanarsi il prima possibile da quella ridicola
scenetta.
- Hai fretta, Hayama?
Chiese Naozumi, bloccandolo istintivamente per un
braccio.
Nel sentire quel contatto alquanto indesiderato, Akito si
voltò e mise su lo sguardo più furente del suo repertorio. L’altro, dal canto
suo, non si era ancora tolto dal volto quel sorrisetto fastidioso.
Raccogliendo tutto il suo autocontrollo, Akito decise di
non dare retta alla vocina nella sua testa che lo spingeva ad assestargli un bel
pugno sulla faccia per farlo sparire, quel dannato sorrisino felice.
- Già.
Rispose soltanto, liberando il braccio dalla presa di
Naozumi, che non oppose la minima resistenza.
- E’ un peccato, perché volevamo invitarti a bere
qualcosa con noi.
Gli occhi di Sana si spalancarono all’unisono con quelli
di Akito.
Che razza di proposta era?
Per niente al mondo, neppure in punto di morte, avrebbe
mai accettato di andare a sedersi in un bar e di dividere il tavolo con Naozumi
Kamura.
Per fortuna, Sana sembrava della sua stessa
opinione.
- Nao, forse è meglio lasciar perdere, insomma… poi
vorrei tornare a casa. Sono un po’ stanca.
Naozumi sembrò averle creduto, o forse finse di averlo
fatto, perché si voltò verso di lei e le sorrise.
Che idiota…
Akito invece, a quelle parole, non c’aveva creduto. Per
lui era palese che Sana avesse mentito.
Con me, però, non sapevi
mentire…
Scosse la testa, scacciando quell’indesiderato
pensiero.
- Allora buona giornata, Hayama.
Dannato Kamura! Neppure vedere che la tua donna ti ha
appena mentito riesce a farti levare quel maledetto sorrisino dalla
faccia?
Per un istante, la sua mente abbandonò i pensieri omicidi
verso Naozumi e si concentrò sul viso di Sana che, finalmente, lo guardava negli
occhi.
Forse era impazzito, ma gli sembrò di vedere di nuovo
quell’ombra di nostalgia. La stessa che aveva visto la notte prima, mentre lei,
con il volto rigato dalle lacrime, gli urlava contro tutta la sua
gelosia.
E non era egocentrismo o presunzione, no. Era palese che
Sana, per chissà quale motivo, fosse ancora gelosa di lui.
Comunque, smise di pensarci quando vide la mano di
Naozumi muoversi veloce per prendere quella di Sana, come per farle capire che
era ora di continuare la loro romantica
passeggiata mattutina.
E che non le avrebbe permesso di rimanere lì, a guardare
Akito nel modo in cui lo stava guardando, neppure un secondo di più.
Prima di assecondare il desiderio del suo ragazzo, Sana
si concesse un altro secondo per fissare il volto di Akito e, nel notare che
anche lui la guardava ancora, abbozzò un piccolo sorriso.
- Ciao, Akito.
“-
Ciao, Hayama. Ci si vede domani a scuola.
La
guarda sorridere allegra, nella voce l’inconfondibile risata
cristallina.
Da
quando è diventato normale averla sempre
intorno?
-
Ciao, Kurata.
Lei fa un ultimo cenno di saluto con la mano e poi si
allontana con il suo solito passo svelto, canticchiando l’ennesima stupida
canzone appena inventata.
Akito segue con lo sguardo quei buffi codini oscillare ad
ogni passo e si chiede se amarla così è normale, visti i suoi undici
anni.
Non lo sa. E francamente non gli
importa.
Sa
solo che non vede l’ora che arrivi domani.”
- Ciao, Sana.
Con lo sguardo la seguì mentre, a testa bassa, lei si
voltava e andava via. Il passo svelto c’era sempre. Ma non c’erano più stupide
canzoncine e nemmeno buffi codini a oscillare avanti e indietro. Al loro posto,
solo un’altra mano, impostore, a
stringere la sua.
Serrò forte i pugni, preso da uno strano sentimento di
rabbia e nostalgia e, correndo, si avviò verso casa.
Alla fine aveva avuto ragione Tsuyoshi. Crescere era
stata una fregatura.
***
- Posso sapere per quale motivo gli hai chiesto di venire
a prendere qualcosa con noi?
- Perché mi sembrava educato, visto che avevamo già
deciso di andare in un bar.
- E ti sembra un buona ragione? Dimmi la verità, Naozumi,
cosa volevi ottenere?
- Niente, Sana! Proprio niente! Ho pensato di invitarlo e
l’ho fatto. Tutto qui. Non c’è niente di particolare da scoprire.
- Sei sicuro?
- Certo.
La sentì sbuffare, evidentemente poco
convinta.
- E poi, credevo avessi piacere nel parlare con lui,
visto che ieri notte avete litigato, no?
Lo sguardo terrorizzato che Sana gli rivolse fu più che
sufficiente come risposta.
E
poi volevo vedere se lo ami ancora.
Questo, ovviamente, non glielo disse mai.
***
Quando sua madre le aveva detto della sua relazione con
il signor Onda, quasi non si era sorpresa.
D’altronde, quell’uomo era sempre stato nella sua vita,
in un modo o nell’altro.
Non era riuscita a trattenere le lacrime, lacrime di
felicità ovviamente, quando sua madre, l’incrollabile e imperturbabile Misako
Kurata, le aveva telefonato e le aveva detto solo “Sana, credo che la tua mamma
si sia innamorata”.
In quel momento, ricordò, avrebbe desiderato non essere a
New York ed essere a Tokyo, per poterla abbracciare forte e dirle quanto
stupenda fosse quella notizia.
Invece era stata costretta a rimanere a New York per
girare l’ennesimo film e si era dovuta accontentare di qualche sporadica
telefonata.
Quando poi aveva deciso di partecipare al matrimonio di
Aya e Tsuyoshi, la prima persona alla quale aveva riferito del suo ritorno era
stata proprio sua madre.
Evidentemente, però, la sorte si divertiva
particolarmente a metterle i bastoni tra le ruote, perché la signora Misako le
aveva comunicato di essere in viaggio con il suo fidanzato e che non avrebbe
fatto ritorno prima dell’arrivo del nuovo anno.
Vorrei tanto che fossi qui,
mamma.
Per certi versi, Sana si sentiva ancora una bambina. La
stessa che, al ritorno dalla scuola, chiedeva consigli a sua madre su come
“sconfiggere” quel mostro di bambino che impediva le lezioni e che rispondeva al
nome di Akito Hayama.
Sono sicura che l’avevi capito fin dall’inizio che mi
sarei innamorata di lui.
Sorrise, al ricordo di quei giorni divertenti. Divertenti
come le diavolerie che sua madre teneva in casa, ma che, da qualche tempo,
stando a quanto le aveva riferito in una delle loro ultime telefonate, aveva
buttato via.
Anche tu sei cresciuta alla fine, vero
mamma?
Di fronte a quella verità, tanto amara quanto reale, si
sentì sperduta. Senza pensarci due volte, alzò la cornetta del telefono accanto
a lei e compose il numero di sua madre, sperando con tutta se stessa che non
avesse spento il cellulare.
Quando dall’altro capo dell’apparecchio, sentì la voce
allegra di Misako, non riuscì a trattenere un sorriso.
- Mamma, sono io. Hai un minuto per me? Devo
parlarti.
***
“-
Mamma, come capisci quando sei innamorata di
qualcuno?
Nonostante sia ormai una studentessa delle medie, Sana
Kurata è ancora incredibilmente
tonta per certe cose.
Serafica, sua madre continua a bere una tazza di
the.
-
Suppongo che ognuno lo capisca a modo suo.
-
Ma deve pur esserci un modo per capirlo! Qualcosa che sentono tutti, ma proprio
tutti, quelli che sono innamorati!
La
signora Misako sorride. Vedere sua figlia tormentarsi su certi argomenti è uno
spettacolo troppo divertente.
-
Capire se si è innamorati è la cosa più semplice del mondo, bambina mia.
-
La fai facile, tu! Io credo che invece sia estremamente
difficile!
-
Vuoi provare a capire se sei innamorata?
Sana muove la testa in un cenno di
assenso.
-
Bene. Allora ti dico come l’ho capito io, le poche volte che mi è capitato. È
molto semplice, sai?Devi solo
vedere se quando c’è lui ti manca il respiro.
-
Oh!
Sana schiude le labbra, evidentemente
stupita.
-
A te succede, vero?
Si, che le succede. E, stando a quanto le ha appena detto
sua madre, la cosa è più grave del previsto perché il respiro non le manca solo
quando lo vede, ma anche se si distrae un attimo a
pensarlo.
-
S…si.
-
Visto che era facile capirlo?
Ancora frastornata, Sana si alza dal divano e si dirige
in camera sua, con l’intento di meditare a lungo su quella nuova consapevolezza.
Sua madre la guarda e si lascia scappare una mezza risata quando la sente
richiudersi la porta alle spalle e mugugnare un dolcissimo “ Hayama, accidenti a
te!”.
***
Un’altra giornata, la seconda di quell’inferno per essere
precisi, si avviava alla sua conclusione.
Ce la poteva fare. Doveva solo resistere altri due o tre
giorni al massimo e quell’incubo sarebbe finito.
Forza, Fuka! Poi si torna a
casa…
“Casa” per lei era dove si trovava suo figlio.
Sospirò, posizionandosi davanti al computer che si era
portata dietro da Osaka e che aveva nascosto nella camera degli ospiti di Aya e
Tsuyoshi.
Erano appena due giorni che non vedeva il suo bambino e
già si sentiva mancare.
Per fortuna, qualche genio aveva inventato internet e le
video conversazioni tramite chat.
Sorrise, quando il volto fresco e allegro di Shin
comparve dall’altro lato dello schermo.
- Mamma, mamma!!
- Shin, tesoro! Come stai? Ti diverti con i
nonni?
- Si, mi diverto! Però… tu quando torni?
- Presto amore, presto. Te lo prometto.
Presa com’era a parlare con suo figlio, non si accorse
del rumore della porta che si apriva e del ticchettio di passi svelti che si
avvicinavano a lei.
- Fukachan, che stai…? Oh…
Da dietro le sue spalle, Aya fissava confusa lo schermo
illuminato del PC. Lo schermo che brillava del volto di Shin.
- Chi è quel bambino?
Fuka ci provò, davvero, a far sparire quell’espressione
spaventata e a inventare una scusa credibile.
- A.. Ayachan, non ti ho sentita entrare! Lui è… è il
figlio di una mia amica di Osaka.
Bè, come scusa poteva anche andare bene. O meglio,
sarebbe potuta andare bene, se solo Shin non avesse parlato, ingenuo come solo
un bambino di tre anni poteva essere.
- Mamma, chi è quella signora dietro di te?
Aya si portò le mani sulla bocca, forse per frenare le
urla che invece avrebbe voluto lanciare.
- C… co.. cosa…? Mamma? F.. Fuka, ma… ma…
- Aya, ascolta… posso…
- Fuka questo.. è tuo figlio?
La voce di Aya tremò per lo stupore.
- S.. si.
- COSA?? Mio Dio, Fuka! Perché non ci hai detto niente?
Quanti anni ha? E Takaishi lo sa? È per questo che ti ha lasciata? Perché aveva
scoperto che eri incinta?
Magari!
Già. Magari. Magari fosse stato così semplice. Magari
quel bambino fosse stato figlio di Takaishi. Magari non fosse stato figlio di
Akito.
Fuka fece per rispondere, - ovviamente inventando
l’ennesima bugia-, ma vide il volto di Aya diventare improvvisamente
pallido.
- F..Fuka.. dimmi che… che sono impazzita…
Tremò, in preda al panico.
- In che senso, Aya?
- Nel senso che… che… quel bambino… insomma, gli occhi di
quel bambino…
NO, NO, NO! DANNAZIONE!
- … somigliano incredibilmente a quelli di…
Non
dirlo, ti prego!
- … a quelli di Akito…
Perfetto!
Il cuore perse un battito e il respirò le morì in gola.
Era per questo che non aveva mai voluto parlare di Shin. Perché era
maledettamente sicura che nessuno avrebbe creduto alla farsa che fosse figlio di
Takaishi.
- FUKA, ACCIDENTI, DI’ QUALCOSA!
- Aya io… non…
La vide accasciarsi sulle ginocchia, con gli occhi fissi
a puntare il vuoto sotto di lei e le mani a cingerle forte il capo.
Rimase immobile, senza sapere cosa dire. Che poi, c’era
davvero qualcosa da dire?
Ecco fatto. Complimenti, Fuka.
D’altronde l’aveva sempre saputo che quegli occhi
sarebbero stati la sua rovina.
***
Nella notte, ripensò alla telefonata con sua madre.
Incredibile come quella donna fosse capace di risolvere i rompicapo più
difficili con poche e semplici parole.
“-Sana ricordi quando mi chiedesti come si fa a capire se
si è innamorati di qualcuno? Ricordi quella
conversazione?
-
Si.
-
E ricordi anche cosa ti dissi?
-
Si.
-
E allora la risposta alla tua domanda la conosci già.”
Aveva ragione sua madre. La risposta la conosceva già,
forse non l’aveva mai dimenticata.
Forse si era solo illusa di averlo fatto, troppo
spaventata dalle conseguenze che quella consapevolezza avrebbe portato con
sé.
Sentì Naozumi dormire e respirare tranquillo accanto a
lei.
Si rigirò nelle coperte fino a posizionarsi a pochi
centimetri dal suo volto. Lo vide muovere le labbra in una piccola smorfia,
forse a causa di qualcosa che stava sognando, e gli lasciò un leggero bacio
sulle labbra socchiuse.
Scusami, Naozumi, perché domani, non appena ti
sveglierai, ti mentirò ancora.
Scusami, perché sono sempre la solita
vigliacca.
Scusami, perché uno come te non me lo sono mai
meritato.
Scusami, perché è con lui che ancora mi manca il
respiro.
Sentì le prime lacrime scivolarle via dagli occhi e poi,
silenziosamente, poggiò la testa sul suo petto, consapevole del fatto che
quella, forse, sarebbe stata l’ultima volta che gli avrebbe dormito
accanto.
***
- Sono le tre di notte.
- Già.
- Vuoi che vada via?
La guardò un attimo e poi seguì quella figura snella che
lasciava il caldo delle coperte per recuperare i vestiti sparsi per la
stanza.
- Tu vuoi andartene?
Le chiese, infilando la maglietta che indossava poche ore
prima.
- No.
Rispose lei, lasciando trapelare un leggero tremore nella
voce.
Akito si strinse nelle spalle, lasciandosi andare meglio
nel cuscino soffice.
- Allora resta.
Lei sorrise e il suo viso parve illuminarsi e brillare
dello stesso oro che le tingeva i lunghi capelli.
Quell’oro che, nonostante fosse palesemente finto, frutto
di una qualche tintura,- questa la conclusione alla quale era arrivato la prima
volta in cui era stato con lei-, le stava indiscutibilmente bene.
“Bionda” non se lo fece ripetere due volte e, sempre con
un enorme sorriso, si ributtò nel groviglio di lenzuola e gli si accoccolò tra
le braccia.
E anche se non l’avrebbe mai ammesso ad alta voce, Akito
dovette riconoscere che, in quel momento, col sorriso ad illuminarle il volto,
quella Naoko gli sembrò
bellissima.
/*/
Note
dell’autrice: Eccomi qui, puntuale come sempre! Mi fa davvero troppo piacere
vedere che la mia storia sta suscitando sempre più interesse!
^-^
Bè, cosa dire? Questo è un po’ un capitolo “intermedio”,
un “ponte” con quello che succederà nel prossimo che è già quasi concluso!
;)
Inutile dire che attendo le vostre recensioni e che vi
ringrazio per la costanza con la quale mi seguite!
E
come ogni sabato, ecco puntuale l’aggiornamento! ^^ Ci risentiamo alla fine del
capitolo!
CAPITOLO OTTO: SPESA
Si diede mentalmente della stupida almeno un migliaio di
volte, mentre, nervosa, percorreva quelle strade familiari.
Forse dire “stupida” era alquanto riduttivo. Si sentiva
stupida, bugiarda, egoista, vigliacca ed era consapevole di meritare tutti gli
aggettivi negativi che era possibile trovare su un dizionario
aggiornato.
Colpa dell’organo irrazionale, confusionario e
disubbidiente che si trovava nel suo petto e che, purtroppo, era necessario per
la sua sopravvivenza.
Peccato, altrimenti ti avrei strappato via un bel po’ di
tempo fa, stupido cuore!
Quello stesso cuore che le si era ancora frantumato
quando, appena pochi minuti prima, aveva detto a Naozumi l’ennesima
bugia.
“Nao, esco un attimo a fare un po’ di
spesa.”
Oh, certo. La
spesa. Ottima scusa. E pensare che quando, nei telefilm americani, le donne
dicevano di dover uscire per andare a fare la spesa o qualsiasi altra
commissione, lei quasi urlava contro i loro mariti/fidanzati per il fatto che
non capivano quanto fosse palese che le loro mogli/fidanzate stessero
mentendo.
“Oh, andiamo! Sai
che sta andando dal suo amante! È così palese” diceva sempre.
E Naozumi, che era accanto a lei, sorrideva e scuoteva la
testa divertito.
Ti
ho mentito anch’io, Nao. L’hai capito?
Forse no. Perché non aveva visto neppure la minima ombra
nei suoi occhi mentre, sorridendo, l’aveva salutata con un dolcissimo
bacio.
Sono davvero così brava a
recitare?
Comunque, smise di pensarci quando arrivò a destinazione
e venne colta da una soffocante malinconia. Ricordava esattamente il giorno in
cui aveva oltrepassato la soglia di quel portone per la prima volta.
“-
Stai scherzando per caso? No, perché se è uno scherzo non è affatto
divertente!
-
Ti sembro il tipo che scherza su queste cose?
Lo
guarda, spalancando gli occhi già lucidi e portandosi una mano sulla bocca per
lo stupore.
-
Quindi mi stai dicendo che… che…
Le
sembra di non avere più voce. O forse ce l’ha ancora, ma non sa proprio dove
andare a cercarla.
-
… mi stai dicendo che questa è… casa nostra?
Eccola, la voce.
-
Lo sarà, se lo vuoi anche tu.
-
Se lo voglio? Mi chiedi se lo voglio? Oh, Akito! È il regalo più bello che
potessi farmi! Certo che lo voglio!!
Akito sorride, - si, sorride davvero-, e le cinge le
spalle in un tenerissimo abbraccio. Poi le deposita un leggero bacio sulla
fronte, spostandole una ciocca di capelli che, ribelle, è caduta a ricoprirle
gli occhi.
-
Allora questa è casa nostra.
Dice lui, staccandosi dall’abbraccio e avanzando verso
l’ingresso dell’abitazione. Quando giunge sulla porta, allunga una mano per fare
cenno a Sana di entrare con lui.
Lei non se lo lascia ripetere e, in un istante, prende la
mano di Akito e oltrepassa la soglia della loro nuova casa insieme a
lui.
Quando si trova nel grande ingresso, non riesce a
trattenere le lacrime e le lascia scendere giù, fino alle labbra.
-
Casa nostra…
Ripete poi, ancora felicemente
frastornata.
Akito la solleva tra le braccia e, sorridendo
furbescamente, le sussurra un provocante “Che ne dici se ora andiamo a provare
il nostro nuovo letto?”.
Sana scoppia a ridere di gusto e, quando le lacrime che
ancora le bagnano il viso le scivolano fin dentro le labbra, non ha dubbi.
Quelle sono le lacrime più buone del mondo.”
Come potevano essere passati ben cinque anni da quel
giorno se a lei, ora che si trovava di nuovo di fronte a quel portone, parevano
trascorsi solo cinque giorni?
Ma, ora che guardava meglio, oltre alla casa in sé,
niente era rimasto come prima. Il piccolo giardino che la circondava non c’era
più, così come la cuccia che lei aveva insistito tanto per comprare nella futura
previsione, mai realizzatisi, di avere un cane.
Forse allora, non erano passati solo cinque anni.
Forse era passata una vita intera.
***
Tranquillo, Naozumi. È uscita per fare un po’ di spesa.
Tutto qui.
Non sapeva neppure lui da quanto tempo stesse ripetendo
quella frase. Come se ripeterla servisse a qualcosa. Come se servisse a
convincerlo che si, Sana era davvero andata a fare la spesa. Che non era come
temeva lui, che lei non era affatto andata da Hayama.
Ma
si, devo stare tranquillo.
E poco importava che, quando aprì il frigo per bere un
po’ di latte, vide che era già pieno.
***
Temette di aver sbagliato casa, - cosa che sapeva essere
praticamente impossibile visto che tra quelle mura c’aveva abitato anche lei-,
non appena un’alta figura dai capelli lunghi e biondi le si presentò di fronte
dopo che ebbe suonato il campanello.
- Ciao!
Le disse quella sorridente. Il sorriso più
fastidioso che Sana avesse mai visto.
- Cerchi Akito?
Chiese, mentre con un gesto veloce si portò una lunga
ciocca dietro le spalle coperte da una maglietta fin troppo sottile, vista la
stagione.
Akito.
Alle orecchie di Sana, quel nome suonò così sbagliato pronunciato dalle labbra di
quella sconosciuta. Non sembrava più il nome più bello del mondo.
Non era più come quando, un tempo, chiusa nella sua
stanza, lo ripeteva a bassa voce ed era come se ogni volta che pronunciava
quelle cinque lettere, Akito diventasse un po’ più suo.
E un tempo Akito, suo lo era stato davvero.
- Cosa…?
- Ti ho chiesto se cerchi Akito. Comunque, piacere. Io
sono Naoko.
Quella della telefonata.
Perché le stava porgendo una mano? Voleva forse che
gliela stringesse?
Certo, Sana! Stringile la mano, che aspetti? Non
imbambolarti!
Seguendo il consiglio della sua coscienza, si riscosse da
quel torpore emotivo e allungò una mano fino ad incontrare quella di
Naoko.
La stretta, però, durò un istante appena. Giusto il tempo
di formulare un pensiero che le fece accapponare la pelle.
Hai toccato anche Akito, con queste
mani?
Akito, appunto, spuntò da dietro le spalle di Naoko, con
i capelli bagnati e con indosso solo i boxer, - quelli neri, che tanto piacevano
a Sana-, e una maglietta umidiccia.
Anche una divinità greca, al suo confronto, sarebbe
risultata ridicola. Incredibile come potesse esserci tanta bellezza racchiusa
nel corpo di un solo uomo.
A Sana, di nuovo, mancò il respiro.
- Kurata? Che ci fai qui?
Chiese lui, sfiorando una spalla a Naoko,- gesto che Sana
colse e dal quale venne irrimediabilmente ferita-, per farla scostare di qualche
centimetro.
- I.. io.. ero passata a farti un saluto. Ma vedo che hai
altro da fare.
Cercò di sorridere, mentre pronunciava quelle parole.
Forse ci riuscì, perché Naoko la guardò serena e le disse -Non preoccuparti, io
stavo andando via..
- Te ne vai?
Sentì Akito chiederle, e il tono di voce che usò
somigliava incredibilmente a quello che, di solito, usava quando si rivolgeva a
lei. A lei soltanto.
Non usarlo con qualcun’altra, Akito. Così mi
uccidi.
- Si, ho un appuntamento di lavoro.
Rispose Naoko, sorridente.
- Però, se vuoi, ti chiamo appena mi libero.
Ok, questo era decisamente troppo. Il limite di
sopportazione del suo fragile cuore era già stato superato quando un’estranea le
aveva aperto la porta. La porta della sua vecchia casa. Sua e di
Akito.
- Come vuoi.
Rispose soltanto lui.
Sana capì di non essere ancora morta solo quando sentì
una voragine squarciarle il petto, mentre di fronte a lei, quella salutava il suo Akito con un bacio a fior di labbra
e se ne andava via, con un sorrisino ebete dipinto su quel faccino schifosamente
bello.
Capì che prima non era ancora morta, dunque. Ma solo
perché morì in quell’esatto istante.
***
- E quindi cosa pensi di fare?
Si strinse nelle spalle, finendo di infilare un comodo
jeans appena preso dall’armadio nel quale aveva riposto gli abiti messi in
valigia prima di partire.
- Voglio dire, lui lo sa?
- Certo che no! Per quale motivo credi che me ne sia
andata da Tokyo?
Aya, che prima se ne stava seduta sul letto, ancora
vistosamente sconvolta dalla scoperta fatta la sera precedente, si alzò in piedi
di scatto e le rivolse uno sguardo terribile.
- Cosa diavolo ti è saltato in mente, Fuka? Sei forse
impazzita? Come hai potuto tenergli nascosta una cosa tanto grande? Ma che ti
dice il cervello?
Fuka rispose allo sguardo della sua amica,- o almeno, di
quella che un tempo era stata, senza alcun dubbio, una sua amica-, ricambiandolo
con la stessa intensità.
- Non sono affari tuoi, Aya.
Gli occhi di Aya quasi presero fuoco.
- MA COME PUOI DIRE UNA COSA DEL GENERE? Voi due siete
entrambi miei amici! E poi, quando accidenti è successo? Avete pensato a Sana?
Mio Dio, se scoprisse una cosa del genere, sono sicura che ne
morirebbe.
- CREDI CHE NON LO SAPPIA? CREDI CHE NON SIA CONSAPEVOLE
DEL FATTO CHE ABBIAMO COMMESSO UN MADORNALE ERRORE?
Stava per mettersi a piangere, ne era assolutamente
sicura.
- … certo che lo so. So che io e Akito abbiamo fatto una
cosa orribile. Ma eravamo così… soli.
Incredibilmente, lo sguardo di Aya parve
addolcirsi.
- Quindi è successo quando loro avevano già
rotto?
- Vuoi dire dopo che Sana è sparita andandosene in
America e fregandosene altamente di Akito? Si, tranquilla È successo
dopo.
- Ma perché avete fatto una cosa del genere? Tu… tu lo
amavi?
Fuka abbassò il capo, rivolgendo lo sguardo alle
mattonelle del pavimento che erano improvvisamente diventate
interessanti.
- Allora? Eri innamorata di Akito?
- N… non lo so. Non sapevo un bel niente, in realtà.
Sapevo solo che Takaishi e Sana ci avevano abbandonati e che lui avrebbe
senz’altro capito come mi sentivo.
Con una mano, Aya la costrinse ad alzare il viso. Poi,
inaspettatamente, le sorrise, tenera e materna.
- Però sei stata brava. Hai deciso di tenere il bambino,
nonostante tutto.
- Ma sono scappata via, come una vigliacca. Io… io non
sapevo cosa fare. Non ero innamorata di Akito e anche se lo fossi stata, lui
aveva fatto l’amore con me solo perché era disperato e anche ubriaco. Non
avrebbe mai voluto un figlio da me. Io.. non volevo rovinargli la
vita.
Solo quando finì di parlare, si accorse che stava
piangendo.
- Non preoccuparti, Fukachan. Se non vorrai dirlo ad
Akito capirò. Sappi solo che sono convinta che Akito non ti avrebbe mai chiesto
di rinunciare a vostro figlio. Avrà anche un caratteraccio, ma è uno che sa bene
cosa si prova ad essere un figlio indesiderato. Non avrebbe di certo ripetuto
l’errore di suo padre. E poi, potrebbe essere un buon padre anche senza stare
con te, no? Quindi non lo terresti legato per forza.
A quelle cose, Fuka, non c’aveva mai pensato. Forse,
allora, avrebbe potuto dirglielo.
Avrebbe potuto, già. Perché sapeva benissimo che le
parole di Aya erano vere.
Akito non si sarebbe mai tirato indietro di fronte alla
verità. E mai avrebbe permesso a suo figlio di crescere senza un
padre.
Ma era lei a non essere ancora pronta ad affrontare le
conseguenze di quella notte di follia.
Non era ancora pronta per sostenere gli sguardi
accusatori dei suoi vecchi amici e la rabbia tagliente di Akito. E, soprattutto,
non era ancora abbastanza forte per sopportare il senso di colpa che provava se
solo pensava a come, quella scomoda verità, avrebbe squarciato il cuore di
Sana.
- I.. io.. non glielo dirò comunque. Non posso
sconvolgergli la vita in questo modo. Non ce la faccio.
Sentì Aya abbracciarla forte, carezzandole i capelli con
un mano.
- Andrà tutto bene, Fukachan. Te lo prometto.
E su quella promessa, che fu per il suo cuore come aria
per i polmoni, si sentì molto meglio.
***
Le sembrò di essere tornata indietro nel tempo.
Scaraventata violentemente in quello che, nella sua memoria, era scolpito come
uno dei momenti peggiori della sua vita.
Quello in cui Akito era stato di qualcun’altra. Quello in
cui Akito era stato di Fuka.
Certo, era molto diverso.
All’epoca non erano che ragazzini che si affacciavano per
la prima volta sul palcoscenico dei sentimenti.
Essere fidanzati significava solo passare qualche
pomeriggio al luna park, fare insieme i compiti e, di tanto in tanto, scambiarsi
qualche bacio. Baci innocenti, proprio come quello che Naokoaveva lasciato sulle labbra di Akito,
appena un istante prima.
Si, però era diverso. Perché quel bacio voleva dire
qualcos’altro. Voleva dire che prima,
durante la notte certamente, c’era stato molto di
più.
Quante altre mani ti hanno toccato,
Akito?
Quanti altri corpi si sono uniti al
tuo?
Quanti altri occhi hanno avuto la fortuna di vederti come
ti ho visto io?
- Allora, Kurata, resti lì ancora per molto o entri e mi
dici come mai sei passata a quest’ora del mattino?
Giusto. Peccato che ancora non riuscisse a ricordare il
motivo per cui era andata a casa sua.
O meglio, lo ricordava bene. Ma aveva un’atroce paura di
fare la scelta sbagliata.
C’era Naoko, prima. E chissà se ci sarà
ancora.
Mosse qualche passo, giusto quelli necessari per
oltrepassare la soglia di quella che era stata casa sua, anche se solo per un
annetto.
Quando mise piede nell’ingresso, fece fatica a
riconoscere quelle stanze. Incredibile come Akito avesse cambiato praticamente
ogni cosa rispetto all’antico periodo in cui erano stati conviventi.
Faceva male tenere le cose com’erano prima,
vero?
Lui, però, era bello esattamente come lo ricordava. Forse
di più. Così bello che faceva male guardarlo. Che il cuore, ad un certo punto,
non ne poteva più di tutta quella bellezza. Che il respiro, inevitabilmente, non
ce la faceva a non morire.
Proprio come un tempo, proprio come sempre, di fronte
agli occhi di Akito, tutto si paralizzava.
- Allora, vuoi dirmi cosa vuoi o hai intenzione di stare
a fissarmi tutto il giorno? Sai com’è… stavo facendo la doccia.
Dopo aver fatto l’amore tutta la notte, c’è bisogno di
una bella doccia, vero Akito?
Lo vide avvicinarsi a lei, mentre con una mano si
tamponava i capelli ancora bagnati.
Noi, però, la doccia la facevamo
insieme.
- Kurata…?
Consapevole del fatto che se non avesse al più presto
articolato una frase di senso compiuto, Akito l’avrebbe cacciata via, disse la
prima cosa che le venne in mente. La prima che aveva pensato non appena aveva
visto Naoko aprirle la porta.
- Lei è… è bionda.
- Cosa?
- Dicevi che non ti piacciono le bionde.
“-
Giuro che se non la smette di fissarti vado a tirarle tutti quei bei ricci che
si ritrova!
-
Smettila, Sana. Non mi sta affatto fissando.
-
Ah no? E allora deve avere qualche problema agli occhi, una qualche paralisi,
perché è da quando siamo entrati in questo cavolo di bar che non la smette di
guardarti!
Sana continua ad agitarsi, gesticolando vistosamente,
senza preoccuparsi di attirare l’attenzione degli altri clienti del bar, che
ovviamente si sono accorti della sua presenza.
-
Sana, ti prego. È pieno di gente, non fare scenate
inutili.
Si
alza di scatto, sbattendo le mani sul tavolo e provocando la caduta della bibita
che Akito stava, inutilmente, cercando di bere in
tranquillità.
Nel vedere il suo bicchiere rovesciato, Akito si porta le
mani sul viso, disperato.
Sana, di contro, neppure lo nota, troppo intenta nel
fissare la ragazza che, a detta di lei, continua a fissare il suo
Akito.
-
Guardala! Continua a fissarti! Questo è davvero troppo! Ora vado lì e gliene
dico quattro!
Scosta la sedia, intenzionata a ribadire ad ogni persona
di sesso femminile che Akito Hayama è il suo ragazzo. Suo, e
basta.
Akito la blocca per un braccio, costringendola a
sedere.
-
Ora basta, Sana. Stai diventando paranoica.
Le
dice, accarezzandole il viso per rassicurarla.
-
E poi quella ragazza è bionda.
-
E quindi? Che differenza fa?
Akito alza un braccio con l’intento di attirare
l’attenzione di un cameriere, -
rigorosamente di sesso maschile-, per riordinare la bibita che Sana ha
rovesciato sul tavolino.
Poi si rivolge verso la sua ragazza e le
sorride.
-
A me non piacciono le bionde.”
***
Sul fatto che, di fronte ad Akito, diventasse una stupida
fatta e finita e che perdesse completamente l’uso della ragione, non c’erano mai
stati dubbi.
Si era soffermata molte volte, durante il periodo del
loro fidanzamento, a pensare che non fosse giusto.
Insomma, non è giusto dipendere totalmente da qualcun
altro. Non è giusto che un’altra persona eserciti su di te un potere tanto
grande da essere in grado di distruggerti o di spedirti in paradiso con una sola
parola o, addirittura, anche senza dire nulla. Magari con uno sguardo o con un
movimento delle labbra.
Era questo, l’amore?
Bella fregatura, allora.
Però, molte volte si era ritrovata a pensare che tutto
quel dipendere da Akito, fosse anche una cosa straordinaria. Perché era vero che
a lui bastava poco per spaccarle il cuore, ma era anche vero che bastava
altrettanto poco per farla sentire la persona più felice del mondo. Una felicità
privilegiata, che non a tutti è concesso di provare. Anzi, che in pochi, molto
pochi, riescono a raggiungere.
Ma se ci riesci, arriva quel momento in cui la pioggia
diventa bellissima, il vento diventa una carezza, il buio diventa magia e
l’inverno diventa più caldo, perché l’estate te la senti nel cuore.
In fondo no, non era affatto male dipendere da qualcuno
come lei, un tempo, dipendeva da Akito.
“Un tempo”, Sana? Ne sei
sicura?
Se quella domanda la sua coscienza gliel’avesse fatta
pochi giorni prima, avrebbe indubbiamente risposto “si”. Avrebbe detto a sé
stessa che Akito faceva parte del passato e che quegli strani attacchi di
malinconia che a New York le toglievano il fiato, erano solo degli innocui
strascichi di un sentimento che era stato troppo grande per poter essere del
tutto resettato.
Si, avrebbe risposto così. E, forse, c’avrebbe anche
creduto.
Ora però, ora che Akito le stava davanti, ora che aveva
provato sulla sua pelle com’era vederlo con qualcun’altra, ora non sarebbe stato
tanto facile convincersi che ciò che temeva non era altro che una sua
paura.
Che lei, la grande e forte Sana Kurata, l’invidiatissima
ragazza di Naozumi Kamura, non era più innamorata di Akito. Perché nessuno
avrebbe mai potuto concepire, nemmeno nell’universo più remoto, che qualcuno
potesse preferire ad un attore bello e dolce come Naozumi, un ragazzo
“qualunque” come Akito.
Oh, certo. Ora è un ragazzo “qualunque”,
eh?
E invece, a dispetto di tutto, a scapito della ragione
stessa, era stato il suo cuore a scegliere.
A decidere che Akito era tutto fuorché un ragazzo
“qualunque”. Che il suo viso era il primo a venirle in mente, se si soffermava a
riflettere un po’ sull’amore. Che quello di Naozumi, suo malgrado, compariva
soltanto quando la razionalità scacciava via quello di Akito.
Akito, intanto, non le aveva ancora dato una risposta.
Anche se al suo “Dicevi che le bionde non ti piacciono” , non c’era molto da
rispondere.
Naoko era bionda, giusto?
Quindi, evidentemente, lui aveva cambiato gusti. Succede,
nella vita. Succede che si cambia.
Bastava guardare com’erano cambiati, loro due.
- Nella vita si cambia. Non l’avevi notato?
Le disse Akito, alzando le spalle, per nulla toccato da
quelle parole.
D’altronde, c’avrebbe scommesso anche la vita sul fatto
che le avrebbe risposto così.
- Si, l’ho notato.
- E allora non credo proprio tu debba stupirti più di
tanto.
Calmo, come sempre. Razionale, come sempre.
- La rivedrai ancora?
- Vuoi continuare la lite dell’altra notte, per caso?
Perché io non ho proprio voglia di discutere.
- Voglio solo sapere se la rivedrai.
Lo stava di nuovo supplicando. E di nuovo si stava
maledicendo.
Akito avanzò verso di lei di qualche passo, senza la
minima luce negli occhi.
- Credo di si.
Rispose, e la sua voce giunse alle orecchie di Sana più
tagliente di una lama affilata.
- Anche… anche oggi?
Lui parve non capire il dolore che si nascondeva dietro
la sua domanda.
- Non lo so.
- Oggi no.
Implorò, mentre già sentiva di nuovo voglia di
piangere.
- …tiprego.
Si rese conto che lui aveva capito perché vide i suoi
occhi accendersi di qualcosa che tanto somigliava alla rabbia. O
all’irritazione. Niente di positivo, comunque.
- Non sono un bambino. A certe cose non ci bado
più.
- Non è una stupidata da bambini, Akito! Oggi è il 24
dicembre! È… il nostro
giorno.
Il viso di lui tornò a farsi impassibile come fino a
pochi istanti prima.
- Se non sbaglio, sei stata tu la prima a passare quello
che chiami il “nostro giorno” con qualcun altro.
Non c’era niente da rispondere perché non era una
domanda, piuttosto un’affermazione.
Perché anche se nessuno gliel’aveva mai detto
esplicitamente, era ovvio che Akito sapesse, o fosse quasi certo, che Sana aveva
passato quel giorno in compagnia di Naozumi, da quando era diventata la sua
ragazza.
Perciò lei non poté fare altro che restare in
silenzio.
- Devi dirmi altro?
Sana alzò lo sguardo, gli occhi appannati dalle lacrime,
come per pregarlo di non mandarla via. Akito incrociò le braccia al petto,
visibilmente spazientito.
- Smettila di piangere.
Le ordinò, senza tradire la più piccola emozione o il
minimo cedimento. La sua voce era rimasta ferma fin dal primo
istante.
Non conto davvero più niente per
te?
- Non… non ci… riesco.
Ammise, senza vergognarsi.
Era vero. Se fosse stata capace di controllare l’impulso
di piangere, non avrebbe versato neppure una lacrima.
Poi successe qualcosa. Forse perché la vide così indifesa
o perché provava ancora qualcosa o semplicemente perché, da uomo, venne mosso da
una sorta di tenerezza nel vederla piangere. Non capì bene il motivo, fatto sta
che Akito le si avvicinò e, d’istinto, la accolse tra le sue braccia.
In quella frazione di secondo, quando sentì che sotto al
suo viso il battito del cuore di Akito accelerava,- o forse, chissà, era una sua
impressione-, si sentì morire.
Si, ma dell’altra morte. Quella bella, quella che ti fa
battere il cuore e che ti toglie il respiro.
