Just Like Heaven - Se solo fosse vero

di Emily Kingston
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Everybody needs inspiration ***
Capitolo 2: *** Do it all again ***
Capitolo 3: *** I'm coming home ***
Capitolo 4: *** There's a sparkle in you ***
Capitolo 5: *** Everything is never as it seems ***
Capitolo 6: *** There is no finish line ***
Capitolo 7: *** You're gonna be the one who saves me? ***
Capitolo 8: *** I don't know who we are ***
Capitolo 9: *** Can we pretend that airplanes in the night sky are like shooting stars? ***



Capitolo 1
*** Everybody needs inspiration ***


Everybody needs inspiration

Hermione Granger si trovava in mezzo ad una stretta strada affollata. I piedi saldamente posati sulle pietre grigie dello stradello e gli occhi che viaggiavano tutt’intorno, smarriti.
Strane persone, con alti capelli a punta, lunghe tuniche dai colori brillanti, o vecchi abiti logori, camminavano avanti e indietro lungo quella via.
Alcuni tenevano in mano degli ampi calderoni color nero pace, altri gabbie con dentro gufi e civette, altri ancora andavano in giro facendo levitare alle loro spalle buste piene di strani oggetti – simili alle provette che usavano all’ospedale per conservare le analisi del sangue.
Si morse lievemente il labbro, muovendo qualche passo lungo la via, notando gruppetti di bambini che si ammucchiavano davanti alla vetrina di uno strano negozio che esponeva scope, e ragazzi più grandi che entravano ed uscivano da uno strano negozio, di un arancio acceso, che si trovava in fondo alla via.
Tiri Vispi Weasley, lesse.
Scosse il capo; non ricordava che a Londra ci fossero quartieri del genere, anzi era ragionevolmente sicura che non ce ne fossero.
Improvvisamente tutto iniziò a vorticare attorno a lei mentre una voce soave, che sembrava venire da molto lontano, la chiamava.
Aprì piano gli occhi, uscendo con delicatezza dal sogno, e si ritrovò faccia a faccia con Showna, una ragazza dalla carnagione scura e dai grandi occhi marroni.
Stava sorridendo.
“Quanto ho dormito?” chiese, con uno sbadiglio, raddrizzandosi sulla sedia.
Fece una piccola smorfia a causa del mal di schiena, causato dalla posizione scomoda, e tornò a guardare Showna negli occhi.
“Sei minuti.”
Hermione annuì e si alzò, dirigendosi meccanicamente verso la macchinetta del caffè, ordinandole di fare un caffè lungo doppio, con poco zucchero.
“Sono più di ventitré ore che sei qui, va a casa,” le suggerì Showna, poggiandole una mano sulla spalla. Hermione scosse la testa, afferrando la sua tazza, ora piena di caffè, e portandola alle labbra. Era una bella tazza bianca con su scritto il suo nome a lettere colorate, l’aveva portata da casa.
“A casa sarei totalmente inutile, qui invece posso servire a qualcuno,” osservò, versando il resto del caffè nel lavandino; afferrò lo stetoscopio e lo appese al collo mentre usciva dalla stanzetta e si dirigeva con Showna lungo il corridoio.
Il via, vai di infermieri, medici e pazienti, le investì, insieme al quasi fastidioso odore di disinfettante di cui era pregna la stanza.
Percorsero il lungo corridoio fino ad arrivare nei pressi della segreteria dove, da dietro al banco, Amy fece loro un cenno di saluto.
“Dovresti fare pausa e lo sai,” le sussurrò Showna all’orecchio, mentre Hermione salutava un paio di colleghi con un sorriso radioso.
“E tu sai che una pausa mi porterebbe allo sconforto,” ribatté, tra i denti, continuando a spargere sorrisi a pazienti e membri del personale. “E lo sconforto mi porterebbe sul mio divano, immersa nel pigiama di flanella che mi sono regalata lo scorso Natale, con in mano un barattolo di gelato e le lacrime agli occhi per colpa di una maledetta soap-opera americana.”
Hermione lanciò a Showna uno sguardo tagliente, farcito dal sopracciglio destro appena alzato, ed aprì una porta bianca, irrompendo nella stanza.
La sua espressione, da assassina e severa, mutò in dolce e comprensiva quando i suoi occhi incontrarono quelli del paziente steso nel letto.
“Cos’abbiamo?” chiese, afferrando la cartellina che le porgeva un infermiere.
“Ha avuto qualche problemino con il suo diabete,” spiegò spiccio, il ragazzo, soffermandosi ad osservare Hermione con un mezzo sorriso.
Lei lo ignorò, rimettendogli la cartellina tra le mani per dirigersi verso il paziente.
“Allora, come si sente, signor…”
“Anderson,” si affrettò a rispondere l’infermiere. “Micheal Anderson.”
Hermione annuì, riportando lo sguardo sull’uomo anziano steso nel lettino.
Showna nascose un sorrisetto quando, con un movimento impercettibile, Hermione fulminò il giovane infermiere che le stava guardando il sedere.
“Tenete d’occhio la sua pressione per un paio di giorni, se va tutto bene rimandatelo a casa,” sussurrò Hermione all’infermiere che, un lampo d’imbarazzo negli occhi, annuì ed uscì dalla stanza.
“Posso fare qualcosa per farla stare meglio, signor Anderson?” chiese dolcemente, rivolgendosi di nuovo all’uomo nel lettino.
Quello annuì, biascicando a vuoto un paio di volte prima di mettersi a sedere e sussurrare, con una scintilla eccitata nella voce: “Vuole sposarmi?”
Showna dovette ficcarsi un pugno in bocca per non scoppiare a ridergli in faccia mentre Hermione, continuando a sorridere, annuiva, accondiscendente.
“Certo signor Anderson,” rispose, dando una gomitata alla collega prima di uscire con lei dalla stanza.

Hermione Granger aveva venticinque anni, una carriera piuttosto avviata all’ospedale St. Patrick di Londra ed un piccolo appartamento nel West End, in cima ad un alto palazzo in Regent Street che, nonostante la scomodità delle scale, possedeva la miglior vista di tutta la città. Era uscita dalle scuole superiori con ottimi voti e, dopo anni di incertezze e tentennamenti, aveva deciso: voleva fare il medico. Da lì, fino al suo ingresso all’ospedale, era stata tutta discesa. La sua buona preparazione di base le aveva permesso l’ingresso all’università di Londra senza problemi, ed anche la sua laurea era arrivata con facilità e successo, procurandole le adeguate referenze per un posto al St. Patrick come praticanda a soli due mesi dalla fine dei suoi studi.
Da quando aveva iniziato a lavorare all’ospedale la sua vita era stata assorbita quasi totalmente dai suoi compiti di medico, passava la maggior parte del tempo a lavoro, ritornando a casa la sera tardi ed uscendone la mattina presto.
Si concedeva una pausa dall’ospedale solo quando incappava in qualche evento particolare, come il compleanno di uno dei suoi genitori o un’improvvisa influenza dalla quale, il suo essere medico, non la rendeva certo immune.
La sua famiglia ed i suoi colleghi erano per lei una cosa intrinseca, viveva l’ospedale e con lui tutti coloro che lo abitavano; interagendo con loro tutti i giorni si era fatta degli amici, come Showna ed Amy della segreteria, ed aveva fatto di alcuni suoi superiori i suoi mentori, come ad esempio Christina Yard, la donna alla quale doveva praticamente tutto ciò che conosceva della medicina da praticare sul campo.
Era una ragazza felice; una soddisfatta e felicissima donna in carriera che amava il suo lavoro ed era in attesa di una promozione, per la quale aveva fatto non pochi turni extra negli ultimi mesi.
Showna le diceva spesso che avrebbe dovuto farsi una vita sociale e sua madre non faceva che chiederle quando si sarebbe trovata un uomo decente con il quale condividere l’esistenza.
E lei ogni volta annuiva e diceva che ci avrebbe pensato presto, ma la verità è che le andava bene così, non sentiva né il bisogno di andare in giro per i pub il sabato sera, né di trovarsi un ragazzo. Era apposto così, con la sola compagnia di se stessa e dell’ospedale.
Sorrise soddisfatta in direzione del tabellone dei turni e, con un sospiro, riprese a camminare per il corridoio, assalita saltuariamente da infermieri e colleghi che le chiedevano una consulenza.
“Incidente stradale nella City, ambulanza in arrivo.” Una giovane infermiera dal camice rosato si era fermata davanti al signor Tight, il direttore dell’ospedale.
Lui le sorrise e si voltò verso l’imboccatura del corridoio dove, con un sorriso speranzoso, Hermione aspettava a fianco di un giovane ragazzo alto dall’aria composta.
“Da quanto tempo sei qui?” domandò l’uomo al ragazzo.
“Diciassette ore, signore,” rispose quello, sorridendo.
“E tu?”
Hermione arrossì, abbassando il capo.
“Un po’ di più,” confessò, rifiutandosi di ammettere che erano ben ventisette ore che non metteva piede fuori dall’ospedale.
“Vai tu Miles, tu, signorina, sei qui da troppo tempo,” annunciò, guardando Hermione con occhi severamente divertiti.
Miles annuì e, combattendo contro un sorrisetto di vittoria, sparì nel corridoio, diretto al parcheggio dell’ospedale.
Hermione abbassò le spalle e si voltò, pronta per andare a prendere un caffè.
“Hermione?” la ragazza si voltò, il signor Tight, di fronte a lei, le sorrideva. “Vai a casa, sei qui da ventisette ore.”
La ragazza spalancò gli occhi ed annuì.
“Sì, signore.” assicurò, dandogli nuovamente le spalle.
“Quasi dimenticavo,” aggiunse l’uomo, portandola a voltarsi ancora una volta nella sua direzione. “Il posto di caporeparto è tuo.”
Hermione trattenne un gemito emozionato e, incapace di contenersi, si lasciò andare ad un enorme e brillante sorriso, balbettando incoerentemente che non l’avrebbe deluso e che avrebbe dedicato anima e corpo al suo nuovo incarico.
“Oh, so che sarai perfetta. Ma ora, a casa.”
“Sì. Grazie signore, grazie infinite,” aggiunse, prima di incamminarsi con passo svelto verso la stanzetta dove facevano la pausa.
Aprì la porticina bianca ed andò a sedersi su una delle sedie intorno al tavolo, lo sguardo vacuo che vagava sulla parete grigia di fronte a lei.
“Lo sapevo che lavorare troppo ti avrebbe reso idiota,” sbuffò Showna, entrando nella stanzetta con l’aria di una che aveva passato una giornata piuttosto pesante.
Hermione le sorrise ampiamente.
“Ho avuto il posto,” pigolò, l’emozione era così forte che le risultava difficile parlare.
Showna spalancò gli occhi e la guardò.
“Lo sapevo,” sussurrò, più a se stessa. “Lo sapevo!”
Corse ad abbracciarla ed Hermione si lasciò andare ad un’allegra risata argentina, mentre con Showna saltellava per la stanza.
“Devo andare a dirlo ai miei,” esclamò all’improvviso, lanciando uno sguardo all’orologio. “Le otto, faccio ancora in tempo se mi sbrigo.”
Showna ridacchiò, vedendola saettare da una parte all’altra della stanza nel tentativo di raccattare tutte le sue cose.
Hermione si sfilò velocemente il camice e lo appallottolò, infilandolo nel suo armadietto da quale tirò fuori il cappotto e la borsa. Prese la sua tazza dal lavandino e, lanciato un sorriso emozionato a Showna, si precipitò verso l’ascensore.
Il parcheggio era poco illuminato quella sera, un paio di lampioni si erano fulminati e la visibilità era ridotta. L’asfalto era scivoloso a causa della pioggia che era caduta incessantemente per tutto il pomeriggio ed il cielo era ancora nuvolo, nonostante avesse smesso di piovere da diverse ore.
Hermione, comunque, individuò la sua auto grigia parcheggiata tra una decappottabile bordò ed una mini nera.
Nella fretta infilò un piede in una pozza ma, nonostante l’acqua le avesse riempito le scarpe, non ci fece caso e saltò a bordo, mettendo in moto ed immettendosi in strada.
Frugò nella borsa, appoggiata al sedile del passeggero, e ne tirò fuori il suo cellulare; tenendo un occhio sul display ed uno sulla strada, digitò il numero di casa dei suoi e si portò l’apparecchio all’orecchio, attendendo che dall’altra parte rispondessero.
“Pronto?” la voce di suo padre suonava assonnata, forse si era appisolato sul divano guardando la televisione.
“Papà? Sono io, Hermione”
“Oh, ciao tesoro. Che c’è? È successo qualcosa?” anche se cercava di mantenere un tono di voce neutro, Hermione avvertì comunque una punta di preoccupazione tra le sue parole.
“No, tranquillo papà, va tutto bene. Sono appena uscita da lavoro e mi chiedevo se potevo passare da voi per una visita, avrei una cosa importante da dirvi” incrociò le dita, gli occhi puntati sull’asfalto di fronte a lei ed il telefono intrappolato tra la gota e la spalla.
“Ma certo, vieni pure quando vuoi,”la rassicurò il padre. “Dico a tua madre di mettere su il tè”
Hermione sorrise, anche se lui non poteva vederla, e concluse la telefonata dicendo che sarebbe stata lì in pochi minuti, il tempo di arrivare.
Con un sospiro eccitato lanciò il telefonino sul seggiolino del guidatore e tornò a concentrarsi pienamente sulla guida.
Accese la radio a basso volume; anche se di solito non le piaceva ascoltare musica in auto quella sera si sentiva così euforica che non si curò di dove fosse.
Iniziò a canticchiare tra sé la canzone, battendo appena il rimo con i palmi delle mani contro il volante, quando una potente luce bianca la abbagliò, ostruendole la vista.
Incapace di vedere la strada sterzò, sperando di finire addosso a qualcosa, magari un cassonetto o una pompa dell’acqua, che l’avrebbe fermata.
Nulla, però, arrestò il percorso della sua auto, sentì solo il suono prolungato di un clacson che veniva suonato e lo stridio di un freno premuto all’ultimo minuto, seguiti dalla strana sensazione di fluttuare nell’aria.

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Capitolo 2
*** Do it all again ***


 Do it all again

Ronald Weasley non avrebbe mai pensato di trovarsi nel luogo in cui si trovava.
Alzò il naso verso il cielo, seguendo con gli occhi la silhouette dell’alto palazzo di fronte a lui. Era un elegante stabile moderno, con la facciata tinta di azzurro spento e dalle rifiniture in bianco. Non era molto alto, cinque, sei piani al massimo, ed ogni appartamento aveva un piccolo terrazzino semi circolare che dava sulla strada.
“Allora, cosa gliene pare?” la signorina Mildred, una consulente dell’agenzia immobiliare alla quale si era rivolto, gli sorrise incoraggiante.
Ron storse il naso, guardandosi intorno.
L’appartamento nel quale l’aveva guidato la signorina Mildred era sì ampio, con una bella vista e dotato degli adeguati comfort, ma non sapeva per quale ragione sentiva che non avrebbe mai voluto vivere in un posto del genere.
Forse perché Oxford Street era una via troppo trafficata. Forse perché voleva un posto che fosse più nei pressi del suo ufficio. Forse perché il divano era scomodo.
Sì, doveva essere decisamente colpa del divano.
“E’ carino, dico davvero,” lo sguardo negli occhi della signorina Mildred lasciò intendere a Ron che aveva capito ciò che stava per dire. “Però non…diciamo non soddisfa le mie esigenze.”
“E’ troppo lontano dal suo ufficio?” domandò la ragazza.
Ron si strinse nelle spalle.
“Non è un problema d’ufficio, mi creda, è…è il divano, ecco, il divano è scomodo!” farneticò e la signorina Mildred lo guardò come se fosse pazzo.
Tornarono in strada e Ron guardò con una punta di rammarico la palazzina che aveva appena lasciato.
“La chiamo non appena so qualcosa,” assicurò la ragazza, sorridendo.
Ron annuì, voltandole le spalle ed incamminandosi lungo il marciapiede. Imboccò un vicolo secondario, abbastanza nascosto alla vista dei passanti e, dopo essersi guardato intorno con circospezione, tirò fuori una bacchetta di legno dalla tasca del giaccone e sparì nel nulla.
 
Ronald Weasley era un mago, nato tra i maghi e cresciuto tra i maghi. Aveva venticinque anni ed una carriera come Auror al Ministero della Magia e, per qualche strana ragione a lui ignota, aveva un innato interesse per babbani e tutte le cose a loro collegate.
Non gli era risultato strano, quindi, il desiderio di abbandonare il suo appartamento in subaffitto a Diagon Alley, per cercarsi una casa decente nella Londra babbana.
Con uno sbuffo si lasciò andare contro il cigolante divano del suo salotto ed afferrò una copia della Gazzetta del Profeta di quella mattina; aprì svogliatamente il giornale, trovando la prima pagina occupata interamente dalla foto del suo migliore amico, che sorrideva in modo tirato all’obbiettivo, accompagnata da una testata a grandi lettere: Harry Potter e Ginevra Weasley, sposi entro l’anno, seguita da un introduzione a caratteri più piccoli: Il giovane Potter e la più piccola di casa Weasley hanno deciso di mettere su famiglia; per l’articolo di Betty Warmwright a pagina 3.
Scosse il capo con un mezzo sorriso e ripose il giornale, certo che, se la notizia più importante del giorno era il matrimonio di Harry Potter, non fosse successo nulla di interessante.
Un lieve pop attirò la sua attenzione, seguito dallo sbuffo scocciato di una voce a lui fin troppo familiare.
“Sono degli avvoltoi, ecco cosa sono!” sbottò il nuovo venuto, sedendosi al fianco di Ron sul divano.
“Ciao anche a te Harry, com’è andata la tua giornata?” domandò il ragazzo, nascondendo un sorrisetto.
Harry sbuffò, affondando tra i cuscini del divano.
“Uno strazio,” rispose. “E’ stato un vero inferno, Ron, dico davvero,” ripeté, incappando nello sguardo scettico dell’amico. “Rita Skeeter tra poco inizierà a sbucare anche dal water del bagno di casa mia!”
Ron trattenne a stento una risata quando, nella sua mente, apparve l’immagine della testa riccioluta della giornalista che sbucava da sotto la tavoletta del water.
“In ufficio?” Harry si strinse nelle spalle.
“Tutta roba di amministrazione,” spiegò. “La cosa più emozionante della settimana è stato il processo di Malfoy.”
Ron trattenne una smorfia; sentire il nome di quello che era stato uno dei loro più acerrimi nemici ad Hogwarts, e con il quale era passato molto spesso alle mani, gli procurava uno strano senso di fastidio che non era mai riuscito ad eliminare.
“L’anno rimandato a giudizio, il prossimo processo ci sarà tra un paio di mesi.”
“In tempo per me, allora,” ridacchiò il rosso, facendo l’occhiolino all’amico.
Harry rispose alla sua risata con un sorriso divertito, prima di lanciare un’occhiata al giornale ripiegato vicino al divano.
Alla vista della sua foto fece una smorfia.
“Sei riuscito a trovare casa?” chiese poi, scacciando dalla mente la sua immagine che gli sorrideva dal pezzo di carta stampata.
Ron scosse il capo, mutando la sua espressione da allegra in sconsolata.
“Penso che rimarrò in questo buco puzzolente ancora per un po’.”
Harry gli batté una pacca sulla spalla, prima di annunciare che sarebbe dovuto volare a casa prima che Ginny venisse a cercarlo, molto sicuramente armata di ira e bacchetta.
Ron rise, concordando sul fatto che sua sorella arrabbiata e armata metteva abbastanza i brividi.
“Ultimamente, poi, somiglia sempre di più a tua madre per quanto urla,” aggiunse Harry, prima di fare a Ron un cenno di saluto e sparire nel nulla.
 
