IL RUGGITO DEL GIAGUARO 2: il peso dei ricordi di depy91 (/viewuser.php?uid=84597)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Passato in agguato ***
Capitolo 2: *** L'opportunità ***
Capitolo 3: *** La lenta caduta ***
Capitolo 4: *** Punti di vista ***
Capitolo 5: *** Il ritorno del giaguaro ***
Capitolo 6: *** La Sfida ***
Capitolo 7: *** Eredità ***
Capitolo 1 *** Passato in agguato ***
Gocce di
sudore sgorgavano dalla pelle, evaporando al semplice contatto con la
sua schiena bollente per la tensione. Un costante ronzio proveniva
dalla lampada al neon che illuminava lo scarno spogliatoio, lo spessore
della porta chiusa permetteva comunque ai boati della folla urlante di
penetrare sin dentro quella stanza, la cui monotonia architettonica era
frammezzata da armadietti metallici divorati dalla ruggine e lunghe
panche in legno. King sedeva su di uno sgabello, poggiando i gomiti
sulle ginocchia e nascondendo il viso tra le mani. Accanto a lui
giaceva sul piano di una vecchia scrivania la sua gloriosa maschera,
indossando la quale egli aveva sconfitto gli avversari più
temibili e ruggendo aveva proclamato le proprie vittorie sui ring di
tutto il mondo. Qualcuno bussò alla porta, King non
accennò a rispondere, rimase in silenzio, nella medesima
posizione. Quel suono provocò una scossa nella testa del
wrestler, le sue carni vibrarono e per qualche istante la sua mente
volò via da quel luogo meschino, per tornare a qualche mese
addietro, tra le pareti del suo amato orfanotrofio: Un amaro silenzio
rimbombava più forte di un’esplosione, mentre King
attendeva con il viso affranto davanti all’ingresso del
dormitorio, chiuso a chiave. Udì evocare il suo nome, dunque
scattò in piedi, bussò alla porta ed il
chiavistello fu scostato dall’interno, cigolando
rumorosamente. King varcò la soglia, la scena che lo
aspettava sarebbe rimasta vivida nella sua memoria per sempre. Un
bambino, sei anni al massimo, uno dei tanti piccoli sfortunati che
abitava quel luogo caritatevole, giaceva disteso sul letto, avvolto da
uno spesso strato di coperte, per cercare di affievolire la febbre alta
che da giorni non gli dava pace. Respirava affannosamente e la sua
fronte corrugata grondava sudore, mentre un innaturale pallore aveva
invaso la sua pelle. Il medico gli sedeva accanto, asciugandogli il
viso di tanto in tanto e reggendogli una mano, a quanto pareva aveva
fatto il possibile per aiutare quella tenera creatura, ma i suoi sforzi
si erano rivelati inutili. King rimase pietrificato per un secondo
davanti alla porta, poi avanzò lentamente, finché
raggiunse la sedia posta ai piedi del letto, su cui si
abbandonò come privato delle energie. Il bambino
aprì gli occhi e ruotò gravemente le pupille, per
incontrare la figura del suo idolo, il grande King. Un sorriso comparve
sul suo faccino e per un attimo sembrò colorarsi di un rosa
tenue. “K-King…” balbettò il
convalescente ed il wrestler s’alzò per stringerlo
tra le sue braccia. Gioioso come se ogni male fosse svanito, il
fanciullo fissò lo sguardo in quello del volto felino e con
voce tremolante domandò ingenuamente: “Mi
salverai, non è vero? Mi porterai lontano da qui e mi
insegnerai a lottare come un vero combattente. Ti seguo sempre in TV,
sai? Sei il mio eroe… mi salverai, King, non è
così?”. Quelle parole sconvolsero
l’inerme wrestler messicano, il quale sentì la
voce affogargli in gola, alzò lo sguardo verso il medico e
quest’ultimo chinò il capo in segno di
rassegnazione. Lentamente King rivolse nuovamente gli occhi al bambino,
mentre lacrime bollenti scorrevano sino ad emergere dal bordo inferiore
della maschera. Il pargolo abbracciò con tutte le sue forze
il suo modello da seguire, ma progressivamente la stretta si fece
più lieve, sino a che le esili braccia del bambino
piombarono penzoloni, prive di slancio vitale. Le palpebre coprirono i
suoi occhi lucidi e non un’altra parola provenne dalle sue
labbra. King comprese cosa fosse appena accaduto, i sui arti nerboruti
iniziarono a tremare, il suo cuore a palpitare rapidamente. Il medico
lasciò la sala, senza dir nulla e senza sollevare il capo.
King rimase a sostenere il corpicino privo di vita del fanciullo ancora
per diversi minuti, infine lo ripose nuovamente sul letto,
rimboccandogli le coperte con cura.
Quella sera lasciò l’orfanotrofio, non
vi fece più ritorno.
I colpi insistenti alla porta dello spogliatoio
lo destarono nuovamente e la l’evanescente nuvola di
reminiscenze si diradò. King segnalò la sua
presenza con un tonante ruggito, allorché una voce dietro
l’imposta lo informò che sul ring tutto era pronto
per lo svolgimento del match e che tutti lo stavano attendendo con
ansia. Il lottatore si voltò verso il suo impermeabile,
riposto disordinatamente su una delle panche, inserì la mano
in una delle tasche, ne estrasse una bottiglietta metallica
quadrangolare, ne bevve il contenuto a lunghi sorsi, infine
scagliò il contenitore vuoto su di uno specchio, mandandolo
in frantumi. Si asciugò le labbra umide e finalmente decise
di mettersi in piedi, sebbene il suo equilibrio fosse stato intaccato
fortemente dagli effetti di quel fluido alcolico. Celò il
volto dietro la maschera di giaguaro, afferrò un mantello
sgualcito che pendeva dall’appendiabiti accanto
all’uscita, lo indossò e spalancò con
violenza la porta, svelando un lungo corridoio dalle pareti scrostate.
Il fragore della gente in visibilio diveniva via via più
intenso, man mano che i suoi passi stanchi lo guidavano verso il ring.
Alla sua apparizione, corrispose un sonoro boato che fece vibrare
l’intero locale, ma King non sentiva nient’altro
che l’ingombrante peso dei suoi ricordi.
Nell’angusto spazio di una locanda malandata era stato
allestito un angolo adibito ai combattimenti e alle scommesse. Da quel
triste giorno, che non aveva mai smesso di tormentare la mente di King,
egli aveva abbandonato il mondo del wrestling professionistico, per
tornare nell’ambiente losco della lotta di strada, da cui
tanto faticosamente era riuscito a venir fuori in giovane
età grazie al coraggio e alla fede. Erano ormai lontani i
giorni dei grandi successi e i profondi vuoti della sua nuova vita
venivano colmati dall’alcol.