Quanto tempo era che non moriva così?
Quattro
anni.
Non appena sentì che, dopo un tempo che non avrebbe
saputo determinare, le braccia di Akito lentamente mollavano la presa, strinse
le sue con forza dietro la schiena di lui, per impedirgli di sciogliere quel
contatto così vitale.
- Akito, abbracciami ancora un po’.
Implorò. Lui non se lo fece ripetere due volte e tornò a
circondarle le spalle, spingendole meglio la testa sul suo petto.
- Non vederla più.
Lui mugugnò, immergendo il viso nei suoi capelli rossi.
- Intendo Naoko. Non vederla più. Mi ha fatto un male
atroce trovarla qui.
Come risvegliatosi da un sogno, Akito si scostò da lei
bruscamente sciogliendo l’abbraccio.
- Cosa vuoi da me, Sana?
Le mani di lei tremarono un poco, forse per il freddo che
provava ora che non era più tra le braccia di Akito.
Nel vederla lì, in silenzio, Akito sentì una strana
rabbia impossessarsi di lui. Così le si avvicinò e, violento, la scosse per le
spalle.
- ALLORA? POSSO SAPERE CHE COSA VUOI?
- Voglio che tu non la veda più.
- Perché?
Ma si, tanto era inutile continuare a fingere che tutto
andasse bene. Tanto la verità sarebbe comunque tornata per ucciderla, prima o
poi.
- Perché io… io credo di amarti ancora..
Perfetto. La bomba era stata sganciata. Ora si trattava
solo di fare il conto delle vittime.
- Stai scherzando?
- Potrei scherzare su una cosa simile?
Potrebbe, in realtà, essendo una bravissima attrice. Ma
dubita fortemente che sarebbe così brava a fingere di piangere in quel modo così
disperato.
- Tu mi hai lasciato.
Sancì lui, e la sua voce arrivò alle orecchie di Sana più
triste di quanto avrebbe voluto.
- Non volevo lasciarti, questo lo sai bene. Ero
spaventata e arrabbiata. Volevo andare via per un po’ e poi tornare, per
rimettere le cose apposto.
Sul serio? Ottimo progetto
davvero.
- Ma non sei tornata.
Innegabile.
- Lo so. Ma tu non mi hai mai cercata.
Oh, no. Questo sarebbe stato meglio non dirlo, perché i
lineamenti di Akito furono deformati da uno sguardo rabbioso,- e “rabbioso” non
rende l’idea di come davvero fosse, quello sguardo-, prima che la prendesse per
le spalle, quasi stritolandogliele, e la spingesse con forza verso la parete
dietro di lei.
- ORA LA
COLPA SAREBBE MIA?
Urlò, a pochi centimetri dal suo viso.
- E’ COLPA MIA SE SEI STATA TROPPO VIGLIACCA PER
AFFRONTARE UNA STORIA IMPORTANTE E SE, DA PERFETTA BAMBINA QUALE SEI, HAI
PREFERITO SCAPPARE DALL’ALTRA PARTE DEL MONDO E METTERTI CON QUELL’IDIOTA DI
KAMURA? DIMMI, SANA, E’ COLPA MIA?
Presa com’era ad ascoltarlo, e a piangere, quasi non
sentiva il dolore che la stretta di Akito provocava alle sue spalle
esili.
Lui, comunque, forse consapevole di poterle fare del
male, le lasciò, facendo cadere le braccia inermi lungo i fianchi.
Restò in silenzio per qualche secondo,- secondi che
sembrarono un’infinità-, e poi puntò gli occhi in quelli di lei. E Sana si rese
conto che se uno sguardo avesse avuto la capacità di uccidere, quello che Akito
le stava riservando l’avrebbe annientata all’istante.
- S.. scusami.
Balbettò, mentre ingoiava l’ennesimo quantitativo di
lacrime.
- Scusami… perché so di non avere il diritto di amarti
ancora.
Non avrebbe saputo dire dove, di preciso, trovò la forza
per farlo, fatto sta che sollevò una mano e andò ad accarezzargli il volto.
Akito, inaspettatamente, non si oppose a quel lievissimo
contatto. Anzi, poggiò una mano su quella di lei, facendola affondare meglio
sulla pelle del volto.
A quel gesto inatteso, Sana tremò per la
commozione.
- Akito…
Sussurrò poi, mentre lentamente si sollevava sulle punte
per avvicinare le sue labbra a quelle di lui. Perché si, non resisteva più
all’impulso di baciarlo e di sentire di nuovo il suo sapore.
Ogni cellula del suo corpo si divincolava nel tentativo
di raggiungere il volto di Akito, la sua pelle, il suo cuore, la sua
anima.
Nel notare che lui non si spostava e che, quindi, c’erano
concrete possibilità che non l’avrebbe respinta, prese coraggio e, sussurrando
vicino al suo orecchio, glielo confessò ancora.
- … ti amo.
Si complimentò con se stessa. Dire “ti amo” due volte nel
giro di pochi minuti, non era proprio una cosa da lei.
Te
lo ripeterei all’infinito, se solo bastasse per farti tornare
mio.
Senza attendere la risposta di Akito,- o forse per timore
che la sua risposta non sarebbe arrivata affatto-, portò le labbra su quelle di
lui, in un bacio nel quale ripose anche la sua anima.
Akito rispose con una foga nella quale Sana non avrebbe
minimamente sperato, stringendo le braccia intorno alla piccola vita di lei e
avanzando di qualche passo fino a costringerla, di nuovo, alla parete dietro di
loro.
Con forza, - o con disperazione-, approfondì quel
contatto, facendosi spazio tra le labbra di Sana, per inserirvi la lingua e
poter risentire quell’antico sapore.
Le loro labbra si muovevano all’unisono, perfettamente
incastrate le une nelle altre, e si scontravano affamate, quasi con
violenza.
Lei, stretta tra la parete e il corpo di Akito, gli fece
scivolare una mano nei capelli biondi, beandosi della meravigliosa sensazione
che il tocco di quei sottili fili d’oro le provocava.
Lui la imitò, infilandole una mano nei capelli, quasi
strappandoli, nel tentativo di avvicinare ulteriormente i loro visi, come se già
il fatto che tra loro non passasse neppure l’aria, non fosse
abbastanza.
Si staccarono solo quando i loro polmoni iniziarono a
bruciare per la mancanza d’ossigeno.
- A… Akito.
Balbettò, con le guance ancora rosse e l’anima sulle
labbra.
- Credo sia meglio che tu te ne vada.
Il rossore di un istante prima lasciò il posto ad un
pallido biancore. Era letteralmente sbiancata, ne era certa.
- C… cosa?
Chiese, nella speranza di aver capito male le sue
parole.
Lui la guardò ancora, ma lo sguardo era tornato quello
impassibile di sempre.
- Ti ho detto di andartene.
- Ma…
- Niente ma. Quello che è successo non si ripeterà perché
io non permetterò che si ripeta. Torna da Kamura.
- Cosa dici, Akito? E allora quel…
Riecco quello sguardo freddo. A Sana si gelò il
sangue.
- Quello che è successo è stato uno sbaglio,
Sana.
Non seppe spiegarsi il perché, ma c’era qualcosa di
terribilmente sbagliato,- diverso
dalla tenerezza alla quale era abituata-, quando lui pronunciò il suo
nome.
- Io non ti amo più.
Non appena Akito terminò la frase, a Sana sembrò di
sentire distintamente la lama affondare impietosa sotto la pelle, passare nelle
vene, congelarle il sangue, spaccarle il cuore.
Tutto, fuori e dentro di lei, era paralizzato. Solo le
gambe, inspiegabilmente, si mossero e decisero, forse per risparmiarle
l’ennesima ferita, – come se essere ulteriormente ferita fosse possibile-, di
portarla il più lontano possibile, via da quel gelidissimo inferno.
***
- Aya, quando torniamo a casa posso vedere il vestito che
indosserai domani?
- Assolutamente no, Fuka! Deve essere una sorpresa per
tutti. Sono andata a sceglierlo da sola appositamente per non farlo vedere a
nessuno prima del matrimonio.
Fuka sbuffò.
Dall’altro lato del tavolino, seduta con la sua solita
compostezza, mentre finiva di bere una cioccolata calda, Aya sorrise.
- Oh, andiamo. Solo a me, non lo dirò a
nessuno!
- Non esiste al mondo.
Capendo che non sarebbe riuscita a convincerla, Fuka
abbandonò l’argomento e si mise meglio a sedere, tornando a concentrarsi sul
cornetto ricolmo di nutella che il cameriere le aveva appena servito.
- Aya, senti. Avevi detto anche a Sana di venire qui?
Aya capì che dietro la domanda dell’amica si nascondeva
una frase neppure tanto celata. Dietro quelle parole Fuka stava dicendo “Ti
prego, dimmi che non c’è anche lei. Non riuscirei neppure a guardarla in faccia
e capirebbe che le nascondo qualcosa”.
- Si, gliel’ho detto.
Vide Fuka irrigidirsi di colpo.
- .. ma ha detto che non poteva venire perché doveva fare
una cosa importante.
- Capisco.
L’espressione di Fuka tornò ad essere più
serena.
- Ah, ecco. Sta arrivando Hisae!
Le fece notare Aya, indicando la figura dell’amica che,
proprio in quel momento, stava attraversando la strada tutta trafelata e correva
verso l’ingresso del bar per raggiungerle, evidentemente in ritardo.
- Ciao ragazze! Scusate, ma quell’imbecille di mio marito
mi ha costretta ad accompagnarlo dall’altra parte della città! Ah.. tanti
auguri, Fuka!
Fuka e Aya si lasciarono andare ad una piccola
risatina.
- Grazie mille, Hisae. Comunque, quando vi deciderete a
comprare un’altra macchina? Così non saresti più costretta a dividerla con
Gomi.
- Non abbiamo uno stipendio così esorbitante per
potercela permettere e poi sono sicura che, anche se avessi una macchina tutta
mia, quello stupido di Gomi troverebbe comunque il modo per farmi arrivare in
ritardo.
- Oh, su questo non ho alcun dubbio.
Sentenziò Aya, visibilmente divertita.
- Ah, Hisae..
Si intromise Fuka, non appena la vide accomodarsi accanto
a loro.
-.. non ti ho mai chiesto scusa per non essere venuta al
vostro matrimonio.
Sai com’è, dovevo badare a mio figlio che era ancora
troppo piccolo.
- Oh, non preoccuparti Fuka. So che non potevi per
lavoro, tranquilla.
- Già. In quel periodo avevo qualche problema di
troppo.
Mentì, spudorata.
Dall’altro lato del tavolo vide Aya lanciarle uno sguardo
accusatore, ma non vi badò.
***
L’unica cosa che riuscì a pensare, dopo essere uscita,- o
meglio, scappata-, da casa di Akito,
fu quella di soddisfare l’ingestibile bisogno che aveva di essere consolata.
Abbracciata. Protetta. Amata.
Dopotutto, Akito l’aveva freddata con quel suo “Io non ti
amo più”. Era normale che sentisse la necessità di qualcuno che, invece,
quell’amore avrebbe voluto e potuto darglielo, no?
Era normale che, per colpa della sua folle paura di
rimanere da sola, desiderava qualcuno che le dormisse accanto tutte le notti e
che fosse a sua disposizione ogni volta che il buio tornava a spaventarla,
no?
Era normale che volesse qualcuno da amare, no?
Si, Sana, stai tranquilla. È
normale.
Bene, e allora era perfettamente normale il fatto che
stava tornando da Naozumi, per dirgli che non l’avrebbe mai lasciato e che
sarebbe stata felicissima di continuare a lasciarsi amare da lui.
E pazienza se, da dentro al suo petto, sentiva il cuore
urlarle “vigliacca”.
***
Smise di prendere a pugni la parete alla quale, fino ad
un istante prima era poggiata Sana, solo quando vide la mano sanguinare in modo
eccessivo.
Insomma, il fatto che ora fosse così incazzato, e deluso,
e disperato, non era un dato
preoccupante, no?
In fondo, chiunque al suo posto si sarebbe sentito
esattamente come si sentiva lui in quel momento.
Perché si, insomma, come diavolo si era permessa, quella stupida, di dirgli che lo amava
ancora?
Quando, di preciso, le aveva dato il permesso di
ripiombare di nuovo nella sua vita?
Andiamo, Akito. Sai benissimo che Sana Kurata non ha
bisogno del permesso per intromettersi nella tua vita. E poi, sii onesto con te
stesso, lei dalla tua vita non se n’è mai andata sul
serio.
Ecco. Era proprio questo che lo faceva incazzare così
tanto. Che gli faceva ribollire il sangue nelle vene e che gli torturava il
cervello.
Il fatto che lei decidesse sempre tutto da
sola.
Lei aveva deciso di lasciarlo. Lei aveva deciso di
tornare. Lei, - anche se su questo si sarebbe potuto aprire una sorta di
dibattito interiore-, l’aveva baciato.
Mi
dispiace, Kurata. Stavolta non ti permetterò di sconvolgermi la
vita.
Si lasciò cadere sul divano poco distante, con la
fermissima intenzione di non ripensare mai più a quel maledetto, e bellissimo, bacio. Di non pensare più a
quei capelli rossi, a quelle labbra morbide e a quel sapore
irresistibile.
Ma
si, in fondo è stato uno stupido bacio. Domani l’avrò già
dimenticato.
Certo, un solo bacio si dimentica in fretta, specialmente
se dato ad una persona che, a detta di lui, non si ama più.
Esatto, Sana. Spiacente, io non ti amo
più.
Ma si, lui non l’amava più.
E pazienza se, dentro al suo petto, sentiva il cuore
urlargli “vigliacco”.
/*/
Note
dell’autrice: Eccoci giunti anche alla fine di questo ottavo capitolo.
Cavolo, mi sembra impossibile aver già pubblicato otto capitoli! Sembra solo
ieri il giorno in cui l’idea di questa storia ha iniziato a balenarmi in testa..
;)
Questo è, senza dubbio, un capitolo molto significativo.
Descrivere la scena del bacio tra Sana e Akito è stata quasi una liberazione..
Mentre li immaginavo, nella mia mente ripetevo “finalmente, finalmente,
finalmente!” xD. Anche se poi, ahimè, ho dovuto chiudere decisamente male quel
momento tanto atteso! >.< (Gli sviluppi della storia mi hanno praticamente
obbligata a farlo!).
Bene, inutile dire che vi ringrazio come sempre per le
recensioni meravigliose che mi regalate ogni volta e che attendo con ansia di
sapere cosa ne pensate di questo capitolo che, per me, è uno dei più importanti!
(Almeno fin’ora!) ;)
Ci fu un momento,- e ci fu davvero-, nel quale, non
appena la vide rientrare in casa e sul viso le scorse quello sguardo spento,
pensò seriamente di
lasciarla.
No, non era uno scherzo. Ci pensò sul serio, perché capì
in un attimo il motivo di quello sguardo distrutto. Capì, - d’altronde l’aveva
già sospettato-, che Sana non era stata in nessun supermercato a fare la spesa
da brava fidanzata. Affatto. Era tornata ancora da lui.
E, per un istante, pensò di non voler sapere più nulla.
Di lei. Di Hayama. Della loro storia infinita.
Non voleva sapere cosa si erano detti, il perché Sana era
tornata a casa in quello stato. Niente. Voleva solo smettere di soffrire e di
essere parte di quella ridicola farsa.
Tutto questo, tutti questi pensieri, questa voglia di
chiudere definitivamente con l’unica donna che avesse mai amato, durò il breve
arco di pochi secondi, forse anche meno.
Giusto il tempo di vederla avvicinarsi a lui e lasciare
che gli sfiorasse il volto con una mano, prima di poggiare la testa sul suo
petto.
- Scusami, Nao.
La sentì sussurrare mentre nell’aria intorno a lui già si
diffondeva il dolcissimo profumo dei suoi capelli rossi.
- Scusami. Prometto che d’ora in poi non ti farò soffrire
mai più. Non esisterà nessun altro tranne te.
Mi
impegnerò con tutta me stessa per amarti come meriti.
D’istinto la abbracciò forte, attirandola a sé ancora di
più e poggiando il capo nell’incavo della sua spalla.
- Mi permetterai di amarti ancora, Nao?
E davvero non ci riuscì a mettere in atto i suoi buoni
propositi. Di fronte a quella domanda, non poté fare altro che ascoltare il suo
cuore e mettere, per l’ennesima volta, da parte l’orgoglio.
Anche un solo istante con te, Sana, vale molto di più di
tutto l’orgoglio del mondo.
- Si, ne sarei felice.
Va
bene, Sana. Sarò l’uomo più felice del mondo se riuscirai ad amarmi anche la
metà di quanto hai amato lui.
La sentì accoccolarsi meglio sul suo petto e non fece
caso, o forse volle illudersi di non averlo fatto, a quelle strane gocce salate
che gli bagnarono il petto.
***
Non sapeva quando, di preciso, avesse iniziato a
nevicare.
Però, nel momento in cui poggiò le dita sottili sui vetri
del balcone della camera da letto per scorgere il calmo paesaggio notturno, vide
che un meraviglioso e soffice manto bianco aveva già ricoperto ogni
cosa.
Nevicava, proprio come si conveniva alla notte della
Vigilia di Natale.
E sentì di nuovo il cuore pulsare nel petto. Un battito
stanco, forse malato, ma pur sempre un battito. Un piccolo, impercettibile colpo
sotto le costole, per ricordarle che, nonostante tutto, era ancora viva. Che la
morte che aveva sentito nelle ossa mentre scappava via da Akito ancora una
volta, non aveva comunque ucciso il suo cuore.
Forse l’aveva fermato per un po’, giusto il tempo di
assimilare l’ennesima delusione, di soffocare la voglia di morire al pensiero
che sì, stavolta era finita davvero.
Che non c’era più posto per Sana e Akito. Almeno non in
questa vita.
Forse in un’altra vita, Akito, riusciremo ad essere meno
vigliacchi.
Forse saremo capaci di capire che quello che ci legava
non andava sprecato.
Ma
me ne sono resa conto troppo tardi, sai? Che un amore così meritava persone
migliori.
Distolse per un attimo lo sguardo dal paesaggio
imbiancato e lo rivolse verso Naozumi che intanto dormiva tranquillo. Studiò con
meticolosa attenzione ogni lineamento di quel volto familiare e si sentì una
stupida.
Come poteva aver anche solo pensato di lasciarlo? Di
lasciare un uomo così meraviglioso?
Forse perché, per un istante, aveva lasciato libero il
suo cuore di scegliere. E il suo cuore aveva scelto indiscutibilmente,
maledettamente, incomprensibilmente, ancora Akito.
Aveva scelto di annegare in quegli occhi dorati, di
saziarsi del sapore di quelle labbra così sue e di cullarsi nell’assoluta
certezza che di quel sapore non si sarebbe saziata mai.
Ma era maledettamente sciocco, e masochista, pensarci
adesso. Adesso che, forse, lui stava provando il sapore di altre labbra, e
annegando in altri occhi.
Mentre, solo poche ore prima, aveva promesso a Naozumi
che sarebbe diventata la donna che meritava, aveva sentito una sensazione
strana. Un pensiero nuovo a riecheggiare fra le pareti del suo cervello. A
urlare quasi, come una condanna.
La consapevolezza che se Naozumi non l’avesse ripresa con
sé, se lei non fosse stata abbastanza brava a convincerlo, allora sarebbe
rimasta davvero sola.
Forse era un pensiero sciocco… che avrebbe dovuto già
provare anche quando, quattro anni prima, aveva gettato al vento tutta la sua
vecchia vita, come si fa con un vestito passato di moda.
Eppure quella volta era stato diverso.
C’era stata la rabbia, il dolore, folle e accecante
dolore, mescolato alla voglia di fuggire lontano, di evadere da quella storia
che era diventata soffocante. Di non vedere più la delusione che appariva negli
occhi di Akito ogni volta che lei annunciava allegra di aver avuto una parte
nell’ennesimo film. La necessità di non doversi più giustificare con nessuno e
di fare ciò che amava senza restrizioni.
Salire su quell’aereo per New York doveva essere solo un
modo come un altro per staccare un po’ la spina. Non era, o meglio, non doveva essere, una fine.
C’era stato il pensiero costante, il dubbio legittimo, la
lontana speranza, che non sarebbe stato tutto perduto. Che quando sarebbe stata
in grado di tornare a Tokyo, Akito sarebbe stato ancora, e sempre, suo.
Poi era apparso Naozumi, inaspettato come una mattina di
sole in un giorno d’inverno, e il coraggio di tornare non l’aveva più
trovato.
Si, quella volta era stato diverso.
Stavolta invece, lo stato d’animo era completamente
differente. Stavolta non c’era più il beneficio del dubbio… quel pensiero che “Forse non è ancora finita…che quando gli
dirò che non ho mai smesso di amarlo, allora tornerà da
me.”
E invece lui non era tornato. E stavolta, davvero, era
andato tutto perduto.
Sarà meglio che accetti una buona volta che Akito non
farà più parte della mia vita.
Sarà meglio che ami Naozumi come merita di essere
amato.
E
pazienza se ora mi sembra di morire… e se il mio cuore continua ad urlare che
non c’è abbastanza tempo, che una sola vita è troppo breve per amare qualcun’
altro come amo Akito.
Stavolta dovrà essereil mio cuore ad accettare la mia
decisione.
Giurò a sé stessa che non avrebbe ceduto alla voglia di
piangere. Che quando Naozumi si sarebbe svegliato, la mattina dopo, sarebbe
stata una fidanzata perfetta.
Ma non quella notte, non ancora.
Non mentre fuori stava ancora nevicando… non finché sul
display del suo cellulare, alla voce “data” seguiva la scritta “24 Dicembre”.
Per quella notte poteva essere sé stessa, poteva sentire
ancora quella voglia di morire e di correre da Akito per passare la Vigilia insieme. Per
scacciare dalla loro vecchia casa qualsiasi donna osasse mettere le mani sul
corpo di Akito, in quel giorno così importante.
Sospirò, alzando gli occhiper ricacciare indietro le lacrime e
vide che dal cielo notturno continuavano a scendere fiocchi di neve.
E per un istante le sembrò di vedere, nel grande giardino
che circondava la sua casa d’infanzia, un bambino accovacciato sulle ginocchia,
con i capelli biondi disordinati dal vento e dai fiocchi di neve, concentrarsi
per creare un minuscolo pupazzo, con due piccoli sassi al posto degli occhi e
due ramoscelli al posto della braccia.
Un colpo alla memoria, uno schiaffo in pieno viso, una
valanga a franarle sul cuore.
Quella scena nitida, incredibilmente reale anche se così
lontana. Lo stesso giardino, lo stesso cielo, la stessa bianchissima
neve.
“E’ per me? Questo
sarebbe il mio regalo?” , gli aveva chiesto allegra.
Lui aveva acconsentito, con il capo chino e le guance
leggermente arrossate, colpa dell’inevitabile imbarazzo.
“Grazie!”,
aveva risposto, sinceramente colpita dal gesto di quello che allora era per lei
solo “un grande amico”.
Solo a distanza di anni capì che quella notte anche lei
gli aveva fatto un regalo. Perché, anche se lì per lì non se ne accorse, era
stato quello il momento in cui, per ringraziarlo, gli aveva regalato il suo
cuore.
***
Il suo era stato indubbiamente un comportamento idiota. E
immotivato. E masochista.
Però non c’era riuscito a comportarsi diversamente.
Proprio non era stato in grado di acconsentire alla richiesta che Naoko gli
aveva fatto, solo poche ore prima.
“Akito, posso
passare da te stanotte?”. Un domanda semplice da capire, senza un
significato nascosto, senza bisogno di interpretazioni.
Era stato così spontaneo il modo in cui la voce allegra
di Naoko l’aveva formulata, che Akito si era ritrovato spiazzato. Disarmato, di
fronte alla consapevolezza che anche questa Vigilia non l’avrebbe visto insieme
a Sana.
E allora sarebbe stato più che legittimo permettere a
Naoko di entrare nella sua casa, nella sua vita e nel suo cuore.
Nessuno avrebbe osato rimproverargli qualcosa se, a
quella spensierata domanda ascoltata da dietro un telefono, avesse risposto
semplicemente “Si”.
Non sarebbero serviti giri di parole, grandi discorsi che
a lui non si addicevano per niente. Solo un “Si”, veloce e indolore come lo
strappo di un cerotto sopra la ferita.
Perché una ferita c’era, ed era una cosa che non poteva
negare.
Qualcuno era tornato per riaprirla ancora,… aveva
sradicato i punti con inaudita violenza, e affondato le unghie nel taglio con
cattiveria cieca.
E la ferita aveva ricominciato a sanguinare, dolorosa e
copiosa come quando gli era stata inferta per la prima volta, da mani che non
avrebbe mai creduto capaci di ferire.
La
ferita peggiore è quella provocata dalle mani che fino ad un attimo prima ci
accarezzavano.
E
non sai quanto ancora faccia male.
E allora aveva capito che non sarebbe bastata Naoko a
tamponare il suo dolore. Che il sangue non avrebbe cessato di scorrere. Che non
sarebbe comunque stata in grado di salvare il suo cuore.
Per questo, dopo aver preso un profondo respiro, a quella
semplice domanda aveva risposto con un rassegnato “Scusami, Naoko. Ma stanotte voglio restare
solo.”
E il tono della sua voce era stato così affranto che
quello “scusami” più che a Naoko, sembrava rivolto al suo cuore.. per le crepe
che era stato costretto a sopportare e per l’ostinazione con la quale,
nonostante tutto, continuava pulsargli nel petto.
Mosse qualche passo stanco per dirigersi verso il balcone
che si trovava in soggiorno e poggiò le dita sulle lastre vetrate.
La neve era ovunque. Sulle strade, sulle fronde spoglie
degli alberi, sulle auto immobili lungo i marciapiedi.
Era tutto incredibilmente silenzioso, muto, come una
vecchia fotografia.
Quando su quel manto bianco gli sembrò di vedere due
bambini scambiarsi il secondo di una serie infinita di baci, capì che l’unico
modo per guarire era quello di ammalarsi ancora di lei.
Di superare l’orgoglio e il risentimento e di ammettere a
sé stesso che c’era una sola verità. Chiara, semplice e innegabile come la neve
che ancora stava guardando.
Ti
amo ancora.. anche se non lo meriti.
Dopotutto, era così facile capirlo.
- Ti amo, Sana…
Sussurrò a bassa voce, nella vana illusione che lei
potesse sentirlo.
Portò una mano sul petto e sentì che il suo cuore aveva
iniziato a battere più forte.
E gli sembrò che anche la ferita facesse già un po’ meno
male.
***
Al suo compleanno non c’aveva mai tenuto molto. Forse
perché cadeva in un giorno nel quale le persone sono impegnate solo ad attendere
la mezzanotte per scambiarsi i regali e darsi stupidi baci sulle guance in segno
d’augurio.
Quindi, quando qualcuno le faceva gli auguri si chiedeva
se glieli facesse perché era il suo compleanno o perché era la vigilia di una
delle feste più importanti dell’anno.
Poi,- ed era una cosa che la faceva incazzare da morire-,
aveva sempre ricevuto un unico regalo. Sarebbe stato impossibile infatti
aspettarsi un regalo di compleanno e uno per Natale, visto che tra le due
ricorrenze passavano appena 24 ore.
Proprio una bella fregatura, nascere la Vigilia di
Natale.
Però c’era un aspetto positivo… il fatto che aveva sempre
passato il compleanno circondata di persone.
Le tombolate organizzate in famiglia erano una ricorrenza
irrinunciabile e, quindi, si ritrovava ogni anno seduta ad una grande tavolata,
a cenare con ogni cibo possibile e immaginabile e a giocare a tombola e ad ogni
gioco di carte umanamente conosciuto.
Dopotutto, non era poi così male essere nati il 24
dicembre.
Sospirò, coprendosi meglio con le coperte pesanti e
stringendo le braccia intorno al petto per lenire il freddo pungente che
aleggiava nella stanza.
Era indiscutibilmente la prima volta che passava il suo
compleanno rannicchiata su un letto, quando la sveglia sul comodino segnava
appena le 22:30.
Bè, di certo
non poteva pretendere tombolate e grandi cene fino a notte inoltrata, visto
l’evento che si sarebbe consumato solo poche ore dopo.
Aya e Tsuyoshi, infatti, aveva ritenuto opportuno andare
a letto molto presto. Era troppa l’ansia che li accompagnava in vista del loro
imminente matrimonio.
E allora lei era rimasta sola, con il desiderio di essere
lontana chilometri e chilometri da quella casa.
Di stringere forte il suo bambino e di svegliarlo presto
la mattina di Natale per fargli trovare il tanto atteso regalo sotto l’albero in
soggiorno.
Forza, Fuka. Presto potrai tornare a
casa.
Si, bastava solo pazientare un po’. E cercare di non
essere così egoista e provare a gioire per la felicità dei suoi migliori amici.
E poi avrebbe potuto fare quello che le riusciva meglio… fuggire.
Fuggire ancora, e portare con sé quella inconfessabile
verità. E chi se ne importa del fatto che avrebbe lasciato ad Aya l’incombenza
di non rivelare un segreto così sconvolgente! Tanto lei, da donna matura e
comprensiva qual’era sempre stata, avrebbe capito e non l’avrebbe mai
tradita.
Scusami Aya… spero solo che un giorno riuscirai a
perdonarmi.
***
Nella notte, lo sentì respirare tranquillo. Solo ora che
tutto intorno a lei era finalmente silenzioso, poteva effettivamente rendersi
conto dell’importante svolta che stava per accompagnare la sua vita in una nuova
direzione, ancora più bella di quella precedente.
Ricordò che già decidere di andare a convivere con il suo
ragazzo di sempre, praticamente l’unico uomo con cui avesse intrattenuto una
relazione, era stato un cambiamento enorme.
Lei, che i cambiamenti li aveva sempre odiati.
Di quello, però, non si era mai pentita e, ne era certa,
non si sarebbe pentita mai.
Nel buio che aleggiava nella camera da letto, si lasciò
andare ad un sorriso commosso.
Ancora poche ore e sarebbe diventata la signora “Sasaki”.
Ancora poche ore e Tsuyoshi sarebbe diventato suo marito. Suo marito.
Le suonava ancora così strano pronunciare le parole
“Tsuyoshi” e “marito” nella stessa frase.
Da
domani, dovrò iniziare ad abituarmi.
Pensò tra sé e sé, coprendosi meglio con le coperte
profumate e chiudendo gli occhi nella speranza di prendere sonno.
Probabilmente, non sarebbe riuscita a dormire neppure un
istante.
Pazienza.
Qualche ora di sonno sacrificata non era niente se il
premio in palio era una vita intera da passare con l’uomo che amava. E lei lo
sapeva bene.
***
“-
Quando ti sposerai con Akito, Sanachan, che periodo dell’anno vorresti
scegliere?
-
Chi ti dice che mi sposerò con quell’idiota,
Fukachan?
Fuka sorride, scuotendo la testa e scambiandosi uno
sguardo rassegnato con Aya, seduta accanto a lei sul divano della casa che Sana
e Akito hanno appena comprato.
-
Oh, andiamo! Solo perché ieri avete litigato non puoi dire che non sai se lo
sposerai. Non potresti sposare nessun’altro, ne sei assolutamente consapevole
anche tu.
Sana sbuffa e stringe i pugni, prima di alzarsi e andare
in cucina a posare il vassoio con le tazze che prima contenevano il tè preparato
per le sue migliori amiche.
Quando torna nel salotto dove la stanno aspettando le
sente ancora ridacchiare per lo scambio di battute avuto prima con
Fuka.
Proprio non riesce a capire come le sue amiche possano
anche solo pensare che lei voglia sposare un tipo incorreggibile come Akito
Hayama!
-
Allora Sanachan, in cucina hai trovato anche un po’ di
sincerità?
La
rimbecca Fuka, ghignando divertita.
-
Spiritosa! Davvero molto spiritosa!
-
Su, Sanachan. Sai che Fukachan ha ragione. Tu non vedi l’ora di sposare
Akito.
Sulle parole di Aya, la saggia del gruppo, si limita a
sbuffare e a incrociare le braccia, fintamente offesa.
Bastano pochi secondi e torna a sorridere come sempre,
perché, in realtà, sa benissimo che le sue amiche hanno ragione. Lei non vede
l’ora che Akito, l’incorreggibile e scorbutico Akito, le chieda di
sposarlo.
-
Se proprio devo sposare quell’imbecille…
Dice poi, cercando inutilmente di far sparire quel
luccichio che le illumina gli occhi.
-
… mi piacerebbe farlo il giorno di Natale.”
***
Lo spettacolo che si trovò di fronte agli occhi, non
appena fu abbastanza vicina per scorgere la piccola chiesetta ad occhio nudo, la
lasciò per qualche istante senza parole.
Aveva vissuto a Tokyo praticamente per tutta la sua vita,
esclusi quegli ultimi quattro anni, eppure non ricordava di aver mai visto le
mura antiche di quella chiesa così caratteristica. C’era qualcosa di magico
nelle insenature delle pareti corrose dal tempo e dai mille uragani; qualcosa
che faceva di quella piccola struttura un ponte con un’epoca lontana dove gli
unici suoni che si sentivano nell’aria erano quelli soavi e gioiosi degli
uccellini cinguettanti e del frusciare delle fronde degli alberi mosse dal
vento, nelle fresche mattine di primavera.
Lì, in quel piccolo, piccolissimo squarcio di terra,
pareva di essere tornati indietro di un bel po’ di secoli.
Ad aiutare quel ritorno al passato c’erano anche gli
alberi interamente ricoperti dalla neve caduta durante tutta la nottata
precedente.
Vorrei tanto sposarmi anch’io in un posto come
questo.
In realtà, da quando la sua storia con Akito era finita,
non aveva mai pensato all’ipotesi di potersi sposare. Si era sempre sentita
mancare già al solo pensiero di poter passare il resto della vita trovandosi
ogni mattina accanto un volto diverso da quello di Akito.
Però, nel sentire l’atmosfera di pace e di serenità che
si respirava nell’aria in quel momento, pensò che sarebbe stato bello potersi
sposare. Forse un giorno, forse neppure troppo lontano, quando il suo cuore
sarebbe stato pieno di qualcuno diverso da Akito.
Quando qualcun altro, Naozumi per esempio, sarebbe stato
in grado di riempire tutti i buchi della sua anima, di trovarne i tasselli
mancanti.
- Aya e Tsuyoshi hanno scelto un bel posto
vero?
In piedi accanto a lei, Naozumi le strinse una mano.
- Si, è bellissimo.
Era strano comportarsi normalmente dopo ciò che era
successo appena un giorno prima. Avevano passato la notte in silenzio, ed erano
andati a dormire senza che nessuno dei due trovasse il coraggio di iniziare una
conversazione. E lei sarebbe stata sempre grata a Naozumi per non averle chiesto
nulla di ciò che, invece, ne era certa, avrebbe tanto voluto
chiederle.
Non c’era stato nessun “Sei andata da Hayama, vero?” o “Cos’è successo tra voi?” o “Sei tornata da me perché lui ti ha
respinta?”. Niente. Solo un abbraccio dolce e pieno d’amore. Lo stesso amore
che lei stessa si era ripromessa infinite volte di ricambiare, senza però
riuscirci mai.
Stavolta, però, sarebbe stato diverso. Stavolta non ci
sarebbe stato più il fantasma di Akito ad aleggiare sulla loro storia, perché il
fantasma di Akito era stato debellato definitivamente il giorno precedente.
Tutto era sparito su quel perentorio “Io
non ti amo più”.
- Sana, vieni. Entriamo. Sei la testimone, non puoi
arrivare in ritardo.
Santo Naozumi che, in un momento come quello, aveva anche
la forza di scherzare.
Lo
fai per me, vero? Perché sai che sto soffrendo.
- Si, entriamo.
Da
oggi in poi ti prometto che farò di tutto per meritare il tuo
amore.
- Nao, aspetta un momento…
Lo bloccò, afferrandolo per un braccio e sgualcendo
appena la giacca dello smoking in seta nera che avevano comprato insieme qualche
tempo prima. Un’idea nuova, forse folle, a balenarle in testa.
E
giuro che ti amerò anche di più di quanto io abbia mai amato
Akito.
- Cosa c’è, Sana? Qualcosa non và?
Forse amarti come ho amato lui sarebbe già
abbastanza.
- Naozumi, vorresti sposarmi?
***
“-
Che accidenti significa che è partita?
-
Esattamente quello che ho detto, Tsuyoshi. Sana è
partita.
Si
alza di scatto, scuotendo la testa sconvolto per la confessione del suo migliore
amico.
-
Per dove? E, soprattutto, quando tornerà?
Akito si stringe nelle spalle, cercando di nascondere
quella tristezza nello sguardo che, invece, Tsuyoshi nota in meno di un
istante.
-
Dovrebbe essere a New York per girare l’ennesimo film e no, non credo che
tornerà.
-
COSA? AKITO, SIETE FORSE IMPAZZITI?
Oh,si. Devono essere assolutamente impazziti perché
Tsuyoshi non ce la fa proprio a concepire l’idea che quei due, gli stessi
imbecilli che c’hanno messo anni per dichiararsi il loro reciproco amore, che
per tutta la vita non hanno fatto altro che amarsi, alla fine abbiano deciso di
separarsi.
-
Và al diavolo anche tu, Tsuyoshi!
-
O no, bello mio! Così è troppo facile! Ora mi spieghi tutto come si deve. Dimmi
per quale cazzo di motivo la tua ragazza è andata via senza darti il minimo
preavviso!
-
Le ho chiesto di rinunciare e lei ha scelto di partire comunque. Non c’è
nient’altro da spiegare.
-
Bene. Davvero ottimo, Akito. Complimenti.
-
CHE CAZZO VUOI CHE TI DICA? Ha scelto lei di andare
via.
-
E tu, ovviamente, non hai fatto nulla per
fermarla.
Ancora non gli sembra vero. Prenderebbe a schiaffi il
volto di Akito se poi non fosse assolutamente certo che sarebbe lui stesso ad
avere la peggio.
-
Ho scoperto che è partita solo stamattina, quando sono tornato a casa e lei non
c’era più.
-
Mio Dio… Sana non può averti fatto questo.
-
A quanto pare invece l’ha fatto eccome.
Improvvisamente, la voglia di prendere il suo amico a
schiaffi lascia il posto all’impulso di abbracciarlo forte. È peggio di una
pugnalata al cuore vedere quegli occhi così
spenti.
-
Quindi non… non le hai chiesto quella cosa?
Akito si lascia andare ad un mezzo sorriso, ma Tsuyoshi
sa benissimo che, in realtà, il suo amico non vede l’ora di
piangere.
- Vuoi sapere se
ho fatto in tempo a chiederle di sposarmi prima che mi abbandonasse? No,
Tsuyoshi. Non ho fatto in tempo.”
/*/
Note
dell’autrice: Si, lo so benissimo che molte di voi vorranno uccidermi per il
modo in cui ho concluso il capitolo. Però non disperate.. ho intenzione di
continuare con questa storia ancora per un po’, e quindi dovranno succedere
ancora molte cose! ;)
Che dire? Questo è un capitolo introspettivo, uno di
quelli che amo tanto scrivere, anche se fondamentalmente non succede niente di
rilevante. Ma posso assicurarvi che gli sviluppi “importanti” arriveranno
eccome! ^^
I soliti ringraziamenti di rito per tutte voi che mi
seguite sempre e mi riempite di complimenti! Vi adoro infinitamente!
