Ab Aeterno

di L_Fy
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Caput Ium ***
Capitolo 3: *** Caput IIum ***
Capitolo 4: *** Caput IIIum ***
Capitolo 5: *** Caput IVum ***
Capitolo 6: *** Caput Vum ***
Capitolo 7: *** Caput VIum ***
Capitolo 8: *** Caput VIIum ***
Capitolo 9: *** Caput VIIIum ***
Capitolo 10: *** Caput IXum ***
Capitolo 11: *** Caput Xum ***
Capitolo 12: *** Caput XIum ***
Capitolo 13: *** Caput XIIum ***
Capitolo 14: *** Caput XIIIum ***
Capitolo 15: *** Caput XIVum ***
Capitolo 16: *** Caput XVum ***
Capitolo 17: *** Caput XVIum ***
Capitolo 18: *** Caput XVIIum ***
Capitolo 19: *** Caput XVIIIum ***
Capitolo 20: *** Caput XIXum ***
Capitolo 21: *** Caput XXum ***
Capitolo 22: *** Caput XXIum ***
Capitolo 23: *** Indice ***



Capitolo 1
*** Prologo ***



"Le vie della saggezza Zeus aprì ai mortali, facendo valere la legge che sapere è soffrire. Geme anche nel sonno, dinanzi al memore cuore, rimorso di colpe, e così agli uomini anche loro malgrado giunge saggezza; e questo è il beneficio dei numi che saldamente seggono al timone del mondo."
(op.cit., vv.176-183.)
 
"Sappiate dottori, che la mia barba ha più esperienza di tutte le vostre università, il più sottile capello della mia nuca ne sa più di tutti voi, le fibbie delle mie scarpe sono più sapienti dei vostri sapienti più famosi."
(Paracelso)
 
 
Riut hora.
“Deve esserci un’altra possibilità. Vi supplico, padre, concedete…”
“Electa una via non datur recursus ad alteram.”
“Padre…”
“Hoc opus. Tertium non datur.”
Silenzio. Capi chini, rassegnati.
“Come?”
“More maiorum, mutatis mutandis.”
“E’ sempre più difficile. I tempi sono cambiati, la gente nota certe cose…”
Il figlio aveva una voce dolente.
“Sospetteranno. Dovremo ricominciare da capo. Quae potest esse vitae iucunditas, sublatis amicitiis?”
Silenzio.
“Satia te sanguine, quem sitisti.”
La voce del padre era stanca.
Ma tutto era già deciso.
“Va bene, padre. Così sia.”
Il figlio se ne andò.
“Mors omnia solvit.” mormorò il padre come una preghiera.

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Capitolo 2
*** Caput Ium ***


Nihil nub sole novi

                                                                                                        (proverbio)

“Arrivatiiiii!”
Sabrina appena smontata dall’automobile iniziò una specie di danza propiziatoria alla fine della quale si inginocchiò a baciare il terreno con devozione mistica.
“Ma tu guarda che deficiente.” commentò Rossella alzando altezzosa il naso per aria.
Normalmente avrei detto qualcosa o per punzecchiare Rossella o per demolire Sabrina, ma effettivamente ero troppo emozionata per parlare. L’urlo di battaglia di Sabrina aveva espresso chiaramente quello che tutti noi della premiata famiglia Mercati sentivamo in quel momento: sollievo. Eravamo finalmente arrivati a destinazione e l’euforia regnava sovrana, splendendo sulla pelata lucente di papà come sugli orecchini aztechi di mamma passando per gli inseparabili occhiali da sole di D&G di Rossella.
Mentre Sabrina ancora danzava, papà si sgranchì la schiena respirando a pieni polmoni, lo sguardo già perso nel mare di verde circostante. Il suo viso si coprì di rughette disperate mentre controllava il preoccupante livello di erbacce del giardino.
“A quanto pare le piogge invernali hanno coronato i tuoi sogni botanici” sogghignò mamma ilare “Avrai da estirpare e zappare per tutta l’estate!”
“Che meraviglia.” gorgogliò papà sull’orlo del suicidio.
Io sorrisi, girando il viso verso il sole e chiudendo gli occhi: mentre intorno a me le mie sorelle iniziavano l’ennesima rumorosa diatriba, con la voce di papà che faceva da contrabbasso e quella della mamma che buttava lì di tanto in tanto qualche acido commento zen, mi sorpresi ad assaporare la sensazione di liquida nostalgia che mi aveva invaso il petto. Era così ogni anno: dopo un lungo e faticoso inverno a Milano, arrabattandoci tra scuola (per tutti: mamma e papà erano professori di liceo), corsi di inglese (per me), di danza (per Rossella) e di karate (per Sabrina) avevamo finalmente schiodato le tende da quella soffocante città per rifugiarci qui, nel nostro nido vacanziero, pronti a rigenerarci per due lunghissimi mesi.
Strano come persone tanto diverse come noi si trovassero tutte d’accordo sul quel semplice fatto: le vacanze non si discutevano mai. Tutti amavamo la nostra stamberga barcollante di Cresta del Gallo con viscerale, feroce possessività. Né le smanie umanistiche di mamma né le tendenze snobistiche di Rossella né la conclamata deficienza di Sabrina ci potevano tenere lontani da questo angolino di paradiso nascosto nel verde del parco dell’Alto Garda Bresciano, sulle rive del lago di Garda sopra le piccole frazioni di Ustecchio e Voltino.
“Allora, vi muovete con quelle valigie?” strillò mamma con le mani piazzate sui fianchi modello negriero “Nonna Rosa per quest’anno non ha affittato il facchino.”
“E chi te lo ha detto, figlia degenere?” chiocciò nonna Rosa uscendo zoppicando dalla soglia di casa.
“Nonna!” gridammo in coro io e le mie sorelle: le saltammo addosso con entusiasmo, rischiando di finire distese per terra e di rompere l’osso sacrale alla povera nonna che per la vecchiaia aveva ormai la consistenza di un uccellino. Lei ricambiò emozionata le nostre effusioni, carezzandoci in testa e baciandoci tutte, una per una.
“Come siete diventate grandi” esclamò con voce tremante “Rossella, sembri uscita da una rivista di moda!”
“Oh, dai nonna, non esagerare.” tubò lusingata mia sorella: era lampante che non vedeva l’ora che nonna esagerasse.
“E tu, Sabrina… dove sono tutte le medaglie che hai vinto a karate?”
Sabrina gonfiò il collo, fiera come un tacchino: in realtà sembrava un’acciuga strizzata, ma la sua ambizione di diventare l’unica e vera sosia femminile di John Cena la rendeva evidentemente immune all’evidenza. Nonna girò lo sguardo su di me e i suoi occhi azzurro slavato si addolcirono ancora di più.
“Oh, Milena” sospirò quasi intristita “Che faccia pallida! Hai messo ogni tanto il naso fuori di casa questo inverno?”
“Oh, certo” malignò Rossella con una smorfia “Il 24 gennaio è uscita a comprare un libro ed è stata via per ben mezzora.”
“Che spiritosona” grugnii punta sul vivo “Tutta questa ironia l’hai comprata al mercato o era in saldo da Armani?”
“Lena…” borbottò nonna con aria di rimprovero. Mi calmai subito: come potevo resistere allo sguardo divertito di nonna Rosa?
“In realtà quel 24 gennaio sono stata via quarantacinque minuti” ribattei fingendomi offesa “E non ho comprato solo un libro, ma anche… un… rossetto.”
Persino nonna Rosa rise canzonatoria.
“Oh, certo, e che ne hai fatto dopo?” cinguettò Rossella sadicamente “L’hai usato per sottolineare le frasi più interessanti dei tuoi tomi superpallosi?”
“Te ne accorgerai quando aprirai la tua valigia e troverai tutti i tuoi preziosi perizomi de La Perla decorati di rosso.” ribattei sorridendo a denti stretti.
Rossella mi rispose con una smorfia e sgambettò via in fretta, probabilmente per verificare che la storia dei perizomi non fosse vera.
“Allora, Milena, ti muovi con quella valigia?!?”
Quando mamma chiamava i figli per nome significava che stava per passare alle vie di fatto: così, mollai nonna Rosa e corsi ad aiutare papà nel difficile compito di scaricare la povera Multipla Bipower dei nostri averi. Non fu un compito facile: la nostra famiglia soffriva da sempre di una grave allergia all’ordine e al metodo, così, svuotando il baule, poteva succedere di tutto, dall’essere travolti da un copertone di bicicletta al trovarsi una gallina viva tra le mani. Dopo un quarto d’ora buono di strilli inconcludenti da parte di mamma e di serafiche e pacate battute da parte di papà, ognuno di noi arrancava verso la propria stanza con le proprie valigie da trascinare su per le ripide scale di pietra consumata. La più fortunata, ovviamente, ero io, con la mia camera nella piccionaia. Arrivai su con un mezzo colpo apoplettico in atto e dovetti buttarmi sul letto supina per riprendere fiato. Il familiare tetto a travi mi salutò e il muro mi spolverò il viso di intonaco. Io sorrisi, appagata; mi arrotolai nelle coperte fatte all’uncinetto che rivestivano il letto bitorzoluto, assaporando con acuta nostalgia il profumo di lavanda e naftalina che le accompagnava. La mia stanza era piccola, col tetto mansardato e il pavimento di pietra pericolosamente inclinato; l’arredamento consisteva in un cassettone che non riusciva a essere antico e rimaneva sempre vecchio e dall’aria esausta, una specchiera lattiginosa in cui mi vedevo sempre avvolta dalle nebbie, il mio fido lettino dalla testiera di ferro battuto nel quale potevo dormire solo rannicchiata tanto era diventato corto e la bassa finestra rotonda senza sbarre, un vero monumento di sfida contro le leggi sulla sicurezza domestica. Ancora eccitata, saltai giù dal letto e mi accoccolai sul basso davanzale della finestra, lasciando che il caro e familiare panorama riprendesse il suo posto predominante dentro al mio cuore. Quanto amavo quelle aspre vette improvvise coperte di verde brillante con in lontananza l’azzurra striscia sottile del lago! Me le sentivo dentro come se fossero parte del mio Dna, e in effetti a volte diventavo esattamente come quel paesaggio: ombrosa, silenziosa, con spigoli acuti e troppi angoli nascosti… Sospirai, di colpo malinconica.
Mi rendevo conto che mamma era perplessa per il fatto di avere una figlia come me. Le mie sorelle erano più semplici da trattare: con Rossella mamma aveva un dialogo immediato anche se piuttosto limitato negli argomenti. Mia sorella, infatti, era rimasta intrappolata nella fase edonistica adolescenziale e nonostante i diciassette anni suonati l’unica cosa che entrasse in quel cervellino atrofico era l’immagine della Carta di Credito con cui fare acquisti in via della Spiga, quindi, tra un’attenta valutazione dell’ultima collezione di Laura Biagiotti e una critica costruttiva sugli ultimi stivali di Cavalli, il contatto con mamma era assicurato. Con Sabrina, quattordicenne col fisico da tagliolino scondito e la mente di una locusta, non c’era dialogo, ma mamma aveva trovato un felice compromesso nell’elementare linguaggio dei segni. Con me invece non aveva ancora trovato un giusto punto di contatto. Non che litigassimo, sia chiaro: ci volevamo bene e sapevamo di poter contare sempre l’una sull’altra, ma lo stesso i rapporti tra noi erano difficili. Credo che mamma fosse sconcertata perchè non riusciva a capirmi. Lei era molto estroversa, altruista, solare e amichevole. Non che io fossi l’esatto contrario: avevo anche io la mia cerchia di amicizie e quando volevo sapevo essere una piacevole compagnia. Ero però molto più attratta dalla solitudine che dalla vicinanza con le altre persone. A volte, inconsciamente, mi sforzavo di comportarmi come le mie coetanee per non spaventare troppo mamma e uscivo con le amiche, annoiandomi a morte per tutto il tempo con i loro discorsi sulla depilazione e sui metodi per rimorchiare i ragazzi. A proposito… I ragazzi, altro tasto dolente: non ne sentivo assolutamente il bisogno e la cosa cominciava a preoccupare anche me. Ormai a sedici anni gli ormoni avrebbero già dovuto fare il loro sporco lavoro, e invece la mia attrazione verso l’altro sesso era pericolosamente vicina allo zero. Non che mi mancassero le occasioni: pur non essendo una gran bellezza, gli ammiratori si sprecavano. Attraevo invariabilmente amanti del gotico che prendevano la mia faccia pallida e l’espressione seria per una tendenza allo stile dark. Niente di più sbagliato: odiavo le unghie nere, gli occhi bistrati e lo snervante pessimismo di questi personaggi. Trovavo deprimente il loro abbigliamento dimesso, i loro colori scuri e gli scarabocchi neri sul diario di scuola.
Comunque, nonostante la mancanza di rodaggio su strada, avevo intuito di essere eterosessuale, anche se dai gusti eccentrici: le poche, assurde cotte adolescenziali che avevo avuto si erano divise tra un commentatore radiofonico di Radio 105 che avevo scoperto avere il triplo dei miei anni, il bell’Andrè del Manga su Lady Oscar e ultimamente la faccia da pazzo scatenato di Adrien Brody, l’attore col naso più ricurvo del west. Le cotte peggiori però le avevo prese per qualche personaggio letterario: avevo decisamente perso la testa per Dorian Gray e avevo passato intere notti a sospirare per il protagonista di un racconto di Stephen King, figurarsi! No. Sapevo che, con i giusti stimoli, potevo provare qualcosa di simile alla passione. A parte quello però, sessualmente ero inattiva come il Vesuvio.
Inevitabilmente, il mio sguardo corse fuori dalla finestra, frugò nel verde lontano e finalmente individuò una solida torretta di pietra dallo spiovente tetto di ardesia grigia. Chissà se erano già arrivati, pensai remotamente. Quella torretta era l’unica parte visibile (solo ed esclusivamente dalla mia camera) dell’abitazione dei nostri vicini di casa, per usare un eufemismo che accomunasse le uniche due costruzioni nel raggio di chilometri: la caotica, pericolante catapecchia della famiglia Mercati e l’elegante, opulenta, inaccessibile Villa Lazzari.
*    *       *
I Lazzari erano un po’ la leggenda di Ustecchio, per non dire di tutta la zona del Tremosine. Da anni ormai questa famiglia di nobilazzi (per dirla alla maniera di mio padre) veniva a passare le vacanze estive nella sua villa patrizia ben nascosta nel verde, suscitando l’inevitabile curiosità del paese e i sogni snobistici di mia sorella. Ruggero Lazzari e i suoi due figli, Tobia e Saverio, si diceva che abitassero in Svizzera dove i nobili rampolli frequentavano prestigiose scuole per annoiati multimiliardari. Di loro si sapeva poco altro perché la famiglia teneva molto alla propria privacy: se fossero effettivamente nobili, da dove venissero, cosa facessero per essere favolosamente ricchi come sembravano, non era dato di sapere al resto del mondo. Si vociferava di dimore e banche svizzere, ma il riserbo che li circondava aveva maglie troppo strette per andare oltre. I Lazzari evidentemente non amavano il contatto sociale: arrivavano attraversando il paese su macchinoni che sembravano transatlantici, si facevano vedere pochissimo in giro e, beffa delle beffe, stagionalmente non assumevano servitù del posto ma silenziosi e altezzosi domestici stranieri. La gente del posto avrebbe probabilmente finito per detestarli se non ci fossero stati due piccoli particolari a sovvertire l’ordine delle cose: il primo era che la famiglia era composta da soli maschi e il secondo era che quei maschi possedevano tutti una bellezza rara e abbagliante, come se avessero avuto bisogno di altri particolari per risultare miracolati e irraggiungibili. Le poche volte che si presentavano in paese erano sempre vestiti bene, con camicie svolazzanti di seta écru, sandali di cuoio intrecciato e discreti occhiali da sole dall’aria costosa. Erano tutti alti, atletici e abbronzati e avevano in comune anche capelli scuri e arroganti nasi patrizi. Erano sempre molto cortesi e affascinanti e quasi tutte le ragazze del posto, prima o dopo, si erano beccate una cotta per uno di loro, irrimediabilmente non corrisposte. Anche Rossella non era rimasta immune al fascino dell’aristocrazia: aveva passato un’intera estate a sospirare per Saverio Lazzari e non so quanti accidenti di espedienti avesse escogitato per incontrarlo accidentalmente lungo la strada ghiaiosa che avevamo in comune, per accedere alle nostre abitazioni dalla strada principale. Saverio, ovviamente, non se l’era filata nemmeno di striscio: probabilmente nemmeno si era accorto di essere diventato l’inizio e la fine del mondo di Rossella, occupato com’era a giocare a tennis (ne sentivamo i rumori e la voce dal limitare del nostro giardino), fare sci d’acqua sul lago  e organizzare esclusivissime feste per soli dei dell’Olimpo, feste di cui noi poveri mortali potevamo solo annusare l’odore da lontano.
Avevo idea che anche mamma, a suo tempo quando abitava qui con i nonni, avesse avuto la sua bella dose di delusioni amorose a causa della famiglia Lazzari. Ancora dopo tanto tempo, quando parlava di Ruggero Lazzari, le guance le diventavano rosa e gli occhi si facevano lucidi. E tutte le volte che lo incrociava in paese diventava di colpo più distratta e goffa del solito e invariabilmente finiva per commentare a voce alta: “Non è cambiato di una virgola, sembra ancora giovane come vent’anni fa.”
Era vero: a guardarlo, anche da lontano e con quegli onnipresenti occhiali scuri, sembrava impossibile che avesse più o meno l’età dei miei genitori. D’altra parte, era improbabile che fosse più giovane, visto che aveva due figli già adulti. La cosa che incuriosiva di più era che nessuno aveva mai visto transitare di lì una signora Lazzari; non ce n’era mai stata nemmeno l’ombra in tanti anni di gloriose ferie estive. La gente aveva ventilato fiaccamente l’ipotesi che Ruggero potesse aver adottato i suoi figli, ma a smentita di ciò bastava la lampante somiglianza che legava tutta quella incredibile famiglia, così i pettegolezzi avevano ripiegato su un più prosaico e nebuloso divorzio miliardario.
Io ovviamente non condividevo affatto i sospiri romantici di Rossella per i divini Lazzari, anzi mi infastidiva parecchio il fatto che i Mercati godessero di un notevole credito solo per il fatto di abitare vicino alla Villa e che bastasse quello per diventare automaticamente interessanti agli occhi della gente. In realtà, noi non sapevamo molto più degli altri. Certo, avevamo in comune con loro un muro di cinta, ma la vastità del giardino della Villa e la fitta vegetazione che si intravedeva al di là del muro li facevano sembrare in un altro continente. Noi ragazze incrociavamo spesso i Lazzari sulla strada ghiaiosa mentre andavamo verso il lago e loro si mostravano sempre molto cortesi: buongiorno, buonasera, bella giornata per lo sci d’acqua, brutta giornata per lo sci d’acqua, fa caldino, fa freschino, e via, ognuno per la sua strada. Noi, sempre con le nostre biciclette arrugginite, cariche di teli da bagno, creme, occhiali, riviste, zaini pieni di cibo, materassini gonfiabili e chi più ne ha più ne metta; loro con i loro scooter cromati e silenziosi, le loro camicie svolazzanti di seta e la loro maledettissima puzza sotto il naso.
Personalmente, non avevo mai fatto mistero della mia ostilità nei confronti della divina famiglia: la ritenevo la quintessenza di tutto ciò che detestavo nelle persone, quindi non condividevo i sogni a occhi aperti di Rossella né gli sguardi golosi che Sabrina lanciava ai loro scooter. Per me, le vacanze estive erano semplicemente Cresta del Gallo, con le sue terrazze ripide, con l’odore di bosco che filtrava dalle finestre la mattina, con il blu del lago a salutare in lontananza… e perché no, con la torretta di Villa Lazzari che svettava vicina, complice della mia solitudine poiché solo io potevo vederla e condividerne la solitaria bellezza.
*    *       *
Quando scesi di sotto, nonna Rosa stava già preparando il pranzo. Mi arrivò alle narici l’aroma di ciò che friggeva sul fuoco e cominciai ad avere l’acquolina in bocca: mentre per tutto l’inverno a Milano soffrivo regolarmente di una fastidiosa inappetenza, a Cresta del Gallo diventavo famelica come un lupo. Nonna Rosa, oltretutto, preparava sempre il pane in casa e la sua fragranza paradisiaca accompagnava qualsiasi mio ricordo d’infanzia tanto che a volte me la sognavo anche di notte.
“Che stai preparando?” domandai saltando a sedere in bilico sul lavello e rubacchiando un pezzo di pane tiepido da sotto il tovagliolo.
“Pane e acqua come per i condannati.” rispose con aria molto seria la nonna.
“Gustoso!” commentai spalancando gli occhi e nonna annuì saggiamente.
“Lo so, è il tuo piatto preferito… a Milano sei diventata così magra.”
Lanciò uno sguardo di riprovazione alle mie gambe ancora inguainate nei jeans e io sbuffai rumorosamente.
“Nonna, per te sarei deperita persino se pesassi una tonnellata.” ribattei con un sottofondo di affetto.
“Sante parole” sorrise lei immediatamente “E’ ora che tu ti faccia un po’ di muscoli su quelle grucce secche che hai per gambe. Prendi il bottiglione e vai a riempirlo d’acqua alla fonte, dai.”
“Sapevo che dietro l’interessamento c’era la fregatura” mi lamentai con una smorfia “Appena arrivata e già mi metti di corvèe.”
“Non è colpa mia se sei stata la prima a scendere” ridacchiò la nonna con gli occhi scintillanti “Su, scattare… sciò sciò!”
Corrucciata, sbirciai fuori dalla finestra dove il sole spiccava alto in mezzo al cielo azzurro come non mai.
“Mi prenderò un’insolazione” mi lamentai alzandomi però in piedi “Tutta sola, sotto il sole cocente per chilometri e chilometri…”
Nonna smise di cucinare per lanciarmi uno sguardo divertito.
“Sei in Italia, non nel deserto dell’Arizona” commentò sagace “Ti presto il mio cappello di paglia e devi solo fare cinquecento metri: se non è mai morta miss sospiro, ovvero tua madre, puoi sopravvivere anche tu.”
“Va bene” cedetti di buon grado; a chi volevo darla a bere? Adoravo passeggiare da sola in mezzo al verde con solo un concerto di grilli a farmi compagnia “Se troverò una carovana dispersa sulla via, indicherò loro la strada per il villaggio.” dichiarai drammaticamente.
“Brava, fai così.” rispose nonna, già distratta dai pomodori nel lavello.
Canticchiando una canzoncina western, mi caricai il bottiglione su una spalla, infilai il cappello di paglia di nonna e uscii sotto il sole. L’aria di giugno era deliziosamente tiepida e profumata di resina e di erba appena tagliata. A passo svelto, imboccai il sentiero in mezzo al fitto bosco di larici e pini mughi, assaporando con tutti i sensi la natura intorno a me. Era stata una fortuna che il nonno avesse costruito quella casa nel bosco sul finire degli anni sessanta, quando gli abitanti della zona stavano emigrando verso le grandi città: il turismo di massa era nato solo molto tempo dopo ma negli anni ‘80 avevano istituito il Parco dell’Alto Garda Bresciano e nessuno aveva più potuto costruire in quella zona. Fortuna per noi e per i nostri aristocratici vicini, eravamo i padroni incontrastati di quel paradiso verde e azzurro. Fischiettando la canzone di Robin Hood della Disney, arrivai nei pressi di una fonte di acqua sorgiva: mio nonno anni addietro aveva scavato una buca intorno alla sorgente e aveva costruito una specie di vasca con mattoni rossi che ormai era interamente rivestita di edera. Dentro la vasca, alcune raganelle verdi avevano istituito il loro yachting club e gracidarono oltraggiate quando mi sporsi per riempire il bottiglione con l’acqua fresca che zampillava da un corto e storto tubo di rame.
“Scusate il disturbo” dissi con aria contrita “So di non avere pagato la quota… Me ne vado subito subito.” 
Sorrisi quando una raganella si tuffò con altezzosa eleganza nella vasca. Mentre aspettavo che il bottiglione si riempisse decisi di dare una ripulita: le erbacce stavano soffocando un bel cespuglio di sassifraga rosa acceso che si arrampicava lungo i mattoni e così mi misi in ginocchio a estirparle, senza smettere di canticchiare.
“Robin Hood e Little John van nella foresta, urca urca tirulleru oggi splende il soool!”
Adoravo quella canzoncina scema: la cantai con profondo impegno, tentando anche qualche gorgheggio, quando un rumore di rami spezzati mi mise in allarme. Velocemente mi rizzai in piedi con ancora una radice estirpata in mano e mi trovai faccia a faccia con un ragazzo.
La sorpresa fu così repentina che mi bloccai immediatamente sul posto lanciando un gridolino soffocato mentre il viso di lui si apriva in un largo sorriso amichevole.
“Scusami, non volevo spaventarti” disse con voce allegra cercando evidentemente di tranquillizzarmi “Ho sentito cantare e volevo assicurarmi che non fossero quelle dannate raganelle… anche se dovevo immaginarlo che delle raganelle non potessero conoscere Robin Hood e Little John.”
Lo riconobbi all’istante: era Tobia Lazzari, il più giovane dei fratelli. Lo avevo incrociato spesso e avevo notato che era quello più gentile di tutti, o forse pensavo così perché doveva avere più o meno la mia età e lo sentivo più affine. Il sollievo mi fece rispondere con un tono altrettanto amichevole.
“A dire il vero, stavo giusto regalando loro il CD” lo informai semiseria “Come stai Tobia?”
“Bene” rispose lui per niente sorpreso di essere stato riconosciuto “E tu… Rossella?”
“Milena” sorrisi io senza acrimonia “Ottimamente. Siamo appena arrivati.”
“Anche noi” approvò lui piacevolmente “Giornata bellissima, non trovi?”
“Meravigliosa.” commentai depressa.
Eccolo, il tipico dialogo che si poteva intrattenere con un divino di Villa Lazzari. Cortesia, gentilezza, e sublime superficialità, niente di più e niente di meno.
“Già al lavoro?” domandò Tobia indicando il bottiglione d’acqua ormai pieno.
“Eh sai… La dura vita delle figlie di mezzo.” risposi sospirando e lui sorrise di nuovo.
Diamine, che schianto di ragazzo: i suoi occhi avevano una tonalità di verde meravigliosa, come se fossero in grado di catturare il colore della vegetazione circostante.
“Non saprei” rispose lui con lo stesso tono “Io sono il fratello più piccolo.”
“Beata gioventù.” replicai caricandomi il bottiglione in braccio: pieno era davvero pesante.
Tobia sembrò cogitabondo per una frazione di secondo, poi, quando io stavo per salutare cortesemente, parlò lasciandomi completamente di stucco.
“Vuoi una mano?”
Ci misi un po’ a riprendermi dalla sorpresa fulminante: non avrei mai immaginato una gentilezza del genere. Cioè, era una cosa così poco patrizia, così… umana. La tentazione iniziale fu di accettare, però non avevo nessuna voglia di sopportare gli sguardi allucinati della mia famiglia se mi fossi presentata sulla soglia di casa con un esponente della divina e irraggiungibile famiglia Lazzari al seguito. Ero quindi lì lì per declinare l’offerta quando fui di nuovo distratta da un rumore proveniente dal bosco.
“Tobia?” chiamava un voce bassa e vagamente stizzita “Tobia, sei qui?”
Dal verde rigoglioso del bosco spuntarono due teste brune, una leggermente più bassa dell’altra. Entrambe si fermarono con arrogante sorpresa quando mi avvistarono e io, deficiente come sono, arrossii immediatamente di imbarazzo. Erano Ruggero e Saverio Lazzari: il primo, più basso e massiccio, mi squadrò con autentica alterigia, alzando le sopracciglia con superba ironia. Il secondo, più alto e se possibile ancora più ostile, non mi degnò nemmeno di un’occhiata. Il loro atteggiamento scostante mi arrivò addosso improvvisamente come uno schiaffo in pieno viso. Ovviamente, l’impulso che seguì fu quello di darmela a gambe il più in fretta possibile.
“Non fa niente” dissi in fretta arretrando lungo il sentiero “Faccio da sola. Saluti a tutti.”
“Ciao.” rispose Tobia, quasi con una vaghissima punta di rimpianto.
Quei gentiluomini di suo padre e suo fratello nemmeno mi salutarono: Ruggero fece un sorrisetto sardonico mentre Saverio continuava a rimanere in ombra, guardando Tobia con aria truce. Io girai i tacchi e mi affrettai lungo il sentiero. Man mano che mi allontanavo dalla fonte, cresceva il mio malumore: non mi era mai interessato ricevere le attenzioni di quei damerini spocchiosi e snob dei Lazzari, ma mi irritava profondamente essere trattata come spazzatura. E dire che di solito erano così cortesi e affabili con tutti…
“Si vede che il viaggio ha dato loro alla testa” commentai tra me e me “Uno diventa improvvisamente umano e due diventano del tutto bestie.”
Dopo quell’acida considerazione mi sentii assurdamente meglio. Rallentai il passo e mi lasciai distrarre dalla rigogliosa natura circostante, dicendomi che per niente al mondo avrei lasciato che dei rigidi stoccafissi svizzeri mi rovinassero la giornata. Così, quando arrivai a casa, ero di nuovo di buon umore e fischiettante.
“Era ora che arrivassi!” mi sgridò Rossella dalla soglia con aria corrucciata: si era già cambiata indossando quella che doveva essere la sua tenuta campagnola e cioè jeans di Cavalli con toppe di pelle di pitone, camicetta svolazzante di seta cruda e stivali country che solo a guardarli si impolveravano. Mi fece quasi tenerezza: tutta quella cura per i particolari era assolutamente sprecata, lì in mezzo alla natura.
“Che hai fatto fino a ora?” domandò Sabrina, sbucando da dietro Rossella “Aspettavamo te per mangiare!”
Aprii la bocca per dire qualcosa di molto stupido, magari che avevo incontrato niente po’ po’ di meno che la famiglia Lazzari, attirandomi addosso almeno tre ore di terzo grado da parte delle mie sorelle: richiusi la bocca risoluta senza nemmeno pensarci su.
“Mangiamo.” proposi entrando decisa nella frescura dell’ingresso.
 

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Capitolo 3
*** Caput IIum ***


Qui autem invenit illuminvenit thesaurum
(Siracide)

 
I primi giorni a Cresta del Gallo erano sempre impegnati in un caotico assestamento; in pieno stile Mercati, bisticciavamo tutti da mattina a sera per ritagliarci gli spazi e i privilegi necessari alla sopravvivenza. I turni per l’uso del bagno, per esempio: ce n’erano due, uno in casa al piano terra, provvisto di lavandino asmatico e doccia malconcia e zoppicante come una vecchia ottuagenaria e l’altro esterno sul retro della casa rigorosamente senza acqua calda. Contando che eravamo in sei e che Rossella passava più tempo là dentro di noi altri cinque messi insieme, era possibile che all’ultimo della fila scoppiasse la vescica prima di poter espletare le funzioni corporali. Quindi, per smaltire i tempi, facevamo una specie di corsa a ostacoli verso il dentifricio e chi arrivava per ultimo si sorbiva per il resto della vacanza il bagno esterno con doccia gelata. Quell’anno mi andò proprio male: risultai ultima in graduatoria, battuta persino da quella caccola di Sabrina e mi furono cedute, con una cerimonia solenne, le chiavi del bagno esterno da parte di un’esultante sorellina e di un commosso papà. Le presi senza un lamento: ero in furiosa trattativa con Rossella per l’uso della mitica e incomparabile bicicletta del nonno e la questione del bagno poteva anche risultare un’arma a mio favore. Per scendere al lago o in paese, gli unici mezzi di trasporto concessi a noi minorenni erano le biciclette di nonna Rosa, cioè pezzi di antiquariato più o meno d’epoca con i freni inesistenti e i pedali duri come sassi. L’unica decente era la ex bicicletta del nonno, un surrogato di mountain bike senza marce ma con un meraviglioso perone di gomma strombazzante in sostituzione del campanello, modello primo novecento. Mentre io esultavo per averla spuntata con Rossella, lei sorrideva serafica: capii il perché solo alla sera, dopo cena, quando papà annunciò l’acquisto di uno scoppiettante motorino usato. Quella faina rabbiosa di mia sorella mi aveva gabbato!  
“Visto che Sabrina è troppo giovane e Lena ha scelto la bicicletta migliore, il motorino va di diritto a Rossella!” concluse papà con la faccia felice del battitore d’aste di Sotheby.
Rossella fece un angelico sorriso a ottocento denti: io le risposi con un’occhiata che avrebbe incenerito una miniera di amianto.
“Questa me la paghi.” le sibilai all’orecchio quando fui certa che mamma non potesse sentirmi “Prenderò in ostaggio la tua cintura di coccodrillo di Fendi, le taglierò la fibbia e te la spedirò per posta.”
“Tu intanto pedala, sottiletta.” ghignò Rossella con un atteggiamento molto poco da gran dama.
Dopo cena io e Rossella decidemmo di scendere in paese a prendere un gelato. Nell’attesa che lei uscisse dal bagno dove si era rinchiusa per “darsi una sistemata”, mi dilettai nella lettura di ben cinque capitoli di un libro trovato nell’ingresso. Parlava delle tecniche di pesca a mosca: una noia mortale. Stavo per rinunciare e salire in camera mia quando Rossella uscì dal bagno, tirata a lucido come una statua di porcellana e olezzante di Hypnose come se ci avesse fatto il bagno.
“Come sto?” domandò pavoneggiandosi nella lunga gonna a balze di Moschino Jeans e scuotendo la fluente chioma odorosa di lacca. Per me aveva un look un po’ troppo stile Esmeralda, ma mi guardai bene dal dirglielo: la coda di paglia di Rossella era talmente corta che sarebbe corsa a cambiarsi anche se a dare un parere negativo fossi stata io, notoriamente insensibile ai dettami della moda come un blocco di porfido.
“Stai benissimo” tagliai quindi corto “Andiamo?”
Rossella lanciò un’occhiata incuriosita al mio top a fiorellini e ai jeans che avevo su dalla mattina: non commentò, ma il suo sguardo quasi compassionevole la disse lunga su quello che pensava del mio look. Molto magnanimamente, appena raggiunto un angolo non visibile da casa, mi concesse di salire sul motorino con lei, nonostante la mamma avesse promesso anatemi infernali se solo avessimo sfiorato l’idea. Dopo aver appoggiato la bici del nonno contro a un tronco (nasconderla era inutile: per quella strada passavamo solo noi e gli abitanti di Villa Lazzari, e figurarsi se gli dei in persona si interessavano a un tale ferrovecchio) mi appollaiai sul retro del sellino del motorino e le strinsi la vita, ben attenta a non guastarle la messa in piega. Col motorino giungemmo in paese in un attimo: lo parcheggiammo in un posto sicuro e camminammo fino al centro chiacchierando piacevolmente, o meglio, Rossella chiacchierando e io piazzando qualche monosillabo qua e là. La gelateria del centro era illuminata e gremita di giovani nonostante non fosse ancora stagione turistica. Li conoscevamo quasi tutti: era una vita che passavamo le vacanze a Cresta del Gallo e la mamma era originaria di lì, quindi venivamo trattate praticamente come due del posto. Oltretutto, il paese era così piccolo che nonostante i turisti ci sentivamo sempre a casa e Ustecchio e Voltino, i paesi più vicini, confronto a Cresta del Gallo sembravano New York. Alcuni ragazzi, vedendoci arrivare, si alzarono dalle panchine per venirci a salutare. Sara e Martina, le due ragazze con le quali andavo più d’accordo, mi sembrarono stranamente intimidite, ma diedi la colpa agli effluvi tramortenti di Hypnose di Rossella; Marco e Filippo invece, i due figli del macellaio, coetanei di Rossella, non la smettevano più di baciarci sulle guance e di menare amichevoli pacche sulle spalle. Per un bel pezzo parlammo tutti concitatamente, scambiandoci a raffica notizie sui mesi di lontananza.
“Siete davvero cambiate” esclamò Martina sezionando me e mia sorella atomo per atomo “Si vede che siete delle cittadine.”
“Che sciocchezze” rispose magnanima Rossella quando invece si vedeva benissimo che condivideva in pieno l’opinione di Martina, almeno per quello che la riguardava “E voi, che avete fatto di bello quest’inverno?”
Altra mezzora di chiacchiere: erano tutti stati promossi, a Martina avevano regalato lo Scooter nuovo, Marco per arrotondare dava lezioni di windsurf e Filippo aveva una fidanzata di Milano che frequentava la mia stessa scuola.
“Però è un pezzo che non la vedo.” mi disse allusivo, lasciandomi vagamente perplessa.
Erano tutti amichevoli, fin troppo amichevoli: tutta quell’attenzione mi disturbava. Rossella invece sguazzava nella celebrità nemmeno fosse Paris Hilton. Appena il decoro me lo concesse, sgattaiolai verso la gelateria pensando malignamente che per il compleanno dovevo assolutamente regalare a mia sorella un chihuahua da mettere in borsetta.
“Ciao Antonio” salutai con un sorriso “Un cono cioccolato fondente e frutti di bosco.”
“Subito, signorina” mi canzonò il gelataio dalle guance più rotonde d’Italia “Perbacco, Lena, sei diventata proprio grande! Te l’ha detto nessuno che sei un’autentica bellezza?”
“Solo i commercianti a cui devo dei soldi.” risposi sorridendo e allungandogli una banconota da cinque euro.
Mentre Antonio trafficava alla cassa per trovarmi il resto, chiusi gli occhi per assaporare il mio gelato. Il primo assaggio dell’anno al cioccolato fondente di Antonio andava trattato a dovere: il sapore era come un soffio di Paradiso. Quando riaprii gli occhi, sufficientemente estasiata, mi trovai davanti Tobia Lazzari che mi fissava incuriosito. Per poco non feci un salto indietro dalla sorpresa: non l’avevo sentito arrivare, e comunque non era mai successo che un divino dell’Olimpo Lazzari si avvicinasse tanto a un comune mortale. Cercando di contenere la sorpresa, mi stampai in faccia un’espressione gentile e sorrisi.
“Hei, chi si rivede.” dissi, soddisfatta del mio tono indifferente.
“Dalla foresta di Sherwood alla gelateria” rispose lui sorridendo prontamente “Che shock.”
Il più scioccato a dire il vero sembrava Antonio che era rimasto immobile a osservare la scena: quando Tobia si girò verso di lui ordinando un chilo di gelato da portar via, si mosse di scatto come se fosse stato caricato a molla.
“Non pensavo di vederti già in giro.” commentò Tobia salottiero, quasi con rimprovero.
“Non si può resistere nemmeno un giorno lontano dal cioccolato fondente di Antonio.” risposi io strizzando l’occhio al gelataio e cercando di raccapezzarmi: perché Tobia Lazzari il Divino continuava a rivolgermi la parola? Non era normale, non rientrava nell’ordine naturale delle cose: sarebbe stato molto meglio se avesse smesso subito, anche perchè con la coda dell’occhio, avevo già notato Sara e Martina fuori dalla porta che si sgomitavano, espressioni allucinate e occhi a palla puntati su Tobia e me.
“Sei venuto in scooter?” domandai tanto per darmi un contegno.
Lo scooter era un argomento neutrale: ci era già successo di scambiarci qualche opinione in merito, in sostituzione del solito bollettino meteorologico o nautico.
“No, sono in macchina con Saverio” rispose lui accennando all’esterno con il capo “Mi era venuta improvvisamente voglia di gelato.”
Fece un ampio sorriso affascinante e il mio cuore perse una decina di colpi. La faccia di Antonio dietro il bancone era completamente esterrefatta e io rimasi immobile a guardare Tobia a bocca aperta: in quel momento non avrei saputo spiaccicare un monosillabo, figurarsi proseguire il discorso.
“E tu sei venuta a piedi?” domandò ancora Tobia con amabile cortesia.
“No, col motorino” risposi subito, distratta dai suoi occhi verdi ammiccanti “E ti prego, non far sapere a mia madre che ero senza casco.”
Come se esistesse un universo parallelo dove Tobia Lazzari e mia madre potessero parlare di me che giro in motorino senza casco: il senso di ridicolo della mia stessa frase mi fece arrossire d’imbarazzo e abbassare lo sguardo.
“Bè, ciao allora.” dissi in fretta girandogli le spalle e dirigendomi verso l’uscita dopo aver raccattato il resto dei cinque euro.
L’aria fresca della sera mi sfiorò le guance e mi accorsi che scottavano. In un lampo, Sara e Martina furono al mio fianco, frementi come anguille.
“Hai parlato con Tobia Lazzari?” domandò Sara con gli occhi così spalancati da sembrare quasi ridicola.
“Ci siamo solo salutati.” minimizzai io, concentrandomi sul mio gelato infastidita da tanto interessamento.
“Mi è sembrato interessato” ribadì Martina, enfatizzando le parole chiave come era solita fare quando era emozionata.
“Non credo.” risposi con un tono il più possibile definitivo.
Nel frattempo arrivò Rossella con un sorriso guardingo da pescecane.
“Hai parlato con Tobia Lazzari?” domandò con la voce dolce che riservava ai terzi grado più cruenti “Che ti ha detto?”
“Niente di importante” mi schermii di nuovo incassando involontariamente la testa nelle spalle “Mi ha salutato. Cos’è, ci vuole la carta da bollo adesso per salutare un Lazzari?”
“No, certo che no” rispose Sara in fretta “E’ che sembrava…”
“Interessato.” concluse Martina con aria cospiratrice.
In quel momento, Tobia uscì dalla gelateria con un pacchetto ben incartato in mano: sorrise al nostro indirizzo, senza però dire una parola o sollevare una mano e si avviò con passo elastico verso la lucida Maserati che lo aspettava in plateale divieto di sosta. Martina sospirò tipo enfisema polmonare mentre Sara squittì qualcosa che poteva essere un apprezzamento o un singulto agonizzante. Effettivamente, quel ragazzo era così bello e aggraziato che era impossibile non rimanerne affascinati. Filippo mi si avvicinò incuriosito.
“Hai parlato con Tobia Lazzari?” domandò quasi con riverenza e io mi decisi a irritarmi.
“Sì” risposi aggressiva “Abbiamo disquisito sulla dicotomia religiosa del bene e del male. Qualcosa in contrario?”
“Ah ah, che spiritosa!” sorrise Filippo, evidentemente in difficoltà sul concetto di dicotomia.
Mi azzardai a lanciare uno sguardo verso la Maserati; Tobia stava salendo in macchina, si accorse che lo guardavo e mi sorrise: alzò millimetricamente una mano e persino io riuscii a riconoscere un gesto di saluto. Mentre ricambiavo, completamente rintronata, Rossella trattenne a stento un suono soffocato, mentre Martina ridacchiava senza un solo motivo al mondo. Vidi Saverio, al posto di guida, sporgersi leggermente e per un attimo incrociai il suo sguardo corrucciato. Sembrava furioso: un brivido mi attraversò la schiena da parte a parte, come se mi avesse trafitto con una lancia. Tobia si girò a mormorargli qualcosa e Saverio, con la faccia di pietra, scandì con chiarezza la parola “No”. Senza quasi rendermene conto, arrossii violentemente proprio mentre la portiera si chiudeva seccamente e la macchina partiva con un’elegante sgommata. Noi sei ragazzi rimanemmo per un pezzo immobili, come se quella dannata Maserati ci avesse momentaneamente trasformati in pietra. Quando ci sbrinammo, mi accorsi che il mio gelato era quasi del tutto squagliato. E comunque, mi si era completamente chiuso lo stomaco: gettai il cono nel cestino, sperando che i miei amici e soprattutto Rossella non cominciassero a commentare l’accaduto. Quando mi girai verso di lei, vidi che l’emozione predominante era l’assoluta sorpresa.
“Interessato.” ripeté Martina, felice di aver trovato il termine che esprimeva al meglio i suoi pensieri solitamente confusi.
“Solo salutati, eh?” sbottò allora Rossella minacciosa: non potei far altro che stringermi nelle spalle impotente.
*    *       *
Il ritorno in motorino fu decisamente più lento dell’andata. Oltretutto Rossella si era chiusa in un ostinato mutismo e la sua schiena rigida non faceva presagire futuri ammorbidimenti fraterni. Mentre l’aria della sera, ormai decisamente freddina, mi accarezzava il viso scompigliandomi i capelli, riflettei su quanto era successo. Niente di che, agli occhi di un osservatore occasionale, ma per noi che conoscevamo la famiglia Lazzari da sempre, aveva dell’incredibile. Nessuno dei Lazzari aveva mai dimostrato anche solo un vaghissimo interesse per un abitante del posto. Nessuno. Mai. Erano sempre cortesi e distaccati, presenti in paese quel tanto che bastava per non essere tacciati di snobismo estremo, ma mai sufficientemente alla mano da essere simpatici alla gente. Erano troppo ricchi, troppo belli e troppo riservati per un centro piccolo e pettegolo come Cresta del Gallo. E io ero finita senza volere proprio in prima pagina del bollettino locale, pensai infastidita. Per un attimo detestai Tobia Lazzari per avermi trattata da essere umano. Poi ripensai ai suoi occhi verdi e amichevoli e il cuore ebbe un leggero fremito imbarazzato. Arrivate a casa, dopo aver recuperato la bicicletta esattamente dove l’avevamo lasciata, Rossella veleggiò in camera sua immersa in un oltraggiato silenzio. Ne fui sollevata: non avrei proprio saputo cosa rispondere a uno dei suoi soliti interrogatori. In fondo, Tobia e io ci eravamo davvero solo salutati: il resto, posto che esistesse un resto al di fuori della mia immaginazione, non poteva essere tradotto a parole. Gli altri erano già tutti a letto, così anche io salii in camera mia. La nonna mi aveva premurosamente preparato un catino in camera, visto che mi era toccato il famigerato bagno esterno, così mi lavai il viso lì dentro, proprio come un’eroina ottocentesca. Mi infilai il pigiama, mi pettinai a lungo i capelli e poi mi sedetti sul davanzale basso della finestra a osservare il cielo. A Cresta del Gallo la notte era bella come un sogno, forse perché le luci lontane intorno al lago sembravano un prolungamento del cielo stellato. Cercai di analizzare le sensazioni che avevano costellato la giornata e scoprii in fondo a tutte una vaga inquietudine. Arrivare a Cresta del Gallo mi aveva esaltata; rivedere nonna Rosa e la mia casa mi aveva resa felice; incontrare e parlare con Tobia Lazzari per due volte in un giorno mi aveva lusingato e infastidito insieme. Allora, perché l’inquietudine?
Era stato lo sguardo di Saverio Lazzari, realizzai all’improvviso. Nessuno mi aveva mai guardato con tanta palese ostilità. Cercai di mettere a fuoco il ricordo del suo viso, ma non ci riuscii. Rivedevo solo la sua espressione seria e corrucciata e i lampi irritati nei suoi occhi verdi, così simili a quelli di Tobia e nello stesso tempo così diversi. Mi chiesi per quale motivo ce l’avesse tanto con me: forse perché Tobia sembrava vagamente interessato? Forse non voleva che il fratello minore facesse amicizia con la plebaglia?
Decisi quasi con sollievo che mi era antipatico, anche se continuava a dispiacermi che si dimostrasse così ostile senza motivo. Vagando con lo sguardo, cercai nel buio la torretta di Villa Lazzari e la trovai come l’avevo sempre trovata in tanti anni di contemplazione, vagamente illuminata e distante anni luce. Chissà chi dormiva nella torretta: forse Tobia. Forse in quel momento mentre io osservavo lui, lui osservava me, seduto sul suo davanzale ad assaporare la notte come facevo io. Quel pensiero fu in grado di smuovermi in maniera molto poco cristiana: velocemente, chiusi i vetri come per tenere lontano certe sensazioni pericolose, saltai sul letto e mi ficcai sotto le coperte, avvolgendomi come in un bozzolo nell’odore familiare di lavanda e naftalina. Dormivo prima ancora di formulare un nuovo, imbarazzante pensiero.
*    *       * 
Il giorno dopo e quelli a venire, Rossella decise di mettere da parte l’ostilità per un fraterno e accorato interessamento. A dire il vero, non aveva dormito la notte per la curiosità di sapere cosa ci fossimo detti Tobia e io, e fosse stato per lei mi sarei cucita le labbra per l’eternità. Sfortuna volle che il nostro dialogo, parola per parola e sfumatura per sfumatura, fosse stato riportato al gazzettino locale dal gelataio Antonio, così il giorno dopo l’accaduto tutti sapevano tutto, compresa Rossella che si era magnanimamente offerta di andare a prendere il latte in paese alle sette di mattina. Anzi, alla fine ne sapeva più lei di me: fortunatamente, tutti quanti dovettero ammettere controvoglia che, a parte la perplessità sulla battuta della foresta di Sherwood, il dialogo era stato piuttosto innocente.
“Proprio non riesco a capire” sbuffò Rossella mentre io facevo ancora colazione col pane caldo e il latte da lei gentilmente fornito “Che ci avrà trovato Tobia in te per rivolgerti la parola?”
Mi squadrò a lungo, perplessa: delle due ero sempre stata la sorella “intelligente” mentre lei era quella “carina”. Eravamo alte uguali, entrambe slanciate e con capelli lunghi e mossi, di un deprimente color topo. Ma le somiglianze finivano lì: Rossella era più imbottita nelle parti giuste, i suoi capelli erano illuminati da méches dorate e le sue sopracciglia curate valorizzavano due begli occhi color muschio. Io ero molto più magra, i miei capelli avevano sempre un che di selvatico e le mie sopracciglia fin troppo folte erano spesso aggrottate su due comunissimi occhi marroni. Anche senza contare la cura del look, esteticamente ero decisamente meno interessante di Rossella, agli occhi di un maschio. Insomma, per farla breve la domanda di Rossella era la stessa che mi ponevo io. A pranzo Rossella tentò di coinvolgere mamma, papà e nonna Rosa con i suoi pettegolezzi, ma con mio enorme sollievo nessuno la filò.
“In fondo Tobia Lazzari ha solo salutato Lena” replicò mamma con voce neutra “Non mi sembra il caso di farci sopra dei film.”
“Ma mamma, non capisci?” squittì Rossella frustrata “Non è stato solo il saluto: è stato l’atteggiamento generale. Scommetto che è sceso apposta a prendere il gelato perché ha visto Lena in gelateria.”
“Che stupidaggini.” sbuffai io con convinzione, ma Rossella non aveva ancora finito.
“Sì, deve essere così” continuò infervorata “Infatti, Saverio non mi è sembrato affatto contento.”
Io appoggiai le posate nel piatto con un rumore secco.
“Adesso, basta, Ross” dissi con un tono di voce molto determinato “Hai decisamente sniffato troppa lacca. Piantala di ricamarci sopra. Mi ha. Solo. Salutato. Chiaro?”
Rossella serrò le labbra, ubbidendo di malumore e fortunatamente mi tenne il broncio per tutto il giorno. Quella sera scesi di nuovo in paese con mia sorella, pentendomi subito amaramente: fui bersagliata di domande e finii al centro dell’attenzione con mio enorme disappunto. Ovviamente, non potei dire niente di nuovo, così mi sorbii ore e ore di elucubrazioni sulla divina famiglia Lazzari da parte dei miei amici. La cosa mi disgustò così tanto che per i due giorni successivi snobbai il gelato serale e le insistenti richieste di Rossella perché andassi con lei in paese. Non le piaceva scendere in  paese da sola (non era fine, secondo il suo snobissimo parere); poi, mi assicurò che nessuno mi avrebbe prestato più attenzione per il Mirabolante Episodio del Saluto di un Lazzari al Pianeta Terra. Così, la terza sera tornai in gelateria e effettivamente notai con sollievo che le cose erano tornate normali. A dire il vero, un po’ c’ero rimasta male che si fosse tutto concluso in una bolla d’aria. Chissà perché, mi ero convinta che Tobia avrebbe trovato un motivo per incontrarmi di nuovo e invece passarono due giorni senza che da Villa Lazzari uscisse un solo divino capello degli abitanti. Il terzo giorno, Sabrina e io incrociammo Ruggero che scendeva verso il lago con l’attrezzatura da windsurf. Fu cortese e freddo come merluzzo surgelato: il suo commento sul cielo sereno fu brevissimo e i suoi saluti rapidi e indolori. Non capivo bene se fossi delusa o sollevata: forse entrambe le cose, cogitai quella sera seduta sul davanzale. Decisi che non era poi così importante: in fondo, Tobia era solo un ragazzo e io dovevo smetterla di sentirmi così…. interessata, per usare l’eufemismo di Martina. Anzi, magari quello era un segno: finalmente i miei ormoni si erano mossi e presto mi sarei presa una cotta. Una normalissima cotta estiva per un bravo ragazzo, magari un turista, magari uno studente spiantato come me, che non aveva Maserati lucenti ad aspettarlo né fratelli ostili alle calcagna.
Fui lì lì per sperarlo davvero.
*    *       *
Tutti i giorni andavo a prendere l’acqua alla fonte col mio bottiglione e nonna Rosa, sorpresa da tanto zelo, mi aveva regalato un cappello di paglia tutto mio. Era così grande e rotondo che sembrava un disco volante e io, appena girato l’angolo, me lo toglievo subito perchè speravo di abbronzarmi un po’. Avevo già assunto una leggera tonalità beige e speravo di arrivare a un ragionevole color teak entro settembre. Anche i capelli si erano schiariti leggermente. Guardandomi allo specchio mi trovavo quasi carina… la faccenda degli ormoni diventava ogni giorno più plausibile. Merito anche delle allusioni di Filippo, in gelateria: diventavano ogni sera più specifiche e imbarazzanti. I primi giorni, quando andavo alla fonte, avevo il cuore in gola per il pensiero di poter incontrare di nuovo Tobia. Man mano che il tempo passava, l’emozione scemava e la speranza di rivederlo si riduceva a zero. Ma non desistevo, più che altro perché avevo la nebulosa impressione che il mio viavai al limitare del loro territorio avrebbe infastidito i Lazzari, e la cosa solleticava la mia vena sadica. Anche quel giorno, mi incamminai lungo il sentiero fischiettando. Era una mattina frizzante e limpida, con un cielo azzurro terso che sembrava dipinto con l’acquerello. Avevo indossato un paio di calzoncini corti e un top senza maniche per concedermi un po’ di abbronzatura e avevo legato i capelli in due buffe trecce che dondolavano dietro la schiena. Mi sentivo molto bene, in pace col mondo e con me stessa e l’ultimo pensiero che avevo al mondo era Tobia Lazzari e la sua impareggiabile famiglia. Fu con autentica sorpresa che lo trovai alla fonte, seduto con circospezione sul bordo della vasca.
“Buongiorno.” mi salutò scattando educatamente in piedi e regalandomi un gioviale sorriso.  
“Ciao.” risposi arrossendo leggermente: la sorpresa mi aveva fatto partire in quarta il cuore e ci misi qualche secondo a raccapezzarmi.
Lui rimase in pedi a debita distanza: quel giorno indossava un paio di pantaloni di lino bianchi, un’ampia camicia di tela grezza e i capelli scuri e scompigliati catturavano alcuni raggi di sole rimandando riflessi mogano. Era bello come un Dio, pensai affascinata e vagamente vergognosa del mio aspetto da campagnola con le trecce e il cappello di paglia.
“Vedo che sei ancora di corvée ai lavori pesanti.” sorrise Tobia indicando il mio bottiglione.
“L’idratazione della famiglia dipende tutta da me.” commentai drammaticamente mentre mettevo il bottiglione sotto il getto di acqua fresca.
Ero felice e lusingata di rivedere Tobia. Era ovvio che non avesse nessun motivo al mondo per trovarsi lì tranne rivedere me. Ovvio? Meglio accertarsene.
“Sei venuto anche tu a prendere l’acqua?” domandai salottiera.
Tobia mi sembrò leggermente in imbarazzo: si mise le mani in tasca e fece un sorriso coraggioso.
“Bè, in effetti no” rispose con voce musicale “Speravo di rivedere te.”
Ops, che botta, pensai arrossendo immediatamente come un San Marzano da sugo. Se ci fosse stata Rossella probabilmente a quel punto sarebbe svenuta. In effetti, anche io ero lì lì per schiantare a terra dalla sorpresa.
“Ehm… bè, grazie, io… ehm…” balbettai, alla deriva.
Tobia sorrise sollevato: però nei suoi occhi non c’era malizia, solo un’espressione ansiosa e guardinga insieme, come lo sguardo di un cucciolo che non sa bene se scodinzolare o no.
“Mi sei sembrata simpatica e… rilassata” continuò Tobia tentennando sui termini “La maggior parte della gente qui ci tratta come se fossimo delle statue di cristallo. E si agita quando ci parla.”
Cosa che stava succedendo anche a me, per l’esattezza: cercai di mascherare l’emozione e mi sedetti sul bordo della vasca di mattoni.
“Devi ammettere che la tua famiglia mette soggezione” spiegai cercando di risultare il più possibile naturale “E poi non è che diate molta confidenza alla gente del posto.”
Tobia sembrò innervosito dal discorso e si affrettò a cambiarlo velocemente.
“Hai un modo di parlare molto strano per una ragazza della tua età” mi disse con voce vellutata “Parli lentamente e usi dei termini ricercati… si vede che sei una che legge molto.”
Quell’apprezzamento mi fece particolarmente piacere e mi irritò allo stesso tempo: in genere, per i maschi, una ragazza che legge troppo è sinonimo di noia mortale. Non volevo che Tobia pensasse questo di me.
“Pensare bene a quello che si dice e cercare le parole più corrette per esprimere un concetto non è sinonimo né di noia mortale né di reddito alto” risposi guardinga “Voi ragazzi fate sempre di tutta l’erba un fascio: conosco un sacco di ragazze intelligenti che sanno esprimersi con un italiano corretto e sono anche brillanti e simpatiche.”
Tobia sorrise di nuovo e di nuovo non potei fare a meno di pensare che era davvero bellissimo con quella pelle liscia e perfetta e quegli occhi di foresta.
“Guarda che il mio era un complimento” specificò con leggerezza “Anche a me piace molto leggere.”
“Davvero?” risposi rinfrancata “E cosa stai leggendo ultimamente?”
Tobia mi rispose in maniera dettagliata, citando qualche titolo che non avevo mai sentito e qualcun’altro che invece avevo letto anche io. Sembrava cauto e anche sottilmente imbarazzato; questo mi fece capire che parlare con una persona estranea era una cosa che non faceva spesso. Il bottiglione era abbondantemente pieno e dopo un po’ un campanello di allarme dentro la testa mi avvisò che era molto meglio non esagerare: avevo già incamerato abbastanza cose su cui pensare, sufficienti per tutto il mese. Mi caricai il bottiglione in braccio e prima ancora che Tobia potesse di nuovo offrire il suo aiuto feci un bel sorriso di circostanza.
“E’ stato un piacere rivederti” dissi in fretta avviandomi lungo il sentiero “Buona giornata.”
Tobia sembrò intristito, nonché vagamente scandalizzato: probabilmente non era abituato a essere congedato per primo e si stava chiedendo come mai non schiattassi ai suoi piedi come facevano tutte. Francamente me lo stavo chiedendo anche io.
“Magari ci si vede domani” disse titubante “Se non ti dispiace.”
Di nuovo il mio cuore fece un paio di avvitamenti fuori programma.
“Certo che non mi dispiace” risposi il più cordialmente possibile “A domani, allora.”
Lui mi sorrise e si allontanò nel bosco dalla parte opposta, con il suo passo elastico e elegante. Io rimasi ancora qualche secondo a metabolizzare l’accaduto prima di incamminarmi di buon passo verso casa.
*    *       *
Quella sera decisi di non andare in gelateria: tremavo al pensiero che Tobia ripetesse la performance del primo giorno e francamente non avevo nessuna voglia di subire di nuovo tutti quegli interrogatori imbarazzanti. Accampai un leggero mal di testa, cosa che mi risultò utile per spiegare anche lo scarso appetito, e mi chiusi in camera per sedermi sul mio fido davanzale. Non era ancora buio e il profilo della torretta di Villa Lazzari si stagliava contro il cielo indaco, ancora più lontana e misteriosa del solito. Stavo cercando di capire come prendere l’interessamento di Tobia. Da una parte ero lusingata, è ovvio, ma d’altro canto mi innervosiva pensare che, prima o poi, sarei stata al centro dell’attenzione. Ne valeva la pena? In definitiva, Tobia mi piaceva? Ecco la domanda chiave.
Ancora non lo sapevo. Certo, lui era bellissimo e affascinante e cercava persino di essere simpatico… Decisi di non volerlo sapere subito. Magari saremmo diventati amici o magari l’indomani Tobia non si sarebbe nemmeno presentato. In ogni caso, non era il caso di ricamarci troppo sopra: non volevo farmi contagiare dalle fantasie snobistiche di Rossella.
“E’ solo un ragazzo.” mi convinsi tra me e me.
Guardai fuori: la torretta si era illuminata, come se avesse voluto smentire le mie parole.

