Cronache del Campo Mezzosangue - La vendetta di Ate

di effewrites
(/viewuser.php?uid=125903)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La mia estate inizia nel peggiore dei modi ***
Capitolo 2: *** Firmo la mia condanna a morte. ***
Capitolo 3: *** Mi batto contro le vecchiette assassine. ***
Capitolo 4: *** Abbiamo un deja-vu su una fragola d’oro. ***
Capitolo 5: *** Lena fa un bagno inaspettato ***
Capitolo 6: *** Organizziamo un viaggio in fretta e furia. ***
Capitolo 7: *** Divento la Cenerentola della cabina di Apollo. ***
Capitolo 8: *** Incontriamo la cordiale la dea della discordia. ***
Capitolo 9: *** Abbiamo un imprevisto. ***
Capitolo 10: *** Mio padre ci procura un passaggio. ***
Capitolo 11: *** Diamo fuoco a un’ape regina. ***
Capitolo 12: *** La storia di Lena. ***
Capitolo 13: *** Parte della profezia si avvera. ***
Capitolo 14: *** Scoperchiamo un vaso maledetto. ***
Capitolo 15: *** Ho un’inattesa riunione con me stesso. ***
Capitolo 16: *** Beviamo un’aranciata con le portinaie dell’Olimpo. ***
Capitolo 17: *** Tutti i nodi vengono al pettine. ***
Capitolo 18: *** Dei ramoscelli ci salvano la vita. ***



Capitolo 1
*** La mia estate inizia nel peggiore dei modi ***


La mia estate inizia nel peggiore dei modi

 

Se vi dicessi che sono un semidio, voi ci credereste?
Mi chiamo Scott, ho quindici anni e sono figlio di Apollo. Sì, il dio. Sapete, quello che porta il carro del sole, patrono della musica e della medicina e cose del genere. È mio padre.
No, non sono pazzo. E no, non vi sto prendendo per il sedere.
Gli dei dell’Olimpo esistono, fatevene una ragione. Dominano sulla civiltà occidentale – la nostra – dopo aver vissuto in Grecia, a Roma e chissà dove. L’Olimpo, il sacro monte degli dei? Domandate del seicentesimo piano dell’Empire State Building. E vivete a Los Angeles? Siete finiti letteralmente nella bocca dell’Inferno.
A volte gli dei si annoiano, nello splendore della loro eterna immortalità, e scendono sulla terra per figliare. Ora, ci sono alcune regole, a quanto mi è stato detto. Se sei uno dei Tre Pezzi Grossi, altrimenti detti Zeus, Poseidone e Ade, sei stato tanto intelligente dal giurare sul fiume Stige che non avresti più avuto bambini. E non è di certo un giuramento al pari del giurin giurello che facevamo noi da bambini!
È roba seria, quella.
Se invece fai parte del resto della comune plebaglia di dei e dee, hai via libera nell’accalappiarti l’uomo o la donna che più ti aggrada.
Mia madre si chiama Molly Walker, e posso capire perché il dio del sole si sia innamorato di lei.
È una bella donna nel fiore degli anni, con soffici capelli biondo paglia che le cadono sulle spalle e occhi color nocciola che riescono sempre e comunque a farti tirar fuori il meglio di te… e questo è parecchio irritante, a volte. Soprattutto dopo aver scoperto che l’aspetto caramelloso di Molly Walker non corrisponde al suo vero essere.
In realtà, mia madre somiglia terribilmente a un’arpia.
Non fraintendetemi, non è che non mi voglia bene – è palese che me ne voglia. Andiamo, è mia madre!
Il punto è che secondo lei somiglio troppo a mio padre. Ci soffre, nel rendersene conto.
Se un dio ti si presenta davanti concedendoti l’opportunità di vivere una smielata e fantastica storia d’amore da romanzi rosa, tu accetti. Non credo che ci sia qualcuno che possa iniziare sul serio a sperare in un finale felice dove i due amati vivono per sempre insieme.
Be’, signore e signori, mia madre lo fece.
Ci rimase parecchio male, per dirlo in termini delicati, quando Apollo la mollò con un pargolo biondo tra le braccia per tornare sul suo trono dorato, irraggiungibile.
E quando il pargolo biondo iniziò a diventare grande, con gli stessi occhi e lo stesso sorriso del papà fedifrago, la povera donna dovette fare appello ai suoi nervi d’acciaio. Ancora mi domando come sia possibile che sia arrivato sano e salvo al mio quindicesimo anno d’età.
Probabilmente la risposta risiede nell’unico posto in questo mondo dove posso dire di sentirmi realmente ‘a casa’.
Il Campo Mezzosangue, Long Island, New York, è il luogo in cui tutti i semidei come me possono trascorrere un’estate ogni anno senza dover fingere di essere chi non sono: semplici e comuni mortali.
Voglio dire, al campo si combatte con le spade, si fa pratica di tiro con l’arco, si organizzano falò dove si raccontano le leggende e i vari miti, ci si prende cura dei pegasi – sì, esatto, i cavalli alati.
Credo sia il posto che preferisco di più al mondo.
Trascorro al campo ogni estate da quando avevo dodici anni, ed è esattamente lì che mia madre mi stava portando anche quest’anno.
«Sicuro di aver preso tutto, Scott?» mi domandò, senza staccare gli occhi dalla strada, illuminata dagli ultimi raggi di sole prima del tramonto. Annuii, senza prendermi il disturbo di togliere gli auricolari dell’iPod.
«E tu, invece?»
Lei sorrise, e per un istante sembrò giovane quasi quanto me.
«Sarà un’estate meravigliosa, tesoro. Anche se avrei voluto venissi anche tu» disse con un sospiro, stringendo le nocche sul volante. Avrei potuto giurare che stesse già pregustando le settimane di mare, piscina e divertimento che l’albergo a cinque stelle in cui aveva prenotato avrebbero offerto a una bella mamma single e in cerca.
«Dai ma’, una vacanza con il figlio dietro? Ti meriti in po’ di relax, in nome degli dei!» la punzecchiai ridacchiando.
Mi lanciò un’occhiata in tralice, che ignorai.
«Mi chiamerai, vero?»
«Con l’iPhone, come sempre»
Le sue labbra piccole e sottili si arricciarono, e aggrottò le sopracciglia biondicce. «L’iPhone di Iride, eh?»
Alzai gli occhi al cielo, passandomi una mano fra i capelli. A mia madre non andava proprio a genio il fatto che potessi comparirle davanti come un ologramma nei momenti che meno avrebbe preferito – ad esempio, mentre si trovava in compagnia di un mio probabile futuro padre, come chiamava lei le sue numerose conquiste.
Passai il resto del viaggio a tentare di spiegarle che se voleva avere mie notizie avrebbe potuto parlare con me solo grazie all’iPhone, dal momento che per noi semidei avere cellulari era più o meno come farci piazzare in testa una freccia gigante e luminosa con su scritto: “Ehi, avviso per i mostri, qui c’è un semidio!”.
Poi, finalmente, mamma fermò la macchina e mi invitò a scendere. Si scusò di non potermi accompagnare più avanti di così, perché il suo aereo sarebbe partito di lì a poco e lei doveva ancora guidare fino all’aeroporto. La rassicurai, abbracciandola, e dicendole di divertirsi anche per me. Poi ripartì.
Il bello di mia madre è che non si comporta da mamma. O mi vede come una sorta di piccolo Ercole invincibile, supereroe moderno, o è talmente ingenua (scusami, mamma) da non preoccuparsi di ciò che potrebbe capitare a un ragazzo di quindici anni lasciato da solo lungo una strada di campagna.
Di lì a poco, i fatti avrebbero dimostrato che la seconda opzione era quella giusta.
 
Mi accorsi che qualcosa non andava quando già ero quasi arrivato sulla cresta della collina.
Le prime cose che sentii furono uno strano ruggito, poi il rumore di un albero che veniva schiantato a terra. Stringendomi nelle spalle, mi dissi che probabilmente erano i figli di Ares che ci stavano dando un po’ troppo dentro con l’allenamento con le spade. Non sarebbe stato affatto strano.
Ma quando iniziai a intravedere il campo a valle, mi resi conto che avevamo un problema decisamente più grosso di qualche rissoso figlio del dio della guerra.
Erano in due, grandi quanto cinque uomini in piedi l’uno sull’altro e grossi come due giocatori di sumo. Vestivano come due boscaioli, ma evidentemente i vestiti che avevano addosso erano gli stessi da decenni, considerato il puzzo asfissiante che emanavano. I capelli erano due untuose cascate di spaghetti scuri, della forma di due scodelle capovolte. Non avevo mai immaginato che i giganti avessero avuto questo aspetto.
«Oto vuole pappa. Oto vuole piccoli e gustosi semidei!» rise gutturalmente uno dei due, con un vocione che fece tremare gli alberi. Brandiva un tronco caduto, e sembrava avere intenzione di scagliarlo contro il campo. Fortunatamente doveva essere un po’ stupido, perché non calibrò il lancio e l’albero sradicato scomparve all’orizzonte.
«Oto stupido babbeo!!» esclamò l’altro gigante, battendo un piede per terra. «Ci pensa Efialte, ci pensa Efialte!»
Ora, provate per un attimo a mettervi nei miei panni: siete tutti soli su una collina mentre due colossi dal cervello minuscolo cercano di distruggere la vostra casa. Cosa fareste, una volta considerato che siete anche disarmati?
Non mi diedi il tempo di trovare una risposta: i miei piedi si stavano già muovendo a tutta velocità verso i due giganti.
«Ehi, brutti musi!» gridai tentando di attirare la loro attenzione, mentre il gigante che si chiamava Efialte sradicava un altro albero e prendeva la mira verso quella che riconobbi come la Casa Grande. Cercai di trattenere il respiro, perché più mi avvicinavo e più il fetore diventava insopportabile.
Avevo il fiatone per la corsa lungo la fiancata della collina, però, e respirare era al momento al primo posto sulla lista delle mie priorità.
Mentre cercavo di non vomitare, mi accorsi di non essere l’unico semidio che si era accorto dell’attacco dei giganti – oh, diamine, quale razza di idiota avrebbe potuto non accorgersene?! Sono giganti! Giganti!
Riconobbi alcuni ragazzi di Ares e di Efesto, i più grossi del campo, che tentavano di infilzare le gambe dei due colossi con lance, mentre i miei fratelli e sorelle della cabina di Apollo lanciavano frecce a più non posso.
Chirone, il centauro direttore delle attività del campo, coordinava i gruppi di ragazzi, e quando mi vide mi fece cenno con una mano di correre al riparo da lui.
Evidentemente i giganti babbei non erano dello stessa idea.
«Guarda, fratello: pappa!» ghignò quello dei due che riconobbi come Oto, facendomi ammirare dei denti ingialliti e puzzolenti che non avrei mai dimenticato in tutta la mia vita.
«Esatto! Pappa!» gridai per farmi sentire, colto da un’illuminazione. «Venite a prendermi!»
Ricominciai a correre, pregando che Oto ed Efialte fossero abbastanza affamati di carne mezzosangue da abbandonare l’idea del lauto banchetto che li aspettava al campo per concentrarsi sulla loro pappa fuggiasca.
Probabilmente gli dei accolsero la mia muta preghiera – ora che ci penso, non so ancora se sia stato un gesto magnanimo o estremamente crudele e sadico – perché i due giganti decisero di partire al mio inseguimento.
Per quanto potessi essere veloce, una loro falcata equivaleva a cinquanta delle mie. Non avevo armi con me per rallentarli – avrei dato qualsiasi cosa per aver portato con me il mio arco con le frecce – così dovetti arrangiarmi.
Afferrai un sasso bello grosso, e lo lanciai tentando di colpire il brutto muso di uno dei due giganti. Lo centrai in pieno in fronte, e ringraziai l’infallibile mira che caratterizzava ogni figlio di Apollo.
Purtroppo per me, un sassolino non era un granché contro due giganti. Non potevo correre all’infinito, e per quanto cercassi di zigzagare nella speranza di farli inciampare, Oto ed Efialte sembravano molto più abili nei movimenti di quanto sperassi. Di sicuro, lo erano più di me.
A furia di cambiare repentinamente direzione, fui io a cadere lungo disteso per terra.
«La pappa ha smesso di scappare» esclamò tutto contento Efialte, saltellando sul posto e facendo tremare il terreno, mentre suo fratello sradicava altri due grossi, grossissimi alberi. L’altro gigante lo imitò subito.
«Semidio spappolato. Un ottimo antipasto» disse, sbavando.
Ugh. Non avevo nessunissima intenzione di finire spappolato e poi divorato. Non sarebbe stato un bel modo di iniziare la mia estate.
Ero sul punto di rialzarmi e cercare una via di fuga, quando sentii una voce urlare: «Sta giù e non muoverti!». Mi guardai intorno per cercare di capire chi avesse parlato, e mi resi conto che parecchi semidei avevano inseguito i giganti che inseguivano me.
Era scesa la sera, e non riuscivo a distinguere i loro volti.
Anche i due giganti si resero conto che c’era qualcun altro oltre loro e me che assisteva al loro banchetto.
«La pappa viene da noi! La pappa viene da noi!» gongolò Oto, e sembrava talmente felice che avrebbe potuto scoppiare a piangere da un momento all’altro. Probabilmente il suo sogno più grande era proprio uno stuolo di semidei che si presentava al suo cospetto pronto per essere divorato.
«Contento, gigante?» esclamò la stessa voce di prima, una voce femminile, che risuonò nel silenzio.
«Chi ha parlato?» ringhiò Efialte.
In risposta, una figura argentea saettò tra i due, piazzandosi esattamente davanti a me. Che fosse una ragazza non c’era alcun dubbio. Aveva i capelli scuri intrecciati stretti, una corta veste argentea che riluceva come la luna e un paio di jeans attillati strappati all’altezza delle ginocchia.
«La vostra cena. Se mi prendete, potete mangiarmi!» rise sprezzante la ragazza, mentre tentavo di rimettermi in piedi. Lei se ne accorse, e mi diede una tallonata sullo stinco talmente forte da farmi cadere nuovamente a terra.
I due giganti si guardarono, ghignarono e alzarono i tronchi d’albero che tenevano tra le mani per colpire la ragazza, che si fece più avanti e gridò: «Andiamo, venite più vicino! Non riuscirete mai a colpirmi così! Potrei scappare, non vedete quanto spazio che ho a disposizione?».
A dimostrazione delle sue parole, iniziò a spostarsi da destra a sinistra, ma non sembrava avesse intenzione di fuggire. La guardavo esterrefatto; gentile da parte sua far notare ai suoi nemici le sue possibili vie di fuga!
Adesso Oto ed Efialte erano esattamente l’uno di fronte all’altro. La ragazza smise di muoversi e si piazzò tra loro. I giganti alzarono i tronchi di legno, e si prepararono a spiaccicarla come un insetto.
Allora capii.
Con un rumore assurdo si schiantarono i tronchi sulle teste, mentre la ragazza correva via. Aveva fatto in modo che entrambi si avvicinassero abbastanza per colpirsi a vicenda, stupidi com’erano. Mi diedi dello stupido per non averci pensato anche io.
I giganti si guardarono per un attimo con identiche espressioni babbee sul volto, poi rovesciarono gli occhi all’indietro e caddero al suolo, facendo sobbalzare la terra.
I semidei che avevano assistito alla scena proruppero in grida di esultanza e di gioia. La ragazza misteriosa era scomparsa.
Mi rialzai, rendendomi conto che la mia estate era finalmente cominciata.













L'angolo della Malcontenta: Dei, NON LINCIATEMI! ç________ç Non volevo pubblicarla. Ma una certa Earine ci teneva, e io volevo accontentarla. Boh, ho già il secondo capitolo pronto, ma lo posto SOLO se vedo che interessa. Se no se ne riparla tra qualche mese C:
Che dire? Storia nuova, nuovi personaggi. Ma già nel prossimo capitolo ne incontreremo di vecchi (come una ribelle Cacciatrice dai capelli scuri, vi dice niente?) 
Vorrei scrivere qualcosa in più, ma sto crollando dal sonno D:
vostra, Eff.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Firmo la mia condanna a morte. ***


Firmo la mia condanna a morte.

 

La mattina dopo mi svegliai parecchio intontito. La sera passata mi scivolava davanti agli occhi come un film, e sentivo gli acciacchi della caduta e i muscoli doloranti per la corsa.
Ero fuori allenamento per il combattimento contro i mostri.
«Ehi, eroe, perché non alzi il sedere dal letto e vai a farti vedere un po’ in giro? Chirone ti ha risparmiato la sveglia all’alba solo per quello che è successo ieri sera, ma se te ne approfitti non credo che sarà contento»
Aprii di scatto gli occhi e mi misi a sedere, avendo riconosciuto la voce di chi aveva appena parlato.
«Jen!» esclamai con un sorrisone alla biondissima ragazza riccia appollaiata sul mio letto, con un sorrisetto dipinto sul viso.
«Ben arrivato, fratello!»
Jenny Ray era una delle mie sorelle, figlia di Apollo, la prima che avevo conosciuto quando tre anni prima ero arrivato al Campo Mezzosangue. Era, molto probabilmente, la mia sorella preferita.
«Quanto ho dormito?» le domandai mentre mi massaggiavo una spalla con una smorfia.
«Abbastanza. Sono le undici passate, ma non ce la sentivamo di svegliarti. Chirone ha detto che per oggi potevi dormire quanto volevi»
Sospirai, strofinandomi gli occhi con uno sbadiglio e passandomi poi le mani fra i capelli. «Che ne hanno fatto di quei due giganti?»
Jen si strinse nelle spalle esili, saltando giù dal letto in tutta la sua altezza. «Non ne ho idea. Ieri sera hanno fatto sgomberare la zona, e stamattina quando ci siamo svegliati già non c’erano più»
Annuii tra me e me, ancora mezzo addormentato, mentre Jen mi dava una pacca sulla spalla e usciva dalla cabina raccomandandomi di farmi trovare sveglio a pranzo, per seguire almeno le attività del pomeriggio. Con un sospiro, decisi di darle retta. Mi alzai di malavoglia dall’invitante letto e fui parecchio felice di ritrovare il mio borsone proprio accanto al piccolo comodino a mia disposizione.
Noi della cabina di Apollo siamo i più numerosi, insieme a quelli di Ermes, e questo significa minor spazio personale a disposizione. Certo, da noi non si corre il rischio che qualcuno ti rubi qualcosa proprio sotto il tuo naso, ma è comunque un po’ scocciante ritrovarsi confinati in un angolo di camera, soprattutto per chi come me è abituato ad avere grandi spazi personali.
Ad ogni modo, siccome quella mattina mi ero svegliato così tardi e la cabina era completamente vuota, l’impatto non fu traumatico come lo era stato gli altri anni. Ebbi tutto il tempo di svegliarmi, lavarmi e vestirmi in santa pace. Per mezzogiorno, mi arrischiai ad abbandonare la cabina.
Il sole mi colpì dritto in viso, e per me fu meglio di una boccata d’aria fresca. Chiusi gli occhi e mi stiracchiai, sentendo i muscoli come rinvigoriti dal calore dei raggi di sole. Sorrisi, e mi guardai intorno.
Il campo era esattamente come lo ricordavo: le ventuno case delle divinità maggiori e minori, disposte tutt’intorno a formare una grande ‘omega’; il muro dell’arrampicata, dal quale usciva anche la lava; lo spazio per i falò; la Casa Grande, dove risiedeva lo spirito dell’Oracolo di Delfi nel corpo di quella ragazza, la rossa, quella di cui non ricordavo mai il nome. Non era cambiato nulla.
«Sei un idiota, Alec, un idiota!!»
E quegli strilli inviperiti mi convinsero che anche ‘qualcuno’ non era affatto cambiato.
«Chiudi il becco e torna a sferragliare nell’officina, LeeLee»
«NON CHIAMARMI LEELEE!!»
«Voi due avete bisogno di darvi una calmata. Sul serio, ragazzi. Potrebbe venirmi una crisi di nervi a starvi a sentire mentre litigate per tutta l’estate»
I due semidei si voltarono a guardarmi, e in un attimo mi ritrovai soffocato da un abbraccio stritolante, che poteva essere solo di una persona a questo mondo.
«Sei arrivato! Sei qui! In nome degli dei, sei qui!»
Mi ritrovai a fissare sconcertato un paio di occhi scuri come due chicchi di caffè, grandi e splendenti, che occupavano buona parte di un viso tondo e olivastro, in questo momento attraversato da un orecchio all’altro da un sorriso splendente, e circondato da una cascata di voluminosi capelli neri legati in una coda di cavallo alta.
«Leighton» salutai la ragazza, e poi spostai lo sguardo sul suo compagno. «Alec! Te la prendi per un secondo? Il tempo di respirare di nuovo»
Alec, un ragazzo alto e bello come ogni figlio di Afrodite che si rispetti, scosse la testa castana e mise le mani davanti a sé. «Scordatelo, l’ho già sopportata abbastanza» disse fulminando Leighton con uno sguardo glaciale degli occhi verdi, che lei non mancò di ricambiare.
Leighton e Alec si detestano dal primo giorno in cui si sono incontrati. Ma, ne sono certo, sono anche amici indivisibili. Insieme, noi tre, eravamo un trio. Dal primo giorno che avevo messo piede al Campo Mezzosangue. Era destino, ne sono sicuro.
Alec, come ho detto, era un figlio di Afrodite. Leighton, invece, figlia di Efesto. In teoria sarebbero dovuti essere fratello e sorella, dal momento che i loro genitori divini erano marito e moglie. In teoria, eh.
«È da una vita che non vi vedo» sospirai, felice di essere tornato alla quotidianità dei loro battibecchi estivi.
«Dall’estate scorsa» precisò Alec, mentre Leighton mi liberava dalla sua presa.
«Non è cambiato nulla» sghignazzai dando voce ai miei pensieri precedenti.
Ci avviammo al padiglione della mensa per il pranzo, raccontandoci a vicenda i lunghi nove mesi che avevamo trascorso lontano dal campo.
Leighton stava mettendoci al corrente delle ultime follie di sua madre, la signora Gonzales, quando mi ritrovai ad osservare il grande spazio pieno di panche, una per ogni cabina, dove tutti i semidei mangiavano insieme. Stranamente, mi sembrava più pieno del solito.
«Dì un po’» dissi rivolto ad Alec. «Sbaglio o quest’anno siamo aumentati?»
Lui inarcò un attimo un sopracciglio, osservando il padiglione, e poi fece un «Oh!» di comprensione.
«Non te n’eri accorto? Sono arrivate le Cacciatrici» disse.
«Le che cosa?»
«Cacciatrici di Artemide» intervenne Leighton, indicando con la mano il gruppo di una dozzina di ragazze raggruppate intorno al tavolo della cabina di Artemide, solitamente vuoto dal momento che la dea aveva fatto voto di castità e quindi non poteva mettere al mondo mezzosangue. «Sono qui da qualche giorno. Di passaggio, così ha detto Artemide»
Le ragazze erano tutte giovani – la più piccola potrà aver avuto una decina d’anni, la più grande quindici – avevano i capelli intrecciati e sorridevano e ridevano felici e spensierate. A capo tavola spiccava una giovane dai capelli corti, neri e scompigliati, adornati da un cerchietto d’argento. Anche da dove mi trovavo io si vedevano le iridi di un blu che non avrei potuto definire in nessun’altra maniera se non palpitante d’elettricità, sottolineate da parecchio eyeliner passato sui bordi delle palpebre. A differenza delle altre, che portavano vestiti di colore chiaro, indossava una maglietta scura con su la stampa di un gruppo musicale che conoscevo. Sorrisi.
«Oh, ti prego, non fare gli occhi dolci alla figlia di Zeus» sbottò Leighton con un sorrisetto malevolo. Le lanciai un’occhiataccia.
«Non le stavo facendo gli occhi dolci. Aspetta… figlia di Zeus? Vuoi dire che quella lì è Talia? La Talia dell’albero?»
Conoscevo, come ogni mezzosangue, la storia del pino che delimitava i nostri confini e che tutti chiamavano “l’albero di Talia”. La ragazza, al suo arrivo al Campo Mezzosangue, aveva lottato fino alla morte per proteggere i suoi compagni di viaggio. Zeus aveva poi avuto pietà di sua figlia e l’aveva tramutata in un pino. Era poi tornata una ragazza grazie al Vello d’Oro, ma questa parte della storia non me l’aveva mai spiegata bene nessuno.
Silenziosamente io, Alec e Leighton ce ne andammo alle nostre rispettive panche, andando a bruciare le offerte votive agli dei nel braciere e tornando poi a sedere. Ritrovai tutti i miei fratelli e le mie sorelle, che vollero sapere nei minimi dettagli cosa fosse accaduto la sera precedente con i giganti.
Nonostante mi piacesse stare al centro dell’attenzione, iniziai a innervosirmi quando mi accorsi che non riuscivo neanche a prendere una sorsata d’acqua senza che qualcuno mi domandasse qualcosa.
Verso la fine del pranzo, venimmo richiamati all’ordine dal Signor D, altrimenti conosciuto come Dioniso.
Cosa ci faccia il dio del vino in un campo estivo per semidei, ce lo chiediamo tutti, lui compreso. Odia stare qui quasi quanto noi odiamo averlo in giro. Solo che almeno noi abbiamo la decenza di provare a negarlo.
«Allora, sì, sì, inizia un’altra estate, yuppy! Che allegria. Abbiamo iniziato proprio bene ieri con quelle due discariche ambulanti. Dunque, come avrete notato abbiamo qui presenti le Cacciatrici», e quest’ultima parola gli uscì dalla bocca come fosse stata un sinonimo di “pagliacci”. «e questo significa che a breve avrà luogo la tradizionale partita di Caccia alla Bandiera, che voi mammolette non mancate mai di perdere. Comunque, sono stati affissi alla bacheca qui fuori i turni delle pulizie e gli orari delle attività, quindi vedete di andare a darci una controllata. Detto ciò, sparite dalla mia divina vista»
Guardai Jen, all’altro capo del tavolo che stava facendo uno sforzo immane per trattenere uno scoppio di risa. Proprio mentre stavamo per alzarci, però, due nuove figure fecero ingresso nella sala. Ce ne accorgemmo perché le Cacciatrici scattarono in piedi, con i menti alti e le espressioni fiere, e si accomodarono soltanto quando una ragazzina dai capelli ramati, bella da togliere il respiro, diede loro il permesso.
«Un discorso esemplare come sempre, caro fratello» disse la ragazza.
Il Signor D sbuffò. «Non prenderti gioco di me, Artemide»
Balzai sull’attenti anche io, tra le risatine generali dei miei fratelli, osservando la giovane dea. Quella era Artemide? Be’, avrebbe spiegato il comportamento delle Cacciatrici…
«Su, su, Signor D. Abbiamo di meglio da fare che litigare» disse bonario Chirone, uomo di mezza età dalla testa fino alla vita, e da lì in giù cavallo.
«Prima che ve ne andiate» aggiunse, rivolto a noi. «La divina Artemide e io vorremmo organizzare un incontro tra voi semidei e le Cacciatrici»
«Per incontro intende un combattimento?» domandò una ragazza della cabina di Afrodite, seduta accanto ad Alec.
«Esatto, Jolene. Uno contro uno, un combattimento amichevole. Le Cacciatici hanno tre nuove reclute, e Artemide vorrebbe dar loro una dimostrazione pratica di duello»
«Non bastava la Caccia alla Bandiera?» domandò un ragazzino della casa di Demetra, con un gemito. Molti mormorii precedettero la risposta di Chirone.
«Niente storie, ragazzi. Ora, se Artemide vorrà scegliere la Cacciatrice che si farà avanti nella sfida…»
«Vado io»
Artemide sorrise compiaciuta. Tutti si voltarono ad osservare la ragazza che aveva parlato, alzatasi in piedi, che io riconobbi come la ragazza che la sera prima aveva sconfitto i due giganti, ammaccandomi lo stinco.
Doveva avere la mia età, più o meno. Aveva i capelli castani tirati indietro in una treccia, così che il viso era illuminato dalla luce – anche se sembrava ne irradiasse di propria. I tratti del viso delicati erano induriti in un’espressione fiera; gli occhi erano grigi, spettacolari, come un cielo tempestoso, e mi accorsi che erano assurdamente simili a quella di Talia. Solo il colore differiva. Intorno vi aleggiava la stessa aura elettrica.
«Lena Storm» mormorò la dea, quasi accarezzando il nome con le labbra. «Non ho nulla in contrario»
Lena fece un cenno di ringraziamento con la testa, mentre mi dicevo tra me e me che era buffo che una ragazza con quegli occhi facesse “tempesta” di cognome.
«Bene. Lena Storm per le Cacciatrici. Come rappresentante del campo, chi si offre?» domandò ad alta voce Chirone.
Lessi la voglia di farsi avanti su parecchi volti dei figli di Ares, ma prima che qualcuno di loro potesse proporsi ero già balzato in piedi, con una mano alzata per aria. «Io, Chirone. Mi offro io»
Guardai Lena, che a sua volta mi squadrò da capo a piedi con aria di superiorità, mentre sentivo crescere dentro di me la voglia bruciante di ripagarla per quel calcio della sera prima. Colsi anche le occhiate stupefatte di Leighton e di Alec, così come molti sguardi scettici da parte degli altri semidei.
«Sei sicuro, Scott?» domandò Chirone, a braccia conserte, sorridendo.
Annuii. Senza modestia, sapevo di essere uno dei migliori arcieri e spadaccini del campo. Quella Lena non avrebbe avuto nessuna possibilità contro di me, ne ero sicurissimo.
«Molto bene, allora! Campeggiatori, vi invito ad applaudire il vostro rappresentante, Scott Walker della cabina di Apollo!» disse il centauro.
Dal mio tavolo di levò uno scroscio di grida di gioia e applausi, mentre i miei fratelli mi battevano sulle spalle dicendomi «Falla nera, Scott!» oppure «Fai tornare le Cacciatrici a casa con la coda tra le gambe!»
L’euforia durò per cinque minuti buoni, finché non uscimmo dal padiglione.
Alec e Leighton mi raggiunsero immediatamente, eccitati come gli altri all’idea dello scontro.
Prima però che potessimo gioire o preparare strategie, notai le Cacciatrici che si dirigevano tutte insieme verso la cabina di Artemide, e Lena e Talia che, rimaste indietro, parlottavano fitto fitto tra loro. Ora che erano vicine, la loro somiglianza era ancora più lampante. Avrebbero potuto essere facilmente scambiate per sorelle.
«Ci vediamo in campo, allora» esclamai rivolto verso di loro. Talia fece un sorrisetto, Lena la imitò.
Una delle Cacciatrici aveva notato la scena. Fece un passo verso di me e, con una risata sprezzante, disse: «Hai firmato la tua condanna a morte, pivello».











L'angolo della Malcontenta: *Rullo di tamburi* Voilà. Secondo capitolo. A grande richiesta, e spero non sia deludente D:
Iniziamo con una piiiiiccola panoramica dei nuovi personaggi. Jen. Lei è del tutto dedicata ad un'altra Jenny, un'altra figlia di Apollo, il mio raggio di sole, che mi sopporta sempre :'3 E' tutta per te, dolcezza.
Alec&Leighton. I loro nomi devono SEMPRE essere legati insieme, sappiatelo e.e e teneteli d'occhio. Teneteli molto d'occhio.
Lena. Non odiatela, per favore. E' un personaggio complicato, anche se non sembra, e nei prossimi capitoli si saprà parecchio di lei.
C'è Talia *___* Sì, Talia SENZA la H nel mezzo, perché quello è il nome americano, siamo in italia e allora parliamo italiano D:< Talia è il mio personaggio preferito della serie di PJO e non potevo non farle fare un cameo (piuttosto lungo e importante, come vedrete).
Mi fermo qui, altrimenti annoio :') solo, vi invito a fare un salto sul mio blog (http://malcontenta.blogfree.net/) dove ogni tanto posto qualche traduzione :D
Grazie a tutti quelli che hanno letto e recensito.
xoxo Eff

ps. Il nome della mamma di Scott, Molly, è un tributo alla Mamma con la lettera maiuscola: Molly Weasley :'3 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Mi batto contro le vecchiette assassine. ***


Mi batto contro le vecchiette assassine.

 

In tutta sincerità, non ero affatto teso per l’incontro che avrei dovuto sostenere di lì a qualche ora. Me ne stavo sdraiato sull’erba insieme a Leighton, mentre osservavamo una partita di pallavolo tra i ragazzi della cabina di Afrodite e quelli di Ermes, approfittando del tempo libero che avevamo a disposizione dopo il pranzo.
Leighton se ne stava tutta impettita, con la massa di capelli neri tenuta su a stento in un crocchia improvvisata, e non toglieva gli occhi di dosso ad Alec; aspettava che mettesse un piede in fallo per poterlo deridere, e rinfacciargli tutte le volte che lui aveva fatto altrettanto con lei.
«Allora, come mai hai deciso di offrirti volontario per il combattimento contro quella Lena?» buttò lì con aria disinteressata, mentre il turno di battuta passava dalla squadra di Ermes a quella di Afrodite.
Feci una smorfia, tirandomi a sedere. Le raccontai della sera precedente, e Leighton iniziò a ridere senza ritegno. Aggrottai le sopracciglia.
«La prossima volta non ti racconto un bel niente»
«Non essere sciocco»
«Tu non ridere di me»
Mi sorrise, e dimenticai di mantenere l’espressione stizzita.
«È la prima volta che vieni messo ko da una ragazza. Alec potrebbe disconoscerti come amico, sai?»
Scossi la testa, spostando lo sguardo sul mio amico che stava saltando in aria per schiacciare nella parte di campo avversaria. «Ecco perché stasera dovrò fare a pezzi Lena Storm» sorrisi, pregustando di già la vittoria.
 
Il pomeriggio passò in fretta, tra una lezione di arte e un’arrampicata lungo il muro della lava. I figli di Atena stavano già studiando diverse tattiche per la partita di Caccia alla Bandiera contro le Cacciatrici, le quali non si erano fatte vedere per tutta la giornata. Dopo pranzo si erano chiuse nella cabina di Artemide e lì erano rimaste.
L’incontro era stato fissato per le sette di quella sera all’arena, così quando iniziai a vedere un certo movimento di semidei che si spostavano in gruppetti di tre o più verso di essa decisi che era ora di prepararmi. Feci tappa all’armeria, dove mi aspettavano Leighton, Alec e un figlio di Ares di nome Dean.
«Nervoso?» ghignò, poggiato contro il muro con le braccia incrociate. Scossi la testa.
Lui mi diede una pacca sulla spalla e si infilò dentro l’armeria, uscendone poco dopo con una spada che sembrava nuova di zecca e tutte le protezioni necessarie a non farmi diventare una sorta di hamburger vivente, scudo compreso.
C’era parecchio silenzio intorno a noi, cosa del tutto innaturale, cosicché sobbalzai quando Alec mi disse: «Meglio darsi una mossa, o potrebbero pensare che tu te la sia data a gambe levate»
Deglutii. Adesso che non c’era più nulla a separarmi dal momento dello scontro, iniziavo a sentirmi un tantino a disagio.
E se per una qualche assurda combinazione di eventi avessi perso? Sarei diventato lo zimbello della cabina di Apollo. No, di più: sarei diventato lo zimbello di tutto il Campo Mezzosangue.
Scossi violentemente la testa, deciso a non farmi condizionare da quelle idee proprio ora. Avevo fiducia nelle mie capacità; più di una volta avevo sfidato nel tiro con l’arco o nel duello con la spada alcuni dei semidei più anziani del campo, e quasi sempre ne ero uscito vincitore. Chirone ci teneva quanto tutti noi a dimostrare alle Cacciatrici che non eravamo solo una banda di bamboccioni, e se avesse avuto qualche dubbio riguardante la mia vittoria non avrebbe di certo esitato a scegliere qualcun altro. Vero?
«Scott?» mi richiamò all’attenzione Leighton, con un sopracciglio alzato.
«Sì… andiamo» mormorai.
Dopo quel primo momento di incertezza, mi sentii decisamente più calmo e tranquillo. Arrivammo all’arena solo con pochi minuti di ritardo, e non appena facemmo il nostro ingresso tutti i semidei che si erano seduti sugli spalti si alzarono in piedi gridando e applaudendo.
Lena e le altre Cacciatrici erano già arrivate. Le seguaci di Artemide se ne stavano in un gruppo isolato lontano dagli altri mezzosangue, mentre la loro rappresentante parlava e rideva insieme alla dea, entrambe più rilassate che mai.
Aggrottai le sopracciglia, sentendomi offeso: non mi reputavano un avversario abbastanza degno da farle preoccupare? Be’, le avrei fatte ricredere.
«Scott!» mi salutò Chirone avvicinandosi, mentre Alec, Leighton e Dean andavano a prendere posto sugli spalti. Incrociai anche Jen, che mi fece un sorriso d’incoraggiamento alzando i pollici delle mani. «Se sei pronto, direi di cominciare»
Annuii, e il centauro si voltò a chiamare Artemide e Lena. Quando fummo tutti vicini, iniziò a parlare.
«Non andateci pesante, ragazzi. Ricordatevi che è solo un combattimento amichevole, più una dimostrazione che altro, e qualunque sarà l’esito nessuno di voi due dovrà avercela con l’avversario»
Io e Lena assicurammo che non ci saremmo ammazzati a vicenda, ma credo che entrambi sapessimo che era una bugia.
La Cacciatrice, contrariamente a me, non indossava protezioni, eccezion fatta per un paio di ginocchiere. Era vestita esattamente come l’avevo vista a pranzo, solo che sopra alla veste ora portava una felpa grigio scuro, con la cerniera lasciata aperta.
«Dov’è la tua spada?» le domandai stranito, osservando che non aveva armi con sé.
Senza scomporsi, lei scostò la felpa e, alzato appena l’orlo della veste bianca, sciolse una cordicella che teneva legato un pugnale a uno dei passanti del jeans.
«Non è un problema se uso il mio pugnale, no?» mormorò appena corrucciata, ma non capii se si stesse rivolgendo a me, ad Artemide o a Chirone. Nell’incertezza, mi strinsi nelle spalle.
Lei sorrise, enigmatica. «Perfetto»
Mentre Chirone e Artemide si allontanavano, noi ci spostammo verso il centro dell’Arena. Era sceso il silenzio tra i semidei sugli spalti, probabilmente in attesa che lo scontro cominciasse.
Mi sentii in dovere di dire qualcosa alla mia avversaria.
«Umh… comunque prima dicevo sul serio» mentii. «Riguardo quello che ha detto Chirone. Ci andrò piano con te. Insomma, non vorrei mai fare del male a una raga—»
Dallo sguardo di fuoco che Lena mi lanciò, capii che avevo appena detto esattamente l’ultima cosa che avrei dovuto dire. Complimenti, Scott!
«Non intendevo questo!» tentai di correre ai ripari, ma lei mi zittì scuotendo la testa e alzando una mano.
«Lascia perdere, ti va?» disse soltanto, sembrando molto più matura di me. Borbottai qualcosa che doveva essere una risposta affermativa, mentre odiavo il fatto che la mia faccia scottasse per la rabbia e l’imbarazzo.
Diedi un’ultima controllatina alla spada e allo scudo, alzando gli occhi al cielo per scoprire che una nuvolaglia grigiastra stava impedendo agli ultimi raggi di sole di arrivare a illuminare l’arena. Imprecai silenziosamente.
Non che fossi un tipo superstizioso o roba del genere, ma la presenza del sole spesso mi incoraggiava; so che sembra assurdo, ma dal sole riuscivo a trarre forza.
Uno dei vantaggi dell’essere figlio di Apollo, immagino.
«Eroi!» gridò Chirone, facendomi sobbalzare. «Cacciatrici! Che l’incontro cominci!»
Una scarica di adrenalina mi attraversò lo stomaco. Lanciai uno sguardo ai ragazzi del campo, se possibile adesso ancora più silenziosi di prima.
Tutto intorno si sentiva solo il rumore del vento e quello dei passi miei e di Lena su quel poco di ghiaia che c’era per terra. Io e la Cacciatrice camminavamo in cerchio, con spada per me e pugnale per lei alzati, pronti ad attaccare. Passò qualche attimo di calma; quella che precede una tempesta.
Fui io il primo ad attaccare.
Con un ringhio mi slanciai contro Lena, pronto ad affondare la spada su un suo fianco. Lei reagì velocemente, come c’era da aspettarsi, si scansò e deviò la traiettoria della mia spada con il pugnale.
Giuro che in quell’attimo sentii un rumore vibrante di elettricità sfrigolarmi nelle orecchie.
Lena provò a darmi una ginocchiata in pieno stomaco, e scommetto che se non avessi avuto l’armatura sarebbe riuscita a farmi cadere. Invece rimasi in piedi, forzando con l’elsa della spada contro il suo pugnale, finché non riuscii a farla allontanare.
Passò subito al contrattacco, per niente scoraggiata. Veloce come un fulmine mi piombò addosso, dandomi a stento il tempo per evitare che mi trafiggesse una spalla; la manica della maglia arancione del campo però venne stracciata senza pietà.
Cosa aveva detto Chirone sul fatto di non andarci pesante?
Non contenta, Lena piroettò su sé stessa per colpirmi all’altra spalla, ma alzai lo scudo e il pugnale cozzò contro di esso. Ancora una volta sentii l’aria colmarsi di elettricità statica.
«È il meglio che sai fare, figlio di Apollo?» mi schernì, con un sorrisetto sul volto e gli occhi grigi spalancati.
Non risposi, ma mi voltai e sputai per terra.
Il sorriso di Lena si trasformò in una smorfia omicida, e ringhiò furiosa. Il rumore elettrico si faceva via via sempre più forte, fino a divenire quasi assordante. Vidi uno scintillio azzurrino sprigionarsi nel punto in cui il pugnale di Lena entrava in contatto con il mio scudo, e qualche frazione di secondo dopo una scarica di pura elettricità mi attraversò il braccio, utilizzando lo scudo come conduttore.
«Ah!» esclamai mentre gettavo la mia principale difesa per terra.
Lena ghignò e con uno scatto mi tagliò sulla guancia.
Sentii qualche goccia di sangue scivolare dalla ferita sul collo, e mi arrivò chiaro alle orecchie il respiro trattenuto di tutti gli spettatori. Deglutii.
Quella ragazza stava iniziando sul serio a darmi sui nervi.
Strinsi forte la presa sull’elsa della spada, e mi scagliai contro la Cacciatrice con tutta la forza e la rabbia che avevo in me. Ora lei non sorrideva più.
Con quel suo pugnale elettrico tentò di deviare i colpi, e più volte il mio braccio dovette sopportare tremende scosse che gli toglievano quasi la sensibilità. Immaginate centinaia di spilli che vi pungono continuamente, senza lasciarvi tregua. Ora moltiplicate il dolore per cento. Se riuscite a figurarvi in mente il risultato, allora sappiate che è quello ciò che dovevo sopportare.
Dopo l’ennesima scossa, decisi che ne avevo abbastanza.
Mi slanciai verso il fianco destro di Lena, ringhiando, e lei si voltò verso di me per parare il colpo. Allora ghignai, e repentinamente cambiai direzione e la colpii con una ginocchiata dietro il suo ginocchio, facendola piegare all’indietro per la sorpresa e il dolore.
Prima che potesse reagire la afferrai per il polso, piegandoglielo e costringendola a lasciar cadere a terra il pugnale. Calciai via l’arma e spinsi a terra Lena, puntandole la spada alla gola.
«Non prenderti mai più gioco di me, Cacciatrice» le intimai, mentre lei mi lanciava uno sguardo infuocato che mi costrinsi a sostenere.
Immediatamente in tutta l’arena scoppiarono le grida di vittoria dei semidei, accompagnate da uno scroscio di applausi. Alzai lo sguardo per osservare tutti i miei compagni, tenendo sempre la spada puntata contro Lena, più per precauzione che per altro. Sorrisi.
Alla fine riportai lo sguardo sulla ragazza a terra. La treccia le si era quasi sciolta, e i capelli castani le svolazzavano intorno al viso contrito. Aveva le guance rosse e il respiro affannato, ed era chiaro come il sole che la sconfitta le stesse bruciando dentro. Per un attimo mi fece pena.
«Sei stata brava» le dissi, abbassando la spada e porgendole una mano per aiutarla ad alzarsi.
I suoi occhi grigi mi trafissero, e temetti che mi avrebbe staccato la mano a morsi.
Invece, nel fragore dell’arena, vidi la sua espressione passare dall’odio al terrore.
«In nome di Zeus…» mormorò, lo sguardo puntato su qualcosa alle mie spalle. Prima che potessi voltarmi, un urlo agghiacciante mi trapanò le orecchie, seguito a raffica da una nenia lamentosa che andava aumentando di intensità e dal grido di Chirone che ordinava a tutti i semidei di prendere le armi.
Lena mi afferrò la mano e la usò per rialzarsi, saettandomi al fianco e piazzandosi con la schiena contro la mia. Mi voltai, per capire che diavolo stesse succedendo, e le vidi.
Erano in tre, e per un attimo pensai fossero le Benevole, o forse delle Arpie. Ma più si avvicinavano e più mi rendevo conto che erano qualcosa di diverso.
Avevano ali nere, squarciate, grandi il doppio del loro corpicino raggrinzito e avvolto in stracci grigiastri che sembravano fatti di fumo più che di tessuto. Avevano pochi capelli lunghi e scuri, ma la cosa più raccapricciante era il loro volto: grigio, con le orbite vuote e nere, le bocche immobilizzate in smorfie di dolore. Le rughe erano talmente profonde da sembrare piaghe.
«Che cosa sono?» gridai a Lena.
«Non ne ho la più pallida idea!»
Udii Chirone gridare: «Semidei, alle armi!», e quasi contemporaneamente nell’aria si alzò anche il grido di Talia, che incitava le Cacciatrici a colpire quei mostri con le frecce.
Girai su me stesso, in modo da poter avere una piena visuale di quelle strane vecchiette incartapecorite con ali da corvo, che nonostante il loro aspetto debole si stavano avvicinando molto velocemente.
Alzai la spada, per difendermi.
«No! Riponete le armi! Non attaccatele!» gridò Artemide.
Mi voltai nella direzione da cui proveniva la voce della dea, ad occhi sgranati. Non attaccatele?!
La nenia sibilata dai mostri si stava facendo via via sempre più forte, e mi accorsi che la testa iniziava a dolermi. Sentivo un ronzio perpetuo, e mi cresceva una strana rabbia dentro.
Non attaccatele! Lasciamo che le nonnine-uccellaccio spacchino la testa ai semidei.
Staccai la mia schiena da quella di Lena, lanciandomi contro il mostro più vicino. Ero pronto a infilzarlo con la spada, quando Lena urlò: «Scott, che Tartaro stai facendo?!»
Incespicai un attimo nei miei stessi piedi, ma mi ripresi in fretta. Adesso che ero più vicino anche il suono del canto di quelle megere era più forte. Era come… era un rumore che isolava dal resto del mondo. La testa sembrava sul serio sul punto di spaccarsi, forse anche per colpa dei pensieri che avevano preso a vorticarvi dentro. Erano pensieri cattivi. Pensieri che pensavo di aver abbandonato anni e anni prima.
Evidentemente mi ero sbagliato: non ero mai riuscito ad abbandonarli.
Con un colpo deciso trafissi una delle vecchiacce, che con un grido agonizzante si dissolse in fumo. Il rumore svanì. Il cielo iniziò a tuonare.
Lasciai cadere la spada. Ora che non c’era più quell’assordante ronzio, mi sentivo come se fossi stato svuotato da una parte molto grande di me. Avevo la nausea.
Mi guardai tutto intorno, ma la testa iniziava a girare. Caddi a terra, e ciò che vidi mi lasciò senza fiato; le due rimanenti megere aleggiavano su di me come due avvoltoi, piangendo e imponendo le braccia al cielo.
Fulmini azzurri cadevano a tratti, accecandomi. In uno sprazzo di razionalità mi dissi che entro i confini del campo non sarebbe potuto venire a piovere. Ma i fulmini… le nuvole… i tuoni…
«Oh, divino Zeus, signore del cielo, placa la tua ira!»
La voce di Artemide mi arrivò chiara come se stesse parlando a pochi centimetri dalla mia faccia. Voltai la testa e la vidi in piedi a qualche metro da me, con il viso rivolto al cielo e i capelli rossastri che le turbinavano intorno. Persino in quel momento, ebbi modo di soffermarmi sul suo viso austero e perfetto, ammirandone la bellezza.
«E voi, Preghiere, sorelle mie, perdonate il semidio. È stato Ingannato. Ha agito sotto condizionamento della Dea!»
Preghiere? Una dea? Non capivo più nulla. Ero esausto.
L’ultima cosa che vidi furono i due mostri che rallentavano il loro volo frenetico, riprendendo la loro cantilena ronzante, che in qualche modo adesso sembrava colmare quella sensazione di vuoto nel petto.
Sentii Leighton che chiamava il mio nome; sentii il rumore di zoccoli di Chirone, e la sua voce possente che ordinava che venissi portato in infermeria al più presto.
Ma il mio ultimo ricordo fu una risata gelida e cupa, la risata di una donna: una donna che stava esultando.











L'angolo della Malcontenta: Okay, questo capitolo è stato un po' un parto '-' sono due settimane che ci lavoro su xD quindi dal prossimo capitolo in poi, complice l'inizio della scuola, potrebbe passare un po' più di tempo per gli aggiornamenti. Cercherò ad ogni modo di pubblicare a intervalli non troppo distanti tra loro :'D

E così, Scott ha messo Lena al tappeto. Ovvio che lei se lo legherà al dito, ma potrebbe anche iniziare a guardare il figlio di Apollo con un po' più di rispetto u.u In questo capitolo hanno fatto la loro comparsa le Preghiere, quegli obbrobri obbrobriosi che non sono ciò che sembrano. C'è un motivo per cui Artemide voleva che nessuno le attaccasse (e Scott, come al solito, si deve far riconoscere -.-). Oltre al fatto che sono figlie di Zeus, s'intende.

Il titolo del prossimo capitolo sarà, al 90%, "Abbiamo un déja-vu su una fragola d'oro". 
La mia Niniel Virgo sarà felice per la comparsa di un personaggio, già lo so -w-

RECENSITE, vi prego <3 Per ogni recensione che ottengo, la mia voglia di continuare questa storia cresce sempre di più ** e se ne avete voglia, aggiungetemi su questo account di facebook ( 
http://www.facebook.com/effie.efp?ref=ts ) dove ogni tanto pubblico qualcosa sugli aggiornamenti, o su cavolate varie :D
vostra,
Eff.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Abbiamo un deja-vu su una fragola d’oro. ***


Abbiamo un deja-vu su una fragola d’oro.

 

Quando mi risvegliai la prima cosa che percepii fu il morbido calore del sole sulla mia faccia. Subito dopo sentii delle dita sottili e agili che sollevavano una garza dalla mia guancia. Un istante (o forse un’eternità) dopo non c’erano più, ed era sparito anche il sole. In compenso, un mormorio ovattato faceva da sottofondo.
Sentii il rumore di una porta che veniva chiusa, e allora aprii gli occhi.
Non mi ero sbagliato. Il sole illuminava ancora l’infermeria, ma non più direttamente il mio letto.
Mi guardai intorno constatando che la stanza era quasi completamente vuota. Oltre me e un paio di semidei addormentati, c’era Lena che se ne stava seduta su una brandina lì vicino, con i piedi penzoloni lungo il bordo e un’espressione enigmatica in viso.
Aveva un polso fasciato, ma continuava a muoverlo. La mano era chiusa a pugno, e ad intervalli di qualche secondo la apriva e delle scintille celesti le saettavano tra le dita.
Ogni tanto sospirava e chiudeva gli occhi.
«Come riesci a farlo?»
La Cacciatricesobbalzò e saltò giù dal letto, rifilandomi un’occhiataccia. Mi domandai se Lena fosse mai stata capace di guardare qualcuno senza dargli l’impressione di volerlo polverizzare sul posto.
«Non è carino spiare le persone»
«Non ti stavo spiando. Come riesci a creare quelle scintille?» le domandai insistendo su quel punto.
Lei inarcò le sopracciglia in quella che doveva essere un’espressione scettica e sorpresa allo stesso tempo.
«Fammi capire bene. Nessuna domanda su quello che è successo ieri? Non mi chiedi del perché sei finito in infermeria? Non ti interessa dell’attacco?»
Dei, come si faceva a farla smettere di blaterare?
Scossi la testa, sbuffando e passandomi una mano fra i capelli. «Lascia perdere» borbottai, ma la mia voce venne coperta dal suono delle grida di qualcuno appena fuori l’infermeria. Lena andò ad aprire la porta, e io scesi dal letto per seguirla.
Appena poggiai i piedi a terra mi assalì un conato di vomito, e dovetti risedermi. Diamine. Lanciai un paio di imprecazioni in greco, poi riprovai ad alzarmi. Stavolta riuscii a rimanere in piedi, e poggiandomi contro il muro arrivai fino alla porta che Lena aveva lasciato aperta.
Fuori vi erano Chirone, Alec e Leighton, Talia e un’altra Cacciatrice con la quale i miei due amici stavano litigando.
«Perché dovremmo credere che non sia stato qualcuno dei vostri ad evocare quei mostri? Lo sanno tutti che entro i confini del campo i mostri non possono entrare!» esclamò la Cacciatrice, velenosa.
«Che motivi avremmo avuto, razza di—»
«Leighton» la zittì Alec, evitando che la figlia di Efesto iniziasse a prendersi a capelli con la Cacciatrice.
«Mi parli di motivi, ragazzina? È così palese! Se quelle arpie fossero arrivate qualche istante prima, il duello tra il figlio di Apollo e Lena sarebbe andato alle ortiche, e il vostro ‘eroe’ sarebbe stato salvo dall’umiliazione della sconfitta!»
«Chiudi il becco, Phoebe!» esclamò Talia, con gli occhi celesti quasi fuori dalle orbite. «Come ti permetti di insinuare una cosa del genere! Nessuno al campo avrebbe messo in gioco la sicurezza di tutti per una sciocchezza come questa!»
Phoebe sembrò ferita da quelle parole. «Li difendi, Talia?»
«Penso che la nostra luogotenente abbia ragione» si intromise Lena, facendosi largo in mezzo al gruppo. Solo allora tutti quanti si accorsero della nostra presenza.
Alec e Leighton mi corsero incontro, e il figlio di Afrodite mi aiutò a tenermi in piedi.
Lena riprese a parlare: «Mi sembra assurdo che qualcuno possa aver attentato alla sicurezza del campo evocando dei mostri soltanto per far saltare un incontro»
«Senza contare il fatto che Scott ha vinto. Vinto, capito dolcezza?» disse Leighton, rivolta a Phoebe. «Con o senza mostri a guastare la festa»
«Basta così» esclamò Chirone, piazzandosi tra Leighton e Phoebe per evitare che le due si scannassero. Mente Talia prendeva da parte la Cacciatrice, il centauro si rivolse a me e a Lena. «Come state, ragazzi?»
«Io benone. È lui quello a cui hanno incasinato il cervello» mormorò lei.
«Incasinato il cervello?» dissi. Chirone annuì.
«Quelle che ieri sera hanno attaccato il campo si chiamano Litai, Scott. Ma per il bene di tutti sarebbe il caso di abituarci a riferirci a loro con il nome di Preghiere»
«Artemide le aveva chiamate così. Le aveva anche definite sue sorelle» mormorai, mentre i ricordi tornavano in superficie. Ugh. Avrei desiderato che rimanessero nascosti da qualche parte ancora per un po’.
«Esattamente. Vedete, ragazzi, secondo la leggenda le Preghiere sono figlie di Zeus, proprio come Artemide» ci spiegò Chirone.
Lena ebbe un fremito, e strinse i pugni. Aggrottai le sopracciglia.
«Ma, signore» disse Alec, con la mia stessa espressione in viso. «Quella Phoebe ha ragione. Come hanno fatto le Preghiere ad entrare al campo? E comunque, che motivo avrebbero avuto di attaccarci?»
«Non erano lì per attaccarvi. Il contrario, semmai»
«Che cosa?!» esclamai sbigottito.
«Non mi aspetto che voi capiate. Non ora almeno» disse enigmatico Chirone.
Con quella frase chiuse il discorso. Io, Alec, Lena e Leighton insistemmo perché ci dicesse qualcosa in più, ma fu tutto inutile. Chirone volle solo informarsi della mia salute e avvisarci del falò che si sarebbe tenuto quella sera stessa.
Lena se ne andò borbottando, Leighton decise che sarebbe andata a scaricare la tensione lavorando su alcune spade con i suoi fratelli e anche Alec trovò la sua scusa per sparire dalla circolazione.
Prima che anche Chirone si congedasse, però, mi venne in mente che potevo provare a chiedergli una cosa.
«Chirone, mi scusi» lo chiamai, titubante. «Io ho… volevo farle una domanda. Il pugnale di Lena, ieri sera… credo producesse elettricità. E stamattina l’ho vista che creava scariche elettriche con le dita»
Il centauro mi guardò con le braccia incrociate al petto, e mi fece cenno di continuare.
«Com’è possibile? Come fa?» domandai infine. Lui sorrise.
«Credo che tu possa arrivarci da solo, figliuolo»
Deglutii. C’era una cosa a cui avevo pensato, durante il dormiveglia, qualche ora prima. Ma mi sembrava un’assurdità. Se però avessi avuto ragione, forse sarebbe valsa la pena di andare a fondo nella faccenda.
«Il genitore divino di Lena è suo padre, vero?»
«Esatto, Scott. Vedo che cominci a capire» disse, alzando lo sguardo al cielo.
Osservai il suo viso. Sapevo che Chirone era davvero molto vecchio. Doveva avere qualcosa come un fantastiliardo di anni, o roba del genere, ma solitamente non li dimostrava mai. E invece adesso eccolo lì, ad osservare la distesa azzurra sulle nostre teste, con gli occhi che trasmettevano tanta stanchezza e rassegnazione.
«È impossibile. C’era un accordo» mormorai, sperando che Chirone abbassasse lo sguardo e ridesse, dicendomi che avevo capito male e che il genitore di Lena fosse stato, che ne so, una qualche divinità minore semisconosciuta. Speranza vana.
«Accordo che è stato infranto già due volte, se non erro. Con Percy Jackson e Talia» Chirone sorrise stancamente, forse divertito dalla mia incredulità.
 