;)
Ed ecco il decimo! ;) Ci risentiamo alla fine del
capitolo. ^^
CAPITOLO DIECI : CHIESE
Le Chiese, a lui, non erano mai piaciute. Il motivo
principale andava ricercato nel fatto che non era mai stato un tipo molto
religioso e, quindi, le uniche volte che ci metteva piede era per
la Messa di
Natale e per altre sporadiche ricorrenze.
Eppure, agli spiriti ci credeva eccome. Da quando sua
madre gli era apparsa, mentre, ferito da una coltellata di Komori, lottava tra
la vita e la morte,- più vicino alla morte che alla vita-, si era convinto
dell’esistenza di qualcosa di sovrumano, qualcosa che c’era, al di là di ciò che
gli occhi potevano scorgere.
Però neppure quella visione, che di certo non avrebbe mai
dimenticato, era bastata per farlo diventare un vero “credente”.
Poi, il fatto di sposarsi in una Chiesa, davanti ad un
uomo che si arrogava il diritto di rappresentare niente po’ po’ di meno che Dio,
non l’aveva mai sopportato.
Se fosse dipeso da lui, i matrimoni neppure sarebbero
esistiti.
Perché il “ti amo”, il “per sempre”, il “voglio vivere il
resto della mia vita con te”, avevano molto più valore se sussurrati
nell’orecchio della persona amata, quando nessun’ altro poteva
sentire.
Però, per Sana, queste cose le avresti gridate al mondo
intero.
Si, era vero. Il pensiero di sposarla era nato dal nulla,
in un giorno qualsiasi, mentre l’aveva guardata cucinare,- o perlomeno, provare
a farlo-,e in quel grembiule
legato di fretta dietro la schiena e in quei capelli raccolti malamente in
un’acconciatura tutt’altro che perfetta,aveva tanto sentito il profumo di casa. E poco importava che, all’epoca,
avessero ancora meno di vent’anni, perché lui era assolutamente certo che non ci
sarebbe mai stata altra donna con la quale avrebbe desiderato formare una
famiglia. Una di quelle vere, con i figli, i problemi e tutto il
resto.
E gliel’avrebbe chiesto davvero, di sposarlo. Se solo lei
gliene avesse lasciato il tempo.
Dovevamo esserci noi due, fuori da questa Chiesa. Dovevi
essere tu, quella con l’abito bianco.
- Akito, finalmente sei arrivato! Su, muoviti! Aya sarà
qui a momenti e io ho bisogno del mio testimone!
Tsuyoshi arrivò correndo verso di lui che, ancora, non
aveva avuto il coraggio di oltrepassare l’ingresso.
- Non dirmi che manco solo io! Gomi è arrivato prima di
me?
Scherzò, cercando di smorzare la tensione e di far
sparire l’espressione ovviamente nervosa che aleggiava sul volto del suo
amico.
- Certo che è già arrivato! Lo vedi? È già
sull’altare!
Gli disse, indicando l’altare addobbato a festa che si
stagliava alla fine del lungo corridoio contornato da corone fiorate.
Akito, oltre alla figura sempre buffa di Gomi, ne notò
un’altra; Al capo opposto del piccolo altare in legno, Sana se ne stava
immobile, i capelli raccolti in una morbida acconciatura e il seno lasciato
appena scoperto dalla profonda scollatura del suo vestito blu.
Dio, era bellissima.
Accanto a lei, Hisae gesticolava, raccontando qualcosa
che, di certo, Sana non stava neppure ascoltando.
- Allora, Akito! Ti muovi o no?
- Eccomi, eccomi…arrivo.
Si lamentò entrando in Chiesa. Nel tragitto che lo
conduceva all’altare non si voltò neppure un istante. D’altronde, non c’era
nessuno di particolarmente interessante da vedere.
Alzò lo sguardo solo quando ebbe di fronte la figura
snella di Sana. Lei lo guardò un istante e ,- forse era colpa del phard
particolarmente acceso-, le sue guance presero colore.
Akito la salutò con un minuscolo cenno del capo, cenno
che poi riservò anche ad Hisae e a Gomi.
In prima fila, stranamente seduti l’uno accanto
all’altra, c’erano Fuka e Kamura. Quest’ultimo, non appena si accorse della sua
presenza, smise di conversare con Fuka per riservargli uno sguardo truce al
quale sostituì subito uno dei suoi soliti e fastidiosissimi
sorrisini.
A
quanto vedo, ti sei ripreso Sana anche stavolta,
eh?
Pensò tra sé, e quasi provò compassione per l’uomo che
aveva sempre odiato.
Poi, però, lo vide alzarsi e avvicinarsi a Sana, per
lasciarle un bacio sulle labbra e sussurrarle qualcosa che, ne era certo,
somigliava ad un “si”.
Non capì il motivo di quella piccola, minuscola parola,
ma, vedendo il sorriso che generò sul volto di Sana, fu certo che la compassione
che aveva creduto di provare per Kamura appena un istante prima, era già
sparita.
***
Non avrebbe saputo spiegare bene il motivo, ma il
matrimonio di Aya e Tsuyoshi se l’era immaginato molte volte nella sua testa.
Forse perché, per le ragazze, è praticamente normale immaginare il matrimonio
delle loro migliori amiche. Fa parte di quelle cose delle quali si discute tra i
banchi di scuola, in una pausa tra le lezioni sempre troppo noiose, o passando
davanti ad un negozio di abiti da sposa.
Un tempo, parlare di matrimonio era diventata una cosa
più che normale. Da quando, un giorno in mensa, Sana se n’era uscita con quella
stupida scommessa sul “Chi si sarebbe sposata per prima”.
La stessa Sana che avrebbe voluto sposarsi il giorno di
Natale.
Che avrebbe voluto sposare il suo Akito.
E che invece se ne stava lì, accanto ad una sempre
raggiante Hisae, a fare da testimone all’amore che legava Aya e Tsuyoshi, nello
stesso giorno che sarebbe dovuto essere il suo.
Cos’hai pensato quando hai saputo che si sarebbero
sposati proprio a Natale?
Ti
sei arrabbiata con Aya?
L’hai odiata perché ti ha rubato il sogno? O le hai
voluto ancora più bene perché hai pensato che forse l’ha fatto proprio perché
tu, il tuo sogno, non eri riuscita a viverlo?
Si rese conto che non l’avrebbe saputo mai, perché mai
avrebbe avuto il coraggio di chiederglielo.
Accanto a lei, vide Naozumi alzarsi per avvicinarsi a
Sana e sentì una sorta di nodo alla gola, un senso di estraneità nel vederli
insieme, perché ancora, per lei, Sana sarebbe sempre appartenuta ad
Akito.
È
un po’ ipocrita questo ragionamento fatto da te, non
credi?
Si, lo credeva. Ma Akito, Sana l’aveva perso ancora prima
di quella notte. L’aveva perso quando, inspiegabilmente,- inspiegabilmente,
almeno per lei-, aveva preferito il
lavoro all’amore della sua vita.
Osservò attentamente il volto di Naozumi avvicinarsi a
quello di Sana, forse per sussurrarle qualcosa in un orecchio. Quando lui si
allontanò per tornare a sedersi accanto a lei, poté vedere un bellissimo sorriso
nascere sul volto di Sana.
D’istinto, voltò il capo verso Akito, forse per vederne
la reazione, e non si stupì affatto dello sguardo gelido che trovò ad oscurargli
il volto.
Dedurre che Akito era ancora innamorato di Sana, era una
cosa così semplice che persino un bambino l’avrebbe capito.
In effetti, anche il sorriso che ancora aleggiava sulle
labbra di Sana insidiò nella sua mente un legittimo dubbio.
Era un sorriso bellissimo. Talmente bello, da sembrare
finto.
***
Lo scintillio emozionato che vide negli occhi di Aya,
mentre lei, con quelle labbra rosse che aveva sfiorato infinite volte,
pronunciava il fatidico “Si”, era qualcosa che difficilmente avrebbe
dimenticato.
Anzi, con moltissima probabilità, non l’avrebbe
dimenticato mai.
In realtà, in cuor suo sperò di non dimenticare mai
neppure il più microscopico particolare di quella che, come facilmente
prevedibile, era diventata la giornata più bella di tutta la sua
vita.
E mentre prendeva l’esile mano di sua moglie per infilare
al suo dito l’anello che l’avrebbe resa veramente sua, non poté fare a meno di chiedersi
il motivo per cui la gente non corresse a sposarsi in ogni momento.
Ogni persona avrebbe dovuto gioire della gioia della
quale lui stava gioendo in quel momento.
Altruista come solo Tsuyoshi sapeva essere, desiderò con
tutto se stesso che le persone alle quali voleva bene, potessero un giorno
provare anche solo la metà della felicità che stava provando lui in quel
momento.
Lo desiderò per tutti, specialmente per Akito e
Sana.
***
Durante la cerimonia, si domandò più e più volte se
quella strana voglia di piangere che sentiva nel cuore, fosse una cosa del tutto
normale.
Se era dovuta semplicemente alla gioia che provava per
Aya e Tsuyoshi, una commozione legittima, la commozione tipica della “migliore
amica”.
O magari all’indifferenza di Akito, che, per tutta la
durata del rituale in Chiesa, non le aveva riservato che un misero
sguardo.
Fatto sta che aveva avuto una dannatissima voglia di
piangere. E avrebbe pianto, se solo Naozumi non le si fosse avvicinato per dirle
che anche lui voleva sposarla.
Nel sentire quella minuscola parola, quel “si” sussurrato
in un orecchio, in un primo momento si era sentita felice. Si, proprio felice.
E si era ritrovata a sorridere, uno di quei vecchi
sorrisi, quelli che un tempo le appartenevano e ai quali nessun’altro sapeva
dare vita. Perché erano suoi. Suoi e basta.
Ma la realtà che conosceva, quella che le dava motivi per
sorridere ogni secondo, non c’era più.
E i suoi sorrisi non duravano che qualche istante.
E così, come tutti quelli ai quali aveva dato vita da
quando si era trasferita a New York, anche quello sparì dopo pochi
secondi.
E l’espressione disincantata con la quale conviveva da
ormai parecchio tempo, era tornata prepotente a modificare i lineamenti del suo
bellissimo viso.
Quella luce che le si accendeva negli occhi non appena le
sue labbra si curvavano in un sorriso, non c’era più. Era sparita insieme a quei
buffi e caratteristici codini e a quel vizio di parlare sempre, anche quando non
c’era niente da dire.
Colpa del tempo che passa, aveva sempre
pensato.
Forse aveva ragione. In effetti, il tempo è ciò che più
di ogni altra cosa, riesce a farci cambiare.
E allora perché, il giorno prima, mentre baciava Akito,
aveva avuto voglia di mettersi a urlare? E di ridere, come una sciocca, a
perdifiato e senza un apparente motivo?
Perché contro Akito, il tempo non sembrava avere alcun
potere?
- Sana, come mai prima sorridevi? Naozumi ti ha detto
qualcosa di bello?
Il tempo, comunque, sembrava non aver avuto potere
neanche su Hisae, estroversa e curiosa come la bambina della sesta elementare
che, ogni tanto, l’aveva aiutata a studiare.
- Non ricordo di preciso. Comunque niente di
particolare.
Certo, Sana. In effetti il fatto che ti ha detto che
sarebbe felice di sposarti non è niente di particolare,
vero?
- Mmmm.. capisco.
Hisae sembrava leggermente delusa. Forse l’atmosfera
romantica che aleggiava in Chiesa, mentre Aya e Tsuyoshi si scambiavano le fedi,
le vite, le anime, faceva venire voglia di notizie importanti.
- Tu non hai mai pensato di sposarti, Sana?
La domanda tanto temuta era arrivata, puntuale come una
condanna.
- Per ora è un pensiero abbastanza lontano. Io e Nao
siamo sempre così impegnati con il lavoro.
Vide Hisae alzare un sopracciglio e scuotere la
testa.
- Peccato, però. Sono sicura che lui ti sposerebbe anche
adesso.
Su, Sana. Diglielo che avete appena deciso di sposarvi!
Dille che anche tu lo sposeresti ora, quella meraviglia d’uomo che hai accanto.
Dille che presto lo sposerai davvero. E che non vedi l’ora di vederlo ad
aspettarti impaziente di fronte all’altare.
- Io lo amo, Hisae. Lo amo tanto.
- Lo so, Sana. Perché me lo dici adesso?
Giusto, perché glielo diceva? Nessuno aveva mai messo in
dubbio il suo amore verso Naozumi.
- Mi sembrava opportuno fartelo presente.
Hisae sorrise, un sorriso che Sana non riuscì a
decifrare, e poi tornò a concentrarsi su Aya e Tsuyoshi che, nel frattempo, si
stavano scambiando il fatidico “bacio dopo il sì”.
Solo in quel momento, Sana notò che Akito la stava
guardando. Non appena si rese conto che non sarebbe stata in grado di reggere
oltre il suo sguardo, rivolse il capo verso Naozumi e gli sorrise.
Si, lei lo amava tantissimo. E l’avrebbe sposato il prima
possibile.
Il fatto che ancora non fosse pronta per dirlo ad alta
voce ai suoi vecchi amici, non voleva dire proprio niente. Avere paura,
dopotutto, era legittimo.
Si, era normale che avesse paura.
E al fatto che, se guardava Akito, se immaginava il loro
ultimo bacio, sentiva persino le viscere contorcersi per la voglia di baciarlo
ancora, ritenne opportuno non dare importanza.
***
Una piccola, minuscola, chiesetta, in una strada
possibilmente poco affollata, in mezzo agli alberi, pochissimi invitati,- solo
quelli che proprio non potevano mancare-, e lei che avanzava radiosa per andargli
incontro, avvolta in un lunghissimo abito bianco.
Era così che, un tempo, immaginava il giorno del suo
matrimonio. Capitava spesso durante la notte, quando rigirandosi tra le coperte,
si ritrovava di fronte al viso addormentato di Sana.
In quei momenti, era solito convivere con la voglia di
prendersi a pugni da solo, perché a un tipo “tosto” come Akito Hayama non era
permesso fare fantasie sul giorno del suo matrimonio.
Quella che amava fantasticare, immaginare tutto nei
minimi particolari, era sempre stata Sana.
Se ci pensava, era una cosa abbastanza buffa. Non le
aveva mai chiesto di sposarlo, eppure lei all’epoca parlava di matrimonio come
se avessero dovuto sposarsi da un momento all’altro.
Nel brevissimo periodo nel quale avevano convissuto,
erano state molte le sere passate sul divano, ad ascoltare le assurde
fantasticherie matrimoniali che solo una mente contorta come quella di Sana
avrebbe potuto partorire.
Una volta, e lo ricordava benissimo,- come se quei
dannatissimi quattro anni non fossero mai passati-, si era fissata con il
matrimonio in spiaggia. Con il mare, il tramonto, e tutto il resto.
Lui c’aveva messo un bel po’ per farle capire che, visto
il suo desiderio di sposarsi a Natale, non era esattamente l’ideale sposarsi
all’aperto e a due passi dal mare in tempesta.
Ricordò persino di essere scoppiato a ridere, nel vedere
l’espressione demoralizzata che comparve sul volto di Sana.
Non rideva da un bel po’, in effetti.
L’unica persona che riusciva a far apparire sulle sue
labbra qualcosa simile ad un sorriso, era Tsuyoshi.
Lo stesso Tsuyoshi che, proprio in quel momento, stava
uscendo dalla Chiesa, con una mano raccolta sul capo, per proteggersi dalle
valanghe di riso che, da lì a breve, gli sarebbero piombate addosso, e con
l’altra a stringere forte quella di sua
moglie.
Vedere quella scena lo fece sorridere.
E sorrise davvero, almeno fino a quando non notò che, a
pochi passi da lui, Kamura stava passando le braccia intorno alla vita di Sana,
per stringerla in un disgustoso abbraccio.
Non fare l’idiota, Akito. È un abbraccio. Non può essere
disgustoso.
Però il senso di nausea c’era. Ed era anche molto forte.
Ma venne sostituito da un sentimento molto simile al terrore, non appena una
domanda gli si materializzò cristallina dentro al cervello.
E
se lui, un giorno, dovesse sposarla?
Al matrimonio di Sana con qualcun altro, in effetti, non
c’aveva mai pensato.
Inoltre, dopo che lei gli aveva confessato di amarlo
appena un giorno prima, aveva covato l’egoistico pensiero che non sarebbe
tornata da Kamura. Che non avrebbe avuto il coraggio di stare, ancora, con un
uomo che non amava. O che forse amava anche, ma mai, mai quanto era stata capace
di amare lui.
Non trovi che sia presuntuoso da parte tua pensare una
cosa del genere?
No, affatto. Sulla considerazione che Sana non avrebbe
mai amato nessuno come aveva amato, anzi, come amava lui, non c’erano dubbi.
E allora perché era tornata da Kamura? Perché, ancora una
volta, si accontentava?
Sei una vigliacca, Sana.
Verissimo. Non aveva mai conosciuto nessun’altro con un
livello di vigliaccheria pari a quello della sua ex.
Sana era una vigliacca. Così vigliacca che, prima o poi,
quell’idiota di Kamura l’avrebbe anche sposato.
Ma non era forse un vigliacco anche lui che ancora si
ostinava ad ignorare quella voragine che sentiva aprirsi nel petto se solo la
immaginava avanzare allegra e indossare quel lunghissimo abito bianco per
qualcun altro?
Non c’è nessuna voragine nel mio
petto.
Per un istante, tra quel mare di persone, incontrò gli
occhi di Sana e scosse la testa, trattenendo a stento la voglia di prendere a
pugni il muro della Chiesa.
Non poteva, non doveva essere il suo cuore quello che,
nel guardarla, iniziava a battere più forte e che invece per poco non moriva,
nel vederla distogliere lo sguardo e rivolgerlo a Kamura.
Forse si, forse sono un vigliacco
anch’io.
***
Non appena mise piede nell’enorme ristorante che Aya e
Tsuyoshi avevano scelto per ospitare il loro ricevimento, divise equamente i
suoi sguardi tra la “coppietta felice” e un silenziosissimo Akito.
Poi, quando il suo cuore sentenziò di non poterne più di
quei visi che gli provocavano così tanto dolore, si concentrò sull’ambiente
circostante.
La sala era stata addobbata in modo davvero superbo.
Il buon gusto, dopotutto, era sempre stata una
caratteristica essenziale di Aya.
E poi era una sala talmente grande che pareva quasi di
potersi perdere tra le enormi vetrate che si affacciavano su un giardino
altrettanto meraviglioso.
Tsuyoshi deve guadagnare davvero bene, se può permettersi
un posto così!
Quel pensiero le fece tornare in mente che lei, invece, a
mala pena arrivava a fine mese e aveva un figlio da mantenere.
La vita, a volta, sapeva essere incredibilmente
ingiusta.
- Davvero un bel posto, non trovi Fuka?
Voltò il capo nella direzione dalla quale proveniva la
voce che aveva appena parlato e si ritrovò di fronte al volto allegro e
sorridente di Hisae.
- Già. È stupendo.
Rispose, sperando di apparire molto più felice di quanto
in realtà non fosse.
Hisae le sorrise, passandosi una mano tra i capelli
biondi, che le arrivavano appena sotto le spalle.
Fuka si concesse un secondo per osservare la sua vecchia
amica e si rese conto che, quasi certamente, quella era la prima volta che la
vedeva con i capelli lasciati sciolti, senza quelle buffissimetreccine arrotolate ai lati della
testa.
Una cosa che proprio non era mai riuscita a capire, era
il motivo per cui Hisae avesse sempre quell’incomprensibile vizio di legare i
capelli in quella ridicola acconciatura!
Ora che finalmente poteva vedere i suoi capelli ricaderle
sulle spalle in morbidissimi boccoli, si rendeva conto di quanto il viso di
Hisae ne guadagnasse in bellezza e femminilità.
Crescere è stato un bene proprio per tutti,
allora.
- A che tavolo sei seduta?
Le chiese Hisae, che nel frattempo era stata raggiunta da
un sempre goffissimo e poco raffinato Gomi.
Si strinse nelle spalle, cosciente del fatto che Aya non
le avesse ancora detto quale fosse il suo posto.
Poi, poco lontano da lei, vide Sana sbracciarsi allegra
per farle cenno che il suo posto era lì, proprio allo stesso tavolo al quale
stavano seduti lei e Naozumi.
Sentì il cuore sobbalzarle nella gola e mozzarle il
respiro. Lanciò uno sguardo terrorizzato ad Aya, come per chiederle spiegazioni,
ben cosciente del fatto che, con moltissima probabilità, la suddivisione dei
tavoli era stata decisa molto prima che Aya scoprisse il suo “piccolo segreto” e
che la neo-sposa avesse decisamente troppe cose a cui pensare, cose alle quali
dare la priorità, rispetto ad un posto al tavolo sbagliato.
Tra l’altro, Aya, il suo sguardo terrorizzato, neppure lo
notò, troppo bella e radiosa accanto al suo Tsuyoshi per preoccuparsi del suo
meritatissimo senso di colpa.
- Oh, sei al tavolo con Sana e Naozumi a quanto vedo! Noi
invece siamo con Akito!
Affermò Hisae, prima di lasciarsi trascinare da Gomi, che
non vedeva già l’ora di prendere posto per iniziare a mangiare.
Fuka li osservò dirigersi allegri al tavolo che Aya e
Tsuyoshi avevano scelto per loro e invidiò follemente la loro
spensieratezza.
Vide Akito lanciarle uno sguardo distratto e subito
abbassò il capo, restando immobile per qualche secondo a fissare le fredde
mattonelle del pavimento.
Forse non è vero che crescere è stato un bene per
tutti.
Facendo leva su tutto il coraggio di cui era capace, si
incamminò verso il suo tavolo per sedersi vicino a Sana, che la accolse con un
enorme sorriso.
Per poco, non scoppiò a piangere.
Per me, di certo, non lo è stato
.
Solo ora che le sedeva accanto, poteva notare quanto il
loro tavolo e quello al quale sedeva Akito fossero lontani.
Capire che la motivazione di quella siderale distanza
fosse il fatto di voler tenere “distanti” Sana e Akito, fu una cosa
semplicissima.
Una cosa semplicissima, che però la fece sentire molto
triste.
Rivolse uno sguardo alla sua ex migliore amica e le
sorrise, fingendo di non aver notato il velo di malinconia che le offuscava le
bellissime sfaccettature dei suoi occhioni cioccolato.
Forse, Sana, crescere non è stato un bene neppure per
te.
***
Li osservò più volte, durante quella lunga, lunghissima
serata.
Ovviamente, la quasi totalità delle sue attenzioni furono
rivolte a quello splendore di donna che era appena diventata sua
moglie.
A fatica, riuscì a staccare gli occhi da quel viso così
dolce e perfetto, da quei lineamenti così incredibilmente belli, per
indirizzarli nella direzione dei tavoli ai quali erano seduti, ovviamente, Sana
e Akito.
Si maledisse più volte, perché davvero non riusciva a
capacitarsi del perché non si convincesse una buona volta a lasciarli in pace. A
lasciare che ci morissero annegati, nel loro fottutissimo orgoglio.
Perché li aveva visti quegli sguardi che di tanto in
tanto Akito lanciava a Sana, e, in quegli occhi spenti c’aveva rivisto
quell’antica rabbia, quella voglia di mandare a quel paese tutto e tutti e di
tornare il ragazzino stronzo dal cuore di ghiaccio.
E la cosa che più lo faceva arrabbiare era il fatto che
fosse assolutamente certo che Sana lo amasse ancora. Perché la Sana che se ne stava seduta
accanto a Naozumi, che gli sorrideva allegra e che di tanto in tanto gli
accarezzava il viso, non aveva niente in comune con la Sana di Akito.
E Tsuyoshi lo sapeva, perché gli era rimasto appiccicato
nella mente quel luccichio che le appariva negli occhi se solo Akito la
sfiorava.
Quei sorrisi, quei gesti leggeri, quegli sguardi
distratti che parevano urlare mille volte “Ti amo”.
Quei sorrisi, quei gesti leggeri, quegli sguardi
distratti che non avevano niente a che vedere con quelli che riservava a
Naozumi.
In qualche modo, la vera Sana era rimasta con Akito, così
come il vero Akito era rimasto con Sana.
Neppure un bravo ragazzo dolce e innamorato come Naozumi
sarebbe stato in grado di rappresentare per Sana neppure la metà di ciò che
aveva sempre rappresentato Akito.
Era questa la cosa che più di tutte lo faceva
incazzare.
Non la si può sprecare così, un’anima gemella.
- Tesoro, guarda, sta arrivando la torta!
Gli fece notare Aya, balzando in piedi di scatto e
muovendo nell’aria una bellissima scia di profumo.
Tsuyoshi la imitò, alzandosi e stringendole la vita esile
con un braccio.
Non appena il cameriere depose l’enorme torta nuziale di
fronte a loro, rivolse un ultimo, fugacissimo sguardo al suo migliore amico e
vide che lui, al contrario, stava ancora osservando Sana.
Sana che faceva finta di non vederlo, ma che non appena
Naozumi si distraeva a parlare un attimo con Fuka, ricambiava lo
sguardo.
Vedere certe scene, contribuì solo a fargli aumentare la
voglia di prendere a schiaffi entrambi.
- Tesoro, tutto ok? Ti eri incantato? Dobbiamo tagliare
la torta!
- Mi ero distratto un attimo, tesoro. Ora sono tutto per
la mia bellissima moglie.
Aya gli sorrise splendida e lo baciò delicata sulle
labbra. Lui ricambiò con amore, ripromettendo a se stesso che di quei due
imbecilli non avrebbe voluto sapere più nulla.
Però credo che, alla fine, sarà solo questione di
tempo.
Credo che Sana capirà che fare l’attrice non vuol dire
dover recitare anche nella vita.
Credo che Akito troverà il coraggio necessario per
ammettere a se stesso di non averla mai dimenticata e per
perdonarla.
O
almeno lo spero.
Dopotutto, la miriade di consigli dati in questi anni non
possono andare perduti, no?
***
Guardare Sana e Fuka che, sedute allo stesso tavolo, si
sorridevano continuamente e parlavano del più e del meno, era una scena alla
quale mai nella sua vita avrebbe voluto assistere.
Troppe erano le somiglianze, le analogie che collegavano
quell’allegro quadretto ai pomeriggi passati al luna park, dopo la scuola. E ai
discorsi assurdi che solo loro due, in qualità di “migliori amiche”, erano in
grado di capire.
“Ho conosciuto una ragazza fantastica, Hayama! Si chiama
Fuka! Credo che diventeremo ottime amiche!”
Erano state esattamente queste le parole con le quali
Sana aveva annunciato l’ingresso di Fuka Matsui nelle loro vite, il giorno
dell’ingresso alle scuole medie.
Se qualcuno le avesse guardate ora, sorridenti e allegre,
avrebbe certamente dedotto che la previsione dell’allora adolescente Sana, si
era avverata.
Che Sana e Fuka erano davvero diventate ottime amiche. E
che non si erano mai separate.
E invece Akito sapeva benissimo che le parole che si
stavano scambiando, i sorrisi che di tanto in tanto si regalavano, non avevano
nulla a che vedere con gli assurdi discorsi e le risate a perdifiato di quei
lontani giorni di scuola.
E sapeva altrettanto bene che la colpa, in un modo o
nell’altro, era stata sua.
Lui aveva portato Sana ad andare via, a scappare dalla
città nella quale era nata e cresciuta, dai suoi più cari amici, dai suoi
familiari, per rifugiarsi in una vita che di lei non sapeva nulla.
E sempre lui aveva portato Fuka a tradire la sua migliore
amica. A tradirla nel peggior modo possibile, nel modo in cui mai nessuno
dovrebbe essere tradito.
Nella sua vita, Akito Hayama aveva fatto molte cose
brutte, cose delle quali non andava fiero, cose che avrebbe volentieri
cancellato con un colpo di spugna.
Aver portato Sana e Fuka a separarsi era stata
indubbiamente la peggiore.
E mentre continuava a guardarle scambiarsi gesti
costruiti ad arte e sorrisi che non sapevano più brillare, sentì l’impellente
bisogno di chiedere scusa ad entrambe.
Ma ovviamente, lasciò che quel bisogno gli morisse nella
gola.
***
Dovette riconoscere a sé stessa di essere stata più forte
del previsto.
Era “rinchiusa” nello stesso salone nel quale si trovava
anche Akito da quasi tre ore a ancora non aveva sentito quella solita voglia di
scappare.
Forse per merito di Naozumi, che l’aveva perdonata senza
indugio e che aveva accettato di sposarla senza tradire il minimo segno di
incertezza.
O forse per merito di Fuka, che, durante quella
lunghissima cena, le aveva fatto ricordare com’era bello poter avere una
migliore amica.
Che le aveva parlato come le parlava un tempo, senza
riserve o stupidi timori.
Che era stata semplicemente Fuka. E che le aveva permesso
di essere quello che non riusciva ad essere da molto tempo… semplicemente
Sana.
- Oh, guarda Sana! Aya e Tsuyoshi stanno aprendo le
danze!
Le fece notare un Naozumi entusiasta. Lei proiettò lo
sguardo sul punto della sala indicato dal suo ragazzo e non riuscì a non
sorridere nel vedere quella scena così romantica.
Aya e Tsuyoshi erano davvero meravigliosi insieme, la
coppia più bella che avesse mai visto.
A
parte te e Akito, ovviamente.
Le sussurrò la sua coscienza, come per infliggerle una
rabbiosa pugnalata al petto.
Pugnalata che arrivò, puntuale e dolorosa come ogni
pensiero che portava il nome di Akito.
- Amore ti và di ballare?
Tornò a guardare il volto sereno di Naozumi e
sorrise.
- Certo, Nao! Facciamo vedere ai neo sposi che siamo noi
la coppia migliore!
Sperò con tutta sé stessa che lui avesse apprezzato
l’umorismo e che non avesse minimamente sospettato che dietro quella battuta si
celasse una spaventosa voglia di urlare.
- Oh, ma sono sicuro che anche loro sanno benissimo che
siamo la coppia migliore!
Le rispose, facendole un occhiolino in segno di
complicità, alzandosi dal tavolo e porgendole una mano per invitarla a
ballare.
Sana ridacchiò, stringendo forte la mano di Naozumi e
seguendolo al centro del salone, dove la maggior parte degli invitati avevano
già iniziato a danzare.
***
“-
E che ne dici di un corso di ballo?
-
Spero vivamente che tu stia scherzando, Kurata.
-
Oh, andiamo Akito! Possibile che non ti vada di fare nulla? Dedichi il tuo tempo
solo al karate!
-
Bè ritengo che il karate sia un impegno più che sufficiente, specialmente ora
che sto cercando di aprire una palestra tutta
mia.
Sana incrocia le braccia e alza gli occhi al cielo,
visibilmente contrariata.
-Se è per questo, uomo dai mille impegni, anch’io ho un
lavoro che mi tiene occupata! Ma ciò non vuol dire che non posso desiderare di
fare qualcosa con il mio fidanzato! O sbaglio?
Akito si stringe nelle spalle, non degnandola neppure di
uno sguardo, troppo concentrato a guidare per le strade affollatissime di un
sabato pomeriggio di Tokyo.
-
Ora neanche rispondi? Bene! Vorrà dire che al corso di ballo c’andrò da
sola!
Ecco, esattamente le parole con le quali, sapeva bene,
Akito sarebbe crollato.
-
Cos’hai detto scusa? Dov’è che vai da sola?
Si
lascia andare ad una piccola risatina, stando ben attenta a non farsi sentire da
lui.
-
Hai capito benissimo! Se non verrai con me andrò da sola. Tanto ci saranno un
sacco di uomini disposti a farmi da cavaliere.
Lo
sguardo furente che Akito le riserva è esattamente l’effetto che sperava di
ottenere con quella frase.
-
Oh, andiamo. Non lo faresti mai. Da sola ti annoieresti a
morte.
-
Tu credi?
Gli chiede, cercando di sembrare
seria.
-
Ne sono assolutamente convinto.
-
Bene, Akito. Allora sei pronto a rischiare? Potrei divertirmi molto anche senza
di te.
Lo
vede mordersi il labbro inferiore, segno del suo visibile
nervosismo.
-
Maledizione, Kurata. E và bene! Proviamo questo dannatissimo corso di
ballo!
Sana si lascia andare ad un sorriso splendido e ad
un’espressione evidentemente soddisfatta.
Ha
vinto lei anche stavolta.
-
Akito..?
-
Ora che altro vuoi?
-
Accosta un attimo.
-
Per quale motivo?
-
Tu accosta.
Akito alza gli occhi al cielo e acconsente, tanto per
cambiare, alla richiesta della sua fidanzata.
Non appena il motore dell’auto si spegne, lei gli si
getta tra le braccia e lo bacia con foga.
Lui, ovviamente, è ben lieto di rispondere a quel gesto
inatteso.
-
Ora capisci perché ti ho chiesto di accostare? Stavo impazzendo per la voglia di
darti un bacio.
Anche Akito stavolta si lascia andare ad un sorriso.
Sana sarà anche un’egoista che lo “costringe” a fare
tutto quello che le passa per la testa, ma è anche vero che sa sempre trovare il
modo per ricompensarlo.”
***
Saldamente seduto sulla sua sedia, constatò che le poche
lezioni di ballo che aveva preso con Sana non erano servite a nulla, almeno per
lei.
Ciò che stava facendo con quell’idiota di Kamura non
poteva essere definito, neppure nell’universo più remoto, un ballo.
Piuttosto, era solo uno stare in piedi abbracciati e
muovere i piedi ogni tanto, per far vedere che non erano ancora diventati due
statue di marmo.
Una scena davvero patetica, Kamura.
Se solo ci fosse stato lui a ballare con Sana, la scena
sarebbe stata completamente diversa.
Certo, non era un ballerino provetto neppure lui,- anche
perché aveva preso sì e no una diecina di lezioni-, ma di certo avrebbe saputo
fare molto meglio.
Non se ne sarebbe stato immobile come un emerito
imbecille e avrebbe saputo far sembrare stupendo anche il più goffo dei
movimenti.
Stupendo, perché l’avrebbe fatto con lei.
Lei che amava ballare, e che l’aveva sempre fatto
abbastanza bene, ma che ora sembrava solo una sagoma vuota.
Allora, visto che la colpa di quella orribile scenetta
non era di Sana, per forza di cose doveva essere di Kamura. Era per lui che i
movimenti di Sana risultavano spenti. E vuoti. E inutili.
Almeno
io sapevo farla sorridere.
Certo, anche ora lei sorrideva. E ad un occhio inesperto,
un occhio che non l’aveva ammirata in ogni suo più piccolo dettaglio per gran
parte della sua vita, sarebbe anche potuta sembrare felice.
Ma lui non si limitava a guardarla, lui la vedeva davvero.
E quello che vedeva era solo una donna che faceva di
tutto per apparire felice. Che creava sorrisi alla stessa velocità di uno
schiocco di dita e che, invece, non sapeva che un vero sorriso è una cosa più
rara.
Dov’è il tuo sorriso,
Sana?
Per tutta la durata del ballo non fece altro che
guardarla, senza preoccuparsi che lei potesse vederlo.
Era così bella, fasciata in quel vestito blu, che
guardarla era una necessità.
Fu solo quando terminò la musica che anche lei lo
guardò.
E per quel breve istante, la fitta di tristezza che le
attraversò gli occhi, non le permise di creare neppure il più finto dei
sorrisi.
***
Si, c’aveva provato a fare finta di niente. A ballare con
Naozumi tranquillamente, come se Akito non fosse seduto a pochi metri da lei e
non la guardasse in quel
modo.
Inutile dire che tutti i suoi tentativi si erano rivelati
vani.
Non con Naozumi, però, visto che lui sembrava
incredibilmente tranquillo e sereno.
Erano stati gli occhi di Akito che le avevano trasmesso
l’inequivocabile messaggio che a quella stupida commedia lui non c’aveva
creduto. Che avrebbe potuto sorridere a Naozumi anche per tutta la notte, ridere
a crepapelle ad ogni sua battuta o raccontare aneddoti divertenti sulla loro
vita a New York,… ma che tutto questo non sarebbe comunque bastato per mentire a
lui.
Non appena la musica terminò e Naozumi sciolse la loro
stretta, il suo sguardo sfuggì al suo controllo e si diresse verso il punto
della sala nel quale era seduto Akito.
E lei si sentì indifesa. Nuda. Priva di barriere
protettive, senza la forza di creare l’ennesimo sorriso mentitore.
E capì che non avrebbe resistito a lungo.
- Nao, io… io esco a prendere un po’ d’aria.
Disse piano, abbassando gli occhi.
- Qualcosa non và?
Scosse vistosamente il capo.
- No, no.. è solo che ho voglia di fare un giro in
giardino. Ho notato che è molto grande e vorrei vederlo.
- Vuoi che venga con te?
Era ovvio che Naozumi sperasse in un sì.
- Non preoccuparti, tu resta pure qui, amore.
Provò disgusto verso sé stessa non appena si rese conto
che l’aveva chiamato “amore” solo per indorare un po’ la pillola. Per fargli
credere che fosse tutto ok.
Lui la guardò in silenzio per qualche istante, negli
occhi un’insolita preoccupazione, e poi le sorrise.
- Come vuoi. Non metterci troppo, amore.
Il tono amaro con cui Naozumi pronunciò quell’ultima
parola le fece capire che, almeno stavolta, lui non le aveva affatto
creduto.
***
Ormai si era reso conto che ingaggiare una battaglia
contro il suo cuore non sarebbe servito a nulla se non ad aumentare la sua
sofferenza e a farlo uscire dallo scontro con le ossa distrutte e con la
consapevolezza che, per quanto si sforzasse, contro il suo cuore non avrebbe mai
vinto.
Fu per questo che quando la vide uscire dalla sala a
passo svelto e con il capo chino, lasciando Naozumi dietro di lei, immobile e
solo, non resistette all’impulso di seguirla.
Così, cercando di non farsi notare da nessuno, o almeno
da Kamura, lasciò la sala dove la festa era ormai entrata nel vivo, ed uscì per
andare a cercarla in giardino.
/*/
Note
dell’autrice: Eccoci qui. Questo capitolo è venuto un po’ più lungo del
previsto… Ho preferito non chiuderlo prima perché non volevo “spezzare” troppo
la scena.. E poi, finendolo così, spero di essere riuscita a suscitare una
maggiore curiosità per il prossimo capitolo che, vi anticipo già da ora, sarà
forse il più importante di tutti. ;)
Sarà ripetitiva, ma ringrazio tutte coloro che hanno
recensito e spero di poter sapere il vostro parere anche su questo
capitolo.
Salveeeeeeeeeeeee!!! E come ogni sabato.. Buona lettura..
^^
CAPITOLO UNDICI:
GIARDINO
Dopo aver girato a vuoto tra i cespugli e gli alberi
spogli e ricoperti di neve per un bel po’ di minuti, finalmente la vide.
Se ne stava immobile con i gomiti poggiati ad una piccola
ringhiera in legno e con lo sguardo rivolto verso il cielo stranamente
limpido.
Aveva scelto l’unica zona di quell’enorme giardino priva
di lampioni accesi, per questo ad illuminarla c’era solo il tenue bagliore della
luna piena.
Gli sembrò bellissima. Talmente bella che restò per
qualche secondo ad osservarla in silenzio, nascosto dietro il tronco di un
albero come un bambino spaventato.
