Sangue, acciaio e magia: cronache di Cyrodiil.

di Widelf
(/viewuser.php?uid=140517)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo. ***
Capitolo 2: *** Casemir, il Guerriero Scelto. ***
Capitolo 3: *** Il Priorato di Weynon. ***
Capitolo 4: *** Kvatch. ***
Capitolo 5: *** Oblivion. (Parte I) ***
Capitolo 6: *** Oblivion. (Parte II) ***
Capitolo 7: *** Il Custode del Sigillo. ***



Capitolo 1
*** Prologo. ***


Sono passati molti anni dal giorno in cui vidi l’avatar di Akatosh abbattere Mehrunes Dagon, nella città imperiale. La mia mente non è più forte come una volta…dopotutto, 103 inverni peserebbero sulle spalle di chiunque, persino di un vampiro. E temo che il giorno in cui la Madre Notte mi accoglierà tra le sue braccia non sia poi così lontano…ma non rimpiango nulla della mia vita.
Le mie avventure, in compagnia di Casamer, il guerriero prescelto da Uriel Septim, farebbero impallidire qualsiasi baldo giovine che si spaccia per avventuriero…e sì, ce ne sono molti in questi tempi. Volgari, presuntuosi e senza nemmeno un briciolo di talento magico…non sanno nemmeno come si impugna una spada, e nella loro vita hanno ucciso solamente volgari granchi del fango e ratti. Puah, questa gioventù mi ripugna. Molti di loro sarebbero capaci di fuggire davanti a un semplice non-morto, figuriamoci se si trovassero davanti un Lich. Ma ora basta parlare del presente.
 Sono Varg Varaansson, figlio di Varaan Petersson, fiero discendente di un’antica famiglia che ha le sue radici in Skyrim, la provincia settentrionale dell’Impero Tamrielico. La mia famiglia si trasferì a Bruma, nella regione di Cyrodiil, quando non ero che un piccolo bambino dai lunghi capelli biondi. Non conosco i motivi per i quali la mia famiglia si trasferì in quella piccola città: probabilmente per il clima, molto rigido e quindi vicino a quello di Skyrim…d’altronde, noi Nordici abbiamo sempre avuto un’innata resistenza al gelo, persino a quello magico, che non nego mi fu molto utile nelle mie avventure. Mia madre mi diede alla luce mentre il sole si trovava nella costellazione dell’Apprendista, e le stelle mi benedissero con una grande propensione verso le arti magiche, ma anche con una terribile debolezza verso gli incantesimi che mi venivano scagliati contro. Non ricordo molto della mia infanzia, se non la neve che scendeva copiosa e copriva tutti i tetti delle piccole abitazioni, e i versi della “Canzone di Hrormir” che mia madre, Karoline, mi leggeva ogni sera prima di darmi la buonanotte.
Al mio ottavo compleanno, mio padre Varaan mi portò sul grande monte che sormontava Bruma, mostrandomi le mura di un grande ed austero edificio. “Guarda, Varg” – disse – “quello è il Tempio Del Signore Delle Nubi. Molti credono che sia una costruzione in disuso da tempo, ma ti confido un segreto: quell’edificio ospita alcuni tra i più grandi guerrieri di tutta Tamriel!”. “Davvero papà?” chiesi io. “Ma certo, Varg” – mi rispose lui, mentre gli angoli della sua bocca dipingevano sul suo volto un sorriso divertito – “essi fanno parte di uno degli ordini più antichi e più importanti di Tamriel: le Lame! Sono guerrieri sceltissimi che hanno il compito di proteggere l’imperatore a costo della loro stessa vita. E non sono scelti solamente per la loro abilità di combattimento, sai? Sono anche estremamente leali e fedeli alla causa: nessuno può corromperli, nemmeno con un’incantesimo di Malia!”. Io fui estremamente affascinato dal racconto di mio padre, e fissai l’enorme portone che chiudeva l’ingresso del Tempio. “Devono essere davvero uomini straordinari, questi Spadaccini” pensai tra me e me. Poi, con l’ingenuità tipica di un bambino di quell’età, chiesi a mio padre: “Papà…credi che un giorno sarò abbastanza forte da entrare a far parte delle Lame?”. Mio padre mi guardò affettuosamente e disse: “Non so se i Nove hanno previsto questo destino per te, Varg. Ma di una cosa sono certo: qualunque sia la tua strada, sono certo che mi renderai orgoglioso.”.
Passarono altri anni, e mi recai altre volte in visita al Tempio. Passavo di lì quando andavo a caccia sui monti Jerall, e ogni volta la mia mente correva a quegli straordinari uomini che davano la vita per proteggere l’Imperatore, e con lui la serenità e la stabilità dell’Impero. Fortificavo il mio corpo con intensi allenamenti nel piccolo cortile che avevamo a casa, sotto lo sguardo compiaciuto di mio padre, seduto su un piccolo sgabello di legno, intento a fumare la pipa o a curare la sua amata pianta di Nirnroot, che aveva raccolto negli anni addietro nei pressi della Baia di Niben. Ma non mi allenavo solo nel corpo: avevo scoperto nella libreria di casa un piccolo manuale di magia, con il quale mi esercitavo nell’arte della Distruzione, dell’Evocazione e del Recupero. Nelle altre discipline non ero un granchè, ma mia madre diceva che avevo un talento innato nell’Alchimia. Credo che si sbagliasse di grosso, poiché dopo 103 inverni non sono ancora in grado di produrre una Pozione di Guarigione decente.
Al compimento del mio ventiduesimo anno di vita, mio padre disse che era venuto il momento di scegliere cosa fare nella vita. Mi disse di unirmi o alla Gilda dei Maghi, e che la gilda stesse avrebbero provveduto nell’assecondare il talento che mi era stato donato dalle stelle. Mi disse poi che dovevo recarmi alla Città Imperiale, per frequentare i corsi dell’Università Arcana e per scalare i ranghi della Gilda. Mi portò quindi a colloquio con Jeanne Frasoric, l’arcimago reggente che a quel tempo gestiva la filiale della Gilda di Bruma, per farmi ottenere la raccomandazione necessaria per entrare all’Università Arcana. Appena varcata la soglia dello studio della Frasoric, percepii subito un forte alone magico che circondava quella donna, seduta dietro la scrivania: era stata promossa arcimago reggente di Bruma dopo aver sconfitto un intero plotone di Negromanti che avevano attaccato Bruma una decina di anni prima. Jeanne mi osservò in silenzio per qualche minuto, poi si alzò e disse: “Varg Varaansson, qual è la disciplina magica in cui ritieni di essere più ferrato?”. “Re-Recupero, arcimago Frasoric” risposi io, un po’ intimorito dal suo sguardo inquisitore. “Molto bene” disse Jeanne voltandosi, “vediamo quello che sai fare.” Fece qualche passo verso la scrivania, poi all’improvviso si voltò verso di me, roteando il braccio destro e puntandolo verso di me, urlando “AVAA SUURI HAAVA!”. Caddi all’indietro e avvertii un fortissimo dolore al petto: vidi la mia maglia di lana bianca tingersi di rosso e capii che la Frasoric mi aveva scagliato contro una magia Apri Grande Ferita. Non si era sicuramente risparmiata: mio padre, preso dal panico, si chinò su di me cercando di aiutarmi, ma la Frasoric lo fermò dicendo: “Fermo, Varaan! Posso guarirlo con uno schiocco di dita, lasciami vedere se riesci a cavarsela da solo!”. Mio padre indietreggiò, seppure spaventato. Il dolore non mi lasciava riflettere, e sentivo il sangue colare lento sul mio petto e sul mio ventre…dovevo fare qualcosa, e al più presto. Feci appello a tutta la magicka che avevo in corpo, poggiai le mani sul petto (che orrore! Sentivo un grosso foro sotto la maglia!) e sussurrai “Huolellisesti haava”. Sentii il buco sul mio petto chiudersi e il sangue che si fermava. Sentii la grassa risata di mio padre, seguita dall’applauso di approvazione della Frasoric. “E così sei nato sotto il segno dell’Apprendista! Non pensavo di farti così tanti danni con quell’incantesimo…ma vedo che te la sei cavata egregiamente…hai un grande potenziale, ragazzo mio, cerca di sfruttarlo. Ti firmerò la raccomandazione per l’Università Arcana; quando sarai lì, consegnala a Raminus Polus per essere accettato nella Gilda. Ora và, e rendi orgogliosa Bruma per aver prodotto un grande mago” disse Jeanne.
Quella sera, la mia famiglia diede una grande festa per celebrare la mia ammissione nell’Università Arcana. Mangiammo carne di cervo, cinghiale e montone. Il pregiato vino dei fratelli Surilie scorreva a fiumi; l’intera cittadinanza di Bruma partecipò e mi fece le congratulazioni. Quella sera credei veramente di aver trovato la mia strada; non potevo sapere che, nel mio viaggio verso la città imperiale, mentre passavo vicino alle fogne della prigione, avrei incontrato un prigioniero apparentemente fuggiasco, stremato dal viaggio attraverso le fogne, che portava con sé un grosso amuleto color rubino. Quel prigioniero, quel Bretone, era Casemir, il Guerriero Scelto.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Casemir, il Guerriero Scelto. ***


