Century Child - I. Innocence di Lady Vibeke (/viewuser.php?uid=32775)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** PROLOGO ***
Capitolo 2: *** Figlia del Nulla ***
Capitolo 3: *** La Lega ***
Capitolo 4: *** La Città-Gioiello ***
Capitolo 5: *** Ritorno Al Mondo ***
Capitolo 6: *** Incontri ***
Capitolo 7: *** Persefone ***
Capitolo 8: *** Piani Nell'Ombra ***
Capitolo 9: *** Tre Gocce Di Belladonna ***
Capitolo 10: *** Ritratto Di Famiglia ***
Capitolo 11: *** Frittelle E Sidro Di Mele ***
Capitolo 12: *** La Fonte Della Vita ***
Capitolo 13: *** Briciole ***
Capitolo 14: *** La Dama Del Cavaliere Nero ***
Capitolo 15: *** Una Lacrima Dal Cielo ***
Capitolo 16: *** La Casa Nell'Albero ***
Capitolo 17: *** Scheletri e Fantasmi ***
Capitolo 18: *** L'Altro Segreto di Lucius ***
Capitolo 19: *** Tra Incubo e Realtà ***
Capitolo 20: *** Al Calare Delle Tenebre ***
Capitolo 21: *** Fiori di Serra ***
Capitolo 22: *** L'Anello Mancante ***
Capitolo 23: *** Imprevisti ***
Capitolo 24: *** Shar Caras ***
Capitolo 25: *** Verità ***
Capitolo 26: *** Ritorno Al Passato ***
Capitolo 27: *** Tutto Ciò Che Resta ***
Capitolo 28: *** Dalle Ceneri ***
Capitolo 29: *** Con la Spada e con il Sangue ***
Capitolo 1 *** PROLOGO ***
I'm
searching for answers
Not questioned before
The curse of awareness
There's no peace of mind
As your true colours show
A dangerous sign
It’s
in your eyes
- A
Dangerous Mind, Within Temptation -
PROLOGO
Somerge
era un piccolo borgo all’estremo
sud-est della Terra di Asante i cui abitanti, abituati alla serena
tranquillità
della vita campagnola, poco avrebbero gradito la presenza della alta
sagoma
nera che, le mani affondate in tasca, si aggirava indisturbata per le
stradine
del paese, fischiettando un motivetto sommesso nella caliginosa foschia
notturna.
Non
c’era nulla di strano in un
ragazzo che camminava facendosi i fatti suoi, non fosse stato che il
ragazzo in
questione, oltre a un lungo pastrano di pelle – roba da
loschi criminali, secondo
l’opinione popolare – che contrastava vistosamente
con il pallore del suo
incarnato, sfoggiasse anche, e con un certo orgoglio, una lunga coda di
capelli
neri come la pece e una piccola zanna appuntita che gli pendeva
all’orecchio
sinistro. Il suo aspetto sarebbe parso bizzarro e vagamente minaccioso
nelle
maggiori città delle Sette Terre, figurarsi cosa ne
avrebbero detto in un
minuscolo villaggio come quello.
Un
grosso corvo nero lo seguiva
fedelmente, svolazzando da un davanzale all’altro, da un
lampione all’altro,
senza perderlo mai di vista. Di tanto in tanto, sfiorato dalla sua
ombra che lo
sorvolava, Lucius sollevava lo sguardo con un sorriso sbilenco, come
per fargli
capire che non si era scordato di lui, e poi lo riabbassava,
proseguendo come
nulla fosse.
Una
volta sola Rok gli aveva
risposto con una gracchiata di rimprovero, che era riuscita a
strappargli una
breve risata sommessa.
Se
non fossero stati tutti
addormentati nei loro letti, i benpensanti che abitavano le casupole
in pietra
che fiancheggiavano la stradina lastricata probabilmente lo avrebbero
additato
con orrore e accusato di essere un mercenario in cerca di
rarità da rubare, o
qualcosa di analogo. D’altronde non si sarebbero poi nemmeno
sbagliati di
molto. Una volta, mentre visitava in incognito una cittadina nelle
terre degli
umani, era stato apostrofato come figlio del demonio e aveva sorriso,
interrogandosi su quale sarebbe potuta essere la reazione di quella
gente nello
scoprire che, in effetti, era lui stesso un demone.
Creature
affascinanti, gli umani.
Le
leggende sovrannaturali che
sembravano tanto intrigarli, in fondo, erano nate così:
qualcuno aveva
raccontato una storia – più o meno vera
che fosse – e quella storia aveva viaggiato di bocca in
bocca, acquisendo ogni
volta nuovi particolari e finendo così per affermarsi tra le
credenze popolari.
Bastava un nonnulla, a volte, e la superstizione e il fanatismo
facevano il
resto. Alcuni ci credevano davvero, altri le ritenevano solo sciocche
favole
per bambini, ma quasi nessuno aveva una vera e propria idea di dove
poggiassero
le fondamenta di certe storie. C’era chi incontrava un demone
o un angelo per
strada, o in una taverna, e nemmeno se ne rendeva conto. Certo, era
raro che
qualcuno degli Occulti decidesse di fare spontaneamente visita alle
zone di
insediamenti umani al di là dell’oceano; quando
capitava, si trattava per lo
più di ricognizioni di qualche membro della Lega che andava
ad assicurarsi che
tutto fosse sotto controllo.
Senza
saperlo, gli umani
fantasticavano da sempre sul Mondo Occulto, congetturando di
strabilianti poteri
magici e guerre millenarie tra Bene e Male. Su alcune cose avevano
avuto delle
giuste intuizioni, su molte altre si sarebbero sbagliati di grosso fino
alla
fine dei loro giorni.
Pochi
di loro – o più probabilmente
nessuno – avrebbero creduto che quell’affascinante
giovane che spesso appariva
– come dal nulla – dalle loro parti fosse un demone
di quarantasette anni in
cerca di svago. A tutti gli effetti, la sola cosa che distinguesse
Lucius da un
comune mortale erano dei poteri sovrumani e una vita nettamente
più longeva,
più del doppio rispetto a quella media degli umani, che si
aggirava attorno a
sessanta miseri anni.
Molto
volte Lucius, nel suo
vagabondare, si era conquistato un’occhiatina di
apprezzamento da parte di
qualche fanciulla umana incrociata per strada, oppure aveva rimesso al
suo
posto qualche ubriacone molesto in vena di risse, e nessuno aveva mai
sospettato niente. Gli piaceva stare in mezzo agli umani: avevano un
modo del
tutto diverso di vedere le cose, di abitare il mondo. Spesso si
dimostravano
ingenui, a volte anche patetici, ma nessuna era perfetto.
Di
per sé, era sempre stato uno
di poche pretese, ma soprattutto, e orgogliosamente, un inguaribile
romantico. Amava
le lunghe passeggiate notturne, sentirsi il cielo sopra la testa che
contava i
suoi passi mentre il buon profumo di freddo gli riempiva i polmoni.
Riusciva
persino a commuoversi di fronte alle gocce di rugiada che imperlavano
le
ragnatele sui cespugli di more nei boschi.
Nella
sua pur giovane vita ne
aveva viste di tutti i colori – e per lo più si
era trattato di colori macabri
e cupi, sporchi di crimini che preferiva non ricordare – ma
non aveva mai perso
la capacità di stupirsi e meravigliarsi davanti alla
bellezza delle cose.
La
Madre era come un immenso
scrigno che custodiva tesori che la maggior parte delle creature che la
abitavano non sarebbero mai state in grado di vedere veramente. Gli
umani era
troppo occupati a inventarsi nuovi modi per complicarsi
l’esistenza e nuocere
sempre più gravemente al ventre terreno che aveva donato
loro la vita; le razze
degli Occulti – angeli o demoni che fossero – erano
invece divise tra coloro
che lottavano quotidianamente per riparare ai danni causati dagli
esseri umani,
coloro che non se ne curavano minimamente e, ancora, coloro che
procuravano
danni persino peggiori.
Lui
apparteneva attualmente alla
prima categoria, e tuttavia non si era mai privato del sottile piacere
di
godersi un bosco in autunno, o un lungomare accarezzato dalle sfumature
violacee di un crepuscolo, o semplicemente sedersi su un muretto a
osservare la
frenesia quasi ridicola delle grandi città, con i loro
mercati, le osterie, le
fiere per la vendemmia e il raccolto. Sotto certi punti di vista, gli
umani
rappresentavano un gigantesco, affascinante mistero, per lui.
La
suola spessa dei pesanti stivali
calpestava senza quasi fare rumore il lastricato umido, uno specchio
sfocato
che rifletteva fiocamente le luci gialle dei lampioni e delle lanterne
delle
abitazioni e la volta scura del cielo nuvoloso. L’odore
intenso di pioggia che
impregnava l’aria lasciava presagire un temporale imminente.
Non
c’era anima viva, in giro.
Sporadicamente,
in lontananza, si
potevano udire i richiami acuti di qualche animale selvatico
trasportati dal
vento che serpeggiava tra gli alberi come una carezza incorporea, ma a
parte
quello, il silenzio era il sovrano incontrastato della notte.
La
via principale aveva inizio
nella piazzetta del Tempio, nel cuore del paese, e da lì
scendeva gradualmente nel
centro abitato, conducendo direttamente nell’aperta campagna,
trasformandosi
via via in un serpente di terra battuta che si perdeva tra i meandri
del
territorio.
La
solennità della colline
addormentate ricreava un’atmosfera lugubre, abbracciando ogni
cosa in una fitta
coltre di ombre nebbiose, e la valle, cullata dallo scorrere pigro del
fiume,
era immersa nella sua stessa tranquillità, racchiusa tra
soffici mura verdi e
scure.
La
bruma dei boschi era densa e
odorava intensamente di ghiaccio. L’inverno non era la
stagione più adatta per
godersi quella zona, soprattutto di notte, ma a Lucius non importava
più di
tanto.
I
climi rigidi gli facevano
tornare i mente luoghi e persone distanti ma a lui molto cari e di cui
spesso,
pur non rimanendone mai lontano molto a lungo, sentiva una mancanza fin
troppo
dolorosa.
Casa è dove lasci il cuore.
Chiuse
gli occhi per un momento
per scacciare quei pensieri. Non era il momento di perdersi nella
nostalgia.
La zona sembrava deserta,
placida e quieta sotto
a un cielo livido e gonfio di pioggia. A parte un frullio
d’ali echeggiante
nella lontananza, se c’era qualche rumore da sentire, il
vento freddo lo
copriva.
Appena
uscito dalla fitta
vegetazione del boschetto ai piedi della cittadina, Lucius si
ritrovò a
fronteggiare il pendio roccioso che si stagliava come una torre nel
mezzo della
pianura: la ripida parete, ricoperta di arbusti selvatici e sterpaglie,
saliva
in un profilo discontinuo fino alla cima, quella notte completamente
inghiottita da basse nuvole fumose. Era lassù che si
trovava: la Corte, dimora e
quartier generale della più grande organizzazione criminale
del Mondo Occulto,
e forse dell’intero pianeta.
Appariva
agli occhi degli
abitanti delle campagne circostanti come un vecchio rudere in rovina e
i
sigilli che lo proteggevano facevano sì che a nessuno
potesse anche solo venire
il mente di tentare di avventurarsi fin lassù. La mancanza
totale di vie
d’accesso tra le rocce scoscese e di nascondigli, inoltre,
scoraggiava
qualunque potenziale scocciatore dal tentare di avvicinarsi. Non che
non ci
fossero altri modi meno scontati di passare inosservati: semplicemente,
nessuno
che sapesse cosa l’aspettava, lassù, era
così stolto da voler capitare nei
pressi della Corte di Ganus Desmond.
Lucius,
in ogni caso, non si
considerava un qualunque potenziale scocciatore: più di una
volta, in passato,
gli era capitato di varcare i confini di quel luoghi, e quel poco che
aveva
avuto modo di vedere gli era bastato per una vita intera.
C’era
un detto che da secoli
circolava su quel luogo: se riuscivi a entrare alla Corte, o ne uscivi
che non
eri più lo stesso, o non ne uscivi affatto.
Si
fermò in mezzo al sentiero,
restando in ascolto: il silenzio era tanto e tale da essere inquietante.
Molte
volte gli era capitato di
perlustrare quell’area, per dovere o per piacere personale,
ma mai aveva
trovato quella calma surreale. I suoi sensi non percepivano altro che
inquietante immobilità.
Qualcosa
non andava.
I
suoi occhi vagarono ovunque
alla ricerca di qualche segno, di qualcosa di anomalo, senza trovare
alcunché
di sospetto. Se voleva vedere oltre le nubi, doveva avvicinarsi di
più.
Con
un balzo deciso atterrò su
una sporgenza di roccia e con un secondo giunse fin sopra lo spiazzo
erboso che
circondava la Corte. Non accadde nulla.
Erano
anni che non si avvicinava
tanto al confine segnato da potenti sigilli attorno al perimetro del
maniero.
Normalmente, un intruso avrebbe risentito degli influssi del sortilegio
difensivo già ai piedi della rupe. Se lui era giunto fin
lì, ci doveva sicuramente
essere da preoccuparsi. Si sollevò lentamente in piedi,
scrutandosi intorno con
circospezione attraverso i densi banchi di nebbia, il fruscio delle ali
di Rok
alle sue spalle. Non un rumore, non una voce, non un sussurro.
Risoluto,
protese una mano verso il cielo e chiamò a sé il
soffio del vento, il quale in
pochi secondi, vorticando attorno a lui e per tutta la vetta,
spazzò via le
nuvole, spalancandogli davanti una visuale perfetta sotto ai raggi
lunari. Quello
che Lucius si ritrovò di fronte, però, non era
ciò che si era aspettato.
Rimase
a bocca aperta.
Dove
una volta c’era stato il
maestoso castello antico, ora non restavano che ruderi e macerie,
spazzate da
deboli aliti di vento: enormi blocchi di pietra scura ricoperta di
muschio
giacevano sul prato attorno a un esile scheletro di arcate e scalinate,
uniche
parti superstiti dell’intera, gigantesca struttura. Era come
se il castello
fosse stato assediato e distrutto da interi eserciti. Un intenso odore
di morte
incombeva su quello spettacolo raggelante.
Ferro, acqua, e vita evaporata.
Lucius
sapeva che da una parte
avrebbe dovuto esultare: in secoli di storia, nessuno era mai riuscito
a
distruggere o anche solo intaccare quella fortezza, custode di orrori e
crudeltà che la maggior parte della gente non avrebbe
nemmeno potuto
immaginare, ma proprio qui si presentava il rovescio della medaglia:
chi poteva
mai essere tanto potente da radere al suolo uno dei siti più
inviolabili che
fossero mai esistiti?
Rabbrividì.
Decise che si sarebbe
curato in un secondo momento dei come e dei chi, e soprattutto dei
perché.
Si
avvicinò con cautela al cumulo
di macerie. Sotto al manto di velluto grigio scuro della notte, tutto
era
immobile, prigioniero di una stasi che faceva ghiacciare il sangue
nelle vene.
Qualcosa di terribile si era consumato lassù, non molte ore
prima.
Si
avvicinò ancora e studiò
meglio la situazione: nel buio denso riuscì a individuare
corpi privi di vita
scacchiati tra i macigni, orbite rovesciate in un’agonia
sgomenta. Era accaduto
tutto all’improvviso, intuì. Erano stati colti
tutti di sorpresa.
Chissà
se Desmond si trovava là
in mezzo, sepolto assieme ai suoi, o se invece aveva scampato la
tragedia, in
qualche modo.
Lucius
si disse che l’ipotesi più
probabile era la seconda: i peggiori erano i più duri a
morire e Desmond
trascorreva lunghi periodi lontano dalla sua Corte, per controllare da
vicino
le cellule della sua congrega o alla ricerca di fonti di potere da fare
proprie, a qualunque prezzo, con qualunque mezzo. Era fortemente
probabile che
nemmeno fosse a conoscenza dell’accaduto, e, in quel caso,
avrebbe fatto meglio
ad avvertire immediatamente il quartier generale. Non era nemmeno
prudente
rimanere lì da solo, senza rinforzi.
Stava
per girare sui tacchi e
tornare da dov’era venuto, quando qualcosa attirò
la sua attenzione: alla luce
improvvisa di un lampo, distinse una grossa macchia rossa sul bianco
opaco di
una lastra di marmo.
Osservò
meglio: adagiato a peso
morto sulla pietra c’era un corpo, ricoperto di polvere e
sangue. Sembrava molto
giovane – una ragazza – ed era senza dubbio un
demone, anche se Lucius non
aveva mai visto nessuno come lei.
Si
accostò con cautela e si
inginocchiò. I lunghissimi capelli, sparsi
tutt’intorno a lei, erano di un
colore innaturale, un rosso intenso e vivo, identico a quello del
sangue che le
rigava il viso e le mani e le impregnava i vestiti: la macchia rossa
che aveva
attirato la sua attenzione. Era pallida, così pallida da non
lasciare dubbi se
potesse essere ancora viva. Aveva gli occhi aperti, sbarrati, colmi di
un’emozione violenta che Lucius non riuscì a
distinguere. Erano grandi, a
mandorla, anch’essi di una tonalità innaturale,
verdi e luminosi, eppure
inspiegabilmente adombrati. C’era qualcosa di umano nel
dolore che
riflettevano.
Con
tutti quei cadaveri, pensò, i
Liberatori avrebbero avuto un gran bel daffare, non appena la Lega
fosse stata
informata dell’accaduto.
Mosso
a pietà, si avvicinò,
chinandosi per chiuderle le palpebre, quando all’improvviso
una goccia di
pioggia cadde sul viso cereo della ragazza e lo solcò lenta,
tingendosi di
rosso mentre le moriva sulle labbra. Fu allora che si accorse della
debolissima
condensa di vapore che si sollevava dalla sua bocca.
Sussultò, sorpreso: era
viva, allora. Le appoggiò due dita sulla giugulare e la
osservò con più
attenzione: era gelida e immobile, ma il suo cuore, seppur quasi
impercettibilmente, batteva ancora.
–
Mi senti? – le disse,
scostandole una ciocca di capelli dal viso incrostato di sangue. Lei
non
rispose né si mosse, ma nel suo sguardo si accese qualcosa.
Nervoso, Lucius si
accertò che non avesse ferite particolarmente gravi o ossa
rotte, poi la
sollevò delicatamente tra le proprie braccia. Era esile,
leggera. Non era il
tipo da fidarsi senza sospetti di una situazione così
singolare, a maggior
ragione visto il luogo in cui si trovava, ma la purezza – l’innocenza – che
scorgeva sul volto di quella giovane lo
convinsero che portarla in salvo fosse la cosa giusta da fare.
Stava
per rialzarsi in piedi,
quando all’improvviso si vide comparire la punta di una lama
affilata al di
sotto del mento.
–
Fossi in te la lascerei dov’è –
disse una voce roca e profonda.
Lucius
sollevò lentamente la
testa: sopra di lui torreggiava una figura scura e massiccia, un uomo
che
vestiva insegne mai viste lo fissava calmo ma minaccioso, il volto
pesantemente
sfigurato da bianche cicatrici. Una gli attraversava obliquamente
l’occhio
destro, di un azzurro lattiginoso e vitreo, privo di pupilla.
–
Non cercare di fare l’eroe per
salvare una vita già segnata. Lascia la ragazza e vattene,
è un consiglio da
amico. –
Chiunque
egli fosse, sembrava
avere intenzioni tutt’altro che amichevoli.
–
Vi ringrazio per il consiglio, amico,
ma non mi sembrate un tipo
affidabile – un piccolo sogghigno ironico. – Con
permesso. –
Fece
di nuovo per alzarsi, ma
l’uomo gli puntò la lama dritta nella carne,
lacerando superficialmente la
pelle.
–
Non osare muovere un altro
passo! – tuonò l’uomo. – Non
ti voglio uccidere, la tua vita non mi interessa.
Dammi la ragazza, o sarò costretto a usare la forza, e,
credimi, non ti piacerà.
–
La
mano sinistra di Lucius,
nascosta alla vista dello sconosciuto, si mosse lesta fino
all’elsa della spada
che portava legata alla cinta. Le dita scivolarono sul metallo
intarsiato,
afferrandolo saldamente.
–
Credo che sarà uno spiacevole
scontro per entrambi, allora. –
Con
uno scatto rapido, lasciò la
ragazza e si sollevò in piedi, sguainando la spada.
Approfittò
dell’istante di
smarrimento dell’uomo per affondare contro di lui, ma questo
si riebbe
immediatamente e schivò con agilità, affondando
poi a sua volta. Lucius balzò
di lato e parò all’ultimo momento. Aveva scampato
per un soffio un colpo che lo
avrebbe ferito molto seriamente al fianco.
Stava
iniziando a piovere, per di
più. Il terreno si sarebbe fatto presto fangoso e
sdrucciolevole e combattere sotto
all’acqua non era la cosa più semplice, con
un’innocente priva di sensi alle
spalle da proteggere. Non doveva rispondere solo ai colpi rivolti a
lui: il suo
avversario stava facendo di tutto per riuscire ad allontanarlo dalla
ragazza ed
avere campo libero su di lei, ma Lucius non glielo avrebbe permesso.
Solo si
chiedeva quanto avrebbe resistito. Avrebbe dovuto ricorrere alla magia,
ma
aveva come la sensazione che anche su quel versante lo sconosciuto gli
avrebbe
dato del filo da torcere.
Doveva
trovare il modo di uscirne
alla svelta, o avrebbe avuto la peggio. Era un bravo spadaccino, ma
quel
guerriero era troppo superiore a lui in tecnica. Per quanto coraggio e
quanta
avventatezza ci fossero in lui, non gli sembrava il caso di farsi
uccidere
così.
–
Dammi retta, ragazzo – sentenziò
l’uomo mentre le loro spade si incrociavano per
l’ennesima volta in uno stridio
di lame. – Non ne vale la pena. –
Lucius
sferzò l’ennesima parata
stentata contro un colpo degno dei migliori maestri che avesse mai
incontrato.
–
Grazie del parere – ansimò.
Il
clangore delle spade che si
aggredivano gli risuonava acuto nelle orecchie, mentre la pioggia,
fitta e
pungente, lavava lo scenario circostante dalle macchie rosso scuro che
lo tingevano
macabramente. Anche il fetore acre della carne morta si stava
attenuando,
coperto dall’odore della terra fradicia e dell’erba
calpestata.
Lucius
era abituato ai lunghi
duelli, ma un conto era un’ora di puro e semplice
allenamento, un altro era battersi
contro un avversario così capace in uno scontro reale. Non
avrebbe resistito a
lungo.
L’unica
speranza era riuscire a
raggiungere il Portale. Se fosse riuscito a sbarazzarsi di quel tizio
per
almeno qualche secondo, forse sarebbe stato in grado di portare in
salvo sé
stesso e la ragazza.
Da
solo non ce l’avrebbe mai
fatta, ma forse non tutto era perduto.
Proprio
mentre la speranza già
prendeva forma nella sua mente, l’avversario
riuscì a coglierlo in fallo su una
mossa particolarmente azzardata e la sua lama penetrò la
difesa con un assalto
a tradimento, trafiggendogli la carne sul fianco destro. Anche se
superficiale,
lo squarcio gli causò una violenta fitta di dolore acuto che
si propagò fino al
petto, costringendolo a soffocare un urlo in un semplice gemito.
Non
si fermò nemmeno a
riflettere. Anziché contrattaccare, Lucius balzò
agilmente di lato, fiotti di
sangue che gli grondavano dalla ferita, evitò con una
capriola il secondo
attacco e, con una mossa non proprio leale, fece perdere
l’equilibrio all’uomo,
che, colto di sorpresa, rovinò a terra con
un’imprecazione furiosa.
Lucius
fu lesto: si precipitò
dalla ragazza, se la strinse al petto ignorando il terribile pulsare
bollente
nel fianco, poi sollevò lo sguardo verso il cielo e
chiamò con tutta la voce di
cui disponeva:
–
Rok! –
Dopo
un fugace istante di
smarrimento, il guerriero si era rialzato in piedi e già si
preparava a una
nuova offesa, l’occhio perlaceo che brillava in modo
innaturale accanto al buio
in cui si celava l’altro. Un urlo rabbioso si levò
dalle sue labbra nel partire
alla carica con la lama sguainata.
Lucius
tenne la mano sinistra ben
salda attorno all’elsa della propria spada, pronto a
difendersi, ma proprio
mentre l’uomo stava per abbattersi su di lui, qualcosa di
nero sfrecciò nell’aria
tra di loro e si avventò sul volto dell’uomo come
una furia.
Le grida piene di dolore dello
sconosciuto si persero nel
cielo aperto, mentre il grosso corvo beccava e graffiava su di lui,
senza
pietà. Rivoli di un rosso acceso presero a colargli sulla
pelle martoriata.
–
Grazie, fratello! – boccheggiò
Lucius, che aveva quasi temuto di essere spacciato.
Il
corvo rispose con un
gracchiare deciso, che a stento si udì nel mezzo dei lamenti
dell’offeso.
Senza
perdere tempo, Lucius
rinfoderò la spada e prese in braccio la ragazza, correndo
verso l’orlo del
precipizio.
Come
aveva fatto per salire, in
due salti di disumana estensione raggiunse la pianura e da
lì, senza guardarsi
indietro, corse verso il fitto del bosco.
–
Coraggio, resisti – sussurrò
alla ragazza, che gemeva debolmente tra le sue braccia. – Ora
ti porto al
sicuro. –
Gli
alberi cavi erano i suoi
portali preferiti, secondi solo a quelli subacquei.
Quando
Lucius uscì dalla vecchia
quercia sgangherata, era pieno di tagli e ferite e i suoi vestiti
grondavano
acqua e fango, ma perlomeno era in salvo.
La
ragazza dai capelli rossi
giaceva inerte tra le sue braccia, priva di sensi. Le sue ferite erano
serie e
la vita che scorreva in lei si faceva più fioca di momento
in momento. Doveva
fare presto.
Avanzò
per qualche decina di
metri nella selva lungo un sentiero che, anche
nell’oscurità, sapeva percorrere
con la stessa sicurezza con cui si muoveva alla luce del sole.
Arrivò
in una grande radura che
lambiva il dorso della montagna. C’era una statua di pietra,
in un angolo, seminascosta
dalle sterpaglie: era un angelo dalle ali completamente avvinte
dall’edera,
annerito dal tempo e dalle intemperie, una benda sottile a coprirgli
gli occhi.
Teneva un libro stretto al petto con la mano destra, mentre la sinistra
era
protesa in avanti, il palmo aperto rivolto verso
l’osservatore, in un gesto che
si sarebbe potuto interpretare come un ordine di fermarsi.
Ma
Lucius, che conosceva bene
quella statua e il suo significato, non si fermò.
Si
avvicinò, e quando fu giunto
al cospetto dell’angelo gli si accostò, fino a che
la mano protesa finì per
toccare il lato sinistro del suo petto. Angina non avrebbe potuto
trovare una
protezione migliore per l’ingresso al suo covo: un
incantesimo che leggeva le
intenzioni del visitatore direttamente dal suo cuore.
Inizialmente
non accadde nulla,
poi l’edera che ricopriva il fianco della montagna
iniziò a sostarsi delicatamente,
e man mano che questa si apriva, nella nuda roccia si disegnava la
cornice intarsiata
di un arco a ogiva.
Lucius
attese pazientemente che
il varco si spalancasse completamente su un caldo bagliore luminoso,
poi
finalmente entrò. Immediatamente, dietro di lui la roccia si
rinsaldò e l’edera
tornò al proprio posto, occultando ogni segno
dell’esistenza del passaggio.
La
dimora di Angina e dei suoi
era scavata nel ventre della montagna, diverse centinaia di metri al di
sotto
del suolo, un’immensa caverna naturale creata nei millenni da
un fiume
sotterraneo e dotata di infinite minuscole gallerie che fungevano da
canali di
aerazione. Dall’ingresso, c’era un lungo e stretto
corridoio che si inoltrava
nella montagna, illuminato a intervalli regolari dalle molte torce che
erano state
affisse alla parete umida.
Lucius
percorse il tragitto senza
esitazioni, svoltando al momento giusto, senza farsi ingannare di molti
bivi
posti ovunque come trabocchetto. Nessuno era mai riuscito a entrare
là dentro
senza essere invitato, ma se mai qualche malcapitato ce
l’avesse fatta, di
sicuro non sarebbe più stato in grado di uscirne vivo.
Terminato
il dritto cunicolo in
piano, iniziava un’interminabile serie di scalini da
scendere, scolpiti
direttamente nella pietra e resi scivolosi dalle infiltrazioni
acquifere
presenti ovunque. Faceva sempre più freddo man mano che si
scendeva in profondità.
Era una via tortuosa e scomoda, ma del resto era fatta apposta per
confondere
chi vi aveva accesso. Ci vollero almeno quindici minuti per raggiungere
la zona
centrale del rifugio, e Lucius cominciava a sentirsi affaticato. La
ragazza era
leggera, ma era pur sempre un peso morto che gli impacciava i movimenti.
L’odore
di muschio e di umidità
si mescolava con l’acredine degli stoppi ardenti, saturando
l’aria di alcuni
tratti fino a renderla a malapena respirabile.
Finalmente,
dopo quasi cinque
minuti di cammino, il corridoio sfociò sull’atrio
principale. Si trattava di un
enorme camera circolare, alta una trentina di metri e ampia almeno due
volte
tanto. Il soffitto era completamente ricoperto di bianche stalattiti
calcaree
di ogni dimensione su cui riverberava la luce delle fiamme che ardevano
negli
enormi bacili disposti a cerchio lungo il perimetro della sala.
–
Chi va là? – tuonò una profonda
voce da uomo non appena Lucius discese l’ultimo gradino. Da
lontano, vide due
degli uomini di Angina, armati di spada, che si avvicinavano rapidi.
–
Sono io – annunciò. – Ho una
ragazza ferita, qui. –
–
Lucius – disse uno dei due, che
lui riconobbe immediatamente come Kael, il braccio destro di Angina.
Il
suo sguardo si posò sulla
giovane, soffermandosi sugli abiti laceri e sudici che essa portava con
una
certa apprensione. Apprensione che mutò in diffidenza quando
lo sguardo si
spostò sui suoi capelli.
–
Lei chi è? Cos’è successo? –
–
Non so chi sia. È una lunga
storia. –
Kael
lo occhieggiò sospettoso.
Era
un uomo robusto, con un viso
aperto e una lunga barba bionda intrecciata, i modi spicci di chi agiva
pensando già al passo successivo.
–
Ha bisogno di cure – Gli disse
Lucius con urgenza. – Ti spiegherò poi, adesso
dobbiamo aiutarla. –
Kael
valutò rapidamente la
situazione, poi annuì e si voltò verso il
compagno:
–
Elath, va’ a chiamare Venena.
Avremo bisogno di lei. –
Venena,
un’erborista le cui
immense conoscenze la rendevano esperta tanto nel curare i mali quanto
nel
causarli, fredda e apatica, non rientrava nelle più grandi
simpatie di Lucius.
L’uomo
obbedì e si congedò con un
saluto marziale, sparendo poi oltre uno dei tanti cunicoli che si
dipanavano
dall’antro.
–
Tu vieni con me – disse poi Kael,
facendo cenno a Lucius di seguirlo. – Angina non
c’è, ma dobbiamo sistemare la
tua amica. La vedo piuttosto malconcia. Dove hai detto di averla
trovata? –
–
Tra le macerie della Corte. –
Tra
loro cadde un attimo di
significativo silenzio.
–
La Corte? –
Gli occhi azzurri di Kael si sgranarono
nella sorpresa. – Intendi quella
Corte? –
–
Sì – Confermò Lucius.
Snocciolò
i dettagli fondamentali
lungo la strada.
Kael
non fece altre domande. Lo
condusse verso il lato Sud della caverna – il Dedalo, come lo
chiamavano i suoi
abitanti – dove si trovavano la Farmacia, le serre e la
Biblioteca.
–
La Corte di Desmond in macerie…
– borbottò Kael fra sé. – Chi
diavolo può avere fatto una cosa simile? –
Era
terrificante soltanto
pensarci: quello che per secoli era stato teatro di innominabili
torture e
esperimenti che costituivano veri e propri abomini contro la natura era
andato
completamente distrutto in una notte.
–
Non ne ho idea, ma credo che
forse lei possa saperlo – Rispose Lucius, abbassando lo
sguardo sulla ragazza.
La
sua espressione sofferente lo
portò a domandarsi chi fosse e cosa ci facesse
là, nel luogo peggiore dove
chiunque potesse capitare.
–
La Lega cosa ne dice? – indagò
Kael.
–
È per questo che sono qui.
Dovete occuparvi di lei, io devo fare immediatamente rapporto.
–
La
stretta scalinata si
interrompeva direttamente davanti a un pesante portone di legno
massiccio. Kael
vi appoggiò una mano sopra, ma prima di spingere si
voltò con aria seria:
–
Cosa sta succedendo là fuori,
Lucius? –
Lui
chinò il capo, impotente, le
ossa dolenti, i muscoli stanchi. Di qualsiasi cosa si trattasse, il
Mondo
Occulto doveva prepararsi ad affrontarlo.
–
Vorrei tanto saperlo anch’io. –
________________________________________________
A/N: questa
storia è nata più di un anno fa, da un'idea
improvvisa che per scherzo ho iniziato a mettere per iscritto, pezzo
per pezzo, man mano che l'ispirazione mi dettava qualcosa. Ad oggi,
sono quasi giunta al termine della stesura e tra tre o quattro capitoli
potrò finalmente scrivere la parola fine. La speranza
è di vedere un giorno questa mia piccola creatura pubblicata
e distribuita nelle librerie e non appena sarà ultimata,
tenterò la fortuna mandando il manoscritto a qualche casa
editrice. Chissà.