Londra era affollatissima quel pomeriggio, nonostante il cielo coperto da una fitta coltre di nubi ed il fastidioso frusciare del vento a tratti violento, a tratti delicato.
Ron aveva afferrato il suo giaccone, si era infilato la bacchetta nella tasca sul dietro dei jeans e si era Smaterializzato dal suo salotto, diretto non sapeva bene dove.
Aveva semplicemente pensato di andare in un posto che lo facesse sentire meglio e meno in ansia, ed era sbucato in un vicolo della Londra babbana.
Con un sorrisetto aveva affondato un po’ il mento nella sciarpa ed era sbucato in strada, affrontando il mutevole clima del mese di Ottobre, combattendo contro le foglie secche gli sbattevano contro le caviglie ad ogni folata di vento e concedendosi il piacere di vagare tra una folla di persone che non gli prestavano attenzione.
Gli piaceva fare lunghe passeggiate nella zona di Londra abitata dai babbani, camminare per i parchi, prendersi un caffè in qualche bar. Gli piaceva il fatto che nessuno avesse idea di chi era né di che cosa avesse fatto.
Non che nella Londra magica la gente lo assalisse come faceva con Harry, ma c’era stato un periodo in cui lui e il suo migliore amico erano stati costretti in casa per una settimana e, tutt’ora, era per loro più comodo non farsi vedere assieme in giro.
Dopo la vittoria di Harry su Voldemort lui, in quanto sua spalla, suo braccio destro e suo migliore amico, aveva con lui condiviso buona parte della sua fama e, dopo un primo periodo di gioia e giubilo, erano iniziate a girare strane voci su una loro presunta relazione.
Anche adesso, nonostante il rapporto del giovane Potter con Ginny fosse di dominio pubblico, qualche giornalista si divertiva a fotografarli insieme mentre prendevano un caffè o quando parlavano durante una pausa lavorativa.
Con uno sbuffo s’infilò in una strada secondaria poco trafficata. Si strinse un po’ nel cappotto quando una folata di vento un po’ più potente delle altre gli fece entrare qualche spiffero sotto i vestiti.
Si guardò intorno incuriosito, si trovava in un quartiere del West End dove non ricordava di essere mai stato. Era una strada abbastanza tranquilla composta da alte palazzine tutte simili tra loro.
Stava ancora camminando con il naso per aria quando un foglietto fucsia gli si attaccò alla gamba a causa del vento.
Con noncuranza lo staccò e lo rilanciò nell’aria, vedendolo giocare con le correnti d’aria mentre saliva alto nel cielo.
Sorrise appena alla vista del puntino colorato che si faceva sempre più lontano. Dopo pochi attimi, però, lo stesso foglietto gli si attaccò alla manica del giaccone, premendo con insistenza contro il suo braccio.
Scocciato Ron lo staccò di nuovo e lo rilanciò ancora una volta nel vento, ma quello, dispettoso, tornò indietro, sbattendo sul suo viso.
Ron era abituato a vedere cose strane, come oggetti che volavano o creature, che molti credevano inesistenti, camminare per strada. Era abituato alla magia, alle pentole che si pulivano da sole, alle lettere che parlavano, ai fantasmi ed alle persone che potevano viaggiare attraverso i camini.
Ma mai, in venticinque anni, gli era capitato di incappare in un post-it colorato che rincorreva le persone.
Sembrava quasi che quello stropicciato pezzo di carta desiderasse essere letto da lui, come se lo stesse cercando.
Scuotendo appena il capo, nella speranza di allontanare dalla mente quei ridicoli pensieri, Ron stese alla bell’è meglio il foglio e lesse il contenuto.
I suoi occhi s’illuminarono, s’infilò il foglio in tasca e tirò fuori il suo telefonino babbano dalla tasca della giacca, componendo il numero della signorina Mildred.
 
“Ne è sicuro?” domandò la ragazza, apprensiva. “Insomma non è meglio di tutti quelli che abbiamo già visto.”
Ron scosse il capo, incoraggiando la signorina ad accompagnarlo.
Si trovavano davanti ad un alto palazzo in Regent Street, la strada in cui Ron era incappato durante la sua passeggiata, e si apprestavano a visitare un appartamento in affitto all’ultimo piano di quello stabile.
Era un palazzo dalla facciata giallina con rifiniture color crema, tutti gli appartamenti avevano un terrazzino tranne quelli dell’ultimo piano, che avevano invece una grande finestra semicircolare che dava sulla strada.
Sul foglio che aveva trovato – o meglio, il foglio che aveva trovato lui – c’era l’annuncio di affitto per l’appartamento dell’ultimo piano, che l’ultima inquilina aveva dovuto lasciare tre mesi prima a causa di problemi che la famiglia non aveva voluto divulgare.
Non c’era l’ascensore, ma per Ron non era un problema fare le scale.
L’appartamento nel quale gli fece strada la signorina Mildred era non più ampio di quelli che aveva già visto e non meno bello.
Però aveva qualcosa di particolare che gli altri non avevano.
Forse era la panca sotto alla finestra semicircolare. O la cucina in legno di ciliegio. Oppure il grande letto in ferro battuto. O magari era il divano, né troppo morbido né troppo duro, a due piazze, davanti alla TV.
Sì, era decisamente il divano.
“E’ magnifico,” asserì Ron, gli occhi che gli brillavano d’emozione.
La signorina Mildred si aprì in un sorriso, anche se all’inizio fosse riluttante ad accompagnarlo a vedere quell’immobile, sapere che aveva finalmente trovato casa a quello strano tizio dai capelli color carota le aveva fatto crescere dentro un moto di soddisfazione e sollievo.
“Lo prende, allora?” chiese, speranzosa.
Ron annuì un paio di volte prima di confermare a parole che sì, avrebbe affittato quell’appartamento.
“Bene, signor Weasley, benvenuto a casa sua!” esclamò la ragazza e, dopo avergli fatto firmare alcuni fogli, gli consegnò le chiavi, scomparendo dalla porta d’ingresso con un sorriso enorme stampato in volto.
Ron sospirò di soddisfazione andando a sedersi sul divano, non aveva nulla a che fare con il cigolante rottame che aveva nell’appartamento a Diagon Alley.
Con un sorriso compiaciuto si lasciò andare contro i cuscini, socchiudendo gli occhi, avrebbe avuto tempo per il trasloco il giorno seguente.

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Capitolo 3
*** I'm coming home ***


 I’m coming home

Hermione non avrebbe saputo dire, con precisione, dove si trovasse in quel momento. Era circondata da bianco, accecante e pallido bianco.
E sentiva delle voci, voci ovattate e preoccupate che sembravano venire da molto lontano.
Forse stava sognando.
“Come sta?” riconobbe la voce di sua madre.
“Non ci sono miglioramenti, mi dispiace,” e quella, sicuramente doveva essere la voce del dottor Miles, il suo collega.
“Oh,” un sospiro da parte di sua madre ed il rumore di passi sul pavimento.
In sottofondo al silenzio c’era un lieve bip che riempiva l’aria, regolare e persistente.
Stava sicuramente sognando.
Si guardò intorno, cercando di scorgere qualcosa nel mare di bianco quale era il posto in cui si trovava, e in quel momento le tornò in mente casa sua.
Il suo bell’appartamento in Regent Street, che non aveva il terrazzino ma che possedeva l’accesso al tetto dal quale si aveva una delle migliori viste della città.
Decise che voleva svegliarsi immediatamente da quello strano sogno ed andare a casa, per farsi un tè e poi mettersi a leggere un libro.
Voleva andare a casa, ora.
Si concentrò, strizzando gli occhi, ed ebbe come la sensazione di fluttuare nell’aria, poi non vide più nulla, era come se fosse scomparsa.

***

“E questa è l’ultima,” annunciò Ron, passandosi una mano sulla fronte sudata e cadendo a sedere sul pavimento, mentre chiudeva la porta con un colpo di bacchetta.
Harry era in coma sul divano, gli occhi socchiusi ed una lattina di birra babbana che gli penzolava dalla mano sinistra.
“Se ti vedesse Ginny...” ridacchiò Ron.
Harry balzò a sedere, lasciando cadere a terra la lattina, facendo così spargere i residui di birra sul pavimento.
“Per carità!” esclamò il moro, ravviandosi i capelli. “Non dirle che l’ho fatto, ti prego!”
Ron rise apertamente, facendo evanescere la birra dal pavimento con un lieve Gratta e Netta.
“Mia sorella ti sta schiavizzando, amico. Ti comporti come un Elfo Domestico.”
Harry gli lanciò un’occhiataccia.
“Forse dovrei farmelo un Elfo Domestico, lavorerei di meno,” sembrò pensarci su seriamente, ma i suoi pensieri cambiarono percorso quando una ciabatta, che Ron aveva trovato chissà dove tra le scatole, lo colpì sulla testa.
“Mamma non te lo perdonerebbe mai,” osservò Ron.
Sua madre, Molly, non era molto favorevole alle condizioni in cui lavoravano gli Elfi Domestici; diceva sempre che loro non ne avevano uno perché non avrebbero potuto pagarlo. A quel punto qualcuno, di solito i gemelli, ricordava allegramente che gli Elfi Domestici non vengono pagati e allora lei rimarcava che era proprio quello il punto.
Insomma, se Molly Weasley avesse mai avuto un Elfo Domestico l’avrebbe pagato, ma la sua famiglia non aveva soldi per permettersi una governante, indi per cui i Weasley non possedevano un Elfo Domestico.
“Giusto,” concordò Harry, ributtandosi a peso morto sul divano, con un braccio sugli occhi e l’altro ciondoloni sul pavimento.
Ron scosse il capo, sconsolato, e si avviò in cucina, afferrando una lattina di birra dal frigo prima di dirigersi nuovamente in salotto e sedersi malamente su una sedia di legno.
“Questo divano è una favola,” osservò il moro, aggiustandosi sui cuscini per stare più comodo.
Ron annuì, sorridendo.
“L’ho scelta per questo,” spiegò, sorseggiando la sua birra con tranquillità.
Harry sollevò per un attimo il braccio dagli occhi e guardò l’amico con fare scettico.
“Vuoi dirmi che hai scelto questa casa per il divano?”
Ron annuì ancora.
“Cioè, è bellissima, ma anche le altre erano bellissime, solo che questa aveva qualcosa di speciale, e penso proprio fosse il divano, sì,” spiegò, farneticando.
Harry annuì, poco convinto, tornando nello stato comatoso nel quale Ron l’aveva trovato pochi minuti prima.
Ron si strinse nelle spalle ed iniziò ad aprire gli scatoloni, facendo fluttuare gli oggetti in aria per riporli ai loro posti.
Esattamente mezz’ora, e tre birre dopo, la casa era in perfetto ordine e gli scatoloni erano stati totalmente svuotati.
Evanesco,” sussurrò contro l’ammasso di cartone e quello, in pochi secondi, svanì nel nulla, come risucchiato.
“Finito?” chiese Harry, riemergendo dal suo coma vegetativo.
“Avrei fatto prima, se tu non avessi poltrito tutto questo tempo,” sottolineò.
Harry sembrò piccato.
“Proprio tu mi vieni a fare la morale sulla pigrizia,” sbuffò il moro. “Devo ricordarti chi ti faceva i compiti a scuola e chi ti buttava giù dal letto la mattina?”
Ron si fece piccolo, piccolo ed iniziò a borbottare tra sé, inveendo contro il suo migliore amico.
“I compiti da Neville li ho copiati una sola volta!” si giustificò ed Harry trattenne una risata.
“Questo trasloco deve averti dato alla testa, amico.”
Ron sorrise ed Harry gli batté una pacca sulla spalla, dicendo che doveva tornare a casa dato che Ginny sarebbe rientrata a momenti.
Lanciò un ultimo sorriso in direzione di Ron e sparì nel nulla con un lieve pop.
 
Guardare film alla televisione era sempre stata una cosa che l’aveva affascinato. Aveva imparato a vivere come i babbani grazie a suo padre che, un’estate, li aveva portati in vacanza da un suo cugino di Edimburgo sposato con una babbana.
La donna si era dimostrata molto disponibile nell’insegnare a lui ed ai suoi fratelli come funzionavano certi oggetti babbani – come la televisione, il frigorifero ed il resto della vasta gamma di elettrodomestici.
Si era appena steso sul divano quando, con un lieve gemito, sentì la gola ardere e la voglia di una birra fresca insinuarsi su per il suo corpo.
Di mala voglia si alzò e si trascinò fino alla cucina, aprendo il frigorifero e prendendo una lattina.
La stava giusto aprendo quando, nel bel mezzo del corridoio, i suoi occhi si posarono sull’immagine di una donna che stava in piedi, con le braccia incrociate.
Lanciarono entrambi un grido simultaneo, mentre la birra si versava a terra e sulla maglietta di Ron.
“Ch-chi è lei?” balbettò la ragazza, indietreggiando.
“Chi sei tu,” ripeté il ragazzo, raccattando la lattina da terra e cercando con gli occhi la bacchetta. “E cosa ci fai qui, piuttosto.”
“Io qui ci abito,” rispose lei, con disinvoltura.
Ron per poco non si strozzò con la sua stessa saliva.
“Devi aver sbagliato porta, forse l’ho lasciata mezz’aperta, qui ci abito io,” chiarì, pulendosi le mani sui pantaloni.
La ragazza scosse il capo, facendo ondeggiare i lunghi e voluminosi capelli ricci.
“No, lei si sta sbagliando, questo è il mio appartamento.”
Ron fece una smorfia, l’insistenza di quella ragazza gli stava iniziando a dare sui nervi.
“Senti, tu-”
“No, senta lei,” sbottò la ragazza, un lampo d’ira ad accenderle gli occhi scuri. “Io vivo qui da sei mesi, lo saprei se questa non fosse casa mia. Vede? Questo è il mio salotto,” disse, indicando la stanza. “Quella è la mia TV, quello è il mio divano e…oh, mio Dio, questo posto è un porcile!” storse il naso e si avvicinò cauta alla zona TV. “Senta,” riprese, stringendosi la radice nel naso. “Non so chi sia lei ma farà meglio ad andare via, altrimenti sarò costretta a chiamare la polizia.”
Ron mise le mani avanti, borbottando qualche parola per calmarla.
“Va bene, ora chiamo l’agenzia e ti faccio dire che-” si era voltato un attimo per prendere il telefono, era stato un secondo, ma lei non era più nel corridoio, e non era neanche in nessun’altro posto dell’appartamento.
Sparita, come se si fosse Smaterializzata.
Quella notte Ron non dormì molto, il volto della misteriosa ragazza dai capelli ricci aveva invaso per tutto il tempo i suoi sogni.
Quella mattina, Ron, si svegliò con una strana sensazione addosso.
Lanciò un’occhiata di sbieco alla lattina vuota poggiata sul suo comò e, quando il ricordo della donna del corridoio accarezzò beffardo la sua mente, decise che doveva sicuramente essersi immaginato tutto.
Era stata sicuramente la birra combinata alla sua stanchezza a produrre l’immagine di quella ragazza nel suo appartamento.
Si alzò con un colpo di reni e si trascinò in bagno. Si rimirò un attimo allo specchio e decise che aveva proprio bisogno di farsi una doccia per mandare via le occhiaie e il pallore delle gote.
Aprì il getto d’acqua e vi si buttò sotto. Rimase sotto la doccia per venti minuti buoni, tanto che quando uscì gli specchi erano tutti appannati.
Si avvicinò a quello sopra il lavandino e vi passò una mano sopra, scacciando via la patina opaca che gli impediva di specchiarsi.
Quando, però, i suoi occhi incontrarono il riflesso nello specchio, trasalì.
Vicino al suo volto, con l’aria di essere piuttosto irritata, stava il volto della ragazza del corridoio.
“Le avevo detto di andarsene,” le sua voce suonava amplificata, come se ogni parola avesse la sua eco.
Ron chiuse per un attimo gli occhi, sicuro di stare nuovamente immaginando tutto, e quando li riaprì lei, esattamente come la sera prima, non c’era più.
“Harry,” sussurrò, lanciandosi a rotta di collo in camera sua.
 
Harry Potter era un giovane Auror che aveva la disgrazia di chiamarsi Harry Potter.
Be’, diciamo che la sua più grande disgrazia, oltre al suo nome, era la piccola cicatrice a saetta che si nascondeva sotto la sua zazzera ribelle.
Quell’insignificante e particolare taglietto gli aveva procurato non pochi guai durante la sua infanzia, guai che erano terminati nell’attimo in cui Lord Voldemort era caduto a terra privo di vita. Ecco, Harry Potter era profondamente convinto che i suoi guai fossero finiti in quel momento, ma a volte dimenticava di ricordare che, quando il tuo migliore amico è un disastro ambulante, i guai non finiscono mai.
A causa della sua profonda convinzione, quindi, Harry Potter rimase piuttosto stupito quando Ron Weasley piombò nel suo ufficio con l’aria di uno che non se la passava poi tanto bene.
“Ron?”
Il rosso non si preoccupò neanche di rispondere, si lanciò su una sedia e si prese la testa tra le mani.
“Harry, sto impazzendo,” annunciò, lapidario.
“Va tutto bene?” chiese cautamente l’altro, sapendo bene che se il suo migliore amico aveva la bacchetta annodata sarebbe potuto riuscire dove Voldemort aveva fallito più volte.
“Tutto bene! Tu mi chiedi se va tutto bene?!” sbraitò, alzando il capo e guardando Harry. “No che non va tutto bene, sto diventando matto!”
Harry deglutì, invitandolo a calmarsi e raccontargli cosa fosse accaduto per fargli credere una cosa del genere.
Ci vollero alcuni respiri profondi prima che Ron si decidesse a raccontare della ragazza del corridoio, rimarcando che era apparsa ben due volte nel giro di neanche un giorno.
“Quindi mi stai dicendo che c’è una ragazza nel tuo appartamento che appare all’improvviso e scompare velocemente?”
Ron annuì con veemenza, sottolineando il fatto che sembrava proprio che ella si Materializzasse e Smaterializzasse in casa sua ogni qual volta ne aveva voglia.
“Sono matto vero?”
“No, hai solo bisogno di una vacanza,” suggerì Harry, sorridendo. “Magari potresti andare con Calì da qualche parte.”
Ron inarcò le sopracciglia ed Harry abbozzò un sorriso.
“Calì?”
“Dai, sai benissimo che non vede l’ora che tu le chieda di nuovo di uscire,” lo spronò Harry, ammiccando.
Ron scosse il capo. “Credo che me ne tornerò a casa e mi farò una bella dormita.”
Harry annuì e Ron, con un cenno di saluto si Smaterializzò.
 