Quando mi avvicinai a quella figura, così debole e ricoperta di cenci, ebbi la sensazione che c’era in lui qualcosa di atipico, diverso da tutti i prigionieri che avevo visto nella prigione di Bruma. Sembrava esausto, e se ne stava raggomitolato su sé stesso  davanti il piccolo cancello che chiudeva le fogne della Prigione Imperiale. La Prigione era un gran brutto posto: correva voce che sotto di essa fosse stato costruito un enorme labirinto, che aveva lo scopo di impedire le evasioni dei prigionieri. E correvano anche voci ancora più inquietanti circa le creature che popolavano quel luogo: un’intera tribù di Goblin, disgustosi mostriciattoli con la pelle verdastra e le orecchie a punta, estremamente bellicosi e dotati, in alcuni casi, di mediocri abilità magiche. Un Goblin non rappresentava un grande pericolo anche per un guerriero modesto, ma la loro tendenza a spostarsi in gruppi li rendeva molto temibili.
Scrutai meglio l’uomo cencioso: indossava una camicia molto consunta di lino marrone, con dei pantaloni dello stesso materiale corti fino al ginocchio. Tipico abbigliamento da prigioniero. Notai che portava con sé una vecchia spada di ferro arrugginita, e nell’altra mano stringeva qualcosa che non riuscivo a vedere bene, che emanava una brillante luce rossa.
Mi avvicinai ancora di più e l’uomo si accorse della mia presenza.
“Aiutami, ti prego”.
Sul momento non capii bene la richiesta del Bretone, tanto ero concentrato sull’oggetto che stringeva in mano. Mi sembrava di averlo già visto, da qualche parte…
“Ti prego, Nordico, aiutami, ne và della salvezza di tutto l’Impero…so che non capisci, ma ti prego, se sei un fedele servo della dinastia Septim, aiutami. Ho bisogno di ristoro, e non so usare la magia. Ti prego.”
La sua voce era profonda e sembrava estremamente addolorato. Contando sul fatto che il mio sesto senso magico mi avrebbe avvertito se ci fosse stato un pericolo, mi chinai su di lui, gli posai le mani sul petto, cercai nella mia mente la quantità esatta di magicka che ci sarebbe voluta per fargli recuperare la maggior parte delle forze e sussurrai “Syntyvää Energiaa”.
Una debole luce blu si diffuse sul corpo del Bretone, e sentii i suoi muscoli distendersi, mentre sul volto compariva un’espressione rilassata. Lentamente si alzò in piedi, e prese a massaggiarsi le braccia e le gambe per svegliarle dal torpore che la magia generalemente infondeva.
“Ti ringrazio, Nordico. Non sai quanto ti sono grato per questo gesto…quei maledetti Goblin, nei sotterranei, mi hanno dato parecchio filo da torcere…” disse mentre si dava rumorose pacche sui vestiti per scrollarsi di dosso la polvere.
“Go-Goblin? Allora sono vere le voci sui labirinti sotterranei…” gli dissi. “Ma certo che sono vere”  – rispose di rimando – “ci sono decine di quei cosi lì dentro. E non solo quelli…ci sono anche dei non-morti”.
“Pensavo che il Consiglio avesse messo fuorilegge la Negromanzia molto tempo fa…cosa ci fanno dei non-morti all’interno della Città Imperiale?” dissi non senza un pizzico di raccapriccio. Il Bretone mi guardò e disse: “Non credere che il Consiglio abbia il potere necessario per mantenere un equilibrio perfetto a Tamriel, Nordico. Mannimarco e i suoi seguaci sono molto più forti di quanto la Gilda dei Maghi voglia far sapere alla gente. Ma basta parlare di questo, ora. Come ti chiami, Nordico?”.
“Sono Varg, Varg Varaansson, da Bruma”. “Bruma, eh? Un bel posto, ci sono stato tempo fa, quando ero ancora nella Legione Imperiale, prima dell’increscioso incidente che mi ha fatto finire in prigione” - disse il Bretone, con aria pensosa – “beh, piacere di conoscerti, Varg. Io sono Casemir, da Anvil. Ti ringrazio infinitamente, Varg, ma ora devo andare. L’imperatore in persona mi ha affidato un importante missione”.
“L’imperatore?” – esclamai, pensando che Uriel Septim mai e poi mai si sarebbe abbassato a dialogare con un semplice ex-legionario, perdipiù prigioniero nelle Prigioni Imperiali.
“Già, l’imperatore. Ora che è morto, l’Impero ha bisogno di una nuova guida, non credi?” rispose Casemir, con un’amara ironia nella voce.
“L’imperatore…è morto?”. La notizia mi aveva lasciato senza fiato. Sapevo che Uriel Septim non aveva un erede, e che senza un imperatore i Fuochi di Drago del Tempio di Akatosh, signore dei 9 Divini, che da sempre costituivano la barriera mistica tra Tamriel e la dimensione maligna di Oblivion, non potevano essere accesi di nuovo.
“Già” – disse Casemir con tono grave – “se n’è andato ieri notte. Ero con lui quando è successo. C’erano anche Baurus, Glenroy e il Capitano Renault, delle Lame. Lo stavano scortando attraverso un passaggio segreto che passava proprio dalla mia cella. Quando mi ha visto, l’Imperatore  mi ha detto di avermi sognato, e che il mio destino non era quello di marcire in cella. Purtroppo, mentre stavamo lasciando il palazzo, siamo caduti in un’imboscata della Mitica Alba. Le Lame si sono battute coraggiosamente, ma un dannato agente ha ferito mortalmente l’imperatore. Prima di morire, mi ha affidato il compito di parlare con un certo Jauffre, al Priorato Di Weynon, vicino Chorrol. E mi ha dato…questo.”.
Casemir aprì la mano che conteneva l’oggetto luminescente. Non potrei trattenermi dal trasalire. Avevo visto quell’oggetto nel ritratto di Uriel Septim che campeggiava nella caserma delle guardie di Bruma. Casemir stava tenendo in mano l’Amuleto dei Re, che conteneva il sangue di Akatosh stesso, un artefatto magico potentissimo che solamente i membri della famiglia reale sapevano come utilizzare.
“L’Amuleto dei Re…” sussurai. “Già.” – rispose Casemir – “la pietà che hai avuto verso di me mi spinge a fidarmi. Conserva questo segreto a costo della tua vita. Nessuno deve sapere che l’Amuleto è in viaggio, o le forze della Mitica Alba potrebbero impadronirsene e servirsene per richiamare in vita Mehrunes Dagon, principe dei Daedra. Ora devo andare, come puoi immaginare vado molto di fretta.”.
Il Bretone si voltò e cominciò a correre.
“Aspetta.”
Il Bretone si fermò e si girò verso di me.
“Voglio venire con te, Casemir. Posso esserti utile. Sono un buon mago, e me la cavo con la spada. Hai bisogno di tutto l’aiuto possibile.”.
“Non essere sciocco, Nordico. Questa è una missione che è stata affidata a me. Non voglio coinvolgerti, potresti morire e non voglio altre vite sulla coscienza” rispose Casemir duramente.
“Ti ho dimostrato che posso esserti utile, Casemir, proprio qualche istante fa. Non farai molta strada senza qualcuno che ti dia un supporto magico, almeno per curarti. E si dà il caso che io sia uno specialista nel Recupero”.
Casemir mi squadrò dalla testa ai piedi. Parve pensarci per un po’, poi disse: “Va bene, Varg. Hai ragione. Ma sappi che non ti garantisco la sopravvivenza. Preparati al periodo più difficile della tua vita. E ora forza, bisogna raggiungere Chorrol al più presto.”.
Dimentico dell’Università Arcana che mi aspettava a pochi metri, cominciai a camminare a fianco del guerriero verso Chorrol. Sapevo che la mia vita stava prendendo una piega del tutto inaspettata, e non sapevo fino a che punto mi sarei spinto. Quello che mi aspettava al Priorato di Weynon sarebbe andato oltre ogni mia previsione.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Il Priorato di Weynon. ***