Per ora ho deciso di iniziare a postare qui su EFP, tanto per vedere
cosa ne può pensare la gente. Non ho mai pubblicato, qui,
storie originali a multicapitolo (e vi avverto già che di
capitoli pronti ne ho già 26), quindi non so bene cosa
aspettarmi. Non so quanta gente legga questa sezione, non la conosco
molto bene, ma spero che se qualcuno passerà di qui e
leggerà, vorrà quantomeno lasciare due righe di
commento, almeno per aiutarmi a capire se quello che sto scrivendo ha
qualche speranza di incontrare il gradimento di un eventuale pubblico.
Luoghi e personaggi sono ben chiari nella mia testa e magari
più avanti, se a qualcuno interesserà,
condividerò con voi i volti e i paesaggi che mi hanno
ispirata e tuttora mi ispirano quando scrivo di questo mondo.
Al prossimo capitolo!
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Capitolo 2 *** Figlia del Nulla ***
1.
FIGLIA DEL NULLA
This
is me, for forever One
of the lost ones
- Nemo, Nightwish -
Una donna urla, la voce frammentata da singhiozzi.
Tutto è buio.
Battiti di cuore come tamburi attorno a lei,
stretta tra braccia esili.
Occhi innocenti di bambina si sgranano nell’angoscia
dell’incapacità di
comprendere quel caos improvviso.
– Chi sei? Che cosa vuoi? –
chiede un ragazzo. È giovane, incerto, ma determinato.
Una sottilissima falce di luna brilla fuori da una
grande finestra. Un
pallido sole di ombre ritorte stagliato sul pavimento. Odore di pioggia
nell’aria.
– Datemi la bambina – risponde
una placida voce indistinta, un volto
oscurato da un cappuccio.
– No! – grida la ragazza.
Stringe più forte, più disperatamente. Le fa
male.
Il ragazzo accanto a lei fa loro scudo con il
proprio corpo. Gli occhi
sono due pozze di cristallo nero intorbidite dal panico.
L’aria si fa sempre più
rarefatta e irrespirabile.
È buio… troppo
buio…
– Datemi la bambina – ripete la
voce. C’è qualcosa di duro nel suo tono
tranquillo. – Per il suo bene. –
Vento gelido alita dalla porta spalancata alle sue
spalle che sbatte
incessantemente contro il muro. Solo tenebre, fuori.
– Prendi tutto quello che vuoi!
– balbetta la giovane, tremando. – Abbiamo
dei gioielli, oggetti di valore… –
– Dammi la bambina – Sentenzia
la persona senza volto, ed è un ordine
ineluttabile che impregna l’oscurità.
C’è il terrore che
spadroneggia nella bimba. Troppo piccola per capire,
ma abbastanza grande per rendersi conto del pericolo. E intanto quelle
braccia
insistono a volerla proteggere.
– Se la consegnate a me, sarà
salva. Loro stanno arrivando. Se riescono
a trovarla, la prenderanno e la uccideranno sotto ai vostri occhi.
Datela a me.
–
–
Cosa vuoi da lei? –
Un lampo squarcia le tenebre. Il volto di una donna
appare per un
brevissimo istante al di sotto del cappuccio.
– Voglio salvarle la vita. –
Il silenzio della tensione calca sulle loro teste,
impietoso. In
lontananza, nitriti selvaggi si mescolano a un rumore di zoccoli in
corsa.
Le braccia della ragazza si allentano attorno al
corpicino indifeso
della piccola. Altre due braccia sottili si aprono in un invito. Tutto
è preda
di una tensione innaturale. Tutto è immobile.
Poi un lampo di luce rossa divora ogni cosa.
La
prima cosa che vide, aprendo
gli occhi, fu solamente il buio. Denso, palpabile, come ne fossero
stati
intrisi i suoi occhi, fino ad accecarla. Poi, lentamente, brandelli di
luce
cominciarono a rischiararle la vista, permettendo a forme e oggetti di
acquisire contorni distinguibili, ma affatto conosciuti.
Ebbe
un istante di perplessità:
non aveva idea di dove si trovasse. Era uno stanzino angusto, buio e
umido,
fiocamente illuminato da povere fiammelle sparse qua e là.
Si trovava in un
letto dalle lenzuola ruvide, sepolta sotto a diversi strati di coperte
di lana.
Il materasso era molto duro. Indosso aveva qualcosa che somigliava a
una
camicia da notte di fattura molto grezza. In un angolo,
dall’altra parte dello
stanzino, un fuocherello ozioso ardeva in un bacile di ferro, emanando
un
gradevole tepore.
Non
riconosceva niente di ciò che
la circondava, dal mobilio spartano all’odore di muschio che
impregnava l’aria.
Tutto le era completamente estraneo.
La
perplessità, tuttavia, lasciò
ben presto posto a un’altra e ben più sconcertante
sensazione, non appena una
semplice ma significativa domanda si formò tra i suoi
pensieri.
Chi sono?
Non
trovò risposta.
L’unica,
nebbiosa immagine che
affiorò erano due occhi di un azzurro glaciale che la
scrutavano apprensivi. Non
sapeva a chi appartenessero, né quando o dove li avesse
visti. Non era in grado
di contestualizzare quel ricordo, ma era il solo che possedesse.
Si
sforzò di richiamare qualsiasi
altra cosa alla memoria: tutto ciò che trovò
nella propria mente era una
sterminata distesa di vuoto.
Provò
a cercare ancora, annaspò
nella propria testa tra meandri neri privi di contenuti, scavando
sempre più
nel profondo, senza incontrare altro che nero ancora più
nero.
Presto
un senso di vertigine la
colse.
Si
guardò le mani, disperata:
piccole, bianche, urtate da qualche graffio sottile qua e
là. Non le riconobbe.
Questa
mancanza assoluta di
coscienza di sé e dell’ambiente in cui si era
ritrovata la spaventò. Un senso
di angoscia le agguantò la gola, smorzandole il respiro. Si
portò le mani alla
testa dolente, gli occhi serrati nel vano sforzo di trovare qualcosa
dentro di
sé, un’informazione di qualunque tipo, ma non
c’erano spiragli di luce in quel
vortice di tenebre.
Tuttavia
ad un tratto una
scintilla inattesa balenò tra le ombre e un nome
affiorò incerto sulle sue
labbra.
Regan.
Se
lo ripeté una, due, dieci
volte, come un sussurro ancestrale provenuto da chissà dove,
fino a che non
cominciò a sentirlo quasi familiare. Sentì che le
apparteneva.
Regan,
sì. Quello era il suo
nome.
Oltre
quello, non rammentava nulla.
Né la propria età, né il proprio
aspetto, né altro. Tutto ciò che sapeva, per
istinto, era che il luogo in cui si trovava le era sconosciuto.
Avvertiva
l’abbraccio della terra
attorno a sé, la presenza forte e rassicurante di mura
vecchie decine di millenni
a circondarla con calore oltre le pareti di roccia: si trovava
sottoterra.
L’inspiegabile sensazione di familiarità che ne
trasse fu lenitiva, la aiutò a
tranquillizzarsi e razionalizzare: forse era lì
perché era malata.
Aveva
la pelle marcata da lividi
e ferite più o meno superficiali già parzialmente
cicatrizzate, e odorava
vagamente di the. La spalla destra le doleva e il polso era fasciato.
Ovunque
si trovasse, qualcuno si era preso cura di lei.
Si
alzò, evitando di aiutarsi con
il braccio destro. Le ci volle uno sforzo nettamente superiore a quel
che
avrebbe pensato. Quando finalmente riuscì a tirarsi in
piedi, i suoi piedi nudi
si posarono sulla superficie soffice di un tappeto. Si
appoggiò alla parete,
colta da un leggero senso di vertigine, e inspirò a fondo
fino a che non fu
passato. Le sue gambe, però, erano piuttosto malferme.
Si
accorse che proprio lì accanto
c’era uno specchio. Curiosa e timorosa al contempo, come se
temesse di
scoprirsi mostruosa, vi si accostò.
Tenne
gli occhi chiusi per un
po’. Non sapere cosa avrebbe visto la metteva a disagio. Non
riusciva a
immaginare niente di peggio che essere ignoti a sé stessi.
Quando
incontrò il proprio
riflesso, si ritrovò al cospetto di una sconosciuta: due
occhi a mandorla, di
un limpido verde smeraldo, la fissavano indaganti da un viso ovale dai
lineamenti morbidi, incorniciato da lunghi capelli che avevano
l’esatto colore
pulsante del sangue. La pelle candida era segnata da ombre violacee
attorno
agli occhi e da segni scuri sul collo. Se li sfiorò con i
polpastrelli,
avvertendo un vago bruciore. Chissà com’era
successo, esattamente.
Non
si riconosceva. Non c’era
nulla di familiare in quel che vedeva, ma doveva farsene una ragione.
Non aveva
molta scelta, in fondo.
Si
guardò intorno: forse fuori da
quella stanza avrebbe trovato qualcuno che potesse aiutarla. Qualcuno
che
potesse darle delle risposte.
La
porta era proprio di fronte a
lei. Le bastò allungare la mano per afferrare la maniglia di
ottone e tirare
verso di sé perché si aprisse. Un fiotto di luce
più intensa e dorata invase la
stanza.
Si
schermò gli occhi, avvertendo
uno spiacevole bruciore. Si concesse qualche secondo per abituarsi, poi
uscì.
La
stanza dava su un corridoio
piuttosto stretto, che si perdeva nel buio nell’una e
nell’altra direzione.
Non
c’era anima viva in giro, né
si potevano udire rumori di alcun tipo. Non poteva far altro che andare
a caso.
Scelse
di seguire la pendenza,
perché la mollezza che ancora si sentiva nelle gambe
probabilmente non le
avrebbe permesso di arrancare a lungo in salita.
Il
tepore sprigionato dalle torce
intervallava l’aria fredda che circolava là sotto,
sfiorandole i capelli e le
spalle, suscitandole brividi lungo la schiena. Faceva molto freddo,
rispetto
alla piccola stanza, e il suolo umido le stava congelando i piedi.
Camminò
per un paio di minuti,
rallentata dalla debolezza, fino a che non iniziò a
intravedere un altro
corridoio che incrociava il suo percorso. C’erano delle voci
che provenivano da
un lato, sommesse, assieme a un rumore di passi. Man mano che le voci
si
avvicinavano, Regan capì che erano due, ed erano di due
donne. Una sembrava più
giovane, l’altra matura.
–
Lucius la deve smettere di
trattare questo posto come una locanda – stava
borbottando la più giovane. – Arriva, fa
i suoi comodi, e poi sparisce senza nemmeno degnarsi di spiegare.
–
Una
risata roca in risposta.
–
Ha spiegato a Kael, e Kael ha
spiegato a me. Aveva un rapporto urgente da fare alla Lega. –
–
E la sconosciuta? –
–
Tornerà a prenderla non appena
gli sarà possibile. Per adesso ci occuperemo noi di lei.
–
–
Era ridotta male – la
voce della ragazza si fece pensosa – La sua
energia vitale era quasi esaurita. Mi domando cosa possa averla
stremata in
quel modo. –
–
Con le tue cure dovrebbe
riprendersi in fretta. –
I
passi erano ormai in prossimità
dell’angolo. Regan si affacciò timidamente e
scorse a pochi metri da lei due
figure scure che si avvicinavano. Ne distinse dapprima gli abiti: la
donna
portava una camicia bianca e un corsetto, la ragazza una semplice blusa
scura.
Erano i tacchi dei loro stivali a rendere i loro passi così
rumorosi.
Ad
un tratto la più giovane alzò
lo sguardo e si fermò.
–
Gin, guarda! –
La
donna si fermò al suo fianco,
perplessa, poi seguì il suo sguardo, e allora comprese.
Appena i suoi occhi scuri
si posarono su Regan, un sorriso le si aprì sulle labbra.
–
Ma guarda. Ben svegliata,
bambolina. –
Si
avvicinò a Regan in poche
falcate. Aveva un portamento disinvolto e sicuro, capelli neri a
ricaderle
disordinati sulle spalle. Era avvenente, ma non bella nel senso
classico del
termine: il naso, sottile e leggermente aquilino, le conferiva
un’aria furba e
maliziosa, che ben si accompagnava al suo fisico formoso, femminile.
–
Tutto bene? – indagò la donna.
Regan
si sforzò di annuire.
–
Credo di sì. –
Si
accorse che la sua voce era
rauca e le faceva male la gola.
–
Sono Angina – disse la donna.
Si accostò la mano destra, chiusa a pugno, al lato sinistro
del petto e chinò
appena il capo – Signora e padrona del luogo in cui ti trovi.
–
–
Regan – si
presentò quindi lei, frastornata da
quell’inattesa movimentazione.
–
Ottimo, Regan – Si
compiacque Angina, appoggiandole una mano
sulla spalla. Fortunatamente, quella sana – Ti trovo
decisamente più in forma
di quando sei arrivata.–
Le
dovette credere sulla parola.
Se le sue condizioni attuali rappresentavano un miglioramento,
preferiva non
pensare a come dovesse essere stata prima.
La
ragazza più giovane era
rimasta indietro e la fissava con diffidenza e un certo disgusto. A
differenza
di Angina, era molto magra e i corti capelli castani marcavano
ulteriormente i
tratti duri del suo viso.
–
Ven. –
Quando
Angina la chiamò con un
cenno, la ragazza fu costretta a raggiungerla. Portava un vassoio con
bende e
qualche piccola ampolla sopra.
–
Regan, lei è Venena. È stata lei
a medicarti. –
–
Grazie – mormorò
Regan, sfiorandosi con le dita la
lunga serie di graffi paralleli che le attraversavano
l’avambraccio.
Gli
occhi piccoli e sottili di
Venena la squadrarono senza interesse. Le sue mani avevano dita lunghe
e sottili
e c’era del nero sotto alle unghie mangiucchiate.
–
Dovere. –
Regan
rabbrividì.
L’aria
che circolava là sotto era
gelida, anche nonostante la moltitudine di fiaccole che ardevano
ovunque.
–
Penso che sia meglio metterti
addosso dei vestiti veri –
le disse
Angina, ammiccando – Vieni – aggiunse
poi, avvolgendole un braccio attorno alle spalle. – Venena ti
visiterà mentre
io ti cerco qualcosa di carino. –
Regan
non aveva idea di chi
fossero quelle persone. Non aveva idea se potesse fidarsi o meno di
loro, se
fosse saggio affidarsi ciecamente a loro, ma non aveva nemmeno qualche
alternativa.
Mosse
un passo, ma barcollò, la
testa colpita da un vortice di vuoto. Sentì le mani sicure
di Angina che la
afferravano per le spalle, sorreggendola.
–
Bevi questo. –
Un
odore dolciastro, come di
miele misto a spezie, si sprigionò sotto alle narici di
Regan. Venena le stava
porgendo una fragile bottiglietta piena di un inquietante liquido
verdastro.
–
Ti darà forza – le spiegò la
ragazza in tono incolore, vedendola esitare. – Ti assicuro
che non l’ho
avvelenato. –
Angina
la guardava incoraggiante
alla tremula luce dorata delle torce. Aveva un viso dai tratti molto
particolari, netti, molto espressivi.
Pur
con una qual certa
riluttanza, Regan si obbligò a bere. L’intruglio
aveva in effetti un che di
mellifluo, e un retrogusto asprigno che le fece pensare agli agrumi.
Tutto
sommato non era poi tanto male. L’effetto fu quasi immediato:
fu come se una
scintilla le avesse riacceso il sangue nelle vene, spingendolo a
irrorare il
suo corpo con più vigore, risvegliandole le membra fino a un
attimo prima
intorpidite. Non sarebbe di certo riuscita a correre, ora, ma se non
altro ce
la faceva a stare in piedi senza reggersi al muro.
Angina
la condusse attraverso un
vertiginoso reticolo di cunicoli, alcuni dei quasi attraversati da
spifferi di
aria gelata. Angina si muoveva senza apparentemente badare a dove
andasse.
Senza alcun dubbio conosceva la sua casa.
Venena,
che camminava un paio di
metri indietro, sembrava di malumore.
–
Hai fame, Regan? Sete? – domandò
Angina, premurosa.
–
Probabilmente le farebbe bene
un bagno caldo – Suggerì
l’altra.
–
Non ho molto appetito – ammise.
– Ma mi sento ancora un po’ debole. –
–
Sei quasi morta – le disse
Venena senza il minimo tatto. – Ritieniti fortunata a sentirti ancora. –
Angina
annuì.
–
Addirittura dubitavamo che ce
l’avresti fatta, e invece sei già in piedi.
Stupefacente, vero, Ven? –
–
Prodigioso, oserei dire. –
Per
essere una che aveva sfiorato
la morte, Regan si sentiva relativamente in forma.
–
Evidentemente l’ambrosia ha
fatto il suo dovere. –
–
È stata una fortuna – disse
Venena, accigliata. – Avrei giurato che non fosse proprio di
ottima qualità. –
Angina
le allungò una pacca
amichevole sulla schiena.
–
A volte l’abilità
dell’erborista compensa la manchevolezza della materia
prima. –
Erano
completamente opposte l’una
all’altra, quelle due: Angina si comportava quasi come una
ragazzina,
sbarazzina e vivace, refrattaria alle formalità; Venena,
invece, benché non
molto più vecchia di Regan stessa, si vestiva di
un’assurda serietà, cupa e
scontrosa.
–
Sai che ti dico, Regan? Ora
faccio preparare qualcosa da mangiare e ti faccio compagnia –
–
Che ora è? –
Era
difficile avere percezione
del tempo, là sotto.
–
È quasi la terza pomeridiana.
Hai dormito per mezza giornata –
Alla
fine raggiunsero un bivio:
da una parte una larga scalinata saliva, dall’altra
proseguiva il corridoio.
Qui Angina si rivolse a Venena:
–
Di’ a Hilgard di preparare
qualcosa di speciale e nutriente per la mia ospite. Ci troverai alle
sorgenti,
puoi visitarla lì. –
–
Certo. –
Venena
si congedò senza sprecarsi
in troppe cerimonie, eccetto l’occhiata trova che
appioppò a Regan prima di
voltarle le spalle e andarsene, sparendo come un’anguilla
oltre la prima
svolta.
–
Vieni – Angina le fece cenno di
seguirla su per una rampa di scalini piuttosto larga che sembrava
scendere
all’infinito, perdendosi in un occhio cieco
nell’oscurità. – Prima di tutto ti
ci vuole un bel bagno caldo. Sei gelata. –
Gelata, pensò Regan, era forse
la definizione più esatta per come
si sentiva veramente, in sensi letterali e figurati vari.
Seguì
Angina con la bizzarra
sensazione che i passi stentati che stava muovendo fossero i primi di
sempre,
come se fosse nata lì, in quelle grotte nel ventre della
terra, solo una
manciata di minuti prima, perché in fondo il vuoto
sterminato che aveva
inghiottito il suo passato, qualunque esso fosse, aveva tracciato una
sorta di
linea di confine che forse lei non avrebbe masi più
ripercorso. Tutt’al più,
avrebbe potuto apprendere da altri ciò che di lei era stato
in precedenza, come
una fiaba da farsi raccontare, senza avere il beneficio di sapere se
fosse
realtà o solo fervida fantasia.
–
Che cosa mi è successo? –
La
domanda, pronunciata con una
smania che sconfinava nella compulsione, risuonò in
un’eco asfissiata tra le
pareti umide.
Angina
si fermò qualche gradino
avanti a lei. Si voltò solo un paio di secondi dopo:
–
Non ricordi? –
Regan
chinò il mento, scuotendo
la testa.
–
Non ricordo niente. –
Capì
che era una dichiarazione
inattesa dal modo i cui la donna sgranò gli occhi.
–
Niente di niente? –
–
A malapena ho ricordato il mio
nome. Mi sono dovuta guardare allo specchio per sapere come fossi
fatta. –
Era
evidente che Angina fosse
stata presa in contropiede, perché improvvisamente tutta la
sua spensieratezza
si era dissolta, sostituita da una palese perplessità.
–
Non credo che sia normale
questa amnesia – rifletté. – Ma date le
condizioni in cui sei arrivata, non
sono nemmeno poi molto stupita. –
Fece
una pausa e cercò lo sguardo
di Regan, la quale aveva colto la sfumatura drammatica di quel
“condizioni” e
non aveva faticato ad associarlo alle tracce di lesioni che ancora si
portava
impresse nella carne.
–
È stato un mio amico a portarti
qui. Ti ha salvata da un cumulo di macerie e sottratta alla spada di un
tizio
che a quanto pare era molto interessato ad averti. La cosa ti dice
niente? –
Regan
negò.
–
Mi dispiace. –
Si
sentiva stupida: erano cose
che erano capitate a lei, che dovevano pur essere scritte da qualche
parte
nelle sua mente, ma era come se una folata di vento avesse spazzato via
tutte
le pagine della sua storia, facendole naufragare chissà
dove, lontano dalla sua
portata.
–
Non ti demoralizzare – la
confortò Angina, prendendola per mano. – Adesso
pensiamo a sistemarti e
rifocillarti. Del resto ci occuperemo più tardi. –
Le
terre emerse che nel corso dei
secoli erano rimaste occultate all’avidità degli
occhi gli umani – dai loro stessi
abitanti battezzate Mondo Occulto, proprio per questa loro esistenza
segreta –
erano ripartite in sette grandi Terre, ciascuna delle quali
corrispondeva a un
Nucleo guidato e regolato da un suo Coordinatore, il quale a sua volta
faceva
riferimento a un’unica, immensa istituzione che regolava e
proteggeva
l’equilibrio all’interno dei territori: la Lega
delle Sette Terre. La sede
centrale di questa congregazione territoriale si trovava in una delle
città più
ricche e prospere che la Madre ospitasse: Medilana, capitale di
Corterra, territorio
centrale del continente.
Di
tutti i luoghi che Lucius
avesse visitato in vita sua – e si trattava praticamente di
mezzo mondo –
Medilana rimaneva uno dei suoi preferiti: le vie della zona centrale
erano
ampie e pulite, percorse da sontuose strade lastricate su cui si
affacciavano
maestosi i palazzi dei nobili e dei ricchi mercanti. Il commercio, in
effetti,
era uno dei punti di forza della città, fiorente e in
costante rinnovamento in
quanto a prodotti di importazione. I numerosi mercati
dell’aera Sud della
città, che quotidianamente richiamavano folle brulicanti da
ogni angolo delle Sette Terre, erano la principale testimonianza di questa
vivacità commerciale. Per
questo e per le molte bellezze, naturali e architettoniche, che offriva
la
regione circostante, erano innumerevoli anche le pensioni per gli
stranieri: i
più facoltosi preferivano concedersi soggiorni di lusso
presso quelle ricavate
nelle dimore confiscate alle nobiltà decadute, i
più umili, invece, più
propensi ad affidarsi alle tariffe più accessibili della
moltitudine di locande
che si alternavano a osterie e taverne lungo il Naviglio Grande e le
sue
diramazioni.
Avere
un così importante centro
abitato venato di corsi d’acqua aveva certo i suoi tanti,
piccoli svantaggi – a
partire dai miasmi che si sprigionavano dai brevi tratti di melmosa
acqua
stagnante, che i cittadini si sforzavano di contrastare coltivando veri
e
propri giardini pensili fioriti sulle loro terrazze – ma
d’altro canto la
possibilità di navigare la maggior parte di essi –
là dove carrozze, carri e
cavalli nulla potevano – costituiva senza alcun dubbio
un’enorme facilitazione
per il trasporto delle merci. Da qui il soprannome di Porto Senza Mare
di cui
vantava la città.
In
ogni periodo dell’anno le vie principali
erano accese dai variopinti colori – secondo la moda di
Corterra – degli abiti
di seta delle dame, in mezzo alle quali i distinti gentiluomini che le
accompagnavano sembravano perdersi, con la sobrietà delle
loro mise.
Più
di tutto questo, però, Lucius
amava il Foro, con i suoi portici ariosi e la
Piazza Bianca, dominata dalla maestosa mole della Basilica. Era il
punto di
ritrovo di studenti e intellettuali, e lui adorava trascorrervi ore ad
ascoltare i loro discorsi, i dibattiti filosofici tra artisti e
luminari della
scienza, ma anche teatro di feste a cielo aperto e fastosi banchetti
indetti
per le principali festività, come i Solstizi e gli Equinozi,
da sempre
considerati momenti importanti in cui celebrare l’avvento di
una nuova stagione
donata dalla Madre Terra.
I
più, tuttavia, erano del tutto
ignari di fronte a uno dei maggiori pregi di Medilana: in periferia,
appena
oltre le mura che custodivano la città, si ergeva
un’imponente struttura di
pietra scura che vantava, tra una ristrutturazione e l’altra,
quasi otto secoli
di storia sulle spalle. La Domus Aurea – colloquialmente
chiamata Accademia
dagli studenti – era un gigantesco capolavoro di architettura
gotica che,
protetto da antichi sigilli, ospitava l’istituto di
formazione dei futuri
protettori dell’ordine all’interno delle Sette
Terre, e, benché fosse stata
distrutta e ricostruita per ben due volte, avrebbe presto festeggiato
il suo
ottavo centenario.
Lo
si sentiva, camminando per gli
atri e i corridoi, il peso dei secoli: ne erano impregnati i muri, le
statue,
gli arazzi nei saloni. A volte si aveva quasi l’impressione
di respirare ancora
la stessa aria che avevano respirato i primi allievi di poco meno di un
millennio prima.
Ma
camminare sotto alle volte a
crociera dei bianchi soffitti era un piacere che ci si doveva godere a
cuore
leggero, come facevano gli allievi nel passare da un’aula
all’altra,
soffermandosi a fare due chiacchiere lungo i portici, o sulle panchine
del
chiostro, accanto alla fontana.
I
marmi diafani risplendevano
sotto alla luce pallida del sole che entrava a fiotti dalle arcate
ogivali,
affacciate direttamente sul parco, ora spoglio del suo lussureggiante
verde
primaverile e immerso in un deprimente grigiore dalle sfumature
spettrali. I
centenari alberi ad alto fusto protendevano i loro rami spogli verso il
cielo
come mani scheletriche, edere scure che si avviluppavano lungo i loro
tronchi
fino a inghiottirli completamente.
Era
una visuale decadente,
lontana da quelle variopinte e vivaci che prediligeva lui, eppure aveva
un che
di incantevole.
Quella
mattina, tuttavia, non c’era
tempo da dedicare al piacere personale.
Lucius
allungò il passo.
Aveva
ancora impressa nella mente
l’immagine della ragazza. Sapeva che era in buone mani e che
Angina le avrebbe
prestato le giuste cure, ma aveva comunque una certa fretta di tornare.
Marciò
spedito tra gli studenti,
alcuni dei quali gli rivolgevano saluti sorpresi. Teneva qualche corso
per gli
allievi più esperti, sporadicamente, ma solo verso la fine
dell’anno, come
propedeutico alle sessioni di esame. Non era normale che fosse
lì in quel
momento, a corsi appena iniziati.
Gli
sarebbe piaciuto poter
frequentare l’Accademia, ma di solito alla sua età
si era già in procinto di
concludere il percorso formativo e diventare dei professionisti. Dopo
una vita
come la sua, ormai era tardi per dedicarsi agli studi, e comunque,
anche senza
riconoscimenti ufficiali, tutti sapevano che ne sapeva di
più lui della maggior
parte dei maestri della Domus, e forse era anche per questo che non era
ben
visto dal corpo docenti.
–
Lucius! –
Riconobbe
la voce che lo stava
chiamando, ma fece finta di non aver sentito. Non aveva tempo per i
convenevoli
e le spiegazioni.
–
Lucius, aspetta! –
Una
mano lo afferrò per un
braccio e lo obbligò a fermarsi.
–
Sei per caso diventato sordo? –
Trattenendo
un sospiro, si voltò,
già sapendo chi si sarebbe ritrovato di fronte.
–
Ciao, Anneli. –
La
ragazza gli rivolse un sorriso
radioso, un fascio di libri stretti al petto.
–
Cosa ti porta qui? Credevo che
non ti avrei rivisto prima di… –
Si
interruppe quando si rese
conto che gli abiti di Lucius erano strappati e macchiati di sangue e
fanghiglia.
–
Cosa ti è successo? –
–
Chiamiamola un’esercitazione
fuori programma. –
–
Sei tutto intero? –
Lucius
si sforzò di sorriderle.
Anneli
gli era simpatica, ma
aveva scelto il momento sbagliato per una chiacchierata.
–
Sì. Sono venuto per vedere
Castalia. Alla Sede mi hanno detto che è qui –
Lo
sguardo nero perlaceo di
Anneli si adombrò.
–
Sei in servizio, quindi. –
–
Temo proprio di sì. –
Lei
si imbronciò.
Era
una delle allieve più brillanti
e promettenti della Domus, di una bellezza sfacciata e molto
consapevole,
tipica dei membri della sua famiglia. Alta, sottile, agile: aveva un
talento
spiccato per i combattimenti armati e la manipolazione della mente,
dote rara e
molto ricercata, soprattutto all’interno della Lega. Ma lei
voleva fare la
Liberatrice di Anime e, determinata e dotata com’era, nessuno
glielo avrebbe
mai potuto impedire. Con quattro fratelli più grandi alle
spalle – di cui tre
ancora allievi – tanto popolari per le loro
qualità accademiche quanto per la
loro avvenenza, la sua strada era praticamente, se non proprio in
discesa,
almeno in comoda pianura.
–
Credo che Castalia sia nello studio
di Belecthor. Se vuoi ti posso accompagnare. –
Lucius
la scrutò severo. Tutti gli
altri si stavano avviando verso le rispettive aule.
–
Forse è meglio che tu vada. –
Ma
demordere non era una delle
più spiccate caratteristiche dei membri della famiglia di
Anneli.
–
È successo qualcosa? –
Intuitiva,
come sempre. Fin
troppo, a volte.
–
Nulla di particolare. –
Anneli
lo guardò dritto negli
occhi con insistenza. Immediatamente Lucius avvertì un noto
formicolio alle
tempie.
La
ragazza stava tentando di
leggergli nel pensiero. Per sua sfortuna, però, lui era
nettamente superiore ai
soggetti su cui lei era abituata ad esercitarsi.
–
Non provare a usare questi
trucchetti con me! – la
ammonì, seppur
con una nota divertita.
Lei
arrossì, ma continuò a
guardarlo con impertinenza.
–
Non puoi nemmeno dirmi di cosa
si tratta? –
Lui
scosse la testa.
–
Ho paura di no. Ma comunque lo
scoprirai presto, credimi. Non è il tipo di notizia che
può restare segreta a
lungo e sono sicuro che tuo padre sarà tra i primi a venirlo
a sapere –
Quelle
parole sembrarono
placarla.
–
Su, andiamo. Ho una certa
fretta. –
Lucius
si lasciò accompagnare
allo studio del direttore.
Dovettero
attraversare tutto
l’edificio per raggiungere l’Ala Nord.
Mentre
percorrevano i lunghi
corridoi, Anneli non osò chiedergli più nulla. Si
limitò a scoccargli fugaci
sguardi indagatori, i loro passi che risuonavano nel silenzio
sepolcrale del
piano deserto, quasi sperasse di cogliere qualcosa nella sua
espressione, e non
cedette fino a che, salito l’ultimo gradino di una lunga
scalinata, Lucius si
fermò.
–
Siamo arrivati – Annunciò.
Sulla massiccia porta di legno scuro
qualche metro avanti a lui, scintillava una targa di ottone con sopra
inciso a
lettere eleganti Director Summus.
– Ora
è meglio che tu vada. –
Anneli
abbassò remissivamente lo
sguardo.
–
Quando tornerai? –
–
Non lo so. Ho come la
sensazione che avrò parecchio da fare nei prossimi giorni
–
Bussò,
sentendosi gli occhi di
Anneli puntati sulla nuca.
Gli
dispiaceva essere così
sgarbato, ma gli eventi di quella notte erano stati allarmanti e chi di
dovere
ne doveva essere informato con la massima urgenza.
–
Avanti – Disse
una voce possente oltre la porta.
Lucius
appoggiò una mano sulla
maniglia e si voltò per rivolgere ad Anneli un sorriso
saccente.
–
Non sprecare tempo a tentare di
origliare. Sai meglio di me che è inutile. –
Anneli
avvampò.
–
Bene! – esclamò,
indispettita e offesa, e gli voltò le
spalle in malo modo. – Tolgo il disturbo! –
–
La prossima volta sarò più
disponibile – le
promise Lucius,
guardandola allontanarsi come una furia, il lungo abito blu scuro che
ondeggiava
alle sue spalle. Solo allora fece caso al nastro di raso rosso che le
circondava la vita: aveva ufficialmente iniziato il suo secondo
triennio di
studi.
Le
matricole del primo triennio
non avevano nastri di riconoscimento: solo chi riusciva a passare al
secondo
livello ne guadagnava uno, rosso, e infine, per l’ultimo
triennio, agli
specializzandi ne veniva conferito uno bianco, sul quale, durante la
cerimonia
conclusiva del percorso accademico, veniva scritta la specializzazione
prescelta
dall’allievo.
Appena
Lucius entrò nello studio,
fu accolto da un tiepido aroma di the. Comodamente sprofondato nella
sua
consunta poltrona di broccato rosso, infatti, Belecthor ne stava
sorseggiando
una tazza fumante e una grassa teiera di porcellana occupava il centro
della
scrivania ingombra di scartoffie.
In
piedi accanto alla vasta
finestra sulla sinistra, invece, Castalia lo fissava austera a braccia
conserte, i suoi contorni sottili stagliati in controluce. Aveva
l’aria di chi
non aveva affatto gradito l’interruzione.
–
Lucius – Belecthor
lo salutò con una nota di sorpresa. –
Cosa ti porta da queste parti? –
Nessuno
fece caso al suo aspetto
disastrato: non era poi così raro, per lui, farsi vedere in
quelle condizioni.
Di tutto poteva lamentarsi, ma non certo di condurre una vita noiosa.