King oltrepassò le corde e salì sul
ring. Davanti a sé il suo avversario stava ancora incitando
il pubblico. L’uomo dal volto di giaguaro gettò a
terra il proprio mantello e si preparò a lottare. La sua
vista era offuscata dall’ebbrezza ed i sui movimenti erano
rallentati e imprecisi. Quando la campana ebbe squillato
l’inizio dell’incontro, non fu nemmeno in grado di
schivare il poderoso ma prevedibile pugno dello sfidante, che lo
colpì in pieno volto, scagliandolo al tappeto. Sostenendosi
dalle corde, King si rimise in piedi a fatica, mentre
l’avversario lo derise dicendo: “Quale delusione mi
provoca questo spettacolo pietoso. Il grande King sbronzo a prenderle
di santa ragione. Cosa c’è, campione, sazio di
successo ma non di liquore?”. Una risata concluse
l’insinuazione, che tuttavia non rimase impunita. Colto da
un’invisibile collera funesta, infatti, il wrestler
evitò le successive tecniche e in un lampo si
trovò alle spalle dell’avversario. Con un potente
calcio alle caviglie lo spedì disteso a terra, e appena si
fu rialzato, gli sferrò un gancio in ventre, piegandolo in
una smorfia di dolore. A questo punto afferrò il capo dello
sfidante, stringendolo saldamente tra l’avambraccio e il
bicipite destro, mentre con il braccio sinistro sollevò il
corpo dell’arrogante combattente, sospendendolo in aria a
testa in giù. Il pubblicò rumoreggiò
gradendo la mossa che stava per concludersi. King si lanciò
all’indietro, facendo piombare al suolo
l’avversario da quella notevole altezza. Il match poteva
essere dichiarato terminato, poiché soltanto King, seppur
barcollando, era in grado di proseguire l’incontro. Lo
speaker si apprestava a sollevare il braccio destro del vincitore per
sancirne l’ennesima vittoria, ma il wrestler
abbandonò il ring, senza proferire una parola, riscosse la
sua parte di guadagno dal giro di scommesse che ruotava attorno alle
sue performance e ritornò nello spogliatoio, per raccogliere
la propria roba ed uscire dal locale. Durante il breve tragitto
tuttavia, un fischio insopportabile gli scosse l’udito, un
bruciore improvviso gli pervase la fronte, King cadde sulle ginocchia,
in preda ad una visione, la stessa che interrompeva il suo sonno tutte
le notti: una voce inumana pronunciava delle frasi di cui era
impossibile cogliere il senso, due occhi rossi e incandescenti come la
lava lo fissavano minacciosi, come se lo stessero giudicando per un
qualche male compiuto, infine da una impenetrabile coltre di nebbia
emergeva d’un tratto un serpente, che strisciando rapidamente
gli veniva incontro a fauci spalancate. Tale scena concludeva la
visione ed ogni cosa svaniva per tornare in agguato tra i meandri
più reconditi della mente di King. Egli si
risollevò sospirando lungamente, per essere riuscito a
sopportare ancora una volta questo suo tormento ricorrente, intontito
raggiunse lo spogliatoio, indossò l’impermeabile e
uscì in strada, con l’unico scopo di trovare un
bancone di un bar qualsiasi, sul quale sfogare il proprio dramma,
barattando il denaro dell’incontro con bicchieri colmi di
frustrazione. La vita di King era molto cambiata da quella terribile
sera. I giorni dei grandi tornei erano finiti e l’ultimo a
cui aveva preso parte era stato il Tekken, nel quale si era
classificato alla terza posizione, sconfitto da Kazuya Mishima, il
figlio dell’organizzatore della competizione. Sebbene
l’Iron Fist fosse popolato da combattenti di eccelso valore,
King aveva dato il meglio di sé con l’obbiettivo
di accaparrarsi il consistente premio in denaro messo in palio dalla
Mishima Zaibatsu. Il terzo posto gli valse un’ingente somma,
che egli decise di devolvere totalmente a favore
dell’orfanotrofio. Lì King aveva trovato la sua
nuova famiglia e la sua esistenza scorreva serena, al servizio dei
bambini, fan tra i più sfegatati delle sue imprese sportive.
Una notte tuttavia qualcuno bussò al portale
dell’orfanotrofio, sulla soglia un fanciullo
dall’aspetto malconcio e infreddolito chiedeva
ospitalità. Naturalmente fu accolto con gioia e King lo
interrogò per scoprirne la provenienza. Il piccolo
raccontò di essere fuggito dalla casa dell’uomo
che l’aveva raccolto ancora in fasce dalla strada, quando la
sua famiglia lo aveva abbandonato. La ragione di un gesto tanto
sconsiderato era l’attività criminale a cui lo
costringeva il suo tutore in cambio di miseri pasti e di un tetto sotto
cui trascorrere le notti. Come lui altri bambini vivevano la stessa
situazione e venivano sfruttati per furti, spaccio e molto altro. King
riconobbe in quella creatura lo stesso destino che lo aveva riguardato
in tenera età, dunque lo rassicurò sostenendo che
era giunto nel posto giusto, dove avrebbe trovato pace dai suoi
affanni. Il bambino ringraziò e accettò di buon
grado la proposta di una nuova dimora. Nei mesi successivi,
però, il ragazzino mostrò i segni di un qualche
malanno ed i medici riscontrarono in lui un morbo potenzialmente
letale. King lo affidò alle cure dei migliori esperti,
concesse al caso tutte le proprie risorse, impegnò anima e
corpo, affinché una vita felice potesse rappresentare
l’unica prospettiva per l’avvenire del piccolo.
Purtroppo ogni sforzo fu vano. Da allora, divorato
dall’orribile sensazione di non aver fatto abbastanza per
salvarlo e attribuendosi la totale incapacità di gestire in
maniera appropriata quel luogo così fortemente desiderato,
King sparì da tutto e tutti, divenendo nuovamente uno
street-fighter e affogando i propri dispiaceri
nell’alcol.
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Capitolo 2 *** L'opportunità ***
Intanto,
dall’altra parte del mondo, in Giappone, si stava svolgendo
un match fondamentale della Pro Wrestling World, la federazione
internazionale di wrestling. Il clamore del pubblico esplodeva tra le
pareti dello stadio per incitare i propri beniamini, mentre una voce
dagli altoparlanti stava annunciando alla platea gli sfidanti. Ad un
angolo del ring sbraitava il campione locale, consapevole di avere
dalla sua la maggior parte degli spettatori, un gioco di luci,
proiettate dai grandi fari posti al di sopra dello spazio riservato ai
lottatori, ed un magniloquente jingle musicale facevano da sfondo alla
sua parata di presentazione. All’angolo opposto il
combattente ospite osservava con aria di sufficienza la sceneggiata,
rimanendo a braccia conserte a bordo ring. Il suo torace era coperto da
un’armatura metallica, a cui corrispondevano su spalle,
avambracci e caviglie, protezioni dello stesso materiale, luccicanti di
bianchi riflessi. La sua pelle mulatta presagiva una provenienza
latinoamericana ed il suo volto era nascosto dietro una splendida
maschera di giaguaro nero, il cui occhio sinistro presentava una
profonda cicatrice. La voce di presentazione annunciò:
“Dal lontano Messico, nelle sue vene scorre il sangue di un
felino, attorno alla sua vera identità regna il mistero,
ecco a voi… Armour King!”. Egli salutò
il pubblico battendo un pugno sul pettorale di metallo, alzandolo poi
sopra la testa, infine si mise in guardia, in attesa del via
dell’arbitro. Il segnale fu dato e l’incontro ebbe
inizio. Il Giapponese attaccò per primo ed ogni suo gesto
veniva accompagnato dai cori dei suoi sostenitori, ma i suoi colpi
furono facilmente evitati dal rivale, che con fulminea prontezza
rispose agli affondi con una tecnica che stordì
l’avversario. Con un balzo Armour King salì su uno
dei sostegni d’angolo e da lì si tuffò
addosso al Nipponico, infliggendogli una dolorosa gomitata. Entrambi
finirono al tappeto, ma il giaguaro nero si rimise subito in piedi,
seguito dopo qualche secondo dal wrestler locale, che, in preda al
rabbia per aver dato sinora una misera prova di sé, si
lanciò in una disordinata aggressione, riuscendo anche ad
affondare qualche pugno. Tuttavia Armour King rimase lucido e dandosi
lo slancio sfruttando l’elasticità delle corde, si
fiondò sull’avversario, mandandolo nuovamente
disteso. Armour King si rivolse allora verso il pubblico ed
alzò le braccia per ringraziarlo, ma la distrazione
servì al Giapponese per rimettersi in piedi ed imprigionare
il Messicano con una delle prese che lo avevano reso noto nel suo
paese. Il guerriero-giaguaro rimaneva stretto nella morsa del rivale,
ma ad un tratto fu in grado di liberarsene, correndo
all’indietro verso un angolo del ring e sbattendo
ripetutamente la schiena, alla quale si era avvinghiato
l’avversario, contro il sostegno delle corde. Il Nipponico
cedette e Armour King ne approfittò per infliggere il colpo
di grazia: afferrò la testa dell’Asiatico e la
spinse violentemente contro il proprio ginocchio, per poi far rotolare
via l’avversario tramortito. L’arbitro
passò al conteggio dei secondi, ma il campione giapponese
non fu in grado di risollevarsi entro il tempo stabilito. La vittoria
fu allora attribuita al wrestler ospite, che rimase per qualche minuto
a ricevere gli applausi del pubblico e a firmare autografi. Quello era
l’ultimo di una lunga serie di successi, che avevano reso una
celebrità nel mondo della lotta professionistica, ma che
aveva avuto un’unica battuta d’arresto. Armour King
era stato sconfitto durante il grande torneo del Pugno di Ferro,
proprio da colui contro il quale non avrebbe mai voluto perdere, il suo
acerrimo rivale King. Da allora non lo aveva più rivisto, ma
nonostante i successivi incontri si conclusero sempre a suo favore,
egli non aveva mai dimenticato quella disfatta e avrebbe dato qualsiasi
cosa per incontrare ancora una volta quell’individuo ed
ottenere la rivincita. Dopo aver assaggiato la polvere
dell’arena del Tekken, King gli aveva teso la mano e lo aveva
aiutato a rialzarsi, ma dopo averlo ringraziato
dell’esaltante sfida, si augurò di rinnovarla in
futuro, per poi sparire.