Si risvegliò che il sole era già calato, aveva saltato il pranzo ma stranamente non aveva né voglia né sentiva il bisogno di mangiare.
“E’ ancora qui, vedo.”
Ron sobbalzò, incontrando lo sguardo severo della ragazza del corridoio.
Stava seduta su una poltrona vicino al letto, le braccia e le gambe incrociate così strettamente che probabilmente le ci sarebbero voluti anni per scioglierle.
“Senti non so cosa vuoi da me, ma-”
“E’ semplice, sa,” lo interruppe. “Voglio che se ne vada da casa mia!”
Ron sbuffò, spazientito e si alzò, dirigendosi verso la cucina.
“Cosa fa?” domandò lei.
“Mi faccio una birra,” rispose, secco, afferrando la lattina e andando verso il salotto, deciso a buttarsi sul divano e a guardare un po’ di TV.
La ragazza continuò a seguirlo sbraitando ma Ron la ignorò completamente, convinto che si trattasse solo di un altro scherzo della sua mente.
“Dove vai adesso?” Ron si era alzato dal divano, di nuovo diretto verso la cucina.
“Caffè,” rispose, telegrafico.
“Dopo la birra?” ribatté la ragazza, incrociando le braccia ed inarcando un sopracciglio.
“Dopo la birra,” confermò Ron, voltando appena la testa verso di lei mentre afferrava una tazza da uno scaffale.
Era una bella tazza bianca con su scritto un nome a lettere colorate. Vi versò dentro un po’ di caffè e tornò al divano.
“Visto che ormai siamo amici potresti dirmi-”
“Non siamo amici!” precisò lei.
“Okay, anche se non siamo amici, potresti dirmi il tuo nome?”
La ragazza boccheggiò ed iniziò a guardarsi intorno finché i suoi occhi non caddero sul nome scritto sulla tazza.
“Hermione,” sussurrò. “Mi chiamo Hermione.”
Fino ad un attimo prima non lo ricordava, ma era sicura che quello sulla tazza fosse proprio il suo nome.
“Tu non lo ricordavi, vero?”
“Certo che lo ricordavo! È il mio nome,” sbottò, piccata.
Ron la guardò inarcando un sopracciglio. Si alzò dal divano andandole incontro e lei indietreggiò.
“Senti Herm, tu hai veramente dei grossi problemi.”
“Non chiamarmi Herm!” sbottò Hermione. “Io sono Hermione, non Herm!”
Ron sbuffò, continuando a camminare verso di lei mentre lei indietreggiava.
“Okay, Hermione, permettimi di aiutarti tu sei-”
Gli occhi di Ron si allargarono oltre misura mentre la sua mascella faticava a restare al suo posto, chiusa.
“Che c’è? Io sono cosa?” domandò la ragazza, gesticolando.
Ron deglutì, sbattendo le palpebre.
“In mezzo al tavolo.”
Ed era così. Hermione, la strana ragazza che appariva nel suo appartamento, si trovava in mezzo al tavolo, il suo corpo metà sotto e metà sopra.
Ci era passata attraverso.
“Come prego?”
“Guardati,” la invitò Ron e lei abbassò gli occhi, trattenendo un grido.
Hermione spostò gli occhi da Ron al suo corpo immerso nel tavolo e poi di nuovo a Ron.
“Oddio!” gemette la ragazza, passandosi le mani tra i capelli.
“Sei morta,” la informò Ron. “Sei morta ed ora sei un fantasma. Eri una strega in vita?”
Gli occhi di Hermione lanciarono fiamme in direzione di Ron e la ragazza incrociò le braccia al petto.
“Come prego?”
“Be’, se in vita eri una strega adesso che sei morta dovresti essere un fantasma ecco perché-” Hermione allungò una mano con tutta l’intenzione di schiaffeggiarlo ma questa gli passò attraverso. “Ecco perché puoi passare attraverso le cose,” concluse Ron, con ovvietà.
Hermione sembrava imbufalita.
“Io. Non. Sono. Morta!” accompagnava ogni parola con un colpo di mani che, però, non sfiorò Ron neanche una volta.
Irritata la ragazza cominciò a camminare avanti e indietro, camminando attraverso oggetti e pareti, apparentemente incurante di star facendo una cosa del genere.
“Insomma, lo saprei se fossi morta,” iniziò a farneticare tra sé sulle possibili spiegazioni di quel fenomeno, quando un lieve pop coprì il suo sproloquio, annunciando l’arrivo di un ragazzo dalla bizzarra capigliatura corvina.
“Come ha fatto?!” sbottò Hermione, indicando Harry. “E’ apparso dal nulla!”
Ron si passò una mano sugli occhi, lanciando uno sguardo sconsolato ad Harry. L’altro gli rispose con un’occhiata interrogativa.
“Tutto bene amico?” Ron annuì.
“E’ matta, Harry, non vuole accettare di essere morta. Diglielo anche tu.”
Harry inarcò le sopracciglia e si guardò un attimo intorno.
“Chi è morta?” Ron fece un cenno con la testa alla sua sinistra, accennando ad Hermione.
“La ragazza del corridoio,” spiegò, quando vide che Harry faticava a capire.
“Ron qui non c’è nessuno.”
Ron gelò. Sentì la gola farsi secca e la lingua attorcigliarsi su se stessa, si scambiò uno sguardo preoccupato con Hermione, prima di balbettare: “Tu…tu non la vedi?”
Harry scosse il capo, dispiaciuto, e disse che era passato solo per vedere se stava meglio ma che, a quanto pareva, le cose non andavano meglio di quella mattina.
“Sei sicuro che vuoi che vada?” chiese il moro, dopo che Ron gli ebbe consigliato di tornarsene a casa da Ginny.
“Tranquillo, io me la cavo. Probabilmente è colpa della stanchezza,” lo tranquillizzò Ron ed Harry, annuì, sparendo nel nulla.
Ron sospirò, cercando Hermione con gli occhi. La ragazza era seduta su una poltrona e fissava con occhi vacui il punto in cui Harry era sparito nel nulla.
“Allora, facciamo il punto della situazione,” iniziò Ron, lanciandosi a peso morto sul divano. “Tu sei morta-”
“Non sono morta!” rimarcò Hermione, irata.
“Okay, non sei morta, ma ammetterai che in te c’è qualcosa di strano.” Hermione annuì, sconsolata. “Bene, io sono l’unico che può vederti e tu non sai chi sei; queste sono entrambe pessime cose.”
“Incoraggiante,” osservò Hermione, con irritato sarcasmo.
Ron la fulminò con un’occhiataccia.
“Senti, tu sei morta, va bene? Vai verso la luce, non vedi una luce? Una luminosa luce bianca? Ecco, vai verso la luce e troverai la pace. Io, intanto, me ne vado a letto, addio!”
Hermione boccheggiò, indignata, puntando gli occhi infuocati sulla schiena di Ron che spariva nel corridoio.
 
Ron Weasley non era mai stato il tipo che faceva dei bei sogni la notte: o erano così irreali che si rendeva conto di essere in un sogno appena esso iniziava oppure tratteggiavano un futuro incerto e pieno di insidie.
Ron Weasley, però, nonostante non fosse uno che faceva bei sogni, era uno che dormiva parecchio e al quale piaceva farlo; gli piaceva la sensazione del dormiveglia, quando eri ancora troppo stanco per aprire gli occhi ma sentivi comunque tutti i rumori e gli odori attorno a te; gli piaceva crogiolarsi nel letto per ore intere dopo essersi svegliato, alla disperata ricerca del calore lasciato dalla notte ed adorava letteralmente gli attimi che precedevano il sonno, quei cinque secondi erano i cinque secondi più attivi della sua giornata.
In quel poco tempo pensava a ciò che gli era capitato fino a quel momento e a ciò che gli doveva ancora capitare, pensava alla sua famiglia, a Harry, al lavoro. Pensava e basta.
Ecco perché, quella notte, esattamente alle tre del mattino, si sentì piuttosto irritato quando una strana sensazione lo portò a svegliarsi, interrompendo il delizioso filo del suo sonno.
Si stropicciò gli occhi, abituandosi all’oscurità della stanza, incontrando il profilo ombrato di Hermione seduta ai piedi del suo letto.
“Che vuoi?” borbottò, burbero.
Hermione sembrò infastidita dal suo tono irritato ed indelicato, ma scacciò subito via l’irritazione.
“Che tu accetti il fatto che io non sono morta, che questa è casa mia e che tu devi andartene.”
Ron gemette, affondando la testa tra i cuscini.
“E tu mi hai svegliato alle tre di notte per questo?”
“Sì.”
“Sei insopportabile,” sussurrò, girandosi di fianco e tirandosi le coperte sul corpo.
Un secondo più tardi sentì un tocco freddo sul collo che lo fece rabbrividire.
Aprì un occhio, ritrovandosi faccia a faccia con Hermione che lo guardava beffarda.
“Smettila,” le intimò, girandosi dall’altra parte.
“Vattene,” rispose lei, continuando ad accarezzargli il collo. Non poteva sentire la consistenza delle sue mani, solo una brezza fredda che lo sfiorava.
Era fastidiosa come gli spifferi di vento nelle giornate d’autunno, però, per qualche strana ragione, da un lato era piacevole.
“Finiscila,” ripeté, rannicchiandosi su se stesso.
“Vattene.”
Ron emise un grugnito non ben identificato e si voltò di nuovo verso di lei, gli occhi accesi da un lampo di ira mista a fastidio.
“Va bene, adesso basta.”

 

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Capitolo 4
*** There's a sparkle in you ***


 There’s a sparkle in you

Diagon Alley quella mattina era avvolta da una coltre uggiosa di nubi che non promettevano null’altro che pioggia.
Il vento spirava beffardo, burlandosi dei passanti, facendo volare cappelli e alzando mantelli tra le sue spire.
Ron si strinse nel cappotto, avanzando nella folla, diretto verso un luogo ben preciso. Era abbastanza sicuro, per qualche ragione a lui ignota, che Hermione non l’avrebbe mai seguito fuori dall’appartamento. Si muoveva, quindi, sicuro tra le vie, senza badare al fatto che lei potesse venirgli dietro.
Imboccò una strada secondaria, poco dopo il negozio dei suoi fratelli, e procedé seguendo il corso della via, fino a fermarsi di fronte ad una piccola baracca con un’insegna a lettere colorate: L’occhio interiore e il mondo dell’aldilà.
Entrò, facendosi strada tra i fili della tenda di perline che copriva l’entrata, e cercò con lo sguardo la proprietaria, una donna magra dalla capigliatura stopposa che indossava scialli colorati ed un paio di grandi occhiali che le alteravano le dimensioni degli occhi.
Sibilla Cooman aveva smesso di insegnare ad Hogwarts dopo la fine della guerra ed aveva deciso di condividere con il resto della comunità magica il suo singolare talento.
Ron si mosse con passo insicuro all’interno del negozio, ogni passo accompagnato dallo scricchiolare delle assi del pavimento.
Un forte odore d’incenso impregnava l’aria, insieme al sottofondo di una strana melodia, riconducibile ai canti dei Druidi Celti.
“Professoressa Cooman?” chiamò, titubante, avvicinandosi al bancone.
La donna sbucò da una stanza sul retro, il cui ingresso era anch’esso celato da una tenda di perline.
“Ti serve qualcosa caro?” chiese, i grandi occhi azzurri puntati su di lui.
Ron deglutì, annuendo.
“Dimmi pure, l’occhio è felice di servire i meno dotati,” lo incoraggiò, abbozzando un sorriso.
“Ecco, vede, c’è un fantasma in casa mia,” spiegò. “Il fatto è che lei, il fantasma, non accetta di essere morta e mi sta perseguitando, non vuole andarsene.”
La donna annuì, fermando il suo fiume di parole con un cenno della mano.
“Capisco, vuoi che scambi due parole con questa entità, non è così?” Ron annuì con veemenza.
“Bene, ma sappi, ragazzo, che il tuo futuro non è propizio, un grave fatto sconvolgerà la tua vita, molto presto,” nonostante fossero anni che non insegnava più, Ron poté constatare che aveva mantenuto la sua vena tragica nel fare pronostici e che la sua voce era rimasta assente e squillante come un tempo.
“Molto bene, portami al cospetto del fantasma.”
 
Quando si Materializzarono nell’appartamento di Ron, Hermione era ancora lì; seduta su una poltrona del salotto.
“E quella chi sarebbe?” sbottò, squadrando la Cooman.
“Ebbene?” domandò la donna, guardandosi intorno.
Ron si grattò il capo, lanciando un’occhiata di rimprovero ad Hermione.
“Ecco, lei è lì, sulla poltrona.”
La donna guardò verso il soprammobile, ma non c’era nulla.
“Io non vedo nulla,” informò, avvicinandosi comunque alla poltrona.
“Già, ehm, posso vederlo solo io, il fantasma,” spiegò Ron e la Cooman sembrò piuttosto stupita dall’informazione.
“Molto bene.”
La donna si tolse alcuni dei suoi scialle e li appoggiò alla spalliera del divano, si scrocchiò le dita, costellate di anelli, ed allungò le braccia, le mani aperte puntate contro la poltrona sulla quale era seduta Hermione.
“Sei tra noi?” domandò, la voce cupa di quando inventava le predizioni a scuola.
“Andiamo bene,” borbottò Hermione, incrociando braccia e gambe e guardando con scetticismo la strana donna davanti a lei.
“Credo che sia tra noi, ragazzo,” sussurrò a Ron, che si passò una mano sulla faccia, desiderando di sprofondare nel pavimento.
La Cooman continuò a conversare con Hermione per diversi minuti, mantenendo i palmi aperti rivolti verso di lei e gli occhi serrati.
“Se ne andrà presto, ha compreso il suo stato e presto tornerà al luogo cui appartiene,” lo informò.
Ron annuì, intercettando lo sguardo scuro di Hermione al di là delle spalle magre della donna.
“E’ un galeone e tre falci.”
Il rosso alzò gli occhi al cielo e, cacciato il portafogli dalla tasca posteriore dei jeans, le porse il denaro.
La donna gli sorrise, vacua, e si Smaterializzò.
“Ottima tattica,” lo schernì Hermione.
“Sta’ zitta.”
 
Questa volta era sicuro di aver trovato la persona giusta, colui che avrebbe scacciato quell’impertinente e pedante fantasma da casa sua.
Il signor Owl era un uomo robusto, con un paio di baffoni brizzolati e dai penetranti occhi blu. L’aveva incontrato alla Testa di Porco quando, qualche sera prima, si era incontrato con Harry e gli aveva raccontato il fallimentare incontro con la professoressa Cooman.
“Un fantasma, dite?” era spuntato dicendo.
Lui ed Harry avevano annuito – anche se Harry si era dimostrato piuttosto scettico – e lui aveva risposto che, guarda caso, s’intendeva proprio di affari del genere e che avrebbe volentieri dato un’occhiata a questo fantasma.
Quando si era parlato di pagamento, però, era stato un po’ reticente nello spiegare il prezzo dei suoi servigi, e così Ron si era dovuto accontentare di una cifra approssimativa.
“Mah, all’incirca tre, quattro galeoni,” aveva detto l’omone, tracannando malamente il suo whisky. Si erano accordati per trovarsi al suo appartamento il pomeriggio seguente, anche se Harry gli aveva suggerito di lasciar perdere, perché sicuramente non era un tipo affidabile.
Ron, allora, aveva fatto spallucce e la cosa gli era passata da un orecchio all’altro senza neanche sfiorare il cervello.
Marcus Owl si presentò a casa sua come stabilito, apparendo nel suo salotto alle quattro di un tiepido pomeriggio d’ottobre.
“Buonasera.”
“Sera, dov’è lui?” chiese, appoggiando una cassetta di metallo a terra e pulendosi le mani sui logori jeans scoloriti. Ron gli aveva accennato che era l’unico in grado di vedere Hermione.
“Lei. E’ una lei, il fantasma,” specificò Ron e Owl fece un cenno d’insufficienza con la mano. “Comunque è sulla poltrona.”
Owl annuì ed aprì la cassetta di ferro, tirandone fuori la sua bacchetta – un vecchio pezzo si legno con un bitorzolo a metà – e altri strani oggetti.
Hermione, seduta a gambe incrociate sulla poltrona, sbuffò, agitando appena l’imponente chioma riccioluta che le cadeva sulle spalle.
Riempì quella che sembrava una provetta di uno strano liquido violetto e la fece levitare, riempiendone un’altra di un denso preparato color verde mela.
“Come si chiama il fantasma?” chiese, facendo levitare anche la seconda boccetta.
“Hermione.”
“Ciao Hermione,” iniziò l’uomo, afferrando una scatola cubica dalle pareti trasparenti. “Non voglio farti alcun male, non essermi ostile.” Hermione sbuffò di nuovo, spazientita. “Mi è ostile,” spiegò Owl a Ron, che annuì con finto interesse.
“Non immagini neanche quanto,” ribatté Hermione.
Owl continuò a parlare con lei, muovendo la bacchetta in circolo.
“Sono qui, Hermione, per riportarti nel luogo da cui sei venuta: l’aldilà!” annunciò. “Non temere, voglio guidarti verso la luce!”
Ron scosse il capo, sconsolato, avrebbe dovuto imparare una buona volta a dar retta ad Harry.
“Perché siete tutti fissati con questa dannata luce?” sbottò la ragazza, mentre l’uomo continuava a farneticare.
“Preparati, Hermione, il tuo viaggio sta per iniziare,” disse e, inaspettatamente, versò entrambe le boccette sulla poltrona, macchiando i cuscini candidi.
Hermione spalancò gli occhi, inorridita e l’uomo iniziò a far girare la bacchetta in circolo, creando un mulinello d’aria che ricacciò dentro al cubo trasparente.
“Ecco,” esclamò, soddisfatto. “Adesso lei è qui dentro, non potrà darti più alcun fastidio.”
Hermione fissò scettica il cubo e si portò al fianco di Ron. Il ragazzo guardò lei, poi il cubo e poi Owl, che sorrideva soddisfatto all’indirizzo della scatola trasparente.
“Sono quattro galeoni.”
Ron, con un sospiro, gli posò le monete dorate sul palmo della mano e l’uomo, infilato il cubo e le provette nella cassetta di ferro, si Smaterializzò, non senza lasciare il suo biglietto da visita a Ron; “In caso qualche tuo amico avesse bisogno,” aveva detto.
“Questo è stato originale, devo riconoscertelo,” osservò Hermione, mentre lui, puntata la bacchetta contro la poltrona, puliva lo sporco. “Quasi meglio della vecchietta psicopatica della scorsa settimana.”
La poltrona ritornò candida con un semplice Gratta e Netta e Ron ci si buttò sopra.
 
Incapace di arrendersi e di darla vinta ad Hermione, un paio di giorni dopo Ron si trovava nuovamente per le vie di Diagon Alley, con la segreta speranza che qualche ammazza-fantasmi inciampasse tra i suoi piedi.
Stava camminando in un vicolo secondario, che si diramava verso l’interno del villaggio, quando incappò in una libreria che non aveva mai visto.
Non che lui fosse un grande conoscitore di librerie, ma passeggiando non gli era mai capitato di incappare in quella in particolare.
Era situata sotto un vecchio appartamento disabitato, la porta di legno era tarmata e la scritta sul vetro sbiadita; Book Shop, diceva.
Promettendosi di non dire mai a nessuno che era entrato in una libreria, Ron spinse lievemente la porta ed entrò, accompagnato dal lieve tintinnare dello scacciapensieri che stava appeso al cornicione.
“Posso fare qualcosa per lei, signore?” la voce stralunata della proprietaria lo colse alla sprovvista.
Si voltò verso il bancone, dietro al quale stava una ragazzina minuta, dai lunghi capelli biondi, che lo guardava con i suoi grandi occhi azzurri.
“Luna?” esclamò. “Luna Lovegood?”
“Oh, ciao Ronald,” salutò la ragazza.
Luna Lovegood non era cambiata di una virgola dai tempi della scuola: stessi capelli chiarissimi, stessi occhi enormi e vaganti, stessa voce stralunata e stessa aria assente.
“Merlino, sono anni che non ci vediamo, come stai?”
“Piuttosto bene, ho avuto dei problemi con i Nargilli alcune settimane fa, mi avevano invaso il cervello ed avevo iniziato a fare cose strane; fortunatamente papà aveva della bava di gnomo in dispensa, sarei stata persa altrimenti,” spiegò, con un mezzo sorriso assente sul volto.
Ron annuì, sorridendo a sua volta.
“Credevo saresti andata a lavorare al giornale con tuo padre,” osservò, guardandosi distrattamente intorno.
Luna non parve averlo sentito, perché gli chiese il motivo della sua presenza.
“Mi serve un libro sui fantasmi, o sulle entità, ne hai?” Luna scosse il capo.
“Hai problemi con il fantasma di famiglia?”
“Oh, no. Il Ghoul della soffitta si è rabbonito negli ultimi tempi,” disse, sorridendole. “Il problema è che c’è un fantasma in casa mia che non ne vuole sapere di andarsene.”
Luna non disse nulla, sembrava quasi che non l’avesse neanche sentito parlare; si rese conto che l’aveva ascoltato attentamente solo quando la figura mingherlina della ragazza gli si parò davanti.
“Potrei parlarci io, se vuoi,” propose, facendo vagare gli occhi nel vuoto.
Ron ci pensò un po’ su, poi annuì, infondo non aveva nulla da perdere.
 
Lui e Luna apparvero nel suo salotto dopo una lunga chiacchierata ai Tre Manici di Scopa, durante la quale aveva spiegato alla ragazza un paio di cosette su Hermione e sul come ed il quando era sbucata dal nulla.
Non era poi tanto sicuro che lei lo avesse ascoltato, sembrava molto assorta quando parlava e piuttosto impaziente di incontrare Hermione.
Quando apparvero dal nulla nel salotto Hermione non sobbalzò come le altre volte, ma guardò con curiosità la ragazzina insieme a Ron.
“Oh, ne hai portata un’altra. Fantastico!” esclamò, andando loro incontro e girando intorno a Luna per esaminarla.
“E’ molto arrabbiata,” osservò Luna.
Hermione sbuffò, sollevando qualche ciocca di capelli.
“Questa l’avevano capita tutti.” Ron le lanciò un’occhiataccia e lei lo guardò con un sopracciglio inarcato.
“E’ un fantasma piuttosto rancoroso, sì,” concordò Ron, guardando Hermione con una punta di sfida negli occhi.
“Oh, ma lei non è un fantasma,” specificò Luna. Ron strabuzzò gli occhi ed Hermione sorrise, soddisfatta.
“Questa mi piace.”
“Ah, no?”
Luna scosse la testa, facendo ondeggiare i lunghissimi capelli biondi.
“E’ uno spirito. Ed è qui perché ha qualcosa in sospeso, qualcosa che deve fare prima di ricongiungersi al suo corpo,” spiegò la ragazza, mentre Hermione ancora le girava intorno. “Ti conviene lasciarla stare, sai?”
Hermione si aprì in un enorme sorriso. “E’ ufficiale, la adoro!”
Ron la guardò male, prima di riportare lo sguardo curioso su Luna.
“Se vuole che tu vada via, vai, lei ha degli affari da sbrigare,” Ron annuì, guardando Hermione con la coda dell’occhio. Stava ancora ridendo. “Se ti servisse aiuto per i Nargilli non esitare a chiamarmi.”
Ron sbatté le palpebre.
“Nei hai la testa piena,” specificò la ragazza. “Be’, buona fortuna, ci vediamo.”
“Ciao Luna e grazie.”
Lei gli fece un vago cenno con la mano prima di Smaterializzarsi.
Il ragazzo sospirò, trascinandosi fino al divano e lasciandocisi andare contro.
Accio birra,” sussurrò, scuotendo appena la bacchetta. Pochi secondi dopo una lattina di birra planò nella sua mano.
“Un giorno mi dovrai spiegare come fai a fare tutte queste cose con quel tuo bastoncino.”
“Cosa vuoi da me?” domandò Ron, esasperato, ignorando la sua domanda.
“Che tu mi aiuti a scoprire chi sono.”
Il ragazzo, allora, si alzò in piedi, fronteggiandola, gli occhi accesi di determinazione.
“Bene, da dove iniziamo?”
Hermione gli sorrise e, sedendosi di nuovo con lui sul divano, iniziò a raccontargli di ciò che ricordava.

