Sorella Morte di _camus_ (/viewuser.php?uid=143258)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo I e II: quattordici anni prima (1972) e sette anni prima (1979) ***
Capitolo 2: *** Capitolo I: 30 aprile 1986. Maia ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2: 30 aprile 1986. Shaka ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3, parte I: 7 maggio 1986. Camus ***
Capitolo 5: *** Capitolo 3, parte II: 8 maggio 1986. Camus ***
Capitolo 6: *** Capitolo 4: 9 maggio 1986. Milo ***
Capitolo 7: *** Capitolo 5: giugno 1986. Shaka ***
Capitolo 8: *** Capitolo 6: luglio 1986. Maia ***
Capitolo 9: *** Capitolo 7, parte I: luglio/agosto 1986. Milo ***
Capitolo 10: *** Capitolo 7, parte II: luglio/agosto 1986. Milo ***
Capitolo 11: *** Capitolo 8: 9 settembre 1986. Shaka ***
Capitolo 12: *** Capitolo 9: 10 settembre 1986. Camus ***
Capitolo 13: *** Capitolo 10, parte I: 11 settembre 1986. Milo, Camus ***
Capitolo 14: *** Capitolo 10, parte II: 11 settembre 1986. Camus, Milo ***
Capitolo 15: *** Capitolo 11, parte I: 11-12 settembre 1986. Shaka ***
Capitolo 16: *** Capitolo 11, parte II: 11-12 settembre 1986. Shaka ***
Capitolo 17: *** Capitolo 12, parte I: settembre 1986. Maia ***
Capitolo 18: *** Capitolo 12, parte II: 24 settembre 1986. Maia ***
Capitolo 19: *** Capitolo 13, parte I: 8 ottobre 1986. Milo ***
Capitolo 20: *** Capitolo 13, parte II: 9 ottobre 1986. Milo ***
Capitolo 21: *** Capitolo 13, parte III: 9 ottobre 1986. Milo ***
Capitolo 22: *** Capitolo 14: marzo 1988. Shaka, Maia ***
Capitolo 23: *** Capitolo 15: aprile 1988. Maia ***
Capitolo 24: *** Capitolo 16: 30 aprile 1988. Maia ***
Capitolo 1 *** Prologo I e II: quattordici anni prima (1972) e sette anni prima (1979) ***
Sorella
Morte
Sembri
ancora lontana ed
estranea,
sorella
morte,
sovrasti
come stella
gelida
al
mio destino
Il
viandante alla morte, Hermann
Hesse
Prologo
I: quattordici anni prima (1972)
Un
altro
dì stava lentamente volgendo al termine, al Santuario di Atene; i
raggi del sole
calante illuminavano l’intera vallata, donando ai Templi e alle cose
una vaga
sfumatura dorata.
Maia,
seduta
su un muretto di mattoni, ammirava rapita tale spettacolo, gli occhi
non
ancora abituati a osservare tanta bellezza concentrata tutta insieme.
«Vedrai,
ti
piacerà!» erano state le parole di sua nonna, il giorno in
cui
l’aveva condotta al Grande Tempio per la prima volta «Sarà come
entrare in
un luogo incantato. Un luogo delle fiabe».
Ma,
nonostante
fosse passato solo poco tempo da allora, lei già pensava che
l’universo di cui era entrata a far parte fosse migliore di una fiaba
– perché,
a differenza di questa, era reale.
«Maia!
Maiaaaaa!»
Il
richiamo
sguaiato la colse di sorpresa, facendola sobbalzare; quando vide Milo
comparire in cima al sentiero, sorrise di gioia.
«Maia!
Finalmente
ti ho trovato! Ti sto cercando da un’eternità!» esclamò il bambino
biondo in tono quasi scandalizzato, una volta percorsa con velocità
sorprendente la distanza che li separava.
«Da
un’eternità…
esagerato! Saranno neanche dieci minuti che hai finito gli
allenamenti!»
«Ti
dico
che è vero! Oggi abbiamo terminato prima» rispose lui, indispettito
dall’accondiscendenza dell’amichetta.
«Devi
venire
con me, subito!» riprese poi, fattosi nuovamente gaio «Alzati, dai!»
Maia
sospirò,
spazientita: a volte l’entusiasmo di Milo era davvero duro da
sopportare.
«Non
posso:
mia nonna mi ha detto di attenderla qui. E poi, dov’è che vuoi andare?
E
a fare cosa?»
«All’Arena:
Aiolia
ci sta aspettando là. Spicciati, è una sorpresa!»
Giusto,
Aiolia.
Come aveva fatto a dimenticarsi di lui? Qualunque cosa riguardasse
l’uno, in qualche modo includeva anche l’altro.
Alla
fine,
vinta dalla curiosità, la bambina cedette alle insistenze dell’amico e
si
lasciò letteralmente trascinare da questo lungo tutta la strada che
portava
all’Arena dei Tornei.
«M-milo,
non
correre così!» ansimò a metà tragitto, incapace di competere con la
resistenza innata del futuro cavaliere di nonsiricordavacosa «Non
riesco a starti dietro!»
Richiesta
che,
ovviamente, fu del tutto ignorata.
«Cosa
diamine
sarà mai questa sorpresa che pare eccitarlo tanto?» si chiese
Maia,
arrancando per la salita «Speriamo che ne valga la pena, almeno…»
«Milo!
Perché
ci hai messo tanto?! Il tuo amico qui non ne vuol sapere di spiccicare
parola, e io mi sto annoiando!»
La
voce
irritata di Aiolia si levò da un piccolo spiazzo erboso adiacente la
loro meta;
il ragazzino stava seduto sul prato, accanto a un bambino che Maia non
aveva
mai visto.
Al
loro
arrivo lo sconosciuto non alzò nemmeno gli occhi, limitandosi a
raddrizzare la
schiena – già dritta in modo inverosimile – e a scostarsi un sottile
ciuffo di
capelli rossi dal viso, senza degnarli di uno sguardo. Come se non
esistessero.
«Che
maleducato».
«É
perché
non parla bene la nostra lingua, stupido!» abbaiò Milo ad Aiolia il
quale, in
risposta, gli spedì una sonora linguaccia.
«Maia,»
riprese
quindi il biondo «ti presento Didier. È arrivato da poche ore dalla
Francia, ed è il predestinato all’armatura dell’Acquario. Adesso siamo
al
completo!» esclamò felice, facendo una piroetta.
Una
gioia
che nessuno dei suoi due compagni sembrò condividere, men che meno
Maia; a
essere sincera, era anzi piuttosto delusa.
Si
era
aspettata un’incursione nei Templi sacri a cui solo i cavalieri già
ordinati
avevano accesso, oppure un duello fra i santi dorati più grandi; un
qualcosa di
divertente, insomma.
Invece
si
trattava solo di una nuova recluta, forse meno interessante di tutte
quelle che
i suoi amici gli avevano fatto conoscere nel corso delle precedenti
settimane,
e per giunta antipatica: quando Milo li aveva presentati, lui aveva
continuato
ostinatamente a fissare l’erba, in silenzio.
E
poi,
che razza di nome era Didier?!
«Ma
che
razza di nome è Didier?» esordì quindi, dando voce al proprio pensiero
«Sembra
il nome di un gatto da compagnia».
«Si
dice
“Didiér”, non “Didièr”».
La
frase,
pronunciata con buffo accento in un greco stentato, lasciò tutti
quanti a bocca
aperta: finalmente l’oggetto di tanta attenzione aveva parlato.
«Ah,
ma
questo cambia tutto!» sbuffò stizzito Aiolia, più a se stesso che al
resto del
gruppo.
«Non
mi
interessa come si pronuncia il tuo nome. Sempre un gran maleducato
rimani»
decretò Maia, le braccia incrociate a sottolineare l’affermazione «Ti
pare
questo il modo di comportarsi? Non mi hai nemmeno salutata!»
Sentendosi
rivolgere
quelle parole dure, Didier sollevò la testa e lanciò a Maia
un’occhiata penetrante, che la trapassò da parte a parte.
Incredibile
come
degli occhi di quel colore – «dorato. Mai visti, occhi del genere» –
così caldo risultassero
invece
tanto freddi. Per non parlare dei capelli: ora che li guardava meglio,
la loro
particolare sfumatura fiammeggiante le appariva meravigliosa.
Poteva
il
loro possessore, al contrario, essere talmente gelido?
«Je
suis
désolé, j’ai été impoli» disse allora lui, sorridendo appena «Donc, tu
t'appelles comment?»
L’evidente
presa
in giro infastidì la bambina fino all’inverosimile, soprattutto perché
non
aveva capito un accidente di ciò che le era stato chiesto.
Milo,
che
fino a quel momento era rimasto incredibilmente silenzioso, si sporse
per
sussurrarle all’orecchio: «Credo che ti abbia domandato come ti
chiami».
«Mi
chiamo
Maia. Comunque, casomai non te ne fossi accorto, siamo in Grecia. E in
Grecia si parla greco, non francese!»
«Maia?
Trés
joli» commentò Didier, lasciando cadere la provocazione; poi, sempre
con lo
stesso irritante sorrisetto sulle labbra, si alzò in piedi e iniziò ad
allontanarsi.
«Sai
cosa
sei, tu? Sei la persona più cafona, antipatica e arrogante che abbia
mai avuto
il dispiacere di incontrare! Dove stai andando? Torna subito qui!» gli
urlò
dietro Maia, paonazza in viso per la rabbia «Non te la caverai così
facilmente!
Un giorno te la farò pagare!»
«Alors,
j'attendrai
ce jour là avec trépidation!» gridò egli di rimando senza voltarsi,
mentre il vento gli scompigliava i corti capelli rossi che sembravano
confondersi con gli ultimi riflessi del sole ormai giunto al tramonto.
Note
dell'autore
Salve
a tutti!
Per chi già seguiva Sorella Morte: il presente prologo è rimasto
pressoché
inalterato – salvo, come specificato appena sotto, il nome di Camus. Per
coloro
i quali, invece, si approcciano a questa storia per la prima volta
(benvenuti, a
proposito!): gli avvenimenti qui narrati sono ambientati in un
ipotetico"pre-reclutamento" dei futuri cavalieri d'oro.
Esso
dura circa
6 mesi e ha lo scopo di fornire loro i primi rudimenti, in attesa che
raggiungano
il definitivo luogo di addestramento. Al momento dei fatti Milo, Aiolia,
Maia
e Camus/Didier hanno più o meno 7 anni.
Come
avrete
certamente intuito, ho deciso di battezzare Camus col nome"Didier" –
che, in francese, letteralmente significa "Senza astri"; di converso,
può essere anche letto come"Protetto, favorito dalle stelle" –; nei
capitoli successivi verranno spiegati tutti i dettagli inerenti questo
aspetto.
-
"Je
suis desolé. J'ai été impoli. Donc, tu t'appelles comment?" : "Mi
dispiace, sono stato maleducato. Dunque, com'è che ti chiami?". La
formula
"Tu t'appelles comment?" è più informale rispetto allo
scolastico "Comment t'appelles tu?";
-
"Maia?
Trés joli" : "Maia? Molto carino";
-
“Alors,
j'attendrai ce jour là avec trépidation!" : "Allora attenderò
quel giorno con impazienza!
***
Avvertenze:
il prologo sottostante, in termini
temporali, si colloca a metà strada fra il precedente e il primo
capitolo; è
dunque ambientato 7 anni prima degli eventi che poi sfoceranno nella
battaglia
delle Dodici Case. Devo avvisarvi che sull’età dei singoli personaggi,
sugli
anni di inizio e fine dell'addestramento e sui meccanismi che presiedono
l'assegnazione delle armature mi sono presa qualche licenza poetica
utile a
rendere la trama più lineare e verosimile possibile: del resto, ritengo
che la
confusione tuttora esistente in materia legittimi l'adozione di simili
accorgimenti.
A
tal
proposito, segnalo altresì che, nello scrivere, mi rifarò solamente alla
serie
classica – perlopiù all'anime, ma con qualche elemento del manga –, non
prendendo dunque in considerazione gli eventuali spin-off, missing
moments et
similia che negli anni sono stati pubblicati dagli autori della serie.
Orbene,
a voi.
Per ulteriori chiarimenti, ci vediamo dabbasso!
Prologo
II: sette anni prima (1979)
«Questo
sarà
un anno fantastico!» decretò Milo, infilzando quel che rimaneva della
sua
patata al vapore «Ma ci pensate? Fra qualche mese verremo ordinati
cavalieri.
Cavalieri di Atena!»
«Sì,
splendido.
Davvero splendido» commentò Aiolia con una smorfia, mentre si toglieva
dalla guancia lo schizzo di salsa che il troppo entusiasmo del suo
amico aveva
spedito sin lì «Spero solo che, da qui all’otto di novembre, ti darai
una
calmata. Non credo che sopravvivrei, altrimenti».
Maia
sorrise
del suo finto sarcasmo: nonostante facesse di tutto per dissimularlo,
anche Aiolia era emozionato all’idea di ricevere la tanto agognata
armatura. Glielo
si
leggeva nel portamento, nel modo tutto nuovo che aveva di camminare a
testa
alta, come se già si preparasse a calpestare quei marmi in veste di
Aiolia di
Leo; a differenza di Milo, tuttavia, la cosa, oltre a eccitarlo, lo
spaventava a
morte – e il perché era facilmente intuibile per chi, come Maia, lo
conosceva
da sempre.
La
ragazzina
si mise a fissare i due, troppo occupati a tirarsi addosso briciole di
pita per
badare ad altro.
Nei
rari
momenti come quello parevano proprio dei tredicenni, in tutto e per
tutto uguali
ai compagni che lei frequentava sui banchi di scuola, fuori di lì;
ma
bastava abbassare appena lo sguardo sui loro bicipiti troppo
sviluppati per
spezzare l’illusione di avere dinanzi due normali adolescenti.
Da
quando
era stata introdotta in quel mondo, aveva notato che la maggior parte
dei
cavalieri a servizio di Atena, oltre a non essere greci di nascita,
spendevano
la propria attività in luoghi molto distanti da Atene, tornandovi solo
saltuariamente.
Questo
riguardava
soprattutto i Bronze e i Silver saints, ma anche il grosso della
schiera dei futuri custodi dorati aveva svolto l’addestramento in
altri Paesi;
persino i Gold saints attualmente già in carica erano stati tutti
iniziati nella
loro terra natia, che avevano lasciato solo per il periodo di
preparazione
previsto prima dell’inizio della formazione vera e propria.
Milo
e
Aiolia, nati entrambi in Grecia – a Milos il primo, a Rodorio il
secondo –,
erano invece stati assegnati a maestri operanti dentro il Santuario,
dove
quindi avevano sempre vissuto. Per
anni
li aveva guardati correre nella polvere, abbattere pareti di roccia,
sputare
sangue ed esplodere in uno sfolgorio di stelle; era su di loro che,
sotto la
guida di sua nonna Franda e del dottor Savasta, aveva applicato le
prime
fasciature, nell’attesa di diventare medico e poter, un giorno,
essergli
maggiormente d’aiuto. Li aveva imboccati quando erano troppo malconci
per fare
qualsiasi movimento e spesso, alla sera, gli si era seduta accanto
ad ascoltare le lezioni degli anziani che parlavano di
Kósmos,
guerre mitologiche antiche come il mondo e galassie distanti anni luce
dalla
Terra.
Li
aveva,
insomma, affiancati in quel percorso straordinario, senza mai riuscire
a capire
davvero come fosse possibile essere bambini e, al contempo, allenarsi
tutti i
giorni per imparare ad uccidere.
Dal
canto
loro, i due l’avevano sempre considerata come una sorellina un po’
avventata da
proteggere e, se qualche volta gli era capitato di trattarla con
sufficienza,
per il resto del tempo avevano – fin dove possibile – tentato di
includerla
nella loro vita, meravigliandosi che appena fuori i confini di Rodorio
si
potesse condurre un’esistenza tanto diversa da quella di Santo; uno
stupore che
era andato stemperandosi coll’avanzare dell’età, ma la cui ombra gli
si
riaffacciava negli occhi ogni volta che riuscivano a trascorrere
qualche misera
ora lontani dal Tempio.
Le
faceva
quasi impressione pensarli ammantati d’oro, belli e letali come gli
eroi dei
canti epici; per loro l’investitura avrebbe rappresentato il
definitivo
passaggio dalla giovinezza alla maturità, e Maia temeva che, in
seguito a essa,
nulla sarebbe stato più come prima.
Eccezion
fatta
per Shaka di Virgo – la cui peculiarità era stata evidente sin dal
primo
istante –, gli altri cavalieri d’oro presenti al Santuario le
incutevano una
soggezione assolutamente incompatibile col rapporto intercorrente fra
lei e i
futuri Leo e Scorpio.
Non
avrebbe
sopportato di scorgere in Milo la stessa gravità che leggeva nello
sguardo di Shura di Capricorn, così come non poteva pensare che Aiolia, una volta
ottenuta
l’armatura, prendesse le stesse bieche abitudini di Death Mask di
Cancer, al
cospetto del quale non c’era sottoposto che non chinasse intimorito la
testa; lo
stesso Aphrodite, nonostante accostasse alla sua sfolgorante beltà dei
modi
altrettanto garbati, le trasmetteva una sgradevole sensazione di
artifizio che
non avrebbe affatto voluto riconoscere nei propri amici.
Piuttosto,
sarebbe
stata ben felice di ritrovare in loro il calore e la grazia che, da
piccola, aveva scorto nel fratello maggiore di Aiolia; benché fossero
passati
tanti anni, ricordava perfettamente il senso di pace e sicurezza che
emanava la
figura di Aiolos di Sagitter. A
differenza del suo compagno Saga – splendido come una lontanissima
stella
incastonata nel blu siderale –, Aiolos sapeva di sole: aveva sempre
una parola
e un gesto affettuosi per tutti, grandi o piccoli, saint o non saint.
Dopo
quanto
accaduto, tuttavia, forse non era un bene augurarsi che Milo ed Aiolia
assomigliassero a un soggetto accusato di tradimento… anzi,
riflettendoci
meglio, era decisamente una pessima idea.
«A
che
stai pensando, Maia? Ti vedo assente».
Al
repentino
richiamo di Aiolia, Maia trasalì colpevolmente, quasi che il ragazzino
avesse indovinato la natura delle sue cogitazioni e gliene stesse
chiedendo
conto; per fortuna non ebbe il tempo materiale di rispondere, giacché
un lembo
di conversazione altrui catturò inesorabilmente l’attenzione di tutti
e tre.
«Ancora
non
capisco il motivo per cui mangiare in questo tugurio ti piaccia tanto.
È
sporco, sovraffollato, maleodorante di cibo e sentori umani… fa
passare la
fame».
«Primo:
perché
il vitto della mensa è molto più buono e abbondante dei tuoi fottuti
toast al salmone affumicato – quelli sì che puzzano, tra parentesi.
Secondo:
perché salire dall’Arena fino alla Dodicesima è sempre una
scocciatura,
figurarsi poi a stomaco vuoto. E, da qui in avanti, lo sarà ancora di
più,
vista l’imminente invasione dei marmocchi dorati; il tuo vicino di
Tempio è
arrivato proprio stamani, no?»
Se
le
schermaglie sulla qualità della mensa del Santuario fra il cavaliere
dei Pesci e
quello del Cancro erano all’ordine del giorno, l’ultima frase
pronunciata da
Death Mask rappresentava invece un’assoluta novità.
«Ehi,
Death!»
berciò Milo, chiamando a gran voce il proprio futuro camerata «Ho
sentito bene? Stamani è arrivato il pretendente all’armatura
dell’Acquario?!»
Il
maggiore,
interdetto dall’uso di quell’appellativo un po’ troppo familiare,
tornò rapidamente sui propri passi, per poi piazzarsi a due centimetri
dal naso
del più giovane.
«Stammi
a
sentire, Milo quasidiScorpio:» scandì, fissando il suo
interlocutore
dritto negli occhi «per te, al momento, sono Death Mask. Non “Death”.
Assolutamente, non “Death”. Intesi?»
«Guarda
che
non mi fai paura» rispose l’altro, sostenendo il suo sguardo rosso –
lo
stesso che le vecchie di Rodorio sussurravano fosse dovuto alla
cattiveria, più
che all’albinismo. «Non sono più un bambino, ma un tuo pari».
Di
fronte
alla sfrontatezza di Milo, Cancer non poté che scoppiare a ridere.
«Non
ancora,
piccolo aracnide. Non ancora. E non lo sarai nemmeno con l’armatura
indosso, fidati di me: ne hai, di sangue da sputare» ghignò, le
braccia
incrociate dietro la testa.
«Comunque,
riguardo
la tua domanda: sì, Rosso Malpelo è arrivato questa mattina.
Ma non mi
chiedere dove sia andato a nascondersi: non lo so, e neppure mi
interessa»
concluse, allontanandosi nuovamente indirezione di Aphrodite.
«Quello
è
pazzo, lo sostengo da sempre. Eravamo rimasti ad Aquarius; chi sarebbe
questo
Rosso Malpelo?» domandò Aiolia contrito, una volta che
Death Mask fu
uscito dal suo campo visivo. Non si aspettava veramente che qualcuno
rispondesse, per cui Maia lo colse di sorpresa: «È un
personaggio
di una novella italiana. Death Mask è siciliano come l’autore; anche
se non ce
lo vedo con un libro in mano, magari ha avuto occasione di leggerla
durante gli
anni di addestramento».
«Eh?
E tu
che ne sai, di letteratura italiana?»
«I
parenti
di mio padre vengono dalla Sicilia, non ti ricordi? Ci sono anche
sta-»
«Oh,
insomma!»
sbottò Milo, al quale la piega che stava prendendo la conversazione
non interessava affatto «Sappiamo bene quanto tu sia secchiona, Maia,
non c’è
bisogno che lo sottolinei. Piuttost-»
«Non
sono
una secchiona! Sei tu che non tocchi mai libro, neppure quando
dovresti!»
«Piuttosto,»
continuò
quello, ignorando platealmente le – fondate – proteste dell’amica «non
è pazzesco? Didier è qui! È tornato al Santuario!»
Aiolia
lo
guardò dubbioso, non capendo l’origine di tanta allegria.
«A
dire
il vero, non ci trovo nulla di pazzesco. Siamo a metà gennaio, e
stiamo per
entrare nel segno dell’Acquario. È più che logico che il suo cavaliere
si stia
preparando a ricevere l’investitura».
Così
come
Leo pareva non comprendere la reazione del compagno, allo stesso modo
questi
appariva del tutto ignaro del motivo per cui entrambi i suoi
commensali
stessero mostrando così poco entusiasmo.
«M-ma
lui
non è uno qualsiasi! Lui è Didier!»
«E
allora?»
intervenne Maia, sprezzante «Didier non è forse quel damerino con
l’accento
francese e la puzza sotto il naso che non parlava quasi mai? Tuttora
non mi
spiego il perché tu ci fossi tanto attaccato, Milo. Io lo vedevo di
rado, ma
ricordo bene che, quando accadeva, la sola cosa che mi veniva voglia
di fare
era prenderlo a schiaffi».
Rammentava
alla
perfezione quel ragazzino dai capelli di un rosso impossibile
e l’espressione eternamente corrucciata, che l’aveva presa in giro non
appena si
erano conosciuti. In
realtà,
dopo quell’episodio, l’apparente atteggiamento scanzonato di Didier –
se
mai era esistito – sembrava si fosse del tutto volatilizzato; nei mesi
successivi ben raramente l’aveva sorpreso a ridere, e men che meno a
fare
battute.
Sì,
dopo
gli allenamenti partecipava sovente ai giochi dei suoi compagni, ma ne
rimaneva
sempre un po’ in disparte, come se non riuscisse mai a farsi
coinvolgere
davvero; pareva interagire volentieri soltanto con Milo, e qualche
volta neppure
con lui, giacché spesso gli preferiva il silenzio della biblioteca del
Santuario – piena di libri che all’epoca non era neanche in grado di
leggere
bene.
Maia
non
sapeva dire il perché, ma nello sguardo serio di Didier ci aveva
sempre letto un
qualcosa di così simile al disprezzo da renderglielo irrimediabilmente
antipatico.
«E
adesso, dopo tanti anni in mezzo ai ghiacci della Siberia e la
promessa di
un’armatura d’oro alle porte, la cosa non potrà che essersi acuita».
«Nah…
all’inizio
la pensavo come te, ma poi mi sono dovuto ricredere: a conoscerlo
meglio, quel tipetto con le lentiggini non era poi tanto male» ammise
Aiolia,
passandosi una mano fra i ricci spettinati.
«Tuttavia,»
continuò
poi, rivolto a Milo «questo non giustifica tutta la tua esaltazione.
Io
sarò molto più contento di rivedere Paulo e Ariun… anche se presumo
che non
potrò più chiamarli così».
In
quel
momento la Meridiana dello Zodiaco, il cui rintocco si poteva udire
distintamente all’interno di ogni parte del Santuario, batté le due
del
pomeriggio.
«Accidenti,
sono
già le due!» esclamò Maia, abbandonando di colpo il dolcetto che stava
sbocconcellando da più di mezz’ora «Scusatemi, ma ho un sacco di cose
da fare
prima di rientrare a Rodorio. Devo prepararmi per una ricerca da
esporre a
scuola, e-»
Milo
la
interruppe con un gesto annoiato della mano: «Torno a ripetere quello
che ho
detto prima: sappiamo che sei una secchiona. Vai pure, tanto anche noi
abbiamo
da fare. L’aver concluso l’addestramento non significa che non
dobbiamo
continuare ad allenarci».
«E
la
cosa mi sta benissimo!» esclamò Aiolia, saltando su dalla panca in
modo fulmineo
«Avanti, Scorpio, muovi le chiappe: ti sfido ad arrivare all’Arena
prima del
sottoscritto! Ci vediamo, Maia!»
«Ehi,
ma
così non vale!» protestò l’altro, mentre guardava il compagno
guadagnare l’uscita
della mensa in un battibaleno.
«Ti
saluto,
Maia: c’è qualcuno a cui devo far mangiare la polvere!»
Maia
non
fece in tempo a replicare, che già quello era sparito al di là
dell’androne;
probabilmente adesso si stava scapicollando su per i gradini a una
velocità
impensabile per qualsiasi altro essere umano “normale”.
Rimasta
sola,
a lei non restò che ripulire il proprio vassoio – nonché quelli di
Milo e
Aiolia – e avviarsi nella zona antistante la scalinata delle Dodici
Case, ove
sorgeva l’antica e immensa biblioteca del Grande Tempio.
Benché
Maia
amasse incondizionatamente qualunque luogo contenente un agglomerato
di
libri più o meno ampio, la biblioteca del Santuario esercitava su di
lei
un’attrattiva impareggiabile: edificata quasi contestualmente alla
realizzazione
di quest’ultimo, in origine era servita soprattutto come spazio di
raccolta e
consultazione dei testi sacri relativi al culto di Atena; in seguito,
essa era
stata arricchita di opere di stampo naturalistico, filosofico ed
epico.
Si
vociferava
persino che Omero, servitore del Grande Tempio, avesse lavorato
proprio lì alla stesura dell’Odissea, ispirandosi alle gesta di un
cavaliere
legato alla Dea. Si trattava soltanto di leggende, certo, ma pensare
che
avessero un seppur minimo fondo di verità a lei faceva quasi girare la
testa.
Attualmente
l’imponente
edificio ospitava diverse aree, adibite a differenti scopi: mentre
all’ala più antica potevano accedere solo il Gran Sacerdote e i suoi
stretti
collaboratori, la maggior parte delle restanti sale era invece aperta
a chiunque
avesse necessità di consultare il materiale ivi custodito, essendo
persino
presenti delle apposite zone adibite a studio e lettura.
Fu
proprio
in direzione di una di esse che Maia si incamminò, immergendosi nel
quieto silenzio degli scaffali colmi di libri e nell’odore di polvere
e carta
stampata che le piaceva respirare apieni polmoni.
Giacché
l’anziano
bibliotecario Xanthippe era momentaneamente assente, procedette da
sola alla ricerca del manuale di storia greca che le serviva; non era
la prima
volta che le capitava, per cui possedeva una certa dimestichezza
nell’individuare ciò di cui aveva bisogno. Anzi,
pensava
che, se non le fosse riuscito di diventare medico, avrebbe accettato
volentieri un impiego come addetta in biblioteca… e, perché no, magari
proprio
lì, in quella del Santuario.
Stava
girovagando
fra i ripiani col naso per aria, quando si accorse di non essere
sola; in fondo al corridoio del settore in cui si trovava c’era
qualcuno seduto
a terra, che pareva immerso nella lettura di un grosso tomo.
Essendo
la
zona leggermente in penombra, non riusciva a capire bene di chi si
trattasse;
neppure l’abbigliamento era troppo indicativo, poiché consisteva nella
classica
tenuta da viaggio in uso fra gli accoliti del Grande Tempio.
Non
appena
mosse un passo nella sua direzione, il tizio alzò lo sguardo dal
libro,
per poi fissarlo repentinamente su di lei.
Il
colore
dei suoi occhi – «dorato. Mai visti, occhi del genere. Eccetto una
volta» –
fu la prima cosa che
Maia notò,
rimanendone come folgorata: gli anni e la fatica non ne avevano
alterato
minimamente i toni, che erano rimasti intessuti d’oro esattamente come
allora.
«Ero
sicura
che li avrei trovati ancora più freddi. E invece… »
«Didier…
?»
«Non
mi
chiamo più così da molto tempo» disse lui, mentre si faceva scivolare
il
cappuccio dalla testa e i capelli, divenuti lunghissimi, gli
ricadevano sulle
spalle «Adesso sono Camus».
Note
dell'autore
Con
la storia
ferma da anni, c'era davvero bisogno di aggiungere un ulteriore prologo?
Bella
domanda.
Per chi approdasse su Sorella Morte solo adesso: dovete sapere che da
tempo
immemore avevo il fermo proposito di sottoporre la stessa a pesante
revisione. I
primi
capitoli specialmente, oltre a essere scritti in maniera imbarazzante,
erano
impostati in un modo assolutamente inconciliabile col tono che ha
progressivamente assunto la trama; in sostanza, la prima parte della
storia
risultava completamente a-contestuale rispetto al suo prosieguo.
Così,
ho deciso
di rimetterci le mani, collocando eventi e personaggi in una dimensione
più
seria, dettagliata e strutturata. Più consona, insomma, al mio modo di
scrivere
– non certo “leggero”, come ben sa chi mi seguiva più assiduamente.
Per
ciò che
concerne il prologo sovrastante, lo stesso ha la funzione di presentare
un po'
il rapporto intercorrente fra Maia, Milo ed Aiolia, nonché quella di
introdurre
il lettore alla mia personale concezione del "sistema Santuario".
Andando per punti:
-
come
anticipato nelle Avvertenze, le età sono abbastanza arbitrarie. Nel mio
immaginario, infatti:
a)
Milo,
Aiolia, Camus, Aldebaran, Shaka, Mu (e Maia) al momento della battaglia
delle
Dodici Case hanno circa 21 anni; dunque, nel prologo in questione, Milo,
Aiolia, Maia e Camus hanno 13 anni – età in cui ho immaginato abbia
luogo
l'investitura a Gold saint (che, sempre nel mio immaginario, avviene nel
giorno
del compleanno del singolo soggetto). Shaka, in quanto supposto
"Illuminato", fa eccezione, giacché ho ipotizzato sia diventato
cavaliere due anni prima dei suoi coetanei;
b)
Death Mask
ed Aphoridite sono più grandi e qui hanno 17 anni;
c)
Shura e Saga
sono ancora maggiori, come verrà specificato meglio più avanti.
-
Arbitraria è,
altresì, la scelta di far addestrare Milo all'interno del Santuario, e
non a
Milos: me ne dispiaccio un po', ma un tale cambio risultava fondamentale
alle
esigenze di copione.
-
Come forse
avrete intuito, "Paulo" e "Ariun" altri non sono che
Aldebaran e Mu; tranquilli, la faccenda dei nomi verrà spiegata nel
capitolo I!
-
So che la
Meridiana dello Zodiaco ha ben altra funzione, rispetto a quella di
segnare
l'ora; diciamo che, in questo contesto, le ho assegnato anche dei
compiti un
po' più laici.
|
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Capitolo 2 *** Capitolo I: 30 aprile 1986. Maia ***
Capitolo I. Maia BG
Capitolo
I: 30 aprile 1986. Maia
Anche
dei semplici oggetti possono far male.
Prendi
le
foto, ad esempio: sono capaci di riportare in vita persino quelle
sensazioni
che pensavi di aver finalmente messo da parte.
Irene
Pellegrini
Al
Santuario di Atene non v’era giorno che scorresse inutilmente ozioso:
fra quei marmi vecchi di millenni lo spettro della morte era una
presenza tanto costante e tangibile che, per contrappasso, la vita vi
scorreva come raddoppiata.
Non
c’erano né
tempo né
voglia di indugiare nell’inerzia e, per questo, ciascun abitante del
Mondo Segreto svolgeva alacremente i propri compiti dall’alba al
tramonto, sprezzante della fatica; dall’Arena dei Tornei alle gallerie
sotterranee, dagli alloggi degli apprendisti alle rimesse delle
cucine, ogni angolo riecheggiava di voci e di passi fino al calar
della sera, come in un grande alveare operoso.
Solo
i Tredici Templi
rimanevano immuni a tale umano affaccendarsi.
Le
Dimore
dei custodi dorati, bianche e imponenti nel sole di Grecia,
proiettavano un’ombra di arcano e di quiete sul resto della Terra
Sacra, protettive e silenti come lo sguardo della Dea
nel cui onore erano state erette: raramente proveniva da esse alcun
suono percettibile e, se ciò accadeva, di solito non era buon segno.
Dunque,
quando rumori di grida e di colpi andati a vuoto giunsero da lassù
sino all’ospedale da campo dove si apprestavano le prime cure ai
feriti, tutto il personale medico interruppe quasi all’unisono ciò che
stava facendo, improvvisamente in allerta.
Anche Maia
Ninis, sino a quel momento impegnata in un’operazione di routine, alzò
gli occhi allarmata:
se un simile
trambusto fosse provenuto da un Presidio
diverso da
quello della Giara Sacra,
probabilmente la cosa l’avrebbe turbata di
meno. Ma era
proprio da lì che
ancora si alzavano strepiti, e quindi non poteva trattarsi di una
faccenda da nulla.
«Maia!
Maia!»
Il
richiamo di Clio Papadakis, l’apprendista del dottor Savasta, la
distrasse momentaneamente dai suoi pensieri.
«Maia,
finalmente ti ho trovata!»
«Perché,
dove credevi che fossi?» ironizzò bonariamente lei, accennando con la
testa a un mucchietto di bende usate, in paziente attesa di essere
lavate e sterilizzate; tuttavia, l’altra pareva così agitata che
lasciò subito cadere lo scherzo.
«Dimmi, Clio,
cosa c’è? Ha a che fare con quello che sta succedendo all’Undicesima,
per caso?»
«Esatto!»
annuì la
ragazzina «Le
ancelle che prestano servizio lì mi hanno detto che il cavaliere
dell’Acquario è molto arrabbiato per qualcosa che… che gli hanno
fatto».
«Che
significa “gli hanno fatto”? Chi? E cosa?»
«Gli
altri cavalieri d’oro. Ma cosa esattamente sia avvenuto, non me
l’hanno saputo dire. Pare ci sia di mezzo una foto… »
«Una
foto? Tutto questo macello per una foto?
Non ci credo. Non è da Camus».
Clio,
in risposta, alzò le spalle:
cosa poteva
saperne lei di cosa fosse o non fosse da Camus, dato che a malapena
sapeva che aspetto avesse?
«E
va bene,» sospirò Maia, togliendosi i guanti in lattice con uno sbuffo
«se qui ci pensi tu, vado a dare un’occhiata».
«Ma
il dottore mi ha detto che, per adesso, devo limitarmi a osservare
te!» esclamò quella sdegnata, spalancando gli occhi «Non voglio
combinare pasticci!»
«E
quali pasticci potresti mai combinare con
delle bende sporche? Andiamo,
Clio: conosco tua madre,
e non credo
proprio che in quindici anni
non ti abbia mai mostrato come si lavano i panni. L’unica differenza è
che, in questo caso, devi immergere le bende nell’acqua bollente e
lasciarle a mollo per almeno 15, 20 minuti. In
ogni caso,» continuò la maggiore, strizzando l’occhio all’apprendista
«oggi il dottor Savasta non c’è. Sai che viene qui solo quando è
strettamente necessario».
Yorgos
Savasta era il capo dei medici che operavano lì al Santuario, nonché
il primario di medicina di uno dei più grandi ospedali di Atene, il
Nikaia. Era
proprio quest’ultima qualifica a renderlo una figura praticamente
indispensabile, giacché gli
permetteva di garantire
l’accesso in ospedale qualora l’attività dei colleghi operanti sul
campo non fosse stata sufficiente, nonché di
approntare le
coperture necessarie a non destare sospetti negli esterni; in aggiunta
a questo, era, altresì, un ottimo dottore.
La
sua mansione lo teneva impegnato al Nikaia per la maggior parte del
tempo, ma appena poteva si recava sempre volentieri in quel loro
presidio di fortuna, che fosse per impartire lezioni ai più inesperti
o, in caso di bisogno, per dirigere il team e dargli un apporto
materiale.
La
nonna di Maia, che era stata infermiera per oltre quarant’anni,
l’aveva preso sotto la sua ala protettiva quando era appena un
tirocinante e lui, per ricambiare il favore, altrettanto aveva fatto
con la nipote di questa; Maia l’aveva sempre considerato una sorta di
padre, specialmente dopo la morte dei i suoi veri genitori.
«Un’orfana
in un universo di orfani… che allegria. Ma almeno io ho avuto nonna
Frandra a crescermi, e non persone che, al posto di darmi carezze,
mi avrebbero preso a pugni per dovere»
pensò mestamente,
passando
accanto a un gruppo di bambini che, sotto la supervisione dei
rispettivi maestri, se le stavano dando di santa ragione.
Lasciandosi
alle spalle i vari campi di addestramento per le reclute svoltò quindi
in direzione degli alloggi del personale di servizio; da lì avrebbe
potuto accedere ai passaggi sotterranei che conducevano direttamente
alla Nona Casa,
senza dover per forza percorrere le scalinate dei Templi
precedenti.
«Visto
che siete qui, vorreste spiegarmi cosa diavolo sta succedendo? Per
favore! Mi sono fatta tutta questa strada solo per averne una vaga
idea, ma non ho ancora scoperto nulla».
Aiolia
e Aldebaran, entrambi fermi sulla soglia dell’Undicesimo Tempio,
si girarono simultaneamente verso di lei; Maia ebbe così modo di
notare che il primo, oltre a tremare visibilmente nonostante il clima
non certo rigido, aveva altresì il chitone da allenamento
completamente fradicio.
«È-è
tutta colpa di qu-quel deficiente di Milo! Lu-lui…»
Taurus,
per fastidio o per pietà, posò una mano sulla spalla del compagno e
continuò in sua vece: «Vedi Maia, il fatto è che Milo, frugando fra le
cose di Camus – ovviamente senza permesso –,
ha trovato una
sua vecchia foto da bambino e, invece di lasciarla dov’era, ha pensato
che sarebbe stato divertente mostrarcela».
«Sì,
devi ric-riconoscere che, in eff-fetti, lo è stato… era così buf-ffo!»
«Ok,
Aiolia, ma mi sembra evidente che la cosa non abbia fatto per nulla
piacere a Camus: si è arrabbiato tanto che ci ha buttato fuori dai
suoi appartamenti a colpi di Diamond Dust, arrivando persino ad alzare
la voce. Sul momento anch’io l’ho trovato spassoso, ma adesso credo
che abbiamo esagerato: probabilmente quella foto ha un significato
particolare e noi, ridendoci su, gli abbiamo mancato di rispetto».
Nel
notare il sincero abbattimento di Aldebaran, Maia non poté fare a meno
di cercare di consolarlo: lui era una di quelle rare persone che, in
assenza di un valido motivo, non avrebbero fatto del male nemmeno a
una mosca. Gli credeva ciecamente, quando affermava che la faccenda
gli era un tantino sfuggita di mano.
«Su
col morale, Al. Sai com’è fatto Camus: è così riservato che basta un
nonnulla a metterlo sulla difensiva. Qualsiasi altra persona – eccetto
Shaka, presumo – non se la sarebbe presa tanto. Gli passerà presto:
dobbiamo solo lasciare che si calmi e razionalizzi l’accaduto» disse,
enfatizzando l’estrema pudicizia dell’Acquario forse più di quanto non
avrebbe fatto in altre circostanze: nemmeno a lei piaceva troppo che i
suoi affari
fossero messi in piazza –
e questo, con
amici come Milo, rappresentava un bell’inconveniente.
«A
proposito di Milo… non
ditemi che è ancora dentro ad accampare spiegazioni!»
Aiolia,
la cui temperatura corporea era nel frattempo rientrata nella norma,
sorrise sotto i baffi: «Tu che ne pensi?»
Maia
scosse la testa, a mezza via tra il divertito e il rassegnato: nel
trattare con gli altri, lo
Scorpione era
davvero irrecuperabile. Sapeva benissimo quando non era il caso di
adottare un certo atteggiamento o dire una determinata cosa, eppure,
gira e rigira, finiva sempre per fare di testa propria. E, se si
trattava di Camus, la sua mancanza di tatto dava puntualmente origine
ad odissee contrapposte di scuse e silenzi ostinati.
«Vado
gentilmente a ricordargli che non otterrà nulla, almeno per adesso»
esclamò quindi, oltrepassando il colonnato «Anche se sono certa che se
ne sia già accorto da solo, e abbia deciso di fregarsene».
Ognuna
delle Dimore
celesti possedeva la propria esclusiva
peculiarità, e quella della Giara Sacra era la struttura a pianta
circolare.
Ogni
volta che vi si addentrava Maia aveva come l’impressione di trovarsi
in una di quelle enormi basiliche cristiano-cattoliche che aveva avuto
modo di visitare durante i suoi viaggi in Italia, dove tutto lo spazio
confluiva verso la cupola centrale; e tuttavia, mentre quelle erano in
genere riccamente decorate e affrescate, l’Undicesimo Tempio,
costruito secondo il rigore e la grazia tipici dell’arte classica,
appariva invece al visitatore austero ed essenziale.
Quella
volta, però, non si lasciò suggestionare dall’ambiente che per un
breve attimo, dirigendosi spedita verso l’ala a nord est dove in
genere erano ubicate le stanze private dei Custodi; come previsto,
Milo si trovava ancora davanti alla porta – chiusa – degli
appartamenti di Camus.
«Sei
consapevole che stare qui a fissare intensamente la porta non farà sì
che questa si apra come per magia, vero?»
Lo
Scorpione si voltò di scatto e le diede il benvenuto con
un’occhiataccia: «Non ti ci mettere anche tu. È già abbastanza dura
doversi cospargere il capo di cenere per uno scherzo da quattro
soldi».
«Com’è
che si dice? Ah, sì: “Chi è causa del suo male, pianga se stesso”.
Dovresti sapere meglio di chiunque altro che, per andare d’accordo con
Camus, certi comportamenti sono preclusi».
«Perdiana,»
gli rispose lui, passandosi stancamente una mano sul viso «sembra di
sentir parlare Camus in persona. Tutti a fare la paternale a me, e
nessuno che faccia notare a lui quanto
farebbe meglio ad essere un po’ meno rigido, almeno nella vita
privata! Spesso mi domando se non sia nato con una scopa nel… insomma,
in quel posto».
Poi
prese a fissarla in maniera strana, evidentemente ispirato da una
sorta di intuizione: «Anzi, visto che ritieni di essere tanto
sensibile, perché non vai tu a parlargli? Vediamo un po' se riesci a
fargli capire che prendersela così per una faccenda del genere è un
inutile spreco di energie!»
A
quella proposta, che aveva vagamente il sapore di una sfida, Maia
rimase un tantino interdetta.
Lei
non c’entrava nulla e
non ci teneva affatto ad essere messa in mezzo, col rischio, magari,
di dover prendere le parti dell’uno o dell’altro; inoltre, il pensiero
di affrontare una conversazione di stampo più intimo con l’Acquario la
innervosiva.
Camus
era in grado di inibirla semplicemente guardandola: in sua presenza si
sentiva sempre non abbastanza attraente, non abbastanza brillante, non
abbastanza simpatica. Insomma, non
abbastanza.
«Allora?»
la incalzò Milo, di fronte al suo temporeggiare «Vai, o convieni con
me che Mr. Portami Rispetto sia decisamente intrattabile?»
«Uffa,
Milo!» sbottò Maia, spintonandolo leggermente affinché si facesse da
parte «E va bene, vado! Però, la
prossima volta che ti viene in mente un’idea stupida pensaci,
invece di dargli immediata attuazione. Non hai più sette anni, santo
cielo. E ricordati che mi devi un favore!»
Dopo
aver bussato lievemente si accostò quindi alla porta, in attesa di
sentire qualche suono provenire dall’interno. Passati pochi secondi,
la voce di Camus si levò limpida e repentina.
«Te
lo ripeto un’ultima volta, Milo: vattene. Non ho voglia di parlare con
te, al momento».
«Ehm,
Camus, in realtà sono Maia. Ciao» rispose lei, facendo intanto segno a
Scorpio di allontanarsi da lì «Tranquillo, Milo se n’è appena andato.
Sono passata per sapere se sia tutto a posto».
Al
che, il tono di Aquarius si fece esitante: «Maia? Oh. Sì. Certo, è
tutto a posto».
Maia
non ebbe neppure il tempo di pensare a una possibile replica che già
Camus le stava dinanzi, il corpo parzialmente appoggiato contro lo
stipite e un’espressione appena più curiosa del consueto; quando lei
se ne
accorse, non riuscì a trattenersi dal sobbalzare.
«Scusa,
non volevo spaventarti!»
«Stupida,
stupida Maia! Come se tu non fossi abituata alla gente capace di
muoversi alla velocità della luce!»
«Ahah,
figurati!» rise Maia, più per nascondere l’imbarazzo che per vero
divertimento «É che mi scordo sempre quanto possiate essere rapidi,
all’occorrenza».
«Già».
Per
un momento stettero a fissarsi in silenzio, come bloccati in una sorta
di impasse; infine, il cavaliere parve sovvenirsi delle regole della
buona creanza – in cui, peraltro, in genere eccelleva.
«Vuoi
entrare?» le chiese, facendosi di lato per spalancare la porta e
permetterle di passare.
Accettato
l’invito con un cenno della testa, Maia seguì il padrone di casa lungo
il corridoio che percorreva l’appartamento fino ad approdare alla zona
giorno; questa, nel caso dell’Undicesimo Tempio, si trovava
esattamente dalla parte opposta rispetto all’ingresso ed era corredata
di una sorta di veranda esterna da cui si godeva della vista di buona
parte del Santuario.
Un
po’ per la posizione, un po’ per la ritrosia del loro proprietario,
fatto sta che di rado si riunivano nelle stanze di Camus; Maia stava
giusto pensando a quanto tempo fosse passato dall’ultima volta che ci
aveva messo piede, quando le parole di Aquarius la distolsero dai suoi
– «inutili» –
vagheggiamenti.
«Apprezzo
che tu ti sia interessata alla mia condizione, davvero,» esordì quello,
offrendole una delle poltrone con un gesto e mettendosi a sedere a sua
volta «ma non ce ne sarebbe stato bisogno; probabilmente mi sono
alterato più del necessario. E tuttavia, non ho bisogno di rammentarti
quanto certi soggetti di nostra conoscenza riescano a diventare
inopportuni, alle volte».
Maia,
specialmente dopo quel “davvero”, alzò scettica un sopracciglio: con
tutta la cortesia dell’intero universo, Camus le stava sostanzialmente
sbattendo in faccia l’inutilità di quella visita.
Persino
la sua posizione sul divano, eccessivamente rigida rispetto al
contesto apparentemente informale, tradiva il fastidio per
quell’intrusione né aspettata né,
tantomeno,
desiderata.
«Del
resto, come dargli torto? Anche
vestito così, come l’ultimo dei soldati, sembra
uscito da un
dipinto rinascimentale. E poi, uno che non parla volentieri nemmeno
con se stesso di cosa mai potrebbe voler discorrere con me?»
Amareggiata
da tale consapevolezza la ragazza si alzò in piedi quasi di scatto,
intenzionata a togliere il disturbo il più velocemente possibile.
«Hai
ragione: in effetti, avrei potuto evitare. É solo che, giù
all’ospedale, nessuno dei miei colleghi era al corrente di quanto
fosse successo, così ho deciso di salire io ad accertarmene. Sulla
soglia della tua Casa Aiolia e Aldebaran mi hanno spiegato tutto:
ripensandoci, mi sarei dovuta accontentare del loro racconto» esclamò
quindi in maniera affettata, guardando a malapena in viso il proprio
interlocutore «Adesso me ne vado: mi spiace di averti dato ulteriori
noie».
Camus
reagì a quello strano atteggiamento in un modo che la sorprese;
infatti, anziché assecondarla ed accompagnarla alla porta, si accomodò
meglio sullo schienale, accavallò le gambe e disse, semplicemente:
«No, ti prego. Resta».
Un
invito che assomigliava ad un ordine, ma era molto più di quello in
cui Maia avrebbe normalmente sperato.
«Ah.
Ok. Va bene… » mormorò, saettando gli occhi qua e là in cerca di un
argomento di conversazione che non toccasse il tasto dolente del
fresco litigio e fosse, al contempo, in grado di interessarlo.
Come
spesso accadeva, la sua attenzione fu ben presto attratta dalla
piccola libreria posta accanto alla finestra, colma di manuali di
anatomia umana, fisica e chimica; fra di essi, però, spiccavano
altresì diversi romanzi, molti dei quali recavano titoli noti anche
alla stessa Maia.
«L’Étranger,
La
Peste,
La
Chute…
mi pare di intuire un qualche apprezzamento per il tuo omonimo
algerino» scherzò, menzionando ad alta voce i primi titoli che le
erano balzati alla vista.
«Credo
che Albert Camus fosse lo scrittore preferito di uno dei miei
genitori: non ricordo molto, ma nella mente ho distintamente impressa
l’immagine di questi e di altri suoi libri in
bella mostra sugli scaffali di casa, a Parigi».
Dinanzi
a quella confidenza assolutamente imprevista, Maia si fece subito
seria: sapeva per esperienza personale quanto potesse essere arduo
riportare alla memoria certi dettagli, giacché intrinsecamente legati
a persone care scomparse troppo presto.
«Capisco.
Per questo hai deciso di chiamarti così?»
Camus
annuì, mentre una ciocca rossa gli ricadeva sul viso e i suoi occhi si
facevano appena un po’ più distanti: «Sì. Come sai, gli aspiranti
cavalieri di Atena nati fuori dal Santuario o da Rodorio e ivi
arrivati con un nome e un cognome, prima di iniziare l’addestramento
hanno l’onere di scegliersi un nuovo appellativo, per rimarcare la
completa rinuncia alla loro vita precedente. Quando è stato il
mio turno, non ho avuto dubbi sul fatto che avrei voluto chiamarmi
“Camus”».
«E
Didier… che fine ha fatto?»
Maia
si morse la lingua, ma ormai era troppo tardi: la domanda le era
uscita di bocca prima che potesse chiedersi se stesse o meno facendo
un passo falso.
L’Acquario
la guardò fissamente per qualche secondo, poi rispose secco:
«È morto. Tanti, tanti anni fa: la neve se l’è preso al posto mio».
«Mi
dispiace» sussurrò lei un
po’ stupidamente, colpita dalla rabbia repressa racchiusa nelle sue
parole. Mai avrebbe pensato di poter vedere un aspetto tanto intimo di
Camus, e adesso la profondità di questo la stava letteralmente
schiacciando.
«Quella,»
continuò l’Undicesimo Custode, accennando con la testa a una vecchia
polaroid poggiata sul tavolo «è soltanto una foto, ma Milo è a
conoscenza di tutto ciò che ti ho raccontato. Per questo non tollero
che scherzi sulla mia infanzia. Anche –
e soprattutto –
per questo».
«Posso?»
chiese la ragazza, allungandosi timidamente verso l’ormai famosa
fotografia.
«Fai
pure. Almeno tu non ne riderai, ne sono certo».
«Te
lo prometto».
Lo
scatto in
bianco e nero ritraeva
un bel bambino vestito con dei pantaloni alla zuava, le bretelle e una
maglietta a righe – presumibilmente blu e bianche –;
in testa, manco a dirlo, portava il tipico cappello francese, le
béret.
A
differenza dell’adulto dalle fattezze simili che Maia in quel momento
aveva davanti,
il piccolo
sorrideva felice, lo sguardo rivolto all’obbiettivo e le mani
spavaldamente infilate dentro le tasche.
Sull’angolo
destro dell’istantanea, redatta a penna con caratteri morbidi ed
eleganti, stava la dicitura: Le
petit Didier au Jardin du Luxembourg, Paris, june 1969.
Note
dell'autore
Bentrovati!
Come
certo avrà notato chi era passato
di qui già in precedenza, il capitolo è stato completamente stravolto
rispetto
al suo originale. Vi riassumo le principali divergenze, per sommi capi:
-
ho riportato la dimensione
spaziale entro i piani canonici, ricomprendenti Rodorio, il negozio di
fiori e
quant'altro (non mi dilungo, i dettagli li conoscete meglio di me);
-
Maia non frequenta la facoltà di
Lettere, ma quella di Medicina: mi è sembrato un mezzo più efficace a
giustificare la sua presenza al Santuario (anche se la faccenda delle
famiglie
custodi, ampiamente spiegata al capitolo 6, rimane ferma);
-
in questa versione Maia vive con
la nonna materna perché i suoi genitori sono morti (in missione per
conto del
Santuario, come poi si dirà);
- la
faccenda della foto appare
drasticamente ridimensionata. Per esigenze di copione non l'ho eliminata
del
tutto, ma così mi pare decisamente più plausibile e adatta al contesto,
rispetto a prima.
Svolte
queste (in)utili premesse, mi
sembra necessario dare un inquadramento temporale più o meno preciso
alle
vicende.
A
livello canonico, l’unica cosa
sicura è che la battaglia delle Dodici Case sia da collocarsi nel 1986,
e
tuttavia il mese rimane incerto. Tra chi diceva “febbraio”, e chi
“settembre”,
io ho scelto quest’ultima opzione, onde far sì che Saori avesse almeno
13 anni.
Dunque, considerando che, tra la suddetta battaglia e gli eventi ad essa
precedenti intercorre qualche mese, il presente capitolo è ambientato il
30
aprile 1986, otto giorni prima del compleanno di Al.
Adesso
(sì, lo so, ho rotto),
qualche precisazione più specifica:
-
il Nikaia è l'ospedale più grande
di Atene ed è sito nell'omonimo quartiere popolare, vicino al porto del
Pireo
(il quale, nella mia storia, è la zona di Atene più prossima a Rodorio e
al
Santuario). Nel 2011 è tristemente assurto a simbolo della crisi greca
per casi
eclatanti di malasanità e corruzione, ma questo non ha a che fare con
Sorella
Morte;
-
Albert Camus, nato a Dréan –
sulla costa orientale dell'Algeria –, è stato scrittore, filosofo,
saggista, drammaturgo, giornalista ed attivista politico francese;
quelle da me
citate sono solo alcune delle sue opere più famose;
-
Il basco, in Francia, è
generalmente indicato col termine "béret" (o "berret");
-
"Le petit Didier au Jardin du
Luxembourg, Paris, june 1969." : "Il piccolo Didier ai giardini del
Lussemburgo, Parigi, giugno 1969". I giardini del Lussemburgo
sono i
giardini pubblici antistanti al Palazzo del Lussemburgo, che ospita la
sede del
Senato francese.
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Capitolo 3 *** Capitolo 2: 30 aprile 1986. Shaka ***
Capitolo 2. Shaka BG
Capitolo
2: 30 aprile 1986. Shaka
Le
incomprensioni sono così strane,
sarebbe
meglio evitarle sempre
per
non rischiare di aver ragione,
ché
la ragione non sempre serve.
Tiromancino
Shaka
della Vergine meditava all’interno della Sesta Casa.
Dall’ampia
arcata entrava una leggera brezza primaverile che, soffiando mite,
annunciava il definitivo trionfo della bella stagione sui resti di un
inverno insolitamente rigido; attraverso i suoi acutissimi sensi,
sviluppati durante anni di dura concentrazione, il cavaliere poteva
avvertire persino il lontano sciabordio del mare, che pure si trovava
diverse miglia più in basso.
Quel
ritmico infrangersi dell'acqua sugli scogli gli ricordava il periodo
del suo addestramento allorquando, ancora fanciullo, sedeva sulle rive
del Gange per intere giornate, apparentemente estraneo a tutto ciò che
lo circondava.
«Che
sciocchi»
pensò con un sorrisetto bonario, rivedendo con gli occhi della memoria
i ragazzini del villaggio che si facevano beffe di lui, approfittando
del suo sguardo celato.
Se
inizialmente simili episodi lo avevano riempito di sdegno, crescendo e
maturando aveva smesso di farci caso, sicuro della sua superiorità non
solo rispetto a quel povero gruppo di contadini indiani, ma altresì a
confronto dei cavalieri suoi pari: lui, che aveva ottenuto l’armatura
d’oro ben prima di aver raggiunto l’età ufficiale per l’investitura,
era l'Illuminato,
l’uomo più vicino agli Dei.
Dacché
aveva memoria, Shaka era sempre stato consapevole della propria diversità,
ed esattamente in virtù di questa aveva vissuto, rifiutandosi di
condividere i giochi infantili dei suoi coetanei prima, e le normali
pulsioni adolescenziali poi, senza mai provare alcun rimpianto per
l’innocenza e la spensieratezza che non aveva mai posseduto; da
qualche tempo, tuttavia, un vago senso di minaccia si era installato
nel suo animo, insidiandosi fra le certezze che avevano guidato la sua
intera esistenza.
Egli
non sapeva spiegarsi da dove provenisse, né tantomeno quale ne fosse
la causa, e ciò lo turbava, anche perché nemmeno i suoi compagni
cavalieri sembravano percepirlo; per la prima volta nella sua vita il
fatto di essere il solo lo infastidiva.
Un
improvviso rumore di passi proveniente dall’entrata nord del Tempio
interruppe bruscamente le sue complicate elucubrazioni mentali,
riportandolo alla realtà. Stizzito, abbandonò la consueta posizione
meditativa e si apprestò ad andare incontro al seccatore, sennonché
questi, lungi dal chiedergli il permesso di passare, si limitò a
rivolgergli un breve cenno della testa e proseguì per la propria
strada.
«Non
si attraversa una Casa celeste
senza prima aver ottenuto il consenso del relativo Custode. Dopo anni
di servizio è mai possibile che debba essere io a ricordarti quali
sono le regole, Aiolia?»
Il
cavaliere del Leone, per nulla colpito dalla freddezza del camerata,
rispose laconico:
«Hai finito di farmi la predica? Bene, perché si dà il caso che
anch’io indossi un’armatura d’or-»
«Tzè!
Non al momento, direi» lo interruppe Shaka, scrutando scettico la sua
tenuta da allenamento sgualcita e resa completamente zuppa dai Diamond
Dust ormai sciolti.
«…
d’oro,» riprese Aiolia, sordo alla frecciatina «e che abbia la tua
stessa età, quindi penso di essere abbastanza cresciuto per rispondere
delle mie azioni, senza che un perfettino di mia conoscenza venga a
darmi lezioni di vita!»
«Mi
sento in dovere di correggerti. Il cosiddetto “perfettino” si è
meramente limitato a rammentarti gli imperativi categorici che
presidiano questo luogo sacro –
i quali, se
fosse come dici, dovrebbero esserti ben noti. Ma evidentemente sei
meno consapevole e maturo di quanto tu creda».
«Cosa
vorresti insinuare? Ti avverto, Shaka, non sono dell’umore adatto… »
«Io
non insinuo nulla. Mi è giunta voce che, poc’anzi, tu e gli altri
abbiate già dato spettacolo per futili motivi:
da ciò deduco
che la tua affermazione circa l’essere abbastanza cresciuto non
corrisponda esattamente a verità» concluse Virgo, solenne al pari di
un giudice che abbia appena emanato una sentenza di condanna.
«A
me sembra, invece, che dovresti finalmente scendere dal piedistallo su
cui ti sei adagiato sin da quando ti conosco. Non saranno le tue
conversazioni con una divinità di dubbia qualifica a fare di te un
cavaliere di Atena migliore degli altri!»
A
quelle parole, il volto solitamente disteso e candido di Shaka divenne
di colpo una maschera cupa.
«Non
osare mai più sbeffeggiare Buddha, maledetto bestemmiatore» ringhiò
fra i denti «Non. osare. mai. più».
«E
per quale motivo non dovrei farlo? Forse perché me lo dici tu? Io non
prendo ordini da nessuno, tanto meno da te!»
«Adesso
basta! Non ho nessuna intenzione di continuare questa discussione! Sai
qual è il tuo problema, caro Leo? É che sei rimasto un bambino, tale e
quale a quello che conobbi quattordici anni fa! Non hai rispetto per
niente e nessuno:
non per
la tua Dea,
non per noi, non per
il titolo che porti, e nemmeno per la memoria di tuo fratello! Se
almeno quella ti premesse, ti comporteresti come si conviene a un
cavaliere del tuo rango!»
Aiolia,
che fino a quel momento era rimasto più o meno calmo, esplose allora
con un ruggito degno di un leone in carne ed ossa: «CHE NE SAI TU DI
MIO FRATELLO, EH? CHE NE SAI TU, DI AIOLOS? COME PUOI GIUDICARMI, TU
CHE NON SAI NIENTE? QUANDO FU U-» la voce gli si incrinò in un
pericoloso sussurro, mentre un alone di cosmo dorato andava
avvolgendosi intorno alla sua figura «quando fu ucciso, tutto ciò che
riuscisti a fare fu stare lì immobile ad analizzare il suo cadavere,
come fosse un interessante oggetto di studio… PERCIÒ, NON TI
AZZARDARE A PARLARE DI LUI CON ME!»
«Stai
mentendo! Sarà anche vero che non so niente di Sagitter, ma la colpa
non è mia se non hai mai voluto condividere le tue pene con me!» gli
urlò contro Virgo, accendendo a sua volta il proprio cosmo.
«Cavalieri!
Che sta succedendo qui?!»
«Questa
voce... Shura!»
pensò Shaka, riprendendo all’istante il suo abituale contegno «L’occhio
e il braccio del Gran Sacerdote: cosa l’avrà spinto ad abbandonare
la Decima Casa per venire fin qui?»
Ai
tempi del loro reclutamento, i cavalieri d’oro già ordinati presenti
al Grande Tempio erano Saga di Gemini, Aiolos di Sagitter e Shura di
Capricorn. Essi
erano stati buoni amici e, in qualità di compagni, avevano iniziato
insieme i più giovani fra i futuri Gold saints,
nell’attesa che questi raggiungessero la meta definitiva prefissata
per il loro addestramento.
Dei
tre, solo Shura era rimasto.
Nulla
ancora si sapeva circa la repentina scomparsa di Saga, se non che la
stessa aveva preceduto di una mera manciata di ore la morte improvvisa del Primo Consigliere
di Shion di Aries, Gran Sacerdote allora in carica; oscure restavano pure le
circostanze in cui, nella notte ormai tristemente ricordata come
“Notte degli inganni”, l’onesto Aiolos era stato tacciato di aver
rapito la Dèa
infante appena reincarnatasi –
accusa,
questa, per la quale Sagitter aveva pagato con la vita.
L’unica
cosa certa consisteva nel fatto che era stata proprio la lama di
Capricorn ad impartire al traditore la punizione esemplare prescritta
dalle leggi del Santuario nei casi come quello: Shura aveva agito di
pieno diritto, eseguendo il comando dello sconosciuto consigliere del
Pontefice insediatosi sullo Scranno di Grecia dopo la dipartita di Shion, e
tuttavia i segni del rimorso per quanto compiuto gli si erano impressi
addosso con la stessa tenacia di un’erba infestante.
Dopo
quella notte, da gentile e sensibile qual era, divenne serio, schivo,
taciturno. Si chiuse in se stesso, trincerandosi dietro una serietà
morbosa verso i suoi doveri di cavaliere e obbedendo con fiducia quasi
cieca a tutti i voleri di Arles, il nuovo misterioso
Gran Sacerdote; i suoi unici,
veri amici
erano Death Mask del Cancro e Aphrodite dei Pesci, che egli
aveva preso
sotto la sua ala protettiva sin da bambini e coi quali passava il
tempo controllando
continuamente ciò che avveniva all’interno
del Santuario.
Negli
anni, il suo
carattere minuzioso e l’autorità che riceveva da Arles
avevano fatto sì che i
soldati e i cavalieri di grado inferiore fossero
arrivati a temerlo;
i suoi pari grado, al contrario, gli portavano grande rispetto e lo
consideravano un modello da seguire.
Tutti,
eccetto Aiolia. Leo
nutriva infatti un odio profondo verso Shura, nel quale vedeva non
solo l’assassino del proprio amatissimo
fratello maggiore, ma anche l’uomo che aveva screditato il suo buon
nome, ignorando volutamente che il Capricorno non aveva agito di sua
sponte, bensì nell’adempimento di un dovere impostogli dall’alto.
A
tanto pensò Shaka, nel momento in cui si vide comparire davanti
Capricorn; questi, assottigliato lo sguardo, non perse tempo in
convenevoli e si rivolse subito a lui ed Aiolia con tono severo.
«Ho
avvertito i vostri cosmi contrapporsi pericolosamente, qualche istante
fa: non sapete che la sacra legge del Santuario vieta scontri
insensati fra cavalieri d’oro? L’energia che verrebbe sprigionata
potrebbe nuocere gravemente a tutto ciò che vi circonda; vorreste
mettere in pericolo vite innocenti solo per una stupida disputa? Non
mi interessa quanto siano gravi i motivi che vi hanno spinto al
diverbio, vi proibisco in ogni caso di ricorrere alla lotta!»
Virgo,
al suono di quelle parole imperiose, si irrigidì impercettibilmente;
la stessa prudenza non l’ebbe però Aiolia, che sbuffò anzi più
sonoramente del dovuto, apparentemente intenzionato ad includere Shura
nella loro discussione.
«Se
non prendo in mano la situazione Aiolia farà sicuramente qualcosa di
avventato».
«Nobile
Shura,» prese dunque a parlare Shaka, in quella che voleva essere una
sorta di mite apologia «ci rincresce oltremodo di aver seminato
scompiglio per una simile facezia. Ritengo comunque opportuno chiarire
che io e il cavaliere di Leo qui presente, benché entrambi irati, non
saremmo mai arrivati allo scontro: il nostro è stato solo uno scambio
di opinioni più “acceso”, se mi concedi il termine».
«Parla
per-» cominciò Aiolia, che fu subito zittito dall’espressione omicida
assunta dall’amico.
Il
Capricorno, evidentemente soddisfatto della parziale remissività
dimostratagli dall’altrimenti orgogliosissimo indiano, parve
volutamente ignorare quell’intervento inopportuno: «Molto bene,
cavaliere di Virgo, ti credo: mi auguro solo che un episodio del
genere non si ripeta».
«Non
accadrà».
«Ne
sono convinto. Cavalieri... »
Shura si congedò quindi con lieve cenno della testa, il lungo mantello
a svolazzargli dietro la schiena.
«Dove
c’è scompiglio, quello compare: a volte mi chiedo se non abbia un
radar incorporato» sospirò Aiolia, rivolgendo un malevolo sguardo
nella direzione dove era appena sparito Capricorn.
«A
proposito, Virgo,» riprese subito dopo, voltando le spalle a Shaka «ti
sono debitore: senza il tuo pronto intervento avrei sicuramente detto
qualche sciocchezza e, oltre a sorbirmi l’ennesima ramanzina, sarei
finito nei guai, visto quanto lo detesto. Tuttavia, non ho dimenticato
ciò che mi hai detto –
e neppure ho
intenzione di farlo. Buona serata».
Pronunciate
queste parole uscì spedito dalla Sesta Casa, senza aspettare risposta.
Fu
solo per decenza che Shaka desistette dal gridargli dietro la replica
che gli era salita sulla punta delle labbra; eccezion fatta per Death
Mask di Cancer, pochi altri soggetti avevano la capacità di irritarlo
allo stesso livello di Aiolia.
«Calmati
Shaka, non lasciare che la rabbia ti invada, non ne vale la pena»
pensò, nel tentativo di placarsi «Calpesterà
il suo orgoglio e verrà a chiederti scusa non appena si renderà
conto che TU non puoi essere in torto. Oh, se verrà!»
Soddisfatto
dall’appagante immagine del Leone domato e implorante ai suoi piedi,
il cavaliere era
sul punto di tornare
alla propria meditazione quando,
per la terza
volta nel giro di un’ora, avvertì che qualcuno si era introdotto
all’interno del suo Tempio.
«Adesso
ne ho davvero abbastanza».
«Chiunque
tu sia, se hai bisogno del mio permesso per passare te
lo concedo, altrimenti ti prego vivamente di ritornare da dove sei
venuto!» esclamò, con tutta l’alterigia di cui era capace.
«Buonasera,
Shaka».
Al
suono della voce di Maia il cavaliere della Vergine aprì
istintivamente gli occhi; in genere li teneva ermeticamente chiusi
persino al cospetto del Gran Sacerdote, ma a lei proprio non riusciva
a celarli. Gli piaceva, quella ragazza.
Non
nel senso fisico del termine, no: lui non badava all’aspetto esteriore
delle cose. Gradiva, piuttosto, i suoi modi pacati, il suo
atteggiamento discreto e, soprattutto, la sua compagnia, così diversa
da quella dei guerrieri che lo circondavano giorno e notte.
«Ti
prego di perdonare i modi scortesi con cui ti ho accolta: cosa posso
fare per te, Maia?»
«Ecco,
vedi… »
si agitò la giovane, tormentandosi una ciocca di capelli con le dita
«stavo venendo a chiederti il permesso di passare, quando Lia è
arrivato... »
«Adesso
capisco il motivo di tanto nervosismo: ha sentito tutto».
Maia,
probabilmente notando l’espressione di lieve disappunto sul viso del
cavaliere, si affrettò quindi ad aggiungere: «Shaka, mi dispiace, non
avrei mai voluto origliare. Anzi, quando vi siete messi ad urlare
stavo per andarmene, ma poi è sopraggiunto Shura e... »
«É
tutto a posto, non sono arrabbiato» la tranquillizzò subito lui
«Anche se ti pregherei di non parlarne con gli altri. É una
questione fra Aiolia e me,
e tale desidero che rimanga».
«Non
ci sarebbe stato bisogno di dirmelo: non sono una di quelle che va a
raccontare a destra e a manca i fatti altrui!»
«Certo,
certo, scusami» le sorrise Shaka, conciliante «Era per dire».
I
due rimasero zitti per un po’, lui con il fianco appoggiato a una
colonna, lei in piedi, entrambi pensierosi.
«Shaka?
Posso... darti un consiglio?» chiese titubante Maia dopo qualche
tempo, rompendo il silenzio.
«Parla:
ti ascolto» fu la cortese risposta di lui.
«Non
offenderti per ciò che sto per dire, ma... secondo me, dovresti
chiedere scusa ad Aiolia. Sì, qualche volta ha degli atteggiamenti
infantili e superficiali, però tu, tirando in ballo suo fratello solo
per avvalorare un tuo giudizio, sei stato davvero inopportuno e
indelicato. Perdonami se sono così
franca: mi è sembrato giusto dirtelo».
Il
Santo della
Vergine non rimase troppo sorpreso per quelle parole, le quali davano
voce a un pensiero del tutto comune; non si aspettava che Maia, per
quanto acuta e intelligente, comprendesse realmente la portata di
quanto avvenuto.
«Come
sempre, non posso fare a meno di apprezzare la tua limpidezza,» disse
quindi, grave «ma permettimi di dissentire: non ho affatto esagerato.
Aiolia ha profondamente mancato di rispetto a me e, cosa ancora più
grave, al Buddha. Prima o poi la sua sventatezza lo porterà ad
offendere qualcuno che, al contrario di me, non sarà così tollerante».
All’improvviso
lo assalì una strana angoscia, un senso di spossatezza mai provati
prima: era stanco, maledettamente stanco di fungere da guida
spirituale per i suoi compagni, che oltretutto non sembravano
apprezzare lo sforzo da lui compiuto.
Abbandonò
la colonna a cui si era appoggiato e si diresse fuori, a cercare un
po’ di requie nello spettacolo del sole che si inabissava nel mare,
seguito a debita distanza da una taciturna Maia.
«Spesso
ho la sensazione di essere di uno dei pochi a possedere la
consapevolezza di cosa davvero comporti lo status di cavaliere» disse
Shaka, rivolto più a se stesso che alla ragazza «É frustrante pensare
che i tuoi pari lo impareranno più tardi, a loro spese».
Maia
non aveva mai visto Shaka così turbato: lo aveva sempre creduto
emotivamente indistruttibile, una fiaccola chiara e sicura nel bel
mezzo delle tenebre dell’incertezza.
Non
sapendo come rassicurarlo gli poggiò delicatamente una mano sulla
spalla e la strinse, cercando di comunicargli qualcosa che a parole
non riusciva ad esprimere.
Senza
aggiungere altro rimasero a lungo così, in silenzio, ad osservare la
luce morente del giorno.
Note
dell'autore
Bentrovati!
Questo
capitolo è rimasto essenzialmente uguale alla
sua vecchia versione, fatta eccezione per alcuni dettagli che ho
smussato.
Vogliate
perdonare il tono polemico e un filino
isterico di Shaka: prima della battaglia delle Dodici Case, è
esattamente così
che me lo immagino. Supponente, impaziente, pignolo. Ma cambierà,
vedrete!
Preciso
che il discorso di Aiolia: «quando fu ucciso,
tutto ciò che riuscisti a fare fu stare lì immobile ad analizzare il suo
cadavere, come fosse un interessante oggetto di studio» si riferisce a
un
episodio trattato nel capitolo 11, parte II.
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Capitolo 4 *** Capitolo 3, parte I: 7 maggio 1986. Camus ***
Capitolo 3, parte 1. Camus BG
Capitolo
3, parte I: 7 maggio 1986. Camus
Pensare
a te
che
mi pensi
è
un pensiero impensabile.
Irene
Pellegrini
«Allora,
posso considerarmi perdonato?»
«Me
l'hai già chiesto almeno venti volte nel giro di mezz'ora e
la mia risposta è stata, è, e sarà
sempre la
medesima: NO».
«Eddai,
Camus, è passata una settimana! Non puoi continuare a ignorarmi per
sempre!»
«Questo
è un concetto assolutamente opinabile».
«Se
la metti così, anche il fatto di leggere mentre qualcuno ti sta
parlando è di una cortesia opinabile».
Dovendo
riconoscere che per
una volta Milo
si trovava nel giusto, Camus chiuse Illusions
perdues con
un sospiro.
Era
fermamente deciso a non perdere le staffe, benché fosse conscio della
difficoltà dell’impresa: quando si impuntava su qualcosa, Scorpio era
capacissimo di chiaccherare
tanto da far
smarrire la ragione anche ai sordi.
«Era
ora» sentenziò quest’ultimo, le braccia incrociate sul petto con fare
paternalistico «Non riuscirò mai a comprendere cosa spinga voi topi di
biblioteca a voler passare ogni momento libero su quattro fogli di
carta stampata. Insomma, ci sono così tante altre cose belle da fare a
questo mondo!»
«Solo
perché non ti piace leggere, ciò non significa che tutti debbano
pensarla come te. Comunque, sempre meglio stare sopra a “quattro fogli
di carta stampata”, come li chiami tu, che andare in giro tutto il
giorno a scocciare la gente!» ribatté Aquarius, evidenziando in tono
più marcato l'ultima frase.
Milo,
captando l'evidente allusione alla sua persona, si lasciò cadere
stancamente su una sedia con fare teatrale: «Cosa vorresti dire? Che
ti sto scocciando? Con tutta la fatica che faccio per schiodarti di
qui e mantenere in uno stato dignitoso la tua scarsa vita sociale...
sei proprio un ingrato, Camus di Aquarius!»
«Ti
ricordo, mon copain, che in quanto cavaliere ho dei compiti
cui adempiere – compiti che non posso certo portare a termine stando
all'interno della mia Casa. Come sai,
anche io esco
di mia spontanea volontà… e anche piuttosto frequentemente, a dire il
vero».
«Mh.
Se lo dici tu» commentò dubbioso Scorpio, cercando di concludere un
discorso senza capo né coda che lo stava distogliendo dal suo
obiettivo ultimo – ossia, quello di ottenere la tanto sospirata
grazia.
«Tornando
a noi, comunque, ribadisco quanto mi dispiaccia per il malinteso che
si è creato. Non era mia intenzione prenderti in giro, e credo che lo
stesso valga per ‘Lia
e Aldebaran. Non sono state risa di scherno, le nostre. Sono giorni
che tento di spiegartelo, ormai mi sembra persino di aver finito le
parole da utilizzare!»
L’udire
nuovamente la cantilena che, in effetti, lo stava perseguitando da
circa una settimana rischiò seriamente di mandare all’aria ogni suo
buon proposito di mantenere la calma.
«Respira,
Camus, respira profondamente».
«Perché
ti ostini a non capire? Eppure non sei uno stupido» cominciò con
pacatezza forzata il Custode dell'Undicesima Casa, prendendo a
massaggiarsi le tempie «Non mi importa un accidente che non fosse
vostra intenzione deridermi: vedendovi sghignazzare tutti e tre con in
mano un mio oggetto personale – ottenuto senza permesso, oltretutto –
è esattamente così che mi sono sentito: deriso. Troppo
comodo venire a chiedere scusa adesso, dopo che vi siete sollazzati a
mie spese quanto volevate. E quello che mi ha disturbato
particolarmente è il fatto che tutto sia partito proprio da te a
cui, da bravo stupido, ho persino riservato certe confidenze! Bel modo
di ripagare la mia fiducia!»
Frustrato,
Camus si alzò di scatto dal divano su cui era seduto, il viso
inespressivo in netto contrasto col marasma di emozioni che gli si
agitava dentro: «Adesso avrei da fare, Milo, se non ti spiace: non ho
più voglia di perdere tempo a spiegarti cose che dovresti aver
compreso già dal nostro primo incontro!»
Una
risatina trattenuta a stento lo spinse a voltarsi, incredulo e con gli
occhi sgranati.
«Forse
non sono stato abbastanza chiaro: esigo che tu lasci immediatamente le
mie stanze. Non sto scherzando».
Niente,
quello prese a ridere ancora più forte, come se avesse parlato al
muro.
«CHE
DIAV-» Aquarius si impose la calma con un ampio respiro «-olo ci trovi
di tanto divertente?»
«Ahahah...
santo cielo, scusami, Camus!» disse Milo, fra uno scoppio di ilarità e
l'altro «Ma, dal momento che hai nominato il nostro primo incontro,
non ho potuto fare a meno di pensarci: dì, te lo ricordi?»
«Non
penso che riuscirò mai a dimenticarmelo» sorrise inaspettatamente
Camus, viaggiando indietro nel tempo a cavallo della memoria.
Il
bambino francese arrancava su per le scale col fiato corto e la
testa bassa per lo sforzo, i capelli appiccicati alla fronte a
causa del battente sole di mezzogiorno. Qualche
gradino più su,
i tre giovani cavalieri che gli facevano da guida salivano invece
con
passo fluido e
per nulla affaticato.
«Chissà
come fanno... questo dannato caldo è
insopportabile!»
borbottò fra sé, pensando con nostalgia alla
coltre di neve che, in
quel periodo dell’anno, spesso ricopriva
ancora i parchi della sua amata Parigi «Sto
facendo la figura del rammollito: pessimo esordio, Didier!»
Perso
com’era nei suoi vaneggiamenti non
si accorse del grosso ciottolo in mezzo alla via,
finendo per inciamparci rovinosamente sopra.
«Ahia!»
sussurrò piano, mentre cercava di rimettersi in piedi il più
velocemente possibile:
non
voleva assolutamente che qualcuno si accorgesse della caduta.
Purtroppo
per lui, il capitombolo non era passato inosservato; dall’ombra
di un colonnato, infatti, apparve come per magia un bambino dai
capelli lunghissimi e dagli occhi di un incredibile blu il
quale, avvicinatosi con rapidità sorprendente, gli tese la mano
per aiutarlo a rialzarsi.
«Ti
sei fatto male?»
«No.
Cioè, non sono affari tuoi» disse malevolo il ragazzino straniero,
rosso in viso e scocciato per essere stato colto in flagrante «E
poi, tu chi saresti?»
«Non
ti devi vergognare per il fiatone, non c'è niente di male! Anzi,
ti svelerò un segreto: la prima volta salii questa scalinata solo
per metà tragitto. Arrivato alla terza rampa, ero così stanco che
dovettero trascinarmi per un braccio fino alla Tredicesima Casa!»
commentò l'altro, tirandolo su e ignorando la sua scortesia
«Comunque, io sono Milo, futuro cavaliere d’oro di Scorpio».
«Non
ci credo.
Se
fosse vero, non lo racconteresti a uno sconosciuto. Lo stai
dicendo solo per togliermi d'imbarazzo!»
«No,
te lo giuro, andò esattamente così: puoi chiedere ad Aiolos, se
vuoi!»
«Davvero?»
«Davvero»
lo rassicurò, facendogli un occhiolino complice «Non mi hai ancora
detto come ti chiami, però».
«Didier
Debussy. E, Milo… grazie».
«Figurati».
«Milo!
A prescindere
dal fatto che non dovresti essere qui, ti proibisco
di infastidire il
tuo compagno! Il Gran Sacerdote lo sta aspettando: dovrete
rimandare le chiacchere a un momento più opportuno» li rimproverò
dall’alto il cavaliere biondo e altero al pari degli eroi del
mito, che si era presentato a Didier come Saga di Gemini.
«Eri
così buffo, solo e spaesato come un pesce fuor d'acqua!»
«Dovevo
essere davvero buffo, sì, e anche spaesato. Certo, però, che almeno
l’arroganza non mi mancava!»
«Perché,
adesso pensi di essere umile?» chiese Milo, sorridendo sornione
«Comunque, fu proprio per questa tua alterigia che mi entrasti subito
nelle grazie. Con le persone socievoli è sin troppo facile fare
amicizia; instaurare un rapporto con quelli come te è molto più
divertente, diventa quasi una sfida».
«Allora
con Shaka ti sarai divertito tantissimo!» ribatté Camus, prendendolo
in giro.
«Nah»
rispose Scorpio, con una smorfia «Shaka non è solo indisponente, è...
così poco
umano,
ecco! Ha un qualcosa di soprannaturale che lo rende quasi
inavvicinabile; al suo confronto, tu sei dolce come uno zuccherino. Mi
duole ammetterlo, ma Virgo è decisamente al di sopra delle mie
capacità. Non capisco come faccia Mu a parlarci per ore intere».
«Perché
Aries, con le debite differenze, è fatto della stessa pasta. Sarà
l'aria che si respira in Oriente a donargli quel particolare sentore
di trascendenza, non so; ammiro molto la loro calma, e tuttavia, nel
caso di Shaka, più che di calma sarebbe opportuno parlare di coma
emozionale».
Camus
tornò a sedersi sul divano, finalmente rilassato; Milo parve avvertire
il suo cambio di umore, giacché si mise a fissarlo serio – quasi
volesse mangiarselo con gli occhi.
«Oh,
va
bene!»
sbottò l’Acquario, girandosi dall'altra parte per non dargli troppa
soddisfazione «Sei perdonato, non serve che tu mi guardi a quel modo.
Vedi però di rigare dritto, d'ora in avanti, altrimenti potrei
seriamente pensare di usare su di te la Freezing Coffin».
«GRAZIE,
CAMUS!!» fu la reazione oltremodo entusiasta di Scorpio, che corse a
buttarsi a pesce sopra l'amico per stritolarlo in un caldo abbraccio
«Grazie, grazie, grazie! Giuro sul mio onore che non ti farò mai più
uno sgarbo: sarò impeccabile, il migliore amico di tutti i tempi!»
«Sì,
certo» commentò sarcastico l’altro, mentre cercava di sottrarsi a
quella presa degna di un boa costrittore «Ehi, vacci piano, mi stai
soffocando! Non ti servirà a nulla aver ottenuto la remissione dei
tuoi peccati, se mi uccidi».
«Sei
simpatico come uno Scarlet Needle fra le costole».
«E
tu sei un giullare. Infatti non mi sovvengo del perché non ti abbia
ancora mandato a quel paese».
«Perché,
pur volendo, non saresti capace di fare a meno di me».
Quella
risposta era uscita fuori dalle labbra dello Scorpione così repentina
da far presumere a Camus che non si trattasse affatto di una battuta;
e tale impressione si fece anche più netta quando, sciolto
l’abbraccio, Milo quasi gli si abbandonò contro, la schiena
leggermente appoggiata alla sua spalla.
«Ah,
quasi dimenticavo: hai impegni domani
sera?»
«Uh?
Domani è l’otto di maggio, giusto?» rispose Aquarius, distratto; al
momento era difatti perso in altro tipo di pensieri, tutti scaturenti
dal comportamento bizzarramente possessivo dell'Ottavo Custode.
Camus
era generalmente refrattario al contatto fisico: lui, che con un solo
dito poteva tramutare un uomo in una statua di ghiaccio, per una sorta
di automatismo inconscio tendeva a classificare come potenzialmente
lesiva qualsiasi esternazione corporale non strettamente necessaria. Il
modo di rapportarsi di Milo, al contrario, era sempre stato
caratterizzato da una fisicità dirompente, che non risparmiava niente
e nessuno; a lungo andare, persino il Signore delle Energie fredde
ci aveva dovuto fare l’abitudine, arrivando addirittura a trovarla, se
non proprio gradevole, quantomeno sopportabile.
E
tuttavia, spesso l’atteggiamento dell’amico nei suoi riguardi assumeva
una natura ambigua che Camus non riusciva a decifrare, come in quel
momento. Se
simili attenzioni fossero state rivolte a Maia, per esempio, la
faccenda avrebbe assunto contorni ben più chiari; non era però del
tutto certo che sarebbe stato contento di vedere il fascinoso
cavaliere dell’Ottavo Fuoco intento a corteggiare la ragazza.
L’oggetto
delle sue riflessioni, ignaro di essere tale, lo riportò di punto in
bianco alla realtà: «Sì, è l’otto di maggio: la data non ti dice
niente?»
«Uffa,
finiscila con questo ermetismo! Perché una data come un'altra dovrebbe
dirmi qualcosa? Parla, avanti!»
«Se
esistesse un premio per l'insensibilità, tu lo vinceresti di sicuro:
l’otto di maggio non è una data come un'altra, bensì il compleanno di
Aldebaran» proclamò Milo, con un tono che sapeva di rimprovero «La tua
proverbiale considerazione per gli amici ha colpito ancora!»
Camus
si batté una mano sulla fronte: «Come ho potuto scordarlo?! E adesso
come faccio?! Non farò in tempo neppure a pensarlo,
un regalo decente».
Nel
vedere la sua espressione sconsolata, Milo ghignò: «Non tutti sono
svampiti come te, sai? Stai sereno, abbiamo già pensato a tutto: una
tranquilla serata fuori dal Santuario, una di quelle tipiche osterie
greche che a lui piacciono tanto, la nostra brillante compagnia... »
sorrise quindi, soddisfatto «sarà
un regalo perfetto!»
«Chi
avete invitato?»
«Ci
è sembrato giusto chiamare tutti, ma Death Mask e Aprhodite sono fuori
per una missione, mentre Shura ha cortesemente declinato l’invito».
«Naturale:
del resto, sarebbe parso strano vederlo seduto allo stesso tavolo con
Aiolia in un contesto nient’affatto istituzionale» commentò Camus,
immaginandosi i due commilitoni intenti a ignorarsi per tutta la sera.
«A
sorpresa, l’ospite d’onore non sarà Al: il nostro Buddha ha infatti
dichiarato di voler scendere dal suo fiore di loto per confondersi con
noi comuni mortali. Giusto perché si tratta di Taurus, eh: ricordo
bene che l'anno scorso, quando abbiamo avuto un'idea simile per
Aiolia, ci ha quasi riso in faccia, rifiutandosi categoricamente di
perdere il suo prezioso tempo per partecipare a “un'effimera serata di
divertimenti terreni” –
testuali
parole».
«C'è
da dire, però, che almeno per il regalo mise la sua quota».
«Fu
imperdonabile lo stesso – più o meno come sempre, del resto. Insomma:
saremo i soliti, pochi ma buoni. Compresa Maia, ovviamente».
«A
proposito di Maia, sono alcuni giorni che non la vedo: che fine ha
fatto?» buttò lì Aquarius, con nonchalance.
«Che
io sappia, questa settimana è stata molto impegnata a preparare un
esame all'Università... perché ti interessa?» chiese Milo, fattosi
sospettoso: raramente Camus si interessava di faccende che non lo
riguardassero da vicino.
«Così,
per sapere. In genere si fa viva almeno una volta ogni due giorni, se
non più spesso!» rispose quest’ultimo, evasivo.
«Quando
si tratta dello studio, la mia amichetta non sente ragioni. Assomiglia
a qualcuno di nostra conoscenza».
In
quel momento l'orologio
a cucù di Camus batté rumorosamente l'una, facendo sobbalzare i due –
i cui stomaci presero come per magia a gorgogliare.
«Quell'orologio,
anche se orribile, qualche volta si rivela di una certa utilità: mi ha
ricordato di avere una discreta fame».
«Immagino
che tu non abbia nessuna intenzione di andare a pranzare per i fatti
tuoi, lasciandomi così libero di mangiare in santa pace?» si lagnò
l'Acquario, certo dell’epilogo che avrebbe avuto la questione.
«Ovviamente
no» confermò lo Scorpione, alzandosi e dirigendosi in cucina, come se
quella fosse casa sua «Non mi va di andare sino in mensa; giacché
siamo qui, cucino io! Che cosa hai di buono in dispensa?»
«Non
toccare niente, sto arrivando!» disse esasperato Camus, pensando con
disperata rassegnazione al caos che Milo seminava in giro quando si
metteva ai fornelli.
“SPLAT”:
un rumore molto simile a quello che fa un uovo quando cade a terra.
«MILO...
»
«Tranquillo,
'Mus, è tutto sotto controllo!»
«Ma
chi me lo fa fare di sopportarlo?!»
Continua
...
Note
dell'autore
Da
questo capitolo in avanti, la mia incapacità di
essere concisa e sintetica diverrà sempre più palese: tenderò molto
spesso a
suddividere le pubblicazioni in due parti, come ho fatto con la
presente. Qui,
lo scopo della scissione è di dare uno scorcio del rapporto Milo-Camus
prima di
trattare la parte centrale del capitolo.
Rispetto
alla sua versione originale, ho cercato di
dare alla narrazione un'impronta più matura ed equilibrata, senza
tuttavia
stravolgere le dinamiche interne della storia – in linea con la ratio
della revisione complessiva. Al solito, alcune precisazioni:
-
Illusions perdues è un romanzo di Honoré de
Balzac, pubblicato in tre parti tra il 1837 e il 1843; una bella
mattonata, ma
appartiene a una corrente letteraria – quella realista – che io immagino
possa
rientrare nei gusti di uno come Camus.
-
"Mon copain" : "Amico
mio" – inteso qui in senso ironico, come "Mio caro".
|
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Capitolo 5 *** Capitolo 3, parte II: 8 maggio 1986. Camus ***
Capitolo 3, parte II. Camus BG
Capitolo
3, parte II: 8 maggio 1986. Camus
Platanos
era una piccola e graziosa taverna in stile rustico, situata in un
angolo tranquillo della zona di Plaka e frequentata da clienti di
tutti i tipi e di tutte le età; quella sera, ad esempio, accanto al
tavolo di un'anziana coppia di turisti che, mangiando, studiavano la
cartina della città, sedeva un'allegra combriccola di ragazzine tutte
intente a spettegolare su chissà quale succoso argomento.
La
giornata era stata calda e soleggiata, e la serata si presagiva
altrettanto mite: nel cielo, illuminato da una bianca luna piena,
stavano giusto apparendo le prime stelle.
Grazie
al clima favorevole erano stati allestiti i tavoli esterni, da dove si
poteva osservare l'andirivieni dei passanti e ascoltare i vari
motivetti provenienti dall'interno dei locali sparsi qua e là per la
via.
Appena
arrivati, Aldebaran sorrise estasiato: «Ragazzi, è un posto favoloso!
Grazie davvero, non dovevate!»
«Se
c'è qualcuno che devi ringraziare, quelli siamo io e il qui presente
biondino;» gli rispose Aiolia, indicando prima se stesso, poi Milo
«gli altri non avrebbero saputo dove andare a sbattere il naso.