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Capitolo 4
*** Caput IIIum ***


Quid dulcius quam habere, quicum omnia audeas sic loqui ut tecum?
(Cicerone, De Amicitia)

 
Il giorno dopo fui lì lì per non andare a prendere l’acqua alla fonte e delegare l’ingrato compito a una delle mie sorelle. Nonostante le velleità ribelli, fondamentalmente ero una codarda, pigra e tendenzialmente schiva: il pensiero di rischiare sul serio di essere l’oggetto delle attenzioni di qualcuno mi metteva a disagio. Non che Tobia si fosse comportato in modo strano, almeno, non se paragonato a un ragazzo qualunque. Ma i Lazzari non erano ragazzi qualunque, e io non dovevo dimenticarlo. Comunque alla fine decisi di andare: la decisione definitiva la presi quando mi immaginai Sabrina o Rossella intente a riempire il bottiglione che si trovavano davanti Tobia, il quale magari chiedeva educatamente “Lena dov’è?”
Da brivido.
Dopo colazione pensai anche a cosa indossare, ma dopo un quarto d’ora inconcludente davanti all’armadio decisi di infilarmi gli stessi vestiti del giorno prima: una sorta di infantile ripicca nei confronti dell’ignaro signor Lazzari dalle camicie miliardarie. Mentre camminavo sul sentiero mi sforzavo di fischiettare anche se le mani sudavano copiosamente: non mi piaceva essere così agitata, anche perché non capivo se lo ero per proforma o per vero interessamento. Se non fosse stato un Lazzari, Tobia mi avrebbe fatto comunque tutto quell’effetto? Ero quasi certa di no e intuire questo mi dava sui nervi. Se avessi ricambiato l’interesse di Tobia solo per curiosità mi sarei sentita come una sorta di Rossella di seconda mano… Lo ero? Sperai vivamente di no. Ero così concentrata nel pensiero di chi stavo per incontrare che camminavo più velocemente e distrattamente del solito e, arrivata alla fonte, quasi sbattei contro un’alta figura vestita di bianco che sostava al limitare del sentiero.
“Scusa!” risi alzando imbarazzata la testa.
Mi aspettavo di trovare Tobia e il suo sorriso gentile, e invece incontrai un sguardo violento come uno schiaffo improvviso; uno sguardo verde, severo e arrabbiato incastonato nel viso arrogante e fiero di Saverio Lazzari. Il primo istinto fu di arretrare, ma non ci riuscii. Rimasi immobile come se Saverio mi avesse trasformata in una statua di sale, con lo sguardo levato verso il suo bel viso e il bottiglione stretto tra le braccia come un patetico scudo protettivo. Non avevo mai visto un Lazzari così da vicino: anzi, a dirla tutta, non avevo mai visto nessun ragazzo così da vicino. Non ero preparata a recepire con tanta intensità la vicinanza di qualcuno e la presenza di Saverio mi travolse lasciandomi senza fiato. Il suo viso perfetto risaltava ai miei occhi con una definizione quasi irreale, tanto era vicino; avrei potuto sfiorargli la camicia se solo mi fossi sporta di un millimetro e potevo sentire il suo odore. Era buono: un misto di costoso sapone, muschio e pergamena. Ne rimasi avvolta e affascinata molto più di quanto avrei mai osato pensare; prosciugò la capacità di allontanarmi e rimasi catturata da quello sguardo furioso come una lepre dai fari dell’auto che la sta per investire. Non ho idea di quanto tempo rimanemmo così, a guardarci in faccia innaturalmente immobili: poco, probabilmente, perché non ebbi nemmeno il tempo di formulare un pensiero coerente che già un rumore aveva distratto l’attenzione di Saverio, facendogli distogliere gli occhi dai miei e permettendomi di allontanarmi di un passo.
“Lena!” mi chiamò Tobia sbucando da un cespuglio: sorrideva sereno e rilassato,ma poi girò lo sguardo e vide Saverio in pedi accanto a me; di colpo il suo sorriso si spense come se avesse girato un interruttore.
“Saverio” disse piano in tono monocorde: non sembrava sorpreso, ma solo scocciato “Che ci fai qui?”
Sbirciai Saverio, ora che era a distanza di sicurezza: era evidentemente arrabbiato anche se cercava di contenersi dietro a una facciata altezzosa.
“Che ci fai tu qui, Tobia” rispose seccamente “Non avevamo detto che dovevi andare alla barca?”
Non avevo avuto molte occasioni di analizzare la voce di Saverio e mi accorsi che era molto diversa da quella di Tobia: più profonda, quasi più matura anche se a occhio e croce non doveva essere molta differenza d’età tra i due fratelli.
“Non precisamente” rispose Tobia, piuttosto freddamente “Tu avevi detto che dovevo andare alla barca.”
Anche fisicamente Saverio e Tobia erano diversi: avrei detto il contrario, e invece confrontando i due fratelli da vicino, Tobia risultava leggermente più basso e più solido, contrariamente a tutte le previsioni. Saverio era più alto e più aggraziato, anche se in quel momento evidentemente furibondo.
“Sì, l’avevo detto” commentò Saverio vagamente minaccioso “E mi aspettavo anche che tu andassi.”
“Dopo vado” rispose Tobia alzando leggermente il mento con aria di sfida “Volevo prima salutare Lena.”
Entrambi girarono lo sguardo su di me che dovetti fare appello a tutto il mio coraggio per non mollare per terra il bottiglione e scappare via a gambe levate. Arrossii con forza mentre incrociavo di nuovo lo sguardo di Saverio: sembrava che mi passasse da parte a parte, come se fossi fatta di burro e lui di acciaio rovente.
“Salutala, allora.” ordinò lui tornando a guardare il fratello con aria ostile.
“Certo” rispose Tobia, che sembrava recuperare coraggio ogni secondo che passava “Tu vai pure, ti raggiungo.”
Lo sguardo di Saverio lampeggiò oltraggiato.
“Sei uno stupido” ringhiò sottovoce, mollando definitivamente l’aplomb aristocratico per diventare evidentemente minaccioso “Ci metterai tutti nei guai.”
“No, con lei no.” rispose Tobia immediatamente, persuasivo.
Mi sembrava di assistere a un film surreale: non capivo le frasi criptiche che si erano detti i due fratelli, l’unica cosa che avevo intuito era che stavano litigando e che Saverio ce l’aveva con me. A riprova di ciò, si girò a lanciarmi un ultimo sguardo furioso, poi marciò via, leggero e aggraziato, senza quasi muovere le foglie.
Ci misi un po’ a ritornare alla realtà: un senso di oppressione al petto mi fece capire che stavo trattenendo il fiato da quando mi ero quasi scontrata con Saverio, allora respirai a fondo col cuore che batteva pesante e sordo come un contrabbasso. Tobia, con rapidità sorprendente, era ritornato allegro e solare come se non fosse successo niente.
“Allora, come sta la portatrice sana di acqua?” domandò gioviale sedendosi sul bordo della vasca.
“Bene” risposi con forzata gaiezza facendo appello a tutto il mio sangue freddo “E tu?”
“Qualche battibecco in famiglia” minimizzò con un sorriso “Cose che succedono.”
Misi il bottiglione sotto alla fonte e mi accorsi che mi tremavano le mani.
“Simpatico tuo fratello Saverio” commentai con la voce più neutra possibile “Così affabile e sorridente. Un vero gentleman.”
Tobia colse la pesante ironia della mia frase e sorrise malizioso.
“Non è sempre così orso” si scusò sogghignando “Anzi, di solito è molto diverso. Oggi è un po’… preoccupato.”
Guardò lontano con sguardo remoto e io non riuscii a trattenermi.
“Lo preoccupa che io parli con te?” domandai cercando di mantenere il tono di voce colloquiale.
Tobia spostò lo sguardo su di me: non sorrideva più, anche se i suoi occhi erano di nuovo dolci e malinconici come il giorno prima.
“No” sospirò quasi soprappensiero “Lo preoccupa che io parli con te.”
Proprio non capivo dove fosse la differenza, ma la faccia quasi triste di Tobia mi fece chiaramente capire che la differenza probabilmente era proprio tutta lì.
Cambiando discorso con forzata leggerezza, Tobia mi disse che dopo pranzo avrebbe fatto sci nautico e mi chiese se ero intenzionata a scendere al lago, quel pomeriggio: risposi di no per due motivi, il primo era che avevo già deciso di rimanere spaparanzata sul prato antistante casa a leggere, il secondo, appena coniato, era che per quel giorno di Lazzari ne avevo già avuto abbastanza. Naturalmente, mi limitai a esporgli il motivo del libro, ma lui sembrò intuire lo stesso anche l’altro. Sembrò ancora più triste e anche vagamente arrabbiato.
“Devo andare” mi affrettai a dire quando il bottiglione fu finalmente pieno “Ci vediamo domani?”
Almeno questo glielo dovevo. Il sorriso ritornò sul suo viso, repentino e scintillante.
“Certo.” rispose di nuovo affabile e mi salutò con la mano mentre io mi allontanavo lungo il sentiero.
*    *       *
Più ci pensavo e più ero sicura di dovermi offendere a morte per il comportamento villano di Saverio Lazzari, eppure non riuscivo a fare altro che dispiacermi. Non mi ero mai ritenuta particolarmente permalosa e in genere non suscitavo simpatia immediata nelle persone, ma di certo nessuno mi aveva mai trattata con tanta sfacciata scortesia. E poi, quegli incomprensibili discorsi a pera… cosa aveva voluto dire? C’era sempre di mezzo la storia della plebaglia? Comunque, che fosse puzza sotto il naso o autentica antipatia, il suo comportamento mi aveva toccato molto. Decisi, nella remota ipotesi che il principino si decidesse a rivolgermi magnanimamente la parola, che lo avrei ripagato con la stessa moneta.
Ero così di cattivo umore che la sera mi lasciai convincere da Rossella a scendere in paese. Fu un errore: appena arrivata avevo già voglia di tornare a casa. I ragazzi mi accolsero entusiasti come al solito ma io non riuscii a rilassarmi, seduta rigida sulla panchina con la faccia corrucciata. Pensavo con ansia a cosa avrei fatto se fosse arrivato Tobia a salutarmi cordialmente in mezzo a tutti quanti… o, peggio ancora, se fosse arrivato Saverio a strapazzarmi di nuovo con quegli occhi di brace. Pensieri oziosi, dopotutto, perché fondamentalmente ero certa che nessuno di loro si sarebbe presentato di nuovo in gelateria… non era uno dei luoghi dove abitualmente bazzicavano gli augusti Lazzari. Rimasi quindi completamente di stucco quando vidi la Maserati lucida parcheggiare bellamente in seconda fila davanti alla gelateria.
“Vado in bagno.” mormorai con voce strozzata prima ancora che gli altri si accorgessero dell’automobile.
Più velocemente che potei, mi fiondai dentro la gelateria, decisa a infilarmi in bagno per uscirne approssimativamente dopo un millennio. Sfortunatamente però il bagno era già occupato.
“Una turista tedesca” mi spiegò Antonio quando gli rivolsi uno sguardo angosciato “Mi sa che ne ha per un po’.”
Rimasi radicata davanti alla porta, maledicendo gli antidiluviani bagni unisex del locale mentre alle mie spalle la porta a vetri si apriva e una voce ben nota trasudante cortesia articolava una frase.
“Un chilo di gelato da portar via, grazie.”
Saverio Lazzari.
Maledizione. Oltre alla voce riconobbi immediatamente anche l’odore sottile che mi arrivò alle narici sulla scia dei suoi passi. Ci mancava solo la persecuzione olfattiva, mi lamentai allarmata; Saverio era proprio l’ultima persona che speravo di vedere quella sera! Rimasi ostinatamente girata verso il bagno come se dovessi pregare contro il muro del pianto, sentendo Antonio che si affrettava a preparare l’ordinazione. Un sospetto formicolio alla base della nuca mi avvisò che lo sguardo di Saverio si era posato su di me e, se possibile, mi irrigidii ancora di più. Passarono dieci secondi durante i quali i muscoli cominciarono a dolermi per la rigida immobilità a cui li avevo costretti, ma non mi mossi di un millimetro per paura di scatenare le ire funeste del principino Saverio-PuzzaSottoIlNaso-Lazzari. Dietro le mie spalle, sentivo i fruscii di Antonio che riempiva con zelo la vaschetta di gelato. Non sentii Saverio muoversi: per poco non strillai di paura quando me lo ritrovai di fianco, lo sguardo puntato dritto sul mio viso con una strana espressione determinata sulla sua bella faccia patrizia. Era di nuovo troppo vicino, il suo braccio quasi toccava il mio. E il suo odore era buonissimo, insolente e penetrante proprio come il proprietario. Maledizione.
Gli lanciai un’occhiata di striscio deglutendo a secco un paio di volte mentre i muscoli delle gambe si trasformavano in blocchi di pietra lavica bollente. Dalla sua aria minacciosa mi aspettavo quasi che mi sibilasse all’orecchio una minaccia cinematografica, tipo “Stai lontana da noi, sporca mezzosangue” oppure “Ti ucciderò se tornerai a parlare con mio fratello”: di nuovo fui invasa dalla sorpresa quando invece sentii la sua voce cortese e normalissima.
“Ciao.”
Nemmeno girai la faccia nella sua direzione: sapevo di essere arrossita e poi la sorpresa mi aveva davvero paralizzato.
“Ciao.” risposi senza quasi muovere le labbra: dietro le mie spalle, i fruscii di Antonio continuavano imperterriti e io sperai vivamente che non stesse origliando.
“Bella porta.” commentò Saverio con un vago sottofondo divertito nella voce quando si accorse che non avrei schiodato gli occhi dal bagno.
“E’ occupato.” risposi con un ringhio molto poco amichevole.
“Capisco.” mormorò lui molto serio: gli lanciai un’altra occhiata e mi accorsi che era ancora divertito.
“Scusami se oggi sono stato antipatico” mormorò in fretta subito dopo con voce bassissima e di nuovo seria “Tobia mi ha detto che ci sei rimasta male.”
Io arrossii furiosamente, primo perché le parole contrite di Saverio sembravano anche vagamente sarcastiche e secondo perché Tobia aveva parlato di me a Saverio. Chissà come quel damerino spocchioso aveva tentato di demolirmi agli occhi del fratello, meditai aggressiva e vergognosa allo stesso tempo.
“Non fa niente” risposi in fretta ma sottovoce in modo che Antonio non sentisse “Sono abituata a trattare con i cafoni; a Milano si sprecano.”
Era una frecciata pesante e mi aspettavo come minimo un’espressione oltraggiata o un commento sferzante: quando sbirciai e vidi sul viso di Saverio nient’altro che un sogghigno divertito, ci rimasi quasi male dalla sorpresa.
“E va bene” sospirò lui cercando di tornare serio “Me lo sono meritato. Però avevo i miei motivi e tu… è meglio che tu e Tobia non vi frequentiate.”
Non era proprio “Ti ucciderò se tornerai a parlare con mio fratello”, ma il succo era quello. Misericordiosamente, in mezzo a tutta quella confusione che mi bloccava le meningi, sentii la rabbia montarmi dentro come un air bag: così il principino pensava che non fossi abbastanza nobile per frequentare il suo degnissimo fratello?
“Non sapevo che per scambiare qualche parola con voi fosse necessario un pedigree.” sibilai furiosa contenendo però il tono sempre ad uso e consumo di Antonio.
“Pedigree?” domandò Saverio: sembrava stupito. Gli lanciai un’occhiata il più possibile altezzosa, tenendo conto del fatto che lui era due spanne più alto di me e bello come una statua di Apollo mentre io ero inchiodata davanti alla porta di un bagno unisex.
“Non ho intenzione di inquinare la divina atmosfera di Villa Lazzari con la mia presenza, se è di questo che hai paura” aggiunsi in fretta prima che mi mancasse il coraggio  “Ma la fonte è ancora sul terreno della famiglia Mercati e lì siete voi a essere ospiti, non io.”
A dire il vero, non ne sapevo molto di confini di proprietà, ma confidavo nel fatto che nessuno sarebbe mai andato a indagare. Saverio tacque, blandamente sorpreso e irritato.
“Guarda che non è come pensi.” borbottò sulla difensiva.
“Oh, certo” risposi sperando di risultare sufficientemente offesa “Ha parlato il socio onorario tesserato Ku Klux Clan. Razzista del cavolo!”
Questa mi era proprio scappata di bocca: prima che mi venisse in mente di profondermi in scuse, girai i tacchi e uscii dalla gelateria, lanciando un breve saluto ad Antonio.
“Puoi provare al bagno pubblico in piazza Dante!” mi ululò dietro il gelataio, evidentemente convinto che la mia fuga fosse da attribuire a imbarazzanti movimenti intestinali. Effettivamente, d’un tratto mi faceva male la pancia e l’unica cosa che volevo era tornare subito nel rassicurante nido di casa mia.
“Che succede?” mi domandò Rossella avvicinandosi allarmata: era in piena fase rimorchio con Marco il figlio del macellaio e si sarebbe parecchio arrabbiata se le avessi detto che volevo andare via. E poi, non volevo far capire a Saverio quanto mi avesse sconvolto parlare con lui: fuggire via come una lepre non era di sicuro l’atteggiamento più adatto alla situazione.
“Niente” risposi quindi cercando di sembrare naturale “Il bagno è occupato.”
Mi sedetti sulla panchina cercando di mimetizzarmi tra Martina e Filippo.
“E’ entrato Saverio Lazzari” mi informò Martina eccitata “L’hai visto?”
“Sì.” borbottai avvicinandomi a Filippo a braccia incrociate: la mia intenzione era nascondermi meglio ma lui evidentemente capì tutta un’altra cosa.
“Hai freddo?” domandò premuroso mettendomi un braccio intorno alle spalle: se l’avessi scostato come volevo avrei attirato ancora di più l’attenzione, così rimasi lì, rigida e infuriata mentre Saverio Lazzari usciva con passo armonioso dalla gelateria senza nemmeno degnarci di uno sguardo.
“Accidenti, s’è bello.” mormorò Martina esprimendo anche il mio inconscio, riluttante pensiero. Sara sospirò e Marco fece una pernacchia, scatenando l’ilarità generale.
“Strano, però” tubò Rossella lanciandomi un rapido sguardo in tralice “I Lazzari si sono fatti vedere in gelateria due volte in due settimane… un vero record!”
“Si vede che amano il gelato.” meditò Sara rapita.
Rossella mi guardava ancora: sostenni il suo sguardo senza battere ciglio.
“Già, sarà proprio così.” risposi, sperando remotamente che tutto quel gelato andasse di traverso se non a tutti, almeno a un componente della famiglia Lazzari.    
*    *       *
Il giorno dopo, mentre andavo alla fonte col mio inseparabile bottiglione, decisi di fare un’analisi fine e dettagliata di quello che stava accadendo (evitando di ricordare a me stessa che non avevo fatto altro durante tutta la notte precedente…). A conti fatti, le cose da prendere in considerazioni non sembravano gravi, ma sommate insieme stavano assumendo contorni inquietanti; primo, Tobia Lazzari sembrava interessato a stringere amicizia con me (amicizia sulla natura della quale era molto meglio non indagare) e già questo di per sé era molto inquietante, vista la consueta riservatezza della famiglia; secondo fatto da considerare, il suo degnissimo  fratello Saverio non era d’accordo, probabilmente per aristocratici motivi di rango; terzo, il suddetto fratello era anche un prepotente, maleducato, insolente snob; quarto, sempre il nobile fratello antipatico era il possessore di un profumo irresistibile in maniera davvero irritante; quinto, l’intera famiglia sembrava aver sviluppato una repentina dipendenza da gelato.
Risultato dell’analisi fine e dettagliata: stavo pensando decisamente troppo ai Lazzari. Che mi stessero contagiando le manie snobistiche di Rossella? Mia sorella, a dire il vero, sembrava molto interessata a concludere alla svelta il love affaire con Marco e questo era piuttosto irritante per la sottoscritta, poiché a seguito di Marco c’era sempre il fratello Filippo. Non che mi fosse antipatico, intendiamoci: era un ragazzo simpatico, socievole, un po’ petulante e rumoroso per i miei gusti, ma a posto. Ed era anche carino: Martina e Sara si contendevano sempre la sua attenzione e lui sembrava gradire parecchio l’interessamento. Forse, rimuginai scoraggiata, avrei dovuto lasciar perdere i miei pomeriggi solitari nel bosco a leggere e sognare a occhi aperti e cominciare a condividere un po’ di più le attività vacanziere di Rossella. Se avessi avuto un minimo di sale in zucca avrei smesso di incontrare di nascosto Tobia Lazzari alla fonte, anche se erano incontri innocenti e molto brevi; avrei dovuto smettere di ostinarmi a pensare ai Lazzari e alla loro snervante spocchia; avrei dovuto cercare di conoscere meglio Filippo per sentire se il suo odore era buono come quello di Saverio Lazzari… non che credessi davvero che fosse possibile, però almeno avrei potuto tentare.
Ma non mi andava, ammisi quando ormai ero in vista della fonte. Tobia era già là che mi aspettava e aveva tra le mani un libro.
“Ciao.” mi salutò con il suo bel sorriso allegro.
“Ciao” gli risposi gioviale posando subito il bottiglione sotto l’acqua “Ti sei portato qualcosa da leggere oggi?”
“Per ingannare l’attesa.” rispose con dolcezza velatamente allusiva.
Arrossii, già in imbarazzo.
“Ieri sera ho visto tuo fratello in gelateria.” mi affrettai a dire per riportare il discorso verso terreni più sicuri.
Tobia smise di sorridere, vagamente irritato e preoccupato.
“Oh” disse con voce controllata “Ti ha detto qualcosa?”
Valutai per bene la possibilità di dirgli la verità, ma non volevo diventare la causa scatenante di un nuovo litigio fraterno.
“No” risposi con leggerezza “L’ho appena incrociato. Stava aspettando che si liberasse il bagno.”
L’ultima era una frecciatina, speravo che Tobia la riferisse all’insigne fratello. Lui mi guardò a lungo in viso con espressione seria.
“Saverio non ti piace, vero?” domandò lentamente.
Era troppo serio per potergli dare una risposta leggera: e comunque, mi sorpresi a pensare che se avessi risposto affermativamente avrei detto una mezza bugia.
“Mi irrita a morte” ammisi sinceramente “E lo trovo tremendamente snob e arrogante.”
Ma adoro il suo profumo, pensai tra me e me e arrossii furiosamente.
“Che differenza di età c’è tra voi fratelli?” domandai in fretta sempre in tono salottiero.
“Saverio ha diciannove anni e io diciassette.” rispose prontamente Tobia come se esponesse una lezione imparata a scuola.
“E tuo padre?” domandai noncurante.
Tobia non rispose subito e sembrò di colpo troppo allarmato.
“Bè, ecco…” balbettò “Così, su due piedi…”
Io scoppiai a ridere gaiamente.
“Che faccia!” lo canzonai “Non ti preoccupare, nemmeno io mi ricordo mai quanti anni hanno i miei genitori. E scommetto che a loro va molto meglio così.”
“Già” rispose sollevato e di nuovo sorridente “Troppi compleanni, poi si perde il conto.”
“Il tuo compleanno quand’è?” gli chiesi e di nuovo lui sembrò in difficoltà.
“In agosto.” borbottò ma sembrava restio a parlarne: ecco perché decisi di indagare.
“Ah, agosto” commentai guardandolo fissamente negli occhi “Di solito festeggi?”
Ora era decisamente teso: proprio non ne capivo il motivo.
“Bè, sì.” rispose evasivo e spostò lo sguardo con insistenza sul bottiglione pieno.
Capii al volo che era meglio concludere l’argomento: presi il bottiglione in braccio e feci per salutare quando Tobia buttò fuori una domanda a bruciapelo.
“Saverio non ti ha detto qualcosa di strano ieri sera, vero?”
Lo guardai a lungo, sorpresa dal suo palese nervosismo.
“No” risposi alla fine con un sospiro “Te l’ho detto, ci siamo appena incrociati.”
“Oh, bene.”
In un attimo era di nuovo allegro e sorridente.
“Ci vediamo domani, allora?”
Aspettava la mia risposta e sembrava vagamente ansioso: interessato, mi rimbombò nelle orecchie la voce di Martina. 
“Ma certo.” risposi gioviale.
Lo salutai con la mano e mi allontanai in fretta: continuavo a ripetermi che i nostri brevissimi incontri erano innocenti e che non c’era niente di male a scambiare due parole con il proprio vicino di casa, eppure mi sentivo lo stesso inquieta e confusa. Il comportamento di Tobia e Saverio era strano persino per me che nelle stranezze ci sguazzavo.
Eppure, nonostante la ragione mi suggerisse di scappare via il più velocemente possibile dai Lazzari e dai loro nebulosi misteri, non avevo nessuna voglia di lasciar perdere.

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Capitolo 5
*** Caput IVum ***


Nihil inimicus quam sibi ipse
(Cicerone)

L’estate era arrivata di gran carriera con scoppiettanti giornate piene di sole e notti placide e serene. La vita a Cresta del Gallo aveva preso binari quasi normali tra litigi fraterni, gite giornaliere al lago, serate in gelateria… e chiacchierate di nascosto alla fonte con Tobia Lazzari. Con enorme sollievo, mi ero accorta che la mia naturale riservatezza non gli dispiaceva, anzi sembrava contento di condividere “il nostro piccolo segreto idrico”, come l’aveva ironicamente battezzato. Non che quei brevi incontri giornalieri alla fonte fossero veramente eccitanti: io e Tobia chiacchieravamo semplicemente del più e del meno, scambiandoci opinioni sui più svariati argomenti. La sua cultura in ogni campo era di una vastità impressionante: non c’era libro che gli citassi che non avesse già letto, non c’era argomento che non sapesse affrontare con perfetta cognizione di causa… in più occasioni sfoggiò addirittura qualche frase in latino e greco dimostrando di conoscerli alla perfezione, senza contare altre lingue straniere che ogni tanto usava con la stessa indifferente familiarità dell’italiano.
“Quella scuola svizzera per ricconi che frequenti deve essere davvero buona.” gli dissi un giorno con aria vagamente invidiosa: in verità, non avevo mai incontrato un coetaneo istruito come lui e della mia cultura superiore mi ero sempre fatta un vanto segreto.
Tobia si strinse nelle spalle con un sorriso quasi triste.
“Davvero buona e davvero noiosa” sospirò “Dopo un po’, sembra che non ci sia più niente da imparare.”
“Hai un ventaglio infinito di possibilità” gli dissi con sincera ammirazione “Cosa hai deciso di fare dopo la scuola?”
Tobia si guardò le mani pensieroso ancora avvolto da quell’aura di tristezza.
“Chi lo sa” mormorò lanciandomi un breve sguardo cauto “Francamente, Lena, sarebbe meglio che non mi facessi queste domande. Mi deprimono.”
Chissà perché le sue parole mi irritarono.
“Ci sono tanti ragazzi che si deprimono per i motivi opposti ai tuoi” sbottai acida “C’è gente che sogna di poter fare certe cose ma non ne ha i mezzi.”
Tobia non se la prese: mi sorrise gentile e comprensivo.
“Tu sei una di queste?” mi chiese incuriosito.
Tentennai sulla risposta: non mi andava molto di svelare i miei segreti.
“Bè, sì” risposi riluttante “La mia famiglia campa con lo stipendio da insegnante dei miei genitori e con tre figlie a carico non è una passeggiata. Oltretutto, il ramo che vorrei seguire io è parecchio dispendioso.”
“E che ramo sarebbe?” domandò Tobia.
“Ricerca” risposi infervorandomi mio malgrado “Chimica e biologia sono le mie materie preferite, ma anche fisica nucleare è affascinante… il mio sogno è di arrivare al Cern di Ginevra.”
Arrossii vistosamente: non avevo mai confessato a nessuno le mie ambizioni che alla fine, in confronto con le infinite possibilità di Tobia Lazzari, sembravano quasi modeste. Tobia mi guardava attentamente in viso con una strana espressione negli occhi.
“Sembri così… entusiasta.” mormorò sottovoce.
“Lo sono” ammisi con una punta di vergogna “Che diavolo di sogni sarebbero se non fossero entusiasmanti?”
Tobia non sorrise: aveva di nuovo quell’ombra malinconica che gli oscurava il viso.
“Io non ho più sogni entusiasmanti” scandì con precisione “Invidio molto i tuoi.”
La sua affermazione mi fece ridere ma mi irritò anche.
“Oh, già” lo canzonai semiseria “Il povero bambino ricco che non trova più gli stimoli giusti perché ha già tutto. Che noia, che tedio la vita di voi divini! Scommetto che stai per piangere: vuoi dei Kleenex o ti soffi il naso nelle banconote da cento Euro?”
Tobia nascose un sorriso dietro a un finto sguardo addolorato.
“Tu mi ferisci.” si lamentò mentre io recuperavo il mio bottiglione d’acqua.
“Per così poco” lo canzonai “Domani porto il cilicio chiodato, così vedi cosa vuol dire essere davvero feriti.”
Il sorriso di Tobia si smorzò appena.
“Domani non ci sarò” dichiarò con voce neutrale “Vado con Ruggero a fare un giro in barca a vela.”
Non mi sfuggì il fatto che chiamasse suo padre per nome: noblesse oblige?
“Che sfortuna” sogghignai velenosa “I tediosi privilegi del povero bambino ricco.”
“Ne farei volentieri a meno” si imbronciò Tobia “Mi dispiace rinunciare al nostro appuntamento. Parlare con te è molto più divertente della barca a vela.”
Fece una smorfia simpatica mentre io affogavo nell’imbarazzo.
“Io invece andrò a fare un giro sul lago col materassino vinto coi punti del supermercato” mi affrettai a dire per cambiare atmosfera “Non so se hai presente il supermercato… quell’esercizio di vendita al dettaglio operante nel campo alimentare dove noi poveri villici procacciamo il nutrimento…”
“Mi sembra di averne visto qualcuno, sì” sorrise Tobia di nuovo di buonumore “Ovviamente, solo dall’esterno.”
“Ovviamente” approvai avviandomi per tornare a casa “Buona vela allora domani.”
“E tu buon materassino” rispose Tobia “Però attenta ai pescecani.”
Chissà perché, sull’ultima frase sembrava molto serio.
*    *       *
Il mattino dopo il cielo era plumbeo, pieno di nuvole grasse e minacciose. Avevo già scartato la possibilità di scendere al lago quel pomeriggio per due ottimi motivi: primo, il tempo che prometteva temporali; il secondo per colpa di Filippo. Da giorni il mio amico sembrava intenzionato a “portare la nostra amicizia a un altro livello”, secondo l’entusiastico parere di Rossella. Lei e Marco sembravano prossimi alla dirittura d’arrivo, anche se erano ancora alle prese con una schermaglia relativamente banale, e probabilmente la solleticava l’idea di uscire a quattro, noi due sorelle e i due fratelli. Ovviamente, tr ame e Filippo non c’era storia, ma molto egoisticamente mi dispiaceva tagliare subito le gambe ai voli pindarici di Rossella perché avrei dovuto darle delle spiegazioni. Per liquidare mia sorella, un semplice “non è il mio tipo” non era sufficiente: mi avrebbe tormentato finché non le avessi parlato di Tobia, e io non volevo assolutamente rendere pubblica la nostra amicizia. Posto che fossimo amici: ancora non lo avevo capito bene. Tobia mi era simpatico ed era sicuramente un interlocutore vivace e attento, nonostante le zone d’ombra e la titubanza ad affrontare certi discorsi a mio parere assolutamente innocenti. Sembrava anche trarre piacere dalla mia compagnia e spesso faceva velate allusioni a questo fatto, ma mai una volta aveva accennato un benché minimo avvicinamento “fisico”. La cosa, al momento, mi andava più che bene, anche se sconcertava e mortificava un po’ il mio ego. D’altra parte, non avevo ancora capito se volevo piacergli davvero o no: ero lusingata dalle sue attenzioni, come da quelle di Filippo, ma sospettavo fosse più per un’egoistica questione di autostima che per vera attrazione fisica.
Comunque, visto che quel giorno non avrei incontrato Tobia alla fonte, non persi nemmeno tempo a curare il mio aspetto: mi avviai per il sentiero con i capelli legati a coda di cavallo, una maglietta residuato bellico della Rinascente, pantaloncini gialli da giardino d’infanzia e ciabatte infradito. Quando arrivai alla fonte e misi il bottiglione sotto la fonte, analizzai il riflesso della mia immagine sullo specchio d’acqua della vasca.
“Che orrore” gorgogliai facendomi le boccacce “Sembro il mostro della laguna.”
“Personalmente ho visto anche di peggio.” disse forte e chiara una voce dietro le mie spalle, facendomi quasi finire dentro la vasca con un penoso sobbalzo.
Mi girai di scatto, la mano sul petto a fermare il cuore come un’eroina vittoriana: Saverio Lazzari se ne stava comodamente appoggiato a un folto larice, impeccabilmente vestito di bianco come un guru indiano, arrogante e altezzoso ma anche vagamente divertito. La sorpresa improvvisa mi aveva fatto saltare il cuore in gola e le parole mi uscirono di bocca prima che potessi controllarle.
“Che ci fai qui?” chiesi con voce sferzante alzando il mento per aria: quando vedevo Saverio, invariabilmente mi mettevo sulla difensiva.
Lui non sembrò sorpreso dal mio comportamento: si strinse nelle spalle e un guizzo non proprio ostile gli animò gli occhi verdi.
“Ho controllato al Catasto i confini di proprietà” buttò lì con noncuranza studiandosi con cura le unghie della mano destra “A quanto pare questa meravigliosa e ambita fonte di acqua sorgiva si trova sul terreno dei Lazzari e non su quello della famiglia Mercati.”
Sentii il cuore precipitare di nuovo nei piedi mentre il sangue spariva dal mio viso per confluire tutto nello stomaco.
“Non è vero.” dichiarai con estrema sicurezza, e intanto già mi dibattevo alla ricerca delle parole giuste per uscire da quell’infelice situazione. Sorprendentemente, però, Saverio sorrise con gli occhi che scintillavano di malizia.
“Infatti non è vero” sogghignò “Ma il pensiero di vedere il dubbio attraversare la tua faccia era troppo divertente. Non ho resistito.”
Rimasi impietrita sul posto. Al momento, non sapevo se fosse più forte il sollievo o l’istinto omicida, quindi propesi per un oltraggiato silenzio.
“A mia discolpa, posso garantirti che la mia non era una bugia completa” aggiunse in fretta con voce di nuovo arrogante “Tra il terreno dei Lazzari e quello dei Mercati c’è una striscia di terreno demaniale. Questa fonte non è né mia né tua: in fin dei conti potremmo anche concludere che si trova in territorio neutrale.”
Lo osservai guardinga mentre cercavo di elaborare le sue parole e la sua espressione: entrambe non sembravano ostili, ma nemmeno amichevoli.
“Sbaglio o c’è un sottile doppio senso nelle tue parole?” domandai cauta.
Lo sguardo che mi lanciò Saverio, a metà tra il contrito e l’ammirato, mi scosse in maniera fastidiosa.
“Tobia l’aveva detto che eri sveglia.” mormorò come tra sé e sé.
Il pensiero di Tobia e Saverio Lazzari che parlavano di me mi gettò in una profonda crisi asmatica: per uscirne decisi di arrabbiarmi.
“Vediamo se ho capito bene” ringhiai incrociando bellicosamente le braccia “Tu non approvi affatto che il tuo prezioso fratellino faccia amicizia con una esponente del basso volgo, ma finché la cosa rimane circoscritta a questo metro quadrato di bosco, sei disposto a concedere la tua augusta benedizione. Giusto?”
Saverio smise di rimanere mollemente appoggiato al tronco d’albero per finirmi improvvisamente davanti con uno scatto rapido e aggraziato prima ancora di rendermi conto che si fosse mosso.
“Sei sveglia” scandì con malcelata rabbia repressa “Ma sei anche incredibilmente…”
Si bloccò come per cercare la parola giusta. Io, chissà per quale benedetta combinazione astrale, ero ancora immobile e lo guardavo a muso duro, apparentemente solida; in realtà ero caduta in una specie di ovattata trance immersa nella quale valutavo allarmata che Saverio era troppo vicino, che la sua presenza era troppo invadente… e che il suo profumo era troppo, troppo buono.
“Irritante.” concluse alla fine lui, riportandomi bruscamente alla realtà.
Feci un passo indietro, cozzando contro la vasca e svegliandomi dalla mia trance apparente.
“Bè, nemmeno tu mi piaci.” ribattei con voce molto acuta: quasi automaticamente le mie mani recuperarono il bottiglione e voltai le spalle a Saverio, felice di poter finalmente darmela a gambe.
“Ho detto che sei irritante, non che non mi piaci.” specificò alle mie spalle la voce di Saverio, evidentemente divertita.
Mi girai a guardarlo di striscio, furente senza nemmeno sapere bene perché.
“Allora lo dico io” risposi con forza “Non mi piaci. Sei un incredibile snob e oltre che irritante sei anche borioso. Non ho bisogno della tua approvazione per fare quello che mi va di fare, quindi se voglio parlare con Tobia ci parlo anche senza il tuo benestare in carta da bollo. E non c’è nemmeno bisogno che cerchi di evitarmi, in paese o per strada perché tanto sarò io a cercare di evitare te il più possibile. Ossequi, signor Lazzari.”
Gli girai le spalle impettita e marciai via il più velocemente possibile. Dopo qualche metro, quando fui sicura che non mi avrebbe seguito per mollarmi due sonore sberle come punizione per la mia maleducazione, potei ricominciare a respirare quasi normalmente. Non avevo proprio idea di cosa mi fosse accaduto: non ero mai stata così villana in tutta la mia vita e per reazione tremavo come una foglia. Arrivai a casa quasi di slancio sentendo addosso molto più freddo di quanto le condizioni meteorologiche facessero supporre.
“Che faccia!” sghignazzò Sabrina quando entrai in cucina e mollai il bottiglione sul ripiano “Che è successo, nel bosco hai visto un fantasma?”
Non le risposi, ovviamente, ma mi sentivo malissimo. Il fatto che Saverio a mio parere se la fosse cercata non mi consolava.
Forse fu per quell’assurdo e inopportuno senso di colpa che decisi di scendere al lago quel pomeriggio.
*    *       *
“Fossi in te rimarrei a casa” mi aveva avvertito nonna Rosa con saggezza “Il tempo promette pioggia e sai bene che oggi i tuoi vanno a fare la spesa in città: se inizia a piovere, ti tocca tornare su da sola.”
“Lo so, nonna” risposi sforzandomi di sembrare allegra “Metterò l’impermeabile sopra il costume da bagno.”
Rossella, già spaparanzata in posizione orizzontale sul suo letto, mi diede della pazza scatenata e non mi concesse nemmeno l’uso del motorino. Così io e la fedele bicicletta anteguerra del nonno scivolammo giù al lago sfidando il cielo sempre più plumbeo. Non sapevo bene perché mi comportassi così: forse perché la mia indole irrimediabilmente virtuosa non poteva sopportare l’idea di essersi comportata in modo così meschino. O forse, e questa ipotesi sembrava molto più vicina alla verità, volevo incontrare Saverio Lazzari per dimostrargli che in realtà non ero quel mostro di maleducazione che mi ero dimostrata. Infatti andai direttamente al molo dove i Lazzari avevano l’attracco per le loro imbarcazioni. L’acqua del lago era grigia e minacciosa quasi come il cielo e il vento sferzava aghi di aria fredda sotto la mia camicia di cotone. Ovviamente, nessuno dei Lazzari si presentò: in compenso vidi da lontano la figura dinoccolata di Filippo che mi cercava, ben avvolto in una giacca impermeabile col cappuccio alzato. Proprio mentre i primi goccioloni di pioggia iniziavano a scendere, scappai via come una lepre vigliacca cercando di non attirare la sua attenzione. Arrancavo su per la strada che portava a casa mia quando il temporale si scatenò in tutta la sua magnificenza: nel giro di qualche secondo mi trovai bagnata come un pulcino, ghiacciata fino al midollo e furibonda con me stessa per la mia plateale mancanza di materia grigia. Cosa pensavo di ottenere andando allo sbaraglio sul molo quando avrei avuto comunque una possibilità su cento di incontrare Saverio? Perché diavolo, soprattutto, avevo tutta quella smania di incontrarlo? Istinti omicidi o istinti suicidi?
Dopo pochi metri di inutili elucubrazioni dovetti scendere dalla bici e spingerla su per la salita. Le raffiche di vento e pioggia erano fortissime, tremavo dal freddo ed ero pericolosamente vicina a lasciare libero sfogo a lacrime di autocommiserazione, quando sentii il familiare rombo di un motore in rapido avvicinamento. Piena di speranza mi fermai sul ciglio della strada alzando una mano in alto, pregando con tutto il cuore che mamma e papà avessero miracolosamente fatto la spesa a tempo record. Invece, con mia cocente delusione, la macchina che sbucò dalla curva era la Maserati nera dei Lazzari. Sperai con fervore che al volante ci fosse Tobia, o Ruggero Lazzari o l’autista di famiglia o Jack lo Squartatore, insomma, chiunque ma non Saverio Lazzari: invece era proprio lui. La mia mano alzata si abbassò di colpo mentre l’auto mi sfrecciava davanti: rapido come un’ombra, mi sembrò quasi di cogliere il sogghigno del guidatore attraverso il finestrino rigato di pioggia. La frustrazione mi colse allo stomaco, riportandomi pericolosamente vicina alle lacrime.
“Stronzo!” esclamai non proprio sottovoce alla macchina in rapido allontanamento.
Ero sicura che non si sarebbe mai fermato quindi rimasi completamente di sasso quando la macchina inchiodò di colpo a cinquanta metri da me e tornò indietro in brusca retromarcia. Il finestrino laterale si abbassò elegantemente, mostrandomi la faccia furibonda di Saverio Lazzari.
“Hai detto qualcosa?” domandò con voce vibrante e occhi lampeggianti.
Di norma mi sarei scusata balbettando, e il primo istinto fu proprio quello: poi però, complice la pioggia scrosciante e il livore che mi covava dentro da giorni, trovai la forza per stamparmi un’espressione sorpresa e anche vagamente offesa sul viso.
“Certo che no.” mentii con una meravigliosa faccia tosta.
“Ho visto le tue labbra muoversi.” specificò Saverio sempre più cupo e arrabbiato.
“Stavo canticchiando.” ringhiai di rimando, sostenendo altezzosa il suo sguardo.
I suoi occhi guizzarono: se non fossi stata tanto arrabbiata, avrei giurato che fosse un lampo divertito.
“Vuoi un passaggio?” domandò maligno sorvolando benignamente sui miei capelli completamente bagnati e sulla camicetta ghiacciata incollata al corpo. Sapeva che mi sarei fatta tagliare una gamba piuttosto che accettare. Aprii la bocca per rifiutare con sferzante alterigia quando mi cadde l’occhio suoi costosi sedili di pelle nera della Maserati.
“Sì, grazie” risposi svelta “Ma devo caricare la bicicletta.”
Prima ancora che Saverio potesse protestare, avevo aperto la portiera posteriore della macchina e in qualche maniera avevo infilato la bicicletta nell’ampio spazio tra i sedili. Osservai con maligna esultanza i baffi di fango che la vecchia bici aveva lasciato sui sedili e sui tappetini lindi, prima di chiudere la portiera e di sedermi svelta sul sedile anteriore di fianco a Saverio. Non mi azzardai a lanciargli un’occhiata, ma le ondate di riprovazione che arrivavano da quel bel profilo patrizio non avevano bisogno di parole: sogghignai sotto i baffi mentre lui partiva in sgommata senza nemmeno degnarmi di uno sguardo. L’abitacolo dell’automobile era di una semplicità e di una raffinatezza sconvolgenti: abituata alla Multipla di papà e alla sua guida pirata, non mi sembrava nemmeno di andare alla velocità che segnava il tachimetro. Mi appoggiai al sedile, massaggiandomi le braccia con le mani: la pioggia a Cresta del Gallo, riusciva a essere incredibilmente fredda e io mi accorsi in quel momento che stavo battendo i denti.
“Hai freddo?” domandò Saverio lanciandomi uno sguardo corrucciato.
“Sì” risposi sprezzante continuando a massaggiarmi le braccia “Maledette perturbazioni svizzere.”
La mia frase aveva un palese doppio senso ma Saverio glissò con eleganza: accese il riscaldamento e dopo pochi secondi un soffio di paradisiaca aria calda mi avvolse come un bozzolo. Smisi si tremare e feci un sospiro di sollievo.
“Che ti è saltato in mente di scendere al lago con quei nuvoloni che minacciavano pioggia?” domandò Saverio stizzito “Dovevi immaginarlo che avrebbe iniziato a piovere.”
Il suo tono saccente mi fece imbestialire ancora di più, quasi come la vergognosa consapevolezza che ero scesa al lago nell’assurda speranza di incontrare proprio lui.
“Dovevo incontrarmi con qualcuno.” buttai lì altezzosa. Bè, non era una bugia: piuttosto, una mezza verità.
“Chi, il figlio del macellaio?” chiese lui con blanda curiosità “Non mi sembra il tuo tipo.”
Ovviamente, il suo commento mi fece infuriare: avevamo scambiato al massimo due parole, anzi, mi aveva insultato con al massimo due parole, e già pretendeva di sapere quale fosse il mio tipo? Non andavo bene per Tobia, non andavo bene per Filippo, insomma, mi stava praticamente dando del relitto umano?!
“Non credo che mi conoscerai mai abbastanza per sapere qual è il mio tipo.” risposi piccata.
Lui mi lanciò uno sguardo sbilenco, rapidissimo e scintillante di ironia.
“Giusto.” rispose con enfasi.
Cadde un silenzio non proprio ostile: la Maserati scivolava via rombando sulla strada e io mi guardai intorno.
“E’ molto bella questa macchina.” dissi, maledicendomi subito dopo per essere stata involontariamente gentile.
“Grazie” rispose Saverio con quella sua bella voce bassa “E’ di Ruggero. Scommetto che sarà felicissimo di vedere come la tua bicicletta gli ha rovinato i sedili posteriori.”
Mi rivolse un breve sogghigno mentre io diventavo di colpo molle come cera fusa.
“Cavolo, mi dispiace” dissi sincera “Pensavo che la macchina fosse tua.”
Il sogghigno che gli scoppiò sul viso stemperò gli ultimi residui di irritazione.
“Oh, adesso si spiega tutto.” ammiccò intrigante mentre io arrossivo mio malgrado come una camionetta dei pompieri.
Si stava divertendo un mondo alle mie spalle e io non potevo fare a meno di essere furiosa.
“La tua automobile com’è?” domandai innervosita: potevo sempre farle scoppiare una gomma o qualcosa del genere se l’avessi vista passare.
“Ho una Golf” rispose divertito “Hai intenzione di caricare la bicicletta anche sulla mia?”
“Forse” risposi aggressiva “Hanno detto che pioverà spesso quest’estate. Fermati qui, grazie.”
L’auto si fermò dolcemente subito prima di imboccare il viale ghiaioso di casa di nonna Rosa. Saverio si girò a guardarmi inarcando le sopracciglia.
“Qui?” domandò sorpreso.
Decisi di scendere il più velocemente possibile: non potevo sopportare quella sua espressione altezzosa, i suoi occhi verdi e ostili mi mandavano in confusione e il suo profumo, che avevo sentito così chiaramente quel giorno alla fonte e che mi stava avvolgendo lentamente, mi metteva l’ansia. Eppure rimasi lì, aggrottata, bagnata come un pulcino a gocciolare sul sedile di pelle come se mi ci si fossero incollate le cosce.
“Perché qui?” mi chiese con voce più morbida: probabilmente aveva dedotto dal mio mutismo che fossi una mezza ritardata mentale.
“Non mi va che i miei mi vedano.” sbottai distogliendo veloce lo sguardo.
“E perché non ti va?” domandò ancora lui: sembrava davvero curioso. La mia mano sulla maniglia tentennò.
“La mia famiglia fa troppe domande.” ammisi controvoglia.
“E non vuoi dire loro che sei salita in macchina con me?” insistette: sembrava sinceramente sorpreso, ma non per questo mi arrabbiai di meno.
“Mi dispiace addolorare così il tuo ego” ribattei piccata “Ma è proprio così; non ho voglia di spiegare ai miei familiari perché ho accettato un passaggio da un perfetto stronzo.”
Ero stata volontariamente volgare e antipatica e lui, secondo i miei calcoli, avrebbe dovuto arrabbiarsi, invece sembrava divertito.
“Accidenti” ammise con titubante ammirazione “Confesso che ti avevo sottovalutata.”
Perché diavolo mi sorrideva, adesso? Era incredibilmente bello quando sorrideva: più di Tobia, più di un dipinto di Raffaello… sembrava un maledetto angelo, o un diavolo diabolicamente bello, o un misto dei due. Rimasi a guardarlo con espressione ebete mentre qualcosa di soffocante e rovente mi impediva la respirazione e mi incendiava le orecchie.
“Sei una continua sorpresa.” continuò lui mentre il sorriso si smorzava. Mi guardò negli occhi apertamente senza la solita cattiveria, con reticente curiosità e ancora più reticente ammirazione.
Tremai.
“Non scendi?” chiese amabilmente.
Non risposi: non ci sarei proprio riuscita, mi ero dimenticata come si faceva a parlare. Aprii in fretta la portiera e mi catapultai giù. Prima che lui potesse pensare che mi aspettavo aiuto per scaricare la bicicletta, l’avevo già tirata fuori dal sedile posteriore, strappandomi i muscoli del braccio destro nello sforzo. Fuori pioveva ancora a dirotto, ma la mia pelle era diventata insensibile. Irritata e spaventata, rimandai i perché a quando fossi rimasta prudentemente sola. Il finestrino del passeggero scivolò di nuovo silenziosamente giù e il viso di Saverio comparve sorridente e perfettamente asciutto.
“Sicura di non volere che uno stronzo ti dia un passaggio fin davanti casa?” domandò con allusiva allegria.
Mi impedii a stento di fargli un gestaccio.
“Sicura” risposi con un ringhio iniziando a spingere la bici davanti a me “Arrivederci.”
Stronzo, aggiunsi tra me e me. Lui sembrò intuirlo perché rise di nuovo.
“Una continua sorpresa.” ripeté tirando su il finestrino e sparendo silenziosamente dietro la curva.

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Capitolo 6
*** Caput Vum ***


Nitimur in vetitum semper cupimusque negatum.
(Ovidio)
 

Quando entrai in casa, fuori pioveva come nella foresta Amazzonica e la mia camicetta era diventata una fastidiosa seconda pelle di cotone. Ero furibonda e non sapevo perché. Nonna Rosa non migliorò di certo la situazione quando mi accolse con il classico “te lo avevo detto” seguita a ruota da Sabrina che commentò piacevolmente la mia acconciatura alla Bon Jovi in concerto live. Parentado degenere. Comunque, nonna aveva ovviamente ragione, andare al lago senza nemmeno uno straccio di ombrello era stato un comportamento da stupida, come se non conoscessi la portata dei temporali estivi a Cresta del Gallo… Mi chiusi in camera con un asciugamano in testa e un diavolo per capello mentre ancora Rossella se la rideva dalla soglia della sua stanza guardando le impronte bagnate che avevo lasciato sulle scale. Perché ero stata così impulsiva? Non era da me. Nemmeno quel nervosismo che mi faceva fremere più del freddo era da me. Non lo volevo ammettere, ma sapevo benissimo a cosa darne la colpa. A cosa, o meglio a chi. Saverio Lazzari. Quando pensavo alle sue sopracciglia inarcate di spocchiosa sorpresa e a quel suo sorrisetto sardonico ancora mi ribolliva il sangue nelle vene. Eppure, non era stato così scortese. Cioè, lo era stato, ma sembrava anche esserlo stato quasi inconsapevolmente. Sbuffando, mi sedetti sul davanzale e i miei occhi cercarono involontariamente la torretta di Villa Lazzari in mezzo al grigio uniforme del temporale in atto. Di solito amavo la pioggia e il senso di languida spossatezza che la accompagna: avevo un debole per l’ovattata e nebbiosa atmosfera della pioggerella autunnale e trovavo eccitanti i violenti temporali estivi. Quel giorno, però, mi sembrava di odiare tutto e tutti, soprattutto me stessa. Anzi, soprattutto Saverio Lazzari. Quel damerino presuntuoso e arrogante, quello snob maleducato e altezzoso, quel... Lazzari! Potevo coniare un nuovo insulto a uso e consumo del più antipatico e rappresentativo esponente di quel nobile casato? Certo che potevo. E nel caso l’avessi rivisto, glielo avrei anche sbattuto il faccia, restituendogli un po’ di quella sua puzza sotto il naso che mi irritava tanto. In genere mi ritenevo una persona tollerante nei confronti del prossimo, magari non davo molta confidenza ma per indole non ero mai scortese. Era la prima volta in vita mia che incontravo una persona così completamente e squisitamente antipatica: ero quasi certa che quello che provavo in quel momento fosse odio. Odiavo Saverio Lazzari? Sì, decisi, lo odiavo. L’importante era non chiedersi perché continuassi a pensare a quei suoi dannati occhi verdi.
*    *       *
Il giorno dopo avevo la febbre alta e una tosse che sembrava partire dai talloni, senza contare un sospetto dolore al braccio. Il tempo, grazie a Dio, era ancora piovigginoso e la mamma mi proibì categoricamente di uscire dal letto. Io, naturalmente, protestai con tutte le mie forze: il pensiero che Sabrina o Rossella scendessero alla fonte a prendere l’acqua e incontrassero Tobia mi riempiva di puro e terribile panico. Immaginavo agghiacciata la scena: Rossella che arrivava alla fonte dove Tobia aspettava con i suoi impeccabili pantaloni bianchi, la sua impeccabile camicia di lino e i suoi impeccabili capelli spettinati ad arte (niente impeccabile ombrello, troppo volgare per i divini Lazzari); si bloccava a guardarlo con la bocca aperta modello sarago appena pescato; Tobia che sorrideva educatamente e chiedeva “Dov’è Lena? L’aspettavo qui come al solito…”
Oh, morte, no! Fortunatamente, causa pioggia, Rossella e Sabrina si rifiutarono categoricamente di andare alla fonte, così fu nonna Rosa a prendere il bottiglione e ad avviarsi brontolando di figlie ingrate e nipoti zotiche e sfaticate. Rimasi nel mio letto con le orecchie tese e col fiato a singhiozzo fino al suo ritorno, aspettando che la sua voce salisse dalla cucina: “Lenaaaaa! Ti devo parlare!!”
Niente. Nonna Rosa rientrò in casa continuando a salmodiare su parenti serpenti, sbraitò dietro a Sabrina perché togliesse dal corridoio il suo skate board, berciò contro mia madre perché aveva messo troppo sale nell’acqua della pasta e poi si calmò. Quel giorno lo passai dormendo moltissimo, bevendo brodini insipidi e lasciando vagare la testa con insolita leggerezza. Davo la colpa alla febbre, ma in realtà era un sollievo poter allentare un po’ la guardia sulla direzione dei miei pensieri. Inoltre, ed ero quasi sollevata per il fatto di essermi ammalata: magari lo sfogo di rabbia del giorno prima poteva essere attribuito a un malore, no? Tutti quei miei vaneggiamenti su Saverio Lazzari e sui mille modi in cui gli avrei risposto se si fosse azzardato di nuovo a rivolgermi la parola erano per forza un delirio febbrile: perché altrimenti avrei dovuto interessarmi così a lui? Perché il mio sonno agitato avrebbe avuto due glaciali e felini occhi verdi che mi seguivano dappertutto?
Dormii poco e male e il giorno dopo, preannunciata da un pallido grigiore perlaceo del cielo, la pioggia, come anche la febbre, scemò. Passai la mattina a leggere e a tossire nei miei Kleenex, ebbi di nuovo i miei dieci minuti di panico quando nonna Rosa tornò dalla fonte e mi annoiai a morte durante tutto il pomeriggio anche se tempo e salute sembravano decisamente virati al miglioramento. Sabrina e Rossella scesero al lago e io non potei nemmeno sedermi in giardino, causa rabbiosi ruggiti del mio cane da guardia, alias la mamma. 
La sera per cena decisi di sfidare la mamma/virago e di schiodare le mie stanche membra dal letto raggiungendo gli altri a tavola. Trascinandomi con le ciabattone di pile e avvolta in una coperta patchwork mi sedetti sulla mia sedia tra Sabrina (in canottiera) e Rossella (in infradito): la mamma mi scodellò davanti l’ennesimo brodino mentre io mangiavo con gli occhi il piatto di costolette d’agnello profumate di aglio e rosmarino davanti a Sabrina.
“Qualcuno mi spiega perché i malati devono mortificarsi con questi liquidi incolori mentre i sani si abbuffano di costolette al sangue come carnivori nella savana?” grugnii mescolando di malavoglia il mio brodo.
“Perché così i malati sanno cosa si perdono se vanno in giro in mutande in piena alluvione” rispose candidamente mamma sventolandomi davanti al naso con intenzione una costoletta “Comunque, domani potrai uscire.”
“Non potete immaginare chi c’era oggi al molo!” cinguettò Rossella tutta eccitata.
Il mio cucchiaio si fermò a mezz’asta e il mio cuore fece una capriola così rumorosa che temevo si fosse sentita in tutta la stanza.
“Chi?” domandò nonna Rosa lanciandomi uno strano sguardo indagatore con gli acuti occhi azzurro slavato.
“Saverio Lazzari” rispose Rossella, verbalizzando il mio più recondito timore “E’ stato tutto il pomeriggio con la barca attraccata al molo, lui e uno di quei polacchi che hanno assunto per l’estate. Tutto. Il. Pomeriggio.”
Scandì bene le ultime tre parole per enfatizzare la particolarità di quell’evento. Sabrina, papà e mamma sembravano doverosamente colpiti.
“Wow.” commentò Sabrina semiseria.
“E che cosa faceva?” domandai io, incapace di trattenermi “Placcava d’oro la chiglia della barca?”
“Quasi” sorrise Rossella, fiera di essere al centro dell’attenzione “Ha ridipinto la fiancata destra. Di vernice bianca però, non d’oro.”
“E non poteva farlo fare a uno dei suoi schiavi?” commentò papà con noncuranza “Mirna, passami l’insalata, grazie… insomma, non è molto aristocratico mettersi a dipingere la fiancata di una barca, e i Lazzari sono sempre così aristocratici...”
Rossella aggrottò leggermente le sopracciglia, scandalizzata.
“Papà, i Lazzari non hanno degli schiavi” rettificò col naso per aria “E poi, sapessi che meraviglia della natura vedere Saverio Lazzari in pantaloncini e canottiera che usa la pennellessa…”
Rossella fece un sospiro così allusivo che di colpo mi tornò la febbre. Sabrina invece mimò un conato di vomito e nonna Rosa mi lanciò un altro sguardo strano.
“Potresti risparmiarci i tuoi deliri ormonali, grazie?” sospirò la mamma leggermente schifata. La ringraziai selvaggiamente col pensiero.
“Guarda che non ero la sola a rifarmi gli occhi” precisò Rossella punta sul vivo “C’erano anche Martina e Sara. Dovevi vederle, sospiravano e ridacchiavano come oche nello stagno ogni volta che lui girava gli occhi dalla nostra parte. Peccato non vederlo in costume, deve essere tipo l’ottava meraviglia del mondo.”
“Mai visto un Lazzari in costume” dichiarò Sabrina con aria compunta “Troppo volgare mostrare gli addominali alle zotiche masse.”
Il sangue mi ribolliva nelle vene. Altro che brodino, mi sentivo prossima a sputare fuoco come un drago.
“Immagino.” ringhiai mentre davanti agli occhi mi passava come un flash l’immagine di Saverio Lazzari, canottiera aderente e muscoli guizzanti, che rivolgeva uno di quei suoi preziosi e scintillanti sorrisi a mia sorella e le sue amichette, sventolando la pennellessa gocciolante vernice bianca. Che schifo. Mi veniva la nausea solo pensarci.
“E non è tutto” si animò ancora Rossella con occhi lucidi di entusiasmo “Ci ha salutate. Me, Sara e Martina e anche Filippo e Marco. Cioè, a dire la verità ha salutato prima Filippo con un gran sorrisone…”
Io concentrai lo sguardo sul brodo come se mi ci volessi affogare dentro mentre Rossella si perdeva nelle sue elucubrazioni.
“Comunque, domani deve finire di verniciare anche l’altra fiancata e io e le ragazze ci siamo prenotate un posto in prima fila. Vengono anche le cugine di Sara da Ustecchio! Lena, vieni anche tu?”
Non so come, riuscii a non vomitarle addosso il brodo misto a qualche centinaio di improperi.
“No, grazie” risposi seccamente “Sembrerà di essere a San Siro durante il derby e a me la folla non piace. Oltretutto, non trovo che Saverio Lazzari sia così… così…”
Non mi veniva proprio fuori una bugia così grossa.
“… Così interessante.” terminai debolmente.
Rossella fece un sorriso saputo, come se lei avesse sterminate e vastissime esperienze di uomini interessanti.
“Certo che lo è” rispose Rossella con espressione golosa “Devi vedere che braccia… abbronzate, muscolose ma non troppo, ha quei muscoli lunghi da nuotatore… e quelle spalle larghe e quel sedere…”
“Rossella” sospirò la mamma posando la forchetta con una certa foga “Siamo a tavola.”
“Sì, e a me viene il vomito se si parla dei sederi dei tuoi ragazzi mentre sto mangiando.” grugnì Sabrina.
A me salì il sangue al cervello in meno di mezzo secondo.
“Non è il suo ragazzo.” sibilai controllando a malapena la voce.
Che idiota. Rossella mi guardò come si guarda uno strano insetto peloso scovato dentro il proprio piatto di pasta.
“Lo sappiamo tutti, Nosferatu.” mi rispose sprezzante, ricordandomi nel frattempo che le mie occhiaie facevano paura.
Nonna Rosa scelse quel momento per intervenire con estrema calma mentre tagliuzzava con cura la sua costoletta di agnello.
“Saverio non era l’unico Lazzari in giro oggi” disse soave “Io ho incontrato Tobia stamattina.”
Ecco. Lo sapevo che nonna Rosa nascondeva qualcosa… quelle sue occhiate indagatrici la dicevano lunga. Anche in quel momento non mi staccava gli occhi di dosso e io dovetti far ricorso a tutta la mia arte figurativa per riprendere a sorbire il mio brodo come se niente fosse.
“Non ci credo!” si entusiasmò invece Rossella, enfatizzando dall’emozione le parole chiave come faceva Martina “Dove l’hai incontrato? Che stava facendo? Ti ha salutato?”
Gli occhi di nonna Rosa mi trapanavano la fronte.
“Era nel bosco” rispose alla fine con tranquillità “Stava passeggiando e mi ha salutato molto educatamente. Mi ha chiesto come stavo io e come stava la famiglia.”
“Ti ha chiesto di noi?” domandò Rossella abbacinata: questo superava ogni sua più rosea aspettativa.
“Non ti fare scoppiare un embolo, Ross” ghignò Sabrina sadicamente “Quello nemmeno sa che esisti.”
“E comunque era una domanda retorica, no?” aggiunse mamma, dubbiosa.
L’improvvisa “civilizzazione” dei Lazzari inquietava anche lei.
“Tobia è passato anche ieri sera in gelateria” aggiunse Rossella lentamente “Non abbiamo nemmeno fatto in tempo ad accorgerci che era sceso dalla Maserati che già era ripartito… però è strano che quest’anno si facciano vedere così tanto in giro.”
“Io non ho mai capito perché stessero sempre così lontani dalla gente” buttò lì Sabrina controllando se era rimasto qualcosa di commestibile dentro il suo piatto “In fondo non sono mica dei vip come George Clooney o Montezemolo!”
“I Lazzari sono sempre stati molto riservati” disse pacatamente nonna Rosa senza staccare gli occhi dalla mia faccia “Tranne un breve periodo, mi ricordo… durante la guerra, invece che venire qui in vacanza si stabilirono a Villa Lazzari per tutto l’anno. Forse per forza di cose, ma sembravano più accessibili. Io abitavo in paese, mentre vostro nonno abitava con i suoi genitori che facevano i custodi di Villa Lazzari; il signor Lazzari andava spesso a caccia con il bisnonno e giocava a carte con la bisnonna in veranda, prima che…” si interruppe cogitabonda. Rimasi con le orecchie ritte aspettando il seguito ma nessuno le chiese di proseguire: possibile che interessasse solo a me? “Poi, sparirono per un po’, quando finì la guerra” continuò nonna dopo un po’ “Dopo una decina di anni tornarono e mi ricordo che tutte le ragazze persero la testa per Tobia…”
“Tobia?” trasecolò Rossella spalancando gli occhi: nonna le lanciò uno sguardo paziente.
“Il padre di Ruggero” spiegò con un sorriso “I Lazzari si tramandano i nomi di generazione in generazione.”
“Noblesse oblige.” grugnì papà, vagamente divertito.
“Anche tu, nonna, ti eri presa una cotta?” di informò Sabrina curiosa “La maledizione dei Lazzari colpì anche te?”
Nonna sembrò seriamente pensierosa.
“I Lazzari riescono a essere molto affascinanti” rispose senza sbilanciarsi “E’ davvero molto facile invaghirsi di loro.”
Mentre parlava mi guardava negli occhi. Ops…
“Persino mamma si prese una cotta per Ruggero” ghignò perfidamente Rossella “Quindi nessuno ci faccia caso se parlo del sedere di Saverio Lazzari a tavola!”
Misericordiosamente, nonna tacque: forse aveva intuito qualcosa, ma il messaggio che voleva farmi recepire era arrivato forte e chiaro anche senza ulteriori spargimenti di sangue.
“Io me ne vado a letto” dichiarai alzandomi dalla sedia “Ma sia chiaro, mammina, che domani non ho nessuna intenzione di rimanere inchiodata fra queste quattro anguste mura.”
“Non venire al molo con quella faccia, però” squittì Rossella velenosa “Non voglio che si sappia in giro che sono la sorella di Nosferatu.”
“Rossella!” la rimproverò mamma, ma io scossi la testa con noncuranza.
“Ti ho già detto che non verrò al molo” ribattei decisa “E comunque, nemmeno io voglio che si sappia in giro che sono la sorella di Candy Candy.”
Le girai le spalle e tornai in camera mia prima che nonna Rosa ritornasse a guardarmi con quegli occhi pieni di ombre.
*    *       *
Il giorno dopo il sole era tornato a splendere nel cielo e la febbre era completamente passata. Avevo dormito come un sasso per tutta la notte e al risveglio avevo finalmente ripreso contatto con le cose essenziali della vita: doccia calda (gentile concessione materna del bagno interno causa malattia), colazione con pane tiepido e fragrante, un filo di burro con marmellata di more e un bel libro in attesa di essere letto all’ombra di un larice. Ero così euforica che nemmeno mi presi la briga di pensare a chi sarebbe andato alla fonte a prendere l’acqua: ci provò Rossella, probabilmente sperando di incrociare Tobia e di sommergerlo di entusiastiche informazioni sulla salute della famiglia di cui si era così gentilmente interessato. La faccia lunga che esibì al suo ritorno la disse lunga su ciò che (non) aveva trovato nel bosco. Dopo pranzo, ghignando sotto i baffi, rimasi a guardarla mentre era intenta nella sua vestizione per l’evento mondano che l’aspettava di lì a poco. Ero curiosa di vedere quale fosse secondo lei il look migliore per andare al molo a spiare un tizio che dipingeva la carena di una barca. Alla fine, uscì dalla porta gloriosamente vestita di bianco, con una lunga gonna svolazzante e un top talmente striminzito che poteva tranquillamente appartenere alla Barbie. Sabrina, con estremo tatto come suo solito, la paragonò alla signora Bruna, la moglie del gelataio Antonio, e Rossella, dopo una breve riflessione, corse a cambiare il top bianco con uno identico color turchese. Se ne andò ancheggiando, preceduta e seguita da una soffocante nuvola di Hypnose mentre io e Sabrina condividevamo un raro momento sororale ridendole dietro come due pazze. Quando il sole diventò abbastanza caldo da farmi sudare, decisi di infiltrarmi nel bosco a prendere un po’ di frescura sola con i miei pensieri. Rubai un cestino di ciliegie dalla dispensa di nonna, contando di spiluccarmele per merenda. Avevo esplorato piuttosto intensamente il bosco nei dintorni di casa e avevo i miei luoghi preferiti a seconda delle situazioni: il ramo di quercia grosso e nodoso ottimo per stendersi sopra a leggere un libro; il prato ben nascosto da una fitta siepe di rovi dove prendere il sole in topless; la mini caverna dove rimuginare pensieri di morte su Rossella e Sabrina; il fiumiciattolo tortuoso dove farmi la pedicure… Optai per il ramo di quercia anche se non avevo più voglia di leggere. Mi incamminai con il libro in una mano e il cestino di ciliegie nell’altra, cappello di paglia ben calato sulla testa, pantaloncini di spugna e ciabatte infradito fischiettando sadicamente la canzone di Candy Candy. Giunta a destinazione mi arrampicai sul ramo basso e quasi orizzontale, mi stesi supina con un braccio sotto la nuca a farmi da cuscino e rimasi a guardare il cielo con gli occhi pieni di sole e qualche formica che mi solleticava le cosce nude. Che pace c’era a Cresta del Gallo. Solo in quel posto riuscivo a comprendere e ad assaporare la parola silenzio. C’era un che di quasi magico nel modo pigro che avevano le roverelle di piegarsi al vento, nello strillo acuto e lontano delle aquile e dei nibbi, nel profumo persistente e malinconico di humus e di pino. Non so come, persa in placidi pensieri di pace, mi appisolai.
*    *       *
“Hei.”
Qualcosa mi pungolava il braccio e finalmente mi svegliai: confusamente, sbattei gli occhi abbacinati dal sole e intuii un’ombra di fianco a me.
“Che c’è?” domandai scattando a sedere e la testa prese a girarmi come una trottola; mi coprii gli occhi con una mano mentre una risatina sardonica si alzava dal mio misterioso vicino.
“Che brusco risveglio” mi canzonò una voce allegra “Se fossi stato il Principe Azzurro chino su di te per svegliarti con un bacio, mi avresti tramortito con una testata.”
Aprii cautamente un occhio annebbiato e scrutai esterrefatta la faccia ridente di Tobia Lazzari vicinissima alla mia.
“Tobia!” lo salutai incredibilmente sollevata “Mi hai fatto paura!”
Lui rise e si sedette di fianco a me: era vestito di chiaro come al solito e sembrava stranamente più rilassato. Risposi al suo sorriso mentre la vista tornava a essere limpida.
“Devo essermi addormentata” dissi allegramente “Dopo tre giorni di pioggia l’unica cosa che riesco a fare è stendermi al sole e sonnecchiare come le lucertole.”
“Una lucertola molto graziosa” concesse lui cavallerescamente “Ho dovuto girare tutto il bosco per scovarti.”
Un brivido mi percorse la schiena segretamente: il pensiero che Tobia mi avesse cercata mi riempiva di orgoglio ma anche di ansia.
“Adoro nascondermi nel bosco” sorrisi con leggerezza “E poi, mi piace stare sola.”
“Non ti sei fatta vedere alla fonte.” disse lui con dolcezza e anche con velato rimprovero.
“Ero malata” risposi disinvolta “Mi sono bagnata durante il temporale e mi sono buscata un raffreddore coi fiocchi.”
“Già” buttò lì Tobia, di nuovo di buon umore “Saverio ha detto di averti incontrata. Ti ha dato un passaggio, vero?”
Dovetti sforzarmi per continuare a sorridere.
“Mi dispiace di aver sporcato gli interni in pelle della Maserati” mi scusai contrita “Non avrei dovuto caricare la bici. Sono stata molto villana.”
Inaspettatamente, Tobia rise e io alzai gli occhi su di lui, sorpresa.
“E’ la stessa cosa che ha detto Saverio” spiegò poi piacevolmente accomodandosi meglio sul ramo “Secondo lui ti sei comportata in maniera… com’è che ha detto? Abominevole. Però rideva quando lo raccontava: ho il sospetto che sia stato salutare per lui essere un po’ strapazzato.”
Ci misi qualche secondo ad assimilare le sue parole, ma quando lo feci riuscii a infuriarmi e a mortificarmi nello stesso momento.
“Strapazzato?” mi accigliai arrossendo di rabbia “Sono davvero costernata di aver strapazzato il principino… se mi procurerà una frusta, vedrò di provvedere da sola alle dieci scudisciate che mi spettano per l’efferato crimine.”
Tobia rise di nuovo con gli occhi scintillanti: si era abbronzato e la carnagione scura contrastava col bianco dei denti e con il verde innaturale delle iridi. Era di una bellezza pazzesca e io mi incantai a guardarlo.
“Posso?” domandò sbirciando il mio cestino di ciliegie.
“Certo” risposi distraendomi “Lasciamene qualcuna però.”
Tobia prese una ciliegia e la mangiò strizzandomi l’occhio.
“Non devi prendertela con Saverio” disse poco dopo, pescando un’altra ciliegia dal cestino “E’ snob e arrogante, ma non lo fa apposta.”
“Nemmeno io faccio apposta a essere velenosa nei suoi confronti.” ribattei a denti stretti. 
“Saverio sa essere molto generoso” continuò Tobia stranamente loquace “E’ solo preoccupato…”
“Tranquillizzalo pure” berciai irritata “Non ho l’abitudine di mangiare spocchiosi pavoni di sangue blu, né a colazione né a cena.”
Tobia mi rivolse uno sguardo strano, quasi intimidito.
“Lui è preoccupato per me” disse lentamente e sottovoce “Ha paura che tu non possa capire.”
“Capire cosa?” domandai incerta.
Tobia mi lanciò uno sguardo di striscio.
“Ci sono cose che vorrei tanto dirti” disse lentamente, cercando con cura le parole “Ma è difficile comprendere… ed è facile ferire.”
Io gli spalancai gli occhi in faccia, incredula.
“Ferire?” sbottai incredula “Ti assicuro che non vado in giro armata…”
“Ah, no?” domandò Tobia a bruciapelo “E quegli occhi bellissimi non sono un’arma impropria?”
Io, di botto, divenni rossa come un pomodoro maturo. Ovviamente, mi ammutolii mentre Tobia rideva vagamente imbarazzato e prendeva un’altra ciliegia.
“Senti, ti va di giocare a tennis uno di questi giorni?” mi domandò quando capì che avevo ripreso in mano le redini delle mie funzionalità. Di nuovo un colpo al cuore: prima un complimento (un autentico, inequivocabile complimento) e poi un invito? Un invito ufficiale?
“Sono una schiappa a tennis” mormorai mortificata “Però sono bravina a calcio.”
“Calcio?” si sorprese lui sinceramente.
Mi strinsi nelle spalle, ancora incerta dopo il doppio montante che mi aveva rifilato. Tobia sembrò pensarci un po’ su.
“Allora vedremo” decise scivolando con grazia giù dal tronco “Ti ho lasciato ben due ciliegie.” mi avvisò con finta severità.
Io sorrisi e lui, spiazzandomi completamente, si avvicinò leggero come una piuma e profumato come un giardino fiorito e mi baciò la guancia.
“Ci vediamo domani, bella addormentata?” chiese con disinvoltura facendo scintillare i suoi ridenti occhi verdi.
Io mi trattenni a stento dal portare la mano alla guancia dove mi aveva baciata e raccolsi tutto il mio coraggio per rispondergli con nonchalance.
“Perché no?”
La mia voce risultò molto acuta e il mio sguardo particolarmente ebete, ma Tobia sembrò non farci caso: mi salutò con la mano e camminò via, con la sua camminata elastica e leggera, sparendo nel bosco silenzioso come se non sfiorasse nemmeno il terreno.
 