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Capitolo 5
*** Everything is never as it seems ***


 Everything is never as it seems

 
Ron si scambiò uno sguardo insicuro con Hermione, lei annuì.
Prendendo un profondo respiro alzò il pugno verso il duro legno della porta che, chiusa, si ergeva davanti a lui.
Bussò.
La porta del numero cinque si aprì, rivelando un uomo sulla settantina, affiancato dalla moglie, che lo guardava con curiosità.
“Ehm, mi scusi se la disturbo, sono il nuovo inquilino del piano di sopra,” spiegò Ron, balbettando un po’. “Mi chiedevo se poteste dirmi qualcosa sulla ragazza che occupava l’appartamento prima di me.”
L’uomo si scambiò un’occhiata indecifrabile con la moglie e poi guardò Ron, scuotendo il capo.
“Mi dispiace ma non abbiamo mai incontrato la ragazza che viveva di sopra, stava sempre per conto suo, non si faceva vedere molto in giro.”
Ron annuì, mentre Hermione storse il naso.
Il ragazzo si scusò ancora per il disturbo e sparì nel corridoio, scendendo le scale, diretto al piano inferiore.
“Io non penso che sia una buona idea,” osservò, fermo davanti alla porta del numero sei.
Hermione gli soffiò fra i capelli, facendogli salire un brivido freddo su per la schiena.
“Io lo trovo geniale, invece,” rimarcò, invitandolo con un’occhiata a bussare alla porta.
L’uscio si aprì rivelando una ragazza alta, dalla carnagione dorata, che sorrideva affabile all’indirizzo di Ron.
Non indossava altro che uno striminzito top grigio ed un paio di pantaloni da ginnastica a mezza gamba, entrambi sudati, ed aveva i lunghi capelli biondi raccolti in una coda.
“Posso fare qualcosa per te?” domandò, squadrandolo.
Aveva dei particolari occhi verdi che, a seconda della luce, variavano dal verde chiaro al grigio-azzurro.
“Mi-mi chiedevo se sapevi dirmi qualcosa della ragazza che abitava al piano di sopra. Sono il nuovo inquilino,” balbettò.
Hermione lo trapassò con gli occhi, guardando con sufficienza la ragazza del numero sei.
“Oh, sei il nuovo del numero nove.” Ron annuì, deglutendo. “Io sono May, piacere.”
La ragazza sorrise e gli porse la mano.
“Ron,” rispose, stringendola. “Ehm, puoi…puoi aiutarmi?”
May scosse la testa, muovendo la matassa di lunghi e lucenti capelli biondi.
“Mi spiace, non l’ho mai incontrata, non usciva quasi mai. Era il genere di zitella coi gatti, ma senza gatti, non so se mi spiego.”
Hermione sgranò gli occhi, prima di assottigliarli e borbottare improperi nei confronti della bionda del numero sei.
“Capisco, grazie comunque.”
“Se ti servisse compagnia, lassù, tutto solo, non esitare a chiamarmi,” lo informò May, chiudendosi la porta alle spalle.
Ron annuì al vuoto, riprendendo a salire le scale, con la voce petulante di Hermione che gli trapanava le orecchie.
“Bene, pare che io fossi unazitella asociale! Ottimo!” sbottò, fermandosi davanti alla porta del suo appartamento.
“Stava scherzando, non prendertela tanto. Poi era carina.”
Hermione lo fulminò.
“Non trovi che quella sia priva di classe e con istinti predatori?” domandò, anche se suonava più come una domanda retorica che come una domanda per la quale desiderava una risposta.
“Sono due qualità per cui gli uomini vanno matti!” la informò Ron, infilando la chiave nella toppa ed alzando un po’ il tono di voce.
“Esci con un pitbull allora,” gli suggerì lei, entrando attraverso la parete.
Ron sbuffò ed oltrepassò l’uscio, chiudendosi la porta alle spalle.
 
L’aria di Londra era fresca sulla pelle, il vento spirava tranquillo, sollevando le foglie secche ammucchiati ai lati dei viali.
Ron camminava tranquillo in mezzo alla gente, le mani in tasca, e lo sguardo rivolto ad Hermione, che camminava pochi passi davanti a lui.
Visto che la visita ai vicini di casa non aveva funzionato, avevano pensato di fare due passi in città; magari rivedere alcuni luoghi dov’era stata le avrebbe fatto tornare la memoria.
“Tutto bene?” le chiese, cercando di mantenere la voce bassa.
Hermione annuì, smuovendo la sua massa di capelli.
Ron abbozzò un sorriso e continuò a camminare, zigzagando tra i passanti con calma, lanciando occhiate furtive ad Hermione e poi al cielo e poi di nuovo ad Hermione.
Improvvisamente la ragazza si fermò davanti alla vetrina di un’elegante ristorante, incantata.
Clhoe’s,sono sempre voluta entrare in questo posto,” confessò, riconoscendo l’insegna ed i tavolini circolari all’interno.
“Vuoi che entriamo?” lei annuì e Ron spinse la porta, entrando nel locale.
Un cameriere si avvicinò a lui e gli chiese se volesse un tavolo.
“No, non ricordo nulla,” sussurrò Hermione, affranta.
Ron sorrise al maitre ma declinò la richiesta, dicendo che sarebbe stato per un’altra volta. L’uomo sembrò un tantino offeso ma non ribatté, tornando a serpeggiare tra i tavoli.
Improvvisamente un giovane ragazzo, che si era alzato diretto verso il bagno, cadde a terra in preda agli spasmi, premendosi una mano sul petto.
“Un dottore!” gridò il cameriere che aveva accolto Ron e Hermione. “C’è un dottore? Qualcuno chiami un dottore?”
Lo sguardo di Ron cadde su Hermione che, immobile, fissava con gli occhi sgranati l’uomo a terra.
Come una serie di flashback, immagini di se stessa in una sala operatoria o in una stanza d’ospedale le inondarono la mente, susseguendosi.
“Io sono un medico,” sussurrò. “Io sono un medico.”
Sul volto di Hermione si aprì un radioso sorriso, che la ragazza rivolse a Ron.
“So come salvarlo. Ron, fallo tu.”
“Cosa?” esclamò il ragazzo, attirando alcuni sguardi su di sé.
“Sì,” lo incentivò Hermione. “Fatti dare un coltello ed una bottiglia di Vodka, ti guido io.”
Ron annuì, titubante e si avvicinò al gruppo di persone.
“Sono un medico!” esclamò, facendosi largo e chinandosi sul ragazzo a terra.
“Grazie a Dio,” sussurrò una donna, portandosi una mano al petto.
“Datemi…” Ron temporeggiò, guardando Hermione.
“Un bottiglia di Vodka ed un coltello,” gli suggerì la ragazza.
Ron ripeté ad alta voce ciò che Hermione gli aveva detto e, subito, un cameriere gli portò ciò che aveva chiesto.
“Ora, aprigli la camicia,” Ron eseguì. “E tastagli il petto, riesci a sentire le costole?”
Ron annuì, premendo le dita sul petto del ragazzo.
“Bene. Ora cerca lo spazio tra due di esse e infilaci la punta del coltello,” spiegò.
“Cosa?” esclamò sotto voce il ragazzo.
“Fa come ti ho detto.”
Ron annuì e puntò la punta del coltello sulla carne pallida del ragazzo svenuto. Hermione, poi, gli ordinò di togliere il beccuccio alla Vodka e di spingere appena la punta del coltello tra le costole.
Un piccolo segno rosso comparve sulla palle del ragazzo ed Hermione disse a Ron di mettere il beccuccio della Vodka sul taglio e di premerlo un poco, in modo tale che l’aria di troppo uscisse fuori.
“E’ salvo!” esclamò un cameriere, quando il petto del ragazzo si fu sgonfiato e quello ebbe ripreso a respirare.
“Gli ha salvato la vita! L’ha salvato!”
Dopo aver stretto diverse mani Ron uscì dal ristorante, seguito da Hermione che sproloquiava allegramente.
“Sono un dottore, capisci?” esclamò, eccitata. “Salvo vite umane!”
Ron annuì, abbozzando un sorriso.
“Dobbiamo trovare un ospedale nella zona di Regent Street, sono sicura che scopriremo un sacco di cose.”
 
L’ospedale St. Patrick non era né più grande né più piccolo di tanti altri ospedali di Londra. Le stanze ed i corridoi erano interamente bianchi, rifiniti da stucchi color crema, e l’aria odorava di disinfettante. Solo le zone dedicate ai bambini avevano arredi ed odori migliori.
Ron si avvicinò titubante alla ragazza bionda che stava dietro al banco informazioni all’ingresso; indossava un camice rosa chiaro e chiacchierava allegramente con la sua compagna, anch’ella vestita di rosa.
“Mi scusi?” la donna bionda smise di parlare, alzando gli occhi su di lui.
“Posso fare qualcosa per lei?” chiese, sorridendo.
“Vorrei delle informazioni sulla dottoressa Hermione.”
La donna sgranò gli occhi e si scambiò uno sguardo con la collega.
“La dottoressa Granger, dice?” Hermione annuì convinta.
“Granger, sì, è il mio cognome!” confermò, sicura.
“Sì,” rispose Ron. “Hermione Granger.”
Le due donne si scambiarono uno sguardo grave, prima che la giovane dai capelli biondi gli facesse segno di attendere. Tirò su la cornetta e fece una breve telefonata.
“Vada al terzo piano.”
Ron s’infilò in quello che Hermione gli indicò essere un ascensore e premette il tasto con il numero tre.
L’ascensore, una piccola cabina di metallo con una fila di tasti sul lato sinistro, vibrò, facendo uno strano rumore metallico.
Un attimo dopo iniziò a salire, mentre i tasti s’illuminavano ogni volta che salivano di un piano. Quando una chiara luce gialla ebbe illuminato il numero tre, con un lieve tin le porte si aprirono, rivelando un anonimo corridoio dalle pareti bianche.
Incoraggiato dalla voce di Hermione, Ron uscì dall’ascensore, dirigendosi verso il banco informazioni di quel piano.
“Scusi?”
Una donna orientale, dai corti capelli neri e gli occhi scuri, si voltò verso di lui, sorridendo.
“Lei è il ragazzo che cercava Hermione, vero?” domandò la donna, una punta di rammarico negli occhi.
“Ronald Weasley,” disse, porgendole la mano.
La donna la strinse, dicendo che il suo nome era Christina Yard e che era una dei superiori di Hermione.
“Mi dispiace ma, dovrebbe dirmi il suo grado di parentela altrimenti non posso dirle nulla.”
La donna sembrava veramente dispiaciuta ed Hermione si affrettò a soffiare poche parole nell’orecchio di Ron: “Dì che sei il mio ragazzo.”
Ron arrossì, umettandosi le labbra.
“Sono il suo ragazzo.”
“Non sapevo di un ragazzo,” osservò la  donna, scambiandosi uno sguardo con un’altra ragazza di colore.
Ron sentì Hermione sussurrare un nome, mentre guardava l’altra dottoressa.
“Noi, ci frequentavamo da poco,” si giustificò Ron. “Lei era molto impegnata con il lavoro.”
“Già,” convenne Christina.
Hermione guardò Christina e Showna con preoccupazione.
“Non mi piace quello sguardo,” sussurrò all’orecchio di Ron. “E’ lo sguardo che di solito usano quando devono dare brutte notizie. Forse sono morta davvero.”
Ron scosse impercettibilmente il capo e tornò a guardare la dottoressa Yard, incoraggiandola con lo sguardo a raccontagli cosa era accaduto.
“Vede, signor Weasley, Hermione ha avuto un brutto incidente sei mesi fa ed è in coma da allora, noi non sappiamo se si sveglierà, è passato troppo tempo.”
Hermione sgranò gli occhi, appoggiando una mano sulla spalla di Ron.
“Non ne sapevo nulla,” ammise il ragazzo. “Sono stato...fuori per lavoro,” improvvisò.
Christina annuì, comprensiva, e si scambiò un altro sguardo con Showna.
“Se vuole vederla è in quella stanza lì.”
La dottoressa indicò una porta bianca in fondo al corridoio, contrassegnata dal numero ventiquattro.
Ron annuì, dirigendosi verso la stanza a passo svelto. Hermione lo seguiva silenziosa, lo sguardo puntato sulla porta chiusa.
La oltrepassò, precedendo Ron dentro la stanza e quasi sobbalzò quando si vide stesa sul letto.
“Sei tu.”
Hermione annuì, avvicinandosi a se stessa. Sfiorò il volto coperto di tubi con la punta delle dita e socchiuse gli occhi.
“Non mi sveglierò, Ron,” disse all’improvviso. “E’ passato troppo tempo.”
“Sì che lo farai, invece,” la rassicurò lui. “Prova a rientrare dentro te stessa.”
Arrossì per il suo suggerimento, infantile e poco probabile, ma Hermione gli sorrise e, annuendo, si sdraiò sopra al suo corpo dormiente.
Fece un paio di tentativi, ma ogni volta riusciva a tornare fuori.
Sconfitta camminò fino alla finestra, dove stavano alcuni mazzi di fiori insieme ad una fotografia. Sorrise, accarezzando la cornice con nostalgia.
Era la foto del giorno del suo diploma, lei e Showna erano andate a festeggiare in un locale e si erano scattate una foto.
Erano entrambe un po’ ubriache e con i capelli incasinati, ma era comunque la foto più bella che Hermione ricordasse di possedere.
“Posso provare a fare una cosa?” la voce di Ron spezzò il filo dei suoi pensieri.
Annuì, senza voltarsi. Un attimo dopo, sentì qualcosa stringerle la mano.
Si girò, stupita, e vide che Ron stringeva la mano al suo corpo, con delicatezza.
“Ti sento.”
Il volto di Hermione si aprì in un sorriso e Ron le sorrise di rimando.
“Signor Weasley mi dispiace disturbarla, ma deve andare,” Christina era sbucata dal corridoio, l’espressione ancora più affranta di quando aveva annunciato il coma di Hermione.
“Certo. Solo…aspetti un secondo.”
La dottoressa annuì, richiudendosi la porta alle spalle.
“Vuoi restare, vero?” domandò ed Hermione annuì, smuovendo quella matassa che erano i suoi capelli. “Sei sicura?”
“Sono sicura,” rispose, voltandosi a guardarlo. “Ho bisogno di stare con me stessa, adesso.”
“Va bene.”
Hermione abbozzò un sorriso e Ron si avviò alla porta. “Addio Hermione.”
Il ragazzo sparì al di là dell’uscio, mentre Hermoine lo seguiva con lo sguardo.
“Addio Ron.”

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Capitolo 6
*** There is no finish line ***


 There is no finish line

 
Hermione sospirò ed uscì dalla stanza, finendo nel corridoio silenzioso. La dottoressa Yard e Showna stavano parlando sotto voce vicino al banco informazioni, i volti contratti.
“Almeno si è goduta un po’ di vita,” sussurrò Christina, firmando distrattamente alcuni fogli.
Showna annuì, lanciando un’occhiata furtiva alla porta chiusa della stanza numero ventiquattro.
“Già.”
Hermione le guardò con una punta di rammarico; era stata davvero la ragazza chiusa ed introversa che tutti dicevano?
Il genere zitella coi gatti, ma senza gatti,” borbottò tra sé, incrociando le braccia al petto.
Tese le orecchie, pronta a rubare altri stralci della conversazione tra le due donne, quando le due smisero di parlare, gli occhi fissi sulle porte dell’ascensore.
Un uomo ed una donna, entrambi sulla cinquantina, entrarono nel corridoio. Lei portava un mazzo di margherite ed orchidee tra le braccia, mentre lui rigirava nervosamente il suo capello tra le mani.
“Salve signori Granger,” sorrise loro Showna.
Hermione sentì la gola farsi secca e la lingua arrotolarsi su se stessa.
Erano i suoi genitori. I suoi genitori.
La signora Granger rivolse un sorriso tirato alla ragazza e, come se avesse attraversato quel corridoio già miliardi di volte, si avviò verso la porta chiusa dove si trovava Hermione.
Il marito la seguì, lanciando alle due dottoresse un sorriso che voleva essere di scuse al comportamento distaccato della moglie.
Entrambi sparirono dietro la porta ed Hermione non poté fare a meno di seguirli, mettendosi in un angolo della stanza, in silenzio.
Sua madre dette i fiori al marito e si avvicinò al letto, le scostò i capelli dalla fronte e le accarezzò una gota, stando attenta a non spostare il tubo che le passava sulla faccia.
Intanto suo padre aveva cambiato le rose di campo appassite, che si trovavano vicino alla finestra, con il nuovo mazzo portato quel giorno.
Sua madre le strinse la mano, sospirando afflitta. Il marito le appoggiò una mano sulla spalla ed abbozzò un sorriso, guardando verso la figlia stesa nel letto.
Hermione si guardò la mano, perché non l’aveva sentita?
Eppure, appena pochi minuti prima, Ron aveva preso la mano al suo corpo e lei l’aveva nitidamente sentito toccarla. Perché non sentiva sua madre?
“Mamma,” sussurrò.
Nessuno dei due si voltò ed Hermione si sentì infinitamente stupida nell’aver sperato che chiamarla sarebbe bastato a farsi sentire.
Stava per uscire dalla stanza, quando la porta si aprì improvvisamente, accompagnando una battaglia di voci e passi pesanti.
Il dottor Miles e la dottoressa Yard fecero irruzione nella stanza, risvegliando l’attenzione dei coniugi Granger.
“Non puoi farlo Jonathan!” esclamò Christina, cercando di impedire al giovane medico di proseguire all’interno della stanza.
“Il dottor Tight mi ha affidato il caso di Hermione ed io, e solo io, posso decidere cosa fare,” rimarcò Jonathan, allontanando Christina con un’occhiata e rivolgendosi ai signori Granger.
“Perdonate il trambusto, io e la dottoressa Yard abbiamo avuto uno…scambio di opinioni,” sorrise, un falso sorriso tirato, e lanciò uno sguardo alla ragazza nel letto.
Hermione l’avrebbe volentieri preso a calci se le sue gambe non gli fossero passate attraverso.
“Non si preoccupi, dottore,” lo rassicurò il signor Granger. “Aveva qualcosa da dirci?”
Jonathan annuì e Christina, scambiandosi un’occhiata supplichevole con la madre di Hermione, uscì dalla stanza, sconfitta.
Jonathan si avvicinò al lettino, prese la cartella e dette un’occhiata veloce ai referti medici che conteneva, poi, dopo aver dato un’occhiata ai monitor che tenevano d’occhio il battito cardiaco e le funzioni vitali, si rivolse ai signori Granger con aria grave.
“Non migliorerà, vero?” domandò la signora Granger, gli occhi spenti e rassegnati.
Jonathan annuì.
“Ci sono stati pochissimi, pochissimi, casi di risveglio a questo stadio del coma,” l’informò, avvicinandosi a loro.
“Pochissimi, ma ci sono stati! Ci sono stati!” esclamò Hermione, che aveva capito perfettamente dove il suo collega voleva andare a parare.
Sapeva che non potevano sentirla, ma sperava, forse stupidamente, che sua madre avrebbe percepito il suo dissenso; che sua madre, in quanto tale, l’avrebbe sentita urlare dentro al suo cuore.
“Vedete ogni medico, quando entra in quest’ospedale, deve compilare dei moduli, e tra le domande si chiede anche se, in caso di coma persistente, il medico desideri o meno continuare a vivere per mezzo dei macchinari. Vostra figlia si è dimostrata contraria a questa pratica,” il signor Granger annuì. “Ovviamente noi non faremo nulla senza il vostro consenso.”
L’uomo annuì nuovamente ed il dottor Miles gli consegnò alcuni fogli.
“Ci penseremo,” assicurò la signora Granger.
“Vede signora Hermione non voleva che-”
“Le ho detto che ci penseremo!” Jonathan annuì ed uscì dalla stanza.
Hermione si fiondò su sua madre, volteggiandole intorno.
“Ero contraria mamma, è vero, ma ora sono favorevole! Favorevolissima! Io sono qui, sono qui, non sto andando via,” gemette.
Si guardò intorno, spaesata. Gli occhi le caddero sulla foto di lei e Showna la sera del loro diploma.
Le sembrò nuovamente di sentire la mano di Ron che accarezzava la sua.
Gettò uno sguardo supplichevole a sua madre, ma la donna stava ancora leggendo i fogli che le aveva consegnato Jonathan.
“Ron,” sussurrò tra sé. “Devo andare da Ron.”