Comunque, non l'abbiamo fatto per te: il tuo compleanno è stato solo
una scusa per avere il permesso di passare una sana serata lontani
dalle grinfie del Gran Sacerdote e dei suoi leccapiedi!»
Nel
vedere che il Toro, non avendo colto la battuta, c'era rimasto male,
Mu scoppiò in una risata discreta: «Amico mio, non lo ascoltare, sta
scherzando! Tutto questo è stato organizzato appositamente per
festeggiarti e Aiolia, che fa tanto il duro, è quello che più si è
dato da fare!»
«Ehi,
non esageriamo!» intervenne Milo, interdetto «Lui avrà anche avuto
l'idea e sparso la voce, ma io l'ho aiutato a scegliere il ristorante!
E poi, quello a cui va il merito maggiore è Camus: è stato lui a
formalizzare l’evento dinanzi ad Arles, ieri. Giusto, 'Mus?… Camus?!»
«Eh?
State parlando con me?» si riscosse Camus, che fino ad allora era
parso molto occupato a osservare l’acciottolato ai suoi piedi.
«Proprio
vero che i nati sotto il segno dell'Acquario pensano sempre agli
affari propri! Sì, Rouge,
stavamo parlando con te e, più precisamente, io ti stavo elogiando per
la buona volontà che hai dimostrato chiedendo al Sommo il nulla osta
per l'uscita!» commentò Scorpio, dandogli dei colpetti come per
accertarsi che non si rimettesse a dormire in piedi.
«Tieni
le mani a posto, ormai la mia attenzione l'hai ottenuta!» lo fulminò
l'altro con un'occhiata dorata, rivolgendosi poi al resto della
compagnia «Comunque, non mi è stato di nessun fastidio: ho solo
approfittato di una convocazione personale, non ci sono
andato appositamente».
Le
facce dei suoi amici, esclusa quella di Milo che già ne era al
corrente, si fecero quindi perplesse; perfino Shaka sembrava meno
indifferente del solito.
«Ma,
Camus… tu eri già stato convocato a fare il regolare rapporto mensile
due settimane fa. Perché questa seconda chiamata? É successo
qualcosa?» chiese Al, sul cui volto era scesa un'ombra di
inquietudine.
«Già
dall’inizio mi è parso un po’ insolito, in effetti; sennonché dopo,
per la natura del colloquio, l'ho trovato ancora più bizzarro. Il Gran
Sacerdote mi ha chiesto notizie su Hyoga, discepolo del mio ex allievo
Crystal Saint, che è da poco divenuto cavaliere del Cigno. Non avendo
visto il ragazzo che un'unica volta, io ho saputo dargli solo risposte
lacunose; ho tentato di sondare il motivo che lo spinge a interessarsi
ai Bronze saints, ma a questo riguardo il Pontefice è stato molto
misterioso. Tuttavia, l’aspetto più peculiare della vicenda è che, per
tutto il tempo della mia permanenza nella Sala del Trono, ho avuto la
netta sensazione che qualcosa non andasse – che nell’aura di Arles ci
fosse un non so che di ostile;
quando mi sono finalmente richiuso la porta alle spalle, ho sentito la
tensione abbandonarmi di colpo… come se mi fossi liberato di un peso
opprimente».
Il
racconto tanto dettagliato di Camus – che, in genere, era invece molto
parco di parole – aveva suscitato un po’ di sconcerto nei cavalieri
presenti, così come l'episodio del giorno prima l'aveva prodotto in
lui: tutti se ne stavano a capo basso, pensierosi.
L'unico
che non sembrava particolarmente colpito era Aries, il cui penetrante
sguardo fra il verde e l'azzurro scrutava attentamente Aquarius.
«Nei
suoi occhi giurerei di poter leggere comprensione – come se sapesse,
come se si aspettasse che qualcosa sta per succedere. Ma cosa, Mu?
Perché non ci riveli ciò che pensi?»
Nonostante
trascorressero insieme la maggior parte del tempo, capitava assai di
rado che i cavalieri d’oro discutessero fra loro delle questioni
inerenti la politica del Santuario; in quanto soldati, vigeva fra essi
la generale consuetudine di non contestare le decisioni di colui sotto
il quale servivano, essendo loro precipuo dovere eseguirle, piuttosto
che analizzarne il merito.
E
tuttavia, v’era consapevolezza diffusa che ognuno dei dodici Sacri
Custodi possedesse la propria personale visione delle cose, la quale
poteva distaccarsi anche di molto da quella degli altri. Benché
l’Ariete ostentasse davvero poco il suo pensiero, non era affatto un
mistero che egli non condividesse per nulla la linea dura abbracciata
da Arles negli anni del suo pontificato.
Aiolia,
che per una sorta di coerenza morale si imponeva – quasi
sfacciatamente, alle volte – di non assegnare mai troppo valore a
quello che riguardava il Gran Sacerdote, fu il primo a riprendersi dal
generale smarrimento: «Chissà cosa starà macchinando, quel folle! Non
dategli peso, se c'è qualcosa che bolle in pentola vedrete che ben
presto verrà fuori. Ma ora basta, siamo qui per rilassarci: almeno per
stasera non pensiamo al lavoro, vi prego!»
«Il
“folle” al quale ti riferisci è altresì la persona per la cui bocca si
pronuncia la tua Dea: dovresti portargli un po’ più di rispetto, a mio
avviso» disse Shaka, in tono atono e, al contempo, minaccioso.
«Appunto,
“a tuo avviso”: non mi pare di averti chiesto alcun parere, Virgo» fu
la ringhiante risposta del Leone.
«Ehi,
ma che diavolo vi prende?! Datevi una calmata! Aiolia ha ragione,
basta parlare di lavoro: non mi sono fatto il giro di Ulisse solo per
venire a litigare qui» intervenne Aldebaran, separando i due con la
sua poderosa stazza e mettendo così fine alla discussione «Piuttosto:
avrei un certo languorino, e sono le otto e mezza. Perché non
entriamo?»
«Al,
sono più di venti minuti che siamo impalati qui davanti come sei
allocchi» alzò gli occhi al cielo Milo «Se fossimo potuti entrare,
l'avremmo già fatto da un pezzo; non noti un personaggio che brilla
per la sua assenza?»
«BU!»
«AH!»
sobbalzarono un po’ tutti quanti.
«Accidenti!
O sono veramente molto brutta, oppure voi, come cavalieri, non valete
un soldo bucato!»
«Maia,
maledizione, ci hai preso alla sprovvista! Quando sei arrivata?!»
«Esattamente
due secondi fa! Come avete fatto a non sentirmi? Con questi tacchi
faccio una confusione pazzesca, peggio di un carro armato... »
«Stavamo
discorrendo di questioni complicate» ammise Leo, giustificando in tal
modo quella loro clamorosa defezione «Effettivamente devo darti
ragione: l'ultima volta che ti ho visto con delle scarpe del genere
addosso sembrava di stare a un concerto. Ma solo perché sei tu che non
ci sai camminare: sei sgraziata come un elefante!» la punzecchiò poi,
sorridendo malefico.
«Sgraziata?!
Cielo, come fa a dirlo? É perfetta».
Perfetta,
benché oggettivamente non fosse la classica bellezza da togliere il
fiato.
Perfetta,
con i suoi capelli biondo scuro – quasi sempre legati in una lunga
treccia – e i suoi occhi neri come la notte.
Perfetta,
con il suo naso alla greca, dritto e volitivo.
Perfetta,
soprattutto quella sera, con quel vestito verde che, pur coprendo,
molto lasciava ad intendere; perfetta persino mentre dava un pestone
ad Aiolia con i suddetti tacchi, per vendicarsi dell'affermazione poco
carina.
O
almeno, così la vedeva Camus – anche se avrebbe preferito tagliarsi la
lingua, piuttosto che ammetterlo.
«Ahia,
piccola strega! Mi hai fatto male!»
«Ben
ti sta, così impari ad essere meno cafone!» concluse soddisfatta Maia,
per poi correre ad abbracciare Aldebaran «Auguri, mio caro! Grazie per
avermi invitata!»
«Grazie
a te per essere venuta» ricambiò la stretta lui, gioioso.
«Non
sono abituata a vedervi senza assetto da battaglia. Siete così
eleganti da sembrarmi più belli del solito!»
Approfittando
della rara uscita dal Santuario concessagli, i ragazzi si erano in
effetti vestiti con molta cura: il festeggiato sfoggiava un look total
black, Milo e Camus erano entrambi in giacca e camicia, mentre Aiolia
portava una bianca maglietta attillata con sopra un giubbotto nero.
Gli
altri, invece, avevano optato per soluzioni decisamente più orientali:
sopra dei classici pantaloni di tela Mu indossava un abito color panna
chiamato Kurta, tipico della sua terra natia – molto simile a quello
rosso di Shaka.
«E
tu, invece? Vuoi far colpo su qualcuno? Ma guardati! Mini vestito
verde smeraldo, chiodo marrone intonata alle scarpe, orecchini in
tinta col vestito… hai persino i capelli sciolti! Non è che dopo hai
un appuntamento segreto, vero? Se è così, devi dirmelo: sai che sono
geloso» disse Milo, squadrandola da capo a piedi; quando diceva di
essere geloso non scherzava, lo era davvero.
E,
a insaputa di tutti, non era neppure l'unico.
«Ma
con chi vuoi che mi veda? Smetti di fare il fratello maggiore, e
rilassati, Mílo!»
A
quel soprannome, la bocca dell’interessato si contrasse in una smorfia
infastidita: «Ti ho già detto mille volte di non chiamarmi così: non
sono una mela! Comunque, gentili signori e signora, io direi che i
tempi sono maturi per appropinquarci verso il nostro tavolo».
«Sì,
sì, sono pienamente d'accordo con te» approvò decisamente Al, che
manifestava da un pezzo di avere un certo appetito.
I
sette, dunque, entrarono: dietro il bancone stava un ometto stempiato
che, appena si accorse del loro ingresso, berciò festoso: «Milo!
Aiolia! Ragazzi miei, come state? Sono secoli che non venite a
trovarmi!»
«Ciao
Alexandros! Già, ne è passato di tempo! Come vanno gli affari? E a
casa? Tutto bene?» lo salutò Aiolia.
«Mah,
si tira avanti... » rispose quello, prendendolo sotto braccio «la
buona nuova è che, appena una settimana fa, Daphne ha dato alla luce
il suo primogenito: sono diventato nonno, vi rendete conto? Io,
nonno!»
«Oh,
congratulazioni!» si complimentò Milo «Maschio o femmina? Che nome gli
avete dato?»
«Femmina:
l'abbiamo chiamata Sophia» annunciò Alexandros, tutto orgoglioso
«Piuttosto, ditemi di voi: come vanno le cose? Fortuna che Maia la
vedo spesso, così mi tiene aggiornato sulle nuove del Santuario; fosse
per la frequenza con la quale passate voi due, potrei essere morto da
un pezzo!»
Sentendo
nominare il Mondo Segreto, gli esclusi dalla conversazione drizzarono
subitamente le orecchie.
«Ma
che sta dicendo? Come fa a sapere dell’esistenza del Santuario?!»
sussurrò Camus a Maia.
«Vedete,»
spiegò lei al resto del gruppo, sempre a voce bassa «Alexandros e i
suoi fanno parte di una delle famiglie custodi che operano qui nella
capitale. Spesso si occupano di parte degli approvvigionamenti per il
Grande Tempio, acquistando la merce in proprio e destinandola poi alla
mensa di quest’ultimo. Nel corso degli anni, soprattutto durante
l’addestramento, Aiolia e Milo hanno mangiato qui praticamente ogni
volta che sono venuti sino ad Atene».
«Senti,
Alexandros:» si rivolse poi all’oste, cercando di interrompere con
molto tatto il suo racconto dettagliato sulla durata del travaglio
della figlia «Aiolia aveva prenotato un tavolo per sette persone sulla
terrazza. Siamo ancora in tempo, nonostante il ritardo?»
«Certo,
certo, mi sembra il minimo!» esclamò l’uomo, annuendo vigorosamente;
solo in quel momento parve rendersi conto della presenza degli altri
quattro ragazzi i quali, via via che la consapevolezza si faceva
strada nella mente di Alexandros, furono squadrati da questi con
piglio sempre più ammirato.
«Non
ditemi che questi sono vostri parigrado…
» balbettò quindi, preso da improvviso imbarazzo per non essersi loro
rivolto col dovuto riguardo; la cosa buffa era che, al contrario,
verso Milo e Aiolia non aveva ritenuto necessario adottare alcuna
formalità.
«Ah
sì, scusaci!» prese la parola Milo «Dunque: questo qui accanto a me è
Mu di Aries, il ragazzo biondo con gli occhi chiusi Shaka di Virgo,
quello coi capelli rossi Camus di Aquarius e il gigante là in fondo è
Aldebaran di Taurus – che, fra l’altro, oggi compie gli anni».
«Molto
piacere» sorrisero i quattro.
«Vogliate
perdonare la mia scortesia» disse l’oste, inchinandosi leggermente
«Eccezion fatta per Aiolia e Milo, non sono abituato a ospitare
personalità così importanti nella mia umile taverna».
«Ma
dai, Alexandros, finiscila! Non ti abbiamo mica portato il Gran
Sacerdote in persona!» commentò Leo, un po’ divertito, un po’ seccato
dal repentino cambio di atteggiamento del vecchio che, per i suoi
gusti, si stava facendo sin troppo deferente.
«Mi
dispiace» gli rispose quello contrito, guardandolo come se gli fosse
improvvisamente apparsa addosso l’armatura d’oro; poi disse, rivolto
al Toro: «Comunque, giacché è il vostro compleanno-»
«Datemi
del tu, signor Alexandros, per favore» sorrise allora Aldebaran,
bonario.
«D’accordo,
bene. Giacché è il tuo compleanno, il dolce lo offre la casa, con i
nostri migliori auguri. Venite, prego, da questa parte» fece
finalmente strada, conducendoli lungo una stretta scala a chiocciola
che sbucava direttamente su una terrazzina coperta di rigogliose
bouganville: da lassù si godeva della vista dell'intero quartiere di
Plaka.
Il
tavolo riservatogli era quello più appartato di tutti, onde consentire
loro maggiore intimità.
«Se
la posizione non è di vostro gradimento si può sempre cambiare; i menù
sono lì, sul tavolo».
«Grazie
Alexandros, è perfetto. Ti chiamiamo noi quando abbiamo scelto, vai
pure».
«Allora
vado. Se serve qualcosa, non fate complimenti: io sono di sotto» si
congedò l'oste velocemente, richiamato da altri avventori.
«Certo
che è un tizio ben buffo, quel signore» commentò Camus, una volta al
sicuro da orecchie indiscrete.
«Perché
nella tua voce leggo una certa nota critica?» gli chiese Milo,
indovinando il fastidio represso dell’altro per tutte quelle
chiacchere – che l’Acquario avrebbe senz’altro definito inutili.
«Non
sto giudicando nessuno; dico solo che, parlando di meno, avrebbe forse
evitato di fare magra figura».
«A
me sembra, al contrario,» si intromise Maia «che giudicare sia proprio
quello che stai facendo, oltretutto basandoti su un imbarazzo che è
invece pienamente giustificato. Sai, fatta eccezione per coloro che
vivono a stretto contatto col Santuario, non è cosa da tutti i giorni
imbattersi in dei cavalieri d’oro. Molti dei membri delle famiglie
custodi sentono parlare di voi per una vita, senza vedervi mai; e poi,
quando succede, si trovano davanti dei ragazzini più giovani dei loro
figli. È naturale, dunque, che non sappiano come comportarsi. Non sto
parlando per esperienza personale, naturalmente, ma per riferito – in
via più o meno diretta».
«Splendido:
ci mancava solo di passare per supponente davanti a lei. Ottimo
lavoro, Camus!»
«Credo
che Maia abbia ragione, Cam: eccettuato Alexandros – che, avendomi
praticamente visto crescere, forse non riesce a considerarmi un Gold
saint –, tutto il personale esterno con cui mi è capitato di avere a
che fare dopo l’investitura non ha mai saputo come trattarmi,
all’inizio. Probabilmente ci vedono davvero come delle creature
mitologiche, e rimangono dunque di stucco quando si accorgono che, in
realtà, siamo fatti di carne e ossa esattamente come loro» rincarò la
dose Aiolia.
«Avanti,
voi due. State parlando come se Camus fosse un insensibile, senza
considerare che il succo del suo discorso, in realtà, era: “Se non sai
cosa dire, limitati a rimanere in silenzio”» intervenne Mu,
conciliante come sempre.
«Giusto:
troppo spesso si tende a sottovalutare l’importanza del saper tacere»
commentò infine Shaka, giunto in suo soccorso da chissà quali impervi
meandri del proprio personale mondo.
«Vi
sono debitore, ragazzi» li ringraziò di cuore Camus, sorpreso
soprattutto dall'inaspettato intervento difensivo del Custode del
Sesto Tempio.
Sia
Virgo che Aquarius amavano la quiete e la solitudine, ed erano ambedue
riservati e schivi; parevano simili, a vedersi, specialmente per la
loro aria da freddi e arroganti calcolatori, eppure la differenza che
correva fra essi non era certo di poco momento.
Camus,
dietro l’apparenza, nascondeva un’indole meno ferrea di quanto gli
sarebbe piaciuto, mentre Shaka… Shaka sembrava essere immune da gran
parte delle umane debolezze.
«Scusa,
‘Mus, con la mia domanda non volevo dare origine a un vespaio simile.
Adesso, però, mi faresti la cortesia di metterti a sedere? Sei l’unico
rimasto in piedi, mi stai dando uggia».
Milo,
sistematosi accanto ad Aiolia, gli stava parlando da sotto in su e non
aveva tutti i torti: effettivamente Camus era il solo a non aver
ancora preso posto.
Questi
si accomodò quindi sull’unica sedia rimasta libera; a sinistra aveva
Aldebaran, capotavola, di fronte Shaka e a destra, neanche a farlo
apposta, Maia.
Appena
si fu sistemato, la ragazza si girò nella sua direzione e gli sorrise
– un sorriso ampio, genuino, che le arrivò sino agli occhi.
Nel
vederlo, il francese pensò che anche il detto “Chi tardi arriva, male
alloggia” avesse le sue eccezioni.
*
Camus,
appoggiato alla balaustra della terrazza, dette uno sguardo distratto
alla tavola su cui giacevano i piatti con i resti della loro cena: Mu
e Shaka, entrambi vegetariani, avevano ordinato un'insalata greca,
mentre gli altri si erano abbuffati di Moussaka, Souvlákia e di
polpette ripiene di sugo di carne e pomodoro – le Soutzoukákia. Lui,
che non amava particolarmente il manzo, aveva optato per il pesce.
Come
promesso da Alexandros, il dolce era stato offerto dalla direzione, la
quale non aveva badato a spese: crostate, biscotti e torte erano
arrivati in continuazione per circa cinque minuti buoni. Infine,
completavano l’insieme tre bottiglie di vino ormai vuote, di cui due
di rosso e una di bianco.
Era
stata una serata piacevole: faticava a riconoscere se stesso e i suoi
compagni d'armi in quei sei ragazzi che, per una volta, gli erano
sembrati spensierati quasi conducessero vite da normali ventenni.
Avevano
parlato perlopiù della loro infanzia, ricordando anche episodi
avvenuti in quei primi sei mesi di permanenza temporanea al Santuario,
e ognuno di loro aveva altresì rivelato cosa sognava di diventare
quando era bambino; fra le idee più assurde, era venuto fuori che ad
Al sarebbe piaciuto essere la guardia del corpo di un personaggio
importante. Ciò aveva suscitato grande ilarità, visto che, in un modo
o nell'altro, il Toro pareva essere stato l'unico a realizzare i suoi
progetti.
E
poi c'era stato il brindisi, durante il quale uno per uno avevano
fatto gli auguri al festeggiato – che, a un certo punto, si era quasi
commosso.
Unico
neo, la misteriosa tensione fra Aiolia e Shaka, su cui nessuno aveva
avuto il coraggio di indagare: vero, i due non andavano mai d’amore e
d’accordo, ma era altamente improbabile che non si fossero rivolti
parola solo per quel battibecco iniziale.
No,
di sicuro ci doveva essere una ragione più seria… ma quale?
All'improvviso,
due mani gli calarono sugli occhi e una voce camuffata fece,
giocondamente: «Chi sono?»
«Milo,
che scherzi idioti!»
«Anche
se non mi paiono proprio le mani di Milo – non sono così lisce, le
sue».
«Sbagliato!
Prova di nuovo!»
Senza
sapere bene il perché, Camus decise di stare al gioco.
«Allora,
vediamo; escluderei a priori Shaka, e sì, anche Mu, nonché Aldebaran –
lui potrebbe coprirmi l'intero viso con una sola mano. Milo è già
stato scartato, dunque dico: Aiolia, o Maia!»
«”Io
sono un vero maestro nel parlare tacendo: ho parlato tacendo tutta
la vita e ho vissuto delle vere tragedie dentro me stesso, tacendo”».
«Non
credo che Aiolia abbia mai letto nulla di Dostoevskij, quindi ne
deduco che tu devi essere Maia».
«Però,
ce ne hai messo di tempo... ti facevo più sveglio» disse Maia,
togliendogli le mani dagli occhi.
«E
io ti facevo giù di sotto con gli altri. Perché sei salita di nuovo?»
«Giro
a te la domanda: perché te ne stai qui da solo?»
«Pensavo...
» rispose Camus, evasivo.
«A
cosa?»
«A
una quantità di cose, in effetti».
«E
non vorresti condividerne qualcuna con me?»
«No,
penso di no».
«In
realtà, mi piacerebbe. Ma non ci riesco, è più forte di me. Mi
dispiace Maia, non capiresti».
A
quelle parole, dure come una porta chiusa in faccia, l’espressione di
Maia virò dal divertito all’amareggiato in meno di un nanosecondo.
«Adesso
comprendo il perché tu e Milo, nonostante tutto, siete sempre
appiccicati: lui in modo, tu in un altro, fatto sta che siete
bravissimi entrambi a far perdere la pazienza!» esclamò quindi,
mentre, prendendolo per le spalle, lo invitava a girarsi verso di lei
«É stata una bella serata, ci siamo divertiti, abbiamo riso e
scherzato: che c'è, ti senti in colpa per questo? Ti autopunisci
isolandoti? Dannazione, Camus! Sarà pur vero che io, povera stupida
ragazzina, non so nulla di cosa significhi portare sulle spalle il
peso con cui convivete tutti i giorni, ma penso che anche voi ogni
tanto abbiate il diritto di prendere parte a questo spettacolino che
va sotto il nome di “vita”! Non puoi passare la tua intera esistenza
stando sempre all'erta, ad aspettare un nemico che forse neanche
verrà!»
Si
interruppe per riprendere fiato, gli occhi neri spalancati, e gli posò
delicatamente le mani sulle spalle – il volto sorvolato
improvvisamente da un pensiero poco piacevole.
«Oppure
non si tratta neanche di questo? No, forse il problema è che ti senti
superiore, che ritieni i tuoi pensieri troppo preziosi perché io li
conosca. Del resto, prima non hai fatto mistero della tua scarsa
considerazione per la gente comune».
«Non
essere sciocca. Quello di qualche ora fa è stato un malinteso: in
verità, io non mi sento superiore a nessuno» la interruppe bruscamente
Camus, abbassando lo sguardo «Soltanto, ci sono delle cose che ritengo
sia giusto non condividere. Tu dovresti capirmi, visto che, in questo,
hai sempre sostenuto di essere simile a me».
«Hai
detto bene, “delle cose”. “DELLE”, Camus, non “TUTTE”. Eccezion fatta
per quello che mi hai miracolosamente confidato l’altro giorno, io non
so NIENTE di te!»
«Non
urlare, ti sento benissimo. Ma hai bevuto, per caso?»
«No.
Cioè sì, un pochino. Perché, cosa c'entra adesso?»
«Perché
stai diventando inopportuna» sentenziò l'Acquario, glaciale come i
ghiacciai siberiani intorno a cui era cresciuto.
Non
lo vide neanche – forse perché non se lo aspettava –, ma certamente lo
sentì benissimo: uno schiaffo sorprendentemente forte lo colpì in
pieno viso.
«Uno
schiaffo. A me. Da lei»
si disse, mentre già sentiva ribollire la rabbia e la delusione di non
essere stato capace di farle capire ciò che realmente sentiva.
Camus
non reagì, limitandosi a guardarla immobile.
Maia,
incredula per ciò che aveva fatto, ricambiò ostinatamente
quell'occhiata d'oro liquido.
Poi,
senza alcun preavviso, risoluta e altezzosa come una gatta, lo prese
per il bavero della giacca e portò il viso di Aquarius a pochi
centimetri dal suo.
«Je
suis désolée, monsieur, j'ai été impolie» sussurrò piano,
scimmiottando ciò che lui gli aveva detto la prima volta che si erano
incontrati; infine, lo baciò. Aveva ancora le dita artigliate alla sua
doppiopetto, come se volesse impedirgli di scappare – senza sapere che
lui non l'avrebbe mai fatto; che sarebbe stato lì per sempre, se solo
avesse potuto.
«Maia.
Maia. MAIA»
Camus non riusciva a pensare ad altro, non c'era parola che gli
suonasse meglio di quella.
Fu
molto brava a lavorarselo: attaccava mordendolo, e poi retrocedeva,
negandogli le labbra.
Finché
le sue difese non caddero, e si lasciò andare anche lui: quel bacio
l'aveva sognato in segreto per molte notti, e adesso che era divenuto
realtà non voleva fare da spettatore. Non in quel frangente.
Con
una mano le afferrò la nuca e con l'altra le sollevò una gamba,
portandosela intorno alla vita, mentre la sua lingua continuava a
tenere il tempo frenetico di quella di lei.
Dallo
stato confusionale in cui si trovava sentiva i rumori della via
scorrere sotto di loro, ma non se ne curava: l'unica cosa che gli
importava erano le dita di Maia che gli stavano graffiando la schiena,
e la sua bocca, che sapeva ancora di caffè.
Fino
a quando non si ricordò chi fosse e, soprattutto, dove fosse.
«Camus,
riprendi il controllo, prima che sia troppo tardi. Camus, riprendi
il controllo… CAMUS!»
Fu
con uno sforzo immenso che si staccò da lei, ansimante.
«Accidenti...
me l'avevi detto, quel giorno, che me l'avresti fatta pagare» le
sorrise «Ma, a essere sincero, non avrei mai pensato che il tipo di
pagamento sarebbe stato questo».
«Perché,
avresti preferito darmi del denaro?» ribatté Maia, squadrandolo dal
velo dei capelli scarmigliati.
«No
di certo. Non cambierei una cosa come questa nemmeno per tutto l'oro
del mondo».
Lei
lo abbracciò, felice di sentirselo dire.
«”Il
vino prepara i cuori e li rende più pronti alla passione”.
Nel tuo caso è andata proprio così!» la schernì dolcemente Camus,
depositandole un lieve bacio sulla testa.
«Il
vino è servito soltanto a darmi coraggio, che poi era l'unica cosa che
mi mancava. “In
vino veritas”,
neh?»
«Ehi,
voi due!» la voce di Milo li raggiunse dal piano di sotto «Volete
farci la muffa, lassù?! Camus, muoviti, c'è da pagare il conto!»
«Arrivo!»
gli urlò di rimando quello, sollevato che non fosse venuto a chiamarli
fin lì: non avrebbe saputo indicarne con esattezza il motivo, ma aveva
la sensazione che, se li avesse trovati in atteggiamenti equivoci,
allo Scorpione sarebbe venuto un colpo apoplettico.
«Dai,
andiamo» sussurrò poi a Maia, sciogliendosi a malincuore dal suo
abbraccio.
«Camus?»
«Sì?»
«Non
è stato solo un bacio, vero?»
«Ti
è costato farmi questa domanda, vero? Certo, è stato solo un bacio.
Un bacio che io spero abbia iniziato molto, molto di più».
Non
le rispose, ma le prese la mano e la strinse forte, portandosela alle
labbra; gli occhi di Maia, in quel momento, erano più luminosi della
luna.
Note
dell'autore
Coucou!
Dettaglio
assolutamente preliminare: avendo
posticipato le date della storia, il compleanno da me descritto nel
capitolo in
questione è diventato quello di Aldebaran – e non più, quindi, quello di
Mu.
Nel
revisionare questa seconda parte del capitolo 3 mi
sono divertita a cambiare un po' gli argomenti di discussione, dando
altresì un
rapido flash sull'atteggiamento generale dei Gold saints rispetto
all'operato
del Gran Sacerdote.
Partendo
dal presupposto che, nell'opera originale, i
membri della casta dorata praticamente non si conoscono, nell'alterare
un
simile dettaglio mi è parso giusto introdurre dei correttivi. Mi spiego:
benché, almeno nel contesto della mia storia, i cavalieri d'oro passino
gran
parte del loro tempo assieme, arrivati alla battaglia delle Dodici Case
mostreranno comunque di avere visioni molto distanti l'uno dall'altro –
come da
trama canonica. Da qui, il breve excursus sulla loro abitudine di
parlare
raramente di "politica".
Altro
inciso: al momento dei fatti narrati, presumo
che la Guerra Galattica fosse già iniziata. Ho però immaginato che,
grazie
all'assenza di mezzi di comunicazione di massa quali TV o giornali,
nonché alla
minuziosa opera di censura di Arles sull'argomento, al Santuario la
notizia non
fosse ancora trapelata.
Venendo,
adesso, ai chiarimenti più specifici:
- oltre
alle pietanze da me menzionate, anche la
taverna Platanos esiste davvero; pensate che, tempo fa, mi imbattei in
una sua
foto su Instagram!
-
Mílo,
in greco moderno, significa "Mela".
- “Io
sono un vero maestro nel parlare tacendo: ho
parlato tacendo tutta la vita e ho vissuto delle vere tragedie dentro
me
stesso, tacendo.” è una frase tratta dal racconto Il sogno di
un uomo
ridicolo di Fedör Dostoevskij. Essendo questi russo, ho immaginato
che le
sue opere non dovessero essere a Camus sconosciute; Maia sceglie tale
citazione
proprio perché altamente certa di essere capita.
- "Je
suis désolée, monsieur, j'ai été impolie"
: "Mi spiace, signore, sono stata maleducata." Come accennato
direttamente in narrazione, la frase è la stessa che Camus rivolge a
Maia nel
Prologo I.
- "Il
vino prepara i cuori e li rende più
pronti alla passione" è ripresa dall'Ars Amatoria di Ovidio
–
che, detto tra noi, la sapeva luuunghissima –, mentre "In vino
veritas"
è un famoso proverbio latino.
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Capitolo 6 *** Capitolo 4: 9 maggio 1986. Milo ***
Capitolo 4. Milo BG
Capitolo
4: 9 maggio 1986. Milo
Che
cosa resta degli anni passati ad adorarti?
Cosa
resta di me?
Baustelle
Milo
si svegliò che il sole era già alto.
La
chiara luce del giorno entrava dalla finestra socchiusa e gli arrivava
dritta negli occhi, rendendogli impossibile riaddormentarsi.
Con
un grugnito si liberò di malagrazia dalle coperte di fortuna
racimolate poche ore prima in un vecchio armadio polveroso e,
borbottando per il mal di schiena, si diresse verso il bagno.
«Maledetto
divano! Sono mesi che voglio disfarmi di te, ma se fino a ora mi ha
trattenuto il ricordo dei nostri migliori anni insieme dopo
stanotte non ho più dubbi! Sta per suonare la tua ultima campana, caro
mio!»
Si
bagnò il viso molte volte, beandosi del refrigerio dell'acqua fresca
sulla pelle, e tuttavia ciò non convinse lo specchio a restituirgli
un'immagine decente di se stesso:
vuoi per le
Soutzoukákia che gli erano rimaste nello stomaco, vuoi per la notte
passata pressoché in bianco, aveva una pessima cera.
«Fa
niente Milo,
resti pur sempre un gran bel pezzo di ragazzo. Comunque, un buon caffè
sarebbe d'aiuto» ironizzò fra sé e sé, mentre entrava in cucina.
Amava
molto il caffè, in particolar modo per l'odore che la moka sprigionava
in tutta la stanza: associava quel particolare profumo a un uomo
biondo segnato dal tempo e dal sale che ogni mattina, alle prime luci
dell’alba, si preparava ad andare per mare a suon di polpo essiccato e
tazze di liquido scuro.
Per
anni aveva segretamente guardato quell’uomo dalla finestra
dell’orfanotrofio, illudendosi che potesse essere suo padre.
«Milo,
c'è del caffè anche per me? In caso di risposta negativa, sappi che
potrei anche uccidermi».
«Ehi,
guarda chi si vede! Come va la sbronza?»
«Non
c'è bene, grazie».
La
sera prima, una volta terminata la cena, il gruppo si era diviso:
Shaka, Mu e Aldebaran avevano deciso di tornare al Santuario, mentre
lui, Maia, Camus ed Aiolia, dopo aver decretato che la notte era
ancora giovane, si erano attardati in centro ancora per qualche tempo.
Era
andata a finire che, passando da un locale all'altro e bevicchiando un
po’ qua, un po’ là, Maia aveva rimediato una sbornia considerevole;
non sentendosela di tornare a Rodorio in macchina, né di rientrare a
casa in quelle condizioni, aveva dunque supplicato Camus di farla
dormire da lui.
La
risposta dell'Acquario – il quale, oltre a essere fin
troppo ligio
al dovere, sembrava
anche inspiegabilmente irritato dalla situazione – era stata un secco
e prevedibile “No.”;
così Milo, preso a compassione, aveva accettato di ospitarla in vece
del suo acido amico, rassegnandosi a cederle il letto e a passare una
scomodissima notte sul divano.
Nonostante
tutto, l’aveva fatto volentieri. In parte era anche colpa sua – sua, e
di Aiolia – se la ragazza aveva alzato il gomito a quel modo: dato che
il ruolo di cavalieri imponeva loro di essere costantemente nel pieno
delle rispettive facoltà mentali, lui e Leo si erano di conseguenza
divertiti a far sbronzare l'unica fra di loro che potesse
permetterselo.
«Dai
Maia, bevi! Bevi, tu che puoi! Non sai quanto ti invidio. Vorrei
tornare a quando avevo tredici anni solo per il piacere di ubriacarmi come si deve!»
aveva detto Aiolia sognante, con la mente rivolta a chissà quale
criminoso ricordo.
«Eh,
bei tempi quelli! Prima di ricevere l’investitura ci facevano faticare come porci per tutto
il giorno, ma almeno non eravamo costretti a fungere da modello di
comportamento!»
gli aveva fatto eco Scorpio.
Dal
proprio canto, Camus aveva fermamente tentato di dissuaderla dal dare
attuazione a simili loschi piani; epperò, complice il vino già bevuto
a cena, Maia si era mostrata sorda ai suoi saggi consigli, buttando
allegramente giù l’Ouzo e i cocktails che gli altri due compari le
offrivano.
Ciò,
almeno finché non aveva cominciato a dare i numeri; a quel punto la
scelta di rientrare era stata unanime, e l’onere di portare la ragazza
quasi di peso sino al Santuario era toccato proprio a Milo e Aiolia,
quale sorta di punizione divina.
Punizione
divina altresì messa in atto dalle battutine di Aquarius, che per
tutto il tragitto aveva cantilenato sarcastico
"L'avete voluta la bicicletta? Ora pedalate" e sentenze del genere.
«Anche
Maia l'ha voluta, la bicicletta... »
pensò Milo, guardando gli effetti del post-sbornia sull'amica nel
momento in cui ella fece ingresso in cucina.
Accidenti,
poteva tranquillamente affermare che era in condizioni ben peggiori
delle sue: sul pallore innaturale del volto risaltavano due occhiaie
violacee profonde, segno che nemmeno lei aveva chiuso occhio. Inoltre
aveva l'aria di chi, al posto dello stomaco, abbia Hiroshima e Nagasaki
dopo lo scoppio atomico.
«Che
hai da guardare?» gli lei
chiese di
punto in bianco lei, versandosi del caffè in una tazza.
«Nulla:
stavo solo constatando che un reduce da una tortura medievale avrebbe
dovuto avere più o meno il tuo aspetto attuale».
«Spiritosone!»
«Ehi!»
esclamò lui, notando ciò che
aveva indosso «Quella
è la mia maglietta!»
«Sì,
l'ho presa a caso da uno dei tuoi cassetti. Non è che saresti così
gentile da prestarmi un paio di scarpe per dopo? Non avrei molta
voglia di farmi tutta la strada fino a casa con i tacchi».
«Vuoi
scherzare?! Porto il quarantatré! È praticamente impossibile che ti
stia. Potresti chiedere a Shaka: ignoro assolutamente che numero di
scarpe abbia, ma ricordo che non molto tempo fa Death era solito chiamarlo “piedino di fata”».
Maia
sbuffò in una sorta di risata trattenuta: «Certo che quello lì è
proprio malefico: non gli sfugge un solo dettaglio, purché questo
serva a sbeffeggiare il suo prossimo».
«Devo
essere sincero: in tanti anni che lo conosco, non ho ancora capito su
quali presupposti l’armatura di Cancer abbia scelto proprio lui. Vero,
nessuno di noi nove è perfetto, ma Death Mask, a parer mio,
rappresenta un concentrato di tutte le caratteristiche che un
cavaliere non dovrebbe avere. Potrà sembrare un tantino infantile,
detta così, ma lui è... cattivo.
Sì, non c'è termine migliore per descriverlo. Quando capita che gli
venga impartito un ordine comportante il nuocere a qualcuno, lui ci
prova quasi gusto. Niente a che vedere con l'orgoglio di essere
riuscito a portare a termine una missione, no, solo appagamento per
aver avuto l'occasione di dimostrare la propria superiorità
sull'avversario. Non
come Capricorn, che porta ancora i segni del rimorso stampati addosso
per ciò che ha
dovuto fare
ad Aiolos... »
Milo
si interruppe, un velo di composto dolore nei begli occhi azzurri:
all’epoca, la morte di Sagitter l'aveva sconvolto molto.
E
non solo per lo strazio che tale perdita aveva provocato in Aiolia,
con cui Scorpio condivideva tutto sin dalla primissima infanzia, ma
anche perché era sinceramente affezionato al giovane, da lui
considerato alla stregua di un fratello maggiore acquisito.
Maia,
per alleggerire la tensione che si era venuta a creare, riportò il
discorso sul soggetto originale.
«Chissà
perché proprio “Death Mask”, poi;» disse, accarezzandosi il mento
meditabonda «bisogna riconoscere che gli si addice, ma mi auguro che almeno da bambino sia stato diverso!»
«Gli
unici che l’abbiano conosciuto prima dell’investitura sono Shura ed
Aprodhite,» rispose lo Scorpione, lieto che l'amica l'avesse distolto
dai suoi tristi pensieri «e non credo proprio che apriranno bocca sull’argomento. Pensa che il vero nome di Cancer, col tempo, è assurto
a mistero “ufficiale” del Santuario: è oggetto di scommesse da
sempre».
Mentre
lui parlava, Maia aveva
aperto la finestra e si era seduta sul davanzale.
«Che
stai facendo? Vieni via di lì! Non è esattamente ortodosso, se ti
sorprendono alle dieci e mezzo sulla mia finestra con addosso solo una
mia maglietta! Vuoi proprio che pensino male, neh?
Peccato che io non sia disposto a
sorbirmi una lavata di capo unicamente per soddisfare la tua
ambizione, tesoro» scherzò Milo, fra il serio e l'ironico.
Per
tutta risposta lei, dopo averne presa una, gli tirò in faccia un
pacchetto di sigarette: «Sei solo uno sciocco presuntuoso! Per di più,
questa è la finestra che dà sul retro: chi vuoi che mi veda, gli
spuntoni di roccia?!»
«In
effetti, non hai tutti i torti.
Ehi, le Lucky Strike Red! Posso favorire?» chiese, raccogliendo il
pacchetto da terra.
«Mh.
Non te lo meriteresti, ma fai pure».
Era
il loro piccolo segreto: ogni tanto, quando erano soli, si concedevano
il piacere di una sigaretta insieme.
Non
accadeva molto spesso, onde evitare che a entrambi – ma soprattutto a
Milo –, venisse la voglia di cominciare seriamente, e forse era anche
per questo che a lui piaceva così tanto: lo trovava un momento intimo,
rilassante. Una parentesi durante la quale dismettere le proprie vesti
ufficiali, insomma.
«A
proposito,» disse poi Scorpio, divertendosi a espirare il fumo addosso
a Maia «che vi siete detti su in terrazza tu e Camus, ieri sera? Da
quando è sceso non ha fatto altro che guardarti in modo strano».
Gliel'aveva
chiesto serenamente, senza malizia o provocazione, perciò si stupì nel
vedere come la ragazza fosse al contrario scattata sull'attenti, come
durante un interrogatorio.
«Nulla
di interessante, proprio no. Abbiamo parlato del più e del meno... »
rispose lei, rigirandosi nervosa l'accendino tra le dita.
«Sento
puzza di bruciato: se davvero non fosse successo niente
non avrebbe motivo di essere così agitata!»
«Maia;»
sospirò Milo, spegnendo il mozzicone di sigaretta e afferrando un
bicchiere pieno d'acqua «essendo io in grado di inventare una frottola
credibile in pochi secondi, sono anche capace di riconoscere chi,
invece, non possiede questa facoltà. Non fingere con me, non serve a
nulla. Dai, non ci sono mai stati segreti fra noi due, lo sai che puoi
dirmi tutto».
«Ma
io sto dicendo la verità!»
«Perché
si ostina a non dirmelo?! Non sarà che... »
«Ti
ha parlato male di me, vero?» domandò allora, fattosi improvvisamente
mogio «Lo sapevo. Dall'esterno può sembrare sinceramente
affezionatomi, ma in realtà sono certo che mi sopporta solo perché
deve farlo. Non gli piace la mia compagnia, me lo fa capire in tutti i
modi... stupido io, che non riesco ad accettarlo!»
«Ma
che scemenze vai dicendo?» lo scosse Maia «Certo che gli piace la tua
compagnia, sei il suo migliore amico da sempre! Dovresti aver capito
come è fatto, non è avvezzo a manifestare ciò che sente. Non hai motivo
di pensare cose del genere».
L’amico la
guardò avvilito: «Fidati, non sono scemenze: ho le mie buoni ragioni
per pensarlo. Avanti, dimmi cosa ti ha detto, ti prego!»
«Ok,
d'accordo;» esclamò lei con
tono scocciato «te lo dirò. Però mi devi promettere che, quando anche
Camus te ne parlerà – non può non farlo, è troppo importante –,
tu fingerai di non sapere niente: io e te non ne abbiamo discusso. Ci
stai?»
«Sì,
sì, ci sto! Su, sputa il rospo» liquidò il patto Milo, impaziente
quanto un bambino di fronte a un regalo incartato.
«Non
abbiamo parlato di te, anzi, non abbiamo parlato affatto… o,
perlomeno, non è l'argomento della nostra conversazione il nocciolo
della questione».
«Stai
tergiversando: arriva al dunque».
«Insomma,
per farla breve: ci siamo baciati» Maia terminò la frase tutto d'un
fiato, attendendo con trepidazione di vedere come Milo avrebbe
reagito.
«No.
Lei non ha detto davvero quello che hai appena sentito, è tutto un
gigantesco equivoco».
«M-ma
come? Perché?» balbettò Scorpio, sperando che lei si affrettasse a
dirgli che era stato uno sbaglio dettato dal troppo vino -che non
sarebbe più accaduto. Che erano stati due sciocchi.
Invece
la risposta fu ben diversa, e gli arrivò chiara e dolorosa come una
stilettata dritta in mezzo al petto.
«Perché
già da tempo entrambi desideravamo che accadesse; solo che ignoravamo
ciò che l'uno provava per l'altra. É stato splendido, Milo!» dichiarò
la ragazza con un sorriso raggiante, felice di poter condividere
quella gioia con il suo amico preferito «Non pensavo che si potesse
essere presi da qualcuno in questo modo, io... MILO! COS'HAI?»
«Camus.
Il MIO Camus... non è possibile, non mi aveva mai parlato di
lei! Lui… con lei… con Maia. La nostra amica Maia!»
Perso
nel folle vortice dei suoi pensieri, Milo non si era accorto di aver
stretto il bicchiere che aveva in mano con una foga tale da spaccarlo in
mille frammenti; numerose schegge di vetro gli si erano conficcate nel
palmo e il sangue colava copioso lungo le dita, per poi gocciolare sul
pavimento. Tuttavia, Scorpio pareva non curarsene affatto: continuava a fissare dritto davanti a sé – pur non vedendo nulla.
«Lui
non poteva essere d'accordo, NON POTEVA! Io devo andare a parlargli,
non c'è altra soluzione. Mi dispiace, Maia, ti stai sbagliando: lui
non potrebbe mai provare qualcosa per te».
«MILO,
CHE TI PRENDE?! MI SENTI? RISPONDIMI, MILO!»
La
voce di Maia, nonostante ella stesse urlando, gli sembrava poco più di
un ronzio inconsistente: si costrinse a prestarle attenzione solo
quando lei cominciò a prenderlo a schiaffi, nel tentativo di farlo
uscire da quella sorta di trance.
La
allontanò da sé trapassandola con un'occhiata bieca, preso dal folle
desiderio di fargliela pagare.
«Che
sto facendo? Lei non sapeva, lei non sa, nessuno lo sa. Solo Camus
avrebbe dovuto capirlo, lei non ha colpa.... »
«M-Milo?»
chiamò piano lei, costernata dalla brutalità del suo sguardo.
«Tranquilla.
Sto bene adesso» sussurrò il ragazzo, rattristato.
Maia
non aveva mai avuto paura di lui, né dopo aver assistito ai suoi
combattimenti né
quando egli gli aveva sadicamente descritto quali atroci sofferenze
provocassero i suoi colpi.
Mai
si era sentita in soggezione al suo cospetto, nemmeno la prima volta
che le era apparso davanti con indosso l'armatura dello Scorpione.
Eppure,
in quel momento si accorse che era spaventata. Da lui, dal suo
essere cavaliere:
la cosa lo scioccava più di quanto già non lo fosse.
«Perdonami, non so cosa mi sia preso. Ora è tutto a posto» bisbigliò col capo
chino, i capelli a nascondergli l'espressione affranta.
Poi,
non potendo sopportare più a lungo quel silenzio opprimente, uscì
dalla stanza a grandi falcate e si chiuse in bagno a medicarsi la
ferita che da solo si era inferto.
Quando
tornò in cucina, la trovò seduta su una sedia con il viso tra le mani.
Appena
entrò, lei disse: «Capisco che tu possa esserti
sentito offeso per il fatto che nessuno dei due, benché entrambi tuoi
migliori amici, ti abbia coinvolto in questa faccenda. Ma perché
reagire così, Milo? Mi aspettavo stupore, stizza magari, non certo
questo! Pensavo che saresti stato felice per me... per noi!» terminò
alzando la testa di scatto, ormai prossima alle lacrime.
«Scusami
tanto, Maia. Mi spiace, non volevo turbarti. Adesso devo andare:
ricordati di chiudere, quando esci».
«Aspetta!
Dove vai?»
«Credo
che tu lo sappia già, per cui non provare a seguirmi» ribatté Milo,
sbattendosi la porta alle spalle.
*
Il
Tempio dell'Acquario in genere era sempre silenzioso, e quella mattina
non faceva eccezione; i passi di Milo risuonavano al suo interno come
cupi boati prima di un temporale.
Aveva
fretta e, nello stesso tempo, paura di arrivare alle stanze del
Custode. Non
era sicuro di voler sentire ciò che egli gli avrebbe detto.
Tuttavia,
una volta giunto all'ingresso dell'alloggio privato di Camus, prese il
coraggio a due mani e ne spalancò i battenti. Ed eccola lì, la sua
meta, comodamente acciambellata su una delle poltrone di vimini che
costituivano l’unico arredo della piccola veranda esterna al
soggiorno.
Un
corridoio, ai cui lati erano disposte le altre stanze, collegava
direttamente l'entrata alla porta-finestra che dal salotto dava sulla
veranda; da dove si trovava Milo poteva quindi osservare Aquarius di
schiena, i lunghi capelli leggermente smossi dal venticello che da
giorni soffiava sull'Attica.
Scorpio,
dimentico solo per un attimo dell'amaro motivo per cui si trovava lì,
pensò che quei capelli fossero meravigliosi.
«Milo!»
disse Camus una
volta avvertita la sua presenza, lanciandogli un'occhiata fra
l'assonnato e l'incuriosito «Che diamine ci fai qui a quest'ora? Non
sai che è maleducazione presentarsi in casa altrui senza avvertire?
Via, per questa volta non fa niente. Vieni, accomodati accanto a me,
piuttosto! É una giornata bellissima, non c'è nemmeno un velo di
foschia».
«Io
lo so perché oggi
sei
così gentile. Che avresti fatto ieri nella stessa situazione, eh? Mi
avresti risposto male, come fai sempre, e magari mi avresti anche
buttato fuori! Oggi invece sei felice,
vero,
Camus? Sei felice per quanto non lo sono io, maledizione!»
«Allora?!
Sei forse sonnambulo? Questo spiegherebbe la tua inaspettata
apparizione, in effetti».
«Nient’affatto.
Sono sveglissimo» rispose secco Milo, raggiungendolo all'esterno.
Il
suo compagno aveva ragione: quel giorno il sole splendeva più del
solito e
pareva che cielo e mare si mescolassero sulla linea dell’orizzonte,
tanto l'aria era limpida. Peccato
che un simile idilliaco spettacolo fosse in totale disaccordo con il
suo umore.
«Che
hai? Ti sei alzato con il piede sbagliato? Sembri arrabbiato, e-»
«Lo
sono, Camus. Lo sono eccome» lo interruppe lo Scorpione.
Poi
aggiunse, senza troppi preamboli: «È vero che tu e Maia vi siete
baciati, ieri sera?»
«Oh.
L’uccellino ha già cantato» arrossì Camus, lievemente imbarazzato
«Avrei voluto essere io il primo a dirtelo; comunque sì, ci siamo
baciati. Dopo cena, quando voi eravate di sotto a prendere il caffè».
«Perché
l'hai fatto, ‘Mus? Non posso credere che tu provi qualcosa per lei».
«Sentiamo,
perché non dovrei? È bella, intelligente, profonda... e infine, cosa
non meno importante, a Maia non devo nascondere nulla. Con un'altra
ragazza sarei costretto a mentire continuamente per tenere segreto il
mio ruolo, mentre con lei posso evitare di fingere di essere una
persona che non sono».
«M-ma... »
«Milo,
ascoltami:» proseguì Aquarius serio,
alzandosi in piedi a sua volta onde poter guardare l'amico negli occhi
«so che avrei dovuto parlarti molto prima di ciò che provo per Maia;
se non l'ho fatto, è perché una piccola parte di me sperava che fosse
solo una cosa passeggera, senza importanza. Me ne vergognavo persino,
poiché, più che l’amoralità della faccenda, era soprattutto la paura
di non essere ricambiato a trattenermi. Dopo ieri sera però, ho capito
che non posso – anzi, non voglio –
più ignorare questo stato di cose. Non
devi preoccuparti per lei: sono sicuro di ciò che faccio, ti prometto
che non la farò soffrire. Mi conosci, sai che mantengo sempre la
parola data. Come sai, d’altronde, che non mi permetterei mai di
intromettermi nel vostro rapporto, privandovi del tempo che solete
passare insieme».
Terminato
il breve discorso, Camus gli rivolse un sorriso molto somigliante a
quello che era apparso sulla bocca di Maia poco prima; un sorriso che
avrebbe dovuto trasmettere gioia, tanto era sinceramente sentito,
mentre per lui era solo un ulteriore passo verso l'orlo del baratro.
«E…
e io? Io e te, che fine faremo?»
Voilà,
la domanda cruciale. Il quesito che più gli premeva, e la cui risposta
temeva in misura ancora maggiore.
«Come
“che fine faremo”? Continueremo a essere amici, che dubbi ti vengono?!»
lo guardò stupefatto il francese, senza cogliere la sottile sfumatura
della frase che, agli occhi di Milo, era invece così evidente.
«Ovvio.
È evidente solo ai MIEI occhi. Lui non ha capito un accidente. In
tutto questo tempo, non ha mai voluto capire. Per
lui sono solo un amico, lo sono sempre stato. Un amico. Sciocco
io, a pensare che quella volta avesse cambiato tutto, per sempre».
Milo
era oltremodo esaltato, quel giorno: del resto, aveva molti validi
motivi per esserlo.
Era
il suo tredicesimo compleanno, ed era appena divenuto a tutti gli
effetti Cavaliere di Scorpio.
L'armatura,
pur essendo la prima volta che la indossava, sembrava essere stata
modellata su di lui: gli abbracciava il corpo come un'amica
conosciuta da sempre. Sentiva il cosmo prorompere al suo richiamo,
brillante e potente come non lo era mai stato.
Al
termine della cerimonia di investitura, gli altri erano accorsi a
festeggiarlo: Shura si era complimentato con tono solenne; Death
Mask e Aphrodite gli avevano stretto la mano; Shaka aveva sorriso,
concedendogli l'onore – tale era, secondo Virgo – di mirare il
celestiale azzurro dei suoi occhi; Mu ed Aiolia l'avevano
abbracciato commossi,
mentre Aldebaran aveva riversato tutto il suo entusiasmo in
un'allegra pacca sulla spalla.
Solo
uno mancava all'appello.
Milo
era sicuro di averlo scorto sugli spalti dell'Arena, seduto
accanto all'Ariete, dove era rimasto per tutta la durata del rito;
così come possedeva la certezza di aver visto una chioma cremisi
allontanarsi discreta alla fine di esso.
Non
amando la ressa, l'Acquario aveva sicuramente deciso di porgergli
le sue congratulazioni in un momento più intimo; e, infatti,
qualche ora più tardi se lo ritrovò seduto ad aspettarlo nelle
stanze interne dell'Ottava Casa.
Eccezion
fatta per la Vergine, fra i cavalieri d’oro più giovani Milo era
stato l'ultimo a ricevere le sacre vestigia, Camus il primo –
l'uno l'opposto dell'altro, anche in quel frangente.
Era
già un po’ di tempo – forse da quando lui era tornato dalla
Siberia – che lo Scorpione guardava l'amico con occhi diversi; non
poteva negare che non era solo affetto, quello che lo legava
all'Undicesimo Custode. No, almeno da parte sua c'era dell'altro.
E in quel momento, sopraffatto dalle troppe emozioni, non seppe
resistere.
Quando
Camus si alzò, lui gli andò incontro correndo e, senza dire una
sola parola, lo tirò a sé per baciarlo sulle labbra. Fu un bacio
breve, appena accennato, a cui Aquarius, pur rimanendo rigido, non
si sottrasse.
Una
volta divisi, il rosso si limitò a rivolgergli un penetrante,
insondabile sguardo aureo, salvo poi stenderlo con un pugno
poderoso subito dopo.
«Adesso
siamo pari. Ah, dimenticavo: congratulazioni, cavaliere di
Scorpio!» disse questi con un mezzo sorriso al compagno disteso a
terra «Comunque, la mia armatura è più bella!»
Non
avevano mai fatto parola di quel bacio, ma da quel momento Milo aveva
covato la segreta speranza di poter, un giorno, essere ricambiato da
Camus, coltivandola costantemente come un fiore bellissimo e delicato.
E
adesso quel fiore, custodito per tanti anni, era appassito nel giro di
un'ora – morto prima
ancora di sbocciare.
Non
aveva nient'altro da dire; le sue illusioni erano andate in pezzi, e
l'unica cosa che davvero desiderava era rimanere solo.
Si
voltò quindi di scatto e prese a camminare a falcate sempre più
grandi, sordo ai richiami stupefatti di Camus; incapace di credere che
la persona maggiormente cara al suo cuore potesse dargli un dolore
così grande, voleva soltanto allontanarsene il più possibile.
Milo
corse, corse e corse, percorrendo senza fermarsi le restanti Case e
ignorando le domande e le occhiate dei loro Custodi, fino a quando,
ansante, si ritrovò nei pressi dei campi che separavano il Grande Tempio
dall’accesso ai sotterranei per Rodorio.
La
collera era svanita, lasciando il posto a qualcosa di peggiore.
Si
sedette all'ombra di un vecchio ulivo frondoso e si sfilò il ciondolo
a forma di anfora che portava al collo da quando Camus gliel'aveva
regalato per il suo sedicesimo compleanno.
«Questo
ti fungerà da coscienza in mia vece: guardalo sempre, prima di
fare qualcosa di stupido!»
«Camus... »
All'improvviso,
gettò stizzosamente la collana fra l'erba. Se
ne pentì subito dopo – e pianse.
Note
dell'autore
Salve a
tutti!
Povero,
povero Milo. Ogni volta che, per qualsiasi
motivo, mi trovo a rileggere questo capitolo, Scorpio mi fa sempre più
pena.
Rispetto
alla precedente versione, non è mutato
granché, salvo qualche aspetto relativo a Death Mask nel dialogo fra
Milo e
Maia; la divergenza più importante risiede sicuramente nell'attuale
forma della
collana di Milo, che prima avevo immaginato essere un ciondolo
contenente una
foto di lui e Camus da ragazzini. Tuttavia,
accorgendomi che era una cosa decisamente
kitsch – assolutamente non da Camus, comunque – ho deciso di dare allo
stesso
la forma del simbolo dell'Acquario.
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Capitolo 7 *** Capitolo 5: giugno 1986. Shaka ***
Capitolo 5. Shaka BG
Capitolo
5:
giugno 1986. Shaka
L’incertezza
è il peggiore dei mali, fino al momento in cui la realtà ce la fa
rimpiangere.
Alphonse
Karr
La riunione era stata indetta in fretta e furia, senza tutti quei riti
ufficiali di convocazione che in genere richiedevano molte più
formalità.
Eppure era proprio quell'urgenza, congiunta alla tensione che aleggiava
nell'aria come nebbia, a tradire la serietà della situazione: non era
mai avvenuto che il Gran Sacerdote avesse radunato contemporaneamente
tutti i cavalieri d'oro e, perciò, non c'era da aspettarsi nulla di
buono.
Nelle espressioni dei compagni, schierati in attesa ai piedi del Trono,
Shaka poteva leggere la stessa trepidazione e lo stesso sgomento che
anche lui provava.
Essendo disposti secondo l'ordine zodiacale, si trovava tra Aiolia e Milo,
poiché la Bilancia non aveva risposto al cosmo che li aveva
richiamati.
Oltre a Libra mancavano il cavaliere di Gemini e, ovviamente, quello di
Sagitter: la Nona Casa era vuota da oltre tredici anni, ossia dalla
morte di Aiolos e dalla conseguente scomparsa dell'armatura.
Contrariamente a come si era aspettato, Leo non aveva dato segni di
essersi pentito del litigio avuto due settimane prima e, anzi, se ne
stava impettito con la testa palesemente voltata dall'altra parte,
mentre Milo da un paio di giorni non si pronunciava che a monosillabi;
Shaka poteva quindi rimanere in silenzio, indisturbato.
A un tratto, il chiacchiericcio concitato che gli era risuonato nelle
orecchie da quando erano entrati si spense di colpo: il Gran Sacerdote
aveva fatto il suo ingresso in sala e si era posizionato di fronte a
loro, il volto come di consueto celato da quella maschera che incuteva
soggezione in chi troppo a lungo aveva l'ardire di osservarla.
«Aries, Tauros, Cancer, Leo, Virgo, Scorpio, Capricorn, Aquarius, Pisces:»
i lunghi capelli grigi del pontefice ondeggiavano leggermente al suo
passaggio, sfiorando quasi i cavalieri che, una volta appellati, si
erano inginocchiati «nobili guerrieri, sono lieto che abbiate risposto
in modo così celere alla mia chiamata. Mi duole invece notare
l'assenza di Gemini e del vetusto Libra» disse in tono grave,
accomodandosi sullo scranno dorato e facendo loro cenno di alzarsi.
«Il motivo per cui vi ho riuniti qui oggi è grave, e della massima
urgenza. Si tratta di un caso di insubordinazione che già da qualche
tempo aveva attirato la mia attenzione, anche se fino a ora non l'ho
ritenuto così preoccupante da coinvolgere la più alta casta di
cavalieri – quali voi siete. Tuttavia,
il corso degli eventi mi vede costretto a mutare opinione e a farvi
quindi partecipi del crimine che si sta consumando nei confronti di
Atena, dei miei, e di quelli di tutte le sacre leggi del Grande
Tempio. Sotto l’egida della giovane nipote di Mitsumasa Kido, quattro
dei nuovi cavalieri di bronzo sostengono che il Santuario di Atene sia
guidato dalle forze oscure e che siano loro, invece, i veri difensori
dell'umanità, protetti dalla Dea in persona – reincarnatasi, a parer
loro, in quella ragazzina».
Al che, Arles fece una pausa ad effetto, onde poter captare le reazioni
provocate dalla scandalosa rivelazione: il brusio che si levò dalla
maggior parte dei presenti, carico di sdegno e astio, non lo lasciò
deluso.
«Che oltraggio! Come hanno osato,
quei… quei miserabili!» pensò Shaka, chiudendo le mani a pugno,
infiammatosi d'un tratto al pari di Shura e Milo.
«Signore;» disse Camus, una volta ristabilito un parziale silenzio «voi
avete menzionato poc'anzi un certo Mitsumasa Kido. Stiamo quindi
parlando della nipote del celebre milionario giapponese da poco
deceduto, fondatore e proprietario della Fondazione Grado? Colui che
ha raccolto un gran numero di orfani nella sua villa di Tokyo per
prepararli fisicamente e, in seguito, inviarli nei vari luoghi di
addestramento per cavalieri di Atena?»
«Esatto, Aquarius:» annuì il Gran Sacerdote «lo stesso uomo che, tredici
anni fa, entrò in possesso dell'armatura di Sagitter in circostanze a
me tutt'ora sconosciute, e che adottò la bambina rapita dal
traditore».
A Virgo era sembrato che, nel pronunciare la parola "traditore", il
Pontefice si fosse voltato provocatoriamente verso Aiolia, e la sua
impressione venne acuita dall'improvviso irrigidirsi del compagno.
Pur essendo ancora adirato con lui, non poté fare a meno di provare una
sorta di pena nei suoi confronti – la quale, però, svanì ben presto:
non era capace di provare pietà, lo riteneva un sentimento sciocco e
inadatto alla sua persona.
«E dunque,» intervenne all'improvviso Aphrodite, ragionando ad alta voce
«se il vecchio è morto, le sacre vestigia del Sagittario adesso... »
« …adesso sono passate alla nipote, nonché ai Bronze ribelli!» concluse la
confutazione il suo compare, Death Mask.
«Proprio lì era mia intenzione giungere;» riprese Arles «la vera minaccia
non sono tanto i quattro scellerati, quanto il fatto che abbiano in
mano l'immenso potere dell'armatura d'oro più forte fra tutte – anche
se dubito che abbiano la facoltà di usufruirne. Nonostante ciò,
converrete con me che questa faccenda vada sistemata il prima
possibile: è in gioco il prestigio del Grande Tempio, e non solo
quello» proclamò, battendo il pugno sul bracciolo.
«Scusate, ma ancora non capisco quale sarebbe il nostro ruolo nella
dinamica dei fatti. Con tutto il rispetto, sommo Arles, un cavaliere
d'oro non può scendere in campo contro un altro a lui così inferiore,
ne andrebbe del suo buon nome!» irruppe Milo, offeso solo dalla
prospettiva di tale infamante scontro.
«Placati, Scorpio, sono sicuro che il vostro intervento non sarà
necessario. Purtroppo, il tradimento di Ikki di Phoenix – colui a cui
avevo dato il compito di sbarazzarsi di quegli infedeli e di
recuperare l'armatura – ha mandato a monte i miei piani; confido
tuttavia nella buona riuscita dei cavalieri d'argento. Misty di Lizard
è già in viaggio verso la capitale giapponese. Per
adesso,
voi non sarete chiamati a compiere alcun tipo di azione: dovrete solo
stare all'erta e non allontanarvi per lunghi periodi dal Santuario
senza avvisarmi».
«Sarà fatto, Signore» garantì Shura, a nome di tutti.
«Ora potete andare: tenetevi pronti per qualsiasi evenienza».
Essendo stati congedati sbrigativamente, uno alla volta tutti i cavalieri
si inchinarono davanti al Gran Sacerdote per poi affrettarsi a uscire,
chi per discutere delle scioccanti novità, chi per poter rimanere
finalmente solo a riflettere.
Shaka era uno degli appartenenti alla seconda categoria e, onde evitare di
venire invischiato in conversazioni indesiderate, fece in modo di
essere l'ultimo a varcare la soglia della sala; appena prima di
chiudere i battenti dell'imponente portone lasciò cadere lo sguardo
sulla figura di Arles, ancora seduto sul Trono.
Questi aveva abbandonato la postura eretta tenuta dinanzi al loro
cospetto; si era anzi quasi accasciato, con una mano posata sugli
occhi.
Sembrava che stesse male: mormorava ripetutamente parole incomprensibili,
mentre il suo corpo era scosso da piccoli spasmi irregolari.
Dopo qualche attimo, però, parve avvertire la presenza di Virgo, poiché si
ricompose all'istante.
«Cosa c'è, cavaliere di Virgo? Perché sei ancora qui?» inquisì, con tono
rude e autoritario.
Per un secondo Shaka fu sul punto di chiedergli se fosse tutto a posto, ma
poi pensò che sarebbe stato più saggio farsi gli affari propri.
«Nulla, Signore, mi sono solo attardato un momento. Buona giornata» disse
con calma, uscendo senza dar segno di aver visto nulla.
«Meglio non far capire a un uomo del
genere che l'hai colto in un momento di debolezza. Non si sa mai»
pensò, una volta lasciatasi alle spalle la Tredicesima Casa.
Era sì orgoglioso, ma anche prudente: dei dissapori fra il Gran Sacerdote
e un cavaliere del suo rango non erano auspicabili, men che meno in
quella situazione.
Le nefaste nuove non lo preoccupavano, piuttosto lo sconvolgevano: come
era stato possibile che quattro ragazzini avessero osato tanto?
Il mancato riguardo verso le gerarchie era da sempre la cosa che peggio
sopportava; il corso naturale delle cose doveva essere
obbligatoriamente rispettato, perché così voleva l'ordine
precostituito a cui niente e nessuno poteva sottrarsi.
Chi si credevano di essere quegli scellerati?
«La sensazione ignota di malessere
che da tempo mi perseguita… ecco cos'era! Io avevo avvertito questa
minaccia molto prima del Gran Sacerdote» affermò a se stesso con
alterigia.
Non si era soffermato al Dodicesimo Tempio – dove Death Mask, Aphrodite,
Milo, Aiolia e Aldebaran stavano parlando animatamente –, ma aveva
proseguito spedito, diretto verso la Prima Casa.
In merito alla questione, l'unica persona di cui gli interessava conoscere
l'opinione era Mu dell'Ariete; in particolare, lo incuriosiva sapere
per quale ragione lui solo fosse rimasto pressoché impassibile per
tutto il colloquio.
Attraversando la Dimora dell'Acquario intuì la presenza di Maia e Camus,
il quale probabilmente le stava raccontando a grandi linee lo
svolgimento della riunione; dovevano essere così assorbiti dalla
conversazione da non accorgersi del suo rapido e silenzioso passaggio
– con grande sollievo di Shaka.
La diceria del loro improvviso colpo di fulmine era giunta anche alle sue
orecchie, benché i pettegolezzi di questo tipo – e, più in generale,
tutti i pettegolezzi – non lo interessassero affatto.
Contrariamente a coloro
che avevano esclamato «Era l'ora!», lui c'era rimasto di sasso:
l'Acquario, che stimava proprio per la sua rigidità, lo aveva sorpreso
in senso negativo.
Non l'avrebbe mai creduto così debole da innamorarsi e, pur riconoscendo
che diversi aspetti di Maia piacevano anche a lui, condannava la
decisione da Camus presa.
All'interno del Palazzo del Montone Bianco Mu si stava svestendo
dell'armatura, riponendola con cura pezzo per pezzo dentro lo scrigno,
apparentemente assorto in quell'attività; Shaka sapeva che la sua aria
concentrata era in realtà dovuta a ben altri pensieri.
In fondo, provava una sorta di affetto per quelli che lui considerava
amici, anche se certi loro atteggiamenti puerili talvolta lo
irritavano; Aries, però, era diverso. Il solo, fra tutti, che Virgo
considerasse suo pari.
La saggezza che gli si poteva leggere negli occhi non aveva nulla di
infantile, nulla di avventato, nulla che non meritasse rispetto e
stima.
Fece per annunciarsi, ma Mu fu più rapido.
«Vieni avanti, Shaka, non avere timore di disturbarmi; ho finito» disse
questi, poggiando l'elmo sopra gli altri pezzi che, una volta insieme,
andarono a ricomporsi nella forma di un ariete.
«Posso tornare più tardi, se sei occupato».
«No, resta pure. Sei venuto per discorrere con me riguardo a ciò che ci ha
comunicato Arles, non è così?»
«Sì, infatti».
Mu rimase silente per un attimo, come se stesse raccogliendo le forze, poi
lo invitò ad uscire: «Accompagnami: facciamo due passi».
Shaka gli si accostò e, insieme, si diressero all'esterno, privi di una
meta precisa.
Nubi scure si andavano addensando nel cielo sopra il Grande Tempio,
incupendo l'atmosfera: dopo settimane di sole, quel pomeriggio sarebbe
tornato a piovere.
«Tu avevi già avvertito che stava per succedere qualcosa, vero?» gli
chiese Aries di punto in bianco.
«In effetti, è un po’ di tempo che mi sento irrequieto» confessò lui
«Probabilmente stavo solo percependo l'ostilità del debole cosmo dei
quattro cavalieri di bronzo traditori, senza riconoscerla».
A quelle parole, Mu sospirò di nuovo – in un modo che spazientì Shaka.
«Perché mi tratta con fare di
sufficienza? Se ha qualcosa da dire, che la dica subito!»
«Dunque, Mu? Cosa ne pensi tu della questione? Non mi pari sdegnato come
invece dovresti sentirti».
«Io penso che tu sia giunto alla conclusione sbagliata» rispose cauto
quello, per non offendere la suscettibile Vergine «Vedi, anche io
ultimamente sono disturbato da qualcosa di oscuro, qualcosa a cui,
fino a oggi, non avevo saputo dare nome. Ricordi il giorno del
compleanno di Aldebaran, quando Camus raccontò della strana
impressione che gli aveva provocato il contatto con il cosmo del Gran
Sacerdote? Ebbene, stamani ho avuto la stessa sua sensazione: secondo
me la minaccia che abbiamo scorto è interna,
non esterna».
«Cosa vorresti dire?»
«Voglio dire che io vedo in Arles il nemico da estirpare» esplicitò Aries
«Pensaci, Shaka: chi è costui? Ci guida da tredici anni, ma nessuno è
ancora riuscito a scoprire qualcosa sulla sua vita passata. Cosa
avvenne davvero durante la Notte degli inganni? Perché
il fedele, il giusto Aiolos venne marchiato come traditore? Quale
crimine commise? E, infine, perché temere così tanto quattro
ragazzini, inguainati di armature così scarse rispetto alle nostre? Se
ciò che proclamano fosse di sicuro falso, la Dea avrebbe già
provveduto a punirli. Uno di essi è l'allievo del venerabile Libra, il più saggio e
lungimirante fra tutti i cavalieri d'oro: non potrebbe aver allevato
una serpe in seno per anni senza avvedersene».
«Mu! Ti rendi conto di quanto ciò che sostieni sia privo di fondamento?»
lo interruppe Shaka «Stai accusando il nostro Gran Sacerdote di una
colpa che, per il ruolo che ricopre, non può commettere: le sue azioni
sono guidate direttamente da Atena. Mettere in dubbio la sua parola è
come mettere in dubbio quella della Dea stessa! Inoltre, la prova che porti a supporto della tua causa è,
invece, la chiara testimonianza dell'opposto: l'allievo della Bilancia
è un traditore, così come lo è il suo maestro. Se no, a che scopo non
rispondere a una convocazione del Grande Tempio? Cosa ci può essere di
più importante nella vita di un cavaliere?» aggiunse poi, spalancando
le palpebre per la foga.
Mu smise d'un tratto di camminare, e fissò con sguardo triste gli occhi
del compagno: «Mi duole sentire che la pensi così, amico mio.
Comunque, la mia opinione resta immutata».
«Pare allora che le nostre strade si dividano, per il momento. Se, un
giorno, dovessero tornare a incrociarsi, forse saremo nemici. Forse,
dovremo batterci. Spero che ciò non avvenga mai, ma, se così non
fosse, temo che sarò chiamato a compiere il mio dovere – nonostante il
nostro legame» dichiarò solennemente Shaka.
«Più che giusto. Vale lo stesso per me».
«E adesso che farai? Non puoi rimanere al Santuario, prima o poi si
verrebbe a sapere come la pensi» chiese l’indiano, voltandosi verso il
bordo della scogliera che avevano raggiunto passeggiando.
Il temporale era imminente: il mare, scosso dal vento che soffiava da
ponente, ribolliva sotto di loro.
Le Dodici Case, alle spalle, sembravano più grigie che mai.
«Partirò, credo il prima possibile. Non è più sicuro qui, per me» rispose
l'Ariete, contemplando i fulmini che illuminavano l'orizzonte.
Già iniziavano a cadere le prime gocce di pioggia.
Note
dell'autore
Ciao a
tutti!
La
riunione da me descritta in questo capitolo è, ovviamente, del tutto
fittizia (ma dai?!); secondo il mio immaginario, la stessa si
collocherebbe tra il "voltafaccia" di Ikki e l'arrivo di Misty a Tokyo –
che, all'epoca della stesura della storia, non sapevo corrispondesse
alla Nuova Luxor dell'anime. Benedetta ignoranza.
Per ciò
che riguarda la dimensione spaziale del Grande Tempio, ammetto che è un
tantino difficile riprodurre a parole la "mappa" esistente dentro la mia
testa; diciamo che, a grandi linee, l'intero Santuario (Dodici Case,
Arena, Biblioteca, mensa, alloggi, campi di addestramento vari e zona
campestre antistante l'accesso per Rodorio) sarebbe situato in una zona
isolata poco distante dal porto del Pireo – dunque, a ovest rispetto ad
Atene.
Uffa, è
soprattutto in questi momenti che vorrei saper disegnare decentemente:
lo schizzo che ho realizzato a mio uso e consumo è talmente
indecifrabile che potrebbe tranquillamente passare per un'opera d'arte
astratta – o per gli scarabocchi di un fanciullo di due anni.
Spero
che mi perdonerete!
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Capitolo 8 *** Capitolo 6: luglio 1986. Maia ***
Capitolo 6. Maia BG
Capitolo
6:
luglio 1986. Maia
Sei
giunto: hai
fatto bene: io ti bramavo.
All'animo
mio,
che brucia di passione, hai dato refrigerio.
Saffo
L’autobus procedeva scricchiolando lungo la strada sterrata, lento come
solo i vecchi autobus di quella specie sapevano essere; i tiepidi
raggi di sole che filtravano attraverso i finestrini, insieme al
silenzio generale dei passeggeri, contribuivano a rendere l’atmosfera
piacevolmente sonnacchiosa.
Maia stava appunto per appisolarsi con la testa appoggiata al vetro,
quando il mezzo si fermò di botto e l’autista annunciò a gran voce la
fermata: «Rodorio!»
La ragazza, ricacciando indietro uno sbadiglio, si affrettò a scendere a
terra in un turbinio di giacca, borse e fogli volanti che – come
spesso accadeva – le caddero tutti di mano; quando ebbe finito di
raccogliergli, il bus era ormai sparito alla sua vista.
Le ci volle un attimo per abituarsi al nulla pieno di ulivi e di campi che
aveva davanti: passare dal caos ateniese alla quiete quasi fuori dal
mondo del suo paese natale la spiazzava ogni dannata volta.
Nonostante questo, mai avrebbe scambiato la seconda col primo – per un
milione di motivi differenti.
Certo, Atene aveva un fascino da cui non si poteva non essere attratti;
come tutte le capitali possedeva un melange di nuovo e antico
che incantava solo a respirarne l’aria.
Il via-vai incessante di persone, mezzi, musica e luci costituiva un
vortice dal quale era difficile non lasciarsi rapire, e la visione del
Partenone al tramonto era uno degli spettacoli più belli cui si
potesse assistere.
Ma la piccola e, all’apparenza, anonima Rodorio, con le sue casette tutte
uguali e le sue viuzze strette di acciottolato, nascondeva un luogo
che non poteva essere paragonato a nient’altro al mondo. “Un luogo delle fiabe”
l’aveva chiamato sua nonna tanti anni addietro.
Alla luce di ciò che vi aveva visto succedere nel corso del tempo Maia non
avrebbe potuto definirlo ancora in tal modo, e tuttavia il Santuario
di Atena rimaneva, ai suoi occhi, il posto straordinario per
eccellenza. Quello
dove, nonostante tutto, valeva sempre la pena tornare.
Riavutasi dallo stordimento, la ragazza si incamminò senza fretta lungo la
strada che, smarcandosi da quella principale, si inerpicava fino al
cuore del paese, diretta all’unico negozio che sapeva avrebbe trovato
aperto nonostante l’ora pomeridiana.
“L’ulivo” era, a prima vista, un banalissimo negozio di fiori, situato a
mezza via tra l’entrata di Rodorio e la cima di questo, ove sorgeva la
piccola chiesa ortodossa; la sua proprietaria, Aghiliki Panagulis,
conduceva la ditta di famiglia con amore e buon gusto, recandosi lei
stessa al mercato notturno di Atene per acquistarvi i prodotti più
freschi.
Lei e suo marito avevano sempre un sorriso e una parola gentile per tutti,
e non mancavano di consigliare utilmente anche i clienti più indecisi;
ma, in realtà, tutto il paese sapeva che era ben altra l’attività
principale dei coniugi Panagulis.
Ciò che di più prezioso conteneva il loro locale era infatti costituito da
una semplice porta di legno situata sul retrobottega, di norma
seminascosta dietro le rimanenze di magazzino; da lì, si accedeva a
una stretta scala che, inoltrandosi nelle profondità della roccia,
terminava in un apparente vicolo cieco.
Apparente solo per chi, naturalmente, non stesse cercando di raggiungere
il Grande Tempio: coloro che erano a conoscenza del Mondo Segreto,
infatti, giunti sino a quel punto sapevano perfettamente di dover
alzare la botola sopra la loro testa, oltrepassata la quale ci si
ritrovava all’esterno, in una zona di antiche rovine circondata da
campi lasciati allo stato brado.
L'intero posto dava il senso di abbandono, a partire dai terreni incolti
tutto intorno; l'aria di mistero e di desolazione che avvolgeva il
luogo, i resti di edifici, le zolle di terra brulla, erano tuttavia
soltanto un'illusione, creata in un passato remoto per nascondere il
presidio di Pallade dagli occhi indiscreti del mondo esterno. Bastava
superare il limite invisibile che, una volta oltrepassato, permetteva
solamente a chi lo cercava di raggiungere il Santuario per ritrovarsi
all’improvviso di fronte al suo monumentale complesso di templi, scale
ed edifici.
Quelli che avevano vissuto l’esperienza solevano dire che fosse un po’
come vedere riemergere dalle acque la leggendaria isola di Atlantide;
era esattamente questa l’impressione che Maia provava ogni volta,
vedendo apparire dal nulla un intero universo.
Tuttavia, quel pomeriggio il suo sguardo era impegnato a setacciare
l'ambiente in cerca di qualcos'altro – o, meglio, qualcun'altro.
«Dove sarà andato a cacciarsi? Di
solito è sempre così puntuale! Non vorrei che l'avessero trattenuto
all'Arena, mi toccherebbe arrivare fin lassù... oh, beh, non
importa: per lui questo ed altro!»
Stava giusto per incamminarsi, quando sentì un fruscio sospetto dietro di
sé; si voltò quindi di scatto, finendo rovinosamente in mezzo alle
sterpaglie per il troppo slancio proprio mentre l'elegante figura
dell'Acquario compariva all'orizzonte.
Maia lo osservò rapita, scordando persino di alzarsi da terra.
Quel giorno Camus aveva un
aspetto più trasandato del consueto, e tuttavia, nonostante i capelli
scompigliati dal vento, la maglietta chiazzata di sudore e le
fasciature protettive parzialmente sciolte, rimaneva pur sempre la
cosa più bella che avesse mai visto.
«Nessuno, nemmeno un Aphrodite al
massimo della forma potrebbe eguagliare anche solo la metà della
grazia innata di Camus».
«Camus!» chiamò, pensando che non l'avesse scorta «Cam, sono qui!»
«Lo so» le rispose questi, una volta fattosi più vicino «Ti ho visto
cadere da lontano».
«Avevo avvertito un movimento alle mie spalle e, per controllare, sono
inciampata. Pensa, credevo fossi tu che volevi farmi uno scherzo!»
protestò lei, sollevandosi in piedi.
«Ti paio il tipo da scherzi, io? Non sono Milo» la rimbeccò l’altro,
irritato.
«Ahia. É di umore talmente cattivo
da pronunciare il suo nome dopo due frasi appena».
Ultimamente Camus non lo tirava mai in ballo e, quando lo faceva, era
chiaro segno che qualcosa non andava.
«Vedo benissimo che non sei Milo: sarò anche stupida, ma sicuramente non
sono cieca. Che c'è? Su, dillo – fare il reticente servirà solo ad
avvelenare anche il mio umore».
Ricambiarlo con la stessa sua scortesia rappresentava l'unico modo che
Maia conoscesse per far sfogare il proprio taciturno compagno.
«Nulla: non c'è nulla. Come vedi, sono tranquillissimo. Ho solo incontrato
Scorpio per le scale, scendendo».
«Ti ha salutato, stavolta?»
«No. Ha fatto finta di non vedermi, come di consueto».
«Ah. Capisco».
Da quando Milo era venuto a conoscenza della loro "tresca amorosa" – così
l'aveva chiamata – evitava accuratamente sia di salutare Camus, sia di
rivolgergli la parola.
Benché cercasse di nasconderlo con ogni mezzo possibile, era invece
piuttosto evidente quanto ad Aquarius mancasse il suo amico;
soprattutto, egli non capiva il perché quest’ultimo avesse preso a
comportarsi in quel modo assurdo, privo di ogni logica.
Quando bisticciavano, di norma era lui quello che si chiudeva in se
stesso, mentre Milo sceglieva sempre la parte di colui che tornava;
stavolta, però, lo Scorpione pareva non aver nessuna intenzione di
seguire il solito schema, e Camus stava faticando molto a digerirlo.
La circostanza forse più bizzarra era che con Maia, al contrario, il greco
cercava di comportarsi come se niente fosse accaduto; spesso, però, la
cosa non gli riusciva particolarmente bene, complice il suo mutismo di
fronte a qualsivoglia argomento riguardante l’Undicesimo Custode .
«Non ti angustiare;» Maia tentò di consolare Camus nella maniera più
discreta possibile, onde non intaccare il suo complicato amor proprio
«sono sicura che gli passerà presto. Probabilmente è uno dei suoi
soliti capricci… solo, un po’ più lungo».
«No, non gli passerà. Lo conosco troppo bene, non fa parte del suo
carattere ignorare le persone in questo modo, senza un valido
motivo... se solo sapessi quale!»
scosse la testa lui, con mesta rassegnazione.
Lei, invece, una ragione pensava di averla trovata, ma non era sicura che,
esponendola, avrebbe migliorato la situazione: appena gli era balenata
in mente tutti i pezzi avevano trovato il loro incastro alla
perfezione, illuminando episodi rimasti nel buio dell'ignoto molto a
lungo. E
tuttavia, se la sua supposizione fosse stata esatta, la verità sarebbe
risultata estremamente difficile da accettare – per lei, per Camus,
per tutti.
«Camus, senti. Ho pensato molto a quanto sto per dirti, per cui sappi che
non lo faccio assolutamente a caso: non ti pare che Milo possa
essere-»
«Oh, basta parlare di lui! Mi sono stufato: se ha qualcosa da chiarire con
me, venga a farlo. Altrimenti, che si arrangi!» la interruppe
sbrigativo Camus «Ricominciamo tutto da capo: facciamo finta che io
sia arrivato solo adesso e che ti debba ancora salutare, vuoi?»
«Con piacere» gli sorrise lei, grata di poter accantonare la spinosa
questione – almeno per il momento.
«Ciao, chérie» fece quindi il cavaliere, dando inizio a quella
piccola recita che, fatta da chiunque altro, sarebbe risultata un
filino stupida.
«Ciao, Camus. Dal tuo aspetto deduco che tu sia venuto dritto dritto
dall'Arena, o sbaglio?» stette al gioco la ragazza, divertita.
«Non sbagli. Mi sono allenato con Aiolia, quest'oggi, e ho faticato più
del solito: per questo mi vedi in condizioni tanto miserande. Sarei
voluto passare per le mie stanze a fare una doccia, se solo ne avessi
avuto il tempo».
«Perché non l'hai fatto? Ti avrei aspettato volentieri».
«Sai che detesto arrivare in ritardo a un appuntamento… specie se
l'appuntamento in questione è con te» confessò Aquarius, non senza un
certo imbarazzo.
Per ringraziarlo della gentilezza spontanea Maia gli rispose direttamente
con un bacio ben assestato, che li occupò per alcuni minuti. Non le
pareva vero di poter liberamente leccare le sue labbra sottili,
toccarne il corpo muscoloso ma esile, accarezzargli la chioma ramata;
ogni volta aveva l’irrazionale timore di trovarsi dentro uno dei tanti
film mentali che era solita costruirsi in passato – insomma, non era
possibile che uno come Camus fosse felice di stare con lei!
Lui era un Gold Saint, uno dei dodici uomini più potenti della Terra. Un
diletto di Atena. Maia, al suo confronto, era solo una
persona comune. Una ragazza banalissima, che stava vivendo un sogno
dal quale destarsi sarebbe ormai risultato troppo doloroso.
All’improvviso, il bisogno di esplicitare i dubbi che le affollavano la
mente divenne così impellente da costringerla ad interrompere – seppur
a malincuore – l’intenso lavoro delle loro bocche.
«Camus, rispondi sinceramente: cosa ci trovi in me? Sei uno dei detentori
delle leggendarie dodici sacre armature, vivi in una sorta di universo
parallelo, sei in grado di congelare mezza Grecia con un mano –
potresti uccidere una manciata di uomini armati con un dito! Non pensi
di meritare una persona meno, come dire, anonima?»
«Ho vissuto un’esistenza segnata da più privazioni di quante si possano
contare, ma sai qual è la cosa che mi è mancata in misura maggiore?»
le domandò in risposta l'Acquario, apparentemente a caso.
«Tipico di Camus: aggirare domande
scomode con altre domande».
«Una casa? Una famiglia?»
«Anche quelle, certo, però… no. Potrà sembrarti cinico, ma ciò che mi ha
sempre destabilizzato di più è la mancanza di normalità» rivelò Camus,
sciogliendosi distrattamente le bende macchiate di rosso.
La sua noncuranza di fronte al sangue che gli colava dalle nocche
martoriate pareva il simbolo di quanto stava affermando: un uomo
normale non sarebbe certamente rimasto impassibile di fronte a ferite
del genere, da lui considerate invece alla stregua di un taglietto.
«Avere una routine, non essere mai troppo in balìa del caso: ho dovuto
accettare di fare a meno di tutto questo, perché a un cavaliere come
me non è dato nemmeno sapere se il giorno dopo sarà vivo o morto. Fa
parte del mio ruolo, va bene così. Ciò non significa che io non
apprezzi quel poco di normale che posso concedermi».
Come a sottolineare le proprie parole, le cinse la vita con le braccia e
abbassò appena la testa per guardarla meglio.
«Inoltre, è da quando avevi sei anni che scorrazzi indisturbata in una
zona proibita al resto del mondo: come puoi dire di essere anonima?»
riprese poi con un sorriso, attorcigliandosi fra le dita una ciocca di
capelli biondi abilmente sfuggita alla treccia.
«Non c’è nulla di così speciale nel far parte di una famiglia custode».
A quel punto, Aquarius si fece per un attimo pensieroso; poi, parve
finalmente cedere a un qualche impulso, perché le chiese, quasi
titubante: «Premetto subito che non è mia intenzione mettere il naso
in questioni che non mi riguardano: se non vorrai o non potrai
rispondermi, non mi offenderò. Tuttavia, mi piacerebbe capire come
funziona il ruolo di custode, e tu saresti la persona perfetta per
spiegarmelo».
Maia lo fissò, meravigliata.
«È mai possibile che, in tutto questo tempo, tu non abbia mai avuto
occasione di approfondire l’argomento con nessuno?»
«Non ho rinvenuto libri che trattino della questione, per cui ho pensato
che fosse una cosa strettamente riservata».
«Fidati: anche se lo fosse, non lo sarebbe mai quanto te» lo prese
bonariamente in giro Maia «In biblioteca non hai trovato nulla perché
la disciplina discende da consuetudine, dunque non è regolamentata in
forma scritta. Quello di “famiglia custode” è un titolo che si
trasmette per successione, in base al genere: nella mia famiglia, ad
esempio, è la componente femminile a detenerlo. Non a caso porto il cognome di mia madre – che, a sua volta, porta quello di mia nonna. Tutte le donne
appartenenti al mio albero genealogico dall’ultima Guerra Sacra sono
legate al Santuario in maniera indissolubile, e devono apportare a
esso il loro contributo secondo necessità».
«É questo il rapporto che vincola coloro che svolgono servizio nei luoghi
di addestramento, se non erro» intervenne Camus, dando segno di
essersi appassionato alla discussione.
«Sì, certamente: “secondo necessità”, appunto. Siamo circa 100 famiglie,
sparse in tutto il mondo».
«La nomina a custode è riservata solamente al genere femminile? Non ci
sono custodi maschi?»
«Cielo, quante domande! Mi sembra di tenere una lezione universitaria!»
rise Maia, fintamente spazientita: in realtà, le faceva piacere essere
lei ad avere qualcosa da insegnare a Camus, per una volta.
«La carica può essere ricoperta sia da donne, sia da uomini: dipende dal
sesso del primo soggetto che è stato, per usare un termine a te
congeniale, “investito”. Chiunque concerna, però, l’onere vincola
l’intero nucleo familiare. Mio padre, per esempio, ha collaborato
attivamente con mia madre fino… fino alla fine,
insomma».
Nell’accennare alla morte dei propri genitori, la bocca di Maia assunse
una piega amara: proprio a causa del titolo di custode della madre i
suoi avevano intrapreso quella che, nell’arco di una notte, si era
tragicamente mutata nella loro ultima missione.
«Mi spiace di averti costretto ad affrontare questo discorso: non avevo
pensato alle sue possibili ricadute. Sono stato leggero, perdonami» le
sussurrò Camus, passandole un braccio attorno alle spalle e
stringendola a sé.
«Non fa nulla. Del resto, qui dentro non sono certo l’unica a cui il
Santuario ha sottratto qualcuno. Almeno io, però, ho avuto – ed ho –
nonna Frandra. A ben vedere, sono stata molto più fortunata della
maggior parte di voi» disse lei, cercando di liquidare la faccenda il
più velocemente possibile; non aveva voglia di contaminare l’atmosfera
creatasi fra lei e Camus con l’acredine che ancora le montava dentro
al ricordo di mamá e bampás.
«Facciamo una passeggiata, vuoi?» le propose allora l’Acquario,
sicuramente nel delicato tentativo di cambiare argomento.
Tiratisi su, i due camminarono per un po’ in silenzio, mano nella mano,
godendo semplicemente della reciproca compagnia; infine si fermarono
all’ombra di un grande ulivo dall’aria antica, col tronco scavato come
il volto di un vecchio – loro non potevano saperlo, ma si trattava
dello stesso albero ai piedi del quale, appena qualche settimana
prima, Milo si era lasciato andare a uno dei rarissimi pianti della
sua vita.
«Comunque,» esclamò Maia improvvisamente, rammentandosi di non aver
ricevuto la risposta che più le stava a cuore «non mi hai ancora detto
cosa ci trovi in me. Sarò pure una custode, ma questo, in tutta
evidenza, non mi dà alcun tipo di potere».
Nel sentire quelle parole, il cavaliere al suo fianco la fissò come se
fosse pazza.
«Non farmi ridere… potere?!
Pensi davvero che io desideri avere intorno ulteriori macchine da
guerra umane? Ne ho già abbastanza, grazie. Perché sei così cocciuta?
Ho detto che voglio stare con te, e questo varrebbe anche se tu fossi
la larva più inutile del mondo. Ciò ti sia sufficiente: non amo
ripetere le cose più volte del necessario, dovresti saperlo».