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Capitolo 7
*** Caput VIum ***


Et quid amabo nisi quod rerum enigma est?
(epigrafe nietzchana)



Non sapevo se crederci o no. Ancora pensavo di essermelo sognato: Tobia mi aveva chiesto un appuntamento e mi aveva baciata. Detta così sembrava una cosa talmente assurda che accantonai il pensiero per tutto il giorno: avevo paura che nonna OcchiodiFalco subodorasse qualcosa della mia agitazione, così le rimasi alla larga per tutta la sera. Rossella era tornata dal molo con uno stato d’animo controverso e un sandalo di Chanel senza un tacco. Infatti, il preannunciato show di Saverio Lazzari a torso nudo che si cospargeva di vernice al ritmo di Sex Bomb non si era tenuto; il regio delfino si era fatto vedere per meno di mezzo minuto vestito di tutto punto, aveva dato due direttive ai suoi lavoranti polacchi, aveva salutato graziosamente le folle femminili sbavanti ai suoi piedi ed era sparito fagocitato dalla preziosa Maserati nera dei Lazzari. In compenso, il meno interessante ma più terreno spasimante Marco si era ufficialmente dichiarato, da cui il tacco rotto dopo la conseguente e doverosa infrattata della fresca coppietta dietro un boschetto di larici. Quest’ultima parte fu svelata solo a me e Sabrina mentre nonna e genitori prendevano il caffé in veranda. Dopo essermi doverosamente sperticata in congratulazioni (una Rossella felice e serena era un toccasana per l’umore generale dell’intera famiglia Mercati) mi rifugiai nella mia stanza a rimuginare sugli ultimi avvenimenti. La torretta di Villa Lazzari era illuminata e mi sfuggì un sospiro mentre un pensiero tornava nella mente, rimbalzando molesto come una palla magica. Tobia Lazzari mi aveva baciata. No, dico, TOBIA LAZZARI mi aveva baciata!! Al mio posto Rossella o qualunque femmina eterosessuale di Cresta del Gallo sarebbe andata in fibrillazione ventricolare, avrebbe acceso un centinaio di ceri alla Madonna di Lourdes e fatto scoppiare petardi e fuochi d’artificio come a Capodanno. Avrei dovuto fare anch’io la stessa cosa, no? Perché allora non sentivo tutto quell’entusiasmo? Certo, era stato solo un bacio sulla guancia: molto casto, molto rapido… cosa vuoi che sia un bacio sulla guancia? Niente. Quasi niente. Ehm.
E poi, c’era la questione dell’invito. A giocare a tennis o a calcio, non avevo capito bene. D’un colpo, tutte le sensate domande che avrei dovuto fare in presenza di Tobia mi uscirono fuori in quel momento: a giocare dove? Con chi? Quando? Ma sopratutto… perché? Perché il divino Tobia Lazzari si interessava a me, comune Milena Mercati? Guardando truce la torretta pensai che magari glielo avrei chiesto e lui, forse, mi avrebbe detto la verità. Chissà perché, però, quella prospettiva mi metteva i brividi.
*    *       *
Mamma e papà, molto coscienziosamente, avevano deciso che Rossella, Sabrina e io saremmo dovute andare sempre in giro insieme quell’estate. Probabilmente avevano pensato di prendere due piccioni con una fava: mortificare il fermento ormonale di Rossella e bilanciare la mia tendenza all’isolamento, con Sabrina in mezzo che, come sempre, stava dove la mettevi. Non avevano valutato, i poverelli, che in caso di necessità le sorelle Mercati erano in grado di creare un fronte unico di compatte e inappuntabili bugie. Così, il pomeriggio successivo trottammo tutte insieme al molo: nonna ci aveva dato un cesto di ciliegie appena raccolte e riuscimmo a non farlo fuori tutto prima di arrivare a destinazione. Rossella si accomodò languidamente assisa sul fondo dell’imbarcazione di Marco e lui remò come un forsennato allontanandosi dal molo, Sabrina prese il motorino di Rossella e si perse rombando nel bosco come una improbabile e moderna Diana cacciatrice e io sgattaiolai in un angolo appartato in riva al lago per leggere e per finire in solitaria tranquillità le ciliegie rimaste. Mi sdraiai sul prato e mi tolsi il copricostume, spalmandomi coscienziosamente di crema abbronzante al cocco. Evidentemente, però, stavo ancora trascinandomi i sintomi dell’influenza perché mi trovai ben presto a fissare l’orizzonte col libro abbandonato sulle gambe. Era così bello lasciarsi andare in quel pacifico contrasto di blu: il cielo chiaro, il lago scuro, il riflesso della vegetazione sulla riva, il canto incessante e soporifero dei grilli. Il lago si stava popolando di turisti e non era difficile vedere qualche motoscafo sfrecciare davanti al molo. Più rare erano le barche a remi, come quella che il divino Saverio Lazzari aveva fatto dipingere i giorni prima. Ricordavo bene quella barca: piccola ma elegante, sempre linda e pulita, rimessa completamente a nuovo ogni anno. Meditai che i Lazzari sembravano preferire quella piccola barca a remi piuttosto che i loro due motoscafi nuovi di zecca: evidentemente doveva avere un valore affettivo. O magari, come tutti i ricchi snob, erano dei maledetti taccagni. Chissà che nome aveva quella barca: mi sembrava di ricordare un nome di donna, anche se di donne non se ne vedevano mai in giro. Pensai che avrei potuto chiedere spiegazioni a Saverio Lazzari, nell’improbabile ipotesi che gli avessi di nuovo rivolto la parola. Così gli avrei dato un’ottima occasione per non rispondermi. Con quel pensiero soddisfatto in testa, chiusi gli occhi e ascoltai il rumore rilassante ed eterno dello sciabordio dell’acqua del lago contro la riva rocciosa. Persa in quel liquido mare di tranquillità, mi appisolai.
*    *       *
“Hei.”
Un dito imperioso mi pungolava il fianco e io mi svegliai di soprassalto. Socchiusi gli occhi scoprendo che ero di nuovo contro sole, come il giorno prima.
“Che cavolo vuoi…” biascicai ottusamente.
“Che deliziosa accoglienza!” rispose una voce divertita “Buongiorno anche a voi, baronessa.”
Avevo una fortissima sensazione di dejà vu e se non fosse stato per il rumore di un motoscafo in transito avrei giurato di essere di nuovo in mezzo al bosco sul mio tronco di quercia. Mi misi una mano davanti agli occhi aspettando che le tempie smettessero di ballare il foxtrot.
“Tobia!” mi lamentai con voce volutamente lagnosa “Segui l’odore delle mie ciliegie?”
“A dire il vero mi ha attirato qui il soave suono della sezione fiati della filarmonica di Vienna” rispose la voce divertita “Poi ho scoperto che eri tu che stavi russando beata come un cherubino. Ho pensato di venire a svegliarti perché a occhio e croce stai rischiando un’insolazione.”
La voce era sufficientemente profonda da farmi capire che non apparteneva a Tobia Lazzari: mentre il cuore mi si incastrava improvvisamente in gola, mi alzai di scatto a sedere spalancando gli occhi. Davanti a me, mani in tasca e sorrisetto da schiaffi, c’era Saverio Lazzari in tenuta bianca firmata Versace portata con divina disinvoltura. Per poco non strillai dalla sorpresa e l’avrei probabilmente fatto se avessi avuto un minimo di fiato.
“Che ci fai qui?” balbettai quando riuscii a inalare un po’ d’aria.
“Te l’ho detto” rispose pazientemente Saverio “Ho seguito il suono ritmico e soave del tuo respiro.”
“Io non russo.” lo smentii immediatamente.
Saverio fece un sorriso ampio e scintillante, così perfettamente malizioso da lasciarmi senza fiato.
“Oh, certo che russi” rispose gioviale “Un delizioso strombazzare sul tema fa-sol-fa, molto femminile.”
“Bugiardo.” ringhiai io rossa di rabbia e vergogna, e lui ridacchiò irriverente.
Senza nemmeno chiedermi il permesso, si sedette vicino a me, stendendo le lunghe gambe sul mio telo di spugna come se fosse la cosa più naturale del mondo. Io, immediatamente, mi irrigidii sul posto come se mi fossi trasformata in una scultura di porfido. Continuavo a guardarlo con aria truce, ma intanto pensavo freneticamente a come potesse essere disastroso il mio aspetto accaldato e sconvolto e a quanto fosse maledettamente vicino l’odore stordente e buonissimo che Saverio emanava.
“Posso?” domandò lui perfettamente a suo agio indicando il cesto abbandonato di ciliegie.
“No.” ringhiai acida e Saverio rise, prendendo una ciliegia con arrogante sicurezza.
“Vedo che continui con impegno a prestare orecchio alla voce del volgo” lo aggredii furibonda “Dovresti farlo come mestiere visto che ti viene così bene.”
“Trovi?” chiese lui inarcando le sopracciglia.
Era così bello e sfacciato da fare male agli occhi: abbassai lo sguardo e mi accorsi con orrore di essere in costume da bagno, neanche quello nuovo di La Perla che Rossella mi aveva regalato per il compleanno, ma quello rosa coi laccetti, tutto liso e sfilacciato. Che orrore! E che rabbia il fatto che l’unica cosa che mi fosse venuta in mente fosse il mio look, neanche avessi improvvisamente subito un trapianto di neuroni di Rossella.
“Ti ho chiesto che ci fai qui.” ruggii incrociando ben bene le braccia sul petto senza avere il coraggio di guardarlo. Mi sentivo bollire la faccia e contemporaneamente avevo i piedi ghiacciati.
“Te l’ho detto, ho seguito il canto delle sirene.” ridacchiò allegro.
Lo guardai corrucciata intuendo depressa che i miei capelli dovevano sembrare un nido di cormorano appoggiato sulla testa. La sua presenza mi infastidiva e lui sembrava saperlo benissimo. Mi sorrise sornione, pescando un’altra ciliegia, e nel vedere quel sorriso molesto, un maledetto pizzicore mi assalì e prese a salirmi lungo i polpacci.
“Non c’è bisogno che sprechi il tuo prezioso tempo qui con me” sbottai piccata “Il tuo augusto rango ti porterà di sicuro a fare un sacco di cose interessanti come giocare a tennis, fare sci d’acqua, dipingere la carena di qualche petroliera…”
“A dire la verità non ho niente da fare oggi” rispose Saverio con voce placida “Ti ho vista qui distesa in stato semicomatoso e mi ha incuriosito il tuo solfeggio. E poi, ho pensato di fermarmi a cercare di capire perché il mio caro fratellino trovi la tua presenza così dilettevole.”
“Dilettevole?” ringhiai io di malumore. Il pizzicore salì in zona retro ginocchia e io mi agitai senza trovare il coraggio di alzarmi in piedi e mostrargli (orrore!) il mio sedere.
“Tobia ne sarà contento.” continuò lui prendendo un’altra ciliegia e trattenendola un attimo tra le labbra prima di morderla. Il pizzicore raggiunse la schiena e salì con velocità vertiginosa verso la nuca.
“E’ qui?” domandai sperando che la risposta fosse sì: poi ricordai il mio look da terremotata e pregai con fervore che la risposta fosse no.
“E’ in giro” rispose lui noncurante “A cercarti, probabilmente. Sai, è davvero molto, molto preso da te.”
Me lo disse in tono scherzoso ma i suoi occhi si indurirono.
“E tu non approvi.” buttai lì fingendo disinteresse.
Saverio ponderò bene la risposta.
“No, non approvo” rispose lentamente con voce cupa “Ma non per i motivi che pensi tu.”
“E allora per quali?” lo sfidai io coraggiosamente.
Saverio mi piantò in faccia i suoi occhi verdi e indagatori.
“Non capiresti” rispose con voce piatta “E se capissi sarebbe anche peggio.”
“Quanto sei criptico” sbuffai in mentre una sottile inquietudine mi serpeggiava lungo la schiena “Non puoi dire che ti sto antipatica e basta?”
Saverio aggrottò appena le sopracciglia mantenendo intatto il suo sorrisetto da Gioconda.
“Ma tu non mi stai antipatica” sospirò con voce grondante ironia “Possiedi una brillante dialettica, dimostri un’ironia fin troppo intelligente e dietro quella facciata riservata sembri essere un vulcano di aspettativa. Sei fresca, interessante: non mi sorprende che Tobia ti abbia scelta.”
“Scelta?” domandai allarmata: non mi sembrava di essere arrivata così avanti nei rapporti con Tobia “Scelta in che senso?”
Un lento sorriso sornione stirò le labbra di Saverio.
“Non in senso biblico, se è questo che ti preoccupa” rispose canzonatorio “Ma è comunque un peccato per te.”
“Non ti capisco.” ammisi scoraggiata e Saverio tornò di colpo serio e quasi malinconico.
“E’ molto meglio così” rispose sottovoce “E se tu avessi un granello di sale in zucca smetteresti di frequentare Tobia. E me.” aggiunse cogitabondo dopo una breve pausa. Il cuore tentò un doppio salto carpiato nel petto a quelle parole.
“Non credo che mi serva il tuo permesso per frequentare Tobia.” glissai acida: in realtà ero ferita.
Saverio distolse gli occhi e fece spallucce.
“Nemmeno tua nonna approverebbe la vostra amicizia.” buttò lì spiazzandomi del tutto.
“Perché?” domandai, sinceramente attonita.
Lui prese una ciliegia e non rispose subito, le ciglia abbassate a velare quei due occhi ammalianti che aveva.
“Chiedilo a lei. E ascolta attentamente quello che ti dice, per favore.” disse alla fine con aria sincera e vagamente spossata.
Visto il mio silenzio ostinato, mi guardò di nuovo a lungo: il suo sguardo aveva un’intensità quasi magica.
“Forse è meglio se vai a cercare Tobia.” balbettai io alla fine: stavo cominciando a iperventilare ed era impossibile che Saverio non si accorgesse del mio respiro asmatico. Posai le mani sudate sul telo di spugna e cercai di asciugarle senza darlo a vedere.
“Si è già dichiarato?” domandò Saverio con la stessa tranquillità con cui parlava del tempo: già ero confusa di mio, ma le sue parole mi sbalestrarono ancora di più.
“Chi?” ansimai incerta.
“Tobia” rispose lui pazientemente con le labbra che si curvavano in un sorriso sardonico “Intendevo lui, a meno che tu non abbia altri innamorati che concorrono al titolo nascosti sotto i terrazzamenti di Cresta del Gallo.”
“Tobia non è il mio innamorato.” specificai irritata.
“Non hai risposto alla mia domanda.” mi fece notare lui educatamente: aveva preso un’altra ciliegia e se la stava passando distrattamente sul labbro inferiore. La mia mente andò completamente alla deriva.
“Che domanda?” chiesi quasi balbettando.
“Ti avevo chiesto se si è già dichiarato.” ripeté lui sogghignando.
“Chi?”
Alzheimer galoppante: mi sarei seppellita dalla vergogna, non fossi stata completamente soggiogata dal suo dannatissimo sorrisetto malizioso.
“Ho capito, non vuoi rispondermi.” sospirò divertito, il che era anche una mezza verità.
“Non credo che siano affari tuoi.” dichiarai quando fui certa di poter controllare la voce.
“Se riguarda Tobia, sono affari miei.” rispose lui serio abbandonando la posizione rilassata per sporgersi verso di me.
Di colpo era troppo vicino: avrei voluto fuggire a chilometri di distanza da quelle labbra lucide e invece non riuscivo a smettere di guardarle. Lui se ne accorse. Si immobilizzò e la sua espressione divenne stranamente incerta e ancora più seria.
“Profumi di cocco.” disse sottovoce e c’era qualcosa che somigliava a velluto nelle sue parole.
“E’ l’abbronzante.” gracidai io, con la bocca di colpo asciutta come il deserto del Sahara.
Tacemmo per un momento infinito dove per la prima volta in vita mia sentii il tempo dilatarsi assurdamente: poi lo sguardo di Saverio scivolò via dal mio viso quasi con rimpianto.
“Parla con tua nonna.” mi ripeté e stavolta la sua voce sembrava di nuovo arrabbiata come la prima volta.
Non ebbi né la forza né il coraggio di dire niente. Improvvisamente, Saverio si alzò in piedi e io mi accorsi sorpresa che stavo ancora trattenendo il fiato.
“Ho finito le tue ciliegie” mi avvisò con un sorriso sardonico “Mi dispiace.”
“Già” grugnii io, riprendendomi in extremis “Ti si legge la costernazione sul viso.”
Saverio rise facendo splendere i suoi perfetti denti bianchi.
“Che guaio che sei” disse assolutamente a sproposito con una strana voce ruvida e dolce allo stesso tempo “E comunque ti ho mentito: non è vero che russi.”
Poi, girò i tacchi e se ne andò. Improvvisamente, il caldo della luce solare parve molto meno opprimente.
*    *       *
Non potevo quasi crederci: dovevo essere in overdose di Lazzari, evidentemente, altrimenti non avrei potuto spiegare quello stato semifebbrile in cui rimasi per un pezzo dopo che Saverio se ne fu andato. Quando Rossella e Sabrina tornarono dalle loro rispettive gite fuori porta, io ero ancora lì a chiedermi se davvero era successo quello che ricordavo. Andai a casa insieme alle mie sorelle: Rossella era stranamente muta e Sabrina era stranamente loquace. Se fossi stata meno presa dai miei pensieri avrei notato che Rossella sembrava particolarmente assente e triste, ma in quel momento non mi andava di concentrarmi sul resto del mondo. Diversamente dal solito, nonna Rosa era ferma sulla soglia di casa e ci accolse con la faccia seria e gli occhi insolitamente indagatori, come se avesse colto col suo radar interno una vibrazione estranea intorno a noi.
“Tutto bene al lago?” cinguettò guardandomi fissamente negli occhi.
Io grugnii una risposta qualunque e mi defilai nel mio bagno più in fretta che potei, glissando anche le domande inopportune di papà sulla gente passata dal molo. Non avevo voglia di parlare con nessuno, meno che meno avevo voglia di affrontare il discorso Tobia e Saverio con nonna. Avevo la vaga ma fastidiosa impressione che lei non avrebbe davvero approvato la mia amicizia coi Lazzari, come se sapesse qualcosa su di loro che li rendeva indesiderabili. E io, da vera stupida, non volevo avere paura di loro. Volevo continuare a vedere Tobia e a godere della sua presenza simpatica e rilassante… E, inutile negarlo, volevo continuare a vedere Saverio per cercare di capire cosa si nascondesse dietro quel sorriso irritante. Cenai in famiglia rimanendo sulle mie e dopo cena, fortunatamente, Rossella annunciò che era stanca e che avrebbe saltato il solito giro serale in gelateria. Felice di poter rimanere sola con i miei pensieri, salii in camera mia: avevo deciso con assoluta convinzione che non avrei detto una sola parola a nonna, ma avevo chiaramente fatto i conti senza l’oste. Nonna Rosa bussò alla porta ed entrò senza aspettare risposta.
“Dobbiamo parlare.” esordì seria ma tranquilla.
Se avessi sbuffato o mi fossi comportata male, nonna si sarebbe spaventata ancora di più e magari avrebbe tirato in ballo mamma-virago e papà-sogno-ma-son-desto; così raccolsi coraggio e faccia tosta e le feci cenno di sedersi sul letto accanto a me.
“Che succede nonnina?” domandai con voce allegra mentre nonna si sedeva con precauzione sul mio letto bitorzoluto.
“Che succede” borbottò alzando i suoi begli occhi franchi su di me “Dovresti dirmelo tu che succede.”
Io sbattei candidamente le ciglia.
“Non so di cosa parli.” buttai lì falsa come Giuda.
“Parlo di qualcuno che ho incontrato alla fonte per due giorni di fila” rispose lei saltando bellamente i preamboli “Un certo Tobia Lazzari che evidentemente non si aspettava di incontrare una vecchia befana come me, ma piuttosto una giovane e ingenua ragazzina dal naso sempre ficcato dentro qualche libro.”
Rapidamente valutai che mentire non era la strada migliore in quel frangente.
“L’ho incrociato qualche volta” risposi con leggerezza “Si vede che anche a lui piace il bosco.”
Nonna mi piantò in faccia due occhi particolarmente acuti e indagatori: sostenni il suo sguardo a fatica mentre controllavo con calma la respirazione. Alla fine, nonna abbassò gli occhi e, a sorpresa, mi prese una mano tra le sue vecchie e nodose.
“Milena” disse chiamandomi per nome esteso, e già quello era un cattivo presagio “So che sei una ragazza… no, una persona estremamente intelligente e sveglia; so che hai più testa sulle spalle tu delle tue sorelle messe insieme, anche se questo non è un gran paragone…” sorrise e io la ricambiai preoccupata “Ti sei sempre dimostrata curiosa ma non avventata, riflessiva entusiasta di tutto... insomma, sei una brava ragazza. So che non dovrei impicciarmi della tua vita, ma ti voglio davvero bene e sono preoccupata per te. Ascolta per favore il mio consiglio: stai lontana dalla famiglia Lazzari.”
Era stata così seria e accorata da risultare perfettamente convincente. Non la smetteva di guardarmi negli occhi e io mi sentii doverosamente a disagio.
“Perché?” domandai con quanta più calma riuscii a infondere nella voce.
Nonna Rosa sospirò, distogliendo lo sguardo.
“Non c’è una ragione precisa” disse parlando lentamente, come cercando le parole più giuste “E’ solo che sono molti anni che ho a che fare con quella famiglia, e so che non è un bene avvicinarsi troppo. Di solito sono loro a mantenere le distanze…” mi lanciò un rapido sguardo preoccupato prima di riabbassare gli occhi sulle nostre mani intrecciate “Insomma, so che sembrano i vaneggiamenti di una vecchia pazza, ma devi stare lontana da Villa Lazzari. Non è un bel posto per nessuno, ma lo è ancora meno per noi.”
Chiuse la bocca di scatto, come se avesse involontariamente detto troppo. A quel punto, avevo capito che nonna era realmente spaventata per me e tentai di tranquillizzarla.
“Nonna, ho solo scambiato due parole con Tobia Lazzari” le confessai con un sorriso “Niente di importante, solo qualche opinione su libri e film… credimi, si è sempre comportato in maniera impeccabile e io lo trovo simpatico. Non capisco di cosa tu abbia paura, ma ti assicuro che non c’è stato niente di anormale tra di noi.”
Nonna rialzò gli occhi e mi scrutò a lungo in fondo all’anima. Pregai con tutto il cuore che non mi chiedesse se avevo parlato anche con Saverio perché probabilmente non sarei più riuscita a mentire così sfacciatamente.
“Davvero Tobia non ti interessa?” domandò speranzosa.
Riflettei a lungo prima di risponderle, cercando di dire più verità possibili.
“Non mi interessa in senso romantico” dissi lentamente “Ma mi dispiacerebbe non parlarci più. Mi è sembrato così educato e riservato, anzi, quasi schivo. Insomma, mi ci sono trovata bene per fare due chiacchiere di tipo diverso da quelle che farei con Rossella o con Sabrina. Tutto qui, nonna: non ti devi preoccupare.”
Ma nonna era preoccupata, si vedeva benissimo: continuò a guardarmi corrucciata ma io non abbassai lo sguardo e alla fine si arrese con un sospiro.
“E va bene” disse controvoglia “Parlaci, ma non dargli troppa confidenza. Dio solo sa perché abbia scelto te…” Sobbalzai alle sue parole, ma per fortuna nonna non se ne accorse “Ma promettimi che non andrai mai e poi mai a Villa Lazzari.”
“E perché dovrei andarci?” risi noncurante, ricordandomi subito dopo l’invito di Tobia.
“Non lo so” rispose nonna stizzita “Quei Lazzari sono pericolosi. Ricordo di aver avvicinato Saverio e Tobia solo un paio di volte, quando ero una ragazzina... Tobia il padre di Ruggero e suo fratello, intendo.”
Rialzò lo sguardo rapidamente e io sobbalzai come se mi avesse punto.
“Erano due fratelli anche allora?” domandai disinvolta e nonna aspettò per un lungo momento teso prima di rispondere.
“Sì” soffiò fuori quasi a forza “Sono sempre due fratelli.”
Prima ancora che io mi capacitassi di quello che aveva detto, si alzò in piedi e ciabattò velocemente verso la porta. Lì si fermò, incerta se aggiungere qualcos’altro o no.
“Un’altra cosa… hai fatto bene a non dire niente a Rossella e alle altre. Non è… prudente… fare in giro i loro nomi.”
“Bene.” risposi trattenendo a stento un brivido.
“E ricordati, Lena… stai lontano dai Lazzari” si decise a dire alla fine, guardando la porta “Portano sfortuna. Tuo nonno… e… insomma, stai lontano da loro.”
“Va bene.” la assecondai con dolcezza, incrociando le dita dietro la schiena come una bambina disobbediente.
Nonna sospirò ed uscì dalla mia stanza. Quando la porta si chiuse alle sue spalle, mi buttai supina sul letto, riprendendo a respirare normalmente. Mi sentivo strana e anche vagamente sporca, come se avessi fatto qualcosa di brutto. Ed effettivamente l’avevo fatto: avevo mentito alla nonna. Io non volevo per niente al mondo lasciar perdere i Lazzari. Anzi, la curiosità su di loro si era solo accentuata dopo il discorsetto minatorio di nonna. Per la prima volta nella mia vita non avevo nessuna intenzione di ascoltare gli adulti. La brava, assennata Milena aveva deciso di puntare i piedi e di fare di testa sua: il giorno dopo, decisi, sarei andata a dare un’occhiata alla famigerata Villa Lazzari per vedere se lì intono girava qualche fantasma o era sepolto qualche cadavere. L’avevo pensato in tono ironico, ma lungo la schiena mi corse un brivido. I miei occhi corsero automaticamente verso la torretta illuminata e forse fu per un effetto ottico o forse fu per la particolare qualità di luce lunare, mi sembrò di vedere qualcuno affacciato alla finestra: una figura immobile, scura, come in attesa di qualcosa che doveva succedere.

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Capitolo 8
*** Caput VIIum ***


Memento audere semper
(Gabriele D’Annunzio)

 
Si sa che non c’è niente come una bella dormita per rimettere a posto le cose storte. Alla luce del sole, l’inquietante chiacchierata serale con nonna Rosa aveva preso contorni sfumati e toni più sbiaditi e certe mie elucubrazioni vagamente gotiche all’ora di colazione sembrarono quasi ridicole; non mi fu difficile quindi fingere gaiezza davanti alla faccia ombrosa di nonna Rosa. Snobbai platealmente la discesa alla fonte, tanto per metterla tranquilla, e passai molto tempo in cucina a farmi vedere serena e rilassata. Dentro di me, invece, fremevo di curiosità. C’erano elementi interessanti che erano saltati fuori in pochi giorni, soprattutto la reticenza di nonna Rosa a parlare dei Lazzari e di ciò che li legava alla nostra famiglia e io non vedevo l’ora di poterli analizzare. Appena potei, con la classica scusa della lettura, mi nascosi nel bosco a rimuginare e a fare il punto di ciò che sapevo: fortunatamente, avevo una mente pratica e analitica e riepilogare per punti era la cosa che mi riusciva meglio.
Punto primo: esisteva una famiglia ricca e riservatissima che frequentava l’ameno paesino di Cresta del Gallo da anni, se non da secoli. Scelta atipica: perché Cresta del Gallo e non qualcosa di più chic, tipo la Costa Smeralda o il sultanato del Brunei? Risposta: ai Lazzari non piaceva la pubblicità. Non comunicavano con nessuno, non davano confidenza a nessuno, di loro si sapeva il minimo indispensabile da sempre. Strano, ma non impossibile e, soprattutto, per niente trascendentale. Il fatto che fossero tutti belli come tanti David di Michelangelo non lo volevo ritenere un punto a sé stante, anche se al solo pensiero degli occhi di Saverio e Tobia il cuore partiva a ballare la rumba.
Punto secondo: niente donne in famiglia. Mai. Omosessualità genetica? No, perché nuove generazioni di Lazzari sostituivano le precedenti. Anche se, pensai con un tuffo al cuore, nessuno aveva mai visto un bambino o un vecchio bazzicare per Villa Lazzari. Tobia e Saverio, praticamente miei coetanei, li avevo notati solo negli ultimi anni e non avevo memoria di qualcuno di loro nell’infanzia. Strano. Da brivido, per dirla tutta. Ok, da valutare.
Punto terzo: improvvisamente, un esponente della famiglia si era interessato a me. Mettendo da parte inutili turbamenti e false modestie, potevo dire di non capire perché Tobia avesse scelto me, usando il termine che aveva tanto colpito nonna Rosa; ero carina, ma niente più di normale; ero intelligente, ma di sicuro non un premio Nobel… fascino, nemmeno a parlarne, figuriamoci. Famiglia? Tobia mi aveva “scelta” perché ero la nipote del nonno, storicamente unica persona ad avere una sorta di conoscenza particolare dei Lazzari? Ecco, forse quello cominciava a essere un buon motivo valido. 
Punto quarto: Nonna Rosa sapeva qualcosa e si mostrava contraria a qualsiasi forma di avvicinamento ai Lazzari. Intuivo che sarebbe stato inutile insistere con lei: più avessi mostrato curiosità per l’argomento, più si sarebbe chiusa a riccio e io, comunque, non avevo intenzione di sollevare più polvere del necessario. Dovevo sapere cosa nascondeva nonna Rosa senza domandarglielo direttamente.
Punto quinto: gli occhi di Saverio Lazzari erano la cosa più incredibile che avessi mai visto. Per quanto la cosa mi irritasse a morte, non potevo fare a meno di contarlo come punto a sé stante perché ogni due secondi il pensiero cadeva lì, tra quelle ciglia nere socchiuse, oltre quel verde ostile e torbido che mi metteva i brividi addosso.
Conclusione? La famiglia Lazzari aveva un segreto. La cosa era pericolosa e lo sapevamo tutti quanti, da nonna Rosa a Tobia Lazzari che, inspiegabilmente, sembrava l’unico a volere che io sapessi qualcosa di più. Ma la cosa più importante, quella che mi faceva provare un serio rimescolamento alle viscere, era un’altra: per la prima volta in vita mia, con un insolito colpo di testa, ero determinata a scoprire quale fosse il segreto dei Lazzari. Volevo saperlo, e niente mi avrebbe fatto cambiare idea, come se qualcosa di atavico e inesorabile mi imponesse di seguire quella direzione. A questo pensiero, non potei fare a meno di perdere di colpo tutto il mio buonumore mattutino.
*    *       *
Subito dopo pranzo, quando il sole a picco induceva a una opportuna siesta tra le mura domestiche, sgattaiolai fuori da casa e mi addentrai nel bosco. Destinazione: Villa Lazzari. Evitai accuratamente il muro di cinta che costeggiava il nostro giardino per ovvi motivi (ci mancava solo che tentassi di arrampicarmi proprio sotto il naso di nonna Rosa). Mi addentrai quindi nel bosco, pur sapendo a malapena che direzione prendere: non ero mai stata una tipa avventuriera e nemmeno da bambina avevo mai avuto il desiderio di osservare da vicino la Unica e Inimmaginabile Villa Lazzari… anche perché il confine di proprietà era circondato da un muro di sassi dall’aria arcigna abbastanza alto e spesso da smorzare qualsiasi velleità di esplorazione. Non potendo ovviamente sfoggiare la mia tenuta da free climbing, mi munii di robuste scarpe da ginnastica, maglietta a mezze maniche e jeans lunghi. Oltrepassata la fonte, il sentiero si perdeva in mezzo al fitto dei pini mughi e delle roverelle lasciate inselvatichire fin quasi a sembrare ostili e impenetrabili. Il mio buon senso dell’orientamento mi aiutò a districarmi tra la vegetazione e in men che non si dica mi trovai davanti a un imponente muro di cinta ricoperto da muschio ed edera rampicante. Era davvero alto, meditai incerta sollevando gli occhi: invece che smontarmi, questa constatazione acuì la mia determinazione. Infilando con molta cura le punte delle scarpe nelle fessure tra un sasso e l’altro e aiutandomi con gli stralci di edera, iniziai ad arrampicarmi faticosamente. Non ero una gran arrampicatrice e la mia pessima forma fisica si tramutò in una serie di vergognose cadute dopo nemmeno un metro di arrampicata. Dopo un’ora di inutili tentativi, sudata, contusa e parecchio irritata, cominciai a pensare a una alternativa; era impensabile che Tobia si macinasse ogni giorno chilometri e chilometri di boscaglia per incontrarsi con me, giusto? Quindi forse dovevo cercare un passaggio meno ostico. Doveva esserci per forza un varco in quel muro; un cancello segreto, una porticciola, un buco nel terreno… armata di santa pazienza, iniziai a camminare lungo il muro e dopo una cinquantina di metri trovai per l’appunto un piccolo cancelletto arrugginito ben mimetizzato sotto una fitta cascata di rovi. Imprecando mentalmente per il tempo e le energie perdute nel tentativo di scavalcare quel dannato muro quando avevo avuto la soluzione praticamente sotto gli occhi, iniziai a scuotere il cancello per aprirlo. Non si mosse di un millimetro; per quanto fosse arrugginito, una robusta e scintillante catena con un lucchetto grosso come un pungo la rendeva inaccessibile quanto il muro. Imprecai di nuovo, ma non mi diedi per vinta: notai che, tolta l’erbaccia alta fino al ginocchio, c’era uno spazio di una ventina di centimetri tra il bordo inferiore del cancello e il terreno. Ignorando il più possibile una vocetta scandalizzata che mi urlava nella testa tutta la sua oltraggiata costernazione per ciò che stavo per fare, mi sdraiai a pancia in su e spingendo, strisciando e ruminando erbaccia riuscii a scivolare sotto il cancello. Mi feci un bel taglio frastagliato sul braccio e annotai mentalmente di disinfettarlo al più presto mentre mi alzavo alla svelta, scrollandomi il più possibile terriccio e foglie secche dai capelli. Dovevo avere un’aria disastrosa, pensai sogghignando, poi mi resi conto di essere penetrata illegalmente in una proprietà privata e di colpo smisi di trovare la situazione divertente. Se uno dei Lazzari mi avesse trovato lì avrebbe mandato in rovina la mia famiglia a forza di denunce, meditai con un brivido: e io cosa avrei potuto dire a mia discolpa? La verità? O sarebbe stato più semplice dire che stavo inseguendo il Bianconiglio? Prudentemente, mi rintanai sotto a un enorme salice fronzuto mentre decidevo il da farsi. Dalla mia posizione potevo vedere solo bosco selvaggio e maltenuto come quello oltre il muro, quindi con molta calma mi diressi verso quello che immaginavo essere il nord, ovvero verso dove avrebbe dovuto trovarsi la villa. Mentre camminavo cercando di fare meno rumore possibile, sentivo il cuore che batteva nel petto con una forza e una presenza tutte nuove, come se di colpo avesse triplicato il suo volume. Avevo i muscoli tesi e all’erta, i graffi riportati nei miei tentativi si scalata che bruciavano come fuoco e il respiro rapido e discontinuo. Non ero mai stata così scandalosamente primitiva, pensai ridacchiando tra me e me. E nemmeno così spaventata, meditai fuggevolmente, ma quel pensiero pensai bene di accantonarlo. Arrivai in un punto dove il bosco terminava bruscamente per lasciare il posto a un enorme prato verde grande come minimo come uno stadio di calcio, tribune comprese. In fondo a esso Villa Lazzari si stagliava gloriosa contro l’azzurro tremolante del pomeriggio. Nessuno aveva mai visto la Villa tutta intera; l’unica parte visibile era la torretta che vedevo dalla mia stanza, ma non era sufficiente a prepararmi a ciò che vidi. La Villa era indubbiamente antica, molto più di quanto avessi pensato in un primo tempo. La base era formata da una costruzione quadrata e massiccia che poteva benissimo risalire al primo medioevo a giudicare dalle mura solide e dalle strette finestre oblunghe. Sulla destra un’ala relativamente nuova aveva le finestre a ogiva e il tetto a volta tipico dei castelli francesi del 1700; la torretta che conoscevo bene svettava bianca e snella con la sua elegante sezione ovale e il suo tetto di ardesia sopra a un muro merlato recentemente ristrutturato; una torretta gemella, anche se più bassa, ornava l’angolo opposto della base. La veranda di travi di legno rivestite di glicine profumato che copriva il lato destro poteva risultare anacronistica visto il suo design indubbiamente moderno, e invece donava una squisita e rotonda dolcezza alla figura massiccia del corpo centrale La piscina olimpionica di un azzurro accecate, sul retro della casa, non poteva poi che essere nuova di zecca. Rimasi per un pezzo ad ammirare la casa, consapevole del fatto che poche persone avevano avuto quel privilegio. Notai un maneggio grande come un condominio a sei piani steso in orizzontale e tre campi da tennis, uno di terra rossa, uno di cemento e uno di erba curatissima, dislocati vicini al muro di cinta più vicino a casa mia; in giro non si vedeva anima viva se non un tizio al maneggio intento a portare all’interno del fieno con un forcone. Seminascosta dal verde sulla sinistra della casa ma ben discosta da essa, c’era una costruzione dal tetto spiovente di tegole rosse inverdite dal tempo. Dedussi che doveva essere la casa del custode e con un tuffo al cuore ricordai le parole di nonna Rosa; lì aveva abitato il nonno con la sua famiglia prima di trasferirsi nell’attuale casa. Irritata con me stessa, mi chiesi perché non avessi mai approfondito l’argomento con nonna Rosa o con mamma. Entrambe non parlavano molto del nonno e io e le mie sorelle avevamo sempre rispettato quella loro sorta di pudore. In quel momento, però, me ne pentivo amaramente: col senno di poi mi resi conto che il nonno era stato davvero molto vicino alla famiglia Lazzari e che a quel punto la sua esperienza mi sarebbe indubbiamente servita. In ogni caso, accantonai le mie elucubrazioni per studiare ben bene Villa Lazzari: più di così, dedussi scoraggiata, non mi potevo avvicinare. Il prato circondava completamente la casa ed era impossibile attraversarlo senza uscire vistosamente allo scoperto. Decisi allora di costeggiare il bosco per tutto il perimetro, studiando la costruzione da lontano. Più camminavo e più mi riempivo di nuovi graffi: quell’avventura stava diventando più dolorosa del previsto, rimuginai scostando stizzita l’ennesimo fascio di rovi. Mi bloccai quasi sul posto: ero giunta in una sorta di radura naturale nel centro esatto del bosco che circondava Villa Lazzari. La vegetazione intorno era fittissima e gli alberi alti e curvi, sicuramente secolari, circondavano la radura brulla con una regolarità davvero inquietante. Al centro dell’angusto spiazzo c’era una costruzione di pietra grigiastra e aggredita dalle erbacce che non faticai a riconoscere come un’antica ara pagana. Titubante, mi avvicinai per studiarla meglio: da vicino notai che era insolitamente grande e piatta e sembrava autenticamente antica, anche se abbandonata al passare del tempo. Le decorazioni grezze sui fianchi erano smussate dal tempo e la superficie discontinua del pianale sembrava levigata come un sasso di fiume. Nonostante la sua origine inquietante, non aveva un’aria particolarmente misteriosa; sembrava solo vecchia e abbandonata. Girai a lungo incuriosita intorno all’ara: sotto le erbacce scoprii anche una specie di ampio scalino, come se in origine quella struttura fosse residente su un piano rialzato. Chissà quanti anni aveva, pensai rapita ma anche inquieta. Dalle mie polverose nozioni di storia ricordavo vagamente che le are erano in pratica degli altari che venivano utilizzati per compiere riti religiosi o sacrifici sacri. Quell’ara era abbastanza grossa da contenere una giovenca, meditai con un brivido: chissà se era davvero mai stato versato del sangue sopra di essa? Stavo per scostarmi rabbrividendo quando notai una specie di incisione resa quasi illeggibile alla base dell’ara: era scritta in stampatello e a fatica riuscii a decifrare lo scarso contenuto:
FIAT VITAE – PARACELSUS
Paracelsus? Quel nome non mi era nuovo, anche se non ricordavo assolutamente chi fosse. In quanto alla scritta, nonostante il mio latino non fosse impeccabile, non ci voleva un genio per capirla: sia vita. Il senso, ovviamente, mi era assolutamente ignoto. Rimuginai per un po’ intorno alla costruzione di pietra, cercando di capire se fosse davvero interessante e come eventualmente collocare un’ara pagana nel contesto delle mie indagini, ma ovviamente non cavai un ragno dal buco. Fu a quel punto, quando ancora ero in piedi a meditare assorta davanti al blocco di pietra, che sentii una voce furibonda provenire dalle mie spalle.
“E tu che diavolo ci fai qui?”
*    *       *
Il cuore mi balzò in gola bloccandomi il respiro mentre il corpo si congelava di sacro terrore, ma in fondo in fondo non ero sorpresa: entrare di nascosto sul terreno dei Lazzari e pensare di farla franca mi era parso sin dall’inizio un miraggio. E a complicare le cose, benché fosse l’ultima persona che avrei voluto vedere in quel momento, avevo riconosciuto al volo la sua voce, dalla prima sillaba vibrante di rabbia avevo capito che si trattava di lui: Saverio Lazzari. Diamine, ero certamente nei guai. Mi irrigidii tutta mentre un secco frusciare d’erba mi avvisò che Saverio si stava avvicinando rapidamente. Girai su me stessa per affrontarlo faccia a faccia e per poco non andai a sbattere contro il suo petto rigorosamente rivestito di lino di Armani. Il suo profumo buonissimo mi colpì violento come una mazzata e, se possibile, mi ammutolì ancora di più. In quel momento avrei dato due dita della mano destra per essere lontano mille chilometri da lì; poi alzai gli occhi sul viso di Saverio e tutto quello che la mia mente aveva debolmente farneticato in quei pochi secondi venne spazzato via dalla potenza del suo sguardo. Era furioso: i suoi occhi sembravano ancora più verdi, quasi fosforescenti tanto erano limpidi di rabbia, e mandavano lampi di collera che avrebbero potuto incendiare una foresta. Rabbrividii respirando velocemente, senza trovare il coraggio di spiaccicare una sola parola, ma continuando a guardarlo impotente e affranta. Saverio rimase a lungo in piedi davanti a me, fremente di rabbia e con le belle labbra pressate in un’unica linea dura che gli tagliava il viso.
“Ti ho chiesto che diavolo ci fai qui.” domandò a un tratto con voce malamente controllata.
Deglutii a secco un paio di volte cercando affannosamente una risposta sensata.
“Tobia mi ha invitato.” sparai fuori alla fine con un filo di voce.
Non era esattamente una bugia, ma il suo sguardo indagatore mi penetrò dentro come una lama nel burro e io mi sentii una bugiarda patentata, sporca, piccola e meschina oltre ogni dire.
“Balle.” sentenziò secco Saverio e si vedeva che si stava trattenendo a stento dallo schiaffeggiarmi.
Sentivo fortissimo il bisogno di scusarmi, come una bimba piccola colta in flagrante con le dita nella marmellata, ma sapevo d’istinto che se mi fossi scusata sarebbe successo qualcosa di irreparabile.
“Mi ha invitata a giocare a tennis” ribadii con voce un pochino più convincente “L’altro giorno, alla fonte.”
Chiusi la bocca prima che mi uscisse qualcosa di terribilmente stupido e infantile mentre gli occhi di Saverio continuavano a incenerirmi con sprezzante furore.
“A tennis?” domandò aggressivo “Sei venuta per giocare a tennis?”
Di colpo mi ricordai dei jeans sporchi e delle foglie secche tra i capelli, senza contare la miriade di graffi che mi costellavano le braccia e il taglio profondo che bruciava come il fuoco: mi mancavano la lancia e lo scudo di corteccia per sembrare uscita fresca fresca dalla preistoria, figurarsi se sembravo pronta per il torneo di Wimbledon.
“Bè, non proprio” ammisi arrossendo furiosamente “Io… ehm, non so giocare a tennis. Ero venuta… ah, a dare un’occhiata.”
Alle mie parole, se possibile, Saverio si arrabbiò ancora di più e quasi mi aspettavo da un momento all’altro che le sue narici cominciassero a emettere fumo verdastro.
“A dare un’occhiata?” sibilò afferrandomi un braccio con una morsa d’acciaio “Ti rendi conto… hai una vaga idea di quanto sia stata stupida questa mossa?”
Trasalii e non fu solo per la forza con cui mi stringeva il braccio: il contatto della pelle calda e asciutta della sua mano mi aveva provocato una inquietante scossa elettrica che mi aveva attraversata da parte a parte. Stranamente, questo mi diede la forza per rispondere.
“Ti ho detto che mi ha invitata Tobia” ribattei cocciuta strappando il braccio dalla sua presa ferrea “Piantala di arrabbiarti così, ti verrà un infarto al miocardio e non mi sembra che ne valga la pena.”
Incredibilmente, le mie parole sembrarono ammansirlo un po’: continuava a sembrare sul punto di strozzarmi, ma c’era un sottofondo divertito nel suo sguardo.
“Non ne vale la pena, eh?” borbottò con voce più bassa “Lasciatelo dire, mocciosa, tentare di tenerti fuori dai guai è praticamente impossibile.”
“Non mi sembra che giocare a tennis sia sinonimo di guai” risposi distogliendo prontamente lo sguardo “Almeno, non lo è nel mondo reale, ma ammetto che qui ai confini della favolosa Terra di Mezzo non so bene come vadano le cose.”
Questa volta, lo scintillio divertito negli occhi di Saverio raggiunse la superficie e si stemperò nella sua voce.
“Meriteresti una sculacciata” sentenziò rizzando la schiena, non più minaccioso ma ancora vagamente all’erta “O una bella denuncia per violazione di proprietà privata. E aggiungerei disturbo alla quiete pubblica, tanto per gradire.”
Per un attimo impallidii all’idea che parlasse sul serio.
“Non lo faresti mai” decretai poi alla fine di una breve riflessione “La preziosa privacy dei Lazzari non può essere minacciata da una banale partita a tennis, no?”
Saverio sembrò riflettere sulle mie parole: in realtà sembrava ancora vagamente divertito.
“Dovrei denunciarti comunque, mocciosa” borbottò severamente “Te lo meriteresti… e sarebbe la tua salvezza.”
Sembrava così sincero che dovetti fingere a fatica di non aver capito.
“Non sono una mocciosa.” ribattei con voce flebile, del tutto a sproposito.
“Sì che lo sei.” grugnì Saverio afferrandomi di nuovo il braccio e cominciando a trascinarmi con decisione verso la casa. Spaventata, puntai immediatamente i piedi.
“Dove mi porti?” strillai con voce acuta.
Lo sguardo che mi lanciò, esasperato e serafico insieme, mi fece di nuovo arrossire fino alla radice dei capelli.
“Ti riporto a casa, mocciosa” spiegò con il tono paziente di un maestro di scuola elementare mentre continuava a trascinarmi con decisione verso la villa “Non lascerò che scorrazzi per il mio giardino a farneticare su partite di tennis inesistenti, col rischio di…”
Si interruppe bruscamente e sembrò di nuovo furioso. Perché secondo lui ero in pericolo a Villa Lazzari? Avrei voluto glissare di nuovo, ma questa volta non ne fui capace.
“Cos’è, ho rischiato di essere azzannata dalle bestie feroci che fanno la guardia al tuo nido?” buttai lì, sperando di non aver esagerato.
Saverio non smise di camminare, ma mi lanciò uno sguardo indagatore.
“Forse” rispose con voce cupa “Ci siamo, sali in macchina.”
Mi lasciò il braccio così bruscamente che quasi inciampai: eravamo arrivati non troppo vicini alla villa, dietro quella che doveva essere la rimessa delle auto e che sembrava un hangar per aerei da carico merci. Davanti a me c’era una Volkswagen Golf rossa cabriolet con la capote chiusa: davanti a essa c’erano la Maserati che ormai conoscevo bene, una Mercedes metallizzata dall’aria funebre e un paio di altre vetture che non fui in grado di identificare prima che Saverio mi spingesse con decisione dentro la Golf.
“Entra ho detto.” mi sgridò chiudendo la portiera alle mie spalle e ricomparendo subito dalla parte del guidatore.
“Non sono un sacco di patate.” grugnii offesa mentre Saverio accendeva la macchina e faceva retromarcia, mostrandomi da vicino un severo e arrogante profilo di nuovo furioso. Era così bello, pensai con una fitta al costato: quel naso patrizio, quelle sopracciglia folte dalla linea dritta e severa, quegli occhi incredibili di quel verde innaturale, ammaliante… una strana e liquida sensazione di torpore prese a salirmi lungo le gambe e io, imbarazzata, mi accoccolai sul sedile il più lontano possibile da Saverio, ben aderente alla portiera della Golf. Provai anche a non guardarlo mentre guidava, ma questo mi risultò francamente impossibile: Saverio era così perfettamente bello e arrabbiato che era difficilissimo togliergli gli occhi di dosso. Quasi non mi accorsi che la macchina stava percorrendo una strada di ghiaia: passammo davanti all’ingresso della villa a velocità sostenuta mentre le nocche di Saverio sbiancavano strette al volante; quando imboccammo il viale verso il cancello di uscita, sembrò rilassarsi un pochino e si girò verso di me con espressione seria.
“Promettimi una cosa” sbottò all’improvviso con inequivocabile tono di comando “Prometti che non metterai mai più piede a Villa Lazzari. D’accordo?”
No, pensai ottusa e cocciuta, non ero d’accordo per niente. Incrociai le braccia sul petto e feci il broncio.
“Perché non dovrei venire, se qualcuno mi invita?” risposi aggressiva.
Lui mi lanciò un nuovo sguardo esasperato, anche se sembrava più tranquillo a ogni metro che aggiungevamo tra noi e Villa Lazzari.
“Sei cocciuta e ottusa come un mulo” berciò sprezzante “Hai parlato o no con tua nonna?”
“Certo che ci ho parlato” risposi mortalmente offesa dal suo tono saccente “E indovina, non mi ha sgridato proprio per niente. Anzi, mi ha detto che se voglio frequentare Tobia, posso farlo tranquillamente.”
Stavo diventando davvero brava nell’arte di farcire di bugie le mezze verità, ma non lo ero abbastanza per fregare Saverio Lazzari.
“Sei una piccola e subdola bugiarda” sogghignò quasi con ammirazione “Non so proprio perché Tobia si ostini tanto con te. A parte il fatto che sei attraente, non hai nessuna caratteristica adatta per essere quella giusta.”
Ovviamente, non capii il senso di quello che diceva. Solo una parola galleggiò sopra le altre e io la colsi piena di sincero stupore.
“Attraente?” chiesi incerta.
Saverio dovette leggere la sincerità nella mia voce perché sorrise magnanimo.
“Attraente, certo” rispose canzonatorio “Magari non nel senso adolescenziale del temine, ma questi sono dettagli… Perché credi che Tobia si sia interessato a te?”
Ci pensai su, mettendo coraggiosamente da parte l’ovvio imbarazzo.
“Io credevo che fosse per dare fastidio a te.” risposi poi con assoluta convinzione.
Saverio sembrò prima stupito, poi divertito: alla fine rise, inclinando la testa all’indietro e mostrando maliziosi occhi scintillanti e una perfetta chiostra di denti bianchi.
“Diamine” commentò ancora ridendo “Non pensavo di stare così antipatico al mio stesso fratello. Credevo che fosse una cosa circoscritta al resto del mondo.”
“Megalomane” lo rimproverai “Questa è una tipica frase da snob egocentrico.”
“Perché hai accettato la corte di Tobia?”
La sua domanda mi prese in contropiede: avrei voluto dirgli che tecnicamente Tobia non mi aveva mai fatto la corte, ma sarebbe stata l’ennesima mezza verità per non affrontare il mio meschino rifiuto della realtà.
“Per tanti motivi, tutti futili” ammisi alla fine abbassando gli occhi sulle mie mani graffiate “Per vanità… perché mi lusingava pensare che un Lazzari potesse interessarsi a me…”
Lui sorrise sardonico e la verità venne fuori tutta, quasi indolore.
“Soprattutto, per dare fastidio a te.” mormorai titubante sottovoce.
Avevamo passato il cancello di ingresso di Villa Lazzari e ora, grazie a Dio, eravamo in territorio neutrale. Saverio sterzò bruscamente la macchina e si fermò di colpo, girandosi contemporaneamente a guardarmi con sguardo severo. Sembrava ancora divertito, ma non del tutto: c’era una strano fondo di malinconia nei suoi occhi e non la smetteva di fissarmi con cipiglio aggrottato. E io, stupida, non riuscivo più ad abbassare gli occhi. Ogni secondo che passava in silenzio, le mie innocenti parole diventavano sempre più pesanti e ricche di un significato che non mi piaceva affatto: eppure, continuavo a guardare quelle due pozze verdi ed era come affondare in un gelido lago alpino.
“Ti sto così antipatico?” chiese lui alla fine lentamente.
Gelido lago alpino del cavolo… allora perché mi sentivo bruciare tutta?
“Non esattamente.” ammisi con la bocca che sembrava improvvisamente piena di sabbia.
Di nuovo i suoi occhi mi punsero come spilli, pieni di rimprovero e di malinconia. Niente si era mosso di un millimetro, eppure il luminoso abitacolo della macchina mi sembrava di colpo più piccolo e soffocante, come se uno strano calore alieno arrivasse dal basso per arrampicarsi con tenacia sotto i miei jeans e lungo le cosce. Mi stava succedendo di nuovo! Confusamente, mentre il calore saliva inesorabile verso il collo, pregai con tutto il cuore che Saverio non se ne accorgesse, e in effetti sembrava immune a quell’atmosfera elettrica. A parte gli occhi: quelli sembravano diventati di colpo enormi, così tormentati e severi.
“Che guaio.” mormorò a un certo punto, così piano che per un attimo pensai di essermelo sognato.
“Cosa?” domandai con un filo di voce: quasi speravo che tornasse a guardarmi cattivo come i primi tempi, per spegnere almeno un poco quel fuoco tormentoso che mi arroventava le gambe.
“Tu” sospirò riluttante “Tu sei un guaio. Un maledettissimo guaio che odora di buono.”
Non feci nemmeno in tempo a elaborare le sue parole che un’ombra oscurò il finestrino: qualcuno bussò con incertezza al vetro e io mi girai a guardare chi fosse con lentezza, come se avessi avuto il collo avvitato su cardini arrugginiti. Mi trovai faccia a faccia con Filippo e la sua espressione attonita mi riportò di colpo nel mondo dei vivi.
*    *       *
Filippo sembrava così completamente sbalordito che in altre circostanze sarebbe sembrato ridicolo: più veloce della luce, aprii la portiera e sgusciai fuori dalla macchina nemmeno mezzo secondo dopo che Filippo aveva bussato.
“Ciao.” cinguettai con voce allegra mentre il cuore mi batteva così forte nel petto che pensavo sarebbe uscito dallo sterno da un momento all’altro.
“Ciao” rispose Filippo ancora decisamente sbalestrato “Ero andato a trovarti a casa, ma tua nonna mi ha detto che non c’eri… Che ti è successo?”
Si riferiva sicuramente alla mia aria da terremotata, pensai con allarme: lui distolse lo sguardo da me e lo fissò sulla bella faccia di bronzo di Saverio che era prontamente sceso dalla Golf e ora esibiva un amabile sorrisetto di circostanza.
“Ciao.” disse con voce musicale all’indirizzo di Filippo, ma io intuii bene l’intonazione metallica dietro l’indubbia cortesia: era di nuovo arrabbiato e all’erta con tutti i sensi.
Sapevo con incredibile chiarezza che se non avessi trovato subito una scusa plausibile, Filippo avrebbe spifferato al mondo di avermi vista in macchina con Saverio Lazzari e questo non doveva succedere. Nonna avrebbe capito che le avevo disubbidito platealmente e Tobia si sarebbe arrabbiato… dopo Saverio, non avevo nessuna voglia di vedere un altro Lazzari arrabbiato con me. Quindi, sfoggiando un’incredibile faccia tosta mi girai verso Saverio con uno scintillante sorriso di circostanza.
“Ti ringrazio davvero tanto, Saverio, di avermi dato un passaggio, ma ora che ho incontrato Filippo non ne ho più bisogno.” tubai con voce estremamente cortese e fredda come se parlassi a un perfetto sconosciuto. Sorvolai sullo sguardo sorpreso e sospettoso di Saverio per girarmi verso Filippo e sorridergli con molto più calore, sperando di fargli abbastanza effetto da distrarlo da Saverio.
“Sono caduta in un roveto, lungo la strada, e mi sono storta la caviglia. Il signor Lazzari, molto cortesemente, mi ha dato un passaggio, ma ora che ci sei tu possiamo proseguire insieme fino a casa. Ti va?”
Lo guardai da sotto in su, sbattendo le ciglia come avevo visto fare a Rossella. Non sapevo perché lo stessi facendo e pensavo non avrebbe mai funzionato, invece Filippo diventò di colpo bianco e rosso come una pesca e iniziò a respirare velocemente, sorridendo con aria ebete.
“Oh, certo che mi va… ti sei fatta molto male?”
“No, no, solo una piccola storta” mentii mentre il sollievo mi allagava il petto “Posso?”
Mi appoggiai alla sua spalla con intenzione e Filippo divenne ancora più rosso e confuso.
“Certo, certo” balbettò irrigidendosi impacciato “Quale caviglia ti fa male?”
“La destra” buttai lì cominciando a zoppicare verso casa “Ma non è niente, sto già meglio.”
“Devi stare più attenta.” mi sorrise Filippo, così evidentemente contento che per un attimo sentii una fitta di rimorso pungermi il cuore. Ma fu soltanto per un secondo. Da sopra la spalla di Filippo mi azzardai a sbirciare brevemente verso Saverio e vidi che, incredibilmente, stava sogghignando: i suoi occhi verdi scintillavano di malizia e il mio cuore fece una capriola dolorosa nel petto davanti a quella irresistibile aria di complicità. Filippo si girò verso di lui e il sogghigno scomparve dietro una maschera di annoiata alterigia.
“Visto che non c’è più bisogno della mia auto, vi auguro buona giornata” sorrise Saverio rimontando in macchina “Riguardati dai rovi, Milena.”
“Buona giornata anche a te, e grazie.” buttò lì Filippo con voce incerta mentre la macchina si riavviava rombando.
Io non dissi niente: guardai la Golf sparire dietro la curva, sentendomi di colpo incredibilmente stanca e vuota mentre il ricordo della voce di Saverio che pronunciava il mio nome mi scavava dentro un cratere di malinconia.

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Capitolo 9
*** Caput VIIIum ***


Veritas filia temporis
(Gellio)

Scrollarsi di dosso Filippo senza ferirlo fu un compito molto più arduo del previsto. Mi aveva accompagnata a casa dove fortuna volle che ci fosse tutta la famiglia al completo ad accoglierci. Sudai sette camice per sorridere abbastanza da distrarlo durante il racconto creativo della mia rovinosa caduta nei rovi, per fare in modo che non pronunciasse mai il nome dei Lazzari.
“Poi è arrivato Filippo e mi ha aiutata ad arrivare fino a casa” tagliai corto alla fine pregando Dio che Filippo non saltasse su con qualche inopportuna precisazione “Ora sto morendo di fame: nonna, hai qualche pagnotta appena sfornata da esibirci?”
Nonna, ovviamente, disse di sì e Filippo approvò con esultanza l’avvento della merenda. In conclusione, per grazia ricevuta, finì tutto a tarallucci e vino; il mio fu un lavoro d’alto contenuto diplomatico che mi lasciò praticamente stremata e indebolita, quindi fu sicuramente per stanchezza che permisi a Filippo di prendermi la mano davanti a nonna Rosa che mi lanciò uno sguardo incuriosito. Mamma e papà finsero di non accorgersene e questo mi mise in allarme più che se avessero detto qualcosa: Filippo sorrideva da un orecchio all’altro e io capii finalmente che mi stavo ficcando nei guai. Lo congedai piuttosto freddamente anche se dovetti promettergli che sarei scesa in gelateria quella sera. Sperai che quello fosse un dazio da pagare abbastanza salato da chiudere il conto: come al solito mi sbagliavo di grosso.
*    *       *
Dopo cena provai in tutti i modi a fingere stanchezza e mal di testa, ma Rossella non volle sentire ragioni: sarei scesa in paese con lei perché, mi spiegò elettrizzata, qualcuno doveva dirmi qualcosa di davvero importante. Non ci misi molto a intuire chi era il qualcuno e cos’era il qualcosa: con tutta la carne che avevo sul fuoco per altri argomenti, le velleità romantiche di Filippo erano l’ultima cosa che avrei voluto in quel momento. Io volevo cercare notizie sul nome trovato inciso sull’ara di Villa Lazzari, quel tale Paracelsus che non mi giungeva nuovo, ma a Cresta del Gallo la famiglia Mercati viveva un po’ allo stato brado, senza contaminazioni tecnologiche importanti: avevamo la lavatrice, ma non la lavastoviglie e la televisione era un cubo antidiluviano che prendeva a malapena i canali Rai, quindi di computer nemmeno a parlarne. Rimanevano i vari libri di scuola archiviati di generazione in generazione nei bui meandri della cantina di nonna Rosa, quindi avevo in mente di farci un salto per cercare informazioni. Ma dovevo tentare in tutti i modi di tenere il naso di nonna lontano dalle mie ricerche: per metterla tranquilla, acconsentii a scendere in paese, sperando che un look trasandato e un’espressione truce bastassero a svilire le aspettative di Filippo. Mi sbagliavo: il poveretto mi aspettava in piazza, tutto ben vestito e profumato come se avesse dovuto andare a messa. Non riuscii a sentirmi dispiaciuta per lui: ero solo irritata dall’impossibilità di mandarlo a quel paese come avrei voluto. Fortunatamente, Martina e Sara mi furono d’aiuto: le coinvolsi in una noiosissima disquisizione sull’ultima pettinatura di Cameron Diaz sulla quale concentrai tutta la mia attenzione, snobbando il più possibile Filippo. Glissai con molta cortesia sulle sue ripetute richieste di “fare una passeggiata noi due soli” adducendo il provvidenziale male alla caviglia. Insomma, pensavo che la serata non sarebbe potuta essere più disastrosa di così, quando la Maserati dei Lazzari si fermò davanti alla gelateria smentendomi all’istante.
*    *       *
“Devo andare in bagno.” dissi in fretta sperando che nessuno dei presenti fosse così sveglio da collegare la mia diuresi all’arrivo della macchina dei Lazzari.
“Ti accompagno.” scattò subito in piedi Filippo e io non persi tempo a protestare: furiosa, zoppicai in fretta dentro la gelateria mentre vedevo scendere dalla Maserati Saverio Lazzari in persona. L’effetto che fece quello splendido esemplare maschile sulla gente circostante fu quasi imbarazzante, ma fortunatamente Filippo e io entrammo dalla porta a vetri in gelateria prima che lui ci notasse. Il bagno, ovviamente, era occupato.
“Che iella.” motteggiò Filippo, evidentemente felice di restare relativamente solo con me.
Io grugnii qualcosa in risposta mentre sentivo alle spalle il delicato tintinnio della porta a vetri della gelateria che si apriva e un rumore di passi in avvicinamento. Immediatamente mi prese il panico: afferrai il braccio di Filippo alzando su di lui una faccia seria.
“Come sei pallida, Lena!” esclamò lui premuroso “Non ti senti bene?”
Le sue parole mi suggerirono l’ennesima sporca bugia.
“Senti, non è che mi andresti a prendere la borsetta?” dissi in fretta con un sorriso stentato “L’ho lasciata appesa al motorino di Rossella e ho dentro della roba che… ehm… mi serve.”
Filippo ci mise qualche secondo a capire, ma alla fine mi fece un ampio e radioso sorriso.
“Oh, ho capito, certo” cinguettò felice “Vado e torno.”
Trottò via di buon passo e io fui lì lì per gridargli dietro: fai con comodo! Mi bloccò lo sguardo di Saverio Lazzari che incrociai per sbaglio mentre mi giravo per seguire l’uscita di Filippo. Il cuore si fermò per un attimo, folgorato da quei due fari verdi grondanti ironia e divertimento, poi riprese a battere con un pesante ritmo brasiliano mentre mi accorgevo irritata che il respiro si faceva affannoso e rapido. Ogni volta che vedevo Saverio Lazzari mi faceva sempre più effetto, meditati sconvolta: che diavolo poteva significare? Distolsi bruscamente lo sguardo e, per darmi un contegno, mi avvicinai al banco scrutando assorta i gusti di gelato. Un strano pizzicore mi salì dietro la nuca quando mi resi conto che Saverio si era avvicinato: benché gli girassi le spalle, avevo sentito il suo inconfondibile profumo e già il cuore aveva preso a rullare come un maledetto tamburo.
“Ciao.” disse la sua voce, vagamente ruvida e grondante divertimento.
Non girai nemmeno la faccia, benché avere davanti l’espressione sconvolta di Antonio il gelataio non mi fosse di grande aiuto.
“Ciao” risposi a denti stretti, giusto per non essere scandalosamente maleducata “Un cono cioccolato fondente e frutti di bosco, Antonio, grazie.”
“Volevo accertarmi che la tua caviglia godesse di buona salute.” continuò Saverio amabilmente, e il divertimento nella sua voce era tangibile.
Io tenevo ancora lo sguardo girato verso Antonio e la sua faccia da carpa lessata.
“La mia caviglia sta benissimo, grazie” risposi con alterigia “Antonio, un cono fondente e frutti di bosco, per favore.”
“Oh-ah?” gracidò Antonio perplesso. Maledizione, gelataio dei miei stivali, un po’ di collaborazione!
“A me un chilo di fior di latte e crema.” sentenziò Saverio con voce neutra e Antonio scattò come un militare agli ordini del suo generale. Mi arrischiai a lanciare uno sguardo di striscio a Saverio che adesso mi stava tranquillamente di fianco.
“Che ci fai qui!” sibilai furiosa sperando che la radio in filodiffusione coprisse i miei miagolii oltraggiati.
“Prendo il gelato” rispose Saverio amabilmente “E contemporaneamente mi accerto della tua salute. Due piccioni con una fava, non si dice così?”
Rideva, il vigliacco: gli lanciai un nuovo sguardo di fuoco arrabbiandomi ancora di più.
“Voi Lazzari siete diventati improvvisamente assidui, qui in gelateria” mormorai aggressiva “Questo nuoce parecchio alla vostra preziosa riservatezza.”
“Ero davvero molto preoccupato per la tua caviglia” rispose lui con occhi scintillanti “A proposito, era la destra: ricordatelo quando uscirai zoppicando.”
“Non hai paura che la gente ci veda parlare?” buttai lì con acrimonia subendo il suo conseguente sorrisetto storto.
“Sto cominciando a pensare che sarebbe meglio agire alla luce del sole” rispose noncurante “E poi, è davvero rilassante non dover stare sempre in campana e fare quello che mi pare visto che ci sei già tu che pensi al mantenimento della mia privacy…”
Mi strizzò l’occhio irriverente e io provai una specie di dolorosa vertigine.
“Proprio non ti capisco” berciai sottovoce “Prima fai fuoco e fiamme se parlo con tuo fratello, poi mi vieni a parlare qui davanti a tutti… che stai tentando di fare?”
Il suo sorriso canzonatorio si stemperò in una lieve malinconia.
“Sto cercando in tutti modi di allontanarti” rispose con voce piatta “Visto che il metodo inverso non ha funzionato, se ti parlo in pubblico forse ti decidi a lasciarci perdere.”
Lo guardai negli occhi: parlava sul serio, ma sembrava lo stesso vagamente triste.
“Io non lascio perdere.” scandii con decisione e il suo sguardo si indurì ancora di più.
“Sei dannatamente cocciuta.” sibilò con voce piena di rimprovero.
“E tu sei schifosamente presuntuoso.” ribattei immediatamente.
“Ecco qua il chilo di gelato.” cinguettò Antonio che, fortunatamente, non aveva seguito il dotto scambio di battute.
Saverio allungò una banconota, stampandosi in faccia un’espressione indifferente.
“Non lascerò perdere.” ribadii minacciosa mentre Antonio pescava laboriosamente il resto.
Saverio mi guardò a lungo, aggrottato e bellissimo: il mio cuore si fermò di nuovo per immagazzinare quel momento nei ricordi indelebili. 
“Mocciosa, sei in pericolo” mormorò con voce cupa e accusatoria “Te lo vuoi ficcare nella zucca?”
Poi, prese il resto da Antonio e uscì silenzioso e rapido come era entrato.
Io rimasi impalata davanti al bancone, respirando gli ultimi residui del suo profumo e chiedendomi cosa avesse voluto dire con quelle ultime parole sibilline. Cercai anche di capire perché più Saverio si ostinava ad allontanarmi più io mi intestardivo a seguirlo. Lui o Tobia? La risposta era troppo imbarazzante per essere presa in considerazione.
Alzai lo sguardo e trovai Antonio che mi fissava perplesso.
“E il mio cono cioccolato fondente e frutti di bosco dov’è?” domandai con aria di rimprovero proprio mentre Filippo rientrava trafelato dalla porta a vetri, seguito da Rossella che aveva una strana espressione da sfinge stampata sul viso.
“Lena, mi dispiace ma non ho trovato la tua borsetta” mi avvisò mortificato Filippo mentre mia sorella mi fissava con sguardo indagatore “Rossella dice che però non l’hai presa dietro, quindi forse...”
Sfoggiai un sorriso a trentadue denti a esclusivo beneficio del mio spasimante.
“Accidenti, hai ragione! Mi dispiace moltissimo di averti fatto perdere tempo, Filippo.” sospirai contrita. 
“Oh, meglio così” rispose Filippo sollevato “Ti aspetto fuori, allora.”
Si avviò mentre Rossella non la smetteva di fissarmi intensamente e io prendevo il cono bigusto che non avevo assolutamente voglia di mangiare.
“Bè?” le domandai con leggerezza allungando cinque euro ad Antonio.
“C’è qualcosa di strano in te” borbottò Rossella con voce insolitamente ferma “Guarda che se mi stai nascondendo qualcosa finirò per scoprirlo, e saranno sicuramente guai.”
Come se non ne avessi già abbastanza. Le spalancai in faccia due innocenti occhioni sorpresi.
“Non so di cosa stai parlando.” tubai falsa come Giuda.
Rossella però non se l’era bevuta: mi fissò a lungo con espressione truce.
“Ti tengo d’occhio.” grugnì uscendo anche lei dalla gelateria.
“E con Saverio e nonna Rosa, ora siete in tre.” mugugnai depressa seguendola.
*    *       *
Il mattino dopo fui molto machiavellica nel suggerire a mamma e papà di portare nonna Rosa a fare la spesa a Ustecchio. Ciò mi permetteva di rendere nonna e mamma più serene dopo l’abbuffata di shopping selvaggio che le aspettava ai grandi magazzini e dava a me tempo a sufficienza per esplorare la cantina in cerca di informazioni. Così, dopo aver promesso a nonna che non mi sarei mossa di casa, mi trovai a salutare dalla porta mentre la Multipla di papà si allontanava, sorpresa di non sentire nessun senso di colpa per il mio comportamento subdolo e contorto. Appena la macchina sparì lungo la strada, mi misi un golfino, indossai due robusti guanti di gomma e aprii la porta della cantina. Non mi era mai piaciuto un granché scendere le ripide scale di legno leggermente deformate dall’umidità per essere inghiottita dal buio odoroso di muffa della cantina. Era un locale grande come la base della casa, così stipato di cianfrusaglie da essere catalogato da papà “il paese dei Balocchi per i topi”. Sapevamo che in cantina ne scorrazzavano in abbondanza, non eravamo estranei alla fastidiosa invasione di ospiti indesiderati che spesso accompagna le case di campagna. La nostra cantina, poi, era un focolaio continuo di insetti di svariate dimensioni, cosa che rendeva il locale praticamente inaccessibile per tutta la famiglia Mercati. Papà, una volta ogni tanto, suggeriva fiaccamente di chiamare un’impresa di pulizie per vuotare la cantina una volta per tutte, ma la sua proposta non raccoglieva mai l’entusiasmo del resto della famiglia: per tutti noi, era in un certo modo consolante sapere che tutto ciò che c’era di obsoleto e dimenticato poteva essere archiviato ed eventualmente recuperato, con un po’ di coraggio e tanta buona volontà. Cosa che mi accingevo a fare in quel momento: alla luce asmatica della lampadina da quaranta watt che pendeva solitaria al centro del soffitto, mi guardai intorno scoraggiata alla ricerca dei testi perduti di scuola, rendendomi conto che stare da sola in cantina non era affatto un’esperienza rilassante come pensavo. Ammassata in un angolo c’era una inquietante montagnola di bambole con diverse lesioni fisiche, qualcuna senza un braccio e altre senza testa, seguita da una pericolosa pila di sacchi di vestiti ammuffiti, un paio di case di bambola mezze demolite, una serie di biciclette arrugginite e senza ruote, sci spaiati, scatoloni misteriosi e chi più ne ha più ne metta. Individuai un paio di cassette di plastica con dentro i miei vecchi libri di scuola dietro le biciclette: faticosamente scavalcai i ferrivecchi, rabbrividendo a ogni fruscio sospetto: non avevo particolarmente paura dei topi, ma trovavo più prudente evitarli, se possibile. Mi accoccolai in bilico su una pila di casse dal contenuto ignoto e cominciai a sfogliare alcune enciclopedie di varie forme e misure in cerca del nome Paracelsus. Dopo cinque minuti, stavo già rimpiangendo con tutto il cuore Google e Wikipedia: avevo dimenticato quanto fosse noioso il lavoro di spoglio cartaceo. Fui però ricompensata da una didascalia recuperata da un libro di storia e lessi con insolita curiosità:
 
Philippus Aureolus Teophrastus Bombastus von Hohenheim, nacque in Svizzera nel 1493. Medico eccelso e alchimista di prim'ordine, dotato di una forte personalità e di un'altrettanto forte arroganza. Era talmente pieno di sé che gli inglesi inventarono il termine bombastic per definire le persone arroganti”
 
Cominciamo bene, pensai depressa: mi sembrava di leggere la descrizione di Saverio Lazzari in persona, accidenti a lui.
 
