What a bored Shinigami can do di PattyOnTheRollercoaster (/viewuser.php?uid=63689)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** The beginning of Annika's mission ***
Capitolo 3: *** A detective job ***
Capitolo 4: *** Noodle is not just pasta ***
Capitolo 5: *** Conquest and failures of Mihael Keehl ***
Capitolo 6: *** Preparations ***
Capitolo 7: *** Searching for the chosen ***
Capitolo 8: *** The picture of Mail Jeevas ***
Capitolo 9: *** White trap ***
Capitolo 10: *** Play by the rules ***
Capitolo 11: *** Penfriend ***
Capitolo 12: *** Crucial moments ***
Capitolo 13: *** Kids ***
Capitolo 14: *** The undead boy ***
Capitolo 15: *** Time is precious ***
Capitolo 16: *** Night is too long ***
Capitolo 17: *** Put out the fire ***
Capitolo 18: *** Cheers ***
Capitolo 1 *** Prologo ***
A Eù,
cui l'autrice deve un bacio ogni giorno.
What a
bored Shinigami can do
Prologo
Four different personalities
Ogni
volta la stessa storia. Roger, dopo diversi anni, si era detto che
doveva smetterla di preoccuparsi: non ve n’era mai una
concreta ragione. Ogni volta, era
sempre la stessa storia. L accettava un caso, qualcuno
cercava di ucciderlo, e allora Roger dava fuori di matto!, ma nessuno
ci andava mai nemmeno vicino. Dopo di che L ritornava alla
Whammy’s House, anche solo per un breve periodo, e non faceva
altro che vantarsi velatamente di quanto fosse abile, scaltro e
intelligente. Certo nel caso Kira aveva realmente rischiato, avevano
perso Watari e per di più L aveva pensato bene di
coinvolgere anche Near. Aveva risolto il caso, ma questo non
lo avrebbe comunque scagionato dalla freddezza di Roger al suo ritorno.
Mello era andato su
tutte le furie. Per due mesi era stato intrattabile e non aveva parlato
con nessuno a parte Matt. Tuttavia anche a lui rispondeva in modo
sgarbato, gridava per ogni piccola cosa, picchiava i compagni per un
non nulla. Finché il caso non fu terminato. Matt, per parte
sua, fu felicissimo che la cosa si fosse risolta relativamente presto
perché non poteva sopportare Mello in quello stato,
così si limitava a giocare con il suo game boy e
rinchiudersi nel mutismo ancora più spesso del solito. Non
che facesse molto per alleviare lo stato mentale di Mello, anzi la sua
totale indifferenza a quella che lui chiamava la più grande
ingiustizia del mondo rendeva il ragazzo ancor
più collerico.
Quella volta, dopo
aver parlato con Roger per lungo tempo della gestione della
Whammy’s House, L decise che aveva bisogno di riflettere come
si deve. Andava spesso all’orfanotrofio, ma pochi dei bambini
sapevano chi lui realmente fosse. Molti credevano che si trattasse di
un giovane amico di Watari che ogni tanto andava a trovarlo. Mello e
Near sapevano la verità solo perché erano
perennemente in lotta per il posto di successore, ed L qualche anno
prima aveva espresso il desiderio di parlare con loro faccia a faccia.
Quando si erano trovati di fronte il cosiddetto amico di Watari
Mello era quasi svenuto. Sapere che aveva avuto di fronte L per tutto
quel tempo senza mai scambiarci nemmeno una parola era stato per lui un
tremendo affronto. Near era rimasto stupito, ma aveva preferito non
darlo a vedere. Per Matt era diverso invece: lui già sapeva,
da sempre. Quando L stava per lasciare la Whammy’s House per
la prima volta, lui ci era appena arrivato. Non ci era voluto molto per
fare due più due e notare che i titoli sui giornali, recanti
la buona risoluzione del caso famigerato detective L, coincidevano con
il ritorno dello stesso L, il piccolo e per nulla famoso ragazzino
della Whammy’s House.
Matt, come i suoi
vistosi capelli rivelavano, era di origini irlandesi. I suoi genitori
erano due giovani ragazzi profondamente innamorati come solo degli
adolescenti possono esserlo, e come tali inesperti e impreparati.
Avevano tutti e due solo sedici anni quando lui era nato, arrivato come
un fulmine a ciel sereno nelle loro vite spensierate, ma accolto con
calore un pizzico di timore che nessun genitore si
è mai risparmiato. Per qualche tempo Matt era rimasto
assieme a loro, abbastanza tempo persino per ricordarsi di
com’erano, soprattutto i loro volti. Non aveva foto dei suoi
genitori, però conservava il vago ricordo di una minuscola
casa che odorava perennemente di fritto misto a vino, e quando tentava
di immaginarli riusciva a farlo con tratti idealistici mischiati a
vaghe consapevolezze: vedeva due ragazzetti dal sorriso facile che lo
facevano ridere di continuo. Matt era troppo piccolo per ricordare
anche le occhiate cariche di rancore che ogni tanto i due si
lanciavano, così come aveva scordato le interminabili ore
nelle quali lo lasciavano solo. Rimase con loro quasi fino
all’età di sette anni finché un giorno,
semplicemente, sparirono. Solo dopo diversi anni Matt si era reso conto
che non si era trattato certo di un caso. A loro non era accaduto
niente per non farli tornare a casa la sera, non un incidente, non una
rapina. E Matt era rimasto nella casa vuota, stranamente fornito di
enormi pacchi di panini, dolci, bevande, latte, carne in scatola,
patatine, caramelle, prosciutto, e una marea di altri cibi a lunga
conservazione per una scorta che sarebbe potuta durare per molto tempo
ancora. Si era chiesto dove fossero finiti i suoi genitori. Per la
prima settimana. Dopo di che aveva smesso di aspettarli e aveva
cominciato a riversare il suo talento artistico sulla casa, disegnando
sopra i mobili, le pareti, il divano, la televisione (cosa di cui poi
si era amaramente pentito) e il parquet scivoloso. Dopo diciannove
giorni qualcuno bussò alla porta. Matt aprì,
perché nessuno dei suoi genitori gli aveva mai spiegato che
non si apre agli sconosciuti, e così si ritrovò
davanti un signore dall’aria gentile che disse di chiamarsi
Watari. Pochi mesi dopo l’arrivo di Matt alla
Whammy’s House L se ne andò per la prima
volta dall’orfanotrofio, a risolvere un caso che fu
poi soprannominato ‘Trinity’*. Mentre la leggenda
di L si diffondeva e i ragazzi crescevano, arrivarono Mello e Near.
Mello era di tre anni minore di Matt, Near di quattro.
Non erano mai stati un
gruppo omogeneo, L era il più grande di tutti e spesso stava
via per molti mesi. A venticinque anni non aveva ancora imparato a
gestire la sfera dei rapporti sociali né a vivere in maniera
umanamente accettabile, cosa ampiamente dimostrabile dalle sue numerose
stramberie. Ogni tanto gli sarebbe piaciuto sapere bene che cosa
c’era in lui che lo rendeva diverso dagli altri. Aveva sempre
visto la gente attorno a sé divertirsi tutti assieme,
cercare di amalgamarsi gli uni con gli altri per entrare a far parte di
questa società. Lui assieme agli altri si sentiva solo a
disagio, come se tutti potessero vederlo in ogni suo singolo movimento,
pronti a deriderlo al minimo accenno di quella sua evidente
singolarità. Per questo preferiva stare solo, pensare per
conto suo e cavarsela con i suoi mezzi. C’erano ben poche
persone con cui riusciva a sentirsi bene, e le si potevano
contare sulle dita di una mano.
Subito dopo di lui
c’era Matt, vent'anni. Assolutamente fuori dal mondo per
quanto riguardava il parlare con gli altri; passava la maggior parte
del suo tempo a giocare con qualsiasi gioco elettronico. Per lui i
computer non avevano segreti: da quando aveva preso in mano il primo pc
si era reso conto che quegli apparecchi erano molto più
comprensibili di qualunque essere umano. In poco tempo era riuscito a
capire da solo quello che un tecnico doveva studiare per apprendere, e
in pochi anni era diventato un hacker professionista. Adorava entrare
nel computer di altre persone, solo per vedere se sarebbe riuscito a
non farsi scoprire, e per una certa sua propensione a ficcanasare.
Certe volte scombinare i file di un computer era la cosa più
divertente che potesse fare in tutta una giornata. Certo quel lavoro
accurato lo faceva solo con chi gli stava antipatico o con chi, secondo
la sua personalissima teoria
della giustizia, se lo meritava. Altrimenti gli piaceva
entrare nel database di grande organizzazioni, come ad esempio aveva
fatto con la marina inglese. Creava anche programmi suoi mirati al solo
scopo di distruggere in pochi secondi un pc e renderlo inutilizzabile
senza via di scampo. Era famoso in rete per questo, ed era conosciuto
con il nome di Fermat.
Gli piaceva il nome Fermat: era il nome di un matematico del 1600 che
era riuscito a far diventare tutti matti con una semplicissima
variazione del teorema di Pitagora. La dimostrazione la sapeva solo lui
ma non l’aveva mai detta ad anima viva. Molti suoi colleghi
si erano spaccati il cervello per confutare il suo teorema, ma nessuno
di loro ci era mai riuscito. A Matt piaceva pensare di essere come
Fermat, l’hacker che mandava tutti nel caos ma che nessuno
riusciva a fermare.
Mello, invece, a volte
cadeva nella più profonda depressione. Soprattutto quando L
tornava alla Whammy’s House. Viveva nella continua speranza
di superare Near per poter diventare l’erede di L. E quando
se ne rendeva conto la sua vita diveniva ad un tratto insignificante.
Possibile che non avesse un altro scopo? Qualcos’altro di
meglio da fare? Forse diventare l’erede di L non doveva
essere il massimo delle sue ambizioni, forse dover prendere il posto di
qualcun altro non era proprio il massimo in generale. A volte si diceva
che doveva crearsi uno scopo tutto suo, come ad esempio diventare il
più grande inventore del mondo, in questo modo al posto di
risolvere casi come detective sarebbe potuto diventare lo scienziato
più importante: avrebbe scoperto un sacco di nuove formule e
cose del genere. Quasi si vedeva già mentre le persone lo
idolatravano. L’importante,
si diceva, è
comunque essere il numero uno in quello che faccio, qualsiasi cosa
faccia. Che senso ha altrimenti fare qualcosa se non si è i
migliori? Ad esempio L è il miglior detective del
mondo… E di nuovo tornava a ruotare attorno
all’argomento L, era come la luna che ruota attorno alla
terra; non può fare a meno di farlo perché
è nella sua natura. Recentemente Mello desiderava essere un
po’ più grande del satellite che fino ad allora
aveva interpretato.
Infine,
all’alba dei suoi quindici anni, Near ancora non aveva
formulato pensieri filosofici di alcun genere. O almeno, pensieri
filosofici inventati di suo pugno. La cosa che più Near
preferiva era di sicuro imparare. Fin da piccolo si era interessato
alla geografia e alla storia poi, un po’ più
grandicello, alla matematica e alla fisica. La sua più
recente passione era diventata la filosofia. Forse perché
era inconsapevolmente entrato nella sua fase adolescenziale che,
volente o nolente, anche un genio deve passare; fatto sta che gli
sembrava che la filosofia fosse una branca di conoscenza che andava al
di là di qualsiasi altra cosa. Conosceva moltissimi
filosofi, le loro teorie e la loro vittorie, sapeva a menadito tutto
ciò che avevano detto Socrate, Nietsche, Marx, San Tommaso,
Kant, e potrei continuare a citarne altri. Ma quel che non riusciva a
ficcarsi in testa assieme a tutte quelle teorie era la ragione
fondamentale della filosofia: il perché.
Perché tutti questi uomini si erano dedicati a studi di quel
tipo? Il significato della vita, l’essenza
dell’esistenza, Dio, l’amore, il sentimento.
L’uomo! L’uomo, secondo Near, non aveva niente di
particolare: era solo un ammasso di cellule e sangue, a volte bello, a
volte persino brutto. Scoprì con molta difficoltà
di essersi sbagliato. Si era reso conto di potersi rispecchiare in
certe cose che un uomo barbuto aveva detto secoli addietro. Come poteva
essere che in un tempo tanto lontano, in una società tanto
diversa, ci fossero cose nel genere umano che non erano mai cambiate?
Near si chiese se per caso l’uomo non fosse davvero un
argomento di studio che valesse la pena trattare. A volte a forza di
pensare si diceva che gli studi dei grandi filosofi erano soltanto
parole vuote dette da persone che non avevano nulla da fare se non
perder tempo. Altrimenti perché dedicarsi a capire qualcosa
che sappiamo già in partenza non potremmo mai vedere
davvero? Near non lo sapeva. Era probabile che tutto il fascino che
provava per quella nuova appassionante materia di studio provenisse
solo dal fatto che non era qualcosa di logico che poteva imparare a
memoria e poi manovrare con sicurezza. Non c’erano regole
nella filosofia, non c’era giusto o sbagliato. Tutto
dipendeva dalla capacità di ragionamento di una persona e da
una non indifferente capacità sofistica.
Quattro persone con
quattro differenti personalità. Andavano d’accordo
per quando dovevano stare assieme poche ore al giorno. Spesso ognuno si
faceva i fatti propri, ma fra loro si capivano. Chissà se
sarebbero stati in grado di resistere ad un incontro ravvicinato,
conoscendosi a fondo?
L passò in
cucina, si fece tagliare una generosa fetta di torta e andò
nel cortile interno a sedersi su una panchina. Si mise a mangiare,
rimuginando su cosa avrebbe voluto fare. Il caso Kira gli aveva fatto
capire diverse cose: era per la prima volta divenuto consapevole della
sua esistenza fisica e del fatto che il suo istinto di attaccamento
alla vita non era ancora scomparso del tutto. Nonostante lavorasse come
detective e avesse a che fare molte volte con omicidi, suicidi, feriti
gravi e situazioni del genere, non gli era mai successo di essere lui a correre il
pericolo. Aveva inconsciamente sviluppato un ideale errato, e
cioè che lui fosse quasi una sorta di intoccabile incognita
nel mondo, quel mondo che andava avanti attorno a lui come se non
esistesse nessun L, come se non intaccasse il divenire delle cose, come
se fosse solo un punto immobile in tutto quel divenire, un punto
comparso venticinque anni fa che prima o poi sarebbe sparito senza che
quello stesso mondo che gli si muoveva attorno se ne accorgesse o ne
sentisse la mancanza. Questo gli aveva fatto gradualmente perdere la
cognizione del suo essere umano, con dei progetti per il futuro, delle
passioni, delle voglie, delle paure e dei rimorsi. Ma quando si era
giocato il tutto per tutto, quando si era esposto per la prima volta
-all’inizio essendo sicuro che non ci fosse nessun pericolo,
ma poi azzardando sempre di più- aveva sentito, forse per la
seconda volta in tutta la sua vita, la paura. Aveva
creduto di morire, aveva visto Watari morire, e
all’improvviso gli erano tornati alla mente tutti i sogni che
aveva da bambino, i progetti dell’adolescenza e poi il buio,
che era arrivato con la prima età adulta come un manto
oscuro a coprire tutto ciò che era stato. Quando grazie
all’aiuto di Near era riuscito a smascherare Light Yagami e a
catturarlo la sua anima aveva tirato un grosso sospiro di sollievo e
aveva deciso che ci avrebbe pensato.
Mantenne la promessa.
Pensò a lungo, seduto nel cortile interno, finché
il sole non divenne arancio intenso vicino all’orizzonte. La
decisione che prese fu: avrebbe fatto una pausa dal lavoro di
investigatore, per capire se voleva continuare a perseguire il suo
sogno di ragazzino o se per caso agognava altri progetti. Nel
frattempo, siccome non gli andava di rimanere troppo solo a rimuginare,
sarebbe rimasto alla Whammy’s House.
Le inconfondibili
ciocche così chiare da sembrare quasi bianche, ad un primo
impatto sembrarono a Mello il frutto di un’allucinazione. Si,
di sicuro quel nano in pigiama era entrato nel suo cervello con una
tale forza da rimanerci. Poi, quando vide che la visione non
scompariva, guardò esterrefatto Near salire la scale assieme
a Roger, trascinandosi dietro un piccolo trolley e un pupazzo fra le
braccia. Mello si chiese a cosa diavolo gli servisse il trolley se
indossava sempre solo il pigiama. Forse ne aveva dieci tutti uguali.
Ciò che stupì più di tutto Mello fu
che quando lo vide non lo colse la rabbia che per quasi due mesi lo
aveva fatto impazzire, piuttosto tutto sbollì
all’improvviso. Era a conoscenza del fatto che sia lui che L
avevano rischiato la vita nel caso Kira e, in un certo senso, era
felice che non gli fosse successo nulla, anche se restava comunque il
nano che gli usurpava il primo posto. Per prima cosa Mello si
recò in biblioteca a posare dei libri che aveva terminato di
leggere, in una calma che stupì persino sé
stesso. Poi andò verso la camera di Near e quando questi gli
aprì la porta il ragazzino esordì con un:
“Mello. Immaginavo che fossi tu”.
“Posso?”,
domandò Mello senza staccare lo sguardo da lui.
“Certo”.
Mello entrò
nella stanza. Ci era stato tante volte, e poche di sua spontanea
volontà. Molte volte perché Roger lo aveva
obbligato a chiedere scusa a Near per qualche stupido scherzo che gli
aveva fatto, altre volte invece riuscivano pacificamente a parlare,
anche se non mancava mai un po’ di astio. Ad
un’analisi superficiale i due si odiavano con tutto
l’animo. In realtà potevano definirsi amici.
“Quindi ce
l’avete fatta”, esordì Mello come se la
faccenda non lo interessasse veramente.
“Si.”
“Ce
l’hai fatta.”
Near esitò.
“Si.”
Mello fece un debole
sbuffo e distolse gli occhi di ghiaccio da quelli neri come il carbone
di Near. Aveva sempre giudicato incredibile che avesse i capelli
bianchi come il latte, la carnagione di una mozzarella, eppure avesse
quei grandi occhi neri e profondi, che scrutavano la gente con
attenzione, senza giudicare ma con un’intensità
che riusciva a scombussolarti tutto.
“E
ora?”, domandò Mello.
“L non mi ha
detto niente. Non credo di essere diventato il suo erede a vita, se
è questo che ti preoccupa.”
“Non sono
preoccupato”, disse Mello a denti stretti. Odiava Near quando
faceva così. Capiva i suoi punti deboli e glieli faceva
notare con noncuranza. Gli faceva capire che lui li vedeva facilmente,
e che sapeva dove colpire.
“Vuoi sapere
com’è stato? Lavorare con L?”
A quel punto il lato
razionale di Mello, che già di per sé era poco,
andò completamente a farsi benedire. Prese Near per il
colletto e lo sbatté contro la parete. Near per tutta
risposta si lasciò trascinare dolcemente, un po’
perché non se lo aspettava e non ebbe tempo di reagire,
d’altra parte lui non reagiva mai, si faceva semplicemente
trascinare via dalla vita e dalle sue situazioni.
“Mi stai
prendendo in giro per caso?!”, gli urlò in faccia
Mello. “Certo che voglio saperlo! E mi fa incazzare da matti
il fatto di non essere stato scelto!” Rimase a due centimetri
dal viso pacato e per niente sconvolto di Near poi, allontanandosi da
lui con un gesto secco di stizza, fece per andarsene.
Prima che potesse
aprire la porta Near lo fermò. “Mello”,
disse con la sua voce candida. Il ragazzo non diede segno di averlo
sentito ma si fermò, senza tuttavia voltarsi. “L
è qui. Credo che resterà per un
po’.”
Mello si
voltò con espressione stupita e rabbiosa. Il solo pensiero
che L e Near fossero diventati qualcosa come due amici durante
quelle poche settimane assieme e che L si confidasse con lui era
qualcosa di intollerabile. “Come lo sai?”, chiese
boccheggiando.
“Non lo so
infatti, ma ho intenzione di domandarglielo.”
“Dov’è?”
“Non lo so.
Se mi aspetti andiamo a cercarlo.”
“Cosa devi
fare?”
“La
doccia.”
Una risposta
così disarmante nella sua semplicità, che Mello
sorrise. A volte quasi si dimenticava che anche Near era un essere
umano, abituato com’era a considerarlo solo
un ingombrante scoglio fra lui e la sua nomina ad L.
“Vado ad avvisare Matt”, disse uscendo.
Mello ci mise quasi
mezz’ora per trovare Matt, stava giocando in un angolo del
salottino davanti all’ufficio della direzione.
“Matt! Cosa fai qui? Devi parlare con Roger?”,
domandò quando lo vide, attraversando la sala con passo
cadenzato.
“No”,
disse Matt alzando lo sguardo verso l’amico.
“E
allora?”
“Mi
piacciono queste poltrone”, rispose il ragazzo alzando le
spalle.
Mello non
poté fare a meno di sorridere, dicendo: “L e Near
sono tornati”.
“Come lo
sai?”, domandò Matt stupito.
“Ho appena
avuto un incontro ravvicinato con il
nano. Non so dov’è L, ma Near dice
che vuole restare qui per un po’. Ci troviamo qua davanti non
appena Near ha finito.”
“D’accordo”,
disse Matt alzandosi.
Un quarto
d’ora dopo erano tutti in giro per i corridoi, a scervellarsi
su dove potesse trovarsi L e a cercarlo con lo sguardo. Andarono a
controllare nelle cucine, nel salottino della ricreazione, nel cortile,
nella piccola cappella dai vetri colorati, persino alla mensa e, solo
alla fine, nel cortile interno. Non appena uscirono nel porticato che
circondava il cortile lo videro, in un angolo, seduto nella sua tipica
posa da avvoltoio, a fissare il vuoto con mani poggiate sulle
ginocchia. Tutti e tre si avviarono verso di lui, che non diede segno
di averli visti finché non si sedettero e rimasero
pazientemente in silenzio.
“Sapete una
cosa?”, disse poi L guardandoli uno ad uno. “Questa
volta pensavo di restare qui un po’ più a
lungo.”
Credits:
*Trinity. Nome che ho ripreso dalla quarta stagione del telefilm
"Dexter", solo per fare un piccolo omaggio alla produzione.
Ciao, sventurato lettore che sei capitato per caso su questa pagina! :D
Allora, che dire? Questa storia è stata scritta l'anno
scorso, ma ho deciso di postarla ora dopo una minuziosa revisione
(ancora non del tutto terminata, fra l'altro). Torno nel fandom di
Death Note come autrice dopo una lunga assenza, cimentandomi con un
giallo soprannaturale, com'è tipico del genere del nostro
manga preferito :)
Questo è il Prologo, che è un po' lungo rispetto
all'idea generale che di solito la gente ha di 'Prologo', ma spero che
abbiate la pazienza di aspettare il seguito. Per non deludervi, nel
frattempo, è già disponibile sul mio blog
l'anticipazione del primo capitolo a questa pagina. Cliccate
se per caso siete frementi di sapere, ma vi avviso che sarà
una crudele anticipazione che vuole mettervi solo curiosità
addosso. Mhuahahah! XD
In questa storia mi piacerebbe trattare un po' tutti i personaggi in
modo approfondito, infatti come avete potuto leggere ci sono
descrizioni dettagliate della loro personalità
già in questo prologo. Tuttavia mi sono presa la
libertà, più avanti, di apportare dei leggeri
cambiamenti, perchè i personaggi evolvono nel corso
della storia, e questa evoluzione si ripercuote sul loro carattere.
Detto questo, spero vivamente di non andare OOC, nel caso lo facessi
significa che ho fallito miseramente nel mio intento, e allora dovete
dirmelo. Anche tramite insulto se vi va... XD
Comunicazioni di servizio: ho intenzione di postare ogni
Lunedì un nuovo capitolo, spero di riuscire ad essere il
più puntuale possibile, soprattutto in queste prime due o
tre settimane, perchè devo ancora dare un paio di esami e
studiare pesantemente (cacchio!).
Voi vi chiederete quindi: "Perchè non hai aspettato a
mettere la storia?". E io vi rispondo: perchè mi prudevano
le mani in una maniera assurda e volevo assolutamente pubblicarla
°.° Oltretutto è già pronta da un
pezzo, ho aspettato anche troppo! :D Comunque, vi fornirò il
link alla pagina delle anticipazioni in ogni capitolo, se volete
potrete andare a leggere, se invece preferite la suspance... insomma,
come volete! Inoltre conto di fare qualche osservazione sulla storia
sul blog, se mai me ne venisse voglia; nel caso vi lascerò
il link. Comunque saranno osservazioni non indispensabili alla lettura.
Se qualche anima gentile lasciasse una recensione sapete che sono
sempre disposta a rispondere, come ogni volta, ad ogni tipo di
recensione; neutra, negativa o positiva che sia! :)
Detto questo un grazie a te, si proprio a te, che sei arrivato
fino a qui, in fondo in fondo alla pagina ^^
A Lunedì, piccoli Shinigami! Ricordate di dare una mela al
vostro Ryuk e scarabocchiare qualche nome sul quaderno per tenervi vivi
(ed essere presenti al mio prossimo capitolo, uhuhuh! XD).
Un saluto a tutti,
Patrizia
|
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Capitolo 2 *** The beginning of Annika's mission ***
Capitolo uno
The beginning of
Annika’s mission
Esiste
un luogo lontano dalla mente di tutti gli uomini dove vivono alcuni dei
più fondamentali esseri che operano per l’ordine
dell’universo. Sono déi, gli unici che possano
decidere della vita o della morte di una persona. Sanno come, quando, e
perché morirà. Sanno l’ora, il luogo, e
la data del decesso. E possono saperlo perché sono loro a
deciderlo. Vivono in un mondo arido senza alcuna attrattiva, e
così passano il tempo a giocare a carte o a farsi tra loro
scherzi idioti. Un tempo questi esseri erano uomini, uomini ormai morti
scelti dal caso per divenire Shinigami.
Ma ci sono delle regole da seguire per ogni Shinigami appena arrivato:
un uomo che diventi Shinigami dovrà accedere al Mu in forma
umana, gli sarà consegnato un Death Note e verrà
dotato degli occhi, ma non potrà esercitare
finché non si trasformerà del tutto. Nel corso
della trasformazione l’uomo perde gradualmente la memoria
assieme ad essa la sua umanità, sia fisica che mentale.
Diventa tutto estremamente più semplice e una mera questione
di sopravvivenza uccidere esseri umani quando non si è a
conoscenza del fatto di essere stato uno di loro.
Da qualche mese nel Mu
era arrivato un uomo nuovo, un tale di nome Stephen Tempor. Non parlava
mai con nessuno a parte lo Shinigami Ryuk, il quale gli aveva svelato
di essere stato il fautore della sua morte. In realtà tutto
faceva parte di un piano più grande, Ryuk era arrivato solo
a misfatto ormai compiuto. Aveva visto quell’uomo sul letto
dalle coperte bianche e infeltrite dell’ospedale, e aveva
considerato quel letto molto simile a molti altri letti di morte. Aveva
scritto sul suo Death Note ‘Stephen Tempor, ferita da arma
da fuoco’. I medici dicevano che c’era
un briciolo di speranza che lui sopravvivesse, fino a che la sua ferita
non si era infettata per cause ancora non ben chiarite: da allora il
signor Tempor non ebbe alcuna speranza. Se non fosse stato per il
tempestivo intervento di Ryuk, che non vedeva perché mai
sprecare così un incidente già avvenuto, forse
non sarebbe mai diventato uno Shinigami.
“Forse, se
avessi saputo che saresti diventato Shinigami, non ti avrei mai ucciso
Stephen”, disse Ryuk una volta osservando il paesaggio
desertico del Mu. Stavano seduti su una roccia aspra e attorno a loro
non c’era altro che la sabbia e la noia.
“Se non lo
avessi fatto non sarei mai diventato Shinigami”, aveva
replicato l’uomo con logica schiacciante. “Non
fartene un cruccio Ryuk, in fondo sei qui per questo.”
Stephen aveva sospirato. “Solo una cosa mi spiace: non aver
preso quel bastardo che mi ha sparato. Sapevo che dietro questo caso
c’era molto più di quel che non apparisse. E
l’avevo capito, per davvero! Per questo ora sono
qui.” Stephen sospirò e storse il naso, il volto
piegato in una smorfia di malinconia.
Stephen Tempor
lavorava per la CIA, e da sette mesi prima della propria morte aveva
seguito un caso all’apparenza facile, che contro tutte le
previsioni si complicò sempre di più ogni
qualvolta scoprivano qualcosa di nuovo. Proprio quando aveva
incominciato a scavare nei documenti giusti, a fare domande alle
persone giuste, allora aveva intuito di stare arrivando a loro, quindi loro avevano deciso
di eliminarlo. Non lo avevano fatto molto bene, dopo tre giorni i
medici dicevano che l’uomo avrebbe potuto riprendersi entro
un mese, ma proprio in quel momento era spuntato Ryuk.
“Ci vorrebbe
l’aiuto di mia figlia”, disse Stephen guardando il
paesaggio brullo e desolato.
“Tua figlia?
Perché?”, domandò Ryuk.
“E’
una ragazza molto intelligente”, cominciò
l’uomo con orgoglio nella voce, “forse non
altrettanto brava con le persone, ma se la cava quel che basta.
E’ la più intelligente del suo corso,
all’università. Mi piacerebbe poter vedere che fa
adesso.”
“Lo puoi
fare”, disse Ryuk illuminandosi un poco.
Stephen fece scattare
la testa verso di lui. “Davvero?”
“Puoi
vederla. Attraverso la finestra che usiamo per arrivare sulla terra.
Basta che pensi a lei.”
Detto fatto; dopo aver
avuto quella rivelazione Stephen Tempor non poté fare altro
dalla mattina alla sera. Sua moglie era morta quando erano giovani, sua
figlia adesso aveva diciannove anni, e da qualche mese doveva
provvedere a sé stessa da sola. Stephen scoprì,
suo malgrado, che non lo faceva per niente bene. Era sempre stata una
ragazza un po’ strana a dirla tutta, un po’
asociale, ma scoprire che aveva smesso di andare
all’università per rovistare fra i documenti del
suo ultimo caso e sul suo computer era per lui motivo di profondo
stupore. Si chiese il perché: come mai sembrava
così indaffarata, perché la notte dormiva male,
perché aveva lasciato il lavoro part-time che aveva trovato
poco fa alla biblioteca, e per quale motivo si ostinasse ad andare al
suo ufficio per vedersi ogni giorno cacciata via. Sua figlia lo sapeva
meglio di chiunque altro quanto il lavoro di Stephen fosse difficile,
soprattutto perché non poteva mai parlarne con nessuno, e si
rivelava alquanto invadente nella sua vita privata pur essendo
così top secret.
Stephen avrebbe tanto
voluto parlare con lei, ma non poteva. Così, prese una
decisione. “Ryuk, ho bisogno che tu mi faccia un
favore.”
“E
sarebbe?”, domandò Ryuk.
“Vorrei che
tu andassi da mia figlia e scoprissi cos’ha intenzione di
fare. Io non posso muovermi di qui, devi farlo tu.”
Ryuk ci
pensò su un secondo. “Voi umani avete sempre
questa brutta abitudine”, osservò alla fine con
tono duro.
“Quale?”
“Sempre a
dare ordini, a noi Shinigami. Ma devi sapere una cosa: io non prendo
ordini da nessuno.”
“Ryuk, te lo
sto chiedendo per favore”, disse Stephen, aggrappandosi
all’ultimo raggio di speranza che aveva.
Lo Shinigami fece una
smorfia incerta. “E sia!”, esclamò alla
fine. Si alzò in volo e attraversò il varco che
lo separava dalla terra.
Dopo due settimane
Ryuk era di ritorno. La figlia di Stephen Tempor, Annika Tempor, era
una di quegli esseri umani che poteva anche valere la pena di
ricordare. Ne aveva conosciuti davvero pochi come lei, uno era
recentemente morto mentre conduceva una battaglia di intelletti contro
l’unico altro essere umano da tenere in considerazione.
Tuttavia, quando tornò nel Mu e andò a cercare
Stephen, Ryuk vide che la trasformazione aveva fatto passi da gigante.
L’uomo si era stranamente allungato, era come dimagrito
repentinamente e le sue fattezze erano più cadaveriche che
nella tomba.
“Stephen,
forse ho qualcosa che potrebbe interessarti”,
esordì Ryuk.
L’uomo lo
guardò con occhi smarriti. “E
cioè?”
“Annika sta
tentando di risolvere il caso al posto tuo.”
Di nuovo, Stephen non
mostrò di aver capito alcunché. “Cosa
stai dicendo?”
“Tua figlia
Annika”, insisté Ryuk, a cui non andava
giù di aver fatto un viaggio a vuoto. Per un secondo, gli
occhi di Stephen si allargarono di comprensione, ma Ryuk
pensò di esserselo solo immaginato, perché la
loro luminosità sparì così
com’era venuta.
“Non so di
che parli Ryuk”, disse Stephen voltandosi e incamminandosi
verso degli altri Shinigami. “Vado a farmi una partita a dadi
con gli altri. Vieni anche tu?”
“No,
grazie.”
Ryuk tornò
al grande specchio che usavano come finestra sugli altri mondi e
cominciò ad osservare Annika Tempor che, ancora una volta,
cercava di distruggere la rete operativa dei computer della CIA. Con
scarsi risultati, potrei aggiungere. Fu allora che Ryuk prese una
decisione.
Ancora una volta, si
stava annoiando.
Annika Tempor era una
ragazza estremamente magra e bassa, ma nascondeva una forza da vero
elefante, che era andata aumentando nell’ultimo periodo. Da
quando suo padre era morto tutto il suo tempo si era concentrato su
poche cose essenziali: tentare di scovare informazioni sul caso di suo
padre, perfezionare il suo libro sul calcolo infinitesimale che si
accingeva a pubblicare (e che le avrebbe fruttato fior fior di
quattrini), e la boxe. Abitava ancora nella casa di famiglia, un
appartamento abbastanza grande per viverci comodamente in due, che era
improvvisamente diventato enorme per una persona sola. Suo padre le
aveva lasciato i risparmi di una vita, che le sarebbero potuti bastare
per cinque o sei anni, senza lavorare e continuando
l’università, ma aveva preferito perfezionare i
punti deboli del suo libro e inviarli ad una redazione. La risposta era
prontamente arrivata due settimane più tardi: erano
entusiasti, ma volevano che approfondisse alcune parti. Avrebbero
pubblicato entro breve per un pubblico selezionato di professori e
scienziati. Puntavano più che altro sull’audacia
di certe affermazioni, e sul fatto che lei non avesse superato
l’età adolescenziale per vendere il libro come il primo scritto di un genio
diciannovenne.
Erano le sette e
faceva già buio quando Annika, la sera del 23 di Dicembre,
scese in strada e andò nel negozio all’angolo
aperto 24 h su 24 gestito da Juan, un messicano dai folti baffi, per
comprare i rifornimenti di Natale. Comprò pane, latte, tre
confezioni di pizza surgelata, arance, fagiolini, formaggio fresco, un
etto di speck, uova, una confezione di lattine di birra da sei, una
pacchetto di Pall Mall blu, una nuova matita per gli occhi, due
pacchetti di dentifricio, uno di bagnoschiuma e, concedendosi un lusso
per le feste, una bottiglia di spumante. Augurò un Buon
Natale a Juan e si avviò verso casa.
Quando
rientrò, dopo aver messo a posto la spesa, entrò
nello studio dove lei e suo padre tenevano il computer e centinaia di
libri, si sedette alla scrivania accompagnata da una birra fresca e un
piatto di pasta al ragù. Aprì il portatile e la
prima cosa che vide fu un quaderno nero con una scritta bianca,
incastrato fra lo schermo e la tastiera. Death Note. A chiunque
appartenesse aveva una pessima calligrafia, fu il primo pensiero che
ebbe Annika. Poi si bloccò: qualcuno era entrato in casa
sua. Era improbabile che quel qualcuno fosse ancora lì, se
si era preso la briga di sistemare un quaderno proprio dove sapeva che
lei l’avrebbe trovato. Oltretutto, doveva essere qualcuno che
la conosceva, altrimenti come avrebbe fatto a sapere che lei utilizzava
spesso il computer? Peggio ancora poteva essere qualcuno che la spiava,
uno stalker con manie di perversione.
Aprì il
quaderno e sulla prima pagina lesse delle assurde regole secondo le
quali un nome scritto in quelle pagine avrebbe fatto morire il povero
malcapitato che lo portava nel modico tempo di 40 secondi. Si poteva
persino decidere che fine avrebbe fatto il poveretto! Quando Annika
aprì la prima pagina trovò una scritta, con
quella calligrafia orribile ma leggibile: non gridare.
Annika, a quelle
parole, raggelò. Voleva dire che lo sconosciuto era ancora
in casa, e le intimava anche di non urlare quando l’avrebbe
visto. Già che c’era poteva anche chiederle se per
cortesia non lo avrebbe denunciato, e se poteva passargli la collezione
di swarosky di sua madre. Un rumore fece voltare Annika di scatto. Quel
che vide non la fece urlare solo perché tutto il suo corpo,
comprese le corde vocali, si era paralizzato. Un mostro alto almeno due
metri, con il corpo curvo e una struttura ossea del tutto in vista, e
così palesemente sbagliata,
stava di fronte a lei. La sua bocca pareva sorridente, di un sorriso
malato e pazzo, gli occhi erano grandi come i pugni di un uomo adulto,
gialli e sporgenti.
“Annika
Tempor. Mi chiamo Ryuk, sono uno Shinigami.”
Nonostante il mostro
mantenesse un aria calma e pacifica, e molto probabilmente avesse detto
quelle cose solo per tranquillizzarla, il fatto che uno Shinigmi
sapesse il suo nome rendeva la ragazza solo più nervosa.
“Conosco tuo
padre”, continuò Ryuk.
A quelle parole,
Annika fu certa che il mondo celasse davvero tante sorprese. Tuttavia
siccome si parlava di Stephen non poté fare a meno di
chiedere, seppur con voce spezzata: “Come lo conosci? E come
sai il mio nome?”
“Anche lui
sta diventando uno Shinigami, ma non ricorda già
più nulla della sua vita sulla terra. Mi ha mandato qui
qualche giorno fa per vedere cosa facevi: voleva sapere per quale
motivo ficchi il naso nel suo lavoro. Quando sono tornato stava
già dimenticando tutto, e non ha capito una parola di quel
che gli ho detto.”
“Perché
sei qui?”
“Perché
voglio darti una mano. Voglio aiutarti a trovare chi ha ucciso
Stephen.”
Annika teneva le
sopracciglia corrugate e si muoveva in continuazione, come se non
potesse farne a meno. “E come farai?”,
sputò lì osservando le mani del mostro.
“Non
è che per caso avresti una mela?” Ryuk non ne
mangiava da settimane, forse quella ragazza avrebbe potuto dargliene
almeno una: stava andare in astinenza.
Annika
strabuzzò gli occhi. “Una mela?”
“Io adoro le
mele”, disse Ryuk con occhi scintillanti.
“Hm…
dovrei averne ancora un paio”, disse Annika pensosa. Voleva
accontentare il mostro di nome Ryuk, ma si pentì quando
dovette compire il tragitto studio-cucina con le sue zanne lunghe
trenta centimetri alle spalle. Trovò le ultime tre mele in
fondo alla vaschetta della frutta, le lavò e le mise in un
piattino sul tavolo assieme ad un coltello. Si sedette e
osservò Ryuk che le mangiava, senza ausilio del coltello, in
soli due bocconi.
Mentre lo Shinigami
mangiava Annika si prese del tempo per pensare. C’erano dei
lati positivi e dei lati negativi in quella faccenda. Lati postivi: il
mostro non era lì per farle del male, e a giudicare dalla
sua passione per la frutta non l’avrebbe uccisa per
sé o per i suoi cuccioli, per di più aveva appena
detto di essere lì per aiutarla. Lati negativi: vedere un
dio della morte venuto per conto di tuo padre ad aiutarti, dopo aver
passato due mesi a ossessionarti sul quel tuo stesso padre morto, non
era di sicuro un segno di stabilità mentale. Faceva tanto bambina problematica e il suo
amico immaginario, anche se Annika faticava nel vedere
Ryuk come un degno amico virtuale.
La ragazza
incrociò le braccia al petto. Se Ryuk era lì per
darle una mano allora tanto valeva cominciare subito.
“Quindi… cosa dovrei fare secondo te?”
Il mostro
ingollò il secondo torsolo di mela e la osservò.
“Ah… il quaderno che ti ho dato, ora ti
appartiene. Ho visto un essere umano utilizzarlo con molto ingegno per
portare a termine la sua missione. Hai letto le regole? Sono scritte
nella tua lingua.”
La ragazza
chinò la testa sul quaderno, che teneva in mano da quando lo
aveva trovato nello studio. Aprì di nuovo la pagina ed
elencò: “Volto, nome, quaranta secondi, arresto
cardiaco…” A quel punto la ragazza fece due
più due. Le regole corrispondevano. Alzò lo
sguardo su Ryuk e domandò con occhi indagatori e increduli:
“Kira?”
“Esatto.”
“Questo
quaderno è di Kira? Quello che ha usato per compiere tutti
gli omicidi?”, chiese sfogliando le pagine.
“No, quello
è uno dei miei quaderni. E’ nuovo, quasi non ci
sono nomi.”
Annika lo
sfogliò e, assieme ad altri nomi, vi trovò
scritto a grandi lettere incerte: Stephen
Tempor, ferita da arma da fuoco. Gli occhi le si
allargarono per lo stupore, face scattare la testa verso il mostro e
domandò: “Sei stato tu?!”
Ryuk fece segno di
sì con la testa mentre prendeva l’ultima mela dal
piattino. “Non mi accusare tanto in fretta piccola umana.
E’ il compito di noi Shinigami, esistiamo proprio per
questo.”
Annika
boccheggiò. “Ma tu… se
tu…”.
Ryuk non le per
permise di terminare la frase: “Il mondo non è
stato fatto con i ‘se’. Non ho colpa di quello che
è il mio compito.”
La ragazza
abbassò lo sguardo e ricacciò indietro a forza
delle lacrime insidiose che aveva minacciato di uscire. Fece un
profondo sospiro, ma non disse nulla. Rilesse velocemente le regole del
Death Note tanto per dare tempo al groppo che aveva alla gola di
sparire, poi domandò: “Quindi… vuoi
dire che per trovare le informazioni che voglio devo uccidere delle
persone? E’ questo il piano per caso?”
“E’
un inizio.”
“Io non sono
un’assassina, non voglio uccidere nessuno”, disse
duramente Annika scuotendo la testa.
“Non volevi
vendicare tuo padre? Ti basterebbe sapere volto e nome di quella
persona per poter finalmente riabilitare la sua memoria.”
Annika strinse le
labbra. Ryuk sapeva dove stava la piaga, e non esitava a rigirarci il
dito per il proprio divertimento. Annika non era mai stata una persona
troppo sentimentale. Quando era morto suo padre certo era stata molto
triste, e lì lì per cadere in depressione, ma
nemmeno quattro giorni dopo sapeva benissimo cosa doveva fare. A cosa
serviva starsene con le mani in mano? Così aveva tentato di
scoprire a cosa lavorava suo padre e aveva scovato un po’ di
materiale, ma non bastava. Aveva tentato, senza troppe speranze, di
aggrapparsi al buon animo dei colleghi che avrebbero potuto fornirle
informazioni, ma quello era un lavoro top secret, e l’unica
cosa che ottenne furono diverse chiamate alla sicurezza per farla
uscire dall’edificio. Aveva persino provato ad introdursi,
tramite il portatile di suo padre, alla rete informatica della CIA, ma
lei non era un esperta di computer, se la cavava e basta giusto per
semplici lavori, e quando aveva capito che poteva lasciare tracce del
suo passaggio aveva lasciato perdere. Adesso aveva una nuova
possibilità, che appariva tanto potente quanto distruttiva,
ma anche lì non sapeva da dove cominciare. Decise che
avrebbe dovuto sapere di più su quel fantomatico Death Note.
“Dimmi,
qual è la fregatura? Cosa succede se faccio fuori
una persona con questo?”, e sventolò il sottile
quaderno sotto le zanne di Ryuk.
“B’è…
prima di tutto, devi stare molto attenta”,
cominciò Ryuk prendendo un’altra mela,
“perché chiunque tocchi il Death Note
potrà vedermi e sentirmi. Se lo usi, alla tua morte non
accederai né al Paradiso né
all’Inferno. Andrai nel Mu.”
“Che
cos’è il Mu?”, domandò
Annika, già orripilata solo all’idea.
“Nulla.
E’ una specie di limbo.”
“E poi?
C’è altro?”
“Mh…
per il modico prezzo di metà della tua vita potrai avere gli
occhi di uno Shinigami, e conoscere il nome di una persona non appena
la vedrai in faccia.”
Annika
sbuffò. “Non sono così disperata. E di
sicuro non mi servono per ora.” La ragazza lanciò
il quaderno sul tavolo e si mise le mani nei capelli. Non poteva essere
accaduto sul serio: doveva saperlo fin dal principio che non era sano
stare troppo davanti al pc, così come lo erano tutte le
pizze che aveva mangiato: alla fine era diventata pazza. “Non
mi va di andare nel Mu”, disse, traendo le sue conclusioni.
Sospirò e guardò Ryuk. “Mi piacerebbe
solo poter sapere a cosa lavorava mio padre, poi potrei decidere se ne
vale veramente la pena.”
“Ti
servirebbe conoscere qualcuno che può avere queste
informazioni.”
“Quello
della CIA era papà, non io. Nessuno mi dirà
nulla, nemmeno il suo migliore amico.”
“Ah, ma io
credo di avere un modo: devi solo trovare la persona adatta.”
Annika alzò
lo sguardo, certa che ci fossero altre complicazioni.
“Davvero?”, domandò scettica,
“Cioè?”
“Perché
non vai a cercare L?”
Annika
sbuffò. “Che ne sai tu di L? Magari potessi
trovarlo così facilmente.”
“Ho avuto
l’occasione di incontrarlo, una volta, e anche lui dovrebbe
ricordarsi di me. Ne conserva la memoria.”
“E chi mai
potrebbe scordarsi di te?”, domandò Annika con una
smorfia.
Ryuk
ridacchiò. “Se tu decidi di rinunciare al Death
Note e non usarlo mai più perderai tutti i ricordi su di
esso.”
“Quindi...
vuoi dire che L quando ha smascherato Kira è venuto a sapere
tutto sul Death Note?” Annika riordinò le idee.
Da quasi un anno di
Kira non si sapeva più nulla, il mondo stava lentamente
ritornando alla normalità. Alcuni credevano che si fosse
solo preso una pausa, altri che fosse scomparso così
misteriosamente com’era venuto. Ma la polizia non aveva detto
nulla riguardo alla sua morte o alla sua cattura, così il
mondo proseguiva in congetture azzardate.
“L ha
smascherato Kira quindi. Sa tutto del Death Note e si ricorda di te. E
Kira?”
“Morto.”
“Menomale.”
“Quindi? Hai
deciso cosa vuoi fare?”
“Puoi
portarmi da L?”
“Posso dirti
dov’è adesso, ma non ti dirò chi
è né qual è il suo nome.”
“Perché
no?”
“Potresti
minacciarlo di ucciderlo con il Death Note, in quel caso è
compito tuo scoprire il suo nome. E ti dirò: non
è un compito facile.”
Annika ci
rimuginò su. In fondo, che cosa aveva da perdere? Se non lo
avesse trovato almeno poteva dire di averci provato, e se lo avesse
trovato avrebbe fatto un grande passo avanti.
“All’utilizzo di questo tuo quaderno ci
penserò dopo, per ora dimmi dove si trova L.”
“Whammy’s
House. Londra.”
La vigilia di Natale
fu un giorno impegnativo per Annika Tempor. Andò in banca a
ritirare dei soldi, prenotò via internet un posto su di un
aereo di linea che partiva dall’aeroporto internazionale
Boston Logan e atterrava a Londra, Heathrow. Poi fece le valigie,
riempiendo un grosso borsone del peso di 13 kg e 8 che avrebbe fatto
imbarcare, e un bagaglio a mano che conteneva il portatile del padre,
soldi, documenti, un cambio d’abiti, un libro, il manoscritto
che stava revisionando a mano, il pacchetto di Pall Mall, un paio di
mele e un pacchetto di grissini.
Dopo aver scoperto che
il mostro
doveva restare appiccicato a lei almeno finché non
rinunciava al Death Note o fino alla sua morte, aveva chiesto a Ryuk se
avrebbe viaggiato nell’aereo o l’avrebbe
terrorizzata facendosi vedere ogni tanto svolazzare fuori dagli
oblò, al che lui aveva risposto: “Non ho mai
viaggiato in aereo.” Il che non rispondeva assolutamente alla
domanda di Annika, ma preferì non continuare il colloquio.
Era già abbastanza irritata con Ryuk a causa della giornata
infernale che le aveva fatto passare: in giro per tutta la
città facendo finta di non vedere né sentire quel
mostro chiacchierone che la distraeva di continuo. Era sicura di aver
fatto almeno un paio di figuracce per starlo a sentire.
Annika Tempor
uscì di casa con largo anticipo il 25 di Dicembre, diretta
all’aeroporto. Arrivò tre ore prima della partenza
del suo volo e rimase ad attendere per un ora e mezza, con qualche
pausa ogni tanto per fumare una sigaretta, andare in bagno, o
nascondersi in un angolo per far mangiare Ryuk. Poi imbarcò
la valigia, fece il check in e rimase in attesa, rileggendo
attentamente il suo manoscritto. Quando il volo partì non
era per nulla nervosa, aveva viaggiato altre volte e l’unica
cosa che davvero la preoccupava era che Ryuk combinasse qualche guaio.
Quando erano ormai a duemila metri d’altezza, guardando Ryuk
con al coda dell’occhio che ficcava la testa fuori
dall’aereo si diede della stupida: lei non era certo
responsabile per un dio della morte, che di sicuro doveva essere molto
più vecchio e responsabile di lei.
Atterrò
all’aeroporto di Heathrow alle sei e ventidue del pomeriggio
del giorno di Natale, chiamò un taxi e si fece portare nel
pieno centro città, in Osborne Street numero 17. La
Whammy’s House. Il taxi l’abbandonò nel
freddo del tardo pomeriggio londinese, davanti al cancello in ferro
battuto.
L’edificio a
parere di Annika era cupo e solitario, a vederlo chiunque avrebbe detto
che si trattava di un luogo inospitale e triste. Decise che non voleva
entrare subito, si rifugiò nell’unico
caffè che trovò aperto a Natale, gestito da un
vecchio dall’aria burbera, e accese il pc. Dopo una breve
ricerca su internet apprese che la Whammy’s House era un
orfanotrofio, fondato dall’inventore -recentemente deceduto-
Quillish Whammy nei primi anni sessanta. L’edificio ospitava
245 stanze per bambini e ragazzi, singole o doppie ognuna completa di
servizi, più di 15 alloggi per il personale che desiderava
alloggiare sul posto di lavoro, ed inoltre era fornito di una vasta
biblioteca, 20 aule, compresa quella ospitante i computer, una mensa,
le cucine, degli spazi riservati alle attività ricreative e
anche una piccola cappella. Annika apprese che ai bambini veniva data
un’istruzione molto buona, ma non riuscì a trovare
nient’altro che riguardasse l’orfanotrofio a parte
alcune leggende metropolitane: a quanto pareva potevano accedervi
ragazzi e bambini con un quoziente intellettivo pari a quello di
Einstein, ma non si sapeva nulla di concreto riguardo a queste
peculiarità dell’orfanotrofio. Il tutto risultava
molto contraddittorio. Perché aprire un orfanotrofio per
bimbi intellettualmente dotati e non farlo conoscere al mondo intero?
Quanti orfani superdotati dovevano esserci in giro per il mondo? Di
sicuro abbastanza perché la Whammy’s House
ricevesse ingenti sussidi da parte del governo. Ai governi piace avere
dei geni sul loro territorio, ancora di più se sono geni
controllabili come dei bambini. Annika arrivò alla
conclusione che la Whammy’s House doveva aver ospitato L da
bambino, e che per qualche motivo ci era tornato. Si alzò
dal tavolo, pagò il suo caffè macchiato e
uscì, con Ryuk che la seguiva da vicino.
Camminando verso
l’orfanotrofio si rivolse allo Shinigami: “Ryuk,
anche se vuoi mantenere un profilo basso in questa storia, non
è che potresti dirmi qualcosa in più su questa
Whammy’s House?” Le sembrava di dover entrare in un
covo di persone pericolose, quelle storie dal taglio misterioso
l’avevano suggestionata.
“Ti
dirò una cosa fondamentale, che non sa
nessun’altro. Sai perché la Whammy’s
House ospita bambini con intelligenza superiore al normale, e
perché è così riservata?”
“Perché?”
“Perché
ci è stato L. E adesso negli orfani ospiti di quel posto
cerca un erede. Per questo tutti là dentro usano degli
pseudonimi.”
“Pseudonimi.”
“Si. I loro
nomi non sono registrati da nessuna parte. Metti caso ad esempio che un
bambino venga abbandonato dalla famiglia, e arrivi ad un orfanotrofio
con il nome di… Timothy Ulrich.”
“Si”,
disse Annika concentrata.
“Se per caso
venisse trasferito alla Whammy’s House non verrebbe
registrato, tutto qui. Timothy Ulrich esisterebbe ancora sì,
ma per gli anni trascorsi alla Whammy’s House, se facessimo
su di lui un’attenta ricerca, non troveremmo niente, ci
sarebbe un buco nella sua vita. Tutti i bambini che sono lì
dentro… è come se non ci fossero, in
realtà. Non esiste alcun tipo di documentazione su di
loro.”
“Cioè…
la Whammy’s House educa bambini intellettualmente
dotati senza che nessuno ne sappia nulla?”
“Esattamente.”
“E hanno un
soprannome.”
“Per non far
sapere a nessuno la loro identità.”
“Nel caso
diventassero eredi di L.”
Annika era arrivata di
nuovo di fronte all’edificio, che adesso aveva acquistato un
nuovo, inquietante significato. Una orfanotrofio fantasma, che di fatto
non esisteva. O meglio, non esistevano i suoi inquilini. Un
orfanotrofio infestato dai fantasmi.
Non importava, Annika
era lì per ben altro motivo. Doveva trovare L e convincerlo
a dargli una mano. Forse con l’aiuto e i suggerimenti di Ryuk
avrebbe anche potuto avere qualche vantaggio in più. Il
fatto che fosse coinvolto lo Shinigami doveva far pensare al detective
che ci fosse anche un Death Note, e se in giro ce n’era uno L
non poteva restare impassibile. Forse avrebbe avuto paura di lei. In
effetti non era sua intenzione spaventare il più grande
detective del mondo, al contrario doveva essere gentile.
“Ryuk, ti
spiacerebbe non farti vedere da L per il momento?”
“Devo starti
vicino.”
“Non ti dico
di andartene dall’altra parte del mondo. Solo, lontano da
L.”
“D’accordo.”
“Grazie.”
Annika guardò un secondo
l’edificio, poi suonò il campanello.
Ed ecco qui per voi, miei piccoli Shinigami, il primo primissimo
capitolo della storia!
Spero vi sia piaciuto questo cambiamento improvviso e radicale di
scena. Mi serviva per andare ad introdurre il nuovo personaggio. Ho
pensato che una ragazza, in questo mare di feromoni maschili, ci stesse
bene, giusto per dare un tocco di femminilità (anche se
Annika è tutto fuorché
femminile, verrà descritta nel prossimo capitolo).
Riguardo a questo personaggio vi chiedo un favore enorme: dovete
assolutamente dirmi se è ben costruito. Insomma, ho paura
che possa essere una Mary Sue coi fiocchi, anche perchè ha
già due caratteritiche tipiche della Mary Sue DOC:
è ricca, è intelligente. L'unico modo in cui
giustifico queste peculiarità della mia creatura
è:
-primo; è ricca perchè suo padre è
della CIA. Mi pare che li debbano pagare bene quelli, altrimenti chi
glielo fa fare di rischiare la vita ogni due per tre?
-secondo; volevo che fosse al livello intellettuale degli altri
protagonisti, altrimenti ce li vedo benissimo i quattro geni
dell'orfanotrofio a declassarla come mente inferiore. Che cattivoni! u_u
Spero che quando il personaggio verrà descritto meglio
potrete capire se è fatto bene si o no ^^
La scena fra Annika e Ryuk è stata abbastanza complicata da
scrivere, perchè proprio non riuscivo ad immaginare come si
può reagire in una situazione del genere (sapete
com'è, mai avuto uno Shinigami in casa XD). Insomma, alla
fine ho fatto civilmente parlare i due senza troppi sconvolgimenti
emotivi del tipo "Oddio, c'è un mostro nel mio salotto, non
è possibile", e ho preferito concentrarmi sulla faccenda del
padre di Annika.
A parte questo vorrei precisare che questo primo capitolo si svolge a
Natale, mentre il Prologo era ambientato in primavera. E' molto
importante il tempo trascorso, ma si capirà più
avanti il perchè.
Riguardo alla notizia sugli uomini che diventano Shinigami, devo
ammettere di non essermelo inventata del tutto. A questo punto della
lettura c'è un'avvertenza:
spoiler sullo
speciale da due ore di Death Note. Nella puntata
aggiuntiva uno Shinigami mai visto prima d'ora parla con Ryuk. Alcuni
hanno ipotizzato che si tratti di Light. Allora ho pensato: nel caso
Light fosse diventato Shinigami, perchè non fare che gli
Shinigami sono uomini ormai morti scelti a caso per diventare
dèi della morte? E così è nata l'idea
di Stephen Tempor.
Un punto saliente: la Whammy's House non si trova a Londra,
bensì a Winchester. E' vero, è imperdonabile. Non
so come giustificarmi per questo, non c'è una vera
giustificazione, ho dato per scontato che fosse lì... non so
bene per quel motivo. Comunque la collocazione dell'edificio
è ben poca cosa nella storia. Le notizie riguardo alla
costruzione sono inventate, ovviamente, siccome non ci è
dato sapere nulla di particolare sull'orfanotrofio.
Vorrei fare una piccola precisazione: Light è morto.
Me l'hanno chiesto e, nel caso qualcun'altro volesse avere la certezza,
lo dico qua così lo leggete tutti.
Vi lascio lo spoiler al capitolo due: se siete curiosi
cliccate qui.
Bene, ringrazio moltissimo le due persone che hanno commentato il
Prologo, e spero che qualcuno si aggiunga nello scrivere anche solo un
piccolo parere ^^ Tutto è bene accetto e
risponderò sicuramente!
A Lunedì prossimo miei piccoli Shinigami! Mi raccomando, tante mele altrimenti
poi andate in astinenza! XD Ciao ciao!
Patrizia
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Capitolo 3 *** A detective job ***
Capitolo
due
A detective job
Matt
preferiva di gran lunga il suo computer a quelli
dell’orfanotrofio: erano dei vecchi modelli, molto lenti e
per di più non forniti di programmi adeguati. Su richiesta
di Roger, però, era lui ad occuparsi del loro mantenimento,
piuttosto che pagare un tecnico per farli aggiustare.
Erano passati pochi giorni da Natale, quando era arrivata una strana
ragazza dall’aria trascurata. Era rimasta a lungo
nell’ufficio di Roger, e quando era uscita tutti erano
rimasti stupiti del fatto lui le avesse dato uno degli alloggi del
personale. Qualcuno aveva chiesto se per caso fosse una nuova
insegnante ma Roger aveva risposto di no, dicendo a tutti che era una
vecchia conoscenza che desiderava ospitare per un po’.
Tuttavia a Matt, Near, Mello ed L non era sfuggito che l’uomo
fosse scosso, ed erano andati a chiedergli spiegazioni. Tutto quel che
avevano ottenuto erano state delle banali rassicurazioni e un vago Buon Natale.
Matt non aveva più visto la ragazza se non seduta fra i
divanetti sparsi lungo l’edificio, a leggere plichi di
documenti o al computer. Era una ragazza piuttosto strana, a vederla.
Era bassa e mingherlina, portava i capelli biondi corti e disordinati,
era pallida e aveva diversi piercing alle orecchie. Gli occhi erano
grigi, le labbra sottili, le mani affusolate. Eppure tutta questa
delicatezza non convinceva affatto Matt, che aveva anche avuto
l’occasione di scorgere delle braccia ben allenate. Infine,
un fattore da non prendere sottogamba, era il vestiario della ragazza:
nero ed essenziale. Come quello di un ladro. Portava spesso pantaloni
dall’aria comoda, felpe e maglioni dello stesso colore non
troppo appariscente e sotto, l’unica volta che Matt aveva
potuto vederla, indossava magliette a tinta unita con frasi ad effetto
come: I killed Barbie,
she was a bitch.
Matt stava soccorrendo un pc estremamente vecchio quando la vide
entrare nell’aula computer. La guardò con la coda
dell’occhio e registrò il fatto, tuttavia non vi
fece caso e continuò il suo lavoro. Nella sala
c’erano solamente loro due e un ragazzino silenzioso che si
faceva chiamare Burnt. Per altri dieci minuti continuò a
cancellare i file danneggiati del computer, poi si rese conto che
doveva accendere quello centrale per risolvere il problema. Lo fece, e
dopo nemmeno cinque minuti si rese conto che ci si era infilato
qualcuno. Era qualcuno sufficientemente in gamba, perché non
aveva prove di quando fosse stato lì, se ci fosse ancora, e
cosa avesse fatto. Passò allo scanner tutti i file, e
constatò che il pc era sano. Quindi non era qualcuno che ci
aveva messo un virus. Fece finta di niente e quando sia la ragazza che
Burnt se ne furono andati cercò cosa ci fosse che non
andava. Ecco: qualcuno aveva copiato l’hard disk del pc
centrale. Quei computer erano utilizzati solo dagli alunni, ma da
ognuno di quelli si poteva accedere a quello centrale che era stato
violato, dal quale, a sua volta, si poteva accedere a tutti gli altri
computer della rete. Non al suo, perché il suo era protetto,
ma a quello dell’orfanotrofio che si trovava
nell’ufficio di Roger. Questo valeva a dire documenti,
attestati, informazioni, in poche parole… prove del fatto
che la Wammy’s House non era un orfanotrofio come gli altri.
Non c’era motivo perché Burnt o altri ragazzi
dell’istituto facessero una cosa del genere, quindi non
poteva che essere stata lei.
Matt imprecò, uscì dall’aula e si
precipitò al suo powerbook.
L usava ormai sedersi quasi tutti i pomeriggi a fissare il vuoto e
creare con la mente il suo libro. Un giallo. Non lo stava ancora
scrivendo, lo stava solo elaborando, ma questa era di sicuro la cosa
più importante, pensava lui. Ogni tanto passava del tempo
con Mello, Near o Matt, che erano felici che lui fosse lì,
anche se ovviamente non glielo dicevano mai; piuttosto lo dimostravano
con metodi decisamente poco ortodossi e molto personali. Anche L era
segretamente soddisfatto della sua decisione di rimanere alla
Wammy’s House, e pensava che forse fare il detective non era
poi la cosa più importante che dovesse esserci nella sua
vita.
A volte gli mancava. Risolvere enigmi, ragionare, trovare i
più piccoli dettagli che avrebbero potuto rivelare ogni cosa
era stato da sempre il suo lavoro, la cosa che sapeva fare meglio.
Però poi, quando sedeva sulla sua panchina o sulla poltrona
da lui prontamente prenotata a discapito di altri ragazzini, e
s’immergeva nel suo mondo di calcoli matematici, di
personaggi fuorvianti e di intuizioni geniali, sentiva di aver trovato
qualche altra cosa che gli piaceva fare. Non aveva mai sentito dire che
le passioni di una persona dovevano essere singole. E non aveva mai
nemmeno preso il suo lavoro da detective come una passione. Forse era
incominciata così, ma quando i casi da due erano diventanti
venti e aveva avuto la prova fin troppo tangibile di come fosse crudele
il mondo, la sua passione si era trasformata in un obbiettivo:
distruggere la criminalità. Questo, L lo sapeva bene,
sarebbe stato impossibile. Il caso Kira glielo aveva dimostrato
ampiamente: nemmeno con uno strumento come il Death Note Kira era
riuscito ad eliminare tutti i malviventi. Ma gli piaceva pensare di
poter essere una persona in più che collaborava per quello
scopo assieme a molti altri. Poco a poco anche il suo obbiettivo si era
trasformato in qualcosa di trascurabile: svolgere le indagini non era
più così emozionante come lo era
all’inizio e il detective si diceva sempre più
spesso che il suo fine era qualcosa di irraggiungibile.
Un giorno, mentre mangiava fragole e fissava il vuoto seduto su una
poltrona nel salottino di ricreazione, si accorse ad un tratto che
qualcuno gli stava parlando. Non aveva fatto caso alla vicinanza di una
persona, perché era qualcosa che non lo interessava,
così aveva relegato il fatto in un angolo trascurato della
sua mente e aveva tirato avanti con i suoi ragionamenti. Ma, chiunque
fosse, ora gli stava dicendo qualcosa. Si voltò, gli occhi
spalancati come suo solito, e vide la ragazza bionda che tanto aveva
turbato Roger. Sembrava fresca di doccia e quel giorno indossava una
maglietta con scritto "I’m
with genius”, e una freccetta che indicava il
suo viso.
“Come?”, domandò L.
“Il poliziotto è una spia”, disse lei
con voce ovvia.
Il ragazzo la guardò senza capire.
“Ah scusa, è che parlavi ad alta voce.
Sussurravi…”
“Davvero?”, chiese L stupito allargando gli occhi
ancora di più. Si domandò quante altre volte lo
aveva fatto, e si ripromise di non farlo mai più. Era troppo
pericoloso.
La ragazza annuì. “Volevi sapere come mai le
informazioni sono passate… magari il poliziotto è
una spia.”
“E’ possibile.”
“Di cosa parlavi?”
“Un libro. Giallo. Traffico di armi.”
“Omicidi?”
“Molti.”
“Un traditore?”
“Forse.”
“Vincono i buoni?”
“Ovvio.”
La ragazza fece un sorriso storto e tese una mano. “Piacere,
mi chiamo Noodle.”
L le strinse la mano, per niente impressionato dal fatto che la nuova
arrivata avesse già uno pseudonimo. Si presentò
dicendo: “Ryuzaki”. Gli piaceva il suono di quel
nome, ma si disse che forse doveva smettere di usarlo, per ragioni di
pura sicurezza.
“Non sei un po’ grande per stare ancora qui? Quanti
anni hai?”
“Venticinque. E tu?”
“Diciannove.”
“E’ un luogo adatto per pensare, per questo sono
qui. E tu cosa fai?”
Gli occhi di Noodle si affilarono. “Cerco una
persona.”
“Chi?”
“Non posso dirlo, a meno che quella persona non sia
tu.”
L rimase stupito ma non lo diede a vedere. Non gli sembrava strano che
qualcuno lo cercasse in segreto, gli era successo milioni di volte. Non
pensava però che qualcuno lo avrebbe mai davvero trovato,
soprattutto alla Wammy’s House. In realtà Annika
aveva giocato sporco. Prima era entrata nel database del computer
dell’orfanotrofio per vedere se riusciva a ricavarne qualche
informazione. Ryuk aveva ragione, non c’erano da nessuna
parte fascicoli che trattassero i dati sensibili degli orfani della
Wammy’s House, né dei suoi dipendenti.
Però ora sapeva a quale livello
d’intelligenza fossero quei ragazzi. Forse non sarebbero
stati i primi della classe, ma avrebbero tranquillamente potuto
frequentare il suo stesso corso di laurea, l’unica anomalia
era che si trattava di ragazzini per la maggior parte dai sette ai
dodici anni. D’altronde erano ancora piccoli, ma
chissà cosa sarebbero potuti diventare una volta cresciuti.
Aveva scoperto una specie di classifica, una lista di tutti i bambini,
e poté comprovare che aveva un ordine ben preciso:
intelligenza, logica, cultura. Il primo era un certo Near, poi Mello,
al terzo posto Matt. Ma ancora non era riuscito a capire chi fosse L,
né aveva trovato il suo nome sulla lista. Era lì,
Ryuk glielo assicurava con un ghigno sempre più largo ogni
volta che lei perdeva le staffe, ma Annika non vedeva come potesse
capire quale, di tutti quei bambini o ragazzi, fosse lui. Aveva tutti
gli pseudonimi utilizzati nella Wammy’s House, ma il vero
problema stava nel collegarli a dei volti. Dopo una settimana di
ricerca aveva convinto Ryuk, con un vero fare da sofista, a dirgli chi
fosse L. Ryuk aveva ceduto: si annoiava troppo, e attendere che Annika
capisse chi fosse il vero L fra tutti gli abitanti
dell’orfanotrofio equivaleva ad un lungo periodo senza
divertimento alcuno.
“Ti assicuro che so mantenere un segreto”, disse L.
Poi prese la ciotola che aveva affianco e la porse a Noodle come in
segno di amicizia. “Fragola?”
“Grazie”, disse la ragazza prendendo un frutto. Lo
mangiò in silenzio e con calma. “Sto cercando te.
So chi sei”, disse poi.
“Chi sono?”, domandò Ryuzaki con sguardo
intenso, quasi non lo sapesse nemmeno lui.
“L.”
“Hai ragione.” Perché negarlo? Ormai
sapeva, ed era sicuro che nessuna negazione l’avrebbe mai
fatta vacillare. “Perché mi cerchi?”
“Voglio che tu mi dia una mano a risolvere un caso.”
“Sei un detective?”, domandò L.
“No.”
“Polizia?”
“No, non sono nessuno. E’ per questo che mi serve
il tuo aiuto. Non posso accedere alle informazioni da sola. Se solo
volessi accettare il caso allora saprei almeno di cosa si
tratta.”
“Perché?”
“Tu sei un detective, è il tuo lavoro”,
disse Noodle come se fosse ovvio.
“Intendo dire: perché vuoi risolvere il caso? Se
non sei nessuno…”
“Mio padre lavorava al caso. Faceva parte della CIA e
l’hanno ucciso. So solo che si trattava di un duplice
omicidio che, inizialmente, era stato affidato alla polizia ma
continuavano a spuntare fuori storie sempre più strane,
così passò dalla omicidi alla CIA. Mio padre
sapeva qualcosa, ci stava arrivando. E l’hanno
ucciso.”
“La vendetta è un piatto che va servito
freddo.”
“Sono passati già dei mesi…”,
affermò Noodle spazientita e rigida.
L rimase un secondo pensieroso, poi si alzò e se
andò dicendo: “Sono in pausa”.
Mello indossò i pantaloncini, la maglietta senza maniche e
le scarpe da ginnastica, poi si avviò verso la palestra.
Fino a poche settimane prima era scettico riguardo alla palestra ma, da
quando aveva scoperto di fare fatica a sollevare una cassa che Roger
gli aveva chiesto di portare al secondo piano, si era domandato se non
fosse il caso di potenziare i suoi muscoli. Quel giorno era tornato in
camera e dopo aver constatato che Matt non c’era si era messo
in mutande davanti allo specchio. Era magro. Molto magro. Non aveva un
muscolo. All’improvviso quella mancanza di massa muscolare lo
aveva fatto preoccupare. Il giorno dopo si era messo in tuta ed era
andato in palestra. Aveva scoperto che c’erano diversi
attrezzi che non lo attraevano per niente, sembravano grosse macchine
per body builder. Alla fine, quando stava quasi per perdere le speranze
e pensava che, dopotutto, non c'era nulla di male nel suo fisico, aveva
individuato qualcosa che forse poteva fare al caso suo. Appeso alla
bacheca c’era un avviso: un corso di boxe della durata di sei
mesi, che si sarebbe tenuto ogni martedì e
giovedì dalle cinque alle sette. Chiunque lo desiderasse
poteva iscriversi e Mello vide che c’era già una
lista abbastanza nutrita di una dozzina di persone. Era troppo pigro
per andare a fare palestra di sua spontanea volontà, un
corso almeno lo avrebbe obbligato. La boxe non lo aveva mai
particolarmente interessato a dire il vero, ma da bambino spesso si era
dedicato al sistematico pestaggio di qualche sfortunato che lo faceva
particolarmente arrabbiare. Mello sapeva di essere un attaccabrighe, ed
era anche conscio del fatto che non fosse proprio un pregio. Forse
imparare un po’ di metodo gli avrebbe insegnato
qualcos’altro, oltre che a menar le mani. In fondo era uno
sport riconosciuto a livello mondiale, e forse sarebbe servito al
duplice scopo di tenerlo allenato e fargli scaricare la tensione. Non
trovava strano che la Wammy’s House organizzasse un corso
tenuto da un esterno, lo facevano spesso e non era mai successo niente.
Scrisse Mello
in fondo alla lista e se ne andò.
Il primo Martedì alle cinque lui era in palestra, con i
pantaloncini, la maglietta senza maniche e le scarpe da ginnastica.
Scoprì assieme a lui dei ragazzi e anche un paio
di ragazze che conosceva, alcuni dei quali sembravano piuttosto
intimoriti del fatto che ci fosse anche Mello. Era stato montato un
piccolo ring in un’ala della palestra e tutti bighellonavano
lì attorno aspettandosi di veder arrivare un sosia di Mike
Tyson con un orecchio in mano tenuto come un trofeo. Quando il maestro
arrivò si zittirono e lo studiarono: era un uomo sulla
trentina, con corti capelli spartani e una muscolatura evidente, non
era eccessivamente alto ma parecchio robusto. Mello notò che
aveva il naso leggermente storto, probabilmente era un ex boxeur e quel
naso era il risultato di una serie di pugni ben assestati.