«Aspetta, frena un attimo: stai dicendo che Lena Storm è figlia di Zeus?!»
«Alec, non urlare!» sospirai pesantemente, strofinandomi la fronte con una mano. Leighton e Alec mi fissavano con la stessa espressione scettica in viso.
«Chirone ti ha detto esplicitamente così?» domandò Leighton. Le rifilai un’occhiataccia.
«No, ma è palese che sia figlia di Zeus. Voglio dire, riesce a produrre elettricità dalle mani. E il suo pugnale… e poi, avete visto quanto somiglia a Talia, no?»
«Be’, sì. Ma Scott, non può essere figlia di Zeus. Appena qualche anno fa la profezia su uno dei figli dei Tre Pezzi Grossi è quasi costata la vita a Percy Jackson. E anche se la profezia ora si è compiuta, mi sembra surreale che Lena possa aver vissuto tranquillamente fino ad ora senza venir—»
«Ascolta, Leighton. Ricordi il figlio di Ade, Nico Di Angelo? Lui è nato decenni prima della profezia, ma rimanendo all’Hotel Lotus ha bloccato la crescita ed è rimasto al sicuro. Lena non può aver fatto la stessa cosa?» provai ad ipotizzare, ma quella teoria sembrava debole persino a me.
«No, è assurdo» disse Alec con un’alzata di spalle. Sospirai.
Stavamo camminando intorno al fuoco del falò, cercando un posto abbastanza appartato per poter parlare in santa pace senza dover temere orecchie indiscrete.
A quanto sembrava, solo un ristrettissimo gruppo di persone era a conoscenza del fatto che Zeus avesse un’altra figlia oltre Talia, e quel ristrettissimo gruppo contava me, Chirone, Alec, Leighton, ovviamente Talia e Artemide e forse qualche Cacciatrice.
«Perché non le parli?» propose Leighton, schivando un ragazzetto della casa di Ermes che per poco non le veniva addosso mentre correva.
«Parlare a Lena? Certo, perché no! Mi è sembrata proprio il tipo di ragazza disponibile a fare due chiacchiere in tutta tranquillità!» esclamai, alzando gli occhi al cielo.
Alec sghignazzò. «Invece io oggi l’ho vista parlare con alcune ragazze, alla mensa, e mi sembrava piuttosto bendisposta. Magari sei tu ad avere l’approccio sbagliato, Scott»
Ecco, perfetto. Ci mancava soltanto che si mettesse a farmi la predica.
I primi tempi mi aveva fatto davvero comodo avere per amico uno dei figli di Afrodite. Voglio dire, la loro madre è la dea dell’Amore! Se non sanno loro come trattare una ragazza allora siamo proprio rovinati. Era facile quindi avvicinare qualche tipa che mi interessava, se seguivo i consigli di Alec.
«Pazzesco. Quest’estate si prospetta per niente tranquilla» biascicai, nel tentativo di cambiare argomento. Trovammo un ciocco di legno un po’ in disparte, dove l’inquietante bagliore rossastro delle fiamme non arrivava. Lo utilizzammo per sederci. O almeno, io e Alec ci sedemmo. Leighton invece si avviò verso un paio di ragazze della cabina di Demetra che si stavano occupando di arrostire per bene i marshmallows vicino al fuoco.
«Quale estate è stata tranquilla, per noi?» rise Alec, provando a sdrammatizzare mentre seguiva la figlia di Efesto con lo sguardo.
Scossi la testa. Non mi andava tanto di scherzare.
Per tutta la giornata i ricordi avevano continuato a riaffiorare, ed ecco che mentre pranzavo rivedevo il viso straziante di quella Preghiera che avevo disintegrato, o mentre miravo al bersaglio con l’arco e la freccia nelle orecchie sentivo il ronzio della sua cantilena. Sospirai.
«Ripensi a quelle cose di ieri sera?» domandò il figlio di Afrodite, fissandomi con gli occhi socchiusi. Mi domandai se i figli di Afrodite riuscissero a leggere nella mente.
«Già. Ogni tanto mi sembra quasi di sentire ancora il loro canto. È frustrante»
«A chi lo dici» sospirò, poggiando le mani sulle ginocchia e guardando a terra. «Quella cantilena mi faceva pensare a cose… brutte»
Mi voltai di scatto verso di lui, accavallandomi un nervo del collo. Digrignai i denti per il dolore, ma cercai comunque di parlare. «Brutte in che senso?»
Alec mi guardò di sfuggita, come se stesse valutando se parlare o meno. Mi si strinse lo stomaco.
«Andiamo, Alec! Sono Scott, hai presente? Il tuo migliore amico da tre anni a questa parte. Puoi dirmi qualsiasi cosa» esclamai cercando di suonare disinvolto, ma in realtà mi dava fastidio che il mio migliore amico dovesse pensarci su due volte prima di confidarmi qualcosa.
«Lo so, lo so. È solo che…» mormorò, chiudendo poi gli occhi per qualche secondo. Si fece più vicino, e capii che l’avevo convinto a parlare. «Ti ricordi quando ti raccontai del litigio con mio padre?»
Annuii. Era successo l’anno prima, se non ricordavo male. Non ricordavo dettagliatamente i particolari, ma la storia più o meno era che un paio di mostri avevano attaccato Alec e suo padre mentre si trovavano a una mostra fotografica di quest’ultimo, causandone la tremenda furia.
Ovviamente non era stata colpa di Alec — quale idiota senza cervello avrebbe potuto pensarlo? — ma suo padre si era arrabbiato lo stesso con lui. Alec allora era scappato di casa, aveva preso un biglietto del pullman ed era venuto a stare qualche giorno da me. Era tornato a casa solo quando suo padre era riuscito a rintracciarlo tramite e-mail — sempre per la storia dell’attirare mostri, Alec non aveva un cellulare.
«Scott?»
«Sì. Ti ascolto»
«Ecco, l’altra sera, quando le tre Preghiere hanno cominciato a cantare mi è tornato in mente quell’episodio. Mi è montata una rabbia dentro verso mio padre, per averci messo così tanto a cercarmi e a preoccuparsi per me»
«Ehi, amico. A lui importa di te»
Questo, per brutto che possa sembrare, era uno dei motivi per cui io e Alec avevamo fatto amicizia. Nessuno dei nostri genitori faceva esattamente i salti di gioia nel realizzare di essere il padre o la madre single di un semidio adolescente.
«Di che parlate?»
Leighton si sedette in mezzo a noi, nonostante non ci fosse spazio, cercando di non fare cadere i lunghi bastoncini di legno su cui erano infilzati diversi marshmallows. Ne aveva presi tre, uno per ognuno di noi.
«Nulla di più importante dei marshmallows» esclamò Alec, addentandone uno. Leighton alzò gli occhi al cielo, ma rise.
«Roba da maschi. Capito. Dei, a volte mi sento emarginata nello stare con voi due!»
Per un po’ dimenticammo Preghiere, genitori frustrati e Cacciatrici scorbutiche, concentrandoci soltanto sui marshmallows abbrustoliti dal fuoco; purtroppo per me, la calma durò poco.
«Guarda chi c’è, Scott: la tua nuova amichetta!» mi canzonò Leighton, rubando l’ultimo marshmallow dallo spiedino di Alec.
Alzai lo sguardo, e vidi che anche alcune Cacciatrici di Artemide si erano unite al falò. Se ne stavano raggruppate come sempre per conto loro, anche se qualche ragazzina più bendisposta aveva fatto capannello insieme a qualche semidea del campo.
Lena, invece, se ne stava in disparte appoggiata contro un albero, con le braccia incrociate e un sorriso rilassato in viso, lasciato completamente scoperto per via della stretta coda di cavallo in cui aveva legato i capelli.
Odiai doverlo ammettere, ma mi accorsi che la luce prodotta dalle fiamme… non so, in qualche modo le addolciva lo sguardo. Ancora una volta mi sembrò che dietro al suo aspetto da ragazzina ci fosse una persona molto più matura, e mi ritrovai a domandarmi quanti anni avesse, e da quanti si fosse unita ad Artemide.
«Vado a parlarle» esclamai, ma Leighton mi afferrò per la maglia, trattenendomi.
«Woh, frena Casanova! Non dicevo mica sul serio quando prima ti ho suggerito di farlo!»
«Lascialo andare. Scommetto due dracme che la situazione degenera» sghignazzò Alec.
Borbottando qualcosa come «Età mentale di cinque anni», Leighton mi lasciò andare. Mi avvicinai a Lena tranquillo, forse anche un po’ spavaldo. Sul momento, però, non lo notai.
«Ehi!» la salutai.
Lei mi guardò con un espressione sorpresa. «Ciao!»
«Perché te ne stai qui tutta sola?» domandai, curioso.
Lei fece un sorrisetto e indicò con un cenno del capo le Cacciatrici che chiacchieravano con le semidee. «Non mi piace andare in giro ad arruolare nuove reclute»
Aggrottai le sopracciglia. Lei sospirò.
«Cercano di convincere altre ragazze ad entrare nelle Cacciatrici. Illustrano loro i vantaggi, sminuiscono i maschi, cose del genere. Detesto quando lo fanno. Se una vuole consacrarsi ad Artemide lo deve fare per propria scelta, non per costrizione. O per lavaggio del cervello»
«Per te cos’è stato? Tua scelta? Costrizione o lavaggio del cervello?»
Lena irrigidì i muscoli, e i suoi occhi grigi ebbero un guizzo. «Fatti gli affari tuoi»
Rimasi spiazzato. Aveva una doppia personalità, per caso? Tre secondi prima mi era sembrata tranquilla e addirittura simpatica! Dov’era finita l’altra Lena?
Ebbi appena il tempo di biascicare qualche scusa poco convinta, perché qualche istante dopo l’attenzione mia e di tutti i presenti al falò venne attirata dalla voce di una semidea.
Aguzzai la vista, e vidi una ragazza pallida come un lenzuolo con lunghi boccoli neri e una maglietta arancione del campo di almeno tre taglie più grande della sua, che scuoteva la mano mostrando a tutti qualcosa che a giudicare da come risplendeva alla luce del fuoco doveva essere argentato o dorato.
«Guardate che ho trovato!» esclamò con un ghigno divertito e subdolo in viso, e finalmente la riconobbi: si chiamava Riley, aveva diciassette anni ed era una delle figlie di Eris, la dea della discordia. «È una fragola d’oro
Si levò un «Ohhh!» generale, soprattutto da parte delle ragazze di Afrodite.
«Dove l’hai trovata?» domandò Jolene, una di loro, una ragazza afroamericana cui la maggior parte dei ragazzi del campo andava dietro.
«Nel bosco» disse spiccia Riley, liquidandola. Qualcuno provò a chiedere cosa ci facesse nel bosco, ma lei alzò una mano e zittì tutti.
«Stavo pensando, non è particolarmente bella?»
Alzò il frutto, in modo che tutti potessero ammirarlo. Era una fragola, su questo non c’era dubbio, e a giudicare da come veniva maneggiata doveva avere anche la consistenza di una fragola. Solo che era appena più grande del normale, ed era dorata. Come un lingotto d’oro tirato a lucido. Wow!
«E così mi son detta, “Riley, non credi che questo frutto così bello debba essere regalato anche alla ragazza più bella?”» Camminava con passi lenti e misurati intorno al fuoco, contenta di aver catalizzato tutta l’attenzione su di sé. Lena emise uno sbuffo di scherno, e vidi che osservava le ragazze di Afrodite che fissavano quella fragola con un desiderio assurdo.
«Riley, che diamine stai dicendo, in nome degli dei?» ridacchiò Alec. Lui e Leighton si erano alzati dal ciocco d’albero e si erano avvicinati. Lei si era seduta insieme ai suoi fratelli, lui se ne stava appoggiato ad un albero poco lontano.
«E chi meglio» riprese Riley a voce più alta, con un tono di voce suadente e basso, ipnotizzante. «Chi meglio di un figlio della dea dell’amore e della bellezza potrebbe riconoscere la più bella tra le semidee qui presenti?»
La figlia di Eris si avvicinò al mio amico, che quasi la superava in altezza nonostante la differenza d’età. Alzò la fragola tenendola tra due dita, sorridendo sorniona, e la consegnò tra le mani di Alec.
«Avanti, Alec. Regala la fragola a colei che reputi la più bella, tra le ragazze che vedi sedute qui tutto intorno»
Si sentì la risata cristallina di Riley, che si allontanò facendo svolazzare i capelli neri, negli occhi un barlume di quella che avrei detto follia se non avessi conosciuto la gioia che quella ragazza provava nel creare situazioni come queste.
Tra l’altro, perché mi sapeva di qualcosa già successo?
«Sembra un deja-vu» mormorai nel silenzio.
Lena, accanto a me, rise. «È un deja-vu. Mai sentito parlare del pomo della discordia?»
«C’entra una guerra, per caso?»
«Dei, Scott. Non riesco a credere che tu non lo sappia! Certo che c’entra una guerra. Anzi, la guerra. Quella di Troia. Elena, Achille, Paride… mai sentiti?»
Finalmente ricordai. Sì, il pomo della discordia. La mela d’oro. Fu Paride, se non ricordavo male, che dovette nominare la più bella tra Era, Atena e Afrodite. Con le conseguenze che tutti credo conoscano.
Deglutii. Non avevo un buon presentimento.
«Allora, figlio di Afrodite?» disse Riley. «Stiamo aspettando il tuo verdetto»
Parecchie ragazze adesso, non solo figlie d’Afrodite, si stavano sporgendo verso Alec o fremevano da sedute, sbattendo le ciglia nel tentativo di attirare la sua attenzione. Essere nominata “la più bella” sembrava essere diventato di colpo l’obbiettivo della vita di parecchie persone.
Alec si guardò intorno, sempre tenendo tra le mani la fragola d’oro. Notai il suo divertimento nel fissare lo sguardo su una ragazza a caso, per poi spostarlo proprio quando la poverina iniziava ad illudersi. Alzai gli occhi al cielo.
Alla fine, però, Alec iniziò a camminare spedito verso un albero lì vicino. Sentii molte persone trattenere il fiato, cosa che feci anche io quando mi resi conto di dove si stava dirigendo il mio amico.
Un silenzio tombale scese tutt’intorno quando Alec si fermò davanti a Leighton, prendendole la mano per poggiarci la fragola d’oro.
«Bon appétit » esclamò, dando le spalle alla figlia di Efesto e tornandosene al proprio posto con tutta la calma di questo mondo. Leighton, dal canto suo, osservava la fragola d’oro come fosse stato un alieno atterrato nel palmo della sua mano.
«Ma è assurdo!» esclamò Jolene alzandosi in piedi, fissando suo fratello con uno sguardo omicida. «Come puoi dare la fragola a lei?!»
«Hai qualcosa in contrario?» esclamò sostenuta una delle sorelle di Leighton, rossa di rabbia. «Leighton merita la fragola al pari di chiunque altro!»
Immediatamente attorno al fuoco si scatenò un tripudio di commenti e frecciatine al puro veleno.
Non avrei dato la fragola a Leighton. Voglio dire, non che non fosse bella — perché, cavolo, Leighton era bella. E sì, so che di norma i figli di Efesto non hanno esattamente un gran bell’aspetto, ma Leighton doveva essere l’eccezione che confermava la regola. Sapevo che era il risultato di uno strano miscuglio di razze — araba, spagnola, americana e francese, se non sbaglio — e di solito i ragazzi che hanno sangue di diverse etnie nelle vene hanno anche un aspetto particolare.
Leighton era molto carina, ma detto ciò, c’è da dire che in quel momento insieme a noi c’erano persone anche più carine. Jolene, per fare un esempio; qualche altra figlia di Afrodite; la stessa Riley era bella da togliere il respiro! Per gli dei, anche Lena avrebbe meritato quella fragola!
La situazione stava degenerando. C’erano figli di Afrodite da un lato e figli di Efesto dall’altro che minacciavano di farsi a pezzi a vicenda.
Per un attimo compatii il povero Paride, che si era trovato nella stessa situazione anni prima, solo che invece di doversela vedere con dei mezzosangue, be’… aveva dovuto sopportare l’ira di tre potenti dee, non so se mi spiego.
«Che sta succedendo qui?»
L’arrivo di Chirone mi fece tirare un sospiro di sollievo. Poco dopo però una camicia tigrata si fece largo dietro di lui, e mi demoralizzai di nuovo.
«Andiamo, Chirone, lasciamo che sfoghino la rabbia repressa. Abbiamo una partita di Pinnacolo lasciata in sospeso!» esclamò irato il Signor D.
Chirone non volle sentire storie. Leighton si fece avanti e gli mostrò la fragola d’oro, mentre con parole balbettate gli raccontava l’accaduto. Colsi un lampo di puro terrore negli occhi del centauro, e mi sentii sprofondare nel terreno.
«Andate a dormire, ragazzi. Riley, tu vieni con me. Leighton, Alec, anche voi dovreste seguirmi»
Mentre i semidei sgomberavano e il malcontento generale dilagava, mi domandai se fossimo mai destinati a passare una sera tranquilla senza né mostri, né duelli, né fragole d’oro.












L'angolo della Malcontenta: Porca zozza '-' per i miei standard, questo capitolo è piuttosto corposo òo maaaa tralasciamo. Uh, ero indecisa se aggiornare ora o domani :'3
Boh, questa è la prima nota a fine capitolo in cui davvero non so cosa dire '-'
Ahh forse qualcosa c'è!
Alec. C'è un barlume del suo passato in questo capitolo. Sappiate che questo ragazzo non ha avuto vita facile. Ma è comunque un gran bassshtardo :'3
C'è qualcuno che shippa segretamente Scott/Alec? *-* No, perché io lo faccio :'D E neanche tanto segretamente.
Ma boh, c'ho gente che preme per la Lenott (a proposito, grazie a Ella Sella Lella per aver coniato il termine :'D) e per la Alec/Leighton, quindi abbandono i miei propositi Scolec (?).
So che non importa a nessuno, ma il secondo nome di Leighton è Aisha, che è un nome arabo uu e sì, LeeLee è bella. Basta con questo luogo comune che i figli di Efesto debbano essere fotocopie del padre!
Leo Valdez è uno gnocco, ed è figlio di Efesto. Problemi? ùu

Oh, chi pensa che Riley sia figa? *Alza la mano* °w°

Il nuovo capitolo si dovrebbe chiamare "Lena fa un bagno inaspettato", ma potrebbe cambiare.

xoxo Eff

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Lena fa un bagno inaspettato ***


Lena fa un bagno inaspettato.

 

«Stiamo andando alla cabina. Vieni con noi?»
Jen mi comparve accanto senza che me ne accorgessi, e quasi mi spaventò. Sembrava rilassata come di suo solito e per niente toccata da tutta la storia della fragola d’oro.
«Volevo aspettare Leighton e Alec, a dire il vero» mormorai, guardandomi intorno. Chirone era già sparito insieme al Signor D, a Riley e ai miei due amici. «Hai idea di dove siano andati?»
Jenny aggrottò per un istante le sopracciglia, corrucciata. Mi sentii in colpa; da quando ero arrivato al campo non ero riuscito ancora a passare un po’ di tempo con lei, per raccontarle com’erano andati i lunghi mesi antecedenti l’estate.
«Penso che si siano diretti alla Casa Grande, ma non posso dirti nulla di certo» sospirò alla fine, scuotendo la testa in segno di scuse. Le sorrisi.
«Fa nulla, tranquilla. Ehi, e se domani ci esercitassimo con l’arco? Magari con i bersagli mobili. Ti va?»
Le si illuminò lo sguardo. «Potrei umiliarti»
«Correrò il rischio!» mi strinsi nelle spalle, mentre le scivolavo accanto per cercare di raggiungere Leighton e Alec. Cercai di non dare parecchio nell’occhio, cosa un tantino difficile dal momento che adesso tutti quanti si stavano dirigendo alle rispettive cabine, e io ero l’unico a procedere spedito in una direzione diversa.
Cercai di restare il più possibile nascosto fra gli alberi. Funzionò.
Dopo qualche minuto mi lasciai alle spalle il borbottio degli altri semidei e la luce rossastra che le fiamme del falò gettavano su ogni cosa nei dintorni.
Odiavo la luce emanata dal fuoco. Non riuscivo a capirne il motivo, dal momento che il fuoco in sé per sé non mi faceva né caldo né freddo, ma la luce che diffondeva mi sembrava in qualche modo sbagliata. Il mio concetto di luce erano i caldi raggi del sole, non il loro surrogato fiammeggiante.
Scossi la testa. A proposito di luce, più andavo avanti e più si stagliavano i contorni della Casa Grande, illuminata appena.
Il Signor D era seduto al tavolo dove solitamente giocava a pinnacolo con Chirone, solo che stavolta stava giocando con degli avversari invisibili. Chirone sembrava averci fatto l’abitudine, e se ne stava seduto sulla sua sedia a rotelle — una sorta di travestimento per quando deve infiltrarsi nel mondo mortale. La sedia deve essere sicuramente incantata, perché è impossibile che riesca a contenere il suo didietro da cavallo senza sfasciarsi! — con le braccia incrociate e uno sguardo torvo.
Leighton guardava le carte degli avversari invisibili del Signor D con gli occhi quasi fuori dalle orbite. Sembrava parecchio nervosa. Alec invece se ne stava tranquillo, seduto accanto a lei e si guardava intorno con impazienza, come se non vedesse l’ora di levarsi di torno.
Fra tutti, però, era Riley quella più strana: era corrucciata, con le braccia incrociate e le gambe accavallate poggiate con disinvoltura su una sedia accanto a lei.
Ero troppo lontano, e non riuscivo a sentire nulla di ciò che stavano dicendo. Decisi di avvicinarmi ancora, cercando di trovare un posticino sicuro in cui avrei potuto sentire e vedere senza essere visto.
Trovai un bell’albero che faceva al caso mio, con il tronco abbastanza largo da nascondermi. Ero vicino quanto bastava per riuscire ad ascoltare ogni cosa.
«Per l’ultima volta, Riley, chi ti ha dato quel frutto?» domandò Chirone, e sobbalzai: era esattamente a pochi metri dal mio albero.
«Per quella che spero sia sul serio l’ultima volta, l’ho trovato tra i cespugli. Tutto qui. Non me l’ha dato nessuno» rispose la figlia di Eris, con quel suo solito tono basso e suadente, stavolta venato però anche di qualcosa che interpretai come nervosismo.
Chirone sospirò. Non sembrava crederle. «E ti è venuto in mente di improvvisare quella contesa»
«Cos’altro puoi aspettarti da una figlia di Eris? Che trovi il modo per far andare tutti d’amore e d’accordo?» esclamò il Signor D, scartando una carta con un’espressione disgustata, neanche fosse stata ricoperta di escrementi. «Mai quella che mi serve al momento»
Sentii Alec sospirare rumorosamente. «Perché io e Leighton dobbiamo stare qui? Non abbiamo fatto nulla»
«Disse il degno erede di quell’imbecille di Paride. Dì un po’, giovanotto, sai quanto sono fastidiose le femmine quando si arrabbiano? Avresti potuto far scoppiare una guerra di Troia in scala ridotta, lì fuori» lo rimbeccò il Signor D.
Non riuscii a non alzare gli occhi al cielo. Addirittura una guerra di Troia in scala ridotta? Il massimo che le figlie di Afrodite avrebbero potuto fare per rivendicare la fragola d’oro sarebbe stato iniziare a prendersi a capelli tra di loro!
Sentii un rumore di foglie spostate poco lontano da dove mi trovavo, ma non me ne preoccupai più di tanto.
«Signor D, credo che i ragazzi siano stanchi. Forse è meglio lasciarli tornare alle loro rispettive cabine, e riprendere in mano il discorso un secondo momento» disse Chirone.
Ci fu qualche istante di silenzio, e vidi che il Signor D stava fissando intensamente il centauro. Sembrava avessero qualcosa di importante da dirsi, ma non avrebbero potuto farlo in presenza di semidei.
«D’accordo, d’accordo. Tanto stavo perdendo. Sparite dalla mia vista, mocciosi!» esclamò il dio del vino battendo le mani sul tavolino e spingendo indietro la sedia.
I ragazzi non se lo fecero ripetere due volte. Sgusciarono via dalle loro sedie velocemente, e in maniera altrettanto veloce mi allontanai dal mio albero per intercettarli. Con la coda dell’occhio notai Chirone e il Signor D che entravano nella Casa Grande, l’uno abbandonando la sedia a rotelle e l’altro il suo adorato tavolino da gioco.
«Alec!» chiamai il mio amico, divorando la distanza tra me e i tre ragazzi con grosse falcate. Quasi inciampai.
«Scott. Che ci fai qui?» domandò lui, osservandomi con un sopracciglio inarcato mentre riprendevo fiato.
«Volevo sapere com’è andata con Chirone» borbottai, stringendomi nelle spalle e posando lo sguardo su Leighton e Riley, accanto a me.
«Com’è andata?» esclamò sprezzante la figlia di Eris. «Da schifo, ecco com’è andata»
«Chirone non vuole credere che Riley abbia semplicemente trovato la fragola» mi informò Leighton. «Ma lei insiste nel dire che ha fatto tutto da sola»
«Ed è la verità?» domandai.
«Ovviamente no» rispose Alec con un sorrisetto, come se avessi già dovuto sapere la risposta.
Riley lo fissò con uno sguardo carico di curiosità e scetticismo. «E tu lo sapresti perché…?»
«Perché so leggere le espressioni facciali. Riesco a capire quando qualcuno sta mentendo oppure no. E tu stavi mentendo, mentre rispondevi a Chirone»
Rimasi colpito. Non sapevo di quest’abilità di Alec. Anche Leighton sembrava sorpresa. Riley, invece, aveva le labbra arricciate in un’espressione di disgusto. Mi accorsi che stringeva i pugni con talmente tanta forza da far diventare le nocche ancora più bianche di quanto non lo fossero già state.
Alla fine sospirò. Scostò indietro i lunghi capelli neri e tornò a sorridere enigmaticamente, come di suo solito. «Vai al Tartaro, figlio di Afrodite» disse con una calma che poco si addiceva al comportamento di qualche attimo prima. Non aspettò risposta; si voltò e con passo svelto si diresse verso le cabine.
Io, Alec e Leighton rimanemmo a fissarla in silenzio.
«Quella ragazza mi terrorizza» disse infine la figlia di Efesto. Non riuscii a non trovarmi del tutto d’accordo.
«Allora, Chirone vi ha detto nulla?» domandai infine, sospirando. Entrambi scossero la testa.
«Diciamo che eravamo lì per fare tappezzeria, più che altro» grugnì Alec.
«Tutta colpa tua. A quest’ora probabilmente sarei stata a dormire o a parlare con Nissa, se tu non avessi voluto umiliarmi davanti a tutti dandomi quella stupida fra—»
«Credi davvero che lo abbia fatto per umiliarti?»
Woh, woh! Spostai lo sguardo da Alec a Leighton, che si stavano guardando in cagnesco. Sospirai, scuotendo la testa e sentendomi come un genitore single alle prime armi che si trova alle prese con due piccole, odiose pesti.
«Che ne direste se invece di litigare trovassimo qualcosa di più utile da fare? Che ne so, qualcosa del tipo cercare di capire perché Chirone si comporta in maniera così strana e sospettosa?» proposi.
Per un attimo pensai che nessuno dei due mi avesse sentito, perché stavano continuando a guardarsi, in silenzio. Alla fine però Alec scosse la testa.
«D’accordo. Andiamo» disse, e si voltò procedendo spedito verso la direzione da cui erano arrivati lui, Riley e Leighton.
La figlia di Efesto borbottò qualcosa, imbronciata. Le lanciai un’occhiata in tralice, che non passò inosservata.
«Che c’è?» mi grugnì contro.
Non le risposi.
Reputavo Leighton abbastanza intelligente da capire che Alec non si sarebbe mai preso gioco di lei. Mai. Per Ade, eravamo migliori amici! Certo, a volte litigavamo e ci lanciavamo frecciatine a vicenda – okay, forse erano principalmente Alec e Leighton a farlo – ma non ci andavamo mai giù pesante, né avremmo mai permesso che qualcun altro lo facesse.
«Scott» mormorò Alec, che si era fermato per consentirci di raggiungerlo. Lo guardai con aria interrogativa, e lui indicò con un cenno della testa una delle finestre al piano terra della Casa Grande. Era aperta, e la stanza era illuminata. Probabilmente Chirone e il Signor D erano lì dentro a parlare.
Scambiai uno sguardo con Alec, che annuì. Sembrava quasi un chiaro segno del destino che ci invitava a origliare la conversazione.
Silenziosamente, io e i miei due amici ci avvicinammo alla finestra e ci accucciammo per non essere visti. Il Signor D stava parlando con un tono di voce piuttosto concitato.
«…e se davvero è lei, allora il vecchio Sparafulmini non la prenderà bene. L’avevo detto, io, che esiliare a vita una sfrontata come quella non sarebbe stata una mossa saggia. Ma qualcuno mi ha dato ascolto? No
«Signor D, si calmi, sta facendo impazzire le piante» sospirò Chirone. Da dentro la camera proveniva uno strano frusciare furioso di foglie.
«Sì, sì, d’accordo. Sono calmo» bofonchiò il dio.
«Ad ogni modo, sono solo supposizioni, queste. Potremmo anche sbagliarci…»
«Io non posso sbagliarmi, Chirone. E poi, il frutto della discordia, le Litai… tutto torna»
Il Signor D sospirò rumorosamente. Non mi piaceva il tono della sua voce. Era strano e inquietante sentire un dio potente come Dioniso che parlava con una tale agitazione. Mi domandai chi o cosa potesse essere talmente spaventoso da preoccupare lui o Chirone.
«Allora è vero. Ate è tornata» mormorò il centauro, e sentii un brivido corrermi giù per la schiena lungo la spina dorsale.
Ate. Ate. Ero sicuro di non aver mai letto o sentito quel nome prima d’ora, eppure in qualche modo mi suonava familiare. Come un ricordo rimosso, ecco.
Un tuono fragoroso mi prese totalmente alla sprovvista, facendomi sobbalzare. Alzai lo sguardo al cielo, terso come sempre, ma oltre i limiti dei confini dei nuvoloni neri carichi di pioggia e di elettricità stavano provando ad avanzare, minacciosi.
«Scott»
Leighton mi sfiorò delicatamente il braccio. Forse era solo una mia impressione, ma sembrava più pallida del normale. I suoi grandi occhi neri erano ancora più enormi.
«Scott, andiamo» sussurrò. Guardai Alec, e anche lui si trovò d’accordo.
Gattonando ci allontanammo dalla finestra, e quando fummo sicuri di essere al riparo dal raggio visivo di Chirone e del Signor D ci alzammo in piedi e ci allontanammo in fretta.
Camminavamo a passo svelto, e i tuoni che risuonavano in lontananza facevano da sottofondo al silenzio.
Mi sentivo stanco, e soprattutto turbato.
«Di chi stavano parlando?» domandò Leighton. «Chi è Ate?»
Un altro tuono squarciò la quiete notturna, e imprecai. Ciò che avevo imparato da subito, quando ero arrivato al Campo Mezzosangue e avevo preso piena consapevolezza del mio essere un semidio, è che i nomi sono più potenti di ciò che sembrano.
«Non chiamarla per nome. Sembra che Zeus non gradisca» mormorai, osservando la nuvolaglia.
«Toh. A proposito di Zeus…» esclamò Alec, aguzzando la vista.
In giro non c’era quasi nessuno. In effetti tutti i semidei a quest’ora sarebbero dovuti stare nelle loro rispettive cabine, dal momento che il coprifuoco sarebbe scattato… oh. Realizzai con una smorfia che il coprifuoco doveva essere già scattato da parecchio tempo.
Eppure, davanti a noi stava avanzando furtivamente una ragazza, stretta nella sua felpa grigia, con i capelli legati alti dietro la nuca.
Lena.
Quando ci vide si guardò intorno, quasi temesse di essere scoperta, dopodiché ci corse incontro. Vedendola più da vicino, mi accorsi che non aveva una bella cera. Aveva le labbra esangui, e gli occhi sembravano più spiritati del solito.
«Ciao» mormorò, quasi strizzandosi la felpa addosso. Eppure quella sera non faceva più freddo del normale.
«Ehi» la salutammo in contemporanea noi.
«Che ci fai fuori a quest’ora?» le domandai.
«Devo… devo parlare con Chirone»
«Brutto momento» disse Alec. «Lui e il Signor D sembrano avere un paio di cose di cui preoccuparsi, al momento»
Lena lo guardò curiosa, poi i suoi occhi si posarono su Leighton. Mi resi conto che in effetti quei tre non si conoscevano ancora.
«Umh, giusto. Lena, loro sono Alec e Leighton, miei amici. Alec è figlio di Afrodite, Leighton invece di Efesto» li presentai. «Ragazzi, voi sapete già chi è lei»
«Non è il momento per i convenevoli» disse Leighton alzando gli occhi al cielo. Lena fece un fugace sorrisetto.
«Cosa stavi dicendo di Chirone? Cosa sta succedendo?» domandò ad Alec.
«Non lo sappiamo. Ma sembra qualcosa di grosso. Parlavano di una persona… Ate, l’hanno chiamata»
L’ennesimo tuono. Lena trasalì, e sembrò che l’avesse attraversata una scarica elettrica.
«Le arpie. Stanno arrivando. Andiamo da qualche altra parte, o ci serviranno per pranzo domani» bofonchiò.
«Come fai a—» provò a chiederle Leighton, ma Lena la zittì.
«Il tuono. Me l’ha detto il tuono»
Inarcai un sopracciglio. Stavo per chiederle se stesse scherzando, quando mi ricordai che suo padre era Zeus. Forse non era tanto assurdo che un tuono l’avesse avvertita dell’arrivo delle arpie. Immagino che nessun genitore voglia che suo figlio o figlia divenga lo spuntino notturno di qualche mostro mitologico.
Tornammo nella boscaglia, muovendoci in fretta.
«La scogliera è un buon posto. Lì di solito le arpie non vanno mai. Sono troppo pigre per salire fin lassù» dissi. Lo sapevo perché i fratelli Stoll, questi due tipi figli di Ermes, una volta avevano organizzato una festa di fine estate lì su. E nessuno li aveva beccati.
Non sul momento, almeno.
Tutti furono d’accordo, e in qualche minuto arrivammo fino alla scogliera. Non era troppo lontana, ma la strada era tutta in salita parecchio ripida. Arrivammo con il fiatone.
«Se la ragazza che parla ai tuoni ci ha fatto salire fino a qui per nulla…» tossicchiò Alec, guadagnandosi una delle occhiate inceneritrici di Lena.
«Lo sai, Artemide non va affatto d’accordo con Afrodite»
Alzai gli occhi al cielo. L’ultima cosa che ci serviva era l’ennesima litigata.
«Era importante, quello che dovevi dire a Chirone?» intervenne Leighton. Apprezzai il suo tentativo di sedare qualsiasi discussione potesse essere sul punto di nascere.
Lena scosse la testa, e sospirò.
«È che…» alzò la testa per osservare il cielo. Ora che eravamo sul versante marittimo, le nuvole erano decisamente diminuite, mentre il vento soffiava più forte. Con i capelli scompigliati Lena somigliava molto ad Artemide, in quel momento, illuminata dalla luna. Avevano lo stesso genere di bellezza.
«È tremendamente arrabbiato» disse infine la Cacciatrice, stringendo le palpebre per poi riaprirle.
«Chi?» domandò Alec.
«Zeus, chi altri?» Lena sembrava quasi offesa da quella domanda.
«Come fai a saperlo?» chiese Leighton, affilando lo sguardo e lanciandomi uno sguardo molto eloquente.
Lena non rispose subito. Arricciò le labbra, e mi ricordò Alec quando al falò era indeciso se confidarsi o meno con me. Alla fine, però, alzò il mento con espressione fiera.
«Perché èmio padre»
Probabilmente in un altro contesto avrei iniziato a saltare e a rinfacciare ad Alec e a Leighton di non avermi creduto, quando avevo detto loro che Lena era figlia di Zeus. Ora, però, dovetti accontentarmi di un sorrisetto trionfante rivolto ai miei due amici.
«Wow. Sembra fico!» esclamò Leighton.
Lena rise. «Non lo è. Non lo è affatto»
«Sì, ecco, mi spiacerebbe interrompere le vostre chiacchiere, ma non credo che siamo venuti fin qui per questo» disse Alec. Entrambe le ragazze alzarono gli occhi al cielo e scossero la testa, probabilmente meditando su come zittire Alec una volta per tutte.
Probabilmente Leighton e Lena sarebbero andate d’accordo.
Non ero ancora sicuro se la cosa fosse stata un bene o un male.
«Ha ragione» dissi, prendendo le difese del mio amico. «Sta succedendo qualcosa. Non avevo mai visto Chirone e il Signor D così turbati»
«Né io avevo percepito papà così arrabbiato» aggiunse Lena. Dei, aveva appena chiamato il signore del cielo papà?
Stavo per dire che non poteva essere semplicemente una coincidenza, quando qualcosa mi colpì alla nuca. Mi massaggiai la parte dolorante con una mano, e mi voltai per vedere cosa mi aveva colpito. La risposta arrivò insieme a un pezzo di legno spezzato, che il vento mi scagliò contro.
«Non mi ero reso conto che tirasse così tanto vento» bofonchiai, ma prima che potessi finire la frase un rumore inquietante, il rumore di qualcosa che si spezza, mi mise sull’attenti.
Il vento aumentò fino all’inverosimile. Faticavo a tenere gli occhi aperti, e le foglie e i rametti e i sassolini sollevati dalle folate mi graffiavano gambe, braccia e volto.
«Dobbiamo andarcene!» esclamai, rivolto ad Alec e alle ragazze. Loro annuirono, ma scoprimmo che camminare controvento era pressoché impossibile. Vidi la bocca di Lena muoversi, ma il rumore creato dal vento era talmente forte da assordarmi.
Per cui non riuscii in alcun modo a sentire la Cacciatrice che mi gridava di fare attenzione, e venni colpito in pieno viso dal ramo spezzato di un albero.
Sputacchiai le foglie, domandandomi come diamine fosse possibile che i moti d’aria avessero questa forza tale da spezzare i rami degli alberi. Ma fosse stato solo quello il problema, mi sarebbe andato bene!
Lì sulla scogliera c’erano parecchi tronchi caduti durante gli allenamenti, quando i fendenti delle spade non arrivavano a destinazione ma intaccavano la corteccia.
Con orrore mi resi conto che quei tronchi stavano iniziando a muoversi, e un paio di essi vennero scagliati con violenza contro di noi.
Gridai a Leighton di far attenzione, ma a stento riuscii a sentire il suono della mia voce. Stavo per correre dalla mia amica, ma Alec fu più veloce di me.
La spinse via, e il tronco lo colpì al braccio. Dalla smorfia di dolore che compare sul suo viso capii che doveva essersi fatto parecchio male.
Dovevamo riuscire ad allontanarci dal promontorio, o saremmo finiti piuttosto male.
Riuscii a schivare tutte le pietre che il vento mi gettava contro, e anche la maggior parte dei rami, ma era davvero sfiancante doversi muovere contro quella massa d’aria.
Quando un tronco cavo venne scagliato contro di me a una velocità assurda, quasi mi prese. Fortunatamente mi scostai in tempo e il tronco mi saettò accanto.
Sfortunatamente, accanto a me c’era Lena.
Fu questione di pochi attimi, perché un secondo prima Lena era al mio fianco e il secondo dopo veniva trascinata via dalla forza del tronco. La vidi arretrare fino alla punta della scogliera, oltre la quale comparivano a tratti spruzzi di schiuma bianca delle onde che si infrangevano contro gli scogli.
Il tempo di un battito di ciglia, e Lena era caduta giù.
Pluff.
 
Non so come ragionò il mio cervello in quell’istante. Non so neanche cosa mi spinse a muovere le gambe, le braccia, ogni singola parte del mio corpo. Forse fu l’iperattività che caratterizza ogni semidio, mescolata all’impulsività. Non ne ho idea.
So solo che una manciata di secondi dopo la caduta di Lena mi gettai in mare anche io, per aiutarla.
Il salto dalla scogliera non era particolarmente alto, ma l’impatto con l’acqua fu comunque abbastanza doloroso. Con tutto quel vento il mare si era agitato, e le onde erano gelide e cariche di sabbia rimossa dal fondale.
Tornai in superficie e cominciai a guardarmi intorno, chiamando il nome di Lena.
Pregai Poseidone di essere buono, di non lasciare che le succedesse nulla di brutto, e pregai anche che le correnti non l’avessero trascinata troppo lontano, e che lei sapesse nuotare.
Nel bel mezzo delle varie preghiere, la vidi. Annaspava e batteva furiosamente le braccia per cercare di restare a galla.
Con un paio di bracciate arrivai da lei, e la afferrai per un braccio. Lena vi si aggrappò all’istante, e per un attimo temetti che così facendo avrebbe fatto annegare entrambi.
«Va tutto bene! Ora ti porto a riva» le dissi per calmarla.
Lei continuava a tossire, e mi prese il panico.
Le passai un braccio intorno alla vita, lasciando l’altro libero per nuotare.
Ora che ci ripenso, forse fu merito del brevetto di salvataggio che mi avevano dato l’anno prima dopo quel corso per poter lavorare come bagnino nella piscina vicino casa mia.
Fatto sta che alla fine riuscii a riprendere in mano la situazione, e trascinai Lena a riva. Mi resi conto che il mare si era calmato, e che il vento era del tutto cessato.
No, non poteva essere stato solo un semplice fenomeno atmosferico.
Quando sentii la sabbia sotto i piedi il mio primo pensiero fu “Ah, al Tartaro, dove sono finite le mie scarpe?”, e subito dopo “Fatta. Siamo al sicuro”.
Trascinai Lena sul bagnasciuga. Tossì e sputò parecchia acqua, mentre io mi distendevo sulla sabbia respirando pesantemente.
«M-Mi hai… salvato la vita…»
Spostai lo sguardo su Lena. Aveva gli occhi rossi e sembrava sconvolta, ma ebbe comunque la forza di rimettersi in piedi.
«Devo andare…»
«Aspetta! Sono sicuro che Alec e Leighton saranno qui a minuti»
«No, io…»
«Lena. Stavi affogando»
Lei strinse le labbra. «Grazie, Scott» mormorò, dopodiché si girò e, non senza incespicare, corse via.
Forse avrei dovuto fermarla, ma non ne avevo più la forza. Mi passai una mano sulla fronte, e quando la riportai sulla sabbia fui sorpreso nel sentire sotto le mie dita qualcosa di freddo e metallico. Strinsi le dita intorno a quell’oggetto, e mi voltai ad osservarlo.
Un ciondolo. Un ovale di metallo arrugginito e senza fronzoli. Senza pensarci lo infilai in tasca, e provai a smettere di pensare.











L'angolo della Malcontenta: CHE. SCHIFO. 
Posso dirlo? Questo capitolo non mi piace affatto. Ma boh, nonostante tutto non riesco a cambiarlo di una virgola, perché è uscito fuori così e non ci posso fare nulla ._.

Finalmente abbiamo il quartetto completo! Alec e Lena non possono stare vicini, sento che si schiferebbero a morte ._. 
E, umh, davvero non so che dire. Appare per la prima volta il nome di Ate, questa bella signorinella con la quale già nel prossimo capitolo potreste iniziare a fare amicizia.
Povera Lena çwç se potesse prendere vita, penso che mi fulminerebbe.

Okay, scusate se abuso di questo spazio per un paio di righe, ma domani è per me una data molto importante. Se non volete leggere saltate pure :)

Due anni (e un giorno) fa conoscevo una ragazza che sarebbe diventata una delle persone più importanti della mia vita. Qui su Efp è Niniel Virgo, ma nel mondo reale è Erica. Lei è... non lo so, è la cosa più vicina a una sorella che io abbia mai avuto. Lei c'è sempre stata, anche quando era lontana. Ci siamo allontanate così tante volte che ho perso il conto, ma ogni volta siamo tornate a ridere insieme. Siamo entrambe tremendamente orgogliose, è stato difficile.
Ma adesso sono due anni, DUE ANNI. Avrei voluto dedicarti un capitolo migliore, ma forse è questo il motivo per cui pur volendo non riesco a cambiare ciò che ho scritto: ogni parola pensavo "Devo finirlo per Erica, devo finirlo per Erica".
Ti voglio un bene dell'anima, e ci sarò SEMPRE per te. 
DUE ANNI INSIEME, AMORE.
<3

xxx Eff

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Organizziamo un viaggio in fretta e furia. ***


Organizziamo un viaggio in fretta e furia.

 
«E se n’è semplicemente andata? Così, si è alzata ed è andata via? Senza dire o fare nulla?»
Alzai gli occhi al cielo scuotendo la testa. Leighton era rimasta incredula di fronte al comportamento di Lena — non che io anche io lo fossi stato. Semplicemente, non ne stavo facendo una questione di stato.
«Lascia perdere, dai. Sarà stata sconvolta, immagino»
«Non provare a giustificarla, Scott!» grugnì Alec dal letto in cui l’avevano sistemato dopo la notte passata. Quando quel tronco l’aveva colpito doveva avergli slogato il gomito o qualcosa del genere. Ad ogni modo, Alec era quello a cui era andata peggio di tutti.
Leighton strinse le labbra, lanciando un’occhiata al figlio di Afrodite. Si capiva lontano mille miglia che si sentiva colpevole del fatto che ora lui si trovasse in un letto dell’infermeria con un braccio fasciato; almeno la metà dei tronchi e dei sassi che avevano colpito Alec avrebbero colpito lei, se lui non avesse fatto da scudo.
«Non voglio giustificarla! È solo che…»
Sospirai, accorgendomi di non sapere come terminare la frase.
Quando la sera prima Lena se n’era andata via dalla spiaggia lasciandomi lì, ero troppo stanco per riuscire a formulare un pensiero di senso compiuto. Ora, però, riuscivo a pensare anche fin troppo bene, e la verità era esattamente questa: dopo che mi ero tuffato da uno scoglio nel mare in tempesta per salvarle la vita, Lena si era limitata ad un ‘grazie’ per poi girare i tacchi e scomparire, senza neanche assicurarsi che stessi bene.
«È stata davvero una stro—»
Leighton diede un colpo al braccio sano di Alec prima che lui potesse dire un’altra lettera. Per ripicca, lui fece una smorfia tremendamente ed esageratamente sofferente ed emise un gemito. Leighton sbiancò.
«Stai bene?» balbettò.
«Uh. Magari, se evitassi di colpirmi…»
La figlia di Efesto si morse il labbro. «Vado a vedere se puoi prendere qualche altro sorso di nettare» disse, percorrendo la stanza con lo sguardo nel cercare qualcuno a cui domandare. Passò una mano fra i capelli di Alec, guardandolo in una maniera talmente mortificata che mi domandai come facesse lui a non sentirsi una persona orribile a sfruttare il senso di colpa di quella povera ragazza.
Lui però aveva lo sguardo puntato sulle lenzuola candide, e solo dopo qualche istante scosse la testa per allontanare la mano di Leighton. Mentre la ragazza ci lasciava soli, tentai di soffocare una risata.
«Ti prego, non fare finta che non ti piaccia» ridacchiai guardando Alec, che ricambiò il mio sguardo, confuso.
«Che non mi piaccia cosa?»
«Il fatto che Leighton sia diventata la tua crocerossina personale»
Lo vidi avvampare, e capii di aver colto nel segno, quindi ripresi a parlare.
«E non provarci neanche, a sfruttarla per i tuoi tornaconti. Potrei decidere di romperti anche l’altro braccio» lo minacciai, sempre con il sorriso sulle labbra.
Alec fece una smorfia scocciata. «È solo slogato, non è rotto»
«È uguale»
Ridacchiai sotto i baffi ancora per un bel po’, più o meno fin quando Leighton non tornò portando con sé un bicchiere contenente appena due dita di nettare. Alec utilizzò la scusa di avere il braccio destro slogato per farsi aiutare da Leighton nel bere, e io evitai di far notare che per prendere un bicchiere avrebbe benissimo potuto usare il braccio sinistro.
Dissi ad Alec che sarei andato a trovarlo quel pomeriggio, dopodiché mi alzai dalla mia sedia e uscii dall’infermeria.
Appena misi piede fuori, però, cominciai a tossire e starnutire. Il bagnetto notturno non mi aveva fatto di certo bene, soprattutto se ad esso andava aggiunto quel vento assurdo.
Ancora non capivo come potesse essere stato possibile un fenomeno del genere. Potevo però escludere a priori qualcosa di troppo normale come una tempesta passeggera, perché avevo imparato che nella vita di un semidio non esistono avvenimenti legati alla normalità.
Tutto, per noi, ha una determinata causa e una determinata conseguenza. Nulla accade per caso.
Iniziai a camminare per il campo, senza una destinazione vera e propria.
Da quando quest’estate al campo era iniziata, ancora non ero riuscito ad avere un vero e proprio attimo di pace. Mi ritornò in mente come un lampo il nome pronunciato dal Signor D la sera passata: Ate.
Chi era Ate? Il Signor D aveva detto che era collegata alle Litai… quelle che Chirone aveva chiamato Preghiere. E poi, aveva nominato il frutto della discordia.
Di certo si stava riferendo alla fragola d’oro di Riley.
«Scott! Ehi, biondino! Eri esattamente tu chi stavo cercando!»
Alzai lo sguardo. A proposito di Riley…
La figlia della dea della discordia mi raggiunse in poche, eleganti falcate, facendo svolazzare i lunghi capelli scuri. Aveva uno sguardo folle negli occhi — come se non fosse stata inquietante abbastanza già di suo.
«Perché mi cercavi?» provai a domandarle, ma lei mi afferrò con uno strattone il polso e prese a trascinarmi con violenza verso la Casa Grande.
«Riley, in nome degli dei!» esclamai spiazzato, cercando di piantare i piedi in terra e fermarla. «Che diamine ti prende? Cosa vuoi da me?»
Lei mi guardò come se stesse avendo a che fare con un bambino capriccioso. «Mi prende che ho fatto un sogno, stanotte. E questo sogno riguarda anche te, biondo!»
Aggrottai le sopracciglia, e Riley grugnì qualcosa che suonò come un’imprecazione. Decisi di non controbattere, ma la costrinsi a lasciarmi andare il polso; non avevo la minima intenzione di lasciarmi trascinare in giro come una sorta di cagnolino da passeggio.
«Di che sogno si tratta?» domandai, seguendola verso la grande costruzione azzurra.
«Dolcezza, non ho intenzione di ripetere ogni cosa più di una volta. La pazienza è la virtù dei forti, quindi aspetta e mettiti l’anima in pace»
Alzai le mani in segno di resa. «Almeno dimmi chi stai cercando, così posso aiutarti»
Riley valutò l’offerta, ma dopo qualche istante annuì. «Chirone. Sai dov’è?»
«A lezione di tiro con l’arco, qui vicino. Vieni»
Iniziai a dirigermi a passo svelto verso lo spazio del campo dedicato al tiro con l’arco, e passammo nuovamente davanti l’infermeria, proprio nel momento in cui Leighton stava uscendo. Guardò me e Riley con aria interrogativa, prima che la figlia di Eris esclamasse: «Alt! Mi serve anche lei!»
«Che cosa?» disse Leighton, squadrandola come se fosse stata pazza — oh, be’, forse un po’ lo era davvero.
Scossi la testa, facendo cenno a Leighton di seguirci senza fare troppe storie. Lei lanciò uno sguardo all’infermeria alle sue spalle, poi alzò gli occhi al cielo e ci raggiunse.
Quando arrivammo da Chirone, lui si stava impegnando nel cercare di far capire a un gruppetto di ragazzini sulla decina d’anni come si impugnasse correttamente l’arco.
«Chirone!» esordì Riley, attirando l’attenzione come sempre. Tutti i ragazzini misero da parte arco e frecce per guardarci. Anche Chirone si voltò verso di noi.
«Riley, Scott, Leighton. In cosa posso esservi utile, ragazzi?» ci domandò, allontanandosi dal gruppetto di semidei curiosi.
«Dobbiamo andare a New York, oggi stesso» disse con voce ferma Riley.
«Eh?!» esclamammo in coro io e Leighton. Chirone si limitò ad inarcare le sopracciglia.
«New York. E il motivo di ciò?» domandò.
Riley gonfiò il petto. «È stata mia madre a dirmelo. È un motivo abbastanza valido?»
«Tua madre?» disse Leighton. «Intendi dire Eris?»
«Chi altri?» dissi ironicamente, voltandomi poi a guardare Chirone. Era diventato di colpo pensieroso e cupo.
«Cosa c’entriamo io e Leighton?» domandai a Riley, dal momento che il centauro non sembrava aver ancora intenzione di parlare.
«Nel mio sogno, mia madre mi diceva che sarei dovuta andare a New York con voi due» ci spiegò lei, e dal tono della sua voce intuii che avrebbe cento volte preferito andare da sola piuttosto che con noi. «Allora, Chirone? Possiamo andare? Oh, insomma, mi rendo conto che questa richiesta è comunque solo una formalità, perché non credo voglia contrariare una dea, ma comunque…»
«Come posso sapere che dici la verità, Riley?»
Le guance di Riley si arrossarono come due mele. Aveva gli occhi sgranati dallo stupore, mentre guardava Chirone. «Come osa—»
«Ti lascerò andare» la interruppe lui, alzando un dito per farla tacere. «Soltanto se risponderai sinceramente alla domanda che ti avevo posto ieri sera. La ricordi, non è vero?»
Affilai lo sguardo. La sera precedente Chirone aveva più volte chiesto a Riley come avesse trovato la fragola d’oro, e lei aveva costantemente mentito dicendo di averla trovata da sola.
Se Riley desiderava davvero andare a New York, allora adesso avrebbe dovuto dire la verità.
«Io…» iniziò a balbettare, e mi accorsi che la sua voce non sembrava davvero la sua. Aveva perso quel tono misterioso e autoritario che la caratterizzava. «Non lo ricordo» sospirò infine, digrignando i denti, come se per pronunciare quelle tre piccole parole avesse dovuto fare lo sforzo più grande di tutta la sua vita.
«Oh, andiamo!» esclamò Leighton.
«Sono sincera!» le ringhiò contro Riley. «So solo che qualcuno mi ha portata tra i cespugli. Poi ho il vuoto. Ricordo solo di essermi trovata con la fragola d’oro in mano»
La figlia di Eris spostò lo sguardo su Chirone. «È la verità. Stavolta è la verità»
«Ti credo, Riley, sta tranquilla» la tranquillizzò lui, ma la sua voce, lungi dal sembrare rassicurante, sarebbe stata molto adatta se inserita in un contesto da funerale.
La figlia di Eris scosse i capelli e arricciò le labbra, probabilmente cercando di riacquistare il suo normale atteggiamento. «Questo significa che possiamo andare?»
«Se la stessa divina Eris ha richiesto la vostra presenza a New York, non vedo perché dovrei trattenervi al campo più al lungo del dovuto»
«Ma è una follia! Scott, non possiamo andare!» esclamò Leighton, indispettita.
La guardai stranito. «Come sarebbe a dire che non possiamo andare?»
Lei sgranò gli occhioni scuri. «Non posso… non possiamo lasciare Alec qui, da solo!»
Esclamai un sonoro ‘oh’. Cavolo. Leighton aveva ragione. Forse sarebbe stato poco carino lasciare Alec qui al campo con un braccio slogato mentre noi due ce ne andavamo a New York.
«Senti, Leighton, forse non hai ben chiaro il concetto» disse Riley, calma ma decisa. «Mia madre Eris, una dea con i controfiocchi, ha esplicitamente richiesto la presenza tua e di Scott al suo cospetto. Se — gli dei non vogliano! — io fossi in te, farei carte false pur di compiacerla il prima possibile! E sta tranquilla, il tuo fidanzatino starà benone»
«Non è il mio fidanzato!» esclamò di botto Leighton, rossa in viso. Sembrava pronta a prendere a pugni Riley. Sospirai, mormorandole di lasciar perdere.
Ero parecchio stupito del fatto che Chirone non facesse storie per lasciarci andare, ma sinceramente avevo già abbastanza stranezze che mi ronzavano nella testa e alle quali mi ero ripromesso si trovare una soluzione per immischiarmi anche nei pensieri di un centauro millenario.
«Quando hai intenzione di partire, Riley?» domandai.
«Oggi, come ho detto prima»
«Argo potrà accompagnarvi non prima di questo pomeriggio» ci informò Chirone. Argo era questo ragazzone biondo con occhi su ogni singolo centimetro del suo corpo. Era una sorta di guardia del campo, ed era impossibile svignarsela se c’era lui nei paraggi. Credo che il motivo sia ovvio.
Mi aspettavo che Riley iniziasse a sbraitare che sarebbe stato troppo tardi partire nel pomeriggio, ma invece alzò il mento e sbatté le ciglia. «D’accordo. Mi farò trovare pronta. E riguardo a voi due» disse, voltandosi verso me e Leighton e trafiggendoci con uno sguardo. «Sarà meglio che siate puntuali. O giuro sugli dei che Nemesi sembrerà un angelo in confronto a me»
Alzai gli occhi al cielo, notando con la coda dell’occhio una ragazzina con lunghi e scompigliati capelli color sabbia, del gruppo a cui Chirone stava facendo da insegnante, che stava fissando la figlia di Eris con un’aria decisamente terrorizzata stringendo al petto il suo arco.
«Non preoccuparti, non sono tutti così» le dissi con un sorrisetto. «È a lei che piace crearsi intorno l’immagine da strega cattiva»
«Ti ho sentito, Scott»
Chirone scosse la testa. «Voglio che facciate la massima attenzione, ragazzi. Di questi tempi uscire dal campo potrebbe essere pericoloso»
Io e Leighton annuimmo. Riley fece un cenno distratto con la testa, per poi congedarsi dicendo di dover andare a prepararsi per la partenza.
«Dico sul serio, Scott»
Guardai l’anziano centauro negli occhi scuri. Mi guardava come se si aspettasse che riuscissi a leggergli nel pensiero, e per un attimo mi parve di capire che lui sapesse che la sera prima l’avevamo spiato… Chirone sapeva che noi sapevamo.
Il punto è, cos’era che noi sapevamo?
«Probabilmente dovreste andare a prepararvi, o a riposarvi» disse infine, sbattendo gli zoccoli a terra e tornando dal gruppo di semidei, che avevano osservato tutta la scenetta più curiosi che mai. «Ah, ragazzi! Portate i miei auguri di pronta guarigione ad Alec. E ditegli di fare più attenzione, la prossima volta che si fa la doccia» aggiunse, con un tono di voce particolarmente scettico. Poi, ci lasciò soli.
Lanciai un’occhiata curiosa a Leighton. «La doccia?»
Lei fece spallucce. «Dovevo pur inventare un motivo per cui si fosse slogato il braccio. Ho detto che è scivolato sulla saponetta mentre faceva la doccia, si è aggrappato alla tenda ed è caduto tirandosela addosso. Spiega anche i graffi, no?»
«Non credo che Chirone ci sia cascato»
«Almeno non ha indagato. Non credo che l’avremmo passata liscia se avesse scoperto cosa abbiamo fatto invece di starcene buoni e tranquilli nelle nostre cabine»
Feci un sorrisetto, e Leighton si voltò a guardare l’infermeria, in lontananza.
«Perché non vai a riposare? Devi essere ancora stanco, dopo stanotte. Io vado da Alec e gli spiego perché i suoi due migliori amici lo abbandonano in un lettino per correre come cagnetti al richiamo della madre della persona più irritante di tutto il campo»
«In bocca al lupo, LeeLee» risi. Lei mi diede una pacca sul braccio e si avviò.
Decisi di seguire il suo consiglio, e andai a rintanarmi nella cabina di Apollo.
 