–
Buongiorno, Direttore – si
portò la mano destra chiusa al petto,
chinando appena la testa. – Castalia. –
Si
fece avanti lentamente, i suoi
passi resi felpati dagli strati di vecchi tappeti che ricoprivano la
pietra del
pavimento.
Dalla
prima volta che aveva messo
là dentro, ormai diversi anni prima, nulla era cambiato: le
stesse pareti
spoglie, la stessa libreria colma di polverosi volumi antichi, lo
stesso odore
di incenso misto all’aroma di foglie di the. Belecthor era il
tipo di uomo che
amava la routine e odiava i cambiamenti, cosa che talvolta poteva
renderlo
prevedibile, ma quando si trattava di trasmettere conoscenza, pochi
erano alla
sua altezza.
–
Domando scusa per il disturbo –
Esordì
Lucius, ossequioso. – Ho delle notizie
urgenti da riferire. –
–
Io e Angus stavamo discutendo
di questioni importanti – replicò
Castalia, sbrigativa. – Le tue notizie possono aspettare.
–
–
Mi permetto di dissentire – obiettò
lui, educato.
Lo
sguardo contrariato che
Castalia gli sferrò non servì a intimidirlo. Era
abituato a essere trattato con
sufficienza, sia da lei che da molti dei suoi uomini.
Castalia
aveva senz’altro i suoi
buoni motivi per nutrire dell’astio verso di lui, ma il
carattere incurante di
Lucius lo aveva da sempre automaticamente posto nella favorevole
condizione di
esserle condiscendente senza portarle rancori. L’eccessiva
enfasi che talvolta
metteva in questa condiscendenza, tuttavia, serviva a rammentare a chi
tentava
di dargli ordini che lui non era agli ordini di nessuno.
O quasi.
–
Castalia – intervenne
Belecthor in tono blandente. – Possiamo
tranquillamente prenderci una pausa dalle nostre noie per qualche
minuto. Sono
sicuro che sia qualcosa di importante, se ha tutta questa urgenza. Non
è vero,
Lucius? –
Lucius
gli sorrise riconoscente.
–
Assolutamente, signore. –
Angus
Belecthor gli era sempre
piaciuto. I capelli grigi e la barba incolta erano i soli segni che la
vecchiaia gli aveva imposto. Era ancora un uomo vigoroso, vivace nella
mente
quanto nello spirito, severo e irreprensibile con i ragazzi della Domus
in
merito a studi e responsabilità, ma sempre pronto a unirsi a
loro per qualche
banchetto o bevuta serale. Diversamente da altri insegnanti, che si
erano
guadagnati il rispetto a suon di minacce e punizioni, lui se lo era
semplicemente conquistato con il suo buon carattere, e anche per questo
molti
parlavano di lui che uno dei migliori Direttori che
l’Accademia avesse visto
dall’alba dei tempi.
–
E sia – cedette
Castalia. L’occhiata severa che piovve
addosso a Lucius era di una tale ostilità che parve tingerle
le iridi castane
di rosso. – Hai un minuto. –
–
Credimi, mi basteranno cinque secondi
per farti cambiare idea – promise
lui,
soave.
–
Ne hai appena sprecati tre. –
–
La Corte è stata rasa al suolo.
–
Un
momento di sconcertato
silenzio separò lo strascico della rivelazione dalla
risposta soffocata e
incredula di Castalia, improvvisamente impallidita:
–
Cosa? –
Lucius
raccontò tutto ciò che
aveva visto alla Corte, o ciò che ne restava. Si
soffermò con particolare
attenzione a parlare della ragazza e dell’uomo che aveva
tentato di portarla
via. Alla fine delle spiegazioni – che durarono molto
più di un minuto –
Castalia e Belecthor sembravano entrambi decisamente preoccupati.
–
Sei sicuro di quello che stai
dicendo? – indagò
la voce cauta di
Castalia.
–
L’ho visto con i miei occhi,
solo poche ore fa – le
assicurò. – Ed è
grazie a quel tizio che sono ridotto così, anche se alla
fine ho avuto la
meglio. –
Una
pesante cappa di incredulità
piombò sui presenti, facendoli irrimediabilmente ammutolire.
–
Ma chi oserebbe mai muovere un
simile affronto a Desmond? Chi ne avrebbe il potere? –
Lucius
comprendeva quello
sgomento. Fin dalla sua fondazione, ormai quasi mille anni prima, la
Lega aveva
combattuto per contrastare i soprusi di chi agiva senza rispetto verso
la Madre
e le sue creature, ma le forze che si era costruita la Corte nei secoli
con
ogni genere di mezzo illecito la aveva resa un nemico impossibile da
debellare
definitivamente.
–
Dovevi venire subito da me! – imprecò
Castalia.
–
Ho portato al sicuro la ragazza
– Si giustificò Lucius con calma.
–
Cosa c’è di più sicuro della
sede primaria della Lega? –
–
Suvvia, Castalia, non fare
domande di cui non vuoi sentire la risposta. –
La
donna non riuscì a celare del
tutto un moto di rabbia.
–
L’ho lasciata in mani fidate che
ne che avessero cura. Le sue condizioni erano serie. –
Castalia
scelse di non indagare
oltre. Lo squadrò con sospetto e si mise a misurare la
stanza a passi nervosi.
Lo
scoppiettio del fuoco che
ardeva del grosso camino di pietra sulla parete destra della stanza
risuonava
indisturbato da altri rumori.
–
Questa storia non mi piace. Se
questa ragazza si trovava alla Corte, poteva essere solo per due
motivi: o è una
prigioniera, o è una di loro. –
Funzionava
così, con Desmond: se
entravi nella sua dimora, o eri con lui, o eri destinato a morire.
Varcare i
cancelli della Corte era un’esperienza che nessuno poteva
dimenticare:
nell’oltrepassare la soglia che separava il cortile interno
della corte da
diverse centinaia di metri di strapiombo, si poteva quasi sentire
l’aria farsi
più fredda e rarefatta, con quell’odore di stantio
tipico dell’umidità dei
sotterranei. Ce n’era un labirinto, alla Corte, in cui
venivano rinchiusi i
prigionieri destinati alla tortura o a qualche sevizie sperimentale. I
racconti
popolari dicevano che in quelle segrete i lamenti dei prigionieri
ancora in
vita si unissero a quelli degli spettri dei defunti, ma Lucius
c’era stato, là
sotto, e tutto ciò che aveva potuto udire era stato un
incontrastato, terribile
silenzio tombale.
–
Se era una prigioniera, non era
una comune. Non aveva ferite, a parte quelle fresche riportate durante
il
crollo del castello. Ed era ben vestita. –
–
Dunque era una di loro – Concluse
Belecthor asciutto da dietro alla sua
scrivania.
–
No, io non credo. –
Lucius
lasciò cadere una breve
pausa di silenzio, durante il quale il Direttore lo studiò a
lungo negli occhi,
il viso tirato da un’evidente preoccupazione, mentre Castalia
continuava a
vagare per la stanza, ansiosa.
–
Il suo aspetto è strano. –
Castalia
si fermò.
–
In che senso strano? –
L’immagine
del volto cereo della
giovane riemerse vivido nella mente di Lucius. Rivide la sua
espressione
disperata, il velo di morte che già aveva iniziato a rubare
luce alla sua
anima.
–
Ha i capelli rossi. Di un rosso
forte, come il sangue. E i suoi occhi… – un brivido gli percorse la
spina dorsale nel
ricordare quello sguardo disperato. – Non ho mai visto un
verde così. –
Castalia
e Belecthor si
scambiarono un’occhiata dubbiosa.
–
Pensavo che forse potrebbe
essere il frutto dell’ennesimo esperimento di Desmond
– azzardò
Lucius. Era stata la sua prima
ipotesi: un incrocio tra un demone e una ninfa.
La
mandibola squadrata di
Castalia si serrò, enfatizzando lo stupore sul suo viso.
–
È possibile – convenne
Belecthor, lisciandosi pensosamente
la barba ispida – Probabile, anzi, vista la
peculiarità di questa giovane. –
–
Chiunque fosse l’uomo che
voleva rapirla, potrebbe essere anche il responsabile di quanto
accaduto alla
Corte – fece notare Lucius.
–
Se così fosse, significa che ha
un nemico in comune con noi, e ci ha indubbiamente fatto un enorme
favore. Il
che mi porta a pormi due domande – ragionò
Belecthor – Dobbiamo considerarlo
alleato o avversario? E, soprattutto, cosa c’è di
così allettante in questa
giovane per scomodare un tale potere per averla? –
–
Per ucciderla – precisò Lucius.
Non
era rimasta che un’ultima
goccia di vita, nel corpo della ragazza, quando l’aveva
trovata, e quella goccia
pendeva da un filo così sottile che era stato un rischio
anche solo toccarla.
Tutto ciò che ci si poteva augurare era che le
abilità di Venena come curatrice
fossero tanto invidiabili da riuscire a restituire sufficienti energie
a
un’anima già sfiorente.
–
Forse era solo una testimone
scomoda – ipotizzò Castalia.
–
Non è da escludere. –
–
Devo mandare immediatamente una
squadra a fare un sopralluogo. Dobbiamo capire cosa diavolo sta
succedendo e
soprattutto chi c’è dietro. Lucius, hai detto che
l’uomo con cui ti sei battuto
portava uno stemm.a –
–
Sì. Una specie di fiamma a tre
punte divisa nel mezzo. –
–
Ti dice niente, Angus? –
Belecthor
fece un mesto cenno di
diniego.
Con
un sospiro che denunciava
apertamente il suo disappunto, Castalia tornò a considerare
il discorso
lasciato in sospeso:
–
Sapresti farmene uno schizzo? –
–
Certo. –
Lucius
si guardò intorno alla
ricerca di carta e penna e vide che Belecthor già gli stava
porgendo un foglio
e la sua elegante penna d’oca personale.
Non
fu difficile tracciare il
simbolo che aveva visto: era lineare e semplice, di forma perfettamente
circolare. Somigliava vagamente a un tulipano stilizzato.
–
Ecco. –
Allungò
il foglio a Castalia, la
quale glielo strappò praticamente di mano per osservarlo da
vicino. Le rughe
che le incresparono la fronte, tuttavia, erano
l’inequivocabile segno che quel
disegno non le dicesse alcunché.
–
Farò fare delle ricerche – Dichiarò
infine. Afferrò il proprio mantello
dalla poltrona di fronte alla scrivania e se lo buttò
addosso. – Ora devo
tornare alla Sede, non c’è tempo da perdere.
–
Si
avviò verso la porta e la
aprì, voltandosi indietro appena prima di uscire:
–
Voglio parlare con quella
ragazza, Lucius. Portala da me. –
Un
fare imperioso ai limiti della
brutalità: una pessima abitudine che Lucius non aveva mai
tollerato facilmente.
–
Io lavoro per Soile, Castalia,
non per te – le
fece notare amabilmente.
– Accetto ordini solo da lei. Ma, se ci tieni tanto, posso
tranquillamente concederti
un favore personale. –
Un’ombra
oltraggiata balenò sul
volto della donna, rughe sottili le solcarono la fronte e le labbra, ma
non
replicò.
–
Ti sarei grata se tu mi facessi
questo favore – aggiunse
semplicemente a
denti stretti.
Lucius
pensò a quella poveretta,
all’assoluta inerzia con cui si era arresa tra le sue
braccia. Qualunque cosa
si aspettasse Castalia da lei, avrebbe dovuto attendere.
–
L’ho lasciata priva di
conoscenza soltanto poche ore fa – puntualizzò,
lasciando ben intendere quanto
fosse irragionevole esigere di avere un colloquio con una persona
appena
sfuggita alla mano della morte.
Belecthor
si schiarì
significativamente la gola, dando segno di aver perfettamente colto il
messaggio, ma Castalia, ormai sulla difensiva, fu irremovibile:
–
Allora la voglio alla Sede non
appena sarà in grado di stare in piedi. Sono stata chiara?
–
Lucius
ritenne che fosse meglio
non ribattere. Si limitò a piegare appena la testa in
avanti, assecondandola.
–
Chiarissima. –
Soddisfatta,
Castalia rivolse un
frettoloso cenno di saluto a Belecthor, poi scomparve oltre la porta,
che
sbatté alle sue spalle.
Uscita
lei, la stanza sembrò
ingrandirsi e illuminarsi, come se i muri avessero fatto un passo
indietro e il
fuoco di fosse spontaneamente attizzato. La natura puntigliosa e
nevrotica di
Castalia la rendeva un ottimo comandante, sul campo, ma una presenza
decisamente ingombrante con cui condividere uno spazio così
limitato, a maggior
ragione se non si rientrava nelle sue grazie.
Eufemisticamente
parlando.
–
Lucius. –
La
voce pacifica di Belecthor lo
richiamò dalle sue riflessioni.
–
Castalia pecca di presunzione,
nei tuoi confronti, ma non è cattiva. So che non
è alla Lega che la tua lealtà
è consacrata, ma, vista la situazione, forse dovresti
dimostrarti più
collaborativo. –
–
Io sono collaborativo – protestò Lucius
con veemenza. – Con chi merita
la mia collaborazione. –
Sospirando,
Belecthor allungò una
mano verso la teiera e si riempì una tazza.
–
Le responsabilità del
Coordinatore Generale sono alte, ragazzo. Non sottovalutare la
difficoltà della
sua posizione. –
Lucius
si passò una mano sul
viso. Era stanco, avrebbe voluto riposare, godersi un bagno caldo, ma
non c’era
tempo. Doveva tornare da Angina, prima. Forse da lei avrebbe avuto modo
di
darsi una ripulita.
–
Vuoi un consiglio? – gli
disse Belecthor, sorseggiando il suo the
con una calma ostentata – Va’ dalla tua trovatella,
assicurati che stia bene e,
se così è, portala al più presto da
Castalia. Ho la sensazione che ci aspettino
tempi duri. –
Si
sentiva ancora il tepore
dell’acqua, addosso. La pelle, ora profumata di oli e
unguenti curativi, era
più morbida e le ferite erano meno infiammate.
L’infuso di melissa e calendula che
Venena le aveva tamponato sui tagli e sulle abrasioni aveva
senz’altro sortito
il suo effetto.
I
suoi piedi nudi poggiavano su
un enorme tappeto che occupava gran parte del pavimento di roccia.
Angina
l’aveva portata in una caverna immensa dalle chiare pareti
calcaree, il
soffitto alto una ventina di braccia, e con un semplice gesto della sua
mano
aveva acceso una lunga serie di torce che avevano immediatamente
rischiarato
l’ambiente, spalancando così davanti agli occhi di
Regan una visuale
incredibile: l’antro ospitava delle sorgenti sotterranee, che
si raccoglievano
in piccoli laghetti naturali. In alcuni l’acqua era uno
specchio immobile e
limpido, in altri la superficie era opaca e sorvolata da densi strati
di
vapore, in altri ancora piccole bolle d’aria scoppiettavano
ritmicamente,
emergendo dal fondo, e in qualcuna precipitavano vivaci zampilli
cristallini.
Dopo
un ricco pranzo a base di
carne arrostita e verdure crude, Angina e Venena avevano aiutato Regan
a
spogliarsi e la avevano fatta immergere in una polla di acqua
meravigliosamente
calda, in cui lei si era abbandonata con immenso sollievo. Era stato un
toccasana per le sue articolazioni indolenzite.
Con
le lozioni che Venena le
aveva consegnato, si era lavata, togliendosi di dosso polvere e sangue
incrostato, domandandosi nel frattempo come avesse fatto a ridursi in
quello
stato. Da quel che aveva capito, i suoi ospiti si aspettavano che fosse
lei a
dare delle risposte, quando invece tutto ciò che aveva da
offrire loro erano
soltanto altre inutili domande. Aveva spiegato la completa assenza di
ricordi
nella sua testa e Angina sembrava averle creduto; Venena, invece,
l’aveva
guardata in tralice e aveva contratto severamente la mascella. Regan
aveva già
capito che non si sarebbero mai piaciute, loro due.
Ora
che si era asciugata e
sistemata, se non altro, si sentiva più in forze. Le era
stato dato qualcosa da
mettersi, ma lei aveva indossato con riluttanza sia il corsetto sopra
la
camiciola, sia i calzoni neri: non aveva le curve di Angina e su di lei
quei
vestiti facevano un ben povero effetto. Continuava a sistemarseli
addosso, ad
aggiustarli cercando di migliorare qualcosa, ma non c’era
verso: il suo era un
corpo ancora acerbo, ben lungi da quello procace di una donna adulta.
–
Tra un paio d’anni li riempirai
meglio – Le
disse Angina, divertita,
intenta a stringerle i lacci sulla schiena. Regan suppose che fosse la
prima
volta che il suo busto veniva costretto in un corsetto, visto il
disagio che
avvertiva nel muoversi e nel respirare.
Aveva
visto l’abito che le
avevano tolto la sera prima: una nuvola di seta, pizzi e merletti in
cui non si
era minimamente saputa immedesimare. Al confronto, gli abiti di Angina
le
sembravano fatti su misura per lei.
–
Vieni qui, bambolina. –
Angina
le fece cenno di
raggiungerla, indicandole uno sgabello di legno accanto a un tavolo in
un
angolo su cui Venena stava trafficando con una serie di boccette.
C’erano anche
dei teli puliti, piegati con cura, e un cestino pieno di pezzi di
sapone.
Regan
obbedì e si mise a sedere.
Angina
prese una spazzola e
iniziò a passargliela tra i capelli, per tutta la loro
lunghezza. Regan chiuse
gli occhi. Era una sensazione piacevole, con uno straordinario potere
calmante.
–
Hai dei capelli meravigliosi. Erano
anni che non ne vedevo di così lunghi e lucenti. –
–
I tuoi sono belli. –
–
I miei sono capelli da
guerriera – puntualizzò Angina. – Tutta
un’altra cosa. –
–
Che cos’hanno di particolare i
capelli di una guerriera? –
–
Innanzitutto devono essere più
corti dei tuoi, e puoi scommettere che non saranno mai così
lustri. E si
tengono quasi sempre legati, per non impacciare i movimenti.
–
Regan
cercò di immaginarsi con
una spada in mano: non ci riuscì.
–
Non credo di essere mai stata
una guerriera. –
Angina
rise.
–
Con queste mani da principessina,
piccola, al massimo potevi esserlo nei tuoi sogni. –
Regan
restò a fissarsi i palmi
adagiati in grembo, mentre Angina riprendeva a pettinarla: le sue mani
erano
lisce, bianche, morbide al tatto. Non portavano segni di fatica. Anzi,
non
portavano segni di alcun tipo.
–
Prima o poi la tua memoria
ritornerà – esordì
Angina, come se le
avesse letto nel pensiero. – Fino ad allora, evita di passare
ogni momento a
sforzarti di ricordare. Nessuno ti restituisce il tempo perso.
–
Non
sapendo cosa dire, Regan
tacque.
Non
aveva idea di cosa sarebbe
stato di lei, adesso. Senza un passato, senza qualcosa da cui partire,
non
capiva in che modo potesse sperare di andare avanti.
–
Mi chiedo se il tuo cervello
non abbia deciso di privarti della memoria per il tuo bene – rifletté Angina a
un tratto.
Regan
tacque ancora.
Si
trattava di un pensiero che
aveva sfiorato anche lei: stando a quanto le avevano raccontato, il
luogo in
cui era stata trovata non era esattamente un’oasi di
felicità e qualcosa le
diceva che c’era un qualche fondamento in quella semplice
supposizione.
–
Mi spaventa non sapere chi sono
– mormorò.
–
Un cumulo di giorni perduti non
costituiscono la tua essenza – le
disse
Angina. – L’impronta che hanno
lasciato
è ancora la stessa dentro di te. Tu sei ancora tu, anche se
non ricordi
attraverso quali esperienze lo sei diventata. –
Regan
ascoltò il suono di quelle
parole che si perdeva nella vastità della camera. Le piacque
il tono deciso e
rassicurante con cui erano state pronunciate e ancora di più
le piacque il loro
significato. Provò un’improvvisa gratitudine verso
quella donna.
–
Io qui ho finito – Annunciò
Venena. Aveva raccolto tutte le
ampolle sul vassoio, lasciando solo un calice scuro sul tavolo.
–
Lì dentro c’è un decotto che
dovresti bere – disse
a Regan. – Aiuterà
il tuo corpo a rimettersi in forze. –
Regan
occhieggiò con poco
entusiasmo l’oggetto in questione. Nonostante sapesse di
averne bisogno, non le
andava proprio di bere quella roba.
–
Grazie. –
Venena
non sprecò inutili
cerimonie: cucì insieme due parole di saluto, poi prese la
sua roba e uscì.
–
Devi scusarla, non ama molto la
presenza degli estranei – borbottò
Angina.
A
giudicare dal suo
comportamento, Venena non doveva amare molto la presenza delle persone
in
generale.
–
Posso capirla. –
–
Spero che con questo tu non
voglia dire che ti senti a disagio, in questo momento. –
–
Assolutamente no! Anzi, penso
di dovervi dei ringraziamenti. Siete stata fin troppo buona con me.
–
–
Prima di tutto, ti vieto
categoricamente di rivolgerti a me dandomi del Voi. In secondo luogo,
questo
posto ha sempre accolto molti randagi. Non sei la prima né
sarai l’ultima,
credimi. –
–
Che cosa fate, qui,
esattamente? –
Scorse
un sorriso che si formava
sulle labbra di Angina, riflesso sulla superficie metallica del calice.
–
Siamo quello che certa gente
definirebbe fuorilegge, ma siamo di quelli buoni. Non facciamo del male
a
nessuno. A meno che non se lo meriti. –
Era
calata una tonalità cupa su
quell’ultima frase, in cui Regan riuscì a
percepire amarezza e rancore
represso.
–
Mi dai il permesso di sistemarteli
come si deve?– le
chiese Angina,
passandole una mano tra i capelli.
–
Sì, certo – Rispose
Regan, incerta.
Passarono
qualche minuto a
chiacchierare. Angina le raccontò meglio della propria
attività e nel frattempo
intrecciava grosse ciocche con gesti esperti, separando e tirando,
incrociandole tra loro. Quando ebbe finito, fece alzare Regan e la fece
specchiare in una delle polle di acqua limpida e immobile.
–
Mi sta bene – Si
stupì lei, osservando la lunga treccia che
dalla nuca le scorreva giù fino alla vita.
–
Non solo ti sta bene, ma così
starai molto più comoda. –
Avrebbe
dovuto iniziare ad
acquisire confidenza con il proprio aspetto. Non sapeva se si piacesse
o meno,
ma i suoi lineamenti iniziavano perlomeno ad avere un vago sentore di
familiarità.
–
È davvero strano guardare il
proprio riflesso e vedere un estraneo – rifletté
a voce alta.
Prima
che potesse aggiungere altro,
qualcuno bussò alla porta: tre colpi decisi che
riecheggiarono in tutta la
grotta.
–
Avanti. –
La
porta si spalancò con uno
scricchiolio. Regan si aspettava che fosse Venena, tornata a prendere
qualcosa,
invece si trattava di un uomo. O meglio, un ragazzo, perché
non poteva essere tanto
più grande di lei.
–
Buongiorno, signore – Salutò
con brio il nuovo arrivato.
Man
mano che si avvicinava, Regan
distinse meglio le sue fattezze. Era alto, vestito di nero, con un viso
attraente e due occhi azzurri come il ghiaccio che la guardavano
curiosi. Gli
stessi occhi, ne era sicura, che le erano apparsi nella mente appena
risvegliata.
Il
suo passo era lento e felpato.
C’era qualcosa di felino in quell’andatura, nel
modo in cui le lunghe gambe si
succedevano l’una all’altra in brevi falcate
disinvolte, l’orlo del pastrano
che gli lambiva le caviglie.
Solo
quando le fu praticamente di
fronte, Regan si accorse di quanto fosse malconcio: tra vestiti
strappati in un
paio di punti e macchie di fango e sangue, sembrava appena uscito da un
nubifragio.
–
Lucius! – esclamò
la voce suadente di Angina, come nulla
fosse. – Hai fatto presto .–
Il
ragazzo sorrise, e il suo
volto si illuminò.
–
Noto con piacere che la nostra
ospite sta molto meglio – disse,
strizzando un occhio a Regan, la quale a stento se ne accorse, intenta
com’era
a rimirarlo. Il suo timbro era ammaliante, un manto di velluto scuro e
avvolgente dalle sfumature ridenti.
Fecero
una rapida presentazione.
–
Venena ha fatto una delle sue
magie e ce l’ha rimessa in sesto. Hai visto
quant’è graziosa senza sporcizia
addosso? –
Regan
avvertì lo sguardo di Lucius
vagare su di sé.
–
Molto graziosa, sì – constatò,
compiaciuto. – Begli occhi davvero, cerbiattina. –
–
Non farti incantare dalle sue
moine, Regan: il nostro Lucius ha un confesso debole per le belle donne
– cinguettò
Angina – E viceversa naturalmente. –
Lucius
le rivolse un sorrisino
beffardo e si sfilò il cappotto. Lo lasciò cadere
distrattamente a terra con un
tonfo sordo, poi iniziò ad aprire anche la camicia, e un
attimo dopo anche
quella fu a terra. Rimase solo una sottilissima catenina
d’argento a cingergli
il collo, una stella a sette punte con un cuore di rubino a fare da
pendente.
Regan
fissò a bocca aperta il
torso nudo del ragazzo: non sembrava così muscoloso, da
vestito. Le spalle
erano possenti, muscoli sviluppati disegnavano linee nette sul torace e
sulla
schiena, tra le scapole, lungo le braccia. Ma non era quello a
sconvolgere
Regan. La pelle chiara di Lucius sembrava una tela aggredita da un
artista
impazzito: tra rari tagli freschi – uno particolarmente
brutto gli sferzava il
fianco – e qualche brutto livido, cicatrici grandi e piccole
deturpavano
l’altrimenti perfetto incarnato, alcune lunghe e sottili come
fili d’erba,
altre di forme strane, frastagliate, altre ancora brevi e nette,
bianche e
lucide. Ce n’era una serie, sulla sua spalla sinistra, che
formava una collana
di punti allineati in una stretta curva simmetrica. Un fisico di una
bellezza
statuaria imbrattato da costellazioni di marchi indelebili.
Lo
fissò senza fiato, rapita da
una fascinazione perversa che dal nulla le stava nascendo dentro.
–
Non farti turbare da queste – Le
disse Lucius tranquillo, mentre le sue mani
sfilavano gli stivali dai suoi piedi. – Sono solo vecchi
graffi. –
–
Non mi turbano – disse
Regan con altrettanta tranquillità. – Sono
poetiche. –
E
lo erano. Tanto fini e
armoniose, nel loro insieme, da sembrare disegni volontari, tracciati
da mani consapevoli
per decorare e impreziosire, piuttosto che deturpare. Era forte e
vicino al
morboso il fascino che quei segni esercitavano su di lei: riusciva
quasi a
vedere il sangue che aveva lambito ogni cicatrice quando ancora era
stata un taglio
aperto, e ne era ipnotizzata.
–
Poetiche – Lucius
soppesò quella singola parola tra sé,
strascicandola nel passarsela tra le labbra. – Nessuno aveva
mai fatto un
complimento così lusinghiero alle mie cicatrici. –
–
Gli servono a enfatizzare la
sua irresistibile reputazione da cattivo ragazzo – Scherzò Angina.
Lo sguardo che ebbe per Lucius
era di pura adorazione.
–
Non sono un cattivo ragazzo –
si difese lui.
– Ho solo cattive
abitudini. –
–
Ecco perché ti ritrovi questi
bei ricami sparsi su tutto il corpo. –
–
Non hai sentito? – Lucius
enfatizzò un tono vanitoso. – Sono
poetici! –
Poi,
come nulla fosse, si slacciò
la cinta e abbassò i pantaloni, rimanendo quasi del tutto
nudo, ad eccezione di
un paio di corte brache di tela. Regan si domandò se, vista
la situazione, non
si sarebbe dovuta in qualche modo sentire in imbarazzo.
Non
le fu ben chiaro il perché
lui si stesse spogliando – e con tanta disorientante
disinvoltura – fino a che
non lo vide voltarle le spalle e tuffarsi dentro uno dei laghetti di
acqua fredda.
Quando
riemerse, i capelli neri
gli aderivano al viso e la sua faccia era decisamente soddisfatta.
–
Mi ci voleva proprio – sospirò,
scostandosi i capelli all’indietro. –
Hey, Gin, passami un po’ di sapone! –
Senza
scomporsi, Angina afferrò
uno dei blocchi profumati nel cestino e glielo lanciò.
Lucius fece sfoggio dei
suoi ottimi riflessi nel prenderlo al volo con una mano sola.
–
Grazie. –
Regan
sapeva che non era normale
che un uomo si esponesse così di fronte a una donna. Non era
imbarazzata, ma era
sorpresa dall’incuranza che sia Lucius che Angina mostravano:
nonostante lei
fosse ben più matura di lui e lui fosse praticamente nudo,
erano perfettamente
a loro agio.
–
Era un po’ che non ti facevi
qualche ricamo nuovo – lo
prese in giro
Angina, sedendosi sul bordo roccioso della pozza. –
Cominciavo a temere che tu avessi
perso mordente. –
Lucius
rise, crogiolandosi
nell’acqua.
–
Mai e poi mai. –
–
Una volta venivi spesso a
trovarmi – laconica, Angina affondò le dita tra i
capelli bagnati di Lucius, che
aveva appoggiato ruffiano la testa al suo ginocchio. – Adesso
la Luce del Nord ti
tiene troppo lontano da me. –
L’amaro
della nostalgia mitigato
dalla dolcezza dell’affetto: sapeva di zucchero e fiele quel
sussurro che
suonava così strano sulla voce graffiante di Angina.
Lucius
si crogiolò come una
bambino nelle sue carezze, offrendole il viso come un cagnolino in
cerca di
coccole.
Regan
non era sicura della natura
del loro rapporto: a tratti si provocavano con la malizia di due
amanti, a
tratti si scambiavano tenerezze da madre e figlio, a tratti si
burlavano l’uno
dell’altra come cari amici di vecchia data. Forse,
pensò Regan, era tutte
quante quelle cose.
–
Sei il solito marmocchio
lascivo di sempre – ridacchiò Angina, mentre lo
spingeva via.
Per
tutta risposta, lui la
schizzò con uno spruzzo d’acqua.
–
Ho incontrato Venena, poco fa –
disse poi,
appoggiandosi con un gomito fuori
dalla vasca, guardando verso Regan. – Mi ha detto del tuo
piccolo inconveniente.
–
Lei
non comprese subito a cosa si
riferisse.
–
Oh, sì. La mia memoria…–
–
Non ricordi altro che il tuo
nome? –
–
Purtroppo no. –
Uno
sbuffo simile a una risata
sfuggì dalle labbra di Lucius.
–
Sarà divertente doverlo
spiegare a Castalia. –
–
Chi è Castalia? –
Lui
sventolò la mano come se la
cosa fosse del tutto priva della benché minima importanza.
–
Una tizia a cui faccio favori
nel tempo libero. –
Angina
sollevò un sopracciglio
con fare ironico, ma non disse niente.
–
Regan – Lucius si fece
improvvisamente più serio. – So che sei stanca e,
date le circostanze, credo
che sarà anche inutile, ma ci sono delle persone che
vorrebbero parlare con te
di quello che è successo la notte scorsa. –
Lei
si morse il labbro,
titubante.
–
Di che aiuto vi potrei essere? –
Le
dava un brivido strano pensare
di uscire, andare via di lì. Si sentiva al sicuro, in quel
luogo sotterraneo,
protetta dalla terra, ed era ancora troppo scossa per sentirsela di
uscire.
–
Sai, si tratta di persone molto
potenti – le
spiegò Lucius. – Che forse
potrebbero aiutarti a recuperare i tuoi ricordi. –
Le sarebbe dovuta sembrare una buona notizia. Lo era, in
fondo.
–
Ci sono persone più potenti di
lei che hanno la correttezza di non abusare della propria influenza
– sbuffò
Angina. – Qualcuno dovrebbe farglielo
lo notare, qualche volta. –
–
Io lo faccio, di tanto in tanto
– affermò
Lucius. – È una soddisfazione
di raro piacere. Ma temo che questo non le farà cambiare
idea sul colloquio che
si aspetta di avere con la nostra piccola ospite. –
–
Non fa niente – Minimizzò
Regan. Si sentiva già abbastanza in
colpa per essere un tale disturbo per quella gente così
disponibile.
Cercò
lo sguardo di Lucius e lo
ritrovò tra sottili ciuffi di capelli zuppi
d’acqua.
–
Verrò con te da questa
Castalia, se è necessario. –
Il
modo in cui lui le sorrise le
fece capire che aveva apprezzato la risposta.
Era
fuori di sé.
Gli
era inconcepibile che la
storica dimora della Corte fosse andata distrutta come un castello di
sabbia in
una mareggiata.
Ne
osservava i resti da lontano,
assieme a un manipolo dei suoi, i pochi sopravvissuti, e sentiva la
rabbia
ribollirgli nelle vene. Aveva solo una vaga idea di cosa potesse essere
successo, ma si rifiutava di crederci. E, d’altro canto, lo
aveva visto con i
suoi stessi occhi lo sprigionarsi di quell’immenso potere.
L’angelo
era morto, e le ripercussioni
che la sua morte aveva avuto erano state inimmaginabili.
L’ultima
cosa che riusciva a
ricordare erano le proprie dita che assieme alla lama del pugnale
affondavano
tra le costole del giovane e un grido di dolore che si sprigionava
nell’aria.
Poi tutto aveva cominciato a tremare e l’intero castello,
prima che chiunque si
potesse rendere conto di quel che stava accadendo, si era accasciato su
sé
stesso, esattamente come aveva fatto l’angelo tra le sue
braccia, esanime. Da
lì in poi tutto era nebbia, fino al momento in cui si era
risvegliato nel buio,
imprigionato sotto a una lastra di pietra che lo aveva protetto.
