Le leggende di Castel Giovo

di MarchesaVanzetta
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Di uomini buoni e fantasmi ***
Capitolo 2: *** Di serpenti e fanciulle ***
Capitolo 3: *** Di come fu costruita la Capella della Santa Croce ***
Capitolo 4: *** Di strade e conti innamorati ***
Capitolo 5: *** Di dame e cavalieri erranti ***
Capitolo 6: *** Di fate e giardini ***



Capitolo 1
*** Di uomini buoni e fantasmi ***


 

Ad Arianna, che quel venerdì mi ha abbracciato e picchiato insieme. Grazie croccantella mia.
 

 



Intorno al 1600 viveva a Castel Giovo il conte Carl Fuchs von Fuchsberg. Egli era amatissimo dal popolo e venerato quasi come un santo poiché era molto buono.
Tutti sapevano che se avessero avuto bisogno di un prestito avrebbero potuto rivolgersi a lui, perché era molto generoso e spesso rinunciava addirittura alla restituzione del prestito se capiva che era impossibile per il suo debitore pagarlo; concedeva anche gli usufrutti sulle proprietà così che i contadini potessero dirsi liberi lavoratori e non schiavi a servizio di qualcuno e spesso non riscuoteva le decime, soprattutto quando il raccolto era andato male, lasciando il poco che c’era ai suoi fedeli lavoratori, a cui pagava addirittura il banchetto nuziale quando si sposavano. Era inoltre molto pio e si recava a tutte le messe, spesso nella chiesa popolare e non nella sua cappella al castello.
Poiché era così generoso non viveva nei grandi agi e fasti a cui erano abituati tutti i nobili del tempo ma anzi, viveva spartanamente e non organizzava quasi mai feste, se non quelle religiose e popolari, a cui si dedicava con fanciullesca gioia, tifando per i giovanotti che scalavano l’albero della cuccagna e magnificando la cucina delle sue contadine che preparavano pasticci e torte.
Sua moglie condivideva il suo amore per il popolo e sopportava pazientemente le stravaganze del marito, nonostante avesse mandato i figli nei monasteri per occuparsi della loro educazione, temendo che le idee del padre li rovinassero in qualche modo. Essi tornavano solo per natale e pasqua e vedevano nel padre un uomo strano e folle da trattare con rispettosa condiscendenza.
Nonostante il suo stile di vita morigerato che gli aveva fatto guadagnare molti rimproveri da parte dei suoi pari e avvertimenti circa la pericolosità di quella condotta visse a lungo. Quando morì al suo funerale parteciparono con molta commozione tutti gli abitanti, ognuno portando alla vedova ciò che potevano, dai fiori, alle uova, alle mucche.
Morto il buon conte, i suoi eredi si dedicarono ai propri piaceri e non al benessere del popolo: organizzavano feste e banchetti lussuosi, le contesse andavano a fare il bagno nel latte in una malga poco distante dal castello e non usavano al popolo tutte quelle gentilezze, quelle premure che il conte Carl usava ma anzi trattavano chi non era di loro pari grado come feccia.
Proprio durante a uno di questi lussuosi banchetti apparve tra gli invitati anche il fantasma del conte. “Miei discendenti, mi avete molto deluso! Io ho speso la mia vita per i più deboli e voi non solo non seguite il mio esempio ma fate l’esatto opposto! Se non tornerete sulla retta via morirete tutti, io vi ho avvertito” tuonò, prima di scomparire tanto velocemente quanto era apparso.
Il banchetto fu interrotto e gli ospiti, spaventati, tornarono alle proprie dimore. Tutti i discendenti del conte si riunirono in una piccola sala per decidere il da farsi. Dopo due ore di discussione decisero di seguire il monito dell’avo e da quel giorno si diedero a una vita morigerata a favore dei poveri, così che anche i discendenti del buon signore di Castel Giovo furono amati e rispettati dal popolo.