Camus sancì la dichiarazione baciandola di nuovo, con un impeto tale da
farli cadere entrambi a terra, aggrovigliati l’uno sopra l'altra.
Aquarius prese ad accarezzarla piano lungo tutto il corpo, reggendosi sul
gomito per non gravarle troppo addosso; poi, abbandonò la sua bocca
per avviare l'esplorazione del collo, mordicchiandolo qua e là.
Quando sentì la mano di lui insinuarsi sotto la maglietta e indugiare sui
suoi seni, Maia ebbe un fremito.
«Speriamo che non si accorga
dell'imbottitura del reggiseno» fu il suo ultimo pensiero più o
meno coerente, prima che i suoi ormoni prendessero il sopravvento
sulla ragione.
Mugolando a causa della progressiva discesa di quella irriverente mano dal
petto al sud-ombelico, inarcò il bacino fino a premere contro
l'urgenza di Camus, che sentiva essere del tutto uguale alla sua;
avidamente gli tirò giù gli stretti pantaloni della tuta da
allenamento, per poter meglio toccare la sua virilità.
L'iniziativa strappò non pochi gemiti all’Acquario, le cui dita si fecero
più sicure nell'addentrarsi in quella zona accogliente e sacra del
corpo di lei.
In quel momento, pensando un po' confusamente ai propri precedenti
ragazzi, a Maia parve una sciocchezza colossale ritenere di avere
amato qualcuno prima di Camus.
«Cam. Camus» ansimò, aprendo gli occhi «Prendimi. Non ce la faccio più».
Al che, la reazione del diretto interessato fu singolare e sorprendente:
infatti, anziché accontentarla, si staccò di botto e, alzatosi in
tutta fretta, si allontanò da lei di qualche passo.
«M-ma che ti prende?» domandò Maia basita, sollevandosi a sedere.
«Scusami, ma se non fossi stato così risoluto non ce l'avrei fatta a
resistere alla tentazione» le rispose quello con voce roca, mentre
tentava di ricomporsi alla bell'e meglio.
«Perché, Camus? Hai detto poco fa che desideri stare con me; pensavo che
questo implicasse anche il sesso. Non mi ritieni all'altezza, forse?»
Era amareggiata. Aveva smarrito ogni pudore, l'aveva accolto con tutto
l'ardore possibile, e lui la rifiutava!
«Cielo, Maia, non fare la bambina! Lo vorrei con tutto me stesso, mi
sembra di avertelo, ehm, dimostrato,»
esclamò
Camus, reso meno burbero dal tenue rossore delle sue guance «ma
sappiamo bene entrambi che ho un voto di castità da rispettare».
«CHE COSA?!»
«Shh! Non urlare, per la
miseria!»
«Perdonami» riprese Maia, più piano «Quindi vorresti dirmi che tu sei
vergine, e che tale vuoi restare per il resto della tua esistenza?!»
«Non “voglio”. Devo» precisò
lui.
«Camus, ti rendi conto che stai rinunciando a una fetta importantissima
della vita di un uomo solo per rimanere fedele a un giuramento vecchio
di secoli e ormai in disuso? Nessuno dei tuoi compagni, a parte Shaka
e forse Mu, presta più attenzione a questo obbligo… di alcuni si sa
per certo!»
«Loro possono fare quello che più gli aggrada, sono responsabili delle
azioni che compiono» tagliò corto Camus, risoluto.
Poi, vedendo la delusione dipinta sul volto di lei, le prese le mani e le
strinse forte.
«Non devi pensare che la mia scelta dipenda da te. Anzi, se non te la
senti di sopportare questa rinuncia posso capire, non ti chiedo di
sacrificarti a tal punto per me» disse, con sguardo grave ma deciso.
«Sono una sciocca egoista. Non avevo
capito niente. É una persona meravigliosa, e devo ringraziare le
stelle ogni giorno per avermi concesso di essere ricambiata da lui».
«Rinuncerei a ben altro, pur di continuare ad averti vicino» sussurrò
Maia, accoccolandosi contro il suo petto e sfiorandogli la punta del
naso con la propria.
«Rouge».
«Sì?»
«... sei tutto sporco di terra!» esclamò quindi, con una risata.
Camus si scostò quel tanto che bastava a esaminarsi, e dovette costatare
che era vero.
«Non sono l'unico, però» ribatté, gettando un'occhiata alle braccia e ai
capelli di lei, dove comparivano macchie scure un po’ ovunque.
«Potremmo andare alle terme a sciacquarci... » propose la ragazza,
speranzosa.
«E dar modo a mezzo Santuario di sparlare sul fatto che ci siamo rotolati
per terra insieme? Fossi matto! Piuttosto, che ne diresti di un bagno
in mare?»
«Sei impazzito?! L'acqua sarà gelida!» dissentì l'altra, rabbrividendo al
pensiero.
«Certo… neppure il mare di Siberia potrebbe reggere il confronto» ghignò
Aquarius, sarcastico.
«E allora fattelo da solo il bagno, Signore delle Energie fredde! Io mi
laverò a casa più tardi!»
«Affare fatto» dichiarò lui avviandosi, soddisfatto del compromesso.
Mentre si apprestava a seguirlo, Maia scorse un luccichio metallico fra le
piante a poca distanza da lei; nel chinarsi, riconobbe subito il
ciondolo che Scorpio portava al collo da anni.
Lo raccolse senza farsi vedere, accarezzandone la forma ad anfora con le
dita.
«Maia! Allora?» la chiamò Camus, che intanto aveva già percorso un bel po’
di strada.
Lesta, si infilò l'oggetto in una tasca dei pantaloni; che il suo
proprietario fosse d’accordo o meno, lei gliel'avrebbe restituito.
E, in cambio, avrebbe preteso una spiegazione definitiva.
Note
dell'autore
Qualche
volta ho l'impressione che la povera Maia sia
l'OC più bistrattato al mondo: devo essere l'unica autrice che, creata
una
coppia, le preferisce sistematicamente un'altra.
Se non
fossi stata una tale amante della MiloXCamus,
forse le cose sarebbero andate diversamente – hai il permesso di
maledirmi,
Maia XD
Lasciando
da parte le considerazioni stupide, questo
capitolo ha subito una revisione contenutistica di discreta entità. Ho
totalmente cambiato la prima parte, dando uno scorcio – inventato di
sana
pianta – del modo in cui, da Rodorio, si accede al Grande Tempio; e ho,
altresì, aggiustato la faccenda delle famiglie custodi – sperando di
averla
spiegata in maniera comprensibile.
Avrei
preferito tagliare del tutto la scena
pseudo-erotica – giacché non amo scrivere di sesso –, ma questa era
necessaria
a introdurre il voto di castità di Camus... non avrei potuto fargli dire
«Ehi,
sai che sono vergine, e che lo sarò per sempre?» con la stessa
naturalezza con
cui si parla del tempo, vi pare?
Di
seguito, le necessarie (?) precisazioni:
- una
consuetudine è una regola non scritta, frutto di
un comportamento reiterato nel tempo da parte degli appartenenti a una
comunità. Per assurgere al rango di consuetudine, detto comportamento
deve
presentare un carattere soggettivo – opinio
iuris
ac necessitatis, ossia la libera convinzione di tenere un
comportamento obbligato – e uno oggettivo, rappresentato dalla diuturnitas,
che consiste nella
diffusione di tale atteggiamento fra i consociati.
- mamá
e
bampás : "mamma" e "papà", in greco.
|
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Capitolo 9 *** Capitolo 7, parte I: luglio/agosto 1986. Milo ***
Capitolo 7, parte I. Milo BG
Capitolo
7,
parte I: luglio/agosto 1986. Milo
Nulla
è più complicato della sincerità.
Luigi
Pirandello
Il
Gran Sacerdote troneggia su di lui come un gigante la cui figura
tutto sovrasta; lo sguardo inespressivo della maschera dietro la
quale cela il suo vero volto da ormai tredici anni pare mandare
sinistri bagliori rossastri.
Importa
ben poco che lui sia un cavaliere d'oro, vestito della sua armatura
e forte di un cosmo vastissimo: davanti a quell'uomo che, pur
vivendo nell'ombra, manovra tutti loro come fa un burattinaio con i
suoi pupazzi non può impedirsi di provare disagio, smarrimento.
É
mai possibile che bastino una tunica e un copricapo a metterlo in
soggezione? O c'è dell'altro, che nulla ha a che fare con gli abiti?
«Cavaliere
di Scorpio,» la voce del Pontefice sembra rimbalzare sulle pareti di
pietra e giungere alle sue orecchie di molto amplificata «è giunto
il momento: troppo in là si sono spinti i traditori. Tua
sarà la mano che monderà i loro peccati. Tua sarà la mano che riporterà la giustizia su questa terra, secondo la
mia volontà.
A
nuovo ordine ti recherai a Tokyo: trionferai dove tutti gli altri
hanno fallito».
Dunque,
i cavalieri d'argento non sono riusciti nell'impresa: stenta a
crederci. Quali poteri, quali segreti nascondono quei cinque combattenti di bronzo?
Che siano protetti da una qualche entità superiore?
Cerca
di fugare i suoi dubbi alla svelta, non vuole mostrarsi titubante:
«Consideratelo fatto, Signore. Andrò».
«No,
lui non andrà. Sarò io a farlo».
Aiolia
sopraggiunge lento e fiero, lo oltrepassa senza guardarlo e si
inchina dinanzi all'altare.
«Se
Voi lo permetterete, mi occuperò io dei Bronze ribelli. Avranno la
lezione che si meritano».
Il
Gran Sacerdote lo studia interessato prima con gli occhi, poi con il
cosmo: ha deciso.
«D'accordo,
cavaliere di Leo: la missione è tua. Al momento opportuno, ti
comunicherò quando partire».
«Ma-»
prova intanto a protestare Milo.
Le
sue obiezioni vengono troncate sul nascere: «Così è deciso».
Il
Quinto Custode si alza e lascia la stanza, continuando ad ignorarlo.
Perché? Cosa l'ha spinto
a rimettersi all'improvviso ai voleri di colui che per secondo
detesta di più?
«Leggo
accusa nel tuo viso, nobile Milo. Ti starai chiedendo la ragione
della mia scelta».
La
rabbia che prova nei confronti di Aiolia offusca per un attimo
l'affetto che li unisce, lo spinge a dire cose che in realtà non
pensa. Se ne pente subito.
«Infatti.
Signore, Leo non ha mai dato prova di non meritare la vostra
fiducia, ma… è pur sempre fratello di Sagitter. Sapete come si dice?
“Buon sangue non mente”».
Capta
il ghigno del Gran Sacerdote allungarsi sotto la maschera. Gli pare
quasi di vederlo, quel sorriso beffardo, benché non riesca a
immaginarne i contorni.
«Alla
luce di ciò l'ho preferito a te: per testarne la fedeltà. Solo in
tal modo potrò finalmente conoscere la sua vera natura».
Scorpio
dà segni di volersi congedare, ma Arles lo trattiene: «Ora che ci
penso, prima di lasciar andare il cavaliere di Leo c'è un'altra cosa
che va fatta... e sarai tu ad occupartene».
La
scena è cambiata: non si trova più alla Tredicesima Casa, adesso è
in un luogo aperto, pieno di terra e di fumo – l'isola di
Andromeda.
Tutto
è confuso, sconnesso, le immagini sono offuscate: sa solo che sta
combattendo.
I
suoi sensi sono acuiti al massimo, l'aura dorata che lo circonda va
espandendosi; non riesce a pensare lucidamente, la sua mente è
guidata da una furia insolita, la furia della battaglia.
Alcuni
ragazzini con le armature si frappongono fra lui e il suo obiettivo,
disubbidendo all'ordine di farsi da parte; un attimo dopo i loro
corpi giacciono a terra, inerti – mai cercare di ostacolare Milo di
Scorpio.
Con
la coda dell'occhio vede delle figure che stanno scappando, ma non
se ne cura, è l'uomo che ha di fronte quello che gli interessa. Il
Gran Sacerdote è stato chiaro in proposito: o con lui, o morto.
O
bianco o nero, non c'è più tempo per indugiare sulle sfumature.
«Eccoci
alla resa dei conti: nessuno ci disturberà più, i tuoi allievi
superstiti se la sono data a gambe. Sei rimasto solo» gli dice lo
Scorpione, con una malignità che poi stenterà a riconoscere come
propria «Cosa vuoi fare? Rendere un giusto servizio alla Dea e
accettare di seguirmi al Grande Tempio, o morire qui per mano mia,
marchiato come traditore? A te la scelta».
Daidaros
di Cefeo guarda affranto i cadaveri intorno, poi si erge in tutta la
sua statura e risponde con il maggior sprezzo di cui è capace:
«Tanto so cosa volete da me: vi servono delle informazioni sul mio
ex discepolo, Shun di Andromeda. Avete paura di lui e dei suoi
compagni perché si sono opposti a voi, guidati da una forza maggiore
della vostra. Arles vi sta ingannando, cavaliere d'oro!
Dice di rappresentare la volontà di Atena, ma in realtà vuole solo
dominare incontrastato sul mondo intero; redimetevi, scegliete la
strada della giustizia, finché siete in tempo! Non riuscite a
sentire le forze oscure che albergano in lui?»
«Taci.
Quelle che dici sono eresie senza senso. Pagherai tali ingiurie con
la morte, ti sei condannato da solo!»
«Piangerete
lacrime di sangue, su quella verità che ora vi rifiutate di vedere.
Ebbene, Scorpio, morrò: ma non starò ad aspettarti passivo, prima
dovrai sconfiggermi».
La
lotta comincia: Milo attacca senza sosta, sa che Daidaros non potrà
respingere i suoi assalti alla velocità della luce molto a lungo.
Una,
due, tre, quattro Scarlet Needle.
Il
sangue sprizza dalle ferite del Silver Saint, eppure egli non cede,
continua a difendersi strenuamente – un degno sfidante, non c'è che
dire.
Basta
un attimo di distrazione e lo Scorpione si trova con le catene
dell'avversario strette intorno al collo; chiama in aiuto il cosmo,
ma il ferro è più resistente di quanto credesse e già comincia a
perdere forze.
D'improvviso,
la morsa si scioglie, e lui torna libero.
Una
rosa rossa è piantata ai piedi del suo nemico, una risata argentina
e grottesca risuona nell'aria: Aphrodite di Pisces.
Adesso
Daidaros è più stanco, indebolito dal veleno del fiore: senza
esitare Milo scaglia la sesta Scarlet Needle, che lo centra proprio
in mezzo al petto. L'altro cade faccia in giù, agonizzante.
La
frenesia di poco prima è sparita, è rimasta solo amarezza: lo lascia
così, con il viso nella polvere – non se la sente di vedere gli
occhi di un uomo che muore.
Tuttavia,
riconoscendone il valore, lo finisce con un ultimo colpo,
risparmiandogli le atroci sofferenze a cui sarebbe andato altrimenti
incontro. Chissà se lui avrebbe fatto lo stesso, al suo posto.
Non
sa dire perché, ma è sicuro di sì.
Ancora
uno stravolgimento di paesaggio.
Lo
scenario stavolta è bianco e ovattato, indefinito: un posto senza
tempo né spazio.
C'è
una figura che cammina solitaria davanti a lui; avvicinandosi, ne
riconosce la lunga chioma ramata.
Lo
chiama più volte: «Camus!»
Questi,
anziché voltarsi, aumenta il passo e comincia a correre.
Milo
non capisce, lo insegue, continua a urlare il suo nome: «CAMUS!»
Perché
non si ferma? Perché non lo aspetta?
Ad
un certo punto, Aquarius inciampa, frana in avanti e rimane immobile
al suolo.
Lo
raggiunge con una certa apprensione, ha paura e non ne conosce il
motivo; forse perché quella posa innaturale e quel silenzio lugubre
comunicano uno sgradevole senso di morte.
«Camus»
sussurra, inginocchiandoglisi accanto.
Nessuna
risposta.
Delicatamente
allora lo gira, come se fosse un pezzo di cristallo fragile e
prezioso, ma con stupore si accorge di non avere fra le braccia il suo Camus: il volto in
parte sfigurato che ha davanti è infatti quello sofferente di
Daidaros di Cefeo.
Nel
momento in cui molla la presa, scioccato, il corpo ricade a terra
con un tonfo sordo e l'uomo di cui ha stroncato la vita spalanca di
colpo gli occhi vitrei, colmi di nulla.
«Piangerete
lacrime di sangue, su quella verità che ora vi rifiutate di vedere»
dice, con voce terribilmente atona.
«C-
come?» balbetta Milo, inorridito.
«Piangerete
lacrime di sangue, su quella verità che ora vi rifiutate di vedere»
ripete quello, più forte.
«Non
è possibile, tu dovresti essere morto! Io stesso ti ho ucciso con
sei Scarlet Needle, sull'isola di Andromeda! Perché sei ancora vivo?
Che cosa hai fatto a Camus?»
Daidaros
pare non udirlo neanche; seguita a cantilenare quella sorta di
predizione sciagurata alla stregua di un disco rotto, mentre fiotti
di liquido scarlatto cominciano a sgorgargli dalle cicatrici
lasciate dal colpo dello Scorpione.
«Piangerete
lacrime di sangue, su quella verità che ora vi rifiutate di vedere».
Un
grido di orrore è bloccato nella gola di Milo, un grido che non può
più trattenere: lo lascia uscire, e questo esplode – doloroso,
liberatorio.
«NOOOOO!!»
Si destò ansante, madido di sudore.
«Non è nulla, Milo: sei nel tuo
letto, è tutto finito» pensò, cercando di calmare i frenetici
battiti del suo cuore.
Tese le orecchie per avvertire eventuali rumori, ma tutto intorno c'era un
silenzio di tomba: anche se aveva urlato piuttosto forte, nessuno
pareva averlo sentito. Uno dei tanti vantaggi di abitare nell'unica
Casa in mezzo a due Templi deserti.
Studiando la fievole luce che filtrava dalla finestra socchiusa concluse
che doveva essere molto presto, forse l'alba; nonostante questo,
decise comunque di alzarsi. Sapeva che non sarebbe stato capace di
riprendere sonno.
Erano notti che faceva lo stesso sogno – e si svegliava sempre in quelle
condizioni, come la prima volta.
Non era tanto la veridicità della prima parte dell'incubo a inquietarlo,
quanto l'inspiegabile comparsa del volto di Daidaros sul corpo di
Camus, e quella maledetta frase dalle fattezze profetiche che gli
risuonava nel cervello praticamente ogni minuto.
«Piangerete lacrime di sangue, su quella verità che ora vi rifiutate di
vedere».
In fondo, non significava nulla: erano solo parole di un uomo spacciato,
pronunciate solennemente con la speranza di impressionarlo e fargli
mutare opinione.
Perché, allora, non riusciva a togliersele dalla testa?
Scostò le coperte che gli si erano incollate al corpo; più tardi avrebbe
fatto una doccia, magari, ma in quel momento aveva solamente voglia di
prendere un po’ d'aria.
Si vestì dunque alla meglio e uscì all'esterno. Aveva visto giusto, il
sole appena sorto dal mare stava tingendo tutto l'orizzonte di un rosa
che sarebbe andato sbiadendo in fretta.
Si prospettava un'altra bella giornata… solo climaticamente parlando,
ovviamente.
L'aria fresca del primo mattino lo riscosse quel tanto che bastava a
scacciare l'impressione di irrealtà propria dell'attimo successivo al
risveglio, permettendogli di pensare con maggior lucidità – non che ne
fosse particolarmente capace, ultimamente.
«É tutto sbagliato. Io
sono sbagliato».
La sua esistenza stava andando a rotoli pezzo dopo pezzo; la traballante
scala di punti fermi che con tanta fatica si era costruito perdeva un
piolo alla volta.
«Camus e Maia. La ribellione dei
cavalieri di bronzo. La fuga di Mu. E ora questo».
Era stato addestrato a combattere; a sopportare la fatica fisica e il
dolore; a non dar peso alla solitudine; a scegliere sempre la strada
più giusta – che, in genere, era pure la più difficile.
Considerava maestri non solo quelli che gli avevano insegnato come
bruciare il cosmo o attaccare un rivale, ma anche coloro dai quali
aveva appreso come affrontare la vita, come non cedere di fronte a un
destino infausto.
«Milo, guarda le stelle: ammirale e impara a non temerle, anche se spesso
ti sembreranno troppo lontane, o troppo crudeli. Siamo stati
generati per ristabilire la pace lasciandoci guidare da esse, non
per sottostare silenti ai loro capricci. Ogni uomo è artefice
della propria sorte: nessuno nasce schiavo del fato, nemmeno noi
cavalieri» gli diceva Saga nelle chiare notti estive di
tanti anni addietro quando, dopo la lezione di astronomia, il piccolo
Scorpio si attardava sempre a fissare la volta celeste.
Uomini valorosi e saggi gli si erano affiancati nel suo cammino, sì;
eppure nessuno lo aveva davvero preparato all’idea di portare morte,
né Saga né gli altri.
Sapeva da sempre che un giorno sarebbe arrivato il momento di uccidere,
per questo era venuto al mondo: uccidere per proteggere Atena, per
estirpare il male insito nella natura umana e divina – ma comunque di
uccidere si trattava.
Quel giorno era infine arrivato: aveva compiuto il suo dovere eliminando
dei traditori, ma tutto si sentiva meno che orgoglioso di se stesso.
«Forse è una cosa a cui ci si abitua
col tempo» si disse senza convinzione, mentre il chiarore del dì
dissolveva definitivamente gli ultimi resti di notte.
*
Pomeriggio inoltrato.
Milo sonnecchiava nel divano, di un sonno leggero e suscettibile.
Gli allenamenti quotidiani l'avevano sfiancato; accettare di misurarsi con
Shura non era stata un'idea molto brillante. Sfidare il Capricorno
voleva dire doversi spostare alla massima velocità continuamente, pena
la mutilazione di qualche arto: decisamente poco raccomandabile, per
uno con il sonno arretrato vecchio di giorni.
Durante la breve pausa aveva scorto Camus impegnato in un corpo a corpo
con Aldebaran; ai suoi occhi era sempre uno spettacolo favoloso vedere
l'esile compagno scansare con eleganza i possenti fendenti del Toro,
per poi contrattaccare circondato da un'aura di cristalli ghiacciati.
Prima solevano lottare insieme, Scorpione contro Acquario, in
combattimenti che potevano durare anche ore; conoscendo a menadito
l'uno i colpi dell'altro, si divertivano a studiare strategie ogni
volta diverse nel tentativo di sorprendersi a vicenda. Poi,
per sbloccare la situazione di stallo, Milo finiva sempre col
ricorrere a mosse sleali e, a quel punto, Camus si ritirava dallo
scontro con un'espressione sdegnata che faceva scoppiare a ridere
Scorpio.
Accidenti, se gli mancava.
Un paio di volte, nel vederlo, era stato tentato di mandare all'aria i
suoi propositi di indifferenza e di perdonarlo, ma poi aveva pensato a
lui e Maia abbracciati e l'immagine era stata sufficiente a fargli
tirare dritto senza degnarlo di uno sguardo.
Ovviamente Aquarius non si era neppure sognato di andargli a chiedere
spiegazioni e questo, oltre a rappresentare l'ennesima coltellata,
l'aveva fatto irritare ancora di più.
La sua risolutezza nel volerlo dimenticare non stava però dando i frutti
sperati: più si vietava di pensare a Camus, più si ritrovava in
situazioni che glielo ricordavano – come nel caso di quel pomeriggio.
La triste, squallida verità era che a lui sarebbe bastato riavere il loro
vecchio rapporto, e tuttavia non voleva accettarlo, considerandolo
troppo umiliante.
Aveva deciso che non avrebbe potuto comunque continuare ad aspettarlo per
sempre: l'avrebbe avuto come amante,
oppure non l'avrebbe avuto affatto.
O tutto, o niente: non era più tempo di indugiare sulle sfumature, l'aveva
detto anche il Gran Sacerdote.
... O bianco o nero, non c'è più
tempo per indugiare sulle sfumature.
«Eccoci
alla resa dei conti: nessuno ci disturberà più, i tuoi allievi
superstiti se la sono data a gambe. Sei rimasto solo. Cosa vuoi
fare? Rendere un giusto servizio alla Dea e accettare di seguirmi al
Grande Tempio, o morire qui per mano mia, marchiato come traditore?
A te la scelta».
«Tanto
so cosa volete da me: vi servono delle informazioni sul mio ex
discepolo, Shun di Andromeda. Avete paura di lui e dei suoi compagni
perché si sono opposti a voi, guidati da una forza maggiore della
vostra. Arles vi sta ingannando, cavaliere d'oro!
Dice di rappresentare la volontà di Atena, ma in realtà vuole solo
dominare incontrastato sul mondo intero; redimetevi, scegliete la
strada della giustizia finché siete in tempo! Non riuscite a sentire
le forze oscure che albergano in lui?»
«Taci.
Quelle che dici sono eresie senza senso. Pagherai tali ingiurie con
la morte, ti sei condannato da solo!»
«Piangerete
lacrime di sangue, su quella verità che ora vi rifiutate di vedere».
«Milo! Milo, svegliati!»
«N-no... »
«Milo!»
Mani ferme e decise lo costrinsero ad aprire gli occhi.
«Eh? Cosa? Maia!» Milo si guardò intorno, riconoscendo la figura china su
di sé.
«Finalmente! Scusa se ti ho destato in modo brusco, ma stavi mugolando nel
sonno: ti ricordi il sogno che hai fatto?»
«No» mentì lui «Quindi non era nulla di così terribile, probabilmente».
«Sarà... sei sicuro di stare bene? Mi sembri pallido, e un tantino
sciupato. Non è che ha a che fare con la missione da cui sei rientrato
pochi giorni fa?»
«E tu come fai a sapere della missione?» indagò Milo «Doveva essere una
questione della massima segretezza».
«Intuito» rispose Maia, soddisfatta di averci azzeccato «Quando uno di voi
sparisce per più di ventiquattro ore è difficile che si tratti di
qualcos'altro, specialmente con lo stato di allerta in corso».
«Il ragionamento non fa una piega.
Ma allora, perché tutti hanno dato per scontato che Mu sia fuggito?»
pensò Scorpio, rammentando i discorsi poco lusinghieri che aveva
sentito a proposito della fulminea sparizione dell'Ariete.
«Dove ti hanno mandato?» gli chiese poi la ragazza.
«Mi dispiace, non sono autorizzato a rivelarlo. Come ho già detto, è una
faccenda che non può essere resa pubblica».
«Oh. Capisco» fu il commento poco entusiasta di lei.
Milo era conscio di averla delusa, non tanto perché gli interessasse
davvero sapere della spedizione, quanto per la ragione che lui si
ostinava a tenergliela nascosta: in altri tempi non sarebbe successo.
«Le cose cambiano, Maia. Dovresti
saperlo».
«Se volevi passare, avresti potuto farlo tranquillamente... non c'era
bisogno di venire sin qui a chiedermi il permesso» esclamò Scorpio un
po’ stupidamente, per troncare il silenzio imbarazzato che si era
creato.
«Lo so. Ma era te che volevo: ho bisogno di parlarti».
«Ah, ok. Accomodati, allora».
«No, grazie. Preferisco restare in piedi» rifiutò l'invito Maia, tradendo
un certo nervosismo.
«Come vuoi. Dunque? Che cosa hai da chiedermi?»
«Allora, sì» tentennò quella «... come va?»
Milo sospirò: aveva già capito.
«Maia, ti avviso subito: se hai intenzione di ricominciare con la storia
di Camus, per me la discussione finisce qui. Mi sembrava di essere
stato piuttosto esplicito. Non ho voglia di questionarci sopra, men
che meno con te» mise le cose in chiaro.
Perché Maia rendeva tutto così complicato? Durava
già abbastanza fatica a sforzarsi di trattarla come al solito, era
pretendere tanto che lei evitasse di portare sempre la conversazione
su quel tema?
«Milo, io non sopporto più di vederti in questo stato. Tu stai male, è
evidente. E Camus non è da meno. Ci deve essere una ragione dietro al
tuo mutismo, non puoi negarlo. Se proprio non ne vuoi parlare con Cam,
perché non ti confidi con me come hai sempre fatto? Pensavo tu avessi
più fiducia nei miei confronti».
«Immagino… povero Camus! É
talmente dispiaciuto che non si è nemmeno degnato di venire a
chiedermi qualcosa! Di certo si strugge di dolore, tra le tue
braccia!» commentò lui, sarcastico – un sarcasmo amaro, che sapeva di
bile.
«Che tu ci creda o no, gli manchi! Ma sai meglio di me quanto è
orgoglioso».
«Ecco, è proprio questo il punto: io mi sono stufato del suo orgoglio.
Anche io ne ho uno, per tua informazione, e l'ho calpestato infinite
volte per lui. Se davvero gli importasse, non manderebbe te a far da
ambasciatore».
«Ti stai sbagliando» scosse la testa Maia «Lui ignora quanto io stia
insistendo con te. Se lo sapesse, si arrabbierebbe di certo. Comunque,
tra le altre cose, sono venuta a chiederti se riconosci quest'oggetto»
disse, tirando fuori dalla borsa un gioiello d'argento.
«Il mio ciondolo! Perché ce l'ha
lei?!»
Milo glielo prese dalle mani, esaminandolo: era proprio il suo, non
c'erano dubbi.
«Dove l'hai trovato?»
«Nei campi intorno al Santuario. Perché l'hai gettato via?»
«Non l'ho buttato, l'ho perso».
Che immane bugia. Come poteva sperare che lei gli credesse? E, infatti,
non se la bevve.
«Milo! Ti conosco come le mie tasche, so benissimo che tieni più a questo
ciondolo che a tutti i tuoi averi messi insieme. Non saresti mai stato
capace di smarrirlo. Avanti, dimmi perché te ne sei disfatto».
«Te l'ho detto, l'ho perso. Capita, sono un essere umano anch’io».
«Adesso ne ho veramente piene le tasche!» sbottò Maia, così repentinamente
da farlo sobbalzare «Credi che io sia stupida?! Potrai anche essere
bravo a ingannare il resto del mondo, ma io non ci casco! Ho capito,
sai, quello che stai nascondendo! Speravo tu fossi così onesto da
rivelarlo almeno a me: evidentemente, mi sono sbagliata».
A quelle parole Milo si irrigidì, e fu sul punto di crollare; chissà come,
però, riuscì a mantenere una dose sufficiente di sangue freddo per
risponderle con finta strafottenza: «Avanti, veggente, sentiamo: sono
curioso».
«Per quale maledetto motivo non mi hai mai detto di essere innamorato di
Camus?»
«Ebbene sì, Maia, ecco svelato
l'arcano».
Faceva un effetto strano sentirsi smascherati a quel modo, dopo anni di
attente precauzioni; l'aveva indubbiamente sottovalutata. Urgeva
correre ai ripari, e subito.
Negare non sarebbe bastato: serviva una soluzione più drastica, e Scorpio
ricorse a tutta la sua faccia tosta.
«AHAHAHAH, bella questa! Sono desolato, ma credimi, stavolta hai preso un
granchio» dichiarò, continuando a ridere come se Maia avesse detto la
più grossa delle sciocchezze.
La ragazza, tuttavia, non si lasciò convincere dal suo teatrale diniego:
«È inutile che tenti di prendermi in giro. Stai solo peggiorando le
cose».
«E dire che c'eri andata vicina! Peccato tu abbia commesso un errore»
continuò lui, con fare misterioso.
«Ah, sì? E quale sarebbe?» gli chiese lei, scettica.
«Hai sbagliato l'oggetto della mia infatuazione».
«Che cosa?!»
«Come fai a non arrivarci? Eppure è così semplice... » sussurrò Milo,
prendendole le mani e tirandola su di sé.
«Milo, che stai facendo... lasciami!» esclamò Maia, cominciando a dar
segni di comprendere.
Scorpio non sapeva se quello che stava per fare avrebbe complicato
ulteriormente la situazione, e neppure gli importava: tutto ciò che
voleva era che i suoi sentimenti nei confronti di Camus rimanessero
celati, per poter meglio continuare a proteggerli.
«No che non ti lascio» disse, aumentando la stretta.
«Milo:» lo pregò lei, con un'espressione talmente triste da impressionarlo
«lasciami, ti prego… non farlo».
«Troppo tardi, amica mia. Troppo
tardi» pensò mortificato lui, prima di baciarla.
Fu uno dei momenti più dolorosi della sua vita: sentire Maia che si
divincolava nel tentativo di liberarsi dalle sue braccia e dover
fingere di volerla trattenere a tutti i costi era molto peggio di
essere preso a pugni.
Aveva agito d'istinto, troppo preoccupato a nascondere la verità, ma
adesso non era più tanto sicuro che farle credere di essere innamorato
di lei, anziché di Aquarius, fosse il male minore.
Mollò la presa solo quando sentì in bocca un sentore di sangue, e capì di
essere stato morso.
Intanto, al di là della porta che Maia aveva lasciato socchiusa, qualcuno
strinse i pugni: aveva visto tutto.
Continua
...
Note
dell'autore
Coucou
tout le monde!
Fate
attenzione a questa prima parte del capitolo, perché in seguito
risulterà fondamentale per comprendere appieno gli sviluppi della storia
e, in particolare, l'evoluzione del rapporto Milo-Maia.
La
frase «Piangerete lacrime di
sangue, su quella verità che ora vi rifiutate di vedere» tenetela
a mente (si fa per dire XD), giacché tornerà anche negli aggiornamenti
successivi.
Qualora
non fosse molto chiaro – il che è possibilissimo – la narrazione si
svolge su piani differenti: l'incipit in corsivo è una rivisitazione
onirica degli avvenimenti immediatamente precedenti a quelli
direttamente oggetto del capitolo. Il tutto, comunque, si svolge
nell'arco di nemmeno una giornata.
Per ciò
che concerne la missione di Milo sull'isola di Andromeda, ho fatto uno
strano melange fra anime e manga – come mio solito, del resto –: le
vicende attengono al primo, i nomi al secondo. Viva la coerenza!
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Capitolo 10 *** Capitolo 7, parte II: luglio/agosto 1986. Milo ***
Capitolo 7, parte II. Milo BG
Capitolo
7,
parte II: luglio/agosto 1986. Milo
Milo
si leccò via il sangue uscitogli dal labbro inferiore, reprimendo
l'innato impulso di reagire all'offesa subita. Tuttavia, era grato a
Maia per quel morso: mai una maschera gli era parsa più fastidiosa e
pesante da portare.
Ora lei gli stava davanti e lo fissava in silenzio con sguardo ferito;
era evidente che si sentiva tradita – dall’unica persona
in cui avesse sempre riposto fiducia incondizionata, per giunta.
Poi, tremando impercettibilmente, alla fine disse: «M-Milo, io sto con
Camus. Io provo qualcosa di serio per Camus. Di serio, capisci?»
«Come se non lo sapessi... » replicò lui, in un sussurro flebile.
«Pensavo tu fossi il mio migliore amico, contavo nel tuo affetto
disinteressato! Quello che hai fatto... cambierà le cose, te ne rendi
conto?! Perché, Milo? Perché mi vuoi costringere a scegliere fra te e
Camus? Perché?!»
La frase suonò alle orecchie di Milo strozzata, distorta. Un moto di
rabbia gli salì alle guance, imporporandole. Cosa
credeva Maia? Che fosse l'unica a venir messa di fronte a una scelta
dolorosa?
Pur rinunciando alla loro amicizia, a lei sarebbe rimasto Camus: lui,
invece, aveva mandato tutto al diavolo per un sogno irrealizzabile.
«Stai parlando come se fosse colpa mia. Non ho scelto io di innamorarmi.
Ai sentimenti non si comanda, dannazione!»
Vero. Non importava quale fosse l'oggetto della sua passione, il concetto
era il medesimo: lui non aveva deciso un bel niente.
Non aveva deciso di provare quella maledetta sensazione di gioia nel
vedere apparire la chioma rossa dell'Acquario; non aveva deciso di
considerare bello solo ciò che a lui si poteva associare; non aveva
deciso di innamorarsi di quello che avrebbe dovuto essere il suo amico
più caro – non aveva deciso di soffrire così.
«Sarei io a dover chiedere perché.
Perché Camus, Maia? Perché, fra tutti gli uomini del mondo, hai
scelto proprio il mio?»
«Come faremo a guardarci in faccia? Milo! Come faremo?»
Era stufo di recitare, di continuare a farle del male; era stufo di
guardare i suoi occhi nerissimi e di vederne altri, dorati e chiari.
Voleva rimanere solo.
«Io non intendo condizionarti in alcun modo, so già quello che vuoi. Vai
da lui, Maia. Vai da lui e lasciami in pace» decretò duro, sdraiandosi
nuovamente con il viso rivolto verso i cuscini del suo liso divano.
«Milo... »
«VATTENE!»
La sentì sostare alle sue spalle per qualche minuto, e poi uscire
lentamente tirando su col naso.
«Dèi, come sono stanco. Sono tanto,
tanto stanco» pensò, chiudendo leggermente le palpebre.
Non fece neppure in tempo ad accomodarsi meglio, che venne brutalmente
buttato a terra – da chi, però, lo ignorava.
«Ma che diav-» balbettò, prima di essere preso per il colletto della
maglia e alzato di peso.
«Tu!» ringhiò l'assalitore, scuotendolo manco fosse una camicia
stropicciata «Ti ha dato di volta il cervello? Cosa credevi di fare?
Perché l'hai baciata contro la sua volontà, eh? Rispondi!»
«Sei forse impazzito?! Mollami! Mollami, ti dico!» reagì Milo, prendendolo
per i polsi e spingendolo a distanza di sicurezza.
«Questa non ci voleva… come avrà
fatto a-?! Avanti Milo, temporeggia, trova una balla orecchiabile!»
«Allora? Sto aspettando una spiegazione» lo incalzò quello, ancora furente
e pronto a saltargli addosso.
«Anzitutto, datti una calmata. E poi, devo forse ricordarti che non sta
bene origliare o spiare alle porte altrui, Aiolia?»
Di fronte all'accusa di mancata riservatezza, il cavaliere di Leo parve
tentennare: «Mi sembrava doveroso darti chiarimenti sul mio
atteggiamento ambiguo al cospetto del Gran Sacerdote, ero appunto
venuto per questo. Quando poi ho visto l'ingresso socchiuso mi sono
arrischiato a sbirciare, e-»
«Già, a proposito: sarei io a dover essere arrabbiato con te, per aver
interferito fra me e Arles».
«Ci tenevo a quella missione, Milo. Fino a ora sono stato trattato come se
fossi perennemente sotto esame. Questa è l'occasione che potrebbe
scagionarmi da tutti i possibili sospetti una volta per sempre, e me
la sono presa. Mi dispiace di averti mancato di rispetto, ma confido
che tu capisca la mia situazione... comunque, mi pareva di averti
fatto una domanda ben precisa!» si riscosse d'improvviso, tornando
minaccioso «Maia non è solo amica tua: anche io ci sono cresciuto, e
anche io mi sento in dovere di proteggerla da chiunque le metta le
mani addosso – te compreso!»
«Ah, sì? E perché mai allora non sei ancora andato a menare Aquarius, di
grazia?»
Aiolia sbuffò, spazientito: «Milo, Camus è il suo ragazzo! E, in quanto
tale, ha tutto il diritto di fare quello che più gli piace».
«Adesso lo è, ma all'inizio... »
«”All'inizio” cosa? Cielo, non finirò mai di stupirmi del fatto
che proprio tu sia stato l'unico in tutto il Santuario a non
accorgerti che quei due si morivano dietro da non so quanto. Per come
la vedo io, ci hanno messo anche troppo tempo».
«Io non ci avevo mai fatto caso. Avreste potuto parlarmene».
«Davamo per scontato che ne fossi a conoscenza: al tuo posto, anche un
cieco l'avrebbe notato, considerando il tuo stretto rapporto con
entrambi. E poi, tu sei sempre stato abbastanza intuitivo.
Solo adesso mi sovviene
che forse, più che non vedere la realtà, ti sei rifiutato di
accettarla».
A Milo non piacque l'occhiata di velata commiserazione che gli lanciò il
compagno.
«Che vorresti insinuare? Che sono un codardo?» replicò, astioso – non gli
avrebbe permesso di giudicarlo senza conoscere la verità.
«Sì, Milo. In un certo senso, sì» assentì Aiolia, contrito «Ho trovato
molto infantile il tuo comportamento nei confronti di Camus. Lui non
poteva sapere che ti piaceva Maia, così come non poteva saperlo la
diretta interessata. Ora mi sembra un po’ tardi per recriminare. Così
facendo, hai solo danneggiato lei e te stesso. Hai perso l'unica
possibilità che avevi di starle accanto».
«Sentiamo, tu cosa avresti fatto al mio posto?»
«Arrivati a questo punto, penso che mi sarei tenuto per me ciò che
provavo. Comunque, io le avrei detto tutto molto prima».
«Non è così semplice».
«Hai perso l'unica possibilità che
avevi di starGLI accanto».
Aveva voglia di urlare: dopo quello che era successo, il nodo che Scorpio
si portava dentro attorcigliato nello stomaco era salito in
superficie. Avrebbe dato qualsiasi cosa pur di poterlo buttare fuori.
Tentò di far capire a Leo la sua scomoda posizione, pur rimanendo sul
vago: «E se fossi stato sicuro che non ti avrebbe ricambiato in nessun
caso, avresti parlato lo stesso – correndo il rischio di allontanarla
da te?»
«Perché, non è ciò che hai appena fatto? Sarebbe stato meglio avvertirla,
anziché prenderla alla sprovvista con un bacio non richiesto e una
dichiarazione tanto fulminea quanto sconvolgente».
«Hai sentito tutto? Ma da quanto te ne stavi sulla soglia a impicciarti?»
commentò Milo, acido.
«Ehm... sono arrivato quasi subito, e-» fece spallucce l'altro,
imbarazzato.
«Lascia stare, non fa nulla. Piuttosto, rispondi alla domanda».
«Lo sai come sono fatto. Non mi piace avere delle questioni in sospeso, se
posso evitarlo. Mai».
Oh, certo che lo sapeva.
Quante volte loro due avevano discusso per una apparente sciocchezza, solo
perché ad Aiola non era andato giù un suo atteggiamento; quante volte
si era ritrovato a doverlo trattenere a viva forza, per impedirgli di
ridurre in poltiglia coloro che avevano avuto l’ardire di insultarlo.
Quante raccomandazioni
di accortezza erano uscite dalle labbra dei più giudiziosi, volte a
frenare la sua impulsività fin troppo accentuata.
Eppure, di fronte alle cose veramente importanti, il Leone aveva
dimostrato di possedere una lungimiranza e una pazienza normalmente
sopite in lui.
Con calma e tenacia aveva ricostruito il suo buon nome, guadagnandosi il
rispetto e la fiducia di quelli che contavano; con devozione e
tolleranza era riuscito a ottenere l'armatura d'oro, riscattando in
qualche modo la memoria del fratello morto nell'infamia.
Milo ammirava e invidiava questa ambivalenza dell'amico; lui, al
contrario, non riusciva mai a staccarsi dal suo vero se stesso, e
certe volte la mancanza gli pesava: un conto era raccontare bugie per
coprire qualche malefatta di scarso rilievo, un altro era dover
fingere fino a forzare la propria natura – come stava facendo in quel
momento.
«Che intendi fare, dunque?» gli chiese Aiolia, dopo qualche minuto di
silenzio.
«Nulla, è ovvio. Tanto Maia non dirà niente a Camus, per timore della sua
reazione o per pietà nei miei confronti».
«Milo, io non ti riconosco più. Che fine hanno fatto il tuo carattere, la
tua grinta, la tua onestà? Davvero lasceresti tutto così? Con che
coraggio ti guarderesti allo specchio, sapendo di aver tentato la
donna del tuo compagno? Con quale animo continueresti a sopportare di
vedere la persona che ami tra le braccia di un altro, dal momento che
le hai rivelato ciò che senti?»
Dinanzi a quell'accalorato rimprovero, qualcosa scattò nel cervello
dell'Ottavo Custode; qualcosa di tanto forte
da spingerlo a sputare il nodo, finalmente.
«Si fa presto a vomitare sentenze» cominciò quindi, grave in viso «C'è una
cosa sulla quale ti ho mentito: la persona che amo da tempo immemore
la vedo tra le braccia di un'altra,
non di un altro! Non è Maia che mi tiene sveglio la notte. Non è Maia
il pensiero che mi desta al mattino. Non è Maia quella che anelo di
legare a me per il resto della mia esistenza. È di Camus che sto
parlando, Aiolia: ciò che hai visto è stata tutta una colossale messa
in scena.
Il giorno dopo il compleanno di Al, quando Maia mi raccontò entusiasta che
lei e l'Acquario si erano scambiati effusioni, all'inizio pensai si
fosse trattato di una stupidaggine causata dall'ebbrezza.
Lei abbatté subito la
mia flebile speranza, ma non volli crederle, così mi recai
all'Undicesimo Tempio in cerca di rassicurazioni. L'unica cosa che
ottenni fu solo un incupirsi del mio stato d'animo: probabilmente
Camus non avrà mai più lo stesso sorriso luminoso che mi rivolse
quella maledetta mattina.
Mi resi conto così che quella da me considerata alla stregua di una
sorella e il ragazzo per cui darei tutto – persino le sacre vesti di
Scorpio – si erano invaghiti l'uno dell'altra, e proprio sotto il mio
naso! Mi
crollò il mondo addosso. Letteralmente.
Da lì, con la scusa di essere offeso per il fatto di avermi celato il suo
interesse nei confronti di Maia, ho cominciato a evitare Camus; in
realtà, avevo deciso di doverlo dimenticare a tutti i costi.
Non me la sentivo
tuttavia di riservare lo stesso trattamento a Maia, non so bene
perché; lei, però, non credendo alla mia sorta di alibi, ha iniziato a
fiutare la verità – specialmente dopo aver trovato nei campi intorno
al Grande Tempio questo,» nel raccontare, si sfilò il ciondolo per
mostrarglielo «che io stesso avevo gettato per rabbia».
Aiolia guardò l'oggetto scintillante, interessato: «Ma non è la collana
che ti ha regalato Camus qualche compleanno fa? Quella che ti porti
appresso persino sotto la doccia?»
«Sì, è lei. E appunto perché uso separarmene il meno possibile, Maia deve
aver intuito che dietro al mio comportamento stizzito ci fosse
qualcosa di grosso. Ho
dovuto
fare quello che ho fatto, capisci? Se
io avessi confessato tutto, lei probabilmente si sarebbe sentita in
colpa e, per rimediare, ne avrebbe parlato con Camus, rovinando il suo
e il mio rapporto con lui: io volevo assolutamente impedire che ciò
avvenisse.
Se Aquarius venisse a sapere di ciò che provo per lui da fonti esterne
perderebbe ogni fiducia nei miei riguardi. Il fatto che non si sia mai
accorto di nulla, che nonostante abbia passato anni ad adorarlo abbia
continuato a considerarmi solo un amico, ne è la prova lampante.
Chiamami codardo,
vigliacco, indolente, come preferisci: mi farebbe troppo male ricevere
un suo netto rifiuto».
Dovette fermarsi per riprendere fiato: si sentiva svuotato di ogni
emozione.
Rivelando il suo segreto più prezioso aveva mostrato quella parte di se
stesso che custodiva gelosamente in fondo all'anima, lasciando così
scoperta la sua maggiore debolezza – che cominciava e finiva in Camus.
Si aspettava che Aiola si indignasse, che lo rimbrottasse nuovamente;
rimase perciò di sasso quando questi, senza dire alcunché, gli si
avvicinò e lo strinse in un abbraccio commosso.
Ricambiò il gesto cingendogli la vita.
«Che c'è che non va in me, ‘Lia? Non è normale innamorarsi del proprio
migliore amico, ammesso che io l'abbia mai considerato solamente tale.
Per quanto mi sforzi di convincermi che non ci sia nulla di male,
rimango del parere di essere sbagliato. Alieno. Contro natura»
biascicò, attaccato alla sua spalla.
«Milo, il tuo problema è proprio questo: se sei tu il primo a pensare di
avere qualcosa fuori posto, non ce la farai mai a persuadere gli altri
che così non è. Perché non ti sei sfogato prima? Perché ti sei tenuto
questo peso dentro? Non è sempre possibile sopportare tutto da soli, a
volte si deve anche saper chiedere aiuto. Avresti potuto fidarti di me
come io ho fatto con te in passato».
«Avevo paura che non avresti capito; che ti saresti scostato da me».
«Sei uno sciocco: non l'avrei mai fatto. Io sono stato, sono e sarò tuo
amico per sempre, nel bene e nel male: non saranno certo le tue
tendenze sessuali a farmi cambiare idea».
Lentamente, Aiolia sciolse la sua stretta per guardarlo dritto negli
occhi.
«Non devi vergognarti di quello che provi per Camus. Il tuo sentimento è
di sicuro più bello e puro di quello di tanti altri, che sia magari
indirizzato a esponenti del sesso "giusto". Anche Aio-» si umettò le
labbra, a disagio «anche mio fratello era come te».
Per quanto la notizia l'avesse stupito, Milo rimase in rispettoso
silenzio: sapeva quanto fosse difficile parlare di Sagitter, per
Aiolia.
«Lui e Saga... io penso che si amassero. A
sette anni non si è affatto pratici di certe faccende, ma intuivo lo
stesso chiaramente che, tra loro, non v'era solo amicizia:
semplicemente nell'avvertire la presenza di Gemini, Aiolos si
accendeva di una luce strana. Ricordo di esserne stato geloso,
soprattutto dopo averli sorpresi mano nella mano in un angolino del
Nono Tempio. Avevo
una certa remore a parlarne, persino con lui: temevo fosse una cosa
sporca, proibita, e questo presentimento si trasformò in certezza
quando... quando successe.
Nella mia mente confusa e sofferente di fanciullo rimasto pressoché solo
al mondo, tra tutti i crimini imputati a mio fratello io ci includevo
perfino la passione che lo legava a Saga e, anzi, la ritenevo forse la
colpa più grave. Crescendo, ho poi compreso di essere stato ingiusto,
almeno sotto questo particolare aspetto: probabilmente la mia era
semplice paura di aver perso il primo posto nel suo cuore, mascherata
da qualcosa di meno infantile».
Leo tacque, visibilmente affranto.
«Lasciamelo dire, ‘Lia: io credo che tu non abbia nulla da rimproverarti.
Nonostante le malelingue che ti hanno perseguitato per la maggior
parte della tua vita, hai saputo scindere Aiolos il traditore dalla
figura immacolata dell'Aiolos che noi tutti abbiamo conosciuto e
onorato. Non
sappiamo come sia andata veramente quella notte, ma io sono convinto
che Sagitter – il Santo, il dorato Sagitter – non sarebbe mai stato
capace di compiere il gesto per cui ha subito una condanna senza
appello, se non avesse avuto dei motivi che lui riteneva validi e
giusti. Ho come la sensazione che la damnatio memoriae a cui l'ha
sottoposto il Gran Sacerdote, la scomparsa di Gemini, l'esilio
volontario del vecchio Libra e il repentino ritiro in Jamir di Mu
nascondano un enorme scheletro nell'armadio».
«Anche io sono del parere che ci sia un posto vacante tra le varie tessere
del puzzle: chissà che la ribellione dei cavalieri di bronzo traditori
non rappresenti l'anello mancante dell'intera vicenda» confermò
Aiolia, incrociando pensoso le braccia.
«Tutti i pezzi troveranno il loro
incastro alla perfezione, presto o tardi: la resa dei conti si sta
avvicinando. E forse,» pensò Milo «il
momento verrà anche per noi due, Camus».
Note
dell'autore
Ed
eccoci qua con la seconda parte del capitolo 7; a
differenza di altri, questo aggiornamento è rimasto pressoché identico
all'originale.
Benché
i fatti non mi diano ragione – emblematico, sul
punto, è l'accento posto da Milo sul fatto che Aiolia sia fratello di un
traditore –, a me piace pensare che fra Scorpio e Leo corra un rapporto
di
amicizia molto, molto stretto.
Perché,
nonostante i doverosi distinguo, io trovo che
i due abbiano lo stesso modo di approcciarsi alla vita: passionale,
impulsivo.
Emozionale. Niente a che vedere con l'atteggiamento riflessivo e
calcolatore di
altre figure, insomma.
Posto
ciò, se esiste una sola persona in grado di
ispirare a Milo una fiducia tale da permettergli di aprirsi su una
faccenda del
genere – il cui valore emotivo spero di aver sottolineato a sufficienza
–,
questa è proprio Aiolia.
Vogliate
perdonare l'accenno alla Saga/Aiolos, non ho
saputo resistere. Le coppie "non convenzionali", in Saint Seiya, sono
come le ciliegie: o le si ripudia completamente (da bravi puristi),
oppure una
tira l'altra. E io, evidentemente, appartengo alla seconda categoria
XD
Stavolta
non mi pare ci siano particolari precisazioni
da fare, salvo quella sulla damnatio memoriae.
Saprete
meglio di me che cos'è, ma io, per pignoleria,
lo ribadisco: "damnatio memoriae" è una perifrasi latina che indica
la condanna all'eliminazione di memorie, opere od atti di personaggi
ritenuti
scomodi o colpevoli di qualche grave crimine. Nell'antica Roma, questa
veniva utilizzata contro i cosiddetti
"hostes", ossia i nemici del Senato o dell'intera città; più tardi il
termine acquisirà anche accezioni leggermente diverse, distaccandosi dal
suo
concreto significato.
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Capitolo 11 *** Capitolo 8: 9 settembre 1986. Shaka ***
Capitolo 8. Shaka BG
Capitolo
8:
9 settembre 1986. Shaka
Chi
non cambia è solo il saggio più elevato, o lo sciocco più ignorante.
Confucio
Shaka di Virgo aspettava con la schiena appoggiata contro una colonna e le
braccia incrociate sul petto.
I soldati posti a difesa dell'ingresso della sala del Trono lo guardavano
timorosi, come si osserva di sottecchi una creatura rara e bellissima:
circondato com’era dal fulgore delle sue sacre vestigia, pareva
davvero un – irritato – angelo vendicatore.
Il Gran Sacerdote l'aveva convocato d’urgenza per motivi a lui ignoti,
salvo poi relegarlo alla porta ad attendere come fosse un qualunque
sottoposto.
«Soldato, chi c’è a colloquio col Pontefice?» chiese imperioso,
apostrofando l’uomo armato più vicino a lui; questi, sentendosi
chiamare all’improvviso, sobbalzò visibilmente: «Si tratta di Aiolia
di Leo, Nobile Virgo. É arrivato senza appuntamento e si è diretto
verso l'entrata con una certa irruenza. Abbiamo provato a fermarlo,
ma-»
«Basta così, grazie» lo interruppe lui, disgustato.
«Maledetto Leo!»
Aiolia, Aiolia, sempre lui: nell'ultimo periodo gli aveva dato continui
fastidi, volontari o involontari che fossero. Shaka aveva molte doti,
ma la virtù della pazienza non era certo annoverabile fra queste, e il
Leone d'oro stava mettendo a dura prova quella poca che possedeva.
«Calpesterà il suo orgoglio e verrà a chiederti scusa non appena si
renderà conto che TU non puoi essere in torto. Oh, se verrà!»
Quel giorno era stato davvero troppo ottimista: una persona superba come
un predatore e testarda al pari di un mulo di certo non avrebbe potuto
dimostrare di essere al contempo saggia e remissiva, neppure sapendo
di trovarsi in errore.
Si tolse l'elmo e si passò una mano fra i capelli, scostando dal viso le
ciocche più ribelli: da quando le aveva tagliate erano cresciute
parecchio e velocemente, anche se non sapeva con esattezza in che
misura; non possedeva specchi, e neppure ricordava quanto tempo fosse
passato dall'ultima volta che ne aveva usato uno – al suo posto,
Aphrodite sarebbe impazzito.
Lui, invece, derideva e biasimava certe inutili vanità: in molti gli
dicevano che era bello, ma la cosa lo lasciava indifferente al punto
da disinteressarsi completamente del proprio aspetto fisico.
Aveva un concetto di
beltà del tutto diverso da quello comune.
«Adesso mi sono stancato. Me ne
vado, non ho tempo da perder-»
Fu trattenuto dal minaccioso guizzo di cosmo proveniente dall’interno
della stanza: Aiolia stava espandendo la sua aura in modo inusuale per
un semplice colloquio con il Pontefice.
Com’era prevedibile, le guardie sembravano non essersi accorte di nulla.
Si accostò impercettibilmente alla porta, tendendo l'orecchio per captare
i discorsi; non era sua abitudine origliare, ma la peculiare
situazione lo richiedeva.
«... menzogne! Vili calunnie! Quei dannati ti hanno fatto il lavaggio del
cervello! Io contavo su di te, Aiolia di Leo! Ti ho addirittura
preferito a Scorpio! É questo il tuo modo di ripagare la fiducia
concessati?»
«Le uniche calunnie sono quelle con le quali Voi avete infangato il mio e,
soprattutto, il nome di mio fratello! Arles! Toglietevi la maschera:
voglio guardare in faccia colui che sta per muovere guerra alla dea
Atena, la stessa Atena che avete finto di rappresentare per oltre un
decennio!»
«Aiolia ha perso il lume della
ragione. Devo fermarlo» pensò Shaka, sconvolto e inorridito da
quelle parole orribilmente blasfeme.
Il cavaliere del Leone non era mai stato un modello di santità, ma fino a
quel momento la sua fedeltà verso l'istituzione del Grande Tempio
aveva retto solida e costante – a dispetto del trattamento da essa
ricevuto. Che cosa era accaduto, ora, da fargli muovere accuse gravi a
tal punto?
Intanto, nella sala, i toni si erano fatti più accesi.
«Tu sei pazzo! Pazzo e traditore, proprio come Sagitter!»
«BASTA! NON VI PERMETTERÒ DI INSULTARLO OLTRE! LIGHT-»
«Ferma la tua mano, cavaliere! Vuoi forse commettere un sacrilegio?»
Nel veder comparire il Custode della Sesta Casa dai battenti spalancati,
Aiolia si bloccò; il fascio di luce che andava formandosi nel suo
palmo destro perse potenza, fino a spegnersi del tutto.
«Virgo! Che cosa-»
«Cavaliere di Virgo!» urlò rabbioso il Gran Sacerdote, puntando il dito
contro Leo «Costui ha tradito! Gli avevo ordinato di recarsi a Tokyo
per eliminare definitivamente lady Saori e i suoi cinque seguaci di
bronzo, ma lui si è ribellato ai miei voleri! Non solo li ha
risparmiati, si è persino unito alla loro eretica causa! Un attimo fa
ha cercato di usare il potere della sua armatura contro di me –
quell'armatura di cui io stesso l'ho investito! Uccidilo, Shaka,
punisci la sua infedeltà con la morte! Non ne resti che cenere!»
«Shaka, non credergli!» gridò di rimando l'accusato «Arles è un impostore!
Tredici anni fa uccise il vecchio Shion, e con la frode ne usurpò il
titolo di sommo Pontefice. Durante la Notte degli Inganni, poi, cercò di assassinare la
piccola Saori, poiché aveva riconosciuto in lei il cosmo della dea
Atena: ci sarebbe anche riuscito, se Aiolos non fosse intervenuto per
trarla in salvo. Prima
di morire sotto i colpi di Capricorn, al quale era stato comandato di
inseguire il fuggitivo, mio fratello affidò la neonata e le vestigia
di Sagitter a Mitsumasa Kido, che, conoscendo l’esistenza del
Santuario, era riuscito a superare la barriera invisibile posta a sua
protezione.
L'uomo condusse la bambina a Tokyo, allevandola come una figlia; deciso a
portare alla luce la verità, riunì altresì attorno a lei cento ragazzi
per prepararli e inviarli successivamente nei luoghi di addestramento
per cavalieri di Atena, affinché, una volta conquistata l'armatura,
fossero in grado di restaurare il giusto ordine qui in Grecia».
«Una favoletta ben congegnata,» commentò Shaka «ma adatta a convincere
unicamente un fanciullo imberbe. Come puoi essere caduto così in
basso, Aiolia? Stai voltando le spalle a tutto quello che hai
conquistato col sudore di una vita! Ritorna in te, abbandona i tuoi
folli propositi!»
«No, Shaka, ascoltami! Mentre lottavo con uno di loro, l'armatura di
Sagitter è apparsa dal nulla e si è posta a sua difesa, per
proteggerlo dai miei attacchi! Ho udito la voce di Aiolos!»
«Le sacre vestigia del Sagittario a Tokyo?! Ma erano date per disperse da
mesi, ormai!» intervenne il Pontefice, con tono sinistramente
eccitato.
«E poi,» il Leone ignorò l'esclamazione del Gran Sacerdote, teso com’era a
cercare di persuadere il parigrado «ho sentito il cosmo di Atena
provenire dalla giovane lady Saori. Era caldo, rassicurante... sconfinato. Solo l'aura di un dio può superare in splendore e
vastità quella di un cavaliere d'oro. Non sto mentendo, e posso
dimostrarlo!»
«Virgo, cosa stai aspettando?! Metti a tacere queste bestialità, subito!»
rinnovò l'ordine Arles, perentorio.
«Per secoli la Giustizia ha regnato sovrana su questo sacro luogo, e così
continuerà a essere, perché in tal modo ha deciso la Dea. Non saranno
i tuoi vaneggiamenti, né quelli di cinque ragazzini, a cambiare
quest'immutabile stato di cose. Sono profondamente addolorato da ciò
che mi accingo a fare, ma sei tu che mi ci hai costretto: non avrei
mai voluto arrivare a tanto. Ora, preparati» sibilò Shaka mettendosi
in posizione, il corpo fremente.
«Finché non smetterai i panni della semi-divinità infallibile, non potrai
mai capire. I tuoi occhi, che tieni chiusi per meglio vedere, sono bui
come quelli di un cieco. E sia, dunque;» sentenziò Aiolia funereo,
preparandosi alla difesa «ma non credere di potermi battere. Vieni, ti
sto aspettando!»
«TENBU HORIN!»
«LIGHTNING PLASMA!»
Pugno contro pugno, i due sfidanti si ritrovarono faccia a faccia.
Virgo espanse il cosmo fino ai limiti estremi della sua costellazione, il
volto deformato da una smorfia di sforzo e frustrazione; con un
ringhio sommesso, Leo fece lo stesso.
Non si trattava di un corpo a corpo, nessuno dei due accennava a scostarsi
per colpire l'altro: era, bensì, una battaglia fra aure dorate – il
feroce e possente Leone contro la raffinata e spietata Vergine.
Le scariche elettriche generate dalla loro contrapposizione fendevano
l'aria, e le colonne già cominciavano a incrinarsi per effetto della
tensione.
«Così non possiamo continuare! La
nostra potenza è pari, finiremo per scatenare una Guerra dei Mille
giorni!»
All'improvviso, la forza che alla sua si stava opponendo subì un brusco
calo, e l'energia sprigionata dal Tenbu Horin e dal Lightning Plasma
si liberò attraverso un'esplosione che gettò a terra entrambi.
Shaka, benché confuso dall'inspiegabile e repentina perdita di vigore del
cosmo avversario, si rialzò velocemente, pronto a riprendere lo
scontro.
«In guardia, Leo!» gridò, prima che il Rikudo Rinne gli morisse in gola.
Anche Aiolia era in piedi, e tuttavia non dava segni di voler continuare
la lotta; a dirla tutta, sembrava che non sapesse nemmeno chi e dove
fosse.
I suoi occhi verdi, in genere brillanti e svegli, fissavano opachi il
pavimento; le spalle erano leggermente incurvate, la testa reclinata
di lato.
«Che il Tenbu Horin abbia centrato
l'obiettivo, contrariamente alle mie aspettative? No, non è
possibile, l'ho sentito disperdersi!»
«Aiolia?» chiamò, totalmente spiazzato dallo strano comportamento
dell'ormai ex compagno.
Questi, sentendo il proprio nome, parve ritrovare una parziale lucidità,
perché si girò verso di lui e disse, senza alzare lo sguardo: «Shaka
di Virgo, ti chiedo di perdonare la mia oltraggiosa condotta. Mancando
di rispetto al Gran Sacerdote non ho dileggiato solamente Atena, ma
anche tutti i miei pari – te compreso. Adesso, però, mi sono
ravveduto. Qualsiasi maligno controllo abbiano esercitato sulla mia
mente quei miserabili, ora è svanito».
Virgo lo guardò allibito, la bocca semiaperta per lo stupore.
«Tutto questo è assurdo. Privo di
ogni logica».
Gettò un'occhiata alla figura di Arles, per controllarne la reazione: al
contrario di lui, non appariva poi tanto sorpreso. Se avesse dovuto
abbinarlo a uno stato d'animo, l'avrebbe anzi accostato alla soddisfazione. Nonostante non potesse osservarlo in volto, si sentiva in
grado di affermare che tutto di lui cantava vittoria, a cominciare dal
portamento – altero per quanto era divenuto dimesso quello del Leone.
«AHAHAH! Sentito, Shaka? Il nostro Leo si è redento. Chissà di quali
loschi e infidi inganni è stato vittima! Molto bene: direi che la
questione è risolta. Non sei d'accordo?»
«Ma, Signore... ne siete sicuro?» rispose
Virgo, nient’affatto convinto – a lui la faccenda sembrava tutto
fuorché conclusa. Il mutamento di opinione di Aiolia era stato così repentino che, per
quanto ne sapeva, avrebbe anche potuto essere una finta atta ad
allontanarlo dalla sala; chi gli giurava che, una volta uscito, il
Quinto Custode non avrebbe smesso la maschera e attentato nuovamente
alla vita del Gran Sacerdote?
«Certo che ne sono sicuro. Non avverto nel suo cosmo alcuna traccia di
ombra – non più. Cavaliere di Virgo, ti avevo fatto chiamare per dei motivi che ora, data
l'entità degli ultimi eventi, mi sfuggono: sei dunque libero di
tornare al tuo Tempio».
Più che incertezza nei confronti della condotta di Aiolia, dalla risposta
del Pontefice traspariva semmai la smania di veder congedato proprio
lui.
«Come desiderate, Sommo» lo accontentò, dopo aver rivolto un ultimo
sguardo dubbioso al novello pentito, che continuava ad avere
un'inquietante aria persa.
Uscendo, Shaka finse di non notare le sbirciate curiose del capannello di
soldati assemblatosi intorno all'ingresso della stanza del Trono,
attirati presumibilmente dalle urla e dai rumori della breve lotta
consumatavisi; quando la brezza esterna portò l’odore del mare alle
sue narici egli emise un lungo sospiro di sollievo, grato di essere
finalmente fuori dalla Tredicesima Casa.
Non riusciva a spiegarsi l'accaduto, sotto più di un aspetto.
Punto primo: perché assegnare una missione delicata come quella proprio ad
Aiolia? Fra tutti i cavalieri d'oro presenti al Santuario, lui era di
sicuro quello meno vicino al Gran Sacerdote.
Punto secondo: cosa aveva spinto Leo a credere alla storiella dei Bronze?
La sua assurdità era chiara come i raggi del sole.
Punto terzo: possibile che bastassero pochi minuti per cambiare un' idea
di tale portata?
E poi, quell'atteggiamento stranito così fuori luogo sull'ardente e vivo
Leone… dubitava
fortemente dell'onestà del cavaliere del Quinto Fuoco.
«Tuttavia, l’aspetto più peculiare della vicenda è che, per tutto il
tempo della mia permanenza nella sala del Trono, ho avuto la netta
sensazione che qualcosa non andasse, che nella sua aura ci fosse
un non so che di ostile…
Voglio dire che io vedo in Arles il nemico da estirpare...
Shaka, non credergli! Arles è un impostore!»
Prima Camus, poi Mu; ora, Aiolia – se fosse stato nel Gran Sacerdote, si
sarebbe guardato le spalle molto accuratamente.
Virgo evocò la protezione del cosmo e la eresse attorno a sé per uscire
indenne dalla discesa della scalinata che portava al Dodicesimo
Tempio, costellata di rose velenose.
Stava calando la sera e la luce morente del giorno illuminava di sbieco i
fiori maledetti del cavaliere dei Pesci, donandogli un fascino
mortalmente sublime molto simile a quello del loro creatore.
Giunto all’entrata posteriore della Casa dei Pesci fu colpito dal lembo di
una conversazione che si stava presumibilmente svolgendo fra
Aphrodite, Shura e Death Mask.
«… e poi, in quell’angolo di mondo dimenticato persino dalle pulci,
indovinate chi spunta dal nulla, esattamente nel momento in cui stavo
per spedire nell’aldilà l’inetto allievo del vecchio? Il nostro caro
Mu di Aries. Altro che la solita flemma, avreste dovuto vedere com’era
infuriato!»
«Mu? Ma non si era ritirato in Jamir volontariamente?» chiese Shura,
dubbioso.
«Esatto! Quando uno si ritira in esilio dovrebbe voler farsi gli affari
propri, no? Al contrario! Quell'ameba travestita da cavaliere d'oro si
è messa in mezzo, impedendomi di portare a termine la missione. Ho
dovuto filare via come un cane bastonato, ma solo dopo aver ascoltato
la ramanzina di Libra sulla pace, sulla giustizia e via discorrendo –
due palle che non vi dico».
«E così, Mu continua a tradire il
Grande Tempio. Perché, amico mio?»
«Povero Death... “cornuto e mazzato”, come diresti tu!» rise Pisces.
«Si dice “cornuto e mazziato”,
bambolina. Se proprio devi citarmi, fallo in modo corretto!»
La lezione di dizione fu tuttavia interrotta dall'arrivo di Shaka, che
salutò con un cenno i compagni e tirò dritto fingendo di non aver
sentito nulla.
«Ehi, “piedino di fata”! Tutto bene alla Tredicesima Casa? Abbiamo notato
un certo trambusto persino da quaggiù: sembra che tu e il tuo micio
arruffato non stiate andando molto d’accordo, in questo periodo… » gli
gridò dietro Death Mask.
«Va tutto benissimo, Cancer, ti ringrazio dell’interessamento» rispose
lui, affrettandosi a oltrepassare il Tempio.
Non sopportava i modi dell'italiano. Anzi, non tollerava proprio niente
di lui: era, e sarebbe sempre stato così.
All’ingresso della Giara Sacra per poco non andò a sbattere contro Maia,
che proveniva dalle Case inferiori; chissà da dove le derivava quella
buffa abitudine di andare sempre in giro senza badare alla direzione
dei propri passi.
«Salve, Maia».
Probabilmente la colse alla sprovvista, poiché ella tese le braccia in
avanti come a ripararsi; così facendo, però, il carico di libri che si
portava appresso cadde inevitabilmente a terra, spargendosi sul
pavimento con un gran fracasso.
«Ciao Shaka!» esclamò la ragazza, imbarazzata dalla sua stessa
sbadataggine «Scusa, non ti avevo visto».
«L'ho notato» disse lui con un sorrisetto, chinandosi a raccogliere un
tomo particolarmente grosso.
«Manuale delle malattie infettive»
lesse, una volta aperte le palpebre «È per il tuo corso di studi?»
«Sì. Questa è la materia principale del semestre. A livello teorico me la
cavo, ma con le diagnosi sono ancora un po’ carente. Il fatto è che
spesso si tratta di malattie di cui non ho mai potuto osservare i
sintomi: come la Dengue, tanto per dirne una».
«Io, al contrario, ho una certa dimestichezza con la febbre dengue.
Riconoscerla è invero piuttosto semplice, se sai cosa cercare: benché
differiscano lievemente per sintomatologia, tutti e cinque i sierotipi
del virus si manifestano attraverso il caratteristico esantema».
Maia lo stava osservando affascinata, come se avesse appena scoperto un
tesoro nascosto.
«Ma certo! A causa del tuo aspetto, dimentico sempre che sei indiano:
naturale che tu abbia più familiarità di me coi virus tropicali. Però,
come puoi conoscere dei dettagli tanto tecnici?»
«Il monastero dove sono nato e cresciuto dava spesso assistenza sanitaria
agli indigenti; ho acquisito le conoscenze mediche che possiedo
direttamente dai monaci, nonché dai pochi libri scientifici di cui
disponevano» rispose Shaka, che aveva ancora ben impressi nella
memoria sia gli odori nauseanti di certe piaghe, sia i lamenti
disumani dei moribondi con le viscere consumate dal colera.
«È magnifico!» esclamò allora quella, entusiasta «Non avrei mai pensato
che tu ti intendessi di medicina. Nel caso in cui trovassi delle
difficoltà con qualche malattia di questa specie, ti seccherebbe se
venissi a chiederti consiglio? Quando non sei occupato con cose più
importanti, ovviamente… »
«Volentieri. Il tempo speso per la conoscenza non è mai sprecato».
«Anche io la penso così, e... Camus!»
Quando la figura dell'Esperto dei ghiacci apparve dalla scalinata che
collegava la Decima e l’Undicesima Casa, Maia gli corse incontro,
totalmente dimentica di Shaka; nel vederla, gli occhi dell'Acquario da
seri si fecero subito ridenti, pieni di un chiarore particolarmente
brillante.
Qualunque cosa fosse quella luce, era bella da vedere; tuttavia, per Shaka
– e solo per lui – era anche un po’ amara.
Note
dell’autore
Bentrovati!
Quella
descritta nel presente capitolo dovrebbe essere una rivisitazione dello
scontro di Shaka e Aiolia al cospetto di Arles, avvenuto subito dopo il
ritorno di Leo da Tokyo; solo che, nel contesto della mia storia, esso
ha luogo due giorni prima dell'arrivo dei Bronze – e non il giorno
stesso, come nell'anime.
Dunque,
se fino a ora le vicende sono state ambientate in un periodo di tempo
relativamente ampio – che va dal 30 aprile 1986 fino ad agosto inoltrato
–, ora ci sarà un notevole rallentamento: i prossimi capitoli andranno
di giorno in giorno, o giù di lì.
Mentre
la prima parte dell’aggiornamento (ossia, quella importante) è rimasta
pressoché inalterata, l’ultima ha invece subito qualche ritocco.
In
particolare, ho aggiustato il racconto di Death Mask a proposito della
sua missione ai Cinque Picchi, nonché la conversazione fra Shaka e Maia,
adesso incentrata sull’ars medica;
nel mio immaginario, infatti, Shaka ha qualche rudimento di medicina –
come verrà altresì specificato nel capitolo 11, parte II.
Riguardo
gli aspetti un po’ più “tecnici”:
-
alcuni pensieri di Virgo sono tratti dai precedenti
capitoli:
a) “Calpesterà
il
suo orgoglio e verrà a chiederti scusa non appena si renderà conto che
TU non puoi essere in torto. Oh, se verrà!” (capitolo 2);
b) "Tuttavia,
l’aspetto
più peculiare della vicenda è che, per tutto il tempo della mia
permanenza nella Sala del trono, ho avuto la netta sensazione che
qualcosa non andasse, che nella sua aura ci fosse un non so che di
ostile" (capitolo 3, parte II);
c) "Voglio
dire
che io vedo in Arles il nemico da estirpare" (capitolo 5).
-
L'espressione "cornuto e mazziato" ha origini partenopee e significa,
pressappoco, "oltre al danno, la beffa".
- La
febbre dengue – o, più semplicemente, Dengue – è una malattia infettiva
tropicale causata dall'omonimo virus (che esiste in 5 sierotipi); si
trasmette tramite la puntura della zanzara di genere Aedes.
I
sintomi più comuni sono febbre, cefalea, dolore muscolare e articolare,
nonché la comparsa dell'esantema (ossia, un'eruzione cutanea) di cui
parla Shaka.
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Capitolo 12 *** Capitolo 9: 10 settembre 1986. Camus ***
Capitolo 9. Camus BG
Capitolo
9:
10 settembre 1986. Camus
Così
ti
stringevo al mio cuore
come
fosse l'ultima
notte felice del mondo,
l'ultima
notte
importante per dimenticare di essere soli,
di
essere soli
da sempre.
Baustelle
Pioveva a dirotto: quel giorno Atene si era svegliata zuppa fino al
midollo, e sarebbe andata a dormire satura d'acqua.
Una spessa coltre di nubi violacee ricopriva l’orizzonte come un pesante
lenzuolo, dal quale filtrava poca e timida luce; la città, da lontano,
sembrava avvolta in un involucro scuro.
Il temporale non stava risparmiando neppure il Santuario, ove le gocce di
pioggia si raccoglievano sulle scalinate e sui tetti in pozzanghere e
rigagnoli fruscianti; se non altro il marmo dei Templi, ora ingrigito
dall'atmosfera cupa, col ritorno del sole sarebbe apparso più bianco e
candido di prima.
Camus di Aquarius, invece, dubitava di essere mai stato davvero candido:
in quel momento, anzi, si sentiva pieno di ombre – quasi oscurato.
Fermò i suoi passi nel bel mezzo della discesa che dalla Dodicesima Casa
conduceva alla sua, e godette del freddo, avvolgente abbraccio della
pioggia sul corpo.
Sperava che il cielo, con tutte quelle gocce simili a lacrime, oltre alle
Dimore dei cavalieri d'oro riuscisse a purificare un po’ anche lui:
quando la realtà minacciava di sopraffarlo – e ciò avveniva di rado –
si faceva cullare da tali immagini fantasiose. Vi si
abbandonava senza tuttavia farlo davvero; permetteva che lo
accarezzassero, questo sì, ma non aveva più l'età per riuscire a
illudersi.
Passò in rassegna con gli occhi la porzione di Grande Tempio che si
stagliava sotto di lui, dal maestoso Palazzo del Montone Bianco fino
all'armoniosa circolarità della Sacra Anfora.
Senza avvedersene, soffermò lo sguardo sulla Casa dello Scorpione del
Cielo un po’ più a lungo del dovuto; le persiane delle stanze private
non erano ancora state chiuse, per cui si intravedeva un mite chiarore
elettrico provenire dalla finestra della camera da letto di Milo.
Milo. Chissà che stava facendo; conoscendolo, probabilmente era sdraiato
sul letto con le cuffie del suo amato walkman alle orecchie. Quell’aggeggio,
acquistato
due o tre anni prima, gli era costato lo stipendio di mesi; avevano
girato mezza Atene a piedi per trovarlo, in un pomeriggio scuro e
tempestoso come quello e, alla fine, erano tornati al Santuario molli
come pulcini – Scorpio al colmo della soddisfazione, Camus decisamente
irritato.
Cosa non aveva fatto, pur di veder sorridere quel suo amico così brillante
e rompiscatole!
Peccato, tuttavia, che nulla fosse bastato. Gli
mancava – e tanto, anche.
Gli mancava come manca lo zucchero in un caffè troppo amaro; come manca
l'arredo in una stanza troppo vuota. Come manca un libro sul comodino
prima di andare a dormire.
C'erano, fra loro, troppe cose non dette: ma quali?
Se ne fosse stato a conoscenza, Aquarius non avrebbe avuto alcuna
esitazione ad andare da lui – non quel giorno, non più: gli pareva che
i tempi si fossero fatti troppo ristretti per continuare a rimandare.
Però si sentiva così maledettamente distante, un foglio di carta in balia
del vento… no, non sarebbe sceso all'Ottava Casa.
«Lui si è inventato un problema. Lui
ha eretto una barriera fra noi. E, così come l'ha creata, sarà lui
stesso a infrangerla, se vorrà. Non sta a me».
Uno colpo di tosse gli risalì la gola, rompendo l'incanto in cui era
caduto e convincendolo finalmente a rientrare; una volta all'asciutto
fra le colonne si diresse senza fretta nelle sue stanze, lasciando
dietro di sé una scia di piccole pozze d'acqua.
Quando aprì la porta che dava sul corridoio, fu investito da un tepore
caldo e accogliente che sciolse l'umidità penetratagli nelle ossa.
«La perturbazione improvvisa che sta interessando l'Attica in queste ore
continuerà a imperversare anche nottetempo; ma non preoccupatevi, il
sole tornerà a splendere sull'intera regione già dalla mattinata di
domani, e la temperatura dovrebbe rientrare nella media stag-» Click.
Camus spense la radio nuova di zecca, meravigliato: possibile che l'avesse
dimenticata accesa? No, certe mancanze non erano da lui.
«Maia?» chiamò, affacciandosi in salotto. Nessuno.
«Le sei e trenta spaccate. A
quest'ora avrebbe dovuto essere già qui» si disse, osservando le
lancette dell'orologio a cucù che troneggiava al centro della parete
principale della stanza – regalo di Aldebaran del Natale precedente:
nonostante per loro fosse una festa laica, non disdegnavano di
scambiarsi doni.
«Ho pensato che ti potesse far comodo;» aveva esclamato il Toro
tutto contento, non notando il piglio schifato dell'amico all'apertura
del pacco «uno preciso come te non può fare affidamento solo sull'orologio da
polso!»
Il ragionamento non faceva una piega, e tuttavia la gradevolezza estetica
dell'oggetto in questione era alquanto discutibile.
Nonostante gli sghignazzi di Milo e Aiolia e le occhiate dubbiose dei più
educati, Aquarius aveva deciso di appenderlo al muro per non offendere
il buon Taurus, il cui scarso buon gusto veniva ampiamente compensato
da un’inesauribile generosità.
Scosse la testa, tentando di riemergere da quel ricordo – l'ennesimo.
«Quand'è che sono diventato così
nostalgico? Mi sto decisamente rammollendo».
«Maia! Ci sei?»
Vuoto anche il bagno.
Alla fine la trovò in cucina, addormentata sul bordo del minuscolo
caminetto con la testa abbandonata sulle braccia.
Ogni Casa dello Zodiaco aveva delle particolarità rispetto alle altre:
l'Undicesima era l'unica a pianta circolare, e la sola che potesse
vantare un camino.
Pensata assurda e antitetica assegnarlo proprio al Signore dei Ghiacci,
era stato il commento generale.
Ma lui, che di neve e freddo aveva vissuto per la gran parte della propria
esistenza, non aveva mai condiviso tale idea: solo chi ha dovuto
affrontare il gelo più intenso può apprezzare davvero il calore di un
focolare.
Inoltre, Maia gli aveva detto di adorarlo a sua volta; così, benché in
Grecia lui non ne sentisse il bisogno, nelle giornate più plumbee e
tristi aveva comunque preso l'abitudine di accenderlo.
Al di là della sua mera
funzione, infatti, Camus amava lo scoppiettio della legna intaccata
dalle fiamme, i bagliori rossastri che si allungavano sul pavimento,
la danza ipnotica delle lingue di fuoco; mitigavano l'aria austera e
distaccata del resto dell'edificio – e anche lo spirito del suo
Custode.
Restò per un attimo a osservare il volto disteso della ragazza, avvolto
dal chiaroscuro che i tizzoni ardenti generavano tramite strani giochi
di luce; poi, inginocchiandosi accanto a lei, ne seguì delicatamente i
contorni con le dita.
A causa del contatto freddo e bagnato, Maia si destò.
«Ah!» esclamò, alzandosi di scatto dalla posizione rannicchiata in cui
era, gli occhi semichiusi a cercare la fonte di quel disturbo
ghiacciato.
«Tranquilla, Maia, sono io».
«Camus... » biascicò lei, stiracchiandosi «ma dove sei stato? Sei
fradicio».
«Aphrodite mi ha invitato da lui per un tè».
«E da quando in qua bere un tè comporta anche fare la doccia?»
«Piove ancora, fuori. Mi sono bagnato durante il tragitto» spiegò lui,
spiccio.
«Mh. Aspetta qui, non ti muovere».
La sentì trafficare tra gli sportelli dell'armadio di camera, finché non
tornò con dei vestiti asciutti e un enorme asciugamano, che gli
avvolse intorno al corpo.
«Il fatto di essere il padrone delle Energie fredde non esclude che
raffreddori e malanni da comuni mortali possano colpirti» scherzò,
sfiorandogli la fronte con le labbra.
Sulla sua pelle marmata erano bollenti, come bollente era quel qualcosa
che prendeva vita dentro Camus quando Maia gli riservava tali semplici
attenzioni: per l'Acquario avevano un significato particolare perché,
prima di lei, non ne era mai stato oggetto.
«Chérie... » cominciò esitante, bloccato da una paura ben nota; lo
assaliva spesso, ossia ogni volta che provava ad esporsi.
«Uhm?» lo incoraggiò quella, continuando a strofinargli i capelli con il
telo.
«Io-»
Maledizione. Le parole gli stavano inciampando fra i denti.
«Io sono uno cretino. Ecco quello
che dovrei dire».
«Tu cosa?»
«Nulla, non è importante» mentì Aquarius, sgusciando via dalle sue
braccia.
«Il tuo problema, caro Camus, è che sei emotivamente stitico».
La frase, pronunciata da Aiolia una sera di tanti anni prima nel disordine
accogliente della Quinta Casa, gli tornò alla memoria improvvisamente.
Anche in quell’occasione, era stato Milo a difenderlo.
«Ma no, ma no! Non confondere l'incomunicabilità di Camus con
l'insensibilità, ‘Lia! Il nostro Rouge,
più che emotivamente stitico, è... sentimentalmente dislessico!»
Al che, Maia aveva annuito convinta: «”Sentimentalmente
dislessico” non è un titolo molto elegante, ma ti si addice».
«Sono sentimentalmente dislessico,
avevano ragione. Anche se non ho mai capito bene cosa voglia dire».
«Camus, a che pensi? Ti sento lontano oggi. Qualcosa non va?»
La Maia del presente gli stava sventolando la mano davanti agli occhi e lo
guardava con fare interrogativo – accidenti, si era imbambolato di
nuovo.
«Macché, figurati. È tutto a posto» rispose, quasi seccato che lei si
fosse accorta del suo malessere celato a fatica. Si
legò i capelli in una lunga coda di cavallo umidiccia, mettendosi a
faccia in giù per nascondere la sua espressione corrucciata.
«Ah, dimenticavo» disse poi, afferrando la maglietta e i jeans che ella
gli aveva portato «Stasera Aldebaran ci ha invitato per una pizza alla
Seconda Casa».
«Oh, non so» tentennò lei, a disagio «Chi viene?»
«I soliti, presumo. Nessuna ricorrenza, giusto per stare qualche ora
insieme. Dovremmo essere io, te, Al, ‘Lia, Shaka e Milo».
Al nome di Scorpio, la ragazza trasalì appena.
«N-non credo che sia una buona idea. Shaka e Aiolia si ringhiano contro da
mesi, tu, io e Milo non ci parliamo: sarebbe masochistico».
«Come, tu e Milo non vi parlate? C'è qualche problema?» chiese Camus,
allarmato: non gli era giunta voce di alcun litigio che fosse avvenuto
fra i due.
«No, no, nulla!» si corresse lei, svelta «É solo che, con te in mezzo,
risulterà difficile instaurare una conversazione serena».
«Senti, sono conscio che le cose non sono più come prima, ma… ma è
importante, per me. Sono nervoso, e non ne conosco il motivo. É come
una sensazione di urgenza che mi attanaglia lo stomaco. Ho bisogno di
avervi vicino: di sentire che, nonostante tutto, ci
siete».
Aquarius chinò il capo, intristito dalla sua stessa confessione di
debolezza.
«Che mi sta succedendo? Questo non
sono io. Non è da me sentirmi così insicuro. O forse sì, ma non al
punto da ammetterlo».
Maia allora lo abbracciò forte, infischiandosene degli abiti intrisi
d'acqua.
«Io, per te, ci sarò sempre. Sempre e per sempre. Non ti lascerò mai solo»
disse, baciandolo sulla bocca tra una parola e l'altra «E se la mia
presenza ha il potere di farti sentire meglio, sappi che ti seguirò
anche all'inferno – e sarò felice di farlo. Su, vai a cambiarti ora, o
faremo tardi» disse, allontanandolo da sé con una spintarella in
direzione della porta.
«Grazie» sussurrò Camus, voltandosi sulla soglia prima di varcarla.
*
«Alla buon’ora, piccioncini!» li accolse festosamente Aldebaran un'ora e
mezzo più tardi «Siete arrivati dopo le pizze! Pensavamo che non
sareste più venuti».
A Camus quel saluto, benché privo di malizia, non piacque: avrebbe
preferito essere annunciato in maniera più discreta – o, meglio
ancora, non essere annunciato affatto.
«Scusa, Al, è colpa mia;» ammise Maia «mi sono stesa un attimo sul letto e
sono caduta nel mondo dei sogni come una pera cotta».
Subito dopo, fece un occhiolino ad Aquarius: sul letto c'era finita
davvero, ma in sua compagnia – e non esattamente a dormire.
«Figurati! Semmai vogliate perdonare me, che non ho saputo resistere dal
dare un morso alla mia pizza; sapete, avevo fame... » confessò Taurus
con un po’ di imbarazzo «Per fortuna gli altri sono stati più educati:
prego, entrate!»
Il Secondo Tempio sembrava essere stato costruito su misura del suo
Custode: i mobili, le pareti, perfino alcuni oggetti erano più grandi
del normale.
Trovarono il resto della compagnia seduto al mastodontico tavolo della
sala da pranzo, i cartoni di pizza da asporto ancora chiusi.
«Buonasera a tutti!»
«'sera, ragazzi» fu il laconico benvenuto di Shaka, mentre Aiolia si
limitò a un cenno del capo, lo sguardo apparentemente fisso sul
bicchiere davanti a sé – ma, più probabilmente, perso nel vuoto.
«Aldebaran:» sussurrò Camus «cos’ha Aiolia?»
«Non saprei» bisbigliò quello di rimando «Da quando è arrivato non ha
pronunciato una sola parola. In effetti, sto cominciando a
preoccuparmi».
«Al, ti informo che è finito il sap-oh, salve».
Milo comparve dal bagno e, nel vederli, la sua espressione – da allegra
che era – si fece subito lugubre.
«Ciao, Milo» salutò timidamente Maia, mentre il suo compagno restava in
silenzio.
«Se sapeva che ci saremmo stati
anche noi – e lo sapeva – perché fa quella faccia? Avrebbe dovuto
essere preparato».
«Ehm, bene!» spezzò la tensione il padrone di casa «Ora che siamo tutti,
direi che possiamo iniziare!»
Camus prese posto accanto ad Aldebaran, e Maia al suo fianco, vicino a
Shaka.
Aquarius si augurò vivamente che lo Scorpione si mettesse di fronte
all'indiano, ma, come aveva tragicamente predetto, si accomodò invece
di rimpetto a lui.
Per scansare quegli occhi indagatori sollevò il suo cartone, rimanendo
però interdetto.
«Chi è il genio che aveva il compito di ritirare le pizze? Io ho ordinato
una Margherita, non una Diavola» esclamò, contrariato – detestava il
salame piccante.
«Il “genio” in questione è il sottoscritto;» rispose Milo, sarcastico
«stai tranquillo, la tua ce l'ho io».
Erano le prime parole che l'Ottavo Custode gli rivolgeva, dopo mesi di
ostinato mutismo. E, in fondo, avrebbe dovuto aspettarselo: lui era l'unico a cui piacesse
la Diavola. Da anni prendeva ogni volta la solita.
«Désolé» borbottò Camus, arrossendo.
Da sotto il tavolo, Maia gli allungò una pedata.
Merde,
aveva parlato in francese come faceva sempre quando era arrabbiato o
agitato; peccato che tutti conoscessero questo suo vizio, Milo in
primis.
«Nessun problema» rispose questi, con aria tra il contrito e il
soddisfatto.
«In un modo o nell'altro riesce
sempre a mettermi a disagio».
Non era una novità che il biondo greco fosse il solo ad avere il potere di
imbarazzarlo: in genere capitava quando si lasciava andare a gesti
troppo affettuosi nei suoi confronti o a discorsi poco consoni in
pubblico, ma mai era accaduto in contesti tanto sgradevoli.
Rimpianse di non essere capace di fare il cafone: in quell'occasione,
infatti, gli sarebbe tornato molto utile buttarsi a capofitto sul
boccale di birra che si era versato, evitando così altre magre figure.
Restò invece composto, cercando di ritornare impassibile.
«Non pare anche a voi che manchi qualcuno?» proruppe Maia all'improvviso,
per sviare l'attenzione dal suo uomo.
«Non so se l’hai notato, Maia, ma manca effettivamente qualcuno.
Anche se non è mai stato un gran chiacchierone, questo non significa
che l'assenza di Mu non si noti» disse mestamente Scorpio, la cui
sorta di predica fu seguita da un grosso sospiro di Aldebaran; tutti
sentivano nostalgia della serenità e della calma di Aries, soprattutto
in tempi come quelli.
«Scusa tanto, Milo, ho dato per scontato che tutti i presenti fossero in
grado di riconoscere un modo di dire» sbuffò la ragazza caustica,
suscitando ulteriori perplessità nei presenti – escluso Leo, che
continuava a mangiare meccanicamente.
«Ma che diavolo!? Maia non me la
racconta giusta, è palese che abbiano discusso anche loro» pensò
Camus, notando gli strani atteggiamenti reciproci fra lei e il proprio
camerata «Il Santuario sta
diventando un posto invivibile – come se fosse mai stato il paese
dei balocchi, poi!»