Nel sogno mi trovavo in una stanza che di certo non avevo mai visto prima di quel momento.
Era una bella stanza, sentivo che era grandissima anche se riuscivo a vederne soltanto un angolino. Il resto dello spazio era inghiottito dalle ombre.
Alzai lo sguardo. Il soffitto era alto e decorato con quello che doveva esser una sorta di affresco, ma le pareti color panna erano completamente spoglie. L’unico oggetto presente nella stanza era un divano, ricoperto da quello che sembrava essere seta nera, talmente leggera da essere agitata dal vento.
Un attimo… vento? Mi guardai intorno. Non vedevo finestre, ma percepivo che il freddo innaturale presente nella stanza non fosse dovuto a uno spiraglio lasciato aperto.
«Rilassati, figlio di Apollo. Non ti piace la mia stanza? Che peccato, ero convinta che ti avrebbe messo più a tuo agio di… oh, be’, del luogo in cui incontro di solito i miei ospiti, per così dire»
Trasalii,e giuro di aver sentito nettamente come un cubetto di ghiaccio scivolarmi lungo la schiena.
Quella voce.
Lasciai che gli occhi si abituassero alle ombre che mi circondavano, e fu allora che capii che quello sul divano non era un semplice telo di seta: era l’abito di qualcuno.
La donna era sdraiata, ma aveva il busto appoggiato allo schienale. I suoi capelli erano scuri e si muovevano come se stessero galleggiando nell’acqua. Anche la sua veste nera oscillava e si gonfiava, perdendo consistenza e trasformandosi in pura oscurità man mano che si avvicinava all’orlo.
Sapevo che la donna stava sorridendo. Non vedevo il suo volto — i capelli lo nascondevano ai miei occhi — ma dal tono della sua voce intuii che sorrideva.
«Sai, Scott, a dire il vero ero parecchio restia nell’incontrarti qui. O nell’incontrarti in generale» sospirò. Mosse una mano, e le tenebre incominciarono a danzare e a scivolare sul pavimento, strisciando fino ad arrivare ai miei piedi. Provai a scostarmi, ma era impossibile trovare uno spazio in cui non avrebbero potuto raggiungermi.
«Eppure volevo incontrarti» riprese a parlare la donna. Avevo già sentito quella voce, ne ero sicuro. «Dal giorno di quel piccolo incidente all’arena, già. Sei stato davvero una sorpresa, mio piccolo figlio di Apollo»
«Chi sei?» esclamai, stringendo i pugni e cercando di non tremare per il freddo e l’inquietudine. Sentivo con ogni fibra del mio corpo che dovevo andarmene da quel posto. Per ogni secondo in più che passavo al cospetto di quella donna si faceva largo in me una sensazione strana, come se in un certo senso desiderassi rimanere lì.
La donna schioccò le labbra. «Non hai idea di chi io sia?»
Non appena ebbe pronunciato quelle parole, le ombre intorno a me diventarono più fitte e consistenti, e prima che potessi opporre la minima resistenza mi si erano arrotolate intorno a caviglie e polsi. Era come se me li avessero congelati. Gemetti per il dolore e la sorpresa.
«Non ti biasimo, povero stupido mezzosangue. Nessuno, al giorno d’oggi, si ricorda di me. Nessuno» sibilò.
Tentai di liberarmi i polsi, divincolandomi.
«No, no, no, Scott. Non fare così. Ti lascerò andare, sta tranquillo. Tu mi servi. Ho un messaggio che devi consegnare a mio padre da parte mia. Farò in fretta, lo prometto. So quanto sia doloroso per un figlio del dio del sole trovarsi qui… completamente circondato dal buio»
La donna vestita di nero si alzò dal divano e mi si avvicinò. Rimasi sbalordito nel constatare che non stava camminando: era come se stesse fluttuando sul pavimento, trasportata dalle ombre, le stesse che mi stavano imprigionando.
Allungò una mano e mi sfiorò il capo. Rabbrividii al contatto di quelle dita fredde come il ghiaccio.
«Gli dei sono stati molto cattivi con me, Scott» sussurrò la donna al mio orecchio. I suoi capelli scuri mi ondeggiavano davanti agli occhi, impedendomi di vedere qualunque cosa.
«Lasciami andare!»
«Molto, molto cattivi. E adesso la pagheranno»
Strattonai le tenebre che mi tenevano legato con tutta la forza che avevo in corpo, ma mi accorsi che tutto d’un tratto a stento riuscivo a reggermi in piedi. Mi stavo indebolendo.
In compenso, però, nel petto il cuore batteva all’impazzata. Ebbi un fugace ricordo della sera in cui mi ero battuto con Lena nell’arena, quando le Preghiere ci avevano attaccati e quella loro nenia mi aveva infilato in testa pensieri che non erano miei… e finalmente ricordai dove avevo sentito quella voce.
Realizzai con un sussulto chi era la creatura che mi stava davanti.
«Sei Ate» mormorai.
La dea rise. «Dì a Zeus che sono tornata, figlio di Apollo. Dì agli dei che li farò pentire di ciò che mi hanno fatto»
Si allontanò di colpo, e mi costrinse a guardarla negli occhi. Due pozze nere senza fine.
Tutto divenne ombra, e cominciai a cadere.
 
Qualcuno stava bussando alla porta con insistenza.
Aprii gli occhi e quasi mi venne voglia di piangere per il sollievo di trovarmi nel mio letto, nella cabina di Apollo, in una stanza illuminata dalla luce del sole.
Guardai l’orologio: non era trascorsa neanche un’ora da quando avevo salutato Leighton.
Mi passai una mano fra i capelli, scoprendomi zuppo di sudore. Il cuore mi batteva nel petto come se avesse voluto scappare via in un posto più sicuro del mio corpo. Oh, avrei tanto voluto poterlo fare anche io.
Mi alzai dal letto, avviandomi alla porta. Quando l’aprii, mi trovai davanti Lena.
«L-Lena? Che ci fai…?»
«Alcune tue sorelle mi avevano detto che eri qui» rispose con un’alzata di spalle, a disagio. Si sfregava le mani con forza e spostava il peso da un piede all’altro, con lo sguardo che vagava dappertutto nel raggio di qualche metro. «Ti ho svegliato?»
«No. Cioè, sì. Ma… lascia perdere. Hai bisogno di qualcosa? Vuoi entrare?»
Mi guardò come se avessi detto la stupidaggine più grande di questo mondo.
«Devo soltanto chiederti una cosa. Non dovrei neanche essere qui, quindi…» sospirò. Scosse la testa lentamente, poi prese un bel respiro. «Ieri sera… quando mi hai portata a riva…»
Annuii. «Va avanti»
«Io… ecco, so che è pressappoco impossibile una cosa del genere. Ma ho perso una cosa. Dei, sono tornata appena me ne sono accorta, ma sulla spiaggia non c’era nulla, e non potevo controllare in acqua perché non so nuotare, oltre al fatto che sarebbe stata una perdita di tempo, e se ci fosse stato Percy al campo avrei chiesto a lui, ma è fuori per non so quale motivo insieme alla figlia di Atena, e diamine, se ho perso quel ciondolo—»
«Frena!» esclamai, sgranando gli occhi. «Hai appena detto che non sai nuotare?»
Lena rimase a bocca aperta, fissandomi e arrossendo. «Io non—»
«Allora ti ho davvero salvato la vita!»
«Scott, ti prego»
Scossi la testa, sorridendo aspramente. «Pazzesco. E non ti sei neanche preoccupata di controllare che stessi bene…»
«Mi dispiace! Lo so, è stato un gesto orrendo, ne sono consapevole!» disse lei, strofinandosi le tempie con le mani e battendo un piede a terra. «Ma se Artemide avesse saputo…»
«Saputo cosa?»
Di nuovo, mi rifilò un’occhiataccia.
«Cosa non ti è chiaro del fatto che le Cacciatrici di Artemide non possono avere contatti con il sesso maschile?»
Rimasi a bocca aperta, con gli occhi sgranati. Stava facendo sul serio?
«Miei dei, Lena! Stavi affogando! Avrei dovuto lasciarti andare a fondo? Oh, sì, Artemide dovrebbe essere così incollerita del fatto che io ti abbia salvata!»
Provò a ribattere, ma alla fine rimase semplicemente zitta a fissare il pavimento come fosse stato qualcosa di incredibile interesse.
«Mi dispiace» ripeté alla fine.
Sospirai, grattandomi il collo. In quei pochi minuti di silenzio che seguirono, però, cominciò a delinearsi nella mia testa il ricordo del sogno a cui l’arrivo di Lena mi aveva strappato. Rabbrividii. In un modo o nell’altro, anche lei mi aveva appena ‘salvato’.
«Cosa dicevi di aver perso?» le dissi alla fine. Parlare avrebbe tenuto lontano il ricordo delle ombre… o almeno così speravo.
«Un ciondolo» borbottò Lena, e istintivamente portai la mano alla tasca dei pantaloni, tastando qualcosa di ovale e duro. Infilai la mano nella tasca, tirandone fuori il vecchio ciondolo arrugginito che avevo trovato la sera prima.
«Intendi questo?» dissi mostrandoglielo.
Lena sgranò gli occhi, strappandomelo letteralmente di mano.
«Dei… è impossibile…» sorrise, stringendo quel pezzetto di metallo sporco come se fosse stato il suo avere più prezioso. La osservai con curiosità mentre con le sue dita piccole e agili apriva il ciondolo, che si rivelò essere un portafoto. Parecchie ragazze che conoscevo ne avevano uno simile, solo che i loro portafoto di solito erano a forma di cuore ed erano piuttosto pacchiani. 
Dentro vi erano due foto. In una c’era una bella ragazza dai capelli scuri che sorrideva felice, e qualcosa nel suo viso mi ricordò Lena. Nell’altra, vi erano due bambini abbracciati e sorridenti. Uno, un maschio, aveva i capelli e gli occhi scuri e un sorriso parecchio stupido; l’altra aveva grandi occhi grigi e capelli castani.
Era Lena da bambina. Ero sicuro che fosse lei.
Non appena Lena si accorse che stavo sbirciando richiuse il ciondolo e se lo infilò in tasca.
«Devo andare, sono già in ritardo»
Quella ragazza aveva la bruttissima abitudine di scappare via ogni volta che facevo qualcosa di buono per lei. Prima le salvavo la vita, poi le restituivo qualcosa a cui teneva…
«In ritardo? Per cosa?» domandai.
Lei sorrise. «Non lo sai? Una ragazza del campo ha deciso di unirsi alle Cacciatrici poco fa! Artemide vuole che assistiamo tutte al giuramento, per accoglierla al meglio»
Aggrottai le sopracciglia. «Umh… be’, vai. Immagino non sia bello far aspettare una dea»
Lena continuò a sorridere, anche se per poco più di un istante. Rimase ferma lì, davanti a me, e sembrava che non sapesse cosa avrebbe dovuto fare. Alla fine però scosse la testa e si avviò.
Borbottai tra me e me qualcosa a riguardo delle ragazze e del loro assurdo modo di comportarsi. Stavo per rientrare nella cabina e chiudermi la porta alle spalle quando sentii di nuovo la voce della Cacciatrice.
«Sul serio, Scott. Ti devo molto di più che la vita» esclamò.
Qualcosa nel suo sguardo mi mise in imbarazzo. Quegli occhi grigi si sovrapposero inspiegabilmente con quelli neri del mio sogno, ma li spazzarono via con la stessa facilità con cui un raggio di sole avrebbe spazzato via le nuvole.
«A buon rendere» balbettai. Lei mi fece un cenno con la testa.
La guardai andare via finché non sparì dalla mia vista.











L'angolo della Malcontenta: Sono ancora viva!
Sì, signore e signori, Effie non si è dimenticata di Scott & company ed è tornata ad aggiornare.
Questo capitolo è particolarmente lungo, perché non so quando avrò il tempo di scrivere il prossimo :')
Tra l'altro, è stato un parto scrivere questo ._. è un capitolo "di passaggio".
Vediamo, cosa posso dire? Innanzitutto, vorrei ringraziare TUTTI COLORO CHE HANNO INSERITO LA STORIA TRA LE SEGUITE/RICORDATE/PREFERITE. Davvero, ragazzi, siete unici. Vi adoro <3
In secondo luogo, vediamo di commentare un po' il cap *w*
Mhh... Riley in un primo momento non doveva esserci, ma 'sta ragazza si sta infiltrando dappertutto '-' Vabbé, è figa, non da fastidio a nessuno e mi piace, quindi siate felici (?)
QUANTO AMORE LEILEC. çwç No, sul serio. (Tra parentesi, oggi ho visto un ep di Pretty Little Liars dove c'è l'attore che ho scelto come il mio Alec incarnato e boh, mi andava di dirlo.)
Dei, ATE. Quella è una pazza psicopatica.
Oh, Lena e Scott. La prima litigata :') che carini.
Sì, la cosa del ciondolo è TREMENDAMENTE MarySuesca. Ma prometto che sarà la prima e l'ultima volta che mi vedrete inserire cose del genere. Mi serviva. Dovevo introdurre il bambino della foto.
Chi è?
Lo saprete presto.
Io lo amerei di già, a prescindere :'D

Recensite, per favore? Mi piace sapere cosa ne pensate :D Mi piace soprattutto rispondere alle vostre recensioni!

Un bacio, 
Eff.

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Divento la Cenerentola della cabina di Apollo. ***


Divento la Cenerentola della cabina di Apollo.

 
Una volta dopo che Lena se ne fu andata rimasi solo nella cabina.
Mi accorsi di sentire freddo. Non tanto perché la maglia che indossavo era zuppa di sudore, quanto per il ricordo del sogno di qualche attimo prima.
E così quella era Ate. Avevo sognato una dea.
Una parte di me trovò modo di sentirsi in un certo senso delusa; avevo sempre pensato che un giorno o l’altro sarebbe stato mio padre che avrebbe cercato di mettersi in contatto con me attraverso un sogno o roba del genere. Non mi aspettavo di certo un’inquietante divinità assetata di vendetta.
Scossi la testa, strofinandomi gli occhi con il dorso della mano. Mi sfilai la maglia, lanciandola accanto al mio letto, e tirai su ogni persiana presente alle finestre della cabina per lasciare che il sole illuminasse anche il più piccolo angolo.
Avevo bisogno di luce. Ero assurdamente convinto che finché ci fosse stata la luce del sole a circondarmi, niente e nessuno avrebbe avuto modo di farmi del male.
Sospirai. «Il tuo cervello sta facendo le valigie, Scott» dissi, rivolto a me stesso.
Mi avviai verso il mobile nel quale avevo riposto tutti i miei vestiti per prendere una maglietta pulita, e quando ne tirai fuori una dal mucchio cadde qualcosa sul pavimento, producendo un rumore metallico.
Abbassai lo sguardo. Era mio sacchetto di dracme per le emergenze.
Dentro vi erano depositate sempre non meno di dieci monete — non monete come le conoscono i mortali. Le dracme erano completamente d’oro, grandi quanto i biscotti al forno che mia madre comprava sempre al supermercato spacciandoli per fatti in casa da lei quando venivano a trovarla le sue amiche.
Un pensiero mi saettò nel cervello alla velocità della luce, facendomi rabbrividire.
Mamma. Non avevo sue notizie da quando ero arrivato al campo tre giorni prima.
Mi domandai se fosse stata preoccupata per me.
Probabilmente no, rispose non richiesta una vocina da dentro la mia testa. Aggrottai le sopracciglia. Ma certo che era preoccupata per me. Era mia madre!
Mi chinai a prendere il sacchetto di dracme, lo aprii e tirai fuori una bella moneta lucida.
Il modo migliore per scoprire se la mamma si stesse in quel momento domandando che Tartaro di fine avesse fatto suo figlio era chiamarla, con il suo odiato iPhone di Iride.
Per effettuare la chiamata avevo bisogno di un arcobaleno. Indossai la maglia pulita e mi infilai la dracma nella tasca dei jeans, dirigendomi poi verso il bagno. Probabilmente avrei combinato un bel casino lì dentro, ma con un po’ di fortuna sarebbe passato inosservato almeno fino a quando non l’avrei pulito.
Il bagno della cabina di Apollo era qualcosa di assolutamente fantastico.
Era costruito in marmo bianco, in modo che la luce risultasse ancora più abbagliante. Vi erano poi specchi dappertutto — davvero, a volte sembrava di stare nella cabina di Afrodite — e decorazioni con le nove muse sacre ad Apollo.
Mi assicurai che nella stanza stesse entrando tutta la luce possibile, dopodiché afferrai l’erogatore della doccia e lo puntai verso l’alto. Aprii il rubinetto.
L’acqua schizzò ovunque, e dovetti trovare il modo di non farmi un bagno mentre orientavo il getto in modo tale che si formasse un arcobaleno. Quando finalmente quello apparve non persi tempo: sfilai la dracma dalla tasca e la lanciai in aria, recitando a mò di preghiera «Oh, Iride, accetta la mia offerta!».
Aspettai qualche secondo dopodiché aggiunsi: «Molly Walker. Luogo… emh, ovunque si trovi in questo momento, direi»
Rimasi in attesa, ascoltando il rumore dell’acqua che scrosciava. Sperai che non ci volesse ancora molto, dal momento che di lì a poco avrei rischiato di allagare il bagno. Avrei potuto spostarmi verso il lavandino, ma temevo che se mi fossi spostato dalla luce l’arcobaleno sarebbe scomparso e tanti cari saluti alla dracma spesa invano.
Sbuffai, ma immediatamente dopo ebbi un lampo di genio e mi diedi dell’idiota.
Da quando in qua i figli di Apollo hanno problemi con la posizione della luce del sole?
Mi concentrai sui raggi solari che entravano dalla finestra; immaginai che fossero come tanti elastici — no, nastri. Come tanti nastri giallo brillante. Immaginai di afferrare il lembo di uno di loro in modo tale da fargli prendere la direzione che più mi avrebbe aggradato, e di trascinarlo verso il lavandino.
Sorrisi, rendendomi conto che avevo fatto centro: mentre mi spostavo verso il lavandino la luce mi seguiva, continuando a colpire con un raggio diretto gli spruzzi d’acqua.
L’arcobaleno apparve ancora più brillante di prima, e subito dopo tra le goccioline d’acqua riuscii a vedere mia madre.
Stava chiacchierando con un tipo, seduta al tavolino di un bar semideserto, e non stava prestando parecchia attenzione. Inarcai un sopracciglio. Tossicchiai un «Emh, emh» per chiamarla, ma attirai lo sguardo solo del tipo insieme a lei.
Ora, mia madre mi aveva sempre insegnato fin da bambino a non prendermi gioco degli uomini con i quali usciva; ma la faccia di quel bellimbusto fin troppo abbronzato era qualcosa di tremendamente esilarante.
Cercai di non scoppiare a ridere mentre lui impallidiva e iniziava a boccheggiare.
«C-C-Credo di avere u-un’allucinazione» biascicò
Mamma si voltò, e con un sobbalzo si rese conto della mia presenza — oh, be’, sempre se di presenza vera e propria si può parlare.
«Già, lo credo anche io. Non hai una bella cera. Perché non entri entro? C’è un sole che spacca le pietre. Vai a sdraiarti. Ci si vede in giro, uh? Che ci fai ancora qui? Muoviti!» esclamò, in pratica buttando l’uomo giù dalla sua sedia e spingendolo via. La osservai mentre si accertava che il tipo se ne fosse andato, dopodiché mi rivolse un’occhiata furibonda.
«Scott Walker! Che diavolo pensi di fare, comparendo alle mie spalle così all’improvviso e spaventando chiunque sia con me al momento? Santo cielo, a volte sembri scordarti che io sono un comune essere umano, mio caro, e così lo è la gente che frequento!»
La mamma strinse i denti, respirando profondamente. Era già più abbronzata dall’ultima volta che l’avevo vista. Aveva le guance arrossate e i capelli biondi legati indietro in uno chignon, con gli occhiali da sole che fermavano qualche ciuffo dal cadere libero sulla fronte.
I suoi occhi azzurro cielo erano ancora più splendenti che mai, anche se lei era arrabbiata.
«Come stai?» sospirò poi, allungando una mano come a volermi accarezzare una guancia. L’immagine traballò un po’, e lei si ritrasse con un’aria abbattuta. «Giusto. Non posso toccarti»
Mi si strinse il cuore, e solo in quell’attimo mi resi conto di quanto sentissi ancora la sua mancanza, nonostante la mia età e i pochi giorni che non la vedevo. Ero certo che anche per lei fosse lo stesso. Non avrei potuto spiegare altrimenti il suo inquietante cambiamento d’umore da furioso a triste — a meno che non stesse rimpiangendo il fatto che suo figlio avesse traumatizzato il suo futuro compagno estivo.
«Sto benone. Va tutto alla grande» le sorrisi, stupendomi quando nel mio cervello la stessa vocina di prima rise e disse Certo, come no.
«Che hai fatto al viso?» domandò lei, scrutandomi.
Mi passai una mano sulla faccia. Oh. Non dovevo averci fatto troppo caso, ma c’erano dei graffi, appena percettibili seppur in grande quantità.
«Deve essere stato quando mi è arrivato quel ramo spezzato in faccia»
La mamma inarcò un sopracciglio, ma decise di non voler indagare.
Rimanemmo qualche istante in un imbarazzato silenzio, con il rumore dell’acqua che cadeva nel lavandino in sottofondo.
«Come sta andando da te?» le domandai infine. Lei si aprì in quel suo sorriso che la ringiovaniva di almeno dieci anni tutti in una volta, e la trovai talmente bella che una fitta di gelosia mi attanagliò lo stomaco. Chissà quanti maiali lì dove stava trascorrendo le sue vacanze l’avevano già puntata…
«A meraviglia! L’albergo è paradisiaco, e dovresti vedere la piscina! Gigantesca! Ah, vale tutti i soldi che ho speso!» squittì estasiata.
Le sorrisi. Ero contento che stesse passando delle belle giornate.
«Ma dai, non credo che tu mi abbia chiamata solo per chiedermi come stava andando la mia vacanza» aggiunse poi lei, cambiando tono di voce e assumendone uno più confidenziale.
Deglutii. «No, sul serio. Mi sentivo in colpa per non averti chiamato prima, e così…»
«Scott. Avanti. Hai un’aria stravolta, tesoro»
Spostai lo sguardo, e sospirai. Probabilmente aveva ragione. Anzi, di sicuro. Ma non avrei mai potuto scaricarle addosso una serie di notizie come «Ehi, sai cosa? Ho appena sognato una dea psicopatica che mi ha incatenato e succhiato via le energie, delle vecchiette alate mi hanno attaccato e mi hanno quasi fatto impazzire con la loro stupida canzone mentre una Cacciatrice di Artemide per poco non mi faceva a fettine, la stessa Cacciatrice per la quale mi sono tuffato nel mare in tempesta per salvarle la vita e che a stento mi ha rivolto la parola il giorno dopo. Oh, ho già parlato di come Chirone si comporti in maniera inquietante insieme al Signor D? E non dimentichiamo il fatto che la dea della Discordia abbia deciso di scegliere me e la mia migliore amia per accompagnare a New York una delle ragazze più strane del campo, più inquietante di Chirone e pazza quasi quanto la dea Ate!»
No, decisamente non potevo dirle tutto questo.
Decisi di optare per una mezza verità. «Il fatto è che ultimamente qui al campo sono tutti un po’ strani. E poi stasera dovrei partire per New York insieme a una mia amica e a un’altra ragazza del campo. E ho avuto un incubo. Tutto qui»
Cercai di sorridere in maniera abbastanza convincente, poi aggiunsi: «Come facevi ad essere sicura che ci fosse qualcosa che non andava?»
Lei ridacchiò. «Sono tua madre. Una mamma queste cose le sa, punto e basta»
Sperai vivamente che il suo mamma-radar non riuscisse anche a captare le bugie e le verità non dette.
«Già, dovevo immaginarlo» borbottai. Sentii il rumore della porta della cabina che veniva aperta e poi chiusa, e la voce di qualcuno che chiamava il mio nome.
«Credo di dover andare» dissi a mia madre. «Sta arrivando qualcuno»
Lei sorrise. «D’accordo. Divertiti a New York, mi raccomando. E fa attenzione. Non farmi stare in pensiero»
«Tranquilla, so cavarmela» feci un sorrisetto. «Ti voglio bene, mamma»
Spostai il getto d’acqua dalla luce, e con un movimento distratto della mano lasciai che i raggi del sole fossero nuovamente liberi di seguire la loro naturale inclinazione.
Prima che potessi anche solo chiudere il rubinetto della doccia e fermare lo scroscio d’acqua che stava allagando il bagno la porta della stanza si aprì, e un irato Will Solace fece irruzione.
«Will» esclamai, fingendomi estremamente sorpreso. «Qual buon vento?»
Will Solace era uno dei miei fratellastri, nonché l’incarnazione vivente dello stereotipo dei figli di Apollo: era alto, persino più di me, dal fisico atletico e perennemente abbronzato; aveva i capelli ricci e biondi e gli occhi azzurri, come la maggior parte dei nostri fratelli a sorelle.
Osservò il pavimento ricoperto d’acqua e l’erogatore della doccia nelle mie mani. Ouch. Ho già detto che Will era anche il capogruppo della cabina di Apollo?
«Scott» iniziò, con un tono che non prometteva nulla di buono. «Hai presente la lezione di greco alla quale avresti dovuto prendere parte circa tre quarti d’ora fa?»
«Oh» feci una smorfia. «Ecco cos’era! Mi stavo proprio dicendo che c’era qualcosa di cui mi dovevo assolutamente ricordare. Il punto è che ho avuto degli, emh, imprevisti, sì»
Will alzò un sopracciglio, scettico.
«Ascolta, ragazzino, ti parlo come fratello maggiore oltre che come capogruppo della tua cabina. Non te la faranno passare liscia per sempre. E se credi di poterti comportare ancora a lungo come se il campo sottostesse ai tuoi ordini—»
Fu di certo una delle cose più stupide che feci in tutta la mia vita.
Ma giuro, giuro che non era mai neanche lontanamente stata mia intenzione!
Avevo semplicemente alzato le braccia con i palmi rivolti verso Will in segno di resa, senza pensare che avevo ancora l’erogatore della doccia in mano, con l’acqua che scrosciava ovunque.
In meno di due secondi avevo fatto fare a Will una doccia improvvisa e decisamente non richiesta.
«Cavolo, cavolo, cavolo!» blaterai, andando a chiudere il rubinetto in fretta e furia. Afferrai al volo un asciugamano pulito e lo porsi a mio fratello. «Scusa, Will. Giuro che non volevo»
Con una calma inquietante, lui prese l’asciugamano dalle mie mani e lo usò per asciugarsi il viso.
«Stavo dicendo, prima che m’interrompessi» riprese a parlare. «Che se credi di poterti comportare ancora a lungo come se il campo sottostesse ai tuoi ordini…»
Mi gettò l’asciugamano addosso, lanciando un’occhiata che avrei osato definire compiaciuta al casino che avevo combinato in quel bagno.
«…allora ti sbagli di grosso, fratellino» terminò la frase, con in viso un sorrisetto che non prometteva nulla di buono.
 
Will ebbe la sua vendetta.
Mi costrinse a passare il resto della giornata chiuso in bagno con la compagnia di secchi e strofinacci per asciugare ogni singolo angolo e non lasciare neanche una macchia in giro.
D’accordo, d’accordo, io avevo allagato il bagno ed era giusto che fossi io a ripulirlo. Di fatto, non mi ero lamentato quando mi aveva messo in mano gli stracci e mi aveva spedito di filato nella stanza.
Sospirai. Fortunatamente, Jenny aveva avuto pietà di me ed era venuta a farmi compagnia.
«Non è la compagnia che mi serve» avevo borbottato quando si era seduta sghignazzando sul bordo della vasca da bagno.
Per tutta risposta, lei mi aveva puntato un dito contro e aveva esclamato con tono teatrale: «Torna a pulire, Cenerentola!»
«Molto divertente e maturo, Jen, dico sul serio»
In un modo o nell’altro, comunque, riuscii a ripulire il bagno abbastanza in fretta, considerato che fare le pulizie era per me qualcosa di totalmente nuovo.
La mamma non avrebbe mai dovuto sapere una cosa del genere, altrimenti avrebbe iniziato a premere affinché cominciassi a pulire abitualmente anche il bagno di casa nostra, cosa che era del tutto fuori discussione.
Pulire o anche solo riordinare il nostro bagno sarebbe equivalso al suicidio.
Quando uscii dalla cabina di Apollo, tutti i semidei erano già andati a pranzare al padiglione della mensa, e molti di loro avevano persino già iniziato ad oziare approfittando di un po’ di tempo libero.
Passai davanti alla cabina di Artemide, e rimasi sorpreso nel vedere una Lena con un sorriso a trentadue denti che stava intrecciando i capelli di una ragazzina. Affilai lo sguardo; ero sicuro di averla già vista prima.
Mi guardai intorno, cercando qualcuno a cui domandare chi fosse la ragazzina, e notai poco lontano da me Colin, un allampanato ragazzo della cabina di Demetra con il quale a volte scambiavo due chiacchiere.
«Ehi, Colin!» lo chiamai, facendogli poi cenno di avvicinarsi.
Lui si guardò intorno furtivamente, poi mi raggiunse.
«Scott. Non ti ho visto a lezione di Greco,oggi»
Feci una smorfia, alzando gli occhi al cielo. «Già, lascia perdere. Sai chi è la ragazza insieme a Lena, quella seduta davanti la cabina di Artemide?»
Colin rivolse lo sguardo verso la loro direzione, dopodiché si strinse nelle spalle. «Un’altra Cacciatrice, immagino»
In effetti, la ragazza sembrava brillare della stessa luce che emanava la pelle di Lena, o quella di Artemide. Eppure ero sicurissimo di averla vista prima di quel momento, ma di certo non in compagnia delle Cacciatrici!
«Sai il suo nome?» gli domandai, ma lui scosse la testa.
In quel momento ci raggiunse come una furia Katie Gardner, una delle sorelle di Colin figlie di Demetra, che dopo avermi spinto di lato mi ignorò platealmente e prese a schiamazzare contro il fratello, il quale mi lanciò un’occhiata disperata che interpretai come una richiesta di aiuto.
«Ti avevo pregato, supplicato di fermare Miranda! Non abbiamo bisogno di un’alleanza con Ermes per la Caccia alla Bandiera! Dèi benevoli, nessuno sarebbe tanto stupido da fidarsi degli Stoll» iniziò a strepitare, e mi domandai come una ragazza all’apparenza tanto piccola, dolce e tranquilla potesse incutere tanto timore.
«Katie, Kat, ferma! Giuro che ci ho provato, ma anche io ho avuto i miei problemi. Se Jolene la smettesse di girarmi attorno come un avvoltoio…»
«Sei il primo ragazzo a questo mondo che si lamenta del ricevere troppe attenzioni da una figlia di Afrodite»
«È peggio di quando Travis decide di perseguitarti!»
Katie arrossì e gonfiò il petto. «Nessuno è peggio di Travis»
«Perché non stringiamo un’alleanza tra Apollo e Demetra?» proposi, più che altro per interrompere quell’irritante botta e risposta tra fratello e sorella. «Noi siamo numerosi, e tra l’altro la mia amica Leighton potrebbe convincere Jake Mason della cabina di Efesto a stringere un patto a tre»
Katie valutò l’offerta. «Apollo, Demetra ed Efesto. Potrebbe funzionare. E tra l’altro non avremmo bisogno di collaborare con Trav— cioè, con quelli di Ermes. Chissà, magari potremmo anche arrivare a rubar loro la bandiera da sotto il naso!»
«A me andrebbe bene che vincesse qualunque cabina del campo, mi basterebbe che noi semidei sconfiggessimo Artemide una buona volta» bofonchiò Colin.
Sia io che Katie annuimmo.
«Devo avvisare Miranda» esclamò, arricciando poi il naso. «A Will andrà bene questo accordo, giusto Scott?»
Feci spallucce. «Immagino di sì» dissi, mentre pensavo in caso contrario il mio fratellastro avrebbe seriamente iniziato a prendere in considerazione l’idea di detestarmi.
«D’accordo» disse Katie. «Ad ogni modo, Colin, Jolene è con le sue sorelle al lago, quindi hai via libera»
Mentre il ragazzo si lasciava sfuggire un sospiro di sollievo, domandai a sua sorella se per caso lei avesse conosciuto il nome della Cacciatrice insieme a Lena. Lei la squadrò per qualche istante, poi aggrottò le sopracciglia.
«È Aimee. Una figlia di un dio dei venti, se non sbaglio. Forse Eolo… no, Zefiro. Credo sia figlia di Zefiro. Oggi prima di pranzo si è unita alle Cacciatrici»
In un lapsus, ricordai che Lena mi aveva detto quella mattina di essere in ritardo per l’accoglienza di una nuova Cacciatrice nel gruppo. Quindi era di Aimee che stava parlando.
Osservai ancora le due ragazze. Lena sembrava al settimo cielo; continuava a muovere freneticamente le mani nei capelli della più piccola, intrecciandoli con fili d’argento, e sembrava parlare a raffica, perennemente con un sorriso estasiato che non le avevo mai visto prima di quel momento in viso. Anche Aimee sembrava felice, ma una felicità stanca. Come se si fosse da poco liberata da un peso opprimente.
A un primo sguardo, non le avrei dato più di una decina d’anni. Mi domandai cosa avesse potuto turbarla così tanto.
«Sei ancora tra noi o ti sei perso negli occhi di qualche bella e irraggiungibile Cacciatrice?» mi punzecchiò Katie, ridacchiando.
«Deve essere Lena. Non che Aimee non sia carina ma, Scott, per gli dei, lei avrà sì e no undici anni e tu quanti, sedici?»
«Quindici» bofonchiai, senza neanche capire di che stessero parlando.
«Definitivamente Lena» rise ancora più forte Katie. «Oh, non è romantico? Il figlio di Apollo e il suo amore unilaterale per una Cacciatrice di Artemide!»
«Kat, stai parlando come una di quelle spaventose Barbie di Afrodite» rabbrividì Colin.
La sorella gli diede una pacca sulla spalla. «Andiamo a cercare Miranda, razza di rubacuori. Ci si vede in giro, Scott!»
Capii a stento che era me che i due stavano salutando, e risposi a mia volta al saluto quando già erano lontani. Ero impietrito e cominciavo a credere che non sarei mai più riuscito a muovere un solo passo, ma mi obbligai a girare i tacchi e dirigermi al padiglione della mensa, auto bombardandomi il cervello di domande.
Prima fra le tutte, mi chiesi perché mentre stavo guardando Aimee e Lena la risata malvagia di Ate aveva cominciato a rimbombarmi nella testa.
 
Decisi di comportarmi per bene per una buona volta, e quindi non saltai nessuna delle attività pomeridiane. Quindi dopo aver fatto pratica con le spade, essermi sfiancato con la corsa e aver ricevuto il colpo finale con una schiacciante sconfitta a basket, quasi mi cascarono le braccia per terra dinanzi alla prospettiva di dovermi infilare in macchina con Riley e Leighton per andare a New York.
Quando poi tornai nella cabina di Apollo per farmi una doccia mi scoprii quasi riluttante a sporcare nuovamente il bagno dopo tutto quello che c’era voluto per pulirlo. Per gli dei, iniziavo a capire mia madre e a sentirmi in colpa per ogni volta che combinavo qualche disastro in casa subito dopo il giorno delle pulizie generali.
Comunque, dopo essermi fatto la doccia e aver preparato una borsa con una parte dei miei risparmi in dollari e dracme e un cambio di vestiti, salutai i miei fratelli e sorelle — Will doveva avercela ancora con me per l’incidente del bagno, ma anche lui mi augurò un in bocca al lupo — e mi avviai verso i confini del campo, dove Chirone aveva dato appuntamento a me, Leighton e Riley.
Difatti, trovai le due ragazze e il centauro poco lontano dal pino di Talia, fermi davanti a un’utilitaria bianco sporco che aveva tutta l’aria di non potersi reggere in piedi per più di un kilometro.
«Alla buon’ora» mi salutò seccamente Riley, mentre caricava la sua borsa in macchina.
Argo era già seduto al volante, con gli occhi in più sul dorso delle mani che si guardavano intorno, mentre muoveva la testa al ritmo di una canzone che usciva fuori dallo stereo insieme a un fastidioso ronzio.
«Per quando è previsto il rientro?» domandai. Speravo di poter tornare al campo prima che venisse disputata la partita di Caccia alla Bandiera.
Quasi come se mi avesse letto nel pensiero, Chirone fece un sorriso — il primo sorriso sincero che gli vedevo fare da giorni.
«Un paio di giorni al massimo. Cercate di non farvi sbatacchiare troppo dai mostri, avremo bisogno di tutti i nostri migliori semidei per vincere quest’edizione di Caccia alla Bandiera»
Sorrisi anche io, e stavo per chiedere a Chirone se davvero ci reputasse tra i semidei migliori del campo, quando Riley ci interruppe come di suo solito.
«Allora, vogliamo darci una mossa?» esclamò impaziente.
Leighton roteò gli occhi. «Non mi preoccuperei tanto di quello che potrebbero farci i mostri quanto di quello che potrebbe farci un periodo di vicinanza stretta con quella lì. Possiamo lasciarla a New York, Chirone? Possiamo?»
«Cercate di essere comprensivi» si strinse lui nelle spalle. «Ricordatevi che Riley sta pur sempre per incontrare sua madre, non una divinità qualunque»
Forse fu solo una mia impressione, ma Leighton distolse lo sguardo nervosamente.
«Meglio andare. Prima partiamo, prima torniamo, prima vinciamo a Caccia alla Bandiera» esclamai cercando di suonare il più ottimista possibile.
Chirone annuì. Ci salutò mentre entravamo in macchina — Riley seduta sul sedile anteriore, io e Leighton su quelli posteriori.
«Tutto okay?» domandai alla figlia di Efesto mentre Argo metteva in moto la macchina.
Lei bofonchiò un: «Uh, uh», dopodiché poggiò la guancia sulla mano e si mise a guardare fuori dal finestrino.
Sospirai. Mentre ci allontanavamo dal Campo Mezzosangue e Riley canticchiava fra sé e sé la melodia di “New York, New York”, capii che sarebbe stato un viaggio parecchio lungo.











L'Angolo della Malcontenta: Ehhhh eccomi qui con il settimo capitolo .w.  e come di mio solito non so che cavolaccio dire '-'
Parliamo un po' a sproposito. La scuola non è pesante come avrei aspettato, ma angosciante a volte sì. Senza contare che quella grande cacca di preside che abbiamo vuole farci entrare a scuola nonostante siano state trovate blatte e altre bestie del genere nei bagni e nelle aule :'D che schifo, gente, che schifo.
Comunque, in questo capitolo vengono introdotti alcuni nuovi personaggi. Ci sono alcuni che già conoscerete, come Will Solace e Katie Gardner, e altri quali Colin e Aimee.
A proposito di Aimee, tenetela d'occhio.
Volevo spiegare una cosuccia :'3 Colin non è un gran figo, okay? Ma è quel genere di ragazzo tenero e coccoloso per cui la maggior parte di noi femminucce impazzisce <3 E sì, Jolene gli va dietro in una maniera indecente -w-
Oh, Katie/Travis :3 Li adoro, e mi piaceva l'idea di parlarne un pochino.
Vi svelo un segreto ee inizialmente Scott non doveva essere così legato a sua madre, ma boh, mi sta venendo fuori così òo di certo il loro rapporto è strano; voglio dire, Molly non voleva Scott come figlio, eppure ha imparato ad amarlo, nonostante si renda conto di quanto sia più serena la sua vita quando lui non c'è, anche se le manca.
Dei, che casino D:
Vi lascio, non voglio ammorbarbi troppo, ma prima vorrei ringraziare infinitamente tutti coloro che si interessano alla fict, la recensiscono, oppure la leggono in silenzio. 
Un grazie gigantesco <3 
Inoltre colgo l'occasione per dirvi che se volete vedere gli attori che nella mia immaginazione somigliano a Scott & co, qui su facebook c'è un album che aggiornerò puntualmente dove inserirò foto e informazioni inedite :D 
http://www.facebook.com/media/set/?set=a.167096613373268.42402.100002187912230&type=3 fateci un saltino, eh <3
Un bacio, 
Eff.

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Incontriamo la cordiale la dea della discordia. ***


Incontriamo la cordiale dea della discordia.

 
Si potrebbe dire che in un certo senso avessi sperato che durante il viaggio la presenza della mia migliore amica avrebbe in un qualche modo neutralizzato quella di Riley.
Voglio dire, Leighton era la persona più allegra e solare e ottimista che conoscessi, no? Sarebbe stato più che legittimo aspettarsi un minimo di sostegno morale per sopravvivere ad un’intera giornata — e forse anche più, ma la sola idea mi terrorizzava — insieme a quella psicopatica figlia di Eris.
Il punto è che da quando ci eravamo lasciati il Campo Mezzosangue alle spalle, Leighton non aveva ancora spiccicato una singola parola.
Per tutta la durata del viaggio in macchina se n’era stata con le braccia incrociate al petto e le gambe accavallate, una smorfia rigida e astiosa in viso, perennemente rivolta verso il panorama che scorreva velocemente al di là del finestrino dell’auto.
Dopo i miei primi tre tentativi di intavolare una discussione avevo sospirato e avevo lanciato uno sguardo sconsolato ad Argo, che guidava in assoluto silenzio, e a Riley che, con i piedi sul cruscotto, canticchiava i motivetti delle canzoni che uscivano dall’autoradio.
Tra le sue note stonate e il rumore statico del vecchio aggeggio ridotto ormai a rottame, la mia testa iniziò a implorare pietà. Provai gentilmente a chiederle di fare a meno di improvvisare un concerto, e per tutta risposta lei mi mandò ancora più cortesemente al Tartaro.
Di lì a poco stavo già progettando una via di fuga — avevo seriamente preso in considerazione l’idea di sfondare la portiera dell’auto e di saltare giù — ma la salvezza arrivò in contemporanea alla voce di Argo che ci informava di essere giunti al capolinea.
 
Passare dal Campo Mezzosangue a New York era sempre stata un’esperienza da non sottovalutare.
Voglio dire, dopo un’estate passata in mezzo alla natura, tra alberi e ninfe e satiri e serate in cui si cantava attorno al fuoco mentre venivano arrostiti i marshmallows, la caotica Grande Mela sembrava far parte di tutta un’altra galassia.
Eppure non riuscii a non farmi scappare un sorrisetto, mentre attraversavo la strada con le mani nelle tasche dei jeans facendo attenzione a non essere messo sotto da un taxi impazzito che correva alla velocità della luce.
«Neanche tre giorni al campo, e già mi mancava quest’atmosfera» ridacchiai, mentre Leighton mi si stringeva accanto, quasi tremando.
«Ti mancava il poter essere investito da qualche pazzo esaltato?» bofonchiò.
Alzai gli occhi al cielo. Sapevo che Leighton abitava in una zona residenziale abbastanza lontana dal centro, e dalle sue parti tutto questo caos non esisteva se non in minima parte.
Riley, che stava camminando davanti a noi, si voltò per intimarci di allungare il passo. Sembrava elettrizzata e decisamente iperattiva, molto più del normale. Ricordai le parole di Chirone, e immaginai che quella ragazza stesse attraversando una bella crisi d’ansia di fronte alla prospettiva di incontrare sua madre.
«Almeno sai dove dobbiamo andare?» le domandai quando finalmente abbandonammo la strada principale e svoltammo lungo una via laterale più tranquilla. Stava scendendo la sera, e nutrivo ancora l’illusoria speranza di riuscire a sbrigare questa faccenda prima di doverci preoccupare di cercare un posto in cui avremmo passato la notte.
«No» rispose Riley, con un tono per niente preoccupato.
Sgranai gli occhi e cercai Leighton con lo sguardo. Lei si limitò a ricambiare la mia occhiata affranta e a stringersi nelle spalle, scuotendo la testa.
«Vuoi dire che stiamo vagando a vuoto per New York, cercando una dea che potrebbe essere ovunque e sotto mentite spoglie?»
«Cavolo, Scott! Non ti sfugge proprio niente!» commentò sarcastica Riley.
Decisi di non rivolgerle più la parola.
Continuai a seguirla, maledicendo lei e la strana apatia che sembrava essere scesa su Leighton da quando avevamo messo piede fuori dai confini del campo.
Superammo una coppia di fidanzatini che stavano guardando la vetrina di un negozio di abiti. Riley fece svolazzare i suoi lunghi capelli scuri e il ragazzo si voltò a guardarla con un interesse che non sfuggì alla sua fidanzata, la quale gli diede uno schiaffo sulla spalla e iniziò a inveirgli contro.
Riley sghignazzò soddisfatta. Mettere zizzania tra la gente doveva divertirla parecchio.
«Non riesco a credere di essermi lasciata trascinare da una tipa del genere in un viaggio senza senso come questo» disse Leighton.
Le rivolsi un sorrisetto. «Pensavo avessi perso la voce»
Lei arricciò le labbra. «È solo che non mi piace stare qui. Non mi piace Riley. E non mi piace il fatto di aver lasciato Alec da solo» arrossì appena, ma il particolare mi saltò all’occhio.
«Starà benone, vedrai. È solo per poco tempo»
«Non mi piace comunque. Ho una brutta sensazione addosso»
Tornai serio. «Che genere di brutta sensazione?»
Purtroppo per noi semidei, raramente ci capita di avere strane sensazioni senza un motivo ben preciso. Di solito siamo particolarmente recettivi agli avvenimenti anche futuri. Ecco, siamo molto intuitivi, è questo il termine giusto.
«Solo… brutta, Scott. Voglio sbrigare questa faccenda e tornare al campo il prima possibile» sospirò la mia amica, sfregandosi le braccia con le mani.
Assottigliai le labbra e le passai un braccio intorno alle spalle, cercando di confortarla.
«Spero solo che Riley sappia cosa sta facendo» mormorai, prima di andare a sbattere proprio contro la figlia di Eris.
Feci un passo indietro, aspettandomi una reazione furiosa da parte sua. Ma Riley rimase semplicemente imbambolata nel bel mezzo della strada, muta, con gli occhi sgranati.
«Cosa…?» mormorai, e cercai di individuare il punto esatto in cui si fosse fissato il suo sguardo.
In alto, nel cielo scuro della sera newyorkese, fluttuavano due Preghiere, gli spiriti che già una volta ci avevano attaccati al campo. Stavolta però non stavano cantando, si limitavano a librarsi tra i palazzi e scendere delicatamente di qualche metro, per poi risalire e girare in tondo.
«Ci sono troppi umani, non possiamo usare le armi» boccheggiò Leighton.
«Non credo ce ne sarà bisogno. Forse non ci hanno visto, magari possiamo allontanarci e basta»
«Fate silenzio!» ci ammonì Riley, con un tono autoritario che mai le avevo sentito prima d’ora. «Stanno cercando di parlare… credo»
Inarcai un sopracciglio. «Come sarebbe a dire?»
Sempre tenendo lo sguardo puntato verso l’alto, Riley azzardò qualche passo in avanti, verso le Preghiere. Non l’avesse mai fatto.
I due mostri si gettarono in picchiata verso di noi, con le ali nere spiegate e gli abiti grigi sbrindellati. Leighton cacciò un urlo e sfilò il suo coltellino svizzero dalla tasca del jeans. Con uno scatto, quello si trasformò in una spada.
Sperai che la Foschia non ci tradisse e che quei pochi mortali presenti alla scena ci ignorassero, o che quantomeno scambiassero la spada di Leighton per qualcosa di meno pericoloso e compromettente.
«No!» esclamò Riley prima che la figlia di Efesto potesse alzare la sua arma contro le Preghiere. «Non osare attaccarle!»
Le Preghiere continuarono la loro picchiata finché non si fermarono esattamente davanti a noi. I loro volti solcati da rughe profonde come ferite trasmettevano un’angoscia e un dolore inimmaginabili, ma per la prima volta da quando avevo scoperto la loro esistenza mi resi conto che quei mostri non avevano espressioni ostili. Erano solo immensamente tristi.
In quel momento realizzai inoltre come le persone che camminavano per la strada accanto a noi si stessero comportando in maniera assolutamente normale, come se nessun mostro somigliante a un uccellaccio troppo cresciuto unito a un fantasma raccapricciante stesse fluttuando a qualche centimetro da terra sul marciapiede.
Evidentemente la Foschia rendeva impossibile percepire la presenza delle Preghiere.
Be’, se fossi stato in loro sarei stato decisamente offeso; doveva essere strano e frustrante essere un mostro e non essere minimamente considerato dai mortali.
«Cosa vi turba?» mormorò Riley, guardando una delle due Preghiere dritta nelle orbite vuote.
Il mostro schiuse le labbra come per parlare, ma poi non le mosse più. Eppure una voce arrivò, seppur debole e distorta, alle nostre orecchie.
«L’Ingannevole figlia del Cronide, la Tremenda, come tremenda vuol erigere la sua vendetta»
La Preghieraaveva parlato in greco antico, ma ero comunque riuscito a capirla.
«Si riferisce ad Ate» mormorai, quasi senza rendermene conto. Nel momento in cui avevo tradotto la frase, mi era parso chiaro come il sole che fosse legata in qualche modo alla dea.
«Ate?» domandò Leighton. Annuii. Ne ero sicuro.
Evidentemente le Preghiere non gradirono il riferimento alla dea, perché lanciarono un acuto lamento di dolore e iniziarono ad agitare ferocemente le loro ali, come a scacciarci.
«Via da qui!» ci ordinarono, e non me lo feci ripetere due volte.
Afferrai Riley ancora imbambolata per un polso e iniziai a correre insieme a Leighton. Le Preghiere continuarono a volteggiare alle nostre spalle, frementi.
«Qui, da questa parte!» esclamò Riley, ritornata fortunatamente in sé. Svoltammo l’angolo del marciapiede, e continuammo a correre per un vicolo buio e deserto, finché non sbucammo in una strada più grande e illuminata.
Mi guardai le spalle, per controllare se fossimo stati seguiti, ma non c’era nessuno.
«Oh, perfetto! Ci mancavano giusto dei mostri schizzati a migliorare la situazione!» esclamò con rabbia Leighton mentre riprendeva fiato e metteva via la sua spada, facendola tornare un coltellino svizzero che infilò poi nella tasca dei pantaloni.
Mi appoggiai al muro di un palazzo, mentre Riley rimase con le mani piantate sui fianchi a guardarsi intorno.
«Ci siamo» disse ad un tratto. «Sento che mia madre è vicina»
Neanche il tempo di riprendere fiato. Sospirai.
«Ne sei sicura?»
«Assolutamente»
«Dovrei fidarmi dell’amica dei mostri? “Non osare attaccarle!”» biascicò Leighton imitandola.
Se fosse stata in un’altra occasione di certo Riley l’avrebbe quantomeno azzannata, ma ora la ragazza aveva tutta la sua attenzione rivolta verso una figura vestita con un tailleur molto elegante che stava venendo dritta verso di noi.
Era una giovane, più grande di tutti noi di sicuro, con i capelli scuri tenuti su in uno chignon e un paio di occhiali da segretaria poggiati sul naso piccolo e all’insù. Gli occhi color nocciola erano elegantemente truccati, così come lo erano le labbra.
«Voi dovete essere la signorina Riley e i suoi amici» disse cordialmente la ragazza quando ci ebbe raggiunti.
Sia io e Leighton che Riley facemmo una smorfia scettica alla parola “amici”, ma ci limitammo ad annuire silenziosamente.
«Molto bene. Il mio nome è Kendra, la Divina Eris vi sta aspettando»
 
Incontrare una divinità può essere una delle esperienze più strane e assurde di tutta la tua vita.
Me ne resi conto nel momento esatto in cui Kendra ci condusse ad un tavolo appartato e già apparecchiato di quello che sembrava essere un raffinato ristorante italiano, con tanto di candele e musica in filodiffusione.
Seduta su una delle quattro sedie vi era una donna sulla quarantina, assurdamente bella, dai capelli scuri e scarmigliati, che stava parlando al cellulare mentre tamburellava con una penna su un’agendina.
Indossava anche lei un tailleur grigio estremamente elegante che le fasciava il busto sottolineandone la figura. Aveva un viso ovale e pallido e due occhi scuri e penetranti. Era identica a Riley in tutto e per tutto.
«Perdonatela, la Divina Eris è molto occupata in questo periodo dell’anno, sia per quanto riguarda i suoi passatempi mortali che per i problemi dell’Olimpo» sussurrò Kendra, alzando una mano adorna di unghie perfettamente smaltate per evitare che disturbassimo la telefonata della dea.
Mi voltai verso di lei per domandarle cosa intendesse quando si riveriva ai “passatempi mortali”, ma quasi lanciai un grido di stupore quando mi trovai al fianco di una ragazza dai capelli lunghi, biondi e ricci, con un viso tondo e due occhi verde brillante, che mi rivolse uno sguardo curioso.
«Ma cos… chi…?»
«Kendra, mia cara! Fai pure accomodare i miei ospiti. Riley, tesoro, guarda come sei cresciuta!»
Eris aveva terminato la sua telefonata e si era alzata, invitandoci a prendere posto al tavolo con un sorriso smagliante. La somiglianza tra la dea e sua figlia mi lasciò tremendamente spiazzato.
Riley guardava sua madre con occhi brucianti di rispetto e ammirazione, e sembrava felice e realizzata come non mai.
«Mamma» mormorò, aprendosi in un sorriso sincero. «È passato tanto tempo»
«Non posso far altro che concordare, bambina mia. Scott, Leighton, vi ringrazio di avermi onorata con la vostra presenza. Accomodatevi, vi prego!» disse melliflua Eris. Le sue parole potevano essere dolci e cortesi, ma quando non erano rivolte a sua figlia sembravano anche fin troppo teatrali — ecco da chi aveva ereditato questo lato del suo carattere Riley.
Dopo aver preso posto intorno al tavolo illuminato dalla candela, Kendra — che ora aveva la pelle olivastra e tratti indiani — si chinò accanto alla dea.
«Devo quindi avvisare la signora Stewart dell’udienza di mercoledì?»
Eris sorrise, facendomi accapponare la pelle. «Sarebbe molto cortese da parte tua iniziare a chiamarla signorina Hart, Kendra. Quell’avvocato da quattro soldi non riuscirà a impedirmi di ridurre il signor Stewart sul lastrico»
«La signorina Hart ne sarà contenta. Le auguro una buona serata, Divina. Ragazzi, è stato un vero piacere!»
Seguii Kendra — corti capelli rossi e una spruzzata di lentiggini in viso — con la coda dell’occhio mentre faceva ticchettare i tacchi delle sue scarpe sul pavimento lasciandoci da soli con la dea della discordia.
«Una ragazza d’oro, Kendra. Figlia di mia sorella Apate, dea dell’inganno. È adorabile come riesca a cambiare aspetto così facilmente, non trovate?»
«Più che adorabile direi inquietante» mi lasciai scappare. Riley mi lanciò un’occhiataccia, ma Eris rise.
«Probabile. Di certo è un talento che risulta utile quando deve recitare la parte dell’adescatrice per fornirmi prove schiaccianti di tradimento da mostrare in tribunale durante le udienze. Alla giuria i mariti infedeli non piacciono affatto, sapete?»
«È un avvocato divorzista?» domandò Leighton, con un’espressione stranita in viso.
«Una specie»
D’accordo, la cosa in sé per sé era strana, ma non mi sconvolse più di tanto. La dea della discordia doveva divertirsi molto a infilarsi tra moglie e marito e ad alimentare le loro liti.
«Sarebbe questo il suo passatempo mortale, quindi?» domandai.
La dea mi scrutò con uno sguardo curioso e interessato. «Devi capire, mio caro figlio di Apollo, che anche noi divinità abbiamo bisogno di svagarci una volta ogni tanto. E i mortali sono il mio svago preferito. Così litigiosi, colmi di rabbia repressa, pronti ad azzannarsi a vicenda ad ogni minima occasione. Una goduria!»
Si avvicinò un cameriere, probabilmente per prendere le ordinazioni, ma con un gesto della mano Eris lo mandò via. Nel voltarsi però il cameriere andò a sbattere contro un grasso signore somigliante a un tricheco seduto qualche tavolo più in là, facendogli rovesciare addosso il bicchiere di vino che l’uomo stava per degustare. L’uomo-tricheco si fece rosso in viso per la rabbia e cominciò a litigare con il cameriere, sbraitando come un ossesso.
«Visto? Litigi. Perenni litigi» mormorò Eris con espressione angelica. «Ma questo non è il momento adatto per spargere zizzania in giro. Vi ho voluti al mio cospetto per situazioni molto più delicate»
Detto ciò schioccò le dita; l’uomo-tricheco tornò pacatamente al suo posto e riprese a mangiare in tutta tranquillità, come se nulla fosse successo, e il cameriere si allontanò.
«Divina Eris, di che situazioni parla?» le chiesi, aggrottando le sopracciglia e sporgendomi sul tavolo.
Anche Leighton e Riley si misero sull’attenti, interessate alla questione.
«Credo tu l’abbia già capito, Scott»
«C’entra per caso Ate?»
«Scott» esclamò Leighton, con i grandi occhi scuri ancora più grandi alla luce della candela. «È la seconda volta che nomini Ate stasera! Ti comporti come se sapessi di chi si tratta!»
«Io… non so chi sia» ammisi. «Ma l’ho sognata»
Con questa affermazione riuscii a solleticare l’interesse persino di Eris, che mi invitò a parlare del sogno.
Spiegai allora ogni cosa nei minimi dettagli — la stanza, le ombre, le catene, il messaggio per Zeus. Mentre raccontavo, rabbrividivo.
«Non mi dici nulla di cui già non fossi a conoscenza, Scott» disse la dea Eris con un sospiro. «O di cui comunque non sospettassi già da tempo. Una madre conosce sempre fin troppo bene i suoi figli»
Mi ritornò improvvisamente in mente l’immagine di mia madre, che quella mattina mi aveva detto una cosa del genere, ma appena riuscii a elaborare la frase pronunciata dalla dea sobbalzai sulla sedia.
«Sta dicendo che—»
«Che Ate è mia figlia, esattamente. Mia, e di Zeus»
Leighton si afflosciò sulla sedia a bocca aperta, mentre Riley divenne cinerea in viso. Eris non ci diede però il tempo di metabolizzare la scoperta che subito ricominciò a parlare e a spiegare ogni cosa.
«È conosciuta come la personificazione dell’Errore, della Tracotanza e della Dissennatezza, e viene sovente sovrapposta alla mia figura di dea della discordia. Mi ha tenuto il muso per secoli quando l’episodio della mela d’oro è stato attribuito per errore a me, quando in realtà è stata tutta opera sua»
L’orgoglio che traspariva dalla voce della dea mi mise a disagio.
«Ate ha vissuto per molto tempo sull’Olimpo, senza dare fastidio a nessuno. Voglio dire, qualche scaramuccia di troppo c’è sempre stata, lì su. Ad ogni modo, mia figlia si è lasciata trascinare da Era in una situazione che ha suscitato l’ira di Zeus.
«A quel tempo il vecchio Parafulmini aspettava un figlio da quella mortale, Alcmena, se non sbaglio, colei che avrebbe dato alla luce Ercole. Quella stregaccia di Era, gelosa marcia come di suo solito, chiese l’aiuto della mia bambina per vendicarsi. Ate fece in modo che la mente di suo padre fosse offuscata dalla superbia, e così Zeus si vantò con gli altri dèi che il suo prossimo discendente sarebbe stato tanto potente da dominare su chiunque altro.
«Era però fece in modo che Euristeo, un altro discendente di Zeus, nascesse prima di Ercole, il quale per anni fu costretto a servire il fratellastro. Quando Zeus lo scoprì si vendicò su Ate. La afferrò per i capelli e la scaraventò giù dall’Olimpo esiliandola, giurando che mai più sarebbe potuta tornare»
«Ma lo ha fatto. Ate è tornata» mormorai a mezza voce.
Eris annuì, e Leighton si lasciò sfuggire un gemito.
Riley sbatté le palpebre. «Mi state dicendo che la dea che minaccia di vendicarsi sugli dei dell’Olimpo è una mia sorellastra
Inarcai le sopracciglia. In effetti la follia sarebbe potuta essere un difetto di fabbrica, chi lo sa.
«Il punto è che Ate era estremamente debole, fino a qualche tempo fa. Il fatto che le Litai siano ricomparse è un chiaro segno dell’aumento del suo potere» disse Eris.
«Scott prima aveva collegato le Preghiere ad Ate» soggiunse Leighton, scrutandomi.
«Intuizione» mi giustificai.
«Le Preghiere vennero create da Zeus per in qualche modo riparare ai danni creati da Ate. Sono gli spiriti di coloro a cui Ate ha nuociuto quando erano ancora in vita. Si prendono cura di coloro che Ate minaccia, evitando che possa far del male ancora una volta. Ma se vengono respinte o attaccate, è lo stesso Zeus a scatenare la furia di mia figlia contro gli stolti che hanno offeso le Preghiere»
Riley sorrise sprezzante a Leighton. «A questo punto dovresti ringraziarmi. Ti ho evitato il tormento eterno, a quanto pare»
Leighton si mosse sulla sedia come se avesse voluto alzarsi e strangolare la figlia di Eris — cosa non molto intelligente dal momento che eravamo proprio al cospetto della dea — ma si contenne.
Eris diede un buffetto sulla guancia della figlia.
«Tra l’altro ho saputo che al campo si è verificato un episodio simile a quello di cui Ate si è resa artefice. Una fragola d’oro, se non sbaglio. Riley, mia cara, sono molto fiera di te! Un tocco di classe quello di far scegliere la più bella proprio da un figlio di Afrodite, sono colpita!»
Riley sorrise, ma era impallidita e di vedeva chiaramente quanto fosse turbata.
«Mamma… non ricordo molto di quella sera» rivelò. Era ancora sconvolgente come il suo tono di voce e il suo atteggiamento mutassero a seconda che si rivolgesse a sua madre o ad altri. In questo momento sembrava molto più piccola e indifesa di quanto non fosse in realtà.
«Io ero nella foresta e… qualcuno mi ha dato la fragola, e mi ha proposto di farla donare alla più bella. Non ho idea di chi sia stato. Ricordo solo le ombre» sussultò al ricordo.
Eris emise un verso che definii di comprensione, e diede dei colpetti sulla mano della figlia per rincuorarla.
«Che genere di ombre?» domandai, con un campanello che mi si accendeva nella testa.
Riley aggrottò le sopracciglia, ma mi rispose. «Ombre gelide»
«Le ombre controllate da Ate sembrano vapore ghiacciato» mormorai.
Non ci fu bisogno di tratte conclusioni ad alta voce; tutti noi avevamo capito chi si nascondesse dietro lo scherzetto della fragola d’oro.
«Ate deve avere qualcuno che l’aiuta» disse Eris. «Al momento non dovrebbe avere neanche un corpo ben definito. I secoli trascorsi nell’oscurità e nella solitudine, dimenticata da mortali e semidei, devono necessariamente averla indebolita»
Non era di certo una buona notizia. Nel mio sogno la dea aveva sì un corpo formato in alcune parti da ombre, ma era stata abbastanza potente da incatenarmi con esse.
«E ora immagino sappiate tutto ciò che dovevate sapere» sospirò la dea Eris, ravvivandosi i capelli arruffati e controllandosi il trucco perfetto con uno specchietto tirato fuori dalla borsa.
«Aspetti un attimo» esclamò Leighton. «Sta dicendo che ci ha chiamati a New York per questo?»
«Esattamente, mia cara»
Leighton boccheggiò. La spintonai delicatamente con il gomito, pregando che non decidesse di mettersi ad inveire contro una dea.
«Perché ha chiamato anche me?» domandò invece. «Insomma, posso capire Riley. Posso capire anche Scott, dal momento che è stato lui a sognare Ate, ma che senso aveva far venire qui anche me
Eris assunse un’espressione pensierosa, poi le sorrise e si alzò in piedi. Posò un bacio sui capelli di Riley, e dopo aver velocemente controllato il suo cellulare, ci informò che un taxi sarebbe venuto a prenderci a momenti per riportarci al Campo Mezzosangue.
Leighton aspettava ancora la sua risposta, e sembrava parecchio scossa.
«Non ti crucciare, mia cara» le disse Eris, poggiandole una mano sulla spalla. «Dopotutto, sono pur sempre la dea della discordia»
Con questa frase enigmatica si congedò, lasciandoci seduti al tavolo del ristorante, con il doppio delle domande irrisolte che avevamo al nostro arrivo.