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Capitolo 2
*** Di serpenti e fanciulle ***


 
Ad Arianna, che quando mi ha scritto “ti odio” sono andata in panico e ho dovuto leggermi tre volte quel meraviglioso post per rassicurarmi che non dicesse sul serio. Grazie folletta folle.

 

Presso le rovine di Castel Giovo lavorava come bracciante stagionale un uomo di mezz’età. Egli, nonostante fosse ormai vecchio per quel lavoro, si ostinava a offrirsi al proprietario del terreno, perché doveva mantenere la moglie e le tre figlie.
Un giorno, mentre raccoglieva le mele, si tolse la giacca e l’appoggiò su un masso lì vicino.
La sera, tornato a casa, si accorse di aver dimenticato l’indumento e mandò la maggiore delle figlie a prenderla, spiegandole dove fosse.
La figlia si incamminò ma quando giunse nel luogo indicato dal padre vide sulla giacca un enorme serpente rosso che accorgendosi della sua presenza parlò così: “Fanciulla, amami e avrai la giacca”. La ragazza, spaventata, corse a casa.
Non appena ebbe raccontato l’accaduto alla famiglia il padre la sgridò per la sua codardia e mandò l’altra figlia. Anch’essa però tornò spaventata a casa, scusandosi di non essere riuscita a vincere il serpente.
Allora l’uomo mandò la figlia minore. Rosl, questo era il suo nome, si incamminò come le sorelle, e come loro trovò il masso con il serpente acciambellato sulla giacca.
“Fanciulla, amami e avrai la giacca” ripeté l’animale, temendo che anche la terza figlia sarebbe scappata. Ma Rosl, determinata a portare la giacca al padre gli rispose “Dammi la giacca e ti amerò con tutto il cuore” “Prendila a vai a casa. Presto ti raggiungerò” disse il rettile, prima di scivolare via dalla giacca e sparire nel sottobosco.
La ragazza tornò a casa con la giacca e non appena ebbe raccontato della sua avventura tutta la famiglia si mise all’opera per chiudere porte e finestre, temendo l’arrivo del serpente. Assicuratesi che la casa era impenetrabile, andarono a dormire.
All’improvviso si sentì bussare alla porta, due colpi decisi, che fecero tremare la porta e la famiglia. Nessuno osava fiatare.
Allora una voce risuonò da fuori: “Ripeti per sette volte: serpe, cambia la tua pelle!”
Rosl, sapendo che l’ordine era diretto a lei, si fece coraggio e pronunciò sette volte quelle parole.
Un tuono rombò nel cielo, la porta si spalancò ed entrò a cavallo un bellissimo principe. Vedendo la fanciulla, scese da cavallo, si inginocchiò dinnanzi a lei e disse “Vi ringrazio per avermi salvato dall’incantesimo. Se voi e vostro padre permettete, vorrei condurvi al mio castello come mia sposa”
Il padre e la figlia acconsentirono immediatamente, meravigliati e felici di quel repentino rovesciamento della situazione e il cavaliere, fatta salire la giovane sul suo destriero, partì alla volta delle rovine di Castel Giovo. La ragazza era perplessa, ma non osava chiedere spiegazioni.
Non appena furono giunti innanzi alle vecchie pietre, un lampo di luce illuminò il cielo e l’antico castello si presentò ai loro occhi in tutta la sua antica magnificenza. Il giovane fece fare alla sua promessa sposa il giro del giardino tre volte e poi la fece entrare nel castello, mostrandole le varie stanze riportate al passato fasto. La fanciulla era incantata da tutte quelle luci, quei dipinti, quei tessuti colorati e morbidi e si dispiacque quando il principe la condusse verso il basso, nelle segrete e infine in una cella dove, nel semibuio, si potevano intravedere le figure di moltissimi rospi e di un cane dagli occhi di fuoco.
Un rospo, con voce lamentosa, disse: “Il colpo più grosso ti è riuscito, ora libera anche noi, prima che arrivi l’ora degli spiriti e avrai raggiunto il tuo premio”
Rosl voleva liberare i rospi con un bacio ma non riusciva nemmeno a toccarli perché le facevano ribrezzo. Tentò per tre volte e tre volte fallì.
Le campane del paese sotto Castel Giovo, San Leonardo, suonarono la mezzanotte e in quando l’ultimo rintocco si spense nell’aria una folata di vento spense tutte le luci e la fanciulla si addormentò.
Quando al mattino si risvegliò si ritrovò, sola, tra le rovine del Castello, con un rospo morto accanto a lei e seppe che non avrebbe mai più rivisto né il serpente rosso né il bel principe.
 