“Bene ragazzi”, esordì battendo le mani
e dando un’occhiata a tutti loro, “mi chiamo James
Devon Furthith, ma voi chiamatemi pure, soltanto James. Allora, quel
che voglio che capiate, perché è la cosa
più importante, è che la boxe è uno
sport serio.
Insomma, non pensate di venire qui solo perché potrete
picchiare la gente. Al contrario! La boxe insegna, prima di tutto, la
difesa.” Fece una pausa, il suo sguardo vagò su
tutti i suoi nuovi alunni, poi riprese. “Ogni boxeur deve
seguire quattro regole fondamentali: muoversi”, e
alzò il pollice, “continuamente, non smettere mai,
il movimento di gambe e braccia è molto importante. La
velocità: è fondamentale in un
incontro”, e alzò il dito indice.
“Parare prima di colpire”, medio, “e
infine, riconoscere quando è l’ora di
finirla”, e tirò su l’anulare. Mello
poté individuare la striscia bianca sul dito dove poco prima
doveva esserci una fedina matrimoniale. “E’
importante riconoscere la propria sconfitta, può essere
molto pericoloso ostinarsi a combattere. Ognuno di noi internamente sa
quando non ce la può fare, allora si va al
tappeto… e ci si resta.” James contò i
ragazzi, in tutto erano sedici, un numero pari per fortuna.
“Cominciamo con un po’ di riscaldamento. Andate a
prendere le corde per saltare, e salterete finché non ve lo
dirò io!”
Ci fu un fuggi fuggi verso le corde e quando tutti furono sistemati
sparsi nella palestra, assieme alle loro corde, saltarono quasi
ininterrottamente per cinque minuti. Non era molto in realtà
per una persona allenata, ma Mello sentiva di essere già
esausto dopo quello che doveva essere il cinquantesimo salto. Il suo
però era uno di quei caratteri particolarmente agguerriti -o
cocciuti, che dir si voglia-: non era stufo, al contrario era
arrabbiato con sé stesso per avere così poca
resistenza. E continuò a saltare, cosciente del fatto che il
giorno dopo i suoi polpacci lo avrebbero punito.
“Bene, basta così!”, gridò
James. Ci fu un generale sospiro di sollievo, almeno finché
non disse: “Via le corde, a terra. Voglio stretching e poi
flessioni!”. James sapeva che quel che stava facendo poteva
essere anche considerata tortura, ma gli allenamenti di un boxeur non
sono mica una passeggiata!, così decise che per temprarli li
avrebbe fatti sudare finché non fossero stati pronti.
I ragazzi continuarono per un'ora di riscaldamento, durante la quale
fecero tre serie di flessioni (prima con tutte e due le braccia, poi
solo col sinistro e viceversa con il destro), sei serie da dieci di
addominali e poi esercizi per le gambe. Alla fine i ragazzi erano
sfiniti e James diede loro una pausa, tirando fuori un sacco di
plastica e dicendogli di scegliere i guantoni. “Teneteveli
stretti, vi terrete quelli che vi toccheranno fino alla fine del corso.
Se li perdete, li ricomprerete! Se li rompete, li ricomprerete! Se vi
ci siete affezionati… me ne comprerete un paio
nuovi.” Qualche sorriso si sparse per la sala. James Devon
era un uomo rude ma simpatico.
Solo una persona se ne stava in disparte quando James la raggiunse con
il sacco. Mello si rese conto che era quella nuova ragazza arrivata a
Natale. “Non prendi i guantoni?”, le
domandò James.
“No grazie, ho già i miei.” E
così dicendo tirò fuori da un borsone dei
guantoni marrone chiaro, evidentemente molto utilizzati in passato.
James Devon incrociò le braccia al petto e sorrise.
“Tiri di boxe?”
“Da quando avevo quattordici anni.”
“Quindi quanti anni?”
“Cinque.”
James si guardò attorno. C’erano a disposizione in
tutto cinque sacchi. “Suppongo che una lezione base su come
parare, attaccare e sul gioco di piedi non ti sia utile.”
“Non credo.”
“Facciamo così. Tu vai al sacco mentre io spiego a
loro, ma dai un’occhiata a quel faccio, così gli
ultimi dieci minuti posso dare una dimostrazione pratica.”
Noodle annuì, mise i guantoni e corse verso il sacco
più vicino. Mello la seguiva con lo sguardo.
Per i restanti tre quarti d’ora i ragazzi impararono le mosse
base per l’attacco, ma soprattutto per la difesa. Fecero
esercizi per abituarsi a tenere alta la guardia, la posizione del corpo
corretta e come si dovevano muovere i piedi. Alla fine della lezione
James Devon aveva già intuito quali erano i migliori del
corso, quelli che capivano in fretta e che erano particolarmente
portati per la disciplina della boxe. Non erano molti in effetti, solo
tre. Uno era un ragazzo alto e dinoccolato di nome Piper
(preferì non indagare il perché di quegli strani
nomi, così come gli era stato chiesto), aveva una buona
difesa e muscoli scattanti. L’altro era un mingherlino di
nome Mello, che James era sicuro con un po’ di allenamento si
sarebbe rivelato forte abbastanza da poter sostenere un vero round. Il
suo punto forte era la velocità. Si muoveva con la stessa
eleganza e velocità di una gazzella, un momento era
lì, l’attimo dopo si era già spostato.
L’ultima perla era una ragazza, Noodle, a quanto pareva una
boxeur già allenata.
“Bene ragazzi per oggi è tutto! Ben fatto,
davvero! Ci vediamo giovedì alle cinque. Adesso andate a
cambiarvi e poi tornate qui, voglio farvi vedere una cosa.”
Tutti uscirono dalla palestra, stanchi ma curiosamente soddisfatti.
James Devon si avviò verso Noodle, che per un’ora
si era ininterrottamente allenata al sacco, con una determinazione
simile a quella che lui avrebbe usato se avesse avuto davanti un
avversario cocciuto che non voleva andare K.O.
“Noodle?”, chiamò incerto, leggermente a
disagio nel dover usare dei soprannomi.
“Si?”, domandò la ragazza fermandosi. Le
mancava un po’ il fiato e le guance erano rosse e calde.
“Facciamo questa dimostrazione allora?”
“D’accordo.”
“Hai visto le mosse che ho fatto oggi? Sono abbastanza
semplici.” Noodle annuì, poi fece per togliere i
guantoni. “Ti aiuto”, disse James tenendo fermo il
guantone che lei cercava di sfilare.
Noodle bevve un po’ d’acqua, si asciugò
il sudore sulla fronte e sulla schiena e si rimise i guantoni.
Salì sul ring e rimase appoggiata alle corde. James Devon
era abbastanza curioso di sapere come quella ragazza alta appena un
soldo di cacio, che probabilmente poteva sollevare con il minimo
sforzo, poteva anche solo pensare
a tirare di boxe. Così tolse la maglietta e rimase in
pantaloncini e canottiera larga, mise i guantoni e propose, sorridendo:
“Ti va di farmi fare un po’ di riscaldamento
prima?”.
Noodle annuì e fece un debole sorriso, si alzò
dalle corde e si mise su un lato del ring. “Ci
sono.”
In quel momento Mello uscì dallo spogliatoio. Fu il primo, e
quel che vide segnò una decisione ferma. Dopo aver visto
Noodle, così innocua e all’apparenza persino
indifesa, volare alla velocità di un falco sul ring,
schivare con maestria i colpi, avanzare assieme a tutto il corpo con
passi decisi e pugni secchi e mirati, si rese conto che, se una ragazza
poteva avere la passione per la boxe, allora anche lui poteva avere una
passione per sé stesso. Una passione tutta sua, qualcosa che
lo distinguesse dagli altri, che lo rendesse più…
Mello. Non voleva essere l’erede di qualcuno, voleva solo
essere Mello.
Near stava fissando il suo armadio ma in realtà vedeva
tutt’altro. Vedeva una serie infinita di date, luoghi, fatti,
persone. Azioni. Conseguenze. Così funzionava la storia.
Qualcuno decide di fare una mossa e cambia il destino di milioni di
persone. Altri invece, deboli e poco intelligenti, si muovevano di
conseguenza, di conseguenza a coloro che avevano abbastanza fegato per
cambiare il mondo.
A Near piaceva scervellarsi su queste cose, gli dava come il senso di
essere una persona matura, quando invece era ben conscio del fatto di
non essere maturo neanche un po’. Non perché
giocasse con i robot o perché gli piaceva guardare i cartoni
animati, quello lo rendeva soltanto un po’ strano.
Più che altro era a causa della sua poca conoscenza del
mondo e la sua avversione per esso. Molta della sua
immaturità dipendeva anche dall’epica battaglia
contro Mello. Gli piaceva essere il migliore, ma non lo avrebbe mai
ammesso. Gli piaceva provocare Mello e vederlo infuriarsi come un cane
rabbioso mentre lui manteneva la calma. A volte si diceva
però che Mello era migliore di lui, in fondo: almeno faceva
vedere le sue emozioni, anche se spesso non era necessario
né utile. Invece lui, Near, era finto.
Qualcuno bussò alla porta e lo distolse dalle sue
farneticazioni filosofiche. Near si alzò e andò
ad aprire. “Matt.” Lo fece entrare, si sedette sul
letto e domandò: “Cosa
c’è?”.
“Ho bisogno di aiuto. Ti devo parlare di quella ragazza.
Quella che è arrivata a Natale.”
“Noodle.”
“Lei. Credo che si stia immischiando negli affari della
Wammy’s House, ma non riesco a capirne il motivo.
L’altro giorno so per certo che è entrata nel
database centrale dell’orfanotrofio; ma ho controllato, non
ci sono virus, non manca niente. A quanto pare ha dato solo
un’occhiata.”
Near ci pensò su un po’.
“Perché vieni a dirlo a me?”
Matt scrollò le spalle. “Non lo so… Non
capisco perché Roger non la mandi via, era terrorizzato
quando è arrivata. Credi che abbia a che fare con la
Wammy’s House? E se volessero farla chiudere?”
“Non lo so. Forse dovremmo fare qualche ricerca su di lei.
Chiama Mello, ci può aiutare.”
“L?”
“Non credo che sarà interessato. Forse
è meglio non coinvolgerlo in questa faccenda, ha
già i fatti suoi a cui pensare. E poi voleva prendersi una
pausa, no?”
“Sì, forse hai ragione”, disse Matt
facendo una smorfia. Si alzò dal letto e disse:
“Vado a chiamare Mello”.
Per la prima volta Mello e Matt si ritrovarono nei panni di Near ed L
durante l’indagine al caso Kira. Dovevano scoprire tutto su
di una persona a partire da zero. Non conoscevano nemmeno il vero nome
di Noodle, così cominciarono la ricerca dalle basi.
C’erano dei ruoli ben definiti all’interno del
gruppo di ricerche: Near snocciolava un’ipotesi dopo
l’altra, giocava con i suoi robot e proponeva che cosa fare,
e qui entravano in scena gli altri due, Mello seguiva Noodle ovunque
lei andasse e il 90% delle volte riusciva anche a non farsi notare,
invece Matt faceva ricerche su tutto ciò che passava per la
testa ai tre.
Il loro primo incarico fu di una certa portata.
Near si dondolava lentamente su una poltrona, era l’una e
venti di notte e tutti e tre avevano sparato ipotesi a raffica su
chi fosse realmente Noodle e sul perché fosse lì.
Alla fine il più giovane si era stufato. “Spero
che vi rendiate conto che non possiamo andare avanti così.
Sono passate quasi due settimane.”
Mello sbuffò e mise le mani dietro la testa. “E
che cosa dovremmo fare scusa? Non abbiamo nemmeno una cazzo di base da
cui partire.”
“Forse Roger la conosce. Perché non chiediamo a
lui? Insistiamo”, propose Matt.
Mello assunse un'aria furba. “Forse nell’ufficio di
Roger c’è qualcosa di interessante.”
“Vorresti frugare nell’ufficio di
Roger?”, domandò Matt incredulo e indignato al
tempo stesso.
Mello alzò le spalle. “Che
c’è di male? Se lui non ce lo vuole
dire…”
“Se possiamo permetterci di guardare nell’ufficio
di Roger, perché non guardare direttamente nella stanza di
Noodle?”, domandò innocentemente Near.
Matt e Mello si guardarono, poi il rosso indicò il compagno:
“Ci vai tu.”
“Perché io?”
“Perché sì.”
“No aspetta, perché invece non facciamo
così: io la distraggo, in fondo facciamo boxe assieme da
quasi tre settimane, potrò avere il diritto di parlarle
senza che s'insospettisca, no? Nel frattempo tu entri nella sua stanza
e cerchi quel che devi cercare.”
Matt soppesò l’idea, poi si alzò e si
mise a cercare nei cassetti della scrivania, cercando un cd. Quando lo
trovò, un cd verde con sopra scritto a pennarello Crow, lo
mostrò agli altri due e disse: “Con questo copio
l’hard disk del suo pc e riesco ad averci accesso illimitato
a tempo indeterminato”.
“Cosa vuol dire indeterminato?”, domandò
Mello.
“A meno che non mi scopra e mi cacci fuori a calci -cosa
impossibile ve lo assicuro- o che non cambi computer.”
Near allungò il collo, incuriosito. “Che cosa fa
esattamente?”
“Se lancio questo programma copio l’hard disk e
immetto una serie di file che mi permetteranno, quando
trasferirò tutti i dati sul mio pc, di entrare nel suo
computer dal mio powerbook. Potrei guardare in tempo reale a cosa
lavora e lei non se ne renderebbe assolutamente conto.”
“C’è la seppur minima
possibilità che lei ti scopra?”
Matt si strinse nelle spalle e fece una smorfia, alla fine disse:
“Il programma rende il pc più lento di qualche
millesimo di secondo quando sono nel suo hard disk, quindi in teoria
quando lei ha il pc acceso potrebbe rendersene conto. Ma non credo che
ci sia pericolo, non sembra un genio. L’ho scoperta in meno
di cinque minuti”.
I tre rimasero in silenzio, a pensare. Infine fu Near a prendere la
parola: “Mello allenati bene per il prossimo
giovedì.”
Near aveva organizzato tutto fin nei minimi dettagli. Si era procurato
una piantina dell’edificio completa di condotti di aereazione
e tubature. Aveva studiato il percorso che avrebbe dovuto fare nel
condotto dell’aria per arrivare alla stanza di Noodle.
Purtroppo il tragitto era troppo lungo da ognuna delle loro stanze,
così avevano deciso che sarebbero partiti da un bagno che
stava da quelle parti. Fece una fotocopia della piantina a Matt e gli
chiese di controllare non solo il computer ma tutti i documenti che
c’erano nella stanza e fargli delle foto, se per caso
risultavano interessanti. Così, giovedì alle
cinque, dopo una conferma telefonica di Mello che Noodle fosse in
palestra, Matt partì dal bagno per i ragazzi al secondo
piano, con un marsupio contenente il cd di crow, una copia
della piantina del sistema di aereazione, una macchina fotografica
digitale, un cacciavite e il cellulare, in caso di emergenza. Non
voleva pensare a cosa sarebbe successo se quella ragazza lo avesse
beccato in camera sua a fare foto ai suoi effetti personali e a copiare
l’hard disk del suo computer. Mello gli aveva detto che era
estremamente portata per la boxe.
C’era stato un profondo dibattito nella coscienza di Matt per
quanto riguardava quei condotti di areazione. Sapeva benissimo di
essere probabilmente la persona più indicata per quanto
riguardava il computer di Noodle, ma sapeva anche bene che le forme
longilinee di Mello non reggevano il confronto con le sue nello
strisciare nei condotti per l’aria. Non c’era
paragone. Ci mise venti minuti buoni, strisciando e sbuffando,
avanzando centimetro per centimetro in quel condotto quadrato che non
gli permetteva di piegare le gambe abbastanza per avanzare
decentemente. Si sentiva quasi come un soldato, che doveva superare una
corsa ad ostacoli, il movimento che doveva fare era più o
meno quello, quando i soldati passavano a tutta fretta sotto una rete,
mimando un’avanzata strisciata a terra per non venire colpiti
dai proiettili nemici. Gomito sinistro e ginocchio destro avanti,
gomito destro e ginocchio sinistro a seguito. Testa bassa, sempre,
altrimenti i proiettili nemici gli avrebbero fatto un buco nel
cervello, che era come dire che avrebbe picchiato la testa infinite
volte, e avrebbe fatto un rumore del diavolo.
Doveva passare attraverso altre due camere per arrivare a quella di
Noodle. Fra l’altro, Matt se lo ricordava bene, quelle che
doveva attraversare erano le stanze di due ragazze. Quando
arrivò alla prima si fermò davanti alla grata a
dare un’occhiata. Vuota. Alzò mentalmente le
spalle e continuò la sua traversata. Quando
arrivò alla seconda stanza sbirciò per pochi
secondi alla grata e quel che vide lo lasciò estremamente
deluso: Cinzia, una ragazzina di circa quattordici anni, stava
semplicemente leggendo un libro stesa a letto. Matt stava per andarsene
il più silenziosamente possibile, era stupito che nessuno
ancora lo avesse sentito, ma si fermò, quando qualcuno
aprì la porta del bagno. Una ragazza che Matt ricordava
chiamarsi Freak, dai capelli neri, lunghi e dritti come fuso,
uscì direttamente dalla doccia con i capelli ancora umidi,
che stava asciugando vigorosamente a mano. Ma la cosa che Matt
notò era che portava solo slip e reggiseno. Si chiese se
fosse il caso di scattarle una foto, ma poi si disse che probabilmente
era meglio di no, forse lo avrebbero scoperto. Così si
limitò ad osservarla beato, mentre lei sceglieva i vestiti.
Mise gli occhialini da sub colorati gialli, che a suo parere davano al
mondo un aspetto più interessante. Quando finì
sospirò, guardò davanti a sé lungo il
tubo per controllare ancora quanta strada ci fosse da percorrere e
ricominciò a strisciare.
Quando arrivò alla stanza di Noodle si fece scivolare in
mano il marsupio, che fino a quel momento era stato sulla schiena
allacciato di traverso su una spalla, e tirò fuori il
cacciavite. Avevano controllato come aprire i condotti in camera di
Near, così si erano armati di cacciavite a stella e pinze,
nel caso il lavoro si facesse più complicato del previsto.
Quando Matt riuscì ad aprire la grata quella
penzolò in giù, e lui cominciò a
calarsi a terra. Per fortuna si trovava quasi sopra il letto, e non gli
fu difficile saltarci sopra. Matt si guardò attorno,
individuò il computer sulla scrivania e lo accese. Mentre
quello si avviava cominciò a rovistare con metodo nei
cassetti. Vi trovò un manoscritto, diversi libri di testo
che potevano essere utilizzati all’università,
molto probabilmente in una facoltà scientifica, di autori
che Matt aveva sentito citare raramente. Fra i documenti
cercò disperatamente una carta
d’identità, un passaporto o la patente, ma poi si
disse che molto probabilmente Noodle non poteva essere così
stupida da lasciare in camera dei documenti che attestassero la sua
identità in un luogo dove tutti la tenevano segreta.
Trovò delle carte riguardo la morte di un certo Stephen
Tempor. Matt fece delle foto ai documenti, lanciò crow e
copiò in quindici minuti tutto l’hard disk del
computer di Noodle in modo da potervi avere libero accesso. Mise via il
cd, poi si guardò attorno. Forse non c’era
nient’altro che valesse la pena di controllare, in fondo
nella stanza c’erano soltanto una scrivania, un letto, un
comodino, un armadio e il bagno. Dove altro potevano esserci delle cose
di rilevante valore? Ogni stanza era dotata di una piccola cassaforte,
ma Matt dubitò di riuscire a trovare il codice per aprirla.
Poteva essere qualcosa di estremamente personale e lui non era mica uno
scassinatore. Di solito lui e Mello usavano la cassaforte per mettervi
dentro tutte le loro cose compromettenti: alcool, sigarette,
preservativi, giornaletti pornografici. Oppure cose che avevano un
significato affettivo particolare, come ad esempio fotografie, e
più raramente lettere.
Matt guardò l’ora: aveva ancora tempo. Sapeva che
il corso di boxe sarebbe finto di lì a dieci minuti circa,
Mello gli aveva detto che Noodle di solito ce ne metteva altri venti
per fare la doccia, cambiarsi e uscire. Contando poi sul fatto che
Mello l’avrebbe trattenuta per un’altra
mezz’ora aveva circa un’oretta a disposizione prima
di dover pensare a risalire per il condotto dell’aria.
Matt aprì l’armadio, ma vi trovò solo
pochi vestiti, quasi tutti esclusivamente neri, fra i quali
individuò una maglietta con la scritta: Grazie per il drink.
Nel primo cassetto del comodino c’erano libri e cd, nel
secondo biancheria intima. In bagno non c’era nulla di
strano, così Matt si chiese se non fosse meglio andare.
Cercò con lo sguardo la cassetta di sicurezza e vide che era
incastrata fra l’armadio e la scrivania. La freccia della
serratura era puntata sul sette. Matt non voleva passare guai, ma non
sapeva nemmeno perché lo stava facendo: poggiò
l’orecchio sul metallo freddo della cassaforte e
ascoltò attentamente. Non sapeva che cosa stava aspettando,
forse un click delicato della serratura, ma ad un tratto un suono lo
fece sobbalzare. Non una serratura che dettava la riuscita della sua
impresa, ma un cellulare. Un messaggio da parte di Mello: sta tornando in camera.
Dopo un pugno micidiale Mello si rialzò, stordito. Davanti a
lui stava Noodle, che saltellava tenendo alta la guardia. Il ragazzo
mise una mano davanti a sé e disse senza fiato:
“Pausa, eh?”.
“Come preferisci”, ghignò Noodle.
Purtroppo per lui quello era l’unico modo che Mello aveva
trovato per trattenerla, e se continuava così non
l’avrebbe fermata che per altri cinque minuti. Era
già la seconda volta, in pochissimo tempo, che finiva per
terra. All’inizio non gli pareva di andare così
male, ma poi un destro ben assestato da parte di Noodle lo aveva
completamente scombussolato. Da quel momento in poi,
l’incontro era andato a rotoli.
Quando l’ora e mezza di boxe era finita, mentre tutti si
avviavano negli spogliatoi, Mello aveva raggiunto Noodle in fretta.
“Noodle aspetta!”
La ragazza si era voltata e, inaspettatamente, quando se l'era
ritrovato davanti aveva sorriso. “Mello.”
Il biondo era stupito del fatto che conoscesse il suo nome
perché Noodle non dava l’impressione di
interessarsi ad altro che al suo personalissimo mondo, che escludeva
qualsiasi cosa o persona che non le interessasse. Così Mello
aveva ricambiato il sorriso, e detto: “Volevo chiederti se ti
va di fare un giro magari.”
“Adesso?”, aveva chiesto Noodle alzando le
sopracciglia. “E dove?”
“Non lo so.”
“Ma voi potete uscire da qui?”
“Dipende. Io ad esempio sì, quando voglio.
Perché ho diciassette anni. I più piccoli hanno
bisogno del permesso.”
Noodle si era appoggiata con il gomito ad una cyclette, aveva ghignato
e aveva chiesto: “E dove vorresti andare?”
“Non lo so, a fare un giro.” Noodle aveva fatto
un’espressione curiosa, che Mello non riusciva ad
interpretare, così si affrettò ad aggiungere:
“Ma possiamo anche rimanere qui per oggi, e mi spieghi
perché siamo alti uguali, forti uguali, e nonostante tutto
io faccio più fatica di te a mandare al tappeto quel cretino
di Stan.”
A quel punto Noodle parve più interessata. “Sta
tutto nella difesa. Tu sei veloce, ma ti dimentichi di tenere alta la
difesa, così incassi un sacco di pugni che potresti
benissimo evitare, che ti indeboliscono. Vieni, ti faccio
vedere”, aveva detto avviandosi sul ring e rimettendo i
guantoni.
…e così Mello si trovava, per la seconda volta, a
vedere il mondo capovolto, mentre volava all’indietro e non
capiva bene che cosa fosse accaduto. Solo dopo, a terra, poteva sentire
un sordo pulsare allo zigomo. In altre circostanze si sarebbe
arrabbiato moltissimo ad essere stato mandato al tappeto da una
ragazza, ma quella volta considerava che Noodle faceva boxe da anni,
che era più in forma di lui, che era più grande
di lui, e che avrebbe staccato la testa a Matt se lo avesse trovato
nella sua stanza a frugare fra le sue cose.
Una volta in piedi Mello riprese fiato, quando nel suo campo visivo
apparve una bottiglietta d’acqua naturale. Alzò lo
sguardo e vide Noodle, che sorrise dicendo: “Tieni, la
prossima volta se vuoi riproviamo.”
Mello prese l’acqua e ne bevve a grandi sorsate,
finché non ebbe placato la sete, ma poi si rese conto che
Noodle stava andando via. Imprecò mentalmente e la
seguì. “Te ne vai?”
“Per oggi mi sa che basta così, o no? Non dovresti
esagerare, e non diventare fanatico.” Detto questo la ragazza
si rinchiuse negli spogliatoi femminili e Mello rimase fuori. Decise se
aspettarla e convincerla in qualche modo a restare, o magari avvisare
Matt. La verità però era che non poteva
più bloccarla senza che lei non sospettasse nulla,
così prese il cellulare e scrisse un messaggio.
Matt salì sul letto, sperando di non lasciare tracce di
sporco con le scarpe, poi saltò, tentando di arrampicarsi
sul condotto dell’aria. Ci arrivò per un pelo,
dopo tre salti sul materasso, e vi si aggrappò con tutte le
sue forze. Si fece dondolare un po’, rinsaldò la
presa, si issò e sgusciò dentro il condotto. Per
la fretta e la paura si dimenticò di girarsi verso il lato
opposto dal quale era venuto, ma non ci pensò,
così dopo aver risistemato la grata si ritrovò
girato dalla parte sbagliata. Non poteva voltarsi, e non poteva evitare
di fare molto rumore se procedeva al contrario, così decise
di andare avanti. Prima o poi, si disse, avrebbe trovato la camera di
qualcuno che conosceva. Passò alla stanza successiva, dove
non c’era nessuno, andò ancora avanti, ma
c’erano delle bambine che aveva visto solo di rado: se fosse
piombato nella loro stanza lo avrebbero subito detto a Roger.
Passò in tutto cinque stanze, e stava quasi per perdere la
pazienza e rinunciare, uscendo nella prima che gli fosse sembrata
propizia, anche a costo di farsi scoprire da Roger.
All’improvviso però vide dall’alto una
stanza che riconosceva. L.
Non c’era nessuno nella camera, ma L avrebbe di sicuro
capito, non si sarebbe arrabbiato. Cominciò a lavorare di
cacciavite, a quel punto era disperato e desideroso di uscire. Gli
stava quasi prendendo un attacco di claustrofobia, e dire che lui non
ne aveva mai sofferto. Staccò la prima vite, che cadde con
un rumore metallico, staccò anche la seconda e la grata si
aprì. Matt, letteralmente, si gettò
nell’apertura e in quello stesso istante dal bagno
uscì L, fresco di doccia e con addosso i soliti jeans lisi.
Quel che vide fu una figura cadere dal suo soffitto con un rantolo
terrificante. La vide rotolare sul pavimento dopo una caduta ad angelo
dall’altezza di circa tre metri, emettere un grido, e tenersi
il braccio. Solo in quell’istante riconobbe Matt. Il ragazzo
era pallido come un lenzuolo, leggermente tremante, il viso contratto
in una smorfia di dolore. Aveva tutti i vestiti impolverati e portava
un marsupio di traverso sulla schiena. Quando il ragazzo
aprì gli occhi L vide che stava quasi per piangere. Erano
tutti lucidi e contratti dal dolore.
“L! Scusa, scusa! Non volevo disturbarti!”
“Ciao”, rispose L prendendo una maglietta bianca a
maniche lunghe da un cassetto e indossandola. “Ah,
è vero!”, disse poi illuminandosi, “Oggi
è il tuo compleanno. Auguri.”
Salve
bella gente! :D
Allora, per prima cosa vorrei ringrazie tantissimo le persone che hanno
recensito, grazie per aver dato la vostra opinione perchè
è davvero molto bello sapere che qualcuno s'interessa tanto
alla storia da lasciare scritta un'opinione :)
Passo ad alcune precisazioni sul capitolo.
Il soprannome "Noodle"
non me lo sono inventato. Noodle è il nome di certi
spaghetti cinesi, ma in particolare quando l'ho deciso mi riferivo alla
chitarrista della cartoon band Gorillaz, perchè lei
è un personaggio davvero divertente e mi piaceva come
psudonimo.
Le magliette di Annika; anche quelle sono inserite solo
perchè mi fanno ridere. Le prime due me le sono inventate,
l'ultima, "Grazie per il
drink", l'ho ripresa dall'anime di GTO (non so bene dove
fosse scritto, ma c'era).
Per il programma di Crow mi sono liberamente ispirata alla descrizione
del programma che viene utilizzato in "La ragazza che giocava con il
fuoco", di Stieg
Larsson, perchè io sono una cippa con i
computer, quindi tutte le mie informazioni riguardo ad hacker e simili
o sono riprese da qualche lettura o sono inventate sperando di non fare
un grosso buco nell'acqua e dire cose che non stanno né in
cielo né in terra.
Passo a qualcosa di più importante, che ho molto a cuore:
vorrei sfatare il mito dell'L detective. Non so esattamente
perché, ora non uccidetemi. Ho voluto che ognuno dei
personaggi compisse un percorso, e quello di L è lontano dal
suo lavoro di detective; gli permette di scoprire una parte di lui
diversa da quella che conosceva tanto bene. Già nel prologo
venivano mostrati i suoi dubbi riguardo alla sua carriera, e adesso
viene presentata un'alternativa a quella, qualcosa che potrebbe
diventare una vocazione per lui. Siccome stiamo parlando di L,
comunque, è ovvio che non può fare le cose come i
comuni mortali, e prima di mettersi a scrivere penserà a
tutta la trama del suo libro senza toccare una biro xD
E infine arriva Mello. xD Anche per lui ho pensato a qualcosa di
particolare, e siccome mi è sempre dispiaciuto un po' del
fatto che tentasse di diventare erede di L e non ci riuscisse mai
(anzi, finisce proprio male, poveraccio!) allora ho pensato di
procurargli quache altro interesse. Fra l'altro, è stato
divertentissimo parlare di Mello che non ha fisico! xD L'immagine di
lui che sale le scale spompato mi fa troppo ridere!
A proposito di boxe: James Devon all'inizio doveva avere un ruolo
più ampio anche nei prossimi capitoli, ma alla fine ho
lasciato perdere... forse perchè non mi stava troppo
simpatico. Inoltre, non ho mai partecipato ad una lezione di boxe in
vita mia, ma spero di non aver fatto gaffe (più avanti ci
saranno anche delle scene di lotta, non avete idea di quanti
video su you tube abbia guardato per capire come si muovo i boxeur xD).
Avviso importante per il
futuro: i nomi di tutti gli orfani della Wammy's House
saranno svelati in giro per la storia. Vi avviso nel caso ancora non li
sappiate e non vogliate rovinarvi la sorpresa!
Per parlare di cose più divertenti, se vi va di vedere
qualche disegno idiota su questa fanficiton andate su questa
pagina. Se invece volete leggere un piccolo spoiler andate qui.
A questo punto credo di aver detto abbastanza :)
A Lunedì prossimo Shinigami, abbiate pietà delle
anime altrui!
Patrizia
|
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Capitolo 4 *** Noodle is not just pasta ***
Capitolo tre
Noodle
is not just pasta
Il braccio di Matt si era rotto in due
punti diversi del radio: all’altezza del gomito e poco
più sotto. Ci erano volute tre ore per ingessarlo e Matt era
talmente agitato che prima avevano dovuto riempirlo di antidolorifici,
poi era quasi svenuto. Cadendo, il ragazzo aveva messo le mani di
fronte a sé d’istinto, ma non aveva fatto i conti
con il pavimento fatto di piastrelle. A causa della posizione del
braccio e dell’urto molto forte che aveva avuto,
l’osso si era mosso contro il legamento del gomito,
incrinandosi, e poi più sotto si era spezzato di netto. Se
Mello ripensava all’amico mentre i dottori gli si
affaccendavano attorno gli venivano le lacrime agli occhi dalle risate.
Solo Near, Mello, L e ovviamente Matt sapevano come si era rotto il
braccio, ma la versione ufficiale che diedero a Roger era che Matt
fosse andato a trovare L per chiedergli un favore e, a causa della sua
naturale sbadataggine, era scivolato. Matt non possedeva una
particolare sbadataggine ma i ragazzi contavano sul fatto che Roger non
lo sapesse. L aveva acconsentito a non dire nulla su cosa fosse
successo in realtà e doveva ammettere con sé
stesso che questa storia gli piaceva parecchio: nascondere qualcosa a
Roger lo faceva tornare un ragazzino come gli altri lì alla
Wammy’s House. “Mi spiegherete poi”,
aveva accennato, ben sapendo che i ragazzi nutrivano per lui un certo
rispetto e che quindi gli avrebbero detto la verità senza
troppi ripensamenti.
Dopo due giorni e una notte Matt fu dimesso dall’ospedale e
poté tornare alla Wammy’s House, sotto lo sguardo
attento delle infermiere, con un gesso che doveva tenere per un mese e
mezzo. Il gesso partiva da sopra il gomito, piegava in corrispondenza
di esso e proseguiva fino a lasciar libero il polso, che era rimasto
indenne. Di questo Matt si rallegrava, perché almeno poteva
stare al pc piuttosto liberamente senza dover faticare anche per
muovere le dita. Ma il primo giorno dal suo ritorno
all’orfanotrofio ebbe altro da fare.
Stavano tutti in camera di Near a controllare la documentazione che
avevano sottratto a Noodle. Fecero delle ricerche su Stephen Tempor, ma
non trovarono poi molto a parte notizie generiche come il fatto che
fosse nato cinquantadue anni fa in Oklahoma e morto nel Settembre
dell’anno appena passato. Non c’erano dati che
rimandavano ad un lavoro, una famiglia, un’abitazione, nulla.
Nemmeno entrando negli archivi degli uffici appositi riuscirono a
scovare niente su quell’uomo. Poteva essere chiunque per quel
che ne sapevano: un barbone o un principe. Era una persona che era
esistita, tutto qui, ma a quanto pare non aveva lasciato tracce del suo
passaggio.
“Ma questo è impossibile”,
attaccò Matt scoraggiato, per la trentesima volta, a
mezzanotte e quarantatré minuti. “Tutti lasciano
tracce! Cos’ha fatto quest’uomo per tutta la sua
vita? Niente? E anche se fosse dovrebbe esserci qualcosa lo stesso.
Dovrebbe esserci scritto, da qualche parte, che era un coglione che
amava perder tempo!” Matt riprese a sbuffare, contrariato.
Mello rilesse per la centesima volta l’attestato di morte di
Stephen Tempor. “Morte causata in seguito a ferita da arma da
fuoco. Questo già ci dà un indizio: poteva essere
un poliziotto, o un criminale.”
“Può anche essersi trovato nel posto sbagliato al
momento sbagliato”, osservò Matt con aria
svogliata. Near scivolò al suo fianco e si mise il suo
braccio ingessato sulle ginocchia. Matt non ci diede più di
un’occhiata e lo lasciò fare, girandosi a parlare
con Mello. “Facciamo così, vediamo se troviamo
qualcosa sul pc di Noodle, altrimenti non so più cosa fare.
Prendi crow
e avvialo.”
Mello avviò crow
e quello cominciò a trasferire una copia dei file del pc di
Noodle. A circa metà lavoro richiese dei codici,
così Matt disse: “Passa…”
Fece per alzare il braccio ingessato e lanciò
un’occhiata a Near. “Ma che cazzo stai
facendo?!” Near sorrise soddisfatto, alzò il
pennarello dal gesso e ammirò la sua opera. Un robot
disegnato con indelebile rosso scuro campeggiava
sull’avambraccio di Matt, con due antenne, due occhi
luminescenti e un corpo e degli arti quadrati.
“Deficiente”, borbottò Matt. Mello
osservò il disegnino e ridacchiò, passandogli il
portatile.
Matt scrisse dei codici, schiacciò qualche pulsante e il
processo raddoppiò velocità. In cinque minuti
aveva finito. “Allora”, mormorò il
ragazzo, gli occhi fissi e tondi sullo schermo, “vediamo cosa
c’è in quel pc.” Passarono altri cinque
minuti, poi gli altri due videro che Matt aveva corrugato le
sopracciglia.
“Cosa c’è?”,
domandò Mello, che era scattato sull’attenti e si
era messo al fianco dell’amico. Vedeva una schermata che
doveva essere quella del pc di Noodle, sovrastata da diversi codici che
Mello non riusciva a comprendere, su quella Matt si muoveva con il
proprio mouse.
“E se il suo pc fosse acceso in questo momento?”,
domandò Near.
“Non mi può vedere”, disse velocemente
Matt. Il ragazzo fece una pausa e si volse verso gli altri due con le
sopracciglia aggrottate. “Questo computer non è di
Noodle. E’ di Stephen Tempor.”
I ragazzi si guardarono esterrefatti, infine Near parlò:
“Stephen Tempor muore in seguito a colpo di arma da fuoco,
poco dopo una ragazza appare qui con il suo pc. L’ha ucciso
lei?”
Tre giorni dopo i ragazzi avevano dipinto un interessante e quanto mai
ricco quadro a proposito di Noodle. Erano tutti d’accordo, da
alcune osservazioni che Matt aveva fatto nella camera della ragazza e
dai file nel suo computer, che Noodle fosse una sorta di genio, come
loro. Intimamente tutti e tre la ritenevano più genuina.
Forse perché lei non era stata sottoposta a test fin
dall’infanzia per poi finire in un orfanotrofio
perché ‘potenziassero’ le sue
capacità, forse perché immaginavano venisse da
una famiglia come le altre, che i genitori la incoraggiassero a dare
del suo meglio, qualcosa che nessuno di loro aveva mai avuto. Erano
giunti a quella conclusione soprattutto dopo che Matt aveva rovistato
nel suo pc con cura certosina, e aveva trovato un testo inserito dopo
la morte di Stephen Tempor -doveva essere quindi per forza di Noodle-
che riportava un tesi scientifica a quello che era il livello di un
matematico di professione. Near lo lesse con interesse quasi maniacale,
ne stampò una copia e per almeno una settimana se lo
portò dietro assieme ad un piccolo quaderno, nel quale
scriveva esercizi complicati, copiava dimostrazioni, poi cancellava
tutto e ricominciava daccapo.
Matt ricercava con costanza informazioni su Stephen Tempor, sia nel pc
di Noodle che altrove. Aveva scoperto che Tempor doveva essere un uomo
importante, un poliziotto che lavorava ad un caso particolare, oppure
persino un agente dei servizi segreti americani. I ragazzi avevano
sgranato gli occhi quando si resero conto che potevano essere implicati
nomi quali FBI o CIA, e un caso che a quanto pare coinvolgeva droga e
prostituzione. Si chiesero che cosa diavolo potesse c’entrare
tutto questo con la Wammy’s House. Nel computer di Tempor
trovarono, ovviamente, pochissime informazioni, se non quelle basilari
che non dovevano essere secretate e si potevano probabilmente trovare
in un qualsiasi ufficio della polizia, se non addirittura sui giornali.
In compenso avevano qualcosa da dove sarebbero potuti partire per le
ricerche sul caso che seguiva, che forse avrebbe potuto aiutarli a
capire chi fosse il suo assassino, perché lo avesse ucciso,
e chi fosse realmente lo stesso signor Tempor. Oltre che trovare un
legame fra lui e Noodle e fra Noodle e l’orfanotrofio.
Diversi documenti che parlavano di trafficking e di vendita di grosse
quantità di droga facevano spesso allusione a qualche cosa
di più grande, e i ragazzi trovarono spesso citato il nome
di un giudice: Harold Gebert.
Harold Gebert, secondo le ricerche realizzate da Matt, era un uomo di
sessantaquattro anni, un giudice tutelare che abitava a New York.
Sposato da quarantadue anni con un’avvocatessa, che poco dopo
il loro matrimonio aveva smesso di esercitare, aveva due figli ormai
grandi. Era considerato una persona estremamente capace nel suo
mestiere, specializzato in casi che trattavano bambini dalla prima
infanzia ai dieci anni circa. Matt scoprì dove lavorava e
contattò un altro hacker, che sapeva essere statunitense,
per poter accedere ai dati riguardati Harold Gebert e i suoi casi. Una
settimana dopo, previo pagamento di una grossa somma che
poté saldare solo grazie ai lavori di hacking su
commissione, ebbe libero accesso ai pc dell’ufficio tutelare,
compreso quello del giudice Gebert.
Nel frattempo Mello si dedicava ad un altro tipo di ricerca. Ogni
Martedì e Giovedì si trovava a prendere
più botte di quante non ne avesse mai ricevute in vita sua.
Nemmeno quando abitava con suo padre riceveva tanti scapaccioni, ma al
contrario di quelli che avevano costellato la sua infanzia, per i nuovi
era preparato, e la cosa che gli piaceva di più era poter
rispondere per le rime. Dopo la prima seduta lui e Noodle avevano preso
l’abitudine di rimanere sul ring altri quindici o venti
minuti per boxare ancora un po’. Mello era soddisfatto dei
risultati, prima di tutto perché vedeva il suo corpo
longilineo e delicato farsi più muscoloso e resistente, ma
anche perché era in costante miglioramento con le tecniche
sportive.
Un giorno, dopo un’extra seduta di box, Mello sedette sul
ring e appoggiò la schiena alle corde. Tolse i guantoni,
sorridendo soddisfatto, e chiuse gli occhi.
“Mello.”
Il ragazzo aprì gli occhi e Noodle gli lanciò una
bottiglietta d’acqua. “Grazie”, disse
lui, poi bevve avidamente. Quando fu dissetato si bagnò il
viso e la base del collo. “Noodle, ma che fai qui tutto il
giorno?”, domandò per pura curiosità.
La ragazza alzò le spalle e non rispose. “Quello
che fai tu.”
“Quindi un bel niente”, disse Mello ridendo.
“A proposito, la mia proposta è ancora valida,
sappilo.”
“E quindi che vogliamo fare?”
“Non lo so”, Mello si strinse nelle spalle.
“Andiamo a bere qualcosa.”
Noodle esitò, poi sorrise debolmente e disse: “Ti
va di farmi compagnia domani sera? E’ il mio
compleanno”.
“Sul serio?”, domandò Mello stupefatto.
“E quanti ne fai?”
“Venti. Tu quanti ne hai?”
“Diciassette, compiuti da poco. A Dicembre.”
“Allora ti va se domani usciamo?”
“A me va benissimo”, disse Mello alzandosi.
“Domani alle 8.00 davanti all’uscita. Ti porto
fuori a cena per festeggiare.” Il ragazzo abbozzò
un sorriso, non diede neanche il tempo a Noodle di replicare che era
già fuori dalla palestra.
Era il 13 Febbraio. Il giorno del suo compleanno. Noodle si era
svegliata da sola, in un letto che non era il suo, in un luogo che non
conosceva, con accanto uno Shinigami che la guardava ad occhi sgranati
e sorrideva di quel sorriso terribile, spingendo verso di lei una torta.
“Ryuk, dove l’hai presa quella?”,
domandò Noodle strofinandosi gli occhi quando
realizzò che, probabilmente, una torta se n’era
andata in giro svolazzando a mezz’aria agli occhi di tutti.
“L’ho presa dalla cucina. I dolci degli umani sono
molto grassi, preferisco le mele. Però questo ce le ha
dentro.” Lo Shinigami osservò la torta e la spinse
nuovamente verso Noodle. “Tagliala. Ti ho portato anche il
coltello.”
Fu strano mangiare una torta per festeggiare il suo compleanno assieme
ad uno Shinigami, ma Noodle era talmente giù di morale che
considerò addirittura una fortuna che Ryuk fosse
lì. In realtà lei non aveva mai dato grosse feste
per i suoi compleanni, anche perché non avrebbe avuto molta
gente da invitare, però suo padre aveva sempre insistito per
festeggiare e ogni anno la portava a fare qualsiasi cosa lei volesse.
Ricordava le giornate memorabili passate al parco divertimenti da
bambina, o quando era più grande al ristorante giapponese o
messicano e poi in giro per la città a vedere qualche
spettacolo, oppure in macchina fino ad Atlantic City. Il suo ventesimo
compleanno, tuttavia, si dimostrò diverso da come poteva
immaginarlo anche nelle sue fantasie più sfrenate.
Da quando era arrivata Noodle tentava di convincere L a prendere il
caso, ma lui era irremovibile. Diceva che non avrebbe più
lavorato come detective almeno per qualche tempo. Parlava di anni. Lei
aveva cercato di convincerlo con argomentazioni logiche, poi aveva
tentato di smuoverlo con la pietà, infine si era addirittura
detta disposta a qualsiasi cosa lui volesse purché le desse
una mano. Ma cosa poteva volere un ricco detective da lei?
Semplicemente, L non aveva voglia di farlo, e non lo avrebbe fatto solo
perché lei glielo stava chiedendo per favore.
Alla fine Noodle aveva preso in mano il Death Note e si era seriamente
chiesta se non fosse stato il caso di usarlo. Dopotutto aveva
un’arma potentissima di cui poteva disporre come voleva, e
non la utilizzava. Chiunque altro avrebbe ucciso per un potere del
genere. Kira, ad esempio. Fatto sta che non sapeva nemmeno come utilizzarla.
Senza quasi accorgersene Noodle si alzò, andò
all’armadio, aprì un cassetto e sollevò
il doppiofondo che aveva costruito lei stessa. Era quasi impossibile da
individuare, e nascondeva il quaderno in una fessura
dell’armadio. Per nasconderlo bastava infilarcelo dentro,
riprenderlo era un po’ più complicato ma ne valeva
la pena. Si sedette sul letto e lo guardò, stringendolo
forte fra le mani mentre Ryuk la guardava con un misto di
curiosità e speranza. Tutto sarebbe stato estremamente
più interessante se Noodle avesse deciso di utilizzare il
Death Note.
Per un po’ Noodle non si era posta il problema, ma qualche
tempo dopo aveva pensato di dover’ essere impazzita. Vedere
uno Shinigami non era segno di sanità mentale, e il fatto
che lei avesse fatto un viaggio dall’altra parte del mondo su
consiglio di questo essere era anche peggio. Si chiese se per caso non
dovesse temere per la sua salute e quella di chi le stava attorno.
C’era un solo modo di verificare la sua sanità
mentale: utilizzare il Death Note ed essere sicuri che funzionasse.
“Ryuk… come faccio a controllare che questo
funzioni senza utilizzarlo?”
“Fallo usare a qualcun altro.”
“Ma se lo utilizza qualcun altro allora ti
vedrà… e poi non voglio che quando muoia vada nel
Mu, e non voglio nemmeno che muoia un’altra persona. A meno
che non sia un pazzo assassino psicopatico, allora potrei anche
sacrificarlo per questa causa.” Noodle rimase pensosa per un
po’. “Scommetto che anche Kira diceva
così.”
Ryuk si strinse nelle spalle. “Lui era di vedute
particolari.” Ryuk rimase un attimo in silenzio.
“Potresti sempre resuscitare qualcuno e avere la prova che
funziona.”
Noodle alzò la testa di scatto. “Resuscitare? Andrei
lo stesso nel Mu? Come funziona? Come faccio a sapere che le persona
morta è resuscitata?” Si illuminò
improvvisamente. “Posso richiamare papà!”
Ryuk piegò la testa senza distogliere lo sguardo dalla
ragazza, come un grottesco cane con il padrone.
“Ah… vedi, qui ci sono dei piccoli
imprevisti.”
“Ossia?” Noodle si rabbuiò.
“Be’ tuo padre adesso è uno Shinigami,
non può più tornare indietro.” Rimasero
un secondo in silenzio poi Ryuk, intuendo che Noodle aveva avuto, anche
solo per un secondo, la speranza di poter riportare in vita suo padre,
che era stata prontamente da lui distrutta, colto da un attimo di
pietà continuò il discorso distogliendola dai
suoi pensieri. “La persona resuscita nel luogo in cui
è morta.”
“Ed è cosciente di essere resuscitata? E della sua
vita passata, eccetera? E se fosse morta per una ferita?”
“Il corpo è completamente nuovo, la coscienza
è la stessa.”
“E finirei nel Mu?”
“Purtroppo si. Chiunque utilizzi il quaderno
finirà nel Mu, senza eccezioni su come lo
utilizza.”
Noodle rimase pensosa, poi aprì il Death Note.
Trovò subito una pagina che le interessava: Stephen Tempor.
Sfogliando altre pagine e almeno una cinquantina di nomi dalle morti
più fantasiose trovò anche altro: Misa Amane.
Aprì il pc e cominciò a fare una ricerca.
Mezz’ora dopo sapeva che Misa Amane era una modella e attrice
molto famosa e apprezzata nel suo paese. Tokio, Giappone. Aveva
partecipato a diversi film e fatto anche un cd musicale… Era
morta l’anno prima.
“Ryuk perché hai ucciso questa ragazza? Si
può sapere?”
Ryuk sghignazzò. “Era giunta la sua ora. Non ci ho
guadagnato neanche tanto, le rimanevano solo due anni.”
“Ma che vuol dire?”, disse Noodle sbuffando.
“Per quale motivo doveva essere giunta? Aveva un anno in meno
di me, santo cielo! Avrebbe avuto la mia età se fosse viva
adesso!”
Ryuk fece una faccia strana e disse: “Puoi resuscitarla se
vuoi, ecco la gomma.” E le tese una gomma bianca
rettangolare, un po’ smussata agli angoli. Voleva dire che
era stata usata in passato. Per chi?
Noodle la prese in mano, dubbiosa. Non voleva immischiarsi in faccende
più grandi di lei, cose trascendentali, cose spirituali.
Personalmente non ci aveva mai creduto, non aveva mai nemmeno creduto
in Dio, ma l’incontro con lo Shinigami gli aveva donato un
nuovo pensiero riguardo a certi argomenti.
Prese in mano la gomma e la poggiò sul foglio. Ryuk fece uno
strano singulto. La ritrasse.
Non serviva a niente resuscitare una ragazza giapponese tanto famosa,
avrebbe soltanto scatenato il caos. E quella era l’ultima
delle sue ambizioni. Mise via la gomma e nascose nuovamente il Death
Note.
“Ci penserò un’altra volta”,
disse dirigendosi in bagno. “Voglio prepararmi subito per
stasera, altrimenti faccio come al solito le cose all’ultimo
minuto.”
Quel giorno Noodle uscì e pensò se non era il
caso di comprarsi dei vestiti nuovi siccome indossava sempre gli
stessi. In fondo era il suo compleanno, poteva benissimo farsi un
regalo. E poi era un’occasione speciale, no? Non aveva la
minima idea di dove Mello volesse portarla, ma non gli sembrava affatto
un tipo da posti eleganti. Durante la campagna di conquista degli abiti
nella via di Londra più trafficata che avesse mai visto
(nonché una delle poche che conoscesse) si disse che i
negozi erano troppi per lei e le sue scarse doti di shopping-maniaca,
così deviò verso un bar e ordinò
una Guinness. Rimase lì quasi un’ora
senza fare nulla di particolare, prima di alzarsi, pagare, e uscire di
nuovo. Almeno si sarebbe comprata delle scarpe, aveva deciso in
quell’ora. Diede un’occhiata ai negozi senza troppo
entusiasmo e alla fine, quasi per disperazione, comprò un
maglione di due taglie più grande color grigio scuro, delle
collant e una minigonna nera a palloncino. Si fermò a
comprare un trancio di pizza e tornò
all’orfanotrofio per le tre e mezza. Fece la doccia, si
depilò, si truccò, infilò in una borsa
tutto quel che le serviva e infine si guardò allo specchio.
Il primo pensiero che le passò per la testa era di non
essere proprio da buttar via. Il secondo, che era una cretina.
Perché mai sprecare una giornata intera per un appuntamento
con un ragazzino di diciassette anni? Non lo conosceva neanche, non le
interessava conoscerlo, e probabilmente lui l’aveva invitata
ad uscire solo per pietà. E poi, Cristo!, aveva diciassette
anni! Fu tentata di andare a cercare Mello e di disdire tutto quanto,
tornare in camera sua, finire la torta alle mele, fare qualche altra
ricerca al computer e poi mettersi a letto. Ragionando meglio si disse
che probabilmente quello l’avrebbe solo fatta stare peggio,
invece uscire le avrebbe fatto bene. Non vedeva la luce del sole se non
per andare a comprare il minimo indispensabile per mangiare dato che
Roger, per puro dispetto, non le passava la mensa
dell’orfanotrofio.
Ryuk, mentre lei si chiudeva la porta alle spalle, disse:
“Non ho voglia di andare in giro, resto qui.”
Noodle lo guardò perplessa dal corridoio e disse a voce
bassa per non farsi udire da nessuno: “Ma non mi dovevi
seguire dappertutto?”
“Ricordati che c’è anche L qui, posso
stare anche dove c’è lui.”
“Non lo sapevo.” Si strinse nelle spalle:
“Be’ non farti vedere. A domani Ryuk”.
“Dove vai vestito come uno stripper? Sembra che devi dare uno
spettacolo sadomaso al Mouline
Rouge”, disse Near con voce piatta osservando
Mello che infilava le scarpe.
Il ragazzo gli lanciò un’occhiata storta ma alla
fine decise di non rispondere. Si, è vero, aveva addosso dei
pantaloni di pelle stretti neri, anfibi, una maglietta nera a maniche
lunghe e un cappotto di pelle. Non c’era motivo
però di fare tutto quel chiasso, in fondo erano i suoi
vestiti di sempre; solo che quella volta ci aveva messo
un’attenzione tutta particolare nel prepararsi.
Matt sghignazzò e disse, senza staccare gli occhi dal game
boy: “Mello esce con una”.
“Davvero? Con chi?”
Matt mise pausa e alzò lo sguardo. “E’
vero, con chi?”, domandò guardando Mello.
“Non me lo vuoi dire?”
“Col cazzo.”
“Che vuol dire col
cazzo?”, scimmiottò Matt in una
pessima imitazione dell’amico.
“Vuol dire che devi farti gli affari tuoi”, rispose
Mello acido tastandosi le tasche per controllare di avere tutto.
Matt alzò le braccia in segno di resa. “Okay.
Dimmi solo una cosa: devo lasciarti la stanza libera stasera?”
“No, non credo”, disse Mello passandosi una mano
fra i capelli biondi e dandosi un’ultima occhiata allo
specchio. Non era vanitoso, solo stranamente indeciso.
“Okay… sei sicuro? No perché guarda che
vado a dormire io, eh? Se entri in camera per farti una guarda che ti
caccio.”
“Dovrei essere io a cacciare te”, disse Mello
sbuffando. “Quante volte me ne sono dovuto venire qui da Near
perché tu avevi da fare? Ma andare in un motel?”
“Ecco. Appunto. Tienilo presente semmai stasera avrai da
fare.”
“No, no tranquillo.” Mello prese le chiavi della
loro stanza. “Se arriva Roger usate la solita scusa. A
domani”, disse.
Near e Matt fecero un laconico 'ciao' e continuarono le loro
occupazioni.
Erano precisamente le otto, e nemmeno due secondi dopo Noodle era con
lui. Era vestita quasi completamente di nero, portava una gonna e un
maglione pesante che le stava larghissimo. Mello si alzò dal
bracciolo del divano e la raggiunse.
“Ciao.”
“Ciao. Dove andiamo?”, chiese Noodle.
“A mangiare, conosco una pizzeria dove fanno una pizza
buonissima.” Mello sorrise apertamente, era come se non
potesse farne a meno, non riusciva a rimanere serio.
Presero la metropolitana fino a Piccadilly, girarono per qualche
piccola vietta sconosciuta e alla fine Mello entrò in una
pizzeria nascosta in un angolo. Tenne aperta la porta a Noodle e lei
disse sorridendo: “Grazie”. Ordinarono una pizza ai
funghi e una con il prosciutto, due coca cole e della salsa piccante
per Noodle da aggiungere alla pizza.
“Allora”, disse Mello non appena il cameriere se ne
fu andato con le loro ordinazioni, “ho qui il tuo
regalo.”
Noodle lo guardò con occhi sgranati. “Non ci
credo.”
Mello annuì come se avesse fatto un grosso sacrificio.
“Eh già. Non so se ti possa piacere,
però, insomma, di solito sei sempre a leggere cose
strane… Cioè, voglio dire! Non che ci sia niente
di sbagliato nella... matematica. Anzi! Anche io l’ho
studiata, e fra parentesi sono anche bravo, insomma, tieni.”
E mollò il pacchetto in mano a Noodle.
La ragazza, abbastanza divertita da tutto quel parlare, aprì
il pacchetto sorridendo. Scartò il pacco avvolto in carta
blu e non fu capace di trattenere un sorriso. “Wow! Grazie
Mello.” Rigirò il libro per guardare il retro.
“Oddio non ci crederai mai, ma è lo stesso che ho
visto l’altro giorno e volevo comprarlo, solo che non avevo
abbastanza soldi.”
“Sul serio?”, chiese Mello compiaciuto.
Noodle annuì. In un gesto di pura cortesia si
alzò, si sporse in avanti e diede un bacio sulla guancia ad
un impreparato Mello, “Grazie”, che accolse il
bacio con stupore e lottò per non arrossire. Gli uomini non
arrossiscono. Mello non arrossisce. Che razza di cretino sarebbe
sembrato?
“Storia della
matematica, dall’antichità ai giorni nostri”,
recitò Noodle guardando il libro soddisfatta.
“Mamma mia, ci ho azzeccato”, disse Mello
asciugandosi mentalmente il sudore dalla fronte.
“In pieno”, disse Noodle mettendo via il libro,
prima nella busta e poi nella borsa.
Arrivarono le pizze e iniziarono a mangiare con calma. “Vuoi
assaggiarne un pezzo?”, chiese d’un tratto Mello.
“Facciamo che io te ne do un quarto della mia, e tu un quarto
della tua.”
“D’accordo.” Si scambiarono le pizze, poi
diedero le loro gastronomiche osservazioni al riguardo. Quando uscirono
dalla pizzeria, dove galantemente aveva pagato Mello, passeggiarono un
po’ per le vie del centro, per poi andare a finire in un
locale.
Noodle si sedette ad un tavolino, dalla parte dove scorreva un
divanetto. Mello si sedette di fronte a lei, su una sedia.
“Vuoi che ordini io? Prendo qualcosa e poi te lo passo,
scommetto che se stiamo attenti i camerieri non si rendono conto di
niente.”
“Si grazie”, disse Mello, maledicendo la sua minore
età.
“Cosa prendi?”
“Whiskey liscio.”
“Perfetto.” Noodle richiamò
l’attenzione di una cameriera e ordinò un whiskey
liscio e una coca. Quando le ordinazioni arrivarono la coca rimase
lì, mente in due bevvero il whiskey. Alla fine ne ordinarono
altri due, allungandoli con la coca cola. Il risultato fu che alle
undici e mezza di sera erano ambedue brilli.
“Mello non stare lì, vieni a sederti qua sulla
poltrona, è comoda!”, disse Noodle saltellandoci
sopra con il sedere e non sentendosi affatto imbarazzata. In casi
normali non avrebbe mai fatto ballonzolare il suo sedere su nessuna
poltrona.
Mello, con un sorriso beato stampato in viso si alzò, si
riprese dal giramento di testa che gli era venuto muovendosi
all’improvviso e la raggiunse. “Dimmi una cosa
Mello”, cominciò Noodle,
“perché sei tu Mello?”
“Quello che chiamiamo Mello, con un altro nome avrebbe lo
stesso viso”*, proseguì il ragazzo con voce
falsamente pomposa. I due scoppiarono a ridere.
“Esatto! Ah! Che bello Shakespeare, mi piace.”
Noodle sospirò e si gettò sul divanetto. Pochi
secondi dopo Mello la raggiunse e rimasero per qualche nebuloso istante
a fissare la gente attorno a loro. “Andiamo a fare un
giro?”, propose la ragazza.
“Dai.”
Si alzarono incerti, barcollarono un po’, poi Noodle
andò a pagare. Una volta fuori, nell’aria fresca
della sera, in mezzo alla gente e alle luci, i due si presero
noncuranti a braccetto e cominciarono a camminare allegri. Tornarono
alla Wammy’s House solo a notte fonda e quando arrivarono di
fronte all’edificio Noodle osservò il grande
cancello di ferro, un ostacolo insormontabile al suo letto.
“E adesso come rientriamo?”, domandò
sconsolata ma nemmeno troppo preoccupata.
“Vieni con me, e che ti serva da lezione per la prossima
volta okay?”, disse Mello prendendola per la mano e
trascinandola verso una via laterale. C’era un minuscolo
cancelletto che potevano facilmente scavalcare, se le loro condizioni
non fossero state così disastrose. Mello andò per
primo, poi si mise in piedi per aiutare Noodle. La ragazza
scavalcò e cadde addosso a Mello, entrambi caddero a terra e
rimasero distesi l’uno affianco all’altro, ridendo
silenziosamente in un odore di alcol e allegria ingiustificata. Poi
tutti e due cominciarono a dire shhh!
all’altro, e così via a ridere di nuovo.
Attraversarono il minuscolo cortile e passarono attraverso una finestra
che stava all’altezza del terreno, che portava alle cantine
dove venivano messe le scorte della mensa. I due, calandosi dalla
finestrella, finirono sopra dei pacchi, diedero qualche imprecazione a
voce bassa e poi, nel buio più totale, si aggrapparono
l’uno all’altro e avanzarono a tentoni. Riuscirono
a trovare le scale e infine raggiunsero la tranquillizzante
familiarità dei corridoi del piano terra.
“Ci vediamo domani allora”, disse Noodle lasciando
la mano di Mello e salutandolo. “Grazie, eh, per il
regalo.”
“Figurati”, disse Mello sorridendo.
“Buonanotte.” Sentirono una pendola suonare, e
proprio in quel momento Mello disse: “E Auguri.”
“Non è più il mio
compleanno”, fece notare Noodle.
Mello si strinse nelle spalle. “E che importa?” Si
sporse, diede una bacio sulla guancia alla ragazza e
sussurrò in un modo fin troppo serio per
l’occasione: “Buona notte.”
“Notte.”
*Citazione storpiata:
"Oh Romeo, perchè sei tu Romeo? [...] Quella che chiamiamo
rosa anche con un altro nome avrebbe il suo profumo."; Giulietta
Capuleti in "Romeo e Giulietta" di William Shakespeare, Scena II.
Ciao a tutti! ^^
Allora,
come al solito alcune precisazioni.
Dai prossimi capitoli ho deciso che chiamerò il
più possibile Annika, Noodle, per non usare due nomi che
potrebbero confondere.
Chi di voi adora Misa, non illudetevi. Non la farò tornare
indietro, sia per i motivi che ha elencato Noodle, sia
perchè non ci azzecca molto con questa storia ed
è un po' scema (non mi sta particolarmente simpatica).
Sembrerà stupido, ma il commento di Near sul vestire di
Mello... ecco, ho esistato molto a metterlo, perchè non
sembra un commento che farebbe. Per giustificarlo ho pensato che lo
potesse dire con poco o niente interesse, però per qualche
motivo non ci volevo rinunciare (valli a capire 'sti autori xD).
Passiamo al fulcro del capitolo: l'appuntamento fra Noodle e Mello.
Prim di tutto vorrei precisare che, nonostante Mello lo volesse, il
loro appuntamento non è proprio perfetto. Insomma, fra Mello
che voleva ubriacarsi a tutti i costi nonostante la sua giovine
età e la Wammy's House chiusa... I due considerano l'uscita
più come una cosa fra amici. Non nego che fra Mello e Noodle
il più interessanto sia lui, ma solo superficialmente.
Invece Noodle considera Mello un tipo divertente e basta. La storia
potrebbe continuare nei prossimi capitoli, ma non è la parte
centrale della fiction per cui vi saranno dedicate alcune parti qua e
là ^^
Nota importante per il
prossimo capitolo (e per lo spoiler sul blog):
verrà svelato il nome di Mello, chi non lo sapesse si
prepari psicologiamente xD
Se volete qualche spoiler sul prossimo capitolo, ecco qua il link.
Grazie mille a chi lgge e a chi lascia una recensione :)
A Lunedì prossimo,
Patrizia
P. S. Ma qualcuno sa se il plurale di coca cola
è coche cole
o coca cole?
xD
|
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Capitolo 5 *** Conquest and failures of Mihael Keehl ***
Capitolo quattro
Conquests and failures of Mihael
Keehl
Ansgar
Keehl abitava a Berlino, in una zona industriale ricca di fabbriche
nelle quali -sembrava ovvio fin da quando era un bambino- avrebbe in
futuro lavorato.
Era sempre stato un uomo dal carattere molto difficile: aveva sbalzi di
umore di continuo, si arrabbiava per un non nulla; talvolta, con un
ristretto gruppo di persone, poteva anche ad essere garbato e
piacevole. Il grande cambiamento avvenne però dopo essersi
sposato. Tutti dicevano che era diventato più facile stare
assieme a lui. Sua moglie Mona aveva fatto miracoli, e il pessimo
carattere di Ansgar pareva solo un ricordo giovanile.
Andava tutto benissimo finché non nacque il piccolo Mihael,
nato leggermente in ritardo rispetto a quanto ci si aspettava. Mona
ebbe un parto difficile alla fine del quale era in fin di vita. Mihael
fu subito portato via dai medici per controllare il suo stato di
salute. I dottori fecero i consueti controlli e constatarono che il
piccolo era in forma smagliante. Quando lo portarono in sala operatoria
per farlo stringere per la prima volta dalla madre scoprirono di essere
arrivati troppo tardi.
Tre settimane dopo venne celebrato il funerale di Mona Keehl, due
giorni prima del battesimo di Mihael Keehl.
Mihael non era un bambino vivace, tendeva piuttosto a restarsene
nell’ombra e a fare il bravo, come tutti gli adulti che
incontrava gli dicevano di fare. Visse la sua prima infanzia, fino
all’età di cinque anni, nascondendosi da tutto e
da tutti. Primo nella lista delle sue preoccupazioni era suo padre. Da
quando la moglie era morta Ansgar Keehl era tornato l’uomo
intrattabile di una volta, se non peggio. Dopo pochi mesi dalla sua
scomparsa aveva iniziato a bere, per questo motivo aveva perso il
lavoro alla fabbrica di ricambi per automobili. Sopravviveva con il
sussidio per i disoccupati, che gli serviva più che altro
per pagarsi il suo vizio. Ogni qual volta si sentiva frustrato, o
annoiato, l’uomo sentiva un bisogno di sfogarsi in maniera
quasi fisica, lo sentiva come una sorta di calore al corpo. Se la
prendeva con Mihael, l’essere umano più inerme che
aveva a portata di mano. La cosa che preferiva di più in
assoluto, quella che gli dava più soddisfazione, era
accusarlo della morte della madre. Fu per quel motivo che Mihael crebbe
nell’errata convinzione di essere stato lui ad ucciderla. Per
diversi anni si ritenne una brutta specie di cancro che distruggeva
tutto ciò con cui entrava a contatto, come un germe, un
parassita, qualcosa di orrendo che viveva a spese degli altri e
uccideva la gente perbene.
Le cose cambiarono quando Mihael, per la prima volta, venne picchiato
da un compagno più grande.
Accadde in prima elementare, lui aveva sei anni, l’altro
bambino otto. Il litigio nacque perché Mihael si rifiutava
di dargli il suo pranzo, a cui teneva moltissimo dato che non mangiava
un pasto che si potesse definire tale da quasi due giorni: la sera
prima suo padre si era dato la pena di portare a casa del pane, del
latte e dei salami, altrimenti la cucina in casa Keehl ospitava soltanto
cibo in scatola, frutta secca, birra e delle volte patatine. Dopo aver
ricevuto un pestaggio come si deve e aver saltato il pranzo, una volta
tornato a casa Mihael ascoltò senza fare una piega il
commento maligno e noncurante di suo padre: “Non sai neanche
fare a botte, inutile bastardo”. Il bambino accusò
ancora una volta il colpo, ma in modo diverso. Non poteva cambiare il
fatto di essere stato lui il colpevole per la morte della sua povera
madre, ma poteva cambiare il fatto di essere una schiappa.
Quando le ferite furono guarite Mihael si procurò una mazza
da golf rotta che aveva trovato per strada, il che non stupì
nessuno dato che poteva benissimo essere una sorta di gioco da bambini.
Nessuno si stupì neanche quando la portò a
scuola. Cominciò a nascere qualche dubbio quando le maestre
lo colsero nell’atto di insultare il compagno che qualche
giorno prima lo aveva picchiato, più grande di lui di
diversi centimetri e anche più robusto. E divenne
decisamente pericoloso quando Mihael gli si gettò addosso
con la mazza, colpendolo con tutta la forza che aveva nelle piccole
braccia magre. Ci vollero quasi dieci minuti di intenso lavoro da parte
degli insegnanti per staccare Mihael dal compagno, ma alla fine la
prognosi era un vittorioso, esausto, ma felice Mihael, che con un
labbro spaccato e dei morsi su un braccio sorrideva beffardo nel vedere
il compagno ridotto a condizioni molto peggiori delle sue. Quando
avvisarono suo padre per telefono il bambino era quasi estasiato.
Sapeva di aver fatto la cosa giusta, sperava che suo padre fosse fiero
di lui. Poteva quindi redimersi dal suo peccato originale. Ma invece di
ricevere lodi l’unica cosa che ottenne quando
tornò a casa fu una serie incredibile di scapaccioni e
sberle e urla da parte di quell’uomo, che non fecero altro
che renderlo ancora più sconfortato, confuso e gonfio di
lividi.
Da quella volta Mihael visse momenti di intensa gloria nei corridoi
della scuola, in un turbine di pugni e morsi fieri e avventurosi. Quei
momenti quasi lo consolavano da quelli di pericolosa paura che
trascorreva in casa. Ansgar Keehl aveva trovato un nuovo passatempo che
più lo ricompensava delle accuse infondate: le botte.
La cosa che più faceva pensare le insegnanti non erano i
grossi lividi sulle braccia di Mihael, che lui tentava comunque di
nascondere alla bell’e meglio e che loro spesso attribuivano
alle zuffe con i compagni, ma il comportamento che il bambino teneva in
classe. Era attento, era vigile, non rispondeva mai a nessuna domanda
ma intimamente conosceva la risposta, e se qualcuno gli domandava di
rispondere lui lo faceva correttamente e senza esitazioni. Apprendeva
velocemente, nei compiti in classe era sempre il primo, e ricordava
molte informazioni, anche dettagliate, a distanza di mesi. Durante i
primi tre anni di scuola osservarono il suo comportamento impeccabile
all’interno della classe e pericoloso all’esterno,
ma nessuno fece niente finché Mihael non si
presentò più a scuola per tre settimane.
Non si avevano più notizie di lui, ed
un’insegnante che aveva particolarmente a cuore la situazione
andò a cercarlo a casa sua. Quello che vide la fece correre
ai servizi sociali a gambe levate: Mihael Keehl, in una casa sporca e
vuota, assieme ad un uomo dalla barba sfatta e l’alito
puzzolente di birra, che giaceva nel letto pieno di ecchimosi e piccole
ferite sanguinanti.
Un settimana dopo Mello veniva ospitato alla Wammy’s House
per la prima notte, in stanza assieme ad un bambino di nome Matt.
Mihael non ci aveva messo molto ad imparare l’inglese e
riuscire a partecipare attivamente alle lezioni. Aveva presto capito
che il posto dove lo avevano mandato era diverso dalle altre scuole.
Era un posto che non gli piaceva, non perché fosse lontano
da casa o perché non conoscesse e non parlasse con nessuno,
più che altro perché gli era più
complicato di prima eccellere. Era sempre stato il primo della classe
nella scuola che aveva frequentato, e anche se non lo dava a vedere e
non gli piaceva intervenire in classe, sapere di essere il migliore gli
aveva sempre dato soddisfazione, forse perché finalmente
aveva trovato qualcosa di positivo da fare piuttosto che uccidere le
giovani donne. In quella Wammy’s House invece essere il primo
della classe era un po’ più difficile. Nonostante
questo lo faceva egregiamente e la cosa gli dava ancora più
soddisfazione. Aveva smesso di pestare i compagni e se ne andava in
giro per i corridoi con il petto gonfio di superbia senza il bisogno di
spaventare nessuno. Aveva stretto amicizia con Matt quasi subito,
perché con lui riusciva a parlare facilmente. Lo metteva a
proprio agio ed era talmente rilassato che riusciva a far calmare anche
lui nella maggior parte delle situazioni che lo mettevano a disagio o
in agitazione. Era divenuto il primo nella graduatoria della scuola e
questo era fonte di grande orgoglio. Gli sarebbe piaciuto moltissimo
diventare erede di L, quel misterioso detective che tutti rispettavano
e in qualche modo temevano. Sarebbe stato meraviglioso se tutti quei
marmocchi della Wammy’s House lo avessero temuto e rispettato
allo stesso modo. E tutto era stato perfetto, stava quasi per
arrivarci… finché non era arrivato Near. Da qui
in poi la storia è risaputa: la superbia nel petto di Mihael
si era spenta un poco e l’unica persona che aveva iniziato a
schivarlo nei corridoi per paura di ricevere uno sgambetto, fu Near.
