The last Digital star (/viewuser.php?uid=93565) Lista capitoli: Capitolo 1: *** Cap.00_Looking back *** Capitolo 2: *** Cap.01_Finestra sulla vita di sempre *** Capitolo 3: *** Cap.02_Squarcio nel cielo *** Capitolo 4: *** Cap.03_Blocco di luce *** Capitolo 5: *** Cap.04_Tra i neri bastioni *** Capitolo 6: *** Cap.05_La padrona del Digimon di fuoco *** Capitolo 7: *** Cap.06_Di fuoco e vendetta *** Capitolo 8: *** Cap.07_Yin e Yang *** Capitolo 9: *** Cap.08_Castello di vetro *** Capitolo 10: *** Cap.09_Follia *** Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
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Capitolo 7
*** Cap.06_Di fuoco e vendetta ***
Cap.06_Di fuoco e vendetta
Elecmon tremava, in ginocchio sul freddo pavimento di lastroni di pietra. Tremava, come fosse in mezzo alla neve. Davanti a lui, sopra di lui, troneggiava un'ombra scura. << Cosa vuoi? >> il sibilo echeggiò tra le spesse pareti e il Digimon a terra raccolse tutto il coraggio che aveva per parlare. << I... i bambini, le... Digiuova, io... ho fatto ciò che vi avevo detto, ho mantenuto... la promessa. Vi ho consegnato- >> L'essere grigio urlò. La cenere nera avvolse Elecmon e lo sbatté forte alla parete, su comando della sua padrona, folle di rabbia. Perché Hikari Yagami era scappata, erano riusciti a farla fuggire, e poco importava che quel Digimon avesse collaborato al rapimento. Era lì, davanti a lei, e non avrebbe dovuto esserci. Pattogmon, furiosa, lo colpì ancora . E ancora. E ancora. Nella preziosa Città della Rinascita, spinta dal vento, arrivò la polvere e in mezzo ai morbidi cuscini a cubi un nuovo Digiuovo si formò.
<< Fammi capire bene. C'era una ragazza umana nel castello che avete assaltato? >>
<< Sì, c'era una ragazzina, Wallace, e non abbiamo assaltato il castello, quante volte te lo devo ripetere? >>
<< Dettagli. Ti pare importante pensare a sottigliezze del genere quando c'è una questione così importante aperta? >> ribatté quasi infastidito il ragazzo dall'altra parte del filo.
Daisuke mise giù la cornetta mezzo secondo, inspirando a fondo. In biondo Digiprescelto americano riusciva a fargli saltare i nervi con una facilità impressionante. << Lasciamo perdere. Cos'altro vuoi sapere? >> << Chi è, ovviamente. >>
<< E secondo te se lo sapessi non te l'avrei detto? Piuttosto, perché non mi hai chiesto come sta Hikari? >>
<< Se non fosse stata in perfetta salute, tu non saresti mai stato a parlare con me. >>
Colpito e affondato.
<< E dopo che è successo? >> chiese untuoso l'americano, senza neanche cercare di trattenere la soddisfazione per la sua frecciatina giunta a segno.
Il respiro di Daisuke accelerò impercettibilmente e il ragazzino tormentò un foglietto pieno di scarabocchi con la mano libera. << Siamo volati via con Garudamon, abbiamo seminato chi ci seguiva e siamo infilati dritti dritti nel tunnel fino a casa. >> grugnì.
<< Non mi interessano gli inseguimenti. Voglio sapere come siete riusciti a tirare fuori Hikari di lì. Eri rimasto alla sfera d'acqua nera. >> Il silenzo tombale che seguì fece intuire a Wallace di aver toccato un tasto scoperto. Sogghignò, pur essendo dall'altra parte del mondo. << Centra per caso Takeru o un qualsiasi esemplare di sesso maschile? >> insinuò.
Tu-tu-tu-tu-tu.
<< Bingo, Terriermon. >>
<< Etciù! >> << Non starnutire mentre stai cucinando, Takeru! >> Il più piccolo dei due fratelli emise un lamento a bassa voce prima di ricominciare a mescolare il contenuto della padella. Perché quando andava a trovare l'altra metà della sua famiglia suo padre faceva sempre tardi al lavoro? Perché gli toccava sempre cucinare? << Hai il raffreddore già a Settembre? >> indagò Yamato dalla sua posizione scomposta sul divano. << Non fino ad ora.>> << Forse ti sta pensando qualcuno. >> suggerì candidamente il maggiore. << E chi? Sentiamo. >> Immediatamente dopo, Takeru ebbe voglia di tagliarsi la lingua. Aveva dato a Yamato una perfetta possibilità di prendersi gioco di lui. E infatti l'altro sogghignò, prima di rispondere e il piede del ragazzo più grande dondolò malizioso da oltre la spalliera del divano. << Vediamo un po'... Hikari? >> Le guance di Takeru assunsero una delicata tonalità bordeaux e ringraziò di avere tutto il diritto di non girarsi. Quello che non sapeva, né immaginava, era che anche le orecchie gli erano arrossite, che suo fratello le aveva viste e che proprio per questo si stava silenziosamente contorcendo dalle risate sul divano. << Sai fare di meglio. >> asserì il minore, fiero di essere riuscito a dare alla voce un tono neutro. << Hai ragione. >> concordò Yamato tentando di darsi un contegno. << Potrebbe essere stata Miyako, così contenta di aver dato l'idea giusta. Oppure Taichi, che credo si sentirà debitore nei tuoi confronti da qui all'eternità. No, aspetta... è Daisuke. Guardati le spalle, la prossima volta che esci di casa. >> << Yama-nii. >> << Sì? >> << Piantala. E apparecchia, che tra poco è pronto. >> Rise, Yamato, scompigliando i capelli biondi di quel fratello così simile a lui e sempre più imbarazzato.
Negli ultimi tempi Yamato era stato parecchio più allegro del solito, ma, a essere sinceri, Takeru non si era ancora abituato a vederlo ridere così spesso. Gli avvenimenti degli ultimi giorni gli avevano fatto un po' accantonare la questione, ma in quelle ore di tranquillità poteva tornare a rifletterci sopra in tutta calma. Yamato Ishida aveva passato anni con l'aria di bel tenebroso, precedentemente anche dannato, successivamente affascinante – a giudicare dai commenti che aveva raccolto a scuola nei cinque anni precedenti. Adesso era sì tenebroso, ma non proprio come il novilunio, per usare una metafora, ma più come un'eclissi. Ovvero: schivo e solitario nei luoghi pubblici, ai concerti, con i conoscenti, ma inaspettatamente allegro, solare e così sorprendentemente affabile in compagnia dei suoi amici più cari. La prima volta che era scoppiato a ridere a una battuta di Taichi, il suddetto ragazzo, nonché suo migliore amico, l'aveva guardato come se fosse un alieno e gli aveva chiesto con tatto insospettabile se fosse per caso sbronzo come la volta che gli aveva somministrato un concentrato di whisky al posto di acqua. Alla risposta negativa del biondo, poi, era crollato a terra, svenuto, con un sonoro clunk. Sul serio, era stato più sconvolto da questo che dalla sua rottura con Sora. Già, Sora... Forse era dovuto a lei il repentino cambiamento di Yamato. Takeru aveva una teoria. Mettendo insieme: -il fatto che Taichi non fosse sorpreso della rottura tra i due con -il fatto che né Sora né Yamato si fossero mai urlati addosso, né che ci fosse stato alcun litigio e -la nuova allegria di Yamato Takeru aveva cominciato a pensare che le cose tra i due non andassero più bene già da un po' di tempo prima dell'allontanamento definitivo, che entrambi fossero perciò un po' giù di morale e che questo avesse contribuitò all'ombrosità di entrambi; che Taichi avesse intuito la cosa – magari, stando parecchio tempo solo con l'uno o con l'altra, si era accorto dello strano comportamento che avevano quando erano insieme –, che, conseguentemente a ciò, Yamato e Sora si fossero lasciati e che solo dopo la fine di questa imbarazzante situazione di disagio suo fratello avesse cominciato finalmente a rilassarsi un po'. Ovviamente si trattava solo di teoria e se non fosse stato un gran codardo avrebbe chiesto conferma a Yamato seduta stante...
<< Takeru? Perché la padella sta fumando? >> ... << Merda! >>
Peccato che lui fosse un gran codardo.
<< Buono. Un po' bruciato, ma buono, nel complesso. >> << Se ti dà fastidio il fatto che l'abbia cotto un po' troppo, la prossima volta te ne occupi tu. >> << Dai! Rilassati. Ho detto che mi è piaciuto! >> << Bah. >> Takeru si buttò sul divano. Che Yamato non si aspettasse che fosse lui a rimettere a posto la tavola. L'altro si sedette subito accanto a lui. << Lasci tutto nel mezzo? >> << Se ne occuperà papà. È la penitenza per essere arrivato in ritardo. >> << Mamma mia, come sei pigro. >> << Di noi due, l'atleta sei tu. >> Stettero in silenzio per un po'. << Senti, Yamato... >> Il cenno del maggiore fece capire a Takeru che lo stava ascoltando. << Cosa ne pensi di... tutta questa faccenda? >> << Io non penso niente, Takeru. >> sospirò stanco Yamato. << Io sono ossessionato da questa faccenda. >> << E da lei. >> aggiunse Takeru. << E da lei. >> confermò Yamato. Il minore non disse più niente e si limitò a chiudere gli occhi. Davanti ai suoi occhi apparve ancora quella faccia, quella ragazzina, che dalla prima volta che l'aveva vista tormentava i giorni e le notti a lui così come a suo fratello. Ma nessuno dei due sapeva perché.
Quando le avevano detto che la ragazza Yagami – o Hikari-chan, come la chiamava lei – era fuggita, Darklullabymon non aveva detto niente. Appollaiata sulla solita poltrona, davanti al solito schermo, non aveva battuto ciglio ed era rimasta zitta. Il Digimon che era dovuto andare a darle la notizia avrebbe voluto mettersi a piangere, o scappare, se fare l'una, l'altra o tutte e due le cose insieme non avesse significato, oltre ogni ragionevole dubbio, morte certa. Gli era uscito un debole piagnucolio e nello stesso istante Darklullabymon si era alzata. Incedendo a passo signorile lungo la stanza, sul viso neanche l'ombra del solito, ironico sorriso, si era avvicinata alla creatura tremante che, a terra, si prostrava davanti a lei. L'aveva colpita con la punta del lungo bastone rosso, costringendola a guardarla. << Trovami quelle tre. >> aveva sussurrato.
Quando Darklullabymon aveva uno sguardo gioioso, bisognava avere paura, perché significava che qualcuno sarebbe finito male. Quando Darklullabymon era triste, bisognava avere terrore. Perché chi fa errori, viene punito. Ma quando Darklullabymon aveva quell'espressione, significava che aveva subito un torto. E allora era molto, molto peggio. Qualcuno l'avrebbe pagata cara, e sarebbe stato chi di dovere.
Izzy imprecò sonoramente, sbattendo la mano sullo schermo del computer. << Una volta smattavi se solo mi permettevo di sfiorarne uno con un dito, sai? >> << Taci. >> << Neanche per idea. Cosa disturba il nostro piccolo genio? >> << Taichi, ho le scatole già frantumate di mio, sei pregato di non infierire. >> Per tutta risposta l'altro prese una sedia e si accomodò nell'aula computer come se fosse sul divano di casa sua. << Questa non è nemmeno la tua divisione scolastica, posso sapere cosa accidenti ci fai qui? >> esplose Koushirou alzandosi in piedi. << Se mi dai un pugno, te lo rendo. Più forte. E ti stendo. Quindi, calmati e siediti. >> Il rosso si lasciò pesantemente cadere sulla sedia, davanti al portatile. << Non riesco a contattare Gennai. >> Taichi si fece immediatamente più attento. << Credi sia successo qualcosa? >> << No, Tentomon dice che è tutto a posto. È andato alla base e lì gli hanno detto che Gennai non vuole vedere nessuno, però speravo che le mail le leggesse... che fosse magari impegnato solo nella ricerca di informazioni e che non volesse essere disturbato per quello. >> << Cosa gli volevi chiedere? >> << Se sapeva qualcosa di nuovo. Se qualcuno si era fatto vivo. Se per lui è una buona idea andare a recuperare il Digivice di Hikari e, se no, se poteva essere replicato. Cose così, insomma. Quotidiana amministrazione per la salvaguardia del mondo digitale e delle nostre vite, sai, cose normali. E invece sono tre giorni che gli ho scritto e tre giorni che continua a ignorare le mie mail. >> Man mano che parlava, il viso del ragazzo assumeva un colore sempre più simile a quello dei suoi capelli e questo impensieriva Taichi. Una volta sola aveva visto Izzy perdere il controllo e non era stato bello. Proprio per niente. << Izzy? >> chiese incerto. L'altro espirò a fondo. << Ora mi calmo. >> E si calmò davvero. Per fortuna. Qualcuno bussò forte alla porta. << Sì? >> Entrò un ragazzo alto e biondo che, se la memoria di Taichi non l'ingannava, doveva chiamarsi Hiro di nome e Fujimiya di cognome e doveva essere in seconda superiore, nella sezione accanto alla sua. << Sei tu Koushirou Izumi? >> << Ehi, bello. Siamo praticamente in classe accanto, mi scoccia che tu mi confonda con uno che va alle medie. >> << Ehi! >> << Non era un commento offensivo, Koushirou, era solo un concetto. >> Il biondo appena arrivato si voltò verso il Digiprescelto della Saggezza. << Quindi sei tu Koushirou Izumi. >> "Che genio" << Sì, sono io. Di cosa hai bisogno? >> In risposta ebbe un dito accusatore che puntato al naso. << Tu. Sei. Il. Bastardo. Che. Sta. Con. Mimi. >> tuonò con gli occhi che fiammeggiavano. << No. >> rispose Izzy a macchinetta – quella scena sapeva di ripetuto deja-vu. Il ragazzo chiamato Hiro lo guardò perplesso. << No? >> << No. >> << Ma tutti dicono... >> << Tutti sbagliano. >> << Ma io ti ho visto! >> << Errore. Hai visto Mimi attaccata al mio braccio, non io attaccato a lei. Senso unico, chiaro? >> A giudicare dalla faccia dell'energumeno no, non aveva capito. << Mi spiego meglio. Io non sto con Mimi. Mimi sta con me. >> << Non me la racconti giusta. Perché Mimi vorrebbe stare con un'ameba come te? >> Taichi, che si era promesso e ripromesso di non entrare nella conversazione, si mosse agitato sulla sedia. Quello era un insulto bello e buono. << Perché non glielo chiedi a lei? >> << Lei non vuole parlare con me. >> << E allora chiediti perché non voglia parlare con te! >> << Stai dicendo che a Mimi non piaccio? >> << E che ne so io? >> La conversazione ristagnava, e Izzy stava di nuovo perdendo la pazienza. << Comunque sia, volevo solo avvertirti di stare lontano da lei. O te la vedrai brutta. >> << Allora puoi farmi a polpettine qui e ora perché dubito seriamente che Mimi mi si tolga dai piedi in fretta! >> << Non la insultare! >> Ecco, erano passati entrambi agli urli. << Non la sto insultando! Sto solo dicendo che è lei che mi cerca, forse perché le sto simpatico! Certo molto più di te! Siamo amici, d'accordo? Amici! Da un sacco di tempo! Da anni! Questo vuol dire che mi trova simpatico e si trova bene in mia compagnia! Non so che altro dirti, è chiaro? >> Koushirou poté ritenersi fortunato che Fujimiya non colse l'insulto in mezzo a quella sequela di affermazione. << Quindi non state insieme? >> << No. >> commentò stanco Izzy, tenendosi la testa con le mani. << Siete solo amici? >> << Sì. >> << Sicuro? >> << Sì. >> Hiro Fujimiya restò un attimo in silenzio. << Allora... io vado. Scusate il disturbo. >> << Nulla. >> I passi si allontanarono, fino a scomparire giù per le scale. << Ma tu sei sicuro che per te Mimi sia solo un'amica? >> << Taichi. >> << D'accordo, sto zitto, sto zitto. >>
Talvolta i digiprescelti si chiedevano come non fossero ancora andati fuori di testa. Probabilmente il segreto era tutto lì, incastrato a metà strada tra l'abitudine e la flessibilità fisico-mentale, con una punta di forza d'animo che li caratterizzava da quando erano stati scelti. L'equilibrio: ecco cosa li salvava dalla follia. La capacità di poter pensare alla propria vita e allo stesso tempo di preoccuparsi di quelle altrui che erano state loro affidate. Ma camminare continuamente lungo quella linea sottile, quanto è faticoso... Impegnarsi ogni giorno nel creare barriere e scudi, che proteggono e sostengono. Ma pesano. Giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno. Sulla Terra e anche su Digiworld – un luogo dal tempo dilatato. E chi ci è vissuto, ha imparato sulla pelle ciò che vuol dire eternità.
Gennai lesse stancamente la mail di Izzy. Poi spense il computer e si gettò sul proprio letto di dati ed energia. Non aveva più forze. L'energia che l'aveva animato fino a pochi giorni prima si era dissolta in un lampo, come se non fosse mai esistita. Il che non era esattamente sbagliato visto che non si era trattato che di una bugia. "Non si può cancellare il passato" "Le colpe non si lavano col tempo." "Gli errori si pagano sempre, prima o poi. Ci aspettano, da qualche parte sul nostro cammino." Quanto era vero. Sprofondò di nuovo la testa nelle mani e il rimorso lo assalì di nuovo, famelico, sadico, desideroso come non mai di trascinarlo verso il fonso, verso quel punto dal quale non si può tornare.