Erano quasi due giorni che ero in viaggio con Casemir verso Chorrol. La mia mente era piena di dubbi, e nell’aria sentivo che mi stavo immischiando in cose che erano di gran lunga oltre la mia comprensione. In pochi giorni, ero passato dall’essere un promettente raccomandato della Gilda dei Maghi ad essere compagno di avventura di un Bretone in possesso dell’Amuleto dei Re. E non riuscivo a capire, sinceramente, che cosa andassimo a fare al Priorato di Weynon, una piccolissima cappella appena al di fuori di Chorrol consacrata a Talos.
Avevamo, fino ad ora, percorso tre quarti della strada che ci separava dall’uomo che cercavamo, Jauffre, dividendo il nostro tragitto tra strade maestre e boschi. Infatti mentre di giorno era più sicuro camminare nei boschi, al riparo di troppi occhi indiscreti, di notte era meglio viaggiare sulle strade, meglio protette dalle ronde dei legionari imperiali a cavallo. Non era certo un bel periodo quello, per viaggiare. Spesso gli stessi legionari ci chiedevano chi fossimo e dove andassimo, ed ero io a dover coprire Casemir dicendo che eravamo dei pellegrini in visita agli altari dei Nove sparsi per la regione. Dicevo che pregavamo per il futuro dell’Impero, ma sapevamo, sia io che Casemir, che ci sarebbe voluto ben altro rispetto alle preghiere.
Ci nutrivamo di quello che la natura ci offriva: bacche, piante e frutta principalmente. Inoltre, al crepuscolo, Casemir preferiva fermarsi qualche momento e usare la vecchia spada arrugginita che si portava dietro per cacciare qualche cervo. La prima sera di viaggio ne aveva preso uno e avevamo mangiato da nababbi, cucinando sul piccolo focolare magico che avevo creato. I focolari magici si rendevano utili sia per cucinare, sia per tenere lontano orsi, leoni di montagna e lupi, visto che continuavano a bruciare per tutta la notte,  fino a quando non interrompevo l’incantesimo.
Alle 11 di sera circa del terzo giorno di viaggio, uscendo dalla boschiglia come due ombre nella notte, arrivammo al Priorato di Weynon. Casemir l’aveva sì descritto come molto piccolo, ma vedendolo mi resi conto che “piccola cappella” era davvero un eufemismo. Il minuscolo altare era persino separato dai dormitori dei frati, che erano simili a un capannone rustico. Dietro questa costruzione c’erano le stalle, con tre cavalli pezzati, e un’altra piccola casetta di pietra, con il tetto di paglia.
Casemir si avvicinò alla porta della residenza dei frati e bussò con forza.
- Ehi voi, del Priorato! Aprite! Aprite, per pietà! Siamo due pellegrini! – gridò con forza.
Dall’interno si sentirono rumori di sedie che si spostavano, poi una voce piuttosto scocciata, ma dal timbro gioviale ci apostrofò: - Buon Talos, ma cos…ma vi sembra l’ora questa di presentarvi? –
Un giovane frate apparve sull’uscio, con la faccia rotonda e la tipica tonsura, con un’espressione a metà tra lo scocciato e l’insonnolito.
 – Perdonateci, fratello. Siamo giunti in pellegrinaggio dalla Città Imperiale per pregare gli Dei affinchè la grave sventura che incombe sul regno non divenga realtà – esordii io, trattenendo un risolino suscitato dalla buffa espressione del frate.
 - Uh…questo non giustifica comunque che questo non sia l’orario adatto per pregare. Ma siete qui ormai, e l’ospitalità è sacra per noi. Prego, accomodatevi  – rispose di rimando il frate.
Entrammo nella piccola costruzione ed ebbi modo di osservare che l’interno, nonostante fosse scarno, era meglio di quanto mi aspettassi. Il piano in cui ci trovavamo era raccolto ma accogliente. C’erano un grosso tavolo con sopra numerosi piatti pieni  di frutta, qualche sedia e una grande libreria, piena di libri di ogni genere. Sul tavolo ce n’era uno aperto, che evidentemente il giovane frate stava leggendo.
- Prego, sedetevi pure. Io sono Fratello Piner, lieto di fare la vostra conoscenza. –
Io e Casemir ci sedemmo e ci presentammo, usando i nostri veri nomi. Tanto Fratello Piner non avrebbe mai saputo il motivo vero per il quale eravamo lì, e i nostri nomi non gli suggerivano nulla. Ci offrì della frutta che mangiammo voracemente, vista la fame che ci attanagliava, poi ci chiese se volevamo pregare subito o preferivamo riposare un po’ in uno dei tanti letti disponibili.
- Purtroppo non abbiamo molti fratelli al momento – ci disse sospirando – sono tempi duri per la religione. La gente preferisce dedicarsi ai culti Daedrici piuttosto che affidarsi ai Nove. Ammetto che i Principi Daedra siano molto più presenti degli Dei nel mondo, ma sono anche estremamente pericolosi. Non mi fido di loro. Che Akatosh ci protegga da questi culti oscuri. –
Casemir, con la bocca ancora piena di frutta, chiese gentilmente: - Vorremmo conoscere una persona, se è possibile, Fratello Piner. Si tratta di Jauffre, in Città hanno detto che risiede qui. –
- Uh, anche voi volete conoscere Fratello Jauffre? Pare che la sua conoscenza sui molteplici usi dell’aloe stia riscuotendo un certo successo – disse Piner divertito – o forse avete altri interessi? –
- Ho qui proprio delle foglie di aloe – rispose Casemir con un largo sorriso – e vorrei prepararci un decotto come si deve. -
La menzogna ebbe il suo effetto. Fratello Piner si alzò e si offrì di portarci allo studio di Jauffre, al piano superiore. Bussò e una voce grave dall’interno ci invitò ad entrare.
- Fratello Piner, chi sono i nostri ospiti?- disse l’anziano frate dietro la scrivania.
- Due pellegrini che volevano apprendere l’uso dell’Aloe, Fratello Jauffre – rispose Piner.
Jauffre ci fece entrare ed accomodare, prima di congedare Fratello Piner. Poi si rivolse a noi con tono bonario: - Allora, cosa volete sapere su questa fantastica pianta?-
Il tono di voce di Casemir si fece più grave, e cominciò quasi a sussurrare: - Siamo qui per qualcosa di molto più importante dell’aloe, Jauffre. Come sai l’imperatore è morto, ed io ero con lui quando è successo. La sua ultima volontà è stata che io ti portassi questo. –
Casemir trasse fuori dalla bisaccia l’Amuleto dei Re e lo porse a Jauffre. L’anziano frate sgranò gli occhi e disse: - Non è possibile…non è possibile. Si era parlato di questa eventualità con l’imperatore, ma mai avrei immaginato…mai avrei sognato che si potesse verificare…-
- Gradirei che tu ci spiegassi la situazione, Jauffre – disse Casemir.
-Già, già…avete ragione – disse il frate, ancora non ripresosi dalla sconvolgente novità. – Molto bene. Se l’imperatore si è fidato di voi, immagino che io debba fare lo stesso. Io sono il Gran Maestro delle Lame, e sono a conoscenza di un segreto condiviso solamente dall’imperatore e da me.  Uriel Septim aveva…ha, un figlio illegittimo, che a questo punto è di diritto l’erede al trono. Il suo nome è Martin, ed è un sacerdote che risiede nella cappella di Kvatch, non molto distante da qui. L’imperatore mi aveva detto che, nel caso in cui fosse scomparso assieme ai suoi figli legittimi, mi avrebbe mandato l’Amuleto con il compito di rintracciare, proteggere e favorire l’ascesa al trono di Martin. Credo che questo momento sia giunto. Io però sono anziano, e non posso lasciare il Priorato. Dovete andare voi a rintracciare Martin. Io terrò l’Amuleto al sicuro qui. Una volta che l’avrete trovato, penseremo a come proteggerlo. Gli assassini dell’imperatore non devono sapere nulla. Ma ora è tempo che vi riposiate. Andate a dormire e lasciatemi riflettere…domani partirete per la vostra missione. –
Casemir ed io uscimmo dallo studio frastornati e confusi dalle ultime rivelazioni. Ecco perché l’imperatore ci aveva mandato da Jauffre…era l’uomo di cui di fidava di più in tutto l’Impero…ed era il Gran Maestro dell’ordine votato a proteggerlo. Mentre mi coricavo, pensai alle Lame e alla storia che mio padre mi aveva raccontato da piccolo: mi sembrava di essermici trovato nel bel mezzo, e fantasticavo di poter entrare in quell’ordine così elitario ed importante.
Prima che le palpebre mi si chiudessero, pensai a Kvatch. Avevo sentito parlare di quella ridente cittadina, nota per la grande cordialità degli abitanti e per un fiorente commercio di armature. Quello che avrei scoperto all’indomani però, non aveva nulla a che fare con la vecchia Kvatch. All’indomani avrei fissato l’orrore puro dritto negli occhi.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Kvatch. ***