«Comunque,» continuò quella, soffocando sul nascere eventuali repliche
«Shaka, tu con lui hai un legame speciale. Non è che ti ha fatto avere
sue notizie, recentemente?»
Virgo, prima di rispondere, si pulì la bocca con il tovagliolo: «Ha
provato a raggiungermi col cosmo settimane fa, e io ho ricambiato il
contatto. Poi più nulla, da parte sua. Anche se-»
«NO!» urlò Aiolia all’improvviso, battendo i pugni sul tavolo e lasciando
tutti di sasso «Shaka, se sai dove si trova Mu non dire niente! Io
devo allontanarmi da qui, è stato uno sbaglio venire! Potrebb-»
Dopo queste parole, il Leone si accasciò a terra e prese a dondolarsi
avanti e indietro con la testa fra le mani, emettendo flebili lamenti.
Maia, Aldebaran e Milo si precipitarono su di lui come un sol uomo.
«’Lia! ‘LIA!»
«Insomma, Maia, fa’ qualcosa! Sei tu il dottore!»
«Non sono una psichiatra! Fatelo rinsavire voi, piuttosto!»
«Chi, Aiolia? Chi potrebbe? Perché è stato uno sbaglio venire? Che
significa?»
Avevano perso il sangue freddo in un soffio: non poteva crederci,
sembravano preda di un'isteria collettiva. Shaka,
rimasto un po’ in disparte, si era invece limitato a spalancare le
palpebre, sorpreso ma non troppo.
«ORA BASTA!» gridò Camus, a sovrastare il cicaleccio dei compagni.
Ottenuta l'attenzione generale, riprese con tono più basso: «Aria:
lasciategli spazio. La confusione che state facendo di certo non lo
aiuterà!»
Miracolosamente, quelli obbedirono senza protestare.
Nell'avvicinarsi al Leone rannicchiato su un fianco, Aquarius avvertì su
di sé occhiate penetranti, ansiose, che non riuscirono però a minare
il suo autocontrollo; con il proprio gelido potere acceso nelle dita
egli prese il viso dell'amico e lo sollevò a forza, guardandolo dritto
nelle iridi verdi – che, nel frattempo, erano tornate spente.
«Aiolia. Aiolia, mi senti? Come stai ora? Va meglio?»
Al suono fermo della sua voce il ragazzo parve recuperare un minimo di
lucidità, perché si liberò dalla presa e mormorò qualcosa.
«Che ha detto?» chiese subito Milo, allungando il collo.
«Non l'ho capito, ha sussurrato troppo piano!»
«Ho detto che va tutto bene! Toglietevi di mezzo, per favore!» dichiarò
l'interessato, rimettendosi in piedi con irruenza.
«Aiolia, che ti prende?»
«Niente. Ora fatemi passare» ribadì il Leone, dirigendosi verso la porta a
spintoni.
«Ma sei impazzito?! Dì, ti ha dato di volta il cervello? É tutto il giorno
che non sei in te, ora hai messo su questa bella piazzata e, subito
dopo, dici di volertene andare? Non credi di doverci una
spiegazione?!» lo aggredì Scorpio, irritato e preoccupato insieme.
Maia gli posò una mano sul braccio nel tentativo di placarlo, e poi prese
la parola: «’Lia, se ti è successo qualcosa devi dircelo. Non sei... normale»
«La sola cosa che dirò è questa, e lo farò un'altra volta soltanto: fatemi
passare».
Non pareva voce umana, bensì un minaccioso ringhio animalesco.
«Ha ragione: lasciatelo andare, prima che vi sbrani» commentò sarcastica
la Vergine, da un angolo.
«Shaka, ti sembra questo il momento opportuno per fare dell'ironia?!»
sbottò Aldebaran.
Approfittando dell'attimo di distrazione, Aiolia scattò verso l'uscita, ma
il troppo impeto lo fece urtare contro un tavolino; questo franò a
terra con fracasso, insieme alla cornice che vi stava sopra.
Ancora inginocchiato, Aquarius recuperò la fotografia in bianco e nero tra
i pezzi di vetro infranto: nel riconoscerla fu preso da un tremito
che, per fortuna, riuscì a sopprimere subito.
«Mi ero dimenticato di questa».
Era stata scattata circa quattordici anni addietro, qualche giorno prima
della notte che aveva interrotto bruscamente il loro pre-addestramento
al Santuario di Grecia: al centro della scena c'erano Aiolos, Saga e
Shura, circondati dai sei bambini che i tre avevano affiancato e
sostenuto in quel lasso di tempo. Individuò se stesso e Shaka seduti ai piedi di Gemini; Milo e Aiolia,
entrambi con un ampio sorriso, ai lati di Sagitter; infine, Aldebaran
e Mu, stretti contro Capricorn. Quelli in foto erano
visi giovani, ancora pieni di belle speranze, molto diversi dagli
attuali; il tempo aveva fatto il suo corso, portando altrove con sé
due dei cavalieri più anziani e le illusioni dei piccoli.
Sulla stanza, intanto, era sceso il silenzio più totale.
Aiolia guardò prima l'antico scatto, poi i compagni, sempre più sconvolto.
«Scusate» sillabò debolmente, prima di precipitarsi via a capo basso,
scansando con una spallata chi ancora stava cercando di trattenerlo.
«Aiolia!»
Milo gli corse dietro, uscendo a sua volta: i loro passi affannati
risuonarono lungo tutto il Secondo Tempio per qualche istante, fino a
spegnersi del tutto.
Camus si alzò in piedi e depositò la foto nelle mani di Aldebaran, che la
studiò affranto.
«Era tutto diverso, allora».
«Gli anni passano, amico mio. Il problema è farsene una ragione» disse
l'Acquario per consolarlo.
Dopo, si rivolse a Virgo: «Shaka, sai se quello che sta succedendo a Leo
abbia o meno a che fare con lo scontro alla Tredicesima di ieri? Tutto
il Santuario ha sentito la terra vibrare per la contrapposizione dei
vostri cosmi; se ne è discusso per l'intera giornata, eppure nessuno è
giunto a una plausibile spiegazione in grado di giustificare tale
comportamento fra parigrado. Che cosa gli ha fatto Arles?»
«Arles non gli ha fatto assolutamente niente, semmai è stato Aiolia a
provare ad attaccarlo. Sono arrivato al momento giusto» dichiarò
l’interpellato, con un filo di alterigia.
«Aiolia attaccare il Gran Sacerdote?» ripeté Al, sbigottito «Ma è
impossibile!»
«Ti dirò di più: non solo non ha portato a termine la missione
assegnatagli – di recarsi a Tokyo per eliminare i Bronze traditori –,
ma al suo ritorno era fermamente convinto che il Pontefice fosse un
impostore. Per tale ragione l'ho sfidato; durante lo scontro, poi, si
è apparentemente pentito. Arles gli ha creduto, ma secondo me è tutta
una messa in scena. O finge o è stato plagiato da quei maledetti, non
c'è altra spiegazione».
«E chi ti assicura che non sia stato proprio il Pontefice a plagiarlo?»
inquisì Camus.
Non condivideva del tutto le argomentazioni di Shaka: voleva sapere fino a
che punto l'asceta riponesse fede in colui che occupava il Trono di
Grecia.
«Ciò che è arrivato ad affermare a proposito della nipote di Kido è
blasfemo e ridicolo. Tanto ti basti, Camus; se fossi in te, comunque,
mi tratterrei dall'accusare così apertamente il Gran Sacerdote».
«Fede assoluta. Non ne dubitavo».
«Ho avvertito una lieve minaccia nelle tue parole, cavaliere di Virgo. Ma,
come sai, io non amo rispondere alle provocazioni» dichiarò Aquarius,
calmissimo eppure gelido da far accapponare la pelle.
«Oh, il mio non voleva essere né una provocazione né una minaccia: solo un
consiglio» affermò l'altro, anche se dal tono pareva l'esatto
contrario.
«D'accordo, lo terrò a mente. Grazie» concluse allora Camus, sbrigativo
«Maia, io vado a vedere come sta Aiolia».
«Io ti raggiungo tra poco: aiuto Al a mettere in ordine».
«Ma no, non ce n'è bisogno... » rifiutò gentilmente il Toro, che pure era
grato all’amica per quell’offerta.
«Tranquilla, stai pure. Aldebaran, grazie di tutto. Shaka... buonanotte».
Una volta congedatosi, Camus si allontanò dalla Seconda Casa di buon
grado; il Sesto Custode era insopportabile, quando voleva dimostrarsi
superiore a tutti i costi.
«Lo sarebbe davvero, superiore, se
non si ritenesse tale».
L'accaduto l'aveva leggermente scosso, giacché costituiva l'ennesima prova
che qualcosa non fosse al posto giusto; che un ingranaggio girasse in
senso contrario al resto dei meccanismi. Si
ricordò improvvisamente delle nozioni di anatomia umana apprese
durante l'addestramento a proposito dei tumori.
«Come se, nell’organismo, ci fosse
una cellula cancerosa che sta corrompendo pian piano le sane».
All'interno della Casa di Gemini rallentò l'andatura, un brivido a
corrergli lungo la schiena: fra le colonne del Tempio, rimasto vuoto
per tanto tempo, aleggiava un'aria nuova – sinistra. Un’aura
oscura e potente, che sapeva di cosmo appena risvegliatosi da un lungo
sonno.
Passò oltre in fretta, chiedendosi se, oltre che nostalgico, non fosse
diventato anche suscettibile.
Giunto alla Quinta senza ulteriori intoppi, si ritrovò inaspettatamente
faccia a faccia con Milo, che era seduto sui gradini anteriori.
La luce della luna faceva capolino dalle nuvole che si andavano diradando,
lasciando intravedere un cielo più blu e ammantato di stelle che mai;
i raggi dell'astro notturno colpivano le chiome di Scorpio senza
tuttavia alterarne il dorato, creando una sorta di perfetto
chiaroscuro.
«Non vuole parlare con nessuno. Si è chiuso dentro e mi ha intimato di
lasciarlo in pace» spiegò quello, quasi a motivare la sua inattesa
presenza lì.
«Dovresti fare come ti ha chiesto» disse Camus, semplicemente.
La faccenda, del resto, gli sapeva moltissimo di dejà-vu: anche
lui provava il desiderio di rimanere solo se qualcosa lo turbava.
Tutti sapevano quando era il caso di stargli alla larga, eccezion fatta
per Milo – che forse non se ne rendeva conto o, più probabilmente, se
ne infischiava alla grande.
“«Allora, posso considerarmi perdonato?»
«Me l'hai già chiesto almeno venti volte nel giro di mezz'ora, e la mia
risposta è stata, è, e continuerà ad essere sempre la medesima:
NO».
«Eddai, Camus, è passata una settimana! Non puoi continuare ad ignorarmi
per sempre!»
«Questo è un concetto assolutamente opinabile»
«Se la metti così, anche il fatto di leggere mentre qualcuno ti sta
parlando è di una cortesia opinabile»”.
Da allora erano passati appena tre mesi, ed era già cambiato tutto.
Basta un attimo per stroncare una vita, questo l'insegnamento che si
portava dentro sin dall'infanzia; avrebbe quindi dovuto essere
abituato a veder svanire in un battito di ciglia cose, persone,
affetti.
Invece, così non era.
Conosceva tutto riguardo al ghiaccio, al congelamento, alle tecniche di
lotta per cogliere di sorpresa l'avversario, ma sui sentimenti aveva
ancora molto da imparare – ammesso, poi, che ci sarebbe mai riuscito;
ammesso, altresì, che avrebbe avuto abbastanza tempo per provarci.
Come si sarebbe comportato sapendo di avere a disposizione solo una notte
ancora?
Provò ad immaginarselo, e la risposta fu che non sarebbe certamente
rimasto lì, in silenzio, davanti al suo migliore amico da cui pure
pretendeva delle spiegazioni.
«Ma io non ho a disposizione solo
una notte: ho ancora degli anni, innanzi a me. Ci sarà tempo per
tutto».
«Camus, io-»
Aquarius si riscosse, quasi che la voce di Milo l'avesse punto al pari di
una sua cuspide.
Il vento, felice di poter tornare a smuovere le nubi, batteva impetuoso su
di loro arruffando i capelli, gli abiti e persino i pensieri.
«Ecco, io-»
«Avanti, parla tu al posto mio. Io
non ci riesco, sono sempre stato negato nelle confessioni».
«Camus! Dunque, come si sente Aiolia?»
Il sopraggiungere di Maia dalla Quarta Casa ruppe inclemente la spannung.
Lo Scorpione, che fino a un momento prima sembrava sul punto di sputare il
rospo, abbassò gli occhi; quella fu l’unica volta in cui Camus non
gioì nel vedere la propria ragazza.
«Non lo so. Non ha fatto entrare nemmeno lui» rispose, facendo un cenno in
direzione di Milo.
«Allora sarà meglio aspettare che si calmi da solo;» decretò quella «non
mi pare il caso di continuare a insistere».
Dinanzi al suo pragmatismo, il proverbiale buon senso di Aquarius non poté
che darle ragione.
«Sono d'accordo» disse quindi; poi aggiunse, rivolto a Scorpio: «Allora,
noi andremmo … »
«Buonanotte» fu l'unico, stringato commento dell'altro.
«‘notte, Milo» augurò Maia, incamminandosi.
Prima di apprestarsi a seguirla, l'Undicesimo Custode si volse indietro a
incontrare nuovamente lo sguardo celeste del compagno, che lo stava
sfidando a rimanere; tuttavia, lui non seppe raccogliere l’invito e si
allontanò con quell'intercedere pacato ed elegante che adottava
inconsciamente quando si sentiva invece più a disagio.
*
«Che serata infernale!» esclamò Maia qualche tempo dopo, accasciandosi
sulle scale dell'Undicesimo Tempio.
Le previsioni meteo non avevano indovinato nemmeno in quell'occasione: la
pioggia era cessata ben prima dell'indomani, regalando ad Atene una
notte meravigliosamente serena.
«Mh» mugugnò Camus, ancora concentrato su Milo e sul loro mancato
colloquio.
«Che vi siete detti tu e Milo? Quando sono arrivata mi è parso di aver
interrotto qualcosa; se me ne fossi resa conto in tempo, probabilmente
avrei fatto marcia indietro».
Ad Aquarius non sfuggì lo sguardo ansioso che aveva accompagnato la
domanda della ragazza; era incredibile quanto ella fosse brava nella
difficile arte dell’intuire la natura delle sue riflessioni.
«Un po’ come Milo».
«Nulla di particolare: abbiamo parlato di Aiolia. Ed è già un passo
avanti».
Non era vero: in realtà, non avevano parlato di niente – o forse si erano
detti tutto senza pronunciare una sola sillaba. Comunque fossero
andate le cose, erano fatti che non aveva voglia di condividere.
Si sedette accanto a lei, desideroso di cambiare argomento.
«Cosa ne pensi tu di ciò che è successo?» le chiese, un po’ per distrarla,
un po’ perché voleva davvero conoscere la sua opinione in proposito.
«Non ne sono sicura, ma credo anch'io che ci sia qualcosa che non va. Io
ho avuto modo di parlare personalmente col Sommo Arles una volta sola,
durante le esequie dei miei genitori; puoi ben capire che, in un
momento del genere, non avrei potuto notare alcunché. Visto il ruolo
marginale che ricopro qui dentro, forse quella è stata la mia unica
occasione, e tuttavia non mi serve averci direttamente a che fare per
percepire come, in lui, ci sia un che di disturbante. Secondo me un
Gran Sacerdote dovrebbe invece trasmettere pace e serenità, in quanto
portavoce della Dea sulla terra; è in questi termini che mia nonna
descrive sempre il precedente Pontefice, quando mi racconta di lui».
«Giusto».
«E poi… insomma, non che mi intenda molto di guerra e politica, ma mi pare
così strano che cinque cavalieri di bronzo sfidino l'autorità del
Grande Tempio senza una valida ragione, proclamando le stesse presunte
verità per le quali Aiolos è morto. Non hanno speranza
contro di voi, eppure vi muovono guerra: o sono pazzi suicidi, oppure
una forza maggiore li anima e sostiene. Uno di essi è stato allenato
dal tuo discepolo, quindi, per certi versi, è allievo anche tuo:
possibile che sia mosso da intenti tanto diversi rispetto ai tuoi?»
«Ero molto giovane quando mi recai in Siberia ad addestrare l'ex Cigno,
divenuto per mano mia un Silver Saint: lui era più vecchio di me, e
mostrava un animo forse più fedele e savio del mio. Gli ero superiore
solo per tecnica, non per spirito: non dubito che abbia saputo
impartire a Hyoga – così si chiama il ragazzo – i giusti valori».
Ripensava di rado agli anni passati al Nord in compagnia di quella figura
adulta già matura e preparata, molto diversa dai bambini che
aspiravano a divenire cavalieri di bronzo; Aquarius gli aveva
insegnato a perfezionare i colpi, l'altro gli aveva trasmesso la sua
esperienza nelle faccende umane. Era
stato un addestramento singolare, in cui entrambi si erano scambiati
nozioni, anche se di dissimile forma: l'allievo era cresciuto in
potenza, il maestro in saggezza.
«No, se il ragazzino ha sviluppato un carattere ribelle, di certo non è
stata colpa del maestro» asserì, convinto.
Maia gli si strinse contro.
«Ho paura, Camus. Paura che presto succederà qualcosa di irreparabile».
«Come dirti che anche io ne ho?
Anzi, no: la mia non è paura. Non ho mai avuto paura di niente, io.
É solo un… un presagio. Un presentimento – funesto».
«Tu non devi avere paura;» disse lui, circondandole le spalle con un
braccio «non accadrà nulla di male né a te né a nessuno di noi. Sono
solo fanciulli rivestiti di bronzo: niente potranno, contro il settimo
senso e le corazze dorate di cui noi disponiamo».
Alzò gli occhi verso il cielo ad incontrare la sua costellazione, colei
che l'aveva scelto per sé come suo rappresentante nel mondo: benché in
quel periodo dell’anno non fosse perfettamente visibile dall’emisfero
boreale, lui l'avrebbe scorta anche se si fosse abbuiata del tutto.
«La vedi quella stella lassù, a nord-est rispetto a dove ci troviamo noi
ora?» chiese, alzandosi e puntando il dito verso uno squarcio di blu.
«Quella là?»
«Sì, brava. Quella è Sadalsuud, l'astro più brillante della
costellazione dell'Acquario».
Tornò a sedersi, invitando la giovane ad accomodarsi nel gradino più in
basso, fra le sue ginocchia.
«Se mai dovessi avere bisogno di me e io non ci fossi, ti basterà
sollevare lo sguardo: Sadalsuud illuminerà la tua via molto
meglio di quanto non riuscirei a fare io stesso».
Lei gli lanciò un'occhiata preoccupata: «Perché mi dici questo?»
«Così. Per parlare» sdrammatizzò Aquarius, onde non turbarla troppo.
Al momento poteva bastare, ma, presto o tardi, anche Maia avrebbe dovuto
prepararsi al peggio: un cavaliere doveva essere pronto a dare la
vita, se necessario, e lui non si sarebbe macchiato di infamia per
aver salva la pelle – meglio morto, che disonorato.
«Non prendermi in giro: tu non parli mai senza motivo. Anzi, qualche volta
non parli nemmeno se interpellato».
Vedendo che il suo discorso l'aveva messa in allarme, cercò di ridarle
serenità baciandola profondamente, provando ad imprimere in quel
contatto tanto amato tutte le sicurezze che a parole non sapeva darle.
«Camus».
«Sì?»
«Cosa spinge una persona a diventare cavaliere? A scegliere di seguire una
strada piena di privazioni, solo per mantener vivo un credo?»
Che domanda ingrata. Erano concetti ardui da spiegare ai profani.
«Non sempre c'è scelta» cominciò lui «A noi Santi d'oro, ad esempio, non
sono state lasciate alternative: le stelle ci hanno eletto come loro
messaggeri terreni per affiancare la divina Atena nella difesa della
pace. Alla luce di ciò, portiamo dentro un ardore che ci renderebbe
impossibile discostarci dal nostro ruolo. Tuttavia, benché il motivo
fondante della nostra esistenza sia appunto quello di proteggere
Pallade, siamo tutti mossi da scopi differenti. Shura
lotta perché ha fede; Aiolia lo fa per riscattare la memoria del
fratello; Death Mask, per convenienza; Aphrodite, per inseguire la
bellezza che si cela dietro l'ideale di Giustizia; Aldebaran e Mu
perché entrambi hanno un debole per il genere umano e Shaka per
seguire quello che lui chiama “ordine precostituito”. Milo… beh, Milo
lo fa perché nutre affetto per il Santuario. È sempre stata casa sua,
questa».
«E tu? In ragione di cosa lo fai, tu?»
«Già. Io. Per cosa mi batto, io? Per
Atena? Per una Dea che non ho mai visto, né mai mi si è manifestata?
Per difendere un mondo pieno di uomini ingrati? Per la Giustizia,
che è una mera utopia?»
«Per la gloria» rispose alla
fine, intimamente sicuro di ciò che stava affermando «Perché l’essere
Saint mi ha dato la possibilità di far sì che, alla mia dipartita, il
mio nome non divenga una semplice incisione su una tomba bianca.
Troppo spesso ci si scorda dei deceduti e delle loro gesta: desidero
andarmene sapendo di aver lasciato una traccia del mio passaggio su
questa terra. Solo così sarà valsa la pena di aver sofferto tanto».
«Fa molto Achille. Ma lo sai quale fu la sua fine, vero?»
«Per ottenere l'immortalità fra i posteri, andò incontro alla morte del
corpo. Sì, e sono disposto ad emularlo, pur di raggiungerla a mia
volta».
«Preferiresti quindi cadere in battaglia nel fiore degli anni ed essere
cantato nei poemi e nelle leggende, piuttosto che vivere una vita
lunga e serena – magari con me
accanto?»
«Ahia. Qui la si butta sul personale».
«Che cos'è, un modo per testare la mia diplomazia?» chiese, divertito.
Maia faceva la furba, ma
lui lo era di più: non gli avrebbe estorto la verità nemmeno con le
pinze.
Accortasi che tanto non sarebbe riuscita a tirargli fuori alcunché, la
ragazza gli depositò un lieve bacio sulle labbra, abbandonando
l'accogliente rifugio delle sue gambe.
«Si è fatto tardi: sarà meglio che vada. Domani mattina ho lezione
all’Università, e l’autobus per Atene passa prestissimo».
A quelle parole, in verità normalissime, il senso di non ritorno che da
diversi giorni accompagnava Camus si acuì improvvisamente, come se
qualcuno lo stesse trafiggendo con uno spillone appuntito.
«Non verrò spedito negli inferi, se
per una volta rimane a dormire con me... solo stanotte. Perché mi
sento strano; perché avverto quel presagio funesto che aleggia sopra
la Grecia, sopra il mondo intero. Carpe diem, Camus».
«Allora? Non mi saluti neanche?» chiese Maia infastidita, mal
interpretando il silenzio del compagno.
«Rimani».
«Cosa? Che hai detto?»
Oh, al diavolo la discrezione: «Rimani. Rimani con me. Non andare».
Il volto di lei si distese in un sorriso bianco.
«Dici sul serio?»
«Sì. Il letto mi parrebbe troppo grande per uno soltanto, stanotte».
Note
dell’autore
Ciao a
tutti!
Come
avrete notato, i protagonisti assoluti del capitolo sono Camus e i suoi
"lavoretti" mentali: se ne fa tantissimi.
Più che
su quelli, comunque, sono intervenuta a revisionare un po’ i dialoghi,
nonché qualche dettaglio, in modo da rendere il tutto conforme ai vari
cambiamenti di trama che la storia ha subito.
Ad
esempio, nella foto di gruppo Death Mask e Aphrodite non compaiono più,
giacché, avendogli aumentato l’età di qualche anno, al momento del
pre-addestramento dei Gold più giovani Cancer e Pisces già si trovavano
uno in Sicilia, l’altro in Danimarca.
Venendo
alle precisazioni meno generali:
- "Désolé:
"Perdonami".
- lo
“sclero” (passatemi il termine) di Aiolia durante la cena è causato da
un'ipotetica e momentanea ripresa del controllo sulla propria mente,
prima di ricadere sotto l'effetto dell'illusione oscura di Arles.
- il
dialogo cui Camus ripensa quando si trova alla Quinta Casa con Milo è
tratto dalla prima parte del capitolo 3.
- Per
quanto riguarda il discorso prefinale sul Crystal Saint, come al solito
ho lasciato vagare la fantasia. A causa di esigenze di copione, ho
immaginato che, al momento dell'inizio dell'addestramento con Camus, il
maestro di Hyoga avesse già ottenuto l'armatura di bronzo – ossia quella
del Cigno, che poi lascerà all'allievo –
e volesse passare a quella d'argento. Altrimenti ci sarebbero
voluti troppi anni. In realtà, non so se si possa salire di livello.
Boh.
-
Sadalsuud, come spiegato da Camus, è la stella più luminosa della
costellazione dell'Acquario. Il suo nome ha origine araba, e significa
"fortuna delle fortune". Appartiene alla rara classe delle supergiganti
gialle.
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Capitolo 13 *** Capitolo 10, parte I: 11 settembre 1986. Milo, Camus ***
Capitolo 10, parte I. Milo, Camus BG
Capitolo
10,
parte I: 11 settembre 1986. Milo, Camus
Pianse
quel
giorno Aquarius, nonostante i suoi convincimenti pianse per te!
Milo
di Scorpio
Erano arrivati alle prime luci dell'alba, in quattro, con gli scrigni
sulle spalle e l'aria vagamente baldanzosa; poi la ragazzina – la
famosa nipote di Kido – era stata colpita al petto dalla Phantom Arrow
di Tramy della Freccia e i fuochi della Meridiana avevano iniziato a
scandire le dodici ore messe loro a disposizione per scalare le Case
dello zodiaco, arrivare alle stanze del Gran Sacerdote e salvarla.
Una missione suicida destinata a fallire già al Primo Tempio, ove Aries
aveva fatto ritorno nottetempo: tanto si era detto fra le schiere di
Arles, ghignando.
E invece, scorsi sessanta minuti esatti, eccoli uscire senza lotta dal
Palazzo del Montone Bianco, tutti indenni e con le armature riparate:
il Grande Mu aveva tradito.
Un voltafaccia annunciato, ma che, in fin dei conti, nessuno si sarebbe
mai aspettato davvero.
Un po’ meno annunciato, invece, era stato quello del nobile Aldebaran del
Toro: dopo una blanda opposizione anche lui aveva ceduto il passo,
permettendo a uno di loro di raggiungere addirittura un barlume di
settimo senso.
Inaccettabile da parte di un cavaliere senza macchia come lui, eppure non
eccessivamente sorprendente: la magnanimità era sempre stata il punto
debole del Secondo Custode.
Subito dopo, avevano varcato la soglia della Terza Casa. Saga
di
Gemini, il suo guardiano, era scomparso anni or sono, così come le
sacre vestigia del segno; e allora, da dove proveniva l'oscuro cosmo
che andava espandendosi all'interno del Tempio, sottile e ingannatore
al pari delle stelle da cui nasceva?
A chi – o a cosa – apparteneva? Quale forza stava trattenendo i giovani
guerrieri?
Milo di Scorpio se lo domandava insistentemente; dall'alto della sua
posizione osservava le sorti dei Bronze da quando essi erano comparsi
nei pressi del suolo consacrato, tre rintocchi addietro.
Li aveva visti affannarsi per le scalinate, semplici puntini colorati in
lontananza, ed era rimasto piacevolmente colpito dalla determinazione
che i loro cosmi, seppur deboli, emanavano.
«Peccato non poterli sfidare:
sarebbe stato divertente».
Ogni remora, ogni dubbio che lo tormentava da mesi sembrava essere stato
messo improvvisamente da parte: il suo celeste dovere veniva innanzi
tutto.
Si sentiva stranamente calmo, pronto a lasciarsi avvolgere dalla lucida
furia che lo prendeva prima della battaglia, ma sapeva che, quel
giorno, non avrebbe combattuto: i colpi di scena erano terminati.
Pur ammettendo che fossero riusciti ad arginare le infide insidie del
labirinto dei Gemelli, di nuovo in piedi dopo tanto tempo, quegli
impavidi folli non sarebbero giunti oltre: alla Quarta Casa li
attendevano dolore e morte. Cancer, uno dei fedelissimi
del Gran Sacerdote, era potente e spietato; nulla li avrebbe salvati
da una gita di sola andata nell'Ade.
Un' inaspettata variazione di equilibri riportò la concentrazione di
Scorpio alla lotta in corso alla Terza; Pegasus e Dragon avevano
appena trovato l'uscita del labirinto, mentre gli altri ancora
lottavano al suo interno. Uno
dei restanti due doveva essere per forza l'allievo – dell'allievo – di
Camus.
Sicuramente anche Aquarius stava seguendo gli scontri, forse in maniera
anche più apprensiva di lui. Forse, sì, e tuttavia nutriva forti dubbi
in proposito: probabilmente neanche sapeva cosa fosse, l'apprensione.
Piuttosto, lo immaginava
a studiarne critico la tecnica e la tempra, confrontandole magari con
le proprie.
«In fin dei conti, il ragazzo è pur
sempre parte del frutto del suo operato. Chissà che effetto fa veder
spirare il proprio discepolo per mano della tua stessa fazione,
senza avere la possibilità di parlargli almeno una volta».
Se fosse stato nei panni del suo amico – «ex amico, Milo. EX» – Milo si sarebbe sentito terribilmente
frustrato, ma di certo quello non era il caso del francese: si era
sempre mostrato così sicuro di sé e del suo potere, lui.
Della propria indiscussa maestria in tutto ciò che faceva, pareva non
dubitare mai; era rimasto impassibile persino nell'apprendere del
tradimento del ragazzino al quale, anche se in maniera indiretta,
aveva trasmesso il suo sapere.
Gelidamente determinato: così appariva Camus di Aquarius.
Eppure, in cuor suo,
Scorpio pensava che quella fosse una semplice copertura, volta a
mascherare le enormi incertezze che in realtà albergavano nell'animo
dell'Undicesimo Custode, rendendolo fragile e delicato. Era
impossibile per Milo pensarlo altrimenti: un fragile e prezioso
cristallo da avvolgere in un morbido velo di velluto.
Irrazionalmente, gioiva
del fatto che egli presiedesse la penultima Casa: non avrebbe
sopportato di saperlo esposto al pericolo, benché fosse esperto e
pressoché infallibile.
Rumori di passi alle sue spalle lo costrinsero ad accantonare tali
riflessioni, totalmente inappropriate in un momento come quello.
«Mai abbassare la guardia, durante
una guerra».
«Salve, Milo».
Quasi fosse scaturito dalle sue cogitazioni, Camus gli comparve dinanzi;
quella visita era così inattesa che, per un attimo, lo Scorpione
credette di immaginarselo soltanto, vestito della sua armatura e
immobile.
Si concesse una fugace constatazione sullo splendido modo in cui l'oro
delle sue sacre vestigia gli faceva risaltare l'aurea sfumatura degli
occhi; poi, appurato che non era una visione, rispose con forzata
strafottenza.
«Camus. Che ci fai qui? Conosci gli ordini: non abbandonare mai la
postazione, in stato d'assedio».
«So benissimo quali sono le regole, grazie» disse l’altro, nient’affatto
irritato «Ora, se non ti dispiace, dovrei passare».
«Ma per andare dove?!»
«Alla Casa di Libra».
Milo stava davvero cominciando a spazientirsi: cos'era tutto quel mistero?
«Camus, da secoli non c'è nessuno alla Settima Casa! Perché recarvisi
proprio ora?»
«Lo vedrai da solo, non ho tempo per spiegartelo».
Così dicendo Aquarius lo superò, passandogli accanto senza attendere
repliche.
«È impazzito».
No, Camus non faceva mai nulla a caso: doveva esserci una spiegazione
logica, e lui esigeva conoscerla subito.
Non gli piaceva l'idea che si avvicinasse al focolaio degli scontri,
anche solo di qualche gradino.
Inconcepibile voler proteggere un guerriero del suo spessore, d’accordo;
ma non riusciva a impedirselo, era una persona troppo importante per
lui – la più importante.
La sera prima, spinto da uno strano impulso, era stato sul punto di
rivelargli tutto e, se non fosse arrivata Maia, l'avrebbe anche fatto;
ora, nel vederlo dirigersi verso l'ignoto, lo stesso impulso si stava
ripresentando prepotente, quasi inarrestabile. Sapeva che era il momento meno adatto, ma, chissà
perché poi, si sentiva come se quella fosse la sua ultima occasione.
La recita che aveva portato avanti tanto a lungo gli appariva d'un tratto
priva di significato: era durata abbastanza.
«’Mus,» lo bloccò, prendendolo – inconsciamente – per mano «aspetta».
***
L'Acquario si voltò di scatto e guardò con la fronte aggrottata dapprima
Milo, poi le loro dita – le une sulle altre.
Non capiva perché lo stesse trattenendo; eppure gli pareva di essere stato
chiaro, aveva detto di non poter restare. Che
volesse riprendere il loro muto discorso della sera precedente?
Assurdo: l'aveva ignorato per mesi, e adesso pretendeva la sua attenzione
– nel bel mezzo di un conflitto!
«Il solito irresponsabile. Basta,
devo andare alla Settima Casa, non ho tempo per stare a sentire le
sue idiozie!»
Nonostante il suo cervello sapesse esattamente il da farsi, una strana
cosa chiamata “istinto” gli stava al contrario dicendo di
stringergliela, quella maledetta mano. Prima, un simile contatto l'avrebbe imbarazzato fino ad
infastidirlo; da quando aveva dovuto farne a meno, invece, si era reso
conto che gli mancava moltissimo.
«Milo, lasciami, io non-»
Sussultarono entrambi quando una tenue scintilla di cosmo, a malapena
percettibile, apparve nel Settimo Tempio.
«Hyoga» sussurrò Camus, pianissimo.
Non poteva davvero indugiare oltre: il suo sacro onere di maestro veniva
innanzi tutto.
Sciolse quindi la presa, risoluto, e si diresse a passo svelto verso
l'entrata principale della Casa dello Scorpione Celeste, senza
girarsi.
Scese di corsa la scalinata che portava al Presidio della Bilancia, la
mente svuotata di qualunque pensiero che non riguardasse l'imminente
scontro, e si fermò soltanto a destinazione raggiunta.
Una volta all'interno
non badò alle colonne più candide del normale per la poca usura, né al
buio surreale che regnava sovrano: il suo sguardo era come calamitato
dalla figura bionda riversa al centro del Tempio.
«Alzati, Hyoga».
Il ragazzo sollevò la testa e, nel riconoscerlo, sgranò gli occhi.
«Ma tu, tu sei... il cavaliere di Aquarius!»
«Camus è il mio nome, e sono cavaliere d'oro dell'Undicesima Casa: quella
dell'Acquario, appunto».
«Camus di Aquarius: colui che ha insegnato l'arte del gelo al mio maestro!
Non è la prima volta che ci incontriamo... »
«No, infatti».
Per lui, tornare in Siberia era un po’ come tornare a quella casa che mai
aveva avuto.
Negli anni, il paese in cui aveva trascorso l'infanzia e parte della
giovinezza non sembrava mutato di una virgola: le umili abitazioni
di legno, le barche da pesca lacustre ormeggiate al piccolo molo,
i resti di un falò al centro della minuscola piazzetta erano
rimasti esattamente come li ricordava.
Dopo aver rivolto una fugace occhiata ai dintorni, entrò nella taverna;
era, questo, il posto più affollato dell'intero villaggio, dove
uomini e donne si ritrovavano per scambiare quattro chiacchere
dopo una lunga e faticosa giornata sul ghiaccio.
Nel riconoscerlo, un tiepido sorriso si fece strada nel volto dell'oste.
«Bentornato, nobile Camus. Qual buon vento vi porta in queste fredde
lande?»
«Grazie, Adam. Sono qui per incontrare una persona» rispose spiccio, pur
provando gratitudine per quell'accoglienza quasi confidenziale:
Adam era sempre stato uno dei pochi a non trattarlo con eccessiva
deferenza.
«Maestro Camus».
L'uomo che l'aveva chiamato sedeva in un tavolo vicino all'ingresso del
locale, gli occhi grigi brillanti di genuino piacere; vedendolo,
si alzò per andargli incontro.
«Sono lieto di rivedervi. Avete fatto buon viaggio?»
lo salutò, stringendogli la mano.
«Non molto buono, in realtà. Ma ti prego di abbandonare tutte queste
formalità, Markel: non ce n'è bisogno, non sei più mio discepolo».
«Mi riesce difficile pensarlo: in un modo o nell'altro, lo sarò sempre. É
motivo di grande onore per me».
Camus liquidò la questione con un gesto della mano: le lusinghe, specie se
veramente sentite, lo mettevano a disagio.
«Permettimi almeno di offrirti da bere».
«D'accordo: vodka liscia. In Grecia non sanno nemmeno che sapore abbia,
una vodka bevibile».
Mentre quello si avviava verso il bancone, ad Aquarius venne in mente
l'ultima volta che era stato lì, in una sera tempestosa di gennaio
di non molti anni prima: pareva fosse passata una vita.
«Ecco a te» lo riscosse Markel, di ritorno.
«Ti ringrazio».
Sorseggiarono l'alcolico per un po’, in silenzio.
«Allora? Come mai sei tornato? Nostalgia delle nevi eterne?» prese a un
certo punto la parola il più anziano.
«Sono in missione per conto del Grande Tempio».
Il Crystal saint rimase un tantino interdetto, ma non indagò oltre: era
abituato alle stringate risposte del suo ex mentore.
«Piuttosto, dimmi di te: ho saputo che sei diventato a tua volta maestro»
chiese poi Camus, sviando così l'attenzione dalle sue faccende
private.
Al che, il volto dell'uomo divenne, se possibile, ancora più entusiasta:
«Oh, sì! Subito dopo aver ottenuto l'armatura d'argento.
All’inizio il bambino ha avuto qualche difficoltà ad adattarsi:
l'aver perso la madre in un naufragio proprio nelle acque del mare
di Okhotsk non deve essere stato d'aiuto».
«Strano; non mi è giunta nessuna notizia, al riguardo. Quando è successo?»
«Quando il piccolo aveva solo tre anni. Non era una nave molto grande,
anzi, alcuni sostenevano addirittura che fosse una semplice
imbarcazione addetta al trasporto merci: per questo non se n'è
parlato granché».
«Un iceberg?» chiese il francese, riferendosi alla causa
dell'affondamento.
«No. Un'esplosione nella sala macchine, che ha diviso la barca a metà».
L'Acquario annuì e non disse più nulla, segno che per lui il discorso era
chiuso, così l'altro riprese a parlare del proprio allievo.
«Comunque, ha talento da vendere: apprende e fa suoi gli insegnamenti in
modo sorprendentemente celere. Sono così orgoglioso di lui! Posso
presentartelo? L'ho portato con me, stasera».
«Ne sarei felice».
«Hyoga! Hyoga, vieni qui».
Al richiamo rispose un fanciullo biondissimo, che Camus non aveva notato
perché semi nascosto all'interno del grosso caminetto in pietra
della locanda; era piuttosto alto per la sua età, ma fin troppo
magro. Un po’ come lui da ragazzino.
«Mi avete chiamato, Maestro?» chiese Hyoga, con voce spenta e la testa
bassa.
«Sì, Hyoga. Lo vedi quest'uomo che siede con me? Lui è il nobile Camus, il
mio venerabile maestro».
Aquarius rimase immobile, in attesa di valutare l'atteggiamento del
bambino.
«Piacere di conoscervi, nobile Camus» lo salutò questi, facendo un piccolo
inchino alla maniera giapponese.
«Il piacere è mio, Hyoga» rispose burbero lui, continuando a studiarlo.
Quando la recluta alzò il viso per guardarlo in faccia, Camus rimase
colpito da un solo dettaglio – i suoi occhi, di un azzurro
particolare.
Non blu come quelli di Milo, né dell'indaco sbiadito di quelli di
Aphrodite; celesti, di quel celeste che tinge i malinconici cieli
invernali nelle giornate serene.
Celesti, e impregnati di una feroce tristezza.
«Chi l'avrebbe detto, quel giorno, che ci saremmo ritrovati in circostanze
tanto drammatiche».
Camus non commentò.
«Così, questa è l'Undicesima Casa;» riprese il novello Cignus,
rivolgendosi più a se stesso che al suo interlocutore «com’è possibile
che io sia arrivato fin qui dalla Terza? Ricordo solo Shun e il
cavaliere di Gemini, e poi un gran senso di vuoto... »
«Il cavaliere di Gemini?»
«No, ti sbagli. Questo non è l'Undicesimo Tempio, ma il Settimo: quello di
Libra».
«Il Settimo? Ma, allora… perché sei qui?»
«Perché Dohko della Bilancia da molto tempo non calpesta il suolo di
Grecia, e nessuno custodisce la sua Casa. Ora giro a te la domanda:
perché tu sei qui? La richiesta è meno stupida di quello che
sembra, perciò fai attenzione a come rispondi».
Hyoga lo guardò come se fosse pazzo, tuttavia, dopo averci pensato, disse:
«Per smascherare Arles, l'impostore. Egli ha compiuto azioni
abominevoli fingendo di parlare per bocca di Atena, la stessa Atena
che ora giace trafitta sui gradini della Prima Casa. Devi lasciarmi
passare, cavaliere! Ne va della vita della tua Dea!»
Aquarius ignorò l'esortazione: «Il Gran Sacerdote guida i nostri passi da
oltre tredici anni, e pace ed armonia hanno regnato fino alla vostra
venuta. Quelle che chiami “azioni abominevoli” sono state commesse
semplicemente al fine di mantenere l'ordine: per quale ragione dovrei
crederti?»
«Avanti ragazzo, mostrami quanto
ardore muove i tuoi ideali!»
«Come puoi dire questo? Non ti accorgi di quanta sofferenza ha causato con
il suo operato? Di quante persone innocenti sono morte per mano sua?
Nessun dubbio ha mai sfiorato la tua mente sulla legittimità del ruolo
che ricopre?!»
«No, mai».
Non era vero: di dubbi al riguardo Camus ne aveva, e molti. Ma
durante
una guerra le esitazioni andavano lasciate da parte. Cancellate, così
come le emozioni.
«Allora c'è una cosa che devi sapere, e che forse avrà il potere di
convincerti: il Crystal saint, tuo ex allievo, è morto. E l'ho ucciso
io».
«Che cosa?!»
«Markel... »
Il biondo raccontò con evidente struggimento di come il suo maestro,
soggiogato dalle oscure macchinazioni di Arles, avesse prima costretto
gli abitanti del villaggio siberiano in schiavitù e, poi, tentato di
uccidere il proprio discepolo quando lui e Pegasus erano intervenuti
per fermarlo.
«A causa della sete di potere del Pontefice la mia onorata guida è morta
sotto i miei attacchi, e io non riesco a sopportare il senso di colpa.
Gli dovevo tutto, tutto! E ora lui non c'è più, per colpa di quel
maledetto!»
«Markel è morto».
Il saggio guerriero del Nord non era stato solo il depositario del suo
sapere; per lui aveva rappresentato anche – e soprattutto – un amico.
«Non posso pensarci. Non ora. Non
qui».
Avrebbe avuto modo di elaborare il lutto più tardi, fuori dallo scontro.
«E con ciò? Sarebbe dunque tale notizia a dovermi convincere?» chiese
Camus, duro e sprezzante.
«M-ma era tuo allievo! Non provi un minimo di dispiacere per la sua
perdita?»
«Nient’affatto. Non sono tenuto a interessarmi di ciò che accade a coloro
che addestro, una volta concluso il mio compito».
Hyoga lo fissava incredulo, quasi disgustato.
«Sei... sei un essere senza cuore. Non sei degno della sincera ammirazione
che il Crystal saint nutriva per te! Io, invece, intendo vendicarlo e
lo farò! Fatti da parte, ho perso anche troppo tempo!»
«E di chi vorresti vendicarti? Di te stesso? Tua è stata la mano che ha
spezzato la sua vita. Tua, non di Arles. Inoltre, dove credi di poter
andare? Le tue motivazioni sono troppo blande, totalmente inadatte a
sostenerti nelle prove che ti aspettano: sei mosso da rancore, più che
da vere convinzioni, e ciò non ti permetterà mai di eguagliare anche
solo un quarto della potenza dei cavalieri d'oro!»
«Questo lo dici tu!» ribatté il Cigno con un ringhio.
Camus, come a voler esemplificare la sua affermazione, chiamò a raccolta
il cosmo e, dopo aver attinto a un'esigua parte di esso, aprì il palmo
della mano, generando un getto di cristalli ghiacciati che mandò Hyoga
a sbattere contro una colonna.
«Il mio era un colpo estremamente
fiacco, eppure l'ha messo al tappetto. Perché non reagisce?»
«Forza Hyoga: sollevati e combatti, se sei cavaliere come ti vanti!»
Il giovane si rimise in piedi, sputando sangue dalla bocca, ma non passò
al contrattacco.
«No, non voglio battermi contro di te! Non voglio levare la mano
sull'ultimo maestro che mi è rimasto, benché tu sia totalmente diverso
dal primo! Non mi macchierò anche di questa colpa!»
«Allora non sei nient'altro che un debole!
Dimentica il Crystal saint: è su di me che ti devi concentrare! Sono
io il tuo avversario adesso,
non permettere che il passato abbia la meglio sul presente! In
battaglia i sentimenti e i rimpianti vanno accantonati, non devono
divenire il tuo unico scopo, altrimenti sarai sempre destinato a
soccombere! É dunque questo che desideri?»
«Non siamo costretti a scontrarci per forza! Cedimi il passo, Aquarius!»
«Cocciuto ragazzo! Non vuoi proprio capire, eh?» sussurrò Camus, le
palpebre abbassate «Ebbene, non mi lasci altra scelta».
«Non ho alternative... sciocco,
sciocco!»
Davanti allo sguardo attonito del Cigno l'Acquario concentrò tutta la
propria aura, espandendola ai limiti estremi della sua costellazione;
dopodiché, dal suo braccio sollevato partì un fascio di luce
intensissima che andò a forare il soffitto del Tempio e sparì in alto,
inghiottita dal cielo.
«Che... che stai facendo?» chiese Hyoga, incerto.
Egli non gli badò e indirizzò il raggio verso nord, nel punto in cui
giaceva il relitto dove riposava la madre del Bronze saint: una volta
spaccato lo strato di ghiaccio che separava l'aria dall'acqua lo mandò
a schiantarsi contro la nave, la quale si inabissò nelle remote
profondità del mare siberiano.
«Che stai facendo?!» ripeteva intanto l'altro, sempre più allarmato.
«Ho affondato i resti della barca in cui riposava tua madre» parlò
finalmente Camus, glaciale – come la morsa che gli attanagliava le
viscere.
«C-cosa? No, non è possibile! Come potevi sapere di mia madre? Come potevi
conoscere l'ubicazione del luogo che gli fa da tomba? Stai mentendo!»
«È stato il tuo stesso maestro a raccontarmi di lei, la sera che io e te
ci incontrammo per la prima volta. Sempre lui mi ha poi indicato il
posto, che io sono andato a visitare prima di far ritorno ad Atene».
Hyoga continuava a scuotere fervidamente il capo, come a scacciare
quell'orribile verità: «Non ti credo, non ti credo! Perché avresti
dovuto farlo?!»
«Perché era necessario».
«Per spronarti a reagire: anche se
per collera, almeno ora mi attaccherai».
Cignus lo guardò dritto negli occhi, per capire se stesse o meno dicendo
la verità: l'espressione ferrea di Aquarius gli confermò i suoi
sospetti.
«COME HAI POTUTO?» esplose allora, una vivida luce sanguinaria accesa
nelle iridi «COME HAI POTUTO? Mia madre era innocente! Lei... lei è il
motivo per cui sono diventato cavaliere! Sapere di poterla andare a
trovare mi spingeva a combattere, a sopravvivere! Era il mio unico
conforto! Perché, perché me l'hai tolto? PERCHÉ?»
«Eccola! Eccola, quella feroce
tristezza! È ancora lì, in mezzo
al celeste, dopo tutti questi anni. È il suo morboso attaccamento ai
ricordi che gli impedisce di maturare».
«Sei troppo ancorato al passato, Hyoga! Il solo fatto che tu, fino ad ora,
sia stato spinto a lottare unicamente per tornare a rivedere tua madre
fa di te un perdente! Devi scordarti di lei, del tuo maestro! Loro son
morti, mentre tu appartieni al mondo dei vivi; fattene una ragione e
vai avanti!»
Quello l'assalì, senza preavviso: «DIAMOND DUST!»
Pur colto di sorpresa, a Camus bastò levare una mano e il colpo si estinse
fra le sue dita. «Dovrai fare di meglio, se vuoi sconfiggermi. Sono
stato io a insegnare questa tecnica al Crystal saint, dunque ne
conosco ogni singolo punto debole. Eccola, la vera Diamond Dust».
Aquarius scagliò l'offesa con una calma totalmente antitetica rispetto
alla furia del suo allievo, il quale finì di nuovo a terra, ansante.
«N-non è l'unica carta di cui dispongo» rantolò il ragazzo, rialzandosi a
fatica, ma riuscendo comunque a concentrare il cosmo: «AURORA THUNDER
ATTACK!»
L'attacco era più potente del precedente, e il cavaliere d’oro fu
costretto ad incrociare le braccia per contrastarlo; tuttavia, nemmeno
quell'ultimo, disperato tentativo sortì alcun effetto.
«Finché ti aggrapperai a dolori e rimorsi non riuscirai mai a tirar fuori
la forza necessaria a risvegliare il settimo senso. Dimentica, Hyoga:
dimentica!»
«I-io... io NON POSSO!»
Hyoga abbandonò la posa di guardia e cadde sulle ginocchia, prendendosi il
volto fra le mani: «Non voglio farlo! Non voglio dimenticare né mia
madre né il mio maestro! E, anche volessi, non ci riuscirei!»
«Non è pronto. Non ha spirito
sufficiente per affrontare i Gold saints, né tantomeno per
illuminare i suoi spettri. Io ho tentato, ho provato tutto ciò che
era in mio potere, ma non è bastato. Non so cos'altro fare se non
donargli quella pace che gli è sempre stata negata».
Camus fissò a lungo il giovane, chiedendosi se scendere alla Settima Casa
non si fosse rivelato un errore.
«Almeno gli ho risparmiato il
supplizio di lottare contro Milo».
Poi, intrecciando le braccia sopra il corpo e preparandosi ad attaccare,
disse: «Mi dispiace Hyoga: avrei voluto aiutarti, ma tu non me l'hai
permesso. Addio».
Il Cigno alzò la testa di scatto: «C-come?»
«Aurora Execution!»
Aquarius sentì il proprio potere provenire direttamente dalle stelle ed
avvolgerlo, circondandolo d'oro cosmico; il sacro fendente
dell'Acquario brillò ancora per qualche istante attorno a lui, per poi
andare a centrare alla velocità della luce il petto dell'avversario.
Questi spalancò la bocca in un grido muto e si accasciò al suolo,
esanime.
Quando il cosmo del cavaliere di bronzo si spense di botto, l’Undicesimo
Custode boccheggiò: gli parve persino di udire un canto di cigno,
lamentoso e lontano.
«Perdonami, Hyoga. Perdonami se non ho saputo fare di te un guerriero»
mormorò al ragazzo che, ormai, non poteva più udirlo «Io credevo...
credevo che sarebbe stato sufficiente spronarti. Ho fallito. Io, Camus
di Aquarius, ho fallito nel mio compito di maestro».
Sentì qualcosa di caldo e bagnato scorrergli lungo le guance, e si accorse
con sgomento che erano lacrime:
lacrime che aspettavano di uscire da una vita intera, ché lui non
aveva mai pianto prima. Mai.
Lacrime di frustrazione, di impotenza; di rabbia, contro se stesso e
contro Hyoga, che si era arreso al destino; di dolore, per la morte
del Crystal saint, e per la consapevolezza di essere rimasto l'unico
detentore della nobile arte del Freddo.
«Mi dispiace, Markel: avrei dovuto prendere il tuo allievo dal punto in
cui l'avevi lasciato e guidarlo lungo il cammino come avresti fatto
tu, invece l'ho ucciso».
Altro pianto continuava a scendergli dalle ciglia, quasi che, una volta
cominciato, non fosse più in grado di smettere.
«Sì, l'ho ucciso. Ma non permetterò che il tempo corroda il suo corpo:
almeno questo te lo devo».
Così, levata la stessa mano che in precedenza aveva usato per offendere,
sussurrò con voce rotta: «Freezing Coffin!»
Un strato di ghiaccio abbracciò soave il fu cavaliere di Cignus; dapprima
sottile, divenne progressivamente sempre più spesso, fino a formare
una bara trasparente al pari del cristallo, al cui centro troneggiava
Hyoga in tutta la sua bellezza.
Camus toccò il gelido feretro come a voler trasmettere ad esso un po’ di
calore, benché di calore da donare non ne avesse mai avuto – e, in
quel momento, meno di sempre.
«Adesso sei immortale. La ombrosa quiete della Settima Casa cullerà il tuo
sonno, proteggendoti da ogni male. Addio, cavaliere».
Si allontanò, asciugandosi gli occhi. E non si voltò più indietro.
***
Il settimo fuoco della Meridiana dello Zodiaco vampò per un ultimo
istante, poi si spense del tutto.
«Io sono il prossimo. Avanti,
ragazzini, salite all'Ottava Casa: le calde braccia della nera
Signora vi stanno aspettando. Le avete fatte attendere anche troppo
a lungo».
Milo di Scorpio gettò un ultimo sguardo ai Templi dabbasso, rientrando nel
proprio con un fluido svolazzo di mantello bianco. Gli
avvenimenti a cui aveva assistito nelle ore precedenti avevano
veramente dell'incredibile.
La sconfitta di Death Mask lo lasciava ancora di stucco, così come gli
strani eventi succedutisi alla Quinta Casa, dove Aiolia aveva
massacrato il cavaliere di Pegasus fino a che Cassius non si era
frapposto fra i due, pagando con la vita la sua intromissione.
Era molto probabile che il Gran Sacerdote avesse
soggiogato la mente del Leone; ciò, fra l’altro, sarebbe stato in
grado di spiegare l’ambiguo comportamento tenuto da quest’ultimo nei
giorni passati. Le
ragioni di tale gesto, però, rimanevano oscure: perché temere i
sospetti di Leo al punto di plagiarlo? Se Arles era nel giusto, cosa
l'aveva spinto a ricorrere all'inganno?
E poi, la disfatta di Virgo.
Ora, i Gold saints avevano tutti enormi poteri, inferiori solo a quelli di
un dio; tuttavia, se Milo avesse dovuto scegliere il più valente fra
loro, avrebbe di sicuro fatto il nome del Sesto Custode.
Shaka della Vergine non
era solo un cavaliere d'oro: era anche l'Illuminato, il guardiano
della porta dell'Ade, l'incarnazione del Buddha.
Un appiglio saldo e sicuro a cui aggrapparsi, certi della sua
incrollabilità.
Eppure, alla fine di un combattimento serrato ed estenuante, la Fenice
l'aveva abbattuto, trascinandolo con sé verso la morte; aveva sentito
il cosmo di entrambi affievolirsi, e poi ritornare a brillare soffuso
grazie all'intervento di Mu.
Gli sembrava impossibile di essere arrivato a temere per Shaka;
probabilmente aveva commesso il grande errore di sottovalutare
l'avversario, ma chi non l'avrebbe fatto, al suo posto?
Quei Bronze dovevano per forza essere guidati da qualcosa di più del
semplice spirito di rivalsa nei confronti dell'autorità del Grande
Tempio: avevano ricevuto aiuti, certo, ma dubitava che, in assenza di
una forte motivazione, essi sarebbero stati tanto efficaci.
«Arles vi sta ingannando, cavaliere d'oro! Dice di rappresentare la
volontà di Atena, ma in realtà vuole solo dominare incontrastato
sul mondo intero; redimetevi, scegliete la strada della giustizia
finché siete in tempo! Non riuscite a sentire le forze oscure che
albergano in lui?»
Aiolos, Libra, Daidaros, Aries; le file di chi vedeva nel Gran Sacerdote
un usurpatore del Trono di Atene si stavano ingrossando in maniera
preoccupante.
Ma non era compito suo sindacare su cosa li spingesse a sostenere tali
ragioni: lui era stato chiamato a difendere il proprio Tempio e così
avrebbe fatto, cercando però di evitare gli sbagli dei suoi compagni.
Gli prudevano le mani:
la cuspide reclamava vendetta per l'umiliazione inflitta al Santuario.
«Eccoci giunti all'Ottava Casa, infine».
Dall'arcata esterna provennero delle voci; Pegasus e Dragon avevano
varcato la soglia.
Milo rimase nascosto nella penombra, in attesa.
«Milo di Scorpio la presiede, colui che distrusse l'isola di Andromeda;
l'assassino di Daidaros. Uomo pericoloso e letale, costui» sussurrò il
più alto, il vincitore della lotta contro Death Mask.
«Ah, non male come presentazione»
pensò lo Scorpione, anche se avrebbe preferito non essere ricordato
quale assassino.
«Shiryu, cosa credi avesse in mente Shun? Sono preoccupato».
«Faresti bene a preoccuparti per te
stesso, stolto!»
A quel punto il ragazzo chiamato Shiryu narrò all'altro una favoletta
appresa – a suo dire – in Cina, a proposito di una lepre che, non
avendo nulla da donare a un uomo affamato, sacrificò se stessa
gettandosi tra le fiamme. Se
la ratio di tutto ciò sfuggì a Milo, Pegasus al contrario
dette segno di aver inteso benissimo, perché chiese, con voce
tremante: «Allora, tu pensi che anche Shun... »
Dragon annuì, contrito.
L'esplosione inattesa di un cosmo proveniente dalla Settima Casa fece
voltare di scatto i due.
«SHUN!»
«Seiya, dobbiamo impedirglielo! Torniamo indietro!»
«Provateci, se vi riesce!»
Era giunto il momento di entrare in scena.
«Tzé, che maleducati! Andarvene
dall'Ottavo Tempio senza salutarne il Custode! Mi avete forse preso
per un usciere?» tuonò sarcastico, sbucando da dietro una colonna «Non
vi lascerò né andare avanti, né tornare indietro, mi spiace».
E, per dimostrare quanto in realtà fosse rammaricato, indirizzò loro un
ghigno soddisfatto.
«Seiya, combatterò io con lui: tu vai!» soffiò il Dragone nell'orecchio
dell'amico.
«M-ma... »
«Vai, ti dico!»
Il brusco retrocedere del ragazzo castano non sfuggì però a Milo, che gli
intimò di fermarsi espandendo minacciosamente un filo di cosmo.
«Sei forse duro di comprendonio, ragazzo? Ho detto che non vi lascerò né
andare avanti né tornare indietro: quale parte della frase non ti è
chiara?»
«Non credi di essere un po’ troppo arrogante, Scorpio?» disse Shiryu,
prevenendo la possibile reazione avventata dell'amico.
«Nient’affatto. E, comunque, chiamatemi Milo: non ho mai sopportato i
formalismi» rise lui, con una punta di malizia. Adorava
spiazzare gli avversari fingendosi dapprima gentile, cordiale
addirittura, per poi colpirli quando avevano parzialmente abbassato la
guardia: era come giocare al gatto col topo.
E poi, in fondo, era dannatamente vero che non sopportava i formalismi.
«Lascia perdere i convenevoli! Se non hai intenzione di farci passare,
allora combattiamo!» eruppe Seiya, visibilmente irritato.
«Quanta impazienza! Dunque, fate pure; siete voi ad avere fretta, se non
mi sbaglio».
«Sarò io il tuo avversario;» dichiarò allora Shiryu «sei pronto alla
lotta, cavaliere?»
Milo rispose con uno sbuffo divertito.
«Rozan Shoryuha!»
Il colpo esplose in un lampo di luce verde smeraldo, talmente lento per i
riflessi di Scorpio che egli non si prese nemmeno la briga di
scansarlo: levata una mano all'ultimo secondo, lo spense semplicemente
chiudendo il pugno davanti allo sguardo attonito del Dragone.
«”Guarda che non mi fai paura. Non sono più un bambino, ma un tuo pari”
“Non ancora, piccolo aracnide. Non ancora. E non lo sarai nemmeno con
l’armatura indosso, fidati di me: ne hai, di sangue da sputare”
Lasciatelo
dire, caro Death: mi hai deluso. Ti sei fatto sconfiggere da un
novellino».
«Così, questo sarebbe il famoso Rozan Shoryuha; famoso per il nome, non
certo per altro, a quanto sembra!»
Una smorfia di rabbia percorse il volto dapprima impassibile del Bronze.
«Mai sottovalutare l'avversario! Alcuni dei tuoi compagni hanno pagato a
caro prezzo questo sbaglio!»
«Ma io non ho fatto nulla di simile: qualora non l’avessi notato, per
parare il tuo attacco ho posto una mano come scudo. Credimi, non ne
avevo alcun bisogno: era così blando che la mia armatura sarebbe
bastata da sola, ad infrangerlo».
«PEGASUS RYUSEI KEN!»
Il cavaliere di Pegasus, intanto, aveva concentrato il cosmo ed attaccato;
non sarebbe riuscito a coglierlo di sorpresa se, un attimo prima di
schiantarsi contro il suo braccio, le tante piccole scariche che
componevano il Pegasus Ryusei Ken non si fossero unite in una sola
meteora.
«Ma che-»
Con un tonfo secco il suo elmo cadde a terra, centrato dal fulmine.
«Adesso, Seiya! ROZAN SHORYUHA!»
«PEGASUS RYUSEI KEN!»
«Questi ragazzini sono fastidiosi
come zanzare, però non si può dire che manchino di iniziativa».
«Molto scenografico, davvero,» commentò Milo, parando simultaneamente le
due offensive combinate «ma del tutto inutile. I vostri colpi
viaggiano a malapena alla velocità del suono: è come se li vedessi a
rallentatore».
Poi, tendendo l'unghia scarlatta dinanzi a sé, riprese: «E ora, se non vi
dispiace, sarebbe il mio turno. Scarlet Needle!»
Precisi come frecce, due rossi getti filiformi di energia cosmica andarono
a centrare l'addome degli avversari, che caddero a terra con la faccia
sconvolta dalla sofferenza.
«È-è terribile. Non riesco più a muovermi! Il mio corpo è paralizzato!»
disse Seiya, la voce distorta, ogni traccia di baldanza sparita.
«Lo Scarlet Needle, l'attacco delle quindici stelle: il colpo più temuto
di tutto il Grande Tempio» sussurrò Scorpio, compiaciuto «Nessuna
esplosione, nessuna devastazione esteriore.
Dalla prima all'ultima cuspide – Antares, l'astro guida della
costellazione dello Scorpione –, solo tormento interno.
Però, se ci pensate bene, è anche l'arma più
misericordiosa che ci sia, perché lascia al nemico il tempo di
redimersi… se avrà la forza di restare in vita. E voi, giovani
traditori, fino a che punto l'avrete?» concluse, preparandosi a
lanciare la seconda puntura.
«Scarlet-»
Non poté terminare, poiché qualcosa lo bloccò all'improvviso: un cosmo,
all'interno dell'Ottava Casa.
Quel
cosmo.
Lo stesso che aveva percepito, flebile, comparire al Tempio di Libra poche
ore prima, e che gli aveva impedito di dire la verità a Camus; così
simile a quello dell'Acquario, anche se assai meno potente.
Il suo possessore avanzava fiero ed eretto, portando in braccio un
cavaliere esanime, abbandonato sul petto del Cigno.
Un brivido di rabbia attraversò la schiena di Milo, scuotendolo da capo a
piedi: dunque era per lui che Aquarius aveva pianto. Invano.
«Allora si trattava del tuo allievo;» esordì Milo, quando Camus fece
ritorno dal Settimo Tempio a testa bassa «secondo me hai fatto la
cosa giusta. Non era pronto».
«Non mi pare di aver chiesto il tuo parere in proposito» rispose laconico
Aquarius, passando oltre senza degnarlo di uno sguardo.
«Camus, fermati. Volevo semplicemente sapere come ti senti».
«Mai stato meglio, grazie. Adesso scusami, ma devo tornare alla mia Casa».
No, che non stava bene: avrebbe potuto ingannare chiunque, ma non lui. Il
tremito
della sua voce, benché impercettibile, non era infatti sfuggito a
Scorpio.
«Maledizione, quante volte ti ho detto che mi DEVI guardare, quando ti
parlo?»
All'alterata esortazione, Camus finalmente si voltò; il suo viso aveva un
qualcosa di strano.
«Io non prendo ordini da te. Non accetto che tu mi dica cosa devo o non
devo fare. Ti è chiaro, Milo?»
Ecco cosa c'era che non andava: i suoi occhi erano lucidi, freschi di
lacrime.
Non poteva credere che Camus di Aquarius avesse pianto. E per chi, poi.
«Hai pianto» sussurrò allora Milo, sbigottito dalla scoperta.
«Cosa?»
«Avevi già ucciso, prima d'ora. Cos'aveva quel ragazzo di talmente
speciale da farti piangere la sua scomparsa?»
Camus chinò nuovamente il capo, come a voler nascondergli le iridi
traditrici: «Sciocchezze».
«Non mentirmi!»
Quello non replicò, tornando a dirigersi verso l'uscita del Tempio.
Milo, arrabbiato, si sporse in avanti e lo trattenne per un braccio; era
la seconda volta che lo faceva, quel giorno, ma non si aspettava
che l'altro reagisse così male.
«Lasciami. Subito».
«No».
«Ti ho detto di lasciarmi, Scorpio».
Il gelo con cui pronunciò tali parole mascherava a stento l'ira che ormai
lo dominava, ma lo Scorpione non mollò la presa.
«Perché dovrei farlo? Nemmeno io prendo ordini da te».
Non fece in tempo ad
aggiungere altro che si ritrovò scaraventato contro il muro, col
viso di Camus a pochi centimetri dal suo e la mano libera di
questi stretta intorno al collo.
«Osa ancora toccarmi senza permesso, e giuro che di te non rimarrà nemmeno
un briciolo di polvere. Mi hai capito?»
Milo non l'aveva mai visto in quello stato: era fuori di sé. Ammutolito da
un simile scatto furioso, annuì impercettibilmente e allentò la
presa.
Aquarius lo lasciò a sua volta, si scostò da lui con sdegno e riprese a
camminare.
«A proposito:» disse poi, prima di sparire oltre la soglia «io non ho pianto».
Adesso Milo aveva davanti la fonte di tale turbamento, e tuttavia non gli
pareva meritevole di tanto profondo cordoglio da parte di Camus.
«Se fossi morto io, probabilmente
quel bastardo non avrebbe versato una sola lacrima, mentre per
costui si è fatto venire gli occhi rossi. Non te lo perdonerò tanto
facilmente, biondino».
Pensò che, per una volta – e una soltanto –, arrecare morte gli avrebbe
procurato piacere.
«Benvenuto nella mia Casa, Hyoga di Cignus».
Continua
...
Note
dell’autore
Con
questo capitolo inizia ufficialmente la parte più
difficile – e più bella – della storia: il “durante” e il “dopo” la
battaglia
delle Dodici Case.
Sebbene
sia divisa in due parti (pena un capitolo
mostruosamente lungo), la narrazione tratta della stessa giornata; ho
altresì
intenzione di raccontare i fatti dal punto di vista sia di Camus, sia di
Milo,
per accentuare differenze e similitudini tra loro. Per amor di equità
avrei
dovuto inserire anche Shaka e Maia, ma purtroppo non riesco a essere un
narratore completamente imparziale XD
Ringrazio
di cuore tutti quelli che mi stanno
seguendo, quelli che hanno inserito Sorella Morte tra le preferite e le
ricordate e, naturalmente, chi recensisce o recensirà!
Venendo,
al solito, alle questioni più specifiche:
- mi
sono permessa di battezzare Markel il Crystal saint: mi
sembrava brutto lasciarlo senza nome!
- Il
discorso: «Arles vi sta ingannando, cavaliere
d'oro! […]» è un ricordo tratto dalla parte prima del capitolo 7.
- «
“Guarda che non mi fai paura. Non sono più un
bambino, ma un tuo pari”.
“Non
ancora, piccolo aracnide. Non ancora. E non lo
sarai nemmeno con l’armatura indosso, fidati di me: ne hai, di sangue da
sputare.”». Altro ricordo, stavolta tratto dal Prologo II e riguardante
una
conversazione fra Milo e Death Mask.
|
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Capitolo 14 *** Capitolo 10, parte II: 11 settembre 1986. Camus, Milo ***
Capitolo 10, parte 2. Camus, Milo BG
Capitolo
10,
parte II: 11 settembre 1986. Camus, Milo
Era
proprio necessario che arrivasse quest'uomo a farmi capire l'inutilità
della mia esistenza?
Camus
di Aquarius
Quel giorno, dalle gradinate dell'Undicesima Casa, l'aria sembrava più
celeste che mai – come se un pezzo di paradiso fosse precipitato giù,
sulla Terra.
Camus di Aquarius l'aveva sempre amato, il celeste: era un colore freddo,
altero e impenetrabile come i ghiacci della sua Siberia, dietro al
quale le pulsioni dell'animo parevano sopirsi fino a scomparire,
inghiottite dalla quiete distaccata che tale tinta ispirava.
Ma allora, perché lui era riuscito a leggere così tanto nel pallido
celeste degli occhi del Cigno? Lì, in mezzo all'azzurro, aveva visto brillare cose terribili,
sentimenti talmente vividi e trasparenti da mozzargli il respiro.
Era stato proprio quel vortice di rabbia e disperazione a permettergli di
annientare Hyoga solamente levando il braccio destro; peccato che,
subito dopo, la sua stessa arma gli si fosse rivolta contro.
Non la Diamond Dust, non l'Aurora Execution, bensì la distruzione del
relitto in cui riposava la madre aveva sconfitto il cavaliere di
bronzo e Camus, benché avesse compiuto tale gesto unicamente per
spronare l'avversario, sentiva di aver giocato sporco.
Si vergognava di essersi approfittato del dolore di un
ragazzino per non venir meno al suo dovere – un dovere che da ormai
molto tempo non sentiva più come proprio.
Ma il destino, o chi per lui, pareva deciso a concedergli una possibilità
di riscatto: il Bronze, infatti, era stato dapprima liberato dal suo
gelido feretro con la spada di Libra, grazie all'intervento del
Dragone, e poi riportato alla vita dal cosmo del coraggioso cavaliere
di Andromeda che, pur di salvarlo, aveva sfidato la morte.
Sebbene rimanesse fermamente convinto delle motivazioni che l'avevano
spinto a condannare il suo allievo, Aquarius desiderava affrontarlo
ancora, per confrontarsi con lui alla pari: nessun sotterfugio
stavolta avrebbe macchiato le sue azioni, e nessun rimorso sarebbe in
seguito tornato a tormentarlo.
L'onore era la cosa più importante, sempre.
Ora doveva solo – solo? –
aspettare. E sperare che Milo avrebbe compreso.
«Allora si trattava del tuo allievo. Secondo me, hai fatto la cosa
giusta. Non era pronto».
Vero, Hyoga allora non era pronto. Ma adesso? Adesso, dopo aver conosciuto
e disprezzato il freddo – rassicurante
– abbraccio dell'oblio, lo sarebbe stato?
Nel cosmo del Cigno Camus non percepiva più quella sorta di rassegnazione
che vi aveva trovato durante lo scontro alla Settima Casa: al suo
posto, brillava ora una nuova scintilla di rivalsa.
La stessa rivalsa che, però, ritrovava raddoppiata nell'aura di Scorpio.
Non era la lealtà verso le ragioni portate avanti dal Gran Sacerdote a
muovere l'unghia scarlatta dell'Ottavo Custode o, perlomeno, non
soltanto. Un
qualcosa di ben più temibile accompagnava la giusta volontà di
difendere il proprio Tempio, ma cosa? Astio? Odio? Vendetta? Perché?
Aquarius conosceva bene l'indole e il modo di combattere dell'amico – «ex
amico, Camus. EX» –, e mai aveva visto ribollire in lui tanto
accanimento; quasi che fosse un qualche conto personale a spingerlo
contro Hyoga, e non la causa comune che, al contrario, l'aveva animato
nel corso della battaglia con Pegasus e Dragon.
«E se, invece, fosse un modo per
punire me?»
Era un pensiero assurdo, e tuttavia non privo di fondamento; fra le
schiere dorate Milo spiccava per la sua onestà, ma anche per la
potente e spesso indomabile irrazionalità.
«Osa ancora toccarmi senza permesso e giuro che di te non rimarrà nemmeno
un briciolo di polvere. Mi hai capito?»
In preda al dolore, Camus gli aveva rivolto parole dure, intrise di una
rabbia malsana. Lo aveva odiato perché, come suo solito,
Scorpio aveva saputo leggergli dentro tutto, per poi sbattergli in
faccia con una semplicità disarmante cose che lui avrebbe invece
preferito tenere nascoste e sigillate nell'angolo più profondo del
cuore. Si
era sentito smascherato, violato nella sua intimità, e aveva attaccato
come un animale braccato, senza chiedersi il motivo per cui il segno
indelebile delle sue prime lacrime avesse sconvolto tanto lo Scorpione
– forse più di quanto aveva turbato lui stesso quando si era sorpreso
a piangere.
Ma ora, che all'Ottavo Tempio avvertiva collidere e sovrapporsi cosmi così
determinati a prevalere l'uno sull'altro, era – di nuovo – troppo
tardi per chiedere perché.
Il danno era fatto, eppure Camus nutriva l'ardente speranza di poter, in
qualche modo, raccogliere e rimettere insieme i cocci.
E quel maledetto
presagio, quel presentimento funesto gli suggeriva di farlo il più in
fretta possibile.
Desiderava che Hyoga riuscisse ad arrivare sino all'Undicesima Casa, per
dimostrare a lui e alla propria coscienza di essere in grado di
batterlo senza inganno, e con pari intensità voleva che Milo
sopravvivesse – non poteva pensare di perderlo.
Anche se litigi e incomprensioni avevano corroso come acido il loro
rapporto, Scorpio era pur sempre il suo amico. Il suo migliore amico.
Sì, prima o poi avrebbero chiarito tutto, e sarebbero tornati a essere
quelli di una volta. Se solo gli fosse bastato il tempo – aveva come la sensazione
di non averne più molto a disposizione. Chissà con che diritto ne era
convinto, poi.
«Camus».
Camus si irrigidì appena: gli era parso di udire la voce di Maia, da
qualche parte alle sue spalle. No, impossibile. Maia se n'era andata molto prima e, per
fortuna, ora doveva essere al sicuro. Ignara
del tradimento di Mu, del suo imbroglio, della morte di Death Mask,
della disfatta di Shaka, della rabbia di Milo, ma al sicuro. Chissà se
l'avrebbe rivista.
Rivolse nuovamente l'attenzione allo scontro in atto alla Casa dello
Scorpione Celeste, col cuore gonfio.
Camus aprì gli occhi lentamente, lasciando che il sonno scivolasse via
pian piano, senza fretta. Da dietro le tende non filtrava un solo spiraglio di luce,
eppure la stanza non era totalmente avvolta nel buio – doveva
mancare poco, allo spuntar del sole.
Il silenzio che regnava sovrano all'esterno veniva interrotto, di quando
in quando, dai cinguettii sommessi di qualche uccello
particolarmente mattutino e dal canto penetrante di una civetta
tardiva.
Maia giaceva supina al suo fianco, con i lunghi capelli sciolti
intrappolati sotto la spalla sinistra; ogni tanto, preda di chissà
quale sogno agitato, si muoveva di scatto e corrugava la fronte.
Le tazze della sera precedente erano rimaste sul comodino, dimenticate –
una volta terminato il latte nessuno dei due aveva avuto voglia di
alzarsi per riportarle in cucina.
Si erano coricati stretti l'una all'altro, aspettando che Morfeo li
accogliesse fra le sue confortevoli braccia; Camus le si era
rannicchiato contro e lei aveva riso nel vederlo in quella strana
posizione, così dimessa rispetto al suo solito atteggiamento
solenne.
«Il prode cavaliere dell'Acquario che dorme accoccolato come un bambino!
Perdonami, ma è un'immagine un po' bizzarra».
«Spiritosa» aveva replicato lui, fintamente offeso «Mi sono abituato a
dormire così per necessità; al Nord, specialmente in inverno, non
fa così caldo».
Per amor di onestà, Aquarius avrebbe poi potuto dirle che, in realtà, tale
abitudine era caduta in disuso subito dopo il suo ritorno in
Grecia, ma aveva preferito non farlo. In quel momento starle il
più vicino possibile era tutto ciò di cui sentiva bisogno, e tanto
bastava.
Le accarezzò piano la testa, stando attento a non destarla: gli piaceva
guardarla dormire. Nel fioco chiarore del primo mattino, con il corpo abbandonato
e il volto disteso, era bella come non mai.
DON. DON. DON.
Camus si drizzò a sedere, preoccupato: era stata solo la sua
immaginazione, oppure... ?
Il dubbio fu subito sciolto da un secondo rintocco che, più forte del
precedente, squarciò impietoso i restanti residui di quiete.
Doveva essere successo qualcosa di particolarmente grave se la campana
d'allarme suonava come impazzita: erano passati tredici anni,
dall'ultima che l'aveva udita, ma ancora ricordava ogni singolo
istante di quella terribile notte.
Balzò in fretta giù dal letto e, indossata al volo la prima cosa
capitatagli a tiro, si precipitò fuori dalla stanza.
All'esterno del Tempio per poco non andò a sbattere contro un soldato in
corsa nella sua direzione, rosso in viso e ansante.
«Soldato, ma che sta succedendo? Ho sentito la campana suonare, poc'anzi».
Quello cercò di riprendere fiato il più velocemente che poté, poi rispose:
«Nobile Aquarius, i cavalieri di bronzo ci attaccano! Le nostre
sentinelle li hanno visti varcare il confine sacro pochi minuti
fa! Sono quattro, accompagnati da una ragazzina».
L'Acquario, alla notizia, strinse leggermente i pugni: l'avevano fatto
davvero. Sapeva
che sarebbe accaduto, ma non si aspettava così presto.
«Il Gran Sacerdote ne è al corrente?»
«Io ho ricevuto l'ordine di avvisare soltanto voi Gold saints: il soldato
incaricato di informare il Pontefice dovrebbe essere giunto alla
Tredicesima Casa, ormai» disse l'uomo, palesemente sollevato
all'idea di non essere stato scelto per quell'ingrato ruolo – la
reazione di Arles alle cattive nuove era tristemente nota in tutto
il Santuario.
«Ti ringrazio. Adesso non indugiare oltre, vai da Pisces. Vai!»
Egli non se lo fece ripetere due volte e, inchinatosi appena, riprese la
sua corsa in direzione del Dodicesimo Tempio.
Camus, nel rientrare, gettò uno sguardo dabbasso: la luna non era ancora
interamente tramontata, e già il Grande Tempio si stava
mobilitando per respingere l'invasione.
Il canto degli uccelli che aveva accompagnato il suo risveglio
poco prima era stato repentinamente soffocato da urla di comandi
confusi e strilli spaventati di servitori in fuga verso i loro
alloggi, situati a est rispetto ai Templi Sacri.
Sembrava che nessuno sapesse bene cosa fare.
Lui, al contrario, conosceva il proprio compito: avrebbe dovuto aspettare
e, se fosse stato necessario, difendere l'Undicesima Casa a costo
della vita.
Anche i suoi compagni erano pronti, lo sentiva; i loro cosmi dorati
bruciavano vividi e sfolgoranti, sprazzi di luce potenti che
diffondevano sicurezza in mezzo alle tenebre di quel caos.
Fu sorpreso di riconoscere, fra essi, anche quello di Mu.
Ammesso
– e non concesso – che fosse stata solo una coincidenza, Aries era
tornato proprio al momento giusto.
«Camus,» chiese Maia agitata, una volta che lui fu di nuovo in camera «mi
vorresti spiegare che sta succedendo? Perché sento la gente
correre e urlare?»
«Succede che siamo in guerra. I cavalieri di bronzo ribelli hanno invaso
il Santuario» rispose lui, aprendo lo scrigno contenente le sue
vestigia.
La ragazza lo osservò stralunata illuminarsi d'oro a poco a poco, via via
che un pezzo dell'armatura si incastrava con l'altro.
«É uno scherzo, vero?»
«No, Maia, non lo è. E proprio perché non lo è, tu te ne devi andare – il
più presto possibile».
«M-ma, ma... no!» esclamò lei, scuotendo la testa con impeto per mostrare
tutto il suo disappunto «Non provare a chiedermelo di nuovo, tanto
non lo farò».
«Lo farai, invece. Non hai altra scelta».
«Invece sì, ed è quella di rimanere con te!»
Aquarius sospirò, passandosi una mano sul viso – e pensare che, di solito,
Maia era una persona piuttosto ragionevole.
«Maia, ti prego. Siamo sotto attacco, non è certo questo il momento di
fare i capricci. Non sappiamo con esattezza che intenzioni abbiano, questi
cavalieri venuti da lontano. L'unica cosa certa è che, se sono
giunti al punto di muoverci guerra, non si faranno alcun tipo di
scrupolo di fronte a nulla.
Difendere
il Tempio della Sacra Anfora da chiunque tenti di attraversarlo
senza consenso è il mio dovere, una responsabilità a cui io non
intendo sottrarmi per nessuna ragione al mondo. Se mi verrà
richiesto di farlo, non potrò pensare ad altro. Non potrò
proteggerti, lo capisci? Non ti permetterò di mettere a rischio la
tua vita solo per stupida ostinazione, sono stato abbastanza
chiaro?»
A quelle parole, Maia abbassò gli occhi e non rispose.
Era la prima volta che usava la sua autorità di cavaliere su di lei; se ne
dispiaceva, ma non aveva altri mezzi per convincerla, ed era
importante che comprendesse la gravità della situazione. Era
stato lui a chiederle di rimanere, la sera precedente, e se le
fosse successo qualcosa non se lo sarebbe mai perdonato.
«Ora,» riprese subito dopo in tono appena più dolce, posandole
delicatamente le mani sui fianchi «raggiungi anche tu gli alloggi
della servitù. Ti ricordi come ci si arriva? Devi accedere alle
grotte sotterranee della Nona Casa, e-»
«Lo so benissimo come ci si arriva!» lo interruppe lei, infastidita
«Qualora non lo rammentassi, ero io quella che giocava a
nascondino laggiù, insieme ad Aiolia e Milo».
«Oh, sì, lo rammento bene. Soprattutto, rammento che ogni volta vi
perdevate, e che toccava sempre al povero Aiolos venire a prendere
tutti e tre per le orecchie» sorrise involontariamente Camus, al
ricordo.
La ragazza, un poco rincuorata dal parziale sciogliersi della tensione,
gli gettò le braccia al collo e lo baciò con foga.
Aquarius,
maledicendo segretamente il freddo metallo dell'armatura che gli
impediva di stringerla a sé come avrebbe voluto, ricambiò il
gesto.
«Adesso vai» disse poi, allontanandola gentilmente «Non è saggio aspettare
oltre».
Lei si staccò riluttante, con gli occhi lievemente velati: «Fai
attenzione, ti supplico».
«Non ti preoccupare per me, né per gli altri: sappiamo badare a noi
stessi. Ci riabbracceremo presto, vedrai».
Maia annuì e se ne andò correndo, la leggera stoffa bianca del vestito a
ondeggiare nell'aria innaturalmente immobile. Camus sapeva che
aveva evitato di voltarsi per non concedere a se stessa il tempo
di cambiare idea.
Mentre la guardava scomparire fra le colonne, si chiese se davvero avrebbe
potuto riabbracciarla presto.
***
Milo di Scorpio aveva sempre riposto fiducia incondizionata nel suo
istinto.
Le complicate elucubrazioni mentali preferiva lasciarle agli strateghi:
lui era un predatore e, come tale, agiva secondo gli stimoli del
momento, senza stare troppo a soppesare pro e contro.
Non si era dunque posto domande quando, all'entrata in scena del Cigno,
aveva sentito ribollire il sangue nelle vene, smanioso di vendetta;
gli si era semplicemente lanciato contro, ridendo delle – false – sicurezze mostrate dall'avversario.
«Che si illuda di potermi battere,
se vuole» aveva pensato, scansando le sue Diamond Dust – così
flebili, rispetto a quelle di Camus – e rispondendo con Scarlet Needle
consecutivi «Dovrà tuttavia
ricredersi in fretta: non sarà certo il suo tiepido ghiaccio a
fermare il veleno dello Scorpione».
Ma arrivato alla dodicesima puntura Hyoga ancora non dava segni di volersi
arrendere, e Milo cominciava a credere che l'innato sesto senso in cui
riponeva tanta fede forse stavolta si stesse sbagliando.
Daidaros, cavaliere d'argento, era morto dopo sei cuspidi – numero che gli
era valso stima e rispetto da parte dell'Ottavo Custode. Prima di lui,
altri avevano retto ben meno. Nessuno, proprio nessuno comunque era mai resistito a più di
dieci colpi.
Possibile che un ragazzo vestito di bronzo fosse invece giunto alle soglie
di Antares senza nemmeno impazzire?
Non che i suoi attacchi non avessero avuto alcun effetto: i segni della
sofferenza erano ben impressi sul volto – «giovane.
Troppo
giovane» – del Bronze, e presto la paralisi dei sensi l'avrebbe
certamente indebolito ulteriormente, tuttavia sembrava che a ogni
assalto l'ardore dei suoi perché andasse rinforzandosi, piuttosto che
diminuire.
Era davvero la stessa patetica persona per la quale, appena poche ore
prima, Aquarius aveva versato lacrime di compianto?
«Avevi già ucciso, prima d'ora. Cos'aveva quel ragazzo di talmente
speciale da farti piangere la sua scomparsa?»
L'immagine degli occhi umidi del guardiano dell'Undicesimo Fuoco e il
pensiero dei compagni sconfitti fecero d'improvviso riaccendere la
fiamma dello sdegno in Milo – Cignus e i suoi erano dei traditori da
eliminare. Non v'era spazio per altro, tantomeno per qualche tipo di
ammirazione.
O, almeno, così tentava di convincersi: la frenetica rabbia iniziale stava
infatti cominciando a sbiadire, vinta da riflessioni contrastanti fra
loro. Da una parte la voglia di rivalsa, dettata dalle sue pulsioni.
Dall'altra, il dubbio.
Se almeno Hyoga si fosse arreso, lui non sarebbe stato costretto a
scegliere; decise dunque di concedergli un'ultima possibilità di
salvezza, nonostante tutto.
«Te lo chiederò un'altra volta ancora, cavaliere» disse al biondo, riverso
a terra dopo aver accusato l'ennesima offensiva «Decidi: o la resa, o
la morte».
«Ah, Scorpio, mi dispiace. Nessuna delle alternative che mi offri è di mio
gradimento» rispose lui pacato, sollevandosi «Né mi arrenderò né
morirò: anche da questa vittoria dipende la salvezza di Atena».
«La salvezza di Atena... »
«E sia. Preparati, Hyoga di Cignus: stai per ricevere l'Ago della Cuspide.
Sentiti onorato, è la prima volta che mi vedo costretto a usare la mia
tecnica sacra. Addio» dichiarò Milo, preparandosi a scagliare
l'attacco finale.
«A me pare un po’ presto per dire addio» ghignò l'altro, inaspettatamente
«Non credo che tu sia in grado di lanciare Antares, al momento».
«Che intendi dire?» chiese allora Milo, alquanto irritato – non aveva
affatto gradito il tono di sfida con cui Hyoga gli si era rivolto.
«Tutta questa ironia te la porterai
nella tomba, ragazzino: non è ancora nato colui che sarà degno di
prendere in giro Milo di Scorpio».
«Guardati le gambe, cavaliere».
Scorpio fece come gli era stato suggerito, più per curiosità che per vero
interesse, e rimase di sasso: i suoi polpacci erano completamente
avvolti in uno strato di ghiaccio. Immobilizzati.
«Ma che... come hai fatto?!»
Eppure lui non si era accorto di nulla; che si fosse approfittato del suo
brevissimo istante di raccoglimento?
«Tu eri troppo occupato ad attaccarmi, per accorgerti che le mie Diamond
Dust stavano pian piano facendo effetto: adesso pagherai per tale
disattenzione».
«Le Diamond Dust! Io credevo di
averle schivate tutte! Tu guarda che carognetta travestita da cigno!»
L'aveva beffato, doveva riconoscerglielo. Ma se credeva di spaventarlo con
così poco, si sbagliava di grosso.
«Mai abbassare la guardia, durante una guerra. Vedo che hai appreso la
lezione meglio di me» commentò sarcastico, socchiudendo gli occhi
«Cos'hai intenzione di fare, adesso?»
«Lo vedrai presto;» rispose Hyoga, espandendo il suo cosmo bianco «ecco il
colpo segreto più efficace di Hyoga di Cignus: AURORA THUNDER ATTACK!»
Milo si divincolò nel tentativo di liberare le gambe congelate, però non
fu abbastanza veloce; il colpo lo raggiunse in pieno, scaraventandolo
in aria. In
un primo momento temette di non riuscire a contrastare il flusso di
gelo che lo stava trascinando verso il soffitto, ma il suo sconcerto
durò meno del tempo sufficiente a rendersi conto che, in realtà,
l'attacco non era né freddo quanto un'Aurora Execution né rapido come
un Lightning Bolt, e nemmeno irruento al pari di un Great Horn.
Si era lasciato
incantare dall'inaspettata forza sprigionata dall'aura del Cigno,
senza rendersi conto di essere allenato a contrastare assalti ben più
potenti.
Una lieve pressione del suo cosmo dorato, e l'Aurora Thunder Attack in cui
Cignus aveva riposto tante speranze si dissolse di botto.
«Come neve al sole. Il sole del
deserto».
«Bravo. Davvero bravo, Hyoga» si congratulò, atterrando con grazia dinanzi
a lui «Con un po’ di impegno in più, saresti forse anche riuscito a
colpirmi come si deve; ritenta, sarai più fortunato!»
Il volto del Bronze, nel vederlo illeso, si contrasse in una smorfia di
frustrazione: «Non mi lascerò scoraggiare da te! Io... ah!»
Un'improvvisa fitta all'altezza del petto gli impedì di continuare;
scivolò involontariamente su un ginocchio, premendo la mano sulla
parte offesa.
Scorpio si fece serio: sapeva bene cosa significasse quel malessere.
«Troppo tardi, mio giovane amico. Il veleno è definitivamente entrato in
circolo: in men che non si dica ti priverà di tutti e cinque i sensi,
rendendoti più simile ad una larva che non a un essere umano».
«Stai solo cercando di spaventarmi» rantolò Cignus, tentando di
concentrare nuovamente il cosmo per attaccarlo.
«Oh no, ho già compreso che la fine non ti spaventa: questo ti fa onore.
Ma vedi, c'è modo e modo per morire, e tu stai andando incontro al
peggiore che esista. Guarda tu stesso».
A quelle parole, Hyoga abbassò lo sguardo verso l'armatura e inorridì:
dagli innumerevoli fori lasciati dagli Scarlet Needle cominciavano a
uscire fiotti di sangue scarlatto, tanto intensi da formare pozze sul
pavimento marmoreo.
«N-non importa: combatterò comunque, nonostante la vista mi stia
abbandonando... » sussurrò, come per farsi coraggio.
Milo fece qualche passo nella sua direzione, calpestando il rigagnolo
purpureo che andava allargandosi.
«Non puoi più combattere, mi rincresce. Sei destinato a spegnerti qui
all'Ottavo Tempio, annegato nel tuo stesso sangue. Io ho tentato fino
all'ultimo di dissuaderti dal continuare, ma tu, ancora una volta, non
hai voluto ascoltare i consigli di chi ne sa più di te. La lezione di
Camus non ti è servita a nulla».
Il ragazzo, al nome di Camus, si riscosse appena e affilò lo sguardo,
cercando di dissipare la nebbia che gli adombrava la visuale: «L-la
lezione di Camus? Che ne sai tu, di ciò che è successo alla Settima
Casa? Avanti, parla!»
«É in fin di vita. Perdonami, Camus,
ma ha il diritto di sapere; visto che non potrai parlare tu, lo farò
io al posto tuo – come sempre, del resto».
«Tu lo odi, vero? Pensi che il suo comportamento sia stato ignobile, e che
lui sia un essere cinico e senza cuore. La verità, invece, è che
quello che ha fatto, l'ha fatto per salvarti».
«Per... per salvarmi?»