Erano trascorsi due anni da quel giorno e molto era
cambiato. Come dopo ogni incontro, anche quella volta Armour King
tornò piuttosto presto nell’hotel in cui
alloggiava, che metteva a disposizione dei suoi clienti
un’ampia palestra dotata di ogni tipo
d’attrezzatura. Il giaguaro nero vi faceva spesso visita per
mantenere il proprio fisico costantemente in allenamento, e quella sera
non fece eccezione. Una volta sazio d’esercizio e spossato
sino allo stremo, dopo una piacevole doccia calda, si
abbandonò sul divanetto della sala di lettura
dell’hotel e si concesse qualche ora di riposo. Gli
capitò tra le mani un quotidiano, una testata molto in vista
in Giappone, del quale un articolo in particolare attrasse la sua
attenzione. Il giornale riportava la notizia di un annuncio da parte di
Kazuya Mishima, al quale era stato ceduto dal padre, sparito alla fine
del torneo senza lasciar traccia, il controllo della società
di famiglia, come premio per aver meritato il titolo di Re del Pugno di
Ferro. Il giovane combattente indiceva infatti pubblicamente un nuovo
Tekken. Armour King sollevò lo sguardo dai fogli stampati e
lo rivolse alla finestra sorridendo. Considerò la notizia
davvero interessante e pensò di trovarsi di fronte
all’occasione perfetta per confrontarsi nuovamente con King,
ma doveva possedere la certezza assoluta che quest’ultimo
avrebbe partecipato alla competizione. Stabilì dunque di
lanciargli il guanto di sfida di persona, tuttavia ne aveva perso le
tracce dopo l’ultimo torneo, pertanto si sarebbe messo alla
sua ricerca. Il giorno seguente iniziò con la consueta
seduta di allenamento intensivo. Ogni muscolo, ogni fibra, si tendeva e
si contraeva al ritmo della frequenza cardiaca in aumento. Di colpo il
respiro si fece grave ed i battiti sempre meno frequenti. Armour King
sentì le forze abbandonarlo ed il sangue ristagnare nelle
vene. Le pupille percorsero verso l’alto il globo oculare
sino a sparire dietro le palpebre superiori, i suoni
tutt’intorno si fecero ovattati e confusi, le gambe cedettero
e l’uomo dal capo felino piombò al suolo perdendo
conoscenza.
Quando il suo udito riprese a funzionare, la
prima cosa che ebbe modo di captare furono il “bip”
cadenzato di un elettrocardiografo. Armour King rinvenne in un letto
d’ospedale, dal suo polso fasciato partiva il lungo tubicino
della flebo, un silenzio confortante regnava in corsia.
L’uomo portò una mano alla fronte umida, una volta
raccolte le idee gli fu facile comprendere cosa fosse accaduto.
Ultimamente scene del genere erano divenute sempre più
probabili, il suo cuore mostrava segni di affaticamento, ma il suo
orgoglio non poteva ammettere una simile debolezza e, a costo di
rischiare il collasso, egli aveva proseguito le sue estenuanti
esercitazioni, nonché la sua carriera di lottatore
professionista. Questa volta, però, il carico di sforzo a
cui aveva sottoposto il proprio muscolo cardiaco si era rivelato
davvero eccessivo e poteva ritenersi fortunato di essere ancora in
grado di avvedersene. Ricevette la visita di un medico, il quale gli
diagnosticò un’insufficienza cardiaca ricorrente,
di cui era il caso di preoccuparsi. Aggiunse inoltre che per il suo
bene Armour King avrebbe fatto meglio ad abbandonare il mondo del
wrestling, prima che la cosa fosse diventata ancora più
seria. Gli occhi del giaguaro nero si riaccesero di nuova
vitalità e con inesausta determinazione rese noto il
suo assoluto disaccordo con i consigli del medico, ai quali
non avrebbe certo dato ascolto. Per di più Armour King scese
dal letto, strappandosi letteralmente di dosso la flebo, e nonostante
gli iniziali capogiri, afferrò con vigore il camice del
dottore, che strattonò per avvicinarlo a sé,
intimandogli di condurlo al luogo dove erano stati riposti i suoi
indumenti, poiché non aveva la minima intenzione di restare
in quell’ospedale un minuto di più. Il
medico non poté fare altro che assecondarlo.
Quello stesso giorno, incurante di aver rischiato la vita e
di essere ancora fortemente a rischio, il wrestler mascherato si
avviò verso il luogo convenuto per l’iscrizione al
secondo grande torneo di arti marziali di Tekken, in onore del quale
erano stati organizzati degli spettacoli, tra cui alcuni combattimenti
dimostrativi. Sullo sfondo dell’ampio cortile di
un’enorme pagoda, adorna di statue e legni pregiati, una
folla numerosa assisteva all’elaborato kata eseguito in
sincrono da una ventina di monaci. Attorno al pavimento lapideo
dell’arena, fiaccole accese offrivano una suggestiva
scenografia. A breve distanza, seduto su un alto trono, il giovane
Mishima ammirava la piacevole dimostrazione, fiancheggiato a destra e a
sinistra dalle sue due guardie del corpo. La prima era un uomo di
colore dal fiero portamento, la cui capigliatura era acconciata secondo
l’usanza tailandese, nell’altra Armour King
riconobbe il più giovane campione di sumo della storia, una
vera leggenda da quelle parti, dalla mole imponente e la particolare
cicatrice al centro della fronte. Il giaguaro nero completò
la propria iscrizione al torneo, mentre una voce annunciava il primo
degli scontri che sarebbero stati disputati per il diletto dei
presenti, invitando uno qualsiasi tra gli spettatori a salire sulla
piattaforma per misurarsi con l’ultimo degli esperimenti di
bioingegneria genetica sviluppato dalla Mishima Zaibatsu. Una gabbia fu
calata in arena da una piccola gru, dal suo interno fu liberato, con
somma sorpresa del pubblico, un canguro fornito di guantoni da box, che
riscosse l’ilarità dei presenti, uno dei quali
accettò la sfida, sottovalutando il singolare avversario.
Quando il gong diede inizio al duello, tutti gli spettatori rimasero
esterrefatti dall’abilità del marsupiale nello
schivare, incassare e restituire i colpi infertigli.
L’incontro terminò con l’inaspettata
vittoria dell’animale, con il visibile compiacimento di
Kazuya Mishima dall’alto della sua postazione. Il secondo
incontro organizzato per la giornata sarebbe stato combattuto proprio
dalle sue guardie del corpo. I due lottatori stavano già
dando prova della loro grande esperienza nelle rispettive arti
marziali, la muay thai ed il sumo, quando Armour King, impegnato ad
assistere allo scontro, udì per caso la conversazione del
trio di addetti alle iscrizioni che sedevano dietro un banco ligneo,
davanti al quale si dipanava la fila di combattenti in attesa. Uno dei
tre uomini si mostrava stupito dell’assenza del wrestler che
nella precedente edizione del Tekken si era classificato in terza
posizione, poiché a lui spettava il diritto di accedere alle
fasi avanzate del torneo, senza dover partecipare agli incontri delle
selezioni. Gli altri due ascoltatori informarono il collega che la
persona in questione era sparita dal mondo della lotta ormai da un bel
po’ di tempo e ritenevano piuttosto improbabile una sua
iscrizione, pertanto suggerivano di eliminare dalla lista dei
partecipanti il suo nome. Tuttavia proprio in quel momento, Armour King
interruppe la loro discussione, avendo perfettamente intuito di chi
stessero parlando. Ricevette in consegna l’invito al torneo,
promettendo che avrebbe rintracciato e condotto in Giappone il suo
destinatario.