***

“Hermione?”
Ron sospirò, afflitto.
Aveva camminato per Londra per tutto il pomeriggio, lasciando che la folla spazzasse via tutti i suoi pensieri, aiutata dal vento.
Aveva le mani infreddolite ed un principio di mal di gola, ma non gli importava poi molto.
Hermione non era lì, era andata via davvero.
Strascicando i piedi sul pavimento si avviò verso la poltrona e vi si buttò sopra, ignorando il fatto di avere ancora il cappotto addosso.
Si stava appisolando, con la testa ciondoloni da un lato, quando un lieve bussare echeggiò nel silenzio.
Si sentiva stranamente apatico quella sera e meno che mai aveva voglia di alzarsi ed aprire la porta per poi dire, a chiunque di fosse al di là, che non aveva assolutamente né tempo né intenzione di fare qualsiasi cosa lo straniero proponesse.
Decise saggiamente di rimanere spaparanzato sulla sua poltrona; prima o poi l’avventore si sarebbe rassegnato e se ne sarebbe andato via.
Ma il bussare invece che diminuire aumentò d’intensità ed insistenza, costringendolo a lanciare il cappotto sullo schienale del divano e a trascinare i piedi verso la porta principale.
“Si?”
May, la ragazza del piano di sotto, stava appoggiata allo stipite con aria scocciata. Appena il volto di Ron comparve dall’interno dell’appartamento la ragazza si aprì in un sorriso.
“Sono rimasta chiusa fuori, non è che potresti farmi vedere l’elenco telefonico?” domandò, sbattendo le lunghe ciglia nere.
Una delle poche cose che Ron non teneva conto dei babbani erano gli elenchi telefonici. Questo perché, uno non aveva amici babbani a cui telefonare, e due non aveva bisogno di chiamare tecnici o operai in caso di guasti, la sua bacchetta bastava a risolvere tutti quei piccoli problemi domestici che un babbano non specializzato troverebbe difficoltosi.
“Ehm, non ne ho ancora preso uno,” improvvisò, temporeggiando sulla soglia. “L’ex proprietaria non lo aveva e al momento non ce l’ho.”
Abbozzò un sorriso e May sorrise di rimando.
“Oh, non importa,” lo rassicurò. “Se mi permetti di fare una telefonata posso risolvere anche senza elenco.”
Ron annuì e la ragazza, senza tanti complimenti, oltrepassò la soglia, diretta verso la cucina. Dopo alcuni apprezzamenti sull’arredamento afferrò la cornetta, fissata alla parete, e compose un numero, iniziando ben presto a parlare con la persona dall’altra parte.
 
“E così ci siamo lasciati, sono single da allora.” Ron annuì, nascondendo il viso nel bicchiere.
Non sapeva bene come fosse successo, fatto sta che May l’aveva convinto a cenare insieme e adesso si trovavano allo stesso tavolo, vicino alla finestra semicircolare che dava sulla strada, a paralare di lei, dei suoi ex, di ciò che le piaceva in un uomo e di nuovo di lei.
Sembrava una copia venuta male di Lavanda Brown.
“Potresti dirmi dov’è il bagno?” Ron indicò il corridoio, dicendole che quella del bagno era la seconda porta a sinistra.
May sorrise, continuando a sbattere le ciglia, e si alzò, diretta verso il corridoio.
Non appena lo scatto della porta ebbe smesso di riecheggiare nell’aria, Ron si lasciò andare contro lo schienale del divanetto semicircolare, sospirando.
“Ron?”
Hermione si affacciò timidamente dal muro che divideva il corridoio del palazzo dal salotto dell’appartamento; Ron non l’aveva sentita.
“Ron?” provò di nuovo, ottenendo solo che il ragazzo si sistemasse meglio con il collo sullo schienale del divano, emettendo un mugolio disturbato. “Dannazione, Ron, ho un problema!”
Ron balzò sul posto, guardandosi intorno con circospezione.
Sicuramente l’aveva immaginato.
Lanciò un’altra occhiata furtiva intorno a sé: non c’era nessuno.
“Ron!” questa volta Ron voltò velocemente il capo verso il punto da cui proveniva la voce. Sobbalzò appena incontrando la testa di Hermione che sbucava dal muro del suo corridoio.
“Hermione?”
La ragazza sbuffò, entrando in casa con tutto il corpo. Ron le sorrise, alzandosi ed andandole incontro.
“Sei tornata,” osservò, le labbra ancora arricciate all’insù.
Hermione annuì, abbassando timidamente lo sguardo. Aprì bocca per parlare quando, impetuosa come un uragano, la figura di May fece capolino dal bagno.
La ragazza sorrise maliziosamente a Ron, sistemandosi la maglietta sui jeans e avvicinandosi a lui.
“Dov’eravamo?” chiese, accarezzandogli lascivamente una ciocca di capelli.
Ron deglutì, facendo saettare lo sguardo verso Hermione che, al suo fianco, fissava basita la ragazza di fronte a loro.
“Non sarei dovuta venire,” sussurrò infine, fuggendo lo sguardo di Ron. “Non sono nessuno per assillarti con i miei problemi, scusa.”
Ron scosse freneticamente il capo, sussurrandole che non doveva andarsene, che doveva restare.
“Certo che resto,” rispose May, sorridendo vittoriosa. “Dove pensi potrei andare?” ridacchiò, facendo ondeggiare la sua cascata di ciocche color miele.
Ron la ignorò, continuando a fissare gli occhi di Hermione.
“Per favore,” le sussurrò il ragazzo.
“No, Ron, lei…lei è bellissima ed io, io non dovrei essere qui.”
Gli rivolse uno sguardo rassegnato prima di sparire al di là della parete, lasciandolo lì, in mezzo al salotto, con la copia venuta male di Lavanda Brown che cercava di flirtare con lui.
“Hermione!” la richiamò.
May inarcò le sopracciglia, assottigliando i chiari occhi azzurri.
“Io mi chiamo May,” precisò, sbattendo le palpebre.
Ron annuì, farneticando qualche inutile scusa, prima di sparire oltre la porta.
 
La fresca aria serale gli sferzò le guance, facendogli prudere il naso per il cambio di temperatura. Si strinse un po’ nel maglione, strofinandosi le mani lungo le braccia per darsi un po’ di calore.
Fece vagare gli occhi per la terrazza, incontrando la chioma indomabile di Hermione, che svolazzava al vento, vicino alla ringhiera.
“Ciao,” sussurrò, avvicinandosi a lei.
Hermione sobbalzò, voltandosi di scatto verso di lui; una tenue scintilla di sorpresa le illuminò lo sguardo.
“Come mi hai trovata?”
Ron abbozzò un sorriso, appoggiando la schiena contro la ringhiera.
“Ti conosco meglio di quanto pensi,” rispose, rivolgendole uno sguardo a metà tra l’enigmatico ed il divertito.
Hermione sbuffò, roteando gli occhi con disappunto. Borbottò qualcosa tra sé e poi, arrendendosi al suo sorriso, arricciò le labbra all’insù.
“Adoro osservare Londra da quassù,” confessò, portando lo sguardo sulla skyline della città. Da quel punto si potevano vedere le luci della London Eye, incorniciate dal cielo cobalto puntellato di brillanti stelle, con l’accompagnamento dallo sfavillare del Tower Bridge, del Parlamento e, in sfondo, ombreggiata, si poteva scorgere la sagoma imperiosa del Big Ben.
Sorrise, accarezzando con lo sguardo le bellezze della sua città, perdendosi per un secondo tra le acque scure del Tamigi che scorreva placido.
“E’ una vista meravigliosa, me la sono persa per metà della mia vita.”
Hermione lo guardò con curiosità, non comprendendo quell’ennesimo enigma della sua vita passata e forse anche presente; uno dei segreti che conservava con il magico bastoncino di legno che faceva le cose.
“Perché sei tornata?”
Lei abbassò lo sguardo, aveva pregato affinché quella domanda non arrivasse mai ma, da razionale veterana della vita, avrebbe dovuto supporre che le sue preghiere non sarebbero state ascoltate, almeno non troppo a lungo.
Sospirò, portandosi i capelli dietro le orecchie.
“Perché non vuoi dirmi chi sei?” ribatté, pensando che fosse uno scambio più che equo; in fondo, lui sapeva tutto di lei, ora.
“Lo sai chi sono,” rispose lui, deluso poiché anche la sua di preghiera non era stata ascoltata.
Hermione sbuffò, voltando tutto il busto verso di lui, fronteggiandolo.
“No,” replicò. “Non lo so. So che sei Ron, ma non so cosa c’è qui dentro,” appoggiò il palmo della mano sul petto di Ron, provocandogli una spiacevole sensazione di freddo. “E qui dentro,” aggiunse, accarezzandogli il capo. “Chi sei Ron?”
Ron trasse un respiro profondo e, affrontando i suoi occhi severi e indagatori, decise di fare ciò che avrebbe dovuto fare già molto tempo prima.
 
Diagon Alley pullulava di persone quella mattina. Vecchie streghe che correvano ad una parte all’altra per assicurarsi il miglior calderone al minor prezzo e donne di mezza età che si appostavano davanti al Ghirigoro, borsellino alla mano, pronte a prendere la nuova ed inedita biografia di Gilderoy Allock, trovata tra i suoi appunti personali e mai pubblicata.
Folle di bambini entravano ed uscivano dai Tiri Vispi Weasley, il negozio arancione in fondo alla strada principale, oppure si ammassavano davanti ad Articoli per il Quidditch, ansiosi di vedere il nuovo modello di Nimbus 3000 o l’altrettanto stimata Tornado 500, messa appunto proprio negli ultimi mesi.
Hermione spalancò gli occhi, notando lo strano abbigliamento dei passanti, forse l’unico segno che desse da pensare che non si trattava di una strada come tutte le altre. Il solo modo che avevano usato per arrivarci la diceva lunga.
“Benvenuta nel mio mondo!” esclamò Ron, ridendo dell’espressione sul viso della ragazza.
Hermione boccheggiò, intercettando una donna che faceva levitare alcune buste della spesa alle sue spalle. In quell’attimo un ricordo le saettò nella memoria, stordendola.
“Io qui ci sono già stata,” sillabò, incredula.
“Come?”
“Ci sono già stata. Io…io ho sognato di essere qui,” spiegò, ricordando che nel sogno si trovava proprio nel punto dove era adesso, con lo sguardo rivolto verso il negozio arancione infondo alla strada ed il via vai di persone che la avvolgeva, frenetico.
Ron sbatté le palpebre, incredulo.
“Portami a fare un giro,” chiese, prima che il ragazzo avesse tempo di proferir parola sulla stranezza del suo sogno. “Ti prego, voglio vedere questo posto.”
Ron sorrise, accondiscendente, ed insieme si avviarono per Diagon Alley.
 
“E questo è il negozio dei miei fratelli,” concluse, fermandosi davanti ai Tiri Vispi Weasley, illuminato da una brillante scintilla d’orgoglio.
“Hai fratelli?” Ron sorrise. 
“Eccome,” ridacchiò. “ Ne ho sei, cinque maschi ed una femmina.”
Hermione sbarrò gli occhi, non credendo possibile che un uomo ed una donna potessero mantenere sette figli senza diventare matti.
Scuotendo il capo, ed ignorando lo strano senso di stordimento causato da tutte quelle informazioni surreali, Hermione rivolse uno sguardo indagatore a Ron.
“Quindi, hai intenzione di spiegarmi cos’è quel ramoscello che avete tutti quanti o devo fare un sondaggio?” ridacchiò.
“Un che?” Hermione gli fece cenno con la mano di lasciar perdere ma, con lo sguardo, lo incoraggiò a rispondere alla sua domanda.
Con un sospiro Ron si arrese, tirando fuori la bacchetta dalla tasca posteriore dei jeans. “Questa è una bacchetta magica, ci aiuta a fare uso della magia,” le sopracciglia di Hermione si aggrottarono. “In pratica la bacchetta è un mezzo attraverso cui la magia che scorre dentro di noi riesce a manifestarsi. Finché siamo piccoli la magia si manifesta da sola ed in modo imprevedibile, ma col tempo impariamo a controllarla,” spiegò. “Certo si possono fare anche incantesimi senza bacchetta, ma occorrono anni di pratica per arrivare ad un livello tanto elevato.”
“Quindi ‘voi’ sareste…cosa?” non credeva di aver afferrato bene il concetto.
Ron sorrise e, con lo stesso tono che si usa per spiegare qualcosa di difficile ad un bambino, le disse: “Siamo maghi. Sai, tipo Merlino.”
Per un attimo il volto di Hermione fu una maschera di immobilità poi, assimilata la notizia, scoppiò a ridere.
“Maghi? Come Merlino? Scherzi vero!” si coprì la bocca con le dita, ma quel timido e semplice gesto non bastò a nascondere la sua ilarità. “Ron, Merlino non esiste, è un’invenzione per spiegare perché Artù divenne re d’Inghilterra, è una storia che si racconta ai bambini.”
Ron incrociò le braccia al petto, leggermente offeso da quella sua mancanza di fiducia.
Deciso più che mai a farle accettare di trovarsi in una strada circondata da persone che, come quell’invenzione di Merlino, potevano usare la magia, tirò fuori la bacchetta e, pronunciando un incantesimo non verbale, fece levitare una pietra.
Non soddisfatto, lasciò che la pietra cadesse a terra e, puntandosi la bacchetta sul capo, eseguì un incantesimo di Disillusione.
“Incantesimo di Disillusione,” spiegò, notando lo sguardo stupefatto di Hermione. “Permette di mimetizzarsi con l’ambiente circostante, ideale se vuoi nasconderti e non hai un mantello dell’invisibilità.”
Sciolse l’incantesimo e spostando la punta della bacchetta verso una pallina la tramutò in un calice d’argento.
“Trasfigurazione degli oggetti, puoi trasformare qualsiasi cosa inanimata in un’altra qualsiasi cosa inanimata.” Tramutò il calice in un topo. “O animata.”
Hermione lo fissò sbalordita de-trasfigurare il topo, che tornò pallina.
“Esiste anche la trasfigurazione umana, ma non sono mai stato un asso in Trasfigurazione e rischierei di fare un disastro con quella.”
Si puntellò un attimo le labbra con la punta della bacchetta, pensando ad altri incantesimi pratici da mostrarle.
“Poi ci sono le fatture, incantesimi che ti danneggiano,” continuò a spiegare. “Le Fatture Orcovolanti, se fatte bene, sono abbastanza toste. Ci sono incantesimi di Difesa, Disarmo e le maledizioni, ma quelle non sono, diciamo, legali. E poi c’è-”
Hermione gli mise le mani davanti al viso, arginando il suo fiume di parole.
“Va bene, va bene, ci credo,” disse e le labbra di Ron si distesero in un sorriso vittorioso. “Merlino eh?” ridacchiò, lui la guardò male.
“Merlino era un dei migliori, posso assicurartelo. Insieme a Silente è il più grande mago di tutti i tempi.”
Hermione mosse la mano in aria distrattamente, facendogli segno che aveva capito e non c’era bisogno che continuasse anche con l’elogio dei più grandi ed importanti maghi del mondo.
Con una risata di divertimento Ron le strizzò l’occhio e, facendosi largo tra la folla, la giudò verso il Paiolo Magico, avendo deciso che era arrivato il momento di mettere qualcosa sotto ai denti.
 
“Cos’è?” domandò Hermione, osservando il contenuto del piatto di Ron.
“Pasticcio di Rognone,” disse, ingurgitandone una forchettata. Hermione fece una smorfia, poco convinta. “Guarda che è buono!” assicurò il ragazzo. “Sicuramente meglio che fatto in crosta,” aggiunse, ricordando quando sua madre lo cucinava per suo padre dopo giornate di lavoro particolarmente intense.
“E quello cos’è?” chiese di nuovo, indicando il contenuto del suo bicchiere.
Ron sospirò, dicendole che era succo di zucca, non stupendosi troppo alla sua espressione di palese disgusto.
“Quando sarai tornata normale te lo faccio assaggiare,” le disse, continuando ad ingozzarsi.
Il volto di Hermione si rabbuiò e la ragazza abbassò lo sguardo, torcendosi le dita in grembo.
“Ho detto qualcosa di male?” lei scosse il capo, timidamente.
Rialzò lo sguardo verso Ron, sorridendogli appena.
“Allora, come hai fatto a liberarti di May, ieri sera?” domandò, appoggiando il mento sul palmo della mano.
Ron arrossì e nascose il naso nel suo bicchiere, buttando giù una notevole quantità di succo prima di rispondere.
“Le ho detto che non potevo rimanere lì con lei perché avevo qualcuno di più importante da cui andare,” confessò, arrossendo miserabilmente sulle orecchie ed assumendo un colorito rosato sul collo.
Hermione arrossì a sua volta, mordendosi il labbro inferiore.
“Tu perché sei tornata?” ribatté lui, cambiando discorso.
Hermione inspirò, puntando gli occhi in quelli di lui, conscia che era arrivato anche per lei il momento di fare qualcosa che doveva fare da tempo.
“E’ complicato, ci vorrà un po’ per spiegartelo,” lo avvertì.
“Sono qui per te, ho tutto il tempo del mondo.”
“Bene,” sorrise ed iniziò a parlare.

 

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Capitolo 7
*** You're gonna be the one who saves me? ***


 You’re gonna be the one who saves me?

Le foglie giocavano dispettose tra le panchine di St. James Park, mosse lievemente dal vento. Era un’uggiosa mattina d’autunno e Ron stava fissando Hermione che, al suo fianco, si torceva le mani in grembo.
Non era stato facile per Hermione, il pomeriggio precedente, spiegare a Ron cosa fosse stato consigliato ai suoi genitori di fare.
“Cosa posso fare?” domandò il ragazzo, dopo svariati minuti di silenzio.
Il vento mosse dispettoso i capelli di Hermione, facendoglieli finire sul viso. La ragazza sospirò.
“Nulla,” rispose. Si portò i capelli dietro le orecchie, facendo vagare lo sguardo sul prato ben tenuto del parco.
Ron sospirò, appoggiando i gomiti sulle ginocchia e prendendosi il capo tra le mani. C’era sicuramente qualcosa che poteva fare. Doveva esserci.
Strizzò gli occhi, concentrandosi sul respiro lento e regolare di Hermione, sul lieve frusciare delle foglie smosse dal vento, sul quieto ululare delle chiome degli alberi.
Improvvisamente spalancò le palpebre, illuminato da un pensiero.
“Tutto bene?” domandò Hermione, notando il suo comportamento strano.
Ron annuì, guardando distrattamente davanti a sé, gli occhi fissi sul prato con l’aria di uno che non sembrava realmente vederlo.
“So come aiutarti,” sussurrò. Si voltò lentamente verso di lei, gli occhi luminosi ed un enorme sorriso stampato in faccia. Hermione aggrottò le sopracciglia, confusa. “So come aiutarti!” esclamò, alzandosi in piedi di scatto.
Iniziò a camminare avanti e indietro sull’erba, farneticando tra sé a proposito del suo brillante piano, mentre Hermione lo fissava in totale stato di confusione dalla panchina.
“Io so come aiutarti!” ripeté, allungando le mani per prenderle le spalle ma finendo inesorabilmente per afferrare il vuoto.
Scosse il capo e sorrise, guardando Hermione con un’ombra di speranza negli occhi.
“Spiegami questo brillante piano,” acconsentì Hermione e Ron, con una lieve risatina di vittoria, si sedette al suo fianco sulla panchina, iniziando a chiacchierare.
 