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Capitolo 3
*** Di come fu costruita la Capella della Santa Croce ***



 A Chiara che quel sabato sera mi ha chiamata tremila volte e io ho visto le chiamate perse solo domenica pomeriggio. Grazie tesoro.

 

Agli inizi del 1500, in una remota valle del Tirolo denominata Passeirtal, in un castello a metà valle chiamato Castel Giovo, viveva Hildebrand Fuchs von Fuchberg di Jaufenburg, un nobile giovane dall’animo avventuroso e aperto.
Mentre suo padre Christopher regnava giustamente, compì un pellegrinaggio in Terra Santa. Lì la sua fede si rafforzò, conobbe i Saraceni e si interessò della loro cultura e trascorse tranquillamente alcuni anni.
Un messaggio però arrivò improvvisamente a Gerusalemme, nella sua casa, interrompendo così la sua vita serena: il padre era gravemente malato e tutta la corte chiedeva di lui, il primogenito dell’importante dinastia, per prendere il posto del re morente.
Triste nel cuore abbandonò la calda terra di Palestina per tornare a casa, tra le sue valli verdi e piovose, a prendere il posto del padre.
Mentre era sulla nave che lo avrebbe riportato nella penisola italica, una violenta tempesta squassò il mare: il cielo nero era illuminato da lampi abbaglianti, i tuoni rombavano vicini, il vento mugghiava a presagio di morte, le onde investivano la nave trascinando con loro gomene, barili, vele. Hildebrand, preso dal timore della morte, si rivolse a Dio perché lo salvasse, facendo voto di erigere una cappella là dove il suo cavallo gli avrebbe dato un segno.
La nave naufragò ma miracolosamente il giovane, trasportato dalle correnti marine, si ritrovò ben presto su una spiaggia deserta, bagnato fradicio, intirizzito, ricoperto di salsedine e alghe ma salvo.
Per prima cosa ringraziò Dio per averlo salvato e poi si guardò intorno, cercando di capire dove si trovasse. La spiaggia non dava indizi ma una zaffata di vento dall’odore lacustre fece capire a Hildebrand di essere in prossimità della foce di un fiume. Sperando di trovarsi presso la foce del Po si incamminò verso est, avendo scorto in quella direzione un filo di fumo che si stagliava nero nel cielo azzurro.
Dopo quasi un’ora di cammino incontrò un vecchio, a cui chiese informazioni circa il luogo dove si trovava e in quanto avrebbe potuto raggiungere il Tirolo. L’uomo gli rispose che si trovavano presso le foci del Po, e che da lì al Tirolo sarebbero bastati quattro giorni a cavallo a passo serrato. Il giovane lo ringraziò calorosamente e gli donò una delle gemme che adornavano il suo abito, poiché tutti i suoi altri beni erano andati perduti nel naufragio. Il vecchio, per ringraziarlo di tanta gentilezza, lo accompagnò al villaggio più vicino, dove prese un cavallo e partì al galoppo verso Castel Giovo.
Dopo quattro giorni di viaggio, durante i quali uomo e cavallo spesero tutte le loro energie, Hildebrand giunse alla terra natia.
Con un ultimo sforzo il cavallo si inerpicò sulla strada che portava al castello ma, proprio a pochi metri dall’imponente edificio, il cavallo si schiantò morto al suolo. Hildebrand, dovendo giungere in fretta al castello, affidò a un villico che stava raccogliendo il fieno lì vicino il compito di non spostare il cavallo da lì ma anzi di guardare che nessuno lo facesse e si avviò di corsa al portone. Gli aprì un servo che, riconosciutolo, gli fece strada fino alla stanza del padre, davanti alla quale si fece rispettosamente da parte.
Il giovane entrò, trovando accanto al letto i tre fratelli e la sorella, che gli fecero posto al capezzale del padre. Il vecchio regnante, non appena vide il figlio maggiore inginocchiarsi sul duro pavimento, mormorò alcune parole, che ai figli sembrò “Finalmente sei qui” e spirò.
Il giorno dopo il funerale del padre ci fu la cerimonia di incoronazione e come primo editto il nuovo re ordinò la costruzione di una cappella nel punto in cui il suo cavallo era crollato.
Così, Hildebrand regnò saggiamente per molti anni, andando a pregare ogni mattina nella cappella della Santa Croce.
 