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Capitolo 3 *** La lenta caduta ***
La luna in
compagnia di qualche tremulo astro tingeva di candide luminescenze
l’oscuro cielo notturno di Città del Messico.
Ancora quello sguardo infuocato, ancora quella voce raccapricciante,
ancora quel viscido rettile sibilante, ancora una volta il sonno di
King fu bruscamente interrotto da quelle terrificanti immagini. Si
risvegliò sbarrando gli occhi e ansimando, ma attorno a lui
tutto taceva. Distesi i nervi, tese il braccio, sporgendosi lievemente,
sollevò dal piano del comodino una bottiglia di Tequila e ne
ingollò alcuni sorsi. Quella notte King aveva trovato riparo
nella camera trasandata di un fatiscente motel periferico, costatagli
pochi spiccioli, ma contenente tutto ciò di cui sentiva il
bisogno, ossia una branda arrugginita, un materasso e qualche coperta
sgualcita. I soldi guadagnati attraverso i combattimenti clandestini
finivano in massima parte in liquori e strip-club di bassa lega, per
cui quella misera stanza era il meglio che potesse permettersi, ma la
cosa non sembrava importargli. In realtà nulla pareva ormai
avere un qualche valore per lui. La sua vita era vuota e trascinata a
stento verso una via priva di meta, una simile situazione poteva
soltanto peggiorare. King si alzò ed afferrò
l’impermeabile con l’intenzione di indossarlo, ma
mentre lo sollevava qualcosa cadde da una tasca interna e
finì sul pavimento. L’uomo si chinò,
raccolse l’oggetto e si riadagiò sul letto per
esaminarlo. Si trattava di una vecchia fotografia che lo ritraeva
attorniato dai bambini dell’orfanotrofio. Fu scattata al suo
ritorno dal Giappone, dopo la fine del primo torneo del Pugno di Ferro.
Ricordava perfettamente quel giorno di festa, in cui tutti i piccoli
inneggiavano alle sue gesta di lottatore. King si commosse riportando
alla mente quei piacevoli attimi del suo passato, la
nostalgia di quel luogo e dei suoi abitanti non lo aveva mai
abbandonato. Dopo una lunga riflessione, decise che vi avrebbe fatto
visita quella stessa mattina e non mancava ormai molto al sorgere del
sole. King tentò di riprendere sonno, ma inutilmente,
finché l’alba fece il suo raggiante ingresso in
camera, attraverso i vetri infranti della piccola finestra. Il wrestler
uscì dal motel di buonora e si avviò con il cuore
colmo d’emozione verso l’amato orfanotrofio,
tuttavia non appena esso gli si parò innanzi in fondo alla
strada, egli sentì mancargli il respiro ed un avvolgente
brivido pervadergli la schiena. King fu colto da un improvviso
ripensamento ed avendo sentito qualcuno in procinto di uscire
dall’edificio, di istinto si nascose dietro le siepi che
circondavano la staccionata di cinta. Troppo tardi si era reso conto
che nessuno sarebbe stato lieto di rivederlo dopo tutto quel tempo in
cui era svanito nel nulla, senza dare notizia alcuna di sé,
senza uno straccio di addio, e soprattutto ridotto a quel modo pietoso.
Sarebbe stato di certo terribile per i bambini venire a sapere che il
loro idolo era divenuto un poco di buono, schiavo dell’alcol.
King si scorse lievemente dai rami per dare un ultimo sguardo al luogo
a cui aveva dedicato gli anni più soddisfacenti della sua
vita: nel cortile un gruppo di orfani stava giocando allegramente
assieme al loro tutore. Un amaro sorriso si distese sul volto di King,
che si rimise in piedi e si apprestò a tornare sui propri
passi, sennonché qualcuno strattonò un lembo del
suo impermeabile. Il Messicano si voltò, trovandosi di
fronte uno dei bambini, il quale inaspettatamente domandò:
“Noi ci conosciamo per caso, signore?”.
L’interpellato rimase pietrificato e non ebbe la forza di
rispondere, ma proprio in quel momento il tutore chiamò a
sé il fanciullo, invitandolo a non rivolgere più
la parola agli sconosciuti. King provò un bruciante senso di
vergogna, che lo gettò in uno stato di frustrazione. Fece
qualche passo per andarsene dal quel posto pieno di ricordi, ma si
fermò per qualche istante prima di proseguire.
Infilò una mano in tasca, da cui tirò fuori la
sua maschera maculata, la strinse forte nel suo pugno, poi con gesto
violento la scagliò tra le siepi, abbandonandola come
simbolo del suo distacco definitivo dal passato, infine riprese il
cammino, senza mai voltarsi indietro.
Ben presto la condizione di King
precipitò. Diveniva sempre più difficile
incontrarlo sobrio, i suoi scatti d’ira dovuti
all’abuso di alcol diventarono progressivamente
più frequenti, così come le sue visioni; il suo
aspetto era trasandato, il suo carattere ingestibile ed i suoi
movimenti rallentati ed impacciati, tanto che nessuno era
più disposto a scommettere un centesimo sui suoi incontri e
perciò anche la sua unica fonte di sostentamento si era
ormai esaurita. Il grande lottatore dall’enigmatico volto di
giaguaro si era squallidamente trasformato in un pezzente alcolizzato,
costretto a mendicare per sopravvivere. Cominciò a dormire
per strada, sotto una qualche copertura che potesse proteggerlo dalla
pioggia, essendo per lui diventato troppo oneroso persino il peggiore
degli sgabuzzini diroccati del motel. Tormentato dai fantasmi del
passato e dai suoi incubi, King viveva ogni giorno sperando che finisse
in fretta, costantemente perseguitato da quella voce incomprensibile
che si insinuava sempre più spesso nella sua testa, per
indebolirlo nel profondo e farlo impazzire.
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Capitolo 4 *** Punti di vista ***
A migliaia di
chilometri di distanza, invece, Armour King aveva dato inizio alle sue
ricerche. Consultò l’archivio della Pro Wrestling
World e scoprì che l’ultimo incontro ufficiale
disputato dal rivale risaliva a più di un anno prima ed
avuto luogo in Messico. Ne controllò la data esatta per poi
passare alla lettura degli articoli di giornale che avevano trattato
l’esito dell’evento sportivo, pubblicati nei giorni
immediatamente successivi. Uno tra questi riportava tra i dettagli di
approfondimento dedicati al wrestler mascherato, il suo impegno nel
sociale, in particolare per l’istituzione di un centro dedito
alla cura di orfani e al recupero di giovani provenienti da ambienti
criminali. Armour King comprese di aver individuato un ottimo punto di
partenza, pertanto proseguì nel raccogliere informazioni
sull’orfanotrofio, reperendone località ed
indirizzo. Quando ritenne di aver raggranellato un numero sufficiente
di dati, decise di partire immediatamente alla volta del Centro
America, dove sperava di ottenere indicazioni ancora più
precise. Il giorno seguente, Armour King stava già
sorvolando l’oceano e si apprestava a tornare nella sua terra
d’origine. Una volta giunto in aeroporto, chiamò
un taxi e fornì le coordinate della sua destinazione. Dopo
una buona mezzora, il mezzo si addentrò nella zona malfamata
della città. Ogni angolo trasudava insicurezza e timore, sui
volti dei loschi tipi che popolavano quelle vie, si poteva leggere il
genere di esistenza a cui si erano da tempo adattati, un odore
insopportabile di sporco appestava l’aria. Finalmente il taxi
si fermò ed il conducente confermò di essere
giunti alla meta stabilita, premurandosi di mettere fretta al cliente
poiché giudicava poco conveniente sostare allungo tra quei
pericolosi vicoli. Il giaguaro nero pagò il tassista e lo
ringraziò per il servizio. Davanti a sé si
ergeva, immerso tra le casupole scrostate del quartiere, un palazzo di
ragguardevoli dimensioni, fiancheggiato da una chiesetta, su cui
svettava una piccola torre campanaria, recante un orologio in facciata.