Ron si Materializzò in un vicolo poco illuminato dalle parti di Tottenham Court Road. Si guardò furtivamente intorno e, appurato di essere solo, lasciò che Hermione uscisse allo scoperto.
Lo spirito della ragazza uscì dal corpo di Ron, barcollando.
“Non mi abituerò mai a questa cosa,” borbottò.
Ron scosse il capo, sorridendole.
“Allora,” iniziò, uscendo dal vicolo. “Dimmi qualcosa su di te che solo tu puoi sapere.”
Hermione ci pensò su, ripercorrendo tutti i suoi ricordi con la mente.
“Quando ero piccola, prima di addormentarmi, mia madre mi diceva sempre: non importa di quello che sarà, basta che tu sia felice,” ricordò, gli occhi lucidi e la voce tremolante sulle ultime parole.
Ron abbozzò un sorriso nella sua direzione. “Sono delle belle parole.”
“Già,” convenne lei, tirando su con il naso. Alzò gli occhi su di lui e, incoraggiandolo, lo guidò verso casa dei suoi genitori.
L’abitazione dei signori Granger era un villetta a due piani tinteggiata d’azzurro. Lo stabile era circondato da un piccolo giardino curato e, sul portico, stava una vecchia sedia a dondolo che cigolava a ritmo del vento.
Ron inspirò e, incoraggiato dallo sguardo di Hermione, aprì il piccolo cancelletto di ferro ed entrò nel giardino, percorrendo lo stradello di pietra fino alla porta.
Bussò un paio di volte, rimanendo ad attendere sul portico.
Dopo pochi minuti di attesa la porta si spalancò, rivelando la figura della madre di Hermione che si ripuliva le mani al grembiule che aveva legato in vita.
“Posso fare qualcosa per lei, giovanotto?” domandò, alzando gli occhi su Ron.
Il ragazzo deglutì, annuendo.
“Piacere, signora Granger, mi chiamo Ronald Weasley e, se non le dispiace, vorrei…vorrei scambiare due parole con lei,” disse, inciampando tra le parole.
La donna, confusa, annuì facendogli strada all’interno della casa. Lo accompagnò fino al salotto e lo invitò a sedersi sul divano.
“Gradisce del tè, signor Weasley?” Ron scosse li capo, intercettando lo sguardo di Hermione che si trovava dall’altra parte del salotto.
“No, grazie, signora Granger.”
La donna annuì e si sedette sulla poltrona, pronta all’ascolto.
Ron rimase in silenzio per alcuni secondi, organizzando un discorso nella sua mente, poi alzò lentamente lo sguardo ed incontrò gli occhi della donna, così simili a quelli della figlia.
“Non stacchi la spina a sua figlia,” disse.
La donna sbarrò gli occhi, boccheggiando.
“Come prego?”
“So che le sarà difficile da credere ma sua figlia, Hermione, non sta morendo,” spiegò.
La signora Granger scosse il capo, turbata.
“Senta, non so come lei sia venuto a conoscenza di ciò che ha accaduto a mia figlia,” disse, gelida. “Ma non ha alcun diritto di venire qui e dirmi una cosa del genere.”
Ron annuì, deglutendo.
“E’ stata Hermione a dirmi cosa le era successo, il suo spirito…il suo spirito è venuto da me, è qui anche adesso,” continuò, ben sapendo che le sue parole parevano assurde.
“Il suo spirito?” la madre di Hermione era in uno stato tra lo sconvolto e il preoccupato.
“Sì, lei è viva, signora Granger. Le dia il tempo che le serve per tornare nel suo corpo, Hermione vuole solo un po’ di tempo,” disse. “Non stacchi quella spina.”
La donna abbassò lo sguardo e scosse il capo.
“Lei è matto, come pensa di poter dire che lo spirito di mia figlia…” non finì neanche la frase, tanto era sconvolta.
Si alzò, invitandolo ad uscire.
“Aspetti!” esclamò Ron, mentre la donna lo spingeva verso la porta. “Se stessi mentendo come crede che potrei sapere che quando Hermione era piccola, prima di addormentarsi, lei le diceva sempre ‘non importa di quello che sarà, basta che tu sia felice’?”
La donna sbarrò gli occhi, ancora più turbata e confusa di prima.
“Lei come…?”
“Me l’ha detto lei! Hermione! La prego non stacchi quella spina!” implorò il ragazzo, bloccato sulla soglia.
La madre di Hermione aprì la porta, e senza guardalo in faccia lo pregò di andarsene. Ron annuì e, sconsolato, uscì dalla villetta azzurra, ripercorrendo lo stradello di pietra fino al cancelletto di ferro.
La donna si richiuse la porta alle spalle, appoggiandovisi sopra con un sospiro. Hermione non si era mossa dal salotto.
Turbata e confusa la donna si passò una mano sulla fronte, dirigendosi verso il divano; si lasciò cadere sui morbidi cuscini con un sospiro afflitto.
Guardò con nostalgia alcune foto di Hermione che si trovavano sul camino e socchiudendo gli occhi, sussurrò qualcosa tra sé.
Dopo alcuni minuti si alzò in piedi, diretta in cucina. Hermione la seguì.
La donna si fermò davanti al bancone e, da uno dei cassetti delle tovaglie, tirò fuori i fogli che il dottor Miles le aveva dato un paio di giorni prima in ospedale. Afferrò una penna e guardò il fondo del foglio.
Hermione trattenne il fiato, scuotendo lievemente il capo.
“Scusami tesoro,” sussurrò la donna, la voce spezzata. Pigiò la sporgenza sulla cima della penna e, con mano tremante, firmò i fogli, riponendoli nuovamente nel cassetto.
Hermione corse fuori, la vista annebbiata ed il fiato spezzato.
 
Ron se ne stava con le mani in tasca e la schiena appoggiata alla steccionata dipinta di lucente vernice bianca. Il vento gli schiaffeggiava il volto, colpendo le sue gote lentigginose.
Sbuffò, spostandosi alcuni ciuffi dagli occhi con un gesto nervoso.
Stava per tornare indietro per cercare Hermione quando la figura della ragazza gli passò accanto velocemente, quasi saettando.
Non si fermò accanto a lui, non disse nulla. Semplicemente continuò a correre lungo la strada, con i capelli che le finivano in faccia e si impiastricciavano con le lacrime.
“Hermione!”
La ragazza non fece caso alla voce di Ron che la richiamava, né al ragazzo che cercava di correre al passo con lei.
Continuò a correre e correre, fluttuando a qualche centimetro da terra. Si accorse di dov’era solo quando si fermò ed i suoi occhi, rossi e avvolti da un’opaca patina di pianto, incontrarono il profilo di una statua.
Le sue labbra si arricciarono in un sorriso nostalgico; quando era poco più che una bambina sua madre la portava sempre a Kensington Gardens, così tanto spesso che era diventato uno dei suoi posti preferiti.
Le piaceva, negli uggiosi giorni autunnali, quando l’odore di pioggia superava quello dello smog, rintanarsi ai giardini con un libro. Solitamente si sedeva su quella stessa panchina, le gambe incrociate ed un tomo aperto su di esse, con gli occhi di Peter Pan che la osservavano, facendole compagnia.
“Corri veloce,” ansimò una voce affannata alle sue spalle. Hermione non si voltò, continuando a fissare la statua di Peter che troneggiava davanti a lei.
Avvertì la presenza di Ron al suo fianco e lo guardò con la coda dell’occhio; doveva avergli fatto fare una bella corsa.
“Si può sapere che ti ha preso?”
“Ci venivo sempre quand’ero piccola qui, sai?” rispose lei, ignorando la sua domanda. Non si voltò a guardarlo, ma sapeva che aveva annuito leggermente. “Mi mettevo a leggere qualche libro e lui mi faceva compagnia,” continuò, facendo un cenno con il capo in direzione della statua.
“Lui…chi sarebbe esattamente?” Hermione rise, sentendo le ciglia ancora un po’ umide ed impastate.
“Lui è il mio principe azzurro,” sussurrò la ragazza, ricomponendosi. La fiaba di Peter Pan era sempre stata la sua preferita, l’aveva letta e riletta fino a saperla a memoria.
Non sapeva se era stato più il singolare colore dei capelli del suo protagonista o il suo comportamento infantile a capriccioso ad attrarla così tanto.
Entrambi, forse.
Dette una veloce occhiata a Ron, ai suoi capelli rossi e alla sua aria da bambino un po’ troppo cresciuto, e sorrise.
“Allora, cosa è successo?” domandò il ragazzo, mostrando apparentemente di non aver sentito l’ultima affermazione di Hermione.
Il volto della ragazza si contrasse, tornando serio. Non rispose, ma i suo profondi e tristi occhi castani parlarono anche di più di quanto lei sarebbe mai stata capace di fare.
Ron annuì, esalando un muto “oh”.
“Ma deve per forza esserci-”
“No, Ron,” lo interruppe lei. “Non c’è.”
Il ragazzo abbassò lo sguardo, stringendo appena le mani che teneva posate sulle ginocchia.
“Ti ringrazio, sul serio,” continuò Hermione, avvicinandosi un po’ a lui. “Però non c’è modo di cambiare le cose,” ripeté, appoggiando una mano su quella di Ron che sentì la familiare sensazione di freddo delle sue carezze.
Rimasero in silenzio per un po’, contemplando in apparente concentrazione diverse parti del paesaggio. Poi Hermione si alzò, sistemandosi dignitosamente la maglietta sui pantaloni.
“Sai cosa ti dico?” esclamò, un lampo di decisione negli occhi. “Al diavolo la scienza, al diavolo le probabilità, chi se ne importa. Sono viva anch’io dopo tutto, no?” si avvicinò a lui e cercò i suoi occhi. E Ron sorrise, perché quella era Hermione, la strana ragazza che qualche settimana prima era apparsa nel suo appartamento sostenendo di esserne la proprietaria. Ron sorrise perché quella era l’Hermione che l’aveva tormentato per giorni, l’Hermione che non si faceva mettere i piedi in testa da niente e da nessuno; era l’Hermione vera. “Ti va di vivere Londra con me, stanotte, Ron?”
Gli porse la mano e lui, nonostante tutto, nonostante sapesse perfettamente che le loro pelli non si sarebbero sfiorate, pose la propria mano su quella tesa di lei, ignorando la sensazione di freddo che si dipanava lungo il suo palmo.
Hermione sorrise, facendo ondeggiare appena la sua voluminosa cascata di ricci.
“Benvenuto nel mio mondo.”
 
Ron rabbrividì appena, stringendosi nel pesante maglione di lana. Guardò Hermione con la coda dell’occhio; era sdraiata su una coperta patchwork con gli occhi rivolti verso il cielo.
Si voltò a guardarlo e lui non fece in tempo a spostare gli occhi, arrossendo violentemente sulle orecchie quando la ragazza lo colse in flagrante.
“Tutto bene?” Ron annuì, distogliendo con fatica lo sguardo da lei e riportandolo sul profilo luminoso della città.
Hermione sorrise, sedendosi ed avvolgendosi le gambe con le braccia, il mento incastrato nell’incavo delle ginocchia.
“Sai,” iniziò la ragazza, facendolo sobbalzare. “Credo di aver capito qual è la mia questione in sospeso.”
Ron si voltò appena verso di lei, guardandola di sfuggita.
“Mh?” mugolò, alzando le sopracciglia.
Hermione annuì vigorosamente, abbozzando un sorriso nella sua direzione. Strisciò sulla coperta, arrivandogli ancora più vicino e, sospirando, appoggiò la testa sulla spalla del ragazzo.
Ron avvertì un lungo e fastidioso brivido salirgli lungo la spina dorsale, subito sedato da un violento calore che gli partiva dal petto.
Ignorò entrambe le sensazioni, concentrandosi sulla condensa del suo respiro.
“Sei tu, la mia questione in sospeso.”
Un po’ se lo aspettava; anzi, temeva che l’avrebbe detto.
Temeva una risposta del genere perché sapeva, nel profondo, che quella risposta avrebbe reso tutto più difficile. Per lei e per lui. Soprattutto per lui.
Per chi resta è sempre più difficile, fare i conti con i ricordi.
Sospirò, ignorando apparentemente le sue parole, come se gli fossero scivolate sopra, invece che penetrare. E lei sembrò intenderla così, perché i suoi occhi si spensero e si abbassarono in direzione dei suoi piedi.
“Forse sarà meglio che tu dorma un po’, è tardi,” suggerì, allontanandosi e stendendosi di nuovo sulla coperta, gli occhi rivolti al cielo stellato.
Ron annuì vagamente, sdraiandosi al suo fianco e dandole la schiena. Sentì la mano della ragazza cercare la sua e non si ritrasse, anche se quel contatto gli faceva salire il freddo.
“Resti con me, vero?” pigolò Hermione, sentendosi tremendamente infantile nel porre quella domanda. Non era mai stata una bambina, neanche quando era piccola. Si era sempre comportata da adulta, assennata e composta.
Eppure, non sapeva perché, aveva sentito il bisogno di dirlo, di assicurarsene perché dentro di sé, inspiegabilmente, sentiva che se lui non le avesse detto che restava con lei le cose sarebbero state peggiori, e sarebbe stato difficile. Per lei e per lui. Soprattutto per lei.
“Fino alla fine del mondo.”
Aveva la voce arrochita dalla stanchezza e sotto alle sue parole si celava uno sbadiglio, ma Hermione sorrise comunque, lasciandogli la mano e tornando a fissare il cielo con minuzia, divertendosi ad individuare le varie costellazioni.
Giocò con le stelle per un po’, finché il suo sguardo non ne incontrò una coppia particolare; poco lontane dal Big Ben, due stelle gemelle brillavano a breve distanza l’una dall’altra, una più grande e luminosa, l’altra più flebile. Seconda stella a destra e poi diritto fino al mattino.
Sorrise, guardando con rammarico la stella più flebile e spostando l’attenzione su quella più luminosa, che sembrava quasi pulsare da quanto brillava.
Socchiuse appena gli occhi, con un vago sorriso che ancora le aleggiava sulle labbra e pensò che forse, sarebbe approdata sull’Isola che non c’è, e che magari avrebbe incontrato Peter.
Si sentì infinitamente sciocca a pensarlo, non solo perché secondo tutte le leggi della ragione e della fisica era impossibile finire in un posto estraneo al tempo e allo spazio, ma soprattutto perché la sua Isola che non c’è l’aveva già trovata molto tempo prima.

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Capitolo 8
*** I don't know who we are ***


 I don’t know who we are

Ron si svegliò con uno strano senso di spossatezza addosso. Si mise a sedere, massaggiandosi la schiena e si sfregò le braccia con le mani, sentendo improvvisamente freddo.
Si guardò intorno, mentre piano, piano i ricordi di ciò che era accaduto la sera precedente gli ritornavano alla mente, giustificando la sua presenza sul tetto del palazzo nel quale si trovava il suo appartamento.
“Hermione?”
Cercò la ragazza con gli occhi, non trovandola al suo fianco sulla coperta. Apparentemente, non c’era traccia di Hermione sul tetto.
“Hermione?”
Si alzò in piedi, barcollando appena sulle gambe, sperando di avere una migliore prospettiva.
“Sono qui,” sussurrò la ragazza e gli occhi di Ron incontrarono la sua figura seduta in un angolo, con le gambe che ciondolavano nel vuoto e lo sguardo rivolto verso le auto che si susseguivano sulla strada.
Con un sospiro Ron si passò una mano tra i capelli, cercando di dar loro un verso, e si avvicinò alla ragazza, arrivandole alle spalle.
“Tutto bene?”
Hermione sussultò, ma non rispose, annuì soltanto. Mosse lievemente le gambe nel vuoto, reggendosi al cornicione con le mani. Era una cosa stupida, lo sapeva, se anche fosse caduta non le sarebbe accaduto assolutamente nulla.
Forse era proprio per quello che desiderava tanto cadere?
“Allora,” esclamò Ron, sorridendo. “Che hai voglia di fare oggi?”
Di nuovo, Hermione non rispose, si limitò a scrollare le spalle, alzando lo sguardo dalle auto che si susseguivano sulla strada verso il cielo, tentando di immaginare quale forma avesse la nuvola che le era passata davanti agli occhi.
“Hai mai fatto il gioco delle nuvole?” domandò, all’improvviso.
Ron scosse il capo. “No,” sussurrò. “Cos’è?”
Hermione voltò appena il viso verso di lui, quanto bastava per incontrare fuggevolmente i suoi occhi. Aveva le sopracciglia inarcate e l’aria contrariata, Ron arrossì.
“Non sai cos’è il gioco delle nuvole?” Ron scosse di nuovo la testa, abbassando gli occhi.
Hermione sbuffò, ma abbozzò un sorriso. Scese dal cornicione ed andò verso la coperta patchwork ancora stesa a terra.
“Vieni qui,” lo invitò, stendendosi a terra.
Ron la seguì, sentendo un lieve spiffero sulla spalla, nel punto in cui si scontrava con quella di Hermione. Lo ignorò.
“Guarda quella nuvola,” disse, alzando il braccio verso il cielo ed indicandone una. “Cos’è secondo te?”
Ron aggrottò le sopracciglia, concentrando lo sguardo sull’ammasso di aria condensata. In quel momento, per la prima volta, si accorse che le nuvole sembravano fatte di zucchero filato.
Dolce e appiccicoso zucchero filato, come quello che i ragazzi regalano alle ragazze quando vanno al Luna Park.
“Secondo me è un Boccino,” disse, infine.
Hermione rise, notando con la coda dell’occhio le sue orecchie arrossarsi. Rimasero per un po’ sdraiati sulla coperta a guardare le nuvole, provando ad indovinare le immagini nascoste in esse.
“Forse sarebbe meglio che rientrassimo,” propose Hermione, alzandosi in piedi, lo sguardo improvvisamente spento.
“Sicura che va tutto bene?” lei annuì, dandogli le spalle. “Hermione se c’è qualcosa che vuoi dirmi io-”
“C’è un modo,” lo interruppe, voltandosi verso di lui. “Io ho pensato ad un modo per…per impedire che…”
Ron annuì, facendole intendere che aveva capito di cosa stava parlando. “Vai avanti.”
“C’è un modo, ma è folle e ci serve l’aiuto di qualcuno. Qualcuno totalmente pazzo.”
 
“Harry!”
La voce di Ron rimbombò nel salotto di Grimmauld Place numero dodici. Harry Potter aveva reso la tetra e malandata sede dell’Ordine della Fenice il suo rifugio personale, rimettendo apposto i luoghi più decadenti e rendendola un luogo accogliente e vivibile.
“Cucina!” gridò la voce di Harry in risposta.
Ron arrancò fino alla cucina, con Hermione che camminava alle sue spalle, guardandosi intorno con circospezione, incuriosita dalla scopa che s’intravedeva nell’ingresso e dalla strana foto animata che si trovava su un mobile del corridoio.
Aveva ancora in naso per aria quando si ritrovò stesa a terra, con l’enorme piede di un qualcosa tra le gambe. Aveva la pelle dura e squamosa e le unghie dei piedi erano gialle e scheggiate. Con un verso di disgusto si rialzò, tornando a seguire Ron.
Harry si trovava seduto al tavolo della cucina, chino su un microonde con il libretto delle istruzioni aperto a fianco.
“Che diamine stai facendo?”
Il moro alzò lo sguardo su Ron, guardandolo male da dietro le lenti degli occhiali.
“Ciao anche a te Ron,” cantilenò Harry, lanciando sul piano del tavolo il cacciavite con cui stava trafficando all’interno dell’elettrodomestico.
“Okay, non perdiamo tempo con le stupidaggini,” disse il rosso ed Harry inarcò le sopracciglia, chiedendosi da quando salutare dopo essere piombati senza preavviso in casa d’altri era diventata una stupidaggine. “Ho bisogno di te,” continuò Ron, sedendosi di fronte ad Harry e prendendogli le mani nelle proprie, in un gesto di totale supplica.
“Sentiamo, cos’hai combinato questa volta?” sbuffò Harry, liberando le mani da quelle di Ron ed appoggiando il mento sul palmo della mano, pronto all’ascolto.
Ron inspirò, socchiudendo gli occhi.
“Dobbiamo rapire una persona dall’ospedale.”
“Cosa?!” Harry sgranò gli occhi, aprendo lievemente la bocca.
“Dobbiamo-”
“Ho capito benissimo cosa hai detto!” lo interruppe con una punta d’ira nella voce.
“E allora, per Merlino, perché hai fatto quella faccia?”
Harry sospirò, massaggiandosi la radice del naso.
“Perché è una cosa folle, Ron,” spiegò. “Potrebbero arrestarci e poi…poi perché mai vuoi rapire una persona dall’ospedale?”
Ron deglutì, lanciando un’occhiata ad Hermione che, timidamente, sostava sulla soglia della cucina, con il capo chino.
“Ehm…ti, ti ricordi della ragazza del corridoio?” balbettò, imbarazzato.
Harry inarcò le sopracciglia, guardandolo con scetticismo da sotto le lenti degli occhiali.
“Quella che era colpa della stanchezza?” Ron annuì energicamente. Harry si passò una mano sulla faccia. “Vagamente.”
“Be’, ecco lei non era morta, è solo uno spirito,” spiegò, giocherellando con una vite abbandonata sul tavolo. “E lei in realtà è in coma, insomma il suo corpo,” balbettò, passandosi una mano tra i capelli con frustrazione. “Ma adesso sua madre ha deciso di staccarle la spina, ma lei non è morta, capisci?! Non sta morendo! E noi dobbiamo salvarla, Harry, dobbiamo proprio.”
Harry deglutì, guardando verso Ron con rassegnazione.
“Lei è qui, adesso?” Ron annuì, lanciando uno sguardo verso la porta.
Con un sospiro Harry si alzò, si sistemò gli occhiali sul naso e guardò diritto verso l’arcata dell’uscio, lo sguardo serio puntato verso il vuoto.
“Senti, io non so chi tu sia né se tu ci sia davvero. Potrebbe anche essere che Ron abbia bevuto troppo ieri sera e che adesso stia riversando i postumi della sbornia su di me. Però è il mio migliore amico e se dice che dobbiamo proprio salvarti, ti salviamo,” disse, gettando uno sguardo veloce a Ron, che li osservava dal tavolino. Hermione, sulla soglia della porta, stava sorridendo. “Infondo quando l’ho scelto come migliore amico, l’ho scelto per tutta la vita no?” sorrise in direzione di Hermione, lo sguardo stranamente concentrato anche se non poteva vederla, poi si voltò verso Ron: “Cosa dobbiamo fare?”
 