«Per salvarti da tutto questo!» proseguì lo Scorpione, spalancando le
braccia a indicare le colonne devastate e le macchie di cremisi di cui
Hyoga era coperto «La prova a cui ti ha sottoposto al Tempio della
Bilancia era volta a mettere in luce le tue migliori doti di cavaliere
– doti che ti sarebbero state indispensabili per acquisire il settimo
senso, fondamentale prerogativa di un Gold saint. Solo dopo essertene
appropriato avresti potuto davvero competere con cavalieri a te tanto
superiori».
«Il settimo senso... il potere ultimo».
«Esatto. Ma, leggendo nel tuo animo solamente rimpianto e scarsa
determinazione, Camus ha pensato che tu non fossi pronto ad
affrontarci; così, ha preferito ucciderti lui stesso, senza dolore, e
rinchiuderti in un sepolcro di ghiaccio dove avresti riposato
indisturbato, protetto in eterno dalla quiete della Settima Casa».
Milo si interruppe per un istante, oppresso dal pensiero dello strazio che
tali gesta avevano certamente procurato all'Undicesimo Custode – forse
cominciava a comprendere il motivo delle sue lacrime.
«Sbagli però, se credi che questa decisione non gli sia costata: ha
persino pianto, sul tuo gelido feretro. Nonostante i suoi
convincimenti, ha pianto per te. E credimi, in tanti anni che conosco
Camus di Aquarius, non avrei mai pensato che sapesse piangere».
«Mai avrei pensato che sapesse
piangere, no. Anche se ho sperato per anni che, un giorno, avrebbe
potuto farlo per me».
Ecco, adesso Hyoga sapeva, e lui avrebbe dovuto lasciarlo morire, oppure
finirlo.
Rimpianse di non averlo ucciso subito, quando l'intero suo corpo gridava
vendetta, perché ora dubitava fortemente di riuscirci: come poteva
stroncare la vita dell'unica persona per la quale Camus aveva messo a
nudo la sua anima?
«Nessuna pietà per i traditori».
Ma Hyoga di Cignus era davvero un traditore?
Ciò che Scorpio aveva visto durante quella maledetta giornata, casomai gli
dimostrava il contrario: avrebbe forse dovuto rimanere cieco, in virtù
del suo solo status, e giocare invece al Dio giustiziere come il Gran
Sacerdote? Come Shaka di Virgo?
No, lui era diverso. Servivano prove certe per condannare qualcuno, e
quelle che aveva non le riteneva sufficienti – non più.
«Così ho deciso, cavaliere» disse, voltando le spalle al suo avversario
«Ti lascerò vivere e ti restituirò l'uso dei cinque sensi, a patto che
tu abbandoni la lotta e te ne vada da Atene per sempre».
«Perché tu solo hai saputo penetrare a fondo nel cuore di Camus».
«No, non accetto».
«Come, prego?!»
Nonostante Milo simulasse stupore, se l'aspettava. Gli aveva
offerto salvezza molte volte – dodici, per la precisione – e per
altrettante il Cigno l'aveva rifiutata con sdegno. Per quale ragione
ora avrebbe dovuto essere diverso?
«Hai sentito benissimo!» ringhiò l'altro, alzandosi in piedi con fatica
«Non accetto la tua misericordia, è un disonore che non merito!»
Lo Scorpione guardò dritto negli occhi dell'avversario: v'era ora più che
mai ferrea determinazione, in quel celeste malinconico, e una nuvola
di emozioni carica di tempesta.
«Un disonore... »
«Sì, un disonore! Con quale coraggio potrei continuare a sopravvivere,
sapendo di aver voltato le spalle ai miei amici proprio nel momento
del bisogno? Uomini con cui ho condiviso dolore e gloria, timori e
speranze! Li lascerei a se stessi solo per aver salva la vita, quella
vita che non avrei più se non fosse stato per loro? No, Milo di
Scorpio, non posso farlo: la mia esistenza non avrebbe più nessun
senso, senza di essi. La storia dei cavalieri di bronzo
al Grande Tempio narra gesta di amicizia, di altruismo, di spirito di
sacrificio, di coraggio senza precedenti: mai questi marmi avevano
visto fiorire al loro interno sentimenti tanto nobili in un solo
giorno! E io dovrei abbandonare tutto questo per egoismo?! Sarebbe
peggio di un tradimento!»
Quelle parole, pronunciate con tanto ardore, colpirono profondamente
l'Ottavo Custode, soprattutto perché erano vere: durante la scalata i
Bronze avevano effettivamente dimostrato quanto fosse stretto il loro
legame, e forte la condivisa convinzione nella causa che portavano
strenuamente avanti.
E loro, cavalieri d'oro, potevano dire altrettanto?
Ripensò ad Aiolia e Shaka, che erano perfino arrivati a scontrarsi; a Mu,
scomparso senza dire nulla; a se stesso e Camus, divisi per faccende
personali; a Shura, Death Mask, Aphrodite. Tornò con la mente al suo ultimo colloquio con Arles
quando, accusando il Leone di essere simile al fratello, aveva
commesso il più grande dei torti nei confronti del suo amico
d'infanzia – solo per stupido orgoglio.
«Signore, Leo non ha mai dato prova di non meritare la vostra fiducia… ma
è pur sempre fratello di Sagitter. Sapete come si dice? “Buon
sangue non mente”».
Per cosa lottavano loro? Cosa li teneva uniti?
Nulla, se non il fatto
di appartenere alla medesima casta. Nulla, tantomeno la fede nella
figura del Pontefice.
Si sentiva spaesato, perso in incertezze così gravi da farlo vacillare.
«Che devo fare, Camus? Devo dunque
lanciare Antares contro di lui? Devo giustiziarlo, nonostante non lo
meriti?»
Impresse la disperazione di tale domanda nel cosmo, che espanse fino a
toccare quello del compagno: sapeva che Aquarius stava seguendo lo
scontro dall'alto dell'Undicesimo Tempio – l'aveva sentito vicino sin
dai primi istanti. Non
si sorprese, quindi, quando avvertì l'aura limpida di Camus
accarezzarlo, come a dire: «Fa
ciò che ritieni più opportuno».
Milo annuì impercettibilmente, un sorriso mesto sulle labbra rosse.
Il Cigno aveva infine preso la sua decisione, e lui non avrebbe potuto
fare altro che accontentarlo. Ma se era una dipartita gloriosa quella che l'avversario
cercava, ebbene, l'avrebbe avuta: non era tipo da negare l'ultimo
desiderio a un condannato a morte, lui.
«Sia quindi fatta la tua volontà, Hyoga. Non intendo disonorarti oltre con
la mia pietà: hai scelto di affrontarmi da uomo, e io ammiro il tuo
coraggio. Ora alzati. Alzati e combatti».
«Uno sforzo ancora».
Il giovane si mise in posizione di guardia, cominciando a incendiare le
sue stelle in un turbinio di fiocchi candidi.
«Questo sarà forse il mio ultimo canto» disse, la voce appena incrinata
dallo sforzo «Ma non importa, non importa perché so di agire in nome
della Giustizia! Sei pronto alla lotta, cavaliere?»
Scorpio in risposta sollevò il dito indice, dove l'unghia scarlatta già
prometteva bagliori di morte, e si circondò del proprio cosmo
purpureo.
«Sì, sono pronto».
«AURORA THUNDER ATTACK!»
«ANTARES!»
Gli occhi di Hyoga, da vicino, erano come due pozze di cielo: lo notò
subito, non appena posò lo sguardo sul suo viso – un cielo a cui non
rimanevano che pochi istanti.
Estrasse l'Ago della Cuspide dall'addome del Cigno, e dalla ferita schizzò
altro sangue; le mani del Bronze volarono avanti a cercare un appiglio
per fermare la caduta, ma non lo trovarono.
Franò a terra, agonizzante.
«È finita».
«Lode a te, Hyoga di Cignus. Ti sei battuto con onore».
Milo si appoggiò a una delle poche colonne rimaste in piedi, col fiato
corto: si sentiva prosciugato di ogni energia, al punto che faticava a
respirare.
Un brivido di freddo lo fece trasalire, all'improvviso; abbassò
distrattamente la testa, e ciò che vide lo lasciò di stucco.
«Ma cosa-»
Le quindici parti vitali della sua armatura erano completamente coperte di
ghiaccio.
«C-come è possibile? Quando… quando è successo?»
L'Aurora Thunder Attack l'aveva colpito: se non fosse stato per le sue
sacre vestigia, sarebbe morto
– morto senza avvedersene.
«Chi è davvero costui? Costui, che è riuscito a congelare un'armatura
d'oro in fin di vita, a una velocità quasi superiore alla mia!»
esclamò, posando gli occhi sulla figura del ragazzo che era stato
capace di arrivare a tanto, e che ora continuava imperterrito a
proseguire, strisciando nel suo stesso sangue «No, non può trattarsi
di un cavaliere normale. Egli è guidato da una forza superiore, non
c'è più alcun dubbio».
«"Sotto l’egida della giovane nipote di Mitsumasa Kido, quattro dei nuovi
cavalieri di bronzo sostengono che il Santuario di Atene sia
guidato dalle forze oscure e che siano loro, invece, i veri
difensori dell'umanità, protetti dalla Dea in persona –
reincarnatasi, a parer loro, in quella ragazzina"
"Arles vi sta ingannando, cavaliere d'oro! Dice di rappresentare la
volontà di Atena, ma in realtà vuole solo dominare incontrastato
sul mondo intero; redimetevi, scegliete la strada della giustizia
finché siete in tempo! Non riuscite a sentire le forze oscure che
albergano in lui?"
"Anche da questa vittoria dipende la salvezza di Atena!"».
Tutte quelle voci si andavano sovrapponendo nella sua testa, mischiandosi
le une con le altre in un vortice impazzito e devastante. Che cosa
avevano fatto? Che cosa aveva
fatto?
No, aspetta: forse non era ancora troppo tardi, per lui.
Non poteva risarcire
Hyoga per il dolore che gli aveva inferto, ma poteva almeno salvarlo
da morte certa – ed era esattamente quello che avrebbe fatto.
«Hyoga! Fermati!»
Lo raggiunse a grandi falcate, chinandosi sul suo corpo martoriato; poi lo
prese tra le braccia e, espandendo il cosmo, premette con le dita
sulle lesioni lasciate dagli Scarlet Needle, in modo da arrestare la
corsa del veleno verso il cuore del giovane.
«Sopravvivrà. Non tutto è perduto».
Il Cigno sollevò il viso e lo fissò intensamente: «Perché, cavaliere?»
Una domanda semplice, la cui risposta avrebbe però necessitato di troppo
tempo per essere esaustiva.
«Un dubbio – «una certezza» – ha
sfiorato il mio cuore. Un dubbio che da molto era latente, e che è
venuto alla luce grazie a te» si limitò quindi a mormorare Milo,
scostandosi per lasciarlo passare.
Guardando Cignus allontanarsi, eretto nonostante l'andatura lievemente
arrancante, Scorpio si chiese che ne sarebbe stato di lui.
Il Tempio di Sagitter – «sei tu che
guidi questi cavalieri, Aiolos? Che li sostieni come facesti con noi
tanto tempo fa?» – era la prossima tappa; più avanti, la Decima
Casa. Si
diceva che Capricorn, l'uomo più fedele ad Arles, fosse anche e
soprattutto il più devoto ad Atena: forse avrebbe capito, e la sua
spada sacra sarebbe rimasta inerte. Forse.
E poi, Camus. Camus e le sue stelle di cristallo; Camus e il
suo onore da proteggere a ogni
costo.
Aveva paura. Lui, che non aveva temuto per la sua vita neanche un solo
istante, era in ansia per quella di Aquarius.
«Sii savio, amor mio. Fai la cosa giusta» sussurrò al vento, con l'anima
proiettata all'insù e la mente sconquassata da parole ormai familiari.
«Piangerete lacrime di sangue, su quella verità che ora vi rifiutate di
vedere».
***
L'ora del Capricorno era appena volata via, portando con sé il cavaliere
da cui prendeva il proprio nome.
Camus sollevò una mano verso il cielo, seguendo con le dita la scia
luminosa che si stagliava fra le nuvole rosate sopra al Grande Tempio
– l'ultima traccia di Shura. L'ultimo segno del suo passaggio su
questa terra.
«Che le stelle ti preservino, Shura
di Capricorn; forse, fra di esse, sarai finalmente capace di
perdonarti e i tuoi occhi torneranno di nuovo a sorridere».
Lungo le gradinate sottostanti qualcuno gridò di dolore: «Shiryu!»
Anche i Bronze stavano piangendo il loro amico, spirato nella lotta
assieme all'avversario.
Quante vittime ancora avrebbe mietuto quella giornata? E lui
sarebbe stato fra queste?
Ma non era più tempo di pensare – gli spiriti non sono buoni compagni,
durante una lotta. A pochi scalini di distanza da lui, infatti, comparvero le
figure di Pegasus e del redivivo Andromeda.
E, soprattutto, quella di Cignus.
Così come era accaduto alla Settima Casa, l'attenzione di Aquarius fu
tutta attirata dal biondo ragazzo che, fra le gelide lande della
Siberia, aveva conosciuto il suo stesso freddo.
Avvertì a malapena gli altri due sfilargli accanto su esortazione del
Cigno, troppo occupato ad esaminare il suo vero sfidante, l'unico che
gli interessasse; Aphrodite sarebbe stato felice di occuparsi del
resto.
Sulla corazza di bronzo il sangue intorno ai fori generati dagli Scarlet
Needle non era ancora del tutto secco, eppure Hyoga era lì, di fronte
a lui, pronto ad affrontarlo nuovamente.
«Pronto a morire?»
Ringraziò mentalmente Milo per avergli concesso la possibilità di riparare
ai suoi errori, benché sapesse che Scorpio l'aveva lasciato passare
per motivi ben diversi. Durante lo scontro al Presidio dello Scorpione Celeste il
greco si era dimostrato generoso e leale, riuscendo ad andare oltre
all'apparenza per arrivare – non senza tentennamenti – alla verità;
lui, invece, aveva intuito già da tempo come in realtà stessero le
cose, ma, per quanto si sforzasse, non era capace di attribuirgli la
giusta importanza.
Ai suoi occhi ciò che più contava era altro – vincere. Senza trucchi,
stavolta.
Interruppe a fatica quel contrasto di sguardi e si diresse maestoso
all'interno dell'Undicesimo Tempio, invitando tacitamente Cignus a
seguirlo.
«Prima di dare inizio al combattimento,» esordì questi, una volta entrato
«lascia che esprima la mia gratitudine nei tuoi riguardi: grazie a te,
che l'hai trasmessa al Crystal saint, sono stato iniziato alla nobile
arte del Freddo. Sempre per merito tuo, poi, ho intravisto un barlume
di settimo senso alla Casa di Libra. Però spiegami, Aquarius: perché
hai scelto di privarmi delle spoglie di mia madre? Non v'era altro
modo per farmi giungere allo stato ultimo?»
«In realtà, di modi ce n'erano
molti. Sei tu che, con la tua arrendevolezza, mi hai costretto ad
usare il più drastico» avrebbe voluto rispondere Camus, ma la
faccenda gli pesava nel petto come un macigno e non aveva intenzione
di discuterne ancora.
«No. Quello era l'unico, e ciò ti sia sufficiente. Non sono tenuto a
giustificare il mio operato con superflue spiegazioni: non l'ho mai
fatto, e non comincerò certo adesso. Le risposte che desideri le
dovrai cercare da solo. E ora... fatti avanti!» esclamò, scostandosi
il mantello dai fianchi.
Hyoga non se lo fece ripetere due volte, quasi che anche lui, come
l'Acquario, avesse aspettato tante ore solo per disputare quel duello.
«DIAMOND DUST!»
Camus parò il palmo della mano dinanzi a sé, sospirando
impercettibilmente, ed estinse il colpo senza nemmeno usufruire del
cosmo.
«Te l'ho spiegato solo quattro rintocchi fa;» disse, scandendo piano
parola per parola «la Diamond Dust non ha alcun effetto su di me. La
conosco come si conosce la propria immagine riflessa allo specchio.
Questa, comunque, non è che una pallida imitazione del vero attacco. É
così debole il tuo colpo prediletto, allievo!»
Per far comprendere meglio quanto aveva appena affermato ritorse il getto
di cristalli ghiacciati contro colui che l'aveva generato,
raddoppiandone però la potenza: il Cigno non seppe respingerlo, e fu
scaraventato contro una colonna.
«La gamba... non riesco più a muoverla! É completamente congelata!» notò
questi con sgomento, quando tentò di rialzarsi.
L'Undicesimo Custode mosse qualche passo nella sua direzione, un lieve
segno di soddisfazione sul volto altrimenti impassibile: «É congelata
perché la mia Diamond Dust era molto vicina allo Zero assoluto. Sai
che significa, nevvero? Il tuo maestro te ne avrà certamente parlato».
Nel nominare Markel fu colto da un piccolo fremito, che però scacciò
subito. Lo addolorava parlare del suo defunto ex pupillo
come se nulla fosse, ma questa era la parte che si era scelto e
l'avrebbe portata avanti fino in fondo.
«Sì, ricordo le sue parole-»
Camus, non lasciandogli il tempo di terminare la frase, lo attaccò di
nuovo, e ancora una volta Hyoga finì a terra.
«Anche la gamba destra è ora immobilizzata! Sono in sua completa balia!»
sussurrò, osservandolo impotente avvicinarsi di più.
«No, non è detto. Vedi, lo Zero assoluto è noto come la più bassa
temperatura che esista, ma questo è vero soltanto in teoria. In
pratica, si sa per certo che è invece possibile superare le sue
soglie; tuttavia, nessuno è mai riuscito nemmeno a raggiungerlo – me
compreso. Fra noi due-»
Fece una pausa improvvisa per fermarsi a riflettere: era giusto lasciargli
almeno una speranza? Era giusto illuderlo con irreali scenari di
trionfo?
Scelse di sì: anche se non esisteva possibilità che lo superasse, sarebbe
sempre potuto migliorare.
«Fra noi due avrà la meglio chi più si accosterà allo Zero assoluto. Spera
pure, non c'è un limite: questa è la mia ultima lezione di maestro».
Il Cigno lo fissò con riverenza mista ad astio: «Dovrò avvicinarmi il più
possibile allo Zero assoluto, forse anche valicarlo-»
«Dovrai fare meglio di me;» lo interruppe Camus, altero «e ti assicuro che
non sarà facile, perché non voglio assolutamente che si dica che
l'allievo Hyoga di Cignus ha superato il maestro Camus di Aquarius!»
Ecco, era questo tutto quello che realmente desiderava: dimostrare al
mondo di essere superiore al proprio allievo. Ai suoi
occhi, infatti, non esisteva nulla di più infamante di essere additato
come colui che si era lasciato sconfiggere da un ragazzo di bronzo, a
cui aveva per giunta trasmesso il suo sapere.
Era sbagliato? Era futile? Può darsi. Ma non gli importava.
Aveva dedicato l'intera vita a cercare di primeggiare; arrivato a questo
punto rinnegare i propri sforzi sarebbe equivalso a cancellare il
senso della sua esistenza stessa. L'affetto verso i suoi amici, perfino il sentimento che
provava per Maia sembravano scolorire, messi di fronte alla necessità
di raggiungere di tale obiettivo.
Intrecciò così le braccia sopra la testa, deciso a porre fine alla lotta
al più presto.
«Tenta di difenderti, se puoi!»
Hyoga cercò di rimettersi in piedi, in preda all'angoscia.
Aquarius capiva il suo stato d'animo: l'ultima volta che aveva assunto
quella posa, lui non era sopravvissuto. Questo, tuttavia, non lo
dissuase dai propri precedenti propositi.
«Aurora Execution!»
Quando il brillante fascio di ghiaccio centrò il nemico Camus distolse lo
sguardo, sicuro che l'attacco gli avesse nuociuto gravemente; rimase
perciò interdetto nel momento in cui, voltandosi, lo ritrovò eretto e
già pronto alla controffensiva.
«Strano» constatò del tutto
calmo, a dispetto del fallimento «L'Aurora Execution era davvero
vicina allo Zero assoluto!»
Evidentemente non si era concentrato abbastanza. Pazienza, avrebbe avuto
modo di rimediare.
«Non è servita a nulla l'Aurora Execution! E ora è il mio turno!» proruppe
il Cigno, quasi trionfante «Le tue parole e le tue azioni mi sono
state di grande insegnamento, e le considero preziose. Adesso guarda,
maestro, guarda il tuo discepolo e digli se ha ben appreso la
lezione!»
L'aura del cavaliere di bronzo si dilatò fino a circondarlo completamente,
tanto che l'aria intorno a lui parve raffreddarsi.
«Che cos'ha in mente?» si chiese
il guerriero più anziano, aggrottando la fronte «Sarebbe la prima volta che espande il cosmo come si deve».
«AURORA THUNDER ATTACK!»
L'offensiva si dimostrò nuovamente più vigorosa della Diamond Dust,
tuttavia Aquarius, benché in parte compiaciuto dal miglioramento del
ragazzo, giudicò l'azione prevedibile e la respinse, mormorando: «Non
riuscirai a battermi. Non devi
riuscirci».
«Lesto e abile ad apprendere lo sei, e io lo riconosco. Ma non
sufficientemente forte, non abbastanza».
«Per ora».
Era innegabile che Hyoga, nel corso di appena poche ore, fosse maturato;
l'indolenza che aveva portato Camus a condannarlo era svanita del
tutto, cancellata dalle successive avversità – specialmente dallo
scontro con Milo. E
se, a forza di lezioni, alla fine avesse trovato il modo di avere la
meglio, nonostante la sua netta inferiorità?
«Non sappiamo con esattezza che intenzioni abbiano, questi cavalieri
venuti da lontano: l'unica cosa certa è che, se sono giunti al
punto di muoverci guerra, non si faranno alcun tipo di scrupolo di
fronte a nulla».
L'aveva detto lui stesso a Maia proprio quella mattina, e i fatti gli
avevano dato ragione: bastava pensare a Phoenix, o a Dragon.
Non credeva che Shaka e
Shura si fossero dimostrati di livello tanto infimo da sottostare ad
un cavaliere di bronzo, eppure avevano perso. La forza della disperazione – «che altro, sennò?» – qualche volta si rivelava essere più efficace
della potenza effettiva.
No, lui avrebbe evitato la triste sorte dei compagni. Possedeva milioni di
buoni motivi per farlo.
Rivolse lo sguardo sul combattente immobile alla sua destra e prese la sua
decisione: sarebbe ricorso alla Freezing Coffin, ancora una volta.
L'aveva usata alla
Settima Casa, piangendo lacrime salate perché non era riuscito
nell'intento di far progredire il proprio discepolo; ora l'avrebbe
fatto di nuovo, per la ragione opposta.
«Freezing Coffin!»
«Riposa in pace, Hyoga di Cignus, stavolta per sempre. Qui, nel Tempio
della Sacra Anfora, testimonierai con la tua presenza che un allievo
non potrà mai superare il proprio maestro. Do svidaniya».
«É finita» pensò con una punta
di amarezza, allontanandosi.
Era stato lo stesso Cigno, con la sua presunzione, a obbligarlo ad agire
in quel modo. La coscienza avrebbe finalmente smesso di tormentarlo: aveva tenuto alto
l'onore combattendo onestamente, con le sue sole armi – col suo solo
gelo, che aveva riconfermato il proprio primato a buon diritto.
Fece appena in tempo ad avvertire il cosmo di Hyoga bruciare furioso che
un'esplosione inattesa lo scaraventò contro un pilastro, senza che lui
si fosse reso conto dell'accaduto.
«N-no... non è possibile!»
Dove un attimo prima v'era il feretro di ghiaccio, ora stava il corpo del
Bronze. Ancora a terra, certo, ma libero – e vivo.
«Non ci credo: ha infranto la
Freezing Coffin con la sola forza delle braccia! Un cavaliere di
bronzo! Eppure la temperatura a cui avevo portato la teca era così
prossima allo Zero assoluto... che abbia dunque... no, no! Non può
averlo già fatto suo! Deve essere successo qualcosa: che cosa, però?
N-nulla di cui abbia esperienza può operare un tale miracolo!»
La sua mente lavorava frenetica, in cerca di una spiegazione logica che
tuttavia non trovò. Era talmente sconcertato da non riuscire a ragionare con
l'abituale freddezza, e ciò lo agitava terribilmente – in circostanze
simili, l'ignoranza era il peggiore dei mali. La
voce di Hyoga lo riportò bruscamente alla realtà: «Leggo lo stupore
sul tuo viso, Camus di Aquarius. Non sei capace di leggere nel mio
cuore come faceva il Crystal saint. Ma non capisci, dannazione?! Era
lui l'allievo che ti ha superato, non io! Ed è morto per colpa di
Arles!»
L'Acquario strinse i pugni, ormai pericolosamente vicino a perdere il
controllo: «Che m'importa di Arles!»
Già: cosa gli importava di Arles?
Faceva davvero differenza che sul Trono di Grecia sedesse un usurpatore,
al posto di Atena? Per come la vedeva Camus erano entrambi dei despoti, crudeli
ed egoisti. Quanti
sacrifici
aveva richiesto la devozione alla Dea? Quante
morti?
Ripensò ad Aiolos, deceduto nella polvere come un'infame; ad Aiolia, che
si strappava i capelli gridando davanti al cadavere deturpato del
fratello; a Shura, con l'anima macchiata di rimorso indelebile; a
Saga, che era scomparso senza lasciare traccia.
Le immagini dell'infanzia di tutti loro, trascorsa nella violenza, gli
scorrevano dinanzi agli occhi come se le stesse rivivendo: Milo,
coperto di sangue, che si mordeva le labbra per lo sforzo di non
piangere; Aldebaran, disteso in mezzo all'Arena, con entrambe le gambe fratturate. Rivide un bambino coi capelli
rossi fradici di neve arrancare senza più fiato sul ghiaccio,
reggendosi una gamba sul punto di entrare in cancrena per il freddo.
Le
petit
Didier au Jardin du Luxembourg, Paris, june 1969.
Avrebbero tutti condotto esistenze normali, circondati dall'amore di una
famiglia, se non fosse stato per Atena. Ma
come facevano quegli sciocchi a credere che a una Dea potesse
veramente stare a cuore il destino di una manciata di uomini?
Se il Gran Sacerdote era un impostore, perché non era
intervenuta lei stessa a fermarlo? No, aveva preferito usare loro come carne da macello, e
lui non avrebbe rinunciato a tutto quello che gli rimaneva – la
dignità – in nome di una Dea simile.
Rispose con rinnovato vigore all'assalto del Cigno, opponendo alla sua
scia di cristalli gelidi una del tutto uguale.
«É la prova che stavo cercando!»
La forza sprigionata dai loro attacchi era ormai pari: i suoi timori
precedenti avevano infine trovato fondamento.
«La distanza fra maestro e allievo è
ormai impercettibile. Ma io ho un'ultima carta da giocare».
«Ben fatto, cavaliere del Cigno!» disse all'avversario «Lo stato a cui sei
giunto è di piena maturazione: non c'è più distinzione tra i nostri
cosmi. Adesso ciò che mi rende a te superiore è la mia armatura:
fattore non da poco, e forse decisivo. Le sacre vestigia d'oro,
proprie dei cavalieri appartenenti alla casta più alta, a differenza
di quelle di bronzo e d'argento non hanno limite di sopportazione e
congelano solo oltre lo Zero assoluto. Non hai speranze, arrenditi!»
Ma Cignus pareva non udirlo nemmeno più, tanto era concentrato nella lotta
fra le loro energie contrapposte.
«Che sia privo di coscienza?»
No, non lo era: il suo cosmo cresceva in maniera esponenziale, come se non
avesse limite.
Un brivido di paura attraversò la schiena di Camus, e la sensazione di non
ritorno gli invase i sensi: stava dunque andando incontro alla fine?
Quel presentimento
funesto che lo perseguitava si sarebbe quindi trasformato in realtà?
«Non ti preoccupare per me, né per gli altri: sappiamo badare a noi
stessi. Ci riabbracceremo presto, vedrai».
Aveva promesso a Maia che si sarebbero riabbracciati; aveva promesso a se
stesso che avrebbe fatto pace con Milo. Aveva giurato di vincere. Non
poteva cedere. Non adesso. Non così!
«Devo darti il colpo di grazia! Addio, Hyoga!»
urlò, intensificando allo spasimo il suo getto di gelo.
Getto che, nonostante avesse fatto l'armatura di bronzo in pezzi, venne
però intercettato dall'allievo – poteva ancora definirlo tale? – e
rilanciatogli contro, in una sfera di luce argentea.
Sentì il diadema scivolargli dalla fronte, e il suo corpo schiantarsi a
terra.
«Come può essere sopravvissuto, se
persino la sua corazza non ha retto?!» pensò rialzandosi
fulmineo, sempre più sconvolto. Ma il suo stupore arrivò all'apice quando notò che il copri spalla
dell'armatura dell'Acquario si era fatto cristallo.
«Non vi sono più dubbi: il discepolo
ha raggiunto lo Zero assoluto – ne è, anzi, quasi il padrone. Non
c'ero mai riuscito io! Io che ne sono il mentore! Lui, l'allievo, mi
pone di fronte alla mia incapacità».
Doveva accettare l'evidenza dei fatti e dichiarare la resa?
Lui, Camus di Aquarius, Custode dorato dell'Undicesima Casa?
«Che ne sarebbe di me? Che ne
sarebbe di tutta la mia fatica? Di tutto il mio sudore, di tutte le
mie lacrime non versate? Sarei poi costretto a chinare la testa al
suo passaggio? A dargli un onore che fino a ora è appartenuto a me?»
«Mi dispiace, riconosco il tuo valore, ma in un modo o nell'altro devi
essere sconfitto!»
«Tu o io: non c'è posto per entrambi».
Tese le braccia in alto a congiungere le mani, ampliando la propria aura
fino alle stelle; abbassò le palpebre un istante, raccogliendo le
forze necessarie.
«Ma cosa-»
Dovette scuotere la testa per rendersi conto che ciò che vedeva non era
frutto della propria immaginazione: Hyoga aveva assunto la sua stessa
posa.
Anche lui si preparava a lanciare l'Aurora Execution.
«Sta fingendo. Non è possibile che
l'abbia già appresa».
Un affronto simile era veramente troppo da sopportare.
«Hyoga, se puoi ancora udirmi, non usare il mio colpo segreto;» disse
Camus, la voce incrinata dalla rabbia repressa «l'hai visto due sole
volte, e nessuno è capace di fare propria una tecnica in così poco
tempo, nemmeno tu. Questo è solo un ultimo, disperato tentativo
dettato dalla follia che ti governa!»
Niente, parole al vento. Hyoga era come paralizzato, i palmi
uniti, la bocca digrignata, il viso celato dai capelli: sì, forse
aveva a che fare con un pazzo.
Se solo avesse potuto guardarlo negli occhi – «quegli occhi così trasparenti» – forse avrebbe ritrovato il senso di
tutto questo, ché ormai gli sembrava di essere divenuto folle a sua
volta.
«Ebbene, che sia l'Aurora Execution a decidere della mia sorte» sussurrò,
prima di scagliare l'attacco e venire investito da un bagliore
accecante.
***
Milo sentì tutto così intensamente che avrebbe giurato di essere stato
colpito da una pugnalata al centro del petto.
Sentì le due Aurora Execution scontrarsi ed esplodere in schegge di
diamanti bianchi; sentì il cosmo di Camus eclissarsi in una parabola
di luce ghiacciata, simile alla coda di una stella cometa, e poi
fermarsi sul limitare del nulla – a brillare ancora per qualche
battito di cuore. Il
suo, di cuore, lo sentì scoppiare dentro la cassa toracica
nell'istante in cui si mise a correre.
***
L'Undicesima Casa non era mai stata tanto celeste – o forse era quella
luce lontana che vedeva oltre il soffitto a dare ai suoi marmi una
sfumatura così bella.
Girò appena la testa verso la figura del nuovo Signore delle Energie
fredde accasciata al suo fianco: Hyoga di Cignus avrebbe avuto la sua
armatura. Il suo posto. Il suo titolo.
Ma non gli importava. Ne era più degno di lui.
«Era davvero necessario che
arrivasse quest'uomo a farmi capire l'inutilità della mia esistenza?»
aveva pensato mentre cadeva a terra, schiacciato dal gelo.
Forse sì.
Forse era davvero valso a qualcosa buttare la vita sul ghiaccio per
inseguire sogni e ambizioni, se poi il frutto della sua fatica era un
ragazzo – un uomo – come Hyoga. Gli era grato per essere giunto fin lì, per aver resistito
fino all'ultimo contro la sua cecità: se non l'avesse fatto Camus non
avrebbe mai saputo cosa lui stesso, col suo operato, aveva contribuito
a creare.
Buffo arrivare alla fine della propria strada ed esserne quasi felice.
«Camus!»
Sorrise appena, nell'udire la voce di Maia: avrebbe mantenuto la promessa
di riabbracciarla, in fondo.
«Maia» sussurrò flebilmente, vedendola chinarsi su di lui «Non dovresti
essere qui».
«Non sopportavo più di aspettare senza sapere nulla, così sono venuta di
corsa qui e... oh, Camus, perché l'hai fatto?»
Aveva i capelli scomposti e gli occhi – «neri come la notte. Caldi» – lucidi: dèi, non voleva vederla
piangere. Le
accarezzò
il volto contratto e si accorse che stava tremando.
«Vattene, chérie. É troppo freddo per te».
«É stato troppo freddo anche per me».
Lei, in risposta, lo sollevò per le braccia, cercando di trascinarlo fuori
da quello che, più che un Tempio, sembrava ormai un sepolcro gelido.
«Ti porterò fuori di qui!» disse, come in preda al delirio «Tu non
morirai: no, non puoi morire! Non ti permetterò di lasciarti andare!»
Nemmeno lui avrebbe voluto lasciarsi andare, no. Ma
ormai era troppo tardi, e si sentiva maledettamente stanco... voleva
solo riprendere fiato, parlarle, permettere a quella luce celeste –
che si era fatta più vicina – di avvolgerlo.
«Maia, ti prego, fammi riposare. Sono tanto, tanto stanco».
A quelle parole Maia si irrigidì impercettibilmente, ma fece come le era
stato chiesto, posandolo delicatamente in un angolo appartato fra le
colonne superstiti.
«Ascolta;» cominciò Camus, con tono così basso da sembrare un lamento
sommesso «non mi è rimasto molto tempo, e prima di morire voglio che
tu mi prometta un po' di cose».
«Ma che stai dicendo? Ti ho detto che non morirai!» esclamò lei con sempre
meno convinzione, le guance già bagnate da qualche lacrima.
«La prima:» riprese Aquarius in fretta, ché respirare stava cominciando a
risultargli difficile «quelle che vedo dovranno essere le ultime
lacrime che verserai per me».
La ragazza annuì, prendendogli la mano.
«La seconda: non odiare Hyoga. Tutto ciò è avvenuto per colpa della mia
ostinazione. Lui... lui ha fatto solo quello che doveva essere fatto.
Merita il tuo rispetto».
«No, questo no! Io-»
Lui raccolse le poche energie che gli restavano per stringerle il braccio:
«Promettimelo. É importante».
«Va bene, lo prometto».
«L-la terza... »
Ma esisteva, una terza?
Si interruppe, tossendo: sentiva il ghiaccio prendere lentamente possesso
delle sue vene, fermandogli il sangue. Fra
non molto sarebbe arrivato sino al cuore, e allora – ma guarda, la
luce azzurra era più brillante, adesso.
«Camus, non parlare» disse Maia che ormai quasi singhiozzava «Non parlare,
ti fa male».
Un tiepido cosmo dorato lo raggiunse, inatteso.
«Milo».
Sembrava abbracciarlo: non aveva mai letto tanta dolcezza nella splendida
aura dello Scorpione, che pure l'aveva toccato tante e tante volte.
E, d'un tratto, capì. Capì e tutte le sue certezze si
infransero di nuovo, come le onde sugli scogli. Capì
come si fa nel ripensare a un ricordo lontano, a un segnale caduto nel
dimenticatoio, a un gesto all'apparenza inspiegabile.
Il grano di giugno cresceva rigoglioso, nei campi, e l'aria profumava di
sole e di mare. Un pomeriggio quasi sonnacchioso, quello, per gli standard del
Santuario.
Camus e Milo se ne stavano sdraiati all'ombra di un ulivo, ascoltando in
silenzio i grilli frinire – c'erano solo loro due, le spighe
dorate e gli insetti. A distanza di un grido dal resto del mondo, eppure entrambi convinti di
essere lontani anni luce da tutto e tutti.
«Cos'è per te l'amore, Camus?» chiese Milo a un tratto, rompendo la
quiete.
Aquarius rimase un tantino interdetto: che razza di domanda era?
Tuttavia, dopo averci pensato, rispose: «Non saprei. Non credo di essere
mai stato innamorato».
Alla parola gli venivano in mente solo immagini sfocate – orli di vestiti
primaverili e capelli non troppo biondi –, ma no, non avrebbe
saputo associare l'amore a qualcosa di più definito.
«E per te? Cos'è l'amore per te, Milo?»
Il giovane Scorpio socchiuse gli occhi, meditabondo: «Ecco... quando penso
all'amore, mi viene in mente qualcosa di... rosso. Di delicato, di sfuggente. E
di freddo».
Camus lo guardò come si guarda una creatura bizzarra: «Di freddo!? Ma se
dici sempre di odiarlo, il freddo!»
«Oh, non ci fare caso: sono solo fantasie» rispose quello imbarazzato,
prendendo a giocare con la catenina di una collana che lui
riconobbe subito.
«Smetti di torturare quell'affare, Milo! Non te ne regalerò un’altra, se
la rompi!».
Milo sorrise: «Stai tranquillo, Rouge,
non potrei mai rovinarla: ci tengo troppo».
Ecco il perché di quel bacio di tanti anni prima, che lui aveva
classificato come uno stupido scherzo. Ecco il perché del suo strano – «doloroso» – comportamento dei mesi precedenti.
Il perché del suo stupore, della sua rabbia.
«E... e io? Io e te, che fine faremo?»
Milo era innamorato di lui – da sempre, forse.
«Cielo, Milo, perdonami... »
Si riscosse: aveva trovato l'ultima promessa da strappare a Maia.
«La terza: stai vicino a Milo. Sostenetevi l'uno con l'altra. Dissipate i
vostri rancori, quali che siano. Fatelo per me».
Maia annuì ancora, sollevandolo appena da terra per stringerlo a sé.
Adesso poteva finalmente andarsene in pace: era sicuro che le due persone
più importanti della sua vita non avrebbero sofferto da sole.
Anzi, no. C'era ancora
un'altra cosa che sentiva il bisogno di fare.
«Avvicinati, Maia».
Non seppe con quale forza riuscì ad alzare la testa per baciarla
lievemente sulle labbra; si abbandonò a quell'ultimo contatto con lei
come se questo avesse potuto fermare il tempo e regalargli ancora
qualche istante.
«Camus, ti prego, non mi lasciare... »
La luce celeste era ormai a portata di mano, tanto che Camus ne allungò
una per tentare di afferrarla.
«Maia, guarda quella luce... c'est
si
belle, n'est-ce pas?»
Maia sollevò il viso di scatto, come pietrificata.
«Quale luce? Oh no, Camus, no!»
Non capiva come facesse a non vederla: era immensa, sterminata al pari
dell'universo – piena di stelle.
Si lasciò circondare da essa con un sospiro sereno. Il
braccio ricadde inerte su un fianco. Gli occhi si spalancarono,
abbagliati.
E poi, fu solo celeste.
***
Le
gambe.
Le stesse gambe che l'avevano sorretto nelle fatiche più estenuanti,
che l'avevano portato ai confini del mondo senza mai un'incertezza nei
polpacci forti avevano ceduto per la prima volta proprio lungo la
scalinata del Capricorno.
Milo alzò gli occhi verso l'Undicesimo Tempio, a misurare la distanza che
lo separava da esso – tardi: anche se fosse stato capace di rialzarsi,
sarebbe arrivato troppo tardi.
«No, tesoro, non ti lascerò morire da solo».
Espanse il cosmo nel modo più dolce e straziante di cui era capace, e
accompagnò Camus per mano fino alla fine.
«Addio, amore mio».
Note dell’autore
Bene. I
giochi sono fatti, e penso che tutti vi aspettaste un epilogo del
genere.
Premettendo
che la revisione non ha minimamente intaccato il presente capitolo 10
(parte I e II) – se non sotto forma di mera correzione ortografica –,
confesso che il pezzo più ostico è stato senza dubbio quello con Camus
come protagonista.
Aquarius,
in questa parte, si comporta veramente da stronzo irrazionale (scusa,
tesoro): un momento prima piange per Hyoga, un momento dopo ci ripensa e
lo vuole fare secco a tutti i costi, per conservare l'onore. É proprio
per questo che ho tentato di incentrare l'intera sua riflessione sulla
dignità e compagnia bella: per motivare un atteggiamento che,
altrimenti, sarebbe parso totalmente illogico. Vogliate perciò
perdonarmi per i pensieri poco lusinghieri su Atena: è stata l'unica
strada che ho potuto intraprendere, la più sensata per spiegare l'ottica
di una persona che, pur essendo formalmente al servizio di una divinità,
se ne infischia alla grande delle sue sorti.
Alcuni
dialoghi sono in parte ripresi dall'anime parola per parola – non perché
non avessi voglia di cambiarli, ma per il semplice fatto che solo quelle
determinate espressioni permettevano di chiarire al meglio il concetto.
Spesso
nei pensieri di Milo e Camus ci sono delle frasi identiche, volte ad
avvicinare sensazioni e impressioni dei due: spero che leggendo si
capisca, ma è sempre meglio specificare.
Qui i
rimandi ai capitoli precedenti sono così tanti che spero di non saltarne
nessuno:
- «Allora
si trattava del tuo allievo. Secondo me, hai fatto la cosa giusta. Non
era pronto». (capitolo 10, parte I);
- «Osa
ancora toccarmi senza permesso e giuro che di te non rimarrà nemmeno
un briciolo di polvere. Mi hai capito?» (capitolo 10, parte I);
- «Avevi
già ucciso, prima d'ora. Cos'aveva quel ragazzo di talmente speciale
da farti piangere la sua scomparsa?» (capitolo 10, parte I);
- «Signore,
Leo non ha mai dato prova di non meritare la vostra fiducia … ma è pur
sempre fratello di Sagitter. Sapete come si dice? “Buon sangue non
mente”».
(capitolo 7, parte I);
- «Sotto
l’egida della giovane nipote di Mitsumasa Kido, quattro dei nuovi
cavalieri di bronzo sostengono che il Santuario di Atene sia guidato
dalle forze oscure e che siano loro, invece, i veri difensori
dell'umanità, protetti dalla Dea in persona – reincarnatasi, a parer
loro, in quella ragazzina». (capitolo 5);
- «Arles
vi sta ingannando, cavaliere d'oro! Dice di rappresentare la volontà
di Atena, ma in realtà vuole solo dominare incontrastato sul mondo
intero; redimetevi, scegliete la strada della giustizia finché siete
in tempo! Non riuscite a sentire le forze oscure che albergano in lui?»
(capitolo 7, parte I);
- «Piangerete
lacrime
di sangue, su quella verità che ora vi rifiutate di vedere».
(capitolo 7, parte I);
- Le
petit Didier au Jardin du Luxembourg, Paris, june 1972. (capitolo
1);
- «E...
e io? Io e te, che fine faremo?» (capitolo 4).
Per
quel che riguarda i ricordi di Camus sugli episodi di infanzia di
Aiolia, Aldebaran e Milo: gli scorci rammentati hanno avuto luogo durante i
famosi sei mesi di pre-addestramento al Santuario, a eccezione del suo.
- "Do
svidaniya” : “Addio" in russo.
Infine,
ho immaginato che le ultime parole di Aquarius fossero in francese
perché talmente vicino alla morte – la luce celeste, tanto per
intendersi – da regredire ad una sorta di stato "primordiale": «[…] c'est
si belle, n'est-ce pas?» : “è così bella, non è vero?”.
Orbene,
spero di non aver dimenticato nulla: ringrazio a cuore aperto chi ancora
segue questa storia, nonostante la latitanza.
Spero
che il capitolo valga gli sforzi.
Saluti
e abbracci!!
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Capitolo 15 *** Capitolo 11, parte I: 11-12 settembre 1986. Shaka ***
Capitolo 11, parte I. Shaka BG
Capitolo
11,
parte I: 11-12 settembre 1986. Shaka
Un'intera
nottata
buttato
vicino
a
un compagno
massacrato
con
la sua
bocca
digrignata
volta
al
plenilunio
con
la congestione
delle
sue mani
penetrata
nel
mio silenzio
ho
scritto
lettere piene d'amore.
Non
sono mai
stato tanto attaccato alla vita.
Giuseppe
Ungaretti
É
mai possibile che l'aria tremi?
No,
che sciocchezza – l'aria non può tremare.
Eppure,
mentre Arles cade a terra con un tonfo sordo, a Shaka pare di sì.
Gli
sembra, anzi, che persino il cielo sia scosso dai brividi nel
momento in cui quello sconosciuto dai capelli grigi e gli occhi
rossastri che ha distrutto le loro vite scompare, per lasciare il
posto a Saga di Gemini.
Non
v'è più ombra sul suo viso, come se lo squarcio che da solo si è
aperto nel petto con una Galaxian Explosion avesse cancellato in un
attimo tredici anni di inganni; non v'è più buio nella sua voce,
come se il tocco di Atena fosse bastato a spazzare via tutto il
male.
Vorrebbe
provare rabbia, Shaka di Virgo; vorrebbe poter distogliere
sprezzante lo sguardo dal dramma che si sta consumando a pochi metri
da lui. Vorrebbe chiudere gli occhi – in fondo, l'ha sempre fatto –
ed estraniarsi, per non vedere più nulla.
Ma
non ci riesce, perché è conscio che, in quel dramma, anche lui ha
giocato la sua parte. Così, continua a fissare la
scena in silenzio, accanto a quei compagni che mai prima di adesso
ha sentito tanto vicini e, al contempo, tanto distanti.
«Custodi
dorati:» Saga alza appena la testa dal grembo della Dea, una mano
tesa verso di loro «anche a voi chiedo perdono».
Un
sussurro che mantiene un sentore di autorità.
Shaka
se lo ricorda ancora, Saga dei Gemelli, quando saliva altero le
scalinate dei Dodici Templi sacri con il piglio duro e insieme
misericordioso che unicamente gli esseri celesti possiedono.
Rammenta
fin troppo bene l'ammirazione che da bambino nutriva nei confronti
del guardiano della Terza Casa, e la sensazione di perdita avvertita
alla notizia della sua scomparsa.
Dovrebbe
provare vergogna di tali sentimenti, seppellirli in una fossa comune
con tutte le cose che – solo adesso – si è accorto di
aver sbagliato. Come fare, tuttavia, a negare assoluzione a
un uomo come quello?
Milo,
Aldebaran e Mu paiono condividere il suo pensiero, poiché accolgono
la richiesta con un impercettibile cenno di assenso, senza proferire
parola; Aiolia, invece, rimane rigido – assurdamente immobile. Somiglia
a una statua; una di quelle statue marmoree, severe e bellissime,
poste all'entrata dei luoghi di culto per intimorire i fedeli.
«Cavaliere
di Leo».
Persino
Gemini se n'è accorto, e il suo richiamo stavolta suona vagamente
come una preghiera.
«Cavaliere
di Leo, avvicinati, per favore... »
Aiolia
non si muove, non parla, a stento respira; i suoi occhi, fattisi
gelidi, sono inchiodati a quelli di Saga. Mentre dal volto di pietra
del fu Gran Sacerdote non traspare emozione alcuna – forse solo una
lieve stanchezza, vecchia di anni –, nelle iridi del Leone si può al
contrario scorgere una miriade di sensazioni diverse – rabbia,
stupore, dolore, stralci di memoria. E, soprattutto, la
parola assassino,
scritta con lettere fiammeggianti talmente vivide da compensare la
stasi del resto del corpo.
«Ti
prego, cavaliere, accontentalo. Non gli rimane molto tempo».
La
voce sommessa di quella Dea che nessuno di loro ha riconosciuto
squarcia d'improvviso la situazione di stallo: incitato dall'invito
di Atena – ché quello di chiunque altro non avrebbe sortito il
medesimo effetto –, Aiolia comincia ad avanzare lentamente e si
ferma a pochi metri da Saga, senza tuttavia chinarsi su di lui.
Quest'ultimo, dal canto suo, pare d'un tratto svuotato di ogni energia, al
punto da non riuscire più a controllare gli spasmi che gli scuotono
il petto devastato; il respiro gli si fa sempre più corto, via via
che l'anima preme per staccarsi dai resti mortali e prendere il
volo.
«C'è
un uliveto,» dice debolmente, schiarendosi la gola «ai piedi della
Collina delle Stelle, in quella zona accessibile solo al Gran
Sacerdote – si gode della vista dell'intera Atene, da lassù».
Dopo
questo discorso all'apparenza privo di senso si interrompe, e affila
lo sguardo appannato dalla morte ormai imminente verso Leo.
«Lui... lui è
sepolto lì, all'ombra dell'albero più rigoglioso. I suoi resti non
sono mai stati abbandonati alla mercé delle intemperie e delle
bestie selvatiche, come comanderebbe la legge del Santuario nei
riguardi dei traditori. Ai-Aiolos di Sagitter è tornato a fondersi
con la terra che gli diede i natali».
Milo
trasalisce appena da qualche parte di fianco a Shaka, ma lui a
stento se ne accorge; sta provando a convincersi che ciò che vede e
sente è reale, e non il frutto di un incubo incredibilmente
veritiero. Però l'aria continua a
fremere, e non lasciarsi cullare da un'illusione tanto accattivante
è quasi impossibile.
Nel
parlare, Saga si è inconsapevolmente – o no? – teso verso Aiolia:
c'è un desiderio disperato in quel gesto dimesso, e dolcezza, e...
cos'altro?
«T-tu,
Aiolia... gli assomigli così tanto».
É
al passato che la sua mente è rivolta adesso, lo si capisce
dall'espressione distante – forse a ricordi felici, senza macchie di
sporco a deturparne il manto candido. Ed è con questa
serenità dipinta sul viso che il corpo del più celeste e buio dei
Santi guerrieri dorati si riabbassa piano, fino a rimanere
d'improvviso inerte al suolo. Morto.
Le
sue ampie spalle poggiano rilassate sulle ginocchia di Saori, prive
finalmente dell'immane peso che per tanto tempo hanno sostenuto;
quelle di Aiolia, che Virgo vede da dietro, sono appena più curve di
prima ora, e sconquassate da brividi involontari.
Shaka
si chiede ancora se davvero l'aria possa tremare, e di nuovo si
ripete che no, non è possibile. Si renderà conto solo più tardi che era lui stesso, a farlo.
*
Di solito, alla fine di uno scontro, una calma silenziosa cala come
foschia sottile su entrambi gli schieramenti; all'esuberanza dei
vincitori si mescolano lo strazio e la vergogna dei vinti e, mentre i
corvi cominciano gracchiando a volteggiare sinistri sopra il campo di
battaglia, i superstiti raccolgono i loro morti, benedicendo chissà
quale cielo di essere ancora vivi.
Shaka, a dispetto di tutto, non era da meno – ma con qualche fondamentale
riserva. Infatti,
benché
riconoscesse la grazia assolutamente immeritata di essere rimasto in
vita, aveva come la sensazione che il presente al momento fosse buio e
terribile quasi quanto l'Oltretomba.
Nel tempo successivo al combattimento alla Sesta Casa tale impressione gli
era solo balenata in mente, senza assumere tratti definiti; durante
gli interminabili minuti al capezzale di Arles – «Saga. Saga di Gemini. Arles. Come possono essere stati la stessa
persona?» – da presentimento confuso si era poi di colpo
tramutata in certezza insopportabile, e Virgo pensava che il “dopo" si
sarebbe rivelato ancora peggiore.
D'altro canto, la medesima paura l'aveva letta anche sul volto dei suoi
compagni, mentre raccoglievano da terra i cavalieri di bronzo per
condurli nelle stanze adibite alle ancelle del Pontefice, onde
permettere loro di riprendere le forze. Era
stato
lui stesso a offrirsi di portare quasi di peso Ikki di Phoenix, in
quella che era apparsa come una sorta di pagana Via Crucis.
La Fenice, nella sua condizione di semi-coscienza, gli aveva rivolto uno
sguardo incolore e si era astenuto dal protestare – nonostante fosse
evidente che avrebbe preferito poter camminare sulle proprie gambe,
piuttosto che doversi appoggiare a lui. Uno sbuffo era uscito dalla bocca del ragazzo quando il
Custode del Sesto Fuoco l'aveva deposto con delicatezza sul letto,
seguito da un impercettibile "grazie" nel momento in cui Shaka si era
richiuso la porta alle spalle. Un "grazie" al quale, però, lui non aveva risposto – per
eccessivo riserbo o, forse, per semplice rimorso.
Tuttavia, era ora, alla fine di tutto, che veniva la parte più difficile:
rendersi conto dell'accaduto, soppesarlo, soffocare le urla della
propria coscienza ridotta a brandelli.
«Da che parte si ricomincia a
vivere? E come, poi? Con quale coraggio uno può rialzarsi e farsi
largo tra i cadaveri?».
Erano dubbi terribili, e Shaka ne aveva paura.
Mai prima di allora si era ritrovato a dover fare i conti con l'incertezza
e adesso questa, apparsa così all'improvviso da lasciarlo totalmente
impreparato, lo stava stritolando in una ferrea morsa. Prima o poi la
forza di iniziare ad aprirsi un varco fra le macerie sarebbe arrivata,
lo sapeva; sarebbe tornata la speranza e, con essa, la voglia di
combattere per riparare agli errori commessi – ma non quella notte.
Quella notte l'avrebbero passata tra gli spettri, e arrivare a vedere
la luce del giorno sarebbe stato un traguardo per ognuno di loro.
«Qualcuno potrebbe anche non farcela»
pensò, soffermando gli occhi – aperti, ché non riusciva più a
chiuderli – sui visi stanchi di Milo, Aldebaran, Mu e Aiolia, come lui
in attesa che Atena uscisse dal Tredicesimo Tempio e impartisse
ulteriori istruzioni.
Erano tutti persi nelle proprie riflessioni, nessuno accennava a voler
parlare; forse avevano persino timore di farlo.
Cosa ci si dice fra sopravvissuti?
Quando Saori comparve, lo sguardo dei cinque cavalieri fu completamente
attratto dalla sua figura, come se i contorni di ciò che stava a lei
intorno non esistessero più; pur apparendo anch'essa sfinita e
addolorata emanava ancora serenità e fermezza al sol vederla.
«Come il sole, che attira attorno a
sé l'intero sistema con forza irresistibile.
Possibile che una ragazza tanto giovane e all'apparenza tanto fragile, sia
invece una divinità? La divinità che io venero? Possibile che,
nonostante il ruolo da me ricoperto, non l'abbia riconosciuta?».
«Cavalieri,» disse ella, avvicinandosi lieve al punto in cui si trovavano
«ho una richiesta da farvi. Da parte mia, ma soprattutto dei Santi di
bronzo».
«Siamo a vostra disposizione» rispose Mu, poiché il resto del gruppo
provava troppo, malcelato imbarazzo per rivolgerle direttamente parola
– Shaka compreso. In
verità,
lui avrebbe voluto disperatamente genufletterlesi dinanzi e chiedere
perdono, ma era come paralizzato. Paralizzato
dall'orgoglio, e dalla consapevolezza che, in fondo, un gesto del
genere non sarebbe stato né dignitoso né appropriato: il suo
pentimento avrebbe dovuto dimostrarlo con le proprie gesta future, e
non attraverso vane e tardive parole di scusa.
«Vi prego a nome loro di attendere a sposta-» un debole segno di cedimento
le incrinò la voce per un secondo «a spostare i vostri compagni
caduti. Terrebbero molto a farlo personalmente, prima delle esequie
ufficiali. Sempre che per voi non sia troppo gravoso, naturalmente».
Queste parole acuirono ulteriormente lo sconforto e il senso di
inadeguatezza della Vergine, che tutto si sarebbe aspettato meno delle
richieste così umili.
«Noi siamo gli sconfitti. Dovremmo
essere noi ad implorare loro,
non viceversa».
Invece, non solo la Dea provava sincero cordoglio per la morte di
cavalieri traditori, ma si mostrava benevola persino con i rimanenti –
che erano ugualmente colpevoli.
Era forse quella la misericordia su cui tanto aveva dissertato col Buddha
nei silenzi quieti della sua infanzia, e che non aveva mai compreso
realmente? Era forse quella la pietà che ogni Santo di Atena doveva
possedere, per essere ritenuto tale?
«Cosa sono stato io fino ad ora? Chi?»
Con lo scorrere dei minuti il ribrezzo che provava verso se stesso stava
aumentando a dismisura.
Dopo qualche secondo di raccoglimento fu Aldebaran ad assentire, stavolta:
«Come desiderate, divina Atena».
«Vi ringrazio. Adesso, andate a riposare anche voi. É stata una... lunga
giornata».
«E Voi? Cosa farete?» chiese Aiolia, in un goffo slancio di
preoccupazione.
Ella rivolse loro un sorriso mesto, per poi lanciare un'occhiata
inconsapevole alla salma di Saga, che giaceva a pochi metri di
distanza: «Io credo che rimarrò qui ancora un po'».
Dietro quell'affermazione cortese Shaka colse un desiderio inespresso di
rimanere in solitudine. Probabilmente avrebbe vegliato tutta la notte: in quel momento
tanto particolare i tormenti interiori erano ben più impellenti della
mera spossatezza fisica.
Dopo essersi dunque accomiatati da lei con un lieve inchino, tutto ciò che
restava della schiera dei Gold saints cominciò la discesa delle Dodici
Case; si accingevano a percorrere in senso inverso la stessa strada
che, quasi ventiquattro ore prima, era stata solcata dai cinque
giovani di bronzo, tutti consapevoli del fatto che sarebbe stata per
loro altrettanto dolorosa.
Anzi, forse persino di più.
Scesero le scale che portavano al Presidio dei Pesci in ordine sparso,
senza curarsi di evitare le rose velenose le quali fungevano da
simbolo del Tempio e della scalinata stessa – ci aveva pensato Pegasus
a spazzarle via. Tuttavia,
il profumo dei petali vermigli continuava ostinato ad aleggiare nella
brezza notturna, portando alla memoria di Virgo tutte le innumerevoli
volte che l'aveva annusato solo distrattamente, non soffermandosi a
distinguerne le varie sfumature come adesso, invece, gli veniva
spontaneo fare.
Quel che faceva più male, però, era realizzare di aver riservato il
medesimo trattamento anche al loro creatore: aveva sempre evitato
Aphrodite, un po' per la convinzione che fosse diametralmente opposto
a lui – e, dunque, sbagliato.
Non era uomo da amare la diversità, Shaka di Virgo –, un po' perché
non gli era mai interessato veramente conoscerlo. Ora
che era morto non ci sarebbe stata occasione di scoprire se avesse
avuto ragione o meno, sul suo conto.
«Qualcuno sa almeno quale fosse il suo vero nome?» domandò una volta che
l'ebbero dinanzi, bello e rivestito di rose come non era mai stato.
«Dan,» rispose Aiolia in un sussurro «si chiamava Dan. Ma non gli piaceva:
pensava che fosse troppo banale».
All'occhiata stupita che gli altri gli rivolsero – dovuta presumibilmente
al fatto che nemmeno fra lui e Pisces era mai corso troppo buon sangue
–, Leo aggiunse: «Me lo disse Death Mask per fargli un dispetto. Ma il
suo – quello di Cancer, cioè – non volle rivelarmelo, così non
insistetti... beh, potete immaginarne il perché. Non andavo molto
d'accordo con quei tre, io».
Quei
tre:
Death Mask, Aphrodite e Shura per molti anni erano stati semplicemente
"quei tre", agli occhi dei restanti cavalieri d'oro. Forse
per il loro profondo attaccamento fra sé, o per la maggior
legittimazione che avevano ricevuto dal Gran Sacerdote in virtù della
completa devozione da essi riservatagli, fatto sta che raramente v'era
stato modo di valicare quel muro di pregiudizio esistente fra i vari
membri della casta dorata.
Il risultato e i motivi di tanta frammentazione erano divenuti di totale
evidenza solo quel giorno, e "quei tre" avevano pagato anche per i
restanti cinque, i quali in realtà non possedevano minori
responsabilità.
«Chissà se loro sapevano chi si
celava dietro alla maschera pontificale. E, se ne erano a
conoscenza, chissà per quale ragione hanno scelto di continuare a
operare nella menzogna, piuttosto che denunciare la verità».
Quando giunsero all'entrata posteriore del Tempio della Sacra Anfora si
fermarono simultaneamente, quasi in automatico; varcare quella soglia
avrebbe rappresentato il passo più ostico per tutti quanti, sebbene in
diversa misura. Milo
specialmente appariva provato, benché si sforzasse di non darlo a
intendere: era stato il primo a bloccarsi, e ora il suo sguardo
fissava vacuo quell'arcata buia come l'antro di una grotta, vedendo
forse qualcosa che loro non riuscivano a scorgere.
Una sorta di pena profonda si impadronì di Shaka, nel guardare di
sottecchi il viso dell'amico, fattosi tanto pallido da poterne contare
le sottili vene blu che pulsavano sottopelle; aveva infatti intuito a
cosa stesse pensando. Nella
risalita
delle Case Zodiacali, mentre Atena restituiva la linfa vitale a Hyoga
di Cignus, il corpo di Camus non si era scorto da nessuna parte –
anche se, a differenza di quelli di Cancer e Capricorn, avrebbe dovuto
trovarsi all'interno del proprio Tempio. Sul momento, persino Virgo aveva preso in considerazione
l'ottimistica possibilità che, non essendoci traccia del cadavere,
Aquarius potesse essere ancora vivo, salvo poi rendersi conto – con
una strana stretta al cuore – dell'impossibilità di tale speranza.
Tutti avevano avvertito il suo inconfondibile cosmo cristallino
affievolirsi fino a scomparire, e l'estinguersi dell'aura di un
cavaliere rappresentava da sempre il segno inequivocabile della sua
dipartita.
Tuttavia, probabilmente Scorpio non riusciva – forse non ci stava nemmeno
provando – ad accettare la morte dell'Acquario, e si aggrappava ancora
all'illusione che il proprio migliore amico fosse scampato a quel
destino, pur sapendo, dentro di sé, che appunto di illusione si
trattava.
«Un cavaliere di Atena deve avere spalle larghe abbastanza da poter
sorreggere il mondo intero» aveva detto il vecchio Shion
un giorno, in uno dei pochi ricordi che Shaka conservava di lui; e,
forse, non si trattò di un caso che fu proprio Mu a infrangere quella
fragile bolla di sapone in cui tutti si erano rifugiati di buon grado.
Difatti, il suono secco
che il tacco dell'armatura dell'Ariete generò a contatto col marmo li
strappò dal loro limbo di indecisione, impedendo che le rispettive
volontà vacillassero ulteriormente: erano cavalieri, e, in quanto
tali, non potevano permettersi di mostrare debolezza – non in modo
così vistoso, perlomeno.
All'interno dell'Undicesima Casa faceva dannatamente freddo, tanto che
Virgo riuscì a stento a impedirsi di stringersi addosso il mantello
strappato. Un
sottile strato di ghiaccio ricopriva ogni superficie visibile,
dipanandosi dal pavimento alle pareti e poi su, fino al soffitto; la
soffice luce della luna piena che vi scivolava sopra donava
all'ambiente una sottile sfumatura lattiginosa tendente al celeste,
rendendo simile quel Tempio in rovina a un luogo trascendentale.
Vi regnava un'atmosfera
quasi surreale, totalmente antitetica rispetto alla cruda devastazione
del resto del Santuario: Shaka, camminando fra le colonne, ne rimase
ipnotizzato.
La stessa sensazione di smarrimento che aveva rischiato di sopraffarlo
alla Tredicesima ora stava tornando a tentare di schiacciarlo,
prepotente; si stupì ancora una volta di non essere in grado di
sopportare stoicamente le conseguenze della loro errata condotta.
Il modo in cui il Gran
Sacerdote aveva approfittato della sua buona fede e il dolore per aver
voltato così a lungo le spalle alla Dea a causa di inganno altrui
rappresentavano un'offesa bruciante, ma quello che lo sconvolgeva di
più – contrariamente a come avrebbe dovuto essere – era la cruenta
scomparsa dei suoi camerati.
Uomini che avevano deciso, spontaneamente o meno, di seguire una strada
diversa da Giustizia e dunque indegni di compianto; di Aiolos almeno,
era questo che aveva sempre pensato.
Dunque, per quale motivo ora tali giudizi gli sembravano assurdi?
Il fatto che il suo essere ancora vivo lo dovesse esclusivamente al
capriccio del fato aveva davvero il potere di farlo cambiare opinione
così drasticamente?
Un grido improvviso, proveniente da un angolo buio del Tempio, lo strappò
dalle sue dispersive riflessioni; un nome, pronunciato con angoscia,
che mai avrebbe voluto udire in un momento simile.
«Maia! MAIA!»
Si voltò di scatto in quella direzione, col cuore in gola.
«Atena, ti prego, non questo. Tutto,
ma non questo».
Continua...
Note
dell’autore
Sì, lo
so: questa prima metà del capitolo fa piuttosto pena, soprattutto se
confrontata con l’aggiornamento precedente.
Qui
sono entrata nel vivo dei pensieri e degli stati d'animo del personaggio
che io credo sia in assoluto il più colpito, a livello di
consapevolezze, dagli eventi della battaglia delle Dodici Case: Shaka.
Cosa
avrà provato il nostro sedicente Illuminato alla fine dello scontro e
nella notte a esso immediatamente successiva? Ebbene, col capitolo 11 io
ho tentato di rispondere a tale domanda; in un modo che è molto
soggettivo, lo ammetto, ma che è anche l'unico da me reputato
ammissibile – ossia, al contrario di come uno si aspetterebbe.
La
parte iniziale, pur essendo una sorta di flash back, è trattata al
presente, per meglio sottolineare la solennità del momento e i riscontri
che questo avrà nei protagonisti. Per scriverla mi sono rifatta quasi
interamente all’anime: ho provato a seguire il manga, ma l’idea che
volevo sviluppare – e che, di fatto, ho sviluppato – era troppo diversa
dalle dinamiche lì utilizzate.
Adesso,
qualche chiarimento in relazione al testo:
- Visto
che non si capisce in nessuna maniera (o, forse, l'unica a non averlo
capito sono io) come tecnicamente si uccida Saga, ho ipotizzato che si
colpisca al petto con una Galaxian Explosion. Mh.
-
L’idea di battezzare “Dan“ Aphrodite l’ho ripresa dalla mia vecchia One
shot “La rosa più bella“, che
è inserita nella storia round robin “Nati sotto una stella“ di ElenaNJ. Tanto per fare un po’ di
pubblicità!
Poi,
cos’altro? Beh, il comportamento di Shaka parrà senz’altro strano,
specie se si considera la concezione che egli ha sempre avuto di se
stesso. Ma pensate anche solo per un attimo alla portata della
rilevazione che gli piomba addosso in neanche una manciata d’ore: ci
sarebbe di che impazzire. E non solo perché si rende conto di aver
vissuto come un pupazzo cieco per anni, ma anche (e soprattutto) perché
alcuni dei compagni di una vita – benché per la maggior parte di essa
detestati, beninteso – per il suo stesso errore hanno pagato molto più
di lui. Lo chiamano “il rimorso dei sopravvissuti“. Ma gli passerà prima
o poi, vedrete ;)
Che
dire, mi scuso per le note incredibilmente lunghe (più lunghe
dell’aggiornamento, in effetti), e ringrazio di cuore chi ancora mi
segue; manifestazione di gratitudine particolare da parte mia va poi a LuluXI,
_Sisifo_, Sagitta72,
Moncheri ed Eirien
per le loro bellissime recensioni al capitolo 10, seconda parte.
Un
abbraccio a tutti.
|
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Capitolo 16 *** Capitolo 11, parte II: 11-12 settembre 1986. Shaka ***
Capitolo 11, parte II. Shaka BG
Capitolo
11,
parte II: 11-12 settembre 1986. Shaka
Gli occhi spenti: fu questo il
primo dettaglio che Shaka notò, osservando il corpo ormai esanime di
Aquarius. E gli parve paradossale, perché in vita, a
dispetto del suo fare schivo, Camus aveva avuto occhi pieni di una
luce stranamente brillante.
Nulla rimaneva, adesso, di quella scintilla: le grandi iridi dorate
fissavano vacue e vuote il soffitto, perdute in invisibili spazi
ultraterreni – irrealmente spalancate.
«Qualcuno dovrebbe chiuderglieli»
si ritrovò a pensare, mentre l’attenzione di tutti gli altri era
invece rivolta alla figura accasciata sopra l’armatura incrostata di
ghiaccio dell’Undicesimo Custode. Il
volto
di Maia era affondato nell’incavo della spalla di Camus e le mani, che
avevano assunto una tinta bluastra a causa del freddo, ne stringevano
convulsamente le braccia; il suo torace era immobile. Non respirava.
Nel rendersene conto, Shaka avvertì – di nuovo? – il morso della paura
afferrargli lo stomaco.
«Maia è innocente. Non ha nulla a
che fare con tutto questo. Non può essere morta. Non deve
essere morta».
«Maia!»
Milo fece per avvicinarsi impetuosamente all’amica, ma Aiolia lo bloccò
con un gesto della mano.
«Fermo» disse, il tono di voce dominato da una calma che su di lui,
specialmente in quel momento, appariva stridente «Credo che sia
opportuno toccarla il meno possibile, e tu e io non ci intendiamo
affatto di pronto soccorso».
Poi, si rivolse a Shaka: «Shaka, mi risulta che tu sappia qualcosa di arti
curative. Potresti-»
«Certo,» rispose lui, chinandosi tempestivamente sulla ragazza senza che
Leo dovesse aggiungere altro «sempre che… »
«
...sempre che non sia troppo tardi».
La constatazione aleggiò fra
loro in maniera quasi palpabile, pesante come piombo, tuttavia nessuno
ebbe il coraggio di esplicitarla – d’altra parte, sarebbe stata
un’esclamazione del tutto superflua.
Virgo lasciò dunque cadere la frase e posò delicatamente due dita sul
collo esposto di Maia, a cercare la vena giugulare; le sue mani non
vennero rallentate da alcuna esitazione, benché fosse conscio che, una
volta trovato il punto da lui cercato, il responso sarebbe stato
definitivo. Perciò,
quando sentì un flebile battito di cuore scuotergli lievemente i
polpastrelli, si morse le labbra per il sollievo: era viva. Era viva!
«É viva» dichiarò, spostando lo sguardo sui volti solcati dalla
preoccupazione che lo fissavano, in attesa «Il battito è appena
percettibile, ma c’è. Siamo arrivati in tempo».
Lo sciogliersi della tensione fu evidente quasi quanto lo era stata
l’apprensione pochi attimi prima: Aiolia sospirò, Mu e Aldebaran si
lasciarono sfuggire un sorriso, Milo schiuse i pugni contratti.
Tuttavia, nonostante il peggio fosse ormai stato evitato, la situazione
rimaneva ancora piuttosto grave: bisognava far sì che Maia riprendesse
a respirare, e Shaka non aveva idea di come agire.
I modesti rudimenti di
scienze mediche che possedeva gli derivavano dai primi anni di
addestramento in India, e nulla avevano a che fare con
l’assideramento: si trattava piuttosto di saper riconoscere erbe e
sostanze naturali utili a curare disturbi causati da malnutrizione e
infezioni di vario genere.
A essere onesti, comunque, doveva ammettere che molto di rado si era
dedicato a tali attività e, se talvolta era successo, l’aveva fatto
controvoglia: all’epoca – fino a poche ore prima, di fatto – credeva
fermamente che il Figlio del Cielo non dovesse abbassarsi a svolgere
simili compiti, checché ne dicessero i monaci.
«E ora?» chiese quindi, dimenticando la sua solita riluttanza a chiedere
consiglio «Io non sono affatto pratico di assideramento. Non so cosa
sia opportuno fare… ci vorrebbe un esperto in materia».
«Ci vorrebbe Camus».
Sicuramente non fu il solo a pensarlo, a giudicare dalle occhiate piene di
tristezza che tutti lanciarono alla figura immobile dell’Esperto dei
ghiacci, cui non avevano fino a quel momento potuto prestare
attenzione – non era il momento di lasciarsi andare. Non ancora.
«Usa il cosmo».
«Che?» Aiolia si girò verso Milo con sguardo interrogativo.
«Il cosmo, Shaka, usa il cosmo!» riprese Scorpio «Ci hanno sempre detto
che la nostra aura non ha proprietà curative di nessun genere, ma è
falso: alla Settima Casa è stato proprio grazie al cosmo che il
cavaliere di Andromeda è riuscito a riportare in vita Hyoga di Cignus.
Maia non è neppure un saint: anche una piccola quantità sarà
sufficiente».
A Shaka parve che quel rimedio fosse un po’ troppo campato in aria, ma in
mancanza di valide alternative si affrettò a seguire il suggerimento,
sperando che il suo compagno non si sbagliasse. Dopo
aver sollevato e posato a terra Maia congiunse entrambi i palmi sul
suo petto, all’altezza del cuore, ed evocò una scintilla del proprio
potere. Sembrò funzionare: passati pochi istanti, Virgo avvertì che il
battito della ragazza si era già fatto più intenso.
«E tu come fai a saperlo? Di ciò che è successo alla Casa di Libra,
intendo» domandò Aldebaran a Milo sottovoce, mentre il cavaliere del
Sesto Tempio continuava a emettere energia cosmica.
«Ho seguito le sorti del Cigno con molto… interesse» rispose lo Scorpione,
con un bisbiglio che suonò talmente atono da apparire inquietante.
Shaka non udì il resto della loro conversazione, se mai ce ne fu uno; un
ronzio insistente gli invase a poco a poco le orecchie, oscurando
tutti gli altri suoni.
Aggrottò la fronte e incrementò i suoi sforzi. Sentiva
che “la cura“ stava facendo effetto: le deboli membra di Maia
assorbivano il cosmo con la stessa voracità di una pianta che si fosse
trovata senz’acqua per molto tempo. Gli
effetti benefici erano evidenti anche a prima vista: il blu malsano
dell’ipotermia che le colorava la pelle quando l’avevano trovata, pur
non essendo svanito del tutto, andava lentamente stemperandosi, segno
che il sangue aveva ripreso a scorrere correttamente; tuttavia, ancora
nessun segno di vita proveniva da lei e Virgo stava cominciando a
preoccuparsi seriamente.
Ignorava quanto a lungo Maia fosse rimasta in stato di apnea, e non
serviva certo un dottore per capire che ogni secondo in più avrebbe
potuto fare la differenza. Fu con rabbiosa disperazione – sentimenti così dissonanti col suo modo di
essere – che ampliò ulteriormente il getto della propria aura, ormai
accresciutosi tanto da avvolgere l’intera figura della giovane.
«Avanti, Maia… avanti!»
All’inizio nemmeno si accorse di quel tenue rumore che andò a confondersi
col suo respiro; fu solo quando vide il torace di Maia sollevarsi e
riabbassarsi piano che Shaka comprese di non averla perduta.
Fra le tante vite che in quella giornata si erano spente, almeno una – la
più innocente – era riuscito a salvarla: chissà se, successivamente,
Maia l’avrebbe ringraziato o maledetto per questo.
«Shaka, ti senti bene?»
La voce di Mu arrivò alle sue orecchie lontana, ovattata; si sforzò di
apparire meno spossato di quanto in realtà non fosse.
«Sì, certo» rispose, alzandosi in piedi.
«Ne sei sicuro?»
Shaka confermò con un frettoloso gesto della mano: «Sì, io sto benissimo.
Non preoccupatevi per me. Piuttosto, dobbiamo portare Maia via da qui.
Va messa al caldo, il più presto possibile».
«Ha ragione: prima ce ne andremo di qui, meglio sarà per tutti» intervenne
Aiolia, accingendosi a prendere in braccio la ragazza.
Virgo lo guardò sollevare Maia senza sforzo, con movimenti impregnati di
una tenerezza quasi materna; a Camus, invece, Leo non riservò che
un’occhiata opaca e fuggevole, prima di incamminarsi verso l’uscita
del Tempio in rovina.
«Non sarebbe opportuno chiudergli almeno gli occhi?» esalò qualcuno che
Shaka riconobbe essere Aldebaran, benché stentasse a credere che da un
petto tanto ampio potesse uscire un suono così flebile.
Al che, il Leone fermò i suoi passi, continuando tuttavia a dar loro le
spalle.
«Hai sentito la nostra Dea: ci ha umilmente chiesto di non toccare i
corpi, e io non intendo andare ancora
contro i suoi voleri».
«Ma-»
«Diamo ascolto ad Aiolia, Aldebaran» lo interruppe Mu, poggiando una mano
sulla spalla dell’amico a mo’ di conforto «Dobbiamo pensare a Maia,
adesso. Almeno per lei possiamo ancora fare qualcosa».
«Già. Per Camus e gli altri, al
contrario, siamo arrivati maledettamente tardi».
Shaka non si stupì troppo per l’apparente cinismo dimostrato dal guardiano
del Quinto Fuoco: ognuno aveva i propri modi di reagire al dolore, e
probabilmente quello di Aiolia era la risolutezza.
Un atteggiamento che
anche lui avrebbe voluto adottare – se solo gli fosse riuscito.
Messo di fronte al dovere nei confronti prima di Atena, e poi di Maia,
Taurus lasciò cadere la replica, sospirando appena.
«Milo,» chiamò Aiolia, voltandosi «andiamo».
Già, Milo. Nei concitati momenti che erano seguiti al suo intervento su
Maia Virgo non aveva più pensato a lui, né si era soffermato a
chiedersi il perché di quel prolungato silenzio da parte dello
Scorpione.
Ora che lo guardava, ne capiva il motivo: sembrava spento.
Se non fosse stato per i
leggeri brividi che gli scuotevano le membra – dovuti al freddo, forse
– si sarebbe detto morto come il compagno che stava fissando con
un’insistenza tale da far credere che volesse distendersi al suo
fianco e non rialzarsi mai più.
No, quello non era Milo: quell’ombra non possedeva nulla dell’Ottavo
Custode, a eccezione delle fattezze fisiche. Il
cavaliere che Shaka conosceva avrebbe gridato, inveito, preso a pugni
qualcosa, forse avrebbe persino pianto, ma di sicuro non si sarebbe
mostrato così annientato – sì, “annientato” era la parola giusta.
«Di cosa ti stupisci, stolto?
Nemmeno tu ti stai dimostrando in grado di reggere il peso di tutto
questo. Era il suo migliore amico, in fin dei conti».
«Milo?» chiamò ancora Leo, abbandonando completamente il suo precedente
tono severo. Ancora una volta Scorpio non dette segni di aver udito, tanto che nemmeno
alzò la testa.
«Piangerete lacrime di sangue, su quella verità che ora vi rifiutate di
vedere» mormorava ripetutamente a se stesso, in rantoli stretti fra i
denti. Solo Shaka, che gli era accanto, lo stava
sentendo; benché gli paresse tetramente azzeccata per la situazione,
si chiese cosa potesse mai significare una frase simile.
Quando capì che non ci sarebbe stata risposta, il cavaliere del Leone
tornò sui suoi passi e raggiunse l’amico, sempre tenendo Maia inerte
su una spalla.
«Milo».
Percependo la presenza di Aiolia così vicina, lo Scorpione girò
leggermente il busto – il viso ancora rivolto verso Camus.
«Milo, dai, vieni con me. Vieni via».
Una supplica travestita da esortazione.
«Non credo di esserne in grado» sussurrò il biondo, gettando al compagno
uno sguardo carico di disperazione «Lui… lui è-»
«Lui è morto, Milo» nel dirlo Aiolia gli cinse lieve la vita con il
braccio libero, come a sorreggerlo nel caso non avesse retto alla
dichiarazione «E stare qui non lo farà ritornare. Rimanendo faresti
solo del male a te stesso. Non insistere, te ne prego. Andiamo».
«S-sì».
Alla fine Milo si lasciò condurre fuori, una mano di Leo premuta
saldamente sulla schiena a impedirgli di tornare indietro; Virgo li
guardò allontanarsi e poi sparire all’esterno, seguiti da Aldebaran.
Lui, per qualche motivo, rimase fermo. Non
riusciva a muoversi, non riusciva a smettere di fissare gli occhi
vuoti di Aquarius e di desiderare di chiuderglieli, nonostante ciò che
aveva detto Aiolia.
«Shaka, vieni?» Mu era sulla soglia, lontano, e lo studiava con fare
interrogativo.
«Non ce la faccio, Mu. Non ce la
faccio più a ignorare il fatto che il cadavere di Camus è a terra, e
nessuno di noi si è fermato a piangerlo. Vorrei tanto essere deciso
come Aiolia, imperturbabile come te o rassegnato come Milo, ma
purtroppo non lo sono. Io, Shaka della Vergine, oggi ho scoperto di
essere debole come mai avrei pensato possibile – il più debole di
tutti».
Avrebbe voluto dirle a Mu, queste cose; avrebbe voluto lasciarsi guidare
da lui fuori dall’Undicesima Casa, così come Leo aveva fatto con
Scorpio pochi istanti prima.
E invece, al solito incapace di mostrarsi in difficoltà, rispose: «No, Mu.
Voglio rimanere ancora un po’. Tu vai, io vi raggiungo più tardi».
L’ombra di comprensione che passò sul volto di Aries, veloce come il
transitare di una nuvola trasportata dal vento, lo rincuorò: lui
capiva. L’aveva sempre capito, nonostante non l’avesse
mai meritato.
«D’accordo».
Mentre il suono dei passi dell’Ariete diveniva via via più flebile, Shaka
si lasciò scivolare lungo la parete ghiacciata fino a sedersi.
Si sfilò i bracciali dell’armatura e rabbrividì di sollievo quando, a
dispetto del freddo, le ustioni lasciategli dall’Hoyoku tensho
entrarono in contatto con l’aria gelida del Tempio. La carne era
spellata e rossa in diversi punti delle braccia; le parti più bruciate
già perdevano pus e facevano un male terribile.
La Vergine pensò che, alla luce di quanto scoperto con Maia, avrebbe
potuto guarirle semplicemente usando il cosmo, ma decise di non farlo.
Quelle ferite
l’avrebbero deturpato per sempre, lasciandogli brutte cicatrici
visibili anche da lontano; tuttavia, esse rappresentavano i suoi
sbagli e grazie a loro gli sarebbe stato impossibile ricadere
nell’errata convinzione di essere qualcosa di più di un semplice uomo.
«Te lo saresti mai immaginato, Camus?» mormorò alla figura del fu
Undicesimo Custode stesa sul pavimento «Proprio io, che mi consideravo
il meno terreno di voi, adesso sono l’unico rimasto qui a vegliarti –
pieno di angoscia e di sentimenti così umani da farmi spavento. Forse,
a vedermi ridotto in questo stato, persino tu rideresti. Tu, che si
diceva sapessi ridere poco quanto me».
Ma era vero, poi, che Camus non sapeva ridere?
Nonostante avessero vissuto nel medesimo luogo per diverso tempo, e
nonostante l’avesse sempre considerato più un amico che un semplice
collega, Shaka non poteva dire di aver conosciuto a fondo Camus di
Aquarius. Sì,
ne aveva apprezzato la tempra e, nella maggior parte dei casi, la
condotta morale, ma a parte questo non c’era molto altro che sapesse
su di lui.
E la cosa buffa era che tale consapevolezza lo feriva persino più di
quanto non avesse fatto, poco prima, l’accorgersi di non aver mai
considerato abbastanza Aphrodite, Shura e Death Mask, perché per
l’Acquario aveva provato – a suo modo – affetto. Un affetto più simile a stima che a genuina affezione, a dirla
tutta, ma questo era l’unico sentimento positivo che avesse mai
sentito nei confronti di altre persone e non sarebbe stato capace di
definirlo in modo diverso da “amicizia“.
«Non mi sono mai dato pena di
pensare a cosa significhino per me i miei compagni d’arme, nemmeno
quelli con cui soglio passare del tempo; perché questi dubbi mi
vengono proprio adesso, adesso che il nostro – il mio – mondo
fittizio è crollato come un castello di carte? Perché?»
Una domanda a cui non seppe trovare risposta.
Con un movimento lento, dolente a causa delle contusioni che solo ora
cominciavano a farsi sentire, si inginocchiò vicino a Camus.
La sua chioma rossa era
incrostata di ghiaccio al pari dell’armatura che, sotto quella patina,
non sembrava nemmeno dorata; Shaka gli sfiorò il viso freddo con la
punta delle dita, evitando di guardarlo troppo fisso negli occhi
immoti.
Si chiese a cosa avesse pensato quando si era accorto che Hyoga di Cignus
l’avrebbe sopraffatto: di sicuro non l’aveva supplicato di
risparmiarlo. Quelle labbra, ora serrate per sempre, non
erano fatte per le suppliche.
Non come le sue, traditrici, che di loro sponte si erano spalancate in una
vergognosa e tardiva richiesta di misericordia: «Io capirò! Fermati! Così ci
oscureremo in un mondo di luce!»
Incredibile a dirsi che uno come Shaka della Vergine si fosse scordato
persino dell’orgoglio, pur di avere salva la vita; per giunta, dinanzi
ad un cavaliere poco più che bambino il quale, al contrario, non aveva
esitato neanche per un istante.
Camus, che per orgoglio era vissuto e morto, avrebbe certamente
disapprovato.
Ma – e questo pensiero lo colpì come una folgore – Camus non c’era più.
Se n’era andato, ucciso dal troppo amore per la propria dignità, mentre
lui, per quanto indegno, era ancora vivo. Con un’intera esistenza da
rivedere e fantasmi a camminargli accanto, ma vivo – in grado di fare,
vedere, sentire.
Aquarius non avrebbe mai potuto godere della luce che Atena irradiava, mai
avrebbe udito la sua voce, mai avrebbe potuto inginocchiarsi al suo
cospetto e mostrarle la devozione che per tanti anni tutti loro
avevano riservato a un’idea errata. Non avrebbe più potuto osservare i volti dei propri compagni e
leggerci dentro un destino comune, parlare e ridere con loro.
Non che Shaka, fino ad allora, avesse mai desiderato davvero farlo,
tuttavia la consapevolezza di essere ancora in tempo per iniziare gli
dava coraggio; quello stesso coraggio che solo alla Tredicesima Casa
credeva di non possedere, ora sapeva dove cercarlo.
Era tempo di abbandonare il mondo dei morti e ricongiungersi coi vivi.
Allungò una mano verso Camus e, lentamente, gli abbassò le palpebre.
Nessuna ulteriore remora
accompagnò tale gesto: pensandoci bene, il buio era calato su quelle
iridi dorate ben prima del loro arrivo. Dunque, perché aspettare?
«Arrivederci, Camus. Ci incontreremo di nuovo, forse prima di quanto si
possa credere: un cavaliere di Atena non è destinato a invecchiare, e
tu questo lo sapevi. Tutti noi lo sappiamo da sempre».
Mosse le labbra in una preghiera silenziosa, lunga un istante; poi uscì
nelle tenebre, lasciandosi alle spalle l’Undicesima Casa.
*
L’interno del Quinto Tempio era un ammasso di macerie e colonne
crollate; Shaka si fece largo fra i detriti, diretto alle stanze
private del Custode.
Non nutriva alcun dubbio sul fatto che gli altri si fossero riuniti lì; la
Casa di Aiolia si trovava all’incirca a metà tragitto rispetto ai
restanti Templi, e probabilmente nessuno se l’era sentita di attendere
lo spuntar del sole in solitudine.
Dopo aver dischiuso la porta quel tanto che bastava a varcarla, Virgo fece
qualche passo nel corridoio principale, tendendo le orecchie: come
pensava, era dal locale che fungeva da cucina che provenivano rumori
di passi e discorsi indistinti. Era quello il posto dove
stavano, le volte in cui si ritrovavano negli appartamenti del Leone.
Quando Shaka entrò nella stanza, Mu l’accolse con un tenue sorriso: «Un
po’ di tè, Shaka?»
Gliel’aveva chiesto con naturalezza, come se quello fosse uno dei loro
usuali appuntamenti pomeridiani alla Casa della Vergine e non il
momento tragico che in realtà era. L’idea gli parve talmente assurda che quasi scoppiò a ridere.
«Ma sì, un tè per l’Illuminato
cieco. Chissà che non riesca a togliermi un po’ di gelo dalle ossa».
Dubitava che una semplice bevanda calda avrebbe potuto spazzare via il
freddo che gli si era annidato dentro, ma forse, almeno per quello
esteriore, sarebbe servito a qualcosa.
«D’accordo. Senza zucchero, come sempre. Grazie».
Aries versò dell’acqua bollente in una tazza, nella quale poi mise una
bustina di tè scadente, acquistato chissà quanto tempo addietro – in
Grecia non usava berlo e Aiolia non ne era né un amante né un cultore.
Pazienza, se lo sarebbe fatto piacere.
Shaka prese la tazza fra le mani, osservando la polvere disciogliersi
nell’acqua in sottili scie ambrate.
«Come sta Maia?» domandò di getto – avrebbe sollevato la questione appena
arrivato, se Mu non l’avesse distratto con quella stupida faccenda del
tè.
«Stabile: è ancora incosciente, ma almeno non ha subito ricadute. Aiolia
l’ha messa a letto, sotto a tutte le coperte che sta riuscendo a
racimolare. Adesso dobbiamo solo sperare che si risvegli presto.
Tutt’ora non capisco cosa ci facesse al Tempio della Giara Sacra in un
frangente simile: deve essere arrivata mentre noi eravamo alla
Tredicesima Casa, quando ormai non c’era più nessuno a presiedere
l’entrata del Grande Tempio».
«No, non credo. Mi pare più probabile che sia rimasta a dormire da Camus,
invece. Ieri sera è venuta a cena al Santuario, e poi non è più
scesa».
Se Mu rimase stupito di quello che aveva appena sentito, non lo diede
minimamente a vedere.
«Anche se fosse, mi pare strano che stamani Camus non abbia provveduto a
metterla al sicuro. Non è… era
da lui correre rischi, specialmente quelli di tale portata» emise un
breve sospiro, prima di concludere «Comunque sia andata, tuttavia, ora
non ha più importanza».
Virgo non trovò di che replicare, così rimase in silenzio a rigirarsi la
tazza fra i palmi; bevve un sorso di tè, e poco ci mancò che lo
sputasse. Aries,
nel vedere la sua espressione di disappunto, non poté trattenere una
risata discreta.
«Sì, lo so, è pessimo. Non sono riuscito a trovare nulla di meglio, nella
dispensa di Aiolia» ammise, posando il proprio bicchiere in un angolo
del lavello.
«Non fa nulla. Non è colpa tua».
Shaka distolse lo sguardo dal contenuto della sua tazza e si soffermò a
studiare il viso del compagno, la cui fronte era solcata da fini rughe
di espressione che mai aveva notato prima; sotto i suoi occhi si
allungavano lievi ombre violacee.
Quei segni parlavano da soli: a dispetto dell’atteggiamento posato, anche
Mu era triste e stanco. Molto più stanco dell’ultima volta che aveva potuto osservarlo
bene, in quel pomeriggio – che sembrava essere appartenuto ad una vita
precedente – dopo il Chrysos Synagein al cospetto del Gran Sacerdote.
«Pare, allora, che le nostre strade si dividano, per il momento: se un
giorno dovessero tornare ad incrociarsi, forse saremo nemici.
Forse dovremo batterci. Spero che ciò non avvenga mai, ma, se così
non fosse, temo che sarò chiamato a compiere il mio dovere –
nonostante il nostro legame».
Che stupido era stato, anche in quell’occasione. Purtroppo
non dubitava del fatto che il suo – vecchio? – se stesso non avrebbe
esitato un minuto a mettere in pratica ciò che aveva affermato con
tanto ardore; che dire di Mu, invece?
Anche lui si era dichiarato d’accordo con quella posizione, eppure alla
fine del combattimento alla Sesta Casa aveva accolto senza indugio la
sua richiesta d’aiuto.
Per permettere a Ikki di Phoenix di proseguire la sua corsa, certo. Ma
anche
perché era riuscito a cogliere tutto il pentimento e tutta l’umiltà di
cui l’appello di Shaka era impregnato, andando oltre il comune
pensiero che Virgo avesse come unico fine solo quello di salvarsi la
vita. Di
fatto, era stata la misericordia di Mu a concedergli la seconda
possibilità che, al contrario, sarebbe per sempre mancata a Shura,
Saga, Death Mask, Aphrodite e Camus.
La misericordia di Mu, non quella di Atena. Doveva
dunque ringraziarlo, tentare di esprimere a parole quanto gli doveva?