Non essere idiota, Akito. È Sana… da quando ti imbarazza
parlare con lei?
Giusto. Lei era Sana. Nonostante tutto il tempo sprecato,
in lei c’era sempre la bambina ficcanaso e rumorosa di cui si era
innamorato.
Doveva essere lì da qualche parte, sotto quella pelle che
non toccava da troppo tempo, in mezzo a quei capelli che si muovevano leggeri ad
ogni alito di vento, dentro a quegli occhi che ormai avevano perso la capacità
di brillare.
Si, doveva esserci. Ben nascosta dagli errori e dalle
bugie, dall’egoismo cresciuto di pari passo con l’età,… lì, dove solo lui
avrebbe potuto trovarla, doveva esserci la sua Sana.
Voleva rivederla, parlare con lei e prenderla in giro per
farla incazzare. Ridere come uno stupido ad ogni sua ridicola gaffe. E baciarla
fino a star male, fino a perdere il respiro per dividere con lei anche l’ultimo
soffio di aria.
Su,
Akito. Spostati da questo cazzo di tronco e và da lei.
Era finito il tempo delle attese e dei tormenti. Le
continue domande della sua mente… quei “Chissà cosa sta facendo” o “Chissà se a New York è felice
davvero…”.
In quel momento lei non era a New York, lontana migliaia
e migliaia di chilometri. Era lì, a pochi passi da lui.
Bastava solo allungare una mano.
***
- Bella serata vero?
Voltò il capo con uno scatto improvviso e sussultò
portandosi una mano sul petto non appena vide l’alta figura di Akito immobile di
fronte a lei.
Lui, mani nelle tasche e aria imperscrutabile, mosse
qualche passo fin quando non le fu abbastanza vicino per vederla in
volto.
- C… cosa?
Balbettò, visibilmente frastornata per quell’inattesa
presenza.
Lui continuò a camminare, oltrepassandola, fino a
raggiungere la piccola ringhiera in legno dove lei stava poggiata fino ad un
istante prima.
- Dicevo che è una bella serata. C’è un cielo
stupendo.
- S.. si. Bellissimo.
Bellissimo il cielo. Bellissimo
tu.
Lei lo imitò, poggiando i gomiti sulla ringhiera e
cercando di concentrarsi sulla luna piena e non sul volto di Akito.
- E’ stato un bel matrimonio, non trovi?
Stavolta lo guardò, stupida per la sua insolita voglia di
chiacchierare.
Ma guardarlo fu un errore imperdonabile.
Illuminato solo dalla luce della luna era fastidiosamente
bello. Si, una bellezza fastidiosa, di fronte alla quale non poté fare altro che
restare in silenzio, pregando intensamente che Akito non si accorgesse del suo
imbarazzo.
- Hai perso la parola, Kurata?
Rispondi alle domande Sana! Non imbambolarti come al
solito!
- Si, è stato un bel matrimonio. E sono molto felice per
Aya e Tsu.
Rispose meccanicamente, tornando a concentrarsi
sull’immenso manto di stelle.
Avere Akito accanto, a pochi centimetri di distanza, in
una zona del giardino praticamente priva di illuminazione e abbastanza lontana
dalle luci e dai suoni della festa, la rendeva particolarmente nervosa.
Non sapeva cosa fare. Non sapeva se dare ascolto a quella
vocina nel cervello che le urlava di andare via e di tornare nella sala per
raggiungere Naozumi, o se dare retta al battito accelerato del suo cuore che
giovava della presenza di Akito come i polmoni giovavano di una sana boccata
d’ossigeno.
Fu costretta ad assecondare il suo cuore, visto che anche
i muscoli del corpo sembravano non avere la benché minima intenzione di
muoversi.
Restò immobile accanto ad Akito per qualche secondo, fino
a quando lui non parlò ancora; il tono di voce incredibilmente
tranquillo.
- Come mai sei qui?
Oh, andiamo. Lo sai benissimo perché sono
qui.
- Volevo prendere una boccata d’aria.
Akito ridacchiò, scuotendo il capo e lasciando che i
ciuffi più lunghi della sua frangetta disordinata gli solleticassero la
fronte.
- Una boccata d’aria? In una notte così gelida e nel bel
mezzo di una festa?
- Ci trovi qualcosa di strano?
Su, Akito. Dove vuoi
arrivare?
- Anche se credessi alla scusa della “boccata d’aria”,
non riuscirei comunque a spiegarmi il motivo per cui non hai voluto che il tuo
fidanzato venisse con te.
D’istinto, alzò lo sguardo verso di lui, come per fargli
capire che sarebbe stato molto meglio chiudere il discorso in quell’esatto
istante. E che se avesse continuato a farle quel genere di domande sarebbero di
nuovo finiti a litigare. E lei ne sarebbe uscita annientata ancora una
volta.
- Io non ci vedo proprio niente di strano.
Stavolta fu lui a guardarla e, non appena incontrò i suoi
occhi, l’espressione tranquilla che aveva avuto fino ad un attimo prima lasciò
il posto ad una smorfia che gli contrasse il viso in un indecifrabile mezzo
sorriso.
- C’è qualcosa che ti diverte, Akito?
Lui ridacchiò ancora.. due volte nel giro di una manciata
di secondi.
- Si, Kurata. In realtà trovo che il tuo tentativo di
mentire sia molto divertente.
Sentenziò, stringendosi nelle spalle.
- Io non tento di fare un bel niente! Tantomeno di
mentirti.
- Ne sei sicura?
Le chiese, avvicinandosi a lei, fino a lasciare lo spazio
di appena qualche centimetro tra i loro volti.
Lei cercò di non fare caso alla scossa che sentì dentro
il suo petto e provò ad assumere un atteggiamento composto e
convincente.
- Certo che sono sicura.
Lui sorrise di nuovo, per la terza volta.
- Non puoi mentirmi, Sana.
Le sembrò di non avere più la terra sotto ai piedi, non
appena le labbra di Akito pronunciarono il suo nome e lo riempirono di
quell’antica e insperata dolcezza.
E senza terra sotto ai piedi sbandò, perdendo
completamente l’equilibrio e la capacità di inventare qualsiasi parvenza di
menzogna.
- Ok, hai vinto. Sono uscita dalla sala perché non
riuscivo più a reggere il tuo sguardo. Soddisfatto?
Incredibile a credersi, ma Akito sorrise ancora. Stavolta
però era un sorriso diverso. Un sorriso che non si fermò sulle labbra, ma che
arrivò fin dentro agli occhi, accendendoli per qualche breve istante.
Lei lo notò, vide quella piccola scintilla, e sorrise a
sua volta.
- E tu invece?
- Io cosa?
- Tu perché sei qui?
Mi
spiace Akito. Non ti permetterò di lasciare a me il peso della
verità.
Si preparò mentalmente ad ascoltare una stupida bugia,
mentre già cercava nella sua testa la frase più idonea per rispondergli a tono.
E invece, inspiegabilmente, lui non mentì.
Le gettò addosso la verità, come una spinta inattesa
dietro le spalle.
- Sono uscito a cercarti.
Ma la spinta era sull’orlo di un precipizio.
- P.. perché?
Bastava davvero poco,- un movimento sbagliato, un respiro
di troppo-, per precipitare e schiantarsi al suolo.
- Perché volevo vederti da sola, senza Kamura a girarti
intorno.
- Ora mi hai vista, no? Devi dirmi qualcosa?
Bisognava solo trattenere il respiro e restare
perfettamente immobile.
- Io sono geloso, Sana. Non sopporto più di
vederti insieme a lui.
Ma respirare era necessario e non muoversi era
impossibile.
E allora respirò, si mosse e, inevitabilmente,
precipitò.
***
Passarono alcuni lunghissimi secondi,- granelli di sabbia
che scendevano a rilento nella clessidra-, prima che il suo cervello
metabolizzasse le parole di Akito.
Quando finalmente la sua mente le assicurò che ciò che
avevano appena udito le sue orecchie corrispondesse alla verità, si porto
d’istinto una mano sul cuore. Un pugno chiuso, a premere forte sul petto in
segno di protezione.
Protezione da chi?
Era da Akito che doveva proteggere il suo
cuore?
O era lei stessa che continuava a pugnalarlo?
Perché erano pugnalate, lame aguzze sotto la carne, tutti
i tentativi di mettere a tacere quel cuore che tanto cercava di proteggere,… di
ignorare deliberatamente i ripetuti segnali di resa.. i battiti che diventavano
sempre più flebili man mano che il pensiero di Akito si allontanava.
Ma non c’era più tempo per Akito. Basta batticuori
improvvisi, o baci che mozzavano il fiato. O giornate di pioggia passate a fare
l’amore sotto le coperte, a mischiarsi così tanto, così forte, fino ad avere sul corpo un’unica
pelle, a sentire nel petto anche i suoi battiti, e a respirare nell’aria quel
fortissimo odore di vita.
Basta.
Perché poi capita di svegliarsi un mattino qualunque e di
rendersi conto che tutto quell’amore non era bastato.
- Cos’hai detto? Puoi ripetere per favore?
- Ora non fare finta di non aver capito.
Sapeva benissimo che Akito non avrebbe ripetuto quanto
detto poco prima neppure sotto la minaccia della peggiore delle torture. Però
voleva risentire quelle parole… era troppa la paura che aveva che lui non le
avesse pronunciate davvero.
- Che diavolo vuol dire che sei geloso?
Lui si strinse nelle spalle, come se dalla sua bocca
fosse appena uscita una frase qualunque.
- Secondo te cosa vuol dire? Quanti significati può avere
un’affermazione del genere?
Quella risposta,- che in realtà era una mezza domanda-,
le fece capire che le sue orecchie avevano sentito benissimo.
Akito aveva tranquillamente, limpidamente,
inequivocabilmente ammesso di essere geloso.
E in lei si stava scatenando l’inferno.
- Non puoi essere geloso!
Quasi gli urlò contro, serrando forte i pugni lungo i
fianchi, fino a sentire le unghie graffiarle palmi delle mani.
- A quanto pare invece posso.
Sentenziò con calma inaudita.
- M…. ma… ie… ieri.. mi hai… cacciata.
Balbettò, mentre inconsciamente abbassava il capo e
cercava di trattenere la voglia di prenderlo a schiaffi. E di fargli male,
molto, molto male. Perché non poteva restare impunito per quello che le aveva
appena rivelato… non poteva sconvolgerla in quel modo, mandarla in paradiso e
poi gettarla all’inferno, nel giro di pochi secondi.
- Lo so.
Sentì una rabbia cieca impossessarsi di lei… la
tranquillità con la quale Akito le stava parlando era insopportabile.
Serrò i pugni ancora di più e alzò il viso in uno scatto
d’incontrollabile ira.
- Lo sai? Che accidenti vuol dire che lo sai? Si può
sapere dove vuoi arrivare?
Urlò a pochi centimetri dal suo viso.
- So di averti cacciata. Ma so anche di aver sbagliato a
farlo.
Oh, perfetto.
Dov’era finita tutta la rabbia? Possibile che fosse già
sparita? Che se ne fosse già andata, sciolta come neve al sole, di fronte alle
parole di Akito?
Complimenti, Sana. Davvero molto
coerente.
- A.. Akito.. i.. io.. non capisco cosa vuoi
dirmi.
Era vero. Non capiva niente. Né il motivo della sua
presenza lì in giardino, né le sue parole, né tantomeno lo sguardo con cui la
stava di nuovo immobilizzando.
Vedendola ferma e silenziosa, incapace di formulare anche
la più semplice delle risposte, Akito mosse qualche passo e le si avvicinò al
punto tale da poter sentire il suo respiro divenire irregolare e il battito del
suo cuore aumentare d’intensità.
- Davvero non capisci, Sana?
Lei lo guardò in silenzio, scuotendo appena la testa,
come a supplicarlo di non prolungare oltre quella maledetta attesa e di dirle
quello che doveva, in fretta e senza ulteriori indugi.
- Ieri ero arrabbiato. Si sbagliano molte cose, quando si
è arrabbiati. Lo sai anche tu, no? La rabbia, la delusione, il risentimento,
sono sentimenti che ti spingono a fare cose che non vorresti mai
fare.
Si fermò un attimo per prendere un profondo respiro.
Anche tutta la tranquillità che l’aveva accompagnato fino a qualche istante
prima, era completamente scomparsa.
- … quindi, Sana.. ho capito che io…
- … mi
ami?
Gli chiese d’istinto, mentre si rendeva conto di non
voler affatto sapere la risposta. Di non doverla sapere. Perché saperlo l’avrebbe
sconvolta. Avrebbe distrutto tutti i suoi nuovi equilibri.
E lei non voleva cadere mai più.
- … Sana, io…
- NO, AKITO!
Urlò, fissando lo sguardo sull’erba perfettamente
tagliata di quello splendido giardino, e scuotendo forte il capo.
- … Non voglio saperlo! Non mi interessa… non mi
interessa più.
Desiderò scappare, andare via il prima possibile da
quella situazione. E allora non appena terminò la frase, scattò per tornare
nella sala dei festeggiamenti e per raggiungere Naozumi.
Ma riuscì a muoversi solo di pochi centimetri, perché
Akito la bloccò, stringendole un polso con forza e costringendola a tornare sui
suoi passi.
- Perché stai scappando?
Le chiese, mentre i suoi occhi la imploravano di
restare.
- Io…io gli ho chiesto di sposarmi.
Glielo disse così, senza giri di parole, senza inutili
tentennamenti.
Di getto, improvvisamente, con la stessa violenza di un
temporale nel bel mezzo dell’estate.
- Cosa?
- Si, Akito. Io e Naozumi ci sposeremo presto.
Dirgli quelle parole fu come infliggere un colpo mortale.
E anche come riceverlo.
Descrivere quello che vide negli occhi di Akito, sarebbe
a dir poco impossibile.
Di certo ci vide sorpresa,… quella sorpresa cattiva, che
ti toglie l’aria e ti fa perdere la forza per stare in piedi.
Poi ci vide rabbia, nera, folle e accecante. Quella che
ti fa venire voglia di spaccare ogni cosa, di prendere a pugni ogni parte di
mondo.
Infine, e fu questo che la uccise, ci vide disperazione. Quella che ti disintegra,
che ti spacca in mille pezzi…, che ti colpisce quando perdi un’occasione che sai
bene non capiterà più e ti rendi conto che quell’occasione era proprio l’unica
cosa che non dovevi perdere.
Ci vide tutto questo, insomma. E un sacco di altre
cose.
Lo lesse così bene, quello sguardo, perché l’aveva
portato sul volto anche lei, per moltissimo tempo. Forse, ogni tanto, ce l’aveva
ancora… ogni tanto tornava prepotente ad impossessarsi dei suoi occhi.
Ogni tanto… , ogni volta che non c’era Akito.
- Ora è meglio se torno dentro o Naozumi tra poco uscirà
a cercarmi.
Per la seconda volta nel giro di pochi minuti, diede le
spalle ad Akito per andare via. E per la seconda volta lui la fermò. Stavolta
con meno calma, con molta meno freddezza. La afferrò per le spalle e, con una
forza inaudita, la costrinse di fronte a lui, facendola indietreggiare di
qualche passo, fino a far scontrare la sua schiena con il tronco dell’albero
dietro il quale, poco prima, lui stesso si era nascosto.
- Tu non vai da nessuna parte.
Ordinò, stringendo ancora di più la presa intorno alle
esili spalle di lei. Lei che tremò e lo guardò, quasi terrorizzata.
- A.. Akito.. mi fai.. mi fai male…
Lui neppure la ascoltò, perché non allentò la presa
neanche di un millimetro e mosse in avanti il capo, fino a far scontrare le loro
fronti.
- Possibile che tu non capisca? Non lo capisci che mi
uccidi ogni volta che gli permetti anche solo di sfiorarti? Non vedi che
impazzisco se gli sorridi? Davvero non te ne accorgi?
Era disperato. E lei desiderava solo morire… porre fine a
quell’agonia, non vedere più il suo
Akito tremare quasi fino alle lacrime.
-… preferirei strapparmi la pelle con le mie stesse mani
piuttosto che vederti all’altare insieme a qualcun altro... Non sposarlo, Sana…
ti
prego.
Non riuscì a
capire quello che le scattò nel cervello… sentì solo una scossa fortissima, un
calcio violento nel petto, che la portarono a sollevarsi sulle punte e a
raggiungere le sue labbra, aggrappandosi alla sua schiena con tutta la forza di
cui era capace.
Quando lui rispose al bacio, quasi stritolandola contro
il suo torace, si rese conto di non avere via d’uscita.
Era come se qualcuno le avesse iniettato nelle vene
l’odore di Akito. E avrebbe potuto fare qualsiasi cosa, imprecare contro
qualsiasi Dio, dare vita alla sua migliore interpretazione da attrice, ma Akito
sarebbe sempre stato dentro di lei. Scorreva nelle sue stesse vene, all’interno
del suo stesso sangue.
- … non
sposarlo…
Ripeté meccanicamente, non appena lasciò le labbra di
Sana, giusto il tempo necessario per respirare.
Lei non rispose, perché non voleva sprecare neppure un
solo istante a fare qualcosa di diverso dal baciare Akito. Baciarlo al punto
tale da non sentire nient’altro se non il suo sapore… da non far caso al gelo
che aleggiava in quella freddissima notte o al senso di colpa per aver tradito
Naozumi ancora una volta.
C’era solo Akito, e le sue mani che scendevano frettolose
e tremanti ad accarezzarle la schiena, provocandole brividi che partivano
direttamente dal cuore.
Serrò le braccia intorno alle sue spalle, mentre infilava
una mano tra i suoi capelli biondi e chiudeva gli occhi per estraniarsi
completamente da tutto il resto, anche se sapeva bene che in quel momento non
c’era assolutamente niente che avrebbe potuto attirare la sua
attenzione.
Akito si strinse a lei ancora di più, fermandosi con le
mani sui suoi fianchi e raccogliendo la morbida stoffa blu del vestito fino a
lasciarle scoperte le gambe perfette.
In quel momento, gli sembrò di non essere più in grado di
ragionare. Il suo corpo si muoveva da solo, guidato dal suo cuore, mentre la sua
mente veniva messa a tacere.
Iniziò ad accarezzarle le gambe, senza lasciare le sue
labbra neppure per un istante.
Stretta tra lui e il tronco dell’albero, lei sentì il
respiro diventare sempre più affannato e infilò le mani sotto la giacca di
Akito, sfiorando la sua pelle dal sottile tessuto della camicia scura che stava
indossando.
Le loro labbra si scontravano, avide e instancabili, come
se in quei pochi minuti volessero recuperare tutto il tempo perso. Perso a fare
altro, a vivere lontani migliaia di chilometri, a dannarsi per cercare di stare
meglio, quando invece sarebbe bastato solo mettere da parte l’orgoglio e la
paura e capire che l’unica cosa da fare era semplicemente tornare
indietro.
- Akito…
Gli sussurrò, avvicinandosi al suo orecchio e invitandolo
a continuare.
Lui gli si gettò impaziente sul collo nudo, affondando
con il viso in quella pelle morbida, inspirando il più a lungo possibile
quell’odore mai dimenticato.
Dal collo arrivò in fretta alla scollatura, depositando
una scia di baci fino all’incavo tra i seni, mentre con una mano la liberava dal
piccolo copri spalle di pelliccia e afferrava la sottile spallina del vestito,
lasciandola cadere fino al gomito, per permettere ai suoi occhi di poter
rivedere quel seno piccolo e perfetto.
Si concesse qualche secondo per ammirarla meglio. Teneva
ancora gli occhi chiusi e le sue guance si erano colorate di un accesissimo
rosso. Rosso come le sue labbra socchiuse, con le quali, sempre più spesso,
pronunciava il suo nome.
Riuscì a resistere solo pochi istanti, prima di gettarsi
sul suo seno e baciarlo con passione e dolcezza.
Infilò una mano sotto il vestito risalendo lungo il
ventre sottile, per riscendere poi, in una lentissima carezza, fino all’orlo in
pizzo degli slip. Si soffermò qualche secondo a giocherellarci, spostando le
dita dal tessuto ricamato alla morbida pelle del basso ventre, fino a quando non
si decise a scostare quel piccolo pezzo di stoffa per scendere ancora più in
basso, con estenuante lentezza.
Quando lei lo chiamò ancora, quasi urlando il suo nome,
infilandogli le mani sotto la camicia e accarezzandogli la schiena con le
unghie, capì che non avrebbe potuto attendere ancora.Con un gesto secco e improvviso si
liberò della cintura e dei bottoni dei pantaloni e portò le braccia sotto le
cosce di lei per sollevarle le gambe. Lei non oppose resistenza e lasciò che lui
la sollevasse da terra avvinghiandogli le gambe intorno al bacino e poggiando
meglio la schiena al tronco dell’albero, senza neppure far caso ai graffi che
quella corteccia ruvida poteva causare alla sua pelle quasi del tutto
scoperta.
Bastò un attimo appena e lo sentì dentro di lei. Le ci
volle tutto l’autocontrollo di cui era capace per non mettersi ad urlare di
gioia.
Quando lo sentì muoversi in lei, entrarle non solo nel
corpo, maanche nell’anima, fu come
essersi risvegliata da un sogno.
E le venne spontaneo chiedersi cos’aveva fatto in quegli
ultimi quattro anni…
Come aveva passato le giornate, con quale spirito si era
alzata ogni mattina, pur sapendo di non poter vedere i suoi occhi?
Dov’era stata,… chi era stata, se non l’aveva avuto
accanto?
Ora l’ho capito…E’ solo al tuo fianco che posso essere me
stessa.
Poteva sentire il battito accelerato di Akito così
distintamente che le sembrava che il suo cuore battesse nel suo petto.
E tutto tornò ad avere un senso.
Come le tessere mancanti di un puzzle che non riusciva a
finire da troppo tempo, o come un indovinello dispettoso che sembrava non avere
soluzione.
Perché mentre si lasciava andare felice e stanca tra le
sue braccia, mentre lo sentiva emettere un ultimo lunghissimo sospiro, capì che
le tessere mancanti del puzzle erano solo finite sotto il letto.
E che la soluzione dell’indovinello era sempre stata
sotto al suo naso.
***
“-
Pronto?
-
Si, Fukachan, sono Sana. Ti disturbo?
-
No, no, Sanachan, dimmi pure.
Con la mano a stringere forte il suo nuovo telefonino, si
siede sull’enorme letto della sua camera, prendendo un profondo
respiro.
-
E.. ecco.. io… volevo confessarti una cosa…
Balbetta, mentre con la mano libera tormenta i lunghi
capelli rossi, appena lavati.
-
Dimmi allora. Ti ascolto.
-
Non è… così semplice..
Dall’altro capo del telefono, sente Fuka sbuffare
sonoramente.
-
Sanachan si può sapere cosa succede? Qualcosa di
grave?
Scuote vistosamente la testa, come se Fuka potesse
vederla.
-
No, no! Và tutto bene.. anzi.. benissimo!
Dopo qualche istante di silenzio, Fuka inizia a
ridacchiare divertita.
-
Ah.. ho capito. C’entra Akito, non è vero? È successo qualcosa tra
voi?
Al
solo sentire il nome di Akito, avverte distintamente i battiti del suo cuore
diventare frenetici e le guance colorarsi di un accesissimo
rosso.
-
Ecco… io… cioè.. ieri sera, come sai, è.. è venuto a casa mia e… poi.. si
insomma.. eravamo soli e…
-
O MIO DIO, SANACHAN! AVETE FATTO L’AMORE?
Ecco. La solita Fuka che non conosce mezze misure.
D’altronde è risaputo che se avesse dovuto aspettare una confessione di Sana, la
sedicenne più imbranata e goffa del mondo, avrebbe potuto anche attendere una
giornata intera.
-
E.. ecco noi…
-
Oh, andiamo Sanachan! Rispondi chiaramente.. si o
no?
-
S… si…
-
WOW! Voglio sapere tutti i dettagli! Com’è stato? Cosa ti ha detto lui? Oddio,
Sanachan, DIMMI TUTTO!
Sana si porta una mano sulle guance, per evitare che si
surriscaldino troppo. Le sembra di andare a fuoco se solo le immagini della
notte appena conclusa le passano indisturbate per la
mente.
-
E’ stato… bellissimo.
-
E ti aspetti che io mi accontenti di così poco? I dettagli, Sanachan! I
DETTAGLI!
In
realtà, Sana sa benissimo che neppure raccontando ogni minimo particolare,
riuscirebbe a spiegare a parole quello che è stato, fare l’amore con
Akito.
Non saprebbe descrivere quei brividi lungo la schiena,
quel subbuglio nello stomaco, quella vertigine… quella paura irrazionale di
farsi male, chetata in fretta da quel “ Non avere paura”, sussurrato da Akito
vicino al suo orecchio.
Per non parlare poi della scossa che le scombussolava
ogni cellula del corpo, mentre Akito si muoveva paziente dentro di lei.
Non potrebbe mai spiegare quella magia… la magia di
sentire i loro respiri fondersi e i loro cuori battere insieme, mischiarsi così
tanto da sentire un unico battito. O la sensazione di toccare il cielo con un
dito, di avere la più grande felicità tra le mani, nel sentire quel “Ti amo”,
sussurrato sulle sue labbra.
No. Non saprebbe proprio trovare le parole per rendere
giustizia alla sua prima notte con Akito.
-
Fukachan.. non so spiegartelo.
-
Eh, no! Ora facciamo così… mi metto qualcosa di presentabile e vengo da te. Sarò
lì tra circa mezz’ora!
-
Ma…
-
Niente “ma”, Sanachan! Voglio sapere tutto!
Sana si lascia scappare una piccola risata. È pienamente
consapevole del fatto che Fuka desisterà tanto facilmente. E allora tanto vale
assecondarla.
-
Come vuoi, Fukachan. Ah… chiama anche Ayachan e portala con te! Lei non sa
ancora nulla.
-
Certo, certo! Allora ci vediamo tra poco!
-
Perfetto.
Stacca il cellulare dall’orecchio, ponendo fine alla
conversazione, e sorride. Ha già il mal di testa se solo pensa alle domande che
le faranno Fuka e Aya non appena entreranno in casa
sua.
Pazienza. È così felice che potrebbe rispondere a tutte
le domande del mondo senza stancarsi mai.
Si
lascia andare sul letto, cadendo con la schiena sul morbido materasso e
rivolgendo il capo verso il soffitto.
Chiude gli occhi e inspira profondamente. E non sa se è
la realtà o solo una sua impressione… ma le sembra che in quella stanza tutto
abbia ancora lo stesso, bellissimo, odore di
Akito.”
***
Si guardò intorno e sbuffò, visibilmente spazientito.
Sana era uscita da almeno venti minuti e ancora non si
decideva a tornare.
Che accidenti sta facendo in quel giardino da
sola?
Non appena la sua mente elaborò questa domanda, i suoi
occhi azzurri vagarono per tutta la sala e notarono che Sana non era l’unica
persona ad essersi allontanata.
Oh, certo! Sempre in mezzo ai piedi, eh
Hayama?
Tirò un profondo sospiro.
In fondo, non era certo del fatto che Akito fosse in
giardino con Sana.
Per quanto ne sapeva, poteva essersi allontanato per fare
una telefonata, o essere tranquillamente andato in bagno.
Giusto. Non devo tirare conclusioni troppo affrettate.
Ora mi alzo e vado a controllare in bagno.
Prima di riuscire a mettere in atto il suo proposito,
lasciò passare qualche minuto. Per quanto si ostinasse a negarlo, infatti, il
suo cuore stava letteralmente morendo di paura. Perché era cosciente del fatto
che c’era la possibilità che Akito e Sana fossero insieme. Che stessero parlando
indisturbati in giardino, senza nessuno che potesse “controllarli”.
Bravo, Naozumi! Hai davvero molta fiducia nella tua
futura moglie!
Fiducia? Si trattava davvero di mancanza di
fiducia?
O era quel maledetto terrore di rendersi conto che,
quella proposta, Sana gliel’aveva fatta solo per disperazione? Che gli avesse
chiesto di sposarla solo perché, forse, lui l’aveva respinta?
Decise di porre fine ai suoi dubbi e, di scatto, si alzò
dalla sua sedia, oltrepassò la sala e si diresse verso il corridoio per accedere
ai bagni.
Esitò qualche secondo prima di trovare il coraggio per
entrare e controllare se ci fosse Akito. Quando trovò il coraggio, e oltrepassò
la porta che conduceva nei bagni, notò che di Hayama non c’era nemmeno
l’ombra.
E in un attimo sentì la speranza fuggire via e la vita
che aveva immaginato di vivere con Sana si sgretolò di fronte ai suoi occhi.
Tutto crollò in un istante, come un castello di sabbia
durante una mareggiata.
Eppure stavolta ci credevo
davvero…
Si lasciò andare sulle ginocchia, portandosi le mani sul
viso per nascondere le lacrime che iniziavano a rigargli le guance.
E pianse.
Pianse per tutte le volte che si era sentito tradito,
umiliato, usato.
Per tutte le volte che era stato stupido, cieco,
ostinato. Che aveva fatto finta di non vedere, di non capire.. mentre invece
aveva visto benissimo.. e aveva capito ogni cosa.
Sana, la sua
Sana, sarebbe stata sempre innamorata di Akito. E per quanto si sforzasse,
per quanto fingesse per fargli credere che andava tutto bene, sarebbe bastata
una sola parola di Akito per farla crollare.
Forse stava crollando proprio in quel momento, nella
penombra del giardino, sotto la luce della luna.
Se
è davvero così, non voglio saperlo. Non voglio
vederlo.
Smise di piangere solo quando sentì dei passi veloci
avvicinarsi alla porta.. probabilmente qualcuno doveva davvero usare il
bagno.
Si alzò da terra e si nascose per non farsi notare,
perché nessuno doveva vederlo in quello stato pietoso.
Si affacciò dal suo nascondiglio,- che altro non era che
uno dei tanti bagni disponibili-, per vedere a chi appartenessero i passi che
aveva appena sentito.
Si stupì un poco quando vide le figure di Aya e Fuka che
gesticolavano nervosamente e parlavano con un tono di voce decisamente più basso
del normale.
Perché bisbigliano? Cos’avranno da
nascondere?
Il suo senso morale avrebbe voluto che uscisse allo
scoperto, salutasse le due donne con gentilezza e uscisse dal bagno lasciandole
da sole, senza interessarsi delle loro conversazioni.
Ma era troppo incazzato col mondo per dare retta al suo
senso morale.
E allora restò immobile, tendendo l’orecchio per cercare
di captare più parole possibili.
Una frase lo colpì violentemente, come una secchiata
d’acqua gelida in una calda e sonnacchiosa mattina d’inizio agosto.
Perché avrebbe potuto giurare su ciò che di più caro
aveva al mondo, di aver sentito distintamente Aya fare a Fuka una domanda che
somigliava a “Allora hai deciso di non dire niente del bambino ad
Akito?”.
Si. Le parole gli erano arrivate chiare nelle orecchie e
avevano trovato conferma nella risposta nervosa di Fuka, che sibilò un
perentorio “No. Credo sia meglio per tutti mantenere il segreto. Akito non dovrà
mai sapere di avere un figlio”
Devo aver capito male… perché Akito non ha nessun figlio.
E non può aver avuto nessun figlio da Fuka.
Lui e Fuka non sono mai stati insieme… Sana me l’avrebbe
detto.
A
meno che…
D’istinto si portò una mano sulla bocca, per evitare di
mettersi a urlare.
…
a meno che non sia successo dopo che Sana l’ha lasciato. Se è così allora…allora
Akito e Fuka hanno un figlio… e né lui né Sana ne sono a
conoscenza.
Sentì un’idea materializzarsi nel cervello, come una
lampadina che si accende sulle teste dei personaggi dei cartoni
animati.
Ma
sarebbe molto più giusto che Fuka rivelasse ad Akito la verità. E che lo sapesse
anche Sana.
Uno strano sentimento prese a bruciargli nel petto. Un
sentimento che lo spinse ad attendere nascosto l’uscita di Aya per poter avere
l’occasione di parlare da solo con Fuka.
Non dovette attendere che qualche minuto, perché sentì
Tsuyoshi chiamare la sua neo sposa e quest’ultima dileguarsi in fretta per
tornare in sala e continuare il ricevimento.
Spalancò la porta di colpo e vide Fuka sobbalzare e
sgranare gli occhi, terrorizzata.
- Naozumi? Che… che stai facendo? Da quanto… sei…
qui?
Lui infilò le mani nelle tasche dei pantaloni e sorrise
furbescamente.
- Sono stato qui abbastanza a lungo per ascoltare il
discorso tra te e Aya. E come potrai immaginare, io non ho nessuna intenzione di
mantenere il tuo piccolo segreto.
Vide Fuka portarsi le mani sul petto e indietreggiare in
preda al panico.
- Cosa? Quale segreto? Io non ho nessun
segreto!
Tentò di mentire.
- E allora l’ho immaginato io il figlio che hai con
Akito?
Ma lui sapeva benissimo cos’aveva appena sentito. E non
si sarebbe fatto prendere in giro tanto facilmente.
Fuka gli rivolse uno sguardo disperato.
- Naozumi non puoi… tu non puoi dirlo a
nessuno!
- Certo che posso! Voglio che Sana capisca chi è l’uomo
che continua ad amare!
Oh, ecco qual era, quello strano sentimento.
Era solo la voglia di vendetta.
- Cos’è? Un dispetto? Vuoi fare un dispetto a Sana perché
è ancora innamorata di Akito? Cosa pensi di ottenere?
- Voglio solo che tu dica a lei e ad Hayama la verità.
- Tu stai giocando con la vita delle persone solo per
ottenere un po’ di vendetta!
Si strinse nelle spalle, guardandola di
traverso.
- E se anche fosse? Sono stanco di essere la vittima di
turno. Quindi, sappi che se non parlerai tu lo farò io.
Sentenziò cinico e senza tradire il minimo dubbio.
Di fronte a lui, Fuka serrò gli occhi, forse per
trattenere le lacrime, strinse forte i pugni lungo i fianchi e si avviò verso la
porta.
- Tanto non tornerà da te.
Gli disse tagliente, prima di aprire la porta e lasciarlo
solo.
Lui sentì la rabbia crescere, diventare sempre più nera e
accecante, perché Fuka aveva ragione.. Sana non sarebbe tornata. In qualsiasi
caso, lui l’avrebbe persa.
Si, forse non tornerà da me. Ma non sarà neanche
sua.
/*/
Note
dell’autrice: Ok, sono perfettamente consapevole del fatto che molte di voi
coveranno una profonda rabbia nei confronti di Naozumi, dopo aver letto la fine
del capitolo. xD Ma sappiate che mi serviva qualcuno che “costringesse” Fuka a
svelare la verità. E chi meglio del povero e ferito Naozumi?
;)
La scena tra Sana e Akito, invece, è stata una vera e
propria liberazione! Non vedevo l’ora di poterla mettere per iscritto, visto che
mi ronzava in testa praticamente dall’inizio della storia. xD
Bene, la smetto di annoiarvi con i miei deliri e mando il
solito ringraziamento alle mie assidue “commentatrici”. Vi adoro davvero, e non
mi stancherò mai di ripetervelo! *-*
Spero di riuscire a finire il prossimo capitolo in una
settimana, ma non posso assicuravi nulla per adesso. (Sono un po’ impegnata in
questo periodo xD).
Oddio ho aggiornato in tempo! Sono fiera di me! xD
Via con il dodicesimo capitolo!
^^
CAPITOLO DODICI:
SPEZZATA
Non sapeva cosa fare. Non sapeva se dirle qualcosa per
rompere quell’irreale silenzio o se invece sarebbe stato meglio restare lì a
guardarla rivestirsi frettolosa, mentre con una mano cercava di acconciare alla
bell’e meglio i capelli spettinati, forse per nascondere i segni di quanto era
appena successo.
O forse, cosa molto più probabile, solo per rientrare in
sala con un aspetto quantomeno decente.
Che poi, se fosse dipeso da lui, in quella maledetta sala
non ce l’avrebbe fatta più rientrare. L’avrebbe presa per mano e, senza dire
neppure una parola, l’avrebbe riportata nella loro vecchia casa, per fare
l’amore con lei tutta la notte.
In fondo, era convinto che Tsuyoshi avrebbe capito.
Nella peggiore delle ipotesi, l’avrebbe chiamato la
mattina dopo per spiegargli tutto e scusarsi con lui per il mancato saluto,
assolutamente certo che le sue scuse Tsuyoshi non le avrebbe neppure volute,
perché troppo sorpreso, e felice, di saperlo di nuovo insieme a Sana.
Si, la sua volontà sarebbe stata proprio quella.
Ma non era per nulla convinto che anche Sana la pensasse
come lui. Magari sarebbe voluta tornare in sala per parlare con Kamura o per
continuare la festa insieme agli altri,… o magari sarebbe voluta entrare con il
sorriso sul volto, pronta a lasciarsi alle spalle quell’ultima mezz’ora e a
continuare la sua vita con Kamura, tranquilla come se nulla fosse
successo.
Oh, no.
Sapeva bene che quell’ultima possibilità era praticamente
inesistente…perché per quanto lei si sforzasse di apparire “tranquilla”, non
sarebbe mai riuscita a far sparire quel bellissimo rossore sulle gote e quella
nuova luce negli occhi.
Agli altri sarebbe bastato solo un istante, uno sguardo
casuale, per capire tutto… per vedere che lei era tornata ad essere sua.
- Non… fissarmi così…
Balbettò imbarazzata, mentre infilava il piccolo copri
spalle che lui le aveva tolto solo poco tempo prima.
- Io non ti sto fissando!
- Si, che mi stai fissando Akito…
Lui si strinse nelle spalle e sorrise appena.
- E se anche fosse? Ti da fastidio?
La vide scuotere la testa e arrossire.
- N..no no!
Non mi da fastidio.. è solo che… ecco.. mi imbarazzi parecchio se mi fissi senza
dire nulla.
- Bè, non ho niente di particolare da dire.
Sana aggrottò le sopracciglia e sbuffò, delusa dalla
risposta di lui.
- Perfetto. Allora sarò io a parlare.
Gli disse, abbassando il capo e tamburellando con le dita
sui fianchi, evidentemente nervosa.
Lui non rispose, muovendo qualche passo e avvicinandosi a
lei per farle capire la sua volontà di ascoltare quello che aveva da
dirgli.
- Senti, Akito. Io non so cosa significhi per te quello
che abbiamo fatto… non so se è stato importante come lo è stato per me, se è
stato solo un “ritorno al passato” per commemorare i vecchi tempi… o se, invece,
ha significato molto di più…
La vide mordersi il labbro inferiore per smorzare la
tensione del momento.
- …però voglio che tu sappia che per me è stato quanto di
più bello mi sia successo da quattro anni a questa parte. E quindi, qualsiasi
sia la tua decisione, io non tornerò con Naozumi. Ho capito che lui mi ama
troppo… e che non merita che io continui a mentirgli fingendo che vada tutto
bene. E, soprattutto, non voglio più mentire a me stessa continuando a ripetermi
che non ti amo più.
Perché la verità, Akito, è che purtroppo ti amo ancora in
modo pazzesco…
- Sana io…
- No, Akito… fammi finire ti prego…
Lo implorò, alzando un mano verso il suo viso per farlo
tacere.