Il visitatore era certo di trovarsi nel posto giusto. Bussò
alla porta, ad aprire fu un anziano prelato, il quale invitò
l’ospite ad entrare. Armour King sottopose al prete le
ragioni del suo arrivo, seduti davanti ad un caminetto acceso. Egli
ammise di non avere alcuna idea su dove potesse essere finito
l’indimenticato fondatore dell’orfanotrofio e con
rammarico raccontò di non ricevere più sue
notizie ormai da molto tempo. Continuò rievocando i tragici
momenti della morte del piccolo orfanello malato e della conseguente
scomparsa di King. Da allora nessuno lì intorno
l’aveva più rivisto. Il giaguaro nero
ringraziò vivamente il religioso per il prezioso aiuto e
dopo aver consegnato un’offerta in favore della causa
inseguita dal centro, lasciò l’edificio. In
realtà quanto aveva appena appreso non era esattamente il
genere di indizio che si aspettava di ricevere, in effetti continuava a
brancolare nel buio. Mentre si perdeva in tali riflessioni, tuttavia,
ebbe l’impressione di notare qualcosa di strano tra le siepi
che verdeggiavano attorno all’orfanotrofio. Armour King si
avvicinò, tese il braccio e afferrò
l’oggetto. Con sommo stupore constatò di aver
reperito la maschera di King, non v’era alcun dubbio,
l’avrebbe riconosciuta ad occhi chiusi. La cosa lo
lasciò interdetto e scosso, un’intima tristezza lo
pervase incrociando lo sguardo spento di quel volto felino dismesso.
Decise dunque di tirarsi su bevendo qualcosa ad un bar.
Il locale in cui entrò appariva semideserto, ai
tavoli disillusi figuri consumavano le proprie ordinazioni
chiacchierando rumorosamente, mentre dietro al bancone il titolare era
indaffarato ad asciugare alcuni bicchieri, avvalendosi del proprio
grembiule da lavoro. Armour King prese posto su uno degli sgabelli e
con un gesto silenzioso indicò al barista di servirgli
ciò che stava scolando avidamente il cliente seduto accanto
a lui. Gli fu consegnato un bicchiere quadrangolare in vetro, colmo di
gin, che il giaguaro nero gustò lentamente, mentre la sua
mente cercava la maniera di proseguire le ricerche del rivale. Lo
sconosciuto al suo fianco prese la parola, rivolgendosi al barman, con
il quale sembrava condividere un’assodata confidenza, forse
conseguita attraverso anni di frequentazioni assidue di quella topaia.
Il dialogo attirò l’attenzione di Armour King, che
fingendo indifferenza, tese le orecchie per ascoltare ogni parola.
L’uomo versò nel proprio bicchiere le ultime gocce
contenute nella bottiglia e bevve d’un fiato, poi,
asciugatosi la bocca con la manica della giacca, domandò con
voce alterata dagli influssi dell’alcol:
”Ehi, Carlos, che diavolo di fine ha fatto quel
tipo mascherato? Era dannatamente forte!”.
Terminata la sua opera di pulizia, il barista
rispose ironico:
“Beh, non abbastanza da resistere al richiamo
della bottiglia”.
I due scoppiarono in una grossa risata, poi il cliente
riprese:
“Vinceva bei soldoni combattendo qui nel locale,
credo di non averlo mai visto perdere, eppure è da molto che
non sento più parlare di lui, dov’è
finito?”
“Non ne ho notizia ormai da parecchio,
l’ultima volta che ho avuto a che fare con lui, stava
sperperando tutto il guadagno della giornata in litri di liquore,
proprio qui dove sei seduto tu adesso. Ho sentito dire in giro che
abbia abbandonato gli incontri e qualcuno giura di averlo riconosciuto
in un barbone che bazzica da queste parti ogni tanto. Brutta fine
davvero”
“E’ un vero peccato, diamine! Si vinceva
a colpo sicuro puntando su di lui, ora dovrò trovarmi
qualcun altro su cui scommettere. Grazie della bevuta, Carlos, metti
tutto sul mio conto”
“Il tuo conto sta allungandosi troppo,
Felix”
“Andiamo, sta’ tranquillo,
pagherò tutto… prima o poi. Ti saluto
amico”.
L’uomo lasciò il bar reggendosi a
malapena sulle gambe. Il titolare si rivolse allora ad Armour King, che
non si era perso neanche una frase, e chiese se il cliente necessitasse
d’altro. Il forestiero pretese ulteriori informazioni sul
recente passato dell’oggetto della precedente conversazione e
le ottenne. Sazio di dettagli, uscì in strada ancora
più determinato che al principio.
Mentre ciò accadeva, non lontano King trascinava
i suoi passi incerti in un vicolo oscuro ed umido. Una bottiglia
sorretta da una presa instabile, spargeva sull’asfalto gocce
vermiglie, a causa dell’andatura barcollante. Il respiro si
era fatto affannato, le gambe deboli e lo sguardo fisso, la sua mente
offuscata dai vapori inebrianti dell’alcol
cominciò a schiarirsi, ma soltanto per infestarla di note
visioni. Di nuovo quegli occhi iniettati di sangue lo stavano
osservando ed una voce mostruosa pronunciava formule
dall’ignoto significato e dal tono inquietante, nuovamente
dal nulla apparve il serpente dalle mandibole in tensione, il cui
sibilo venefico echeggiava tra gli incubi di King. Colto da improvviso
cedimento, egli urtò, semisvenuto, contro la parete di
mattoni alle sue spalle e strisciandoci contro finì al
suolo. I suoi occhi si levarono al cielo gelidi e inespressivi, forse
agognando una tregua da cotanto tormento, le dita della mano destra
mollarono la presa e la bottiglia prese a rotolare fragorosamente. Le
sue labbra, attorniate da una folta barba incolta, rimanevano dischiuse
ed il suo petto si gonfiava ripetutamente in cerca di aria fresca e
nuova da immettere nei polmoni. Già, aria nuova, era
ciò di cui aveva assoluto bisogno da troppo tempo e la
speranza aveva ormai da molto abbandonato il suo animo lacerato.
Restò in questo stato di immobilità forzata per
diversi minuti, una volta ripresosi tese il braccio per recuperare la
bevanda, ma quando la sua mano la intercettò, King si
accorse che qualcosa aveva fermato il suo percorso. Ruotò
lentamente il capo, uno stivale era poggiato sulla bottiglia.
L’uomo in stato di semi-incoscienza sollevò lo
sguardo, trovandosi di fronte alla persona che meno si sarebbe
aspettato di rivedere: il suo grande rivale Armour King si ergeva in
piedi ad osservare l’orrendo spettacolo offerto dalla sua
vita attuale. Un suono inarticolato provenne dalla gola di King, ma
prima che potesse venir tramutato in parola compiuta, con un gesto il
giaguaro nero lo interruppe e tirò fuori da una tasca
qualcosa che il wrestler decaduto riconobbe alla prima occhiata. Con un
rapido movimento del polso Armour King lanciò la gloriosa
maschera dalle sembianze di felino maculato verso il suo legittimo
proprietario. Quest’ultimo l’afferrò e
rivolse all’inaspettata apparizione uno sguardo
interrogativo. “Alzati” comandò il
giaguaro nero “Non sei tu quello che sto guardando in questo
momento, il passato può infliggere ferite dure a
rimarginarsi, ma esiste sempre una cura… sopravvivi ai tuoi
dolori e dai un senso alla tua vita, affinché ciò
che è stato non venga dimenticato e mai più
accada”. Tale frase fu seguita dalla sua mano protesa per
aiutare l’amico-rivale a risollevarsi. Egli
accettò l’ausilio e si rimise in piedi, infine
ringraziò accoratamente, quanto aveva ascoltato era
esattamente lo sprone a ricostruire sé stesso di cui aveva
estremo bisogno.