All’indomani, ci svegliammo di buon mattino. Un fragrante odore di pane riempiva il piccolo ambiente dei dormitori. Io e Casemir ci vestimmo in fretta, poi andammo a rinfrescarci la faccia nel lavatoio del Priorato. Mentre stavamo scendendo le scale per arrivare alla sala principale, incontrammo Fratello Piner tutto indaffarato nel trasporto di vari volumi.  – E’ un lavoro ingrato, ma qualcuno deve pur farlo, no? – disse il frate sbuffando, senza nascondere però un sorriso bonario  - voi scendete pure di sotto. Eronor ha appena sfornato il pane, e Jauffre, assieme al Priore Maborel, vi sta aspettando. –
Arrivati in sala grande, un altro frate ci salutò, presentandosi come Priore Maborel. – Salute forestieri, e che Talos vi protegga! Non abbiamo molte visite ultimamente, ma di certo non ci siamo scordati come si tratta un ospite! Prego, sedetevi e mangiate con noi! – ci disse porgendoci un vassoio con grosse fette di pane bianco sopra.
- Casemir! Varg! Finalmente vi siete svegliati! –
La voce possente e autoritaria di Jauffre risuonò nell’atrio. – Forza, forza, venite con me. Non abbiamo tempo da perdere, ci perderemo le foglie di aloe migliori se aspettiamo ancora! Prendete qualche pezzo di pane e portatevelo dietro! Maborel, scusaci, ma andiamo veramente di fretta… -
Il Priore Maborel non nascose di essere stupito dalla fretta di Jauffre.  – Ma…Jauffre…sono pur sempre ospiti…non puoi trattarli così! – disse con la bocca ancora piena di pane.
- Ti sbagli, Maborel – disse Jauffre prendendo me e Casemir sottobraccio – questi due non sono ospiti del Priorato, ma ospiti miei! E come tali, li porterò dove voglio io e quando voglio io! – continuò a dire mentre rideva.
Evidentemente il Priore Maborel sapeva che Jauffre non era un frate normale, perché un vero Priore non si sarebbe mai lasciato trattare in questo modo da un confratello di rango inferiore.
Jauffre ci portò di nuovo nel suo studio, e aprì un baule contenente delle armi e delle armature. – Non dispongo di molto qui al Priorato – ci disse – dovrete accontentarvi di queste poche cose. Ma prego, scegliete pure quello che preferite. Avete bisogno di tutto il supporto possibile. –
Casemir prese una pesante armatura di acciaio, che aveva qualche piccola ammaccatura sul dorso (“regalino di un Dreugh terrestre” disse Jauffre pensoso) e un pesante spadone lungo. Si rimirava poi compiaciuto allo specchio, libero finalmente di quegli stracci lerci che si portava dietro dalla prigione. – Mi sembra di essere tornato ai tempi della Legione – fu il suo commento pensoso.
Per me, presi una bellissima veste di cotone blu con ricami dorati sulle maniche, e un piccolo pugnale elfico da portare alla cintola. Dopotutto, la mia forza non era tanto nel braccio quanto nella mente, nell’energia pulsante della Magicka, la forza mistica che permetteva di scagliare magie e sortilegi di ogni genere. Ora che ci pensavo, era piuttosto strano che un Nordico come me avesse una predisposizione alla magia e che un Bretone come Casemir fosse invece predisposto al combattimento con le armi. Forse erano davvero lo stelle che avevano voluto farci incontrare.
Quando finimmo di equipaggiarci, Jauffre ci disse: - Ora, ragazzi miei, dovete raggiungere Kvatch il più presto possibile. Nelle stalle troverete due cavalli pezzati già sellati. Prendete questa mappa di Cyrodill, renderà il vostro viaggio più agevole. Eronor vi consegnerà qualche distillato di erbe curative che ho preparato io stesso. Uscite dal retro, Maborel e Piner potrebbero insospettirsi se vi vedessero così bardati. Che i Nove vi proteggano…e che proteggano tutti noi. –
Usciti dalla porta sul retro, arrivammo alle stalle dove Eronor, l’Elfo Oscuro tuttofare del Priorato, ci diede alcune fialette rosa. – Alcune di queste curano il corpo, altre l’anima. Siate prudenti nel vostro viaggio verso l’Altare di Kvatch. – Evidentemente, Jauffre aveva mentito anche a lui sulla natura del nostro viaggio.
Salimmo a cavallo e Casemir notò la mia espressione preoccupata. – Sei teso, Nordico? – mi disse ironicamente.
- Stiamo andando incontro a non so che cosa, ma non mi sembra esattamente una piacevole gita in campagna, caro il mio spaccone – risposi piuttosto piccato.
- Ehi, ehi, non ti arrabbiare! – rispose divertito – io stesso sono teso come una corda di liuto…solo, non darlo così a vedere! – concluse divertito.
Ci lanciammo così al galoppo.
Arrivammo alla collina sopra la quale si ergeva Kvatch nel tardo pomeriggio. Qualcosa non va, pensai. E lo stesso pensò Casemir, che a un tratto aveva perso la voglia di scherzare che lo aveva accompagnato per tutto il viaggio. Ora fissava con volto serio la cima della collina, dove sorgeva la città. Il cielo era coperto da nuvole scurissime. Nulla lasciava presagire una situazione piacevole.
Il Bretone, rabbuiato in volto, si girò verso di me e mi disse che dovevamo sbrigarci. Anche lui, come me, sentiva nell’anima che non era la solita Kvatch, che al nostro arrivo non avremmo trovato le lussuose armature che avevano reso la città famosa in tutta la regione.
Galoppammo per le ripide stradine che si inerpicavano per la collina fino a giungere a un grosso spiazzo dove avemmo la conferma dei nostri oscuri presagi.
Lo spiazzo era pieno di tende. Dentro di esse, decine, centinaia di persone. Gli abitanti di Kvatch.
Davanti ai nostri occhi, uno spettacolo orrendo: famiglie intere buttate nel fango, persone moribonde, mutilate, e tristi processioni che celebravano la scomparsa di molte persone. All’estremo lato, vicino al piccolo bosco, una grande fossa comune raccoglieva l’ingente quantità di cadaveri.
Guardai Casemir in volto e lo vidi bianco come un cencio, inorridito da quel triste teatrino di anime. Immaginai che in quel momento anche la mia faccia dovesse essere simile alla sua.
Sceso da cavallo, Casemir si avvicinò a una giovane Argoniana, chiedendole gentilmente che cosa fosse successo.
Ella si alzò e disse, guardandolo nel volto: - Sono stati i Daedra. Decine di Daedra. Le barriere mistiche tra Cyrodiil e Oblivion sono state infrante. Kvatch è caduta. E’ la fine del mondo che conosciamo. –
La situazione stava precipitando. Casemir, preoccupatissimo, chiese alla donna se conosceva Martin. – Il sacerdote di Akatosh? Certo che lo conosco – rispose l’Argoniana – o meglio, lo conoscevo. Non è qui nell’accampamento. Credo che sia caduto nella notte, quando il Cancello si è aperto. Se si è salvato, deve essersi barricato nella cappella, all’interno della città. –
- Cancello? Ma di cosa stai parlando? Spiegati meglio, per favore – disse un Casemir sempre più in preda al panico.
L’Argoniana rispose: - Il Cancello è un grosso portale dimensionale che collega la dimensione di Cyrodiil con quella di Oblivion. Questi portali, quando sono accesi i Fuochi di Drago, sono di dimensioni modestissime e non creano molti problemi. Ora però che i Fuochi sono spenti, il Cancello è diventato enorme, tanto da consentire il passaggio di un’intera armata Daedra! E’ la fine, la fine! –
Detto questo, l’Argoniana scoppiò in lacrime. Casemir mi guardò e mi disse: - Dobbiamo contattare i superstiti della guarnigione armata di Kvatch. Forse loro sanno che cosa possiamo fare per entrare in città. Non credo che ci negheranno il loro aiuto, se noi daremo loro il nostro. –
Chiese di nuovo all’Argoniana di indicargli il nome del capitano di guarnigione, e quella, tra i singhiozzi, gli fece il nome di Savlian Mattius, dicendogli anche che poteva trovarlo vicino il Cancello, alle porte della città, intento a difedendere disperatamente i superstiti dell’accampamento.
Risalito a cavallo Casemir, ci dirigemmo verso le porte della città, percorrendo per ancora un tratto le ripide stradine. Giunti sul posto, vedemmo una delle cose più terrificanti che un uomo possa aver mai visto. Il Cancello era un’enorme costruzione a forma di runa, e il portale al suo interno sembrava una gigantesca fiamma vivida, come un terribile incendio alto più di dieci metri. Da questo, continuavano ad uscire piccoli mostri simili a Goblin, con la pelle però di colore rosso rubino.
- Quei cosi sono Furfanti. Daedra di infimo livello, ma in gruppo sono davvero fastidiosi. Niente a che vedere con un Dremora, ovviamente. Quelli sì che fanno paura, stranieri. –
Una voce ci apostrofò con queste parole alle nostre spalle, e quando ci voltammo vedemmo un uomo con la spada sguainata in armatura completa. – Venite, presto – ci disse con fermezza.
Ci portò dietro una rozza muraglia difensiva costruita con dei tronchi di legno, e si presentò. – Sono Savlian Mattius, comandante della Guarnigione Imperiale di Kvatch, sergente della Legione Imperiale, Corno d’Argento al valore militare. Chi siete voi, stranieri? Non sembrate affatto dalla parte dei Daedra. Anzi, mi sembrate piuttosto due tipi onesti. Ma cosa ci fate qui? Kvatch è alle sue ultime ore, e con lei tutta la popolazione. Vi consiglierei di andarvene in fretta da qui, e di portare la notizia il più in fretta possibile ai Consiglieri Imperiali, nella Città Imperiale, affinchè possano decidere per il meglio come contrastare l’invasione. Ma se volete restare a morire, non sarò certo io a impedirvelo. Cercate di non essermi d’intralcio. –
Anche noi ci presentammo e Casemir chiese notizie di Martin. Anche da Mattius non avemmo conferme, ma le stesse supposizioni dell’Argoniana. Ci disse poi che l’accesso alla città era bloccato dal Cancello stesso, e che solamente chiudendolo saremmo potuti entrare e verificare le sorti del sacerdote.
- Ho già mandato una pattuglia all’interno del Cancello – disse mestamente Mattius – ma di dieci uomini non ne è tornato nessuno. Se volete cimentarvi nell’impresa, siete liberi di farlo. Non so cosa vi attende lì dentro, ma nessuno è mai tornato vivo dalla dimensione Daedrica. Sappiate però che non posso fornirvi alcun tipo di supporto. I pochi uomini che mi sono rimasti mi servono per proteggere i superstiti che sono nell’accampamento. –
Mi voltai verso Casemir e vidi che fissava con decisione l’enorme Cancello. – Dobbiamo entrare, Varg – mi disse con tono grave.
- Lo immaginavo, Casemir – risposi alla stessa maniera. – Possiamo evitare i Furfanti fuori dal Cancello, se lo desideri. Posso renderci invisibili entrambi. Una volta all’interno del Cancello però, non potrò più mantenere l’incantesimo, o rischio di svenire per la quantità eccessiva di Magicka che dovrò utilizzare – dissi al Bretone.
- Molto bene – mi rispose – fai quello che devi fare - .
Guardai sospirando anche io il Cancello. Pensai che era giunta la mia ora, e che della vita non mi ero goduto veramente niente. Perlomeno avevo la speranza che se Cyrodiil fosse riuscita a vincere la guerra mi avrebbero ricordato tra gli eroi caduti in battaglia. Posai una mano sul mio petto e l’altra sul petto di Casemir, mi concentrai e dissi “tekevät meistä näkymätön”.
I nostri corpi svanirono. Sentii la riserva di Magicka del mio corpo che cominciava a defluire all’esterno di esso. – Dobbiamo correre, Casemir. Quest’incantesimo è parecchio dispendioso – dissi.
E allora cominciammo a correre. I Furfanti, come previsto, non si accorsero di noi. Chiusi gli occhi quando saltammo nel fuoco del portale dimensionale, aspettandomi di finire incenerito. Invece non sentii nulla, solo un gran calore. Quando riaprii gli occhi, dall’altra parte, vidi Casemir (l’incantesimo si era prevedibilmente spezzato) e un vero e proprio inferno. Eravamo in Oblivion.

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Oblivion. (Parte I) ***


La prima cosa che mi colpì del piano dell’Oblivion fu l’impatto cromatico. Non vi erano altri colori se non rosso e nero. Poi, il calore. Sembrava di essere all’interno di un vulcano: i piccoli isolotti di terra annerita e bruciata erano circondate da distese laviche che sembravano infinite, a vista d’occhio.

-  Che posto carino, eh Nordico? – disse Casemir con amara ironia. –Sarà un inferno, Casemir. – risposi. Guardammo l’enorme torre di ebano davanti a noi. Mi chiedevo quale incredibile architetto avrebbe potuto realizzare una cosa simile, tanto maestosa e terribile allo stesso tempo, modellando un materiale così poco agevole (l’ebano non è il legno d’abete, qui a Tamriel, ma una lega resistentissima di oricalco e ossidiana, due materiali tipicamente vulcanici). Incuteva davvero timore.