Oppure era meglio
tacere?
La voce di Aries, levatasi all’improvviso, lo colse di sorpresa.
«Credo di sapere a cosa tu stia pensando. E, casomai te lo stessi
chiedendo, non pretendo nessun ringraziamento da te. Ho solo fatto ciò
che era giusto fare».
Shaka spalancò gli occhi, sbigottito; aprì la bocca per aggiungere
qualcosa, ma non gli venne in mente nulla di sensato da dire.
Si limitò quindi a
stringergli brevemente la mano, accompagnando il gesto con una tenue
scintilla di cosmo – il modo più intimo di comunicare, per un
cavaliere.
L’ingresso di Aiolia nella stanza costrinse i due a interrompere il loro
contatto; non che ci fosse nulla di male in quello che stavano
facendo, ma la faccenda fra lui e Mu era un qualcosa di personale e
Virgo non la voleva condividere con nessun altro.
Un po’ come non aveva mai voluto condividere il suo – assurdo
e insensato – litigio avvenuto mesi prima proprio con Leo.
«Shaka» il padrone di casa fece un breve cenno nella sua direzione,
evitando di chiedere dove fosse stato fino a quel momento.
«Aiolia» rispose lui, in una perfetta replica del saluto rivoltogli
«Novità su Maia?»
«Come di sicuro ti avrà detto Mu, è stabile. Non si è risvegliata, ma
respira regolarmente e mi pare che il polso abbia ripreso un po’ di
vigore. Adesso sta dormendo».
«Posso… vederla?» un desiderio improvviso che gli era salito alle labbra
ancor prima di attraversargli la mente, a cui Aiolia replicò
scompigliandosi i riccioli castani.
«Beh, credo di sì. Una tua supervisione non potrà farle che bene: in
fondo, è a te che tutti noi dobbiamo la sua vita. Ti accompagno?»
«Ciascuno di voi avrebbe potuto ottenere il mio medesimo risultato, dunque
a me non va merito alcuno» precisò Shaka, in un tentativo di risultare
umile talmente riuscito che persino Mu lo fissò stupefatto «Comunque,
se non ti dispiace, preferirei andare da solo».
«D’accordo. La strada la conosci».
Virgo lasciò così i due compagni ai loro discorsi – o ai loro silenzi – e
si avviò verso la camera da letto di Aiolia; la porta di legno chiaro
era chiusa. Girò
la
maniglia lentamente e sbirciò all’interno: nella piccola stanza, Maia
a parte, nessuno.
Strano che Milo non ci fosse: l’assenza dello Scorpione al capezzale
dell’amica suonava stonata, lui che qualche volta era andato a
trovarla fino a Rodorio solo per poche linee di febbre.
Varcò la soglia con un movimento fluido, chiudendosi il mondo esterno alle
spalle. C’era oscurità nel locale, appena mitigata dall’imposta che Leo aveva
sicuramente dimenticato aperta; sul letto a una piazza la figura di
Maia a malapena si distingueva, sotto il cumulo di coperte in cui
Aiolia l’aveva avvolta.
Aggirando la sedia che gli intralciava il passaggio, Shaka le si avvicinò.
L’avevano adagiata supina, con la testa appena ripiegata di lato; sul suo
volto, pallido in modo insano, spiccavano chiari i segni della
sofferenza. Doveva aver pianto a lungo prima di cadere
incosciente, a giudicare dal gonfiore che ancora era visibile sotto
gli occhi.
Le accarezzò piano una guancia, usando la stessa delicatezza che aveva
riservato al di lei amante morto nell’abbassargli le palpebre.
«Il tuo dolore è un’altra spina nel
mio fianco. Un’altra lama conficcata nel mio petto. Un’altra voce
che grida la mia colpevolezza».
Avrebbe capito Maia? Sarebbe riuscita a dare un senso alla morte di Camus?
Oppure la sua estraneità al loro essere cavalieri l’avrebbe portata a
condannarli tutti, per il mero fatto di aver conservato la vita? Lei
apparteneva
solamente in parte al Grande Tempio, al Santuario e ad Atena; lei, al
contrario di Shaka e gli altri, fuori da quel mondo conduceva
un’esistenza normale – lontana da cosmi, devozione e giuramenti.
Loro, Custodi superstiti, sapevano di meritarsi cordoglio e senso di
colpa, perché gli avvenimenti di quella giornata erano perlopiù frutto
di proprie convinzioni e decisioni sbagliate; ma Maia non aveva avuto
ruolo in ciò che era successo. L’aver ritrovato la luce della Dea sarebbe bastato a consolarla? Per
quanto lo desiderasse ardentemente, Virgo ne dubitava.
Tuttavia, al momento non serviva a nulla fare congetture: solo al
risveglio della ragazza sarebbe stato possibile sondare la sua
reazione. Fu
con la speranza – mista a timore – di vederla presto in piedi, che il
guardiano del Sesto Tempio abbandonò la camera per recarsi in
soggiorno, dove presumibilmente si trovavano gli altri.
«Allora? Come ti sembra che stia?» lo interpellò Aldebaran una volta che
ebbe ripercorso la cucina e attraversato l’arco che collegava le due
stanze.
«Non l’ho trovata né peggiorata né migliorata. Probabilmente le servirà
qualche giorno per riprendersi. Di sicuro, per fortuna, non è in
pericolo di vita» dichiarò lui, appoggiandosi appena al bracciolo
della poltrona su cui Leo stava seduto. Il movimento gli procurò una fitta al braccio destro, col quale si era
sorretto per sistemarsi meglio; si affrettò a dissimulare la smorfia
di dolore che gli aveva attraversato il volto gettando uno sguardo
distratto intorno a sé.
Il salotto di Aiolia era arredato in modo spartano ma confortevole, con
mobili semplici e qualche stampa fotografica di Atene a decorare le
pareti bianche; sugli scaffali della modesta libreria, fra i vari
fumetti, spiccavano grossi volumi di mitologia greca ai quali il
Leone era molto affezionato. Qualcuno
sosteneva che ci tenesse particolarmente perché tali volumi erano
appartenuti ad Aiolos, ma Shaka non era in grado di dire se fosse
davvero così.
«E ora? Cosa succederà, secondo voi?» disse improvvisamente ‘Lia, rompendo
il religioso silenzio che quella notte piombava su di loro a cadenze
regolari «Immagino che, a seguito di quanto è accaduto oggi, cambierà
tutto».
«Ti sbagli: tutto è già
cambiato» pensò Virgo, senza però dare voce alla constatazione.
«Tante sono le cose fra le quali mettere ordine» assentì Mu dall’angolo in
cui stava a braccia conserte «Innanzitutto, dobbiamo attendere che i
cavalieri di bronzo si riprendano dalla fatica e dalle ferite. Poi ci
sono le esequie ufficiali da organizzare e -»
La frase rimase a metà, spezzata dal rumore della tazza di Milo che cadeva
in frantumi sul pavimento di cotto, spargendo tè ai loro piedi.
«Perdonatemi: mi è scivolata» si scusò lui, gli occhi spalancati –
finestre blu su un abisso di strazio – in modo anormale «Pulisco
subito».
«Lascia stare Milo, non importa-»
Ma Aiolia non aveva nemmeno finito di parlare, che già Scorpio si era
chinato a raccogliere i cocci di vetro. Era
l’unico, oltre allo stesso Shaka, ad avere ancora indosso l’armatura:
i pettorali della corazza dorata erano resi purpurei dagli schizzi di
sangue secco – sangue di Hyoga di Cignus.
Nonostante i suoi sforzi di celarlo, le mani di Milo tremavano tanto che
la maggior parte dei frammenti da lui raccolti ricadeva a terra;
quando Aldebaran si alzò per aiutarlo, ‘Lia scattò in piedi di botto,
tutta la calma dimenticata.
«Io vado a prendere una boccata d’aria» disse d’un fiato, precipitandosi
fuori dalla stanza tra le occhiate basite dei presenti.
Per qualche strana
ragione, a Shaka venne voglia di seguirlo e lasciarsi alle spalle la
tazza rotta, le mani tremanti di Milo, gli sguardi mortificati di Al e
Mu e quell’odioso, insopportabile silenzio che era di nuovo tornato a
regnare sovrano; così uscì nella notte, fresca perché prossima
all’alba.
Trovò Leo con la testa fra le mani, seduto poco distante dall’entrata del
suo Tempio; senza dir nulla, gli si sistemò accanto.
«Non ce la facevo più a vederlo ridotto in quello stato» mormorò,
rimanendo a capo basso.
«Non c’è bisogno che tu ti giustifichi. Comprendo perfettamente come ti
senti».
«Forse più di quanto ti immagini».
«No, tu non puoi capire» replicò Aiolia con una smorfia, ben visibile
nonostante la sua posizione «É… è distrutto.
Tanto distrutto da non riuscire a nasconderlo. E non oso nemmeno
immaginare quale devastazione alberghi dentro di lui».
«É solo sconvolto. Tutti noi lo siamo, a nostro modo. Camus era il suo
migliore amico: ha bisogno di tempo per elaborare il lutto» tentò di
mediare Virgo, benché tali parole suonassero superficiali persino alle
proprie orecchie. Non
poteva negare che nell’atteggiamento di Milo ci fosse qualcosa di strano – qualcosa di così perso e struggente da far quasi paura.
Il Leone gli rivolse uno sguardo pieno di dolorosa consapevolezza: «Vorrei
tanto che fosse come dici. Tuttavia, credimi, non lo è. Se Milo avesse
perso qualsiasi altra persona, me compreso, si comporterebbe in
maniera completamente diversa. Sarebbe arrabbiato, adesso. Affranto e
stanco, come noi, ma soprattutto arrabbiato. Invece è Camus che è
venuto a mancargli, e l’unica cosa che lo tiene in piedi è
l’etichetta. Lui, che di formalismi e galateo non ne ha mai voluto
sapere nulla, ora si sorregge solo per il dovere morale di temperare
quanto più possibile le sue emozioni. Ma è fin troppo evidente che non
ce la sta facendo».
Si passò nuovamente una mano tra i capelli, nervoso, e tacque.
Shaka fu costretto a riconoscere la veridicità delle parole di Aiolia: in
quel momento, Milo di Scorpio sembrava effettivamente inerme come un
bambino – anzi, non lo sembrava soltanto: lo era sul serio. Il
perché Leo ritenesse che la sua condizione attuale fosse tutta dovuta
alla sola scomparsa di Camus, tuttavia, non lo chiese. Non era sicuro
di voler sapere.
«Tenere gli occhi chiusi è sempre
stata la cosa che meglio so fare, del resto».
«Poi c’è Maia,» riprese il Quinto Custode, inaspettatamente «che si è
quasi uccisa da sola, pur di restare vicina al corpo di Aquarius; come
pensi che potrà affrontare questa perdita, lei che non ha errori da
rimproverarsi né ruoli da interpretare? Il suo dolore, quello di Milo,
il nostro… non posso fare a meno di pensare che sia in gran parte
colpa mia».
«Non dire sciocchezze» lo rimproverò Virgo, indurendo il tono e lo sguardo
«Chi più, chi meno, abbiamo sbagliato tutti. La responsabilità degli
eventi che si sono consumati oggi – i quali hanno radici molto più
profonde – non è certo solamente tua».
«Purtroppo è vero, invece» ribatté l’altro, alzandosi dal gradino con
impeto «Io l’ho vista, Shaka. Quel giorno, a Tokyo, io ho visto Atena.
Ho visto la sua luce, udito le sue parole, sentito il suo potere,
eppure non sono riuscito a impedire che Arles – Saga
– giocasse con la mia mente, prendendone possesso. E stamani, se
Cassios non si fosse frapposto fra me e lui, avrei stroncato la vita
di Seiya di Pegasus con le mie mani! Pegasus, che combatteva nel di
Lei nome, DANNAZIONE!»
Aiolia riversò tutta l’ira trattenuta fino a quel momento in un pugno ai
danni della colonna a lui più vicina, che si incrinò con un suono
stridente; la maschera di calma e compostezza che si era calcato
indosso stava velocemente andando in pezzi.
C’era tanta, tanta amarezza traboccante di senso di colpa in quello sfogo.
Poteva ben comprendere il suo stato d’animo Shaka, visto che, per certi
versi, lo condivideva. Soprattutto perché, nella faccenda, era stato
qualcun altro a giocare il ruolo determinante – lui stesso.
«Dimentichi che sono stato io a fermare il tuo braccio, nella sala del
Trono. É a causa del mio intervento se il… se Gemini ha avuto
occasione di lanciare il Genrō Ken. Se io non fossi mai giunto,
probabilmente tutto questo non sarebbe successo».
«Forse. Oppure, avresti potuto fidarti delle mie parole. Resta il fatto
che io, a quel punto, conoscevo la verità… ma non è bastato. Nemmeno
l’aver udito la voce di mio fratello è stato sufficiente a darmi la
forza di reagire. Mio fratello, che io ho creduto un traditore per
tutto questo tempo, nonostante lo conoscessi meglio di chiunque altro.
Nonostante avessi visto quanto splendore e quanto amore serbava nel
cuore… Ai- Aiolos… »
Pronunciare quel nome tolse definitivamente ogni energia ad Aiolia, che
quasi si accasciò contro la colonna da lui precedentemente colpita,
appoggiandovi la fronte; i suoi singhiozzi sommessi si alzarono gravi
nel silenzio circostante, raccontando di anni e anni fatti di
cordoglio nascosto e ferite brucianti, di lotte quotidiane contro
l’odio e la vergogna – di un affetto mai davvero sopito.
Ecco che, infine, il Leone era domato, completamente scoperto e
vulnerabile; benché solo poco tempo addietro se lo fosse augurato
ardentemente, adesso Shaka non trovava nulla di appagante nel vederlo
tanto prostrato. Avrebbe anzi voluto fare qualcosa, ma
non sapeva affatto come comportarsi: mai avrebbe pensato che, fra
tutti, Aiolia si sarebbe lasciato andare a quel modo proprio con lui –
lui, che le uniche lacrime versate da Leo prima di allora le aveva
ancora scolpite nella memoria, solide e definite come solchi nella
roccia, nonostante il tempo trascorso. Strana cosa, il destino.
Era stata una notte di pioggia e lampi.
Lampi che avevano squarciato il cielo, illuminando a giorno le scalinate e
i Templi sacri; lampi inattesi di cosmi potenti, schierati gli uni
contro gli altri; lampi i cui tuoni non erano riusciti a coprire
il suono di piedi in corsa e le grida di allarme.
«Prendetelo! Ha rapito la bambina!»
«Tradimento! Tradimento!»
«Uccidetelo! É un ordine del Gran Sacerdote!»
E, veloce come un lampo, al mattino si era propagata la notizia: Aiolos di
Sagitter, traditore del Grande Tempio e di Atena, era morto per
mano di Excalibur, la spada portatrice di Giustizia.
Il
suo corpo ora giaceva tra le rovine all’entrata del Santuario, in
attesa di essere spostato; delle
sacre vestigia del Sagittario e dell’infante creduta Dea, invece,
nessuna traccia.
Il piccolo Shaka, non ancora “di Virgo“, in principio aveva deciso di non
andare a vedere.
«La
cosa non mi riguarda» si era
detto, serrando con decisione le gambe incrociate nella posa
meditativa «Se davvero Sagitter era un traditore, le sue
spoglie non meritano la mia attenzione».
Poi, però, spinto da una curiosità infantile che dopo quella volta avrebbe
sempre soppresso, aveva mutato idea e si era recato alle porte da
solo, con passo lento.
La zona era deserta e silenziosa. Un po’ come l’intero Presidio di Atena
che invece, specialmente a quell’ora, avrebbe dovuto brulicare di
attività. A
Shaka pareva quasi di essere finito in un luogo maledetto,
dimenticato dagli dèi e dagli uomini – un luogo dove non c’è vita
di nessun genere e solo il sole batte impietoso, unico sovrano di
una terra mai calpestata.
Era tutto così irreale. Così sbagliato.
Lì, da qualche parte ai piedi di quelle mura, si diceva ci fosse il
cadavere di uomo – un cavaliere d’oro – tacciato di aver infranto
le sacre leggi del Grande Tempio e di aver rapito la Dea
reincarnata; eppure a nessuno era stato comandato di sorvegliare
il posto, nessuno si trovava là, come lui, a cercare risposte.
Come se a nessuno importasse nulla di quanto accaduto.
Oppure,
come se tutti avessero troppa paura – ma di cosa? – per uscire
allo scoperto.
Un improvviso trambusto, levatosi poco lontano da dove si era fermato,
attirò la sua attenzione.
«Levategli le mani di dosso, capito? NON TOCCATELO!»
Aiolia. Era la voce di Aiolia, quella.
Shaka riprese a camminare, stavolta più velocemente.
«Togliti dai piedi e lasciaci lavorare, marmocchio! Gli ordini del Gran
Sacerdote non si discutono! Oppure vuoi seguire sin da subito
l’esempio di tuo fratello, da brava sua brutta copia quale sei?»
Giunse giusto in tempo per vedere ‘Lia rispondere alla provocazione del
soldato con un pugno nel ventre; date la poca dimestichezza
dell’offensore nel dosare il cosmo e la furia con cui era stato
scagliato, il colpo scaraventò l’uomo diversi metri più avanti,
lasciandolo privo di sensi. Il
futuro Leo avrebbe anche infierito, se Paulo, Didier e Milo non
l’avessero trattenuto per le braccia.
«Aiolia fermati, fermati! Così ti caccerai nei guai!»
I compagni dell’armato fuori combattimento, che non si sarebbero certo
attesi tanto potere da un bambino così piccolo e privo di
armatura, erano intanto indietreggiati.
«Non te la caverai così facilmente, ragazzino!» minacciò tuttavia uno di
essi, puntando il dito contro Aiolia «Adesso andiamo a chiamare il
nobile Shura e vedremo se tu e i tuoi amichetti avrete il coraggio
di opporvi anche a lui!»
«Ma sì, andate! Andate, codardi!» sbraitò loro dietro Milo, galvanizzato,
mentre i due si allontanavano di corsa in direzione dei Templi.
«Shaka,» esclamò Didier, quando lo scorse «che ci fai tu qui?»
«La stessa cosa che ci fate voi, a quanto pare».
A quel punto il resto del gruppetto si voltò a guardarlo, sorpreso per
quell’arrivo decisamente inatteso. Persino Aiolia, liberatosi di
malagrazia dalla stretta di Paulo, gli lanciò una rapida occhiata:
la sua faccia era una maschera di odio e dolore – un’espressione
che Shaka gli avrebbe visto spesso, una volta diventato “di
Virgo“, ma dalla quale all’epoca fu turbato.
Tuttavia,
non abbassò né chiuse di nuovo gli occhi – ci sarebbe stato tempo
per affinare gli altri sensi.
Ora doveva guardare.
Doveva vedere se il viso di Aiolos celava lo spettro del tradimento, dietro ai suoi
bei tratti.
Doveva capire.
Così spostò la sua attenzione sul corpo di Sagitter, che giaceva subito
dietro al fratello, e sul quale aveva evitato fino a quel momento
di concentrarsi.
Come poté in fretta constatare, il ragazzo era stato colpito in vari
punti, e non solo da Excalibur; sul suo torace nudo spiccavano
infatti diversi segni scuri, che Shaka non riuscì a ricollegare a
nessun attacco da lui conosciuto. Appariva però evidente che l’offesa fatale portava la firma di Capricorn:
la ferita al fianco, quasi orribile alla vista, era molto profonda
e aveva squarciato la carne fino all’osso.
Si era davvero meritato di morire macellato al pari di un animale Aiolos,
colui che tutti avevano chiamato “Santo“?
Per
quanto si sforzasse di rintracciare l’inganno nel suo volto – per
la prima volta indurito, nella morte –, lui non ci riusciva.
Col passare del tempo e il cementificarsi dei propri credo, si sarebbe
infine convinto di avercelo letto: nella piega aspra della bocca
socchiusa, forse, oppure nella fronte sporca di terra e di rosso.
Ma allora, ciò che notò fu solo pena.
La stessa pena che distorceva adesso i lineamenti infantili di Aiolia:
l’ira l’aveva di colpo abbandonato, lasciandolo solo a lottare
contro una sofferenza che prese subito il sopravvento su ogni
altra emozione possibile. Lacrime
grandi e pesanti cominciarono a scendergli giù dagli occhi, che
erano ancora, senza un perché, fissi su Shaka; in breve, tutto il
suo corpo fu scosso da violenti spasmi e gli iniziali gemiti
sommessi si tramutarono presto in lamenti sempre più forti, fino a
diventare urla acute.
Il giovanissimo, futuro Virgo represse a stento l’istinto di scattare in
avanti e impedire ad Aiolia di cadere, nell’istante in cui questi gli
voltò le spalle e si accasciò a terra accanto all’amato congiunto.
Troppo
occupato a tentare di non farsi coinvolgere rimase in disparte
persino quando Milo, con una delicatezza per lui inusuale, si
inginocchiò e strinse a sé l’amico, spingendo anche gli altri ad
avvicinarsi.
Cosa provò Shaka nel vederli tutti lì uniti in quella sorta di abbraccio a
cui lui non volle – o non poté – prendere parte, lo seppe definire
solo tredici anni dopo.
Solitudine:
era questo che aveva sentito.
Non la superiorità con la quale aveva tentato di arginare il peso di una
consapevolezza posseduta da sempre, e nemmeno un più mite senso di
estraneità – solo pura e semplice solitudine.
Ma non sarebbe ricaduto nello stesso errore, no. Non quella
notte, non dopo aver giurato di iniziare a meritarsi la vita che gli
era stato concesso di preservare; non dopo essersi sentito, per la
prima volta senza riserve, più uomo che cavaliere.
A dispetto dei suoi timori, fu di una semplicità disarmante avvicinarsi ad
Aiolia, prenderlo per le spalle e lasciarlo sfogare contro il proprio
petto, mentre le prime luci dell’aurora tingevano di rosa il mondo
intorno a loro e la notte svaniva.
Fu talmente semplice che quasi non ci credette.
Note
dell’autore
Allora.
É uno
Shaka davvero molto umano quello che ho presentato
in questa seconda parte del capitolo. Umano e, per certi versi, umile.
Troppo?
Nah. É più che altro la voglia di
discostarsi dal suo precedente atteggiamento – atteggiamento errato,
come ha
avuto modo di constatare a caro prezzo – a spingerlo ad agire in un
certo modo,
a chiedersi il perché delle cose, a non dare giudizi troppo affrettati,
a
tentare di lasciarsi andare.
Ovviamente
non gli basterà di certo una sola notte per
cambiare del tutto modo di essere: anzi, alcuni aspetti del suo
carattere
rimarranno i medesimi, sebbene mitigati, anche nel post battaglia delle
Dodici
Case. Sarà però l'ossatura di fondo, la
sua personale visione a mutare: ed è proprio da ora che comincia il
processo di
evoluzione, che Shaka avverte la necessità di rivedere la sua esistenza.
Una
notte di transizione e di acquisizione di
consapevolezze, che Virgo vivrà intensamente fino allo spuntar del sole:
questo
ho tentato di descrivere. Mi auguro di non essere uscita eccessivamente
fuori
dal seminato.
E ora
veniamo ad alcune precisazioni in merito ad
aspetti del capitolo meno generali:
- In
primis, mi sembra doveroso dare una ratio
all'atteggiamento di Milo.
Come ho
fatto dire ad Aiolia: «è… è distrutto. Tanto distrutto da non riuscire a nasconderlo». Non
sarà così per sempre, no: Scorpio – a parer mio –
possiede una forza interiore e una dignità straordinarie, lungi da me
sminuirle. Anzi.
Ma
adesso – e soprattutto dopo aver visto il corpo inequivocabilmente
senza vita di Camus – il peso della scomparsa di Aquarius lo immagino
per lui
insostenibile, tanto da farlo o, meglio, non farlo reagire. Diciamo che
è in
una fase di parziale rifiuto della realtà.
- «Piangerete
lacrime
di sangue, su quella verità che ora vi rifiutate di vedere»
(capitolo 7, parte I).
- «Pare
allora
che le nostre strade si dividano, per il momento: se un giorno
dovessero
tornare ad incrociarsi, forse saremo nemici. Forse dovremo batterci.
Spero che
ciò non avvenga mai, ma, se così non fosse, temo che sarò chiamato a
compiere
il mio dovere – nonostante il nostro legame» (capitolo 5).
- Il
flashback sulla mattina successiva alla Notte
degli Inganni: quanto da me descritto avrebbe dovuto, secondo la mia
immaginazione, avere luogo allo scadere degli ormai ultracitati sei mesi
di
reclutamento e pre addestramento al Santuario, e dunque Aiolia, Shaka
&co
dovrebbero avere qui circa 7 anni. Come spiegato nel – revisionato –
capitolo
I, gli aspiranti saints non orfani di nascita avevano l’onere di
scegliersi un
nuovo nome non appena raggiunto il luogo definitivo del loro
addestramento;
qui, dunque, Aldebaran e Camus – che io ho immaginato avessero
conosciuto i
propri genitori – erano ancora Paulo e Didier, mentre Milo, Aiolia
e Shaka, al contrario, non avendo una
famiglia da “rinnegare”, hanno sempre portato il nome scelto per loro
dal
personale facente parte del “Mondo segreto” – che opera dentro e fuori
il
Santuario di Atene.
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Capitolo 17 *** Capitolo 12, parte I: settembre 1986. Maia ***
Capitolo 12, parte I. Maia
Capitolo
12,
parte I: settembre 1986. Maia
Ho
sceso, dandoti il braccio, almeno
milioni di scale, e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.
Eugenio
Montale
Nelle
giornate terse non esiste sole
tanto brillante quanto quello che splende sul Santuario.
Sotto i raggi dell’astro diurno il Grande Tempio rifulge di una luce
tutta particolare, che può sembrare bianca, dorata o rossa a seconda
della zona
in cui ci si trova.
L’aura
sacrale che si espande dai
Dodici Presidi zodiacali, cuori pulsanti dell’intero sistema, oggi
mitiga
appena l’atmosfera stranamente serena e lieta proveniente
dall’Arena: è
mezzogiorno inoltrato, e tutti si stanno recando in mensa o al
villaggio per
consumare il pranzo prima di riprendere ognuno le proprie
occupazioni.
Solo
i cavalieri d’oro rimangono
ancora ad allenarsi, approfittando dello sfollarsi del campo dei
guerrieri di
grado inferiore e di giovanissimi allievi; qualcuno di questi ultimi
si attarda
un momento, con la speranza di assistere ad almeno uno scambio di
colpi di
quegli uomini i quali, ai loro occhi, assomigliano più a divinità
che non a
comuni mortali .
Maia,
dall’alto delle tribune,
sorride dello sguardo ammirato impresso sui volti dei bambini; lo
condividerebbe senz’altro, se non fosse che i destinatari di tanta
adorazione
sono gli stessi ragazzi con cui è cresciuta.
Non
che non si lasci anche lei
prendere dallo stupore nell’osservarli scontrarsi, talvolta: a dire
il vero, le
succede spesso di rimanere a bocca aperta di fronte a un’azione
particolarmente
riuscita. É
solo che conosce talmente bene i
fautori di tali prodigi da non essere più capace di scindere la
persona dal
Santo.
Ad
esempio, il feroce combattente in
procinto di lanciare il proprio colpo scarlatto è lo stesso Milo
che, due sere
prima, le ha rovesciato addosso la birra di proposito, e il suo
bellissimo
avversario non è diverso da colui il quale, nel vederla, le regala
sempre una
rosa e un saluto gentile.
Poco
lontano, ecco cadere a terra e
rialzarsi fulmineo il più irruento dei guerrieri e il più affettuoso
degli
amici, Aiolia di Leo; a lui ora si sta opponendo Mu dell’Ariete,
potente e
amabile in pari misura.
E
poi, c’è Camus.
Camus
di Aquarius, il gelido e altero
Esperto dei ghiacci che per Maia è caldo come il fuoco che arde tra
i suoi
capelli.
Camus
che è fatto di gravità e risate
inaspettate, di ferrea risolutezza e indecisione, di dolcezza e
distacco;
Camus, che un momento prima sembra non basti una vita a decifrarlo,
e un
momento dopo appare trasparente come cristallo – quando ti dà modo
di leggergli
dentro.
Se
fra i cavalieri d’oro ne esiste
uno al quale Maia non smetterà mai di guardare con meraviglia sempre
crescente,
quello è proprio l’Acquario: come non rimanere incantati dalle scie
azzurre dei
suoi attacchi, dalla sicurezza che trasuda ogni suo movimento, dal
modo fluido
che ha di scansare le offese avversarie?
Anche
adesso, nell’evitare i ripetuti
Sekishiki Meikaiha di Death Mask, pare che danzi.
L’ultimo
dei colpi va però a segno e
Camus, colto alla sprovvista, cade a terra; Cancer si abbandona
allora a una
sghignazzata di soddisfazione, poi gli tende la mano per aiutarlo a
sollevarsi
– lo scontro è finito.
Persino
da lassù la ragazza può
scorgere la lieve smorfia di disappunto dipinta sul viso del
francese, smorfia
che tuttavia scompare non appena si volta verso di lei e la vede: al
che, come
per magia, tutte le ombre si dissolvono e agli angoli della sua
bocca spunta un
sorriso luminoso.
Maia
ricambia con gioia quel saluto,
reso ancora più bello dalla spontaneità che l’ha caratterizzato; sta
per fargli
segno di raggiungerla quando, d’un tratto, la luce del sole si
oscura
improvvisamente e i dintorni precipitano nell’ombra.
Un
violento brivido di freddo
attraversa la schiena della giovane greca, che si stringe di
riflesso nella sua
giacca di jeans e alza un poco impaurita gli occhi al cielo, a
cercare la fonte
di quel cambiamento climatico tanto radicale. Non trova altro
colpevole che una
piccola nuvola in transito sopra di loro: una semplice, innocua nuvola bianca sospinta dal vento – che stupida, per un momento ha
temuto si trattasse di qualcosa di ben peggiore.
Scuote
forte la testa per liberarsi
da quella bizzarra sensazione di smarrimento, quindi torna a
rivolgere
l’attenzione in basso, ma Camus non è più là, e nemmeno nelle
immediate
vicinanze.
A
niente le giova esaminare con
apprensione l’intera Arena, soffermando lo sguardo sul campo di
terra purpurea,
sui gradoni, sulle entrate, persino dietro di lei: Aquarius sembra
scomparso
nel nulla.
Gli
altri, invece, sono ancora nella
medesima posizione in cui li aveva lasciati qualche secondo prima;
strano che
proprio lui se ne sia andato, per giunta tanto in fretta e di
nascosto.
Comunque
sia, non è affatto il caso
di farsi prendere dal panico per così poco… eppure.
Eppure
Maia, nell’aria, ora avverte
qualcosa che prima non c’era. O, per essere precisi,
qualcosa che
prima c’era e adesso non c’è più – come un filo che si è spezzato
nel silenzio.
Scende
svelta le gradinate, cercando
di ricacciare indietro la paura.
«Death
Mask!»
Il
cavaliere del Cancro alza gli
occhi dal suo panino, sorpreso e scocciato insieme per l’inattesa
interruzione.
«Cosa
vuoi? Non vedi che sto
mangiando?»
Normalmente
quella risposta ai limiti
della cortesia l’avrebbe irritata non poco, ma ora ha altro per la
testa.
«Sì,
scusami. Sai per caso dove sia
andato Camus?»
«Camus!?»
le risponde Cancer, con una
punta di sdegno nella voce «E cosa vuoi che ne sappia io, di Malpelo? Con tutti i suoi amici in giro, perché lo chiedi proprio a me?!»
Maia
lo guarda stralunata: sta
tentando di prenderla per i fondelli, come al solito. Peccato che
abbia
decisamente scelto il momento sbagliato.
«Vuoi
scherzare?! Solo pochi minuti
fa stavate lottando insieme!»
L’espressione
dell’italiano si è
fatta più strana parola dopo parola, tanto da risultare in bilico
fra
l’arrabbiato e il divertito; alla fine egli pare propendere per la
seconda
inflessione, perché scoppia a ridere.
«Pochi
minuti fa? Lottare, io e
Aquarius?! Maia, ragazza mia,» esclama, allungandole una pacca
piuttosto forte
sulla spalla «mi sorprendi positivamente: non ti facevo una che
beve,
soprattutto a quest’ora!»
«A
proposito:» aggiunge subito dopo,
ghignando «se ti serve un compagno di sbronza, sai dove trovarmi».
Poi
le dà la schiena e si allontana,
incurante dell’aria sconvolta della sua interlocutrice – la quale,
intanto, si
sta domandando chi fra i due sia uscito di senno, se lui o lei
stessa.
No,
non parlava sul serio: Maia li ha
visti combattere, ha prestato attenzione alla maggior parte del loro
scontro.
Death Mask le ha sicuramente detto una sciocchezza, tanto per ridere
alle sue
spalle.
Bah,
non importa: ha semplicemente
chiesto alla persona meno indicata, tutto qui.
Non c’è assolutamente niente che non vada.
«Camus?
No, mi dispiace, non l’ho
visto».
«Come
non sai dove sia? Io pensavo
fosse con te!»
«É
strano che Camus salti gli
allenamenti quotidiani. Sono l’unica cosa che lo fa uscire di casa
di buon
grado. Hai provato a chiedere a Milo?»
Nonostante
la situazione continui a
sembrarle paradossale, al solo udire il nome di Milo l’angoscia di
Maia si
stempera notevolmente; lui sa sempre dove trovare Camus, quasi abbia
una specie
di apposito radar. E poi è la persona in cui ella
ripone più
fiducia al mondo, in qualunque circostanza.
«Secondo
me, il principio è il
medesimo».
«Ti
dico di no! Le nostre tecniche
non hanno nulla a che vedere l’una con l’altra: tu lanci rose
velenose, e io…
beh, ora che ci penso bene, forse… »
«Milo».
Sentendosi
chiamare, Milo distoglie
lo sguardo da Aphrodite – col quale sta discutendo di chissà cosa –
e si gira
verso Maia: ha il chitone da allenamento sporco di terra e un
piccolo taglio
sulla spalla sinistra. Qualche ciuffo biondo, sfuggito con facilità
all’elastico della coda, gli ricade morbido sul petto; curioso come
in pochi
secondi si possano notare tanti dettagli.
«Maia!
Ti ho visto sugli spalti,
prima. Non dovresti scendere fin quaggiù, qualcuno potrebbe colpirti
per
sbaglio. Te l’ho già detto mille vol-»
«Milo,
ti devo parlare».
Colpito
dalla serietà della ragazza,
Scorpio fa un breve cenno al cavaliere dei Pesci e poi la conduce
poco più in
là, al riparo da orecchie indiscrete.
«Cosa
c’è?» domanda, preoccupato «Ti
vedo agitata».
«Io-»
esita quella, non sapendo bene
come spiegargli l’accaduto.
Alla
fine decide di non girarci
troppo intorno, ed esclama: «Io non riesco a trovare Camus. Un
minuto prima era
lì, in mezzo all’Arena, e un minuto dopo… puf. Scomparso nel nulla.
E la cosa
che più mi preoccupa è che nessuno, tranne me, pare averlo visto! Ma
lui c’era,
ne sono sicura! Ti prego, Milo, dimmi che almeno tu sai dove sia
andato!»
«Oh…
stai cercando Camus».
Nel
dirlo il suo tono ha perso tutta
l’enfasi di cui prima era permeato; persino l’espressione del viso è
mutata,
come se fosse rimasto deluso. Ma da cosa?
«Sì,»
conferma Maia, impaziente «te
l’ho già detto. Perché, che ti aspettavi?»
Milo
fa spallucce e non risponde;
continua a fissarla in silenzio, in un modo che la inquieta
ulteriormente. Lo
scuote per un braccio, ormai prossima
all’isterismo: «Insomma! Lo sai, sì o no?!»
«Sì!»
sbotta infine Scorpio,
svincolandosi stizzito dalla presa di lei «Lo so. Ma non credo che
debba
interessarti. Non più, almeno».
«Come?!»
«Oh,
andiamo, Maia! Affronta la
realtà: Camus non fa per te! É meglio se lo dimentichi».
«Si
può sapere cosa diavolo stai farneticando?!
Avanti, Milo, non ho più voglia di giocare. Dimmi dov’è Camus!
Subito!»
Lui
la guarda ancora in quella
maniera strana, poi sbuffa: «D’accordo. Se proprio ci tieni, te lo
dirò. Però
devi giurare che resterà un segreto fra te e me».
La
giovane acconsente subito,
smaniosa di porre finalmente termine a tutte le assurdità
dell’ultima mezz’ora:
«Lo giuro».
«Ecco,
vedi,» le sussurra quindi complice,
tendendo le labbra verso il suo orecchio «io … io l’ho ucciso».
«Che
cosa?!»
In
un momento normale non avrebbe
dubitato nemmeno per un secondo della falsità di quell’affermazione;
tuttavia,
adesso…
«Ah,
non devi ringraziarmi» ammicca
Milo «L’ho fatto anche per me, sai? Così ora potremo stare insieme!»
Gli
occhi gli brillano di una luce
malata – una luce che non mente. L’ha fatto sul serio. L’ha fatto, e
ne è pure
felice.
Maia
si scosta da lui violentemente,
inorridita. Ha paura.
«M-ma,
Milo… c-come, quando?»
«É
stato un gioco da ragazzi; gli
altri non se ne sono neanche avveduti. Non penso che faranno domande
in
proposito» sorride soddisfatto, guardandosi attorno con noncuranza
«Camus si
riteneva tanto importante, ma in realtà non lo era affatto. É stata
sufficiente
una nuvola bianca a cancellarlo».
Nel
gesticolare, ha alzato le mani –
sono mani sporche di sangue.
Dèi
del cielo, ha le mani sporche di
sangue. Come ha fatto a non accorgersene prima?
La
giovane non ha più voce per
parlare, né parole per pensare. L’unica cosa che
riesce a fare è
fissare il suo migliore amico con gli occhi sgranati e il cuore
ammutolito
d’orrore. Quella nuvola bianca…
«Perché?»
esala alla fine.
«Come
perché? Perché io ti amo, Maia!»
No,
questo è troppo da sopportare.
Davvero troppo.
Maia
indietreggia ancora, sfuggendo
per poco alle braccia che Scorpio ha teso in avanti; il sorriso di
lui si è
trasformato in un largo ghigno.
Il
sangue inizia a colargli dalle
dita impregnate, per poi gocciolare a terra con un ticchettio
meccanico:
fissarlo, voltarsi e iniziare a correre è un attimo.
Le
gambe, come animate di vita
propria, procedono senza direzione precisa. Al pari della loro
proprietaria,
vogliono solo allontanarsi da lì – fuggire il più lontano possibile.
«Aspetta,
dove stai andando?! Maia!
Maia!»
«Maia!»
«Vi dico che ha aperto gli occhi! È stato solo un momento, ma io l’ho
visto chiaramente!»
«Va bene Al, abbiamo capito! Non serve che tu lo ripeta di nuovo!»
Parole lontane la sottrassero pian piano al torpore, senza tuttavia
riuscire a squarciare il velo in cui le sembrava di essere avvolta.
Era tremendamente confusa, e quel cicaleccio indistinto non faceva altro
che peggiorare la situazione; ogni suono giungeva alle sue orecchie
distorto,
amplificato a dismisura. Aveva come l’impressione che di lì a breve le sarebbe
scoppiato il cranio.
«Abbassate il tono, per cortesia. Nessuno è sordo qui dentro – non
ancora» si levò all’improvviso una voce, perentoria. Shaka?
«Maia. Mi senti?»
«Sì, Shaka, ti sento» avrebbe
voluto rispondere lei – se solo non avesse avuto la gola così riarsa.
Attraverso le palpebre semichiuse vedeva spostarsi delle ombre a cui non
sapeva dare contorno preciso; provò ad aprirle un po’ di più, ma la
luce le
ferì gli occhi.
«Nessuna reazione, a parte lo sbattere delle palpebre» constatò Virgo da
qualche parte sopra di lei «Non riesco neppure a capire se sia
sveglia».
«È strano, però. Il dottore ne aveva escluso la possibilità, eppure è
febbricitante da quasi due giorni».
«Il dottore si è sbagliato, Mu. Non dubito della competenza del signor
Savasta, ma in questo caso pare abbia commesso un errore di calcolo».
Gli strascichi dell’incubo – lo era stato davvero, solo un incubo? – la
fecero sussultare appena, nel riconoscere il timbro profondo di Milo.
Che ci facevano tutti lì? Cosa era successo? E perché stavano parlando di
dottori e febbre? Non riusciva a comprendere, non riusciva a concentrarsi: la testa le
pesava come un macigno.
«Ancora un momento a occhi chiusi»
pensò, mentre il buio tornava a circondarla «Solo un altro momento… »
Luce. Luce che
entra dalle finestre spalancate del soggiorno, e che sembra portarsi
dietro
qualche cosa dello sterminato rettangolo azzurro visibile
all’esterno; un
sottile refolo di vento fa danzare sui vetri le tende di lino bianco
in
movimenti delicati e sinuosi.
Maia
si guarda attorno meravigliata,
tentando di abbracciare l’intero ambiente con un’unica occhiata:
sono sempre
stati così ariosi gli appartamenti privati dell’Undicesimo Tempio?
«Maia».
Il
richiamo la spinge a voltarsi: lo
fa lentamente, perché già sa a chi appartiene quella voce – la
riconoscerebbe
fra mille.
Camus
è sulla soglia della piccola
cucina, con indosso una maglietta marrone e il migliore dei suoi
sorrisi.
«Camus.
Sei qui. Sapessi quanto ti ho
cercato!» esclama alla fine lei, stranamente rilassata: gli eventi
succedutisi
appena poco prima adesso sembrano appartenere a una vita passata.
L’Arena, la nuvola bianca, Milo... ancora non sa spiegarsi nulla, eppure
non le importa più.
Ha
trovato ciò che desiderava, e
tanto basta.
Aquarius
risponde tendendole i palmi
distesi; la ragazza li afferra senza esitare, stringendoli come se
non volesse
più separarsene.
Si
siedono lentamente al tavolo, l’uno
di fronte all’altra, e rimangono immobili a fissarsi.
I
capelli rossi, le labbra sottili,
il lungo collo bianco, le piccole lentiggini appena visibili agli
angoli del
naso: dettagli di Camus che Maia conosce a memoria, ma che ora
paiono risaltare
maggiormente rispetto al consueto, a rendere la visione di insieme
più bella di
quanto non sia mai stata. Gli occhi specialmente
gli brillano in maniera intensa: le pagliuzze castane scintillano
quasi, in
mezzo all’iride dorata.
Sarà
forse merito di quella luce
anomala, impregnata d’azzurro? Oppure sono solo suggestioni dettate
dalla gioia
di essere lì con lui?
«Sei
bellissimo» si lascia sfuggire
in un soffio, incurante del leggero astio che il suo compagno nutre
verso i
complimenti – si sente troppo libera, troppo in pace per
preoccuparsi di
simili, irrilevanti proforma.
«Anche
tu sei bellissima». Nessun
mugugno, nessuna smorfia. Incredibile.
É
tutto come… come in un sogno.
Camus
si sporge un poco in avanti e,
staccando una mano dalla presa di lei, le accarezza la guancia: Maia
socchiude
le palpebre alla maniera dei gatti, godendosi il contatto fresco
delle sue dita
sulla pelle del volto. Le piacerebbe rimanere lì per sempre.
«Chérie».
A
dispetto del nomignolo, stavolta il
tono dell’Acquario è suonato più duro; la giovane spalanca gli
occhi, di colpo
nuovamente all’erta.
«È
tempo che tu torni indietro. Gli
altri sono preoccupati per te».
«Tornare
indietro? Gli altri? Che
significa?»
Nel
pensare ai loro amici le vengono
in mente con chiarezza le parole di Milo, nitide come se fossero
appena uscite
dalla sua bocca.
«É
stato un gioco da ragazzi; gli altri non se ne sono neanche
accorti. Non penso
che faranno domande in proposito: Camus si riteneva tanto
importante, ma in
realtà non lo era affatto. É stata sufficiente una nuvola bianca a
cancellarlo».
Era
stato solo uno scherzo per
spaventarla, alla fine.
Eppure,
dopo aver visto lo sguardo di
Scorpio e posato gli occhi sulle sue mani sporche di sangue, lei non
ne è
troppo sicura.
«Cam,
ascoltami: c’è una cosa che
devo dirti. So che ti sembrerà assurdo, m-ma ti consiglio di stare
attento a
Milo» dichiara, sputando fuori il nome dello Scorpione con estrema
fatica.
In
risposta, l’Acquario prorompe in
una risata composta – non la sta prendendo sul serio, è evidente.
«Camus,
non sto scherzando! É
complicato da spiegare, tuttavia tu devi fidarti di me! Non l’avevo
mai visto
in uno stato simile … pareva convinto di averti ucciso!»
«Lo
so».
La
sicurezza, la noncuranza con cui
ha affermato quel “Lo so“ lasciano Maia totalmente spiazzata.
«Come,
lo sai? Tu non ti rendi
conto-»
«Conosci
Milo,» la interrompe lui,
tranquillo come se stessero parlando del tempo «sai che tende sempre
a
esagerare. Dentro di sé è davvero convinto di avermi causato la
morte. Starà a
te convincerlo che così non è stato: in fondo hai promesso di
stargli accanto,
ricordi?»
No,
Maia non ricorda nulla, non
comprende nulla; sente di nuovo crescere l’apprensione e non sa come
fermarla.
«Io
non so di cosa tu stia parlando».
«Capirai,
tesoro: capirai».
Adesso
la figura di Camus è talmente
avvolta dalla luce da sembrare evanescente – è proprio strano, pensa
di
sfuggita la ragazza, dal momento che dietro di lui non c’è nessuna
finestra.
Aquarius
si alza in piedi e lei lo
imita spontaneamente, avvicinandosi fino a poterlo cingere per la
vita.
Il cavaliere ricambia l’abbraccio e la guarda in faccia per lunghi,
silenti attimi; infine, mormora: «Ora vai, ti stanno aspettando.
Loro hanno
bisogno di te più di quanto non ne abbia io».
Un
sorriso singolare gli sale alle
labbra, un po’ malinconico e un po’ sereno, fatto di rimpianto e
consolazione
insieme.
«Vai.
E non smettere mai di guardare
il cielo: io sarò lassù. Veglierò su di te dall’alto, attraverso la
luce delle
stelle. Au revoir,
Maia».
Un’ultima
stretta, un ultimo sguardo;
poi tutto si dissolve in una nuvola d’azzurro.
«Ca
…»
«… mus».
Fu destata dal suo stesso sussurro, che la riportò alla realtà in modo
repentino e improvviso. Un risveglio limpido, pulito, di quelli che
spazzano
via tutti i resti di sonno.
A rompere il generale silenzio attorno a lei solo il ronzio di una mosca
e rumori lontani, quasi impercettibili.
Maia rimase un attimo immobile ad assaporare la strana quiete che la
pervadeva: le pareva di aver fatto un bel sogno, pieno di luce, ma non
riusciva
a ricordarselo.
Quando aprì gli occhi non riconobbe subito il soffitto bianco che attirò
il suo primo sguardo, né il vecchio comò di legno scuro alla destra
del letto;
le ci vollero qualche secondo e il leoncino di peluche sulla scrivania
per
realizzare di essere nella stanza di Aiolia. Il perché vi si trovasse,
però, le
rimaneva del tutto oscuro.
Rammentava confusamente di aver avuto la febbre alta e poi più nulla,
come se fosse in preda a una specie di amnesia.
«Aiolia» gracchiò, cercando di mettersi eretta «Aiolia!»
Niente. Forse non si trovava in casa; da quel che poteva vedere dalle
imposte lasciate socchiuse, fuori era giorno pieno.
«Ai-»
«Maia!»
La porta si aprì di scatto, e Aiolia comparve sulla soglia.
Era senz’altro nato sotto il segno giusto: mai una volta che lo sentisse
arrivare, tanto aveva il passo leggero e felpato.
«Maia,» ripeté Leo, andando a sedersi sul letto in modo quasi affettato
«quando ti sei svegliata? Come ti senti? É da molto che mi cerchi?»
«Caspita, quante domande!» rise debolmente lei, lasciando che il ragazzo
la sollevasse appena per tastarle la fronte «Cos’è, un
interrogatorio?»
«La febbre sembra essersene andata: sei fresca» dichiarò ‘Lia, senza
raccogliere la battuta; poi, di colpo, l’abbracciò.
«Tu non sai, non sai… che
sollievo…
eravamo così in ansia!» continuò, aumentando la stretta a ogni parola
«Santo
cielo, Maia, abbiamo davvero temuto di perderti!»
Maia, turbata dalla gravità dell’affermazione, scostò un poco il viso per
osservare quello del suo amico, che le parve più pallido del consueto:
aveva i
capelli arruffati e le occhiaie tipiche delle notti insonni.
Non era facile
sorprendere il
cavaliere del Leone – qualsiasi cavaliere, a dir la verità – in un
simile stato
di evidente stanchezza. Cosa diavolo era accaduto di tanto grave?
Prima che potesse chiedergli alcunché, egli balzò in piedi
improvvisamente.
«Devo andare ad avvisare gli altri;» esclamò, lo sguardo rivolto verso la
porta «non è necessario che rimangano ancora in pena inutilmente».
Gli altri…
«È tempo che tu torni indietro. Gli altri sono preoccupati per te».
Il bel sogno che rammentava di aver fatto adesso le stava tornando alla
memoria velocemente. Quella frase bizzarra… ma dove era Camus, a
proposito?
Avrebbe dovuto essere lì.
«Aiolia, aspetta:» lo fermò, proprio mentre stava per sparire dalla sua
vista «non me ne voglia il resto del gruppo, però… potresti chiamare
Camus per
primo? Vorrei passare qualche minuto da sola con lui, se possibile. É
che l’ho
sognato, e-»
A quelle parole Aiolia si girò lentamente, una mano stretta sullo
stipite; il velo di tristezza e pietà che gli appannò per un attimo
gli occhi
verdi le fece gelare il sangue nelle vene.
«Camus?» chiese, smarrito «Maia, cosa ricordi di quanto accaduto,
esattamente?»
«Ricordo di essere stata male» rispose la ragazza, con una punta di paura
annidata nella voce «E poi, non so… ho l’impressione di avere un
gigantesco
vuoto di memoria. Ma perché, cos’è successo?»
«Oh, Dèi, aiutatemi,» mormorò Leo a fil di labbra «datemi la forza».
Maia lo guardò tornare a sedersi accanto a lei, senza capire il senso di
quell’invocazione; il timore di ciò che stava per sentire la spinse
irrazionalmente ad indietreggiare, tanto che si ritrovò con la schiena
schiacciata alla tastiera del letto.
«Che è successo, ‘Lia?» lo interrogò ancora, artigliando le coperte che le
arrivavano alla vita «E dov'è Camus?»
Di nuovo quella maledetta domanda: non sapeva perché, ma le sembrava di
ripeterla da un’infinità di tempo.
Aiolia le prese le mani e l’attirò a sé, nonostante le sue timide
resistenze – gesto che, lungi dal rassicurarla, la gettò maggiormente
nel
panico: aveva visto troppa gente annunciare cose brutte in maniera
simile per
non allarmarsi.
«Maia… » iniziò il Leone, cauto come se stesse soppesando ogni sillaba
«possibile che non ti sovvenga proprio nulla? L’invasione dei
cavalieri di
bronzo, la scalata, l’Undicesimo Tempio, Hyoga di Cignus… »
Hyoga
di Cignus.
Bastò quel nome e ogni singolo dettaglio le si riaffacciò alla mente con
un’esattezza indicibile – insieme al freddo. E all’orrore.
Camus allungò un braccio verso l’alto, con impressa nel volto la
meraviglia di chi finalmente riesce a vedere aldilà del reale.
«Maia, guarda quella luce… c’est si belle, n’est pas?»
Poi quello stesso braccio gli ricadde su un fianco, e lui non si mosse
più.
Quando Maia tornò a guardarlo in viso la luce aveva abbandonato le sue
iridi per sempre, lasciandole spalancate a fissare il vuoto in
modo quasi
grottesco.
Che fine indegna per degli occhi fatti di sole come quelli – che sacrilegio.
In preda allo shock la ragazza si alzò di scatto, privando la testa di
Aquarius del sostegno su cui prima poggiava; quel bel cranio
sbatté sul duro
marmo del Tempio con un tonfo sordo che le strappò un grido di
dolore.
«Perdonami, Camus!» singhiozzò, gettandosi di nuovo accanto al cadavere e
prendendo ad accarezzargli i capelli «Mi dispiace, mi dispiace… mi
dispiace!»
Rimase in tale posizione per un tempo che le parve lunghissimo, senza
smettere di toccare quello splendido corpo che non sarebbe mai
invecchiato,
nonostante il freddo si fosse ormai fatto insopportabile.
La
parte razionale del suo cervello
sapeva che non sarebbe dovuta rimanere lì ancora per molto: le
mani le si erano
già fatte completamente blu e le gambe erano talmente intorpidite
da risultare
pressoché inservibili, tuttavia non le interessava.
L’uomo che aveva amato – che amava – giaceva a terra, indifeso, e lei non
poteva abbandonarlo proprio adesso. Poco contava che fosse morto.
Alla fine, vinta dalla prostrazione e dal gelo, si distese sopra di lui
col
capo abbandonato sulla sua spalla. Aveva smesso persino di
tremare.
Non si curò nemmeno del suono di passi e di voci che dopo un po’ le
giunse ovattato alle orecchie: lasciò semplicemente che si andasse
a confondere
coi contorni sempre più sfumati dell'Undicesimo Tempio, finché
tutto si fece
silenzio e tenebra.
«Maia, ti senti bene?»
La voce di Aiolia la strappò da un abisso dal quale, senza, forse non
sarebbe riuscita a risalire; Maia lo guardò stralunata per un attimo,
prima di
rendersi davvero conto della verità – Camus era morto. Morto.
«Mortomortomortomort-»
«No».
«Come?»
«NO!» urlò lei, liberandosi dalla presa di Leo con una forza che solo la
disperazione fu capace di donarle «No che non sto bene! E come potrei?
Camus è
morto, Aiolia! MORTO, LO CAPISCI?!»
Si sentì pervadere da una rabbia così potente da non poterla controllare
– una furia cieca che, dimenticata del tutto la precedente debolezza,
la spinse
a levarsi in piedi e a cominciare a girare freneticamente in tondo per
la
camera, ansimante.
«Maia, ascoltami… »
«STÁ ZITTO! Devo pensare» ringhiò, torcendosi le dita «Devo pensare…
pensare… »
Ma pensare a cosa? Non c’era nulla che potesse fare. Niente a cui
aggrapparsi, nessuno a cui chiedere aiuto. Solo quella immutabile,
lancinante
consapevolezza.
«Camus è morto. Ucciso,
assassinato. Morto. E io,
invece,
sono ancora viva».
Le mancava l’aria, non riusciva a respirare.
Si buttò quindi nel corridoio, a cercare un minimo di sollievo; tuttavia,
fatto qualche passo, le gambe non la ressero più e franò a terra. Le
esplosioni
di collera che fino a poco prima le avevano sconvolto le viscere si
trasformarono ben presto in violenti conati – conati a vuoto, ché
nello stomaco
non aveva cibo da rigettare.
Mentre vomitava saliva sulla lunga maglietta rossa che qualcuno doveva
averle messo addosso durante la sua incoscienza, avvertì la presenza
di Aiolia
accovacciato a fianco a lei.
«Brava, Maia, butta fuori» disse egli dolcemente, scostandole i capelli
sudati dalla faccia «Butta fuori tutto, e poi vedrai che starai
meglio».
Quando le contrazioni cessarono era tanto spossata da non riuscire né a
stare eretta né tantomeno a sollevarsi; si rannicchiò allora contro il
petto
del Custode del Quinto Tempio, permettendo alle lacrime che gli
annebbiavano la
vista di uscire.
«’Lia,» soffiò poi inaspettatamente, irrigidita da un nuovo, atroce
dubbio «chi altro, oltre a-a Death Mask, Shura e… e Camus… ?»
«Non preoccuparti di questo. Presto saprai tutto» rispose lui, un bacio
carezzevole sulla fronte «Riposa, adesso».
Avrebbe voluto chiedere di più, ma le palpebre le si andarono facendo via
via sempre più pesanti; cadde addormentata ancor prima che Aiolia
l’avesse
messa a letto.
Continua
...
Note
dell’autore
Dopo
tanto finalmente torna in scena il punto di vista di quella che, almeno
teoricamente, sarebbe la protagonista dell'intera storia: Maia.
Ero
indecisa sul personaggio a cui assegnare il capitolo immediatamente
susseguente
alla notte dopo la battaglia delle Dodici Case – se sulla suddetta Maia
o su
Milo. Come avete potuto constatare, la scelta è ricaduta sulla prima. Un
po'
perché, appunto, era tanto che non le dedicavo un po' di spazio, un po'
per
esigenze di copione.
Questa
prima parte dell'aggiornamento si colloca nell'arco delle 48-72 ore
successive
alle vicende del capitolo 11, e si svolge perlopiù nella dimensione
onirica; un
unico sogno, frammentato, che assume un significato più o meno preciso,
specie
per quello che riguarda il supposto ruolo di Scorpio nella morte di
Camus.
La
faccenda è qui rielaborata dal subconscio di Maia – che, come si vedrà
meglio
successivamente, è già sommariamente informata di ciò che è successo
prima
dello scontro fra Aquarius e Hyoga –, ma riflette una ancora non ben
definita
posizione in merito della ragazza.
Venendo,
poi, alla scena ambientata nelle stanze private dell’Undicesimo Tempio:
sogno
anch'esso, o qualcosa di più? A voi decidere come meglio vi aggrada!
Che
dire di più? Mi auguro che gradiate il capitolo e che continuiate ad
accordarmi
la vostra indulgenza: vi assicuro che di impegno – mentale e non – ce ne
metto.
In modo mooolto saltuario, ma ce ne metto.
Bisous
bisous!
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Capitolo 18 *** Capitolo 12, parte II: 24 settembre 1986. Maia ***
Capitolo 12, parte II. Maia
Avvertenze:
Ero
arciconvinta che un momento simile non sarebbe mai giunto; che questa
storia
fosse destinata a rimanere per sempre al punto in cui l’avevo lasciata sei
– cielo, mi sta venendo un malore –
anni orsono.
E
invece, contro ogni pronostico, rieccomi qui: proprio vero che per noia
si
compiono le imprese più impensate!
Cosa
molto importante: ho
finalmente revisionato da cima a fondo Sorella Morte, riscrivendo i
capitoli
iniziali di sana pianta e aggiungendo addirittura un secondo prologo –
che si
trova nello stesso capitolo del primo.
Le
linee generali della trama non hanno subito mutamenti sostanziali (tante
grazie, è incentrata su quella originale XD), ma ho “uniformato” il tono
della
narrazione e inserito diversi dettagli in più: qualora ci fosse qualche
anima
pia che, all’epoca, seguiva questa storia, le consiglio vivamente di
tornare
indietro a dare un’occhiata.
Avevamo
lasciato Maia a fare i conti con la consapevolezza della morte di Camus;
in
questa seconda parte qualche nodo comincia a venire al pettine –
ingarbugliando
ancora di più la situazione, invero.
Orbene,
a
voi (alleluia); ci vediamo dabbasso!
Capitolo
12,
parte II: 24 settembre 1986. Maia
Dacché ricordava, Maia aveva sempre avuto a che fare con le scale.
Nel corso della sua breve vita doveva aver sceso e salito almeno un
milione di gradini – talmente tanti che, ormai, non si lasciava
spaventare
nemmeno dalle rampe più ripide. Era un’eredità propria di tutti quelli che potevano
dire di essere cresciuti al Santuario di Atena, e lei non faceva
eccezione.
Ma quel giorno fu diverso; non per le gambe che ancora la sorreggevano
malvolentieri, né tantomeno per il terreno crepato o i detriti
ammassati alla
rinfusa ai lati della via.
No, quello c’entrava poco o nulla.
Tutto il peso, tutto l’affanno che sentiva le derivavano dal pensiero
della destinazione, dalla consapevolezza del posto a cui quella
particolare
scala conduceva; un luogo, visitato tante volte per ragioni di studio,
dove mai
avrebbe desiderato recarsi per il motivo che adesso l’animava.
Eppure doveva – voleva – farlo.
Che il suo stomaco, il suo cuore e tutti i Gold saints del pianeta
protestassero pure: lei aveva tutto il diritto di rivederlo – di
dirgli addio
una volta per sempre. Niente le sembrava più importante,
al
momento.
«No, Maia» le aveva detto Aiolia la sera prima, rispondendo alle
sue richieste «Mi spiace, ma non potrai partecipare alle esequie. Non ti sei ancora
rimessa del tutto: assistere a una cerimonia del genere non
gioverebbe affatto
al tuo stato. Non vogliamo correre rischi inutili».
Maia l’aveva guardato stancamente, senza nemmeno tentare di ricercare
l’appoggio degli altri presenti – giacché sarebbe stato perfettamente
inutile:
pur avendo caratteri e punti di vista fra loro diversissimi, in quel
frangente ‘Lia,
Milo, Shaka, Mu e Aldebaran stavano dimostrando una stupefacente
identità di
pensiero.
L’aveva guardato stancamente, sì, e si era voltata verso la parete,
rimanendo
fissa in quella posizione così a lungo da troncare sul nascere ogni
eventuale
apologia; non possedeva la forza di polemizzare e, comunque, nella sua
testa
era già tutto programmato.
Così, la mattina dopo quel colloquio, aveva atteso che i cavalieri
prendessero
parte alla riunione indetta da quella
ragazzina nelle stanze della Tredicesima Casa rimaste ancora in
piedi; poi,
con la scusa di aver bisogno di riposare, aveva altresì fatto in modo
di
allontanare dal suo capezzale sia il personale di servizio della
Quinta Casa,
sia Clio.
Un po’ più difficile era stato togliersi di torno nonna Frandra.
La vecchia signora era così preoccupata per la nipote che, nel corso
della sua malattia, raramente l’aveva lasciata sola per più di qualche
ora: al
fine di convincerla a rientrare a Rodorio, Maia aveva dovuto persino
trattarla
male. Le
aveva
rivolto parole dure, maledicendo tutta la sua famiglia per averla
costretta a far parte di un mondo che, lungi dall’essere “Un luogo delle fiabe”,
si
era invece rivelato un vero e proprio inferno di sangue, morti e
devastazione – un mondo da cui, alla luce degli ultimi eventi, lei
voleva
soltanto allontanarsi.
Che lo pensasse sul serio o meno, aveva comunque raggiunto lo scopo di
essere lì a barcollare di nascosto lungo la gradinata più triste e
appartata
dell’intero Grande Tempio – quella che, inoltrandosi nelle profondità
della
roccia, collegava direttamente l’ospedale da campo all’obitorio.
“Un cavaliere di Atena non è
destinato ad invecchiare”:
quanto spesso avesse sentito pronunciare questa frase, Maia non
avrebbe saputo
dirlo. Lì dentro la ripetevano tutti come fosse un
mantra in grado
di giustificare qualsiasi scempio, anche quello di dover riporre in
dei sacchi
neri i corpi senza vita di bambini o di uomini e donne poco più che
ragazzi.
Lei, in qualità di aspirante medico, si era sempre imposta di non
concentrarsi troppo sull’a-moralità di tutto ciò che vedeva,
limitandosi a
svolgere il proprio dovere col distacco scientifico richiesto alla sua
professione; eppure, nel riconoscere in quei cadaveri persone con cui
aveva
avuto a che fare fino al giorno precedente, sovente le erano tremate
le mani.
Mai prima di allora, però, si era trovata a odiare di un odio tanto
viscerale quelle poche e semplici parole, che le stavano adesso
esplodendo nel
cervello alla stregua di uno dei dodici fendenti zodiacali: Un
cavaliere di Atena non è destinato ad
invecchiare.
Era stata un’ingenua a pensare che tale assunto non avrebbe mai
riguardato coloro ai quali teneva di più, a credere che la prima linea
del
fronte – quella dei cavalieri d’oro – sarebbe per sempre rimasta
intatta: i
Gold saints erano carne da macello come e più degli altri, e i fatti
recenti
l’avevano ampiamente dimostrato.
Lo stato di lutto proclamato a seguito della battaglia le permise di
arrivare a destinazione senza intoppi; ogni attività era stata infatti
rimandata a dopo la cerimonia funebre, per cui non aveva trovato
difficoltà a
sgusciare via dalle stanze di Aiolia e giungere sin lì senza
incontrare
nessuno.
Arrivata dinanzi al portellone della sala mortuaria, Maia dovette
appoggiarsi alla parete per non cadere; l’energia che l’aveva sorretta
sino a
quel punto sembrava essersi di colpo volatilizzata, lasciandola
impaurita e
sola come non lo era mai stata. Le sembrava di essere tornata alla mattina di dieci
anni prima, quando, svegliata dallo squillo del telefono, si era
recata in
salotto e aveva trovato nonna Frandra seduta a terra con la cornetta
tra le
mani e lo sguardo assente di chi ha appena ricevuto una notizia
irreparabile.
«Maia, tesoro. Vieni qui, vieni vicino a me: devo dirti una cosa.
Promettimi di essere forte».
La morte dei suoi genitori era stata dura da mandar giù. Aveva
sempre
faticato ad accettare che il Santuario si fosse inghiottito il sorriso
di mamà e la voce calda di bampàs, sputando in cambio
una misera
menzione d’onore e tante condoglianze; e tuttavia, in virtù del
fioretto fatto
a sua nonna, si era consolata al meglio delle sue possibilità,
pensando che i
fulmini si abbattono anche sugli aerei normali.
Ma cos’aveva di normale quello che era successo pochi giorni addietro?
C’era
forse qualcosa di naturale
nel
vedersi spirare fra le braccia il proprio amante, assassinato col
beneplacito
della divinità che pure aveva servito tutta la vita?
No. Non c’era nulla di normale, nulla di naturale, nulla di giusto.
Con la mente annebbiata da questo pensiero, spalancare i battenti
dell’obitorio e varcarne la soglia si rivelò più semplice del
previsto; una
volta dentro, tuttavia, fu di nuovo a un passo dal crollare.
Il freddo intenso, la luce azzurrognola delle lampade a neon, il silenzio
irreale – l’Undicesimo Tempio,
il
ghiaccio scintillante fra le colonne, l’odore di morte.
Maia si costrinse a tornare alla realtà conficcandosi le unghie nei palmi
fino a farli sanguinare: non poteva cedere adesso. Quella era la sua
ultima
occasione, e non l’avrebbe sprecata per colpa di uno stupido attacco
di panico.
Dopo avrebbe avuto tutto il tempo che voleva per gettare la spugna e
abbandonarsi alle pulsioni più miserande.
«Per buttare fuori tutto lo schifo
che sento. Sommergerne il mondo intero».
Quando i battiti cardiaci le si furono riassestati, la ragazza prese ad
avanzare lentamente lungo l’enorme stanzone spoglio, composto da più
locali; il
primo di questi era adibito alle autopsie, mentre il secondo conteneva
le celle
frigorifere.
Data l’imminenza delle esequie i corpi erano stati lasciati sui tavoli,
pronti per essere prelevati; a giudicare dallo stato delle salme – «integre,
pulite. Come dei pupazzi» – il
personale addetto doveva aver già proceduto alla loro composizione.
A dispetto della convinzione che la Morte renda tutti uguali, i cadaveri
si presentavano al contrario disposti in modo strettamente gerarchico.
Maia
sfilò di fianco ad alcuni soldati semplici e al mancato cavaliere di
Pegasus,
riservando loro poco più di un’occhiata; tuttavia, non le riuscì di
ignorare
allo stesso modo le spoglie di Saga di Gemini.
Un dio fattosi uomo, esattamente come lo ricordava: solo qualche ruga
agli angoli della bocca tradiva il tempo trascorso, rivelando al mondo
che
certe maschere ti plasmano più dello scorrere di mille stagioni.
Incredibile che nessuno se ne fosse accorto. Inconcepibile
che un assassino avesse regnato sul Santuario di Grecia per tutto quel
tempo,
senza che una sola voce – se non quella, inascoltata, di Aiolos di
Sagitter –
si fosse levata a protesta.
No, nonostante lo squarcio al centro del petto Arles non aveva pagato abbastanza: a fare le spese delle sue colpe erano
stati chiamati anche i compagni a lui più fedeli – tutti e tre: Death
Mask,
Shura e Aphrodite.
E poi, lui.
«Je suis désolé, j’ai été impoli. Donc, tu t'appelles comment?»
«Non mi chiamo più così da molto tempo. Adesso sono Camus».
«No di certo. Non cambierei una cosa come questa nemmeno per tutto l'oro
del mondo».
«Ciao, chérie!»
«Rimani. Rimani con me. Non andare».
«Ci riabbracceremo presto, vedrai».
Camus indossava uno dei suoi semplici, banali chitoni da allenamento;
oltre che della vita, l’avevano depredato anche dell’armatura di
Aquarius – un
cadavere non è più buono a nulla, tantomeno a combattere. Giusto?
Maia gli sfiorò i lunghi capelli rossi, rimirandone il viso disteso: le
sue rade lentiggini si stagliavano nitide in mezzo al pallore ceruleo
e le
labbra erano lievemente dischiuse.
Sembrava che dormisse – sembrava.
«Svegliati, Camus. Ti prego, svegliati!»
Il desiderio di vederlo aprire gli occhi – «dorati. Mai più rivedrò degli occhi del genere» – la investì con
tanta potenza da trasformarsi quasi in bisogno fisico, mentre la vista
le si
appannava a causa delle lacrime.
«La prima: quelle che vedo dovranno essere le ultime lacrime che
verserai per me».
Che promessa impossibile.
Davvero quel pazzo suicida pensava che lei sarebbe stata in grado di
mantenerla?
«Tu lo sapevi, vero? Sapevi che l’epilogo sarebbe stato questo. Volevi la
gloria e, per ottenerla, ti sei fatto ammazzare. Ma cosa te ne fai
adesso della
gloria, espèce de gros salaud?!»
Un rumore improvviso la fece voltare di scatto: qualcuno aveva appena
aperto la porta dell’obitorio.
In un incredibile guizzo di lucidità, la giovane riuscì a infilarsi
nell’armadietto dei camici giusto un attimo prima che lo sconosciuto
visitatore superasse la sala autopsie e accedesse alla vera e propria
camera
mortuaria.
Nel timore di essere scoperta, Maia decise di non arrischiarsi a
sbirciare. Quasi sicuramente era soltanto un addetto venuto a recuperare della strumentazione, non ci avrebbe messo molto ad andarsene. Quello che sentì subito dopo, però, fu un inconfondibile suono di passi inguainati di metallo – e gli addetti
non
indossavano armature. Purtroppo per lei, quindi, doveva trattarsi di un cavaliere.
«Ciao, ‘Mus».
«M-milo?»
«Sì, sono di nuovo qui. Scusami, non ho potuto farne a meno: lo sai che
mi piace scocciarti».
Il respiro dello Scorpione era così pesante che sembrava avesse
l’affanno: non era affatto normale per un saint, e men che meno per uno
del suo
rango. Un
lieve
fruscio, poi la voce di Milo si fece più vicina. Probabilmente si era
accostato al tavolo dove giaceva il corpo dell’Acquario.
«La riunione si è conclusa poco fa: hanno deciso che vi sep-» un tremito
«seppelliremo domani. “Hanno”, non “abbiamo”: fosse per me, ti terrei
qui per sempre.
Detesto l’idea che, che-»
Milo si bloccò di nuovo, a prendere una boccata di quell’ossigeno che gli
stava venendo a mancare: «… che non ti vedrò più. Non riesco a
sopportare
l’immagine di te, al buio, in una cassa. Oh, lo so che ti
piace
stare da solo, in silenzio: me lo ripeti sin da quando eravamo
bambini. Ma,
Camus… quanto ci metterà la terra a inghiottirti? A mangiarsi il tuo
viso, i
tuoi… i tuoi capelli. Dei, quanto ho amato i tuoi capelli.
Finalmente posso
dirtelo – senza paura di farti ribrezzo».
«Guarda:» riprese poi, dopo una breve pausa «ieri ho trovato il tempo di
scendere al mercato di Rodorio e ti ho preso questa. La pietra non è
lavorata
come quella della mia, ma non sono riuscito a scovare di meglio; ha la
forma di
uno scorpione, se non altro. Spero che ti terrà compagnia… ovunque
andrai».
A ogni parola, lo stomaco di Maia si contraeva con violenza sempre
maggiore. Quello non era un commiato riservato a un amico: ad Aiolia,
cui pure
era affezionatissimo, mai Scorpio avrebbe fatto un discorso simile –
né da vivo
né da morto.
No, Milo non stava salutando un semplice amico: stava dicendo addio a
qualcuno di cui era completamente, disperatamente innamorato.
«Lo sapevo. Lo sapevo,
maledetto stupido!»
La storia della gelosia, del bacio, del fatto di essersi invaghito di lei
era stato tutto un gigantesco, assurdo teatrino montato ad arte. L’evidenza
era
– ora come allora – tanto lampante che Maia si stupiva di averci
creduto
anche per un solo istante.
Troppo sconvolta per aver paura delle conseguenze, aprì impercettibilmente
una delle ante dell’armadio che le fungeva da nascondiglio; la visuale
non era
un granché, ma almeno le consentiva di gettare un occhio su ciò che
stava
avvenendo all’esterno. In quel momento l’Ottavo Custode era in piedi
accanto al
corpo di Camus, con una mano poggiata sul suo petto e gli occhi immoti: aveva
un’espressione indicibile – che metteva i brividi.
Da quando Maia si era svegliata, mai le era parso tanto distrutto: se
quello che adesso gli si leggeva in viso era ciò che realmente
provava, allora
doveva essere davvero un bravo attore.
«Proprio vero che non si finisce
mai di conoscerle, le persone».
Avrebbe voluto fargli milioni di domande – «perché non me l’hai mai detto? Per quanto tempo hai guardato Camus col
mio stesso sguardo? Quanto male ti ha fatto?» – e tuttavia, fra
queste, ce
n’era una la cui importanza offuscava di gran lunga le restanti. Una
questione
assolutamente preliminare,
soprattutto alla luce di quanto aveva appena scoperto.
«Se davvero l’amavi, come hai
potuto permettere a Hyoga
di Cignus di
arrivare sino all’Undicesima Casa? Di levare la mano su Camus, ben
sapendo che
entrambi non si sarebbero fermati dinanzi a niente? Che razza di
amore è quello
che non protegge il suo oggetto?»
Se il non impedire equivale al cagionare, allora lo Scorpione era
colpevole allo stesso modo del cavaliere di bronzo: già da prima
traballante,
adesso – di fronte a una cosa simile – l’adempimento di un dovere si
rivelava
una scriminante del tutto insufficiente.
Aveva passato gran parte della giornata a dormire o a fingere di farlo;
per lo stato in cui si trovava, avere a che fare con qualsivoglia
essere umano
le pareva uno sforzo assolutamente insostenibile.
Tuttavia, quando Mu e Aiolia erano venuti a sincerarsi delle
sue condizioni, aveva costretto entrambi a sedere accanto a lei
e a
raccontare esattamente quanto fosse avvenuto tre giorni addietro;
dinanzi alla
sua ostinazione, i due non avevano potuto far altro che scambiarsi
un’occhiata
rassegnata e accontentarla.
Per bocca un po’ di uno, un po’ dell’altro, era così venuta a conoscenza
di tutto, sia di quello che non era trapelato dalle voci di
corridoio circolate
durante lo scontro, sia degli avvenimenti succedutisi dopo il suo
arrivo
all’Undicesima Casa.
Erano tantissimi gli aspetti che, partendo da presupposti diversi,
normalmente le sarebbe interessato chiarire, e altrettanti erano i
pensieri che
avrebbe dedicato a coloro che non ce l’avevano fatta, sebbene non
vi fosse
particolarmente attaccata; ma ora la morte di Camus si
prendeva l’intero
spazio disponibile – una volta crollato il muro portante, manca di
senso
domandarsi quali altre parti del palazzo abbiano ceduto.
Così, tutta l’attenzione di Maia si era catalizzata su pochi punti
fondamentali: il cavaliere del Cigno, il cavaliere di
Aquarius e il
cavaliere di Scorpio. Aveva voluto inquadrare il concreto ruolo giocato da
Milo negli eventi da cui era scaturito l’irreparabile, e la
risposta finale le
aveva fatto ancora più male di quanto pensasse.
«È stato Milo a far sì che Cignus arrivasse sino alla Sacra Anfora. Milo
l’ha fatto passare e, in cambio, lui ha trucidato Camus sulla
soglia del suo
Tempio».
L’aveva sussurrato piano, più a se stessa che ai propri interlocutori,
sputando ogni parola come fosse veleno; l’aveva sussurrato piano
perché
ripeterlo a voce alta le sarebbe suonato davvero troppo ridicolo.
«Non è andata così, Maia».
Diplomatico come sempre, Mu aveva cercato di farle comprendere quanto la
faccenda potesse assumere portata differente, se guardata dal loro
punto di
vista di saints.
«Milo aveva capito che Hyoga era nel giusto, e ha fatto quello che tutti noi avremmo dovuto fare sin
dall’inizio: gli ha permesso di passare, pur sapendo che Camus non
l’avrebbe
imitato. È stato il senso del dovere a uccidere Aquarius: né il
Cigno né
tantomeno Milo. Solo il senso del dovere... e quell’amor proprio
che, purtroppo,
gli si è rivelato fatale».
Una parte di Maia – la più razionale – era conscia che quelle parole
contenevano un fondo di verità. Sapeva perfettamente
quanta
importanza il cavaliere dell’Acquario avesse sempre dato a onore e
dignità, con
quel suo modo vagamente altezzoso di anteporre il merito a tutto
il resto;
altrettanto bene conosceva la naturale avversione dell’Ottavo
Custode per soprusi
e ingiustizie, che lo portava ad agire strettamente secondo
coscienza, quali ne
fossero le conseguenze.
Ma esiste un limite al sacrificabile – e l’incolumità di un amico si
trovava oggettivamente al di là di esso.
Avrebbe dovuto intuirla questa sfumatura, Mu di Aries, visto che era
stato proprio lui a intromettersi in una battaglia non sua,
salvando Shaka di
Virgo da un destino ormai segnato.
«Se fosse come dici, allora anche Shaka avrebbe dovuto spirare per mano
di Phoenix. Invece, tu sei intervenuto a salvarlo. Perché
nessuno ha fatto
lo stesso con Camus? Si meritava di morire, lui? Con quale faccia
Milo può dire
di essergli stato amico se, dopo aver fatto passare quel ragazzino
di bronzo, è
persino rimasto immobile ad aspettare che l’uno freddasse
l’altro?!»
Come era avvenuto quella stessa mattina, la rabbia le stava facendo
dimenticare tutta la propria debolezza. Era assurdo
che non
capissero. Che si ostinassero a nascondere quella tremenda verità
dietro il
dito della “cosa giusta”.
«Per come la vedo io, Milo avrebbe potuto evitare la morte di Camus. Se
solo l’avesse voluto davvero» bisbigliò infine, con lo sguardo
rivolto a terra
e la voce incrinata.
Fu in quel momento che Aiolia, rimasto in silenzio sino ad allora, prese
di colpo la parola.
«Io ti giuro, Maia,» disse, afferratale la mano «ti giuro su quello che
ho di più caro che se fosse stato possibile Milo avrebbe
impedito il corso
degli eventi con qualsiasi mezzo. Anche con la sua stessa vita, ne
sono più che
certo. E tuttavia, sai bene com’è… com’era fatto Camus. Non gli avrebbe mai perdonato una sua intromissione, non
in un combattimento ove era in gioco il suo status».
Poi, inchiodando i propri occhi in quelli neri della ragazza, continuò:
«Sono conscio che i nostri discorsi su dovere, giustizia e fedeltà
debbano
sembrare poco più che parole morte alle orecchie di una persona
che non ricopre
il ruolo di saint e che, per di più, sta soffrendo per colpa
altrui. Però ti prego, Maia,» la presa sulla mano
di lei aumentò «ti scongiuro, non rivelare a Milo quello che pensi
veramente. È
già abbastanza devastato: sentire cose come queste gli darebbe il
colpo di
grazia».
Avrebbe fatto lo stesso discorso, Aiolia, se avesse saputo ciò che Milo
provava per Camus? Proprio lui, che per ben tredici anni aveva
segretamente rimproverato al fratello caduto di averlo abbandonato?
Maia non lo sapeva e, sinceramente, neppure le importava; l’unica
cosa a cui riusciva a pensare erano le ultime parole che Camus le
aveva rivolto
lucidamente, un attimo prima di perdersi in spazi inaccessibili.
«La terza: stai vicino a Milo. Sostenetevi l’uno con l’altra. Dissipate
i vostri rancori, quali che siano. Fatelo per me».
Solo adesso, nel guardare Milo stringersi al petto la mano inerte di
quello che avrebbe dovuto essere il suo migliore amico, si rendeva
conto del
reale peso di quella frase.
«Te n’eri accorto. Non so quando,
non so come, ma tu alla fine te n’eri accorto. E tuttavia,» pensò,
distogliendo
penosamente lo sguardo da Scorpio «questa è un’altra promessa che non penso di essere in grado di
mantenere, Camus».
Note
dell’autore
Ho
letto da qualche parte che dopo la battaglia delle Dodici Case i
cavalieri di
bronzo sono rimasti in coma per circa un mese. Qui, invece
–
sopravvalutandoli alquanto – gli ho dato tempo due settimane: facciamo
finta
che Saori-san si sia data una mossa e abbia devoluto loro qualche
benedizione
divina. Viva la licenza poetica!
Riguardo
alle
esequie, ero convinta che nella Grecia classica le stesse si
sostanziassero sempre e comunque nella cremazione del cadavere; dato
che nel
caso di specie far bruciare i corpi avrebbe comportato qualche
problemino con
la successiva saga di Hades, è stato un sollievo scoprire che, in
realtà, la
procedura più diffusa era anche allora la sepoltura.
Come
avrete forse notato, Maia è arrabbiata
– arrabbiata con Atena, coi cavalieri di bronzo, col Santuario, con i
Gold
superstiti, persino con lo stesso Camus.
Potrà
esservi sembrata un po’ infantile, ma provate a mettervi nei suoi panni
di
comune essere umano privo di cosmo, armature e compagnia bella: le hanno
ammazzato l’amante praticamente sotto il naso, ma nessuno si è risentito
per
questo. Nessuno, neppure quelli che, in vita, l’Acquario considerava
amici. Anzi,
“gli invasori” vengono adesso ritenuti degli eroi ed è proibito provare
verso
di essi il minimo risentimento.
In
quest’ottica scevra da giuramenti e fedeltà, il suo disgusto appare
quasi
giustificato; e lo scoprire l’esatto ruolo di Milo nella faccenda
(nonché i
reali sentimenti di quest’ultimo per Camus), non potrà che peggiorare la
situazione. Per lei è inconcepibile anteporre la salvezza
del
nemico – vero o supposto che sia – a quella della persona amata: il
fatto che
Scorpio abbia anche solo accettato di correre il rischio lo rende, ai
suoi
occhi, colpevole.
“Se
il non impedire equivale al cagionare,
allora lo Scorpione era colpevole allo stesso modo del cavaliere di
bronzo: già
da prima traballante, adesso – di fronte a una cosa simile –
l’adempimento di
un dovere si rivelava una scriminante del tutto insufficiente.” :
qui ho
giocato un po’ con qualche figura giuridica (scusate, sguazzo in quella
roba da
mane a sera, è come avere un parassita nel cervello).
Per
l’articolo 40 del codice penale “il non impedire un evento che si ha
l’obbligo
giuridico di impedire equivale al cagionarlo”; una scriminante, invece,
è un
fatto che, qualora esistente, rende non punibile l’autore del reato – e
l’adempimento di un dovere è, per l’appunto, una scriminante.
Dopo
l’interessantissimo (come no) approfondimento, vengo alle specificità
del
capitolo:
-
“Un
luogo
delle fiabe” : frase tratta dal Prologo I;
-
«Je
suis
désolé, j’ai été impoli. Donc, tu t'appelles comment?»:
frase
tratta dal Prologo I;
-
«Non
mi
chiamo più così da molto tempo. Adesso,
sono Camus»: frase tratta dal Prologo II;
-
«No
di
certo. Non cambierei una cosa come questa nemmeno per tutto l'oro
del mondo»:
frase tratta dal Capitolo
3, parte II;
-
«Rimani.
Rimani
con me. Non andare»: frase tratta dal Capitolo 9;
-
«Ci
riabbracceremo
presto, vedrai»: frase tratta dal Capitolo 10, parte II.
-
«dorati. Mai più rivedrò degli
occhi del
genere» : questa osservazione sugli occhi di Camus ritorna,
variata a
seconda del momento, nel Prologo I, nel Prologo II e qui. È un dettaglio
che
avrei anche potuto non segnalare, ma mi sono voluta togliere lo sfizio
XD.
-
«La
prima:
quelle che vedo dovranno essere le ultime lacrime che verserai per
me»
: frase tratta dal Capitolo 10, parte II.
-
espèce de gros salaud : in
francese
equivale più o meno a “brutto pezzo di idiota”.
-
«La
terza:
stai vicino a Milo. Sostenetevi l’uno con l’altra. Dissipate i
vostri
rancori, quali che siano. Fatelo per me» : frase tratta
dal
Capitolo 10, parte II.
Piccolo
spoiler: a chi volesse angosciarsi fino alla morte, consiglio vivamente
il
prossimo capitolo – che sarà su Milo, finalmente.
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Capitolo 19 *** Capitolo 13, parte I: 8 ottobre 1986. Milo ***
Capitolo 13, parte I. Milo
Capitolo
13,
parte I: 8 ottobre 1986. Milo
Lui
era il mio Nord, il mio Sud,
il
mio Est e il mio Ovest,
la
mia settimana di lavoro e il mio riposo la domenica,
il
mio mezzodì, la mia mezzanotte,
la
mia lingua, il mio canto;
pensavo
che l’amore fosse eterno:
avevo
torto.
Non
servono più le stelle,
spegnetele
anche tutte […]
Wystan
Hugh
Auden
Milo di Scorpio non era mai stato un gran lettore; nervoso e scattante
come un giovane purosangue, pensava che intrattenersi con personaggi
immaginari ed esistenze mai vissute fosse davvero uno spreco di
tempo.
Se c’era un genere letterario che proprio non sopportava, poi, quello era
la poesia: per come la vedeva lui, si trattava soltanto di termini
altisonanti accostati fra loro a tavolino.
Poi, però, si era ricordato di una certa poesia, letta tanti anni prima al solo scopo di smontarne il
valore a colui che gliel’aveva consigliata.
«Ebbene, ‘Mus, quale sarebbe il titolo del presunto capolavoro?»
«Di fronte a una composizione del genere il tuo sarcasmo è del tutto
inappropriato. Si chiama “Funeral Blues”,
del poeta Wystan Hugh Auden».
“Fermate
tutti gli orologi, isolate il telefono,
fate
tacere il cane con un osso succulento,
chiudete
i pianoforti e fra un rullio smorzato
portate
fuori il feretro, si accostino i dolenti.
La
cerimonia funebre si era svolta nel fresco mezzodì di un settembre
che già sapeva d'autunno.
La
bruma, sottile e lattiginosa, aveva continuato a sostare ad altezza
d’uomo sino a tarda mattinata, insinuandosi tra i capelli e nelle
menti di quanti, a gruppi o singolarmente, si erano apprestati a
salire le scalinate che conducevano sino alla cima dell’Acropoli;
tutti erano stati invitati a presenziare al rito, e tutti avevano
con solerzia risposto all’appello – persino quelli che, per l’età
troppo giovane o troppo avanzata, mal si reggevano sulle proprie
gambe.
Quel
giorno, sotto gli occhi benevoli e immoti della statua d’Atena, si
erano radunati addetti, soldati, ancelle, reclute, apprendisti,
personale di servizio, semplici abitanti di Rodorio, cavalieri e
amazzoni; la maggior parte di essi, pur vivendo all’ombra del
Santuario, non aveva mai oltrepassato nemmeno la Prima delle Dodici
Case zodiacali.
L’intera
popolazione della Valle Sacra era giunta fin lassù a porgere
l’estremo saluto ai Gold saints caduti, ma non solo per quello: al
grande sconcerto provocato dai fatti recentemente venuti alla luce
si accompagnava una altrettanto profonda curiosità circa coloro che
avevano stravolto le gerarchie del Grande Tempio tanto
repentinamente, nonché – e soprattutto – nei confronti di Quella a
cui molti, ormai, non credevano neppure più.
Ai
piedi della sua antica effige, vestita di bianco e di sacro, la Dea
aveva pronunciato parole di dolore, redenzione, orgoglio e
rinascita, benedicendo i presenti con la voce e lo sguardo;
circondata dai propri Santi bambini – già in piedi nonostante le
ferite loro inferte –, la giovanissima Saori, lungi dal provare
riserbo davanti a quel numero abnorme di volti sconosciuti che la
fissavano, era anzi apparsa come una figura ancestrale, infinita e
senza età, il cui cosmo abbracciava l’universo intero. Dinanzi a una
siffatta immagine persino il meno devoto aveva chinato il capo
commosso, giurando fedeltà con un ardore tutto nuovo e autentico.
Ma
non era ancora tempo di festeggiare la rinnovata ascesa di Atena al
Trono di Grecia, e quelle bare d’ulivo poste al centro del piazzale
sovrastante il Tredicesimo Tempio avevano ben presto catturato di
nuovo l’attenzione generale. Come se fossero state lì
a gridare che tutto ha un prezzo, persino il ritorno di Giustizia.
Incrocino
gli
aeroplani lassù
e
scrivano sul cielo il messaggio Lui È Morto,
allacciate
nastri
di crespo al collo bianco dei piccioni,
i
vigili si mettano i guanti di tela nera.
Lui era
il mio Nord, il mio Sud, il mio Est ed il mio Ovest,
la mia
settimana di lavoro e il mio riposo la domenica,
il mio
mezzodì, la mezzanotte, la mia lingua, il mio canto;
pensavo
che
l’amore fosse eterno: avevo torto.
«Piangerete lacrime di sangue, su quella verità che ora vi rifiutate di
vedere».
Così
era stato, come sciaguratamente predetto da Daidaros di Cefeo.
Il sangue era scorso
a fiumi, inondando di rosso i marmi immacolati, ma di lacrime –
lacrime vere – nemmeno l’ombra: i Custodi superstiti erano rimasti
silenziosi e immobili nelle loro auree corazze per tutto il tempo
dell’orazione, lo sguardo asciutto e il
volto contratto.
Gemini,
Cancer, Capricorn, Aquarius, Pisces: affinché fosse ripristinato lo
status quo ante, l’ordine precostituito aveva preteso la vita di cinque Gold saints.
Cinque
compagni, e altrettante casse da morto – di cui due
a far da mero simbolo.
Milo
di Scorpio, fatalmente, non aveva avuto occhi che per una sola di
esse. Anche se era rimasto impassibile ed eretto al pari degli
altri, perché i cavalieri non piangono.
«I cavalieri non piangono, no. Neppure quando
vorrebbero. Non piangono perché non possiedono abbastanza lacrime»
aveva pensato confusamente, fissando le screziature del feretro di
Camus sino a impararle a memoria.
E
dire che ci aveva provato, a piangere, nei giorni precedenti.
Si
era seduto con la testa fra le mani, cercando di concentrarsi
sull’enormità del cratere che sentiva di essere diventato, ma non
aveva ottenuto altro che ulteriore vuoto.
A
dispetto del dovere, della fede ritrovata, dei Templi da
ricostruire, la sua esistenza gli era parsa soltanto un enorme buco
nero, occasionalmente attraversato da echi lontani di cose, persone,
giorni. Un antro buio, sterile – arido. Arido come le zolle di terra prosciugate dall’estate sotto cui, di lì a
breve, avrebbero sepolto tutto il buono che aveva e che avrebbe mai
posseduto.
I
capelli di Camus, fiamme danzanti nel vento impetuoso che viene dal
mare; la scia di stelle fattesi polvere che gli brillava attorno
dopo ogni singola Diamond Dust; la sua voce elegante che pronunciava
il nome “Milo”, storpiandolo appena; il suo modo discreto di
incantarsi di fronte alle cose che gli piacevano, come lo zucchero a
velo – «mi ricorda la
neve» aveva ammesso una volta, arrossendo – o la
grazia armonica delle Case Zodiacali; le sue sottili mani bianche.
Le
stesse mani che durante il loro ultimo incontro gli erano volate al
collo come schegge di ghiaccio impazzite, a cercare di sigillare una
verità la quale, solo qualche ora più tardi, l’avrebbe ucciso – «insieme a Hyoga
del Cigno. E a me».