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Capitolo 5 *** Il ritorno del giaguaro ***
Armour King
infilò una mano nella giacca e la ritirò subito
fuori, stringendo tra le dita un foglio di carta e lo
consegnò alla vecchia conoscenza, che diede una veloce
occhiata prima di chiedere di cosa si trattasse. Il giaguaro nero
allora spiegò che il secondo Iron Fist era alle porte ed il
biglietto costituiva un invito ufficiale a parteciparvi, sarebbe stata
l’occasione perfetta per ricominciare da zero e saldare il
conto tra i due rivali. King percepì una sensazione sopita
ormai da molto tempo, il suo cuore prese a battere più in
fretta, come colto da un’inconscia eccitazione, il suo
spirito provato rinverdiva d’un tratto, finalmente era
riuscito a scovare in sé stesso la forza di voltare pagina e
ad imporre una nuova direzione alla propria esistenza. Il torneo gli
avrebbe restituito la tempra, la personalità e il prestigio
del passato, cosicché sarebbe potuto tornare a testa alta
tra le accoglienti mura dell’orfanotrofio, mai dimenticato e
per il quale avrebbe dato ogni cosa. Lo sguardo di Armour King si fece
serio, la sua voce ombrosa: “Sia chiaro, non intendo
accettare un rifiuto da parte tua. Mi devi una rivincita e stavolta non
ti andrà tanto bene, dovrai impegnare ogni tua fibra per
starmi dietro, per cui preparati, il grande giorno si
avvicina”. Sul viso segnato dall’incuria del
wrestler appena uscito da una grave crisi personale comparve un
abbozzato sorriso, il primo dopo una lunga astinenza da gioie e
soddisfazioni. Quelle parole avevano ridestato la sua voglia di
combattere per uno scopo e non si sarebbe lasciato scappare
l’occasione di assecondarla. Un’altra stretta di
mano e infine l’antagonista si congedò da King,
che dopo un breve istante di disorientamento, volle meglio osservare
l’invito al Tekken. Dischiuse allora il foglio piegato
quattro volte che gli era stato affidato, ma sorprendentemente da quel
risvolto cartaceo cadde un mazzetto di banconote, evidentemente
l’ultima forma di aiuto offerta dal rivale, segno del
rispetto reciproco che per molti aspetti poteva essere confuso per un
legame d’amicizia. Da allora la vita di King mutò
radicalmente: riprese il suo regime di allenamento, rimise in sesto il
suo fisico e con enorme fatica e forza di volontà fu in
grado di disintossicarsi dalla sua dipendenza dall’alcol.
Quando fu lieto di accettarsi di nuovo come individuo cosciente e
dignitoso, il lottatore fece il suo tanto atteso ritorno nella casa
d’accoglienza per fanciulli soli al mondo. Tutti i
frequentatori dell’istituzione riabbracciarono il fondatore
con intenso trasporto emotivo, poiché ognuno aveva pregato
affinché nulla di male gli fosse capitato. Intanto i giorni
passavano e l’inizio del grande torneo d’arti
marziali si avvicinava. Entrambi i combattenti mascherati preparavano
con cura il loro momento alla competizione indetta dal giovane Mishima,
con ragioni molto differenti, ma carichi della stessa frenesia di
scontrarsi per contendersi la vittoria del duello. Come loro tutti gli
altri partecipanti al torneo si apprestavano a scendere in campo con i
propri obiettivi e sogni di gloria.
Finalmente il giorno tanto atteso giunse
assolato e grondante di aspettative. La grande arena del Tekken era
attorniata dai valorosi combattenti, che sulla sua superficie erano
pronti a dare spettacolo delle rispettive abilità. Il gong
vibrò sonoramente e tutti i lottatori eseguirono un inchino
verso il pubblico che era accorso numeroso ad assistere
all’evento. Kazuya spiccava in posizione centrale sulla
piattaforma, per dare il benvenuto agli spettatori e agli sfidanti, che
si sarebbero di lì a poco contesi la finale contro di lui
per l’agognato trofeo. Il premio di questa edizione
consisteva in un’enorme quantità di denaro, messa
in palio dalla Zaibatsu. Una prospettiva che faceva gola ai
più, ma qualcuno stava per fare la sua comparsa sulla scena
del Tekken, con un fine ben meno materiale dell’ingente
somma. I festeggiamenti pre-gara furono infatti bruscamente interrotti
dall’improvviso frastuono prodotto dagli stipiti
dell’alto portale del tempio, sbattuti con violenza contro la
parete in mattoni. Un brusio crescente si insinuò tra i
presenti a causa dell’inaspettata apparizione: un uomo dalla
sagoma offuscata dalla luce solare, copiosa alle sue spalle, sostava
sulla soglia in silenzio. Il suo braccio si protese con rapido gesto
verso l’organizzatore della manifestazione,
l’indice teso appariva come un minaccioso segnale di
avvertimento. Dalla figura dai contorni sfocati si levò un
grido, il cui destinatario era messo ben in evidenza sin
dall’inizio: “Kazuya, che tu sia
maledetto!”. L’arrogante intruso fece un passo in
avanti, liberandosi dalla prigione di luce che ne rendeva impossibile
l’identificazione e mostrandosi dunque per colui, che
nessuno, tantomeno Kazuya, si aspettava di incontrare. Heihachi Mishima
era tornato dopo due anni dalla sua scomparsa. Quasi istantaneamente,
un’orda di soldati appartenenti al gruppo scelto della Tekken
Force si riversò nell’arena per difendere il loro
comandante da eventuali attacchi di suo padre, ma inaspettatamente, il
giovane Mishima ordinò di abbassare le armi e lasciare che
l’uomo creduto defunto parlasse. Egli, per nulla spaventato
dalle decine di fucili puntatigli contro, riprese il suo discorso:
“Il tuo tentativo di farmi da parte per sempre è
fallito miseramente, spregevole essere immondo, hai cercato di privarmi
dei miei averi, dei miei piani, della mia stessa vita, ma per tua
sfortuna sono venuto a riconquistare ogni cosa mi è stata
sottratta. E’ giunta la tua ora, Kazuya, e non
sarò clemente neppure quando verrai strisciando ad implorare
il mio perdono. Affrontami se ne sei in grado, questa volta non ti
sarà facile sfuggire alla mia ira!”.
L’intero edificio rumoreggiò esterrefatto, ma il
leader della Zaibatsu non batté ciglio, limitandosi a
rispondere: “Padre, non mi aspettavo di rivederti tanto
presto, ma ciò non fa che rendere la cosa ancora
più interessante. Se davvero ritieni di potermi sconfiggere,
allora prendi parte al torneo, come io stesso feci due anni addietro, e
dimostra quanto le tue parole non siano semplici foglie nel vento. Io
starò qui ad attenderti”. Heihachi
ringhiò come una belva feroce, prese a camminare a passo
svelto e incurante delle due guardie abbigliate da antichi samurai,
poste in prossimità della zona riservata ai lottatori, le
scagliò a terra con vigore e con un tremendo pugno
mandò in mille pezzi una delle quattro statue lignee
raffiguranti sinuosi dragoni, situate agli angoli dell’arena.
Una reazione del genere sanciva di fatto la sua scelta di accettare la
sfida.
Un enorme monitor fu spogliato del velo bianco che lo
ricopriva da altri due figuranti dalle antiche armature. Lo schermo si
accese, proiettando lo schema riassuntivo degli incontri per la
conquista del trofeo. In pochi secondi, un cervello elettronico
elaborò gli accoppiamenti e, uno alla volta, tutti i nomi
dei sorteggiati comparvero sul grande pannello luminoso. Ogni
combattente individuò il proprio avversario, così
come King, il quale percepì un’ondata di calda
adrenalina riversarsi nelle sue vene, quando gli fu noto chi sarebbe
stato il suo primo opponente dopo la sua lunga assenza dal ring. Con un
breve movimento del capo, posò lo sguardo sul designato.
Egli lo stava osservando a sua volta, con gli stessi occhi infiammati
di impazienza che aveva mostrato durante il loro primo appassionante
scontro: Armour King aveva atteso quel momento per due interminabili
anni. La sorte aveva decretato il destino dei due guerrieri-giaguaro,
che ancora una volta si sarebbero affrontati per sancire la supremazia
di uno soltanto tra loro. Entrambi scalpitavano come puledri
imbizzarriti, l’uno spinto dal desiderio di rivalsa nei
confronti del passato, l’altro guidato dalla brama di
rinfrancarsi dello smacco subito. Quella stessa sera, sotto il grande
occhio candido e vigile della luna, si sarebbe tenuto il primo turno di
incontri, ognuno sullo sfondo di una differente e affascinante
scenografia, Kazuya aveva preteso il meglio per il suo personale
Iron-Fist.