Almeno per il primo anno e mezzo in cui Mello abitò nella
Wammy’s House, la notte si svegliava spesso con gli incubi.
Sognava suo padre, che lo picchiava e lo accusava, e sognava qualcosa
che poteva essere sua madre, come una presenza senza forma che lo
malediceva perché l’aveva fatta morire fra dolori
e urla. Dopo qualche tempo aveva smesso, quando il suo nuovo cruccio
era stato quello di divenire il solo e unico erede di L.
All’età di quindici anni era arrivata la sua prima
lei. Si chiamava Ruth. Anche lei veniva dalla Germania e si trovarono
bene a parlare in tedesco negli angoli più sperduti della
scuola. Parlavano di tutto e di più, senza fare eccezioni su
Roger e alcuni degli studenti più antipatici della
Wammy’s House. Ruth aveva la sua stessa età,
capelli biondi ondulati lunghi fino alle spalle, gli occhi erano grigi,
il sorriso contagioso. Fu a lei che Mello diede il suo primo bacio. Per
quella volta si fermò lì ma dopo quel bacio ne
vennero altri, più audaci e curiosi, però alla
fine smisero di vedersi assiduamente e rimasero amici.
A sedici anni fu il turno della sua prima fidanzata, una ragazza che
non apparteneva alla Wammy’s House. Si chiamava Eleanor.
Anche lei aveva i capelli mossi, ma rossi, e aveva le lentiggini sul
naso. Erano stati assieme sette mesi, e con lei Mello aveva
sperimentato il suo primo rapporto. Il primo, in realtà, era
stato alquanto disastroso, ma con un po’ di pratica divenne
più abile.
Delle volte Mello sognava ancora i suoi genitori, e riusciva ad
immaginarseli solo nell’atto di insultarlo. Ma quella notte,
dopo la cena assieme a Noodle, sognò un’altra
cosa. Sognò sé stesso e la ragazza. E
sognò anche, per qualche strana ragione, un lungo deserto
soleggiato, nel quale camminavano senza sosta senza . Ma non soffrivano
il caldo…
“Mello! Ti vuoi alzare? A che ora sei tornato
ieri?” Matt sciacquò ancora la bocca,
posò lo spazzolino, poi salì due dei gradini a
pioli per raggiungere il letto di Mello. Stava per scuoterlo, anche se
sapeva che gli dava parecchio fastidio essere disturbato mentre
dormiva, ma erano già le dieci e mezza del mattino e loro
dovevano già essere svegli. Rimase però stupito
quando vide Mello a faccia in su, a fissare il soffitto con sguardo
serio. “Che ti è successo? Ieri sera non ti si
rizzava?”, domandò Matt.
Mello si voltò verso di lui indispettito, disturbato nelle
sue importanti riflessioni. “Zitto, demente.”
Matt ridacchiò, gli diede una leggera botta alla spalla e
disse, scendendo le scale a pioli: “Dai muoviti, dovevamo
essere da Near un’ora e mezza fa”. Il ragazzo
tornò a lavarsi e quando fu davanti allo specchio
domandò: “Con chi sei uscito ieri?”.
“Affari miei.”
“Dai perché non me lo vuoi dire? E’ una
che conosco. La conosco, vero?”, aggiunse con un ghigno.
Mello, sceso dal letto, lo guardò accigliato. “Ho
detto che sono affari miei.”
“Solo un indizio!”
“No.”
“Ma almeno dimmi perché no.”
“Perché non mi va di dirtelo”, disse
Mello facendo una smorfia, evitando lo sguardo di Matt e stringendosi
nelle spalle.
“Come vuoi, però adesso muoviti.”
In realtà Matt non aveva affatto desistito, aspettava
soltanto di avere l’appoggio di Near e di poter
così contare sul fattore amore-odio che
c’era fra i due che faceva letteralmente impazzire Mello.
Forse quello gli avrebbe fatto sfuggire qualche informazione. Purtroppo
quando furono in camera di Near, con un pacchetto di patatine da un
lato e una bottiglia di coca cola dall’altro, vennero presto
interrotti da un leggero bussare. Near aprì la porta e si
trovò davanti L.
“Ciao”, disse Near spostandosi per farlo passare.
L salutò, gettò uno sguardo alle cibarie dei
ragazzi e piegò le labbra all’ingiù,
leggermente triste. “Dobbiamo parlare”, disse poi.
“Esattamente!”, esclamò Matt indicandolo
di scatto. “L, sei proprio l’uomo che cercavo! Sei
in missione, devi cercare di scoprire con chi è uscito Mello
ieri.”
Il biondo quasi si strozzò con la coca cola nel sentire
quelle parole, poi prese il cuscino dal letto di Near e lo
lanciò addosso a Matt, che si protesse con il braccio sano
ridendo. Near, dopo aver seguito lo scontro, tornò pensoso
alla sua postazione mentre L li guardava accigliato. “Con
Noodle, no?”
Il mondo parve fermarsi. Near e Matt alzarono entrambi lo sguardo su di
lui, Matt esterrefatto, Near accigliato. Poi Matt si voltò
verso Mello: “E’ vero?”. Mello non
rispose, così il ragazzo interpretò il suo
silenzio nell’unico modo che poteva. Sgranò ancora
di più gli occhi e disse: “E cos’hai
scoperto?”. Poi, ripensandoci, “E che cazzo
aspettavi a dircelo?!”
Near, seduto sulla sedia girevole, si spinse con i piedi e
finì accanto a loro. Guardò Mello con aria truce,
ma poi L parlò ancora. “Perché fate
delle ricerche su Noodle?”
“Vogliamo sapere come mai è qui alla
Whammy’s house”, disse distrattamente Matt.
“Oh.” L abbozzò un sorrisino che nessuno
notò. “E l’avete scoperto
immagino.”
“Assolutamente no. Ma è collegata al nome di
Stephen Tempor, crediamo che l’abbia ucciso.”
L s’irrigidì. “Stephen Tempor?”
I ragazzi si voltarono verso di lui. “Si, lo
conosci?”, domandò infine Mello.
“E’ un agente della CIA. Perché dite che
l’ha ucciso?”
“C’è un certificato di morte, indica che
è stato ucciso a colpi di arma da fuoco a Settembre
dell’anno scorso”, cominciò Near.
“Lavorava a qualcosa che aveva a che fare con degli omicidi e
traffico di droga, o armi o cose simili, e per qualche motivo
c’è implicato un giudice tutelare americano che si
chiama Harold Gebert. Non sappiamo cosa c’entri in tutta
questa storia, forse voleva fare dei guadagni extra, ma ci pare che sia
pulito. Noodle è arrivata qui con il pc di Stephen Tempor a
Natale, quindi dopo che lui è morto. Perché
dovrebbe avere con lei quel pc? E poi cosa ci fa qui?”
L rimase un secondo pensoso.
“E’
mia figlia. Ti piacerebbe un sacco, è una delle
più brave della classe.”
“Quanti anni
ha?”
“Tredici.”
“Sembra
più grande. Come si chiama?”
“Annika.”
L riprese il telefono.
Era la terza chiamata che perdeva. Sempre Watari.
“Pronto?”
“Hanno
scoperto dove ci troviamo, dovete uscire.”
“Dose
sei?”
“Al sicuro. Tu
e gli altri uscite.”
“Loro dove
sono?”
“Non lo
so.”
Un rumore di spari
proveniente da lontano fece alzare la testa al giovane detective e agli
agenti. L si voltò verso di loro e disse: “Non
andate: sono armati. Dovremmo uscire da qualche altra parte”.
“Passiamo per
la porta di servizio, poi per la scala anti incendio”,
propose qualcuno.
“Dobbiamo
prendere con noi i computer.”
“Watari ha una
copia di tutto quanto e provvederà a cancellare ogni cosa da
dove si trova adesso. Andiamo.”
I sei agenti ed L
uscirono tutti per la porta di servizio e finirono in un corridoio
bianco. Uno di loro aprì una porta e si trovarono sul
pianerottolo delle scale anti incendio, fuori dall’edificio,
a venticinque metri dalla strada. Cinque degli agenti scendevano in
fretta un gradino dopo l’altro e cominciarono a chiamare la
centrale e tirare fuori le pistole in dotazione. I loro piedi sul
metallo erano rumorosi. Gli ultimi nella fila erano L e Stephen Tempor.
All’improvviso i passi di una ventina di persone dietro di
loro indicava che gli inseguitori li avevano trovati. L aveva sceso
già una rampa e mezza di scale. In quel momento la faccia
baffuta di un uomo sulla trentina spuntò da una finestra,
l’uomo tirò fuori una pistola e sparò.
Il proiettile
mancò L di poco e il ragazzo, sul volto una smorfia di
paura, ricominciò a scendere scivolando di qualche gradino.
Quando si guardò indietro vide Stephen Tempor urlargli:
“Vai, vai, vai!”. Tornò a guardare
avanti, scese altri quattro gradini, un dolore lancinante lo raggiunse
e gli mozzò il fiato. L cadde in avanti e rotolò
per l’ultimo tratto di scala. Il dolore si era moltiplicato.
Stephen Tempor lo raggiunse sul pianerottolo della scala antincendio
del primo piano. Dava sulla strada. Un altro sparo colpì il
metallo mentre Stephen si chinava e lo prendeva in braccio.
Pensò che il ragazzo era talmente fragile e leggero da
sembrare una piuma. “Ce la fai?”,
domandò agitato guardandolo con occhi spalancati.
“Mi fa
mal-e… quando respiro”, disse L con il fiato mozzo
e gli occhi chiusi forte. Il suo corpo non gli era mai sembrato tanto
fragile.
Stephen Tempor
guardò giù nella strada sotto di loro, poi verso
l’alto gli inseguitori. Vide un camion passare, trasportava
quelli che sembravano sacchi pieni di legumi. Senza esitare, tenendo
stretto il diciassettenne L, si lanciò.
Il ragazzo, sopraffatto
dal dolore, non capiva cosa stesse succedendo. Quel che
percepì fu solo un’esplosione di male atroce
attraversargli il petto. Poi udì una voce che lo chiamava:
“L? Ti senti bene? Andiamo all’ospedale adesso,
tranquillo ci arriviamo, non è nulla di grave. Cosa
senti?”
“Male -le
costole.”
“L? Ci
sei?”
“L? Ci sei?”
Il detective si riscosse. Osservò Matt, Mello e Near con
occhi scintillanti. “Annika Tempor è la figlia di
Stephen Tempor.”
“E chi cavolo è Annika Tempor?”,
domandò Matt.
“Noodle”, disse Near in un lampo di comprensione.
L si precipitò fuori dalla porta, seguito dagli altri tre
ragazzi che gli lanciavano domande a raffica, ma lui non li ascoltava.
Andò dritto verso la camera di Noodle bussò alla
porta e poi provò ad aprirla. La porta si
spalancò, i quattro ragazzi irruppero all’interno,
trovando una Noodle ancora in pigiama che si arrabattava sul computer.
“Annika.”
Lei guardò i ragazzi con sorpresa, poi si ricordò
che sopra l’armadio c’era Ryuk, sdraiato a leggere
un giornaletto per ragazzi. Il suo sguardo terrorizzato
passò da L e Ryuk, così il detective
guardò in alto. Non fece una piega nel vedere il mostro, ma
la sua fronte si corrugò. Al tempo stesso Near fece un
debole sussulto. “Cosa c’è?”,
domandò Matt.
L guardò Noodle. “Perché ce
l’hai tu?”
La ragazza sputò tutto con una tale facilità da
stupire persino L. “Me l’ha dato lui. E’
stato lui a suggerirmi di venire a cercarti per risolvere il caso, e mi
ha detto anche chi eri.”
“L’hai usato?”
“No.”
Ryuk ridacchiò dall’alto, godendosi la scena, e si
sporse verso i ragazzi. “Ciao L!”,
esclamò sorridendo.
Mello e Matt guardavano da una parte all’altra, senza capire
nulla di quel che i due si dicevano senza poter vedere lo
Shinigami, che L, per altro, ignorò.
“Sei la figlia di Stephen Tempor? Tu sei Annika
Tempor?”
“Conosci mio padre?”, domandò Noodle
stupefatta.
Lo sguardo di L si addolcì un poco ma non un sorriso
affiorò sulle sua labbra. “Ho lavorato con lui. Mi
ha salvato la vita una volta.” Il ragazzo si sedette sul
letto e abbozzò un sorriso debole, quasi inesistente:
“Mi parlava spesso di te, mi ha anche fatto vedere una tua
fotografia. Sei cambiata molto in questi anni, non ti avevo
riconosciuta”. Fece una piccola pausa e tornò
serio. “Il minimo che possa fare per ripagare tuo padre
è aiutare sua figlia, immagino.”
“Siete entrati nella mia stanza?”,
domandò Noodle, la voce vibrante di rabbia.
I tre ragazzi si fecero piccoli piccoli di fronte alla sua furia, ma
non osarono mentire. “Io… era per…
credevamo che, sai… capito?”, balbettò
Matt.
“No non ho capito bene una parte, scusa
rispiegamela”, disse Noodle sarcastica.
“Non avete trovato il Death Note?”,
domandò L curioso.
“Ci mancava solo quello!”, esclamò
Noodle esasperata voltandosi verso di lui.
“Perché?”
“Sta fra la mia biancheria intima!”
L si voltò, senza capire perché mai quello
dovesse essere un fattore rilevante ai fini della ricerca. Era un
sentimento del tutto sbagliato, ma sentiva quasi di conoscere Noodle
più di tutti gli altri; persino più di Mello, il
quale passava con lei solamente due ore alla settimana circa, ma era
sempre meglio di niente. Forse perché aveva conosciuto suo
padre, e indirettamente credeva di conoscere anche lei. Ovviamente
sapeva che non era così, ma nemmeno lui poteva sottrarsi a
certe sensazioni tipiche dell’uomo. La verità era
che l’unica cosa che aveva mai visto di Noodle era la foto di
una ragazzina con un mezzo sorriso esitante e i capelli corti da
maschiaccio. Ora la stessa ragazzina gli stava davanti con delle gambe
magre e lunghe, un’espressione decisa sul volto, e un caso
complicato fra le mani.
“Come hai fatto a sapere che siamo usciti l’altra
sera?”, domandò Mello al detective.
L lo osservò. “Vi ho visti dalla mia
finestra.”
“Ora che ci penso, tu, Ryuk, hai visto tutto. Hai visto lui
che frugava tra le mie cose, e non mi hai detto niente”,
osservò Noodle guardando risentita lo Shinigami. Quasi si
sentiva offesa: credeva che Ryuk fosse il suo aiutante, dopotutto. Non
aveva capito che era solo uno spettatore esaltato.
Ryuk sghignazzò e disse: “Io in teoria non avrei
dovuto esserci, quindi le cose sono andate come dovevano
andare”.
Noodle sbuffò e incrociò le braccia.
“Se tu non ci fossi nessuno di noi sarebbe qui
adesso”, rimbeccò.
“Ricapitolando”, cominciò L,
“tuo padre lavorava ad un caso di cui sappiamo solo che sono
state uccise due persone, una coppia New Yorkese. Oltretutto
c’è in ballo un traffico di armi e droga non ben
riconosciuto, e…”
“Che vuol dire non ben riconosciuto?”,
domandò Mello, indignato che la loro parte di lavoro fosse
presa così poco in considerazione.
“C’era della documentazione su quel
computer.”
“Non ne siamo del tutto certi, ma molte fonti che ho trovato
parlavano di vendita illegale di diverse armi da fuoco”,
disse Noodle.
“…e un giudice tutelare di nome Harlod
Gebert”, concluse L. “Però quella
documentazione non è attendibile ai fini della nostra
ricerca.”
“E perchè?”, domandò Noodle.
“Chiamo Roger, lo avviserò della nostra assenza.
Prenotiamo un volo il più presto possibile, devo parlare con
la CIA”, disse L ignorandola.
“Dove andiamo?”, domandò Mello. Era
eccitato di essere stato ammesso nella collaborazione senza fare una
piega.
“A New York. Partiamo il più presto possibile.
Dobbiamo passare per lo Yorkshire a recuperare alcune cose, poi
possiamo andare. Senza più Watari devo organizzare tutto da
solo”, L rimase pensoso. “Non sono
abituato”, mormorò infine più a
sé stesso che agli altri. “Prenoto il volo per
cinque persone, voi fate le valigie. Nel frattempo dobbiamo iniziare a
pensare a dove nascondere questo Death Note, dove stabilirci a New York
e devo anche contattare la CIA. Non posso farlo da solo, qualcuno
dovrà interpretare Watari.”
“Perché? Chi è Watari?”,
domandò Noodle.
“Era il mio assistente”, disse L. “Mi
aiutava nelle faccende pratiche… E’ morto qualche
mese fa.”
“Ah… e… e com’era questo
Watari?”
“In genere nessuno conosceva né il suo volto
né il suo nome, come per me, e si presentava come mio
emissario coperto da capo a piedi. Mi forniva di qualunque cosa avessi
bisogno.”
“Se nessuno conosceva né il suo volto
né il suo nome allora potrei farlo io Watari”,
propose Noodle con un’alzata di spalle. Non vedeva
l’ora di fare qualcosa.
L la osservò con occhio critico. “Sei troppo magra
e anche troppo bassa. Lo farà Matt.”
“E cosa dovrei fare?”, domandò il
ragazzo.
“Ti darò un microfono nel quale parlare, dovrai
modificare la tua voce di modo che assomigli a quella di Watari. Ti
darò il suo computer. Dovrai contattare la CIA e dire che
sono interessato all’omicidio Jonsson.”
“Aspetta, ho una domanda”, disse Near. L lo
guardò. “Cosa andiamo a fare nello
Yorkshire?”
“Ci sono le attrezzature come i microfoni e i computer, sono
in casa mia. A proposito, chi mi accompagna a caricare tutta la
roba?”
“Io!”, disse subito Mello.
“Io immagino di dover restare qui a fare Watari”,
osservò Matt.
“Mello e Noodle mi accompagnano a prendere le attrezzature,
Matt prendi contatti con la CIA sotto il nome di Watari.
Near… prenota il volo, trova un posto dove stare, e avvisa
Roger della nostra imminente partenza.”
“D’accordo”, dissero obbedienti i quattro
ragazzi.
Eccomi
qua! =)
Allora, questa storia, sebbene non sia fra le più popolari
che ho scritto, mi sta dando delle grandi soddisfazioni, e devo tutto
quanto alle persone che recensiscono, che hanno sempre un parere chiaro
e non chiedono solo di aggiornare o commentano la 'figaggine' dei
personaggi. Insomma, grazie mille a chi recensisce, perché
mi fa notare sempre nuovi particolari, mi dà un punto di
vista fresco che non avevo considerato e mi permette quindi di
migliorarmi ^^
Dopo questa dichiarazione d'affetto xD passo ai commenti del capitolo.
L'infanzia di Mello, in
primis. Io credo che si adatti al carattere del
personaggio, che è sempre un po' scorbutico e dà
fiducia a poche persone perché, fin da piccolo, ha imparato
a non fidarsi troppo delle persone. Scusatemi tanto se vi ha fatto
tristezza, o se vi ha fatto schifo a causa delle tematiche, ma
non dimentichiamo che la Wammy's House è prima di
tutto un orfanotrofio, che come tale ospita bambini che hanno un
pessimo passato alle spalle, e questo è un postulato sicuro.
Comunque sia, ditemi che cosa ne pensate se vi va.
Il sogno di Mello, poi, non ha alcun senso. Veramente, non so per quale
motivo l'ho inserito, insomma non c'è nulla di simbolico nel
deserto, nel caldo né in niente di niente. Pensavo solo che
fosse un bel finae per il paragrafo xD (viva la sincerità).
Parliamo di L adesso (il magnifico L *o* si è capito che
è il mio personaggio preferito? xD). So bene che il primo
caso in cui L mostra il volto a qualcuno è il caso Kira,
tuttavia in questa fanfiction c'è almeno un precedente,
ossia il caso nel quale lavora con Stephen Tempor. L'ho fatto per dare
ai due la possibilità di conoscersi, volevo che L sapesse
chi fosse Stephen e anche se si sentisse in debito con lui. Mi
è sembrato naturale che Stephen gli salvasse la vita durante
un caso, altrimenti non riesco a pensare a nient'altro per cui L
potrebbe indebitarsi con qualcuno. Lui poi accetta il caso di Noodle
perché vede quella possibilità come il modo per
sdebitarsi. Ho puntato sulla sua forte moralità :D
A proposito di L. mi è piacuto un sacco scrivere della sua
fuga dal palazzo! Rendere il personaggio un po' più fisico e
meno mentale è stato bello, un po' come quando si picchia
con Light nell'anime. Inoltre, ricordare la paura provata da L citata
nel prologo della fanfiction? Be', è questa. Chi non avrebbe
paura di morire, d'altronde? Le uniche due occasioni in L ha avuto
paura è stato quindi da giovane agli esordi, e poi da adulto
quando ha considerato la fine della sua carriera, sempre per lo stesso
motivo.
Ora basta con questa pappardella, vi sarete già stufati di
brutto delle mie pappardelle a fine capitolo, ma non riesco a farne a
meno! xD Ora sarò ermetica dunque:
A voi lo spoiler.
A voi l'augurio di una buona settimana, e a Lunedì
prossimo! =)
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Capitolo 6 *** Preparations ***
Capitolo
cinque
Preparations
Erano
le cinque del pomeriggio quando L, Mello e Noodle arrivarono nello
Yorkshire. Quella che L aveva definito nient’altro che
‘una piccola casupola di campagna’ somigliava
più che altro ad un’abitazione campagnola
patrizia. Vi era un immenso giardino, una casa principale su due piani,
compresa di terrazzo, box e capanno degli attrezzi, e una piccola
casetta per gli ospiti poco distante, piccola ma sicuramente
confortevole.
Scendendo
dall’auto L, le mani in tasca e la schiena leggermente curva,
osservò la casa e disse voltandosi verso gli altri:
“Orma è tardi per ripartire. Andiamo dentro a
mettere in ordine la roba. Domani ci svegliamo presto a caricarla e
torniamo a Londra”.
I tre si avviarono
verso la grande casa padronale. Era davvero bella, con il tetto rosso a
spioventi, le finestre dipinte di verde bottiglia e la facciata color
pesca. L’entrata dava nell’enorme salotto, con un
bel mobile tv color mogano, un tavolino ed un divano ad angolo
bordeaux. Sulla destra c’era un corridoio che portava alla
cucina, collegata alla sala da pranzo, e un bagno. Al piano superiore
c’erano due camere da letto completamente arredate, uno
studio, un grosso bagno con jacuzzi e un guardaroba che poteva
benissimo contenere i vestiti di una persona dalla nascita alla tomba.
Mello si chiese che cosa se ne facesse L di un armadio così,
ma preferì non fare domande. All’ultimo piano
c’era una soffitta con diversi scatoloni e molta, molta
polvere. Nel sottosuolo erano incastrati una lavanderia, una cantina e
un box con posto per tre auto. Su tutto aleggiava un odore di chiuso e
la polvere si era depositata blandamente sui mobili, a rendere ogni
cosa più antica.
Dopo aver fatto un
giro panoramico della casa e aver posato una piccola borsa in sala,
Noodle domandò: “Dove sono le cose da portar
via?”.
“Nello
studio”, rispose prontamente L. “Mello,
va’ in soffitta a prendere qualche scatolone vuoto.”
“Okay.”
Mentre il ragazzo
eseguiva, Noodle ed L cominciarono a staccare fili, cavi, cavetti e
quant’altro per imballare un computer fisso, tre portatili
(uno dei quali nuovo di zecca), una stampante, una fotocopiatrice, una
quantità spropositata di chiavi USB, cd
d’installazione di vari programmi, moltissime telecamere, un
modem wireless e un videoregistratore completo di DVD. Solo con quelli
riempirono cinque scatole. Poi fu la volta di ricetrasmittente,
registratori vocali portatili, una videocamera grande come
un’unghia, una macchina fotografica digitale professionale,
qualche binocolo e -a quel punto Mello si esaltò
più del dovuto- una Beretta semiautomatica. E
così altre due scatole furono piene.
“Ci sono
solo due posti letto in casa, ma se volete ve li cedo, io sto sul
divano. Ci sono delle lenzuola pulite nella lavanderia, nel caso ne
aveste bisogno”, disse L quando ebbero finito. “E
comunque se ho sonno posso sempre andare nella casa per gli
ospiti.”
“Sei
sicuro?”, domandò Noodle.
“Sì,
sicuro. Lui non dorme mai”, rispose Mello per il ragazzo.
“Ordino la
cena”, disse L illuminandosi leggermente.
Alle 21.02 un
fattorino portò una pizza al prosciutto, un cheesburger con
contorno di patatine fritte, una torta di compleanno, tre barrette di
cioccolata extra fondente e due bottiglie d’acqua naturale.
Si sedettero attorno al tavolo da pranzo e mangiarono solennemente.
“Come pensi
di procedere nelle indagini?”, domandò Noodle
mangiucchiando una patatina.
Quasi non credeva alla
fortuna che aveva avuto. Ovviamente non sapeva che suo padre avesse mai
lavorato con L, e si chiese come mai ci aveva messo così
tanto per tirar fuori il nome di Stephen Tempor. Se glielo avesse detto
subito avrebbero incominciato le ricerche settimane fa! Non le piaceva
tanto il fatto che fossero coinvolti anche tre ragazzini di cui non
sapeva nulla, a parte Mello. Aveva cominciato a fidarsi di lui, pian
piano, molto prima della neonata collaborazione con L. Le continue ore
di boxe erano servite ad entrambi per conoscersi, oltre che per
rafforzare le cascante muscolatura del ragazzo, e Noodle poteva
affermare che lui era un tipo a posto. Solo un piccolo dubbio gli era
giunto quando aveva saputo che lui, Matt e Near stavano indagando su di
lei: perché Mello l’aveva invitata a cena? Solo
per avere informazioni sulla sua vita? Su di lei? Sulla presunta
assassina di Stephen Tempor? Una voce nella sua testa, quella
più razionale e disillusa, le diceva di sì, che
dopotutto era solo un ragazzo di diciassette anni con l’hobby
per i gialli americani. Ma un’altra parte di lei, ancora
speranzosa, si diceva che per tutta la sera non aveva introdotto
l’argomento, e quindi forse era uscito solo con
l’innocente intento di festeggiare il suo compleanno. Ma
queste cose erano fuori luogo al momento: Noodle era impaziente di
cominciare le ricerche.
“Prima di
tutto ho intenzione di leggere tutto ciò che ha scoperto la
CIA. Questa storia non è un semplice omicidio, deve avere
radici più profonde per smuovere un reparto specializzato di
una delle più segrete società americane contro la
criminalità. Forse sono coinvolti personaggi famosi, o si
tratta di un segreto di stato -servizi segreti o cose del genere-.
Dell’omicidio Jonsson sappiamo solo che erano una coppia di
New York, sposata da sette anni.
“A quanto
pare il killer era abile, ed era lì unicamente per
ucciderli: non ha rubato niente, non vi sono le sue tracce da nessuna
parte. I giornali hanno detto che i cadaveri stavano proprio
all’entrata dell’appartamento, uno di fronte alla
porta, l’altro poco più in dietro, si affacciava
al corridoio. Questo significa che il killer è rimasto sulla
porta. Sfido io che non abbia lasciato tracce.” L prese una
fragola, la immerse nella panna montata in un angolo della torta, e la
mangiò.
“Ma ancora
non mi spiego il traffico illegale di armi e il giudice
tutelare”, intervenne Mello. “E’
possibile che una coppia qualunque sia collegata ad un intrigo
nazionale?”
“Tutto
è possibile.”, disse L, “Ma abbiamo
bisogno di più informazioni, così su due piedi
non posso dire nulla di certo.”
“Dobbiamo
partire il più presto possibile. La CIA lavorerà
con noi?”, chiese Noodle.
“Non lo so,
siamo già abbastanza. Non credo avremmo bisogno di loro, e
in quel caso penseremo a chiedere loro aiuto a tempo debito. Per ora
possono cominciare le indagini per conto nostro.”
Noodle rimase pensosa.
“Il vantaggio di lavorare con la CIA… è
che ti dà accesso a tutto, qualsiasi cosa tu cerchi. Niente
ti verrà negato finché sei un’agente
della CIA. Immagina invece se noi dovessimo lavorare sotto copertura:
non avremmo nessun distintivo da tirare fuori a tempo debito. Se
potessi contattare dei colleghi di
papà…”
“Su questo
ha proprio ragione, ammettilo”, la interruppe Mello scartando
una barretta di cioccolato. Noodle si zittì, osservando L
per sapere cosa ne pensava.
Il detective rimase
pensoso. Senza più Watari aveva bisogno di qualcuno che
sapesse muoversi, che potesse muoversi, e che avesse la competenza e le
facoltà per lavorare con lui. “Sì, va
bene. Allora faremo così… un solo agente, uno
solo.”
“Il
più qualificato”, osservò Noodle con
approvazione.
“Sì,
sì esatto.”
Quando ebbero finito
Mello e Noodle si avviarono al piano superiore, in silenzio. Prima di
entrare in camera Noodle non poté resistere, quindi
chiamò: “Mello”.
Il ragazzo si
voltò, facendo muovere il caschetto biondo e guardandola con
quegli occhi azzurro ghiaccio che spesso erano decisivi per conquistare
le ragazze. Erano molto belli. Potevano essere così freddi e
così caldi, a seconda di come si sentiva, che parevano non
appartenere alla stessa persona. Quando sorrideva c’era una
luce magica in quegli occhi, ma sapevano anche gelarti dentro se solo
volevano, e farti venire i brividi per una settimana.
“Sì?”
“L’altro
giorno sei uscito con me solo per scoprire la verità su mio
padre?” Meglio essere diretti, meglio dirle subito le cose.
Mello
abbassò lo sguardo. Non era bravo a parlare, non era bravo a
dire cosa provava, a dire cose smielate, a dire ti voglio bene o
stronzate simili. Non era bravo a esprimersi in quella maniera, non
l’aveva mai fatto se non una o due volte nella sua intera
vita. Quindi si limitò a sorridere debolmente,
alzò gli occhi e disse solo: “No”.
Entrò in camera.
Il lavoro di Near era
quanto di più complicato potesse mai esserci. Non aveva la
minima idea di quanto sarebbe stato complicato organizzare un viaggio,
o anche solo avere a che fare con gli enti pubblici; se così
fosse stato avrebbe tentato di fare a cambio con Matt per il ruolo di
Watari.
Per prima cosa
cercò un hotel dove alloggiare, poi cambiò idea e
decise che siccome erano in tanti avrebbe cercato una casa a noleggio a
New York. I prezzi erano proprio da far paura, ma poi si disse che
tutti assieme di sicuro avrebbero potuto permetterselo. A dir la
verità gli unici che non avevano uno stipendio erano lui e
Mello, ma non importava poi tanto. L era pieno di soldi, Matt stava
sulla via del benessere economico e, prima o poi, si disse, li
avrebbero ripagati. Affittò con un anticipo di quattro mesi
una casa nel centro di New York, il cui proprietario era un signore che
non la usava quasi mai. Dava sulla spiaggia, era concepita come una
specie di casa per la vacanze, con tanto di terrazza sul lato
più caldo della casa, probabilmente studiata per prendere il
sole. Peccato fosse inverno. Comunque era perfetta, ci sarebbero dovuti
entrare tutti quanti comodamente. Già questa operazione,
contattare il proprietario e mettersi d’accordo, gli prese
diverso tempo. Inoltre aveva versato una grossa somma per poter entrare
nella casa il più presto possibile. Alla fine
trasferì il denaro sul conto e poi chiuse
l’affare. Per il viaggio… era un altro paio di
maniche.
Prenotò
cinque posti sul volo di linea 50677, che partiva da Heathrow, Londra,
e atterrava alle ore 20.35 al John F. Kennedy International Airport di
New York. Per le valigie fu un disastro, non aveva idea di cosa
volessero portare gli altri, ma di sicuro qualcosa di cospicuo dato che
sarebbero rimasti lì per un po’. Il risultato?
Near stava scavando fra le valigie di tutti loro per scoprire quanto
erano grandi i loro bagagli a mano. Quando finì il lavoro
decise non avrebbe mai più fatto una cosa del genere, e
piuttosto si sarebbe rivolto ad un’agenzia di viaggi.
Matt, al contrario, se
la cavava egregiamente. Dopo aver ascoltato alcune registrazioni sul pc
di Quillish Wammy impostò la voce di Watari al computer, con
il suo powerbook contattò la CIA e disse che L era
interessato a seguire il caso Jonsson. Dopo aver chiesto a Near quando
sarebbero partiti disse al capo di organizzare una riunione, con la
presenza di tutti gli agenti che lavoravano a quel caso, di
lì a cinque giorni. Si sarebbe presentato con un computer
per dare le direttive di L alle 7 del mattino di Martedì.
Ricordando vagamente un’immagine di quello che doveva essere
Watari agli occhi degli altri andò a comprare un
impermeabile marrone, un cappello dello stesso colore, delle scarpe
nere lucide e un completo grigio. Si provò tutto allo
specchio e trovò il risultato per niente male. Sembrava
proprio Watari. Si disse che probabilmente nessuno avrebbe fatto caso
ai tre o quattro centimetri in meno che aveva in altezza rispetto al
vero Watari. Alle quattro del pomeriggio Matt si stiracchiò,
cercò il suo game boy e si diede al meritato riposo.
Il riposo non
durò altro che qualche secondo dato che, poco dopo, Near
entrò in camera sua con una strana flemma rassegnata e un
metro a nastro in mano.
“Che cazzo
stai facendo?”, domandò lentamente Matt
guardandolo con tanto d’occhi mentre lui cercava qualcosa.
“Devo
controllare le vostre valigie. Te lo dico una volta e non lo scordare:
non potete portare oltre 25 kg nel bagaglio che imbarcherete, a meno
che non vogliate pagare di più. Il bagaglio a mano non
può pesare più di 10, e non potete portare acqua
o strumenti affilati. Ce l’hai una valigia tu?”
Matt rimase senza
parole, poi indicò con il braccio l’armadio. Near
vi si diresse subito, chiaramente stufo di tutta quella storia, ma
tirò fuori due valigie, una di Matt e l’altra di
Mello. Le misurò e disse in un sussurro:
“Dovrebbero andar bene, ma non riempietele troppo
capito?”.
Matt, non osando
replicare, annuì. Near stava per andarsene, quando il
ragazzo lo fermò ghignando: “Da dove viene tutta
questa laboriosità?”.
“Non lo so,
sono ordini di L”, borbottò lui chiudendosi la
porta alle spalle. Poteva sembrare vagamente infastidito ad una prima
occhiata, ma chi lo conosceva bene non dava mai nulla per scontato.
Solo nella stanza, lo
sguardo rivolto alla porta, Matt fece una risatina. Allungò
un braccio verso la mensola, prese una pacchetto di sigarette, ne
accese una e si mise comodo sulla sedia girevole.
Near era alquanto
soddisfatto di sé quando si accorse che il volo era andato
alla perfezione, e non gli passò per l’anticamera
del cervello nemmeno una volta che fosse stato grazie al pilota. Aveva
anche organizzato la spedizione dei loro pacchi tramite Fed Ex e
desiderava ardentemente che non venissero persi nel mare come era
successo a Robinson Crusoe, ma piuttosto che arrivassero sani e salvi a
casa loro il giorno dopo come avevano concordato. Quando arrivarono a
casa e si furono sistemati Near crollò soddisfatto sul
divano di pelle bianco che si trovava appena all’entrata,
mentre gli altri si guardavano attorno e le loro valigie si
disperdevano disordinate sul pavimento.
“Dopodomani
alle sette andrò dalla CIA”, annunciò
Matt infilando una sigaretta fra le labbra.
“Bravissimo
Matt”, disse L avviandosi subito verso la cucina.
“Ho
già i vestiti di Watari.”
“Come sei
organizzato”, osservò Mello.
“Ho
già predisposto il collegamento fra il computer di Watari e
quello di L, impostato la voce e pensato a tutto.”
“Hai fatto
veloce”, disse Noodle guardandolo con approvazione.
Near
sospirò. Nessuno si complimentava con lui, neanche dopo
tutta la fatica che aveva fatto! Ingrati, non avevano idea…
Il ragazzino aprì la valigia, prese "L’apologia"
di Socrate e un robot di plastica rosso, bianco e blu e se ne
andò nella prima stanza che trovò.
“Non mangi
Near?”, lo raggiunse la voce di Noodle appena prima che si
chiudesse la porta alle spalle.
“Non ho
fame!”, rispose lui senza far trapelare alcuna emozione nella
voce.
Slam!
Gli altri si
guardarono per qualche attimo, poi Mello alzò la spalle.
La casa era molto
grande e ariosa, arredata con mobili moderni e sui colori freddi del
metallo. Non c’era nulla in frigorifero, nulla nella dispensa
e niente di niente neanche nel forno. “Dobbiamo andare a fare
la spesa”, osservò Noodle. “Oggi se
permettete sono stanca, ma se volete mi occuperò io della
casa. Però sia chiaro: non aspettatevi che cucini per voi,
questo no. Già è tanto se cucino per
me”, Noodle alzò gli occhi al cielo, prese una
sigaretta e l’accese, “è solo che non
voglio che diventi tutto un porcile. Ah, e ognuno penserà
alla propria stanza.”
I ragazzi la
guardarono in silenzio per un solo secondo, poi tutti quanti
scoppiarono contemporaneamente in richieste assurde. “Prendi
della cioccolata.” “Compra qualsiasi cosa serva per
fare dei dolci.” “Non è che potresti
prendermi anche le sigarette?” “Ah, sì
anche della frutta, ma quella fresca, buona…”
“Non quelle leggere, che non si sente il sapore!”
“…fondente e senza nocciole.”
“Ti dò i soldi, ma ricordati:
PSP…” “E del latte, uova, nocciole,
amaretti…” “Quello migliore è
importato dalla Svizzera.”
“…sì anche quello. E vai anche a vedere
i prezzi dei nuovi componenti per pc...”
“…e questo è tutto credo.”
“Ah no! Dimenticavo lo zucchero a velo.”
Noodle rimase a
guardarli con tanto d’occhi, poi raccolse la sua roba, se la
mise in spalla e uscì dicendo qualcosa come
‘…coglioni disadattati’. I ragazzi si
guardarono senza capire, poi decisero di cercare una stanza.
Il giorno dopo tutti
avevano qualcosa da fare. Arrivarono i pacchi di computer e altre cose,
che vennero recapitati direttamente a casa, e allora fu tutto un darsi
da fare per mettere a posto. Il più felice in quel caso era
Matt, che iniziò a decantare le varie e tante
qualità dei prodotti informatici di L. Nel frattempo Noodle
si dava all’esplorazione della casa, segnandosi che cosa
mancava, dopodiché si fece dare da ognuno trenta dollari -e
qualche cosa in più da Matt per le sue spese extra-, ed
uscì a comprare tutto quel che serviva. Nel frattempo L
decise che avevano bisogno di una macchina, così
inviò Mello a comprarne una da pagare a nome suo. Con un
cospicuo pagamento anticipato, ma non senza sospetti, il ragazzo si
portò subito a casa una Mercedes classe M nera, con gli
interni in pelle bianchi. Quando fu davanti a casa si fermò
un secondo, poi prese il cellulare e chiamò Noodle.
“Sì?”
“Noodle dove
sei? Ho la macchina, ti vengo a prendere.”
“Sono in un
centro commerciale, Time Warner Centre mi pare che si chiami. Ci
vediamo al negozio di elettronica, devo prendere una cosa per
Matt.”
Mello si
avviò, trovò in fretta parcheggio, e
andò a cercare Noodle. Quando la trovò si stava
divertendo a giocare in un negozio di videogames ad un picchia duro con
i personaggi famosi. Cameron Diaz stava letteralmente soccombendo sotto
la potenza brutale di Emma Watson. “Tu chi sei?”,
domandò Mello.
“Cameron.”
“Vuoi una
mano?”
“Te lo
regalo”, disse Noodle passandogli il gamepad.
Non appena Mello ebbe
incominciato a giocare il match si ribaltò in favore di
Cameron. Emma Watson ricevette tanti di quei calci in faccia che non
aveva neanche il tempo per riprendersi. Il culmine della partita
avvenne quando Cameron, dopo un complesso pigiare di tasti da parte di
Mello, saltò in aria e atterrò Emma con un gomito.
La scritta The Winner
campeggiava lampeggiando su tutto lo schermo, mentre una trionfante
Cameron Diaz alzava le braccia in segno di vittoria.
“Wow”,
disse Noodle con le mani in tasca.
“Frutto di
anni e anni di allenamento con Matt. Dovresti vedere lui con questi
giochi, ci passa le ore.”
Noodle
osservò un secondo lo scaffale con il gioco. Star Fight.
“Lo compriamo?”, domandò a Mello
sorridendo.
“Un regalo
in più per Matt”, acconsentì Mello
prendendo il gioco.
Passarono a vedere dei
piccoli aggeggi per computer che Matt aveva chiesto a Noodle di
controllare, e tutti e due memorizzarono i prezzi e le caratteristiche
dei più interessanti. Quando furono in macchina, le borse
caricate nel portabagagli, Mello si mise alla guida.
“Da quanti
tu e Matt vi conoscete?”
Mello
sbuffò. “Non saprei, sono anni ormai…
sono… una decina credo.”
“Wo…
e Near?”
“Near un
po’ meno.”
“E’
un tipo strano”, disse Noodle tirando fuori sigarette ed
accendino. “Ti spiace se fumo?”
“A me no, ma
credo che ad L non faccia molto piacere.”
“Ah,
d’accordo.” Rassegnata, Noodle posò
pacchetto e accendino sul cruscotto.
Dopo un po’
Mello si strinse nelle spalle. “Near è fatto
così, è un tipo strano, ma è solo
perché lui la vede in un certo modo. E’ a
posto.”
“Ci
credo.”
“Il fatto
strano è che di lui non so niente… né
di lui né di L, ma L è un caso a
parte.” Mello sorrise alle sue stesse parole.
“Come
mai?”
“Nessuno sa
assolutamente nulla di L, del suo passato intendo. Credo che solo
Watari sapesse, e forse Roger non sa tutto.”
“E tu e
Matt?”
A Mello non piaceva
parlare di sé, ma sapeva che a Matt non dava fastidio se
glielo chiedevano. Ormai Matt non provava più rancore per i
genitori, quasi li capiva e li perdonava. In realtà aveva
una visione molto particolare, o forse ottimista, di loro: era convinto
che fossero stati loro a chiamare Watari e a farlo venire a prendere,
altrimenti non si spiegava come poteva essere uscito da quella casa
dopo esservi stato rinchiuso per tre settimane e due giorni. Si diceva
che quei due ragazzetti avevano fatto quel che era meglio per lui, e
cioè lasciarlo alle cure di un orfanotrofio per cervelloni,
perché loro lo sapevano che Matt non era come gli altri
bambini. Era troppo sveglio, apprendeva troppo in fretta, ricordava le
cose da subito. A due anni aveva un vocabolario vasto quasi quanto il
loro e a tre aveva iniziato a leggere. La visione rosea di Matt era che
i genitori lo avevano affidato alle cure di chi poteva permetterselo
facendo un grande sacrificio. Per questo non gli dava fastidio
parlarne. Per Mello la faccenda era diversa, preferiva non ricordare
gli anni passati in Germania con suo padre.
“Matt
è irlandese”, cominciò Mello.
“I suoi genitori erano una coppia di ragazzi,
l’hanno abbandonato in casa per quasi un mese prima di
chiamare Watari.”
“Dici
davvero?”, domandò Noodle senza sapere esattamente
cosa pensare.
“Non
è stato un caso”, osservò Mello
lanciando un’occhiata e un sorrisino alla ragazza.
“Lo hanno lasciato lì con il necessario per
sopravvivere e con tutti i suoi documenti, ma senza niente che
riguardasse loro. Io, personalmente, credo che non potessero o non
volessero più tenerlo, e che lo abbiano lasciato
lì per poi chiamare le autorità e farlo andare a
prendere. Ovviamente non volevano finire in prigione e quando sono
andati a prenderlo saranno stati lontani miglia e miglia. Matt crede
che volevano farlo andare alla Wammy’s House per fargli avere
un’educazione adatta a lui che loro non potevano
permettersi.” Mello fece una smorfia e si strinse nelle
spalle. “Punti di vista immagino.”
Noodle rimase con gli
occhi fissi sul vetro della macchina. Forse sentire quelle storie non
era il modo migliore di fare conversazione, ma poi fu Mello a
continuare. “Sono tedesco sai?”, disse, abbozzando
un sorriso.
Noodle si volse,
interessata. “Davvero? Lo parli ancora?”,
domandò con un sorriso.
“Si, direi
anche bene. Sono vissuto a Berlino da piccolo, fino a sette anni
quasi.”
“Davvero? E
com’è? Non ho mai viaggiato molto, sono stata solo
a Roma quando avevo otto anni in vacanza con mio padre, e poi a Londra
per venire a cercare voi.”
“Veramente
non ricordo molto la città, ero troppo piccolo e poi
abitavamo in quartiere abbastanza povero, di periferia. Berlino centro
l’ho vista solo qualche volta.”
“Ah.”
“Mia…
mia madre è morta di parto.” Mello
ammutolì dopo averlo detto, e pensò che forse non
era nemmeno il caso di dirlo. In fondo, a Noodle che poteva importare?
La ragazza per parte
sua rimase in silenzio. Non si sa mai cosa dire in questi casi.
Pensò che, forse, siccome Mello lo aveva detto di sua
spontanea volontà, allora gli andava di parlarne.
“Non hai una fotografia di lei?”
Mello
abbozzò un sorrisino, grato che Noodle avesse
rotto il silenzio. “Una.” Il ragazzo mise la mano
in tasca e tirò fuori il portafoglio, che porse a Noodle.
Dentro, la ragazza poté vedere la fotografia vecchia e lisa,
ma tenuta con un atteggiamento quasi reverenziale, di una donna alta e
bionda, con occhi azzurri e un sorriso da parte a parte. Aveva qualche
lentiggine sul naso, e in mano teneva un bicchiere di qualcosa di
ghiacciato con dentro due fette di limone.
Noodle sorrise.
“Era molto bella. Le somigli.”
Mello non seppe cosa
rispondere, così imbastì un’aria
corrucciata, si riprese il portafoglio che Noodle gli porgeva e
cercò di coprire il volto con i capelli.
Una volta in casa,
mentre Noodle sistemava la spesa e Mello snocciolava a Matt pro e
contro dei componenti per pc che avevano visto, Near, con il computer
di Watari, leggeva i messaggi a loro inviati dalla CIA. “Ci
hanno mandato la scheda dell’agente della CIA che ci
affiancherà.”
Tutti si radunarono
attorno al pc. “Chi è?”
“Si chiama
Diane Colfer.”
Il pc mostrava la foto
di una giovane donna che poteva avere poco più
dell’età di L. La scheda la classificava come una
delle migliori agenti, lavorava alla CIA da otto anni e a giudicare dal
documento era perfetta. L fissava lo schermo e disse, muovendo una mano
per aria: “Matt fai una ricerca”.
“Subito.”
Matt si mosse
velocemente e Near lo seguì con gli occhi. “Vedi
se le informazioni che ci sono in questa cartella sono vere”,
disse velocemente avvicinandosi a lui e osservando ciò che
faceva.
“D’accordo”,
disse lentamente Matt. “Non vogliamo sapere qualcosa su di
lei? Vita privata, scheletri
nell’armadio…?”
Near si
affrettò a negare. “La CIA avrà
già indagato, meglio non perdere tempo in queste
cose.”
“Dovrete
dirgli ogni cosa?”, domandò Noodle guardando L.
“No”,
decise subito lui. “Ci affiancherà, non significa
che dovrà per forza lavorare con noi. La utilizzeremo per
avere contatti con la criminalità del posto, sicuramente
saprà tutto delle bande criminali che ci sono qui,
così se saranno implicate siamo a posto. Poi possiamo
utilizzarla per farle avanti e indietro, interrogare testimoni
eccetera.”
“Basterà
darle informazioni via Watari”, disse Near.
“Hey mi pare
che Watari debba fare un sacco di giri nei prossimi giorni”,
commentò Matt con lo sguardo fisso sullo schermo.
“Non fai
altro che lamentarti”, osservò Mello pacato
lanciandogli un’occhiata. Si diresse ai sacchetti del
supermercato, frugò in cerca di una barretta di cioccolato e
la scartò. Puro cioccolato fondente. E Svizzero, come aveva
detto a Noodle! Il paradiso.
Noodle
tornò a rimettere a posto la spesa, mentre gli altri ancora
non avevano collegato tutto l’impianto di sicurezza che aveva
in mente L per la protezione della casa e della rete di computer. Si
organizzarono per il giorno dopo: mentre Matt sarebbe andato ad
interpretare Watari, L avrebbe depositato il Death Note in una cassetta
di sicurezza, gli altri erano liberi.
La notte prima avevano
dormito sparpagliati per la casa, qualcuno sul divano, qualcuno sul
primo letto che aveva trovato, mentre qualcuno aveva già
prenotato la propria camera. Quella sera, tuttavia, ebbero tempo per
esaminare tutte le stanze di quell’enorme casa e litigarsele.
C’erano abbastanza stanze per tutti, senza contare che L non
avrebbe utilizzato molto la sua. Vi era una stanzetta appena sotto il
tetto che si era aggiudicato Matt, poi una nel sottoterra che aveva
preso Near, e altre tre, due delle quali comunicanti tramite una porta,
che avevano preso gli altri. L si era preso la stanza singola, che era
piccola ma adatta a lui. Mello e Noodle, inconsapevolmente, si erano
presi le stanze comunicanti.
“Notte”,
biascicò Noodle -a chiunque passasse di lì-
chiudendosi la porta alle spalle. Una volta entrata in camera si tolse
scarpe e calzini, levò la maglietta e rimase in reggiseno e
jeans. Gettò i vestiti da lavare in un angolo e si
chinò sulla valigia non ancora sfatta a prendere una
maglietta di suo padre che spesso usava come pigiama, assieme ad alcuni
pantaloncini da calcio. Stava con il sedere in bella vista,
accovacciata sulla valigia a gambe larghe, uno spettacolo non troppo
sexy a dire il vero, quando sentì dietro di lei una porta
aprirsi. Si voltò stupita e scorse Mello, che si guardava
incuriosito attorno. Quando la vide il ragazzo fece una smorfia che
Noodle non riuscì ad interpretare, ma che non pareva
collegata alla sua posa poco femminile da orso.
“Hai visto?
Comunichiamo”, disse Mello con un vago ghigno.
Noodle lo
guardò con espressone dura. “Fuori.”
Mello
ghignò. “Scusa, ma non hai niente che non abbia
già visto.”
“Ah
be’, nei giornali porno oggigiorno c’è
di tutto. Scommetto che tu li collezioni, devi saperne un
sacco.”
“Ma quali
giornali porno? Tutta roba vera”, disse Mello appoggiandosi
allo stipite della porta.
Noodle lo
guardò affascinata. “Ma come fai ad essere
così cafone?” Si avvicinò a lui e mise
una mano sulla maniglia. “Avanti fuori, o vuoi che ti faccia
uno strep tease?”
“Se non ti
dispiace… Ahia!” Uno scapaccione dalla potenza non
trascurabile si abbatté sulla nuca di Mello.
“Va a quel
paese!”, disse Noodle infastidita, spingendolo nella sua
stanza e chiudendo la porta.
Allora,
un'importantissima comunicazione di servizio prima di iniziare:
L'aggiornamento di
Lunedì prossimo è rimandato
perché (finalmente) vado in vacanza. Quello del
Lunedì dopo ancora non so se riuscirò a farlo
perché, o torno il giorno dopo, o torno nel tardo pomeriggio
di Lunedì, quindi non so se avrò la forza di
postare. Comunque sia se non è Lunedì 15 ci
vediamo Martedì, che dovrei essermi totalmente ripresa dal
lungo viaggio xD
A parte questo, passiamo al capitolo ^^
Spero che non sia noioso perché, a ben vedere, non succede
granché. Ma prometto di rifarmi con il prossimo! Se intanto
siete curiosi e volete qualche anticipazione cliccate sulla faccina
---> *w*
E' così fica! Come si fa a non cliccarla! Credo di amarla...
A parte questo, una cosa a cui tengo particolarmente ^^ Vedere Near
alle prese con qualcosa di organizzativo... lo so, è sadico
da parte mia, l'ho fatto apposta perché sembra un tipo
completamente fuori dal mondo, e nell'anime dice anche di non essere
pratico di viaggi xD Comunque, ha reagito con la sua solita apatia e un
tocco di fastidio ben celato.
Non sono mai stata in Inghilterra (purtroppo, ma un giorno ci andrò!)
né a New York, ma la maggior parte dei luoghi citati
esistono. Nel caso invetassi qualcosa potrei anche dirlo, se me lo
ricordo.
Per il gioco di Star
Fight mi sono isprata ad un gioco che esiste davvero,
però non ricordo bene come sia perché l'ho visto
giocare parecchi anni fa a dei miei amici. Se non sbaglio ci sono i
cantati rap che combattono, o qualcosa del genere... mah! Ah, e non ho
niente contro Emma Watson, è stato il caso a scegliere che
perdesse xD
Se qualcuno vuole fare qualche ipotesi sulla storia, vi lancio un
mini-indizio (che però non vi rovinerà nulla
della trama futura, sappiatelo): avete notato uno strano comportamento
da parte di Near in questo capitolo? Uhuh! Avanti alle supposizioni!
Be', vi saluto! Ci vediamo fra uno o due Lunedì!
Buone vacanze a tutti!
Mi raccomando, lasciate un recensione piccina picciò mentre
non ci sono, così quando torno le vedo e faccio *o* ohhh!
Patrizia
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Capitolo 7 *** Searching for the chosen ***
Capitolo sei
Searching for the chosen
Watari
si presentò davanti ad un auditorium semibuio con una
ventina di agenti, in gran segreto da tutte le unità della
CIA che non fossero coinvolte nel caso Jonsson. Nel suo cappotto, con
il cappello calato sulla fronte e le scarpe lucide, nessuno si accorse
che era un giovane di vent’anni, per di più pel di
carota. Watari poggiò un computer di fronte a sé,
premette qualche tasto, collegò un filo e voltò
il computer. Una grande L, nero su bianco, campeggiava sullo schermo.
La voce metallica riempì tutta la sala.
“Buongiorno
agenti della CIA, è L che vi parla.” La voce
lasciò che gli agenti digerissero la notizia di essere in
linea diretta con il detective più famoso e meno conosciuto
del mondo allo stesso tempo. “Sono interessato a seguire il
caso Jonsson al quale ora lavorate. Vorrei che passaste tutte le
informazioni che possedete a Watari, e che mi teniate costantemente
aggiornato sui vostri risultati. Se lo desiderate potremmo scambiarci i
risultati che ognuno di noi ha ottenuto. Una vostra collega
lavorerà con me e Watari al caso, la signorina Colfer Diane.
Bene, spero che non l’abbiate a male se vi sottraggo della
forza lavoro.”
Il capo delle indagini
non poteva essere più felice della piega che stavano
prendendo le cose, così intervenne con gioia: “Non
si preoccupi. Per lei L, questo ed altro. Vi invieremo ogni mese un
resoconto dettagliato di come proseguono le indagini, e se voi vorrete
fare lo stesso ci fareste un grande onore”.
“Grazie
mille capitano. Al prossimo incontro allora.”
Lo schermo divenne
bianco e la sala esplose in un leggero brusio. Il capitano delle
indagini, un uomo alto e baffuto, si avvicinò a Watari.
“Signor Watari, saremmo lieti di passarvi ora tutte le
informazioni. Se volete seguirmi…”
“Grazie
mille”, disse Matt con le labbra nascoste dietro al cappotto.
Un orecchio attento avrebbe sentito un leggero accenno di accento
Irlandese, ma il capitano era americano da ben sette generazioni, e non
distingueva l’accento irlandese da quello inglese.
Il capitano e Watari
andarono nel suo ufficio, dove l’uomo richiese subito una
copia di tutti i file da poter dare al signor Watari. “Fra
poco saranno pronti. Si sieda, prego. Vuole qualcosa, un
caffè?”
“No grazie,
non prendo niente.”
I
due sedettero uno di fronte all’altro, e Matt
incassò la testa nelle spalle. Certo che il capitano poteva
vederlo, e anche abbastanza bene, ma non poteva di sicuro capire molto
della sua faccia se l’unica cosa che poteva osservare di lui
erano degli occhiali scuri e un po’ di naso.
“Vorrei
parlarle dell’agente Colfer.”
Matt si aspettava di
tutto, ma non questo. Nella sua mente aveva relegato l’agente
Diane Colfer come una sottospecie di fattorino per le commissioni. Una
pedina di poca importanza. “Sì?
C’è qualcosa che non va?”
“No, no, non
mi fraintenda; è una delle migliori agenti che abbiamo,
è svelta, capisce in fretta, esegue gli ordini senza
fiatare. Solo… difetta in curiosità. Io avevo
suggerito qualcun altro per seguire il caso assieme ad L. Alcuni di noi
hanno lavorato con lui in precedenza, e sappiamo che spesso si tratta
solo di seguire ordini da un computer. Temo che all’agente
Colfer non basti, voglio solo avvisarvi: potrebbe essere un problema
per voi. Temo che potrebbe non adeguarsi alle vostre regole e voglia
fare di testa di sua, forse anche per scoprire qualcosa sullo stesso
L.”
Watari rimase un
secondo in silenzio. “E cosa ci consiglia di fare? Suppongo
che comunque l’agente sia in grado di mantenere la faccenda
segreta, altrimenti non potrebbe lavorare per questa organizzazione.
Nessuno di coloro con cui abbiamo lavorato a stretto contatto, in
Giappone l’anno scorso ad esempio, hanno dato
problemi.”
“Be’
a mio parere avete due opzioni: uno, accettate di lavorare con lei e di
ammetterla a tempo pieno nelle indagini; due, sperate che non ficchi
troppo il naso.”
Di nuovo silenzio da
parte di Watari. Matt invece ragionava. Non vedeva perché
mai una persona come Diane Colfer, se davvero era come il suo capo
l’aveva descritta, facesse parte della CIA. Ma non era
importante in quel momento, quel che interessava davvero Matt era il
fatto che potesse causare problemi. Decise di vedere come andavano le
cose, e se Diane Colfer si faceva troppo spinosa allora
l’avrebbero sollevata dall’incarico. Nulla di
più semplice.
In quel momento
arrivò un agente con un cd in mano e qualche fascicolo da
consegnare a Watari. L’uomo li prese e li mise nella borsa
dove teneva anche il pc. Si alzò e tese la mano al capitano
dicendo: “Grazie mille della dritta capitano, le
farò sapere se qualcosa va storto”.
“Dovere,
signor Watari.” Si strinsero la mano, poi Watari
uscì dall’ufficio.
Il capitano si sedette
alla scrivania e mandò a chiamare Diane Colfer. Dieci minuti
dopo la donna era seduta rigidamente davanti a lui in un completo
grigio da uomo, e aspettava di sapere come mai fosse stata chiamata dal
suo capo.
“Diane, ho
appena fatto una chiacchierata con Watari.” Lasciò
che l’informazione fluttuasse nell’aria tesa fra di
loro. “Sono completamente in altro mare, mi ha rivelato
confidenzialmente. Vorrei che tu facessi del tuo meglio. Devi aiutarli
il più possibile, devi lavorare il doppio di quanto ti viene
richiesto. Non guasterebbe un po’ di iniziativa personale
immagino.”
Diane Colfer lo
osservò con occhi duri. “Non si preoccupi
capitano, so cosa fare.” Si alzò e
lasciò l’ufficio.
Il sorrisetto untoso
del capitano si sciolse in una brutta smorfia.
Matt tornò
a casa con il cd e cominciò a trasferire le immagini e i
documenti, nel frattempo si toglieva il costume di Watari.
“Allora? Che
hanno detto?”, domandò Mello scartando una
tavoletta fondente.
“Erano
contentissimi. Hanno detto che quell’agente Colfer
è una ficcanaso, che forse vorrebbe scoprire chi
siamo”, disse Matt riponendo giacca, pantaloni e microfono
all’interno di un minuscolo ripostiglio.
“Sul
serio?”, domandò Noodle stupefatta.
“Sì,
il capitano ha detto che dovremmo stare attenti.”
Near, seduto su una
poltrona, aprì la bocca per commentare. Dopo un veloce
ragionamento la richiuse e tornò a fissare i lego sul
tavolino.
Dopo aver caricato le
informazioni Matt creò una rete che comprendeva i pc di
tutti loro. Il suo era quello centrale. Condivise tutti i file relativi
all’inchiesta con tutti gli altri computer della rete e si
sedettero al tavolo a leggere.
Dopo tre ore di
lettura continuata di rapporti dedussero che:
Una coppia New Yorkese
era stata assassinata da un sicario esperto che non aveva lasciato
alcuna traccia a parte due corpi uccisi in maniera precisa e letale.
Probabilmente erano morti all’istante, con un colpo alla
testa per l’uomo e uno al petto per la donna. Dalla casa non
era stato rubato nulla di valore, niente soldi, niente gioielli, niente
di niente. Quel che la polizia aveva insabbiato - i giornali non ne
avevano riportato notizia- era probabilmente la notizia più
importante per le indagini, ed era questa: i due coniugi avevano una
figlia, una bambina che era stata rapita. Si chiamava Georgie Jonsson e
aveva sette anni. Non era la vera figlia dei due coniugi, era stata
affidata a loro dall’età di cinque anni. Qui
entrava in gioco il giudice tutelare, il signor Harold Gebert. Georgie
aveva un fascicolo alquanto complicato. La madre naturale era
un’alcolista e del padre non si sapeva nulla. Dopo che una
vicina aveva denunciato la situazione ai servizi sociali erano andati a
prendere Georgie e l’avevano portata via, affidandola alle
cure di un orfanotrofio per bambini al di sotto dei tredici anni.
Lì si avevano i primi documenti riguardo a diverse anomalie
nel comportamento di Georgie Jonsson. Stando a diverse cartelle non
riusciva a relazionarsi con gli altri bambini, stava spesso da sola e,
se qualcuno provava ad avvicinarla, lei lo minacciava di morte. Era
comunque una bambina nella media, e se ne resero conto presto: faceva i
compiti come tutti gli altri e ogni tanto trovava qualche
difficoltà, le piacevano le stesse cose che piacevano alle
bambine della sua età e giocava nello stesso modo. I dottori
conclusero che quel che la faceva agire diversamente non era un
handicap di tipo mentale. Il giudice Gebert, esaminato il suo caso,
decise che forse un ambiente familiare adeguato l’avrebbe
aiutata ad integrarsi nella società, e probabilmente a
superare il trauma degli anni passati assieme alla madre. Fu affidata
ai coniugi Jonsson, ma il primo anno che trascorse con loro fu
più dentro agli ospedali che dentro la casa dei genitori
adottivi. Dopo alcuni mesi, siccome i disturbi della bambina non
accennavano a cessare, decisero che sarebbe stato meglio se avesse
visto uno psicologo infantile. Le terapie ebbero successo e Georgie
Jonsson parve guarire. Il suo psicologo era un eminente dottore di nome
Yann D. Carter, specializzato in psicologia infantile. Le cartelle a
proposito di Georgie dicevano che era una bambina taciturna ma attenta,
e che soffriva di schizofrenia. Affermava di poter vedere la vita delle
persone e che sapeva quando sarebbero morte. Insisteva anche nel dire
di poter vedere mostri che succhiavano la vita della gente. Lei poteva
parlare con loro, alcuni erano simpatici, altri meno.
Non appena ebbero
finito di leggere i quattro ragazzi si osservarono l’un
l’altro con espressioni stupite e quasi spaventate. L aveva
una ruga profonda proprio in mezzo alla fronte, segno di grande
preoccupazione, che lo rendeva più vecchio e stanco. Erano
rare le volte in cui quella ruga compariva, e spesso era segno di
grossi guai. Tutti avevano intuito che cosa poteva essere successo.
“Ryuk”,
chiamò L.
Lo Shinigami si
avvicinò con passo lento.
“Sì?”
“Ci sono
altri Shinigami che vanno in giro a dare Death Note alle
persone?”
Il mostro scosse la
testa, gli occhi fissi sul detective. “Non che io
sappia.”
“Sei
sicuro?!”, intervenne impetuoso Mello. “Allora come
cazzo è possibile che una bambina abbia gli occhi dello
Shinigami?” Ryuk fece un ghigno malevolo in direzione del
ragazzo ma non disse nulla.
Noodle
avanzò un’ipotesi. “E' possibile che la
bambina abbia fatto lo scambio degli occhi, un po'... come un gioco,
per sbaglio. O... che tu sappia Ryuk, possono esistere umani nati con gli occhi
dello Shinigami?”
“Ah!”,
esclamò Ryuk, poi cominciò a ridacchiare.
“Oh si! Sono loro, i prescelti.
Sono sempre di più nelle ultime centinaia
d’anni.”
“Ma
perché?”, domandò Matt.
“Sono loro a
dover guidare gli uomini ad un epoca di pace, o almeno così
dice la leggenda.”
“E qualcuno
ci è mai riuscito?”, domandò Near ad
occhi bassi.
“Non
proprio. Molti impazziscono completamente, altri invece fanno grandi
cose, belle o brutte, ma grandi sicuramente. Però nessuno di
loro è riuscito davvero.”
“Ma loro lo
sanno? Di dover guidare il mondo?”, domandò Matt.
“Se vengono
avvisati forse sì”, disse lo Shinigami
stringendosi nelle spalle. “Devono essere avvisati da uno
Shinigami, altrimenti come fanno a saperlo?”
“Ma cosa
significa grandi cose?”,
domandò Mello rapito, fissando lo Shinigami.
Ryuk
sghignazzò. “Napoleone Bonaparte. Prima di lui la
strategia militare era come bere un tè dalla regina
d’Inghilterra. Elvis Presley, ha rivoluzionato la vostra
musica se non sbaglio, ha cominciato ad andare in rovina quando uno che
conosco gli ha rivelato la fine della sua vita. Pablo Picasso, era una
grande pittore e senza di lui l’arte moderna non esisterebbe,
non è vero? Questi sono alcuni dei più famosi. Ce
ne sono stati molti altri, anche in antichità, ad esempio
Platone, e credo anche Dante Alighieri, quello che ha scritto... quella
cosa, quel viaggio all'Inferno.” Ryuk ci pensò su
un attimo poi scosse la testa. "Non ci ha azzeccato nemmeno un po'."
I ragazzi si
guardarono sbigottiti. Non potevano credere alle loro orecchie. Che
Pablo Picasso fosse un tantino visionario era accettabile, in fondo era
il padre del cubismo, un movimento artistico che aveva portato
l’arte al di là di qualsiasi altra cosa. Ma Dante?
Napoleone Bonaparte? Come accettare che un così grande
stratega stesse organizzando la battaglia di Waterloo mentre mangiava
mele assieme a Ryuk? Forse per questo a Waterloo aveva perso.
“Ryuk, sei
sicuro?”, domandò Noodle come ultima speranza.
Come se si aspettasse che lo Shinigami gli rivalesse di avergli fatto
un pesce d’aprile fuori stagione.
“Assolutamente.”
“Tu sai chi
sono? I prescelti?”
“Personalmente
non ne ho mai incontrato uno. Ma se uno di noi si rende conto di essere
visto può pensare due cose: l’umano è
in possesso di un Death Note o è un prescelto”,
disse Ryuk prendendo una mela e ingollandola tutta intera.
“E se ti
dessimo il nome di uno di questi prescelti, tu andresti a
cercarla?”
“Io non sono
né dalla vostra parte, né dalla parte di
nessuno”, disse Ryuk solennemente. “E soprattutto
non sono la vostra mascotte.”
“Come
facciamo a trovarla?”, domandò Mello infastidito e
sconfortato.
“Prima di
tutto, dobbiamo chiederci chi avrebbe mai potuto rapirla”,
domandò L.
“Qualcuno
che sapeva del suo potere”, disse Near.
“Ossia lo
psicologo, il giudice tutelare, e anche i docenti
dell’orfanotrofio forse”, snocciolò
Noodle contandoli sulle dita.
“Dovremmo
andare a parlare con ognuna di queste persone”, disse Matt.
Ci pensò un secondo. “Non possiamo dire in giro
che siamo aiutanti di L, credo che dovremmo ripiegare su Diane
Colfer.”
“Cosa vuoi
dire?”, domandò Mello.
“Dovremmo
farci accompagnare da lei. E’ della CIA. Noi saremo presenti
solo in quanto suoi aiutanti agli occhi degli altri, ma potremmo
chiedere ai sospettati quello che vogliamo noi. Che ne dite?”
“Vuol dire
che dobbiamo rivelarle chi è L?”,
domandò Near.
“No, noi
diamo un incarico e lei lo dovrà eseguire,
semplice.”, sopraggiunse L. “Cambierò
nome. Non le diremo chi è L, non le diremo dove alloggiamo,
e non starà mai con uno di noi più del
necessario. Non entrerà in questa casa, non parleremo con
lei nemmeno dell’indagine.”
“D’accordo.
Allora facciamo così.”, approvò Noodle,
“Ci serve una lista delle persone che sono a conoscenza del
potere di Georgie Jonsson, dobbiamo contattarle e fissare un
appuntamento. Poi dobbiamo avvisare Diane Colfer e spiegarle la
situazione. Le diremo solo il minimo indispensabile. Siamo tutti
d’accordo?” Cercò uno sguardo
d’intensa, e i ragazzi annuirono.
“Quale
sarà il tuo nuovo nome L?”, domandò
Mello.
L ci pensò
un po’ su, poi sorrise leggermente e disse: “Un
nome americano. Adam”.
“Non
possiamo continuare a chiamarti L fra noi?”,
domandò Matt disgustato.
“Non ti
piace?”, chiese L.
“No
è che non ci sono abituato.”
“Come
volete. Noodle?”
“Sì?”
“Sai come si
preparano i bignè?”
“No.”
Adam la
fissò disgustato.
Diane Colfer,
trentacinque anni, era una donna bionda, alta, forte -sia
caratterialmente che fisicamente- con una carriera in ascesa e un
fidanzato con il quale stava da otto anni. La sua vita poteva dirsi
perfetta, se non fosse stato per un particolare.
Qualche mese fa aveva
ascoltato per errore una telefonata del suo capo. Il suo computer aveva
una qualche anomalia e captava segnali radio e telefonate
dell’ufficio, dato che era una rete privata. Dalle casse
audio aveva sentito una conversazione fra il suo capo e un uomo di cui
non aveva capito l’identità. Le erano bastati quei
cinque minuti di telefonata per capire che rubavano soldi
all’azienda. Aveva controllato la contabilità di
alcuni settori, ne aveva parlato con gli agenti addetti alla
supervisione degli interni, ma non c’erano prove di nessun
tipo, solo conti che non tornavano e dati che non quadravano, il che
faceva solo mettere le mani nei capelli ai contabili.
Dopo aver scoperto che
quella donna indagava su di lui Taylor Filler aveva cercato in tutti i
modi di metterle i bastoni fra le ruote. Le aveva affibbiato lavori
complicati, quasi impossibili, ma lei era sempre riuscita a venirne a
capo. Aveva sparso cattive voci su di lei all’ufficio, ma
nemmeno quello aveva funzionato. Stava per rassegnarsi, quando
all’improvviso era saltato fuori il caso Jonsson e la
collaborazione con L. Filler sapeva che Diane Colfer era una buona
agente, corretta e minuziosa, che non esitava a prendere
l’iniziativa, ma che sapeva anche quando lavorare sodo e
tenere la bocca chiusa. Tirando un po’ i fili sperava di
condurla ad una falsa pista, sperava che L si sarebbe lamentato di lei,
così almeno avrebbe avuto una scusa per licenziarla, o al
limite trasferirla. Diane Colfer però sapeva che
quell’uomo cercava di sabotarla, così come sapeva
di dover stare attenta. Non si sarebbe lasciata ingannare da uno dei
suoi trucchi, però doveva ammettere, a malincuore, che L
sembrava piuttosto disorganizzato.
L’appuntamento
era per le tre e quaranta al bar Frankyie’s,
ma aveva ben venti minuti di ritardo. Qualche giorno prima Watari
l’aveva contatta tramite mail per dirle
dell’appuntamento, e che tutto le sarebbe stato
spiegato allora.
Diane Colfer era una
donna che credeva nell’organizzazione minuziosa del lavoro e
anche della vita privata. Era difficile dire quale fosse, per lei,
quella che aveva più bisogno di cure assidue. Il suo passato
l’aveva in particolare convinta a controllare la sua vita
privata in maniera alquanto minuziosa. Fatto sta che non tardava ad un
appuntamento dall’età di tredici anni. Diane
Colfer non era nemmeno una donna troppo paziente, e dopo due
caffè e almeno cinquanta occhiate all’orologio che
portava al polso sinistro (un regalo di anniversario del suo
fidanzato), la rabbia cominciava a salire. Aumentò quando un
indisciplinato giovane uomo, forse addirittura senzatetto, sedette al
suo tavolo con noncuranza.