Delle urla mi risvegliarono dai miei pensieri. Diritto davanti a noi c’era un nuovo in armatura con la sopravveste gialla che stava combattendo con tre piccoli Furfanti. Un soldato di Kvatch. Casemir lanciò un grido belluino e sfoderando la spada si lanciò al soccorso. Io, con la mente ancora annebbiata per lo sforzo dell’incantesimo precedente, mi limitai a osservare la scena a bocca aperta.
La furia di Casemir si abbattè come un fortunale sui Furfanti. Era la prima volta che lo vedevo combattere sul serio e non potei fare a meno di rimanere impressionato dalla sua abilità. Si muoveva svelto come un gatto, con movimenti molto aggraziati ma allo stesso tempo spaventosamente letali. Sembrava quasi che ballasse mentre dilaniava le carni di quegli esseri demoniaci. Quando la sua lama compì il suo dovere abbattendo tutti e tre i mostriciattoli, Casemir si fermò e rivolse lo sguardo verso il soldato, che aveva la veste imbrattata di sangue e lacera in più punti. Il Bretone non tradiva il minimo segno di fatica.

-Chi sei, soldato?- chiese all’uomo, che sembrava quasi stesse per scoppiare a piangere da un momento all’altro.

- Mi chiamo Ilend…Ilend Vonius. Soldato di Kvatch sotto gli ordini del capitano Savlian Mattius. Mi ha mandato in questo inferno in ricognizione con altri nove…sono stati presi tutti. E anche voi farete la stessa fine se vi attarderete ancora in questo luogo maledetto…uscite finchè siete in tempo! – disse il soldato.

- Questo non accadrà, te lo assicuro. Varg, vieni qui, aiutami a calmare quest’uomo! – rispose Casemir, urlando verso di me.
Il suo richiamo mi fece uscire definitivamente dalla trance ipnotica che fino a quel momento mi aveva fatto rimanere immobile al mio posto. Corsi verso i due uomini e mi avvicinai al soldato di Kvatch. La magia che implicitamente mi aveva chiesto Casemir era molto semplice e richiedeva il dispendio di una minuscola quantità di magicka. Posai una mano sulla spalla del soldato e dissi: - Tyyni -. Il volto dell’uomo si fece immediatamente più rilassato, segno evidente che tutta la tensione che aveva accumulato nelle sue peripezie si era del tutto sciolta.

-Ora, Ilend, non è il momento di andartene. Dobbiamo scoprire come chiudere il cancello. Ci serve tutto l’aiuto possibile, e hai l’occasione di diventare uno dei più grandi eroi della storia di Tamriel. Se sai qualcosa su come terminare questo orrore, devi venire con noi e aiutarci – disse Casemir sforzandosi di risultare credibile il più possibile.

-Oh, io non so davvero nulla su come fermare questa aberrazione. Ma uno che era con noi nella spedizione lo sa. E’ venuto con noi proprio per questo: era l’unico a sapere come si affronta una situazione del genere. Il suo nome è Menian Goneld, ed è stato catturato dai Daedra quando ci hanno attaccati. Lo hanno portato dentro quella dannata costruzione. Non so dirvi se è ancora vivo o meno…i Dremora non sono noti per la loro pietà. Ma forse hanno solamente deciso di torturarlo e lasciarlo in vita per il loro gusto sadico, chissà. In ogni caso, le risposte che cercate sono dentro quella torre. Vi accompagnerò, se è questo che chiedete. Probabilmente sarà l’ultima azione della mia vita. Tanto ormai a Kvatch non c’è più nessuno ad aspettarmi… - . Ilend pronunciò l’ultima frase con una malinconia che mi fece quasi provare dolore fisico.

- Molto bene – disse Casemir – allora affrettiamoci. Ogni secondo perso potrebbe significare trovare morto quel poveretto. Andiamo! –
Cominciammo ad incamminarci verso la torre. Stranamente, non incontrammo nessun Daedra durante il percorso. Forse quelli presenti erano già usciti tutti a Kvatch. Nel mio cuore, forse egoisticamente, sperai con tutte le mie forze che fosse andata così. Arrivati al monumentale portone della costruzione, scoprimmo con meraviglia che era socchiuso. Era come se ci stessero aspettando. Entrammo nella costruzione. La sala che ci si poneva davanti era di forma circolare, con un enorme colonna di fuoco vivo che saliva per metri al centro. C’erano diverse rampe di scale che si inerpicavano sui lati, per raggiungere i livelli più alti della torre.

- Benvenuti al Banchetto Di Sangue, miserabili umani – disse una voce stridula. Da un’oscuro angolo uscì un Furfante con un bastone stretto fra gli Artigli. – Questo non è posto per voi…e fungerà come vostro monumento funebre!-

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Oblivion. (Parte II) ***


Il Furfante puntò il bastone contro Casemir. D’istinto, capii le sue intenzioni, ma il Furfante fu rapidissimo a scagliare una grossa palla di fuoco verso il mio compagno. Formulai in fretta l’incantesimo nella mia testa, mi frapposi tra la palla di fuoco e Casemir e, allungando le braccia davanti a me urlai: -Suojella meita!

Lo scudo di magicka si aprì rapidissimo davanti a noi, in uno sfolgorio azzurrino. La grande palla di fuoco scagliata dal Furfante si infranse su di esso e si dissolse nel nulla. Ruotai rapidamente la mano destra, la puntai verso il Furfante e ringhiai: - Kuolla jaadytetty!
Il piccolo demone trasalì, poi il suo corpo si irrigidì e cominciò a cristallizzarsi in una grottesca scultura di ghiaccio. Quando la sua trasformazione fu completata, Ilend si avvicinò incuriosito e toccò l’ormai inerte corpo del Furfante, che si sbriciolò in mille piccoli cristalli. Il soldato scoppiò a ridere.

Grosse gocce di sudore imperlavano la mia fronte. Il mio corpo non era ancora abituato ad accusare sforzi così grandi in tempi così brevi. Crollai su un ginocchio con il fiato corto. Anche se fisicamente non avevo compiuto praticamente sforzi, era la mia riserva di magicka che si stava rapidamente esaurendo.

- Varg, stai bene? -. La voce di Casemir mi giungeva quasi ovattata. – N-nulla di grave, Casemir. S-solo un attimo di s-s-spossatezza – risposi con un filo di voce.

-Tieni, prendi questa.-  Casemir mi porse una delle fialette che Eronor ci aveva consegnato al Priorato di Weynon. – Dovrebbe essere un tonico per la tua magicka. Sempre che Jauffre non ci abbia ingannato dandoci davvero del decotto di aloe. Allora saremmo davvero nei guai. – Un grosso sorriso comparve sul viso del Bretone, e io lo ricambiai. Presi la fialetta e ne bevvi avidamente il contenuto. Sentii il mio corpo ricaricarsi come se avessi dormito per due giorni di fila.

Mi alzai e dissi a Casemir che ero pronto a proseguire. Quello rispose con un cenno d’intesa e richiamò bruscamente Ilend, che era ancora incredulo per la fine del Furfante. Cominciammo a salire le scale per arrivare alla sommità della torre. Dopo due rampe di scale ci trovammo davanti a una porta, anch’essa semiaperta come quella principale della costruzione. Sulla porta stessa era affissa una targa con un’iscrizione runica. C’era scritto “Corridoi della Salvezza Oscura”. Pensai che non era un’indicazione molto rassicurante.
Procedemmo oltre la porta e ci trovammo in un ambiente molto più stretto della sala precedente. Un corridoio, appunto.  L’ebano delle pareti, se possibile, mi sembrava ancora più nero. Continuammo a camminare in avanti fino a quando non giungemmo a una piccola saletta vuota. C’era qualcosa che non andava, era più che palese.

Le varie trappole che erano presenti erano state fatte scattare tutte; era da escludere quindi che i Daedra ci stessero aspettando. Piuttosto, qualcosa o qualcuno era riuscito ad eludere tutti i sistemi di sicurezza che i mostri avevano preparato per queste occasioni. A terra giacevano i resti di alcuni Furfanti, morti per evidenti colpi di mazza chiodata.

- Beh, qualsiasi cosa sia successa qui, ci ha risparmiato diverse noie, non credete? -. Così Ilend Vonius commentò la scena che ci si era parata davanti, e io e Casemir non potemmo fare altro che dargli ragione. Facendo attenzione ad evitare eventuali trappole non disinnescate continuammo la nostra scalata verso la sommità della torre. Uscimmo dalla saletta e continuammo a macinare decine e decine di scalini. Ancora oggi, dopo più di ottantacinque anni, non ricordo di aver mai visto nella dimensione tamrielica così tanti gradini tutti in una volta.

Dopo l’ennesima rampa, ci trovammo finalmente a quello che sembrava un punto di svolta: di nuovo una porta con a fianco un’iscrizione runica. Stavolta la targa recitava “Sale di Squartamento”. Non ci volle molto a capire che quelle stanze erano il mattatoio personale dei Dremora, che si divertivano a torturare i loro prigionieri e a volte, come scoprimmo in seguito, anche gli stessi Furfanti, loro servitori. Questa volta però la porta non era semiaperta. Casemir provò prima a forzarla prendendola a spallate, con l’ausilio di Ilend, e provò poi a far saltare la serratura usando il suo pugnale da viaggio. Nessuno dei due modi funzionò.

-Varg, di questo passo non riusceremo a entrare nemmeno fra tre Ere. Vieni a darci una mano…prova magari con la magia- disse Casemir respirando forte per lo sforzo che aveva compiuto. – Posso provarci – risposi – ma non credo che i Daedra siano così sciocchi da permettere a una magia da quattro soldi di violare le loro stanze più segrete-.

- Vale comunque la pena tentare, non ti pare? – intervenne Ilend Vonius. Casemir annuì e poi si volse verso di me, facendomi segno di avvicinarmi alla porta. A malincuore mi avvicinai e borbottai qualche piccolo sortilegio protettivo per evitare di rimanere gravemente ferito in caso i Daedra avessero apposto qualche protezione magica alla serratura della porta.

Misi il palmo della mano destra sulla serratura, mi concentrai e dissi: -Avatkaa -. La serratura scintillò per qualche secondo, poi provai ad aprire. Nulla. La porta era più solida di prima e non si muoveva di un millimetro.