Compì gli studi all’università di Brema e fu discepolo dell’abate Tritemio che lo istruì nelle ricerche chimiche. Trasferitosi in Tirolo, studiò mineralogia e andò alla ricerca nelle viscere della terra dei rimedi contro i morbi, sia generici sia specifici, dei minatori. Svolse la sua attività di medico tra violente controversie a Basilea, dove adottò il nome latino di Paracelsus, con riferimento al medico latino Celso; fu poi medico a Colmar, Zurigo, Merano, Middelheim e in altre città dell’Europa.
 
Così, Paracelsus era una persona realmente esistita; un medico. Svizzero. Chissà perché la cosa sembrava stranamente significativa… che fosse davvero un lontano parente dei Lazzari?
 
Fu inviato al seguito di una spedizione diplomatica a Costantinopoli dove incontrò un Arabo che gli insegnò i segreti della pietra filosofale, all'epoca aveva 28 anni. Nonostante la moltitudine di libri non vi è nessuno scritto di Paracelso su questo viaggio, documentato però da Van Helmont.
 
Pietra filosofale? Chi era, il precursore di Harry Potter? Ghignai al pensiero, anche se in me continuava a perseverare l’inquietudine.
 
Invitato a Salisburgo dall’arcivescovo Ernst nel 1541, morì il 24 settembre di quello stesso anno in circostanze rimaste oscure. Cattolico praticante ma appassionato studioso di cabala e di astrologia, Paracelo considerò l’universo come risonante in ogni sua parte (macrocosmo e microcosmo: specchi reciproci), grazie all’ Archeus lo spirito di vita che plasma forme e forze ad ogni livello reale.”
 
Perché Paracelsus era morto in circostanze oscure? Ma soprattutto, che ci faceva un’ara pagana a lui intitolata nel giardino di Villa Lazzari? Le informazioni dell’enciclopedia erano scarse e incomplete: frustrata e agognando selvaggiamente a un computer, decisi di lasciar perdere, anche perché cominciavo a sentire i morsi della fame. Scoprire chi fosse Paracelsus o Paracelso non mi aveva portato un gran che in là nello scoprire i segreti di Villa Lazzari. Era un medico, e allora? Il mondo traboccava di medici morti. Certo, questo era un medico spaccone e borioso… ecco, forse quella era una possibile caratteristica ereditaria, meditai ricordando il sogghigno altezzoso di Saverio. Però non mi sembrava un’informazione così fondamentale. Ricordai la scritta sbiadita sull’ara: Fiat vitae. “Sia vita”, avevo tradotto col mio latino incerto. La vita di chi? Che questo Paracelsus avesse aspirato a essere una specie di ostetrico? Sogghignando perversamente riposi l’enciclopedia in malo modo, rovesciando una catasta di quaderni. Mentre iniziavo a raccogliere le carte sparse, borbottando irritata prendendomela con la mia inettitudine, incappai in una serie di vecchie e polverose fotografie. Erano piuttosto piccole, di cartoncino spesso e dagli orli merlettati tipici delle vecchie immagini in bianco e nero del primo dopoguerra. Con un tuffo al cuore, riconobbi una foto dove una ragazza graziosa e giovanissima sorrideva con aria timida di fianco a un ragazzo in canottiera con il cappello calato sulla fronte e l’aria sfrontata. Riconobbi nonna Rosa e nonno Pietro, nonostante il nonno non l’avessi mai conosciuto. In un’altra fotografia c’era sempre il nonno, stavolta in giacca e cravatta, in compagnia di due tizi ingessati vestiti di nero, probabilmente qualche parente in visita: dalla faccia seria del nonno, non doveva trattarsi di una visita di cortesia. Nella terza foto c’era il nonno molto più giovane, di nuovo sorridente, in compagnia di una ragazzina che, notai con un tuffo al cuore, somigliava tantissimo a mamma. E a me, a dire il vero: certe caratteristiche come le sopracciglia dritte e folte, la distanza e la forma degli occhi e il mento a punta erano tipici tratti di famiglia. Mi chiesi chi fosse quella ragazzina: sicuramente una parente, a giudicare dalla somiglianza e dalla familiarità con cui abbracciava il nonno nella foto. Il fatto di non sapere minimamente chi fosse non mi sorprendeva: nonna e mamma non amavano rivangare il passato e già per avere notizie sul nonno si doveva fare la richiesta in carta da bollo. Eppure, più guardavo quel viso in bianco e nero, più sentivo una certa inquietudine attraversarmi la schiena. Sicuramente non c’entrava niente con le mie ricerche su Villa Lazzari e Paracelsus, ma lo stesso non potei fare a meno di rimanere a lungo con quella foto in mano, cogitabonda. Non mi ero mai considerata un tipo particolarmente avventuroso, ma qualcosa dentro di me, senza nessun motivo al mondo, mi diceva che dovevo sapere di più su quella ragazza. Misi la fotografia in tasca, buttai alla rinfusa i quaderni dietro le biciclette e mi decisi a tornare al piano di sopra: dopotutto, la famiglia si aspettava che preparassi loro da mangiare e se volevo tenerli buoni il minimo che potessi fare era nutrirli.
*    *       *
Dopo pranzo, quando tutti sonnecchiavano con le pance gonfie di ottima pasta al pomodoro e basilico, mi avvicinai casualmente alla mamma, che si era spalmata su uno sdraio all’ombra dei larici e sembrava prossima alla sublimazione spontanea.
“Hei” mi apostrofò animandosi quando vide che ero intenzionata a sedermi sulla sedia accanto a lei “Quale onore! A cosa devo l’augusto favore della tua presenza?”
“Non ho bisogno di soldi, se è questo che temi” risposi arricciando il naso e fingendo molta scioltezza “Volevo solo sapere com’è andata questa mattina con nonna Rosa.”
Mamma me lo disse, con dovizia di particolari: mi sentii quasi in colpa per l’entusiasmo che dimostrava nei miei confronti… in effetti, in quel periodo avevo parecchio trascurato i rapporti madre/figlia. Troppo presa da mille bugie e sotterfugi? Chiacchierammo oziosamente per un bel po’, alternando pensieri profondi con meri pettegolezzi. Era proprio lì che io volevo approdare, ma sapevo che mamma ci sarebbe arrivata da sola.
“Allora, sai niente delle questioni sentimentali di Rossella?” buttò lì mamma fingendo indifferenza.
La guardai in tralice con una certa sufficienza.
“Sai benissimo che Ross mi scuoia viva se ti racconto qualcosa dei fatti suoi.”
Mamma fece spallucce.
“Bè, è piuttosto palese che se la intende con Marco il figlio del macellaio” continuò mamma pensierosa “Naturalmente non durerà: credo che tua sorella stia usando il poveretto per… come dirla in maniera materna? Affinare le armi, ecco. E tu invece?”
Mi aveva preso in contropiede girandosi a guardarmi in faccia direttamente: io non potei fare a meno di arrossire.
“Io cosa?” domandai guardinga.
“Voci di corridoio mi dicono che Filippo, il fratello di Marco, è cotto di te come uno stinco al forno.”
“Ma dai.” sbuffai cercando di convincere anche me, ma in realtà ero allarmata: se la notizia era già giunta alla mamma, doveva essere grave. E vera. Rabbrividii.
“Filippo non è il tuo tipo.” commentò mamma con insolito acume, notando la mia reazione.
“Effettivamente no” risposi guardinga “E’ simpatico e carino, ma…”
“… ma non è il tuo tipo.”
Mamma non smetteva di guardarmi fissa negli occhi: avevo la netta impressione che da un momento all’altro mi avrebbe fatto una di quelle domande cosmiche a cui non potevo rispondere, quindi pensai bene di tirare fuori l’asso di briscola.
“Ho trovato questa” dissi togliendo la fotografia del nonno e della ragazza dalla tasca dei jeans e porgendola a mamma “Sai mica chi sia la ragazza insieme al nonno?”
Mamma, sorpresa del brusco cambio di direzione del discorso, prese la foto che le porgevo e la scrutò a lungo, aguzzando la vista.
“Era la sorella del nonno” rispose dopo un po’ con voce vagamente afona “La mia unica zia paterna… Credo che si chiamasse Margherita. E’ morta giovane, a quindici o sedici anni. Il nonno non ne ha mai parlato molto.”
Mi restituì la foto vagamente incuriosita.
“Dove hai trovato questa foto? Non l’avevo mai vista prima.”
“Il nonno non ti ha detto com’è morta?” domandai glissando con eleganza sulla sua domanda.
“No” rispose mamma con un sospiro “Ma nonna Rosa deve saperlo: dovevano avere più o meno la stessa età e Cresta del Gallo è un paese piccolo. Perché non lo chiedi a lei?”
Io abbassai lo sguardo, cogitabonda.
“Nonna è un po’ strana ultimamente” mi decisi a dire quasi sinceramente “Non vorrei che si facesse strane idee solo perché sono un po’ curiosa.”
Mamma socchiuse gli occhi con aria saputa.
“Sbaglio o sento puzza di Villa Lazzari?” domandò con voce musicale.
Fui lì lì per arrossire di nuovo ma riuscii lo stesso a mantenere un’aria normale.
“Cosa te lo fa pensare?” chiesi prudentemente.
“Nonna non ha mai amato molto i Lazzari” rispose mamma senza guardarmi in faccia “E a quanto pare qualcuno di loro ti ronza un po’ troppo intorno per i suoi gusti.”
Io chiusi di scatto la bocca perché avevo paura di dire qualcosa di stupido.
“Personalmente credo che sia un ragazzo strano, ma non pericoloso” continuò mamma salottiera “Però a differenza dei comuni mortali sguazza nell’oro ed è così bello che potrebbe spezzarti il cuore solo con uno sguardo, quindi in fondo anch’io penso che non sia prudente frequentarlo troppo.” 
Non fu sufficiente: qualcosa di stupido mi uscì lo stesso.
“Saverio e io abbiamo solo parlato.” dissi precipitosamente.
Mamma inarcò le sopracciglia mentre un sorriso saputo le stirava le labbra.
“Saverio?” buttò lì ironica “Io stavo parlando di Tobia.”
E con questa, pensai fosse definitivamente il caso di cucirmi la bocca.

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Capitolo 10
*** Caput IXum ***


Par nobile fratum
(Detto popolare)

Il giorno dopo decisi di andare alla fonte, in barba a qualsiasi cosa potesse pensare nonna Rosa: mi ero stufata di camminare sempre sulle uova per paura di urtarla e la curiosità di sapere qualcosa di più sulla famiglia Lazzari si stava lentamente trasformando in un bisogno fisiologico. L’interesse verso l’opinione della mia famiglia si abbassava in modo inversamente proporzionale rispetto all’interesse crescente verso la famiglia Lazzari e, per quanto sapessi che era pericoloso ricamarci troppo sopra, non potevo fare a meno di pensare a Saverio e a Tobia molto più di quanto fosse lecito. Quella mattina, quindi, ci misi un’ora a prepararmi: mi spazzolai con cura i capelli e rinunciai a malincuore a un abito corto piuttosto inadatto a una passeggiata nel bosco. Rimediai con un paio di short e un top sfacciatamente senza spalline. Mi sentivo un po’ in colpa mentre percorrevo a passo svelto il sentiero verso la fonte: stavo per fare sia un torto a nonna Rosa, cercando volutamente di incappare in Tobia Lazzari, sia a Tobia stesso perchè il motivo che mi spingeva a cercarlo non era esattamente di carattere amichevole. O almeno, non lo era nei suoi confronti. Cavolo, che confusione…
Arrivai alla fonte col cuore in gola e rimasi molto delusa dal fatto che non ci fosse nessuno. D’altra parte, dovevo aspettarmelo: dopo una settimana di voluto boicottaggio era logico che Tobia si fosse stufato di aspettarmi. Posto che mi avesse mai aspettata, tra l’altro. Forse mi ero illusa un po’ troppo sui sentimenti di Tobia nei miei confronti, pensai improvvisamente con un filo di vergogna e sollievo insieme. Forse aveva davvero ragione nonna Rosa dicendo che era troppo facile invaghirsi di un Lazzari e perdere obbiettività nei loro…
“Ciao, sorella di mezzo.”
La voce allegra di Tobia spezzò i miei pensieri, facendomi provare un improvviso quanto altamente inopportuno guizzo lungo la schiena. Mi girai in direzione della voce e finalmente lo vidi: camicia bianca, mani in tasca, aria rilassata, capelli scompigliati e bellezza così intensa da togliere letteralmente il fiato. Il cuore mi batteva così forte che ci misi qualche secondo a trovare di nuovo la favella.
“Ciao, fratello piccolo.” risposi alla fine, vagamente rauca.
Tobia sorrise e si avvicinò, lento e aggraziato come un ballerino.
“Allora, come procedono le vacanze?” domandò salottiero.
Mi lanciai in una breve quanto rilassante descrizione delle mie giornate a Cresta del Gallo: un racconto perfidamente noioso che Tobia assorbì con un sorriso giocoso piazzando qualche opportuno commento qua e là. Mi piaceva parlare con Tobia, pensai a malincuore: era un interlocutore attento e affascinante, sempre discreto, brillante e gentile. La sua cultura vastissima non smetteva mai di sorprendermi, senza contare che possedeva la difficile arte del mettere a proprio agio, come una specie di moderna geisha. Mi spiazzò decisamente, quindi, quando cambiò bruscamente atteggiamento per tornare serio.
“Non ti sei fatta vedere per un bel pezzo.” disse con aria di rimprovero e con espressione quasi triste.
Pian piano, si era avvicinato parecchio e dovetti piegare all’indietro la testa per guardarlo in faccia: aveva due occhi così luminosi e verdi, così… belli…
“Ho avuto da fare.” dissi a fatica senza quasi accorgermi di parlare.
“Mi sei mancata.” mormorò sottovoce.
Non potevo credere alle mie orecchie… Tobia Lazzari che diceva a me che gli ero mancata? Dov’ero finita, in un episodio di “Ai confini della realtà”?
“Sono… ehm… mi dispiace… ehm…”
Arrossii fin quasi a prendere fuoco, completamente nel pallone come una fessa qualunque: che bel figurone che stavo facendo! Tobia, incredibilmente, sembrò apprezzare la mia confusione: con aria piuttosto soddisfatta si appoggiò al basso muretto di mattoni e mi rivolse un sorriso abbagliante.
“Ho persino creduto che non volessi più vedermi” disse con leggerezza “Potevo averti sconvolto troppo con la mia proposta di giocare a tennis…”
“Mi avevi invitata a casa tua?” domandai a bruciapelo.
Un lampo rapidissimo passò negli occhi di Tobia, così rapido che non riuscii a identificarlo.
“A dire il vero pensavo ai campi a pagamento a Ustecchio.” rispose con voce neutra e io, chissà perché, mi convinsi che Saverio non aveva parlato a Tobia del mio breve raid a Villa Lazzari. Ciò voleva dire che Saverio e io condividevamo un segreto: quel pensiero mi sembrò inopportunamente intrigante.
“Te l’ho detto, non so giocare a tennis” risposi decisa, poi subito buttai lì la seconda domanda-bomba “Tobia, perché vuoi uscire con me?”
Tobia, di colpo, sembrò perplesso se non vagamente allarmato.
“Io… pensavo che fossimo amici.” mormorò cauto “Non ti va?”
La sua domanda con quel tono sinceramente perplesso smontò il mio bel castello di certezze e mi provocò un rossore diffuso decisamente imbarazzante.
“Certo che mi va” mi affrettai a rassicurarlo “E’ solo che… bè, è decisamente strano che noi due siamo amici.”
Tobia mi lanciò uno sguardo stranamente scaltro, subito mimetizzato da un bel sorriso solare.
“Ho visto cose ben più strane a questo mondo” rispose con leggerezza “In fondo, siamo solo un ragazzo e una ragazza che trovano piacevole la compagnia l’uno dell’altra. No?”
“Sì” risposi incerta: poi, pescando la domanda da chissà quali meandri della mia psiche malata, buttai fuori: “Hai mai sentito parlare di mia prozia Margherita?”
Stavo quasi per vergognarmi della domanda a pera, decidendo su due piedi che un ciclo di incontri con uno psicologo mi avrebbe sicuramente giovato, quando vidi il viso di Tobia sbiancare come se tutto il sangue gli fosse defluito dal corpo. Le labbra rigide, gli occhi improvvisamente scuri e ombrosi, era il ritratto della sorpresa e dell’orrore. La sua reazione fu così repentina che mi spaventò.
“Scusa.” mi affrettai a dire e Tobia sbatté le ciglia, come svegliandosi da un’improvvisa trance.
“Io… ah… ho avuto come un giramento di testa… devo aver preso un colpo di sole” balbettò dimenticando che eravamo immersi nell’ombra del bosco “Scusami tu. Dicevi?”
Non me la dava a bere: giramento di testa dei miei stivali! Per quanto potesse essere assurdo, incredibile e inspiegabile, capii subito che Tobia aveva sicuramente sentito parlare di Margherita. Ed ebbi paura.
“Niente, ora devo andare.” tagliai via bruscamente, recuperando il mio bottiglione.
Tobia, recuperato il controllo di sé, sembrò sinceramente dispiaciuto.
“Ok” sospirò tristemente “Ma ci rivedremo… vero?”
Già girata verso il sentiero, tentennai un attimo pensando a cosa dirgli.
“Tu mi nascondi qualcosa” risposi francamente “E questo mi spaventa. Non credo che sia prudente incontrarti, se non ti decidi a raccontarmi la verità.”
Era una forzatura bella e buona, lo sapevo. Tobia avrebbe benissimo potuto scoppiarmi a ridere in faccia o inalberarsi o prendermi in giro. Invece rimase immobile e cupo, confermando tutti i miei sospetti senza bisogno di dire una sola parola.
“Arrivederci, Tobia.” dissi incamminandomi svelta sul sentiero.
Il mio passo era veloce, il mio cuore pesante: per quanto Saverio me lo avesse detto e ripetuto fino allo sfinimento, fu solo con il silenzio di Tobia che capii davvero di essere in pericolo.    
*    *       *
 La febbre che mi aveva assalita dopo la mia gita sotto il temporale doveva avere per forza lasciato qualche cosa di anomalo nel mio sangue: non c’era altra spiegazione. Come comprendere altrimenti quello che stavo per fare? Ero sempre stata una ragazza assennata, così insofferente ai colpi di testa da risultare quasi noiosa; da qualche giorno, invece, dentro al mio cuore bruciava un’urgenza, una smania di sapere che rasentava quasi l’ossessione. Sapere di più, sapere tutto sui Lazzari e sul loro nebuloso segreto. Per ottenere questo, avevo gettato metaforicamente la spugna, ammettendo con me stessa che forse, forse, dietro a quella curiosità poteva esistere un interesse non propriamente accademico. Sarebbe stato davvero da stupidi ignorare ancora il fatto che perdevo intere ore a pensare a Tobia e a Saverio. Molto a Tobia, troppo a Saverio. Avrei voluto con tutta me stessa riuscire a riportare i miei pensieri su binari normali, ma non ci riuscivo: giorno e notte, la mia testa era piena di occhi verdi ostili e roventi allo stesso tempo. Dovevo sapere perché ero in pericolo: a quel punto non era più questione di snobismo patrizio, ma c’era sicuramente qualcosa sotto e io volevo sapere cosa fosse quel qualcosa. E dovevo vedere Saverio: per niente al mondo mi sarei chiesta il perché, ma non potevo fare a meno di prendere atto di quella necessità impellente, di quel bisogno necessario come respirare. Saverio, quando mi aveva sorpresa a Villa Lazzari, era sembrato furioso, ma anche spaventato: evidentemente c’era qualcosa lì che non dovevo vedere, forse proprio quel qualcosa che mi avrebbe messo in pericolo. E Tobia, allora? Come poteva conoscere Margherita? C’erano tracce di lei a Villa Lazzari ed era per quello che non potevo andare là? Chiedere a nonna Rosa era fuori discussione: se la sensazione di pericolo spaventava me, figurarsi nonna chioccia… mi avrebbe rinchiusa dalle Carmelitane scalze fino all’estinzione della razza dei Lazzari. Come potevo scoprire qualcosa se le mie domande rimanevano senza risposte in maniera così frustrante?
Sapevo di avere la soluzione sotto mano: sarei tornata di nascosto a Villa Lazzari.
Cos’altro potevo fare?
*    *       *
Per quanto fossi ben determinata a fare quello che avevo in mente, quando quel pomeriggio mi incamminai verso il cancello segreto nel muro di Villa Lazzari, avevo il cuore incastrato in gola come un osso di pollo e una sensazione di freddo pericolo che mi irrigidiva le gambe. Avevo scelto un orario diverso dalla volta precedente: era tardo pomeriggio e i Lazzari avrebbero dovuto essere al lago, a rigor di logica. Ciò non toglie che mentre mi avvicinavo quatta quatta al cancello, prima ancora di entrare nel terreno dei Lazzari, mi sentivo come se stessi camminando verso il patibolo. Ogni passo mi chiedevo sempre più costernata cosa diavolo stessi facendo. Quanti anni di carcere mi sarei beccata per violazione di proprietà privata? Era quella la cosa peggiore che potesse capitarmi? Ma soprattutto, cosa pensavo di trovare là? Quando arrivai davanti al cancello avevo le guance in fiamme, il cuore in tumulto e la testa vorticante per i troppi pensieri. Mi immobilizzai chiudendo gli occhi e sperando di recuperare almeno un po’ del sangue freddo necessario per varcare quella soglia.
“Fossi in te non lo farei.” disse alle mie spalle una voce ben nota e severa.
Saverio.
Sapevo che era lui. Il mio cuore aveva fatto una capriola ancora prima che iniziasse a parlare, come recependo la sua presenza prima di vederlo.
“Buongiorno, signor Lazzari” mi affrettai a dire con voce neutra anche se avevo la bocca secca e impastata come se avessi ingoiato un sacco di farina “Sto per caso invadendo i vostri confini di proprietà? In questo caso sono desolata, non sapevo di avere sconfinato.”
Saverio uscì dall’ombra di un salice alla mia destra e si fermò a qualche passo da me, ficcandosi bene le mani in tasca. Anche così distante, recepivo la sua presenza in maniera quasi dolorosa, come se fosse in grado di manifestarla con più forza di qualsiasi altra forma vivente che ci circondava. Io mi sforzai di tenere gli occhi fissi sul colletto della sua camicia negligentemente aperta sul collo: non osavo guardarlo in faccia, avevo paura di dimenticarmi di nuovo di come si fa a respirare se avessi incrociato quei suoi terribili occhi verdi.
“Non sei sulla mia proprietà” disse con aria stanca e con una voce così deliziosamente musicale da mettere i brividi “Ma sappiamo entrambi benissimo cosa stavi per fare. E non fingere di non saperlo, Lena: sono già abbastanza arrabbiato così, senza che ci aggiungiamo le tue bugie.”
Azzardai uno sguardo tra le ciglia e mi accorsi sorpresa che era sincero.
“L’ultima volta che ci siamo visti mi hai fatto capire che sarei stata in pericolo se avessi osato ancora avvicinarmi a Villa Lazzari” dissi con forzata leggerezza “Perché mai dovrei ficcarmi volontariamente nei guai?”
Lui sembrò prima divertito e poi stranamente corrucciato: si avvicinò di un passo, lentamente, come se si stesse avvicinando a un animale selvatico pronto a scappare a qualsiasi movimento brusco.
“Già” rispose seccamente “E’ esattamente la stessa cosa che pensavo io!”
“Perché devo stare lontano da casa tua?” domandai in fretta a bruciapelo guardandolo dritto negli occhi.
Fu un errore: immediatamente la sua risposta perse di importanza affogata da quel liquido mare bollente. Cercai di non fissarlo spudoratamente in faccia come stavo facendo e scoprii di non riuscirci. Santo cielo! Non ricordavo che Saverio fosse così bello e così… irresistibile. Sembrava sprigionare qualcosa di magnetico che mi impediva di distogliere gli occhi da quel suo viso perfetto e luminoso.
“Perché non è un buon posto per te.” rispose lui lentamente e con serietà.
“Perché?” insistetti sottovoce.
Lui si avvicinò ancora di un passo: il suo profumo aleggiava tutto intorno e mi stordiva, come i residui di un veleno mefitico.
“Non posso dirtelo” mormorò lui con quella sua voce irresistibile “E tu perché sei qui?”
“Non lo so” risposi vagamente rauca poiché avevo il cuore così alto da bloccarmi le vie respiratorie “C’è qualcosa che tu e Tobia nascondete, qualcosa che non capisco ma che in qualche modo mi riguarda. Non riesco a lasciare perdere: mi spaventa, ma mi incuriosisce.”
Saverio fece un altro passo e ora era così vicino che potevo quasi percepire il calore irradiato dal suo corpo aggraziato e perfetto. Sentii la testa cominciare a vorticare furiosamente quando, esterrefatta, mi accorsi che stava allungando una mano per prendermi una ciocca di capelli con leggera e sublime delicatezza.
“La curiosità uccide il gatto, non lo sai?” mormorò con voce piatta.
Certo che lo sapevo e davanti a quegli occhi, ammalianti e insondabili, mi sentivo davvero come un gattino maldestro e avventato che gioca ignaro con la coda di un grosso e feroce leone acquattato nell’ombra.
“Se sono davvero in pericolo, perché tu vuoi salvarmi?” buttai fuori allo sbaraglio.
Saverio aggrottò appena le sopracciglia: io rimasi immobile come un pesce morto mentre lui giocherellava pigro coi miei capelli, sempre senza staccarmi quei due maledetti fanali verdi dagli occhi.
“Non riesco a spiegarmelo nemmeno io” rispose con voce così bassa e accorata che non poteva non essere sincera “E’ una cosa così nuova… in tanti anni non era mai successo che un pensiero mio, totalmente ed esclusivamente mio, diventasse così rilevante. Più importante di ciò che devo e di ciò che so.”
“Io sono importante per te?” mi uscì dalla bocca.
Non lo avessi mai detto: immediatamente sentii le guance iniziare a bruciare come fuoco mentre Saverio mi fissava, aggrottato e incuriosito.
“Importante?” chiese con tono accademico: avrei voluto seppellirmi e non riemergere per un intero millennio.
“Lascia perdere” mi affrettai a tagliare corto “Non vorrei che tu pensassi… insomma, non è che io volessi… che io pensassi… ecco…”
Mi impappinai e il suo sguardo divenne improvvisamente acuto e pungente come uno spillo.
“Cosa intendi per importante?” chiese con voce sempre più bassa.
“Lascia perdere, ho detto.” sibilai bruscamente ma lui non aveva nessuna intenzione di lasciar perdere: si avvicinò ancora e la sua camicia mi sfiorò il petto, leggera e profumata come uno sbuffo di Paradiso.
“Dimmelo.” ordinò e a me quasi cedettero le ginocchia.
“I-intendevo i-importante come ragazza” gracchiai in pieno stato confusionale “Sai come f-funziona…”
Saverio inclinò leggermente la testa sempre senza staccare gli occhi dai miei.
“Fai finta che non lo sappia” disse molto piano e molto gentilmente “Cosa dovrei sentire se tu fossi importante per me come ragazza?”
Ci mancava solo questa: avrei davvero voluto avere il coraggio di dirgli di smetterla di prendermi in giro e mandarlo a quel paese. Ma non avevo la forza nemmeno di respirare, figurarsi.
“Confusione” mormorai vinta “Batticuore. Sudorazione diffusa. Desiderio.”
Saverio si chinò leggermente verso di me: sentivo il suo respiro tiepido sul viso e nonostante non riuscissi a staccare gli occhi dai suoi, vedevo ogni singolo tratto del suo viso bellissimo con un nitore e una chiarezza abbaglianti.
“Sento il tuo cuore che batte” disse con voce rauca “Sembra quasi di ascoltare il tuo sangue scorrere veloce come un fiume in piena. Sembri confusa e il tuo respiro è rapido come quello di un uccellino in trappola. La tua pelle è calda e nei tuoi occhi… nei tuoi occhi c’è qualcosa di torbido che potrebbe benissimo essere desiderio. Stando a quello che hai detto, dovrei dedurre che sono io a essere importante per te.”
“Oh” risposi senza voce “In… in via teorica avresti ragione.”
Si chinò ancora di più verso di me: il suo naso quasi mi sfiorava la guancia, incendiandomela come lava bollente.
“Allora, è così?” incalzò lui con quella voce morbida e irresistibile “Io potrei piacerti?”
Non era leale chiedermelo quando ero così palesemente incapace di mentire. A lui ma, soprattutto, a me stessa.
“F-forse” soffiai fuori in un alito, vinta “In… in via del t-tutto teorica.”
Con orrore mi accorsi che stavo girando il viso verso la sua bocca, irresistibilmente attirata dal suo respiro ammaliatore. Avrei dovuto scappare via, dentro di me lo sapevo, ma l’unica cosa su cui riuscivo a concentrarmi erano le sue labbra: avevano un taglio così deciso e perfetto, e sembravano così morbide... Rimasi in silenzio e le parole diventavano sempre meno importanti man mano che il suo profumo mi avvolgeva, insolente e irresistibile: il desiderio di allungarmi e di posare le mie labbra sulle sue mi stava invadendo fino a diventare insopportabile.
“Se ti piacessi, riuscirei a farmi ascoltare da te?” sussurrò e l’odore zuccheroso del suo alito era così buono da farmi quasi venire l’acquolina.
“Forse.” ripetei incapace di formulare pensieri razionali.
Saverio fece scivolare molto lentamente la mano dai miei capelli alla spalla, dalla spalla al collo e dal collo alla nuca: il suo tocco era leggero, la sua pelle liscia e calda e io mi accorsi esterrefatta che non avevo nessunissima intenzione di fermarlo. Il respiro usciva a singhiozzo mentre socchiudevo la bocca, desiderando con tanta intensità il contatto con le sue labbra che avrei anche potuto morire pur di ricevere un suo bacio. Fu a quel punto che successe qualcosa di strano: la mano di Saverio divenne rigida e dura come marmo e il suo sguardo gelò improvvisamente diventando così serio e calcolatore da fermarmi il cuore in una morsa di ghiaccio.
“Allora ascoltami bene” sibilò con voce improvvisamente feroce e sferzante “Se vuoi vivere, stai alla larga dai Lazzari.”
Mi mollò improvvisamente la nuca arretrando di due passi veloci e lasciandomi lì impalata con la bocca socchiusa e le guance in fiamme, così dolorosamente eccitata e indifesa da cadere immediatamente nella vergogna del ridicolo. Nonostante i sensi ottenebrati, registrai con orrore quanto era successo: mi aveva ingannata e ferita volontariamente, solo per mettermi in imbarazzo e umiliarmi abbastanza da prenderlo sul serio. Con uno scatto secco chiusi la bocca trattenendo a stento l’istinto impossibile di scappare via o di scoppiare in lacrime o di fare entrambe le cose.
“Bella tecnica” gracchiai allora con voce tremante stringendo i pungi con forza “Molto bastarda, così tipica dei damerini snob e stronzi… avrei dovuto immaginare che l’avresti usata.”
Lo vidi irrigidirsi ed evitare il mio sguardo: io intanto avevo ancora male dappertutto, come se mi avesse picchiata invece di respirarmi addosso.
“Tutto pur di tenerti lontana.” grugnì lui furibondo.
Ovviamente, mi infuriai: ero così destabilizzata che la faticosa arte di tacere imparata in tanti anni di duro lavoro mi abbandonò lasciandomi in balia di me stessa.
“Non me ne frega un fico secco se credi di piacermi” sibilai aggressiva “E nemmeno se sto scombinando i tuoi piani. Puoi fingere di sedurre anche il Papa in persona, ma lo stesso non ho nessuna intenzione di lasciar perdere.”
Lo sguardo furioso che mi rivolse mi spiazzò di nuovo tanto era tormentato, frustrato e confuso.
“Stupida” ringhiò altezzoso dopo un piccolo silenzio teso “Non stai scombinando solo i miei piani. Quello che è sbagliato è che sia tu stia scombinando me.”
Mi zittii, incapace di assimilare il senso del discorso. Lui distolse lo sguardo, come temendo che potessi decifrare qualcosa dai suoi occhi.
“Adesso vattene” grugnì infine con voce più controllata “E non farti più vedere.”
Non avevo capito niente dei suoi discorsi, ma almeno questo risultava chiaro: lui voleva che io sparissi. Paradossalmente, recuperai il mio controllo e tentai una nuova mossa.
“E va bene” cedetti “Però prima di andare via, vorrei chiederti se hai mai sentito parlare di mia prozia Margherita.”
Lui, incredibilmente, si ficcò le mani in tasca e sorrise sornione.
“Non te la sei già giocata con Tobia questa carta?” domandò amabilmente.
Accidenti: Tobia gli aveva parlato della nostra conversazione? Oppure quello sporco spione doppiogiochista mi aveva pedinato…? Miracolosamente, le sue parole riuscirono a farmi infuriare di nuovo.
“Vuoi davvero tenermi lontana?” grugnii alzando il mento con aria di sfida “Allora, dammi delle risposte. Nient’altro potrà fermarmi.”
L’espressione di Saverio tornò corrucciata, ma non rispose: con il batticuore, intuii che stava davvero considerando la possibilità che gli avevo proposto.
“Se rispondo ad alcune domande, ci lascerai in pace?” domandò lentamente e con serietà.
“Sì.” risposi, mentendo spudoratamente senza nemmeno battere ciglio.
Lui sembrò finalmente convincersi.

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Capitolo 11
*** Caput Xum ***


Hic sunt leones
(Nelle cartine geografiche)

Saverio tacque di nuovo, cogitabondo, fissandomi ferocemente negli occhi. Io sostenni il suo sguardo anche se la sua abbagliante bellezza mi metteva in difficoltà e mi bloccava il respiro. Sembrava quasi che mi incoraggiasse a parlare, quindi partii in quarta per la tangente.
“Cosa ha a che fare mia prozia Margherita con la tua famiglia?” sparai fuori con un tono da inquisizione spagnola di cui mi pentii immediatamente.
Uno scintillio dorato attraversò lo sguardo cupo di Saverio.
“Salti troppo avanti, mocciosa” rispose con blando scherno “Non ho nessuna intenzione di cedere ai tuoi puerili ricatti.”
“Allora io continuerò a indagare.” risposi decisa incrociando le braccia sul petto e alzando il mento altezzosa.
Saverio mi si parò davanti, di nuovo esasperato e furibondo: arretrai involontariamente di un passo, più per sfuggire al suo profumo che mi mandava in confusione che al suo sguardo di brace.
“Sei una piccola, stupida aspirante suicida!” grugnì feroce, il naso a un millimetro dal mio.
Aprii la bocca per vomitargli addosso qualche centinaio di saporiti improperi.
“Zitta!” sibilò, sgridandomi e pregandomi insieme; gli occhi mi caddero sulla sua bocca  e le parole che volevo dirgli scivolarono via dalla mia mente, come fine sabbia sopra a un setaccio dalle maglie enormi. Di nuovo, nel giro di pochi minuti, caddi completamente alla mercè del suo sguardo che mi catturò e mi avvinse come un laccio al collo, lasciandomi senza respiro. Saverio non disse niente, non esultò della sua seconda vittoria, anzi, sembrava stranamente spaventato. E vicino. Il richiamo di quella bocca era davvero irresistibile, meditai vagamente meravigliata.
“Perché…” ringhiò Saverio quasi a se stesso, corrucciato.
“Perché cosa?” domandai senza reale interesse.
Saverio rimase a lungo a respirarmi addosso, stordendomi completamente.
“Perché faccio così fatica a pensare, se ti ho vicina.” ruggì alla fine, frustrato ed esausto.
Io rimasi senza respiro.
“N-non l’hai già g-giocata la carta del t-tentativo di s-seduzione?” mi costrinsi a dire pescando la domanda nei meandri ovattati della mia mente senza tuttavia riuscire a dare un tono sferzante alla voce. Avrei voluto dirgli “Sappi che non funzionerà”, ma nemmeno io ero capace di dire una bugia tanto grossa. Saverio taceva e mi guardava le ciglia, il mento, le guance: studiava il mio viso con una intensità così rovente da farmi sentire caldo in tutto il corpo.
“Sarebbe un’ottima scusa.” mormorò infine distratto quando ormai mi ero convinta che avrebbe ignorato la domanda.
“U-Una scusa per cosa?” soffiai fuori mentre le gambe cominciavano a tremarmi.
Il suo sguardo si fece duro mentre il mio diventava sempre più fragile: il cuore mi batteva così forte nel petto che avevo paura che mi sarebbe schizzato fuori da un momento all’altro.
“Per baciarti.” rispose Saverio dopo un breve silenzio e la sua voce era come una lingua di fuoco che mi devastava il petto.
Fallo, pensai tra me, esterrefatta, scandalizzata e assolutamente convinta di quello che stavo pensando;  fallo, baciami, per favore…
La sua mano salì a sfiorarmi la guancia, pigra e leggera come un volo di farfalla.
“Che faresti se ti baciassi, mocciosa?” domandò col respiro che inciampava sul mio a singhiozzo.
“Ah… i-o… mi-mi opporrei…” gracidai così poco convincente che un piccolo sorriso malizioso e triste illuminò gli occhi cangianti di Saverio fissi nei miei.
“Eh, già” mi canzonò, accarezzandomi la punta del naso con il suo, arrogante e patrizio “Vedo le tue rocciose difese ben schierate e pronte alla controffensiva.”
“… offensiva?” biascicai, alla deriva.
Il suo dito mi solleticò il mento, pigro e sensuale tanto da farmi vibrare come un diapason al tocco.
“Hai gli occhi così maledettamente trasparenti…” sussurrò sottovoce.
Io socchiusi la bocca e alzai il viso verso il suo: poteva ridere di me finché voleva, poteva strapazzarmi di nuovo, prendermi in giro, persino prendermi a sberle… il desiderio di avere le sue labbra sulle mie era così potente da sovrastare tutto, persino me stessa.
“Dovrei baciarti, così la faremmo entrambi finita” mormorò rauco Saverio con le labbra così vicine alle mie che ne avvertivo il calore “Dovrei farlo, così la pianterei di chiedermi perché il suo profumo mi stordisce così e saprei finalmente se il tuo sapore è altrettanto buono…”
“Do-dovresti farlo.” sospirai, così in estasi da farmi dimenticare dov’ero e chi ero.
“Ma la smetteresti di fare domande pericolose?” continuò Saverio mentre cominciavo ad intuire con un brivido caldo la sua vicinanza lungo tutto il corpo.
“La… smetterei?”
Un sospiro e invece di baciarmi Saverio si allontanò.
Ci misi un po’ ad assimilare la sua lontananza: i miei circuiti vibravano ancora impazziti come in mezzo ad una tempesta magnetica. Rimasi immobile, sentendo l’eccitazione e il benessere defluire lentamente dal mio petto, lasciandolo stranamente vuoto e debole come un patetico guscio d’uovo. Saverio mi guardava ostile e corrucciato, ma più che arrabbiato sembrava esausto. Il pensiero che non mi avrebbe baciata nemmeno stavolta non mi riempì di vergogna, come sarebbe stato d’uopo, ma di pura, squassante agonia.
“Non mi baci più?” belai prima ancora di poter mordermi la lingua e subito dopo arrossii fino a diventare incandescente.
Saverio, stranamente, non raccolse l’opportunità di demolirmi completamente: aveva ancora quello sguardo frustrato e debole, così accattivante da spezzare il cuore.
“Te ne devi andare mocciosa” disse solo con voce triste “Non sai quanto ci sei andata vicina.”
“Vicina a cosa?” sbottai scaricando di colpo la tensione “Cosa sono tutti questi misteri, queste pagliacciate assurde? Credi davvero che così facendo io mi tiri indietro?”
Saverio mi lanciò una lunga occhiata stranamente arrendevole.
“Non hai proprio nessuna intenzione di mollare la presa, eh?” domandò quasi rassegnato.
Ancora tremante, ma determinata, annuii con foga.
“Non potrai stare qui sempre a piantonare l’ingresso di Villa Lazzari” berciai con più convinzione di quella che avevo realmente “Prima o poi riuscirò a sapere qualcosa.”
Saverio mi lanciò uno sguardo vagamente assente e cogitabondo.
“Potrei farti del male sul serio.” commentò con voce neutra e fredda.
Gli credetti immediatamente e rabbrividii, ma non cedetti di un millimetro.
“Oppure, potresti rispondere a qualche domanda.” buttai lì come controproposta.
Saverio non rispose e chissà perché considerai la cosa incoraggiante così continuai a spron battuto.
“Io potrei desistere dall’intento di ficcanasare fino a domani sera, se sapessi che possiamo fare uno scambio.”
Lo scettico sopracciglio alzato di Saverio parlò per lui, ma io non desistetti.
“Potrei decidere di starmene buona buona fino a domani, e magari accetterei di passare di qui, sapendo che non farei un giro a vuoto… insomma, potremmo raggiungere un compromesso. Tu risponderesti a qualche domanda e io avrei salva la vita per un giorno intero. Che ne dici?”
Lo sguardo di Saverio era inflessibile, ma gli angoli della sua bocca tremavano di riso represso come le vibrisse di un gatto.
“Pazza furiosa.” disse con nonchalance e il suo sorriso riottoso quasi mi ammazzò di emozione.
“Sante parole.” gracidai incerta, sbattendo forte le ciglia.
“Tre giorni.” mi prese in contropiede Saverio alla fine, insindacabile.
Inspirai a fondo, esultante.
“Due giorni. E questa è l’ultima offerta, signor Lazzari: prendere o lasciare.”
I suoi occhi verdi erano così grandi e così magnetici che non potevo guardarli senza perdere il contatto con la ragione. Mi sforzai di fissargli solo il colletto, aspettando il suo responso.
“Due giorni” sentenziò alla fine lugubremente “Per due giorni interi non voglio sentire nemmeno uno sbuffo del tuo profumo qui introno. Sono stato chiaro?”
Un largo sorriso vittorioso mi scoppiò in faccia, anche se cercavo il più possibile di trattenermi.
“Ok” risposi e la mia voce cantava “Ci vediamo qui dopodomani.”
Saverio era già sparito nel buio prima ancora che terminassi la frase, lasciandomi sola, fiduciosa ma, lontano dai suoi occhi di fuoco,  anche stranamente malinconica.
*    *       *
 Passai due giorni interi in stato di trance. Non potevo nemmeno chiudere gli occhi che risentivo tutte le sensazioni che mi avevano avvolto in quegli incredibili momenti di vicinanza con Saverio, come se mi aleggiassero intorno pronte ad attaccarmi in un momento di debolezza. Non mi era mai successa una cosa simile, ammisi controvoglia. Per quanto la situazione fosse inquietante e avessi chiarissima in testa la consapevolezza che avrei dovuto mollare subito tutto come una patata bollente,  il pensare agli occhi di Saverio posati su di me mi mandava a fuoco l’intero apparato tegumentario. Mi sforzavo di mangiare e a malapena rivolgevo la parola ai miei familiari. Vivevo in una nube ovattata dai sensi dove esistevano solo due parole: “Domani. Saverio.”.
Dopo quasi dodici ore di clausura forzata nella mia stanza, vidi Rossella fare capolino dalla porta, a metà tra il titubante e l’arrogante.
“Bè?” esordì entrando con indolenza nella stanza quando vide che stavo semplicemente vegetando sdraiata sul letto “Che di fai chiusa qui a meditare? Hai intenzione di farti buddista?”
Girai il viso a guardarla, un mesto sorriso rarefatto sulle labbra.
“Potrebbe anche essere” risposi con calma “Che sei venuta a fare? Mamma ti  ha mandato in avanscoperta per sapere se sto meditando il suicidio?”
Rossella fece una smorfia, sedendosi sul bordo del letto: ormai, conoscevamo entrambe troppo bene i metodi subdoli di mamma per controllare la salute della sua prole.
“Giù parlano parecchio di te” rispose Rossella sbrigativa “Siamo tutti più o meno d’accordo che tu abbia preso una botta in testa, ieri.”
“Botta in testa?” domandai allarmata: non potevo certo permettermi di suscitare sospetti nella mia famiglia!
“Bè, sai… sei strana in questi giorni.”
“Strana?” buttai lì controllando la voce “E’ una vita che mi dicono che sono strana. In che senso stavolta sarei strana?”
Rossella mi lanciò un lungo sguardo scaltro.
“In senso molto femminile” ribatté mandandomi in panico “Per la prima volta nella tua vita, dimostri palesemente di avere le ovaie, sorella mia.”
“Che vuol dire…?” mormorai disorientata.
Rossella agitò una mano, sbrigativa.
“Dai che lo sai… sguardo perso oltre l’orizzonte, pupilla immobile, bocca semiaperta modello carpa presa all’amo…”
“Potrebbe essere un colpetto di Alzheimer precoce.” suggerii incoraggiante.
“Non rispondi quando ti parlano; gironzoli per la casa cozzando contro tutte le superfici solide come se non vedessi dove metti i piedi; sospiri sempre…”
“Parla quella dall’efisema polmonare cronico” ribattei corrucciata e sempre più spaventata “Guarda che non è niente! Magari sono solo un po’… stanca…”
Rossella fece un verso disgustato inarcando altezzosa le sopraciglia.
“Questa puoi darla a bere a mamma, ma non a me, ciccia.”
“Ecco la miss Marple del Tremosine” sbuffai gonfiando le guance “Guarda che ti stai facendo solo dei castelli in aria. Io non ho niente che non vada.”
“Lena, cocca bella, è ovvio che ti è successo qualcosa.”
Annuì allusiva e mi sorrise: io cominciai a sentirmi vagamente confusa.
“Che vuoi dire?” domandai guardinga e Rossella si avvicinò con fare circospetto.
“Ti è successo qualcosa che… magari… riguarda il tuo… lato femminile.”
Ammiccò di nuovo e, per un tremendo attimo di imbarazzo, pensai che alludesse alle mie prime mestruazioni.
“Credo che tu sia fuori strada, Ross.” annunciai prudentemente .
“La tua è la tipica reazione da post maschio” continuò imperterrita mia sorella, esultante “Scommetto che le cose tra te e Filippo si stanno mettendo bene.”
Per poco non scoppiai a riderle in faccia: mi trattenni e cercai il più possibile di mantenere un’aria soave.
“Credimi, Rossella, tra me e Filippo c’è una simpatia esclusivamente platonica.” dissi, molto convincente.
A dire il vero non c’era neanche quella, ma non potevo spegnere del tutto le velleità amorose di Filippo senza insospettire Rossella. Entrambi mi servivano ignari dai miei maccheggi coi Lazzari…
“Platonica, sì” ghignò Rossella con aria saputa “Fai come vuoi, sorellina. Ma se avessi bisogno di aiuto, sai dove trovarmi: sull’argomento ragazzi ne so abbastanza da consigliarti per il meglio.”
Di nuovo mi trattenni a stento dal sorridere e le rivolsi un sorriso grato.
“Ehm, grazie Rossella. Lo terrò presente.”
Soddisfatta, lei si alzò dal letto e fece per uscire dalla stanza.
“Oh, ho un pensierino per te.” cinguettò poi girandosi a guardarmi con aria maliziosa.
Di nuovo mi allarmai e rimasi con un sorriso di circostanza ad aspettare il seguito. Come in un numero di magia, Rossella tirò fuori da dietro la schiena un pacchettino avvolto in carta velina color pastello e me lo gettò teatralmente sullo stomaco.
“Per le tue nuove necessità.” disse strizzandomi l’occhio per l’ennesima volta.
Trattenendo un sospiro esasperato, scartai il pacchetto che conteneva un paio di fazzoletti di stoffa microscopici.
“Cos’è?” chiesi sinceramente incuriosita.
“E’ il mio completo intimo di Cavalli” rispose lei con un tono così magnanimo che sembrava mi avesse regalato nientemeno che lo scettro d’Inghilterra “Non puoi pensare di uscire con un ragazzo con quella roba da corazzata Brancaleone che hai per biancheria. Le tue Sloggi ammazzerebbero la libido di un mandrillo in calore.”
Rimasi per un bel po’ a fissare quel complicato intrico di fili e pizzi e rouches mentre cercavo in tutti i modi di non arrossire e di non ridere.
“Oh, grazie.” dissi alla fine simulando il più possibile gratitudine “Sono, ehm… lusingata.”
“Promettimi che lo metterai la prossima volta che devi vedere lui” sospirò ispirata Rossella “Anche se poi non concludi niente, ti farà comunque sentire più sexy e più bella. Credimi!”
“Sulla parola.” annuii convinta, stampandomi un’espressione grata sul viso.
Soddisfatta, Rossella uscì dalla mia camera ed io potei sfogare i miei sogghigni isterici contro il cuscino.
Rossella pensava che io e Filippo… ah, roba da matti. Però era stata davvero carina a darmi il suo completo intimo: so che era stato un prezioso cimelio per lei, sempre così attenta all’estetica. Presi i due pezzi di stoffa impalpabile studiandoli dubbiosa e cercai di immaginarmi come sarebbe stato averli addosso: pizzicore, un filo che tira, uno che cede… li conoscevo quegli affari lì, peggio delle tagliole dei boscaioli!
Poi…
Nel bel mezzo dei miei sogghigni di superiorità, mi apparve come un flash la visione di me coperta solo dal completino di Rossella davanti a Saverio che mi guardava. Di colpo, smisi di ridere: la palla di fuoco che solitamente aleggiava intorno al mio stomaco mi colpì l’inguine con una tale potenza da lasciarmi senza fiato.
Diamine, pensai esterrefatta mentre mi rannicchiavo su me stressa, piena fino all’orlo di vergogna,  questi dovevano essere per forza gli ormoni. Partiti tutti in un colpo dopo un letargo esagerato, pronti a trascinarmi al largo in balia di un ragazzo bellissimo, pericoloso e assolutamente  irraggiungibile.
Aveva ragione Saverio” pensai allarmata “Che guaio”.
Costernata, mi accorsi che la cosa davvero allarmante era che persino la voce dei miei pensieri, in quel momento, aveva preso il tono ruvido e vibrante di Saverio Lazzari.
*    *       *
Avevo cominciato a iperventilare già subito dopo pranzo, spiluccando appena un delizioso pollo arrosto che mi sembrava di cartone. Avevo risposto a monosillabi alle noiose domande della famiglia, sentendo le mani ghiacciate e le guance febbricitanti. Mamma mi annunciò che secondo lei covavo di nuovo l’influenza; Sabrina mi chiese come mai quel giorno i miei capelli sembrassero normali invece che il solito covone di fieno sulla testa (la risposta era che avevo passato tutta la mattina a curarli con shampoo e impacchi al midollo di bue, ma non potevo ammettere con nessuno quella mia vergognosa debolezza); Rossella sorrideva sorniona ma non diceva niente; al primo colpo d’occhio di era accorta che sotto il normalissimo vestito estivo avevo indossato il suo completino di Cavalli, alias nuova ed esaltante tortura cinese seconda solo al cilicio chiodato, e tanto le bastava per farsi tutti i suoi castelli romantici. Diamine, pensai piena di rimorsi, non avrei dovuto, certo, così avrei insospettito tutti… ma il pensiero che di lì a poco avrei rivisto Saverio mi bruciava dentro come un fuoco, inculcandomi sottopelle una frenesia sconosciuta che faticavo a gestire. Le prime ore del pomeriggio furono un’autentica tortura: quando mi decisi a prendere il sentiero per il bosco, ero in netto anticipo ma non ce la facevo proprio più a sopportare quella logorante attesa. Ogni passo che facevo mi sentivo più spaventata, più agitata e più ansiosa. Non vedevo l’ora di vedere Saverio: avevo bisogno della sua immagine, dovevo assolutamente respirare quel suo profumo celestiale perché erano due giorni che mi sembrava di essere in apnea. Nemmeno per un attimo mi chiesi il perchè di quel mio assurdo comportamento: temevo la risposta, temevo me stessa e temevo lui. Niente domande, grazie, almeno per il momento. Arrivai alla fonte con il respiro corto e la faccia rovente.
Ma non c’era nessuno.
Il venticello estivo agitava pigro le foglie in previsione della sera e i grilli cantavano assordanti e soporiferi. Intorno, nient’altro che silenzio e la pigra vita del bosco che frusciava. Scoraggiata, mi sedetti con precauzione sul bordo della vasca piena di raganelle oltraggiate e fissai il mio riflesso: era quello di una ragazza graziosa, con bei capelli che fluttuavano leggeri introno al viso che aveva un’espressione corrucciata di attesa.
Attesi, infatti: a un certo punto mi alzai in piedi, bighellonai un pò in giro e tornai a sedere, affranta. Ero già stufa di aspettare e non erano passati nemmeno venti minuti! Aspettai ancora, mi rialzai e mi tornai a sedere; a quel punto cominciai a pensare che Saverio non sarebbe nemmeno venuto. A me non era nemmeno passato per l’anticamera del cervello di non stare ai patti (la ferrea istruzione cattolica di nonna Rosa qualche frutto lo aveva pur dato, no?), ma a lui? Saverio si era più volte dimostrato insofferente alle mie richieste e poteva benissimo avermi mentito, per l’ennesima volta. Magari in quel momento stava proprio ridendo di me, insieme a quel debosciato del fratello, seduti in veranda con in loro svolazzanti vestiti di lino e la loro avvolgente, onnipresente superpuzza sotto il naso. D’un tratto ebbi la nausea, ma non per il probabile bidone; stavo davvero male se pensavo di non poter più rivedere Saverio. Ok, inutile negarlo, aveva ragione Rossella: qualcosa era successo. Cosa, di preciso, non avrei saputo dirlo, ma di certo…
“Hei.”
La sua voce.
Mi arrivò così improvvisa addosso che per poco non mi ribaltai dentro alla fonte, e tanti saluti alle due ore di maschera per capelli al midollo di bue.
“Saverio!” quasi strillai schizzando in piedi come se mi avessero sparato col cannone.
Lui era di fronte a me, rilassato e sorridente come se non sospettasse minimamente che rischiavo di spezzarmi il cuore con un solo cenno del suo capo. Eppure, oltre all’apparente rilassatezza del corpo, c’era quella leggera patina di malinconia che lo faceva sembrare vagamente fragile e ancora più irresistibile. Dovetti fare forza su me stessa per rimanere apparentemente immobile mentre bruciavo dentro come una maledetta torcia.
“Sei in anticipo.” mi rimproverò Saverio stemperando il tono burbero della voce con un affascinante sorrisetto storto.
Cercai affannosamente una scusa plausibile per il mio deprecabile anticipo, rimproverandomi di non averci pensato prima.
“Ero troppo agitata per aspettare” confessai alla fine: non avevo più nemmeno la forza di mentire “E tu? Non ti sei annoiato a morte con tutto quel tempo libero a disposizione?”
Saverio sorrise, suo malgrado: un lento sorriso che saliva dal basso a scoprire i denti perfetti e a illuminare gli occhi di sottobosco.
“In effetti, un po’ mi sono annoiato senza te fra i piedi.” mormorò ironico.
Risposi al suo sorriso, incantata dalla sua accecante bellezza: Saverio distolse subito lo sguardo, si ficcò le mani in tasca e fissò gli alberi alla sua destra con cipiglio corrucciato.
“Devo dedurre che in questi due giorni tu non sia rinsavita abbastanza da prestarmi ascolto, dico bene?”
Mi avvicinai a lui lentamente, col cuore che mi pulsava dolorosamente in gola.
“Effettivamente, mi sento più decisa che mai” risposi quasi in tono di scusa “Io ho rispettato i patti e per due giorni non mi sono fatta viva. Ora tocca a te rispondere a tutte le mie domande.”
“Ad alcune tue domande” precisò Saverio di nuovo ostile “E comunque sto ancora aspettando che tu cambi idea.”
Ci pensai su, seriamente.
“Non posso.” ammisi alla fine con sufficiente sincerità da farlo corrucciare ancora di più.
“Quanto vorrei poter essere bugiardo.” mormorò alla fine con amarezza, quasi a se stesso.  
Io mi avvicinai ancora di un passo, respirando il debole profumo che lui emanava e sentendomi per quello assurdamente bene.
“Ma non lo sei, vero?” sorrisi incoraggiante mentre lui rimaneva serio a fissare gli alberi. Passò un lungo lasso di tempo dove quasi potevo vederlo lottare contro se stesso. Aspettai tranquilla e fiduciosa che di decidesse a cedere, accontentandomi di godere della sua perfetta e arrogante bellezza.
“E va bene” capitolò alla fine “Risponderò alle tue domande, ma ti avverto… a tuo rischio e pericolo.”
Mi lanciò un’occhiata ostile e spaventata e io inspirai a fondo mentre le gambe cominciavano a tremarmi mio malgrado.
“Ve bene.” mormorai, ma Saverio non aveva ancora finito.
“Sia chiaro, Lena, quando dico rischio, intendo rischio grosso. Accetta un ultimo consiglio, mocciosa: se davvero vuoi ammazzarti con le tue mani, è più rapida e indolore una bella revolverata in fronte.”
Ignorai le sue minacce e per un attimo rimasi muta mentre le domande si accavallavano dietro le mie labbra: benché mi aspettassi che Saverio rispettasse i patti, non avevo seriamente preparato nessuna domanda, benché ne avessi da fare almeno un migliaio.
“Prima domanda: cosa ha avuto a che fare mia prozia Margherita con la tua famiglia?” buttai fuori scrutandolo sospettosa.
Saverio mi si avvicinò e mi piantò gli occhi in viso, lucidi e quasi tristi.
“Margherita è morta a Villa Lazzari.” rispose alla fine scandendo bene le parole con voce neutra.
Una sensazione di freddo gelido mi attraversò la schiena alla sua semplice risposta.
Morta.
Margherita era morta a Villa Lazzari.
Morta! Perché non ero sorpresa? Perché era come se l’avessi sempre saputo? E soprattutto, perché non scappavo via a gambe levate?
“Come è morta?” sussurrai invece, anche se non ero affatto certa di volerlo sapere.
Saverio sembrò cogitare attentamente la risposta.
“Dissanguata.” rispose infine sempre con lo stesso tono monocorde e lo stesso sguardo tra il triste e il furioso.
Il respiro mi si bloccò nel petto, rovente e doloroso come un maglio di fuoco.
“Uccisa?” sussurrai così sottovoce che sperai non mi sentisse.
“Sì.” rispose invece lui, implacabile.
L’immobilità del suo sguardo era terribile.
“Perché?” alitai senza voce, il cuore sempre più gonfio e dolorante nel petto.
Saverio sollevò millimetricamente le spalle, senza cambiare espressione: benché fosse immobile, ogni centimetro del suo viso urlava di rabbia e sofferenza.
“Sopravvivenza.” rispose piano.
“Chi l’ha uccisa?” mormorai disperata strizzando gli occhi dalla pena: cosa sarebbe successo, cosa avrei fatto  se mi avesse risposto che erano stati i Lazzari a uccidere Margherita…?
“Siamo stati noi.” rispose Saverio determinato, facendomi crollare il mondo addosso.
E io ancora non riuscivo a scappare via.
Un pensiero assurdo e tremendo mi attraversò la mente come una meteora incendiaria.
“Come fai a sapere queste cose?” domandai anche se l’ultima cosa che volevo era sapere la risposta “Chi… qualcuno te le ha raccontate?”
Saverio continuò a guardarmi con occhi freddi e calmi, insondabili come quelli di una statua di marmo.
“Non me le ha raccontate nessuno” rispose con estrema calma “Io c’ero.”
Deglutii a vuoto, dolorosamente, mentre un oceano di cupa incertezza mi invadeva le viscere.
“Non è possibile.” mormorai sbiancando completamente.
Saverio, con estrema e pericolosa leggerezza, si era avvicinato di due passi e mi sovrastava incombente prima ancora che intuissi che si era mosso.
“Lo è” disse con forza e nei suoi occhi vicinissimi c’era di tutto: tristezza, rabbia, determinazione, rimpianto… il suo sguardo mi prosciugò ogni forza, ogni ribellione.
“Ora basta domande e basta risposte” sentenziò Saverio bruscamente alzando il mento “Hai saputo anche troppo. Vattene via e stai lontana, se vuoi sopravvivere.”
“Non hai paura che vada a denunciarvi alla polizia?” gracidai quasi soprappensiero.
“Se sospettassi questo, ti ucciderei.” rispose Saverio con semplicità.
Non mentiva: la cosa veramente terribile era che ora nei suoi occhi verdi c’era solo disarmante verità.
“Quindi non vuoi più rivedermi?” uscì dalla mia bocca senza nessuna logica mentre il cuore era quasi fermo in petto tanto era diventato pesante.
Saverio non sembrò sorpreso dalla mia domanda: mi guardò ancora con quel misto di emozioni negli occhi, sulle quali in quel momento prevaleva il rimpianto.
“Lena, forse non hai capito che in questa storia non ha nessuna importanza quello che io voglio” disse con voce dura “Io non ho nessun diritto di volere qualcosa. Io devo: è questo il mio scopo. Il fatto che non mi spieghi perché con te sia così diverso, rende le cose più difficili ma non le cambia.”
Si interruppe un attimo e la sua espressione si addolcì un poco, come se in quel momento stesse permettendo a se stesso di lasciar trapelare qualcosa di inconfessabile. La sua mano si sollevò e tornò a sfiorarmi i capelli, stavolta con titubanza, quasi con timore.
“Non continuare a cercarci… non costringermi a farti del male” mormorò piano ma con decisione “Te ne farei, anche se con te vicino dimentico di essere quello che sono.”
Sull’ultima parola la sua voce si era incrinata mentre si allontanava di un passo, incerto. Il calore del suo corpo rimase ad aleggiare intorno per poi scemare lentamente, lasciandomi fredda, confusa e spaventata. Saverio si passò una mano sulla fronte senza guardarmi: sembrava esausto e stranamente rigido, come se non fosse molto presente. Con gambe tremanti e incerte, indietreggiai, riprendendo solo in quel momento a respirare rapidamente. Lui non accennò un movimento: rimase di mezzo profilo, con le ciglia abbassate e il capo chino, come in attesa di un immaginario boia che gli tagliasse la testa. Io gli girai le spalle e corsi via, ancora incapace di formulare un qualsiasi pensiero razionale ma solo desiderosa di ritornare a casa.
*             *             *
Corsi e corsi più forte, sperando di correre abbastanza velocemente da lasciare indietro i miei pensieri. Corsi facendomi sferzare le gambe dai cespugli, corsi senza piangere e senza parlare… ma quando giunsi davanti a casa, mi bloccai sul posto a pochi metri dalla porta. Ansimavo e i polmoni bruciavano come fuoco: la testa vorticava così velocemente che per un attimo temetti di svenire. Continuavano a saettarmi nella mente alcuni brani della mia assurda e surreale conversazione con Saverio e speravo, anzi, quasi supplicavo me stessa di sentire paura, schifo e orrore. Invece con gli occhi della mente riuscivo solo a rivedere gli occhi di Saverio, quelle pozze verdi e dolenti che mi tenevano incatenata con chissà quale potente alchimia. Per quanto mi sforzassi di considerare le implicazioni assurde e pericolose della situazione, per quanto mi aggrappassi con le unghie e con i denti alla realtà, capii con devastante semplicità che non ci sarei riuscita. Qualcosa di più grande invadeva la mia mente e il mio cuore, qualcosa di così enorme da rendere futile e senza importanza qualsiasi altro argomento, dalla fame nel mondo alla mia stessa sopravvivenza: quel qualcosa era Saverio. Non sapevo in che modo lui potesse aver cambiato così radicalmente la mia vita, ma era indubbio che la sua esistenza, ignorata fino all’anno prima, era diventata la cosa più importante per me. Ne ero forse innamorata? Non avrei saputo dirlo. Non ero mai stata innamorata prima, ma trovavo sospetto il fatto che nonostante lui avesse appena minacciato di uccidermi, io non riuscissi nemmeno a respirare a causa della sua assenza. In tutta sincerità, non pensavo che potesse succedermi una cosa così devastante, che tutte le mie solide basi morali diventassero inconsistenti confronto al ricordo del profumo irresistibile di Saverio. Forse era ossessione. O schizofrenia. O forse era davvero amore, nel qual caso nemmeno Dio mi avrebbe potuta salvare.
Mentre ancora ero ritta davanti alla porta di casa, il respiro tornò quasi normale e anche il tumulto di pensieri si quietò un poco. Invece di buttarmi a terra e cominciare a piangere per la mia tragica sorte, provai a vedere la mia situazione sotto un punto di vista diverso, ma con mia grande sorpresa mi accorsi che non c’era un altro punto di vista: dentro di me sapevo che la strada imboccata era quella che avrei seguito, indipendentemente dal fatto che fosse la cosa eticamente più giusta o sbagliata da fare.
Ovviamente, ero nei guai.
Guai così grossi che se solo la mia famiglia avesse sospettato quanto, mi avrebbe rinchiusa in una cella imbottita e avrebbe buttato via la chiave. Avevo deciso di stare dalla parte di un ragazzo bellissimo che dichiarava di aver ucciso mia prozia cinquant’anni prima e che minacciava di uccidermi se mi fossi avvicinata a casa sua. Chiunque al mio posto si sarebbe quanto meno disperato… come mai invece io mi sentivo così bene?
“Lena?” mi chiamò nonna Rosa comparendo sulla soglia: aveva un’espressione sospettosa e un mestolo di legno in mano.
La guardai allarmata, sperando che il terremoto di emozioni che avevo appena vissuto non trasparisse dalla mia faccia angosciata: cercai di darmi un contegno normale e le sorrisi rassicurante.
“Ciao nonna” dissi con voce sorprendentemente normale “Preparata la cena? Muoio di fame!”
Non era vero, naturalmente: avevo lo stomaco così chiuso che non ci sarebbe passato nemmeno uno spillo, ma l’apparenza in quel frangente era diventata di importanza fondamentale. Nonna Rosa era diventata il nemico: era lei a frapporsi tra me e Saverio e benché capissi che l’unica cosa sensata da fare sarebbe stato parlare con lei, decisi su due piedi che avrei smesso di essere sensata.
“Quasi” rispose nonna Rosa con un lungo sguardo indagatore “Stai bene? Sembri un po’ strana…”
Sostenni la durezza dei suoi occhi con una faccia tosta incredibile.
“Certo che sto bene” cinguettai avvicinandomi e prendendola amichevolmente sottobraccio “Mamma e papà sono tornati?”
Mentre nonna rispondeva, i miei pensieri erano già altrove: ero la prima a essere sbalordita dal mio comportamento, ma lo stesso non riuscivo ad agire diversamente, come una stupida falena attratta dalla lampadina rovente. Entrando in casa, a braccetto con nonna Rosa, compresi che da quel momento sarei stata sola: nessuno mi avrebbe appoggiata, nessuno mi avrebbe capita o aiutata. Ero sola. Con Saverio.
Quel pensiero, bellissimo e orribile, riuscì a darmi i brividi più di ogni altra cosa.