L'angolo della Malcontenta: gosh! Non aggiorno da una vita, e chiedo perdono çç il punto è che la scuola mi sta risucchiando le energie (anche adesso aggiorno con il pensiero di ciò che dovrò studiare appena avrò cliccato invio al capitolo) e quel poco tempo libero che ho lo dedico alle mie amiche ._.
Avete comprato La battaglia del Labirinto?! *____________* Io sì, e l'ho adorato <3 Ho anche odiato Annabeth -.- la odio. Mi dispiace, ma è così T^T Solo nel primo libro mi piace <3

La prima parte di questo capitolo è stata un po' tosta, ma dalla comparsa di Kendra in poi mi sono divertita come una pazza a scriverlo :'D Kendra è figlia di Apate, sorella di Eris e dea del'Inganno -w- quindi è cugina di Riley òo 
Amo Eris. E' una versione più adulta di Riley, con la stessa teatralità. Eris adora i suoi figli, nella mia mente, e di conseguenza adora Riley. E adora anche Ate. Sappiatelo, perché è importante u.ù

L'arma di Leighton è un coltellino svizzero che, oltre ai soliti usi, può trasformarsi anche in una spada *u* lo voglio anche io çç 

Adesso si sa qualcosa di più su Ate. Ahhhh Ate. E tutta la parte finale tra Leighton e Eris, con l'ultima frase della dea, sappiate che avrà un senso più avanti *si sente figa perché già lo sa :'D*

Dal prossimo capitolo tornano Lena e Alec *________________* Oh, mi mancavano T______________T

Un bacio, 
Eff.

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Abbiamo un imprevisto. ***


Abbiamo un imprevisto.

 
Mi trovavo nel campo da basket del parco poco lontano da casa mia. C’eravamo solo io, il pallone e il canestro, oltre a un sole cocente che picchiava sulle spalle e sulla testa senza però farmi star male. Anzi.
Sentivo scorrere dentro di me una forza inimmaginabile, che si catalizzò in precisione e potenza per i miei tiri. Iniziai a lanciare la palla verso il canestro, e dopo poco persi addirittura il conto di quanti tiri ero riuscito a mandare a buon fine.
Ero parecchio soddisfatto.
D’un tratto però sentii un brivido corrermi lungo la schiena e lasciai cadere la palla che tenevo stretta tra le mani. Rimbalzò sul cemento, producendo un rumore che mi parve assurdamente assordante.
Iniziò a tirare vento, e dal momento che ero zuppo di sudore e con indosso solo una canottiera arancione cominciai a sfregare entrambe le braccia con le mani nel tentativo di riscaldarmi.
Il sole era stato coperto da una cortina di nubi scure.
Ogni volta che respiravo, dalla mia bocca fuoriusciva calda condensa.
Quando scorsi una nebbia nera che scivolava sul cemento a poca distanza dai miei piedi capii che qualcosa decisamente non andava. Guardai verso il cielo, cercando i raggi del sole come un naufrago cerca un pezzo di legno al quale aggrapparsi.
Prima che potessi anche solo realizzare di essere in trappola, due braccia fatte di pura ombra si strinsero intorno al mio petto in un abbraccio ghiacciato. Emisi un respiro strozzato.
Le braccia divennero corde e mi trascinarono con violenza verso le ombre.
 
«Svegliati, siamo arrivati»
Leighton mi stava scuotendo per un braccio e si fermò soltanto quando aprii di scatto gli occhi.
Eravamo seduti nel taxi chiamato da Eris per riportarci al Campo Mezzosangue. Avevo un auricolare dell’iPod nelle orecchie, mentre l’altro era finito chissà dove. Dovevo essermi assopito.
D’altronde, avevamo viaggiato tutta la notte. Ora era mattina, e la consapevolezza che da qualche parte lì nel cielo il sole stesse splendendo servì a rasserenarmi. Solo quando riacquistai la lucidità mi accorsi che avevo il respiro corto e la fronte madida di sudore freddo.
Maledetti incubi. Maledette ombre. Maledetta Ate.
Leighton doveva aver intuito più o meno il filo conduttore dei miei pensieri, poiché mi avvicinò e mi sussurrò all’orecchio: «L’hai sognata»
Non era affatto una domanda.
«Anche tu…?» domandai spiazzato.
Leighton distolse lo sguardo e solo allora mi accorsi che qualcosa nei suoi grandi occhi scuri era diverso dal solito. Era molto turbata, risposta più che sufficiente alla mia domanda.
Prima che potessi aprire bocca per domandarle cosa nello specifico Ate le avesse fatto sognare, la portiera della macchina si spalancò di colpo, facendomi quasi cadere lungo disteso per terra.
«Avanti, Sean, meno dormite e più resoconti!» esclamò stizzito il Signor D, in tutto lo splendore della sua camicia tigrata, con una lattina di Diet Coke in mano.
Lo guardai scombussolato — e ancora mezzo addormentato; non ebbi neanche la forza di ribattere che mi chiamavo Scott e non Sean. Mi trascinai fuori dall’autovettura tra uno sbadiglio e l’altro, seguito a ruota da Leighton e da una Riley che appariva più riposata che mai.
«Non hai avuto incubi?» le domandai di getto.
Ci volle qualche secondo prima che la figlia di Eris capisse che mi stavo rivolgendo a lei. Quando però lo fece, mi rispose alzando gli occhi al cielo e mulinando i lunghi capelli scuri con fare esasperato e scocciato.
Spostando lo sguardo sul taxi che ci aveva riportati al campo pensai che dovessimo pagarlo, per cui afferrai il mio zaino con l’intenzione di prendere il portafogli con dentro il denaro necessario, ma quando domandai al tassista quanto gli dovessimo mi guardò con uno sguardo attento e vigile quanto quello di un pesce lesso.
Il Signor D mi scostò in malo modo e schioccando le dita fece sì che il tassista rimettesse in moto la sua macchina e se ne andasse senza fare storie.
«Ehi! Non abbiamo pagato!» esclamai. Se c’era una cosa che mia madre mi aveva inculcato a forza nel cervello, quella cosa era che rubare è sbagliato e di conseguenza lo è anche non pagare dopo una corsa in taxi.
Il Signor D mi rivolse un sguardo come a dire «Ma per favore!» e mi strinsi nelle spalle, messo in soggezione dall’intensità del sua occhiataccia.
«Tra mezz’ora alla Casa Grande, Scout Parker, insieme alla signorina Peyton e a… umh, quell’altra» disse laconico, per poi darci le spalle e andarsene.
«Non siamo stati via neanche un giorno e già ostenta di aver dimenticato i nostri nomi» sbadigliò Leighton, mentre accanto a lei Riley fumava di rabbia per essere stata chiamata “quell’altra”.
 
Mezz’ora dopo, stavamo ronfando alla grande seduti intorno a un tavolo nel cortile della Casa Grande. Gli uccellini cinguettavano, il sole ci scaldava le braccia e le gambe intorpidite e il leggero venticello ci rinfrescava quando più ne avevamo bisogno.
Peccato soltanto che il Signor D e Chirone stessero discutendo a voce tremendamente alta dopo aver ascoltato attentamente il racconto per filo e per segno della nostra breve scampagnata a New York.
Non riuscivo a seguire il filo del discorso. Le parole nella mia testa ronzavano e si fondevano tra loro, ma mi sforzavo comunque di prestare un minimo di attenzione dal momento che, insomma, a quanto pareva una dea vendicativa aveva intenzione di distruggere gli dei o una cosa del genere.
Non il genere di cosa che può essere presa sottogamba, per capirci.
Alla fine però Chirone ebbe pietà di noi e ci suggerì di andarci a riposare nelle nostre rispettive cabine, dal momento che quella sera stessa si sarebbe tenuta la Caccia alla Bandiera contro le Cacciatrici di Artemide. Quella notizia piombò come un macigno sulle mie spalle.
Mi ero completamente dimenticato della Caccia alla Bandiera!
Quando ci allontanammo dalla Casa Grande, Riley espresse tutto il suo disappunto con una serie di «È ridicolo!» e «Mi rifiuto categoricamente di muovere anche solo un dito, stasera. Che gioco inutile».
«Non è inutile» mormorò Leighton strofinandosi gli occhi con il dorso della mano. «Serve per farci abituare alle vere battaglie. Ci teniamo in allenamento»
«Nel mio futuro non ci sarà posto per le battaglie» rispose seccamente Riley. La guardai in maniera interrogativa, così come fece anche la figlia di Efesto.
«Andrò a lavorare con mia madre» spiegò con fare altezzoso. «Come Kendra. Sarei un’ottima assistente senza alcun dubbio»
Cercai di non ridere nell’immaginarmi Riley nelle vesti di assistente della dea Eris, magari con un paio di occhiali da segretaria, a destreggiarsi tra chiamate sul cellulare e appuntamenti sull’agenda. Purtroppo non ero mai stato molto bravo a fingere, e Riley sembrava avere tutta l’intenzione di trapassarmi da parte a parte con la prima cosa le fosse capitata sottomano, quando in mio soccorso, fortunatamente, arrivò il mio migliore amico.
«Scott! Leighton!» esclamò Alec mentre correva verso di noi, con indosso il pettorale dell’armatura e una spada in mano. Sorrideva e sembrava essersi ripreso in pieno dall’incidente di qualche sera prima, e se non fosse stato per le pesanti occhiaie scure che gli circondavano gli occhi sarebbe sembrato uno di quei modelli delle riviste patinate che mamma leggeva ogni tanto a casa.
Accanto a me, Leighton sembrò rianimarsi e sorrise di rimando ad Alec. Sentii Riley sbuffare.
«Lascio i colombi a tubare. Se quei sorrisi sgargianti si allargano anche solo di mezzo centimetro potrebbe venirmi da vomitare» commentò acida, andandosene via tutta impettita.
«Cavolo, avete certe facce!» ci disse Alec dopo aver inarcato le sopracciglia di fronte al teatrino di Riley.
Alzai gli occhi al cielo. «Senti chi parla! Dì la verità, ti hanno organizzato un festino in infermeria per non farti sentire la nostra mancanza. Hai due occhiaie da far spavento»
Alec sorrise, ma non mi serviva il suo potere da figlio di Afrodite per notare che il suo sorriso era tirato e poco convinto.
«Idiota. È solo che da quando mi hanno sistemato il braccio mi sto allenando senza pausa per Caccia alla Bandiera»
Leighton arricciò le labbra. «Non dovresti, ti hanno appena dimesso» borbottò, ma quando sia io che Alec alzammo gli occhi al cielo sospirò sconfortata. «Magari è la volta buona che vinciamo, chi lo sa»
«Ne dubito. A quanto ho sentito in giro, è da ieri che le cacciatrici si stanno allenando. Sarà dura» rispose Alec, incupendosi.
Il sentir nominare le cacciatrici mi riportò di colpo sull’attenti. Alec mi rivolse un’occhiata curiosa, e mi schiarii la voce imbarazzato.
«Umh, Lena è qui in giro?» domandai facendo vagare lo sguardo per la zona circostante.
Leighton e Alec si guardarono per una manciata di secondi, poi scoppiarono a ridere. Mi costrinsi ad ignorarli, mentre sentivo le orecchie bruciare per l’imbarazzo.
«Spiacente deluderti, amico, ma la tua bella cacciatrice al momento sta riversando tutte le sue attenzioni su Aimee. Si è tipo presa l’incarico di farle da mentore durante i suoi primi giorni da cacciatrice e adesso sono praticamente inseparabili» spiegò Alec.
«Non essere geloso» aggiunse maliziosamente Leighton.
«Non ho motivo di essere geloso!» sbottai, facendo scoppiare un’altra risata da parte loro.
«Sapete che c’è di nuovo?» esclamai, imbarazzato e stizzito. «Io me ne vado a riposare, così stasera sarò nel pieno delle forze. Voi fate quello che volete»
«Oh, andiamo! Non mi raccontate neanche com’è andata la gita a New York?»
Alzai una mano in cenno di saluto. «C’è Leighton per questo. Così recuperate anche il tempo perso» dissi a quei due, vendicandomi delle frecciatine di poco prima.
 
Dormii per tutta la restante mattinata e saltai anche il pranzo, esausto. Fortunatamente nessun incubo fece capolino tra i miei sogni — anzi, a dire la verità dormii come un sasso senza potermi permettere il lusso di sognare alcunché.
Quando mi svegliai raggiunsi i miei fratelli e le mie sorelle per le attività del pomeriggio, che si conclusero in anticipo dal momento che dovevamo prepararci per la Caccia alla Bandiera che si sarebbe tenuta in serata.
Mentre stavamo correndo lungo il perimetro del campo sotto lo sguardo attento delle ninfe, Will mi si accostò per congratularsi dell’idea che avevo avuto.
Quando gli domandai confuso di che cosa stesse parlando, scosse la testa ridendo e mi spiegò che per quella sera Apollo sarebbe stato alleato con Demetra ed Efesto.
«Anche se la cosa fondamentale è sconfiggere le cacciatrici, questo non significa che non dobbiamo impegnarci al massimo per essere noi la cabina che potrà vantare di aver conquistato la loro bandiera!» esclamò, per poi continuare a correre lontano da me.
 
Per il resto del pomeriggio e persino durante la cena mi scoprii a pensare che in fin dei conti mi importava sul serio portare gloria e onore alla cabina di Apollo.
Seppur in ritardo, iniziai a prendere sul serio la partita.
Quando mi avvicinai al braciere per bruciare le offerte votive a mio padre, pregai che quella sera riuscissimo ad avere successo. Continuai a pregare anche mentre stavo seduto al tavolo per mangiare. Invidiai Jenny e Kayla, un’altra mia sorella, che se ne stavano tranquille a ridere e scherzare mentre i loro bicchieri si riempivano in continuazione di fresca aranciata. Non sembravano avere un pensiero per la testa, contrariamente al sottoscritto. Per l’ansia, non riuscivo quasi a mangiare.
Quando le cacciatrici fecero il loro ingresso nel padiglione, poi, il mio stomaco si chiuse definitivamente e non riuscii più a mandar giù neanche un boccone.
Per la prima volta vidi le seguaci di Artemide ridere chiassose tra di loro, cosa che attirò l’attenzione di parecchi semidei. Sembrava quasi una dichiarazione di superiorità: erano talmente sicure di poter vincere che potevano permettersi quell’allegria.
Mi ricordai istintivamente di quando, poco prima del mio scontro con Lena nell’arena, avevo avuto lo stesso identico pensiero per la mente.
Sbirciai tra le ragazze cercando proprio la figlia di Zeus, trovandola seduta tra sua sorella Talia e la piccola Aimee. La figlia di Zefiro era cambiata parecchio dall’ultima volta che l’avevo vista: adesso sembrava decisamente più sorridente e serena. Aveva i capelli intrecciati e un’espressione sicura. Ogni volta che posava lo sguardo su Lena sorrideva e si stringeva a lei, come fosse stata sua sorella maggiore.
Mi resi conto troppo in ritardo che Talia aveva notato il mio sguardo, che provvidi a distogliere non appena vidi la Luogotenente di Artemide sussurrare qualcosa all’orecchio di Lena, con un’espressione a metà tra il divertito e l’irritato.
Non mi voltai più verso la loro direzione fino a fine serata, quando tutti ci alzammo e ci dirigemmo verso la foresta per indossare le nostre armature.
La tensione e l’agitazione nell’aria erano palpabili.
A stento mi accorsi, mentre mi infilavo l’armatura e prendevo una spada, che Leighton e Alec mi avevano raggiunto e ora stavano litigando su chissà quale stupidaggine, facendomi sprofondare in un senso di routine che poco si addiceva a quel momento.
Avete mai la sensazione di osservare la vostra vita come se steste tranquillamente guardando un film? E poi all’improvviso capite che sta per succedere qualcosa di importante, magari di brutto, e vi sentite angosciati e impotenti perché i protagonisti del film sono calmi e ignari di ciò che lo aspetta?
Era esattamente così che mi sentii fino a quando Chirone non ci radunò tutti insieme — semidei da una parte e cacciatrici dall’altra — per esporci brevemente le regole della competizione.
Artemide, accanto a lui, annuiva seria.
Dal canto mio continuavo a sentirmi estraneo alla situazione, quasi in una bolla.
«Mi sento decisamente un pesce fuor d’acqua» mormorò qualcuno accanto a me. Mi voltai di scatto, come se la mia personale bolla fosse stata fatta scoppiare, e mi ritrovai spalla a spalla con una ragazza dai capelli ricci e rossi, che indossava una felpa rosa e un paio di jeans pieni di scritte e disegni colorati.
«Rachel? Che ci fai qui?» le domandai, riconoscendola come Rachel Elizabeth Dare, la ragazza-oracolo.
Lei inarcò le sopracciglia e mi guardò con un guizzo d’interesse negli occhi verdi.
«Scott, vero? Un figlio di Apollo?»
Annuii.
Lei si strinse nelle spalle. «Curiosità, credo. Da quando sono arrivate le cacciatrici si è parlato tanto di questa Caccia alla Bandiera e così ho deciso di fare un salto a dare un’occhiata»
«Non credi sia pericoloso?»
«Già, be’, vedrò di tenermi fuori portata. Magari dal canto vostro evitate di infilzarmi come uno spiedino» sorrise. «Ma comunque le vostre armi sono di Bronzo Celeste, no? Non feriscono i mortali… sempre che mortale io possa essere considerata, sai com’è»
Mi sorpresi a ridacchiare. «Nell’incertezza, guardati le spalle»
Il suono di un corno mi fece sobbalzare, e una scarica di adrenalina mi attraversò le vene. Lanciai uno sguardo di saluto a Rachel, che ricambiò e corse accanto a Chirone.
«Muoviamoci» disse Alec dandomi una pacca sulla spalla, con un tono di voce che lasciava trasparire tanta tensione quanta ne provavo io.
Annuii, e seguii i miei compagni di squadra verso la radura nella quale avevamo piantato la nostra bandiera. Sapevamo che le cacciatrici avevano posto la loro accanto al Pugno di Zeus, un ammasso di rocce opposto a dove ci trovavamo noi, probabilmente più per scaramanzia che per tattica dal momento che ben due ragazze erano figlie proprio di Zeus.
I vari capo cabina iniziarono ad assegnare le posizioni ai loro fratelli e sorelle. Will decise di mandarmi in avanscoperta insieme a un figlio di Ares e uno di Ermes, e non appena ci fu dato il via ci avviammo.
«Sembra tutto tranquillo» mormorò Dean, il figlio di Ares, un tipo alto e muscoloso con lunghi capelli castani legati in un codino dietro la nuca.
«Sembra» puntualizzai io, sistemandomi l’elmo sulla testa.
Ero l’unico nel gruppo ad essere ancora con l’ansia a mille, e la cosa mi preoccupava. Che tutta la storia di Ate e quei maledetti incubi mi stessero facendo andare in pappa il cervello?
Quando all’improvviso ebbi un tremendo giramento di testa pensai che forse era proprio ora di pretendere un po’ di relax.
«Tutto okay, Scott?» domandò il ragazzo della casa di Ermes, vedendomi appoggiato ad un albero con una mano sulla fronte. Anche Dean si voltò verso di me.
«Sto bene. È solo che…»
Per un attimo mi sembrò che una scheggia di ghiaccio mi avesse trapassato il cervello.
«Andate avanti» deglutii a stento. «Vi raggiungo tra un minuto»
Il ragazzo di Ermes protestò, ma Dean approvò la mia decisione di «Non voler essere d’impiccio per noialtri» — sue (e non mie) testuali parole — ed entrambi si allontanarono, lasciandomi da solo.
Tolsi l’elmo e lo scaraventai a terra, respirando pesantemente. Ascoltai il silenzio della foresta, rotto solamente da alcuni saltuari colpi di spada e grida in lontananza, segno che da qualche parte si stava combattendo.
Il giramento di testa era passato, e così la sensazione orrenda di avere come del ghiaccio nel cervello, ma ciò non toglieva che fossi ancora abbastanza scosso.
Andiamo Scott, mi dissi. Non comportarti da femminuccia proprio adesso!
Mi allontanai dall’albero che mi sorreggeva, e mi chinai ad afferrare l’elmo che avevo gettato a terra.
Probabilmente fu questo a salvarmi la vita.
Il sibilo di una freccia scagliata al di sopra del mio collo mi fece salire il cuore in gola. Mi voltai furioso verso chiunque fosse stato così idiota da avermi quasi ucciso, e mi ritrovai a fissare una sorridente Lena che impugnava un arco con una nuova freccia già incoccata.
«Ma sei completamente impazzita?! Avresti potuto ammazzarmi!» esclamai ad occhi sgranati, fuori di me.
Lei fece un gesto con la mano come a zittirmi. «Non ti avrei ucciso. Al massimo ne saresti uscito con un graffietto. Se non ti fossi chinato la freccia non ti avrebbe neanche sfiorato, tra l’altro»
«Quindi la colpa sarebbe stata mia?!»
«Scott, niente sangue niente danno!»
Mi passai una mano sul viso. «Ti ha mandata Talia? Devi arrivare alla nostra bandiera? Spiacente, Lena, ma sono costretto a impedirtelo» le dissi, sguainando la spada e puntandogliela contro.
Lei rise — mi costrinsi a non sorridere a mia volta pensando a quanto fosse graziosa mentre rideva — e l’arco con la faretra piena di frecce sulla sua schiena scomparvero.
«Ho un conto in sospeso con te. Da quando mi hai umiliata di fronte a tutta l’arena. In tutta sincerità, della vittoria alla Caccia alla Bandiera posso fare anche a meno. Le mie compagne ve la strapperanno da sotto il naso anche da parte mia» disse, afferrando il suo pugnale elettrico.
Completamente dimentico del mio malessere di poco prima, mi sentii come rinvigorito e pronto a combattere. Feci una smorfia e inarcai le sopracciglia.
«Puoi anche scordartelo» dissi con tranquillità, mentre in realtà il mio cuore stava correndo la maratona.
Lena decise che non era il caso di parlare oltre e mi si scagliò contro, sferrando attacchi con il pugnale con una potenza e una precisione invidiabili.
Sfortunatamente per lei, riuscii a deviare tutti i suoi attacchi con la mia spada, facendo sprigionare una cascata di scintille elettriche ogni qualvolta le nostre armi si scontravano.
«Non puoi semplicemente accettare la sconfitta come tutte le persone normali?» esclamai parando l’ennesimo colpo da parte sua.
«Non è un’opzione che mi piace prendere in considerazione»
Già, me n’ero accorto.
Lena continuava ad attaccare e ad avanzare, spingendomi sempre più indietro. Intuii che nonostante avesse affermato il contrario, probabilmente uno dei suoi intenti era anche quello di arrivare alla nostra bandiera per catturarla e di conseguenza consegnare alla vittoria nelle mani delle cacciatrici.
No, per Apollo! Non avrei mai permesso che riuscisse nella sua impresa!
Fin’ora mi ero semplicemente difeso dai suoi colpi, ma da quel momento in poi iniziai a contrattaccare.
La figlia di Zeus apparve per una manciata di secondi stupita e spiazzata dall’inversione di ruoli — io che l’attaccavo e lei che si difendeva — e decisi di approfittare della situazione.
Era sera e il sole era già tramontato, era vero, ma decisi di mettere in pratica qualche trucchetto da figlio di Apollo che mi era stato insegnato dai miei fratelli maggiori.
Impugnai la mia spada con maggior forza, e quella cominciò a illuminarsi dapprima debolmente, poi con intensità crescente, finché non divenne luminosa quanto il sole alto nel cielo a mezzogiorno.
L’effetto mi privò di quasi tutte le mie energie e durò solamente per qualche istante, ma quel breve lasso di tempo bastò perché Lena fosse costretta a distogliere lo sguardo per ripararsi gli occhi.
Quando la vidi indietreggiare con il viso nascosto da una mano pensai che sarebbe finita lì, ma la figlia di Zeus mi prese totalmente alla sprovvista quando caricò in avanti e mi si gettò contro, premendomi forte una mano sulla spalla.
Una scarica di pura elettricità attraversò il mio corpo e fu come venire sbalzati per aria e atterrare su un centinaio di spade.
Vidi tutto prima bianco e poi totalmente nero, e persi la sensibilità agli arti.
L’impatto con il terreno servì però a farmi tornare parzialmente in me, e quando riaprii a fatica gli occhi trovai Lena — con gli occhi rossi e pieni di lacrime dopo essere stata accecata dalla mia spada — che stava a cavalcioni sul mio stomaco con un ginocchio sul mio petto e, cosa più importante, con il suo pugnale premuto di piatto contro la mia gola.
Mi aveva atterrato.
Nonostante mi rendessi conto che non sarebbe proprio stato il caso per lasciarsi prendere da certi pensieri, non riuscii a non arrossire violentemente realizzando che, per tutti gli dei dell’Olimpo!, in poche parole Lena era seduta sopra di me!
È una cacciatrice, razza d’idiota, mi dissi mentalmente. Non farti strani pensieri.
Evidentemente Lena non trovava la situazione compromettente come invece io facevo, o forse era troppo infuriata per poterlo comprendere, perché quando aprì bocca disse solamente: «E con questo, direi proprio che ho vinto».
Non aveva quasi neanche finito di parlare che un urlo vittorioso si levò dalla foresta, seguito da una serie di esclamazioni gioiose un po’ troppo colorite per provenire dalle fanciulle immortali di Artemide.
Mi si allargò un ghigno sul viso, nonostante fosse ancora intorpidito dalle scariche elettriche.
«Complimenti per la tua personale vittoria. Ora scusami, ma devo andare a gioire con i miei compagni della sconfitta delle cacciatrici» tossicchiai.
Lena si ritrasse immediatamente, ma non sembrava arrabbiata per la sconfitta delle sue compagne. Inaspettatamente, mi porse una mano per aiutarmi a rimettermi in piedi, lo stesso gesto che avevo compiuto io la sera dell’arena.
«Non ti fulmino, stavolta. So riconoscere un avversario valente quando ne incontro uno» disse, e sembrò sincera.
Afferrai la sua mano per poi lasciarla andare immediatamente dopo essermi alzato. Giorno dopo giorno, ero sempre più convinto che in Lena coesistessero una parte buona e una parte cattiva.
In silenzio, ci avviammo verso il punto da cui proveniva il baccano festoso.
Improvvisamente, però, un urlo agghiacciante e disperato si fece largo tra le grida di gioia.
Lena sembrò pietrificarsi e temetti che qualcosa l’avesse ferita. Poi però vidi le sue labbra muoversi e pronunciare fievolmente il nome di Aimee; la figlia di Zeus mi rivolse uno sguardo di puro terrore e iniziò a correre.
 
Aimee era distesa a terra sull’erba, e vista di sfuggita sarebbe parsa addormentata. Era pallida fino all’inverosimile, la sua pelle aveva assunto una tonalità quasi bluastra, ma qualcuno avrebbe potuto dire che fosse solo l’effetto della luna. Neanche lo squarcio sanguinante alla gola era del tutto visibile, coperto dai capelli color sabbia della ragazzina.
Non mi ero mai reso conto di quanto Aimee fosse piccola. Ancora una bambina. Solo una bambina…
Accanto al suo corpo vi erano i resti di quelli che mi parvero dei serpenti neri e grossi, decapitati. Tutto intorno, semidei e cacciatrici osservavano la scena sconvolti. Le cacciatrici stavano piangendo.
Quando Lena si fece largo tra le sue compagne e vide Aimee, gridò il suo nome prima di soffocare tra le lacrime che le scendevano copiose sulle guance arrossate.
La dea Artemide fece un cenno a Talia e la Luogotenente corse a sorreggere sua sorella. La strinse forte mentre Lena singhiozzava e tremava.
Non riuscivo a staccare gli occhi dal corpo di Aimee.
«Cosa… che cosa…?» balbettai, e cercai con lo sguardo tra i semidei. Intravidi Alec che, rigido e scosso, stringeva Leighton al suo fianco mentre lei con una mano premuta sulla bocca tentava di contenere i singhiozzi.
Facendomi largo tra i ragazzi, riuscii a raggiungere Chirone, non meno scosso di tutti noi. Accanto a lui Rachel Elizabeth Dare piangeva silenziosamente.
Una folata di vento ci fece rabbrividire. Era un vento caldo, una brezza leggera, e profumava di primavera.
I capelli di Aimee oscillarono delicati, rivelando in parte la ferita alla gola.
Nessuno si stupì più di tanto quando, trasportati da quella brezza, i petali di alcuni fiori di campo si posarono su Aimee; il suo genitore divino, Zefiro, stava rendendo omaggio alla figlia caduta.
D’un tratto sentii qualcuno trattenere il respiro.
«Rachel!» esclamò Chirone, allarmato.
Tutti si voltarono verso la ragazza dai capelli rossi, appoggiata al fianco equino di Chirone, tutta tremante.
Quando rialzò lo sguardo un’esclamazione di stupore generale di levò nell’aria: i suoi occhi erano vacui e fissavano un punto indefinito nel cielo, mentre un vapore verdastro le fuoriusciva dalla bocca.
Un mormorio si diffuse tra tutti noi, e perfino le cacciatrici rivolsero la loro attenzione allo spirito dell’Oracolo. Infine, Rachel cominciò a parlare:
 
Saranno quattro i prodi che tenteranno la sorte,
In tre troveranno l’ausilio delle Guardiane delle Porte.
Temete, o immortali, l’imminente vendetta!
Allorché dal tradimento di un eroe sarà protetta.
Ma se nello stesso cielo Sole e Luna splenderanno,
Allora e solo allora riuscirete a dissipare l’ombra dell’inganno.
 
Nessuno fiatò, sconvolti di fronte alla profezia appena pronunciata. Ma quando un fascio di fumo verdognolo iniziò a farsi strada tra la folla, seguito da altri due fasci, riprese il brusio generale.
Osservai con il cuore in gola il fumo che strisciava verso le figure di Alec e Leighton, circondando ciascuno di loro con un diverso filo verdognolo.
Ero talmente concentrato su di loro che solo quando sentii che tutti intorno a me si allontanavano trasalii; il terzo fascio di fumo mi aveva appena circondato.
Una quarta scia si fece allora strada tra la folla di semidei. Strisciò tra l’erba e, con sorpresa di tutti, circondò la vita di Lena, ancora sorretta da Talia.
Dopodiché ogni traccia del vapore scomparve, e Rachel tornò in sé.













L'Angolo della Malcontenta: Piantarmi un coltello nella mano sarebbe stata una sofferenza minore dello scrivere questo capitolo D: Sul serio. Non ha né capo né coda :'D
Oh, solo una cosa vorrei dire: mi dispiace di aver ucciso Aimee ç__________ç mi dispiace, lo dico col cuore in mano, ma questa era la fine che era stata programmata fin dall'inizio e skdjgsfduidknsniui Doppia Erre docet. E' colpa sua se diventerò una serial killer di personaggi. Fine.

Lena e Scott. *fangirl* No, spiegatemi come posso fangirlare da sola su loro due òo
Leighton e Alec. Non sono la mia coppia preferita ma boh, tranquilli, non ve li tocco (per il momento).
La profezia è un tasto dolente D': so che non è il massimo çç perdonatemi <3

Ora, PASSANDO ALLE COSE SERIE (?)
Ho in programma di scrivere una nuova fanfiction sempre su Percy & Co. Ma, sinceramente, prima di impegnarmi in questa cosa vorrei sapere se a qualcuno interesserebbe leggerla. Ho già il primo capitolo pronto :3 Di base dovrebbe essere una Taluke, ma MOLTO DI BASE, dal momento che per protagonisti ci sono due personaggi originali. Ah, c'è anche tanta Percabeth -w- e sì, un po' di Lunabeth

Vi lascio con un frammento dal primo capitolo. Se recensite questo capitolo, mi direste per favore cosa ne pensate e se volete che inizio a mettermi sotto anche con uest'altra fict? :3 grazie mille <3

"
Il mio sguardo balzava da un libro all’altro. Probabilmente ad occhi esterni sarei sembrata una pazza che seguiva una partita di ping-pong alla velocità della luce. Alla fine mi balenò in mente una risposta plausibile al perché uno dei cinque volumi della saga di Percy non fosse stato esattamente dove sarebbe dovuto essere.
Strinsi i pugni e digrignai i denti, mentre con movimenti rigidi mi trascinavo fuori dalla camera.
Conta fino a dieci, Shawna, conta fino a dieci.
Uno, due, tre, quattro, cinque, sei, set—
«PORCA VACCA, ERIC JANUARY: SEI UN UOMO MORTO!» gridai, lanciandomi a rotta di collo giù per scale."

-Eff

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Mio padre ci procura un passaggio. ***


Mio padre ci procura un passaggio.

 
Quella notte non ero riuscito a chiudere occhio.
Erano accadute troppe cose contemporaneamente. Aimee, l’Oracolo, l’impresa… il solo pensarci mi faceva attorcigliare le budella su loro stesse.
Quando Rachel si era ripresa ed era cominciata l’isteria di gruppo, Chirone aveva radunato me, Alec, Leighton, Lena e le altre cacciatrici, conducendoci in disparte insieme ad Artemide e al Signor D. Ci eravamo riuniti nella Casa Grande, seduti a un grande tavolo rettangolare in una stanza molto probabilmente adibita a sala riunioni.
Vedere Lena nelle condizioni pietose in cui si trovava era stato davvero un pugno nello stomaco: era sotto shock, pallida e tremante, con gli occhi rossi e gonfi per il pianto. Talia l’aveva sostenuta e aveva tentato di consolarla quando Chirone ci aveva detto che molto probabilmente Aimee era stata uccisa sia dalla ferita al collo che dal veleno che le avevano iniettato quei serpenti.
«Progenie di Pitone» aveva esclamato Artemide, stringendo i pugni, anch’ella molto provata dalla perdita di una delle sue fanciulle. «Come hanno fatto ad arrivare al campo?»
Nessuno aveva risposto, ma almeno io avevo una risposta che mi frullava in mente. Avrei desiderato non averla, comunque. Perché tutti noi sapevamo che i mostri entro i confini del Campo Mezzosangue non sarebbero mai potuti entrare, a meno che qualcuno non li avesse evocati.
«Oh, perfetto!» aveva proclamato con un’inappropriata smorfia disgustata il Signor D. «Qualcuno avrà evocato quei vermiciattoli. Se disgraziatamente Perry Jefferson fosse qui converrebbe con me che la storia ha sempre i suoi corsi e ricorsi. Se non erro anche lui rischiò l’osso del collo quando al suo primo anno venne evocato un mastino infernale da quel bamboccione di—»
Talia l’aveva interrotto sbattendo con violenza la mano sul tavolo, ricevendo la duplice occhiataccia sia dal Signor D che da Artemide, pur curandosi solo di quest’ultima.
«Perdonami, mia signora» aveva mormorato, con le guance appena arrossate dalla rabbia.
Non erano seguite altre interruzioni, anche perché nessuno di noi sembrava avere ancora la forza per discutere. Chirone ci aveva chiesto con delicatezza se avessimo voluto qualche giorno per prepararci alla partenza, ma Lena si era improvvisamente animata e aveva proclamato che non sarebbe rimasta a oziare indegnamente quando una delle sue compagne era stata uccisa.
«Lena, non puoi neanche pensare di poter partire ora» mi ero quindi intromesso. «Sei sconvolta. Probabilmente non sei neanche in grado di combattere, e—»
Mi ero interrotto, perché la figlia di Zeus mi aveva guardato con aria assassina e aveva mormorato qualcosa come: «Te lo faccio vedere io se non sono neanche in grado di combattere»
«Scott ha ragione, Lena. Capisco il tuo desiderio di vendetta, ma ragiona: non avete neanche la minima idea su dove dirigervi!» aveva tentato di farla ragionare Talia, quando poi Artemide aveva esordito rivelandoci che, in realtà, sapevamo benissimo dove andare.
«La profezia parlava delle Guardiane delle Porte. Sono abbastanza sicura che si stesse rivolgendo alle Ore»
«Le chi?» aveva domandato Leighton, facendo capolino da sotto al braccio di Alec che le circondava le spalle.
«Le Ore, piccola ignorantella!» aveva sbottato irato il Signor D. «Eunomia,Diche eIrene. Quelle tre care ragazze che fanno parte del mio corteo!»
«E che fanno la guardia alle porte dell’Olimpo, non lo dimentichi» aveva aggiunto Chirone.
Il Signor D aveva sbuffato. «Sì, sì, nel tempo libero fanno anche quello»
«Se fanno la guardia alle porte dell’Olimpo, allora dobbiamo andare a New York. All’Empire State Building. Mi sembra abbia senso» aveva detto Lena, e tutti avevano convenuto che sarebbe stata la cosa più intelligente da fare.
Io, invece, l’unica cosa che ero riuscito a pensare era stata che, per tutti gli dei dell’Olimpo!, ero appena tornato da New York e già ero costretto a ritornarci?
Avrei anche tentato di convincere Lena a rimanere per qualche giorno al campo, ma lei era stata irremovibile: saremmo partiti la mattina seguente, subito dopo il funerale di Aimee. Colpendomi di sorpresa, Alec era stato d’accordo con lei.
«Pensateci» aveva detto. «Se il Signor D ha ragione,» — e qui il dio del vino aveva esclamato con fare offeso «Giovanotto, io ho sempre ragione!» — «se qualcuno ha davvero evocato quei serpenti per uccidere Aimee, allora aspettare qui senza far nulla sarebbe controproducente. Quel qualcuno potrebbe attuare la sua prossima mossa, e questa volta potremmo ritrovarci a fronteggiare qualcosa di ben più grosso e pericoloso di un serpente»
 
Mi ero arreso. Il suo ragionamento non faceva una piega.
Ecco perché adesso mi trovavo seduto su uno scomodo sedile di un autobus diretto a New York, con una vecchietta seduta davanti a me che non la smetteva di blaterare con il suo vicino di posto dei suoi sette gatti, tre cani e due pesci rossi.
Accanto a me c’era Alec, che si era chiuso in un silenzio di tomba dalla sera precedente, mentre Leighton e Lena erano sedute qualche posto dietro di noi dall’altra parte del corridoio.
Eravamo partiti subito dopo il funerale di Aimee. Una cosa molto semplice e toccante, che ci aveva lasciati con il morale a terra. Aimee non aveva parenti, sua madre era morta, e aveva trascorso gli ultimi due anni al Campo Mezzosangue, senza mai addentrarsi nuovamente nel mondo esterno.
Artemide aveva detto due parole su di lei, rammaricandosi di non aver avuto più tempo a disposizione per conoscerla, e per tutta la durata del suo discorso — e dell’intero funerale, a dire il vero — Zefiro aveva onorato sua figlia portando un vento profumato di fiori a scompigliare i capelli di tutti i presenti.  
Persino le driadi e le altre ninfe avevano portato corone floreali in ricordo di Aimee.
Lena era stata silenziosa e ferma come una statua per tutto il tempo, con lo sguardo vacuo di chi sta soffrendo tanto ma non vuole darlo a vedere.
Avrei davvero voluto rivolgerle qualche parola di conforto, ma non avrei saputo cosa dire. E tra l’altro avevo la sensazione che non avrebbe comunque apprezzato.
Sospirai, e uno scossone del bus mi riportò alla realtà.
Mi stiracchiai, allungando più che potevo le braccia e le gambe indolenzite, dopodiché mi guardai intorno: Alec sembrava ancora perso nei suoi pensieri, Leighton dormiva pesantemente, sdraiata sui sedili in fondo al bus, mentre Lena se ne stava accoccolata su un sedile vicino al finestrino, osservando la strada con aria malinconica.
Il posto accanto al suo era vuoto. Decisi di approfittarne.
Mi alzai, e traballando un po’ per via della strada abbastanza accidentata che stavamo percorrendo mi avvicinai alla figlia di Zeus, la quale non mi rivolse neanche un’occhiata distratta.
«Ti dispiace se mi siedo qui?» le domandai, cercando di sembrare sereno e bendisposto.
Lena rimase in silenzio, ma dopo qualche istante mosse quasi impercettibilmente la testa in segno di diniego. Lo presi come un incoraggiamento.
Mi sedetti accanto a lei, che si mise più dritta e con un sospiro si passò una mano a sistemare i ciuffi disordinati di capelli che erano sfuggiti alla stretta coda di cavallo.
«Come ti senti?» chiesi, osservando i segni scuri sotto ai suoi occhi.
«Sono stata meglio» rispose lei con voce rauca.
«Posso immaginare cosa provi…»
«No. Non credo affatto che tu possa» mormorò Lena. Il suo tono di voce non era affatto acido, ma molto triste e stanco.
Forse avevo sbagliato a sedermi lì con lei. Forse aveva ancora bisogno di stare da sola.
La guardai in viso, ma rimasi abbastanza sorpreso nel constatare che i suoi grandi occhi grigi non erano ostili, né tantomeno lucidi o arrossati come la sera precedente.
Conoscevo quello sguardo. L’avevo visto tante volte in mia madre, o nelle mie compagne di scuola. Solitamente, quando una persona mi guardava in quel modo voleva che le facessi compagnia, o che rimanessi con lei. E questo fu esattamente quello che feci.
Rimasi seduto accanto a Lena, in silenzio, a osservare con infinito falso interesse le gomme da masticare attaccate sul sedile di fronte a quello dove ero seduto io.
«È stata tutta colpa mia, Scott. Se potessi tornare indietro…» mormorò Lena dopo qualche minuto.
Mi voltai verso di lei. «Che cosa? Non puoi dire sul serio! Che colpa avresti tu?»
«Avrei dovuto proteggerla! Dovevo rimanere con lei, difenderla da quei serpenti» mi guardò in maniera penetrante, quasi si aspettasse che iniziassi a darle ragione e la incolpassi della morte di Aimee.
«Non dire stupidaggini» scossi la testa. «Allora potrei benissimo dire che la colpa è anche mia. Che se magari non ti avessi sconfitta quel giorno all’arena tu non saresti venuta a cercarmi per una rivincita e saresti rimasta con lei. E perché no, colpevolizziamo anche Chirone e Artemide che hanno organizzato la sfida!»
Risi in una maniera quasi isterica.
«Ascoltami, Lena. L’unica persona che deve addossarsi la colpa di quello che è successo è quell’idiota che ha evocato i serpenti. Tu non c’entri nulla» accennai un sorriso incoraggiante. «Ne sono sicuro»
Lei sorrise appena di rimando, ma c’era qualcosa nel suo sguardo che mi diede i brividi. «Ci sono cose che non sai. Cose che mi—»
Non riuscì a terminare la frase, perché ci fu un forte scossone e tutti i passeggeri dell’autobus si aggrapparono ai sedili per non cadere. Ci eravamo fermati.
«Che succede?» biascicò Leighton dal fondo, strofinandosi gli occhi con aria stordita.
Risposi stringendomi nelle spalle.
Quando il conducente dell’autobus scese dal veicolo, fra i passeggeri si diffuse un mormorio confuso che si placò soltanto quando l’uomo risalì a bordo, annunciando che avevamo bucato una gomma e scusandosi per l’inconveniente. Ci invitò a scendere dalla vettura, mentre provvedevano a riparare il danno.
«Dannazione» mormorai mentre mi alzavo. «Proprio un bell’inizio per la nostra impresa»
«Stai scherzando?» esclamò Leighton alle mie spalle, rianimatasi alla velocità della luce. «È esattamente quello che ci voleva!»
Io e Lena la guardammo confusi mentre schizzava lungo il corridoio dell’autobus tra un «Permesso!» e un «Mi scusi!», per poi scendere per strada con un balzo e, sotto lo sguardo basito e irritato del conducente, inginocchiarsi di fronte alla ruota bucata e osservarla come fosse stata un’opera d’arte.
«Figli di Efesto» ridacchiò Alec, alzatosi e avvicinatosi a noi. «Le uniche persone che di fronte a qualche oggetto rotto sono felici come se Natale fosse arrivato in anticipo»
Azzardai una risata, e anche Lena sorrise. Non sapevo perché, ma vederla sorridere, rasserenata, mi fece automaticamente sentire più felice.
Scendemmo con calma dal bus, ridendo ancora quando trovammo Leighton impegnata a sistemare la ruota ignorando il conducente che la guardava più sconcertato che mai.
«E quelli da dove li hai presi?» domandò Alec, accennando agli attrezzi che la figlia di Efesto stava maneggiando.
«Oh, alcuni erano in un cassetto accanto al sedile di questo tipo qui» esclamò, rivolgendo un sorriso a trentadue denti al conducente. «Altri sono miei. Li porto sempre dietro, non si sa mai»
«Scott. Guarda»
Lena mi aveva tirato per un lembo della maglia, richiamando la mia attenzione.
Vidi il suo viso baciato dal sole di mezzogiorno, e per un attimo quella fu l’unica cosa sulla quale mi concentrai. Poi però notai la sua espressione estasiata, e mi voltai seguendo la direzione verso la quale era rivolto il suo sguardo.
Capii cosa l’avesse colpita così tanto.
Eravamo fermi davanti a un immenso campo di girasoli. Grandi, belli, gialli quanto il sole che splendeva nel cielo. La cosa strana era che invece di essere rivolti verso l’alto, tutti quei fiori erano rivolti verso di me.
«Per Apollo…» mormorai ad occhi sgranati. Iniziai a camminare verso destra, e i girasoli presero a voltarsi seguendo la mia direzione.
«E quella cos’è?» esclamò poi Lena, indicando una costruzione in mezzo al campo di fiori che non avevo ancora notato. Era una costruzione in legno, e la prima immagine che mi venne in mente fu quella di un piccolo agriturismo o di una fattoria.
All’esterno vi erano alcuni tavolini e un cartello che invitava ad entrare. Nell’insieme sembrava esattamente uno di quei negozietti che vengono prodotti tipici di cui pullulano le campagne, ma qualcosa attirò la mia attenzione. Ci volle qualche istante perché realizzassi che il cartello che avevo letto in automatico era in realtà scritto in greco.
«Perché un negozio in un campo di girasoli dovrebbe avere cartelli di benvenuto in greco?» domandai.
«Potresti appena aver trovato qualcosa da fare mentre il bus viene sistemato, amico!» rise Alec al mio fianco.
«Ehi, con calma. E se ci fosse qualche mostro?» disse Lena, inarcando un sopracciglio.
«In quel caso, faremo un po’ di pratica di combattimento. Sai, per sgranchirci un po’» le risposi con un sorrisetto. Prima di partire Chirone mi aveva procurato una spada che poteva trasformarsi in una penna a sfera quando non avevo bisogno di usarla — «Dovresti sentirti onorato, Percy Jackson ne possiede una simile!» aveva detto il centauro, e io avevo alzato gli occhi al cielo. Non che mi fossi lamentato, ma non avevo neanche fatto i salti di gioia. Quella spada mi era indifferente. Non la sentivo davvero mia.
Ad ogni modo, ero ansioso di usarla in battaglia e polverizzare qualche mostriciattolo.
«LeeLee, vieni?» la chiamò Alec. Leighton si alzò da terra pulendosi le mani sulla maglia arancione del campo e tirandosi i capelli indietro, lasciando uno sbuffo di sporco sulla guancia. Quando ci raggiunse, Alec rise.
«È un abominio! Quegli attrezzi vengono tenuti con una cura inesistente! Sono tutti rovinati… è un insulto!» si lagnò, per poi lasciarsi convincere ad andare a scoprire cosa fosse quella costruzione del campo di girasoli, e soprattutto chi mai la abitasse.
Prima di muoverci domandammo al conducente quanto ci sarebbe voluto per cambiare la ruota, e ci assicurammo di avere abbastanza tempo a disposizione per andare e tornare. L’uomo sgranò gli occhi quando gli dicemmo che saremmo andati a chiedere qualcosa da bere in quell’agriturismo, ma ci lasciò andare.
 