- Temo proprio che non abbia funzionato, Casemir – dissi sconsolato. – Ci vedo bene ancora, Nordico – mi rispose in modo platealmente sarcastico – e purtroppo devo constatarlo con dispiacere. Beh, c’è rimasta una sola alternativa, a quanto pare. E ancora una volta dovremo affidarci alle tue abilità magiche, Varg. Dovrai aprirci un varco con la magia. In parole povere, dovrai far saltare in aria la porta. O tutto il muro, se preferisci…non è il caso di andare tanto per il sottile -.

Rimasi stupefatto della richiesta di Casemir. Non avevo mai lanciato un incantesimo del genere…conoscevo sì le parole della Lingua Arcana per farlo, ma non sapevo se avessi potuto calcolare esattamente la quantità di magicka necessaria. Un piccolo errore e sarei potuto svenire per il dispendio di energia, oppure avrei potuto liberare un’energia talmente forte da ucciderci tutti. E in più, ad aumentare il coefficiente di difficoltà, c’era il fatto che le pareti e la porta fossero interamente di ebano, uno dei materiali più resistenti di Tamriel.
Deglutii rumorosamente ed esposi i miei dubbi a Casemir. Mi rispose che aveva fiducia in me e che sapeva con certezza che avrei potuto farlo, altrimenti non avrebbe mai proposto un’idea simile. Avevo il forte sospetto che mentisse: dopotutto, se non ci fossi stato io, sarebbe dovuto certamente restare al di fuori delle Sale e tornare indietro a mani vuote, segnando così definitivamente il destino di Kvatch. Casemir si stava giocando una carta rischiosissima: quella della mia vita.

Mi dissi che tanto valeva provarci, e che se qualcosa fosse andato storto avrei avuto almeno la consolazione di una morte onorevole. Mi sedetti a terra, con le gambe incrociate, davanti alla porta. Chiusi gli occhi e cominciai a concentrarmi molto intensamente. Cominciai anche a inspirare grosse quantità d’aria, a intervalli regolari e ritmati, per sentire il fluire della magicka dentro di me. Calcolai con quanta più precisione potei la quantità di energia che ritenevo mi fosse necessaria.

Una volta individuata, mi alzai in piedi, sempre con i palmi delle mani rivolti verso la porta. Sentivo il flusso magico che si andava affievolendo nel corpo mentre lo concentravo sulle mani, che cominciarono a brillare di luce argentea. Poi, con un rapido movimento, rilasciai tutta l’energia accumulata urlando - Ammu tämä ovi!-.