“Buongiorno”,
disse il ragazzo sedendosi con le scarpe sulla sedia, in una posizione
che le ricordò quella delle rane.
Diane rimase a
guardarlo con tanto d’occhi, poi si riscosse e disse
duramente: “Via dal mio tavolo! Sto aspettando una
persona”.
L la
osservò accigliato. Si sporse, chiamò la
cameriera e ordinò una fetta di torta al cioccolato. Poi si
rivolse a Diane, che era rimasta a guardare a bocca aperta ribollendo
di rabbia alla sua sfacciataggine, e le porse la mano.
“Piacere, sono Adam Livret. Mi manda L in persona.”
A quelle parole Diane
spalancò ancora di più gli occhi ma tese
automaticamente una mano, stringendo quella del ragazzo senza dire
nulla. Analizzò velocemente la situazione: come poteva
fidarsi di quell’essere così poco raccomandabile?
Certo, nessun’altro sapeva di quell’incontro,
quindi doveva essere per forza stato mandato da L. Diane decise di
aspettare ancora e vedere cosa succedeva, e si appoggiò
contro lo schienale della sedia.
“Sono qui
per informarla di come intende procedere L”,
continuò il ragazzo. “Ovviamente lei sa tutto sul
caso Jonsson, e saprà anche della piccola Georgie. Abbiamo
bisogno di parlare con diverse persone che hanno avuto modo di
conoscerla, e lei dovrà essere presente ai
colloqui.”
“Questo
è già stato fatto dalla nostra squadra e non
è stato trovato nulla. Avrete letto i fascicoli immagino,
abbiamo conservato tutti gli interrogatori sia in documento scritto che
in registrazione e video. Perché dovremmo rifarlo?”
L era incerto su cosa
dire. Pensava che forse, se non le avesse detto nulla, la Colfer
avrebbe fatto altre domande, ma se le avesse svelato troppo sarebbero
stati costretti a rivelarle ogni singolo dettaglio o ad estrometterla
completamente dal caso. Decise per una via di mezzo: “Lei
è un’agente della CIA. Questo può
aprire molte porte. Invece L non può presentarsi con il
tesserino di detective privato e pretendere spiegazioni in quanto L:
rischierebbe troppo. Lui ha bisogno di parlare con queste persone e di
avere delle risposte che nei vostri fascicoli non ha trovato, non gli
basterà certo leggere qualche riassunto”.
A Diane questa
motivazione andava più che bene, ma aveva altre domande
più generali. Non era un’impicciona. Voleva
conoscere il motivo per cui faceva certe cose solo per potersi muovere
più facilmente nel suo lavoro. “Mi stavo chiedendo
quale fosse esattamente il mio compito per voi.”
L la
esaminò. Tutto ciò che il suo capo aveva detto su
di lei si stava rivelando fastidiosamente vero. Quella donna voleva
sapere molte cose che altri agenti, se si fossero trovati faccia a
faccia con L -anche a loro insaputa- non avrebbero mai domandato,
essendo soddisfatti di essere già a quel punto: sarebbe
stata considerata una svolta alla loro carriera. L decise di rispondere
con franchezza e un pizzico di fastidio. “E’ questo
il suo compito. Aprirci le porte di ogni ente pubblico o privato,
mostrare il tesserino e far parlare le persone. Non ci saranno lavori
di ricerca per lei, il team è già ben
organizzato. Nonostante questo, comunque, non mi pare che lei si possa
lamentare, o sbaglio? E’ un lavoro ben retribuito rispetto ai
suoi colleghi che seguono il caso per la CIA.”
Diane Colfer
aggrottò le sopracciglia. Non sapeva se lavorare per L le
facesse poi così piacere.
Le persone che
potevano aver avuto stretti rapporti con Georgie Jonsson e che potevano
averla conosciuta meglio erano davvero poche. A parte i genitori
adottivi, ai quali non si poteva più porre alcuna domanda,
c’erano la direttrice dell’orfanotrofio dove era
stata ospitata per circa un anno, la signora Rosa Tate; lo psicologo
Yann D. Carter che l’aveva avuta in cura; il giudice tutelare
Harold Gebert che conosceva tutta la sua storia psichica fin nei minimi
dettagli; infine la madre biologica, Francy Newman, che Mello stava
tentando di rintracciare.
Prima di tutto videro
lo psicologo, colui che aveva meglio compreso la mente di Georgie, e
forse ci aveva visto qualcosa che poteva interessarlo in senso non
propriamente accademico.
Per il secondo
incontro con Diane venne scelto Matt, che si premurò di
essere puntuale. Si trovarono all’angolo fra la cinquantesima
e la Lang, davanti ad un negozio di giocattoli. Era inconfondibile,
pensò Matt vedendo quella donna. Chiunque avrebbe detto che
fosse perlomeno una poliziotta, o anche qualche altra figura pubblica
detestabile, come l’insegnante o la vigilessa. Invece, Diane
non gettò un solo sguardo al ragazzo alto, rosso di capelli
e dall’aria furba che le si avvicinò. Matt non si
presentava come un tipo del tutto a posto, a giudicare dagli occhialini
da aviatore colorati di giallo che portava sulla fronte e ai guanti di
pelle che facevano pensare ad un motociclista di Ducati Monster a corto
di benzina.
“Salve,
Diane Colfer?”, domandò tuttavia affabilmente con
un sorriso cortese. Matt aveva la particolare capacità di
riuscire a relazionarsi con tutti ad un primo impatto, a prescindere
dall’età, dal sesso, dalla razza, o da qualsiasi
altra cosa che lo differenziasse da quella persona. Spesso Mello
pensava che, se non fosse stato per la sua fissa per videogiochi,
computer e mondo virtuale in generale, ossia il motivo per il quale non
usciva molto spesso, Matt avrebbe avuto tantissimi amici.
“Sì
sono io, tu sei?”, domandò la donna con voce
austera e sopracciglia severamente corrugate. In realtà
dentro di sé era agitata, ma preferiva non darlo a vedere.
Il primo incontro con quell’Adam non le era piaciuto neanche
un po’, ma non poteva certo lamentarsi, in fondo stava
lavorando per L. Anche se si aspettava qualcos’altro di
strano e inusuale Diane avrebbe preferito trovarsi di fronte il solito,
vecchio, panciuto investigatore, con folti baffi e un abbigliamento
alla Ispettore Gadget.
Invece, ancora una volta, un giovanissimo ragazzo dall’aria
stramba.
“Mi chiamo
Matt. Andiamo?”
“Yann D.
Carter, non è vero?”, domandò Diane.
“L’ospedale dove lavora è a pochi
isolati da qui, nel frattempo potrò aggiornarti su di
lui.”
Matt la
guardò con un sorrisino, mise le mani in tasca e
cominciò a camminare. “Ma certo.”
“Yann
Dimitri Carter nasce quarantotto anni fa da padre americano e madre
russa, studia alla Foxton Elementary School, poi frequenta il liceo
alla Hamerty, e infine si laurea in psicologia con master sulla
psicologia infantile a Yale. Non vi sono grandi notizie su di lui,
poiché non ha avuto una vita molto turbolenta. Guadagna
molto, è richiesto in diverse parti del paese per casi
complicati di malattia infantile, e risolve tutto il risolvibile. Ha
una moglie e due figli, il maggiore dei quali attualmente non abita
più con lui. Ha scritto due libri, uno dal titolo La psicologia del bambino -
dalla prima infanzia ai tre anni, e un altro, Esempi di casi di schizofrenia
infantile. In questo ultimo libro, in particolare, vi sono
chiari riferimenti a Georgie Jonsson. Ovviamente tutto è
vincolato dal contratto di segretezza che c’è fra
medico e paziente, ma per chi già conosce il caso di Georgie
le allusione sono chiare. Ne ho comprato una copia e l’ho
letta tutta, ho messo il segno ed evidenziato le parti riguardanti la
Jonsson. Tutto coincide perfettamente con quello che il dottore ci ha
già detto su di lei.” Dicendo queste ultime parole
Diane tirò fuori dalla borsa un libro con diversi segna
pagina colorati e lo passò a Matt.
Il ragazzo era
parecchio stupito e soddisfatto che Diane Colfer si applicasse
così al caso, e velocemente ridimensionò tutta la
figura che si era fatto di lei nella mente. Prese il libro e
cominciò a leggiucchiarne parti a caso, camminando
lentamente. “Bel lavoro”, disse infine.
“Grazie
molte.”
Quando arrivarono allo
studio di Yann Carter, Matt e Diane si sedettero nella sala
d’aspetto, arredata con giochi sparsi a terra e mobili e
pareti color pastello. Rimasero lì quasi tre quarti
d’ora, nonostante Diane avesse chiesto più volte
del dottor Carter. La sua segretaria aveva avvisato il dottore e detto
di lui che una donna di nome Diane Colfer voleva parlargli a tutti i
costi, tuttavia il dottore in quel momento non era disponibile, e la
segretaria disse loro che dovevano aspettare ancora un po’.
Nel frattempo Diane rileggeva almeno per la decima volta il rapporto
sul caso Jonsson, invece Matt leggeva le parti del libro Esempi di casi di schizofrenia
infantile che Diane aveva evidenziato.
Quando finalmente, una
volta che tutti e due si erano annoiati e cominciavano a pensare che
forse uno di loro avrebbe dovuto tirar fuori un argomento di
conversazione, il dottor Carter uscì dallo studio,
congedò una donna e un bambino piccolo e li
guardò accigliato: nessuno di loro due poteva certo essere
considerato un bambino.
Yann Dimitri Carter
era un uomo alto dai capelli biondi, che stavano già
iniziando a sfoltirsi, un naso aquilino e un mento pronunciato.
Indossava un maglione a collo alto beige chiaro con ricami blu, un
accostamento di colori che tutti, compresa sua moglie, giudicavano
orrendo. Ma lui, incurante della sua mancanza di gusto estetico,
sfoggiò un sorriso. “Voi dovete essere il
detective Diane Colfer e…”, rimase in attesa che
Matt gli dicesse il suo nome.
“Sono il suo
aiutante, mi chiamo Sacha Granfking”, disse Matt
stringendogli seccamente la mano ed esibendosi in un sorriso cordiale.
Diane, da brava agente, non diede segni di stupore a quella nuova piega
che stavano prendendo le cose.
“Piacere di
conoscervi”, disse il dottore. “Prego, venite nel
mio ufficio.” Li accolse in una stanza che non pareva avere
niente a che fare con la medicina. C’era una libreria,
c’erano diversi giocattoli in alcuni scatoloni in un angolo,
c’era un grosso tappeto colorato con il disegno di una
città vista dall’alto, nel quale si sarebbero
potuti sedere per giocare con le macchinine, poi una scrivania bassa
con davanti due comode poltrone e, dietro, uno scaffale pieno di
fascicoli. Il tutto colorato e allegro. Il dottor Carter si sedette
dietro la scrivania, mentre Diane Colfer e il suo apprendista, Sacha
Granfking, sedevano di fronte a lui.
“Allora, so
che dovete farmi qualche domanda a proposito di Georgie
Jonsson”, disse il dottore con tono greve.
“Esatto.”,
incominciò Diane assumendo un atteggiamento serioso.
“Per quanto tempo l’avete avuta in cura?”
“Dall’età
di sei anni. Le sedute e le terapie sono durate in tutto quasi un anno
intero.”
“Vorremmo
che ci spiegasse bene nei dettagli il percorso che ha fatto con lei.
Abbiamo a disposizione il suo fascicolo, compilato da lei stesso, ma
vorrei conoscere meglio i sintomi e i comportamenti di
Georgie.”
Il dottor Carter fece
un grosso respiro e incassò la testa fra le spalle, poi
cominciò a raccontare. “Quando venne da me Georgie
aveva da poco compiuto i sei anni, conosciuto dei nuovi genitori, e non
aveva un passato molto roseo. A volte questo tipo di disturbi mentali
possono essere causati da traumi infantili, oppure può
essere una malattia ereditaria. E’ raro, tuttavia, che si
manifesti così presto in caso di ereditarietà,
quindi sarei più propenso a pensare ad un trauma. Il
problema è che non sono mai riuscito ad analizzare Georgie
tanto a fondo da trovare la causa primaria di ogni cosa. Forse ho usato
l’approccio sbagliato, ma non ho mai trovato il principio dei
suoi disturbi.” Il dottore fece una pausa. “Georgie
era una bambina normale in fin dei conti, faceva quello che le
chiedevamo di fare. Mi raccontava senza problemi tutto ciò
che le chiedevo di dirmi. La storia era sempre la stessa, e a quanto
pare ha sempre avuto queste visioni. Georgie mi disse che, da quando
lei ricordava, vedeva questi mostri, dei mostri che volavano per aria e
che solo lei poteva vedere e solo lei poteva parlare con loro. Diceva
che ce n’erano di diversi. Non le facevano del male, o
almeno, non a lei. A volte parlava con loro, diceva che alcuni
parlavano la sua lingua e altri no. Mi disse che questi mostri potevano
decidere chi dovesse morire, quando, e come. Siccome sapevo di alcuni
litigi con i bambini dell’orfanotrofio feci pressioni su di
lei, e mi disse anche che vedeva quando la gente sarebbe morta. Ad
esempio, se guardava qualcuno in faccia poteva vedere dei numeri che,
se convertiti, riportavano la data e l’ora della morte di una
persona. Disse che tutto questo le era stato insegnato da uno di quei
mostri.
“Io prima
cercai di capire come mai ci fosse questo problema, poi le spiegai che
la maggior parte della gente non vede ciò che vede lei, e
che di solito le persone si spaventano a parlare della morte,
perché non la conosciamo. Da quel momento era come se avesse
smesso di vedere alcunché, non aveva più
problemi, non litigava più con i compagni, non parlava
più da sola. Era come se fosse guarita
all’improvviso. I risultati delle analisi non hanno mai
mostrato problemi al cervello, in poche parole, non so se Georgie fosse
davvero guarita o se avesse semplicemente capito che non poteva andare
avanti così, e che le sarebbe costato troppo continuare a
dire agli adulti ciò che vedeva. Ma non c’era
più ragione di tenerla in ospedale né di
sottoporla ad altri esami, così la lasciammo
andare.”
Matt rimase un attimo
pensoso. “Che cosa disse Georgie a proposito della
morte?”, chiese Sacha Granfking.
Il dottor Carter
giunse le mani sulla scrivania. “E’ curioso che me
lo chieda, fu una cosa assurda. Disse che lei non aveva paura della
morte perché era sicura di avere ancora molto tempo davanti
a sé, il che è comprensibile da un lato, ma
è comunque molto strano che un bambino abbia pensieri di
questo tipo. Disse anche che dopo non c’è nulla di
cui aver paura. Era talmente sicura che mi sconvolse”, disse
il dottore spalancando gli occhi per una frazione di secondo.
“Certo sono
affermazioni pesanti da digerire, sentite da una bambina di sei
anni”, commentò Diane alzando le sopracciglia.
“Mi racconti meglio della sua guarigione.”
“In genere
ci possono volere mesi o più probabilmente anni per curare
una malattia simile, semmai ci fosse una soluzione. E oltre a questo si
ha bisogno di cure adeguate, medicinali, psicofarmaci, oltre che le
sedute. Georgie invece sembrava aver capito che il suo comportamento,
in questa società, non era accettato, e che doveva smetterla
se voleva vivere in pace. E lo fece. Lo fece, non disse più
una parola riguardo a mostri e morte. Era come se per tutto il tempo
avesse… finto una malattia, e poi avesse smesso
perché aveva capito che era uno scherzo di cattivo
gusto.” Il dottor Carter prese ad accarezzarsi il mento e
fissò lo sguardo da un’altra parte.
“Riflessioni
personali?”, domandò a quel punto Sacha Granfking.
Yann Dimitri si
riscosse. “B’è…”,
ricongiunse le mani e restò in silenzio per un
po’. “Non saprei proprio, è stato uno
dei casi più curiosi a cui abbia mai assistito. Credo che
Georgie fosse una bambina molto complicata e che le radici del suo
trauma siano da annoverare alla famiglia. Ha avuto una prima infanzia
molto sfortunata, ma aveva trovato dei genitori che le volevano bene.
E’ stato terribile quel che è successo, mi chiedo
chi possa averlo fatto. Quale motivo c’era?”,
chiese l’uomo alzando le spalle in
un’ingenuità degna di un bambino.
“Non si
preoccupi dottore, il motivo lo troveremo”, disse decisa
Diane Colfer.
Qualche minuto dopo
Matt e Diane bevevano un caffè in un bar, in silenzio. Matt
pensava al prossimo da interrogare, di sicuro Harold Gebert, che doveva
essere bene informato sulla salute mentale di Georgie, in modo
dettagliato e approfondito. Non credeva che il dottore fosse un
complice, gli era bastato guardarlo e sentirlo parlare per
convincersene. Oltretutto, assieme agli altri, aveva già
fatto una ricerca che pressoché somigliava a quella di Diane
Colfer, e potevano affermare che il dottore non aveva precedenti penali
di alcun genere.
“Allora,
quella storia di Sacha Granfking?”, domandò Diane
interrompendo il silenzio.
Matt alzò
lo sguardo su di lei e sorrise. “Oh sì, scusami
per non averti avvisato prima. Mi è venuto in mente al
momento. Ho pensato che uno pseudonimo non potesse andar male.
Comunque, direi che è andata bene. Sei stata
formidabile.”
“Credi che
Carter sia implicato?”
Matt scosse la testa.
“Non ha precedenti penali e non ha movente. Inoltre
l’assassino ha lasciato orme di piede, anche se non si
è dato la pena di lasciare anche del DNA, e sono troppo
piccole rispetto al piede di Yann Carter. Così, a occhio e
croce, lui porterà un quaranta o un quarantadue di
piede.”
“Chi
è il prossimo? Harold Gebert suppongo.”
“Esattamente.”
Diane
esitò. “Chi verrà con me, la prossima
volta?” La verità era che non le piaceva tutto
quello scambio di partner. Lavorava alla CIA da anni ed aveva sempre
avuto con un compagno fisso per ogni caso, o lavorato in team.
“Se vuoi,
posso chiedere ad L di venire sempre io con te”, disse Matt
alzando le spalle.
Diane Colfer si
appoggiò sullo schienale e affilò lo sguardo.
“Mi farebbe piacere, Matt.”
Eccomi
tornata, dopo un isolamento quasi totale dal mondo! Ho affrontato ore
di viaggio interminabili, corse per non perdere il treno, attese lunghe
e noiose perché il suddetto treno era in ritardo (100 minuti di ritardo?!
Poi si scusano all'altoparlante... Balordi.) ma finalmente sono di
nuovo qui, a postare un nuovo capitolo! Yaiii!
Allora, non ho molto da dire riguardo a questo capitolo qui sopra,
credo che parli da solo. Come vedete tutte le informazioni che in
"Preparations" vi erano state brutalmente negate qui abbondano, e spero
che non abbondino troppo! A questo proposito, cosa ne dite? Un po'
pesante come capitolo, proprio per le lunghe spiegazioni? Dite, popolo,
dite!
A parte il fatto che qui Ryuk dimostra una certa inaspettata cultura
(mai sottovalutare uno Shinigami xD), mi sono divertita un sacco a
parlare dei prescelti più famosi! Cioè,
è stato divertente pensare a delle personalità
che potevano essere prescelti. Il povero Elvis, se nessuno gli avesse
rivelato la sua morte magari non sarebbe ingrassato tanto... u_u xD
La storia dei prescelti, poi, è tutta inventata ovviamente,
non è ripresa né dal manga né da
altro, mi è solo venuta in mente. Se da qualche parte
è accennata, è una coincidenza enorme O.O
Cliccate qui
se volete leggere lo spoiler sul blog, che non è
così emozionante come al solito perché sono
stanca e non mi va di cercarlo -.-'' Pardon.
E Buon Ferragosto a
tutti! ^^
Patrizia
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Capitolo 8 *** The picture of Mail Jeevas ***
Capitolo
sette
The
picture of Mail Jeevas
“Credevo
che non volessi uscire troppo”, osservò L alzando
lo sguardo da una fetta di melone che si stava impegnando a tagliare
con una certa cura.
“Si
è vero, ma credo che la Colfer si senta a disagio con tutti
questi continui cambi di persona. E poi è una a posto, non
mi pare che dovremmo stare a sentire quel che ha detto di lei il
capo.” Matt stava seduto sul divano a giocare con Star Fight, nel
quale Madonna stava perdendo, nonostante i calci ben assestati, contro
un formidabile Snoop Dogg abilmente maneggiato da Matt.
“Se va bene
a te”, mormorò L tornando al melone.
Near fece scivolare lo
sguardo su Matt e aprì bocca, ma alla fine
preferì non dire nulla e tornò a guardare fuori
dalla finestra, pensieroso. Era già la seconda volta che
quasi si lasciava sfuggire dei commenti su Diane Colfer, ma
ripensandoci meglio si disse che, forse, sarebbe stato più
pratico che le cose si evolvessero da sole con Matt, senza che lui ci
ficcasse lo zampino già più del dovuto.
Noodle stava seduta
lì affianco a leggere una lettera dei suoi editori, quando
ad un trattò parlò. “Allora adesso
dobbiamo solo aspettare che Matt scopra qualcuno che sappia del potere
di Georgie.”
Si erano divisi il
lavoro. Da quel momento Matt sarebbe stato incaricato di accompagnare
Diane Colfer, qualunque fosse il suo incarico. Noodle e Mello si
dedicavano alle ricerche sulla madre biologica della bambina, Francy
Newman, la quale pareva essere sparita dalla faccia della terra. Invece
L e Near pensavano ai genitori adottivi. Nonostante fossero morti,
scavare nel loro passato poteva essere molto utile. Per quanto
riguardava il padre biologico di Georgie, non c’era alcuna
speranza di trovarlo negli archivi o simili, e forse l’unico
modo di sapere qualcosa su di lui era parlare direttamente con Francy
Newman.
“Aspettiamo”,
disse L, “poi vedremo cosa fare.”
Noodle si sedette in
cucina, finendo di leggere la lettera. Il suo libro sarebbe stato
pubblicato di lì a due settimane. A quanto pare prometteva
bene, soprattutto per la grossa pubblicità e
l’inusuale precocità dell’autrice.
Suscitava già curiosità in diverse
comunità scientifiche, nelle quali era stato annunciato con
clamore.
“Che
leggi?” Mello si era seduto di fronte a Noodle, e stava
scartando una tavoletta.
“Una lettera
dei miei editori. Ma qui nessuno a parte me e Matt mangia qualcosa di
normale?”, aggiunse dopo una fugace occhiata al pasto di
Mello.
Il ragazzo si
bloccò a metà morso. “Che vuoi
dire?”
“Non so come
fai a non pesare 100 kili. E anche L, perché i suoi livelli
di zucchero nel sangue non lo hanno ancora fatto finire
all’ospedale?”
Mello
ridacchiò. “Non lo so, siamo fortunati.”
“E Near
invece dovrebbe morire di anoressia. Siamo qui da due settimane
l’ho visto mangiare solamente una volta.”
“Near mangia
come un maiale!”, precisò Mello piccato.
“E’ solo che lo fa nella sua stanza. Ti sei mai
chiesta che fine fanno i pacchetti di patatine, i toast, il formaggio
morbido che si spalma e i succhi di frutta?”
“E
perché non mangia mai con noi?”,
domandò Noodle.
Mello si strinse nelle
spalle. “Non lo so, mangia quello che gli va quando ha fame,
quindi suppongo anche la notte, se gli capita.”
Durante i pochi giorni
di convivenza Noodle pensava di vivere assieme ad un branco di bambini
solo apparentemente cresciuti. Non sapeva chi fosse il caso
più disperato; concorrevano tutti per il primo posto alla
corsa di inettitudine
nel mondo. L non sembrava in grado di rapportarsi con
qualsiasi altra cosa che non fosse cibo, rimaneva ore e ore a fissare
il vuoto, perso nei propri pensieri. Near non usciva quasi mai dalla
sua stanza, e spesso lo trovavano a leggere, giocare o costruire torri
con qualsiasi cosa avesse a tiro in un luogo caldo e accogliente della
casa. Mello non era messo poi tanto male, era entusiasta del suo nuovo
impiego e non faceva altro che fare ricerche, proporre idee e piani,
anche se Noodle dubitava seriamente che potesse essere autonomo se non
fossero stati lei o Near (che alla fine ci aveva preso gusto) ad
occuparsi delle faccende burocratiche. Invece Matt, semplicemente,
faceva quello che gli si diceva di fare, ma almeno lui consumava pasti
decenti, si diceva sempre Noodle come scusante. I ragazzi pensavano che
Noodle fosse una ragazza a posto, che fosse acuta e gentile, ma anche
che fosse un po’ troppo acida delle volte. Il fatto
è che Noodle non era abituata a trattare con loro, che erano
sempre stati in un posto dove non avevano responsabilità,
dove non si dedicavano ad altro che ai loro interessi. Ma ben presto si
resero conto che lei sola non poteva fare le veci di un intero
orfanotrofio, e così si trovarono costretti a fare qualcosa
per conto loro. Fu un esperienza nuova e disastrante per tutti, ma
portò le sue soddisfazioni.
“Noodle”,
Mello richiamò la sua attenzione. “Che ne dici se
andiamo a cercare una palestra per allenarci anche qui? Per rilassarci
ogni tanto. Gli altri lo fanno.”
Noodle alzò
un sopracciglio. “E cosa fanno di preciso?”
Mello alzò
le spalle. “Matt gioca, Near gioca, L scrive…
mentalmente almeno.”
Noodle fece
un piccolo sbuffo. Non gli sembrava fossero grandi occupazioni e si
chiese perché mai non lavorassero al caso 24h su 24.
Dopotutto lei lo faceva, quando non era impegnata nella casa o in altre
attività che non poteva rimandare. Tuttavia non aveva idea
che il lavoro di ricerca fosse così stancante, soprattutto
quando i risultati scarseggiavano, e si chiese se non dovesse avere una
valvola di sfogo. “Sì, va bene. Ormai è
tardi”, disse la ragazza alzando gli occhi
all’orologio, “ma domani potremmo andare a cercare
una palestra.”
“D’accordo.”
Mello era felice che
lui e Noodle condividessero una passione. Non aveva mai avuto altra
passione se non quella di battere Near, ma ora che stavano seguendo
assieme il caso non sembrava più così importante.
Forse, se non ci fosse stata Noodle, avrebbe ancora voluto primeggiare,
far vedere ad L che lui era più intraprendente,
intelligente, svelto, laborioso, e un sacco di altri aggettivi
positivi. Ma ora non gli interessava più di tanto. Era
lì con loro, i suoi pochi, in un certo strano modo, amici, e
voleva più che altro far vedere a Noodle che era un tipo a
posto, un tipo adatto a lei. Forse non lo sapeva ancora neanche lui,
forse non sapeva nemmeno il motivo per il quale si comportava
così, però voleva piacergli, voleva essere alla
sua altezza, voleva stupirla e fare impressione su di lei. Voleva che
la prima persona che cercasse, quando si alzava dal letto, fosse lui.
Purtroppo, per il
momento quel suo desiderio non si avverava. “Io me ne vado
nello studio, qui c’è troppa gente”,
disse Noodle burbera alzandosi e uscendo dalla stanza. Mello
sospirò, poggiò la guancia alla mano e rimase
seduto a guardare il vuoto, pensare, e mangiare cioccolata fondente.
Quasi un’ora
dopo, senza dire niente a nessuno, L si alzò e si diresse
allo studio. La porta era aperta e Noodle stava seduta alla scrivania a
leggere un grosso tomo che L riconobbe come il libro che Mello le aveva
regalato per il suo compleanno. Rimase sulla porta, gli occhi
spalancati, fissi sulla schiena di lei. Stava lì da un
quarto d’ora in silenzio, quando si decise ad alzare una mano
e bussare piano allo stipite della porta.
Noodle si
voltò. “Ciao”, disse chiudendo il libro
e voltandosi nello stesso istante.
“Come
va?” Di solito L non faceva queste domande, era stato amico
di poche persone e si era confidato con una sola di loro, che non aveva
più il piacere di poter ricordare la loro conversazione.
Comunque aveva voglia di conoscere meglio Noodle, forse
perché sentiva ancora di avere un debito con suo padre, e
forse perché a volte poteva scorgere sul suo volto
un’aria triste e gli dispiaceva che vi fosse. Il ricordo
della sua foto da ragazzina era così diverso dalla figura
della donna che aveva di fronte, e quello sguardo un po’
impertinente e un po’ insicuro che aveva da bambina era
migliore di quello gelido che portava impresso sul viso in ogni
istante, ora che era cresciuta. Ad L sarebbe molto piaciuto rivedere il
viso della foto.
“Bene, tutto
bene”, rispose Noodle.
L si sedette su una
sedia che stava al suo fianco, rivolta verso di lei. “Sei
soddisfatta di come vanno le indagini? Adesso andiamo un po’
a rilento, ma ti assicuro che entro la fine della settimana avremo
finito di interrogare tutti coloro che hanno avuto contatti con Georgie
Jonsson. Allora avremo sicuramente una pista. Secondo i rapporti che ha
lasciato alla CIA tuo padre aveva fatto la stessa cosa e aveva anche
scoperto il colpevole. Utilizzare il suo stesso metodo non
può che essere una buona soluzione.”
“Lo
so”, disse Noodle con voce fredda.
Erano mesi che tentava
di risolvere il caso per conto suo, poi aveva provato a contattare L.
Sapeva che non si trattava di settimane prima di poter giungere ad una
conclusione, ma anche così si sentiva frustrata,
insoddisfatta. Le pareva che tutto fosse troppo statico, che non stesse
facendo nulla per aiutare suo padre. Ormai, certo, nessuno avrebbe
più potuto aiutarlo, ma sentiva di dovergli lo stesso
qualcosa. Stephen Tempor era un uomo dalla vita infelice, si era
ritrovata a pensare più volte. Aveva un lavoro che assorbiva
tutta la sua vita, una moglie che era morta dopo appena sette anni di
matrimonio e lo aveva lasciato con una figlia a cui badare. Tutti i
genitori hanno segreti che i figli non scopriranno mai, e che forse non
vorrebbero mai riportare alla luce, ma da ciò che aveva
sempre visto, Noodle pensava che suo padre fosse un uomo senza una
propria vita, o meglio, con una vita dedita al lavoro e, nel poco tempo
libero da esso, alla famiglia. A lei. E se avesse avuto altri interessi
e non avesse potuto coltivarli? Se per caso gli fosse piaciuto tanto
andare a pesca, ma non avesse mai potuto farlo? Noodle era una persona
razionale, non credeva fosse colpa di nessuno, meno che mai sua. Suo
padre aveva scelto consapevolmente la sua carriera e sapeva a cosa
andava incontro quando l’aveva scelta. La morte della mamma
aveva stravolto il suo sogno di vita felice probabilmente, ma era
andato avanti, ancora conscio di quanto il futuro sarebbe stato duro.
Ma avrebbe potuto scegliere di dedicarsi alla carriera e basta, invece
passava ogni minuto libero assieme a Noodle. Era una sorta di
sacrificio ben accetto. O almeno, Noodle la pensava così, ma
questo non toglieva il fatto che si sentisse in debito. Se lui
l’amava così incondizionatamente da rinunciare
alla propria vita, alla ricerca di un’altra donna che non
fosse lei, da rinunciare alle sue passioni, allora glielo doveva.
Per lui.
Per sentirsi meglio
con sé stessa.
“L, questo
caso sta prendendo pieghe inaspettate, non è
così?”, domandò Noodle.
“E’
vero. Georgie è una dei prescelti, e questo ci porta
più vicini a qualcosa di surreale che ad un caso
tradizionale. Ma c’è sempre un delitto, e il mio
compito è quello di trovare l’assassino dei
Jonsson e il rapitore di Georgie.”
Noodle
abbozzò un sorriso. “Credevo che non fossi
più un detective.”
“Infatti.
Non è un caso è un favore.”
Molti sentivano di
essere in debito con Stephen Tempor.
“Posso
chiederti io qualcosa?” Noodle alzò il mento
piccolo in atteggiamento fiero. L le fece segno di continuare.
“Quando troveremo l’assassino di mio padre, voglio
che lo lasciate a me.”
“Perché?”
“Lo
ucciderò.”
Lo disse
così semplicemente che, per qualche secondo, L non
capì il vero significato delle sue parole. Poi, quando
comprese, scrutò nei suoi occhi bui per cercarvi qualcosa,
qualcosa che gli confermasse che ciò che la guidava non era
solo cieca, furiosa vendetta. “Quel che dici è
molto grave Noodle, forse sei ancora troppo giovane per capire cosa
significa davvero. Ma posso dirti che chiunque sia stato
avrà la punizione che si merita. Però…
non dovresti essere così affrettata nelle tue decisioni, la
morte non è giustificabile in nessun modo e in alcuna
situazione che non sia estrema legittima difesa.” Il parere
del detective era sempre in linea con la legge.
Noodle, cui avevano
insegnato che non si interrompe nessuno quando parla, non disse nulla
finché lui non terminò. “Se credi che
non sappia cosa vuol dire la morte perché sono troppo
giovane, ti sbagli. La morte si può conoscere a qualsiasi
età, e ti concedo che non sempre, una volta che si
è conosciuta, le si dà il giusto significato. Ma
puoi star certo che io la conosco. E voglio che quel bastardo veda
calpestati tutti i suoi sogni, che sappia che il suo futuro
verrà cancellato, che non potrà mai realizzare
quel che voleva e sarà morto senza neanche averci provato.
Come mio padre.” La ragazza serrò la mascella e
guardò L con atteggiamento di sfida, come a vedere se osava ribattere.
L la
osservò serio per qualche secondo, poi abbassò
gli occhi e soppesò fra le mani un anello con cui stava
giocherellando. “Sembri conoscere molte cose della morte
Noodle. Ma non credo che tu conosca altrettante cose sulla
vita.” Così detto il detective si alzò
e se ne andò, lasciando Noodle a vagare nei propri pensieri.
Dopo una settimana
Matt e Diane avevano finito di interrogare tutti coloro che avevano
avuto rapporti con Georgie Jonsson e che sapevano della sua presunta
schizofrenia. Avevano contattato il giudice Harold Gebert, un uomo
pelato e panciuto che li aveva trattati con modi untosi e troppo
gentili ma che, dopotutto, a Matt non sembrava rappresentare alcun
pericolo. Era solo un uomo troppo attaccato alla sua poltrona che
tuttavia svolgeva un buon lavoro come giudice tutelare. Infine, senza
molte speranze, avevano contattato la direttrice del primo istituto che
Georgie aveva frequentato, ma lei si limitava a descrivere la bimba
come una pazza senza rimedio alcuno.
Matt pensava
intensamente, di fronte ad una tazza di caffè bollente molto
amaro. Di fronte a lui Diane Colfer lo osservava dubbiosa da qualche
minuto. Matt alzò lo sguardo e incontrò i suoi
occhi. “Cosa c’è?”
“Perché
credete che qualcuno possa aver rapito Georgie solo per la sua
malattia?”, chiese Diane con tono deciso.
Matt sbatté
le palpebre più volte. Quella donna era più
astuta di quanto pensasse. Probabilmente doveva aver prestato molta
attenzione agli interrogatori e notato che cos’avevano in
comune, il punto su cui Matt -o Sacha Granfking- si dilungava di
più. Per una mente bene allenata come quella di Matt la cosa
sarebbe risultata evidente da subito ma Diane aveva tratto le sue
conclusioni solo dopo aver assistito a tutti gli interrogatori. Invece
Matt aveva commesso un errore: i membri della Wammy’s House,
abituati ad essere trattati come menti geniali, avevano cominciato a
pensare che la maggior parte delle persone avessero abilità
intellettuali molto inferiori alle loro, e tendevano a sottovalutare
tutti da quel punto di vista. Per Matt si rivelò un pericolo.
“E’
il motivo più probabile”, tirò fuori il
ragazzo, improvvisando.
“Perché
dei criminali dovrebbero interessarsi alle malattie psichiche
infantili?”, domandò Diane. Stava appoggiata allo
schienale morbido della sedia del bar, teneva le braccia conserte sul
petto; la sua posizione preferita.
A quel punto Matt
pensò di usare la scusante per le emergenze. “Il
motivo non posso dirtelo, ordini di L.”
Diane
sbuffò. “Ogni volta che ti domando qualcosa ti
nascondi dietro alla scusa che sono ordini di L. Perché non
volete che sappia? Potrei aiutarvi molto di più se fossi
meglio informata”, disse la donna sporgendosi in avanti con
le sopracciglia sottili alzate.
Matt la
osservò, poi sospirò e abbassò lo
sguardo. “E va bene. Ci avevano avvisato che questo sarebbe
successo.”
“Che
cosa?”, domandò Diane.
“Il tuo capo
ci ha detto che sei una vera ficcanaso, e devo dire che ha ragione. Mi
spiace Diane, ma abbiamo bisogno di qualcuno che esegua gli ordini
senza porsi troppe domande. Riceverai comunque un compenso”,
disse Matt tentando di essere rassicurante.
“Il mio
capo?!”, domandò Diane esterrefatta e molto, molto
arrabbiata.
“Mi dispiace
Diane. Non devi cercarci più.” Matt si
alzò e fece per andarsene.
“Aspetta!”
Diane afferrò il polso del ragazzo e lo bloccò,
guardandolo con aria quasi supplicante. “So perché
vi ha detto quelle cose, ma non è vero. Posso continuare a
lavorare per voi, non farò domande.”
Matt si
liberò cauto dalla stretta. “E perché
avrebbe dovuto dirci quelle cose?”, domandò
lentamente.
“Perché
quell’uomo è un criminale e io so del suo
segreto”, disse Diane. Per un attimo la sua voce aveva preso
un tono distaccato ma poi tornò a incrinarsi quando disse:
“Lascia che ti racconti, per favore. Poi potrai fare quel che
vorrai”.
Matt la
osservò dubbioso per qualche secondo, poi, lentamente,
sedette al tavolino del bar.
Diane
raccontò ogni cosa con dovizia di particolari. Matt venne a
sapere di agenzie, soldi sporchi, alleanze fra personaggi mai
sospettati che si nascondevano dietro a piccoli personaggi minori,
venne a sapere di ricatti, di vendita di materiale confiscato, di
licenziamenti improvvisi e mai de tutto giustificati. Diane disse ogni
cosa, parlò di cifre, numeri e rendiconti bancari, ma non
aveva la seppur minima prova di quel che affermava. Matt
ascoltò con attenzione, studiò il linguaggio del
corpo di Diane Colfer, che aveva imparato a conoscere bene, e
pensò che non stava mentendo. Non sapeva se fidarsi del
tutto di lei, con quel che gli avevano raccontato, così
decise di fare una prova.
“Diane,
queste prove… dove possono trovarsi?”
“Non lo so,
forse nel computer di Filler.”
Matt pensò
molto a lungo a quel che stava per fare. Non sapeva cosa lo fece
parlare, ma parlò. E ciò che disse fu:
“Hai mai sentito parlare di Fermat?”.
“No”,
disse Diane confusa.
“Era un
matematico del ‘600”, tagliò corto Matt
distogliendo lo sguardo dal suo.
Ovviamente non voleva
che lei sapesse che era un hacker: poteva anche decidere di arrestarlo.
Era sicuro che anche facendo qualche ricerca non avrebbe trovato altro
che il matematico Pierre de Fermat, e non l’hacker
più anonimo del mondo. In pochi lo conoscevano, ossia coloro
con i quali decideva di manifestarsi e per i quali compiva lavori di
hacking a pagamento, in totale erano una cifra insignificante sparsa
per il mondo, ridicola in confronto ai sette miliardi di abitanti
terrestri. Nonostante queste persone sapessero della sua esistenza
nessuna di loro, finito il lavoro, poteva contattarlo.
L’hacker Fermat
spariva semplicemente dal loro hard disk e non se ne avevano
più tracce. Matt stava molto attento a non contattare la
stessa persona due volte, e a far trasferire il denaro su un conto
particolare.
“Cosa
c’entra adesso?”
“Niente,
volevo solo controllare la tua cultura generale”, disse Matt
ad occhi chiusi massaggiandosi la base del naso. “Cosa fai
domani?”
“Pensavo di
fare una ricerca a proposito di Francy Newman, ma mi hai detto che la
state già conducendo voi. Però posso sempre
vedere di trovare altro. Gli archivi della
polizia…”
“Lascia
stare. Piuttosto vediamoci domani e ti dirò cosa fare per
risolvere questo problema.” Matt alzò un braccio e
chiese il conto. Diane fece per prendere il portafoglio, ma Matt la
fermò dolcemente con un sorriso e una mano sul polso.
“Oggi offro io.”
Diane Colfer
bussò all’ufficio di Taylor Filler, promosso nove
anni fa a capo delle forze speciali di ricerca della CIA, primo di due
complici che da oltre dieci mesi derubavano l’azienda. Diane
attese qualche secondo la risposta del suo capo, poi entrò.
Mr. Filler stava seduto dietro la scrivania, leggeva delle carte e
quando la donna entrò alzò lo sguardo. Si
esibì nel sorrisetto più unto e falso che poteva
fare. “Diane! Che piacere vederti, siediti.”
Diane fece un mezzo
sorriso storto e si chiuse la porta alle spalle. “Ti ho
portato una caffè Taylor. Macchiato, con molto
zucchero.”
“Ah! Conosci
i miei gusti meglio di me”, disse Taylor prendendo il
caffè che Diane gli porgeva. “Allora, a cosa devo
la tua visita?” La donna poggiò il porta bicchiere
di fronte a sé, accanto al pc di Filler.
“So
cos’hai detto di me ad L. Che sono un’impicciona
che potrebbe intralciare i loro piani.” Il sorriso storto di
Diane scomparve, così come quello unto di Taylor Filler.
Diane spostò il pc che si trovava di fronte a lei, si sporse
in avanti, appoggiandosi con le mani strette attorno al
caffè starbucks
alla scrivania, e disse lentamente scandendo ogni parola:
“Non esiste alcun modo perché tu riesca a
licenziarmi Taylor. Io so cos’hai fatto, e ne avrò
presto le prove”.
La faccia di Taylor
Filler stava diventando rossa di rabbia, sembrava che l’uomo
non riuscisse a respirare dalla collera, gli deformava il viso in una
brutta maschera di odio e furia. “Non ci sono
prove!”, sbraitò con voce secca e agitata,
“Stai bluffando. Prima che tu possa anche solo capire come si
sono svolti i fatti io sarò già fuori di
qui!”
Diane
ghignò di nuovo, si ritrasse e si alzò, lasciando
il caffè sulla scrivania accanto al computer di Filler.
“A domani Taylor, riguardati.” E così
dicendo uscì dall’ufficio.
Continuò a
camminare lungo il corridoio, per le scale, nella grossa hall. Non si
fermò finché non fu fuori dall’edificio
e anche lì proseguì verso la sua destra per altri
duecento metri. S’infilò nella prima metropolitana
che trovò, prese la linea verde e scese a Bleecker St.,
cambiò con l’arancione e si diresse a Lower East
Side. Uscì dalla metrò, camminò un
altro po’, attraversò la strada e
s’infilò in un caffè.
Individuò chi cercava e si sedette al tavolo di fronte a
Matt.
“Hai
fatto?”
“Sì.”
“Non si
è accorto di niente?”
“Niente.”
“Questo
programma si chiama Crow”,
disse il ragazzo sventolando in mano una chiavetta USB,
“l’ho avuto tramite internet”, disse in
fretta. “Può copiare l’hard disk di un
pc senza che nemmeno il proprietario se ne renda conto. Questa in
realtà è un versione semplificata e modificata,
da me. E’ studiato appositamente perché tu lo
metta nel pc di Filler. Non se ne accorgerà, puoi farlo
anche di fronte a lui ma devi assicurarti che abbia il computer acceso.
Per farla breve… Hai presente quando lanci un programma sul
tuo computer? E si apre una finestra?”
“Sì”,
disse Diane concentrata. Nonostante il suo lavoro richiedesse
l’uso del pc non si poteva dire esattamente
un’esperta.
“Ecco,
questo non lo fa. Basta che trovi il modo di infilare questa chiave nel
pc di Filler, e questo copierà tutto il suo hard disk in
pochi secondi, quaranta al massimo, per poi fornirmi un modo di
accedere al suo computer. Lo puoi fare?”
“Certo”,
disse Diane, prendendo la chiavetta che Matt le porgeva.
“Ecco qui,
tutte le prove che ti servivano”, disse Matt soddisfatto
aprendo documenti su documenti sul suo portatile.
“Oh mio
Dio”, disse piano Diane osservando lo schermo ad occhi
spalancati.
“E’
tutto tuo. Se vuoi farne una copia…”
“Sì,
subito.” Diane, le sopracciglia corrugate, non staccava gli
occhi dallo schermo.
“Hai un
portatile?”
“Ne ho uno
al lavoro. Ma preferirei tenere questi documenti in casa mia, sul
fisso”, disse Diane apprensiva.
Matt
ridacchiò. “Non ti fidi più?”
“Certo che
no. Vieni a casa mia?” Diane si alzò e sorrise.
Matt in quell’espressione riconobbe qualcosa, ma non seppe
dire esattamente cosa perché sparì in un lampo,
fu come una sensazione. La sensazione di qualcosa di già
vissuto. Quando sorrideva, Diane diventava più bella di
qualunque altra donna Matt avesse mai visto.
“Adesso?”
“Ti invito a
cena.”
“Dove
abiti?”
“Dalle parti
di Central Park.”
“E’
un po’ lontano da dove sto io. Mi farò venire a
prendere.” Matt telefonò, si accordò
perché Mello passasse a prenderlo alle dieci di sera, lo
informò della via, poi attaccò.
“Andiamo?”
La casa di Diane
Colfer e Kenneth Grobson era accogliente e calda. Non appena Matt
entrò tolse la giacca e la appese vicino alla porta. In quel
momento un cagnolino di razza barboncino, dal pelo bianco e soffice,
corse verso di loro abbaiando e scodinzolando.
“Questa
è Biancaneve”, disse Diane chinandosi sul cane
accarezzandola. “Spero che tu non abbia paura dei cani. Mi
sono dimenticata di dirtelo.”
“No,
tranquilla.” Matt si chinò e accarezzò
Biancaneve sulla testa. “Sembra simpatica”,
sentenziò infine.
“E’
del mio fidanzato, adesso è un po’ vecchia ma
ancora non si stanca mai. Cosa vuoi mangiare?”,
domandò infine Diane.
Matt si strinse nelle
spalle. “Quello che vuoi tu, decidi tu.”
“D’accordo.
Il pc è in nello studio, per qualsiasi cosa chiedimi pure
tutto quel che vuoi”, disse Diane camminando veloce per il
corridoio. In un ampia stanza, fornita di una grande finestra e una
libreria che correva su tre pareti, c’era anche una scrivania
con un computer fisso abbastanza moderno.
“Aspetta,
dimmi quali documenti ti servono”, disse Matt appoggiando la
borsa al letto e prendendo il suo powerbook. “Ti conviene non
copiarli tutti, altrimenti ti prenderà spazio
inutile.”
Matt non ci mise molto
a copiare i file che interessavano a Diane nel suo pc, che pure era
molto lento rispetto al suo, almeno dal suo punto di vista. Mentre
Diane, seduta di fronte alla scrivania, revisionava i file, Matt stava
seduto sul bordo del letto e si rigirava le mani l’una
nell’altra nervosamente. “E’ perfetto,
è tutto quel che mi serviva. C’è dentro
di tutto qui”, mormorava intanto Diane, le sopracciglia
corrugate.
“Ehm…
Diane?”, chiamò Matt incerto. Lei si volse.
“Io… non lo dirai a nessuno, vero?”
Diane
sospirò e si allontanò dalla scrivania,
spingendosi via sulla sedia girevole. “Mi stai dicendo che
l’hai ideato tu quel programma?” Matt non
proferì verbo. “Comunque si capiva. Non
è legale Matt, la pirateria informatica è punita
per legge.” Il ragazzo trasalì.
Non avrebbe mai dovuto
fidarsi di una persona che conosceva da così poco tempo.
Perché lo aveva fatto? Eppure aveva aiutato Diane al massimo
delle sue capacità, si era impegnato tanto, creando persino
una variante di Crow
in una sola notte. E lei lo avrebbe denunciato. Non era preoccupato per
sé, perché sapeva che nessuno avrebbe potuto
trovarlo: nessuno sapeva il suo nome, e lui poteva scomparire
facilmente. Diane gli piaceva, anche se aveva l’aria severa e
una pessima immaginazione per i nomi degli animali, si sentiva quasi
tradito dal suo comportamento.
“Tranquillo
Matt, non lo dirò a nessuno.” Diane sorrise
complice, e di nuovo il suo viso si illuminò.
Matt trasse un sospiro
di sollievo, stupito. “Grazie.”
“Figurati.
Vado a preparare la cena. Ti piace il pollo?”
“Certo.
Arrivo, aspetta che spengo e metto via.” Matt rimase da solo
nella stanza, spense il portatile e il fisso. Rimise a posto il power
book nella borsa e lo poggiò accanto all’uscita.
Poi raggiunse Diane in cucina.
“Dov’è
il tuo fidanzato?”, domandò, appoggiandosi allo
stipite della porta.
“E’
via per lavoro, torna mercoledì”, disse lei mentre
si affaccendava attorno a due pezzi di carne.
“Che lavoro
fa?”
“Lavora per
un’azienda pubblicitaria, si occupa dei contratti con i
clienti.”
“Ti
do’ una mano?”
“No, no
siediti.”
Matt sedette e rimase
a guardare mentre Diane preparava due bistecche di pollo, patate e
verdure bollite. Poi apparecchiò, e Matt decise che poteva
essere d’aiuto almeno in quello, ma si rassegnò e
sedette di nuovo quando si rese conto che Diane lo sorpassava
gentilmente e svolazzava per tutta la cucina evitando di pestargli i
piedi e dicendo continuamente permesso
e scusa.
Mangiarono con calma, chiacchierarono tutto il tempo. Quando ebbero
finito Matt si alzò. “Dov’è
il bagno?”
“Affianco
allo studio”, disse prontamente Diane.
“Torno
subito.” Andò in bagno e cercò anche di
capire se per caso qualcosa gli si era incastrato fra i denti. Si
sciacquò la bocca più volte, poi uscì.
Matt era davvero un
ragazzo curioso e quello era uno dei motivi principali, oltre ai soldi,
per cui aveva incominciato a fare l’hacker informatico:
sbirciare nella vita della gente era quasi divertente. Non
poté proprio resistere quando, invitante come una torta con
panna e fragole per L, vide lungo il corridoio una stanza socchiusa, la
camera da letto. Sperando che non facesse rumore spinse piano la porta
che, evidentemente bene oliata, non emise un lamento e si
aprì. La stanza era illuminata dalla luce dei lampioni e
della luna che venivano da fuori, e quando gli occhi di Matt si furono
abituati alla penombra il ragazzo si guardò attorno. Non
c’era nulla di sconvolgente nella stanza, era
un’ordinaria camera da letto. C’erano un grosso
armadio, un letto a due piazze e due piccole poltrone. Su quello che
doveva essere il comodino di Diane (c’era ancora la copia del
libro di Yann Carter) c’erano delle foto e Matt si
avvicinò per osservarle: era curioso di vedere
com’era il suo fidanzato. Vide la foto di un cane, una con
Diane assieme ad un uomo alto dai capelli neri, che doveva essere per
forza il suo fidanzato a giudicare dalla cornice a forma di cuore, poi
vide anche Diane da giovane, con i capelli rossi e lisci, che rideva.
Matt spostò lo sguardo sull’ultima cornice, poi si
bloccò.
C’era un
fotografia, in una cornice di metallo liscio, ed evidentemente piegata
da un lato, siccome mancava una buona parte di una delle due persone
ritratte. La foto mostrava un bambino, a terra, in mezzo a mille
peluche. Sorrideva, con due fossette sulle guance e in mano degli
occhialini da piscina trasparenti.
“Mail!
Dai Mail sorridi, fammi fare la foto.”
“Mail
avanti, levati gli occhialini, non siamo più in
piscina.”
“Seamus
vai da lui, fagli togliere quegli occhiali.”
Seamus
si era inginocchiato sul pavimento. I corti capelli biondo cenere che
si muovevano con lui e un sorriso largo stampato sul volto.
“Mail, andiamo, togli gli occhialini, perché non
vuoi levarli?”
“Mi
piace di più così”, aveva detto Mail
stringendo le manine attorno agli occhiali.
“Facciamo
così, adesso prendiamo tutti i tuoi giocattoli, e li
mettiamo tutti sul tappeto. Ecco guarda, l’orso, la macchina,
poi c’è… il cavallo”, e
così Seamus andava elencando pupazzi e giocattoli di
plastica che disponeva tutto attorno al piccolo Mail Jeevas, che li
osservava estasiato, come stupito di possederne tanti. “Per
caso qualcuno di loro porta gli occhiali?”,
domandò Seamus.
Mail
scosse la testa. “No.”
“Loro
vogliono fare la foto assieme a te, ma devi toglierti gli occhiali,
altrimenti non ti riconosceranno poi, quando la
riguarderanno.”
“Davvero?”
“Ma
certo, tu credi che questo qui possa vedere bene?”, aveva
chiesto Seamus Jeevas prendendo in mano un pagliaccio
dall’aria buffa. “Ma certo che no, certo che
no!”, aveva urlato lanciando via il pupazzo e cominciando a
fare il solletico a Mail. Lui rideva, rotolava a terra e si contorceva,
quasi gli mancava il fiato dal ridere. Lui rideva, il suo
papà rideva, la sua mamma rideva. Ridevano tutti, e Mail
pensava che fossero felici.
Il
bambino tolse gli occhiali e si voltò verso sua madre,
quella ragazza dai capelli rossi e lisci. “Sorridi
Mail!”
Sorrise.
Due piccole fossette si formarono nelle guance piene.
“Matt, ho
trovato del gelato!” La voce di Diane Colfer raggiunse
l’ormai cresciuto Mail Jeevas come un tuono e lo
riportò bruscamente alla realtà.
Rimbombò nella sua testa e lo scosse come una scarica
elettrica. Il ragazzo fece cadere la foto, il vetro della cornice
colpì uno spigolo del comodino e si ruppe.
Tutto avveniva come in
una trance. Matt non poteva muoversi, non sapeva cosa fare. Era la
prima volta in tutta la sua vita che non sapeva che cosa fare. Non
sapeva più pensare, né respirare, né
capire. Udì i passi di Diane avvicinarsi alla stanza. Il
cuore prese a battergli forte, poteva sentire il sangue pulsare nelle
orecchie. Un doloroso groppo in gola lo sopraffece, impedendogli di
ingoiare la saliva che si faceva sempre più pastosa in
bocca. Il caldo si diradò sul suo viso e sugli arti, e si
lui sentì ribollire.
“Matt cosa
fai qui?” Sua madre lo osservava allibita, accese la luce
della stanza e rimase sulla porta, una vaschetta di gelato in mano,
senza capire che cosa stesse succedendo. Registrò il viso
paralizzato di Matt e una fotografia a terra.
Mail Jeevas vide la
donna dai capelli biondi, così diversi da quelli rossi che
portava da giovane. In fondo agli occhi però, e nella forma
del viso, nelle labbra che si stiravano nei sorrisi più
dolci che Matt avesse mai visto, si riconosceva la ragazzina che era
stata. Matt la riconobbe, e il suo corpo bollente si gelò
all’improvviso, di paura, e il suo cuore prese a battere
ancora più disperatamente. Poi, come se avesse ad un tratto
recuperato l’uso del corpo e della parola, sbatté
le palpebre. Una lacrima calda gli cadde sulla guancia ma lui la
nascose: abbassò la testa con uno scatto repentino e si
portò una mano al viso. Asciugandosi con la manica fece tre
passi veloci per uscire dalla camera, oltrepassando Diane e curandosi
non sfiorarla, di non guardarla, di fare come se non esistesse. Si
diresse alla porta senza dire una parola mentre Diane Colfer, sua madre, lo
seguiva a passetti affrettati, senza aver realmente capito che cosa
fosse accaduto.
Mail Jeevas, figlio di
Seamus Jeevas e di Diane Colfer, uscì dalla porta
inciampando su un tappeto marrone e scese velocemente le scale del
palazzo.
Il rumore delle sue
scarpe sul marmo grigio era assordante.
Ciao
a tuttiii!
Cavolo, forse questo è il capitolo che più
fremevo dalla voglia di postare! Mi piace un sacco la storia di Diane e
Matt, e mi farebbe piacere sapere che cosa ne pensate voi (so che ci
siete, lettori silenziosi!). Le indagini riprenderanno nel prossimo
capitolo, per il momento ci dedichiamo ai drammi familiari, spero di
avervi stupiti almeno un po' ^^
Il titolo dal capitolo
ovviamente è ripreso dal titolo inglese del "Ritratto di
Dorian Gray" ("The picture of Dorian Gray", appunto) di Oscar Wilde.
Mail Jeevas è il nome vero del nostro Matt e riguardo a
'picture' mi riferisco alla fotografia che gli ha fatto ricordare
quell'episodio della sua infanzia.
Oddio, sono
così curiosa di sapere cosa ne pensate!
La frase di L a
Noodle, sul fatto che lei sappia molte cose della morte ma non della
vita, è ripresa da "Gran Torino", un film di Clint Eastwood
del 2008. Non so bene come o dove la dicono, ma il senso è
quello e le parole credo più o meno le stesse. Adoro quel
film!
Bene, con le note ho
finito, e vi lascio qui lo spoiler.
Statemi beeeneee! A
settimana prossima! =)
Patrizia
|
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Capitolo 9 *** White trap ***
Capitolo otto
White trap
Near
si svegliò di soprassalto. Un brutto sogno. Ancora popolato
da quelle visioni di giganti ombre scure che lo circondavano e poi lo
pungevano, lo gettavano a terra. E lui rimaneva lì, inerme,
a farsi punzecchiare. Non faceva nulla per difendersi, come
d’altronde non aveva mai fatto nulla per difendersi in alcuna
occasione anche da sveglio. Quando Mello lo picchiava da bambino non si
difendeva, aspettava di essere malconcio e umiliato per andare a dire
ogni cosa a Roger. Non si difendeva da adulto, quando, le rare volte
che usciva per strada, la gente lo additava e lo derideva.
Near tese
l’orecchio e avvertì un pigolio proveniente dal
piano di sotto. I suoi occhi si abituarono al buio e lui scese dal
letto per andare a vedere chi fosse. In salotto, immerso in una luce
fredda proveniente dalla tv, c’era Matt, che giocava ad un
videogioco con una sigaretta appoggiata al posacenere e delle patatine
affianco. Quando Near arrivò stava premendo frettolosamente
pulsante su pulsante, ma nonostante questo il suo personaggio, un
giovane muscoloso dai capelli bianchi e dotato di due grosse spade
ricurve, venne sopraffatto. Matt sbuffò, lanciò
il gamepad sul tavolino e prese la sigaretta, poi appoggiò
la schiena sul divano e rimase lì, illuminato solo dalla
luce artificiale della televisione che lampeggiava un game over.
Una sera Mello era
uscito a prendere Matt a Central Park, ma prima che lui tornasse il
ragazzo era rientrato a sorpresa a casa e si era chiuso in camera sua.
Per circa quattro giorni non aveva parlato con nessuno. Non mangiava,
non partecipava alle indagini, non usciva dalla sua stanza.
L’unico che aveva avuto il coraggio di provare a parlargli
era stato Mello, e il risultato che aveva avuto era stato di rimanere
per due ore davanti alla sua porta. Prima a dirgli di uscire, poi a
supplicarlo, poi a imporglielo. Le altre due ore le aveva passate in
bagno, a tentare di lavare via dai capelli e dal viso la vernice bianca
per muri che Matt aveva trovato in un angolo della stanza e che gli
aveva gettato addosso. Poi, dopo un po’, Matt era uscito da
solo dal suo auto-esilio, e come se niente fosse aveva ricominciato a
collaborare alle indagini, a mangiare, a giocare con i videogame. Era
più taciturno, spesso pensava ai fatti propri e sembrava che
il resto del mondo per lui svanisse. Gli altri erano felici che fosse
finalmente uscito dalla stanza e che il momento peggiore fosse passato,
ma nessuno di loro era uno psicologo o comunque una persona con buoni
precedenti nei rapporti interpersonali, così non gli
chiedevano nulla per paura di peggiorare la situazione. Neanche Mello
osò parlargli, e preferì seguire la scelta
dell’amico e fare finta di niente.
Near avanzò
fino al divano e si sedette affianco a Matt. Per un po’
nessuno di loro parlò e l’unico rumore che si
sentiva era quello della plastica del sacchetto di patatine, al quali
entrambi mettevano mano. Poi, con voce simile ad un sibilo, Matt disse:
“Diane Colfer è mia madre”.
Near rimase un secondo
in silenzio, ragionando. Non riusciva a vedere la cosa se non dal punto
di vista logico. La cosa avrebbe dovuto fargli piacere, o almeno
così aveva sempre pensato. “Posso capire che tu
sia sconvolto, ma credevo che la scoperta ti avrebbe reso
felice.”
Matt
rimuginò ancora. “Infatti. Non so
perché ho reagito così.”
“Come
l’hai scoperto?”
“In casa sua
c’era una foto mia e di mio padre. Credo che a questo punto
anche lei se ne sia accorta.”
Rimasero in silenzio
per un po’, poi Near chiese: “Cosa vuoi
fare?”.
“Non lo
so.”
Mello e Noodle avevano
cercato per settimane di scoprire dove si trovasse Francy Newman, ma
senza l’aiuto di Matt, prima impegnato con Diane Colfer e poi
misteriosamente auto-reclusosi in camera sua, le ricerche procedevano a
rilento. Alla fine erano riusciti a delineare grossomodo un quadro
della vita della donna e trovato la sua abitazione.
Francy Lois Newman era
nata nel New Jeresy ventisei anni prima. Aveva frequentato
lì le scuole elementari e poi le medie. Aveva iniziato il
primo anno di superiori, ma non l’aveva mai terminato. Pochi
mesi dopo era scappata di casa, probabilmente a causa di problemi
familiari: il padre era morto quando lei aveva tredici anni, e la madre
si era risposata da poco. A diciannove anni era rimasta incinta di un
uomo sconosciuto e aveva avuto Georgie. Si era trasferita a Las Vegas
dove, molto probabilmente, manteneva sé stessa e la bambina
prostituendosi, e occasionalmente ballando nei locali. Appena un anno
dopo era andata a New York, ed era scomparsa dopo che gli assistenti
sociali le avevano portato via la bambina.
“Abita fuori
New York, a Berksville, in un bilocale di una palazzina. 34, Casedon
St.”, recitò Mello voltandosi verso L.
Il detective rimase
pensoso. “Matt e la Colfer andranno ad interrogarla
domani.”
Matt alzò
di scatto la testa. “Perché io?”
“Ha chiesto
espressamente di te. E a te andava bene”, osservò
L.
“Non ci
voglio più andare.” Matt si alzò e
andò in camera sua, sbattendosi la porta alle spalle.
L rimase a guadarlo
perplesso. Aveva una mezza idea di ficcare la testa nella sua stanza e
dirgli che domani ci sarebbe andato, nolente o volente, ma infine
intervenne Near. “Perché non Mello e
Noodle?”
“Dovremo
saltare gli allenamenti di domani”, osservò Mello,
esultando internamente.
“Non
importa, forse troveremo una pista. Quanto ci vuole da qui per arrivare
fino a Berksville?”, domandò Noodle.
Mello
controllò velocemente su internet. “Un
po’. Se partiamo presto, verso le otto, potremmo essere
lì per le quattro di pomeriggio.”
Noodle scosse le
spalle. “Andiamo fino a là a cercarla, e per la
notte potremmo restare in qualche hotel e ripartire il giorno
dopo.”
“Perfetto.
Vado a controllare la macchina.”
Quel pomeriggio Mello
fece una revisione completa alla Mercedes classe M, che stava man mano
diventando il suo orgoglio, nonostante non fosse nemmeno intestata a
lui. Poi preparò una borsa con della cioccolata, un cambio
d’abiti, telefono e caricabatteria, il suo portatile e 300
dollari in contanti, più carta di credito e documenti.
Noodle fece lo stesso.
Il mattino dopo, alle
sette in punto, la sveglia di Mello suonò. Il ragazzo si
alzò, fece colazione (cioccolato extra fondente proveniente
direttamente dalla Svizzera) e una doccia veloce, poi prese il suo
borsone e si mise davanti alla porta. Nemmeno due minuti dopo
udì i passi secchi di Noodle che scendevano le scale.
“Hai tutto?”, domandò Mello.
“Sì”,
disse Noodle.
Tutti e due erano
eccitati all’idea di andare a cercare e interrogare Francy
Newman, per un mix di motivi diversi e diverse speranze. Mello era
felice che finalmente L gli avesse assegnato un compito tanto
importante, anche se si rendeva conto che era stato dettato dalle
circostanze. In più gli piaceva l’idea di
trascorrere tanto tempo assieme a Noodle da soli. In quelle settimane
si era reso conto che lei era una di quelle rare ragazze che potevano
interessargli. Interessargli davvero, non una di quelle che definiva ragazze-scopata. In
realtà non ne aveva avute così tante, ma aveva la
sua fetta di esperienza nel campo e riusciva a distinguere una ragazza
carina da una ragazza bella. Noodle era decisamente bella. Non sapeva
il perché, ma d’altronde nessuno conosce il motivo
per il quale una persona diventa così speciale per noi,
però gli piaceva il modo di fare di Noodle.
La ragazza invece non
vedeva l’ora di fare qualcosa di concreto, e quando
salì su quella macchina venne presa da una sorta di
soddisfazione orgogliosa. Quando aveva lavorato da sola, seppur per
poco tempo e con scarsissimi risultati, paradossalmente si era sentita
più attiva di quanto non lo fosse quando aveva preso a
lavorare assieme ad L. Le sembrava di non fare nulla di utile, anche se
faceva molte ricerche e le indagini lentamente progredivano, ma sentiva
di poter fare più di quello, di doverlo fare.
Così, quando fu la volta di viaggiare, interrogare, scoprire, per
Noodle quello fu il vero inizio delle indagini. Era anche abbastanza
soddisfatta che non le toccasse andare assieme ad L o Near. Matt
sarebbe andato bene, ma quello con il quale aveva davvero legato di
più era Mello. Era un ragazzo particolare, non aveva mai
conosciuto nessuno come lui. Si arrabbiava facilmente, a volte
rispondeva in modo acido che le faceva venire voglia di strozzarlo, ma
era anche molto empatico e sapeva quando doveva stare zitto, quando una
parola in più sarebbe significato oltrepassare il limite. Lo
apprezzava molto per questo.
Viaggiarono fino
all’una facendo solo una sosta in autostrada per fare in modo
di sgranchirsi un po’ le gambe, e siccome aveva guidato Mello
fino ad allora, per proseguire fecero cambio e Noodle andò
al volante. A quell’ora ne approfittarono anche per pranzare
dato che lo stomaco della ragazza brontolava rumorosamente.
Personalmente Noodle se ne vergognava un po’.
“Cos’è
stato?”, domandò Mello alzando la testa di scatto
con gli occhi spalancati.
“La mia
pancia”, disse Noodle controvoglia.
Mell
ridacchiò e disse: “E’ per questo che
anche tu dovresti mangiare la cioccolata. E’ buona,
nutriente, e non ingrassa”.
Noodle si
accigliò. “Credo che tu sia ipertiroideo, e anche
male informato.”
“Perché?”,
domandò Mello stupefatto.
“Solo tu non
ingrassi con la cioccolata. E ne mangi a valanghe. Mi chiedo come sia
possibile, è del tutto contro natura.”
“Faccio
sport”, disse Mello, come se quell’osservazione
bastasse a fugare tutti i dubbi. Il ragazzo adocchiò un
cartello. “Fra un po’ ci possiamo fermare a
mangiare. Mezz’ora forse.”
Dopo
ventitré minuti Mello aveva parcheggiato la macchina di
fronte ad un motel con ristorante, benzinaio e negozio per i souvenir
lungo l’autostrada. Seduti uno di fronte all’altro,
su un tavolo in finto legno, Noodle ordinò: “Un
piatto di spaghetti al ragù, una porzione di pollo fritto e
un’insalata grande. Da bere una bottiglia d’acqua
naturale da un litro e vorrei anche la salsa piccante,
grazie”.
La cameriera scrisse
tutto, poi si rivolse a Mello. “Per te?”
“Niente,
grazie.”
“Consumazione
obbligatoria minima di tre dollari”, disse lei indicando un
cartello appeso sul vetro del ristorante che tuttavia era leggibile
anche al contrario. “Se vuole può ordinare un
menù giornaliero da dodici dollari e riceverà un
buono da cinque dollari da usare al negozio di souvenir, oppure un menù classic da
dieci dollari con dolce gratis a scelta, può anche prendere
un menù maxi
pollo con o senza birra, con sono sedici dollari, senza
quattordici, e riceverà un regalo omaggio.”
Mello rimase a
guardarla per qualche secondo senza capire. Quindi, imbronciato, prese
in mano il menù e ordinò bruscamente:
“Una coca”.
“E
basta?”
“Sì.”
Noodle sorrise dietro
le mani, tentando di non farsi vedere da Mello, ma lui la vide lo
stesso e un po’ del suo malumore svanì.
“Non si direbbe, sai, che una piccola come te possa mangiare
così tanto.”
“Faccio sport”,
scimmiottò Noodle.
Dopo che ebbero
mangiato, i ragazzi gironzolarono un po’ nel negozietto di
souvenir, che consisteva in cappellini, piccoli peluche per la
macchina, adesivi, giochi per bambini, riviste di ogni genere e cibarie
dal dubbio gusto. Poi uscirono, e Noodle si accese una sigaretta.
“Cosa ne
pensi di questa indagine?”, domandò la ragazza.
“Credo che
la cerchia di sospettati non può che essere infinitesimale.
Immagino che sia un vantaggio e uno svantaggio al tempo stesso.
Insomma… quante persone ci possono essere a conoscenza
dell’esistenza di Shinigami?
E degli occhi dello Shinigami? E anche se fosse: a cosa serve se non
hai un Death Note?” Mello esitò. “Tuo
padre…”
“Sapeva?”,
lo anticipò Noodle. “Non lo so. Forse non sapeva
nulla, ma era sulla strada giusta comunque. Forse invece sapeva ogni
cosa. Entrambi due buoni motivi per ucciderlo.” Noodle
aspirò il fumo amaro e lo buttò fuori, un
po’ dalla bocca e un po’ dal naso, sospirando.
“Cosa faremo se neanche Francy Newman sarà una
possibile sospettata?”
“Ricominceremo
daccapo. Se tuo padre, quasi da solo, è riuscito a scoprire
qualcosa, non vedo perché non dovremmo noi tutti assieme. Se
i sospettati non sono fra le persone che abbiamo interrogato allora
dev’esserci sfuggito qualcosa; un collegamento, un movente,
un fatto microscopico. Ricominceremo da capo e allora lo
troveremo.” Mello stava in piedi di fronte a Noodle e
osservava la strada con occhi fissi. Non vedeva altro che la sua mente,
in un lavorio continuo.
Noodle
terminò la sigaretta, si stiracchiò e disse:
“Vuoi che ti dia il cambio?”.
“Magari.”
Mello le porse le chiavi e Noodle entrò in macchina.
Arrivarono a
Berksville alle sedici, e gli ci volle un’altra
mezz’ora per trovare il numero 34 di Casedon St. Suonarono al
campanello tre volte ma nessuno aprì, così
decisero di fare un giro. In un negozio di elettronica si misero a
giocare a Guitar Hero
ma nessuno dei due era poi troppo bravo. L’unico motivo per
cui vinse Noodle fu che, a metà canzone, il cellulare di
Mello squillò e lui abbandonò il gioco.
“Sì,
pronto? Metti pausa”, bisbigliò a Noodle.
“Non so come
si fa!”, disse lei ridendo senza controllo.
“Siamo qui,
siamo arrivati mezz’oretta fa. La Newman non è in
casa. Poi ci torniamo.” Pausa. “Ci fermeremo in un
motel per la notte, non c’è problema.”
Pausa. “D’accordo. A domani.” Chiusa
conversazione.
Quando, fra una
lamentela e l’altra di Mello e la sua richiesta di una
rivincita, tornarono alla casa di Francy Newman e suonarono il
campanello, una voce roca di donna rispose subito.
“Sì? Chi è?”
“Signorina
Newman siamo dell’ufficio Assistenza Cittadini, vorremmo
farle qualche domanda”, disse Mello al citofono. Francy
Newman non rispose e il cancelletto si aprì con uno scatto
pochi secondi dopo.