Camminare tra i girasoli fu una delle esperienze più strane e belle della mia vita.
Era pazzesco come quei fiori percepissero la mia presenza e si voltassero a seguirmi in qualsiasi mio spostamento, spostandosi per lasciar passare me e i miei amici e poi riavvicinandosi.
«Sei pur sempre il figlio di Apollo. Forse in te rivedono il sole» buttò lì Lena. Ridacchiai.
Quando arrivammo davanti la costruzione potemmo leggere meglio un’insegna sbiadita che diceva «DA CLIZIA, IL GIARDINO DEI GIRASOLI».
«Clizia… ho già sentito questo nome» mormorò Alec, prima che una porta in legno si aprisse, lasciando comparire una donna in jeans e camicia rosata con un cappello di paglia ornato di girasoli.
«Degli clienti! Oh, erano secoli che qualcuno non veniva a trovarmi! Prego, miei cari, accomodatevi! Posso portarvi qualcosa? Da bere? Da mangiare?»
Io e gli altri ci guardammo spaesati.
«Emh… veramente noi…» iniziai a parlare, ma la donna mi zittì quando trattenne rumorosamente il fiato e alzò una mano, portandosela tremante alle labbra.
«Sei… sei suo figlio? Sei figlio di Apollo?» balbettò, come se stesse per piangere.
Non seppi cosa fare, quindi annuii.
La donna emise un singhiozzo, dopodiché si tolse il cappello dalla testa rivelando una cascata di lunghi capelli di un biondo acceso, lo stesso dei girasoli. Non più in ombra, potemmo vedere anche il suo viso: era di una bellezza indescrivibile, tondo e delicato, con due luminosi occhi marrone cioccolato ornati da lunghe ciglia.
«Mi chiamo Clizia. Sono una ninfa e… vi prego, entrate. È da così tanto tempo che… e proprio un figlio di Apollo…!» singhiozzò, mentre una lacrima di un tenue verde le rigava una guancia.
Guardai i miei amici.
«Ti prego, mi fa tanta pena…» mormorò Leighton, guardando la ninfa con tristezza.
«Entriamo» disse Lena. «Ma tenete le vostre armi a portata di mano»
«Fidarsi è bene e non fidarsi è meglio» aggiunse Alec.
«La prima cosa intelligente che ti ho sentito dire» fece un sorrisetto la figlia di Zeus, inarcando un sopracciglio.
«Vedrò di prenderlo come un complimento»
«Muoviamoci» tagliai corto io, lanciando un’occhiataccia ad Alec.
Clizia si appiattì contro il muro per lasciarci entrare, dopodiché si adoperò perché la stanza fosse ben illuminata e il sole risplendesse ovunque.
L’interno era simile a quello di un qualsiasi agriturismo. In legno, con tavolini ornati di girasoli e quadri che illustravano girasoli alle pareti . Clizia ci fece accomodare a uno di quei tavolini e si diresse verso un grande frigorifero da dove prese delle bottiglie di acqua fresca e una di quello che a prima vista sembrava nettare.
«Mi scusi… umh, signora ninfa… Clizia. Noi, ecco, non c’è bisogno che si disturbi per noi» dissi.
«Nessun disturbo, anzi! Vi dirò di più, oggi offre tutto la casa. E datemi del tu, vi prego» ci sorrise radiosa. Si diresse verso un bancone dove in dei grandi bicchieri preparò una bevanda a base di acqua e nettare, servita con cubetti di ghiaccio e guarnita con petali di girasole. Mise tutto su un vassoio, dove poggiò anche dei biscotti, e portò il tutto al nostro tavolo.
«Servitevi pure, miei cari!» ci esortò, dopodiché il suo sguardo si posò su Leighton. «Permetti, tesoro?» domandò, tirando fuori dalla tasca un fazzoletto candido e accingendosi a pulirle il volto dalla macchia di sporco. Leighton la lasciò fare, pur facendo trasparire un certo imbarazzo.
«È passato così tanto tempo dall’ultima volta» sorrise Clizia, che poi passò a sistemare i capelli della figlia di Efesto. «Pensavo che nessuno mi avrebbe mai più trovata. Posso sapere i vostri nomi, ragazzi? Siete tutti semidei o sbaglio?»
«Non sbaglia» le disse Alec, dopo aver assaggiato la bevanda. «Complimenti, è ottima!»
«Io sono Lena, figlia di Zeus e Cacciatrice di Artemide. Loro invece sono Alec, figlio di Afrodite, Leighton, figlia di Efesto, e Scott, che come hai intuito prima è figlio di Apollo» spiegò Lena, occupandosi delle presentazioni.
Gli occhi scuri di Clizia di posarono su di me con un sentimento d’affetto che mi mise davvero in imbarazzo. «Scott. Come sta tuo padre?»
«Lo conosci? Di persona, intendo» domandai.
Clizia sorrise tristemente. «Un tempo io e tuo padre siamo stati molto felici insieme, Scott. Ma è stato tanto, tanto, troppo tempo fa. Dimmi, ha ancora il brutto vizio di correre dietro alle ninfe?»
Arrossii. Perfetto, ero ospite di un’ex fidanzata di mio padre.
«Lena, lasciatelo dire, i tuoi capelli sono un disastro!» rise Clizia cambiando argomento, e inaspettatamente anche Lena rise.
Dopo aver terminato di rassettare Leighton, la ninfa si posizionò dietro la sedia di Lena e le sciolse la coda di cavallo. I capelli castani le caddero in ciocche disordinate intorno al viso e m’incantai nel guardarla.
«Così stai una meraviglia» mi lasciai sfuggire. Lei mi fulminò con lo sguardo.
«Un galantuomo come tuo padre, a quanto vedo! Quindi non hai ereditato solo la sua bellezza» disse Clizia, con una punta di malizia nella voce.
Tuffai la faccia dentro a bicchierone con la bevanda preparata dalla ninfa per nascondere il rossore alle guance. A proposito, quel beverone era una delle cose più buone che avessi mai assaggiato in vita mia!
«Come mai vivi qui, Clizia? Qual è la tua storia?» domandò Leighton, togliendomi dall’imbarazzo.
Clizia sospirò. Terminò di pettinare Lena, legandole nuovamente i capelli, poi portò un’altra sedia al nostro tavolo e si sedette insieme a noi.
«Come ho già detto, io e Apollo eravamo molto innamorati. O, perlomeno, io lo ero. Lui… be’, se lo fosse stato di certo non avrebbe rivolto le sue attenzioni a qualche altra fanciulla» sorrise la ninfa.
Mi sentii a disagio. Certo, sapevo che secondo i miti mio padre era quello che al giorno d’oggi sarebbe stato definito un playboy d’altri tempi, ma il parlare con una delle sue tante conquiste era… strano, ecco.
«Questa giovane — si chiamava Leucotoe, se la memoria non m’inganna — aveva un padre molto severo, che non avrebbe mai approvato l’amore del dio del sole per sua figlia. Per riuscire a possederla Apollo assunse le sembianze della madre di lei, in modo tale da giungere alle sue stanze indisturbato. Quando venni a sapere che il mio Apollo si era invaghito di una mortale tradendo il mio amore persi il senno: mi recai dal padre di Leucotoe e gli rivelai lo stratagemma con il quale il dio l’aveva ingannato.
«Erano altri tempi; il padre di Leucotoe s’infuriò al punto tale che fece gettare la sua stessa figlia in una buca molto profonda, dove venne seppellita viva.
«Quando Apollo lo scoprì, mi ritenne giustamente la causa della morte della sua amata e mi ripudiò. Iniziò a provare un odio talmente forte nei miei confronti che mai più mi avrebbe anche solo guardata. Dal mio canto, invece, non potei mai smettere di amarlo e di osservarlo mentre trainava nel cielo il suo carro dorato.
«Piansi tutte le mie lacrime, finché un giorno non cominciò la mia metamorfosi. Divenni un fiore che avrebbe sempre continuato a rivolgere il suo sguardo al dio che amava. I girasoli sono nati con la mia morte.
«Con il passare del tempo però ho riacquistato un corpo, come potete ben vedere. Ma non posso e non voglio lasciare questo campo di girasoli. Ormai sono la mia casa, e la mia famiglia. E mi ricordano costantemente il gesto che mi ha portato a perdere l’affetto di Apollo»
Clizia si interruppe, asciugandosi una lacrima. Leighton le accarezzò un braccio, con gli occhi lucidi.
«Per amore si fanno cose orribili» aggiunse poi la ninfa.
«Già. Hai completamente ragione» sussurrò Lena. La guardai con aria interrogativa, ma lei non disse nulla.
«È una storia molto triste, Clizia» mormorai. Mi sembrava impossibile che una persona tanto carina e gentile come lei si fosse resa indirettamente artefice della morte di qualcun altro.
La ninfa tirò su col naso e si asciugò per bene le guance arrossate, dopodiché di rivolse un sorriso radioso.
«Lo so, ma adesso è inutile piangerci sopra! Sono davvero felice che siate venuti a trovarmi. A volte mi sento un po’ sola, a dire il vero»
«Ma deve esserci un modo per farti uscire dal campo di girasoli!» esclamò Alec, pensieroso.
Clizia scosse la testa. «Non capite. Se io me ne andassi, molto probabilmente tutti questi girasoli morirebbero» disse rivolgendo un languido sguardo ai fiori attraverso una delle finestre. «Viviamo in un mondo così inquinato… e la strada che passa qui vicino è così frequentata! Vi passano ogni giorno un centinaio di macchine. Se non ci fosse la mia presenza benefica a purificarli, con tutto questo smog i miei girasoli morirebbero! No, non posso lasciarli a loro stessi. Non permetterò che un paesaggio così bello venga deturpato»
«Ti fa onore» le sorrisi, e lei ricambiò.
«Ti ringrazio, Scott. A me basterebbe che la mia abitazione fosse visibile ai mortali! Così almeno riceverei più visite, e magari guadagnerei qualche dollaro per rimettere un po’ a nuovo il posto. Non sarebbe adorabile bere un tè freddo mentre si osserva il campo di girasoli? Ai mortali scommetto che piacerebbe!»
«Aspetta un minuto» la fermò Lena. «I mortali non possono vedere questo posto?»
«Ecco perché il conducente dell’autobus ha fatto quella faccia quando ci siamo diretti qui! Non vedeva nulla!» risi, ma poi sbiancai.
Lo stesso pensiero che mi aveva attraversato la mente sembrò aver colto anche Leighton, perché balzò in piedi esclamando: «L’autobus! Ci siamo dimenticati dell’autobus!»
Corremmo tutti fuori, ma una volta lì il mezzo di trasporto risultò essere scomparso.
«Non ci credo! Ci hanno lasciati qui!» boccheggiò Lena. «Ci hanno dimenticati qui!»
«Oh, no!» singhiozzò Clizia. «Deve essere stata la Foschia che circonda il campo! Probabilmente si saranno dimenticati di aspettarvi. Oh, ragazzi, mi dispiace così tanto…»
Stava per mettersi a piangere, sinceramente dispiaciuta. Scossi la testa, le poggiai le mani sulle spalle e le sorrisi.
«Tranquilla. Non è un problema. Troveremo benissimo un modo per viaggiare, vedrai»
Non avevo neanche finito di parlare, che un possente verso d’aquila risuonò nel cielo facendomi accapponare la pelle. Alzai lo sguardo verso l’alto, da dove due figure alate stavano lentamente procedendo verso di noi.
Istintivamente presi la penna nella tasca del mio zaino e la impugnai, togliendole il cappuccio e facendola diventare una spada.
«Ma… quelli sono due grifoni!» esclamò Clizia. «Abbassa la spada, Scott. Il grifone è uno degli animali sacri di tuo padre Apollo!»
Quando i grifoni poggiarono le zampe leonine a terra, rimasi come abbagliato. Avevano il corpo di due possenti leoni dal manto quasi dorato, mentre le teste e parte delle zampe anteriori erano quelle di due aquile, dalle piume bianche e marroni. I becchi sembravano fatti di oro puro.
«E questi cosi che ci fanno qui?» mormorò Leighton con un tono di voce alquanto disgustato.
I due grifoni emisero un verso stridulo, e con mio immenso stupore mi accorsi che avevo perfettamente capito cosa avessero voluto dire.
«Non chiamarli cosi, Leighton. Si sono offesi» tradussi, con un sorriso.
«Tu li capisci?» domandò Alec, osservando i due animali mitologici.
Annuii.
«Credo che siano un dono di tuo padre» mi sorrise Clizia. «Avevate bisogno di un passaggio, e ora avete questi due splendidi animali a disposizione»
Uno dei due grifoni mosse la coda come se avesse voluto scodinzolare. Probabilmente stava ringraziando Clizia del tono ammirato con il quale si rivolgeva loro.
«Dici grazie a papà, Scott» ridacchiò Alec, avvicinandosi curioso ai grifoni. Leighton emise un gridolino spaventato.
«Woh, woh. Ma guardate come siete belli, voi due!» disse il figlio di Afrodite. I due animali si lasciarono immediatamente conquistare dai suoi elogi, e gli consentirono di accarezzare i loro fianchi.
«Io e Leighton possiamo salire su uno di loro, tu e Alec sull’altro» propose Lena, e annuii.
Ero un po’ scombussolato.
Mio padre mi aveva appena mandato due animali mitologici per aiutarmi?
Apollo non era mai stato un grande padre. Non si era mai fatto presente nella mia vita. E ora all’improvviso si sbilanciava fino a tal punto. Forse pensava che gli sarei stato grato?
L’unica cosa che provavo era la sensazione di essere appena stato preso per i fondelli.
«Scott? Posso chiederti un favore?» mormorò Clizia, mentre Leighton e Lena si avvicinavano ai grifoni.
«Dimmi»
La ninfa si spostò una ciocca di capelli biondi dietro l’orecchio. «Forse non avrei il diritto di chiedertelo, ma… tuo padre sembra tenerti in considerazione. Io… vorrei chiederti di fargli arrivare un messaggio da parte mia. Digli che mi dispiace per come sono andate le cose. Che sono molto pentita»
«Farò anche di più» le dissi. «Convincerò gli dei a rendere la tua casa visibile ai mortali. Non sarai più sola»
Lo sguardo di Clizia s’illuminò. «Davvero lo farai?»
Annuii. «Hai già sofferto abbastanza. Meriti un po’ di felicità»
Fummo interrotti dai miei amici che, montati in groppa ai grifoni, stavano aspettando solo me per partire.
«È stato un piacere conoscervi, ragazzi» ci salutò Clizia.
«Lo è stato anche per noi. Grazie dell’ospitalità!» rispose Lena per tutti.
Mentre la bella ninfa dai capelli biondi ci guardava con una nuova speranza nel cuore, io e i miei amici spronammo i grifoni a prendere il volo, pronti per ricominciare il nostro viaggio e portare a termine la nostra impresa.
















L'angolo della Malcontenta: Dite tutti ciao a Clizia *-* http://data.whicdn.com/images/9082437/Diana-Agron-dianna-agron-15227745-500-574_large.jpg non so perché, ma Dianna Agron è quella che più si avvicina alla Clizia della mia immaginazione.
Allora, volevo dire due parole per una cosa che per me è abbastanza importante:
MIEI DEI, SIAMO ARRIVATI A META' DELLA STORIA :')
Il tutto dovrebbe terminare tra circa altri otto capitoli, ma non escludo di aggiungerne altri durante il percorso. Dipende da quanto sarò prolissa xD Comunque grazie, grazie a tutti quelli che seguono, in maniera particolare grazie a chi c'è stato fin dall'inizio, persone come Ella_Sella_ Lella o Thalia_Socia_Grace o __Amby: voi che ci siete sempre, mi sembrava giusta una menzione speciale :3
Volevo fare solo un appunto: in The Son of Neptune i grifoni sono descritti come malvagi, e anche piuttosto bruttini. Io ho sviluppato la mia personale visione prima di leggere il romanzo, quindi (complice il ricordo di Fierobecco u.u) per me i grifoni rimarranno sempre bellissimi, orgogliosi e dalla parte del bene *^*
-Eff

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Diamo fuoco a un’ape regina. ***


Diamo fuoco a un’ape regina.

 
Avete mai viaggiato su un grifone? No? È un esperienza da non sottovalutare.
In groppa a quell’animale meraviglioso non riuscivo a non tenere gli occhi sgranati, fissi ad ammirare il cielo spendente che ci circondava.
Eravamo riusciti a salire al di sopra delle nuvole, per evitare che qualche umano potesse vederci da terra — due grifoni dorati con in groppa quattro ragazzi. Non credo che saremmo potuti passare facilmente inosservati.
I grifoni volavano velocemente e con una delicatezza tale che sembrava quasi stessero scivolando sull’acqua invece che falciando l’aria con le loro possenti ali dorate. Il vento mi scompigliava i capelli, ed era una sensazione meravigliosa.
Seduto dietro di me, Alec non la finiva di accarezzare il nostro grifone e di vezzeggiarlo con i complimenti più disparati. L’animale per dimostrare la sua felicità di fronte a quegli apprezzamenti aveva più volte provato a farci sentire il brivido di una capriola in volo, cosa che mi aveva lasciato alquanto terrorizzato.
Il grifone sul qual viaggiavano Leighton e Lena, invece, sembrava decisamente più tranquillo. Proseguiva in linea retta a velocità costante, mentre le ragazze parlavano tra loro e accarezzavano il fianco dell’animale.
Mi ero sorpreso più di una volta a sbirciare di nascosto il viso di Lena. Ora che si trovava in compagnia di Leighton aveva ripreso a ridere e scherzare. Ne fui immensamente felice.
Viaggiammo per non so quanto tempo. Lì sopra, separati dal mondo mortale da una coltre di nuvole bianche che sembravano panna montata o ovatta o neve, mi sentivo isolato da tutto e da tutti.
Fu quindi con una tristezza infinita che mi accorsi che, nel momento in cui le nuvole iniziarono a farsi sempre più rade, ci eravamo avvicinati alla città.
Non possiamo proseguire oltre, mio signore” disse improvvisamente il grifone sul quale stavo viaggiando. Cioè, non è che lo disse nel vero senso della parola. Fu più che altro come se la sua voce si fosse infiltrata nei miei pensieri comunicandomi quel messaggio.
«Emh… d’accordo, capisco» dissi, e Alec mi guardò inarcando un sopracciglio.
«Con chi parli?» domandò.
«Con il grifone»
Il figlio di Afrodite mi squadrò per qualche istante, poi annuì ridacchiando. «Giusto. Dimenticavo che sai parlare con i grifoni. Logico»
Si voltò a guardare Lena, per poi rivolgermi un’occhiata che mi fece sentire in imbarazzo.
«La ragazza che parla ai tuoni e il ragazzo che parla ai grifoni. Amico, siete fatti l’uno per l’altra!»
«Non è una grande idea farmi arrabbiare in questo momento» lo minacciai, arrossendo. «Mi basterebbe una parolina al mio amico qui e ti ritroveresti a fare un bel tuffo nel vuoto. Non è vero, …umh, qual è il tuo nome?» domandai al grifone, aggrottando le sopracciglia.
Nome? Noi grifoni non abbiamo un nome, mio signore” rispose quello.
«Come sarebbe a dire non avete un nome?»
Non ne abbiamo bisogno, mio signore
«Non hanno nomi!» esclamai ad Alec, con aria sconvolta, e per tutta risposta lui si strinse nelle spalle.
«E allora? Se sono contenti così…»
«E se ti chiamassi… umh, vediamo…» iniziai a pensare, ignorando il mio amico.
Non darti pena per me, mio signore. Il giovane figlio della divina Afrodite ha ragione. Non abbiamo bisogno di nomi” mi disse pazientemente il grifone. Sospirai.
«D’accordo, d’accordo. Ma, ehi, possiamo evitare quella cosa del “mio signore”?»
Preferisci l’appellativo di lord, milord?” mi domandò confuso il grifone, inclinando appena la testa lateralmente. Ridacchiai.
«Neanche. Non sono il tuo padrone. Sei una creatura libera, o sbaglio?»
Tutti noi siamo al servizio del divino Apollo. I suoi figli sono per noi creature sue pari. Lui è il sole, voi siete i suoi raggi” disse l’animale con orgoglio.
Il paragone mi lasciò per qualche minuto a riflettere, per cui non risposi più e mi chiusi in silenzio.
Era sempre così, ogni volta che mi ricordavano il rapporto di sangue che intercorreva tra me e Apollo. Mi sembrava una cosa talmente sbagliata da dover essere cancellata a priori dalla mia vita. Certo, il dio del sole era il mio padre biologico, ma ero sempre stato dell’idea che puoi chiamare padre non chi ti ha dato la vita, ma chi ti cresce. E, sotto questo punto di vista, non avevo un padre.
Ti ho arrecato offesa, mio—“ sentii mentalmente il grifone come trattenere il respiro, dopodiché riprese a parlare. “Ti ho arrecato offesa, Scott? Se così è stato perdonami, non era affatto mia intenzione. Sappi che ti sono grato per aver definito me e i miei fratelli delle creature libere. Ti fa onore
Quelle parole mi fecero sorridere, e tossicchiai in lieve imbarazzo.
«Scendiamo, dai. Proseguiremo a piedi fino all’Empire State Building» dissi al grifone, il quale mosse la testa come se stesse annuendo ed emise un verso acuto per avvisare il suo compagno, dopodiché iniziò a scendere di quota.
«Dobbiamo già scendere?» si lamentò Lena quando il grifone suo e di Leighton affiancò il nostro nella discesa. «Era così bello stare qui su»
Se a lady Lena farà piacere, vi riaccompagneremo al Campo Mezzosangue al termine della vostra impresa” disse una voce femminile che associai al grifone che trasportava le mie amiche. E così era una femmina! “Il divino Apollo ci ha posti al vostro servizio, e sarà un onore e un piacere render felici la figlia di Zeus e la figlia di Efesto”
«Che stanno dicendo?» mi domandò Alec, avendomi visto molto concentrato nell’ascolto.
Sorrisi alle ragazze. «Il vostro grifone dice che sarà molto contenta di farvi fare un secondo giro quando l’impresa sarà finita»
«Sul serio? Ma è fantastico!» squittì Leighton, entusiasta. Lena rise.
«Deve essere pazzesco poter parlare con loro! Vorrei saperlo fare anche io»
«A te i tuoni, a me i grifoni» le sorrisi. Per un attimo mi sembrò che anche lei mi stesse sorridendo. Non che stesse sorridendo così, in generale; che quel sorriso fosse diretto solo ed esclusivamente a me.
Poi l’incantesimo si spezzò. I grifoni presero a scendere ancora più velocemente e dovetti concentrarmi per non cadere, anche se avevo il sospetto che il mio nuovo amico avrebbe preferito farsi amputare un’ala piuttosto che far sfracellare un figlio di Apollo al suolo.
 
Atterrammo in quello che mi parve di capire fosse un parco. Non c’era gente, per fortuna, quindi potemmo rimettere i piedi a terra con calma e senza preoccuparci che qualcuno potesse chiamare, che ne so, la polizia o le forze armate.
Mi domandai cosa avrebbero visto i comuni mortali se si fossero trovati davanti un grifone. Forse avrebbero visto sia un’aquila che un leone. Magari avrebbero pensato che qualche zoo fosse arrivato in città e avesse perso due delle sue attrazioni. Bah.
A meno che non avessi portato una qualunque persona davanti ai due grifoni domandandole cosa stesse vedendo, quella sarebbe rimasta una domanda senza risposta.
«Vi ringrazio. Siete stati fantastici» mormorai ai due animali, carezzando quello che aveva portato me e Alec in groppa sulla testa piumata. Entrambi chinarono il capo.
È stato un onore, Scott. Non esitare a chiamarci quando avrai bisogno d’aiuto. I figli di Apollo sono sempre ben voluti” disse il nostro grifone, mentre Lena e Leighton salutavano la loro nuova amica, dopodiché i due animali spiegarono le ali e si alzarono del cielo. Dopo qualche istante, non riuscimmo più a vederli.
«È stato un gesto davvero carino da parte di tuo padre» commentò Lena, mentre anche lei scrutava ancora il cielo con lo sguardo.
Mormorai qualcosa come un «Già, carino», ma non mi dilungai oltre. Piuttosto, battei le mani ed esordii con un: «Forza, mettiamoci in marcia e vediamo di concludere al più presto quest’impresa»
Tutti quanti annuirono e convennero che prima avessimo iniziato prima avremmo finito, quindi senza aspettare oltre ci incamminammo verso l’uscita del parco.
Una volta in strada, mi guardai intorno.
«Siamo abbastanza lontani dall’Empire State Building…» commentai mordendomi il labbro inferiore. Feci due calcoli mentali, e arrivai alla conclusione che se tutto fosse proceduto senza intoppi saremmo arrivati a destinazione entro sera.
Ma, ovviamente, pretendere che tutto procedesse senza intoppi sarebbe stato da stupidi e da ingenui.
«Sei sicuro della strada, Scott?» chiese Leighton con un tono nervoso.
«Sicurissimo» la rassicurai, facendo cenno a tutti di seguirmi.
Svoltammo l’angolo e iniziammo a percorrere una strada poco affollata. Ogni tanto passava qualche macchina, o qualche persona si affacciava alle finestre, ma per il resto ci trovavamo in una zona innaturalmente tranquilla, il che contribuì a farmi aguzzare i sensi.
Insomma, quando sei un mezzosangue inizi ad essere un tantino paranoico, e ti aspetti attacchi di mostri anche nelle situazioni più impensabili.
D’improvviso un insieme di risate femminili risuonò a qualche metro da dove ci trovavamo, e quasi sobbalzai per lo spavento.
«Ehilà!» esclamò qualcuno.
Osservai con più attenzione. Sedute su una panchina accanto a un edificio che doveva essere un liceo, un gruppetto di ragazze ci stavano guardando e stavano ridendo, lanciandoci sguardi frivoli.
Una di loro si alzò e ci venne incontro.
Era alta, magra, bella. Il genere di ragazza per cui tutto il corpo studentesco maschile ha una cotta, ma che considera solo i giocatori di football o i ragazzi più popolari.
Aveva lunghi capelli biondi e liscissimi, come se passasse ogni singolo istante della giornata a stirarli con la piastra. Indossava un’accecante camicetta giallo acceso e una gonna nera a vita alta, ed emanava un forte odore di miele.
«Ciao!» mi disse la ragazza, squadrandomi da capo a piedi con sguardo d’apprezzamento. Arrossii.
Ora, non fatevi un’idea sbagliata, ma sono molte le ragazze che, soprattutto a scuola, mi avevano guardato in quel modo. Eppure quella tipa aveva qualcosa di diverso. Sembrava… sembrava che stesse soppesando se andassi bene o meno.
Dal modo in cui s’incurvarono le labbra dipinte di rosa della ragazza, intuii che avesse deciso che andassi più che bene.
«Sei nuovo di queste parti? Oh, ma certo che lo sei! Me lo ricorderei se avessi visto prima d’ora un viso bello come il tuo» cinguettò la tipa, e subito seguirono le risatine delle altre ragazze. La bionda non fece sparire il sorriso, ma alzò una mano e di scatto tutte le altre ragazze di ammutolirono, come se stessero rispondendo a un muto ordine.
«Sono Melissa» disse dolcemente la ragazza, poi guardò prima me e poi Alec, escludendo Leighton e Lena. «E voi siete…?»
Guardai Alec. Avrei dovuto rispondere?
Il figlio di Afrodite mi fece cenno con la testa di non preoccuparmi, e prese lui la parola.
«Io sono Alec. Lui è Scott. E loro due sono—»
«Oh, ma non ci importa di loro!» rise civettuola Melissa, lanciando uno sguardo cattivo a Lena e Leighton. Quest’ultima aveva uno sguardo disgustato, mentre Lena era rimasta impassibile.
«Togliti di torno, biondina» mormorò Leighton. Tre delle altre ragazze sedute sulla panchina allora si alzarono e si disposero ai lati di Melissa; Lena avanzò di un passo, portandosi poco più avanti di Leighton.
«Ragazze, ragazze!» le richiamò Melissa, divertita. «Mi state facendo fare una pessima figura di fronte ai miei due nuovi amici!»
«Ma che Tartaro…! Quelli sono i nostri amici!» esordì Leighton, nel momento stesso in qui le tre ragazze indietreggiarono. Una di loro mormorò un: «Ci perdoni, mia signora»
Mia signora?
«Allora, Scott» esclamò Melissa, scuotendo i lisci capelli biondi. «Che ne direste se tu, Alec e le mie ragazze andassimo a bere qualcosa… solo noi, in tutta tranquillità?»
«Melissa…» iniziai, ma lei mi interruppe con una risata.
«Mel, Scott, chiamami Mel, te ne prego!»
«D’accordo, Mel. Ecco, tu e le tue, umh, amiche siete molto gentili, sul serio, ma siamo solo di passaggio e ora dovremmo davvero andare, perché—»
«Forse non hai compreso bene, tesoro. Ho detto che voglio che io, te, le mie ragazze e il tuo amico andiamo via. Adesso» mi interruppe di nuovo Melissa, con voce autoritaria.
Aggrottai le sopracciglia. «Forse tu non hai compreso bene. Ho detto che abbiamo da fare, scusaci. Andiamo, ragazzi» dissi, voltandomi e facendo per andarmene.
«Sei proprio un maleducato, Scott. E la cosa mi sorprende, conoscendo tuo padre» mi gridò dietro Melissa.
Mi bloccai. Come sarebbe a dire conoscendo mio padre?
«Che cosa sai tu di lui?» mormorai, ma Alec mi prese per un braccio e mi strattonò, dicendo che era meglio levare le tende prima che la situazione degenerasse.
«So molte cose. Io e Apollo siamo stati piuttosto, come dire, intimi. Per molto tempo. Prima che gli altri dei decidessero che “stare con me era un distrazione dai suo doveri divini”. Stupidi ignoranti» fece Melissa.
A quel punto, mi era parso chiaro come il cielo che quella che avevo dinanzi non fosse stata una semplice comune mortale. Afferrai la penna che avevo nella tasca dei jeans e la liberai del cappuccio facendola trasformare in una spada, seguito da Leighton, da Alec e da Lena.
Con una velocità sovrumana, tutte le ragazze del gruppo di Melissa si disposero intorno a lei, producendo un ronzio che mi ricordò uno sciame d’api pronte a colpire.
«Chi siete?» esclamai, guardando Melissa dritto negli occhi.
Lei sorrise. «Ma te l’ho detto, tesoro mio. Sono Melissa, e sono una ninfa. E un tempo sono stata il grande amore di tuo padre Apollo»
«Mi spiace distruggere i tuoi castelli di carte, ma sei la seconda ninfa in un giorno che afferma di essere stata il grande amore di mio padre»
«Bugie!» strillò lei isterica, perdendo per un attimo l’aspetto attraente e civettuolo. Si passò una mano a sistemarsi i capelli, respirando profondamente per recuperare la calma, mentre tutto intorno a lei le ragazze continuavano a ronzare ripetendo la parola “bugie”.
«Sono tutte delle bugie, Scott. Io sono stata l’unico vero amore di Apollo. Io sono stata punita dagli dei per il sentimento che ci legava! Ma ora, dolcezza, ora le cose sono cambiate, già. Ti hanno mai detto che somigli a tuo padre in una maniera impressionante?»
«Non so dove vuoi arrivare, schizzata, ma ti conviene sparire insieme alle tue amichette, perché non mi farò problemi a trapassarti da parte a parte con la mia spada se sarà necessario» la minacciò Leighton, portandosi in posizione d’attacco.
«Forse l’avrei detto in una maniera un po’ diversa, ma il concetto è quello. Potrai avere alle spalle la più appassionante storia d’amore mai vissuta, ma noi abbiamo da fare» rincarò la dose Lena.
La tensione tra quelle due e Melissa era palpabile.
Mi ricordò i giorni di scuola, quando tra le ragazze più popolari scoppiavano faide vere e proprie. Altro che combattimenti con i mostri: quando le donne iniziavano a lottare tra di loro l’unica cosa da fare era correre ai ripari. Persino i mostri avrebbero convenuto con me su questo punto.
«Ragazze» sibilò Melissa, schioccando le dita. «Queste due mocciose osano minacciare la vostra regina. Andate, e fatele sparire dalla mia vista»
Poi fui costretto ad assistere alla scena più disgustosa di tutta la mia vita.
Ogni ragazza del gruppo di Melissa prese a ronzare sempre più forte, finché non si dissolse in un insieme di api frementi e pronte a sacrificare la loro vita per la loro ape regina.
Il paragone con la mia scuola in quel momento fu più adeguato che mai: Melissa era decisamente un’ape regina, una abituata a comandare su tutto e tutti, con uno stuolo di api operaie sempre al suo servizio.
«Ragazze, state attente!» gridai e feci per avvicinarmi a loro, ma prima che riuscissi a muovere anche un solo passo lo sciame di api si fiondò su Leighton e Lena, circondandole.
«Leighton!» gridò Alec, e impugnò la sua spada per andare ad aiutare la figlia di Efesto.
«No, no, no, Alec, mio caro. Quella spada così appuntita potrebbe far del male alle mie bambine!» rise Melissa, e con un altro schiocco delle dita fece si che un nuovo nugolo d’api si dirigesse verso Alec.
«Fermale subito!» ordinai a Melissa, scagliandomi contro di lei. Menai un fendente mirando al suo fianco, ma prima che la mia spada potesse anche solo sfiorarla un centinaio di api mi volò contro, disorientandomi.
Il rumore del ronzio di quegli insetti nelle orecchie era qualcosa di orribile. Le sentivo addosso, erano ovunque, e soprattutto mi impedivano di vedere dove fosse finita Melissa.
«Sta tranquillo, tesoro, non ti faranno nulla. Non rovineranno quel bel viso che hai con i loro pungiglioni» disse la ninfa.
Magra consolazione, pensai ironico.
Sentii Alec gridare di dolore, e subito dopo Leighton gridare il suo nome.
«Be’, ovvio, lo stesso discorso non vale per i tuoi amichetti. Tu che dici, Scott, il veleno di migliaia di api servirà a procurare qualche shock anafilattico a quelle ochette con cui vai in giro?»
Questo era troppo.
Nonostante le api ronzassero ovunque intorno al mio viso mi sforzai di aprire gli occhi e soprattutto di concentrarmi. Individuai Melissa poco lontano da me, e mi lanciai contro di lei.
La mia spada cozzò contro un muro.
«Ma insomma, che caratteraccio!» mi canzonò Melissa.
«Lascia andare i miei amici!»
Lei schioccò la lingua contro il palato. «Ma neanche per idea, mio dolcissimo Scott. Una volta che loro saranno tolti di mezzo, avrò ottenuto la mia ricompensa. Mi rifarò di tutti quegli anni vissuti sotto forma dell’insetto in cui mi tramutarono gli dei per allontanare Apollo da me. Anni vissuti da ape. Una regina, ma pur sempre un’ape. Lo sai, tesoro, Ate mi ha promesso grandi cose»
Sentire il nome della dea fu come una scarica di adrenalina.
Con un braccio scacciai quante più api potevo, mentre mi guardavo intorno per cercare Melissa. Le uniche cose che vidi furono Alec disarmato e inchiodato a un muro dalle api, e Leighton e Lena circondate da uno sciame che era grande dieci volte quello che stava circondando me.
«Lavori per Ate?» gridai a Melissa, ignorando la sua posizione.
Quando sentii le sue mani sulle mie spalle sobbalzai, dopodiché feci per trafiggerla con la spada. Con orrore, però, mi resi conto di due cose: primo, le api avevano smesso di ronzarmi intorno e secondo, si erano radunate intorno ai miei polsi come delle catene, rendendo impossibile ogni mio movimento.
«Sì, si può dire che io lavori per lei. Lo sai, mi ha detto che se compirò per bene il mio lavoro, mi darà tutto ciò che vorrò. Fino a poco fa pensavo di volere Apollo tutto per me» disse con aria crucciata, girandomi intorno in modo di trovarsi di fronte a me. «Ma ora che ci penso… che senso avrebbe tornare insieme a qualcuno che già una volta ha preferito i suoi doveri piuttosto che stare con me? Che esempio darei alle mie bambine?»
La ninfa sospirò, lanciando uno sguardo affettuoso alle api che stavano torturando i miei amici.
«Care, care ragazze. Delle brave operaie che farebbero di tutto per la loro regina. Stavo dicendo, Scott, ho capito che non è più Apollo ciò che voglio» disse, prendendomi il mento tra le mani. Scostai violentemente la testa per liberarmi dalla sua presa.
«Ma che ribelle! Vedrai, dolcezza, quando avrò finito con i tuoi amici e sarai rimasto solo capirai che anche tu vuoi che io sia la tua regina. Saresti un re perfetto…»
«Sei pazza» mormorai.
Lo sguardo di Melissa di fece più freddo, e scese dal mio viso alle mie mani.
«Mh. Immagino che qualche punturina ti aiuterebbe a schiarirti le idee. In fondo, delle mani deturpate non m’importano più di tanto»
«Ehi, stregaccia! Lascia stare il mio migliore amico!» gridò Alec, ripresosi.
Melissa si voltò verso di lui. «Bambine! Non voglio più sentire le sue parole. Solo le sue urla agonizzanti. Attaccatelo!»
«No!» strattonai le catene di api quanto più potevo, ma quelle bestiacce iniziarono a pungermi. Il dolore mi fece salire le lacrime agli occhi, ma continuai a strattonare con violenza. Se solo ci fosse stato un modo per neutralizzarle tutte in un colpo solo…
Una fiammata improvvisa, insieme all’urlo di Leighton, mi fece salire il cuore in gola.
Sia io e Alec che Melissa puntammo lo sguardo verso la figlia di Efesto, in piedi davanti a una Lena accasciata a terra, che con le mani infuocate inceneriva tutte le api che la stavano circondando.
Non riuscivo a credere ai miei occhi.
Leighton stava controllando il fuoco!
«Lurida strega! Cosa stai facendo alle mie bambine?!» strillò Melissa, avvicinandosi a grandi passi verso Leighton e Lena.
Con un singhiozzo soffocato, la figlia di Efesto cadde in ginocchio. Le tremavano le mani, che erano diventate rosse e fumanti.
«Le mie api! Le mie povere, piccole api! Me la pagherai, mezzosangue! Tu me la paghera—»
Con uno scatto fulmineo, Lena si rialzò in piedi e ficcò il pugnale nello stomaco di Melissa. Il corpo della ninfa fu attraversato da una serie di scariche elettriche, e poi cadde a terra.
Contemporaneamente, tutte le api che ci stavano tormentando — o meglio, quelle che la fiamma di Leighton aveva risparmiato — si allontanarono da noi e volarono via disordinatamente, sparpagliandosi del cielo.
«Proprio come a scuola» commentò Lena, mentre guardava il corpo di Melissa divenire polvere e svanire. «Quando l’ape regina viene a mancare, le sue servette dimostrano la loro lealtà scappando via»
 
«Stai bene? Ti hanno fatto male?» fu la prima cosa che chiesi a Lena non appena le fui vicino.
Lei mi guardò scombussolata, annuì confusamente e si guardò intorno, fissando lo sguardo su Leighton. «Io sto bene, ma Leighton… lei è… le sue mani…»
Feci cenno a Lena di star tranquilla e corsi da Leighton. Alec le era già accanto, la stringeva tra le braccia accarezzandole i capelli e tentando di calmarla, ma era pallido e aveva una faccia stravolta, da funerale.
«Cosa è successo? Come hai…?» feci per chiedere, ma quando vidi le mani della mia amica trattenni a stento un’esclamazione di orrore.
Erano completamente ustionate.
Sanguinavano, la pelle era bruciata e la carne viva era rimasta esposta. Non ne sapevo tanto di ustioni, ma quella doveva essere almeno di secondo o terzo grado. Non riuscivo a spiccicare parola.
«Leighton, come…?»
«M-Mi dispiace» mormorò lei tra i singhiozzi. «Dovevo farlo. P-Passerà… anche l’altra volta è passato…»
Guardai Alec con aria confusa. Lui ricambiò lo sguardo, scostando poi i capelli dalla fronte di Leighton.
«Alcuni figli di Efesto sanno evocare il f-fuoco» continuò a parlare Leighton. «Sono rarissimi. Io… s-sono diversa. F-Forse c’è qualcosa di rotto in me. Mio padre mi ha d-dato il fuoco… ma non la capacità di esserne immune…»
Sentii Lena accanto a me trattenere il respiro.
Alec strinse Leighton più forte al petto. «Che razza di padre dona alla figlia un potere che può farle del male?»
«Fammi vedere le mani, Leighton»
Tutti quanti mi guardarono. Forse per via del mio tono di voce autoritario, che aveva stupito me per primo.
Guardavo le mani insanguinate della mia migliore amica e sentivo come se lo stesso fuoco che le aveva ridotte in quello stato pietoso adesso stesse bruciando anche me dall’interno.
Con delicatezza, presi le mani di Leighton tra le mie. Mi sentii terribilmente in colpa quando la sentii trasalire e gemere dal dolore, ma percepivo qualcosa dentro che mi spingeva a fare ciò che stavo facendo.
Posso guarirti.
Era una convinzione nata dal nulla, ma pur sempre una convinzione.
«Scott…» Lena accanto a me mi strinse forte la spalla. Mi voltai, per guardare i grandi occhi grigi della figlia di Zeus, velati di lacrime e domande. «Cosa vuoi fare?»
Se avessi risposto sinceramente, le avrei detto che non e avevo la minima idea.
Invece rimasi in silenzio, concentrandomi ancora una volta sulle mani di Leighton.
Posso guarirti.
Quello che mi stava bruciando dentro non era il fuoco che aveva fatto del male a Leighton, no. Era più come un sole incandescente. Un sole che bruciava e illuminava e dava forza e coraggio e calore.
«Posso guarirti, posso guarirti» mi ritrovai a recitare come fosse una cantilena.
In un lampo di lucidità mi ricordai che mio padre Apollo era ricordato per essere anche il patrono della medicina. E che i suoi figli avevano il potere di guarire.
«Posso guarirti» dissi chiudendo gli occhi, accecato dalla luce scaturita dalle mie stesse mani, calde come se fra di esse stessi tenendo il sole stesso.
«In nome degli dei…» mormorò Alec con un filo di voce.
La mano di Lena era sempre posata sulla mia spalla, aggrappata alla stoffa della maglietta.
Quell’istante durò un’eternità.
«Scott»
«Posso guarirti»
«Scott»
«Posso guarirti»
«Scott! Ce l’hai fatta! Scott, guardami!» mi ordinò Lena.
Aprii gli occhi. C’era qualcosa di sbagliato in quello che vedevo. Forse perché le mie mani e quelle di Leighton erano coperte di sangue, ma su di esse non vi era nessun segno di ferita di alcun genere. Anzi.
«…oh» fu l’unica cosa che riuscii a dire, prima che Leighton mi saltasse al collo e iniziasse a piangere come una bambina.
«Ehi, ehi… va tutto bene. È finita, okay? Ora stai bene» tentai di consolarla, ancora abbastanza scombussolato per l’accaduto. Avevo guarito Leighton. Ce l’avevo fatta.
Lena si asciugò una lacrima, e rise nervosamente. «Prima i grifoni. Ora questo. Sei un vero figlio di Apollo, Scott Walker» mormorò, prima di abbracciare a sua volta Leighton, la mano sempre sulla mia spalla.
Non riuscii a non sorridere.
«È stata una giornata lunga» dissi. «Troviamo un posto dove darci una ripulita. Abbiamo un sacco di cose di cui parlare»


















L'angolo della Malcontenta: Buonsalve e buona domenica a tutti!
Ho scritto questo capitolo ieri, tra un'infornata di biscotti e una passata di glassa, e l'ho finito verso le undici e mezza, quando cascavo dal sonno -w- mi domando perché ultimamente aggiorno sempre la sera tardi òo
Comunque! Vi propongo un giochino: che nome dareste al nostro nuovo amico grifone? *u* Io un nome stupido, tipo Bob :'D Bob il grifone. *rotola*
Melissa. Lasciatemela odiare in tutta calma. 
Credo che la maggior parte di voi conosca almeno una persona che può essere riconducibile al prototipo di "ape regina" al quale mi sono ispirata ee 
Ora, in questo capitolo avete scoperto due cose molto importanti: 1 - Leighton può controllare il fuoco, 2 - Scott ha il potere di guarire.
Leighton è figlia di Efesto, e molto molto molto raramente i figli di Efesto (come ad esempio Leo Valdez) possono controllare il fuoco ed esserne immuni. LeeLee è diversa: lei può controllare il fuoco, ma non ne è immune. E' una cosa molto nonsense, è  vero xD
Scott invece è un figlio di Apollo e come tale ha tutti i poteri dei figli di Apollo (camp half-blood wiki docet ùu) tra i quali il controllo della luce, il potere di curare/far del male cantando una canzone, il potere di maledire qualcuno in modo che parli in versi per tutta la durata della sua vita òo
Bast, non mi dilungo più u.u ci tengo solo a ringraziare ancora tutti quelli che recensiscono sia questa fic che January's Curious Case, in particolare Mademoiselle Nina (visto? VISTO? Tutta la Lenott di questo capitolo c'è solo per far contenta TE D:< <3)
Alla prossima!
Eff.

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** La storia di Lena. ***


La storia di Lena.

 
Vi aspetterete che per quattro ragazzi sporchi, feriti e stanchi come noi sarebbe stata un’impresa da non sottovalutare quella di trovare un posto per riposarci che non fosse stato in mezzo alla strada come i barboni. Be’, avete torto marcio!
Girammo per un po’ a vuoto, questo sì, ma eravamo ancora sulla difensiva. Ci aspettavamo un nuovo attacco da un momento all’altro, e stavolta volevamo farci trovare impreparati.
Davanti a tutti camminavo io. Cercavo di essere il più vigile possibile, per quanto me lo concedesse il mio cervello in sovraccarico. Mi aspettavo che la testa scoppiasse, e minuto dopo minuto mi sorprendevo perché era ancora lì, ferma sul collo al proprio posto.
Ancora tremavo.
Rivedevo costantemente le mani insanguinate e distrutte di Leighton come se fossero state delle fotografie che qualcuno continuava a passarmi davanti agli occhi. Ancora non riuscivo a credere al cento per cento a ciò che era accaduto.
Semplicemente volendolo, ero riuscito a guarirla. Non avevo fatto altro che desiderare che la mia migliore amica stesse bene, e così era stato.
Lena aveva detto che ero un vero figlio di Apollo, e questo perché il dio del sole mi aveva fatto dono insieme ai suoi geni anche del potere della guarigione.
Di nuovo, provai la stessa sensazione che mi aveva assalito quando mio padre mi aveva inviato i grifoni: mi sentivo come se in un qualche modo stesse provando a ingraziarmi. Una sorta di «Ehi, so che per quindici anni ho fatto schifo come padre, ma adesso ti sommergerò di regali e avremo il miglior rapporto padre-figlio della storia. Ci stai?»
Sospirai.
Una cosa, però, ad Apollo dovevo pur concederla.
Se non avesse risvegliato in me quel potere, a quest’ora probabilmente Leighton sarebbe stata ancora agonizzante sul ciglio della strada.
Scossi violentemente la testa, deciso a scacciare quell’immagine formatasi nella mia mente.
La sola idea di Leighton in quello stato mi faceva aggrovigliare le budella. Non avrei mai più permesso che qualcuno dei miei amici corresse un tale pericolo. Mai più.
«Scott?»
Voltai di scatto la testa verso Lena. Mi stava fissando con un sopracciglio alzato, e mi diede la netta impressione di sapere a cosa stessi pensando. Accennai un sorriso per depistare i sospetti, ma non dovette uscirmi tanto bene. Da come sentii la bocca inarcarsi, quello doveva essere stato più una smorfia che un sorriso vero e proprio.
«Sto bene» dissi soltanto, prendendo a camminare più velocemente e lasciando la figlia di Zeus qualche passo indietro.
Volevo stare da solo.
Avevo bisogno di stare da solo.
 
Trovammo un albergo in una zona che sembrava abbastanza tranquilla.
Lena e Alec riuscirono facilmente a ottenere due stanze — una per le ragazze e una per me ed Alec — nonostante fossimo stati tutti minorenni e non esattamente nelle condizioni migliori per decidere di affittare delle stanze. A nostro favore giocava il fatto che oltre che minorenni non accompagnati fossimo stati anche dei semidei: e i semidei hanno sempre qualche asso nella manica.
Lena sapeva manipolare la Foschia quel tanto che bastava per confondere il tizio alla reception, mentre Alec lo manovrava a proprio piacimento senza smettere un secondo di parlare.
«Alcuni figli di Afrodite hanno proprio una sorta di potere per convincere le persone a fare quello che loro vogliono» aveva detto prima di entrare in azione. «Noi altri ‘poveri esseri comuni’ ci accontentiamo di una buona dose di sfacciataggine e di arte oratoria»
Potere o non potere, alla fine riuscimmo ad ottenere due belle chiavi che avrebbero aperto le porte delle nostre stanze.
«Fantastico» esclamai, ma il tono di voce lasciava trasparire meno entusiasmo di quanto realmente ne provavo.
«Tutto okay?» mi chiese Leighton al mio fianco, con un’aria preoccupata.
Buffo. Forse avrei dovuto essere io a chiederle se andava tutto bene, visto e considerato quanto aveva passato. Ad ogni modo, sospirai e mi sforzai di apparire sereno, per non farla preoccupare oltre.
«Va tutto bene. Sono solo davvero molto stanco»
«Forse è il caso che andiamo a riposare. È sera, siamo tutti esausti» disse Lena.
Alzai lo sguardo su di lei. «Non so se fermarsi troppo a lungo sia una buona cosa. Voglio dire, non abbiamo scadenze o indicazioni di tempo ben precise, ma—»
«Scott, è stata una giornata abbastanza intensa. Nessuno ce ne farebbe una colpa se decidessimo di rimanere qui per la notte e ripartire domani mattina» fece Alec. «E poi, andiamo, siamo già a New York! Non credo che l’Empire State Building vada da qualche parte se ci fermiamo per un po’»
Tutti quanti sembravano d’accordo, perciò non mi rimase che annuire.
Era quasi ora di cena, quindi decidemmo di ritirarci nelle nostre stanze e di ritrovarci di lì a poco nel salone per mangiare un boccone insieme, prima di andare a coricarci.
Lena mise un braccio intorno alla vita di Leighton e la fece appoggiare a sé per poi condurla in camera. Aveva bisogno di riprendersi. Tutti ne avevamo bisogno.
 
La camera non era niente di che, ma comunque appena io e Alec aprimmo la porta ci sembrò di essere finiti dritti dritti in paradiso — o forse è meglio dire nei Campi Elisi, il luogo dove una volta morti gli eroi trascorrevano in pace la loro morte.
Mi lasciai cadere su uno dei due letti singoli, chiudendo gli occhi e rilassandomi. Sentii ogni singolo muscolo del mio corpo sospirare e ringraziare gli dei.
Decidemmo i turni per fare la doccia, e Alec fu il primo a sparire dietro la porta del bagno. Qualche minuto dopo, sentii il rumore dell’acqua che prendeva a scrosciare.
Mi tirai a sedere.
Lo sguardo mi cadde sui miei polsi, martoriati dai morsi di quelle dannate api. Non osavo pensare a cosa sarebbe successo se fossi stato allergico o roba del genere. Forse non starei neanche qui a raccontarlo.
Presi lo zaino che ci eravamo portati dietro dal campo, e frugai al suo interno finché non vi trovai dell’ambrosia in quadratini chiusa in una busta di plastica.
L’aprii, staccai un pezzetto di cibo e me lo infilai in bocca, lasciandolo sciogliere. Sapeva di tutti le cose buone che mia madre mi preparava quando ero a casa; sapeva della sua torta di mele, perennemente bruciacchiata sul fondo ma sempre buona, perché era l’unica torta che era lei a fare e che non comprava al supermercato o in pasticceria; sapeva anche del frullato di frutta che mi preparava quando ero più piccolo, quando facevo i capricci e di mangiare la frutta proprio non ne volevo sapere.
Quel piccolo squarcio di casa, unito all’effetto dell’ambrosia, servì a ridarmi le forze. Quando guardai di nuovo i miei polsi scoprii che i segni delle punture stavano pian piano svanendo, così come stava diminuendo il bruciore che ancora mi infastidiva.
Alec uscì dalla doccia una decina di minuti dopo, quando avevo acceso la piccola televisione presente in camera e mi ero sintonizzato sul telegiornale della sera.
Ci demmo il cambio e presi possesso del bagno, buttandomi sotto al getto d’acqua bollente quasi ancora con i vestiti addosso.
Stare nella doccia mi aiutò a sciogliere la tensione e i muscoli. Per un po’ lasciai che il mio cervello vagasse senza una meta ben precisa, e mi ritrovai a ricordare l’incidente nel bagno con Will. Ridacchiai.
Avrei voluto rimanere in quel piccolo paradiso per molto più tempo, ma il mio stomaco iniziò a borbottare prepotentemente e mi resi conto che avevo una fame pazzesca! Da quanto non mettevo sotto i denti qualcosa?
Quella mattina ero a stento riuscito ad arrivare al padiglione della mensa per colazione, e comunque non ero riuscito a mandare giù qualcosa di sostanzioso.
Quella mattina! Mi sembrava quasi assurdo che fosse passata solo una giornata — e neanche — da quando avevamo lasciato il campo. Forse era un’impressione dovuta al fatto che quella in cui mi trovavo invischiato era la mia prima impresa. Sospirai.
Uscii dalla doccia e mi asciugai velocemente, infilandomi di nuovo i miei vestiti.
«Ce ne hai messo di tempo!» disse Alec saltando giù dal letto. Gli lanciai un’occhiataccia che lui si preoccupò di ignorare platealmente. «Andiamo, le ragazze ci aspettano per mangiare qualcosa»
Lasciammo la stanza e ci recammo in una saletta adibita a ristorante. C’erano alcuni tavolini già apparecchiati con tovaglie candide, bicchieri, posate e tovaglioli; alle pareti erano attaccate alcune stampe di marche di bevande varie e diversi quadri che ritraevano paesaggi di mare e montagna.
Non c’era nessun’altro oltre Lena e Leighton, sedute a uno dei tavolini ad aspettarci. Quando ci unimmo a loro il cameriere arrivò di corsa, pronto per servirci. Immaginai fosse perché eravamo i primi clienti da chissà quanto tempo.
«Ti senti meglio?» domandò Alec a Leighton, dopo che ci fummo seduti e che il cameriere avesse preso le ordinazioni — pizza. Con la pizza si va sempre sul sicuro.
Leighton si strinse nelle spalle. «Più o meno. Di certo starò molto meglio dopo una bella dormita» disse. Era ancora molto pallida e il suo volto era decisamente provato.
L’espressione contrariata di Alec mi fece intuire che anche lui aveva notato che brutta cera avesse avuto la nostra amica.
Mi venne spontaneo un sorriso. Era strano vedere come al Campo Mezzosangue Alec e Leighton tentavano continuamente di azzannarsi a vicenda, ma adesso che eravamo in missione insieme si preoccupavano l’uno dell’altra.
Dopo qualche minuto mi accorsi però che quella non era l’unica cosa strana. Di solito quando io, Alec e Leighton stavamo insieme avevamo sempre qualcosa di cui parlare, ma invece adesso nessuno accennava a voler aprir bocca.
Fortunatamente le pizze arrivarono dopo poco, e da quel momento in poi fummo tutti troppo occupati a riempirci gli stomaci per preoccuparci di intavolare una conversazione.
Il problema non si ripresentò neanche quando avemmo finito di mangiare, perché Leighton decretò che se ne sarebbe andata a dormire senza aspettare un minuto di più, e Alec si offrì di accompagnarla.
Lei annuì, si alzò e venne a darmi un bacio sulla guancia.
«Vedi di riprenderti, o Alec inizierà a diventare un’infermiera paranoica» le sussurrai all’orecchio. Lei ridacchiò.
«Vedrò cosa posso fare» disse, dopodiché andò ad abbracciare Lena e insieme ad Alec uscì dalla sala, dirigendosi verso le camere.
Rimanemmo solo io e la cacciatrice, e per un attimo mi resi conto di quanto potesse sembrare equivoca la situazione. Voglio dire, le cacciatrici di Artemide non avevano quell’assurda regola di over stare a distanza di sicurezza dai ragazzi o roba del genere? E invece eccoci qui, Lena ed io, seduti allo stesso tavolo l’uno di fronte all’altra, come se avessimo appena consumato una cenetta solo tra noi due.
Ebbi la decenza di arrossire, sperando che Artemide per quella sera chiudesse un occhio.
Afferrai il bicchiere colmo d’acqua, sorseggiandolo con calma mentre pensavo a cosa dire. Forse avrei dovuto mostrarmi appena un po’ dispiaciuto per il comportamento apatico che avevo avuto durante le ore passate; forse mi sarei dovuto accertare che le api non avessero punto anche lei.
L’idea del prendere le mani di Lena tra le mie e di provare a guarire anche lei mi fece stringere lo stomaco in un modo del tutto diverso dall’ansia o dalla paura.
«Lena» mi azzardai a chiamarla, posando il bicchiere ormai vuoto sul tavolo. «Io… sei stata fantastica prima, quando hai pugnalato Melissa» riuscii a borbottare. Almeno era un inizio.
Lei alzò uno sguardo, e fece un rapido sorriso che non coinvolse però anche gli occhi grigi. «No, tu lo sei stato. Per come hai aiutato Leighton»
Oh. Lei credeva che io fossi stato fantastico.
Bene. Non avevo sentito una fitta all’altezza del cuore, niente affatto.
«Non sapevo neanche come fare. L’ho vista in pericolo, non ho ragionato. È come se avessi agito prima ancora di riuscire a rendermene conto»
«Si chiama istinto, Scott» disse Lena in tono sarcastico. «Ed è una fortuna che tu l’abbia ascoltato. Ora almeno sappiamo che se dovessimo incontrare un’altra ex fidanzata di tuo padre con intenzioni non proprio amichevoli avremmo un piccolo pronto soccorso mobile per ogni evenienza»
Aggrottai le sopracciglia. Non era esattamente ‘piccolo pronto soccorso mobile’ il mio ideale di definizione. Stavo per dibattere, quando notai il ciondolo che Lena portava al collo.
«Sei riuscita ad aggiustarlo, vedo» dissi, indicando il monile con un cenno del capo.
Sulle prime Lena non riuscì a capire a cosa mi stessi riferendo, ma alla fine inarcò le sopracciglia in segno di comprensione e si sfilò la collana. «Già. È stata Leighton, sai? È stato davvero carino da parte sua»
«Posso vederlo?»
Lena assunse un’espressione contrariata, arricciando le labbra. Era riluttante, glie lo si vedeva scritto in viso, ma inaspettatamente alla fine mi porse il ciondolo. «Fa attenzione»
Annuii.
Leighton aveva fatto davvero un buon lavoro. Aveva sostituito la catenella arrugginita con una nuova, sottile ma resistente, e aveva eliminato lo strato di ruggine e sudiciume dal metallo. Adesso il ciondolo era un semplice ovale color grigio opaco, grande più o meno quanto la metà del palmo della mia mano.
Ricordando che dentro ci fossero delle foto, individuai l’apertura del monile e la feci scattare.
Con la coda dell’occhio vidi Lena sobbalzare e allungare una mano a riprendere il suo ciondolo, ma prima che potesse farlo ero già riuscito ad osservare con attenzione le immagini.
«È tua madre, questa donna?» le domandai.
Lei aggrottò le sopracciglia e distolse lo sguardo, digrignando i denti. «Dovresti farti gli affari tuoi, una buona volta»
«Andiamo! Me lo devi. Ho recuperato il ciondolo quando lo avevi perso!»
Non era andata proprio così. Diciamo che lo avevo semplicemente adocchiato sulla sabbia e lo avevo messo in tasca senza neanche sapere a chi fosse appartenuto, ma questi erano semplici dettagli.
Per una manciata di secondi Lena stette in silenzio, ma alla fine deglutì e annuì. «Sì. È mia madre»
«È davvero una bellissima donna» le dissi, osservando con attenzione l’immagine. Era giovane, doveva avere circa una ventina d’anni quando la foto era stata scattata. Aveva un bel viso ovale circondato da una cascata di capelli neri e mossi, occhi celesti maliziosi e un sorriso accattivante, con denti bianchissimi. «Ti somiglia»
Lena sorrise. Era evidente che le facesse piacere sentirsi dire una cosa del genere.
«Lei invece dice sempre che somiglio di più a papà»
«Be’, tuo padre non l’ho mai visto di persona, quindi non posso ancora giudicare. È molto giovane, tua madre, o sbaglio?»
Scosse la testa, e i capelli castani tenuti su nella coda di cavallo oscillarono lungo il suo collo. «Non sbagli. Aveva più o meno ventidue anni quando rimase incinta di me»
Inarcai le sopracciglia. Ventidue anni! Hai capito il vecchio Zeus, se le sceglieva belle e giovani!
Nell’altra foto, invece, era ritratta Lena da bambina insieme a un altro ragazzino, esattamente come ricordavo. Mi soffermai sul viso paffuto di Lena, sugli occhi che avevano lo stesso taglio di quelli della madre, sul suo sorriso con qualche dente mancante. Per qualche strana ragione mi sembrava impossibile che quella bambina fosse stata la stessa persona che mi ritrovavo ora davanti.
Adesso quell’aspetto gioioso e allegro catturato nella foto sembrava essere svanito. Mi domandai cosa potesse essere successo per farlo andare via.
Osservai poi il ragazzino. Teneva Lena stretta in un abbraccio soffocante, e solo per questo lo presi immediatamente in antipatia. Aveva i capelli castani e lisci, che gli ricadevano sulla fronte quasi nascondendogliela del tutto. Anche i suoi occhi erano marroni; grandi occhi a palla che lo facevano somigliare a una ranocchia. E il sorriso stupido che aveva in volto non faceva che rafforzare l’idea che quel bambino somigliasse tremendamente a un rospo.
«Lui chi è?» domandai, curioso.
Lena allungò una mano a riprendersi il ciondolo, e io la lasciai fare. Una volta che ebbe il monile tra le sue mani sospirò, ma non mi sfuggì il sorriso che le fece distendere le labbra.
«La persona più vicina che io abbia ad un fratello. Si chiama Marcus»
Detestai il modo in cui le sue labbra parvero accarezzare quel nome. «Marcus» ripetei.
«Già. È un semidio anche lui»
«Aspetta, cosa? E perché non si trova al Campo Mezzosangue?» esclamai confuso.
Era esattamente la domanda peggiore che avessi mai potuto rivolgere a Lena. Il sorriso sparì dal suo viso, che ripiombò nella consueta espressione severa. E triste. Soprattutto triste.
«Perché è scomparso tempo fa, prima che entrassi a far parte delle cacciatrici di Artemide»
Nella sala sembrò essere sceso il gelo. Il cambiamento fu talmente repentino che temetti che la colpa fosse da attribuire alle ombre ghiacciate che accompagnavano la venuta di Ate.
«Io… mi dispiace. Non avrei dovuto chiedertelo» mormorai.
«No, tranquillo. Non fa nulla, non potevi saperlo»
«Magari ti va di raccontarmi tutto, dall’inizio? Mia madre dice sempre che tenersi tutto dentro fa parecchio male» proposi.
Lena sorrise appena. «Saggia donna, tua madre» mormorò.
Non mi aspettavo che accogliesse la proposta, ma quando fece un profondo respiro e iniziò a parlare mi raddrizzai sulla sedia e mi sporsi verso di Lei, con il massimo dell’attenzione.
«Tralasciamo la parte in cui mia madre conobbe mio padre. La storia vera e propria comincia quando mamma scoprì di essere incinta, e su consiglio di Zeus decise di andarsene dall’America e di ritirarsi a casa di sua madre, in un paesino della Grecia»
«Hai origini greche?» domandai. Lena annuì.
«I nonni di mia madre erano entrambi greci. Ebbero una figlia, che sposò un americano, ed ebbero a loro volta una bambina, mia madre. Ad ogni modo, mamma tornò in Grecia, dove sperava che la nonna si sarebbe presa cura di lei. In effetti fu così. Ma mia madre, Khloe, non era l’unica donna che nonna Anthea stava assistendo.
«C’era questa ragazza, addirittura più giovane di mia madre, che si chiamava Lena. Era incinta già da parecchi mesi, ed era incinta di un dio. Mamma e nonna non riuscirono mai a capire chi fosse questo dio, ma Lena era talmente terrorizzata che dopo un po’ smisero di farle pressioni. Diceva che il suo bambino non era al sicuro, che suo padre se lo sarebbe ripreso, e lei non voleva. Così nonna l’aveva accolta in casa.
«Lena e mia madre divennero molto amiche. Immagino che quando condividi con qualcuno un’esperienza come quella di portare in grembo un figlio semidio, si crea una sorta di legame. Un giorno però Lena fu assalita dalle doglie, e capirono che era arrivato il momento del parto. Mamma tentò di farle forza, ma Lena piangeva e continuava a ripetere che non ce l’avrebbe fatta, che per la vita di suo figlio bisognava dare in cambio la sua, di vita. Vaneggiava.
«Quando il bambino nacque, la madre fece appena in tempo a stringerlo tra le braccia e a dargli un nome, Marcus. Fece promettere a mia madre che l’avrebbe cresciuto come se fosse stato figlio suo, e poi morì»
Deglutii. I peli delle braccia mi si erano completamente rizzati per i brividi, non tanto per quelli di freddo quanto per quelli di angoscia.
«E poi?» domandai, come un bambino che freme per il continuo di una favola. Ero seduto sul bordo della sedia, proteso verso Lena fino all’inverosimile.
«Mamma tenne fede alla promessa. Marcus era un bambino bello e sano, e anche tranquillo. Passò qualche mese, dopodiché anche per mia madre arrivò il momento del parto. Quando nacqui mi chiamò Lena, in ricordo della sua amica.
«Io e Marcus siamo cresciuti come fratello e sorella per più di dieci anni. Abbiamo vissuto per un po’ in Grecia, poi… siamo stati costretti a trasferirci in Alaska. La terra in cui gli dei non hanno potere»
«Perché proprio lì?»
«Perché…» Lena si morse il labbro inferiore. «Usa il cervello, Scott. Perché io sono la figlia di Zeus, e tra Ade ed Era e chissà quanta altra gente a volermi morta sarebbe stato meglio se non fossi nata!» sbottò.
Mi tirai indietro sulla sedia, osservandola.
Lena fece un respiro profondo e si strofinò gli occhi con le mani. «Scusa, io… meglio se continuo il racconto» mormorò.
Annuii, ma provai una sensazione stranissima. Sentii come se mi stesse nascondendo qualcosa, qualcosa di grosso e di molto importante.
«L’Alaska sembrava anche il posto migliore per proteggere Marcus, dal momento che sua madre era convinta che il suo genitori divino sarebbe tornato a prenderselo. Rimanemmo lì per anni, e furono anche degli anni sereni e felici. Poi però accaddero delle… delle cose. E fummo costretti a tornare in America. Io e Marcus avevamo tredici anni.
«Da quel momento la situazione degenerò. I mostri ci rendevano la vita impossibile, ci scovavano ovunque, e non riuscivo a sopportare l’idea che mia madre fosse in pericolo a causa nostra. Immagino che fosse stato difficile anche per Marcus, perché un giorno mi svegliai e lui non c’era più. Niente biglietti, niente saluti: se n’era semplicemente andato.
«Qualche mese dopo, Artemide mi trovò. A dir la verità, disse a me e a mia padre che era stato Zeus a mandarla da noi. Disse anche che se fossi entrata nelle cacciatrici non avrebbe più avuto importanza l’identità di mio padre, sarei stata al sicuro e così sarebbe stato anche per mia madre. Quindi prestai giuramento. Sono stata per Artemide per circa quattro anni, prima di incontrare te, Alec e Leighton. Fine della storia»
Rimasi in silenzio per qualche istante, mentre Lena giocava con la catenella del ciondolo.
«Aspetta, quattro anni? Quanti anni hai, per davvero?» riuscii a domandare alla fine, mentre il mio cervello era occupato a fare calcoli.
Lena inarcò un sopracciglio. Probabilmente sentirsi chiedere l’età dopo un racconto del genere non era esattamente quello che si aspettava. «Ho diciotto anni, Scott»
Boom!
Rimasi letteralmente a bocca aperta. Diciotto anni. Io ne avevo quindici. Lei diciotto.
La cosa non avrebbe dovuto deprimermi così tanto, e invece lo fece.
«Sei… più grande di me?»
Lena alzò gli occhi al cielo. «Dei onnipotenti! Come se una cosa del genere importasse!» esclamò.
«Forse a me importa» borbottai, aggrottando le sopracciglia e abbassando lo sguardo. Sentii le guance imporporarsi, così come fecero anche le punte delle orecchie.
«Non dovrebbe» rispose lei in tono secco, perentorio. Subito dopo però aggiunse: «Ti ringrazio, Scott. Avevi ragione. Parlare con te mi ha fatto davvero bene»
«Figurati, è stato un piacere» mormorai mentre lei si alzava dal tavolo sbadigliando, scusandosi e dicendo che aveva proprio bisogno di dormire, perché era stata una giornata assurdamente faticosa. E poi, voleva anche andare a vedere se Leighton aveva bisogno di lei. Annuii, e la lasciai andare.
Fu solo sull’uscio della porta delle sala che Lena si fermò.
«Scott!» mi chiamò.
Mi voltai verso di lei, e lei sorrise. Era un sorriso così innocente che mi fece stare male.
«Buonanotte» disse Lena.
Non riuscii a risponderle.
 