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Capitolo 12
*** Caput XIum ***


Nihil difficile amanti
(Detto popolare)

Per qualche giorno evitai accuratamente di dare nell’occhio e fui molto tranquilla, partecipando assiduamente alla vita di famiglia. In realtà, mi sembrava di vivere all’interno di una spessa bolla di vetro tanto trasparente quanto fragile: niente e nessuno era in grado di penetrare la sua liscia superficie, se non qualche raro e fiacco sprazzo di conversazione che, comunque, riguardava i Lazzari. Stavo ben attenta a non fare domande e a rimanere impassibile, ma ascoltavo tutto con una brama, una sete di sapere che ardeva dentro come un fuoco. Tornai in giro con Rossella e Sabrina, incontrai di nuovo i ragazzi alla gelateria, dovetti ancora respingere elegantemente le avances di Filippo sotto lo sguardo perplesso di Rossella, ma tutto mi succedeva mentre ero in preda a una sorta di anestesia diffusa, dove niente poteva toccami. Ero riuscita a convincere le persone intorno a me che andava tutto bene… bè, tranne nonna Rosa. Mi ero illusa di averla data a bere anche a lei, quando una sera aspettò che mamma e papà fossero andati a letto per salire in camera mia e bussare discretamente alla porta.
“Avanti.” dissi già sulla difensiva, posando il libro sul davanzale su cui ero seduta.
Nonna entrò sorridendo con un’aria così timida e infelice che non potei fare a meno di provare tenerezza.
“Nonna!” esclamai sorridendo “Che succede? Vieni a sederti qui.”
Nonna si avvicinò lentamente: sembrava di colpo molto più vecchia e provai un senso di profonda pena per lei.
“Lena, ti devo parlare.” disse con voce seria sedendosi pesantemente accanto a me.
“Ho come un dejà-vu” motteggiai sorridendo tranquilla “Sei ancora preoccupata per Tobia Lazzari? Ti posso assicurare che non lo vedo da giorni.”
Era vero: avevo ritenuto più prudente non vederlo, nonostante bruciassi di curiosità e lui fosse l’unico che, potenzialmente, sembrava disposto a rispondere alle mie domande. Nonna, però, non diede l’impressione di ascoltarmi. Sedeva al mio fianco corrucciata, guardandosi le mani.
“Tua madre mi ha detto che le hai fatto vedere una foto” disse a un tratto piuttosto bruscamente “Posso vederla?”
“Ma certo.” risposi andando a pescare la foto dal cassetto in cui l’avevo rinchiusa. Le mani di nonna Rosa tremarono leggermente mentre afferrava la fotografia e la osservava attentamente, strizzando gli occhietti miopi.
“Santo cielo” sospirò accorata “Quanto tempo…”
“Era la sorella del nonno, no?” domandai con leggerezza, visto che l’argomento era anche troppo pesante.
“Margherita” approvò nonna con lo sguardo fisso sull’immagine “La conoscevo bene perché aveva la mia età. Aveva quindici anni quando è morta… cinquanta anni fa esatti.”
“Non mi hai mai parlato di lei” buttai lì con leggera quanto falsa aria di rimprovero “Eravate amiche?”
Nonna sospirò, stringendosi nelle spalle.
“Eravamo più che amiche” mormorò piano “Io sono figlia unica, lo sai: ai nostri tempi era una cosa molto strana non avere fratelli. Margherita e tuo nonno ne avevano altri quattro; io avevo loro.”
“L’avevi conosciuta a scuola?” chiesi sottovoce.
A nonna Rosa scappò un sorrisetto involontario.
“Ci siamo conosciute in chiesa” rispose mestamente “Ai nostri tempi funzionava così. I genitori di tuo nonno facevano i custodi a Villa Lazzari, che al tempo era disabitata: erano molto invidiati a Cresta del Gallo perché i Lazzari pagavano molto bene. Andava tutto a meraviglia: Margherita e io eravamo amiche e cominciavo a conoscere bene anche tuo nonno Pietro. Poi, un giorno, i Lazzari tornarono…”
Sospirò di nuovo mentre io mi irrigidivo, in attesa della batosta.
“Cosa è successo?” domandai sottovoce, anche se dentro di me intuivo che la risposta non mi sarebbe piaciuta.
“Margherita si prese una cotta” rispose con voce cupa “Per Saverio Lazzari. In verità, un po’ tutte le ragazze da marito del paese si erano invaghite di un Lazzari, ma c’era da aspettarselo. Erano così belli. Così affascinanti. Così ricchi.”
Sorrise con aria triste.
“Eravamo tutti molto poveri, sai… e i Lazzari, sempre beneducati e bellissimi con le loro camicie svolazzanti e i loro denti perfetti, erano come un sogno fattosi realtà per qualsiasi ragazza.”
Con una morsa al cuore, mi resi conto che quello che diceva sembrava la fotocopia di quello che stava succedendo in quel momento a me, a cinquant’anni di distanza. 
“Loro, ovviamente, non davano confidenza a nessuno” proseguì nonna “Si facevano vedere di rado in paese e quando venivano erano cortesi ma distanti, inaccessibili per chiunque. Chiunque… Tranne che per Margherita.” 
Le sue parole ruzzolarono giù per una voragine creatasi improvvisamente nella mia coscienza, una voragine scura di senso di colpa e paura.
“All’inizio sembrava essere una cosa senza importanza… insomma, il fatto che Saverio si fosse messo a salutarla e a incappare sempre in lei mentre passeggiava nel giardino della villa sembrava più una fortunata coincidenza che qualcosa di voluto. Ma poi…”
La mani di nonna si animarono improvvisamente: corsero a prendere le mie e le strinsero forte.
“Io ero la sua migliore amica e Margherita confidò solo a me che le cose erano diventate più serie. Si era innamorata di Saverio e lui le aveva fatto capire che poteva essere corrisposta. Non so di preciso cosa successe tra loro: quando feci capire a Margherita che secondo me stava sbagliando a frequentare di nascosto il figlio del padrone, litigammo e lei si allontanò da me senza raccontarmi più niente. Forse si baciarono, non so… poverina, sembrava come drogata.”
Improvvisamente, gli occhi di nonna Rosa si riempirono di lacrime.
“Dopo, arrivò quel maledetto San Lorenzo.” disse quasi con furia.
A Cresta del Gallo, ogni anno, la notte di San Lorenzo c’era una festa paesana: in piazza si allestivano stand gastronomici, si ballava con l’orchestra folk e, a mezzanotte, c’era la Grande e Incomparabile Esibizione di Fuochi Pirotecnici. Per gli anziani era l’evento clou dell’anno, per i giovani il termine ultimo per iniziare o far esplodere l’ennesimo amorazzo estivo. Insomma, tutti aspettavano San Lorenzo, per un motivo o per l’altro. Tutti tranne nonna Rosa, e stavo finalmente per scoprire perché.
“Che è successo quella notte?” domandai con voce secca cercando di trattenere un tremore.
Nonna non rispose subito: si guardò le mani a lungo, rivivendo probabilmente una sofferenza interiore arrugginita dal tempo, ma ancora presente.
“Margherita morì” rispose infine con voce piatta “La trovarono il nonno e suo padre al mattino dopo nel bosco. Aveva il vestito della festa e dei fiori tra i capelli… dissero che era stato un incidente, che era caduta mentre camminava… aveva perso tanto sangue fino a morirne. Ma che ci faceva Margherita da sola nel bosco di notte? Te lo dico io che ci faceva: era con Saverio Lazzari. Nessuno mi toglie dalla testa che se lei è morta è stata colpa sua. Provai a dirlo al nonno, ma alla fine nessuno sporse mai denuncia. I Lazzari erano già ripartiti per la Svizzera in fretta e furia dopo il funerale: avevano aiutato la famiglia ad affrontare le spese e al bisnonno tanto bastò. Dopotutto, aveva altri cinque figli e i Lazzari davano loro soldi in abbondanza per farli vivere agiatamente…”
Nonna Rosa alzò lo sguardo su di me e ci vollero tutte le mie forze e il mio sangue freddo per mantenere un’espressione rilassata sul viso.
“Che storia triste” commentai sinceramente “Io credo… anzi, io sono certa che tu potresti anche aver avuto ragione. Magari fu davvero colpa di Saverio Lazzari se Margherita morì.”
Feci una pausa a effetto in modo che nonna assorbisse la mia solidarietà.
“Ma questo è successo cinquant’anni fa” proseguii decisa “Il Saverio Lazzari di adesso non è più il Saverio Lazzari di allora. Non c’è in giro nessuna tresca segreta con nessuno della famiglia e io… io non sono certo Margherita.”
Dentro di me, affogavo nel senso di colpa e nella costernazione per la scioltezza con cui stavo sciorinando una tale e convincente serie di panzane, soprattutto considerando quanto mi aveva detto Saverio l’ultima volta che ci eravamo visti. Eppure, dovetti risultare abbastanza convincente perché gli occhi di nonna Rosa si animarono speranzosi.
“Forse hai ragione” mormorò stranamente incerta “Penserai che sono solo una vecchia visionaria…”
“Visionaria sì” sorrisi sollevata “Ma non così vecchia.”
Nonna Rosa rispose al sorriso con una faccia tremula che mi strinse il cuore in una morsa di pena e vergogna.
“E’ che… tu mi ricordi molto Margherita” mormorò piano quasi con timidezza “E Saverio Lazzari… Buon Dio, lui è assolutamente identico.”
Di nuovo mi sorpresi per la prontezza con cui nascosi un brivido di raccapriccio dietro a un solare sorriso.
“Nonna, non ti preoccupare” dissi con un ammirevole tono autoritario mentre nonna si alzava in piedi “Non sono invaghita di nessun Lazzari, non c’è nessun Lazzari invaghito di me e soprattutto non ho nessuna intenzione di scorrazzare in giro nel bosco di notte con dei fiori in testa. Quindi, mettiti tranquilla e fidati di me. Ok?”
Nonna Rosa sorrise rinfrancata e io mi sentii bugiarda come mai mi era successo nella vita.
*    *       *
Nonostante l’estate inoltrata e l’aria piena dello stridio incessante delle cicale, l’umidore opprimente del bosco di notte mi fece quasi sentire freddo. O forse non era freddo quello che mi faceva rabbrividire? Mentre camminavo incerta sul sentiero, alla debole luce della luna, cercai di non pensare a quello che stavo facendo, anche se ammetterlo non avrebbe comunque cambiato la mia decisione. Stavo camminando verso Villa Lazzari. Ero più che sicura che non sarei nemmeno arrivata al confine di proprietà, ma non era quello il mio scopo: sapevo che lui mi stava controllando e volevo solo che uscisse allo scoperto. Volevo vederlo… avevo bisogno di vederlo, di respirare il suo odore e di perdermi nei suoi occhi. Niente mi avrebbe fermata. Nonostante tutto, proprio non riuscivo ad avere paura di Saverio. Se pensavo a lui non mi importava che fosse un potenziale assassino, e quello era il migliore dei casi… nel peggiore avrebbe potuto essere qualcosa di non umano. Un mostro, un alieno, un vampiro, un lupo mannaro… qualsiasi assurdità diventava plausibile, alla luce di quanto mi avevano detto nonna e lui stesso. Stranamente, durante le mie elucubrazioni febbrili nel corso della giornata, non mi ero soffermata più di tanto su quell’aspetto della situazione. Diventava chiaro a quel punto che non mi importava sapere cosa fosse Saverio: un alieno, un mostro, uno zombie… avesse anche avuto la coda forcuta o le zanne di licaone non me ne sarebbe importato un bel niente. L’avrei cercato lo stesso sperando con tutto il cuore di rivederlo perché la sola cosa importante era la meravigliosa sensazione di completezza che mi dava perdermi nei suoi occhi. Dubitavo che la mia fosse una normale cotta adolescenziale: probabilmente, la mia resa completa e il mio comportamento da mentecatta suicida erano dovuti a qualcosa insito nell’essenza stessa di Saverio, qualsiasi essa fosse. Sapere questo, comunque, non aveva nessuna importanza, visto che ero lì, sola, nel bel mezzo del bosco…
Arrivata davanti al muro di cinta ricoperto di edera che separava Villa Lazzari dal resto del mondo, mi fermai col viso rivolto verso la luna, in ascolto dei fruscii pettegoli della notte. Quando sentii un secco tramestio alle mie spalle, non potei fare a meno di lasciarmi sfuggire un sorriso.
“Si può sapere che diavolo ci fai qui?!?” sibilò la voce furibonda di Saverio.
Mi girai nella direzione da cui proveniva senza provare la benché minima sorpresa. Intuivo la figura chiara e ondeggiante di Saverio sotto le fronde di un albero, poco distante da me.
“Ma tu non sei stanco di infuriarti ogni volta che ci vediamo?” riposi salottiera mentre il cuore cominciava il suo solito show di capriole nel petto “Non fa bene rosicchiarsi così il fegato: finirai per ammalarti.”
Di colpo Saverio mi fu di fronte, immobile ed elettrico come un potente polo magnetico: la mia bussola del buonsenso, ovviamente, impazzì, ma anche lui sembrava meno granitico del solito.
“Non posso credere che tu sia tanto stupida” sussurrò serio e corrucciato inchiodandomi con quei suoi occhi verdi che alla luce della luna sembravano quasi fosforescenti “Cosa devo fare per tenerti lontana?”
“Ormai non puoi fare più niente” risposi cercando di dire una cosa sensata, benché con i suoi occhi nei miei fosse quasi impossibile “Perché non deponi l’ascia di guerra e mi racconti tutto?”
“Tu sei pazza.” rispose lui immediatamente molto convinto.
“Decisamente non è la prima volta che tenti di farmi capire il concetto” approvai con un sorriso “Ma nemmeno tu brilli per intelletto, o non saresti qui a piantonare l’ingresso di Villa Lazzari nel tentativo di salvarmi la pelle.”
La sicurezza nella sua postura sembrò vacillare leggermente.
“A questo sto già pensando fin troppo.” rispose infine lentamente con una voce così calda che mi sentii formicolare tutta.
“E comunque ormai è troppo tardi” mi affrettai ad aggiungere abbassando gli occhi: non potevo permettermi di cadere ai suoi piedi prima di aver avuto le risposte che cercavo “So troppe cose che non dovrei sapere… una più una meno, che differenza fa?”
“Tu sei pazza” ripeté Saverio e la sua voce era tormentata e divertita insieme “E non sai proprio niente di niente.”
Era il momento della verità: inspirai e incrociai metaforicamente le dita.
“Qualcosa so” buttai lì con decisione “Per esempio, so che non sei umano.”
Mi aspettavo una sua reazione, ad esempio che scoppiasse a ridere consigliandomi un buon neuropsichiatra e menandomi grandi pacche sulle spalle.
Ma Saverio non rise.
Saverio non mosse un muscolo, rigido come se fosse diventato di ghiaccio benché sentissi il calore della sua pelle arroventare l’aria intorno a me. Io aspettavo, anelando le sue parole con una intensità quasi dolorosa, che smentisse quello che avevo detto, che mi dicesse che ero una pazza visionaria che guardava troppi cartoni animati. Ma lui rimase in silenzio a lungo, immobile, guardandomi con occhi così indagatori che li sentii frugarmi dentro come se fossi una borsetta aperta. Sostenni il suo sguardo, aspettando la sua mossa e pregando che questa non contemplasse una mia rapida e dolorosa dipartita.
“E che cosa sono, secondo te?” domandò infine lui lentamente, con cautela.
La sua voce sembrava volutamente atona, ma io intuivo lo stesso lo sforzo immane che stava facendo per controllarsi.
“Non lo so” risposi sinceramente “E non è che me ne importi un granché, altrimenti non sarei qui. So di per certo che puoi essere pericoloso e credo… sì, credo che quello che sei ti porti a… a uccidere, talvolta.”
Deglutii mentre lui induriva la mascella fino a farla diventare di marmo. Sapevo di stare sbagliando tutto, che così facendo avrei oltrepassato la soglia del non ritorno per addentrarmi in una dimensione totalmente sbagliata, ma non potevo farne a meno. Mi spingeva un istinto irresistibile più forte di qualsiasi pensiero cosciente, proprio mentre lo sguardo mi cadeva sulla sua bocca e lì si annullava.
“Milena.” disse a un tratto la sua voce, bassissima e con una impossibile nota supplichevole di sottofondo.
“Cosa.” mormorai senza riuscire a staccare gli occhi dalla sua bocca.
“Per favore, ascoltami.”
“No.” risposi dolcemente e gli posai una mano sulla guancia.
Era la prima volta che lo toccavo e la sua pelle era così incredibilmente liscia, imberbe, tiepida… non sembrava nemmeno pelle ma pregiato velluto di seta. Le mie dita, a confronto, sembravano ruvide come carta vetrata e la lenta carezza che avevo iniziato si fermò titubante proprio con il mio pollice fermo all’angolo di quella sua incredibile bocca. Sentii il tepore del suo respiro sul dito e improvvisamente il mio corpo si incendiò come se non aspettasse altro per scatenare una combustione spontanea. Saverio se ne accorse e i suoi occhi si riempirono di colpo di qualcosa di torbido e incredibilmente complesso: non capivo se era paura, rimprovero, tristezza, desiderio… forse era tutto questo mescolato insieme, anche se l’unica cosa che sembrava inequivocabile era la sofferenza. C’era nel fondo di quelle pozze verdi una tristezza rassegnata e furiosa insieme che mi scosse fin dentro l’anima. Non potevo assolutamente muovermi perchè i suoi occhi mi tenevano inchiodata lì, a gridare senza voce mentre un insopportabile anelito mi devastava il cuore.
“Lena, ti prego” mormorò debolmente “Ti prego, stammi lontano.”
“Non riesco a starti lontano” mormorai allora con voce spezzata “E’ questo che non hai ancora capito: non ci riesco e basta. Mi dispiace, Saverio.”
Eccolo, il punto del non ritorno: la mia ammissione di debolezza, il mio cuore presentato su un piatto d’argento perché ne facesse brandelli così piccoli da vanificare qualsiasi tentativo di ricostruzione. Immobile e rassegnata, mi aspettavo da un momento all’altro una risata beffarda, uno sbuffo altezzoso, un qualsiasi segno di scherno per potermi finalmente allontanare… ma non venne niente di tutto ciò. Saverio rimase in silenzio, teso, aggrottato e sofferente come se gli avessi pugnalato il petto con le mie parole. Poi, lentamente, senza staccare gli occhi dai miei, socchiuse la bocca, girò appena la testa e catturò il mio pollice tra le labbra, leggero e impalpabile come un soffio. Il mio corpo recepì quel debole contatto come una scarica elettrica: quando la sua lingua umida sfiorò la mia pelle, mentre ancora i suoi occhi verdi affondavano dentro di me scavando profondi crateri impossibili da raggiungere, capii di essere perduta. Completamente, irrimediabilmente perduta nei meandri di qualcosa che non avevo nessuna possibilità di gestire. La realtà era così semplice e tuttavia così devastante da farmi vacillare sul posto, come se non avessi più il controllo dei miei arti.
A quel punto fu lui che, bruscamente, si scostò facendo un passo indietro. Io rimasi in piedi con la mano allungata e immobile dove prima c’era il suo viso, come in attesa che lui tornasse sui suoi passi.
“Scusami” sospirò con voce tormentata tenendo lo sguardo basso e ficcandosi le mani in tasca “Nessuno in tutta la mia esistenza mi aveva mai volontariamente toccato. Mi sono fatto cogliere di sorpresa… non succederà di nuovo. Ora per favore, vai via. E non tornare mai più.”
Ci misi qualche secondo ad assimilare le sue parole e quando lo feci abbassai lentamente la mano, sbattendo gli occhi e riprendendo miracolosamente a respirare.
“Ti ho detto che non posso.” mormorai cocciuta.
Lui non mi aveva presa in giro; non mi aveva dato per l’ennesima volta della mocciosa visionaria e sul mio pollice il leggero umidore della sua saliva bruciava come se mi avesse marchiata a fuoco.
“Milena, è già impossibile così, anche senza che complichiamo le cose” proseguì lui ancora con quella voce piena di sofferenza “Tu non…”
Tacque di colpo, e nonostante fosse abbastanza buio da rendere indistinti i contorni delle cose, lui sembrò improvvisamente vigile e allerta: i suoi occhi verdi e lampeggianti saettarono tutto intorno, lucidi e ferini come quelli di un predatore feroce.
“Nasconditi.” ordinò di colpo con un sibilo girandomi contemporaneamente le spalle.
Nemmeno lontanamente persi tempo a chiedergli il perché dell suo brusco ordine: il mio istinto di sopravvivenza, che con Saverio faceva completamente cilecca, doveva essere ancora abbastanza reattivo con il resto del mondo visto che riuscii a tuffarmi in mezzo a un fitto e buio cespuglio senza quasi fare rumore. Mi immobilizzai raggomitolandomi su me stessa, trattenendo il fiato nonostante il cuore battesse come un tamburo, e rimasi in ascolto di ciò che Saverio aveva già ampiamente previsto: passi in rapido avvicinamento.
*    *       *
“Che ci fai qui?”
La voce di Tobia arrivò forte come uno sparo e per un attimo di delirio completo pensai quasi che si rivolgesse a me.
Mi strinsi ancora più forte le ginocchia al petto immersa tra le fronde con il cuore che collassava pesantemente nel buio: Tobia e Saverio, davanti a me, si stavano affrontando guardinghi, ritti in piedi con palese aria di sfida.
“Passeggio” rispose infine Saverio con voce tranquilla e anche vagamente offesa “Cos’è, non si può più passeggiare di questi tempi?”
Tobia, di solito così sorridente e solare, sembrava stranamente serio e nervoso.
“Sai benissimo che è pericoloso rimanere fuori dai confini” berciò arrabbiato “Siamo vulnerabili già da una settimana… e Ruggero è appena tornato da Desenzano con delle pessime notizie.”
Saverio sembrò di colpo meno ostile nei confronti del fratello.
“Quali notizie?” domandò seccamente.
“Buzz” disse Tobia con voce greve “C’era in giro il Buzz di qualche maledetto Duellante.”
“Non è possibile.” mormorò Saverio, ma dal tono esausto della sua voce si intuiva che sapeva di mentire.
“Certo che lo è” rispose Tobia aggressivo “Sai benissimo che c’è sempre qualche avvoltoio in giro in cerca del Gioco, e finché non faremo il sacrificio non saremo al sicuro. Quindi, fai a tutti il santo piacere di non girellare fuori dai confini a spargere il tuo odore, visto che da questo dipende la nostra sopravvivenza!”
Saverio, fulmineamente, si avvicinò a Tobia sovrastandolo minaccioso.
“So benissimo quali sono i miei doveri, Tobia” sibilò aggressivo “Non c’è bisogno che tu me li ricordi.”
“Allora piantala di proteggere la Vergine” rispose Tobia con un ringhio a tono “Tu non puoi decidere di salvarla. Ormai è quasi pronta: quando la bacerò, sarà fatta. E tu non puoi metterti in mezzo.”
Il silenzio furioso di Saverio valeva più di mille parole.
“Andiamo.” ordinò bruscamente Tobia girando le spalle al fratello e avviandosi con passo deciso.
Saverio rimase per un attimo fermo, la schiena curva come se stesse sostenendo sulle spalle il peso del mondo. Poi, raddrizzandosi, si avviò dietro a Tobia senza nemmeno girare lo sguardo verso di me.

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Capitolo 13
*** Caput XIIum ***


Electa una via non datur recursus ad alteram
(Detto popolare)

In quel momento di totale caos mentale, sapevo con assoluta certezza solo una cosa: avevo bisogno di un computer. Dopo le scioccanti quanto incomprensibili dichiarazioni di Tobia, definire la situazione era diventato un imperativo improrogabile, me ne rendevo conto. Non avevo capito il senso di tante cose che però erano rimaste a galleggiare nella memoria, pronte per essere analizzate: il Buzz o baz (posto che si scrivesse così)… chissà cosa diavolo poteva essere. E il Gioco che aveva nominato Tobia… di cosa si trattava? L’unica cosa certa, pensai con un brivido gelido, era che la Vergine che non aveva più nessuna possibilità di salvarsi ero io. Avrei dovuto essere spaventata, e lo ero infatti, ma non ero spaventata in modo normale. Una sedicenne normalmente spaventata sarebbe scappata dai genitori o dai carabinieri, avrebbe chiesto aiuto… invece, più il pericolo si avvicinava e più io mi chiudevo a riccio a combattere la mia solitaria guerra contro qualcosa che non conoscevo. Ero pazza, aveva ragione Saverio. Eppure, non volevo comportarmi diversamente. In quel momento, Vergine o non Vergine, Duellante o non Duellante, volevo solo due cose dalla vita e le volevo con tanta determinazione che nemmeno un cataclisma mi avrebbe fermata: volevo trovare un computer e volevo rivedere Saverio.
*    *       *
“Lena, che sorpresa!”
Filippo era rimasto basito sulla porta per tre secondi buoni prima di ritrovare la favella e spostarsi per farmi entrare. Io feci un largo sorriso di circostanza mentre tentennavo nervosamente sulla soglia.
“Spero davvero di non disturbarti.” buttai fuori in un fiato impacciata guardando dappertutto fuorché lui.
“Figurati!” gorgogliò Filippo, riprendendosi prontamente dalla sorpresa “Hai scelto proprio il momento migliore: papà e mamma sono al lavoro e Marco è fuori.”
Perfetto, rimuginai corrucciata: sola in casa con Filippo convinto di impalmarmi in cinque minuti. Nascondendo lo sguardo per paura che vi leggesse il mio fastidio, varcai la soglia. Non ero mai stata a casa di Filippo, e se avessi avuto un minimo di sale in zucca non sarei stata lì in quel momento. D’altra parte, cosa pretendere da una che non riesce a stare lontana dal suo potenziale assassino? Filippo, doverosamente agitato, chiuse la porta e mi precedette in salotto, facendo un cenno verso il divano.
“Siediti, Lena… ti porto qualcosa da bere?”
Aveva le guance rosse e gli occhi scintillanti: poveretto, pensai con una breve fitta di rimorso.
“No, vado di fretta” mi affrettai a dire rimanendo ben impalata in piedi “Devo fare delle ricerche urgenti per la scuola e avrei davvero bisogno di aiuto. Non avrei mai disturbato se non avessi saputo che tu e Marco siete gli unici esseri evoluti di Cresta del Gallo ad avere un computer.”
Era così, infatti; mi ero doverosamente informata e né Sara né Martina possedevano un computer. Avrei potuto chiedere a mamma e papà di portarmi in un internet point a Ustecchio o Tremosine, ma avrebbero fatto domande e io volevo sinceramente evitarne il più possibile. Così, con mia profonda frustrazione, avevo dovuto per forza rassegnarmi a chiedere aiuto a Filippo, che in quel momento mi stava davanti felice e beato come se mi fossi presentata a lui con una dichiarazione scritta di abilitazione al sesso selvaggio.
“Certo, certo” canticchiò giulivo scattando di nuovo in corridoio come se fosse stato caricato a molla “Il computer è in camera mia, seguimi.”
Perfetto, pensai tra me e me alzando gli occhi al cielo mentre Filippo mi apriva cerimoniosamente la porta della sua camera. Il letto era sfatto e intorno aleggiava il leggero odore di calzini sporchi tipico degli adolescenti cresciuti a omogeneizzati e Nike.
“Scusa il disordine” cinguettò Filippo liberando una sedia girevole ingombra di jeans e magliette stazzonate “Siediti, siediti, il computer è qui. Ecco, te lo accendo. Allora, vuoi un tè? Un succo di frutta?”
“Sto bene così, grazie.” risposi il più possibile cortese ma glaciale.
Filippo, evidentemente, colse solo la parte cortese.
“Sono così felice che tu sia qui” disse accorato lanciandomi un lungo sguardo allusivo “Le ultime volte che ti ho vista in gelateria sembravi così scontrosa… ho quasi pensato che…”
“Bè, sai” balbettai in fretta per interrompere quella che sembrava diventare una frase pericolosa “Non si può essere sempre di buon umore… tò, è partito il computer. Vai su Internet, per favore? Fortuna che hai l’ADSL.”
Filippo obbedì sempre solare e sorridente come un cherubino. Sembrava così stupido che non persi nemmeno tempo a sentirmi in colpa.
“Ecco qua” disse contento “Ti apro anche il motore di ricerca, così fai prima. Siediti, siediti…”
Mi fece spazio di fianco a lui e aspettò che mi sedessi con precauzione sull’orlo della sedia, il più lontano possibile dalla sua spalla curvata verso la mia. Autorizzato da chissà quale assurdo processo mentale, Filippo allungò il braccio e mi circondò le spalle, attirandomi verso di lui.
“Vieni pure” ridacchiò allusivo “Non mordo mica.”
“Ripensandoci, un tè sarebbe perfetto.” mi affrettai a dire cercando di mantenere la calma.
Il sorriso di Filippo si raffreddò di qualche grado, ma la cortesia ebbe comunque il sopravvento.
“Ma certo, vado a prendertelo.”
Mentre si alzava in piedi e si allontanava vagamente perplesso, ero già all’opera sul computer. Scartai l’idea di cercare in rete il nome di Saverio Lazzari, in caso Filippo fosse arrivato col tè proprio mentre la gigantografia di Saverio occupava lo schermo. Scrissi quindi “Paracelso” e scatenai il motore di ricerca.
“Ci vuoi lo zucchero nel tè?” strillò Filippo dalla cucina e io pensai velocemente a cosa potesse tenerlo più impegnato.
“Non avresti del dolcificante dietetico?” buttai lì, sperando di metterlo in crisi.
L’operazione riuscì con successo.
“Mia madre deve avere qualcosa di simile in giro.” grugnì seguito da un rumore di cassetti aperti. Nel frattempo, sul computer era apparsa una pagina interessante. Iniziava così:
Paracelso
Il principe dei medici e dei filosofi del fuoco, grande fisico paradossale, il trismegisto della Svizzera,
primo riformatore della filosofia alchemicha, adepto in alchimia, Cabala e Magia, fedele naturalista
maestro dell'elisir della vita e della pietra filosofale, grande sovrano dei segreti alchemici

 
Poi, più o meno c’erano le notizie che avevo già letto sui libri di storia, in forma piuttosto romanzata e magari anche poco attendibile. Solo un paragrafo attirò la mia attenzione:
 
"Si narra che Paracelso fosse riuscito a concepire la vita in vitro; i suoi studi erano un misto di scienza e alchimia, come si evince dai suoi appunti "Se la fonte di vita, chiusa in un'ampolla di vetro sigillata ermeticamente, viene seppellita per quaranta giorni in letame di cavallo e opportunamente magnetizzata comincia a muoversi e a prendere vita. Dopo il tempo prescritto assume forma e somiglianza di essere umano, ma sarà trasparente e senza corpo fisico. Nutrito artificialmente con arcanum sanguinis hominis per quaranta settimane e mantenuto a temperatura costante prenderà l'aspetto di un bambino umano. Chiameremo un tale essere Homunculus, e può essere istruito ed allevato come ogni altro bambino fino all'età adulta, quando otterrà giudizio ed intelletto."
 
Normalmente avrei trovato quel trafiletto assurdo e insensato, ma lo memorizzai lo stesso parola per parola. Il rumore di passi in avvicinamento indicò che il mio tempo era quasi scaduto: mentre Filippo compariva sulla soglia con un vassoio con due tazze, portato con somma precauzione, mi girai verso di lui esibendo uno sfolgorante sorriso.
“Hai anche qualche fetta di limone?” domandai sbattendo le ciglia.
Filippo, evidentemente contrariato, ci pensò su un attimo.
“Vado a vedere.” disse infine; sembrava scocciato.
Con i secondi contati, tornai alla tastiera e scrissi in fretta le cose che ricordavo dette da Tobia: buzz, gioco, duellante… scartando una deprimente serie di notizie su giochi di ruolo, ecco sfolgorante la notizia che cercavo:
 
Immortali - Gli immortali in genere sono orfani o trovatelli, nessuno conosce le loro vere origini. Sono esseri umani normali sino alla loro prima morte (che deve avvenire obbligatoriamente in modo violento). Dopo la loro prima morte risorgono e divengono immortali senza età, e possono essere uccisi solo tramite decapitazione. Gli immortali inoltre non possono procreare. Si narra che alcune specie di immortali possano essere state create attraverso procedure alchemiche con l’ausilio della pietra filosofale (vedi cifr. 8-14 Paracelso) ma non vi è mai stato nessun riscontro di questi in letteratura
The Buzz – Non esiste un termine italiano per tradurre la sensazione resa con il termine inglese The Buzz. Si tratta di una sorta di ronzio che gli immortali avvertono in presenza di altri immortali. E` il loro modo di riconoscersi.
Il Gioco & La Ricompensa – Tutti gli immortali sono obbligati a combattere tra di loro come Duellanti sino a quando non ne rimarrà solo uno. Il premio per l’ultimo immortale rimasto sarà la conoscenza assoluta di tutti gli immortali che sono vissuti, grazie alla quale potrà guidare, attraverso la sua infinita saggezza, la Terra verso una nuova era. L’unico posto sicuro per gli immortali è il terreno consacrato. Nessun immortale può combattere lì. Un’altra regola fondamentale è quella del “duello uno contro uno”, mentre due immortali lottano nessun altro può interferire.
La Reminiscenza- Quando un immortale è decapitato tutto il suo potere viene riversato nel vincitore del suo duello. La personalità dell’immortale vincitore viene influenzata solo in rarissimi casi (e.g. reminiscenza nera).
L'Adunanza –"Quando solo pochi di noi rimarranno, saremo spinti da un irrefrenabile desiderio in una terra lontana e lì combatteremo per la ricompensa"
Gli Osservatori - Si tratta di una società segreta che osserva e studia gli Immortali senza mai interferire. Ogni Immortale ha un osservatore assegnato che ha il compito di controllare, catalogare e raccogliere informazioni sul suo conto.
La testa mi vorticava come una trottola: tutte quelle assurdità le avevo già sentite, al cineforum mangiando il popcorn e pensando a come sarebbe stato bello poter vivere in eterno… anche se mai e poi mai avrei pensato di poter assistere in prima persona a una storia simile! Quelle cose succedevano solo nei film con la colonna sonora dei Queen, non nella vita reale!! Qualcosa come un’idea iniziava a prendere forma dentro di me, qualcosa di così assurdo che mi scappò una risatina isterica prima ancora di prenderlo seriamente in considerazione. Eppure, eppure, eppure… tutto quadrava, ogni tassello andava al suo posto come attirato da una forza invisibile. Ora spiegavo tante cose… l’ara nel giardino di Villa Lazzari; la scritta “Fiat vitae”; le parole di Tobia. Tutto finalmente aveva un senso, per quanto terribile e inconcepibile esso fosse, e mi sentii assurdamente più leggera, come se la conoscenza avesse spazzato via gli ultimi residui di prudenza.
“Eccoti il tuo tè con il dolcificante e il limone” esclamò Filippo entrando dalla porta con passo aggressivo. Presa dai mie pensieri, mi ero quasi dimenticata di lui: sobbalzai, chiudendo velocemente la finestra aperta sul monitor del computer e ritornando al motore di ricerca.
“Oh, bene” sorrisi mentre il cuore mi martellava nel petto con grevi rintocchi di angoscia “Avevo… proprio sete.”
Filippo si tornò a sedere di fianco a me, vicinissimo: afferrai la tazza e bevvi avidamente allontanandomi da lui il più possibile.
“Era proprio buono.” commentai con voce incerta quando non rimase più nemmeno una goccia e fui costretta a riavvicinarmi e posare la tazza. Filippo, con una mossa rapida a tradimento, fece sgusciare il suo braccio sotto il mio gomito piegato e mi circondò la vita, attirandomi a lui. Stavo per protestare quando il bastardo si sporse con decisione verso di me e mi baciò sulla bocca.
L’effetto di quelle labbra estranee sulle mie fu a dir poco raccapricciante: bruscamente stesi le braccia e Filippo, sbilanciato, cadde dalla sedia, atterrando pesantemente sul sedere.
“Hei!” protestò, più sorpreso che offeso mentre io scattavo in piedi trattenendo a stento l’istinto di pulirmi la bocca col dorso della mano e magari sputargli addosso.
“Mi sono fatto male!” si imbronciò Filippo, alzandosi in piedi e massaggiandosi con intenzione una natica. La sorpresa era svanita, lasciando il posto a un infantile risentimento. Una fulminea e feroce rabbia mi agitò le viscere nel vedere la sua espressione corrucciata, ma riuscii comunque a mantenere la calma.
“Scusami” dissi contrita “Mi hai colto di sorpresa, non volevo farti male.”
“Vorrei ben vedere.” bofonchiò Filippo, facendo per avvicinarsi di nuovo.
“Il fatto è” aggiunsi allontanandomi velocemente verso la porta “Che c’è stato un malinteso fra noi due. Io non… non credo di provare le stesse cose che tu provi per me.”
“Ma dai” sbuffò Filippo ottusamente “Non capisco perché adesso ci giri intorno: è tutta l’estate che ti fai desiderare. E poi, perché saresti venuta qui oggi se non avessi voluto metterti con me?”
“Per il computer” spiegai pazientemente indietreggiando di un altro passo verso la porta “Mi sembrava di averlo spiegato piuttosto chiaramente. Solo per il computer.”
“Balle” sbuffò Filippo, un po’ incerto a dire il vero “Sono un po’ stufo di questo tira e molla, Lena. Non farmi passare per scemo.”
Mi trattenni a stento dal ricordargli che per passare per scemo non aveva nessun bisogno di me, soprattutto in quel frangente.
“E’ stato un terribile equivoco” lo blandii cortesemente “Mi dispiace davvero tanto, Filippo.”
Lui, finalmente, recepì il messaggio non tanto velato che gli stavo inviando: aggrottò le sopracciglia nell’evidente sforzo di capire mentre io spostavo il peso da un piede all’altro, impaziente di filarmela il più rapidamente e definitivamente possibile.
“Bè, allora… io vado.” balbettai impacciata e mi allontanai indietreggiando incerta.
“Scommetto che dietro la tua aria snob nuova di zecca c’è un Lazzari.” commentò Filippo sferzante senza cambiare espressione.
Fortunatamente, riuscii a mantenere la calma una volta di più.
“Non sai cosa dici, Filippo” risposi con voce glaciale “E non vedo cosa possano c’entrare i miei vicini di casa con me e te.”
“E allora perchè si sono messi a salutarti tutte le volte che ti incontrano?” continuò Filippo petulante.
Forse perché possiedono una qualità a te del tutto sconosciuta chiamata educazione, pensai ferocemente.
“Sono i miei vicini di casa” risposi invece con voce piatta “Sarebbe da maleducati non salutare: e per quanto siano snob, i Lazzari non sono maleducati. Senti, mi dispiace di averti ferito, ma non posso farci niente se non ho nessuna intenzione di legarmi sentimentalmente a qualcuno.”
Più gentile di così non potevo essere: ero a un pelo dal mandarlo a quel paese e inimicarmelo in un momento dove l’ultima cosa che volevo era inimicarmi qualcuno. Allungai una mano verso di lui in un gesto simbolico.
“Possiamo rimanere amici, per favore?” chiesi con umiltà.
Filippo continuò a guardarmi con quella faccia imbronciata da bambino dell’asilo.
“Vai al diavolo.” grugnì voltandomi con intenzione le spalle.
Dopo qualche secondo di silenzio, mi decisi a obbedire e me ne andai in punta di piedi.
*    *       *
Mi sforzai di far passare l’ora di pranzo comportandomi normalmente, anche se fu molto più difficile del previsto. Bastava un accenno di pensiero su Saverio e il cuore partiva in quarta, sgommando dolorosamente nel petto e bloccandomi il respiro. Mi sembrava di avere i brividi di febbre. Conversai per quasi un’ora con Rossella senza alla fine ricordare una parola di quello che ci eravamo dette, ripulii il piatto di lasagne anche se ogni boccone mi sembrava rivestito di cartone e rimasi per più di mezz’ora mollemente stesa all’ombra in finto ozio, mentre la mia anima si contorceva nell’attesa. Alla fine, incapace di resistere oltre, mi alzai bruscamente a sedere e annunciai con aria casuale:
“C’è un caldo pazzesco qui: vado a fare un giro nel bosco.”
Nonna Rosa, fortunatamente, era a fare un riposino in camera sua e nessuno dei presenti commentò: Rossella continuò a farsi le unghie con puntigliosa cura mentre papà sonnecchiava nell’amaca, un libro di traverso sul petto e gli occhiali in bilico sulla punta del naso; solo mamma agitò una mano senza nemmeno alzare il naso dal suo Confidenze.
“Prendi il cappello” mi suggerì mentre mi incamminavo sforzandomi di non correre “E torna prima di cena.”
Chissà come, riuscii ad allontanarmi camminando con passo normale; appena fui certa di essere fuori dalla loro portata visiva e uditiva, iniziai a correre, saltando tra arbusti e sassi come una capra di montagna, il cuore che batteva impazzito nel petto e il sangue così pieno di adrenalina da sembrare denso come mercurio. Arrivai davanti al muro di Villa Lazzari in men che non si dica senza quasi avere il fiatone. Mi guardai intorno speranzosa assaporando l’odore greve di umidità e con le orecchie piene del concerto assordante dei grilli.
“Vieni fuori, spione” dissi a voce alta quando fui certa di non farla tremare d’emozione “Dobbiamo parlare.”
Per un lungo momento non successe nulla e finii per sentirmi estremamente sciocca, in piedi nel bosco a parlare da sola come i matti. Poi, alla mia destra, accompagnato da un frusciare discreto di fronde, sgusciò fuori l’alta figura elegantemente vestita di bianco di Saverio Lazzari. Il mio cuore nel vederlo volò così in alto che per un attimo sembrò trasformarsi in qualcosa di etereo e inconsistente come aria. Saverio si avvicinò cautamente, gli occhi verdi così brillanti da sembrare due pietre preziose incastonate in quel viso perfetto.
“Ancora qui.” sospirò quando fu a pochi passi da me: si ficcò le mani in tasca, come per tenerle sotto controllo.
Le mie, due inutili appendici appese alle braccia, erano ghiacciate di colpo e sudavano copiosamente.
“Ancora qui.” gracidai con voce roca dopo aver deglutito a vuoto un paio di volte. Dove altro potrei essere se non vicino a te?, pensai abbagliata dalla sua bellezza.  
“Pensavo che dopo aver assistito alla conversazione tra Tobia e me avessi capito” mormorò Saverio con voce stanca “Se fossi anche solo vagamente sana di mente dovresti essere lontana mille chilometri da qui.”
“Ti ho già detto che non ci riesco” risposi sulla difensiva “E poi, tu stesso non dovevi essere molto convinto di quello che hai detto visto che eri qui ad aspettarmi.”
Il suo sguardo adamantino si incrinò mentre sospirava rassegnato.
“Mai conosciuta una mocciosa incosciente come te.” glissò corrucciato.
“Durano ancora molto i rimproveri?” sbottai gonfiando le guance esasperata “Dovrei essere a casa per cena.”
Gli sfuggì un sorriso riottoso e il mio cuore mancò una decina di colpi.           
“Mocciosa incosciente.” ripeté sottovoce con quella voce di velluto, e sembrava mi stesse facendo il complimento più bello del mondo.
“Morivo dalla voglia di vederti.” mi sfuggì dalla bocca facendomi immediatamente arrossire come un semaforo.
La sua espressione si indurì di nuovo e i suoi occhi furono presto pieni di quella miscela di malinconia e rabbia che mi faceva stare contemporaneamente così bene e così male.
“Non devi dire queste cose, Milena” mi rimproverò serio “Non portano niente di buono, né per te né per me.”
“Filippo mi ha baciata.” buttai lì per risposta e scrutai di sottecchi la sua reazione: a parte un sopracciglio inarcato, il suo viso rimase impenetrabile.
“Sono felice per voi” commentò in tono monocorde “Com’è che si dice in questi casi? Tanti auguri e figli maschi.”
“Mi è sembrato di baciare un pezzo di pesce surgelato” continuai imperterrita “E per quanto adori il pesce, soprattutto se cucinato con la cipolla e i piselli, devo dire che non è stata una bella esperienza.”
Saverio non colse la mia ironia: aggrottò le sopracciglia e sembrò ancora più corrucciato.
“Mi auguro caldamente che tu non abbia esposto a Filippo lo stesso concetto.” mi rimproverò serio.
“In realtà sono stata di una cortesia esemplare” sospirai “Ma solo perchè mi serviva il suo computer. Credo di aver scoperto cosa sei.”
La faccia di Saverio si indurì improvvisamente: non c’era n’è sorpresa né rimprovero nei suoi occhi, ma solo malinconia e determinazione.
“Bravissima” mormorò atono “Ora ti decidi a fare le valigie e a scappare in Australia, almeno fino a Ferragosto?”
“Non sono certa di avere il quadro preciso della situazione” proseguii ignorandolo “Vorrei esporti la mia teoria, così mi puoi dire quanto sono andata vicina alla verità e quanto sono da ricovero coatto. Ti va?”
“No” ringhiò Saverio di nuovo corrucciato “Ma ho come l’impressione che non ti importi granché della mia risposta.”
“Infatti era una domanda retorica” spiegai magnanimamente “Credo che tutto abbia avuto origine con un certo Paracelso. C’è un nesso tra lui e la tua famiglia, vero?”
Gli occhi di Saverio ebbero un lampo divertito suo malgrado.
“Quando ti sei intrufolata in casa mia ti ho trovata in contemplazione di un’ara con il suo nome scritto sopra” mi ricordò alzando altezzoso le sopracciglia “Anche una capra troverebbe un nesso tra Paracelso e i Lazzari, non credi?”
Gli sorrisi mentre il cuore accelerava nel petto, rombando come una Ferrari sotto il suo acuto e verdissimo sguardo.
“Proseguiamo” annunciai spiccia “Dunque, Paracelso, dicevamo: era un brillante medico rinascimentale che tra le altre cose vantava una mostruosa conoscenza dell’alchimia, una boria tipicamente elvetica e una certa tendenza all’alcolismo. Sorvolerò sui particolari, ma si narra che costui fosse venuto in possesso di una formula per far nascere la vita in vitro: essa contemplava una non meglio identificata “fonte di vita” da chiudere in un'ampolla di vetro che doveva poi essere seppellita per quaranta giorni in letame di cavallo. Fino a qui ci siamo?”
Saverio sembrava ancora sforzarsi di non essere divertito.
“Il letame mi giunge nuovo” confessò “Credo che gli ingredienti base fossero altri.”
“Tipo?” mi informai curiosa: Saverio diventò di nuovo serio e ostile.
“Sangue di vergine.” rispose quasi con rabbia.
Riuscì perfettamente nel suo intento di farmi appesantire il cuore nel petto.
“Giusto, sangue di vergine!” approvai con finta leggerezza “Non poteva mancare, è un po’ un classico delle brodaglie alchemiche, insieme alla coda di rospo e alle ali di pipistrello. Comunque, questi sono dettagli; a quanto pare, il buon vecchio Paracelso riuscì nel suo intento di creare la vita e l’ara nel tuo giardino ne è la prova. Fiatvitae.” Gli piantai gli occhi in faccia per non lasciargli scampo “La vostra vita, signori Lazzari. Dico bene?”
Non so bene cosa mi aspettassi da Saverio: una confessione, uno scoppio di rabbia, un attonito mutismo… riuscì comunque a sorprendermi con un’espressione quasi sollevata.
Lazare, veni foras” sospirò in un latino perfetto “Così deliziosamente predestinante. Però, l’ho sempre trovato un po’ privo di fantasia.”
Lentamente, mentre il mio apparato respiratorio si dimenticava di funzionare, sollevò le mani e iniziò a sbottonarsi la camicia. Io rimasi zitta e immobile, gli occhi inchiodati sulle sue mani e sul suo petto che man mano veniva scoperto. Ogni bottone slacciato faceva aumentare il mio battito cardiaco in proporzione, ma quando arrivò in fondo capii cosa voleva mostrarmi: il suo mirabile torso, ricoperto di una pelle liscia e abbronzata, era in tutto e per tutto simile a un petto umano, benché l’assoluta perfezione della muscolatura snella e scolpita lo facesse somigliare di più a una statua di Apollo. Solo un particolare era diverso, un particolare piccolo ma fondamentale: a Saverio mancava l’ombelico.

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Capitolo 14
*** Caput XIIIum ***


Bene vixit qui bene latuit
 (Detto popolare)

Osservai a lungo il corpo di Saverio, così bello e così tristemente disumano da lasciarmi completamente senza parole. Poi lui iniziò a riallacciarsi la camicia e io uscii finalmente dalla mia trance ipnotica. Saverio aveva confessato di non essere umano e io, invece di darmela a gambe urlando terrorizzata, dimostrai tutta la mia follia nuova di zecca commuovendomi per il fatto che si fosse confidato proprio con me. Da camicia di forza, non c’era nessun dubbio.
“Quindi, tu sei nato da un’ampolla di vetro” motteggiai dopo un po’ con ammirevole calma “Sei sicuro che il letame di cavallo non c’entri?”
Saverio rispose con un sorriso così abbagliante, malizioso e irresistibile che rimasi completamente senza fiato, come in preda a una crisi mistica.
“Ne sono ragionevolmente sicuro” rispose divertito “Anche se i miei primi ricordi risalgono a parecchi anni dopo.”
Meditai attentamente sulla domanda successiva.
“Quand’è che saresti tecnicamente nato?”
Saverio sembrò valutare la possibilità di non rispondermi: forse non voleva spaventarmi…
“Nel 1538.” sospirò alla fine abbassando gli occhi.
Feci un rapido calcolo, sottilmente sorpresa dal fatto di non provare nessun tipo di disagio per l’argomento di cui stavamo parlando.
“Hai quasi cinquecento anni” lo informai spigliata “Li porti piuttosto bene. Ruggero e Tobia?”
“Ruggero è stato il primo a essere creato” rispose Saverio misurando accuratamente le parole “Nel 1521. Tobia è stato l’ultimo, nel 1540.”
“Quindi tu, Ruggero e Tobia siete… ehm… Immortali?” commentai sforzandomi di far apparire la conversazione normale “Highlander come nel film dove si sciabolavano addosso spade di ferro pesanti tonnellate?”
Nemmeno Saverio sembrava a disagio: i suoi occhi brillavano come stelle.
“Non siamo nati propriamente Immortali” annunciò con naturalezza “Lo siamo diventati parecchi anni dopo… più esattamente nel 1557.”
Altro rapido calcolo: il 1557 sembrava essere l’anno esatto per congelare Ruggero a trentasei anni, Saverio a diciannove e Tobia a diciassette.
“I veri Immortali sono una stirpe” continuò Saverio mentre io ancora rimuginavo “La nostra invece è un’Immortalità acquisita tramite un processo alchemico di Paracelso.”
“Immortali di seconda mano” tentai di scherzare “Allora, se non posso chiamarti Highlander, qual è la definizione giusta? Ti prego, dimmi che nel nome non c’entra il letame di cavallo.”
Sorrise di nuovo, sfolgorante e bello da spezzare il cuore: infatti, sentii con chiarezza il mio che scricchiolava.
“Tecnicamente, sono un Homunculus.” rispose poi mentre il sorriso si smorzava.
“Non è molto carino” commentai sinceramente “Sembra avere una vaga connotazione dispregiativa.”
Saverio non si offese, ma il sorriso era sparito anni luce lontano.
“E perché non dovrebbe averla” rispose con sottile amarezza “Noi non siamo persone vere. Non abbiamo sviluppato una coscienza, non distinguiamo il bene dal male.”
L’argomento introdotto dalle parole di Saverio non mi piaceva affatto.
“Volenti o nolenti, alla fine siete anche voi Immortali” buttai lì cambiando discorso “Ho visto il film e mi sono documentata su Internet, quindi ho una discreta infarinata su quella che è la situazione. A quanto mi risulta gli Immortali sono impegnati in una perenne lotta intestina che ha lo scopo di far massacrare a vicenda i componenti finché non ne rimarrà solo uno… o qualche altra stupidaggine del genere.”
“Non è una stupidaggine” ribatté severamente Saverio “E’ il Gioco. Fa parte della natura di un Immortale come fa parte della natura di voi umani ammalarvi e morire. Non è una cosa che si possa controllare.”
“Quindi fammi capire” mi accigliai “Ci sono in giro simpatici personaggi, gli Immortali veri e propri, che vanno a caccia di altri Immortali per far loro la pelle?”
“E’ la loro natura.” ribadì Saverio cocciuto.
“E cercano anche voi Immortali di seconda mano?” chiesi preoccupata.
Saverio sospirò, oscurandosi in volto.
“Sì” rispose con voce greve “Anche se noi non sentiamo l’impulso del Gioco come i veri Immortali, emettiamo comunque il Buzz… è una specie di vibrazione, un misto di magnetismo e ronzio che ci rende identificabili.”
“Quindi siete sempre in pericolo di morte?” domandai agghiacciata “Sempre, ogni secondo della vostra vita rischiate di essere decapitati da uno sconosciuto? Deve essere orribile vivere così.”
Saverio mi lanciò uno sguardo triste.
“Non siamo sempre in pericolo” rispose lentamente “Non può capitarci niente di male se rimaniamo in terra consacrata. Dobbiamo proteggere sia noi che la nostra terra, ma per ottenere questo duplice scopo serve un sacrificio.”
Ecco il cerchio che si chiudeva: ecco a cosa serviva il sangue di vergine, il mio sangue. A salvare loro la vita.
“Ma a Cresta del Gallo ci passate solo l’estate” obbiettai speranzosa “E il resto dell’anno dove vivete, dentro una teca di vetro?”
Le labbra di Saverio si curvarono in un sorriso divertito.
“Ogni anno, portiamo in Svizzera un po’ di terra di Cresta del Gallo: è sufficiente per tenerci al sicuro. Ma non possiamo arrischiarci a fare sacrifici lì dove viviamo. Non è prudente… la gente, dopotutto, ricorda.”
“Ora è tutto più chiaro” mormorai con un sorriso tremulo “Cresta del Gallo è praticamente la vostra riserva di caccia.”
La faccia di Saverio si oscurò di colpo ma non abbassò lo sguardo.
“Sì, più o meno è così.” rispose pacatamente. Io rabbrividii.
“E non c’è altra soluzione?” buttai lì sperando chissà quale risposta.
Saverio sembrò vagamente sorpreso dalla mia domanda.
“No” rispose alla fine “A parte quella di morire, naturalmente. Ma morire di nostra volontà è una decisione che non ci è permesso di prendere. Noi Immortali di seconda mano, come dici tu, siamo solo degli schiavi. Siamo stati creati con un solo scopo e quello è l’inizio e la fine del nostro mondo.”
La domanda successiva mi pesava sul cuore, ma sapevo di doverla fare a tutti i costi.
“E qual è lo scopo della vostra esistenza?” chiesi sottovoce.
Saverio allargò le braccia, mostrandosi in tutta la sua mirabile perfezione.
“Servire il padrone” rispose con una voce che voleva essere piatta e che invece risultò feroce “Ma non solo. Guardaci, Lena: siamo esteticamente piacevoli, creati appositamente per solleticare la fantasia di giovani e ingenue ragazze come te. Più precisamente, giovani, ingenue e vergini ragazze come te. Il nostro scopo è trovarvi, convincervi a seguirci e…”
Non riuscì a dirlo: i suoi occhi erano pieni di pena, di rabbia e di disgusto. Io sentivo la faccia insensibile e il cuore pesante come un macigno.
“Margherita è stata l’ultima?” domandai stupita che la voce uscisse comunque dal mio petto trasformato di colpo in un blocco di ghiaccio.
Saverio si passò una mano sul viso: sembrava esausto ma ancora arrabbiato.
“Sì” rispose truce “Una vergine ogni cinquant’anni. Vuoi sapere quante sono state? Nove, fin’ora. Nove ragazzine, nove creature innocenti che ancora non sapevano niente della vita. Raggirate e blandite da questa bella faccia che guardi con tanto trasporto. Ti potrei raccontare un sacco di cose su di loro, se volessi. Ma in fondo, basterebbe che tu ti guardassi allo specchio per ritrovare ognuna di loro. Forse hai i jeans invece della crinolina, ma il tuo viso liscio, i tuoi occhi fiduciosi… la tua dannatissima cocciutaggine…”
Si interruppe ed era di nuovo furioso. Non sapevo cosa sentissi dentro al cuore, se non tanto bene e tanto male contemporaneamente mentre lui mi fissava con quell’aria corrucciata. Ogni secondo che passavamo a guardarci sembrava soffrire sempre di più.
“Non guardarmi così!” sbottò all’improvviso con autentica sofferenza “Non lo sopporto.”
“Io non ho fatto niente.” protestai con voce flebile.
Lui si girò e si allontanò di un passo.
“E’ incredibile” commentò amaramente tra sé e sé “Non mi disturba il fatto di non essere umano e nemmeno l’idea di passare tutta la mia esistenza da schiavo. Ho ingannato e aggirato, ho persino ucciso delle persone senza nemmeno un alito di colpa… ho passato secoli e secoli a convincermi che essere un assassino non fosse poi così male, che niente in questo mondo potesse toccarmi davvero. E adesso, non riesco nemmeno a sostenere lo sguardo di una mocciosa qualunque.”
Mi guardò negli occhi, di nuovo arrabbiato e di nuovo supplichevole.
“Bastano i tuoi occhi trasparenti da ragazzina e io non capisco più niente” mormorò affranto “Proprio non mi spiego cosa mi stia succedendo.”
Non avevo mai visto una persona così tormentata: seguendo un impulso impossibile da definire, feci un passo verso Saverio e benché mi lanciasse uno sguardo a metà tra il guardingo e il disperato, non mi fermò. Lentamente, con molta cautela, allungai una mano e gliela posai sul petto, leggera e tremante come una foglia d’autunno. La sua pelle sprigionava calore e riuscii a sentire il battito furioso del suo cuore nonostante il mio tocco fosse appena percettibile.
“Il tuo cuore batte” dissi con voce malferma “Il tuo cuore batte fortissimo, adesso, e segue il ritmo dei tuoi pensieri. Tu soffri e cerchi di proteggermi; tu provi pena e schifo per quello che sei costretto a fare; tu sei confuso e non capisci più qual è il tuo posto. Come puoi dire di non essere umano? Vedo più umanità nei tuoi occhi che in quelli di qualsiasi persona io abbia mai conosciuto.”
Man mano che parlavo, sentivo il suo petto alzarsi e abbassarsi in modo discontinuo, come se avesse avuto il respiro interrotto. Dentro di sé era lacerato dal dubbio e questo si rifletteva così chiaramente sul suo viso che mi faceva star male di riflesso. Non potei resistere: appoggiai la guancia sul suo petto chiudendo gli occhi e respirando l’odore inebriante che la sua pelle di seta sprigionava. Lo sentii irrigidirsi e il suo cuore sotto il mio orecchio tamburellò impazzito mentre portava una mano sulla mia spalla per allontanarmi. Fui più veloce di lui: presi la sua mano tra le mie e me la posai sulla guancia libera.
“Tu tremi.” dissi esultando e soffrendo contemporaneamente: sentii il suo pollice muoversi lentamente sul mio viso, cercare le mie labbra e saggiarle delicatamente con esasperante lentezza. Riaprii gli occhi e alzai lo sguardo verso di lui, da sotto in su tra le ciglia. I suoi occhi verdi non erano mai stati così vicini e così splendenti.  
“Oh, Milena” sospirò con una rassegnazione così dolorosa che sentii accartocciarsi il cuore “Cosa mi stai facendo?”
“Non lo so” risposi col suo pollice all’angolo della bocca “Quello che stai facendo tu a me, forse.”
Poi, come aveva fatto lui con me il giorno prima, catturai il suo pollice tra le labbra e ne assaporai il gusto: era paradisiaco e delizioso, un distillato celestiale del suo profumo. I suoi occhi si intorbidirono di nuovo, famelici e reticenti insieme e io non potei fare a meno di allungare il collo verso le sue labbra, attirata irresistibilmente come dal canto delle sirene. Le sue dita fermarono il mio viso a pochi centimetri dal suo, delicate ma decise.
“No.” disse e il suo alito mi soffiò in viso uno sbuffo incantato.
“Cosa.” sussurrai roca senza nemmeno sapere di parlare.
“Non posso baciarti.” continuò lui senza quasi muovere le labbra.
“Perché?” chiesi, anche se ero così confusa che nemmeno avevo compreso le sue parole.
“Perché saresti segnata” rispose lui con atavica tristezza “Non avresti più accesso alla tua volontà. E io… io non voglio che questo succeda.”
Sospirò e scosse il capo allontanandomi.
“Non hai idea di cosa significhi questo per me.” mormorò quasi con ostilità.
Senza il suo petto a scaldarmi la guancia mi sembrava di patire un freddo polare.
“Ma so cosa significa per me.” risposi cercando di recuperare un minimo di senso della realtà.
Saverio si allontanò di un passo ancora, risoluto: mi sentii più sola e nuda che mai.
“Non voglio che la prossima vergine sia tu” disse con decisione “Non voglio vedere il tuo sangue scorrere… ti prego, torna in paese, accetta la corte di Filippo, torna a Milano… qualsiasi cosa, ma stai lontana da me.”
Perché mi stava dicendo quelle cose? Era ridicolo pensare che potessi rinunciare a lui ora che sapevo tutto.
“Io non vado da nessuna parte” dissi con calma “Rimango qui perché voglio rimanere qui. E perché non rischio niente visto che tu non mi uccideresti mai.”
Mi lanciò uno sguardo fulminante, verdissimo: in un attimo mi fu addosso, le mani intorno alla gola in una presa di acciaio mentre il respiro si spezzava a metà sotto la sua presa implacabile.
“Io ti ucciderò” ringhiò così vicino che il suo naso quasi sfiorava il mio “Quando arriverà il momento, dovrò obbedire agli ordini perché è l’unica cosa che mi è concesso di fare. Io non amo, io non decido, io non salvo nemmeno me stesso. Se vuoi vivere, scappa il più lontano possibile da qui.”
Non respiravo altro che panico: avevo la gola chiusa e gli occhi dilatati come un pesciolino preso nella rete e trascinato fuori dall’acqua. Impotente, lasciai che le mie mani artigliassero invano i suoi polsi senza riuscire a scalfirlo minimamente. Quando ormai la vista mi si stava appannando piena di puntini luminosi, Saverio allentò lentamente la presa: ingoiai aria rumorosamente, ma non mi scostai, anche se tremavo come una foglia e le gambe erano deboli e inconsistenti come se fossero fatte di burro. Le sue mani sul mio collo accennarono una carezza, come per scusarsi di avermi quasi uccisa; con gli occhi socchiusi, Saverio posò la fronte contro la mia e io fui di nuovo avvolta dal suo profumo, leggero e lenitivo.
“Scappa via, mocciosa” mormorò con voce rotta “E’ la prima e unica cosa che io abbia mai desiderato in tanti anni di esistenza Immortale. Ti prego.”
Un attimo dopo le sue mani non erano più sul mio collo e Saverio era già lontano, tra il discreto frusciare dell’erba alta.
Rimasi per qualche istante immobile con il viso rivolto verso l’alto mentre il sole batteva feroce, sostenuta da un vento invisibile: poi, mi accasciai in ginocchio con le lacrime che mi riempivano gli occhi ancora pieni di sole.
*    *       *
Il sole era ormai al tramonto, ma non potevo tornare a casa in quello stato: avevo pianto per un tempo lunghissimo e avevo ancora il viso troppo congestionato e chiazzato per presentarlo ai miei familiari senza ripercussioni. L’unica cosa che mi percuoteva ancora i sensi era l’eco della sua voce che ripeteva all’infinito “Io non amo, io non decido, io non salvo nemmeno me stesso…”. Provavo una pena infinita per quelle parole, una pietà così intensa che mi spezzava il cuore. Ero ancora inginocchiata a terra e quando provai ad alzarmi le giunture scricchiolarono come quelle di una vecchia ottantenne. Lentamente, con laboriosa costanza, mi alzai in piedi, mi spazzolai il fondo dei pantaloni tutto pieno di foglie secche e terriccio e mi guardai intorno. Mi sentivo strana, come se fossi arrivata lì da chissà quale dimensione parallela; ero come svuotata dentro, un involucro di carne e ossa senza sentimento. Probabilmente, avevo vissuto le ultime scioccanti scoperte con troppa leggerezza e la portata di quello che mi stava succedendo mi era finita addosso tutta in un colpo, insieme alle mani di Saverio che quasi mi avevano strangolata. Forse quella mezza giornata delirante aveva davvero cambiato le cose: forse avrei dovuto dare retta a Saverio e andarmene via, anche se al solo pensiero di non rivederlo più l’aria si bloccava nei polmoni impedendomi di respirare. Perfetto, pensai in un lampo di isterica ironia: se non mi strozza lui, mi strozzo io da sola… comunque vada, sarà un successo!
Mi resi conto all’improvviso che la gola mi bruciava come il fuoco. Trascinandomi dietro le gambe come se fossero senza ossa, mi diressi verso la fonte. Quando arrivai bevvi a lungo e mi bagnai il viso con diversi spruzzi di acqua gelida, facendo scappare via oltraggiate le raganelle dal loro yachting club. L’acqua mi scorse giù per la scollatura e mi bagnò i capelli, facendomi rabbrividire e riportandomi a una parvenza di sembianze umane. Mi tastai la gola delicatamente, sicura che di lì a poco si sarebbe costellata di vistose ecchimosi e annotai mentalmente di preparare foulard, bandane e finti mal di gola a uso e consumo di nonna Rosa & Co. Alla fine, seduta sul bordo della vasca con gli occhi chiusi e la testa appoggiata al tronco di un albero, pensai a cosa potevo fare per risolvere la situazione. Andarmene sembrava la cosa più semplice e sensata da fare, ovviamente: era quello che Saverio desiderava, ma con un lampo gelido che mi attraversò d’improvviso la spina dorsale, mi resi conto che questo non avrebbe salvato un’altra vergine… e nemmeno Saverio. Rimanere, allora? Avrei potuto cercare una soluzione alternativa insieme a lui… anche se lui non sembrava affatto propenso a cercarne una. Per quanto mi sforzassi, non riuscivo a capacitarmi della sua disumanità; per quanto lui si proclamasse privo di emozioni e di potere decisionale, tutto di lui diceva il contrario, a partire dal quell’ultima struggente carezza con cui mi aveva abbandonata nel bosco. Forse era su quello che dovevo far leva; forse dovevo fargli capire che lui era umano, o almeno molto più umano di quanto credesse. E se non avessi avuto successo? E se lui non mi avesse ascoltata e mi avesse uccisa comunque, per eseguire gli ordini…? Ordini?
Mi rizzai di scatto a sedere spalancando gli occhi, il cuore dolorosamente fermo nel centro del mio petto.
“Ordini di chi?” mormorai con labbra improvvisamente insensibili, come folgorata.
“Ottima domanda.” rispose una voce nota dietro di me facendomi balzare in piedi con un gridolino.
Mi girai di scatto, il cuore che pulsava veloce come le ali di un colibrì e il respiro bloccato nella gola dolorante: davanti a me c’era Tobia, mani in tasca e sorriso timido come da copione.
“Era ora che te la ponessi” disse con scioltezza avvicinandosi a me con la consueta eleganza “Adesso sì che possiamo parlare di cose serie.”
*    *       *
Dovetti attendere dieci secondi buoni perché il cuore ritornasse nella sua sede originale e le gambe la smettessero di tremare dall’impulso di filarsela.
“Ciao Tobia.” dissi infine quando fui certa di aver recuperato la voce.
Non sapevo bene come proseguire: fingere di non sapere niente e cercare di proteggere Saverio o spiattellare la verità e aspettare il conseguente fungo atomico? Il mio sguardo scelse per me: Tobia ridacchiò avvicinandosi con indolenza, lo sguardo non più gentile e guardingo ma apertamente sarcastico.
“E così, non ha resistito” gorgogliò serafico “Dalla tua espressione e da quei segni sul collo sembra che abbia dovuto insistere parecchio per cercare di salvarti.”
“Di chi parli?” buttai lì, sapendo già quanto fosse inutile la mia manovra diversiva.
“Oh, andiamo” mi schernì infatti Tobia “Pensavo che almeno questa formalità fosse superata!”
Tacqui guardinga, aspettando che fosse lui a scoprirsi per primo.
“E va bene” si imbronciò alla fine “Lo dirò io per te. Saverio ti ha detto di noi e ora sai che non siamo umani e bla bla bla.”
Chissà perché, la sua scioltezza nel parlare dell’argomento mi irritò e finalmente recuperai un po’ del mio coraggio.
“E bla bla bla?” commentai con voce ferma “Scusa Tobia, ma esattamente la mia morte si trova dopo il primo o dopo il secondo bla?”
Tobia sorrise, aperto e scintillante come il solito… bè, più o meno come il solito: niente ormai avrebbe più potuto essere “solito” tra noi.
“Accidenti” gorgheggiò con leggerezza “Chissà come devi essere arrabbiata con me per averti scelta…”
Le sue parole mi sorpresero, ma a ben pensarci era logico che fosse andata così. Saverio non aveva mai nascosto la sua ostilità nei miei confronti, mentre era stato Tobia il primo a cercarmi.
“Non sono arrabbiata” ammisi in uno sprazzo di sincerità “Sono terrorizzata.”
Tobia fece spallucce senza smettere di sorridere.
“Se lo fossi veramente non saresti qui” sentenziò con noncuranza “Comunque, spero che tu non me ne voglia: avrai intuito che è letteralmente una questione di vita o di morte.”
Mi arrabbiai di nuovo: questo giovò al tono della mia voce che risultò decisamente più serio.
“Tobia, che sei venuto a fare?” domandai seccamente “Non crederai sul serio che adesso che so la verità ti seguirò buona buona fino all’ara nel tuo giardino per farmi sgozzare come un galletto in un rito voodoo, spero.”
Un sorriso leonardesco stirò le labbra di Tobia.
“Oh, ma tu non sai la verità” cinguettò ottimista “Non ancora, almeno.”
Di nuovo sentii la frustrante sensazione di vedere solo la piccola punta di un iceberg gigantesco. Facendomi forza, incrociai le braccia sul petto e alzai il mento.
“Sono davvero stufa di tutti i vostri enigmi” berciai con convinzione “Sputa il rospo e smettila di girarci intorno. Anche se qualsiasi scusa tu possa inventare, non potrei crederti adesso. Chi mi assicura che quello che mi dirai è la verità e non una tua subdola manovra per farmi rimanere?”
Tobia sospirò con aria paziente e finalmente tornò semiserio.
“Questo è uno dei problemi” ammise controvoglia “Io… noi… non possiamo parlare apertamente dell’argomento. Ci è stato proibito, e non possiamo trasgredire gli ordini.”
“Perfetto.” grugnii, già smontata.
“C’è di buono che non possiamo nemmeno mentire spudoratamente” si rallegrò Tobia “E possiamo rispondere alle domande dirette. E’ per questo che è fondamentale che tu mi ponga i quesiti giusti.”
“Giusti per cosa?” mi aggrottai “Se credi che io abbia capito qualcosa, ti sbagli di grosso.”
“Eri sulla buona strada” mi incoraggiò Tobia pazientemente “Quando sono arrivato, cosa ti stavi chiedendo?”
Feci mente locale cercando di raccapezzarmi in quell’assurdo brancolare nel buio.
“Mi stavo chiedendo chi ha impartito gli ordini che siete costretti a eseguire.” ricordai cogitabonda.
“Esatto” sorrise Tobia, radioso “Chiedimelo.”
Inspirai a fondo, sentendomi tuttavia confusa e spaventata come uno yak tibetano in autostrada.
“Chi è che vi dà gli ordini?” domandai con voce piatta e accademica.
“Paracelso.” rispose prontamente Tobia, facendo subito dopo un gran sorriso allusivo.
Io lo fissai stranita.
“Non è possibile” commentai “Paracelso è morto.”
Tobia fece spallucce.
“Domande dirette.” mi ricordò.
“E va bene” sospirai “Paracelso è morto?”
“No” rispose subito Tobia fluidamente “Ha finto una morte ufficiale solo per poter continuare in pace i suoi esperimenti. Ormai aveva già creato il suo piccolo esercito di aiutanti ed era sulla buona strada con i suoi esperimenti su un potenziale elisir di lunga vita. Trovò la soluzione e la formula per l’immortalità che lo tennero in vita per tutti questi anni anche se non è un gran bel vedere, per un umano qualsiasi. La sua… chiamiamola Immortalità acquisita non ha avuto esattamente gli stessi effetti che ha avuto su Ruggero, Saverio e me. Comunque tecnicamente è vivo, e ben deciso a rimanere tale.”
Sbatté gli occhi allusivo e io intuii che voleva altre domande sull’argomento.
“Vuole rimanere vivo?” domandai e lui annuì entusiasta: in un lampo, compresi molte cose e il cuore prese a battermi come un tamburo “E’ per questo che gli servono le vergini?” domandai precipitosamente.
Tobia sorrise radioso con lo sguardo scintillante di ammirazione.
“Grosso modo hai centrato in pieno” dichiarò sospirando “Anche se il rito fiat vitae è molto più complesso di quanto pensi. E più cruento. Ci sono voluti parecchi anni… e parecchio sangue per trovare la formula giusta.”
Mi sbirciò, incuriosito dalla mia possibile reazione e pronto a rispondere ad altre domande che, forse, non avevo una gran voglia di fare.
“In cosa consiste questo rito fiat vitae?” domandai coraggiosamente, e Tobia partì lancia in resta con la spiegazione.
“Senza dilungarmi in dettagli, il rito necessita dei quattro elementi aristotelici… acqua, aria, terra e fuoco. Questi si combinano al Metallo simbolo di forza eterna, al sangue di vergine simbolo di purezza, al seme Immortale simbolo di vita e alla lapis philosophorum.”
“La pietra filosofale” mormorai, vergognandomi di credere a quella assurdità surreale “Allora esiste davvero!”
“Il rito serve a rigenerare la vita Immortale nostra e del nostro padrone, Paracelso” proseguì Tobia annuendo “Ma serve anche a consacrare il terreno, rendendoci invisibili ai nostri nemici. Senza il rito, ci troverebbero e non avremmo più scampo.”
Questa parte la sapevo già: Saverio me lo aveva confessato solo poche ore prima. Il dubbio che mi tormentava comunque era sempre lo stesso.
“E non si può fare niente di diverso?” domandai pensierosa “Non c’è un’altra soluzione?”
Tobia tacque per un attimo ma guardandolo vidi uno scintillio vittorioso nei suoi occhi.
“Devo ammettere che ho scelto proprio bene” gorgogliò soddisfatto “Sei meravigliosamente intuitiva e sagace… nessuna delle ragazze che ti hanno preceduta è mai arrivata anche solo a intuire quello che tu hai così brillantemente scoperto. Sono letteralmente secoli che aspetto una come te: abbastanza coraggiosa da non tirarsi indietro e abbastanza intelligente da fare le domande giuste.”
Nonché abbastanza scema da perdere completamente la testa per tuo fratello, pensai fuggevolmente, e non potei fare a meno di arrossire.
“Sapendo quello che mi aspetta se rimango, non è che quello che hai detto mi faccia fare i salti di gioia.” grugnii sospettosa.
“Dovrebbe, invece” sentenziò Tobia sorridendo “La speranza che tu sia davvero quella giusta ormai è quasi una certezza.”
Ecco, ero di nuovo in alto mare.
“Giusta per cosa?” domandai allarmata.
Tobia ammiccò con aria complice. 
“Giusta per liberarci.” rispose con leggerezza facendo lampeggiare quei suoi magnetici occhi verdi.