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Capitolo 6 *** La Sfida ***
King si
preparava al match, raccoglieva tutta la concentrazione di cui
disponeva per essere pronto all’imminente duello contro la
sua vecchia conoscenza, le cui tecniche tuttavia l’avevano
sempre impensierito per rapidità e
imprevedibilità. Nella stanza del tempio, che gli era stata
affidata in attesa del suo momento, aleggiava un sentore di placida
sacralità, Un silenzio invadente permetteva di udire in
lontananza il cantilenante coro dei grilli notturni. King dischiuse gli
occhi, trovandosi di fronte il ripiano su cui aveva adagiato la sua
maschera. Sembrava fissarlo come per infondergli lo stesso spirito
combattivo appartenuto al giaguaro da cui era stata ricavata. Una
scossa adrenalinica stimolò un brivido sulla la pelle del
wrestler. Egli s’alzò e indossò i suoi
stivali di cuoio dalla tinta corvina, il suo torso rimase scoperto,
lasciando in mostra muscoli pulsanti di febbricitante attesa.
Afferrò i bordi del volto felino e lo sovrappose al proprio,
lentamente, osservando ogni gesto attraverso lo specchio che aveva
innanzi. Quando la maschera fu completamente sistemata, King diede
un’occhiata al suo riflesso ed intonato un forte ruggito,
mormorò: “Sono tornato!”. Si
incamminò dunque lungo il corridoio che conduceva al vasto
cortile del tempio, dove si era appena concluso uno degli incontri
della prima fase del torneo. Gli spettatori, ancora visibilmente
eccitati per lo spettacolo offerto loro, commentavano la schiacciante
vittoria conseguita dall’iracondo Heihachi Mishima, micidiale
come la carica di un toro, deciso a proseguire la sua corsa verso la
finale contro l’odiato figlio. King si immise in una delle
vie del labirintico edificio di culto, diretto al luogo in cui avrebbe
incontrato il rivale. L’ambientazione selezionata per il loro
incontro occupava il grande giardino Zen del tempio, ove leggere e pure
scorrevano le acque sacre di una cascatella, espulsa dagli umidi
meandri di rocce porose, ricoperte di vegetazione. Una canna di
bambù, fissata nel proprio centro ad un fulcro,
s’abbassava in direzione di una delle estremità,
quando questa veniva a colmarsi del fresco fluido della vita. Piccoli
campi quadrangolari di terra finissima erano stati recentemente
rastrellati, disegnando sulla loro superficie affascinanti fantasie in
un gioco di dossi e depressioni. Un nobile pesco dalla chioma rosea
contribuiva a rendere ancor più intenso il profumo di pace
vigente in quell’ameno angolo di paradiso. Una folla di
spettatori si radunò lungo tutto il perimetro del giardino,
come loro in cielo un popolo di stelle apparve luminescente per
assistere alla sfida. Dagli altoparlanti, fissati in punti strategici,
risuonò il discorso di benvenuto e presentazione. Quando i
rispettivi nomi furono annunciati, i duellanti fecero
contemporaneamente il loro ingresso ai capi opposti sul terriccio
sacro, tra i boati del pubblico, esaltato dal livello tecnico dei
partecipanti al torneo. I due si scrutavano, intenti a leggersi
l’un l’altro fin nel profondo dell’anima,
per cogliere la minima insicurezza o debolezza da sfruttare a proprio
vantaggio appena se ne fosse presentata l’occasione. Protetto
dalla sua preziosa armatura, il giaguaro nero guardava dritto negli
occhi colui che gli si parava innanzi, galvanizzato dalla stimolante
sfida che lo attendeva e da così lungo tempo auspicata.
Entrambi pronti a dare fondo ad ogni energia durante lo scontro,
contavano gli ultimi secondi che li separavano dall’azione.
Al grido di un metallico “Hajime”, la voce diede
inizio all’incontro.
Armour King scattò per primo,
ruggendo ferocemente, ma l’avversario interruppe la sua
corsa, aggrappandosi con entrambe le braccia ad un ramo del grande
albero, che gli offrì lo slancio per stampare sul volto del
rivale le suole dei propri stivali. Incassato il colpo, il wrestler
dagli splendenti paramenti metallici finì al suolo, ma
subito si riprese, lanciandosi all’attacco con maggiore foga.
Stavolta King non poté esimersi dal subire le potenti
tecniche dello sfidante, ma balzando su una roccia, si
catapultò addosso al giaguaro nero, avvolgendolo in una
delle sue famose prese. Tuttavia Armour King non si era fatto trovare
impreparato e, nei giorni antecedenti al torneo, aveva studiato nei
minimi dettagli le strategie del lottatore contro cui stava
misurandosi. Dunque venne fuori dalla morsa di King e con una serie di
rapidissimi gesti ribaltò la situazione. Sollevò
di peso l’avversario, stringendone il capo tra spalla e
collo, infine concluse la mossa, gettandosi all’indietro
sulla nuda terra. King accusò il colpo e sembrò
avere molte difficoltà a rialzarsi. Armour King
approfittò allora del momento propizio, si
accovacciò sul rivale disteso, incastrandone il busto tra le
gambe piegate, per giungere a neutralizzarlo completamente, mentre con
le braccia gli infliggeva una dolorosa trazione innaturale degli arti
inferiori, allo scopo di sfinirlo. King rantolava sofferente,
finché non riuscì a divincolarsi, sferrando una
poderosa ginocchiata. Senza concedere ad Armour King il tempo di
riprendersi, gli si scagliò contro, crivellandolo di pugni
sugli zigomi. Il giaguaro nero crollò a terra, trascinando
con sé l’assalitore. Raccogliendo le gambe quasi
sino al mento, poggiò le piante dei piedi sul ventre di
King, ed applicando una forza notevole, similmente ad una molla, tese
le gambe d’un tratto, liberandosi della controparte, che
ruzzolò in un cespuglio di bambù. Armour King si
rimise in piedi e con le mani diede una scrollata ai pantaloni in segno
di scherno. King reagì gettando un verso felino e riprese il
duello. Il pubblico ammirava l’acceso scambio di tecniche,
entusiasmato dalla qualità ed il valore dei due combattenti.
Si sollevò un boato di ammirazione, quando King, dopo una
breve rincorsa, si era tuffato sull’avversario, stordendolo
con un primo calcio al volo, seguito da un secondo indirizzato alle
caviglie. Privato del punto d’appoggio, Armour King
stramazzò, ma incurante della posizione di svantaggio,
afferrò le gambe di King, condannandolo a divenire
nuovamente preda di una delle sue micidiali prese. La fatica cominciava
a divenire palpabile e la stretta si allentò ben presto.
Entrambi si rimisero in guardia, tendendo gli occhi fissi
l’uno sull’altro. Il respiro affannato dei
lottatori si mescolava alla nuvola di polvere sollevata dal frenetico
scambio di colpi, nessuno dei due aveva la forza di attaccare per
primo, la prima parte dell’incontro era stata sfiancante. Un
silenzio surreale nell’arena era colmato dal brusio del
pubblico, incuriosito dalla fase statica succeduta d’un
tratto al vivo dell’azione. Nessuno sarebbe stato in grado di
prevedere l’esito dello scontro, i contendenti stavano
facendosi valere con pari determinazione e abilità, e
ciò non faceva altro che rendere ancora più
interessante lo spettacolo. “Che ti prende, amico?
E’ tutto qui l’eroe delle folle?”
domandò sogghignante il giaguaro nero. King sorrise, poi
ruggì spiccando un acrobatico salto verso
l’avversario, riprendendo la sfida da dove si era interrotta.
Gli spettatori urlarono entusiasti, mentre Armour King si
lasciò sopraffare dall’attacco inatteso. Il rivale
conseguì infatti con successo una combinazione di colpi che
stesero al tappeto il wrestler stremato. Si prospettava finalmente
l’occasione perfetta per concludere l’incontro, ma
proprio qualche istante prima che ciò potesse verificarsi,
la mente di King partorì per l’ennesima volta la
tremenda visione. Quelle fosche immagini spinsero il lottatore a
nascondere lo sguardo tra i palmi, in preda ad un penetrante stato
confusionale. Ignaro degli affanni dell’avversario, Armour
King sfruttò il momento per riprendersi e, senza perdere
altro tempo, inflisse una tremenda tecnica al collo di King, che
impreparato perse i sensi, oscurando finalmente la visionaria
apparizione, all’amaro prezzo della sconfitta.