«Ah, bentornato!» esclamò Alec, sdraiato sul suo letto con le braccia incrociate dietro la testa, impegnato a guardare una puntata di una serie tv che qualche tempo fa anche io seguivo. «Hai una faccia tremenda! Cos’è, Lena ti ha fulminato?»
Mi lasciai cadere sul letto. Non volevo parlare ad Alec della storia di Lena, men che meno di quel Marcus. Sentivo come se fosse stata una cosa solo nostra. Qualcosa di privato.
Perciò, mi limitai a dire: «La ragazza che mi piace è fuori dalla mia portata»
«Perché ha giurato di rimanere vergine in eterno?»
«Questo è il minore dei mali»
Alec fischiò. «Sei messo male, amico. Ricordami di ringraziare mia madre da parte tua, per averti messo in un tale casino»












Oh LOL. Salve. Sono ancora qui :')
Lo so, non ho aggiornato per EPOCHE intere, ma il punto è che madame ispirazione era volata via e non voleva muoversi a tornare. Quindi, piuttosto che scrivere vere e proprie cazzate, ho deciso che sarebbe stato meglio prendersi una bella pausa da Scott e dagli altri.
Oggi boh, è stato un colpo di fortuna (: diciamo che ieri sera mi sono riproposta di combinare qualcosa e alla fine così è stato *yay!*
Quindi, in questo capitolo viene spiegata parte della storia di Lena. Dico 'parte', perché Scott ha ragione, c'è qualcosa di molto, molto importante che deve ancora essere svelata ;)
Ehhh no, non so che dire se non che spero mi perdoniate per il ritardo :'D

La volta scorsa vi ho chiesto di inventare un nome per il grifone. Alyx ha proposto di chiamarlo Poker, così da fargli far coppia con Blackjack :'D Invece Ella_Sella_Lella ha proposto Kinki per il grifone femmina *-* tutti nomi carinissimi!

Questa volta, invece, voglio chiedervi: quale attore vedreste per interpretare la parte di Scott? :D daidai, fatemelo sapere! 

Eff.

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** Parte della profezia si avvera. ***


Parte della profezia si avvera.

 
Intuii che Ate si fosse infiltrata per la seconda volta nei miei sogni – o forse è meglio dire incubi – ancor prima che mi rendessi conto di star sognando.
Mi ritrovai a camminare per la stessa ampia stanza nella quale avevo incontrato la dea per la prima volta, solo che stavolta una luce pallida illuminava ogni angolo. Mi resi conto che dovevo trovarmi in un palazzo antico, di quelli nei quali abitavano re e regine o comunque persone di un certo rango. Le pareti non erano spoglie come avevo immaginato nel primo sogno, ma erano ricoperte di una carta da parati con motivi floreali di un rosa dorato. Il soffitto invece era esattamente come lo ricordavo, decorato con un magnifico affresco che stavolta potei osservare con attenzione.
Rappresentava una lotta tra dei e giganti, nella quale i giganti stavano vincendo.
«Bello, vero?»
Mi voltai verso una delle grandi finestre ad arco attraverso le quali filtrava la luce. Ate era in piedi davanti a una di esse, dandomi le spalle. Indossava sempre un lungo vestito nero, come neri erano i suoi capelli, ma stavolta sembrava aver acquisito più consistenza; se nel primo sogno pareva fatta d’ombra, ora era una dea in carne ed ossa.
«Avvicinati, Scott, caro»
Senza pensarci due volte, feci come mi era stato ordinato.
La luce del sole che si propagava nella stanza mi dava sicurezza, quasi sfrontatezza, spavalderia. Una piccola parte di me però si stava chiedendo come mai Ate avesse deciso di mettermi così tanto a mio agio, quando l’ultima volta che ci eravamo visti mi aveva ricevuto in un ambiente buio e tetro e mi aveva ammanettato con delle catene fatte d’ombra.
Una volta giunto accanto alla dea, volsi lo sguardo in direzione di ciò che stava ammirando con tanta attenzione. E rimasi disgustato.
Le finestre si affacciavano su piazze gremite di guerriglieri, o su campi di battaglia, o su tante altre scene che ricordavo di aver studiato a scuola durante le lezioni di storia – quelle poche volte che riuscivo a prestare attenzione, è sottinteso.
Non vi fu bisogno di domandare il perché di quelle scene, dal momento che Ate proruppe in una risata che mi fece accapponare la pelle e si voltò verso di me.
«Sono stata sempre io, sai?» sorrise. Il suo sorriso poteva sembrare bello, ma a me pareva falso e malvagio. Gli occhi di Ate, invece, erano sinceramente accesi da una luce folle. Aveva gli stessi occhi neri di Eris e Riley. Un marchio di fabbrica della discordia.
«Sempre. Ogni guerra, ogni rivolta. Era così facile rendere ciechi gli uomini e riempire le loro anime di superbia!» sospirò. «Un peccato che il mio divino padre abbia dovuto rinchiudermi in questa prigione»
Inarcai un sopracciglio, osservando l’espressione corrucciata sul viso della dea.
«Già. Un vero peccato che al mondo siano state risparmiate guerre su guerre» dissi in maniera ironica.
Non mi pareva di essere stato esageratamente irriverente, ma Ate mi rivolse un’occhiataccia. Sulle prime non accadde nulla, ma dopo una frazione di secondo sentii come se una mano ghiacciata mi avesse afferrato alla gola cercando di soffocarmi. Annaspai, mentre tentacoli oscuri serpeggiavano attorno alla mia gola.
Ah, ecco, mi sembrava strano che quella dea pazzoide non avesse ancora tentato di uccidermi.
«Non capisci nulla, Scott» disse con gelida calma. «Non capisci che tu e i tuoi amichetti non state giocando ad essere le pedine degli dei. Voi siete le mie pedine. Ma devo ammettere che, per quanto mi piaccia osservare come realizzate il mio volere sena rendervene conto, sono rimasta spiacevolmente sorpresa da quanto è accaduto con la mia cara Melissa. Non era forse di tuo gradimento?»
Così come erano comparsi, i tentacoli oscuri scomparvero, e caddi in ginocchio mentre respiravo a fatica. La gola bruciava, e gli occhi pizzicavano per via delle lacrime dovute alla difficoltà nel respirare.
Ate rimase a guardarmi con le pallide braccia incrociate al petto mentre mi rialzavo, tossendo. Aveva un sopracciglio inarcato, come se stesse aspettando una mia risposta.
«Non siamo tue pedine» riuscii a sibilare alla fine.
«Sì che lo siete. E come tali non gradisco affatto che abbiate ridotto in cenere Melissa e le sue figlie. Forse dovrei insegnarvi un po’ di disciplina. Quella tua cara figlia di Efesto, ad esempio. Non le ha mai detto nessuno che a giocare con il fuoco poi ci si brucia?» ghignò, prendendo a camminarmi intorno.
«Non provare ad avvicinarti a Leighton!» le intimai, ponendomi sulla difensiva. Mossi le mani a cercare la mia spada, ma mi accorsi che ero completamente disarmato. Perfetto; ad Ate gli scontri ad armi pari dovevano risultare parecchio antipatici.
«Ma no, ma no. Ho fatto una promessa ed è giusto che la mantenga… per il momento. E poi non è stata Leighton ad uccidere Melissa, giusto? È Lena quella a cui dovrei dare una lezioncina»
Mi lanciai contro la dea, deciso a farle rimangiare tutte quelle minacce. Non le avrei mai permesso di far del male né a Leighton né a Lena.
Con un gesto della mano Ate lanciò nuove lingue di tenebra a colpirmi, ma stavolta non mi lasciai cogliere impreparato. Sfruttai la luce che filtrava dalle grandi finestre per erigere una sorta di scudo luminoso. Non era particolarmente robusto, servì a malapena a evitare che le ombre di Ate mi raggiungessero, ma rimasi comunque compiaciuto nello scoprire che, armato o disarmato, potevo comunque contare sulla protezione che mi offrivano i raggi del sole.
«Sono colpita, Scott!» esclamò Ate, sorridendo. «Non immaginavo che i tuoi poteri si fossero sviluppati così tanto in così poco tempo!»
«Evidentemente mi avevi sottovalutato» mormorai io, per niente divertito.
D’un tratto però qualcosa, probabilmente una grossa nuvola ricolma di pioggia, oscurò il sole.
No, ti prego! Non proprio ora!
Il muro di luce che avevo evocato si dissolse, e mi ritrovai senza difese di fronte a un nuovo attacco delle ombre, che mi si avvilupparono alle caviglie, risalendo lungo i polpacci, circondandomi poi le gambe…
Un tuono risuonò possente, e la pioggia cominciò a battere contro le finestre. La vista mi si offuscò e iniziai a non sentirmi più le gambe.
«Sarebbe tutto così facile se anche tu ti lasciassi convincere. C’è tanta di quella amarezza in te, mio tesoro. So che anche tu lo sai. Devi solo fidarti di me. Ti rifugi nella luce, ma non capisci che il sole può rendere ciechi se fissato troppo a lungo. Cosa desideri, Scott? Vuoi rimanere accecato dalla luce del sole, o vuoi essere tu a rifulgere come una stella nell’oscurità?»
La testa mi si fece pesante. Le palpebre minacciavano di chiudersi da un momento all’altro. E le tenebre che mi circondavano non erano più gelide, no. Erano calde, soffici, invitanti.
«Io.. io voglio…»
 
«Scott! Andiamo, Scott, alza il sedere dal letto. È ora di muoversi, le ragazze ci staranno aspettando!»
Aprii gli occhi di botto, venendo accecato dalla luce giallognola del lampadario della camera d’albergo. Alec mi stava scuotendo per una spalla, ma quando si fu accertato che mi fossi completamente svegliato sorrise soddisfatto e tornò a sistemare i nostri pochi effetti personali nello zaino che ci eravamo portati.
Mi tirai a sedere nel letto, e mi accorsi che nonostante avessi dormito senza la maglietta ero in un bagno di sudore. Allo stesso tempo però dei brividi gelidi mi correvano per la schiena.
Osservai fuori dalla finestra, dove il cielo era grigio e piovoso, e mi passai una mano sul viso.
«L’ho sognata di nuovo» mormorai, accorgendomi di quanto mi facesse male la gola. Quasi come se qualcuno avesse cercato di strozzarmi.
«Chi, Lena?» ridacchiò maliziosamente Alec.
«No. Ate»
Alec lasciò cadere il sacchetto di ambrosia che teneva in mano sul letto, mentre il suo sorrisetto veniva rapidamente rimpiazzato da un’espressione seria e preoccupata. «Cosa ha detto?»
Aggrottai le sopracciglia, fingendo di sforzarmi per ricordare. In realtà, avevo presente fin troppo bene ogni sua singola parola, come fosse stata stampata indelebilmente nella mia testa.
«Lei… nulla, minacce a vuoto» scossi la testa, alzandomi dal letto e sospirando, cercando di essere il più convincente possibile.
«Minacce?»
«Sì. Contro Lena, per aver mandato al Tartaro Melissa. E contro Leighton, per la storia delle api. Ma non farà nulla, non glie lo permetterò. E tra l’altro neanche lei sembrava troppo convinta delle sue parole» mi strinsi nelle spalle, quando il ricordo di una frase che sul momento doveva essermi sfuggita mi attraversò la mente. «Ha parlato di una promessa che doveva aver fatto. Probabilmente a proposito di Leighton»
Notai un guizzo negli occhi di Alec, oltre al fatto che strinse la mascella. Be’, c’era da aspettarselo. Poteva fare tutte le battutine che voleva riguardo alla cotta che mi ero preso per Lena, ma ciò non toglieva che anche a lui importasse di Leighton molto più di quanto ci teneva ad ammettere.
«Che genere di promessa?» domandò.
«Non ne ho idea. Non ricordo nient’altro»
Alec sospirò. «Deve essere un bluff. Anzi, lo è di sicuro»
Annuii, lasciando poi cadere l’argomento per andarmi a preparare. Ate non sembrava il genere di persona — o di divinità, fate un po’ voi! — che avrebbe bluffato, o almeno non in questo modo. Il punto è che era più facile ignorare un nuovo probabile mistero piuttosto che fronteggiarlo.
So che può sembrare non molto “eroico”, ma era vero: la storia di Ate mi rendeva inquieto, non vedevo l’ora che la facessimo finita.
Mentre mi facevo una doccia veloce ricordai le parole della dea, riguardo al rimanere accecato dal sole.
Parlando del sole intendeva forse mio padre? Ne ero quasi totalmente convinto.
 
«Era ora!» esclamò una Lena di ottimo umore una volta che ci fummo incontrati nella piccola hall dell’albergo. Leighton, accanto a lei, stava sbadigliando sonoramente. Alec invece stava parlando con il proprietario, un ometto nervoso che sembrava lo stesse supplicando con lo sguardo di rimanere lì ancora qualche altra notte.
Qualche minuto dopo ci ritrovammo nuovamente per la strada, sotto una pioggerellina fine che servì a svegliarci del tutto.
«Ah! Odio questa pioggia!» si lagnò Leighton, stringendosi al braccio di Lena, quasi facendosi trascinare. La cacciatrice sorrise, ma poi la sua attenzione venne attratta da un tuono in lontananza. Arricciò le labbra, ma non sembrava particolarmente preoccupata.
«Zeus sembra turbato per qualcosa» osservò.
«A quanto risulta da ciò che dice il Signor D al campo, Zeus sembra sempre turbato per qualcosa» ribatté Alec. Lena si strinse nelle spalle.
Non eravamo particolarmente lontani dall’Empire State Building, probabilmente in una mezz’ora saremmo riusciti ad arrivare. Il problema sorse quando la pioggerellina si trasformò in un vero e proprio temporale, con tanto di tuoni e fulmini.
Altro che turbato, pensai. Zeus è completamente furioso!
«Non possiamo fermarci a comprare un ombrello?» domandò Leighton.
«Con quali soldi? Abbiamo già dimezzato il nostro fondo comune per pagare l’albergo!» le ricordai.
«Andiamo, Scott! Quanto mai potrà costare un ombrello? Ce li abbiamo un paio di dollari per comprarlo!»
«Ma se Scott facesse qualche magia da figlio di Apollo per far spuntare un bel sole?» propose Alec sghignazzando.
Alzai gli occhi al cielo. «Non sono ancora a quel livello» bofonchiai. «Credo che nessuno sia a quel livello!»
«Ehi, guardate lì!» disse Lena, indicando un piccolo bar proprio in fondo alla strada. C’erano alcuni tavolini posizionati all’entrata, protetti da un piccolo porticato, ma erano vuoti eccezion fatta per un vecchietto minuto e calvo, con il volto solcato da rughe e un’espressione burbera in viso. Si poggiava a un nodoso bastone di legno, guardandosi intorno con aria indagatrice.
Ad attirare la nostra attenzione fu però il cartello scritto in calligrafia quasi illeggibile appeso al muro accanto al vecchietto.
Sapete, molti semidei soffrono di dislessia e di iperattività. Io posso ritenermi fortunato: non sono affatto dislessico, anche se l’iperattività purtroppo non sono riuscita a farmela scampare.
Per cui tra la lontananza, la pioggia e la calligrafia indecifrabile con cui era stato scritto il cartello, sia Leighton che Alec che Lena non riuscirono a leggere proprio un bel niente.
«C’è scritto semplicemente “ombrelli”» dissi, ridendo delle espressioni dei miei amici. Prestando più attenzione al cartello, però, notai che c’era scritto altro.
«Sconto per semidei?» inarcai un sopracciglio.
Non ci fu neanche bisogno di consultarci: tutti e quattro ci dirigemmo a passo spedito verso il piccolo bar.
Una volta lì, il vecchietto si raddrizzò sulla sedia e ci squadrò da capo a piedi, senza proferire una parola. Una volta che fu soddisfatto ci rivolse un sorriso che mi fece rabbrividire; i suoi occhietti infossati brillavano di malignità.
«Ma guarda guarda chi è che abbiamo qui! Ne è passato di tempo da quando gli ultimi semidei sono passati a fare una visitina a questo povero, povero vecchietto!» esclamò.
Vedendoci rimanere in silenzio ad osservarlo come degli allocchi, il vecchietto aggrottò le sopracciglia bianche e cespugliose.
«Ma insomma! Cerbero vi ha mangiato la lingua? Ai miei tempi i giovani erano rispettosi, si presentavano agli anziani, li servivano e li riverivano! Ahhh, avete imparato di certo l’educazione dai mortali! A chi siete figli, voi? Veh? A chi siete figli?»
Rimasi letteralmente a bocca aperta di fronte al cambiamento di approccio del vecchio. Mi ricordava vagamente uno degli zii decrepiti di mia madre ai quali facevo raramente visita da bambino. Roba da brividi. Temetti che il vecchietto decidesse di insegnarci l’educazione con il suo per niente allettante bastone nodoso, per cui mi feci avanti e mi schiarii la voce, iniziando a parlare.
«Mi chiamo Scott Walker, signore, e sono figlio di Apo—»
«Veh! Figlio di quel bellimbusto di Apollo! Che credi, che non so chi siete? Eh? Mi hai preso per un idiota, ragazzo?» sbraitò il vecchietto. Aveva qualche dente mancante, e sputacchiava parecchia saliva.
«Ma… ci aveva appena chiesto chi fossero i nostri genitori!» squittì Leighton, osservando il vecchio con un’aria tra lo spaventato e lo sbalordito.
«L’ho chiesto, infatti» le disse quello, fulminandola con lo sguardo. «Dì un po’, piccoletta, sicura di essere di Efesto? Veh, troppo carina per essere sua, dico io! Forse di sua moglie, ma di certo non sua!»
«Si può sapere lei chi sarebbe?» domandò Lena, con la stessa espressione di Leighton.
Il vecchietto saltò in piedi con un’agilità che mai avrei immaginato possedesse, e si inchinò mostrandoci il capo pelato e chiazzato di macchie scure.
«Sono Momo, per servirvi!» si presentò, poi alzò lo sguardo su Lena e ghignò in una maniera che mi fece rivoltare lo stomaco. «E che onore sarà quello di servire proprio la giovane bastardina del vecchio Sparafulmini!»
«Come l’hai chiamata?» sbottai di colpo.
«Bastardina di Zeus. Non è quello che è? Una bastarda nata da quel vecchiaccio?» disse Momo con falsa aria innocente.
«Lascialo perdere, Scott. Momo era famoso sull’Olimpo per le sue frasi irriverenti, ecco perché è stato scacciato» s’intromise Alec, posandomi una mano sulla spalla per farmi calmare.
Lasciarlo perdere? Odiavo quando qualcuno insultava i miei amici. E odiavo ancora di più quando noi semidei venivamo definiti per quello che davvero eravamo: dei figli illegittimi, dei bastardi.
«Oh, e questo ragazzetto chi sarà mai? Veh, mi ci gioco il nome che è figlio di quella dannata strega di Afrodite! Una strega con la coda di paglia, irascibile e permalosa!»
«Sul serio? Non ha paura di una qualche sorta di punizione divina per quello che sta dicendo?» rise Lena. Non sembrava affatto essersela presa per come l’aveva chiamata Momo poco prima.
«Ragazzina, la punizione più grande gli dei me l’hanno già inflitta spedendomi in questo immondezzaio nel quale sguazzano gli umani. Come potrebbe andarmi peggio? Veh, però mi sembra che comunque una cosa buona questo mondo ce l’abbia: si chiama libertà d’espressione» disse Momo, poi alzò il volto al cielo e pose le mani a cono sulla bocca. «Mi avete sentito, vecchie canaglie? Libertà d’espressione!»
Rimanemmo a guardarlo per qualche istante, senza ben sapere come comportarci con quel vecchietto pazzo. Fu Leighton, poi, a rompere il silenzio.
«Umh… ci eravamo avvicinati per il cartello degli ombrelli… ne vorremmo comprare due»
«No»
Inarcai un sopracciglio, guardando Momo che tornava a sedersi lamentandosi dei dolori alla schiena.
«Come sarebbe a dire “no”?» domandai.
«Veh, un no è un no! All’Empire State Building non ci arriverete mai, di questo passo. Non con qualcuno che continua a rallentarvi»
Guardai Momo con un’espressione stranita. Qualcuno che continuava a rallentarci? Cosa voleva dire?
Mi voltai verso i miei amici, ma anche loro sembravano non aver afferrato appieno le parole del vecchio scorbutico; il quale, dopo aver ammirato l’effetto destato dalla sua frase, sorrise malignamente e batté il suo bastone per terra.
«Ma non mi dite! Non vi eravate neanche accorti di avere un voltagabbana fra le vostre righe?» si interruppe giusto per sputare un grumo di catarro per terra, poi riprese con le sue lamentele. «Ai miei tempi i giovani erano addestrati! Ah, i bei tempi di Sparta, quei ragazzi sì che erano veri eroi! Non queste mezze cartucce di oggigiorno, buone neanche a capire chi fa il doppiogioco e chi no!»
«Qui nessuno fa il doppiogioco» esclamai con un sorrisetto sulle labbra. Chissà, magari la vecchiaia stava facendo perdere colpi al vecchio Momo. Quanto senno poteva rimanere a qualcuno che era vivo già dai tempi di Sparta?
«La tua ingenuità sarebbe, uh, come si dice, tenera per qualcuno. Non per me. Io la trovo disgustosa. Gli occhi ti funzionano bene, figlio di Apollo? Veh? Oppure il sole ti ha accecato lo sguardo?»
Dentro di me scattò un qualcosa nell’udire quelle parole.
Ate, pensai. Momo doveva essere uno dei seguaci di Ate.
Infilai la mano nella tasca e ne tirai fuori la mia penna, togliendole il cappuccio e trasformandola in una spada che puntai dritta alla gola del vecchio.
Sentii Leighton trasalire. Momo però non sembrò né spaventato né preoccupato, anzi. Mi parve quasi di vedere uno scintillio di compiacimento nei suoi occhietti infossati.
Alzò il bastone con lentezza, e ne fece incrociare la punta con quella della mia spada, spingendo via la mia arma.
«Almeno la prontezza di riflessi non ti manca, ragazzo. Ma non è verso di me che devi puntare questo giocattolino» sospirò. «Mi sembra che il tuo intuito non sia del tutto rovinato. Peccato che sia stato offuscato da stupidaggini quali la fiducia e l’amicizia»
Nella mia testa centinaia di pensieri si stavano rincorrendo, neanche stessero giocando ad acchiapparello. Ero convinto che Momo stesse dicendo solo un grandissimo numero di stupidaggini. Cosa voleva insinuare, che qualcuno dei miei amici fosse un traditore? Sbagliava di grosso.
Eppure, mentre reggevo la spada, mi accorsi che mi stavano tremando le mani.
Abbassai la mia arma lungo il mio fianco, voltandomi verso i miei amici. Alec, Leighton, Lena.
«Non vorrai credergli!» esclamò Leighton, i grandi occhi scuri ancora più grandi per via dello sconcerto. Era nel panico più totale.
«Scott, sii ragionevole!» proruppe Lena. «Per quello che ne sappiamo, Momo potrebbe star tentando solamente di metterci l’uno contro l’altro! Che garanzia abbiamo che stia dicendo la verità?»
Annuii, e tornai a voltarmi verso Momo.
«Come faccio a sapere che non stai mentendo?» gli domandai.
I suoi occhietti neri brillarono. «Lo sai perché gli dei mi hanno cacciato dall’Olimpo, ragazzo? Perché li giudicavo. Perché mettevo in mostra i loro difetti, le loro vere facce. Rimuovevo la maschera che avevano la gran cura di indossare per farsi ammirare dagli uomini e li riducevo a ciò che sono veramente: degli imbroglioni. Non sono capace di mentire, figliuolo. La verità va sempre detta, anche quando fa male»
Rimanemmo in silenzio. Perfino la pioggia aveva cessato di cadere.
Volevo non credergli; volevo che Momo fosse solo un vecchio senza senno che avremmo dovuto ignorare. Ma c’era una parte di me che strepitava affinché capissi che quel misterioso vecchietto stava dicendo la verità.
Volevo non credergli.
Ma gli credevo.
«Dice la verità» decretai con un filo di voce.
Nel momento in cui lo dissi, seppi che era vero. E mi ricordai della profezia che avevamo ascoltato al Campo Mezzosangue prima di partire, la sera della Caccia alla Bandiera, quando Aimee era stata uccisa.
Saranno quattro i prodi che tenteranno la sorte, in tre troveranno l’ausilio delle Guardiane delle Porte. Quindi stava a significare che uno di noi quattro avrebbe tradito gli altri? Era questo il senso delle parole dell’Oracolo?
Sentivo il cuore martellarmi nel petto. Quella mattina, quella stessa mattina, durante il mio sogno Ate mi aveva proposto di passare dalla sua parte. E io ero stato così vicino a farlo…
«Sai anche chi è che sta facendo il doppiogioco, vero Momo? Dimmelo»
Il vecchietto mi lanciò un’occhiata in tralice. Ogni segno di divertimento era sparito dal suo viso rugoso.
Fece per aprire la bocca e parlare, ma qualcun altro fu più veloce di lui. Sentire quella voce pronunciare quelle parole fu peggio nel canto delle Preghiere, peggio dell’assedio delle api di Melissa, peggio perfino delle gelide ombre di Ate che mi soffocavano e mi torturavano.
«Sono io» disse Alec. «Sono io che vi ho traditi»
 
«No» esclamò Leighton con voce strozzata. Guardava Alec e tremava. «No, non è vero. Tu… andiamo, Alec! È impossibile!» rise nervosamente.
«Glie lo spieghi tu a questi poveri sempliciotti o glie lo spiego io?» disse Momo, poggiato al suo bastone. «Veh! La mela non cade mai troppo lontano dall’albero, a quanto vedo. La tua mammina era un’ipocrita egocentrica, tale e quale a come sei tu!»
«Sta zitto, vecchio! Che ne sai tu di come sono!» ruggì Alec.
Momo non si curò di lui. «Ate lo ha avvicinato quando lo avete lasciato solo per venire a New York. Credo sia stato facile. Sbaglio, o eri convalescente in quel periodo? Quando si sta male è più facile ascoltare le voci»
Alec se ne stava immobile con lo sguardo basso e i pugni chiusi. Leighton lo fissava con disgusto.
«Ah, ma state tranquilli, non si è macchiato di chissà quale crimine. Vi ha solo rallentati, di proposito, in modo da concedere ad Ate più tempo. Per far cosa non ne ho idea nemmeno io, ma di certo deve essere qualcosa di grosso. Oh, e ovviamente ha raccontato alla sua cara dea ogni vostro discorso e le ha notificato ogni vostro spostamento» continuò indisturbato Momo.
«Non m’interessa sapere cosa ha fatto. M’interessa sapere perché lo ha fatto» dissi io, con voce calma e ferma. Avrei dovuto essere furioso, ma non ci riuscivo. Ero calmo. Freddo. L’eccessiva drammaticità non mi era mai, mai, mai andata a genio.
Alec alzò lo sguardo su di me. Quegli occhi verdi mi trafissero. «Scott. Tu sei il mio migliore amico—»
«Già, lo credevo anche io. Cos’è, volevi vendicarti degli dei? Volevi seguire l’esempio di Luke Castellan quando ha tradito il campo?»
«Non è per questo! Tu… tu non puoi capire! Ate mi ha fatto sentire come se io importassi qualcosa, in questo schifo di mondo!»
Rimasi spiazzato dalla rabbia che trapelava dalle parole di Alec.
«Dèi, che assurdità stai dicendo? Ma certo che tu importi qualcosa!»
«Già. È per questo che mio padre si comporta come se non avesse un figlio. È per questo che da quando sono nato mia madre non si è degnata di essere presente neanche un secondo nella mia vita. Pensa, Scott! Sono talmente importante che la dea Eris mi snobba e richiede espressamente di avere te e Leighton al suo cospetto!»
Scossi la testa con violenza. «Ate ti ha fatto il lavaggio del cervello»
Alec incassò il colpo, e deglutì. Poi si voltò verso Leighton, con un’aria straziata. «Leighton…»
«Stammi lontano!» esclamò lei, allontanando con uno schiaffo la mano che Alec le stava porgendo. «Non riesco a credere che tu sia stato così stupido ed egoista»
«Leighton, ti prego, almeno tu devi ascoltarmi!»
«Non sprecare fiato con loro, Alec, tesoro» disse qualcuno poco lontano da noi.
Al suono di quella voce, sentii come se mille aghi fatti di ghiaccio mi avessero trafitto il petto e lo stomaco.
Ci voltammo tutti quanti verso il luogo dove doveva trovarsi chiunque avesse parlato.
Con passi lenti, misurati, stava avanzando verso di noi una ragazza. Vestiva una gonna bianca e aderente che terminava all’altezza delle ginocchia, scarpe basse, una camicetta rosa a mezze maniche che lasciava scoperte le braccia esili e pallide, come lo erano le lunghe gambe. I capelli scuri della ragazza erano ordinatamente pettinati e acconciati in modo che un fermacapelli li tenesse lontani dal viso.
Nel complesso, poteva anche sembrare una ragazza molto bella, ma i suoi occhi… grandi occhi neri, occhi spiritati, spalancati e illuminati da follia e malvagità.
C’era solo una persona a questo mondo che avrebbe potuto avere degli occhi del genere.
E quell’unica persona era una dea folle e millenaria che era stata imprigionata da Zeus secoli e secoli prima.
«A-Ate!» esclamai, alzando immediatamente la spada e portandomi in posizione d’attacco. Anche Leighton e Lena snudarono le loro lame, e a sorpresa persino Momo saltò giù dalla sua sedia e si frappose fra noi e la dea, brandendo il suo bastone.
Ate sorrise, alzando una mano e facendoci cenno di abbassare le armi, cosa che nessuno fece.
«Lietissima di ricevere una tale accoglienza» disse la dea con voce suadente. «Momo, mio caro! Ne è passato di tempo dall’ultima volta che ci siamo visti!»
Momo sputò a terra. Ate lo ignorò.
«Leighton, tesoro. Come stanno le tue mani? E Lena! La mia cara e piccola sorellastra!»
«Risparmia i convenevoli» intimai alla dea. «Se sei qui non è di certo per conversare»
La risata di Ate mi fece rabbrividire. Il suo aspetto poteva anche essere più umano, ma la sua aura oscura permaneva più forte che mai.
«Sei sempre sul piede di guerra, Scott! Rilassati, non sono qui per combattere. Non ve ne sarebbe alcun bisogno» sorrise la dea.
Guardai fisso nei suoi occhi scuri, ripetendo a me stesso che non avevo paura.
Ma più li fissavo, più mi rendevo conto che eravamo nei guai. C’era a tutto un comune motivo: se Ate era lì davanti a noi, se aveva acquisito un nuovo corpo, se si era liberata dalla prigionia impostale da Zeus, se non riteneva vi fosse stato alcun bisogno di combattere; tutto ciò, perché avevamo fallito nella nostra impresa.
E lei aveva già vinto.











Ed eccoci qua! :) So che ultimamente aggiorno ad ogni morte di papa ma, credetemi, già è tanto se riesco ad entrare una volta su dieci. Cosa mi affligge? La scuola. E nello specifico storia&filosofia. *facepalm* Mi domando come arriverò a fine anno.
Quindi, eccoci ad un punto decisivo della storia: Alec, il traditore. Ve lo aspettavate? Non ve lo aspettavate? Che ne pensate? Abbiamo un erede di Luke?
Ma soprattutto: Ate! Ha un corpo! E' libera! Che pastrocchio è successo? D: Ah, non chiedetelo a me u.u tutto sarà più chiaro nei prossimi capitoli, lo prometto.
Ah, per Momo ho volutamente usato un linguaggio un po' "sgrammaticato" :3

La volta scorsa vi ho chiesto quale attore vedreste meglio nel ruolo di Scott. Jeremy Sumpter mi piace molto! Ma il mio Scott ideale rimarrà per sempre Drew Van Acker <3 anche se è troppo grande çuç
Questa volta invece vi domando: quale attrice vedreste nel ruolo di Lena? :D

Aspetto i vostri suggerimenti!

Eff.

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** Scoperchiamo un vaso maledetto. ***


Scoperchiamo un vaso maledetto.

 
Non avevo idea di come avessimo fatto ad arrivare sino a questo punto. Guardavo Ate nella sua nuova e apparentemente innocente forma, guardavo Alec che stringeva i pugni e non riusciva a sostenere lo sguardo di nessuno, guardavo Momo che inaspettatamente si era posizionato davanti a noi come a farci da scudo e non capivo. Come eravamo arrivati a tutto questo?
Nel profondo del cuore, mi rendevo conto che però mi stavo ponendo la domanda sbagliata. Avrei dovuto chiedermi: perché Alec ci aveva condotti in questa situazione?
Il mio migliore amico era lì davanti a me, con un’espressione distrutta in viso, ma non riuscivo a provare pena per lui. Non riuscivo a provare nulla.
«Ma come siamo tesi!» esclamò Ate con una risata frivola. «Ve l’ho già detto, non ho intenzione di combattere. Non ora, e soprattutto non qui»
«Allora faresti meglio a sparire dalla mia vista, uccellaccio del malaugurio vestito da maiale rosa» le ringhiò contro Momo, brandendo il suo bastone nodoso. «Porti solo rogne, non ti voglio nel mio bar»
La dea gli lanciò un’occhiata glaciale, che mi fece rabbrividire. Istintivamente, mi mossi verso Momo.
«Vedo che essere scaraventato giù dall’Olimpo non ti ha insegnato quando tenere a freno la lingua, vecchio»
«Così come non ha insegnato a te a non essere una bambina capricciosa. Paparino farà meglio a sculacciarti con più forza, la prossima volta, così magari imparerai la lezione»
Sgranai gli occhi. Cos’è, Momo aveva intenzione di porre fine alla sua vita così da un giorno all’altro? Stava tentando di suicidarsi?
Ate lanciò un grugnito — non so come meglio definirlo. Sul serio, sembrava davvero un grugnito animale! — e sul suo viso comparve un’orrenda smorfia.
Agitò le mani, e subito quattro catene d’ombra si strinsero attorno a Momo, stringendolo con forza.
«Non osare, vecchio, non osare mai più!»
«Momo!» gridai lanciandomi in suo soccorso. Colpii le catene d’ombra con la mia spada, e il contraccolpo che ne seguì mi fece battere i denti. Cavolo! Quelle cose sembravano fatte d’aria scura, ma erano dure quanto l’acciaio!
«Andiamo, andiamo!» continuai a colpirle con la mia lama, ma non riuscivo neanche a scalfirle.
Allora ricordai che nel sogno di quella mattina ero riuscito a scacciare le ombre utilizzando uno scudo di luce. Forse era questo il trucco. Forse la luce funzionava più di una spada.
«Avanti, Scott. Mostrami quello di cui sei capace» sentii dire da Ate, che pareva aver recuperato la calma. Quello di cui ero capace? A cosa diamine si stava riferendo? Il cielo era talmente nuvoloso che non sarei riuscito ad evocare un raggio di sole neanche se fossi stato Apollo in persona! Cioè, dei, forse in quel caso ci sarei riuscito, ma non era questo il senso della frase.
Lanciai un’occhiata preoccupata al viso di Momo, arrossato e pietrificato in una smorfia di dolore. Le catene d’ombra erano talmente strette che a stento lo lasciavano respirare.
«Ora basta!» esclamò Lena.
Mi voltai di scatto, facendo appena in tempo per vederla scattare contro Ate con il suo pugnale elettrico, e per un attimo rimasi senza parole. Che diamine aveva intenzione di fare quella ragazza?! D’accordo che era abbastanza brava nei combattimenti, ma quella contro cui si stava scagliando era una dea! Una dea!
Fortunatamente — credo — Alec la intercettò prima ancora che Ate potesse compiere alcuna mossa. Il pugnale di Lena stridette contro la spada di Alec, facendo volare una miriade di scintille.
«Alec, no!» esclamò Leighton con rabbia. «Stalle lontano!»
Ma Alec non si allontanò da Lena, anzi. Prese a respingerla, affondando con la spada e facendo indietreggiare la figlia di Zeus che, colta alla sprovvista dalla raffica di colpi di Alec, quasi inciampò all’indietro e per poco non rischiò di essere infilzata da parte a parte.
A quel punto Leighton scattò in avanti e si frappose fra Alec e Lena, deviando un nuovo attacco del figlio di Afrodite.
«Restane fuori, Leighton» sibilò lui, lanciandole uno sguardo freddo.
Lei non rispose. Se gli occhi di Alec erano di ghiaccio, quelli di Leighton erano incendiati dalla rabbia. La ragazza non indugiò oltre e attaccò al fianco sinistro di Alec. Lui fece per parare il colpo, ma le armi non cozzarono: quella di Leighton era stata una finta.
La sua lama affilata si fece strada fino al viso di Alec, aprendogli un taglio poco sopra il sopracciglio destro. Il sangue sgorgò quasi a fiotti.
Non era una ferita grave, era chiaro, ma come ogni ferita inferta al capo sanguinava parecchio.
L’espressione sperduta di Alec fu peggio di un colpo nello stomaco. Guardò prima Leighton, poi me, e sembrava non capacitarsi di come la sua migliore amica potesse averlo ferito con tanta facilità. Ma qualcosa mi diceva che la ferita più dolorosa che era stata inferta ad Alec non era quella che gli aveva ridotto il lato desto del viso ad una fontana di sangue. Era uno squarcio più intimo. Più doloroso.
Era assurdo.
Sentii crescere dentro di me una rabbia cocente, accompagnata da una sensazione molto familiare. Con la coda dell’occhio vidi gli occhi neri di Ate illuminarsi.
Per tutto questo tempo avevo continuato a colpire le catene d’ombra che stringevano Momo, con la speranza di poterle quantomeno allentare. Ma adesso, tutto d’un tratto, riuscii ad incanalare prima nelle mie mani e poi nella spada quella sensazione di calore ustionante che mi bruciava il petto, senza farmi del male.
E allora la spada s’illuminò. Come fosse stata fatta di luce pura.
Sena pensarci due volte colpii per l’ennesima volta i legacci d’ombra che, al contatto con la mia spada luminosa, si dissolsero sfrigolando. Momo, finalmente libero, cadde a terra e prese a tossire.
Qualche istante dopo mi accorsi che l’impugnatura della spada aveva iniziato a farsi incandescente, e che sulla lama erano comparse delle incrinature. Prima che potessi anche solo domandarmi che accidenti stesse succedendo, la mia spada andò in frantumi.
Questo piccolo inconveniente aveva interrotto il combattimento tra Alec e Leighton, che adesso mi guardavano stupiti, come del resto stavano facendo anche tutti li altri. Avevo la tentazione di domandare che cosa ci fosse stato di così sbalorditivo da guardare.
«Te l’avevo detto, Alec» sospirò infine Ate con fare teatrale, attirando su di sé l’attenzione. «Te l’avevo detto che quelli che tu chiami amici non ti avrebbero mai capito, mio tesoro. Ti avevo avvertito che ti avrebbero tradito alla prima occasione»
Un momento. Cosa?
«Tradito?» esclamai furioso, lanciando via quello che restava della mia spada, ovvero la sola impugnatura. «Noi avremmo tradito lui? Questa è la più grossa stupidaggine che io abbia mai sentito!»
«Povero caro, così convinto della propria innocenza…»
«Non ne sono convinto, ne sono più che sicuro! Noi non abbiamo mai tradito Alec, noi—»
Con un gesto secco della mano, Ate lanciò una nuova ombra contro di me, probabilmente con l’intenzione di zittirmi. Ma stavolta non mi feci cogliere impreparato.
Appena l’ombra fu vicina alzai un braccio e, con mia grande sorpresa, per qualche istante questo si illuminò di luce propria. Si trattò giusto di una manciata di secondi, ma bastarono per far sì che anche questa nuova ombra venisse distrutta.
Per un attimo Ate sembrò seriamente colpita, ma fu brava a dissimularlo subito.
«Qui non abbiamo più nulla per cui valga la pena rimanere, Alec. Andiamo» disse, e in un attimo un vortice di ombre scure circondò sia la dea che il mio migliore amico.
«No!» esclamai, lanciandomi verso di loro. Ma prima che potessi raggiungerli, le loro figure sparirono nel nulla.
 
«Sicuro di stare bene, Momo?»
Il vecchietto allontanò Lena con il suo bastone con fare burbero.
«Veh! Ci vuole molto peggio per togliermi dalla circolazione. Quella stregaccia mi avrà tra i piedi ancora per un bel po’, poco ma sicuro»
Momo si era ripreso molto bene dall’attacco di Ate. Di certo l’unica parte di lui rimasta abbastanza ferita era il suo orgoglio.
«E se sono ancora vivo di certo non è per merito di quel ragazzaccio. Cosa aspettavi, veh!, che quelle porcherie che mi legavano si sciogliessero da sole?»
Alzai lo sguardo sentendomi chiamato in causa e gli rivolsi un’occhiataccia. «Prego, Momo, non c’è di che»
«Scott ha fatto tutto il possibile per aiutarti, dovresti essergli grato!» proruppe Lena in mia difesa.
Avrei voluto sorriderle per ringraziarla, ma i muscoli del viso erano impietriti. Sorridere era decisamente l’ultima cosa che sarei stato in grado di fare in quel momento.
Sedevo ad uno dei tavolini del bar di Momo accanto a Leighton, ed entrambi avevamo la stessa espressione afflitta in viso. L’unica che sembrava stare un po’ meglio era Lena, ma era comprensibile: lei non era stata appena tradita dal suo migliore amico.
«Bambinetta irrispettosa e indisponente» borbottò Momo rivolgendo un’occhiataccia a Lena, che la ignorò volutamente. «Tu e i tuoi amici dovreste levare le tende e lasciare questo povero vecchio alla sua pace. Sbaglio, o avevate un’impresa da portare a termine?»
«Avevamo» mormorai.
«Ce l’abbiamo ancora» mi corresse Lena. «Saranno quattro i prodi che tenteranno la sorte, in tre troveranno l’ausilio delle Guardiane delle Porte. È la nostra profezia, ed era già stato messo in conto che Alec ci avrebbe abbandonati. Dobbiamo andare avanti»
Seguì qualche minuto di silenzio, in cui gli unici rumori erano costituiti da qualche macchina che passava in lontananza e i nostri respiri.
Fu Momo a parlare per primo. «Veh, nonostante tutto la bambinetta ha ragione»
«D’accordo» mormorò Leighton al mio fianco, alzandosi. «È giusto. La profezia ci aveva avvertiti. Ora dobbiamo muoverci e raggiungere le Ore prima che Ate possa fare qualche danno»
Guardai la mia migliore amica, fiera e decisa come se stesse traendo forza da un fuoco che le ardeva dentro. Leighton era forte. Forse anche più di me.
«Va bene. Mettiamoci in cammino» sospirai.
«Non per caricarvi del peso delle aspettative, ma sappiate che molto probabilmente avete sulle spalle le sorti dell’Olimpo e perché no, anche del mondo umano» fece Momo, al ché io, Leighton e Lena ci voltammo a guardarlo.
«Non per caricarci del peso delle aspettative, eh?» borbottò Lena.
 
Dopo aver salutato Momo, ci incamminammo verso l’Empire State Building. Il morale di tutti era a terra. Anzi, direi che fosse sprofondato addirittura nel Tartaro.
Lena camminava davanti a tutti con fare spedito, voltandosi ogni tanto per controllare che Leighton e io la stessimo ancora seguendo.
Leighton camminava al mio fianco in silenzio, persa nei suoi pensieri. Ad un tratto però mi sfiorò il braccio e mi prese la mano, stringendola forte e lanciandomi uno sguardo carico di domande.
Annuii, provando a sorriderle per rassicurarla. Senza Alec c’eravamo solo io e lei, e giurai silenziosamente che non l’avrei lasciata da sola.
«Ragazzi» mormorò ad un tratto Lena. Si era fermata nel bel mezzo di una strada deserta, e stava fissando  qualcosa. Anzi, qualcuno.
A pochi metri da noi si trovava una ragazza, che ad occhio e croce doveva avere pressappoco la nostra età. Aveva capelli castani raccolti in una crocchia sulla nuca, e un ciuffo più corto di capelli le ricopriva parte della fronte. Indossava un semplice paio di jeans ed una felpa di un rosa slavato, ingrigitosi nel tempo. Tra le braccia, poi, stringeva un vaso di terracotta, decorato con motivi geometrici e raffigurazioni in stile greco.
Quando ci avvicinammo la ragazza sorrise, senza mostrare i denti. Aveva un viso tondeggiante, da bambina, e i suoi occhi erano color del caffellatte. Solo che sembravano spenti, senza vita.
«E tu chi saresti?» fece Lena, studiandola con le sopracciglia inarcate.
La ragazza abbassò lo sguardo e scostò appena l’ingombrante vaso che teneva stretto al petto, rivelando una catenina in ferro che come ciondolo aveva una scritta in lettere greche.
Strinsi appena gli occhi e lessi.
«Pandora?»
La ragazza annuì e sorrise raggiante, ma quel sorriso non arrivò mai a rallegrare anche i suoi occhi.
«La Pandora del mito greco? In carne ed ossa?» fece Lena, sorpresa.
«Che c’è, con tutti gli anni che hai vissuto da semidea ancora ti stupisci nell’incontrare personaggi mitologici?» le dissi.
Pandora rise, anche se dalla sua bocca non fuoriuscì nessun suono. Scostò il vaso in modo da avere una mano libera, e con quella mi prese la mano, tirandola lievemente verso di sé.
La sua pelle era soffice e vellutata, ma era anche innaturalmente fredda.
«Cosa…?»
«Credo che voglia che la seguiamo» mormorò Lena, e Pandora annuì entusiasta.
«Non è un po’ rischioso? Voglio dire, non dovremmo tirar dritto fino all’Empire State Building?»
Pandora mi strinse più forte la mano, e quando alzai lo sguardo su di lei mi lanciò un’occhiata disperata, come se la sola idea che non la seguissimo la terrorizzasse. Supplicò con lo sguardo anche Lena, ma quando vide Leighton le si accese una scintilla negli occhi.
Mi lasciò la mano e, avvicinandosi a Leighton, fece girare il vaso in modo da mostrarle un’illustrazione dipinta sulla superficie rossastra, dove un imponente uomo stava forgiando con il suo martello una donna. Pandora indicò prima la figura dell’uomo, poi Leighton.
«Quello è Efesto?» intuì Leighton. Pandora annuì.
«E quindi quella sei tu. Oh, ma certo! È stato mio padre a creare Pandora secondo il mito!» esclamò la mia amica, con un briciolo di emozione che traspariva dalla voce.
«Questo non significa che possiamo fidarci di lei» disse Lena.
«Andiamo! Forse è stato Efesto in persona a mandarla da noi! Magari vuole che porti dalle Ore»
«Sapremmo molto di più se Pandora potesse parlare» osservai.
Non l’avessi mai detto! Pandora mi guardò con fare ferito, e poco ci mancò che non scoppiasse a piangere! Solo dopo averle assicurato più e più volte che nessuno ce l’aveva con lei per questo suo mutismo si riprese, e iniziò a saltellare per la strada con noi che la seguivamo.
Incontrai spesso gli sguardi spiazzati di Leighton e Lena di fronte al comportamento di Pandora, ma la sua presenza servì a distrarci da ciò che era accaduto con Alec.
Pandora sembrava molto impacciata persino nel camminare, e più di una volta fu sul punto di rovinare per terra. Ogni volta che inciampava la sua prima reazione era di ruotare su sé stessa in modo da cadere a terra seduta; stringeva forte il vaso e prima di controllare di non essersi ferita si preoccupava che questo non avesse subito alcun danno.
«Quel vaso deve essere davvero prezioso» dissi dopo l’ennesima caduta.
«Puoi dirlo forte! Secondo la leggenda, dentro vi sono racchiusi tutti i mali del mondo» spiegò Lena. «Fu creato da Efesto su ordine di Zeus per punire l’umanità»
Inarcai le sopracciglia. L’idea che tra le braccia goffe di Pandora fosse racchiuso tutto quel pandemonio non è che mi facesse sentire tanto rilassato.
Passò ancora qualche altra manciata di minuti, e iniziai ad accorgermi che ci stavamo dirigendo verso una zona più periferica della città. Incontrammo un paio di condomini e qualche abitazione singola, ma dopo un po’ le uniche costruzioni che comparvero dinanzi ai nostri occhi furono dei capannoni che molto probabilmente venivano usati come depositi.
Dov’è che Pandora ci stava portando?
«Sapete, credo proprio che l’Empire State Building sia da tutta un’altra parte rispetto a dove ci troviamo ora»
Pandora si voltò a guardare Lena con un’espressione offesa. Sembrava che le stesse dicendo «Cos’è, non ti fidi di me?»
«Dai, andiamo avanti» fece Leighton, sorridendo incerta a Pandora e facendole cenno di proseguire. Pandora annuì e ci rimettemmo in marcia.
Avanzammo ancora per poco, perché dopo aver superato due capannoni la ragazza con il vaso di fermò davanti a una terza costruzione, esteriormente identica in tutto e per tutto a quelle che ci eravamo lasciati alle spalle, ma quando una strana sensazione mi rimescolò lo stomaco capii che in fondo non doveva essere proprio così uguale.
Non vi era nessun catenaccio a chiudere le porte d’ingresso, per cui Pandora le spinse e ci fece cenno di entrare.
«Dobbiamo?» mormorai, rivolto a Leighton e Lena.
«Ormai siamo qui» rispose la figlia di Zeus stringendosi nelle spalle, con le sopracciglia aggrottate.
Pandora indicò nuovamente l’entrata del capannone, per cui non esitammo oltre. Entrammo nella grande costruzione e ci guardammo intorno.
All’interno era tutto completamente vuoto. Il soffitto era altissimo, e la luce soffusa entrava attraverso delle piccole finestrelle poste così in alto che mi domandai se mai qualcuno fosse salito a pulirle dalla polvere e dallo sporco che le incrostava.
Ma le finestre non erano le uniche ad essere ricoperte di sporcizia; a giudicare dalla quantità di polvere e di gli dei solo sanno cosa sul pavimento, nessuno doveva entrare in quel capannone da un bel po’ di tempo.
Probabilmente eravamo i primi da chissà quanti anni.
«Che ci facciamo qui?» domandai a Pandora. La mia voce riecheggiò lungo le pareti spoglie del capannone, producendo un’eco.
Pandora non rispose, e capii che qualcosa non andava.
«Pandora?»
La ragazza sospirò, ma come per quando aveva riso nessun suono arrivò alle nostre orecchie. Posò a terra il suo vaso, guardandolo con un’espressione triste e addolorata.
«Io non… non capisco» mormorò Leighton, confusa.
«Se è per questo, neanche io sto capendo un accidenti» le risposi. «Ma l’istinto mi dice che forse Pandora non aveva affatto intenzione di condurci sani e salvi dalle Ore, o sbaglio?»
Pandora sobbalzò. I suoi occhi spenti si riempirono di lacrime, ma queste non riuscirono mai a scenderle sulle guance. Anche prima non c’erano riuscite. Pandora non riusciva a piangere.
Proprio come non riusciva a parlare. O come non riusciva a compiere tre passi senza inciampare.
Allora un’idea inquietante iniziò a farsi strada nella mia mente. Se ci avevo visto giusto, e soprattutto se la mia intuizione fosse stata corretta, allora avevamo un bel problemino da risolvere. Ma prima di agire, decisi di cercare la conferma delle mie supposizioni. E chi poteva darmi questa conferma meglio della figlia di Efesto?
«Leighton, le costruzioni di tuo padre sono sempre perfette, no? Voglio dire, niente cose che non vanno, niente difetti o cose del genere?» domandai.
Leighton fu presa alla sprovvista da questa mia domanda, ma poi annuì. «Efesto è molto preciso nei suoi lavori. Di certo non lascerebbe mai un suo lavoro incompiuto o con qualcosa che non va»
Dannazione.
Sospirai con rabbia. Ci eravamo cascati come degli stupidi.
«Questa Pandora è difettosa» mormorai squadrando la falsa Pandora con disprezzo. Lei abbassò lo sguardo, ferita. «Non è stato Efesto a costruirla. È solo una copia»
«Che cosa?!» fece Lena con gli occhi sgranati.
«Dei onnipotenti…» sussurrò Leighton. «Sono un’idiota! È tutta colpa mia, mi dispiace così tanto! Come ho fatto a non rendermene conto subito?»
Strinsi le labbra. Non era affatto colpa di Leighton. Era ancora sconvolta da ciò che era accaduto con Alec, e di fronte a un dono di suo padre come poteva essere sospettosa o cercare l’ago nel pagliaio?
Il punto era che Pandora non era stato un dono di Efesto, ero pronto a scommetterci qualsiasi cosa. Per di più immaginavo di sapere chi fosse stato a mandarcela. Anzi, ne ero totalmente sicuro.
Stavo per dire alle ragazze di alzare i tacchi e di uscire da quel capannone, che magari potevamo avere ancora un qualche vantaggio su Ate, ma qualcosa catturò completamente la mia attenzione.
Con un singulto senza suono, Pandora si accovacciò accanto al suo vaso e lo scoperchiò.
Udii il gemito soffocato di Leighton, così come udii Lena gridare di uscire immediatamente. Udii un rumore di creta che va in frantumi, e poi più niente.
Dal vaso di Pandora fuoriuscì una tempesta nera con tanto di tuoni. Ci circondò, e dopo qualche istante mi resi conto di non vedere più né Leighton né Lena. Non riuscivo neanche a sentire le loro voci.
Chiusi gli occhi per ripararmi dal vento furioso, e quando li riaprii mi accorsi di essere circondato dal… dal nulla. Tutto intorno a me era scomparso. C’era solo infinito spazio nero. Ovunque guardassi.
Fu allora che cominciarono le grida. 