<< Gennai? >> L'uomo ignorò la chiamata. Anzi... << Gennai? >> ...forse non la sentì nemmeno. << Gennai, lo so che non vuoi essere disturbato, ma devo. Siamo nei guai. >> Ancora. Dov'era la novità? << Siamo molto nei guai. Guarda tu stesso. >>
Il comando centrale accese lo schermo e proiettò immagini già viste, di fuoco e fiamme. Solo che stavolta Gennai sapeva cosa guardare, il dettaglio che spiegava la sua colpevolezza e che lo dilaniava dentro. Infatti un artiglio gli perforò il petto all'altezza del cuore. Le colpe passate l'avevano raggiunto.
Bi-bip. Bi-bip. Bi-bip. << Oh. >> << Mh? >> << È arrivata un'e-mail di Gennai... >>
"Siamo stati attaccati di nuovo e continueranno a farlo. Non venite. Non servirebbe a niente."
***
Erano andati lo stesso. Erano andati tutti – anche se Hikari aveva impiegato un po' a convincere il fratello, e Miya aveva quasi avuto un attacco isterico, placato da Ken. E si erano resi conto che davvero non potevano fare niente.
A voler essere sinceri, Mimi voleva piangere. E singhiozzare. E urlare. Ma aveva già pianto, singhiozzato e urlato in terra digitale, anni prima, e non era servito a niente. Quindi non pianse, pur davanti a quella devastazione e a quella strabiliante distesa di cenere che ricopriva interamente il deserto e quello che un tempo era il villaggio degli Yokomon. << Quando è... successo? >> Gennai sentì il suo sussurro e le rispose, stanco. << Circa sei ore fa. >> << Sei? >> esclamò Daisuke. << Perché non ci avete avvertiti prima? >> attaccò Takeru. << Non sarebbe servito a nul- >> << Ma avremmo preferito sapere. >> Gennai fuggì lo sguardo intenso di Sora. << Lo so. Ma se vi avessi chiamato, vi sareste messi in mezzo. E se vi foste messi in mezzo, sareste tutti morti. >> Corse un brivido lungo la schiena di Mimi. << Non ho idea di quale sia stato l'ordine, ma ho contato le Digiuova alla Città della Rinascita. Per ora, non manca neanche uno dei Digimon che abitava quei villaggi. >> << Quanti sono stati i villaggi attaccati in tutto? >> << Otto. >> Hikari chiuse gli occhi, ma non pianse. Sarebbe stato da ipocriti. Sapeva più che bene che quell'attacco non era che vendetta per via della sua fuga. Era tutta colpa sua. Quella era davvero colpa sua. << È stato il Digimon di cenere a fare tutto questo? >> << Non dire idiozie, Mimi. Se li avesse attaccati solo la cenere le case sarebbero in piedi. >> commentò piccato Izzy << Tutto questo può essere solo colpa del fuoco. Può essere solo colpa... loro. >> << Quella ragazza ha massacrato tutti quei Digimon? >> << Tecnicamente è stato il Digimon... Amimon. Ma se lei lo guida, sì, è stata lei. >> Nella mente di Takeru successe d'un tratto qualcosa di molto doloroso. L'immagine della ragazza che tanto l'aveva perseguitato si sovrappose a urla, grida e al fuoco. "È malvagia. Malvagia, Takeru." Eppure, l'idea stessa stonava. Non si era mai fatto problemi a considerare parte del male e indegno all'esistenza chi se lo meritava. Quella ragazza e il Digimon se lo meritavano. Per quale motivo, in fondo al cuore, lui non era ancora convinto? Sì voltò verso Hikari e la vide bianca come il marmo e altrettanto fredda, ma insieme anche spezzata, dal dolore, dal senso di colpa, dalla confusione che aveva in testa. Avrebbe voluto gridarle che non era colpa sua; ma né lui né lei avevano la forza di smentire il fatto che comunque tutto questo era almeno a causa sua. Per quanto indiretta, Hikari era la radice del massacro. Lo sapeva lui, lo sapeva lei. E lo sapeva Gennai, perché la guardò con occhi pieni di compassione quando la ragazzina gli pose una domanda che prevedeva una risposta che sarebbe stato meglio non sapesse. << Non ci sono davvero superstiti? >> Un preghiera, nella voce di Hikari, che strinse il cuore a Takeru. << Manca ancora da ispezionare l'ultimo villaggio, quindi non saprei dirti... >> Hikari chiuse gli occhi e Gennai con lei. Avevano capito ciò che c'era da capire.
Otamamon scavava triste e sconsolato tra la cenere alta almeno quattro metri. Tossì quando la polvere quasi lo soffocò e scivolò nella buca che aveva appena finito di scavare. Qualcosa gli toccò la spalla. << AAAAAAAAH! >> Un Gekomon accorse. << C'è qualcuno! >>
I soccorritori presero a scavare con più foga. Forse qualcuno era sopravvissuto a tutto quel massacro. Il piccolo Digimon estratto dalla cenere sembrava quasi in buona salute, sotto lo strato compatto di cenere che lo avvolgeva. << Respira, piccolo... respira... >> Ci vollero lunghi minuti, prima che il piccolo mostro digitale tossisse e riprendesse a respirare. Grida di gioia si levarono sul campo. Il sopravvissuto tossi ancora e con la bocca tentò di formare delle parole. << Non ti sforzare, piccolo... >> Doveva trattarsi di qualcosa di molto importante, però, perché non sembrava intenzionato a cedere. Otamamon si avvicinò per sentire. << Otama-nii... che vuol dire Shio? >>
E finalmente... completa il capitolo! Squilli di tromba, stendardi al vento! Ce l'ho fatta! Beh, lasciatemi gioire un po', su. È stato un "parto lungo e doloroso", come si è potuto facilmente notare, direi. Che ne pensate? Non succede abbastanza per il tempo di attesa che vi ho fatto passare, ma tendo a dilungarmi nella quotidianità. Diciamo che volevo far presente che si trattava comunque di ragazzi e ragazzini umani, che vanno a scuola e cose simili – cose normali. Comunque il tempo delle – prime – risposte è sempre più vicino, non disperate! Dai dai dai resistete che ci siamo quasi! Un abbraccio a tutti coloro che leggeranno e commenteranno – che saranno sempre le solite e dolcissime Werewolf1991 e Kymyit, ma se qualcun'altro si fa avanti, io non mi arrabbio – io qua vi saluto, coco1994 |
Capitolo 8
*** Cap.07_Yin e Yang ***
Cap.07_Yin e Yang
Shio = sostantivo di lingua giapponese. Significato: marea...
Dolore. Dolore nel cuore, negli occhi, nell'anima di Hikari. Soffriva, e non ci voleva certo un genio per capirlo. Ken Ichijoji, però, un genio lo era, e quindi il suo sguardo indagatore non si soffermò ad analizzare le mere conseguenze del dolore, ma ne ricercò la causa, all'interno di quell'oceano castano che iniziava negli occhi della ragazza e proseguiva nella sua anima immensa. Per Ken fu facile entrare e ancora più facile fu trovare ciò che cercava. Ecco lì, incastrato tra il cuore e la mente. Il rimorso. Ovviamente. Non ne fu sorpreso. Conosceva quel sentimento fin troppo bene; l'aveva tormentato a lungo, costringendolo a riflettere sul male da lui inferto, e lo tormentava ancora, durante le lunghe notti di pioggia e tuoni che lo tenevano sveglio e le ombre di camera sua che, come burattini del tempo trascorso, si incrociavano sinuose davanti ai suoi occhi, per fargli rivivere ancora e ancora quel passato, quella macchia che si sarebbe portato dentro per sempre. Per questo aveva imparato a conviverci, col rimorso. Ora che poteva vivere di nuovo non aveva intenzione di sprecare la sua seconda possibilità crogiolandosi nel dolore; preferiva agire, essere attivo, e rimediare. Chissà se Hikari l'avrebbe pensata come lui. Chissà se fosse il caso di dirglielo. Si mordicchiò il labbro, nervoso, e subito fu sottoposto a sua volta a uno sguardo indagatore. Miyako lo fissava dritto in volto – ma come riusciva quella ragazza a percepire subito quando lui cambiava stato d'animo? – e gli occhi parevano punti interrogativi; "Tutto bene?" sembravano chiedere. Sì. Io sto bene. No. Hikari sta malissimo. Quasi, quindi. "Quasi" tutto bene. Solo perché lui era troppo vigliacco per parlare.
<< Hikari. >> La ragazzina castana si riscosse dal torpore. Ken si trovò nel più completo imbarazzo. Doveva dirle che non era realmente colpa sua? Ma non poteva affermare che non fosse lei la causa, perché lo era. Forse doveva dirgli che capiva. Ma no, Hikari non aveva mai schiavizzato decine e decine di Digimon, come lui, invece, aveva fatto. Non doveva portarla al suo livello. Esitò. << Non... >> Forse doveva solo essere sincero. << Non pensare che sia male che tu sia ancora qua con noi. >> disse tutto d'un fiato, fissandosi le punte dei piedi. Ma quanto era fifone? Alzò appena le iridi azzurre e un nodo gli si sciolse nel petto, quando vide che Hikari gli stava rivolgendo un mezzo sorriso. << Non lo farò. Prometto. >> << Be-bene. >> Adesso balbettava anche? Come doveva sembrare idiota.
Adesso balbettava anche? Come... come... com'era tenero! Ma quanto le piaceva quel ragazzo? Miyako represse un sospiro estasiato, arrossendo all'idea. Doveva essere buffissima da vedere; dopo anni di questo sentimento ancora si comportava come un'idiota ogni volta che Ken se ne usciva con un'espressione a suo dire carina. Il ragazzo scelse proprio quel momento per arrossire – aveva forse paura di essere stato invadente? – tornando a fissarsi la punta delle scarpe. Stavolta Miyako non represse il sospiro. Sora, al suo fianco, le diede una gomitata, ridendo con gli occhi. Ridendo a crepapelle con gli occhi. Per un istante solo, ovviamente, prima che la testa le si riempisse di nuovo di tristezza.
Giovedì 22 Settembre 2005, Casa Takenouchi. Ore 20.11
Non che la signora Takenouchi non fosse preparata ad affrontare con sua figlia un qualsiasi argomento di una certa profondità, ma quando Sora se ne uscì con la domanda "Mamma, perché c'è così tanta gente con una naturale inclinazione alla malvagità, alla megalomania e al prodominio?" proprio mentre le stava servendo la cena, la donna rimase un pochino sconcertata. Sorrise incerta alla sua figlia adolescente. << Perché mi fai una domanda del genere, tesoro? >> Sora la squadrò. << Ho fatto prima io la mia domanda. Devi rispondere tu, per prima. >> << Lo so. Ma mi chiedevo cosa ti avesse fatto pensare a questo proprio mentre stiamo cenando. Almeno un po' di dubbio e preoccupazione me lo concedi, no? >> << D'accordo, questo sì. >> rise << Ora però mi rispondi? >> << Tesoro, come posso sapere la risposta? Io, grazie al cielo, non ho una, come la chiami tu, "naturale inclinazione alla malvagità, alla megalomania e al predominio". Sora se l'aspettava, ma avrebbe gradito lo stesso una risposta da sua madre. Aveva sì superato la fase in cui si crede che i genitori abbiano risposte a tutto, ma sperava lo stesso che la donna fosse capace di aiutarla a dare un senso a tutto quel caos che stava succedendo a Digiworld. Era anche vero che non poteva raccontare alla madre tutta la storia. Riflettendoci con calma, mentre finiva di mangiare e rimetteva sistemava la tavola, si accorse che chiedere una cosa del genere alla mamma era stato inutile, era troppo estranea agli... << Sora? >> << Sì? >> << Non è il tuo cellulare che sta squillando? >> Oh, sì. << Pronto? >> chiese, stesa sul tappeto, il cellulare in una mano e una tazza di tè nell'altra. << Sora! >> << Non urlare per telefono, Mimi, per favore... >> << Sì, scusa. Me lo dici tutte le volte e io... No, non divaghiamo! C'è un sopravvissuto! >> Sora sussultò forte e una goccia di tè bollente le ustionò il mignolo. << [Ahi!] Che cosa? >> << Come "che cosa"? Dai Sora, svegliati! Un Digimon è sopravvissuto all'attacco! >> Gli angoli della bocca le si curvarono in un sorriso. << Come sta ora? >> << Bene, direi. Dorme, mi ha detto Izzy. >> Mimi sembrava allegra. L'altra ragazza ne apprezzò lo sforzo di vedere solo il lato migliore della situazione, visto che cercare di vederlo significava presupporre che questo esistesse. << Sono... contenta. >> sussurrò la rossa. << Anch'io, Sora. Tanto. >>
La ragazza tornò in salotto, un po' alleggerita. << Buone notizie? >> Sua mamma la osservava, mentre lavava alcuni piatti che non era riuscita a far entrare nella lavastoviglie. << Sì. >> Scaldò ancora la tazza di tè ormai fredda – aveva discusso a lungo con Mimi del tutto dimentica che liquido dorato che stringeva con la mano sinistra. Avevano parlato del come e del perché della vicenda, ma soprattutto si erano interrogate sui significati nascosti del termine "shio". Già, shio. Marea. Il piccolo DemiMeramon salvato aveva chiesto il significato di quel termine. Perché avesse voluto sapere in un momento come quello (aveva appena ripreso a respirare!) il significato di un termine che conosceva sicuramente (abitava su un isolotto vulcanico, accidenti!) nessuno lo sapeva, visto che il piccolo Digimon stava beatamente continuando a dormire dalla notte prima. << Tesoro... >> Era la voce di sua mamma. << Sì? >> << Riguardo ciò che hai detto prima... Scusa se non ti ho dato una risposta precisa. >> Ci mise un attimo, ma mise a fuoco la domanda. << Non fa nulla, mamma. >> sorrise. << Comunque ci ho pensato un po'. >> << Davvero? >> sorpresa, nella voce di Sora. << Sì. È una domanda interessante. >> Sora scrutò sua madre aprire una cassetto, riporre le posate, aprirne un altro e riporre i piatti, per poi girarsi verso di lei, osservandola con quello sguardo che un adulto rivolge a un altro adulto. << Credo che tu abbia fatto bene a usare la parola "inclinazione", per la domanda. Inclinazione indica qualcosa che si è portati a fare, non qualcosa che si è. Ma ci sono più cause possibili per avere ognuno di questi stessi effetti che hai elencato nella domanda, quindi ritengo sia sbagliato tentare di dare un perché generalizzato. È il modo migliore di sbagliare, di alimentare errori e pregiudizi che certo non aiutano a trovare una soluzione, ma soprattutto non permettono di capire le motivazioni intrinseche in ogni gesto, giuste o sbagliate che siano. >> << Ma questo vuol dire che ci sono motivi giusti per essere malvagi. >> << In assoluto no. Però dipende tutto anche da cosa si intenda per malvagio. >> "Per malvagio io intendo una creatura che distrugge e non prova rimorso per ciò che ha fatto, mamma. Che gioisce nella sofferenza altrui. Che segue egoisticamente il proprio ideale, senza curarsi di niente."
"Non dire idiozie, Sora." "E Ken dove lo metteresti, dentro questa visione del mondo?" ... ... ... Possibile che metà della sua coscienza avesse la meglio sull'altra metà? << Hai ragione, mamma. >> La donna si slacciò una catenella che aveva al collo, un piccolo cerchio diviso in due gocce, una bianca e una nera, entrambe con al centro un piccola pallina del colore inverso. Sora capì dove voleva andare a parare. << Questa è filosofia, mamma. Non realtà. >> << Secondo me, può essere applicata alla realtà. Tieni, te la regalo. Così ti ricorderai, ogni tanto, di guardare il mondo in questo modo, considerando anche l'improbabile, non solo l'evidenza. >> Sora esitò un solo istante. << D'accordo. >> Il simbolo dello Yin e dello Yang scintillò, mentre allacciava la collana al proprio collo sottile.
Venerdì 23 Settembre 2005. Casa Ishida. Ore 11.34.
Yamato sbatté con violenza un pezzo di panno bagnato sulla propria fronte e imprecò genericamente contro il mondo, reo di non avere quell'odioso mal di testa che gli trafiggeva le tempie dal pomeriggio precedente. Yamato mal sopportava il mal di testa e la malattia fisica in generale. Detestava sentirsi debole, lui che aveva una reputazione di duro da difendere. A suo padre, prima che andasse a lavoro, aveva biascicato, delirando dal sonno e dal dolore, che stava troppo male per andare a scuola ma che non si doveva preoccupare, gli sarebbe bastata una mattinata di riposo per riprendersi del tutto. Sì, certo, come no. Un'ulteriore fitta fu seguita da una lunga sequela di improperi. Oltre a essere particolarmente doloroso, quel mal di testa lo stava distruggendo con la lunghezza. Gli stava anche impedendo di pensare; fatto assai negativo, visto che era stato il pensare troppo a qualcosa a provocare l'inizio di quelle fitte lancinanti che gli facevano vedere le stelle. Shio. Shio. Shio. Shio. Shio.
Quanti vicini si sarebbe trovato davanti alla porta nei successivi dieci secondi, se si fosse messo a urlare con tutto il fiato che aveva?
Pattogmon era furiosa. Furiosa e gelosa. Aveva sbagliato, non lo negava. La ragazzina era fuggita. Anzi... tutto il gruppo di quei nanerottoli era entrato nella loro fortezza, aveva recuperato la loro prigioniera e poi se n'era andato indisturbato. Pattogmon glielo aveva permesso, nonostante fosse di guardia. Per questo aveva pagato. Ma perché a quelle due la loro padrona non aveva detto niente? Erano state anche loro di guardia. Ne era certa. Eppure non le aveva punite – anzi! Le aveva addirittura mandate a far vedere a quel branco di idioti che sono comunque più forti di loro. Avrebbe potuto farlo anche Pattogmon. Invece, Darklullabymon l'aveva punita – ne portava ancora i segni – e a Dodo e Kiki, niente. Niente. NIENTE! E quelle due non avevano nemmeno ringraziato. Darklullabymon le aveva graziate e non avevano detto nulla! Diciamocelo, non che fossero di molte parole. E non erano nemmeno granché emotive. Soprattutto la ragazzina. Ma il punto non era questo. Era che tutto era tremendamente ingiusto nei suoi confronti. Sentire quelle parole da un Digimon che sguazzava nell'ingiustizia poteva sembrare ipocrita. Ma poiché Pattogmon sguazzava anche nell'ipocrisia, un pensiero del genere non ne sminuiva la coerenza con la sua personalità di cinico essere maligno.