All’ultimo
piano dello stabile c’erano quattro monolocali e un bilocale,
nel quale abitava Francy. La donna che aprì la porta poteva
avere anche più di trent’anni tanto era sfatta, ma
dalle loro ricerche risultava solamente sei anni più vecchia
di Noodle. Era secca e filiforme, aveva capelli biondi che le cadevano
flosci sulle spalle, due occhiaie nere e un rossetto sgargiante e
volgare. Portava un maglione azzurro a collo alto e dei pantaloni neri
molto stretti. “Si?”, domandò Francy
Newman appoggiata allo stipite della porta con un braccio, osservando i
due strani personaggi che, lei sapeva, dovevano prima o poi arrivare.
Li aveva visti dalla finestra quando erano passati prima, ma non aveva
risposto. Erano i suoi
ordini, e per qualche biglietto da cento questo e altro.
Questa volta
parlò Noodle. “Vorremmo farle qualche domanda
signorina Newman, possiamo entrare?”
Francy Newman
ghignò. Si scostò dalla porta e disse con voce
roca: “Ma certo”.
La casa era composta
da un salone, un cucinotto, un minuscolo bagno e una camera da letto.
In salotto, sul divano, sedevano Noodle e Mello, di fronte a loro, su
una sedia, Francy Newman madre naturale di Georgie Jonsson, teneva una
sigaretta mollemente in bocca. Li osservava con occhi diffidenti.
“Quindi lei
ora non sa nulla di sua figlia”, ripeté Noodle.
Francy fece segno di
no con la testa. “Non mi hanno fatto sapere più
niente di lei. Quei bastardi dell’Assistenza Sociale se la
sono portata via. Non la vedo da allora.” La donna
fissò lo sguardo lontano. “Sono quasi tre
anni”, affermò poi.
“Sua figlia
aveva disturbi psichici. L’ha mai portata da uno
psichiatra?”, continuò Noodle.
Francy fece scattare
lo sguardo su di lei. “Mia figlia non aveva problemi
psichici. Era una bambina, i bambini giocano, hanno amici immaginari!
Me lo hanno detto i giudici, hanno detto che mia figlia era
schizofrenica”, sputò fuori Francy Newman con
sguardo di scherno, come se fosse ridicolo quel che le avevano detto.
“Mi hanno accusata di maltrattamenti, dicevano che era colpa
mia!”
Mello e Noodle, dopo
quell’improvviso lampo d’ira, stavano
sull’attenti. Mello sapeva per esperienza personale come
reagisce un alcolista e sapeva che poteva diventare pericolosa. Certo a
vederla così Francy Newman non rappresentava un grosso
pericolo, ma poteva avere un’arma, e siccome era fuori di
testa un motivo per usarla l’avrebbe trovato senza
difficoltà. Mello la osservava con occhi esperti e
registrava ogni sua mossa, che poteva essere potenzialmente violenta.
“E secondo
lei perché allora Georgie s’inventava le
cose?”, tentò di nuovo Noodle.
Francy Newman si
strinse nelle spalle e spalancò gli occhi, allargando le
braccia. “Non lo so. Ma Georgie non è
schizofrenica, ha tanta immaginazione! Dovevano lasciarla con me,
l’hanno data in affidamento a quei due stronzi, e infatti
adesso non si sa più che fine abbia fatto. Un bambino deve
stare con i propri genitori.”
Noodle e Mello si
scambiarono un’occhiata. Quella donna era strana e poteva
esserci una piccola possibilità che fosse stata lei stessa a
rapire Georgie e uccidere i suoi genitori adottivi. Prima di tutto la
sua indole incerta suggeriva un carattere impulsivo, come quello di
Mello ma senza la vena furbesca, poi pareva molto arrabbiata del fatto
che le avessero portato via la bambina. Né Mello
né Noodle escludevano il fatto che la donna stesse facendo
una sceneggiata, e non nascondesse per caso Georgie Jonsson in qualche
sgabuzzino o da qualche complice. Sarebbe significato che nulla aveva a
che vedere con il fatto che Georgie fosse un prescelto, e questo in
qualche modo consolava i due ragazzi. Noodle ricordò che
Ryuk aveva detto che i prescelti spesso vivono vite difficili. Comunque
Mello e Noodle sapevano che il procedimento da fare era lungo,
avrebbero dovuto continuare le ricerche sulla Newman per un altro
po’, per controllare che fossero sulla giusta strada. Non
potevano permettersi di procedere alla cieca in un caso così
complicato.
“Quindi lei
non crede che Georgie fosse malata”, affermò Mello.
Francy Nweman scosse
la testa. “Non era malata, cercavano solo un pretesto per
portarmela via.”
I due ragazzi
giudicarono inutile continuare quella conversazione: era chiaro che la
Newman aveva qualche rotella fuori posto, non raro per una persona che
abusava di droghe e alcool. Mello si alzò per primo e
strinse la mano alla donna. “Grazie mille signorina Newman,
ci è stata di grande aiuto.”
“Di
nulla”, rispose lei stringendo le mani ad entrambi e andando
verso la porta. Mentre i due aspettavano che aprisse la doppia
serratura e togliesse il catenaccio non si guardavano nemmeno, per
paura di farsi scorgere a scambiarsi sguardi complici. “Non
si apre…”, borbottò Francy spazientita
colpendo la porta con il palmo della mano. La serratura
scattò.
Un braccio fasciato di
bianco passò davanti a Noodle e le bloccò il
collo. La ragazza sgranò gli occhi e smise di respirare per
qualche secondo, sorpresa. Poi reagii. D’istinto aveva
portato le mani al braccio del suo aggressore, per allontanarle dal
collo. Lo morse, e quello si allontanò da lei, senza un
gemito. Noodle si voltò. Una figura tarchiata, completamente
vestita di bianco in un completo aderente, che somigliava a quello dei
tiratori di scherma, le stava di fronte. Il volto era coperto da una
maschera, totalmente bianca anch’essa e senza espressione.
Noodle, istintivamente, si mise in posizione di difesa ma prima che
potesse del tutto alzare la braccia fino al viso un pugno fulmineo la
colpì allo zigomo sinistro. La ragazza finì
contro il muro, picchiò la testa. In una confusione sfocata
vide Francy Newman che si allontanava da loro e Mello che fronteggiava
l’aggressore. Per un po’ andò bene, poi
un calcio lo colse impreparato sul lato sinistro. La violenza della
scarpa che si abbatteva sulla tempia di Mello fece esplodere nel
ragazzo un dolore rimbombante alla testa e all’occhio. Si
portò una mano al viso, indietreggiando, e la premette
contro la palpebra sinistra chiusa forte. Quando tentò di
riapre gli occhi vide mezzo mondo sfocato, dalle lacrime che uscivano
dall’occhio colpito. Una figura bianca avanzava verso di lui
e avvertì altri due colpi, uno alla mascella, uno al naso.
Nel frattempo Noodle si era ripresa e si lanciò con furia
sulla figura biancovestita. Più preparata, pronta al
combattimento, la ragazza si muoveva veloce e precisa. Era come un
allenamento.
Difesa. Attenzione.
Cautela. Previsione delle mosse dell’avversario, se
possibile. Difesa. Attacco. Attacco. Difesa. Attacco. Avanzare.
Attacco. Avanzare. Difesa. Ci vollero pochi secondi perché
Noodle capisse che l’avversario che aveva davanti era
esperto. Non particolarmente veloce, ma molto forte. Le sue mosse
venivano anticipate dalle sue movenze, e Noodle aveva così
un piccolo vantaggio. In compenso, quando l’avversario
colpiva, lo faceva con tanta forza e precisione che i colpi successivi
andavano tutti a segno, poiché Noodle rimaneva stordita per
qualche secondo.
Quando Mello riprese
coscienza di ciò che stava accadendo si fiondò
sulla porta gridando: “Noodle! Andiamo!”. La
ragazza, che era riuscita ad assestare un paio di pugni, corse via
assieme a Mello.
Quando uscirono dal
palazzo era quasi buio. Il cielo era blu scuro e la strada illuminata
solo dalla luce troppo intensa dei lampioni. Non c’era
nessuno. Mello e Noodle correvano senza sosta, la seconda
più ammaccata del primo. La macchina stava a circa cento
metri, in una traversa a fondo chiuso. Dei passi dietro di loro,
chiaramente diretti a raggiungerli, li fecero correre più
veloce. Non c’era nient’altro che la strada che
scivolava sotto i loro piedi e la certezza che non dovevano rallentare.
Mello, le orecchie
piene del battito cardiaco e del rumore sordo delle sue scarpe
sull’asfalto, raggiunse la macchina e tirò fuori
le chiavi, impacciato e con le mani tremanti. Aprì le porte
e si fiondò dentro. Mise in moto, uscì dal
vialetto, guardando la strada dove doveva esserci Noodle. La
cercò nel buio, accese i fanali, non la vide.
Imprecò.
Quel maledetto in
bianco l’aveva presa, senza che nemmeno se ne rendesse conto.
Si chiese come diamine aveva fatto. Noodle correva solo a due o al
massimo tre metri di distanza da lui! Come poteva non aver sentito
nulla? Evidentemente il loro intento era catturare tutti e due. Era
stato un piano ben architettato. Sapevano che sarebbero arrivati, li
avevano colti di sorpresa organizzando ogni cosa alla perfezione. Chi
altri sapeva della loro venuta lì? Diane Colfer? Possibile.
Il rapitore di Georgie e assassino dei Jonsson poteva aver anticipato
le loro mosse? Non c’erano molte tracce che avrebbero potuto
seguire e probabilmente l’organizzatore di quella farsa
sapeva ad intuizione chi loro potevano voler interrogare,
immaginò Mello. Probabilmente si era messo
d’accordo con Francy Newman, promettendole dei soldi o
qualcosa di simile. E se fosse stata la stessa Francy ad architettare
tutto quello? Ma non era una donna piena di risorse economiche, e solo
le persone con un discreto capitale potevano assumere un assassino o
comunque un professionista che portasse a termine il lavoro sporco. E
quello che c’era la dentro sembrava proprio un professionista.
Se Mello fosse tornato
a prendere Noodle, considerato lo stato in cui era, probabilmente ne
avrebbe prese ancora e si sarebbe fatto imprigionare assieme a lei. Che
cosa le avrebbero fatto? Non volevano ucciderla, molto probabilmente
volevano utilizzarla per ottenere informazioni su chi li stava cercando
e a che punto erano con le indagini. Non l’avrebbero uccisa
prima di sapere qualcosa.
In questi pensieri
passarono circa quattro secondi. Mello imprecò di nuovo,
picchiando una mano sul volante e stringendo i denti. Una goccia di
sangue volò sul finestrino e il ragazzo si toccò
il viso. Il naso e la bocca erano umidi di saliva e sangue, che
scendeva a fiotti fino a macchiargli i vestiti. Mello mise la mano sul
cambio, lasciò andare la frizione e fece
un’inversione a U. Schiacciò il piede
sull’acceleratore diretto alla statale.
Heylà!
Allora, due cose proprio piccole piccole sul capitolo:
La parte del ristorante fra Mello e la cameriera non è tutta
farina del mio sacco. Me l'ha ispirata "City", di Alessandro Baricco.
E' un libro bellissimo, comunque c'è una scena molto simile
(anche se la sua ovviamente è molto più
divertente della mia xD).
Poi, la questione del cibo in Death Note xD E' una cosa scemissima da
mettere in una nota e
anche nella fanfiction, lo so, ma è una cosa
che mi fa impazzire! xD Cioè, Mello mangia solo
cioccolata! Deve avere qualche problema xD
A parte questo, cliccate qui
per lo spoiler e ditemi cosa ne pensate del capitolo se vi va =)
Soprattutto del combattimento fra Noodle e l'uomo misterioso: non ho
mai descritto combattimenti corpo a corpo come questo e sono curiosa di
sapere se si capiva cosa stessa succedendo xD
Be', a parte questo adieu! Addio! Adios! Al prossimo capitolo (quindi
non proprio addio)!
Patrizia
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Capitolo 10 *** Play by the rules ***
Capitolo nove
Play by the rules
Near era ancora indaffarato come non mai.
Si era messo l’anima in pace e aveva capito che nessuno
meglio di lui avrebbe mai potuto organizzare un trasferimento.
Cercò una seconda casa in affitto a Berksville e la
pagò con tre mesi di anticipo, insisté con tutti
perché non chiamassero nessuno che li aiutasse a fare tutti
i bagagli, quindi inscatolarono di nuovo ogni cosa loro stessi. Poi il
ragazzo noleggiò una macchina per il trasporto di tutte le
attrezzature, per le quali la Mercedes non bastava. Terminò
di organizzare tutto in soli due giorni. Si stava facendo un esperto.
Mello era tornato alle quattro di mattina della scorsa notte. Bussava
alla porta disperatamente e quando L andò ad aprire lo
trovò accasciato sullo zerbino, il viso pallido e la
maglietta zuppa di sangue scuro. Mello aveva accennato ad un uomo
vestito di bianco, a Francy Newman, e aveva detto che Noodle era stata
rapita. L gli aveva ficcato della cioccolata in bocca per farlo stare
zitto e aveva chiamato il 911. Mello aveva perso parecchio sangue, si
era rotto il naso e l’occhio sinistro aveva dovuto subire
un’operazione con il laser perché la retina
dell’occhio si era staccata. Quando si era svegliato, poco
più di dodici ore dopo, aveva trovato Matt al suo fianco.
Gli aveva raccontato per filo e per segno cosa fosse successo a casa di
Francy Newman e, dopo aver ricevuto le informazioni, L aveva deciso che
sarebbe partito lui stesso per Berksville ad interrogare Francy.
Purtroppo quando arrivò era troppo tardi e trovò
la casa della Newman circondata da poliziotti, curiosi e nastro giallo
con sopra scritto ‘do not cross’. Francy Newman era
stata trovata morta qualche ora prima da un uomo che voleva entrare nel
suo appartamento. La polizia affermava che era stata assassinata con un
coltello e propendeva per credere che fosse stato uno dei clienti della
Newman, che si prostituiva, uscito fuori di testa per qualche ragione
sconosciuta.
L contattò Diane Colfer e le chiese di controllare tramite
satellite le persone che usavano fare visita alla casa di Francy
Newman. Scoprirono che aveva pochi clienti affezionati, ma che tutti
loro abitavano a Berksville. Se davvero era stato un cliente della
Newman ad ucciderla allora era molto probabile che l’avesse
già vista più volte, almeno due. Molti dei
clienti di Francy invece venivano da fuori città, e dopo una
prima visita non tornavano mai. Solo tre persone erano assidui
frequentatori del suo appartamento. Tramite le registrazioni L
individuò tre auto che portavano ad altrettante case: una di
quelle era dell’assassino di Francy, che con molte
probabilità era la stessa persona che aveva rapito Noodle.
Near terminò di caricare gli scatoloni con le sue cose nella
macchina. Avrebbero iniziato il viaggio il giorno dopo. In una macchina
Matt ed L, nell’altra Mello e Near. Il ragazzo
rientrò in casa ed esitò qualche secondo di
fronte alla porta della camera di Matt. Infine decise e
s’intrufolò dentro. Prese il computer del ragazzo
e, come sperava, trovò diversi programmi aperti, compresa la
pagina delle e-mail di Watari. Una fortuna sfacciata! Scrisse una mail
velocemente, indirizzata a Diane Colfer, e lasciò tutto come
l’aveva trovato.
Avrebbero iniziato il viaggio il giorno dopo, in una macchina Matt ed
L, nell’altra Mello, Near e Diane Colfer.
Da qualche giorno il mondo era tutto in bianco e nero per Noodle.
Bianco.
Come la stanza nella quale si trovava. Senza colore odore o una
personalità. Annullante.
Nero. Come
ciò che la circondava ogni volta che decidevano di portarla
in un luogo a lei sconosciuto, quando veniva bendata e trasportata di
peso. Le facevano domande, lei non rispondeva. La lasciavano senza cibo
per tre o quattro giorni, lei non rispondeva. Non la facevano dormire
la notte facendo rumori forti nella stanza, lei non rispondeva. Era
quasi certa dopo un po’ che avrebbero anche potuto fare a
meno di lei se non avesse dato segni di collaborazione, e allora non
avrebbe mai più risposto a nessuno.
Bianco.
Come il vestito di quella donna che ogni volta la prelevava.
Nero. Come
il volto di quella donna che ogni volta la guardava con una sorta di
luce maligna negli occhi.
Noodle non sapeva dire da quanti giorni fosse lì. Per lei
potevano essere passati mesi, ma se avesse scoperto che erano, invece,
solamente undici giorni, quattro ore, e nove minuti da quando era
lì, avrebbe potuto mettersi a urlare sino a farsi sanguinare
la gola.
Non sapeva chi fosse quella donna, non sapeva chi fosse a farle quelle
domande insistenti, non sapeva che cosa le avrebbero fatto quando
avrebbero capito che non avrebbe mai
proferito parola. L’unica cosa che tenne Noodle lontana dalla
pazzia, in quella stanza, fu il suo cervello. Ragionava, ragionava
furiosamente ma non riusciva a capire nulla di ciò che stava
succedendo.
Francy Newman era, molto probabilmente, solo una piccola pedina nelle
mani di qualcuno più grande. Qualcuno che sapeva del potere
di Georgie Jonsson e aveva deciso di rapirla per poterla sfruttare, e
che sapeva anche qualcuno della levatura di L o della CIA stava
indagando su di lui. Avevano rapito lei, Noodle, per ottenere
informazioni, e molto probabilmente per ricattare il detective o
l’agenzia che c’era dietro quella storia. Noodle
era sicura che L e tutti gli altri sarebbero andati a riprendersela, ma
non credeva che qualcuno le avrebbe cortesemente detto quando sarebbero
arrivati. Poteva solo sperare che stessero già organizzando
un piano, ma le ore scivolavano via con le pesantezza di anni interi.
La porta si aprì silenziosamente. Noodle, gli occhi fissi
sulla parete bianca, seduta su una sedia, era concentratissima ad
enumerare tutti i teoremi matematici che le venivano in mente per
contrastare la solitudine, la noia e l’intorpidimento delle
sue membra. La donna in bianco con il volto nero entrò e
rimase a guardarla in silenzio, in attesa che terminasse. Noodle
bisbigliava senza rendersene conto e la donna ascoltò le sue
ultime parole: “…uguale all’integrale di
roh fratto lambda al quadrato per x in dx.” Noodle si
fermò e si voltò verso la donna. Lei non disse
una parola, la prese per un braccio e la trascinò fuori
dalla porta. Senza bendarla, senza coprirle il volto in alcune modo o
bloccarle la vista. Noodle si guardò attorno freneticamente,
cercando di memorizzare ogni dettaglio possibile del luogo in cui si
trovava.
Una casa. La stanza dove la rinchiudevano si trovava sottoterra. Dal
lato della casa opposto ad un albero di pino, un giardino forse, non
sapeva dire se sul retro o sul davanti dell’abitazione.
C’erano altre tre stanze come la sua. Solo una era chiusa.
Salì le scale, passò un corridoio con tre porte,
due a destra e una sinistra, venne portata in un grosso bagno azzurro e
bianco dal soffitto alto e venne chiusa dentro a chiave.
Noodle si guardò attorno. Facendo finta di esaminare il
bagno, lussuoso e spazioso, cercò invece con gli occhi una
telecamera e individuò con la coda dell’occhio
l’unica finestra che c’era nella stanza. Vide che
era aperta, ma c’erano delle pesante sbarre a impedirle
l’uscita. Oltretutto una telecamera di sicurezza appesa in
alto in un angolo vicino al soffitto non lasciava spazio per effettuare
delle manovra di nascosto; era progettata e installata appositamente
per non lasciare che nessuno potesse uscire dall’obbiettivo
in nessun punto del bagno. Noodle notò che la seguiva
ovunque nei suoi movimenti lungo il grande bagno. Andò alla
finestra e guardò fuori. Vide solo un giardino ben curato e,
di fronte e ai lati, altri giardini come quello. Tornò
indietro. Il bagno aveva un lavandino sulla destra, sulla sinistra di
fronte un bidet e un wc. Più in là una cabina
doccia occupava poco spazio, mentre invece un intero angolo era
occupato da una grossa vasca. Appesi ad un paravento, che si trovava
appena sotto alla telecamera di sicurezza, c’era la custodia
di un vestito, una scatola da scarpe e un porta gioie.
Noodle ragionò qualche attimo. Anche la persona
più ottusa si sarebbe resa conto che la telecamera non era
stata esattamente nascosta. Era una sorta di gioco. Loro volevano che
lei sapesse che veniva osservata, ma la mandavano in un bagno a
lavarsi: volevano metterla alla prova. Volevano vedere se stava al loro
gioco, era come un codice. Se Noodle si rifiutava di spogliarsi allora
non avrebbe collaborato con loro, se invece faceva un bel bagno
riposante e indossava quell’abito che molto probabilmente, a
giudicare dalle scarpe, era un abito da sera, voleva dire che
collaborava con loro.
Cosa fare? Poteva riuscire a fare il doppiogioco? Fare finta di
lavorare per quel team? Erano comunque criminali, che
l’avevano tenuta a pane e acqua -e a volte anche meno- per un
tempo infinito. E quindi proprio per questo doveva almeno tentare.
Noodle si disse francamente che era troppo giovane per morire, e che
desiderava fare ancora troppe cose perché la sua vita
venisse fermata in quel momento. Prima fra tutte, voleva vendicare suo
padre. Dato che ne aveva la possibilità, perché
non infiltrarsi fra le schiere nemiche per scoprire qualcosa di utile?
Era anche, molto probabilmente, l’unica
possibilità che aveva. Forse avrebbe incontrato
l’assassino di suo padre. Noodle era comunque sicura che
quella fosse la sua ultima chance, che stessero tentando il tutto per
tutto per avere da lei informazioni, portandola persino dalla loro
parte e rischiando che facesse il doppiogioco. Ma se non ci fossero
riusciti, chissà che non si stufassero?
Noodle stirò le mani lungo i fianchi, osservò la
vasca e si chinò a regolare la temperatura
dell’acqua. Aggiunse, mentre ancora la vasca si riempiva,
sali da bagno profumati di camomilla e un bagnoschiuma che fece nascere
una candida montagnola bianca di bolle e schiuma. Mentre dava il tempo
alla vasca di riempirsi Noodle si disse che, pur volendo entrare nelle
loro grazie, non doveva per forza mostrar loro le sue. Era anche un
modo per fargli capire che non era stupida, che sapeva che la
osservavano, e non si sarebbe donata tanto facilmente a loro. Prese il
paravento e lo spostò in un punto dove, grazie ad esso,
poteva restare nascosta fino a che non fosse stata nella doccia.
Per quasi quaranta minuti Noodle restò immersa
nell’acqua, a lavarsi e a pensare. La grande nuvola di
schiuma bianca pian piano si sgonfiò fino a lasciare solo
una coperta piatta e bianca sopra il pelo dell’acqua. Noodle
uscì, si asciugò i capelli e il corpo con due
asciugamani azzurri che aveva trovato a disposizione per lei,
indossò della biancheria intima nuova e appoggiò
accuratamente i suoi vestiti in una cesta. Segno di rispetto,
perché non li aveva lasciati gettati a terra, e che meritava rispetto,
poiché desiderava rivederli lavati e stirati. Contava che
questo linguaggio dei segni venisse compreso, non lo dubitava, e si
chiedeva in quale lingua si sarebbero parlati, se con qualcuno era
destinata a parlare, dopo tutti quei preparativi. Si vestì
con un abito lungo, color beige molto chiaro, indossò le
scarpe con tacco che le erano state messe a disposizione e anche il
profumo che trovò accanto al lavabo. Sicura che sapessero
che aveva finito, si mise davanti alla porta e attese. Anche loro
mandavano segnali. Noodle era sicura che niente di quel che aveva fatto
era passato inosservato, ma alla porta la fecero attendere qualche
minuto prima di aprire, e quello che voleva dire era: noi non prendiamo ordini.
Quando la donna in bianco venne ad aprirle la porta non la
toccò più. Né diede segno di volerle
dire alcunché, o di essere più magnanima nei suoi
confronti. La scortò fino ad una sala dal soffitto alto, con
un tavolo apparecchiato per due, in una grottesca imitazione di una
cena romantica, con tanto di candele accese e champagne tenuto al
fresco nel ghiaccio. Noodle si sedette e attese. Poco dopo
arrivò un giovane dalle fattezze orientali, doveva avere
qualche anno più di lei. Le si sedette di fronte e sorrise.
“Ciao, sono Eikichi. Come ti chiami?”,
domandò il ragazzo tendendo la mano. La sua voce aveva la
consistenza del miele e Noodle capì che quell’uomo
era più pericoloso nei gesti che nel fisico, che non era
eccessivamente allenato.
“Sono Noodle, molto piacere.” Aveva pensato a lungo
a cambiare il suo pseudonimo, ma alla fine aveva pensato che, nel
fortuito caso che L e gli altri avessero sentito parlare di lei da
parte di questa banda di criminali, avrebbero capito che stava bene e
che si era infiltrata nelle file nemiche. La conosceva abbastanza da
capire che voleva sfruttare la situazione.
“Hai fame? Immagino di sì”, disse il
ragazzo. In quel momento comparve un cameriere, che posò
davanti a loro due piatti pieni di un riso giallo fumante, con
un’allegra decorazione colorata di cipolle e una carotina
intagliata a forma di cuore. Noodle cominciò a mangiare in
silenzio, voleva che fosse lui a cominciare a parlare, per capire
meglio che intenzioni avesse. Infatti, dopo qualche secondo, Eikichi
alzò lo sguardo e disse: “Noodle sei molto
giovane. Che lavoro fai?”.
Voleva sapere per chi lavorasse, e forse anche come erano giunti a
trovarli. “Sono un detective privato”, disse Noodle
senza battere ciglio.
“Capisco. Chi ti ha affidato questo caso?” Parlava
senza mezzi termini: era inutile ormai nascondere cosa voleva.
“Me lo sono affidato da sola.”
Eikichi appoggiò una mano davanti alla bocca e la
osservò pensoso, le sopracciglia corrucciate, quasi
arrabbiato. “Tu credi che io abbia rapito Georgie
Jonsson?”
“Sì. Ora più che mai.”
“Perché?”
“Perché proprio nella casa della madre di Georgie
ci hai aggrediti, quando noi eravamo andati soltanto a fare qualche
domanda alla signorina Newman.”
Eikichi sospirò. “Sì, Dayo
può essere molto… rude, delle volte.”
“Questo non toglie il fatto che sei rimasto turbato dalla
nostra visita. Sapevi che ti avremmo trovato, hai contattato quella
donna e ci hai teso una trappola. Astuto, devo ammettere: non ce lo
aspettavamo. In questo modo però abbiamo capito che siamo
sulla strada giusta.”
“Chi era il ragazzo con te?”
“Il mio assistente. Ma non credo si muoverà senza
di me, se è questo che ti preoccupa.”
“Non sono preoccupato.” Eikichi sorrise.
“Ma certo”, disse Noodle ricambiando.
Rimasero in silenzio per un po’, lanciandosi occhiate curiose
ogni tanto e continuando a mangiare, come se quella faccenda fosse del
tutto normale. Tutti e due giocavano allo stesso gioco: nessuno avrebbe
commesso un passo falso che sarebbe potuto risultare scortese e
dimostrare la non collaborazione fra le due parti. Sarebbero stati,
perlomeno in facciata, soci.
Quando la prima portata fu terminata il cameriere ritirò i
piatti e portò un sorbetto color verde pallido. Noodle
credeva fosse un gelato, e lo osservò curiosa.
“Serve per rinfrescare il palato fra una portata e
l’altra”, disse Eikichi accennando un sorriso.
Noodle prese il cucchiaio e cominciò a mangiare.
“Noodle, mi piacerebbe sapere che cos’avete
scoperto, tu e il tuo assistente. Se stavate ancora ricercando devo
supporre che fosse un caso complicato.”
“Hai assolutamente ragione, inutile nasconderlo.”
“Allora?”
“I coniugi Jonsson avevano adottato Georgie, una bambina
fortemente disturbata che prima abitava con la madre alcolizzata,
Francy Newman. Marito e moglie sono stati uccisi con precisione, devo
supporre da… Dayo.” Eikichi confermò,
annuendo. “A quanto pare la bambina, secondo alcune voci di
corridoio, aveva visioni che sarebbero potute interessare a
qualche… credulone dell’aldilà e
sciocchezze simili.” Per sembrare credibile Noodle doveva
dire di avere scoperto qualche cosa a proposito del caso, altrimenti
Eikichi si sarebbe insospettito, ma non aveva intenzione di parlare di
Shinigami o Death Note. Quell’uomo sapeva tutto del
prescelto, degli occhi dello Shinigami e probabilmente anche del
quaderno della morte. Se aveva tentato di procurarsi gli occhi tramite
Georgie poteva essere che avesse già un Death Note. Se aveva
Georgie e aveva un Death Note allora, nel caso la bambina
l’avesse vista, non mancavano che poche ore alla morte di
Noodle. Questo lei lo sapeva, aveva anche pensato che invece di una
collaborazione volessero farle confessare chi era e per chi lavorava,
in modo da sapere chi dovevano eliminare e poi procedere.
Eikichi sorrise e disse: “Noodle, so che sei una ragazza
intelligente. Vorrei farti una proposta”.
“Parla pure.” Noodle sorrise.
“Se lavorerai per me ti prometto una somma che, sono sicuro,
non hai mai immaginato. Quel che mi serve da te è solo un
piccolo aiuto per Dayo. Mi ha informata che sei dotata
nelle… abilità fisiche. E’
vero?”
“Faccio boxe. Continua… perché dovrei?
Io ti stavo dando la caccia, e adesso credi che ti aiuterò?
Preferirei tornare nella stanza.” Noodle non aveva alcuna
intenzione di tornare in quella orribile stanza, ma calcò un
po’ la mano giusto per risultare credibile.
“Noodle sono sicuro che capisci la situazione. Possiamo
entrambi trarre vantaggio da questo accordo. Io ho bisogno di una
persona che aiuti Dayo e tu… a dir la verità non
hai molta scelta. In effetti hai ragione, hai solamente due
possibilità. Uno: collabori con me, e non dovrai mai
più pensare a lavorare per il resto della tua vita. Due:
torni nella stanza ancora per un po’, e sta’ pur
certa che prenderò provvedimenti per questa tua…
cocciutaggine. Se non vuoi collaborare per me sei inutile.” E verrai uccisa.
Noodle fissò lo sguardo in quello di Eikichi. Avevano un
taglio deciso e affilato, un colore a metà fra il marrone
scuro e l’oro. La ragazza rimase pensosa, terminò
il suo sorbetto in silenzio, si pulì le labbra con un
tovagliolo e bevve un sorso di vino. Posato il bicchiere tese la mano e
disse: “Sarà un piacere”.
Eikichi, una luce trionfante e maligna negli occhi, la strinse forte.
“Piacere mio.”
Da un mese ormai, tutti i giorni, Noodle si allenava nella boxe e nella
lotta libera assieme a Dayo, che aveva una filosofia del gioco un
po’ diversa da quella che le avevano sempre insegnato.
Dayo le stava di fronte, muoveva le gambe lentamente per spostarsi in
circolo, gli occhi fissi su di lei senza perderla mai di vista, i
muscoli in tensione, tutto il corpo teso verso il proprio avversario.
Le mani stavano di fronte al petto e non al viso, una mancanza che
Noodle non le voleva perdonare, le ginocchia erano piegate e le gambe
pronte a scattare. Anche Dayo aveva imparato qualcosa dagli allenamenti
assieme a Noodle. Non marcava più in modo evidente le sue
mosse, e Noodle non aveva più la possibilità di
prevederle. La situazione era così ferma da alcuni minuti.
Noodle scattò, veloce, e si gettò su di lei con
tutta la forza che celava nel braccio destro, concentrata sul pugno,
che disegnò con precisione una traiettoria in aria
leggermente curva per andare a parare con forza e precisione sullo
zigomo di Dayo. La donna non fece in tempo a reagire e
indietreggiò di alcuni passi. Noodle, che in
realtà desiderava avere su di lei una piccola vendetta
personale per tutti gli incontri che aveva perso, cominciò
ad avanzare velocemente. Piede sinistro, pugno sinistro, zigomo destro.
Piede destro, pugno destro, orecchio sinistro. Piede sinistro, pugno
sinistro, fianco destro. Fianco sinistro. Fronte, in mezzo. Il collo di
Dayo si piegò all’indietro e tutta la sua testa
disegnò un perfetto arco in aria. Per un attimo, minuscolo,
Noodle ebbe paura di aver esagerato. Si fermò un secondo,
facendo finta di riprendere fiato, mentre controllava Dayo. Nel
frattempo la donna riprese velocemente fiato, si rialzò quel
tanto che bastava e cominciò una raffica di colpi sulle
tempie che non andarono a buon fine, siccome Noodle si riparava dietro
le braccia. Successivamente Dayo iniziò a colpire sui
fianchi, abbastanza vicino e forte da colpire l’osso sacro. A
Noodle si mozzò il fiato. Sgranò gli occhi e
cominciò ad indietreggiare fino a che non
incontrò il muro, allora cercò di schivare i
colpi.
“Se giochi
secondo le regole, e il tuo avversario vede che sei troppo attaccata ad
esse, allora se ne approfitterà”, disse Dayo
masticando una gomma.
“Le regole
servono a fare una buona partita. Una partita senza regole viene male,
serve solo per decidere chi dei due vorrà fregare
l’altro per primo, chi sarà il primo ad essere
sopraffatto dalla voglia di vincere.” Noodle si accese una
sigaretta e soffiò via il fumo velocemente, guardando la
donna di traverso.
“Non so come
fai a fare sport se fumi. I tuoi polmoni sono pieni di quella merda!
Dovrebbero essere senza fiato ogni volta che muovi quel tuo culo
bianco.”
“E’
bello sapere che una criminale che non segue nemmeno le regole del
Monopoli vuole dire a me che fumare fa male.”
Noodle non era mai stata tanto cosciente di avere un corpo, fatto di
carne e sangue. I colpi di Dayo erano precisi e colpivano esattamente
nello stesso punto, cosicché la carne
già tumefatta e ferita veniva nuovamente colpita e sempre
più schiacciata.
“Se tieni la
difesa bene alta allora non avrai problemi a reagire quando ti
attaccheranno.” Noodle e Dayo stavano una di fronte
all’altra. Dayo annuì. “Se ti attaccano
in questo modo”, Noodle fece un movimento, e andò
a toccare leggermente la spalla di Dayo, “allora tu alzi la
difesa così”, ed eseguì un altro
movimento. “Proviamo.”
Eseguirono esattamente
ciò che Noodle aveva detto di fare ma alla fine, al posto di
parare e basta, Dayo andò a bloccare l’avambraccio
di Noodle, le spinse il gomito che la costrinse a girare il corpo per
non farsi del male. In quel modo Noodle le dava la schiena, aveva il
braccio bloccato e Dayo la sovrastava trionfante.
“No! Questa
non è difesa!”, urlò spazientita Noodle
sciogliendosi dalla presa e voltandosi verso Dayo.
La donna stava ghignando
soddisfatta e la osservava. “Non serve la difesa se
l’attacco è buono.”
“E se avessi
contro due o tre avversari? Non puoi contare solo
sull’attacco. Devi imparare a …”
“Imparare? Io
devo imparare? Se non sbaglio qui quella che perde di più
sei tu. E’ una questione di logica, non te l’hanno
insegnato alla scuola dei bianchi?”
“Non
è logica, è imbrogliare. Perdo perché
tu infrangi le regole!”
“Se questo
serve a vincere, ben venga”, disse Dayo stringendosi nelle
spalle. “Ricominciamo, stupiscimi, fammi un po’
vedere cosa sai fare con quelle tue regole.”
Noodle ghignò
e si sistemò meglio la protezione fra labbra e denti, poi
indossò i guantoni e biascicò: “Vedrai.
Credi di essere nera adesso? Aspetta ancora un po’ e sarai
peggio di Kunta Kinte*”.
Noodle sentiva di star per arrivare alla fine. Fra un po’
avrebbe dovuto chiedere a Dayo di smettere, e quella era di sicuro la
cosa peggiore che le sarebbe mai potuta capitare. Il suo orgoglio, e
l’antipatia che provava per quella donna, le impedivano di
chiedere una tregua.
Intanto, Dayo continuava a colpirla senza lasciarle un attimo di
respiro.
“Ascolta un
po’ me, perché ti impunti tanto su queste
regole?” Dayo la osservava, mentre prendeva grandi morsi di
un sandwich con pollo, insalata, pomodori e maionese.
“Le regole
servono per fare un gioco alla pari. Se giochi secondo le regole e
vinci allora sai che sei il migliore, perché pur con delle
limitazioni hai vinto. Ma se imbrogli… allora hai vinto
perché eri in vantaggio.”
“Però
hai vinto”, asserì Dayo con la bocca piena.
“Mi passi un tovagliolo?”
“Sì,
però questo non significa che sei il migliore”,
disse Noodle allungando un braccio.
“Quindi
è per questo che lo fai: per l’appagamento. Per
avere una prova del fatto che sei la migliore.”
“E vincere non
è la stessa cosa? Una prova del fatto che sei superiore al
tuo avversario.”
“La gente non
segue le regole, le regole sono fatte da poveri stronzi che non hanno
niente da fare. E sono seguite solo da scemi come te che ci cascano. Le
regole sono fatte per tenerci tutti buoni, come pecore.”
Un colpo sulla sinistra stava per arrivare, Noodle lo vide come al
rallentatore. Il braccio di Dayo era piegato, ma in modo errato,
lontano dal corpo. Noodle lo vide come un ancora alla quale
aggrapparsi. Se Dayo non seguiva le regole e non voleva imparare
neanche le più elementari norme per un combattimento leale,
allora non l’avrebbe fatto nemmeno lei. Il pugno stava
arrivando, sempre con quel gomito troppo sporto all’infuori.
Noodle allungò un braccio e la colpì dal basso,
deviando il pugno verso l’alto, nel contempo si
abbassò, così schivò il primo attacco.
In quell’istante Dayo si trova di fronte a lei, con la parte
destra del corpo completamente scoperta. Noodle si accanì, a
forza di pugni, contro i fianchi e la schiena, quando poi Dayo fece per
risollevarsi, preparando un sinistro che di sicuro sarebbe stato molto
potente, lei la anticipò e la colpì con un
destro, precisamente fra l’orecchio e lo zigomo, poi
dall’altra parte, nello stesso identico punto. Dayo si
risollevò di nuovo e Noodle assestò
un’altra scarica di colpi allo stomaco. Cominciava a sentire
la fatica e voleva finire quell’incontro. In
qualità di vincitrice. Vedendo le condizioni di Dayo molto
probabilmente le sarebbero bastati due pugni ben assestati nei posti
giusti.
Dayo attaccò di nuovo e Noodle schivò,
spostandosi sulla sinistra dell’avversario. Contava di
assestarle un pugno da destra proprio quando si fosse voltata. Ma Dayo
lo vide in anticipo e lo schivò, abbassando la schiena.
Noodle, d’istinto, fece partire un colpo dall’alto
e la prese sulla nuca. Dayo si accasciò a terra.
Uno, due, tre secondi. Non si alzava. Quattro, cinque secondi. Sei,
sette, otto e nove. Dieci. Aveva vinto. Per sicurezza Noodle non si
avvicinò, invece disse con il fiatone: “KO,
eh?”.
Dayo sbuffò e sputò a terra la protezione per la
bocca. “Porca puttana. Sei una ragazzina bianca niente
male”, disse togliendosi i guantoni.
Noodle ghignò, il viso deformato dalla protezione per testa
e mascella, e prese dell’acqua.
Eikichi terminò di scrivere, posò la biro sul
tavolino dopodiché rilesse con attenzione. Corresse alcuni
piccoli errori di sintassi (dopotutto, quella non era la sua lingua
madre), poi trascrisse a computer e stampò.
Imbustò la lettera, senza nome né indirizzo, e
chiamò Dayo.
“Deve arrivare alla CIA. So che stanno seguendo il nostro
caso e che uno di loro aveva anche scoperto qualcosa.
Quell’agente che è venuto da noi mesi fa. Adesso
che la faccenda del rapimento si è un po’ calmata
potremmo procedere con il nostro piano.” Dayo
annuì e prese la lettera.
“A chi devo inviarla?”
“Direi… alla ABC News. E’ una grande
rete televisiva, non si faranno scappare l’occasione di
milioni di ascoltatori.”
“D’accordo.” Dayo prese la lettera, mise
portafoglio e telefono in tasca e fece per uscire. Sulla soglia, seduta
sulle scale di fronte alla porta d’entrata, trovò
Noodle.
Avevano preso grandi misure di sicurezza perché la ragazza
non fuggisse e non riuscisse a comunicare con nessuno al di fuori della
casa. Si limitava a guardare nel giardino sul retro senza poter mai
raggiungerlo e, a parte gli allenamenti con Dayo, non parlava molto
spesso. Pensava a molte cose in quei giorni. Pensava suo padre, a
Mello, a Matt, ad L e Near. Si chiedeva che cosa stessero facendo loro,
se per caso la cercavano ed erano sulla pista giusta, o se invece
formulavano ipotesi che erano giganteschi buchi nell’acqua.
Quando Dayo la vide, con gli occhi fissi sulla porta come una carcerata
che stava progettando l’evasione, si fermò a
guardarla e disse, puntandole contro un indice: “Non pensare
di scappare mentre io non ci sono piccola bastardella, ok?”.
“No, non preoccuparti, non potrei mai oltrepassare tutte le
misure di sicurezza”, affermò Noodle annoiata.
“No, infatti.” La donna si voltò e le
diede le spalle.
“Dayo?”
“Hm?”
“Sei tu che hai sparato ad un agente della CIA qualche mese
fa?”
Dayo si voltò e la osservò sospettosa.
“Perché me lo chiedi?”
“Ho saputo la notizia, sono un detective. So che la CIA
seguiva il caso e che uno dei loro agenti era stato fatto fuori.
Allora, sei stata tu?”
Dayo si strinse nelle spalle. “Tesoro è il mio
lavoro, loro ordinano e io faccio quello che posso. Se delle volte ci
scappa un morto non programmato io non posso farci niente. In ogni
modo, quello non doveva seguirci fino a qui. Non era nei miei piani,
però mi aveva vista entrare in questa casa. Era uno bravo,
uno tosto. Si è appostato dietro il muretto ed è
rimasto lì piegato per quasi sei ore prima di provare ad
entrare. Non so perché non abbia chiamato i rinforzi o non
si sia memorizzato l’indirizzo. Comunque, era un bianco con
le palle.”
Noodle fece cadere la cenere nella scatoletta che aveva affianco.
“Non hai neanche un po’ di rimorso?”
“Cerco di non pensarci.” Dayo prese la chiavi e
aprì la porta.
“Hey, figlia illegittima di Nelson Mandela!”,
chiamò Noodle.
“Che vuoi piccola bianca? Non lo vedi che devo andare? Cosa
credi, che solo perché sono nera allora devo
servirti?” Dayo era infastidita ma non fino in fondo, non del
tutto.
Nel poco tempo in cui si erano conosciute avevano imparato a
rispettarsi, si erano trovate bene l’una con
l’altra nonostante i battibecchi, che invece facevano parte
del loro gioco, e anche se appartenevano a fazioni differenti si
apprezzavano per le rispettive qualità. E nonostante le
consuete battute sul colore della pelle nessuna di loro aveva mai
pensato, nemmeno per un minuto, all’etnia
dell’altra.
“Me la compri un po’di cioccolata?”
“Sapevo che ti piaceva la cioccolata!”,
esclamò Dayo sorridendo, i grandi denti candidi in forte
contrasto con la pelle scura.
“Cioccolato bianco”, precisò Noodle.
Dayo sbatté le palpebre e si strinse nelle spalle.
“Un po’ di bianco ci vuole sempre.”
*Kunta Kinte è il nome del protagonista del
romanzo di Alex Haley "Radici", del 1976. Parla di un uomo africano che
viene deportato in America come schiavo.
Ciao a tutti!
Wo! Allora,
in questi giorni sono parecchio impegnata, quindi è un
miracolo se sono riuscita a trovare del tempo per postare oggi, temevo
di dover rimandare!
Un paio di appunti:
Spero che la parte dove si parla di Noodle imprigionata non sia stata
troppo noiosa. Ho sempre paura di esagerare quando ci sono lunghe parti
descrittive senza nemmeno un dialogo. La formula matematica che Noodle
finisce di recitare è un'azzardo, l'avevo letta da qualche
parte, ma non ho la più pallida idea di cosa sia o se sia
giusta o meno! xD Ho sempre fatto schiefo in matematica, per di
più mi sa quella non si studia al liceo.
Sorpresa delle sorprese: l'uomo in bianco era una donna! E per di
più di colore, proprio il contrario di quello che ci si
può aspettare u_u Uhuh! L'ho fatto apposta! xD Nessuno se lo
sarebbe immaginato, no? =D Credo. Spero.
Sono aperte le scommesse su Eikichi, chi sarà mai costui?!
Non vi dò indizi, ma credo che qualcuna di voi
potrebbe benissimo indovinare (per non dire tutte voi).
Ci tengo a precisare che i commenti di Noodle e Dayo che possono
sembrare offensivi sono chiaramente fatti apposta (anche se sono stati
un po' strani da scrivere) ma, com'è detto alla fine del
capitolo in modo -mi sembra- palese, questi commenti non hanno alcun
intento razzizta, infatti Noodle e Dayo lo fanno solo per pizzicarsi a
vicenda, ma fra di loro nasce del reciproco rispetto.
Detto questo vi lascio lo spoiler
e vi auguro una buona settimana (anche se forse qualcuno di voi
rinizierà la scuola o a lavorare... hmmm.... be', a maggior
ragione!).
Saluti a tutti,
Patrizia
|
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Capitolo 11 *** Penfriend ***
Capitolo dieci
Penfriend
Diane Colfer leggeva le sue mail, ma non
era veramente concentrata. Sperò con tutte le sue forze che
Matt non la stesse guardando in quell’istante e poi
spostò gli occhi impercettibilmente verso di lui. Distolse
lo sguardo. Guardò distrattamente una mail. Lo
osservò, distolse lo sguardo. Lo osservò di nuovo
e questa volta si concesse il lusso di restare a guardarlo per qualche
secondo. Era da quasi mezz’ora che andava avanti in quel
modo, non capiva perché non poteva semplicemente andare
lì, e parlargli. Inoltre prendeva precauzioni
perché lui non la notasse mentre compiva quelle complicate
manovre; cosa del tutto inutile, si disse poi, perché il
ragazzo non dava segno di volerle rivolgere uno sguardo.
Da quando aveva scoperto che era suo figlio, in una maniera alquanto
sconvolgente per entrambi, non era riuscita più nemmeno a
guardarlo in faccia. Aveva iniziato a lavorare praticamente da sola da
quando Watari l’aveva contattata per trasferisti a
Berksville. Stava in mezzo a quei quattro ragazzi che, a quanto le
avevano spiegato, erano il detective L e i suoi sottoposti. Gli era
costato fatica credere che lo fossero, e anche mandare giù
la storia incredibile di quaderni della morte e Shinigami, che gli
avevano raccontato come se stessero parlando di Cappuccetto Rosso; ma
non aveva potuto ribattere quando aveva visto Ryuk l’Ingurgita Mele
e si era impegnata a non raccontare la verità ai suoi
compagni della CIA, contribuendo invece a tenere la cosa segreta.
Tuttavia la parte più strana di tutta quella storia rimaneva
assolutamente e senza dubbio Matt. Non poteva credere che suo figlio
fosse diventato un sottoposto di L e, soprattutto, che il caso li
avesse portati ad incontrarsi in quelle strane circostanze. Era
contenta per quello, probabilmente era il lavoro più adatto
a lui. Gli piacevano i computer, gli piacevano i videogiochi e
risolveva complicati enigmi. Ripensando a Matt da piccolo, il volto
paffuto che sorrideva mentre giocava a scarabeo
all’età di soli tre anni, decise che quello
probabilmente era il suo destino. Come madre, doveva essere felice. Non
aveva altri figli oltre a lui e quel che provò quando
scoprì di essere in contatto da settimane con il suo unico
-e fino a quel momento perduto- figlio senza nemmeno saperlo,
fu un moto di tristezza infinta. Pensò a come sarebbe la sua
vita se invece di abbandonarlo come avevano fatto l’avessero
tenuto. Se lei
l’avesse tenuto. Come sarebbe stata la loro vita. Assieme. Forse
tutti e due avrebbero fatto parte della CIA. Avrebbero risolto casi la
mattina e la sera sarebbero ritornati a casa, e lui le avrebbe
presentato la sua fidanzata, e sarebbero andati a cena fuori. Assieme.
Diane Colfer si riscosse da questi pensieri. Stupida!, si disse.
Non sapeva perché lui non le volesse parlare
(d’altronde nemmeno lei si azzardava a dirgli una parola),
forse Mail credeva che lei sapesse tutto e non avesse voluto riprendere
contatti con lui nonostante ce ne fosse stata l’occasione.
Invece Diane era all’oscuro di ogni cosa. Non aveva pensato
neanche per un momento che il giovane alto e affascinante,
così simpatico e intelligente, dai capelli rosso fuoco e dal
sorriso largo, fosse il suo Mail. Quando lo immaginava lo vedeva come
una ragazzotto muscoloso che, con in spalla lo zaino, se ne andava a
scuola allegro mentre salutava dei genitori adottivi, che avevano una
casa grande con un giardino davanti, ed erano una famiglia felice. Una
felice famiglia irlandese.
Il cellulare squillò e Diane fece un salto alto un metro.
Trafficò goffamente nella tasca dei pantaloni e rispose con
affanno: “Pronto?”.
“Diane?”
“Eccomi capitano.” Il nuovo capitano delle indagini
era Jackson Swarrow, che aveva preso il comando dopo il licenziamento
di Tyler che in quei giorni se la stava vedendo in una causa
giudiziaria contro la CIA.
“Diane abbiamo notizie incredibili. Accendi su ABC News.”
Diane si alzò e cercò il telecomando, in un
disordine di briciole di pane, caramelle e giocattoli per bambini.
Accese la tele e rimase a guardare.
Un reporter pelato e molto atletico, nero, che parlava con sicurezza e
disinvoltura di fronte alle camere, non poteva celare la sua
eccitazione di fronte ad una notizia di tal portata. “Siamo tornati ai tempi del caso
Kira. Ancora un volta, un criminale sfida il celebre detective L. Una
lettera anonima, inviata alla redazione di ABC News, ci invita a
leggere in diretta queste parole.” Il
giornalista si portò agli occhi un foglio. “Questa che vado a leggere
è la lettera originale inviata alle redazione di ABC News.
“L, so che
certamente avrai sentito parlare del rapimento della piccola Georgie
Jonsson. Ti propongo uno scambio: la bambina, per il tuo blocco appunti.”
Il giornalista alzò gli occhi e abbozzò un
sorriso a mo’ di scusa. “Non abbiamo idea di cosa
vogliano dire queste parole, ma speriamo che il sagace detective L
riesca a capire il messaggio e salvi la piccola Georgie Jonsson, rapita
ben otto mesi fa, della quale non si hanno più notizie da
allora. Come ricordiamo, i genitori della piccola erano stati
brutalmente uccisi nella loro casa, a New York, e i cadaveri ritrovati
da un vicino, che aveva udito rumore di spari. Stasera ABC News vi
propone un focus sul caso Jonsson, diretto da Sabrina Langer, dopo il
notiziario delle 21, per esaminare meglio i dettagli di questo
spaventoso omicidio.”
Mello osservava con gli occhi spalancati. Il cellulare di Diane,
intanto, continuava a parlare da solo. La donna si riscosse,
portò il telefono all’orecchio e disse:
“Scusa Jackson, eccomi.” E così dicendo
si avviò in un’altra stanza.
Near, che era rimasto tutto il tempo ad osservare lo schermo, si
accoccolò sul divano e aprì un pacchetto di
patatine, facendo poi sedere accanto a sé uno dei suoi
robot. L girava per la stanza sulla poltrona girevole, spostandosi da
una parte all’altra con forti spinte dei piedi e pensando.
Alla fine trasse le sue conclusioni.
“Chiunque sia questa persona, sapevamo già che era
al corrente dei Death Note e degli Shinigami, ma sa anche che posseggo
un Death Note. E le uniche due persone che sapevano questo sono ambedue
in questa stanza.” Gettò un’occhiata a
Near. La sola idea di dubitare di lui non gli sfiorò nemmeno
la mente.
“Tu ne hai uno?”, domandò Matt
rizzandosi a sedere sul divano, dov’era gettato
scompostamente.
L annuì. “Mi è rimasto quello di Light
Yagami quando è morto. Infatti Ryuk ne ha avuto uno nuovo
immagino, o sbaglio?”
Ryuk, che era arrivato in salotto dal suo giro giornaliero per i
dintorni, dopo aver sentito le novità del caso disse:
“Infatti. Il mio quaderno è nuovo”. E
così dicendo tirò fuori dalla piccola borsa che
teneva sempre appesa alla cintura il suo quaderno nero.
“Dubito che voglia davvero scambiare Georgie con il Death
Note.”
“Dov’è il tuo Death Note?”,
domandò precipitosamente Mello.
“In una cassetta di sicurezza a Puuwai.”
“Puuwai?”, fece Matt con una smorfia.
“E’ una delle città più
turistiche delle isole Hawaii dopo Honolulu”, li
informò Near.
“Grazie”, disse Mello fra i denti. Si chiese come
mai quello dovesse sapere sempre ogni cosa.
“Per di più lui ha Noodle, ma non ha fatto parola
di lei.” L si morse l’unghia del pollice e
corrugò la fronte. Mello si voltò verso di lui,
cercando di intuire i pensieri del detective. Dopo che era tornato, a
parte andare in ospedale a farsi medicare, prescrivere una ricetta per
degli antidolorifici e una pomata antiinfiammatoria, si era dedicato al
caso con ancor più vigore. Aveva raccontato a tutti
cos’era successo a casa di Francy Newman e tutti avevano
tratto la stessa conclusione: una trappola.
“Forse non né parla perché non vuole
introdurre l’argomento. E’ una specie di
avvertimento per farci capire che non è disposto a
ridarcela”, azzardò Matt.
Mello si guardò attorno boccheggiando. “Ma
è assurdo! Faremmo a cambio di un Death Note con la bambina
e non ci riprendiamo Noodle? Che razza di accordo
è?”
“Si tratta di dosare la vita su un bilancino”,
disse Near freddo. Mello face scattare la testa verso di lui, gli occhi
spalancati per l’incredulità e un vago
presentimento rabbioso nell’animo. “Georgie
è ancora una bambina, ha più tempo rispetto
a…” Nel momento esatto in cui Near aveva iniziato
la frase tutti i presenti sapevano che aveva osato troppo, persino lo
stesso Near. Lui non voleva certo che Noodle rischiasse la vita,
però aveva imparato che delle volte bisognava ragionare
freddamente e scegliere la soluzione migliore che andasse bene per la
maggioranza, anche se si trattava di sacrificare qualcuno. Ma,
evidentemente, Mello non la pensava alla stessa maniera.
Con gli occhi spalancati e folli si lanciò sopra Near,
schiacciandolo contro al divano. Calibrando benissimo la forza del
destro e mirando alla faccia di Near, dritto sul naso, Mello
colpì con la massima forza che aveva. Un pugno, un altro
pugno, che arrivò questa volta sulla mascella inferiore,
parte destra. Zigomo sinistro. Spalla, clavicola. Solo allora Matt
riuscì a fermare Mello, prendendolo da sotto le ascelle e
allontanandolo da Near, che rimaneva rannicchiato sul divano, le
braccia davanti al viso a proteggersi.
“Mello, Mello calmati! Near non intendeva dire
quello!”, gridò Matt trascinando Mello oltre una
poltrona, mentre quello agitava ancora le gambe per liberarsi.
“Lasciami! Lo so benissimo cosa intendeva! Stronzo! Sei uno stronzo!”
Mello gridava con tutto il fiato che aveva in gola, il viso era
diventato rosso, e le vene sul collo gonfie dallo sforzo di urlare.
“Vuole lasciarla là a morire! Non te ne frega un
cazzo di lei!” A quel punto Matt lo aveva lasciato, e Mello
stava piegato in avanti ad urlare contro Near. Calò il
silenzio nella stanza. Mello si voltò per andarsene, prese
uno dei giocattoli di plastica di Near che stava su una mensola e lo
lanciò con tutte le sue forze contro il muro. Prese la
giacca, e uscì.
L si alzò dalla sedia mentre Diane, tornata in sala quando
aveva sentito le urla, si avvicinava al divano. “Come ti
senti Near?”, domandò osservando il ragazzo
stropicciato sul divano con gli occhi spalancati.
“Diane, c’è una cassetta del pronto
soccorso in bagno”, disse L chino su Near. “Matt,
richiedi una casella postale e invia un messaggio di risposta per
Killer Jonsson alla ABC
News, digli che da questo momento in poi ci scambieremo
corrispondenza tramite quella casella.”
Matt osservava Near preoccupato ma, in quel momento, avrebbe voluto
più che altro seguire Mello e convincerlo a calmarsi.
Tuttavia gli ordini di L venivano prima, soprattutto in un momento come
quello, così ricacciò le sue voglie in gola e
chiese al detective: “Gli chiedo se Noodle sta
bene?”.
“No, fai finta di non sapere nulla di lei.”
“Perché?”
“Di sicuro non sa che lavorava per L. Se Noodle è
furba come credo starà tentando di raccogliere informazioni.
Non la voglio intralciare.”
Il metodo di comunicazione di L ed Eikichi era molto semplice. Ambedue
avevano una casella postale della quale l’altro conosceva il
numero. L scriveva alla casella numero 14-89, Eikichi alla 26. Erano
situate ai lati opposti della cittadina e le lettere venivano spedite
tramite corriere. Ogni volta che i detective ne ricevevano una quella
veniva letta con la massima attenzione e poi inviata alla scientifica
della CIA. Ma nessuno trovava mai tracce di impronte digitali, neanche
parziali, né fibre, capelli, o qualunque altro indizio che
potesse aiutare a scovare chi fosse o da dove inviasse il mittente.
La prima lettera di L, che aveva inviato dopo essersi messi
d’accordo tramite ABC
News sull’uso delle caselle postali, recitava
così:
Buongiorno, sono L.
Come posso essere sicuro
che restituirai Georgie Jonsson se io ti consegnerò il mio
Death Note?
L
Salve L,
chiamami Eikichi.
Non ho interesse a
tenere con me la bambina, a meno che tu non cerchi di ingannarmi. Non
appena mi restituirai il Death Note proverò la sua
autenticità. Solo se è quello vero ti
consegnerò Georgie Jonsson.
Dove e quando vogliamo
incontrarci? Voglio che ci sia tu, non qualcuno che si spaccia per te.
Se non ci sei, l’accordo salta.
Eikichi
Dopo quel messaggio erano rimasti tutti alquanto turbati. Si poteva
leggere molto di più di quel che non si vedeva in quella
lettera. Prima di tutto, Eikichi aveva scritto restituirai, e
ciò poteva essere inteso come un errore di distrazione ma,
come diceva Freud, non esistono errori, i lapsus sono manifestazioni
dell’inconscio, ed esprimono ciò che noi pensiamo
veramente. Stando a questa teoria (che era stata leggermente contestata
da Near in quanto credeva che Freud fosse un pervertito ossessionato
dai simboli fallici) Eikichi era una persona che aveva già
avuto un Death Note, e per qualche motivo ne voleva due, o forse aveva
perduto il precedente. Per di più, era qualcuno che sapeva
molte cose su L. Prima di tutto sapeva che aveva un Death Note, e a
quanto pare conosceva anche il suo volto, altrimenti come poteva essere
così sicuro di sé stesso nel far saltare
l’accordo se non si fosse presentato L stesso?
“Questo Eikichi mi pare molto interessato anche a te oltre
che al Death Note”, aveva osservato Matt con fastidio. L era
rimasto pensoso.
“Rapire Georgie Jonsson non è stato un
caso”, era intervenuto Mello. “Non è
possibile che uno dei pochissimi esseri umani sulla terra che sappia
del Death Note rapisca per
sbaglio una bimba con gli occhi dello Shinigami. Se
andiamo là ci uccideranno. Georgie Jonsson è solo
una bambina, gli dirà i nostri nomi e lui ci
ucciderà con il Death Note. E se la riprenderà
quaranta secondi dopo. E ancora non sappiamo niente di
Noodle.”
“E’ chiaro che è questo il suo piano.
Scrivere i nostri nomi per provare che il Death Note è vero,
con Georgie Jonsson non gli serve nemmeno uno Shinigami dalla sua parte
o sacrificare metà della sua vita per gli occhi.”
L prese un cucchiaino e mangiò un po’ di torta
gelato con fragole e panna. Il pan di spagna era particolarmente
gustoso e morbido. “L’elemento più
pericoloso per noi è Georgie Jonsson. Abbiamo bisogno che
Noodle rimanga lì a fare da infiltrata, se le è
possibile, ma dobbiamo metterci in contatto con lei.”
“Come facciamo? Non sappiamo neanche dove sia”,
obbiettò Mello.
“Non abbiamo nessun tramite, nessun contatto”,
disse Matt.
L li osservò per un secondo e Mello
s’illuminò. “Le caselle
postali!”, esclamò trionfante.
“Qualcuno dovrà accostarsi alle caselle postali.
Non ci sono molti uomini a disposizione. Mello, ti hanno visto, io sono
già conosciuto a quanto pare, e Near, oltre che ad essere
fisicamente debilitato… c’è una piccola
possibilità che abbiano visto anche lui. Ha lavorato con me
per diversi mesi al caso Kira e non sappiamo se questa persona possa
conoscerlo o meno. E’ possibile anche che lo abbia incontrato
in quell’occasione.” A quel ricordo Mello storse il
naso, ma non ci pensò poi molto considerato che il naso di
Near, invece, era rimasto insanguinato per un bel po’.
“Quindi, il cerchio dei sospettati si restringe”,
disse Matt.
“Be’ coloro che sanno del Death Note, e che sono
ancora vivi, sono solo gli agenti di polizia giapponesi con i quali
abbiamo lavorato a stretto contatto l’anno scorso. Ma sono
troppo ingenui per fare qualcosa del genere. Non credo che sia uno di
loro.”
“E chi potrebbe essere? Non c’è
nessun’altro?”
“Per ora non so di nessuno.” L fece una piccola
pausa, poi sospirò. “Matt e Diane, farete i turni.
Controllerete la casella postale numero 14-89 notte e giorno.”
“E dove si trova?”, domandò Diane, che
aveva sentito ogni cosa ma aveva preferito rimanere in silenzio. Era
rimasta ad ascoltare tutta la conversazione capendo solo per sommi capi
i ragionamenti troppo veloci di quei giovani.
“Se non sbaglio Matt eri già entrato nel database
delle poste comunali, non è così?”,
domandò L voltandosi verso di lui.
“Sì.”
“Non possiamo setacciare tutte le caselle postali della
città, ci serve una mappa delle caselle direttamente dagli
uffici della posta. Mello cercala tu.”
“Subito”, disse il ragazzo annuendo serio.
“Matt, Diane. Vi alternerete alla casella postale; non voglio
che rimanga incustodita per un solo minuto,
d’accordo?” I due annuirono. “Matt,
qualche volta fai anche Watari, sarà meglio.”
“D’accordo.”
Diane lo guardò stupefatta: non aveva idea che lui fosse
anche Watari, non lo aveva mai notato. Ogni giorno scopriva cose
riguardo suo figlio che non sapeva se dovevano renderla orgogliosa o
pensierosa.
“Allora, se per caso vedete un corriere che ritira la posta,
allora seguitelo, ma non entrate assolutamente in qualsiasi posto nel
quale consegnerà la lettera. Memorizzate
l’indirizzo e tornate indietro. Penseremo assieme ad un modo
per contattare Noodle. Nel frattempo la tireremo lunga con questo
incontro. Matt, portami carta e penna.” Matt si diresse verso
il tavolo pieno di carte, documenti e altro. “Ah!
E… Matt?”
“Sì?”
“Un’altra fetta di torta, grazie mille.”
Eikichi aprì la busta con una sottile lama affilata e lesse.
Salve Eikichi,
non credermi uno stolto:
so chi è Georgie Jonsson e non mi esporrò mai ad
un rischio tanto alto, come tu sicuramente già saprai. Io ci
sarò, ma solo alle mie condizioni.
L
Eikichi lesse, e il suo viso si contorse nella rabbia. L voleva dettare
le regole? Credeva di essere in condizioni da poter decidere come
condurre il gioco? Si sbagliava. Il coltello dalla parte del manico ce
l’aveva lui, e l’avrebbe utilizzato. Avrebbe avuto
il Death Note, Georgie Jonsson, e avrebbe trafitto L più e
più volte con quel coltello che teneva fra le mani. Lo
avrebbe ucciso una volta per tutte, e allora il suo sogno sarebbe stato
possibile, senza alcun detective fra i piedi e nessuno ad ostacolarlo.
Eikichi si chiese anche come mai L parlava di condizioni e poi non le
dettava. Forse voleva solamente sapere se lui era d’accordo,
o saggiare il terreno. Stava comunque perdendo tempo! Eikichi avrebbe
voluto che l’incontro ci fosse subito. Il suo piano era
perfetto e non c’era margine di errore. Prese una biro e un
foglio.
L,
non credo che tu sia in
grado di dettare alcuna condizione. Io ho Georgie Jonsson, e decido io
come e quando si svolgerà l’incontro.
Eikichi
Eikichi,
stai sbagliando. Se
avessi voluto prendere questo caso allora lo avrei fatto tempo fa,
quando i coniugi Jonsson sono morti. Per quanto mi dispiaccia che
Georgie Jonsson sia nelle tue mani, con lei sola non puoi fare niente.
Io ho qualcosa che tu vuoi ardentemente, tu non hai nulla che a me
interessi.
Le condizioni che
propongo sono di incontrarci solamente io, te e Georgie. La voglio bene
in vista e con gli occhi coperti. Ho già trovato il luogo
perfetto, si trova al numero 57 di Churchner Street. E’ un
magazzino di hangar abbandonato. Quando io ti consegnerò il
Death Note tu vedrai lo Shinigami e non servirà altra prova
del fatto che è quello reale, o sbaglio? Non voglio che lo
utilizzi davanti a Georgie Jonsson.
Ti dirò poi
ora e data dell’incontro.
L
Ancora una volta il volto di Eikichi si deformò dalla rabbia
quando lesse e le sue mani si contrassero con ancora in mano la
lettera. Respirò affannosamente qualche minuto, ragionando
febbrilmente. Certo che se L la metteva in quei termini, allora era lui
quello in vantaggio. Ragionava Eikichi, ragionava. Che cosa poteva fare
contro uno che aveva tutto quel che serviva? Di sicuro aveva
già provveduto a controllare il posto
dell’incontro e forse aveva addirittura installato delle
telecamere. Avrebbe visto se Georgie aveva il viso coperto
sì o no, se era davvero lei, se non poteva vederlo in
qualche modo. Il piano infallibile di Eikichi aveva una pecca: L
riusciva a rigirare tutto come voleva lui. Come gli piaceva, come
andava a suo vantaggio. Se non avesse fatto qualche mossa azzardata
allora sarebbero rimasti in quella fase di stallo per sempre.
Rimase per un minuto seduto alla scrivania, in silenzio. Fuori dalla
finestra un cane abbaiò, una donna bionda passò
correndo, in una tuta stretta, con delle cuffie bianche nelle orecchie.
Ecco.
Eikichi si alzò, scese frettolosamente le scale e
andò cercando, quasi correndo, di stanza in stanza. Alla
fine trovò quel che cercava. “Noodle, ho bisogno
del tuo aiuto.”
La ragazza alzò lo sguardo da un libro che stava leggendo e
domandò, leggermente nervosa: “Cosa devo
fare?”.
Eikichi sorrise ammaliante e si chinò affianco a lei, che
stava sprofondata in una poltrona. Le mise una mano sulla spalla e
disse: “Non ti preoccupare, non è niente di
pericoloso”.
Il piano di Eikichi era molto semplice. Lui avrebbe portato Georgie,
bendata, all’incontro con L, e gliel’avrebbe
consegnata. Avrebbe preso del tempo per dare la possibilità
a Dayo e Noodle di ispezionare i dintorni e di trovare qualche alleato
di L. Non era previsto il loro intervento, in origine, ma per come
stavano le cose Eikichi aveva deciso di mandarle in campo. Nel caso
trovassero dei collaboratori di L dovevano ucciderli e aspettare che il
detective uscisse con la bambina. Non potevano essere molti i suoi
collaboratori, il detective amava lavorare in un piccolo team, tuttavia
Eikichi non dubitava che vi fossero. Una volta uscito dal magazzino
Noodle e Dayo avrebbero preso in ostaggio L e la piccola e li avrebbero
riportati nel loro quartier generale.
Il giorno fissato era Mercoledì 12 Maggio, alle ore 18.30.
Prima di partire, sulla Chevrolet Spark di colore grigio chiaro
metallizzato, ci fu un piccolo cambiamento dei piani. Eikichi fece
uscire Georgie Jonsson dalla una delle stanze che avevano ospitato
anche Noodle, solo che quella della bambina era come una piccola sala
giochi. C’erano peluche, un computer pieno di videogiochi, un
pallone di spugna e un canestro attaccato alla parete, una casa delle
Barbie, dodici Barbie e quattro Ken, due bambole complete di culla e
vestitini, tv, cartoni animati e dvd. Oltre ad un piccolo bagno privato
e un cucinino. Chi si occupava più spesso della bambina era
Dayo, che passava assieme a lei diverse ore al giorno, o almeno, quanto
era il tempo che aveva a disposizione fra un impegno e
l’altro. Nel garage, di fronte alla macchina, Eikichi
tirò fuori una pistola. Colt semiautomatica modello 1911. La
consegnò a Dayo. “E’ munita di
silenziatore, se qualcuno sgarra sparagli.” Era evidente a
tutti che per qualcuno
Eikichi intendeva Noodle.
“Andiamo.” Guidarono per quaranta minuti fino ad
una zona desolata. Un silenzio teso ed irreale si respirava come aria
viziata nel piccolo abitacolo. Un kilometro prima di arrivare al posto
esatto Eikichi si fermò. “Scendete, non dovete
farvi vedere da nessuno. Ci raggiungerete a piedi.” Noodle
aprì la portiera e scese, Dayo stava per seguirla quando
Eikichi chiamò: “Dayo.” La donna si
voltò. “Mi raccomando”, disse con voce
dura e sguardo ancor più gelido.
“Certo”, disse Dayo di rimando, annuendo. Scese
dall’auto e raggiunse Noodle.
A passo sostenuto, in silenzio, arrivarono in dieci minuti ad un
deposito merci abbandonato. C’erano quattro enormi hangar
malmessi uno di fianco all’altro. Le due varcarono un portone
di metallo che era già aperto, probabilmente lasciato
lì da Eikichi. Videro che uno solo degli hangar era aperto.
Il secondo. Dayo fece segno a Noodle di stare dietro di lei e di fare
silenzio, e Noodle obbedì. Le due camminarono guardandosi
attorno, cercando sottoposti di L che potessero rovinare il piano.
Ambedue erano vestite di bianco e portavano la maschera dei tiratori di
scherma.
Near, seduto dentro ad un camion attrezzato con due modesti televisori
che inviavano ognuno sei immagini dalle dodici telecamere che avevano
piazzato nel luogo due giorni prima, prese in mano ricevitore e
microfono quando le vide, e accese. Matt si voltò verso di
lui, seduto al posto di guida, e domandò: “Cosa
c’è?”.
“Ci sono due persone lì attorno. Una di loro ha
una pistola.” Near parlò nel microfono.
“Mello, Diane. Ci sono due persone vestite di bianco. Sono
dall’altra parte dell’hangar nella quale siete voi,
e vengono verso la vostra destra.”
Una voce bassa e gracchiante con un sussurro avvisò Near:
“Ricevuto”.
Matt osservò per un attimo le immagini, nervoso.
“Fammi vedere”, disse, rotolando con malagrazia
nella parte retrostante del camion. Non gli andava che Diane, anche se
non si parlavano più, andasse incontro ad un personaggio in
bianco con una pistola probabilmente carica.
Diane fece segno a Mello di andare dalla parte opposta per coglierli di
sorpresa alle spalle. Mello scosse la testa, ma alla fine lei lo
convinse, o meglio lo obbligò. Il ragazzo fece il giro
dell’hangar, correndo silenzioso e guardandosi le spalle di
continuo, in trenta secondi circa, mentre le altre due figure
procedevano piano. Quando arrivarono all’angolo le due figure
in bianco si fermarono. A pochi metri da loro, esattamente voltato
l’angolo, c’era Diane Colfer ad aspettarle.
Nel microfono, Near disse: “Diane sei di fronte a loro, Mello
tu sei dietro.” Infatti Mello aveva continuato ad avanzare,
fermandosi dietro ogni spessa colonna bianca dell’hangar a
sbirciare che non lo avessero scoperto.
“Ora”, disse Near.
Dayo sentì un proiettile colpire qualcosa in lontananza.
Qualcuno sparava, ma aveva una pessima mira. Si voltò e
corse via, da dove erano arrivate, facendo segno a Noodle di seguirla.
“Dietro la colonna”, le disse.