Come
facevano, tutti quanti, a pensare che sarebbe davvero esistito un
futuro senza Camus di Aquarius?
Come
potevano Aiolia, Mu, Shaka, Aldebaran, i cavalieri di bronzo, le
persone riunite lì attorno, il mondo intero, credere a un “dopo” che
non lo contemplasse?
Che
senso avrebbe avuto il Santuario, senza i suoi
passi a calpestarlo? Quale armonia, quale bellezza
trarre ancora dal vestire un’armatura dorata, una volta estinto colui
che l’aveva indossata con
maggior orgoglio? Dove trovare la forza
per scendere nuovamente in campo, avendo la consapevolezza che il
cosmo di cristallo dell’Undicesimo Custode non avrebbe più aleggiato
sulle sue battaglie come uno sprono gentile?
Per
quanto si sforzasse, Milo non credeva, non pensava, non sentiva più nulla: la sua vita si
era spenta in conseguenza di un’Aurora Execution troppo freddo e lui, in quel momento, non si trovava affatto lì.
Non
aveva mai veramente lasciato l’Ottava Casa sulle proprie gambe,
rispondendo al richiamo dell’amico Leo; non aveva rivolto uno
sbrigativo cenno di saluto a quanti si erano rispettosamente
inchinati al suo passaggio; non aveva preso posizione accanto a
Shaka di Virgo, dalle palpebre aperte e le braccia ustionate; il suo
sguardo non si era mai incrociato con quello di Cignus, tingendosi
di un misto di astio e innegabile stima.
No,
in realtà lui aveva osservato tutto da una posizione differente; più
precisamente, da quella bara dentro cui, insieme a Camus, era finita
anche la parte più consistente di se stesso.
Non servono più le stelle:
spegnetele anche tutte;
imballate la luna,
smontate pure il sole;
svuotatemi l’oceano e
sradicate il bosco;
perché ormai nulla può
giovare.”
Al
segnale convenuto, ognuno dei cavalieri d’oro si era caricato sulle
spalle il proprio fardello di legno e carne –
«Cinque contro cinque. Uno spettro ciascuno»
–, per poi mettersi alla testa del corteo diretto ai piedi della
Collina delle Stelle.
Quel
tragitto, che pure constava di una ripida salita lungo sentieri
scavati nella roccia, a Milo era invece sembrato brevissimo. Se
avesse potuto, lui si sarebbe trascinato il suo peso sino ai confini
dell’universo – almeno sino alla costellazione dell’Acquario, che
era stata tanto egoista da richiamare a sé il proprio Custode
anzitempo.
«Milo, guarda le stelle: ammirale e impara a non temerle, anche se spesso
ti sembreranno troppo lontane o troppo crudeli. Siamo stati
generati per ristabilire la pace lasciandoci guidare da esse, non
per sottostare silenti ai loro capricci. Ogni uomo è artefice
della propria sorte: nessuno nasce schiavo del fato, nemmeno noi
cavalieri».
Quanto
si era sbagliato, Saga. Altro che libero arbitrio,
altro che esser padroni del proprio destino: la verità era che loro,
Custodi dei Dodici Presidi, si trovavano in completa balia degli
stessi astri da cui discendevano, che li manovravano come fa un
bambino coi suoi giocattoli.
Ebbene,
se così stavano le cose, Milo di Scorpio alle stelle non avrebbe
rivolto più un solo sguardo. Che
si abbuiassero pure tutte insieme nell’arco di una sola notte: il
loro brillare distante, ormai, a lui non sarebbe più stato di alcun
conforto.
Da
allora in avanti era alla terra che avrebbe rivolto la dedizione
rimastagli, perché in essa Camus si sarebbe dissolto. Proprio
lì, sotto quella spoglia lapide bianca recante la dicitura di rito “Camus
di
Aquarius (Didier Debussy). 1965 – 1986”.
Calata
la bara nella fossa scavata di fresco, l’Ottavo Custode si era
chinato a raccogliere una manciata di terriccio umido; ne aveva
assaggiato la consistenza con le dita, e respirato l’odore vagamente
marcescente che sarebbe andato a coprire per sempre il lieve profumo
di muschio e di limpido della pelle di Aquarius; infine, l’aveva
lasciato cadere sul feretro in tanti minuscoli frammenti – come
fosse polvere di diamanti.
Milo
di Scorpio era rimasto lì in piedi molto a lungo, una volta
terminata la cerimonia. Tanto che, sul far della sera, a malapena lo
si sarebbe potuto distinguere dalle ombre.
«L’ho
letta, Camus. L’ho letta più volte, ma non mi ha detto alcunché».
«Probabilmente significa che
non hai mai perso qualcuno a cui tenessi davvero».
*
Erano trascorsi dieci giorni.
Revocato lo stato di lutto, la quiete surreale e ipnotica che aveva
regnato in tutta la Valle Sacra prima dei funerali era stata
repentinamente sostituita dall’attività più febbrile; durante il dì
non c’era angolo dove non si udisse martellare, scalpellare,
assemblare o abbaiare ordini. Onde
accelerare l’opera di ricostruzione si era deciso di impiegare persino
le reclute e i saints già ordinati, i cui allenamenti adesso
consistevano un po’ nel demolire le parti dei Templi non restaurabili,
un po’ nel rimuovere i detriti con la nuda forza delle braccia.
Sembrava quasi che tutti avessero fretta di terminare al più presto, così
da potersi dimenticare dell’accaduto nel minor tempo possibile.
Anche Milo di Scorpio forniva alacremente il suo contributo, lavorando
senza sosta dall’alba al tramonto e, spesso, addirittura oltre; almeno
sino a quando qualcuno non poggiava cautamente una mano sulla sua
spalla e gli suggeriva di andare a riposarsi.
«Che sciocchezza» pensava lui,
nell’accontentare il soggetto di turno – personale di servizio,
ancelle o compagni che fossero – «Non
ne ho bisogno».
“Riposare” voleva dire essere costretti a pensare – a ricordare
–, ed era esattamente l’ultima cosa che gli servisse.
Lo sforzo fisico del sollevare blocchi di marmo sfregiati sino ad
appannarsi la vista; la meccanica ripetitività di impilare, contare,
catalogare; la libertà di muoversi senza il peso – fattosi
insostenibile – della sua corazza, sporcandosi faccia, corpo e capelli
di polvere bianca: solo questo gli permetteva di obnubilare la mente
quel tanto che bastava a rendere la sua esistenza sopportabile.
Al di là c’era troppo vuoto,
più di quanto riuscisse a tollerare.
Alle incombenze istituzionali cui non era consentito sottrarsi adempiva
con viso neutro e voce incolore, evitando il contatto umano per quanto
poteva; unicamente l’interagire con la Dea gli dava un minimo di
requie, ma durante le riunioni l’agenda di ordini del giorno da
trattare era tanto fitta da lasciare spazio a ben poco altro.
Si parlava di successioni, di titoli, di alleanze da ripristinare, di
schiere da epurare: tutti argomenti che a Milo non sarebbero
interessati neppure in circostanze ordinarie, e in merito ai quali non
aveva nulla da dire. In quelle occasioni erano
soprattutto Mu e Shaka a parlare a nome della casta dei Gold saints,
mentre lui si limitava a prestare il proprio consenso, ove richiesto;
la sua attività principale consisteva infatti nello studiare di
sottecchi Hyoga, cercando di sondarne la personalità.
Fra i Bronze, Cignus appariva come quello più schivo: se l’abissale
differenza intercorrente fra lui e i cavalieri di Pegasus e Andromeda
era evidente già a primo acchito, il suo modo di fare divergeva
altresì da quello pacato e composto del Dragone, nonché
dall’atteggiamento decisamente recalcitrante di Ikki di Phoenix.
Si pronunciava di rado, senza mezzi termini, fissando il proprio
interlocutore dritto negli occhi; le sue poche e misurate parole
avevano quasi sempre il sapore di un qualcosa di definitivo, al quale
diventava difficile replicare.
Era incredibile quanto somigliasse a Camus, come se questi l’avesse
cresciuto e allenato personalmente. Era davvero
incredibile, e altrettanto doloroso.
Sarebbe stato molto più facile se fosse stato capace di scindere
totalmente quello sconosciuto ragazzino biondo dalla persona di cui
egli aveva spento la vita; sarebbe stato più semplice, perché avrebbe
potuto mutare la cupa, intollerabile sensazione di impotenza che
sentiva in odio feroce, accecante, propulsivo.
Tuttavia, era stata proprio la somiglianza fra il Cigno e Aquarius la
prima delle ragioni che avevano portato Scorpio a cedere il passo,
lasciando che il Bronze superasse l’Ottava Casa e giungesse sino
all’Undicesimo Tempio – «dove
tutto si è fermato» –; un’affinità d’animo che non poteva
cominciare a negare proprio adesso, soltanto per irrazionale ed
egoistica necessità.
E poi, in fondo, a cosa sarebbe servito? Niente avrebbe
riportato indietro Camus; né l’amore né tantomeno l’odio. Niente.
Milo smise per un attimo di puntellare il sostegno di una delle tante
colonne crollate, ripensando alle innumerevoli chiazze vermiglie che
avevano costellato il Tempio all’indomani della battaglia e delle
quali, ora, non rimaneva alcuna traccia.
Ripulire il pavimento e le pareti da quello scempio era stato un lavoro
immane, in cui lui, incapace di tollerarne la vista, si era cimentato
sin da subito; a chi aveva obiettato che non si trattava di
un’occupazione confacente al suo rango Scorpio aveva risposto
strofinando con maggior tenacia, sino a rendere il marmo ancora più
candido di quanto non fosse stato in precedenza… almeno esteriormente.
Non esistevano ramazza o straccio capaci di raschiare il sentore di sangue
– «di Hyoga. Di Camus» –
che avrebbe aleggiato per sempre nella Casa dello Scorpione Celeste,
così come non c’era sapone in grado di lavarne via gli schizzi dalle
sue mani; mani che Milo sentiva sporcate in maniera indelebile, tanto
che spesso le avvertiva quasi bruciare.
Si stava appunto chiedendo quale macchia scottasse di più, quando Mu di
Aries comparve dall’entrata principale dell’Ottavo Presidio, recando
seco un cesto di frutta, dell’acqua e il tipico sguardo di chi ha
qualcosa da domandare, ma non sa bene come farlo.
Con lui c’era anche Kiki, il bambino tibetano che l’Ariete allenava.
Da anni si sapeva della sua esistenza, e tuttavia mai prima di allora Mu
l’aveva portato con sé al Santuario, preferendo tornare in
Jamir ad addestrarlo ogniqualvolta se ne era presentata l’occasione; mentre
i più avevano bollato tale comportamento quale ennesimo sintomo del
distacco fra il cavaliere del Primo Fuoco e il Grande Tempio, altri –
Aldebaran in testa – erano fermamente convinti che dietro lo stesso ci
fosse una ragione più recondita, irrazionalmente legata alla volontà
di salvaguardare il suo pupillo dal triste destino di morte che aveva
segnato l’apprendistato dello stesso Aries. Milo non
aveva mai maturato un’idea precisa sul punto, ma adesso gli pareva
probabile che entrambe le ipotesi presentassero una percentuale di
verità.
«Mu. Cosa ti porta qui?» chiese, dopo aver rivolto ai due un cenno di
saluto.
«Io e Kiki stiamo passando di Casa in Casa a offrire un po’ di ristoro a
coloro che lavorano» rispose questi, indicando la frutta e l’acqua con
un movimento della spalla destra «Vuoi qualcosa?»
«È un pensiero gentile, ma al momento non mi va nulla. Grazie comunque».
Al che, Mu emise un sospiro appena percettibile: «Milo, non sta a me dirti
di cosa hai bisogno, ma sono giorni che non tocchi cibo. Fra poco non
potrai essere di molto aiuto, se continuerai a non mangiare».
«Cos’è, ti ci metti anche tu adesso? Non bastano Aiolia e Aldebaran?»
sbottò Scorpio, a cui tutte quelle attenzioni non richieste stavano
cominciando a dare sui nervi «Ce l’abbiamo già una convalescente per
cui preoccuparci, e quella è Maia. Io sto benissimo».
«Non è detto che chi manifesta apertamente un malessere stia peggio di
colui il quale, invece, lo dissimula» ribatté cauto l’altro,
palesemente intenzionato a convincere il proprio irragionevole
interlocutore della bontà delle sue argomentazioni.
Per mettere fine a quell’inutile e fastidiosa discussione Milo – che
sapeva di essere in torto – si arrese a inghiottire controvoglia
qualche acino d’uva, il cui sapore zuccherino gli offese il palato:
non gli piacevano le cose troppo dolci. Non gli erano mai piaciute.
«Ecco, ho mangiato. Sei soddisfatto? Ora posso tornare a lavoro?» disse
quindi, dopo aver buttato giù mezza bottiglietta d’acqua nel tentativo
di sciacquarsi la bocca.
«A dire il vero, c’è qualcosa di cui vorrei discorrere con te. Sempre che
tu non sia troppo occupato» rispose Mu, passando il cesto di frutta a
Kiki; il ragazzino, colto al volo l’invito a congedarsi, indirizzò un
breve inchino in direzione di Milo e sparì oltre l’arcata posteriore
del Tempio.
Nonostante avesse soltanto voglia di tornare a saldare la colonna che
stava restaurando, lo Scorpione non poté ignorare la sottile richiesta
dell’amico a prestargli attenzione: non era da Mu perdersi in
chiacchere inutili, senza che queste precedessero qualcosa di più
importante. Si
sedette dunque sulla catasta di travi da lui impilate quella stessa
mattina, invitando l’altro a fare altrettanto: «No, posso benissimo
continuare più tardi. Ti ascolto».
Aries prese a parlare lentamente, partendo da lontano quasi stesse
prendendo le misure: «Come forse ricorderai, Milo, un cavaliere d’oro
diviene di diritto il maestro di colui che sarà il suo successore. Al
termine
del pre-addestramento io sarei dovuto rimanere al Santuario come te e
Aiolia, quale allievo di Shion di Aries. L’allora Gran Sacerdote aveva
da poco iniziato a impartirmi qualche lezione, quando Saga lo uccise;
per evitare che mi accorgessi dello scambio di persona la primissima
cosa di cui Gemini si preoccupò la mattina successiva all’omicidio fu
quella di farmi rispedire in tutta fretta nello Jamir. Tuttavia,
in virtù del legame che già mi univa al mio defunto maestro, io ebbi
comunque il tempo di percepire il suo cosmo svanire, per essere
sostituito da un altro a me sconosciuto – altrettanto vasto, ma molto, molto più oscuro. Una
volta divenuto adulto, non ci ho messo molto a prendere coscienza
dell’inganno che si stava consumando qui in terra di Grecia… eppure,
mai vi ho fatto partecipi di quello che sapevo. Ho sempre preferito
tacere, per poi ritirarmi in esilio quando gli eventi sono
precipitati».
Milo lo guardò in modo interrogativo: «Cosa stai cercando di dirmi, Mu?»
«Che credo che ognuno di noi abbia qualcosa da rimproverarsi. Persino il
sottoscritto, che pure non ha mai levato la mano su i veri protettori
di Atena. Se non fossi rimasto in silenzio, forse qualcuno
dei nostri compagni avrebbe capito senza dover andare incontro
alla morte».
Il tono con cui aveva pronunciato quel “qualcuno” sottintendeva
palesemente a chi si riferisse, e tuttavia Scorpio non pensava affatto
che conoscere la verità avrebbe minimamente inficiato sulle
convinzioni del soggetto in questione. La certezza di combattere per la fazione sbagliata sarebbe
stata decisiva nel caso di Shura, magari, non certo nel suo. Scosse dunque la testa, nascondendo il viso tra i folti capelli
biondi: «A Camus non interessava chi sedesse sul Trono, se il
portavoce della Dea o un impostore: per come lo conosc-»
«Conosco».
«-evo, ciò che per lui contava davvero era dimostrare a tutti – forse
anche a se stesso – di essere superiore a un cavaliere di bronzo
versato nelle sue medesime tecniche. Non sarebbe indietreggiato di
fronte a nulla».
Poi, amaramente, aggiunse: «Comunque, adesso non ha senso chiedersi come
sarebbe o non sarebbe andata “se”. Non possiamo fare più niente,
ormai».
«Non possiamo riportare in vita i nostri camerati, no» gli rispose
l’Ariete «Forse, però, possiamo far sì che la loro dipartita non sia
stata vana».
«E come?»
«Supportando coloro per i quali sono morti. Coloro che, pur così giovani e
inesperti, hanno saputo mostrare la Via a dei guerrieri tanto più
potenti di loro, compiendo un vero e proprio miracolo».
«La storia dei cavalieri di bronzo al Grande Tempio narra gesta di
amicizia, di altruismo, di spirito di sacrificio, di coraggio
senza precedenti: mai questi marmi avevano visto fiorire al loro
interno sentimenti tanto nobili in un solo giorno! E io dovrei
abbandonare tutto questo per egoismo?! Sarebbe peggio di un
tradimento!»
Le parole di Hyoga gli risuonarono nella mente come se le stesse udendo in
quel momento. Sì, i cavalieri di bronzo avevano davvero realizzato l’impossibile,
abbattendo con determinazione ogni barriera – di marmo, di idee, di carne
– eretta tra questi e il
loro obiettivo: la schiera dei Gold era dovuta arrivare alla
decimazione per rendersi conto di quanto si fosse consumato sotto il
suo stesso, incurante sguardo.
In che modo avrebbero potuto essergli d’aiuto loro, superstiti tra gli
oppositori?
«Supportarli? Ci hanno sconfitto. Non abbiamo nulla da insegnargli, noi
che abbiamo vissuto nell’ombra per tredici anni».
«Ti sbagli. Tutti hanno qualcosa da imparare, e tutti sono in grado di
insegnare qualcosa: questo ricordalo sempre».
«Inoltre,» riprese Mu, piegandosi fino a poterlo fissare negli occhi «se
esiste un gesto concreto atto a risarcire i cavalieri di bronzo da
quanto patito, quello è sicuramente riparare le loro armature – che
noi stessi abbiamo distrutto. Ma per restituire nuova linfa a cinque
corazze serve molto sangue; ben più di quanto ne possieda io da solo,
in effetti».
Ed eccolo qua, il nocciolo della questione. Cinque
erano le armature di bronzo, tante quante gli attuali custodi dorati:
in sostanza, quindi, Mu gli stava chiedendo di donare il suo sangue
per restaurarne una.
«Immagino che gli altri abbiano già acconsentito».
«Questo non è importante. Il punto è: tu te la sentiresti, Milo?»
Già. Se la sentiva lui?
Se la sentiva di versare un tributo sulla corazza che aveva danneggiato
con le sue proprie mani, e che poi era stata completamente distrutta
dall’ultimo Aurora Execution di Camus? Sarebbe stato capace di
compiere una simile azione per il ragazzo che, spegnendo le stelle
dell’Acquario, aveva irrimediabilmente oscurato anche il suo cielo?
Milo alzò lo sguardo in direzione delle Case sovrastanti, ma nessuno
apparve sulla soglia dell’Undicesimo Tempio a indicargli la decisione
da prendere; così, la sua mano volò come per istinto a cercare il
ciondolo che si portava sul petto, per carezzarne i contorni a forma
di anfora.
«Questo ti fungerà da coscienza in mia vece: guardalo sempre, prima di
fare qualcosa di stupido!»
«Qualcosa di stupido come l’amarti,
magari. L’idiozia più grande dell’universo, che tuttavia ha dato
alla mia vita un senso più ampio, più alto della fede stessa».
Amare un fantasma, però, non era solo stupido; era anche inutile.
Dove cercare un significante, quindi, se non nell’adempiere a un dovere a
cui è impossibile far fronte da sotto una lapide?
Dove riversare
l’immensità del suo sentimento, se non nell’appoggiare colui per il
quale, suo malgrado, il cavaliere dell’Acquario era arrivato a
sacrificare se stesso?
Esisteva una risposta soltanto, ed essa coincideva con un nome: Hyoga di
Cignus.
«D’accordo, Mu. Donerò anch’io il mio sangue. Sarà grazie a quello che
l’armatura del Cigno tornerà a nuova vita».
Continua
...
Note
dell’autore
Ma
salve!
“Dammi
una lametta che mi taglio le vene” sarebbe stato il titolo più adatto a
questa prima parte del capitolo 13. È dagli albori di
Sorella Morte che smanio per poter parlare del post battaglia delle
Dodici Case dal punto di vista di Milo, ma riconosco che il risultato è
decisamente angosciante.
Non so
quanto sia facile da intuire, ma la narrazione è suddivisa
essenzialmente in due parti.
La
prima è una sorta di flash-black dei funerali appena celebrati (che si
apre e si chiude con un ricordo inerente a un momento imprecisato
dell’adolescenza di Milo e Camus), il quale è scandito dalla –
tristissima – poesia del poeta inglese Wystan Hugh Auden; la seconda,
come detto in narrazione, è ambientata dieci giorni dopo, e anticipa
quella che sarà la riparazione delle armature di bronzo da parte dei
Gold saints.
Spero
che non abbiate storto il naso dinanzi all’atteggiamento apatico del
cavaliere dello Scorpione; in merito a questo, le parole che Aiolia
pronuncia alla fine dell’undicesimo capitolo (parte II) mi paiono ancora
le più adeguate a spiegare in breve lo stato d’animo di Milo: “Se
Milo avesse perso qualsiasi altra persona, me compreso, si
comporterebbe in maniera completamente diversa. Sarebbe arrabbiato,
adesso. Affranto e stanco, come noi, ma soprattutto arrabbiato.
Invece, è Camus che è venuto a mancargli, e l’unica cosa che adesso
lo tiene in piedi è l’etichetta. Lui, che di formalismi e galateo
non ne ha mai voluto sapere nulla, ora si sorregge solo per il
dovere morale di temperare quanto più possibile le sue emozioni.”
Colgo
altresì l'occasione per ribadire il ruolo assolutamente primario che
assume l'avvertimento "What If?" nell'ambito di questa storia: le
dinamiche del "sistema Santuario" da me immaginate – qui come altrove –
sono davvero inventate di sana pianta.
Venendo
agli aspetti più specifici:
- «Piangerete
lacrime
di sangue, su quella verità che ora vi rifiutate di vedere»
: frase tratta dal Capitolo 7, parte I;
- «Milo,
guarda
le stelle: ammirale e impara a non temerle, anche se spesso ti
sembreranno troppo lontane o troppo crudeli. Siamo stati generati
per ristabilire la pace lasciandoci guidare da esse, non per
sottostare silenti ai loro capricci. Ogni uomo è artefice della
propria sorte: nessuno nasce schiavo del fato, nemmeno noi cavalieri»
: frase tratta dal Capitolo 7, parte I;
- Come
nella versione del manga, Kiki qui è un semplice allievo di Mu;
- «La
storia
dei cavalieri di bronzo al Grande Tempio narra gesta di amicizia, di
altruismo, di spirito di sacrificio, di coraggio senza precedenti:
mai questi marmi avevano visto fiorire al loro interno sentimenti
tanto nobili in un solo giorno! Ed io dovrei abbandonare tutto
questo per egoismo?! Sarebbe peggio di un tradimento!» :
frase tratta dal Capitolo 10, parte II;
- «Questo
ti
fungerà da coscienza in mia vece: guardalo sempre, prima di fare
qualcosa di stupido!» : frase tratta dal Capitolo 4.
Fatemi
sapere
che ne pensate, se ne avete voglia; sono molto attaccata a questo
pezzo, nonostante non sia esattamente il massimo dell’allegria
(eufemismo grande come una casa)!
|
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Capitolo 20 *** Capitolo 13, parte II: 9 ottobre 1986. Milo ***
Capitolo 13 (parte II). Milo
Capitolo
13, parte II: 9 ottobre 1986. Milo
Erano
state
sufficienti dodici misere ore a spazzare via la maestosa,
apparentemente imperturbabile grazia del Grande Tempio.
Agli
occhi
di un qualsiasi osservatore il Santuario appariva adesso mutilato e
sconfitto come una fiera sanguinante – come un’antica divinità
decaduta.
L’evidenza
si
faceva persino più netta se solo si alzava lo sguardo in direzione dei
Dodici Presidi zodiacali: a dispetto dei febbrili lavori di
ricostruzione che proseguivano giorno e notte, la maggior parte dei
Templi Sacri era ancora ridotta a un triste ammasso di mura crollate.
Ben
pochi
edifici erano usciti indenni dalla battaglia che aveva scosso quei
marmi vecchi di secoli e, fra questi, figurava anche la Prima Casa.
L’interno
del
Palazzo del Montone Bianco, rimasto solido e intatto a ergersi nella
devastazione generale, era quieto e ombroso come sempre; così simile a
prima che Milo, ormai
assuefatto ai soffitti crepati delle restanti Case, per un attimo si
era illuso di essere tornato indietro nel tempo – un tempo al di là
dell’abisso che aveva inghiottito ogni cosa.
La
voce
di Mu, proveniente da poco distante l’ingresso posteriore del Tempio,
ruppe la sua esile bolla di sapone davvero troppo presto.
«Vieni
avanti,
Milo. Ti stavamo aspettando».
Anche
i
suoi quattro compagni superstiti, come lui, indossavano la propria
corazza; ai piedi di ciascuno di loro giacevano altrettanti mucchietti
di polvere bronzea disposti in cerchio.
Scorpio
si
posizionò dinanzi al quinto cumulo in silenzio, senza dar segno di
aver notato l’occhiata vagamente ansiosa lanciatagli di sfuggita da
Aiolia.
«Adesso
che
siamo tutti,» disse Aries,
inasprendo appena il tono sull’ultima parola «credo che potremmo
cominciare. Se siete d’accordo, ovviamente».
«Noi
siamo
pronti, Mu. Dicci cosa dobbiamo fare» rispose Aldebaran, anche a nome
di chi si era limitato ad annuire.
«Come
forse
saprete, le tecniche per restaurare le Sacre armature sono
essenzialmente due. La prima, indicata per i danni di minor entità,
implica l’utilizzo degli strumenti del mestiere e di speciali polveri
lavorate; la seconda, che serve a ridare vita a corazze così lesionate
da non poter essere aggiustate diversamente, richiede invece il
tributo di sangue di un cavaliere».
«Non
penso
sia utile stare a discutere su quale metodo scegliere, in questo caso»
intervenne Leo, probabilmente con l’intento di passare al sodo il più
in fretta possibile.
«No,
infatti»
asserì pazientemente il Primo Custode, per nulla irritato
dall’interruzione «ma debbo comunque avvertirvi: il secondo metodo,
benché più efficace e più celere del primo, comporta dei rischi che
possono variare a seconda dello stato dell’armatura. Quanto più essa
sarà deteriorata, tanto maggiore sarà la dose di sangue richiesta».
«Quindi,
potrebbe
anche darsi il caso che tutto il sangue di un singolo individuo non
sia sufficiente» commentò Shaka, incolore come se stesse parlando di
sciocchezze.
«Potrebbe,
sì.
Ed è per questo che torno a chiedervi se siete davvero disposti a
tutto – anche a mettere in gioco la vostra vita –, pur di riparare le
armature di bronzo. Vi prego di rifletterci seriamente: una volta
avviato, il processo non può essere interrotto fino al suo totale
compimento».
Milo
già
si aspettava un qualcosa del genere: «Per
restituire nuova linfa a cinque corazze serve molto sangue; ben
più di quanto ne possieda io da solo, in effetti» aveva
detto Mu il giorno addietro, senza tuttavia specificare esattamente la
quantità di tessuto fluido necessaria.
Per
la
prima, vera volta da quando era entrato lo Scorpione si soffermò a
studiare i resti della cloth che gli stava davanti.
L’armatura
del
Cigno si presentava malridotta al punto tale che l’unico suo
componente vagamente riconoscibile era il diadema; il resto, già
irrimediabilmente compromesso dalle quattordici Scarlet Needles
ricevute, non aveva retto al successivo scontro con Camus – le cui
vestigia, al contrario, riposavano intatte fra le mura ancora
incrostate di ghiaccio dell’Undicesima Casa.
«Come
vorrei che fosse accaduto l’inverso» pensò irrazionalmente, lo
stomaco contratto in uno spasmo «Che fossi tu quello ad aver
perso l’armatura, anziché la vita».
La
meschinità
di un simile desiderio lo fece prontamente vergognare di se stesso,
spingendolo a esplicitare per primo quella che, senza alcun dubbio,
era la volontà comune a tutti i presenti.
«Saremmo
forse
qui, se non fossimo pronti ad accettare qualsiasi rischio? Non è più
tempo degli egoismi: abbiamo un debito da ripagare» esclamò quindi,
con una voce ferma e risoluta che da circa un mese non assomigliava
più alla propria.
Dinanzi
al
generale cenno di assenso che seguì tali parole, Aries sorrise
lievemente: «Molto bene, dunque. Adesso osservatemi con attenzione».
Da
principio,
Mu sollevò il braccio destro proprio sopra ciò che restava
dell’armatura del Dragone, ruotandolo verso l’alto; poi, estratto un
piccolo pugnale da uno dei suoi gambali, si recise la vena cubitale
con un movimento fluido.
«So
che
ai saints di Atena non è consentito indossare armi,» precisò,
incurante del sangue che gli scivolava copioso lungo la parte
inferiore del braccio «ma, a differenza di qualcuno di voi, il mio
cosmo non ha alcuna proprietà che potesse servire allo scopo».
Mentre
Aiolia,
Shaka e Aldebaran dovettero seguire l’esempio dell’Ariete, a Milo
bastò tendere il dito indice.
«Scarlet
Needle»
sussurrò, incidendosi la carne più in profondità di quanto sarebbe
stato necessario; ritrasse l’unghia solo quando sentì la pelle
inondarsi di qualcosa di caldo e vischioso.
Stette
immobile
a osservare il denso liquido scuro colargli dalla ferita sino alle
estremità delle falangi per quella che a lui parve un’eternità; il
passare del tempo era scandito soltanto dal meccanico gocciolare del
sangue sul metallo spezzato delle corazze di Hyoga del Cigno, Shun di
Andromeda, Seiya di Pegasus, Shiryu il Dragone e Ikki di Phoenix.
Più
i
minuti passavano, più l’Ottavo Custode avvertiva il proprio senso
della realtà distorcersi a poco a poco.
La
testa
gli si era fatta stranamente leggera, e aveva come la sensazione di
guardare il suo corpo da una distanza sempre maggiore; strani pensieri
gli si accavallavano in mente all’unisono, ma nessuno di essi era
tanto definito da riuscire ad acquistare un senso compiuto
soddisfacente.
Tic.
Tic.
Tic. Tic. Tic.
Fiotti
rossi
continuavano a sgorgare dalle loro vene esposte, eppure le vestigia di
bronzo erano ancora meri ammassi di frantumi scintillanti.
«E
se non fosse possibile ripararle? Se fossero destinate a rimanere
per sempre così – rotte, inutili, inermi?» si chiese Milo
nebulosamente, indeciso sul reale soggetto della domanda. Si stava
riferendo alle armature, oppure a se stesso?
«Ugh».
L’involontario,
quasi
impercettibile anelito di Shaka lo distolse dalla specie di trance in
cui stava scivolando senza accorgersene.
Scorpio
volse
appena il viso verso quello del compagno posizionato alla sua destra
e non si sorprese di trovarlo mortalmente pallido: a fronte del
vastissimo cosmo di cui disponeva, Virgo aveva una corporatura sottile
che lo rendeva poco avvezzo agli sforzi fisici estremi.
Osservandoli
con
maggior attenzione, notò che anche Mu e Aiolia erano piuttosto
provati; persino il colorito morbido e scuro di Aldebaran pareva
decisamente più cinereo del solito.
Quanto
a
lungo avrebbero potuto continuare, prima di crollare a terra esanimi?
«Mu»
chiamò
il Leone all’improvviso, in un rantolo che sembrò espandersi a
dismisura per tutta la sala «sei davvero
certo che stia funzionando?»
«Abbi
fede,
amico mio: non senti il loro canto farsi più forte di secondo in
secondo?»
«M-ma
di
che accidenti stai parlando?! Io non sento nessun c-»
«Ha
ragione,
Aiolia. Ascolta!» lo interruppe Milo, esortandolo debolmente al
silenzio con la mano libera.
Se
Mu
non fosse stato il primo a parlarne, avrebbe bollato quella strana
musica che gli riempiva le orecchie quale ulteriore effetto
dell’ingente perdita di sangue subita; adesso, invece, la percepiva
chiaramente salire dalle armature di bronzo, dolce e tintinnante come
il rintocco di piccole campane in lontananza.
Era
una
melodia piena, carezzevole, che invogliava ad addormentarsi
lasciandosi cullare dal suo crescendo – oh, quanto gli sarebbe
piaciuto…
«Ehi,
guardate!»
Il
grido
di Aldebaran fu accompagnato dal repentino cessare di ogni altro
suono, e da un lampo di luce bianchissima che li costrinse tutti a
serrare le palpebre per non rimanere abbagliati.
Quando
Scorpio
fu nuovamente in grado di aprire gli occhi, i pezzi di metallo
accumulati ai suoi piedi erano spariti; al loro posto, adesso, si
ergeva un’armatura splendente come ghiaccio irrorato di sole.
La
nuova
corazza del Cigno aveva forme più aggraziate ed essenziali rispetto
alla precedente, e un’intrinseca dinamicità che anche il suo sguardo
inesperto era in grado di apprezzare.
Ne
saggiò
la fattura con le dita, rimanendo colpito dall’inaspettata robustezza
dei materiali.
«Wow,»
sussurrò
fra sé e sé, ammirato «credo che la sensazione di toccare un diamante
debba essere esattamente così».
Anche
le
altre cloths avevano subito notevoli trasformazioni, guadagnando in
armonia e compattezza; i loro colori intensi risaltavano sulle spoglie
colonne bianche come gemme incastonate in una parete d’acciaio.
«Milo,
la
ferita».
«Come,
prego?»
«La
ferita,
Milo:» ripeté Shaka, una scintilla di accondiscendenza nelle iridi
cerulee «tamponala, o morirai dissanguato».
«Oh,
sì.
Grazie» rispose lui, accettando distrattamente la benda offertagli dal
camerata. Aveva perso quasi del tutto la sensibilità del braccio, che
era così intriso di sangue da non sembrare nemmeno più un arto umano.
«Come
hanno
fatto ad assumere queste nuove sembianze? Io credevo che il processo
servisse semplicemente a ristabilire lo status quo ante» chiese poi,
vinto da una strana – antica, dimenticata – curiosità.
Virgo
gli
rivolse un sorriso vagamente enigmatico: «Il sangue è un oggetto
magico molto potente, se sai come usarlo. E Mu, nel suo campo, è senza
dubbio il migliore».
«Maestro
Mu».
L’apprendista
di
Aries, apparso praticamente dal nulla, prima di continuare li salutò
con un piccolo inchino: «Salve a voi, nobili cavalieri».
«Buongiorno
a
te, piccolo Kiki. Non ti ho né visto né sentito arrivare: sei sicuro
di non aver usato il teletrasporto?» domandò Aldebaran, un ampio
sorriso bonario a rischiarargli il volto insolitamente grave.
«Qui
dentro
l’uso della telecinesi è precluso a utilizzatori ben più esperti del
mio discepolo; ciò non toglie che Kiki sia molto bravo a spostarsi nel
più assoluto silenzio» disse Mu in vece del suo allievo, sfiorandogli
la testa con una carezza.
Poi,
si
rivolse al bambino: «Immagino che tu ci abbia interrotto per una buona
ragione».
«Maestro,
i
cavalieri di bronzo ti chiedono udienza».
Alla
notizia,
la fronte di Aries non fu l’unica a corrugarsi.
«Non
credo
si tratti di un caso» mormorò Aiolia, rivolto verso la buia entrata
del Tempio «falli entrare, Mu».
«Siate
i
benvenuti nella mia Casa, cavalieri di bronzo. Avvicinatevi, vi
prego».
Non
dovettero
attendere molto: qualche secondo dopo, infatti, le sagome dei cinque
diletti di Atena emersero dall’ombra.
Avanzavano
con
una titubanza e un riserbo tali da far pensare che fossero intimiditi
dalla situazione; persino il saint di Pegasus pareva meno
sfrontato del solito – lui, che pure aveva avuto a che fare col
Santuario e i suoi abitanti per sei lunghi anni. Pur se confusamente,
Milo si ricordava di quel marmocchio con la bocca troppo larga,
allievo della Silver saint dell’Aquila.
«Grande
Mu!
Ma cosa…» disse questi, spostando perplesso lo sguardo da loro cinque
alle corazze appena tornate alla vita «… cosa significa? A chi
appartengono queste armature?»
Un
barlume
di comprensione passò sul volto antico di Shiryu il Dragone, che gli
stava a fianco.
«A
noi,
Seiya. Sono le nostre vestigia, restaurate… »
«…
col
sangue. Il loro sangue»
concluse la frase il ragazzo castano, le labbra spalancate e
l’espressione incredula «Perché? Perché l’avete fatto?»
«Perché
era
necessario. Siamo stati noi a distruggere le vostre armature, ed era
giusto che fossimo noi a ripararle» rispose Aiolia, con voce intrisa
di dignità e fermezza.
«A
qualunque
prezzo?»
«Qualunque»
dichiarò
sicuro Shaka, replicando al bisbiglio quasi inudibile di Ikki di
Phoenix.
«Esattamente
come
voi, quando vi siete parati dinanzi a ogni Custode dorato che voleva
sbarrarvi il passo» aggiunse il Toro, lanciando un’occhiata eloquente
alla stampella a cui ancora doveva aggrapparsi il cavaliere di
Andromeda – ironico, che il veleno delle rose di Aphrodite fosse
sopravvissuto persino al proprio creatore.
Nonostante
Hyoga
non avesse proferito parola, Milo sapeva benissimo su chi
erano puntati i suoi occhi; si sentiva come trapassato dal celeste di
quell’espressione austera – che
tanto somiglia alla tua, benché i colori non siano gli stessi.
Alzò
quindi
il viso a guardare quello del Cigno, e si stupì di trovarlo commosso
sino alle lacrime.
«Grazie»
gli
sussurrò il Bronze a fior di labbra, tanto piano da non poterne
distinguere il suono.
Scorpio
si
limitò a rivolgergli un cenno della testa, ammutolito da un groppo
alla gola che stava rischiando di soffocarlo.
Sarebbe
stato
bello potersi buttare a terra, strapparsi i capelli e singhiozzare
tanto da non avere più fiato; ignorare status, doveri, responsabilità
e piangere, piangere, piangere – piangere fino a inondare la terra
sopra la tomba di Camus, per toccarlo di nuovo.
«Ma
i cavalieri non piangono
e, comunque, i miei occhi non
sono mai stati tanto asciutti».
«Possiamo…
provarle?»
domandò Seiya dopo qualche minuto, sfiorando la nuova cloth di Pegasus
con infinita riverenza.
Mu
sorrise,
quasi che fosse divertito da tanta premura: «Non devi chiedere a noi
il permesso di indossare la tua armatura, Seiya».
Detto
questo,
i cinque cavalieri d’oro fecero un passo indietro, sì da permettere ai
più giovani di avvicinarsi alle rispettive vestigia; fu sufficiente
una lieve pressione del loro cosmo ad animare le armature, i cui pezzi
andarono a incastrarsi sul corpo dei rispettivi possessori in modo
fulmineo.
Milo
aveva
sempre usato la vestizione automatica poco volentieri, riservandola ai
soli casi davvero urgenti; detestava privarsi del piacere di sentire
la forza delle proprie stelle fluire progressivamente dall’armatura
dello Scorpione alle sue membra – di realizzare il miracolo di essere
un cavaliere di Atena un poco alla volta, senza fretta.
La
battaglia
delle Dodici Case era riuscita a uccidere persino la meraviglia che
per anni aveva conservata immutata: adesso, più che a una seconda
pelle, la cloth di Scorpio gli pareva spaventosamente simile a una gabbia.
«È
magnifico!»
esclamò Shun, rimirando entusiasta le catene rispondere ai suoi
comandi «La mia armatura non è mai stata tanto reattiva!»
«Già,»
aggiunse
Hyoga, stupito «e nemmeno così leggera».
«O
potente»
commentò infine Phoenix, l’espressione un po’ meno corrucciata del
consueto.
«Non
ci
sono parole adeguate a ringraziarvi» disse il Dragone rivolto a Mu,
chinando la testa in segno di profondo rispetto.
Aries
era
sul punto di replicare, ma fu nuovamente interrotto dall’ingresso del
suo pupillo.
«Maestro,
c’è
una persona che chiede di passare».
«Di
chi
si tratta?»
«Di
Maia,
signore».
A
quel nome, le spalle del Primo Custode si irrigidirono appena – per
più di un motivo, probabilmente.
Suonava
stonato
che Maia adottasse tanta formalità, lei che prima soleva entrare e uscire dai Templi con la naturalezza di chi
calpesti il suolo di casa propria; inoltre – e soprattutto –, la
ragazza non avrebbe potuto scegliere un momento peggiore per decidere
di attraversare le Case senza ricorrere ai consueti passaggi
sotterranei.
«Non
farla
entrare, Mu. Non lo sopporterebbe».
L’amarezza
dell’affermazione
di Aldebaran rifletteva l’incresciosa situazione in maniera perfetta.
«Un
Custode
può esimersi dal concedere il passo solo nei casi tassativamente
previsti, lo sai bene» intervenne Shaka, il tono sommesso
miracolosamente privo di qualunque saccenteria.
Pur
riconoscendo
che Virgo aveva ragione, Milo non poté impedirsi di sperare che Mu
cogliesse il suggerimento del proprio vicino di Tempio: non osava
neppure immaginare la reazione di Maia di fronte a quanto da loro
appena compiuto.
Con
estrema
riluttanza, alla fine il saint dell’Ariete cedette al dovere di
diligenza.
«Lasciala
passare,
Kiki, per favore».
Tutto
questo
aveva avuto luogo dinanzi allo sguardo perplesso dei cavalieri di
bronzo i quali, per delicatezza, si erano astenuti da qualsivoglia
commento; una qualche curiosità li spinse però a girarsi verso
l’entrata principale del Palazzo del Montone Bianco alla stessa
maniera dei combattenti dorati.
«Che
sta
succedendo, secondo te?» bisbigliò Pegasus all’orecchio di Hyoga, a
voce non abbastanza bassa da sfuggire al fine udito di Milo «Chi sarà
mai, questa Maia?»
La
brutale,
inaspettata risposta del Cigno risucchiò l’aria dai polmoni di Scorpio
con inusitata violenza: «La compagna di Camus di Aquarius».
«La
compagna?!
E tu come-?»
«Shh!»
lo
zittì l’altro, proprio mentre la figura di Maia si stagliava nella
luce diurna proveniente dall’esterno.
Benché
fosse
stata dichiarata del tutto guarita persino dal proprio mentore,
l’aspetto della giovane continuava ad essere palesemente insano.
Il
suo
corpo era diventato sottile ed aguzzo nell’arco di nemmeno un mese,
tanto che le scapole sporgevano dalla maglietta come ali ripiegate su
loro stesse; sul viso tirato e spento risaltavano nette delle occhiaie
profonde.
Ma
la
cosa che a Milo faceva più male era l’espressione indurita che aveva
ingoiato il sorriso sereno dell’amica, stravolgendone i lineamenti
sino a renderla quasi irriconoscibile.
Sebbene
avesse
pregato ardentemente affinché ella si risvegliasse, da quando era
successo lui e Maia non avevano mai scambiato più di qualche parola,
evitandosi reciprocamente per una sorta di tacito accordo – complice,
forse, anche il bizzarro assetto di rapporti venutosi a creare fra
loro a seguito della finta dichiarazione dello Scorpione.
Le
rare
volte in cui si erano ritrovati da soli nessuno dei due aveva avuto il
coraggio di aprire bocca, rendendo la tensione così palpabile da
costringere l’uno o l’altra ad accampare una scusa qualsiasi per
allontanarsi.
Dopo
le
esequie, le cose erano addirittura peggiorate.
Scorpio
non
sapeva se ciò fosse dipeso dal veto che lui e gli altri avevano posto
sulla sua partecipazione ai funerali, tuttavia, il fatto che la
ragazza avesse smesso perfino di guardarlo in faccia lo spingeva a
credere che questa provasse nei suoi confronti una forma di
risentimento particolarmente acuta – «come
darle torto, del resto? La maggior parte delle volte io stesso non
riesco a tollerare la mia immagine riflessa allo specchio».
«Mu,
che
novità è questa?» chiese Maia, ancora troppo distante per distinguere
bene i dettagli della scena «Da quando costringi il tuo allievo a
farti da uscere?»
Fatto
qualche
passo in avanti, però, la visuale d’insieme le fu subito più chiara.
«Oh»
disse
semplicemente, immobilizzandosi sul posto come una statua di sale.
Dapprima,
i
suoi occhi sbarrati squadrarono i saints di bronzo e le loro vestigia
splendenti, poi si soffermarono con più attenzione su Aiolia,
Aldebaran, Milo, Mu e Shaka; tuttavia, fu solo quando notò le bende
macchiate di rosso e il pavimento intriso di sangue che comprese
davvero.
«N-non
è
possibile,» balbettò a mezza voce «ditemi che non è vero».
«Maia,
ascoltami…
» cominciò Mu, quasi a mo’ di preghiera.
Ma
Maia
non aveva nessuna intenzione di ascoltare. Non stavolta.
«Come
avete
potuto? Come avete potuto prestare il vostro sangue per riparare le
armature di questi assassini?»
sibilò, le membra contratte dallo sforzo di contenersi «Hanno invaso
una terra non loro, senza prima esperire alcun tentativo di
conciliazione; si sono fatti strada con la violenza, trucidando
chiunque non abbia dichiarato la resa. È forse in nome di questa
“giustizia” che sono state sacrificate le vite di Death Mask, Shura,
Aphrodite e Camus?
Contavano così poco, per voi, i vostri compagni?»
Le
sue
parole trasudavano talmente tanta indignazione che sembrava sul punto
di esplodere in milioni di pezzi da un momento all’altro. In tanti
anni Milo non l’aveva mai vista così arrabbiata e, al contempo, così
fragile.
Avrebbe
voluto
avvicinarsi e afferrarle le mani, perché smettessero di tremare;
stringerla contro di sé e sussurrarle che poteva sfogarsi quanto
voleva, come tante volte era avvenuto in passato – un passato
irrimediabilmente estinto, al pari delle persone che erano stati.
«Ti
sbagli.
Era Arles l’unico vero assassino, e noi l’abbiamo fermato».
Prima
che
Maia avesse il tempo di replicare alla rude – ma veritiera –
constatazione di Ikki, Aiolia decise di prendere in mano la
situazione.
«Ha
ragione
lui» disse quindi il Leone, compunto «Quella che ha sconvolto il
Grande Tempio è stata una guerra in piena regola, ed era Arles il
nemico da sconfiggere. Lui e chiunque l’abbia appoggiato,
volontariamente o meno… compresi noi Gold saints».
Poi,
addolcendo
appena lo sguardo, aggiunse: «Credimi, io so bene cosa voglia dire provare rancore: conosco perfettamente la
sensazione bruciante che rende intollerabile anche il solo pensiero di
condividere la stessa aria con chi ti abbia privato di qualcuno a te
caro. Ed è proprio perché so come ti senti che ti suggerisco dal
profondo del cuore di provare a osservare le cose con più distacco.
L’odio è un veleno che appanna la vista e ottenebra la ragione, Maia».
Maia
aveva
ascoltato il discorso di Leo in silenzio, coi pugni serrati e gli
occhi bassi; quando lui tacque, ella rimase nella stessa posizione per
qualche secondo ancora, come se stesse pensando.
«Facile
parlare
a posteriori, eh, Aiolia?» esclamò infine, senza alzare la testa «Non
sei tu quello che ha sputato su ogni passo di Shura per tredici anni,
senza considerare neppure un istante la sua posizione di subordinato?
Lui non era forse un soldato, obbligato a eseguire gli ordini? Sì, lo
era – eppure, hai continuato a detestarlo lo stesso. Non ti sembra
ipocrita, adesso, venire a darmi lezioni di perdono e accettazione?»
«Maia,
stammi
a sentire… »
«NO,
Aldebaran»
rispose lei, girandosi di scatto verso il Toro «non voglio più
ascoltare le vostre scuse.
Come potete fregiarvi del titolo di “protettori dell’umanità”, quando
nemmeno la morte dei vostri più cari amici pare toccarvi? La triste
verità è che, qui dentro, la vita umana non ha alcun valore – e io non
sono più disposta ad avvallare una simile mostruosità».
«Non
puoi
voltare le spalle al Grande Tempio. Fai parte di una famiglia custode»
bisbigliò Shaka, nell’estremo tentativo di riportare Maia alla
ragione.
Tentativo
che,
invece, sortì esattamente l’effetto opposto.
«Oh,
sì
che posso: dopo la morte di mia madre, il titolo di custode è tornato
a mia nonna. Avevamo stabilito che io le sarei succeduta una volta
diventata medico, per cui, ad oggi, è ancora lei a detenerlo. Come
vedi, nessun vincolo di tipo formale – né morale – mi trattiene qui».
A
quel punto, il tono fermo e sferzante della sua voce si incrinò di
botto: «Questo non è più il mio posto. Dopo quanto successo… dopo la
m-morte di C-camus… »
Pronunciare
il
suo nome le dette il colpo
di grazia; incapace di continuare, la ragazza si nascose il viso tra
le mani e corse verso l’entrata della Prima Casa con le spalle scosse
dai singhiozzi, senza voltarsi indietro – «senza
nemmeno un addio».
Guardandola
scomparire
oltre l’arcata, il buco che aveva preso il posto del cuore di Milo si
espanse dolorosamente.
«Non
posso perdere anche lei. Non riuscirei a sopportarlo» pensò,
mentre le gambe si animavano di vita propria e lo conducevano sulla
scia di quella che, per lui, era come una sorella.
Gli
bastarono
poche falcate per raggiungerla fuori, dove ne interruppe la fuga
afferrandola per un braccio.
Maia
si
girò lentamente, quasi si aspettasse che qualcuno avrebbe cercato di
fermarla; nel riconoscerlo, tuttavia, i suoi occhi colmi di lacrime si
spalancarono a dismisura.
«Milo!»
esalò,
incredula «Io… tu, tu non… non
toccarmi!»
«Osa
ancora
toccarmi senza permesso e giuro che di te non rimarrà nemmeno
un briciolo di polvere».
Per
un
attimo le immagini dell’Ottava Casa e del respiro spezzato
dell’Undicesimo Custode su di lui si sovrapposero al presente,
oscurandolo; la somiglianza fra il comando di Maia e quello che Camus
gli aveva rivolto durante il loro ultimo colloquio era stata tale da
spingerlo a mollare la presa ancor prima di rendersene conto.
«Non
andartene,
Maia. Ti prego» disse di getto lo Scorpione, la voce ridotta a poco
più di un sussurro.
«Speravo
che
avessi almeno la decenza di risparmiarti la recita – l’ennesima. Sono
davvero un’ingenua».
«R-recita?
Quale
recita? Ti sto chiedendo di restare perché non posso tollerare di
perdere anche te. Magari non ti sembra, ma giuro c-che… che condivido
il tuo dolore più di quanto immagini».
«Molto,
molto più di quanto immagini».
Per
tutta
risposta, la giovane eruppe in una risata sarcastica: «Oh, questo lo
so bene: te l’ho letto in faccia mentre credevi di non essere visto.
E io, che pensavo di conoscerti come le mie tasche! Ci hai giocati
tutti con grande maestria, devo ammetterlo. Me compresa».
Un
brivido
gelido corse lungo la schiena di Milo, sconquassandola come se fosse
stato denudato di armatura, abiti e pelle.
«Non
capisco
di cosa tu stia parlando» mormorò, senza metterci alcuna convinzione.
«Davvero?
Quindi
per te Camus era solo un amico, giusto? Un caro, carissimo amico e
nient’altro, eh?»
Scorpio
annuì
impercettibilmente, pur sapendo che stavolta nessun trucco sarebbe
stato in grado di salvarlo.
«Sei
uno
schifoso bugiardo!» gridò Maia, crocifiggendolo con un’occhiata «Per
quanto ancora ti ostinerai a negare l’evidenza? Per quanto ancora
fingerai di non essere stato follemente, perdutamente innamorato
di Camus di Aquarius?»
Continua
…
Note
dell’autore
Devo
fare
i complimenti a coloro che, dopo essere sopravvissuti alla parte I, si
siano spinti sino a qui: se esistete, siete davvero coraggiosi – nonché
masochisti, ma io vi amo lo stesso.
A
proposito del precedente aggiornamento, ribadisco con convinzione ciò
che ho scritto nelle note in calce al medesimo riguardo al “What If?”:
il discorso di Mu sui metodi di riparazione delle armature, il concreto
funzionamento della procedura e gli altri aspetti di dettaglio sono
frutto della mia fantasia. Mi trastullo con Saint Seiya dalla notte dei
tempi, ma ciò non esclude che alcune informazioni canoniche possano
essermi sfuggite XD
Maia
fa
un po’ la cagaca***, ne sono consapevole. E tuttavia, è pur vero che
“l’odio è un veleno che appanna la vista e ottenebra la ragione” [cit.
Aiolia]: non so se avete mai provato la sensazione di sentirvi mangiare
da dentro, ma vi assicuro che è un qualcosa di così potente da offuscare
persino la mente più razionale.
Dunque,
dinanzi
a quello che, per lei, è l’ennesimo schiaffo alla memoria di Camus – e
non solo –, la decisione di mollare tutto e lasciare il Santuario ad
annegare nel proprio fango diviene l’unica soluzione praticabile.
Come
ella
stessa ammetterà poi, era soprattutto la sua affezione per i Gold saints
a tenerla lì, non essendo ancora vincolata da un onere formale; venuta
meno questa, la ragazza non ha più alcuna ragione di continuare a
servire un ente divenutole ostile. Soprattutto se la più accorata
richiesta di restare proviene dal suo ex migliore amico che, oltre ad
averle mentito spudoratamente più di una volta, sembra altresì avere
accettato la morte della persona che entrambi amavano senza battere
ciglio.
Non
so
perché mi ostino ogni volta ad annoiarvi con la pseudo psicanalisi dei
“miei” personaggi; sarà che ho il terrore di scadere nell’assurdo,
perdonatemi!
Riguardo
alle citazioni presenti nel testo:
-
«Per
restituire nuova linfa a cinque corazze serve molto sangue; ben
più di quanto ne possieda io da solo, in effetti»
: Capitolo 13, parte I;
-
«Osa
ancora toccarmi senza permesso e giuro che ti di te non rimarrà
nemmeno un briciolo di polvere»
: Capitolo 10, parte I.
(Spero)
a
presto, con la terza – e ultima – parte del capitolo 13!
Un
abbraccio,
e buon Natale a tutti!
|
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Capitolo 21 *** Capitolo 13, parte III: 9 ottobre 1986. Milo ***
Capitolo 13, parte III. Milo
Capitolo
13,
parte III: 9 ottobre 1986. Milo
«Milo
innamorato di Camus?! Maia,
ma cosa
dici?»
La
voce di Aldebaran si
levò all’improvviso, incredula e inaspettata – stonata, così come la presenza di lui, Mu, Shaka e Aiolia sui
gradini antistanti la Prima Casa.
Maia
non dette segno di averli notati, lo sguardo ancora inchiodato a
quello di Milo.
«Ti
ho già detto che non
è così» disse questi automaticamente, senza neppure sapere perché
stesse
perseverando in quella inutile farsa. Aveva creduto che nulla potesse
spaventarlo più dell’orrida realtà in cui si trovava, ma il suo
subconscio,
evidentemente, la pensava in maniera diversa.
«Certo.
Perché “l’oggetto della tua
infatuazione” sono
io, giusto? Cielo, che razza di cretina sono stata. Avrei dovuto
continuare a
seguire il mio istinto, piuttosto che prendere per buone le tue
fandonie»
replicò lei, portandosi di riflesso la mano alla bocca – quasi volesse
pulirla.
«Io…
»
«Non
c’è nulla che tu
possa dire per convincermi del contrario. Ti ho visto, Milo; all’obitorio, il giorno prima dei funerali. Ti ho
visto toccare il cadavere di Camus con una delicatezza che non hai mai
posseduto; ti ho sentito rivolgergli
parole
che mi hanno strappato l’anima, perché sono le stesse che avrei potuto
pronunciare io. Il punto non è più se,
ma da quanto; da quanto
tempo, Milo?
Sei capace di dire la verità, per una volta?»
Dinanzi
a una simile
dichiarazione, lo Scorpione avrebbe potuto fare molte cose. Avrebbe
potuto
domandare a Maia come, perché e quando, oppure accusarla di essersi
inventata
l’intera scena; avrebbe potuto intimarle di tacere, magari
sottolineando la
cosa con un pugno ben assestato sulla prima superficie disponibile.
Invece,
si limitò a
sospirare.
Oh,
al diavolo. Che tutti
ascoltassero pure l’indicibile segreto di Milo di Scorpio: tanto
l’unico di
cui aveva sempre temuto il giudizio non era più in grado di sentirlo.
«Da
quanto tempo provo
qualcosa per Camus, mi chiedi» esordì quindi, vagamente divertito
dalla
facilità con cui le parole rotolavano fuori «Ebbene, non ne sono
completamente
certo neppure io. So solo che non c’è nulla che io rammenti più
chiaramente di
quando lui mi è comparso
davanti dopo
sette anni di lontananza. È stato come… come iniziare a vedere davvero».
Chiuse
gli occhi un
attimo appena, a rivivere quell’istante perfetto: Camus nel sole di
Grecia,
pallido come neve, con lo sguardo altero un po’ smarrito e un tenue
sorriso
sulle labbra sottili: «Sei
proprio tu, Milo?»
Fu
con immenso sforzo che
si costrinse ad accantonare il ricordo – dove Aquarius era più
giovane, meno
austero e vivo – per
tornare alle
faccende presenti.
«Sta
di fatto che, da
quel momento, non sono più riuscito a guardare altro» aggiunse, ormai
dimentico
di ogni pudore «E adesso… adesso sono come un cieco a cui è stata tolta la vista».
Dietro
di lui qualcuno
dei suoi compagni trattenne il respiro, ma egli non se ne curò; la sua
attenzione era tutta concentrata sulle grosse lacrime che, per rabbia
o pietà,
avevano ripreso a scorrere lungo le guance di Maia.
«Se
davvero l’amavi così
tanto,» disse questa, asciugandosi il viso con un movimento brusco
«perché non
gliel’hai mai detto? E, soprattutto, perché
non gli hai impedito di farsi ammazzare?»
A
quella domanda, l’interno
del petto di Milo – incredibile, c’era ancora qualcosa! – si contrasse
in uno
spasmo; tuttavia, prima che potesse rispondere, l’altra riprese a
parlare.
«Lui
sentiva che sarebbe
morto. Non l’ha mai ammesso esplicitamente, ma era evidente che lo
sapeva. Tu, però, eri
troppo impegnato a giocare
alla parte offesa per accorgertene. E dopo… » un singulto « … se io
avessi
presagito ciò che poi è successo, mi sarei buttata in mezzo alla lotta
fra
Camus e il Cigno senza pensarci due volte. Tu, invece, non hai fatto niente.
Nessuno di voi ha mosso un dito
per salvarlo».
«Camus
non voleva essere
salvato. Se mi fossi intromesso, mi avrebbe odiato per il resto della
sua vita»
sussurrò Scorpio, in maniera così labile da essere a malapena udibile.
Se lo
ripeteva sin da quando il cuore di Aquarius aveva smesso di battere:
una
motivazione che, col
passare del
tempo, era divenuta fragile e stantia persino alle sue stesse
orecchie.
«E
ritieni che tollerare
il suo disprezzo sarebbe stato peggio di sopportarne la morte, Milo?
Sei sul
serio così egoista?!»
«N-no.
È solo che… che speravo
capisse. Che facesse passare
Hyoga, come ho fatto io».
«Beh,
se davvero hai
pensato una cosa del genere, allora lascia che ti dica questo: tu non
hai amato
altro che un’idea» sentenziò
Maia,
funerea «Camus non si sarebbe mai fatto da parte in favore di un
invasore, venuto
da chissà dove con la pretesa di distruggere i pilastri della sua
intera
esistenza. Avresti dovuto saperlo meglio di chiunque altro. Avresti
dovuto
sbarrare la strada a quel ragazzino con ogni mezzo e, invece, hai
lasciato che
arrivasse fino all’Undicesimo Tempio e che togliesse la vita ad
Aquarius. Non
hai avanzato obiezioni neppure quando la sua
Dea l’ha rianimato, senza tuttavia degnare di considerazione alcuna lo
sconfitto – lui pure, cavaliere di Atena. E ora, ora hai persino
prestato il
tuo sangue per ripararne l’armatura… »
«Basta
così, Maia»
esclamò Aiolia nervosamente, facendo un passo nella loro direzione
«Stai
esagerando».
Il
monito del Leone
ricordò alla ragazza che altri stavano assistendo al confronto fra lei
e Milo;
il suo sguardo si spostò dunque da Scorpio al resto dei Gold saints in
modo
insopportabilmente lento, come se volesse trapassarli tutti con
un’unica
occhiata.
«Sapete
che c’è? Mi fate
ribrezzo. Tutto di questo luogo “sacro” mi fa ribrezzo. Me lo ha
sempre fatto,
per certi versi, nonostante mi sia impegnata ogni giorno a
nasconderlo; in
virtù del legame di servizio che vincola la mia famiglia, certo, ma
soprattutto
in ragione dell’affetto che
vi
portavo. Ho continuato a fare il mio dovere persino dopo che il
Santuario mi ha
derubato dei miei genitori, perché pensavo che ne valesse comunque la
pena. Ma
ora si è sorpassato ogni limite, e io sono stanca
– del Mondo Segreto, delle sue logiche incivili che non apportano
altro che
morte. Stanca di voi, e specialmente di te»
soffiò poi, di nuovo rivolta all’Ottavo Custode «Non ce la faccio più
a fingere
che tu non abbia avuto ruolo nell’assassinio di Camus. Sei stato tu a
consentire a Hyoga del Cigno di giungere sino a lui, pur sapendo a
cosa sarebbe
andato incontro. L-le tue mani sono sporche di sangue tanto quanto le
sue!»
«MAIA!»
Al
grido di Mu, Maia
sembrò realizzare appieno la portata di quanto aveva appena detto; si
portò
quindi le mani alla bocca inorridita, ma non abbastanza velocemente da
potersi
rimangiare quella che già da tempo era la nenia delle notti insonni di
Milo –
il sussurro strisciante che lo accompagnava ovunque andasse.
“Le
tue mani sono sporche di sangue tanto quanto le sue”:
nient’altro che la pura, terribile verità.
Sentirla pronunciare ad alta voce le dava soltanto un senso ancor più
innegabile.
«Va
tutto bene, ragazzi.
Non importa» mormorò Scorpio, facendo loro segno di non intervenire;
quindi abbassò
gli occhi per incontrare quelli di Maia, vacui ed enormi.
«Hai
ragione
tu:» disse, mostrandole i palmi macchiati di rosso «il sangue secco
che
vedi verrà lavato via a breve, ma quello di Camus continuerà a
bruciare almeno finché avrò vita. Se può consolarti, sappi che avrei
preferito
milioni di volte morire al posto suo… in un certo senso, la Morte ha
preso
anche me. Solo che io respiro ancora, mentre lui no. Mi dispiace,
Maia».
Quest’ultima
lo fissò
senza fiato, scossa da singhiozzi così violenti da impedirle di
parlare. Per un
lunghissimo istante parve quasi sul punto di buttargli le braccia al
collo e
abbandonarsi contro il suo petto, ma poi, chissà come, trovò la forza
di
calmarsi.
Ella
indietreggiò appena,
a percorrere – «per l’ultima
volta?»
– il profilo mutilato delle Dodici Case e le facce di chi era rimasto
sulla
soglia del Primo Tempio, passando dall’espressione addolorata di
Aldebaran a
quella, insolitamente tesa, di Shaka; un poco di più indugiò sui visi
dei suoi
due amici più cari, quasi volesse imprimerseli nella memoria con
maggior
precisione.
«Addio»
sussurrò infine,
accartocciata su se stessa come un involucro vuoto.
Mentre
Maia si
allontanava con tutta la rapidità concessale dalle sue membra
sfibrate, Aiolia
si accostò a Milo in silenzio; poi, sempre senza dire una parola, lo
prese per
mano.
«Come
quando eravamo
soltanto dei mocciosi spaventati» bisbigliò Scorpio, guardando le loro
dita
intrecciate con un sorriso amaro.
«Lo
siamo ancora, certe
volte. Più spesso di quanto pensiamo».
Insieme
osservarono la
figura della ragazza farsi sempre più indistinta gradino dopo gradino,
sino a
che non scomparve dalla loro vista.
*
Il
forte vento di
Scirocco che aveva preso a soffiare a metà pomeriggio si era portato
appresso
enormi nubi nere e viola; una volta addensatesi, queste decisero di
iniziare a
rovesciare il loro carico d’acqua senza alcun tipo di preavviso.
Il
temporale sorprese
Milo lungo la scalinata che collegava la Sesta alla Settima Casa,
costringendolo a percorrere di corsa il resto del tragitto: era così
abituato a
detestare la pioggia da scordare per un momento che di bagnarsi,
attualmente,
non gli importava assolutamente nulla.
Giunse
all’Ottavio Tempio
col fiato corto e le ginocchia molli per la fatica. Si sentiva
terribilmente
spossato, manco avesse combattuto per ore ed ore.
L’interno
dei suoi
appartamenti era buio come a notte inoltrata, ma Scorpio non ebbe
problemi a
trascinarsi a colpo sicuro sino al frusto, sgangherato divano di cui
da mesi
giurava di disfarsi – promessa vana, giacché in vita sua non era mai
stato
capace di disfarsi di niente.
L’intera casa strabordava di oggetti da lui accumulati negli anni,
molti dei
quali non possedevano più nessuna utilità pratica.
Per
esempio, le
bandierine greche acquistate allo stadio di Atene in occasione del
campionato
europeo di atletica leggera troneggiavano indisturbate sugli scaffali
del
salotto dal 1982; poco più in là, invece, faceva bella mostra di sé la
bottiglia vuota di Etna Rosso Riserva che Death Mask si era procurato
tramite
certi suoi conterranei per “allietare” il veglione del Capodanno
precedente;
sul davanzale della finestra di cucina una strana piantina
sudamericana
prosperava miracolosamente senz’acqua, e lo sportello del frigorifero
pullulava
di post-it colorati zeppi degli scarabocchi di Maia. Sopra il comodino
della
camera da letto, accanto al frammento di roccia forato dal suo primo
Scarlett
Needle, stava la confezione di carta da lettere regalatagli da Camus
alla vigilia del proprio rientro in Siberia per addestrare l’aspirante
Crystal saint.
«Casomai
ti prendesse
voglia di scrivermi» aveva
spiegato Aquarius, passandogli
un foglietto contenente l’indirizzo con imbarazzo travestito da
supponenza.
Ma
Milo, che amava fare
le cose in grande, si era stufato di quel mezzo di comunicazione
piuttosto
velocemente. Così, alla prima occasione buona, era volato a Mosca; da
lì aveva
preso la linea transiberiana fino a Tajšet, per poi proseguire con la
più
recente ferrovia Bajkal-Amur in direzione di Tynda. In seguito, tra
mille
imprecazioni contro il freddo, la lingua russa e la neve, si era
imbarcato sul
fiume Lena per Jakutsk, dove aveva noleggiato una slitta trainata da
cani.
Era
giunto a Ojmjakon
dopo dieci giorni di viaggio totali – e con le mani a un passo dalla
cancrena
–, ma il guizzo di genuino piacere che aveva attraversato il viso
esterrefatto
di Camus nel vederselo comparire alla porta della sua isba era stato
ampiamente
sufficiente a ripagare Scorpio di ogni fatica.
«Dobryy
vecher,
‘Mus! Porca miseria, che razza di posto!»
«Putain,
Milo… tu sei, sei… »
«Congelato?
Sì, esatto!
Fammi entrare, piuttosto, prima che ti muoia sull’uscio di casa».
«…
tu sei completamente pazzo».
Gli
sembrava impossibile
che la sua voce fosse
diventata un
mero ricordo.
«Avresti
mai detto che
sarebbe finita così?» domandò, rivolgendosi a un interlocutore che non
poteva
più rispondergli «Perché io no. Mai».
«Lui
sentiva che sarebbe
morto. Non l’ha mai ammesso esplicitamente, ma era evidente che lo
sapeva. Tu,
però, eri troppo impegnato a giocare alla parte offesa per
accorgertene».
Maia
aveva ragione? Camus
si era davvero preparato a morire? Ma allora, perché fermare Hyoga già
alla
Settima Casa?
«Per
impedirmi di combattere una battaglia che egli considerava soltanto
propria?
Oppure per evitarmi la fine a cui poi è andato incontro lui stesso?»
Un
improvviso giramento
gli abbuiò la vista per un attimo, obbligandolo a poggiare la testa
sullo schienale
del divano. Fece qualche respiro profondo, nel tentativo di sfollare
il
cervello dalla nebbia che lo stava rapidamente offuscando; un po’ come
era
accaduto quella stessa mattina, durante il rito.
Pensando
che fosse
decisamente arrivata l’ora di consumare un pasto decente, Scorpio fece
per
alzarsi in piedi, sennonché un secondo capogiro lo colse a metà del
movimento. No,
c’era qualcosa che non andava – l’armatura: doveva essere quella a
togliergli
l’aria. Si spogliò quindi del diadema, poi del busto e del bracciale
sinistro;
nello sfilare il destro, però, realizzò che il suo malessere non
dipendeva
affatto dalle vestigia.
Non
aveva idea di quando
la ferita si fosse riaperta: si era lavato il braccio solo
sommariamente, e
questo doveva avergli impedito di accorgersi della nuova fuoriuscita
di sangue.
Avrebbe dovuto dare ascolto agli altri e andare con loro all’ospedale
da campo
per farsi mettere i punti – se solo fosse riuscito ad accettare che,
stavolta,
non sarebbe stata la sua migliore amica ad applicarglieli. Il solito
cretino
sentimentale.
Con
enorme fatica, Milo
poté infine sollevarsi e arrancare verso il bagno; una volta dentro,
dovette
appoggiarsi al bordo del lavandino per non cadere a terra.
Trovarsi
faccia a faccia
con lo specchio gli restituì un minimo di lucidità, quel tanto che
bastava a
rendersi conto una volta di più di essere diventato molto simile a un
fantasma.
Il suo viso, fino a poco tempo addietro abbronzato e vigoroso,
appariva adesso
spaventosamente ingrigito, come se fosse invecchiato di cinquant’anni;
la linea
della mascella si era fatta talmente tesa da far pensare che l’osso
stesse per
bucare la pelle e uscire fuori da un momento all’altro. Il corpo, poi,
non era
certo messo in condizioni migliori: aveva le clavicole sporgenti quasi
quanto
le scapole di Maia.
Sembrava
stesse
diventando il trasparente contenitore della propria disperazione. Il
lato più
inquietante della faccenda, tuttavia, era che la cosa non lo toccava
minimamente.
La
benda che aveva
applicato ore addietro era tanto intrisa di sangue da aver aderito
alla
lacerazione come una seconda pelle; staccarla, oltre che un bruciore
acuto,
provocò altresì l’ovvio aggravarsi dell’emorragia.
La
ferita era una linea
appena visibile sotto la piega del braccio, sottile ma profonda: dopo
averla
sciacquata e disinfettata, Scorpio la fasciò stretta con una delle
garze
sterilizzate che teneva nel mobiletto delle emergenze. Sperava che
tale
medicazione di fortuna gli desse il tempo di riprendere energie
sufficienti a
trascinarsi fuori e chiedere aiuto a chiunque si trovasse nei paraggi
–
sentinelle adibite alla guardia notturna, perlopiù, data l’ora e le
condizioni
climatiche.
Oppure
avrebbe potuto
usare il cosmo e richiamare l’attenzione dei suoi parigrado: se solo
fosse riuscito
a concentrarne una quantità anche minima…
Milo
ispirò avidamente,
cercando di incamerare più aria possibile; poi, con la massima
cautela, chiamò
a raccolta la propria aura… e tutto si fece buio.
Quando
riaprì gli occhi,
si ritrovò disteso sul pavimento del bagno – o almeno così gli parve:
la testa
pulsava tanto da rendergli difficile persino pensare. Evidentemente,
viste le
sue attuali condizioni, bruciare il cosmo si era rivelato uno sforzo
al di là
delle proprie possibilità.
Non
credeva di essere
rimasto incosciente molto a lungo; fuori, infatti, stava ancora
piovendo. Il
ticchettio dell’acqua contro il soffitto del Tempio produceva un suono
piacevole, rilassante: tutto a un tratto, lo assalì una gran voglia di
dormire.
Ma
sì, ci avrebbe pensato
il giorno successivo alla ferita.
«La ferita… »
La
ferita aveva di nuovo
ripreso a sanguinare.
«Merda.
Merda. Merda!»
Scorpio
utilizzò le
ultime forze che gli restavano per barcollare sino in camera, dove si
lasciò
cadere ai piedi del letto. Dietro di lui si allungava una scia di
piccole
pozze scure – «assomiglia al
succo di
melograno che bevevo da bambino».
Doveva
assolutamente fare
qualcosa finché era in sé: se fosse svenuto ancora, con ogni
probabilità non si
sarebbe più svegliato.
«Morire come un animale scannato… che dipartita gloriosa per un
cavaliere d’oro di Atena».
O
magari, dopotutto,
quella era esattamente la fine che meglio gli si addiceva: spegnersi
nel suo
stesso sangue, versato a mo’ di tributo per gli errori che aveva
commesso.
«Piangerete
lacrime di
sangue, su quella verità che ora vi rifiutate di vedere».
Daidaros
gliel’aveva
detto, che le sue lacrime sarebbero state rosse – rosse come il
dolore. Come
il sangue che non era mai uscito dal corpo congelato dell’Undicesimo
Custode, e
che adesso, per contrappasso, strabordava dal suo.
«Camus
non si sarebbe mai
fatto da parte in favore di un invasore, venuto da chissà dove con
la pretesa
di distruggere i pilastri della sua intera esistenza. Avresti
dovuto saperlo
meglio di chiunque altro».
Era
vero: avrebbe dovuto
saperlo. Ma aveva amato
Aquarius così tanto e così a lungo da non riuscire a vedere come, per
lui,
l’onore venisse ancor prima della Giustizia stessa: una mancanza, la
sua, che a
Camus era costata cara.
Con
che diritto Milo
continuava a vestire i panni di saint se, oltre ad aver creduto a una
chimera
per tredici anni, non era stato neppure capace di salvare la persona
alla quale
teneva di più? No, lui non meritava realmente di combattere fra le
schiere di
Pallade; non era degno di presidiare il Santuario, a cui pure doveva
tutto –
persino la vita.
In
qualunque stagione
dell’anno si fosse, il porto di Adamas non mancava mai di
accogliere i
forestieri col suo sentore di pesce e spezie: sentivi di essere
arrivato a
destinazione ancor prima di vedere i cartelli, quasi che l’odore
fungesse da
infallibile comitato di benvenuto.
Milo
ne ispirò qualche
boccata, socchiudendo gli occhi nel sole di mezzogiorno;
nonostante la calura
estiva, i bianchi contorni delle abitazioni rimanevano netti come
le loro
solide fondamenta di pietra e calce.
«Dunque,
questo sarebbe
il tuo paese natale?» chiese Maia una volta sbarcati, lo sguardo
curioso che
guizzava incerto qua e là.
«No,
questo è il paese
dove ho vissuto sino alla chiamata – avvenuta l’otto novembre
1971, giorno del
mio sesto compleanno. Non so dove sono nato: la Madre Superiora
raccontava di
avermi trovato dentro una vecchia barca incagliatasi sulla
battigia, poco
distante dall’orfanotrofio. È per questo che, all’anagrafe, ero
iscritto come
“Milo Thalássia” – qualcosa come “Milo del mare”, appunto».
«E
tu, Aiolia? Non hai
mai avuto un qualcosa di simile a un cognome?»
Quello,
in risposta,
scosse la testa: «Quando venni alla luce, già sapevano che ero il
predestinato
all’armatura del Leone. Il mio nome non è mai comparso nei
registri
dell’anagrafe nazionale».
«Piuttosto,
Milo»
proseguì subito dopo, esaminando i dintorni «dove si trova
l’istituto? A
Plaka?»
«No.
È proprio ad Adamas,
a circa 500 metri dal porto. A vantaggio di praticità e
riservatezza,
suppongo».
Scorpio
si volse alla sua
sinistra e indicò una viuzza sterrata che si allontanava dal
centro: «Basta
seguire quella strada sino alla curva della costa. Volete che ve
lo mostri? Non
ci vorrà molto, ve lo assicuro».
«Beh,
non vedo perché no.
In fondo, siamo in vacanza!» esclamò Maia, facendogli
l’occhiolino.
Lui
le sorrise di
rimando, vagamente imbarazzato; benché avesse fatto finta di nulla
sino ad
allora, sapeva benissimo che quella gita, lungi dall’essere frutto
di un’idea
estemporanea, faceva invece parte del piano architettato da Maia e
Aiolia per
riportarlo a Milos, sulla sua isola – dove, chissà perché, non
aveva più avuto
il coraggio di tornare.
«L’ultimo
che arriva è un
cavaliere di bronzo!» gridò all’improvviso il giovanissimo saint
di Leo,
iniziando a correre.
Milo
lo imitò a stretto
giro, ridendo forte: «Sempre i soliti trucchi sleali, micio!»
«Ehi!
Non fate gli
idioti, aspettatemi!»
«Non
prendertela, Maia!
Ci vediamo in fondo!»
Zigzagando
tra la folla a
tutta randa, il cavaliere dello Scorpione si lasciò alle spalle
l’ultimo gruppo
di case in brevissimo tempo. Fuori dal piccolo agglomerato urbano
l’aria perse
il suo sapore di pescato in favore di uno diverso, fatto di sale e
terra.
Essendo
un corridore
fenomenale, Aiolia non aveva mai avuto difficoltà a vincere le
gare di velocità
che spesso ingaggiavano; negli ultimi tempi, tuttavia, il Leone si
era fatto
vistosamente più massiccio, sviluppando in potenza e perdendo in
rapidità. L’Ottavo
Custode, invece, presentava ancora le fattezze esili e
fanciullesche tipiche
della prima pubertà: l’unico aspetto positivo della faccenda era
proprio quello
di aver potuto soffiare il titolo di velocista al parigrado.
«Ciao-ciao,
‘Lia!»
schiamazzò Milo, sorpassando l’amico nel punto in cui la strada
piegava
bruscamente a destra; superata la curva, però, il sorriso gli morì
sulle
labbra.
Il
convento dalle cupole
azzurre che ricordava era sparito, volatilizzato, dissolto: al suo
posto, in
un’area delimitata da vecchi nastri segnaletici scoloriti e
strappati dal
tempo, rimaneva soltanto un cumulo di resti bruciacchiati. In
quello che una
volta era stato il cortile interno qualche erbaccia aveva
addirittura
ricominciato a crescere, sprezzante della desolazione generale.
«Cos’è
successo qui?»
chiese Aiolia a bassa voce, dopo averlo raggiunto.
«N-non
ne ho la più
pallida idea».
«Siete…
pant,
pant…
i soliti stronzi! Lo sapete che non riuscirei a starvi dietro
neppure con la
bicicletta, eppure vo-oddio».
Dinanzi
al triste
spettacolo dipanatosi dinanzi a lei, Maia interruppe di botto la
propria
accorata invettiva.
«Un
incendio?»
«Probabile»
rispose
Scorpio, facendo qualche passo verso ciò che restava
dell’edificio; la brezza
proveniente dal mare, di quando in quando, alzava la sabbia in
piccole
nuvolette di polvere scura. Le fiamme dovevano essere divampate
con una
violenza inaudita, se erano riuscite a carbonizzare pressoché
l’intera
costruzione.
A
quel punto, il silenzio
fu bruscamente interrotto dal ragliare di un asino. La bestia era
legata a un
alberello spuntato per caso nei pressi degli scogli, dalla parte
opposta della
spiaggia; il suo padrone stava seduto su uno spuntone di roccia
poco più in
alto, completamente assorto nella contemplazione della lenza
dinanzi a sé.
«Ehi,
signore!»
Al
richiamo di Milo il
vecchio li guardò spaesato per qualche secondo; tuttavia, una
volta appurato
che ce l’avevano proprio con lui, fece loro segno di avvicinarsi.
«Nessuno
ti ha mai
insegnato che non si urla a qualcuno che sta pescando, ragazzo? I
rumori troppo
forti fanno scappare i pesci».
«Vogliate
perdonare la
mancanza di tatto del mio amico. Siamo mortificati» pigolò Maia,
adottando
l’espressione più addolorata che le riuscì di simulare. Il
tentativo di
rabbonire l’uomo, per quanto scontato, andò comunque a segno.
«Umpf,»
grugnì quello, un
po’ meno infastidito di prima «cosa volete da me? Avete perso la
strada di
casa?»
«Ehm,
non esattamente. In
verità volevamo chiedervi se sapete cosa sia accaduto al convento
di Sant’Irene».
Il
pescatore gettò
un’occhiata fugace alle rovine dietro di lui, in silenzio; quando
si girò
nuovamente verso di loro, la sua faccia bruciata dal sole aveva
perduto ogni
traccia di stizza o ironia.
«Mh.
Brutta storia quella»
mormorò, aggrottando la fronte «brutta, bruttissima storia».
«Perché,
che è successo?
Ce lo potete dire?»
«Non
c’è molto da
raccontare: un fulmine colpì il campanile, provocando l’esplosione
di un
incendio. Dato che i soffitti erano fatti per la maggior parte in
legno, le
fiamme attecchirono così rapidamente che neppure la pioggia poté
fermarle».
«M-ma
le suore? E i
ragazzi dell’orfanotrofio?» balbettò Milo, la gola chiusa da un
nodo sempre più
stretto.
«Il
temporale scoppiò ben
prima delle Lodi mattutine. Quando giunsero i soccorritori, il
fuoco aveva già
invaso i dormitori. Non è sopravvissuto nessuno» concluse
l’isolano, sospirando
tristemente «Sono passati tanti anni, eppure lo ricordo come se
fosse ieri: era
la notte a cavallo fra l’otto e il nove novembre 1971».
Se
Milo non fosse nato
con la luce di Antares nelle vene, la sua vita avrebbe trovato termine
dopo sei
anni appena; sarebbe morto insieme a Damian, Georgos, Petro,
Theodoros, Suor
Eleni, Suor Agnes e tutti quelli di cui non ricordava il nome,
lasciando
nient’altro che un mucchietto di cenere dietro di sé.
A
lui, trovatello dal
destino già segnato, Atena non aveva rubato nulla: al contrario. Il
Grande
Tempio era stato la sua salvezza, la sua casa, la sua famiglia – il
suo posto
nel mondo. Indipendentemente da Camus, che pure l’aveva reso migliore.
Ma
era troppo tardi per
tornare indietro, ormai.
Chissà,
magari spegnersi
assomigliava ad attraversare un posto candido e deserto come la steppa
che
circondava Ojmjakon; una volta arrivato dinanzi a una casetta di legno
scrostata dal vento avrebbe dovuto bussare alla porta tre volte e,
infine, lui sarebbe andato
ad aprirgli.
«Sei
proprio tu, Milo?»
«Milo?»
Scorpio
impiegò davvero
molto tempo a rendersi conto che la voce da lui udita non era quella
di Camus.
Qualunque fosse l’origine della nausea che sentiva, poi, di certo non
aveva
nulla a che fare col freddo delle lande siberiane – dove non c’era
quel fortissimo,
pungente odore ferroso.
«Cavaliere,
posso
entrare? Va tutto bene? Ho avvertito il tuo cosmo, poco fa, e mi è
sembrato
spaventosamente debole… ehi, ma cos-»
Rumore
di passi incerti
sul bagnato, esclamazioni soffocate.
«Milo!»
C’era
qualcuno sulla soglia
di camera sua: ne percepiva confusamente i contorni, ma non ce la
faceva
proprio a sollevare le palpebre e guardare chi fosse. Tuttavia, quando
sentì il
respiro del nuovo venuto solleticargli il volto, lo riconobbe.
Hyoga
gli sollevò la
testa delicatamente, guardandolo con un misto di incredulità e orrore:
«Milo,
riesci a sentirmi? Rispondimi, per favore!»
«Hyoga…
» lo Scorpione
aveva la bocca talmente secca da riuscire a stento a parlare «… che ci
fai
qui?»
Il
ragazzo, nel
rispondere, si morse le labbra: «Ecco, io… ero all’Undicesimo Tempio.
Poi ho
sentito il tuo cosmo languire, e… ma cosa è successo?»
«Ho
avuto un piccolo…
incidente» rantolò lui, di nuovo sul punto di perdere i sensi
«H-Hyoga, tu
devi-»
Milo
si interruppe di
colpo, la mente ancorata all’immagine dell’isba in mezzo alla neve: se
avesse
chiuso gli occhi anche per un solo istante forse la porta si sarebbe
aperta sul
serio…
Il
Santuario ha bisogno di te, Milo di Scorpio. Io
ho bisogno di te. Ti prego, resta.
A
quelle dolci parole, improvvise
come una carezza inaspettata, una straordinaria sensazione di calore
avvolse il
petto languente dell’Ottavo Custode – una pienezza
che aveva creduto definitivamente perduta.
Il
tuo dolore è il mio, cavaliere. Non sei solo.
No,
non era solo. Non lo
era mai stato, e sarebbe rimasto esattamente per rendere il giusto
grazie. Finché
la sua missione non si fosse conclusa, non poteva far altro che
rassegnarsi a
vivere.
«Perdonami, Camus. Ti amo – ti amerò sempre –, ma ora devo lasciarti
andare» pensò, mentre il paesaggio di velluto bianco dei suoi
ricordi
sbiadiva e la cruda, solida realtà tornava in superficie.
«Hyoga,
devi portarmi
subito all’ospedale da campo. Temo di aver urgente bisogno di una
trasfusione
di sangue».
Cignus
lo studiò assorto,
stordito e insieme rincuorato da quel repentino guizzo di energia:
«Sei sicuro
di riuscire a reggere la traversata?»
Per
la prima volta dopo
quelli che parevano secoli, dalla gola di Milo salì la tenue ombra di
una
risata.
«Non
fare domande
sciocche, ragazzino. Sono un cavaliere d’oro di Atena, io».
Note
dell’autore
E
così, dopo ben 45 pagine complessive di depressione cosmica, siamo
infine
giunti al termine del capitolo 13.
Porca
paletta,
se è stato un parto – per la sottoscritta, ma soprattutto per Milo.
C’è
una
canzone, di un tale Paolo Vallesi, che recita: “Quando toccherai il
fondo con le dita, a un tratto sentirai la forza della vita”:
ebbene,
questo è pressappoco il senso della sorta di Via Crucis che ho inflitto
al
povero cavaliere di Scorpio.
Nel
caso
di specie, mi è sembrato giusto che tale forza assumesse le vesti di
Atena, sì da correlare l’affezione che l’Ottavo Custode prova per il
Santuario
a un legame di fede più profondo; il fatto che la Dea intervenga proprio
nel
momento in cui Milo ha più bisogno non può che confermare quanto egli,
in
fondo, ha sempre pensato: “Il Grande Tempio era stato la sua
salvezza, la
sua casa, la sua famiglia – il suo posto nel mondo. Indipendentemente
da Camus,
che pure l’aveva reso migliore.”
La
scelta
di affidare a Hyoga la vita “fisica” dello Scorpione, invece, è stata
dettata dall’intento di agevolare la transizione di questi verso
l’accettazione
della morte di Aquarius; a differenza di Maia, Milo ha avuto plurime
occasioni
per constatare come il Cigno non sia affatto un assassino e l’episodio
in
questione ne rappresenta l’ulteriore – e più importante – riprova.
Nel
buttare
giù questo capitolo ci ho messo così tanto sentimento che potrei
continuare a parafrasarlo per ore; mi astengo dal farlo soltanto per
amor
vostro, e passo ai soliti dettagli “tecnici”:
-
“l’oggetto della tua infatuazione”
:
espressione tratta dal capitolo 7, parte I.
-
“le
bandierine greche […] 1982” : nel 1982 Atene ospitò veramente la
tredicesima edizione dei campionati europei di atletica leggera, i quali
vennero disputati allo stadio olimpico Spyros Louīs.
-
L’Etna Rosso Riserva è un vino avente Denominazione di Origine
Controllata
(DOC), prodotto in alcuni comuni della provincia di Catania. A discapito
di
altre etichette più famose (come il Nero d’Avola, per intenderci), ho
scelto
questa in omaggio alle origini di Death Mask.
-
La
ferrovia transiberiana è la ferrovia che attraversa l'Europa orientale e
l'Asia
settentrionale in territorio russo, collegando Mosca con le regioni
centrali e
orientali della Siberia: avviati nel 1891, i relativi lavori di
costruzione
terminarono nel 1916.
La
ferrovia Bajkal-Amur, di successiva
realizzazione, si snoda invece da Tajšet sino a Komsomol'sk-na-Amure,
arrivando
a toccare l’estremo oriente russo.
All’epoca
in cui Milo decise di andare a
trovare Camus a Ojmjakon (che, per inciso, è uno dei tre paesi a
contendersi il
titolo di “Polo nord del freddo”) soltanto il tratto Tajšet – Lena era
stato
completato; da qui, la necessità che Scorpio raggiungesse Jakutsk (da
cui era
possibile procedere verso l’entroterra). Sì, un gran casino.
-
“Dobryy vecher” : “buonasera” in
russo.
-
“Putain” : espressione che, in
francese, può assumere significato più o meno volgare; tuttavia, qui è
intesa
quale esclamazione di sorpresa similare al precedente “Porca miseria” di
Milo.
-
«Piangerete lacrime di sangue, su
quella verità che ora vi rifiutate di vedere» :
frase tratta dal capitolo 7, parte I (e disseminata un po’ ovunque, in
realtà).
-
Con riferimento al flash-back, spero di aver creato un contesto
sufficientemente chiaro.
Milo,
trovatello
accolto dal convento-orfanotrofio di Adamas (porto della città di
Plaka, capitale dell’isola di Milos), venne condotto al Santuario da un
delegato del Grande Tempio l’otto novembre 1971, giorno del suo sesto
compleanno. Ciò gli permise di scampare all’incendio che, la notte
immediatamente successiva, distrusse detto convento e le vite di chi vi
abitava.
Le
Lodi
mattutine, nell’ambito della Chiesa cristiano-cattolica, rappresentano
una
delle due maggiori ore canoniche della Liturgia delle Ore: sono recitate
nelle
prime ore del mattino, non lontano dall'alba.
Orbene,
metto
finalmente un punto a queste interminabili note ringraziando chiunque
legga e/o recensisca questa storia!
Un
abbraccio,
Irene
|
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Capitolo 22 *** Capitolo 14: marzo 1988. Shaka, Maia ***
Capitolo 14. Shaka, Maia BG
Capitolo
14: marzo 1988. Shaka, Maia
Ho
avuto il coraggio di guardare indietro
i
cadaveri dei miei giorni:
segnano
la mia strada e li piango.
Guillaume
Apollinaire
Nel
monastero
Theravāda si predica che i diletti di Virgo vengano al mondo
illuminati dall’abbacinante riflesso di Spica, l’astro che
nella volta celeste per quindicesimo brilla di più.
Forti
di
una simile luce interiore, essi non hanno bisogno di guardare per vedere,
né di conoscere per sapere: la verità si schiude loro
dinanzi come i fiori di loto al passaggio del Gautama e non hanno
altra missione che quella di divulgare il Verbo di Atena al resto dei
mortali.
Shaka
della
Vergine era stato svezzato a suon di tale assioma, e ci aveva dunque
creduto per gran parte della propria esistenza; del resto, che fosse
gradito o meno, il Vero aveva sempre bussato alla sua porta
spontaneamente – come quando, ancora infante, aveva scoperto di essere
il frutto dello stupro perpetrato da un inglese ai danni di una
contadina indiana malata di mente; o come quando, non molto tempo dopo, si
era reso conto che la maggioranza degli uomini è troppo impegnata a
sopravvivere per interessarsi a cosa comandino i Cieli.
A
dispetto della loro infinita saggezza, però, i monaci di Lumbini
avevano mancato di considerare due risvolti fondamentali.
Primo:
esistono
alcune verità che, lungi dallo svelarsi da sole, devono essere cercate.
Secondo:
se
pronunciate per bocca di uomini empi, persino le Volontà della Dea
possono essere manipolate.