- … Quindi io non tornerò con Naozumi e non tornerò
neanche in America. Andrò nella mia vecchia casa e vivrò qui perché… perché
Tokyo è la mia città, il posto in cui voglio vivere. Ma sarei la donna più
felice del mondo se tu mi volessi ancora con te.. se mi permettessi di tornare
nella nostra casa…
Lo guardò negli occhi, mentre qualche lacrima già
iniziava a rigarle le guance arrossate.
- … Akito, tu.. mi vuoi ancora?
Lui si sentì scoppiare il cuore.
Come poteva chiedergli una cosa del genere? Come poteva
non conoscere già la risposta? Come poteva non averla letta nei suoi
occhi?
Alzò una mano per accarezzarle il viso e scacciare quelle
lacrime, perché di lacrime ne erano state versate già troppe.
- Non ho fatto altro che volerti, e amarti, per ogni secondo della mia vita.
Le sussurrò a pochi centimetri dal viso. Lei schiuse
appena le labbra, come per dirgli qualcosa, ma riuscì solo ad emettere un
frenetico e balbettante sospiro.
Prese il suo volto tra le mani, guardandola negli occhi
lucidi.
Le lacrime iniziarono a scendere più copiose, ma stavolta
lui non le fermò. Quelle erano lacrime di gioia, lacrime che scendevano fino a
perdersi nel meraviglioso sorriso che era nato per illuminare il volto di
Sana.
- Siamo proprio due stupidi vero?
Gli chiese, alternando alle parole tanti, splendidi
sorrisi.
- … abbiamo sprecato quattro anni. Promettimi che
nonsprecheremo neppure un altro
secondo.
Anche lui si lasciò andare ad un dolcissimo
sorriso.
- Te lo prometto.
Disse poi, prima di avvicinarsi a lei e chiuderle le
labbra in un bacio leggero.
Passò qualche secondo prima che Akito riuscisse a trovare
il coraggio, e la forza, di staccarsi dal suo viso, e non appena ci riuscì, la
vide tornare improvvisamente seria.
- Forse è meglio tornare dentro. Devo…parlare con
Naozumi.
Ora iniziava la parte più difficile, perché le lesse
negli occhi una nuova tristezza… era l’amara consapevolezza di chi sta per
spezzare il cuore proprio a quella persona alla quale aveva promesso di non fare
mai del male.
Vedendola così turbata, così inevitabilmente colpevole,
le si avvicinò di nuovo e le strinse forte una mano.
- Andrà tutto bene, Sana.
- Sto per distruggere la vita di un uomo che, nonostante
tutto, ho amato davvero…mi sento una persona orribile. Come può andare tutto
bene?
Gli chiese, scoppiando nuovamente in lacrime e gettandosi
sul suo petto. E lui la accolse prontamente in una calda stretta.
- Noi, Sana, abbiamo ferito i nostri cuori così tanto e
così a lungo, che non riesco a capire come mai battano ancora… Ci siamo fatti
del male a vicenda, ma soprattutto abbiamo fatto del male a noi stessi, cercando
di vivere una vita che non sarebbe mai stata quella che volevamo. Ora abbiamo
capito che è arrivato il momento di smettere di farci del male e questo porterà
delle conseguenze. È inevitabile che qualcuno ne soffra… ma non sei una persona
orribile, solo perché hai scelto di non essere più tu quella che deve soffrire.
E Kamura ti ama troppo per non capirlo…
Le prese il volto tra le mani e sperò che nei suoi occhi
lei potesse leggere tutto quello che lui avrebbe voluto dirle.
Le avrebbe detto qualsiasi cosa, le avrebbe urlato “Ti
amo” un milione di volte pur di far sparire quell’espressione distrutta.
- Tu credi davvero che capirà?
- Si, lo credo davvero.
La vide sorridergli, leggermente sollevata.
- Ok, allora ora vado dentro e dico a Naozumi tutta la
verità.
Decise poi, prima di girarsi, dare le spalle ad Akito e
accingersi a camminare verso l’ingresso del grande ristorante.
- Si, vai… e poi si torna a casa.
Quelle ultime parole gli uscirono così, senza averle
programmate. Ma se avesse saputo l’effetto che avrebbero avuto su di lei, le
avrebbe ripetute infinite volte ancora. Perché la vide girarsi e guardarlo, con
gli occhi a brillare di nuovo di quell’antica luce, e con le labbra curvate in
uno dei suoi migliori sorrisi.
E anche lui capì di essere finalmente tornato a
casa.
***
Sentì lo stomaco contorcersi in una morsa soffocante e
dolorosa, non appena la vide oltrepassare l’ingresso e fare ritorno nella
grandissima sala addobbata a festa.
Era molto diversa dalla Sana che era uscita in giardino,
poco meno di un’ora prima.
Gli occhi, in particolar modo, erano del tutto cambiati…
strano, perché fino a quel momento non aveva mai notato la differenza. Mai. In
tutti quegli anni, quei giorni trascorsi con lei, passati a viverle accanto, i
suoi occhi gli erano sempre sembrati normali.
Solo ora si rendeva conto di quanto le sue convinzione
fossero sempre state sbagliate.
La Sana che aveva avuto accanto in quei
bellissimi quattro anni non era la bambina prodigio della quale si era
innamorato, guardandola ridere e recitare da dietro lo schermo della
televisione.
Era solo una ragazza bellissima che aveva il suo stesso
viso, la sua stessa voce e il suo stesso profumo.
Perché ora che la guardava avanzare incerta verso di lui,
nei suoi lineamenti rivedeva quella forza, quella sicurezza, quella vita.
In realtà, il suo volto era corrucciato in un’espressione
tutt’altro che serena o tranquilla…sembrava tesa, dispiaciuta, quasi in
lacrime.
Però i suoi occhi erano tornati a brillare e le sue gote
avevano di nuovo imparato ad arrossire.
E si sentì morire, perché era sicuro che fosse merito
dell’uomo che più di tutti temeva al mondo. L’uomo del quale aveva sempre avuto
una maledetta paura… perché gli bastava anche solo uno sguardo per fare di Sana
ciò che voleva. Ed era certo che, durante quella lunghissima ora in giardino,
lui l’avesse guardata ancora.
La attese immobile in un angolo della sala, con il cuore
troppo pesante per fare anche un misero passo.
E in pochi secondi lei gli arrivò di fronte e lo guardò
in silenzio.
- C’hai messo un bel po’ a rientrare.
Si sforzò di sorriderle e di sembrare il meno agitato
possibile. Ma lei ricambiò il sorriso e tutto apparve inequivocabilmente
chiaro.
- Scusami, Nao. Io…
Perché anche il sorriso era cambiato.
E lei era tornata la Sana di cui si era fottutamente
innamorato.
- … io devo parlarti.
E rivedendo la vera Sana, rendendosi conto che lui non
l’aveva mai avuta davvero, non poté fare altro che odiarla. E amarla ancora di
più.
***
Li aveva visti senza averli cercati. Era successo così,
mentre rideva allegro con sua moglie tra un lento ed un giro di valzer che
nessuno dei due era in grado di ballare.
Aveva lanciato uno sguardo distratto e casuale verso
l’ingresso e li aveva visti entrare, prima lei e poi lui, a pochi passi di
distanza l’una dall’altro.
Non si tenevano per mano, non si sfioravano, non si
guardavano neppure. Per quanto ne sapeva, potevano anche provenire da luoghi
diversi.
Ma a lui era bastata una frazione di secondo per capire
che Sana e Akito, le persone più vigliacche e sciocche che avesse mai
conosciuto, erano finalmente riusciti ad accettare il fatto che non avrebbero
mai smesso di amarsi.
E capì anche che, a giudicare dal rossore sulle gote e
dai capelli leggermente spettinati di lei, con molta probabilità, si erano amati
proprio fino ad un attimo prima.
Dio ti ringrazio! Allora non sono del tutto rincitrulliti
come pensavo.
Nel vederli di nuovo così simili agli adolescenti
innamorati di una diecina di anni prima, sentì le labbra curvarsi in un enorme
sorriso.
- Tesoro, tutto ok? Come mai sorridi?
Rivolse il capo verso il viso rilassato e allegro di sua
moglie.
- Oh, niente tesoro. Sono solo molto felice di vedere che
i miei consigli non sono andati perduti.
Vide Aya alzare un sopracciglio con aria interrogativa e
poi rivolgere uno sguardo a Sana e Akito.
Il luccichio commosso che le scorse negli occhi bastò per
dirgli che anche lei aveva capito.
***
Non aveva idea di cosa si provasse nello spezzare un
cuore.
Non conosceva i cambiamenti che prendevano possesso del
viso, o l’ombra che scendeva sugli occhi, mentre nel petto si apriva
l’incurabile ferita.
Forse avrebbe dovuto saperlo. Dopotutto, aveva sentito il
suo cuore spezzarsi mille volte. La prima, la più atroce di tutte, quando aveva
lasciato Akito.
Ecco, forse a lui il cuore l’aveva spezzato. Ma in quel
momento era stata troppo occupata a rimettere in moto il suo per potersi
soffermare a guardare come ti cambia, avere il cuore in frantumi.
Stavolta invece l’avrebbe visto eccome.
Non appena avrebbe confessato a Naozumi tutta la verità,
avrebbe potuto chiaramente distinguere il rumore di un cuore che va in mille
pezzi.
E sarebbe stata proprio lei ad innescare la
bomba.
Vorrei tanto che tu tornassi a sorridere il più in fretta
possibile.
Che ti scordassi di me facilmente, che mi archiviassi tra
le cose passate e che mi vedessi per quella che sono… una donna che non ha mai
meritato il tuo amore.
Vorrei tanto vederti ripartire da
stanotte.
- Nao io… io devo parlarti.
Espressione contrita, sguardo fisso nel vuoto.
Le prime parole per iniziare a ferire.
- So già quello che devi dirmi.
La voglia di piangere e chiedergli scusa. Di dirgli che,
comunque, è stato il compagno migliore che si potesse volere.
- No, Nao ascoltami… io voglio spiegarti
tutto.
L’ingestibile bisogno di fargli capire che la colpa non è
stata sua.
Che è lei quella sbagliata. O che forse entrambi hanno
sbagliato la vita. Che in un’altra, magari, la loro storia sarebbe anche potuta
durare.
- No, Sana. Non ce n’è bisogno, credimi. Piuttosto sono
io a doverti dire qualcosa. Ed è una cosa che avresti dovuto sapere già molto
tempo fa. Qualcosa che ti hanno tenuto nascosto, ma che ora dovrà venire alla
luce.
- Non capisco…Cosa stai cercando di dirmi?
- Prima di sparire dalla tua vita, voglio solo che tu
sappia che razza di persona è l’uomo che continui ad amare.
- Naozumi, ma… insomma che stai dicendo?
- Oh, lo saprai presto. Guarda lì… Mi pare che Matsui ti
stia facendo cenno di raggiungerla.
In effetti, poco distante da loro, c’era proprio Fuka
che, con un impercettibile movimento della mano, pareva invitarla ad avvicinarsi
a lei.
Due cose la colpirono e la confusero
particolarmente;
Il fatto che accanto a Fuka ci fosse un Akito
visibilmente turbato e che gli occhi della sua vecchia amica fossero gonfi e
pieni di lacrime a stento trattenute.
- Ma cosa…
- Su, Sana. Non li raggiungi? Credo che troverai molto
interessante quello che hanno da dirti.
Lo vide sorridere di un sorriso che non gli aveva mai
visto e che quasi le fece paura.
Era quello il sorriso di chi ha il cuore
spezzato?
***
Aveva temuto quel momento, pregando con ogni fibra del
suo corpo che non giungesse mai, sin da quando Aya l’aveva invitata al suo
matrimonio.
E invece, come in ogni colpo di scena che si rispetti,
quel momento era arrivato.
Si era imposto in modo perentorio, senza lasciarle
possibilità d’appello.
Nella sua mente l’aveva immaginato molte volte, cercando
attentamente le parole da usare, le scuse da accampare e i modi per provare a
farsi perdonare.
L’aveva immaginato molte volte, dunque, proprio perché
sapeva che prima o poi sarebbe arrivato.
Ma ora che di fronte a lei c’erano il volto confuso di
Akito e quello quasi spaventato di Sana, ora che aveva l’assoluta certezza che
con poche parole gli avrebbe sconvolto le vite e distrutto i cuori, ora… le
mancavano lo parole.
- Allora, Matsui, vuoi dirci cosa succede?
Ecco. Se era Akito quello che iniziava a fare domande,
allora doveva aver già capito qualcosa.
D’altronde, tra tutti i componenti del “vecchio”
gruppetto, era sempre stato quello dotato del maggiore spirito di osservazione.
Akito non parlava quasi mai, perché preferiva di gran
lunga osservare.
E ci riusciva anche molto bene.
Ti guardava così tanto e così a lungo finché non riusciva
a scavarti dentro e a farti sentire completamente incapace di
mentire.
Era per questo che non volevo mai che mi guardassi…
- Si, cosa succede Fukachan?
Ancora “Fukachan”?
Tra pochi secondi, Sana, desidererai di non avermi mai
conosciuta.
- Ecco, io… devo confessarvi una cosa. Soprattutto a te,
Akito. E non so proprio da dove cominciare.
- Su, Fukachan. Prova a cominciare dal principio, no? E
fai sparire quell’espressione triste! Qualsiasi cosa sia la risolveremo insieme!
Puoi sempre contare su di noi, vero Akito?
- Certo, Sana. Ora lasciala parlare.
Oh, no.
Doveva aver fatto proprio qualcosa di orribile per
meritare tutto questo. Per essere costretta a dire la verità proprio ora. Ora
che finalmente,- e ne era assolutamente certa-, Sana era tornata di
Akito.
Lo si capiva dal modo in cui lo guardava. L’aveva sempre
guardato così, in realtà. Però ora lo faceva senza paura di essere scoperta,
senza temere che qualcuno potesse leggerle negli occhi che Akito era e sarebbe
sempre stato l’amore della sua vita.
Egoisticamente, molto egoisticamente, avrebbe quasi
preferito che Sana e Akito avessero davvero smesso di amarsi quel maledetto
giorno in cui lei se n’era andata a New York. Che l’amore di Naozumi fosse
davvero bastato per convincere la sua vecchia amica a cambiare vita.
Sarebbe stato meglio. Si sarebbe sentita un po’ meno in
colpa per essersi messa in mezzo in una storia che non c’era già più, in un
amore che aveva già detto tutto quello che aveva da dire.
Forse in quel caso le ferite, prima o poi, sarebbero
anche potute guarire.
Ma così era impossibile.
Eppure, Sana, una parte di me l’ha sempre saputo che
prima o poi saresti tornata.
- Allora Fukachan? Vuoi dirci che succede?
Succede che sto per spaccarti il
cuore…
Il nodo alla gola non le permise di guardarla ancora a
lungo. Spostò il volto in direzione di Akito che intanto era tornato silenzioso.
Forse la stava studiando, forse, in cuor suo, stava già
capendo.
E allora tanto valeva facilitargli il lavoro.
- Senti, Akito…
Tanto valeva togliersi il pensiero al più
presto.
-… credo proprio che dovremmo dire a Sana quello che
abbiamo fatto quattro anni fa…
Si, tanto valeva ucciderli in fretta. E provare a
ricominciare il prima possibile.
***
Doveva essere un sogno. Un brutto, bruttissimo sogno. Uno
di quelli che ti fanno svegliare nel bel mezzo della notte, con la fronte sudata
e il battito accelerato.
Che ti lasciano quel velo di terrore, quella sensazione
di non essere ancora totalmente fuori pericolo, perché le immagini di
quell’incubo sono ancora così vivide che pare di averle davvero
vissute.
Poi i secondi passano e il cuore inizia ad acquetarsi, e
piano piano si fa strada la consapevolezza che è stato solo un cattivo scherzo
della mente e il terrore lascia spazio alla calda sensazione di essere
completamente al sicuro.
Si, ora mi sveglio e tutto
finisce.
E invece non riusciva a svegliarsi.
Tutto era dannatamente chiaro, crudelmente gettato di
fronte ai suoi occhi, urlato senza pietà nelle sue orecchie.
“-
.. credo proprio che dovremmo dire a Sana quello che abbiamo fatto quattro anni
fa…”
Gli occhi di Akito erano stati più eloquenti di qualsiasi
discorso. Uno sguardo terrorizzato era bastato per far capire a Fuka che lui non
avrebbe detto una parola.
Che rivelare la verità era un fardello che doveva pesare
solo sulle sue spalle.
E allora Fuka aveva parlato.
“Sana…”
Nei suoi occhi scuri c’aveva visto solo
terrore.
“…
quando hai lasciato Akito, io… ecco noi…”
Aveva assistito immobile, mentre Akito provava a
fermarla, stringendole forte un braccio con le dita della mano.
Ma Fuka quasi l’aveva ignorato e si era bloccata solo per
prendere un profondo respiro.
“…
abbiamo passato la notte insieme…”
Ecco. Quello che aveva visto dopo era stata una cosa
abbastanza strana… c’era stata solo un’immagine sfuocata, dai contorni sbiaditi…
Akito e Fuka ancora adolescenti che camminavano insieme,
e felici, tenendosi per mano, lungo
la strada che li conduceva alla loro vecchia scuola.
In un angolo, nascosta dove loro non potevano vederla, c’era la
proiezione della Sana adolescente. La ragazza imbranata e goffa, che aveva
appena scoperto di essere innamorata del suo migliore amico.
Li guardava avanzare sereni, imprigionata
nell’impossibilità di poter tornare indietro per rimediare al suo errore.
Per accorgersi che di Akito, in realtà, era stata
innamorata sin dall’inizio. Sin dalla prima volta in cui, per caso, era
inciampata nei suoi occhi dorati.
Poi, d’improvviso, l’immagine era cambiata.
Di fronte a lei era apparso l’Akito ventenne, con il
volto identico a quello della loro ultima, furiosa litigata.
Accanto a lui, nella loro casa, c’era di nuovo Fuka.
Ma stavolta non si tenevano solo per mano. No, quel gesto
innocente non poteva bastare per due adulti come loro.
E allora riecco quel lancinante dolore. Riecco quella
insistente e malata voglia di morire.
La stessa che aveva provato quel lontanissimo giorno in
montagna, con il telefono a mala pena sorretto dalle dita tremanti, mentre Akito
le confessava di stare con Fuka e l’amore per il suo migliore amico le piombava
addosso, pesante e insopportabile, costringendola a schiantarsi al suolo.
Il buio che ora stava provando, la sensazione di essere
ancora rimasta spiazzata, di aver aperto di nuovo la porta sbagliata, erano
ferite molto simili a quelle provate quel giorno.
Simili, certo. Ma molto, molto più forti.
- Sana, ti prego… dì qualcosa…
Le sembrò la voce di Fuka. L’orribile suono emesso dalle
labbra di chi l’aveva ancora tradita.
Se solo ne avesse avuto la forza, se solo si fosse
ricordata come muovere un braccio, non avrebbe atteso neppure un altro istante
prima di lasciarle sul volto i segni di un fortissimo schiaffo.
Anche se tanto, neppure con tutta la forza del mondo
avrebbe potuto farle così
male.
- SI PUO’ SAPERE CHE CAZZO TI E’ SALTATO IN MENTE,
MATSUI?
Questo invece, doveva essere Akito.
Incredibile il disgusto che provò nel pensare quel
nome.
Chi era l’uomo con cui aveva fatto l’amore appena pochi
minuti prima?
Di certo, non il suo Akito..
Perché il suo Akito non l’avrebbe mai sfiorata senza
dirle di aver passato una notte con la sua migliore amica.
Non avrebbe avuto il coraggio di guardarla negli occhi e
di respingerla urlandole contro tutto il suo risentimento e facendola sentire
una persona orrenda.
Non sarebbe uscito in giardino per chiederle di non
sposare Naozumi, per dirle di restare con lui…
Non avrebbe fatto l’amore con lei, sapendo di aver amato
in quel modo anche Fuka.
- Io… ho dovuto dirglielo… Mi dispiace, Akito..
A mala pena sentì le parole di Fuka.
E venne prese da un’incontrollabile rabbia. Dalla voglia
di urlarle di stare zitta, di smetterla di dire cose tanto impossibili.
Forza, Akito! Dille che non è vero! Che si sta inventando
tutto!
- … mi dispiace davvero, Akito. Ma l’ho fatto perché devo
confessare una cosa anche a te.
Dille che non puoi avermi fatto
questo!
Ma Akito non disse nulla.
E per farla morire, non dovette dire
nient’altro.
***
Non era mai stato un tipo molto socievole, uno che ama
stare in mezzo alla gente o passare del tempo a inventare stupidi scherzi da
fare agli amici di sempre, giusto per ridere un po’.
E sopportava ancor meno di essere la vittima di qualche
scherzo elaborato da un amico che, evidentemente, non aveva proprio niente di
meglio da fare.
Per quanto ricordasse, solo una volta Tsuyoshi aveva
provato a fargliene uno, durante i primi giorni delle scuole elementari.
Gli aveva nascosto i pastelli colorati con i quali
passava il tempo a scarabocchiare sui fogli bianchi che gli dava la maestra,
mettendoli nella sua borsa cosicché lui non potesse trovarli.
Non appena Tsuyoshi glieli aveva restituiti, mostrandogli
un enorme sorriso e urlando a gran voce “ Scherzo riuscito!” , gli aveva
lanciato un’occhiata terribile per fargli capire che certe cose, a lui, non
piacevano per niente.
Da allora, i pastelli, Tsuyoshi non glieli aveva nascosti
più.
Però ora, di certo, non avrebbe reagito nello stesso
modo. Ora avrebbe desiderato con tutto se stesso di essere l’innocente vittima
di uno scherzo di cattivissimo gusto.
Avrebbe tanto voluto vedere Fuka scoppiare a ridere
allegra, prendere sotto braccio una Sana ugualmente divertita e sentirle urlare
all’unisono “Scherzo riuscito!”.
Si, certo, magari all’inizio si sarebbe arrabbiato con
loro, facendole una scenata che non avrebbero dimenticato tanto facilmente.
Magari non le avrebbe parlate per un po’, giusto il tempo
per farle riflettere sul fatto che certi scherzi non si dovrebbero mai neppure
concepire.
Poi, però, dentro di sé si sarebbe lasciato andare ad un
lungo sospiro liberatore e, forse, anche a qualche sorriso.
Perché, comunque, lo scherzo era riuscito davvero. E lui
c’era cascato come un emerito imbecille.
Andiamo, Matsui. Ora mettiti a
ridere…
E invece Fuka non faceva altro che piangere e tremare,
stringendo forte le mani sul cuore.
“-
Dopo quella notte,… sono stata costretta a tornare ad Osaka, perché ero
incinta…di tuo figlio…”
Il tempo si era congelato su quelle ultime due parole.
“…
tuo figlio…”
Aveva smesso di scorrere, le lancette sull’orologio
avevano smesso di girare.
Le persone intorno a loro erano sparite, la musica nella
sala si era affievolita fino a diventare solo un suono lontanissimo.
L’unica cosa che riuscì a distinguere con crudele
precisione, fu il volto di Sana e la luce nei suoi occhi che, d’improvviso, si
spegneva. La lentezza con la quale lei si portava una mano sulle labbra e
indietreggiava di qualche passo, mentre quella meravigliosa sfumatura rossa
sulle gote lasciava il posto ad un tristissimo pallore.
- Akito, mi…
mi dispiace. Non ho mai voluto dirtelo perché non volevo… sconvolgerti la
vita..
Se solo avesse avuto la forza per parlare, avrebbe urlato
a Fuka tutta la sua rabbia. Le avrebbe detto che era stata una stronza e una
donna meschina. Che una cosa del genere non può essere taciuta.
E che, soprattutto, non può essere rivelata in quel modo.
Non ora, non… davanti alla sua Sana.
- … Sana, io… io non so cosa dire. Ora sei sconvolta e lo
capisco… però sappi che per Akito quella notte non ha significato niente…
davvero lui…
Si, era vero. Per lui non aveva significato nulla quella
maledettissima notte.
Non era stato nient’altro se non un modo per provare a
lenire quella inossidabile e perpetua voglia di Sana.
Ma Sana non avrebbe compreso. Sana non c’avrebbe creduto.
Un figlio suo e di Fuka, non l’avrebbe mai accettato.
Lo capì con assoluta certezza quando la vide stringere
ancora più forte la mano sulle labbra e rivolgere lo sguardo dritto nel
vuoto.
Avrebbe tanto voluto sfiorarla, prenderle una mano e
dirle che sarebbe andato tutto bene.
Che neanche un figlio con Fuka gli avrebbe impedito di
amarla.
Ma lei neppure lo guardò e corse via, inciampando più
volte sui suoi stessi tacchi.
E lui sentì ancora quella sensazione…
La stessa provata tanti anni prima, nei giorni in cui lei
si era ammalata di quella strana malattia che le aveva tolto il sorriso e
l’aveva resa immobile come una bambola.
E proprio come allora, era di nuovo lui che, senza
neppure accorgersene, la spezzava in due ancora una volta.
***
Li aveva guardati parlare per tutto il tempo della loro
conversazione.
Era rimasto nascosto dietro una parete poco distante per
vedere se Fuka avrebbe davvero avuto il coraggio di confessare a Sana e ad
Hayama tutta la verità.
O se, invece, l’incombenza di rivelare
quell’importantissimo segreto sarebbe toccata proprio a lui.
Ma Fuka era stata brava.
Tra le lacrime, aveva raccontato di quella notte e del
figlio che era nato da quell’insana unione.
Aveva potuto distintamente vedere lo sguardo terrorizzato
e sconvolto di Hayama e, a quella visione, era seguito un ghigno di malata
soddisfazione.
Quel pensiero che batteva in testa e recitava “Ora soffri
un po’ anche tu, Hayama!”
Sana, invece, non poteva vederla perché gli dava le
spalle.
Quello che era certo, era il fatto che lei fosse rimasta
immobile per tutto il tempo senza dire nemmeno una parola.
Si sporse un poco per riuscire a vedere meglio ciò che
stava succedendo e iniziò a sentire un nodo formarsi nella gola, non appena vide
Sana voltarsi, con una mano poggiata forte sulle labbra e con gli occhi puntati
sul pavimento.
Ebbe l’impulso fortissimo di uscire dal suo nascondiglio
e di correrle incontro per accoglierla tra le sue braccia e per dirle che
sarebbe andato tutto bene.
Ma non lo fece, perché poi si materializzò nella sua
testa la consapevolezza che era stato lui a farle questo.
Era stato lui a costringere Fuka a dire la verità.
E l’aveva fatto proprio per farla pagare a Sana.
Per punirla perché non era stata in grado di amarlo
davvero e di dimenticare Hayama.
Di certo, era riuscito nel suo intento.
Di certo, ora lei stava soffrendo in modo
pazzesco.
Forse anche di più di quanto non avesse sofferto lui
stesso per averla persa.
La vide correre in fretta per allontanarsi da Fuka e da
Hayama e dirigersi nuovamente verso l’uscita.
Gli passò accanto senza neppure vederlo.
Ma, in compenso, lui poté vedere il dolore dipinto sul
volto della donna che aveva sempre amato.
E si sentì morire.
E capì che, costringendo Fuka a rivelare tutto, aveva
commesso un gravissimo errore.
/*/
Note
dell’autrice: Bene, eccomi qui. Non so nemmeno io come ho fatto ad
aggiornare in tempo, quindi mi perdonerete se questo capitolo non è proprio il
massimo della vita! L’ho scritto davvero in tempo record! ;)
Il prossimo sarà molto più importante di questo.
;)
Eccomi qui! Questo capitolo è stato una vera faticaccia!
xD
CAPITOLO TREDICI: PEGNO
Yuu.
Le poche volte che aveva pensato all’eventualità remota
di diventare padre, gli sarebbe tanto piaciuto chiamare suo figlio Yuu.
Un nome breve, facile da pronunciare e senza inutili
fronzoli.
Semplice ed essenziale, proprio come lui.
A Sana non l’aveva mai detto, ma ogni tanto aveva passato
le notti ad immaginare il volto del loro bambino.
Non sapeva di preciso per quale motivo, ma era sempre
stato convinto che Sana gli avrebbe donato un bel maschietto.
Così aveva speso un po’ di fantasia per immaginarlo… E
pensare a lui era stato un po’ come aspettarlo davvero.
Avrebbe voluto che somigliasse a Sana. Che prendesse la
sua bellezza, la sua forza e, soprattutto, il suo sorriso. Che ridesse sempre,
anche per la più piccola scemenza e che avesse tanti amici con i quali passare
le giornate.
Che avesse i suoi occhioni cioccolato e che potesse
riempirli della stessa, bellissima luce.
A lui sarebbe bastato dargli anche un piccolissimo neo.
Giusto per far capire agli altri che quello era anche suo figlio.
Suo e di Sana.
Un pezzo di loro che prendeva vita, il loro amore che
assumeva le sembianze di un bellissimo bambino biondo.
Si, perché i capelli rossicci di Sana non sarebbero stati
del tutto indicati per un uomo.
Ovviamente, aveva sbagliato ogni previsione.
- Akito, forse… forse dovresti correre da
Sana..
In effetti, un bambino c’era.
- Come si chiama?
Forse i suoi capelli biondi li aveva davvero.
- Chi?
Di certo non aveva il sorriso di Sana.
- Mio
figlio.
E nemmeno i suoi occhi o il suo chiarissimo colore di
pelle.
- Si chiama… Shin..
Si, un bambino c’era.
Ma di certo non era il suo Yuu.
***
Aveva sempre avuto paura del buio. Una paura folle e
irrazionale, che le faceva perdere il senso della realtà.
Il buio, per lei, era sempre coinciso con la solitudine.
E la solitudine era la cosa peggiore che potesse capitare a chi, come lei, aveva
l’incontrollabile terrore di essere abbandonata.
Solo con Akito il buio della sua stanza, un tempo, faceva
un po’ meno paura.
Solo con lui, durante le notti passate a dormirgli sul
petto, aveva imparato a non far caso alla lampadina che si spegneva sul
comodino.
Perché tanto, a quei tempi, la luce ce l’aveva nel
cuore.
Perché tanto, a quei tempi, il buio non
esisteva.
Ma ora era tornato, le si era scaraventato addosso, nel
bel mezzo di una festa straripante di luci e di gente.
Era bastato girarsi un istante, distrarsi ad essere per
un attimo di nuovo felice, e tutto si era oscurato.
Ogni cosa si era fossilizzata… era rimasta bloccata a
quei pochi e lunghissimi minuti.
Si era incastrata tra le lettere di quelle parole
maledette…
“.. Dopo quella notte sono stata costretta a tornare ad
Osaka, perché ero incinta… di tuo figlio…”
E il buio le si era infilato dentro e le aveva bloccato
il respiro.
Eppure… eppure era stata immersa nella luce fino ad un
attimo prima.
E questo rendeva tutto ancora più difficile.
Il buio è più buio se hai visto quanto è capace di
brillare la luce.
Ora non riesco a vedere più
niente…
Però, dopotutto non era andata poi così male.
Perlomeno, era riuscita a voltare le spalle all’uomo più
importante della sua vita e alla sua migliore amica, e a ritrovare la strada di
casa.
Nella corsa che l’aveva riportata nel suo rifugio sicuro,
tutto intorno era apparso distorto.
Le strade vuote, i viali innevati, persino il profumo
nell’aria.
Niente somigliava a quei paesaggi tanto familiari
scolpiti nella memoria.
Non riconosceva più nemmeno casa sua. La sua bellissima e
amatissima casa d’infanzia.
Non appena spalancò il grande portone e se lo richiuse in
fretta dietro le spalle, si lasciò cadere a terra, facendo vagare i suoi occhi
arsi dalle lacrime per tutto il salone.
Sul divano poco distante le sembrò di vedere se stessa
ancora adolescente, con un libro tra le mani e l’espressione confusa di chi non
ha ancora capito a cosa dovrebbe servire la matematica.
Di fronte a lei, seduta sulla poltrona in pelle color
crema, immaginò una Fuka divertita, con le lacrime agli occhi e le gote
arrossate per le troppo risate.
Si, Fuka rideva sempre nel vedere la smorfia che le
nasceva sul viso ogni volta che cercava di decifrare un’espressione di
matematica.
La testa prese a girarle vorticosamente. Così forte che
dovette portarsi le mani sulla fronte per cercare di lenire quella sensazione di
dolore.
Ma il dolore non passava.
Ed erano passati troppo anni dall’ultima volta in cui
aveva visto Fuka ridere in quel modo.
Perché mi hai fatto una cosa tanto
orribile…?
Possibile che fosse bastato far trascorrere un po’ di
tempo per distruggere la loro antica amicizia?
Davvero erano state così deboli?
Non avresti potuto farmi più
male…
Si sforzò di sollevarsi sulle gambe e fece di fretta le
scale fino a raggiungere la camera da letto.
Non appena
si ritrovò di fronte all’enorme letto nella sua stanza, corse per gettarsi nel
caldo tepore delle lenzuola.
Ma sarebbe stato molto meglio non farlo.
Le si affollarono nella mente le immagini della prima
volta in cui aveva fatto l’amore con Akito, proprio in quello stesso letto, tra
quelle stesse lenzuola.
Era stato indubbiamente il momento più bello di tutta la
sua vita.
Come hai potuto farlo anche con
lei…?
Come hai potuto donarle un
figlio…?
Avrebbe tanto voluto urlargli che lo odiava. Che era
stato uno stronzo e che aveva sporcato la cosa più bella che la vita potesse
donare ad un uomo, dimostrando che lui, un’anima gemella proprio non se la
meritava.
Si, anche lei aveva sbagliato. Era stata con Naozumi fino
ad un giorno prima.
Ma quella era un’altra cosa.
Un figlio era un segno indelebile, un marchio stampato a
fuoco sulla pelle.
Un mezzo con cui il destino ti dimostra che certi errori
non te li puoi dimenticare.
Avrebbe preferito di gran lunga morire piuttosto che
vedere un figlio con il sorriso di Fuka e gli occhi di Akito.
Oh, si. Gli occhi di Akito erano talmente belli che suo
figlio avrebbe dovuto per forza ereditarli.
Questa, Sana, come la
supererai?
Esisteva un modo per superare una cosa del genere?
Esisteva un modo per smettere di soffrire in quella
maniera così straziante?
Forse, stavolta, non riuscirò a
superarla…
Perdere Akito quattro anni prima era stato atroce.
Prendere l’aereo e andare dall’altra parte del mondo era
stato dilaniante.
Ritrovarselo sulla pelle, poche ora prima in quel grande
giardino, era stato come rinascere.
Sentire Fuka pronunciare quelle parole, era stato come
morire.
Sentir nascere dentro la consapevolezza che, stavolta,
non c’era più niente da fare.
Che avrebbe potuto dire qualsiasi cosa, fare qualsiasi
cosa, ma i fatti non sarebbero cambiati.
Akito e Fuka avrebbero continuato ad aver un figlio
insieme.
Loro, che in una sola notte avevano costruito molto di
più di quanto non avessero fatto lei ed Akito durante tutta una vita passata ad
amarsi.
Voleva dimenticarlo.
Dimenticarlo davvero.
Eliminare il suo volto dalla memoria o, tutt’al più,
odiarlo così tanto fino a far diventare disgustoso persino il suo
odore.
Questa non posso superarla,
Akito…
Con questa, lo so, è davvero
finita.
***
Non aveva la minima idea di cosa fossa successo in quel
brevissimo lasso di tempo.
Ma non poteva essere una cosa tanto importante,
no?
In fondo, cosa mai sarebbe potuto succedere in meno di
quindici minuti?
Cosa accidenti si erano detti, quei tre?
Però qualcosa, qualcosa di grave, se l’erano detta per
forza.
Perché Sana era scappata via con le mani sul volto e lo
sguardo fisso sul pavimento.
E Fuka era immobile in un angolo, distrutta da un pianto
disperato, mentre, di fronte a lei, Akito la guardava furente e la scuoteva per
le spalle con la mani, forse per farla parlare.
- Tesoro, cosa succede? Che hanno Fuka e Akito? E Sana
dov’è?
Ecco. Sarebbe stato molto bello e sollevante
saperlo.
Ma intromettersi in quel momento non gli sembrava affatto
opportuno.
- In realtà, Aya, non ne ho la più pallida
idea.
Magari sarebbe passato a trovare Akito l’indomani
mattina.
Giusto per chiedergli se andava tutto bene.
- Ok, spero non sia niente di grave..
E per far sparire dal cuore quella bruttissima
sensazione.
- Ma no, tranquilla tesoro. Vedrai che non è
niente.
Non doveva
essere niente.
Akito e Sana non potevano aver rovinato tutto ancora una
volta.
Avrebbero dovuto attendere ancora un po’, prima di poter
tornare ad impegolarsi nei loro stupidissimi litigi.
Non
fatemi brutti scherzi! Tra due giorni si parte per la luna di
miele!
***
Non aveva messo in preventivo di sentirsi così
male.
Certo, aveva assolutamente messo in conto che perderla,
stavolta per davvero, l’avrebbe fatto sentire un uomo finito.
E, nonostante lui si ostinasse a credere che sarebbe
andato tutto bene, dentro di sé aveva sempre covato la convinzione che, prima o
poi, Sana l’avrebbe lasciato solo.
Ma non aveva mai pensato al fatto che tutto sarebbe
finito.. così.
Vederla scappare via dalla festa, con quell’espressione
dipinta sul volto e le gambe talmente fragili da non riuscire a sorreggerla, era
stata un’esperienza orrenda. E straziante. E indelebile.
Quando aveva praticamente costretto Fuka a rivelare la
verità sul bambino concepito con Hayama, non aveva fatto il conto delle vittime
che quella rivelazione avrebbe portato con sé.
Non aveva pensato che le ferite procurate da quelle poche
parole sarebbero state così gravi e profonde.
Avrebbe solo voluto farli stare male. Vendicarsi per
tutto quello che gli avevano fatto.
Fargli sapere cosa si prova ad essere traditi dalla
persona che ami.
E invece tutto era degenerato.
E l’espressione smarrita e sconvolta di Sana ne era stata
la conferma.
Lui l’aveva uccisa.
L’aveva uccisa dentro.
E da quella morte non sarebbe guarita tanto
facilmente.
Forse, non sarebbe guarita affatto.
Non posso pensare di averti ucciso il
sorriso.
E il tempo non avrebbe potuto aiutare neanche lui stesso.
Il senso di colpa, quel blocco di cemento sul cuore, non
sarebbe mai sparito se Sana non fosse tornata più quella di sempre.
E, anche se faceva male ammetterlo, Sana sarebbe potuta
tornare quella di sempre solo con Akito accanto.
Scusami, ma non riuscivo ad
accettarlo…
Perché non volevo rassegnarmi all’idea che qualcun altro
occupava già il posto che avrei tanto voluto occupare
io.
A testa bassa e con le mani scosse da fortissimi tremori,
estrasse dalla tasca dei pantaloni la chiave e la infilò nella toppa.
Fare quel piccolo movimento, quel mezzo giro, fu una cosa
estremamente difficile.
E pensò che era stato un bene che Sana avesse tanto
insistito per fargli prendere i doppioni delle chiavi della sua vecchia casa.
Altrimenti avrebbe preferito di gran lunga passare tutta la notte accovacciato
dietro il grande portone, piuttosto che suonare il campanello e disturbare la
solitudine forzata della sua ex ragazza.
Dio, quanto faceva male pensarla in questi
termini.
Fino a poche ore fa, dovevi essere mia
moglie…
Con un lievissimo movimento della mano, spinse la porta e
si ritrovò immerso nel buio e nel silenzio della grandissima villa
lussuosa.