Takeru teneva tra le braccia il piccolo DemiMeramon, sveglio. << Non credo sia una buona idea tornare al tuo villaggio. >> cercò di dissuaderlo. << Ma io lo voglio vedere. >> disse il piccolo con le lacrime agli occhi. << Voglio vedere la mia casa! >> aggiunse poi, con voce stridula. Accidenti. Avrebbe preferito buttarsi da quella rupe, piuttosto che dover essere lui a raccontare a quel piccolo Digimon che era inutile tornare al suo villaggio, poiché la sua casa non c'era più. << Aspetta, Takeru. Dallo a me, ci penso io. >> Il biondo alzò un sopracciglio. << Come vuoi... >> mormorò, tendendo il Digimon a Ken.
Daisuke e Iori correvano. Come dannati. << Fammi Armordigievolvere in Raidramon! >> stava urlando Veemon. << Ci riesci in corsa? Non possiamo perdere tempo! >> << Ci provo! >> Iori, accecato dalla luce, inciampò; gli altri rotolarono lungo il sentiero, finché qualcosa non li raccolse issandoseli sulla schiena. << Danno. >> mormorò Daisuke.
<< Dove sono i nostri compagni e DemiMeramon? >> Il Gazimon di guardia li scrutò con occhio critico, dalla punta dei capelli di Daisuke (pieni di rametti) ai pantaloni fumanti di Iori (“Ti avevo detto di non appoggiarti ai fulmini gialli!”), poi rispose. << Perché lo volete sapere? >> << Perché sì! >> gli urlò in faccia Daisuke. << 'spetta che controllo... >> fece il Digimon grattandosi un orecchio. << Forse non ci siamo spiegati... >> Gazimon guardò Iori. << TI DEVI MUOVERE! >> Il grido echeggiò lungo tutta la montagna. << Al molo. Ha-Hanno rintracciato DemiMeramon prima che salisse su una nave per tornare a casa... >> pigolò nel vento. Erano già partiti.
DemiMeramon non aveva paura del fuoco, normalmente. Lui era un essere di fuoco e quell'elemento poteva al massimo fargli venire mal di pancia, se ne mangiava troppo a colazione. Ma quel fuoco era così rabbioso, così... cattivo. E quei due Digimon che volteggiavano a pelo delle fiamme non sembravano per niente buone, come la ragazzina che, in piedi su un ramo di un albero, osservava la scena. Anche i due ragazzi che gli avevano detto che il suo villaggi era bruciato – altre lacrime gli caddero quando ci ripensò – dovevano pensarlo, visto che entrambi i loro Digimon personali avevano compiuti la Digievoluzione e si frapponevano, guardinghi, tra loro e le nuove arrivate. << Guarda! Guarda! Avete sbagliato! >> stava esclamando quella grigia, e sembrava entusiasta. << Che cosa hanno sbagliato? >> sussurrò DemiMeramon al ragazzo moro che lo teneva in braccio. << Avete visto? Ne avete mancato uno! >> continuò quella grigia, indicando il piccolo con una mano e preparando un colpo con l'altra. Ken Ichijoji si lanciò per terra rotolando su un fianco, mentre un blocco di cenere incandescente bruciava il terreno nel punto esatto in cui si trovava fino a un attimo prima. << Stingmon! >> urlò a gran voce, per farsi sentire da sopra le urla terrorizzate di DemiMeramon. << Sono troppo veloci! Non capisco da dove arriveranno! >> Un ghigno baluginò nell'aria dietro di lui. << Mi dispiace. >> << Raggio celestiale! >> L'attacco di Angemon impedì che il Digimon insetto finisse secco, ma non sfiorò nemmeno Pattogmon, che volteggiò nell'aria, un smorfia di leggero disappunto in volto. << Non siete male, voi due. >> disse rivolta a Takeru e all'angelo. Aspettò il colpo successivo e lo sfruttò per colpire Angemon in pieno petto, scaraventandolo a terra. Il Digimon uscì tremando dal buco, ancora a livello Campione. << Non siete male davvero. >> affermò di nuovo. << Ma io sono meglio. >> Con noncuranza sparò due colpi, senza guardare. Uno fu per Stingmon, che abbatté due alberi prima di riuscire a fermarsi; l'altro per i due rimasti e Takeru, che si era gettato in mezzo nella speranza – vana – di fermare l'attacco. Boom! L'esplosione che avvenne a pochi centimetri da loro li scaraventò all'indietro. Ken fece quello che poteva per proteggere DemiMeramon con le braccia, ma non servì a molto, perché il piccolo ricominciò a piangere, disperato. Il ragazzino desiderò poterlo fare anche lui.
Pattogmon volò furiosa verso la sua compagna. << PERCHÉ MI HAI INTRALCIATO? >> Amimon si limitò a pulirsi lo schizzo di saliva che l'aveva centrata in fronte. << Casomai sei tu che hai bloccato il mio colpo. >> Impedì che le mani dell'altra le artigliassero la gola, nel chiaro intento di cancellarla dalla faccia della terra. << Magari, se ti sbrighi, non scappano. >> aveva suggerito. Poi un urlo la colse di sorpresa.
DemiMeramon piangeva ancora, singhiozzando dal terrore. Voleva che tutto finisse. Proprio come l'altra volta, quando quelle due che si occupavano del fuoco avevano attaccato il suo villaggio se ne erano andate, di punto in bianco, lasciandolo lì. Aspetta: non proprio “di punto in bianco”. Prima era stata urlata quella parole, poi c'erano state frasi sconnesse, infine il silenzio e lui era svenuto. DemiMeramon non ce la faceva più. Voleva che finisse. Urlò al cielo l'unica parola che gli venne in mente, l'unica speranza di far finire l'incubo. << SHIO! >>
Takeru rimase pietrificato sul posto, quando l'urlo di DemiMeramon raggiunse il suo orecchio, quello delle nemiche, e gelò sul posto, quando lo sguardo della ragazzina si inchiodò su di loro. Il biondo era sicuro che fosse girata, in quel momento, ad osservare dall'altra parte del bosco qualcosa che non era dato sapere; eppure si ritrovò a dubitarne. Si era mossa troppo velocemente e ora li stava fissando in un modo... cosa c'era in quello sguardo? Aveva troppa paura. Il cervello non ragionava. Quello di Ken, per fortuna sì. << Tu sei Shio? >> lo sentì sussurrare. Cullate dal vento, le parole giunsero alle tre che, dall'alto, li guardavano. Un attimo dopo, erano sparite.
<< Ken! Takeru! DemiMeramon! >> << Stingmon! Angemon! Grazie al cielo state bene! >> << Siete riusciti a cavarvela, meno male. Le avevamo viste cercarvi, ma non siamo arrivati in tempo. >> Silenzio. << ...Ragazzi? >> << Il nome... quella ragazza... >> << Cosa? >> << Il nome di quella ragazza... questo è Shio. >>
[Si chiama Shio? Tai] [Così è quello “Shio”! Mimi] [Davvero se ne sono andate dopo? Sora] [Grazie al cielo state tutti bene! Jyou] [Io e Hikari veniamo da voi. Miyako e Hikari.]
Shio. Lei è Shio. Avrebbe dovuto immaginarlo. Se solo la testa non gli facesse così male... Possibile che il dolore sembrasse raddoppiato? Shio, Shio, Shio. Shio, Shio, Shio.
Yamato ficcò la testa sotto l'acqua gelida del lavandino. Doveva pensare. Doveva assolutamente trovare una spiegazione a tutto questo. Non ci teneva a diventare matto. Aveva la pelle bianca come il marmo e gli occhi iniettati di sangue. Pensa, Yama, pensa... Perché quella ragazza lo tormentava? Perché il nome della ragazza lo tormentava? Perché l'accompagnatrice di Amimon? Perché un nome del genere?
Perché? Perché? Perché? Perché? Perché?
Perché “Shio” gli faceva così male? Perché sembrava di avere la soluzione a portata di mano, ma era troppo stupido da poterla cogliere?
Fissò ancora la propria immagine. Perché marea? La odiò. Si odiò. << PERCHÉ SHIO? >> si urlò addosso.
Un attimo, un istante. Il treno rientrò sui binari, i vetri si infransero, la mente di Yamato si aprì. Il pugno, diretto al muro, perse forza e scivolò lungo la parete, mentre da una tempia all'altra del ragazzo sembrò piantarsi un lungo chiodo arroventato. Cadde in ginocchio e sputò acida bile.
<< Mi piace il mare. Ma la marea la adoro! >>
Parole, limpide come l'acqua che scorreva per terra e che Yamato guardava attraverso le fessure tra le dita della mano con cui sorreggeva il proprio viso.
<< Perciò chiamami Shio. Non Shiori. >>
La piccola pozzanghera d'acqua si allargò, ingrossata dalle lacrime che cadevano dagli occhi celesti del ragazzo.
<< Yamato? Yamato? >>
Il padre di Yamato lo trovò lì. << Yamato, che succede? >> << Shio. >> sussurrò di rimando il ragazzo. << Non Shiori. >> La valigetta di suo padre cadde a terra. Il biondo si riscosse e guardò l'uomo che, appoggiato al muro, lo fissava ad occhi spalancati. << Papà? >>
Scusatemi, ma ora devo chiudere! Scriverò le mie note d'autore domani! Un abbraccio a tutti! |
Capitolo 9
*** Cap.08_Castello di vetro ***
Cap.08_Castello
di vetro
Bene, poi non ho inserito le note d'autore alla fine del capitolo precedente... Diciamocelo, non che avessi granché da dire. Immagino che coloro che hanno letto siano stati felici di scoprire che non posso più rimandare il momento delle prime spiegazioni. E infatti, eccole qua. Leggete, leggete... Un'ombra scura
strisciò sul pavimento della stanza di Pattogmon.
<< Signora? >> La creatura si prostrò fino a toccare il pavimento. Pattogmon storse il naso davanti all'umiltà del servo, ignorando come fosse uguale a quella che lei stessa esibiva nei confronti del suo capo. << Che vuoi? >> << Ho trovato... ciò che mi ha chiesto. >> Digiworld,
villaggio dei DemiMeramon. O quel che ne rimane.
Dov'è il bene e dov'è il male? Prima risposta: nel mondo. Più precisamente? In ogni essere vivente. È sicuramente così? Perché lei, Sora, non riusciva proprio a trovare nulla di buono in quell'umana che aveva incenerito mezza Digiworld. Non le trovava proprio niente di buono e il simbolo del Taijitu, al suo collo, le sembrava solo un'enorme bugia. E invece il bene esiste, da qualche parte, nell'anima. È naturale. La domanda, quindi, non è più se lo Yang esista, ma dove sia finito. Forse era stato inghiottito. Forse non erano riusciti a tenerlo vivo e la caduta nel buio più profondo era stata inevitabile e quasi facile. Forse. A queste cose non c'è una risposta precisa. L'unica cosa certa è che, da quel baratro, non si scappa da soli. Nessuno può lasciarsi alle spalle il male, dopo che questo l'ha preso con sé. Non da solo, almeno. Amimon aveva visto una scintilla. Un taglio netto nell'anima di Shio. Era uscita dalle labbra del ragazzo moro ed aveva acceso la miccia appena lanciata da quel Digimon piccolo, minuscolo, insignificante che lei nemmeno aveva considerato; eppure quel Digimon era riuscito a sopravvivere alla sua sua furia, cogliendo addirittura una parola, la parola – segreta, proibita – che aveva poi sbandierato ai quattro venti senza riguardo alcuno, senza curarsi nemmeno per un istante delle conseguenze. << SHIO! >> Il mondo aveva sentito, e quel ragazzo troppo intelligente aveva capito. << Tu sei Shio? >> E adesso l'incendio imperversava, là dove solo lei poteva coglierlo, all'interno della sua compagna. Là, dove fino a poco prima non c'era che un infinito, gelido ghiacciaio. Gira la ruota,
ancora una volta il mondo brucia... Quando Yamato lo chiamò, Hiroaki parve svegliarsi da quella specie di torpore. Si avvicinò al figlio e lo aiutò ad alzarsi. << Forza, vieni. >> Lo costrinse a sedersi sul divano, ignorando le sue proteste (“Ora sto bene!” “Sì, certo.”) e lo coprì con una coperta. << Papà, non sono malato. >> << Non dire fesserie. >> lo sentì dire dall'ingresso, dove era andato per alzare il riscaldamento. << Papà! >> << Che c'è? >> << Piantala! >> gli gridò esasperato. La testa gli doleva ancora. Non
per le fitte, non più.
L'uomo
lo fissò per un attimo, poi si sedette accanto a lui, con
l'aria di volergli assolutamente dire qualcosa.Ma per il pensiero che gli si era affacciato in testa. L'idea che Shio e la Shiori che ricordava fossero la stessa persona e che l'avesse conosciuta già prima di Digiworld. << Yamato >> chiese infatti << Perché prima hai citato quel nome? >> << Shiori? >> Hiroaki annuì, leggermente più pallido del solito. << Non lo so. >> rispose. Non era del tutto una bugia. << Mi è solo tornato in mente. >> << Ah. >> << Lo trovi strano? >> Hiroaki scattò come una molla << No. >> e Yamato lo guardò con sufficienza, non riuscendo a trattenere uno sbuffo. << Papà, dimmelo chiaramente. Mi credi un cretino? >> << No, certo che no >> << E allora perché mi prendi in giro? >> << Io non ti sto prendendo in giro. >> << Perché quanto mi riguarda, mentire lo è. E tu mi stai rifilando una bugia dopo l'altra! >> esclamò, riducendo gli occhi a due fessure. Hiroaki si voltò verso di lui decisamente irritato << Non mi urlare addosso! >> << Se te lo meriti, lo faccio! >> Si osservarono in cagnesco per pochi secondi. << Ascoltami bene, papà. Sono due giorni che ho un mal di testa indecente che probabilmente è dovuto a questa Shiori, ma non so né come né perché. Tu invece sì e non me lo vuoi dire! >> << Cosa te lo farebbe credere? >> << Il tuo atteggiamento! >> << E non ti sfiora il pensiero che, sapendo di che si tratta, io possa preferire stare zitto? >> urlò Hiroaki, con tutto il fiato che aveva in gola. Se ne pentì subito dopo. << Scusa, Yamato. >> << No, scusami tu, papà. Ho iniziato io. >> Si bloccarono un attimo e tra loro scese uno dei soliti silenzi. << È davvero tanto... grave? >> mormorò titubante il ragazzo. Hiroaki si lasciò sfuggire un sospiro. << Più che altro, è tremendamente triste. >> << Riguarda anche noi? >> << In parte. >> << Davvero non mi puoi dire niente? >> << Preferirei di no. >> Yamato si tolse la coperta di dosso e prese fiato. << Non conta niente il fatto che io voglia saperlo? Non sono più un bambino, papà. Mi rendo conto che a questo mondo ci sono cose tremende, però so accettarle. E se nel mio, nel nostro, passato è accaduta una cosa simile, vorrei sapere di che si tratta. >> Hiroaki lo guardò appena. <<
Soprattutto perché è qualcosa che mi è
stata tenuta nascosta. Forse anche a lungo, ma non saprei. Perché non mi ricordo
nulla. >>
E
io detesto questa situazione. Non lo disse ma lo
pensò così intensamente che si chiese, per un
attimo, se suo padre non avesse percepito più quel pensiero
che le sue parole precedenti; fatto sta che, comunque, l'uomo emise un
lunghissimo sospiro, poi si voltò verso di lui e disse
<< D'accordo. Ti racconterò ciò che
vuoi. >>L'animo di Yamato si modificò e da pesante, triste e dolorante che era divenne leggero e sollevato, ma anche ansioso e preoccupato. A cosa stava andando incontro?
<<
Grazie. >>Hiroaki non rispose all'ultima affermazione; iniziò direttamente a raccontare. << Stiamo parlando di un sacco di tempo fa. Era il Dicembre 1994... Abitavamo ancora nell'appartamento a Hikari Ga Oka. >> Tutti e quattro, era implicito. Più di dieci anni fa. Era una storia così vecchia? << Nevicava da giorni e faceva un freddo tremendo, ma tu e Takeru non volevate sentire ragioni. Volevate giocare nella neve, a tutti i costi. Vi portammo ai giardini del quartiere e lì incontraste, per la prima volta, la bambina chiamata Shiori. >> << Ne sei sicuro? >> << Era lei che ripeteva sempre di volere quel soprannome, per quel motivo che ricordi. Amava il mare e la marea la affascinava. Fu una delle prime cose che disse, quel pomeriggio e che ha ripetuto a lungo. >> << Chi era? >> chiese subito Yamato. << Shiori era una bambina dell'età di Takeru. Abitava con la sua famiglia – gli Yamamiya – nel quartiere accanto e come voi voleva uscire a giocare nella neve. Il parco vicino a casa loro, però, era gelato. Quindi vennero nel nostro, il più vicino, e lì vi siete conosciuti. >> << Aveva tre fratelli più grandi di lei e per questo non aveva problemi a giocare con te, che avevi quasi il doppio della sua età. Anzi: Takeru, con i suoi due anni e mezzo, era quasi troppo infantile per lei. Vi trovò simpatici, molto simpatici, da subito. Tanto che vi chiese il numero del nostro appartamento e il giorno dopo ce la trovammo alla porta di casa, insieme a suo padre, che chiedeva se volevate giocare con lei e che aveva anche portato i biscotti. >> gli angoli della bocca dell'uomo si curvarono all'insù. << Faceva troppo freddo per andare al parco e quindi rimanemmo in casa. Passò il pomeriggio a descriverci vita morte e miracoli di tutta la sua famiglia, con una proprietà di linguaggio che... >> scosse la testa. << Ci sconvolse, davvero. Non pensavo di poter tenere una conversazione di quel livello con una bambina di quell'età. >> Yamato cominciò a immaginarsela: un esserino minuscolo e chiacchierone, seduto al tavolo che avevano allora, che gesticolava in continuazione per allargare lo spazio che lui, troppo piccolo, lasciava vuoto. E non poté fare a
meno di dargli il viso della ragazzina di Digiworld.