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Capitolo 4
*** Di strade e conti innamorati ***


 
A Giulia, che con il suo solito buonumore ha spazzato via la mia tristezza e si è dimostrata spregiudicata a un certo gioco della verità. Grazie mio raggio di sole.

 

Uno dei conti di Fuchs, affacciandosi al mattino appena sveglio alla finestra che dava sulla strada, vedeva ogni giorno una giovane donna che portava un cesto.
Man mano che il tempo passava il conte iniziò a conoscere ogni cosa di lei, da come alle curve si guardava un attimo indietro a come passava il cesto da un braccio all’altro a come sbuffando un poco si scostava una ciocca di capelli neri dal viso.
Infine, se ne innamorò.
Trascorreva tutto il giorno pensando alla donna e a cosa aveva fatto quel mattino e la sera abbandonava spesso i banchetti per andare ad aspettare che si facesse giorno per scorgere la figura di lei giungere dalla strada.
Un giorno si fece coraggio e si risolse a rivolgerle la parola. Così si alzò prima del solito, si vestì, si profumò e scese al cancello davanti al quale passava l’amata.
Quando ella giunse, con aria casuale il conte chiese: “Dove andate così di buon mattino?”
E la donna rispose “Vado a Vipiteno a vendere ciò che tesso e cucio”
“E la strada è buona?” chiese il conte, felice che la donna non l’avesse liquidato velocemente.
“Affatto” rispose la donna “è ripida, scoscesa e poco praticabile. Ogni giorno temo di finire in un burrone o di essere sotterrata da una valanga. Ora scusatemi ma devo andare. Buona giornata” e si allontanò sulla strada del passo.
Il conte, preso dall’entusiasmo di poter far qualcosa per la donna che amava, ordinò che si facesse una strada lastricata che portasse al Passo Giovo e da lì a Vipiteno.
Il tutto costò molto e rese ancora più inagibile, durante i lavori, la strada, ma non appena fu finita il conte aspettò al cancello la donna e le disse “Ho una sorpresa per voi. Aspettatemi un attimo qui” e andò a prendere la carrozza. Uscì dal cancello e fece montare a bordo la donna, che stupita si preoccupò più di sistemare alla meglio il suo cesto che non del fatto di essere a bordo della carrozza del conte che la stava guardando incuriosito e innamorato.
La carrozza li condusse fino a Vipiteno senza neanche un sobbalzo e durante il viaggio si conobbero meglio.
Appena arrivarono in città il conte fece scendere la donna, che lo ringraziò per il passaggio.
Da quel giorno il conte accompagnò tutte le mattine la donna a Vipiteno e dopo tre mesi le chiese di sposarlo. Ella accettò e visse a lungo a fianco del conte, che l’amò e la venerò fino alla fine dei suoi giorni.

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Capitolo 5
*** Di dame e cavalieri erranti ***


 
A Laura, che si è dimostrata dolcissima e io non sapevo più cosa dire di fronte a tanto affetto. Grazie mia principessa.