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Capitolo 15
*** Caput XIVum ***


Sponte sua
(dal linguaggio giuridico)

“Liberare?” domandai educatamente.
Mi sentivo la faccia insensibile come se me la fossi cosparsa di novocaina.
“Sei stata tu a chiedere se c’era un’alternativa” rispose Tobia un po’ meno ilare “Io ti sto dicendo che c’è.”
Chissà perché la sua dichiarazione non riuscì a tranquillizzarmi; alla luce dei fatti, dubitavo che Tobia tenesse alla mia vita quanto Saverio, il quale aveva detto categoricamente che non c’erano soluzioni alternative.
“Sentiamo” proposi guardinga “Come potrei liberarvi?”
Tobia si accomodò sul bordo della vasca e sorrise con aria di circostanza.
“Uccidendo Paracelso.” disse con voce estremamente professionale.
Lì per lì non seppi bene se scoppiare a ridere o scappare via a gambe levate: era ovvio che Tobia fosse serio, ma lo stesso non riuscivo a capacitarmi del fatto di stare partecipando a quella conversazione.
“Tobia” esordii dopo un lungo silenzio “Non puoi davvero credere che io sia disposta a uccidere qualcuno.”
Tobia mi lanciò un lungo sguardo scaltro, così diverso dal suo solito atteggiamento da sembrare quasi un’altra persona.
“E’ per questo che avevo delle remore nel parlartene” spiegò vagamente annoiato “Oltre al fatto che la faccenda potrebbe risultare molto, molto pericolosa.”
Lo diceva con leggerezza, come se stesse sorseggiando un tè seduto in veranda. Assurdamente, trovai molto più apprezzabile il tentativo di strangolamento di Saverio che la tranquilla proposta di trasformarmi in un killer di Tobia.
“Se ci tieni tanto a far fuori Paracelso, perché non te lo uccidi da solo?” domandai con stizza mentre mi accorgevo di avere i piedi gelati nonostante la temperatura decisamente estiva.
“Perché non posso” spiegò pazientemente Tobia “Un homunculus non può uccidere il suo creatore. Deve obbedire e basta.”
La sua voce si fece metallica.
“Obbedire sempre per anni. Anni che diventano secoli. Secoli che diventano un tempo infinito… Tempo buttato via senza poter scegliere nulla, sempre al servizio di quel rottame incartapecorito aggrappato con le unghie e con i denti a un’esistenza che non ha più senso. A subire i suoi umori, a far fermentare emozioni umane senza avere la possibilità di viverle…”
Parlava sempre con calma ammirevole, ma qualcosa sottile come una vibrazione urlava in fondo al suo petto.
“Mi dispiace” mormorai dopo aver deglutito a secco “Davvero, non sai quanto…”
Tobia si alzò di scatto, aggraziato e felino: il suo viso fu a un centimetro dal mio e i suoi occhi, pieni di una indomabile furia, mi bloccarono il respiro in gola.
“Ti dispiace?” ringhiò furibondo “Alla piccola vergine innocente dispiace davvero tanto… oh, questa sì che è una consolazione!”
Bruscamente si allontanò, girandomi le spalle.
“Me ne frego del dispiacere!” sibilò con una furia nella voce che mi scosse fin dentro l’anima “Io non potrei provare emozioni, e invece sono qui che sento rabbia, disprezzo e odio… odio perché devo essere qualcosa che non sono più, odio per il mio signore e padrone che continua a servirsi di me, odio per la mia volontà che esiste anche se non dovrebbe esistere… odio per te che stai lì con la soluzione tra le tue belle manine pulite e mi dici che ti dispiace tanto!”
Si interruppe di colpo e il rumore del silenzio rotolò in mezzo a noi pesante come una palla di cannone. Il cinguettio degli uccelli e il frusciare discreto delle foglie sembravano magici dopo quell’eruzione di rabbia. Dopo parecchio tempo ripresi a respirare a singhiozzo, anche se più spaventata che mai.
“Tobia…” dissi, ma poi tacqui. Che avrei potuto dire?  
Vidi le sue spalle frementi rilassarsi e abbassarsi lentamente.
“Scusami Lena” disse con voce di nuovo musicale e leggera “Ma come vedi è proprio questo il problema. Il paradosso dei paradossi! In cinquecento anni di Immortalità noi tre abbiamo imparato a essere umani. A provare sentimenti. A desiderare. Ognuno di noi deve mortificare continuamente i propri bisogni: per me e Ruggero si tratta di lottare contro il desiderio di libertà. Saverio invece deve lottare contro di te.”
Si girò e mi pianto i suoi franchi occhi verdi in faccia, come se non mi avesse già tramortita abbastanza con le sue parole.
“Lui è innamorato di te, Lena.” disse con sincera convinzione e il mio cuore smise di battere per trasformarsi in uno sbuffo di aria rovente.
“E’ difficile riconoscere i sentimenti per lui come per me, visto che alla nascita ne eravamo entrambi estranei, ma osservando Saverio dall’esterno è più facile capire. Non lo vuole ammettere coscientemente, ma non può fare a meno di sentire quello che sente. E’ confuso e non sa come gestire questa… cosa… che gli si agita nel petto. Non ha mai provato amore prima, non sa cosa sia o come difendersi dal male che gli provoca. Sa solo che ti vuole ma che non ti può avere, e questo lo sta distruggendo.”
Di nuovo anestesia dovunque: solo il centro del petto bruciava come fuoco, lì dove una volta c’era il cuore. Al prolungarsi del mio silenzio, un sorriso amaro stirò le labbra di Tobia.
“Mamma mia, Lena, che sguardo: se lo urlassi ai quattro venti, quello che senti non sarebbe altrettanto palese.”
Arrossii violentemente abbassando gli occhi, ma a quel punto sapevo bene quanto fosse inutile.
“E’ così evidente?” domandai abbattuta.
“Oh, sì!” ghignò Tobia tra il serio e il faceto “Dovrei essere offeso, visto che il compito di farti innamorare era affidato a me. D’altronde sapere che Saverio è corrisposto mi fa piacere, in un certo senso.”
“Non credo che questo ci porti da nessuna parte” borbottai scoraggiata “Cioè… non posso cambiare idea…”
Tobia chinò il capo in un lungo attimo di silenzio.
“So che non posso chiederti di combattere una guerra non tua” mormorò infine Tobia con umiltà “So che non posso chiederti di capire cosa ha significato vivere per quasi cinque secoli alla mercè di un essere meschino e dispotico… un pazzo così preso dai suoi esperimenti e dalla sua mania di grandezza da perdere per strada la sua umanità, lasciando che noi la raccogliessimo e la facessimo nostra. Voglio solo che tu sappia… che tu sappia di avere la possibilità di salvarci. Tu sola: salvare noi, salvare le ragazze innocenti che verrebbero dopo di te e salvare persino Paracelso stesso. Lui non se ne rende conto, ma la sua esistenza non ha più senso. Liberando noi, libereresti anche lui.”
Alle sue parole sobbalzai, sentendo tanti aghi di ghiaccio che mi trafiggevano il cuore. Qualcosa di umido mi scivolò lungo il mento e mi resi conto sorpresa che era una lacrima.
“Io non sono un’assassina” pigolai con una strana vocetta querula “Non mi puoi costringere…”
“Tecnicamente potrei” suggerì Tobia con uno sprazzo di ironia “Anche noi esseri senz’anima abbiamo le nostre armi segrete. Secondo te come convinciamo le dolci e innocenti vergini a seguirci nel bosco di notte?”
“Offrendo loro caramelle?” tentai con un sorriso storto che sembrava una paralisi facciale.
“Con un bacio” rispose Tobia rispondendo al sorriso “Se ti baciassi saresti costretta a obbedirmi.”
Fece un passo verso di me e immediatamente io mi allontanai, pronta a fuggire via come una lepre. Tobia alzò le mani mostrando i palmi in segno di pace.
“Tranquilla, non ti bacerò” affermò canzonatorio “Non servirebbe a niente. Il problema è che non posso decidere di fare volontariamente del male al mio creatore, nemmeno per interposta persona. Quindi sei al sicuro dalle mie avances. Mi guarderei da quelle di Saverio, però… non so quanto tempo ancora possa resistere alla tentazione. E’ sempre più debole e più tormentato, il poveretto. Mi chiedo cosa ne sarà di lui quando… sarà tutto finito.”
Era stato a un pelo dal dire “quando morirai”: le sue parole non dette erano così evidenti che sembravano impresse a fuoco sulla mia pelle dove bruciavano come l’inferno.
“Potrei andarmene via.” mormorai e in quel momento lo pensavo veramente.
“Condannando un’altra vergine a morte certa?” rispose Tobia inarcando le sopracciglia “Mi sembrava di aver capito che non fossi un’assassina.”
Aveva ragione, naturalmente. Ma che alternative avevo? Una c’era: ma quando l’idea di andare alla polizia mi attraversò la mente, rapida come una meteora, il sorriso gentile di Tobia si raffreddò di colpo, diventando quello di uno squalo a caccia nell’oceano.
“Posto che ci arrivassi viva” buttò lì come se avessi parlato a voce alta “A questo punto, chi mai ti crederebbe?”
*    *       *
Rimasi in silenzio, immobile, aspettando di sentire la paura invadermi l’anima fino a prendere il sopravvento. Aspettai e aspettai, ma non successe niente: alla fine dovetti accettare il fatto che la paura fosse sparita facendo posto a una cupa determinazione. Capii di aver preso la mia decisione e per quanto aberrante e terribile essa fosse, la certezza di non poter far altro che seguirla mise in qualche modo fine a qualsiasi conflitto interiore.
“Cosa devo fare?” domandai incerta e sfinita.
Il viso di Tobia si aprì lentamente in un ampio sorriso: i suoi occhi verdi tornarono a splendere come gemme e la sua espressione era così radiosa che il sole sembrò splendere con più intensità.
“Oh, Lena” mormorò con voce rotta e quasi incredula “Davvero tu…? Insomma, hai davvero deciso di…?”
Dall’espressione del mio viso dovette intuire che non avevo nessuna voglia di chiarificare la mia posizione: potevo lasciare che si intuisse, ma non ero ancora pronta per dire a chiare lettere cosa ero disposta a fare.
Tobia allora fece un passo verso di me con la mano tesa: il suo viso si era addolcito e di colpo sembrò quasi triste.
“Devi davvero tenere molto a lui.” mormorò piano con voce struggente.
Non finsi di non capire: prima ancora che me ne rendessi conto, i miei occhi erano pieni di lacrime e sì, ammisi senza parlare, tenevo davvero tanto a Saverio. Tanto da considerare l’idea di uccidere per lui.
“Non so che cosa farò” dissi allora a voce alta “Se deve essere una cosa che faccio di mia spontanea volontà, non sono sicura di… essere pronta… al momento giusto.”
Di cosa stavo parlando? Uccidere? Sangue vero sulle mie mani? Vacillai, chiudendo gli occhi.
“Non devi decidere niente, adesso” disse Tobia con voce morbida, prendendomi le mani che tenevo a pugno, tanto strette da ficcarmi le unghie nei palmi “Quando arriverà il momento, verrà tutto da sé. Solo… non devi pensare a te stessa come a un’assassina. Qualsiasi cosa tu deciderai alla fine, ricorda questo: per Paracelso non esisti. Per lui non sei altro che un ingrediente utile per le sue alchimie: non sei una persona con dei sentimenti, ma un oggetto da usare a suo piacimento. Alla luce di questo, quando tenterà di ucciderti, ribellarsi sarà solo un atto di legittima difesa. E quello, sono sicuro, verrà esclusivamente dalla tua volontà e dal tuo cuore.”
Annuii, ma ero troppo sfinita per ascoltarlo ancora: ogni sua parola mi incideva profonde ferite nell’anima e ormai ero arrivata allo stremo della mia sopportazione. Il quel momento l’unica cosa che desideravo, con tanta potenza da far male al cuore, era la mia casa, il mio letto, il profumo sicuro delle mie cose…
“Devo andare” dissi liberando le mie mani dalla stretta gentile di Tobia “A casa mi aspettano e io… io devo… devo riflettere.”
Tobia mi guardò a lungo: non c’era apprensione nei suoi occhi, ma solo tanta pena e tanta dolcezza.
“Va bene” disse infine “Noi saremo qui.”
Annuii di nuovo e feci per incamminarmi verso casa.
“Lena.” mi richiamò Tobia: non trovai nemmeno la forza di girarmi.
“Che c’è?”
“Se Saverio venisse a conoscenza della tua decisione, tenterebbe di dissuaderti.”
Tobia aveva ragione, pensai con un tuffo al cuore: se davvero Saverio provava qualcosa per me, avrebbe tentato di allontanarmi definitivamente.
“Gli parlerò” dissi esausta “Lo convincerò che sto per andarmene.”
Tobia non rispose, e io mi incamminai. Andavo verso casa agognando con tutta me stessa la sicurezza delle mie care pareti domestiche e l’infantile sensazione che niente, lì, avrebbe potuto toccarmi.
In cuor mio sapevo che non ci sarebbe stato più nessun posto per me dove mi sarei sentita al sicuro. Lo sapevo, ma finsi lo stesso di sperare mentre correvo imbambolata verso casa.
*    *       *
Nonna Rosa mi aspettava sulla soglia: era preoccupata e lo fu ancora di più quando vide la mia faccia stravolta. Fortuna che i capelli arruffati mi coprivano il collo… Non ebbi la forza di affrontarla: mi limitai a lanciarle uno sguardo ammonitore e supplichevole prima di lanciarmi su per le scale. Lei non osò chiedermi niente, ma sentii i suoi occhi ancorati alla mia schiena mentre salivo le scale a due a due, rapida e sconnessa come se fossi sotto shock. Spalancai la porta della mia camera e l’odore familiare di casa mi investì in pieno, facendomi vacillare. Mi buttai sul letto e iniziai a singhiozzare con lunghi e lenti spasmi, la testa affondata nel cuscino come quando ero bambina. Erano anni che non mi sentivo così disperata, così bisognosa di aiuto… un aiuto che stavolta nessuno poteva darmi. Piansi a lungo lasciando scorrere fuori da me lacrime e pensieri: piansi fino a sfinirmi recependo solo nebulosamente una timida carezza sulla testa e vaghi mormorii al di là della porta. Sapevo che i miei familiari erano tutti lì e che non capivano il perché del mio dolore; sapevo che non potevo chiedere loro aiuto nonostante mi sentissi così sola e spaventata da non potermi reggere in piedi; sapevo anche che qualcosa dentro di me si era spezzato per sempre, irrimediabilmente… che fosse stata la mia innocenza o la mia adolescenza o il mio stesso cuore, ne avevo in mano i cocci e probabilmente non sarei mai più riuscita a ricostruire quello di prima.
“Lena…”
La voce di Rossella, lontana anni luce, lenitiva come un balsamo sul mio cuore ferito, penetrò la spessa coltre di ovatta che mi ero avvolta addosso; la sua mano fresca passò sulla mia fronte congestionata e una tazza fumante apparve magicamente davanti al mio naso.
“Tò, bevi” disse Rossella con voce più spiccia “Altrimenti ti disidrati del tutto.”
Ubbidii, ancora singhiozzante: i primi sorsi di tè bollente mi strinarono la lingua e finirono sul lenzuolo, ma, miracolosamente, quietarono anche il mio pianto convulso. Finalmente mi tirai su a sedere: mi avvolsi fino al naso nel lenzuolo, coprendo opportunamente il collo emaciato, e mi ancorai alla tazza di tè come un naufrago alla zattera. Rossella era acciambellata sul letto disfatto accanto a me, il viso serio e preoccupato.
“Accidenti” disse vagamente intimidita “Non ti ho mai vista mollare gli ormeggi così. Sono sempre stata convinta che tu, miss Equilibrio in persona, non fossi nemmeno capace di piangere, figurati di allagare la camera a furia di lacrime!”
Sorrisi timidamente, tra un singhiozzo residuo e l’altro: mi sentivo la faccia gonfia come se mi avessero pestata, senza contare il probabile covone di fieno dei capelli aggrovigliati sulla testa.
“Volevo tramortirti dalla sorpresa e non mi è venuto in mente nient’altro.” mormorai con voce tremula soffiandomi rumorosamente il naso.
Rossella inarcò un sopracciglio.
“Bastava che mi chiedessi consigli per un rossetto” rispose ammiccando “Così hai fatto prendere un colpo a tutti: nonna Rosa ha rischiato l’infarto e papà è andato a comprare a Ustecchio una fornitura annuale di camomilla. L’unica che non si è mossa di un millimetro è stata Sabrina, ma forse è morta dentro l’amaca e nessuno se n’è ancora accorto.”
“Mi dispiace” sospirai nascondendomi dietro la tazza di tè “Non volevo spaventarvi. E’ che è stata… una giornataccia.”
“Alla faccia” sorrise Rossella rinfrancata dal mio tono di voce decisamente più normale “Me ne vuoi parlare o aspetti il dottor Stranamore, alias la mamma?”
Il pensiero delle domande a mitraglia della mamma, abbinate al suo impalcabile sguardo indagatore, riuscì a farmi rabbrividire di raccapriccio.
“Ti prego, Ross, tieni al guinzaglio il mastino” mormorai “Non avrei la forza di gestirla, adesso.”
Rossella incrociò le braccia sul petto con aria decisa.
“Lena, io sto dalla tua parte, ma solo se mi racconti la verità.” decretò con aria di sfida.
Per poco non le risi in faccia: oh, sorellina, tu non hai nessuna voglia di sapere la verità, credimi…
“Ok” sospirai abbassando gli occhi “Ma ti prego, ti prego… fa in modo che quello che ti dirò rimanga tra me e te in eterno nei secoli dei secoli.”
“Che possa mangiare vomito di rospo.” cantilenò Rossella facendo una croce sul cuore secondo un vecchio rito che risaliva alla nostra prima infanzia. Una feroce malinconia mi azzannò il cuore: oh, Rossella, se solo avessi potuto davvero raccontarti tutto…
“Ovviamente c’è di mezzo un ragazzo” decise mia sorella aggrottando le sopracciglia “Vuoi dirmi tu di chi si tratta o devo fare io nomi e cognomi di tutti i maschi del vicinato?”
Io abbassai di nuovo lo sguardo, cercando di imbastire nella mia mente una storia che fosse il più possibile sincera e indolore.
“A dire la verità ce n’è più d’uno.” risposi sottovoce e Rossella fece un mezzo fischio d’ammirazione.
“Diavolo d’una meretrice!” sorrise complice “Avanti, racconta.”
Inspirai profondamente, cercando dentro di me le parole giuste per poter essere consolata senza mettere in pericolo nessuno.
“Filippo oggi mi ha baciata.” ricordai all’improvviso: era successo solo poche ore prima… mi sembrava un’eternità.
“Oh” fece Rossella, per niente sorpresa “E…?”
“E niente” replicai sincera “Zero. Niente campane, niente arcobaleni, niente colombe lanciate in aria.”
“Che peccato” buttò lì Rossella sinceramente dispiaciuta “D’altra parte, ammetto che Filippo è un po’ troppo bamboccio per poter piacere a una cerebrale come te.”
Detto da Rossella poteva anche non essere un complimento. Comunque il suo naso era troppo fino per potersi accontentare di quella spiegazione.
“Poi?” incalzò infatti con sguardo vigile “Non mi dirai che tutto sto spreco di liquidi è per un bacio di Filippo, vero?”
“Poi sono andata nel bosco.” sospirai vinta.
“E?” si spazientì Rossella, stufa di dovermi tirare fuori le parole con le tenaglie.
“E ho incontrato Saverio Lazzari.”
Altro fischio, sguardo più attento e meravigliato.
“Che è successo? Ti ha baciata anche lui?” buttò lì già agitata.
“No” sospirai vergognosa “Anzi… sono stata io a provare a baciare lui. Ma mi ha respinta.”
Sul viso di Rossella passarono una serie di espressioni così evidenti che mi fece quasi tenerezza.
“Cavolo” commentò alla fine “Che Saverio fosse uno stronzo era fuori questione; ma che tu provassi di tua spontanea volontà a baciare qualcuno mi ha quasi ammazzato di sorpresa. Che ti è preso? Un alieno si è impossessato del tuo corpo?”
“Macchè” risposi vergognosa “E’ che… credo di essermi presa una cotta mostruosa per lui.”
Non era di sicuro una bugia ed era l’unica cosa che potevo condividere con Rossella, per il momento.
Feci una smorfia buffa, stranamente ricambiata: il fatto che ammettessi di avere una cotta proprio con lei, la regina delle cotte di tutto il circondario, mi rendeva indubbiamente più simpatica ai suoi occhi.
“Meno male” sorrise infatti con aria complice “Anche tu hai finalmente dimostrato di avere occhi, sangue e ormoni in regola come tutte noi povere mortali. Cominciavo a pensare che fossi frigida o gay. Non che ci fosse niente di male, eh, ma sai…”
“Eh, già” risi mio malgrado “Così adesso puoi prendere in giro anche me per essere diventata così stupida e patetica da prendermi una cotta per un Lazzari.”
“E come darti torto?” sospirò Rossella indulgente “E’ bello da far schifo. Mi sorprendeva il fatto che solo tu tra tutte le femmine del paese non te ne fossi accorta. Ora, con questa confessione, hai ripristinato l’ordine naturale delle cose.”
Eh, già. Ordine naturale, come no.
“Comunque Saverio non mi fila e questo è quanto.” tagliai corto abbassando lo sguardo.
Sorprendentemente, Rossella mi abbraccio forte avvolgendomi in una confortante nuvola di Hypnose.
“Mi dispiace, Lena” disse sinceramente “Che tu sia finalmente riuscita a provare qualcosa per qualcuno è un ottimo segno, anche se quel qualcuno è uno snob spocchioso e vanesio come Saverio Lazzari. Non lasciarti abbattere: probabilmente non avrebbe avuto miglior successo nemmeno una super top model. Anzi, magari Saverio è gay.”
“Magari.” commentai poco convinta.
Rossella si rizzò a sedere con gli occhi lucidi e animati.
“Sai che facciamo?” si ringalluzzì felice “Stasera a Cresta del Gallo ci sono le Cartèle e lo stand gastronomico: noi ci andiamo, ci sbronziamo per bene e domani stiamo a letto tutto il giorno col mal di testa. Che ne dici?”
Che meravigliosa prospettiva: affogare i dispiaceri amorosi nella Tombolata paesana cercando di tradurre le farneticazioni in dialetto di chi detiene “el cartilù” con la speranza di vincere un galletto nostrano con la cinquina… 
“Dico che sarebbe fantastico.” mormorai moderatamente entusiasta.
Non potevo permettere che Rossella sospettasse la verità: dovevo assecondarla quanto più possibile. E poi, l’idea di una bella sbronza per dimenticare non mi sembrava così malvagia.
“Molto bene” sorrise Rossella tutta contenta “Naturalmente, dovrai lavarti la faccia e darti come minimo una pettinata. Così sembri il mostro della laguna.”
L’avevo pensato anche io un giorno specchiandomi alla fonte, millenni fa.
“Personalmente, ho visto anche di peggio” mi rimbombò in testa una voce canzonatoria, così lontana che mi si strappò il cuore dal petto al pensiero di perderla.
“Ok” risposi precipitosamente prima che i miei occhi aprissero di nuovo i rubinetti a tradimento “Per l’occasione mi presti il bagno con acqua calda o devo procedere con le abluzioni ghiacciate nel bagno esterno?”
Rossella sorrise, maliziosa.
“Sta tornando fuori la vecchia e acida zitellona di sedici anni!” commentò estasiata “Erano tutti così preoccupati di averti persa per sempre. Nonna Rosa soprattutto sarà felice di sapere che sei tornata tra noi.”
Nonna Rosa… chissà quanto era stata in pena. E quanto aveva sospettato. Quasi sentii i sudori freddi scorrermi lungo la schiena: rischiavo di pagare molto cara la mia debolezza pubblica, ma d’altro canto come avrei potuto trattenermi? Col senno di poi, trovavo positivo anche solo il fatto di non essere del tutto impazzita.
“Senti, potresti fare in modo che nonna Rosa non sappia di… ehm… me e Saverio?” domandai a Rossella arrossendo come un gambero “Sai quanto nonna detesti i nostri vicini; se venisse a sapere che uno di loro mi ha… ehm… respinta, per vendicarsi sarebbe capace di mandare a fuoco Villa Lazzari.”
“E’ vero” rispose Rossella sorridendo “Meglio non aizzare la piromane nascosta in lei. Fidati, quando mi farà il terzo grado darò la colpa a George Clooney.”
Storsi il naso ma non commentai: qualsiasi cosa, pur di tenere il naso di nonna Rosa lontano dai miei affari.
Puzzavano talmente tanto che sarebbe bastato un niente per farli scoprire e io non ero capace di mentire, alle persone che amavo, abbastanza bene da non metterle in pericolo di vita.

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Capitolo 16
*** Caput XVum ***


Ex abrupto
(detto popolare)

La tombolata paesana, confidenzialmente chiamata Cartèle, era uno degli eventi mondani della stagione, insieme alla festa per la notte di San Lorenzo e ai tradizionali fuochi d’artificio per Capodanno. Quando scendemmo in paese quella sera, la piazza di Cresta del Gallo era stipata di gente: davanti alla gelateria di Antonio si snodava una coda in paziente attesa (Antonio non era famoso per la sua velocità), mentre un centinaio di persone aveva già occupato gran parte delle sedie che si trovavano davanti a un piccolo palco, allestito per l’occasione, e fremeva impaziente di godersi lo spettacolo. Quando arrivammo in paese, tutti ci salutarono con entusiasmo: tutta la famiglia era vestita bene, come se fossimo pronti a partecipare a un matrimonio; il foulard di Hermes, prestito di Rossella, mi dava un’aria opportunamente seventy e nascondeva i brutti lividi viola che Saverio mi aveva lasciato sul collo.
Nonna Rosa, mamma e papà, tranquillizzati sul mio stato di salute da Rossella e dalla mia stessa faccia inespressiva, corsero via per accaparrarsi un posto a sedere.
“Bè, io me la filo” commentò piacevolmente Sabrina parlando a raffica come al solito “C’è un tizio che mi fa provare una V-Rod, solo per un breve tratto in cortile non preoccupatevi, se lo dite a mamma e papà vi ammazzo, ciao.”
Sparì più veloce della luce lasciando me e Rossella a sentirci vagamente troppo lente per condividere lo stesso patrimonio genetico con lei.
“Ho capito solo la parte dove diceva che ci ammazza se lo diciamo a mamma e papà” sospirò Rossella cogitabonda “Mi sento così vecchia… hai idea di cosa sia una V-Rod?”
“Che mi venga un colpo se lo so” ammisi rincuorata di condividere la sua stessa deficienza “Forse una forma mutante di roditore?”
Rossella sghignazzò, ma non più di tanto: con Sabrina c’era da aspettarsi di tutto.
“Andiamo allo stand” propose ammiccando “Se non cominciamo a bere adesso, non riusciremo a ubriacarci prima di mezzanotte.”
Ci dirigemmo quindi verso l’affollatissimo stand gastronomico allestito dalla Pro Loco dove un rubizzo e sudatissimo macellaio, il papà di Marco e Filippo, stava arrostendo una discreta varietà di carni mentre la moglie e i due figli versavano da bere dietro il banco. Marco lanciò una serie di sguardi allusivi a Rossella che rispose a tono mentre Filippo girò platealmente le spalle per non essere obbligato a salutarmi. Quando arrivò il nostro turno, ci servì la signora che salutò Rossella con un gran sorrisone (dopotutto era la ragazza del figlio Marco) e me con un’occhiata che somigliava a un cubetto di ghiaccio infilato dietro la schiena. La sua aria oltraggiata non mi scalfì nemmeno: presi il bicchiere di birra ringraziando cortesemente e andai ad appollaiarmi su una panchina miracolosamente libera.
“Vorrei scusarmi a nome della mamma di Marco” grugnì Rossella sedendosi al mio fianco “Se non altro, ora sappiamo da chi ha preso Filippo in fatto di cafoneria.”
“Ma figurati” ribattei con un sorriso “Sono sicura che molto presto passerà il nervoso a tutti e due.”
“Guarda là” indicò Rossella con il mento mentre gli occhi cominciavano a brillarle maliziosamente “Com’è in tiro Martina stasera… scommetto che è già partita all’attacco della fortezza che tu hai abbandonato!”
Rimanemmo per un bel pezzo a ciarlare spettegolando di questo e di quello: avevo proprio bisogno di una parentesi di leggerezza e grazie a Rossella, complice la birra a cui non ero abituata, mi stavo davvero rilassando. Almeno fino a quando non vidi Rossella irrigidirsi e fissare lo sguardo in mezzo alla folla con una strana faccia corrucciata.
“C’è Saverio Lazzari.” mi informò con voce neutra chinandosi leggermente verso di me: mi bastò sentire pronunciare il suo nome perché una vampata di calore rovente salisse a incendiarmi il collo e le orecchie facendomi sobbalzare pensosamente. Rossella mi lanciò uno sguardo di sbieco, comprensiva, e in quel momento ringraziai la mia buona stella per aver detto la verità, almeno su quel frangente: come avrei potuto reggere una menzogna se solo a sentirlo nominare la mia valvola mitrale scoppiettava come una marmitta difettosa? Lentamente, con circospezione come se avessi paura di rompermi, girai il collo nella direzione indicata da Rossella: la testa bruna e fiera di Saverio svettava sopra a quelle anonime e ondeggianti degli astanti; camminava con la sua falcata armoniosa e la gente sembrava fare involontariamente spazio al suo passaggio, come se percepisse la sua aura prima ancora di accorgersi della sua presenza. Stranamente, non era vestito di bianco: portava i jeans, una maglietta celeste e un paio di comunissime scarpe da tennis, come se avesse voluto mimetizzarsi in mezzo alla gente comune. Ovviamente, l’effetto finale era esattamente il contrario: di fianco a lui, tutti i jeans degli altri sembravano aborti malriusciti; confronto alla sua maglietta semplice e linda, le magliette degli altri sembravano stracci barocchi. Nonostante la forzata semplicità, sprigionava divina armonia da ogni singolo poro di quella pelle perfetta e persino Rossella fu costretta a deglutire con forza.
“Porca vacca” commentò sospirando suo malgrado “Che gran bell’esemplare di maschio.”
Probabilmente avrebbe anche detto qualcosa di più incisivo se non avesse avuto pietà di me: mi lanciò infatti uno sguardo di commiserazione così pura che mi sembrò di avere un neon lampeggiante sopra la testa con scritto: poverina! 
Saverio continuava ad avanzare, spostando la testa di quando in quando: il suo sguardo verde e ammaliante perlustrava pigramente la folla, come se cercasse qualcuno. Quando incontrò il mio sguardo, mi inchiodò il respiro in gola rimanendo a lungo a fissarmi. Di colpo, fu come se qualcuno avesse abbassato l’audio, riempiendomi le orecchie e la gola di ovatta morbida e soffocante.
“Merda” sentii lontanissima la voce allarmata di Rossella “Sta venendo qua!”
Non mi ero nemmeno accorta che Saverio avesse continuato a camminare, persa com’ero nei suoi occhi. Un limpido fiotto di adrenalina mi invase le vene quando constatai che Rossella aveva ragione: Saverio si stava avvicinando a noi con una bella traiettoria dritta e rettilinea che non lasciava adito a nessun dubbio. Le prime teste curiose si girarono a guardare Rossella e me prima ancora che Saverio ci arrivasse davanti.
“Ciao.” disse con la sua bella voce musicale fermandosi esattamente davanti a me come le mani in tasca e senza sorridere.
Rossella e io, sedute immobili sulla panchina e con le facce attonite alzate su di lui, sembravamo due statue gemelle di assoluta sorpresa.
“Ciao” si riprese per prima Rossella sfoggiando a stento un sorriso “Qual buon vento Saverio?”
La sua voce era acutissima e altre teste si girarono a osservarci incuriosite: Saverio sorrise facendo scintillare i denti bianchissimi sul viso abbronzato e Rossella sbatté le palpebre abbacinata.
“Gironzolavo.” rispose alla fine di tutto quello spreco di divina armonia.
“Davvero?” commentai a denti stretti. Non sapevo assolutamente perché, ma di colpo ero furibonda con lui.
Saverio sembrò accorgersene e le sue labbra bellissime si incresparono in un sorriso sardonico.
“Come stai, Milena?” domandò facendo scintillare gli occhi “Ti sei ripresa dalla giornataccia?”
Che cafone!, pensai infuriata. Prendermi in giro così, davanti a Rossella, ricordandomi con tanta leggerezza che mi aveva quasi uccisa… Era davvero convinto che le sue intimidazioni e il suo finto strangolamento mi avessero completamente piegata alla sua volontà?
“La giornata non è ancora finita” ringhiai accigliata “E una buona birra può fare miracoli.”
“Posso provare?” domandò lui con voce vellutata: prima ancora che capissi quello che aveva detto, mi aveva tolto il bicchiere dalle mani e aveva bevuto rovesciando la testa all’indietro.
“Ottima.” disse gettando via il bicchiere ormai vuoto con occhi scintillanti e pulendosi il leggero strato di schiuma che gli era rimasto sul labbro con la lingua.
Una specie di violenta fiamma ossidrica mi incendiò il ventre mentre Rossella soffocava un singulto con ammirabile prontezza.
“Posso?” chiese a quel punto Saverio sorridendo radioso e poi, con scioltezza, si sedette tra me e Rossella, obbligandoci a fargli posto senza tuttavia perdere un grammo della sua regale compostezza. Rossella e io ci scambiammo uno sguardo smarrito mentre le teste girate a guardarci si moltiplicavano come funghi.
“Che diavolo stai facendo?” sibilai molto poco elegantemente incrociando le braccia sul petto: stavano tremando e non avevo nessuna voglia di fargli capire quanto la sua presenza mi sconvolgesse.
“Socializzo” rispose Saverio con un abbagliante sorriso da schiaffi “Non sei contenta che abbia smesso di evitarti come la peste?”
Allarmata, sbirciai Rossella che guardava Saverio a bocca aperta con un’espressione vagamente ebete: alla mia rabbia si aggiunse un’ansiosa apprensione e di colpo scattai in piedi come se fossi stata caricata a molla.
“Ti devo parlare.” berciai fissando a muso duro la bella faccia di Saverio: lui non si mosse di un millimetro e io dovetti afferrarlo per un braccio e trascinarlo in piedi per costringerlo a seguirmi. 
Ormai quasi tutti ci stavano fissando, più o meno sorpresi e più o meno ilari: marciai lontano dalla folla tenendo lo sguardo ben fisso davanti a me pur arrossendo come un pomodoro maturo. Quando arrivai abbastanza lontano da non essere udita da nessuno, lasciai il braccio di Saverio e mi girai a fronteggiarlo furiosa.
“Ma che ti prende?” grugnii cominciando immediatamente a iperventilare quando per la vicinanza mi arrivò uno sbuffo del suo travolgente profumo.
“Mi faccio vedere in giro con te” rispose Saverio con uno strano sottofondo amaro nella voce “A quanto pare è l’unico modo per costringerti ad allontanarti.”
“Tu sei pazzo!” ruggii furibonda “Sai benissimo che corri un pericolo grossissimo stando fuori dalla Villa! E te ne stai comunque qui a gironzolare senza protezione, spargendo il tuo maledetto buzz dappertutto... col rischio che qualcuno ti senta e corra qui per farti lo scalpo!”
Non mi soffermai a pensare a quanto potesse risultare surreale il mio discorso a un ascoltatore estraneo: già era difficile accettare il fatto di usare certe parole con cognizione di causa…
“E anche se succedesse?” sbuffò di rimando Saverio lasciando cadere la maschera fatua di poco prima e mostrandosi stanco, arrabbiato e tormentato com’era realmente “Magari non me ne frega niente. Magari sono stufo marcio di scappare. O magari non vedo l’ora che arrivi qualcuno così la facciamo finita…”
Un brivido gelido mi percorse la schiena da cima a fondo: non immaginavo che Saverio fosse disposto a tanto pur di salvarmi e quel pensiero mi fece sentire contemporaneamente tanto bene e tanto male. Soprattutto tanto male, a dire il vero.
“Ti sei dato tanto da fare inutilmente” dissi di punto in bianco sforzandomi con tutto il cuore di mantenere un’espressione neutra “Ho deciso di andarmene.”
Saverio sbatté le palpebre, ma la sua espressione non cambiò.
“Meraviglioso” disse con voce atona “Quando?”
“A ferragosto.” mentii disinvolta fissandolo ben bene negli occhi.
Saverio scosse leggermente la testa, aggrottato.
“Ferragosto è già tardi” sentenziò cupamente “Devi andartene prima.”
Che Saverio si permettesse di spadroneggiare così sulle mie concessioni mi mandò letteralmente in bestia.
“Me ne andrò quando sarò pronta” ringhiai furiosa “E comunque non prima di averti mollato due sberle per il tuo comportamento da duce.”
Saverio si masticò l’interno delle guance, probabilmente per non insultarmi.
“Sei davvero incredibile” sputò alla fine, irritato “Pretendi che ti chieda per favore quando sto cercando di salvarti la vita!”
“Non mi va che sia tu a decidere per me” risposi a tono “Non hai nemmeno provato a prendere in considerazione un’alternativa che potesse salvare entrambi!”
“Se ci fosse stata l’avrei presa eccome in considerazione!!” ruggì frustrato incombendo minaccioso su di me.
Fui a un pelo dal sbattergli in faccia il mio accordo con Tobia, ma mi trattenni all’ultimo secondo: sarebbe stato capace di darle lui a me le due sberle promesse. Nell’espressione del suo viso rivaleggiavano la stizza, la frustrazione e la malinconia e io decisi di puntare su quell’ultima, avvicinandomi a lui.
“Sei contento che me ne vada?” domandai con voce più neutra possibile senza smettere di fissarlo negli occhi.
“Certo che sono contento” rispose lui aggressivo “Non è quello che ti chiedo di fare da quando ci siamo conosciuti?”
Non era certo quello che volevo sentirmi dire: averlo così vicino, con la pelle calda di rabbia che spandeva intorno il suo travolgente profumo, mi faceva sentire vulnerabile e instabile come plutonio radioattivo. Il desiderio di toccarlo, di farmi abbracciare da lui, di assaporare il suo odore e il suo sapore era così violento da darmi le vertigini.
“Quindi sei felice che io me ne vada” mormorai con voce tremante “Sei felice che noi due non ci vedremo mai più.”
Le ultime due parole caddero tra noi con un tonfo sordo così potente da spezzarmi il cuore. Saverio non rispose: sbatté di nuovo le ciglia e strinse i pugni fino a far sbiancare le nocche ma il suo viso rimase immobile come scolpito nella pietra.
“Allora?” lo incalzai, arrogante e tuttavia fragile come pergamena: mi ero avvicinata ancora e lo guardavo da sotto in su, così vicina che sarebbe bastato un niente per sfiorarci.
All’improvviso, la sua mano scattò per afferrarmi il braccio con così tanta forza e rabbia che trasalii di dolore.
“Cosa vuoi sentirti dire, Milena?” rispose lui con voce lenta e vibrante, piena di furia, minaccia e dolore “Che non voglio che tu te ne vada? Che mi sento morire se solo penso alla possibilità di non vederti mai più?”
Le sue dita affondavano nella mia carne con forza implacabile, ma io quasi non le sentivo: ero così ipnotizzata dal suo sguardo lampeggiante che non mi sarei mossa nemmeno se mi avesse rotto le ossa.
“Vuoi che ammetta che sono venuto qui solo nella speranza di vederti… di parlarti... di ascoltare ancora la tua maledetta voce?” ringhiò ancora scrollandomi con rabbia “Dove credi che potrebbe portarci questa strada? Quanto male potrebbe fare a tutti e due?”
“Mi stai spezzando un braccio.” mormorai con calma, la faccia bianca come gesso.
Lo sguardo di Saverio si spostò dai miei occhi alle sue dita affondate nel mio braccio, come se fosse stupito di trovarle lì: la sua presa si allentò lentamente, poi la sua mano scivolò sopra la spalla lasciando dietro di sé le impronte prima bianche e poi rosse delle sue dita. Con una delicatezza estrema, le sue dita sfiorarono il foulard che mi copriva il collo e nonostante il leggero tessuto si frapponesse tra la mia pelle e la sua, sentii lo stesso distintamente il calore del suo tocco.
“Mi dispiace” mormorò con voce rotta mentre gli occhi gli si riempivano di orrore e pena “Qualsiasi cosa faccia finisco per farti soffrire.”
Sembrava disgustato di sé: io invece sentivo la pressione gentile delle sue dita che tornavano sulla spalla con una blanda carezza e l’unica cosa che riuscivo a pensare era a quanto fossero verdi e magnifici i suoi occhi.
“Non me ne voglio andare, Saverio” gracidai con voce liquida “Ti prego, dimmi che posso rimanere.”
Saverio abbassò gli occhi e le spalle e inspirò profondamente.
“Non posso.” rispose con voce molto più ferma.
Ma la sua mano era ancora sulla mia spalla e la pelle sottostante sembrava bruciare al contatto. Inclinai il viso verso di essa e quasi senza volere il suo palmo si posò sulla mia guancia, delicato e leggero.
“Dimmi che non vuoi che vada via.” insistetti cercando il suo sguardo che rimaneva risolutamente basso.
“Non posso.” ripeté Saverio in un soffio, alzando finalmente gli occhi su di me. Eravamo così vicini… la sua bocca era un polo d’attrazione irresistibile, così vicina da poterla quasi sfiorare. Il suo respiro fresco asciugava le mie labbra aride e socchiuse, il suo cuore batteva così forte che il rumore dei suoi battiti mi riempiva le orecchie.
“Allora baciami.” supplicai senza nemmeno trovare la forza di vergognarmi delle mie parole.
La sua bocca si schiuse mentre il suo pollice passava lento e tremante sul mio labbro inferiore; il suo respiro, rapido e tiepido, divenne il mio, stordendomi come se fosse cloroformio; i suoi occhi fissi nei miei, con le ciglia nere abbassate e frementi, erano l’unica cosa esistente nel mio universo.
“Non posso.” sussurrò la sua voce strozzata un attimo prima che si allontanasse, rapido e leggero come portato via dal vento. La sua mano lasciò la mia guancia con una carezza piena di rimpianto e il suo sguardo si indurì, dolente ma risoluto.
“Hai fatto bene a decidere di andartene” disse recuperando una voce seria e impersonale “Porta anche tua sorella, nemmeno lei è a sicuro. Fa in modo che sia il più presto possibile. Addio.”
Girò i tacchi e le sue spalle furono lontane prima ancora che mi rendessi conto del fatto che se n’era andato. Rimasi lì impalata sul marciapiede mentre il rumore della gente poco distante sembrava lontano anni luce e un freddo polare mi invadeva le viscere. La testa di Saverio era già sparita in mezzo alla folla quando nebulosamente vidi sbucare Rossella proveniente dallo stand gastronomico: aveva in mano due bicchieri e il suo sguardo era curiosamente triste e consapevole. Si avvicinò a me con un mesto sorriso sulle labbra mentre il sangue riprendeva a circolare nel mio corpo… mi chiesi meravigliata come diavolo facesse, visto che il mio cuore era appena sparito dalla circolazione, inseguendo Saverio che si allontanava. Senza dire una parola, Rossella mi allungò un bicchiere che presi automaticamente senza pensare.
“Bevi” mi suggerì maternamente mia sorella portando a sua volta il suo bicchiere alle labbra “Tra poco ti arriveranno addosso un milione e mezzo di persone con un milione e mezzo di domande e se sarai sbronza potrai mentire tranquillamente senza sentirti in colpa.”
Io abbassai lo sguardo sulla mia birra, come cercando una risposta a tutti i miei perché in quel liquido dorato.
“Che cosa è successo, Ross?” domandai avvilita “Dove ho sbagliato?”
Rossella sospirò stringendosi nelle spalle.
“E chi diavolo ci ha capito qualcosa?” tentò di scherzare lei con una smorfia buffa “Dopo il suo primo sorriso sono rimasta tutto il tempo tramortita…”
Come svegliandomi da un lungo sonno, mi guardai intorno scoprendo che la gente mi passava di fianco guardandomi in modo strano.
“Ci hanno visto tutti?” domandai allarmata mentre notavo da lontano lo sguardo furibondo di Filippo impalato dietro lo stand.
“Da qui a Ustecchio” confermò Rossella gravemente “E a tutti è sembrato piuttosto lampante che Saverio fosse venuto qui per te. Per far cosa non si è capito bene: sembrava quasi arrabbiato. E anche tu, a dire il vero. Comunque, adesso mi spiego i lividi sul collo, quelli che hai cercato di mimetizzare prima con il lenzuolo e ora con il mio foulard… ”
Sorrise mentre io mi portavo una mano alla gola, avvilita.
“Mamma e nonna Rosa lo sanno?” domandai sottovoce.
“Se non li hanno notati prima, adesso lo faranno di sicuro” sospirò Rossella “E credimi, dopo i gemelli che ti ha lasciato sul braccio, non ci vorrà di certo CSI per capire che ti ha fatto anche quelli.”
Lanciai un’occhiata fugace al braccio dove le impronte rosse delle dita di Saverio pulsavano debolmente: arrossii con violenza vergognandomi delle mie evidenti bugie, ma non osai commentare.
“Comunque, quando ti ha accarezzata non c’era una sola persona in piazza che si azzardasse a respirare… persino le zanzare si sono andate a schiantare in silenzio contro il lampione pur di non interrompere la scena.”
“Merda…” sussurrai a fior di labbra, angosciata.
“Sante parole” sorrise Rossella magnanimamente “Mi sto ancora chiedendo come fai a ragionare a filo dopo che lui ti ha quasi baciata.”
Un brivido mi attraversò la schiena: Saverio mi aveva quasi baciata. Davanti a tutto il paese. Mettendosi in pericolo in almeno tre maniere diverse: sfidando eventuali Immortali in cerca di una testa da tagliare, sfidando Paracelso e sfidando anche le regole ancestrali che governavano la sua vita. E aveva fatto tutto per me… gli occhi mi si riempirono di lacrime che nascosi in fretta sollevando il bicchiere di birra e bevendo tre lunghe sorsate. Rossella mi guardò annuendo comprensiva mentre alle sue spalle vedevo avvicinarsi Martina e Sara, i visi atteggiati a una perfetta maschera di stupore e brama di gossip. Dietro di loro, nonna Rosa con lo sguardo cristallizzato di paura e rabbia.
“Se te la vedi brutta, fingi di svenire.” mi suggerì Rossella con aria da cospiratore, e io pensai che di lì a poco non avrei avuto nessun bisogno di fingere.
*    *       *
Il fragile equilibrio di menzogne che mi aveva sostenuta fino a quel momento cadde tutto in un colpo quando finalmente tornammo a casa: nonna Rosa non aspettò nemmeno di arrivare sulla soglia per coprirmi di rimproveri, spiattellando ai miei genitori la verità sulle nostre chiacchierate, sulle mie promesse non mantenute e sulle bugie che avevo sciorinato come coriandoli a carnevale. I miei lividi vennero analizzati e soppesati, e dovetti trattenere papà per una manica affinché non si fiondasse alla polizia a denunciare Saverio per percosse. L’aggettivo ricorrente di quella notte lunghissima fu “pericoloso”; venne usato per descrivere Saverio, la situazione stessa, il mio stato mentale… dovetti sudare sette camicie per rimanere relativamente calma e alleggerire il più possibile le cupe conclusioni dei miei genitori. Mamma, papà e nonna Rosa e io finimmo di litigare che era quasi l’alba e benché nessuno fosse riuscito a scucirmi una sola parola di bocca su cosa coinvolgesse me e i Lazzari, alla fine decisero che per punizione sarei ritornata a Milano prima possibile.
“Punizione perché?” protestai frustrata nel bel mezzo del litigio “Che ho fatto di male se non parlare con i nostri vicini di casa? C’è stato un litigio, va bene, e Saverio mi ha accidentalmente fatto male, ma adesso si è tutto risolto…”
“Che faccia tosta!” ribatté la mamma, doverosamente furiosa “Accidentalmente? Lividi sul collo accidentali? Ma per chi mi hai preso?!? Se vedo in giro quel deficiente con la puzza sotto il naso gli spacco la faccia, prima a lui e poi a te che lo difendi!! Quel tizio è pericoloso e tu l’hai frequentato nonostante quello che avevi promesso a nonna Rosa…”
“Non crederai davvero alle farneticazioni di nonna Rosa!” buttai lì cercando di rendere convincente la bugia più grossa che avessi mai detto e mamma si imbronciò ancora di più.
“Non è importante credere o meno alle teorie di nonna Rosa” rispose sferzante “Tu sei in punizione perché ci hai mentito e perché continui a farlo, ostinandoti a non raccontarci tutta la verità: sei in punizione perché hai preso in giro e usato le persone che ti sono più care, dai tuoi familiari ai tuoi amici… tutto per una stupida cotta!”
Mi lanciò uno sguardo che era la quintessenza della delusione, ma che non mi scalfì minimamente.
“Per favore, ripensateci” mormorai cercando di assumere un’espressione il più contrita e convincente possibile “Chiudetemi in camera per una settimana, lasciatemi a pane e acqua per un mese, toglietemi tutti i libri… ma non rimandatemi a Milano, per favore!”
Con lo sguardo supplicavo soprattutto papà, notoriamente più debole al richiamo della commozione. Lui scambiò uno sguardo serio con mamma e liquidò il tutto con un:
“Vedremo.”
Così, fui confinata in camera mentre i tre, riuniti in conclave, decidevano del mio futuro. Mentre il sole nasceva dietro le ripide cime verdi di Cresta del Gallo, seduta sul davanzale ad assaporare l’aria frizzante del mattino in arrivo, decisi tra me e me che se mi avessero obbligata a tornare in città sarei fuggita. L’avrei fatto, scoprii sorpresa, senza nemmeno una remora, convinta di buttarmi alle spalle sedici anni di vita tranquilla, armonia e fiducia per una seria motivazione. Le parole di Tobia e quelle di Saverio si accavallavano nella mia testa, contorte e minacciose, rafforzando l’idea che l’unica cosa rimasta da fare fosse quella: arrivare fino in fondo e farla finita. Ancora non avevo idea di come sarebbe successo, visto che mi era tutto contro: ormai avevo perso la fiducia di tutti e nemmeno Rossella avrebbe potuto darmi una mano… anzi, secondo Saverio persino lei poteva essere in pericolo. Mi chiesi che razza di persona fossi diventata, in così poco tempo, per buttare all’aria tutte le mie convinzioni solo per i begli occhi di un ragazzo; mi chiesi come potessi essere così meschina da non temere per la vita di Rossella o per quella di chiunque altro non fosse Saverio; mi interrogai angosciata sulla possibilità che, nonostante lui si fosse rifiutato di baciarmi, io stessi comunque agendo sotto l’influsso di una specie di incantesimo che mi aveva fatto.
Poi piansi a lungo, amareggiata e sola, chiedendomi come sarebbe andata a finire. E nonostante tutto, nemmeno per un attimo presi in considerazione l’idea di lasciar perdere: c’erano troppe cose che mi spingevano in quella direzione contro la mia stessa volontà. C’era la necessità di mettere la parola fine a quel qualcosa di malsano e osceno che opprimeva i Lazzari da troppi anni e che mieteva vittime innocenti, ma soprattutto c’era la possibilità remota che esistesse un futuro per me e Saverio. Era soprattutto quel pensiero a sostenermi, dandomi la prova concreta che l’amore è davvero il motore più potente di tutti.
Così, quando a mattino inoltrato mamma mi portò in camera la colazione, che non era pane e acqua ma latte e cereali, attesi il suo verdetto con una certa calma, sicura della decisione che ormai avevo preso. Mamma sembrava di nuovo padrona di sé, anche se era ancora molto sulle sue. 
“Tornerai a Milano dopo San Lorenzo” sentenziò senza nemmeno guardarmi in faccia “E fino a quel giorno rimarrai in casa o al massimo in giardino. Fine dei vagabondaggi nei boschi, fine delle gite al lago, fine delle chiacchierate con estranei alla fonte.”
Praticamente, sarei stata sotto scorta per tutto il resto delle vacanze. Le sue parole non mi fecero nessun effetto: non ero nemmeno sicura che sarei rimasta viva, per quella data… mi sforzai comunque di sorridere e di apparire quanto meno riconoscente.
“Grazie, mamma” dissi umilmente “Non ve ne pentirete.”
“Ringrazia tuo padre” sbuffò lei allontanandosi “A quanto pare, secondo lui sarebbe stato troppo crudele lasciar passare la tua unica estate da sedicenne in punizione a Milano.”
Mi lanciò uno sguardo triste che mi strinse il cuore.
“Milena, stai lontana da Villa Lazzari” minacciò decisa “Al primo sgarro ti ritrovi col culo sul treno per Milano senza nemmeno capire come ci è finito. Chiaro?”
Annuii solennemente, lo sguardo limpido e l’espressione seria: ma il cuore mi doleva come se fosse fatto di spine non tanto perché ero costretta a mentire di nuovo ma perché ero consapevole del fatto che quella neonata durezza d’animo aveva sostituito per sempre la mia innocenza.

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Capitolo 17
*** Caput XVIum ***


Mala tempora currunt
 (detto popolare)