<<
Venne a casa nostra il giorno dopo e il giorno dopo ancora, per tutte
le vacanze di Natale. Anche dopo, spesso veniva a trovarvi il
pomeriggio, quando eri tornato dall'asilo. Era diventata una sorta di
costante, nella nostra vita, sorprendentemente divertente.
>>Ovviamente miniaturizzato e, sempre ovviamente, sorridente. << Ma io non me la ricordo. >> << Non ne dubito. Abbiamo fatto in modo che vi dimenticaste di lei, io e Natsuko. >> affermò Hiroaki, senza guardarlo negli occhi. Si vergognava. << Non è stato difficile, visto che è durato tutto troppo poco. >> L'uomo si massaggiò le tempie e tacque, perso per un attimo nei propri pensieri. << Non capisco... >> << Te l'ho già detto: non ne dubito. Quando è successo ciò che è successo, ve l'abbiamo tenuto nascosto, perché eravate piccoli e non vi volevamo spaventare. Poi traslocammo, in un quartiere diverso. Io e Natsuko iniziammo a non andare più d'accordo. Prima per cose stupide, senza senso, poi i nostri litigi si aggravarono e il resto... lo sai. Non dico che il nostro divorzio sia stato causato da ciò che successe a Shiori; ma eravamo talmente tesi e nervosi che ogni piccola cosa sembrava gigantesca. Non reggemmo la situazione. Non intendo difendere la nostra decisione, perché non è il nostro scopo ora. Volevo solo darti un esempio di come la storia che ti racconto sia grave. >> << E adesso, veniamo al dunque. >> si raddrizzò. Si era curvato piano piano, mentre parlava, quasi schiacciato dal peso del ricordo. Si raddrizzò, ergendosi in tutta la sua statura – tale e quale a quella di Yamato e continuò, con voce atona, con poche parole precise. << Shiori Yamamiya, una notte, scomparve. >> << Significa... cosa significa? >> Yamato deglutì, per scacciare il gelo in lui. << È morta? >> << No. >> disse l'uomo, guardandolo a malapena in viso. << La portarono via. >> Nonostante fosse una semplice stanza, nonostante l'infuriare della pioggia contro i vetri impedisse il completo silenzio, le parole di Hiroaki echeggiarono tra le pareti; quantomeno, fu l'effetto che fecero nelle orecchie di Yamato. Aprì la bocca, per parlare, ma non ne uscì che un suono basso e gutturale, che sembrava chiedere << Quando? >> << In una notte orribile. >> << Shiori Yamamiya fu rapita la notte dell'attentato e da allora se ne sono perse le tracce. >> Soffiò su Digiworld
un vento freddo.
Un vento strano, non previsto. Portava ovunque il suo segreto messaggio. Ma nessuno pareva capace di coglierlo. Un Digimon rosso fuoco si alzò dal bordo della scogliera dove sedeva. << Non mi piace questo vento. Torniamo alla fortezza, Shio. >> La creatura accanto a lei non parve sentirla, lo sguardo perso nel vuoto. Poi Shio si voltò di scatto, inchiodando gli occhi viola nella direzione da cui veniva il vento. Lei aveva sentito. Stava arrivando un cambiamento, e camminava nel vento di Digiworld. Il modo in cui sua madre stava guidando non lasciava presagire nulla di buono. Sterzava lungo le strade bagnate dalla pioggia con una foga che raramente le aveva visto in corpo, scaricando sull'asfalto tutta il suo nervosismo – doveva essere parecchio, visto come sgommava. Era andato a prenderlo a scuola: aveva aperto la portiera della macchina, gli aveva detto << Sali. >> con voce perentoria ed era partita. Al momento, Takeru si trovava sul sedile del passeggero e stringeva lo schienale ogni volta che Natsuko affrontava una curva schizzando di gocce appena cadute gli eventuali passanti. << Mamma, dove andiamo? >> mormorò, ma la donna parve non farci caso; continuò a tenere gli occhi incollati alla strada e ad aggredire l'asfalto, sicuramente colpevole di qualche atroce delitto. Poi, di punto in bianco, si fermarono. O meglio, Natsuko parcheggiò in corsa – con una certa abilità, gliene doveva dare atto – e inchiodò a venti centimetri dalla Volvo davanti a loro. Takeru fece per scendere, ma lei lo bloccò. << Stiamo andando da Yamato. >> Il ragazzino la guardò ansioso. << Che è successo? >> Natsuko si aspettava quella domanda. Lei non andava mai a casa dell'altra metà della loro famiglia; Takeru lo sapeva e aveva intuito la presenza di qualcosa che non andava. La donna sospirò, rassegnata. << Devo raccontarti una storia... >> Ad aprirgli la porta giunse Hiroaki, pallido. Takeru gli passò oltre, dirigendosi in camera di suo fratello. Bussò. << Ti ho detto che volevo stare solo! >> sentì urlare. Evidentemente si riferiva a papà. << Yama-nii. >> Sentì un trafficare di chiavistelli, poi la porta di aprì. << Takeru? >> aveva gli occhi rossi e ancora umidi. << Papà ha chiamato me e la mamma. >> sussurrò. Gli tremò il labbro inferiore: non poté evitarlo. << Yama-nii... >> Aveva voglia di urlare fino a rimanere atono, di rompere qualcosa, di vomitare e di piangere. Suo fratello si scostò, per farlo entrare in camera e, a giudicare dei cocci sul pavimento, si rese conto che Yamato doveva aver già fatto tutto ciò. << Lo so, Takeru. Lo so. >> gli mormorò con voce bassa. E rimasero lì, a guardarsi piangere, per lunghi minuti, consapevoli entrambi dei pensieri dell'altro. Consapevoli di stare piangendo perché entrambi sapevano. Non avevano idea di dove fosse Shiori Yamamiya e non avevano nessuna garanzia che lei e Shio fossero la stessa persona. Eppure, nonostante questo, erano sicuri che fosse la verità. La tremenda verità. Sapevano che quella ragazzina che li aveva attaccati e distrutti era la stessa bambina che avevano conosciuto, la stessa che, da più di dieci anni, era sparita. E avevano dei sospetti. Che Shiori avesse trascorso quei dieci anni a Digiworld. Che Shiori avesse trascorso dieci anni nella fortezza nera, con Amimon come unica alleata, circondata e sopraffatta da folli. << Dieci anni... >> Erano tre quarti della tua vita, a tredici anni. << Se va bene. >> mormorò Yamato. << Cosa intendi? >> << Che prima della sconfitta dei Padroni delle Tenebre, il tempo a Digiworld era dilatato. Quindi, o si trovava in un posto in cui il tempo scorreva come sulla Terra, oppure Shiori ha trascorso su Digiworld ben più di dieci anni. >> Takeru boccheggiò. Si rifiutò di fare un conto preciso, altrimenti sarebbe impazzito veramente. << Posso entrare? >> chiese dopo un po' la voce di Natsuko da dietro la porta. << Sì. >> Lasciò aperta la porta. Dietro di lei, in corridoio, Hiroaki li osservava. La donna stringeva in mano un rettangolo di carta, che porse ai suoi due figli. Era una fotografia. C'erano bambini, in quella foto – una montagna di bambini soffocati da piumini e sciarpe, al centro di un prato coperto di neve. << Il sesto compleanno di Yamato. >> mormorò Natsuko. Al centro della foto, un bambino biondo stringeva una sua versione miniaturizzata e sorrideva apertamente da dietro una torta con sei candeline. Poco dietro c'era un sedia e sopra di essa, in piedi, una bambina minuscola, sottile, che sventolava una mano in segno di saluto e sorrideva all'obiettivo, ciuffi di capelli scuri che incorniciavano grandi occhi viola. Era sicuramente lei. Aveva i capelli troppo scuri, questo è vero; ma gli occhi erano viola e i lineamenti inconfondibili, almeno per loro due, visto che entrambi li vedevano nei sogni ogni notte, da quel benedetto giorno in cui a Digiworld si era trovati – o ritrovati, era il caso di dirlo – faccia a faccia. Poi, un pensiero si fece strada nella mente di Yamato. Era un'idea bizzarra e senza logica, almeno finché non cominciò a rifletterci sopra seriamente. Non si stupiva del fatto che né lui, né suo fratello, né uno qualsiasi dei restanti Digiprescelti non fosse mai venuto a conoscenza della presenza di un altro essere umano a Digiworld. Stiracchiando la realtà, poteva credere che nessun Digimon da loro conosciuto lo avesse mai saputo. Ma c'erano entità che dovevano esserne a conoscenza. Entità che avevano incontrato e che conoscevano. E dovevano aver mentito. Il sangue gli salì alla testa. << Takeru >> ringhiò << dobbiamo andare a Digiworld. Ora! >> Due
figure correvano nel vento, oltre fiumi, le città e le
montagne.
Correvano nel vento come se ne andasse della loro stessa vita. Magari era proprio così. Amimon non ricordava quando aveva avuto paura, l'ultima volta. Era stato troppo tempo fa. Eppure il terrore la stava sommergendo, puro e atavico. Shiori, invece, si ricordava l'ultima volta che aveva avuto paura, nonostante fosse stata tanto tempo prima. Non solo quella quella volta, si ricordava, ma anche la precedente. E quella prima. E quella prima ancora. Shiori ricordava ogni volta che aveva avuto paura. Ma soprattutto ricordava perché aveva avuto paura, tutte quelle volte. Così il terrore nacque ancora in lei, a distanza di anni, rinnovato da quella sensazione schiacciante di essere stata scoperta. Continuò a correre. Sempre più veloce, sempre più veloce. Dietro di sé, ad ogni passo, una scia di ricordi, un scia di rimpianti, una scia di rimorsi. E, ma lei non lo sa, una scia di speranze infrante e sogni spezzati. Desideri, insomma. Frammenti dolorosi di un passato distrutto. Non appena sua sorella era entrata di corsa aprendo la porta con un calcio, trafelata e con le due borse della spesa sballottate qua e là, urlando a gran voce << Ragazzi! >> (a lui e alla povera Gatomon, che era uscita di botto dal mondo dei sogni) con una nota isterica nella voce, Taichi aveva capito che c'era qualcosa che non andava bene per niente. Fece per correre verso la camera, ma un amorevole pugno lo centrò dietro l'orecchio destro, mandandolo a gambe all'aria e un altro urlo < << Che accidenti fai, Hikari? >> chiese alzandosi, mentre Gatomon rideva alle sue spalle, almeno finché la Digiprescelta della Luce non la zittì con uno sguardo di ghiaccio. << Non ci sono problemi a Digiworld? >> chiese speranzoso il Digimon gatto. << Certo che ci sono problemi a Digiworld. Ci sono sempre problemi a Digiworld. >> disse Hikari secca. << Ma non solo lì, stavolta. >> << Non capisco... >> << Non devi capire. Non so nulla nemmeno io, tranne che, in questo esatto momento, per un motivo noto solo a lui e a suo fratello, Yamato sta andando a prendere a pugni Gennai! >> << Che cosa? >> << Ti ho detto che non lo so! Basta che adesso ti sbrighi >> esclamò Hikari battendo i tacchi e indicando il computer << e vai a fermarlo! >> La torre di Gennai era nel panico. Pochi minuti prima, un Digimon lupo bianco e blu era entrato salendo fino in cima. Taichi non soffocò l'imprecazione che gli era salita alle labbra; lasciò Izzy a tranquillizzare i Digimon sul fatto che no, non erano sotto attacco e seguito dal resto dei suoi amici corse a perdifiato su per le scale, verso la sommità della torre, verso la stanza di Gennai. Entrò senza bussare, spalancando una porta che pareva essere stata appoggiata alla parete dopo essere stata divelta dai cardini. Dentro la stanza, Gennai era a terra che si massaggiava la gola e in piedi, di fronte a lui, Yamato cercava di divincolarsi dalla stretta di Takeru, lo sguardo livido inchiodato al punto del pavimento su cui giaceva l'essere digitale. Taichi scattò, placcando Yamato con una perfetta mossa da rugby, bloccandolo a terra dopo qualche attimo di zuffa. << Si può sapere che ti è preso? >> << Cosa ci fate qui? >> si urlarono addosso nel medesimo istante. Il biondo voltò la testa verso suo fratello. << Sei stato tu? >> << Non potevo permetterti di fare del male a Gennai. >> << Ma ti ha dato di volta il cervello? >> urlò Yamato verso Takeru. Taichi rimase senza parole. Il biondo non aveva mai, mai, urlato in quel modo all'altro ragazzo. << No, tu hai perso la testa! Lo so che sei arrabbiato! >> ribatté Takeru, urlando anche lui. << So perché sei arrabbiato e lo sono anch'io, come potrebbe essere diversamente? Lo so che tutta questa... cosa è tremenda, che rimanere lucidi è difficile, ma lasciarsi prendere dall'ira non aiuta e non risolve niente! >> Gridò con tutto il fiato che aveva in gola. Yamato smise di divincolarsi dalla stretta di Taichi e si calmò un poco. << Hai ragione. >> mormorò a Takeru. Che iniziò a piangere. Allora, solo allora, il Digiprescelto del Coraggio si accorse che il ragazzo che teneva stretto aveva gli occhi rossi e lucidi. << Che succede qua? >> Yamato non piangeva mai. Mai. Per nessun motivo. A quanto pare, invece, un motivo c'era. Il resto del gruppo entrò piano nella stanza, anche Koushirou e Tentomon, saliti da pochi secondi. Takeru si asciugò rabbioso le lacrime, ma quelle continuava a cadere. Allora rinunciò, lasciandosi cadere a terra da dove, scambiatosi un'occhiata con suo fratello, iniziò a raccontare. Quando finì, mezz'ora dopo, la voce la sua voce era roca, dalla fatica e dal pianto. Ventun teste lo osservano senza produrre alcun suono, se si escludevano i singhiozzi di Miyako e Mimi. << È terribile. >> mormorò Jyou, dando voce all'unico pensiero che circolava nelle teste dei presenti. Yamato si liberò facilmente dalla stretta di Taichi che, sconvolto, era fermo in ginocchio. << Sì, è terribile. È terribile perché nessuno di noi sapeva niente, conseguentemente Shiori ha passato dieci anni prigioniera nella fortezza. O sbaglio? >> sibilò a Gennai. << No. Non sbagli. >> La creatura digitale si alzò da terra appoggiando la testa tra le mani forti. Illusione, pura illusione. Lui era vecchio, era vivo da tanto tempo. Era vecchio dentro, nonostante il corpo di un giovane. Era un vecchio che ne aveva passate tante. Guardò i ragazzi di fronte a lui, ad uno ad uno, soffermandosi sui due fratelli biondi, vedendo le loro lacrime e il loro dolore. Chiuse gli occhi un attimo e subito se ne aprirono altri, nella sua testa. Erano occhi viola, contornati da ciuffi di capelli neri, e appartenevano a un ricordo. Erano enormi, quegli occhi viola; o almeno a lui erano parsi così, quella volta che si erano inchiodati verso di lui, pieni di terrore, gridando una muta richiesta di disperato aiuto, finché una spessa coltre nera e maligna non li ricoprì, cancellandoli dal mondo. Provò rimorso per il suo errore e rimpianto per non averlo mai confessato. A chi avrebbe giovato, del resto? Gli occhi del maggiore dei due biondi lo scrutavano pieno di quello che poteva sembrare odio, ma non era che disperazione. << Tu sapevi! >> Non era una domanda, ma un'accusa. << Sì. >> rispose. Forse Yamato non si aspettava una risposta così diretta; fatto sta che rimase sorpreso. Gennai, però, non si fece illusioni. Sapeva che da un secondo all'altro il ragazzo gli sarebbe saltato al collo, con l'intento di fargli più male possibile. Gennai lo sapeva; come sapeva che, se davvero Yamato avesse voluto farlo a pezzi, ne avrebbe avuto tutto il diritto. La
fortezza nera si stagliò davanti a loro, illuminata dalla
tenue luce dello spazio di mezzo.