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Il Custode del Sigillo. ***


Il luccichio emanato dai palmi delle mie mani tremolò e di colpo scomparve. Poi la potenza della magicka si abbattè sul muro con la potenza di un enorme maglio. L’urto che ne scaturì fu immane, ma il risultato andò ben oltre le mie più rosee speranze: il muro di solidissimo ebano si sgretolò in migliaia di frammenti che schizzarono ovunque, mentre il mio corpo cominciava  a lamentarsi per l’enorme sforzo compiuto.
Sentii Casemir esultare con un poderoso ruggito di giubilo, e con la coda dell’occhio vidi l’espressione a metà tra il terrorizzato e lo stupefatto di Ilend Vonius. –Ce l’hai fatta! Per i Nove, non ho la più pallida idea di come tu ci sia riuscito, ma l’hai disintegrato!- disse il soldato di Kvatch. Tutto quello che riuscii a dire fu un miserabile “Già…l’ho fatto”, prima di sputare a terra un grumo di sangue. Abbattere una parete del genere era un affare per studenti almeno di livello superiore dell’Università Arcana, non certo per apprendisti come me. Eppure, davanti a noi, dove una volta c’era la porta, si apriva un buco nella struttura largo abbastanza da permettere il transito a un carro trainato da buoi. Oltre il varco che avevo aperto, uno strettissimo ponte conduceva fino a un'altra torre, dalla quale sommità scaturiva un enorme fascio di luce arancio. – Quella deve essere la chiave di tutto - disse Casemir – altrimenti non vedo la ragione per la quale i Dremora volessero tenere l’ingresso così sigillato -.
- Ed è lì dentro che quei dannati mostri hanno i loro appartamenti privati, ci scommetto le mie dannatissime brache puzzolenti! – aggiunse Vonius. Casemir gli lanciò un’occhiata divertita e ne convenne. – Se quelli sono i loro appartamenti privati, allora è sicuramente lì che tengono i loro segreti, e se c’è un posto dove trovare quel Menien Goneld che dicevi, non può essere che quello – aggiunse il mio amico Bretone.
Non potevo che concordare con i miei due compagni d’avventura. Cominciammo quindi ad avanzare sullo stretto ponte, procedendo uno dietro l’altro: Casemir era l’aprifila, Ilend Vonius lo seguiva e io arrancavo a fatica dietro loro due, procedendo con una lentezza sovrumana e soppesando ogni mio singolo passo. Ecco, nel corso della mia vita ho affrontato innumerevoli creature infernali e sono passato attraverso situazioni di ogni genere; ma ancora oggi niente mi fa rabbrividire come il pensiero di aver attraversato in condizioni più che precarie i ponti di collegamento tra le torri della dimensione di Oblivion.
Arrivati alla fine del ponte, ci trovammo di fronte a un'altra delle porte ogivali caratteristiche delle costruzioni daedriche. Stavolta Casemir non ebbe alcuna difficoltà ad aprirla, ma lo spettacolo che ci si parò davanti gli fece rivoltare lo stomaco. Il Bretone cadde in ginocchio, distogliendo lo sguardo, e vomitò. Io dovetti tenere la mano sul naso e sulla bocca per non avere la stessa reazione. Ilend Vonius fissava la scena inebetito dall’orrore, con gli occhi sbarrati e la bocca semiaperta.
La stanza sembrava l’esatta riproduzione di quella che il Furfante aveva chiamato “Banchetto di Sangue”. Solamente le dimensioni cambiavano: questa era nettamente più piccola. Sospese a mezz’aria, per mezzo di enormi argani e catene, almeno una trentina di strettissime gabbie d’acciaio, delle dimensioni di un uomo adulto. Dentro di esse, quelli che una volta, forse, erano uomini e Furfanti. I corpi erano stati straziati in innumerevoli modi diversi: decapitati, impalati su orribili rostri, bruciati vivi…tutto ciò che una mente umana non avrebbe mai nemmeno avuto modo di escogitare. Ma noi sapevamo benissimo che gli umani con quello scempio non c’entravano assolutamente nulla; quella era un’opera dei Dremora, si leggeva a chiare lettere.
Ripresosi dall’improvvisa nausea, Casemir si rialzò e cominciò ad avanzare tra le gabbie, con le lacrime agli occhi. – Guardate qui…guardate. Questo è un pezzo giallo delle tuniche della Guardia cittadina di Kvatch…questo è un Furfante…questo deve essere stato un civile, o almeno non porta alcun segno di riconoscimento… - diceva, guardando all’interno delle tremende intelaiature.
Io lo seguivo passo passo, cercando a mia volta di scorgere qualche particolare in più nei cadaveri. Poco dietro di noi avanzava Ilend, che a gran voce chiamava Menian Goneld.
A un tratto, e contro ogni previsione, Menian Goneld rispose. Era chiuso nella gabbia sospesa più in alto di tutte quante. – Ilend! Ilend Vonius! Caro vecchio Ilend…sei vivo! -. L’uomo, stretto tra le strettissime sbarre della sua prigione, aveva una voce che quasi non aveva più nulla di umano. Il mio primo pensiero fu quello che doveva aver sofferto chissà cosa per mano dei Daedra. – Menian! Siamo venuti a prenderti! E’ finita, amico mio, è finita! Ti veniamo a prendere! – gli urlò Ilend Vonius dal di sotto, con un tono di voce che tradiva la sua commozione per il ritrovamento dell’amico vivo, mista all’eccitazione della prospettiva di poter finalmente riuscire a chiudere il Cancello grazie alle conoscenze dell’uomo.
Cominciammo a salire i ripidi gradini che ci portavano sempre più vicini alla gabbia di Menian. Una volta giunti sul posto però, l’iniziale felicità lasciò il posto a una crescente delusione; qualche giorno di prigionia e di tortura continua da parte dei Daedra avevano sfinito anche un uomo prestante ed atletico come Menian Goneld, che era ridotto a poco di più di una larva umana. – Apprezzo i vostri sforzi, davvero – ci disse l’uomo imprigionato – ma per me oramai è finita. Sento che la lucidità mi sta ormai abbandonando, e non posso offrirvi altro aiuto se non condividere con voi le conoscenze che appresi tempo fa durante i miei studi di occultismo. Da quanto ne so, un Cancello è sempre presidiato da un Dremora Custode del Sigillo, che è deputato alla protezione della Pietra del Sigillo. Quest’ultima è la chiave di volta dell’intero impianto; essa serve infatti a convogliare e a stabilizzare l’energia daedrica, che sarebbe altrimenti immateriale nella dimensione tamrielica. Se gli studi sono esatti, una volta rimossa la Pietra del Sigillo, l’intero Cancello dovrebbe collassare su se stesso, e con esso tutto quello che ne è uscito -.
Il volto di Casemir si scurì. – Dove possiamo trovare questa Pietra del Sigillo, Goneld? – chiese a quel povero disgraziato. – E soprattutto, se ci troviamo ancora all’interno del Cancello mentre il Sigillo viene rimosso, che ne sarà di noi? -. Effettivamente io non avevo minimamente pensato a quel fatto, e l’idea di dover trascorrere l’eternità in Oblivion mi sembrava davvero poco allettante.
- Hai poca fede in me, straniero. Mi pare di aver detto che tutto ciò che è USCITO dal Cancello collassi con esso. E voi siete entrati qui, non appartenete all’Oblivion…almeno per ora. Rimanete vivi, e questo dovrebbe bastare affinchè questo dannato Cancello vi sputi fuori – rispose Menian Goneld. Ilend Vonius intanto stava cercando un modo per aprire la gabbia dell’amico, ma tutto sembrava inutile. – E’ inutile, amico mio – disse mestamente Menian – è ebano, non riuscirai mai ad aprirlo. E poi la mia ora è giunta. Muoio con la consolazione di aver fatto il possibile per salvare voi e quello che rimane della mia adorata Kvatch…-. Detto ciò, l’uomo si rannicchiò su se stesso, mise la testa tra le ginocchia e cominciò a lamentarsi piano.
- Non arrenderti, Menian! Non arrenderti! Guarda, quest’uomo è un mago…può aiutarti ad uscire, può curarti! Menian! C’è ancora speran…- KLAK.
La frase di Ilend Vonius si interruppe proprio sulla parola “speranza”. L’uomo si portò le mani alla gola, dove una lunga freccia nera gli aveva trapassato la trachea. Il soldato di Kvatch cadde all’indietro gorgogliando, mentre io e Casemir assistevamo stupefatti alla scena. – Non dovevate venire qui, mortali. E’ stato un grosso sbaglio. Il Sigillum Sanguis non sarà spezzato a causa vostra…almeno finchè ci sarò io a custodirlo. Morirete qui, come l’altro umano che vi accompagnava.
Una voce rauca e metallica ci stava apostrofando così. Apparteneva a Mimlir, Alto Dremora Valkynaz, custode del Sigillo di Kvatch, luogotenente di Mehrunes Dagon in persona. Che era in piedi davanti a noi, ricoperto dalla scintillante armatura daedrica che sembrava composta da lava pura, mentre riponeva il suo lungo arco da guerra dietro la schiena.
 Il luccichio emanato dai palmi delle mie mani tremolò e di colpo scomparve. Poi la potenza della magicka si abbattè sul muro con la potenza di un enorme maglio. L’urto che ne scaturì fu immane, ma il risultato andò ben oltre le mie più rosee speranze: il muro di solidissimo ebano si sgretolò in migliaia di frammenti che schizzarono ovunque, mentre il mio corpo cominciava  a lamentarsi per l’enorme sforzo compiuto.
Sentii Casemir esultare con un poderoso ruggito di giubilo, e con la coda dell’occhio vidi l’espressione a metà tra il terrorizzato e lo stupefatto di Ilend Vonius. –Ce l’hai fatta! Per i Nove, non ho la più pallida idea di come tu ci sia riuscito, ma l’hai disintegrato!- disse il soldato di Kvatch. Tutto quello che riuscii a dire fu un miserabile “Già…l’ho fatto”, prima di sputare a terra un grumo di sangue. Abbattere una parete del genere era un affare per studenti almeno di livello superiore dell’Università Arcana, non certo per apprendisti come me. Eppure, davanti a noi, dove una volta c’era la porta, si apriva un buco nella struttura largo abbastanza da permettere il transito a un carro trainato da buoi. Oltre il varco che avevo aperto, uno strettissimo ponte conduceva fino a un'altra torre, dalla quale sommità scaturiva un enorme fascio di luce arancio. – Quella deve essere la chiave di tutto - disse Casemir – altrimenti non vedo la ragione per la quale i Dremora volessero tenere l’ingresso così sigillato -.
- Ed è lì dentro che quei dannati mostri hanno i loro appartamenti privati, ci scommetto le mie dannatissime brache puzzolenti! – aggiunse Vonius. Casemir gli lanciò un’occhiata divertita e ne convenne. – Se quelli sono i loro appartamenti privati, allora è sicuramente lì che tengono i loro segreti, e se c’è un posto dove trovare quel Menien Goneld che dicevi, non può essere che quello – aggiunse il mio amico Bretone.
Non potevo che concordare con i miei due compagni d’avventura. Cominciammo quindi ad avanzare sullo stretto ponte, procedendo uno dietro l’altro: Casemir era l’aprifila, Ilend Vonius lo seguiva e io arrancavo a fatica dietro loro due, procedendo con una lentezza sovrumana e soppesando ogni mio singolo passo. Ecco, nel corso della mia vita ho affrontato innumerevoli creature infernali e sono passato attraverso situazioni di ogni genere; ma ancora oggi niente mi fa rabbrividire come il pensiero di aver attraversato in condizioni più che precarie i ponti di collegamento tra le torri della dimensione di Oblivion.
Arrivati alla fine del ponte, ci trovammo di fronte a un'altra delle porte ogivali caratteristiche delle costruzioni daedriche. Stavolta Casemir non ebbe alcuna difficoltà ad aprirla, ma lo spettacolo che ci si parò davanti gli fece rivoltare lo stomaco. Il Bretone cadde in ginocchio, distogliendo lo sguardo, e vomitò. Io dovetti tenere la mano sul naso e sulla bocca per non avere la stessa reazione. Ilend Vonius fissava la scena inebetito dall’orrore, con gli occhi sbarrati e la bocca semiaperta.
La stanza sembrava l’esatta riproduzione di quella che il Furfante aveva chiamato “Banchetto di Sangue”. Solamente le dimensioni cambiavano: questa era nettamente più piccola. Sospese a mezz’aria, per mezzo di enormi argani e catene, almeno una trentina di strettissime gabbie d’acciaio, delle dimensioni di un uomo adulto. Dentro di esse, quelli che una volta, forse, erano uomini e Furfanti. I corpi erano stati straziati in innumerevoli modi diversi: decapitati, impalati su orribili rostri, bruciati vivi…tutto ciò che una mente umana non avrebbe mai nemmeno avuto modo di escogitare. Ma noi sapevamo benissimo che gli umani con quello scempio non c’entravano assolutamente nulla; quella era un’opera dei Dremora, si leggeva a chiare lettere.
Ripresosi dall’improvvisa nausea, Casemir si rialzò e cominciò ad avanzare tra le gabbie, con le lacrime agli occhi. – Guardate qui…guardate. Questo è un pezzo giallo delle tuniche della Guardia cittadina di Kvatch…questo è un Furfante…questo deve essere stato un civile, o almeno non porta alcun segno di riconoscimento… - diceva, guardando all’interno delle tremende intelaiature.