 

Una giovane donna dai ricci capelli biondi lunghi fino alle caviglie e dalla veste candida si affacciava, ogni ottobre, all’unica finestra delle rovine del Castel Giovo, guardando sconsolata ora il paese lì sotto ora il torrente che impetuoso adornava come un nastro tutto il promontorio su cui sorgeva un tempo il maniero.
Ella era il fantasma di Margaret, duchessa del Castel Giovo, e ogni ottobre si destava dal suo sonno eterno per andare ad aspettare il ritorno dell’uomo che amava.
Infatti, quand’era ancora in vita e nel fiore degli anni, quando le gote le si coloravano di un ingenuo rossore che la facevano assomigliare a una rosa, gli occhi azzurri guizzavano allegri all’inseguimento di una rondine o di una colorate farfalla e il corpo danzava leggiadramente benché avvolto da strati di pesanti stoffe pregiate, ella trascorreva tranquillamente la sua vita, tra poesie e musiche, banchetti e balli.
Era ormai giunta alla soglia dei vent’anni quando un cavaliere errante venne accolto da suo padre a castello. Il forestiero venne fatto lavare e poi invitato a banchetto. Dopo qualche minuto durante il quale si era presentato al padrone di casa e aveva iniziato a narrare delle sue avventure in Terra Santa, entrò nella sala anche Margaret, coperta da un sottile velo celeste in tinta con l’abito azzurro fumo.
Il cavaliere ne restò estasiato e arricchì le sue gesta di particolari apposta per impressionare la fanciulla; e riuscì nel suo intento.
Margaret era molto turbata dall’uomo: mai nessuno le aveva fatto battere il cuore e desiderare di rivederlo anche solo un altro istante.
Lo straniero soggiornò al castello per trenta giorni, durante i quali entrambi si cercavano assiduamente, fingendo poi di incontrarsi per caso. Il ventinovesimo giorno, presso il roseto il cavaliere si accostò alla panchina sulla quale Margaret era intenta a ricamare.
“Mia signora, voglio informarvi che domani partirò. Tornerò tra poco, almeno per una visita: ad ottobre, quando gli alberi colorano le loro foglie con vampate di rosso e arancione e gli animali si rifugiano nel nero ventre della terra per scampare al gelo dell’inverno, sarò nuovamente qui” disse il cavaliere.
“Ottobre?! Mio cavaliere, è così lontano quel mese: siamo appena a marzo! Ditemi, come sopravvivrò senza di voi? Chi acquieterà con la sua figura i palpiti del mio cuore? Ebbene, ve lo confesso: il mio cuore arde per voi e intuisco che anche voi provate per me lo stesso dolce tormento. E dunque, che cosa si frappone alla nostra unione? Cosa ci impedisce di essere felici?” chiese la ragazza, disperata e con gli occhi lucidi.
“Proprio per non perdervi per sempre devo separarmi da voi. Devo sbrigare alcune faccende a Milano e allora, solo allora, sarò in grado di chiedere la vostra mano. Aspettami dunque per questo lungo lasso di tempo che pare a me come a voi infinito e abbiate fede. Tornerò a cogliere la rosa più bella del Tirolo, non dubitate. E ora, addio. Vi prego di non partecipare al commiato domattina, mi sarebbe troppo penoso. Pensatemi!” esclamò il cavaliere e con queste parole si congedò, lasciando Margaret sulla panchina intenta a piangere lacrime di dolore e felicità.
Il mattino seguente la duchessa seguì la partenza dell’amato da una bifora nascosta e pianse altre lacrime.
Trascorsero i mesi: la primavera arrivò con i suoi uccellini cinguettanti e i fiori profumati, l’estate riempì di luce la valle e profumò di fieno l’aria e infine giunse ottobre.
Per trentun giorni Margaret attese l’arrivo del suo cavaliere e attese fino a marzo, piangendo di dolore e sobbalzando per ogni cavallo che giungeva dalla strada che collegava il paese al castello.
Pian piano la ragazza si spense, perse ogni interesse, la vita la lasciava indifferente e un giorno di giugno spirò senza aver mai saputo che l’amato era perito con il suo nome sulle labbra proprio in quel giorno di un anno prima sotto i coltelli di alcuni briganti che lo avevano sorpreso in un bosco da solo.
Così la fanciulla torna all’antico castello ogni ottobre per contemplare ora la strada in attesa dell’arrivo del cavaliere che le aveva rubato il cuore ora il torrente pensando ogni anno a buttarsici in cerca di una fine più drammatica della cui notizia avrebbe raggiunto in ogni dove l’amato.