Noodle lo prese come un segnale. Si tolse il casco e attaccò
Dayo. Le prese la testa e la sbatté contro
all’hangar, non troppo forte da farle male, ma abbastanza da
stordirla. Tuttavia Dayo resistette e si volse incerta sulle gambe,
verso di lei. “Piccola stronzetta”,
sputò rabbiosa puntandole addosso la pistola. Noodle rimase
lì con gli occhi spalancati, la bocca secca e le braccia
paralizzate.
Mello camminò in silenzio dietro di lei, e quando raggiunse
la giusta distanza tirò fuori la Beretta e la
puntò contro la nuca di Dayo, forte. “Lascia la
pistola.”
Dayo si paralizzò. Fu il suo turno di tremare. La forma
pesante della bocca della pistola premuta contro la base del collo,
talmente forte da farle quasi male, concentrava tutta la sua
attenzione. Non voleva morire. Non poteva
morire.
“Metti giù la pistola.”
Dayo abbassò lentamente l’arma e la
posò a terra.
“Calciala lontano.”
Dayo la fece scivolare fino a Noodle. La ragazza la raccolse e la
puntò contro la donna. Distolse lo sguardo: Dayo la guardava
con la stessa incredulità e rabbia di quando si guarda un
traditore, e per qualche strano motivo Noodle si sentiva esattamente
così. In quel momento Diane spuntò da dietro
Noodle e tirò fuori delle manette. Ammanettò Dayo
con le mani dietro la schiena e tutti e tre la condussero fuori,
lontano dagli hangar, dentro ad un camioncino bianco. Lì
c’erano due dei ragazzi più singolari che Dayo
avesse mai visto: un piccoletto albino con in mano un microfono che
guardava delle immagini dagli hangar e un ragazzo con degli occhialetti
colorati, simili a quelli degli aviatori, tenuti sopra la testa.
“Noodle”, salutò Matt con un sorriso.
“Ciao Matt”, rispose lei. Sorrise a Mello, che
ricambiò, e fece un cenno di saluto a Near e a Diane Colfer,
che aveva visto per la prima volta solo qualche giorno prima. Si chiese
quanto le cose fossero cambiate dal suo rapimento.
“A che punto siamo Near?”, domandò Mello
facendo sedere Dayo in un angolo, sempre ammanettata a Diane.
“Non lo so, non riesco a vedere dentro. Qualcuno ha spostato
davanti alla nostra telecamera qualcosa. Di sicuro l’avranno
fatto apposta”, disse Near concentrato, senza distogliere gli
occhi dallo schermo. “Come abbiamo fatto a non accorgercene?
Da quando le telecamere sono state istallate abbiamo fatto dei turni
per osservarle.” Per un secondo, Matt abbassò la
testa e fece scivolare lo sguardo altrove, leggermente colpevole.
Mello si volse verso Dayo. “Il tuo capo è
già stato prima al luogo dell’incontro?”
La donna non parlò. Si guardò ostile attorno, poi
decise che rispondere poteva essere più saggio.
“Sì”.
“Allora è stato lui”, disse Mello
guardando le immagini da dietro la spalla di Near. “Tu
l’hai visto Noodle?”
“Sì, si chiama Eikichi. Ma non so niente di lui,
non so neanche se sia il suo vero nome”, disse la ragazza
scuotendo la testa.
“E’ giapponese?”, domandò Near
voltandosi.
“Credo di sì.”
Il ragazzo si volse di nuovo, osservando gli schermi e pensando.
“Mello, è meglio che torni di
là”, disse poi.
Mello annuì, rivolse uno sguardo a Diane e Noodle, mise la
Beretta nella custodia e uscì nuovamente dal furgone,
chiudendosi rumorosamente la portiera alle spalle.
L teneva in mano il Death Note e s’incamminava lentamente fra
le grosse costruzioni. Raggiunse la seconda e prese un grosso respiro.
Entrò. Si chiuse la porta alle spalle. Ci mise qualche
minuto ad abituarsi al buio, e si disse che era stato sciocco da parte
sua chiudere la porta in quel modo. In quegli istanti era inerme.
“Sei venuto.” Una voce familiare lo raggiunse ma
lui non capì di chi si trattava.
“Dove sei Eikichi?”, domandò, come se
parlasse ad un vecchio amico.
“Ecco Georgie”, disse la voce. L affilò
lo sguardo, ormai abituatosi all’oscurità, e vide
una bambina dai capelli lunghi, biondi e lisci come fuso. Come da
accordo, era bendata. C’era una mano sulla spalla della
piccola.
L risalì con lo sguardo colui che l’accompagnava.
Indossava un completo blu da uomo molto elegante. Era alto, snello, e
sotto le vesti si poteva vedere un fisico abbastanza atletico ma non
troppo allenato. L alzò ancora lo sguardo e scorse due occhi
dai tratti asiatici, dei capelli castano chiaro, un sorriso abbacinante
e infido allo stesso tempo. Spalancò gli occhi. Non poteva
essere. “Tu.”
“Ciao L.” Il sorriso di Light Yagami si
trasformò in un ghigno.
Hello!
Forse qualcuno di voi se lo aspettava. Insomma, ho fatto risorgere uno
dei personaggi chiave del manga, nonché la spina nel fianco
di L, alla faccia della fantasia! xD
Riguardo al capitolo, non ho niente da dire, a parte che la scena
d'azione finale mi esalta un casino xD Anche nel prossimo ci
sarà un po' di azione, e saranno spiegate alcune cose, ad
esempio come si sono organizzati i quattro ragazzi della Wammy's House
e Diane Colfen con Noodle, che era rinchiusa. Spero che sia tutto
chiaro, perché credo che questo sia un capitolo un po'
incasinato, non so... Credo che avrei potuto farlo meglio, o diverso.
Comunicazione di servizio:
a momenti, ma non mi è dato sapere quando, mi toglieranno
internet per una decina di giorni. Se per caso un Lunedì non
vedete comparire il capitolo settimanale, tranquilli, non vi ho
abbandonati, ma dovrete aspettare un po'. Spero siano solo una decina
di giorni, comunque credo che sopravviverete, no? xD
A parte questo... Ecco lo spoiler, che vi fa l'occhiolino
perché ci sta provando ---> ;)
A Lunedì prossimo (spero).
Patrizia
|
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Capitolo 12 *** Crucial moments ***
Capitolo undici
Crucial moments
Light
Yagami era stato Kira, ed era stato scoperto e sconfitto da L stesso
dopo tre anni di indagini. Light Yagami era morto il Gennaio
dell’anno scorso, ed L aveva visto la sua salma che veniva
sotterrata in un cimitero di Tokyo, sotto cinque metri di terra fredda.
Light Yagami era l’essere più astuto e
più malevolo che L avesse mai conosciuto, e stava di fronte
a lui.
L lo osservava con
occhi spalancati. Light rideva. Il ragazzo prese a misurare la stanza
con passi lunghi e lenti, senza abbandonare mai quel sorrisino di
trionfo sul volto. “Ti starai chiedendo come faccio ad essere
qui.”
L si ricompose, anche
se non capiva a che gioco voleva giocare Light, il suo vecchio
avversario. Ma l’aveva battuto una volta e poteva farlo di
nuovo. Non doveva temere nell’immediato per la sua vita:
Light Yagami non aveva mai mostrato di volerlo uccidere con le proprie
mani. Piuttosto, doveva ricominciare a preoccuparsi della sua
identità. Il detective registrò che la bimba
affianco a Light era bendata e stava con le braccia molli lungo i
fianchi; quindi non doveva preoccuparsi nell’immediato
nemmeno di Georgie. “Sono molto curioso di
saperlo”, rispose pacato, “Potresti essere
considerato un miracolo della medicina.”
Light rise
sommessamente e gli scoccò un’occhiata.
“Infatti. Un cadavere che torna in vita, con tutte le
funzioni biologiche e mentali in perfetto stato.” Fece una
piccola pausa e il suo sorriso si sciolse per un istante.
Agitò l’indice contro L, come ad ammonirlo.
“Veramente non so spiegarmi neanche io il perché
di questa resurrezione. Nel corpo e nell’anima, come Cristo!
Be’…”, allargò le braccia e
sorrise ancor più apertamente, “direi che questa
è la prova tangibile che sono diventato un vero Dio.”
“Se fossi
davvero Dio sapresti come mai sei qui”, disse L, sperando di
farlo arrabbiare. Nel corso delle indagini su Kira aveva scoperto che
Light non ragionava più quando si arrabbiava. Tutte le sue
azioni erano dettate solo dal desiderio di vincere e di mostrarsi
superiore ad L, non erano realmente ragionate.
Ma questa volta Light
non parve prendersela. Si volse verso L e, continuando a sorridere,
replicò: “Oh, ma io so perché sono qui.
E’ sempre lo stesso motivo”. Riprese a camminare,
allontanandosi da Georgie. “Sai, L? Suppongo che questa sia
una seconda possibilità. E se me ne è stata data
un’altra significa che il destino desidera che sia io a vincere. E
poi credo che se esiste una persona che può batterti in
astuzia, quello sono io.”
L lo guardò
senza capire. “Perché questo fantomatico destino
ha sprecato così tanto tempo per permetterti la vittoria?
Forse vuole solo prendersi gioco di te: dopotutto… la volta
scorsa ho vinto io.”
“Solo grazie
all’aiuto di Near”, precisò Light.
“Adesso, la prima cosa che farò, sarà
lasciarti totalmente solo, senza alcun appoggio. Già ci ero
riuscito prima con Watari. Quillish Whammy. Non ci è voluto
poi molto scoprire chi era, dopo aver saputo che eri un orfano.
Più che altro, è stata una specie di intuizione.
Solo una persona senza famiglia rischierebbe il tutto per
tutto.”
“Credevo che
non fosse conveniente per un criminale anticipare le proprie
mosse.”
“Io non le
sto anticipando. Piuttosto dovresti dirmi grazie.” Di nuovo,
L non capì, così Light si diede la pena di
spiegare: “Ti sto dando un avvertimento. Presto resterai solo
e senza alcun aiuto, allora non saprai cosa fare. Quindi io
vincerò questa sfida L. E finalmente, senza più
te fra i piedi, sarà tutto più facile. Non ci
vorrà molto a far tornare il mondo com’era quando
imperversava Kira. Hai visto com’è
adesso?”, domandò con sguardo desolato e gli
angoli della bocca rivolti all’ingiù.
“E’ tornato tutto come prima. Questo non
è un mondo sicuro.” Light rimase qualche secondo
immobile, a pensare.
“Facciamo
questo scambio Light, fai venire qui la bambina.”
“Fammelo
vedere.” Gli occhi di Light brillarono nella fioca luce
dell’hangar.
L mise una mano nella
tasca sul retro dei jeans, poi tirò fuori un quaderno nero
arrotolato. Lo dispiegò, e lo mostrò a Light. Death Note. Light
ghignò. “Mettilo per terra, qua in
mezzo”, disse, indicando un punto ad un paio di metri da dove
si trovava. Fece un sussurro alla bambina che le stava affianco, che
per tutto il tempo non aveva detto nulla ed era rimasta
nell’ombra. La indirizzò lontano da lui e le disse
di camminare lentamente, con le braccia tese in avanti. Quando Georgie
arrivò ad una distanza adatta per non essere subito
riacchiappata da Light, L aveva posato il quaderno sul pavimento
polveroso. Tornò indietro, prese la bambina per mano e si
rivolse a Light. “Arrivederci Light-kun.” E
uscì dall’edificio.
Light sorrise mesto,
alzando lo sguardo verso Ryuk che si era appostato sopra alcune casse.
“Light-kun! Che sorpresa!”, esclamò lo
Shinigami.
“Io
ed Eikichi faremo lo scambio, faccia a faccia come avevamo accordato.
Near, tu controllerai le telecamere che abbiamo piazzato. Matt, alla
guida del furgoncino. Invece Mello e Diane fuori, a controllare i
sottoposti di Eikichi.”
L
si alzò, aprì un cassetto, e tornò
indietro con una scatola nera che diede a Mello. Era pesante. Mello la
aprì. Dentro c’era una pistola nera, con una parte
di manico in legno, la stessa che avevano preso a casa di L in
Inghilterra prima di partire. Mello la osservò con occhi
sgranati, passò le dita sopra il metallo lucido e freddo.
Esitò. La prese in mano. Era più fredda di quanto
pensasse, ed era anche molto pesante. “Tu e Diane andrete al
poligono di tiro, suppongo che tu sappia già come si fa, no
Diane?”, domandò L rivolto alla donna. Diane
annuì. “Perfetto. Quando sarò
lì dentro…”
“Aspetta!”,
lo interruppe Mello. “Cos’hai detto a
Noodle?”
“Giusto.
Ci siamo già messi d’accordo con lei tramite Matt.
La tua idea di far penetrare nell’edificio un cellulare
è stata azzeccata, e molto semplice da attuare.”
Qualche
giorno prima Mello e Near avevano discusso sulla possibilità
di contattare Noodle tramite computer, aiutati da Matt. Avevano
comperato un telefono con connessione ad internet illimitata per un
mese, e avevano mandato Diane a consegnarglielo. Diane si era messa una
tuta, aveva legato i capelli in una coda alta e aveva girato
l’intero quartiere con un i-pod nelle orecchie facendo finta
di fare jogging e ascoltare musica. Alla fine aveva visto uscire dalla
casa che era il suo obiettivo una donna robusta di colore.
L’altezza e la corporatura coincidevano con la descrizione
che Mello aveva dato della persona che aveva aggredito lui e Noodle, e
pensò che doveva essere l’unica guardia del corpo
che c’era, così si appostò attorno alla
casa, adocchiando le pareti per controllare l’esistenza di
telecamere. Non vi erano da nessuna parte, così Diane,
aiutata dal buio che nel frattempo era calato, si era infiltrata nel
giardino e aveva tentato di entrare in casa. Per una fortuna sfacciata
aveva visto in quel momento Noodle, che riconobbe tramite una foto che
le avevano mostrato, guardare fuori da una finestra del secondo piano.
Mandando all’aria il piano ben congegnato di Mello e Near,
Diane si era guardata furtivamente attorno, aveva spiato le altre
finestre e, constatato che non c’era nessuno, si era
sbracciata per farsi vedere da Noodle. Quando la ragazza
l’aveva notata aveva preso il cellulare dalla tasca e,
facendosi vedere bene, lo aveva posizionato all’interno di un
vaso che stava nel giardino. Noodle lo aveva recuperato qualche giorno
dopo, quando aveva convinto Dayo a fargli fare almeno un giro fuori nel
cortile.
“Noodle
vi aiuterà con la donna che ci ha detto chiamarsi Dayo, non
appena vi vedrà e sarà sicura che ci
siete.”
“D’accordo”,
disse Mello con occhi concentrati.
“Bene.
Dopo che l’avrete presa portatela al furgoncino. Non vi
dovrete preoccupare di essere sorpresi, Near controllerà le
telecamere e comunicherà con voi, vi dirà tutto
quel che dovete sapere”, L guardò Mello e Diane,
“tramite microfono e auricolari. Abbiamo dei piccoli aggeggi
di questo tipo a disposizione, sono comodi, simili a quelli usati nelle
trasmissioni in tv. Potrete ricevere e comunicare con Near. Dopo che
sarò uscito porterò Georgie nel furgone, ma voi
due tornerete fuori, e aspetterete che esca Eikichi. Quando esce,
catturatelo. Non sarà difficile, non avrà
più nessuno che lo protegga, se tutto va secondo i piani.
E’ tutto chiaro?”, domandò L.
Gli
altri annuirono.
Dopo che Mello era
uscito Diane aveva ammanettato Dayo nel furgone, in modo tale che non
si potesse spostare nemmeno di un millimetro. Poi, assieme a Noodle,
era uscita dal furgone bianco e avevano svoltato l’angolo
guardandosi ancora una volta attorno, sospettose. Diane e Mello, che
nel frattempo le aveva attese fuori, dovevano aspettare che Eikichi
uscisse, per rapirlo e riprendersi il Death Note. Noodle doveva
convincerlo a uscire dall’hangar, anche se lui aveva espresso
il desiderio che fosse Dayo ad avvertirlo: ancora non si fidava del
tutto di lei. Aveva ragione.
“Tu pensi
che uscirà?”, domandò Noodle a Mello.
“Se anche
non fosse entreremo noi. E poi non può restare lì
dentro per sempre.” Per parte sua Mello pensava che quel
piano fosse un’ottima maniera di mostrare ad L tutte le sue
qualità nelle indagini. Oltre ad essere stato molto attivo
nella ricerca fino ad allora, avrebbe anche dimostrato di avere un
talento innato per l’azione sul campo, al contrario di Near.
Camminarono fino
all’hangar e, nascosti dietro ad una colonna, videro L uscire
tenendo per mano una bambina dai lunghi capelli scuri. L gli
gettò solo uno sguardo, ma fece finta di non vederli, e
proseguì per la sua strada. Attesero qualche minuto. Diane e
Mello si disposero uno da un lato dell’uscita e uno
all’altro. Noodle aprì la porta ed
entrò.
“Eikichi”,
chiamò.
“Noodle”,
disse quello con un sorriso affabile. “Come mai sei qui?
Dov’è Dayo?”
La ragazza
registrò che Ryuk stava seduto sopra un’alta pila
di casse in bilico ma non diede segno di vederlo né di
sentirlo quando lui sghignazzò divertito. Eikichi non doveva
sapere che lei lo vedeva. “Dayo è rimasta ferita
da uno dei sottoposti di L, erano in due. Ma lo abbiamo preso.
E’ in macchina, assieme a Georgie e Dayo.”
“Dayo
l’ha sbendata?”, domandò Eikichi
precipitosamente.
“Non lo so,
io sono venuta qui subito dopo aver portato alla macchina L. Sta
perdendo molto sangue, Dayo.”
Eikichi
affilò lo sguardo. Sentì che qualcosa non andava.
Ma sembrava fatta, dopotutto. “Va bene”, disse.
Attese che Noodle uscisse dall’hangar, poi mise un piede
fuori.
Nel momento esatto in
cui la sua figura sbucò fuori dalla porta vide un ragazzo
biondo dall’aria scontrosa che gli puntava addosso una
pistola. Dall’altro lato una donna faceva lo stesso. Si
fermò. Fulmineo, si gettò in avanti prima che
Noodle si allontanasse troppo e la tirò a sé
tenendola dai vestiti. Le passò un braccio sul collo e si
voltò indietreggiando, ritrovandosi faccia a faccia contro i
suoi aggressori. Noodle reagì subito, mosse un calcio contro
di lui prima potesse rafforzare troppo la presa e fuggì
dalle sue braccia. Nei due o tre secondi in cui tornò fra i
suoi compagni, che la osservavano preoccupati e non osavano sparare per
paura di colpirla, Light scattò e fuggì dietro ad
una colonna. La prima a reagire fu Diane, corse dietro di lui ma non lo
vide più dopo appena qualche metro. Impossibile che fosse
già andato via. Doveva essere lì nascosto da
qualche parte. Si guardò cautamente attorno ma non vide
nulla.
Light avanzava carponi
dietro ad un muretto composto da casse sporche e male impilate
l’una sull’altra. Doveva solo raggiungere la fine
di quel muretto e poi correre dietro all’altro hangar, che
distava solo qualche metro. Quando arrivò
all’estremità provò a controllare cosa
stesse facendo la donna che lo inseguiva. Si arrischiò a
guardare. Si nascose. In quel momento stava camminando lentamente,
inconsapevolmente, verso di lui, guardandosi circospetta
attorno, la pistola puntata davanti agli occhi e le braccia tese. Light
avanzava carponi, il Death Note arrotolato e infilato in una tasca
interna della giacca. Certo non aveva le scarpe adatte a correre. Diede
un’altra occhiata alla donna e la vide voltata a controllare
un cumulo di vasellame vecchio ammonticchiato in un angolo. Non avrebbe
mai avuto un’occasione migliore. Scattò, raggiunse
l’altro hangar ma non si fermò lì.
Continuò a correre, sentendo che la donna lo aveva visto e
lo inseguiva. Vide la macchina e vi saltò dentro. Come
pensava, non c’erano né L, né Georgie,
né una sanguinante Dayo ad attenderlo. Gli avevano teso una
trappola, e l’avevano architettata proprio con la sua
prigioniera, proprio in casa sua! Sotto i suoi occhi! Non se
n’era nemmeno accorto. Quella Noodle doveva essere complice
di L fin dall’inizio, ma lui non lo aveva nemmeno ipotizzato.
Che si fosse fatta catturare apposta? Che avesse avuto una microspia
incastrata da qualche parte fra i denti o sottopelle? Light
iniziò a dubitare di ogni cosa. Ma non era quello il momento
per pensarci, era salito in macchina e doveva fuggire.
Mise in moto e
uscì dal deposito, il buio cominciava a scendere sulla
piccola cittadina di Berksville. Ma Light non poteva più
restare lì, ora che Noodle sapeva dove si trovava la sua
casa. Forse lo sapeva anche L. Uscendo con il piede pigiato
sull’acceleratore scorse un furgone bianco parcheggiato a
lato della strada. Doveva tornare in quella casa, prendere lo stretto
indispensabile e trasferirsi altrove.
Non importava ormai
dove. L’importante, una piccola vittoria, era che aveva il
Death Note. Dietro di sé, nello specchietto retrovisore,
vide apparire Ryuk, la schiena ancora più curva per entrare
nell’auto.
“Light, non
pensavo ti avrei mai rivisto”, disse lo Shinigami con voce
roca.
“Nemmeno io
Ryuk, è un piacere.”
Light tornò
a guardare avanti. In fondo, la piccola Georgie non gli serviva poi
così tanto, poteva trovare altri metodi per scoprire il nome
di L. Ma come aveva già deciso, prima doveva disfarsi dei
suoi sottoposti. Primo fra tutti, Near. Quel ragazzino silenzioso che
riusciva sempre a capire le cose più improbabili, nonostante
sembrasse vivere in un mondo a parte. Poi, per puro dispetto nei suoi
confronti, quella ragazzetta di nome Noodle, che l’aveva
giocato come un bambino. Light accelerò, tolse il Death Note
dalla tasca interna e lo poggiò sul sedile anteriore al suo
fianco.
Aveva l’arma
perfetta.
“Ve
l’ho già detto, non so niente di lui”,
ripeté Dayo per la ventitreesima volta. La donna chiuse gli
occhi, stanca, e sospirò.
Noodle si
avvicinò ad L e sussurrò con cipiglio
preoccupato: “Andiamo, credo che dica la verità.
Perché dovrebbe sapere qualcosa di lui? Era una complice
sì, ma probabilmente non sapeva nulla. Light
l’avrà usata senza dirle niente
d’importante. L’avrà pagata con un
mucchio dei soldi: è un sicario professionista”.
L ci pensò
su un attimo. “Cosa sai di qualcosa chiamato Death
Note?”
“Non
l’ho mai sentito nominare”, disse Dayo.
“E sai
perché hai dovuto rapire Georgie Jonsson?”
“No!”,
disse Dayo, ormai senza pazienza. “Ai miei clienti piaccio
per questo. Loro ordinano e io eseguo. Senza nessuna domanda.”
“Quindi tu
eseguivi solo gli ordini?”, domandò L.
“Anche se sapevi che il capo è un pazzo
criminale.”
Dayo lo
guardò con stizza. “Non venire a farmi la predica,
detective! Non la accetto da un uomo che lega una donna ad una
sedia.”
Diane si
appoggiò al tavolo, gli occhi stanchi e i capelli in
disordine. “Anch’io credo che non sappia nulla,
è inutile tenerla ancora qui. Chiamiamo la CIA,
raccontiamogli che cos’è successo e sbattiamola in
un tribunale.”
L si
mordicchiò il pollice. Dopo un attimo di esitazione:
“D’accordo”.
In quel momento gli
occhi di Dayo si spalancarono, la donna emise un gemito soffocato e si
irrigidì su quella sedia, dove era legata da quasi sette
ore. Una linea scura di sangue le uscì dall’angolo
della bocca e scivolò melmosamente verso il mento. Quando
macchiò il vestito bianco di Dayo, lei era già
morta.
Noodle si
precipitò verso di lei. “Dayo. Dayo!”,
chiamò urlando. La slegò, veloce, e la sostenne
quando il suo corpo si accasciò su di lei. “No,
no”, mormorò. “Dayo apri gli
occhi!”, disse reggendole il busto e sollevandole la testa.
Tutti osservavano agghiacciati, incapaci di dire una parola o di fare
alcunché. Alla fine Matt li superò e raggiunse
Noodle, che continuava a tentare di svegliare quella che era diventata,
nelle lunghe ore di allenamento, la cosa più simile ad un
amico in quella strana prigione. Matt scostò delicatamente
Noodle e prese in braccio Dayo, la sollevò e la mise
sdraiata sul divano. Esitò, poi le chiuse gli occhi con un
gesto della mano. Rabbrividì e si strofinò la
mano istintivamente.
“Chiamate
qualcuno per portarla via”, disse Near voltandosi, uscendo
dalla stanza.
Mello si
avvicinò a Noodle, che era rimasta in ginocchio di fronte
alla sedia sulla quale L aveva insistito così tanto per
interrogare Dayo, senza ottenere alcuna risposta. Mello le cinse le
spalle e la portò in camera sua. Noodle si sedette alla
scrivania e rimase lì, le mani affondate nei corti capelli
biondi. Mello rimase per qualche attimo sulla soglia, senza sapere bene
che cosa fare. Alla fine decise di prendere una barretta di cioccolato
al latte, una delle poche che aveva, e la lasciarla sulla scrivania
accanto a Noodle. Si voltò e uscì, chiudendosi
piano la porta alle spalle.
Noodle
osservò la tavoletta di cioccolato con rabbia. In quel
momento non c’era una sola cosa che poteva risollevarla di
morale. Dall’inizio di quel caso era andato tutto storto!
Kira era tornato dal regno dei morti, e aveva con sé il
Death Note di L. Loro avevano ripreso la bambina, ma Light Yagami aveva
un vantaggio enorme su di loro. Aveva il quaderno, e anche se non
conosceva i loro nomi avrebbe potuto scoprirli. C’erano molti
modi che poteva architettare. Con il Death Note in mano e nessun
rimorso ad usarlo -al contrario di loro-, aveva già una
potentissima arma a suo vantaggio. E loro che cosa avevano? Un
detective che non si faceva vedere mai da anima viva, tre ragazzi
inesperti e un’agente della CIA. Per non tenere in conto un
cadavere sul divano e una bambina con gli occhi dello Shinigami che
dormiva al piano di sopra. L’unica cosa che dovevano evitare,
ossia consegnare ad un assassino l’arma di distruzione di
massa più potente del mondo, era accaduta.
Noodle prese la
barretta di cioccolato e la osservò per qualche secondo,
soppesandola sul palmo di una mano. Poi, presa da rabbia tremenda, la
scagliò con tutte le forze che aveva dall’altra
parte della stanza, i denti stretti per la rabbia. Si gettò
sul letto, raggomitolandosi su sé stessa, furiosa e
disperata allo stesso modo. Avrebbe voluto che non fosse mai accaduto
nulla, avrebbe preferito non aver mai incontrato Ryuk, e rimanere
all’oscuro di tutto. Ma più di ogni altra cosa,
avrebbe voluto che suo padre fosse lì con lei. Le avrebbe
preparato una tazza di tè, come faceva quando aveva la
febbre, e le avrebbe detto di riposare, lasciandola sola nella stanza
con i suoi libri. Ma anche se non era presente lì vicino a
lei Noodle sapeva che c’era, appena oltre la porta, per
qualsiasi cosa di cui avesse avuto bisogno.
Quasi senza
accorgersene, Noodle si addormentò.
“C’è
bisogno di un posto sicuro dove tenere Georgie”, disse L
pensieroso.
“La
Wammy’s House”, disse subito Mello.
“Light sa
della Wammy’s House, non sarebbe prudente”,
osservò Near.
Mello lo
guardò con astio. Perché cavolo non ci aveva
pensato lui? “E quindi?”, domandò
tagliente.
“Quindi
credo che la migliore soluzione sia tenerla qui con noi”,
concluse L. “Dopotutto la casa è grande
abbastanza, non ci sono problemi, non è vero?”
“Veramente
la casa ha solamente quattro stanze da letto, compreso quel buco di
soffitta”, obbiettò Mello.
“Io posso
continuare a dormire sul divano”, disse L.
“Se
c’è la soffitta, posso stare in
soffitta?”, domandò Matt. “E’
pulita, basterà trasportare di sopra le mie cose.”
“Vuoi dire
il televisore, la psp, il computer, l’x-box, i tuoi vestiti e
il dvd?”, domandò con scherno Mello. Matt
annuì. “Te lo scordi. Tu resti dove sei.
Allora…”, si guardò attorno.
“L sul divano. Ma le restanti quattro stanze sono occupate da
noi… Matt, dormiremo assieme, la mia camera sarà
di Georgie.”
“E
io?”, domandò Noodle.
“Tu in
soffitta.” Noodle sbuffò. Non sapeva se quella
sistemazione le piaceva, ma era quello che passava il convento.
“A me sta
bene”, disse Matt. “Ho passato praticamente tutta
la vita in camera con te.”
Solo in quel momento
Georgie si voltò verso di loro. Stava seduta al tavolo e
disegnava su un grande foglio che Diane le aveva procurato.
“Posso vedere la mia stanza?”, domandò.
“Ma
certo”, rispose Mello. “Vieni, ti faccio
vedere”, disse il ragazzo porgendole la mano e sorridendo
velatamente.
Senza che nessuno se
ne rendesse conto, e senza fare nulla di eclatante, Georgie Jonsson era
diventata in pochi giorni la mascotte della squadra
d’investigazione. Era una bambina alquanto silenziosa,
passava la maggior parte del tempo a disegnare casette e prati dalle
improbabili forme e dimensioni e a guardare cartoni animati in tv.
Forse proprio per questa sua calma tutti la apprezzavano. Se avessero
dovuto badare ad un bambino irrequieto probabilmente lo avrebbero
affidato a qualcun altro. L delle volte si domandava se Georgie non
sarebbe stata la felicità di Watari.
Georgie
guardò Mello per qualche secondo poi, ignorando la mano
tesa, scese dalla sedia e raggiunse Near. “Mi accompagni a
vedere la mia stanza Near?”
Near distolse lo
sguardo dalla finestra. Sorrise un poco. “Ma
certo.” Prese per mano Georgie e
l’accompagnò. Per puro dispetto, in ricordo dei
tempi passati, quando passò accanto a Mello gli fece un
sorrisino furbo.
Mello, per tutta
risposta, sbuffò arrabbiato. “Sì,
sì vai! Vai a fare il baby sitter!”, gli
urlò dietro. Poi si voltò, arrabbiato, e
uscì nel terrazzo.
Era sempre
così, sempre la solita storia! Near rimaneva il solito
odioso nano bianco anche durante un caso. Lui era il migliore in tutto,
lui dava le idee vincenti, lui era il preferito di Georgie, lui
controllava che tutto fosse a posto prima di agire. Solo, lui, lui,
lui. Probabilmente non ci metteva la metà
dell’impegno che ci avrebbe messo Mello se fosse stato al
posto suo! O almeno, questo era quello che pensava il ragazzo. Per
tutta la sua vita Mello non era mai stato il primo. Se solo avesse
potuto ribaltare i ruoli…
Mello si
voltò quando udì dei passi dietro di
sé. Noodle lo raggiunse sulla terrazza e appoggiò
i gomiti al muretto, accanto a lui. “E’ mai
possibile che non c’è niente in cui riesca meglio
degli altri?”, domandò ad un tratto Mello con voce
critica guardandola con la coda dell’occhio.
Noodle sorrise mesta.
Dal tono di Mello si capiva che non era arrabbiato, almeno in quel
momento, ma più che altro faceva una constatazione.
“E’ solo che non l’hai ancora
trovato”, disse la ragazza.
“Di questo
passo non lo troverò mai.”
“Ma lo sai
che Isabel Allende ha cominciato a scrivere quando aveva
quarant’anni? E Morgan Freeman ha fatto il suo primo film a
quasi trent’anni.”
Mello la
guardò. “E che c’entra, scusa?”
“C’è
tempo per trovare qualcosa che sai fare meglio, non è detto
che siano cose scontate.”
Mello la
osservò con un po’ di acidità.
“Sarebbe magnifico, a trent’anni, scoprire che sono
un buon spazzacamini.”
“Ah, Mello!
Certo che quando non vuoi capire ti ci metti proprio
d’impegno!”, sbottò la ragazza
spazientita.
Il ragazzo si
rabbuiò, poi si appoggiò con i gomiti al muretto
del terrazzo e guardò la piccola cittadina di Berksville
dall’alto. “Secondo te cosa dobbiamo fare
adesso?”
“Non lo
so”, disse Noodle sospirando. “Dobbiamo riprenderci
il Death Note, questo è certo. E mi chiedo anche che cosa
dovremmo fare con un criminale che, per la legge, è
già morto.”
“Hm…
Immagino che dovrà morire di nuovo.” Per qualche
secondo quelle parole rimasero nell’aria, e i ragazzi
pensarono a due cose totalmente opposte. Mello si bloccò,
pensando al vero significato delle sue parole. Se Light Yagami doveva
morire, e di sicuro nessuno di loro avrebbe usato il Death Note, allora
quello voleva dire che qualcuno doveva ucciderlo. Che qualcuno doveva
porre fine alla sua vita per sempre. Per un secondo Mello
capì l’imponenza del pensiero che aveva fatto, e
si sentì pieno di angoscia e terrore. Poco dopo quella
consapevolezza sparì, e al ragazzo rimase solo un leggero
senso di inquietudine. Invece, dentro di sé, Noodle
esultava. Light Yagami doveva morire, e non venire condannato in un
tribunale all’ergastolo o alla sedia elettrica. Doveva morire
per mano loro, non potevano consegnare un morto alla legge, sarebbero
sorte domande scomode. Quindi lo avrebbe ucciso lei. Lei avrebbe posto
fine alla sua vita per sempre. Per un secondo Noodle capì
l’imponenza del pensiero che aveva fatto, e sentì
il cuore scoppiare dal potere che provava nelle mani. Le mani che
avrebbero ucciso l’assassino di suo padre. Formicolavano per
la voglia e l’impazienza.
“Noodle”,
Mello la chiamò, notando il suo sguardo perso nel vuoto.
“Sì?”,
domandò lei riscuotendosi dai suoi pensieri.
“Ti va di
accompagnarmi a fare un giro?”
“Sì.”
La sera stava
scendendo e i lampioni cominciavano ad accendersi, ancora pallidi, per
le strade. Mello e Noodle camminavano uno affianco all’altro,
in silenzio, entrambi con le mani in tasca, entrambi con il mento alto
di chi vuole mostrarsi fiero di sé, ed entrambi con i
pensieri altrove. Senza rendersene conto capitarono nel centro della
cittadina, dove c’era un po’ di movimento. Diverse
persone in giro, alcuni negozi aperti e già qualche insegna
luminosa che doveva attirare clienti la notte. Noodle
sbriciò la strada, si fermò e chiese:
“Mello, ti va un gelato?”.
Il ragazzo
osservò la gelateria di fronte alla quale si erano fermati.
Sorrise e disse: “Al cioccolato”.
“Ovviamente.”
Noodle
ordinò un cono piccolo con yogurt e pistacchio, Mello un
cono grande da tre gusti pieno solo di cioccolata fondente, sul quale
volle anche il biscottino. Pagarono un dollaro e cinquanta e due
dollari e settantacinque centesimi. Il gelato era molto buono.
Ripresero la strada e
ricominciarono il cammino. Arrivarono fino in fondo alla grossa via
principale, senza parlare, mangiando il gelato. Infine raggiunsero la
piazza del municipio, affianco della quale c’era un parco
giochi e una chiesa. Erano già le otto di sera quando
arrivarono lì, e c’era buio. Il parco era deserto.
“Andiamo? Ti
va?”, domandò Mello. Noodle si strinse nelle
spalle. Mello scavalcò il basso steccato, con ogni listello
di legno dipinto di un colore diverso. Nel parco giochi
c’erano uno scivolo, quattro altalene, un girello, tre
animali a molla di legno, un percorso e due campetti: uno da calcio,
uno da pallavolo e basket. Oltre a quello c’erano cinque o
sei panchine immerse nel buio sparse lungo l’erba. Mello si
avviò verso il girello dipinto di verde e rosso, che nel
buio della prima sera non pareva tanto allegro. Si sedette e Noodle lo
raggiunse, sistemandosi di fronte a lui. Era incredibile come sembrasse
minuscolo quel gioco, che invece sembrava così spazioso ai
loro occhi quando erano bambini, ci entravano in cinque o sei, e se non
giravano tutti la grossa maniglia al centro era considerata una vera
ingiustizia punibile per legge. Mello diede un paio di giri alla ruota
centrale, poi lasciò che girasse da solo.
“Da piccola
facevamo girare la ruota il più velocemente possibile, poi
saltavamo fuori quando era ancora in movimento”,
ricordò Noodle con il viso alzato, godendosi
l’aria fresca che le arrivava addosso. “Era una
prova di coraggio: chi non saltava era un codardo.”
Mello
ridacchiò. “Anche noi lo facevamo alla
Wammy’s House.”
“Non ho
visto un parco giochi”, obbiettò Noodle
guardandolo, mentre il girello rallentava.
“Sta dietro
il campetto da calcio.” Rimasero un secondo in silenzio, poi
Mello disse: “Sai cosa dovremmo fare? Per riprenderci il
Death Note?” Noodle lo guardò interrogativo.
“Qual
è il punto debole di Light? Dovremmo
chiedercelo con calma e scoprirlo. Solo così riusciremo a
pensare un piano adatto.”
Noodle ci
pensò di nuovo. “Be’, di sicuro
è molto intelligente e non manca di denaro. Mi chiedo come
abbia fatto però ad ottenerlo.”
“Forse
l’ha rubato.”
“E’
molto probabile. Ma questo non va contro la legge? Non lo rende un
criminale punibile da Kira? Il che è un paradosso dato che
lui stesso è
Kira.”
“Lui vuole
il bene nel mondo ma per ottenerlo non esita a uccidere persone
innocenti: coloro che gli danno la caccia. E’ una logica non
troppo difficile da capire che è praticamente uguale a
quella di un bambino capriccioso. Non si cura del paradosso,
lui.” Mello si infastidì leggermente nel dire
quelle parole.
“Vorrei
sapere anche come ha scoperto Georgie Jonsson.”
“E come ha
fatto a ritornare in vita”, continuò il ragazzo.
“Sai cosa
dovremmo fare?”, domandò Noodle con fare retorico.
“Dovremmo scoprire tutte queste cose per attaccarlo come si
deve. Scoprire come e perché sia tornato a vivere forse
potrebbe aiutarci a farlo tornare nel Mu ancora una
volta…”
“Sostiene di
non saperlo neanche lui.”
“Non
importa, lo scopriremo noi. Poi… Come ha fatto a scoprire
Georgie Jonsson, dove ha preso tutti i soldi che ha speso per quella
casa, e forse per viaggiare, e per ingaggiare Dayo, eccetera.”
“E da dove
incominciamo?”
“Be’
potremmo cominciare a fare un ricerca su Light Yagami, anche se
probabilmente avrà cambiato nome. E forse non è
nemmeno Eikichi il nome che usa, lo ha usato con noi.”
“D’accordo,
ma nessuno sa dei prescelti. Come avrebbe potuto sapere di
Georgie?”, domandò Mello con sagacia.
“Interrogheremo
di nuovo tutti coloro che sapevano della sua malattia. Gli chiederemo
se per caso sono entrati in contatto con lui. Se sapeva delle visioni
di Georgie, non ci avrà messo molto a fare, come noi, due
più due”, osservò Noodle facendo un
espressione di tale ovvietà che Mello si sentì in
parte stupido per non averci pensato.
“Va bene, lo
diremo ad L quando torniamo”, acconsentì Mello.
Tese la mano per ricominciare a girare la ruota, ma Noodle lo
fermò.
“Aspetta,
no.”
“Cosa?”
“Ho
freddo”, disse la ragazza passandosi le mani sulle braccia
per scaldarsi. Mello la squadrò. Noodle indossava una felpa
non troppo pesante e sotto una maglietta a maniche lunghe con scritto
‘Oggi
c’è il sole. Domani sarà
l’armageddon.’ Mello si
avvicinò a lei e tolse la giacca di pelle. “No,
no. Così hai freddo tu poi”, replicò
Noodle. Mello si strinse nelle spalle e le gettò addosso la
giacca. Noodle sorrise, poi si strinse di più a lui e
gettò la giacca addosso a tutti e due. Il braccio sinistro
le restava fuori ed era gelato, ma lei non ci faceva caso.
Esitò, poi si fece scivolare più in basso e
appoggiò la testa alla spalla di Mello. Il ragazzo rimase
per qualche istante fermo, come una statua di sale, poi, lentamente,
appoggiò la testa a quella di Noodle. Sotto la giacca
c’era un caldo particolare. Mello mosse la mano e
cercò Noodle, lei si mosse e cercò Mello. Le loro
mani si unirono e intrecciarono le dita, sotto la giacca. Il cuore di
Mello batteva per l’agitazione, non sapeva che cosa sarebbe
successo. Noodle invece era calma, in quel momento non le interessava
che cosa sarebbe successo.
Rimasero lì
ad osservare le poche stelle che si vedevano dalla cittadina di
Berksville. Non erano molte, ma non se ne accorsero, in
realtà non vedevano nulla. Solo i loro pensieri. Non
c’era stato bisogno di dire nulla, perché a che
servivano le parole in un momento così? A volte la gente si
sente a disagio quando c’è silenzio, ma loro si
godettero quello scambio muto senza pentimenti.
Dopo un tempo che ai
due parve un secondo e un’eternità Noodle si mosse
e il sogno parve spezzarsi. “Andiamo a casa?”,
domandò allora Mello.
“D’accordo.”
I due si avviarono a
piedi nel buio della città. La gente era diminuita, solo
pochi negozi restavano aperti, a testimonianza dell’ora
tarda. I due camminavano senza parlare. Mello fece sfiorare
più volte le loro mani, che camminavano volutamente
l’una di fianco all’altra, così vicine
da scontrarsi più spesso del previsto. Prima che una delle
dita di Noodle potesse sfuggire, Mello la prese, poi le loro dita si
intrecciarono di nuovo, fuori dalla giacca. Nessuno dei due guardava
l’altro, era come un tacito compromesso. Non si guardavano,
ma sentivano le loro mani. La leggera pressione delle dita di Mello,
sottili ma forti. La delicatezza di quelle di Noodle sulle nocche del
ragazzo. Quella sensazione simile al solletico che entrambi provavano,
quando le dita si sfioravano per tutta la loro lunghezza.
Quando arrivarono a
casa Mello aprì la porta con la sua chiave. Era tutto buio
all’entrata, solo una luce soffusa proveniva dalla cucina.
Probabilmente era L. “Ti accompagno di sopra”,
disse Mello in un bisbiglio. Noodle annuì. Salirono al piano
superiore e s’incamminarono verso la soffitta, in
realtà più simile ad una taverna, raggiungibile
tramite un scala a chiocciola. La salirono per metà, prima
che Mello potesse vedere la stanza di Noodle. Il ragazzo sorrise
debolmente, divertito. “Posso riavere la mia
giacca?”
“Oh,
scusa.” Noodle si affrettò a restituirgliela.
“Non mi ero accorta di averla ancora addosso”,
disse con un mezzo sorriso di scuse.
“Non
importa.” Mello la riprese, sorrise e tenne ancora la mano di
Noodle, stringendola, facendole sentire la pressione, il desiderio e la
forza con cui la voleva. Mello si abbassò leggermente: era
di un po’ di centimetri più alto di lei. Lento,
l’abbracciò. La giacca cadde a terra ma nessuno
dei due vi fece caso. Si abbracciarono.
In quel momento Mello
non riusciva a pensare a niente. Poteva solo concentrarsi su Noodle.
Sentiva quanto era piccolo il suo corpo, com’era fragile e
perfetto fra le sue braccia. Ma sapeva anche che poteva essere forte, e
la strinse di più, con gli occhi chiusi. Non vedeva nulla,
tranne che la sensazione del corpo di Noodle stretto al suo. Piano,
lento, cominciò a scostarsi da lei. Il suo viso si
ritirò, le loro guance si toccarono, si sfregarono. Mello si
allontanò ancora leggermente e cercò, esitante,
le labbra di Noodle con le sue.
Un bacio. Labbra
contro altre labbra. Respiri che si mescolavano. Occhi chiusi che
vedevano un mondo intero.
Un altro bacio. Ancora
lento, ancora esitante. Perché nessuno dei due sapeva se
l’altro lo voleva. E nessuno dei due avrebbe mai fatto nulla
che l’altro non voleva.
Un altro ancora. Fiati
umidi che s’incontravano. Lingue, che si toccavano esitanti e
subito si ritraevano.
Ancora. Più
deciso, più desideroso di sentire e di far sentire. Che cosa
provava Noodle? Non lo sapeva, ma voleva che anche Mello sentisse lo
stesso, perché era una sensazione meravigliosa, che le
gonfiava il petto e le piegava le labbra in un sorriso spontaneo. E
cosa sentiva Mello? Sentiva un mondo così dolce che non gli
parve giusto tenerlo solo per sé: voleva farlo assaporare a
Noodle e farle sentire com’era bello, perché
voleva che lei fosse felice.
Caldo e fresco.
Afrodisiaco. Era come saggiare la consistenza dell’infinto in
un istante. Sembravano passare anni e secoli nelle sensazioni, ma
quando si separavano non erano passati che pochi secondi.
Mello
poggiò la fronte a quella di Noodle, continuando a tenere
gli occhi chiusi e sorridendo. Noodle invece guardava giù,
ai loro piedi. Vederli tanto vicini era piacevole. Mello le
accarezzò i capelli, mentre Noodle quasi si sorreggeva sulle
sue braccia.
“Buonanotte”,
disse Mello scendendo le scale senza voltarsi a guardarla.
Noodle salì
in camera. Come in un rito si spogliò, piegò i
vestiti puliti e mise quelli sporchi nella cesta dei panni da lavare.
Indossò degli slip nuovi, una maglietta con le maniche
corte, dei pantaloni di cotone e delle calze. Si lavò i
denti, sciacquò il viso, passò inutilmente la
spazzola fra i capelli: erano troppo corti, non serviva a nulla
pettinarli. Si diresse a letto e accese la lampadina del
comò, poi andò dall’altra parte della
stanza e spense l’interruttore della luce. Il giallastro
della lampadina illuminava ogni cosa e la rendeva ancora più
massiccia, e la strada per raggiungere il letto era diventata
più lunga.
In piedi
dall’altro capo della stanza Noodle sentì una
curiosa sensazione allo stomaco e un’altra nel petto. La
prima era sgradevole, come se le si stringessero le budella, la seconda
era piacevole, e Noodle sorrise involontariamente, pervasa dalla
felicità.
Ciao
a tutti! ^^
Posto con un giorno di anticipo per vari motivi, ma più che
altro perché fra poco ricomincia l'università,
quindi non avrò più i Lunedì liberi. Da oggi in poi posterò
tutte le Domeniche =)
Sul capitolo posso dire solo che voglio proprio sapere che cosa ne
pensate, e mi farebbe molto piacere una recensione (ne approfitto per
ringraziare di cuore tutti coloro che hanno recensito fin'ora, siete
proprio gentilissime ad usare un po' del vostro tempo per commentare
questa storia, e le vostre osservazioni, i consigli e le correzioni
sono sempre utili e molto gradite. Grazie!
^^). Ho quindi alcune domande per voi lettori riguardo a questo
capitolo: prima di tutto vorrei sapere se Light è
abbastanza IC, e se vi è piaciuto il suo ritorno; poi sono
curiosa di sapere che cosa ne pensate di Noodle e Mello. Ho speso una
marea di tempo per scrivere quella scena, non so nemmeno se
è venuta come volevo io, è venuta fuori
così, come voleva lei, e basta! Allora? Vi piacciono Mello e
Noodle e il loro primo bacio? ^^
Aspetto recensioni!
Nello spoiler
ci sono alcune divagazioni mentali, riguardo al capitolo, le fanfictions e lo
scrivere in generale, se non volete leggerle siete padronissimi di non
farlo, non c'entrano niente con la storia! xD
Ci vediamo Domenica prossima (sempre che internet non cada, come vi ho
già avvisati)!
Patrizia
|
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Capitolo 13 *** Kids ***
Capitolo
dodici
Kids
“Near!
Near! I rosa elefanti*!” Georgie si precipitò
nella stanza del ragazzo, spalancando la porta con malagrazia e
arrampicandosi sul letto. “Near!”
Controllò che fosse lui, per non imbattersi per puro caso
nella causa della sua fuga dal salotto. Le batteva forte il cuore, come
solo ad un bambino può battere per qualcosa che non esiste.
Quando ebbe appurato che si trattava di Near, Georgie prese le coperte
pesanti fra le quali era avvolto e si coprì integralmente. Un piede scappava dalla coperta!
Lo nascose.
Near si
sollevò dal letto, assonnato. “Georgie?”
Prese la coperta e ne sollevò un lembo. Georgie la riprese e
si coprì di nuovo. “Georgie cosa
c’è?”
“Non voglio
che mi vedano”, disse la bambina con tono soffocato da sotto
le coperte.
“Chi?”,
domandò Near tentando di farla uscire, cercando il lembo
della coperta. Si strofinò gli occhi un secondo prima di
riprendere la ricerca di Georgie. “Non ti preoccupare, ti
proteggeremo noi. Siamo qui apposta. Chi è che ti
segue?”
“I rosa
elefanti”, sussurrò la bambina nel tentativo di
non farsi sentire.
Dumbo. Nemmeno a
Near erano mai piaciuti i rosa elefanti. Aveva sempre avuto un dilemma
con quel cartone animato. Non gli piaceva Dumbo, ma la canzone dei rosa
elefanti era la migliore parte del film. Era anche la più
spaventosa. Da piccolo aveva sempre avuto paura dei rosa elefanti. Non son tipo da svenire o da
farmi intimorire, ma vedermi comparire i rosa elefanti mi fa mal!
Già il fatto che un cucciolo di elefante si ubriacasse aveva
dato a Near, una volta cresciuto, diversi dubbi sulla natura di quel
cartone. Ma lui aveva comunque trovato un metodo, da bambino, contro i
temibili elefanti rosa. “Georgie?”,
chiamò il ragazzo.
“Shhh!”,
lo rimproverò la bambina.
“Ascolta
dimmi solo una cosa. Qual è il tuo animale
preferito?”
“L’orso.”
“Lo sai che
i colori combattono fra di loro?”, domandò Near
rinunciando a scoprire Georgie. “Ad esempio, lo sai qual
è il nemico giurato del rosa?” La bambina non
rispose ma Near non vi fece caso, e continuò.
“E’ il verde.” In realtà non
era proprio vero: il verde era il complementare del rosso magenta, ma
il rosa ci andava comunque vicino, e Georgie di sicuro non poteva
conoscere la teoria dei colori. “Quindi, ecco cosa succede:
gli elefanti rosa vengono battuti dagli orsi verdi. Ci sono degli orsi
enormi, davvero grandi… che abitano in Africa. E sono verdi.
Potrei scrivergli sai? Io li conosco. Possiamo scrivergli assieme. Gli
diremo che gli elefanti rosa hanno ancora attaccato, e che devono
andare a riprendersi il loro territorio, l’Africa.”
Near fece una piccola pausa. “Allora?” Georgie
alzò le coperte solo d’uno spiraglio e
osservò Near.
Caro
Re degli Orsi Verdi,
le
mandiamo questa lettera per avvisarla di un pericolo imminente! Gli
elefanti rosa stanno invadendo il vostro territorio. E’
richiesta un’azione immediata.
Con
affetto,
Georgie e
Near
Per prima cosa, sotto
gli occhi attenti di Georgie, Near imbucò la lettera, sulla
cui destinazione la busta recitava solo: Africa. Poi, non
appena la bambina fu impegnata in altri giochi, Near andò a
cercare fra i cd masterizzati di Matt, che si era tanto impegnato per
trovare qualche cartone animato per Georgie. Una volta trovato Dumbo lo nascose
nel più buio degli angoli della casa. Solo allora
tornò tranquillo.
“Che cosa
fai?”, domandò L quando vide Near arrampicato
intento a lanciare un cd sopra un mucchio di scatole, nel ripostiglio.
“Niente
più Dumbo
qui: è malsano!”, disse il ragazzo.
L sorrise lievemente,
illuminandosi, poi se ne andò canticchiando qualcosa come:
‘…ma i
rotondi pachidermi mi fan rabbrividir!’
Near fece appena in
tempo a uscire dallo sgabuzzino che udì una voce urlare il
suo nome. Sospirò, ma non di stanchezza.
“Georgie?” Passò il resto del pomeriggio
a giocare con un robot ed una bambola, nella loro fantasia Mr. Cosciotto e Miss Coda Lunga.
A Near piaceva stare
assieme a Georgie, non erano passate che poche settimane da quando era
arrivata, ma si era già affezionato a lei. Non come gli
altri però, loro vedevano solo un bella bambina, timida e
silenziosa. Near sapeva che non era affatto così. Georgie
non era timida, una volta che la si conosceva bene. Ci si doveva
meritare la fiducia di Georgie, e Near aveva capito che non era affatto
facile né scontato come lo era per gli altri bambini, ai
quali bastava un regalo o magari essere simpatici e gentili con loro
per avere fiducia. Con Georgie ci si doveva impegnare, si doveva essere
davvero delle brave persone.
Il motivo per cui
Georgie aveva imparato a non parlare molto con gli altri, e lo stesso
motivo per il quale preferiva non affezionarsi a molta gente. Era
perché, lei lo sapeva: le persone muoiono. Nessuno aveva mai
avuto la consapevolezza, fin dalla sua tenera età, che la
vita fosse così limitata.
Ma lei poteva vedere il nome delle persone, la durata della loro vita,
e sapeva benissimo come andavano le cose. Forse lo sapeva meglio di
molti adulti. Glielo aveva detto una volta uno Shinigami, le aveva
spiegato ogni cosa. Era piombato dal cielo quando aveva appena tre anni
e mezzo e lei aveva creduto che fosse un angelo. La mamma le parlava
spesso degli angeli, diceva che salvavano le persone.
Quell’angelo, molto probabilmente, era lì per
salvare la sua mamma. La sua mamma lavorava sodo e la sera era sempre
troppo stanca. Ma si sbagliava. Quando glielo aveva domandato
l’angelo aveva detto solo che lui non era affatto un angelo.
Era uno Shinigami. Un Dio della Morte. Le aveva spiegato come mai lei
conosceva subito il nome delle persone non appena le guardava, e come
mai dei curiosi numeri stavano sollevati sopra le loro teste. Le
insegnò come calcolare in data umana gli anni di vita delle
persone. Dopo aver imparato (la parte più difficile fu di
sicuro fare le somme) Georgie lo faceva quasi come un gioco, un
divertimento. Aveva smesso quando aveva conosciuto un compagno di
scuola, un bambino della sua età. Si chiamava Paul Hertly e
quando lo conobbe aveva ancora qualche ora di vita. Quando la mamma di
Paul Hertly lo venne a prendere, dopo una giornata durata otto lunghe
ore lavorative, durante le quali Paul aveva duramente disegnato e
giocato con i trattori della scuola materna, non appena aveva visto la
mamma dall’altra parte della strada era corso da lei.
L’incidente sembrò quasi scontato, per Georgie. Da
allora non guardava più la gente in viso, se non quando era
obbligata. E non aveva mai più calcolato nessuna data di
morte.
Ma con quei ragazzi
era diverso. Lei non sapeva il perché, ma non poteva leggere
la data della loro morte quando li osservava. Semplicemente non si
vedeva. Georgie non sapeva che era solo perché erano entrati
in contatto con un Death Note. Tutti lo avevano toccato, almeno una
volta, per poter vedere Ryuk e parlare con lui. L’unica
conclusione alla quale Georgie era potuta giungere era semplice: loro
non sarebbero mai morti. Diane Colfer. Mihael Keehl. L Lawliet. Mail
Jeevas. Annika Tempor. Nate River. Tutti immortali. Tutti come lei.
Tutti sarebbero rimasti assieme a lei per sempre.
Matt si
svegliò con la sensazione di aver combinato un guaio. Uno
bello grosso. Non sapeva perché, ma sentiva di essere in
gran torto, verso tutti. Verso Mello, perché non era mai
stato un grande amico dopotutto, non era bravo a consolare e nemmeno a
dire parole incoraggianti. Verso Near, perché quante volte
si era ritrovato assieme a Mello a fargli vedere l’inferno,
da bambini, solo per il gusto di farlo? Verso L, perché
s’intrometteva nelle sue indagini e non ne era realmente
interessato. Verso Noodle, e di questo non sapeva nemmeno il motivo.
Era davvero una giornata nera per Matt, che si sentiva come
l’unico peso in più che il mondo dovesse
sostenere. Se lui non ci fosse stato sicuramente ogni cosa sarebbe
andata al suo posto. Sicuramente nessuno sarebbe stato più
infelice. Se non ci fosse stato lui, pensò, preso in
quell’attacco di folle tristezza, di sicuro la fame nel mondo
sarebbe finita, così come un geniale dottore avrebbe trovato
una cura contro ogni tipo di cancro. E probabilmente, se non fosse mai
esistito, Diane Colfer ora non sarebbe stata in quella casa. Forse
sarebbe stata a casa propria, con il suo fidanzato, magari sarebbero
stati più felici. Magari
lei sarebbe stata più felice, avendo avuto un
passato roseo e allegro alle sue spalle. Niente bambini non
programmati, niente parti a quindici anni, niente fughe da casa e
trasferimenti dall’altra parte del mondo.
Matt udì un
rumore proveniente dal letto sopra il suo. Da quando lui e Mello
avevano deciso di condividere la stanza L aveva comprato loro un letto
a castello, forse per farli ripensare ai tempi passati della
Wammy’s House. Mello aveva ancora avuto il letto di sopra.
Matt lo udì stiracchiarsi, sbadigliare rumorosamente e,
pochi istanti dopo, vide spuntare dei piedi dalla scala a pioli. Mello
scese e gli si piazzò di fronte in tutta la sua eleganza
mattutina, le gambe divaricate e le mani sui fianchi. Un sorriso
soddisfatto come di chi ha vinto una gara campeggiava sul suo volto.
Erano rare le volte in cui Matt aveva visto l’amico
così di buon umore. “Che è
successo?”, domandò senza volerlo sapere veramente.
“Io e Noodle
ci siamo messi assieme.” Mello sorrise ancora di
più e Matt giudicò la cosa con interesse quasi
scientifico: come delle labbra possono divenire tanto ampie in un
soggetto? E’ possibile che l’endorfina renda il
tessuto della pelle più elastico?
“Davvero?
Quando?”
Mello
esitò, le sua mani scesero a penzoloni lungo i fianchi.
“Non lo so esattamente, non è ancora una cosa
ufficiale. Credo.”
“Ah, quindi
è una cosa seria.” Matt si tirò su
sopra il cuscino, facendo leva con i gomiti. “Ma
quando?”
“Ieri
sera.” Mello sorrise eccitato. “Ci siamo
baciati.”
“Tutto
qui?”, domandò Matt piegando le sopracciglia in
un’espressione annoiata.
Mello
sbuffò e cominciò a prendere i vestiti.
“Ma che vuoi? Voglio fare le cose per bene. Magari usciamo
qualche volta.”
Matt si
rigettò sul letto, le mani dietro la testa.
“Magari.” Esitò un secondo. Forse Mello
si sarebbe arrabbiato perché non gliel’aveva detto
prima. Decise di non correre troppi rischi e attese che fosse dentro il
bagno, probabilmente intento a lavarsi, quando chiamò:
“Mello!”.
“Shi?” La
voce soffocata del ragazzo lo raggiunse, dandogli la conferma che non
lo poteva attaccare per quel che avrebbe detto: era troppo impegnato a
lavarsi i denti.
“Lo sai che
Diane Colfer è mia madre?!”
Dal bagno non provenne
alcun suono, solo lo scrosciare dell’acqua del lavandino.
Dopo qualche secondo: “Veramente?”.
“Sì!”
“Da quanto
lo sai?”
“Da un
mesetto più o meno.”
Dopo pochi minuti
Mello uscì dal bagno asciugandosi il viso e osservandolo,
sulla soglia, con aria stranita. “Perché non me lo
hai detto prima?”, domandò con aria leggermente
contrita.
Matt si strinse nelle
spalle. “Non lo so. Cosa dovrei fare?”
“Vai a
par… E’ per quello che non le parlavi
più?”, domandò Mello con sguardo
allucinato. L’amico assunse un’aria talmente
colpevole che non ci sarebbe voluto l’intuito di Mello per
capire quale fosse la riposta. “Che coglione!”,
commentò l’amico. “Lei lo sa?”
“Sì.”
“Che due
coglioni.”
“Non parlare
di mia madre a quel modo!”, lo ammonì Matt
puntandogli contro un indice. Mello ridacchiò,
infilò pantaloni, maglietta e uscì dalla stanza.
“Hey guarda che dico sul serio!”, fece in tempo a
gridargli Matt. “Porta rispetto!” Sbuffò
quando il ragazzo si chiuse la porta alle spalle senza rispondere, e si
gettò ancora sul letto.
Perché non
voleva parlarle? Diciamoci
la verità, si disse. Perché aveva
ritrovato la madre che credeva perduta, introvabile per sempre, e non
voleva avere rapporti con lei? Be’, la ragione era
principalmente una. Diane Colfer era ormai ufficialmente americana,
rendeva un servizio agli Stati Uniti non indifferente, lavorava con uno
staff di altissimo livello, i migliori che l’America avesse
mai visto in tutti i campi. Quindi, se ne aveva avuto la
possibilità, perché non lo aveva cercato? Era da
diversi anni che lavorava per la CIA. Matt era sicuro che se lo avesse
cercato bene avrebbe potuto contattare Watari, e quello non gli avrebbe
certo negato di rivedere il suo legittimo figlio. Ma potevo cercarla
anch’io. In fondo sono un hacker informatico, si
disse Matt nemmeno due secondi dopo. Poi arrivò alla
conclusione che per fare ricerche su una persona si sarebbe dovuto
incominciare dal suo luogo di nascita, e lui non era mai stato
-né aveva manifestato il desiderio di andare- in Irlanda.
Lavò così via dalla sua esistenza ogni
colpevolezza. Semplicemente, si vedeva ormai nello schema
dell’orfano per la vita. Aveva già inquadrato
tutta la sua esistenza senza genitori, senza alcun tipo di parentela
così stretta e salda. Un amore talmente
incondizionato… Orfano.
Era quella la sua categoria e non credeva che sarebbe cambiata, non ne
concepiva nemmeno la possibilità. Per quel motivo non aveva
mai cercato sua madre, o suo padre. Non era curioso averla rincontrata
così? Non era stato magnifico? Per sbaglio… per puro
caso. Ma ora che l’aveva rincontrata, cosa
desiderava fare? Matt se lo domandò per un po’,
finché non trovò la vera risposta. Ce
n’era solo una.
Il ragazzo si
alzò dal letto e s’infilò in bagno.
Dopo essersi lavato e vestito uscì dalla stanza e
andò a cercare Diane per la casa. La trovò in
cucina, in vestaglia, a prepararsi un caffè.
“Diane?” La donna si voltò, e quando lo
vide parve diventare piccola e insignificante, quasi avesse paura di
lui. Non sapeva che a Matt accadeva la medesima cosa nei suoi confronti.
“Sì?”
“Perché
non ti cambi? Ti offro una colazione.”
Solo un attimo di
silenzio. “Va bene.”
Matt si sedette ad
aspettare sul divano. Controllò quanti soldi aveva nel
portafoglio. Abbastanza. Guardò fuori dalla finestra. Non
riusciva a pensare a nulla di concreto. I pensieri si mescolavano e si
sovrapponevano nella sua testa, come tanti pezzetti di carta strappati.
Nessun pensiero intero, nessun ragionamento comprensibile o con un filo
logico.
Fuori c’era
il sole. Era fine maggio e la temperatura aveva iniziato ad alzarsi.
Mello aveva cominciato a sfoggiare le magliette senza maniche, Noodle
aveva abbandonato i maglioni pesanti, Near indossava ancora abiti
integralmente bianchi, ma erano camicie a maniche corte e pantaloncini,
L invece si era dato alle magliette senza maniche con i soliti jeans
lisi. Matt aveva semplicemente messo via il gilet imbottito e le
magliette a righe a maniche lunghe, mentre aveva preso quelle a maniche
corte e pantaloncini che gli arrivavano fino al ginocchio. Tuttavia
quando Diane Colfer fece la sua entrata Matt si disse che nessuno
poteva essere più primaverile di lei: indossava delle scarpe
comode aperte e un vestito giallo a fiori che risaltava le sue forme
piene e le arrivava al ginocchio. Matt pensò che pareva un
sole. Il suo sole. Poteva pensare il
suo sole? Ne aveva il diritto? Il suo sole. Il suo sole, il
suo…
Il ragazzo si
alzò di scatto e si avviò alla porta.
“Andiamo?”
“Certo.”
Camminarono in
silenzio fino ad un bar molto grazioso. Sedettero ad un tavolo e Matt
ordinò una spremuta di arancia, delle uova strapazzate e
anche una brioche. Diane prese solo un caffè e una treccia
al cioccolato. Matt sorrise. Sono
circondato da amanti del cioccolato, pensò.
Dopo aver ordinato il ragazzo si mise comodo sulla sedia e
poggiò le mani sulle ginocchia, evitando lo sguardo della
madre. Ma era lui che, dopo mesi di mutismo, le aveva chiesto di uscire
assieme, era lui che doveva parlare per primo. Si schiarì la
gola. “Io…” Si bloccò.
“Sì?”,
domandò Diane subito. Veloce come il vento, prese al volo la
frase di Matt come l’inizio di una lunga conversazione a
cuore aperto.
Il ragazzo si
schiarì di nuovo la voce. “Io volevo chiederti
solo… se ti piace la casa.” Stupido.
“Oh.”
Diane Colfer rimase stupita, e forse intimamente delusa. E forse
intimamente sollevata. “Sì, sì mi piace
molto. La mia camera è spaziosa, e dà proprio sul
verde. Insomma, è una bella vista. Poi
c’è anche il balcone. E tu?”
“Sì,
sì. Sto tranquillo.”
“Non ti
da’ fastidio dover dividere la camera con Mello?”
Matt alzò
le spalle. “Lo faccio da quando sono arrivato
all’orfanotrofio.” Deficiente.
Diane si
zittì alla menzione di quel luogo, che celava dietro di
sé una serie di storie e di dolori, e di cose non dette, e
di segreti. Tutto in una sola parola.
Arrivarono le
ordinazioni e la donna cominciò ad occuparsi con insano
interesse del suo caffè. “Le indagini stanno
andando bene, no?”, buttò lì ad occhi
bassi.
“Sì
certo. Svolte inaspettate.”
“Quando il
caso finirà dove andrà a finire Georgie, secondo
te? Se ne occuperà L?”, domandò Diane.
Matt la
osservò stupito. “Della bambina? No, no, non credo
proprio.”
“No, voglio
dire: si occuperà lui di trovarle un posto dove
stare?”
“Ah. Non lo
so. Potrebbe farlo qualcuno di noi. Forse Near, a quanto pare a lui
piace, e anche a Georgie piace Near.” Matt mangiò
le uova strapazzate e bevve della spremuta. “Forse una
famiglia adottiva, sempre a New York. Spero solo che capiti qualcuno di
adatto, insomma... dopo tutto quello che ha passato. Spero che qualcuno
la voglia con sé: non ha un curriculum edificante.”
“Io la
prenderei con me”, disse Diane convinta, senza pensare.
Matt sorrise
amaramente. Non c’era ombra di felicità sul suo
volto. “Adesso sì, eh? E’ un buon
periodo per avere figli.” Coglione.
Diane
arrossì violentemente e abbassò lo sguardo.
“Io, io…”
Matt non sapeva
perché doveva arrabbiarsi così tanto. Una piccola
parte di lui lo faceva apposta.
Forse, se sua madre
fosse stata una donna che vendeva fiori, che abitava in una casetta
molto piccola e accogliente e che aveva l’hobby di cucinare
torte, non gli avrebbe dato fastidio dopotutto. Ma vedere Diane
Colfer… Così bella, con una vita così
perfetta, con un fidanzato, un cane, un lavoro che gli forniva un
reddito più che sufficiente per vivere nella zona di Central
Park, in un appartamento che non poteva costare meno di settemila
dollari al mese, se non più, era stato come una coltellata
nello stomaco. Le viscere di Matt si erano dilaniate e avevano
gocciolato sangue ovunque attorno a lui, era rimasto inerme a guardare
quella donna bella e perfetta. Ma solo dopo aveva capito il
perché di tanto fastidio. Diane Colfer aveva abbandonato suo
figlio per una vita migliore. Una vita che non comprendeva lui, una
vita felice. Senza di lui. Non avrebbe dovuto, una madre, scegliere
prima di tutto per il bene del suo bambino? Che razza di egoismo era
quello? Matt non poteva sopportare il peso della verità: la
verità che i suoi genitori avrebbero potuto benissimo
continuare a tenerlo, facendo certo qualche sacrificio, ma avevano
scelto di abbandonarlo perché preferivano loro stessi a lui.
Non gli volevano bene abbastanza.
Matt si
alzò dal tavolo, lasciò una banconota da venti
dollari e se ne andò a passi svelti. Non appena fuori dal
bar si mise le mani nei capelli e s’infuriò con
sé stesso. Animale
che non sei altro! Non ne fai una giusta! Dovevamo fare pace, dovevamo
andare d’accordo! Nemmeno due secondi dopo i
passi leggeri di Diane lo raggiunsero. Lui si volse stupefatto e si
ritrovò a guardare il viso addolorato di sua madre.
“Mail! Mail aspetta! Aspetta lascia che ti racconti
com’è andata!”
“Non voglio
sentire”, disse il ragazzo riprendendo a camminare a grandi
falcate, le mani ficcate in tasca e la testa bassa. Diane lo
inseguì senza troppa fatica e lo affiancò,
mantenendo il suo passo.
“Hai
ragione, è stato sbagliato. Noi eravamo stupidi e tu ne hai
pagato le conseguenze. Ma adesso che ci siamo ritrovati voglio stare
con te! Voglio farmi scusare, io… io…”
Matt si
fermò e parlò a voce bassa e sibilante, tentando
di nascondere la rabbia che voleva sfogare dando pugni a tutto
ciò che vedeva attorno a sé, distruggendo ogni
cosa. “Smettila Diane, smettila! Non è una
giustificazione valida, non ti scuserò dopo tutti questi
anni solo perché mi dici che è stato un errore
giovanile. Lo so bene di essere un errore, sono nato per sbaglio. Io
non dovrei esistere, sono un cazzo di imprevisto! Uno stronzissimo
errore! Ma io c’ero e voi avevate il sacrosanto dovere!, di
prendervi cura di me. Cos’è? Ve ne siete andati
perché dopo un po’ vi siete stufati?
Perché avete capito che non ero come un cane, che ero troppo
impegnativo per voi?” Matt puntò il dito indice
contro Diane, che nel frattempo si era fatta minuscola di fronte a lui
e lo ascoltava terrorizzata, senza riuscire a staccare gli occhi da
Matt, senza profferire parola e senza poter impedire agli occhi di
cominciare bruciare. “E’ per colpa vostra che sono
vissuto in un orfanotrofio per tutta la vita. Perché, cosa
facevo? Infrangevo i vostri sogni? Non avreste potuto diventare medici
con un figlio come me? Non avreste avuto una grande carriera da
avvocati? O da agenti
della CIA? Tu…” la mano di Matt
tremò, stretta a pugno lungo i suoi fianchi, il suo viso si
contorse in una smorfia, “non hai idea di quanto io vi
volessi bene, e di quanto mi siate mancati. E di come vi perdonassi
prima di incontrarti. E non hai idea dell’inferno che ho
passato chiuso in un
cazzo di orfanotrofio!” Gli occhi di Matt ormai
lacrimavano senza ritegno, la gente che passava di lì lo
osservava come si guarda uno squilibrato. “E’ stato
una merda senza di voi, va bene? E credevo che per voi fosse lo stesso!
Invece adesso scopro che volevate solo liberarvi di me, e che non ve ne
fregava un cazzo. Pensavo…”, Matt rise amaramente,
abbassando lo sguardo e stirando le labbra senza allegria,
“pensavo che non poteste più mantenermi e aveste
deciso di lasciarmi alle cure di chi poteva. Che stupido
coglione.” Matt prese fiato e si asciugò le
lacrime con il dorso della mano. Tentò di parlare di nuovo,
ma non sapeva che cosa dire. Aveva già detto tutto, aveva
già esaurito tutte le parole che poteva dire a quella donna,
tirando fuori dei pensieri che lo tormentavano ormai da mesi. Ormai,
inconsapevolmente, da anni, e che parevano distendersi molto
più in là della sua età.
Diane Colfer era
rimasta zitta e ferma tutto il tempo. Non sapeva cosa dire, non sapeva
come rassicurare quel ragazzo ormai troppo grande e troppo sconosciuto
per poter essere rassicurato da lei. “Mi dispiace”,
disse con voce tremula. Allungò le braccia e gli prese il
viso fra le mani, toccando la pelle liscia e appena rasata del ragazzo,
e guardandolo negli occhi per fargli capire che stava dicendo la
verità. “Non accadrà mai più
Mail. Non ti lascerò mai più solo.”