Eppure un tempo quelle stanze erano così piene di luce e
di rumori.
Già. Sarebbe stato bello tornare indietro, tornare a
quando sia lui che Sana erano poco più che due bambini e lui poteva andare a
trovarla ogni volta che il lavoro non lo teneva lontano dalla sua Tokyo.
Sarebbe stato bello vedere la signora Misako girare
allegra e chiassosa per tutta la casa, con il povero signor Onda a inseguirla
come un forsennato per implorarla di terminare il suo ultimo libro.
Sarebbe stato bello rivedere l’affetto e la devozione con
i quali Rey seguiva Sana in ogni sua mossa, quasi come un angelo
custode.
Soprattutto, sarebbe stato bello vedere Sana scendere in
fretta dalle scale, con i capelli legati ancora in due buffissimi codini e con
il suo caratteristico sorriso ad illuminarle il volto ancora bambino.
Tornare indietro a quei tempi in cui ancora lei non
sapeva di essere innamorata del suo migliore amico e vedeva tutto con un’estrema
facilità e con un contagiosissimo ottimismo.
Anche se all’epoca lui aveva capito che Sana già
apparteneva ad Hayama, andava bene lo stesso. Perché lei voleva molto bene anche
a lui e quindi il fatto di amarla non era mai stato un peso.
Forse, per assurdo, non lo era stato neppure dopo,
neppure quando Sana e Hayama erano diventati una vera coppia.
Perché sapeva che se solo ne avesse avuto bisogno,
sarebbe bastato prendere un aereo, un treno o, più semplicemente, un macchina,
per andare da lei e per vederla.
A quei tempi, bastava anche un solo sorriso o un’oretta
passata a chiacchierare del più e del meno di fronte ad una tazza di
the.
Così non era difficile. Amarla senza pretendere nulla in
cambio era sopportabile. Addirittura piacevole.
Amarla era diventato più difficile da quando lei,
infreddolita e quasi in lacrime, si era presentata senza preavviso davanti alla
sua nuova casa newyorchese e, invece di salutarlo, gli aveva detto solo “Fammi capire che posso essere felice anche
senza di lui”.
Ecco. Da quel preciso momento era iniziata la parte più
problematica.
Sana era lì, finalmente sua, mentre quelle labbra che
aveva sempre sognato di sfiorare gli chiedevano solo di renderla felice.
Era il suo sogno che diventava realtà.
E lui si era sentito spiazzato. E spudoratamente
entusiasta.
Talmente entusiasta da essere incredulo. Talmente
incredulo da essere terrorizzato.
Era rimasto imbambolato per qualche secondo, aspettando
che qualcuno saltasse fuori e gli indicasse una telecamera nascosta con la quale
riprendere quello che, con molta probabilità, non era altro che un terribile
scherzo.
Ma non era saltato fuori proprio nessuno.
Anzi, Sana aveva continuato ad avere quello sguardo
implorante
E lui aveva ceduto. L’aveva attirata a sé con un braccio
e l’aveva stretta talmente forte da farle mancare il respiro
Da allora era iniziata la sua sfida personale con Hayama.
O meglio, con il ricordo che Sana aveva di lui.
E il pensiero costante di comportarsi, di agire e di
parlare in modo tale che lei non
potesse ripensare a lui.
Era stato quello il momento, l’attimo nel quale nel suo
cervello si era materializzato quel “Forse vuole essere davvero mia..”.
Ed era stato proprio da quel momento che amarla era
diventato maledettamente difficile.
***
Salì le scale con snervante lentezza. Ogni gradino era un
passo in più che lo avvicinava al confronto finale.
Alla linea di confine che avrebbe completamente cambiato
la sua vita.
Sarebbe stato costretto ad oltrepassarla, portando con sé
alcune cose e lasciandone altre.
Sana, indubbiamente la cosa più importante, sarebbe
rimasta dall’altra parte. Nella “vecchia vita”, malamente nascosta tra le
esperienze passate.
Ma prima… prima doveva trovare la forza per dirle addio.
E anche per chiederle scusa.
Non appena mise piede sull’ultimo gradino, vide che la
porta della camera da letto di Sana era chiusa.
Sbarrata e senza lasciar trasparire la minima luce… segno
inequivocabile che non voleva essere disturbata.
Però, Sana, non posso andarmene senza averti
salutata…
Prendendo un profondo respiro, e cercando di non far caso
a quella ritrovata voglia di piangere, alzò un braccio e strinse le dita in un
pugno per bussare su quella liscia superficie in legno.
Due colpi leggeri, quasi impercettibili.. uno dopo
l’altro, trattenendo uno solo, lunghissimo fiato.
- Sana…Sono io…
Non sentì neppure un misero mugugno. Niente.
Ma era assolutamente preparato al fatto che lei non
avrebbe voluto vedere nessuno. Tantomeno lui.
Non è vero.. non ero preparato ad un bel
niente!
Non ero preparato a perderti. E non credo che lo sarò
mai…
- Sana ascoltami… so che.. che ora non vuoi parlarmi…che
ti senti uno schifo e che vorresti solo stare sotto le coperte e piangere tutta
la notte…
Lo sapeva, ma avrebbe tanto voluto buttare giù quella
maledetta porta, prenderla in braccio e sussurrarle che sarebbe andato tutto
bene. Che non era importante che Akito e Fuka avessero un figlio insieme. Che
lei non sarebbe mai rimasta sola, perché lui avrebbe continuato ad amarla
comunque. Che forse questa era la volta buona per dimenticare quello stupido di
Hayama una volta per tutte. E per iniziare seriamente una nuova vita
insieme.
Ma Sana non avrebbe ascoltato nemmeno una
parola.
Anzi, magari gli avrebbe anche tirato uno schiaffo in
pieno viso. E gli avrebbe urlato contro che era un pazzo. Che avrebbe di gran
lunga preferito morire piuttosto che accettare il fatto che Fuka e Akito
avessero avuto un figlio.
- … io volevo solo dirti che mi dispiace davvero per
quello che è successo. Si, lo so che molto probabilmente non mi crederai, ma è
così. Saperti così disperata, immaginarti con il volto rigato dalle lacrime, mi
distrugge. Il dolore che provo se penso che stavolta ti ho persa per sempre, non
è niente rispetto a quello che mi divora se penso che anche tu hai il cuore
spezzato. Tu non lo sai, ma sono stato io a dire a Matsui di confessarti la
verità..
La sentì emettere un lamento soffocato.
- Tu…. Tu lo sapevi…?
A mala pena riconobbe la sua voce.
- L’ho scoperto mentre tu e Hayama… eravate in giardino.
Non avrebbe potuto giurarlo con assoluta certezza, ma gli
sembrò di sentirla scoppiare a piangere.
E capì che il male che le aveva fatto non se lo sarebbe
mai perdonato.
Era il momento di andare via dalla sua vita e di
lasciarla sola ad affrontare quella prova difficilissima.
- Sana io.. sono venuto qui solo per dirti addio.. Ho
chiamato Maeda… gli ho detto di prenotarmi un posto sul primo aereo
disponibile.. e lui mi ha detto che ce n’è uno tra due ore.
Ad ogni parola pronunciata, le lacrime di Sana parevano
diventare più copiose. E la vita un po’ più inutile.
- … manderò qualcuno domattina a prendere le mie cose per
farmele spedire a New York.
Abbassò il capo e non si vergognò di sentirsi debole e
distrutto.
Dietro quella porta c’era tutta la sua vita.
- … Buona fortuna, Sana..
E lui l’aveva stritolata così forte da
disintegrarla.
- .. spero che un giorno potrai perdonarmi.
Non aspettò neanche di sentire la sua eventuale risposta
e corse giù per le scale, per scappare via il più in fretta
possibile.
Arrivò di fronte alla porta d’ingresso e portò una mano
sulla maniglia per girarla e uscire a piangere per strada, dentro un taxi, sul
sedile dell’aereo che da lì a poco l’avrebbe riportato dall’altra parte del
mondo.
Ma fu costretto a bloccarsi perché avvertì un susseguirsi
di passi frettolosi e leggeri avvicinarsi a lui.
D’istinto alzò lo sguardo verso la ringhiera che
delimitava il piano superiore e la
vide.
E gli si bloccò il cuore.
Aveva il viso segnato da lunghe scie salate e gli occhi
scavati da due enormi aloni violacei.
Persino i capelli sempre perfetti e luminosi erano
disordinati in un’inguardabile e arruffata mezza coda.
Teneva le mani strette forte intorno alle sbarre sottili
della ringhiera e forse neppure si accorse che le sue gambe stravano
freneticamente tremando.
Eppure, per lui, era sempre vergognosamente
bella.
- Mi dispiace Naozumi!
A quelle parole si sciolse del tutto e non gliene importò
più nulla di nascondere le lacrime per mantenere un minimo di
dignità.
- … mi dispiace di non essere riuscita ad amarti come
meritavi.
Dopotutto, che importava della dignità se stava perdendo
il suo cuore?
Si sforzò di sorriderle, sperando che lei capisse che
l’aveva già perdonata.. perché di certo non sarebbe stato capace di articolare
neppure una misera parola.
Gli sembrò di vederle muovere le labbra in una smorfia
che, forse per chi non avesse mai visto il vero sorriso di Sana, sarebbe anche
potuta sembrare un sorriso.
Le lanciò un ultimo, disperatissimo sguardo e poi le
diede le spalle e aprì la porta che l’avrebbe fatto uscire per sempre dalla sua
vita.
Uscì richiudendosela in fretta alle spalle e concedendosi
qualche secondo per ricominciare a respirare. Lasciò andare il capo all’indietro
fino a quando non arrivò a toccare la dura superficie in legno del
portone.
Lì dietro, comunque, c’aveva lasciato il suo
cuore.
***
Aveva oltrepassato quel cancello così tante volte che
ormai era come oltrepassare la soglia di casa sua.
Che poi anche quella, in realtà, era stata un po’ casa
sua, un posto dove potersi sempre sentire al sicuro.
Tanto tempo fa, sotto quella stessa luna, in un piccolo
gazebo nel parco vicino alla scuola, era iniziato il suo amore per Sana. E con
esso anche la sua vita.
E ora lui stava per porre fine a tutto quanto.
Non seppe neppure dove trovò la forza per oltrepassare il
giardino che separava il cancello dalla casa, ma quando arrivò di fronte a quel
grande portone si concesse qualche secondo per riprendere fiato e poi alzò una
mano fino a raggiungere il campanello.
Il suono che riecheggiò nell’aria parve tanto quello che
precede la scena madre di un film.
Il boato finale, il colpo di scena che nessuno si
aspettava.
E che, inevitabilmente, ti lascia con l’amaro in bocca.
Perché il finale non ti soddisfa affatto. E una fine come quella proprio non
l’avevi immaginata.
Ma il copione non può essere cambiato, perché troppo è
stato fatto. Troppo è stato sbagliato.
E allora non ti resta che rassegnarti e accettare l’idea
che non è affatto andata come volevi tu.
Se
anche questo fosse solo un brutto film, Sana, basterebbe spegnere il
televisore.
Gli sembrava ancora tutto così assurdo… poco più di due
ore prima stava facendo l’amore con lei e ora… ora stava per dirle addio.
E ciò che più gli faceva male era l’assoluta certezza di
averle davvero spezzato il cuore.
Perché se fosse stato lei a decidere di lasciarlo, se gli
avesse sbattuto la porta in faccia dicendogli di essere innamorata di Naozumi,
.. Bè, sarebbe stato diverso.
Certo, ugualmente doloroso e lacerante. Ma forse più
sopportabile.
Perché lei, almeno lei, sarebbe stata felice.
E magari dopo un po’ lo sarebbe stato anche
lui.
Sarebbe stato molto meglio se non ti fossi mai innamorata
di uno come me.
Sarebbe stato molto meglio se, fin dall’inizio, avessi
preferito Kamura.
Prima di presentarsi di fronte casa sua aveva pensato
alle parole da dirle. A come spiegarle quello che Fuka aveva appena rivelato ad
entrambi.
Dirle perché, dopo neanche due giorni dalla sua partenza,
aveva sentito il disgustoso bisogno di portarsi a letto la sua migliore amica.
E di concepirci persino un figlio.
Ma qualsiasi parola, qualsiasi scusa gli fosse passata
per la testa, si sgretolò nell’esatto momento nel quale lei aprì piano la porta
e lo guardò con quegli
occhi.
- Cosa.. cosa vuoi…?
Dio, come stonavano quelle occhiaie scure e quel
tristissimo pallore che le stavano uccidendo i lineamenti del volto.
- Sana…
Ma il suo nome suonava ancora dannatamente
bene.
- Lasciami in pace, Akito! Io non… non voglio più
vederti.
Lei fece per chiudere la porta, - e probabilmente anche
la loro storia-, con un gesto secco e improvviso. Ma lui la anticipò, avanzando
di mezzo passo con un piede e bloccando la porta.
- Aspetta…!
- Cosa? Cosa dovrei aspettare? Che tu mi racconti com’è
stato scoparti la mia migliore amica? O cos’hai provato quando ti ha confessato
che avete concepito un bel figlioletto?
Non sapeva se nei suoi occhi c’era più rabbia o più
disperazione.
- No! Io voglio solo…
- Non mi interessa sentire quello che vuoi! Io voglio
solo che tu vada via…
Eppure a quelle parole sembrava non crederci neppure
lei.
Le si avvicinò, ma ad ogni passo che faceva, lei
indietreggiava impaurita.
- Ti ho detto di andare via!
La vide abbassare il capo e iniziare a piangere come una
bambina.
In quel momento, avrebbe volentieri barattato anche la
sua stessa vita per far sparire tutte quelle lacrime.
- Me ne andrò via, Sana… sono venuto per dirti proprio
questo…
Lei alzò il volto di scatto e lo guardò come se volesse
implorarlo di ripetere quelle ultime parole.
- Co… cos’hai.. detto?
Stavolta fu lui ad abbassare il capo per non dover essere
costretto a sostenere il suo sguardo.
- Ho detto che me ne vado…
Nonostante lei cercasse di nasconderlo, lui riuscì a
notare quel leggerissimo tremolio che le scosse il labbro inferiore.
Ti
prego… non guardarmi così.
- Senti Sana, io so di averti fatto una cosa orribile… so
che avrei dovuto dirti quello che era successo tra me e Matsui quando sei andata
via… ma non era stato niente per me. Non aveva significato niente…
- E allora perché l’hai fatto? Perché… mi hai fatto
questo? Perché con lei?
Cosa voleva sentirsi dire? Voleva una spiegazione logica
per quel gesto folle?
Ma avrebbe dovuto saperlo che non c’è logica nei gesti
folli.
- Perché ero disperato. E lei… non lo so. Lei era lì.. e
io non sono riuscito a pensare.
Non c’era davvero altro motivo, altra giustificazione, se
non la disperazione.
La disperazione, dopotutto, sa essere devastante come il
più forte innamoramento. Sa farti perdere il senso delle cose, sa come fare per
farti dimenticare che, in certi casi, si dovrebbe prima pensare.
- … Come hai potuto fare l’amore con me, senza dirmi una
cosa tanto grave?
Questo, invece, lo sapeva. A questo poteva provare a
rispondere.
- Perché ti amo, Sana. Ti amo così tanto che vorrei
passare ogni dannatissimo secondo a fare l’amore con te!
Gli occhi di lei si colorarono di rabbia furiosa e di
incontenibile disperazione.
Possono esserci sentimenti tanto contrastanti negli occhi
di una sola persona?
Possono convivere, apparire nel medesimo istante, due
espressioni così assolute?
- Se davvero mi avessi amato almeno un po’, non mi
avresti mai fatto una cosa tanto orrenda.
Si, rabbia e disperazione potevano indubbiamente
albergare nello stesso cuore, nello stesso, identico istante.
Lo capì, perché stavano albergando nel suo proprio in
quel momento. Proprio nel sentire l’assurda e inconcepibile conclusione alla
quale lei era arrivata.
Perché un pensiero del genere non avrebbe mai dovuto
neppure concepirlo.
Dirgli che non l’aveva mai amata davvero era di gran
lunga la peggiore delle menzogne.
- Amarti è l’unica cosa certa che c’è sempre stata nella
mia vita piena di casini…
Lasciò che una mano si sollevasse da sola per raggiungere
la guancia di lei e sentire sulle dita la fresca consistenza delle sue
lacrime.
- … e la certezza che ti amerò ancora domani, e sempre, è
più radicata della prova scientifica che il sole sorge ogni mattina. O che la
gente invecchia con il passare del tempo...
Le lacrime sulle sue dita iniziarono a diventare
inevitabilmente più copiose.
- …tu sei la mia più salda sicurezza. L’amore che provo
per te è l’unica cosa che nessuno potrà mai togliermi… nessuno, Sana. Comunque
vada, io ti porterò sempre con me, anche se sarai dall’altra parte del mondo..
quindi credimi se ti dico che preferirei essere morto, piuttosto che averti
fatto questo…
Era sincero.
Ogni parola, ogni sillaba, ogni lettera, ogni respiro era
stato sincero.
E forse, visto che portò le mani sulle sue per stringerle
forte, c’aveva creduto anche lei.
-.. Akito tu… vai con lei?
Avrebbe voluto dirle che non se ne sarebbe mai andato e
che avrebbe aspettato fuori dal suo cancello tutto il tempo necessario affinché
lei potesse perdonarlo.
Ma non c’era stata possibilità di scelta.
Un figlio è un figlio.
È una parte di te che ha un volto diverso, che sorride di
un altro sorriso, che parla con una voce mai udita.
Partire con Fuka per andare a vivere a Osaka era stata
l’unica scelta possibile sin dal primo momento.
In realtà, non c’era neppure un’alternativa vagliabile.
Non sarebbe stato l’uomo che lei l’aveva fatto diventare, se avesse
girato le spalle a suo figlio.
Sarebbe stato un buon padre, o almeno c’avrebbe provato.
Anche se ciò voleva dire perdere Sana.
Le conseguenze che certi errori portano con sé ti
impongono delle scelte che, anche se non vuoi, ti cambiano la vita. Ti
indirizzano verso la direzione opposta, sono la freccia che ti indica la strada
più lontana e sconosciuta.
Stanno lì ad attenderti dall’altra parte, sornioni e
pieni di soddisfazione.
E tu capisci che, da adulti, gli errori non si
dimenticano in fretta come da bambini. Che non basta più stringere il mignolino
dell’amico offeso e offrirgli il tuo giocattolo preferito come pegno per essere
perdonato.
No, da adulti il pegno è molto più grande.
Il
mio pegno, stavolta, sei tu.
- Non posso abbandonare mio figlio. Non me lo perdonerei.
Non me lo perdoneresti neanche
tu.
- .. Ma non ci sarà mai più nulla tra me e Fuka. Vado ad
Osaka per mio figlio, non per lei.
Non ci sarebbe stata più nessuna dopo di lei, così come
non c’era stata nessuna prima.
- Cosa… cosa dovrei dire adesso? Addio?
Mai parola era stata più fastidiosa di quella.
“Addio” voleva dire “Fine”. Fine di tutto, fine di loro
due, dei loro progetti, dei loro giorni futuri.
- No, Sana. Io non ti dirò mai addio. Perché se un giorno
mi rivorrai, io ci sarò. Ti basterà solo venirmi a cercare.
Lei rimase in silenzio, schiudendo appena le labbra nel
tentativo di parlare, ma senza riuscirci.
Magari non sapeva come dirgli che per lei, invece, quello
era proprio un addio.
Magari, più semplicemente, non sapeva quali parole si
dovessero usare in un momento come quello.
Lui d’istinto la attirò a sé, stringendola talmente forte
da sentire le sue lacrime macchiare la stoffa della camicia.
E la sentì singhiozzare ancora di più.
C’erano tante cose in quell’abbraccio… tante parole,
tante immagini accavallate.
C’erano tutti i pezzi di loro, di quello che erano stati
insieme.. Ed erano stati molto, insieme.
Fu lei a staccarsi per prima, tirando su con il naso
arrossato e passandosi una mano sotto gli occhi per asciugare le
lacrime.
- Bè allora…
- Allora vai via? Cosa dovrei dirti quindi? Ciao? Dovrei salutarti come se ti
potessi vedere domani mattina per fare un giro in centro? Dovrei davvero…
La vide abbassare gli occhi e lasciare scendere altre,
nuove lacrime.
- … dirti solo “ciao”?
- Si, Sana. Dimmi solo “ciao”.
Così sembrava meno difficile. Meno definitivo. Un “ciao”
è una parola che lascia aperte infinite possibilità… vedersi, non vedersi,
sentirsi per telefono o semplicemente incontrarsi in qualche sogno.
“Ciao” significava avere l’opportunità di scegliere.. di
decidere cosa fare.
Un “Addio”, invece, non lasciava spazio a niente’altro.
Era la parola da usare per chiudere qualcosa.
Addio era solo addio.
E loro ancora non potevano ancora
permetterselo.
- Sai qual è la cosa che mi fa più rabbia, Akito? È la
dannatissima consapevolezza che domani mattina, quando mi sveglierò sola nel mio
letto, ti avrò già perdonato. E non mi sarà rimasto neppure l’odio per provare a
dimenticarti… non mi sarà rimasto niente.. E sarò costretta a continuare ad
amarti pur sapendo che non potrò mai superare il fatto che tu e Fuka avete un
bambino.
No, non era ancora tempo per un addio.
Per ora, guardarla negli occhi e dirle “Ti amo” non
significava affatto che sarebbe stata l’ultima volta che le avrebbe detto quelle
due parole.
Per ora, vedere il suo viso rigato dalle lacrime voleva
solo dire averla fatta piangere dopo una delle loro solite litigate, prima di
farla tornare a sorridere chiedendole scusa.
Per ora, girarsi di spalle e uscire da quella porta
voleva solo dire andare via per un po’.
Magari poi, quello, sarebbe diventato davvero un addio.
O, forse, sarebbe tornato ad essere un semplice
“ciao”.
***
Le lenzuola odoravano di lavanda e primavera.
Un profumo familiare e caldo, che la avvolse per un
istante in un’affettuosa e morbida carezza.
Si, perché per un attimo, non appena aprì gli occhi e si
ritrovò nel suo letto d’infanzia, si sentì davvero al sicuro.
Lì, in quel piccolissimo spazio di mondo, inaccessibile
per tutti gli altri, nessuno avrebbe mai potuto farle del male.
Poi però, come capita sempre nelle peggiori mattine, i
ricordi della nottata precedente iniziarono a martellarle in testa con furiosa
violenza.
E capì che non c’era bisogno che qualcuno entrasse nella
sua stanza, che violasse il suo sicurissimo nido, per poterle fare del
male.
Akito e Fuka avevano la capacità di ferirla a morte senza
neppure sfiorarla.
Proprio com’era successo la notte prima.
E proprio come in quel momento, sentì una lama graffiarle
forte sul cuore e il respiro bloccarsi e bruciarle la gola…
Sarebbe stato così per tutte le mattine a
venire?
Sarebbe davvero stata sempre così male?
Sarebbe stato molto più facile
morire…
Nel giro di un’ora era passata dalla prospettiva di una
vita felice nuovamente accanto al suo Akito, alla prospettiva di un’esistenza
senza le persone che, in quei 24 anni, erano state i suoi compagni di
viaggio.
Senza Fuka, la sua divertente e ottimista migliore
amica…
Senza Naozumi, il suo uomo ideale e perfetto, lo scoglio
al quale aggrapparsi con forza ogni qualvolta si sentiva sperduta… L’angelo
bellissimo e paziente, dal sorriso dolcissimo e gli occhi del colore del
mare.
E, soprattutto, senza Akito… che era stato… Bè, che era
stato semplicemente Akito.
E non c’era certo bisogno che fosse
nient’altro.
Adesso cosa mi rimane?
Adesso, senza Fuka, Naozumi ed Akito, non rimaneva
nient’altro che una disperata solitudine.
La consapevolezza di non sapere come fare per alzarsi da
quel letto.
Per arrivare fino in bagno a fare una doccia e poi
scendere per preparare la colazione.
Per risalire in camera e passare del tempo stando in
piedi di fronte all’armadio, troppo indecisa sescegliere la maglia rosa a con il collo
soffice ed enorme o la camicia nera comprata in una delle più esclusive boutique
d’alta moda.
Come avrebbe fatto ad occupare anche solo un misero
istante del suo tempo per rivolgere la mente a pensieri tanto… inutili?
Con le lacrime a rigarle il volto, si rigirò nel letto
stringendo forte le lenzuola intorno al torace.
Si, le lenzuola odoravano di lavanda e
primavera.
Ma il suo inverno era appena cominciato.
***
Avrebbe tanto avuto bisogno che qualcuno gli dicesse che
stava facendo la cosa giusta.
Che tutti, al suo posto, si sarebbero comportati
esattamente come si stava comportando lui in quel momento.
Perché quella scelta, la decisione di accettare che la
sua vita non sarebbe più stata quella di prima, gli sembrava davvero l’unica
possibile.
Ironia della sorte, certo, che proprio ad uno come lui,
con quella storia particolare, con le spalle ancora un po’ indolenzite dal peso
di quell’infanzia mai vissuta, fosse capitata proprio una cosa del
genere.
Che gli si fosse aperta di fronte agli occhi un’altra
strada… la possibilità di essere egoista, di spendere ogni secondo delle sue
giornate stando attaccato al citofono della donna che amava per implorarla di
perdonarlo ancora una volta.
E al diavolo tutto il resto. Anche se il resto aveva il
volto di un bambino con il suo stesso sangue a scorrere nelle vene.
Dopotutto, sarebbe stato molto facile. Facile dire a Fuka
di tornare ad Osaka e di continuare a vivere la sua vita come aveva fatto fino a
quel momento… se c’era riuscita per più di tre anni, ci sarebbe riuscita per
tutto il tempo necessario.
Forse un giorno, forse poi, sarebbe anche potuto andare a
trovarli.
Ma lui lo sapeva bene…non sarebbe mai stato capace di
fare una cosa del genere.
Per quanto avesse fatto di tutto per dimostrare il
contrario, non era un persona così orribile.
Forse un tempo era stato sul punto di diventarlo. Ma poi
era arrivata Sana e tutto aveva preso una nuova direzione.
È
colpa tua se non posso abbandonare mio figlio,
sai…?
Sei stata tu a farmi capire che certi valori non si
possono mai dimentucare.
E allora aveva scelto di prendere l’altra via, quella più
difficile e più dignitosa.
Una vera ingiustizia che le scelte più giuste fossero
anche quelle più insopportabili.
- Sei pronto, Akito?
Dovette sforzarsi per non scoppiare a piangere di fronte
al viso nervoso di Fuka.
Non l’aveva mai notato prima, ma quando si incazzava o
quando qualcosa la turbava, assumeva un’espressione che quasi somigliava a
quella di Sana.
Anche i suoi occhi si oscuravano un poco e le
sfaccettature colorate diventavano opache.
- Si, andiamo Matsui.
Per il resto, però, Fuka non aveva proprio niente di lei.
Gli arrivò accanto, porgendogli uno dei due biglietti
appena comprati in stazione. Lui lo afferrò senza esitare e se lo infilò nella
tasca dei jeans.
Fu un gesto così frettoloso e repentino che Fuka lo
guardò un istante si intristì ancora di più.
Come se in quella fretta, in quel voler nascondere subito
il biglietto, c’avesse letto l’immenso sforzo, il sacrificio disumano che Akito
stava facendo solo per colpa sua.
- Akito… sei davvero sicuro di voler venire con
me?
- Ne abbiamo già parlato, Matsui.
“Il treno per Osaka è in arrivo sul terzo
binario…”
- Si, lo so… ma lei..
La guardò come solo lui era capace di guardare qualcuno.
- Te lo ripeto per l’ultima volta, Matsui. Tu hai fatto
nascere mio figlio. Lei lasciala fuori da questa storia.
La vide acconsentire con il capo e poi dargli le spalle
per dirigersi verso il binario sul quale stava arrivando il treno che li avrebbe
portati via da Tokyo.
La seguì e le si posizionò accanto, prendendo i suoi
bagagli per evitarle di sforzarsi troppo.
Un po’, comunque, era davvero curioso di conoscere suo
figlio e di vedere se gli somigliasse in qualcosa.
“Il
treno per Osaka è in arrivo sul terzo binario…”
Ma, per attimo, sperò che quel treno non arrivasse
mai.
/*/
Note
dell’autrice: Ok, ce l’ho fatta! So di avervi fatto aspettare più del
solito, ma alla fine sono riuscita a pubblicare anche questo capitolo! Vi dico
subito che per arrivare alla fine ne mancano al massimo altri due. Cavolo, mi
commuovo se penso che siamo quasi arrivati all’epilogo.
Ho finito di scrivere questo capitolo praticamente due
minuti fa e quindi, vista l’ora, non mi sorprenderei se ci fosse qualche errore
(Se così fosse, perdonatemi xD).
Eccomi qui! Con un po’ di ritardo, ma sono tornata!
^^
CAPITOLO QUATTORDICI:
STAGIONI
Gennaio- Akito
C’è stato un momento nel quale ho pensato che quei
dannatissimi quattro anni non fossero mai davvero
passati.
O
che magari fossero anche passati, ma che non avessero cambiato granché, almeno
dentro di noi.
Perché fare l’amore con te, stringerti così forte da
sentire il tuo respiro sulla mia anima, aveva fatto sorgere nella mia mente
l’illusoria convinzione che il tempo potesse accartocciarsi su se stesso. Che
potesse consentirci di tornare indietro per cambiare le nostre
scelte.
E
io le avrei cambiate senza pensarci su neppure un
istante.
Perché sono state quelle scelte, errori causati dalla
fragilità dello spirito umano, a condannarci a questo.
E
per due innamorati come noi,- perché si, sai benissimo che lo siamo-, non c’è
condanna peggiore che essere costretti a stare lontani e a non poter dare la
colpa ad altri se non a noi stessi e alla nostra ineguagliabile
stupidità.
È
bastato girarsi un istante, uscire dalla porta come si fa nei giorni normali, e
tu non c’eri già più.
Avevi scelto di cambiare casa, di cambiare città, di
cambiare vita. Di cambiare persino quel futuro che avevamo già scritto quella
sera di tantissimi anni fa, seduti su una panchina nel nostro piccolissimo
gazebo.
Forse tu non lo sai perché non te l’ho mai detto, ma
durante questi ultimi quattro anni sono tornato molto spesso a visitarlo.
Non all’inizio, però. C’è voluto un po’ di tempo prima
che ritrovassi il coraggio di percorrere quella strada.
Non so neanche se lo si possa definire coraggio… forse
invece, quel bisogno di vedere quasi ogni giorno il posto in cui tutto è
cominciato,era solo debolezza. Un
modo per sentirmi ancora vicino a te.
Non lo so. Comunque, non
funzionava.
Senza di te quel gazebo non era altro che un gazebo. Due
panchine coperte da un piccola cupola in
metallo.
Era freddo e triste come una vecchia auto abbandonata ai
margini di una strada deserta da cui nessuno passa
più.
Quel gazebo, forse, era un po’ come me. Eravamo due
rottami, due pezzi di una storia che apparteneva al passato, ma che da quel
passato non erano in grado di tirarsi fuori.
Tu
eri andata avanti, io ero rimasto incastrato al momento nel quale capii che mi
avresti stravolto la vita.
Sai, un giorno ho letto da qualche parte che non si può
sentire la mancanza di qualcosa che non si è mai
conosciuta.
Forte di questa convinzione, sono arrivato anche a
desiderare,- e non te lo nascondo-, di non averti mai incontrata. O di non
averti permesso di togliermi la ruggine dal cuore e di spaccarlo per entrarci
dentro e scriverci le lettere del tuo nome come un tatuaggio
indelebile.
Ho
pensato che fossi solo un tatuaggio sbagliato. Che se non ti avessi mai permesso
di intrometterti nella mia vita, non sarei stato costretto a soffrire come un
cane quando te ne sei andata.
Perché tu non ti sei accontentata. Non ti è bastato far
parte della mia vita come una delle tantissime persone che incontriamo durante
il nostro percorso… una di quelle che restano solo per un po’, magari
condividono qualcosa con te, ti fanno passare qualche giornata divertente, ma
poi se ne vanno via.
E
tu puoi anche rimanerci male lì per lì, ma poi te ne dimentichi e con il tempo
neanche te le ricordi più.
No, tu dovevi entrare in quella parte di cuore dalla
quale non era più possibile uscire. Hai preferito infilarti in un vicolo cieco e
proteggerti costruendo ricordi su ricordi, regalandomi momenti che sapevi bene
non sarei mai stato in grado di cancellare. E una volta che ci sei riuscita, una
volta che sei riuscita a crearti intorno il più sicuro dei rifugi, ti sei
sentita soffocare. E hai deciso che forse era ora di uscire… e l’hai fatto
nell’unico modo possibile… spaccando tutto.
Come un bambino capriccioso che decide di buttare il
giocattolo che fino ad un giorno prima era stato il suo preferito, hai deciso
che era il momento di diventare adulta.
Ma
vuoi sapere come mi sono sentito io?
Svuotato.
Si, credo che sia la parola giusta per descrivere il mio
stato d’animo quando ho aperto la porta di casa nostra e non ho trovato più i
tuoi vestiti nell’armadio.
Non so perché ti sto dicendo queste cose… perché sto
rivangando episodi che appartengono a quel passato che ci eravamo lasciati alle
spalle la notte di quest’ultimo Natale, durante il matrimonio di Aya e
Tsuyoshi.
Forse quel dolore lo sto rivangando per provare a farti
capire perché ti ho fatto una cosa così
orrenda.
Ora non so se questo possa considerarsi un’attenuante,
una sorta di mezza giustificazione, per quello che ho fatto con Matsui la prima
notte nella quale mi sono ritrovato completamente
solo.
Non so come la pensi tu, ma io credo che di un dolore
come quello che mi hai lasciato quel giorno non puoi non tenerne
conto.
Ti
chiedo solo di pensarci almeno un istante, prima di decidere che è tutto
irrecuperabile.
So
di non poter pretendere che tu possa dimenticare quella notte… non posso farlo
neppure io, dal momento che proprio da quella notte è nato mio
figlio.
Si, ormai è un mese che sono
qui.
Vorrei tanto poterti chiamare e raccontarti che quando
l’ho visto la prima volta ho sentito una scossa fortissima nello
stomaco.
Non te lo saprei spiegare a parole, perché è una cosa che
se non la vivi non la puoi capire.
Fuka mi ha presentato come un suo vecchio amico, o come
uno zio,- ora non ricordo di preciso-, e lui mi ha guardato un attimo con aria
confusa.
Ha
i miei occhi. Ce l’ha davvero, Sana. È stato come rivedere me stesso bambino…
per fortuna, però, lui ha i miei occhi ma non il mio
sguardo.
Il
suo è quello di un bambino amato e felice.
Ho
capito subito che Matsui è davvero una buona
madre.
I
primi giorni ho cercato di parlare con lui, di capire se il fatto che fossero
già passati più di tre anni dalla sua nascita, non fosse comunque un ostacolo
per provare a conoscerci.
Qualche giorno fa mi ha sorriso per la prima volta… e ho
capito che mi aveva riconosciuto.
Ieri, dopo averlo messo a letto, stavo per uscire dalla
porta della sua stanza e l’ho sentito parlare nel sonno… mi pare abbia detto
“papà”.
E
in quel momento ho capito che lui è davvero mio figlio. E che, nonostante tutto,
non potrei mai desiderare che non fosse mai venuto al mondo.
So
che non dovrei dirlo proprio a te… dopotutto, è per colpa di sua che credo di
averti persa per sempre.
Però, lo sai.. sei stata presente in ogni minuto della
mia vita e allora ho sempre avuto l’abitudine di raccontarti tutto. Tu hai
sempre saputo tutto di me. Mi conosci molto meglio di quanto io non conosca me
stesso. L’unica volta in cui ho potuto provare a vedere se ero in grado di
cavarmela anche da solo, sono stato sul punto di morire.
E
allora sono arrivato alla conclusione che mi manca da pazzi poterti raccontare
ogni cosa.
Mi
manca dirti che Tsuyoshi ha pensato all’ennesimo regalo da fare alla sua Aya, o
che c’è un allievo nella mia palestra che è già molto più bravo di me, per poi
sentirti dire che non è vero… che non è possibile che ci sia qualcuno più bravo
di me perché per te io sono il migliore.
Ma
a me non è mai importato essere il migliore nel karate.
Sarei voluto essere il migliore per te. L’uomo degno di
starti accanto.
E
ancora ci spero, sai?
Forse sono uno stupido.
O
forse sono solo molto innamorato.
Il
che, in fondo, è praticamente la stessa cosa.
***
Febbraio- Naozumi
Non avevo mai notato quanto New York potesse essere il
posto peggiore in cui vivere.
Ti
sembrerà una cosa stupida, perché ti ho sempre detto che per me era la città più
bella del mondoe che me ne sono
innamorato sin dalla prima volta in cui ci ho messo
piede.
È
tutto così rumoroso, e luminoso… la gente non si ferma mai. Non ha neppure un
attimo per pensare… sono sempre tutti così indaffarati, hanno sempre tutti così
tanto da fare.
Non me ne sono mai accorto prima… forse perché anch’io
avevo sempre qualcosa da fare.
Non che adesso sia diventato una specie di nullafacente
vagabondo,… sai che non sono un tipo che passa le sue giornate seduto scomposto
sul divano a guardare squallidi programmi televisivi e a mangiare gli avanzi
della sera prima, con una bottiglia di birra scadente tra le
mani.
Se
fossi stato uno così, credo che non avresti passato con me neppure un giorno
della tua vita.
Il
lavoro và abbastanza bene. Proprio qualche giorno fa ho iniziato a girare le
prime scene di un nuovo film che, stando ai grandi nomi che recitano al mio
fianco, dovrebbe diventare un vero successo.
A
me, però, non importa granché.
Non mi importa di molte cose, in
realtà.
Sai, ieri sono stato al nostro solito ristorante...
quello dove andavamo quasi ogni venerdì sera e Jack e Kate mi hanno chiesto di
te.
“Ehi, Naozumi, dov’è la tua amata fidanzatina?” mi hanno
detto con il sorriso sul volto.
Loro non sanno che non eri con me nel loro ristorante
perché ti avevo lasciata dall’altra parte del
mondo.
Io
non ho risposto e mi sono limitato ad alzare le spalle e ho sperato con tutto me
stesso che quel gesto bastasse per fargli capire che non volevo parlare di
te.
Per fortuna hanno capito e mi hanno riservato uno sguardo
compassionevole.
E
Dio solo sa quanto li ho odiati per questo!
Se
ne stavano lì, la classica coppietta felice che prova pena per lo sfigato che è
stato mollato dalla sua bellissima fidanzata innamorata di un altro da tutta la
vita.
Li
ho odiati. E ho odiato anche te.
Poi però ho pensato a quello che ti ho fatto e ho odiato
anche me stesso.
È
una cosa frustrante, sai? Sapere di non averti lasciato nient’altro che un mare
di sofferenza.
Eppure ti ho amata così tanto. Ti amo così
tanto.
Vorrei chiamarti per sapere come stai. Per sapere se sei
riuscita a stare un po’ meglio o se ancora ti manca la forza per
respirare.
Vorrei sapere se Hayama ha fatto qualcosa per riprenderti
con sè e se tu hai ceduto di fronte a lui. Se lo ami ancora e se lo
perdonerai.