Ne
era uscito a fatica, risalendo
tra blocchi di pietra che erano rimasti impregnati del suo sangue, e
quando era
emerso in superficie non aveva trovato altro che un’immensa
distesa di detriti
e corpi morti. E la ragazza, forse, era ancora da qualche parte
là sotto.
–
Mio signore. –
Tornò
in sé, abbandonando
riflessioni gravide di rabbia, risentimento e frustrazione.
Al
suo fianco, Isabel attendeva
che lui avesse un qualunque tipo di reazione di fronte a ciò
che stava
osservando da ormai diversi minuti, immerso in un silenzio sconvolto.
–
Mio signore, dovremmo
allontanarci da qui. –
La
voce di Isabel era timorosa.
Lo guardava devota, la freschezza della giovinezza passata ancora
abbastanza
vivida da renderla luminosa sotto all’incombere della luna.
Boccoli di mogano,
occhi di ametista, pelle di rosa canina: una mezzaninfa di
straordinarie
capacità magiche. La aveva scelta per quello.
Lei
era stata lontana dalla
Corte, al momento della tragedia. Lei e i tre uomini che erano
rientrati con
lei lo avevano soccorso e avevano aiutato lui e i sette superstiti
– sulle
circa cento persone che abitavano regolarmente la Corte – a
rifugiarsi nella
foresta.
Se
n’erano andati appena in
tempo. Solo qualche minuto più tardi avevano scorto in
lontananza il
sopraggiungere di alcune persone che non avevano avuto
difficoltà a riconoscere
come membri della Lega.
–
Siete ferito, avete bisogno di
cure. –
–
Isabel ha ragione, mio signore
– intervenne Galvorn ansimante, reggendosi una spalla
tumefatta. Era un angelo
grande e grosso, ma l’offesa subita nell’incidente
lo aveva incurvato su sé
stesso, riducendolo a una mole ingobbita
nell’impenetrabilità della notte.
–
Non possiamo fare nulla. Gli
uomini della Lega sorvegliano la zona. Non siamo in grado di
affrontarli. –
Suo
malgrado, lui dovette
ammettere che avevano ragione loro. Non avevano scelta: dovevano andare
via,
rifugiarsi il più lontano possibile da lì e
riorganizzare interamente la
congrega. I caduti di quella notte non erano che una piccola parte dei
suoi
accoliti, ma, caduta la Corte, ci voleva tempo per ricostituire dal
nulla il
punto nevralgico cui faceva capo ogni cosa.
–
Samael è stato avvertito? –
–
Ci attende alle Cinque Torri. –
Avevano
diversi giorni di viaggio
ad attenderli, e non sarebbe stato semplice.
Gettò
un ultimo sguardo al picco
in lontananza, indugiando sui miseri resti di quella che per secoli era
stata
la sua gloriosa dimora: si era tutto dissolto in una distesa di detriti
e
polvere lavati dalla pioggia. Antichi tesori, preziosi esperimenti,
libri rari
raccolti in tanti anni di assennate ricerche… tutto perduto.
La
Lega ci avrebbe messo poco a
disseppellire dalle rovine ogni cosa e appropriarsene senza alcuno
scrupolo, e
lui non avrebbe potuto fermarli.
Giurò
a sé stesso che avrebbe
avuto la giusta vendetta, a suo tempo.
–
Andiamo – ordinò, e con un
fruscio del mantello voltò le spalle e tutto ciò
che di più prezioso avesse mai
posseduto, lasciandosi inghiottire nel folto della foresta.
Angina
aveva fatto portare dei
vestiti puliti per Lucius. Dovevano appartenere a lui,
perché erano pressoché
identici agli altri e gli calzavano alla perfezione.
Regan
non aveva nulla da prendere
con sé, nulla che le appartenesse. Tutto ciò che
aveva posseduto era rimasto
sepolto in un passato di cui non era più padrona.
Angina
le regalò un mantello
meraviglioso: di pesante broccato nero, con alamari d’argento
e tortuosi ricami
simili a viticci che si aggrovigliavano sinuosi lungo il bordo. Teneva
molto
caldo, forse fin troppo.
–
Vedrò di rubare qualcos’altro
per la prossima volta che torni a trovarmi – Le disse, lisciandole il
mantello sulle
spalle.
–
Spero di tornare presto, allora.
–
Angina
li accompagnò all’uscita.
La via fu lunga, un interminabile intrico di gallerie labirintiche in
cui era
fin troppo semplice smarrire l’orientamento, ma in cui lei e
Lucius si
spostavano con sicurezza.
–
Si è mai perso qualcuno, qui
dentro?– chiese
Regan, mentre
sorpassavano una cavità zeppa di ragnatele.
Il
beffardo sogghigno di Angina
bastò di per sé a risponderle.
–
Oh, è capitato. I pochi che
riescono a intrufolarsi qui dentro senza il mio esplicito permesso
difficilmente riescono ad andare lontano. O meglio, magari ci arrivano,
ma non
è un lontano molto ospitale. –
–
Leggendo tra le righe, ci sono
individui che si sono persi nei cunicoli sbagliati e non hanno fatto
più
ritorno – specificò
Lucius allegro.
–
Davvero?–
Angina
scrollò le spalle con
indifferenza.
–
Ho già abbastanza da fare a
badare ai miei uomini, non posso certo perdere tempo a preoccuparmi
degli
idioti che si intrufolano in casa mia sperando di farla franca. E poi
sarà
successo al massimo un paio di volte. –
–
Da quando ci sei tu – precisò
Lucius. – La sua famiglia vive qui da
generazioni – spiegò
poi a Regan. – Certi
racconti di suo nonno mi hanno affascinato quando ero un ragazzino:
antiche
sette segrete hanno dimorato qua sotto, secoli fa. Alcuni superstiziosi
credono
ancora che la foresta sia infestata da spiriti malvagi. –
Una
manciata di minuti più tardi
erano arrivati in fondo a quel che sembrava un vicolo cieco: davanti a
loro si
parava un solido muro di roccia muschiata.
Senza
pensarci, Angina vi
appoggiò una mano in un punto che sembrava del tutto casuale
e la premette
dolcemente. Con un sonoro crepitio che fece temere a Regan che la
parete si
stesse spezzando, a poco a poco la pietra si aprì, andando a
formare un’arcata
che si affacciava direttamente su una rigogliosa esplosione di verde
scuro, che
colpì gli occhi delicati di Regan con tanta meraviglia e
violenza da ferirli,
mentre lei si rendeva conto che, per qualche assurdo motivo, le mancava
il
respiro.
Il
mondo si spalancava davanti a
lei invitandola a entrare.
La
sua curiosità agì là dove lo
stupore aveva inibito i muscoli e la sospinse, un passo dopo
l’altro, ad
avventurarsi in quello spazio così colorato e inondato di
sole.
Le
sembrò di vacillare sotto al
peso di quella visuale, consapevole che si trattasse soltanto di un
ordinario
scorcio di montagna, e persino piuttosto desolato, data la stagione.
Era
un fitto bosco di conifere
che emanava un sottile profumo di resina, invitando a chiudere gli
occhi e
sfruttare tutti gli altri sensi, e lasciarsi rapire dalle carezze del
vento,
dal suo fruscio tra le fronde, dalla morbidezza surreale dei muschi che
ricoprivano i massi chiari e i tronchi degli alberi caduti. Erba alta e
folta faceva
da tappeto sotto ai piedi, fresca e tenera al tatto, e qua e
là chiazze di neve
cristallizzata – a terra e sugli alberi –
testimoniavano il passaggio di
recenti imbiancate. Benché la temperatura fosse
effettivamente piuttosto
rigida, Regan non risentiva del freddo; inspirava anzi con estremo
piacere
l’aria frizzante che le riempiva i polmoni e le mandava in
tutto il corpo
intense scariche di energia pura.
Il
semplice essere lì la stava
facendo sentire di gran lunga meglio rispetto a quanto non avesse fatto
la
pozione di Venena. Era come sentirsi tutt’uno con il bosco
che si distendeva
attorno a lei.
–
Noto con piacere che l’aria
aperta sta sortendo un effetto positivo su di te. –
Regan
si appoggiò entusiasta a un
enorme abete, il naso all’insù.
–
Mi sento come se non avessi mai
respirato prima d’ora. –
Angina,
abbandonata con una
spalla contro la cornice dell’arco, si portò una
mano al fianco, ridendo.
–
O come se non avessi mai visto
un albero. –
Regan
non raccolse la battuta.
C’era una consistente parte di lei che aveva voglia di
scappare e correre fino
allo sfinimento tra le piante, e ce n’era un’altra,
più esigua ma molto forte,
che era soggiogata da un inspiegabile timore, quasi temesse che le sue
gambe
non conoscessero le dinamiche di una corsa a perdifiato.
–
Sarà il caso che ci sbrighiamo
– le disse Lucius. – Prima parlerai con Castalia,
prima te ne libererai. –
Un
grosso corvo era come apparso
dal nulla e gli si era postato sulla spalla. Lucius gli sorrideva,
grattandogli
la testa. Nonostante il suo corpo fosse quello perfettamente maturo e
sviluppato di un uomo fatto, il suo sorriso era candido e trasparente
come cristalli
di zucchero, sincero come quello di un bambino.
–
Lui è Rok – disse sa Regan,
mentre il rapace gli zampettava lungo il braccio, becchettando
affettuosamente
il pesante tessuto della manica. – Il mio compagno di
avventure di sempre. –
Rok
studiò Regan con la testa
girata di lato, un solo occhio a vagare su di lei con fare
inquisitorio, quasi
dovesse decidere se degnarla o meno della propria attenzione. Alla
fine, dopo
una lunga e attenta valutazione, l’animale arruffò
pomposamente le penne nere
come l’inchiostro ed emise una gracchiata decisiva.
Lucius
rise sommessamente,
carezzandolo con gentilezza.
–
Gli piaci. –
Per fortuna, pensò Regan, che
aveva avuto la singolare impressione
che il corvo fosse riuscito a scrutarla più a fondo di
quanto il semplice dono
della vista non consentisse.
Lei
e Lucius salutarono Angina
con un ultimo abbraccio e qualche raccomandazione generale.
–
Lucius, abbi cura di lei,
intesi? –
–
Sissignora – Promise
lui, con un cenno marziale.
–
Ragazzina – Angina posò le mani
ai lati del collo di Regan e ammiccò. – Sei in
ottime mani. Resta con questo
buzzurro e sarai al sicuro. –
–
Oh, non dire così, mi fai
arrossire! – ciarlò Lucius, in una pessima
imitazione di una persona
imbarazzata.
–
Che la sorte ti sia favorevole,
Regan. Aspetterò con ansia tue notizie. –
Dopo
l’ennesimo ringraziamento di
commiato, Lucius riuscì finalmente a strapparla dalle
grinfie di Angina e
portarsela via.
Le
fece strada nel bosco,
seguendo un sentiero che solo lui sembrava vedere. Dietro di loro, gli
aghi secchi
e le sterpaglie si ricomponevano autonomamente, coprendo le tracce del
loro
passaggio.
Non
camminarono a lungo, e nel
frattempo Lucius le illustrò a grandi linee
com’erano andate le cosa da che
l’aveva trovata. Quando ebbe terminato, Regan
pensò di essere stata molto
fortunata. La sarebbe solo piaciuto che qualcosa di quel che le era
stato
riferito avesse per lei qualche senso.
Il
profumo di ghiaccio che
emanava la neve sugli alberi si mescolava a quello del muschio e delle
conifere, dando vita a un’unica fragranza fresca che si
respirava volentieri. La
debolezza era quasi del tutto svanita e aveva lasciato posto a un
vigore che
andava rafforzandosi.
Lucius
non mancò di preoccuparsi
che lei stesse bene e non faticasse a seguirlo, ma Regan gli
assicurò che era
inutile: si muoveva senza difficoltà, con la disinvoltura di
un’abitudine che
non esisteva.
–
Ci siamo. –
Regan
si sottrasse con sforzo non
indifferente all’ascolto del canto del vento nel cielo terso
sopra la sua
testa. Lucius si era fermato di fronte a un gigantesco tronco cavo
privo di
chioma e la stava aspettando.
Regan
riconobbe all’istante i
colori spenti e languidi del legno: la Madre aveva già
richiamato a sé
l’energia vitale di quella pianta, lasciando le sue spoglie
mortali a
consumarsi attraverso i secoli.
–
È morto – osservò, costernata.
–
Da almeno una cinquantina
d’anni – confermò Lucius, nello stesso
istante in cui Rok volava via dalla sua
spalla per andare a posarsi in due battiti d’ali su uno dei
rami sopra le loro
teste, e lì rimase, vegliandoli dall’alto.
– Non si potrebbe usare una creatura
viva come Portale. –
La
fronte di Regan si corrugò.
–
Portale? –
–
Non sai cos’è un Portale? –
Lei
scosse la testa, non senza
una buona dose di vergogna.
–
Oh, i Portali sono
un’invenzione estremamente affascinante. Difficili da creare,
ma indubbiamente
di grande utilità. Soprattutto per chi ha bisogno di andare
molto lontano in
tempi molto brevi senza fare fatica. –
La
cavità triangolare dell’albero
era simile a uno squarcio, una ferita prepotente inflitta con una certa
precisione. La furia di un temporale, sicuramente.
–
È un po’ strettino, ma sarà
questione di un attimo. –
Lucius,
un piede già all’interno
della fessura, le stava porgendo una mano. Regan intuì che
fosse un invito ad
afferrarla.
–
Devi essere fisicamente in
contatto con me per poter passare – le rivelò.
– Non avere paura, cerbiattina, ti
posso assicurare che è assolutamente indolore e privo di
rischi. –
Regan
sospirò. Non erano tanto i
potenziali rischi o la paura a bloccarla, quanto piuttosto la
prospettiva di
concedere la propria mano alla stretta che Lucius le offriva.
Era
bello, anche se il suo viso
era appesantito da occhiaie dense di stanchezza e le sue dita erano
ruvide e
callose, soprattutto quelle della mano sinistra. Doveva essere uno
spadaccino
solerte, ed evidentemente mancino.
–
Non abbiamo tutta la giornata,
sai? –
Regan
inorridì nel sentirsi
arrossire. Rimpianse di essersi fatta legare i capelli per non potersi
rifugiare dietro la loro cortina. Raggiunse Lucius in fretta e gli
prese la
mano con decisione forse eccessiva.
Lui
rise e ancor prima che le
dita di lei si fossero completamente adagiate tra le sue, la
afferrò saldamente
e la attirò fulmineamente a sé.
L’ultima cosa che Regan assimilò fu la
solidità
del petto di Lucius sotto ai suoi palmi e il suo respiro caldo sul
viso, poi
tutto fu bruscamente inghiottito da un vortice buio.
_________________________________________________________________________
A/N: ecco il
secondo capitolo! Ringrazio di cuore Maharet e Hellister per aver
recensito il prologo ed essere state così gentili con i
complimenti, e anche per aver messo la storia tra i preferiti (spero di
non deludere la fiducia ^^). :) Grazie anche a GirlWithTheGun, Hillary
(ma tu sei quella che lascia quelle recensioni meravigliose a
_Princess_, vero? *-*) e VesiSchwartz
che hanno inserito le storie tra le seguite e spero che "seguendo"
troveranno un valido motivo per commentare. ;)
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Capitolo 3 *** La Lega ***
2.
LA LEGA
It's lost
So lost
The world you're in
The life you live
– Lost, Tristania –
Se
non ci fossero state le
braccia possenti di Lucius a sorreggerla, Regan sarebbe miseramente
rovinata a
terra. Le girava la testa in modo insopportabile e il suo stomaco
minacciava di
rimettere da un momento all’altro il cibo che aveva consumato
assieme ad
Angina. Non sapeva dove fosse né in che modo ci fosse
finita, ma era solo grata
di sentirsi di nuovo la terra sotto i piedi.
Nel
momento stesso in cui Lucius
la aveva trascinata con sé dentro all’albero cavo,
era successo qualcosa di
molto strano: era stato come se il terreno sotto i loro piedi si fosse
spalancato e li avesse inghiottiti, risucchiandoli in un vortice che
solo una
manciata di secondi dopo sembrava essersi spalancato di nuovo,
lasciandoli
ricadere dall’alto su una superficie compatta ben diversa dal
terriccio morbido
del sottobosco.
–
Tutto bene, cerbiattina? –
La
voce profonda di Lucius venne
in suo soccorso, avvolgendola come un rassicurante manto vellutato. Per
di più
si era appena accorta di essere letteralmente avvinghiata a lui.
–
Benissimo – mentì, staccandosi
malvolentieri dall’unico supporto fisico che avesse a
disposizione. Restò in
piedi per qualche miracolo, mentre, aprendo gli occhi scombussolata, si
rendeva
conto di essere finita in un vastissimo atrio scarsamente illuminato,
il cui
soffitto era così alto da perdersi in cieche nubi di
oscurità, arrampicandosi
su per pilastri scanalati di diametro impressionante che delimitavano
la navata
principale, separata dalle due minori da una fila di loggiati
paralleli. In
alto, incastonato sotto l’arco ogivale che disegnava la
parete di fondo, une
enorme rosone riluceva come un pallido diamante di tiepida luce
invernale, che
si allungava pigramente in mille fragili raggi fino a incontrare il
marmo scuro
del pavimento. Alle sue spalle, una imponente arcata finemente scolpita
si
adagiava direttamente sui blocchi di pietra della parete, contornando
una
nicchia semicircolare. Doveva essere da lì che erano appena
usciti.
–
Benvenuta alla sede primaria
della Lega delle Sette Terre! – esclamò Lucius,
compiendo un ampio gesto con le
braccia. – Perdona la scarsa accoglienza, ma qui dentro il
regime è piuttosto
austero. –
–
Il tuo corvo è rimasto
dall’altra parte – le venne in mente
all’improvviso.
–
Rok non ama molto viaggiare
attraverso i Portali. –
–
Mi domando perché – borbottò
lei fra sé, e così suscitando a Lucius una breve
risata.
–
Sarà lui a trovarci, quando lo
vorrà, vedrai. –
Il
rimbombo dei suoni era secco e
pulito e persino il respiro pareva riverberare
nell’immensità di quello spazio
vuoto e fin troppo silenzioso.
–
Chi va là? – tuonò un timbro
grave da un punto imprecisato tra le ombre, non molto distante da loro.
Un
istante dopo, un uomo calvo e corpulento emerse nella pallida luce, la
mano già
pronta sull’elsa della spada che teneva agganciata alla
cintola. Sulla veste
nera che portava, ricamato in bianco al centro del petto, campeggiava
un
ettagramma, identico alla stella che Lucius portava al collo.
–
Va tutto bene, Garlan, sono io.
–
–
Ah, Lucius. – l’uomo abbassò
immediatamente
la guardia. – Castalia aveva avvertito che saresti arrivato
–
La
sua attenzione indugiò su
Regan con sospetto. Le sue labbra si contrassero, scoprendo leggermente
i denti
in una smorfia minacciosa, e la mano ritornò fulminea
all’elsa.
–
Pahavehr! –
urlò, sguainando la spada.
Regan
fece un balzo indietro nel
momento stesso il cui Lucius si parava davanti a lei. Era disarmato, ma
bastò
che alzasse una mano per bloccare a mezz’aria la lama lucente
che Garlan era
stato sul punto di abbattere su Regan, e la lasciò sospesa a
mezz’aria,
vibrante.
–
Sei impazzito, per caso? –
sbottò, a metà tra il furibondo e
l’incredulo.
Garlan
abbassò la spada, ma la
sua smorfia non si cancellò.
–
I suoi colori sono di cattivo
auspicio! – ringhiò – È tinta
di sangue! –
–
È un’ospite, e come tale va
trattata – mise in chiaro Lucius. Era fuori di sé.
Prese
Regan per un polso e la
trascinò via, lasciando Garlan a vegliare sul Portale
d’ingresso. Lei gli andò
dietro, cercando di tenere il passo. Non si era ancora ripresa dallo
spavento.
–
Che cosa significava quella
parola? – bisbigliò timorosa, mentre salivano la
piccola rampa di scalini che
conduceva alla zona principale dell’atrio.
–
Pahavehr – Lucius lo ripeté con
una certa riluttanza. – È una parola antica, di
una lingua che quasi nessuno
conosce più. Significa all’incirca
“sangue cattivo”. Dicono che si sia diffusa
millenni fa, quando Lucifero disseminava il terrore con la sua follia.
–
Regan
conosceva l’antica storia,
tramandata di bocca in bocca nel corso dei secoli da creduloni
visionari o
semplici fanatici: l’angelo più bello che il
creato avesse mai visto, dagli
occhi di giada e i capelli rubini, che vagava per il globo senza darsi
pace,
seducendo i cuori di giovani donne e giovani uomini – angeli,
demoni e umani – che
si sottomettevano a lui come docili prede prigioniere tra le fauci del
predatore, e tale fine ciascuno di loro faceva, non prima che lui
avesse
cercato in loro qualche goccia di qualcosa che potesse dargli sollievo
per quel fuoco che
si diceva lo consumasse da
dentro, senza lasciargli tregua, corrompendo irrimediabilmente il suo
spirito
per ridurlo ad un mostro senz’anima. Mille amanti strappati
alle loro vite con
la cieca foga della disperazione. Mille amanti, e mai amore. E in
questa sua
furia aveva devastato villaggi, incendiato città,
soggiogando interi eserciti
di adoratori che lo avevano seguito ovunque, prendendo parte alla sua
devastazione. A distanza di tanto tempo, quasi nessuno credeva
più a quelle
dicerie, ma il nome di Lucifero era rimasto sinonimo di
crudeltà a terrore, con
evidenti strascichi ancora ben radicati nel retaggio di certe religioni
degli
umani, che lo associavano al diavolo in persona.
–
Lucifero è solo una leggenda. –
–
Può darsi – fece Lucius, con
un’alzata di spalle – Ma intanto una parola
ispirata a lui e vecchia di
migliaia di anni viene ancora usata dai superstiziosi, anche se i
più ne
ignorano le origini. –
Si
fermò al centro dell’atrio, un
lungo rettangolo vuoto dominato da una calma surreale.
–
È sempre così tranquillo, qui?
–
–
Tutt’altro – La mano di Lucius
si accostò alla schiena di Regan e docilmente la
invitò a incamminarsi. – Oggi
è un’occasione straordinaria: sono stati quasi
tutti sguinzagliati alla Corte e
dintorni, il luogo dove ti ho trovata – aggiunse
quell’ultima frase dopo un
momento di esitazione. – Stanno scavando tra le macerie,
recuperando corpi e
materiali di una certa rilevanza. –
Regan
non sapeva cosa intendesse
per “materiali di una certa rilevanza”, ma poteva
farsene una vaga idea.
–
La gente dei villaggi vicini
non si è accorta di nulla – proseguì
Lucius. – Nessuno ha sentito niente, e
questo non ci aiuterà a capire cosa sia successo
lassù. –
Sia
a destra che a sinistra, nelle
navate laterali oltre i loggiati, si aprivano degli alveoli, tre da una
parte e
tre dall’altra, tutti chiusi da robuste porte rovinate dal
tempo. Lesse
distrattamente dei nomi inscritti a fini lettere maiuscole
all’interno di
piccole placche argentate, ma non ebbe il tempo di badarvi troppo:
Lucius aveva
fretta.
La
condusse ai piedi del rosone,
al cospetto della più grande delle porte che si affacciavano
sull’atrio, che da
lontano Regan nemmeno aveva notato, poiché immersa nella
zona d’ombra lasciata
dal fascio di luce. Su frontone che la sormontava era inciso un motto
in una
lingua che Regan non seppe decifrare: mors
hostium, mihi vita.
–
Morte dei nemici, vita per me –
le tradusse Lucius, mentre già appoggiava una mano sulla
pesante maniglia. – La
Lega sa essere molto accattivante nel promuovere il proprio operato.
– proseguì
in tono civettuolo.
Aprì
e le cedette il passo; la
porta si richiuse alle loro spalle con un tonfo sordo.
Erano
entrati in un corridoio
lungo e stretto, costeggiato sulla destra da trifore ogivali vetrate
alte
quanto due persone, e sulla sinistra decorato da ritratti di persone
dall’aria
arcigna. Il nome di ciascuno di essi, riportato su una targa affissa
sotto la
cornice, era accompagnato da due date, presumibilmente quelle della
durata
della carica, e dalla dicitura Coordinatore
di Corterra. Su più di cento quadri, nemmeno un
quarto raffigurava delle
donne. Alcuni di essi, inoltre, accanto alla prima targa ne avevano
anche una
seconda, che recava il titolo: Coordinatore
Generale della Lega delle Sette Terre, e altre due date.
Uno
di questi era proprio
l’ultimo quadro, oltre il quale il muro proseguiva spoglio e
grigio. Era il
ritratto di una donna non più giovanissima dai capelli
scuri, rappresentata in
vesti militari all’interno di uno scenario tempestoso, con
una mano fieramente
posata su un fianco e l’altra che poggiava
sull’elsa di una spada lunga e
sottile conficcata nel terreno. La sua espressione era dura e aveva un
retrogusto di malinconia.
Quando
Regan lesse la sua targa,
qualche tassello trovò un collocamento più
preciso nella sua testa: Castalia Reis.
Mancava la seconda data,
quella che segnava la conclusione dell’investitura.
Quella
era la donna che avrebbe
incontrato a momenti. Non faticava a credere che Lucius dimostrasse
così poca
simpatia verso di lei.
Si
allontanò dal quadro con un
passo all’indietro e recuperò Lucius affrettando
un po’ l’andatura, lasciando
vagare gli occhi sulle volte a crociera sopra di sé.
Checché ne avesse detto
Lucius, non le sembrava di vedere un’austerità poi
così eccessiva negli
arredamenti: era tutto molto essenziale e rigoroso, ma un lungo tappeto
rosso
scuro rivestiva il camminamento del corridoio e le cornici dei quadri
avevano
tutta l’aria di essere placcate in oro zecchino, che brillava
alla luce
pulviscolare che a fiotti si riversava dalle finestre.
Benché
tutto fosse stato
palesemente ristrutturato e rimesso a nuovo più volte
– era facile intuirlo
dall’accozzaglia di diversi elementi stilistici di epoche
differenti – era
ancora evidente l’antichità
dell’edificio.
Tutte
quelle novità, però, ancora
non riuscivano a distrarre Regan da una domanda che da un po’
le premeva sulle
tempie, e se non la avesse tirata fuori, sarebbe scoppiata.
–
Secondo te perché mi trovavo in
quel posto… la Corte? E cosa poteva volere
quell’uomo da me? –
Lucius
sembrò momentaneamente sul
punto di bloccarsi, ma non lo fece. Continuò a camminare,
precedendola, la coda
corvina che gli solleticava le spalle.
–
È una delle cose che stiamo
cercando di scoprire – disse, voltandosi. – Per la
verità mi auguravo che tu
potessi darci qualche informazione utile per aiutarci a fare luce
sull’accaduto, ma a questo punto penso toccherà a
noi aiutare te, in qualche
modo. –
Lo
disse con un sorriso, in un
tono così premuroso che Regan si sentì come
riscaldata da dentro.
–
Non ti devi preoccupare –
proseguì Lucius. – Hai sentito Angina, no?
Finché sei con me, sarai al sicuro.
–
Quello
che preoccupava lei, però,
era quel che sarebbe potuto capitare nel momento in cui non fosse
più stata con
lui. Era sola in un mondo in cui non ricordava di aver mai vissuto. In
una
parola, era persa.
–
Castalia ti tratterà con molta
supponenza, e puoi stare certa che non ti crederà quando le
dirai che non
ricordi nulla – disse Lucius mentre svoltavano in un
corridoio più grande,
privo di finestre, il viso teso in un malcelato tentativo di reprimere
una
smorfia infastidita. – Ma di questo non ti devi preoccupare,
ci penserò io a
spiegarle la situazione. –
Le
arrideva ben poco la
prospettiva di dover discutere con una persona che aveva già
preso una
posizione nei suoi confronti. Non fosse già stato abbastanza
difficile per lei
andare lì per rispondere a domande alle quali non aveva
risposte da dare. Ma
c’era Lucius con lei, e si fidava di lui abbastanza da sapere
che finché lui
fosse rimasto, tutto sarebbe andato bene.
–
Ci sono tre cose che bisogna
sempre tenere ben presenti con Castalia – la
avvertì e sollevò una mano
iniziando a enumerare. – Mai contraddirla; mai alzare la
voce; mai dire nulla
di più di quanto espressamente richiesto. Chiaro? –
–
Chiaro – farfugliò Regan, un
po’ confusa.
–
Bene. Tienilo a mente, perché
sarà più irritabile del solito, oggi, e irritare
Castalia non è mai una buona
idea. Nel dubbio, piuttosto taci –
Più
passavano i minuti, più le
veniva voglia di girare sui tacchi e fuggire via da lì,
tornare al bosco di
Angina e lì restare fino a che non le fosse ritornata la
memoria, o se non
altro fino a che non avesse deciso che cosa fare di sé.
Non
le piaceva nemmeno il fatto
di non aver incrociato anima viva, finora. Si sentiva, per qualche
ragione, di
trovarsi in un territorio ostile. Diversamente dalla dimora di Angina
– dove,
nonostante l’ingiustificato astio di Venena, si era subito
sentita benvoluta –
quel luogo le dava l’impressione di non volerla ospitare tra
le proprie mura, e
di certo il modo in cui era stata messa in guardia non la aiutava a
convincersi
di sbagliarsi.
Qualche
passo avanti a lei,
intanto, Lucius si era fermato.
–
Ci siamo. –
Regan
gli si affiancò. Restarono
a fissare il legno scuro della porta per un lungo attimo, nessun rumore
a
disturbare l’innaturale quiete che regnava attorno a loro,
poi finalmente
Lucius si decise a bussare.
–
Avanti – sbottò dall’interno
una voce femminile molto irritata.
Entrarono.
Regan
rimase di stucco. La stanza
era un quadrato così piccolo che la scrivania in fondo ad
essa – che forse
sarebbe stato più corretto definire tavolo
– ne occupava praticamente metà. E non
c’era altro, a parte una libreria, la
sedia su cui sedeva rigidamente la donna del ritratto di poco prima e
altre due
disposte di fronte a lei. Non che si fosse aspettata una reggia, ma
quello, più
che lo studio di una personalità importante, sembrava uno
sgabuzzino.
Gli
occhi castani della donna si
spalancarono nell’adagiarsi su Regan e la percorsero in lungo
e in largo senza
riuscire a mascherare un evidente stupore. Aveva qualche ruga in
più e c’erano
fili bianchi tra i suoi capelli, ma a parte quello era
pressoché identica a
come la mostrava il dipinto, solo un po’ meno spavalda, e
Regan si compiacque
di essere la causa di quel tentennamento.
–
Mi trovate interessante? –
disse, incapace di trattenersi.
Sentì
Lucius reprimere a fatica
un gemito impaziente. Era stata troppo sfrontata, decisamente.
Castalia
batté le palpebre, come risvegliandosi
da uno stato di trance, e riacquisì immediatamente la sua
postura perfettamente
eretta.
–
Devo dedurre che sia lei la
ragazza di cui mi hai parlato, Lucius? –
Lui
assentì, scagliando a Regan
un’occhiatina obliqua di avvertimento.
La
donna, molto rossa in viso,
sembrava oltraggiata.
–
L’hai portata qui dentro così,
senza precauzioni? –
–
È solo una ragazzina – cercò di
minimizzare Lucius, ma lei, la mandibola contratta, lo zittì
con un’occhiata a
dir poco tagliente e un sussurro rancoroso:
–
Lo eri anche tu. –
Regan
aggrottò la fronte a
quell’affermazione e si voltò verso Lucius appena
in tempo per vedere le sue
labbra rigidamente serrate che si costringevano a distendersi in un
accenno di
placido sorriso.
–
Io sono unico al mondo, per tua
fortuna. –
Regan
si morse il labbro per
evitare di sogghignare.
–
Basta chiacchiere – tagliò
corto Castalia, torva. – Sedetevi, abbiamo molto di cui
discutere. –
Regan
imitò Lucius e si accomodò,
ma aveva già capito che quella donna non le sarebbe mai
potuta andare a genio,
e che la cosa era del tutto reciproca.
Castalia
appoggiò i gomiti alla
scrivania, congiungendosi le mani al di sotto del mento. Regan
notò che un
vistoso anello d’argento occupava il dito medio della mano
destra; su di esso
era incisa una minuscola ma precisissima rosa dei venti.
Castalia
fece per dire qualcosa,
ma Lucius la precedette:
–
Prima di cominciare, c’è una
cosa che devi sapere, e non ti piacerà. –
Regan
sarebbe stata pronta a
scommettere che Castalia se lo fosse aspettata.
Permise
a Lucius di esporle i
fatti per come stavano, ma lo fece con una piega sulle labbra che
dichiarava un
manifesto scetticismo, proprio come lui aveva previsto.
Al
termine delle spiegazioni,
l’espressione della donna era rimasta pressoché la
stessa dell’inizio: una
maschera di impassibilità completamente priva di inflessioni.
Le
rughe sottili e solo accennate
che le solcavano la fronte e gli angoli degli occhi accentuavano i
tratti
spigolosi e duri del suo viso, il mento appuntito, gli zigomi affilati
e scarni,
fisionomie peculiari delle terre dell’Est –
Astereis, Mauercast, e alcune zone
di Asante.
Regan
non si spiegava come
potesse aver conservato con tale precisione certe nozioni e averne al
contempo
perdute tante altre di maggiore importanza. Era come un albero pieno di
foglie
e privo di radici: non poteva certo reggersi in piedi aggrappandosi al
cielo.
–
Dunque, Regan – Castalia
pronunciò il suo nome con un’enfasi prolungata,
lasciando un vuoto subito dopo.
– Pare che, nelle tue condizioni, tu possa essermi di ben
poco aiuto. –
Suonava
terribilmente come
un’accusa. Un’accusa che lei non gradì.