Per la prima volta, la sua visione donò ad Amimon sollievo. La fortezza sapeva di sicurezza e stabilità. Per Shiori la fortezza sapeva sì di forza e sicurezza, ma anche di casa. E quel pensiero non le donava che una cupa desolazione. Era andata alla scogliera, quella mattina, per mettere ordine in sé. Per cercare di recuperare quello che Ichijoji e DemiMeramon le avevano tolto. Non era così grave che sapessero il suo nome. O meglio, il suo soprannome. Ancora meglio: uno dei suoi soprannomi. Ma non c'era riuscita e quel vento bizzarro l'aveva allarmata. Due emozioni in due giorni; un record. Entrando nell'atrio, cominciò di nuovo a chiudere le crepe che aveva nell'anima. Pensava alla fortezza. Solida, impenetrabile, nera. Esattamente come doveva essere la sua anima sporca. << Dodo! >> Pattogmon uscì da un corridoio. << Va meglio, oggi pomeriggio? >> Amimon aggrottò le sopracciglia. << Cosa vuoi? >> << Sono solo preoccupata. >> Pattogmon rimase seria per cinque secondi. Poi scoppiò a ridere. Una risata fredda, sadica e crudele. Una risata... vittoriosa. << Come potrei preoccuparmi per voi? Non siamo nemmeno più amici... >> Una luce malefica le brillò negli occhi. << Altri lo sono, vero? >> Shiori la fissò immobile, mentre pian piano capiva. Avevano saputo. Avevano saputo che avevano fatto fuggire Hikari. Amimon si lanciò con un urlo verso il Digimon di cenere, atterrandolo. Poi qualcosa atterrò lei. << Scappa! >> urlò a Shiori, prima di svenire. Ma lei non ci provò nemmeno. Rimase solo immobile sulle sue gambe appena divaricate, senza nemmeno guardare i sette Digimon che le arrivavano addosso, sopraffacendola come le rocce fanno con un fiore. Dov'era finito il suo castello di pietra? Crollato, distrutto, andato per sempre. Perché, dopotutto, era solo un castello di vetro. Ed eccomi qua! Alla solita ora di sempre, quarto d'ora più, quarto d'ora meno. Sempre come al solito, non so che dire nelle note. Il capitolo dovrebbe parlare da sé (o almeno spero). Cominciano le risposte! Chi è quella ragazza, perché è lì e similari; altre sono le domande, comunque, le cui risposte sono ancora in sospeso. Spero comunque che questa storia piaccia e intrighi, almeno un po'. Ho un piccola nota per chi mi segue: il discorso di Gennai sul rimpianto e il rimorso, non vi pare di averlo già visto da qualche parte? Un grazie di cuore a Werewolf1991 e a kymyit, che recensiscono sempre, a ChibiRoby che ha aggiunto la storia alle seguite e a Kyz, che ha fatto altrettanto e che da un mese mi garantisce una recensione al prossimo capitolo - cioè questo. Spero sia di tuo gusto. Un abbraccio enorme (che contenga tutti quanti!) coco |
Capitolo 10
*** Cap.09_Follia ***
Capitolo 09: F o l l i a
“Questo dolore puro, senza oggetto, questa essenza di dolore è senza dubbio il dolore del folle; non ci rendiamo mai conto (per quanto sappiamo nominare la follia e liberarcene) che i folli, molto semplicemente, soffrono.” Roland Barthes, Amare Schumann
Quel palazzo era un vero labirinto. Bastava svoltare un angolo e subito appariva una scala, che immancabilmente finiva con l’intrecciarsi con un’altra sua simile proveniente – o almeno così sembrava – direttamente dalle tenebre. Inoltre, perfino i corridoi più brevi erano disseminati di porte, collegamenti e scorciatoie per cui, chiaramente, si finiva per non completarne nemmeno uno. Dopo pochi minuti, quindi, Shiori si era già completamente persa. La creatura che l’accompagnava non aveva detto una parola da quando avevano lasciato il salone: si limitava ad avanzare, in silenzio, stringendole una spalla e costringendola così a camminare. Non che a Shiori importasse granché. Ben poche cose attiravano la sua attenzione in quel momento e certamente non una mano su una spalla, per quando la mano fosse gelida e la stretta scomoda e quasi dolorosa. Uno strattone le fece inequivocabilmente segno di fermarsi. Alla loro destra c’era una porta nera e lucida, a due battenti e talmente grande che pareva strano trovarla all’interno di un edificio e non all’ingresso. L’essere lasciò andare la bambina e appoggiò il palmo tra le due maniglie, dando una leggera spinta; i due battenti si aprirono, senza fare il minimo rumore. Shiori fu fatta entrare. Davanti a lei si aprì una stanza grande, e spoglia. Sembrava un specie di grotta, costruita senza cura; le stesse pietre grezze e scure, appena sbozzate, coprivano pavimenti soffitto e pareti e si interrompevano solo alla porta di ingesso, alla porticina del bagno e all’unica finestra della stanza. Una feritoia, più che una finestra, posta molto in alto sulla parete di fondo, e da lì passava un singolo fascio di luce offuscata, che colpiva in pieno il viso della bambina, senza nemmeno accecarla. Davanti alla porta, sulla sinistra, si appoggiavano le quattro gambe di un tavolo di legno rozzamente intagliato su cui stavano due sgabelli capovolti. Addossato alla parete di fondo c’era un letto a due piazze e accanto, nell’angolo a destra, la porticina del bagno, di legno morbido e chiaro, coperta da uno spesso strato di polvere scura. Vivere lì non poteva che essere terribile. E lo sarebbe stato, per lei, perché quella… << Questa è la tua stanza. >> disse il suo accompagnatore. Appunto. L’essere uscì senza dire nient’altro e la porta chiusa a chiave vibrò un’unica nota sorda, la cui eco durò a lungo nel silenzio perfetto della stanza. Nello stesso istante, la gola di Shiori si strinse e la bambina annaspò, alla ricerca di aria. Sembrava che non ce ne fosse mai abbastanza. Alzò gli occhi e le parve che le alte pareti si chiudessero su di lei: chiuse gli occhi, raggomitolandosi su se se stessa e continuando a ripetersi che no, non era vero, non era vero, non era… Un piccolo lamento giunse alle sue orecchie. Tre piccoli tonfi, tre passi, si avvicinarono a Shiori e qualcosa le sfiorò lieve una spalla, per poi aggrapparsi alla manica destra del pigiama della piccola, il suo preferito, quello verde con le mucche alate. Shiori allentò la presa alle ginocchia e alzò il viso. Accanto a lei, esattamente alla stessa altezza, c’era l’altra creatura, quella lilla uscita dall’uovo bianco e decorato. Quella che le avevano affibbiato e che, si rese conto, non voleva nemmeno vedere perché dava un sapore definitivo a quell’incubo da cui non si sarebbe mai svegliata. Lo seppe improvvisamente, con la più assoluta certezza. Era perduta. E mentre pensava a questo e il cervello andava in tilt, la piccola creatura lilla alzò le braccia e con gli occhi pieni di tutta la pena e la tristezza mai provate da qualcuno, tentò di abbracciarla. Il mondo di Shiori si tinse di rosso. Scrollò con violenza il braccio; l’esserino, colto alla sprovvista, inciampò e cadde, ma Shiori lo intercettò a metà strada, con una pedata data con la precisa intenzione di fare più male possibile. Il colpo fu violento, tale da mozzare il fiato alla creatura e fu solo per questo che non urlò; volò per la stanza e cadde rantolando ai piedi del letto, e da lì non si alzò più. Lo stomaco di Shiori si contorse come un disperato gatto arrabbiato e la bambina urlò, urlò fino a non avere più voce, finché non sentì la gola bruciare e il sapore rugginoso del sangue sulla lingua. Rovesciò il tavolo e gli sgabelli, gettò a terra le coperte e ridusse a brandelli le lenzuola. Corse alla porta e la tempestò di pugni e calci, sbucciandosi nocche e piedi e poi diede un’ultima, sonora testata, graffiandosi a sangue, prima di cadere, nuca a terra e occhi rivolti al soffitto. “Alzati.” le disse la rabbia. “Alzati e fai capire che stai male.” “Alzati e fai soffrire.” Shiori si tirò in ginocchio. "Alzati." Puntellandosi con una mano, fece per tirarsi su… "Alzati." … e ricadde supina. "Debole. Debole. Sei debole." Ci riprovò. Un ginocchio, poi l'altro, entrambe le mani spinsero contro la pietra… e cadde ancora. "Debole." Digrignò i denti. "Debole." Le gambe non risposero all'impulso – ma forse si risparmiò solo il dolore di un'ulteriore ricaduta. "Debole." Non le era mai importato essere debole, di tanto in tanto. Lei era una bambina forte; ma comunque piccola, comunque umana. C'erano casi in cui la debolezza era gradita. C’erano stati, ne era certa. Eppure sentiva che non ne avrebbe più avuto diritto. "DEBOLE!" Non poteva permetterselo più, non poteva da quando aveva provato a piangere, nel momento in cui il portone della fortezza si era chiuso dietro di lei, e non era finita bene. Al primo singhiozzo che si era azzardata a fare – il primo, in realtà, che non era riuscita a trattenere, che nonostante tutto le era uscito dalle labbra – aveva ricevuto il primo ceffone della sua vita. E le aveva fatto male, perché non era un ceffone di una madre o di un padre, ma di un mostro che l'aveva appena portata via da loro e per il quale non era che carne da battaglia. Appoggiò un piede nudo sulla pietra e la mano opposta la mantenne in equilibrio. Con l'altra, stretta a pugno, spinse per terra, con tutte le forze rimaste. "Debole?" Ecco, era in piedi. E quindi? Si guardò intorno, persa. Non aveva nulla da fare. Si mosse verso l'angolo sinistro, oltre i resti del tavolo e dell’unico sgabello rimasto, perché l'altro era volato contro la parete. Evitò il letto, duro e freddo, e appoggiò la fronte al muro fresco. Sollievo. Le gambe tremarono un'ultima volta e Shiori scivolò a terra, stringendosi ancora alle ginocchia. "Sì, sei debole." La piccola tirò su col naso. "Sì, lo so." rispose a se stessa. Dall'altro lato della camera, la creatura ferita singhiozzò ancora, dopo un lungo silenzio, e Shiori si sentì un mostro. Si spostò un po' a sinistra, in modo che il letto la nascondesse alla vista di chiunque fosse entrato. Lì rimase, per lungo tempo, a piangere di nascosto le ultime lacrime che avrebbe sparso tra quelle mura maledette.
La stanza era immersa nel buio, ma non un buio totale; dall'unica finestra filtrava una luce tenue, ma sufficiente a distinguere i contorni delle cose. Quando Shiori riprese conoscenza era stesa sul pavimento. Un pavimento di pietra fredda e dura, la stessa che c'era in ogni luogo nel castello, ma le bastò un attimo per capire che quella era la sua camera ed era stesa nello stesso identico punto dove si era rintanata la prima notte che aveva trascorso alla fortezza – trenta centimetri a sinistra del letto, invisibile a chiunque fosse entrato dalla porta. Ma non ci si era stesa da sola, dopo aver lottato contro la propria rabbia, uscendo perdente dallo scontro. E la cosa peggiore, constatò alzandosi, era che, dall'altra parte della stanza, non c'era nessun Digimon ferito, ferito da lei, a emettere singhiozzi di dolore. Dov'era Amimon? Fu questo a spaventarla, più di tutto il resto, più della sua mente confusa che non riusciva a ricordarsi cosa fosse successo. Cominciò a lottare contro la nebbia nella sua testa, sforzandosi di concentrarsi come riusciva sempre a fare. Scappare dentro la sua mente le era sempre risultato facile; e allora perché non ne era capace? Perché ogni tentativo le faceva più male? Voleva urlare. Strinse la testa, pronta a sbatterla contro il muro… C’era qualcosa, sulla sua tempia destra. Stringendo gli occhi si avvicinò alla luce e pose le dita nel fascio luminoso. Era sangue raggrumato. Era stata colpita – per la prima volta da che ne aveva memoria. E mentre si chiedeva come fosse successo, si ricordò chi era stato. Un sorta di artiglio le perforò il petto e ridusse in briciole il suo cuore a pezzi. Gemette piano e mentre si accasciava tremando sulle ginocchia un conato di vomito la scosse. Sputò bile sul pavimento – da quanto era lì? Da quanto non mangiava? – e solo a quel punto percepì la presenza di qualcuno in piedi nell’ombra. I brividi divennero singulti violenti, qualcosa sferzò l'aria e lei comprese chi era lì. Dietro di lei c'era Darklullabymon, che le puntava il bastone alla schiena.
Il solito corteo accolse Darklullabymon alla sua uscita dalla camera. << Chiudete la porta. >> ordinò << Sprangatela. >> I Digimon obbedirono velocemente e con efficienza. Nessuno si azzardò a chiedere il perché di tutte quelle precauzioni con una stanza vuota.
Darklullabymon non c'era più. Ne era certa. Ma non era altrettanto certa che fosse un bene. Smise pian piano di tremare e constatò che la porta davanti a lei era aperta. Doveva scappare. Andarsene. Doveva trovare Amimon. E da quando saresti capace di fare per lei qualcosa che non le provochi dolore? Strinse gli occhi. Era molto tempo che non aveva pensieri del genere. Diversi anni, almeno da quando… Plic. Una goccia cadde a terra, molto vicina a lei e produsse quel suono ovattato di quando l’acqua cade nell’acqua. D’un tratto le parve di non sapere più come respirare. Plic. Oh, no, non era un’impressione. Stava davvero soffocando. Plic. Si raddrizzò. Attorno a lei c’era solo acqua. Quella non era la sua stanza. Conosceva comunque quel posto – comprese immediatamente – era perfettamente logico che lei fosse lì. Darklullabymon sapeva del suo terrore. Sapeva del suo trauma. Quale posto migliore, quindi, per spedire una traditrice? L'acqua continuava ad arrivare da non si sa dove. Le aveva ormai raggiunto i fianchi e procedeva inesorabile verso la vita. Sperò di non essere lasciata lì a marcire a lungo, o sarebbe impazzita prima. Quel castigo sarebbe stato diverso. Non poteva essere leggero. Non poteva essere veloce. Non poteva, perché la colpa era stata troppo grave. L'acqua le superò il petto e il cervello le urlò di alzarsi, prima di affogare. Rimase comunque a terra. Quando sarebbe iniziato? Temeva la punizione, ma prima fosse iniziata, prima sarebbe finita. E non voleva diventare pazza appena prima della fine. L'acqua le lambì i capelli, che presero a vorticare come serpenti, poi, alla fine, raggiunse la gola. Una mano le si posò sulla spalla. Shiori non si sorprese. Si voltò lentamente, per vedere in volto la risposta che dentro di sé sapeva, cioè sotto che forma la sua incontrovertibile fine le sarebbe arrivata. Incrociò lo sguardo con l'essere dietro di lei e non sentì che dolore. Ed espresse il primo desiderio dopo tanti anni di vuoto, dopo tante notti senza speranza, dopo tanti anni di nulla. Espresse il suo primo desiderio, e fu di smettere di esistere.