Ehilà! :) Innantitutto, questo capitolo è leggermente più breve rispetto agli altri, perché non volevo "allungare il brodo". Diciamo che è un preludio al prossimo capitolo che, ve lo assicuro, sarà bello tosto. 
Credo che Momo sia diventato uno dei miei personaggi preferiti! E la "falsa" Pandora... mh, di lei non dico ancora nulla, ma sappiate che la ritroverete :3
Ci tenevo a postare entro oggi perché domani partirò per la Francia con la mia classe e starò via 5 giorni, quindi non avrei avuto modo di scrivere. E al mio ritorno sarei stata troppo esausta per farlo xD 
Mh, che dire, ringrazio tutti coloro che seguono la fic, che la recensiscono e che l'hanno inserita tra le preferite e le seguite :D siete fantastici!

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** Ho un’inattesa riunione con me stesso. ***


Ho un’inattesa riunione con me stesso.

 
«Mamma! Mamma!»
«Scott? Cosa…? Oh, Scott!  Il mio piccolo ometto ha imparato a camminare!»
Aprii gli occhi, seppur con una certa fatica. Rimasi accecato dalla luce del sole, e mi assalì ben presto una sensazione di spaesamento davvero strana.
Ero sdraiato su di un divano, in una stanza che alla fine riconobbi come il grande salone soleggiato di casa mia. Era diverso da come lo ricordavo, però. I mobili erano posizionati in maniera diversa, e soprattutto davanti la grande porta-finestra c’erano meno cavalletti del solito, sui quali erano poggiati i quadri dipinti da mia madre.
E, a proposito di mia madre, la sua risata allegra mi arrivava alle orecchie da un punto non tanto definito alle mie spalle.
Mi alzai a sedere. Subito la testa prese a girarmi come se fossi appena sceso dalle montagne russe.
«Ahi…» mormorai mentre mi voltavo. Dietro al divano c’era una bellissima donna bionda in cui riconobbi mia madre. Ma… era molto più giovane! Doveva avere più di dieci anni in meno.
Stava sorridendo radiosa, con i capelli biondi baciati dal sole, e vederla così bella e felice mi fece male al cuore.
«M-Mamma?» mormorai alzandomi dal divano, con l’intenzione di avvicinarmi a lei, e solo allora mi accorsi del bambino che mia madre teneva tra le braccia.
Aveva i capelli lisci e biondi, il suo stesso sorriso, e si stava agitando come un forsennato mentre rideva divertito.
Ah, per gli dei onnipotenti!
Quel bambino ero io.
Quello doveva essere il giorno in cui avevo finalmente imparato a camminare, dopo essere andato a sbattere contro più o meno ogni singola superficie della casa causandomi bernoccoli su bernoccoli.
Rimasi incantato ad osservare la scena, non riuscendo a capire che cosa diamine stesse succedendo e perché mi trovassi lì. Per di più, mamma non sembrava neanche essersi accorta della mia presenza.
«Ehi? Mamma? Per gli dei, che sta succedendo?» 
Ora, immaginatevi la mia sorpresa quando mia madre si voltò verso di me e, senza neanche dar segno di avermi visto, mi venne incontro passandomi letteralmente attraverso.
«Woah!» esclamai con un salto.
Nella mia mente iniziarono ad affollarsi tutta una serie di pensieri niente affatto rassicuranti. Vi interessa conoscere il primo? Eccolo qui: ero morto. Ero morto ed ero diventato un fantasma, cosa abbastanza plausibile. Questo però non spiegava cosa ci facessi nel passato, né perché fossi tornato a casa mia invece di rimanere…
Mi bloccai di colpo. Io… dove mi trovavo prima di svegliarmi qui? Cosa stavo facendo? Non ricordavo assolutamente nulla, ma sentivo che c’era qualcosa di decisamente importante che avrei dovuto fare.
«Sei il mio piccolo raggio di sole, Scott» mormorò mia madre facendomi trasalire.
La osservai cullare tra le sue braccia il me stesso versione poppante, che la ammirava con sguardo adorante.
«Somigli così tanto a tuo padre… bello e luminoso quanto lui» continuò la mamma. Il suo tono di voce tradiva una certa tristezza accompagnata ad una rabbia che non le avrei mai e poi mai associato.
«Vorrei che Apollo potesse vederti. Vorrei che fosse qui, Scott. Non è giusto che tu cresca senza avere un padre»
«Mamma…» mormorai.
Detestavo sentirla parlare in quel modo. Mia madre era una donna allegra, solare, e non faceva mai parola di mio padre a meno che non fosse strettamente necessario.
Mi stupiva anche la rabbia che trapelava dalla sua voce. Per qualche strano motivo, non riuscivo a immaginarmela così rancorosa nei confronti di Apollo per aver scelto di non far parte delle nostre vite.
Non ci riuscivo, perché quello pieno di rancore verso il dio del sole ero sempre stato io.
Ero cresciuto domandandomi perché tutti i miei amici di scuola aspettassero con ansia il weekend per poter passare un po’ di tempo con i loro rispettivi padri; per anni il giorno della festa del papà le mie maestre d’asilo mi avevano fatto imparare poesie che non avevo poi recitato a nessuno.
Nessuno mi aveva insegnato a giocare a basket, nessuno mi aveva spiegato come comportarmi con la mia prima fidanzata di scuola. C’era sempre stata solo e unicamente mia madre. Solo lei ed io. Lasciati a noi stessi.
Se qualcuno conoscesse un motivo per il quale avrei mai potuto voler bene a mio padre, che mi facesse il grande favore di farsi avanti e di spiegarmelo, perché per quindici anni io non sono riuscito a trovarlo.
Tutto d’un tratto, la scena attorno a me cambiò di colpo.
Non ebbi neanche il tempo di lanciare un ultimo sguardo a mia madre, perché mi ritrovai immediatamente catapultato al centro di un campo da basket, quello del parco vicino la mia scuola.
Un paio di ragazzi mi passarono attraverso, e decisi che era meglio spostarmi.
Strinsi gli occhi per vedere meglio, c’era un sole accecante che rendeva impossibile scorgere i propri compagni di squadra in quel bagno di luce.
Mi diressi verso gli spalti, e quando me stesso mi sfrecciò accanto in direzione del canestro avversario mi ricordai di quell’assurda partita: l’avevamo disputata l’anno scorso, era la finale del torneo del quartiere e la mia squadra aveva faticato in una maniera indescrivibile per strappare agli altri la vittoria.
Ero stato io a centrare il canestro decisivo. Lo ricordavo perfettamente.
Gli ultimi secondi stavano scorrendo in maniera preoccupante e la situazione per noi non si metteva affatto bene. Avevo preso a correre come un forsennato con l’intenzione di far entrare la palla in quel maledettissimo canestro, fosse stata l’ultima cosa che avrei fatto.
Mi ero però ritrovato ostacolato da due ragazzi della squadra avversaria che minacciavano di non farmi avanzare neanche di un passo, e avevo deciso di tentare il tutto per tutto: da una distanza impossibile, avevo lanciato la palla, e quella era miracolosamente entrata nel canestro, dandoci abbastanza punti da vincere la partita a circa due secondi dalla fine.
Mi voltai giusto in tempo per vedermi compiere quell’azione spettacolare, e subito dagli spalti esplose un boato che ancora adesso ebbe l’effetto di riempirmi d’orgoglio.
I miei compagni di squadra saltarono addosso al vecchio me, domandandomi come avessi fatto a tirare in maniera così perfetta da quella distanza.
Be’, non lo sapevo neanche io. O meglio, lo sapevo, ma sarebbe stato strano spiegare ai miei amici che per i figli di Apollo avere una mira più che ottima è qualcosa di naturale.
Il giorno della partita era stato un dei più felici della mia vita, ma non capivo perché lo stessi rivivendo.
«Per farti notare che ancora una volta tuo padre non era lì dove l’avresti voluto»
Mi voltai di scatto, trovandomi faccia a faccia con il vecchio me, liberatosi dai suoi — miei — compagni di squadra.
«Tu… tu puoi vedermi?» gli domandai confuso.
Il vecchio Scott assunse un’espressione beffante che, sono pronto a giurarlo, mai era comparsa sul mio viso prima di quel momento. «Certo che posso vederti»
Non che la cosa mi rassicurasse, eh.
«Dove siamo? Cos’è questo posto?»
«La partita di basket che ci ha fatto eleggere ‘Miglior giocatore del quartiere’. Un giudizio unanime e molto meritato, se vuoi il mio parere. Voglio dire, il nostro tiro sembrava davvero un’opera miracolosa!»
«Non è quello che intendevo. Prima… prima di essere qui ero a casa mia, ed ero un bambino, e adesso sono qui, e non sto capendo nulla, e sento come se avessi qualcosa molto importante da fare e—»
«Vuoi sapere perché sei qui, Scott?» domandò il vecchio me. Annuii.
«Sei qui per capire che stai lottando per la causa sbagliata» continuò lui, lasciandomi ancora più confuso di prima.
«Lottando? Io… io non credo di star lottando per qualcosa, sai?»
Il vecchio me rise. «Oh, lo stai facendo invece. Sei dentro fino al collo in una situazione davvero spiacevole, e indovina un po’ chi è che ti ci ha spedito senza esitazione? Ti do un indizio: ha abbandonato noi e nostra madre quando eravamo dei bambini e per questo lo odiamo con tutta la nostra anima. Qualche idea?»
Aggrottai le sopracciglia. «Mio padre»
«Esattamente»
Abbassai lo sguardo. Odiavo mio padre con tutta la mia anima? Tra odiare e portare rancore c’era una differenza enorme quanto la Casa Grande del Campo Mezzosan…
il Campo Mezzosangue!
Fu come se un elastico fosse scattato nel mio cervello, facendomi ricordare il campo. Mi sentivo come se nel mio cervello ci fosse stato un puzzle da ricomporre, al quale avevo appena aggiunto uno dei pezzi principali.
Il vecchio Scott sembrò accorgersi di questa mia scoperta, ma non disse nulla.
«Sai, io… io non penso di odiare Apollo in questo modo così viscerale. Certo, non è il genitore migliore di questo mondo, ma è pur sempre mo padre» dissi.
«Ah, ma guardati! Sei riuscito persino a ingannare te stesso! Eppure mi sembrava che prima ti fossi reso conto che quei sentimenti che avevi cercato di sopprimere sono ancora qui a roderti l’anima»
Osservai con attenzione lo Scott davanti ai miei occhi. «Tu non puoi conoscere i miei sentimenti»
Lui sospirò, e la sua espressione se possibile si fece ancora più cattiva. «Certo che posso. Io sono te»
«Non è vero!»
«Sei libero di crederci o meno, ma io sono la parte di te che hai cercato di sopprimere. Quella che odia. Quella che vorrebbe vendetta, e quella che pensa che tu stia facendo la scelta sbagliata a ribellarti ad Ate»
Ate.
«Vai al Tartaro! Tu non sei me, tu non esisti!» gridai con tutto il fiato che avevo in corpo.
Ate! La dea psicopatica che voleva distruggere l’Olimpo! Ora riuscivo a ricordare!
Alzai il braccio e immediatamente un raggio di luce accecante si diresse verso il vecchio Scott, imprigionandolo e facendolo scomparire dalla mia vista.
Forse era vero che detestavo mio padre. Non potevo negarlo. Ma mai, mai avrei pensato che allearsi con Ate sarebbe stata la cosa giusta da fare!
«Sono fiero di te, figliolo»
Trasalii.
O ero diventato pazzo, oltre che morto, oppure avevo appena sentito una voce nella mia testa.
«Oh, no, pazzo proprio non lo sei! Credo che questo sia semplicemente il modo più comodo per comunicare in questo momento, non ti pare?»
Sgranai gli occhi. No. Questo era decisamente troppo. In nome di tutti gli dei, quella voce non poteva essere quella di…
«Be’, mi aspettavo una reazione diversa! Dopotutto, è la prima volta che ti trovi a parlare con tuo padre!»
 
Allora, metabolizziamo.
In primo luogo, credo di essere morto. Ho avuto un incontro spirituale con un vecchio me che credeva di essere la mia coscienza o qualche altra porcheria di quel genere. Mia madre mi è passata attraverso. Ho un mal di testa da incubo. E adesso sento la voce di mio padre nella mia testa.
Tutto questo, per la prima volta nella mia vita — be’, mal di testa escluso.
«Pa-papà?» mormorai cautamente. «Che… che cosa ci fai nella mia testa?»
«A dire il vero sono qui per dare una mano. Cioè, sono qui metaforicamente, ma il senso è quello»
Avevo voglia di schiaffarmi una mano in faccia.
La voce di Apollo non era affatto come me l’ero immaginata. Era così… giovane! Una voce che sarebbe potuta appartenere a un mio coetaneo, non a mio padre.
«Lascia che te lo dica, figliolo, te la sei cavata egregiamente poco fa» trillò Apollo tutto contento.
Oh. Wow. Il primo complimento da parte di mio padre.
«Io… grazie. Ma puoi spiegarmi dove mi trovo e che diamine sta succedendo? Sto cercando di capirlo da quando mi sono svegliato e ho visto…»
Mi morirono le parole in gola. Stavo per dire che avevo visto mia madre, ma non avevo proprio voglia di parlare di lei con Apollo.
Fortunatamente, lui sembrò ignorare questa mia esitazione. Fece finta di nulla.
«Quando l’automa di Ate ha aperto il vaso, la magia della dea si è riversata fuori di esso creando una sorta di illusione che tu e le tue amiche state vivendo»
Le mie amiche… Leighton e Lena!
«Devo aiutarle! Come faccio a uscire da questo posto?»
«Be’, a dire il vero non puoi»
Sapete, è un vero peccato che Apollo non fosse stato davanti a me in carne e ossa. Credo si sia perso la migliore delle mie espressioni sconcertate e infuriate. Che peccato.
«Come sarebbe a dire che non posso?!» esclamai con rabbia. Dannazione, che Tartaro entrava a fare nella mia testa se poi l’unica cosa che sapeva dirmi era che non potevo uscire da quella realtà illusoria? Non riuscivo a credere di trovarmi davvero in quell’assurda situazione!
«Ehi, datti una calmata, giovanotto! Sono pur sempre tuo padre!»
«Oh, sì, e che padre fantastico!» ringhiai. Sinceramente, non poteva importarmene di meno del fatto che mi stessi rivolgendo in questo modo ad un dio che avrebbe potuto incenerirmi all’istante. Credo che in effetti tutta la rabbia verso mio padre che avevo accumulato in quindici anni di vita stesse per scoppiare in un unico, grande boom!
«Scott, te ne prego, non usare quel tono con me! Sto solo cercando di aiutarti, cosa che non dovrei neanche fare dal momento che ci è proibito interferire nelle vite dei nostri figli. Se mi facessi parlare…»
«Be’, allora tornatene da dove sei venuto, non vorrei che per questa ‘interferenza’ tu venissi rimproverato, sai com’è. Dopo quindici anni credo di averci fatto l’abitudine a cavarmela da solo»
«Scott Elias Walker, non ti permetto di parlarmi in questo modo!»
«Tu non mi permetti che cosa?! Tu non sei nessuno per proibirmi di parlarti in questo modo! Non ci sei mai stato e pretendi il mio rispetto! E sai una cosa, non m’importa nulla dei grifoni o del dono della guarigione o di tutti gli altri regali che mi hai mandato per guadagnarti magari anche il mio affetto! Ho visto come sei veramente, tu usi le persone e poi le butti via come fossero dei giocattoli rotti! L’hai fatto con Melissa, l’hai fatto con Clizia e l’hai fatto anche con mia madre!»
Mi fermai per riprendere fiato. Mi accorsi di aver gridato a squarciagola. Mi pulsavano le tempie, avevo la bocca secca e gli occhi mi bruciavano per via delle lacrime che stavo trattenendo. Ci mancava soltanto che Apollo mi vedesse piangere a causa sua…
Mi aspettavo di essere incenerito da un momento all’altro, per cui strinsi i pugni e mi preparai al peggio, quando accadde l’unica cosa che per tutta la mia vita avevo ritenuto più impossibile della possibilità che i polpi prendessero il sopravvento sugli umani e conquistassero la terra.
«Mi dispiace» mormorò mio padre. «So che deve essere stato difficile per te e per… per Molly»
Pronunciare il nome di mia madre sembrò costargli tutta la forza che aveva in corpo.
«Ma credimi, Scott, avevo i miei buoni motivi. Non ho mai desiderato che tu e tua madre soffriste. Eravate e siete ancora due delle persone più importanti della mia vita»
Questa frase mi lasciò senza parole. Che cosa?
Sulle prime credetti di aver capito male. Poi pensai che quando sei immortale la tua vita deve valere poco e niente. Ad ogni modo, ne restai scosso.
«Se lo eravamo, perché ci hai abbandonato e non sei più tornato?» mormorai, cercando di nascondere il tremolio nella mia voce. «Non dico che dovevi essere sempre lì per me. Avrei capito che avevi di meglio da fare. Ma mi sarebbe piaciuto vederti almeno una volta all’anno… avrei voluto sapere che t’importava di me»
Oh, bene. Stavo decisamente facendo la figura della femminuccia.
Tirai su col naso e m’imposi di darmi un tono.
Inaspettatamente, Apollo rise.
«Che c’è?» domandai.
«Scott, tu… tu non te ne sei mai accorto?»
Ci stavo capendo sempre di meno.
«Ascolta, figliolo. Ripensa ai tuoi compleanni. Al tuo primo giorno di scuola. Al giorno in cui imparasti a camminare, ad ogni tua partita di basket. Riesci a ricordare cosa accomuna tutti questi giorni?»
Mi guardai intorno, con fare spaesato.
I giorni che Apollo aveva elencato erano stati importanti per me, ma a parte questo non riuscivo a ricordare da cosa fossero legati. Con gli occhi scorsi gli spalti ormai vuoti, la palla lasciata rotolare sul campo, poi alzai lo sguardo sul canestro e sul cielo limpido e soleggiato.
E fu allora che capii.
«C’era sempre il sole» mormorai. Non avevo mai trascorso un compleanno con le nuvole o la pioggia, e le partite si erano sempre svolte in belle giornate.
«Esatto. E, guarda caso, pare proprio che il dio in questione sia il signore del sole. Be’, certo, ho dovuto fare qualche deviazione straordinaria per poter essere sempre presente in quelle occasioni, e più di una volta per rimanere con te qualche minuto di più ho lasciato altre città al gelo, ma questo è meglio se rimane un segreto tra me e te, d’accordo?»
Annuii, con la testa che si faceva pesante.
Io… non sapevo cosa pensare.
Mio padre aveva cercato di starmi vicino, a suo modo. E io non me n’ero mai reso conto.
«Papà… mi dispiace… per prima. Per averti urlato contro» biascicai in imbarazzo.
Avevo immaginato più e più volte il mio primo incontro con mio padre, ma nessuna delle mie versioni si avvicinava anche solo lontanamente a questa.
«Scuse accettate, Scott!» esclamò Apollo con voce allegra, come se avesse già dimenticato il fatto che poco prima fossi stato quasi sul punto di sbranarlo. «Allora, se non sbaglio abbiamo due fanciulle da aiutare, quindi perché non cerchiamo di uscire da questo postaccio?»
«Ma avevi detto che non posso uscire!»
«Se mi avessi fatto finire di parlare, avrei aggiunto che tu non puoi: io sì»
«…oh!»
Dire che ero arrossito fino all’attaccatura dei capelli era dire poco.
«Dunque, vediamo ancora se mi ricordo come si fa… ah, sì!» esclamò Apollo, e qualche istante dopo una luce accecante invase il mio campo visivo, costringendomi a chiudere gli occhi.
«Un’ultima cosa, Scott!» aggiunse il del sole mentre il mondo intorno a me cominciava a tremare. «Rendimi fiero di essere tuo padre»
 
Quando riaprii gli occhi, non mi resi conto di averli riaperti.
Ecco, pensai. Morto, pazzo e ora anche cieco.
Ma la sensazione della cecità durò davvero poco.
Intorno a me l’oscurità prese a sfrigolare e a ritirarsi velocemente in file sconnesse, come se stesse fuggendo da qualcosa. Fu con grande piacere che mi resi conto di essere io quel qualcosa.
Stavo brillando! Le mie mani brillavano di luce propria!
La gioia però non durò a lungo, perché un grido acuto mi fece sobbalzare. Oh, dannazione…
«Lena! Leighton! Dove siete?» chiamai a gran voce, ma non ebbi risposta. Invece, un nuovo grido lamentoso si levò da un punto imprecisato alla mia sinistra.
«Lena!» esclamai, correndo verso quella direzione. Non chiedetemi come facessi a saperlo, ma ero sicuro al cento per cento che la persona che aveva gridato fosse stata lei.
Man mano che avanzavo le ombre si facevano da parte, salvo poi richiudersi alle mie spalle. Temetti di non riuscire a trovare Lena, quando improvvisamente inciampai in qualcuno rannicchiato per terra.
Indovinate un po’ chi era?
«Lena! Lena! Lena, sono io, sono Scott!»
La figlia di Zeus tremava così tanto che sembrava fosse in preda alle convulsioni. Aveva il viso bagnato di lacrime e le guance piene di graffi. Ebbi l’orrenda sensazione che se li fosse procurati da sola.
«Lena, ti scongiuro, apri gli occhi!» la supplicai, ma lei sembrava essere persa in un altro mondo, e continuava a piangere e a gridare.
L’afferrai per i polsi, tentando di farla stare buona.
«Lena…»
«È tutta colpa sua!» strepitò come un’ossessa, tentando di liberarsi. «È colpa sua, è colpa sua se sono così! La odio! Voglio vederla morta!»
«Stai delirando!» esclamai, terrorizzato dalla sua espressione malvagia e disperata. «Guardami, Lena! Devi svegliarti! Guardami!»
Le presi il viso tra le mani, per costringerla a calmarsi. Quando la luce delle mie mani le illuminò il volto, finalmente vidi un barlume di coscienza degli occhi grigi di Lena. Le tenebre si stavano ritirando.
«S-Scott…?» mormorò spaesata.
Annuii. «Lena, abbiamo bisogno di luce. Tanta, tanta luce. Queste ombre ci faranno impazzire, e ancora non so dove sia Leighton»
«Luce…»
Prendile la mano, Scott.
Mi misi sull’attenti. Ancora la voce di Apollo? Ma cosa…?
Fai come ti ho detto!
Sospirai. Davvero non era il momento di esitazioni.
«Senti» dissi a Lena. «Lo so che per la storia delle Cacciatrici per quello che sto per fare mi meriterei la decapitazione, solo… è un’emergenza, okay?»
E le presi la mano.
Sulle prime non successe nulla. Ma poi, lentamente, anche le mani di Lena iniziarono ad illuminarsi. Prima la punta delle dita, poi il dorso, il polso e poi tutte le braccia.
Era una luce diversa dalla mia, una luce bianca e brillante, dai riflessi argentati. Mi ricordava la luce della luna; mentre io, io ero il sole.
«Ma se nello stesso cielo Sole e Luna splenderanno, allora e solo allora riuscirete a dissipare l’ombra dell’inganno. Ma certo!» esclamai speranzoso.
La profezia! L’ultima parte della profezia parlava di me e di Lena! Un figlio del dio del sole e una Cacciatrice della dea della luna.
Passarono alcuni minuti lunghi come anni, e l’unico rumore che sentivo era lo sfrigolare delle ombre che si ritiravano. Poi, miracolosamente, il silenzio: tutto era tornato alla normalità.
«Ma cosa…?» mormorò Lena. Il suo sguardo interrogativo si fermò prima sul mio viso, poi sulle nostre mani intrecciate. Rimane per qualche istante a bocca aperta, dopodiché si allontanò di scatto.
Sospirai. Be’, c’era da aspettarselo.
«Stai bene?» le domandai.
Lei annuì, ma prima che potesse parlare si udì il rumore di una porta che veniva spalancata.
Ci voltammo verso la porta del capannone, dalla quale erano entrare due ragazze. Una di queste era una nostra vecchia conoscenza.
«Oh, per l’amor dell’Olimpo!» esclamò Riley sgranando gli occhi scuri. «Ma allora era vero che eravate nei casini!»











Asdfghjklujscrf CE L'HO FATTA! 
Buongiorno, è da stamattina che lavoro a questo capitolo e sono un tantinello schizzata. Domani mattina parto, quindi considerate questo capitolo come il mio regalo di Pasqua per tutti voi lettori :'3
...vorrei dire qualcosa, sul serio, ma il mio cervello chiede pietà.
Spero che il capitolo vi piaccia, vi invito a recensire perché per ogni recensione in più i miei occhi s'illuminano quanto le mani di Scott <3 Ah, una cosa! LENA. sasjdhfbjudsfk vorrei spiattellarvi già da ora quale sia il suo segreto, ma non posso çuç
E' TORNATA RILEY *________* La mia bella e adorata Riley <3 E non è sola! Avete idea di chi sia l'altra persona? Si accettano scommesse u.u
Io dico sono che l'abbiamo già incontrata, che a molti di voi è piaciuta e che... oh, al Tartaro! UN BELL'APPLAUSO PER RILEY E KENDRA °^° 
Eff.

Ritorna all'indice


Capitolo 16
*** Beviamo un’aranciata con le portinaie dell’Olimpo. ***


Beviamo un’aranciata con le portinaie dell’Olimpo.

 
«Come ci hai trovati?» domandai a Riley dopo essermi accertato che sia Leighton che Lena stessero bene. Be’, bene per modo di dire: entrambe sembravano parecchio sconvolte. Mi domandai cosa avessero visto di tanto brutto nelle tenebre per ridurle in questo stato.
Riley si guardò intorno e incrociò le braccia al petto. «Una combinazione di eventi. Ero tornata a New York da poco quando Chirone mi ha avvisata con una chiamata dell’iPhone che uno stormo di colombe impazzite aveva sorvolato il Campo Mezzosangue, e nessuno l’aveva interpretato come un buon segno. Poi Kendra ha percepito un grande flusso di, uh, come l’aveva chiamata? Ah, sì, magia dell’inganno, o una roba del genere. Comunque, mi ha portata in fretta e furia in questo postaccio»
Mi voltai a guardare Kendra, la figlia di Apate che avevamo conosciuto qualche tempo prima, mentre osservava i cocci del vaso della falsa Pandora, che giaceva in un angolo del capannone senza vita come una bambola rotta.
Avevo visto Kendra mutare aspetto circa tre volte in una manciata di minuti, ma da quando era arrivata con Riley non aveva ancora cambiato forma. Era pallida, bassa, con un cespuglio di capelli ricci e biondi e due occhi azzurro ghiaccio che sembravano spiritati.
Era quasi più inquietante adesso di quando non si riusciva a stabilire quali fossero le sue vere sembianze.
«Be’, ha senso» mi strinsi nelle spalle. «Apate è la dea dell’inganno, dopotutto»
«Credi sia dalla parte di Ate?»
«Spero di no, anche se non vedo come Ate avrebbe fatto a procurarsi tutta questa magia dell’inganno senza il suo aiuto» sospirai, stringendo poi i pugni in un attacco di ira. «Dannazione, ci mancava solo che anche Apate fosse passata al servizio di quella dea!»
Riley aggrottò le sopracciglia. «Come “anche Apate”? Chi altri è con lei?»
Un brivido mi corse lungo la schiena.
Come c’era da aspettarsi, né Riley né gli altri ragazzi del campo sapevano ancora di ciò che aveva fatto Alec. Come avrebbero potuto? E adesso toccava a me metterli al corrente della situazione. La mia solita fortuna, insomma.
Stavo per aprir bocca per spiegare ogni cosa a Riley, quando quest’ultima si guardò intorno con fare confuso, mentre sembrava contare sulle dita i presenti nel capannone.
«Ehi biondo, com’è che alla banda degli allegri amici manca un membro? Che fine ha fatto Alec?» domandò.
Sospirai. «Era appunto questo quello di cui stavo per parlarti»
La figlia di Eris inarcò un sopracciglio e incrociò le braccia al petto. «Sono tutta orecchie»
Così le spiegai per bene quello che si era persa.
Riley stette ad ascoltarmi con attenzione mentre le parlavo di Momo, dell’arrivo di Ate e di come Alec aveva deciso di seguirla nel suo assurdo piano, e posso giurare che neanche un singolo muscolo si mosse sul suo viso.
«E questo è quanto» terminai con aria rabbuiata. «Riley?» domandai poi, perché lei si limitava a fissarmi in maniera truce senza proferire parola.
«Non è vero» disse alla fine, e rimasi colpito dalla durezza della sua voce.
«Oh, credimi, lo è. Andiamo, ti pare che mentirei su una cosa del genere?»
Il suo viso ancora non esprimeva alcuna espressione. Per cui quasi mi venne un colpo quando vidi gli occhi scuri di Riley luccicare per un istante, come se stesse cercando di trattenere le lacrime.
Per tutti gli dei. Riley che tratteneva le lacrime? Sul serio? Per un attimo credetti di trovarmi di fronte ad una finta Riley, perché avevo sempre creduto che quella vera fosse una sorta di psicopatica senza cuore.
«Alec… non avrebbe mai fatto una cosa del genere» mormorò a denti stretti.
«Già. Lo pensavo anche io»
Guardai Riley di sottecchi, domandandomi come mai stesse avendo quella reazione. Voglio dire, aveva tutto il diritto di essere sconvolta, ma…
Allora lo sguardo mi cadde sulle sue mani. Erano strette a pugno e tremavano a scatti.
Di sicuro non ero un figlio di Afrodite, ma certo non mi servivano i loro poteri d’interpretazione dei gesti per capire che quello che la figlia di Eris provava in quel momento era pura rabbia.
«Stai bene?» domandai preoccupato. Una Riley emotiva per quel che ne sapevo era peggio di una bomba ad orologeria.
«Sto benissimo. A meraviglia»
«Non sembra affatto»
Entrambi ci voltammo. Leighton si era avvicinata silenziosamente.
«Be’, problemi vostri. Sto bene. Ho solo bisogno di strangolare qualcuno… un figlio di Afrodite, magari»
Oh, la solita vecchia Riley. Iniziavo a preoccuparmi sul serio!
Era da lei minacciare a destra e a manca, ma stavolta qualcosa mi diceva che faceva sul serio. Okay, ero infuriato con Alec, ma pregai comunque che non incontrasse Riley versione strangolatrice sulla sua strada.
«Perché sei così arrabbiata?» domandò Leighton con fare scettico.
Riley abbassò per un attimo le palpebre. Quando riaprì gli occhi, il suo sguardo era puro veleno. «Non sono affari tuoi»
«Chiunque ha il diritto di essere arrabbiato, in questo momento» dissi stringendomi nelle spalle, ma tacqui non appena mi resi conto della tensione che si era creata tra le due ragazze.
Aggrottai le sopracciglia, confuso. Dai loro sguardi, sembrava quasi che fossero in competizione per lo stesso ragazz… oh.
Ad un tratto le lacrime trattenute di Riley assunsero tutto un altro significato.
«Davvero sconvolgente, non credi?» mormorò Leighton, avvicinandosi di un passo. Era pallida in viso, e aveva assunto un’espressione che non avrei saputo definire in altro modo se non cattiva. E mai avrei pensato che l’aggettivo ‘cattiva’ potesse essere attribuito a Leighton.
«Chi poteva immaginarselo. Voglio dire, Scott ed io eravamo i suoi migliori amici e non ci saremmo mai aspettati una cosa del genere. Quindi figuriamoci come poteva aspettarselo una persona come te, che non lo conosceva affatto»
Riley guardò Leighton come per decidere il modo più doloroso per farla fuori.
«Non osare…»
«Ragazze, ragazze!» mi piazzai in mezzo a loro, a disagio. «Vi sembra il momento? Piantatela, l’ultima cosa che ci serve è iniziare a litigare!»
Leighton mi osservò per qualche istante, poi ghignò.
«Hai ragione Scott. Non ne vale davvero la pena» disse, dirigendosi poi verso l’ingresso del capannone, scomparendo oltre le porte aperte.
Riley stava digrignando i denti, e senza dire una parola anche lei si allontanò di colpo.
Rimasi letteralmente senza fiato. In quale assurdo casino ci aveva messo Afrodite? Non bastava che suo figlio si alleasse con Ate, no, adesso ci si prendeva anche a capelli per lui!
Che Tartaro di situazione.
Kendra, che aveva seguito la scena in disparte, attirò la mia attenzione schiarendosi la voce.
«Fossi in te seguirei la tua amica. Non mi sembra stia passando un bel momento»
Rabbrividii. Oh, dei onnipotenti! Aveva una voce infantile che la rendeva tre volte più inquietante!
«Io… hai ragione. Vado» mormorai, ma prima lanciai un’occhiata apprensiva a Lena, che se ne stava rintanata in un angolino in silenzio.
Kendra colse la mia occhiata. «Vai. Qui posso cavarmela da sola»
Non volevo lasciare Leighton da sola, per cui detti ascolto a Kendra e mi diressi fuori dal capannone.
Sulle prime l’impatto con la luce mi lasciò tramortito, ma subito dopo sentii il mio corpo rinvigorirsi. A volte poter usufruire del sole come di un caricabatterie era davvero utile!
Mi guardai intorno, e subito individuai Leighton poggiata con le spalle contro una costruzione simile a quella dalla quale eravamo usciti, con il viso tra le mani e le spalle scosse dai singhiozzi.
«Ehi, ehi!» esclamai correndo verso di lei.
Mi mancavano ancora una buona mezza decina di passi prima di raggiungerla, ma Leighton mi si gettò comunque addosso, con le lacrime che le scorrevano sulle guance, nascondendo il viso nel mio petto. Mi strinse così forte che quasi mi mancò il respiro.
«Leighton… LeeLee. Shhh, va tutto bene» mormorai accarezzandole la testa, pensando a quanto fosse inappropriata quella frase. Il nostro migliore amico era un traditore, una dea millenaria aveva deciso di distruggere l’Olimpo e il peso della salvezza del mondo adesso ricadeva sulle nostre spalle.
Certo, andava tutto estremamente bene.
«Mi dispiace, mi dispiace!» singhiozzò Leighton. «N-Non volevo dire a Riley… oh, Scott!»
La strinsi delicatamente. Vederla in questo stato era straziante.
«Lo so che non volevi. Sei stanca e stressata, è logico perdere la testa» provai a rassicurarla.
«È stata quella… quella roba uscita dal vaso» si allontanò Leighton, asciugandosi le lacrime con il dorso della mano. «Ho visto cose che… cose brutte»
Annuii. «Lo so. Anche io. Ne vuoi parlare? Magari poi stai meglio»
Tirò su col naso, con fare titubante.
«Non sei costretta»
Leighton deglutì con forza, stringendo le labbra. Rimase in silenzio per qualche manciata di secondi, poi però alzò lo sguardo e mi guardò con fare risoluto.
«Ho visto la mia mamma. Mi ha incolpata della sua morte»
Dire che rimasi senza parole è dire poco. Che cosa? Sua madre?
«Ma… tua madre è ancora viva, no? Avevi detto che a Natale aveva deciso di cucinare i dolci natalizi per tutto il quartiere e avevate finito col mangiare biscotti avanzati per una settimana!» esclamai ricordando uno degli aneddoti che mi aveva raccontato al campo.
Leighton scosse la testa. «Lei non… non è la mia vera mamma. Voglio dire, per me è come se lo fosse, ma lei è la donna che mi ha adottata quando ero una bambina. La mia madre biologica… lei è morta dandomi alla luce. Così mi è stato detto»
«Oh!» mormorai, non sapendo cosa dire. Non pensavo che Leighton fosse stata adottata. Non me ne aveva mai parlato prima d’ora.
«Già. Non so come sia successo, ma quelle ombre mi hanno portata da lei. Mi ha detto che era colpa mia se è morta. Che non sarei dovuta mai nascere. Che sono un mostro. Che c’è qualcosa che non funziona in me, ecco perché quando evoco il fuoco mi brucio» s’interruppe per tirare su con il naso. «Assurdo, eh? Essendo una figlia di Efesto dovrei essere in grado di riparare ciò che non funziona»
«Non c’è nulla che non va in te! Non sei affatto un mostro!» esclamai con rabbia. «Era solo un’illusione, okay? Un’illusione. Ate vuole indebolirci, e lo sai che non si ferma davanti a nulla»
«Lo so. Ma ha fatto comunque male»
Strinsi le mani a pugno. «La pagherà»
Assurdamente, con quest’affermazione riuscii a strappare a Leighton un sorriso. «Se lo dici tu allora ci credo»
 
Ci rimettemmo in marcia. Riley e Kendra ci precedevano di qualche metro, parlando tra di loro come solo due migliori amiche – o in questo caso due cugine – avrebbero potuto fare.
Leighton e Lena camminavano a poca distanza l’una dall’altra, e io chiudevo la fila.
Mancava poco perché arrivassimo all’Empire State Building, eravamo rientrati nella zona più viva e pulsante della città, ma il morale era ben lontano dall’essere alto. La tensione si poteva tagliare con un coltello e mi aspettavo che l’atmosfera rimanesse così ancora per un bel po’, per cui rimasi parecchio sorpreso quando Lena mi si avvicinò.
«Ehi» sorrise. Aveva ancora le guance ricoperte da unghiate.
«Ehi. Come ti senti?»
«Potrei stare meglio» rispose stringendosi nelle spalle. «E tu, invece?»
Ci pensai un attimo, prima di rispondere. Come stavo? Avevo da poco avuto la mia prima conversazione con mio padre, che mi aveva apertamente detto che gli importava di me e mi aveva aiutato a non lasciare le cuoia in quel capannone. Questo, più o meno, andava a equilibrare tutto ciò che era successo con Alec.
«Benone» risposi alla fine. Lei inarcò un sopracciglio.
«Se quelle tenebre ti fanno sempre questo effetto allora Ate non ha davvero scampo»
«Lena Storm, è forse una battuta quella che ho appena udito?»
Forse lo stress, forse eravamo ancora rintronati, fatto sta che scoppiammo entrambi a ridere.
«No, sul serio» dissi in un attimo di pausa dalla ridarella. «Chi sei e cosa ne hai fatto della Lena pronta ad azzannarti se le rivolgi la parola?»
«Io… volevo solo ringraziarti. Tutto qui. Sei stato davvero l’eroe della situazione, prima»
Sperai di non essere arrossito. «In effetti devi essere davvero un eroe per riuscire ad accenderti come una lampadina»
«Sai cosa intendo. Se non avessi scacciato quelle ombre a quest’ora saremmo già impazziti»
«Le tue visioni erano tanto orrende?»
Lena annuì. «Roba da incubo»
Accennai un sorrisetto. Leighton mi aveva confidato le sue visioni, ma qualcosa mi diceva che Lena non sarebbe stata altrettanto disponibile. E poi non volevo rovinarle l’umore. Da quel poco che avevo appreso, con Lena bastava una singola parola sbagliata per far scattare il suo lato peggiore.
«Be’, sono contento che tu ti sia ripresa» dissi infine.
«È stata Kendra» rise lei. «È una bella persona. Sa ascoltare. Non giudica. Ha una mentalità molto aperta e particolare… oh, guarda! Siamo arrivati!»
Mi distrassi dalla strana sensazione che mi aveva attanagliato la bocca dello stomaco nel sapere che Lena di era confidata con Kendra, e osservai al termine della strada l’Empire State Building che si ergeva in tutta la sua altezza.
 
Arrivati all’ingresso, decidemmo il da farsi.
La profezia aveva stabilito chiaramente che solo Leighton, Lena ed io avremmo dovuto recarci dalle Ore, per cui rimanevano solo Riley e Kendra, le quali decisero che avrebbero fatto ritorno al Campo Mezzosangue.
Non avevo idea di quello che avrebbero raccontato a riguardo di Alec, ma a questo punto non era più un mio problema. Anzi, non sapevo perché mi ostinavo a voler tenere segreto il suo tradimento.
«Avanti, prima mettiamo fine a questa faccenda e prima potremo tornare anche noi al Campo» esclamò Lena. Il suo buon umore aveva rasserenato anche Leighton, che le prese la mano e le sorrise.
Insieme, entrammo a passo deciso nel palazzo.
«Quindi» mormorai una volta all’interno, guardandomi intorno con fare spaesato. «Più o meno ci troviamo al di sotto dell’Olimpo, eh?»
Le ragazze annuirono. L’idea che sopra le nostre teste ci fosse la dimora di divinità secolari non è che mi facesse sentire tanto a mio agio.
«A chi dobbiamo chiedere per incontrare le Ore?» domandò Leighton.
Lena si grattò la tempia. «Credete che il custode ci prenderebbe per matti se chiedessimo a lui?»
Mi strinsi nelle spalle. «Be’, scopriamolo!»
Così ci avvicinammo al custode, seduto comodamente dietro una grande scrivania con i piedi sul ripiano e la testa che penzolava dalla sedia. Stava russando alla grande. Era rassicurante sapere che la sicurezza di quel posto era affidata a quel tizio, sul serio.
«Emh… mi scusi?» fece Leighton delicatamente. «Mi scusi?»
Lena alzò gli occhi al cielo e sbatté con violenza una mano sulla scrivania, facendo sobbalzare il povero custode, che quasi cadde dalla sedia.
«Ma insomma!» si lamentò cercando di darsi una sistemata all’uniforme, passandosi poi una mano ad aggiustare quei pochi capelli grigi che aveva in testa. «Vi sembra il modo!»
«Noi… umh… siamo qui per vedere le Ore»
Il custode mi guardò come si guarda un folle. «Giovanotto, ha voglia di scherzare?»
Feci cenno di no con la testa.
«Be’, se vuole vedere le ore allora guardi il suo orologio, e mi lasci lavorare in santa pace! Che gente…»
«No, lei non ha capito!» esclamai. «Non intendo le ore, ma le Ore
Giuro, l’espressione impassibile del custode mi fece arrossire fino alla punta dei capelli.
«Oh, lasci perdere…» borbottai irritato. Feci per voltarmi, ma Lena mi fermò. Infilò una mano nella tasca e quando la tirò fuori stava stringendo una dracma d’oro bella grossa.
Lanciò uno sguardo eloquente al custode mentre poggiava la moneta sulla scrivania.
«Scommetto che non vuole che mio padre si domandi perché ci stiamo mettendo così tanto a salvare il didietro all’umanità intera»
«S-Suo padre, s-s-signorina?»
«Il Grande Capo»
«Che il cielo mi aiuti!» esclamò il custode facendo un salto sulla sedia. «Siete semi… semi… semidei! Ma perché diavolo non me l’avete detto prima! Seguitemi» borbottò il custode, rosso in viso.
Lena scosse la testa. «Assurdo. Davvero assurdo»
«Allora sono questi i privilegi della figlia del Grande Capo» le lanciai un’occhiata divertita. «Sembra quasi tu sia figlia di un boss mafioso o roba del genere»
Lena non parve apprezzare la battuta. «Non è affatto divertente, Scott» disse mentre ci avviavamo dietro al custode.
L’ometto ci condusse davanti a quella che sembrava la porta di un ascensore. Guardandosi intorno nervosamente, continuando a borbottare parole incomprensibili, tirò fuori quello che sembrava un lasciapassare elettronico. Fece strisciare la carta su di un piccolo pannello in metallo lì vicino, ed ecco che le porte di aprirono.
«Andate pure» ci disse il custode, e parve sinceramente sollevato quando le porte si richiusero lasciando lui fuori e noi dentro la stanza.
«Che posto è questo?» domandò Leighton.
Ci guardammo intorno.
Ci trovavamo in un’ampia stanza bianca, al centro della quale vi erano tre colonne greche l’una accanto all’altra. Intorno ad esse c’erano tre piccole aiuole, tutte diverse tra loro.
La prima era piena di erba e foglie secche, nella seconda c’erano dei boccioli bagnati di rugiada e nella terza invece si ergevano alcuni fiori tropicali dai colori sgargianti.
Per il resto, la sala era arredata come un qualsiasi soggiorno di un appartamento di una certa classe.
«Ragaaaaaaaaaazze! Oh cielo, so che è assurdo ma abbiamo ospiti
Le ragazze ed io sobbalzammo quando una donna dalla pelle scura comparve letteralmente dal nulla e ci venne incontro con un sorriso talmente bianco da accecare, in contrasto con la pelle.
Aveva corti capelli neri e indossava una sorta di uniforme formata da camicia a mezze maniche nera e gonna al ginocchio dello stesso colore.
«Sono così contenta che siate qui! Ma prego, accomodatevi! Desiderate qualcosa? Magari da bere? Una bella bevanda fresca è quello che ci vuole!» esclamò, e schioccando le dita fece apparire dal nulla un vassoio con tre aranciate ghiacciate.
Prima che potessimo anche solo dire ‘a’ una seconda voce attirò la nostra attenzione.
«Diche, per l’amor degli dei! Non assalire quei poveri ragazzi!» esclamò un’altra donna dalla pelle scura. Somigliava a quella che aveva chiamato Diche, solo che aveva i capelli lunghi legati in una coda di cavallo alta, portava degli occhiali dalla montatura spessa e vestiva un completo nero giacca e pantaloni che la facevano sembrare una donna d’affari.
«Ragazzi? Intendi dire dei semidei, Ren?» domandò una terza donna con morbidi boccoli neri che le ricadevano sulla schiena e un semplice vestito nero.
«Oh, guardali Mia! Non sono adorabili?» esclamò Diche.
«Emh… voi siete le Ore?» domandai confuso, mentre Diche mi metteva in mano uno dei bicchieri di aranciata.
«Ma certo che lo siamo!» sorrise la donna con la coda di cavallo.
«Accomodatevi, accomodatevi!» ci esortò Diche, mentre l’ultima donna faceva comparire altre poltrone di modo che nessuno dovesse rimanere in piedi.
«Ah, ma che maleducate, non ci siamo neanche presentate!» esclamò rivolta alle altre, che annuirono.
«Hai ragione. Miei cari, permettete che ci presenti. Le mie sorelle ed io siamo le Ore, come già sapete, le custodi dell’Olimpo. Io sono Irene, personificazione della pace e della fruttificazione autunnale»
«Io sono Diche, rappresento la giustizia e il rigoglio estivo!» esclamò spumeggiante l’altra Ora.
«Io invece sono Eunomia, personifico la legalità e la fioritura primaverile» si presentò con un sorriso dolce l’ultima delle tre.
Le ragazze ed io le fissammo a bocca aperta.
«Be’… wow» esclamai alla fine. «Umh, loro sono Leighton e Lena, io invece sono Scott. Siamo qui perché…»
Oh, bella domanda. Perché eravamo lì? Voglio dire, nella profezia non c’era alcuna indicazione specifica del perché dovevamo chiedere aiuto alle Ore.
Fortunatamente, Irene prese la parola.
«Sappiamo già tutto. State avendo dei problemi con Ate, non è così?»
«Quella ragazza non fa altro che provocare guai!» esclamò Diche controllandosi le unghie, e Eunomia le lanciò un’occhiataccia.
«Il punto è che sapevamo di dover venire qui, ma non ne conosciamo il motivo» spiegò Lena, quasi come se mi avesse letto nel pensiero.
Le tre Ore si guardarono per un istante, stupite, e poi scoppiarono a ridere — Diche in maniera molto più sguaiata rispetto a Irene ed Eunomia.
«Perdonateci, perdonateci!» esclamò quest’ultima, tratte cercando educatamente di trattenere un eccesso di risa. «È che solitamente non abbiamo a che fare con i semidei, non siamo abituate a questo genere di cose»
«Lo puoi ben dire!» sorrise Irene, alzandosi e avvicinandosi alle tre colonne nel centro della stanza. Dalle aiuole intorno ad ognuna di esse staccò un ramoscello di chissà quale pianta, dopodiché tornò a sedersi.
«Ecco qui» disse, dando un ramoscello a me, uno a Lena e uno a Leighton.
Il mio era pieno zeppo di foglie verde brillante e di quelle che sembravano bacche succose. Quello di Leighton era ricoperto di boccioli di fiori rosa pallido, mentre le foglie del ramoscello di Lena avevano le calde tonalità del rosso e del marrone.
«Io… ecco, non vorrei sembrare scortese ma… tutto qui?» esclamai inarcando un sopracciglio.
Fu il turno delle Ore di rimanere sorprese.
«Come sarebbe a dire tutto qui?» domandò con fare irritato Irene.
«Forse non lo sapete, ma quelli che avete in mano non sono semplici rami. Sono la vostra più grande difesa contro Ate» disse pacatamente Eunomia.
«Difesa?» sgranò gli occhi Lena.
Le tre annuirono.
«Pace, giustizia e legalità. I tre elementi che creano l’armonia, gli unici in grado di contrastare la dea della dissennatezza» spiegò Irene.
«Piantateli entro i confini del Campo Mezzosangue. Ate non riuscirà mai a raggiungervi, in questo modo» aggiunse Eunomia.
«Oh, e non ringraziateci, è stato un piacere!» terminò Diche.
Rimanemmo in silenzio.
Una difesa. Le Ore ci avevano fornito una difesa. Avrei dovuto essere loro grato, ma una parte di me si domandava se non sarebbe stato più utile qualcosa per attaccare Ate, più che per difenderci.
Ad ogni modo, però, era stata la profezia a condurci a questi ramoscelli. Doveva esserci un disegno superiore per tutto questo. Doveva
«Credo che dovremmo darci una mossa» mormorò Lena. «Al campo aspettano noi»
Meno felici di quello che credevamo saremmo stati al termine dell’incontro con le Ore, ci alzammo dal divano.
Fu allora che udimmo un rumore assordante al di fuori dell’edificio.
Le Ore sgranarono gli occhi.
«Oh no!» esclamò Diche. «Quella dannata dea, io l’ho sempre detto che porta solamente guai!»














Oh cielo. Non aggiorno da una vita :( il punto è che l'arrivo di Maggio "Studente fatti coraggio" mi ha letteralmente stroncata. 
E niente, mi sono appena resa conto che tra due o massimo tre capitoli sarà finito tutto. Mi stanno salendo le lacrime agli occhi - io che sono peggio di Riley, in queste cose. Ho iniziato questa fanfiction l'estate scorsa, quindi quasi un anno fa. E adesso è quasi finita. E' la prima long che arrivo a terminare. Cavolaccio...
Ma be', mi conservo i sentimentalismi per l'ultimo capitolo vero e proprio :)
Nel prossimo capitolo avremo lo scontro finale. Curiosi di sapere a cosa è dovuto il rumore sentito dai nostri eroi? Be'... sappiate che è qualcosa di molto grosso... e molto viscido... 
Un bacio!
Eff.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 17
*** Tutti i nodi vengono al pettine. ***


Tutti i nodi vengono al pettine.