Lucius
dovette notare il suo
disappunto, perché si affrettò a prendere la
parola:
–
Io credo che le serva solo del
tempo. È ancora debole e disorientata. –
–
Naturalmente – convenne
Castalia, con un’amabilità così falsa
che non avrebbe convinto un sasso. –
Ciononostante ci sono un paio di domande che ti vorrei porre, se non ti
dispiace. –
–
Risponderò là dove mi sarà
possibile. –
–
Possiedi poteri particolari?
Sai sondare il futuro, o plagiare la volontà altrui, o
qualche altra facoltà
rara? –
–
Io non… –
Regan
interrogò le proprie
capacità: provò a evocare un qualunque tipo di
potere, ma non ci furono segnali
di risposta. Non le riuscì nemmeno di spostare di un
millimetro la penna d’oca
nera dentro al suo calamaio.
–
Non credo di avere poteri. –
Una
risatina sarcastica si
sprigionò dalle labbra sottili e pallide di Castalia.
–
Tutti hanno dei poteri, angeli
e demoni, grandi o modesti che siano. In quanto demone, dovresti essere
in
grado di leggere superficialmente nel pensiero e governare gli
elementi,
quantomeno. –
–
Io non lo so fare. –
Si
vergognava ad ammetterlo,
soprattutto perché sapeva che la magia insita nella sua
razza era riscontrabile
già in tenera età, e lei ormai era quasi
un’adulta.
Nemmeno
lontanamente persuasa a
crederle, Castalia adocchiò la candela consumata che stava
in un angolo della
sua scrivania. Bastò che stringesse appena gli occhi
perché lo stoppino si
accendesse.
–
Spegnila – ordinò a Regan.
–
Vi ho appena detto che non ne
sono in grado! –
–
Devi esserne in grado! –
Regan
iniziava a non tollerare
quell’atteggiamento. Sentirsi dare della bugiarda, seppur
indirettamente, da
una che non sapeva un bel niente di lei non era accettabile.
Così, non potendo
fare d’altro, soffiò sopra la fiammella, la quale
si spense all’istante.
–
Non fare la sfrontata con me,
ragazzina! – la
minacciò Castalia,
oltraggiata, mentre Lucius soffocava una risatina in un colpo di tosse.
Regan
era consapevole di essere
venuta meno alla promessa di controllarsi fattagli poco prima e un
po’ le
dispiacque, ma il senso di colpa si volatilizzò quando, gli
occhi di Castalia
fissi nei suoi, si accorse che la donna stava tentando di leggere tra i
suoi
pensieri.
Sostenne
lo sguardo senza timore.
Sentiva lo sforzo del potere di Catsalia premerle sulla fronte senza il
minimo
risultato. Per qualche motivo, era immune a quella tentata
intromissione
illecita.
Castalia
non demorse in fretta,
probabilmente troppo orgogliosa per ammettere anche solo con
sé stessa di
essere incapace di dominare una giovane mente inesperta come quella di
Regan, e
anche quando lo fece, non fu affatto un sintomo di resa.
–
Vorrei sottoporre la nostra
gentile ospite a una verifica più approfondita –
dichiarò, asciutta. – Per
semplice misura cautelare, beninteso. –
Il
sorriso grondante di
condiscendenza che elargì a Regan le fece prudere le mani.
Si
stava troppo stretti, là
dentro, e la piccola bifora chiusa non era sufficiente a dare
l’illusione di
dilatare lo spazio.
–
Io non sto mentendo! –
protestò, l’aria viziata che le annebbiava i
pensieri.
–
Regan, va tutto bene –
intervenne Lucius, esortandola a riappoggiarsi allo schienale della
sedia.
– Non ti
sembra di esagerare? – disse
poi a Castalia.
–
Non direi proprio – rispose
questa, imperturbabile. – Non siamo nelle condizioni di
poterci fidare di
nessuno, e tu dovresti saperlo meglio di me. –
–
Che cosa avresti in mente, si
può sapere? –
–
Nulla di invasivo – promise
Castalia.
Proprio
mentre Lucius stava per
ribattere, due colpi alla porta interruppero il discorso.
–
Avanti – esclamò Castalia, con
un bagliore soddisfatto negli occhi. Aveva già progettato
qualcosa, prima
ancora di aver incontrato Regan di persona. Aveva avuto in mente di
torchiarla
con ogni mezzo fin dall’inizio.
La
porta si aprì con un cigolio
sinistro. Ne entrò una figura sottile, con lunghi capelli di
un biondo argenteo,
finissimi e lisci, legati sulla nuca. Era un ragazzo – o una
ragazza, forse,
difficile a dirsi – dall’aspetto incredibilmente
efebico e delicato. C’era un
che di etereo nel suo corpo flessuoso, arti lunghi e affusolati
fasciati in
un’uniforme di raso grigio perla dai raffinati ricami. Aveva
un portamento
marziale, calibrato fin nel più piccolo movimento, ma
c’era una strana grazia
nel suo rigore. Due occhi neri come l’ossidiana illuminavano
miti il viso
armonioso di un candore molto simile a quello di Regan stessa. Una
bianca
statua di alabastro scolpita a regola d’arte, oltre ogni
possibile concezione
di talento artistico, perché quella bellezza inaudita
– quasi dolorosa – era il
riflesso materiale di una purezza inafferrabile dalla
superficialità della mente.
Chiuse
la porta, poi fece un
passo in avanti e la sua mano salì a compiere il gesto di
saluto che ormai
Regan aveva imparato a riconoscere.
–
Buongiorno. –
Se
la voce di Lucius faceva
pensare a un frusciare di caldo velluto, quella di quel giovane angelo
ricordava la fresca, tenera delicatezza di un petalo di rosa.
–
Benarrivato, Shin – salutò
Castalia cerimoniosa.
Si
alzò in piedi e aggirò la
scrivania, andando ad accostarsi alla sedia occupata da Regan. Le sue
dita si
adagiarono sul bordo dello schienale mentre chinava la testa.
–
Dimmi, Regan, quanti anni hai?
–
–
Non se lo ricorda quanti anni
ha – si intromise Lucius, molto adirato. – Ho
capito le tue intenzioni, ma
francamente… –
–
Francamente, Lucius, hai ben poca
voce in capitolo. –
Le
nocche di Lucius sbiancarono
da quanto forte stava stringendo braccioli della propria sedia, ma
Castalia lo
ignorò e si mise a girare attorno a Regan, valutandola
attentamente.
–
A guardarti, direi che dovresti
essere appena sotto i quaranta. Sembri una bambina, ma i tuoi occhi
sono adulti.
Lo stesso non si può dire della tua impertinenza, devo dire.
–
Regan
cercò Lucius con lo
sguardo, supplicando chiarimenti.
Che
cosa volevano farle?
–
Sta’ tranquilla – le disse lui.
– Anche sei hai l’età per subire
legalmente una violazione della mente, questo
non significa che ci siano delle valide premesse che lo giustifichino.
–
Scambiò
un’occhiata malevola con
Castalia, la quale non fece altro che fare cenno a Shin di avvicinarsi.
Volevano scavare dentro di lei e cercare la verità
là dove tutto era inscritto
senza filtri volontari.
–
Non intendo fare nulla senza
l’espresso consenso di Regan. Se lei non ha nulla da
nascondere, suppongo non
abbia motivo di opporsi. Dico bene? –
Regan
tentennò. Era vero che lei sapeva
di non avere nulla da nascondere,
ma c’era la possibilità che riuscissero a portare
a galla informazioni che
potevano metterla in una posizione compromettente. Poteva essere stata
chiunque, in fondo, per quel che ne sapeva.
–
Non ti farò del male –
soggiunse il tono conciliante di Shin.
–
Tu sei un angelo, non dovresti
nemmeno essere in grado di leggere la mente –
sottolineò lei, quasi
accusandolo.
Lui
sorrise. Un sorriso limpido e
trasparente come l’acqua.
–
Shin è un angelo un po’
speciale – le rivelò Lucius, improvvisamente
più calmo. – Lui sa penetrare
nella testa di chiunque senza causare dolore, senza danneggiare la
memoria.
Forse, viste le circostanze, potrebbe davvero esserti
d’aiuto, dopotutto. –
Nonostante
la paura di quel che
avrebbero potuto scoprire, Regan decise che valeva la pena di tentare.
Si
fidava di Lucius e Lucius sembrava fidarsi di Shin, e questo per lei
era più
che sufficiente.
Le
ci volle una notevole dose di
coraggio per prevaricare l’impeto di codardia che stava
lottando disperatamente
per convincerla a tirarsi indietro, ma alla fine acconsentì.
–
Eccellente – la compiacenza
sfavillò attraverso gli occhi di Castalia, che, con un
cenno, ordinò a Shin di
farsi avanti. – Procedi pure. –
Shin
le offrì una mano, che lei
accettò, lasciandosi tirare in piedi. Le dita sottili
dell’angelo sembravano
fragile vetro, eppure in loro era insita una forza difficilmente
indovinabile.
Era molto giovane, molto più di quanto Regan avesse creduto.
Più giovane di
lei, senz’altro.
–
Chiudi gli occhi. –
Era
stupefacente quanto fosse
semplice assecondare un ordine quando era impartito con tale gentilezza.
Quando
tutto fu buio, sentì il
tocco freddo delle mani eleganti di Shin che le si posavano ai lati del
capo,
racchiudendole il viso in una ferma carezza. Accolse il contatto con un
lieve
sussulto, inconsapevolmente distratta dal nero dei suoi occhi. Era
troppo
profondo e insondabile per potervi indugiare senza correre il rischio
di
perdere qualcosa di sé in quell’abisso senza
confine.
–
Rilassati – le sussurrò.
Solo
allora Regan si rese conto
di essere tesa in ogni sua fibra.
Voleva
davvero che un estraneo si
mettesse a frugare nei recessi della sua mente, rovistando tra eventi
di cui
lei stessa non era padrona? Aveva un senso che un’altra
persona potesse
arrivare a conoscerla meglio di quanto lei non fosse in grado di
conoscersi?
Ironico
che qualcuno avesse già
deciso per lei.
Si
stava chiedendo se si sarebbe
dovuta accorgere di qualche cosa, se quel sondarle la mente dovesse
essere
tangibile, quando accadde qualcosa: dai polpastrelli di Shin si
propagò come un
flusso di acqua fredda, che le penetrò le tempie senza
incontrare resistenza.
Non fu doloroso, ma nemmeno piacevole.
La
spirale di energia si insinuò
dentro di lei, serpeggiò alla cieca in quello che per lei
era solo un
insondabile vuoto. Era come se una scia di luce cercasse di farsi
strada tra
infiniti veli di tenebra pura: brandelli di immagini coperte venivano
svelati
da rapidissimi soffi luminosi che non lasciavano mai il tempo di
decifrare
forme e colori, voci, suoni e rimembranze remote di odori e sensazioni.
E man
mano che la luce si addentrava di più, si lasciava dietro
una sensazione di
bruciore, come un lungo graffio irregolare che feriva tutto
ciò che toccava.
Regan non lo sentiva solo nella sua testa, ma anche sulla pelle.
Iniziò
a mancarle l’aria. Un
dolore acuto si sprigionò in tutto il suo corpo, senza un
preciso punto di
origine. Era come se delle fiamme la stessero divorando, mordendo
più
aggressive in corrispondenza dei punti in cui le mani leggere di Shin
aderivano
su di lei, improvvisamente incandescenti come braci. Voleva sottrarsi a
quella
tortura, ma i muscoli non rispondevano agli impulsi disperati del
cervello,
soggiogato dal dolore.
Le
sembrava di impazzire.
Qualcosa si ruppe, in una dimensione di lei che con il suo corpo non
aveva che
una fragile connessione, e fu come se dalla crepa formatasi iniziassero
a
scaturire pigre gocce di sangue vivo.
Poi,
di punto in bianco, tutto
cessò.
Si
ritrovò carponi per terra, il
respiro affaticato e irregolare, le membra tremanti in ogni loro
centimetro. Il
fuoco invisibile era scomparso.
–
Cosa diavolo è successo? –
esclamò la voce rabbiosa di Lucius, accanto al suo orecchio.
Un braccio le
avvolse le spalle.
–
Non lo so – balbettò Shin,
sconvolto.
Lo
stordimento interferiva con la
vista e l’udito, attutendo e distorcendo ogni cosa. Ci volle
un po’ prima che
anche quel disturbo svanisse e lei riuscisse a tornare a respirare
normalmente.
–
Regan? –
Il
viso di Lucius davanti al suo
era una maschera di ansia.
–
Sto bene – rispose lei, la voce
arrochita in gola, cercando di rialzarsi.
Lucius
le diede una mano.
Anche
Shin, frastornato quanto lei,
si adoperò per aiutarla, ma non appena la sfiorò,
quel dolore urticante risorse
repentino.
–
Non toccarmi! – strillò,
ritraendosi di scatto.
Shin
fece lo stesso, desolato.
Era difficile credere che una creatura così limpida potesse
ferire, seppur
inavvertitamente, qualcuno.
–
Ma cosa ti prende, ragazzina? –
sbuffò Castalia.
–
Mi fa male! –
–
Sciocchezze! Shin non ha mai… –
–
Questa volta sì – intercedette
Shin di fronte al chiaro scetticismo di Castalia.
Cercò
lo sguardo sperso di Regan
e quanto lo incontrò, lei si sentì pervasa da uno
strano, tiepido senso di
quiete.
–
Non so come, ma le ho fatto del
male. Ho sentito il suo dolore, appena prima che il contatto tra di noi
si
interrompesse. –
Lucius
fece rimettere Regan a
sedere.
–
Ti avevo detto che è ancora
debole – disse a Castalia in tono accusatorio, poi si rivolse
a Shin. – Di’
alla signora Coordinatore Generale che cos’hai visto nella
testa di Regan e
facciamola finita con questa buffonata, per favore. –
La
chiamata in causa sollevò
superbamente il mento e attese.
–
Sta dicendo la verità. –
Castalia
accolse il decreto con
l’aria di una che era appena stata schiaffeggiata e stava
facendo di tutto per
ingoiare l’onta e il dolore.
–
Ne sei assolutamente sicuro? –
Un
cenno assenziente del capo di
Shin tolse definitivamente ogni residuo di colore dal suo viso, e con
esso si
dissolse ogni sua disponibilità alla cortesia formale.
–
In tal caso, credo che sia
superfluo proseguire la conversazione. –
Quel
commento fornì a Regan
un’ulteriore conferma a quel che già aveva intuito
da sé su quella donna: una
burattinaia che trattava chi le stava intorno come né
più né meno che
marionette, pedine di vetro da muovere a proprio piacimento sulla sua
scacchiera personale, e se poi qualcuna dovesse risultare inutile ai
suoi
scopi, poteva benissimo essere gettata via, o semplicemente lasciata in
un
angolo a prendere polvere, in attesa di poter essere sfruttata in caso
di
necessità. E, a giudicare dalla faccia di Lucius, Regan non
era la sola a
pensarlo.
Shin
se ne stava in disparte, le
mani giunte dietro alla schiena, ritto e sinuoso come un cigno.
–
Ci stai forse elegantemente
congedando? –
–
Ho altro da fare che stare qui
a perdere tempo con voi – fu la rude risposta di Castalia, ma
Lucius sembrava
non aver atteso altro.
–
Molto bene. –
Fece
per alzarsi in piedi, ma lo
fermò con impazienza.
–
Prima che ve ne andiate, vorrei
scambiare due parole con te, Lucius. –
Lui
si rimise a sedere con una
certa riluttanza che non si curò di nascondere.
–
In privato – aggiunse Castalia,
allungato un’occhiata eloquente a Regan, seduta lì
accanto, e poi a Shin.
–
Aspettami qui fuori – le disse
Lucius. – Non ci vorrà molto. Shin
rimarrà con te. –
Il
corridoio era deserto quanto
lo era stato prima, con la sola differenza che la luce del sole si era
notevolmente affievolita, cedendo le tonalità dorate diurne
per acquisire
quelle violacee e bluastre della sera. Il cielo era terso, un infinito
campo di
blu in cui lentamente stavano sbocciando le prime, timide stelle. La
luna,
appesa là in mezzo come un gioiello celeste, era tonda e
bianca, ancora priva
della luminescenza lattea che la notte le avrebbe portato.
Le
lampade a olio affisse alle
pareti si erano accese e ora piccole fiammelle gialle danzavano placide
dietro
alle loro prigioni di vetro, gettando fievoli ombre sugli arabeschi dei
tappeti
e degli arazzi.
–
Ti prego di perdonarmi. –
Assorta
nell’ammirazione dell’ambiente,
Regan aveva quasi scordato la silenziosa presenza di Shin al proprio
fianco.
Dovette piegare la testa all’indietro per riuscire a vederlo
in viso, tanto era
alto. Possedeva un’eleganza diversa da quella mascolina di
Lucius; somigliava a
una libellula: sottile, leggero, quasi impalpabile, e la dolcezza di
cui era
dipinto il suo volto a tratti sembrava sbiadire, lasciando posto per
fugaci
attimi a ombre fredde e scure che poco gli si addicevano.
–
Non era mia intenzione farti
del male, mi dispiace. –
La
sua voce era un aperto
contrasto con la sua immagine, morbida e maschile alle orecchie di chi,
guardandolo, lo vedeva così androgino e raffinato.
Regan
finalmente capì a cosa si
stesse riferendo.
–
Non fa niente – mormorò.
Preferiva non ripensare a quel dolore terribile che le aveva strappato
via
l’aria dai polmoni per lunghi, interminabili secondi.
–
Non so come sia potuto succedere
– il tono accorato di Shin la fece sentire in colpa, come se
avesse scelto lei
di soffrire, per fargli dispetto. – È la prima
volta che causo dolore a
qualcuno, scrutandogli la mente. –
Regan
ripensò a quanto era
successo e si rese conto che, effettivamente, non era stata
l’intrusione di
Shin nella sua testa a scatenare tutto. Il dolore non era venuto da
dentro, ma
da fuori, dal tocco della mani rispettose di Shin sulle sua pelle.
–
Non è stato quello. Era… eri tu
– Scosse la testa, sottolineando la propria
perplessità. – Non so, è stato come
se le tue mani fossero diventate di fuoco. –
Perfino
lei trovava quell’idea
alquanto insensata.
Shin
doveva pensarla pressappoco
allo stesso modo, perché una serie di lievissime righe
superficiali gli
increspò la fronte candida al di sotto dei sottili ciuffi
biondi. La sua anima
immacolata vibrava di un’aura così intensa e
luminosa da diventare quasi un
disturbo per il normale flusso di pensieri.
–
Forse ha ragione Lucius –
suppose. – Forse sei semplicemente ancora troppo debole.
Dopotutto, potrebbe
esserti accaduto di tutto, prima che lui ti trovasse. –
Lei
preferì non rispondere.
Lucius era stato vago, quando aveva provato a chiedergli qualcosa in
merito, e
adesso cominciava a persuadersi che non fosse stato per mancanza di
risposte,
ma quanto piuttosto per la natura delle risposte stesse.
Le
tornò in mente quello che le
aveva detto Angina.
“Mi chiedo se il tuo cervello non abbia
deciso di privarti della
memoria per il tuo bene.”
Forse,
dopotutto, era davvero meglio
non sapere.
Riusciva
quasi ad avvertire
l’estremo disappunto di Castalia, mentre lei, forzatamente
compita, lo fissava
con quella sua aria da grande sovrana con il peso del mondo sulle
spalle.
Nonostante ce la mettesse tutta, però, Castalia non
possedeva la grazia e il
contegno di una nobildonna quale pretendeva di essere: era di modeste
origini e
la sua carriera se l’era sudata con l’impegno e il
talento, e una buona dose di
ambizione che si era saputa giocare bene. Diversamente da molti membri
dei ranghi
alti della Lega, non aveva avuto parenti o amicizie influenti,
né un discreto
patrimonio che le consentisse di aspirare a cariche importanti in
cambio di
generosi finanziamenti. Si era fatta da sola, come del resto avevano
fatto i
suoi colleghi Coordinatori, sebbene chi più e chi meno
aiutato da fama e
natali.
Nonostante
l’ammirazione che le
concedeva per la tenacia, tuttavia, Lucius provava una discreta
avversione per
quella donna, forse come contrappasso naturale per la stessa avversione
che lei
nutriva per lui, o forse, più prosaicamente,
perché le persone sterili e
calcolatrici come lei non avevano mai avuto spazio nelle strette
gerarchie
della sua considerazione.
–
Che cosa intendi fare con
quella ragazza? –
Lucius
inarcò un sopracciglio,
sorridendo a fronte dell’originalità della domanda.
–
La sedurrò, violerò la sua
virtù e ne farò per sempre la mia schiava
personale, naturalmente. –
L’occhiataccia
malevola che ebbe
in cambio gli fece capire che non era aria di burle. O meglio, lo era
ancora meno
del solito.
–
La terrò con me, fino a che
sarà necessario – dichiarò. –
La poterò a casa, le darò da mangiare, un posto
in cui dormire… –
–
Lucius – lo interruppe Castalia,
stizzita, una vena che pulsava minacciosa sulla sua tempia. –
Stiamo parlando
di una persona, non di un cucciolo randagio. Una persona che fra
l’altro,
secondo il tuo resoconto, sembrava risultare particolarmente importante
per un
ignoto che veste insegne ignote, e che aveva tutta
l’intenzione di farti fuori
per potersela prendere. –
–
E ci è andato fin troppo vicino
– disse Lucius, tranquillo, ben memore dello stato in cui
versava il suo fianco
destro.
–
Gliene sarei stata immensamente
grata – gemette Castalia, sfregandosi la fronte tra
l’indice e il pollice.
–
Oh, ne sono assolutamente convinto.
–
Erano
ormai dieci anni che quella
donna passava ogni singolo giorno della propria vita a pregare che
qualche
malvivente abbastanza potente da esserne in grado le togliesse dai
piedi una
seccatura come lui. Lucius non dubitava minimamente che dovesse essere
stata
una bella delusione, per lei, venire a sapere che non era rimasto
tragicamente
ucciso in quel valoroso duello contro l’uomo misterioso.
La
sua ilarità non scalfì nemmeno
lontanamente la solennità di cui ostinava vestire Castalia.
Non lo perdeva di
vista un solo istante, nemmeno per battere le ciglia.
–
Io lo so perché ti dai tanta
pena per lei. –
Le
sorrise con tutta la bonarietà
di cui era capace.
–
Sono convinto anche di questo.
–
–
Concedimi solo di rammentarti
che tu, a differenza di altri, non
rivesti un ruolo che ti consenta di fare di testa tua, come del resto
fai in
ogni caso. –
Lucius
non aveva bisogno di
informarsi su chi sottintendesse quel vago “altri”.
–
Lascia che mi occupi io di lei
– la pregò, cosa che di norma non si sarebbe
sognato di fare nemmeno sotto
tortura. – Con me è al sicuro. Sai bene che sono
il più indicato. –
–
Sei il più indicato perché vuoi
essere il più indicato. –
Un
angolo delle labbra di Lucius
ebbe l’ardire di arricciarsi furbamente.
–
Tant’è. –
–
E, dimmi, ti sembra appropriato
che un gentiluomo si porti a casa una ragazza come quella, come nulla
fosse? –
–
In primo luogo, sarei curioso
di sapere quand’è che hai iniziato a considerarmi
un gentiluomo, dato che,
correggimi se sbaglio, l’ultima volta che ci siamo incrociati
l’epiteto più
benevolo che mi hai riservato è stato cafone.
–
–
Dovevo essere in vena
particolarmente caritatevole. –
–
Regan non ha dove andare. È
sola, senza memoria, senza riferimenti, e io non intendo certo
lasciarla alla
tua mercé. –
Le
mani di Castalia poggiavano intrecciate
sul legno scuro della scrivania, su cui verteva anche il suo sguardo
assorto;
lo risollevò poco dopo, inspirando a fondo. Non aveva
replicato direttamente,
segno di una tacita resa.
–
Posso almeno sapere, rivisitazioni
di episodi di vita personale a parte, perché ci tieni così tanto? – si
riservò di chiedere.
Lucius
scrollò svogliatamente le
spalle. In realtà, non sapeva esattamente nemmeno lui il
perché. O, per meglio
dire, lo sapeva, ma non poteva certo portare un’intuizione
istintiva a sostegno
della propria causa.
–
Se la lasciassi a te, finirebbe
rinchiusa in una stanzetta anonima, lasciata a sé stessa
fino a chissà quando.
Il che, converrai con me, non è il massimo per una ragazza
sola e spaventata.
Io voglio prendermi cura di lei, aiutarla a recuperare la memoria e,
possibilmente, restituirla alla sua famiglia, se da qualche parte ne ha
una.
Magari nei suoi ricordi esiste qualche traccia che possa spiegare
qualcosa di
questo mistero in cui tu e i tuoi, perdona la brutalità,
state letteralmente
brancolando senza risultati. –
Castalia
incassò il colpo con la
maestria di chi aveva fatto dell’incuranza un’arte
vera e propria.
–
D’accordo – sospirò
stancamente, come a voler liquidare il più in fretta
possibile una faccenda
estremamente noiosa. – La piccola sconosciuta è
ufficialmente affidata a te. Mi
auguro che questo onere non interferisca con il tuo lavoro. –
Per
la verità Lucius non aveva
ancora pensato a come avrebbe fatto a conciliare i suoi incarichi
professionali
con la sua ospite, ma non era necessario che Castalia lo sapesse. A suo
tempo
se ne saperbbe preoccupato.
–
Non succederà – le garantì,
racimolando qualche residuo di affabilità da sotto i troppi
strati di
sensazioni negative che parlare con lei puntualmente gli procurava.
–
Contatterò il Consiglio dei
Coordinatori personalmente per informarli di questa faccenda
– gli comunicò lei.
– Ma non voglio che tu prenda iniziative di alcun tipo. Penso
sia superfluo
sottolineare che, per la sicurezza comune e della tua amica, meno
persone sapranno
da dove arriva, meglio sarà. –
Stranamente,
Lucius la pensava
come lei.
–
Mi inventerò una scusa che
giustifichi la sua improvvisa comparsa. –
Quando
fu certo che non ci
sarebbero state ulteriori repliche e che dunque la conversazione era
chiusa una
volta per tutte, si tolse finalmente la soddisfazione di congedarsi.
–
Arrivederci, Coordinatore
Generale. –
Un
inchino cerimonioso, e, senza
aspettare di essere contraccambiato, si dileguò, lasciandosi
Castalia e le sue
grane alle spalle.
Trovò
Regan seduta su una panca
del corridoio a giocherellare con la punta della sua treccia. Shin era
in piedi
davanti alla finestra, subito accanto a lei, e la osservava senza dire
niente,
pensoso. Il cielo oltre il vetro dietro di lui era già di un
soffice blu scuro
punteggiato di stelle.
–
Esattamente, cerbiattina, quale
parte della frase “irritare Castalia non è mai una
buona idea” non ti era poi
così chiara? –
I
due alzarono di scatto lo
sguardo. Shin tornò retto e impettito con meccanica
prontezza. Regan imbronciò
le labbra, sostenuta.
–
Scusa – farfugliò a mezza voce,
con una faccia che tutto era, fuorché colpevole.
Lucius
fece schioccare la lingua.
–
Il tuo temperamento focoso ci
caccerà entrambi nei guai – la ammonì,
ma con una nota di compiacimento. – Mi
piace. –
Rise
per il modo in cui Regan si
sorprese di sentirgli proferire quelle parole, poi aggiunse:
–
Grazie per essere rimasto con
lei, Shin. –
Il
giovane angelo sorrise.
–
Nessun problema. –
Lucius
indugiò sul pallore di Regan,
sul grigio che orlava i suoi occhi gonfi.
–
Immagino che tu sia esausta. –
Lei
negò.
–
Perdona l’accanimento di
Castalia. Il popolo è in festa per la caduta della Corte e
la Lega, invece,
trattiene il fiato dalla tensione. Stanno brancolando nel buio, non
hanno
nessuna spiegazione riguardo a quanto è successo e so che
lei riponeva in te
tutte le sue speranze di cavare qualche ragno dal buco. Potrai ben
immaginare
la sua delusione quando ha ricevuto conferma che non ricordi un bel
niente –
–
Che cosa ti ha detto? – volle invece
sapere lei. Sembrava nervosa.
–
Niente di che. Mi ha accordato
il permesso di tenerti con me, fino a eventuali nuovi sviluppi.
–
Il
viso tirato di Regan si
illuminò.
–
Davvero? –
Lucius
ammiccò. Quella ragazzina dai
colori innaturali gli piaceva.
–
Cosa credevi, che ti avrei
abbandonata a te stessa all’angolo di una strada? –
Lei
arrossì, perché quella era
stata all’incirca la sua supposizione.
–
Rimarrai con me fino
a che sarà necessario, o fino a che lo
vorrai. Nel frattempo cercheremo di indagare un po’ su di te,
tra un incarico e
l’altro. –
–
Incarico? – fece lei,
perplessa.
–
Su, avanti, diamoci una mossa –
come non l’avesse sentita, Lucius batté le mani
per spronarla ad alzarsi. – Siamo
già in ritardo. –
Lasciarono
Shin con un saluto
informale e ripercorsero a ritroso la medesima strada
dell’andata.
L’atrio
dell’ingresso principale
era ormai illuminato per la
notte,
grosse torce e crateri di braci fiammeggianti erano disposti ovunque
lungo le
navate e riverberavano sulla lucidità del marmo
moltiplicando il proprio
bagliore in mille tremuli riflessi.
Non
c’era più Garlan a montare la
guardia: al suo posto vegliava un giovanotto robusto che accolse il
loro
passaggio battendo i tacchi con un piccolo inchino rispettoso.
Una
volta che furono in
prossimità del Portale dell’arco, si volse verso
Regan, allungandole un palmo
aperto.
–
Devo chiederti di nuovo di
concedermi la tua mano. –
–
Perché devi tenermi la mano per
attraversare questi passaggi? –
–
La cosa ti disturba? – le
chiese Lucius, con un falsissimo cipiglio offeso, un bieco sorrisino
abbozzato
sul viso chiaro, gli occhi luminosi nella semioscurità. Le
sue mani erano
ruvide, mani che nella vita non avevano avuto paura di lavorare e
rovinarsi, e
il loro effetto sulla pelle tenera di Regan era tutt’altro
che disturbante.
–
Era solo una curiosità. –
Lui
rise.
–
Devo tenerti per mano perché tu
non sai dove siamo diretti. Inoltre non sei un membro della Lega, e
dunque non
hai questa. –
Si
indicò il petto, dove
luccicava la stella a sette punte che lei aveva già notato.
–
È il simbolo della Lega e delle
Sette Terre. La portano tutti i membri ufficialmente investiti.
Colloquialmente
le chiamiamo Stelle, non c’è bisogno che ti
spieghi il perché. Lo vedi questo? –
aggiunse, passando un dito sulla piccola gemma levigata incastonata nel
mezzo
della stella.
–
È un rubino? – indovinò lei.
–
È sangue. –
Regan
lo guardò storto, pensando
a uno scherzo.
–
Il mio sangue, per la precisione
– specificò Lucius. – Vedi, entrare
nella Lega non è facile, le selezioni sono molto oculate e
non basta il formale
giuramento di fedeltà prestato all’investitura
come garanzia. Per questo ciascun aspirante, durante la cerimonia, dona
una
goccia del suo sangue che viene cristallizzata sulla sua Stella, in
modo che
essa possa essere associata a un’unica, inconfondibile
persona e solo da essa
utilizzata. Tra le altre cose, funziona da chiave per i Portali
speciali che
mettono in comunicazione certe aree dei vari Nuclei. Ce ne sono sette
in tutto –
aggiunse, dato che lei non dava segno di comprendere. – Uno
per ognuna delle
Terre, ciascuno… –
–
Ciascuno ha il rispettivo
Coordinatore ad amministrarlo e tutti fanno a capo al Coordinatore
Generale –
completò Regan, con una strana cadenza mnemonica, come se
stesse recitando una
poesia conosciuta di cui però ignorava l’esatto significato.
–
Ossia la deliziosa donna che
hai conosciuto poco fa. – Lucius le allungò una
pacca soddisfatta sulla
schiena. – Qualcosa te lo ricordi, allora. –
–
Non ho memoria di me stessa –
mormorò lei, la fronte aggrottata. – Ma ho altri
ricordi, cose come questo, che
riguardano il mondo… mi sforzo di ricordare anche il resto,
ma è come se
sfogliassi un libro troppo sbiadito… –
–
Hai smarrito il tuo
passato, ma hai
ancora un presente e un
futuro, no? Poteva andarti molto peggio. E poi non è ancora
detto che la tua
memoria non torni. –
Con
un sorriso incoraggiante, Lucius
le offrì nuovamente la mano. Lei non sprecò
inutili ritrosie nell’obbedirgli:
ricambiò il sorriso, poco convinta, e la sua mano, fredda e
malferma, trovò
quella di lui.
–
Dove stiamo andando? –
L’espressione
che Lucius le
restituì mentre si affacciavano alla parete, scomparendovi
oltre, era un enigma
giocoso.
–
Ti porto ad assaggiare la
migliore cucina delle Sette Terre. –
----------------------------------------------------------------------
A/N: eccoci
qui, secondo capitolo arrivato. Qualcuno si è stupito della
velocità di aggiornamento... e ha ragione. Il fatto
è che penso serva qualche capitolo per capire bene come ci
si sente verso una storia, quindi per aiutare i lettori a entrare nel
vivo, sto cercando, almeno per i primi capitoli, di postare
frequentemente, dato che comunque sono già pronti, bisognosi
solo di una rilettura prima della pubblicazione.
Grazie a tutti voi che avete letto, e soprattutto un grazie particolare
a:
VesiSchwartz:
ovviamente le tue domande troveranno risposta al momento giusto. :)
Intanto grazie dei complimenti, e... lo spero tanto anche io che prima
o poi potrai trovare Century Child in libreria!