Venerdì 30 Settembre 2005. Tokyo. Ogni singola volta che a Digiworld si presentava un problema (piuttosto spesso, quindi), la risposta preferita di Daisuke alla domanda “Che facciamo?” era immancabilmente “Andiamo a prendere a calci quelli che hanno fatto tutto ‘sto casino, così dopo non ci provano più” e alla fine, seppur con qualche rifinitura che rendeva il tutto forse un po’ meno virile ma certamente più efficace, più o meno era sempre quello il piano messo in pratica. Bei tempi, quelli, pensava Daisuke mentre camminava verso casa: i cattivi erano da una parte, i buoni dall’altra e anche quei buoni che avevano per un motivo o per un altro deviato dal sentiero giusto, se non ci ponevano rimedio da soli, necessitavano al massimo di una bella dose di ceffoni per rinsavire. Ultimamente, rifletteva ancora, non era più così facile. I cattivi erano più cattivi che mai e i buoni passavano le giornate in depressione per via di una negligenza altrui, invece che cercare contromisure al disastro. Perché, comunque la si mettesse, il senso di colpa c’era. Punto. Daisuke diede un calcio a una lattina trovata per strada, irritato come non mai. << Dai… >> gli sussurrò Demiveemon dallo zaino che il ragazzo portava sulle spalle. << Scusa. >> Il ragazzo si chinò a raccogliere la lattina – aranciata – e la gettò nel primo cassonetto appropriato che incontrò sul suo cammino. Quella era, senza ombra di dubbio, la crisi peggiore che il gruppo aveva avuto da quando era un Digiprescelto. Andava a scuola e vedeva gli sguardi persi di Hikari e Takeru; si trovavano insieme e Miyako non lo prendeva più in giro, mentre Iori non lo faceva più sentire scemo; e batteva a calcio Ken. Infine, non gli serviva uno psicologo per capire che anche lui non si comportava del tutto normalmente. Gli bastava sua sorella. Si trascinò lungo la scala fino a casa sua, dove trovò la porta aperta e la mamma ad accoglierlo con un sorriso. << Salve, erede maschio. Com’è andata a scuola oggi? >> Scrollando le spalle, Daisuke mugugnò un << Al solito >> prima di lasciarsi cadere sul letto. << C’è Jun? >> gridò, mezzo soffocato dai cuscini. << Non ancora. >> rispose la donna dalla cucina proprio nel momento esatto in cui la porta d’ingresso si apriva ancora e un allegro << Sono a casa! >> echeggiava tra le pareti, strappando un lamento a Daisuke. No, sua sorella non sarebbe riuscito a sopportarla. << Mamma! Io esco! >> gridò ancora, mentre si infilava un paio di pantaloni più adatti. << Adesso? >> domandò la signora Motomiya uscendo perplessa dalla cucina. << Sì. >> << E dove vai? >> << A correre! >> E infilò la porta ben prima che sua sorella avesse finito di levarsi scarpe, sciarpe, cappotto e una lunga serie di accessori strettamente necessari. Fuori lo accolse un gelido venticello autunnale che dieci minuti prima, poteva giurarlo, non c’era. Strinse forte tra le braccia lo zaino con Demiveemon e imboccò il viale che portava al parco, sforzandosi di concentrarsi soltanto sulle prime foglie gialle che cadevano dagli alberi e su niente di più impegnativo. Si fermò diverso tempo dopo, esclusivamente perché la milza lo minacciò di andare in vacanza a tempo indeterminato. Era tanto che non si portava così al limite e, al di là del dolore, si sentì soddisfatto di se stesso. Si appoggiò alle ginocchia, madido di sudore, scostandosi dal viso alcune ciocche con un gesto veloce della testa. Fulminò con gli occhi alcuni nonnini che passavano per caso e lo fissavano interdetti e anche un gruppo di ragazzine, tra cui forse una o due non lo guardavano con evidente disgusto. Si sdraiò sulla prima panchina libera, di un bel verde brillante, lasciando la testa oltre il bordo, pensoso. Il buio arrivò dopo poco e Demiveemon, purché si impegnasse a comportarsi come cane, poteva stare fuori dalla borsa senza che nessuno si accorgesse di lui. Il piccolo Digimon blu si avvicinò titubante al collo del ragazzo e si sporse appena. << Ehi >> sussurrò, << Stai bene? >> << Boh >> rispose sinceramente l’altro. Demiveemon si agitò un poco, titubante, prima di afferrare con forza lo scollo della maglietta di Daisuke e di tirare con forza, puntando i piccoli piedi nelle costole, finché non si trovò a fissarlo negli occhi. << Senti, Dai >> iniziò, << non ti arrabbi, vero, se ti dico che secondo me stai perdendo un po’ la testa? >> << Dici? >> mormorò sarcastico quello. << Sì, >> continuò Demiveemon serio, << dico. >> Qualcosa di quello che vide spinse Daisuke a prendere più sul serio del solito le parole del suo Digimon e così scelse di mettersi a sedere di sua spontanea volontà. << D’accordo, d’accordo… Hai ragione. >> Daisuke sospirò, << Me ne rendo conto, però… non so come fare per riprendermi. Non so cosa fare! E se non so cosa fare con me, come posso aiutare gli altri? Perché anche gli altri sono… >> << Lo so. >> << Quindi, se lo sai, capisci bene che sono a un punto morto! Cioè, è una situazione che non ho mai affrontato e io ho qualche problema con certe novità. >> << Lo so. >> << Certe novità mi mandano in panico! >> << Lo so. >> << E allora, visto che sai tutto, perché non mi trovi tu una soluzione? Perché non so che fare! >> << Lo so. >> << Lo so che lo sai, dannazione, te l’ho detto io che non lo so… Ahi! >> gridò di dolore il ragazzo, quando la testata del Digimon lo colpì al naso. << Ehi, Daisuke. >> << Che vuoi? >> << Solo ricordarti… che raramente tu hai saputo cosa fare. >> sciorinò Demiveemon tutto d’un fiato. Quando vide che il ragazzo non solo non gli tirava un pugno in testa, ma non aveva ancora capito, alzò gli occhi al cielo e decise di continuare. << Intendo dire che tu sei più un tipo per l’azione, che per il ragionamento. Perciò, >> tossicchiò, << prima di diventare completamente pazzo, pensa a chi potrebbe sapere cosa fare. >> poi sorrise, concludendo, << Non c’è nulla di male a chiedere aiuto quando ne hai bisogno. >> << Oh. >> era rimasto sorpreso. Demiveemon l’aveva colto del tutto in contropiede, ma finalmente il cervello del ragazzo iniziava di nuovo a recepire i messaggi. Il suo Digimon aveva ragione. Dannatamente ragione. << Demiveemon, >> annunciò solenne, << tu sei un genio. >> << Io sono normale. >> ribatté la piccola creatura, << Sei tu che sei stupido. >> spiegò candidamente mentre Daisuke digitava un numero di cellulare. << Ma che divertente. >> il ragazzo si schiarì la voce. << Grazie… per avermi tirato su. >> si sentì in dovere di dire, mentre il telefono dall’altra parte squillava. << Figurati. Mi sembrava ti stessi fondendo con la panchina e, con tutto il rispetto, se proprio ti vuoi fondere con la panchina, scegli una posizione più comoda… Aspetta. Intendevi su di morale? >> << Lascia stare. E sappi, comunque, che semmai mi volessi fondere con qualcosa, sarebbe un letto. >>
Gocce scivolavano lungo le pareti di pietra fredda, scorrendo tra le scanalature, fino al pavimento su cui cadevano una dopo l'altra producendo un suono ritmico, insistente e agghiacciante. Amimon aprì gli occhi a quel suono. Troppo buio per distinguere qualcosa. Mosse appena le braccia, solo per sentire il rumore di catene in ferro spesso e resistente. Mosse le gambe e accadde lo stesso. In più c'era solo il rumore dell'acqua increspata. Era inginocchiata nel buio. Ma non era sola. << Ben svegliata. >> Amimon strinse i denti a quel suono. Da un angolo buio emersero due figure che il Digimon conosceva bene, una che avanzava diritta, a suo modo regale, l'altra che saltellava evidentemente ebbra di gioia. Darklullabymon si avvicinò ad Amimon senza produrre alcun rumore, con al seguito Pattogmon con un sorriso da orecchio a orecchio. Il Digimon di cenere mostrò fino all'estremo il suo intero corredo di denti aguzzi, l'espressione con cui un vincitore sadico guarda lo sfidante distrutto al termine del gioco. Tutto questo Amimon lo registrò appena, soffermandosi invece sul fatto che Darklullabymon non avesse il solito bastone. << Non ti farà niente. >> esclamò Pattogmon notandone lo sguardo e per qualche strana ragione sembrò esaltata. Darklullabymon si avvicinò ancora. << Niente di fisico, tesoro. >> le sussurrò. L'acqua raccolta ai piedi di Amimon sfrigolò, quando il Digimon sentì il sangue salirle alla testa. Pattogmon sembrò leggermente seccata. << Hai ancora spazio per l'odio, in quella tua testolina? Non sei semplicemente disperata? >> << Dov'è Shiori? >> chiese Amimon senza considerare nemmeno per un secondo la sua vecchia compagna. Un breve secondo di silenzio, il sorriso di Pattogmon che si allargava ancora, gli occhi di Darklullabymon che si riempivano di gioia malata, la mente di Amimon che registrava e capiva. D'altronde la soluzione gliel'avevano data appena dieci secondi prima. “Niente di fisico, tesoro”. Amimon scattò in avanti e le catene dietro di lei si tesero allo spasmo, senza però cedere. << Dov'è Shiori? >> Darklullabymon si pose l'indice sulle labbra e sorrise anche lei. Non avevano alcuna intenzione di dirglielo. Darklullabymon scosse le testa e seguita da Pattogmon le dette le spalle, varcando la soglia. Da dietro la porta sprangata, Amimon cacciò il primo urlo.
Daisuke arrivò perfettamente in orario e già questo dette a Taichi parecchio da pensare. Era seduto mollemente al tavolino di un bar e osservava un po’ il cielo notturno, un po’ la gente che passava, ognuna, a modo suo, particolare: si partiva dalla ragazza carina da morire con tre spasimanti palesemente innocui a cinque metri di distanza al bambino dagli occhi azzurro cielo che cercava di mangiare un gelato ben più grande di lui, mentre i nonni lo guardavano con occhi adoranti. Taichi si concesse un attimo l’aria quotidiana e tranquilla di quella sera di settembre. Sapeva di normalità, di casa e di sicurezza e Taichi raccolse un chicco di quella pace che emanava e lo assaporò fino in fondo, perché aveva imparato a considerare come doni preziosi ognuno di quegli attimi dolci. Era appena passata l’ora di cena quando scorse la chioma di Daisuke in lontananza e ritornò con i piedi per terra. Un po’ se l’era aspettata la richiesta che Daisuke gli aveva fatto a telefono un paio d’ore prima – “Avrei bisogno di parlarti. Quando possiamo vederci?” – ma non era sicuro di quale piega quel futuro discorso avrebbe preso. << Ciao. >> esordì avvicinandogli una sedia. L’altro, sedendosi, gli rivolse un cenno col capo e Demiveemon gli sorrise. Questo tranquillizzò un po' il ragazzo più grande. Taichi scrutò il volto di Daisuke, che guardava per terra; erano sempre simili, ma anno dopo anno le differenze si facevano sempre più nette. I capelli del più giovane, oltre ad avere una piega diversa, erano palesemente più rossi; gli occhi più grandi contribuivano a dargli quell’aria da eterno bambino giocherellone che lo contraddistingueva; infine, per quanto fosse presto per dirlo con assoluta certezza, Taichi era sicuro che Daisuke l’avrebbe superato in altezza. Daisuke ordinò un caffè e un pezzo enorme di dolce al cioccolato e quando arrivò cominciò a mangiarla con gioia evidente, passando di tanto in tanto qualche boccone a Demiveemon, sotto il tavolo. << Mi sa che non hai cenato. >> dedusse Taichi. << Ehatto. >> borbottò l’altro inghiottendo l’ultimo pezzo di torta. Con la pancia piena diventava dieci volte più cordiale. << Ero a correre. >> Spostò il piatto vuoto sul bordo del tavolo e una cameriera stupita da tanta velocità lo portò via. << Sai… mi aiuta a pensare. >> confessò. << Be’, ti capisco. E a cosa hai pensato? >> Daisuke smise di nuovo di guardarlo in faccia – accidenti, l’effetto benefico del cibo era già finito? – e Taichi sentì di cominciare a innervosirsi. Maledizione, doveva dire una sola frase e lo faceva patire così? Era un bel po’ che conviveva con i nervi a fior di pelle e ora ci si metteva pure… Calma. Inspirò, espirò. Calma. Non serviva a nulla arrabbiarsi, lo sapeva. Oltretutto, non era giusto trattarlo male solo per scaricare un po’ di tensione. Sarebbe stato sufficiente aspettare e Daisuke avrebbe vuotato il sacco da solo, non era il tipo da tenersi tutto dentro. Be’, neanche lui stesso era il tipo da tenersi tutto dentro, ma una volta l’aveva fatto e ancora non aveva detto niente a nessuno*, comunque… << Taichi, devi fare qualcosa. Devi dare agli altri una scrollata. >> Cosa?, pensò. << Cosa? >> esclamò. << Svegliarli. Rimetterli in sesto. >> spiegò Daisuke, << insomma, toglierli da questo stato di… paura e rimorso e tristezza e rabbia e dolore in cui sono! >> Ah, e così aveva la fama di riuscire a compiere miracoli? Come poteva quello anche solo pensare che lui, da solo, potesse guarire tutti i loro amici da quel colpo basso che avevano ricevuto e riportarli a come erano? E poi anche lui, Taichi, non ne era uscito bene. Era un ragazzo normale e anche lui era stato male, anche lui soffriva, anche lui… << Per favore. >> bisbigliò Daisuke. << Puoi aiutarli solo tu. >> Oh. Così, non solo sapeva compiere miracoli, ma era anche il solo a saperlo fare. Almeno secondo il suo amico. << E tu? >> gli venne da chiedere. Il viso di Daisuke si fece rigido, granitico, con un’espressione che Taichi non gli aveva mai visto. Lo osservò mentre, a occhi bassi, faceva piccoli respiri veloci, affannati, poi uno più profondo appena ebbe raggruppato la forza necessaria. A quel punto, con una voce che sembrava ghiaccio invernale spezzato dall’ennesima tempesta, dischiuse la bocca in modo irregolare, come una frattura, e parlò. << Ho paura. >> Dirlo gli era costato tanto, era evidente; ma era anche evidente che non aveva potuto farne a meno, come testimoniavano le mani tremanti strette intorno a Demiveemon. << Ho paura, Taichi. >> Questo fece molta impressione al ragazzo più grande e qualcosa, dentro di lui, si mosse. Gli ci volle solo un attimo a capire. Gli occhi di Daisuke erano gli stessi occhi di sua sorella, che lo guardavano spenti e non sorridevano più assieme alla bocca; erano gli occhi di Takeru, che aveva incontrato due giorni prima, che alla domanda “Come stai?” avevano smentito quel “Bene” sussurrato a mezza voce. Inoltre, poteva giurare che anche gli altri loro compagni avessero lo stesso sguardo. Pensò che se lui stesso, Taichi, non era nemmeno un adulto, loro non potevano nemmeno essere considerati ragazzi, ma solo ragazzini. Poco più che bambini. Pensò che lui aveva visto Shiori per la prima volta un mese prima, per cui non poteva ricordarla bambina eppure, sentendo quello che le era successo, se l’era comunque immaginata. Shiori, nella sua mente, aveva il volto di sua sorella a tre anni che in ginocchio sull’asfalto di Hikari Ga Oka tossiva e quasi si strozzava senza riuscire a soffiare nel fischietto per svegliare Greymon; se lui non ci fosse stato? Poi aveva avuto il volto di Takeru a sette anni che, sul monte Fato, vedeva Angemon diventare piume; se Angemon non fosse mai rinato? Pensò che fino a quel momento, l’idea di perdere aveva solo sfiorato i Digiprescelti. Chi non ha mai penso, non ha mai avuto bisogno di rialzarsi e non ha la più pallida idea di come fare. Onestamente, non avevano realmente perso; ma era come se fosse successo e questa era la strada diretta verso la perdita di sé – e rimettersi insieme, poi, è molto, molto più difficile. Daisuke se n’era reso conto e l’idea lo terrorizzava. Taichi non poteva biasimarlo. Non poteva biasimare nessuno. Poteva solo cercare di invertire il processo, lui, che aveva la capacità di seppellire la paura in fondo al suo cuore, accanto a tutte le cose buone che aveva visto e fatto e lì, quindi, renderla insignificante. Sapeva la strada. Doveva solo mostrarla agli altri. Per questo non si sentì indeciso, nemmeno per un istante, quando strinse la spalla di Daisuke, gli sorrise e gli disse << Ci penso io. >>
Amimon si svegliò dopo ore. Il sottile strato di fuoco che la ricopriva era pallido e incerto e si poteva intravede la pelle nera sottostante. La gola, invece, ardeva con forza, per il gran urlare. Una goccia d’acqua la colpì sulla schiena e Amimon percepì che le ci volle un po’ a evaporare. Si stava spegnendo ed era la prima volta da che era digievoluta in Amimon, anni prima, poco dopo che Shiori aveva capito che lei non era un nemico. Shiori. Shiori. Dov’era Shiori? Come poteva fare per saperlo? << Ehm ehm. >> Appoggiata allo stipite della porta, Pattogmon la guardava, ancora gioiosa. << Non mi inviti a entrare nei tuoi appartamenti? >> Amimon abbassò veloce la testa. Poteva immaginare Pattogmon che scoppiava di gioia a quella vista, ma non le interessava. Doveva avere la mente chiara per riuscire ad avere l’informazione che le serviva.
Il piano di Taichi era semplice. Breve e conciso, portava direttamente all’effetto desiderato: per questo gli piaceva tanto. Aveva lasciato Daisuke sulla porta di casa da appena dieci minuti che già si trovava davanti all’appartamento di Yamato e aspettava che il ragazzo gli aprisse. Il suo piano era semplice e portava direttamente all’effetto desiderato: per questo avrebbe funzionato. Bastava continuare a ripeterselo, poi se ne sarebbe convinto. Aveva scelto di iniziare con qualcuno di facile, qualcuno di poco problematico. Certo, il suo migliore amico era scosso e addolorato; ma Yamato era forte. Di fronte a Gennai era esploso, buttando fuori tutto e bastava che si ricomponesse per tornare quello di prima. Oltretutto, Taichi era certo che avesse già iniziato. Il problema, però, erano gli altri. Non erano solo spaventati: erano anche stanchi. Lottare continuamente per la salvezza di un mondo era qualcosa che sfibrava l’anima; bastava perdere l’equilibrio acquisito con fatica che ci si rendeva subito conto di quanto fosse difficile ciò che si faceva. Perciò doveva agire in fretta; si era dato dello stupido un numero infinito di volte per aver perso così tanto tempo. A quel punto, quindi, non poteva fare tutto da solo. Aveva bisogno di aiuto. Yamato aprì finalmente la porta e non poté trattenere un po’ di stupore quando vide davanti a sé il suo migliore amico, considerato che era quasi mezzanotte. Tuttavia si scostò subito, lo fece entrare e non fece domande, così Taichi iniziò a parlare e gli disse tutto, proprio tutto, come aveva più o meno intenzione di fare con altre dodici persone prima dell’alba. Quando ebbe finito, si rese conto di aver trovato tutto l’aiuto necessario. Il biondo aprì di nuovo la porta con una mano e tese l’altra a sganciare il cappotto dall’attaccapanni lì accanto. << Da chi iniziamo? >> chiese con la sua voce bassa e musicale. Taichi fece una smorfia e sorrise << Dal più vicino. >> << Allora Mimi. >> Taichi si arrestò a metà scala. << Come? >> << Mimi è la più vicina. >> << Credevo fosse… >> << Credevi male. >> << Allora non inizieremo dal più vicino. Io Mimi non la affronto senza Sora. >> Calò un attimo il gelo, quando Taichi pronunciò il nome proibito, ma solo un attimo; dopotutto, loro erano Taichi e Yamato e Sora era una ragazza che conoscevano quasi meglio di loro stessi. << Mi sembra una richiesta legittima. >> commentò il biondo. << Lo so. Andiamo da Izzy. >> << Non è il più vicino, dopo Mimi. >> << Non importa. Andiamo da Izzy. >> Il piano di Taichi, secondo Yamato, poteva essere definito come una terapia d’urto dolce. In sostanza, si trattava di mandare il Digiprescelto del coraggio a parlare con tutti, uno per uno, per analizzare ansie e paure e trovare un modo di superarle con il suo solito ottimismo. Insomma, dovevano per prima cosa operare sul piano psicologico. L’idea non era male; il punto era che Yamato aveva cercato il più possibile di non ridere al pensiero di un Taichi psicologo, ma non gli era riuscito molto bene e quando il ragazzo castano, dopo aver fatto altezzosamente finta di niente, gli aveva scoccato un’occhiataccia, Yamato era scoppiato a ridere. Dopo diversi minuti, un Taichi rabbioso aveva fatto notare al biondo che anche lui avrebbe dovuto fare lo psicologo; solo per questo era andato da lui prima di tutti. Solo a questo punto Yamato chiuse la bocca. Da Izzy ci fu da affrontare per la prima volta il problema principale: come non farsi beccare dai parenti e, soprattutto, come non essere scambiati come ladri. Lì la fortuna era il giardino tutto intorno, con alti alberi robusti da scalare. Era già capitato che ci salissero per arrivare a bussare alla camera di Koushirou, quando era divertente cercare di coglierlo di sorpresa, nonostante alla fine venissero sempre scoperti. Non ci vollero più di dieci minuti a raggiungere la finestra giusta. Si sarebbero sentiti piuttosto soddisfatti di loro stessi se non fosse stato per il fatto che, a due metri dall’arrivo, Izzy avesse aperto la finestra, sbottando: << Che accidenti state facendo? I miei stasera sono a teatro. Sono sicuro di avervelo detto. >> Comunque sia, riuscirono ad entrare nella casa. << Sei ancora in piedi? >> Il ragazzo più piccolo annuì e riprese posto alla scrivania, davanti – ovviamente – a un computer, << Sto lavorando al software di rintracciamento della fortezza. >> Yamato aggrottò le sopracciglia << Non era quel programma che stavi sviluppando con… >> << Con Gennai? Già >> concluse Izzy, già perso nell’analisi dei suoi dati << e non ho intenzione di abbandonarlo, qualsiasi cosa sia successa, perché ci servirà comunque e buttarlo via sarebbe da idioti. >> Afferrò il mouse e modificò velocemente qualche riga. << Allora, qual è il piano? >> indagò senza staccare gli occhi dallo schermo. << Prego? >> << Qual è il piano? >> << Be’, l’idea era venire qui a dare un calcio alla tua depressione perché tu poi potessi aiutarci con gli altri, ma non mi sembri granché depresso, onestamente, >> dichiarò Yamato. << Se sono depresso? Certo che sono depresso. Ma non permetterò che questo mi fermi. >> chiarì il ragazzo, << Comunque mi sembra un buon piano. >> aggiunse cortese. A Taichi venne da ridere. Si stava dimostrando più facile del previsto: nemmeno Izzy era un problema. << Benissimo. Senti, ci puoi accompagnare oppure… >> << Se mi dai due secondi per avviare una scansione, sono tutto vostro. >> << E poi, sarebbe possibile far venire qui i nostri Digimon? Non importa subito, però, prima di parlare ai ragazzini… Insomma, sarebbe meglio averli. Si può? >> << Mi stai prendendo in giro? >> domandò Izzy, offeso.