L’ospedale era affollato come sempre; un gran via, vai di persone riempiva i corridoi, tutti troppo occupati per notare le piccole stranezze che gli accadevano intorno.
“Sei sicuro di questa cosa?” borbottò Harry, sistemandosi il cartellino sul camice.
Ron annuì, camminando a passo sicuro lungo il corridoio del terzo piano, diretto verso la stanza numero ventiquattro.
L’infermiera che si trovava al banco informazioni del piano gli sorrise arricciandosi una ciocca di capelli attorno all’indice.
Ron le fece un accennato cenno con la testa prima di richiudere la porta della stanza nella quale si trovava Hermione.
“Cavolo,” sussurrò Harry, guardando il corpo di Hermione steso sul lettino.
Ron sorrise.
“E’ bella vero?” Harry annuì, sistemandosi gli occhiali sul naso.
Hermione, alle loro spalle, arrossì. Ron si voltò verso di lei poco dopo.
“Cosa dobbiamo fare?”
Hermione aprì bocca per parlare quando, da lontano, una profonda voce maschile raggiunse le loro orecchie.
“Ci sto andando adesso,” diceva. “Hanno firmato dici? Bene. Controllo le funzioni vitali e poi procediamo. Okay.”
Hermione imprecò, sporgendo la testa nel corridoio.
“E’ Jonathan, il tizio che ha dato i fogli a mia madre,” spiegò, avvicinandosi al lettino. “Va allontanato.”
Ron deglutì, guardando verso Harry.
“Io penso a quello lì fuori, tu porta fuori lei.”
Harry fece un cenno d’assenso con il capo e si avvicinò al lettino mentre Ron lasciava la stanza con Hermione che gli fluttuava alle spalle.
“Non sei bravo a mentire, ti scoprirà subito,” gli sibilò in un orecchio. “Lui non è come Christina e Showna, non si fa abbindolare facilmente.”
Ron la ignorò, avviandosi verso l’uomo in camice bianco che veniva verso la ventiquattro dalla direzione opposto a quella del rosso.
“Tu preoccupati solo di suggerirmi le risposte,” sussurrò, attento che nessuno lo sentisse.
L’infermiera del banco informazione lo guardò di nuovo con aria sognante ed Hermione le rifilò un’occhiataccia, borbottando qualcosa tra sé.
“Ehm, salve dottor…” Ron balbettò, fermandosi davanti a Jonathan. I suoi occhi saettarono verso il cartellino appeso alla tasca del camice. “Miles, vero?”
L’uomo annuì, infilando il cellulare in una delle due tasche basse del camice. Ron deglutì.
“Sono il dottor Weasley,” continuò Ron stringendo la mano di Jonathan.
“Salve.”
Hermione sussurrò qualcosa nell’orecchio di Ron.
“Mi ha fatto chiamare il dottor Tight,” disse, sperando di sembrare abbastanza convincente. “Voleva un ultimo parere per il caso della ventiquattro.”
Jonathan annuì, apparentemente interessato. Hermione sussurrò qualcos’altro all’orecchio di Ron e lui continuò a parlare mentre Jonathan lo ascoltava ed annuiva di tanto in tanto.
“Be’, non ne sapevo nulla,” osservò il dottor Miles. “Non le dispiace se scambio due parole con il dottor Tight, sa, per sicurezza.”
Ron scosse il capo, abbozzando un sorriso.
“No, no,” lo rassicurò, con un po’ troppa enfasi. “Vada pure dal dottor Tight e chieda tutto quello che vuole, faccia pure con calma.”
Afferrandogli un braccio lo spinse lievemente verso il corridoio.
“Oh, farò prima con una telefonata,” disse, tirando fuori il cellulare dalla tasca.
Ron ed Hermione si scambiarono uno sguardo di panico. Lei fece per aprire bocca quando Ron, senza alcun preavviso, colpì Jonathan sul naso, facendolo cadere a terra.
“Sei impazzito per caso?!” sbraitò Hermione, mentre Harry alle loro spalle sgattaiolava fuori dalla stanza.
“Io..io mi sono fatto prendere dal panico,” balbettò Ron, arrossendo furiosamente sulle orecchie. Hermione sbuffò, irritata.
“Andiamo!” esclamò Harry, guardando verso di loro.
Ron annuì, dirigendosi a passo svelto verso l’ascensore davanti al quale si trovava Harry, con Hermione che gli camminava alle spalle.
Nel momento in cui le porte si aprirono con un lieve e musicale tin, davanti ai loro occhi si presentò un uomo corpulento con indosso una divisa blu scuro ed un distintivo cucito sulla tasca sinistra.
Harry e Ron deglutirono, squadrando la guardia della sicurezza che si ergeva davanti a loro.
“Dottori,” l’uomo fece un gesto di saluto e li lasciò entrare prima di uscire.
“Salve,” balbettò Harry mentre Ron abbozzava un sorriso, incapace di spiccicare parola.
“Che diavolo sta facendo?” urlò una voce. Jonathan si teneva la testa con una mano mentre con l’altra si reggeva alla parete. “Sono loro, li prenda!”
Harry fece appena in tempo a spingere il bottone con il numero zero prima che la guardia tentasse di infilare le braccia all’interno dell’ascensore.
“Deve aver chiamato la sicurezza mentre aspettavamo l’ascensore,” sussurrò Hermione, guardando con apprensione il suo corpo steso nel lettino.
Ron annuì, mentre una flebile luce gialla illuminava il bottone con il numero zero. Le porte si aprirono con lo stesso suono che aveva preannunciato l’arrivo dell’ascensore quando erano al terzo piano.
Il corridoio era affollato, pieno di infermieri, medici e pazienti che andavano da una parte all’altra, ignorando chiunque gli stesse attorno.
Con circospezione Harry e Ron tirarono fuori dall’ascensore il lettino sul quale era stesa Hermione ed iniziarono a spingerlo lentamente per il corridoio, attenti che non sbattesse contro le pareti o contro altri oggetti.
Erano quasi arrivati al bancone della reception, quasi davanti alla porta che li avrebbe portati fuori di lì quando, dalla parte opposta del corridoio, quattro guardie della sicurezza vennero loro incontro.
“Eccoli laggiù!”
Ron ed Harry si scambiarono un’occhiata d’intesa e fecero velocemente dietrofront, dirigendosi di nuovo verso gli ascensori.
Sarebbe bastato trovare un posto isolato, uno sgabuzzino o un corridoio meno frequentato, sarebbe bastato soltanto essere lontani da occhi indiscreti per pochi secondi, quel tanto che bastava per Smaterializzarsi.
Ron pigiò il bottone alla sinistra delle porte dell’ascensore, sentendo il rumore metallico della carrucola che si muoveva, segno che il loro passaporto per la salvezza non si trovava al piano.
Sospirò, passandosi una mano tra i capelli con frustrazione, mentre teneva d’occhio le guardie sempre più prossime a loro.
Nel momento in cui le porte si aprirono successero una serie di eventi confusi e disastrosi. Una delle guardie era riuscita ad afferrare Harry che, per dare tempo a Ron di scappare, l’aveva spinta nell’ascensore. Ron aveva iniziato a correre spingendo il lettino di Hermione e le porte dell’ascensore si erano chiuse davanti agli occhi di Harry e della guardia che si trovavano all’interno.
Solo dopo che l’ascensore ebbe iniziato la sua corsa verso i piani superiori e Ron si fu trovato abbastanza lontano dalle guardie per concedersi una pausa, entrambi notarono che c’era qualcosa che non andava.
Il corpo di Hermione non aveva più la mascherina azzurra che le copriva il naso e la bocca e la guardia intrappolata con Harry nell’ascensore aveva tre le mani un respiratore.
“Il respiratore,” gemette la ragazza, guardando il proprio corpo stesso nel lettino dell’ospedale.
“Cosa?”
Hermione non fece in tempo a rispondere poiché due guardie avevano afferrato Ron per le braccia, allontanandolo dalla ragazza.
Dall’altro lato del corridoio arrivarono Christina, Showna, Jonathan ed i genitori di Hermione. Gli occhi della signora Granger e quelli di Ron s’incrociarono per un attimo.
“Ron,” il ragazzo spostò gli occhi sull’immagine di Hermione, più sfocata rispetto al solito. “Ron non ce la faccio.”
“Sì che ce la fai,” la incoraggiò, ignorando gli sguardi curiosi della gente che gli stava intorno. “Devi resistere okay?”
L’immagine di Hermione era sempre più chiara, sempre più trasparente.
“Non ci riesco, mi sta portando via.”
“No!”
Ron si mosse bruscamente nella presa delle due guardie, allontanandole da sé. Si avvicinò al lettino, guardando gli occhi dello spirito di Hermione.
“Io…Ron io credo di essere pronta,” sussurrò la ragazza, sempre più sbiadita.
“Io no.”
Una delle grandi mani di Ron andò a ricoprire quella di Hermione, e come era accaduto il giorno della loro prima visita all’ospedale, lei riuscì a sentirlo.
“Lasciami andare Ron, ti prego,” lo implorò. Per qualche strana ragione sentiva che finché fosse riuscita a sentire la sua presenza sulla propria pelle non sarebbe stata in grado di andarsene, di lasciarsi la sua vita alle spalle.
“No,” disse secco, aumentando la presa sulla mano di Hermione. “Non posso. Non voglio.”
“Devi.”
Ron scosse la testa, puntando gli occhi dentro quelli scuri di Hermione. L’immagine della ragazza era sempre più trasparente ed il bip che segnalava i suoi battiti cardiaci si faceva sempre più irregolare.
“Addio Ron.”
“Hermione!”
Accadde tutto molto velocemente. Il volto di Ron si abbasso su quello della ragazza stesa sul lettino e baciò le sue labbra. Solo per un attimo, quanto bastava per sentirne la presenza sotto le proprie.
Hermione spalancò gli occhi, sfiorandosi le labbra, prima di scomparire del tutto nell’aria.
Due mani prepotenti allontanarono Ron dal lettino, spingendolo lontano.
Nel silenzio che si era creato in quella parte dell’ospedale spiccava soltanto il regolare ed acuto bip del battito di Hermione.
E quando gli occhi di Ron incontrarono la linea continua che si stagliava sul monitor che segnalava le sue funzioni vitali non poté fare a meno di pensare che la persona che aveva inventato la frase “per sempre felici e contenti” sarebbe dovuta essere presa a calci nel culo molto forte.*


*cit. Grey's Anatomy

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Capitolo 9
*** Can we pretend that airplanes in the night sky are like shooting stars? ***


Can we pretend that airplanes in the night sky are like shooting stars?

Hermione aprì gli occhi, trovando difficoltà nell’alzare le palpebre, sentendole più pesanti del solito.
Si mise seduta e si massaggiò il capo con una mano, il mal di testa la stava uccidendo. Si trovava su un lettino simile a quelli che avevano all’ospedale, foderato di coperte candide che sapevano di disinfettante.
Tutt’intorno a lei si estendeva un’infinita coltre di bianco; accecante e candido bianco. Per qualche strana ragione aveva la sensazione di esserci già stata in quel posto.
“Ben svegliata.”
Hermione sobbalzò, voltandosi alla sua sinistra. Lì, in piedi vicino al lettino, sostava un uomo anziano che la guadava con ilarità.
Indossava uno strano vestito azzurro ed aveva un paio di occhiali a mezzaluna sul naso adunco che gli proteggevano i piccoli e chiari occhi azzurri. La lunga barba argentea gli ricadeva sul ventre un po’ pronunciato mentre sul capo portava un bislacco capello azzurro rifinito da ricami dorati.
“Oh, non volevo spaventarti cara, hai dormito bene?”
Il vecchio abbozzò un sorriso, continuando a guardarla con quella sua aria ilare, quasi fastidiosa.
“Sì, grazie,” rispose Hermione, scoprendo di non ricordare che la sua voce fosse tanto acuta e squillante.
Sentì la tentazione di coprirsi le labbra con le dita, imbarazzata, ma si trattenne, ragionevolmente certa che la sua voce fosse sempre stata a quel modo.
“Ne sono felice, hai dormito per un bel po’,” ridacchiò l’uomo, incrociando le mani sotto al ventre.
“Davvero?” il vecchio annuì, abbozzando mezzo sorriso nascosto dalla barba.
Hermione non ricordava di aver dormito, anzi, non le pareva proprio di essere ritornata a casa. L’ultimo suo ricordo la riportava nella sua auto, diretta verso casa dei suoi.
“Dove mi trovo?”
L’uomo sorrise, avvicinandosi di qualche passo.
“Sei nella Sala d’Attesa,” rispose.
Hermione sbatté le palpebre un paio di volte, spaesata.
“La Sala d’Attesa?”
“Oh, sì,” sorrise l’uomo. “E’ il posto nel quale le anime attendono il Giudizio.”
Hermione si sistemò meglio, appoggiando la schiena contro i cuscini che aveva alle spalle. Non aveva mai sentito parlare di posti del genere, né ricordava che al St. Patrick ce ne fossero; sicuramente doveva trovarsi da qualche altra parte, ma dove?
“Il Giudizio di cosa?”
“Il Giudizio per decidere se le anime devono recarsi all’Inferno o in Paradiso,” spiegò paziente, lisciandosi la lunga barba bianca.
Hermione deglutì, alzando gli occhi verso l’uomo che sostava alla sua sinistra. Ora, le cose erano due, o lui era pazzo o lei era morta, e tra le due sperava vivamente si trattasse della prima.
“I-io sono morta?” balbettò, decidendo che era meglio togliersi subito il dubbio.
“Oh, no, non ancora,” spiegò l’uomo.
“E allora perché sono qui?” domandò con una punta di sollievo.
L’uomo sorrise, guardandola da dietro le lenti degli occhiali. Sembrava quasi che i suoi occhi potessero esaminarla, passandole attraverso.
“Secondo te perché sei qui?”
Hermione deglutì, alzando gli occhi verso l’alto.
Già, Hermione, secondo te perché sei qui?
“Non lo so,” rispose, confusa. “Forse perché…non lo so.”
L’uomo sorrise nuovamente, guardandola con paterna pazienza.
Improvvisamente le orecchie di Hermione percepirono la presenza di altri rumori attorno a lei, rumori che prima era certa di non riuscire ad udire.
Si sentivano voci, grida e singhiozzi.
“Devi andare adesso,” la informò l’uomo con la veste azzurra.
“Andare? Andare dove?” l’immagine dell’uomo si faceva sbiadita, come se stesse scomparendo. “Chi è lei? Dove sta andando? La prego mi aiuti!”
L’uomo sorrise, un sorriso sempre più trasparente di secondo in secondo.
“Vai dove ti condurrà la voce,” le disse.
“Voce? Quale voce? Aspetti!” ma era troppo tardi, l’uomo era scomparso.
Hermione sospirò, accasciandosi contro i cuscini alle sue spalle. Socchiuse le palpebre, confusa da quell’inconsistente ammasso di suoni.
Stava quasi per addormentarsi di nuovo quando, più forte delle altre, una voce gridò: “Hermione!”.
Hermione sentì le palpebre farsi pesanti, così come gli arti e percepì il cuore battere più lentamente, stava morendo, adesso ne era sicura.

***

I singhiozzi della signora Granger sovrastavano qualsiasi altro rumore nella stanza, fatta eccezione per il beffardo e continuo bip del battito di Hermione.
Le porte dell’ascensore si aprirono, attirando l’attenzione di poche delle persone che avevano formato un capannello attorno al lettino della ragazza. Da esse, trafelato e con il naso sanguinante, uscì Jonathan. Sul suo viso si dipinse un’espressione di sadica soddisfazione notando le due guardie che tenevano Ron per le braccia.
Gli occhi di Ron e quelli del medico s’incontrarono per un attimo, attimo in cui anche Ron provò una sorta di sadica soddisfazione notando di essere almeno riuscito a rompergli il setto nasale.
Poco dopo, dall’ascensore di fianco a quello dal quale era arrivato Jonathan, apparvero Harry ed un’altra guardia della sicurezza.
Gli sguardi di Harry e Ron s’incontrarono e, come altre mille volte prima di quella, non servirono parole per spiegare ciò che era accaduto, bastava la vena cupa degli occhi di Ron per comprendere ogni cosa.
“Mi dispiacer signora Granger, io speravo che-” bip.
Gli occhi di Ron ed Harry saettarono verso lo schermo che segnalava le funzioni vitali di Hermione, insieme a quelli di più della metà dei medici e dei pazienti che si trovavano lì. Sul monitor la linea continua che si era formata pochi secondi prima aveva subito una trasformazione.
“Non è possibile,” balbettò Jonathan quando, dopo qualche altro bip il cuore di Hermione tornò a battere stabilmente.
La signora Granger si divincolò dalla presa del marito, gettandosi sul corpo della figlia.
Gli occhi di Hermione, i suoi occhi, i suoi occhi erano aperti.
“Mamma,” biascicò, sbattendo le palpebre.
La donna singhiozzò, stringendosi contro al corpo della figlia, mentre le accarezzava i capelli con le dita.
Hermione si guardò intorno, spaesata, incontrando gli occhi verdi di suo padre e quelli scuri di Showna che si era affacciata sul lettino.
Ben presto anche gli occhi neri di Christina furono a portata del suo sguardo, insieme a quelli stupiti di Jonathan.
“Come ti senti?” domandò l’uomo, dando un’occhiata al monitor.
“Bene, un po’ spossata, ma bene.”
Lui annuì, sparendo dalla sua visuale. Anche Christina e Showna si allontanarono dal lettino, lasciando la possibilità ai signori Granger di strapazzare un po’ Hermione.
Pochi metri più in là Ron si era rimesso in piedi, con le braccia strette ancora nella morsa ferrea delle guardie della sicurezza. I suoi occhi guardavano insistentemente il lettino, dal quale riusciva a scorgere soltanto la matassa arruffata dei capelli di Hermione.
La signora Granger alzò per un attimo lo sguardo da Hermione, incontrando gli occhi ansiosi ed insieme felici del ragazzo.
“Lasciatelo,” sussurrò, rivolta alle guardie.
I due uomini si scambiarono uno sguardo confuso, senza lasciare la presa su Ron.
“Vi ho detto di lasciarlo, permettetegli di avvicinarsi.”
Le due guardie allentarono la presa sugli avambracci di Ron permettendogli di liberarsi ed avvicinarsi al lettino.
“Ciao,” sussurrò il ragazzo, sporgendo il viso verso Hermione.
Gli occhi della ragazza incontrarono subito quelli di lui, che la guardava sorridente.
“Salve,” rispose, la voce ancora un po’ arrochita a causa del lungo periodo di mutismo.
Il sorriso di Ron si affievolì.
“Ci conosciamo?”
La signora Granger alzò gli occhi su di lui, confusa.
“E’ Ronald Hermione, non ti ricordi?” disse la donna sorridendo, rivolta alla figlia.
Hermione scosse il capo, facendo saettare gli occhi da sua madre a Ron.
“Ron,” ripeté il ragazzo. “L’appartamento? Diagon Alley? Il tetto? Niente?” riprovò, passandosi una mano tra i capelli. Hermione, dispiaciuta, scosse il capo.
“Non te lo ricordi proprio, tesoro?” chiese sua madre.
“No, mi dispiace io-”
“Non fa niente,” la interruppe Ron, allontanandosi di qualche passo dal lettino. “Io adesso dovrei andare, rimettiti presto.”
La signora Granger aprì bocca per parlare ma Ron volse loro le spalle, facendosi spazio tra le guardie della sicurezza e sparendo nel corridoio affollato, diretto verso l’uscita.
 