Il ragazzo la
osservò in viso per un po’, senza capire davvero
che cosa avesse detto. Poi Diane lo prese fra le braccia e lo strinse.
Matt si
sentì così piccolo, nonostante la superasse di
parecchi centimetri in altezza. Era pieno di lei, non era come lo
stesse solo abbracciando, ma come se gli stesse entrando nel petto. Non
aveva sentito quel calore in corpo se non anni addietro. Si
sentì al sicuro, come se non avesse mai più
dovuto pensare a nulla. Sua madre era lì, era lì
con lui.
Era di nuovo un
bambino.
*I
rosa elefanti sono presi dal cartone animato della Disney, potete vede
l'inquietante video che ha spaventato Georgie qui.
Buondì!
Allora, questo è il capitolo che tanto fremevo per postare,
come vi ho spiegato nello scorso
spoiler. Ci sono un po' di cose che vorrei dire, la
più scema delle quali è di sicuro che adoro
vedere L che canta la canzone degli elefanti rosa! xD
A parte questo, vorrei spendere due parole per Near, una volta ogni
tanto. Come avevo già detto quando ho iniziato questa
fanfiction, tutti i personaggi compiono un certo percorso, e Near non
ne verrà certo esulato: il suo rapporto con Georgie
è molto importante, lei riuscirà infatti a dargli
qualcosa che Near credeva ormai perduto, ma non voglio ancora
anticiparvi nulla, e questo tema verrà approfondito nei
prossimi capitoli.
La visione della vita di Georgie, il fatto che creda che i ragazzi della
Wammy's House, Noodle e Diane, rimarranno per sempre con lei,
è magari un po' triste dato che noi sappiamo che non
è così, ma siccome Georgie è ancora
piccola ho pensato che poteva immaginare qualcosa del genere. Mi mette
un po' di tristezza a pensarci, ma in questo capitolo va
così u_u
Infine, Mello e Diane! Ho letto e riletto fino allo sfinimento il
monologo di Matt quando esce dal bar, e vorrei proprio sapere che ne
dite voi lettori =) Personalmente, adoro questo capitolo, soprattutto
per la sfuriata/confessione di Matt. Non so nemmeno che altro dire a
proposito di questo, spero che sia piena zeppa di emozioni,
perché io ho cercato di renderla tale, è uno dei
nodi della fanfiction.
Be', ditemi un po' cosa ne pensate!
Intanto ecco il link
allo spoiler del prossimo capitolo. E per oggi basta così.
Patrizia
|
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Capitolo 14 *** The undead boy ***
Capitolo tredici
The
undead boy
Light Yagami era risorto nemmeno un anno
dopo essere morto di arresto cardiaco per mano dello Shinigami Ryuk.
Ricordava tutto ciò che era avvenuto durante la sua
‘vita passata’: il ritrovamento del Death Note,
l’incontro con Ryuk, la decisione di ripulire il mondo dal
male, l’inizio della sua vita da Kira. Poi
l’incontro con L, le indagini su di lui, la rinuncia del
Death Note e lì!,
era lì che qualcosa era andato storto! L aveva scoperto dei
particolari che lui, Light, aveva tralasciato, aveva parlato con Rem,
le aveva promesso che non avrebbe fatto del male a Misa, e che anzi,
avrebbe fatto in modo che rimanesse al sicuro per il resto dei suoi
giorni. Dopotutto, lui era L. Poteva smuovere le masse con una sola
parola. E quello stupido Shinigmi ci aveva creduto, e gli aveva
confessato ogni cosa. L aveva capito in anticipo il suo piano: dopo
aver parlato con Rem aveva avuto molte informazioni in più
riguardo al Death Note e aveva intuito cosa voleva fare Light. Le
regole false del quaderno erano state il punto debole del ragazzo, e
sicuramente l’amore che Rem provava per Misa non aveva
giocato a suo vantaggio. L aveva agito di conseguenza alle sua
scoperte. Con la promessa di Misa al sicuro lo Shinigami era a completa
disposizione del detective. Con l’aiuto di Near, per di
più, che molto probabilmente lo aveva aiutato in decisioni e
intuizioni vitali, avevano finito per incastrarlo, e trovare delle
prove che non mettevano più in dubbio la sua colpevolezza.
Lui era Kira. Dopo di che Ryuk, come aveva già avvisato
tempo addietro, una volta giunta l’ora di Light aveva scritto
il suo nome sul suo Death Note. Dopo quaranta secondi
l’ossigeno non aveva raggiunto il cuore a causa di una
contrazione errata dei muscoli, dopo altri dieci secondi era morto.
Non ci era voluto, in tutto, nemmeno un minuto perché Light
Yagami smettesse di respirare.
Quando era tornato in vita si trovava nel cimitero dove era stato
sepolto. Fu come svegliarsi da una profonda ma confusa dormita, come se
fosse andato a dormire alle dieci di sera e si fosse svegliato qualche
ora dopo credendo che fosse già mattino. Si sentiva confuso,
non capiva cosa fosse successo, non sapeva esattamente se
ciò che viveva era realtà o finzione. Forse
quello che vedeva era un altro Mu. Era un’altra facciata del
Mu, il luogo in cui era finito alla morte. Non vi era nulla in quel
luogo: solo lui e il deserto. Non esisteva il tempo, così
gli pareva di essere lì da secondi, o da anni interi. Forse
quel cimitero, con la sua lapide grigia al tramonto del sole, non era
altro che uno scherzo di cattivo gusto di quegli Shinigami che tanto si
divertivano a giocare con la vita -e la morte- degli umani. Aveva
vagato per Tokyo, stupito di scoprirla esattamente com’era da
quando l’aveva lasciata. Non sembrava il Mu. Infine aveva
raggiunto, con gambe stanche, la sua vecchia casa. Vi era
un’altra famiglia. Immaginava che dopo la sua morte i
genitori e sua sorella avevano preferito trasferirsi. Ma suo padre
sapeva…
In meno di una settimana Light Yagami si era ripreso
dall’iniziale stupore dubbioso che l aveva colto quando era
tornato in vita, e aveva effettuato ricerche sulla sua famiglia. Aveva
trovato la loro nuova abitazione e avvicinato suo padre. Senza farsi
vedere in viso gli aveva estorto informazioni sul Death Note e su L.
Ovviamente Yagami-san non sapeva nulla di significativo, ma credeva che
L fosse in Inghilterra, assieme a Near, ed era sicuro che il Death Note
fosse rimasto a lui. Nessuno degli agenti lo aveva voluto tenere, e
comunque di sicuro L non avrebbe permesso a nessuno di loro di tenerlo.
Dopo avergli estorto tutte le informazioni possibili Light aveva
lasciato andare suo padre e non aveva più cercato di
contattare in alcun modo i suoi consanguinei. Si era procurato dei
documenti falsi, aveva prelevato tutti i soldi dal suo conto, che per
qualche ragione i suoi genitori non avevano ancora chiuso, e ne aveva
aperto uno nuovo a nome di Eikichi Kazuro. Stava per andare in
Inghilterra. Aveva bisogno di soldi e voleva trovare un lavoro
redditizio. In fondo aveva una laurea da far invidia a chiunque, certo
quella di Eikichi Kazuro era del tutto falsa, ma le sue conoscenze
erano vere e bastava poco per testarle. Una volta viste le sue
capacità nessuno avrebbe più fatto caso ai suoi
studi, le grandi aziende se lo sarebbero conteso. Forse quella era
un’altra possibilità che gli era stata donata:
forse poteva ancora salvare il mondo dal male.
Per puro caso aveva letto un libro del dottore americano Yann D.
Carter, ‘Esempi
di schizofrenia infantile’. Vi aveva trovato un
caso molto interessante. Un paziente del dottore aveva manifestato
visioni, la piccola paziente vedeva mostri e sapeva quando la gente
sarebbe morta. Questo aveva attratto Light come le api lo sono dal
miele. Aveva cambiato il suo volo da Tokyo a Londra con uno diretto a
New York. Era andato a trovare il dottor Carter, dicendogli che era uno
studente di psicologia, e si era detto molto interessato al suo libro.
Yann Dimitri era rimasto molto lusingato, e si era lanciato con
entusiasmo in spiegazioni, in racconti e in analisi di cartelle
cliniche. Quando era arrivato a quella di Georgie Jonsson, Light aveva
semplicemente memorizzato il suo nome. Dopo aver fatto alcune ricerche
e aver guadagnato diversi dollari grazie alla risoluzione di alcuni
casi in America e furtarelli informatici a qualche malcapitato
malvivente (dopotutto era per il bene superiore*), aveva affittato una
villa, ingaggiato Dayo, e rapito Georgie Jonsson. Poi aveva pensato a
come contattare L. Non aveva la minima idea che la ragazza che aveva
rapito, Noodle, fosse una di loro, sapeva solo che qualcuno era sulle
sue tracce. Aveva risentito il dottor Carter, e questi gli aveva
accennato ad un incontro con due detective, un uomo e una donna. Light
aveva cercato di sapere di più, ma quando il dottore aveva
cambiato argomento non aveva più domandato nulla, se non
altro per non far nascere in lui dei sospetti. L’unica
persona che avrebbe accettato di collaborare con lui e che i detective
dovevano per forza interrogare, era Francy Newman. L’aveva
trovata e, in cambio di denaro, aveva fatto appostare Dayo nella sua
casa per due settimane quando finalmente due detective, un uomo e una
donna, erano andati a bussare alla sua porta.
Sarebbe stato meglio però non rapire mai quella ragazza. A
causa della negligenza di Dayo era riuscita a mettersi in contatto con
L e gli aveva svelato il suo piano. Così era andato tutto a
monte! Light aveva il Death Note adesso, ma non aveva più
Georgie, non aveva più gli occhi dello Shinigami. Quando
aveva saputo di Georgie Jonsson era rimasto estasiato
all’idea di poterla avere con sé. Avrebbe risolto
molti problemi facilmente. Non avrebbe mai dovuto effettuare lo scambio
degli occhi e non avrebbe mai dovuto convincere qualcuno a farlo per
lui. Inoltre il fatto che i suoi personalissimi Occhi dello Shinigami
fossero una bimba di appena sette anni andava assolutamente a suo
favore: i bambini sono molto più semplici degli adulti, e
nulla gli impediva di adottare Georgie legalmente.
Quando era fuggito con Ryuk al seguito, dopo essere passato per la casa
e aver preso tutto il necessario, lo Shinigami, dal retro
dell’auto, gli aveva ancora una volta rammentato una delle
regole fondamentali del quaderno della morte. “Light, puoi
sempre fare lo scambio tu stesso.”
“No, Ryuk. A cosa servirebbe diventare Kira per poi morire
subito? Non avrebbe alcun senso.”
“Potresti richiamare Misa.”
Light rimase un secondo zitto. “Richiamare?”
“Puoi cancellare il suo nome dal Death Note. In questo modo
tornerebbe in vita.”
“E’ così che anche io sono
tornato?”, domandò Light senza smettere di
guidare, imboccando l’autostrada.
“Probabilmente sì, è l’unico
modo. Ma non so chi sia stato a farlo, io no di certo.”
“Non ne ho dubbi Ryuk.”
Lo Shinigami ridacchiò con un brutto suono gutturale.
“Il mio vecchio quaderno era finito, ne ho avuto uno
nuovo.”
“Quindi non hai idea di chi possa essere stato?”
“Assolutamente no.” Rimasero un po’ in
silenzio. “Quindi niente Misa?”
Light sbuffò. “Per carità! Misa causava
più guai che altro. Ho bisogno di una persona intelligente,
che capisca al volo e che rispetti i miei comandi. Il guaio
è che una persona così, difficilmente rinuncia a
metà della sua restante vita.” Light rimase ancora
pensoso. “E’ passato poco più di un anno
dalla scomparsa di Kira, ma avrà ancora qualche fedele
seguace, no?” Ryuk si strinse nelle spalle.
“Sicuramente, è stato un fenomeno di portata
mondiale, è passato come un terremoto per tutto il mondo.
Dovrei trovare un seguace di Kira disposto a sacrificarsi, qualcuno di
adatto. Comunque, ho bisogno anche di sapere qualcosa a proposito di L
e Near, e tutti quegli altri che lavorano per lui. Assieme sono
pericolosi.” Light rimase per un attimo in silenzio.
“Ryuk sei ancora così sicuro di non volermi dire
proprio nulla?”
Ryuk ridacchiò. “In effetti ho dato un piccolo
aiuto alla squadra avversaria. Due volte!** Quindi suppongo di poterlo
fare anche con te. L e la CIA collaborano. Oltretutto, credo che tu
possa trovare informazioni su di lui alla Wammy’s House, a
Londra.”
Light sorrise maligno e accelerò, mentre Ryuk sorrideva
soddisfatto. Quelle indagini stavano decisamente prendendo una piega
inaspettata. Ryuk non avrebbe mai creduto che un favoruccio per Stephen
Tempor potesse trasformarsi in qualcosa di così spassoso.
Roger sedette dietro la scrivania, di fronte a quel ragazzo asiatico
dall’aria contrita. “Sì?”,
domandò l’uomo con il suo tipico sguardo
perennemente preoccupato.
Eikichi Kazuro tirò fuori un tesserino e lo
mostrò per pochi secondi all’uomo. Recava il suo
nome, un timbro dall’aria ufficiale e il marchio della CIA.
“Sono qui per conto di L, lavoro al caso Jonsson assieme a
lui, sono uno degli agenti della CIA scelti da lui personalmente. Sono
venuto qui per informarla… di qualcosa che è
accaduto.” Eikichi Kazuro si umettò le labbra in
segno di leggero nervosismo. La sua espressione era vagamente
preoccupata e un po’ timorosa. “L non è
potuto venire, non si può muovere dal quartier generale,
così ha mandato me.” Roger lo ascoltava
attentamente, con il forte presentimento di cattive notizie.
“Near è morto.”
Roger chiuse gli occhi per un istante e fece un respiro profondo.
Inalò aria, poi la ributtò fuori come se
così facendo avesse potuto buttare fuori dal naso tutti i
suoi dolori. Riaprì gli occhi e disse: “Sono molto
dispiaciuto”.
Eikichi Kazuro si torse le mani e guardò altrove. Roger vide
che era così giovane e inesperto, provò un
po’ di compassione per lui, chissà come doveva
essere spaventato e agitato. “Io…”,
cominciò il ragazzo incerto, “Mi piaceva Near. A
dir la verità non ci ho mai parlato spesso, però
era così intelligente! L’ho sempre ammirato per
questo”, aggiunse emozionato. “Non sapevo fosse
orfano”, concluse con occhi bassi. “Mi dispiace
molto.”
Roger si spinse gli occhiali sul naso e giunse le mani sulla scrivania.
“Quella di Near è una storia triste, come
d’altronde le storie di tutti i bambini qui alla
Wammy’s House. Era molto piccolo quando arrivò
qui…”
Light aguzzò l’udito e si sporse in avanti,
preparandosi ad ascoltare meglio la storia.
Near nacque
nell’Inghilterra del sud, in una piccola cittadina che dava
sul mare, proprio sulla Manica, per questo i suoi genitori, spesso,
facevano le vacanze in Francia. Erano un avvocato e
un’infermiera, entrambi avevano ventotto anni quando avevano
avuto Near, e lo allevavano con una cura e un amore tanto grandi da
colmare il cuore di Near, fin da bambino, dello stesso amore e della
stessa gioia. Near era sempre stato un bimbo esuberante, irrequieto,
correva dappertutto e non si stancava mai. Giocava a qualsiasi ora, con
chiunque e con qualsiasi cosa. Aveva, in camera sua, due scatoloni
colorati pieni di giocattoli, che condivideva senza problemi con i suoi
amici quando andavano a trovarlo. Near aveva molti amici, ne aveva un
infinità. Li vedeva almeno una volta alla settimana. Andava
a casa loro, o loro andavano a casa sua, e c’era sempre
qualcuno che, puntuale, alle quattro del pomeriggio preparava loro la
merenda. Conosceva tutti i bambini che abitavano nella sua stessa via,
anche un paio che abitavano nello stesso quartiere. Al parco giochi
giocava con tutti, ma non con le femmine! Perché erano
noiose, perché a loro non piacevano gli stessi giochi che
facevano i maschi, e perché volevano sempre darti un bacio
sulla guancia, e a Near quello faceva proprio schifo!
Già
dall’età di tre anni i genitori di Near si erano
resi conto, quando lo avevano mandato all’asilo, che il loro
figliolo era molto precoce e superava spesso gli altri bambini con
facilità. Le maestre lo avevano voluto sottoporre ad un
piccolo test che saggiasse la sua capacità logiche e, con il
permesso dei genitori di Near, il bambino lo eseguì. Ne
risultava un bimbo geniale, e i due coniugi discussero molto sul
mandarlo ad una scuola speciale, che l’asilo di Near aveva
trovato per loro. La mamma di Near sosteneva che in quel modo sarebbe
cresciuto lontano da una vita normale, simile a quella di tutti gli
altri bambini, mentre invece il suo papà credeva che fosse
un’occasione da cogliere al volo, in modo che Near divenisse
subito abile nell’apprendimento, e in questo modo avrebbe
avuto il resto della sua carriera scolastica, e anche lavorativa,
spianata da ogni ostacolo. Dopotutto, se era tanto dotato,
perché non incoraggiarlo? Alla fine, dopo molte indecisioni,
Near fu iscritto ad una scuola privata che comprendeva asilo
nido, elementari e superiori, e che proponeva un programma adatto a
bimbi con un intelletto superiore alla media, al prezzo di novemila
sterline annue, ossia mille al mese, per non contare le tasse di
iscrizione, i libri e tutto ciò che poteva servire. Ma i
genitori di Near non si lasciarono certo scoraggiare e cominciarono a
risparmiare e lavorare sodo per il loro bambino. Si rendevano conto, da
ciò che Near faceva in quella scuola, che era un bambino
molto dotato, e ogni volta che lo vedevano intento a fare i suoi
compiti si motivavano ancora di più. Anche alla nuova scuola
Near aveva molti amici, molti bambini con cui parlare di cose
interessanti e fare giochi sempre nuovi, assieme anche alle maestre e
ai tanti professori che spesso incontravano.
Quando Near aveva sei
anni, nel Gennaio del suo primo anno alla scuola elementare, avvenne
ciò che segnò per sempre la sua vita. Near era
rimasto a casa da alcuni amici dei genitori, perché aveva
avvisato che sarebbero tornati tardi. Sua mamma e suo papà
avevano fatto la spesa ed erano di ritorno a casa. Erano le 6.22 del
pomeriggio, il sole già non si vedeva più da un
pezzo e il loro portabagagli era pieno di buste bianche e arancioni.
Un’autocisterna sbandò a causa di
un’irregolarità della strada e i ganci che
tenevano fermo il grosso tubo metallico assicurato dietro al posto del
guidatore si allentarono alla prima sbandata. Alla seconda il grosso
tubo si mosse, provocandone una terza, nella quale il tubo colmo di un
liquido infiammabile si staccò del tutto e rotolò
in strada.
Come fu crudele il
destino: i genitori di Near capirono perfettamente cosa stava
succedendo prima che la loro auto venisse investita
dall’enorme tubo, ma non fecero mai in tempo a dirsi addio.
Roger sospirò. “La scuola ci contattò e
Near venne trasferito qui, ma non era più lo stesso, secondo
le maestre che ogni tanto venivano a trovarlo.”
“Perché?”, domandò Eikichi.
“Non era più esuberante come una volta: era
chiuso, non parlava mai con nessuno, non aveva più amici. A
sentire ciò che dicevano le insegnati dell’altra
scuola, Near era sempre stato un bambino molto vivace, con tanti
amici… un bambino nella media. Da quando arrivò
qui invece non ne ebbe uno, non uno.”
“Sono morti tutti e due?”
“No, non tutti e due”, disse Roger scuotendo la
testa. “La madre morì sul colpo, invece il padre
è vivo, ma Near non ha mai manifestato il desiderio di
andare a trovarlo.”
“Perché no?”
“E’ in stato comatoso da allora. Sono una decina
d’anni ormai. Le possibilità che si svegli sono
talmente poche… è impossibile, direi.”
Roger abbassò la testa, ed Eikichi lo imitò.
Intanto, Light sorrideva.
“Be’, forse è meglio che io vada. Ho un
volo per New York fra quattro ore e Dio solo sa quanto traffico
c’è in giro”, disse Eikichi alzandosi.
Tese la mano e strinse quella di Roger. “Arrivederci
signore.”
“Sarebbe stato meglio conoscerci in un’occasione
migliore”, osservò Roger con occhi tristi.
“Sì. Dirò ad L che lo
saluta.” E così dicendo, Eikichi uscì.
Fuori dall’orfanotrofio Light allungò una mano per
chiamare un taxi, entrò nell’abitacolo caldo e
disse al conducente: “Alla stazione dei bus”.
C’erano molte città nell’Inghilterra del
sud, ma Roger, seppur fosse stato molto attento a non nominare il nome
di Near, né dei genitori e tantomeno della città
dove abitava o della scuola che aveva frequentato, era inciampato in
una mancanza: lo aveva informato che andavano spesso in Francia per le
vacanze, indi per cui abitavano sicuramente in una delle
città più vicine al blocco europeo. Inoltre
questa città doveva essere fornita di una prestigiosa scuola
per menti superiori. C’erano principalmente due
possibilità: Dover e Deal. Dover era un poco più
vicina e aveva anche una rinomata scuola, c’erano
più possibilità che fosse lei la città
natale di Near così Light decise di provare prima quella.
Arrivò a Dover il giorno dopo e, in una cabina telefonica,
trovò l’indirizzo di un solo grande ospedale,
facilmente raggiungibile da ogni parte del paese. Armato di portatile
Light passò oltre le mura dell’ospedale e si
collegò alla rete wireless che copriva tutto il territorio.
Poté così constatare, tramite una facile
infiltrazione nel sistema, che nell’ospedale erano ricoverati
due uomini entrati in coma in seguito ad incidente circa dieci anni
prima: Thomas Cadilly ed Anthony River. Si trovavano entrambi nella
stessa camera, la numero 31 del reparto di lungodegenza. Light si
diresse a passi svelti e passò lungo l’intero
ospedale per giungere a quel reparto. Cercò la camera,
eludendo la non troppo stretta sorveglianza delle infermiere, ed
entrò nella stanza. C’erano solo due uomini, e uno
lo escluse subito: doveva essere di origini africane.
All’altro diede una breve occhiata e prese la cartella
clinica che stava ai piedi del suo letto: Antony River.
Perfetto, non aveva più bisogno di restare
lì. Light uscì dalla stanza e un dottore lo
riprese. “Signore! Non è orario di visite, mi
spiace, deve andarsene.”
Light si girò e disse con tono affabile: “Mi scusi
dottore, sono nel posto sbagliato. Dove si trova il reparto
pediatria?”.
“Deve uscire da questo edificio e andare a destra.
E’ il terzo da qui, se non sbaglio, cerchi il numero
7.”
“Grazie mille dottore.” Light si avviò e
seguì le indicazioni fino ad uscire dall’ospedale.
Da lì prese un taxi e si fece portare al motel
più vicino, dove affittò una stanza e
cominciò le ricerche. In poco tempo scoprì che
Anthony River era stato un avvocato di grande successo negli ultimi
anni ottanta e nei novanta, vincendo non meno di trentasette cause;
molte, per la sua giovane età. Aveva sposato una donna il
cui nome da ragazza era Jackie Obate che, quando si era sposata, aveva
cambiato il suo cognome in River. I due, dopo quasi quattro anni di
matrimonio avevano avuto un figlio, Nate River.
Dalle sue spalle Ryuk lo osservava. “Ucciderai Near
adesso?”
“No”, disse Light.
“No?” Lo Shinigami parve curioso.
“Non subito. Ho bisogno di Near per poter avere il nome di
tutti coloro che lavorano per L. Se collabora con la CIA è
possibile che molti agenti sappiano del Death Note, e vorrei
sbarazzarmi di tutti prima di tornare ad essere Kira.”
Light rimase un secondo in silenzio, il mento appoggiato alla mano.
“Devo solo capire come fare, ci vuole un piano senza
falle.”
Mello e Noodle stavano seduti sul divano con dei grossi cuscini sulla
pancia, guardando di fronte a loro la parete divisoria della cucina.
Era da cinque giorni che stavano assieme, ma l’unico che lo
sapeva era Matt, che però non si era dato la pena di dirlo a
nessuno. Da quando era andato con sua madre a colazione, durante la
quale nessuno sapeva che cosa fosse successo o cosa si fossero detti,
erano sempre assieme. Preso da questa ritrovata famiglia Matt, che a
dispetto delle apparenze era uno dei peggiori pettegoli che Mello
conoscesse, non si era assolutamente curato di raccontare a nessuno
quel che l’amico gli aveva svelato riguardo alla sua neonata
relazione.
“E se andassimo a bere qualcosa?”, propose Noodle.
“Sono d’accordo.” I due ragazzi si
guardarono per qualche secondo, poi avvicinarono i visi e si
scambiarono un bacio. Non passarono neanche due secondi, non ebbero
nemmeno il tempo di assaporare l’uno le labbra
dell’altro, che una vocetta acuta e divertita si
alzò nella casa, raggiungendo ogni angolo e informando tutti
gli abitanti del loro misfatto.
“Noodle e Mello si amano! Noodle e Mello si amano! Si stanno
baciando, si stanno baciando in salotto!” Georgie corse su
per le scale quasi a quattro zampe, entrò prima nella camera
di Matt, intento al computer. “Noodle e Mello si amano, si
stanno baciando in salotto”, annunciò trionfante
come in una cantilena.
Matt fece un piccolo ghigno divertito. “Ma davvero?”
“Sì, sì. Li ho visti io, in
persona”, disse Georgie annuendo vigorosamente e mostrando la
candida, piccola dentatura. Poi corse via, dicendo: “Vado a
dirlo agli altri!”.
“Sì brava, dillo a tutti!”, le
gridò dietro Matt.
La lieta novella raggiunse Near, che non fece commenti, Diane, che
disse ‘Oh! Ma che bella notizia!’, ed L, che
replicò ‘Lo supponevo.’ Poi, come se i
due interessati non fossero già al corrente della cosa,
Georgie li raggiunse con un sorrisetto furbo in viso.
“Perché vi date i bacini con la bocca
aperta?”, domandò.
Noodle sgranò gli occhi e Mello, incerto su cosa rispondere,
sbottò soltanto: “Va’ a chiederlo a
Near”. La bimba lasciò la stanza, poi Mello
scoppiò a ridere.
“Cosa c’è?”,
domandò Noodle guardandolo.
“Chissà cosa le dirà Near”,
disse Mello senza riuscire a smettere di ridere.
Noodle ridacchiò, poi disse: “Hai mai visto un
incontro di boxe dal vivo? Con dei professionisti?”
“No.”
“Dovresti. S’imparano un sacco di cose.”
Noodle sorrise proponendo: “Perché non andiamo a
cercare i biglietti per un incontro?”.
“Hai assolutamente ragione, dovrei vederne uno”,
disse Mello alzandosi. Forse non era il classico appuntamento
romantico, ma a loro piaceva.
Mello non riusciva a capacitarsi di quello che stava succedendo. Non
gli era mai capitato di essere così emozionato per una
ragazza. Certo non poteva fare troppi paragoni siccome aveva avuto due
ragazze in vita sua, o una e mezzo, come amava precisare Matt -che
Mello considerava alla stregua di un libertino in confronto a
sé stesso. In quei pochi giorni tuttavia si era sentito
felice come non mai. Si alzava la mattina ed era felice senza
un’apparente ragione, la cioccolata era più buona,
il sole fuori splendeva più forte, non faceva troppo caldo e
ogni cosa sembrava al proprio posto. Con la mente era altrove. Si
ritrovava a cercare qualcosa senza più ricordarsi cosa,
qualcuno gli parlava ma lui non recepiva subito la sua voce, una volta
stava quasi per perdere la fermata della metro perché
pensava ad altro. Stranamente, Mello paragonava quella
felicità alla fatica che faceva quando si dedicava alle
indagini, anche se le due cose erano ben diverse. Ma Mello aveva una
visione particolare: quando le indagini erano difficili lui era sempre
più abbattuto, ma per sua natura s’impegnava di
più, e prima o poi qualche risultato arrivava. Era stato
così anche con Noodle: all’inizio non capiva chi
fosse, poi l’aveva conosciuta più a fondo, aveva
vissuto con lei e ne aveva imparato a memoria tutte le maniere di
muoversi, di parlare e di pensare. Aveva tentato di avvicinarla e,
sebbene all’inizio la ragazza non lo vedesse che come un
amico, alla fine qualche risultato era arrivato.
Noodle si stava mettendo la giacca mentre Mello cercava le sue chiavi
di casa, in quel momento però L sbucò
all’entrata e li osservò con occhi tondi.
“Uscite?”
“Andiamo a vedere un incontro di boxe”, disse
Noodle. L li osservò e fece segno di no con la testa.
“Perché no?” Mello abbandonò
la ricerca della chiavi e si volse verso il detective.
“Riunione generale, andiamo in cucina. Ho appena finito di
preparare una torta alla panna”, annunciò L con
solennità.
“E cosa c’entra?”
“Non c’è riunione senza cibo. Come credi
si possa pensare bene se non c’è carburante per il
cervello?”, domandò il giovane picchiettandosi
l’indice su una tempia con l’espressione di chi
dice ovvietà ad uno sciocco. E così dicendo si
defilò. I due ragazzi si scambiarono un’occhiata,
poi lo videro passare con diversi piattini, tovaglioli e cucchiaini
diretto al tavolo.
Noodle sospirò e tolse la giacca. “Immagino che
rimanderemo.”
Al piano di sopra uno sconvolto Near fissava Georgie, che gli aveva
appena domandato: “Perché Noodle e Mello si danno
i bacini con la bocca aperta?”.
* Il "bene superiore" è ripreso da Harry Potter
e i Doni della Morte (non sto a spiegarvi come, quando e dove
altrimenti rimaniamo qui fino a domattina).
** Gli aiuti che Ryuk ha dato agli altri, e per i quali vuole
'pareggiare' aiutando Light, sono quelli dati ad Annika all'inizio
della fanfiction: 1) le ha detto dove si trovava L; 2) le ha detto chi
era L fra tutti quelli che c'erano alla Wammy's House, altrimenti lei
sarebbe ancora lì a quest'ora xD
Oh! Finalmente sono tornata! Vi avevo detto che mi avrebbero tolto
internet per un po', e infatti eccomi qua con un po' di ritardo.
Light è tornato alla ribalta, e abbiamo visto come ha
sfruttato alla grande le due informazioni che Ryuk gli ha dato (quel
ragazzo è davvero diabolico u.u). Per quanto lo detesti,
preferisco farlo rimanere IC, e purtroppo è abbastanza
sveglio da fare qualcosa del genere u.u
Ciò di cui mi preme parlare è ovviamente la parte
dell'infanzia di Near. Ovvio che me la sono inventata di sana pianta, e
siccome Near mi sembra un ragazzo alquanto incasinato, ho pensato che
qualche tristissimo trauma infantile avrebbe potuto renderlo
così com'è. La sua vita non poteva essere tutta
rose e fiori, siccome è orfano, ma, per contrasto agli altri
due (Matt e Mello), che hanno avuto infanzie tristi ma bene o male lo
hanno superato, lui al contrario ha avuto un'infanzia felice, e forse
è proprio per questo che non riesce a lasciarsela alle
spalle. Al contrario degli altri ha abbandonato un futuro perfetto, o
quasi, per qualcosa di molto ma molto peggio.
Ultima cosa: l'ultima frase con un Near sconvolto e una piccola Georgie
che indaga sui baci alla francese... mi fa morire dalle risate a
pensarci! xD Muahahahah!
A parte questo, cliccate pure qui
per lo spoiler e ci vediamo Domenica - questa volta puntuali!
Ciao a tutti e grazie per le meravigliose recensioni che lasciate,
siete sempre gentilissimi e così cari *.* Un bacio a tutti
quanti!
Patrizia
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Capitolo 15 *** Time is precious ***
Capitolo
quattordici
Time
is precious
Giovedì
24 Giugno, Hotel Moon
Nate River, 2 Luglio ore
18.25
Il 26 di Giugno, alle
ore 10.30 del mattino, si reca all’incrocio fra la 24esima e
Wallemby St. Lì incontra un uomo e uno Shinigami ed effettua
lo scambio degli occhi con quest’ultimo. Riceve un pezzo di
Death Note dall’uomo e, tornato alla sua abitazione, scrive
sul foglio tutti i nomi dei suoi colleghi investigatori, ordinando che
muoiano esattamente 5 minuti prima di lui, lo stesso giorno.
Sabato 26 Giugno, base
operativa del detective L
Near si alzò presto quel giorno, fece la doccia con cura, si
lavò, si vestì, prese portafoglio, chiavi di casa
e cellulare, e annunciò: “Io esco!”.
Nessuno trovò nulla da ridire, sebbene il fatto che mettesse
il naso fuori di casa fosse già di per sé una
notizia. In meno di venti minuti, Near, pagando un dollaro e venti
centesimi per il biglietto della metropolitana, si trovò in
Wallemby Street e proseguì a piedi fino
all’incrocio con la 24esima. Erano le 10.30 del mattino, il
sole già riscaldava la città, e Light
guardò il suo orologio da polso quando vide Near arrivare da
lontano. Sorrise. Puntuale.
“Near, immagino che ti ricordi di Ryuk e di me.”
Light sorrise, e lo Shinigami dietro di lui sghignazzò.
Near li osservò per un secondo con una curiosa espressione
in viso che Light non seppe decifrare, ma alla fine annuì e
disse: “Sì”.
“Allora suppongo che tu sia pronto. Ryuk?”, disse
Light sorridendo malevolo, gettando un’occhiata allo
Shinigami.
“Eccomi”, disse Ryuk avanzando. “Desideri
fare lo scambio degli occhi con me, Nate River?”
“Sì”, disse Near senza indugiare.
Per una persona che non poteva vedere Ryuk, c’era solo un bel
ragazzo asiatico che parlava con un mingherlino vestito di bianco, un
po’ spaesato e dall’aria di non sapere nemmeno dove
si trovava.
Quando Ryuk si allontanò da lui si erse in tutta la sua
altezza, come stiracchiandosi. Lo Shinigami non li sentiva nemmeno gli
anni di vita in più che gli erano stati donati, ma sapeva di
averli, perché vedeva la vita di Near ridotta ad un
miserabile mucchio di giorni.
Near sbatté le palpebre più e più
volte. Osservò il ragazzo di fronte a lui. Light Yagami.
Nessuna data di morte. Era normale, dopotutto se Light possedeva un
Death Note allora non poteva vedere la sua vita, ma solo il suo nome.
Light sorrise benigno, come se stesse osservando una sua creazione per
la quale aveva impiegato tempo e sofferenze. “Nate, prendi
questo pezzo di Death Note. Sai già cosa devi fare, non
è così?”
Near prese il pezzo di carta, piegato a formare un quadratino, che
Light gli porgeva. “Devo scrivere il nome dei miei
collaboratori nelle indagini. Tutti.”
“Esatto. Tieni, consegna questa lettera ad L”,
così dicendo Light consegnò a Near una busta. Il
ragazzo la prese e la mise in tasca. Si volse per tornare a casa sua.
L non fece domande quando Near gli consegnò la lettera.
Aprì la busta e lesse:
L,
abbiamo bisogno di
incontrarci di nuovo. Vuoi il Death Note, non è vero? Ti
darò l’occasione di riprendertelo.
Mandami una risposta
alla solita casella postale.
Light
“Non dobbiamo andarci”, disse subito Mello.
“E’ una trappola, è chiaro come il
sole.”
“Lo credo anch’io”, disse L.
“Questo non toglie un fatto.” Tutti lo guardarono,
interrogativi. “Light sa dove abitiamo.”
Matt s’irrigidì. “Dobbiamo trasferirci
di nuovo?”, domandò. Sembrava un bambino piccolo a
cui i genitori hanno detto che deve lasciare gli amici per andare in
una città diversa.
“Abbiamo la casa di New York nella quale andare. Dopotutto
è ancora nostra. Non credo sia necessario comunque portare
troppa roba con noi. Possiamo benissimo portare solo lo stretto
indispensabile.” Era come se L sapesse qualcosa che agli
altri sfuggiva. Il detective rimase pensoso per qualche istante, poi
riprese a parlare. “E’ possibile che Light abbia
trovato un altro complice che ci tiene d’occhio. E suppongo
che abbia anche trovato qualcuno che ha fatto lo scambio degli occhi,
altrimenti non avrebbe mai voluto un altro incontro.”
“Quindi cosa facciamo?”, domandò Noodle
sperando in una gloriosa intuizione del famigerato detective.
“Gli diremo che non ci incontreremo, per adesso. Forse
è addirittura meglio che lasciamo il paese e continuiamo le
indagini altrove”, ragionò L mordicchiandosi
un’unghia.
“Come possiamo lasciare il paese se siamo
sorvegliati?”, domandò Mello.
“Probabilmente conoscono ogni nostra mossa.”
L, pensieroso, si voltò verso la finestra e non disse
più nulla. I ragazzi erano abituati alle sue stravaganze, e
sapevano che bastava lasciarlo in pace. Diane accennò al
fatto che, in vista del ritorno a New York, avrebbe fatto le valigie.
Uscirono tutti dalla stanza, ma non senza premurarsi di lasciare bene
in vista delle fette di melone su un piattino.
Near, in silenzio, prese un pupazzo e si diresse alla sua camera. A
metà strada Georgie lo fermò. Georgie Jonsson,
lesse Near. “Near, facciamo il gioco delle
macchinine?”, domandò la bambina con gli occhi
lucenti.
Near sorrise un poco, ma si trovò costretto a rispondere:
“Mi spiace Georgie, ho da fare adesso. Aspetta un attimo,
vengo a chiamarti fra qualche minuto. Tu prepara tutto”.
Georgie sorrise felice e disse:
“D’accordo”, correndo via verso la sua
cameretta.
Near entrò in camera sua e chiuse la porta a chiave. Prese
una biro nera dalla scrivania, si sedette sul letto, e
pensò. Diane
Colfer, quello lo sapeva già, così
come Annika Tempor.
Mail Jeevas,
un nome quanto mai appropriato. Mihael
Kheel, lui preferiva Mello. E, per ultimo, ma non per
questo meno importante -anzi, era quello fondamentale: L Lawliet. Near
sorrise: L. Li aveva fregati tutti con quel suo nome strano. La gente
cercava di scervellarsi per scoprirlo e alcuni si chiedevano: inizierà con la L?
Magari c’è una doppia L? Near scosse
la testa, ancora sorridendo.
Si recano ad un incontro
il 2 Luglio e muoiono alle ore 18.20
Non era stato difficile, si disse Near. Si alzò,
aprì la porta della sua stanza e uscì in cerca di
Georgie.
Domenica 27 Giugno, base
operativa del detective L
L si svegliò di soprassalto, diede un’occhiata in
giro e vide che era ancora tutto buio. Si stropicciò gli
occhi, si stiracchiò e si alzò. Guardò
l’orologio appeso al muro. Erano le 5.02 del mattino. Avevano
deciso che il giorno dopo sarebbero partiti per New York, non gli ci
sarebbero voluta più di una giornata. Andò in
cucina e aprì le persiane, facendo entrare quel blu leggero
del mattino. Si preparò un tè e si
tagliò una fetta di torta, poi sedette al tavolo della
cucina e, immerso nel silenzio, di fronte alla finestra aperta,
aspettò che gli altri si svegliassero, osservando il mondo
che si riempiva lentamente di luce e che iniziava una nuova giornata
nella parte nord occidentale del globo.
I primi rumori che udì furono quelli della strada, le prime
macchine che passavano, poi qualche leggero passo sul marciapiede.
Udì gli uccelli svegliarsi dal sonno e cominciare a
rumoreggiare lungo gli alberi dei giardini del vicinato. Poi
cominciò a sentire i primi rumori in casa. Di sicuro Diane,
poi veniva Noodle, in seguito Georgie, che irrimediabilmente svegliava
Near, poi Mello e infine Matt, che si svegliava tardi perché
passava tutte le notti al computer o davanti ai videogames. Circa
mezz’oretta più tardi Diane e Noodle comparvero
sulla porta.
“Buongiorno”, disse la donna sorridendo, vestita di
tutto punto e già con gli occhi bene aperti.
“Ciao”, disse Noodle sbadigliando, ancora in
pigiama, con gli occhi gonfi e i capelli spettinati.
“Buongiorno”, disse pacato L.
Nessuno parlò più, e Noodle e Diane si
prepararono un caffè, tirarono fuori i biscotti, la torta e
i panini dolci, e sedettero a mangiare in silenzio. Dopo qualche
secondo di esitazione L alzò lo sguardo e disse:
“Ho cambiato idea. Credo che dopotutto ci convenga incontrare
Light-kun. Dobbiamo sapere cosa vuole, dice che vuole ridarmi
l’opportunità di riprendermi il mio Death
Note”. L rimase in silenzio, mentre Diane lo osservava con la
fronte corrugata. “Di sicuro vorrà dettare delle
condizioni, prima di rifiutare dobbiamo almeno sapere che
cos’ha in mente.”
“E’ una trappola, come ha detto Mello. Sarebbe lo
stesso buttarsi nella tana dei leoni”, osservò
Noodle.
“Light ha un piano che non andrà a nostro favore,
questo è sicuro, ma con la fretta con cui l’ha
redatto sono certo che ci sia una falla da qualche parte”,
disse L. “Ormai lo conosco. E’ un personaggio
impulsivo, non pensa realmente alle conseguenze di ciò che
fa, o almeno non ne analizza tutti gli aspetti: immagina che le cose
vadano solo nel verso in cui fa comodo a lui.”
Noodle e Diane rimasero pensose. Poco dopo scesero in cucina Georgie e
Near, quest’ultimo con aria spenta e stanca. Quando anche
Mello fu sceso L gli intimò di svegliare Matt e di venire di
sotto a fare colazione assieme. Il ragazzo non se lo fece ripetere
-erano ordini di L- e trascinò giù dal letto
l’amico. Quando tutti furono seduti, nonostante Diane e
Noodle fossero già a conoscenza della decisione del
detective, L ripeté la notizia con cautela. Le reazioni
furono varie. Matt si strozzò con il caffè amaro,
mentre Mello si fermò a metà di un morso di
cioccolata per osservare L rapito -era sicuro che dietro ci fosse un
piano perfetto, non poteva essere altrimenti-, Georgie
continuò a fare colazione senza rendersi conto del silenzio
glaciale che era sceso sul tavolo quadrato, invece gli occhi di Near
furono illuminati da un breve lampo.
“Perché?”, domandò Matt.
“Come ci muoviamo?”, chiese Mello.
L li osservò tutti con calma. “Organizziamo
l’incontro e vediamo cosa ci propone Light”, disse
semplicemente stringendosi nelle spalle.
Lo sguardo illuminato di Mello si afflosciò
all’istante. “Sì ma… qual
è il piano?”
“Ci organizziamo e andiamo.”
Mello corrugò le sopracciglia. Forse quello era uno strano
gioco di L per vedere come reagivano lui e Near? Era per caso in corso
una silenziosa sfida della quale nessuno dei due giocatori era stato
avvisato? Mello non avrebbe perso, così passò
all’attacco. “Bene, allora faremo così:
suppongo che Light voglia incontrare te e molto probabilmente Georgie,
quindi io, Noodle e Diane ci disporremo…”
“No.” L scosse la testa. Mello chiuse la bocca.
“Andremo tutti quanti, assieme.”
“Anche Georgie?”, domandò Noodle.
“Anche lei”, asserì il detective.
“Qualcuno mi prenda carta e penna, devo scrivere una
risposta.”
Light-kun,
nonostante sappia bene
che il tuo è un piano, suppongo che non sia ben
architettato, per questo accetto la tua richiesta. Mi
presenterò assieme ai miei collaboratori dove vorrai, quando
lo vorrai.
L
L,
voglio che porti assieme
a te Georgie Jonsson, puoi anche bendarla o farne ciò che
vuoi, non desidero assolutamente che possa vedere il tuo nome o quello
dei tuoi complici, nel caso non li avesse già visti.
Ci incontreremo il 2
Luglio alle ore 18.00 all’Holy Cross Cementary, davanti alla
tomba di Louis Capone.
Distinti saluti,
Light Yagami
P.S.
Credo che troverai il mio piano formidabile.
Venerdì 2
Luglio, Hotel Moon
La mattina del 2 Luglio Light Yagami si alzò dal letto con
la sensazione, o piuttosto la consapevolezza, che quel giorno avrebbe
riacquistato molto del tempo perduto nel tentativo di uccidere L.
Già si chiedeva cos’avrebbe potuto fare quando,
finalmente, avrebbe avuto a completa disposizione sia Georgie Jonsson
che il Death Note. Come fare per riprendere il controllo sulla
popolazione mondiale. Prima di tutto voleva che tutti sapessero che
aveva incastrato e ucciso L, così decise che avrebbe inviato
una traccia audio, ovviamente con la sua voce falsata, nella quale
affermava di essere tornato e di poter riprendere il potere nel modo
più assoluto siccome L era stato eliminato da lui personalmente. Era
consapevole del fatto che molti lo avrebbero giudicato uno scherzo, ma
quando i criminali sarebbero incominciati a morire di nuovo, allora il
mondo intero si sarebbe prostrato dinanzi a lui una seconda volta. E
nessun L sarebbe mai andato a reclamare giustizia. La seconda cosa che
avrebbe fatto sarebbe stato sciogliere la Wammy’s House, era
un luogo pericoloso e pieno di occulte macchinazioni contro la sua
persona. Poi poteva iniziare la sua crociata di pulizia del mondo dal
male.
Verso le undici di mattina Ryuk tornò da una scampagnata
chissà dove, osservò Light e rise sguaiatamente.
Il giovane lo osservò truce. “Cosa
c’è di così divertente Ryuk?”
“Oggi è il gran giorno, non è
così?”, disse lo Shinigami con voce gutturale, lo
sguardo fisso su di lui.
“Infatti.” Light abbozzò un piccolo
sorriso. “Vuoi venire a vedere?”
“Credo di sì”, disse Ryuk.
“Sarà interessante.”
“Interessantissimo. Ti spiegherò una volta per
tutte come ho fatto a battere L. E’ stato un vero colpo di
genio, te lo assicuro. Questa volta non ho tralasciato nulla.”
“Devo ammettere di essere molto curioso.”
“La tua curiosità sarà ripagata Ryuk,
piuttosto… Non vuoi salutare L e tutti gli altri per
un’ultima volta?” Light accennò un
ghigno famelico.
“Sì, mi piacerebbe rivederli”, disse
Ryuk pensoso. “Quando?”
“Oggi! Alle 6 all’Holy Cross Cementary. Ci saranno
tutti loro, anche Georgie Jonsson.”
“Porterai con te il Death Note?”
“Non lo so, è già tutto fatto. In
realtà potrei aspettare qui seduto che L e i suoi muoiano,
ma voglio godermi lo spettacolo e prendermi la rivincita che mi
spetta.” Light si sedette su una sedia e incrociò
gambe e braccia, osservando lo Shinigami che svolazzava in alto.
“Hai detto che hai già fatto. Come?”,
domandò Ryuk stupefatto. Lo osservava con occhi stretti e
nel frattempo ragionava febbrilmente. Certo lui era uno Shinigami e
solo uno spettatore a quel gioco di ingegno e potere, ma sapeva cose
che nessun’altro sapeva. Lui poteva vedere le vite altrui
anche se questi avevano toccato un Death Note, e si chiese come mai
Light nel suo piano, a suo parere perfetto, fosse incappato in una
falla. Lo vedeva bene che una falla gigantesca doveva esserci da
qualche parte, lo vedeva solo guardandolo in viso…
“Be’, come sai sono andato a cercare notizie su
Near, e per farlo ho raccontato al direttore della Wammy’s
House quella storia sulla sua morte. L si isola quando lavora ad un
caso e non vedo perché mai i due avrebbero dovuto sentirsi,
per cui il direttore non saprà mai della bugia, e nemmeno L.
Ho scovato informazioni su Near e poi l’ho usato con il Death
Note. Ho scritto che facesse lo scambio degli occhi, ricevesse un pezzo
di Death Note e scrivesse il nome dei suoi collaboratori, L compreso,
in modo che morissero esattamente cinque minuti prima di
lui.” Light osservò soddisfatto lo Shinigami.
“Ho organizzato l’incontro in quel giorno. Mi
riprenderò Georgie Jonsson una volta che saranno morti
tutti.”
“E’ stato astuto”, osservò
Ryuk.
“Grazie mille.”
Light Yagami si preparò ad uno dei più importanti
incontri della sua nuova vita, rinnovata per incanto qualche mese
prima, in modo semplice ma godendosi la giornata, come se fosse
l’ultima della sua esistenza. Mangiò in un
ristorante italiano, ordinò pasta alle vongole, bistecca
alla milanese e un dolce tiramisù. Poi comprò un
nuovo abito, giacca e pantaloni grigi, e una cravatta rosso scuro.
Quando tornò nel suo hotel fece un rilassante bagno della
durata di un’ora e dieci minuti circa, durante il quale si
concesse il lusso di assaporare un vino rosso californiano secco e
pungente. Poi indossò una camicia bianca, il completo nuovo
e delle lucide scarpe nere. Prese con sé i documenti di
Eikichi Kazuro, la sua carta d’identità, la
patente e una carta di credito. Da quando aveva recuperato il Death
Note il suo conto si era rimpinguato di parecchi dollari. Aveva dato
disposizioni a potenti e ricchi criminali perché, prima di
morire per malattia o qualche altra strana ragione, versassero
cinquecento dollari l’uno su diversi conti bancari sparsi per
il globo ed intestati a persone diverse. Erano tutti gestiti da Kazuro
Eikichi.
Prima di uscire dalla sua stanza d’hotel il ragazzo fu
inspiegabilmente travestito da un brivido freddo. Si fermò
qualche secondo, gli occhi fissi sulla moquette senza in
realtà vederla. Fece dietro front e prese il Death Note.
Mentre sgusciava nel traffico cittadino di una New York ancora piena di
andirivieni, Light pensò al luogo dell’incontro.
Immaginava che L avesse realizzato qualche teoria riguardo a quella sua
scelta, ma la verità era che l’aveva fatta a caso.
L non avrebbe estrapolato alcunché a proposito della sua
personalità da quel misero dettaglio. E anche se avesse
fatto qualche teoria si sarebbe rivelata sbagliata e inutile. Il
destino del detective era già segnato.
Giunse al cimitero Holy Cross con quasi un quarto d’ora di
anticipo e sperò di essere arrivato prima degli altri.
Voleva dare l’impressione di essere eterno, di essere ovunque
in qualsiasi momento. Di essere tale e quale a Dio, la qual cosa,
secondo il parere di Light, non era poi molto lontana dalla
realtà.
Sedette sopra la lapide di Louis Capone, sopra la quale una madonna di
pietra dal viso imperturbato lo invitava a pregare per il defunto, e
attese.
L, Near, Diane Colfer, Matt, Mello e Noodle arrivarono sette minuti
dopo. Da lontano videro Light, seduto con eleganza sulla tomba di uno
dei più famosi e spietati mafiosi New Yorkesi degli anni
’30 e ’40. Ovviamente, L aveva intuito, Light non
aveva simpatia per un criminale, ma voleva che la sconfitta finale e
decisiva di L, che credeva di realizzare qual giorno stesso, avvenisse
di fronte al luogo di sepoltura meno indicato per un detective legato
alla giustizia come lui. Era una sorta di dispetto infantile.
Il gruppo si avvicinò e Light Yagami si alzò e
andò loro incontro sorridendo affabilmente.
“Buongiorno. Credo di conoscere L”, e fece un cenno
verso di lui, “Near ovviamente, e Noodle.” Pareva
quasi felice, come se quello fosse un incontro fra amici. “Ma
non conosco gli altri.”
“Loro sono Mello, Matt e Diane”, elencò
L senza espressione. “Tutti miei collaboratori. Allora, mi
parlavi di un piano infallibile, perché non me lo racconti
Yagami-kun?”
Light sorrise. “Non c’è bisogno di tutta
questa formalità. Chiamami pure per nome. Piuttosto, vorrei
sapere dove si trova Georgie Jonsson. Il nostro patto diceva che doveva
essere qui.”
“In questo momento ci aspetta in macchina.” Mello
fece un impercettibile movimento con la mano, tendendo i muscoli e
stringendo il pugno destro.
Light alzò le sopracciglia, sorpreso. “Davvero?
Non è sano e nemmeno responsabile lasciare un bambino in una
macchina da solo per lungo tempo.”
“Veramente non credevamo di metterci molto”, disse
Noodle a denti stretti. Non lo dava a vedere, ma fremeva di paura e di
rabbia. Se per caso qualche intuizione del detective non fosse stata
corretta, allora avrebbe significato la loro morte. Erano stranamente
lucidi, pur sapendolo. Ma Mello, Matt e Near si fidavano ciecamente del
detective, e tutti e tre lo avevano dimostrato largamente, qualcuno
più di qualcun altro. Noodle sperò con tutte le
sue forze che L avesse ragione, per poter finalmente vendicare suo
padre.
Light sorrise, abbassando lo sguardo. “Infatti”,
disse guardando il suo orologio da polso. “Non ci metterete
molto, morirete tutti fra sedici minuti esatti.”
Nulla dava a vedere che i sei detective fossero stati minacciati di
morte. Nessuno di loro si mosse, rimasero invece a guardare Light
Yagami, Kira, senza spiccicare parola.
Alla fine L domandò: “Cosa te lo fa
dire?”.
“I vostri nomi sul Death Note scritti da Near.” Gli
occhi di L si allargarono ancor più del normale, mentre gli
altri si osservavano nervosi. Light ridacchiò di gusto. In
quel momento l’ombra di Ryuk, che svolazzava sopra di loro,
catturò l’attenzione di Diane e Mello, che
alzarono lo sguardo. Noodle fissava invece Light con un odio crescente
sottopelle. L rivolse uno sguardo carico di significato a Near e il
ragazzo annuì velocemente. Kira non aveva visto quel fugace
scambio di sguardi.
L riprese parola. “Allora dicci, come hai fatto a corrompere
Near?”
“Ho scoperto il suo nome, e dato disposizioni sul Death Note
perché facesse lo scambio degli occhi, ricevesse un pezzo di
quaderno da parte mia, e scrivesse i vostri nomi.”
“Quando hai scritto questo?”, domandò L.
“Il 24 di Giugno. Come sai il Death Note dà un
margine di 28 giorni per agire.”
L sorrise un pochino. Anche se, certo, era stata tutta fortuna, avevano
fatto appena in tempo.
22 Giugno, base operative
del detective L
Georgie si infilò sotto al tavolo per andare fuori dalla
portata di Mello. Nella fuga urtò il pc di Matt, che assunse
uno sguardo terrorizzato ma non fece in tempo a dire nulla, poi Georgie
si chiuse nella stanza di Near e si arrampicò sul letto. In
mano, il suo premio: cioccolata al latte con nocciole, una delle
barrette di Mello. Riuscire a prenderla era stato quasi un suicidio, ma
Georgie ci era riuscita. Scartò il dolce e
cominciò a mangiucchiarlo.
Mello sbuffò e sedette accanto a Noodle. In quel momento la
ragazza stava osservando con occhi nebulosi L e si chiedeva se per caso
non avesse sbagliato detective.
L alzò lo sguardo dal suo piatto ricolmo di frutta fresca e
disse: “Ho cambiato idea. Credo che Georgie abbia bisogno di
un luogo più tranquillo dove stare… e anche
noi”, aggiunse alla fine.
“La porterai in orfanotrofio?”, domandò
Diane. “Credevo non fosse sicuro.”
“Chiamerò Roger, gli dirò di aumentare
la sicurezza della Wammy’s House, poi vedremo di far venire
qualcuno a prenderla.” L prese il cellulare e scelse in
fretta uno dei pochi numeri facenti parte della sua personale rubrica
telefonica.
Dopo tre squilli la voce stanca di Roger rispose con tono stupefatto.
“L?”
“Sono io Roger, ho bisogno che tu faccia una cosa.”
“Che cosa?”, domandò l’uomo
sempre più stupito. L non lo aveva mai coinvolto nelle
indagini.
“Vorrei che aumentassi la sicurezza della Wammy’s
House, voglio mandarti una bambina da tenere in custodia. E’
una persona importante, è molto probabile che venga cercata
per un rapimento e mi fido solo di te.”
“Ah… va bene, non c’è
problema.”
“Ti farò un bonifico bancario non appena posso,
prendi tutte le misure di sicurezza che puoi. Quando avrai finito
mandami una mail al solito indirizzo e io ti farò arrivare
la bambina con qualcuno, o magari potresti mandare tu qualcuno di
fidato.”
“D’accordo. L?”
“Sì?”
“So che non potresti dirmelo, soprattutto per telefono,
ma… come stanno andando le indagini?” L stava per
rispondere a Roger molto gentilmente di farsi gli affari suoi, quando
il vecchio aggiunse: “Ho saputo di Near”.
L rimase per un secondo in silenzio, immobile. Che a Near fosse
accaduto qualcosa senza che lui lo sapesse? Improbabile. Che Roger
sapesse qualcosa prima di lui? Impossibile. Osservò Near con
occhi tondi, seduto sul divano a impilare dei dadi. “Che cosa
hai saputo?”, domandò lentamente.
“Ho saputo… della sua morte.
Quell’agente Kazuro è venuto a dirmi
tutto.”
Nella mente di L cominciò a formarsi un sospetto.
“Nome?”
“Mi pare Eikichi Kazuro.”
“Quando è stato lì?”
“Tre giorni fa.”
L ragionava febbrilmente. “Che cos’ha
detto?”
“Che Near è morto durante le indagini, che
è stato assassinato.” A questo punto anche Roger
cominciava ad avere qualche dubbio.
“Che cosa gli hai detto?”
“Mi ha chiesto di Near e io gli ho raccontato di
quando è arrivato qui da piccolo e dei suoi
genitori.” Ecco. “Che cosa succede L?”,
domandò Roger. Il detective non rispose. “L?
Pronto?”
L mise giù il ricevitore e osservò Near.
“Abbiamo un problema.”
Buonsalve.
Mamma mia oggi sono andata in collina a raccogliere le castagne, che
fatica! Il colmo è che a me le castagne non fanno nemmeno
impazzire! Vabbé, a parte questo, che scommetto non ve ne
frega niente, passiamo alla fanfiction.
Se qualcuno di voi ha fatto attenzione alle date che ho scritto ad ogni
paragrafo allora potrebbe immaginare che cosa succederà nel
prossimo capitolo, o per lo meno come si risove la faccenda alla fine.
Spero di avervi messo addosso un po' di curiosità, e magari
anche un lieve sospetto: che cosa succederà? Ormai i giochi
sono fatti, com'è possibile che i detective risolvano la
cosa se Light ha già scritto il nome di Near sul suo Death
Note, e Near ha scritto i loro nomi di modo che morissero tutti?
Insomma, c'è ancora qualcosa da fare? Lo scopriremo... nel
prossimo capitolo! No, non è vero, in quello dopo ancora ad
essere sinceri (nel prossimo se state bene attenti alle date che ho
scritto qui).
Siccome da qui in avanti è un po' contorta la storia, sullo
stile di Death Note, se per caso non capite qualcosa ditemelo che non
esiterò a spiegarvi ^^
La fanfiction comunque, come avrete già immaginato, sta
volgendo al suo termine. Finisce con il diciassettesimo capitolo, e
devo dire che è stato come un parto! Anzi, peggio di una
gravidanza! Perché questo, fra scrittura, revisione e
postaggio è durato ben più di nove mesi!
Però sono orgogliosa del mio figlio virtuale alla fine xD
Comunque, per gli sbrodolosi grazie che vi riverserò addosso
aspettiamo, perché c'è ancora qualche settimana
prima della fine di tutto, quindi rimandiamo le sbrodolosità
ad un domani e per ora vi ringrazio in maniera più contenuta
u.u
...
Grazie! Grazie! Grazie! *o* Vi amo tutti! Bwahhh! T^T Mi fate
commuovere ogni volta che leggo le recensioni, e anche chi non scrive
nulla, vi adoro perché avete messo la storia fra le
Preferite, o le Seguite, o le Ricordate! Grazieeeee! *ora mi ritiro nel
mio cantuccio a vergognarmi per tutta questa scenata*
Ecco
qui lo spoiler, e ci vediamo Domenica prossima, ciao!
Patrizia
|
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Capitolo 16 *** Night is too long ***
Capitolo quindici
Night is too long
Noodle
faceva grossi passi per la stanza, mentre Mello la osservava pensieroso
con sguardo annebbiato, quasi fosse sotto l’effetto di
qualche calmante. Matt lavorava febbrilmente al computer, Diane Colfer
osservava Near di sottecchi: nel caso avesse tentato di muovere un solo
muscolo in modo sospetto, lei avrebbe agito. L guardava fisso di fronte
a sé, perso in un altro universo di calcoli, supposizioni,
esempi, eventualità. Appena due secondi dopo la chiamata di
Roger, si era scatenato il caos.
Near
stava seduto in cucina con una tazza di tè fra le mani. Dava
la schiena a tutti loro e tentava di concentrarsi sui granelli di
zucchero caduti sul tavolo, piuttosto che su altro.
Matt
ruppe il silenzio. “Sono riuscito ad accedere ai dati
sensibili di Near in meno di dieci minuti con le informazioni che mi
hai dato.”
“Che
cosa facciamo quindi?”, domandò Diane con sguardo
aspro.
“I
rischi sono molti”, cominciò Noodle. “Se
Kira ha scoperto il nome di Near vuol dire che potrebbe
ucciderlo.” Esitò, dando un’occhiata
obliqua a Near. Lui sapeva quali erano i rischi, li capiva forse meglio
di lei, quindi era inutile barricarsi dietro false speranze e non
parlare chiaramente. “Potrebbe addirittura usarlo per
uccidere tutti noi.”
“Conta
sicuramente sul fatto che nessuno di noi sospetti nulla a proposito di
Near”, osservò Mello.
“Ragioniamo.
Purtroppo in questo caso Georgie non può aiutarci: Near ha
toccato il Death Note come tutti noi, quindi la sua vita non viene
visualizzata, in parole povere non sappiamo se sia già sotto
il controllo del Death Note. Dobbiamo chiederci come può
agire Light, ed elaborare una strategia”, disse L.
Noodle
rifletté per un po’. “Se fossi in lui
cercherei di far uccidere te, L. Ma di sicuro non fisicamente.
Oltretutto, Kira potrebbe sospettare che tu abbia più di un
collaboratore, conosce già Near, ha visto me, Mello e
Diane.” A quelle parole Noodle realizzò che cosa
significava. Lanciò un’occhiata a Mello e
scacciò tutti i pensieri al riguardo. “Non sa
quanti siamo, quindi potrebbe credere che siamo tutti qui, o che siamo
anche un ventina o una cinquantina, anche se suppongo sappia che tu
lavori con una cerchia ristretta di personale.” L
annuì. “Ha a disposizione un Death Note e
Near.” Finito di ricapitolare, Noodle rimase in silenzio. Non
sapeva davvero che cosa pensare né come avrebbe dovuto agire
in una circostanza come quella.
Diane
fu attraversata come da un fulmine. “Obbligherà
Near a scoprire i nostri nomi, per poi riferirglieli!”, disse
con semplicità.
Matt
si voltò ad osservarla. Ora non aveva assolutamente dubbi
sul fatto che Diane Colfer fosse sua madre. Si chinò verso
Mello e disse con un sorriso di chi la sa lunga: “Tale
figlio, tale madre”. Mello lo guardò come si
osserva un cretino.
“Potrebbe
farlo facilmente.” Noodle si volse piano verso la donna.
“Noi
abbiamo Georgie. Potrebbe obbligarlo a minacciarla e dirgli di
svelargli i nomi”, rifletté Mello.
“No,
non credo. Se lo facesse noi sicuramente lo verremmo subito a sapere da
Georgie stessa, e sospetteremmo di lui”, obbiettò
Noodle. “Light userà Near nel modo più
discreto possibile, lui ha pieno accesso ad ogni cosa qui, ed
è di questa sua peculiarità che Kira si
servirà, no?” Molto raramente Mello era felice
quando veniva contestato su qualcosa ma, osservando Noodle,
pensò che quella volta in particolare valeva la pena di
essere contraddetti.
“In
effetti Near può uscire ed entrare quando vuole”,
osservò sommessamente Diane.
In
quel momento, Mello si illuminò. “Near
farà lo scambio degli occhi.”
Ogni
testa si volse a guardarlo, tranne quella di Near. Per la prima volta,
pensò il ragazzino seduto al tavolo della cucina, in un
auto-isolamento quasi totale, Mello ha preso in considerazione
un’ipotesi a cui non avevo pensato. Near sorrise.
“In
questo modo l’unica maniera per tutelarci sarebbe cacciare
Near immediatamente”, disse Diane Colfer. “So che
non è il tuo modo di fare L, ma…”
“E’
un modo di fare molto usato dalla CIA”, disse il ragazzo
pensieroso, guardando il soffitto con un indice sulle labbra.
“Possiamo fare una sola cosa, usare le stesse armi di
Light.”
“Il
mio Death Note!”, esclamò Noodle. “Lo
useremo? In fondo sappiamo che Light Yagami è Kira, possiamo
semplicemente scrivere il suo nome adesso, e poi il caso sarebbe
chiuso.” Noodle si guardò attorno, cercando
l’approvazione degli altri. Sembravano non trovare obiezioni.
“Questo
non è possibile”, disse Near pacato. Si
alzò dalla sedia, mise la tazza di tè e il
cucchiaino nel lavabo, lo zucchero al suo posto sulla mensola. Si
voltò verso i suoi colleghi. “Una volta scritto
qualcosa su un Death Note, anche se questi viene distrutto, si
verificherà. Non possiamo sapere se Light ha già
scritto qualcosa sul suo Death Note, in quel caso sarebbe ormai troppo
tardi. Morirebbe Light, sì, ma anche tutti noi.”
“Ma
se noi tratteniamo Near in modo che non s’incontrino mai
sarebbe per lui impossibile fare lo scambio degli
occhi…”, osservò Diane a denti stretti.
In quei casi di pericolo era abituata ad agire, non riusciva a
comprendere per quale motivo i detective si ostinassero a non fare
nulla.
“Potrebbe
essere una soluzione, ma in questo modo non sarete mai sicuri di aver
vinto prima che non sia passato un mese, dato che, come sapete, quello
è il margine di tempo in cui si può utilizzare un
Death Note. E’ possibile che ormai io sia destinato, in
qualche modo, a fornire le informazioni a Light, così
avrebbe altri nomi da associare ad altrettanti volti, e potrebbe
comodamente usarli come userà, o come ha già
usato, me.” L lo osservò con curiosità,
attento ad analizzare ogni sua parola. Sospirò senza farsi
notare: Near era davvero un buon detective. “Insomma, se
anche io muoio non potete avere la garanzia che io non abbia detto
niente.”
“Ma
avremmo la garanzia che Kira sia morto. Non basta?”,
domandò Noodle piccata, ma venne ignorata.
“E
cosa dovremmo fare?”, domandò Matt allargando le
braccia. “Non vedo altra soluzione Near, mi dispiace. E poi
è solo un mese, possiamo aspettare.”
“Noodle
ha ragione. Noi abbiamo un Death Note e possiamo benissimo
usarlo.”
“Quale
sarebbe il vantaggio?”, chiese Mello con sagacia.
“Uccideremo
Light Yagami per prima cosa, questo è certo. Ma potremmo
anche rivoltare il suo stesso piano contro di lui. Vedete, molto
probabilmente Light mi farà fare lo scambio degli occhi, poi
farà in modo che io gli riferisca i nomi. Vorrà
incontrare di nuovo L, gli serve soltanto per umiliarlo, per spiegargli
il suo piano e dimostrargli che lui è il migliore. Ma la
cosa più importante è che non sa dove sia Georgie
Jonsson, e se organizza un incontro potrà
riprendersela.”
“Quindi,
perché noi dovremmo attenerci a questo suo stupido piano?
Uccidiamolo subito”, insistette Noodle.
“No”,
disse L. “Chiederò a Light di portare il suo Death
Note, nel caso mi contattasse. Ecco cosa succederà nel piano
di Kira. Light darà ordini a Near per sapere i nostri nomi,
Near li eseguirà, ci recheremo all’incontro che
sicuramente avrà programmato. Lui si libererà di
noi e potrà riprendersi Georgie Jonsson. Ma… se
noi scriviamo il suo nome, comunque sia Light morirà, rimane
solo un interrogativo: adesso Near è sotto le sue
direttive?” Tutti, istintivamente, si volsero verso il
ragazzo. “Non possiamo saperlo con certezza, quindi
è possibile che tutti noi moriremo a
quell’incontro.” Un brivido si diffuse lungo le
schiene di tutti i presenti, compreso l’inespressivo
detective L. “Per cui, all’incontro, ordineremo che
Light porti il Death Note, faremo in modo che muoia prima di noi, e in
questo modo bruceremo subito i due quaderni. Altrimenti nel caso
morissimo e riuscissimo a bruciare solo il nostro ne resterebbe almeno
un altro sulla terra, quello di Light.”
“Chi
scriverà sul quaderno?”, domandò Noodle.
“Lo
farò io”, disse Near.
“No
lo faccio io”, obbiettò la ragazza scuotendo la
testa. “Voglio farlo”, disse con occhi grandi,
pieni di odio. Non avrebbe mai potuto mettere le mani
sull’assassino di suo padre, ma almeno poteva ucciderlo con
un quaderno, anche se non era proprio quello che aveva immaginato di
fare. Avrebbe preferito infliggergli una morte dolorosa con le sue
stesse mani, ma alla fine, voleva solo vendetta.
“Noodle
tu sai che cosa significa, vero?”, domandò L.
“Certo
che lo so”, disse Noodle alzando il mento, fiera.
“Ma posso fare questo sacrificio. Ne varrà la
pena.”
Mello
si alzò e trascinò Noodle da parte, corrucciato.
“Non fare la stupida”, sibilò
arrabbiato, le sopracciglia contratte. “Che cosa ci
guadagnerai? Basta che muoia, no?”
“Non
è la stessa cosa”, ribatté Noodle con
occhi di fuoco.
“No,
no! Lo farò io piuttosto. Tu devi restarne fuori.”
“Credo
di averne il diritto. Anche se poi dovrò andare nel
Mu.”
Mello
la guardò, mordicchiandosi il labbro inferiore.
“Non…” Chiuse gli occhi e fece un lungo
sospiro. Quando li riaprì annuì, le diede una
leggera botta sulla spalla e le fece segno di tornare in sala. In
realtà il ragazzo non voleva affatto lasciar correre, e
decise che avrebbe torchiato Noodle più tardi.
“Ricapitoliamo”,
disse Diane, un tantino confusa: era difficile per lei seguire i
ragionamenti troppo veloci di quei ragazzi. “Noodle
scriverà il nome di Light Yagami ordinandogli di portare il
suo quaderno all’incontro, in modo da bruciarlo e da uccidere
Kira. Allo stesso tempo però Light ordinerà a
Near di comunicargli i nostri nomi, ma noi lo fermeremo: come? Insomma,
Near potrebbe già essere in collaborazione con lui, ma
mettiamo che non lo sia. Se non fa esattamente ciò che il
Death Note di Light gli ha ordinato, allora di sicuro lui
sospetterà qualcosa.”
Un
silenzio greve scese nella stanza. Quasi si potevano vedere gli
ingranaggi dei detective che lavoravano ad una soluzione. Alla fine,
Near prese la parola. “Abbiamo due alternative. Uno: il Death
Note mi controlla ora, in quel caso ormai non resta che uccidere Light
e aspettare di morire anche noi tutti. Due: possiamo organizzare noi
stessi l’incontro con Light e ucciderlo con il Death Note, ma
dobbiamo fare in modo che lui creda che io sia sotto le sue direttive.
In entrambi i casi Light morirà, se Noodle accetta di finire
nel Mu.” Near lanciò un’occhiata alla
ragazza e lei annuì, decisa. “Ma nel caso fossi
già sotto il suo controllo, allora non potrò fare
a meno di comunicare i vostri nomi a Light, e lui potrà
uccidervi. Invece, se siamo ancora in tempo, potreste salvarvi.
L’unica pedina che Light ha sono io, lui crede che
utilizzerà me per scoprire i vostri nomi.”
L
assottigliò lo sguardo e osservò Near. Iniziava
ad intuire dove voleva arrivare il ragazzo.
“In
entrambi i casi”, continuò Near imperterrito,
“per essere sicuri di riuscire dovremmo avvantaggiarci su di
lui.”
Di
nuovo scese il silenzio, gli occhi di tutti si incrociavano, pieni di
sentimenti contrastanti, tranne quelli di Near, che erano puntati a
terra. La consapevolezza si introdusse nelle menti di tutti, e
inorridirono al solo pensiero. “Scrivete il mio nome sul
Death Note”, disse Near.