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Capitolo 6
*** Di fate e giardini ***


 A Mariachiara, che quando l’ho chiamata per comunicare la nefasta notizia mi ha lasciata con un “non ti buttare giù” con la voce rotta. Grazie mio genio.

 
Selene era una bellissima fata che abitava ai piedi del monte Giovo. Ella, con i suoi capelli che sembravano intessuti di rugiada, gli occhi verdi come una tenera gemma e il corpo latteo e snello aveva fatto innamorare di sé molti giovani, ricchi e poveri, di regni vicini e lontani, che venivano a centinaia ogni giorno per ammirarla e chiedere la sua mano. La fata però disprezzava gli uomini, poiché li riteneva volgari e sciocchi e gettava loro in faccia le erbacce del suo giardino. Il parco della sua dimora ospitava infatti una grandissima varietà di piante e fiori, provenienti da ogni luogo della terra. Selene curava personalmente il giardino e quando le ragazze del paese arrivavano per portarle il latte per i suoi bagni le faceva vagare a loro piacimento nelle serre, dove potevano cogliere ogni fiore desiderassero.
La bellissima fata visse in questo stato di lusso a lungo e con lei anche la valle viveva un momento di benessere. Ma un anno sopraggiunse una carestia durissima, che colpì anche la valle, riducendola quasi alla miseria; la situazione si aggravò poi con l’arrivo della peste, che mieté centinaia di vite.
Anche al castello della fata si risentiva di questi accadimenti: ella infatti ormai pagava a caro prezzo il latte con cui si faceva il bagno ogni sera, quando prima le veniva regalato e i pretendenti si facevano via via più radi fino a quasi scomparire del tutto e, con essi, i gioielli e i meravigliosi abiti che portavano con loro in dono.
La fata però non si curò dei pretendenti e iniziò a pagare il latte, senza preoccuparsi troppo della misera condizioni dei suoi valligiani.
Una sera però, mentre si faceva il bagno nella tinozza, un raggio si sole, colpito il latte, si rifletté negli occhi di Selene, accecandola. Ella, quando cercò aiuto preso gli abitanti del paese ne venne scacciata in malo modo, perché con la sua altezzosità e presunzione aveva iniziato a farsi odiare da tutti i poveri contadini che morivano di fame mentre lei sguazzava in litri e litri di latte ogni sera.
Così, umiliata e ferita, se ne andò dalla valle come una mendicante e di lei non si seppe più niente.
Quando giunse in tutta la valle la notizia che la fata era scomparsa dalla circolazione, molti pensarono di andare alla reggia della fata, per rubare ciò che di prezioso potesse esserci o anche solo della frutta dal giardino. Si misero tutti d’accordo per andare in un giorno solo, per non intralciarsi gli uni con gli altri, e alla data prestabilita partirono.
Che sorpresa quando trovarono, al posto dell’imponete palazzo e del lussureggiante giardino, solo un terreno incolto pieno di sterpaglie! Vedendo passare di lì una vecchia il capo dei saccheggiatori le chiese cosa fosse successo alla dimora della fata ed essa le rispose, con le lacrime agli occhi per la bellezza perduta, che il Walten, dopo un violentissimo temporale, era straripato e impetuoso aveva raso al suolo la casa e distrutto il giardino.
Allora gli abitanti tornarono nelle loro case, capendo che tutte quelle disgrazie capitate alla fata Selene erano state causate dalla sua cattiveria e ne raccontarono la storia ai figli e ai figli dei figli e ai figli dei figli dei figli per insegnar loro ad essere sempre umili e generosi.

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