Il mio periodo di forzata prigionia cominciò così nella più cupa delle atmosfere: me ne stavo in casa ad aiutare nonna Rosa nelle faccende, oppressa dal suo silenzio accusatore, mentre le mie sorelle erano libere di scorrazzare avanti e indietro, al lago e ritorno, più abbronzate e ciarliere che mai. Nemmeno per un attimo mi sentii come Cenerentola: nonostante il boicottaggio sonoro di nonna Rosa, Sabrina con me cercava di essere sempre meno molesta e Rossella mi teneva aggiornata sulle ultime chiacchiere paesane. Dopo il mio vergognoso exploit con Saverio in piazza la sera del Cartèle era stato tutto un fermento di voci e mi sorpresi di come la fantasia potesse galoppare nelle più disparate direzioni. Per alcuni, Saverio se n’era andato piangendo; secondo altri, mi aveva mollato un ceffone; secondo una fazione, quella peccaminosa, io e Saverio ci eravamo baciati con tanto trasporto che forse ero rimasta incinta; secondo un’altra, io mi ero praticamente venduta su un piatto d’argento e Saverio mi aveva sprezzantemente respinta. Insomma, le prime volte che mamma era scesa per fare la spesa a Cresta del Gallo, era tornata con la faccia cupa e le labbra pressate che evidenziavano chiaramente l’assalto mediatico che aveva dovuto subire; Rossella non la smetteva di sghignazzare per il fatto che proprio io, la sorella seria, fossi la protagonista dello scandalo romantico della stagione. Si era ammorbidita parecchio nei miei confronti, forse perché le facevo pena: comunque, era l’unico contatto che avessi con l’esterno e me la tenevo buona il più possibile. Da lei seppi che nessun Lazzari si era fatto vivo in paese dalla fatidica sera dello scandalo, ma la cosa non mi impensieriva affatto: dopotutto, sapevo quanto fossero vulnerabili fuori dalla Villa. I giorni così passarono trascinandosi lenti: trascorrevo moltissimo tempo a leggere nella solitudine della mia camera mentre fuori la calura estiva abbronzava i turisti sempre più numerosi e trasformava il verde dei boschi in soffocanti distese rossicce. Più che altro, passavo il mio tempo a riflettere e fantasticare, lasciando fluttuare la mente lontano dagli opprimenti presagi di morte che incombevano sempre più. Passò luglio e arrivò agosto senza che nonna Rosa cedesse di un pollice riguardo l’ostilità nei miei confronti: mamma e papà, invece, avevano notato il mio progressivo distacco dalla realtà e sembravano preoccupati. La cosa mi fece un certo sadico piacere: ce l’avevo ancora con loro per la punizione, anche se sapevo che al momento giusto la mia forzata clausura non sarebbe stata un problema. Fu probabilmente per il senso di colpa che iniziavano a sentire che un mattino afoso dei primi di agosto papà e mamma decisero di portarmi con loro mentre andavano a fare la spesa a Voltino.
*    *       *
Accettai la loro offerta di buon grado, senza però esprimere particolare gioia: ero così assuefatta alla solitudine che sospettavo di essere diventata quasi apatica. Mamma mi caricò sulla macchina, abbruttita da una riga orizzontale di preoccupazione che le solcava la fronte: le ecchimosi sul collo e sul braccio erano sparite, ma l’isolamento forzato mi aveva resa pallida e magra come uno spettro e non ero di sicuro un bel vedere, agli occhi di un genitore. Non feci niente per tranquillizzare mamma sulla mia salute: anzi, rimasi con le braccia conserte e lo sguardo evanescente per tutto il viaggio, rispondendo a monosillabi e senza mai sorridere. Quando arrivammo a Voltino, mi sembrò di sbarcare in un mondo alieno: non ero più abituata al viavai improvviso di gente, ai rumori forti, al caldo soffocante del sole… Mentre mamma andava al supermercato, papà mi trascinò quasi di forza in un bar a prendere un gelato e io lo seguii docilmente, lasciando che pensasse chissà che cosa. Sapevo che non era leale da parte mia lasciare che si preoccupassero così, ma non lo era stato nemmeno rinchiudermi in casa come Raperonzolo nella torre, quindi non provai nessun rimorso. Però fu piacevole sedersi con papà a un tavolo chiacchierando del più e del meno e osservando i turisti che girellavano per strada; piacevole e anche vagamente malinconico, come se d’improvviso mi accorgessi di non ricordare più come si facesse a vivere al di fuori dell’influenza dei Lazzari.
“Sei molto silenziosa” mi incalzò papà vagamente preoccupato “Stai ancora pensando a quel disgraziato?”
Intendeva Saverio, gentilmente ridenominato “il disgraziato” dopo la faccenda dei lividi.
“Sempre.” ammisi con un sorriso leggiadro, sapendo così di mandarlo in bestia.  
D’altronde, era davvero un sollievo non dover mentire almeno sul frangente dei miei sentimenti.
“Vorrei tanto che tu lo dimenticassi.” borbottò papà corrucciato.
“E io vorrei che voi mi lasciaste libera di girare da sola” ribattei con molta calma “Ma sono qui al guinzaglio con te e mamma. Quindi, a quanto pare, dobbiamo rassegnarci entrambi.”
Papà mi lanciò uno sguardo addolorato.
“Sei diventata così dura” mormorò con voce sinceramente dispiaciuta “Non sembri nemmeno più tu. Chi diavolo è questa tizia che ho davanti? Che è successo alla mia bambina timida e riservata?”
Forse è cresciuta, pensai, ma non lo dissi a voce alta perché non ero affatto sicura che la risposta fosse quella. Non mi sentivo più matura di prima e nemmeno più esperta: ritenevo invece più plausibile essere stata sempre così, dentro di me, e che fosse stato semplicemente l’evolversi degli eventi a far uscire e mostrare a tutti la mia vera natura. O forse, semplicemente, ero diventata matta come un cavallo e non me ne rendevo conto.
D’improvviso, mentre ancora rimuginavo sui miei pensieri lasciando che il gelato si squagliasse nella coppetta abbandonata sul tavolo davanti a me, sentii una strana sensazione di vertigine che mi fece sbattere rapidamente le ciglia. Passò subito e papà, concentrato sui suoi cupi pensieri, nemmeno se ne accorse: avrei pensato a un semplice giramento di testa se la cosa non si fosse ripetuta, con ancora più decisione. Allarmata, rizzai la schiena respirando rapidamente dal naso.
“Stai male?” si inquietò papà, subito in allarme.
“No, no.” risposi immediatamente con un sorriso tirato: mi guardai intorno cercando di sembrare normale e nello stesso tempo aspettando una nuova vertigine. Questa arrivò prontamente, ancora più forte: era come una specie di ronzio fastidioso, che sembrava provenire non dalle orecchie ma dalla base della nuca. Intorno a me, gente abbronzata e vestita con abiti leggeri, camminava avanti e indietro, ignorandomi bellamente. Di fronte alla gelateria però, all’angolo in ombra tra un negozio di scarpe e una tabaccheria, un tizio mi guardava. Quando incrociai il suo sguardo, la vertigine mi colpì duramente e mi trovai ad artigliare i braccioli della sedia su cui ero, il cuore che aveva preso a battere furiosamente nel petto come un tamburo. Il tizio era un uomo sulla quarantina alto e ben piazzato: era vestito come un turista qualsiasi e portava le mani mollemente infilate nelle tasche dei pantaloni bianchi; masticava una gomma e mi fissava da sopra un paio di occhiali da sole abbassati sulla curva del naso aquilino. I suoi occhi erano di un azzurro vivido, rapace e possedevano quella rara fissità che dava l’illusione di non dovere mai sbattere le ciglia. Non conoscevo quella persona, non avevo mai visto la sua faccia prima di allora, ma capii subito chi fosse, senza nemmeno dover azzardare delle ipotesi. Un fiotto di gelido sgomento mi appesantì le viscere ma riuscii a mantenere il viso inespressivo mentre ancora fissavo lo sguardo negli occhi del primo vero Immortale che avessi mai visto.
*    *       *
Dopo qualche secondo di fissità, distolsi lo sguardo dall’Immortale e ripresi a mangiare il mio gelato lentamente. Avevo paura di tremare e così concentrai tutti i miei sforzi nel mantenere le mani ferme.
“Dio, Lena, come sei pallida!” mormorò papà sporgendosi verso di me “Che ti succede?”
“Forse non sono più abituata al caldo.” sorrisi debolmente, ben conscia dell’implacabile sguardo dell’Immortale sempre fisso su di me “Ti dispiace se vado a prendere un bicchiere d’acqua?”
Non lo dissi per trovare una via di fuga: provenienti dall’Immortale intuivo vaghe ondate di pericolo e minaccia, ma non sembravano rivolte verso di me. Il mio primo pensiero, fulminante e doloroso come una stilettata, era stato per Saverio.
“Vuoi che vada io?” domandò papà premuroso: evidentemente la mia faccia doveva essere davvero cadaverica.
“No, vado io” risposi con noncuranza “Così mi sgranchisco le gambe.”
Papà fece una smorfia e io lo ricambiai: poi, mi avviai verso il bancone della gelateria. Benché fossi di spalle, seppi con assoluta certezza che l’Immortale era uscito dal suo angolo e si stava avvicinando: il ronzio che indicava la sua presenza era sempre più forte e io avevo sempre più paura. Quando mi fermai davanti al banco, rigida come un manico di scopa, lo vidi arrivare di fianco a me, ciondolando con naturalezza. Lo sbirciai con la coda dell’occhio e analizzai rapidamente il suo profilo fiero e arrogante. L’Immortale si girò di scatto verso di me: il mio sguardo venne inesorabilmente calamitato e anche io girai lentamente la testa verso di lui per fissarlo apertamente. Furono tre le cose che capii immediatamente osservando il suo viso spigoloso: era solo, non aveva nessuna paura ed era determinato a uccidere. Mi sembrò quasi di intuire la sua sete di sangue dal suo odore che aveva un leggero sentore selvatico come quello di un animale allo stato brado. Lui mi stava ancora scrutando con quegli occhi violentemente indagatori, frugando la mia faccia come in cerca di informazioni.
“Chi sei?” mi chiese infine con una strana voce arrugginita, come se fosse antica e non venisse usata spesso.
“Sono Lena.” risposi dopo una rapida riflessione: mentire non avrebbe avuto nessun senso, in quel momento.
L’Immortale continuò a fissarmi con quella faccia curiosamente inespressiva.
“Ti sai chi sono?” domandò poi bruscamente saltando inutili preamboli.
“Sì” risposi di nuovo sinceramente “Ma non so perché lo so.”
Lui capì al volo la mia risposta, nonostante a me sembrasse contorta e stupida.
“Sei un Osservatore?” domandò dando per scontato che io sapessi di cosa stesse parlando.
Ricordai nebulosamente quel termine trovato durante le mie ricerche, ma non ricordavo cosa potesse essere un Osservatore. Rapidamente, comunque, decisi che forse era il momento di iniziare a mentire.       
“Forse” buttai lì con voce il più possibile neutra “Lo sto diventando.” aggiunsi quando vidi lo scetticismo annebbiare il suo sguardo.
“Sei strana” mormorò lentamente “Di solito gli Osservatori non hanno il Buzz.”
E che ne sapevo io degli Osservatori…? Stavo camminando in un terreno minato, così tacqui sostenendo tenacemente i suoi occhi a spillo che mi scrutavano in cerca di un minimo cedimento. Evidentemente, non pensava fossi pericolosa, mentre per me lui era la quintessenza del pericolo. Intanto, cercavo freneticamente di capire come potesse essere successo che io riconoscessi comunque quel cavolo di Buzz.
“Te ne devi andare” dissi alla fine cercando di risultare indomita e convincente “Non c’è niente per te qui.”
L’Immortale non cedette di un millimetro.
“Mi stai minacciando?” chiese lentamente con voce quasi sorpresa “Un Osservatore non può permettersi di dire certe cose a uno di noi.”
Da come disse noi, avrei dovuto inginocchiarmi e chiedere scusa per il terribile equivoco. Invece, sostenni il suo sguardo anche se le ginocchia mi tremavano.
“Non ho ancora il brevetto” mentii di nuovo cercando di sembrare naturale “E tu adesso te ne vai.”
“Signorina?”
Quasi sobbalzai quando la gelataia mi chiamò educatamente.
“Una bottiglia d’acqua.” ordinai con voce secca.
E una pozione gigante di coraggio, pensai tra me e me, terrorizzata. L’Immortale continuava a guardarmi con aria decisamente ostile.
“Un Osservatore non può intromettersi” disse infine con assoluta sicurezza “C’è qualcosa che non va in te. Comunque, il tuo Osservato è qua intorno… lo sento.”
Fece un mezzo sorriso rapace che mi gelò il sangue nelle vene.
“Signorina? La sua acqua.” si intromise la gelataia, impaziente.
L’Immortale non mosse di un millimetro quegli inquietanti occhi fissi.
“Lo troverò entro sera.” disse semplicemente e fu proprio l’assoluta mancanza di dubbio di quelle poche sillabe ad ammutolirmi di angoscia.
“Signore?” domandò la gelataia, titubante “Desidera qualcosa?”
L’Immortale finalmente schiodò gli occhi dai miei; mi accorsi nebulosamente che avevo smesso di respirare.
“Niente.” rispose l’uomo prima di girare i tacchi e uscire rapidamente dal negozio.
La gelataia alzò gli occhi al cielo e mi rivolse un sorriso simpatico.
“Che maleducato.” balbettai cercando di rispondere al sorriso.
Mi sentivo ghiacciata dentro e nonostante la calura estiva avevo la pelle d’oca su tutto il corpo. Pagai in fretta e uscii stringendo le mani attorno alla plastica fredda della bottiglia d’acqua; avevo le dita insensibili e il senso di irrealtà e freddo non accennava a lasciarmi andare.
“Sei tornata, finalmente” borbottò papà che non mi aveva tolto gli occhi di dosso un attimo “Chi era quel tizio?”
Lo sguardo sospettoso di mio padre fu in grado di rimettere rapidamente in moto la mia perenne fonte di bugie.
“Un turista appiccicoso” buttai lì con noncuranza “Datti pace, papà: ho sedici anni, è logico che gli uomini siano irresistibilmente attratti dalla mia travolgente e femminea bellezza.”
Ammiccai scherzosamente e lui sembrò improvvisamente fragile quando fece un sorriso abbagliante, di rimando.
“Altro che la Bellucci” scherzò con la voce piena di affetto “Comunque, il prossimo che si avvicina gli mollo due sberle. Per quest’anno di maschi che ronzano intorno alle mie figlie ne ho già avuto abbastanza.”
Mi sforzai di sorridere e di sembrare rilassata e naturale: in realtà mi sentivo le ossa rigide e fredde come se fossero fatte di ghiaccio.
“Andiamo a casa?” domandai con voce timida “Sono stanca.”
“Ma certo, tesoro.” rispose papà sollecito.
Il mio cuore si riempì di pena a quel “tesoro” così sentito: oramai ero lontana anni luce da quella ragazzina che era il tesoro del suo papà… forse non avrei mai più avuto la possibilità di tornare a esserlo, dopo quello che stavo per fare.
Dovevo tornare a casa.
Dovevo avvertire Saverio.
Il pericolo era ormai alle porte.
*    *       *
Arrivati a casa, scesi dalla macchina e mi obbligai a resistere fin dopo pranzo, durante il quale piluccai appena il cibo, prima di annunciare a tutti che sarei andata a fare un riposino: la mia faccia pallida e tirata fu un ottimo aiuto nel fingere il mio vago malessere e tutti, compresa nonna Rosa, approvarono la mia decisione. Giunta in camera, chiusi accuratamente a chiave la porta, infagottai il letto in modo che sembrasse occupato da una persona che dormiva e aprii la finestra. La casa di nonna Rosa era vecchia, fatta di sassi e calce che si sbriciolava al tatto e fortunatamente la mia camera dava sul retro della casa: più di una volta, da piccola, mi ero calata per gioco dalla finestra, aggrappandomi alla grondaia. Ormai erano anni che non tentavo l’impresa e non ero sicura che la grondaia avrebbe retto il mio peso: non ebbi comunque un attimo di esitazione e mentre il sole picchiava come un maglio sulla mia testa, scavalcai con precauzione il davanzale. Infilando le punte delle scarpe da tennis nelle fessure tra un sasso e l’altro, aggrappata alla grondaia, iniziai la mia discesa mentre il cuore batteva nel petto come una discontinua mitragliatrice. Andò meglio del previsto: arrivai in fondo senza cadere e persino con il salto finale atterrai morbidamente in mezzo all’erba senza nemmeno sbilanciarmi. Un’acrobata provetta, pensai sghignazzando istericamente. Senza indugiare oltre, sgattaiolai di fianco al sentiero, ben attenta a non farmi vedere da nessuno: quando giunsi in zona libera, cominciai a correre a perdifiato, lasciando libero sfogo all’agitazione e all’adrenalina. Era così tanto tempo che non correvo che le gambe cominciarono a tremarmi quasi subito: arrivai davanti al muro che circondava Villa Lazzari che avevo il fiatone e le mani sudate. I capelli mi si riempirono di foglie e rametti quando scivolai senza tanta perizia sotto al cancelletto nascosto, ma almeno stavolta non riportai ferite e contusioni. Quando mi rizzai in piedi, ripresi a correre anche se con più circospezione. Dovevo trovare e avvertire Saverio o Tobia con urgenza, ma non avevo nessuna intenzione di imbattermi in Ruggero o, Dio non voglia, in Paracelso. Non credevo davvero che un vecchiaccio cinquecentenario si aggirasse per il bosco sotto il sole cocente di agosto, ma la paura mi attanagliò comunque le viscere, costringendomi a un’andatura cauta e circospetta mentre mi avvicinavo sempre di più alla Villa. Mi fermai lungo l’ultimo tratto di bosco prima del prato per ascoltare i rumori e scrutare i dintorni: la casa sembrava essere immersa in un placido silenzio pomeridiano interrotto a tratti dai nitriti dei cavalli nella stalla e da qualche sporadico suono metallico proveniente dall’enorme garage. Coraggiosamente, attraversai il prato a testa bassa correndo il più rapidamente possibile, sperando con tutto il cuore che non arrivassero due mastini feroci ad azzannarmi le caviglie o non uscisse qualche domestico polacco armato di battipanni e scopa… o magari qualche Immortale macilento munito di mannaia con gli occhi antichi come il tempo…
Arrivai a ridosso del garage che ero quasi senza fiato: sentivo le guance roventi, la maglietta appiccicata alla pelle sudata e il panico che rosicchiava i contorni smussati della mia determinazione. Arrivata all’altezza di una finestra a vasistas, sbirciai dentro per vedere se c’era qualcuno: il locale sembrava vuoto e il riflesso del sole illuminava la polvere sospesa come se fosse oro. Le macchine dei Lazzari, lucide e ordinatamente in fila, brillavano come tanti gioielli in vetrina. A un tratto, una testa bruna sbucò rumorosamente da sotto una macchina: il proprietario si mise a sedere e si pulì le mani con uno straccio unto mentre il cuore mi balzava in gola gonfio e pesante di agitazione. Anche se mi dava le spalle, lo riconobbi al primo colpo d’occhio: era Saverio. Travolta dalla più pura felicità di vederlo ancora vivo e incolume, smisi di muovermi con cautela e corsi verso l’ingresso del garage.
“Saverio!” lo chiamai con voce strozzata stagliandomi improvvisamente sulla porta.
Lui girò la testa nella mia direzione, sobbalzando: i suoi occhi spalancati, illuminati di sbieco dal riflesso della luce del sole proveniente da un finestrino, si illuminarono di luce smeraldina e io mi bloccai sul posto come se mi avessero puntato addosso un raggio congelante. Era così bello: nemmeno in un milione di anni avrei potuto descrivere l’estasi assoluta che invase il mio cuore, fin quasi a lacerarlo, quando vidi i suoi occhi accendersi di luce per me. Rimanemmo entrambi immobili per diversi secondi, senza nemmeno respirare, separati dal pulviscolo dorato che ondeggiava pigramente fra noi come rubando un attimo da favola in attesa degli eventi successivi. Poi, Saverio fece due lunghi, furibondi passi nella mia direzione e l’incantesimo si ruppe miseramente.
“Che ci fai qui?” chiese la sua voce, sferzante e dura quanto il suo sguardo era supplichevole e indifeso.
“Sono venuta ad avvisarti” risposi subito, sorpresa di quanto la mia voce risultasse normale e pratica mentre il mio corpo tremava anche solo al pensiero di averlo vicino “Sono andata a Voltino questa mattina e ho visto un Immortale.”
Saverio sbatté le palpebre e fece un passo indietro, come se lo avessi spinto: probabilmente non si aspettava una risposta del genere. Dopo il primo attimo di smarrimento, si passò una mano sul viso e tornò a guardarmi con apprensione.
“Come fai a sapere che era un Immortale?” domandò sospettoso.
Bella domanda: eppure, con lui, nemmeno per un momento mi passò per la testa l’idea di mentire.
“Non te lo so spiegare” ammisi debolmente “E’ stato come un senso di vertigine pulsante. Qui, dietro la nuca.”
Non ci fu bisogno di altre parole: annuì mentre il viso gli si induriva.
“Il Buzz” disse tra i denti, sottovoce “Come hai fatto a sentirlo?”
“Non lo so” sbuffai con impazienza “Abbiamo parlato, comunque, e ha detto che vi sta cercando.”
“Hai parlato con un Immortale?” domandò Saverio e dietro la preoccupazione c’era indubbiamente genuina sorpresa.
“Sì” sospirai con impazienza “Mi ha chiesto se ero un Osservatore o qualcosa del genere… gli ho fatto credere di sapere di cosa stesse parlando e gli ho detto di andarsene.”
Saverio sobbalzò penosamente.
“Tu non sei affatto un Osservatore” disse con voce bassa e vibrante “E comunque gli Osservatori non si intromettono nelle faccende degli Immortali.”
“Lo so” ribattei alzando il mento con aria di sfida “Ma non è questo il punto. Lui ha detto che vi troverà. Sono venuta ad avvisarvi appena ho potuto.”
Quando finii di parlare mi piombò addosso di colpo una stanchezza infinita. Fino a quel momento mi aveva sostenuta l’urgenza di avvertire Saverio del pericolo imminente: senza quell’incentivo mi sentii come svuotata da ogni forza tanto che le gambe mi tremarono. Saverio se ne accorse: aveva lo sguardo duro come l’acciaio e la bocca pressata in una piega severa ma la mano che allungò per sostenermi era gentile.
“Non dovresti essere qui” disse con voce bassa carica di rimprovero “Avevi detto che saresti tornata a casa.”
“Che hai intenzione di fare?” cambiai prontamente argomento: non ero di certo arrivata fin lì per farmi rimproverare di nuovo come una bimba dell’asilo!
“Non sono affari tuoi” rispose Saverio corrucciato “Tu ora devi sparire di qui immediatamente.”
La prima scintilla di rabbia mi ridiede la forza di rizzare la schiena.
“Non ci penso nemmeno” ringhiai sottovoce “Tu sei in pericolo e io non me ne vado da nessuna parte.”
Saverio sembrò sul punto di arrabbiarsi: i suoi occhi verdi mandarono lampi minacciosi, ma le parole rimasero dietro le labbra. Io continuai a guardarlo col mento che tremava anche se fieramente alzato.
“Vieni” ruppe alla fine il silenzio la sua voce stanca e nervosa “Devo trovare Tobia.”
Si avviò verso la sua macchina a passo svelto, sempre tenendomi per il gomito. Io non osavo fiatare: Saverio aveva accettato il mio aiuto! Non mi sembrava vero: mentre camminavamo sorpassando la Maserati, una Jeep e una moto lucida di grossa cilindrata, il mio cuore batteva sempre più forte e con sempre più esultanza. Mi persi a guardare il suo fiero profilo, le sue spalle armoniose, la curva decisa e perfetta del suo zigomo… Seguendo un impulso irresistibile, mi liberai della sua presa sul braccio e gli afferrai saldamente la mano: Saverio si girò a guardare le nostre mani intrecciate e l’espressione del suo viso divenne un misto stranissimo di dolore, rabbia, pena e desiderio. Dopo un attimo di esitazione, anche lui strinse la mia mano e il mio cuore volò via, rapito dal tepore asciutto e solido della sua stretta.
“Saverio…” mormorai per dire chissà che cosa: lui alzò gli occhi sui miei e scosse il capo quasi con tristezza.
“Non ora” disse cupamente “Vieni.”
Mi portò fino in fondo al garage e mi fece salire sulla sua Golf. Mentre mi allacciavo la cintura, lui salì al posto di guida, avviò il motore e sgommò via.
“Sai dove possiamo trovare Tobia?” domandai accomodandomi meglio per guardarlo: dopo tanto tempo che non lo vedevo, non sarei riuscita a distogliere lo sguardo da lui nemmeno obbligandomi. E poi era così perfettamente bello alla guida, con una mano sul cambio e l’altra ben ferma sul volante, lo sguardo fisso davanti a sé e il profilo che si stagliava perfettamente contro il finestrino.
“Sì.” rispose lui dopo avermi lanciato una rapida e seria occhiata “Mi chiedo come diavolo hai fatto a far credere a un Immortale di essere un Osservatore…”
“Non ne ho idea” risposi francamente “Nemmeno so cos’è.” Un lampo mi attraversò la mente come una meteora “Voi Lazzari ne avete già uno?”
“No, noi non siamo veri Immortali” rispose Saverio guardando dritto davanti a sé “Eora basta domande: la cosa fondamentale adesso è metterti in salvo.”
Eravamo appena usciti dal cancello di Villa Lazzari e quasi non mi accorsi che la macchina sterzava bruscamente a destra invece che andare dritto come mi sarei aspettata.
“Che stai facendo?” domandai allarmata quando capii che stava guidando verso la casa di nonna Rosa.
“Ti riporto a casa” rispose Saverio con voce atona, lo sguardo ben fisso davanti a sé “E chiederò ai tuoi di mandarti via. Immediatamente.”
Subito non capii: rimasi immobile col viso corrucciato mentre la Golf sgommava sul vialetto ghiaioso. Quando realizzai quello che stava succedendo, il cuore quasi mi si fermò nel petto. 
“Non puoi farlo” mormorai sottovoce, faticando a respirare “Saverio…”
La Golfsi fermò davanti alla porta: quasi immediatamente ne uscirono papà e mamma con due facce che passarono rapidamente dalla curiosità alla sorpresa a un autentico orrore. Saverio si girò verso di me ed evitando accuratamente il mio sguardo, slacciò la mia cintura di sicurezza.
“E’ meglio così, Lena” disse con voce tormentata e sofferente “Mettiti in salvo… vattene via.”
Mamma marciò intorno alla Golf e bussò sul finestrino dalla mia parte.
“Lena?” chiamò a voce alta: era arrabbiata e spaventata, le si leggeva tutto sul viso.
Ma io non guardavo lei: guardavo Saverio sentendomi sanguinare, ferita, arrabbiata e offesa come non mai. Per reazione, feci partire una mano e schiaffeggiai la sua bella faccia seria con tutte le mie forze.
“Non puoi farlo!” strillai arrossendo di colpo di furore “Io voglio stare con te!”
Lo schiaffo non aveva nemmeno scalfito l’espressione seria di Saverio: tornò a girare lo sguardo su di me, dolente ma determinato.
“Scendi” disse con estrema pazienza e determinazione lasciandomi intuire che niente gli avrebbe fatto cambiare idea.
I miei occhi si riempirono di lacrime mentre mamma continuava a bussare sul finestrino dalla mia parte e papà picchiettava su quello di guida.
“Ti prego Saverio!” mormorai angosciata aggrappandomi saldamente ai lembi della sua camicia “Non mandarmi via! Tu hai bisogno di me!”
Il respiro di Saverio era pesante, come se faticasse a respirare: i suoi occhi bassi, velati dalle ciglia, non si alzarono sui miei come per paura di farmi vedere quanto stesse soffrendo, ma le sue mani gentili e implacabili si alzarono sulle mie, staccando le dita una per una dalla sua camicia.
“Lena!” mi chiamava mia madre con voce allarmata battendo i pugni sul vetro “Lena, scendi subito!”
Io piangevo oramai senza ritegno: con orrore, si stava allargando nel mio cuore la consapevolezza che non sarei riuscita a convincere Saverio a farsi aiutare da me. Lui aveva preso la sua decisione e la sua determinazione si stava dimostrando di gran lunga più solida della mia.
“Ti prego!” singhiozzai buttandomi di colpo tra le sue braccia “Ti prego!”
Per un attimo Saverio rimase rigido e immobile come se fosse fatto di legno; poi, con un suono strozzato che gli uscì dalla gola, mi abbracciò stretta facendomi quasi male.
“Lena…” mi chiamò con voce rotta e tormentata.
Io mi aggrappai a lui infilando le dita tra i capelli umidi e tiepidi della sua nuca, aspirando il profumo inebriante del suo collo nell’incavo della spalla e pensando che non ci fosse un solo posto al mondo dove avrei voluto essere se non lì.
“Lena!” strillavano mamma e papà al di là del finestrino, furiosi e spaventati.
“Lena…” continuava ripetere Saverio senza riuscire a smettere, il viso affondato nei miei capelli come se avesse voluto annullarsi in essi: io allora lo baciai sul collo, dietro l’orecchio, seguendo la linea della sua mirabile mascella… sentii le sue mani scostarmi i capelli dal viso, il suo respiro rapido e discontinuo sulle labbra…
“Tienimi con te” mormorai con la bocca quasi sulle sua “Ti prego, Saverio…”
Ci fu un ultimo sguardo, lungo e intenso come se lì si concentrasse tutta la nostra vita: poi, delicato ma inesorabile, lui mi scostò da sé e sbloccòla sicura della portiera della macchina.
“No!” strillai mentre contemporaneamente mamma apriva la portiera e mi afferrava un braccio.
“Portatela lontano da qui” disse Saverio rivolto a papà con un viso così calmo da sembrare morto “E’ in pericolo di vita. Portatela via subito.”
“No!” gridai di nuovo piangendo mentre mamma e papà mi tenevano stretta allontanandomi dalla Golf: erano attoniti e spaventati, e non riuscirono a dire una sola parola. Saverio si sporse per chiudere la portiera: incrociò i miei occhi pieni di lacrime, di rabbia e di supplica e sbatté le ciglia, come se mi avesse fatto una foto da memorizzare in maniera indelebile nella sua mente. Poi, chiuse seccamente lo sportello, fece inversione con la macchina e sparì lungo il vialetto con il rumore discreto della ghiaia smossa dalle ruote.

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Capitolo 18
*** Caput XVIIum ***


Sine pennis volare haud facile est
 (detto popolare)

Dopo non so bene cosa successe: nebulosamente vidi mamma e papà parlare tra loro concitatamente, nonna Rosa uscire di casa con una borsa traboccante di vestiti, Rossella arrivare in motorino col sorriso che si spegneva piano sul suo viso perplesso… niente mi rimase in memoria, come se assistessi agli eventi da un finestrino. E in effetti era da lì che li guardavo: mamma e papà mi avevano caricata sulla Multipla e io ero rimasta lì immobile, come una bambola di vetro mentre loro si davano da fare correndo e starnazzando tutto intorno. Rossella fece per avvicinarsi alla macchina, mamma la tirò via bruscamente, nonna Rosa protestò, papà gesticolando fece capire che non c’era più tempo: alla fine, mamma salì al posto di guida con le mani che tremavano fortissimo senza nemmeno osare girarsi a guardarmi. Di colpo mi venne in mente una cosa che aveva detto Saverio e mi rizzai di scatto, artigliando la spalla di mamma.
“Fai venire anche Rossella” mormorai con voce rauca “E’ in pericolo anche lei se rimane qui.”
Mamma si arrischiò a lanciarmi uno sguardo angosciato e mio malgrado mi si strinse il cuore: vedevo nei suoi occhi tanta paura quanta ne può avere solo una madre che teme per la vita dei suoi figli.
“Va bene.” balbettò e si sporse dal finestrino per ordinare a Rossella di raggiungerci. 
Mia sorella arrivò di corsa facendo ondeggiare la lunga chioma sulla schiena: non aveva neanche finito di chiudere la portiera che già mamma era partita in sgommata e Rossella mi artigliava il braccio scrutandomi ansiosamente da capo a piedi.
“Stai bene?” gracchiò così sinceramente preoccupata che le lacrime tornarono a inumidirmi gli occhi.
“No.” risposi poi chiusi gli occhi, spossata.
Mamma guidava come una pazza per le ripide stradine del Tremosine. Non parlava e la sua schiena dritta tremava di nervosismo represso. Rossella invece sparava domande a raffica, cercando di smuovere me o mamma dal nostro ostinato mutismo. Io ero così stanca che l’unica cosa che riuscivo a pensare di fare era dormire. Mi sentivo svuotata e inutile come se ogni scintilla di vita se ne fosse andata da me insieme alla Golf di Saverio e se solo osavo pensare al fatto che forse non lo avrei rivisto mai più,sentivo qualcosa che mi pugnalava il cuore con così tanta ferocia da lasciarmi senza respiro. Quando arrivammo in autostrada, Rossella aveva esaurito le domande mentremamma sembrava essersi leggermente calmata. Il silenzio che gravava dentro l’abitacolo era pesante come un macigno: al di là del vetro l’allegro paesaggio estivo contrastava con il gelo che mi invadeva le viscere. Non riuscivo a pensare a niente, il cervello pulsava dolorosamente come se l’avessi percosso e buttato in un angolo. Come un segnale radio bruscamente interrotto, continuava a emettere ciclicamente un unico, angosciante pensiero: Saverio, Saverio, Saverio…
Era in pericolo: l’Immortale era troppo sicuro di sé per mentirmi e io ero assolutamente convinta che di lì a qualche ora la famiglia Lazzari sarebbe stata attaccata… a meno che non avessero deciso di anticipare il rito con il sacrificio della vergine, il che avrebbe spiegato l’urgenza con cui Saverio mi aveva allontanata. Il senso di catarsi imminente che accompagnava questi pensieri mi gravava addosso come una lapide, togliendomi il fiato e la capacità di pensare coerentemente.
Distrattamente, mi accorsi che Rossella estraeva dalla tasca il suo cellulare e componeva un numero.
“Marco? Ciao, sono io. Senti… no, va tutto bene…”
Rossella mi lanciò una rapida occhiata e io, vagamente, pensai che nemmeno lei sapesse mentire troppo bene in caso di shock: continuai comunque a fingere di guardare fuori dal finestrino, la fronte appoggiata al vetro fresco.
“No, stasera non ci vediamo… Sto tornando a Milano. Non me lo chiedere, non lo so. No, non è così grave…”
Altro sguardo, altra pietosa bugia.
“Senti, non ne posso parlare. Lo so. Sì, ti richiamo, naturalmente. Anche tu mi manchi… tanto tanto.”
Socchiusi gli occhi e come in un flash immaginai la faccia corrucciata di Marco mentre Rossella gli parlava. Marco e Rossella erano coetanei e io sapevo che lei non era certo stata la sua prima ragazza. Chissà se ci sapeva fare: più di suo fratello, mi auguravo.
“Sì, amore… lo so.”
Rossella mi lanciò un altro sguardo, arrossendo.
“Non posso dirtelo, sono in macchina.” mormorò piano con voce dolce.
Assolutamente a sproposito, in un vivido flash back, mi saltò in mente il ricordo di Rossella che usciva dal boschetto con un sandalo senza tacco e l’acconciatura sconvolta il giorno che si era ufficialmente messa con Marco. Di sicuro non si erano guardati solo negli occhi se si era ridotta così.
“Sì… anche io…”
Pur essendo bassissima, la voce di Rossella mi giungeva fin troppo chiaramente nel silenzio opprimente dell’abitacolo. Un vago ronzio cominciò a infastidirmi le orecchie mentre un leggero sudore freddo iniziava a imperlarmi il labbro superiore, come infausti presagi di qualcosa che la mia mente non aveva ancora recepito.  
“Ma dai, tesoro… sì, lo sai…”
Rossella sospirò imbarazzata.
Flash: il giorno che ho incontrato Saverio Lazzari al lago, quando Rossella e Sabrina sono tornate dalle loro rispettive gite fuori porta: Rossella sembra stranamente muta e Sabrina stranamente loquace.
Il ronzio alle orecchie diventò un rombo feroce.
“Marco, per favore…”
Rossella e Marco non erano due ragazzini alla prima cotta: lei non me ne aveva ancora parlato, ma sicuramente avevano avuto tempo e modi di approfondire parecchio la loro relazione. Sabrina, invece… Qualcosa di rapido e abbagliante mi sparò nella schiena una serie di dolorosi aghi appuntiti.
Flash: Sabrina che dice con aria eccitata: “C’è un tizio che mi fa provare una V-Rod …”
Una V-Rod era una moto, ricordai con agghiacciante chiarezza. Sabrina ne aveva appeso un poster in camera.
Flash: “Se lo dite a mamma e papà vi ammazzo, ciao.”
Sabrina, oh, Sabrina… perché sono stata così egoista e così stupida da non capire…?
Flash: Nel garage dei Lazzari, Saverio cammina a passo svelto, tenendomi per il gomito. Io non oso fiatare: mentre camminiamo sorpassiamo la Maserati, una Jeep e una moto lucida di grossa cilindrata…
Fu come ricevere una pugnalata dietro la schiena: una sensazione di doloroso capolinea, il punto di non ritorno senza possibilità di scampo.
“Mamma, fermati subito” dissi sporgendomi con brusca decisione “Sto per vomitare.”
*    *       *
Mamma reagì alle mie parole con un brusco strattone del volante: Rossella fece uno strillo strozzato mentre mamma mi lanciava uno sguardo dallo specchietto retrovisore, registrava la mia faccia cinerea con il sudore sopra il labbro e metteva immediatamente fuori la freccia sterzando verso la corsia di emergenza. Avevo già aperto la portiera prima ancora che la macchina si fermasse. Mi sembrava di avere lo stomaco trasformato in un maglio di acciaio rovente e non riuscii nemmeno a fare due passi prima di rigettare un doloroso fiotto di bile. Caddi in ginocchio con la vista annebbiata mentre dietro di me sentivo Rossella e mamma accorrere concitatamente.
“Lena? Come stai, Lena?”
“Che sta succedendo, mamma? Che sta succedendo!?!”
Voci confuse, lontane: una mano fresca sulla fronte, il profumo di mamma che mi avvolgeva rassicurante. Chiusi gli occhi e iniziai a piangere appoggiandomi a lei esausta.
“Lena? Tesoro, che c’è?” la voce angosciata di mamma era un irresistibile invito a lasciarsi andare alla disperazione e mi avrebbe fatto piangere ancora di più se non avessi saputo che non c’era tempo da perdere: strinsi forte mamma in un abbraccio poi la scostai bruscamente e la fissai in viso.
“Dobbiamo tornare indietro” dissi con una voce sorprendentemente ferma e decisa “Sabrina è in pericolo.”
Un arcobaleno di diverse espressioni passò sul viso di mamma: orrore, disperazione, incertezza, rabbia…
“Come… cosa?” balbettò con voce flebile mentre Rossella alle sue spalle si portava i pugni stretti al viso come una bimba che guarda un film dell’orrore.
“Che stai dicendo Lena?” gracchiò mia sorella, ma io non avevo tempo per lei: dovevo concentrarmi su mamma.
Prima che decidesse quale emozione seguire, mi alzai in piedi trascinandola con me.
“Mamma, non ti posso spiegare tutto” dissi in fretta portandola verso il posto di guida “Ma credimi, te lo giuro su ciò che abbiamo di più caro: puoi fidarti di me. Devo tornare indietro, o Sabrina morirà.”
“Avevi detto… avevi detto che Rossella era in pericolo…” pigolò la mamma con aria supplice.
Mi faceva male al cuore vederla così indifesa, ma non potevo permettermi nessun cedimento in quel momento cruciale.
“Mi sbagliavo” ammisi umilmente “Rossella non corre più nessun pericolo perché… perché non è più vergine.”
Scambiai un rapido sguardo con mia sorella, impietrita di fianco a me: forse, riuscii a farle capire più di quanto sperassi perché non chiese spiegazioni.
“E’ molto probabile che uccideranno una vergine stanotte”  proseguii rapidamente “E quella vergine potrebbe essere Sabrina. Dobbiamo andare immediatamente a salvarla.”
Mamma si bloccò sul posto stampandosi in viso una maschera di orrore, ma io la strattonai rudemente: non c’era tempo per la disperazione… ormai era quasi il tramonto e l’urgenza mi premeva nelle viscere come un nuovo e voluminoso organo interno.
“Mamma ti prego.” la supplicai mentre Rossella, con gesti secchi come se fosse arrugginita, scivolava al posto di guida, il mento tremante ma la bocca decisa.
“Guido io.” disse pratica stringendo convulsamente le mani sul volante.
“Non hai nemmeno il foglio rosa.” protestai io debolmente.
Rossella alzò le spalle rapidamente in una reminescenza della sua strafottenza giovanile e il mio cuore venne strizzato in una morsa dolorosa.
“Papà mi ha insegnato” tagliò corto telegrafica “Tu carica la mamma dietro.”
Obbedii immediatamente, così grata di avere un aiuto in quel frangente che le lacrime mi punsero le pupille e la vista mi si annebbiò. Rossella partì in sgommata mentre stavo ancora chiudendo la portiera, poi abbracciai mamma e lei abbracciò me. Ci stringemmo disperatamente come due bambine in mezzo a un uragano. Il tempo sembrava scorrere col contagocce mentre Rossella arrivava al casello, usciva e rientrava per tornare verso Cresta del Gallo, usciva di nuovo e si addentrava nel dedalo di stradine anguste del Tremosine. Le sue nocche erano bianche sul volante e la sua schiena rigida e fragile dava l’impressione di potersi spezzare al primo alito di vento. Mamma non smise mai di tremare, stretta fra le mie braccia, gli occhi spalancati su qualcosa che non riusciva a vedere tanto era enorme e cupo. Ogni secondo che passava tracciava un solco sul mio coraggio portandone via un pezzo, ma la determinazione che mi sosteneva mi ardeva dentro come un fuoco, dandomi la forza di mormorare alla mamma insensate parole di conforto. Arrivammo a Ustecchio mentre il sole calava dietro i picchi aspri delle colline e il cuore cominciò a rombare nel petto come un torrente in piena. Quando imboccammo la stradina di ghiaia che portava verso casa di nonna Rosa e Villa Lazzari, decisi il da farsi.
“Fermati qui, Rossella” mormorai con la voce resa rauca dall’attesa “Vado da sola.”
Lei inchiodò la macchina con tanta foga che il motore si spense e io e mamma ballonzolammo come bambole di pezza contro il sedile. Rossella si girò a guardarmi, tutta occhi e mento tremante, e io le posai una mano sulla spalla.
“Andrà tutto bene” mentii coraggiosamente “Giuro che non succederà niente a Sabrina, ma è importante che tu segua le mie istruzioni. Vai a casa, prendi papà e nonna e andate in paese. Guardatevi intorno: potrebbe esserci in giro uno straniero… un tipo strano, pericoloso…”
Rossella mi guardò smarrita.
“Lena, è agosto” mormorò disperata “E’ pieno di turisti stranieri dalla faccia equivoca.”
Io mi morsi il labbro: già, ai loro occhi l’Immortale era solo un turista come gli altri, come potevano individuarlo? E anche se l’avessero individuato, come avrebbero potuto fermarlo? Un dolente senso di impotenza mi irrigidì le ossa, ma lo scacciai facendo violenza a me stessa.
“Non dite niente a nessuno” tagliai corto “Se entro mezzanotte non mi faccio sentire, chiamate la polizia.”
Indicazioni rapide e precise, stretta confortante: sembrava quasi che sapessi quello che stavo facendo. E invece non ne avevo assolutamente idea. Rossella annuì in silenzio, rovistò un attimo nella borsetta e mi passò il suo cellulare.
“Chiamaci subito.” disse piano, a metà tra una supplica e un ordine. 
Accennai appena con la testa e tentai un sorriso che Rossella ricambiò a stento: mi districai dall’abbraccio congelato di mamma dandole un piccolo bacio sulla guancia gelida e immobile, scivolai sul sedile e aprii la portiera. L’aria fuori dalla macchina era calda e profumata di fieno e di sole. Feci due passi verso il viale di Villa Lazzari e sentii dietro di me la portiera che si chiudeva sbattendo. Mi girai e vidi Rossella che mi guardava dal finestrino.
Piangeva, con le lacrime che le rigavano le guance e le mani sempre strette sul volante.
Alzai una mano per salutare e vidi le sue labbra muoversi senza che la sua voce arrivasse alle mie orecchie.
Buona fortuna. 
Prima che mi mancasse il coraggio, mi voltai verso il bosco e iniziai a correre.
*    *       *
Corsi senza far rumore nel bosco che frusciava ostile e minaccioso: dopo un centinaio di metri, cambiai direzione e mi inoltrai nel verde, in direzione della fonte. La mia mente lavorava per conto suo, libera dagli ormeggi con la realtà. Correvo e ansimavo, ma il mio corpo non sentiva né affanno né fatica: la situazione che stavo vivendo era talmente assurda che non mi sembrava nemmeno reale, come se stessi guardando un film comodamente seduta in poltrona invece che vivere la situazione sulla mia pelle. Da una parte era molto meglio così: non credevo sarei stata in grado di reggere coscientemente quel terribile carico emotivo di paura e urgenza, quindi in quel frangente il fatto di sentirmi slegata dalla realtà mi era solo d’aiuto. Arrivai alla fonte, che era già buio: le stelle sopra di me brillavano gloriose e i grilli cantavano incessantemente la loro litania al ritmo del mio cuore. Mi inoltrai di nuovo nel fitto del bosco fino ad arrivare al cancelletto seminascosto. L’avevo varcato di nascosto solo poche ore prima, ma sembravano passati secoli… indossavo ancora i pantaloncini corti, la maglietta e le scarpe da tennis del mattino e nonostante il caldo estivo rabbrividii quando misi piede nel terreno dei Lazzari. Ero arrivata al capolinea, nel pieno del territorio nemico e non avevo uno straccio di idea sul da farsi. Ero disarmata, sola e impaurita come un coniglietto circondato da lupi. Eppure, oltre alla paura per la sorte di Sabrina, pensando allo sguardo verde e dolente di Saverio mentre chiudeva la portiera tagliandomi fuori dalla sua vita, sapevo che non sarei mai tornata indietro. Mi mossi con precauzione seguendo una direzione ben precisa: dovevo andare verso l’ara pagana che avevo visto durante la mia prima visita a Villa Lazzari, naturalmente. Lì era stato l’inizio di tutto, e lìne sarebbe stata anche la fine. Non avevo dimenticato le parole di Tobia e mi aggrappavo a esse con tutte le mie forze. Non volevo pensare che probabilmente avrei dovutouccidere qualcuno: ormai, era diventata una questione di sopravvivenza. Forse il mondo civilizzato non avrebbe accettato comunque l’omicidio premeditato, ma a quel punto niente aveva più importanza se non Sabrina, la mia sorellina innocente, e Saverio. L’unica cosa che speravo con tutte le mie forze, pregando Dio, il Diavolo, me stessa e il fato, era di non dover mai scegliere fra i due.
*    *       *
Sentii l’odore di fumo già da lontano e rallentai il passo guardinga. Per una fortunata combinazione, ero sottovento e la leggera brezza serale mi alitava sul viso, asciugando i rivoli di sudore freddo che mi colavano dalla fronte. Mi accucciai procedendo lentamente e seguendo l’odore di fumo; poi, carpii nell’aria qualche suono stonato, come una serie di voci. Infine vidi le luci: erano flebili e lampeggianti e quando mi avvicinai ancora di più capii che erano torce. Ai suoni fruscianti della notte si era unito anche un lamento flebile e accorato e finalmente fui in grado di riconoscerlo mentre il cuore cominciava a sanguinarmi di pena nel petto: era la voce di una ragazza che piangeva esausta e disperata. Era Sabrina ed era ancora viva: questa constatazione mi riempì di sollievo e di nuovo, cocente terrore. Tremando senza ritegno, con la nausea che mi attanagliava lo stomaco e le gambe deboli e pesanti, mi avvicinai alle torce. Ce n’erano parecchie disposte in cerchio intorno alla radura; sotto la luce della luna, immersa nella notte e nella solitudine del bosco, mi sentivo spaventata e sola come mai in vita mia. Col cuore impazzito nel petto e la vista resa instabile dalla paura, mi avvicinai più che potei, quasi strisciando sul terreno asciutto e ancora caldo. Arrivai al limitare della radura in uno spazio buio tra una torcia e l’altra e riuscii ad alzare gli occhi fuori dall’erba quel tanto che bastava per riuscire a mettere a fuoco la scena davanti a me. Era uno spettacolo a dir poco agghiacciante: al centro del cerchio di torce, l’ara era stata ripulita e il ripiano convesso aveva un’aria imponente e minacciosa. Intorno, erano stati disegnati dei simboli con quella che sembrava polvere di gesso e che risaltavano bianchi e sinistri sul terreno brullo. Su di essa, legata mani e piedi, buttata di traverso come una perfetta vittima sacrificale, c’era mia sorella.
“Sabrina..!” singhiozzai senza voce mentre il cuore si spezzava in due dalla pena: fortunatamente Sabrina non mi sentì.
La mia sorellina era a piedi nudi e aveva addosso una tunica di tessuto grezzo molto semplice: la testa era abbandonata sulla pietra, dondolava appena come se fosse drogata e a giudicare dal numero di graffi e contusioni che le ricoprivano le braccia e le gambe si sarebbe detto che avesse cercato di difendersi. Teneva gli occhi chiusi e si lamentava con voce flebile, i polsi e le caviglie escoriati dalla corda di spessa canapa che la intrappolava alla superficie di marmo dell’ara. Il primo impulso fu di correre verso di lei: non vedevo nessun altro intorno e dopo qualche secondo di angustiato tentennamento, raccogliendo tutte le forze, deglutendo a secco e pregando senza sapere di pregare, mi alzai in piedi. Feci due passi stentati, da ubriaca, il cuore che era diventato un grumo insensibile incastrato in gola… ma niente uscì dall’ombra per azzannarmi, niente mi attaccò alla sprovvista. Feci altri due passi, ansimando come un mantice, e finalmente Sabrina aprì gli occhi. Ci guardammo a lungo, bloccando il tempo: i miei occhi erano spalancati, pieni di selvatico terrore, quelli di Sabrina erano vacui, appannati, senza speranza. Feci un altro passo mentre anche la mia vista si appannava per il pianto.
“Sabrina…” mormorai ancora afona e finalmente lo sguardo di mia sorella si animò appena.
“Lenaaaa…” sussurrò con voce velata e assente girando stancamente il viso verso di me.
Trattenendo a stento un singhiozzo, caracollai verso l’ara pagana, mi buttai in ginocchio accanto a lei e abbracciai la sua testa arruffata. Era calda e umida e odorava di panico e rose. Provai una pena e una rabbia così grandi stringendola che quasi mi mancò il fiato.
“Tranquilla, Sabrina” mormorai con voce rotta mentre le lacrime mi uscivano lente dalle ciglia serrate “Ci sono qui io, va tutto bene…”
“Lenaaaa…” sospirò ancora Sabrina, e finalmente c’era qualcosa nella sua voce: sollievo e forse tristezza appena accennata, come se lottasse per emergere da profondità abissali.
Non c’era tempo da perdere, dovevo portare Sabrina via di lì prima che arrivasse qualcuno e non sarebbe stata una cosa facile vista la sua evidente condizione di semi incoscienza. Riaprii gli occhi e febbrilmente mi guardai intorno in cerca di aiuto: a fianco dell’ara era stato portato un tavolo basso dall’aria antichissima e su di esso, con un doloroso tuffo al cuore, intravidi degli oggetti, che mi ricordarono vagamente le parole di Tobia sul rito fiat vitae. C’erano un’ampolla d’acqua purissima, un piattino dorato con dentro un mucchietto di terra e un antico acciarino. Dietro questi oggetti ben disposti in prima fila, c’erano una bottiglietta scura, una grossa spada scintillante dalla lama di metallo brunito e uno scrigno di metallo dorato finemente intarsiato chiuso da un lucchetto. Senza pensarci troppo sopra, afferrai la spada: dovetti reggerla con entrambe le mani, spiazzata dal suo peso. Il manico era freddo e ostile, troppo grosso per la mia mano e intarsiato da inquietanti scanalature. La lama invece era incredibilmente affilata; goffamente, cercando di non ferire nessuno, iniziai a tagliare le corde che legavano Sabrina. Era un’impresa molto più difficile di quanto sembrasse: in tutti i film dell’orrore che avevo visto le corde si tagliavano come burro, persino con i coltelli di plastica da pic nic. Questa corda invece era spessa e ruvida e sembrava solida come una roccia. Il sudore cominciò a colarmi dentro gli occhi mentre mi davo da fare come una forsennata con Sabrina che agitava solo debolmente la testa. I secondi passavano lentissimi e pesanti e appestavano l’aria di rabbia e panico; la lama mi sfuggì due volte dalle mani sudate e mi provocò una profonda ferita sull’avambraccio che cominciò a gocciolare sul ripiano liscio dell’ara. Riuscii chissà come a liberare prima un polso e poi l’altro di Sabrina, aiutandomi anchecon i denti e scorticandomi le dita, poi attaccai i nodi che le intrappolavano le caviglie. Nel frattempo cercavo di risvegliare l’attenzione di Sabrina e di tenere contemporaneamente d’occhio i dintorni: la paura continuava a lievitare nel petto insieme all’urgenza che sentivo arrampicarsi lungo la schiena come un ragno. Avevo la sensazione malsana di aver esaurito il tempo e la buona sorte, come se sapessi che di lì a poco sarebbero arrivati Loro e noi non avremmo avuto nessuna possibilità di scappare. Avevo appena febbrilmente liberato una caviglia di Sabrina quando sentii il primo rumore.
 *   *       *
Alzai il viso di scatto, gli occhi spalancati grandi come due laghi di terrore. La lama della spada continuò a lavorare alacremente per tagliare i nodi, ma la mia mente era già altrove, arrancando alla ricerca di una via di fuga, prendendo in considerazione e scartando ipotesi alla velocità della luce mentre un potente fiotto di adrenalina mi spingeva il cuore sempre più su fino a incastrarsi in gola. Intuivo nel buio del bosco verso Villa Lazzari un leggero bagliore accompagnato da un movimento frusciante. Qualcuno si stava avvicinando, non c’erano dubbi. Il tempo a disposizione perché io e Sabrina potessimo scappare si era esaurito e non potei fare altro che ricominciare a piangere singhiozzando debolmente. Strattonando, bestemmiando e rosicchiando, finii miracolosamente di tagliare la corda che legava anche l’altra caviglia di Sabrina, procurandomi un nuovo taglio a una mano che nemmeno sentii. Senza mollare la presa sulla pesantissima spada, feci passare un molle braccio di Sabrina intorno al mio collo e cercai di sollevarla.
“Coraggio sorellina” mormoravo supplichevole cercando contemporaneamente di scrollarla e di farla scendere dall’ara “Dammi una mano, non ce la faccio da sola… Ti prego, Sabrina, forza…”
Il frusciare di foglie era più vicino, reale e assordante: mormorando sconnesse frasi di incitamento, supplica e minaccia, riuscii a portare Sabrina giù dall’ara e cominciai a indietreggiare verso il bosco trascinando di peso il corpo di mia sorella ormai abbandonato contro di me con la testa ciondoloni. I suoi piedi deturparono il disegno preciso di una stella a sei punte disegnata col gesso, sbavandone il contorno: ben gli sta, pensai in un attimo di delirio febbrile e se avessi avuto il fiato e la forza necessari avrei riso istericamente. Ma ormai non avevo né l’uno né l’altra: i muscoli delle braccia, che bruciavano come fuoco per lo sforzo di sostenere il peso di Sabrina, cedettero di colpo e mia sorella scivolò educatamente a terra con un sospiro di scuse.
“No no no, non adesso…” mormorai cercando di afferrare il braccio di Sabrina prima che si stendesse del tutto a terra, ma non ci riuscii. Il rumore e la luce nel bosco erano ormai vicinissimi, potei addirittura vedere le fronde di una felce smuoversi a pochi metri dalla prima torcia. Fulmineamente, una parte del mio cervello valutò la possibilità di fare tre lunghi passi, tuffarmi in un cespuglio e forse, con un po’ di fortuna, scappare via prima che qualcuno potesse vedermi... ma c’era Sabrina stesa a terra e mai, per niente al mondo l’avrei lasciata sola. Così, senza nemmeno pensarci, mi piantai a gambe divaricate davanti al corpo raggomitolato di Sabrina facendole scudo, afferrai la spada con entrambe le mani e la sollevai davanti al viso: ero pronta, quasi sollevata di poter finalmente affrontare la paura. Per quanto fosse terribile vedere le ultime fronde muoversi, affrontare il nemico di petto era decisamente meglio che sentirne il respiro alle spalle. Aspettai immobile, occhi e bocca spalancati, mani sudate e cuore impazzito: aspettai che dal buio uscisse qualcosa di terrificante, un mostro a tre teste o una vecchia mummia scarnificata o una fila di zombie affamati… Invece, preceduto dalla luce incerta di una torcia, vestito con una lunga tunica bianca, bello e leggero come un ballerino, dal bosco uscì Tobia Lazzari.
*    *       *
Trattenni il fiato mentre i suoi occhi verdissimi inquadravano la scena: in un battito di ciglia registrò le corde tagliuzzate sull’ara, il fagotto ammucchiato alle mie spalle che corrispondeva a mia sorella semisvenuta, la spada tremante tra le mie mani e la mia stessa faccia sudata e stravolta. Per un attimo da capogiro, i suoi occhi incontrarono i miei e le gambe mi tremarono come per un terremoto. Poi, così improvviso che per un bel pezzo credetti di essermelo sognato, un radioso sorriso stirò le sue labbra perfette, accese di luce il suo sguardo e mi abbagliò col candore dei suoi denti.
“Lena, sei qui!” sospirò la sua voce musicale “Ormai temevo che non saresti più arrivata!”

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Capitolo 19
*** Caput XVIIIum ***


Ibidem   
(detto popolare)


Per un bel po’ rimasi immobile, così frastornata che l’unica cosa che riuscii a fare fu sbattere le ciglia. Tobia fece un passo avanti e automaticamente io alzai la spada minacciosa; lui si fermò ma continuò a guardarmi, senza smettere di sorridere.
“Tranquilla, Lena” mormorò aprendo i palmi delle mani e mostrandomeli chiaramente “Non ho cattive intenzioni. Ti stavo aspettando.”
Mi sorrise di nuovo e sembrava così sincero che il sollievo mi colse come una vertigine. Le braccia tremarono per lo sforzo e per la tensione emotiva, così le chinai lentamente per non dare l’impressione di abbassare la guardia, rimanendo muta e con gli occhi spalancati fissi su di lui.
“Sabrina” gracidai rendendomi conto solo in quel momento di quanto fosse terribilmente fioca la mia voce “Hai preso Sabrina.”
Lo guardavo accusatoria e in quel momento, se ne avessi avuto la forza, gli avrei piantato anche la spada nel petto. Tobia fece spallucce con perfetta noncuranza.
“Dovevo essere sicuro che tu venissi qui” rispose tranquillo ma serio “L’incarico di scegliere la Vergine per il fiat vitae questa volta era mio: erano centocinquanta anni che aspettavo questo momento e dovevo fare di tutto perché le cose andassero secondo i miei piani.”
Sorrise di nuovo e a me girò la testa. I suoi occhi erano così luminosi da essere quasi magnetici e volontariamente abbassai lo sguardo per recuperare un po’ di lucidità.
“E quali sono i tuoi piani?” domandai con voce rauca.
“Lo sai quali sono” rispose Tobia pazientemente “Io voglio essere libero. Questo può accadere solo se qualcuno uccide il mio padrone poiché non posso farlo io personalmente. Come vedi ho studiato tutto nei minimi dettagli: ti ho dato l’opportunità, ti ho dato la motivazione e ho anche fatto in modo che tu trovassi l’arma. Ora, non devi far altro che finire il lavoro.”
La testa vorticava e la spada fra le mie mani pesava come un macigno. Sbattei le ciglia cercando di capire le parole di Tobia in mezzo alla confusione che mi ottenebrava la mente.
“Lavoro…” balbettai incerta “Io… io non finisco nessun lavoro. Io prendo Sabrina e me ne vado…”
“E Saverio?” domandò Tobia rapido e gelido come una stilettata “Lo lascerai qui in balia di Paracelso a creare le pastoie che per altri cinquant’anni lo terranno legato anima e corpo a quel vecchio decrepito? Ti ricordo che cinquant’anni sono un bel po’ di tempo, per una mortale come te… non credo che tu stia pensando di rimandare alla prossima volta, vero?”
Il pensiero di Saverio e dei suoi occhi dolenti mi strinse il cuore come una morsa di acciaio: la spada tra le mie mani tremò irrefrenabilmente mentre il mio sguardo si appannava di lacrime.
“Saverio…” balbettai piano.
“Sai, credo che lui sia davvero cambiato” mi confidò Tobia serio “Ha sviluppato una sorta di… come dire? Umanità acquisita. Già l’ultima volta era andata male… ha dovuto scegliere lui la vergine, lo sapevi? Margherita, la tua prozia, era la sua prescelta.”
Mi lanciò uno sguardo di sottecchi mentre io incassavo anche questa notizia col cuore ormai esausto. 
“Credo che un po’ tu gliela ricordassi, era per questo che non voleva assolutamente che io scegliessi te.”
“Ed era per questo che tu invece volevi assolutamente scegliermi.” mormorai amareggiata; Tobia sorrise di nuovo, affascinante.
“Gli altri saranno qui tra poco” mi avvisò placidamente e io sobbalzai stringendo convulsamente la spada tra le mani “Non è un bene che sprechi così l’effetto sorpresa, l’unica arma che hai. Nasconditi.”
Trasecolata, lo fissai di nuovo in viso.
“Tu sei pazzo” mormorai “Come faccio con Sabrina?”
Tobia lanciò uno sguardo indifferente a mia sorella, facendomi rabbrividire: se avesse guardato un mucchio di foglie secche non avrebbe avuto più interesse di così per la sua sorte.  
“Lei deve stare sull’ara” spiegò pazientemente “Non è necessario tornare a legarla, l’effetto del Bacio è molto potente e dopo che avrai fatto quelli che devi, potrai caricartela in spalla e andare dove vuoi.”
Sorrise incoraggiante e a me sembrò di vedere un lupo che mostra le zanne.
In quel momento, i fruscii nel bosco ricominciarono: i miei occhi saettarono subito in quella direzione, quelli di Tobia rimasero invece fissi su di me. Il suo sorriso si era smorzato e tutta la potenza furibonda dei suoi occhi si riversò su di me facendomi vacillare.
“Non hai più tempo” disse con terribile ineluttabilità “Nasconditi, ora. O morirete entrambe, tu e tua sorella.”
La mia schiena tremava, il mio respiro rapido singhiozzava, la mia mente era in piena confusione: che dovevo fare? Dar retta a Tobia o aspettare di avere tutti contro e cercare di difendermi pateticamente con una spada che nemmeno ero in grado di sollevare da terra? Lanciai un’occhiata a Sabrina stesa dietro di me: i suoi occhi socchiusi erano ancora vacui e il suo aspetto generale era indifeso come quello di un cucciolo appena nato. Per quanto il cuore mi scoppiasse di pena nel petto, dovevo pensare alla sopravvivenza di entrambe, così presi la mia decisione su due piedi. Mi girai verso Tobia con gli occhi umidi e le labbra pressate.
“E va bene” sospirai “Ma se solo torcerete un capello a Sabrina…”
Tobia tornò a sorridere, gioioso e affascinante come un angelo.
“Non ce ne sarà bisogno” rispose comprensivo “Ora riportiamola sull’ara.”
Attesi per un lungo momento mentre il cuore strattonava da una parte e la mente dall’altra: Tobia aspettò pazientemente che mi muovessi rigida come se avessi le giunture arrugginite, poi si avvicinò con cautela. Insieme afferrammo Sabrina sotto le ascelle e la trascinammo di peso verso l’ara: per tutto il tempo, Tobia mi istruì con rapide e precise indicazioni.
“Devi nasconderti dietro il cespuglio nella zona d’ombra tra la terza e la quarta torcia: lì sarai in posizione ottimale per attaccare il Sacerdote, ovvero Paracelso. Dovrai aspettare il mio segnale, cioè quando ti chiamerò per nome, chiaro? Non ci vorrà molto: tu devi solo uscire e piantare la spada.”
Piantare la spada.
Per un attimo passò un film in bianco e nero nella mia mente dove io uscivo urlante dal cespuglio, la spada sollevata sopra la testa, e piantavo la lunga e pesante lama nel corpo gobbo e scarnificato di un vecchietto incartapecorito. Lo shock fu così grande che la vista mi si appannò.
“Io…” balbettai con la nausea che fece affiorare il sudore sul viso terreo, ma Tobia si concentrò sui fruscii sempre più vicini e mi girò le spalle.
“Vai!” sibilò con ferocia senza guardarmi “Sono qui!”
Era vero: la luminosità discontinua delle torce era vicinissima, ormai non c’era più tempo per niente.
Mi girai e mi tuffai quasi di peso dietro il cespuglio, rimanendo poi immobile e vigile senza quasi respirare. Stringevo convulsamente l’elsa della spada tra le mani, ma invece di trarne conforto riuscii solamente a sentirmi ancora più sola e disperata.
*    *       *
Qualcosa stava arrivando. Percepii la sua presenza quando di colpo l’aria tiepida della sera sembrò diventare opprimente come sotto una campana di vetro. Le cicale avevano smesso di frinire come se le avessero spente con il telecomando e Tobia si era irrigidito fino a sembrare trapassato dalla corrente elettrica. Nel silenzio improvviso, crepitava rumorosamente solo il mio respiro concitato: serrai forte le labbra nel tentativo di coprire il rumore, ma il rombo del cuore continuava a essere pericolosamente assordante e batteva impazzito un ritmo in crescendo, aspettando qualcosa di enorme che si preannunciava in arrivo con lente scariche elettrostatiche. Le fronde intorno al cerchio di torce frusciarono: io alzai le spalle irrigidita senza poter sfuggire a una sensazione strana, fangosa e viscida come sabbie mobili mentali. Di colpo, l’aria fu piena dell’odore nauseante e antico degli umidi cimiteri invernali. Non osavo chiudere gli occhi, non osavo nemmeno respirare: mi sentivo sola e disperata come un topolino preso in trappola. “Ma tu non sei sola” disse una voce tranquilla nella mia testa “Ci sono io con te”. La riconobbi: era la proiezione della voce di Saverio, dolce e contrita come avevo imparato a conoscere e ad amare, con quel sottofondo frustrato e burbero che esprimeva così chiaramente com’era lui stesso. Chissà se mi avrebbe davvero parlato così dolcemente sapendo in che razza di guaio mi ero cacciata?
A un tratto Saverio arrivò proprio lì, davanti a me. Uscì dall’ombra ed entrò nel cerchio di luce rimanendo poi in piedi al centro della radura. Al suo fianco si materializzò Ruggero: entrambi tenevano una torcia in mano e indossavano lunghe tuniche bianche del tutto simili a quelle di Tobia e di Sabrina. Vedere Saverio fu devastante: tra la paura e l’urgenza di salvare Sabrina, non avevo considerato quanto la sua fisicità mi sconvolgesse… ero preparata all’impatto emotivo che lui avrebbe avuto su di me ma la violenza con cui mi colpì la curva esausta del suo collo mi riempì di pena e di rabbia nei confronti del mondo intero. Stava soffrendo, era evidente: soffriva da morire col capo chino, in silenzio, senza sperare più niente. Se avessi avuto un minimo di forza e di coraggio sarei corsa da lui immediatamente. Ma qualcos’altro si avvicinava e io ne percepivo con tutti i sensi la vicinanza. Era qualcosa di antico e malsano che dava l’impressione claustrofobica del chiudersi in una bara con un cadavere: cercai gli occhi di Saverio, ma non li trovai, coperti dalle stanche palpebre arrossate. La sensazione di oppressione al petto si intensificò mentre il bosco buio, con un ultimo frusciare stanco di foglie, partorì un’ultima figura umana.
Qualcos’altro entrò nel cerchio di luce e senza nemmeno bisogno di vedere seppi che Paracelso era arrivato.
*    *       *
Avevo così paura di guardare Paracelso, o qualsiasi cosa fosse entrata nel cerchio di luce al suo posto, che faticai a mettere a fuoco le immagini che mi danzavano nebulose davanti agli occhi: quando la vista si chiarificò provai un senso di travolgente sollievo guardando finalmente e definitivamente in faccia l’origine del mio terrore.
Paracelso era un vecchio. 
Un vecchietto curvo e secco come uno scheletro, malamente rivestito di brandelli di pelle cascante e rugosa. La testa piccola quasi completamente calva era ricoperta di macchie brunastre e pochi capelli candidi svolazzavano come lanugine intorno al viso. Quello che frusciava fra le frode e che produceva quel suono rivoltante era il suo vestito: una lunga e pesante tunica di velluto rosso scuro, antica quanto il padrone e forse di più. Il vecchio si appoggiava a un bastone e le sue mani strette ad artiglio erano quasi completamente nascoste dalle lunghe maniche della tunica. Era vecchio e sembrava fragile come un uccellino: eppure, mi bastò guardarlo in faccia perché il terrore tornasse a invadermi le viscere completamente, bloccandomi il respiro in gola. Aveva due occhi lucenti e irreali tanto da sembrare due malsane pietre radioattive incastrate nelle orbite e io avevo la terribile sensazione che lui potesse vedermi, anche se ero ben nascosta nel buio e fitto fogliame: il mio cuore batteva troppo forte, il mio corpo tremava e spandeva intorno l’odore inequivocabile della paura. Paracelso raggiunse lentamente Saverio e Ruggero al centro del cerchio e Tobia gli si inginocchiò davanti a capo chino. Nessuno aveva ancora guardato dalla parte di Sabrina, stesa impietosamente sull’ara; Saverio e Ruggero tenevano lo sguardo basso e Paracelso girava intorno lo sguardo rapace simile a un paio di spilli. Il suo viso si sollevò lentamente ricordandomi assurdamente quello di una tartaruga che esce dal suo guscio.
“Qui est?” chiese con una voce rugginosa e tremolante che riuscì a ghiacciarmi il sangue nelle vene.
Tobia rimase a capo chino davanti a lui: ansimava rapidamente e, per la prima volta da che lo conoscevo, vidi affiorare sul suo viso qualcosa di molto simile alla paura.
“La Vergine è pronta.” disse cercando di infondere sicurezza nella voce, ma il suo patetico tentativo non ingannò neanche me. Paracelso continuò a perlustrare l’aria intorno a sé: le sue narici fremevano, la sua bocca semiaperta sembrava l’ingresso di una caverna millenaria e i suoi occhi saettavano dovunque come un raggio laser.
“Chi c’è?” chiese ancora la voce questa volta in italiano: era una voce stranissima, sembrava provenire sia dal mio stesso interno che da fuori, dappertutto. Era priva di inflessioni, priva di sentimento, priva di vita: ascoltarla era a dir poco agghiacciante e il respiro mi si fece affannoso, agitando il mio petto di puro terrore.   
“Padre, la Vergine” ripeté Tobia: si alzò in piedi e indicò con la mano Sabrina riversa sull’ara. Con la coda dell’occhio vidi Saverio sollevare millimetricamente la testa e, dopo qualche secondo, sussultare penosamente: aveva visto Sabrina, l’aveva riconosciuta.
“No.” sfiatò con voce esausta e flebile, come se non fosse in grado di sopportare nient’altro.
Il suo mormorio riuscì a distrarre Paracelso abbastanza da attirare quei suoi terribili occhi su di sé.
“Come hai detto, filius?” domandò con vaga sorpresa dietro l’evidente minaccia.
Saverio tremò: la sua schiena guizzava di brividi incontrollabili mentre le unghie conficcate nei palmi serrati stillarono alcune gocce di sangue sul terreno brullo.
“Padre” disse la voce di Saverio: tremava e sembrava che ogni lettera gli costasse uno sforzo enorme “Padre… non… lei…”
Paracelso non disse niente: si girò a guardare Sabrina con la sublime indifferenza di un regale in presenza di un moscerino e sembrava perfettamente padrone di sé, immobile e rilassato benché curvo sul suo bastone.
“Saverio.” chiamò e il tono della sua voce era un furibondo distillato di morte.
Persino io sentii il gelo attraversarmi il cuore e strinsi con tutte le forze l’elsa della spada tra le mani, resistendo a stento all’impulso di chiudere gli occhi. Saverio crollò in ginocchio come se una potente mano invisibile lo avesse spinto dall’alto schiacciandolo impietosamente: il suo respiro affannoso e la tensione dei suoi muscoli indicavano chiaramente che stava combattendo invano contro una forza molto più grande di lui.
“Filius, non è già il secondo fiat vitae che contesti?” continuò la voce terribile di Paracelso; Tobia e Ruggero si erano leggermente allontanati, entrambi così pieni di timore da sembrare maschere di sé stessi indossate da due topolini spaventati. La testa di Tobia guizzò nella mia direzione: fu un lampo d’intesa, proprio mentre Paracelso si girava verso Saverio, dandomi le spalle.
“Padre, perdonami…” balbettò Saverio col viso arricciato in una smorfia di sofferenza “Ma ti prego… ti prego… non il suo sangue…”
Gli occhi di Tobia si allargavano man mano che Paracelso si girava: ora la sua schiena era direttamente di fronte a me, il bersaglio più facile del mondo. Il sudore mi inondò il viso mentre le mie dita stringevano convulsamente l’elsa della spada. Le mie gambe erano in tensione, pronte a scattare, ma la mia mente urlava solo “no no no no…”
“Lei è…” proseguì Saverio balbettando ignaro “La sua famiglia è… la stessa della Vergine dell’ultimo fiat vitae. Non possiamo… è pericoloso…”
Paracelso si curvò verso Saverio, minaccioso e completamente assorbito su di lui e in quel momento Tobia si girò di scatto verso il mio cespuglio.
Fu un momento vissuto come al rallentatore: tutti i muscoli del suo corpo si tesero mentre dalla sua bocca proruppe un grido, quasi doloroso tanto era urgente:
“LENA, ADESSO!”
*    *       *
La mia mente si bloccò lì, dietro quel cespuglio: attonita e quasi indifferente, rimase a guardare mentre le mie gambe scattavano, pesanti e rigide come se fossero imbottite di pietra. Mi avventai su Paracelso, alzando la spada sopra la testa e caricando con quanta forza avevo: non feci nessun urlo da guerriero cinematografico, non feci tremare la terra sotto i piedi, quasi non mi si sentì mentre sbucavo dal cespuglio. Eppure, nella lentezza da incubo di quel momento, la mia mente acquattata dietro il cespuglio registrò tutto con sorprendente nitore: lo sguardo di Tobia che si accendeva di selvaggia esultanza; la testa di Saverio che scattava in su; il verso strozzato di Ruggero che incespicava allontanandosi di un passo; la schiena di Paracelso che si girava nella mia direzione, lenta, troppo lenta per…
“Finis.” disse tranquillamente: la sua voce era come i suoi occhi, senza tempo e senza pietà, terrificante proprio per la sua assoluta mancanza di umanità e mi bloccò sul posto come un raggio congelante.
Con mia somma sorpresa, le mie mani si aprirono e la spada cadde a terra con un clangore oltraggiato. Io la sentii cadere alle mie spalle senza assolutamente riuscire a muovermi: ero a un passo da Paracelso e ne respiravo l’odore antico e rivoltante ed era come essere racchiusi in un bozzolo impenetrabile di foglie morte e polvere. Senza nemmeno bisogno che pensassi coscientemente, capii di non potere più uscire dal cerchio di fuoco, di non potermi muovere, di non poter fare niente senza che Paracelso lo volesse o lo ordinasse. Continuai a rimanere tesa e immobile, sperando con tutte le mie forze di riuscire a fare la cosa giusta anche se non sapevo più quale fosse.
Paracelso girò lentamente lo sguardo su di me, mosse un sopracciglio e io mi trovai di colpo inginocchiata con la fronte che quasi sfiorava l’erba secca della radura. L’assoluta facilità con cui era entrato nella mia mente e manovrava la mia volontà mi lasciò completamente sconvolta.
“Chi è costei?” domandò la voce senza tempo di Paracelso, arrivando da tutte le parti; non sembrava arrabbiato, non sembrava niente e questo era l’aspetto più spaventoso.
“Lena.” alitò Saverio, ma più che una risposta sembrava una sentenza di morte.
“E’ la sorella della Vergine.” rispose Ruggero che sembrava l’unico in grado di poter rispondere; Saverio era ancora inginocchiato a terra, il viso una perfetta maschera di dolore e stupore, Tobia invece sembrava anche lui congelato sul posto completamente privo di volontà e forza. Paracelso mi guardò: sentii un fruscio e di colpo mi ritrovai con un lembo della sua tunica sotto il naso, odorosa di morte antica e di disfatta.
“Alzati.” ordinò e io mi trovai in piedi prima ancora di formulare il pensiero di sollevarmi.
Paracelso mi guardò in faccia da vicino: i suoi occhi erano due lattiginose lastre di ossidiana grigiastra rivestite da uno strato di vetro, non avevano né pupille né nient’altro di umano, erano due piatte e feroci finestre su un oscuro pozzo senza fondo di nulla eterno. Iniziai a tremare violentemente, come se fossi nel bel mezzo di un tornado e finalmente compresi quello che Saverio aveva sempre cercato di spiegarmi; di fronte a Paracelso io ero come una inutile, piccola, insignificante formica che lui poteva schiacciare a suo piacimento. Infatti, con la sola forza del pensiero mi ricacciò a terra, con la faccia nella polvere.
“Perché sei qui.” domandò Paracelso senza curiosità.
“Per ucciderti.” risposi immediatamente, riuscendo a malapena a respirare.
“Padre” sospirò la voce di Saverio proveniente da abissi lontani “Padre, ti prego… non lei, padre, lei no…”
Da sotto in su, ancora prostrata a terra, mi girai a guardarlo respirando velocemente dal naso: Saverio si era spostato ed ora lo vedevo chiaramente al centro del cerchio di luce, indifeso e solo quasi come me. I nostri occhi si incontrarono per un attimo eterno prima che i miei si riempissero di lacrime.
“Saverio..” balbettai e non sapevo se volevo supplicarlo o gridargli di fuggire.
“Perché sei qui, Lena…” sospirò lui: agitava la testa con rabbia, come se si fosse voluto svegliare e avesse preso troppi sonniferi. Tobia, invece, sembrava ancora in stato catatonico.
“Mi dispiace” mormorai con voce rotta “Non doveva andare così…”
“Perché sei qui!” ripeté lui con voce un po’ rabbiosa: una smorfia rigida gli deturpava la faccia come se stesse combattendo con tutte le sue forze contro una paralisi irresistibile.
“Volevo liberarti” continuai sottovoce chiudendo gli occhi e premendo la fronte contro la terra tiepida “Volevo liberarvi tutti quanti…”
Tutti tacquero mentre lo stridio di un assiolo lontano mi obbligava a riaprire gli occhi. Saverio mi guardò ancora con uno sguardo così pieno di angoscia che la mia sicurezza vacillò.
“Volevi uccidermi.” disse Paracelso, sempre monocorde e privo di inflessioni. Era raccapricciante ascoltarlo.
“Sì.” ammisi e non riuscivo proprio a provare vergogna: dopo averlo visto, il pensiero di Saverio obbligato a servire quel rudere putrescente mi riempiva di puro orrore.
“Ma non puoi” mormorò Saverio con voce liquida e tormentata “Paracelso non può morire per mano di un umano… solo un immortale può ucciderlo.”
Qualcosa crollò intorno a me: forse era il mondo, forse ero io stessa.
“Come?” sussurro mentre il sangue abbandona il mio viso e il mio cuore “Cosa?”
Mi girai a guardare Tobia che diventò, se possibile, ancora più rigido e immobile.
“Se un mortale tenta di uccidere un immortale, muore.” sospirò Saverio esausto: chinò il capo come se fosse di colpo un peso insostenibile.
Io ero cristallizzata sul posto, il respiro mozzato da una massa informe di terrore incastrata nel petto.
“No…” mormorai senza voce “Lui mi ha detto… se Paracelso muore voi…”
“Piccola serpe ingenua” sospirò Paracelso senza nessuna emozione nella voce “Come hai potuto anche solo pensare di sfidarmi? Tu, insignificante larva mortale, contro di me, Paracelso?”
Con la coda dell’occhio vidi un artiglio raggrinzito e grigiastro sbucare dalla manica della tunica rossa di Paracelso e chinarsi per raccogliere la spada da terra.
“Meriteresti una morte lunga e sofferente anche solo per questo imperdonabile atto di superbia.” decretò sollevando la spada senza nessuno sforzo apparente come se fosse fatta di latta: con un cenno della testa mi costrinse a sollevarmi in ginocchio e mi puntò la lama esattamente contro la gola con una terribile precisione chirurgica.
“Tutto questo andrebbe approfondito” disse piano rivolto a Tobia, Saverio e Ruggero e il suo ringhio fece vibrare il terreno sotto le mie ginocchia: era furioso e dalla sua voce non trapelava nient’altro che malvagità e rancore “Sarebbe molto interessante sviluppare l’argomento e capire come avete fatto, voi scellerati, a costruire un dramma di questa portata, ma sappiamo tutti che non abbiamo tempo. Scoprirò quello che avete tramato alle mie spalle, servi ingrati, ma prima occorre benedire il terreno e proteggerci dal Nemico. Egli è vicino, molto vicino: il suo odore arriva fino a me…”
Si interruppe per alzare il viso come aveva fatto poco prima: sembrava intento ad annusare l’aria con quel bitorzolo molliccio che aveva per naso.
“La Vergine…” balbettò Ruggero, incerto, ma Paracelso alzò una mano interrompendolo bruscamente.
“Avrei voluto usare te, piccola e infida serpe” ringhiò sottovoce “Almeno la tua presenza qui avrebbe avuto uno scopo più nobile di quello di irritarmi a morte. Sfortunatamente, l’Assassina non può essere sacrificata. Corruptio optimi pessima*. Per il fiat vitae serve un sangue puro, incontaminato. Tu sei solo d’impiccio.”
Se mai quella voce aveva avuto un cuore, esso era andato perduto negli anni, chissà quando e chissà dove; l’unica cosa certa era che in quel momento non batteva niente in quel petto macilento. Sapevo quello che stava per dire: la mia stupidità stava per crollarmi addosso senza possibilità di riscatto. Guardai la faccia di Saverio, cinerea e sconvolta sperando di trovarci chissà che e vedendo solo il riflesso del mio stesso terrore.
“Padre, non…” iniziò Saverio, ma la voce di Paracelso spazzò via tutto, come un’esplosione nucleare.
“Figli miei, uccidetela.”
 