Fuori il vento tirava forte, scompigliando fastidiosamente i capelli dei passanti e penetrando nei cappotti.
“Eccoti.”
Ron non si voltò, continuando a tenere gli occhi fissi davanti a sé. Parliament Hill era uno dei posti di cui gli aveva parlato Hermione la notte precedente.
“Oh, è un posto bellissimo, devi andarci almeno una volta! A me la mamma mi ci portava sempre da piccola; tutte le volte che ero giù di morale andavo lì perché guardare Londra mi metteva sempre di buon umore. Londra aveva la bizzarra capacità di farmi sembrare tutto migliore. Era come sentirsi dire che tutto si sarebbe aggiustato, e si aggiustava tutto, sempre.”
Sospirò, passandosi una mano tra i capelli, mentre Harry si sedeva al suo fianco sulla panchina.
“Come mi hai trovato?” domandò. “La Mappa del Malandrino funziona solo per Hogwarts.”
Harry ridacchiò, sistemandosi gli occhiali sul naso.
“Sono Harry Potter, non dimenticarlo.”
Ron abbozzò un sorriso, guardandolo con la coda dell’occhio.
“Già,” sussurrò. “Stai diventando peggio di Silente, tra poco oltre che onnipresente ed onnipotente diventerai anche onnisciente.”
Il moro scoppiò in una fragorosa risata, incontrando gli occhi di Ron.
“Potrei prendere lezioni extra dalla Cooman, che ne pensi?”
Anche Ron rise, annuendo.
Adorava il modo in cui Harry riuscisse a capire tutto ma a non essere invadente. Non faceva mai troppe domande, non insisteva, non diceva frasi tipo: “so come ti senti, passerà” oppure “vedrai che andrà tutto bene, cerca di vedere il bicchiere mezzo pieno”; insomma, quel genere di frasi che quando tutto fa schifo ti fanno infuriare ancora di più.
Perché quando tutto va a rotoli sentirti dire che devi essere ottimista ti fa solo sentire preso per il culo.
“Grazie,” disse Ron, riportando lo sguardo sul profilo di Londra che si srotolava per chilometri sotto ai suoi occhi.
Harry scrollò le spalle.
“Dovere.”
Ron sorrise, guardando di sbieco il profilo di Harry.
“Grazie comunque,” ripeté.
Harry non rispose, appoggiò per un attimo la mano sopra a quella di Ron e si mise a guardare il paesaggio, preservando quel silenzio interrotto ad intervalli regolari dall’ululare del vento.
Neanche Ron parlò, ritrovandosi a riflettere su ciò che aveva detto Harry ad Hermione poche ore prima: loro due si erano scelti. Lui aveva scelto Harry ed Harry aveva scelto lui, e si erano scelti per sempre.
E di questo Ron, ad Harry, gliene sarebbe stato sempre grato.     

***

Hermione sospirò, picchettando le dita contro il volante della macchina.
Era in coda da più di venti minuti e non c’era speranza di muoversi più di qualche centimetro. Lanciò uno sguardo fugace ai libri che sostavano sul sedile del passeggero, appoggiati lì alla rinfusa.
Qualcuno accodato dietro di lei suonò insistentemente il clacson mentre qualcun altro, probabilmente l’uomo che guidava il camion a due macchine dalla sua, lanciò una colorita imprecazione.
Hermione sbuffò, sporgendo il collo per vedere se riusciva a scorgere il semaforo che l’avrebbe portata lontano dal traffico.
Erano passate ormai due settimane da quando si era risvegliata e la sua vita aveva ripreso il suo consueto corso. La mattina e il pomeriggio aveva i turni all’ospedale e la sera andava a mangiare dai suoi oppure se ne stava in casa a guardare la TV o a leggere un libro.
La solita vecchia routine insomma.
Un po’ le era dispiaciuto per l’inquilino precedente, che era stato costretto ad abbandonare l’appartamento pochi giorni prima che la dimettessero dall’ospedale; sua madre le aveva detto che si trattava del ragazzo dai capelli rossi che aveva visto in ospedale il giorno del suo risveglio.
Però sentiva talmente suo quell’appartamento che non aveva avuto il coraggio di lasciarglielo ed andare altrove.
Anche se, appena tornata, aveva avuto l’impressione che ci fosse qualcosa di diverso, qualcosa che mancava.
Aveva anche chiesto a sua madre, ma lei le aveva detto che era tutto al suo posto, che l’altro inquilino non aveva né portato via oggetti né ne aveva aggiunti di altri.
Si era così convinta che la sua sensazione fosse dovuta soltanto al fatto che era da troppo tempo che non metteva più piede in casa sua, così tanto da non ricordarsi com’era fatta nei minimi particolari.
Finalmente le auto ripresero a scorrere, permettendole di girare verso Regent Street.
Parcheggiò proprio sotto al suo palazzo ed entrò tenendo tra le braccia i volumi che aveva comprato uscendo.
Quando le porte dell’ascensore si aprirono incrociò una ragazza bionda, alta e slanciata che le riservò un’occhiata scettica. Doveva trattarsi della ragazza che abitava due piani sotto di lei, una certa May o qualcosa del genere, probabilmente si erano viste durante una delle riunioni di condominio.
Non la conosceva, né poteva dire di averci parlato abbastanza spesso per poter dire qualcosa su di lei, però così, di primo impatto, aveva la bizzarra sensazione che fosse una persona decisamente spiacevole da frequentare; la classica ragazza tutta curve e niente cervello, ecco.
Peccato che gli uomini preferissero quel genere di ragazze.
“Non trovi che quella sia priva di classe e con istinti predatori?”
“Sono due qualità per cui gli uomini vanno matti!”
Le porte dell’ascensore si chiusero davanti ai suoi occhi, producendo un sinistro cigolio metallico.
Rimase per un attimo interdetta e confusa a fissare il grigio della cabina dell’ascensore, incapace di spiegarsi come mai la sua mente avesse riprodotto un dialogo che, a meno che lei non soffrisse di una forma precoce di alzheimer, non era mai avvenuto.
Eppure sembrava reale, terribilmente reale.
Le porte si aprirono davanti alla porta del suo appartamento producendo il tipico suono cantilenante che accompagnava l’apertura.
Hermione scosse il capo, stringendosi più forte i libri contro il petto, e si avviò a passo deciso verso la porta infilando la chiave nella toppa.
Le ci vollero tre tentativi per riuscire ad aprirla e, una volta entrata sentì degli strani rumori provenire dal tetto.

***

Per fortuna, o forse per disgrazia, il proprietario del suo vecchio appartamento non aveva trovato un altro abbastanza idiota da affittarglielo così, circa una settimana prima, aveva liberato l’appartamento in Regent Street da tutte le sue cose, tornando in quel buco dal divano che cigolava.
Perché infondo lo sapeva lui, che era tutta una questione di divano, lo era stata fin dall’inizio.
Sospirò, passandosi una mano sul volto.
Il fatto era ché il divano non c’entrava proprio niente, non c’era mai entrato niente.
Il fatto era che il divano era sempre stato solo una scusa per evitare di ammettere che quella casa aveva un che di magico che l’aveva attirato; il fatto era che era Hermione a mancargli e non il suo divano.
Un timido raggio di sole gli colpì il volto, dandogli fastidio agli occhi.
Se non fosse stato per l’azione costante del vento, nonostante fosse ormai autunno inoltrato, il sole avrebbe ancora scottato come nei torridi pomeriggi d’agosto che si succedevano placidi durante l’estate.
Ron sbuffò, alzandosi dal divano e dirigendosi verso la finestrella che dava sulla strada. Diagon Alley era affollata come sempre, costantemente resa viva dal via vai di maghi e streghe che gironzolavano alla ricerca delle cose più strane.
Incapace di rimanere chiuso in casa a rimuginare afferrò il cappotto e, ignaro della sua meta, si Smaterializzò.
Si ritrovò sul tetto di un alto palazzo che doveva trovarsi nella Londra babbana, a giudicare dalle auto che correvano frettolose sulla strada ai piedi dello stabile.
Con un velo di malinconia negli occhi si sedette a terra - non gli era voluto molto per riconoscere quel tetto – e portò le gambe al petto ed alzando lo sguardo verso il cielo.
Era una giornata serena e le nuvole bianche si stagliavano nel cielo, a contrasto con il suo azzurro limpido.
Ne individuò una che somigliava ad un taxi e sul volto gli si dipinse un sorriso amaro.
“Hai mai fatto il gioco delle nuvole?”
“No. Cos’è?”
“Non sai cos’è il gioco delle nuvole? Vieni qui. Guarda quella nuvola, cos’è secondo te?”
“Secondo me è un Boccino.”
Sospirò, passandosi una mano tra i capelli, a giudicare dal traffico che si poteva notare da tetto del palazzo, Hermione non sarebbe rientrata prima di un’ora, aveva tutto il tempo di crogiolarsi nei ricordi.

*** 

Hermione mosse cauta i piedi lungo le scale che portavano al tetto del palazzo. Solo lei e l’altro inquilino dell’ultimo piano avevano l’accesso al tetto e questa era una delle ragioni per cui adorava quell’appartamento, insieme alla finestra semicircolare in salotto ed al grande letto in ferro battuto che aveva in camera.
Aprì piano la porta antincendio, sbirciando fuori; subito il vento le colpì il volto, facendole salire un brivido lungo la schiena.
Combattendo contro la voglia di richiudere la porta e tornarsene al calduccio di casa sua, Hermione uscì sul tetto, lasciando che l’imponente e pesante porta si chiudesse alle sue spalle.
Si guardò intorno, alla ricerca del qualcosa che l’aveva portata lassù ma, apparentemente, sul tetto non c’era nulla di strano.
Nulla che non dovesse esserci.
Forse se l’era immaginato. Sì, sicuramente.
Si era quasi convinta che le cosse stessero così quando, strizzando gli occhi, notò che, vicino al cornicione, con le gambe strette al petto, qualcuno stava seduto ad osservare il cielo.
Non riusciva a distinguere altro che i capelli rossi e la corporatura robusta, in più il vento le rendeva più difficile la visuale, mandandole i capelli sul volto.
Avanzò di qualche passo, attenta a non fare troppo rumore.
Avrebbe potuto alzare la voce e chiedergli come mai si trovasse lì, magari anche minacciarlo di chiamare la polizia; infondo, sarebbe stato un suo diritto.
Eppure aveva la strana sensazione che, parlando, avrebbe interrotto qualcosa di molto più grande che una stupida discussione sul perché e il percome quello sconosciuto fosse riuscito ad accedere al tetto.
Avvicinandosi riuscì a scorgere anche il suo profilo ed i suoi occhi blu, puntati insistentemente verso il cielo.
Improvvisamente, prima che lei potesse fare alcunché, il ragazzo si voltò, svelando la sua presenza sul tetto.
“Ciao,” disse, portando i propri occhi il più lontano possibile da quelli di lei.
“Salve,” rispose Hermione, avvicinandosi un altro po’.
Il ragazzo scrollò le spalle, nascondendo un brivido di freddo.
“Tu sei Ronald, giusto?” Ron annuì, pensando che, forse per ironia della sorte, era riuscita a ricordare il suo nome di battesimo dopo averlo sentito soltanto una volta mentre, invece, aveva dimenticato tutte le altre cose avevano fatto insieme, un milione di volte.
“Ron,” disse dopo un po’, “lo preferisco.”
Hermione annuì, sedendosi al suo fianco con titubanza.
“Cosa ci fai quassù?”
Ron scrollò le spalle, continuando a fissare il cielo. Non lo sapeva cosa ci faceva lassù, c’era finito e basta.
“Non lo so, e tu?”
Anche Hermione si strinse semplicemente nelle spalle, avvolgendosi le gambe con le braccia e sospirando.
“Neanche io lo so, però mi piace qui, ci vengo spesso quando ho voglia di riflettere,” disse, cercando con lo sguardo ciò che nel cielo attirava tanto l’attenzione del ragazzo.
Non vide altro che un gruppo di nuvole che, ammassate l’una sull’altra, ricordavano un cavallo.
“Come hai fatto a salire?” domandò infine, spostando lo sguardo sul profilo di Ron.
“Mi sono Materializzato,” rispose, semplicemente, ignorando il fatto che lei non ricordasse nulla di chi lui fosse in realtà.
Hermione non rispose, pensò solamente che quel ragazzo volesse semplicemente evitare di confessare in che modo avesse avuto accesso al tetto.
Inoltre, una parte di lei sentiva che non era il caso di porre alcuna domanda poiché qualsiasi fosse stata la risposta, lei, l’avrebbe saputa comunque.
Era una convinzione sciocca e presuntuosa, ma non riusciva a sradicarla dalla sua testa.
Ripensò alla parola Materializzazione quando, improvvisamente, accadde di nuovo ciò che era successo pochi minuti prima nell’ascensore.
“Non mi abituerò mai a questa cosa.”
Sbatté le palpebre, indubbiamente, la voce che nella sua mente aveva formulato quella frase era proprio la sua.
“Quindi ‘voi’ sareste…cosa?”
“Siamo maghi. Sai, tipo Merlino.”
“Tutto bene?” la voce di Ron la riportò al presente, sul tetto con lui.
Hermione si voltò verso il ragazzo ed annuì, sbattendo le palpebre ripetutamente.
“Non hai una bella cera, sicura di star bene?” domandò, avvicinando il volto a quello di lei per osservarla meglio.
Hermione si ritrasse, annuendo.
“Noi due ci siamo mai conosciuti prima?”
Ron rimase interdetto per un secondo, soppesando quella domanda.
C’era forse un doppio senso nelle sue parole? O magari un qualche trabocchetto?
“Sì,” disse infine. “Ma tu non te lo ricordi.”
“Visto che ormai siamo amici potresti dirmi-”
“Non siamo amici!”
“Okay, anche se non siamo amici, potresti dirmi il tuo nome?”
“Hermione. Mi chiamo Hermione.”
“Pe-perché non me lo ricordo?” balbettò.
“Non lo so,” rispose Ron. “Non te lo ricordi e basta.”
Hermione sbatté le palpebre, spossata. Lentamente dialoghi che non ricordava di aver mai avuto riaffioravano nella sua mente, sempre più reali man a mano che Ron parlava.
“Come ci siamo conosciuti?”
“Tu eri in coma ed il tuo spirito abitava l’appartamento, ci siamo conosciuti così.”
“Ch-chi è lei?”
“Chi sei tu, e cosa ci fai qui, piuttosto.”
“Io qui ci abito.”
“Devi aver sbagliato porta, forse l’ho lasciata mezz’aperta, qui ci abito io.”
“E poi?”
“E poi…” Ron s’interruppe, cercando i suoi occhi con lo sguardo. Era certo che se le avesse raccontato il seguito l’avrebbe preso per pazzo.
“E poi?” insisté Hermione.
“Cosa vuoi da me?”
“Che tu mi aiuti a scoprire chi sono.”
“E tu non ti ricordavi chi eri ed insieme abbiamo scoperto che eri un dottore e che lavoravi al St. Patrick,” spiegò, deglutendo.
Hermione socchiuse le palpebre ed improvvisamente tutto le fu di nuovo chiaro.
“Posso provare a fare una cosa?”
“Ti sento.”
 
“Ron!”
“Hermione? Sei tornata.”
 
“Allora, come hai fatto a liberarti di May, ieri sera?”
“Le ho detto che non potevo rimanere lì con lei perché avevo qualcuno di più importante da cui andare.”
 
“Sai, credo di aver capito qual è la mia questione in sospeso.”
“Mh?”
“Sei tu, la mia questione in sospeso.”
 
“Resti con me, vero?”
“Fino alla fine del mondo.”
 
“Io…Ron io credo di essere pronta.”
“Io no.”
“Lasciami andare Ron, ti prego.”
“No. Non posso. Non voglio.”
“Devi.”
“Addio Ron.”
“Hermione!”
“Io sono Hermione,” balbettò la ragazza, sbattendo le palpebre.
Ron la guardò inarcando le sopracciglia, confuso.
“Sì che lo sei.”
“No!” esclamò la ragazza, sorridendogli. “Tu non capisci, io sono Hermione!”
“Lo so che lo sei,” ribatté lui, voltandosi verso Hermione.
“Non che non lo sai, io…io mi ricordo di te.”
Ron sbatté le palpebre un paio di volte, stordito. Doveva trattarsi di un sogno, per forza. Però, sicuramente era un bel sogno.
“Ti…ti ricordi?” balbettò e lei annuì, sorridendo come l’aveva vista sorridere solo poche volte in quei mesi. Sorridendo di un sorriso così felice da illuminare il mondo. “Davvero?”
“Sì,” disse Hermione. “Certo che mi ricordo.”
“Be’…ehm…cosa si fa in questi casi?” balbettò Ron, passandosi una mano tra i capelli.
Gli sembrava di essere tornato un adolescente alle prese con la sua prima ragazza e sentì le orecchie arrossare insieme al collo, facendolo somigliare ad una lucina di quelle che si mettono sull’albero di natale, o, nel peggiore dei casi, ad un mandarino.
“Non lo so, tu cosa vorresti fare?”
Ma che domanda era quella? Era ovvio che avrebbe voluto sporgersi quel tanto che bastava per baciarla ma era solo troppo codardo per farlo.
Perché Ron Weasley non si smentisce mai, neanche quando il destino gli concede una seconda chance.
“Io…ecco…io…”
Hermione sbuffò, nascondendo un sorriso, e, ricacciando nel profondo della sua anima la parte razionale e codarda di lei che le diceva di non farlo, afferrò il collo di Ron, baciandolo sulla bocca.
Lì per lì il ragazzo spalancò gli occhi, rimanendo passivo contro le labbra di Hermione, troppo emozionato ed incredulo per fare qualsiasi cosa. Poi, come se un immaginario angelo custode gli avesse dato una botta in testa, chiuse le palpebre, avvolgendo la vita di Hermione con le braccia e sorridendo contro la sua bocca.
Era bello, baciare Hermione. Se fosse dipeso da lui dopo quella l’avrebbe baciata un'altra volta, e poi un’altra e poi un’altra ancora, resistendo fino alla fine del mondo senza ossigeno, vivendo solo dei suoi baci e della sua bocca.
Anche se tecnicamente era stata lei a baciarlo e per pura disperazione, andava comunque bene così. Forse era destino che accadesse a quel modo, com’era stato destino che succedesse tutta quella cosa dello spirito e della memoria perduta.
Forse era semplicemente scritto da qualche parte, un libro sulla storia dell’umanità o semplicemente un manoscritto sulla loro vita, che si sarebbero incontrati e che l’avrebbero fatto nel modo più insolito e bizzarro possibile.
“Ci hai mai pensato che, forse, era destino che ci incontrassimo?” domandò, allontanandosi dalle labbra della ragazza.
Hermione appoggiò la fronte contro quella di Ron, aprendo gli occhi per incontrare quelli di lui.
“Ho pensato che ci siamo incontrati, mi basta questo.”
Ron sorrise, andava bene così.





Author's Corner
Innanzi tutto vorrei ringraziare tutti coloro che hanno recensito, messo la storia tra seguiti/preferirti/ricordati e anche chi ha semplicemente letto. Veramente mille, mille grazie.
Come alcuni di voi hanno notato questa fan fiction non è tutta farina del mio sacco, ma è ispirata ad un film che a sua volta è stato tratto dal romanzo “Se solo fosse vero” di Marc Levy (Just Like Heaven nel titolo originale).
Nonostante tutto, però, spero di averci messo del mio.
Questa storia non è nata per caso, è stata il frutto di alcune curiose coincidenze che mi hanno portata al punto di scriverla a poi pubblicarla. Se siete arrivati fin qui, allora non è stato del tutto stupido seguire il coso di quelle coincidenze :)
All’interno della storia ci sono alcune citazioni, tratte da film e serie televisive, che ci tengo a sottolineare:
“Non trovi che quella sia priva di classe e con istinti predatori?”, “Sono due qualità per cui gli uomini vanno matti!”, “Esci con un pitbull allora” è una citazione del film “Se solo fosse vero”.
“Al diavolo la scienza, al diavolo le probabilità” e “La persona che ha inventato la frase ‘per sempre felici e contenti’ dovrebbe essere presa a calci nel culo molto forte” sono entrambe citazioni di Grey’s Anatomy.
“Io…Ron io credo di essere pronta”, “Io no.” […] “Lasciami andare Ron, ti prego”, “No. Non posso. Non voglio.” sono ispirate ad alcuni dialoghi tra Dastan e Tamina in Prince of Persia; precisamente: lo scambio di battute nel momento in cui Tamina sta per sacrificarsi in modo da rimettere il pugnale al  sicuro e lo scambio di battute un attimo prima che Tamina cada nel burrone.
In ultimo – ho finito! Rinfoderate i forconi – vorrei spiegare il perché dei titoli. Essi, infatti, non hanno nulla a che fare con i capitoli che introducono, sono soltanto strofe delle canzoni che li hanno ispirati.
Cap. 1 – When I Look at You; Miley Cyrus
Cap. 2  - Last Friday Night; Katy Perry
Cap. 3– Coming Home; Diddy ft Skylar Grey
Cap. 4 – Firework; Katy Perry
Cap. 5 – Fireflies; Owl City
Cap. 6 – Morning Sun; Robbie Williams
Cap. 7 – Wonderwall; Oasis
Cap. 8 – Heartbeat; Enrique Iglesias ft. Nicole Scherzinger
Cap. 9 – Airplanes; Hayley Williams ft. B.O.B
Grazie di nuovo a tutti, spero tanto di non avervi deluso con questo ultimo capitolo.
Emily.


  

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