Jyou stava studiando. Ovviamente. Del resto, sapeva di essere una persona piuttosto ansiosa, l'università lo terrorizzava, perciò come risolvere il problema in modo migliore, se non iniziando a studiare per l’ammissione almeno un anno prima dei test? Una settimana prima era incappato in un argomento piuttosto complesso, che lo aveva mandato un po’ in panico; quella sera, però, ne stava venendo a capo e non si sarebbe fermato finché… Dlin dlon. Chi accidenti era a quell’ora? Avrebbe avuto tutto il diritto di non rispondere e mentre stava seriamente considerando la cosa, suonarono di nuovo. Poi ancora. E ancora. Non sarebbe riuscito a concludere niente con quel rumore. Si alzò con rabbia, deciso a litigare con chiunque fosse dall’altro lato della porta, quando udì la voce di Izzy dire, stancamente << Jyou. Lo sappiamo che sei sveglio e stai studiando, ma è importante. Potresti aprire, per favore? >> Dieci minuti e poche spiegazioni più tardi, Jyou era stato mezzo al corrente di tutto. << Quindi sareste voi i miei psicologi? >> << Frena il sarcasmo, vecchio. Lo sappiamo che sei tu il più psicologo tra noi, visto che hai esaminato la facoltà di psicologia fin nei minimi dettagli. >> << D’accordo, d’accordo. Allora, qual è il messaggio di Taichi? >> << Non è il massaggio di Taichi, è il concetto che volevamo rimanesse impresso… >> << Come ti pare. Questo messaggio? >> << Vuoi le parole precise? >> intervenne Yamato, perché sennò facevano tardi, << “Piantatela di piangervi addosso e vedete di non perdere la testa che da solo mica posso fare granché. Accidenti.” >> << Non è molto dolce per essere una terapia d’urto dolce. >> << Be’, la parte dolce c’è già stata. >> Jyou inarcò un sopracciglio, lasciando correre, << Da chi è Taichi, ora? >> << L’abbiamo mandato… >> iniziò Yamato. << L’hai mandato. >> corresse Koushirou. << Sì, insomma, l’ho mandato da Sora. >> sorrise, << Dopotutto è capace di rigirarsi la signora Takenouchi come gli pare, se dovesse beccarlo. >>
<< La prego, signora, lo so che è tardi, ma Sora mi deve assolutamente aiutare con matematica che sennò domani prendo meno di venti! >> sciorinò Taichi appena si aprì la porta. Era patetico, ma non gli era venuto in mente niente di meglio. Non quando si era accorto che le luci in casa erano accese, che la mamma di Sora era sveglia e cercare di far scappare la sua amica da una finestra equivaleva a un suicidio. La signora Takenouchi osservò la nuca abbassata del ragazzo che conosceva da sempre con un cipiglio un po’ sorpreso e un po’ divertito << Taichi, è l’una di notte. Tua mamma sa che sei qui? >> Il ragazzo rabbrividì al pensiero. << No! Ero a dormire da un amico quando mi sono ricordato che domani c’è il compito e io >> pigolò << non avevo aperto libro. >> << Da chi eri? >> << Oh, ehm… da Izzy. Che è molto bravo, però è un anno dietro di noi e io ho bisogno d’aiuto subito. >> sorrise, cercando di sembrare tenero e innocente. La signora lo osservò per un po’, con un’espressione che Taichi non riuscì a decifrare. << D’accordo. >> << Davvero? >> La mamma di Sora gli fece cenno di entrare e lo guardò inscenare un ulteriore melodramma davanti a sua figlia, stupita dal fatto che il ragazzo non ricordasse che quella era la stessa identica scusa che usava da piccolo per portare Sora fuori a giocare a calcio con lui.
Da Mimi, Taichi arrivò in ritardo. Senza Sora. << Dove è Sora? >> sillabò Koushirou. << Sua mamma era sveglia. >> mormorò Taichi, ricevendo occhiate di pietà, << No, tranquilli, è stata gentile: sono riuscito a spiegare tutto a Sora, però non c’era verso di farla uscire. >> Jyou incrociò le braccia. << Adesso è un problema. Chi va da Mimi? >> << Io no. >> << Io no. >> << Neanch’io. >> << Assolutamente no, Izzy, tu da Mimi ci vai. >> << Non da solo. >> Jyou si strofinò le tempie. << Yama, va con lui. >> << Co… perché? >> << Perché riesci a trasmettere calma e serenità. >> << Non riuscirai ad abbindolarmi, Tai. >> << Sono serio! >> << Stop! Basta così. Io e Yamato da Mimi, voi iniziate con gli altri. Taichi da Hikari, Jyou da Iori, poi vedete un po’. >> Annuirono assieme, poi si divisero, cominciando a correre. Erano solo le una e quarantatré. La notte era ancora giovane.
Qualcosa rimbalzò sullo stomaco di Miyako. << Poyomon… smettila. >> mormorò. Ovviamente, la creatura non smise. Maledizione! Per una volta che riusciva a dormire, non poteva subire quello! Si tirò a sedere a sedere di scatto e spalancò la bocca per urlare, ma soffici piume rose gliela tapparono. Ma non era Poyomon. Era Biyomon. << E tu cosa ci fai qui, ora? >> chiese la ragazza, sputando penne. << Sono venuta a prenderti. Andiamo da Sora. >> disse Biyomon allegra, spalancando la finestra. << Ah no, non ci penso nemmeno. Non mi porterai in volo con il rischio di farmi cadere. >> << Neanche se siamo in due? >> chiese, sempre sorridendo, indicando Poyomon. Ah, splendido. Adesso sì che era al sicuro. Miya sbuffò, ma decise di obbedire. Alla fine il viaggio non fu male. Casa di Sora non era troppo lontana e spesso la facevano camminare sui tetti comportandosi semplicemente come corrimano. Quando scivolò nella finestra aperta di Sora sentì che da grande avrebbe fatto la spia. Sì, era deciso. << Vi aspettavo. >> sussurrò Sora senza accendere la luce, << Ciao, Biyomon! Sei stata bravissima! >> Colpì con il dorso della mano la poltrona rossa vicino al suo letto e Miya si sedette, un po’ di malumore. Voleva tornare a casa, andare a letto e tirarsi le coperte fin sopra la testa, senza scocciature. << Miya. >> mormorò Sora dolcemente. << Che vuoi? >> borbottò nervosa. << Possiamo parlare un po’? >> << Tanto ormai sono qui. >> Sora guardò Poyomon, che le rivolse un’occhiata rassegnata. << Senti… ecco, i Digimon sono un po’ preoccupati per voi. Sembra che stiate perdendo un po’ la testa. >> << Cosa? >> scattò Miyako. Adesso era arrabbiata. << Hai capito. Però io non sono d’accordo. >> << Lo credo bene, io sono perfettamente… >> << Secondo me, hai già perso del tutto la testa. >> dichiarò Sora senza mezzi termini. L’altra ragazza assunse un vacuo sguardo di sorpresa a quella frase, che si tramutò presto in ira. Era furiosa. << Ah, davvero? E allora tu… >> << Sssssh! >> sibilarono in coro i due Digimon e Miyako si trovò, di nuovo, quasi soffocata dalle piume. Sora la raggiunse, scuotendo la testa. << Vedi? >> Miya sputò una penna rosa e si lasciò cadere a terra. << E anche se fosse? >> mormorò con rabbia, << meglio pazza che in questa situazione. Meglio pazza che sapere di Shiori. >> Quello era il punto. Quello era il problema, proprio come le aveva detto Tai. Loro non hanno mai realmente perso. Non conoscono veramente la sconfitta, perciò non sanno come uscire da questo caos. Probabilmente continuano a pensare “E se fosse successo a me?” che non è una stupidaggine. Cosa aveva Shiori di diverso? Nulla. Era una di noi. Quindi, come tale, l’idea di essere al suo posto è ancora più paurosa. È quell’idea che alimenta la paura, quell’idea che rende la sconfitta da ipotetica a reale. Quel ragazzo era un genio. E un capo perfetto. Sora sapeva che non sempre voleva avere quel titolo, ma se necessario aveva tutto ciò che serviva per spronare gli altri e guidarli: fegato e forza d’animo. Quel che restava era diffondere l’uno e l’altra e dimostrare che andare avanti è ancora possibile. << Io invece preferisco così. Sapere e non essere pazza, perché mi dà l’opportunità di fare qualcosa per risolvere questa situazione >> prese fiato, << e vorrei che tu scegliessi lo stesso. >> << Non posso. >> << Sì che puoi. Ti conosco e ora come ora sono più lucida di te, quindi posso dirti con sicurezza che puoi farlo, se lo vuoi. >> << Ma ho… >> << Paura? Anch’io. Ma non lascerò che la paura mi domini. Chi ha paura perde subito. Chi ha paura e coraggio di affrontarla, può vincere. Io preferisco andare per una strada che non sia già segnata, che mi dia possibilità di scelta. >> Indicò la collana che aveva al collo. << Prima che sapessimo di Shiori, mia mamma mi dette questa. Le avevo chiesto perché ci fossero tante persone con “inclinazioni alla malvagità” e lei mi rispose – non subito, in realtà – che la parola inclinazione era giusta: indica qualcosa che si è portati a fare. Inoltre, per questo unico effetto ci sono più cause. Bisogna analizzare i retroscena, le motivazioni, per trovare una soluzione. Pensa a Ken. Pensa a Shiori. >> si sganciò la collanina dal collo, << e pensa che questo discorso può valere anche per coraggio e vigliaccheria. Pensa che nessuno dei due è un assoluto, ma che possono unirsi e scambiarsi in ogni momento, per permetterti di fare ciò che ritieni giusto. >> Guardò Miya, che fissava lei e la collana con gli occhi spalancati lucenti nel buio. << Appena Izzy avrà perfezionato il software per rintracciare la fortezza nera, io e gli altri vecchi Digiprescelti andremo a cercare di tirare fuori Shiori da lì. Se vuoi venire ad aiutarci, sei la benvenuta, ma non sei obbligata. Noi andremo comunque e lotteremo finché possibile. >> sospirò, in pace con se stessa. << Questo è tutto quello che volevo dirti >> concluse, << e sono felice che tu mi abbia... >> << Verrò. >> Sora si voltò. Miya piangeva silenziosa. << Verrò. >> << Davvero? >> chiese piano Poyomon. << Sì. >> rispose, mentre il suo Digimon le stringeva il collo, felice << Davvero. >>
<< Sora mi ha mandato un messaggio. Miya è tornata a casa e sta meglio. >> annunciò Mimi. << Allora abbiamo finito! >> << Già. Miya era l’ultima. >> Taichi rimase un attimo imbambolato. Aveva funzionato? Il suo piano banale e costruito alla meno peggio aveva funzionato? Questo sapeva molto di miracolo. << Te l’ho mai detto che sei un genio? >> disse allegro Agumon, rifilandogli una gomitata al fianco. << Bene, gente. >> esclamò Jyou con tono autoritario, << Sono le tre e mezzo di notte e io sono il più grande qui, quindi vi voglio vedere filare a casa prima che qualcuno si addormenti in mezzo di strada provocandomi un mucchio guai. >> << Guarda che sappiamo cavarcela da soli. >> borbottò Daisuke, che era voluto venire a tutti i costi. << Ne dubito. Ti stai addormentando qui. Ti vedo che sei aggrappato a quel lampione come se ne andasse della tua vita. >> << Non è vero! >> << Filare, ho detto! >> Uno dopo l’altro, gli diedero ascolto. Mimi andò verso casa insieme a Yamato, Koushirou e i loro Digimon, leggermente sovrappensiero. Vuotò il sacco a venti metri dal suo condominio. << Ehi, Izzy, ma i dati di quel software per il rintracciamento non ce li aveva tutti Gennai? >> Chiamato in causa, il ragazzo si arrestò e si diede dell’idiota per aver anche solo pensato che Mimi non se lo ricordasse; era con lui e Tentomon quando aveva spedito il tutto all’essere digitale, il giorno prima della faccenda Shiori. << Già. >> confessò. << E allora? >> << E allora sono andato a prenderlo >> ammise, << e ho parlato con Gennai. >> Yamato si fermò << Stai scherzando. >> << No. >> Il biondo cominciava ad arrabbiarsi << E per quale assurdo motivo tu… >> << Avevo una domanda. >> << Quale? >> ringhiò. Izzy rispose proprio mentre Mimi si mise tra loro per impedire la rissa. << Mi chiedevo come potessero pensare che non ce ne saremmo mai accorti. Tu non te lo sei mai chiesto? >> << Io sì. >> disse Mimi, dopo un attimo. << Anch’io. >> ammise Yamato. << Cosa ti ha risposto? >> Koushirou riportò alla mente la scena. << Mi ha raccontato della notte dell’attentato >> spiegò << mi ha raccontato di come Shiori Yamamiya abbia fatto saltare tutti i loro schemi riuscendo a percepire la digievoluzione di Koromon a un quartiere di distanza. Di come così Parrotmon fu fatto scivolare sulla Terra. Di come la digievoluzione in Greymon avesse a quel punto strappato il muro tra i due mondi, permettendo a Darklullabymon di passare e di tornare indietro con Shiori. Di come le loro stesse difese li avessero chiusi nella torre, permettendo loro di uscire solo quando Shiori era già nella torre. >> lo attraversò un pensiero, << vi ricordate che Elecmon disse che loro avevano modificato la fortezza? Gennai mi ha spiegato che prima non era che un’alta torre circondata da un giardino pieno di rose bianchissime. Dopo la cattura di Shiori, svanì tutto insieme. >> << Ancora non hai risposto alla domanda. Stringi. >> << Quando gliel’ho chiesto, si è messo a ridere, una risata amara. Ha detto che non pensava che non l’avremmo mai saputo, come tutti i suoi colleghi, ma non sapevano come fare. Avevamo più o meno sei anni, non potevano dirci che il giorno in cui eravamo stati scelti per salvare il loro mondo una di noi era stata rapita e, per quanto ne sapevano, uccisa. Poi si sono occupati di creare i Digivice e i Digimedaglioni per contrastare Apokarimon, poi è arrivato Piedmon e ha quasi distrutto il lavoro di una vita, insieme ai compagni di Gennai. Così lui si è trovato da solo a conoscere la verità, insieme ai Digimon supremi. >> << Azulongmon sapeva e non ce l’ha detto? >> << Già. È stato quando gli ho chiesto il perché che lui ha tirato in ballo la vergogna. Mi sembrava una cosa stupida, gliel’ho fatto notare, così mi ha fatto un discorso piuttosto serio… >> Izzy chiuse gli occhi. Ricordava tutto, parola per parola.