 
Ci precipitammo fuori dall’edificio come dei forsennati, lasciandoci alle spalle le tre Ore in preda al panico e il custode dell’Empire State Building talmente terrorizzato da essersi nascosto sotto la sua scrivania.
Sia le ragazze che io avevamo estratto le nostre armi e le tenevamo saldamente strette in pugno, affidandoci al fatto che i mortali per strada le avrebbero scambiate per, che ne so, delle mazze da lacrosse o delle racchette da tennis. Qualcosa di non pericoloso come delle spade affilate, insomma.
Ma una volta in strada non dovemmo preoccuparci di ciò che i mortali avrebbero visto attraverso la Foschia, perché tutte le sfortunate persone che poco prima stavano passando da quelle parti stavano ora fuggendo via con le mani tra i capelli, gridando come ossessi.
E la causa non erano di certo tre adolescenti armati.
Tzè.
A pochi metri dall’Empire State Building c’era la creatura più grossa e orrenda che avessi mai visto in tutta la mia vita, e credetemi, un semidio di creature grosse e orrende ne vede almeno una a settimana.
Il corpo della creatura era quello di un serpente decisamente troppo cresciuto, ricoperto da scaglie che variavano dal verde fango al verde scuro, ma contrariamente ai serpenti comuni questo mostro aveva anche quattro zampe da rettile con certi artigli che solo a guardarli ti facevano diventare le ginocchia molli dalla paura. Era una sorta di incrocio mal riuscito tra un serpente e una lucertola nutriti esclusivamente con steroidi.
Il muso triangolare e appiattito però era la cosa più disgustosa in assoluto. E non perché gli occhi gialli della creatura sembravano assurdamente intelligenti, e neanche perché la sua lingua biforcuta saettava ininterrottamente al di fuori della sua bocca.
No, la cosa che mi mise i brividi fu che il serpente era costretto in una sorta di rudimentale museruola corredata di redini.
E a tenere quelle redini c’erano Alec e Ate.
«Miei cari! Sono estremamente felice di vedere che siete arrivati sani e salvi alla vostra destinazione. Mi stavo giusto domandando che fine aveste fatto» esclamò la dea non appena ci fummo ripresi dallo shock e ci fummo posti in posizione di attacco.
Aveva abbandonato l’aspetto mortale con cui l’avevamo incontrata la prima volta, e adesso era totalmente identica alla Ate che avevo conosciuto nei miei sogni, con i capelli scuri svolazzanti nell’aria e la veste nera che si dissolveva in fumo e tenebre.
Pur essendo ormai abituato alla sua forma semidivina, l’aura di oscurità che l’ammantava mi metteva ancora a disagio, richiamando in me sensazioni e pensieri sgradevoli.
Persino Alec, al fianco della dea, sembrava accusare un certo malessere. Era pallido da far spavento, cosa che metteva ancora più in evidenza le profonde occhiaie che cerchiavano i suoi occhi verdi. Per un istante provai pena per lui. Poi realizzai che aveva scelto volontariamente tutto questo, e quindi adesso doveva accettarne e sopportarne le conseguenze.
«Oh, ma che maleducata che sono! Non vi ho ancora presentato il mio nuovo amico» rise Ate, e in risposta il mostro che cavalcava emise un suono sinistro, a metà tra un sibilo e un verso di rapace.
Al mio fianco, Lena vacillò appena. Mi voltai con aria interrogativa.
«L’ho già visto, quel coso» mormorò lei.
«Non chiamarlo “coso”, Lena, potrebbe offendersi» la rimbeccò Ate. Mi domandai come avesse fatto a sentirla nonostante il suo tono di voce bassissimo. «Vi presento Pitone, miei cari, un gentile omaggio della cara Gea, che ha saggiamente deciso di appoggiare la mia causa di vendetta contro gli dei dell’Olimpo»
Oh, perfetto. Un altro membro onorario del Team Ate. Come se vedercela con una dea impazzita non fosse stato già abbastanza.
«E credo ti sia familiare, mia piccola sorellastra, perché i figli del mio caro Pitone hanno avuto un ruolo fondamentale nella mia ascesa. Rimpiango solo che non siano stati ricompensati in maniera debita, ma a mia discolpa posso dire che i vostri compagni del Campo Mezzosangue li hanno uccisi prima che io potessi muovere anche solo un dito in loro favore. E Pitone è furioso per tutto questo, non è vero mio adorato?»
Sgranai gli occhi.
I figli di Pitone? Di cosa stava parlando quella folle? I ragazzi del campo non avevano ucciso nessun mostro di recente, almeno per quello che ricordavo io. Intendeva forse dire che durante la nostra assenza il campo era stato attaccato?
Con la mente ritornai indietro a prima della nostra partenza, cercando di ricordare un attacco, un qualsiasi attacco con successiva vittoria del campo, finché qualcosa non stuzzicò il mio cervello.
Un attacco c’era stato.
La sera della Caccia alla Bandiera.
«Oh miei dei» esclamò Lena, che doveva essere giunta alla mia stessa conclusione. «I serpenti che hanno ucciso Aimee. C’eri tu dietro la sua morte, lurida strega!»
Dal pugnale della figlia di Zeus partì un fulmine accecante in direzione di Ate, ma la dea non parve affatto preoccuparsene; alzò un braccio, e davanti a lei si eresse un muro di tenebra che inglobò il fulmine facendolo sparire.
«La morte dei quella bambina ti ha lasciata tanto sconvolta, piccola cara?» esclamò tranquilla Ate. «Be’, la figlia di Zefiro sapeva a cosa sarebbe andata incontro se avesse cercato di tradirmi. Per quel che mi riguarda ho la coscienza pulita»
«Stai mentendo!» gridò Lena. «Aimee… lei non…»
«Non era dalla mia parte? Mi spiace deluderti, ma è stato proprio grazie a lei che è iniziato tutto questo. Piccola, ingenua, stupida Aimee. Senza nessuno che le volesse bene, né la sua mamma morta né il suo papà dio. Costretta a trascorrere la sua vita chiusa in un collegio dove non aveva amici. È stato sorprendentemente facile convincerla che sarei stata la sua unica via di salvezza. Le mie forze erano al minimo e avevo bisogno di aiuto e di energia, quella che solo un semidio è in grado di procurarmi»
«Non può essere» mi ritrovai a mormorare. Non potevo dire di essere stato amico di Aimee, ma per quel poco tempo che l’avevo conosciuta mi era sembrata soltanto una bambina timida e silenziosa. Adesso iniziavo a credere che quella fosse solo una facciata per nascondere ciò che provava realmente.
«Purtroppo l’arrivo di Artemide al campo ha creato un bel po’ di confusione. Aimee ha pensato di redimersi, di unirsi alle Cacciatrici e di concludere la nostra alleanza. Ma la sera della Caccia alla Bandiera sono riuscita a convincerla ad aiutarmi per un’ultima volta, e poi l’avrei lasciata in pace» continuò imperterrita Ate.
«Vatti a fidare di una psicopatica» mormorò Leighton alle mie spalle. La sua voce traboccava di rabbia.
La dea rise. «Mia cara, tutti avrebbero agito come ho fatto io. Non potevo di certo permettere che in un momento di debolezza Aimee andasse a confidare tutto ciò che aveva fatto per me alla mia casta e pura sorellastra Artemide! Ho dovuto sbarazzarmi di lei, ma fortunatamente ho trovato un degno sostituto»
Il mio sguardo si spostò verso Alec, che ebbe la buona grazia di mostrarsi quantomeno contrito.
Si rendeva conto che Ate non aveva esitato ad uccidere una sua alleata? Credeva che quella non sarebbe stata anche la sua sorte, se fosse stato necessario? Non capiva quanto era instabile la sua posizione?
«Te la farò pagare cara, Ate» fece Lena. «Te lo giuro sul nome di mio padre che te la farò pagare cara!»
«Tutti noi lo faremo» aggiunsi io, muovendo un passo in avanti.
Ate ci guardò con un sorriso sulle labbra esangui. L’oscurità attorno a lei si faceva via via sempre più marcata.
«Vi chiedo solo di prendervi qualche istante per valutare la situazione. Siete tre ragazzini contro una creatura e una dea millenari, dalla potenza infinitamente superiore alla vostra. Cosa potrete mai fare? Tra l’altro, dubito che la cara Leighton possa far sfoggio del suo incredibile dono del fuoco senza danneggiare sé stessa… magari in maniera permanente. Lasciati dire, Leighton, che né io né soprattutto Alec vogliamo che ti accada qualcosa di male»
Alec trasalì nel sentirsi nominare, e guardò verso Leighton con un’espressione speranzosa.
La figlia di Efesto scosse i lunghi capelli neri e menò un fendente con la sua spada di bronzo celeste.
«Pur di rimandarti da dove sei venuta sono pronta ad ardere fino all’osso, se necessario» esclamò.
Nonostante la situazione sorrisi, sentendomi fiero di lei.
Quello che diceva Ate era vero: eravamo tre ragazzini contro il mostro più orrendo che avessi mai visto, senza contare la dea psicopatica che lo cavalcava, e oltre alle nostre armi portavamo con noi soltanto tre ramoscelli senza alcuna capacità offensiva.
La profezia che ci aveva guidati fino a quel momento non parlava di una nostra vittoria, né di una sconfitta.
Ma avremmo combattuto.
A costo di non fare mai più ritorno al Campo Mezzosangue, noi avremmo combattuto.
Padre, stammi vicino, fu il mio ultimo pensiero.
Poi mi lanciai all’attacco insieme alle mie amiche, gridando: «Per l’Olimpo!»
 
Avete mai provato a combattere contro una lucertola gigantesca?
Tanto per la cronaca: non fatelo mai. Non è affatto una bella esperienza.
Insomma, vogliamo parlare di quanti siano i modi per rimanerci secchi? Tra zampate, artigliate, colpi di coda e lingue che saettano era un miracolo anche solo riuscire a mandare un colpo a buon fine.
«Dobbiamo dividerci!» intuii immediatamente. Dovevamo sfruttare ogni singolo punto debole che quella bestia poteva avere, anche se ciò significava privarsi della protezione offerta dalla presenza di Leighton e Lena.
«Voi provate ad avvicinarvi e a colpire più da vicino, io vi copro le spalle» suggerì la figlia di Zeus.
Leighton ed io annuimmo e ci lanciammo contro Pitone, saettando a destra e a manca per non offrire al lucertolone un bersaglio facile.
Alle nostre spalle, Lena prese a scagliare vere e proprie scariche elettriche dirette al suo muso. Ottima idea! Anche se una volta che una scarica arrivò a colpire l’occhio del mostro questo prese a dimenarsi come un folle e a tirare zampate alla cieca; a quel punto più che un’ottima idea quella di Lena si rivelò più un tentativo di omicidio ai nostri danni.
Per niente scoraggiata, Leighton si lanciò all’assalto della zampa anteriore alla sua sinistra. La sua spada vi cozzava contro producendo il rumore del ferro che colpisce altro ferro.
«Dannazione! Le sue scaglie sembrano fatte di acciaio puro per quanto sono dure. Non riesco nemmeno a scalfirle!» esclamò la mia amica con frustrazione.
Se anche le poche armi che avevamo risultavano essere inutili allora eravamo davvero spacciati.
Come se ci avesse letto nella mente, Ate rise e disse: «Non credo che arriverete lontano con quelle vostre misere spade. Neanche un’armata dei più potenti semidei potrebbe far molto contro il mio Pitone»
«Taci, strega!» le urlai contro con l’intenzione di zittirla, e presi anche io a colpire una delle zampe del mostro, con scarsi risultati.
Evidentemente, però, pur non ferendolo le nostre spade causavano a Pitone un certo fastidio, perché d’un tratto emise quel suo versaccio agghiacciante e prese a girare su se stesso nel tentativo di scacciarci.
Per fortuna la sua stazza enorme rendeva goffi i suoi movimenti, per cui né io né Leighton venimmo schiacciati, ma Lena non fu altrettanto fortunata.
«Lena!» gridai il suo nome quando la coda di Pitone la centrò in pieno, facendole fare un volo che andò a terminare contro il muro di un palazzo delle vicinanze. Ahia.
«Sta bene?» s’informò Leighton con aria preoccupata tra un fendente e l’altro.
Rimasi per qualche istante a fissare il punto in cui Lena giaceva a terra senza muoversi.
«Non credo»
Leighton imprecò in greco antico. Nonostante la situazione sperai che gli dei considerassero tutto quello che stavamo facendo per loro e non decidessero di incenerirla.
«Ho dell’ambrosia nella tasca dei pantaloni» ricordai. «Se riuscissi a raggiungerla…»
Scossi la testa prima di terminare la frase. Per quanto fossi preoccupato per Lena, non potevo lasciare Leighton a combattere da sola.
La figlia di Efesto però non sembrava pensarla allo stesso modo.
«Datti una mossa, Scott! Abbiamo bisogno di tutte le armi in nostro possesso, e Lena è una di queste! Non possiamo rinunciare ai suoi fulmini»
Aveva ragione, e lo sapevo. I fulmini erano un modo astuto per attaccare pur rimanendo a distanza. Annuii.
«Sarò più veloce della luce»
«Lo spero»
Mi apprestai a correre via, quando sentii qualcuno gridare: «Scott, aspetta!»
Era Alec.
Che tempismo del cavolo.
«Non è affatto il momento!» esclamò Leighton prima che potessi anche solo aprir bocca. «Scott, nel nome degli dei, schioda il didietro e corri a recuperare Lena! Non abbiamo tempo per chiacchierate tra vecchi amici o sonnellini sul marciapiede!»
«Ah, tipico, non volete neanche starmi a sentire» fece Alec con ben più di una punta di stizza nella voce, tenendo stretta la sua spada tra le mani.
Leighton aggrottò le sopracciglia e menò un colpo particolarmente potente alla zampa di Pitone, che si lagnò sommessamente.
«Non mi risulta che tu possa dire qualcosa che valga la pena ascoltare» disse. Aveva parlato ad Alec, ma mi aveva fissato con uno sguardo talmente bruciante che capii all’istante l’antifona. Muoviti.
Approfittando della distrazione di Alec presi a correre verso Lena; ma se era stato facile evitare un semidio, passare inosservato agli occhi di un mostro non fu esattamente la stessa cosa.
Pitone mi puntò e prese a dimenare il suo muso nel tentativo di colpirmi, cosa che mi costrinse a deviare la mia traiettoria. Maledizione!
Dopo il terzo ruzzolone dovuto a un repentino cambio di direzione cominciai ad infuriarmi sul serio. Di questo passo non avrei mai raggiunto Lena. Dovevo trovare un altro modo per arrivare a lei e rimetterla in sesto con l’ambrosia, o altro che lucertolone sotto steroidi, Leighton sarebbe stata mille volte peggio.
Pensa, Scott, pensa. Come potevo muovermi liberamente senza che Pitone riuscisse a colpirmi? Sarei dovuto essere invisibile, o muovermi ad una velocità talmente elevata da rendere impossibile localizzarmi. Una velocità davvero superiore a quella della luce.
Un momento!
Mi si accese una lampadina nel cervello — tanto per rimanere in tema.
Lanciai uno sguardo al cielo. Il sole stava tramontando, ma per mia fortuna non era ancora scomparso del tutto.
C’era una cosa che avevo visto fare a Will e ai miei fratelli più grandi al campo, e che avevo chiesto loro di insegnarmi. Non ero mai riuscito a metterla in pratica, ma a quei tempi non ci avevo provato seriamente.
Assurdo pensare che adesso ne potesse dipendere la mia vita.
Evitai l’ennesimo attacco di Pitone e corsi abbastanza lontano da avere un margine di almeno una manciata di istanti in più prima del prossimo colpo.
Chiusi gli occhi, e mi concentrai. Nella mia mente visualizzai il punto dove giaceva Lena, mentre ogni muscolo del mio corpo si rilassava dopo la tensione del combattimento.
Per un attimo udii solo il mio respiro e nessun altro rumore all’infuori di esso, e fu allora che intuii che la mia idea potesse aver funzionato.
Attraverso le palpebre chiuse riuscivo a percepire una forte luce, e quando aprii gli occhi mi ritrovai esattamente dove avevo desiderato essere: accanto a Lena.
Per la prima volta in vita mia ero riuscito a viaggiare attraverso la luce. I miei fratelli sarebbero stati fieri di me!
«Andiamo, svegliati!» presi a scuotere Lena per una spalla, senza preoccuparmi di essere delicato o meno. Ci sarebbe stato tempo per le scuse più avanti.
Non appena la vidi accennare a riprendere conoscenza presi un quadratino e mezzo di ambrosia e glie lo ficcai in bocca, pregando gli dei che questo bastasse.
A quanto pare la mia preghiera fu ascoltata.
«Ah» gemette Lena. «Dimmi che era solo un brutto incubo»
«Te lo dirò quando saremo sani e salvi al Campo Mezzosangue. Ora però riprenditi»
Non appena la vidi di nuovo in piedi e pronta a combattere, chiusi nuovamente gli occhi e lasciai che la luce mi trasportasse da Leighton, dove non ricevetti affatto una bella accoglienza.
«Sei solo un traditore!» gridò Leighton, e subito dopo Alec mi cadde letteralmente addosso.
Rotolai via e mi rimisi in piedi, così come fece Alec. Davanti a me, lui e Leighton si stavano fronteggiando con le armi pronte a colpire e delle espressioni furiose e straziate in volto.
Sentii il cuore stringersi in una morsa. Tutto questo era così innaturale, così… sbagliato. Alec, Leighton ed io eravamo migliori amici da anni, ma c’era anche qualcosa di più speciale ad unirci.
Alec era il fratello che non avevo mai avuto, ed ero sempre stato sicuro che la cosa fosse reciproca. E quello che legava Alec a Leighton, di qualunque sentimento si trattasse… avrei potuto giurare che nulla li avrebbe separati.
E allora perché stavano — stavamo — lottando con rabbia quando avremmo solo dovuto trovarci fianco a fianco? Come aveva fatto Ate a rovinare tutto?
Leighton si lanciò all’attacco come una furia, menando fendenti con la sua spada. Con i capelli neri scarmigliati e quel fuoco ardente negli occhi, sembrava una vera dea guerriera. Alec faticava a parare i suoi colpi, non riusciva mai a sferrare a sua volta un attacco. Si limitava a scartare all’ultimo secondo e a deviare gli affondi.
Mentre i miei due migliori amici combattevano un duello mortale, capii che rimanere a guardarli non avrebbe di certo migliorato la situazione.
Non potevo neanche sperare di sconfiggere Pitone facendogli un po’ di solletico alle zampe, ma mi era venuta un’idea.
Gli occhi dovevano essere il punto debole di quel serpentone, visto che un solo colpo ben piazzato di Lena era riuscito a disorientarlo come né Leighton né io eravamo riusciti a fare.
Sapevo cosa fare.
Rivolsi lo sguardo al sole ormai quasi tramontato, supplicandolo di non abbandonarmi proprio ora. Nella mia mente, i raggi rossi e arancioni divennero lunghi nastri che potevo muovere a mio piacimento; alzai le braccia al cielo, e ordinai a quei nastri di legarsi alle mie mani.
Ora, detto così può sembrare facile; dopotutto, chi non è capace di spostare un nastro, per quanto gigante?
Il punto è che spostare un raggio di sole richiede molta più energia. Diciamo che più il raggio è esteso e luminoso e più c’è da faticare.
Quindi provate a immaginare come dovevo sentirmi. Ci riuscite? Magari vi do una mano.
Quando avvertii il calore del sole sui palmi delle mie mani, le gambe mi sprofondarono nell’asfalto. Letteralmente.
Caddi in ginocchio e dovetti dar fondo a tutta la mia forza di volontà per rimettermi in piedi e non accasciarmi a terra. Le braccia mi tremavano per lo sforzo e in un attimo fui ricoperto di sudore, causato sia dallo sforzo che dal grandissimo calore dei raggi.
Quando raggiunsi il limite della sopportazione, feci il gesto di lanciare i raggi di luce dritti dritti verso il muso di Pitone, e inaspettatamente la cosa andò a buon fine.
Mentre mi liberavo della tonnellata che avevo sostenuto udii chiaramente il verso irato del mostro; la luce lo aveva circondato e lo stava accecando.
«Uno a zero per il figlio di Apollo, woh-oh!» esclamai, ma la gioia durò poco.
In groppa al lucertolone, Ate mosse le braccia con irritazione e la luce del sole venne inglobata in lingue di tenebra serpeggianti spuntate dal nulla.
«Ottima mossa, Scott, te ne devo dare atto. Peccato che sia stata, come dire, un po’ scontata» disse la dea. «In ogni caso, vediamo di fare in modo che tu non possa ripeterti, mio tesoro»
Detto ciò, Ate si librò in aria e spalancò le braccia, richiamando a sé le sue tenebre.
In un attimo anche gli ultimi raggi di sole scomparirono, e di colpo venni privato della mia ricarica energetica. Dannazione! Senza il sole iniziai ad accusare ancora di più la fatica, e un senso di oppressione minacciò di schiacciarmi il petto.
Mi sentii completamente esposto e vulnerabile, mentre le ombre serpeggiavano intorno al mio corpo, più fredde del ghiaccio e della morte.
«Dovresti arrenderti, Scott» sussurrò suadente Ate. Nonostante fosse lontana, la sua voce arrivò alle mie orecchie come se mi stesse parlando a non più di dieci centimetri di distanza.
«Lo so che è quello che vuoi. Se anche tu passassi dalla mia parte, allora Leighton sarebbe meno restia ad unirsi a noi. Sarebbe proprio come i vecchi tempi: tu e i tuoi due amici, insieme, senza lotte e divergenze. Vi darei potere e ricchezza e non vi abbandonerei mai, mai. Non fidarti degli dei, Scott; sono ottimi ammaliatori, ti promettono il mondo quando poi sono i primi a distruggerlo»
«Non… è vero. Smettila» mormorai, ma avevo la bocca impastata. Che le ombre si fossero avviluppate intorno al mio corpo e avessero raggiunto il viso? Non riuscivo a capire.
L’unica cosa che sapevo è che i giochetti psicologici di Ate non sarebbero riusciti a farmi cadere nella sua tela. Strinsi i denti e presi a dimenarmi, cercando di allontanare le tenebre ghiacciate.
«Lascialo andare, strega!» sentii Lena urlare, e un attimo dopo un rumore sfrigolante mi disse che i suoi fulmini erano vicini… fin troppo vicini.
«Avresti potuto friggermi!» gridai orripilato quando riuscii a liberarmi dalle tenebre, che ora giacevano a terra in quello che sembrava un guscio pulsante attraversato da corrente elettrica.
Lena inarcò le sopracciglia. «Ma non l’ho fatto. Però la prossima volta magari evita di dimenarti; se ti fossi mosso troppo allora sì che ti avrei fritto il cervello»
«Saresti capace di darmi la colpa per qualunque cosa» ribattei con un sorrisetto, avvertendo una sensazione di deja-vu riguardo quello scambio di battute.
Lena rise fugacemente.
Mi sarebbe davvero piaciuto continuare a scherzare con lei, dico sul serio, ma eravamo nel bel mezzo di uno scontro epico e di mandare tutto al Tartaro solo per provarci con una ragazza proprio non se ne parlava.
Ate, intanto, ci stava fissando con astio e stava richiamando a sé altre tenebre, quando d’un tratto mi sembrò di udire una cantilena da brividi molto familiare.
Sbiancai.
«Oh no, le Preghiere sono l’ultima cosa che ci serve in questo momento!» esclamai andando nel panico.
Serpentone più dea psicopatica più vecchiette alate. Ma chi me l’aveva fatto fare di partecipare all’impresa?!
«Io invece credo che siano esattamente quello che ci serve!» fece Lena sgranando gli occhi quando le Preghiere comparvero nella nostra visuale, pallide e spettrali come sempre, con la loro canzone a farci accapponare la pelle.
Recuperai la mia spada e mi misi in posizione d’attacco, rimanendo sorpreso nel vedere Ate imitarmi. La mascella mi sprofondò poi per terra quando le preghiere presero a volare intorno alla dea, agitando le loro ali sbrindellate e alzando la voce finché la loro canzone non sovrastò qualunque altro suono.
«Ci stanno… aiutando?» mormorai confuso, ma subito ricordai ciò che ci aveva detto Eris quella sera al ristorante italiano. Le Preghiere si prendevano cura di quelli che Ate minacciava! Erano dalla nostra parte!
«È come mi aveva detto Artemide» sorrise Lena. «Saranno anche orrende, ma in fondo le Litai non sono altro che anime piene di buone intenzioni»
Scossi la testa. Era tutto così assurdo che pian piano stavo iniziando a non stupirmi più di nulla.
Mentre Ate strillava ordini e minacce alle Preghiere che le volavano intorno impedendole di attaccarci, Lena ed io corremmo da Leighton e Alec, cercando di evitare le zampate di Pitone che, ancora accecato dal mio giochetto con la luce, sembrava deciso a cenare con poltiglia di semidio.
Fortunatamente una volta giunti sotto il suo ventre il pericolo zampate diminuiva, ed eravamo relativamente al sicuro. Certo, se quel simpaticone avesse deciso di smetterla di reggersi su quattro zampe e di strisciare per terra come ogni serpente che si rispetti, allora sì che si saremmo trovati in un mare di guai, ma ancora non volevo pensare a quell’eventualità.
Notai subito che la situazione non era cambiata: Leighton continuava ad attaccare, Alec a schivare. Sembrava una battaglia unilaterale.
«Mi sono fidata di te, come una stupida!» esclamò Leighton dopo l’ennesimo fendente. «Ti ho confidato cose che nessun’altro sapeva e tu le hai usate per i tuoi sporchi comodi»
Alec si accigliò. «Mi credi davvero così spregevole? Leighton, io ti… perché non riesci a capire, dannazione!»
E, per la prima volta, fu il turno di Alec di attaccare.
Immediatamente feci per farmi avanti, ma Leighton mi intercettò gridando: «Stanne fuori, Scott! È una cosa tra me e lui, non ho bisogno di aiuto»
«Stai scherzando, spero!» esclamai, ma in fondo sapevo che faceva sul serio. Sospirai.
Lena mi guardò con tanto d’occhi. «Sei pazzo? Vuoi darle retta? Si farà ammazzare!» strillò.
Leighton, per tutta risposta, deviò un fendente di Alec con una giravolta ed esclamò: «Grazie per la fiducia»
Lena strinse i pugni, ma le feci cenno di aspettare. Se le cose si fossero messe male, saremmo intervenuti.
Alec e Leighton si erano distanziati per riprendere fiato, e in quel momento il figlio di Afrodite riprese a parlare, e stavolta nella sua voce c’era un tono affettuoso.
«Non ti ferirei mai in questo modo. Neanche se ne andasse della mia vita»
Vidi Leighton vacillare per un istante. E allora capii.
Alec stava combattendo quel duello a parole. Leighton era nettamente superiore sul punto di vista della tecnica con la spada, ma nessuno sapeva essere un mediatore migliore di un figlio di Afrodite.
Leighton però non sembrava disposta a cedere così in fretta.
«È vero. Tu non lo mi feriresti. Ma hai permesso ad altri di farlo» disse con rancore.
Alec s’incupì. «Che cosa? Chi—»
«Non fare il finto tonto!» sbottò Leighton. «Eri l’unico a sapere di mia madre e l’hai detto ad Ate, così lei ci ha mandato quel’automa con il suo vaso ricolmo di porcherie che mi stavano facendo impazzire, e avrei voluto così tanto morire in quel momento! Se Scott non ci avesse salvati tutti… non so cos’avrei potuto fare. Ti rendi conto di quello che hai fatto? Di quello che mi hai fatto?»
Mentre Leighton singhiozzava con rabbia, Alec rimase in silenzio a bocca aperta. Sembrava che nella sua mente si stessero rincorrendo tutta una serie di pensieri.
Quando finalmente riuscì a parlare, disse: «Leighton, ad Ate non ho mai detto—»
«Oh, certo, come no!»
«Ascoltami, dannazione! Non le ho mai detto nulla di tua madre perché io e lei avevamo… avevamo stretto un patto»
«Che cosa?» esclamammo quasi all’unisono Lena ed io.
Alec sobbalzò nell’udirci, probabilmente perché doveva essersi dimenticato della nostra presenza. Che errore da principiante.
«Che tipo di patto?» domandò Leighton.
Alec fissò gli occhi verde smeraldo nei suoi, neri come il carbone.
«L’avrei aiutata a vendicarsi, a patto che… non ti facesse del male. Né a te né agli altri. Doveva lasciarvi in pace»
«Non sapevo che ingannarci, rinchiuderci in un capannone e renderci prede dei nostri peggiori incubi equivalesse a lasciarci in pace» borbottai.
Alec mi guardò di traverso, poi abbassò lo sguardo.
«Ate mi ha mentito»
«Sai che novità» fece Lena.
Rimanemmo in silenzio per qualche istante, prima che un grido agghiacciante ci congelasse il sangue nelle vene. Poi il silenzio scese per davvero. Voglio dire, prima il canto delle Preghiere era stato un costante sottofondo, ma adesso… niente.
«Credo che abbiamo un problema» dissi.
Ate comparve tra di noi, trasportata come sempre dalle sue ombre serpeggianti, e ci guardò uno ad uno.
«Credevo che una volta al Tartaro quelle anime si sarebbero date una calmata» sospirò con fare scocciato. «Quindi, mi sono persa qualcosa?»
«Mi hai imbrogliato!» gridò Alec puntandole contro la sua spada. «Li hai attaccati! Avevi promesso di lasciarli in pace!»
La dea fece un sorrisino di scuse e si strinse nelle spalle.
«Ops» disse. «Colpa mia»
Alec sembrava essere uscito di senno. Si lanciò verso Ate con un grido, brandendo la sua arma.
La dea ruotò gli occhi.
«Sapevo che sarebbe successo» esclamò.
Con un movimento fluido, senza che nessuno potesse far nulla, alzò un braccio verso Alec.
«Vi siete mai chiesti dove le mie ombre mandino tutti i vostri attacchi quando li inglobano?» ci domandò.
Dalla punta delle sue dita partì una scarica oscura di elettricità che attraversò il petto di Alec. 











Salve a tutti! State passando una buona estate? Io sì :D anche se ho molto meno tempo per scrivere di quello che avevo previsto. Ad ogni modo, ecco a voi la prima parte dello scontro finale! Il prossimo capitolo dovrebbe essere l'ultimo, sob, poi non so ancora se inserirò una sorta di epilogo o meno. 
Sto aggiornando in fretta e furia perché non so per quanto tempo riuscirò ad avere la chiavetta internet tutta per me. Ad ogni modo colgo l'occasione per ringraziare di cuore tutti quelli che ancora seguono la mia storia! Mi farebbe tanto piacere sentire qualche vostro parere con una recensione :3 siete fantastici!

Ritorna all'indice


Capitolo 18
*** Dei ramoscelli ci salvano la vita. ***


Dei ramoscelli ci salvano la vita.

 

Quando ero ancora un bambino, e le mie preoccupazioni erano più vicine a come sgraffignare qualche biscotto dalla credenza che a come salvare il mondo, un giorno vidi mia madre piangere. La mia mamma detesta piangere, mostrare il lato vulnerabile del suo carattere, e per questo sono rare le volte in cui l’ho vista con le lacrime che le scorrevano sulle guance.
Quella volta però fu diverso. Fu orribile. Singhiozzava e gemeva e tremava, ed ebbi tanta paura.
Poi pian piano la nostra casa cominciò a riempirsi di parenti, e una delle mie zie più paffute e gentili mi prese da parte e mi spiegò che tutti erano tristi perché il nonno, il papà della mia mamma, non c’era più.
Su di me, che avevo visto quel signore sconosciuto dall’aria severa davvero poche volte nel corso della mia vita, la notizia non fu di grande impatto. Piuttosto, mi rimasero impresse le lacrime di mia madre. Non ho mai smesso di domandarmi quanto grande doveva essere il dolore da lei provato, se era riuscito a spezzarla in quel modo. La domanda che mi tormentò e mi spaventò per molti anni della mia infanzia fu: quanto fa male perdere per sempre qualcuno che ami?
Non avrei mai voluto scoprirlo.
E invece adesso era troppo tardi.
 
«Non funzionerà ancora a lungo, dannazione!» imprecò Lena tremando, con le braccia rivolte al cielo a sostenere il peso del campo di vento ed energia elettrica che ci turbinava intorno. Il sudore le colava sulla fronte, rendendo la sua pelle ancora più brillante del solito; le ginocchia stavano quasi cedendo.
«Non respira, Scott, non respira!» piangeva intanto Leighton, china accanto a me sul corpo di Alec.
Nonostante il frastuono che mi circondava nella mia testa regnava il più assoluto silenzio. Mi sentivo come se intorno alla mia mente si fosse formata una vera e propria bolla, per isolarmi dal resto del mondo e permettermi di ragionare, cosa che altrimenti in quelle circostanze sarebbe risultata difficile, per non dire impossibile.
Alec era ancora vivo. Lo sapevo — no, lo percepivo.
Se se ne fosse andato, la vita non avrebbe continuato ad andare avanti in maniera così caotica. No. Sarebbe successo qualcosa. Il mondo si sarebbe fermato. Oppure a fermarsi sarebbe stato il tempo. Chi lo sa.
Okay, Scott, ragiona, ragiona!
Il mio migliore amico era vivo perché, nonostante l’orrenda bruciatura che spiccava sulla sua pelle pallida, nonostante la rivoltante puzza di carne bruciata, nonostante le lacrime disperate di Leighton, il suo petto continuava ad alzarsi e abbassarsi. Perché Leighton non se ne accorgeva?
È sotto shock, suggerì la mia mente. Probabilmente lo sei anche tu.
Grazie, cervello.
«Sco-ott» gemette Lena. Per qualche ragione il suo lamento sovrastò il pianto di Leighton, riportandomi alla realtà della situazione.
Alec.
Ate.
Pitone.
Scossi violentemente la testa e mi strofinai gli occhi con le mani. Dovevo assolutamente riprendermi.
«Dobbiamo allontanarci da qui» gridai. «Siamo ancora sotto il ventre di Pitone, se il campo di energia svanisse quel lucertolone potrebbe spiaccicarci in un battibaleno»
Lena voltò appena il viso per incrociare il mio sguardo.
«Mi dispiace» disse. «Non ho abbastanza forze per reggerlo»
La zittii con un cenno della mano, provando uno strano miscuglio di gratitudine e rabbia.
Non appena Ate aveva attaccato Alec, Lena aveva creato dal nulla un piccolo tornado con tanto di fulmini annessi, che ci aveva circondato e ci aveva isolato dalla dea, interrompendo il fulmine da lei scagliato contro il mio migliore amico. Forse Lena aveva salvato la vita di Alec, in questo modo. Forse.
«Ho un’idea!» esclamò d’un tratto la Cacciatrice. «Tu occupati di Alec, qui ci penso io!»
Annuii, mormorando un grazie che nessuno sarebbe riuscito a sentire. Voltai le spalle a Lena e andai ad accoccolarmi accanto a Leighton. Aveva poggiato la testa di Alec sulle sue gambe. Un qualcosa in quel gesto mi provocò una stilettata al cuore.
«Leighton» la chiamai a bassa voce, mentre un calore familiare iniziava a diffondersi nel mio corpo.
La figlia di Efesto mi lanciò un’occhiata, e subito vidi un barlume di speranza sul suo viso. Non so come e non so con quale forza, le sorrisi.
«Lascia che lo aiuti» le dissi, e lei annuì. Come se stessero aspettando solo quel cenno d’assenso, le mie mani s’illuminarono di una luce tanto abbagliante che Leighton dovette chiudere gli occhi. Al contrario, io non ne ebbi bisogno; con estrema delicatezza avvicinai le mani al petto di Alec, mentre cominciavo a canticchiare una melodia che riconobbi come una preghiera ad Apollo che ci avevano insegnato al Campo Mezzosangue.
La inframmezzavo a incitazioni mentali come “Andiamo, Alec, so che puoi farcela!” o “Resisti, amico”.
Trascorsero secondi, minuti, non ne ho idea.
La mia concentrazione era tutta sulla guarigione di Alec. Eppure, ad un tratto, mi accorsi che qualcosa stava cambiando: si era alzato un forte vento, e nell’aria si stava diffondendo un rumore di elettricità statica.
Che stava combinando Lena?
Proseguii nella mia preghiera senza mai fermarmi a guardare, neanche quando Leighton si strinse forte al mio braccio.
Sentivo il sudore colarmi ai lati del viso e lungo la schiena, mentre percepivo il mio corpo andare a fuoco come se avessi corso una maratona.
Tremavo, bruciavo, ero scosso da strane scariche d’energia, per un attimo mi sembrò anche si essere sul punto di vomitare persino l’anima. Ma non mi azzardai ad interrompere il contatto che avevo stabilito con Alec.
Poi, finalmente, la luce proveniente dalle mie mani perse d’intensità. Dopo un’eterna manciata di secondi, Alec sgranò gli occhi e inspirò profondamente, per poi lasciarsi andare a una serie di colpi di tosse.
«Bentornato» gli dissi, esausto ma al settimo cielo.
Lui mi scrutò in viso, forse cercando qualche traccia di ostilità. Ricerca vana. Si rilassò, e le sue labbra formularono un muto “grazie”.
Ad interrompere quell’altrimenti toccante scena ci pensò Lena, con un: «Adesso tenetevi forte!»
Il punto è: eravamo nel mezzo di una strada, circondati dal nulla. A cosa dovevamo tenerci, nel nome di Zeus?!
Non ebbi il tempo di farglielo notare. Il campo di energia si allargò di colpo, seguito da un forte impatto e da un versaccio di Pitone che mi fece rabbrividire. Dopodiché, la nostra unica protezione si dissolse nel nulla.
Mi guardai intorno: Pitone, disteso su di un fianco con il ventre bruciacchiato, stava rimettendosi in piedi con molta fatica; Ate osservava la scena dall’alto, imperturbabile.
«L’hai ferito, Lena. Quanta crudeltà!» esclamò.
Lena alzò le spalle. «Non preoccuparti. La prossima volta lo ridurrò direttamente in cenere»
«Bel colpo» esclamai, aiutando Leighton a rimettere Alec in piedi. Nonostante la mia guarigione era ancora molto stanco.
«Scott, ascolta» mi disse lui con un fil di voce. «Mi dispiace. Non sai quanto. Meriterei di finire al Tartaro»
«Chiudi il becco» lo zittii. «Non ti ho salvato la vita soltanto per sentirti dire che avresti meritato la morte»
Lui mi ignorò.
«Siete riusciti a incontrare le Ore?» domandò, prima che un violento attacco di tosse gli impedisse di parlare.
«Non parlare» fece Leighton. «Conserva le energie»
«No, dovete ascoltarmi! Le avete incontrate? Vi hanno dato qualcosa?»
Leighton ed io ci scambiammo uno sguardo, mentre Lena si avvicinava, approfittando di quel momento di tregua per recuperare le energie.
«Ecco, sì. Ma non sono esattamente quello che ci aspettavamo» scossi la testa. Ramoscelli. Stupidi, inutili ramoscelli. Ci avevano scambiato per figli di Demetra con la passione per il giardinaggio, o cosa?
Immaginavo che la notizia avrebbe sconcertato Alec, ma invece i suoi occhi verdi brillarono di una luce speranzosa. Poi, il figlio di Afrodite rise.
«Sicuro che non abbia battuto la testa un po’ troppo forte?» fece Lena. «Non abbiamo il tempo per una commozione cerebrale!»
Aveva ragione. Seppur con fatica, Pitone si stava rimettendo in piedi, e sembrava essersela presa a morte per il suo pancione abbrustolito, che ancora fumava. Bleah. Lucertola affumicata.
Ate, tanto per rendere la situazione un po’ più deprimente, con uno schioccare di dita richiamò a sé le sue care ombre serpeggianti che iniziarono a strisciare verso di noi, seppur con lentezza. In effetti, realizzai, erano fin troppo lente rispetto a come le ricordavo. E più traslucide.
Mh. Un istante. C’era qualcosa che…
Mi si accese una lampadina nel cervello.
Possibile che l’attacco a Pitone avesse in qualche modo indebolito Ate? Comunicai la mia idea ai miei amici, cosa che non fece altro che incrementare l’entusiasmo del tutto fuori luogo di Alec.
«Sono uniti da un legame. Ate e Pitone, dico. Per quanto quella strega affermi di aver recuperato la sua antica forza, lui è un mostro troppo potente per rimanerle sottomesso con le buone. Ate lo ha costretto in un legame grazie al quale lei trae forza da lui, che è obbligato ad obbedirle, ma c’è anche il rovescio della medaglia: se colpite Pitone, indebolite anche Ate» ci spiegò Alec.
Io, Lena e Leighton lo guardammo con tanto d’occhi.
«E questo lo sai perché…?» dissi.
Alec riprese un po’ di colore sulle guance. Sembrava imbarazzato.
«Io… lo so è basta, okay? Fidatevi di me»
Lena emise uno sbuffo, ma rimase in silenzio. Intuii che la scelta se fidarci o meno di Alec ricadeva su Leighton e me.
La figlia di Efesto ed io ci guardammo per un istante. Lei annuì leggermente. Ne fui sollevato.
«D’accordo» mormorai. «Quindi dobbiamo mettere ko il lucertolone»
Mi voltai a lanciargli uno sguardo, e mi accorsi che le ombre ci stavano raggiungendo. Non rappresentavano questa grande minaccia, però. Voglio dire, non in confronto a Pitone. Ad ogni modo, richiamai a me un fascio di luce brillante e lo usai come frusta per allontanarle.
«Più facile a dirsi che a farsi» commentò scoraggiata Leighton.
«Insomma, voi quattro!» rimbombò nell’aria la voce di Ate. «Spero abbiate finito di confabulare in quel modo!»
Aggrottai le sopracciglia. Pitone si stava riprendendo, e anche Ate stava recuperando la sua forza. Avevamo ancora poco tempo prima che ricominciassero gli attacchi serrati.
«Ragazzi» fece Alec. «I doni delle Ore. Ce li avete con voi, no? Usiamoli!»
Leighton, Lena ed io ci guardammo, con le stesse identiche espressioni sconfortate in viso. Sospirai.
Infilai una mano nella tasca ed estrassi il ramoscello con le bacche donatomi dalle Ore. Leighton e Lena fecero altrettanto.
«Ma che Tartaro…?» esclamò Alec sgranando gli occhi. «State scherzando?»
«Purtroppo no» grugnì Leighton, fissando il suo ramoscello in fiore come fosse la più astrusa delle equazioni matematiche esistenti.
«Dovremmo combattere una dea a suon di bacche in testa? Assurdo!»
Scagliai un’altra frustata di luce contro le ombre striscianti tanto per sottolineare il mio disappunto, che crebbe ancora di più quando vidi che le ombre, al tocco della frusta, si arricciarono per un istante ma poi ripresero a serpeggiare verso di noi. Perfetto. Intervallo finito.
Alec scosse la testa, rimuginando.
«Ate era furiosa quando è venuta a sapere che eravate arrivati per tempo dalle Ore. Questi rami devono significare qualcosa»                              
«Avremmo dovuto piantarli entro i confini del campo. Ci avrebbero difeso» Leighton scosse la testa. «Immagino che adesso dovremo arrangiarci in un altro modo»
Il versaccio di Pitone ci fece trasalire. Ci voltammo tutti insieme, con espressioni funeree, pronti a ricominciare a combattere.
Per cui, eccoci qui. Di nuovo. Secondo round.
Qualcosa mi diceva che sarebbe stato anche l’ultimo.
«Ragazzi, mi dispiace di avervi messo in questa situazione» mormorò Alec. «È stata tutta colpa mia. Se potessi tornare indietro…»
«Chiudi il becco!» esclamammo in sincrono le ragazze ed io. Nonostante la paura che mi angosciava, ridacchiai. In fondo ero in compagnia dei miei migliori amici. E di Lena. Che, be’, nonostante la conoscessimo da poco tempo si era conquistata a pieno titolo il suo posto nel gruppo.
Saperli al mio fianco rendeva l’idea dello scontro più sopportabile.
«Signori» esclamai. «Vediamo di prendere a calci un paio di sederi divini e lucertoleschi»
«Rettili, vorrai dire» mi corresse Lena.
La guardai. Ridemmo insieme. Non avevo più paura.
Le ombre di Ate crebbero sempre di più, e Pitone ci si avvicinò con fare minaccioso.
Stringevamo ancora nelle mani i rami delle Ore.
E fu in quel momento che successe.
 
Mi sembrava di essere finito in un frullatore.
Anzi, no: mi sembrava di avere in mano un animale impazzito. Il mio ramoscello aveva preso vita! Si stava agitando come fosse stato preda di una crisi epilettica, e non era il solo.
«Nel nome di Zeus!» gridò Lena quando un brillante arcobaleno di colori si diffuse dai rami.
Ci trovammo in pochi istanti circondati da fasci danzanti di luce colorata e bollente, che però non ci arrecava alcun danno, contrariamente a quanto stava accadendo a Pitone ed Ate.
Lui, il lucertolone, indietreggiò spaventato emettendo quei suoi versacci striduli, mentre la dea schiumava di rabbia e terrore: le sue ombre si erano ritirate, e lei si stava esibendo in un irripetibile sproloquio in greco antico che, mi parve di cogliere, accomunava ai nomi degli dèi alcuni epiteti non proprio nobili, ecco.
«Che cavolo sta succedendo?» esclamò Leighton. Non sembrava spaventata; stava ridendo.
«Non ne ho la minima idea» le risposi, osservando incantato il mio ramoscello luminoso.
Era una luce diversa da quella che ero abituato a maneggiare; questa sembrava più… eterea. Divina. Non esistevano termini adatti a descriverla.
«Come avete fatto?!» gridò Ate. «Come avete osato?!»
Be’, la verità era che non lo sapevamo neanche noi. Forse ne stavamo capendo ancora meno della dea, ma poco importava: avevo la sensazione che la situazione fosse stata appena ribaltata a nostro favore.
Lasciati andare, Scott, disse la voce di mio padre nella mia testa.
Nonostante fossi estremamente sollevato di sentirla di nuovo, non riuscii a non commentare con un: guarda chi si rivede!
Dai rami di Leighton e Lena partirono delle vere e proprie corde luminose che andarono ad avvilupparsi intorno a Pitone, che prese a dibattersi come un forsennato in preda al terrore.
«NO!» fece Ate, schiumando per la rabbia.
Prese a lanciarci contro delle vere e proprie sfere fatte d’ombra, che però si dissolvevano nella luce ancora prima di giungere a una distanza tale da costringerci a rivolgere loro la nostra attenzione.
Di fronte al potere dei doni delle Ore mi sentii un pochino colpevole: giurai a me stesso che non avrei mai più giudicato un’arma dal suo aspetto. Mai, mai, mai più!
«Scusatemi, avevamo tra le mani questa roba e neanche lo sapevamo?» disse Lena, dando voce ai miei pensieri.
Lei e Leighton tenevano ben stretti i loro rami con le rispettive corde di luce. Per quanto Pitone si stesse dimenando, nessuna delle ragazze si mosse di un passo.
Solo i fasci di luce del mio ramoscello continuavano a fluttuare nell’aria. Aggrottai le sopracciglia.
Apollo mi aveva detto di lasciarmi andare, per cui provai a rilassarmi. A non pensare a nulla.
Socchiusi gli occhi, godendomi il piacevole tepore della luce che mi circondava. Un formicolio caldo alla mano mi avvertì che stava succedendo qualcosa, ma tenni gli occhi chiusi e sospirai.
Quando finalmente decisi di alzare lo sguardo, dove prima c’era il mio ramoscello ora c’era uno splendido arco fatto di luce pura.
«Woh!» esclamai sconcertato.
Sentii Lena schiaffarsi una mano sul viso.
«Arco e frecce! Perché non ci ho pensato prima?»
Me lo chiesi anche io.
Ignorando le bestemmie, gli insulti e i ripetuti attacchi — del tutto inutili — di Ate, osservai un nastrino di luce allontanarsi dall’arco e allungarsi fino a raccogliere la mia spada, rimasta a terra dopo che avevo curato Alec. L’arma venne avvolta e trasportata fino all’arco dove, con mio immenso stupore, si trasformò in una freccia.
Senza pensarci due volte la presi e la incoccai.
«Ehi, ehi, ehi! Cos’è tutta questa fretta?» fece Alec. «Hai solo una freccia, sicuro che non mancherai il bersaglio?»
Mi voltai verso di lui.
«Amico, stai parlando con un figlio di Apollo. Io non sbaglio mai»
Osservai Pitone. Mirai. Presi un respiro profondo, e lasciai andare la freccia…
…che andò a colpire il mostro esattamente tra i due occhi gialli.
L’urlo di Ate fu talmente assordante da sovrastare persino quello di Pitone. Mi tappai le orecchie d’impulso, pensando a cosa avrebbero sentito tutti i mortali della zona a causa della Foschia.
«Non è finita qui, semidei! Non pensate di aver vinto!» gridò Ate, mentre il suo corpo perdeva consistenza ritornando ad essere ombra, come la prima volta che l’avevo incontrata nei miei incubi.
«Tornerò, lo giuro sul fiume Stige! E la prossima volta perirete tutti. Voi e i vostri dèi: soccomberete dinanzi alla mia ira!»
Quella sfilza di minacce cominciava a stancarmi.
«Come ti pare» esclamai. «Basta che torni da dove sei venuta»
E con un ultimo grido bestiale, mentre il mostro Pitone si dissolveva in una pioggia di cenere, della dea della Dissennatezza non rimase altro che nero fumo.
 
Considerando che per arrivare a New York avevamo impiegato interi giorni, il ritorno al Campo Mezzosangue fu stranamente veloce.
Forse perché dormimmo per tutta la durata del viaggio, in groppa a due nostri vecchi amici.
Mio padre ci aveva mandato ancora una volta i due grifoni che ci avevano accompagnati a New York quando avevamo perso l’autobus, e questo contribuì a rallegrarci ancora di più. Lena e Leighton si addormentarono non appena il loro grifone femmina iniziò il volo, e altrettanto fece Alec, seduto dietro di me sul nostro grifone.
Io no. Avevo una cosa da fare. Una promessa da mantenere.
Sentendomi un totale idiota, mentre volavamo sopra una distesa di soffici nuvole bianche chiusi gli occhi e provai a chiamare mio padre. Non avevo ancora ben chiaro come funzionasse il meccanismo della comunicazione mentale, ma sperai che invocare Apollo sarebbe bastato.
Dopo aver preso un bel respiro, cominciai a parlare mentalmente di Clizia, la vecchia fiamma di mio padre che viveva nel campo di girasoli.
Le avevo promesso che l’avrei aiutata. Adesso che avevo sconfitto Ate, mi sentivo in grado di farlo — più che altro, ero convinto che gli dèi me lo dovessero. Andiamo, chi è che negli ultimi giorni aveva rischiato la pelle mentre loro se ne stavano comodi comodi sui loro troni sull’Olimpo?
Pregai mio padre di liberare Clizia dalla sua prigionia; lo pregai di rendere la sua casa visibile agli umani, in modo tale che quella povera ninfa non dovesse più trascorrere la sua vita in una solitudine forzata; come ultima cosa, lo pregai di perdonarla.
Sei troppo buono, Scott, mi disse la voce del dio del sole facendomi sobbalzare. Per poco non caddi giù dal grifone.
Per favore, pensai.
Per un po’ no ebbi alcuna risposta. Il cuore mi sprofondò nello stomaco al pensiero di non essere stato capace di mantenere la promessa fatta a Clizia. Mi si formò un groppo in gola, ma inghiottii con forza.
D’accordo. Sarei andato di persona a far compagnia a Clizia. Non l’avrei lasciata sola come…
Come ho fatto io?
Sobbalzai e rischiai per la seconda volta di perdere l’equilibrio. Non c’era riuscita Ate a farmi fuori, lo avrebbe fatto mio padre. Involontariamente, per giunta.
Non è quello che volevo dire, gli risposi. Allora, la libererai?
Altro silenzio. Questa volta non commisi l’errore di distrarmi, per cui quando Apollo parlò di nuovo non mi colse di sorpresa.
Lo sai, figliolo? Sei proprio come tua madre: neanche a lei riuscivo mai a dire di no.
Sorrisi appena.
Grazie, papà, gli dissi.
Poi mi lanciai vincere dal sonno, e mi addormentai.
 
Una volta al campo la situazione degenerò.
In realtà assistetti solo in minima parte ai festeggiamenti in nostro onore organizzati dagli altri campeggiatori, perché Chirone insistette nel volervi portare di filato in infermeria. Apprezzai.
Alec era quello che tra di noi aveva maggior bisogno di cure, ma un po’ di nettare e ambrosia avrebbe fatto comodo anche a me e alle ragazze.
La storia del tradimento di Alec non si era diffusa, per quanto qualcosa mi dicesse che Chirone ne era venuto a conoscenza.
Riley venne a trovarci un paio di volte in infermeria — anche se dal suo comportamento era palese che venisse a controllare le condizioni di uno di noi in particolare — e in una di queste occasioni la ringraziai per non aver sparso in giro alcuna voce su Alec.
Mi aspettavo un qualche commento sarcastico, invece lei mi guardò con un’espressione amara e malinconica.
«Solo perché solo la figlia della dea della Discordia non significa che debba essere la stronza colossale che tutti credono io sia, non credi, Scott?» mi disse. Dopo quella volta non si fece più viva.
Incessanti furono invece le visite dei miei fratelli, e soprattutto di Jenny.
Volle sapere ogni singolo dettaglio della nostra impresa e si dimostrò parecchio interessata a Lena. Dopo un paio di visite io, che ero il suo adorato fratellone, venni snobbato alla grande per la figlia di Zeus.
Tra una visita e l’altra, i giorni passarono.
Riuscii a chiamare mia madre con l’iPhone e a raccontare a grandi linee le mie avventure, ma evitai di nominare Apollo; non so esattamente perché, ma non ero sicuro che questa ricomparsa di mio padre nelle nostre vite avrebbe potuto farle del bene.
La vita riprese a scorrere normalmente, anche se con qualche piccola modifica.
In primo luogo, Alec. Per quanto mi sforzassi di ignorarlo, entrambi sapevamo che qualcosa nel nostro rapporto era cambiato. Lui era ancora il mio migliore amico e lo sarebbe stato per sempre, ma il fantasma del suo comportamento a volte sembrava aleggiare tra di noi. Mi domandavo spesso quando sarebbe svanito del tutto.
Il rapporto tra Alec e Leighton, invece, degenerò totalmente. Certo, erano ancora amici, ma quell’affetto speciale che li legava era stato rimpiazzato da un cordiale rispetto reciproco. Poi un giorno venimmo a sapere che Leighton e un ragazzo della cabina di Dioniso stavano uscendo insieme. Alec sparì dalla circolazione per il resto della giornata, e quando lo rividi capii che non aveva preso affatto bene la notizia.
E poi, be’, c’era Lena.
Se durante la nostra impresa c’era stato modo di ridere, scherzare e — soprattutto — fantasticare su improbabili futuri, adesso che lei era tornata con le Cacciatrici di Artemide tutto era cambiato.
Certo, sapevo che quell’infatuazione mi sarebbe dovuta passare per forza, ma era difficile.
Chiamatemi stupido, ma sentivo che c’era qualcosa tra me e lei. Non so spiegarlo. Ma lo percepivo.
Per cui, quando seppi che lei e le Cacciatrici se ne sarebbero andate di lì a qualche giorno, entrai nel panico. Solo la sera precedente alla loro partenza riuscii a parlarle.
Ebbi la fortuna di trovarla da sola, vicino la stalla dei pegasi.
Ora o mai più, mi dissi.
«Così domani parti, eh?»
Lei sobbalzò, si voltò e mi lanciò un’occhiataccia.
«La prossima volta che mi arrivi alle spalle in questo modo sappi che non mi riterrò responsabile delle ferite che riporterai»
Alzai le mani in segno di scuse, e lei si rilassò.
«Artemide ha deciso che è tempo di andare. Adesso che non dobbiamo più preoccuparci di Ate siamo libere di tornare a viaggiare»
«Oh. E sai già dove andrete?»
Lei si strinse nelle spalle. «Non ne ho idea. Talia ha proposto come meta una città in cui c’è un raduno di musica rock, ma non so se Artemide le darà retta» rise.
Cercai di figurarmi Artemide ad un concerto rock. Oh, dèi!
Ci fu qualche istante di imbarazzante silenzio. Lena non smise un attimo di guardarsi intorno con aria circospetta, come se fosse preoccupata che da un momento all’altro qualcuno potesse sorprenderla a parlare con me.
«Scott, credo proprio che dovrei andare» disse, nel momento esatto in cui io esclamai: «Credi che Ate tornerà?»
Quella domanda ebbe l’assurdo effetto di riportarmi per un attimo a settimane prima, quando avevamo condiviso esperienze uniche, quando avevamo combattuto fianco a fianco contro una dea e non eravamo stati la Cacciatrice di Artemide e il figlio di Apollo, ma solo Lena e Scott.
«Non tornerà» mormorò Lena, riportandomi di botto al presente.
«Ma se tornasse?» chiesi con foga, accorgendomi subito che le stavo ponendo la domanda sbagliata. «Tornerai anche tu? Cioè, voglio dire, le Cacciatrici—»
«Scott»
Mi sentivo le guance in fiamme.
«Molto probabilmente questa sarà l’ultima volta che ci vedremo per molto, molto tempo»
Silenzio. Mi accorsi che stavo trattenendo il respiro, e feci del mio meglio per dissimularlo.
«Quindi» deglutii. «Quindi questo è un addio?»
Lena annuì. «È stato bello conoscerti. Conserverò un bel ricordo. Spero che per te sarà lo stesso» sorrise, ma non sembrava a proprio agio.
Ora o mai più.
«Non voglio che tu sia solo un ricordo» dissi tutto d’un fiato. Iniziavo a sentire freddo alla punta delle dita, eppure la faccia mi stava andando a fuoco.
Lena aggrottò le sopracciglia. Poi un lampo di consapevolezza le illuminò il viso; sgranò gli occhi, e la sua espressione si indurì.
«Scott,no. Ti prego, dimmi che sto fraintendendo ogni cosa»
«È solo che speravo… insomma, credevo…»
«Sono una Cacciatrice, per l’amor degli dèi. Come puoi anche solo aver pensato…?»
«Lo so. Mi dispiace. Sono uno sciocco. Perdonami»
Rimanemmo l’uno davanti all’altra a fissarci le scarpe come fossero la cosa più interessante al mondo. Mi sembrava che il cuore avesse deciso di scoppiarmi nel petto. Non era così che avrei voluto dirle addio.
Sentii un rumore di passi, poi la mano di Lena si posò delicatamente sulla mia spalla.
«Fai un favore a te stesso e dimenticami»
Alzai di scatto la testa, ferito da quelle parole. Mi allontanai di un passo. Gli occhi grigi di Lena si riempirono di dolore.
«È che… ci sono cose che mi riguardano che tu non sai. Che potrebbero farti del male» sospirò. «Ma non mi aspetto che tu capisca i miei motivi. Mi dispiace, Scott, sono io che dovrei chiederti scusa. Sono sicura che un ragazzo fantastico come te troverà presto la ragazza giusta»
Non risposi. Mi limitai a fissare la figlia di Zeus senza aprire bocca, cercando di metabolizzare le sue parole.
Non ero abituato a reazioni del genere da parte delle ragazze, lo ammetto, ma stavolta era davvero diverso. Era innaturale.
Lena sorrise appena. «Devo andare. Addio, Scott»
La guardai andare via. Un mucchio di voci nel mio cervello gridavano tante cose diverse. Mille e mille risposte mi si affollarono in testa, ma solo quando Lena fu ormai sparita dalla mia vista mi azzardai a dar voce ai miei pensieri.
«A presto, Lena Storm» mormorai.
 

FINE

 
 
 
 
 
 
 
 
 

di prossima uscita:
 
Cronache del Campo Mezzosangue
La dea dimenticata











 

Oh cielo. Non posso crederci. Sono arrivata all'ultimo capitolo. 
Lo ammetto, scrivere la parola "FINE" mi ha commossa. Scott ormai è parte di me, come posso lasciarlo? Poi, per fortuna, mi sono resa conto che LA STORIA NON FINISCE QUI!
Questo è solo il primo capitolo di una saga. Il secondo capitolo, La dea dimenticata, verrà pubblicato tra qualche mese. 
Che dire? Mi ero preparata mentalmente tanti discorsi per salutare questa fanfiction, la prima long che ho completato, ma ora tutte le mie parole sembrano essere volate via.
Una cosa però devo dirla: GRAZIE. Grazie a voi che avete letto, che avete recensito, che avete fangirlato, che mi avete dato la spinta per continuare a scrivere. 
Scott non esisterebbe se non fosse per voi.
Vorrei poter regalare un Apollo personale a tutti voi che avete recensito dal primo capitolo, anche a quelli che hanno letto in silenzio, o a coloro che sono arrivati solo dopo ma che hanno amato comunque la storia.
Ho però dei ringraziamenti speciali:
grazie a Valeria e a Ida, che mi hanno incoraggiata a pubblicare il primo capitolo, due estati fa. Anche se il nostro rapporto non è più quello di prima siete sempre nel mio cuore, e vi voglio bene, non immaginate quanto;
grazie a Viola, che fangirla sui miei personaggi come nessuno a questo mondo e che spesso e volentieri mi minaccia di morte per via della mia lentezza nel pubblicare;
grazie a Elisa, altra fangirl scatenata che adoro in una maniera assurda, che ha seguito questa storia credo da sempre.
Grazie, grazie, grazie.
Vostra,
Effie.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=791538