Hellister:
sono felice che ti piaccia questo mondo, soprattutto perchè
abbiamo appena iniziato a esplorarlo e di strada da fare e luoghi da
vedere ce n'è ancora un bel po'. ;) Chi è
Regan... prima o poi lo scopriremo, e lei anche. XD Per quel che
riguarda Lucius... non so perchè, ma avevo la sensazione che
avrebbe attratto le gentili donzelle. ;)
Maharet:
intanto ne approfitto per complimentarmi con la scelta del nick, dato
che sono un'estimatrice di Anne Rice e ho sempre nutrito particolare
simpatia per il personaggio tuo omonimo. ;) Come ho già
detto nella risposta alla tua (stupenda! *-*) recensione, Lucius e le
sue cicatrici hanno un passato che si svelerà pian piano, un
pezzettino per volta, ma arriverà, promesso! Per le
età, inoltre, direi che sei stata decisamente precisa
nell'indonvinare!
Hillary:
è davvero un piacere per me averti come lettrice! Sono le
persone che sanno scrivere accurate e oneste come te che
aiutano davvero chi scrive una storia. Non sembra, ma il punto di vista
esterno è utilissimo per capire cose che "dall'interno"
è difficilissimo individuare. Mi dici che trovi le atmosfere
e lo stile un po' potteriani, e io francamente mi trovo ad ammettere
con un pizzico di orgoglio che, a quasi 24 anni, la saga della Rowling
resta tra i miei amori letterari più grandi (e se tu ami
Sirius, io sono decisamente e seriamente innamorata persa del suo
amicone mannaro <3). Harry Potter è stato il motivo
primario che mi ha iniziata al mondo delle ff e da lì, poi,
c'è stato il decollo della mia passione sfrenata per la
scrittura, quindi, sì, direi che ci hai preso. ;)
A dire il vero, anzi, ci hai preso un po' su tutto, tanto che
min sono chiesta se tu per caso non abbia hackerato la storia dal mio
computer. XD La lunghezza dei capitoli è tale
perchè ad essere sincera non ho cominciato a scrivere
Century Child pensando di pubblicarlo su EFP, ma solo in veste di
"forse romanzo" da poter un giorno mandare a qualche buonanima che per
miracolo decidesse di pubblicarlo. Poi ho deciso di "testare" un po' la
cosa, giusto per capire appunto cosa ne potesse pensare la gente (anche
se una cavia già la sto usando XD). Insomma, non so come
ringraziarti dei complimenti, quindi mi fermo qui e aspetto trepidante
una nuova recensione. :)
Per tutti gli altri, l'invito a lasciare il vostro parere è
sempre rinnovato, lungo o breve che sia. ;)
Prossimo capitolo: La
Città-Gioiello
Kauneus
rifulgeva di luce anche
nella densità delle ombre della sera. Bastava un nonnulla:
anche il più lieve
bagliore della più piccola fonte luminosa veniva catturato
dal kival, il marmo delle cave dei monti di
Norden, che si diceva benedetto dalla Madre per via della sua
capacità di
catturare anche i raggi di luce più minuscoli durante il
giorno e restituirli
in mille splendidi riflessi dopo il crepuscolo. Il centro della
città era quasi
interamente costruito in questo materiale, dai lastricati delle strade
alle
facciate dei palazzi e degli edifici alle statue che li abbellivano.
Era da
togliere il fiato,
percorrere per quelle vie.
Lucius, che
le stava seduto
accanto, teneva le mani in tasca, e aveva lo sguardo perso nel vuoto al
di
fuori del finestrino. Era ora di cena: gli abitanti dei palazzi
dovevano essere
già tutti a tavola, chi riunito in una sala da pranzo a
consumare un lauto
banchetto, chi rifugiato in qualche taverna a fare baldoria con gli
amici.
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Capitolo 4 *** La Città-Gioiello ***
3. LA CITTÁ-GIOIELLO
The more you see, the
less you know
The less you find out as you go
I knew much more then than I do now
– City Of Blinding
Lights, U2 –
Erano
sbucati al centro di una
piazza di vastità impressionante. All’inizio Regan
aveva creduto che fosse
costruita interamente in scintillante pietra bianca, ma le ci era
voluto ben
poco per capire di essersi sbagliata: tutto era bianco e luccicante per
il
semplice fatto che era ricoperto interamente di neve.
–
Benvenuta a Kauneus,
cerbiattina! – proclamò Lucius, spalancando le
braccia – Illustre capitale di
Norden. La Città-Gioiello. –
Non
ci voleva una gran fantasia
per intuire le motivazione che avevano fatto guadagnare alla
città quel degno
appellativo. La Terra di Norden era stata un reame, secoli prima, come
la altre
sei Terre, e durante quell’epoca aveva guadagnato prestigio e
ricchezze per la
sapiente amministrazione della famiglia di reggenza
dell’epoca, e in seguito,
anche dopo l’abolizione della Monarchia, la sua storica
capitale aveva sempre
conservato il suo antico splendore.
C’era
una fontana rotonda
su tre piani, ghiacciata, nel mezzo
dell’estesa area quadrata su cui si affacciavano palazzi alti
e riccamente
decorati, sfoggio di uno sfarzo moderato da una certa dignitosa
sobrietà, e quelli
erano davvero fatti di candida, pregiata pietra lunare. Dietro alle
loro
finestre tremolavano luci calde e invitanti, velate da tendaggi che
celavano
gli interni alla curiosità dei passanti. Sulle colonnine
ritorte delle ampie
balconate campeggiavano i blasoni spruzzati di bianco delle famiglie
residenti,
orlati di pompose nappe d’oro e d’argento.
Il
luogo era un crocevia di
quattro grossi viali che si fondevano, adorni di lampioni finemente
lavorati,
in un unico perimetro attorno alla piazza – Piazza del
Vecchio Regno, come
indicava l’iscrizione sul fianco della fontana.
Pochi,
frettolosi viandanti si
attardavano ancora per strada, stringendosi nei pesanti mantelli fino
al mento.
Le brezze fredde delle terre più a sud non erano niente a
confronto del pungente
vento gelido di Norden e lo sbalzo di temperatura che avevano
incontrato da
Corterra a lì metteva bene in chiaro quanto fosse stata
lungimirante Angina nel
donarle quel mantello.
Fu
più forte di lei: come
percorsa una scarica di elettricità, si
accovacciò a terra e affondò una mano
nel vaporoso strato di neve. Le dita si piegarono, artigliandosi sopra
la
polvere di ghiaccio, che le andò sotto le unghie, facendola
rabbrividire, ma fu
un brivido meraviglioso, perché la fece sentire
straordinariamente viva.
Si
tirò su con il palmo bagnato e
arrossato, l’orlo del mantello spolverato di bianco. Lucius ridacchiava.
–
Dalla tua reazione, mi verrebbe
da pensare che tu non abbia mai visto la neve in vita tua. –
Regan
si accostò la mano al viso.
Gocce di ghiaccio disciolto le bagnarono la guancia.
–
Non ne sono sicura. Conoscevo
questa sensazione, ma… era imprecisa, come il ricordo di un
sogno… –
Non
era una spiegazione granché
sensata, ma non avrebbe saputo come altro esprimere ciò che
aveva provato nel
toccare quello straordinario cuscino gelato.
Una
lussuosa carrozza laccata di
nero sollevava piccoli spruzzi di neve giungendo cauta dal fondo della
via, due
lanterne vetrate a rischiarare la sagoma scura del vetturino
abbarbicato a
cassetta in una nuvola di vapore. Regan intravide uno stemma nero
affisso sul
lato, al centro del battente: su un fondo blu scuro, una spada ricamata
in fili
argentati era conficcata verticalmente nel fianco di un monte innevato.
–
Credo sia il
caso di tirare su il cappuccio – le bisbigliò
Lucius all’orecchio, proprio
mentre la carrozza, passando, rallentava man mano che si approssimava a
loro.
–
Hey, Lucius! –
Un
viso chiaro si era affacciato
alla finestrella. Era un ragazzo con occhi neri quanto la vettura su
cui viaggiava,
una folta chioma scura che solleticava zigomi alti e affilati, sensuali
labbra
sottili dischiuse quel tanto che bastava per lasciar intravedere a
stento il
bianco degli incisivi. Sembrava avere all’incirca la stessa
età di Lucius, ma
si intuiva tra i suoi lineamenti cesellati una maturità che
lasciava intendere
che dovesse avere qualche anno di più. Al suo collo,
seminascosta dal bavero
del mantello e dalla camicia di seta bianca, si poteva scorgere lo
stesso
pendente che portava anche Lucius.
–
Lord Edelberg – Lucius
accompagnò il classico saluto con un inchino che a Regan
parve tutt’altro che
ossequioso. – Che piacere vedervi. –
Il
modo di conversare di Lucius
era un intrecciarsi di sorrisi spensierati e inflessioni divertite,
come se
nulla meritasse una seria considerazione da parte sua.
La
bocca del ragazzo si piegò in
un mezzo sorriso divertito.
–
Chi è questa graziosa
straniera? –
I
suoi occhi, perle di luce nera,
cercarono quelli di Regan, ma lei chinò la testa, celandosi
dietro all’ombra
che il cappuccio gettava sul suo volto.
–
Non farmi domande a cui non
posso rispondere, vecchio mio. Ti assicuro che ti sarà data
risposta entro
breve da chi di dovere. –
I
due si scambiarono uno sguardo
d’intesa, poi Lucius fece fare a Regan un passo avanti.
–
Regan, permettimi di
presentarti Lord Tristan Edelberg IV. Prince, per gli amici, ossia
quasi
nessuno. –
–
Il tuo senso dell’umorismo
lascia a desiderare, ultimamente – sogghignò
l’altro. – Piacere di fare la
vostra conoscenza, Regan. –
Aveva
speso un’occhiata
incuriosita all’abbigliamento inconsueto di lei, ben poco
consono all’ambiente
elegante cittadino, ma, se aveva avuto osservazioni in merito, le aveva
tenute
per sé, e di questo Lucius parve essergli particolarmente
grato.
–
Piacere mio. –
Non
sapendo come rivolgersi a
lui, Regan improvvisò un goffo inchino.
–
Vi serve un passaggio a casa? –
Accettarono
senza falsi scrupoli.
All’interno
la carrozza era
spaziosa e arredata alla stregua di un salottino: le morbide
imbottiture sei
sedili erano rivestite di velluto rosso e fu un vero piacere prendervi
posto.
Quattro lumi a olio rischiaravano l’altrimenti cupa cabina,
rendendo visibili
gli arabeschi della tappezzeria di seta.
–
Galvorn, sai dove andare –
disse Prince a voce alta, richiamando il cocchiere.
–
Sì, signore – rispose questi, e
la carrozza partì.
Kauneus
rifulgeva di luce anche
nella densità delle ombre della sera. Bastava un nonnulla:
anche il più lieve
bagliore della più piccola fonte luminosa veniva catturato
dal kival, il marmo delle cave dei
monti di
Norden, che si diceva benedetto dalla Madre per via della sua
capacità di
catturare anche i raggi di luce più minuscoli durante il
giorno e restituirli
in mille splendidi riflessi dopo il crepuscolo. Il centro della
città era quasi
interamente costruito in questo materiale, dai lastricati delle strade
alle
facciate dei palazzi e degli edifici alle statue che li abbellivano.
Era
da togliere il fiato,
percorrere per quelle vie.
Lucius,
che le stava seduto
accanto, teneva le mani in tasca, e aveva lo sguardo perso nel vuoto al
di
fuori del finestrino. Era ora di cena: gli abitanti dei palazzi
dovevano essere
già tutti a tavola, chi riunito in una sala da pranzo a
consumare un lauto
banchetto, chi rifugiato in qualche taverna a fare baldoria con gli
amici.
Prince,
da gentiluomo qual era,
evitò di fissarla e preferì dedicare la propria
attenzione alle pozzanghere
d’acqua che si erano formate sul pavimento, riverberando luci
e ombre come
acquerelli annacquati ai suoi piedi. Bello e altero, come un vero
principe.
Il
ritmico rumore crocchiante
degli zoccoli dei cavalli sulla strada, su cui la neve non era riuscita
ad
attecchire a causa dei frequenti passaggi, cullava Regan come una
ninnananna,
appesantendo le sue palpebre. L’infuso che le aveva fatto
bere Venena aveva
perso i suoi effetti ormai da un paio d’ore e si era lasciato
dietro una
rinnovata mollezza. Chiuse un istante gli occhi, abbandonata al comodo
poggiatesta del sedile, e desiderò un letto caldo in cui
distendersi e
arrendersi alla stanchezza. Aveva fame, ma l’urgenza del
sonno era più pesante.
Non seppe dire se si fosse addormentata veramente o se avesse solo
perso la
cognizione del tempo; la carrozza si era già fermata quando
la voce di Lucius
la risvegliò:
–
Capolinea, cerbiattina. –
La
aiutò a scendere, sostenendola
quando il mantello se si attorcigliò tra le gambe, facendola
inciampare, infine
si fermò a ringraziare l’amico.
–
È stato un piacere – si schermì
Prince.
–
Ora è meglio
che porti Regan a riposare. È stata una lunga giornata.
–
–
Devo quindi
presumere che un invito a cena a casa Edelberg sarebbe del tutto vano?
–
–
Per questa
sera, temo di sì – Lucius gli sorrise con
gratitudine e prese Regan sotto al
proprio braccio. – Porta ai tuoi i miei saluti. –
Prince
annuì
sapientemente, come se dietro a quella semplice frase ce ne fossero
mille altre
più significative.
–
Lo farò. Buona serata, Lucius –
Prince riservò un cenno di riguardo per Regan.. –
Madame. –
Un
colpo di nocche al pannello di
legno che lo separava dal vetturino, e questi spronò i
cavalli, ripartendo per
la loro strada, di ritorno verso la città. Lo stesso fecero
lei e Lucius.
Avevano
raggiunto la periferia
della città, dove i quartieri si facevano radi e le case più
modeste e distanti tra loro. Un
gufo bubolava arcigno sul ramo di una robusta quercia che incombeva
sopra di
loro. Il latrato di qualche cane, in lontananza, si perdeva del fischio
del
vento, che spazzava rapido l’ultimo tratto di pianura prima
delle foreste di
conifere, ora ammantata di un nitido candore. I tronchi degli alberi
brillavano
di una patina argentata che li faceva sembrare appositamente addobbati
per
qualche festività. Non doveva mancare poi molto al Solstizio
d’Inverno.
Non
era come in centro: lì la
notte era nera e impenetrabile, e nemmeno la limpida stellata che
accompagnava
la luna piena riusciva a mitigarla.
Lucius
inspirò a pieni polmoni,
le braccia spalancate e la testa riversa all’indietro,
un’espressione di pace e
felicità impressa in faccia.
–
Finalmente! – esclamò, beato. –
Ti dirò, non speravo che sarei potuto tornare
così presto. –
C’erano
solo due casupole nei
pressi, fatte di legno e pietre, una accanto all’altra,
raccolte entro lo
stesso muricciolo a secco. Il loro aspetto non era pretenzioso, ma
sicuramente
ispirava accoglienza. C’erano delle luci accese dietro alle
finestre di quella
di sinistra. Solo cercando di sbirciare dentro alle stanza, Regan si
rese conto
di un dettaglio stupefacente: lungo i davanzali e i ballatoi di
entrambe le
abitazioni prosperava un rigoglio di fiori di diverse specie e colori,
ora
chiusi in attesa che il sole risorgesse.
–
Posticino delizioso, vero? –
Lucius
la guardava aspettando un
commento. All’improvviso si era animato di un entusiasmo
incontenibile e Regan
non poté fare altro che seguire la corrente.
–
È casa tua? –
Lui
sollevò le spalle.
–
Diciamo che è il posto in cui
vivo – disse, indicando quella di destra.
– E casa tua
allora dov’è? –
Un
sospiro languido gli gonfiò il
petto.
–
Be’, come si dice: casa
è dove è il cuore. Non è
necessariamente un posto, un punto definito, no? –
sussurrò, restando a fissare
l’abitazione che aveva di fronte. I suoi occhi rispecchiavano
il cielo e
un’emozione forte a cui Regan non seppe dare un nome.
– Penso che ciascuno di
noi riesca a vedere la sua casa in cose diverse. Per alcuni
è un tetto sopra la
testa, per altri il luogo in cui abita la famiglia, per
altri… – Un sorriso
involontario gli scivolò sulla bocca, tingendola di qualcosa
che ricordava la
malinconia, ma dal retrogusto più dolce. – Altri
trovano la loro casa in una
persona, in una mano che ti accarezza, in un paio di occhi da
incontrare dopo
una lunga separazione. Sai – si girò verso di lei,
abbassando lo sguardo con
fare quasi divertito. – C’è chi in un
paio di occhi ha trovato il mondo intero.
–
Un’immagine
le divampò nella
mente, un lampo fugace privo di trama e significato: due occhi scuri,
venati di
bronzo, che nascondevano quello che forse poteva essere il fantasma di
un
sorriso. Svanì in quell’istante stesso,
così come era venuta, e Regan restò
sola con il suo vuoto.
Quelle
parole così belle e
toccanti l’avevano gettata in uno strano sconforto.
Più si cercava dentro,
scavando nella nebbia e strappando ragnatele di confusione,
più si convinceva
che per lei non c’era mai stata nessuna casa.
Era uno strano fenomeno quello che provava in certe occasioni, come
quando era
uscita dal covo di Angina e si era ritrovata circondata dalla natura, o
come
poco prima, quando aveva toccato la neve: conosceva la sensazione,
sebbene non
ricordasse di averla sperimentata, eppure questa acquisiva concretezza
solo
dopo averla vissuta, come se il suo precedente conoscerla fosse solo il
banale
risultato di una descrizione imprecisa a opera di qualcun altro.
–
Su, vieni. –
Lucius
le afferrò un polso, ormai
già proiettato verso mete mentali che lei avrebbe scoperto
solo a momenti. La
condusse alla porta della casa con le luci accese e bussò,
un sorriso
sgargiante che gli andava da un orecchio all’altro, come un
soldato che
rientrava a casa dopo lunghi anni di guerra.
Si
sentirono dei passi provenire
dall’interno, voci sommesse che si parlavano. Un attimo dopo,
la porta si aprì.
La
donna che apparve sull’uscio
era giovane e di una bellezza florida e fresca che poteva appartenere
soltanto
a un essere umano. Il viso pulito, un ovale perfetto, era rischiarato
da
un’evidente gioia, così come gli occhi, grandi e
grigi, orlati da ciglia scure.
Da
qualche parte, giù, nel
profondo, una parte sconosciuta del cuore di Regan gemette.
–
Lucius! Oh, santo cielo, che
bella sorpresa! –
Una
cascata di capelli bruni
piovve sulle spalle di Lucius, mentre la donna si gettava tra le sue
braccia
per stringerlo a sé.
–
Eleonora. –
C’era
un tale amore in quel tono
che la neve si sarebbe potuta sciogliere da un momento
all’altro, vittima di un
calore che nemmeno il sole stesso avrebbe potuto eguagliare.
Eleonora, ripeté Regan tra
sé. Dunque non aveva preso un colossale
abbaglio: quella che aveva davanti era davvero un’umana. Il
che era quantomeno
bizzarro, dato che i soli umani che solitamente avevano occasione di
calpestare
il suolo delle Sette Terre erano quelli presi in consegna dalla Lega,
in
seguito a qualche abuso ad opera di criminali Occulti in cerca di fonti
di
guadagno alternative.
Finalmente,
dopo un abbraccio che
durò molto più di quanto necessario, Lucius si
ricordò di lei e la presentò
all’umana:
–
Eleonora, lei è Regan. Sarà nostra
ospite per un po’. Regan, Eleonora. –
–
Lieta di fare la tua conoscenza
– Eleonora le prese una mano tra le sue e gliela strinse.
–
Si saluta così, nel suo mondo –
spiegò Lucius a Regan, che aveva già fatto due
più due da sola.
Eleonora
li fece entrare e Regan
si sentì accogliere da un buonissimo profumo di torta alle
mele.
All’interno
la casa era
esattamente come Regan la aveva immaginata: colori caldi di legno e
scoppiettii
di camino acceso, trapunte di pezze colorate ripiegate accuratamente un
po’
ovunque, un paio drappeggiate disordinatamente sopra un sofà
nella sala
circolare che faceva da anticamera.
–
Siete arrivati giusto in tempo
per la cena. Stavamo preparando la tavola. –
Il
plurale si spiegò non appena
fecero ingresso in cucina: un bambino che non poteva avere
più di dodici anni –
non sei, come un bambino umano, perché la sua era una palese
natura di demone –
era intento a disporre delle posate accanto ai due piatti che
già aveva
sistemato sulla tavola imbandita. A parte la zazzera bionda, era in
tutto e per
tutto identico a Eleonora.
–
E questo bravo ometto è il
nostro piccolo Calien – annunciò Lucius,
indicandolo.
Appena
lo vide, il bambino
abbandonò la propria occupazione per saltargli
precipitosamente al collo con
l’euforia di un figlio che ritrovava il padre.
Regan
scacciò via come mosche
moleste i pruriginosi interrogativi che la scena le suscitò
e si obbligò a
concentrarsi sulla tavola: scorse un cestino di pane fresco con accanto
una
zuppiera fumante dall’invitante aroma di spezie e verdure
stufate, e una serie
di tortini di riso e patate impilati in un vassoio da portata.
L’appetito si
risvegliò nel suo stomaco.
–
Accomodati, Regan, non fare
complimenti! –
Eleonora
la spinse gentilmente
verso una delle sedie e la fece sistemare.
Consumarono
insieme tre squisite
portate, dividendosi porzioni esigue, dato che Eleonora non aveva
atteso ospiti
per cena, ma il pane di segale e la torta di mele ancora calda
supplirono
egregiamente alla mancata abbondanza del resto del pasto.
Regan
conobbe così Eleonora
Ferrante, figlia di duchi di un reame delle terre degli umani, e suo
figlio
Calien, che scoprì essere figlio di un demone. La loro
storia era triste, piena
di incomprensioni e separazioni dolorose. Eleonora aveva solo
diciannove anni
quando aveva conosciuto Hermes, giovane demone che una notte, durante
una
pattuglia, la aveva sentita gridare in un vicolo e la aveva strappata
alle
grinfie di quattro malviventi appena prima che questi riuscissero a
metterle le
mani addosso. Da quella volta, ogni notte il demone tornava a farle
visita, e
non portava scuse con sé, se non la voglia di rivederla. Da
lì, il passo verso
l’amore era stato breve, e presto Eleonora si era resa conto
di aspettare un
bambino. Una notte, dopo un breve periodo di assenza, Hermes
tornò a cercarla,
ma lei non c’era più. I suoi genitori, ciechi
timorati di Dio, avevano preso
molto male la sua storia d’amore con la loro unica figlia, e
avevano dunque deciso
di ripudiare la ragazza e rinchiuderla in un convento a espiare i suoi
peccati.
Hermes, da quel giorno, non la rivide mai più, né
conobbe mai suo figlio.
Lucius lo conobbe durante una missione per conto della Lega: riverso a
terra
con gli occhi vitrei, bianco come un cencio, ma incredibilmente ancora
vivo.
Qualcuno aveva tentato di rubargli l’anima, ma aveva compiuto
un’opera alquanto
maldestra, e lo aveva lasciato lì, ad agonizzare attendendo
la fine. Non era
stato in grado di parlare, ma Lucius gli aveva letto negli occhi una
preghiera,
e nella sua mente aveva trovato Eleonora. Compresa quale fosse la
supplica che
quell’estraneo gli stava urlando in silenzio, gli promise che
ci avrebbe
pensato lui. Un secondo dopo, Hermes spirò.
–
Quando finalmente riuscii a
trovare Eleonora, fu difficile spiegarle la situazione –
stava raccontando
Lucius, nostalgico, un bicchiere di sidro di mele cotogne in mano,
comodamente
sprofondato in una poltrona dall’alto schienale.
Finita
la cena, si erano spostati
nel salottino che faceva da anticamera alla cucina e ora sedevano
davanti al
fuoco, godendone il tepore. Il piccolo Calien, accoccolato in grembo
alla
madre, dormiva profondamente.
–
All’epoca lavoravo coma
cameriera in un’osteria di basso borgo –
ricordò Eleonora, lo sguardo distante,
perso in affanni fortunatamente remoti. – Ero fuggita dal
convento subito dopo
aver partorito, perché temevo che mi avrebbero portato via
il mio bambino. Ero
costretta a spostarmi spesso, perché lui cresceva
più lentamente dei suoi coetanei,
la gente lo avrebbe guardato con sospetto, e io non volevo che gli
fosse fatto
del male. –
Accarezzò
con una tenerezza
dolorosa il visetto tondo del figlio, salendo tra i capelli, e un
sorriso la
colorò di serenità.
–
Quando Lucius venne da me,
capii subito che cos’era. Capii anche che era successo
qualcosa a Hermes. –
Un
cesto di noci, nocciole e
mandorle dolci occupava il tavolino su cui si andò a posare
il suo sguardo, e
qualche candela profumata di cannella gli bruciava intorno. Seduta a
terra dal lato
opposto, le gambe piegate al petto, Regan ascoltava rapita, assorbendo
con
inconsapevole avidità i meravigliosi gesti materni di
Eleonora.
–
Mi disse che non potevo
rimanere lì, che non saremmo stati al sicuro. Mi fidai
all’istante della bontà
nei suoi occhi. –
Lei
e Lucius si sorrisero. Regan
comprese di aver avuto la medesima fiducia istintiva verso di lui.
–
Mi fece raccogliere le poche
cose che avevo e ci portò qui, in questo posto splendido, e
da allora ha sempre
avuto cura di noi. –
–
Incredibile che siano già
passati dieci anni – sospirò lui.
Regan
provava una stima sempre
maggiore verso Lucius: fin dal primo momento aveva intuito che fosse
una brava
persona, degno di fiducia, ma ogni istante se ne convinceva di
più, e nuove
prove consolidavano il suo valore.
–
Era solo un ragazzino –
continuò Eleonora. – Ma sapeva il fatto suo. Ha
avuto del fegato a portarsi a
casa da un giorno all’altro una ragazza sola con un bambino.
–
–
Sciocchezze – Lucius sventolò
una mano con noncuranza. – In tutte le Sette Terre non ho
ancora avuto modo di
incontrare una cuoca brava come te, né così
avvenente. È stato tutto un mio
guadagno. –
Le
gettò un’occhiata sorniona.
Lei rise.
–
Sei un vile adulatore. –
A
Regan piaceva ascoltarli.
Chiacchieravano con confidenza, in un’intimità
calorosa che sapeva di lenzuola
pulite, latte e biscotti la mattina, abbracci e carezze prima di andare
a
dormire. Forse non erano esattamente una famiglia, ma senza alcun
dubbio
qualcosa che ci andava molto vicino.
Si
lasciò viziare da quell’atmosfera,
coccolata da un benessere di riflesso che la faceva sentire protetta,
al
sicuro.
–
Ho il sospetto che la mia
cerbiattina abbia bisogno di una bella dormita. –
Lambita
dalla voce premurosa di
Lucius, Regan aprì gli occhi, non senza una certa fatica.
Non si era nemmeno
accorta di essersi appisolata.
–
Avanti, bella addormentata,
andiamo, o mi toccherà portarti a letto in braccio. A meno
che non sia
esattamente questo il tuo scopo. –
Regan
abbozzò un sorrisino
ironico.
–
Può darsi. –
Quella
che avrebbe dovuto essere
una replica ad effetto contro una deliberata provocazione, fu
disgraziatamente
rovinata da uno sbadiglio inopportuno. Lasciò che Lucius la
tirasse su di peso,
senza alcuna fatica, come se fosse stata una piuma, e si
sfregò gli occhi appesantiti
dal sonno. Era stata una giornata interminabile, troppo ricca di eventi
per una
che si era risvegliata, senza un passato, la mattina stessa.
Prima
di andare, Lucius aiutò
Eleonora a portare Calien di sopra per metterlo a letto. Eleonora
scomparve per
un minuto in un’altra stanza, riemergendone con una pila di
biancheria pulita,
che consegnò a Regan.
–
C’è anche una camicia da notte.
Se ti servisse qualsiasi altra cosa, basta che tu venga a bussare,
d’accordo? –
–
Grazie – biascicò
Regan, commossa.
Lei
e Lucius diedero la
buonanotte, poi uscirono all’aria glaciale della notte. Era
un piccolo trauma,
dopo aver trascorso ore intere nella confortevole ospitalità
della casa di
Eleonora, ma durò poco: Lucius aprì in fretta la
porta dell’altra casa. Non era
chiusa a chiave. Dentro era identica all’altra, altrettanto
pulita e calda,
solo con un aspetto molto meno vissuto. Lucius non doveva passarci
molto tempo.
Bastò uno schiocco delle dita – che Regan
sospettò essere puramente
scenografico – perché tutte le lampade della casa
si accendessero di colpo.
–
Be’, eccoci qui. Benvenuta
nella mia umile dimora, madamigella. –
Il
profumo, lì, era di legno e
fiori secchi. Regan ne vide una dozzina di mazzi che pendevano da una
trave nel
salotto: rose, soprattutto, ma anche fiori di campo, girasoli, peonie,
lavanda.
Erano bellissimi, alcuni più scoloriti di altri, ma tutti
perfettamente
conservati. Era uno spettacolo di natura morta che le
risultò immensamente
triste.
Stava
per domandare se si
trovassero lì per un motivo particolare, ma Lucius le fece
cenno di seguirlo su
per la stretta scala di legno:
–
Vieni, ti mostro la tua stanza.
–
Il
piano di sopra, come quello
della casa di Eleonora, consisteva in un corridoio su cui si
affacciavano tre
porte: due camere da letto e una stanza da bagno.
–
La mia stanza è questa qui –
Lucius indicò la porta sulla destra, poi aprì
quella dirimpetta. – E qui starai
tu. So che non è granché – aggiunse a
mo’ di scuse. – Purtroppo sono un tipo
poco casalingo. –
Ma,
alla luce di luna che entrava
dall’ampia finestra accanto a lei, Regan la trovò
perfetta: il pavimento era
quasi integralmente nascosto da un tappeto quadrato decorato a motivi
geometrici; un letto grande stava a ridosso della parete di fronte a
lei,
coperto da un lenzuolo bianco. Accanto a esso, un cassettone ospitava
uno
specchio ovale orientabile e un candeliere a cinque braccia. Sul lato
opposto
della camera, un caminetto era incassato nel muro, sormontata da una
mensola
massiccia.
All’improvviso
Regan si sentì
un’intrusa. Lucius non aveva doveri verso di lei, nessuno lo
obbligava a farsi
carico di lei e del suo benessere, della sua sicurezza, e lei non aveva
alcun
modo di ricambiare la sua ospitalità.
Non
aveva niente.
–
Mi dispiace darti tanto
disturbo. –
Per
tutta risposta, Lucius le
arruffò i capelli.
–
Il letto è già pronto, basta
solo che tu sposti il lenzuolo – le disse poi, come non
l’avesse sentita. – Fa’
come se fossi a casa tua, intesi? Io vado a prendere qualche coperta e
un po’
di legna per il camino. –
Regan
si strinse al petto il
fagotto affidatole da Eleonora, piena di riconoscenza.
–
Grazie… di tutto. –
–
Sei una gradita ospite, credimi.
–
Le
fece piacere sentirselo dire,
soprattutto perché il suo tono prometteva
sincerità.
Rimasta
sola, raccolse il
lenzuolo e lo ripiegò con cura, appoggiandolo sul
cassettone, poi si svestì. La
parte più complicata fu slacciare il bustino: lacci
intrecciati e annodati tra
loro, così ingarbugliati per le sue mani inesperte che le
venne voglia di
cercare delle forbici per tagliarli. Alla fine, dopo che fu
miracolosamente
riuscita a districarli, le sembrò di alleggerirsi di diversi
chili. I suoi
polmoni raddoppiarono di capacità, senza
quell’aggeggio infernale. Sentendosi
leggera come una libellula, Regan si sbarazzò di tutti i
vestiti e li gettò
alla rinfusa su una sedia in un angolo e si infilò la
camicia da notte. Non era
come quella che si era trovata indosso quella mattina, risvegliandosi.
Anche
questa era di lana, ma lavorata in modo finissimo, che rendeva il
tessuto
liscio e soffice. Era bella, orlata di merletti, con la scollatura
arricciata
da un nastrino che la chiudeva al centro con una piccola asola.
Si
avvicinò allo specchio e si
sciolse lentamente i capelli, sistemandoseli con le mani; vide che la
treccia
li aveva fatti diventare mossi e ondosi, soprattutto verso le punte. Lo
sguardo
le cadde sul candeliere: Lucius si era scordato di accenderglielo. Le
candele
erano nuove, gli stoppini ancora bianchi, intatti dalla morsa del
fuoco.
Sarebbe bastato così poco per farvi divampare delle
fiammelle…
Qualcosa
le formicolò nelle vene,
solleticandole le dita, la schiena, la nuca. Fissò la
candela centrale con
insistenza, focalizzandosi proprio al centro di essa, perché
era lì che sarebbe
dovuto comparire il fuoco. Una scintilla sola sarebbe bastata. Una
sola.
L’immagine era ben nitida nella sua mente come
un’allucinazione. Le sembrava
quasi di vederlo davvero: una rapida, violenta, bollente esplosione di
fuoco.
Fuoco.
E
fuoco fu.
Regan
trasalì nel vedere
quell’unica lingua dorata sprigionarsi dal nulla proprio
sotto ai suoi occhi.
Stupefatta e orgogliosa al contempo, si dedicò anche alle
altre quattro
candele, e ciascuna si accese mansueta. Gocce più copiose
stillarono dalla sua
sottile spaccatura recondita.
–
Siete presentabile, milady? –
–
Sì – fiatò, senza riuscire a
smettere di ammirare incredula il proprio modesto, straordinario
operato.