Io lo seguivo passo passo, cercando a mia volta di scorgere qualche particolare in più nei cadaveri. Poco dietro di noi avanzava Ilend, che a gran voce chiamava Menian Goneld.
A un tratto, e contro ogni previsione, Menian Goneld rispose. Era chiuso nella gabbia sospesa più in alto di tutte quante. – Ilend! Ilend Vonius! Caro vecchio Ilend…sei vivo! -. L’uomo, stretto tra le strettissime sbarre della sua prigione, aveva una voce che quasi non aveva più nulla di umano. Il mio primo pensiero fu quello che doveva aver sofferto chissà cosa per mano dei Daedra. – Menian! Siamo venuti a prenderti! E’ finita, amico mio, è finita! Ti veniamo a prendere! – gli urlò Ilend Vonius dal di sotto, con un tono di voce che tradiva la sua commozione per il ritrovamento dell’amico vivo, mista all’eccitazione della prospettiva di poter finalmente riuscire a chiudere il Cancello grazie alle conoscenze dell’uomo.
Cominciammo a salire i ripidi gradini che ci portavano sempre più vicini alla gabbia di Menian. Una volta giunti sul posto però, l’iniziale felicità lasciò il posto a una crescente delusione; qualche giorno di prigionia e di tortura continua da parte dei Daedra avevano sfinito anche un uomo prestante ed atletico come Menian Goneld, che era ridotto a poco di più di una larva umana. – Apprezzo i vostri sforzi, davvero – ci disse l’uomo imprigionato – ma per me oramai è finita. Sento che la lucidità mi sta ormai abbandonando, e non posso offrirvi altro aiuto se non condividere con voi le conoscenze che appresi tempo fa durante i miei studi di occultismo. Da quanto ne so, un Cancello è sempre presidiato da un Dremora Custode del Sigillo, che è deputato alla protezione della Pietra del Sigillo. Quest’ultima è la chiave di volta dell’intero impianto; essa serve infatti a convogliare e a stabilizzare l’energia daedrica, che sarebbe altrimenti immateriale nella dimensione tamrielica. Se gli studi sono esatti, una volta rimossa la Pietra del Sigillo, l’intero Cancello dovrebbe collassare su se stesso, e con esso tutto quello che ne è uscito -.
Il volto di Casemir si scurì. – Dove possiamo trovare questa Pietra del Sigillo, Goneld? – chiese a quel povero disgraziato. – E soprattutto, se ci troviamo ancora all’interno del Cancello mentre il Sigillo viene rimosso, che ne sarà di noi? -. Effettivamente io non avevo minimamente pensato a quel fatto, e l’idea di dover trascorrere l’eternità in Oblivion mi sembrava davvero poco allettante.
- Hai poca fede in me, straniero. Mi pare di aver detto che tutto ciò che è USCITO dal Cancello collassi con esso. E voi siete entrati qui, non appartenete all’Oblivion…almeno per ora. Rimanete vivi, e questo dovrebbe bastare affinchè questo dannato Cancello vi sputi fuori – rispose Menian Goneld. Ilend Vonius intanto stava cercando un modo per aprire la gabbia dell’amico, ma tutto sembrava inutile. – E’ inutile, amico mio – disse mestamente Menian – è ebano, non riuscirai mai ad aprirlo. E poi la mia ora è giunta. Muoio con la consolazione di aver fatto il possibile per salvare voi e quello che rimane della mia adorata Kvatch…-. Detto ciò, l’uomo si rannicchiò su se stesso, mise la testa tra le ginocchia e cominciò a lamentarsi piano.
- Non arrenderti, Menian! Non arrenderti! Guarda, quest’uomo è un mago…può aiutarti ad uscire, può curarti! Menian! C’è ancora speran…- KLAK.
La frase di Ilend Vonius si interruppe proprio sulla parola “speranza”. L’uomo si portò le mani alla gola, dove una lunga freccia nera gli aveva trapassato la trachea. Il soldato di Kvatch cadde all’indietro gorgogliando, mentre io e Casemir assistevamo stupefatti alla scena. – Non dovevate venire qui, mortali. E’ stato un grosso sbaglio. Il Sigillum Sanguis non sarà spezzato a causa vostra…almeno finchè ci sarò io a custodirlo. Morirete qui, come l’altro umano che vi accompagnava.
Una voce rauca e metallica ci stava apostrofando così. Apparteneva a Mimlir, Alto Dremora Valkynaz, custode del Sigillo di Kvatch, luogotenente di Mehrunes Dagon in persona. Che era in piedi davanti a noi, ricoperto dalla scintillante armatura daedrica che sembrava composta da lava pura, mentre riponeva il suo lungo arco da guerra dietro la schiena.
 Il luccichio emanato dai palmi delle mie mani tremolò e di colpo scomparve. Poi la potenza della magicka si abbattè sul muro con la potenza di un enorme maglio. L’urto che ne scaturì fu immane, ma il risultato andò ben oltre le mie più rosee speranze: il muro di solidissimo ebano si sgretolò in migliaia di frammenti che schizzarono ovunque, mentre il mio corpo cominciava  a lamentarsi per l’enorme sforzo compiuto.
Sentii Casemir esultare con un poderoso ruggito di giubilo, e con la coda dell’occhio vidi l’espressione a metà tra il terrorizzato e lo stupefatto di Ilend Vonius. –Ce l’hai fatta! Per i Nove, non ho la più pallida idea di come tu ci sia riuscito, ma l’hai disintegrato!- disse il soldato di Kvatch. Tutto quello che riuscii a dire fu un miserabile “Già…l’ho fatto”, prima di sputare a terra un grumo di sangue. Abbattere una parete del genere era un affare per studenti almeno di livello superiore dell’Università Arcana, non certo per apprendisti come me. Eppure, davanti a noi, dove una volta c’era la porta, si apriva un buco nella struttura largo abbastanza da permettere il transito a un carro trainato da buoi. Oltre il varco che avevo aperto, uno strettissimo ponte conduceva fino a un'altra torre, dalla quale sommità scaturiva un enorme fascio di luce arancio. – Quella deve essere la chiave di tutto - disse Casemir – altrimenti non vedo la ragione per la quale i Dremora volessero tenere l’ingresso così sigillato -.
- Ed è lì dentro che quei dannati mostri hanno i loro appartamenti privati, ci scommetto le mie dannatissime brache puzzolenti! – aggiunse Vonius. Casemir gli lanciò un’occhiata divertita e ne convenne. – Se quelli sono i loro appartamenti privati, allora è sicuramente lì che tengono i loro segreti, e se c’è un posto dove trovare quel Menien Goneld che dicevi, non può essere che quello – aggiunse il mio amico Bretone.
Non potevo che concordare con i miei due compagni d’avventura. Cominciammo quindi ad avanzare sullo stretto ponte, procedendo uno dietro l’altro: Casemir era l’aprifila, Ilend Vonius lo seguiva e io arrancavo a fatica dietro loro due, procedendo con una lentezza sovrumana e soppesando ogni mio singolo passo. Ecco, nel corso della mia vita ho affrontato innumerevoli creature infernali e sono passato attraverso situazioni di ogni genere; ma ancora oggi niente mi fa rabbrividire come il pensiero di aver attraversato in condizioni più che precarie i ponti di collegamento tra le torri della dimensione di Oblivion.
Arrivati alla fine del ponte, ci trovammo di fronte a un'altra delle porte ogivali caratteristiche delle costruzioni daedriche. Stavolta Casemir non ebbe alcuna difficoltà ad aprirla, ma lo spettacolo che ci si parò davanti gli fece rivoltare lo stomaco. Il Bretone cadde in ginocchio, distogliendo lo sguardo, e vomitò. Io dovetti tenere la mano sul naso e sulla bocca per non avere la stessa reazione. Ilend Vonius fissava la scena inebetito dall’orrore, con gli occhi sbarrati e la bocca semiaperta.
La stanza sembrava l’esatta riproduzione di quella che il Furfante aveva chiamato “Banchetto di Sangue”. Solamente le dimensioni cambiavano: questa era nettamente più piccola. Sospese a mezz’aria, per mezzo di enormi argani e catene, almeno una trentina di strettissime gabbie d’acciaio, delle dimensioni di un uomo adulto. Dentro di esse, quelli che una volta, forse, erano uomini e Furfanti. I corpi erano stati straziati in innumerevoli modi diversi: decapitati, impalati su orribili rostri, bruciati vivi…tutto ciò che una mente umana non avrebbe mai nemmeno avuto modo di escogitare. Ma noi sapevamo benissimo che gli umani con quello scempio non c’entravano assolutamente nulla; quella era un’opera dei Dremora, si leggeva a chiare lettere.
Ripresosi dall’improvvisa nausea, Casemir si rialzò e cominciò ad avanzare tra le gabbie, con le lacrime agli occhi. – Guardate qui…guardate. Questo è un pezzo giallo delle tuniche della Guardia cittadina di Kvatch…questo è un Furfante…questo deve essere stato un civile, o almeno non porta alcun segno di riconoscimento… - diceva, guardando all’interno delle tremende intelaiature.
Io lo seguivo passo passo, cercando a mia volta di scorgere qualche particolare in più nei cadaveri. Poco dietro di noi avanzava Ilend, che a gran voce chiamava Menian Goneld.
A un tratto, e contro ogni previsione, Menian Goneld rispose. Era chiuso nella gabbia sospesa più in alto di tutte quante. – Ilend! Ilend Vonius! Caro vecchio Ilend…sei vivo! -. L’uomo, stretto tra le strettissime sbarre della sua prigione, aveva una voce che quasi non aveva più nulla di umano. Il mio primo pensiero fu quello che doveva aver sofferto chissà cosa per mano dei Daedra. – Menian! Siamo venuti a prenderti! E’ finita, amico mio, è finita! Ti veniamo a prendere! – gli urlò Ilend Vonius dal di sotto, con un tono di voce che tradiva la sua commozione per il ritrovamento dell’amico vivo, mista all’eccitazione della prospettiva di poter finalmente riuscire a chiudere il Cancello grazie alle conoscenze dell’uomo.
Cominciammo a salire i ripidi gradini che ci portavano sempre più vicini alla gabbia di Menian. Una volta giunti sul posto però, l’iniziale felicità lasciò il posto a una crescente delusione; qualche giorno di prigionia e di tortura continua da parte dei Daedra avevano sfinito anche un uomo prestante ed atletico come Menian Goneld, che era ridotto a poco di più di una larva umana. – Apprezzo i vostri sforzi, davvero – ci disse l’uomo imprigionato – ma per me oramai è finita. Sento che la lucidità mi sta ormai abbandonando, e non posso offrirvi altro aiuto se non condividere con voi le conoscenze che appresi tempo fa durante i miei studi di occultismo. Da quanto ne so, un Cancello è sempre presidiato da un Dremora Custode del Sigillo, che è deputato alla protezione della Pietra del Sigillo. Quest’ultima è la chiave di volta dell’intero impianto; essa serve infatti a convogliare e a stabilizzare l’energia daedrica, che sarebbe altrimenti immateriale nella dimensione tamrielica. Se gli studi sono esatti, una volta rimossa la Pietra del Sigillo, l’intero Cancello dovrebbe collassare su se stesso, e con esso tutto quello che ne è uscito -.
Il volto di Casemir si scurì. – Dove possiamo trovare questa Pietra del Sigillo, Goneld? – chiese a quel povero disgraziato. – E soprattutto, se ci troviamo ancora all’interno del Cancello mentre il Sigillo viene rimosso, che ne sarà di noi? -. Effettivamente io non avevo minimamente pensato a quel fatto, e l’idea di dover trascorrere l’eternità in Oblivion mi sembrava davvero poco allettante.
- Hai poca fede in me, straniero. Mi pare di aver detto che tutto ciò che è USCITO dal Cancello collassi con esso. E voi siete entrati qui, non appartenete all’Oblivion…almeno per ora. Rimanete vivi, e questo dovrebbe bastare affinchè questo dannato Cancello vi sputi fuori – rispose Menian Goneld. Ilend Vonius intanto stava cercando un modo per aprire la gabbia dell’amico, ma tutto sembrava inutile. – E’ inutile, amico mio – disse mestamente Menian – è ebano, non riuscirai mai ad aprirlo. E poi la mia ora è giunta. Muoio con la consolazione di aver fatto il possibile per salvare voi e quello che rimane della mia adorata Kvatch…-. Detto ciò, l’uomo si rannicchiò su se stesso, mise la testa tra le ginocchia e cominciò a lamentarsi piano.
- Non arrenderti, Menian! Non arrenderti! Guarda, quest’uomo è un mago…può aiutarti ad uscire, può curarti! Menian! C’è ancora speran…- KLAK.
La frase di Ilend Vonius si interruppe proprio sulla parola “speranza”. L’uomo si portò le mani alla gola, dove una lunga freccia nera gli aveva trapassato la trachea. Il soldato di Kvatch cadde all’indietro gorgogliando, mentre io e Casemir assistevamo stupefatti alla scena. – Non dovevate venire qui, mortali. E’ stato un grosso sbaglio. Il Sigillum Sanguis non sarà spezzato a causa vostra…almeno finchè ci sarò io a custodirlo. Morirete qui, come l’altro umano che vi accompagnava.
Una voce rauca e metallica ci stava apostrofando così. Apparteneva a Mimlir, Alto Dremora Valkynaz, custode del Sigillo di Kvatch, luogotenente di Mehrunes Dagon in persona. Che era in piedi davanti a noi, ricoperto dalla scintillante armatura daedrica che sembrava composta da lava pura, mentre riponeva il suo lungo arco da guerra dietro la schiena.
 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=768247