Anche
questi
ultimi due assunti erano arrivati dinanzi agli occhi – chiusi – del
Sesto Custode senza invito alcuno, palesandosi insieme nei panni
dell’irruento cavaliere della Fenice.
Ikki
di
Phoenix era comparso nel Tempio della Vergine in una lingua di fuoco,
con lo sguardo scuro e la cruda sfrontatezza di chi arriva
dall’Inferno; nell’arco di appena un’ora aveva sperimentato l’oblio
dei sensi, oltrepassato la porta dell’Ade e costretto Shaka ad
accettare l’indicibile. Poi, come se non fosse stato già abbastanza,
era tornato dalla morte giusto in tempo per frapporsi tra Seiya e
Gemini, consentendo al saint di Pegasus di portare a termine con
successo la fatidica scalata delle Dodici Case.
In
passato,
mai e poi mai Virgo avrebbe pensato che la Verità potesse discendere
da un uomo come Ikki; dopo averlo conosciuto, invece, aveva dovuto
constatare che egli era capace di scindere il bene dal male molto
meglio di quanto lui stesso fosse mai stato in grado di fare.
A
seguito della cacciata di Arles, il Bronze aveva preso la bizzarra
abitudine di tornare alla Sesta Casa a cadenze più o meno regolari.
Sembrava quasi che, non pago di avergli stravolto l’esistenza, volesse
continuare a coglierlo di sorpresa quando meno se l’aspettava.
«Salve,
Virgo»
disse semplicemente quel giorno, presentandosi sulla soglia del Tempio
come se quella fosse la cosa più naturale del mondo «è
passato un po’ dal nostro ultimo incontro. Mi stavo chiedendo se, nel
frattempo, tu non avessi raggiunto il Nirvana».
Ikki
aveva
occhi e capelli nerissimi, spalle ampie e un’espressione sin troppo
adulta per appartenere a un ragazzo di quindici anni; ogni sua parola
era ammantata da un sottile strato di sarcasmo, sì che non riuscivi
mai a capire davvero fino a che punto fosse serio.
“Salve
a
te, Phoenix. L’avrei raggiunto da un pezzo, se tu non mi seccassi
tanto spesso” avrebbe risposto Shaka in condizioni ordinarie,
mentre gli tendeva la mano in segno di saluto.
Al
momento,
però, non era nello stato d’animo adatto a portare avanti una delle
loro solite schermaglie: quella della Fenice non era stata la visita
più imprevista della giornata, e Virgo doveva ancora assimilare le
implicazioni della precedente.
«Qualcosa
non
va, Shaka? Per quanto tu sia poco simpatico, generalmente non arrivi a
fingere di ignorarmi».
«Perdona
la
scortesia, ma stavo riflettendo su un fatto… insolito».
Senza
attendere
un invito a sedersi, il cavaliere di bronzo si accomodò su uno dei
gradini antistanti il Fiore di Loto dove Shaka soleva meditare; di
norma non avrebbe gradito guardarlo dal basso verso l’alto, e tuttavia
anche lui sembrava essersi fatto più interessato all’inquietudine del
Gold che non alle loro reciproche prove di forza.
«Che
genere
di fatto, se mi è concesso sapere?»
«Mi
è
stato chiesto un favore».
«Se
non
hai intenzione di approfondire il discorso, dillo apertamente. Non mi
offenderò» sbottò Phoenix, sicuramente infastidito da quel procedere a
monosillabi.
Il
Sesto
Custode gli rivolse un’occhiata dubbiosa; nonostante l’umiltà fosse
l’esercizio che praticava in maniera più assidua da quasi due anni,
chiedere consiglio continuava a risultargli particolarmente ostico.
«Ti
ricordi
di Maia, non è vero?» sospirò quindi, deciso a fare almeno un
tentativo: al di là della mera apparenza, Ikki non era tipo da dare
giudizi affrettati. Anche se non l’avesse aiutato a capire, la sua
opinione avrebbe potuto comunque rivelarsi utile.
«Maia?
Non
è la custode che ha lasciato il Santuario, quando… »
«…
quando abbiamo riparato le vostre armature. Sì, lei» concluse Virgo,
evitandogli l’imbarazzo di specificare.
Dopo
l’accaduto
i Bronze non avevano domandato spiegazioni di sorta, ma persino lui
sapeva che i dettagli erano arrivati anche alle loro orecchie.
«Ebbene,
sua
nonna – la vera custode della famiglia Ninis, per inciso – se n’è
andata da qui poco prima che tu arrivassi. Mi ha pregato di convincere
la nipote a tornare».
Estrasse
un
foglietto spiegazzato da una piega della tunica per leggere di nuovo
l’indirizzo scritto al suo interno.
“Tositsa,
civico 78”.
Dentro
quella
scarna manciata di lettere stava l’accorata supplica di un’anziana
donna rimasta sola, che aveva deciso di riporre in lui tutte le
proprie speranze.
«Si
è
smarrita, Shaka. Ha perso se stessa, ma rifiuta categoricamente di
farsi aiutare. Però, dove la mia mano tesa ha fallito, forse la
Vostra potrebbe ancora riuscire».
Shaka
non
aveva chiesto a Frandra Ninis le ragioni della sua scelta, ma – a
differenza di quanto sarebbe avvenuto prima – una simile
decisione lo lasciava tuttora perplesso.
«Perché
io?» si era domandato subito dopo quello strano colloquio,
affacciandosi dalla Casa della Vergine per osservare le Dimore di
Aries, Taurus e Leo stagliarsi nel candore del giorno «Perché non
uno di loro, invece?»
Perché
non
Aiolia, così risoluto, amico d’infanzia e di sempre?
Perché
non
Mu, dotato di invidiabile tatto, o il generoso Aldebaran?
«Ciascuno
di
essi sarebbe più adatto di me ad affrontare una missione di questo
genere, e lei lo sa. Perché proprio io, dunque?» chiese, ripetendo ad
alta voce i dubbi che gli affollavano la mente.
La
Fenice
rimase in silenzio per qualche attimo, sfregandosi distrattamente le
nocche; infine, come divertito dalle sue stesse riflessioni, scoprì i
denti in un sogghigno.
«Non
capisco
cosa ci sia da ridere».
«Non
lo
capisci perché sei totalmente privo di senso dell’umorismo, caro il
mio bonzo» esclamò bonariamente il saint più giovane.
Poi,
fattosi
serio, riprese: «Non conosco né la ragazza né sua nonna, ma la
spiegazione mi pare evidente. Fra i cavalieri d’oro che hai menzionato
nessuno ha dovuto rivedere le proprie posizioni quanto te».
A
quelle parole, una smorfia di disappunto attraversò il volto di Shaka.
Non
gradiva
che gli si ricordasse l’enormità dei suoi errori, soprattutto perché
sottolinearla sembrava rendere inutili i tentativi di fare ammenda in
cui si stava strenuamente impegnando; tuttavia, credeva di aver capito
dove volesse andare a parare l’osservazione di Ikki.
«Servono
coraggio
e lungimiranza per imparare dai propri sbagli: tu, Shaka, hai
dimostrato di possedere entrambi in abbondanza» riprese quest’ultimo,
fissandogli le braccia piagate con inusuale intensità «Dunque, chi
meglio di te potrebbe insegnare a qualcuno come fare altrettanto?»
«Sempre
che
questo qualcuno sia disposto ad ascoltare» mormorò Virgo a fior di
labbra, poco convinto.
Lui
non
lo era stato, al punto che Phoenix aveva dovuto costringerlo con la
forza; cosa avrebbe fatto se Maia si fosse rivelata parimenti
ostinata?
«Sapete
che
c’è? Mi fate ribrezzo. Tutto di questo luogo “sacro” mi fa
ribrezzo».
Chissà,
magari
la rabbia e il risentimento che un tempo provava nei loro confronti si
erano sedimentati tanto da renderla inavvicinabile; per quanto
pensarci gli risultasse sorprendentemente detestabile, non poteva
escludere l’ipotesi che la ragazza si rifiutasse persino di riceverlo.
In
ogni
caso, stavolta non avrebbe atteso che fosse la verità a presentarglisi
davanti: sarebbe andato personalmente a scovarla. Aveva dato la sua parola.
«Vi
scongiuro,
nobile Shaka: riportatela al Santuario. Riportatela a casa».
***
La
settimana
precedente non aveva fatto altro che piovere, al punto che l’umidità pareva
essersi appiccicata alle pareti con invidiabile tenacia; nonostante il
sole battesse sui vetri da più di due ore, la stanza continuava a
risultarle gelida ai limiti del sopportabile.
Maia
si
strinse meglio nella coperta di pile, incurvando le spalle tanto da
sfiorare i bordi della scrivania. Stava seduta su quella sedia da
tempo immemorabile, ma la colonna di fogli e libri impilati dinanzi a
lei non accennava ad abbassarsi – anzi: le
pareva
che la disperata sessione di studio alla quale si era sottoposta le
avesse apportato soltanto uno spiacevole mal di schiena.
Sollevatasi
con
un pesante sospiro, la ragazza prese a percorrere in lungo e in largo
la sua camera da letto, socchiudendo gli occhi nell’infruttuoso
tentativo di affogare nel buio nozioni di anatomia, angosce e pensieri
di varia natura; poi, stufa anche di quello, finì per accomodarsi sul
davanzale della finestra.
All’esterno
era
una mite domenica di metà marzo.
Le
prime
avvisaglie della bella stagione in arrivo avevano spinto la maggior
parte degli ateniesi fuori di casa, sì che adesso le strade
brulicavano di chiacchiericcio, rumore di risate e di passi; benché il
palazzo dove abitava fosse situato alla periferia del quartiere,
riusciva comunque a distinguere chiaramente il brusio della folla
levarsi in lontananza.
«Io
e
le altre andiamo a goderci un po’ di sole in centro; ti va di
venire?»
«Mi
piacerebbe,
Antea, ma sono terribilmente indietro col ripasso di Anatomia
umana».
«Anche
io
sono in sessione, però non mi importa! Eddai, Maia, stai sempre a
studiare: esci con noi, un po’ di svago ti farebbe soltanto bene!»
«Sarà
per
dopo l’esame. Salutami le ragazze».
Antea,
che
frequentava Maia sin dalla scuola primaria, non aveva mai compreso il
motivo per cui quest’ultima fosse così attaccata al suo paese natale
da volerci tornare non appena possibile; era perciò rimasta
piacevolmente sorpresa quando, poco meno di due anni addietro, la sua
stramba amica aveva improvvisamente manifestato l’ardente desiderio di
trasferirsi ad Atene.
Così,
cogliendo
la palla al balzo, ella le aveva proposto con entusiasmo di prendere
in locazione la seconda singola dell’appartamento dove abitava: da
molto cercava qualcuno con cui dividere le spese, e la Ninis le era
sempre stata simpatica.
«Povera
Antea,
che delusione devo essere stata» mormorò Maia, ripensando alla triste
rassegnazione con cui la coinquilina aveva accolto il diniego di poco
prima – l’ultimo di una lunga serie.
Conoscendola
da
anni, Antea si era accorta piuttosto velocemente che la sua nuova
convivente non possedeva quasi nulla della ragazza ironica e piena di
interessi con la quale soleva passare del tempo; l’ordinato robottino
che si era presa in casa viveva esclusivamente per le lezioni, il
tirocinio in ospedale e i manuali.
A
nulla erano valsi i suoi tentativi di capire che cosa avesse provocato
un cambiamento tanto radicale nell’amica, e ancor meno erano serviti
quelli atti a smuoverla dall’apatia: il cortese mutismo di Maia
dinanzi a qualsivoglia domanda era stato così ostinato da indurla a
rinunciare del tutto nell’arco di una manciata di mesi.
Ad
oggi,
dubitava persino che ad Antea importasse ancora sapere e, del resto,
lei non la biasimava affatto – così come non biasimava se stessa. Non
poteva farci niente se, ai suoi occhi, il mondo aveva perso qualunque
attrattiva.
L’insaziabile
acredine
dell’inizio era scemata più in fretta di quanto avrebbe desiderato,
lasciando il posto a nient’altro che puro e semplice disgusto.
Non avrebbe saputo indicare con esattezza il momento in cui era
accaduto, ma da allora esso pareva grondare da ogni cosa.
Quello
che
prima aveva amato adesso la lasciava indifferente, suscitandole
tutt’al più un vago senso di stantio dèjà-vu; la sua perenne
curiosità era stata sostituita da un labile ma costante sentore di
repulsione che, pur non impedendole di fare quanto necessario, la
privava della ben che minima passione.
Si
alzava
la mattina presto, si vestiva, usciva di casa, seguiva i corsi,
mangiava, andava all’ospedale, mangiava di nuovo, studiava, si lavava
e andava a dormire, per poi ricominciare daccapo il giorno successivo:
non c’era spazio per altro, né lei aveva interesse a trovarlo.
E
poi aveva sempre, sempre freddo.
Non
c’erano
maglione, stufa o temperatura elevata che fossero in grado di
riscaldarla: in estate e in inverno, con la pioggia o col sole, Maia
si sentiva perennemente avvolta da uno spesso strato di nebbia
ghiacciata.
Quella
sensazione
non la lasciava mai – «a differenza di qualcun altro» –, e
stava cominciando a temere che se la sarebbe portata addosso per il
resto della vita.
Dlin-dlon.
Dlin-dlon.
Il
suono
del campanello giunse così inatteso da farla sobbalzare: non aspettava
nessuno, né pensava che a qualcuno fosse venuta voglia di farle
un’improvvisata. Forse Antea aveva dimenticato le chiavi, succedeva di
frequente.
Dlin-dlon.
«Arrivo!»
gridò,
scendendo scompostamente la rampa di scale che separava il loro
appartamento dall’ingresso del condominio.
Anche
a
lei in passato era stata un tantino sbadata, ma Antea esagerava; prima
o poi le sarebbe capitato di rimanere chiusa fuori durante uno dei
suoi turni, Maia ci scommetteva l’esame.
«Non
prendertela,
Antea, ma dovresti davvero farti fare una copia di riserva da tenere
sempre appresso» esclamò, una volta spalancato il portone principale
«Se continui così, finirai pe-»
Il
resto
della frase le morì in gola, soffocato dal tintinnio del mazzo di
chiavi sul selciato e dall’assurdo, assordante rumore dei propri
battiti cardiaci.
«Non
può
essere».
Per
nulla
turbato dal suo silenzio, Shaka di Virgo si chinò a raccogliere le
chiavi di Antea con un movimento elegante.
«Namasté,
Maia».
***
Rivederla
era
stato come tornare in un luogo caro e trovarlo mutato.
La
persona
che gli aveva aperto la porta del civico 78 di via Tositsa non era il
mare in tempesta che temeva, ma neppure il limpido fiume dei suoi
ricordi; somigliava piuttosto a un immobile specchio d’acqua
stagnante, pronto a inghiottirti al primo passo falso.
Maia
non
aveva più l’aria insana del periodo immediatamente successivo la
battaglia delle Dodici Case. Doveva aver rimesso su qualche kilo, e le
pesanti occhiaie che le segnavano il volto erano state sostituite da
un’ombra violacea vagamente percettibile; persino la piega della bocca
sembrava essersi stemperata in una linea meno dura, sì che la sua
espressione amara aveva assunto una sfumatura del tutto incolore.
Nonostante
questo,
Shaka non riusciva a rinvenire nessuna traccia dello spirito fluido
che un tempo l’aveva contraddistinta: non c’era entusiasmo nei suoi
gesti, non una nota vibrante a inspessirne il timbro piatto della
voce.
Gli
occhi
neri fissavano opachi dei punti determinati, mancando di saettare qua
e là come erano soliti fare una volta, e i capelli… i capelli,
originariamente biondo cenere, adesso erano di una sgradevole tonalità
rossiccia che nulla aveva in comune con quella da cui presumibilmente
traeva ispirazione.
Dopo
essere
saliti in casa, Maia l’aveva fatto accomodare nella piccola cucina del
suo appartamento; gli aveva servito un bicchiere di latte freddo e un
po’ di frutta, accompagnando il tutto con una raffica di parole tanto
intensa quanto impersonale.
Era
chiaro
come il sole che il suo intento fosse quello di procrastinare il più
possibile l’inevitabile confronto, ma Shaka non avrebbe potuto
assecondarla per sempre neppure se avesse voluto.
«Non
so
se sei passato per il viale principale del quartiere: alcuni dei
graffiti sui palazzi padronali sono davvero splendidi! Ci sono dei
momenti della giornata in cui sembrano enormi farfalle inquiete, e-»
«Questo
non
è il tuo posto, Maia».
La
giovane
reagì a quella brutale interruzione serrando le mani sulle ginocchia:
«C-come?»
«Mi
hai
sentito» sospirò Virgo, cercando di inchiodare lo sguardo di lei al
proprio «non importa quanto tu stia provando a farti piacere il tuo
nuovo stile di vita: dentro di te, sai benissimo di appartenere a un altro
luogo. Lì hai lasciato il cuore, e lì è giusto che tu faccia ritorno».
«Ti
sbagli:
il luogo di cui parli non esiste più – così come non esiste
più la Maia che conoscevi».
L’inflessione
monocorde
da lei usata lungo tutta la precedente conversazione si era già
incrinata, lasciando intravedere i primi spiragli di astio nascosto:
Shaka decise di buttarsi a capofitto in quelle crepe, perché soltanto
là sotto avrebbe potuto ritrovare la vera Maia.
«Hai
ragione:
il Santuario in cui hai vissuto non esiste più. Il Grande Tempio è
risorto dalle ceneri dell’inganno e ora, finalmente, risplende della
luce di Giustizia – la stessa di cui, prima di andartene, tu stessa
hai denunciato la mancanza» decretò quindi, risoluto; poi, addolcendo
appena il tono, aggiunse: «Credimi, ho trascorso moltissime ore a
pensare alle tue ragioni. Non sono qui per giudicare il risentimento
che ti ha animato all’indomani della scalata delle Dodici Case: esso
era dettato dal dolore per quanto accaduto, lo comprendo. Tuttavia,
Maia, noi siamo guerrieri. Guerrieri che credevano di
combattere in nome di Atena, e che invece militavano dalla parte sbagliata.
Le morti prodotte quel giorno sono state vane, ma non per colpa dei
cavalieri di bronzo: se tutti noi Gold saint, compresi Camus e gli
altri-»
«Non
ti
azzardare a parlare di lui, Shaka» ringhiò Maia a quel punto,
dimentica di ogni diplomazia «Non voglio sentirne pronunciare neppure
il nome. Anzi, ciò che assolutamente non voglio è continuare questa
conversazione: la mia esistenza è andata in milioni di pezzi, e io
desidero solo dimenticare. Non so come tu sia riuscito a
rintracciarmi, ma è stato del tutto inutile: ti prego di tornare da
dove sei venuto. Subito» concluse, alzandosi di scatto e indicandogli
la porta.
«È
stata
tua nonna a chiedermi di intercedere presso di te. Teme che tu abbia
perso te stessa: da ciò che vedo, sono propenso a credere che abbia
ragione».
«Invece
avete
torto entrambi. Ora vattene, e dille di non provare mai più a fare una
cosa simile. Se desidera vedermi, conosce il mio indirizzo: il resto
non mi interessa».
No,
Shaka non le credeva: era troppo in collera perché davvero non le
importasse. Come se, sotto la patina di indifferenza, covasse ancora
intatti i sentimenti che l’avevano resa viva. Bastava scavare,
dunque?
Fu
proprio per scoprirlo che il saint della Vergine rimase fermo al suo
posto, nonostante l’accorato invito a congedarsi.
«Era
solo
questione di tempo. Qualcuno avrebbe comunque deciso di venirti a
cercare, presto o tardi: come ho detto, tu appartieni al Santuario –
perché il Santuario appartiene a te. Gli hai dedicato i tuoi sogni ben
prima di innamorarti di Camus».
«TI
HO
DETTO DI NON NOMINARLO!»
Che
strano:
l’ira di Maia aumentava ogniqualvolta la discussione toccava il
defunto cavaliere dell’Acquario. L’accanimento con cui ella si
rifiutava di rammentarlo sembrava sottendere un bizzarro meccanismo
difensivo, quasi che…
«Sei
arrabbiata
con lui, vero?» domandò Shaka, ormai certo della sua improvvisa
intuizione.
«Cosa?»
«La
tua
rabbia verso Hyoga del Cigno, il Grande Tempio e noi tutti è soltanto
lo specchio di ciò che provi nei confronti di Camus. In realtà, è con
lui che ce l’hai in misura maggiore».
Maia
si
morse le labbra e abbassò lo sguardo, d’un tratto smarrita: «N-no. Ce
l’ho con Cignus perché ha ucciso un uomo unicamente per reclamare un
potere non suo; ce l’ho con Atena e il Grande Tempio perché propugnano
la pace, ma di fatto hanno portato solo guerra. E ce l’ho con voi
perché non avete voluto difendere i vostri compagni – né prima
né dopo».
Tali
parole
ricalcavano fedelmente quelle da lei pronunciate nell’ottobre dell’86,
eppure mancavano della medesima convinzione: parevano invero far parte
di un discorso artefatto, imparato a memoria e non del tutto condiviso
– simile a quelli che Virgo si era ripetuto per una vita intera.
«Hyoga
ha
fatto soltanto il proprio dovere – come ogni buon soldato: l’hai detto
tu stessa di Shura, rammenti? –, e ti posso assicurare che ne sta
pagando tutt’ora le conseguenze. Atena propugna la pace, è vero, ma è
stato Arles a volere la guerra: senza il suo imbroglio, la battaglia
delle Dodici Case non avrebbe avuto ragion d’essere. E noi superstiti…
»
«Ecco,
voi: cosa avete fatto voi? Perché adesso tu sei qui, mentre loro
stanno tre metri sotto terra? Perché tu hai avuto la possibilità
di salvarti, al contrario di Camus?» esclamò la ragazza, nell’estremo
tentativo di smontare l’argomentazione che più poteva essere
confutata.
«Non
fraintendermi,
sono… felice che tu sia vivo» aggiunse subito dopo, sporgendosi sul
tavolo per prendergli la mano «ma non riesco a capire come abbiate
potuto accettare passivamente il corso degli eventi rimanendo immobili
nelle vostre corazze. Come se non vi importasse nulla».
Il
Sesto
Custode fissò per un attimo le loro mani, imbarazzato. Il gesto di lei
era stato spontaneo, dettato dalla foga, eppure l’aveva messo
fortemente a disagio: non era abituato a quel genere di contatto.
Sciolse
la
presa in modo garbato, con la scusa di accomodarsi meglio sullo
schienale – doveva rimanere concentrato.
«Mu
è
intervenuto in mio soccorso soltanto perché gliel’ho chiesto.
A differenza di Death Mask, Shura, Aphrodite e Camus, io volevo essere
salvato:
se avessi deciso altrimenti, Ikki di Phoenix non sarebbe mai potuto
tornare dall’Ade. Non
si
è trattato di mancanza di affetto, Maia, ma di rispetto della volontà
dei nostri camerati: è stato Camus a scegliere di andare fino in
fondo, e tu lo sai – ed è per questo che non l’hai ancora perdonato».
Nell’ascoltarlo,
gli
occhi della greca si erano riempiti di lacrime a poco a poco; stava
rannicchiata sulla propria sedia con le spalle incurvate, quasi a
volersi schermare da quanto le stava dicendo.
«Perché
l’ha
fatto?» singhiozzò debolmente, rivolta forse a lui, forse a se stessa
«Perché ha preferito morire, pur di non ammettere di essersi
sbagliato? Sapeva cosa – chi – avrebbe lasciato: perché non è stato
sufficiente a farlo desistere?»
Dinanzi
al
suo dolore Shaka rimase in religioso silenzio; del resto, non avrebbe
affatto saputo come replicare.
«Ero
conscia
di quale fosse il suo pensiero: più volte mi aveva lasciato intendere
che, per lui, l’onore era la cosa più importante di tutte. E-eppure
non sono riuscita a fargli cambiare idea. Ho dato la colpa a voi,
quando l’unica responsabile sono io. S-se penso a ciò che ho detto a
M-milo… »
All’immagine
di
Scorpio, Maia smise improvvisamente di piangere.
«Come
sta,
Shaka? Come sta Milo?» chiese quindi con impeto, colta forse da
qualche dubbio poco piacevole.
«Se
può
consolarti, sappi che avrei preferito milioni di volte morire al
posto suo… in un certo senso, la Morte ha preso anche me. Solo che
io respiro ancora, mentre lui no. Mi dispiace, Maia».
Ripensare
alle
parole di Milo suscitava in Shaka sensazioni spiacevoli.
Come
tutti
i soggetti cresciuti in contesti militari, Virgo era assuefatto al
dolore fisico, inflitto o subito che fosse: riteneva assolutamente
normale continuare a combattere anche dopo essere stato ferito e, pur
nel rispetto dell’avversario, non esitava a colpire dove faceva più
male.
Nell’arco
della
propria esistenza aveva avuto modo di osservare mutilazioni, lesioni e
malattie di ogni genere, e di assistere impassibile ad agonie
terminate soltanto con la morte; il funzionamento della sofferenza psichica,
invece, continuava irrimediabilmente a sfuggirgli.
Non
aveva mai compreso come fosse possibile logorarsi per l’invisibile, e
si era dunque convinto che un simile fenomeno riguardasse soltanto i
deboli di spirito.
Milo
di
Scorpio, però, non era un debole di spirito.
Non
era
debole in nessun senso, eppure, specialmente nei primi tempi, Shaka e
gli altri l’avevano guardato impotenti consumarsi silenziosamente
giorno dopo giorno, lungo un processo di disfacimento più simile a un
male incurabile che non a semplice tristezza.
Attualmente
le
cose andavano meglio, e tuttavia dichiarare che lo Scorpione si era
ripreso sarebbe stato del tutto falso.
«Milo
è
ancora… terribilmente fragile» disse quindi, cauto «Non fa nulla che
possa dare adito a una simile affermazione – né l’ha mai fatto: la sua
compostezza è diventata davvero impeccabile –, ma è una cosa di cui ci
si accorge alla prima occhiata».
La
condizione
di Milo divergeva da quella di Maia, di questo il Sesto Custode era
convinto; nel caso di Scorpio non sarebbe bastato andare a fondo,
perché egli non aveva da tirar fuori nient’altro che pena e devota
rassegnazione.
Stavolta
Maia
non replicò; rimase zitta con la testa fra le mani, presumibilmente
sopraffatta dal senso di colpa.
Il
suo
viso era segnato da un’espressione così pietosa che Shaka non seppe –
né volle – resistere all’impulso di alzarsi e andarle vicino.
«Maia…
»
Lei,
per
tutta risposta, gli si aggrappò addosso.
***
Rivederlo
era
stato come piombare di nuovo in un sogno sognato troppo spesso.
Fermo
nello
squallido vialetto del palazzo, coi capelli lunghissimi e il volto
affusolato, Shaka di Virgo le era parso bello e maestoso in un modo
insopportabilmente familiare; lui le aveva rivolto lo stesso sorriso
imperturbabile di una volta e a Maia non era rimasta altra scelta che
lasciarlo entrare – insieme al resto dei fantasmi.
Guardarlo
muoversi
e sentirlo parlare l’avevano come catapultata indietro nel tempo,
quando tutto ciò che egli rappresentava faceva parte integrante della
sua vita; insieme a questa sensazione di appartenenza, però, anche la
rabbia era tornata prepotentemente in superficie. Maia l’aveva sentita
ribollire nelle viscere al pari di allora, come se non avesse
atteso altro che potersi aggrappare a qualcosa di più tangibile dei
meri ricordi.
Complice
la
sua spietata precisione, il Santo della Vergine aveva impiegato
davvero molto poco a smantellare il piccolo, infelice mondo costruito
dalla ragazza nell’ultimo anno. La traballante sequenza di trincee
eretta a sua difesa era saltata a una velocità quasi imbarazzante,
costringendola a venire a patti con una verità all’apparenza
inaccettabile: anteponendo il proprio buon nome a tutto il resto,
Camus aveva deciso di morire. Aveva deciso di lasciarla sola,
senza curarsi di quanto dolore avrebbe potuto causarle.
Soffrire
per
una ragione simile era egoista al punto tale che Maia se ne
vergognava; eppure, Shaka non aveva avanzato nessuna critica. Non
l’aveva rimproverata o derisa; non aveva pontificato come era solito
fare un tempo, né aveva cercato di imporle a tutti i costi le proprie
argomentazioni.
Lungi
dal
pretendere di capire il suo cordoglio, il Sesto Custode se ne era anzi
messo rispettosamente ai lati con una sensibilità per lui inusuale,
evitando però di mostrare eccessivo coinvolgimento.
Soltanto
parlare
di Milo sembrava averne minato il contegno in maniera significativa;
per qualche bizzarro motivo questo aveva riempito Maia di così tanta
gratitudine nei suoi riguardi che, nel momento in cui lui si era
avvicinato, abbracciarlo le era sembrata l’unica cosa sensata da fare.
La
giovane
premette il viso contro il ventre piatto di Virgo, respirandone a
pieni polmoni l’odore vagamente incensato delle vesti, e altre lacrime
salirono a pungerle gli occhi.
Si
sentiva
come se stesse stringendo a sé tutto quello che aveva perso e che
tanto si era sforzata di dimenticare: il Santuario e chi vi abitava;
le sue speranze, i suoi sentimenti buttati alle ortiche; Aiolia, Milo.
Camus – che però non avrebbe mai più rivisto, a prescindere da
qualunque decisione avesse preso.
Dopo
poco,
due mani non troppo ferme le si posarono sulle spalle.
«Maia,»
ripeté
Shaka, allontanandola con gentilezza «io non so cosa… dire».
Il
suo
volto leggermente arrossato tradiva un’insicurezza del tutto inedita,
al pari della lieve accelerazione che gli alterava il respiro.
«Allora
non
dire niente. Però ti prego, concedimi ancora un istante così.
Prima che svanisca tutto».
A
quelle parole la postura eccessivamente rigida del cavaliere si
rilassò un poco, ed egli spostò le mani sulla schiena di Maia in un
goffo tentativo di ricambiare la stretta; tuttavia, così facendo, il
mantello da viaggio gli scivolò di dosso e cadde a terra.
«Lascia
stare,
lo raccolgo io» sussurrò Maia, piegandosi di lato sino a sfiorare
l’indumento di cotone grezzo con le dita.
«Santo
cielo,
Shaka… »
Le
braccia
di Virgo, che la tunica senza maniche lasciava nude, erano costellate
da cicatrici da ustione tanto estese da non poter distinguere la fine
dell’una e l’inizio dell’altra: in quei punti la pelle, normalmente
bianchissima e sottile, appariva invece decisamente più scura e
spessa.
«Non
è
niente. Hanno smesso di far male da molto» disse il Gold facendo un
passo indietro, improvvisamente sulla difensiva.
«”Niente”?!
Questi
sono segni da ustione di terzo grado!»
Maia
si
tese ad afferrargli il polso destro, per poi tastare i contorni della
piaga più grande con un misto di fascinazione professionale e amaro
dispiacere: se curato nel modo giusto, quello scempio avrebbe potuto
essere assai meno visibile.
«Sapevo
che
avevi riportato ferite, ma non pensavo fino a questo punto. Possibile
che nessuno, nemmeno Savasta, sia stato in grado di-»
«Il
personale
medico non ha colpe: sono stato io a scegliere di sottopormi soltanto
agli interventi strettamente necessari. Forse avrei potuto guarirmi
persino da solo, col cosmo, ma ho preferito non provarci neppure: mi
interessava solamente mantenere l’uso delle braccia, nient’altro».
Lei
gli
rivolse un’occhiata incredula: stava parlando di una menomazione
permanente con lo stesso tono sereno di chi accenni a un fastidio da
nulla, ma non era quello l’aspetto scioccante della faccenda.
«Perché,
Shaka?
Perché hai deciso di rimanere segnato per sempre? È stato un sacrifico
inutile, che non ha giovato a nessuno!»
Dinanzi
all’indignazione
della sua interlocutrice il Custode della Sesta Casa scosse la testa
divertito, negli occhi un guizzo dell’antica accondiscendenza: «Giova
a me, invece. Imparare dagli errori non è esattamente l’arte in cui
meglio mi distinguo… ma non è mai troppo tardi per invertire
la rotta».
«Invertire
la
rotta… ».
Il
fatto
che Virgo avesse utilizzato proprio quel termine lasciava trapelare il
messaggio ad esso sotteso in maniera tanto sottile quanto univoca: se
lo si desiderava davvero, era comunque possibile tornare
indietro.
Shaka
c’era
senza dubbio riuscito, e ora Maia capiva appieno le ragioni che
avevano spinto nonna Frandra a rivolgersi proprio a lui, non ad altri
– non ad Aiolia, che per affetto avrebbe forzato la mano; non a Mu,
così distante nel suo ruolo di perenne mediatore; non ad Aldebaran,
troppo sensibile per essere in grado di mostrarle appieno la cruda
verità.
E
soprattutto non a Milo, anch’egli schiacciato dal terribile spettro
della sua assenza.
«La
terza:
stai vicino a Milo. Sostenetevi l'uno con l'altra. Dissipate i
vostri rancori, quali che siano. Fatelo per me».
Delle
tre promesse fatte a Camus, quella era l’unica che Maia si pentiva di
aver mancato; ma, se era vero che "non è mai troppo tardi per
invertire la rotta", allora avrebbe ancora potuto tentare di
rimediare.
«Ci
proverò,
Camus. Ma non per te: per lui».
Note
dell’autore
Buonsalve
a tutti!
Nel
capitolo 10, incentrato
esclusivamente su Milo e Camus, avevo osservato di non essere un
narratore
completamente (cioè, per niente) imparziale; tuttavia, siccome “non
è mai
troppo tardi per invertire la rotta”, ho pensato che fosse
giunto il
momento di reinstaurare una sorta di par condicio fra i “miei”
protagonisti.
L’aggiornamento,
piuttosto lungo, è
ambientato circa un anno e mezzo dopo gli eventi del precedente: in
questo arco
di tempo il Santuario è stato ricostruito, la pace è tornata sovrana
(salvo la
battaglia contro Poseidone, che però ha intaccato soltanto
indirettamente il
Grande Tempio) e al nostro Shaka viene chiesto un favore particolare.
La
faccenda, all’apparenza quasi ossimorica, sa molto di contrappasso:
Virgo si
ritrova a dover vestire i panni del Guru spirituale proprio dopo aver
scoperto
di essere diversamente infallibile.
Tuttavia,
in materia, io la penso
esattamente come Ikki: se è mai esistito un momento in cui Shaka
poteva essere
in grado di portare a termine un compito del genere, questo è adesso.
Maia…
Maia è stata un po’ più
difficile da trattare. Qualcuno ha – non a torto, direi – storto un
po’ il naso
di fronte al suo atteggiamento forzatamente ostile, e tuttavia torno a
ribadire
come noi esseri umani, pur dotati di raziocinio, spesso agiamo in
maniera meno
ponderata di tutto il resto del creato.
Ci
vogliono tempo, umiltà e coraggio
per rivedere posizioni che, sul momento, sembravano legittime (e che,
per certi
versi, continuano ad esserlo); ebbene, pur avendo intimamente compreso
quale
sia il suo reale punctum dolens, la ragazza ha preferito
rimanere nella
sua bolla di indolenza piuttosto che tornare e, magari, chiedere scusa
–
soprattutto a Milo.
Rivedere
Shaka l’ha costretta ad
affrontare una verità messa volutamente da parte, offrendole altresì
la “scusa”
per poter tornare da persone che, a conti fatti, le sono mancate – e
le mancano
– come l’aria.
(Inciso
per i più maliziosi: Maia non
ci sta “provando” con Shaka. Il suo bisogno di contatto fisico deriva
da un mix
di emozioni difficilmente catalogabile, totalmente avulso da qualsiasi
tipo di
“desiderio”. L’iperventilazione di Virgo, invece... sarà la castità
forzata?
XD).
Venendo
– finalmente – agli aspetti
più tecnici:
-
Lumbini, che si dice abbia dato i
natali a Siddhartha Gautama, è oggi un sito religioso buddista a
cavallo fra il
Nepal e l’India. Esso è contornato da una grande zona monastica,
divisa in
orientale e occidentale: quella orientale contiene il monastero di
Theravada,
l'occidentale quelli Mahayana e Vajrayana;
-
Spica è la stella più luminosa
della costellazione della Vergine, nonché la quindicesima più
brillante del
cielo notturno. La sua vicinanza all'equatore celeste la rende
visibile da
tutte le regioni popolate della Terra;
-
Il termine “Bonzo” deriva dal
giapponese “bōzu” ed indica genericamente tutti i monaci del
Buddhismo. Ikki lo
usa in tono scherzoso, a mo’ di sfottò;
-
«Sapete che c’è? Mi fate
ribrezzo. Tutto di questo luogo “sacro” mi fa ribrezzo» :
frase tratta
dal capitolo 13, parte III;
-
“Namasté” è un saluto originario
delle zone di India e Nepal, e viene usato comunemente in diverse
regioni
dell'Asia. Di solito, si accompagna al gesto di congiungere le mani
all’altezza
del petto, unendo i palmi con le dita rivolte verso l'alto.
-
«Non so se sei passato per il
viale principale del quartiere: alcuni dei graffiti sui palazzi
padronali sono
davvero splendidi! …» : ho immaginato che Maia risieda nel quartiere
ateniese
di Exarchia, in cui si trova il conosciuto Politecnico Universitario.
Esso è
famoso per essere un quartiere a vocazione fortemente anarchica.
-
«Se può consolarti, sappi
che avrei preferito milioni di volte morire al posto suo… in un
certo senso, la
Morte ha preso anche me. Solo che io respiro ancora, mentre lui
no. Mi
dispiace, Maia» : frase tratta dal capitolo 13, parte III;
-
«La terza: stai vicino a
Milo. Sostenetevi l'uno con l'altra. Dissipate i vostri rancori, quali che
siano. Fatelo per me» : frase tratta dal capitolo 10,
parte II.
Uff,
dovrei proprio imparare a
scrivere note più succinte!
Grazie
a chiunque sia arrivato sin
qui e, soprattutto, alle anime belle che vorranno pure lasciare un
commento!
Irene
|
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Capitolo 23 *** Capitolo 15: aprile 1988. Maia ***
Capitolo 15: aprile 1988. Maia
Capitolo
15:
aprile 1988. Maia
Non si può misurare la perdita,
il vuoto non ha confini.
Michele Ronchetti
La
porta
del salotto era chiusa, eppure le sentiva urlare come se si
trovasse
nella loro stessa stanza.
La
mamma
e la nonna non litigavano quasi mai, ma da qualche giorno sembrava
non
fossero capaci di fare altro.
«Pare
che
il Gran Sacerdote sia ormai prossimo alla morte e il Primo
Consigliere non
sta agendo con la sua abituale diplomazia. Le voci sono così varie
e
frammentate che neppure i vertici dell’organo di Coordinamento
riescono a
fornirci una versione univoca dell’accaduto. Però una cosa è
certa: al Grande
Tempio è successo qualcosa di terribile,
mamma. L’intero
Mondo Segreto è in subbuglio, dall’Africa alla Siberia, e io non
ho alcuna
intenzione di lasciarti portare Maia proprio nel bel mezzo del
caos! Ha a malapena
sette anni, per l’amor di Atena!»
«A
Rodorio
non si parla che del tradimento di Aiolos di Sagitter. La bambina
è
soltanto preoccupata per Aiolia, Eleni».
«È
proprio
questo il punto!» esclamò sua madre, inasprendo il tono
«Nonostante
siano trascorse quarantotto ore appena, il nome del Nono Custode è
già
diventato bestemmia; e tu vorresti accompagnare mia figlia da suo
fratello? Sarebbe come esporci tutti alla gogna!»
Poi,
abbassando
la voce sino a ridurla a un sussurro, sospirò tristemente: «Mi
piange il cuore ad ammetterlo, ma il destino di quella povera
creatura è
segnato per sempre; dal poco che so, sembra persino che nessuno
voglia più
fargli da maestro. No, anche ammesso che sopravviva, Aiolia non
sarà mai
cavaliere d’oro di Leo».
«Dovresti
vederlo
adesso, mamma: saresti felice di scoprire quanto ti sei sbagliata»
pensò Maia, osservando il profilo di Aiolia stagliarsi magnifico
nell’incerta luce
del primo mattino; la stava aspettando appoggiato alla balaustra della
terrazza
panoramica di Rodorio, lo sguardo perso nel mare dinanzi a lui.
Oltre
loro
due, solo qualche gabbiano di passaggio. Si erano dati appuntamento lì
e a
quell’ora proprio con l’intento di non incontrare nessuno che potesse
disturbarli: Maia non era ancora rientrata al Santuario e non voleva
che confuse
voci di corridoio precedessero il suo effettivo ritorno.
«Aiolia,
sono
qui».
«Lo
so.
Hai mantenuto la pessima abitudine di camminare trascinando i piedi».
Aiolia
si
voltò lentamente nella sua direzione, una mano stretta sulla ringhiera
e gli
occhi verdi dilatati come quelli di una fiera dubbiosa; Maia gli
permise di studiarla
senza fretta, quasi dovesse conquistarsi la fiducia di un gatto
selvatico un
po’ altezzoso, però era terrorizzata.
Si
era
ripromessa di accettare stoicamente qualunque trattamento avesse
voluto
riservarle, ma in quel momento realizzò che non sarebbe mai riuscita
davvero a
sopportare il disprezzo di ‘Lia.
«Perché
ci
hai messo tanto?» chiese infine quest’ultimo, dopo un tempo
mostruosamente
lungo.
«M-mi
dispiace.
Adesso abito ad Atene, e il primo autobus per Rodorio parte alle-»
«Perché
ci
hai messo tanto a decidere di farti viva?»
«Oh».
«”Oh”?
È
tutto quello che hai da dire?!» dinanzi al suo commento spaesato,
Aiolia
serrò i pugni «Dacché te ne sei andata, io sono sempre stato l’unico
sciocco a
sperare di ricevere tue notizie. Hai idea di quanto ho aspettato un
tuo
messaggio, una tua lettera, un tuo qualsiasi cosa che mi
assicurasse che
stavi bene?»
«No,
non
ce l’hai» continuò poi, senza attendere repliche «Mi sono sforzato di
non
pressarti, come volevano gli altri, e tu mi hai ripagato con quasi due
anni di
assoluto silenzio. Quando Shaka – Shaka! – mi ha detto che volevi
incontrarmi,
stavo quasi per dirgli di mandarti al diavolo da parte mia. E ora ti
presenti
qui con i tuoi “Oh” e quei capelli… »
«L-li
sto
facendo ricrescere biondi. Ci vorrà del tempo, il rosso è un colore
d-difficile da mandar via».
Maia
era
così annichilita da quello sfogo che non aveva trovato nulla di meglio
con
cui ribattere: in fondo, Aiolia aveva ragione.
Era
stata
lei ad andarsene, maledicendo tutti coloro che avevano cercato di
trattenerla; poi, troppo presa dal proprio dolore per soffermarsi a
riflettere
sulla possibilità che anche loro soffrissero, non si era più
fatta sentire.
Si aspettava forse un comitato di “bentornata”?
«Quant’è
vero.
I miei ci hanno messo un bel po’ a perdere quella terribile tinta
arancione, ti ricordi?»
L’inaspettata
dolcezza
con cui Leo aveva pronunciato quella frase spinse Maia ad alzare la
testa per poterlo guardare in faccia: i suoi occhi si erano fatti più
morbidi e
lucidi, come se fosse sul punto di piangere.
«Dannazione,
Maia,»
sussurrò quindi il cavaliere, avvicinandosi e sollevandola tra le
braccia prima che lei potesse rendersene conto «mi sei mancata
terribilmente».
*
Scultoreo
e
imponente come la più pregiata statua di bronzo, Aiolos di Sagitter
era stato
la perfetta personificazione dell’antico eroe greco: quello che,
figlio degli
uomini, aveva ricevuto gloria immortale soltanto per la prodezza delle
sue
gesta.
Neppure
Saga
aveva mai potuto competere con la terrena solidità del Nono Custode:
la
mistica bellezza di Gemini era sempre risultata troppo inavvicinabile
perché
qualcuno, foss’anche il più valoroso dei guerrieri, vi si potesse
identificare.
Da
piccolo
Aiolia era andato smisuratamente orgoglioso della sua stupefacente
somiglianza col fratello maggiore, tanto da cercare di accentuarla in
ogni
maniera possibile: non contento di rassomigliargli solo fisicamente il
futuro
Leo aveva addirittura provato ad acquisirne i modi, imitando di
nascosto la sua
camminata e scimmiottando senza successo il suo tono baritonale.
A
seguito della Notte degli Inganni, però, gli sforzi del bambino
avevano preso direzione
opposta quasi di punto in bianco; superati i primi momenti di nera
disperazione, infatti, Aiolia si era smarcato dalla figura ormai
maledetta di
Sagitter con una velocità tale da far pensare che fosse il primo a
credere
ciecamente nel suo tradimento.
I
toni gentili da lui appresi con tanta solerzia avevano ben presto
lasciato il
posto a un atteggiamento ruvido e un po’ strafottente che diventava
aggressivo
al minimo scherno; in luogo del suo caldo sorriso si era calato in
volto una
maschera di serietà e abnegazione che, all’inizio, nemmeno Maia e Milo
erano
riusciti a scalfire.
Aveva
anche
iniziato a pretendere di essere chiamato “‘Lia” in luogo di “Aiolia”
e posto un tabù assoluto su qualsiasi argomento che riguardasse il suo
scomodo
legame di sangue, la cui ossessione aveva continuato a perseguitarlo
persino
dopo la – insperata, eppure desideratissima – investitura a Gold
saint.
«La
cosa
peggiore di tutte era guardare dentro lo specchio e accorgermi che,
negli
anni, la mia faccia si stava facendo sempre più simile alla sua: come
se,
nonostante tutti i miei sforzi, fossi comunque destinato a
trasformarmi in lui.
Finché un giorno, preso dalla rabbia, ruppi lo specchio in mille pezzi
e decisi
di… tingermi i capelli».
«Davvero
lo
facesti per questa ragione?» chiese Maia sbigottita, drizzando
la
schiena.
Erano
seduti
su una delle tante panchine che fiancheggiavano il camminamento, sotto
i
rami frastagliati di un vecchio albero spoglio: a quell’ora il sole
d’aprile
era ancora troppo dolce per dare fastidio.
A
dispetto della gravità dell’argomento, Aiolia si lasciò sfuggire una
risatina:
«Esatto. Che stupido, vero?»
«No.
Ma
non mi aspettavo che dietro quel colpo di testa ci fosse un motivo
così
serio».
Si
ricordava
benissimo di quel pomeriggio, quando Aiolia era uscito dalla Quinta
Casa con una nonchalance inversamente proporzionale alla vividezza
della sua nuova
tinta mandarancio.
«Beh?
Che
avete da guardare?»
«Mah,
non
saprei. O ti hanno rovesciato un otre di succo d’arancia in testa
mentre
dormivi, oppure i miei occhi hanno decisamente qualcosa che non
va. Tu che ne
dici, ‘Mus?»
«Dico
che
non sono affari nostri, Milo».
«Certo
che
lo sono! Non posso andare in giro con uno conciato così, ne va
della mia
reputazione! Maia, ti prego, supportami almeno tu!»
All’epoca
Maia
non era riuscita a trattenersi dallo scoppiare a ridere, bollando la
cosa
come un bizzarro moto di ribellione adolescenziale; se avesse avuto il
minimo
sentore del reale significato di quel gesto, la sua reazione sarebbe
stata
certamente diversa.
«Per
questo
sono rimasto così sconvolto, quando ti ho vista. Mi hai ricordato me
stesso – e la mia disperazione» sussurrò Leo, afferrandole con
delicatezza una
ciocca di capelli «Trovo insopportabile pensare di non esserti stato
accanto in
un momento simile».
«Si
può
dire che io sia stata mossa da motivi totalmente opposti ai tuoi.
Coll’andare
del tempo, mi sono resa conto che il suo viso stava sbiadendo
dalla mia
memoria ogni giorno di più. Non… potevo permettere che accadesse».
«Ha
funzionato?»
Maia
scosse
flebilmente la testa, lo sguardo basso: «No».
«Già.
Neppure
con me».
Dopo
quell’amara
constatazione i due rimasero in silenzio per un po’, cercando forse
di mettere ordine nei rispettivi pensieri.
Se
Maia
guardava al passato, poteva affermare di aver sempre avuto un buon
rapporto con Aiolia.
Il
suo
carattere nient’affatto impulsivo le aveva permesso di arginare gli
scoppi
d’ira dell’amico nella stragrande maggioranza dei casi, permettendole
di
rimanergli affianco anche quando a tutti gli altri risultava
inavvicinabile; non
se l’era mai presa troppo per i suoi modi bruschi, che sapeva essere
soltanto
il frutto più evidente di un dolore né accettato né sopito – un dolore
troppo
grande e radicato per guarire grazie al mero scorrere delle stagioni.
Al
netto
di questo, tuttavia, era altrettanto vero che stare vicino al Leone
spesso le era risultato pesante: non di rado bastava una sola parola
sbagliata
a scatenarne la reazione, come fosse stato una bomba a orologeria
perennemente
in procinto di esplodere.
Ora,
però,
la costante tensione che aveva caratterizzato il fare di Aiolia per
lunghissimi anni sembrava essersi dissolta.
Non
era
una cosa di cui ti accorgevi subito: bisognava prestare attenzione a
dettagli apparentemente di poco conto, come il tono di voce o la
postura che
prima soleva adottare, e confrontarli con la quieta serenità che
adesso
promanava dalla sua figura; quasi che un enorme giogo gli fosse
rotolato via
dalle spalle, lasciandolo finalmente libero – libero da
sospetti, senso
di colpa, paura, risentimento.
Libero
di
essere se stesso, né uguale né diverso da Aiolos di Sagitter.
«Come
hai
fatto?» gli chiese Maia all’improvviso, girando completamente il busto
verso di lui «come hai fatto a sbarazzarti del rancore? Io ci sto
provando
disperatamente, ma è come se avessi uno spillo conficcato nel ventre.
A volte
punge tanto che non riesco a pensare ad altro».
La
visita
di Shaka aveva avuto l’indubbio merito di liberarla dalla teca di
ghiaccio in cui da sola si era ibernata, ma tornare a sentire
non era
stato affatto indolore: in alcuni momenti il riaffiorare di certe
immagini la
colpiva così intensamente da paralizzarla, come se non fosse passato
che un
istante da quando, dopo essersi svegliata, Aiolia le aveva ricordato
quanto
accaduto durante la battaglia delle Dodici Case.
Quell’assurdo
sentore
di impotenza e ineluttabilità era l’emozione più terribile che avesse
mai provato e rappresentava uno dei principali motivi per cui aveva
lasciato il
Grande Tempio; nonostante fossero trascorsi anni, dubitava di essere
capace di
fronteggiarlo senza lasciarsi sopraffare – ammesso, poi, che ci
sarebbe mai
riuscita davvero.
«Non
me
ne sono sbarazzato. È ancora qui dentro, sai» rispose il Leone,
poggiandosi
distrattamente una mano sul petto «solo che, come dire… morde con meno
violenza. E meno spesso».
Poi
abbassò
lo sguardo su quello di lei, gli occhi carichi di consapevolezza e
partecipazione: «Te lo dissi quel giorno, ricordi? Io so bene cosa
significhi covare
risentimento: l’ho fatto per quasi tutta la mia esistenza. Ci ho messo
anni ad
imparare come rimanere impassibile al cospetto del Gran Sacerdote, e
altrettanti
ne ho impiegati per sfilare accanto a Shura senza provare l’impulso di
saltargli al collo; non puoi neanche immaginare quanto sia stato
difficile
resistere alla voglia di scoppiare, di cedere ai miei istinti peggiori
– di
diventare una bestia e ammazzarli tutti».
«Oh,
sì
che posso».
«Ovviamente,
neppure
Aiolos si salvava dalla mannaia del mio astio. Ma questo non diminuiva
affatto l’odio che provavo per Capricorn, Arles e tutti i miei
detrattori».
«”Provavi”?!
Adesso
che conosci la verità non è anche peggio?»
«Ti
sembrerà
strano, ma… no».
A
quell’affermazione, la ragazza gli rivolse un’occhiata di sincero
stupore: «In
che senso?»
Prima
di
rispondere, il Leone dorato si prese un momento.
«Scoprire
che
mio fratello non è morto nell’infamia del peccato mi ha dato un sollievo
che non pensavo di essere in grado di provare» cominciò quindi, la
voce rotta dall’emozione
«Un sollievo tale da far scolorire tutto il resto. Io… »
Poi
si
interruppe, evidentemente sopraffatto.
«Va
bene
così, ‘Lia. Non serve che tu ti sforzi, credo di aver capito».
«Scusa:
è
difficile spiegarlo a parole. Però, è importante che la tua domanda
trovi risposta.
Mentirei, se ti dicessi che ho perdonato… ma la verità non è mai
semplice come
appare. Spesso la ragione non sta interamente da una sola parte: anche
le
azioni peggiori possono essere sorrette da motivi giustificabili».
«Peccato
che
saperlo non consoli» bisbigliò Maia, mordendosi l’incavo della guancia
sino
ad affogare il sapore di bile in quello del sangue «Anziché darmi
pace, la
consapevolezza non ha fatto altro che intorbidire ciò che avevo di più
prezioso».
Dopo
la
scomparsa di Camus e il totale sgretolamento del suo personale
universo, l’unica
cosa che le aveva permesso di non naufragare del tutto era stata la
purezza del
sentimento che provava per Aquarius: nell’estremo tentativo di non
affogare nella
devastazione generale, si era aggrappata ad essa con la stessa tenacia
di un
religioso che protegga la reliquia più sacra dall’incendio della
Cattedrale.
Aveva
creduto
che nulla potesse infangare l’altare su cui brillava l’effige di
Camus;
nulla, tantomeno banale razionalità. E invece…
«Quando
l’abbacinante
dolore dei primi tempi ha cominciato ad attenuarsi, mi sono
accorta di non riuscire più a pensare a Camus senza addossargli una
parte di
responsabilità. Il ricordo del suo volto, della sua voce, di quanto
abbiamo
vissuto insieme ha iniziato a mischiarsi sempre più c-coi terribili
attimi
all’Undicesimo Tempio, costringendomi ogni volta a domandarmi come
sarebbe
stato se… se solo si fosse fermato prima».
Un
solitario
refolo di vento le spinse i capelli sulla faccia, guizzo rossastro
nell’aria chiara – «La fiamma sbiadita di ciò che è stato».
«Realizzare
di
come sia andato incontro alla morte pur sapendo di essere in torto mi
ha fatto
nascere il dubbio di averlo amato unidirezionalmente. Quale senso ha
avuto la mia
levata di scudi sulla sua memoria, se è stato proprio lui a scegliere
di…?»
Maia
sapeva
che il suo era un discorso contorto e confuso, ma si sforzò comunque
di
continuare: desiderava ardentemente che Aiolia comprendesse. Che
potesse darle
il conforto cui tanto aspirava.
«La
verità
è che mi sembra di aver sofferto – e di soffrire – per un sentimento
che
non è mai esistito. Eppure, nonostante questo, continuo a provare un
malessere
sordo che non mi dà tregua: ce l’ho nella testa, nello stomaco…
dappertutto. Non
riesco più a difendere Camus incondizionatamente e, al contempo, non
sono
ancora capace di rassegnarmi. C-cosa diavolo dovrei fare?»
«Shaka
ci
aveva visto giusto… incredibile!» mormorò Aiolia a quel punto,
apparentemente perso nelle proprie riflessioni; poi, riscossosi, la
strinse a
sé con fare protettivo. Maia gli si acciambellò contro volentieri:
aveva sempre
trovato rassicurante la determinazione dell’amico, confortevole e
calda come il
colore ambrato della sua pelle.
«Il
cordoglio
non ha motivi né confini, Maia. Non saranno uno scopo, una fonte o
una ragione a renderlo meno atroce: l’assenza di una persona
importante fa male
a prescindere. Puoi benissimo avercela con Camus e, allo stesso tempo,
continuare a provare dolore per la sua scomparsa. Una cosa non esclude
l’altra».
«Comunque,»
proseguì
poi, scrutandola dritto negli occhi «io non credo che lui non ti
ricambiasse. Cam era solo… troppo attaccato ai propri ideali – tanto
da
morirne. La decisione che ha preso non ha nulla a che fare coi suoi
sentimenti
per te».
«”Tutto
ciò
è avvenuto per colpa della mia ostinazione”: è questo che mi ha
detto,
prima di morire. Faticava persino a respirare, ma il suo viso aveva
un’espressione mai vista. Così… serena».
Fra
la
miriade di dettagli che ricordava di Camus, l’immagine del suo sguardo
trasognato a pochi istanti dalla fine capeggiava indiscussa: era stato
allora
che aveva capito di averlo perso per sempre.
«Maia,
guarda quella luce… c’est si
belle, n’est-ce pas?»
Non
parlò
del resto: non delle promesse, non di Milo. Le mancò la forza.
Aiolia,
che
la stava ancora fissando, sembrò percepire la sua reticenza; tuttavia,
ebbe
l’accortezza di non indagare.
«Credo
di
sapere il perché» disse invece, scandendo lentamente le parole
«Probabilmente stava guardando Lei».
«L-lei…
»
«Sì,
Lei»
proseguì il Leone, la voce traboccante di adorazione ed orgoglio
«Contrariamente
a quanto credi, Atena ha tentato con ogni mezzo di salvare – anche – i
nostri
caduti. Ma essi Le erano troppo distanti: quando la Sua luce li ha
raggiunti, le
loro anime stavano già rispondendo al richiamo dell’Ade. Non è stato
possibile
riportarli indietro».
«Come
fai
a esserne certo?»
«L’abbiamo
percepito».
Gli
occhi
di Aiolia, da soli, erano in grado dire molte cose: tutte, eccetto le
menzogne.
In
quel
momento guardarli faceva un male terribile, eppure Maia non riusciva a
smettere.
Voleva
credergli
e, allo stesso tempo, aveva timore di farlo.
«Quelli
che affollano il tuo cuore sono dubbi
troppo intensi perché io possa sperare di dissiparli, Maia. Nessuno di
noi ne
sarebbe capace. C’è solo una persona in grado di darti le
risposte di
cui hai bisogno».
All’affermazione,
la
ragazza sentì un brivido salirle lungo la spina dorsale.
«La
Dea
sa che oggi sono qui. Le ho parlato di te: desidera incontrarti».
Note
dell’autore
Bentrovati!
Se
dovessi
assegnare una collocazione al presente aggiornamento, direi che esso
rientra di diritto fra i classici capitoli di transizione; benché la
trama di
questa storia non sia esattamente delle più avvincenti (XD), ogni tanto
è comunque
necessario non far succedere praticamente nulla.
Nell’ambito
di
Sorella Morte, Aiolia è sempre stato il primo dei personaggi secondari:
l’ho
fatto comparire in quasi tutte le vicende messe in campo, spesso
assegnandogli
il ruolo di spalla (per Milo) o di “avversario” (per Shaka), ma non mi
ci ero
mai soffermata meglio.
Quando
penso
al cavaliere del Leone, la primissima cosa che mi viene in mente è un
amico fidato; se Virgo si è dimostrato l’unico in grado di scuotere
emotivamente Maia, nell’attuale stato dei fatti soltanto ad Aiolia ella
avrebbe
potuto confessare apertamente i propri dubbi – ancora troppo “umani”
perché uno
come Shaka potesse comprenderli e/o condividerli.
Spero
che
non abbiate trovato forzato il parallelismo fra la situazione di Maia e
quella di Leo: a mio avviso, escludendo il cruciale dettaglino circa il
torto o
la ragione dei rispettivi cari estinti, entrambi sono vittime di eventi
più
grandi di loro, ed entrambi sono stati costretti ad avere a che fare con
rancore e perdono.
Adesso,
al
solito, s’impone(?) qualche considerazione più mirata:
-
"Il
Gran Sacerdote è [...] e il Primo Consigliere [...] diplomazia" :
siamo due giorni dopo la Notte degli Inganni. Saga, che ha già ucciso
sia Shion che Aiolos, si sta "improvvisando" Primo Consigliere
(eliminato a suo tempo) in attesa di inscenare la morte del Gran
Sacerdote e prenderne definitivamente il posto. L’organo
di Coordinamento citato dalla madre di Maia è
un ente di mia invenzione, che vorrebbe fungere da raccordo tra il
centro di
potere del Santuario e i rappresentanti delle famiglie custodi;
-
«Quant’è vero. I miei ci
hanno messo un bel
po’ a perdere quella terribile tinta arancione, ti ricordi?» : isolata
ed estemporanea
citazione ad Episode G, dove Aiolia sfoggia dei capelli rossissimi. Mi
sono
divertita a immaginare che Leo si sia servito dell’Henné (più pratico e
veloce della classica tinta): io – che ho i capelli un po’ più chiari di
lui – l’ho
usato una sola volta, ma ricordo ancora benissimo l’inquietante
sfumatura
arancione che è venuta fuori quando, dopo qualche lavaggio, ha cominciato a stingere;
-
«”Tutto ciò è avvenuto
per colpa della mia
ostinazione” e «Maia, guarda quella luce… c’est si belle,
n’est-ce pas?»
: frasi tratte dal capitolo 10, parte II;
-
L’idea
che Atena abbia cercato di riportare in vita anche i cavalieri d’oro
caduti (e
non soltanto i propri seguaci di bronzo raccomandati ) è frutto
della
mia fantasia: non so (o non ricordo) se corrisponda o meno a verità.
Ebbene,
anche
questo giro di giostra è andato; fatemi sapere che ne pensate, se vi va.
Ne sarei felice!
Un
abbraccio,
Irene
|
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Capitolo 24 *** Capitolo 16: 30 aprile 1988. Maia ***
Capitolo 16. Maia BG
Capitolo
16: 30 aprile 1988. Maia
Ricordatevi
di me, ricordatevi di me,
dimenticate
il mio destino.
Alessandro
Baricco
Volgi
gli
occhi lucenti su di noi,
o
Atena Glaucopide:
noi
che
viviamo con cuore saldo e pietoso,
nell’attesa
del
Tuo ritorno.
Era
la prima preghiera che i devoti ad Atena insegnavano ai bambini: la
più semplice, la più conosciuta e, come spesso accade, anche la più
amata.
All’inizio
della sua esperienza al Santuario Maia l’aveva sentita recitare
innumerevoli volte, non di rado accompagnata da canti e altri inni che
parlavano di fede e speranza; a quel tempo il Grande Tempio si stava
preparando ad accogliere la reincarnazione della Dea, ed era quindi
divenuto meta di pellegrinaggi da ogni parte del Mondo Segreto.
Nei
mesi immediatamente antecedenti l’evento l’eccitazione e la letizia
dei credenti erano state tali che neppure la strana scia di omicidi e
sparizioni dipanatasi nell’arco delle settimane aveva avuto il potere
di scalfirle: cavalieri di basso grado trovati senza vita negli
avamposti, cadaveri di soldati semplici gettati in fondo alle rupi…
eventi di scarsa rilevanza, dinanzi alla resurrezione della Divina.
Dopo
la Notte degli Inganni, però, l’ombra scura della morte e del
tradimento si era definitivamente allungata sul tanto atteso ritorno.
“A
causa
delle empie azioni di Aiolos di Sagitter, Atena bello sguardo non
benedirà proprio nessuno”:
questo il messaggio intrinseco racchiuso nelle parole del nuovo Gran
Sacerdote, assiso sul Trono di Grecia a seguito della dipartita del
vecchio Shion di Aries.
Durante
il suo pontificato, poi, Arles aveva progressivamente trasformato il
culto della Dea in una questione prettamente elitaria, riservata a lui
e a pochi accoliti scelti.
L’iniziale
divieto di presenziare ai riti, dapprima rivolto soltanto alla gente
comune, in seguito era stato esteso anche alla maggioranza dei saints;
un numero sempre più folto di editti aveva via via proibito ogni
attività riguardante il pubblico esercizio della preghiera al di fuori
delle festività stabilite, sino ad arrivare a rendere illecita
qualsiasi invocazione fatta ad alta voce.
Lo
scopo di una tale strategia era stato infine raggiunto: col passare
del tempo, infatti, la benevola immagine di Pallade occhi lucenti
radicata nel cuore dei fedeli aveva finito per lasciare il posto a
quella di una divinità distante e inaccessibile – un theós
di cui non era saggio attirare l’attenzione.
Ancora
troppo piccola per curarsi del timore reverenziale che stava montando
attorno alla figura di Atena, da bambina Maia si era divertita spesso
ad immaginarne le sembianze: prendendo a modello l’enorme statua che
sovrastava il Santuario e le scarne descrizioni dei testi antichi,
soleva figurarsela bellissima e misericordiosa, con gli occhi grandi
come quelli di certi rapaci notturni.
Neppure
più tardi le subdole macchinazioni di Arles avevano attecchito troppo,
nella sua mente: a minarne la fede era bastata e avanzata la cruda
realtà a cui per anni aveva assistito, che sembrava prendersi gioco
degli sforzi di chiunque – compresi quelli di coloro da lei amati.
I
suoi genitori e i loro interminabili viaggi, che spesso li tenevano
lontani da casa per mesi interi; nonna Frandra e le preghiere che si
ostinava a bisbigliare nel silenzio della sera; il Dottor Savasta,
impegnato a salvare vite votate alla Morte; quei suoi amici pieni di
solitudine, cicatrici e ossa rotte da rattoppare.
Non
aveva mai compreso cosa spingesse tutti loro a lottare per un qualcuno
nel cui nome si commetteva ogni sorta di ingiustizia, così si
era limitata a voltare la testa dall’altra parte e tentare di rendersi
utile come meglio poteva: imparare a usare un bisturi, ricucire
ferite, riparare fratture, sistemare denti saltati era diventato il
suo modo di combattere, la religione alla quale dedicare la propria
fatica.
Non
aveva più dato importanza alle fattezze di Atena… fino a che Ella non
le era sfilata dinanzi.
Era
successo qualche giorno dopo la cerimonia funebre, durante una visita
della Dea all’ospedale da campo.
Maia
vi si trovava contro ogni ragionevolezza, i nervi sovraeccitati in
netto contrasto col corpo ancora sfibrato dalla recente malattia;
stava dando istruzioni agli apprendisti, quando delle voci concitate
avevano iniziato a serpeggiare tra il personale.
«Atena
e i cavalieri di bronzo stanno venendo qui!»
«Durante
il funerale l’ho vista soltanto in lontananza: quale onore poterLa
ammirare così da vicino!»
«Datevi
una sistemata: mica vorrete stare al Suo cospetto in condizioni
così indecenti?!»
«Maia,
hai sentito? Sta per arrivare la Dea!» aveva
esclamato
Clio estasiata, tirandola per la manica del camice «Cosa
dobbiamo
fare?»
In
principio, Maia non le aveva risposto. Aveva la gola troppo secca, e
le dita impegnate a stringere le forbici con una foga tale da
sbiancarsi le nocche.
«Non
voglio
incontrarla. Non voglio incontrare nessuno di loro» aveva pensato, preda di un terrore del tutto irrazionale.
«Maia?»
Poi,
facendosi forza, si era costretta a prestare attenzione ai ragazzi che
la fissavano incerti.
«Maia,
ti senti bene?»
«Sì.
Dunque, voi…»
«Eccola
lassù!»
Dopo
tali parole, gli sguardi di tutti si erano sollevati all’unisono.
Sei
persone stavano percorrendo la strada che, costeggiando la scalinata
principale, conduceva sin lì: cinque uomini, tutti un po’ zoppicanti e
malconci, circondavano una donna vestita di bianco.
Persino
da quella distanza a Maia erano sembrati soltanto degli adolescenti
fuori posto, stranieri in terra straniera: soprattutto colei che
chiamavano Atena la Grande le era apparsa piccola e fragile. Insignificante.
Non
aveva avuto il tempo di incontrare i suoi occhi, né di scoprire se
essi fossero davvero lucenti come se li era immaginati durante
l’infanzia; aveva lasciato cadere le forbici ed era corsa via,
nell’indifferenza generale.
*
La
Tredicesima era la più imponente e superba di tutte le Case dello
Zodiaco.
Essa
sorgeva all’ombra della Collina delle Stelle, proprio accanto
all’effige della Dea: da quella posizione dominava l’intera Valle
Sacra come un sovrano che si lasci ammirare dalla folla esponendosi
sul balcone del palazzo reale.
All’infuori
dei Gold saints, Maia non conosceva nessun altro che si fosse
addentrato fra i suoi colonnati – eccettuati coloro che, chiamati a
comparire al cospetto di Arles, non avevano più fatto ritorno.
Neppure
lei vi si era mai recata personalmente; quella era la prima volta che
ne varcava l’ampia arcata, oltre la quale si distinguevano soltanto
mura e penombra.
La
ragazza diresse i suoi passi lungo i pavimenti di marmo con guardinga
soggezione, stringendosi nella stola da viaggio che non metteva da
anni. L’aveva rispolverata appositamente per l’occasione: indossare il
mantello era il modo più sicuro che conoscesse per attraversare il
Santuario con discrezione.
Tuttavia,
giunta dinanzi a un alto portone, dovette abbassare il cappuccio e
palesare la propria identità ai soldati di guardia lì presenti. Erano
due, un ragazzo e un uomo in età matura.
«Dichiarate
chi siete e cosa vi porta all’ingresso della Sala del Trono».
«Sono
Maia Ninis, nipote della custode Frandra Ninis. Sono stata convocata
da Lady Saori con l’intermediazione del cavaliere d’oro di Leo»
rispose lei, porgendo al più anziano dei due una pergamena siglata da
Aiolia.
L’uomo
ruppe la ceralacca ed esaminò il documento con espressione incolore,
poi lo passò al compagno; questi si chinò a sussurrargli qualcosa
all’orecchio, coprendosi la bocca con la mano.
Maia
assistette alla scena senza muovere un muscolo, troppo occupata a
pensare a cosa avrebbe fatto e detto una volta dentro
per lasciarsi infastidire da tutto quel rigorismo. Era così tesa che
il lieve cigolio prodotto degli enormi cardini placcati d’oro la fece
sobbalzare.
«Potete
passare» esclamò infine il soldato, mentre si scostava leggermente per
lasciarla entrare.
Non
appena ebbe attraversato la
soglia, la porta si richiuse dietro di lei con uno schiocco repentino.
«C-c’è
qualcuno?» chiese quindi, intimorita dal silenzio sacrale che le era
improvvisamente piombato addosso.
La
sala era vasta e spoglia, decorata soltanto da un tappeto di velluto
rosso che attraversava gli spazi come un simmetrico rivolo di sangue
rappreso; nessun lume rischiarava l’ambiente, fatta eccezione per il
fioco chiarore che filtrava dai pesanti drappeggi collocati sul lato
opposto della stanza.
Maia
si avviò svelta in quella direzione, gli occhi puntati sulle tende.
Era inspiegabilmente attratta da ciò che doveva esserci al di là di
esse, tanto da dimenticare per un attimo che la sua domanda non aveva
ancora ricevuto risposta.
Quando
ne tirò una a sé, venne inondata da un brillante fascio di luce
pomeridiana.
La
vetrata affacciava sul lato destro del Grande Tempio, il meno
scosceso; oltre i profili delle Case dispari era possibile osservare
il resto del Santuario digradare dolcemente fino alle scogliere che
calavano a picco sul mare.
Pur
non volendo, la sua attenzione fu ben presto catturata dai contorni
dell’Undicesimo Tempio. Sembrava strano guardarlo da quella posizione,
perché contemplarlo dall’alto sottintendeva che aveva avuto il
coraggio di attraversarlo.
Nei
suoi incubi, invece, non ci riusciva mai.
Aveva
sognato la sua personale “scalata” per innumerevoli notti,
ripercorrendo la stessa scena – quella, già vissuta, dell’11 settembre
1986 – sino a svegliarsi tremante.
Il
Tempio
scintillante, il respiro condensato in nuvolette di vapore acqueo, i
contorni azzurrati delle cose; Camus a terra, perfetto nella sua
stasi ormai immutabile, coi capelli intessuti di ghiaccio e lo
sguardo vuoto.
«Camus.
Camus.
Camus!»
Maia
lo
chiama, lo scuote come se quel corpo
potesse ancora destarsi e
parlarle; poi, vinta dal freddo e dall’inutilità dei suoi sforzi, si
accascia sopra il cadavere.
Non
si
rialza più.
«È
bellissimo, non trovi?»
La
voce, limpida e soffice, si era levata da qualche parte alle sue
spalle.
«Sì,
Camus
era davvero bellissimo».
«Bellissimo...»
Maia
aveva risposto automaticamente, senza riflettere; quando se ne rese
conto, si affrettò a voltarsi.
«…
il Santuario».
«Certo:
il Santuario. Sai, mio nonno era un appassionato di storia e cultura
antiche. Soprattutto l’Ellenismo lo affascinava: non si stancava mai
di parlare della civiltà greca, dei suoi personaggi illustri e dei
suoi miti. Poter vivere in un luogo come il Grande Tempio l’avrebbe
reso immensamente felice».
La
sua interlocutrice era una ragazza dalle spalle minute e le guance
rosee come petali; aveva meravigliosi capelli castani e grandi occhi
di un blu così scuro che si sarebbe potuto confondere col nero.
«Perdonami:
ti sto trattenendo con inutili chiacchiere senza nemmeno essermi
presentata. Sono Saori Kido» disse poi, eseguendo un inchino appena
accennato.
Maia,
che aveva una conoscenza assai superficiale delle usanze giapponesi,
ricambiò il gesto in modo goffo: «Maia Ninis».
«Sei
stata gentile a rispondere al mio invito così rapidamente, Maia. Ma
adesso vieni, ti prego: sediamoci un po’».
Saori
si mosse leggera verso il centro della sala, per poi fermarsi ai piedi
di una piccola scalinata che Maia, entrando, non aveva notato; sulla
cima di questa si ergeva una specie di altare marmoreo, basso e
disadorno. L’effetto finale restituiva all’osservatore un senso di
incompiuto, quasi che ci fosse uno spazio vuoto da riempire.
La
greca fissò per un attimo la sommità dei gradini, immaginando Arles
assiso su un enorme trono intarsiato e tutti i Gold saints chini al
suo cospetto; se lo figurò in maniera sorprendentemente nitida, l’ex
Gran Sacerdote, mentre osservava ghignando quelli che avrebbero dovuto
essere i suoi parigrado porgergli degli onori del tutto indebiti.
«Manca
il Trono» constatò allora, sottovoce «questa viene chiamata la “Sala
del Trono”, però qui non c’è nessuno scranno».
«Hai
ragione» asserì l’altra con un cenno della testa «A quanto pare il
Seggio pontificale è andato distrutto durante lo scontro tra Ikki di
Phoenix e Saga, ma io non ho ritenuto necessario sostituirlo».
La
frase fu pronunciata con un’autorevolezza e, al contempo, un’umiltà
tali da far accapponare la pelle di Maia.
Non
ho
ritenuto necessario sostituirlo equivaleva
a dire Non ne ho bisogno,
eppure le due espressioni non suonavano affatto alla stessa maniera.
«Perché
una
Dea dovrebbe dissimulare la propria potenza, specialmente di fronte
a qualcuno che non è neppure un saint? Si tratta forse di falsa
modestia?» pensò,
mentre si appoggiava cautamente al bordo dell’altare su cui Saori si
era seduta nel frattempo.
Quest’ultima,
se anche fece caso alla sua diffidenza, non lo diede ad intendere.
Rimase anzi in silenzio per qualche secondo, lisciandosi le pieghe di
un abito rosso dall’aria antica e piuttosto costosa; poi, tutto a un
tratto, il suo sguardo insondabile si alzò a cercare quello di Maia.
«È
curioso: nonostante tu sia poco più di una semplice civile, qui al
Santuario il tuo nome è più noto di quello della maggior parte dei
saints minori. Ho sentito molte cose su di te, Maia Ninis: so che sei
la nipote di Frandra Ninis, custode fedele da più di mezzo secolo; so
che i tuoi genitori, Eleni Ninis e Federico Spadaro, sono morti in
missione per conto del Grande Tempio; so della tua vocazione per la
medicina e del prezioso contributo che da anni fornisci al personale
sanitario interno».
Saori
si interruppe un istante, le mani poggiate in grembo e un sorriso
discreto sulle labbra: «Ma queste sono informazioni che ho reperito
soltanto dopo qualche tempo, in virtù della frequenza con cui i
cavalieri d’oro sono soliti rammentarti – spesso inconsciamente. Mi ha
colpito non poco il fatto che tu sia presente in quasi tutti i loro
ricordi… esclusi quelli più recenti».
A
quelle parole, Maia sentì il corpo farsi pesante.
«Ecco,
ci
siamo».
Benché
fino ad allora si fosse mantenuta sul vago, era spaventosamente ovvio
che la sua interlocutrice non l’aveva convocata solo per fare
conversazione.
Cosa
sapeva, Saori? I cavalieri di bronzo le avevano sicuramente riferito
quanto accaduto subito dopo il rito di restaurazione delle armature,
ma poi?
Se
davvero ella aveva parlato con tutti i Gold saints, allora era molto
probabile che fosse a conoscenza anche del resto; non poteva neppure
escludere l’eventualità che sapesse tutto a
prescindere.
Le
stava forse per chiedere di dare conto delle proprie azioni? In fondo,
secondo le leggi penali vigenti al momento del fatto, ciò che Maia
aveva detto contro il Grande Tempio e la Dea stessa costituiva
un’eresia passibile di condanna a morte…
«Leggo
la paura sul tuo viso, Maia. Ma se pensi che io ti abbia fatto venire
fin qui per metterti sotto processo, stai sbagliando».
Le
si era rivolta con un’espressione serissima, quasi che dalle
convinzioni di Maia dipendessero le sorti del mondo intero.
«Non
ho alcun diritto di giudicarti, e neppure ho mai avuto l’intenzione di
farlo; piuttosto, volevo… ringraziarti».
«Ri…
ringraziarmi? E per cosa?»
«Per
il tempo che hai trascorso con Aldebaran, Mu, Aiolia, Shaka e Milo
mentre io non… potevo esserci. Seppur in diversa misura, ognuno di essi nutre
sincero affetto nei tuoi riguardi. Ti sono grata per esserti presa
cura di loro – e non soltanto
di loro – come se fossero parte integrante della tua famiglia».
“Quella
stessa
famiglia di cui TU li hai privati”:
in un passato non troppo remoto, Maia avrebbe senza dubbio risposto
così.
Avrebbe
accusato Saori di quella e mille altre cose, dando finalmente voce a
una lista di recriminazioni allungatasi per anni, ma adesso le pareva
un gesto stupido e inutile.
Gettò
un’occhiata in tralice alla ragazza che le sedeva accanto, silenziosa
e composta in maniera impeccabile: aveva l’aspetto di un’adolescente,
eppure la sua presenza incuteva indubbio rispetto.
Non
avrebbe saputo dire se ciò dipendeva più dalle consapevolezze che
aveva faticosamente raggiunto o dalla dignità che trasudava da lei;
tuttavia, c’erano delle responsabilità che non potevano non
esserle addossate.
Stava
ancora cercando qualcosa con cui ribattere, quando l’altra prese
nuovamente la parola: «Non aver timore di esprimere ciò che senti: so
che imputi a me la colpa di quanto è accaduto. Parla pure
liberamente».
«Atena
propugna la pace, è vero, ma è stato Arles a volere la guerra:
senza il suo imbroglio, la battaglia delle Dodici Case non avrebbe
avuto ragion d’essere».
«Io
non… non riesco a capire!» esclamò allora Maia, le palpebre serrate
nello sforzo di non esagerare «Gli dei sono esseri primigeni. Creature
immortali, onniscienti, onnipotenti: è questo che insegnano tutti, dai maestri laici sui
banchi di scuola ai rappresentanti dei culti più svariati. È questo
che proclamano i sacerdoti del Mondo Segreto ad aspiranti e fedeli. Ma
se così è, che senso ha servirsi di braccia armate umane?
Perché mandare a morire i propri adepti, quando basterebbe schioccare
le dita?»
La
sua voce, resa più acuta dalla concitazione, rimbombò fra le pareti
della sala vuota come un grido di sdegno mai del tutto represso:
«Quando iniziò la sua ascesa al potere, Saga di Gemini aveva appena
diciassette anni: un ragazzino prodigio che ha saputo ingannare il
mondo intero, costruendosi un alter ego attraverso cui distribuire
vita e morte ad esclusivo piacimento della sua mente malata. Un
semplice uomo che ha finto
di agire in nome e per conto della divinità a cui si era votato, la
quale, una volta accortasi della frode, avrebbe dovuto polverizzarlo
seduta stante. Invece, a combatterlo, sono stati mandati altri umani:
saints poco più che bambini, che hanno ucciso per non essere uccisi.
Arles è stato sconfitto, sì, ma a quale prezzo? Vincitori con le mani
intrise di sangue, superstiti devastati da senso di colpa, soccombenti
ammazzati senza possibilità di redenzione… mi risulta davvero
difficile credere che non esistesse altro modo per giungere al
medesimo risultato».
Poi
tacque di botto, il respiro incastrato tra i denti per l’affanno.
Aveva
la sensazione di aver detto troppo e, insieme, di non aver detto
abbastanza.
La
sua mente tornò alla notte precedente l’attacco al Santuario, alla
figura di Camus avvolta dalla luce bianca della luna.
«Per
la
gloria. Perché l’essere saint
mi ha dato la possibilità di far sì che, alla mia dipartita, il
mio nome non divenga una semplice incisione su una tomba bianca.
Troppo spesso ci si scorda dei deceduti e delle loro gesta:
desidero andarmene sapendo di aver lasciato una traccia del mio
passaggio su questa Terra. Solo così sarà valsa la pena di aver
sofferto tanto».
Aveva
pronunciato quelle parole con tono ed espressione ferrei, addirittura
feroci, quasi che già conoscesse cosa sarebbe accaduto a neppure 24
ore di distanza.
Ma
che traccia aveva lasciato Aquarius, in fondo, se non quella
dell’avversario battuto?
L’essersi
opposto senza riserve a Hyoga del Cigno aveva del tutto oscurato la
persona eccezionale che era stato, consegnandolo alla storia e agli
occhi della sua Dea quale traditore; era morto così, senza grazia né
gloria. Invano.
Il
solo pensiero le provocava la nausea – anche se Aiolia aveva detto che
dare un senso alla morte spesso non serve a nulla.
«…»
Per
la prima volta da quando le si era palesata, Saori non la stava
guardando; anzi, il suo accorato discorso sembrava averla messa a
disagio. Adesso teneva la schiena leggermente incurvata e il viso
nascosto tra i capelli.
«I
tuoi sono dubbi legittimi,» sussurrò dopo un po’, le braccia rigide
«ma ricorda ciò che sto per dirti: non c’è nulla
di davvero onnipotente. Esiste un equilibrio di forze a cui niente e
nessuno può sottrarsi».
Poi
si alzò in piedi e fece qualche passo in avanti, dando le spalle a
Maia: «Nel settembre del 1986, quando giunsi al Santuario coi
cavalieri di bronzo, non era mia intenzione ingaggiare una guerra
aperta contro Arles. Avrei voluto percorrere le Dodici Case in maniera
pacifica, parlare con ogni Gold saint disposto ad ascoltarmi e
arrivare alle stanze del Gran Sacerdote senza versare una sola goccia
di sangue. Purtroppo, però, la ferita inferta al mio corpo mortale
dalla Phantom Arrow non me l’ha permesso; così, per salvarmi, Pegasus
e gli altri non hanno avuto altra scelta che quella di combattere».
Il
suo tono precedentemente gentile aveva lasciato il posto a un’amarezza
che ella non fingeva neppure di nascondere; persino il piccolo corpo
le si era trasfigurato, dandole un’aria quasi senza tempo.
«Sono
rimasta per dodici ore sulla scalinata della Prima Casa, impotente,
ma ho condiviso con tutti i
miei cavalieri più di quanto fossi capace di sopportare. Non c’è stato
un solo spasmo di dolore che non abbia morso anche le mie carni, non
un turbamento che non abbia adombrato anche il mio cuore. Tempio dopo
Tempio, ho sentito agitarsi dentro di me i timori di Mu, i dubbi di
Aldebaran, la paura di Death Mask, la rabbia di Aiolia, la confusione
di Shaka, il dissidio di Milo, il rimorso di Shura, la disillusione di
Aphrodite… lo sdegno di Camus».
Al
nome del fu Undicesimo Custode, Saori finalmente si voltò; i suoi
occhi, dapprima blu cupo, ora brillavano di un’incredibile luce celeste.
Maia
prese a fissarli senza alcun pudore, ammaliata e sconvolta. Quella
luce…
«Maia,
guarda quella luce… c’est si belle, n’est-ce pas?»
Non
era paragonabile al crepuscolo azzurro e impregnato d’addio che
affollava ogni suo ricordo alla Casa dell’Acquario; piuttosto, le
rammentava certe immagini indistinte, forse provenienti da un qualche
sogno pieno di pace. Di punto in bianco ebbe la certezza che sarebbe
potuta rimanere a guardarla per ore intere.
La
voce dell’altra, però, attirò nuovamente la sua attenzione.
«Cancer,
Capricorn, Aquarius, Pisces… sono riuscita a raggiungerli soltanto in
punto di morte, quando erano ormai disposti a lasciarsi toccare, ma il
Dio dell’oltretomba ha risucchiato le loro anime prima che io potessi
chiamarle a me. Non sono stata abbastanza forte da impedirglielo».
«Contrariamente
a quanto credi, Atena ha tentato con ogni mezzo di salvare – anche
– i nostri caduti. Ma essi Le erano troppo distanti: quando la Sua
luce li ha raggiunti, le loro anime stavano già rispondendo al
richiamo dell’Ade. Non è stato possibile riportarli indietro».
Maia
si lasciò sfuggire un gemito: non si era trattato di un’impressione
falsata dalla devozione del Quinto Custode, era tutto vero. Era sempre
stato vero, nonostante avesse passato l’ultimo anno e mezzo a
consumarsi per l’opposto.
«A
dispetto
della loro miscredenza, Atena non ha rinnegato i suoi cavalieri.
Nessuno di essi, neppure Camus».
Con
gli occhi di nuovo aggrappati a quelli di Saori, stavolta
convincersene le venne facile e naturale come respirare. L’aria stessa
pareva entrare e uscire dai suoi polmoni in maniera più fluida, quasi
che si fosse dissolto un qualche residuo di brina ancora nascosto.
Assurdo:
sapere che Aquarius non era spirato da reietto non gliel’avrebbe
affatto restituito, ma per la prima volta da moltissimo tempo si
sentiva, per dirla alla maniera di Aiolia…
sollevata.
Si
chiese se anche Camus, nello spegnersi, avesse provato lo stesso; se,
una volta al cospetto della luce celeste, non avesse compreso tutto
ciò che c’era da comprendere nell’arco di un solo minuto.
«C’è
un’altra cosa che vorrei sapere. Una soltanto, l’ultima. Giuro che non
domanderò di più».
«Mi
auguro di poterti rispondere».
«Lui…
se n’è andato in pace?»
Dinanzi
a quella richiesta, l’espressione della sua controparte tornò
nuovamente ad addolcirsi: «Durante gli scontri al Settimo e
all’Undicesimo Tempio ho tentato in più occasioni di lambire il cosmo
di Aquarius, trovandomi sempre davanti un granitico muro di ghiaccio –
che, date le mie condizioni, non avrei avuto la forza di penetrare».
Saori
fece una breve pausa, forse per darle modo di interiorizzare ciò che
stava dicendo un poco alla volta; a dispetto di qualunque logica, la
cosa fece sentire Maia stranamente protetta –
come quando, da bambina, sua madre la consolava dopo un
brutto episodio.
«Tuttavia,
al termine della battaglia alla Sacra Anfora, ciò che ho avvertito è
stato completamente diverso. Il cosmo può rivelare molte cose sul
proprio portatore, nel momento in cui questi acconsente a farsi
toccare: dietro quel muro, l’aura del saint dell’Acquario era bianca e
morbida come la neve appena caduta. Nulla ne turbava il candore… a
parte una lieve ombra di malinconia. È stato così fino alla fine».
Lo
sguardo della Dea, fisso su di lei, ora brillava più che mai. Lo
vedeva perfettamente, nonostante i contorni delle cose le si fossero
fatti appannati e tremuli.
«La
prima: quelle che vedo dovranno essere le ultime lacrime che
verserai per me».
Quante
lacrime avesse effettivamente versato sulla memoria di Camus, Maia non
avrebbe potuto contarle; sapeva, però, che quelle che adesso
scorrevano lungo le sue guance avevano un sapore diverso
dalle precedenti. Decisamente meno acre e, forse, anche un po’
liberatorio.
Furono
davvero le ultime.
Note
dell’autore
Buonsalve,
brava gente. Spero stiate tutti bene.
Circa due anni fa, quando decisi di dare una seconda chance a questa storia, giurai a me stessa che non avrei mai più fatto passare troppo tempo da un aggiornamento all’altro: promesse da
marinaio – un po’ come quelle di Maia, in fondo.
A mia discolpa posso solo dire che questo capitolo aveva un focus particolarmente ostico da sviluppare: non ho mai fatto mistero di quanto poco apprezzi la figura di Saori, che io trovo
vergognosamente priva di spessore (nonché di credibilità logica, ma ciò risente del mio essere irrimediabilmente atea).
Ho dunque provato a “correggere” un poco il tiro, motivando il personaggio e il suo agire nel modo che mi pareva più plausibile. In tale contesto, grande rilevanza assume la scissione
Saori/Atena, ove la seconda, quando si manifesta, è comunque soggetta ai limiti del corpo mortale della prima; quest’ultima, di contro, possiede un’autorevolezza e un’attrattiva che io immagino irresistibili – o, se preferite, straordinarie.
Per ciò che invece concerne il ruolo della suddetta negli eventi legati alla battaglia delle Dodici Case, torno a ribadire la centralità dell’avvertimento “What If”: non ho nessunissima
pretesa circa l’esattezza canonica della ricostruzione da me operata, che ho modellato a esclusivo uso e consumo di questa storia. Stesso dicasi per il cambio di colore degli occhi; giocando un po’ con le differenze fra le prime serie (dove gli occhi di Saori sembrano quasi neri) e quella di Hades, mi sono divertita a ipotizzare che le iridi celesti siano il segnale più evidente del momentaneo prevalere della divinità sulla donna.
Del resto, quest’ultimo dettaglio si appalesa fondamentale soprattutto per l’altra protagonista del presente capitolo, il quale rappresenta l’apice di un percorso emotivo iniziato grazie a Shaka, consolidatosi per merito di Aiolia e terminato proprio con Saori.
Confrontarsi col motivo principale della morte di Camus – ossia, Atena – ha dato a Maia la forza di perdonare Aquarius, così come a suo tempo l’intervento di Hyoga e Atena medesima fu
fondamentale per consentire a Milo di assolvere se stesso.
Adesso c’è solo da andare avanti, un passo alla volta. A voi di indovinare quale sarà il prossimo.
Prima di lasciarvi definitivamente in pace, qualche precisazione più tecnica:
-theós: termine con cui nella lingua greca antica si indica genericamente un dio. Ho scelto questa parola perché rimandasse a un qualcosa di impersonale, quasi di estraneo;
-«Atena propugna la pace, è vero, ma è stato Arles a volere la guerra: senza il suo imbroglio, la battaglia delle Dodici Case non avrebbe avuto ragion d’essere» : frase tratta dal capitolo 14;
-«Per la gloria. Perché l’essere saint mi ha dato la possibilità di far sì che, alla mia dipartita, il mio nome non divenga una semplice incisione su una tomba bianca. Troppo spesso ci si scorda dei deceduti e delle loro gesta: desidero andarmene sapendo di aver lasciato una traccia del mio passaggio su questa Terra. Solo così sarà valsa la pena di aver sofferto tanto» : frase tratta dal capitolo 9;
-«Maia, guarda quella luce… c’est si belle, n’est-ce pas?» : frase tratta dal capitolo 10, parte II;
-«Contrariamente a quanto credi, Atena ha tentato con ogni mezzo di salvare – anche – i nostri caduti. Ma essi Le erano troppo distanti: quando la Sua luce li ha raggiunti, le loro anime stavano già rispondendo al richiamo dell’Ade. Non è stato possibile riportarli indietro» : frase tratta dal capitolo 15;
-«La prima: quelle che vedo dovranno essere le ultime lacrime che verserai per me» : frase tratta dal capitolo 10, parte II.
Ringrazio a cuore aperto chi ancora ha la pazienza di seguire – e magari commentare – “Sorella Morte”: abbiate fede, il traguardo potrebbe essere più vicino di quanto non sembri ;)
Un abbraccio a tutti, (spero) a presto!
Irene
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