<< Credi che sia una cosa stupida, Koushirou? Ebbene, ti sbagli. La vergogna può molto, perché significa che in passato hai commesso un errore e niente è più difficile che affrontare i propri errori. Nessuno è perfetto, eppure facciamo di tutto perché niente rovini la nostra immagine. Umani, Digimon o esseri come me non sono diversi. Ho passato secoli a rimuginare da solo su quello che avevo fatto e piano piano il dolore è diventato talmente abituale da non essere più una sorpresa. Quando mi misi in contatto con voi, sull'Isola di File, ero talmente abituato che non è stato difficile tacere. Mi sembravate così piccoli... >> Lui, Izzy, si era alzato furibondo << Anche Shiori era piccola! >> aveva urlato. << Infatti. >> aveva continuato Gennai, senza scomporsi << Avevo già rovinato la vita a una creatura innocente e indifesa, che forse già da tempo era stata cancellata. A quel tempo vidi Takeru, il più piccolo di voi, stringere al petto l'uovo di Patamon e ho pensato che, forse, un peso come quello di Shiori non era giusto passarlo a bambini come voi. Qualcosa del genere era meglio affidarla a vecchi come me. >>
<< A quel punto me ne sono andato, non prima di dirgli che non l’avremmo perdonato lo stesso. >> << E ti ha risposto? >> chiese Mimi titubante. Koushirou annuì, gravemente << Ha detto che il nostro perdono non l’avrebbe comunque pulito. >>
<< Allora. >> esordì Pattogmon cercando senza successo un posto comodo dove sedersi nella cella << Come ti senti dopo essere stata totalmente, definitivamente e completamente sconfitta da me? >> Amimon si lasciò sfuggire un sorriso sghembo, scoccando a Pattogmon uno sguardo di completo disgusto << Mi sento invidiosa per la fortuna che hai avuto. >> Il sorriso del Digimon di cenere si incrinò un istante solo. << E così vuoi sapere come il mio genio vi ha sconfitte? Ti accontenterò. >> schizzò d’acqua il volto di Amimon << ho risvegliato la rosa di Shiori. >> Quello fu un brutto colpo per il Digimon a terra. << Cosa hai fatto? >> << Ho dovuto impiegare tutto il mio potere per farlo, ma ci sono riuscita. L’ho risvegliata e – bam! – per qualche minuto ero capace di rintracciare la traccia di Shiori quel giorno in cui i ragazzini sono entrati qui e ho scoperto che ad aprire la porta del tunnel dove era Hikari siete state voi. A quel punto è stato facile. La vostra reazione è stata solo un sovrappiù. >> Pattogmon era pazza. Non era solo marcia fino al midollo, era anche pazza. Risvegliare una rosa era rischioso. Poteva uccidere chi ci provava, oltre alla persona a cui era dedicata. Che rimaneva comunque in pericolo per tutto il tempo in cui la rosa era sveglia. << E la rosa? >> boccheggiò Amimon. << Quale rosa? Ah! Quella rosa. Be’, è con Shiori. Le servirà, nel posto in cui è ora. >>
Il compito era andato meglio del previsto, considerando che non aveva aperto libro e aveva dormito meno di quattro ore. Forse era lo stato di ottimismo in cui si trovava: doveva analizzare a fondo la cosa, assolutamente. Ma in altro momento. Aveva da fare. Davanti al proprio computer, con la casa deserta, Taichi frugò nello zaino ed estrasse il disco che Izzy gli aveva dato prima di entrare in classe quella mattina. Stasera non hai il club di calcio, giusto? Ho chiesto in giro e sono tutti occupati, quindi lo devi fare tu. Inserisci il disco nel computer, poi installi il programma lì presente sul Digivice. È facile, giuro. Poi vai a Digiworld e vedi se rilevi qualcosa, ma, per favore, non fare nient’altro! Sì, Izzy, certo, Izzy. Come no. Digiworld lo accolse con raffiche di vento che quasi lo fecero volare via. Grazie, disse ironico verso non si sa dove e non si sa chi. Estrasse il Digivice dalla tasca e guardò se c’erano lucine a lampeggiare. Niente. Sarebbe stato troppo comodo e facile. Iniziò a camminare e Agumon lo raggiunse poco dopo. Un passo dopo l’altro attraversarono la prateria e raggiunsero il più freddo, ma più calmo, ghiacciaio. A quel punto apparve una lucina. C’era riuscito al secondo tentativo! Bene, il programma di Izzy sembrava funzionare, ma ormai che era lì tanto valeva controllare con cura. Si voltò, alla ricerca di un televisore… e trovò Yamato Ishida a un metro da lui. << Che ci fai qui? >> gli scappò da urlare. << Sono a fare il baby-sitter. >> spiegò << Izzy mi ha detto di averti dato il programma e ho pensato che non avresti mai fatto come ti era stato indicato. >> << Ho verificato che il programma funziona! >> << E stavate per andare a vedere la fortezza da vicino. >> concluse Gabumon. Agumon sbuffò << D’accordo, d’accordo, è vero. >> si accostò a Tai << Ma perché sono sempre così? >> gli chiese all’orecchio. << Non ne ho idea. >> sbottò il ragazzo. << Via, via. Veniamo in pace. >> << Prego? >> << Pensavamo di accompagnarvi. >> In quattro fu più facile trovare il televisore giusto. Si trovava tra due alti blocchi di ghiaccio, in una conca tutt’altro che rassicurante. Si guardarono intorno prima di scendere, senza notare la figura acquattata tra i rami di un abete che li osservava da almeno dieci minuti. Explomon, quello era il suo nome, lavorava nella fortezza; all’aspetto ricordava una marionetta, fatta però di candelotti di dinamite. Non era molto forte negli scontri diretti, per questo faceva spesso la guardia fuori dall’entrata della fortezza e spaventava gli impiccioni con esplosioni ben mirate. Quella però era un’occasione troppo ghiotta. Ben due Digiprescelti e i loro Digimon in una scatola di ghiaccio che aspettava solo di essere chiusa. Era pronto con due candelotti già da un pezzo e aveva individuato i punti giusti in cui lanciarli. Aspettava solo che si decidessero a scendere. Eccoli che mettevano i piedi – o le zampe – oltre il bordo… ecco che scivolavano giù… ecco che erano in fondo. Flesse le braccia all’indietro, per lanciare le bombe esplosive. Poi qualcosa fece saltare in aria lui. I quattro in fondo alla conca si voltarono di scatto e videro un ragazzo con un Digimon, in piedi sopra di loro. << Mi dovete un favore. >> sorrise Wallace. Taichi sorrise << Che ci fai qui? >> << L’ho chiamato io. >> spiegò Yamato << Ho pensato che ci sarebbe servito più aiuto possibile. >> poi, più serio, concluse. << Mi devi un’intercontinentale. >> << Che state facendo? >> urlò Terriermon. << Stiamo andando la vedere la fort… >> iniziò Taichi, ma fu interrotto da Yamato. << Fai piano! E se ci fossero altre sentinelle? >> Taichi annuì rapidamente. << Venite giù! >> urlarono ai due in cima. Quando li raggiunsero, mostrarono loro il Digivice col software. << Izzy ha aggiunto un programma per rintracciare la fortezza nera, lo stiamo testando. L’abbiamo individuata nello spazio di mezzo qua fuori e volevamo vedere se effettivamente fosse tutto a posto. >> << Come fate a capire che è qui? >> << Seguiamo la lucina. >> Wallace girò il cellulare verso i giapponesi << E se vi dicessi che non c’è nessuna lucina? >> Ai due sfuggì imprecazione colorita. << Dev’essersi spostata. >> << Be’, sei un genio, Agumon. >> << Su, risaliamo. >> Avevano tre Digimon e nessuno sapeva volare. Quindi si inerpicarono faticosamente lungo la ripida parete di ghiaccio, mentre Terriermon volteggiava, giungendo in cima prima di loro e notando qualcosa in lontananza. << Ragazzi? >> << Cosa vuoi? >> Terriermon indicò in lontananza. << La vostra fortezza vola? Se sì, ecco, è laggiù. >> Quella era davvero la fortezza. Volava tra le montagne innevate del settore limitrofo, abbassandosi sempre di più. << Dove sta andando? >> chiese Yamato. << Non lo so, però… >> << Yamato! >> urlò Gabumon << Guarda le torri! >> Erano circondate di nebbia viola. << Che significa quando c’è tutto quel gas? >> << Che sta per attaccare! >> I sei si catapultarono nella neve, scendendo a rotta di collo lungo il pendio. << A cosa starà puntando? >> << Non ne ho idea, non conosco quel settore! >> Sbucarono in una valle, circondati a montagne aguzze. Calpestando un soffice tappeto d’erba fresca continuarono a correre verso la fortezza, che, davanti a loro, continuava ad avanzare. Dovevano precederla e avvertire del pericolo chiunque fosse sul suo cammino, dovevano farcela a tutti i costi. Taichi aveva preso il Digivice per far megadigievolvere Agumon quando l’immensa struttura si fermò, lontana da tutto, su un altopiano roccioso. I sei si fermarono, incerti. La fortezza proseguì ancora un po’, a scatti, mentre la nebbia viola iniziava a disperdersi, come se ciò che la tratteneva non ci fosse più. Guizzò verso l’alto, disperdendosi in gran parte nell’aria. Il castello si arrestò del tutto, a mezz’aria, e un cupo rombo vibrò una nota sorda per tutta la valle. Poi, sopra tutto, si udì un lungo urlo acuto, da animale ferito, che gelava il sangue. A quel punto il rombo si fermò e l’ala sinistra della fortezza esplose.
Il colpo mandò i tre ragazzi e i loro Digimon a gambe all’aria, assordandoli. Stringendo le enormi orecchi al petto, Terriermon vide il mondo esplodere in punti luminosi e quando mise a fuoco un bel pezzo di fortezza cadde a terra a mezzo metro da lui. Il botto l'aveva stordito e le orecchie gli fischiavano in modo incredibile. << Terriermon! Terriermon! >> urlava Wallace. << Lascia perdere! I Digimon sono estremamente più sensibili di noi ai suoni, l'esplosione li ha tramortiti parecchio! >> gridò Yamato, sollevando Gabumon << Prendilo e andiamo via di qui! >> Taichi strinse Agumon al petto e si voltò a guardare il castello in fiamme. L'esplosione era avvenuta alla base e con essa era crollato tutto ciò che c'era sopra. Il resto, nonostante la pietra, bruciava. Centinaia di Digimon fuggivano dal fumo e dal fuoco, sparpagliandosi nel cielo o gettandosi giù dall'altopiano. I primi fuggitivi passarono loro accanto, senza degnarli di un'occhiata. Merda. Adesso dovevano anche andare a caccia di malvagi Digimon terrorizzati per tutta Digiworld. Taichi prese a correre, cercando disperatamente di digitare con la mano sinistra il numero di Koushirou sul cellulare, mentre con la destra teneva stretto il Digimon dinosauro. Altre esplosioni minori fecero saltare in aria le torri e poi attaccarono il corpo centrale. La terra tremò e i ragazzi e i Digimon che li precedevano caddero, rotolando nella polvere. Per un attimo la fortezza parve resistere. Poi, d'un tratto, si ripeté l'urlo precedente e una colossale colonna di fuoco consumò le ultime resistenze della struttura. Le mura rimaste si accartocciarono su sé stesse, frantumando i blocchi ancora integri e una sola figura si stagliò in quell'inferno: piccola e nera, con un manto infuocato, ansimava dopo aver dato fondo a gran parte delle sue energie. Annusò l'aria e si voltò di scatto verso i tre ragazzi, puntando su di loro i grandi occhi neri, spalancati in modo abnorme e infuocati pure loro, come una finestra sul massacro. Del tutto fuori controllo, Amimon urlò ancora e il mondo, accanto a lei, si incendiò.
Fortezza nera, sotterranei. Dieci minuti prima.
Amimon lasciò cadere la testa sul petto. La rosa… era sveglia? << Ehi? >> La rosa… era con Shiori? << Ehiiiiiii? >> Qualcuno l'afferrò per il mento, tirandole su il viso. Gli occhi che incrociò erano pieni di disappunto. Pattogmon. << Non è divertente se sei sotto shock. >> Il dolore le esplose sulla tempia destra, dove il dorso della mano di Pattogmon si andò a schiantare con tutta la forza che aveva. Neanche quello la smosse. << Sai, ora sei ferita proprio nello stesso punto di Kiki-chan. >> Shiori. Shiori e la sua rosa. Cos'altro le stava portando via? La prima apertura della rosa aveva spento i capelli e lo spirito di Shiori. La seconda apertura le aveva macchiato l'anima. E la terza, cosa sarebbe successo alla terza? La mano di Pattogmon le strinse la gola e la schiacciò al muro. << Ti ho detto di rispondermi! >> Non sono la tua bambola, disse Amimon fra sé e sé. Anche se non era del tutto vero. L'altra la lasciò un attimo prima che soffocasse. Con un verso stizzito le voltò le spalle. << Penso che andrò a vedere Kiki-chan. Lei almeno mi dà soddisfazione. >> Ancora intontita, Amimon registrò il discorso un secondo più tardi del normale. << Cosa? >> non poté fare a meno di lasciarsi scappare. Pattogmon si fermò con un piedi fuori dalla porta e tornò indietro, di nuovo euforica. << Allora le mie parole sono servite a qualcosa! Cominciavo a pensare che fossi andata completamente fuori di testa, il che, ti dirò, non mi sembra proprio impossibile, soprattutto se… Come dici? >> Alzò la voce << Che mi fai schifo. >> La pedata le prese in pieno l'addome, ma la accolse con piacere. Non avrebbe lasciato che quell'essere andasse a tormentare Shiori. << Guarda che lo so che mi stai tenendo impegnata. Ti conosco, Dodo-chan. >> << E allora? >> gracchiò Amimon, sputando per terra un grumo di sangue << Perché sei qui? >> Pattogmon rise, dolcemente. << Perché non posso fare granché per peggiorare la situazione di Kiki-chan. >> sussurrò con voce dolce, inginocchiandosi davanti ad Amimon << Se credi che la rosa sia la cosa peggiore, Dodo-chan, ti sbagli di grosso. >> Il Digimon di fuoco si irrigidì al muro, mentre la paura le scavava un solco nel petto. << Dov'è Shiori? >> chiese in preda al panico. << Pensavi forse che la punizione sarebbe stata come le altre? Non comportarti da sciocca, non lo sei. Sei una volpe. >> << Dov'è Shiori? >> << Il fatto che tu sia semplicemente in cella non vuol dire niente. Tu hai poche debolezze. Cercare di farti del male è uno spreco di tempo e di forze. >> << Dimmi dov'è! >> << A meno che non si usi la carta giusta. E noi abbiamo la carta giusta. >> << Shiori, dove... >> << Esatto! Indovinato. Proprio lei. >> ghignò << Lei è la tua più grossa debolezza, il nostro asso nella manica per farti stare buona. È sempre stato così. Far soffrire lei è un gioco da ragazzi e se soffre lei, soffri anche tu. Comodo no? >> Amimon quasi sputò i propri polmoni, mentre ancora cercava di rompere le catene << DOV'È SHIORI? >> << Aaaaaah, d'accordo! Secondo me è meglio se non lo sai, ma visto che insisti tanto… >> Pattogmon avvicinò il proprio viso a quello del Digimon infuocato, probabilmente per non perdersi l'espressione che avrebbe fatto. Sorrise compiaciuta, per scaldare l'atmosfera. Poi vuotò il sacco. Il cuore di Amimon saltò un battito, poi andò a schiantarsi sulla cassa toracica come un colpo di cannone. Il terrore puro riempì gli occhi neri di Amimon e Pattogmon rise, rise, rise, drogata di felicità come mai prima di allora. E continuò a ridere quando vide il fuoco di Amimon spegnersi piano piano. E continuò a ridere quando ne percepì il cuore battere all'impazzata. E continuò a ridere quando le disse << Su, fammi un bell'urlo! >> pregustando già la scena. E continuò a ridere quando, dopo essersi asciugata gli occhi, incrociò ancora lo sguardo di Amimon e vi vide lo stesso terrore di prima. Poi, d'un tratto smise di ridere, quando lesse nello sguardo del Digimon qualcos'altro. Qualcosa che soverchiava tutte le emozioni normali. Fu il suo turno di provare paura, quando il terrore scomparve dagli occhi di Amimon. Fu il suo turno di provare terrore, quando il fuoco del Digimon divampò, vivo come non mai, e sciolse le manette di metallo, che cadde in grandi gocce per terra. Fu il suo turno di provare a urlare, quando la creatura di fuoco varcò del tutto il confine che aveva appena raggiunto. Purtroppo non fece in tempo neanche ad aprire la bocca. E perse l'ultima occasione che avrebbe mai avuto per farlo. Fu il turno di Amimon di urlare. Lanciò un grido acuto e primordiale da animale ferito, tanto forte da rimbombare tra le montagne, sgranando gli occhi allucinati come il folle che era appena diventata. Poi fu solo la sua rabbia, la sua furia! Venne il bianco e spazzò tutto e poi fu rosso, rosso ovunque. Rosso come il tramonto, rosso come il sangue, il rubino, carminio, amaranto, scarlatto, ogni rosso insieme agli altri. Rosso come può essere solo un fuoco che brama distruzione per il mondo.
Be'… Ciao a tutti. Sì, sono proprio io l'essere ignobile che vi parla. Non ho scuse, quindi non le cercherò. Quasi quasi spero di non esservi mancata, perché se vi sono mancata vuol dire che aspettate questo capitolo da nove mesi e quattro giorni e questa non è solo zero voglia di scrivere… Questa è crudeltà senza limiti. Non farò mai più promesse su una data d'uscita di un capitolo, a meno di non averlo già pronto e vi posso garantire già da ora che non accadrà - MAI. Se c'è qualcosa che posso fare per farmi perdonare, ditelo. Sì, lo so che mi sto scavando la fossa da sola, ma mi sento troppo in colpa. Il capitolo l'ho scritto nell'ultimo mese e mezzo e l'ho finito *guarda l'orologio* sedici minuti fa. Prima avrò scritto sì e no una pagina (che poi ho cancellato). È un po' più lungo degli altri, anche perché se c'è una cosa che mi è frullata in testa in questi mesi, sono le idee e ne ho tenute parecchie. Qua ce ne sono solo alcune, quelle, a mio giudizio, che sono state le migliori. Non mi azzarderò a chiedere commenti perché meriterei di non averne nemmeno mezzo, comunque voglio ringraziare le persone che hanno aggiunto la storia alle ricordate. Chiedo scusa a tutti, davvero, ma soprattutto a Werewolf1991, kymyit e Kyz. Ho appena riletto i vostri ultimi commenti e mi viene da piangere. Possa questo capitolo avervi ripagato almeno di un infinitesimo dell'attesa che avete dovuto patire. La vostra pentita coco1994
*piccolo omaggio alla mia prima storia, visto che l'anniversario della sua pubblicazione l'ho bellamente ignorato. Tanto per ricordare che non ho cambiato le mie idee :) |