 
 
NOTE DELL’AUTRICE:
*Ciò che era ottimo, una volta corrotto, è pessimo

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Capitolo 20
*** Caput XIXum ***


Mors omnia solvit
(dal linguaggio giuridico)

 
Alle parole di Paracelso, Tobia e Ruggero erano scattati in avanti, come se qualcuno li avesse spinti da dietro. Saverio, invece, aveva ondeggiato come sulla tolda di una nave nel mare in burrasca, ma i suoi piedi erano rimasti ben piantati per terra.
Io tremavo, immobile fra di loro, impotente come un agnello fra i lupi. Non avevo scampo, e lo sapevo: l’unica cosa che potevo fare era guardare Saverio, sparando l’insperabile, pregando che qualcosa, qualsiasi cosa, succedesse…
“No!” mormorò Saverio digrignando i denti pallido come un cadavere, e io sentii il mio cuore volare da lui pieno di speranza.
“Che cosa?” domandò Paracelso con voce sinceramente sorpresa, così gelida e orribile che mi riempì la gola di ghiaccio sporco “Saverio, tu stai… discutendo i miei ordini?”
Il viso di Saverio diventò terreo, come se Paracelso invece di parlare gli avesse mollato un pungo nello stomaco, poi, in quel momento, Tobia parlò.
“Dobbiamo uccidere Lena.” sospirò con una voce stranamente ragionevole, convincente… terribile.
Tutti, tranne Paracelso, ci girammo verso di lui, ognuno con un’emozione diversa stampata sul viso.
Io non riuscivo a capacitarmi delle sue parole: continuavano a girarmi intorno rimbalzando e colpendomi di nuovo col loro carico di morte. Uccidermi: Tobia voleva uccidermi! Tobia! Il ragazzo dal sorriso solare che mi aspettava con aria timida alla fonte… colui che mi aveva attirato fino lì, giocando con la mia credulità, approfittando della mia fiducia, demolendomi e facendomi sentire ancora più inetta e stupida proprio a un passo dalla morte.
“Lurido bugiardo!” singhiozzai, ma senza provare davvero rabbia: ero così sconvolta che ormai non sentivo più niente se non distillato di puro terrore.
“Ucciderla.” approvò invece Ruggero facendo un altro passo minaccioso verso di me.
“No!” ripeté Saverio, sempre più bianco in volto e sempre più teso come se fosse in procinto di esplodere.
Tobia si avvicinò a Saverio annuendo e fissandolo negli occhi: Paracelso sembrava soddisfatto dell’andazzo delle cose e non si intromise, pur incuriosito dal comportamento anomalo di Saverio.
“Non abbiamo scelta.” mormorò suadente Tobia con un’espressione stranamente vivace. Saverio tremava e anche io, come se ci squassasse lo stesso terremoto.
“Non posso…” balbettò Saverio tra le labbra livide con sguardo supplichevole “Non lei…”
Tobia allungò una mano e la posò sulla spalla di Saverio che sussultò come se avesse preso la scossa.
“Lo sai meglio di me, Saverio” disse deciso guardandolo bene negli occhi: d’un tratto il suo sguardo mi sembrò differente, come se volesse esprimere qualcosa di diverso da quello che la sua voce diceva. Anche Saverio lo guardava a occhi spalancati, cercando di capire.
“Cosa…?” balbettò senza voce.
La mano di Tobia strinse con intenzione la sua spalla.
“Mors omnia solvit.” disse con solenne gravità.
La morte scioglie tutto, aveva detto, e il suo sguardo era guizzato rapidissimo nella direzione di Paracelso.
Fu un attimo, come ricevere uno schiaffo inaspettato e improvviso da buttare a terra. Capii in un lampo le parole di Tobia, capii il suo scopo sottinteso e d’un tratto tutti i pezzi andarono al loro posto mostrandomi per la prima volta, chiaro e sfolgorante, il suo disegno completo.
*    *       *
Tobia, il machiavellico Tobia… aveva impiegato centinaia di anni, ma l’aveva studiato bene il suo piano.
Paracelso doveva morire e ciò poteva avvenire solo per mano di un Immortale.
Tobia era un Immortale, ma non poteva uccidere Paracelso perché sarebbe morto a sua volta.
Conclusione, qualcun altro doveva ucciderlo.
Io? No, io no.
Una semplice mortale non può uccidere un Immortale, e Tobia doveva saperlo bene. Il suo scopo non era attirarmi lì per uccidere Paracelso: il suo scopo, subdolo e meschino, era attirarmi lì per fare da esca.
Per Saverio. Lui era un Immortale, anche se anomalo, e stava diventando sempre più umano, abbastanza da innamorarsi e pensare di poter morire per amore.
Ecco il piano perfetto: spingere Saverio a uccidere Paracelso.
*    *       *
Tobia guardò me. Io guardai Saverio. Saverio guardò Paracelso.
Ci muovemmo tutti insieme, come sincronizzati da un cronometro precisissimo: Saverio scattò in avanti con tre lunghi e rapidi passi; Tobia si buttò su di me per placcarmi a terra ma io, con un gridolino strozzato, gli sfuggii scartando di lato con un’agilità che mi avrebbe lasciata sbalordita, in un altro frangente.
“Fermo!” strillai lanciandomi contro Saverio, spingendo sulle gambe con tutta la forza della disperazione.
Lo slancio fu sufficiente per aggrapparmi alla sua vita e trascinarlo a terra, chiudendo gli occhi per non vedere l’assurdità che stavo facendo; Saverio cadde su un ginocchio mentre Tobia gridava di frustrazione e disperazione.
“Vai, Saverio, VAI!” ruggì con tutta la convinzione e la rabbia che poteva, ma ormai il momento giusto era passato. Paracelso aveva capito e con un sibilo incomprensibile aveva allungato una mano: Ruggero aveva emesso un suono strozzato e, come spinto da mani invisibili, aveva afferrato Tobia per le braccia cercando di immobilizzarlo. Per qualche secondo ci furono solo rumori di lotta furiosa; Saverio cercò di liberarsi dalla mia presa, ma non voleva farmi del male e tutti i suoi sforzi risultarono vani.
“Non lo fare!” singhiozzavo io rimanendo aggrappata alla sua vita con tutte le mie forze senza avere il coraggio di aprire gli occhi “Non voglio che tu muoia per me!”
“Lasciami!” strillava intanto Tobia lottando con Ruggero che si limitava ad ansimare, il viso stravolto da un’espressione di attonita sorpresa, come se dentro di se pensasse a come diavolo era potuto finire in quella assurda situazione.
Rotolammo nella polvere, cozzammo gli uni contro gli altri.
“ORA BASTA!” tuonò la voce di Paracelso e, che Dio mi assista, in quel momento sentii davvero la terra tremare sotto i piedi e pensai che quel vecchiaccio maledetto stava per ucciderci tutti.
Ci immobilizzammo immediatamente tutti e quattro, riversi sulla terra asciutta, coperti di polvere e di sudore.
Nel silenzio che seguì, i nostri ansiti concitati si mischiarono col suono dolce della brezza serale che agitava le foglie, come a suggerirci di fare piano per non disturbare il sonno dei bambini. Mi decisi ad aprire gli occhi, almeno una fessura, e sbirciai la scena da sotto in su: la povere aleggiava tutto intorno, depositandosi su di noi con leggera grazia; Sabrina era ancora sull’ara e sembrava profondamente addormentata; Paracelso incombeva su di noi, improvvisamente imponente e quasi crepitante di furore.
“TU!” tuonò di nuovo puntando un lungo dito nodoso verso Tobia che venne scosso da un tremito lunghissimo.
“TU, TRADITORE! COME HAI OSATO!”
Tobia sembrò trascinato in piedi da una mano invisibile: le sue braccia aggraziate mulinavano impotenti mentre i suoi occhi, improvvisamente scuri, sembravano due enormi pozze verdi di terrore.
“Padre…” gracidò con voce flebile, ma Paracelso non lo ascoltò.
Lo intuimmo tutti e tre, io, Ruggero e Saverio, ancora riversi a terra e immobili di paura: Paracelso era furibondo e niente e nessuno avrebbe potuto salvare Tobia.
Niente e nessuno.
Lo capì anche lui e la sua bocca si aprì in un grido muto mentre i suoi occhi supplichevoli cercavano Saverio. Lui allungò una mano esitante, forse mosso dal puro istinto, ma poi…
Paracelso gridò e il suo grido riempì ogni angolo di mondo, costringendoci a schiacciarci a terra con le mani premute sulle orecchie. Ruggero gridò terrorizzato, a me sembrò di essere nel bel mezzo di un uragano: mi strinsi ancora più forte a Saverio e sentii le sue braccia coprirmi per proteggermi, oscurando la scena. Paracelso emetteva suoni folli, oscuri, intraducibili; sentimmo Tobia gridare disperatamente mentre un gelo improvviso avvolgeva tutto come se fossimo improvvisamente finiti in una nuvola di ghiaccio. Gridai anche io, terrorizzata e sconvolta, senza riuscire a pensare a nulla, la testa piena dell’orribile urlo di Paracelso. Poi, improvvisamente, il suono cessò.   
*    *       *
Tobia era ancora in piedi fermo in una assurda posa contorta: sembrava che lo sorreggesse un filo invisibile e la sua testa era abbandonata mollemente su una spalla. Le braccia dondolavano pigramente lungo i fianchi e i piedi sfioravano appena il terreno; nel silenzio assordante del momento, mi azzardai a guardarlo in faccia e l’immagine dei suoi occhi enormi e immobili come schegge di vetro si aggrappò saldamente alla mia memoria per non lasciarla mai più.
Tobia era morto: più che il colorito terreo o l’immobilità del corpo, la morte era manifestata dall’assoluta inespressività del viso, quel suo bel viso dal sorriso malizioso e dagli occhi lucenti che mi aveva fatto tanto battere il cuore. Era diventato una maschera gommosa dai colori spenti, un enorme burattino vestito di bianco che cadde improvvisamente a terra, senza più vita e senza più grazia. Io lo guardai cadere, sempre stretta a Saverio, e sentii il suo cuore fermarsi quando il corpo senza vita di Tobia finì nella polvere come un pesante sacco di stracci. Una vibrazione interna, un suono inespresso, squassò il petto di Saverio sotto il mio orecchio, un urlo disperato che non conobbe mai la luce ma rimase intrappolato dentro di lui, rimbalzando dolorosamente tra le pareti del suo cuore.
“Tobia!” sospirò invece Ruggero con una strana voce lacerata. Gattonando, si avvicinò al cadavere (Tobia, il cadavere era Tobia, la cosa era così terribile che ancora non ci potevo credere) e lo abbracciò, mormorando una liquida nenia di dolore. Paracelso era rimasto in piedi, ancora imponente e terribile ma anche vagamente assente: il suo viso era rivolto verso l’alto e di nuovo sembrava che annusasse l’aria.
Io guardavo, ma mi sembrava di non vedere niente: era tutto così incredibilmente irreale che avevo l’impressione di essere sospesa in una bolla di anestetico, al di fuori della quale vibrava un terremoto di dolore. Tobia era morto davanti ai miei occhi e anche se la consapevolezza della sua morte non era ancora entrata nella mia sfera di percezione, la sentivo premere dolorosamente ai bordi e sapevo che presto mi avrebbe colpito al cuore con tutta la sua potenza.
“Tobia…” sfiatò finalmente Saverio, riprendendo a respirare: mi lasciò andare bruscamente e io sentii un freddo incredibile che mi aggrediva al di fuori del cerchio rassicuramene delle sue braccia. Si avvicinò al fratello senza però osare toccarlo: Ruggero invece piangeva sottovoce, dondolandosi e cullando la testa di Tobia abbandonata sulle ginocchia.
Nel mezzo di quella scena straziante, Paracelso rimaneva immobile, privo di qualsiasi emozione, col viso rivolto verso l’alto in un atto di sublime e crudele disinteresse; un monumento pagano ancora crepitante di energia statica come un residuo di temporale. D’un tratto, nella nebbia avvolgente che mi ottenebrava le facoltà percettive, mi accorsi che qualcosa aveva fatto breccia nell’impassibilità del vecchio: la preoccupazione.
“Maledizione” mormorò infatti seccamente con voce vibrante di ira e di sottile inquietudine “Ci ha sentiti. Sta venendo qui.”
Stranamente, mi sembrò che solo io lo avessi sentito poiché né Ruggero né Saverio si mossero; nonostante il gelo che mi bloccava capii immediatamente di cosa stesse parlando e involontariamente mi rannicchiai su me stessa, facendo guizzare lo sguardo nel buio minaccioso oltre il cerchio di torce.
L’Immortale.
Lo sterminatore, l’unico col potere di chiudere i giochi per tutti, stava arrivando, era inevitabile: li cercava da ore e ore e con tutto quello spreco di energia Paracelso si era reso visibile come una cometa nella notte. Sentii uno strano senso di spossatezza rendendomi conto in quel momento di quanto quella successione allucinante di tragici eventi fosse inevitabile, come quando un masso prende velocità lungo un dirupo e non si ferma finché non ha scatenato una frana.
“Non c’è tempo da perdere.” dichiarò Paracelso con voce potente, ricca di (inquietudine? paura?) fermezza.
Io rabbrividii, cercando allarmata Saverio con lo sguardo: lui aveva ancora la testa china, esausta, e non riuscii a incrociare i suoi occhi.
“La Vergine!” ruggì Paracelso con decisa urgenza “Presto, figli miei! Portatela qui!”
Ruggero, sempre gemendo, si alzò in piedi, strattonato da una forza invisibile che sembrava andare contro la sua stessa volontà; Saverio venne attraversato da un brivido e la sua schiena si arcuò, come se avesse ricevuto una scudisciata, così potei vedere il suo viso. Era livido, una maschera di spossatezza e sofferenza così devastanti da non lasciargli più energia per combattere; anche lui si alzò in piedi, trascinato dall’invisibile forza del padrone e si girò ondeggiando verso l’ara alle sue spalle. Io ero così spaventata da aver perso completamente la ragione: li guardai avvicinarsi a Sabrina che giaceva immobile e ignara sull’altare, riottosi ma inesorabili, muovendosi a scatti come zombie cinematografici. Senza quasi rendermene conto, mi ero alzata in piedi e barcollando dome un’ubriaca li avevo superati di corsa e mi ero lasciata cadere addosso a Sabrina per farle da scudo.
 “La Vergine! PRESTO!” tuonò la voce di Paracelso, così incisiva che persino io sentii la mia volontà cedere sotto il suo peso schiacciante, ma non mollai la presa: le dita di Ruggero mi arrivarono addosso, graffiandomi impazienti per scostarmi dal Sabrina ma io tenni duro, avvinghiandomi a lei con tutte le mie esigue forze. Avrei voluto urlare, ma non ne avevo la forza: mi limitai a respirare rumorosamente, singhiozzando a bocca aperta come un pesce morente.
“Che state facendo?” urlò Paracelso (e la sua voce era spaventata, sì, spaventata, inutile negarlo!) “Muovetevi! Portatemi la Vergine e UCCIDETE QUEL MALEDETTO IMPICCIO!”
Il maledetto impiccio ero io, realizzai con una punta di surreale ilarità: boccheggiai senza fiato anche Saverio mi agguantava le braccia, strattonandomi con forza.
 “NO!” urlai finalmente con la gola talmente chiusa che ne uscì solo un debole e patetico raglio “No, non fatelo! Lasciatemi, lasciatemi!”
Con la coda dell’occhio, cercai Saverio, ma il suo sguardo era vuoto e buio come un abisso senza fondo; vederlo così mi fece stare così male che recuperai di colpo la possibilità di piangere, inaridita dall’orrore: gli occhi mi si riempirono di lacrime e la vista si annebbiò, ma rimasi aggrappata a Sabrina stringendola a me con quanta forza avevo.
“Ti prego!” singhiozzai supplichevole “Saverio, ti prego, non lo fare! Io lo so che tu non vuoi farlo… io lo so che tu puoi non farlo!”
Niente: gli occhi di Saverio continuavano a essere due inespressivi buchi neri e gli strattoni di Ruggero mi artigliavano dolorosamente il braccio.
“Saverio…” ansimai sentendo qualcosa scorrere sul mio viso, qualcosa che poteva essere sangue, sudore o lacrime o tutto quello messo insieme, ormai non aveva importanza “Saverio, ti prego… se solo ti è rimasto un pezzo di cuore, per favore, reagisci… so che puoi farlo…”
“No, non posso.” sussurrò Saverio senza voce, sfinito.
“SUBITO!” strillò Paracelso con autentico panico nella voce.
Ruggero, stufo di strattonarmi, mi mollò uno schiaffo così forte che la mia testa scattò all’indietro; lo zigomo si spaccò e iniziò immediatamente a sanguinare, ma nonostante il dolore lancinante al viso non mollai la presa su Sabrina, anche perché, per pio desiderio o per reale sensibilità, avevo l’impressione che Saverio strattonasse il mio braccio con meno forza.
“Saverio, ascoltami” continua a gracidare supplichevole ignorando il dolore alla guancia “Tu sei più forte di lui: tu puoi decidere di non obbedirgli… non per me, non per Tobia, ma perché questo è quello che tu vuoi…” 
Finalmente, il suo viso si animò: lo vidi accartocciarsi di sofferenza, un dolore così straziante che mi sentii frantumare il cuore dalla pena. Le sue mani tremavano sul mio braccio, le sue dita, così profondamente strette intorno alle mie carni da farle sanguinare, allentarono la presa.
“Lena…” sospirò con infinito tormento e stanchezza “Lena, se solo…”
In quel momento, un nuovo urlo lacerò la notte e tutto sembrò congelarsi nuovamente come il fotogramma di un film dell’orrore di serie B.
*    *       *
Le mani di Ruggero avevano lasciato di colpo il mio braccio per sollevarsi in alto come se pregasse, lasciandomi incisi sulla pelle lunghi graffi dolorosi. Anche il suo viso era scattato verso l’alto, gli occhi verdi spalancati a ricevere l’estasi mistica del cielo, la bocca mollemente aperta e abbandonata, la schiena tesa come se avesse voluto spiccare il volo. Per un attimo rimase sospeso così, immortalato nella sua incredibile bellezza, un angelo senza ali che protendeva il volto verso il paradiso.
Il tempo rimase sospeso per un attimo eterno e poi si buttò già a capofitto nella realtà, trascinando tutti noi con sé: il corpo di Ruggero crollò di schianto di lato con le braccia spalancate; un suono basso, tremante, furibondo uscì dalla gola di Paracelso e penetrò dentro tutti noi, scuotendoci come un impetuoso vento di uragano; io gridai anche se ormai non avevo più voce, aggrappata a Sabrina e a Saverio, piantando due occhi pieni di orrore sulla figura di Ruggero che zampillava sangue: vidi una lunga lama tinta di vermiglio venire scalzata dalla sua schiena dove si era conficcata, eseguire un elegante ghirigoro per aria e schiantarsi sul suo collo inerme, separando di netto la testa dal resto del corpo e conficcandosi nel terreno sottostante. Solo in quel momento realizzai che la spada era animata da una figura umana era comparsa dietro il cadavere steso a terra e con un doloroso tuffo al cuore lo riconobbi immediatamente.
“L’Immortale!” gridai con tutte le mie forze, ma fu solo un sussurro senza anima a uscirmi dalle labbra.
*    *       *
Era arrivato, chiudendo definitivamente il cerchio per l’ultima conclusiva resa dei conti.
“Ma guarda guarda!” esordì la voce dell’Immortale orribilmente priva di paura, anzi, appena appena divertita “Cosa abbiamo qui?”
Il suo sguardo insondabile passò sull’ara con me e Sabrina riverse sopra, sui due cadaveri a terra, su Saverio immobile sopra di me e si fermò su Paracelso: il suo viso si aprì in un ghigno ferino, triviale e astuto insieme, più terrificante di qualsiasi spada affilata.
“Un sacrificio!” esultò l’Immortale facendo un passo avanti: recuperò la pesante e lunga spada, scalzandola senza fatica dal terreno tra il collo e la testa di Ruggero, dove si era conficcata. Il suono che fece la lama strusciando sulle carni mi sconvolse, quasi come vedere il metallo rilucere di rosso mentre una goccia di sangue scivolava lungo la lama.
“Temo che per te sia arrivata la fine, vecchio impostore.” annunciò l’Immortale con perfida calma.
“Non è la fine!” strepitò Paracelso alzando le braccia in alto “LO DECIDO IO QUANDO E’ LA FINE!”
Nonostante le parole e la rabbia furibonda, Paracelso aveva paura. Nessuno di noi aveva immaginato che si sarebbe verificata una tale catarsi, quella notte: né io, che a malapena ero cosciente di sopravvivere, né Saverio che guardava con occhi persi la spada che l’Immortale agitava con finta pigrizia, né Paracelso che continuava ad ansimare, incessante e furibondo, sconquassando di energia negativa i nostri sensi provati e oramai sfiniti.
Eppure, inconsciamente, sapevo che doveva andare così: tanti anni di schiavitù, odio e sofferenza non potevano essere mutati in libertà senza sacrificio… il tempo di Paracelso poteva finire lì, in quel momento, e il vecchio lo sapeva bene perché non smetteva un secondo di gridare, immobile e furente ma anche spaventato. Qualsiasi cosa stesse per succedere, forse era davvero la fine.
“SAVERIO!” chiamò Paracelso con voce terribile “A ME!”
Di colpo, sentii le mani di Saverio abbandonarmi: con un gemito sofferente lui si alzò in piedi e indietreggiò fino a posizionarsi di fronte al vecchio.
“DIFENDI IL PADRE TUO!” ordinò Paracelso e Saverio rabbrividì; come in trance, si chinò a raccogliere la lunga spada di metallo brunito che Paracelso aveva abbandonato ai suoi piedi e la brandì con entrambe le mani.
Mentre il sangue mi si ghiacciava nelle vene, vidi con la coda dell’occhio il viso dell’Immortale arricciarsi in una smorfia malignamente divertita.
“Che fai, vecchio?” domandò canzonatorio con voce graffiante e crudele “Mandi avanti gli schiavi a combattere la tua guerra?”
“NO!” strillai io cercando di alzarmi in piedi, ma orami senza forze incespicai e crollai di nuovo in ginocchio di fianco all’altare.
L’Immortale mi lanciò un breve sguardo disinteressato.
“Lo sapevo che non era un vero Osservatore” commentò quasi salottiero rivolto a Paracelso “A dire il vero, non ho capito bene che razza di Immortali siete voi: quando ho ucciso quello” e col mento indicò Ruggero “Non mi è arrivata nessuna Reminescenza… Eppure, il Buzz che ho seguito era potentissimo. Forse siete solo degli impostori che ammazzano le ragazzine per sopravvivere meschinamente, all’ombra dei veri Immortali purosangue. Sì, deve essere così, vero vecchio? Sei solo un ladro vigliacco e decrepito che ruba la vita agli umani.”
Paracelso rabbrividì di ira e indignazione, ringhiando incessantemente come un cane idrofobo.
“Come osi, lurido e borioso animale! Tu non sai di chi sei al cospetto!”
L’Immortale inarcò appena un sopracciglio, per nulla scomposto.
“Vecchio, non mi importerebbe di te nemmeno se fossi la reincarnazione di un Dio” commentò con voce sferzante e crudele “Che abbia sangue blu o acqua sporca nelle vene, seguirò il mio destino e ti ucciderò.”
“Non lo farai!” ruggì Paracelso, furibondo “Io sono il destino! Saverio uccidi questo essere blasfemo!”
Saverio venne spinto in avanti da una forza invisibile e l’Immortale si mise immediatamente in posizione di difesa. Prima ancora che potessi realizzare coscientemente quello che stava succedendo, le due spade stavano già cozzando l’una contro l’altra con un argentino rumore di ferraglia; io gridai e trovai chissà dove la forza di alzarmi in piedi.
“Saverio!” gracidai rauca, correndo verso di lui: il mio unico pensiero, cosciente o incosciente che fosse, era che lui non morisse.
Sapevo che non potevo fare altro, persino per me stessa: il mio cuore, dopo tutto quello che era stato costretto a sopportare in quelle ultime ore, non avrebbe retto al dolore se fosse successo qualcosa a Saverio. Si sarebbe spezzato irrimediabilmente insieme alla mia coscienza, sbriciolato come un biscotto secco e per la mia stessa sopravvivenza non potevo permettere che succedesse. Saltai, quindi, tirando fuori la forza da chissà dove, ruggendo e piangendo senza sosta: atterrai sull’Immortale che mi placcò facilmente a terra, la faccia blandamente incuriosita.
“Che vuoi fare, ragazzina?” domandò con cinica ironia “Sei stanca di vivere?”
“Tu non gli farai del male!” strepitai rotolando su un fianco e aggrappandomi a una sua gamba.
“Se credi che io abbia paura di…” iniziò l’Immortale irritato, ma in quel momento Saverio lo attaccò e per difendersi l’Immortale si disinteressò di me: gli afferrai allora la gamba con entrambe le mani, un compatto fascio di muscoli e carne soda rivestito di jeans, e lo morsi con quanta forza avevo. Immediatamente, l’Immortale gridò di dolore, rabbia e sorpresa: con un ampia sciabolata scaraventò Saverio e la sua spada lontani mentre io mantenevo tenacemente la presa, sentendo la bocca riempirsi del sapore rivoltante del suo sangue. Lui si chinò allora verso di me, mi afferrò per la maglietta e con uno strattone mi tirò su di peso, lasciandomi a scalciare pateticamente nel vuoto quando persi la presa col terreno.
“Cosa credi di fare, stupida mortale?!”
La sua mano aveva mollato la maglietta per stringermi la gola come una morsa: il mio respiro, già difficoltoso, divenne affannoso e rantolante mentre miriadi di stelle luminose mi annebbiavano la vista.
“Lascialaaa!” si levò una voce furiosa, in rapido avvicinamento: con un tuffo al cuore, riconobbi Saverio un attimo prima di venire scaraventata lontano. Dopo un breve tragitto in aria (“Sto volando!” strillò una voce impazzita dentro di me) urtai con un fianco contro l’ara e rovinai dolorosamente a terra. Vidi intere costellazione imprimersi dietro le palpebre; eppure, mi sollevai immediatamente nonostante ogni fibra del mio corpo urlasse di dolore, giusto in tempo per vedere la pesante spada dell’Immortale prendere di striscio il braccio di Saverio incidendovi una profonda ferita.
“NOOO!” gridai piena di orrore e raccapriccio, mentre le labbra rosate della ferita si riempivano improvvisamente di sangue che iniziò a gocciolare per terra con allarmante rapidità.
L’Immortale si tirò indietro con un ringhio esultante e quel suono riuscì chissà come a farmi letteralmente infuriare: partii di nuovo alla carica, zoppicante ma determinata, strillando e allungando le mani ad artiglio come un’invasata… “Il ritorno dei morti viventi”, ironizzò la vocina folle nella mia testa e aveva quasi ragione perché sarei stata quasi ridicola, in qualsiasi altra occasione. Ma non in quella.
“Bastardo!” gridai arrivandogli addosso con tutto il mio peso: il mio intento era buttarlo a terra ma riuscii a malapena a farlo ondeggiare. Gli artigliai comunque il viso e con le scarse unghie di cui disponevo gli incisi dei solchi lungo le guance. L’Immortale strillò di nuovo, più di sorpresa e frustrazione che di dolore. Incrociai i suoi occhi chiarissimi che erano quasi lucidi di rabbia e capii che stavolta aveva davvero perso la pazienza.
“Ma tu allora vuoi morire!” berciò infatti arrabbiato afferrandomi di nuovo per il collo.
Mi strattonò sprofondando le dita nella gola che si chiuse subito soffocandosi nel sentore metallico del sangue: mi allontanò per tutta la lunghezza del suo braccio mentre io mi arrabattavo debolmente per artigliargli la mano che mi stringeva il collo. Quando lo vidi alzare la spada con chiari intenti omicidi, mi immobilizzai irrigidendomi tutta, incapace di nient’altro se non di spalancare gli occhi.
Mi avrebbe ucciso, non c’erano dubbi: l’avevo irritato abbastanza da attirare il suo interesse e quindi mi avrebbe infilzata rapidamente per poi buttarmi di lato e proseguire la sua lotta… “Niente più di una banale scocciatura, piccola mortale”, pensai con una risatina isterica ormai sull’orlo del delirio.
Stavolta non ci furono immagini al rallentatore e nemmeno pietosi strappi temporali per vedersi scorrere tutta la vita davanti agli occhi: ci fu solo il suo braccio, rapidissimo, che fletteva all’indietro, accompagnando la traiettoria della lama per prendere lo slancio verso il mio cranio.
“LENA, NO!” echeggiò la voce di Saverio, lontana e attutita come se provenisse da un’altra stanza.
Non vidi cosa stesse facendo: forse si stava affannando a correre verso di me, forse era inciampato o forse correva via, lontano da quella radura ormai così piena di sangue da sembrare un mattatoio. Tutta la mia attenzione era concentrata sull’Immortale che in quel momento rappresentava la mia morte: la mia morte in arrivo spedita come un treno merci, la mia morte violenta e impaziente, la mia morte con rapaci occhi azzurri.
“Chissà che ne sarà di Sabrina” pensò inerme una remota parte di me, con una punta di tristezza “Speriamo solo che non ci sia troppo da soffrire, per nessuna delle due…”
Le pupille della mia morte si dilatarono, ingigantendosi fino a coprire tutto il mio campo visivo: io chiusi gli occhi per non vedere quella ferocia dilagante.
“Avrei solo voluto dirti che ti amo, Saverio” terminò la vocina nella mia testa, allontanandosi rapidamente come una fiammella tremolante lungo le pareti di un pozzo senza fondo “Almeno una volta. E’ così triste morire a sedici anni senza aver mai detto ti amo a nessuno.”
La bocca mi si aprì, probabilmente per dire le mie ultime parole. Riaprii anche gli occhi perché di colpo mi sembrò importate non morire al buio, senza i colori della vita ad accompagnarmi lungo l’ultimo percorso.

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Capitolo 21
*** Caput XXum ***


Ubi maior minor cessat
 (proverbio)

Gli occhi dell’Immortale erano così vicini e così grandi che avrei potuto contargli le ciglia: il mio sguardo si concentrò sulle sue iridi chiare, azzurre e grigie come un cielo in procinto di rannuvolarsi… poi, venni distratta una lama brunita che entrò al rallentatore alla sinistra del mio campo visivo, un po’ più in basso della mascella dell’Immortale; questa penetrò senza sforzo nella gola dell’uomo che spalancò la bocca in una comica “O” di sorpresa, attraversò il collo e uscì dall’altra parte lorda di sangue, lasciando la testa mozzata a dondolare incerta sul collo per un attimo. Gli occhi grigioazzurri fecero in tempo a diventare vitrei di stupore e poi di consapevolezza prima che la testa rotolasse in avanti, inevitabilmente attirata dalla forza di gravità; ne intuii il morbido peso quando essa cadde a terra con l’orribile suono di un melone maturo. I miei occhi rimasero ancorati a mezz’aria dove prima c’erano i suoi, come una stazione sintonizzata su un segnale improvvisamente interrotto;  poi si abbassarono proprio mentre il moncone di collo, un groviglio di nervi, muscoli e vasi sanguigni, smetteva di essere una perfetta sezione circolare per sfumare in un bagno di sangue. Non riuscii nemmeno a pensare di gridare quando improvvisamente la mano dell’Immortale, che aveva sostenuto il mio peso per tutto il tempo, cedette di schianto e io con essa. Crollai a terra nello stesso momento in cui uno spettacolare spruzzo di sangue usciva dal collo mozzato dell’Immortale, descriveva un breve e improbabile arcobaleno rosso e mi inondava con una doccia tiepida e densa dal rivoltante odore metallico. Strillando di disgusto, rotolai via per sfuggire il più velocemente possibile a quell’orrore e mi trovai distesa supina. Oltre il corpo accartocciato e monco dell’Immortale, c’era Saverio: non potei fare a meno di guardarlo e guardandolo smisi di pensare, di sentire, di ascoltare, di provare qualsiasi cosa.
*             *             *
Saverio era in piedi a gambe divaricate e braccia larghe, chiaro e bello come un angelo caduto dal cielo. La spada era scivolata a terra e il suo viso, rivolto verso l’alto, era quasi impossibile da vedere tanto la sua intera figura era avvolta dalla luce. Una luce abbagliante che proveniva dal suo stesso interno, una luce che rese sfumati e indistinti i contorni del suo corpo e che accese i suoi occhi verdi di qualcosa di così grande che fu impossibile identificarne la portata. La sua bocca si aprì, forse per gridare e ne uscì altra luce; persino le punte delle sue dita emettevano luminosità e vibravano di energia.
Stavo assistendo a qualcosa di incredibile, pensai vagamente: forse nemmeno chi si buttava nel cratere di un vulcano attivo poteva provare la stessa sensazione di impotenza e di sublime grandezza che sentivo io in quel momento…
una serie di sensazioni impossibile da descrivere. Sapevo che qualcosa si era impossessato di Saverio: un’energia abbagliante di una purezza incommensurabile lo stava invadendo centimetro per centimetro, atomo per atomo, fino a fondersi completamente in lui per diventare lui stesso.
Saverio stava diventando un Immortale: abbagliata, piena di attonita meraviglia, stavo assistendo a qualcosa che fino a quel momento era esistito solo nelle mie fantasie più assurde e infantili, e vederle realizzate sotto i miei stessi occhi mi procurò l’ennesimo, fulminante shock di quella notte pazzesca.
Durò un attimo e fu un’eternità: la luce si spense improvvisamente lasciando le mie pupille annerite e deboli come se avessi guardato troppo il sole. Un assordante silenzio, così improvviso da sembrare palpabile, era sceso su di noi, atteso e benedetto, interrotto solo dal crepitare allegro delle torce e dai fruscii discreti della notte. Saverio rimase nella posizione dell’angelo ancora per qualche secondo prima di iniziare lentamente ad abbassare le braccia, con cautela, come se avesse paura di rompersi. Il suo sguardo abbandonò il cielo per tornare lentamente in basso, come un uccello dopo un lungo volo: le sue pupille spalancate si posarono su di me senza vedermi realmente, ancora piene e traboccanti delle immagini che la luce vi aveva riversato dentro. Le immagini di una vita intera, intuii nebulosamente; la vita dello sconosciuto Immortale che morendo aveva lasciato la sua Reminescenza a Saverio, il quale continuava a sbattere le ciglia, probabilmente stupefatto di avere improvvisamente nel suo bagaglio ricordi ed emozioni che non gli appartenevano. Dopo un lungo momento silenzioso, riprese a respirare, rendendosi conto solo in quel momento di aver trattenuto il fiato: respirò sempre più velocemente, ritornando contemporaneamente in sé, riagganciandosi alla vita e al tempo che scorrevano intorno. E finalmente mi vide, al di là del mondo che gli si era improvvisamente riversato dentro. Il suo sguardo era verde come al solito, ma era anche così diverso che il cuore mi si annodò di angoscia e di spine.
Ci guardammo, ansimanti e sporchi, reduci da un tempo che aveva avuto l’intensità di cento vite; quasi impercettibilmente, Saverio allungò una mano verso di me, col palmo alzato per dare e ricevere aiuto e non so come finii tra le sue braccia.
Affondai il viso nel suo petto, mi aggrappai alle sue spalle e chiusi gli occhi per poter finalmente piangere a dirotto come una bimba disperata… che poi era esattamente quello che ero: una bambina tormentata e spezzata, una sopravvissuta che non può far altro che contarsi le ferite. Abbracciai Saverio e piansi, ma più lo stringevo e piangevo e più mi sentivo lontana, nonostante le sue braccia forti mi togliessero il respiro e la sua voce rotta, nell’orecchio, fosse il suono più dolce mai sentito.
“Lena” mi chiamava rauco “Lena, Lena…”
Sollevai il viso verso il suo e sentii sulla guancia l’umidore febbricitante delle sue labbra; lo sentii sui capelli, sulla fronte, sulle ciglia e quando mi azzardai a guardare, vidi i suoi occhi verdi socchiusi e tormentati, le stanche palpebre arrossate, le labbra tremanti. Il suo viso aveva una fragilità così struggente da spezzare il cuore e io non potei fare a meno di baciarlo.
Mi aggrappai a lui e lui si aggrappò a me, cercandoci con un’urgenza rabbiosa, con una fame che non vedeva più niente oltre a se stessa. Lo baciai con la forza del sollievo e della disperazione, aspettando di sentire il mondo riprendere il suo posto, di sentire la fame placarsi, la tristezza allontanarsi.
“Saverio.” disse una voce all’improvviso spezzando il silenzio assoluto che era sceso intorno a noi.
Ci girammo entrambi nella direzione della voce, ricordandoci solo in quel momento che non eravamo soli: Paracelso.
Il vecchio era ancora vivo; l’avevamo quasi dimenticato, in quell’assurdo e surreale paesaggio di morte. Vivo, come la radice stessa del male, che non muore mai; vivo, anche se attonito e perso. Aveva per tutto il tempo lasciato che la sua rovina gli piombasse addosso come un sudario, ma era rimasto ritto in piedi, seppure così curvo da sembrare ripiegato su se stesso. Ora appariva più vecchio che mai, quasi fragile. Sapendo quanta disumanità e perfidia si annidavano dietro a quella innocua immagine, rabbrividii di disgusto e nascosi di nuovo il viso sul petto di Saverio.
“Saverio” ripeté Paracelso con una strana voce liquida “Vieni ad aiutare il Padre tuo.”
Lo disse con una voce pacata e convincente, ma persino io mi accorsi di quanta tremante paura ci fosse dietro a quelle poche parole. Saverio non provò nemmeno un fremito, nemmeno un singhiozzo uscì dalle sue labbra. Il suo sguardo limpido e fermo si fissò sul vecchio, quasi con sorpresa.
“No.” rispose alla fine, dopo averci pensato bene. 
Una sillaba così semplice e così educata… Una sillaba così definitiva e così pesante da cadere addosso al vecchio come un masso, facendolo barcollare.
“Figlio” rantolò la voce di Paracelso: la vecchiaia vibrava nelle sue parole insieme al panico “Figlio, tu…”
Saverio rizzò le spalle: il suo fu un movimento rapido, fluido e aggraziato, così tipico di lui che una feroce nostalgia mi azzannò il cuore mentre lui mi sollevava rimettendomi in posizione eretta senza apparente sforzo.
“Tu non sei mio padre” disse la voce di Saverio, oscenamente tranquilla e monocorde “Non lo sei mai stato.”
Per un attimo sentii il suo corpo tremare, attraversato da una potente vibrazione di rabbia: i suoi occhi scintillarono di furore, scivolando sui corpi riversi e senza vita di Tobia e di Ruggero. Nebulosamente, immaginai quanta rabbia e quanto dolore dovessero annidarsi nel suo cuore in quel momento… secoli di rabbia, universi di dolore. Pensai che al suo posto niente mi avrebbe trattenuto dal correre a uccidere il vecchio pazzo origine e causa di tutto con le mie stesse mani, seduta stante.
“Vorrei ucciderti” mormorò in quel momento Saverio, dando voce ai miei stessi pensieri “Vorrei avere la certezza che il tuo maledetto cuore non possa più battere e che la tua presenza smetta di appestare il mondo. Lo vorrei… con tutto me stesso.”
Nonostante fosse a parecchi metri di distanza, e nonostante il mio stato di confusione generale, vidi chiaramente la paura squassare il corpo fragile di Paracelso. Eppure, alla fine, la superbia ancora lo sosteneva nonostante fosse evidente che il potere lo stava abbandonando, fluendo lontano da lui come liquido e lasciandolo sempre più debole e indifeso.
“Non puoi uccidermi” disse senza convincere nemmeno se stesso “Non puoi!”
Lo sguardo furibondo di Saverio si distolse dal vecchio, come se non potesse sopportare oltre il disgusto di guardarlo.
“Questo fazzoletto di terra è così pieno di sangue” mormorò come soprappensiero, il tono di voce che dal rabbioso si stemperava nell’esausto “Troppo sangue.”
D’improvviso, le sue spalle si curvarono, schiantate da un peso insostenibile: una mano salì a massaggiare stancamente gli occhi, quegli stessi occhi che avevano visto troppo e che forse non avevano voglia di guardare altro.
Non potevo sopportare di vederlo così, stanco della vita da rimanerne quasi spezzato: lo abbracciai di nuovo anche se a malapena mi reggevo in piedi, anche se non sapevo nemmeno cosa pensare, anche se ero incredula di essere ancora viva e incapace di accettare l’orrore che avevo vissuto. Ci abbracciammo forte e la tristezza più grande fu rendersi conto che il vuoto tra di noi era talmente vasto che nessun abbraccio avrebbe potuto colmarlo. Saverio mi stringeva disperatamente e sentii qualcosa di tiepido bagnarmi il collo, dove aveva affondato il suo viso. Piangeva. Piansi anche io, chiedendomi quante lacrime ci sarebbero state e se sarebbero mai finite.
“Non voglio ucciderlo” sospirò la voce di Saverio contro il mio collo “Non voglio uccidere più nessuno.”
Mi spaventai, anche se sentivo le stesse cose che sentiva Saverio: rabbia, odio, sete di vendetta… ma sapevo anche che lasciare che queste sensazioni diventassero più forti di noi avrebbe annientato quel residuo di umanità che ci era rimasto.
“Allora non lo fare” risposi io sorprendendomi di quanto la mia voce fosse cambiata, profonda e rauca come quella di una vecchia centenaria “Non sei obbligato a fare niente.”
In lontananza, sentivo Paracelso dire qualcosa con voce querula; subito sembrò arrabbiato, poi spaventato, poi supplichevole… lo ignorammo e questa fu probabilmente la cosa migliore che potessimo fare per ferire il vecchio.
“Non posso la sciare che un tale abominio viva.” continuò Saverio come se dovesse convincere me e anche se stesso.
Io lanciai di sfuggita un’occhiata a Paracelso: era così fragile che nemmeno riusciva ad avvicinarsi a noi… o forse non lo faceva perché aveva troppa paura di questo nuovo e disobbediente Saverio? Mi sforzai di guardare oltre la sua faccia raccapricciante e fiera e pensai a quanto sarebbe stata dura per lui accettare il fatto di essere solo, ignorato, impotente… un vecchio e fragile mortale che ha perso la benedizione della morte, la fine di un disco interrotta in eterno sull’ultima, dolente nota. In tutta sincerità, non mi veniva in mente sorte peggiore di quella in assoluto.
“Saverio, guardalo” lo esortai seccamente “Quell’orrore che una volta era un uomo non è più niente e non ha più niente… e, beffa delle beffe, si è tolto con le sue mani l’unica possibilità di uscita da tutto ciò, e cioè morire. Se fosse un animale, lo abbatteresti per pietà.”
Saverio fissava Paracelso che ascoltava le nostre parole e non osava dire niente, gli occhi lattiginosi e insondabili ancorati su di noi: più che spaventosi in quel momento mi sembravano patetici. Aveva anche perso il suo bastone e senza un appoggio sembrava ancora più insicuro e frangibile.
“Se avessi un briciolo di cuore, lo ucciderei.” rispose infine Saverio senza nessuna umanità nella voce… ma non mosse un muscolo.
Passò un tempo infinito, con Paracelso che aspettava di sapere se sarebbe morto o no e Saverio che aveva già preso la sua decisione. Non avrebbe ucciso Paracelso, compresi con dolorosa stanchezza: forse, però, lasciarlo in vita avrebbe comportato un bagaglio di rimorsi ancora più pesante che se l’avesse ucciso.
“Pensa bene a quello che stai facendo” gli dissi incerta “Non renderti le cose ancora più difficili… dopotutto, ora il tormento è finito.”
Saverio staccò il viso dal mio collo e mi guardò, come cercando conferma delle mie parole nello sguardo.
“Finito?” mormorò scettico; non ebbi il coraggio di ripetere una bugia così grossa, così lo fissai e basta.
No, non era finito: anzi, probabilmente il tormento vero era appena cominciato. Mi resi conto con dolorosa tristezza che ora Saverio era diventato un Immortale a tutti gli effetti e per quanto ne sapevo era già una vittima o un assassino, se non entrambe le cose. I suoi occhi erano sempre verdi e tormentati, ma c’era qualcosa di diverso in essi: come quelli dell’Immortale, avevano assunto una particolare fissità vagamente selvatica e rapace, come quelli di un predatore. Era così strano vederlo tanto cambiato: era come guardare un estraneo nascosto dietro la maschera del suo viso. Gli posai le mani sulle guance nel patetico tentativo di trattenere il ricordo di lui com’era prima, con la sua fragilità e la sua involontaria dolcezza… ma dopo qualche secondo, Saverio si scostò da me, gentilmente ma con fermezza.
“Andiamo.” disse senza guardarmi.
*             *             *
Saverio mi girò le spalle: con passo stanco ma fermo arrivò fino all’ara su cui era ancora steso il corpo accasciato di Sabrina e se lo caricò senza sforzo sulle spalle.
“Che cosa stai facendo?” strepitò la vocetta improvvisamente acuta di Paracelso “Dove… dove stai andando, figlio mio?”
Saverio lo ignorò: tornò verso di me per accertarsi che riuscissi a camminare da sola.
“Figlio?!” continuò a strepitare Paracelso querulo e spaventato “Che fai, fi…”
“IO NON SONO TUO FIGLIO!” tuonò Saverio girandosi di scatto, urlando così forte che uno stormo di uccelli notturni si alzò in volo offeso dal suono improvviso.
Persino Paracelso rabbrividì dalla forza d’urto e indietreggiò di un passo sulle gambe malferme.
“Non hai più nessun potere su di me!” continuò Saverio cercando di controllare la voce senza riuscirci molto bene “Sono un Immortale, adesso. Non ho più legami, non ho più fratelli, niente che mi trattenga qui. Potrei ucciderti… dovrei farlo…” Le sue mani tremarono, probabilmente dallo sforzo di trattenersi. “Ma tu, povero vecchio, non meriti un simile sollievo.”
Nemmeno si avvicinò a Paracelso mentre gli parlava, come se provasse ribrezzo anche solo al pensiero di respirare la sua stessa aria: sempre con Sabrina caricata sulle spalle, inerte come un fagotto, Saverio prese una delle torce che delimitavano il cerchio di luce e la alzò con intenzione nella direzione di Paracelso.
“Per Tobia e per Ruggero, tu vivrai” continuò con autentico odio nella voce “Vivrai solo e inutile, aspettando che arrivi qualcuno a porre fine alla tua solitaria esistenza.”
Paracelso sembrò intuire la verità dietro le parole di Saverio e il suo viso giallastro diventò terreo.
“Fi… Saverio, non parlerai sul serio… non farai davvero…”
“Arriverai a sperare che arrivi qualcuno a ucciderti” continuò Saverio, implacabile “Rinchiuso qui, in questa prigione che hai creato con le tue mani. E forse alla fine il tuo desiderio si esaudirà… fra tanto, tanto tempo. Quel tempo che tu hai avuto il coraggio di sfidare, cercando di controllarlo e credendo di essere più forte. Illuso!”
Con rabbia, buttò a terra la torcia che sparse intorno a sé qualche brace dorata prima di infiammare i secchi ciuffi d’erba che filtravano dalla terra asciutta. Paracelso guardò le fiamme con occhi spalancati, oscenamente indifesi e rabbiosi.
“Cosa…” balbettò, incapace di raccapezzarsi, ma poi tacque, inerme.
L’erba bruciava allegramente, allargandosi verso l’ara: trovò sulla sua strada un lembo dei pantaloni dell’Immortale e laboriosamente cominciò a lavorarselo finché non si alimentò abbastanza da trasformarsi in una fiammella vivace. Quel pantalone bruciacchiato sancì la sentenza definitiva: Saverio se ne sarebbe andato e Paracelso sarebbe rimasto da solo con i suoi morti e la sua inutile, indifesa Immortalità.
“Saverio, non puoi davvero lasciarmi qui” gorgogliò Paracelso con voce ragionevole “Non sai quello che…”
“Lena, andiamo.” tagliò corto Saverio prendendomi la mano, come se Paracelso nemmeno stesse parlando. Ci avviammo verso il bosco, lui deciso, io esitante; per un attimo, osai girarmi a guardare verso il pantalone dell’Immortale che bruciava con sempre maggiore decisione, e verso Paracelso, così debole da non potersi nemmeno muovere; poi, distolsi lo sguardo e seguii Saverio senza voltarmi indietro.
“Saverio!” strillò Paracelso con voce grondante di panico “Torna QUI! Tu non puoi lasciarmi in mezzo al fuoco!”
Saverio finse di non sentirlo; la piega della sua mascella era così dura che sembrava scolpita nella pietra, notai prima di entrare nel buio del bosco dove l’aria umida e tiepida mi avvolse come un dolce balsamo lenitivo.
“SAVERIO!” gridò Paracelso, ma ormai eravamo fuori dal cerchio di luce e nemmeno ci girammo a guardarci alle spalle.
“SAVERIO, IO SONO TUO PADRE!” strepitò ancora il vecchio con un ultimo sprazzo di quella sua terribile voce, ma oramai eravamo lontani e la sua voce si perse nella penombra… era come ascoltare un uragano da lontano, protetta da una stanza ben chiusa dove non c’erano motivi per avere paura.
*             *             *
Continuammo a camminare spediti e la voce querula di Paracelso ci seguì per un po’ prima di perdersi nei fruscii della notte. Ci stavamo allontanando e ogni passo che facevamo mi sentivo più leggera, anche se sapevo bene che sperare di uscire con l’anima indenne da quella notte sarebbe stato impossibile. Zoppicando entrambi, muti e senza nemmeno guardarci, raggiungemmo in breve tempo il confine della proprietà dei Lazzari: con un po’ di pazienza riuscimmo a svegliare Sabrina sufficientemente per aiutarla a scivolare sotto il cancelletto arrugginito; per tutto il tempo lei si lamentò farfugliando incomprensibili litanie che riuscirono chissà come a strapparmi un sorriso. Proseguendo, passammo davanti alla fonte senza fermarci: non osai nemmeno lanciarle un’occhiata per paura di scatenare chissà quale ingestibile sequenza di ricordi. Quando arrivammo in procinto della strada di ghiaia che portava a Cresta del Gallo eravamo esausti: mi sembrò di avere un’allucinazione quando vidi sbucare dal buio delle figure animate che si avvicinavano a noi fluttuando rapidamente.
“Milena!” strepitò una voce “Sabrina!”
Qualcosa di morbido e solido mi afferrò e mi avvolse protettivo: ci misi qualche attonito secondo prima di capire che era mio padre. Prima ancora che me ne rendessi conto, la mia famiglia ci aveva circondato: mamma e Rossella avevano quasi assalito Saverio che sosteneva Sabrina evidentemente svenuta.
“Papà…” gracidai attonita mentre lui, col viso così stravolto sembrare terreo anche al buio, mi scrutava da capo a piedi con l’orrore che gli dilagava nelle pupille. Mi resi conto che probabilmente sembravo una grottesca maschera di Halloween: ero coperta di sangue da capo a piedi, avevo le unghie scorticate, ferite e contusioni varie e il fianco contro cui avevo urtato l’altare pulsava di un dolore sordo che prevedevo sarebbe durato chissà quanto tempo.
“Sei ferita?” domandò papà con voce tremante e io feci cenno di no con la testa, debolmente.
“Non è sangue mio.” risposi atona mentre ascoltavo la voce di mia madre che chiamava Sabrina.
“Sta bene” diceva Saverio con voce calma reggendo sia il peso di Sabrina che quello di mamma che gli era praticamente volata addosso “E’ solo svenuta, ma non ha nemmeno un graffio…”
Papà fini di palpeggiarmi le braccia e tirò un sospiro di sollievo: il suo posto venne preso da Rossella che ripeté il rituale di accertamento con la faccia ancora più pallida di quella di papà e gli occhi così grandi che sembravano cascarle giù dalla faccia. Ero talmente sotto shock che la lasciai fare passivamente: solo quando mi abbracciò con forza, iniziando a singhiozzarmi sulla spalla sentii finalmente qualcosa smuoversi al mio interno.
“Oh, Lena!” piangeva Rossella col sollievo che le vibrava nella voce “Sei viva!”
Con una punta di surreale ilarità, mi ritrovai a essere io a consolarla con mormorii sconnessi, abbracciandola e sentendo il calore nel mio petto farsi sempre più vivido.
“Coraggio, Ross” le mormorai con voce rotta “E’ tutto ok, stiamo bene…”
“Cosa è successo?” disse la voce di papà, minacciosa e probabilmente se Saverio non avesse avuto Sabrina in braccio lo avrebbe ucciso su due piedi “C’è del fumo che si sta alzando dalla villa!”
Incrociai per un attimo lo sguardo di Saverio, stranamente triste. Eravamo vicinissimi, ma lo stesso mi sembrava che si stesse allontanando di un anno luce ogni secondo che passava… poi, il mio campo visivo fu invaso dal viso di mia madre, pallido e duro, sconvolto e indomito, così caro che sentii quasi spezzarsi il cuore dal sollievo.
“Mamma…” invocai con la voce già liquida di lacrime e di colpo le sue braccia mi avvolsero, rassicuranti e tiepide, inondandomi del noto profumo di sicurezza che le sue braccia avevano sempre avuto anche quando da piccola correvo da lei dopo essermi sbucciata le ginocchia.
“Mamma…” mormorai di nuovo chiudendo finalmente gli occhi.
Mi abbandonai con sollevo alle sue braccia e subito caddi in un mondo ovattato e indolore dove tutto era soffice e indistinto. Era così bello non provare più niente: angoscia, dolore, paura… lì, tra le braccia della mia mamma, c’era solo sollievo.
Ero finalmente tornata a casa.  

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Capitolo 22
*** Caput XXIum ***


Omnia vincit amor
 (detto popolare)

Mi svegliai, o meglio, tornai in me, dopo quello che poteva essere un tempo infinito.
Ero nella mia camera, dentro il mio letto, avvolta nelle fresche lenzuola che odoravano di sapone e di casa: un silenzio pigro avvolgeva tutto, anche la mia solita sveglia che qualcuno aveva opportunamente privato della pila e che ora giaceva inutile sul comodino. Dalla finestra entrava una luce livida tipica del mattino presto o della sera tardi: contro di essa si stagliava una figura in penombra, in piedi che guardava fuori. Quando mi mossi facendo frusciare le lenzuola, la figura si voltò e io lo riconobbi. Era Saverio.
Indossava un paio di pantaloni e una camicia di mio padre che gli stavano squisitamente larghi, ma come al solito, addosso a lui, sembravano disegnati su misura per far risaltare la sua incredibile bellezza. I suoi capelli scuri, ancora umidi come se fosse uscito da poco dalla doccia, erano tirati indietro e scoprivano il viso liscio e pulito.
“Ciao relitto.” mi salutò con quella sua voce morbida e bellissima “Come stai?”
Come stavo? Mi sembrava di avere lo ossa di vetro e il sangue di ghiaccio artico.
“Una favola” gracidai in risposta “E tu?”
Saverio non rispose, ma in compenso girò il viso verso la finestra, indicando con il mento la torretta di Villa Lazzari che si stagliava cupa contro il cielo livido.
“E così, eri tu che mi spiavi” domandò inarcando un sopracciglio “Mi sono sempre chiesto perché mi sentissi osservato, quando mi mettevo alla finestra…”
“La camera sulla torretta era la tua?” chiesi, ma senza sorpresa: col senno di poi, tutte le cose sembravano andare a posto da sole, seguendo un disegno già stabilito.
“Sì” rispose anche se non ce n’era più bisogno “E a dire il vero anche io spiavo questa finestra, chiedendomi se c’eri tu o tua nonna che mi lanciava anatemi.”
Mi sorrise: benché stanco e triste era così radiosamente bello che di riflesso sorrisi anche io, anche se sapevamo benissimo entrambi che non c’era proprio niente di cui sorridere. La sua mano per un attimo si sollevò, ma poi ricadde inerme dentro la tasca. Non potei fare a meno di accorgermi che, sotto alla manica arrotolata della camicia di mio padre, la ferita che gli aveva inferto l’Immortale e cheavevo visto pericolosamente profonda si era già del tutto rimarginata. Notare quel particolare praticamente insignificante confronto a tutto il resto mi procurò l’ennesimo colpo al cuore, la prova tangibile che quello che era successo era vero e reale. Con un sospiro, esausta, sprofondai nel cuscino e rimasi a rimirare la luce delicata che filtrava dalla finestra; quella pace improvvisa sembrava un frastuono assordante dopo tutto l’orrore che ci eravamo lasciati alle spalle… Aspirando distrattamente l’odore rassicurante di casa, mi sforzai di mettere ordine dentro di me per capire cosa stavo aspettando che succedesse: alla fine, mi girai verso Saverio che era rimasto perfettamente immobile.
“Che giorno è?” gracidai con voce roca e tremolante.
“Non lo so” mi rispose sinceramente Saverio con un piccolo sorriso storto “Per usare un drammatico eufemismo, posso dirti che è il giorno dopo. Comunque, è mattino presto e tu hai dormito un giorno intero. Più qualche ora d’avanzo.”
Mi sollevai a sedere con precauzione e Saverio si avvicinò al letto, quasi a malincuore.
“Sabrina?” domandai facendo mente locale e cercando di dare un ordine alla marea di domande che mi affollavano la mente.
“Sabrina starà bene” mi rassicurò lui con voce pacata “Dormirà per molte ore e quando si sveglierà sarà intontita e confusa.”
“Niente di diverso dal solito, allora.” risposi io, deglutendo a fatica.
Lui sorrise di nuovo mestamente con quel suo sorriso triste che spezzava il cuore.
“Per un po’ di giorni faticherà a connettere con lucidità ma poi tornerà come prima” continuò Saverio per spezzare il silenzio “Se è fortunata non ricorderà nulla.”
“Bene” risposi sottovoce “Buon per lei.”
Quanto avrei voluto poter dire la stessa cosa di me.
“Cosa ci facciamo qui?” chiesi lentamente: in realtà volevo chiedergli come fosse possibile che eravamo lì e non in prigione o all’inferno… Saverio, con un sospiro, si sedette sul letto di fronte a me, abbastanza vicino perché potessi percepirne l’odore, quel profumo stordente che già mi procurava nostalgia benché potessi ancora aspirarlo.
“E’ una storia lunga” mi avvisò seriamente “Hai tempo?”
Gli feci una smorfia buffa che lui ricambiò: di nuovo la nostalgia del presente mi trafisse il cuore come una sciabolata.
“Vai, Cicerone.” lo incalzai con voce tremante e lui tornò serio.
“Innanzi tutto, lasciati dire che i tuoi genitori sono persone meravigliose” cominciò con evidente sincerità “Hanno accettato di ascoltarmi prima di chiamare la polizia, e con Sabrina e te in quelle condizioni deve essere stato uno sforzo enorme per loro. Ancora mi chiedo come mai non mi abbiano ucciso su due piedi: forse erano travolti dal sollievo o storditi dalla situazione…”
“Forse li hai ammaliati col tuo fascino da Immortale nuovo di zecca.” mi sforzai di scherzare, ma lui non sorrise.
“Ho raccontato ai tuoi genitori una versione riveduta e corretta delle cose” continuò “Non sono potuto andare in dettaglio, per il loro stesso bene, ma sono stati molto comprensivi. Dopo, insieme, abbiamo chiamato i pompieri: nella Villa non c’erano domestici perchè erano stati tutti allontanati per il fiat vitae, ma era scoppiato un incendio piuttosto serio e ci è sembrato più prudente così.”
“Un incendio?” domandai con un tuffo al cuore.
Saverio annuì con la faccia inespressiva.
“Il giardino della Villa è stato raso al suolo” disse con voce atona “Hanno trovato dei cadaveri: il medico legale ha identificato le vittime come Ruggero, Tobia e Saverio Lazzari.”
Un nuovo tuffo al cuore, più doloroso stavolta.
“Oh” commentai a bocca asciutta “E io con chi ho il piacere di parlare in questo momento?”
Saverio non sorrise: mi guardò serio con quelle pietre verdi che aveva per occhi e io pensai con struggente nostalgia che non avrei mai visto niente di più bello, in vita mia.
“Lena, è meglio che questo tu non lo sappia.” rispose lentamente.
“Certo” glissai con finta sicurezza “Come vuoi. Ma tu da chi l’hai saputo il tuo nuovo nome?”
Lui mi lanciò un nuovo sguardo serio, incerto se dirmi o no la verità.
“L’Osservatore” rispose alla fine quasi a malincuore “A quanto pare, non ho ereditato solo un nome e una memoria dall’Immortale che ho ucciso.”
Ma certo, avrei dovuto immaginarlo: ora Saverio era un Immortale a tutti gli effetti… Osservatore, Gioco e Buzz compresi. Questa consapevolezza ne portò immediatamente un’altra, ancora più dolorosa.
“Allora, stai già… ehm… emettendo un richiamo? Il Buzz?” domandai incerta.
Saverio annuì con tranquilla calma. Io deglutii mentre il male cominciava a diffondersi dal cuore a tutto il resto del corpo.
“E’ pericoloso per te rimanere qui” dissi controvoglia con un filo di voce “Potrebbero trovarti.”
Di nuovo Saverio annuì gravemente e io sentii le lacrime pungermi gli occhi ferocemente.
“Sei sicuro di questo?” buttai lì rabbiosamente passandomi in fretta la mano sulle ciglia “Io non sento niente mentre il Buzz dell’Immortale l’ho sentito!”
Saverio fece un sorrisetto mesto e gli occhi, per un attimo, scintillarono.
“Ho chiesto al mio Osservatore spiegazioni su questa cosa” mi avvisò pazientemente “Che tu abbia sentito il Buzz dell’Immortale è davvero strano. Ma lui mi ha detto che può succedere se ci sono in gioco forti pressioni emotive.”
“Pressioni emotive?” domandai senza capire.
Lo sguardo che mi lanciò, dolente e pacato insieme, mi ferì come una scudisciata.
Omnia vincit amor” rispose Saverio con saggia consapevolezza “L’amore vince tutto. Non si dice così?”
Non risposi. Omnia vincit amor… che pietosa mezza verità.
L’amore non vince tutto: l’amore fa quello che può. A volte sorprende rendendo possibile l’impossibile… e a volte si rassegna, come stavamo facendo noi in quel momento.
Saverio abbassò gli occhi e sospirò: con amara chiarezza, intuii che stava raccogliendo le forze per dirmi qualcosa di doloroso, qualcosa che non voleva dirmi per non farmi male ma che era necessario… era tutto così palesemente scritto sul suo viso che in realtà avevo già capito.
“Milena…” disse alla fine, ma io lo interruppi, posando una mano sulla sua guancia.
“Non c’è bisogno” mormorai con la voce che era poco più che un sussurro “Le cose sono successe in fretta, ma le ho vissute sulla mia pelle e so già cosa vuoi dirmi. Io sono una comunissima ragazza e tu sei un Immortale. Buzz, Reminescenza, Gioco e tutto il resto… sono ferrata sull’argomento, ricordi?”
Sorrise con tristezza e annuì senza parlare.
“So che devi andare” continuai facendo violenza a me stessa “Non c’è bisogno che tu mi dica addio.”
In realtà, non volevo sentire quella parola detta con la sua voce: era già abbastanza straziante sapere di non poter fare nulla per impedire alle cose di essere com’erano, e cioè del tutto sbagliate per noi.
Che strano parlare di noi…In realtà, non ci sarebbe mai stato un noi. Chissà perché ci avevo sperato. Ero davvero una piccola e ingenua mortale.
“Lo sapevo dal primo momento che ti ho vista.” disse Saverio distogliendomi dai miei pensieri.
“Sapevi cosa?” domandai incerta.
Lui sembrò valutare l’idea di non rispondermi.
“Che eri un guaio” mi disse infine con struggente dolcezza “Un maledettissimo guaio che odorava di buono.”
Lo sguardo mi si appannò così repentinamente che dovetti sbattere le ciglia più volte prima di poter rimettere a fuoco il suo viso.
“Già” gracchiai con voce debole “Me lo avevi già detto.”
Saverio abbassò gli occhi, posando la fronte contro la mia: era deliziosamente fresca e asciutta, quasi lenitiva.
“Grazie di essere stata un guaio.” mormorò.
Non volevo che mi ringraziasse: le sue parole avevano il sapore di un addio, e io non ero pronta, non potevo ancora lasciarlo andare… io volevo solo guardarlo negli occhi e imprimermi nella memoria l’espressione del suo viso, volevo solo respirare il suo respiro e ricordare quanto potesse essere buono il suo profumo. Lui con un sospiro posò la mano sulla mia e girò appena il viso per catturare il mio pollice tra le sue labbra come aveva fatto una volta, un milione di anni fa. Gli occhi mi si riempirono immediatamente di lacrime; non pensavo che il cuore potesse sanguinare ancora così, dopo tutto quello che aveva passato, e invece sanguinava e faceva così male che avrei voluto strapparmelo via.
“Non sai cosa darei per poter restare.” mormorò la sua voce contro il palmo della mia mano.
E io sto così male che vorrei morire, pensai io, ma a che pro dirlo? Per fargli ancora più male?
Feci scivolare la mano lungo la sua guancia, seguii la curva del collo e arrivai a posare il palmo aperto sul suo petto.
“Portami con te” risposi invece “Qui.”
Il suo cuore batteva così forte… batteva per me. Con un sospiro strozzato, Saverio mi prese tra le braccia e strinse forte come se volesse passarmi la sua anima con quel contatto di pelle. Eppure, anche se non eravamo mai stati così vicini fisicamente, lo sentivo lontano come se fosse già a una distanza siderale, irraggiungibile.
“Sai che non posso dirti che ti amo, Lena” sussurrò così piano che forse non era lui, ma il vento “Non potrò mai dirti che mi mancherai ad ogni respiro…”
Ma mi amava e gli sarei mancata a ogni respiro, a ogni battito di ciglia: glielo leggevo nella vocelo sentivo sotto la pelle. Questo però non cambiava le cose, riusciva solo a farmi soffrire così tanto che avrei preferito morire.
Poi, prima che potessi fare qualsiasi altra cosa, Saverio si era già scostato.
Si alzò in piedi con uno di quei suoi fluidi movimenti aggraziati e le sue mani si ficcarono di nuovo al sicuro nelle tasche. Mi guardò a lungo, facendomi sentire il calore di quelle pietre verdi e limpide dei suoi occhi posati su di me per un’ultima volta.
“Abbi cura di te, mocciosa.” disse con voce seria.
“Anche tu, Saverio.” risposi troppo esausta persino per sperare.
Lui sorrise e poi mi girò le spalle: con due passi elastici era già alla porta, la aprì e la chiuse discretamente dietro di sé, senza far rumore. Saverio uscì dalla mia vita così, in punta di piedi, lasciandomi con un dolore così grande e pacato che sembrò ingrigire tutto il mondo, come un velo di nebbia triste e fredda.
Mi mancava l’aria: gemendo, scesi dal letto e mi avvicinai claudicante alla finestra spalancandola di getto per vederlo un’ultima volta… per vederlo andare via, portando con sé quel poco di cuore che mi era rimasto.
*             *             *
Quanto dura la felicità? Per la maggior parte della gente quantificare i giorni felici diventa possibile solo nel momento in cui questi finiscono o si perdono perché quasi mai ci si accorge della felicità quando la si ha in mano. E’ difficile che uno di noi pensi, coscientemente e sinceramente “Ecco, adesso sono felice”. E’ più facile guardarsi indietro, scavare nei ricordi e dirsi “Ecco, in quel momento ero felice”. Ma la felicità, così effimera, così sfuggente, quanto dura nella vita? Un secondo? Qualche giorno? Una vita? O dipende da quanto una persona si aspetta, se si accontenta o se pretende, dalla fortuna e dalla sfortuna, dalle scelte fatte o dalle scelte non fatte?
Forse la risposta è una sola: la felicità non dura. Per quanto ci si aggrappi, per quanto si ponderino le scelte e ci si metta al riparo dal tornado del destino, prima o poi se ne va.
A questo punto diventa inutile rimpiangere, analizzare, imprecare, sottomettersi.
Quando arriva la felicità, non c’è niente che la possa trattenere. Solo, forse, una cosa: il ricordo. E’ per questo che occorre vivere intensamente ogni singolo giorno della vita: per essere certi di fare il pieno di ricordi da rispolverare nel momento del bisogno.
Io sapevo, con il cuore che urlava e sanguinava, che ricordi di me e Saverio ne avevo troppo pochi, che non era giusto, che il tempo era stato troppo avaro con noi…
Ma la domanda principale rimane: quanto dura la felicità?
*             *             *
Ci pensai mentre rimanevo immobile contro la livida alba in arrivo, con le mani appoggiate sul davanzale e l’aria del mattino che mi agitava la camicia da notte mentre guardavo Saverio allontanarsi lungo il viale di ghiaia.
La sua testa ciondolava, il suo passo era stanco ma inesorabile e le sue mani erano ficcate negligentemente nelle tasche. Non si girò mai indietro a guardarmi.
*             *             *
Ora credo di sapere quale fu l’esatto minuto secondo in cui la felicità arrivò, sotto un temporale estivo, e l’esatto minuto secondo in cui se ne andò via, con il profumo di un’alba estiva, i colori tenui di una camicia svolazzante nell’incerta luce mattutina e il ritmo di una camminata stanca e sbilenca. 
E’ durata molto? Chissà.
Da quando se n’è andata, il tempo in cui è rimasta mi sembra sempre troppo poco.
 
 
FINE

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Capitolo 23
*** Indice ***


AB AETERNO   

   

1) Niente di nuovo sotto il sole
2) Chi trova un amico trova un tesoro
3) Cosa c’è di più dolce, che avere qualcuno con cui parlare, così come con se stessi?
4) Niente vi è più nemico di se stessi
5) Propendiamo sempre per ciò che è vietato e desideriamo ciò che ci è negato.
6) E che cosa amerò se non l'enigma delle cose?
7) Ricordati di osare sempre
8) La verità è figlia del tempo
9) Una nobile coppia di fratelli
10) Qui ci sono i leoni
11) Niente è difficile per chi ama
12) Scelta una via non si torna indietro
13) Ha vissuto bene chi ha saputo stare ben nascosto
14) Di sua spontanea volontà
15) Improvvisamente
16) Tempi cattivi attraversiamo
17) Non è facile volare senza ali
18) Nello stesso luogo, sia vita
19) La morte scioglie tutto
20) Di fronte al più forte il debole si fa da parte
21) L’amore vince tutto

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