Ma
il massimo che riesco a fare è comporre il tuo numero e riattaccare non appena
sento il primo squillo.
Forse un giorno riuscirò a chiamarti davvero. O forse ti
verrò anche a trovare.
Intanto resto bloccato qui, immobile e sperduto
nell’immenso caos di New York.
E
tra tutto questo mare di gente mi riscopro ancora a cercare il tuo viso, pur
sapendo che non lo troverò mai.
Questa città ha cambiato volto da quando sei andata via.
A
volte penso che vorrei andarmene anch’io…magari in Europa o da qualche altra
parte.
Ma
poi capisco che ovunque sarebbe lo stesso. Che ovunque ti cercherei. Che ovunque
mi mancheresti.
E
allora resto qui e provo ad occuparmi la vita con cose diverse da
te.
E
magari un giorno, chissà, potrò anche
riuscirci.
***
Marzo- Tsuyoshi
A
volte ho come l’impressione che avrei potuto fare molto di
più.
Si, insomma, che avrei potuto regalarvi più tempo e più
attenzione. Perché, che avevate entrambi bisogno di un amico, mi sembra
abbastanza scontato.
L’ho sempre saputo che siete due imbecilli che si fanno
corrodere dall’orgoglio e da stupidissimi errori, quindi non mi dovrei stupire
più di tanto se siete arrivati a perdervi, ancora una
volta.
Invece, non appena ho saputo la verità, mi sono stupito
eccome.
Perché non potevo credere che foste stati capaci di
impegolarvi in una situazione tanto assurda.
Dico davvero, stupidi senza
cervello.
E
ora non offendetevi, perché è esattamente quello che
siete.
Ho
dovuto praticamente costringere Aya a dirmi tutto quello che sapeva. Perché è
mia moglie, accidenti, e credo di avere il sacrosanto diritto di condividere con
lei ciò che la tormenta.
Dopo il matrimonio, durante i giorni della luna di miele,
era quasi sempre assente. Che ci fosse qualcosa che la turbava l’avrebbe capito
anche un cieco.
All’inizio ha anche provato a negare, a dirmi che non
aveva idea del perché tu te ne fossi andato all’improvviso, mentre Sana era
rimasta nella sua vecchia casa. Senza Naozumi. E senza di
te.
Poi però ha capito che sarebbe stato inutile continuare a
mentire, perché sono suo marito, sto con lei praticamente da tutta la vita, e mi
basta un istante per rendermi conto se qualcosa non
và.
E
allora mi ha confessato tutto, mi ha detto di Fuka e del suo bambino. E io ho
avuto una voglia pazzesca di prenderti a pugni, stupidissimo di un
Akito!
E
te l’ho anche detto, non appena ho trovato il coraggio di farti qualche
telefonata per sapere come procedevano le cose tra te e tuo
figlio.
Ti
ho detto che sei l’uomo più stupido che io abbia mai
conosciuto.
Ti
voglio bene e lo sai. Sono cresciuto con te e ti ho visto innamorarti di lei.
Sin dal primo istante, ho capito che c’era qualcosa di molto speciale che vi
legava e che, con moltissima probabilità, vi avrebbe legati per
sempre.
E
allora dimmi cos’ho sbagliato. Dimmi perché le cose non sono andate come avevo
previsto.
Perché qualcosa dev’essere successo… qualcosa di diverso,
qualcosa che ti è scattato nel cervello, che è scattato anche a lei, e che vi ha
fatto svegliare una mattina e pensare che la cosa migliore da fare era buttare
nel cesso un amore che, forse, non meritavate.
Perché non ne hai parlato con
me?
Perché non mi hai detto che eri stato così disperato da
fare l’amore con la migliore amica di Sana?
Perché, quando hai capito che da solo non ce la facevi,
non mi hai chiesto aiuto?
Sai che ci sarei stato,
Akito.
Avrei potuto parlare con Sana, dirle che volevi che
tornasse a casa. Dirle che volevi sposarla.
Ma
tu dicevi che andava tutto bene, che il fatto che lei fosse andata a New York e
che si fosse messa con Naozumi, forse era stata la cosa migliore per tutti e
due.
Balle, clamorose menzogne.
Forse la colpa è stata anche mia. Colpa per averci
creduto, a quelle bugie, ignorando la vocina dentro di me che mi urlava di
aprire gli occhi.
Ma
non volevo intromettermi, non volevo forzarti a fare qualcosa che non volevi
fare. E invece non ho pensato che l’unica cosa che volevi era proprio quella di
riavere lei.
Sciocco io. Sciocco tu. Sciocca lei.
Ed
è così triste pensare che una cosa bella come il vostro amore possa essersi
rovinata per un po’ di sciocchezza.
È
così facile distruggere tutto.
Sai, Akito, ieri sono passato da casa di Sana. Volevo
vedere come stava, volevo parlare un po’ con lei per cercare di farle capire che
non era ancora tutto perduto. Che se ti amava allora qualcosa si poteva
recuperare.
Ma
lei non c’era. Ho suonato il campanello per un bel po’ di minuti, ma non ho
ricevuto risposta.
In
un primo momento ho creduto che fosse uscita per fare un giro e allora l’ho
aspettata per un po’.
Poi ho visto la signora Misako uscire in giardino per
innaffiare le sue bellissime piante e le ho rivolto un caloroso saluto. Lei mi
ha guardato un attimo confusa e poi mi ha chiesto cosa facessi
lì.
“Sto aspettando Sana!”, le ho
risposto.
Lei si è avvicinata a me e mi ha sorriso appena, prima di
dirmi che Sana non c’era. Perlomeno, non in quel momento e non ci sarebbe stata
neppure in quelli immediatamente successivi.
Si
è trasferita, Akito. È andata ad abitare con Rey e sua moglie Asako, in un
piccolo paesino alle porte di Parigi.
Tu
sei ad Osaka e lei in Francia. Siete di nuovo distantiun mondo
intero.
Quanto durerà questa situazione?
Avete davvero intenzione di non fare niente? Di lasciare
le cose così come sono?
Accidenti a voi! So che non è facile rimediare, ma almeno
provateci!
Mi
sento un po’ più vuoto anch’io senza di voi. Mi sento un po’ più triste anch’io,
se so che non siete felici.
Aya continua a dirmi di non fare nulla. Di lasciare che
siate voi due a decidere in quale direzione far evolvere le cose.
Credo che la ascolterò, anche perché non saprei cosa fare
per aiutarvi.
Dovrete essere voi due a capire che essere felici è un
dovere. E che pensare di poter vivere senza dar peso alla voce del cuore è solo
una follia. E una macroscopica utopia.
Quindi io aspetterò in disparte le vostre mosse, con la
promessa che ci sarò sempre, e in ogni momento, se vi servisse ancora un
amico.
Sento, o forse spero, che ci sarà aria di
cambiamenti.
In
fondo, è già primavera.
***
Aprile- Sana
Forse ti sembrerà strano, ma mi sono resa conto che la
primavera è davvero arrivata solo questa mattina.
Per capirlo, mi è servito sentire Asako entrare nella mia
stanza per svegliarmi e vederla spalancare le ante della finestra accanto al
letto.
Ecco, in quel momento ho sentito un fortissimo odore di
fiori. E ho capito che l’inverno era passato… almeno sul
calendario.
Già, perché dentro di me, l’ inverno, lo sento ancora
saldamente ancorato al cuore.
Non c’è l’ombra neppure di un piccolissimo bocciolo,
niente che possa dimostrarmi un po’ di
primavera.
Strano, vero?
Perché io sono sempre stata una persona piena di
entusiasmo e di voglia di vivere, e spesso sentivo la primavera molto prima di
tutti gli altri, la sentivo anche nel più gelido inverno, anche durante il più
triste degli autunni.
Inutile dire che la colpa è tua.
Dopotutto, di chi altri potrebbe
essere?
È
per colpa tua che sono stata “costretta” a fuggire da Tokio e dalla mia vecchia
casa…tra quelle mura familiari erano troppe le cose che mi parlavano di
te.
Incredibile come una sola persona possa essere capace di
influenzare a tal punto la tua vita. Bisognerebbe creare dei limiti, dei confini
oltre i quali i sentimenti non possono andare, giusto per proteggersi un po’ di
cuore.
Se
così fosse stato, ora non mi ritroverei in queste condizioni. Non sarei
costretta a quest’apatia che mi spinge a non trovare un senso a niente. A non
vivere il passare dei giorni con l’entusiasmo tipico di chi ha qualcosa da
aspettare. Perché io non aspetto più niente.
Trovo che sia la cosa più orribile che possa capitare, lo
stato d’animo peggiore che una persona possa provare… il non aspettarsi niente,
perché tanto ogni nuovo giorno è uguale al precedente e il tempo lo vedi passare
solo sulla calendario.
Prima era tutto diverso. Prima, c’erano tanti progetti,
tante cose da fare e il tempo sembrava non bastare mai. Ora ne ho così tanto che
non so che farne. Ne ho così tanto che quasi vorrei
regalarlo.
Eppure so che mi basterebbe guardarti per tornare ad
emozionarmi di fronte ad un’alba.
Mi
basterebbe sentire la tua voce per ricominciare a interrogarmi su cosa fare
domani. E per creare progetti, sogni,
aspettative.
So
benissimo di essere una donna fortunata. Ho una famiglia che mi ama e un lavoro
che la maggior parte della gente può solo
desiderare.
Sto bene qui, con Rey e Asako. Hanno avuto una bambina,
sai?
È
nata quando ero ancora a New York, quindi l’ho vista per la prima volta quando
mi sono trasferita qui. Qualche giorno fa, ha compiuto due
anni.
Si
chiama Nami ed ha lo stesso viso di sua madre. Rey si arrabbia molto quando
qualcuno gli fa notare che potrebbe anche non essere sua figlia, visto che non
gli somiglia per niente.
Però non è vero. Ritengo che da Rey abbia preso il
sorriso. E questo basta per renderla indiscutibilmente sua
figlia.
Ogni volta che guardo Nami, mi viene inevitabilmente in
mente il fatto che anche tu ora hai un bambino. E non ti odio abbastanza per non
voler sapere com’è stato incontrarlo. Come ti sei sentito quando hai incontrato
i suoi occhi per la prima volta.
Vorrei sapere se ti somiglia e se sei riuscito ad
entrargli nel cuore. Ma questo, probabilmente, lo so già. Perché tu sai entrare
nel cuore, Akito. Il problema è che poi non sai più uscire. O lo sai ma non vuoi
dirmi come fare, perché ritieni che meriti ancora un po’ di
sofferenza.
Se
è così, se davvero conosci un modo per permettermi di non amarti più, allora ti
prego di dirmelo e di permettermi di liberarmi di te una volta per
tutte.
O
perlomeno dimmi come fare per trovare un senso anche a ciò che non porta il tuo
nome e che non ha il tuo volto.
Sono sempre stata così piena di te, durante il corso di
tutta la mia vita, che ho paura che se riuscissi a cancellarti, poi non mi
resterebbe più niente. Ho paura che la tua mancanza finirà per svuotarmi e io
resterò qui da sola, ad annaspare senza fiato, sapendo che non ci sarà mai
nient’altro con cui potermi riempire.
E
allora dimmelo tu cosa fare, perché io non lo so.
So
solo che non riuscirò ad odiarti finché continuerai a mancarmi. Finché
continuerò a pensare che è molto meglio amarti soffrendo, piuttosto che
cancellarti.
E
mi dispiace di essere stata così stupida. Mi dispiace di essermene andata
quattro anni fa.
Mi
dispiace di averti lasciato con il cuore stracolmo di rabbia e di delusione e di
averti fornito la possibilità di tradirmi nel modo peggiore in cui potevi
tradirmi.
Perché sei stato debole e sciocco, e su questo non ci
sono dubbi.
Ma
sono stata debole e sciocca anch’io, forse molto più di
te.
E
allora magari questa sofferenza me la merito. Ma sento che potrei stare molto
meglio se solo ti vedessi anche un istante… magari da lontano, dal ciglio
opposto della strada, o in mezzo ad un mare di persone. Mi basterebbe uno
sguardo fugace, giusto il tempo di vedere se la voglia di abbracciarti supera
quella di prenderti a schiaffi e di mandarti a quel
paese.
Che stupida, questo lo so già. Mi sembra inutile persino
dirti la risposta, perché se sto ancora qui a pensarti vuol dire che, con il
cuore, vorrei prendere il primo aereo e gettarmi tra le tue
braccia.
E
al diavolo Fuka, al diavolo gli errori, il tempo sprecato a farci del male. Al
diavolo tutto.
Poi penso che, tra il mare di sbagli commessi, c’è un
bambino che porta sul viso i tuoi lineamenti, e allora capisco che forse è
meglio mantenerla, questa distanza.
Perché a volte il cuore non basta, a volte è necessaria
anche un po’ di ragione.
Eppure nei sentimenti, ho sempre pensato, è il cuore
quello che deve decidere.
Forse sbagliavo… ma so che sarebbe davvero bellissimo, se
solo bastasse poterlo seguire.
***
Maggio- Fuka
Non ho mai avuto un’amica come te. Forse non ho mai avuto
una vera amica, prima di incontrarti.
Te
lo ricordi il momento in cui ci siamo viste per la prima volta,
vero?
Ci
siamo soffermate molto spesso a ripensarci, negli anni a venire. E ogni volta ci
lasciavamo scappare una risata divertita.
Perché se ci pensi, è stata una cosa strana. Voglio dire,
anche se non ci fossimo viste in bagno, anche se non ti avessi chiesto un po’ di
lacca per sistemare la frangetta tagliata troppo corta, ci saremmo incontrate
nella stessa aula solo pochi minuti dopo.
Si, ci saremmo viste in aula, ma forse sarebbe stato
tutto diverso.
Forse non ci saremmo parlate subito, forse mi sarei
seduta lontana da te, accanto ad un’altra compagna che magari avrebbe preso il
tuo posto.
Forse, se non ci fossimo parlate in quel bagno, non ci
saremmo mai scelte.
Perché noi ci siamo scelte, Sana. È bastato un attimo,
due parole scambiate qua e là, e subito abbiamo capito che c’era quell’alchimia.
Che io sarei diventata la tua migliore amica e che tu saresti diventata la
mia.
E
così è stato. Almeno fino a quel maledettissimo giorno di più di quattro anni
fa.
Credimi, fare l’amore con Akito era l’ultima cosa che mi
passava per la testa. Se tu me l’avessi detto tanti anni fa, tra una battuta e
l’altra, ti sarei scoppiata a ridere in faccia.
E
ti avrei detto che mai e poi mai ti avrei fatto una cosa del genere. Che mai e
poi mai lui l’avrebbe fatta a te.
Ed
era vero, è sempre stato vero, almeno fino a quando non hai deciso che la cosa
migliore da fare era scappare dall’altra parte del mondo e metterti con un uomo
che con il tuo Akito non c’entrava nulla. Che non c’entrava nulla neppure con
te.
E
non so se è stata colpa del destino o del nostro sconfinato timore di restare da
sole, ma anche Takaishi, a quei tempi, prese la tua stessa
decisione.
E
io, come te, ero troppo debole per non cercare aiuto. E conforto. E
amore.
Tu
l’hai fatto con Naozumi, io l’ho fatto con
Akito.
Si, lo so bene che è una cosa completamente diversa.. che
stando con Akito ho fatto del male anche a te. Ma quella notte non è stato
nient’altro che un modo per rendermi conto che non ero l’unica a soffrire. E il
fatto che ci fosse qualcun altro che soffrisse come me, che avesse la mia stessa
voglia di morire, mi ha fatto sentire un po’ meno disperata.
Solo per un po’.
Credimi, non ho pensato al fatto che ti avrei distrutta.
Non ho pensato che anche se eri a New York, il tuo cuore era rimasto accanto ad
Akito.
Se
ti può consolare, è stato così anche per il
suo.
Poi, il fatto che da quell’errore sia nato mio figlio, è
una cosa che non potevo prevedere. E che non posso assolutamente
rinnegare.
Mio figlio è tutta la mia vita da quando Takaishi se n’è
andato. E da quando te ne sei andata anche tu.
Mi
ha spinto a tornare ad amare la vita, mi ha fatto sentire di nuovo importante
perché ha bisogno che io mi prenda cura di lui.
E
questo non c’entra niente con Akito.
Certo, lui è il padre. Ma può continuare ad esserlo anche
senza dover rinunciare a te.
È
qui da qualche mese ormai, e mi sembra che le cose stiano andando anche meglio
del previsto.
Forse non dovrei raccontare queste cose proprio a te, ma
sei la mia migliore amica e voglio che tu sappia che certe cose non sono mai
cambiate.
L’amore che prova Akito verso di te, per esempio. E
quello che tu provi per lui.
Perché ti conosco fin troppo bene per non essere
assolutamente certa del fatto che, in questo momento, sarai da qualche parte del
mondo a pensare a lui e a dannarti perché non riesci ad
odiarlo.
Se
è così, non dannarti più.
Non tentare di odiarlo perché non ci riusciresti. Perché
odiarlo non servirebbe, non ti restituirebbe la voglia di sorridere. Quella, lo
sai, dipende da lui.
So
che una cosa come quella che ti abbiamo fatto non si può perdonare facilmente,
ma ti voglio troppo bene per non chiederti di perdonare almeno Akito.
Non perdonare me se non te la senti… almeno non ancora.
Prenditi tutto il tempo che ti serve, lascia scorrere tutta la vita che vuoi far
scorrere.
Lui, però, cerca di perdonarlo. Lo dico per te, perché so
che solo lui può farti tornare quella di sempre.
E
lo dico per lui, perché gli voglio bene. Perché non sai che la sera, quando
pensa che siamo già andati tutti a dormire, lo sento piangere da dietro la sua
porta. Lo sento singhiozzare il tuo nome.
E
se l’amore che provate l’uno per l’altra è sopravvissuto anche ad un errore come
il nostro, allora vuol dire che non potrà mai morire. E tu non lo devi
sprecare.
Fallo per lui, fallo per
te.
Ho
provato anch’io ad odiare Takaishi, quando mi ha lasciata. Ho provato a
fargliela pagare e hai visto com’è andata a
finire.
Dopo lo stupore iniziale, dopo lo shock per la
separazione, ho pensato che la cosa migliore da fare fosse odiarlo. Odiarlo così
tanto da far rimanere nella mia mente solo i momenti peggiori…da non ricordare
il modo in cui mi guardava, ma solo gli occhi che aveva nel momento in cui mi
diceva che era meglio andare via.
Ho
lasciato che la rabbia si impossessasse di me e mi corrodesse, fino a farmi
dimenticare che avrei potuto odiarlo anche per tutta la vita, ma la ferita non
si sarebbe rimarginata.
Perlomeno, non così in fretta. Non riempiendola di
rancore.
È
stato solo quando ho capito che non dovevo essere arrabbiata, che non dovevo
costringermi ad odiarlo, che ho iniziato a stare un po’
meglio.
E
allora ho accettato il fatto che le storie d’amore possono anche finire e che
l’unico motivo per il quale Takaishi mi ha lasciato è che, semplicemente, non
era più innamorato di me.
E
di questo non posso certo fargliene una colpa.
Ho
continuato ad amarlo per un bel po’, forse lo amo tutt’ora. Ma riesco a
convivere con il ricordo della nostra storia, riesco a pensare a lui e, a volte,
mi viene anche da sorridere.
Ma
avrei tanto voluto che mi avesse lasciata per uno stupido litigio o per un po’
d’orgoglio, proprio com’è successo a te e ad
Akito.
Un
errore si può riparare, la mancanza d’amore no.
È
più facile rassegnarsi se chi ti lascia non ti ama più, perché alla fine sai che
non c’è niente che tu possa fare per cambiare la
situazione.
Ma
voi vi amate ancora. E c’è qualcosa che potete
fare.
Potete perdonarvi.
Fidati, Sana, lo devi a quell’enorme pezzo di vita
vissuto accanto ad Akito. Lo devi ai vostri momenti, alle sensazioni che ancora
provate quando siete vicini. Lo devi ai brividi che vi regalate con un solo
sguardo, ai sorrisi che hai voluto soffocare, ai progetti che dovevate
realizzare. Lo devi ai figli che sognavate di avere, ai respiri che dovevate
farvi mancare.
Soprattutto, lo devi al tuo cuore… Stavolta, ti giuro, lo
dovresti davvero ascoltare.
***
Giugno.
Aprì le finestre lentamente, cercando di fare meno rumore
possibile. Sentì il legno ruvido delle ante sotto le dita e la brezza mattutina
accarezzargli il viso ancora leggermente insonnolito.
Restò immobile per qualche secondo, piacevolmente
sorpreso dal calmo paesaggio che gli si stagliava di fronte. C’era una calma
quasi irreale eppure bellissima… così diversa dal caos che accompagnava i suoi
risvegli nelle mattine a Tokyo.
Inspirò a fondo, sollevando il capo e alzando gli occhi
verso il cielo. Quasi si sentì perso, di certo minuscolo, al cospetto di
quell’immensa distesa azzurra e limpidissima.
Non c’era neanche una nuvola, quasi come se niente
dovesse intaccare quel manto immacolato.
Era tutto così perfetto da sembrare quasi una fotografia,
o un’immagine di quelle che si vedono sui cartelloni pubblicitari e che si usano
per attirare turisti in questa o quella zona del mondo.
Tutto odorava già d’estate.
- Akito, sei già sveglio?
Fuka fece capolino dallo stipite della porta, con indosso
ancora l’enorme pigiama con il quale amava dormire.
In questo, somigliava molto alla sua Sana.
Anche lei, infatti, era solita dormire con dei pigiami
davvero poco consoni e femminili, anche quando fuori iniziavano le giornate più
calde.
- Si, mi sono appena svegliato.
La vide entrare lentamente e subito riconobbe lo sguardo
che le scorse sul viso.
Quello era lo sguardo che Fuka aveva quando stava per
iniziare uno dei suoi soliti discorsi.
Uno dei suoi vecchi discorsi. Quelli che amava fare
quando era ancora la ragazza allegra e chiacchierona di un tempo.
- Senti, Akito… io devo parlarti.
Appunto.
Lui si strinse nelle spalle e si preparò mentalmente ad
ascoltarla.
- In realtà, è un discorso che voglio farti da un bel
po’.. ma non ho mai avuto la giusta occasione per farlo. Ora Shin è di là che
dorme e mi sembra anche abbastanza tranquillo, quindi ho deciso di farlo
ora.
- Matsui, si può sapere cosa devi dirmi?
- Si tratta di te. E di Sana.
Avvertì una pugnalata al cuore, solo nel sentire quel
nome.
Abbassò il capo e fece qualche passo per raggiungere il
letto e per sedersi sulle lenzuola disfatte, conscio che quella sarebbe stata
una lunga conversazione. Lunga e molto difficile.
- Ecco io.. io credo che tu dovresti tornare a
casa.
- Come ti salta in mente una cosa del genere?
- Io ti sento, Akito.
- Cosa?
- Voglio dire, io ti sento piangere quasi ogni notte. E
ti sento dire il suo nome.
Di fronte a quella inaspettata rivelazione, si sentì
perso. Un uomo minuscolo di fronte ad una verità troppo grande e troppo pesante
da sopportare.
Perché finché era solo lui a saperlo, finché piangeva in
silenzio sotto le lenzuola senza che nessuno potesse sentirlo, allora era
diverso. Faceva male, certo, ma almeno non doveva giustificarsi inventando
assurde motivazioni alle quali neppure uno stupido avrebbe creduto.
Ora, invece, Fuka conosceva la sua debolezza. Forse
l’aveva sempre conosciuta, ma se le dici ad alta voce le cose sembrano molto più
vere. E fanno molto più male.
- E con questo cosa vorresti dirmi, Matsui?
- Voglio dirti che non è necessario che tu continui a
soffrire così. Sei venuto qui per conoscere tuo figlio e l’hai fatto. Sei
riuscito ad entrare nel suo cuore e credo che anche lui sia riuscito ad entrare
nel tuo. Vedervi insieme mi rende la persona più felice del mondo, mi fa sentire
meno in colpa per i tre anni che, egoisticamente, vi ho negato…
E ora perché lei stava piangendo?
- … ma non potrei mai chiederti di sacrificare la tua
vita per nostro figlio. Mai. Perché ti voglio bene e credo che tu sia una
persona meravigliosa… e so che non ci lasceresti mai se non fossi io a chiederti
di farlo.
- Lo stai facendo? Mi stai chiedendo di
lasciarvi?
D’improvviso anche a lui venne voglia di
piangere.
- Si. Ma non fraintendermi, non voglio che tu ci lasci
definitivamente. Voglio solo che tu torni a Tokyo e che cerchi di rimettere in
piedi la tua vita.
- La mia vita va benissimo così.
La vide asciugarsi le lacrime e sorridergli appena.
- Non dire sciocchezze, Akito. La tua vita non và affatto
bene se non c’è Sana. Ti sto chiedendo di tornare a casa per riprenderti la
donna che ami, perché non voglio che mio figlio sia l’alibi per non cercare di
rimediare ai tuoi errori.
Ora non piangeva più. E non sorrideva neppure. Ora aveva
lo sguardo forte e determinato di quando l’aveva conosciuta.
- Tu sarai sempre il padre di Shin, questo non potrà mai
cambiare. E potrai continuare ad essere suo padre per tutto il tempo che vorrai.
Potrai telefonargli ogni giorno, ogni ora.. potrai venirci a trovare ogni fine
settimana e potremmo venire anche noi, di tanto in tanto.
- Lei… lei non mi vuole più.
- Oh, sciocchezze! Sono sicura che lei non vede l’ora che
tu torni a casa. È la mia migliore amica, nessuno la conosce meglio di me.
Lei si lasciò andare ad un breve risata.
Incredibile come Fuka fosse capace di cambiare umore nel
giro di pochi secondi.
- Quando… quando potrò rivedere mio figlio?
- Quando vorrai! Noi siamo qui, non scappiamo
mica!
Certo, ora si metteva anche a fare battutine.
Un tempo, aveva odiato quel suo lato del carattere.. quel
suo voler sdrammatizzare su tutto, anche quando non c’era proprio nulla da
sdrammatizzare.
Eppure ora gli venne il fortissimo impulso di
abbracciarla forte.
E lo fece, cingendole con le braccia la vita sottile. La
sentì emettere un mezzo sospiro, di certo sintomatico di un comprensibile
stupore.
- Grazie…
Sussurrò vicino al suo orecchio. Lei si separò da lui e
gli sorrise, mentre una nuova lacrima scendeva a rigarle il volto leggermente
arrossato.
- Di niente. Ora vai su, inizia a preparate i
bagagli!
Per un attimo, rivide la Fuka di un tempo. Anzi, vide molto di
più. Vide una donna matura e determinata, piena di forza d’animo e di coraggio.
Vide la madre di suo figlio e non avrebbe potuto vedere niente di
meglio.
La seguì con lo sguardo, mentre lei si dirigeva
frettolosa verso la porta.
Prima di uscire, si girò ancora per guardarlo e alzò
l’indice, puntandolo minacciosa verso di lui.
- Ah, sappi che la prossima volta che ci vedremo voglio
che tu mi dica che stai di nuovo insieme a Sana!
Stavolta anche a lui scappò una piccola
risata.
Lei neppure ascoltò la sua eventuale risposta, uscì dalla
stanza e si diresse verso la cucina, forse per preparare la colazione per
Shin.
Già, Shin.
A lui come l’avrebbe detto? Come gli avrebbe detto che
stava per andare via?
Pensando al dolore che avrebbe procurato a suo figlio,
quasi pensò che sarebbe stato molto meglio restare ad Osaka.
Poi ricordò le parole di Fuka e capì che Shin non avrebbe
sofferto più di tanto. Avrebbe comunque continuato ad avere un padre, perché lui
non sarebbe mai sparito dalla sua vita. Sarebbe andato a trovarlo spesso,
l’avrebbe chiamato più volte al giorno.
Si, forse Fuka aveva ragione. Forse poteva davvero
funzionare.
Poteva concedersi di amare Shin e di amare Sana, senza
che una cosa escludesse l’altra.
Shin ci sarebbe sempre stato.
Sana, invece… per Sana avrebbe ancora dovuto
lottare.
Avrebbe dovuto fare di tutto per riportarla da
lui.
Si, Fuka aveva ragione anche su questo. Serviva solo un
po’ di coraggio.
/*/
Note
dell’autrice: Eccomi qui! Ormai pubblicare capitolo ad orari indecenti è
diventata un’abitudine! xD Bene, come avrete avuto modo di notare, questo
capitolo è leggermente diverso da quelli precedenti… Ho voluto descrivere il
passare del tempo analizzando il punto di vista dei singoli personaggi,
facendoli parlare in prima persona. Spero che abbiate apprezzato questo piccolo
cambiamento! ;)
Come avevo già anticipato, il prossimo capitolo dovrebbe
essere quello conclusivo. Credo che sarà un po’ più lungo degli altri e quindi
mi ci vorrà un po’ più di tempo per scriverlo come voglio io!
Confido nella vostra infinita pazienza! ^^
Ringrazio tutte le mie accanite lettrici, perché è per
loro che mi sono affezionata ancora di più a questa storia! Vi adoro davvero!
*-*
Ora la smetto di annoiarvi e vi aspetto, come sempre,
nelle recensioni. ;)
Salve a tuttiiiiiiiiiiiii!!! So di avere un ritardo mega
colossale! Ma ce l’ho fatta a terminare questa storia! Meglio tardi che mai
dopotutto, no? ;)
Visto tutto il tempo che è passato dall’ultimo
aggiornamento, credo sarebbe meglio dare una rilettura veloce ai capitoli
precedenti, giusto per non perdere il filo! ;)
Ci risentiamo alla fine del capitolo! Buona
lettura!
CAPITOLO QUINDICI: CASA
Odiava prendere l’aereo. Odiava il fatto che se cadi da
quel coso traballante, non c’è la benché minima possibilità di uscirne
vivo.
E poi, particolare tutt’altro che trascurabile, soffriva
terribilmente di vertigini.
E a certe altezze, si sa, se soffri di vertigini non
dovresti neppure salirci.
Se fosse dipeso da lui, infatti, non ci sarebbe salito
affatto. Avrebbe preferito di gran lunga fare un viaggio lungo giornate intere,
arrivare alla meta stanco e sfiancato. Tutto, ma non salire ancora su un
maledettissimo aereo.
Proprio come tantissimi anni prima, era costretto ad
andare dall’altra parte del mondo.
E proprio come allora, lo faceva lasciandosi indietro un
gigantesco pezzo di vita.
Si, perché lei non l’aveva voluto. Non gli aveva dato
neppure il permesso di parlarle o di vederla. Era rimasta chiusa in casa per un
giorno intero.
Solo Rey era sceso per degnarsi di parlare con lui. Aveva
oltrepassato il cancello della grande casa nella quale viveva con sua moglie
Asako, con gli occhi bassi e lo sguardo di chi sta per infliggere una ferita
mortale.
E lui aveva capito.
Sana non l’avrebbe perdonato. Sana non sarebbe tornata.
Non l’avrebbe accolto con un sorriso e con le lacrime agli occhi, gettandosi tra
le sue braccia, con la sua solita, bellissima, irruenza.
Forse stavolta aveva fatto male i conti. Forse neppure
l’amore più grande è in grado di superare tutto. Forse ci sono cose che ti
lasciano un segno del quale non puoi liberarti.
Loro non sarebbero più stati Sana e Akito. Perlomeno, non
quelli che conoscevano tutti.
Qualcosa si era rotto,… qualcosa aveva aperto una crepa
insanabile.
Rey aveva usato poche parole. Il minimo indispensabile
per rendere il concetto il più chiaro possibile.
“Mi dispiace, Hayama. Lei non vuole
vederti.”
C’aveva provato a supplicare Rey di farlo entrare lo
stesso, convinto che se solo avesse avuto anche pochi secondi per parlarle, lei
avrebbe capito quanto ancora la amasse.
Ma forse era stato terribilmente sciocco, e infantile,
credere che bastasse dirsi “Ti amo” per cancellare tutti gli errori. Gli errori
cambiano le persone, le mutano in maniera irreversibile.
E poi niente è più come prima.
***
I vetri della finestra nella sua stanza portavano ancora
addosso i segni delle sue dita fragili e tremanti.
Come l’alone di una risata che si stampa sul finestrino
di un’auto e rimane lì anche quando resti da sola, giusto per ricordarti che un
tempo sapevi anche sorridere.
O come le impronte delle mani di due amanti innamorati in
una fredda nottata piovosa, nascosti in una piccola macchina, magari rubata al
padre di lui, tra i cespugli di una collinetta isolata.
L’aveva capito col tempo che tutte le esperienze più
forti lasciano un segno. Tutte le emozioni più grandi, belle o devastanti, si
incollano a fuco alle pareti del cuore, così come si erano incollate al vetro le
impronte delle sue dita.
L’aveva guardato per tutto il tempo, stando ben attenta a
non farsi notare.
L’aveva guardato e si era sentita impazzire lentamente.
Non ricordava che fosse così bello.. o forse lo ricordava, ma trovarselo davanti
era stata tutta un’altra cosa.
Erano passati solo pochi mesi da quella bellissima e
maledetta notte di Natale, eppure a lei sembrava di essere morta da molto più
tempo.
Non credeva, o forse ci sperava, che lui fosse capace di
farle ancora quell’effetto.
Di farla sentire in quel modo, nonostante
tutto.
Perché nella sua mente aveva fatto nascere l’illusoria
convinzione che stavolta sarebbe stato diverso, perché una cosa come quella che
lui le aveva fatto non poteva aver lasciato tutto come prima.
No, una cosa del genere non poteva non aver avuto
ripercussioni sull’amore che provava per Akito.
Avrebbe dovuto ucciderlo, dimezzarlo, quantomeno
scalfirlo.
E invece l’unica cosa che si era scalfita era stato
ancora, come sempre, il suo cuore.
“Allora c’è ancora...”
Aveva pensato durante quei lunghissimi momenti,
sentendolo battere dopo tanto tempo.
“…
ma perché funziona solo con lui?”
Già. Perché vederlo lì e sapere di non potere, di non dovere andare a parlargli, era stata una
tortura.
Mentre l’aveva guardato parlare con Rey, implorandolo
quasi di farlo entrare, si era convinta che dentro quegli occhi dorati non ci
vedeva più niente.
E invece ci vedeva ancora tutto. Forse anche di più,
forse ci vedeva anche quello che non c’era.
Come sempre, gli occhi di Akito raccontavano una storia
diversa. Una storia imparata ormai a memoria, ma che non si era ancora stancata
di sentire. Perché quella storia la raccontavano solo a lei. E lei, dal cuore
caparbio e cocciuto, voleva solo mettersi seduta ad ascoltarla per tutta la
vita.
Però non aveva fatto niente per fermarlo. Da dietro
quella maledetta finestra, si era sentita come paralizzata. Inchiodata alle
gelide e impersonali mattonelle del pavimento lucido di una casa che non era sua
e che sua non lo sarebbe mai stata.
Vederlo lì fuori, a pochi passi dal grande cancello in
metallo, le aveva fatto venire una voglia pazzesca di tornare indietro, di
tornare nell’unico posto nel quale si era sempre sentita davvero a
casa.
E quel posto, inutile dirlo, era qualsiasi pezzo di mondo
nel quale ci fosse anche Akito.
Un po’ come quando cammini distratta per le strade della
tua città, tra vicoli e scorciatoie che conosci da una vita intera, e ti rendi
conto che, nonostante tutto, da quel posto non potresti mai andare via. Perché
quel posto è tuo. È il pezzo di mondo che ti appartiene, l’unico rifugio nel
quale sorridi e dici “Questa è casa mia”.
Una sensazione bellissima, la consapevolezza di sapere
che, anche se un giorno sarai costretta ad andare lontano, niente andrà perduto.
Quel posto ci sarà sempre, sarà lì ad aspettare il tuo ritorno, con gli stessi
vicoli e le stesse scorciatoie che avevi lasciato.
Ecco, era esattamente questo quello che provava quando
vedeva Akito.
Provava quell’inossidabile senso di appartenenza, quella
sensazione di appagamento e di felicità che si prova quando si torna a casa dopo
un lungo viaggio.
Senza di lui, non esisteva più nemmeno casa sua. Senza di
lui, era come sentirsi una nomade che vaga per strade che non conosce senza
avere un posto nel quale poter fare ritorno.
Lui era il muretto di fronte alla scuola, dove ti sedevi
con i tuoi primi amichetti e parlavi della prossima volta che avreste saltato le
lezioni.
Era l’odore di muffin caldi e di latte che c’era ogni
mattina quando ti alzavi e tua madre ti preparava la colazione, raccomandandosi
di studiare e di comportarti bene con gli insegnanti, mentre tu continuavi a
sbuffare scocciata e insonnolita, perché queste cose te le ripeteva ogni
santissima mattina, senza renderti conto di quanto, quelle raccomandazioni, ti
sarebbero mancate.
Lui era il tavolino del bar in centro, sempre lo stesso,
nel quale andavi quasi ogni pomeriggio con le amiche di sempre, dove ognuna
aveva il suo posto stabilito,- perché un posto non è mai uguale all’altro-, per
parlare delle lezioni appena finite o di quel nuovo ragazzo che ti ha riservato
uno sguardo in più.
Lui era tutto questo. E lei l’aveva lasciato andare,
perché troppo terrorizzata dall’idea di poter scoprire che, casa sua, non era
più come la ricordava.
Ma casa tua resta sempre casa tua, qualsiasi cosa
succeda.
E lo capì quella notte, mentre pensava al volto distrutto
di Akito.
Akito che con molta probabilità era già su un aereo per
tornare in Giappone.
Forse ad Osaka. O forse a Tokyo.
Non lo sapeva. Forse, neppure le importava.
Nella sua mente era apparsa un’incontestabile verità. Un
desiderio che non si sarebbe mai spento. E che in cuor suo sapeva di voler
assecondare.
In fondo, voleva solo tornare a casa.
***
Se solo non fosse stato un pensiero assurdo, e
terribilmente insensato, avrebbe quasi potuto giurare che le mura della sua
vecchia casa fossero in grado di parlargli. Di sussurrargli parole dritte nelle
orecchie… e si era reso conto che non bastava alzare le mani ai lati del capo
per cercare di tapparle… le parole sarebbero arrivate lo stesso. E la cosa che
più lo infastidiva era il fatto che l’argomento di tutti quei bei discorsi era
ovviamente sempre lo stesso.
Sana. Sana. E ancora Sana.
Forse era stato un errore tornare indietro. Forse sarebbe
stato molto meglio guardare in faccia la realtà e accettare che le cose non
sarebbero mai potute tornare quelle di prima. Di quell’antico periodo solo una
cosa era rimasta pressoché invariata… l’amore reciproco che legava lui e
Sana.
Tutto il resto, tutto il contorno nel quale si
ritrovavano ad agire, era completamente diverso.
E allora magari era stato stupido pensare che sarebbe bastato
andare a Parigi, presentarsi quasi in lacrime di fronte al portone della casa
nella quale lei si era rifugiata per implorarle perdono.
Che poi, il perdono mica puoi ottenerlo così. Mica la si
regala in un istante, una cosa tanto importante. Ci vuole tempo, impegno,
devozione.
Non era forse per questo che era tornato nella loro
vecchia casa?
L’aveva fatto per farle capire che le avrebbe dedicato
tutto il tempo del mondo. Tutto l’impegno. Tutta la sua devozione.