Lucius
entrò. Con la coda
dell’occhio Regan notò che portava delle coperte
sotto a un braccio e un fascio
di legna nell’altro. Guardò prima lei, poi le
candele accese, poi di nuovo lei,
e infine si avvicinò, sorpreso quanto lei.
–
Credevo non fossi in grado di
farlo. –
–
Lo credevo anch’io. Cioè, non
ci riuscivo davvero, quando eravamo nello studio di Castalia. Non so
perché
adesso ce l’abbia fatta. –
–
È un buon segno, comunque – si
complimentò lui. Le lasciò le coperte ai piedi
del letto e accatastò i ciocchi
dentro al focolare.
–
Sapresti accendere anche
questo? –
–
Malfidente! –
Forte
del successo avuto con il
candelabro, Regan non esitò a raccogliere la sfida: come
prima, cercò di
visualizzare quanto intenzionata a fare accadere, poi si
concentrò a fondo,
ricalcando esattamente il medesimo procedimento. Tutto ciò a
cui portò uno
sforzo non trascurabile fu solo un principio di mal di testa e qualche
refolo
di fumo che saliva ozioso dalla legna.
Lucius
scoppiò a ridere:
–
Non strapazziamo troppo la tua
salute, oggi hai anche fatto abbastanza. Lascia fare a me –
Un’occhiata
fu sufficiente, e la
legna già crepitava dietro a uno scudo di rame.
–
Ottimo – Lucius valutò la
stanza girando su sé stesso. – Penso non manchi
nulla di fondamentale. C’è
qualcos’altro che ti potrebbe servire? –
–
Direi di no – sospirò lei. Si
lasciò cadere a peso morto sul letto, esausta. Sedette a
gambe incrociate e il
suo pensiero vagò al futuro, facendola sentire in trappola:
alle sua spalle
c’era un ponte crollato verso un passato che forse non
avrebbe mai più
raggiunto; davanti aveva solo incertezze, dubbi da risolvere, speranze
forse
vane da rincorrere. La sua vita era in mano ad altre persone: spettava
a degli
estranei ricostruire la sua storia, trovare le sue radici, raccontarle
chi era
stata, e chi conosceva, se mai, poi, ne fossero stati in grado.
–
Regan – Lucius le sedette
accanto con un’inconsueta compostezza e si passò
la lingua tra le labbra,
incerto. – So che non dev’essere piacevole
ritrovarsi senza una memoria su cui
poggiare i piedi, ma ti prometto che farò tutto quanto in
mio potere per
aiutarti. Ci sarà pur qualcuno, là fuori, che
sappia dirci chi sei. –
–
E se invece non ci fosse? Se
io non dovessi riuscire a ricordare? –
–
In tal caso dovresti
semplicemente accettarlo e ricostruirti una vita. A volte ricominciare
da zero
è meglio di quanto ci si possa immaginare. Cancellare il
tutto il mosaico e
ridisporre i tasselli in un disegno completamente nuovo… non
è sempre un male.
–
Qualcosa
che vibrò nella sua voce
disse a Regan che non si trattava di un’osservazione casuale.
–
Parli per esperienza? –
Il
ghiaccio dello sguardo di
Lucius scivolò su di lei in una tacita ammissione,
procurandole un brivido.
–
Ci sono cose che non si possono
cancellare – disse. – Il massimo che puoi fare
è accartocciarle e nasconderle
in fondo a un cassetto, e pregare che nessuno le trovi mai. –
Regan
non gli chiese altro,
perché sentiva che non era il momento. Quel frammento di
confessione non era lì
per essere snodato, ma solo per dimostrarle che Lucius voleva davvero
stabilire
un rapporto con lei.
–
Perché lo stai facendo? – gli
chiese nel silenzio. La trapunta sotto ai suoi piedi nudi profumava di
bucato.
–
Facendo cosa? –
Regan
non si lasciò ingannare tal
tono ignaro.
–
Tutto questo. Mi hai portato a
casa tua, mi terrai tra i piedi per chissà quanto tempo...
–
–
Ti darò la stessa risposta che
è fu data a me a suo tempo, per questa stessa domanda: siamo
sempre
responsabili delle vite che salviamo. –
Regan
annuì debolmente.
–
Sì, certo. –
Non
sapeva perché fosse così
delusa. Dopotutto, non c’erano molte altre motivazioni che
potessero spingere
qualcuno a farsi carico di un’emerita estranea.
–
Con questo non voglio dire che
ti sto aiutando perché mi sento in dovere di farlo
– specificò immediatamente
Lucius, forse intuendo il corso dei pensieri di lei. – Lo
voglio fare, e basta.
–
–
Non sai nemmeno chi sono. Non
lo so nemmeno io. –
Per
Lucius, però, la cosa
sembrava non avere la benché minima importanza.
–
Non sono le memorie a fare di
noi ciò che siamo, ma le esperienze vissute. Cosa importa,
poi, se non te ne
rammenti? Resti comunque sviluppata su quelle stesse fondamenta. Il
passato è
passato: non ritornerà, e l’impronta che ha
lasciato dentro di te non è
cambiata. Un quadro non perde bellezza solo perché la mano
che l’ha dipinto
muore. –
Regan
dovette riconoscergli un
notevole talento dialettico. Ci sapeva fare con le persone, anche nelle
situazioni più complesse: sapeva sempre cosa dire e come,
modulando
opportunamente la voce a seconda dell’interlocutore e del
livello del dialogo.
Era una cosa che aveva già notato nel vederlo interagire con
Castalia.
–
Adesso è meglio che tu ti metta
a dormire – le disse, alzandosi. – Buonanotte,
cerbiattina. Ci vediamo
domattina a colazione. –
Obbediente,
lei fu più che felice
di infilarsi sotto le coperte e tirarsele fino al mento. Anche se il
materasso
non fosse stato così comodo e le lenzuola così
profumate, era certa che avrebbe
riposato benissimo.
–
Buonanotte, Lucius. –
Lui
si fermò a tirarle le tende
sui raggi di luna e spense le candele, poi uscì, chiudendosi
la porta alle
spalle con un suono secco.
Fuori,
la foresta cantava la sua
melodia con la cadenza tipica di una terra profumata di freddo e magia.
Immersa
nel buio totale, protetta dalla semplice certezza che Lucius sarebbe
stato lì
vicino, Regan poté finalmente chiudere gli occhi e lasciarsi
sprofondare
nell’abbraccio del sonno.
Quella
notte sognò lievi cascate
di fili di rame e squarci di sangue su candida pelle.
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Capitolo 5 *** Ritorno Al Mondo ***
4. RITORNO AL MONDO
I close my eyes
Move slowly through drowning waves
Going away on a strange day
– A Strange Day, The
Cure –
The.
Biscotti alle mandorle.
Frittelle allo zenzero. Pane scottato. Forse marmellata di frutti di
bosco. Fu
questo tripudio di fragranze allettanti a salutare il risveglio di
Regan,
quella mattina.
Dalle
pesanti tende penetrava
qualche cocciuta lama di luce polverosa che si insinuava tra le fessure
per
allungarsi, raggio su raggio, sulla fitta trama del tappeto. Le carezze
del sole
del mattino arrivavano anche al viso di Regan, dolci e leggere,
spingendola
pian piano ad aprire gli occhi su una nuova giornata. Si
scoprì felice e
straordinariamente piena di vigore. Il suo stomaco reclamava di essere
tempestivamente riempito e forse un getto di acqua fresca la avrebbe
aiutata a
svegliarsi del tutto, ma per il resto non si era mai sentita meglio in
vita
sua.
Per
quel che ne potesse sapere.
Quando
scostò le tende e spalancò
la finestra, l’odore dell’inverno le
inondò i polmoni, mentre il biancore
accecante della neve baciata dal sole la costringeva a strizzare gli
occhi,
schermandoseli con una mano. Nella sua semplicità, il
panorama era mozzafiato.
Qualcosa
si mosse su un ramo del
grosso abete appena fuori dal muretto di recinzione e un po’
di neve cadde a
terra. Subito dopo, un grosso corvo nero saltellò in avanti
da dietro alle
fronde e si voltò verso di lei, inclinando la testa di lato
in modo buffo.
–
Buongiorno, Rok –
La
bestiola piegò la testa
dall’altra parte e arruffò le penne, gracchiando
verso il cielo. Regan non
seppe se considerarlo un buongiorno o che altro, ma, tanto per
soddisfazione
personale, optò per la prima.
Scese
di sotto a piedi nudi,
seguendo quasi ipnotizzata il profumo delle vivande che già
immaginava
affollare il tavolo della cucina. Non appena entrò, infatti,
trovò Lucius già
seduto, circondato da una quantità di cibarie
inimmaginabile. Soltanto il
contenuto del suo piatto sarebbe bastato a sfamare un villaggio di
discrete
dimensioni. Eleonora, invece, si affaccendava davanti al fuoco,
mescolando un
paiolo di latte.
–
Buongiorno! – la accolse
Lucius, bofonchiando ai limiti della comprensibilità, dato
che la sua bocca era
occupata da una notevole porzione di frittella.
–
Ciao, Regan – le disse invece
Eleonora con un gran sorriso. – Ti chiedo scusa a nome di
questo buzzurro per
la sua scarsa galanteria – una sberla affettuosa
colpì la nuca di Lucius. –
Ancora non c’è stato verso di insegnargli come ci
si comporta in presenza di
una donna. –
–
Potrei stupirti – si difese
lui, con tutta la dignità che gli poteva consentire una
bocca puntellata di
granelli di zucchero, prontamente rimossi dalla punta della lingua che
passò a
sfiorare rapidamente le labbra.
–
Quando vedrò, crederò. Siediti,
piccola – Eleonora fece cenno a Regan di prendere posto.
– Sarai affamata. –
Regan
non perse tempo in inutili
complimenti: occupò la prima sedia che trovò e
iniziò a scandagliare quel che
la mensa offriva, giungendo presto alla conclusione che scegliere era
una
perdita di tempo: avrebbe semplicemente preso un po’ di tutto.
–
Dov’è Calien? – domandò,
mentre
si faceva allungare da Lucius il vassoio del pane.
Una
sonora risata mostrò le due
perfette file di denti bianchi di Eleonora.
–
Dorme. Oggi è domenica, prima
di mezzogiorno non ci degnerà della sua presenza. –
Portò
in tavolo il paiolo del
latte e prese posto al fianco di Lucius. Mentre la osservava, Regan fu
colta da
una buffa epifania: quella donna doveva essere nata qualche anno dopo
di lei,
eppure il suo aspetto era più maturo. Doveva essere strano
per gli umani
crescere così in fretta, come se la vita sfuggisse loro da
sotto le dita senza
lasciare loro il tempo di rendersi davvero conto di quel che avevano
avuto tra
le mani.
Regan
consumò tre fette di pane
imburrato e spalmato di gustosa marmellata senza quasi farci caso, e
altrettanto fece con una mela che divise con Eleonora e una tazza di
latte in
cui intinse qualche frittella e un paio di biscotti.
–
A quanto vedo qualcuno era
particolarmente affamato – commentò Lucius di
fronte al piatto vuoto che
giaceva sotto al naso di Regan. – Altro che cerbiattina,
mangi come un lupo
famelico! –
Regan
si rifiutò categoricamente
di avvampare e tuffò con indifferenza un ultimo biscotto nel
proprio latte.
–
Lasciala stare, ha bisogno di
mangiare! – lo sgridò Eleonora.
–
Stavo solo scherzando! Mi fa
piacere vederla così arzilla. Avevo intenzione di portarla a
fare un giro a Kauneus,
più tardi. –
–
Davvero? – fece Regan, molto
interessata. Stava letteralmente morendo dalla voglia di uscire e
curiosare un
po’ in giro: la sera prima era rimasta affascinata dal centro
e voleva vedere
come si sarebbe presentato durante il giorno.
Lucius
annuì.
–
Ti servirà un po’ di
guardaroba. Non puoi andartene in giro a oltranza con i vestiti di
Angina. –
–
Perché no? – si lamentò lei. Si
dava il caso che i vestiti di Angina le piacessero molto di
più dei classici
abiti femminili che si portavano in città. Non che si
sentisse granché a suo
agio nemmeno con quelli, ma tra i due mali preferiva nettamente il
minore.
–
Penso che tu dia già
sufficientemente nell’occhio con la tua fluente chioma, senza
andarci a cercare
ulteriori appariscenze con abbigliamenti da poco di buono. –
–
Stai dando ad Angina della poco
di buono? –
–
Mi permetto di farlo solo in
sua assenza, o mi darebbe del bieco adulatore. –
Per
quel poco che la conosceva,
Regan ritenne che fosse più che probabile.
–
E chi pagherà per questi
acquisti? –
–
Io – rispose Lucius, come se
fosse talmente ovvio che era ridicolo anche solo dubitarne.
Regan
iniziava a sentirsi a
disagio: se già le era intollerabile l’idea di
dover essere quasi completamente
dipendente da qualcun altro, il pensiero di dover essere mantenuta
gratuitamente senza possibilità di sdebitarsi era
addirittura al di fuori del
considerabile.
–
No, grazie. Hai già fatto
abbastanza per me. –
Ci
fu un attimo di silenzio,
durante il quale Lucius ed Eleonora condivisero un’occhiata
fugace.
–
Come si vede che non ti conosce
– sghignazzò lei.
–
Cerbiattina, l’insulsa somma
che mi costerebbe qualche vestito da metterti addosso è
l’ultimo dei miei
pensieri, e quando dico l’ultimo, credimi, intendo proprio
l’ultimo – le disse
invece lui.
–
Regan – Eleonora le appoggiò
una mano sul polso. – Mi sono fatta i tuoi stessi scrupoli,
all’inizio, quando
Lucius mi portò qui. Mi ha dato una casa per me e mio figlio
e non mi hai mai
chiesto nulla. Con il tempo sono stata io a trovare il modo di
ripagarlo, come
vedi. –
Indicò
la tavola imbandita, la
tovaglia pulita e ricamata negli angoli da foglie e virgulti avvolti in
spirali.
–
Pensa che all’inizio non ero
nemmeno capace di cucinare – proseguì Eleonora,
con una luce spensierata negli
occhi. – Cosa se ne fa una futura duchessa
dell’arte culinaria, se tanto le
spetta uno stuolo di servitori, quando sarà sposata?
–
Dalle
sue parole e dal modo in
cui le pronunciò, era facile capire che tutto ciò
che si era lasciata alle
spalle non le avesse mai causato la benché minima nostalgia,
e, anzi, era stata
una liberazione, per lei, andarsene.
–
Non potresti prestarmi qualche
tuo vecchio vestito? –
–
Lo avrai – le assicurò Lucius. –
Per uscire a comprartene qualcuno per te. –
–
Anche volendo, Regan, nessuno
dei miei vestiti si adatterebbe alla tua figura – la
blandì Eleonora. – Te li
dovrei stringere e, credimi, il cucito non è proprio il mio
forte. –
Effettivamente, come Regan
scoprì due ore
dopo, anche il più attillato abito di Eleonora a lei andava
decisamente
abbondate in quei punti strategici che in una donna adulta erano
già
perfettamente sviluppati, ma che per lei ancora scarseggiavano.
–
Non badare a come ti sta questo
– le disse Eleonora, dopo averle aggiustato addosso
l’ampia gonna del vestito
blu, intercettando la sua espressione scoraggiata. – Le sarte
in città ti
sapranno consigliare qualcosa che ti si addica di più.
–
Era
molto semplice, di un colore
indaco tenue e una striscia bianca centrale che dal seno scendeva fino
all’orlo, il corpetto impreziosito da una serie di lacci
intrecciati che
Eleonora le strinse con misericordiosa moderazione.
–
So cosa si prova a farsi stritolare
in uno di questi affari infernali. –
Fu
però impossibile trovarle un
paio di scarpe intonate: Eleonora aveva un piede non molto
più piccolo di
quello di Regan, ma abbastanza perché la sua misura fosse
incompatibile. Le
toccò quindi rimettersi gli stivali, scoprendo peraltro che
non stavano poi
così male come aveva temuto.
E
così non c’era stato verso di
opporsi, né scusa che tenesse: a metà mattina
Lucius le aveva messo in spalla
il mantello nero donatole da Angina, l’aveva trascinata fuori
di casa e, sotto
all’occhio vigile di Rok, l’aveva condotta sul
retro, dove sorgeva una piccola
stalla che la sera prima non aveva notato. C’erano tre
cavalli, dentro: uno
stallone nero, una giumenta morella e, nello stesso cubicolo, un
puledro con
una stella bianca tra gli occhi. Erano bestie magnifiche, lustre e
superbe, ed
era evidente che Lucius tenesse molto a loro, perché
c’erano montagne di fieno
a riscaldarli e le mangiatoie erano colme di frutta e verdura, sia
d’avanzo che
fresche.
Regan
si avvicinò con remissione
al fiero stallone e allungò una mano verso il suo muso.
–
Attenta, non è molto… –
Qualsiasi
cosa Lucius fosse stato
sul punto di dire, rimase impronunciata. La mano di Regan si era
già posata sul
pelo ispido del cavallo e lo stava accarezzando piano. Riusciva a
sentire la
potenza nei suoi muscoli tesi, il calore del sangue che gli pulsava
nelle vene,
e il cuore che lo spingeva. Sentiva la sua vita scorrerle prorompente
sotto le
dita.
Era
quasi assordante, nelle sue
orecchie, ma meraviglioso.
–
Freyr, vecchio mio, da quando
in qua ti lasci domare da qualche moina? – si sorprese
Lucius, dando qualche
colpetto al collo possente dell’animale, il quale rispose con
uno sbuffo
permaloso e si ritrasse, sfuggendo alla portata di Regan.
–
Considerati onorata. Generalmente
questo ragazzaccio accoglie gli estranei con minacce di morte imminente.
–
Lucius sellò la
giumenta con gesti accorti e
adoranti, poi la portò fuori, e lei accolse con un nitrito
lieto la folata
d’aria fresca che la sfiorò appena uscita.
–
Freya è la più mansueta con la
gente nuova. Non dobbiamo fare molta strada, ci sopporterà
bene entrambi. –
Regan
evitò di sottolineare che
quello alto e grave di muscoli era lui.
–
Ora reggiti bene a me – le
ordinò Lucius. Le lasciò appena il tempo di
aggrapparsi ai suoi fianchi: spronò
dolcemente la giumenta e questa partì immediatamente con una
piccola impennata.
Cavalcare
era abissalmente
diverso da come lo aveva immaginato: per Lucius sembrava naturale, come
se lui
e Freya fossero stati una cosa sola, ma se non ci fosse stato lui,
Regan non
aveva idea di come sarebbe riuscita a rimanere in groppa, soprattutto a
quella
velocità. Nonostante la scomodità,
però, le piaceva, e anche molto. Il rumore
attutito ma potente degli zoccoli di Freya che battevano veloci sul
terreno le
mandava scariche di ecitazione in tutto il corpo; provava il forte
desiderio di
poter prendere le briglie e condurre quella corsa straordinaria. Le sue
dita
affondarono istintivamente nell’addome di Lucius, incontrando
muscoli tesi
sotto a diversi strati di stoffe. Riusciva quasi a indovinarne le
linee, la
precisa trama che tratteggiavano sotto i suoi palmi.
–
Ti piace? – urlò Lucius nel
vento.
–
È fantastico! – urlò lei,
entusiasta.
Impiegarono
meno di quanto Regan
si sarebbe aspettata per raggiungere il centro della città.
Quello che nella
stanchezza della notte precedente le era parso un tragitto
interminabile, ora
era volato sulle invisibili ali della velocissima Freya, che li aveva
portati
la galoppo come se non avessero avuto peso. Rok li aveva seguiti dal
cielo.
Kauneus
non aveva una distinzione
vera e propria tra centro e sobborghi, sostanzialmente
perché i palazzi delle
famiglie nobili e degli arricchiti erano tutto ciò che si
poteva scorgere in
ogni dove. Solo nel cuore della città – una zona
che si estendeva entro il
raggio di mezzo miglio partire dalla Piazza del Vecchio Regno
– si incontravano
le botteghe e le taverne, punto nevralgico della vita cittadina. Tutto
era a
misura degli alti tenori di vita degli abitanti e costruito sulla loro
rispettabilità. All’epoca
dell’istituzione delle Monarchie, un millennio prima,
Norden era stata la Terra da cui erano provenute tutte le famiglie dei
regnanti
e tuttora restava la sede preferenziale delle antiche
nobiltà del Mondo
Occulto. Le casate nobiliari residenti al di fuori di Norden
tendenzialmente
non erano viste di buon occhio da quelle che invece vi dimoravano da
sempre,
poiché la distanza dal cuore di origine del potere regnante
stesso veniva
considerato una manovra per sottrarsi al controllo centrale e tramare
contro lo
status quo delle Terre, come era già accaduto in passato.
Nomi di antichi
lignaggi come Dresden e Kashman erano diventati sinonimi di traditore e
coloro
che li portavano venivano guardati con sospetto, sopportando ancora,
dopo
centinaia di anni, il peso degli errori commessi dai loro antenati.
Lasciarono
Freya in una piccola
scuderia dove a quanto pareva Lucius era quasi di casa.
Salutò lo stalliere con
un cenno e gli lasciò cinque corone in più,
raccomandandosi che la cavalla
fosse debitamente foraggiata.
Passeggiando
per la città, Lucius
le impose di tenerlo a braccetto, come stavano facendo tutti gli uomini
con le
dame che accompagnavano.
–
Perché? Non sono una vecchia
rimbambita, so camminare anche da sola! – protestò
lei.
–
Perché è così che una fanciulla
rispettabile si accompagna a un gentiluomo in pubblico –
tagliò corto Lucius,
ma non era del tutto certa che fosse serio. –
L’immagine ha un notevole peso. Forse
non lo diresti, ma qui hanno tutti una certa stima di me. –
–
Ancora non ho capito il motivo.
–
–
Credo sia perché sono bello,
simpatico e discretamente talentuoso. –
–
Dimentichi dotato di
invidiabile modestia. –
–
Oh, è vero, quella me la scordo
sempre! –
Per
strada Lucius si fermò a una
bancarella dietro cui stava una donnina minuscola sepolta sotto strati
e strati
di vaporosa lana variopinta. C’era un grosso paiolo fumante
sul banco, che
emanava un odore speziato molto intenso misto a miele e limone.
–
Sima, bevanda tradizionale di
Norden, una delle più antiche.
Delizioso e ottimo contro il freddo. Vuoi assaggiare? –
Regan
spinse via a naso storto il
bicchiere che Lucius le offriva, nauseata dal sentore di alcol.
C’era una sartoria
lì vicino, e a un certo
punto ci si ritrovò dentro senza che nemmeno le fosse
chiesto se le andasse di
entrarci.
–
Vedi qualcosa che ti piace? –
le domandò, mentre lei osservava alcuni modelli esposti
sulle stampelle. Era
una sala scura, colma di grotteschi manichini acefali che indossavano
gli abiti
in vendita con una rigidità che metteva inquietudine. Le
altre due clienti
presenti, madre e figlia, non sembravano affatto disturbate da quelle
presenze
inanimate e passavano in rassegna un gruppo di abiti di fattura molto
più
modesta rispetto a quelli che stava guardando lei, ma pur sempre
fastosi.
Sarebbe
stato scortese rispondere
a Lucius un no secco come quello che Regan aveva in mente,
così finse un vago
interesse per l’abito più lungo e ricercato che
avesse mai visto: rifiniture,
decori e dettagli rosso carminio venavano il prezioso tessuto di un
bianco
cangiante che ne rifletteva lievi sfumature su ogni piega che si
formava.
Neve colata di sangue.
–
Questo non è male – commentò,
mentre già si immaginava a inciampare come una stupida in
tutto quel’eccesso di
stoffa. Lo stile di Angina poteva non essere altrettanto scenografico,
ma
senz’altro le si addiceva meglio.
–
Lo prendiamo – disse Lucius a
una donna dall’aria austera che supervisionava gli acquisti
da dietro alle
sottili lenti di due occhialetti a mezzaluna. Questa si
affrettò verso la
stampella e in un lampo l’abito era devotamente ripiegato tra
le sue braccia.
Accadde lo stesso con un altro paio di abiti; fosse stato per Lucius,
si
sarebbero portati via mezza sartoria. Sembrava che per lui i soldi non
avessero
né valore né limite.
–
Cercate di stare dritta e
ferma, milady. –
Regan
si raddrizzò meglio che
poté mentre la sarta le infilava spilli in ogni dove,
sollevando, accorciando,
stringendo. Milady era un
appellativo
che proprio non le si pennellava bene addosso. Se ne stava in piedi su
una
specie di sgabello in una stanzetta nel retrobottega; c’era
un caminetto a
riscaldare l’ambiente e un angolo era stato adibito al cambio
degli abiti,
separato dal resto dello spazio da una tenda rosso scuro. Lucius sedeva
su una
poltrona in disparte, seguendo con scarso interesse l’opera
della donna, da
dedicandone in compenso parecchio alle reazioni di Regan, che lo
guardava
funerea come se quegli spilli, anziché nel tessuto, glieli
stessero conficcando
nella carne viva.
–
Non essere così entusiasta.
Madame Shawn potrebbe pensare che tu dia troppa importanza al tuo
guardaroba –
la prese in giro Lucius, le gambe accavallate in una posa rilassata.
Lei
si limitò a mostrargli la
punta della lingua, cosa che fortunatamente Madame Shawn non
notò, o si sarebbe
resa conto di quanto quel milady
fosse inappropriato. Regan si rifiutò categoricamente di
rimanere là dentro a
tempo indeterminato per farsi adattare ciascuno dei capi rimanenti.
Lasciò che
la sarta le prendesse le misure, poi, nonostante le sue aperte
rimostranze, la
lasciarono a occuparsi di tutto senza un modello reale su cui lavorare.
Regan
preferì non indagare sulla quantità
d’oro che c’era nel pesante sacchetto che
Lucius depose in mano alla donna.
Prima
dell’ora di pranzo Lucius
riuscì anche a trascinarla a comprare qualche paio di
scarpe. Andandosene in
giro assieme a lui, Regan si sentiva una specie di
celebrità. Sembrava che
tutti lo conoscessero: chi non si fermava a salutarlo personalmente,
gli
sventolava una mano dall’altro lato della strada, o
affrettava un cenno
passando.
–
Sei davvero così famoso?
– gli disse, dopo che
l’ennesima dama gli ebbe rivolto un sorriso così
sfacciatamente civettuolo da
passare per provocazione, che lui aveva puntualmente ignorato.
–
Diciamo pure di sì. –
–
Sei una personalità di spicco,
per caso? Perché non mi era sembrato che il Coordinatore
Generale ti trattasse
con molto riguardo. –
–
Castalia mi tratta così perché
sono una personalità di spicco.
Avrai notato che le piaccio quanto un spillo conficcato in un occhio.
–
–
A voler essere proprio generosi…
–
Lui
emise una breve risata di
approvazione.
–
Esattamente. Sai, non sono
certo così popolare per merito nel mio fascino, anche se so
che è difficile
crederlo. –
Mentre camminavano, Regan si
guardava intorno
avida. Le insegne delle botteghe erano una delle cose più
affascinanti che trovò: in legno o in rame, dipinte o naturali, con
simboli, disegni o
interi motti incisi assieme al nome.
–
E allora per che cosa lo sei? –
Lucius
si fermò davanti all’ingresso
di una taverna che recava l’insegna Quercia
d’Argento con un sorrisetto misterioso:
–
La luna brilla perché guarda il
sole – fu la sua altrettanto misteriosa risposta.
Era
impossibile guardarlo senza
lasciarsi distrarre dall’azzurro tempestoso delle sue iridi.
Qualcosa si
nascondeva dietro al suo sipario di spavalderia, ma di cosa si
trattasse, Regan
non lo avrebbe saputo dire.
Ben
felice di prendersi una
tregua dall’andirivieni che le era toccato sopportare per
tutta la mattinata,
seguì Lucius dentro alla taverna, dove un’ondata
di denso tepore li accolse. Non
aveva molto appetito a causa della colazione abbondante, ma aveva
voglia di
qualcosa di caldo con cui riscaldarsi le mani intirizzite dal freddo.
–
Hey, guardate un po’ chi viene
a degnarci della sua presenza! –
Era
stata una voce maschile a
levarsi al di sopra del chiacchiericcio indistinto degli avventori per
raggiungere lei e Lucius fin nell’ingresso. Regan lo
individuò in fondo alla
sala: un ragazzo biondo che sventolava un braccio per attirare
l’attenzione,
circondato da una manciata di compagni.
Lucius
sollevò una mano per
ricambiare.
–
Mariek – i due si scambiarono
una pacca sulla schiena. – Come stai? –
–
Ma come fai a distinguerci
sempre? Parola mia, vecchio, un giorno riuscirò a estorcerti
il tuo segreto. –
Un
altro ragazzo era spuntato dal
nugolo che affollava il tavolo e si era fatto avanti; era identico al
primo.
Entrambi magri e biondissimi, lineamenti tracciati con precisione e
simmetria
impeccabili, con occhi neri e insolenti e dotati della bellezza
affilata tipica
delle genti del Nord. Regan riusciva a distinguerli solo
perché Mariek portava
i capelli legati e l’altro no.
–
Me lo porterò nella tomba,
Ember, te lo posso assicurare. –
C’era
un numero non ben definito
di mantelli, sciarpe e guanti ammassati a
un’estremità della tavola, e quel che
restava dello spazio era ingombro di piatti e scodelle, vassoi ancora
pieni a
metà, brocche di vino, acqua e calici. A occupare la panca
c’era una mezza
dozzina di giovani dall’aria un po’ brilla e in
vena di risate.
–
Non ci presenti la tua nuova
amica? –
Un
terzo ragazzo si era alzato
per raggiungerli. Anche lui, come i primi due, aveva lunghi capelli
dorati e
occhi neri screziati di trasparenze più chiare. Doveva
essere di qualche anno
più giovane, ma tutti e tre si somigliavano tanto da non
poter essere altro che
tre fratelli.
Lucius
confermò subito la sua
intuizione:
–
Regan, ricordi Prince? Bene,
loro sono i suoi fratelli minori: Ember e Mariek, flagelli gemelli dei
cuori di
tutte le giovani dame di Kauneus e delle allieve
dell’Accademia della Domus
Aurea, e questo è… –
–
Aeden – si presentò
autonomamente il terzo, esibendo un baciamano che tolse a Regan ogni
facoltà di
parola. Per quanto stupefacente, Lucius aveva amici che sapessero cosa
fosse il
galateo, a quanto sembrava.
–
Anneli e Prince non ci sono? –
–
Anneli è a casa a studiare –
rispose Ember sottovoce con una smorfia, come se si trattasse di un
fatto di
cui vergognarsi – E Prince è in giro a setacciare
le Sette Terre per mettere
insieme qualche ipotesi decente su quanto successo alla Corte.
È partito
stamattina con qualcuno dei suoi. Desmond è ancora
ufficialmente disperso e
nessuno crede veramente che sia finito maciullato tra le ceneri della
sua
casetta –
Regan
serrò i pugni. Da un lato
detestava la frustrazione che l’amnesia le causava,
impedendole di essere di
qualche aiuto a quella gente, dall’altro continuava a essere
fermamente
convinta che, come aveva detto Angina, forse non era un male che avesse
dimenticato. Non possedendo ricordi, si basava sugli istinti che le
erano
rimasti incisi dentro, tracce indelebili di eventi dimenticati che
ancora
agivano, attraverso nebbiose sensazioni, per guidarla lungo un sentiero
che era
costretta a percorrere a occhi chiusi. Quegli stessi istinti, del tutto
spogli
di razionalità, le suggerivano una strana inquietudine, nel
sentir proferire il
nome di quell’uomo.
–
Sedetevi! – Mariek gesticolò in
direzione dei posti vuoti sulla panca. – Unitevi a noi. Vi
facciamo portare dei
piatti, c’è ancora una montagna di roba da
mangiare! –
Quando
Lucius aveva detto a Regan
di essere molto popolare, lei lo aveva preso come una battuta
eccessivamente
gonfiata, mentre invece sembrava essere la verità nuda e
cruda: l’oste in
persona era venuto a porre i suoi omaggi, così lieto di
rivedere il “caro
ragazzo” che decise che avrebbe offerto lui da bere. Anche i
ragazzi della
piccola combriccola lo trattavano con una sorta di amichevole reverenza
e
pendevano dalle sue labbra, sebbene fosse più giovane della
metà di loro. E
lui, dal proprio canto, era perfettamente a suo agio tra loro,
ridanciano e
rumoroso, come un leader tra i suoi seguaci. Gli altri tre ragazzi del
gruppo
erano compagni di Accademia dei fratelli Edelberg, anch’essi
rampolli di
notabili di Kauneus. Due di loro, i cugini Emeric e Kama Devore, due
ragazzoni
dai riccioli rossi, avrebbero terminato il loro percorso accademico a
fine
anno, mentre l’altro, Breys Devore, fratello di Emeric, era
abbastanza giovane
da aver appena cominciato.
Nessuno
di loro diede segno di
provare verso Regan una particolare curiosità che esulasse
da quella che ci si
sarebbe aspettata da un manipolo di giovanotti scapestrati di fronte a
una
piacente donzella.
–
Hai detto che si fermerà da te
per qualche tempo, Lucius? – stava informandosi Ember,
occhieggiandola suadente
dall’capo lato del tavolo.
Accanto
a lei, Lucius annuì,
infilandosi in bocca una generosa forchettata di arrosto.
–
A tempo indeterminato. –
Avevano
raccontato che Regan era
stata affidata a lui per via di circostanze particolari, senza
addentrarsi
troppo in dettagli superflui di cui non era il caso discutere in
pubblico. Da
come però reagirono gli Edelberg, era facile sospettare che
sapessero qualcosa
più degli altri.
–
Prince lavora per la Lega – le spiegò
infatti Lucius in un orecchio. – Il Nucleo di Norden
è uno dei più funzionali,
assieme a quello di Brenner e Corterra. Sono pronto a scommettere che
la sua
famiglia sia stata tra i primi a venire a conoscenza della tua storia.