Un boato e lo scrosciare degli applausi accompagnarono la
fine del duello, mentre la voce dagli altoparlanti decretava il nome
del combattente che si era aggiudicato la vittoria. Quasi incredulo,
Armour King realizzò di aver portato a termine il suo
proposito, tanto ardentemente bramato, ma che tuttavia
all’improvviso appariva così privo di
rilevanza. Le braccia alte nel cielo celebravano il risultato ottenuto,
ma posati gli occhi sul wrestler disteso al suolo, gli fu lampante che
il vero premio, dopo una così formidabile prestazione,
consisteva nell’essere riuscito a risollevare una vita
apparentemente destinata ad affogare nel fango, guadagnando in cambio
un’amicizia di rara autenticità.
L’Iron Fist proseguì dunque senza King,
ma ciò non valse affatto come pretesto per rimboccare il
sentiero oscuro, da cui tanto faticosamente si era allontanato. Da quel
giorno, per il combattente mascherato, un nuovo ciclo aveva inizio. Il
circuito professionistico lo riaccolse di buon grado tra le sue fila,
riportando il suo nome in cima ai titoli della cronaca sportiva, i
bambini dell’orfanotrofio furono incredibilmente lieti di
vederlo varcare ancora la soglia dell’istituto di sua
fondazione. Il sole aveva ricominciato a splendere su quel volto
maculato. Egli sapeva bene di dovere tutto questo alla
persona con la quale mai si sarebbe aspettato di possedere un
girno un debito tanto oneroso. Tra i due Messicani nacque un rapporto
di profondo rispetto e reciproca ammirazione, un legame celato
all’opinione pubblica da una più evidente
rivalità sul ring.
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Capitolo 7 *** Eredità ***
Da qualche
parte nell’oscurità delle lussureggianti foreste
mesoamericane, un’antica tomba veniva violata.
L’incoscienza di un atto tanto empio aveva riportato alla
luce un male sopito da centinaia di anni.
Numerose vittime sarebbero state mietute prima che il
sacrilegio fosse stato ripagato.
I gemiti ed i colpi di un attento allenamento riverberavano
tra le travi lignee della palestra dell’orfanotrofio. Il
sudore sgorgava da sotto la maschera e gocciolava sulle tavole del
pavimento. Un attimo di sosta, la seduta era stata intensa quella
mattina. Per quei pochi secondi nello stanzone risuonò
soltanto un respiro affannoso. Quella quiete surreale era tuttavia
destinata a ricevere una brusca interruzione: un anomalo eco
disturbò l’udito dell’atleta, che tese
le orecchie in ascolto. Un sibilo penetrante si insinuò
nella sala, avvolgendo ogni cosa in un’incerta atmosfera di
mistero. King provò un brivido accapponargli la pelle,
quando quel suono minaccioso mutò in voce mostruosa e cupa,
sentita soltanto nei suoi peggiori incubi. Il wrestler
scattò in piedi gridando: “Chi sei?! Che diavolo
vuoi da me?!”. Una voce mormorò qualcosa di simile
ad una risposta, ma pronunciata in una lingua sconosciuta. Ad un tratto
i pesanti battenti dell’ingresso furono letteralmente
scaraventati via da un potente folata di vento gelido. Sebbene fosse
pieno giorno, oltre il portale le tenebre avvinghiavano tutto in
un’impenetrabile nebbia nera. Due occhi porpora
s’accesero nel buio, gli stessi che illuminavano le terribili
visioni del lottatore dal viso felino. Egli indietreggiò di
qualche passo, infine si posizionò in guardia, ringhiando
ferocemente. Dall’entrata presero a strisciare sinuosi
serpenti. Un mastodontico essere infernale, dalla pelle verdastra e
avvolto in drappi dalla foggia azteca, si distingueva appena davanti al
manto oscuro. Quando i contorni dell’imponente sagoma furono
sufficientemente delineati, il guerriero giaguaro ammutolì
esterrefatto nel riconoscervi le sembianze dell’antica
divinità scolpita nella parete di roccia del tempio
amazzonico in cui si era imbattuto moltissimo tempo prima.
I suoi passi graffiavano il pavimento con gli affilati
artigli corvini, ogni suo respiro si condensava in una nuvola di vapore
bollente, il suo sguardo inespressivo e magnetico scrutava
l’astante, mai interrotto dal battere di palpebre. King
assistette sconcertato all’ingresso in scena di
quell’orrida creatura, completamente paralizzato da cotanto
spettacolo. Il mostro sollevò un braccio, spalancando la
mano. Di colpo il Messicano venne sospinto da un’invisibile
forza tra le grinfie del misterioso visitatore, che lo
afferrò per il collo mantenendolo sospeso a mezzo metro da
terra. Soffocato dalla morsa, ogni tentativo di divincolarsi fu vano,
mentre le energie erano progressivamente estirpate dal corpo inerme del
malcapitato. Quando l’angelo incappucciato era ormai pronto a
calare la propria falce sulla gola del glorioso lottatore, questi
rivolse un ultimo pensiero alla grande famiglia di fanciulli che gli
aveva donato anni di pura gioia e, versando una lacrima incandescente,
cedette infine alla stretta, perdendo i sensi. Il dio
scaraventò al suolo il corpo esanime della vittima e
voltandogli le spalle svanì nel nulla, reimmergendosi nella
coltre tenebrosa da cui era sorto.
Nella palestra piombò ancora il silenzio, pesante
come un macigno.
Uditi gli strani rumori, qualcuno accorse al luogo della
singolare aggressione. Si trattava del ventiquattrenne cresciuto in
orfanotrofio, che nonostante la sua giovane età, da qualche
tempo aiutava il suo mentore a mandare avanti l’istituto.
Appena mise piede in aula fu colto da un tuffo al cuore, vedendo lo
stato pietoso in cui versava il suo eroe. Di corsa lo raggiunse e
s’accovacciò al suo fianco, premurandosi di
sostenergli il capo. Grandi ematomi emergevano alla base del volto
animale. Un rantolo quasi impercettibile fu esalato dalla bocca,
incorniciata da fiotti di sangue. “King, parla, dì
qualcosa!” implorò disperato il giovane orfano.
Qualche verso inarticolato precedette le parole destinate a rimanere
marchiate a fuoco nella memoria del loro ascoltatore: “Sei tu
… ricordo ancora come fosse ieri il giorno in cui ti
accogliemmo. Eri disorientato e scosso, ogni tuo piccolo gesto
dimostrava la tua fragilità. Da allora sei cresciuto molto,
hai saputo badare a te stesso e ai tuoi piccoli compagni, divenendo col
tempo uno dei miei più validi collaboratori. Il mio tempo
sta per scadere …” un colpo di tosse accompagnato
da rivoli vermigli interruppe per un attimo il discorso
“Promettimi che ti prenderai cura dell’orfanotrofio
al posto mio, promettimelo!”. Sopraffatto dal pianto, il
ragazzo abbracciò affettuosamente il lottatore,
sussurrandogli all’orecchio: “Non temere, non
tradirei mai la tua fiducia. Conta su di me”. Una piacevole
sensazione di sollievo pervase il fisico distrutto di King. Mentre le
lacrime dell’orfano bagnavano la pelliccia maculata della
maschera, un gelido, estremo respiro abbandonò assieme al
suo stesso slancio vitale, il corpo stremato della leggenda del ring.
La sua schiena si inarcò in un ultimo spasmo muscolare, gli
occhi felini rimasero innaturalmente spalancati, così come
le fauci, le membra, prive di forze, scivolarono dal torace sino a
terra. Il corpo di colui, che un tempo aveva infiammato le arene di
tutto il mondo con le sue strabilianti capacità di
combattente, giaceva ora immobile tra le braccia amorevoli del giovane
erede. Dopo una vita di battaglie, King aveva dovuto arrendersi,
rassegnandosi all’oblio eterno.
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