Light Yagami, 2 Luglio
ore 18.20. Organizzerà un incontro al quale
porterà il proprio Death Note, venti minuti prima di morire.
Nate River, 12 Luglio*
ore 18.30. Seguirà le istruzioni che Light Yagami gli
impartirà nel suo Death Note ma falsificherà i
nomi che egli gli chiede di scovare.
La
notte fra l’1 e il 2 di Luglio nessuno dormì.
Georgie
Jonsson si trovava sull’aereo che l’avrebbe portata
a Londra, in un posto che chiamavano Wammy’s House. Near le
aveva assicurato che era un bel posto dove stare. Georgie era reticente
all’inizio, ma quando alla fine il ragazzo le disse che
quando aveva la sua stessa età ci era andato anche lui,
aveva accettato di vedere com’era. In realtà
sarebbe stata più felice di rimanere assieme a Near e agli
altri, ma voleva fare un piacere al ragazzo. Voleva fargli vedere che
era grande ormai, ed era capace di cavarsela da sola. Aveva
già sette anni, accidenti! La poltrona alta sulla quale era
seduta era morbida e molto comoda, invitava al sonno, ma Georgie non
voleva addormentarsi, nonostante avesse già mangiato molto
bene e fosse stata il gioiellino delle hostess durante le precedenti
cinque ore di volo. Le avevano portato da mangiare, un libro da leggere
-o meglio, guardare le figure, perché lei era un tantino
pigra per impegnarsi a leggere-, un album da colorare e anche un gioco
da tavolo, che una signorina in abito blu e fazzoletto rosso al collo
si era impegnata a giocare con lei. Nonostante questo la bambina non
era ancora stanca. Ripensava a ciò che le aveva detto Near e
anche se non comprendeva le sue parole, prevedeva che qualcosa di
terribile stava per accadere. Ciò che Near aveva detto,
prima che lei salisse in prima classe sul volo n° 028714, era:
“Mi raccomando Georgie, cerca di fare la brava. Ti
aspetterà un uomo di nome Roger all’arrivo. Non
andare a cercarlo in giro per l’aeroporto
d’accordo? Ti troverà lui e di sicuro qualcuno ti
accompagnerà giù”. Georgie aveva
annuito. “Sei una brava bambina Georgie, mi mancherai
molto.”
A
quel punto Georgie aveva domandato, sconcertata: “Non
tornerò più qui? Non potrai venire a
trovarmi?”.
Near
aveva sorriso. “Ma certo, prima o poi ci rivedremo. Tu non
preoccuparti per me. Adesso hai sette anni, sei grande, pensa a finire
le elementari, poi diventerai la migliore ballerina del
mondo.” Near sapeva tutto di lei, sapeva che quello era il
suo sogno, e che lei avrebbe ballato Il lago dei cigni quando
sarebbe diventata grande, ossia, secondo Georgie,
all’età di undici o al massimo dodici anni.
“Mi prometti che lo farai? Verrò a vederti ballare
a teatro.”
“D’accordo.”
Georgie aveva annuito e Near le aveva dato un spintarella verso
l’aereo. Georgie si era voltata solo in cima alla rampa
metallica e aveva visto il giovane camminare a passi lenti lontano
dalla pista di decollo. Una figuretta bianca sottile che spiccava nel
buio.
Near
aveva preferito così. Non voleva voltarsi a guardarla,
perché dirle addio mentendo era stata una bugia troppo
grossa per lui. Le aveva promesso che si sarebbero rivisti, quando
sapeva benissimo che non era affatto vero. Lui sarebbe morto il giorno
dopo alle ore 18.30 precise.
Si
girava e si rigirava nel letto, Near, incapace di prendere sonno, la
mente invasa da pensieri troppo pressanti per lasciarlo dormire.
Stavano rischiando tutto. Ma certo, gli altri rischiavano. Lui invece
no: sapeva già a cosa andava incontro, e in un certo senso
era rassicurante. Si era offerto egli stesso per quella causa. Si
sarebbe sacrificato, ma nessuno al mondo avrebbe saputo del suo
sacrificio, non sarebbe stato ringraziato, non avrebbe avuto ovazioni
né alcun tipo di riconoscimento. Tutta la sua vita era
passata così, senza che nessuno se ne rendesse conto.
All’improvviso Near si sentì le spalle schiacciate
da un male troppo pesante per essere retto, e il cuore stretto in una
morsa che lo avrebbe costretto a fermarsi. Finiva così la
sua vita. La sua vita insulsa. La sua vita senza alcuna cosa buona
fatta ad alcuno. Se il destino esisteva, allora lui era nato solo per
quello? Solo per morire? Cosa c’era in mezzo? Aveva portato
qualcosa al mondo? Aveva aiutato qualcuno? Qualcuno lo amava? Lui amava
qualcuno?
Near
si mise a sedere sul letto e accese la lampada del comò. La
luce troppo intensa per qualche secondo lo accecò. Quando si
fu abituato scorse un biglietto accuratamente piegato sul suo comodino,
sopra il libro Panegirico di Guy Debord, filosofo contemporaneo. Lo
aprì e vi trovò scritta una corta lettera a
caratteri grossi e disordinati.
Caro Nate,
ciao, sono Georgie. Te
lo scrivo, così capisci subito che sono io. Ma tanto sei
bravo e lo capisci lo stesso.
Voglio dirti che sono
contenta che ti ho incontrato, perché sei il mio migliore
amico. Adesso tutti mi dicono solo che devo partire e non mi dicono
quando tornerò. Ma io so che ci rivedremo perché
ho imparato a memoria dove sta questa casa e tornerò qui a
trovarti. Porterò dei giochi nuovi e mi farò dare
delle nuove pistole, così potremmo ancora giocare a Spara e
Schiatta.
Ti voglio bene,
Georgie.
Near
ripiegò la lettera piano, come se avesse paura di
sgualcirla. Rimase un secondo con gli occhi fissi sul muro di fronte a
sé, illuminato dalla luce fredda della lampada. Un tornado
di sensazioni lo assalì, e durarono solo un secondo. Quando
fu di nuovo calmo mise la lettera sotto il cuscino, spense la luce e si
stese. Nel giro di pochi minuti, Nate River si addormentò.
A
poche camere di distanza si consumava un delitto: il personaggio di
Matt uccideva brutalmente quello di Diane. Quando lo scontro
terminò la donna gettò sbuffando il gamepad sul
letto. “Non so come fai, sei mostruoso.”
“Anni
di esperienza”, disse Matt con un sorrisino soddisfatto sulle
labbra. Il ragazzo si allungò e prese un biscotto al
cioccolato. “Sono davvero buoni, complimenti”,
aggiunse poi.
“Almeno
a qualcuno piacciono”, disse Diane.
“A
L piacciono.”
“L
mangia qualsiasi cosa contenga zuccheri. Persino Mello me li ha
rifiutati”, disse la donna sconsolata.
“Perché?”
“Dice
che si sente poco il sapore della cioccolata.”
Matt
rise forse ma poi scosse la testa. “Tipico di Mello, non ci
fare caso.”
“A
proposito…”, cominciò Diane
all’improvviso. “Cosa farai quando il caso
sarà finito?” Assieme, avevano il tacito accordo
di non considerare l’opzione B, ossia che quando il caso
sarebbe finito nessuno di loro sarebbe stato vivo.
Matt
si strinse nelle spalle. “Non lo so. Ho un bel po’
di soldi da parte. Credo sia meglio andarmene dalla Wammy’s
House, tanto è inutile restare lì a fare
l’erede di L. Non sarò mai l’erede di L,
sarà Mello o…”, si bloccò,
prima di pronunciare il nome di Near. Matt si passò la
lingua sulle labbra e fece scattare gli occhi altrove, lontano dal viso
di Diane. Non voleva che vi leggesse cosa pensava. “Insomma,
a me non interessa neanche a dire il vero”,
proseguì tentando di cambiare discorso. “Inoltre
sono troppo grande per rimanere lì, ormai. Ci sto solo
perché ci stava Mello, aspettavo che compisse diciotto
anni.”
“E
quindi? Cosa farai? Potresti benissimo lavorare come tecnico dei
computer, potresti anche trovare lavoro nelle più grandi
compagnie, volendo.”
Matt
ci pensò su. “Sì, probabilmente
sì…”, disse lentamente giocherellando
con un elastico. Non aveva mai pensato a quell’ipotesi, in
realtà non aveva mai pensato al suo futuro.
“Tornerai
in Inghilterra?” Era quello ciò che Diane voleva
davvero sapere, e lanciò la domanda come una bomba a mano,
all’improvviso.
“Eh?”
Matt si volse verso di lei.
“Insomma,
pensavo che ora… pensavo che potevi stare da me. Se ti va
ovviamente, se non ti va ti capisco. Ormai sei grande, sei
indipendente. Però pensavo che forse, insomma, poteva
interessarti l’offerta.” Parlò in modo
tanto confuso e complicato che Matt, per un momento, non
capì che cosa stava dicendo. Rimase in silenzio per un
po’ e cominciò a fissare sognante la televisione
accesa. “Certo era solo un’idea, se non ti va puoi
dirmelo, non mi offendo mica”, disse Diane con una risatina
forzata e nervosa, vedendo che Matt non proferiva parola.
Matt
si volse verso di lei e sorrise. “Ho visto una bella casa in
vendita dalle parti di Central Park, che ne dici se mi accompagni a
fare un salto a vederla?”
Diane
rimase un secondo in silenzio. Chiuse la bocca, che si era resa conto
di aver lasciato aperta per lo stupore. “E’ una
bella zona”, disse alla fine sorridendo timidamente, e
spostandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
“I
vicini sono simpatici”, concordò Matt con un
sorriso.
A
qualche camera di distanza, nella penombra di una lampada giallastra,
Noodle decise di porre una domanda diretta. “Tu credi che
moriremo?”
Mello
si volse a guardarla e si strinse nelle spalle. “Non lo
so”, disse onestamente. “Immagino sia solo
questione di fortuna.”
Noodle
tornò a guardare il soffitto. Erano stesi a pancia in su sul
letto e tutti e due fissavano senza vederle le grosse assi di legno che
attraversavano il sottotetto. “Se potessi sapere che questa
è la tua ultima notte di vita, cosa faresti?”
Mello
rimase un attimo in silenzio. “La passerei con te.”
Noodle
ruotò la testa verso di lui e sorrise.
“Anch’io credo che farei la stessa cosa.”
Rimase in silenzio per un altro po’. “E se invece
non fosse l’ultima, cosa faresti dopo? Tornerai alla
Wammy’s House?”
“No,
non credo proprio. Non voglio più diventare
l’erede di L.”
Noodle
si puntellò sui gomiti. “Perché
no?” Era sinceramente curiosa.
“Non
lo so, è come se mi fosse passata la voglia…
all’improvviso. E’ che”, Mello si
fermò, cercando le parole adatte, “non
m’interessa più, non è bello come
pensavo.”
“Non
ti piace indagare?”
“No,
al contrario mi piace un sacco! Ma non voglio dover rinunciare a tutto,
a tutta la mia vita, per diventare L. Nessuno mi ringrazierà
alla fine, per quanto mi sforzi, nessuno mi… nessuno
saprà quel che faccio. Invece mi piacerebbe… non
so, fare in modo di essere orgoglioso del mio lavoro. Mi piacerebbe che
tutti sapessero quello che faccio, perché lo faccio, e
vedessero quanto sono bravo.” Noodle lo guardò,
sorridendo. Era più forte di lei. Mello fece una smorfia e
chiese: “Ho per caso peccato di superbia?”.
Noodle
si strinse nelle spalle. “E allora? Potresti fare il
detective nella polizia.”
“I
poliziotti sono degli incapaci”, sentenziò Mello.
“Sai cosa mi piace?”, domandò poi con
occhi eccitati e furbi. “Mi piace risolvere gli enigmi, il
ragionamento. Mi piace elaborare strategie, esaminare una situazione e
trovare il modo… di risolverla.”
“Quindi
non il lavoro investigativo sul campo.”
“No,
non proprio. Qualcosa che ci va vicino. Penso, più che
altro, agli avvocati. Non so perché mi vengono in
mente.” Mello restò un secondo immerso nel
silenzio, poi disse: “E tu? Cosa facevi prima di finire in
tutto questo casino?”.
“Studiavo
all’università. Facevo matematica, ero al secondo
anno. Immagino che adesso però dovrò recuperare
un bel po’ di corsi”, osservò Noodle
alzando le sopracciglia.
Mello
sbuffò. “Scommetto che non ti ci vorrà
niente. Riprenderai?”
“Sì
credo di sì. La voglio finire
l’università.”
“E
poi?”
“Poi…
non lo so. La matematica mi piace. M’interessa. Mi piacerebbe
scoprire un sacco di formule nuove, elaborare un sacco di teoremi, e
scoprire qualcosa di nuovo.”
“Potresti
farcela”, disse Mello. “Credo che tu abbia grandi
capacità.”
“Dici
sul serio?”, domandò Noodle con una smorfia.
“Non lo dici solo perché sono io.”
“Noodle,
tu sei come me: sei intelligente, t’impegni. Se continui
così potrai fare quello che vuoi. Potresti diventare sia una
dottoressa che una matematica, potresti studiare fisica e
astronomia!”
“Shhh”,
lo ammonì Noodle. La casa era buia e silenziosa, non voleva
svegliare nessuno.
Mello
continuò bisbigliando: “Voglio dire che basta che
scegli cosa fare. Tu sei molto intelligente.”
Noodle
sorrise grata e tornò distesa, con gli occhi a fissare il
soffitto: nuove prospettive si aprivano di fronte a lei, e prendevano
il posto delle tavole di legno sul tetto.
“Noodle?”
“Sì?”
“Se
fosse l’ultima notte della tua vita… Noi assieme.
Che cosa faresti?” Mello, lo sguardo fisso al soffitto,
inghiottì la saliva, temendo di aver osato troppo.
Noodle
rimase un attimo in silenzio, poi disse: “La passerei con
te”. Si allungò, spense la luce della lampada e
cercò le labbra di Mello nel buio.
Si
scontrarono, con la stessa energia dell’onda che si infrange
sulla roccia. I loro corpi si inondarono l’uno
dell’altra, si riempirono di forza, di gratitudine, di
speranze. I loro occhi, legati fra loro, si compresero
all’istante. La loro pelle bruciava, così come il
loro cuore. E al momento del piacere i respiri si mescolarono
pronunciando parole d’amore.
Fine.
L
tracciò le quattro lettere nella sua mente.
Fine.
Sarebbe
stato più bello assaporarle sulle labbra.
“Fine.”
Il
giovane detective sorrise appena nel sentire la sua voce, sussurrata e
leggermente roca, pronunciare quella parola. Sapeva di orgoglio.
L
aveva finito di tracciare la dettagliata trama del suo libro. Era molto
soddisfatto del risultato, ci aveva pensato e ripensato, aveva
ragionato e preso in considerazione ogni possibilità,
scartando le più improbabili e gettando via nel cestino
della sua memoria le più scontate. Ragionava come se fosse
un caso al quale lavorava lui, non il suo personaggio.
Già,
il suo personaggio. Era perfetto, aveva una storia, una
personalità, dei difetti, delle manie, aveva un aspetto che
L aveva già deciso, ma gli mancava ancora una cosa per
essere completo. Non aveva ancora un nome, nella sua testa lo vedeva
semplicemente come un’entità. Ma ne aveva bisogno,
cavolo!, era essenziale. Il protagonista doveva avere un nome, ma
doveva essere adatto. Doveva dimostrare quanto valesse. L aveva preso
in considerazione tante ipotesi, ma aveva finito per scartarle tutte.
Nessun nome lo convinceva. Nessuno andava bene, non rispecchiava la sua
personalità.
Il
detective si alzò dal divano e raggiunse il pc fisso che si
trovava in salotto. Lo accese e attese che si avviasse. Nel frattempo
pensava ad un nome adatto.
Come
un lampo gli venne in mente!, come una rivelazione. Il suo stomaco
sobbalzò alla consapevolezza che doveva fare
così. Assolutamente. Quello era il suo nome, e
nessun’altro. A volte le soluzioni appaiono
all’improvviso e si riconoscono subito come le più
adatte. Era la cosa giusta.
L
Lawliet aprì un nuovo documento di word, allungò
le mani dalle lunghe dita pallide e sottili sopra la tastiera e rimase
fermo qualche secondo, senza osare poggiarvi sopra i polpastrelli,
osservando i tasti. Ritrasse un secondo le dita, poi prese un grosso
respiro e cominciò a scrivere:
Nate River guidava
lungo la statale 62 quando il suo cercapersone lo avvisò di
aver ricevuto un messaggio…
Ciao,
eccomi qua =)
Allora, su questo capitolo non ho molto da dire, credo che sia chiaro
cosa significhi: è l'evoluzione personale e privata dei
personaggi. Ognuno di loro in quella notte, che potrebbe essere
l'ultima della loro vita, hanno comportamenti diversi,
perché hanno capito che i cambiamenti nella loro esistenza
hanno portato loro qualcosa di diverso che è diventato molto
importante. Ognuno cerca di sfuttare questa notte in maniera diversa,
personale, e di godere di ciò che hanno scoperto essere una
parte importante della loro vita.
Riguardo a Near, il prossimo capitolo sarà dedicato
interamente a lui e spiegherà anche che cosa ne penso io del
personaggio (almeno nel contesto della fanfiction), ma intanto mi
farebbe piacere sapere come vi sembra questa svolta, e anche se si
è capito che cosa intendono fare xD (ho tentato di speigarlo
al meglio delle mie capacità, ma ho sempre paura di non
essere stata in grado e aver fatto solo un gran casino).
Quindi vi lascio lo spoiler
e un ciao!
Alla prossima settimana!
Patrizia
|
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Capitolo 17 *** Put out the fire ***
Capitolo sedici
Put out the fire
Light Yagami fissò interdetto
L, senza capire. Com’era possibile? Non era vero, lo
prendevano in giro, tutti quanti! Erano lì solo per
confonderlo, per farlo arrabbiare. Ma presto sarebbero morti, uno dopo
l’altro. Una questione di pochi minuti. Rasserenò
lo sguardo e domandò: “Come faccio a crederti L?
Io so per certo di non aver sbagliato nulla. E’ un
bluff”, disse, tentando di convincere più
sé stesso che di smascherare L.
L scosse la testa piano, senza perderlo di vista. “No,
è come ti ho spiegato.”
Light digrignò i denti. “E se così
fosse… come hai fatto a sapere che era il momento giusto per
usare il quaderno? Sei un veggente, forse? Questo spiegherebbe molti
dei tuoi casi risolti.”
“Ho dovuto chiamare Roger, alla Wammy’s House, e
lui mi ha raccontato ogni cosa. Near era vivo e vegeto nella stessa
stanza con me nel momento in cui lui mi faceva le condoglianze. Abbiamo
subito pensato che eri stato tu: ti sei ancora una volta presentato
come Eikichi Kazuro. Roger ci ha detto tutto ciò che ti
aveva raccontato su Near. In quel modo deve essere stato facile
scoprire il suo nome, no?” L sorrise velatamente, aveva il
cuore gonfio di trionfo, orgoglio e tranquillità. Ma non lo
dava a vedere, preferiva far pensare a Light che era stata una
passeggiata sconfiggerlo. “Abbiamo pensato a come lo avresti
usato, probabilmente per scoprire i nostri nomi, così
abbiamo fatto in modo che Near ti desse quelli falsi.” L
aggiunse, per puro dispetto: “Ancora una volta ti sei
scoperto troppo, è stato un tuo errore”.
“Non è vero! Non si può ingannare un
Death Note!”, esclamò Light sputacchiando.
“Invece sì”, intervenne Near.
“Con un altro Death Note.” Così dicendo
tirò fuori dalla tasca il Death Note di Noodle e lo fece
vedere bene a Light. Il ragazzo rimase zitto, gli occhi incollati al
quaderno nero che penzolava di fronte a lui.
“I nomi che Near ha scritto come nostri erano
dunque:”, L si frugò nei jeans e tirò
fuori un pezzetto di carta spiegazzato, “Leander Foster, John
Galber, Hans Nieminen, Jennifer Tipes e Irina Kamberg.” L
alzò lo sguardo e lo osservò come se fosse
dispiaciuto. “Non sono i nostri. Near ha falsificato i nomi,
scrivendo quelli di cinque criminali che dovevano morire oggi. E invece
ha scritto il tuo, sul nostro Death Note. Per questo hai organizzato
l’incontro, te l’abbiamo ordinato noi. Nulla di
tutto questo è stata una tua idea, Light-kun.”
Light Yagami era furioso. Non era mai stato tanto arrabbiato in vita
sua. Non poteva credere di essere stato ancora una volta battuto da L.
Un’altra vita, un’altra possibilità, un
altro Kira, un altro Dio!... e lui se lo era fatto sfuggire di nuovo.
Possibile? No, no, quello era un demonio, non un essere umano. Un
demonio che lo avrebbe perseguitato finché lui non avesse
ceduto, finché non avesse implorato pietà,
finché non fosse morto piuttosto di non sentirsi
più perseguitato da lui.
In quel momento qualcosa, nella mente di Light Yagami, si
spezzò. Dimenticati gli affetti che credeva ancora di avere
e che consistevano solo nella sua famiglia, dimentico del suo scopo, la
ragione prima
per cui era al mondo, dimentico persino del luogo dove si trovava e del
perché
si trovava lì, osservò quegli occhi scuri e senza
fondo, quegli occhi in cui non aveva mai trovato
un’espressione umana. La sua rabbia esplose, come non
l’aveva mai provata prima, gli strinse le ossa e le fece
bruciare, gli divampò nella mente e bruciò ogni
traccia di razionalità, ogni piano ben congegnato, tutto
ciò che lo mandava avanti. Ora l’unica
consapevolezza che aveva era quella di odiare l’uomo che
aveva di fronte a sé.
Non vedeva gli altri -erano esseri senza importanza ai suoi occhi-
vedeva solo L. All’improvviso capì la vera ragione
del perché era lì. Sì, per ucciderlo. A qualsiasi costo. In qualunque
modo. Era un essere sbagliato, non sarebbe mai dovuto
esistere, non poteva esistere, era un mostro sulla terra, un demone
arrivato da chissà dove solo per lui, per perseguitarlo, per
dargli fastidio, per non farlo dormire la notte.
All’improvviso lo vide per quel che era veramente. Qualcosa
di grottesco che gli impediva di vivere, un mostro. In
quella frazione di secondo Light smise di respirare e prese una
decisione: lo avrebbe ucciso.
Desiderava che morisse, con dolore assordante e brutale. Lo avrebbe
preso per la gola, avrebbe stretto. Avrebbe annullato ogni suo sforzo
per salvarsi, proprio come aveva fatto lui con il suo sogno, con il suo
ideale di mondo perfetto. Lui lo aveva preso, strappato in mille e
pezzi e calpestato, davanti ai suoi occhi, ridendo sadicamente, mentre
Light non aveva potuto fare nulla per impedirglielo. E dopo aver
vanificato tutti i suoi tentativi di salvezza, Light Yagami decise che
avrebbe osservato i suoi occhi spegnersi, lentamente e con terrore. E
si sarebbero guardati negli occhi, ed L avrebbe avuto paura di lui, no
si sarebbe sentito inferiore, e gli occhi di Light pieni di furia e
rabbia e crudeltà sarebbero stati l’ultima cosa
che avrebbe visto, sarebbero stati l’ultima immagine che si
sarebbe portato fino all’inferno. Perché,
dopotutto, un demone come lui dove altro sarebbe potuto andare a finire?
Mentre pensava a tutte queste cose Light stringeva i pugni e le labbra,
fissando L. Stava per muoversi, quando all’improvviso si rese
conto che il demone stava parlando.
“…in questo modo potremmo bruciare i due Death
Note.” Light non aveva sentito, non seguiva le parole di
quell’essere, e lui riprese a parlare. “Sai
perché sei vivo?”
Questa domanda arrivò forte a Light, come una bomba
scoppiata direttamente nelle sue orecchie. “No.”
“Qualcuno si è appropriato del Death Note di Ryuk
e ha cancellato il tuo nome con una gomma, usata appositamente per
questo scopo dagli Shinigami”, disse L pacato. Fece una pausa
ad effetto. “Tu questo non lo sapevi.” Il detective
sapeva benissimo che in questo modo avrebbe solo fatto arrabbiare Light
Yagami, e che sottolineare certe sottigliezze di sicuro non sarebbe
servito a nulla di particolare, se non al solo scopo di batterlo,
ancora una volta, in un confronto verbale. L’ultimo.
“Come potevo saperlo?”, sputacchiò Light
fra i denti facendo una brutta smorfia.
“Io lo so.” L fece un sorrisino. “So una
cosa che tu non sai.” Aveva preso un eccessivo tono
canzonatorio, come se fossero bambini di dieci anni. “Questo
significa che io sono superiore a te. Ma Dio… non
è il grado più alto che esista sulla faccia della
terra?, e oltre, direi.” Light lo osservava truce, non aveva
capito dove volesse arrivare -non era da lui- ma non gli importava, non
ascoltava realmente le sue parole. “Questo dimostra che tu
non sei affatto un Dio, perché Dio dovrebbe sapere ogni
cosa. Piuttosto… io sono un Dio.”
A quelle parole Light Yagami scattò in avanti, le braccia
tese e un ringhio che gli saliva in gola. Agguantò L per il
collo e lo trascinò a terra per la violenza
dell’impatto. Le sue mani stringevano implacabili. Il
detective, a terra, si divincolava e graffiava le mani di Light, ma non
riusciva a spostarlo neanche di un millimetro. La gola gli doleva per
quanto il ragazzo premeva forte le dita contro la trachea, e la
sensazione così improvvisa, così forzata, di non
poter respirare, lo mandò nel panico. Si guardavano negli
occhi, L e Light, e in quel momento il detective capì che il
giovane era impazzito. I suoi occhi erano vacui, parevano addirittura
vuoti, non c’era più Light Yagami là
dentro, ma una persona senza ragione, impossessata da qualcosa di
assurdo e maligno.
Death Note.
Tutti scattarono. Matt si buttò addosso a Light e lo prese
per il torace, cercando di staccarlo da L. Allo stesso modo Noodle si
abbatté sulle sue mani, graffiandole e stringendole sempre
di più, tentando di allentare la sua stretta. Grida
esagitate e mani frenetiche si confusero di fronte ad L. Il detective
sentiva più male alla gola, tentava di respirare
freneticamente ma l’aria non riusciva a passare lungo la
trachea: il pomo d’Adamo vi premeva dolorosamente contro. L
cominciava a vedere il mondo dileguarsi attorno a lui, mentre gli
angoli degli occhi venivano invasi dal bianco, che cancellava tutto il
resto, e da puntini di colore che apparivano qua e là, e
subito dopo come fantasmi sparivano di nuovo.
All’improvviso Light Yagami si bloccò. Matt lo
tirò su, sorreggendolo per le ascelle, e si rese conto che
il ragazzo aveva gli occhi spalancati, la bocca aperta in un grido e
un’espressione di sorpresa terrorizzata sul volto. Si
portò una mano al petto, lasciandosi sorreggere da Matt, ed
emise un suono gutturale con la gola, osservando di fronte a
sé una lapide. Il dolore al petto esplose e si
dipanò presto in tutto il corpo. All’improvviso
Light si sentì molto stanco e infelice. Chiuse gli occhi e
buttò fuori dai polmoni tutta l’aria che aveva in
corpo.
Morì.
Diane Colfer e Noodle erano tornate alla macchina senza dire una
parola. Sapevano che cosa sarebbe successo di lì a poco, ma
non avevano voglia di restare a guardare, o di parlare con Near, di
consolarlo, di salutarlo. Avevano detto solo ‘ci vediamo a
casa’, come se fosse tutto normale, come se fra qualche ora
tutti sarebbero tornati facendo gracchiare la serratura della porta
d’ingresso, e li avrebbero visti incorniciati alla porta, che
entravano a piccoli passi. Ma tutte e due sapevano che non sarebbe
andata così.
Diane decise di guidare e le due fecero il viaggio in silenzio, senza
sapere che cosa dire o se fosse il caso di dire qualcosa, se per caso
non avessero dovuto consolarsi l’una con l’altra o
forse se fosse stato meglio continuare a rimanere zitte. Forse era
così, non era opportuno parlare in quei casi. Non si sa mai
cosa dire, e si finisce sempre per imbarazzarsi di più e
dire cose inopportune e stupide.
Noodle, nel sedile del passeggero, guardava fuori dal finestrino. Era
ancora giorno. Faceva caldo. Era Luglio, la gente per strada aveva le
maniche corte, i pantaloncini e gli occhiali scuri. Il sole splendeva
forte sopra New York, riscaldava più del dovuto. E il caldo,
l’afa e il sudore appiccicoso erano insopportabili. Noodle
aprì il finestrino e si fece scorrere l’aria
fresca sul viso, osservando le persone che passavano, le macchine che
andavano più forte di loro e le biciclette che si lasciavano
indietro. Pensò a Near, ma non guardò
l’orologio. Non lo conosceva troppo bene, non lo aveva mai
conosciuto più di tanto, più di quel che lui
voleva farsi conoscere, ma non sapeva se essere triste o sollevata.
Near sembrava soffrire la vita stessa, la sua essenza, più
di ogni altra cosa al mondo. Noodle aveva paura della sua solitudine,
le dava angoscia perché le dispiaceva per lui. Aveva provato
quella solitudine solo dopo che era morto suo padre, nelle settimane
appena successive al decesso. Una solitudine senza motivazioni,
abbastanza pressante da farti sentire abbattuto, ma non troppo da farti
desiderare la compagnia di qualcuno. Una solitudine che lasciava uno
spazio infinito fra sé stessi e il mondo. In quel periodo
Noodle non credeva che la vita avesse un senso, e sentiva di
trascinarsi avanti giorno dopo giorno, senza una mèta, senza
un ragione, senza una motivazione. Nonostante nessuno sappia qual
è lo scopo della propria esistenza si va avanti, e lo scopo
si trova lungo il tragitto: i sogni, gli affetti… Noodle,
subito dopo la morte di Stephen, aveva trovato la sua motivazione nella
vendetta, e in seguito anche in Mello. Ma aveva paura della solitudine
di Near: sembrava doversi protrarre per sempre. Per questo era divisa
in due: non sapeva se essere sollevata perché Near aveva
smesso di essere solo, o triste perché non aveva avuto la
possibilità di trovare qualcosa per cui rinascere.
Nonostante la calura estiva un brivido freddo gli passò
lungo la schiena.
Quando arrivarono a casa Diane la informò: “Io
faccio una doccia. Vuoi mangiare?”.
“No grazie, ci penso da sola. Adesso non ho fame”,
rispose Noodle dirigendosi in camera sua.
“D’accordo”, sussurrò Diane,
più a sé stessa che alla ragazza. Si diresse in
camera sua, prese il pigiama e l’accappatoio, poi si diresse
in bagno. Voleva fare una doccia veloce, era
dall’età di undici anni che non faceva il bagno,
ma a metà strada dalla stanza alla doccia cambiò
idea, virò il suo tragitto e si diresse al bagno con la
vasca. Cominciò a far scorrere l’acqua con il
bagnoschiuma. Attese pazientemente che la vasca si riempisse e
osservò le bolle profumate aumentare di volume ad ogni
secondo. Quando fu piena chiuse l’acqua e decise di
concedersi una sciccheria: andò in cucina e si
servì un grosso bicchiere di vino rosso, secco e pungente.
Tornata in bagno si spogliò e posizionò il
bicchiere accanto a sé.
Quando si immerse nella vasca fu all’improvviso assalita
dall’angoscia. Pensò a Matt e poi a Near. Era
felice di aver ritrovato suo figlio, era di sicuro la cosa migliore che
le fosse mai capitata, ma ad un tratto ebbe paura: che cosa faceva Matt
in quell’istante? Che cosa pensava? Che cosa voleva fare?
Pensò che se avesse perso Mail, così come qualcun
altro che non conosceva aveva perso Near, allora la vita non valeva
più la pena di essere vissuta. Che cosa l’avrebbe
portata avanti senza di lui? Mail, Mail Jeevas. Come aveva potuto
pensare ad un nome tanto strano? Avrebbe potuto chiamarlo John, o
Michael, o magari Steven. Perché Mail? Diane
sospirò e prese il bicchiere. L’odore del vino era
forte e il sapore si appiccicò nella sua bocca.
Perché dovevano accadere cose come questa? Un ragazzo era
morto, senza una reale motivazione. Era assurdo, no? Ogni morte era
assurda, sia quella degli anziani che quella dei ragazzi. Nessuno
poteva capire l’intricata ragnatela in cui ci eravamo tutti
cacciati fin dalla nascita. Alla fine Diane sospirò e
rilassò i muscoli, e pensò che non valeva la pena
fare così, sentire quella tensione e quella angoscia ogni
ora, ogni giorno. Tutti i fili della ragnatela potevano rompersi quando
meno ce lo aspettavamo… Forse era più sano
continuare a vivere senza queste paure, per godersi appieno ogni
momento. Ed ogni persona.
Near sedette a terra, la schiena poggiata contro il tronco di un
albero, la testa abbandonata all’indietro e gli occhi fissi
sulle foglie verdi, immobili nella calura di quel giorno
d’estate. Accanto a lui, piano piano, arrivarono L, Mello e
Matt. Sedettero al suo fianco e rimasero per un po’ in
silenzio. L teneva in mano un accendino e nell’altra i Death
Note di Noodle e di Light Yagami. Li porse a Near. “Sai
benissimo che sei ancora in tempo, potremmo cancellare il tuo nome
senza sforzo.”
Poco opportunamente, Ryuk si intromise. “Ho qui la gomma se
cambi idea, Nate”, e così dicendo tirò
fuori dal tascapane una normalissima gomma bianca, leggermente
consumata agli angoli.
Near scosse la testa, e invece prese in mano il Death Note di Noodle e
l’accendino. “Bruceremo il nome di Light Yagami
assieme a questo quaderno, così non potrà
più tornare.”
“Siccome hai fatto lo scambio degli occhi, moriresti presto
anche se il tuo nome non fosse scritto, Near. Ma una volta morto si
potrebbe strappare il foglio con il tuo nome prima di
bruciarli!”, osservò Ryuk. “Solo il tuo,
così potresti tornare…”
“No”, ripeté Near. “Non
è giusto riportare in vita i morti, è contro
natura.”
“Ma non dovresti nemmeno andartene così, anche
questa morte è contro natura”, osservò
Matt. Near lo guardò in viso, poi scosse la testa.
“Come vuoi…”
Near mise i due quaderni a terra, in uno spiazzo di terra battuta dove
le fiamme non avrebbero potuto alimentarsi. Accese il fuoco e lo
appiccò. Lentamente, di fronte a loro, i due quaderni
iniziarono a bruciare. Il fuoco crebbe in poco tempo e il fumo che
emanava aveva il puzzo acre e soffocante di qualcosa di marcio. Il
calore sprigionato dalle fiamme erano strano, non scaldava, e la sua
luce era stranamente fredda sul viso dei ragazzi, che osservavano in
silenzio.
Mello maledisse sé stesso per il dolore che avvertiva
all’altezza del petto e della gola. Non voleva farsi vedere
da Near, anche quella volta era come darla vinta a lui!
Delle volte aveva seriamente creduto di odiarlo, ma si rese conto solo
allora che, al contrario, Near era prezioso come l’oro. Gli
sarebbe mancata quella sfacciataggine tipica del ragazzo, che usava con
lui solo per farlo arrabbiare. E quegli occhi luminosi e divertiti
quando riusciva nel suo intento di farlo uscire dai gangheri. Near era
sempre stato un ragazzo complicato, solo e taciturno e, forse anche a
causa della sua intelligenza, un po’ lasciato da parte,
perché un po’ troppo strano. Alla fine dei conti
Mello era felice di averlo conosciuto, era fiero di essergli stato
amico. Sì, perché questo erano, erano amici,
anche se un genere di amici molto strano… amici-nemici. Ma
era fiero perché un giorno avrebbe potuto dire di
conoscerlo; lui era uno dei pochi a conoscere Near. Effettivamente le
uniche persone a conoscere veramente Near quel giorno erano riunite
tutte nello stesso punto. Mello era uno di loro e sapeva che cosa
turbava il ragazzo, che cosa lo rendeva triste o preoccupato, sapeva
come tirarlo su di morale, o per lo meno distrarlo. Il metodo migliore
era fare finta di avercela con lui, far finta di prenderlo in giro, di
essere irritato dalla sua presenza: cominciava uno scambio di battute
-per altro vinte quasi sempre da Near- che per un po’ lo
facevano pensare ad altro. Tutti e due sapevano che era solo un gioco,
solo un modo per farlo più allegro, per togliergli dalla
mente quei brutti pensieri che a volte lo riempivano e gli soffocavano
il respiro.
Ad un tratto un pensiero terribile -un pensiero orrendo- invase Mello,
e lo fece tremare di paura. Near
non è mai riuscito a dimenticare la sua vecchia vita.
Il dolore alla gola di Mello si era fatto più forte, quello
al petto era diventato come un tamburellare sordo, che sarebbe
continuato assieme al suo cuore finché non avesse smesso di
battere.
Non voleva farsi vedere da Near, sarebbe stata come dargliela vinta
ancora una volta… Per questo motivo, quando una lacrima
sfuggì agli occhi di Mello, il ragazzo si voltò
infastidito per non farsi vedere.
Quando Mello si volse di scatto dalla parte opposta a Near, come se ce
l’avesse con lui, di nuovo come se avessero litigato per
qualcosa, Matt registrò il fatto con una parte della mente,
in modo meccanico.
Era come se il suo cervello fosse intorpidito, come quando stava per
arrivare il formicolio alle gambe ma ancora non veniva, e ad ogni
movimento gli sembrava che quegli arti non fossero i suoi, che fossero
separati dal suo corpo. Era esattamente così che si sentiva:
separato dal corpo, separato da tutto in realtà. Era come se
ciò che stava vivendo stesse capitando ad un altro, un altro
Matt, uno diverso da lui.
Senza capire niente di ciò che gli succedeva intorno, Matt
guardò Near. Lo fissava, mentre il ragazzo guardava il fuoco
bruciare, gli occhi ipnotizzati dal danzare delle fiamme. Matt, invece,
era ipnotizzato dal suo volto.
In quell’istante si rese conto di quanto Near fosse giovane,
e bello, e intelligente. Si rese conto che lui possedeva tutte queste
qualità e si domandò come mai una persona
così speciale, una così fortunata e strabiliante,
fosse lì con lui in quel momento. Forse era così
che andavano le cose. Era semplicemente questo lo schema con cui si
svolgevano, lo schema deciso da Dio, o da chi per lui comandava. La
regola era semplice: persone troppo speciali non potevano restare per
molto in questo universo.
Matt non aveva mai creduto in Dio, nel Diavolo,
nell’Aldilà e in tutte quelle cose. Le considerava
sciocchezze per persone troppo deboli, per persone che sentivano il bisogno di
votare l’anima a qualcosa, o qualcuno. Sciami di deboli che
si illudevano di poter vivere anche dopo la morte. Non lo aveva mai
creduto, no, ma in quel momento sperò con forza che invece
fosse il contrario. Che il debole fosse lui
perché non era riuscito a credere incondizionatamente, senza
prove. Se così fosse stato per lo meno significava che Near
sarebbe andato fra i beati, fra le braccia di San Pietro e del Signore
stesso! Perché? Perché era impossibile che fosse
altrimenti. Lui era Near, era quello speciale, era quello che, per
qualche strano gioco della sorte, aveva tutto e niente.
Lui era intelligente ma triste, giovane ma disperato, bello ma solo.
Vivo. Ma morto.
Matt era sicuro che Near non fosse mai stato del tutto fra i vivi. Una
parte di lui se n’era andata nell’incidente di
quando aveva appena sette anni, al quale non era nemmeno presente. Matt
desiderò ancora che non fosse così, che in fondo
Near avesse vissuto una vita bella, piena, felice. In quel momento Mail
desiderò molte cose, ma non seppe mai se i suoi desideri
fossero reali, se quel che desiderava fosse successo davvero.
Near era bello, giovane e aveva un gran cervello. E ancora un minuto di
vita.
Nella mente di L si accavallavano immagini su immagini. Pensieri,
scritte, sentimenti, cose che aveva visto, cose che avrebbe voluto
vedere, persone che aveva incontrato, fatti, date, libri lasciati a
metà, sogni, sorrisi. Tutto si accavallava con una
velocità che lui non riusciva a controllare e che lo
lasciò per un secondo stordito.
Quando il detective si riscosse il suo sguardo cadde sul fuoco.
Bruciava, e la danza intricata delle fiammelle catturava il suo
sguardo. Pensò che voleva guardare l’orologio,
vedere quanti minuti -o secondi- di vita rimanevano a Near. Per tutto
il tempo che guardò il fuoco ebbe l’impulso di
mettere la mano in tasca e guardare l’ora. Ma non lo fece.
Era come se il suo braccio fosse troppo pesante. Non aveva voglia di
alzarlo, di compiere il movimento, di sentire la mano passare
delicatamente attraverso la stoffa dei jeans, di afferrare il cellulare
freddo. Di rendersi conto di come il tempo scorresse veloce e crudele,
beffandosi di loro. Scorreva più veloce quando avevano
ancora tanto da fare, e tremendamente lento quando aspettavano
qualcosa. Seppur fosse qualcosa di terribile.
L Lawliet non aveva mai pensato a quanti orfani ci fossero al mondo.
Sapeva che erano molti. E sapeva anche che un consistente numero era
assurdamente dotato di capacità intellettive superiori alla
media. La Wammy’s House era sempre stata per lui un luogo
quasi sacro, forse perché fin da piccolo lo aveva ospitato
e, nonostante le ore buie e tristi, nonostante i visi fintamente
allegri dei compagni che vedeva ogni giorno, quel posto gli piaceva.
Era calmo, distendeva i nervi, e soprattutto in quel luogo
c’erano persone come lui. Non persone geniali, non persone
intelligenti no, non intendeva quello. Alla Wammy’s House
c’erano bambini orfani.
C’erano bambini soli.
Molte volte L aveva peccato di superbia, ritenendosi migliore di altri,
ma non lo aveva mai fatto alla sua Wammy’s House, nemmeno con
il più piccolo dei bimbi. Sentiva come se un destino comune
li unisse tutti, loro, gli orfani della Wammy’s House. Li
sentiva suoi pari.
Il fatto che ci fosse una graduatoria fra loro, e quella specie di
assurda gara per divenire il miglior detective del mondo, non era che
una farsa, un modo per spronarli sempre di più, incentivare
il loro intelletto e insegnare loro cose che in altri istituti non
avrebbero potuto apprendere, e in pochi l’avevano preso sul
serio. Effettivamente, chi l’aveva presa davvero sul serio,
erano stati Near e Mello. Gli altri bambini avevano priorità
diverse, volevano frequentare Harvard, diventare scienziati o, meglio
ancora, astronauti e ballerine. L preferiva di gran lunga che un
bambino gli dicesse che voleva diventare un calciatore piuttosto che il
suo erede. Questo perché sapeva bene quali sacrifici
comportava diventare L. La solitudine. Una solitudine che avrebbe
volentieri risparmiato a tutti quei bimbi, che potevano ancora anelare
ad un futuro migliore di com’era stata la loro infanzia.
Secondo L era sempre stata una specie di ironia della sorte che il
primo e il secondo nella graduatoria fossero i più
interessati a quel ruolo, mentre gli altri bambini, sebbene a molti
piacesse l’idea, lasciavano perdere al massimo dopo qualche
anno, e pensavano ad altri e più genuini interessi.
L Lawliet era profondamente dispiaciuto per Near: non sarebbe mai
potuto diventare L. Forse, solo per accontentarlo e per far
sì che tutti i suoi sacrifici non fossero stati vani,
avrebbe ceduto il posto a Mello. Lui, d'altronde, aveva già
deciso che non voleva più essere L, il detective. Preferiva
essere piuttosto L Lawliet, lo scrittore.
L Lwaliet alzò lo sguardo su Near. Quasi si sentiva
dispiaciuto, come se gli avesse mentito, come se gli avesse promesso il
paradiso per poi strapparglielo dalle mani. Sospirò, e
abbassò lo sguardo.
Non controllò l’ora.
All’improvviso, Near capì come dovevano essersi
sentiti i suoi genitori, quando era nato. Una pace si
impossessò della sua anima con fermezza, ma in modo
delicato. E allo stesso tempo una leggera inquietudine, la paura di non
sapere che cosa ci aspetta dopo,
lo avvolse. Ma Near non aveva paura.
Aveva sempre pensato che la sua vita era stato un funesto racconto fin
dal principio. La morte dei suoi genitori, la Wammy’s House,
la solitudine, l’essere stato preso di mira dagli altri
bambini. L’essere stato picchiato più e
più volte da Mello. Ad un tratto si riscosse e proprio
quell’ultimo pensiero gli fece ribaltare completamente il suo
punto di vista. C’era dell’altro nella sua vita.
C’erano i suoi genitori, con tutto il bene che gli avevano
voluto, poi c’erano Mello e Matt che, sebbene portassero
avanti contro di lui una simbolica crociata, erano lì in
quel momento, poi c’era L il suo beniamino, che non lo aveva
mai deluso. E, ultima, ma non per questo meno importante,
c’era Georgie, che gli aveva fatto ricordare esattamente
com’era essere bambini. Georgie, che non era mai
giù di morale, che vedeva sempre il lato positivo in tutto.
Con lei aveva giocato, aveva riso, e si era reso conto di tutto il
tempo che aveva perso da bambino, alla Wammy’s House. Essere
bambini capita una sola volta nella vita e la si deve sfruttare al
massimo. Near si era reso conto di aver avuto una seconda
possibilità assieme a Georgie, e la ringraziò per
quello che era stata capace di donargli. Era lei che aveva reso la sua
visione del mondo diversa, migliore, lo aveva influenzato. E per di
più gli aveva voluto bene, così come ne aveva
voluto Near a lei.
Mentre i quattro ragazzi si stringevano ancora di più
l’uno all’altro, come se tremassero dal freddo
nonostante il sole di Luglio, i due Death Note -gli unici sulla terra-
si convertivano in cenere, e nulla più restava di loro.
Nessuno si accorse di quando Ryuk, lo Shinigami, se ne andò
silenziosamente osservando con fierezza e una luce ironica negli occhi
gli umani seduti stretti vicino al grosso albero. Tese le ali senza
fare rumore e spiccò il volo. Nessuno poteva più
vederlo.
Nate River, o meglio Near, osservò le ultime fiammelle.
Un’ondata di caldo e felicità lo raggiunse, e lui
chiuse gli occhi con il sorriso sulle labbra, esalando
l’ultimo respiro della sua vita.
Near si spense, assieme al fuoco di fronte a lui.
Allora, buon salve a tutti e spero che abbiate capito
cos'è successo: quando Near ha fatto lo scambio degli occhi
e ha letto i nomi di tutti quanti, semplicemente li ha solo letti, e
infatti mi sono curata di non dire che lui stesse scrivendo quei
nomi. Inoltre, nello scorso capitolo, avevo detto che Near sarebbe
morto il 12 Luglio, ma muore il 2 perché dopo lo scambio
degli occhi la sua vita è dimezzata. Io lo scrivo
perché non si sa mai, all'inizio nemmeno a me è
venuto in mente e ho cambiato la data in un secondo momento. Tutto
chiaro? Spero di sì. Nel caso qualcuno avesse delle
perplessità ditemelo, sarò lieta di rispondere! ^^
Ho deciso che Light sarebbe impazzito alla fine, perché mi
è sempre sembrato fattibile. Insomma, il Death Note lo
cambia, perché il Light che era all'inizio della storia
originale è diverso da quel che è diventato alla
fine. E la cosa che lo ha fatto cambiare è il Death Note,
è per questo che ho fatto questa sceneggiata! xD Devo dire
che è stato anche divertente, io odio Light! Ahah!
Poi, spero che questo capitolo, che è all'85% introspezione,
non vi abbia annoiato più di tanto.
Vi lascio lo spoiler
del prossimo capitolo, che sarà anche l'ultimo. Un
capitolo/epilogo che rivelerà le ultime due domande rimaste
nella storia (una delle quali è la più
interessante, ossia: chi cavolo ha resuscitato Light?) e ci
spiegherà che cosa ne è stato dei nostri
protagonisti.
A parte questo, voglio ringraziare AliYe, che ha segnalato la storia
all'amministrazione per essere inserita fra le scelte dela sezione di
Death Note. Ancora grazie mille per questa opportunità!
Non so che altro dire, insomma, domenica prossima sbrodolerò
parole zuccherose da ogni sillaba perché è
l'ultimo capitolo, quindi per oggi ve le risparmio!
Ciao a tutti,
Patrizia
|
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Capitolo 18 *** Cheers ***
Capitolo diciassette
Cheers
I
palazzi di Berlino si estendevano come tante formichine sotto Annika
Tempor e Mihael Keehl, che li osservavano dall’alto in
silenzio, attraverso l’oblò dell’aereo.
Entro tre ore sarebbero atterrati all’aeroporto di Luton,
Londra, alle ore 16.51.
Era il 22 Agosto, e sarebbero mancati due giorni al ventitreesimo
compleanno di Nate River se lui fosse stato ancora con loro.
Quando il secondo caso Kira, la cui archiviazione si era svolta in gran
segreto, era terminato, era come se tutti sapessero che cosa fare.
Annika Tempor decise che voleva terminare gli studi, Mihael Keehl che
desiderava tornare in patria. I due desideri si conciliarono in una
maniera estremamente semplice, e i due decisero che sarebbero andati a
cercare casa a Berlino assieme. La vecchia casa di Ansgar Keehl era di
proprietà del figlio, e siccome l’uomo doveva
scontare diversi anni di prigione per violenza aggravata e omicidio
colposo a danni di un povero malcapitato che, un giorno di qualche anno
prima, aveva attraversato la sua strada ubriaca e barcollante, la casa
era libera da circa due anni e lo sarebbe stato per altri due e mezzo.
Ma prima di stabilirsi nella zona più oscura della capitale
tedesca Annika Tempor decise di fare un viaggio a casa. Vendette il
grosso appartamento ormai di sua proprietà ad una cifra
molto buona, lo svuotò delle poche cose che desiderava
tenere con sé, lasciò
l’università che frequentava compilando tutti i
documenti per un trasferimento all’estero e infine scrisse
una lettera. Era indirizzata a Stephen Tempor. La lettera rimase
sepolta nel terreno di fronte alla tomba dell’uomo per sette
mesi, prima di decomporsi del tutto.
Con i soldi di Annika lasciatigli dal padre, assieme a Mihael fecero un
vero restauro di quella piccola casetta piena di polvere e incubi.
Mihael avrebbe voluto andare a vivere da un'altra parte, ma doveva
affrontare la realtà, ossia che non avevano abbastanza
denaro. Per più di un anno Mihael covò la
speranza di andarsene, e grazie ad alcune raccomandazioni da parte di
un certo detective soprannominato L,
divenne criminologo e cominciò a lavorare per la polizia
segreta tedesca. In poco tempo ebbe a disposizione un capitale
più che sufficiente per comprare una casa molto spaziosa,
troppo spaziosa per sole due persone, vicino alla Porta di Brandeburgo
nel centro di Berlino.
Annika, dopo aver imparato correttamente la lingua -cosa per cui non
impiegò più di due mesi-, si iscrisse alla
Technische Universitat Berlin, Università interamente
dedicata alle scienze, nella facoltà di matematica. Poco
dopo essersi laureata divenne insegnante nella stessa, e scrittrice di
saggi incomprensibili ai più dedicati all’infinito
mondo dei numeri, così logico e così perfetto che
era impossibile non amarlo!
Un giorno Mihael, rovistando nel suo vecchio pc, ebbe l’idea
di entrare nella casella postale intestata a Near che Matt gli aveva
aperto quando erano ancora alla Wammy’s House. Non ebbe idea
di come, forse fu il caso, ma trovò diverse mail da parte di
un funzionario statale americano. A quanto pare qualcuno che doveva dei
favori a Near, poiché non esitava a fornirgli informazioni
riservate. Per i primi scambi di mail Mihael non ebbe niente di che
ridire, ma quando arrivò ad un certo punto
cominciò a leggere con più interesse. Quando ebbe
finito e riletto le ultime mail due volte, spalancò gli
occhi in un’espressone di sorpresa e comprensione.
“Annika!” Il ragazzo si alzò,
trascinando il computer con sé. “Annika
è stato Near! E’ stato Near!” Corse
nello studio e trovò la ragazza intenta a studiare, china su
dei grossi libri. “E’ stato Near! Con Matt, e
Diane!”, esclamava estasiato, confondendo le parole e
sorridendo.
“Che cosa?”, domandò la ragazza senza
capire.
“E’ stato Near. Near ha scoperto che Diane Colfer
era la madre di Matt! Ed è stato lui a convincere L che era
la migliore da assoldare per il secondo caso Kira.”
Annika rimase sorpresa. “Dici davvero?”
“Sì, sì!”, esclamò
Mello entusiasta spazzando via i libri di Annika e poggiando il
computer sulla scrivania. “E’ tutto scritto qua,
guarda. Leggi queste.”
Dopo aver scorso alcune mail, sotto l’attenta supervisione di
Mihael che le teneva le mani sulle spalle, Annika si morse un labbro.
“Dovremmo dirlo a Mail?”
“A Matt?”, domandò il ragazzo. Rimase
pensieroso un secondo, poi si strinse nelle spalle. “No,
perché? Meglio lasciarlo pensare che sia stato…
che ne so, il destino.”
A dir la verità non sentivano Mail da quando si erano
separati, alla fine del caso. Si mantenevano in blando contatto,
scambiandosi ogni tanto qualche e-mail.
Mail Jeevas era residente a New York, in un alto palazzo dai vetri che
riflettevano il mondo circostante, a soli pochi isolati dalla casa di
Diane Colfer. Grazie alla madre aveva ottenuto un posto alla CIA, nel
reparto spionaggio, ed era specializzato in intercettazioni di
carattere informatico. In parole povere, era un hacker. Ma questa volta
era più o meno legalizzato. Non aveva pensato a rinunciare
al suo nome di hacker Fermat
nemmeno una volta, ma pian piano aveva iniziato a selezionare sol i
clienti dai casi più interessanti e aveva abbassato
notevolmente il suo onorario. In otto anni era riuscito a collezionare
un numero incredibile di consolle e videogiochi, che entravano
comodamente nel suo appartamento al trentottesimo piano. Ogni mattina
si alzava alle otto e tornava alle sei di sera, tranne quando qualche
caso particolare lo costringeva a fare gli straordinari. Era riuscito
ad inventare un gioco di logica e azione per pc, nel quale si arrivava
all’ultimo livello a forza di pistole e dopo aver superato
parecchi enigmi.
Mail Jeevas, assieme a Diane Colfer e qualche altro collaboratore,
formavano una delle migliori squadre che si erano mai viste alla CIA.
Veloci, efficienti, e attaccati al lavoro più di una cozza
allo scoglio. Per Mail non era un grosso problema: quel lavoro
conciliava perfettamente con il suo hobby. Non tanto il frugare nella
vita privata di qualcun altro, ma piuttosto riuscire a superare gli
ostacoli della rete senza farsi scoprire.
Per Diane Colfer invece era stato problematico all’inizio
tornare al lavoro a tempo pieno: aveva dovuto riabituarsi ai ritmi
serrati dell’ufficio, e dopo aver formalmente adottato
Georgie Jonsson era diventato ancor più complicato e
faticoso. Ciò nonostante Georgie Colfer aveva finalmente
trovato una sede stabile, di fronte a Central Park, assieme al piccolo
cane nervoso Biancaneve e con due genitori che, sebbene sapesse
benissimo che erano adottivi, le davano tutto quel che fino ad allora
le era stato negato. Dopo aver frequentato con successo le scuole
elementari ed aver preso posto stabile in una scuola di danza classica
si era iscritta all’istituto di istruzione media
più vicino, che stava esattamente a metà fra casa
sua e quella dello ‘zio Mail’. Mail aveva cercato
di spiegarle decine di volte che non era suo zio, e che piuttosto
doveva considerarlo un fratello, o per lo meno un fratellastro, ma
Georgie non aveva voluto cedere di un passo. Spesso andava a casa dello
zio per
farsi dare ripetizioni di geometria, materia nella quale andava peggio.
Era contenta che suo zio fosse tanto bravo in quelle cose,
perché così non avrebbe dovuto pagare nessun
insegnante privato, e per di più passare del tempo con lui
le piaceva.
Né Mail, né Diane né tantomeno Georgie
si erano dimenticati di Mello, Noodle, L e soprattutto di Near, ma si
sentivano solo ogni tanto tramite computer. Per un po’
avevano sentito solo Mello e Noodle, e si erano a fatica abituati a
pensare a loro come Annika e Mihael. Sapevano che erano entrambi a
Berlino e vivevano assieme. Ogni tanto arrivava nel nuovo continente
qualche eco di un saggio scritto dalla matematica Annika Tempor, ma
siccome nessuno di loro ci capiva poi molto, si limitavano a leggere il
trafiletto sul giornale del mattino con un mezzo sorriso.
Di L avevano perso tutte le tracce.
Un giorno, quasi due anni dopo il secondo caso Kira, Georgie e Mail
andavano in giro per il centro città, e mentre Georgie non
faceva altro che mendicare un gelato Mail la trascinò dentro
alla libreria nella quale lavorava una commessa molto graziosa, con la
promessa che poi le avrebbe comprato quello alla crema e alla fragola
che le piaceva tanto. Mail gironzolò per la grande libreria
per un po’, fingendo a momenti di guardare i libri, e a
momenti aguzzando lo sguardo azzurro di lenti colorate per scorgere la
graziosa commessa. Quando la vide e la raggiunse, tentando di ostentare
tutta la noncuranza di cui era capace, lei stava sistemando dei libri
lungo uno scaffale.
“Ciao”, esordì Mail.
“Ciao. Ancora qui, eh?”, disse la ragazza
sorridendo, senza smettere di fare il suo lavoro e indirizzando solo
un’occhiata a Mail.
“Eh già. Non ho ancora trovato il libro giusto per
me. Mi consigli qualcosa?” Mail si appoggiò allo
scaffale.
“Dipende che cosa t’interessa.”
“Computer. Giochi…”, disse vagamente
Mail, temendo di non sembrare interessante.
“Se ti riferisci ai manuali, mi spiace ma non posso aiutarti
in maniera molto tecnica, però posso dirti dove andare a
cercare. A dire la verità sono specializzata nella sezione
romanzi”, disse la graziosa commessa senza smettere di
sorridere.
“Be’, vediamo… i gialli ad esempio.
Fatti bene però, mi piace scoprire chi è il
colpevole.”
“Oh, un detective. E quanti gialli hai letto fin
ora?”
“Veramente nessuno, però ho guardato molti
film”, disse Mail come se quello fosse un valido sostitutivo.
La ragazza si fermò e gli gettò
un’occhiata critica, la lingua fra i denti come se stesse
trattenendo una risata. Al posto di sistemare l’ultimo libro
sullo scaffale lo tenne in mano e lo porse a Mail. “Se
davvero t’interessa prova a leggere questo”, gli
mise in mano il pesante volume. “E’ di un autore
inglese esordiente, dicono che là in Europa abbia fatto il
giro di tutte le librerie. Adesso scusami ma devo andare.”
Mail sorrise e sventolò il libro. “Okay
d’accordo. Quando lo finisco torno! Ti dico cosa ne
penso!”
“Mi farebbe molto piacere”, disse la graziosa
commessa in risposta, voltandosi a guardarlo. Sparì dietro
l’angolo e Mail diede un’occhiata al libro.
Cosa può fare
uno shinigami annoiato, di Adam Livret.
Il ragazzo sgranò gli occhi e aprì la prima
pagina.
Nate River guidava lungo
la statale 62 quando il suo cercapersone lo avvisò di aver
ricevuto un messaggio…
Tornò a casa e lesse fino a notte fonda.
Alla fine di ogni caso L Lawliet sentiva un senso di spossatezza e
smarrimento invaderlo. La spossatezza poteva forse spiegarla come un
effetto collaterale dovuto alla mole di lavoro che lo aveva appena
investito con la stessa forza di un camion, e alle ore di sonno che
anche lui a volte necessitava di recuperare. Quello poteva risolverlo.
Ma non lo smarrimento; era un problema del suo cervello, che si perdeva
terribilmente nella semplicità della vita quotidiana. Per
quanto fosse astuto e colto, anche di psicologia, non aveva idea di
come togliersi quella fastidiosa sensazione di dosso. Per qualche
giorno vagava per la sua casa di campagna dello Yorkshire, fra i mobili
in legno, i soffitti alti e le finestre così piene di
campagna, senza sapere cosa fare o dove andare per cercare pace a
quella sensazione di perdita e di confusione che sentiva. Era come
noia, mescolata a qualcosa di più grande che non riusciva a
controllare.
La fine del secondo caso Kira tuttavia fu diverso. Non c’era
stanchezza, non c’era perdita ad invaderlo. Più
che altro… fremeva.
Fremeva di curiosità, di ansia, di voglia di cominciare.
Cominciare a scrivere naturalmente. L’ultima notte prima di
incontrare Light Yagami aveva scritto sei pagine in poco più
di un’ora. Poi non aveva più toccato il pc se non
prima di stabilirsi nella casetta di campagna.
Era stato un rituale: era arrivato alle 8.27 del mattino, aveva messo
tutti suoi averi al proprio posto. I vestiti, il pc con tutti i suoi
cavi e le sue prese. Aveva fatto un’abbondante spesa, aveva
messo un po’ a posto la casa e si era preparato un dolce al
cioccolato. Aveva preparato un tè verde e acceso il
computer. Si era seduto davanti al pc con una fetta di torta e una
tazza di tè affianco. Poi aveva iniziato a scrivere. Aveva
scritto ininterrottamente per sei ore, poi si era ricordato della torta.
Un anno dopo, a libro terminato, aveva inviato il manoscritto ad una
piccola casa editrice. Loro lo avevano preso, redatto, gli avevano
consigliato di apportare qualche modifica e lui aveva coraggiosamente
difeso le sue idee, decidendo poi per un leggero cambiamento al titolo
della storia. Aveva scelto uno pseudonimo e la casa editrice aveva
stampato cinquecento copie del suo manoscritto. La carta usata era
sottile, la copertina molle, le pagine 639. Costava 9 sterline e 55
cents. Cinque mesi dopo un editore di un’importante catena
editoriale lo aveva notato e gli aveva proposto di stampare il libro
con la loro casa. L aveva accettato.
Dopo un’ampia pubblicità e diversi incontri con il
suo editore le pagine erano diventate di una carta un po’
meno fragile ed erano aumentate con il diverso formato del libro. La
copertina era rigida e il prezzo era lievitato. La prima ristampa si
era avuta dopo appena due mesi dall’uscita ufficiale.
Otto anni e tre libri dopo, Adam Livret, alias L Lawliet, scese dal bus
che lo aveva portato nella città di Dover, nel sud
dell’Inghilterra. Era la città più
vicina alla Francia, da lì si poteva raggiungere il blocco
europeo anche a nuoto, se si era abbastanza allenati, era un cittadina
rispettabile e piena di gente per bene, nonché luogo di
nascita di Nate River.
Quando L scese dall’autobus mancava un solo giorno al grande
giorno. Chiamò un taxi, si fece portare all’hotel
nel quale aveva affittato una stanza e si mise subito a letto. Una
volta tanto era stanco anche lui.
La sveglia suonò il mattino dopo alle nove in punto. L si
alzò, andò in bagno, fece la doccia e scese a
fare colazione. Mangiò brioches al cioccolato e bevve latte
fresco, poi si ritirò nella sua stanza.
L’appuntamento era all’una, per pranzo, in un
elegante ristorante. Decise che avrebbe fatto un giro per Dover,
così prese portafoglio, cellulare e giacca, e
uscì nella tipica mattinata inglese. Quel giorno fece
follie: comprò un paio di jeans, un libro fantasy per un
pubblico adulto (per sperimentare nuovi generi) e dei pasticcini alla
cannella. Poi prese un taxi e si fece portare al ristorante. Di fronte
all’edificio c’era un piccolo parco giochi con
delle panchine. Scelse una posizione strategica, per vedere la porta
del ristorante, e si immerse nel suo libro. Quando alzò lo
sguardo la prima volta erano passate ventisette pagine e non vide nulla
di interessante, a parte un gruppo di ragazzi vestiti di borchie e
catene che passavano per strada. S’immerse di nuovo. Alla
seconda occhiata vide una coppia che si teneva per mano. Erano biondi,
e a giudicare dal loro abbigliamento soffrivano parecchio il caldo che
ristagnava nella città. L mise via il libro, si
alzò, e li raggiunse. Quando era vicino a loro
udì l’ultima parte del discorso di lei in una
lingua secca. Tedesco. L si avvicinò e sorrise, gli occhi
grandi e tondi. “Mihael. Annika”, salutò
annuendo in segno di saluto.
I due si voltarono, in viso un’aria stupita e allegra.
“L!”, salutò Annika abbracciandolo.
“Come stai? Tutto bene? Ma lo sai che abbiamo tutti i tuoi
libri a casa?”
“Oh grazie mille. E voi?” Si staccò da
Annika e scambiò una vigorosa stretta di mano con Mihael.
“Tutto bene. Proprio tu, dovresti saperlo no? Se non ricordo
male qualcuno mi ha raccomandato.”
L fece un sorrisino e distolse lo sguardo. “Non sono
più nel ramo delle indagini.”
“Ma potresti riprendere quando vuoi. Con me e Matt puoi
scegliere: America o Germania?”, disse Mihael ghignando.
L stava per rispondere, quando vide tre persone camminare verso di loro
a passo svelto. Una ragazzina che poteva avere si e no quattordici anni
corse verso di loro. “Ciao!”, salutò.
Annika la osservò corrugando le sopracciglia.
“Georgie”, disse, portando gli occhiali da vista
dalla fronte al viso. “Sei cresciuta”,
constatò.
Georgie sorrise, nel frattempo li raggiunsero Mail e Diane.
“Mihael!”, esclamò il ragazzo.
“Come stai? Annika, ciao.”
Quando i saluti furono terminati Diane domandò:
“Entriamo? Ho prenotato un tavolo settimane fa”.
La prenotazione era a nome Colfer. Il cameriere, un giovane
dall’aria cortese, li fece sedere ad un tavolo rettangolare.
Ordinarono piatti tipici del luogo e quando ebbero consumato tutto e i
camerieri ebbero liberato il tavolo, le pance di ognuno erano piene e
tutti sapevano tutto dei compagni che non vedevano da anni.
Un cameriere arrivò con altri tre menù e
domandò: “Desiderate il dolce?”.
“Io sì grazie”, disse Georgie allegra.
“Anch’io”, disse L.
Il cameriere porse loro le liste e domandò.
“Qualcun altro?” Tutti scossero la testa.
“Caffè?”
“Sì grazie”, disse Annika. Si unirono a
lei altre quattro voci.
“Torno subito”, disse il cameriere.
“Un altro po’ di vino?”,
domandò Mihael.
“Posso berlo anch’io?”,
domandò Georgie. Diane per un secondo parve replicare, ma
Mihael fu più veloce e versò qualche goccio di
vino alla ragazzina.
“Vogliamo brindare?”, domandò infine il
ragazzo. Tutti alzarono i loro calici e attesero che qualcuno parlasse.
Fu Mihael a prendere la parola, e tutti pensarono intimamente che fosse
il più adatto. Non disse poi molto, in realtà, ma
fu come se invece stesse facendo un discorso lungo e profondo.
“A Nate.”
“A Nate”, ripeterono tutti.
Appena dopo che Ryuk scomparve ritornò nel Mu tramite la
porta che lo separava dal mondo degli umani, e da altri mondi che non
possiamo neanche immaginare. Quando ritirò le ali nere era
di nuovo nel deserto desolato e triste che conosceva bene. Fece un
grosso sospiro e ghignò.
Era impressionante come una minuscola azione potesse condizionare in
modo tanto radicale la vita di più persone. Gli umani
potevano diventare esseri straordinari, pensò Ryuk, sia nel
bene che nel male. Non stava a lui giudicare cosa fosse bene e cosa
male, tuttavia aveva una particolare predilezione per i malvagi. E
comunque stessero le cose gli umani erano sempre inferiori ad uno
Shinigami, ragionò il dio della morte. Se l’azione
di un uomo poteva causare tanti cambiamenti, quella di uno Shinigami
poteva sconvolgere un mondo intero. Per un secondo Ryuk si
sentì orgoglioso di questa sua capacità.
Ricordò quando tutto era cominciato: da quando aveva fatto
cadere il suo vecchio Death Note e Light Yagami l’aveva
raccolto. Si annoiava, il motivo era soltanto quello. Ancora non aveva
idea di come lui fosse potuto tornare, ma scacciò il
pensiero.
Si diresse verso gli altri, che giocavano a dadi sotto la carcassa di
un enorme animale non meglio identificato. “Ciao
Ryuk!”, disse uno di loro.
“Ciao! Come va qui?”
“Ah, tutto come al solito.”
“Stephen, come stai?”, domandò Ryuk
guardandolo intensamente.
Era totalmente cambiato da quando lo aveva visto l’ultima
volta. Se quando era partito poteva sembrare ancora un uomo dalle
bizzarre fattezze, ora nulla in lui denotava che una volta era stato un
esponente della razza umana. Aveva la pelle di un colore verde marcio e
bianca, i capelli di un verde più scuro e una sorta di
elmetto di osso gli copriva la parte superiore del viso. Aveva lunghe
braccia e gambe, ma al contrario di molti altri Shinigami camminava
dritto, ergendosi in tutta la sua statura. Aveva una tasca naturale
sulla schiena, e dentro Ryuk vi scorse un Death Note nuovo di zecca.
Lo Shinigami si volse verso di lui e accennò un sorriso
storto e deforme. “Tutto bene Ryuk. Anzi! Oggi mi sento
più in forma del solito.”
“Sono contento Stephen, sono contento per te.”
“Hey Ryuk!”, gridò un altro mostro.
“Il Grande Capo ti cerca!”
Ryuk si congedò, passando dietro a Stephen e dandogli una
pacca sulla spalla, diretto dal Re degli Shinigami. Lo cercò
per molto tempo. O forse per poco. Il tempo, nel Mu, era qualcosa di
relativo e di scarsa importanza. Passava appiccicoso e melmoso sulle
loro pelli secche.
Quando Ryuk trovò il Re quello stava seduto su uno scranno,
leggendo nomi da un Death Note. Quando si accorse della sua presenza
alzò lo sguardo. “Ryuk, mi hanno detto della tua
scampagnata sulla terra. Divertito?”
“Abbastanza”, rispose lui.
“Ryuk, mi chiedevo…”, il Re si
chinò su di lui con fare misterioso. “Mi hai
portato qualche mela?”
Lo Shinigami sghignazzò. “Ma certo vostra
altezza.” E così dicendo tirò fuori dal
tascapane diversi frutti e li porse al re.
“Ah!”, esclamò l’altro
fregandosi le mani. “Eccellente, bravo Ryuk.”
“Di nulla signore.” Lo Shinigami fece per
andarsene, sicuro che il suo Re volesse solo un po’ di mele
succose e dolci, ma il mostro lo richiamò indietro.
“Ryuk?”
“Signore?”, domandò lui voltandosi.
“Un po’ di tempo fa stavo sfogliando un tuo vecchio
Death Note, sai che li tengo tutti io. Be’…
ovviamente questo non influirà sugli anni che hai sottratto
a quell’umano ma… ho cancellato un nome. Spero non
ti dispiaccia.”
Ryuk si volse, interessato. “Quale nome?”
Il Re ci pensò su un attimo, dando una morso ad una mela.
“Non ricordo bene, era morto da pochi mesi, era un uomo
giapponese.”
“Posso chiedere a vostra maestà…
perché l’ha fatto?”
Lo Shinigami si strinse nelle spalle. “Mi
annoiavo”, rispose solo.
Ryuk non poté trattenersi dall’esplodere ina una
sguaiata risata. Tu
guarda cosa può causare uno Shinigami annoiato!
A Sergio,
che sta affianco
all'autrice
ogni giorno.
Fine
Questa storia non è
stata scritta a fini di lucro.
Molti personaggi
appartengono a Tsugumi Oba e Takeshi Obata, autori di Death Note e
proprietari di tutti i diritti.
Oh mio Dio.
Non posso crederci che
sia finito.
Cacchio! O.O
...
Ecco, sono rimasta in
sospeso per un po', ora ci sono.
Allora, che dire?
Veramente non c'è molto da dire, o, in realtà, mi
sono già spremuta abbastanza in quest
post del mio blog. Nel caso non abbiate voglia di leggere ve
lo ridico qua:
Un gigantesco grazie a tutte le
persone che hanno seguito la storia, settimana dopo settimana, mese
dopo mese. Grazie
a chi ha solo letto, grazie a
chi ha scritto una recensione, grazie
a chi aspettava che postassi un altro capitolo, grazie a chi
leggeva e voleva sapere come continuava la storia. Adesso è
finita, veramente finita, e io non so ancora dirvi quante vagonate di grazie vi
riverserei addosso! Una tonnellata, o giù di lì.
Quindi, cominciamo con
il primo:
Grazie!
Un saluto a tutti,
Patrizia
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