–
–
Spero vivamente che avremo il
piacere di rivederti spesso, Regan – stava dicendole Mariek
con una strizzatina
d’occhio sfacciata.
–
La vita sociale di Lucius non è
mai stata granché brillante – intervenne Ember,
sporgendosi verso di lei
attraverso il tavolo. – Lui è uno che preferisce
la solitudine al sano
divertimento… vallo a capire. Quindi vedi di convincerlo a
portarti a qualche
festicciola delle nostre, a Medilana. Ti garantisco che sapremmo farti
divertire! –
–
Oh, puoi starne certa – Accanto
a lei, Aeden sorrise soavemente ai due fratelli maggiori. –
Hanno un animo così
altruista e generoso da non saper negare l’onore della
propria compagnia a
qualunque bella fanciulla abbia la sventura in incrociare il loro
cammino. –
Lui
era diverso dai gemelli: più
serio e composto, più maturo, tanto negli atteggiamenti
quanto nei discorsi, e
sembrava fosse lui a tenere a bada loro, anziché il
contrario, come la naturale
gerarchia avrebbe voluto.
–
Le fanciulle non si limitano a
incrociare il nostro cammino, fratellino. Loro ci si buttano a
capofitto –
sghignazzò Mariek, e lui ed Ember scoppiarono a ridere.
Aeden
sospirò e volse gli occhi
al cielo come un padre che aveva a che fare con figli ingestibili e li
lasciò
nel loro brodo.
–
Nostro padre ha chiesto di te –
disse a Lucius. – Era parecchio che non tornavi a Kauneus. Ci
farebbe piacere
una tua visita, qualcuno di questi giorni. –
Regan
ascoltava interessata. Non
sapeva granché di Lucius e le sarebbe piaciuto conoscere
qualcosa di più, di
lui. Aveva un rapporto piuttosto intimo con gli Edelberg, a quanto
pareva.
–
Vi conoscete da molto tempo? –
indagò.
–
Una decade, anno più, anno meno
– rispose Lucius. – Lord Edelberg è
stato uno dei primi a darmi fiducia, quando
sono entrato nella Lega, e da allora mi ha sempre tenuto sotto alla sua
ala protettrice.
–
–
Non che tu ne abbia bisogno,
vero? – si intromise Ember, emergendo per un momento dal
discorso che stava
intrattenendo con i Devore.
Il
ragazzo di nome Emeric gli
diede man forte:
–
Nessuno meno di lui.
–
–
Il mio cuore brama il momento
in cui sarò anch’io un membro della Lega
– sospirò Mariek, languido, con una
mano sul cuore. – Dedicare la mia umile vita al servizio
della Luce del Nord… a
cosa potrei aspirare, di più? –
–
A uscire dalla Domus senza una
reputazione da buffone perdigiorno, per esempio –
completò Aeden al posto suo,
facendo ridere tutti.
Era
la seconda volta che Regan
sentiva nominare questa misteriosa Luce del Nord e ancora non era
riuscita a
capire di cosa si trattasse. Stava per domandare qualche delucidazione,
ma
qualcosa la bloccò: c’era un uomo seduto a un
tavolo in un angolo. Era solo,
con nient’altro che una fiasca di un vino dalla colorazione
violacea molto
scura davanti, che di tanto in tanto si versava nel calice.
L’ombra gettata dal
cappello che non si era tolto, dando prova di una certa maleducazione,
gli
nascondeva metà del volto. Le sembrò strano che,
nonostante i suoi abiti
fossero di un certo pregio, fossero così sciupati. La stava
osservando.
–
Serviti, sciocchina, non hai
fame? –
Regan
si accorse che Lucius si
era già riempito un piatto di vivande e le stava porgendo un
vassoio rotondo
con delle costine di maiale. Quando guardò di nuovo,
l’uomo si stava facendo i
fatti suoi e fissava cogitabondo il fondo del suo calice.
–
Cerbiattina, parlo con te. –
–
Perché la gente mi fissa? –
Sbottò lei, infastidita.
–
Perché sei molto carina? –
Lei
gli propinò un’occhiata torva.
Lui
rimase immobile un istante,
poi posò il vassoio e la guardò con compassione.
Si avvicinò a lei e sospirò.
–
Dovrai farci l’abitudine, temo.
Sei abbastanza vistosa, sai? –
Le
sistemò una ciocca dietro
all’orecchio con una dolcezza lenitiva, un gesto che in un
luogo come quello,
pieno di parlottii e occhi indiscreti, era decisamente fuori luogo.
–
Fintanto che ti fisseranno
senza nuocerti, non mi preoccuperò. –
–
E io quand’è che mi dovrò
preoccupare? –
–
Mai, finché ci sarò io. –
La
vibrazione di una promessa.
La
sua voce calda era balsamo per
qualsiasi turbamento. Non che lei fosse veramente preoccupata; trovava
solo una
scocciatura avere sempre degli occhi puntati addosso in quel modo,
nemmeno
fosse stata un mostro.
Eppure era esattamente come
un mostro che
l’aveva guardata la guardia, a Medilana.
–
Su, adesso mangia qualcosa, da
brava – Lucius le rifilò nel piatto un paio di
costine. – E ringrazia i
signorini Edelberg per averci offerto il pranzo. –
–
Chiamami un’altra volta signorino
e ti offrirò un pugnale nello
sterno – lo minacciò Mariek.
Ember
allungò una gomitata al
gemello:
–
Signorino Edelberg, non siate
scortese! –
–
Signorina Edelberg, evitate di fare
le veci della vostra balia! –
–
Razza di… –
–
Devi scusare la loro puerilità,
Regan – le disse Aeden, coprendo l’insulto
del proprio fratello. – Hanno un
cervello in due e come vedi non funziona nemmeno tanto bene. –
–
Se il nostro cervello fosse
attivo quanto tu sei noioso, ne saresti sicuramente entusiasta
– lo rimbeccò
Ember, sdegnoso.
A
Regan piaceva starli a
guardare. Le piaceva la loro complicità, il modo scherzoso
con cui si
insultavano e prendevano in giro. In Ember e Mariek, soprattutto,
percepiva un
legame fortissimo, e in un certo senso Aeden aveva ragione: era come se
fossero
un’unica entità divisa a metà, lo
stesso spirito che due corpi distinti. E quel
senso di appartenenza che quei ragazzi mostravano di provare
l’uno verso
l’altro, in lei mancava completamente. Come aveva detto
Lucius, anche senza
ricordi, le esperienze lasciavano impronte tangibili
nell’anima, e l’impronta
di una famiglia in lei non c’era.
Trascorse
un pomeriggio piacevole
alla taverna. Tra un boccone e l’altro e aneddoti
più che pittoreschi
raccontati dai ragazzi circa certe loro avventure entro le storiche
mura della
Domus Aurea, le ore si consumarono velocemente, tanto che, senza che se
ne
rendessero conto, l’oste era passato ad accendere i lumi dei
tavoli e delle
pareti. Due grossi lampadari, inoltre, ribollivano ora di una morbida
luce
dorata sopra le teste degli avventori.
Era
sera, fuori, anche se l’ora
non era poi così tarda. Da una delle finestre si poteva
intravedere l’orologio
di una torre che, nel baluginio lunare del kival,
segnava appena la quarta pomeridiana. Il buio scendeva più
in fretta, al Nord,
durante l’inverno.
Le
poche dame che avevano animato
l’atmosfera con cori di risolini e pettegolezzi indiscreti si
stavano alzando,
probabilmente per recarsi di nuovo a casa dai mariti e dai figli,
appena in
tempo per dare istruzioni ai domestici per la cena. Gli uomini e i
giovani si
sarebbero attardati ancora un po’, meno vincolati dai sacri
doveri delle
matrone. Dalle cucine già proveniva l’odore
invitante delle pietanze serali e a
breve i tavoli sarebbero stati liberati dalle bottiglie di liquori e
teiere di
tisane fumanti per lasciare posto ai calderoni delle minestre e degli
stufati.
Sporte di pane erano già pronte per essere distribuite con
le ordinazioni, da
intingere nelle salse o tuffare nei densi brodi aromatizzati.
Regan
si scoprì a pensare che le
sarebbe piaciuto lavorare in un posto simile, anche soltanto per poter
sentire
tutti i giorni quei profumi, e il calore e l’allegria della
gente che si
incontrava. Ne era incantata, come una bambina di fronte alla prima
bambola
della sua vita.
–
Ti sei divertita? – le chiese
Lucius mentre uscivano, e la quinta era ormai prossima sulla torre
dell’orologio.
–
Molto. E credo anche di aver
mangiato a sufficienza da poter digiunare per il resto
dell’inverno. –
–
Eleonora non ne sarà contenta.
Sono pronto a scommettere che ha già preparato una lauta
cenetta per noi. –
Una
grossa ombra sorvolò le loro
teste. Rok doveva essere nei paraggi. Qualche fiocco di neve, intanto,
aveva
iniziato ad abbandonare il cielo, tracciando ghirigori invisibili
nell’aria
fredda mentre lentamente scivolava verso la terra. Uno si
andò ad adagiare
proprio sulla punta del naso di Regan, strappandole un sorriso.
–
È straordinario, vero? – disse
Lucius, guardando in su. Anche lui stava sorridendo. –
C’è qualcosa di magico a
Norden che nelle altre Terre non c’è. –
Era
amore quello che gli si
leggeva negli occhi d’acqua, un’emozione che
luccicava di vita propria, come un
riflesso di qualcosa di più profondo.
“Casa è dove è il
cuore.”
–
Hey, Lucius! –
Pochi
metri avanti a loro, due
ragazze sventolavano le mani guantate con aria civettuola. Si
avvicinarono
ridacchiando e sussurrandosi qualcosa. Lucius concesse loro un saluto
galante:
–
Lady Sapphire. Lady Somerville.
–
–
Non avevo idea che tu fossi in
città! – ciarlò la prima, una bruna
dall’aria scaltra, alta e magra come un
fuso. – Mi ero rassegnata a dover attendere il Solstizio per
rivederti. –
La
sua amica, più bassa e
decisamente meno aggraziata di lei, gli scoccò
un’occhiata di apprezzamento, ma
non osò aprire bocca.
Regan,
che si era volutamente
tenuta in disparte fingendo di osservare una statua equestre
lì vicino,
ascoltava facendo finta di niente.
–
Non mi aspettavo nemmeno io di
rientrare – stava replicando Lucius, serafico come suo
solito. – Non so neppure
quanto mi fermerò, a dire il vero. –
–
Abbiamo speranze di vederti al
ballo? –
–
Difficile a dirsi. Ma la
speranza è sempre l’ultima a morire, dopotutto
–
Continuarono
a scambiarsi
pochezze degne di una combriccola di comari, e Regan intuiva nel tono
salottiero di Lucius una celata patina di fastidio, che lei peraltro
condivideva pienamente. Le due ragazze erano più mature di
lei, ma
probabilmente anche di lui, eppure l’atteggiamento della
bruna – Lady Sapphire –
era un pubblico manifesto di tentata – e palesemente fallita
– seduzione.
Un
suono insolito nel vicolo lì
accanto distrasse Regan dal suo attento origliare. Le era sembrato un
guaito, o
forse un vagito. Proveniva da un angolo in fondo allo stretto
passaggio. Decise
che, piuttosto che sorbirsi la voce petulante di Lady Sapphire che
faceva la
civetta con Lucius, poteva anche arrischiarsi ad andare a controllare
di che
cosa si trattasse.
Senza
pensarci, si allontanò e si
mise a setacciare il vicolo. C’era una botte colma di
rifiuti, avanzi di cibo
putrescenti della taverna, e una catasta di legname umido su cui si era
già
formato un discreto strato di neve.
–
C’è nessuno? – provò a
chiedere. Ciò che le giunse in risposta fu un mugolio
sommesso indistinguibile.
Sembrava quasi il verso di un animale.
Seguì
una specie di scia
sensoriale, attirata da chissà quale istinto verso una
seconda botte, anch’essa
adibita a deposito per rifiuti. Notò una serie di trappole
legate da catene sparse
a terra, con esche di carne e formaggio ammuffito. Con tutta quella
sporcizia,
i topi dovevano prosperare. Era buio, lì in mezzo: i due
muri erano così
ravvicinati che la luce del giorno a stento penetrava, lasciando il kival privo della sua caratteristica
fosforescenza.
D’un
tratto una catena si mosse,
facendola sussultare. Si diede della sciocca: si trattava sicuramente
di un
ratto che era rimasto vittima delle trappole. Guardò meglio,
cercando tra la
densità delle ombre, ma non riusciva a distinguere nulla.
Poi lo vide, in un
angolo debolmente rischiarato dalla luce che penetrava da una finestra.
Era
un esserino bizzarro, alto
circa trenta centimetri, e sembrava uno strano ibrido tra un gatto e un
orso in
miniatura. Era completamente ricoperto di una folta pelliccia fulva,
lunghi
arti sottili ripiegati in una posa accovacciata. Due enormi occhi neri
e
lucenti occupavano metà del volto, appena sopra un minuscolo
naso nero e un
muso schiacciato. Le sue dita filiformi erano strette attorno a quello
che
aveva tutta l’aria di essere un bracciale d’oro
zecchino. Una delle sue
zampette era imprigionata nella morsa impietosa di una tagliola,
lasciando
macchie di sangue sul terreno.
Non
appena la vide, l’animale
arretrò spaurito, stringendo gelosamente il gioiello,
trascinandosi dietro
anche la tagliola. Regan sentì il suo dolore come fosse
dentro di lei. Mossa a
pietà, si accovacciò e allungò una
mano verso di lui.
–
Tranquillo, ti voglio aiutare. –
Naturalmente
sapeva che la
bestiola non avrebbe compreso, ma non avrebbe saputo che altro fare per
rassicurarlo se non usare quel tono gentile.
–
Non ti farò del male, te lo
prometto. –
Parve
funzionare: il buffo
animaletto non le andò incontro, ma se non altro non
tentò di scappare. Era
calmo, anche se non accennava ad allentare la presa sul bracciale.
Regan cercò
di fare piano: si accostò lentamente, continuando a ripetere
alla creatura che
le sue intenzioni era buone. Non sapeva nemmeno lei perché
lo facesse, ma
funzionava.
Le
ci volle un po’, buio com’era,
per capire come allentare la tagliola. Trovò la leva dopo un
paio di tentativi
alla cieca che le costarono qualche taglio, ma alla fine la molla
scattò.
–
Piano, ora. Sei ferito – disse
all’animale, prendendolo tra le proprie mani. Era soffice e
leggero e tremava
come una foglia. Sotto alle mani di Regan pulsava nitida la sua
sofferenza,
mista però a una fiducia che la fece piacere riconoscere.
Gli sfiorò la ferita
con cautela: non era profonda, ma rischiava di infettarsi se non fosse
stata
debitamente disinfettata. Avrebbe voluto poter essere in grado di
guarirlo, ma
era un potere da angelo, quello, e lei di certo non lo possedeva.
Proprio
mentre lo pensava, però, nel punto in cui le sue dita
toccavano la carne viva
il sangue iniziò a riassorbirsi.
Regan
ritrasse la mano, il cuore
che saltava stupefatto un battito. Quello che stava succedendo non era
normale.
Abbassò
lo sguardo sul muso della
bestiola: la stava guardando con gli occhioni spalancati da
un’espressione che,
per quanto assurdo potesse sembrare, si sarebbe potuta dire
supplichevole.
Benché
non sapesse esattamente
cosa fare, Regan provò di nuovo ad appoggiare le dita sullo
squarcio nella
folta pelliccia. Non accadde nulla.
Forse,
si disse, si era
immaginata tutto.
Io non posso guarirti...
Fu
come era accaduto con il
candeliere a casa di Lucius: bastò il semplice pensiero,
quasi ignaro e privo
di reale volontà. Una scintilla di energia si accese e senza
che lei se ne
rendesse conto la ferita di rimarginò in un alone di
sollievo. Regan non
riusciva a capacitarsene: era impossibile che lei avesse fatto quello
che aveva
appena fatto.
Un
rumore improvviso le fece
sollevare di scatto la testa. Non vide che un’ombra muoversi
tra altre ombre.
– Regan!
–
L’esserino,
spaventato dal
richiamo imperioso di Lucius, scalpitò furiosamente,
sgusciandole via dalle
mani. Non riuscì nemmeno a vederlo, tanto fu lesto nel
dileguarsi. Nello stesso
istante, un uccello volò via dal tetto della taverna,
facendo cadere un cumulo
di neve.
–
Sei impazzita? Mi sembrava di
averti ripetuto più di una volta di restare con me!
–
La
prese per un braccio e la
sollevò come se fosse stata una piuma, trascinandola fuori dal vicolo alla luce
bianca delle vie
principali.
–
Cos’hai fatto alle mani? –
–
C’era un animale incastrato in
una tagliola… l’ho liberato. –
–
L’hai… – Lucius la guardò
incredulo. – D’accordo, lascia che ti spieghi una
cosa, e voglio che tu mi stia
bene a sentire – la afferrò per le spalle,
piegandosi appena sulle ginocchia
per poterla vedere meglio negli occhi. – Io ho rischiato la
pelle per sottrarti
alle grinfie di un losco figuro che non aveva certo intenzione di darti
un
buffetto su una guancia, e il suddetto losco figuro è
attualmente ancora chissà
dove a piede libero, e adesso tu, se permetti, dovresti avere la
cortesia di
ricambiare il mio gesto sforzandoti di non andarti a cercare i guai
dietro ogni
angolo. Pensi di poterlo fare? –
–
Ma io… –
–
Pensi di poterlo fare? – ripeté
Lucius, marcando di più le parole.
Regan,
che non aveva avuto alcuna
intenzione andarsi a cercare guai, non poté far altro che
assentire.
–
Bene. Andiamo, adesso. Si è
fatto tardi, Eleonora si starà chiedendo dove siamo finiti.
–
Se
all’andata la strada le era
sembrata così breve, al ritorno divenne interminabile. Freya
galoppò senza
sosta tra la neve che scendeva fitta e silenziosa, nuvole di vapore che
si
sollevavano dalle sue narici. Stretta a Lucius, gli occhi chiusi, Regan
respirava
nel vento ghiacciato un profumo che per lei un po’
già sapeva di casa.
–
Dov’è Lucius? – chiese due
giorni dopo, a colazione.
Le
aveva lasciato nient’altro che
un biglietto sul tavolo della cucina con due righe buttate
giù di fretta in cui
le diceva di andare da Eleonora, che le avrebbe spiegato lei, e le
raccomandava
di non uscire dalla recinzione delle case.
–
È andato a Cittanuova. Il
Coordinatore di Astereis l’ha convocato all’alba
per un consulto urgente. –
–
Pensi che si tratterrà a
lungo? –
–
Dipende dal motivo del
consulto. A volte va e torna in giornata, altre sta via dei giorni.
–
Calien
era già sveglio e arzillo:
sedeva a gambe incrociate sul tappeto accanto al focolare, la zazzera
bionda
irrorata dai bagliori del fuoco, e giocava con le fiamme, stando
semplicemente
a guardarle, e sembrava che esse gli obbedissero come se fossero sue
schiave,
completamente succubi della sua volontà, allungandosi,
attorcigliandosi,
avvolgendosi tra loro in spirali e volute straordinarie. Sembrava
così
semplice, a vedersi.
Eleonora
canticchiava allegra,
rassettando la cucina illuminata da un terso sole invernale. Non
sembrava
preoccupata. Era la decima mattutina passata, ma Regan fece sparire
senza
troppi problemi tutto ciò che le fu proposto, poi Eleonora
sparecchiò e mise
tutto nel lavello.
–
Mi dispiace, ma temo che oggi
ti toccherà annoiarti –
Regan
le diede una mano a ripiegare
la tovaglia.
–
Stavo pensando di uscire a fare
due passi – buttò lì, pur sapendo che
Lucius glielo aveva espressamente
vietato.
–
Tu non vai da nessuna parte, da
sola. Se vuoi puoi uscire in giardino a fare a palle di neve con
Calien. –
–
Che differenza fa? – si lamentò
Regan, che fin dal primo momento che era scesa dalla carrozza di Prince
Edelberg aveva desiderato addentrarsi nel bosco.
–
Il perimetro del giardino segna
il confine dei sigilli che proteggono questo posto. –
Regan
si diede della sciocca per
non esserci arrivata da sola. Aveva davvero creduto che Lucius la
lasciasse
sola senza alcun tipo di protezione?
–
È per te e Calien che ha fatto
tutto questo? –
Eleonora
si apprestò a lavare le
stoviglie. Si raccolse i capelli con un nastro e raccolse
dell’acqua in una
bacinella.
–
I sigilli c’erano già, quando
siamo arrivati noi. Quello che ha fatto per noi è un
Segreto. –
–
In che senso “un segreto”? –
–
Non conosco i dettagli di
questo tipo di sigillo – ammise Eleonora. – So
quello che ha provato a
spiegarmi Lucius. –
Le
raccontò quel che sapeva.
Regan
apprese così che i Segreti
erano una magia molto complessa che in pochi erano in grado di
compiere. Si
trattava di rinchiudere determinate informazioni in piccole sfere di
cristallo,
cosicché rimanessero inapprendibili da individui
indesiderati. Solo il custode
del Segreto poteva trasmetterlo e decidere se chi ne era a conoscenza
lo
trasmettesse a sua volta. Se Lucius aveva davvero creato un Segreto per
tenere
nascosti Eleonora e Calien, forse era davvero il personaggio importante
che
diceva di essere. Una parte di lei si sentì lusingata,
poiché lui le aveva
permesso di apprendere quel Segreto, e questo significava che aveva
fiducia in
lei, che non la credeva un’impostora.
–
Mi dispiace, piccola, ma finché
lui non c’è, sei confinata qua dentro assieme a
noi. –
Un
pensiero sfiorò all’improvviso
la mente di Regan.
–
Se tu e Calien siete protetti
da un Segreto… significa che non ve potete andare da questa
casa? –
Eleonora,
che le dava le spalle,
smise per un momento di strofinare sui piatti.
–
Lucius ci porta in tanti posti –
rispose la voce trasognata di Calien, ancora intento a fissare il
fuoco. – Ma
sono lontani da qui. La gente non ci deve riconoscere. La mamma deve
sempre
nascondersi, se no la guardano male. –
L’espressione
di affetto mista a
malinconia di Eleonora faceva stringere il cuore.
–
Sono deplorevolmente umana, non
c’è verso di nasconderlo –
commentò spensierata. – Mi si riconosce a colpo
d’occhio. Per fortuna nei posti affollati riesco a
confondermi bene, nessuno si
accorge della vibrazione diversa della mia anima. Ci piacciono i
mercati e le
feste dei villaggi, vero tesoro? –
Calien
si voltò con un gran
sorriso.
–
E le fiere per la vendemmia e
delle nuove stagioni! –
–
Va matto per gli spettacoli
degli ammaestratori di falchi. –
–
E per le mele candite! –
Regan
passò il resto della giornata
a fantasticare sui racconti che Eleonora e Calien le avevano
snocciolato su
tutti i viaggi che avevano fatto con Lucius. Avevano visitato ben poco
Norden,
per evitare di incontrare conoscenti scomodi, ma le altre sei Terre
avevano
lasciato molti ricordi positivi in loro, e adesso Regan si sentiva
bruciare dal
desiderio di poter percorrere le imponenti mura di Fortre, divise in
due
anelli, uno che cingeva la capitale lungo i confini e l’altro
che separava la
Città di Sopra, abitata dalle poche famiglie nobili, dalla
Città di Sotto, la
zona del popolo e della vita cittadina; voleva andare a Vihrea a vedere
i
leggendari giardini pensili e le vaste coltivazioni floreali che
occupavano
metà dei campi delle campagne, e camminare sulle strade di
vetro di Shjarna, e
guardare le rovine custodite al di sotto di esse; e poi
c’erano i fuochi
d’artificio che si tenevano ad Hazar, nella Terra di Asante,
per il Solstizio d’Estate,
e un milione di altre cose che la avevano ingolosita solo a sentirle
nominare,
anche non volendo contare l’entusiasmo che era trapelato da
ciascuno di quegli
aneddoti.
Passò
le due notti successive in
una stanzetta a casa di Eleonora, che si era categoricamente rifiutata
di
lasciarla dormire da sola nella casa vuota di Lucius. Nelle lunghe ore
davanti
al camino, prima di andare a letto, Eleonora le aveva raccontato
qualcosa in
più su di sé e la vita nel suo mondo, e Regan
comprese in fretta che a volte
avere dei genitori che ti trattavano come un oggetto era ben peggio che
non
averne affatto.
Lucius
rientrò nella tarda sera
del terzo giorno, imbrattato di neve, con il viso solcato da ombre di
stanchezza e l’aria di chi ne aveva viste delle belle.
–
Cos’è successo? – gli chiese
Regan, ansiosa, nel vederlo apparire sulla soglia in quello stato.
–
Non ora, cerbiattina – mormorò
lui stancamente, e chiese a Eleonora per poteva preparargli un bagno
caldo.
Regan notò che aveva una busta in mano, con un marchio di
ceralacca scarlatta
spezzato a metà.
–
Rimandiamo a domani tutte le
spiegazioni. Ora voglio solo acqua calda e il mio letto. –
Piantò
in mano a Regan la busta e
arrancò al piano di sopra, sfilandosi il pastrano
gocciolante. Si reggeva il
fianco sinistro con la mano, come se gli dolesse.
Lei
osservò meglio il sigillo e
scoprì di conoscerlo. Era più stilizzato del
ricamo sullo stendardo che aveva
visto non molto giorni prima, ma ugualmente riconoscibile: lo stemma
degli
Edelberg. Se Lucius l’aveva data a lei, si disse, era
perché voleva che la
leggesse.
Curiosa,
sollevò il lembo di
carta che chiudeva la busta e ne estrasse un cartoncino color crema
scritto da
un’elegante calligrafia inclinata. Quando lesse, per poco il
foglio non le
cadde di mano.
“Lord e Lady Edelberg hanno il piacere di
invitare a cena il Signor
Lucius Henker e la sua gentile ospite, Miss Regan, per una cena
informale la
sera del sette di dicembre.”
Il
giorno dopo erano seduti sul
grosso tronco muschioso di un abete abbattuto, nei pressi di un
ruscello
ghiacciato nella foresta. Nonostante la temperatura rigida e i densi
sbuffi di
vapore in cui si addensava ogni respiro, era piacevole stare
lì.
–
Ho sbrigato una faccenda veloce
a Cittanuova, poi sono stato convocato Radislav, il Coordinatore del
Nucleo di
Mauercast. È riuscito a individuare un piccolo manipolo di
scagnozzi di Desmond
scampati al crollo del castello, giorni fa, e ha chiesto il mio aiuto
per
stanarli e catturarli. Erano malconci quanto lo eri tu quando ti ho
trovata, ma
per nostra fortuna non si sono rimessi altrettanto in fretta.
–
Lucius
fissava le proprie mani
con un’espressione vacua, come se i suoi occhi non potessero
vedere.
Regan
deglutì un groppo alla
gola.
–
Siete riusciti a interrogarli?
Avete scoperto qualcosa? –
Le
labbra di lui si contrassero
in una piega amara che già la diceva lunga.
–
Interrogarli è stato facile.
Hanno convocato Shin, per farlo. –
A
Regan balzarono subito in mente
due miti occhi neri e un sorriso placido.
–
Shin? Quell’angelo che… –
–
Sì, lui. Non potevamo rischiare
di fare invadere le loro menti da un demone. Si sarebbero opposti, e
temevamo
che il dolore avrebbe dato loro il colpo di grazia. Non avevano alcuna
intenzione di collaborare e le… i mezzi di persuasione in
uso nel Nucleo di Radislav
sarebbero stati letali, in ogni caso. –
Il
vento cantava in un pianto
straziante tra gli alberi, che si piegavano al suo passaggio con un
fruscio
nostalgico, lacrime gelate che colavano silenti tra il verde argenteo.
Sottili
ciuffi corvini ondeggiavano sul viso pallido di Lucius.
–
Siamo riusciti a estrapolare
qualche informazione, anche se si è rivelata
pressoché inutile –
–
Sapete che cos’è successo
quella sera? – domandò lei, sentendo con orrore la
voce che le fremeva tra le
labbra.
Aveva
paura. Paura che avessero
scoperto qualcosa che avrebbe cambiato la sua posizione. Ma Lucius
aveva
un’aria tranquilla, quasi abbacchiata.
–
I prigionieri erano cinque, e
tutti e cinque hanno dato all’incirca la medesima versione:
sembrava tutto
tranquillo, poi è scoppiato il finimondo. Desmond si era
già ritirato nell’ala
nord del castello, dove si trovano le sue stanze. Non sappiamo se con
lui ci
fosse qualcuno; è un’ala ad accesso strettamente
limitato, secondo loro, e in
pochi hanno il privilegio di potervi entrare. Tra la Nuova e la prima
del
mattino, la terra ha cominciato a tremare, sempre più forte.
Non hanno nemmeno
avuto il tempo di cedere al panico. C’è stato un
lampo di luce che ha
inghiottito ogni cosa, e un istante dopo tutto è precipitato
– Si abbandonò a
un sospiro esausto e frustrato. – Non ricordano altro.
–
Si
voltò verso Regan, e la
piccola zanna che gli pendeva dall’orecchio
oscillò lentamente.
–
Abbiamo provato a chiedere loro
di una ragazza dai capelli rossi come il sangue –
Lei
trattenne involontariamente
il respiro.
–
Nessuno sapeva niente –
proseguì lui. – Non ti hanno mai vista o sentita
nominare, né tra i loro né tra
i prigionieri. È come se tu fossi spuntata dal nulla.
–
Regan
teneva lo sguardo
inchiodato a terra, sulla punta umida degli stivali che indossava, non
sapendo
se rallegrarsi o rattristarsi. Non era una criminale, dunque, ma
nemmeno una
vittima. Restava ancora aperto l’interrogativo principale,
ossia: che cosa ci
faceva, lei, là?
–
Sono stati portati tutti a Helgrad,
ora – le disse Lucius, come se ciò chiudesse la
questione. – Resteranno
rinchiusi nella prigione di Vankar fino al processo. –
Vankar.
Regan associò subito quel
nome a delle storie il cui eco stava riaffiorando nebuloso nella sua
memoria:
il carcere più antico delle Sette Terre, arroccato sul
ciglio della rupe più
alta di Mauercast, appena oltre i confini della seconda
città della Terra, sorvegliato
da due draghi millenari a cui, si vociferava, venivano dati in pasto i
detenuti
divenuti scomodi, o quelli considerati indegni di un regolare processo,
come i
Segnati e i Ladri di Anime.
–
Ora, veniamo alle cose serie –
Lucius si disfò della patina seria che aveva finora portato
e ornò ad essere il
solito scanzonato. – Pare che qualcuno si sia fatto degli
amichetti… –
Regan
inarcò un sopracciglio
nella sua direzione.
–
Sbaglio o avevi detto che gli
Edelberg sono tra i pochi a sapere veramente chi sono? Vorranno di
sicuro
vedere da vicino la bizzarra straniera –
–
Sono pronto a scommettere, in
effetti, che Lord Edelberg nutra una qual certa curiosità
intellettuale verso
di te. È stato una grande guida per molti giovani neomembri
della Lega, un
tempo. Ma ho anche la vaga impressione che tu stessi piuttosto
simpatica ai
ragazzi. –
–
Ma se ho a stento aperto bocca,
alla taverna! –
Lucius
volse pazientemente lo
sguardo al cielo, una sterminata distesa di blu graffiata dal sole,
ormai quasi
allo zenit.
–
Non dire sciocchezze,
cerbiattina. Sai bene a quale tipo di simpatia
alludevo. –
Regan
dissimulò un sorrisetto
compiaciuto. Lo sguardo le cadde sul gomito di Lucius, stretto al suo
fianco in
una posa innaturale.
–
Ti hanno ferito, vero? –
Le
fece quasi male a chiederlo.
Si era affezionata a lui, le spiaceva vederlo così.
–
Sono già stato rammendato a
dovere – ironizzò Lucius. Una risatina incurante
gli scosse le spalle prima di
smorzarsi in una silenziosa smorfia sofferente.
–
Ti fa così male? –
Lui
sollevò stoicamente un angolo
della bocca.
–
Ho imparato a sopportare dolori
peggiori. –
Benché
qualcosa nelle vibrazioni
della sua voce aveva suggerito che alludesse ad altro, a qualcosa che
le parole
non avrebbero potuto raccontare, i disegni tracciati dalle cicatrici
che gli
segnavano il corpo erano rimaste ben impresse dentro di lei, tracce
indelebili
di violenze che lei poteva soltanto immaginare.
–
Non chiedermelo adesso – esordì
lui, una mano sollevata, bruciandole sul tempo la domanda che aveva
appena
iniziato ad affiorarle sulle labbra. – È una
storia troppo lunga e ora non
abbiamo tempo. C’è un posto in cui ti devo
portare. –
Regan,
che uscendo di casa si era
persa quel particolare, sgranò gli occhi stupita.
–
Dove? – balbettò, colta
dall’ansia. L’ultima cosa che le serviva era un
altro incontro traumatico con
qualche personaggio della risma di Castalia Reis.
–
Nella Terra di Sonnerg – Lucius
si alzò in piedi e la esortò a fare lo stesso. Un
lupo ululava in lontananza;
qualche grosso volatile si librò via da un ramo poco
distante, disturbato da
quel richiamo. – Nel Bosco di Aurin c’è
qualcuno che vorrei che tu incontrassi.
–
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A/N:
grazie mille a tesorinangel, darkwish, VesiSchwartz (con
cui vedo che ho molto in comune :) ) e Maharet per le
bellissime recensioni. Adesso inizieremo a entrare nel vivo della
storia, quindi bisogna cominciare a rizzare le orecchie, e vedo che
qualcuno ha già cominciato. ;)
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