Ma ora era terribilmente difficile aspettarla. Ora che si
rendeva conto che c’era la possibilità che lei non sarebbe mai tornata. Perché a
Parigi non aveva neppure voluto vederlo. Non gli aveva concesso neanche un
secondo. Non si era impietosita di fronte alla constatazione che lui fosse
andato dall’altra parte del mondo solo per dirle che l’amava.
Forse era stato da egoisti pensare che prendere un aereo
l’avrebbe legittimato a pretendere qualcosa da lei. Come se sorvolare mezzo
mondo fosse minimamente paragonabile a quello che lui e Fuka le avevano
fatto.
Che poi, a proposito, iniziava a sentire la mancanza di
Shin.
Gli mancava suo figlio. Gli mancava Sana. Era così pieno
di vuoto che quasi non riusciva a respirare.
Pieno di vuoto eh, Akito? Davvero un bel
paradosso.
D’altronde, la sua stessa vita era stata un gigantesco
paradosso.
Era nato sentendo già il peso della morte sulle spalle.
Aveva imparato cosa significa “morire” prima ancora di imparare a
camminare.
Non era questo un assurdo paradosso?
Forse è un paradosso anche sperare che tu possa tornare
da me, proprio nel momento in cui ti ho inferto la ferita
peggiore.
Però sperare non era sbagliato. Sperare non costava
niente. E anche se fosse costato il più caro dei prezzi, avrebbe comunque
sperato.
Se fosse stato necessario, avrebbe passato anni interi
stando seduto sul divano in salotto, proprio come in quel momento, ad attendere
il rumore del portone che si apre per lasciar spazio all’esile figura della sua
Sana.
Perché aggrapparsi alla speranza era l’unica cosa che gli
rimaneva.
E il loro amore meritava tutta la speranza del
mondo.
***
- Sana, sei sicura di quello che stai facendo?
Sorrise, pensando che non è affatto vero che nella vita
non ci sono cose che restano sempre uguali.
- Si, Rey. Non sono mai stata così sicura di qualcosa
come lo sono adesso.
Rey, per esempio, non era cambiato di una
virgola.
- Ok, piccola. Mi raccomando.
- Non sono più una bambina, scemo!
Gli diede una piccola pacca sulla spalla e gli fece una
linguaccia divertita, in memoria dei vecchi tempi.
- … me la caverò benissimo, non preoccuparti.
Lo vide stringersi nelle spalle e scuotere la testa,
mentre le labbra davano vita ad un piccolo sorriso.
- Dopotutto, ero certo che sarebbe andata a finire così.
Ma giuro che se quello ti fa ancora
soffrire io..
- Alt! Non credo ci sia bisogno del tuo intervento, Rey.
Io e Akito siamo due persone molto più mature adesso.Credo che non rifaremo più certi
errori. Almeno lo spero.
- Lui sa che stai tornando a Tokyo?
- No. Glielo dirò quando sarò a casa.
- Sono sicuro che ti sta aspettando…
Lo
spero.
Dopotutto, tornare da lui era l’unica alternativa che le
era rimasta.
- Già. Lo credo anch’io.
A dir la verità, altre alternative non erano mai neppure
esistite.
***
- Mamma, papà quando torna?
Sorrise, portando una mano sul volto del suo bambino per
accarezzarlo lentamente.
- Papà è tornato nella sua vecchia casa. Però verrà a
trovarci presto.
- Perché è andato via? Non stava bene qui con
me?
Come spiegare le assurde dinamiche delle storie d’amore
ad un bambino di quattro anni?
- No, tesoro.. certo che stava bene con te. Papà ti ama
tanto, ma aveva delle questioni da sistemare nella sua vecchia casa. Doveva
cercare di fare pace con una persona molto importante per lui.
- E c’è riuscito?
Ai bambini servono certezze. Ancore sicure alle quali
potersi aggrappare in ogni momento.
- Spero di si.
- Quindi ora papà non è più triste come prima?
Ai bambini serve sapere che le persone che li circondano
sono felici.
- No tesoro. Adesso papà è molto contento.
- Allora sono contento anch’io.
Sarebbe bello poter mantenere la generosità e la bontà
quasi commovente dei bambini.
- Ma mamma, quando posso chiamarlo?
Shin la guardò dritto negli occhi, quegli enormi occhioni
dorati, e si accoccolò sul suo petto.
- Più tardi, tesoro. Stasera lo chiamiamo
insieme.
- Promesso?
Era sicuro che Akito sarebbe stato un ottimo padre.
Quindi guardò suo figlio negli occhi, gli depositò un tenero bacio sulla guancia
paffuta e gli rispose con un piccolo, semplicissimo “Si”.
***
Le venne in mente, non appena mise piede nel piccolo
viale che portava alla loro vecchia casa, che il fatto che il tempo cura tutte
le ferite e che ti permette di dimenticare anche ciò che credevi impossibile
cancellare, era solo una grandissima cazzata.
Il tempo non è niente, non serve a niente, se il cuore
resta quello di sempre. Non ha senso lo scorrere delle stagioni, il giro che il
sole compie ogni giorno nel cielo, se il cuore decide che non vuole cambiare.
Ciò che vuole tenersi dentro, incastrato tra quei battiti che quasi malediresti,
non lo puoi cacciare neppure con tutto il tempo del mondo.
Per esempio, la lievissima crepa sul muro accanto al
portone di casa era rimasta identica a sempre.
Forse si era un po’ allargata, di certo a causa dei
violenti temporali d’inverno. Però c’era.
Così come c’era l’albero di pesco nel giardino della casa
del vicino. Ora era in piena fioritura. Bello e maestoso nei suoi chiarissimi
colori.
Si fermò un istante a guardarlo, negli occhi il lieve
tremore che precede una lacrima. E le venne spontaneo chiedersi se i vicini
della casa con l’albero di pesco fossero ancora felici come li ricordava. Se
fossero ancora quella coppia bellissima e innamorata che li aveva accolti con un
sorriso e una torta di mele, il giorno in cui lei e Akito si erano trasferiti
accanto a loro.
Abbassò il capo, chiudendo forte gli occhi nella speranza
che quel gesto le permettesse di chiudere dentro di se anche le
lacrime.
Ma non poté non sentire la risata allegra di un bambino
provenire proprio dal giardino accanto.
D’istinto, alzò gli occhi e li rivolse verso il luogo dal
quale proveniva quel bellissimo suono.
E lo vide. I capelli corti e nerissimi, un paio di
minuscoli jeans sporchi sulle ginocchia e una maglietta a righe colorate,
talmente piccola che pareva quella di un bamboloccio.
Le minuscole manine erano immerse nell’aiuola a ridosso
del grande albero, e giocavano con la terra fresca e profumata dei fiori. Le
gote erano visibilmente arrossate, provocando un meraviglioso contrasto con il
bianco candidissimo del resto del viso.
Restò a fissarlo per qualche secondo, come stregata da
quella piccola visione inaspettata, fino a quando non vide una donna avvicinarsi
a lui per sollevarlo tra le braccia.
Quella era la sua vecchia vicina di casa. La riconobbe
dall’azzurrissimo colore degli occhi. Un azzurro talmente intenso da far pensare
subito alle onde del mare.
Però, e sentì una morsa intorno allo stomaco di fronte a
quella verità, quella donna era molto cambiata. Non era più la ragazzina dai
lunghissimi capelli ondulati e disordinati che aveva conosciuto tanti anni
prima. E non era più neanche tanto magra come ricordava. Adesso era una donna
matura. Bellissima certo, ma molto cresciuta. I capelli mossi di un tempo ora
arrivavano a mala pena fino alle spalle ed erano raccolti in una femminile
codina bassa.
Fu una conclusione più che logica pensare che il bambino
che reggeva sorridente tra le braccia fosse suo figlio.
Non riuscì a smettere di guardarli, pur sapendo che
presto la sua vecchia vicina di casa si sarebbe accorta della sua
presenza.
E, infatti, così fu.
Nami, questo era il suo nome, voltò il capo e la vide. In
un primo momento forse neppure la riconobbe, perché arricciò le sopracciglia in
un’espressione confusa, come se stesse cercando nella sua memoria un indizio per
dare un nome a quel volto familiare.
Passarono appena una manciata di secondi e la donna mosse
le labbra in un gigantesco sorriso.
- Sana?!
Chiese, avvicinandosi alla piccola staccionata in legno
che separava le loro case.
Sana scosse il capo, come risvegliatasi da un sogno, e si
passò veloce una mano tra i capelli disordinati dal lieve venticello per cercare
di domarli almeno un po’.
- Sana sei davvero tu?
Le domandò Nami, ancora visibilmente stupita da quella
inaspettata presenza.
- Si, sono proprio io.
Rispose lei cercando di mascherare l’inquietudine con uno
dei suoi soliti sorrisi.
A quell’affermazione, gli occhi azzurri di Nami si
accesero di una brillantissima luce.
- O mio Dio, Sana! Non posso crederci! Dove sei stata in
tutto questi anni? Ho chiesto a chiunque in giro, ma nessuno sapeva dov’eri
finita!
- Sono stata a New York. Sai com’è… a causa del mio
lavoro.
Nami sorrise ancora, ma stavolta lo fece solo per far
capire alla donna che le stava di fronte e che era così imbarazzata da non
riuscire quasi a guardarla, che lei non era affatto una stupida.
Era ovvio che Sana non fosse andata via per
lavoro.
Glielo si leggeva negli occhi che la causa di tutto era
stata la sua improvvisa e inaspettata rottura con il suo bellissimo e taciturno
fidanzato biondo.
- Accidenti, Nami! Questo è tuo figlio?
Domandò, nella speranza di deviare la loro conversazione
su binari meno traumatici.
- Si, lui è il mio Yuki.
Sana allungò una mano per sfiorare il viso ancora
arrossato di quella piccola meraviglia e le venne spontaneo sorridere quando si
accorse che la sua pelle era soffice come un manto d’erba fresca appena
lavata.
- E ora? Ora hai risolto tutto?
Esordì Nami, guardandola dritta negli occhi.
Lei restò in silenzio, senza sapere bene cosa
rispondere.
- … con il lavoro intendo. Hai risolto?
Era ovvio che non si sarebbe liberata tanto facilmente
della legittima curiosità della sua vecchia vicina.
- Oh, si certo. Spero di essere un po’ meno
impegnata.
- Quindi tornerete qui?
Quasi morì su quel “tornerete”.
Perché non “tornerai”?
Perché parlare per due?
Nami stava senz’altro parlando anche di Akito.
- .. si, insomma è tornato anche lui, no? Mi pare di
averlo intravisto uscire in giardino qualche giorno fa.
Fu come avvertire una scossa, un’iniezione di vita dritta
nel petto.
Akito era davvero tornato a Tokyo. Era davvero tornato
nella loro vecchia casa.
Akito non era tornato ad Osaka. Non era tornato da lei. O meglio, da loro.
Aveva deciso di restarsene lì, tra quelle mura che li
avevano visti insieme e felici. Chissà, forse davvero la stava
aspettando.
-… Cosa c’è, Sana? Siete tornati insieme, no?
Avrebbe voluto chiedere a Nami di cambiare domanda, o
perlomeno di non formularla in quel modo così… diretto. Perché a una domanda del
genere non sapeva ancora rispondere.
Si strinse nelle spalle
Forse, però, una cosa poteva dirla. Di una cosa almeno,
poteva essere sicura.
- Per ora,
Nami, mi basta sapere che siamo tornati.
Senza accorgersene, si ritrovò a sorridere come un
tempo.
- … su quell’ “insieme” stiamo ancora
lavorando.
Sorrise anche Nami e Sana si accorse che quella donna,
forse come tutto il resto, non era cambiata poi molto.
***
Se ci pensava bene, in fondo era una cosa abbastanza
strana.
Se ne rendeva conto solo ora, ora che era seduto sul suo
vecchio divano da un numero indefinito di ore, che non aveva mai capito un bel
niente.
Quella sensazione devastante, che quasi gli mozzava il
respiro non era, come aveva sempre pensato, la voglia incontrollabile di poter
tornare indietro per rimediare ai suoi errori e per riprendersi Sana.
Certo, quello avrebbe voluto farlo. Perlomeno per evitare
di perdere tutto quel tempo per cercare di rimediare.
Però non era il rimorso per gli errori commessi a farlo
stare così disperatamente male.
No, era il fatto di aver finalmente capito che, di lei,
non gli mancava il passato. Non gli mancavano le cose già fatte o le esperienza
già vissute. Quelle c’erano, erano rimaste intatte ed indelebili nella memoria e
nessuno le avrebbe mai cambiate.
Di lei gli mancavano i sogni. E i progetti. Quella vita
che così tante volte avevano immaginato.
Gli mancava pensare al momento in cui l’avrebbe aspettata
all’altare, con Tsuyoshi accanto, come sempre. E con la chiesa riempita di tutte
le persone che avevano sempre fatto parte delle loro vite. Suo padre, sua
sorella, i loro vecchi compagni di scuola e i nuovi colleghi di lavoro. Poi,
ovviamente, la madre di Sana con i suoi assurdi copricapo e Rey, l’eterno angelo
custode della sua sognata sposa.
Gli mancava pensare al modo in cui sarebbero diventati
genitori, a come Sana sarebbe di certo stata la madre migliore del mondo. E al
modo in cui avrebbe perdonato a lui tutti gli errori nei quali di certo sarebbe
incappato, nel goffo tentativo di essere un buon padre.
Gli mancava pensare all’espressione sconvolta di una Sana
più adulta di fronte alla prima minuscola ruga ai lati della fronte, una mattina
qualsiasi di fronte allo specchio.
Ecco, gli mancava sognare tutto questo.
Andandosene via, scappando prima a New York e ora a
Parigi, e non permettendogli di chiederle scusa, lei aveva mandato in pezzi
tutti i suoi sogni.
E, una volta andati in frantumi, i sogni sono quasi
impossibili da riparare.
Si, lei gli aveva tolto la possibilità di
sognare.
Ma forse questa era solo la sua giusta
punizione.
***
Non sapeva se sarebbe stato meglio cercare le chiavi del
portone nella sua enorme borsa, tra il mare di cianfrusaglie che, ovviamente,
non servivano proprio ad un bel niente, oppure farsi coraggio, alzare un
braccio, allungare un dito e suonare quel maledetto campanello
dorato.
Per qualche istante, comunque, preferì restarsene
immobile, il cuore in subbuglio e lo sguardo fisso su quella scritta che era
rimasta identica a sempre.
“Casa Hayama- Kurata”
Già. Perché sua madre le aveva sempre categoricamente
sconsigliato di affittare a qualcun altro quella casa. E anche se lei le
ripeteva sempre che tanto lì non ci sarebbe mai tornata e che sarebbe stato
molto meglio che una casa tanto bella non restasse incustodita, sua madre
sorrideva e scuoteva la testa, peggio di una bambina ostinata.
Quel sorriso, l’aveva sempre saputo, voleva dire “Nella vita non si sa mai,
Sana”.
Era vero, dopotutto. La vita riserva sempre così tanti
colpi di scena che sarebbe stupido pensare per qualcosa, qualsiasi cosa, che
sarà per sempre. O che non sarà mai più.
“Sempre” e “Mai” erano due parole che, per lei, avevano
ormai perso ogni significato. Erano lettere dell’alfabeto mescolate insieme
senza un criterio, senza una vera ragione.
Perché, quelle parole, le aveva accostate ad Akito.
“Sempre
insieme”, “Non ci lasceremo mai”,
“Non ci tradiremo mai”. E altre frasi
che avevano fatto, di quelle due stupidissime parole, il centro dei suoi
pensieri passati.
E invece, insieme, non ci erano più stati.
E invece si erano lasciati.
E invece si erano traditi.
La vita ti smentisce continuamente. Sembra quasi che
provi un gusto quasi perverso nel farlo.
Quindi è vero che nella vita non si sa mai.
E allora anche su questo sua madre aveva avuto
ragione.
***
Ci sono cose, però, che la vita non riesce a cambiare.
Forse non è alla vita che spetta farlo.
Siamo noi che dobbiamo scegliere. Imparare a capire ciò
che ci fa male da ciò che, invece, ci rende felici. E siamo noi a doverci
liberare delle cose che ci distruggono per lasciare spazio solo a quelle che ci
fanno sorridere.
Facile a dirsi no?
Ma come ci si deve comportare se c’è qualcosa che ti
annienta e ti fa rinascere nello stesso tempo?
Lei, adesso, cosa doveva fare?
Lei, adesso, cosa era tornata a fare?
Lei, adesso, cosa avrebbe dovuto dire?
Tre domande alle quali non sapeva rispondere, ma con le
quali si sarebbe dovuta confrontare da lì a qualche frazione di secondo, giusto
il tempo di realizzare che quelli che aveva appena sentito da dietro il portone,
erano dei passi e che la voce che aveva appena chiesto “Chi è?” era proprio
quella di Akito.
- Sono… sono io.
Almeno era riuscita a rispondergli.
Inutile dire che, non appena capì da quali labbra
proveniva quella voce, Akito aprì il portone con scatto fulmineo e lei se lo
ritrovò di fronte, più bello e doloroso che mai.
- Kurata!
Ancora, e sempre, quel vizio di chiamarla per
cognome.
- Non mi fai entrare?
Si spostò d’istinto alla sua domanda, giusto il tempo per
permetterle di oltrepassare la soglia di casa.
Non appena fu dentro, non poté fare a meno di piazzarsi
di fronte a lui e di guardarlo in silenzio per qualche secondo.
- Kurata…
Ancora, e sempre, quel vizio di avere quegli
occhi.
- Ciao, Akito.
- Io.. sono stato a Parigi. Si, insomma… sono stato a
casa di Rey per…
- Lo so. Ti ho visto.
A quella confessione, lui non si mosse di un millimetro e
i lineamenti del suo bellissimo viso non cambiarono di una virgola. Tipico di
Akito, restare impassibile.
Peccato che, poi, bastasse guardarlo negli occhi per
vedere che, dentro, aveva una vera e propria tempesta.
- Non hai voluto nemmeno parlarmi un istante.
- Ero arrabbiata con te. Ma che dico… “arrabbiata” non
rende neppure l’idea di come mi sentivo. Era furiosa. Delusa. Svuotata.
Distrutta. E lo sono ancora.
- E allora perché sei qui?
Distolse lo sguardo da lui e si diresse verso il divano
del salone, sedendosi lentamente e poggiando le mani sulle ginocchia
gracili.
- Perché avevo due scelte. Potevo scegliere di restare
con Rey e Asako nella loro casa, o di prendere una casa tutta mia in qualsiasi
parte del mondo, e di concentrarmi sul mio lavoro. Di chiudere tutta la mia
storia con te, Fuka e il vostro bambino in un cassetto che mi sarei sforzata di
lasciare sbarrato. E credo che, forse, con molta pazienza sarei anche riuscita a
ricostruirmi una vita normale e abbastanza serena.
Si fermò un istante per riprendere fiato e per lanciare
uno sguardo veloce ad Akito che, nel frattempo, si era seduto accanto a
lei.
- L’altra scelta che avevo era quella di tornare. Di
riprendere la vita che avevo prima che me ne andassi a New York. Perdonarmi, e
perdonare te, per tutti gli errori commessi e rassegnarmi al fatto che ti amo in
un modo così esagerato che ogni volta che ti guardo mi si ferma il cuore. E
provare a vedere se può ancora funzionare.
Ci furono molti istanti di totale silenzio. Poi Akito le
si avvicinò e, quasi con timore, le accarezzò leggero una guancia
arrossata.
- Sei
tornata.
Le disse soltanto. Lei lasciò andare qualche lacrima e
fece un breve cenno d’assenso con il capo rossiccio. Nell’aria c’era un
fortissimo odore di casa.
- Stavolta resti per sempre vero?
“Sempre”.
Ancora quella stupida parola.
- Non so se sarà per sempre. So solo che ci sarò, almeno
fino a domani.
Questo era il massimo che poteva promettergli, almeno per
il momento.
- Bè, vedrò di farmelo bastare.
Vide Akito sorriderle e sorrise anche lei.
E capì di aver fatto la scelta migliore.
/*/
Due anni dopo.
Richiuse la valigia, spingendo forte sul ruvido tessuto
nero, con estenuante lentezza.
Era abituato a viaggiare. L’aveva praticamente fatto per
tutta la vita. Ma c’erano volte nelle quali prendere un aereo era
incredibilmente difficile.
Volte nelle quali gli sembrava di impazzire e di lasciare
dietro di se molto più di un semplice pezzo di mondo.
Ora, per esempio, stava lasciando il suo dolore. La sua
devastante solitudine. Quella brutta, bruttissima sensazione di vuoto che
l’aveva accompagnato da quando era tornato a New York. Da quando ci era tornato
da solo.
Erano passati poco più di due anni da allora eppure il suo
stato d’animo era cambiato solo due giorni prima. Quando si era svegliato con il
suono fastidioso del telefono sul comodino e, biascicando un confusissimo “Chi è?”, aveva sentito la sua voce.
L’aveva riconosciuta subito, nonostante la sua mente
fosse ancora stordita a causa del sonno malamente interrotto.
“Sono io…”
Aveva sussurrato lei, mentre le parole quasi le morivano
tra i denti. Era stato in grado di avvertire distintamente la tensione che le
spezzava la voce. Tensione più che giustificata, ovviamente.
Lui non era stato in grado di dire nulla, se non qualche
mezzo mugugno incomprensibile.
“…
so che la mia telefonata era l’ultima cosa che aspettavi,
ma…”
Aveva avuto una voglia matta di dirle che, invece, la
stava aspettando da ben due anni.
“…ma voglio che tu sappia che io sto bene. Si, insomma…ho
risolto… tutto.”
Era stato come tornare a respirare dopo tanto tempo
trascorso in apnea. La sua aria era sempre e solo lei.
“…
e tu? Tu.. come stai, Naozumi?”
Era stato terribilmente difficile rispondere a quella
semplice domanda. Avrebbe voluto, e dovuto, dirle che stava malissimo e che si
sentiva una merda. Che era stato costretto a vivere ogni giorno con il senso di
colpa per aver distrutto la vita all’unica donna che avesse mai
amato.
“…
B.. bene…Sto abbastanza bene…”
L’aveva sentita emettere un sospiro diverso dal solito. E
gli era bastato un istante per capire che era il sospiro che accompagna un
sorriso.
“Mi fa piacere. Io ti ho chiamato per dirti che… che è
tutto ok. E che puoi venire a trovarmi ogni tanto, se ti va…Io, sai, sono
tornata nella mia vecchia casa a Tokyo. Alla fine sono riuscita a
perdonarlo…”
Era tornata da lui. Ancora una volta. Forse, da Hayama,
non se n’era mai andata davvero.
E lui, invece? Lui voleva rivederla? Andare a trovarla e
vederla con lui?
“Non sei
obbligato a partire adesso, sai? Io ci tenevo solo a farti sapere che mi
piacerebbe rivederti, un giorno o l’altro…”
“Sana, io…”
“Non serve a niente far finta che il passato non ci sia
mai stato. Se c’è una cosa che ho imparato da tutta questa storia, è che il
passato torna, se non lo affronti. Tu sei stato parte della mia vita per molto
tempo… e vorrei che lo fossi ancora. Vorrei tanto poter tornare ad essere tua
amica. Vorrei poter tornare indietro e non rovinare più quello che avevamo,
perché eri il migliore amico migliore del mondo,
sai?”
Il suo migliore amico. Ecco cosa era sempre stato. Un
amico. Uno squallido amico.
“Verrò…”
Però esserle amico era sempre stato il suo desiderio più
grande.
“Cosa…?”
E se lei lo voleva ancora, allora sarebbe stato suo amico
per tutta la vita.
“Io… io verrò a trovarti, Sana. Te lo
prometto.”
E allora non gli restava altro che tornare da lei.
***
- Sei stato a trovarli, tesoro?
Tsuyoshi alzò una mano in direzione del viso, nel
tentativo di aggiustarsi meglio gli occhiali sul naso sottile.
- Si, Aya. Sono appena stato a casa loro..
Sua moglie sorrise di un sorriso raggiante e si lasciò
andare sul piccolo divano in pelle chiarissima del salone.
- …Mi hanno detto di salutarti.
- Oh, chiamerò Sana stasera così faremo due
chiacchiere.
Tsuyoshi si lasciò andare ad un piccolo sorriso e si
accomodò accanto ad Aya, poggiandole una mano sul ventre ormai incredibilmente
ingrassato.
- Sono sicuro che continuerà a proporti i suoi solito
nomi assurdi.
Aya scosse il capo, mentre sul viso tornava quella
bellissima espressione serena.
- Su questo non ci sono dubbi! Però mi fa piacere sapere
che si interessa così alla nostra futura bambina..
Tsuyoshi acconsentì con il capo, lasciandosi andare ad
una piccola risata non appena gli vennero in mente tutti i nomi più strana che
Sana aveva proposto per la loro futura e imminente bambina.
- E poi…
Continuò Aya, ridacchiando a sua volta.
- .. a dirti la verità, mi fa morire dal
ridere!
- Mi sembra che Sana sia tornata quella di un tempo da
quando è tornata insieme ad Akito.
Molte cose erano tornate quelle di un tempo. Quando Akito
si era presentato fuori casa sua con quell’antica espressione sul volto, non
c’era stato alcun bisogno di parlarsi.
Perché a Tsuyoshi era apparso chiaro, lampante e
folgorante come il sole. Lei era tornata. Era tornata davvero.
- Finalmente ho ritrovato la mia vecchia migliore
amica.
Disse Aya, forse più a se stessa che a suo marito.
Tsuyoshi sorrise e quasi gli venne da piangere per la commozione.
- E io ho ritrovato il mio.
E Dio solo sapeva quanto gli era mancato.
Sentì sua moglie accoccolarsi meglio sul suo petto,
cingendo l’enorme ventre con entrambe le braccia. E gli venne in mente che
qualcuno un giorno gliel’aveva detto, che le persone tornano sempre nel posto in
cui sono state felici. E così era stato per Akito e Sana.
Gli sarebbe tanto piaciuto ricordare anche da quali
labbra erano uscite quelle parole rassicuranti. Ma più si sforzava di ricordare,
meno la sua mente collaborava.
Per quanto ne sapeva, poteva anche averle letto in
qualche libro o sentite durante la scena di qualche film.
Ma forse non era poi così importante sapere chi le avesse
pronunciate. L’importante era aver capito, con assoluta certezza, che quelle
parole erano vere.
***
- MAMMA, MAMMA!
Fuka alzò per un attimo gli occhi dalla pagina del libro
sul quale era concentrata, per rivolgerli alla figura allegra e saltellante di
suo figlio che aveva appena fatto capolino nella sua stanza.
- Che succede, tesoro?
Shin allargò il già enorme sorriso e corse fino a
raggiungerla sul morbido materasso del letto.
- Ha chiamato papà!
Fuka lo guardò leggermente confusa e si strinse nelle
spalle. Akito era andato via da poche ore. Come mai aveva già sentito la
necessità di chiamare suo figlio? E cosa gli aveva detto per renderlo così
allegro?
- E cosa ti ha detto?
- Ha detto che presto verrà a trovarci! E che forse
porterà anche un’altra persona! - E chi?
Un’immagine le si materializzò nel cervello. Un volto
familiare e caldo. Bello e sorridente come amava ricordarlo.
No. Non poteva parlare di lei. Non poteva parlare di
Sana.
- Non ricordo bene il suo nome, mamma. Però era un nome
molto corto e carino!
Forse invece si.
- Per caso quel nome è “Sana”?
- Si! Si! Esatto mamma! La conosci?
Le venne da piangere come una stupida, ma si trattenne
per non correre il rischio di turbare suo figlio.
Certo che la conosceva. E se Akito aveva detto una cosa
del genere a Shin, se davvero gli aveva detto che con molta probabilità sarebbe
venuto con lei, allora Sana doveva aver perdonato ogni cosa.
- Si, tesoro la conosco.
Doveva aver perdonato anche lei.
- Ah, si? E chi è?
Sorrise. E le sembrò di essere tornata indietro nel
tempo, fino a quei momenti spensierati passati tra i banchi di
scuola.
- La miamigliore amica.
***
Il sole, quel giorno, sembrava non voler mai morire.Se ne stava lì, sospeso proprio al
centro del cielo, incurante del fatto che fosse già ora di lasciare il posto
alla luna.
Forse, era proprio questo il suo intento… aspettare che
la luna si decidesse a sorgere, anche se lui non se n’era ancora andato. Che gli
donasse la possibilità di poter splendere insieme, e di illuminare quel
bellissimo tramonto, almeno per un po’.
Comodamente sdraiato sulla sua nuova amaca in giardino,
si lasciò scappare un mezzo sorriso.
Da quando era diventato così poetico?
Un tempo non si sarebbe perso a fantasticare romantiche e
smielate storielle sull’amore impossibile tra il sole e la luna.
Un tempo, il sole, non l’avrebbe neppure
guardato.
Ora invece prestava attenzione a tutto.. anche alle cose
più piccole. Per esempio, amava sentire il rumore del mare. Ma non quello del
mare in tempesta, quello quasi gli faceva paura.
Amava il rumore del mare d’agosto, quando le onde sono
così piccole e leggere che devi prestare molta attenzione per poterle ascoltare.
Erano quelle le cose che preferiva, quelle che
richiedevano maggiore attenzione. Che non si notavano subito, perché non avevano
il dono che hanno le persone estroverse e bizzarre… quelle le vedi anche se non
vorresti vederle, perché sono così fragorose, e rumorose, che è impossibile
ignorarle. Lui preferiva le cose che stavano in silenzio, magari nascoste in un
angolino, ad aspettare che qualcuno si fermasse a guardarle e che vedesse che
non erano poi così diverse da tutte le altre.
Era una piccola cosa anche lui, dopotutto.
Aveva avuto bisogno di qualcuno che lo notasse, che si
accorgesse della sua esistenza, e che sprecasse un po’ del suo tempo per
indagare più a fondo e per vedere che, forse, in lui c’era qualcosa per cui
valeva la pena fermarsi.
E a fermarsi era stata lei.
Ed era quasi incredibile il fatto che ancora oggi, a
distanza di anni e anni dal loro primo incontro, lei gli sembrasse la cosa più
bella che avesse mai visto.
Qualcosa che non c’entrava niente con tutte la altre cose
che si trovavano in giro per il mondo. Le altre cose non erano degne neppure di
avvicinarla.
Era sempre bellissimo riscoprirsi così follemente
innamorato. Sentire quella scossa nel petto, quel brivido lungo tutta la
schiena. E vedere che a volte, se l’aveva di fronte, gli tremavano ancora le
gambe.
Davanti ai suoi occhi, si sentiva di nuovo bambino. O
meglio, del bambino tornava ad avere le speranze, i sogni, le aspettative. Per
il resto, si sentiva soprattutto un uomo. Uno di quelli veri, che sanno sempre
cosa fare e che se sbagliano sanno rimediare.
E, da uomo, la cosa che più voleva fare era prendersi
cura di lei. E lo faceva, o almeno ci provava, ogni volta che la stringeva tra
le braccia. Che la guardava dormirgli accanto nella notte e sentiva sulla pelle
il suo respiro calmo. In quei momenti si rendeva conto di quanto fosse stato
incredibilmente fortunato.
Lei era una presenza ingombrante. Si sentiva anche quando
non c’era. Il suo profumo restava ad aleggiare nell’aria circostante, dispettoso
come la frase di una canzone che non vuole uscirti dal cervello.
Avete presente, no? Quando ti svegli una mattina
qualsiasi di un giorno qualsiasi e, per un motivo che non conosci, ti entra in
testa una canzone che pensavi di aver dimenticato.
E allora inizi a canticchiarla dentro di te e poi non te
ne liberi più. Ti rimbomba nel cervello, aggrappandosi come un’erba appiccicosa
e testarda, e tu non puoi fare altro che continuare a cantarla.
Ecco, lei era stata proprio come una canzone. All’inizio
era stata fastidiosa e irritante, perché era praticamente impossibile
liberarsene. Poi era diventata melodia. Colonna sonora. Il motivetto del quale
non puoi più fare a meno.
- SONO A CASA!
Eccola, la sua melodia. Aveva persino imparato a
condividerla con quel maledettissimo lavoro che la teneva spesso lontana da lui
e dalla loro casa.
Tanto ormai aveva capito che se non erano riusciti a
separarli tutti i loro errori e le loro pazzie, men che meno ci sarebbe riuscito
un misero lavoro.
La vide avanzare a passi svelti verso di lui, con un
sorriso ad illuminarle il volto perfetto, fasciata in un leggerissimo abitino a
fiori blu.
I capelli erano lasciati liberi di muoversi ad ogni passo
e oscillavano leggeri sulle spalle nude.
Era bellissima. Ma questa non era certo una novità. Così
come bellissimo era lo scintillio della piccola fede in oro bianco che le
adornava l’esile anulare della mano minuscola e femminile.
Si, alla fine c’era riuscito a sposarla.
Sana Kurata era sua moglie da appena due mesi. Lui,
invece, era suo marito da tutta la vita.
- Akito! Com’è andato il viaggio? Per telefono non mi hai
spiegato niente!
Si strinse nelle spalle, mentre puntava i piedi sul
terreno umido per alzarsi in piedi. Non appena se la ritrovò di fronte, così
meravigliosamente vicina, la accolse in fretta fra le braccia.
- Mi sei
mancata…
La sentì ridacchiare contro il suo petto.
- Sei stato via solo per tre giorni! Che uomo debole!
Era inutile. A volte sapeva essere davvero fastidiosa.
Si separò da lei, lanciandole uno sguardo
scocciato.
Lei, per contro, sorrise ancora.
- Come sta lui?
Gli venne spontaneo spalancare un po’ gli occhi. Era la
prima volta che Sana gli faceva una domanda del genere. Forse, era la prima
volta che chiedeva di figlio senza tremare o senza abbassare il capo.
- Sta.. sta bene, grazie.
- Mi fa piacere. Sarà stato contento di
vederti.
Che Sana avesse finalmente accettato l’esistenza di Shin?
- Si, molto contento.
- Bene.
Lei continuava a sorridere, quasi come se volesse fargli
capire che stavolta era tutto ok. Che forse era arrivato il momento di provare
ad affrontare l’ingombrante presenza del bambino che lui aveva concepito con
Fuka.
E a lui venne voglia di urlarle che l’amava.Ogni giorno di più.
- E’ cresciuto tanto, sai?
La vide sedersi sull’amaca, con una mano stretta sul
grembo sottile, mentre con l’altra tamburellava sul tessuto a righe colorate,
come per farli cenno di sedersi accanto a lei.
- Immagino. Ora ha 5 anni giusto?
- 6 tra qualche mese..
- Deve essere un bambino molto bello.
Si strinse nelle spalle, mentre quasi senza accorgersene
alzava una mano fino a raggiungere il volto di lei per accarezzarlo
lentamente.
- Non so. Dicono che mi somigli parecchio.
- Oh, allora sarà di certo bellissimo!
Riuscì a carpire un leggerissimo tremolio nella sua voce,
segno inequivocabile che certi argomenti le facevano ancora molto
male.
- Senti, Akito… io non voglio che tu ti senta obbligato a
non parlarmi di tuo figlio anche quando vorresti farlo. Puoi dirmi tutto quello
che vuoi, lo sai… io ti amo e voglio che tu ti senta libero di raccontarmi
tutto.
Era indubbio il fatto che uno come lui non meritasse una
donna come Sana.
Gli venne una voglia assurda di abbracciarla fortissimo e
di dirle che l’amava da impazzire e che l’avrebbe amata per tutta la
vita.
- Dici sul serio?
- Certo.
Lei sorrise ancora, come per rassicurarlo, come per
dirgli che non doveva affatto preoccuparsi.
E allora lui trovò il coraggio per parlare, per dirle un
pensiero che lo tormentava da tantissimo tempo e che non riusciva più a non
esprimere.
- Senti, Sana… credi che un giorno potrai perdonare anche
lei?
E con quel “lei”, ovviamente, si riferiva a
Fuka.
Già, perché non trovava affatto giusto che fosse stato
solo lui ad essere perdonato. Avevano sbagliato entrambi dopotutto. Non doveva
essere solo Fuka a pagarne le conseguenze.
Stavolta, la vide irrigidirsi mentre il sorriso le moriva
sul volto.
-… non fraintendermi, Sana. So che è difficile, l’ho
provato sulla mia pelle quanto può essere duro riconquistare il perdono. Però
lei ti vuole bene. Ogni volta che vado a trovarli non mi chiede mai di te, ma
glielo leggo negli occhi che vorrebbe sapere come stai.
Vide un lampo di nostalgia illuminarle le iridi
cioccolato. Fu in quel momento che si rese conto che anche a Sana mancava
moltissimo la sua migliore amica.
E che proprio perché sentiva così tanto la sua mancanza,
ci sarebbe voluto ancora un po’ di tempo per poter tornare a fidarsi di lei.
Più grande è il bene che vuoi a qualcuno, più lenta è la
guarigione se quel qualcuno ti ferisce.
- Credo che potrò venire con te quando andrai a trovarla.
E a trovare il tuo bambino.
Non ce la faceva ancora a dire il suo nome. D’altronde,
non poteva pretendere che tutto tornasse alla normalità in così poco
tempo.
Forse le cose non sarebbero mai tornate alla
normalità.
- Allora fino a quel giorno non ne parleremo più.
Promesso
Forse la normalità neppure esisteva..
- Ah, Akito.. devo dirti una cosa molto
importante.
Era solo una condizione momentanea.. quello che ti sembra
normale oggi, può apparirti insolito domani se qualcosa è cambiato rispetto a
ieri
- Dimmi, Sana.
Forse magari a lui neppure serviva, la
normalità.
- Io sono… sono incinta. Aspettiamo un bambino,
Akito!
Tutto cambia di continuo e nessuno ha modo di
evitarlo.
Ma finché sarebbe cambiato insieme alla sua Sana, sarebbe
andato tutto bene.
/*/
*FINE*
Note
dell’autrice: Ok, è ufficiale. Sono commossa come una stupida ragazza
romantica e iper sensibile! Ma questa storia mi ha tenuta impegnata per così
tanto tempo che sapere di essere riuscita a finirla mi riempie di gioia e allo
stesso tempo di tanta, tanta tristezza.
Credo sia normale, dopotutto. Finire qualcosa che hai
iniziato è sempre motivo di soddisfazione personale, ma ti lascia anche quel
retrogusto di amaro in bocca.
Bene, mi sono sfogata anche troppo con voi mie care e
amatissime lettrici! Ma che ci posso fare? Sono una romantica! xD
Spero davvero con tutto il cuore che questa lunghissima
attesa sia stata ripagata almeno un po’ e che i miei sforzi siano stati
apprezzati! Vi chiedo infinitamente scusa per tutto il tempo che ho impiegato
per scrivere questo capitolo. Ma sono stata davvero molto incasinata e sono
dovuta stare via di casa per un po’. Scrivere era diventato quasi impossibile!
Dopotutto, sto pubblicando quest’ultimo capitolo quando il mio orologio segna
l’1:00 esatta, quindi sono ormai abituata a scrivere in orari davvero assurdi!
xD
Bè, che altro dire? Ovviamente aspetto di sapere il
vostro parere! Sappiate che le vostre recensioni sono state davvero molto
preziose per me, quindi non finirò mai di ringraziarvi per tutta l’attenzione
che mi avete sempre riservato!
Bene, non mi resta che darvi appuntamento alla mia
prossima storia.. perché si, ho intenzione di rimettermi a scrivere molto
presto! ;)